I
Non potete mai dire che cosa farà un ubriaco irlandese. Potete azzardare una o cento ipotesi, a cominciare dalle più probabili, che sono facili da indovinare: cercarsi ancora da bere, attaccar briga con qualcuno, tenere un discorso, salire su un treno… per poi continuare con le più difficili: comperare un fascio di bandiere del suo paese, mettere nel caffè una barbabietola al posto dello zucchero, danzare coi veli, cantare l’inno nazionale o rubare un oboe. Così arriverete all’ipotesi meno probabile di tutte: che lui prenda una decisione e la mantenga.
So benissimo che è incredibile, eppure è successo. Un tipo che si chiamava Sweeney, una volta, a Chicago, lo fece. Prese una decisione e per portarla a termine dovette tenersi a galla in un mare di sangue e di caffè nero, però la spuntò. Forse non era quella che la gente normale chiama una «saggia» decisione, ma questo non importa. Importa che l’incredibile avvenne.
Ora dobbiamo fare molta attenzione, perché la verità non corrisponde mai ai modelli convenzionali. Come, ad esempio, «un irlandese ubriaco»: questo è un modello, se ce n’è uno, ma di rado la verità è tanto semplice.
Il tipo in questione si chiamava Sweeney veramente, ma era irlandese solo per cinque ottavi e sbronzo solo per tre quarti. Questo è il punto più vicino alla verità cui possa arrivare il modello, e se qualcuno non è soddisfatto, è meglio che smetta di leggere. Se non smettete adesso, forse in seguito vi dispiacerà, perché non è una storia simpatica. Ci sono assassinii, donne e alcol, dissipazioni e abusi. C’è un assassinio prima ancora che incominci la storia vera e propria, e ce n’è uno dopo che è finita; si comincia subito con una donna nuda e si finisce ancora con una donna nuda. Si tratta indubbiamente di un bel principio e di una bella fine, ma tutto quel che vi corre in mezzo non è affatto bello. Non mi dite che non vi ho avvertito in tempo. Ora, se leggete ancora, torniamo a Sweeney.
In una notte d’estate, Sweeney sedeva su una panchina del parco, accanto a Dio. A Sweeney, Dio piaceva, anche se non molti altri la pensavano come lui: Dio era un vecchio secco e dinoccolato, con una barba corta e arruffata, macchiata di nicotina. Il nome intero era Diomede e dico «il nome intero» a ragion veduta, perché nessuno, nemmeno Sweeney, sapeva se fosse il nome o il cognome. Era pazzo, ma non del tutto. Non più di quanto lo siano in genere a quell’età i vagabondi che vivono nei quartieri nord di Chicago e che col bel tempo ciondolano in giro per Bughouse Square. (Bughouse vuol dire casa delle cimici e la piazza viene chiamata anche in modo diverso, ma molto meno appropriato.) Bughouse si trova fra Clark Street e Dearborn Street, a sud della Newberry Library. Questa è la sua posizione orizzontale; verticalmente parlando, è molto più vicina all’inferno che al paradiso. Voglio dire che è illuminata in alto dalle luci dei lampioni, ma è scura in basso per le ombre dei relitti umani che durante l’intera notte occupano le sue panchine.
Erano le due di una notte d’estate, e Bughouse Square taceva, ormai quieta. Gli oratori improvvisati delle notti estive si erano allontanati, e la folla di vagabondi occasionali da un pezzo dormiva nelle proprie case: gli uomini dormivano sull’erba e sulle panchine. Avevano le stringhe delle scarpe ben legate con una serie di nodi robusti per assicurarsi che nessuno durante la notte gli portasse via le scarpe. Il possibile furto di denaro dalle loro tasche invece era l’ultima preoccupazione: non ne avevano. Ecco per che dormivano.
— Dio — disse Sweeney — ho voglia di bere. — E spinse indietro di due dita il poco pregevole cappello sulla sua testa altrettanto poco pregevole.
— Anch’io — disse Dio — ma non abbastanza per muovermi di qui.
— Adesso ricomincia la storia — brontolò Sweeney.
Dio sogghignò lievemente e rispose: — È vero, Sweeney. Lo sai benissimo. — Ed estratto di tasca un informe pacchetto di sigarette, ne diede una a Sweeney, accendendone un’altra per sé.
Sweeney aspirò profondamente: fissava la figura addormentata sulla panchina di fronte a lui, poi alzò un poco gli occhi alle luci di Clark Street. Aveva gli occhi appannati per l’ubriachezza, e le luci gli apparivano vaghe, per quanto sapesse che non lo erano in realtà. Non c’era un soffio d’aria ed egli si sentiva caldo e sudato, come il parco, come la città intera. Si tolse il cappello e si fece vento, poi un impulso di semiubriaco lo costrinse a tener fermo il cappello e a studiarlo attentamente. Tre settimane prima era stato un cappello nuovo: lo aveva comperato quando era ancora al “Blade”. Adesso aveva un’aria assurda, diversa da ogni altra cosa al mondo; ci era passata sopra un’automobile, era ruzzolato in un rigagnolo fangoso, ci si erano seduti e ci avevano camminato sopra. Era l’immagine di come si sentiva Sweeney.
Egli disse: — Dio — ma non si rivolgeva a Dio. Né d’altronde a nessun altro. Si rimise il cappello in testa e aggiunse: — Vorrei poter dormire — e, alzandosi dalla panchina: — Faccio quattro passi in giù. Vieni?
— Per perdere la panchina? — domandò Dio. — No. Credo che dormirò. Ci vediamo dopo. — E si accomodò di fianco sulla panchina, col braccio piegato sotto la testa.
Sweeney borbottò qualcosa e si allontanò verso Clark Street. Camminò nella notte giù per la strada, oltre Chicago Avenue. E, passando davanti ai bar, provò il desiderio di avere in tasca di che pagarsi da bere. Un poliziotto, passandogli accanto, lo salutò: — Ehi, Sweeney — e Sweeney rispose con un: — Ehi, Pete — ma non si fermò. Ripensava al ragionamento preferito da Dio, e pensandoci doveva ammetterlo: “Il vecchio pazzo ha ragione: non si riesce a ottenere quel che si desidera, se non lo si vuole con sufficiente intensità”. Avrebbe potuto facilmente farsi prestare da Pete un mezzo dollaro o un dollaro, se proprio avesse voluto bere. Forse domani il desiderio sarebbe stato così forte. Adesso ancora no, anche se si sentiva come una corda di violino accordata a un tono troppo alto. Dannazione, perché non aveva fermato Pete? Aveva bisogno di bere, bisogno di quei tre bicchieri d’alcol che lo portassero all’ultimo stadio dell’ubriachezza e gli permettessero finalmente di dormire. Quando aveva dormito l’ultima volta? Cercò di ricordarselo, ma le cose erano tutte confuse. E dove aveva dormito? Doveva essere stato in uno spiazzo sull’Huron ed era stato di notte, ma quale notte? Ieri o l’altro ieri o il giorno precedente? E ieri che cosa aveva fatto?
Passò davanti all’Huron e gli balenò la possibilità di arrivare al Loop, dove era probabile che qualcuno dei ragazzi del “Blade”, a zonzo per la piazza, gli prestasse qualcosa. Ma questa volta, durante la sbornia in corso, era già stato laggiù? Al diavolo la nebbia del suo cervello. Fino a che punto era «andato», adesso? Era ancora in condizioni tali da presentarsi al Loop?
Guardò lungo la fila delle vetrine, finché ne trovò una dove specchiarsi. Si studiò un poco e decise che non aveva poi un’aria troppo malconcia né troppo ubriaca. Il cappello era informe, non aveva cravatta e il vestito era naturalmente un cencio, però, tutto sommato… Si avvicinò di un passo alla vetrina e subito desiderò di non averlo fatto, perché così da vicino si vedeva nella nuda realtà: gli occhi arrossati e cisposi, la barba di tre o quattro giorni e il colletto della camicia disgustosamente sudicio. Il colletto di una camicia che una settimana prima era stata bianca. E scorgeva tutte le macchie sul vestito. Si voltò dall’altra parte e riprese a camminare. Ora sapeva di non potersi mostrare ai ragazzi del giornale, non al punto in cui era ridotto. Prima sì, quando aveva ancora un aspetto decente, o forse dopo, quando non gli sarebbe più importato nulla del suo aspetto. E, rendendosi conto che sarebbe arrivato senza rimedio a quel punto entro pochi giorni, si mise a imprecare contro se stesso, odiandosi e odiando di riflesso tutto e tutti al mondo.
Nella notte percorreva Ontario Street, protestando ad alta voce, senza neppure accorgersene. Vedeva se stesso e si osservava. Il Grande Sweeney Che Cammina Nella Notte, e cercava di allontanare quell’immagine dalla sua mente, senza riuscirvi. Aveva fatto male a specchiarsi, ma c’era anche qualcosa di peggio: ora che si osservava, sentiva anche l’odore della sua persona, l’afrore del corpo su cui il sudore si era irrancidito. Non si era tolto quei vestiti da… da quando la padrona di casa rifiutava di consegnargli la chiave della sua camera?
Ohio Street. Diavolo, non doveva dirigersi più a sud, o sarebbe finito al Loop. Perciò voltò verso est. Dove stava andando? E che importava? Forse, camminando a lungo, si sarebbe stancato tanto da riuscire a dormire. Però era bene che restasse nei paraggi della piazza, così da avere un posto dove lasciarsi cadere, appena il sonno fosse arrivato.
All’inferno! Avrebbe fatto qualsiasi cosa per un bicchierino; qualsiasi, tranne, naturalmente, incontrare una persona conosciuta.
Sul marciapiede camminava verso di lui qualcuno: un bel ragazzo con una magnifica giacca a quadri. I pugni di Sweeney si strinsero. Che probabilità aveva di colpire il bel ragazzo, strappargli il portafoglio e scappare per un vicolo? Ma non si era mai provato in simili imprese e le sue reazioni erano troppo lente. Davvero troppo lente: il bel ragazzo, costeggiando il marciapiede, aveva girato l’angolo ed era scomparso, prima che Sweeney avesse finito di raccogliere le idee.
Un’auto giunse procedendo a passo d’uomo lungo il marciapiede. Sweeney riconobbe un’auto d’ordinanza della polizia, occupata da due massicci poliziotti, e gli parve di svenire al pensiero del pericolo corso. Si concentrò tutto nel tentativo di camminare diritto, con l’aspetto sobrio e normale. Accorgendosi poi che stava ancora imprecando contro se stesso, tacque di botto, riflettendo che sarebbe stato supremamente sciocco farsi fermare dagli agenti proprio in quel momento, così da trovarsi ad affrontare un avvenire privo di qualsiasi tipo di beveraggio. Nel frattempo, l’auto era passata senza fermarsi.
All’angolo di Dearborn Street, Sweeney esitò un attimo, poi si diresse di nuovo a nord, per State Street. Lungo la via rumoreggiò un autocarro, strombazzando come se annunciasse la fine del mondo. Lo seguì un taxi, diretto a sud, e Sweeney per un minuto prese in considerazione la possibilità di fermarlo e di farsi portare al bar Randolph, pregando l’autista di aspettarlo mentre lui sarebbe entrato a chiedere un prestito a qualcuno. Però, dato il suo aspetto, il taxi non si sarebbe forse fermato… e, comunque, mentre lui stava meditando, era già scomparso.
Voltò deciso in State Street. Dopo aver costeggiato l’Erie, ora camminava lungo l’Huron e si sentiva un po’ meglio. Non molto, solo un poco meglio di prima. Era arrivato alla Superior Street e pensò con ironia a se stesso. Sweeney il Superiore… Sweeney Che Cammina Nella Notte e Nel Tempo…
Fu in quel momento, quasi all’improvviso, che gli apparve la folla raccolta all’ingresso di un edificio, a pochi metri da lui. Non era una folla numerosa: una dozzina circa di persone variamente assortite, quella strana e particolare specie di personaggi che può raccogliersi in State Street alle due e mezzo di mattina, per scrutare attraverso una vetrata chiusa nell’atrio di un edificio. Si udiva anche nel silenzio un curioso rumore che Sweeney non riusciva a identificare con precisione. Era una specie di brontolio selvaggio e animalesco.
Sweeney non affrettò il passo: probabilmente, pensò, si trattava di un ubriaco, che era caduto per terra o era stato ferito e ora giaceva incosciente, o morto, in quell’atrio, in attesa che un’ambulanza arrivasse a raccoglierlo. Ed era altrettanto probabile che giacesse in una pozza di sangue, dato che, se fosse stato semplicemente morto, non si sarebbe formata una folla di dodici persone a osservarlo: gli ubriachi abituali sono fin troppo comuni e conosciuti in quel quartiere di Chicago. Il sangue non attirava Sweeney: nella sua carriera di cronista aveva visto tanto sangue da esserne ormai nauseato. Sarebbe bastata la volta in cui aveva seguito i poliziotti nella sala da gioco di Townsend Street dove si svolgeva un’amichevole riunione a base di rasoi…
Perciò proseguì per la sua strada, oltre il gruppetto di persone, senza nemmeno gettare un’occhiata all’oggetto del loro interesse. Le aveva ormai quasi del tutto superate, quando qualcosa di strano colpì la sua attenzione, costringendolo suo malgrado a fermarsi: dei suoni e il silenzio.
Il silenzio strano era quello che regnava sulla piccola folla (ammesso che una dozzina di individui possa esser chiamata una folla quando si stringe su due file compatte intorno a una porta d’ingresso larga due metri) e, quanto ai suoni, uno era la sirena di un’auto della polizia, che giungeva lungo la Chicago Avenue in procinto di voltare l’angolo di State Street. Sweeney immaginò allora che nell’atrio dell’edificio giacesse il «corpo del delitto», nel qual caso non sarebbe stato opportuno che i poliziotti lo vedessero allontanarsi dalla scena del delitto, poiché lo avrebbero subito acchiappato per interrogarlo. Se invece uno resta incantato a guardare e a farsi spingere via dagli agenti, con la raccomandazione di spicciarsi a circolare, allora può andarsene tranquillamente. L’altro suono che fermò Sweeney era il ripetersi del verso che aveva udito prima e che ora si sentiva ancora più chiaramente, al di sopra del silenzio della folla e frammisto all’ululato della sirena: si trattava realmente del brontolio di un animale.
Considerati tutti questi motivi, qualunque conseguenza sia in seguito nata dal suo gesto, non potrete biasimare Sweeney se si fermò a guardare.
Com’era logico, non riusciva a scorgere nulla, oltre le schiene di quella dozzina di spettatori assortiti. Né poteva udire niente, eccetto il brontolio selvaggio davanti a sé e la sirena alle sue spalle, mentre l’auto della polizia girava l’angolo.
In quel momento, fosse per il suono della sirena, o fosse per il ringhio dell’animale, alcuni degli spettatori al centro del gruppo si ritirarono dalla porta a vetri dell’edificio, e Sweeney la scorse chiaramente e insieme vide al di là della vetrata. Non si vedeva bene, perché l’atrio non era illuminato se non dalla pallida luce dei lampioni stradali, che penetrava fin nell’interno. Scorse anzitutto il cane, perché era il più vicino alla porta, con la testa diritta a guardar fuori. Cane? Dato che si era a Chicago bisognava considerarlo tale, ma se lo aveste incontrato in un bosco, l’avreste creduto un lupo e anche un lupo di dimensioni e ferocia ragguardevoli. Stava rigido sulle zampe, a un metro circa dalla vetrata: il pelo del collo irto, le labbra stirate in un ringhio prolungato, che gli scopriva i denti lunghi un pollice, e gli occhi d’un bagliore giallo nell’ombra.
Quando quello sguardo giallo, apertamente selvaggio, si incrociò ostile col suo sguardo stanco, Sweeney rabbrividì un poco e volse gli occhi altrove, a disagio, sentendo quasi scomparsa l’ubriachezza. La belva lo fissava ed egli guardò invece l’oggetto che giaceva sul pavimento, dietro al cane, nella parte laterale dell’atrio. Era una figura di donna, col viso contro terra. E la definizione «figura» è usata appositamente. Anche nella penombra, le spalle candide splendevano, uscendo da un abito bianco, senza spalline: un abito da sera di raso, che accompagnava morbidamente ogni meravigliosa linea del corpo, le linee almeno che sono visibili di un corpo di donna giacente bocconi, così che Sweeney al vederla restò senza respiro.
Il volto non era visibile, perché la figura gli mostrava soltanto la nuca bionda dai capelli corti, ma lui «sapeva» con certezza che quel volto sarebbe stato meraviglioso. Doveva esserlo, poiché nessuna donna può avere un corpo così bello, senza che anche il viso gli si accordi.
Gli parve che la donna si fosse mossa, sebbene quasi impercettibilmente. Il cane ringhiò ancora con un tono basso in contrasto con lo stridio acuto dei freni dell’auto che si fermava in quel momento all’angolo della strada. Senza voltarsi, Sweeney udì aprire gli sportelli della vettura e sentì i passi pesanti degli agenti. Una mano sulla spalla di Sweeney lo spinse da parte in maniera brusca, mentre una voce domandava, con tono sbrigativo e pratico: — Che succede? Chi ha telefonato?
La domanda non era rivolta a Sweeney ed egli non rispose né si voltò. Nessuno dei presenti rispose.
Sweeney aveva barcollato all’urto, ma riprese il suo equilibrio e continuò a scrutare nella profondità dell’atrio.
L’agente in divisa blu accanto a lui accese la torcia elettrica che teneva in mano e proiettò un fascio di candida luce nell’oscurità dell’atrio, illuminando il luccichio giallo negli occhi selvaggi del cane e lo splendore dorato dei capelli della donna, insieme al bagliore bianco delle spalle e dell’abito di lei. Alla visione del quadro che gli si presentava, l’agente trattenne il fiato con un leggero fischio significativo e non pose altre domande. Avanzò di un passo e raggiunse la maniglia della porta.
Il cane interruppe il ringhio e si accucciò pronto a balzare in avanti, in un silenzio peggiore del sinistro brontolio di prima. L’uomo in divisa blu lasciò la maniglia, come se fosse incandescente. — All’inferno! — esclamò, e infilò la mano nella tasca interna della giacca, ma non estrasse la rivoltella. Invece si rivolse di nuovo alla piccola folla dei presenti. — Che cosa succede? Chi ci ha telefonato? Quella donna è ubriaca, o sta male, o che cos’ha?
Nessuno rispose. Interrogò ancora. — Il cane è suo?
Nessuna risposta di nuovo. Un uomo vestito di grigio era accanto all’agente in divisa blu e gli consigliò: — Prènditela calma, Dave. Se possiamo farne a meno, cerchiamo di non ammazzare la bestia.
— Bene — rispose la Divisa Blu. — Allora tu apri la porta e trattieni il cane, mentre io mi occupo della donna. Comunque, quello non è un cane: o è un lupo o è un demonio!
— Allora… — L’Abito Grigio alzò una mano verso la maniglia e la ritirò rapidamente alla vista del cane che di nuovo si preparava allo slancio, digrignando le zanne.
Divisa Blu sogghignò, domandando: — Ma la telefonata che cosa diceva? Hai risposto tu…
— Soltanto che in questo atrio c’era una donna sdraiata per terra: del cane non ha parlato. Il tipo in questione chiamava dal bar all’angolo nord della strada e ha detto anche il nome.
— Cioè ha detto un nome… — replicò sarcastico Divisa Blu. — Vedi, se fossi sicuro che la ragazza è solo ubriaca fradicia, potremmo chiamare la protezione animali per tirar fuori la bestia, perché loro son capaci di farlo. A me i cani piacciono: e non ho nessuna voglia di ammazzare quello lì. Molto probabilmente la donna è la sua padrona e lui cerca di proteggerla.
— Cerca un corno — brontolò Abito Grigio. — È maledettamente deciso. Anche a me piacciono i cani: ma quello lì non giurerei che è un cane… Bene… — Abito Grigio cominciò a togliersi la giacca. — Coraggio, io mi giro questa intorno al braccio e tu apri la porta, così, quando il cane mi salta addosso, io lo prendo con il calcio della…
— Guarda: si muove!
Infatti la donna si muoveva: alzava la testa. Si sollevò appena sulle mani (e Sweeney notò che calzava dei guanti bianchi lunghi sino al gomito) e alzò la testa finché gli occhi furono colpiti in pieno da un fascio luminoso della torcia elettrica. Il volto era meraviglioso, un volto in cui gli occhi fissavano sbarrati il vuoto, senza vedere.
— È fradicia addirittura — osservò Divisa Blu. — Guarda, Harry, tu potresti ammazzare il cane anche con il calcio della rivoltella e certamente poi qualcuno farebbe un putiferio. Anche la ragazza si metterebbe a farlo, una volta smaltita la sbornia. Invece, io aspetto qui di guardia e tu vai al posto di polizia più vicino e gli dici di far venire qua qualcuno della protezione animali con una rete o quel diavolo che adoperano loro, e…
In quel momento, dalle gole dei presenti uscì un suono strozzato, tanto strano che Divisa Blu tacque di botto come se gli avessero messo una mano sulla bocca. Qualcuno sussurrò, in modo quasi impercettibile, la parola «sangue».
Faticosamente, come in un incantesimo, la donna cercava di alzarsi. Aveva ripiegato le ginocchia sotto il corpo e si tirava su facendo leva sulle braccia tese. Il cane accanto a lei si mosse rapidamente e Divisa Blu con una bestemmia estrasse la pistola dalla fondina appesa alla spalla, mentre il muso dell’animale si avvicinava al volto della donna. Ma prima ancora che la pistola fosse pronta, il cane aveva leccato uggiolando il viso della padrona, con la lunga lingua rossa. Altrettanto rapidamente, vedendo che i due poliziotti si erano avvicinati alla porta, il cane si raccolse in posizione di slancio e ringhiò ferocemente. La donna continuava nel suo sforzo per alzarsi e ormai era visibile a tutti il sangue: una macchia allungata sull’abito bianco, sopra l’addome, nitidissima sul bianco dell’abito. E nel cono di luce, che rendeva la scena simile a una rappresentazione su un palcoscenico o a un’immagine proiettata su uno schermo televisivo alla mostra degli orrori, era chiarissimo lo squarcio lungo cinque pollici al centro della macchia.
Abito Grigio mormorò: — Gesù, una pugnalata! È lo Squartatore.
Sweeney venne spinto di fianco mentre i due agenti si avvicinavano di più. Egli si spostò girando intorno, per guardare sopra le loro spalle. Aveva dimenticato il progetto di andarsene al più presto possibile; in quel momento si sarebbe potuto allontanare senza che nessuno gli prestasse attenzione, ma non lo fece. Abito Grigio era ancora con la giacca mezzo infilata e mezzo no, agghiacciato nel gesto dall’improvvisa scoperta. Con un movimento brusco la rimise a posto strofinando le spalle contro il mento di Sweeney. Poi rapidamente: — Telefona per una ambulanza e per la squadra omicidi, Dave. Io cerco di prendere il cane.
Mentre dalla fondina estraeva la rivoltella, la sua spalla urtò di nuovo contro il mento di Sweeney. Poi la voce dell’agente risuonò improvvisamente calma, mentre impugnava la rivoltella. — Afferra la maniglia, Dave. Il cane ti salterà addosso e io avrò la mira sicura. Credo di riuscire a prenderlo.
Ma non alzò la rivoltella e Dave non toccò la maniglia. Perché stava accadendo la «cosa» incredibile, la «cosa» che Sweeney non avrebbe mai più dimenticato, e nessun’altra delle quindici o venti persone presenti avrebbe mai dimenticato.
La donna nell’atrio aveva ora la mano sul muro, accanto alla fila delle cassette postali e dei campanelli. Stava ancora sforzandosi per raggiungere la posizione eretta e appoggiava a terra un ginocchio. Il fascio abbagliante della luce la incorniciava come il riflettore di un palcoscenico, rivelando crudamente il candore dell’abito, dei guanti e della pelle e il rosso della macchia di sangue. Gli occhi erano sempre sbarrati. E Sweeney pensò che doveva essere soprattutto per lo choc, dato che una simile ferita di coltello non doveva essere molto grave né molto profonda perché altrimenti avrebbe sanguinato molto più abbondantemente. La donna chiuse gli occhi e vacillando si alzò lentamente in piedi. E l’incredibile avvenne.
Il cane si spostò dietro di lei e si drizzò sulle zampe posteriori, senza nemmeno sfiorarla con quelle anteriori, mentre il muso si avvicinava alla schiena di lei e coi denti cercava e trovava qualcosa sul bianco abito scollato e lo tirava verso l’esterno e verso il basso. Il «qualcosa», come si scoprì in seguito, era una nappina di seta bianca, attaccata all’estremità di una lunga chiusura-lampo.
L’abito scivolò a terra, formando intorno ai piedi di lei un cerchio di seta bianca. Sotto il vestito la donna non indossava nulla, assolutamente nulla.
Per un tempo imprecisato, che parve durare eterni minuti e che forse non fu più di dieci secondi, niente e nessuno si mosse. Nulla accadde, tranne un lieve tremolio della torcia nelle mani dell’agente.
Poi le ginocchia della donna si ripiegarono sotto il peso e lei lentamente si abbandonò a terra, senza cadere, solo afflosciandosi come chi è troppo stanco per restare ancora in piedi, in mezzo al bianco cerchio di seta che le aveva fatto da piedestallo.
D’improvviso, allora, accaddero cento cose insieme. Prima di tutto, Sweeney riprese fiato. Poi Divisa Blu puntò con cura la rivoltella contro il cane e premette il grilletto. Il cane ebbe un sobbalzo, poi ricadde e giacque immobile nell’atrio, mentre Divisa Blu entrava, ordinando ad Abito Grigio: — Chiama l’ambulanza, Harry. E lega le gambe di quella maledetta bestia; non credo di averla ammazzata, dev’essere solo ferita.
A questo punto, Sweeney si ritrasse e nessuno gli prestò attenzione, mentre si allontanava verso nord al Delaware e voltava a ovest verso Bughouse Square.
Diomede non sedeva sulla panchina, ma non doveva essere lontano, perché la panchina era ancora vuota e nelle notti d’estate le panchine non restano vuote a lungo. Sweeney sedette ad aspettare il vecchio.
— Ehi, Sweeney — disse Dio, sedendo accanto a lui — ho preso un mezzo litro. Ne vuoi un sorso?
Era una domanda tanto sciocca, che Sweeney non si scompose nemmeno a rispondere, tranne che stendendo la mano. D’altronde, neanche Dio si era aspettato una risposta e già gli porgeva la bottiglia. Sweeney ne bevve una lunga sorsata.
— Grazie — disse. — Santi, se era bella, Dio. Era la più fantastica ragazza… — e bevve un altro sorso, più breve, prima di restituire la bottiglia. — Darei il braccio destro…
— Chi? — domandò Dio.
— La ragazza. Stavo andando giù per State Street e… — S’interruppe, comprendendo che gli sarebbe stato impossibile raccontare l’accaduto. — Lasciamo andare. Come hai fatto a trovare il whisky?
— Sono andato laggiù: te l’avevo detto che potevo benissimo trovar da bere, se proprio ne avessi avuto voglia. Prima invece non ne avevo voglia abbastanza. Si può ottenere tutto quel che si vuole, a patto che lo si voglia sul serio.
— Storie — rispose Sweeney, meccanicamente, poi improvvisamente rise. — Si può ottenere tutto?
— Qualunque cosa tu desideri — ripeté Dio, con tono dogmatico. — È la cosa più facile del mondo, Sweeney. Prendi i ricchi, per esempio: è la cosa più facile del mondo, e chiunque può diventare ricco. Tutto quel che è necessario è desiderare il denaro con tale violenza, in modo che esso acquisti per te maggior importanza di qualunque altra cosa. Tu concentri tutto sul denaro e lo ottieni. Se invece ci sono altre cose che desideri allo stesso tempo, non riesci ad averlo.
Sweeney sorrise: si sentiva leggero e in ottime condizioni. Quel lungo sorso era stato proprio quel che ci voleva. E voleva stuzzicare un po’ il vecchio sul suo argomento preferito.
— E con le donne? — chiese.
— Cosa significa con le donne? — Gli occhi di Dio erano torbidi perché stava ubriacandosi e nella sua pronuncia riaffiorava il dialetto bostoniano, come sempre quando era brillo. — Vorresti dire se puoi ottenere una certa donna che desideri in modo speciale?
— Sì — assentì Sweeney. — Immagina per un momento che ci sia una data ragazza con cui vorrei passare una notte. Potrei riuscirci?
— Se tu ne avessi veramente il desiderio, certo che potresti. E tanto più certo se tu punti su quell’unico obiettivo con tutti i tuoi sforzi. Perché non dovresti?
Sweeney rise di nuovo e appoggiò indietro la testa, a contemplare il verde cupo delle foglie d’albero sopra di lui. La risata si mutò in un sorriso ed egli, toltosi il cappello, prese a farsi vento. Scrutò il cappello come se non lo avesse mai visto prima e cominciò a spolverarlo con la manica della giacca e a ridargli la forma primitiva di cappello.
Dio dovette ripetere due volte la sua domanda, prima che egli lo udisse, tanto era assorto. Non che non fosse una domanda sciocca per cominciare il discorso e Dio non si aspettava neppure una risposta, a parole. Gli stava semplicemente porgendo la bottiglia. Ma Sweeney non la prese. Si rimise in testa il cappello e, alzandosi, ammiccò a Dio e lo ringraziò. — No, grazie, vecchio mio. Ho un appuntamento.
II
All’alba tutto appariva diverso, come sempre. Sweeney aprì gli occhi in una afosa, grigia alba silenziosa; le foglie pendevano senza vita dagli alberi sopra di lui e la terra su cui giaceva era dura, così che tutto il suo corpo ne dolorava. Aveva la bocca cattiva, che sembrava impastata con qualcosa di innominabile, innominabile nel libro, voglio dire, non per Sweeney. Egli infatti la nominò, poi si passò la lingua sulle labbra per inumidirle, inghiottendo più volte.
Si strofinò gli occhi con le mani sporche e tirò una bestemmia a un uccello che sull’albero vicino faceva un chiasso del diavolo. Si alzò a sedere, piegato in avanti, col viso tra le mani, pungendosi le dita con la barba ruvida. Un autocarro che passava per Clark Street fece un fracasso pari a quello di un terremoto, o della fine del mondo. Non di più, ma pari senz’altro.
Se svegliarsi non è mai piacevole, qualche volta riesce addirittura orribile. Quando si sono accumulate due settimane di sbornie, è orribile. Ma l’unico rimedio, come Sweeney sapeva benissimo, stava nel muoversi, senza restar seduto a soffrire, senza distendersi sul terreno duro e cercare di riaddormentarsi, perché in quello stato non si riesce a riaddormentarsi. Finché uno non riesce a orientarsi è un inferno completo, quando poi si è svegliato e orientato è un inferno per metà, fino a che non ci si riempie lo stomaco con un po’ di alcol. Allora tutto va bene. Cioè, bisogna chiederselo: va bene?
Sweeney respinse il terreno che sembrava trattenerlo a sé e si drizzò in piedi. Le gambe funzionavano, lo portarono fuori del prato, sull’asfalto, fino alla panchina, dove Diomede ancora dormiva tranquillo con un russare sommesso. Accanto a lui giaceva la bottiglia vuota.
Sweeney spinse indietro i piedi di Dio e sedette sull’orlo della panca. Appoggiando il mento pungente di barba sulle mani sporche, si chinò coi gomiti sulle ginocchia, ma non chiuse gli occhi. Riuscì a tenerli aperti, mentre si domandava se il peggio fosse ormai passato. La donna e il cane. Non aveva mai sofferto di allucinazioni fino ad allora.
La donna e il cane. Non poteva crederci. Era una di quelle pochissime cose che non possono accadere nella realtà. Perciò non era accaduta. Questa doveva essere la conclusione. Stese una mano davanti a sé per osservarla e vide che tremava notevolmente, ma non peggio delle altre volte. La riappoggiò sulla panchina e facendo leva sulle braccia riuscì ad alzarsi. Le gambe funzionavano ancora, se ne servì per attraversare la piazza e giungere a Dearborn Street e poi fino a Chicago Avenue. Più che un uomo era un dolore in cammino. I freni di un taxi stridettero nello scarto per evitare d’investirlo: attraversava la strada senza nemmeno guardare intorno, e l’autista gli urlò qualche improperio incomprensibile. Sweeney arrivò fino a State Street e proseguì in direzione sud. Percorse i tre quarti di un isolato e si trovò davanti al «portone». Si fermò a fissarlo intensamente, poi si accostò ai vetri e guardò nell’interno: era piuttosto buio, ma riusciva a vedere fino alla porta all’altra estremità dell’atrio.
Un piccolo strillone gli si fermò accanto, con la borsa dei giornali penzolante dalla spalla. — Ehi, è successo qui, vero? — domandò.
— Sì — rispose Sweeney.
— Io la conoscevo — affermò il ragazzino — le porto sempre il giornale. — Allungò la mano per aprire la porta. — Devo entrare per lasciare i giornali. — E Sweeney si scostò per lasciarlo passare. Quando il ragazzino uscì, Sweeney entrò nell’atrio e si fermò accanto alle cassette della posta. Proprio là dove stava ora, lei era caduta. Guardò in terra, poi si chinò per scrutare il pavimento da vicino: c’erano delle piccole macchie scure. Sweeney si rialzò e andò in fondo all’atrio ad aprire la porta che dava sul retro della casa: vi era solo un marciapiede di cemento che conduceva ai piani superiori: si accesero due lampade, una sopra di lui, in fondo alle scale, l’altra vicino alle cassette per la posta. La luce era fievole e gialliccia nel grigiore della mattina. Spense le lampade, poi, notando qualcosa sul pannello di legno della porta, le riaccese. Vi erano nel pannello delle profonde graffiature verticali, una vicina all’altra, e avevano tutta l’apparenza di zampate di un cane, oltre a essere fresche: come se la bestia si fosse lanciata contro la porta, cercando poi di graffiarla nella speranza di aprirsi una strada attraverso di essa.
Sweeney, spenta definitivamente la luce, uscì portandosi via uno dei giornali che il ragazzo aveva lasciato in pile ordinate sotto le cassette della posta. Quando ebbe voltato l’angolo della strada, sedette sul marciapiede e aprì il foglio. Vi era un articolo su tre colonne, con due fotografie, una della ragazza e una del cane, e il titolo diceva:
UNA BALLERINA AGGREDITA DALLO SQUARTATORE SALVATA DAL PROPRIO CANE LO SCONOSCIUTO SI È DATO ALLA FUGA. «NON SAPREI RICONOSCERLO» DICHIARA LA VITTIMA.
Sweeney osservò attentamente le fotografie, che erano delle pose, evidentemente destinate in origine alla pubblicità. Sotto il cane la didascalia diceva: DEMONIO, e Sweeney lo fissò a lungo: sul giornale era impossibile ritrovare il bagliore giallo di quegli occhi, ma appariva un animale che nessuno desidererebbe incontrare sulla propria strada. “Ha sempre l’aria di un lupo” pensò Sweeney “e di un lupo feroce.”
Ma i suoi occhi tornarono a osservare la donna. La dicitura IOLANDA LANG spinse Sweeney a domandarsi quale fosse il suo vero nome. Per quanto, guardando il suo ritratto, non ci si curasse più molto del suo nome; anche se, purtroppo, in quel ritratto non era visibile tutto ciò che Sweeney aveva potuto vedere la notte prima. Era un mezzobusto, e Iolanda Lang indossava un abito da sera senza spalline, che incorniciava e metteva in rilievo la sua bellezza, quella bellezza che Sweeney sapeva essere autentica e non frutto di vari trucchi, dai capelli biondi morbidi, con i riccioli che ricadevano sopra le spalle ancora più morbide. Anche il viso era affascinante. La notte prima Sweeney non aveva notato il viso. E non potrete criticarlo per questa piccola distrazione.
Comunque, anche il viso meritava di essere osservato, ora che non c’era niente altro a distoglierne l’attenzione: un volto dolcemente grave e gravemente dolce. In tutto, meno che in qualcosa intorno agli occhi. Ma un ritratto riprodotto in un giornale su tre colonne non permette di essere sicuri delle sfumature.
Sweeney ripiegò con cura il giornale e lo depose sul marciapiede: un lieve sorriso gli increspava le labbra. Si alzò e faticosamente tornò a Bughouse Square. Dio stava ancora russando sulla panca e aprì gli occhi cisposi, quando Sweeney lo scosse. Lo guardò dal basso e brontolò: — Va’ via.
Sweeney insisté. — Ci sono. Per questo sono venuto a dirtelo. Guarda, era questo che volevo dire.
— Che cosa?
— Quello di ieri sera — continuò Sweeney.
— Sei matto — rispose Dio.
Il sorrisetto riapparve sulla faccia di Sweeney. — Tu non l’hai vista, perché non c’eri, ieri sera. Saluti.
Attraversò il prato fino a Clark Street e si fermò. Aveva un mal di testa terribile e desiderava disperatamente qualcosa da bere. Stese una mano e la osservò tremare, poi se la infilò in tasca per non pensarci. Cominciò a percorrere Clark Street verso sud: il sole ormai era alto, invadendo le vie da est a ovest. Il traffico in aumento si andava facendo rumoroso e complicato.
Sweeney Che Cammina Nella Luce Del Giorno. Ancora quel pensiero. Sweeney sudava, e non solo per il caldo, ed emanava cattivo odore, lo sentiva benissimo. Gli facevano male i piedi ed era tutto uno sporco dolore, dentro e fuori, in cima e in fondo. Sweeney Che Cammina Nella Luce Del Giorno.
Attraversò il Loop, a sud fino alla Roosevelt Road: non osava fermarsi. Alla Roosevelt Road, girato l’angolo verso est, camminò fino all’ingresso di una casa-albergo e vi entrò. Suonò un campanello dei tanti posti in fila vicino all’ingresso e attese lo scatto della porta interna che veniva aperta. Salì tre piani di scale e giunse a una porta socchiusa, da cui sporgeva una testa calva. La faccia sotto la testa calva, quando scorse Sweeney spuntare dalle scale, ebbe una smorfia di disgusto e un secondo dopo la porta si chiudeva sbattendo. Sweeney continuò a salire sostenendosi al muro con una mano sporca e quando fu davanti alla porta prese a bussare energicamente. Continuò per un buon minuto, poi fu costretto a prendersi la fronte con le mani, abbandonandosi contro il muro. Si riprese dopo qualche istante e ricominciò a bussare più forte di prima. Qualcuno arrivò ciabattando vicino alla porta, all’interno. — Vattene all’inferno o chiamo la polizia.
Sweeney continuò a picchiare. — Chiamala, bellezza — gridò. — Andremo dal giudice e ci spiegheremo.
— Cosa diavolo vuoi?
— Apri — ripeté Sweeney, bussando ancora più forte.
Una porta nell’atrio si aprì e apparve la faccia sconvolta di una donna. Sweeney continuò a picchiare all’uscio, finché la voce dall’interno borbottò: — Va bene, va bene. Aspetta un secondo. — I passi si allontanarono, poi si riavvicinarono alla porta e finalmente la chiave girò nella toppa.
La porta si aprì e l’uomo calvo si tirò indietro. Indossava un informe accappatoio e delle pantofole scalcagnate e, a quanto pareva, niente altro. Era un poco più basso di Sweeney, ma teneva la mano destra in tasca e questa era stranamente gonfia. Sweeney entrò e richiuse con un calcio la porta dietro di sé. Avanzando fino al centro della stanza in disordine e girandosi intorno, disse dolcemente: — Ohi, Goetz.
L’uomo calvo stava ancora accanto alla porta. La sua risposta fu un brontolio: — Cosa diavolo vuoi?
— Venti dollari — replicò Sweeney. — Sai perché. O hai bisogno che te lo ripeta sillabando?
— Venti dollari un corno! Se credi che te li dia io! E se hai ancora in mente quella maledetta corsa e quel maledetto cavallo, te l’ho già detto che non ho potuto puntare la scommessa. Ti ho ridato i tuoi cinque dollari e tu li hai presi.
— Li ho presi in acconto — disse Sweeney. — Non avevo tanto bisogno di soldi da impuntarmici sopra. Adesso invece ne ho bisogno. Andiamo, su, ripetiamo tutta la storia. Tu mi hai gonfiato la testa con le tue chiacchiere su quella bestia, l’idea è stata tua. Alla fine io ti ho dato i cinque dollari per scommettere, il cavallo ha vinto per cinque a uno e tu sei saltato su a dirmi che non avevi potuto puntare per me.
— Dannazione, non ho potuto. Da Mike era già chiuso e la corsa era cominciata e…
— Tu da Mike non hai nemmeno provato a giocare. Ti sei semplicemente intascato i soldi della mia scommessa: se il cavallo avesse perduto, come tu ti aspettavi, ti sarebbe rimasta la puntata. Perciò, che tu abbia puntato o no i miei soldi, mi devi venti dollari.
— Va’ all’inferno. E va’ fuori di qui. — L’uomo calvo estrasse di tasca la mano che impugnava una piccola automatica calibro 25.
Sweeney scosse la testa con aria triste. — Se il gioco valesse ventimila dollari, avrei paura di quell’affare, forse. Ma per venti dollari non correresti mai il rischio di una sparatoria. Non vorresti certo avere i poliziotti a curiosare qui dentro per venti miserabili dollari. Per lo meno, io credo che non li vorresti: ci scommetterei su, anzi.
Guardò in giro per la stanza, finché scorse un paio di pantaloni appoggiati su una sedia. Si avvicinò subito a essi, mentre l’uomo calvo toglieva la sicura alla rivoltella, sibilando: — Figlio di puttana.
Sweeney afferrò i pantaloni per i risvolti e cominciò a scuoterli: caddero sul tappeto un mazzo di chiavi e degli spiccioli, ed egli continuò a scuotere, dicendo: — Goetz, verrà un giorno in cui chiamerai figlio di puttana qualcuno che lo è veramente, e quello ti darà una lezione.
Dalla tasca posteriore dei calzoni cadde a terra un portafoglio che Sweeney raccolse. Lo spalancò ed emise un brontolio di disapprovazione. — Cosa succede con tutti i tuoi pasticci delle corse? Va male? — Nel portafoglio c’erano soltanto un biglietto da dieci e uno da cinque dollari. Sweeney tirò fuori quello da dieci e gettò il portafoglio sul cassettone.
L’espressione dell’uomo calvo non era cordiale, in verità. Esclamò soltanto: — Te l’avevo già detto allora. La corsa era già cominciata. Adesso hai avuto i tuoi quattrini e fila.
— Ne prendo dieci — concesse Sweeney — non porterei mai via gli ultimi cinque dollari di un poveraccio, bellezza. Gli altri dieci li prenderò in beni: un bagno, una barba, una camicia e delle calze.
Così dicendo, si sfilava la giacca e scivolava fuori dei pantaloni. Poi, sedendo sull’orlo del letto disfatto, si tolse anche le scarpe. Entrò nel bagno ad aprire l’acqua della vasca e ne uscì nudo, con un malloppo di roba in mano: la sua camicia, le calze e gli indumenti intimi, che gettò tutti nel cestino della carta straccia.
L’uomo calvo era ancora accanto alla porta, ma la rivoltella era tornata nella tasca della vestaglia. Sweeney gli sorrise e gridò al di sopra dello scroscio dell’acqua: — Non chiamare la polizia, adesso, Goetz. Vedendomi così, potrebbero ricevere un’impressione sbagliata! — Rientrò in bagno e sbatté la porta.
Restò sdraiato nell’acqua calda a lungo, poi si rase la barba con il rasoio elettrico di Goetz. Per fortuna era elettrico, perché le mani di Sweeney tremavano ancora sensibilmente.
Quando finalmente uscì, Goetz era tornato a letto, e stava con la schiena voltata alla stanza. — Dormi, tesoro? — domandò Sweeney. Nessuna risposta.
Sweeney aprì un cassetto e scelse una camicia bianca sportiva con il colletto floscio: gli era stretta di spalle e il collo non si abbottonava, ma era comunque una camicia bianca e pulita. Anche i calzini di Goetz gli erano un po’ stretti, ma riuscì a infilarli. Contemplò con disgusto le sue scarpe e i suoi vestiti, ma non poteva trovare altro, dato che quelli di Goetz non gli si sarebbero mai adattati. Si diede da fare con le spazzole per le scarpe e per i vestiti e quando infine indossò i pantaloni verificò che in tasca vi fossero sempre al sicuro i dieci dollari. Spazzolò energicamente anche il cappello e si avviò per uscire. — Buona notte, tesorino — disse — e grazie di tutto. Adesso siamo pari. — Chiuse silenziosamente la porta, scese le scale e uscì fuori, nel sole scottante. Risalì a nord fin oltre la Dearborn Station, fermandosi in un piccolo bar a bere tre tazze di caffè e a tentar di inghiottire una delle due brioches che aveva ordinato. Aveva sapore di cartapesta, ma riuscì a mandarla giù.
Poco più lontano, si fece lucidare le scarpe e poi, nel piccolo retro del negozio dov’era entrato, attese tremando leggermente che il suo vestito venisse smacchiato e stirato. Avrebbe avuto bisogno ben più che di una smacchiatura, ma quando lo indossò era già passabile. Si diede un’occhiata nel lungo specchio e si giudicò quasi presentabile. C’erano sì dei cerchi sotto gli occhi, e gli occhi stessi non apparivano scintillanti di gioia e di benessere, e inoltre doveva tenere le mani in tasca, finché non fosse stata superata la crisi di tremito, ma nel complesso aveva un aspetto umano. Quando ebbe tirato fuori il colletto della camicia sportiva, sopra il bavero della giacca, si sentì ancora più a posto.
Dirigendosi a nord attraverso il Loop, si manteneva accuratamente nel lato in ombra della strada: cominciava di nuovo a sudare e di nuovo si sentiva sporco e aveva la netta sensazione che si sarebbe sentito sudicio così per molto tempo, per quanti bagni potesse fare. Come fa un individuo in possesso delle sue facoltà a vivere a Chicago durante un’ondata di caldo tropicale? E come fa uno a vivere a Chicago? E del resto, perché si vive? Il mal di testa di Sweeney si era intanto trasformato da un cupo dolore diffuso, in un dolore localizzato dietro la fronte e dietro gli occhi con un martellio ritmico e persistente. Le palme delle mani erano umide e appiccicose e, per quanto se le strofinasse lungo i calzoni, subito tornavano a essere appiccicose e umide. Sweeney Che Cammina Attraverso Il Loop. All’altezza di Lake Street dovette fermarsi in un drug-store a bere un altro caffè, con due pillole di bromuro. Si sentiva come una molla arrotolata troppo stretta, come uno che soffre di claustrofobia rinchiuso in una cella, come un miserabile pezzente. Il caffè sembrava nel suo stomaco l’acqua fangosa di una barca che fa acqua. Un fango tiepido, salato, pieno di piccole alghe verdi, ammesso che le alghe siano verdi. Quelle di Sweeney comunque erano di color verde e si muovevano anche.
Attraversò il Wacker Drive, con la segreta speranza che un’automobile lo travolgesse, ma nessuna lo fece; percorse il ponte nello splendore incandescente del sole, e il camminare gli era un faticoso alternarsi di sforzi per alzare e abbassare un piede dietro l’altro, finché, superato il Rush senza osare fermarsi, stringendo le mani sudate dentro le tasche, svoltò in uno spiazzo tra due edifici e infilò un portone aperto. Quella era casa sua, sempre che ci fosse ancora per lui una casa. Per il momento, rappresentava il problema più grave. Tolse di tasca la mano destra e bussò gentilmente a un uscio del pianterreno, poi ritirò in fretta la mano. Dei passi pesanti si avvicinarono lentamente e la porta si aprì.
— Salve, signora Randall. Io… — cominciò Sweeney, ma lo sbuffare della donna gli troncò ogni speranza di continuare.
— No, signor Sweeney — disse.
— Hm… volete dire che avete affittato ad altri la mia stanza?
— Voglio dire che non vi lascio entrare a prender la roba da impegnare per bere ancora. Ve l’ho già detto due volte la settimana scorsa.
— Me l’avete detto? — domandò stupito Sweeney. Si ricordava di quel fatto o no? Ora che lei glielo rammentava, una delle due volte gli tornava vagamente alla memoria. — Credo di essere stato piuttosto sbronzo — ammise e tirò un gran sospiro. — Ma adesso è passata. Sono a posto.
La donna sbuffò di nuovo. — E le tre settimane che mi dovete? Sono trentasei dollari.
Sweeney pescò fuori i biglietti sparsi nella tasca, uno da cinque dollari e tre da uno. — È tutto quel che ho trovato — disse — posso darvene otto in acconto.
Lo sguardo della donna passò dal denaro alla faccia di Sweeney. — Penso che adesso siate proprio a posto e non ubriaco, Sweeney, e se avete dei soldi non andrete a cercar di impegnare la roba, dato che con otto dollari potreste bere un mucchio di whisky.
— Sì — ammise Sweeney, e la donna si ritirò dalla porta, per lasciarlo entrare.
— Entrate, su. Sedetevi e rimettetevi in tasca i vostri soldi. Ne avrete molto più bisogno di me, finché non vi sarete sistemato di nuovo. Per quanto tempo vi può bastare?
— Per pochi giorni — rispose Sweeney, sedendo — ma appena sto bene, faccio in fretta a procurarmene dell’altro. — Rinfilò in tasca le mani e il denaro. — Hm… io… ho paura di aver perso la chiave. Forse voi avete…
— Non l’avete perduta. Ve l’ho presa io una settimana fa, perché stavate cercando di portare fuori il vostro giradischi per impegnarlo.
Sweeney si prese la testa fra le mani. — Buon Dio, l’ho fatto?
— No. Io vi ho costretto a riportarlo indietro e a darmi la chiave. Così ci sono ancora tutti i vestiti, tranne il soprabito e l’impermeabile, perché dovete averli presi prima che chiudessi. E c’è anche la vostra macchina da scrivere. E l’orologio, se non siete riuscito a prenderlo.
Sweeney scosse lentamente la testa. — No, è andato. Ma grazie lo stesso per avermi salvato il resto.
— Avete proprio una brutta cera. Volete una tazza di caffè? È già pronto.
— A momenti il caffè mi uscirà dalle orecchie — rispose Sweeney — però, sì, ne bevo un’altra tazza. Ben forte. — Mentre la donna si muoveva davanti ai fornelli, Sweeney la osservava pensando che dovrebbe esserci al mondo un maggior numero di donne come la signora Randall: dure come il ferro, all’apparenza (e devono esserlo per dirigere una pensione) e tenere come il burro, dentro.
La padrona tornò con il caffè e lui lo bevve d’un fiato. Prese la chiave e salì per le scale. Riuscì a entrare in camera e a chiudere la porta prima che il tremito lo dominasse completamente e rimase così appoggiato alla porta, finché l’attacco gli fu passato. Poi si avvicinò al lavabo e diede di stomaco. La cosa gli procurò un certo sollievo, per quanto il rumore dell’acqua corrente aumentasse il dolore alla testa.
Quando il malessere gli passò, avrebbe desiderato stendersi e dormire, ma invece si spogliò di nuovo, infilò l’accappatoio e si recò in bagno. Si immerse per la seconda volta nell’acqua bollente, crogiolandovisi a lungo prima di decidersi a tornare in camera. Prima di vestirsi, fece un rotolo degli abiti sporchi e consunti che aveva indossato e della camicia stretta e delle calze prese a Goetz e gettò via tutto quanto. Si vestì con indumenti puliti, compreso il suo miglior abito estivo, completando il quadro con una cravatta da cinque dollari e le scarpe più eleganti. Riordinò con cura meticolosa la stanza, e cercò alla radio una stazione che desse fra i vari programmi anche il segnale orario: regolò la sveglia rimasta silenziosa e la caricò, per deporla poi in vista sul cassettone. Infine, preso dal guardaroba il cappello di panama, uscì dalla stanza.
Mentre scendeva le scale, la porta della signora Randall si socchiuse. — Signor Sweeney?
Sweeney si chinò sulla balaustrata per vederla. — Sì?
— Ho dimenticato di dirvi che stamattina presto, verso le otto, hanno telefonato per voi. Un certo Walter Krieg, del giornale dove lavorate, o lavoravate. Non so, adesso…
— Lavoravo, credo — disse Sweeney. — Cos’ha detto? E voi che cosa gli avete detto?
— Ha domandato di voi e gli ho detto che non c’eravate. E allora lui ha detto che se tornavate prima delle nove, dovevate telefonargli. Voi non siete tornato prima… non che io vi aspettassi… ma insomma mi sono scordata di dirvelo subito. Ecco tutto. — Sweeney la ringraziò e uscì. Al negozio all’angolo comperò una bottiglia di whisky e se la mise in tasca, poi entrò nella cabina del telefono e chiese del direttore del giornale.
— È Krieg? — domandò Sweeney. — Sono appena arrivato a casa. Ho avuto il tuo messaggio e non sono sbronzo. Che cosa volevi da me?
— Adesso niente. È troppo tardi, Sweeney, mi dispiace.
— Va bene, d’accordo: è troppo tardi e ti dispiace. Ma che cosa volevi?
— La tua testimonianza oculare, se sei abbastanza in te da ricordarti quel che è accaduto stanotte. Un poliziotto ha detto che eri in quei paraggi quando è stata trovata la Lang. Te ne ricordi?
— Altro che trovata! Accidenti se me ne ricordo! Perché è troppo tardi? Hai fuori la prima edizione, ma la più importante va in macchina adesso e poi ce ne sono altre due. L’edizione nazionale non è ancora in macchina, non è vero?
— Ci va tra un quarto d’ora. Ti ci vuole più tempo a…
— Non perdere tempo — lo interruppe Sweeney — dammi uno stenografo. Subito. Gli do mezza colonna in cinque minuti. Possibilmente Joe Carey: è il più svelto.
Mentre aspettava, Sweeney raccolse le idee, finché non udì la voce di Joe. Allora cominciò a dettare, rapido e preciso. Quando ebbe finito, attaccò al gancio il ricevitore e si appoggiò alla parete della cabina. Non aveva chiesto di parlare di nuovo con Krieg: quella faccenda poteva anche aspettare e sarebbe stato anzi meglio che si recasse da Walter di persona. Ma non ancora, non subito.
Tornò nella sua stanza e preparò sul bracciolo della sua ampia poltrona la bottiglia di whisky con un bicchiere. Si tolse giacca e cappello, e slacciò la cravatta e il colletto. Poi si accoccolò davanti al giradischi, esaminando la raccolta di dischi. Non che avesse bisogno di rileggerne i titoli: sapeva già quale avrebbe suonato. Era la Sinfonia N. 40 di Mozart. Probabilmente a guardarlo non avreste mai pensato che fosse così, ma la Sinfonia N. 40 in do min. op. 550 era la preferita di Sweeney. Accomodò i tre dischi, depose la puntina sul primo e si sdraiò sulla poltrona ad ascoltare.
Perché dovrei dirvi ancora qualcosa di Sweeney? Se conoscete la N. 40 di Mozart, l’oscura irrequietezza che la agita, il cupo sfondo che appare dietro il contrappunto pieno di grazia e di spirito, potete conoscere anche Sweeney. E se la N. 40 di Mozart è per voi semplicemente un elegante e talvolta monotono minuetto, che può accompagnare una conversazione da salotto, allora Sweeney non sarà per voi che un altro qualsiasi cronista a cui succede periodicamente di ubriacarsi. Ma lasciamo andare: quel che pensate voi e quel che penso io non ha nessuna importanza per quanto riguarda Sweeney che apre la bottiglia e si versa da bere. E beve.
Al mondo vi sono molte cose strane. E una delle più strane è una scatola di legno che contiene dei fili di rame e dei dischi di metallo, una mezza dozzina di spazi vuoti come il nulla e un filo nero che termina dentro il muro, da cui proviene qualcosa che chiamiamo elettricità perché non sappiamo che cosa sia. Pure, essa giunge, e la materia inorganica prende vita; davanti a voi sta un piatto che gira, recando un disco, un ago scorre in un’incisione. Una punta che danza nella riga sottile e un diaframma che vibra, e tutta l’aria intorno a voi si riempie di vibrazioni; i pensieri di un uomo che è morto da un secolo e mezzo vi si affollano intorno e voi vivete nelle luci e nelle ombre dell’anima di un morto. Dividete le sensazioni tormentate di un piccolo musico di corte, pieno di vitalità e oppresso da una terribile miseria, che forse avverte l’avvicinarsi della morte e perciò lavora con rapidità prodigiosa, portando a compimento in poche settimane la più grande sinfonia che egli abbia mai scritto.
Sì, esistono strane cose. Sweeney era là, centellinando il suo secondo bicchiere mentre con il terzo disco si iniziava il secondo movimento, l’andante leggero. Li finì insieme, il disco e il bicchiere. Sospirò e si alzò dalla poltrona; gli faceva ancora male la testa e si sentiva abbattuto, ma il tremito delle mani era scomparso. Risciacquò il bicchiere e ripose la bottiglia, ancora piena più che a metà. Voltò i tre dischi e si riaccomodò ad ascoltare il resto della sinfonia.
Chiuse gli occhi e si dedicò soltanto ad ascoltare la fine del secondo movimento. Fin troppo brevemente sorsero e morirono le note chiaroscure del minuetto e trio del terzo movimento, per lasciare il posto a quel che egli aveva aspettato fin dal principio: l’amaro finale, l’allegro molto, immagine del potere e della infinita malinconia della gloria.
Sweeney restò seduto ad ascoltare il silenzio, e dopo qualche tempo si mise a ridere, ma non forte. Ormai era fuori, era a posto, era sobrio. Fino alla prossima volta, che poteva presentarsi dopo mesi o dopo anni. Dopo che l’inferno si fosse accumulato dentro di lui in maniera tale da costringerlo a inzupparsi di alcol; fino ad allora sarebbe potuto essere normale e bere normalmente. Lo so, gli alcolizzati non possono far questo, ma Sweeney non era un alcolizzato; poteva (e lo faceva) bere con moderazione, normalmente, e solo una volta ogni tanto poteva cancellare la cupa profondità dell’umore mutandola in una lunga ubriachezza. Esiste questo tipo di bevitore, anche se negli ultimi tempi la maggioranza dei bevitori è costituita dagli alcolizzati.
Ma Sweeney ora aveva superato il momento; era scosso, ma non più tremante, e stava bene: poteva anche riprendere il suo lavoro, ne era certo, se solo avesse mangiato un boccone. Avrebbe potuto pagare i debiti in poche settimane e tornare al punto in cui era, dovunque quel punto si trovasse.
Oppure… Sì, stava bene. Ma quella decisione assurda o soluzione o quel che era stato… E d’altronde, perché no? «Tutto ciò che vuoi.» Non aveva forse indovinato qualcosa di giusto Dio, dicendo così? «Tutto quello che vuoi, purché tu lo voglia con tanta intensità da concentrarti tutto nello scopo di ottenerlo.» Si trattasse di una piccola cosa come un milione di dollari o di una cosa immensa come il trascorrere una notte con… come si chiamava?… Iolanda Lang.
Rise di nuovo, chiudendo gli occhi per ricostruire nella memoria l’incredibile scena di cui era stato spettatore dietro la vetrata del portone di State Street. Dopo pochi secondi cessò di ridere e si disse: “Sweeney, tu vai in cerca di guai. Prima di tutto hai bisogno di soldi: un piccolo cronista come te non può farcela con una donna come quella. In secondo luogo, per far centro, devi dare la caccia allo Squartatore. E potresti anche trovarlo”.
E il trovarlo non sarebbe stata di certo una bella cosa, Sweeney lo sapeva, dato che nutriva un vero orrore, una fobia addirittura, per il gelo dell’acciaio, per l’acciaio appuntito e freddo. Acciaio affilato come una lama di rasoio che può attraversarti il ventre e spargere i tuoi visceri sul marciapiede, dove non ti servirebbero più a nulla, Sweeney. Proprio, se lo disse: “Sei un dannato idiota, Sweeney”.
Ma lo sapeva già da molto tempo.
III
Sweeney lavorava al “Blade” e blade significa «lama», così che ci si potrebbe creare un bel giochetto di parole, sempre che non vi dispiacciano i giochi di parole. «La lama.» Se avevate già intuito il gioco, vi prego di scusarmi per avervelo indicato: ma qualcuno poteva non afferrarlo, anche se voi ci eravate subito arrivati. È un insieme di tipi diversi che legge un libro. Qualcuno, ad esempio, comprende solo con gli occhi e ha bisogno delle descrizioni: per queste persone, sebbene a me non interessi affatto, dirò che William Sweeney era alto un metro e settanta e pesava circa ottanta chili. Aveva i capelli chiari, tendenti al biondo, che si andavano diradando, ma erano ancora abbastanza folti, il viso era lungo e magro, vagamente somigliante al muso di un cavallo, ma tutt’altro che spiacevole all’occhio di un osservatore imparziale. Dimostrava circa quarantatre anni e non c’era nulla di strano dato che questa appunto era la sua età. Per lavorare e per leggere inforcava occhiali dalla montatura chiara, senza i quali ci vedeva benissimo a qualunque distanza oltre un metro e mezzo. Per lo stesso motivo poteva anche lavorare senza occhiali, se era necessario, ma se continuava troppo a lungo a non farne uso, gli venivano forti emicranie. Era un bene però che sapesse farne a meno, perché si stava preparando un periodo in cui avrebbe dovuto per necessità farne a meno: due settimane prima, quando aveva cominciato la sua metodica e spiritualizzata ubriacatura, li aveva in tasca e ora soltanto Dio (non Diomede, ma proprio Dio) sapeva dove fossero finiti.
Al giornale, Sweeney, attraversata la stanza della cronaca, entrò nell’ufficio del redattore capo e sedette sul bracciolo della poltrona posta davanti alla scrivania di Krieg. — Ehi, Krieg — lo salutò.
Krieg alzò gli occhi e grugnì qualcosa, poi terminò la lettera che stava scrivendo e la mise da parte. Aprì la bocca per parlare e la richiuse.
— Sì, Walter: lo dico io per te. Prima di tutto, io sono un figlio di puttana perché ti ho piantato in asso senza nemmeno avvertirti. Adesso basta: sono licenziato. Perché tu non puoi impazzire con gente come me. Io sono un anacronismo: i giorni dei cronisti ubriaconi sono superati, e un giornale oggi è un’azienda d’affari, che deve marciare con sistemi di assoluta serietà e regolarità. Tu vuoi degli uomini di cui fidarti. Va bene?
— Sì, figlio di…
— No, basta! Ho detto tutto io per te, tutto. E in ogni caso io non ho intenzione di lavorare per il tuo dannato giornale, se non mi assumi regolarmente. Come andava il pezzo del testimone oculare?
— Era buono, Sweeney, maledettamente buono. È stato un colpo formidabile che tu fossi proprio là!
— Mi hai detto che un poliziotto vi ha informato della mia presenza, ma io non ne avevo riconosciuto nessuno. Chi era?
— Devi chiederlo a Carey, è lui che si è occupato della faccenda. Ora senti, Sweeney, quante altre volte mi combinerai un guaio come questo? O sei venuto a dirmi che questa sarà l’ultima volta?
— Probabilmente non sarà l’ultima. Succederà ancora, ma non so quando. Forse ci vorranno due anni, forse sei mesi, chi lo sa. Perciò tu non mi vuoi a lavorare con te. Va bene. Però, dato che non lavoro per te, mi puoi dare un assegno, anche piccolo, per il pezzo di stamattina. E dovresti farmi ancora un piacere: farmi avere subito i quattrini, senza passare per tutta la trafila amministrativa. La storia meriterebbe cinquanta dollari, se Carey l’ha scritta come gliel’ho dettata io, perciò… me ne dai venticinque?
Krieg lo fissò. — Neanche un soldo, Sweeney.
— No? E perché diavolo? Da quando in qua sei diventato un simile pidocchioso…?
— Sta’ zitto! — e l’esclamazione del redattore capo fu quasi un ruggito. — Al diavolo, Sweeney, non ho mai trovato nessuno a cui fosse altrettanto difficile fare un piacere come a te. Non mi lasci neppure la soddisfazione di urlare perché mi togli le parole di bocca. Chi ti ha detto che sei licenziato? Tu te lo sei detto, non io. E la ragione semplicissima per cui non ti pagherò quella stupida storiella che hai dettato al telefono, è che hai ancora il tuo stipendio. In tutto hai perduto due giorni, e basta.
— Non riesco a capire — disse Sweeney. — Perché due giorni? Io sono stato via due settimane; come c’entrano due giorni?
— Oggi è giovedì, Sweeney. Tu hai cominciato la sbronza esattamente due settimane fa, a partire da stasera, e sei stato assente da venerdì o sabato mattina. Però eri vicino ai tuoi quindici giorni di vacanza, che tu forse hai dimenticato: ti toccavano in settembre. Io ti ho spostato leggermente le date, cosicché tu hai cominciato le vacanze lunedì scorso. Oggi sei ancora in vacanza e per qualche giorno ancora non devi venire, cioè, per essere precisi, fino a lunedì. Ecco qua — continuò Krieg, prendendo da un cassetto della scrivania degli assegni e porgendoli a Sweeney — c’è un’altra cosa che probabilmente non ti ricordi neppure, ma sei anche venuto qua per riscuotere il tuo ultimo assegno e non te lo abbiamo dato. Tieni: ecco gli assegni per i quindici giorni di vacanza, con la trattenuta di due giorni.
Sweeney prese gli assegni con rispettosa meraviglia, mentre Krieg brontolava: — Adesso vattene fuori dai piedi fino a lunedì mattina.
— Perdiana, non riesco a crederci — mormorava Sweeney.
— Bene, non crederci, ma, senza scherzi, Sweeney, se succede un’altra volta prima delle tue prossime vacanze dell’anno venturo, sarai licenziato per forza.
Sweeney annuì lentamente, mentre si alzava. — Senti, Walter, io…
— Sta’ zitto. E fila.
Sweeney sorrise quasi con timidezza e filò. Si fermò alla scrivania di Joe Carey, con un — Ehi!
Joe alzò gli occhi ed esclamò: — Guardalo qua in persona! Come mai?
— Vorrei parlarti, Joe. Hai già fatto colazione?
— No, dovrei andarci fra… — guardò l’orologio — venti minuti. Però, senti caro, se pensi a un prestito, io sono fuori combattimento: mia moglie ha avuto un altro bambino la settimana scorsa e sai come vanno queste cose.
— No — rispose Sweeney. — Ringraziando il Cielo non so affatto come vadano queste cose. Comunque, ti faccio le mie congratulazioni. Immagino che sia un maschio o una femmina.
— Già.
— Benissimo. In ogni caso, non si tratta di nessun prestito. Per un miracolo, che mostra l’esistenza di un Dio, sono pieno di soldi. Fra l’altro, ti devo qualcosa?
— Cinque dollari. Te li ho dati mercoledì di due settimane fa. Non ti ricordi?
— Adesso che me lo dici, vagamente lo ricordo. Allora, andiamo a mangiare da “Kirby”, così cambio un assegno e ti pago il debito. Io vado e ti aspetto là.
Da “Kirby”, Sweeney cambiò il più piccolo degli assegni e sedette a un tavolo ad aspettare Joe. Il pensiero di mangiare gli dava ancora la nausea e l’inghiottire qualsiasi cibo gli era così spiacevole, che avrebbe rinunciato volentieri, se non avesse dovuto aspettare Carey. La prospettiva stessa di vedere Joe mangiare gli era ingrata. Come minore dei mali, ordinò una minestra in brodo, che per la sua bocca aveva il sapore di sciacquatura di piatti, ma che riuscì a trangugiare quasi tutta. Stava allontanando il piatto, quando Joe venne a sedersi di fronte a lui.
— Ecco i tuoi cinque dollari, Joe, e grazie. Ma, prima che me ne dimentichi, dimmi: chi mi ha visto la notte scorsa in State Street? Non mi era parso di conoscere nessuno dei poliziotti che c’erano là.
— Un omaccione che si chiama Pete Fleming.
— Oh! — esclamò Sweeney — adesso ricordo: l’avevo incontrato in Clark Street prima della scoperta. Aspetta… io andavo verso sud e lui doveva andare verso nord: io ho percorso pochi isolati, ho tagliato verso est e poi in su per la State. Ma non l’ho visto sul luogo del tentato omicidio.
— È facile che ci sia arrivato mentre tu te ne andavi. L’automobile che ha risposto alla telefonata, marciava con la sirena in funzione, e Fleming, dovunque fosse in quel momento, si è messo a seguire la sirena ed è arrivato sul posto dopo di loro.
Il cameriere si avvicinò al tavolo, e Sweeney aggiunse la richiesta di un caffè agli ordini di Joe. Poi si chinò attraverso la tavola e chiese: — Joe, com’è questa storia dello Squartatore? È quello che voglio tirarti fuori. Potrei pescare qualcosa dai ragazzi della cronaca nera, ma tu ne saprai certo di più. Prima domanda: da quando va avanti la faccenda?
— Ma non hai letto i giornali in questi dieci giorni?
Sweeney scosse il capo. — No, tranne uno di stamattina, che parlava della faccenda della Lang di ieri sera, ma si riferiva ad altri assassinii. Quanti sono stati?
— Oltre alla Lang, altri due. Cioè se ne potrebbero calcolare altri tre. C’è stato un omicidio due mesi fa nella zona meridionale della città, che potrebbe essere della stessa mano e potrebbe non esserlo. Si trattava di una certa Lola Brent, e fra il suo caso e i successivi ci sono somiglianze che hanno fatto supporre alla polizia un possibile collegamento fra tutti, ma non ne sono sicuri, perché vi sono anche differenze.
— È morta?
— Altro che! E anche le altre due ragazze prima della Lang: lei è l’unica che l’abbia scampata ed è stato il cane a salvarla. Ma questo lo sai anche tu.
— Che notizie ci sono della Lang? — domandò Sweeney. — È ancora all’ospedale?
— Pare che sarà rilasciata stasera: la ferita non era grave, perché la lama ha scalfito solo la superficie della pelle. Tutto si è risolto soprattutto in uno choc.
— Come per molti altri — assentì Sweeney — me compreso.
Joe Carey strinse le labbra. — Non hai un po’ caricato le tinte in quella storia, Sweeney?
Sweeney sogghignò. — Le ho smorzate, le tinte. Avresti dovuto esserci, Joe.
— Io sono sposato. Comunque, la polizia metterà un agente a vegliare sulla Lang.
— Un agente? Perché?
— L’assassino di ieri sera potrebbe tornare, pensando che lei sia in grado di riconoscerlo e indicarlo. In realtà, non può identificarlo, o almeno dice di non potere: tutto quello che ricorda è un uomo alto, vestito di scuro.
— La luce nell’atrio era spenta — rifletté Sweeney.
— Lo Squartatore era nascosto ai piedi delle scale, vicino alla porta del retro, e molto probabilmente era fuori della porta stessa, tenendola socchiusa. Quando ha sentito i passi di lei nell’atrio, è saltato dentro e l’ha colpita. Ma il cane è balzato sull’assassino, che è dovuto scappare, sbagliando quasi tutto il colpo, per sfuggire al cane.
— Può andare — disse Sweeney — non gli doveva essere difficile scorgere la figura di lei che veniva dall’esterno, o alla luce dei lampioni, mentre per lei l’aggressore non è apparso che come un’ombra. La questione vera è questa: aspettava proprio Iolanda Lang o avrebbe assalito chiunque fosse entrato?
Carey si strinse nelle spalle. — Tutti e due i casi sono possibili. Cioè, dato che quella è l’abitazione della Lang poteva essere in attesa di lei al suo ritorno dall’ultimo spettacolo. D’altra parte, se appena fosse stato al corrente delle sue abitudini, doveva sapere anche della presenza del cane, mentre, a quanto pare, non l’aveva previsto. Ma può darsi che anche essendone a conoscenza, pensasse di poterla colpire e poi fuggire prima che il cane avesse il tempo di intervenire. In questo caso, l’assassino ha sbagliato i calcoli.
— La ragazza torna a casa ogni sera alla stessa ora?
— Regolarmente ogni notte. Recita nell’ultimo spettacolo tutte le sere; soltanto il sabato e la domenica sera finisce più tardi, ma non torna mai a casa subito, a quanto ha dichiarato. Spesso si ferma all’“El Madhouse”, il club dove lavora, non so se lo conosci. — Sweeney fece segno di no. — E qualche volta va a bere o va in giro fino alle tre. Oppure dopo la rappresentazione ha qualche appuntamento ed esce: una donna come lei non è mai sola, se non ha voglia di esserlo.
— Chi si occupa del fatto, al giornale?
— Horlick, che andrà in vacanza lunedì. Non so a chi lo affiderà Walter dopo la sua partenza.
Sweeney sorrise. — Senti, Joe, vuoi farmi un favore enorme? Io voglio occuparmene, ma non posso essere io a suggerirlo a Walter. Tu invece puoi parlargliene alla prima occasione. Suggeriscigli che io sono il più adatto a occuparmene, dato che ho assistito alla scena e che alla partenza di Horlick, visto che io riprendo il lavoro proprio lunedì, può benissimo venirmi affidato il seguito. A te darà retta, mentre se lo domandassi io mi direbbe di no, magari soltanto per mostrare la sua autorità.
— Certo che posso farlo, Sweeney. Però devi documentarti sugli altri casi e informarti dalla polizia: c’è una squadra speciale distaccata per l’affare dello Squartatore, che non si occupa di altro. La dirige l’ispettore Bline della squadra omicidi. Il laboratorio di criminologia sta analizzando tutto quello che hanno in mano, ma in verità non hanno molto.
— È quel che farò. Da oggi a lunedì, studierò il caso e andrò alla polizia.
— Perché vuoi sprecare anche i tuoi giorni di vacanza, Sweeney? È un affare che ti hanno proposto?
— Proprio — mentì Sweeney — mi sono assicurato la possibilità di scrivere la storia del caso una volta che sia stato risolto, per un editore di libri gialli. Non si occupano di casi insoluti, ma una volta che uno sia stato sistemato, hanno promesso di lasciar fare a me. Potrei ricavarne qualche centinaio di dollari. Se tu, Joe, ottieni da Krieg di affidarmi il lavoro, in modo che io abbia a disposizione tutti i dati per quando l’assassino sarà stato preso, ti darò il dieci per cento, che potrebbe essere tra i venti e i cinquanta dollari.
— Che cosa ci perdo io? Niente, ma te lo farei anche senza percentuale.
— Ma in questa maniera sarai più convincente — disse Sweeney. — Tanto per cominciare, come si chiamano le altre ragazze assassinate? Mi hai detto che la prima era una certa Lola Brent, due mesi fa, non è vero?
— Esatto. Dieci giorni fa è toccato a Stella Gaylord e cinque giorni dopo a Dorothy Lee.
— Qualcuna delle altre era corista o ballerina?
— La prima, Lola Brent, era una ex corista, che viveva con una specie di piccolo furfante, un certo Sammy Cole. La polizia ha sospettato che l’abbia uccisa lui, ma non hanno trovato prove e non hanno potuto arrestarlo. Perciò sono andati a scovare le altre truffe e l’hanno schiaffato in guardina, dove sta ancora adesso. Ragione per cui, se lui ha ucciso Lola, non può aver ucciso le altre o assalito Iolanda.
— Le altre due che facevano?
— Stella Gaylord era una entraîneuse di West Madison Street. La Lee era una segretaria privata.
— Privata fino a che punto? Del genere che deve sorvegliare le proprie condizioni fisiche, come sorveglia le virgole?
— Non lo so — sorrise Carey — di questo non ha parlato nessuno. Lavorava per un direttore della Reiss Corporation, di cui non ricordo il nome, ma che quel giorno comunque era in viaggio d’affari a New York.
Joe Carey guardò l’orologio, perché aveva finito di mangiare. Disse: — Questi sono i punti principali, Sweeney. Adesso non ho tempo di fermarmi ancora, debbo tornare al giornale.
— Benissimo — rispose Sweeney — in che ospedale è ricoverata la Lang?
— Al “Michael Reese”, ma non ti lasciano entrare a parlarle: ci sono poliziotti sparsi in tutti i corridoi. Anche Horlick ha cercato di andarci, ma non ci è riuscito.
— Non sai quando ricomincerà all’“El Madhouse”?
— No. Puoi chiederlo al suo agente, un tale che si chiama Doc Greene.
Carey si alzò, mentre Sweeney prendeva anche il suo conto. — Lo pago io. Però dimmi come potrei pescare questo tale. Qual è il nome di battesimo?
— Chi lo sa! Tutti lo chiamano Doc. Il cognome è Greene. Puoi trovarlo interrogando il padrone dell’“El Madhouse”. Credo che sia lui a occuparsi dei loro affari. Ciao.
Sweeney sorbì un sorso del caffè che aveva dimenticato di bere e che ormai era freddo. Rabbrividì di disgusto al sapore e uscì rapidamente dal ristorante.
Dopo una breve esitazione si diresse di nuovo al “Blade”, dove questa volta non si recò in redazione, ma in amministrazione, a incassare i suoi assegni e poi in archivio. Sfogliò i giornali di due mesi finché trovò quello che dava il resoconto dell’assassinio di Lola Brent. Comperò quel numero e i successivi per una settimana, oltre alle copie delle ultime edizioni dei dieci giorni precedenti. Era un fascio enorme di giornali, anche dopo che ne ebbe eliminato le edizioni domenicali, tanto che dovette prendersi un taxi per portarli a casa.
Quando fu arrivato, bussò alla porta della signora Randall: le pagò i trentasei dollari di debito, e altre due settimane in anticipo. Quando finalmente fu giunto in camera, accomodò sul letto la pila dei giornali, per poi dedicarsi alla ricerca di Greene sull’elenco telefonico finché trovò un J.J. Greene, che alloggiava al “Goodman Block” ed era agente teatrale. Formò il numero e, dopo una breve discussione con una segretaria, ebbe al telefono il signor J.J. Greene.
— Sono Sweeney, del “Blade” — annunciò. — Potreste dirmi quando uscirà dal “Reese” la vostra cliente?
— Sono molto spiacente, signor Sweeney, ma la polizia mi ha proibito di dare qualunque informazione. Se volete sapere qualcosa, dovete chiederlo a loro. Scusatemi, siete voi che avete scritto il resoconto di oggi sul “Blade”?
— Sì: sono io.
— Un bell’articolo. E un’ottima pubblicità per Iolanda. Peccato che abbia un contratto già firmato per altre tre settimane all’“El Madhouse”, perché altrimenti alzerei subito i prezzi.
— Allora potrà riprendere a ballare prima di tre settimane?
— Se tutto va bene, entro tre giorni. È stata una sciocchezza.
— Potrei venire a parlarvi, signor Greene? Nel vostro ufficio, se volete.
— A parlare di che cosa? La polizia mi ha proibito di parlare con i cronisti.
— Anche se li incontrate per strada? Non ho mai incontrato un agente di teatro che rifiuti di parlare con un giornalista. Io potrei anche voler discutere della pubblicità per un altro vostro cliente e la polizia non avrebbe nulla da dire. O c’è qualcosa a vostro carico, personalmente?
Greene sogghignò. — Vi inviterei qua io stesso, anche se la polizia me lo proibisse. Ma debbo uscire entro venti minuti. Di solito vado a bere qualcosa in uno dei locali di cui mi occupo. Penso che oggi, mentre vado in città alta, potrei fermarmi all’“El Madhouse”. In questo caso, arriverei là fra mezz’ora. Se vi capitasse di entrarci…
— Dovrebbe proprio capitarmi — rispose Sweeney. — Grazie. A parte ogni indiscrezione, la signorina Lang è ancora all’ospedale?
— Sì, ma non riuscirete a parlarle, finché è là.
— Non ci proverò neppure, allora. Arrivederci.
Attaccò il ricevitore e si asciugò la fronte sudata col fazzoletto. Quando fu tornato nella sua stanza, per più di cinque minuti rimase seduto immobile. Appena gli parve di essere abbastanza in forze da poterlo tentare, si spinse fuori della poltrona e uscì di casa.
Il sole scottava, ed egli camminava lentamente. In State Street, ordinò da un fioraio due dozzine di American Beauties, da recapitare a Iolanda Lang all’ospedale. Poi faticosamente continuò a trascinarsi nel calore accecante, finché giunse all’“El Madhouse”, in Clark Street.
In quell’ora del tardo pomeriggio, non campeggiava ancora all’ingresso la solenne figura del portiere gallonato, dalla voce suadente; sarebbe comparso a mezzanotte, al momento in cui il solito spettacolo avrebbe avuto inizio. Però spiccavano i manifesti:
IOLANDA LANG E IL SUO DEMONIO NELLA FAMOSA «DANZA DELLA BELLA E LA BESTIA»
Naturalmente, insieme ai manifesti, c’erano le fotografie, ma Sweeney non si fermò a guardarle. Entrò rapido dalla strada assolata nell’oscurità fresca del bar, separato dalla sala con le tavole e il palcoscenico, dove una maggiore ricercatezza aumentava anche i prezzi.
In un primo momento si fermò come accecato, per il brusco passaggio dalla gran luce solare al semibuio delle luci al neon. Ammiccando, percorse con lo sguardò il bar, dove sedevano solo tre persone. All’estremità, un uomo troppo ubriaco ciondolava chino su una bionda grassoccia troppo sobria. A cinque o sei sgabelli di distanza, un altro tizio sedeva solo, scrutando la propria immagine riflessa nello specchio blu scuro dietro il banco, tra una bottiglia di birra e un bicchiere, posti davanti a lui. Sembrava scolpito nella pietra e Sweeney ebbe la certezza che non era Doc Greene. Si accomodò su un altro sgabello e subito il barista si accostò. — C’è Greene? — domandò Sweeney. — Doc Greene?
— Oggi non è ancora venuto. — Il barista andava pulendo il banco con uno straccio sudicio. — Qualche volta viene a quest’ora, ma oggi non so, con Iò all’ospedale…
— Iò — ripeté meditabondo Sweeney. — Mi piace. Gli dà un suono meridionale, ed è simpatico: Iò.
— Che cosa volete bere? — domandò il barista.
— Dunque — rispose Sweeney e ci meditò sopra: doveva cominciare a mangiare qualcosa, lentamente, per gradi, finché gli tornasse un normale appetito e la vista del cibo non gli desse la nausea. — Una birra con un uovo dentro, direi. — Il barista si allontanò per preparargliela e Sweeney si voltò, udendo la porta aprirsi. Sulla soglia stava un uomo con la faccia da luna piena, dove appariva un sorriso privo di significato, mentre esaminava il bar. I suoi occhi, dietro due spesse lenti rotonde, si fermarono su Sweeney e l’ampio sorriso si allargò ancora. Gli occhi dietro le lenti sembravano enormi. Apparivano nello stesso tempo vuoti e malvagi, come gli occhi di un rettile in un ingrandimento di cento volte, e vi sareste aspettati di vederli velati da una membrana ammiccante.
Sweeney, al di fuori, restò impassibile, ma dentro di lui qualcosa rabbrividì: per la prima volta, forse, in vita sua, odiò un uomo a prima vista. E sentì di temerlo anche, un poco. Era una strana fusione di vari elementi perché l’odio, tranne che in maniera molto astratta, era completamente ignoto a William Sweeney, e anche la paura non è uno stato normale per uno che ben di rado procura agli altri tanto male da doverne essere spaventato.
— Il signor Sweeney? — domandò l’uomo con la faccia da luna piena, più affermando che domandando.
— Si accomodi, Doc — rispose Sweeney. E nascose le mani in tasca, in fretta, perché aveva avvertito i sintomi di una nuova crisi di tremito.
IV
L’uomo con la faccia da luna piena scivolò su uno sgabello, oltre la curva del banco, così da trovarsi di faccia a Sweeney. Cominciò: — Avete scritto veramente un buon articolo sul fatto di stanotte, signor Sweeney.
E Sweeney disse: — Contento che vi sia piaciuto.
— Non ho detto che mi è piaciuto — replicò Greene — ho detto che è veramente un buon articolo. È diverso.
— Ma in questo caso particolare — insisté Sweeney — dove sta la differenza?
Doc appoggiò i gomiti sul banco e unì le punte delle dita, rispondendo con aria saggia: — Signor Sweeney, qualcuno può gustare profondamente la descrizione di una donna, qualcun altro può non divertirsi affatto a leggerla. Per esempio, nel caso che la donna sia sua moglie.
— Iolanda Lang è vostra moglie?
— No — rispose l’uomo — io vi portavo semplicemente un esempio, come voi avevate chiesto. Avete già ordinato qualcosa?
Sweeney assentì e Greene, guardando il cameriere, alzò un dito: quello arrivò portando la birra-con-uovo di Sweeney e un bicchiere da whisky per Greene. Quando il bicchiere fu riempito, Sweeney cautamente trasse una mano di tasca e appoggiò le punte delle dita sul banco, poi, con cura, così da non mostrarne il tremito, le spinse lungo il bordo, e infine verso il bicchiere, mentre sorvegliava quegli occhi che sembravano tanto enormi dietro le grosse lenti.
Il sorriso di Greene era scomparso, ma ora riapparve, mentre egli alzava il bicchiere. — Alla vostra cattiva salute, Sweeney.
Le dita di Sweeney si erano aggrappate al bicchiere. — Alla vostra, Doc. — E con la mano ormai ferma alzò il boccale e mandò giù un sorso. Quando ebbe deposto il bicchiere, trasse di tasca anche l’altra mano: la crisi era passata e non tremava più.
Disse, con intenzione: — Forse voi sareste lieto di farmela peggiorare, la salute, Doc. Se volete provare, sarà una gioia compiacervi.
Il sorriso si allargò. — Naturalmente no, signor Sweeney. Da quando sono diventato uomo, ho messo da parte i giochi infantili, come dice il grande poeta.
— È la Bibbia — corresse Sweeney — non Shakespeare.
— Grazie, Sweeney. Voi siete proprio, come io temevo leggendo il vostro pezzo, un uomo intelligente. E anche, come ho temuto leggendo il vostro nome, un irlandese, con la testa dura. Se vi dicessi, veniamo pure al fatto, se vi dicessi di non occuparvi di Iolanda, diventereste ancora più ostinato. — Alzò un dito per farsi riempire di nuovo il bicchiere e continuò: — Qualsiasi accordo sarebbe inutile: anche il dirvi che è inutile da parte vostra cercare di avvicinare la mia, diciamo, cliente. Come voi avete potuto osservare, Iolanda non è priva di fascino. La cosa è stata provata da esperti.
— State facendovi dei complimenti, Doc.
— Forse, e forse no. In ogni caso, non stiamo trattando dei miei rapporti con Iolanda.
Sweeney bevve un altro sorso di birra e rispose: — Ora tocca a me meravigliarmi. Di che cosa stiamo discutendo? Mi pare che non ci siamo incontrati qui per parlare della pubblicità per qualche altro vostro cliente. E voi stesso avete detto che tentare degli accordi sarebbe altrettanto inutile che indicarmi la vanità dei propositi che secondo voi io ho in mente. Allora, perché siete venuto qua?
— Per conoscervi, Sweeney. Quando ho letto il vostro articolo, ho capito, e io sono una specie di psicologo, che voi sareste stato una spina nel mio fianco. C’era nel vostro pezzo un qualcosa di indefinibile… come Dante avrebbe potuto scrivere di Beatrice o Abelardo di Eloisa.
— E Casanova di Ginevra, se fossero vissuti nello stesso secolo. — Sweeney sorrise appena. — Sapete, Doc, mi siete tanto odioso che cominciate a piacermi.
— Grazie — rispose Greene — è proprio quel che anch’io provo per voi; lasciatemi dire che ognuno di noi ammira le capacità dell’altro. O almeno, voi ammirerete le mie, quando mi conoscerete meglio.
— No, le ammiro già, specie la vostra linea di condotta — replicò Sweeney — immensamente. L’unica cosa di voi che odio sono i vostri visceri.
— E speriamo che lo Squartatore non li esponga mai al pubblico — riprese Greene. — Non sembra probabile, dato che finora ha preferito vittime più tenere. — Doc sorrise. — Sweeney, la civiltà non è forse una cosa meravigliosa? Che due uomini possano stare qui seduti a insultarsi, con cordiale sincerità e divertendosi alla conversazione? Se avessimo le abitudini di uno o due secoli fa, uno di noi avrebbe già schiaffeggiato l’altro sulla guancia e uno di noi sarebbe destinato a morire molto prima che il sole di domani indori l’orizzonte.
— Bellissima immagine, Doc — ammise Sweeney. — Mi piacerebbe tanto. Ma le autorità sono piene di decisione in proposito. Perciò torniamo a Iolanda. Ritengo che voi abbiate letto con grande intuizione fra le righe del mio resoconto. Che cosa avete intenzione di fare? Avete qualche progetto?
— Naturalmente: per prima cosa, metterò sulla vostra strada ogni possibile ostacolo. Avviserò Iolanda di stare in guardia contro di voi, non in modo evidente, è ovvio, ma con astuzia, e le farò credere che voi siete uno sciocco. E voi sapete bene di esserlo.
— Sì — disse Sweeney. — Ma Iolanda può anche non prendere in considerazione l’avviso, dato che proviene da un bastardo come voi. E voi sapete bene di esserlo.
— Il vostro potere di intuizione, Sweeney, mi sorprende addirittura. Guardate il caso, lo sono veramente, nel senso letterale della parola. È molto probabile che lo sia anche in senso figurato, ma ciò non ha alcuna importanza. Dovrei dire forse, soltanto, che c’è una forte probabilità che io sia nato da una coppia non regolarmente coniugata; per quanto ne so io con sicurezza, sono stato allevato in un orfanotrofio. Quel che sono oggi, è poi opera mia.
— Soltanto voi potevate essere capace di compierla — concesse Sweeney.
— Voi mi lusingate. Non vi chiedevo un complimento. Ma questa è una digressione. Oltre a mettervi degli ostacoli, io vi aiuterò.
— Adesso mi confondete davvero! — esclamò Sweeney.
— Voi volete trovare lo Squartatore. È logico che ci proviate, prima perché siete giornalista, poi, ed è più importante per voi, perché pensate che questo vi aprirà la strada per arrivare a Iolanda. Il tentare vi porterà immediatamente a contatto con la ragazza, un contatto forse non così intimo come voi vorreste, ma sempre una buona scusa per vederla e parlarle. E quindi pensate che se riuscirete a trovare lo Squartatore, le apparirete come un eroico conquistatore e Iolanda vi cadrà fra le braccia. Dico bene?
— Continuate a parlare — rispose Sweeney — come se avessi bisogno di suggerimenti!
— Bene, avete dunque due ottime ragioni per trovare l’assassino. E io ne ho due ottime per aiutarvi. Una — e alzò un dito grassoccio — se lo trovaste, quello potrebbe anche infilarvi nello stomaco un coltello. E credo mi farebbe molto piacere. Anch’io odio i vostri visceri, caro Sweeney.
— Grazie di cuore.
— Seconda ragione — e un altro dito raggiunse il primo — la polizia può anche vedere giusto, quando teme che l’assassino ritorni per farla finita con Iolanda. Nonostante che Iolanda, come riportano tutti i giornali, non sia in grado di riconoscerlo, potrebbe decidere di correre il rischio per poi essere del tutto al sicuro. E questo non mi piacerebbe.
— Lo capisco perfettamente — disse Sweeney — e come motivo mi piace molto di più del primo.
— Inoltre, Sweeney, non credo affatto che il trovare l’assassino vi serva per avvicinarvi a Iolanda. Per lo meno, mi permetto dei dubbi.
— Certo, Doc. Un piccolo particolare, ancora: la polizia di Chicago mi supera in modo considerevole quanto a numero di uomini in forza. Ora, proprio per curiosità, vorrei sapere che cosa vi fa pensare che io col mio piccolo calibro possa riuscire là dove ha fallito l’intera armata blu.
— Perché siete un dannato irlandese furbo, perché siete un po’ un predestinato: lo avevo supposto da qualche frase del vostro articolo e ora lo so con precisione. E perché Iddio ama gli sciocchi e gli ubriaconi e voi avete entrambi i loro difetti. E forse anche perché nascondete sotto un aspetto banale un cervello diabolicamente acuto, Sweeney; altra cosa che io prima sospettavo soltanto e che ora so con certezza. E in voi c’è una sottile abilità che vi porterà in luoghi dove la polizia non penserebbe di andare, come quel contadino che ritrovò il cavallo smarrito, immaginando di essere lui stesso un cavallo e di andare dove sarebbe andato un cavallo. Non che io voglia paragonarvi a un cavallo, Sweeney. Per lo meno non completamente.
— Grazie: concludendo, sono un somaro con un cervello diabolicamente acuto. Ditemi ancora qualcosa, per favore — disse Sweeney, con un certo risentimento.
— Credo che potrei continuare, perché sono davvero uno psicologo, Sweeney, pur non esercitando la professione. Un caso disgraziato mi buttò tutto in aria durante il mio ultimo anno di internato: avevo pensato che la satinasi dovesse essere la cura più logica per la ninfomania e dato che un nostro paziente era affetto da satiriasi a uno stadio avanzato, mi presi la libertà di introdurlo nella stanza di un’altra paziente affetta da forte ninfomania, lasciandoli insieme per lungo tempo. Ma i miei superiori fecero un chiasso terribile sulla faccenda.
— È piuttosto comprensibile — rispose Sweeney.
— Se poi avessero soltanto immaginato tutti gli altri miei esperimenti che non furono scoperti! Ma non cambiamo discorso.
— Infatti: stavate parlando di aiutarmi a trovare lo Squartatore. Perciò, cominciate ad aiutarmi.
Greene allargò le mani. — Non è molto, perché non è che io abbia nome e indirizzo dell’assassino nel mio notes, pronti da indicarvi. Intendevo dire soltanto che lavorerò volentieri insieme a voi, Sweeney, e vi rivelerò alcuni dati ed elementi che possiedo. Poi, visto che desiderate parlare con Iolanda, vedrò di ottenervelo, poiché vi sarebbe difficile riuscirci con la polizia all’erta, come sarà in questi giorni. — Guardò l’orologio e concluse: — Purtroppo, adesso non ho tempo di fermarmi, ho un appuntamento d’affari. Si deve anche mangiare a questo mondo. Potreste trovarvi qui domani, all’incirca alla stessa ora, Sweeney?
Sweeney aggrottò la fronte. — Non so. Forse mi fate perdere tempo. Avete veramente qualcosa da darmi?
— Ho Iolanda — rispose Greene. — Domani sarà dimessa dall’ospedale. La condurrò con me qui. Ci sarete, vero?
— Naturale, che ci sarò — disse Sweeney.
— Bene. Dovremo vederci spesso, noi due, perciò tralasciamo le formalità. Non diciamoci falsi arrivederci. Le mie due bibite vanno sul vostro conto. Grazie e andate all’inferno. — E si allontanò.
Sweeney trasse un lungo, lento respiro. Il barista arrivò subito. — È un dollaro e venticinque. Non bevete la birra?
— No, gettatela nel lavandino. Ma portatemi un whisky.
— Liscio o con soda?
— Liscio.
Sweeney pose due dollari sul banco e quando il barista tornò disse: — Un bel tipo, quel Doc Greene.
— Oh, altro che tipo!
— Quello che mi ha colpito sono i denti — continuò Sweeney — sembravano proprio suoi, perché non erano abbastanza regolari da essere falsi. Ma come diamine riesce ad avere denti simili un tipo come lui?
Il barista rise. — Forse sarà per gli occhi. Da ipnotizzatore: credo che ci voglia un bel coraggio per giocare un tiro a Doc. Io non mi mischierei mai nelle sue storie. Ed è incredibile come le donne gli corrano dietro. Non lo si crederebbe mai.
— Anche Iò? — domandò Sweeney.
— Di Iò non saprei. È una donna difficile da capire.
Prese i due dollari di Sweeney, batté alla cassa uno scontrino da uno e ottanta e gli mise sul banco il resto. Sweeney vi aggiunse altri venticinque centesimi e disse: — Bevine uno con me.
— Certo, grazie.
— Alla salute — disse Sweeney. — Dimmi, chi dirige adesso l’“El Madhouse”? Appartiene ancora a Harry Yahn?
— Appartiene a Yahn, almeno per la maggioranza, ma non lo dirige lui. Lui ha preso un altro locale.
— Del genere zuccherino, come questo?
Il barista sorrise debolmente. — Non questo genere.
— Oh! — esclamò Sweeney — allora sarà un piccolo bar, con una grande sala sul retro, e se si conosce un tale che si chiama Joe e che sta alla porta, si può perdere nel retro anche la camicia.
La bionda grassoccia all’estremità del banco batteva con impazienza il bicchiere sul ripiano. Il barista sussurrò: — Il tizio alla porta si chiama Willie — e scivolò via a portar da bere alla bionda.
Dopo aver finito il suo bicchiere, Sweeney si alzò e uscì per Clark Street nel crepuscolo. Si diresse a sud, verso il Loop, camminando piano, senza meta, cercando di riflettere, senza riuscirvi. Conosceva bene quello stadio della ripresa, quando la mente era confusa e i suoi pensieri si muovevano come fantasmi in una fitta nebbia, mentre le sensazioni fisiche giungevano con una vivezza abbagliante: i clacson delle automobili e i campanelli dei tram erano spaventosamente rumorosi; gli occhi mettevano a fuoco perfetto ogni oggetto; gli odori, che di solito neppure notava, avevano una forza nauseante.
Doveva mangiare a qualunque costo, e presto, per riprendere le forze. Soltanto una certa quantità di cibo solido avrebbe dissipato la nebbia dal cervello e liberato lui dalla sensazione di leggerezza e dalla prostrazione fisica che stava per penetrargli fin nelle ossa. Tutte queste percezioni e l’emicrania martellante lo accompagnavano ancora. E pensò a quanto sarebbe stato bello morire, senza sforzo e senza dolore, senza neppure avvedersene: addormentarsi e non svegliarsi più. Anche dormire è un bene, ma poi vi dovete sempre svegliare per ritrovarvi nella confusione e nella complicazione e in quelle mille piccole sofferenze, che di quando in quando maturano in una grande sofferenza, alla quale soltanto l’immergersi nell’alcol dà sollievo.
Ma in quel momento non si trattava precisamente di questo. Quell’unico whisky bevuto all’“El Madhouse” non gli aveva dato il desiderio di berne un altro, non gli aveva né schiarito né confuso la mente e non aveva nemmeno avuto un sapore, buono o cattivo che fosse. Sul ponte, quando infine vi giunse, si sentì meglio. Ci soffiava una brezza fresca ed egli sostò a contemplare il fiume, lasciando che il vento lo colpisse. Quando si voltò per tornare indietro, scorse un taxi vuoto e si fece portare a casa.
Quando fu nella sua stanza, prese dal letto la pila dei giornali e si sdraiò in poltrona. Trovò l’articolo sul primo assassinio, quello di Lola Brent: mezza colonna in seconda pagina, ma pochi particolari. Non si faceva cenno allo Squartatore. Era la storia di una donna, e una donna poco importante, d’altronde, che era stata trovata morta nel passaggio tra due edifici della Trentottesima Strada. L’arma usata era stata un rasoio o una lama sottile di coltello. L’assassinio era avvenuto tra le quattro e le cinque del pomeriggio, in pieno giorno. Non vi era stato nessun testimone e il cadavere era stato scoperto da un bambino che tornava a casa dal campo di gioco. La polizia era alla ricerca dell’uomo con cui Lola Brent conviveva.
Sweeney prese il secondo giornale, dove il fatto era presentato con maggior rilievo, ed era accompagnato da due fotografie. Una era di Lola Brent: bionda e bella. Non mostrava i trentacinque anni che le si attribuivano nel resoconto, gliene avreste dato poco più di venti. L’altra fotografia ritraeva l’uomo arrestato dalla polizia, Sammy Cole: aveva capelli neri, ricci e una faccia simpatica. Aveva negato di aver ucciso Lola Brent ed era stato trattenuto in attesa di accertamenti.
Il resoconto del terzo giorno era un breve riassunto, in cui l’unica novità proveniva dalle ammissioni di Cole rispetto ad alcune accuse minori che gli venivano mosse. Gli altri giornali dei giorni seguenti non portavano nulla di nuovo. Poi il caso di Lola Brent sembrava fosse caduto nel silenzio, senza alcuna soluzione. Negli ultimi due giorni della serie settimanale di due mesi prima, non se ne parlava più. E non ci poteva essere nulla, come sapeva Sweeney, nei giornali relativi alle cinque settimane e mezzo che lui non si era procurato. Prese allora in mano la serie dei giornali di dieci giorni prima e diede una rapida scorsa ai resoconti dell’assassinio di Stella Gaylord, la ragazza di Madison Street. Non cercò i particolari, perché voleva concentrarsi su un solo delitto per volta: per il momento, cercava una possibile citazione della morte di Lola Brent. La trovò nell’articolo del secondo giorno dopo la morte della Gaylord, quando per la prima volta si suggeriva l’ipotesi che il delitto potesse essere stato commesso da un maniaco, forse quel medesimo che sei settimane prima aveva ucciso la Brent. Il pezzo del giorno seguente era lo sviluppo di questa supposizione, con un confronto descrittivo delle ferite inferte alle due donne: entrambe erano state uccise con un colpo vibrato orizzontalmente all’addome, ma l’arma non era la stessa nei due casi. Il coltello che aveva ucciso la Brent non era stato più affilato del normale, mentre la lama che aveva colpito la Gaylord era un filo di rasoio.
Sweeney sorvolò rapido i resoconti degli altri giornali, cercando soltanto ulteriori particolari sul caso Brent; un’idea alla volta era il massimo che la sua mente potesse concepire e assorbire nelle condizioni in cui si trovava. A quanto sembrava, non c’era stata più alcuna scoperta rilevante nel caso Brent. La polizia non era ancora proprio sicura che l’uccisore della Brent fosse il medesimo pazzo omicida, assassino della Gaylord e, dopo altri cinque giorni, di Dorothy Lee. Ma per le ultime due non c’era dubbio che fossero state colpite dalla stessa mano.
Sweeney depose l’ultimo giornale, il più recente, e cercò di raccogliere le idee e di pensare. Ora sapeva tutto quello che era stato rivelato ai giornali sulla morte di Lola Brent, ma non gli serviva a niente. D’altra parte, che cosa poteva servirgli, se non un colpo di fortuna, per andare alla caccia di un omicida che ha ucciso senza motivo? Senza un motivo speciale riferibile alla vittima e non in modo generico a qualunque donna bionda e bella. Ecco, questo era un punto in comune: le tre vittime, così come Iolanda Lang, erano tutte bionde e belle.
Sweeney andò al telefono nell’atrio e formò un numero. Quando ebbe trovato l’uomo che cercava, domandò: — Sammy Cole, quello che viveva insieme alla Brent, quando era al mondo, è sempre in carcere qui a Chicago?
— Sì — gli rispose il suo interlocutore. (Non posso rivelarvene il nome, perché fa ancora quel mestiere, ci si trova bene e lo metterei nei guai. Sweeney, vedete, sapeva qualcosa su di lui: di solito non si pensa che i giornalisti sappiano cose importanti sui pubblici ufficiali, invece accade spesso.) — Sì, è ancora dentro. Potremmo averlo rilasciato, ma le sue note stanno ancora arrivando e, ogni volta che stiamo per mollarlo, dobbiamo fermarlo per un’accusa di frode.
— Vorrei parlargli — disse Sweeney — questa sera stessa.
— Stasera? Ma senti, Sweeney, non puoi aspettare domani, nelle ore regolamentari? Sono già passate le sette e…
— Pensaci tu — replicò Sweeney — io prendo un taxi e arrivo.
Ecco come, circa mezz’ora dopo, Sweeney sedeva sul tavolo del custode, e Sammy Cole su una sedia di paglia davanti a lui. Erano soli nella stanza. Stando alla fotografia che Sweeney aveva osservato poco prima sul giornale, Sammy Cole era riconoscibile, per quanto molto a stento. I capelli erano neri, ma tagliati troppo corti per vederne i ricci, e la faccia era rudemente desolata, invece che rudemente simpatica.
— Io a loro gliel’ho detto — diceva Sammy Cole — gliel’ho detto ogni dannato giorno. Ho sputato fuori tutto di me perché avrei proprio voluto vederlo prendere quello che mi ha conciato Lola in quella maniera. Poteva anche darsi che fosse uno immischiato in qualcosa che lei faceva, no? Perciò io ho sputato fuori tutto, e che cosa me ne è venuto? Tanti guai che quando uscirò di qua, e se uscirò, andrò a vendere matite!
— Brutta storia! — disse Sweeney e, traendo di tasca una busta e una matita, scrisse: Vuoi bere qualcosa? e porse il messaggio a Sammy.
— Gesù Cristo! — esclamò Sammy Cole, non senza profondo rispetto. Per chiunque fosse stato ad ascoltare, era una risposta oscura, ma Sweeney prese dalla tasca posteriore la bottiglia che aveva comperato in drogheria e che era ancora piena per tre quarti, e la porse a Sammy. Sammy gliela restituì vuota e, pulendosi le labbra col dorso della mano, domandò: — Che cosa volete sapere?
— Non lo so — rispose Sweeney — è questo il problema: che non lo so nemmeno io. Ma da qualche parte devo ben cominciare. Quando hai visto Lola per l’ultima volta?
— Quella mattina stessa, mi pare, verso mezzogiorno; quando stava andando a lavorare.
— A lavorare? Eri ridotto così a terra da mandare a lavorare lei?
— Insomma… sì e no. Io mi stavo occupando di un affare che prometteva di essere piuttosto grosso, perché ero stanco del piccolo lavoro, fatto tanto per mangiare. Il progetto che avevo, poteva darci una sistemazione, se andava bene, e mandarci a passare l’inverno in Florida. Potete anche ridere, ma ero deciso a rigare diritto dopo il colpo. Per Lola, perché a lei non piacevano i colpi. Per questo lei provvedeva al necessario, mentre io preparavo il piano.
— Anche lei aveva da lavorare in questo piano?
— No. Ero soltanto io. Ma per lei avevamo trovato un lavoretto piccolo, tanto per gli spiccioli, che ci fruttava un centinaio di dollari alla settimana, all’incirca. Quando è morta, si occupava proprio di quello.
— Dove? Che lavoro era?
Sammy Cole si passò la lingua sulle labbra e si chinò con sguardo interrogativo verso la tasca di Sweeney, ma questi scosse la testa e allargò le mani. Sammy sospirò e riprese a parlare. — Era un negozio di articoli da regalo, in Division Street. Si chiama “Da Raoul”. Era il primo giorno che ci lavorava, perciò non ne so che quel poco che mi ha raccontato il giorno prima, quando era andata a presentarsi, e quel che ho visto io alle sei, quando sono andato a dare un’occhiata, come eravamo d’accordo, per il lavoro: quel “Raoul” è una miniera di roba!
— Che cosa significa come eravamo d’accordo per il lavoro? È in relazione con il lavoro di Lola il fatto che tu ci andassi alle sei?
— Il lavoro era organizzato così: Lola doveva trovare un posto di commessa, possibilmente dove si facessero poche vendite grosse. In genere erano negozi piccoli, dove lei restava sola per un poco, mentre il padrone andava a mangiare o a spasso. Dagli incassi, lei toglieva dieci, cinquanta dollari, secondo quel che le sembrava opportuno in base alle vendite. Lavoravamo sul sicuro, perché volevo che lei stesse fuori da tutte le grane. Io entravo nel negozio all’ora che avevamo stabilito prima e lei mi passava il malloppo. Non lo teneva mai su di sé per più di qualche minuto: dopo averlo preso, lo nascondeva in qualche buco e lo tirava fuori un attimo prima che io arrivassi. Una cosa sicura come mangiare un uovo. Quando vedeva che il padrone cominciava ad avere dei sospetti, filava. Non lavorava in nessun posto per più di pochi giorni e poi stava lontano dai dintorni per un bel pezzo. Insomma, avete capito come funzionava.
Sweeney fece segno di sì.
— Dunque, il posto da “Raoul” lo aveva ottenuto il giorno prima.
— Come?
— Un annuncio sul giornale. Avevamo pronte buone referenze, perché quello era affar mio. L’annuncio era sul giornale della mattina. Lei si è presentata nel pomeriggio e doveva cominciare il lavoro il giorno dopo, a mezzogiorno: il negozio faceva orario continuato fino alle nove di sera, e lei doveva starci dal mezzogiorno alle nove, con un’ora per il tè dalle quattro alle cinque.
— Come mai non vi eravate messi d’accordo per incontrarvi fuori in quell’ora?
Sammy Cole contemplò Sweeney con disprezzo. — Guarda l’ingenuo! Primo, sarebbe dovuta uscire con il malloppo addosso, ed era un rischio. Secondo, se il padrone la mandava fuori dalle quattro alle cinque, voleva dire che lui sarebbe andato fuori dopo le cinque, per cui il momento migliore per fare il lavoretto era per lei tra le cinque e le sei. Io dovevo passare di lì alle sei: se il vecchio era ancora fuori, bene, se era in negozio, poteva lo stesso passarmi la roba. In quei casi, io comperavo un affare qualunque da pochi soldi e lei infilava il malloppo nel pacchetto. Sicuro come mangiare un uovo.
— Così, tu ci sei andato alle sei?
— Infatti. Ma lei non c’era, e io ho immaginato che fosse successo qualcosa. Ho telefonato a casa, ma quando ho sentito rispondere da un poliziotto, ho attaccato immediatamente e ho girato al largo. Non che immaginassi quel che era successo, ma ho pensato che l’avessero presa in una retata, e allora era meglio che io stessi al largo per cercare di tirar fuori lei. All’inferno, se ero attaccato a quella ragazza! Avrei mandato all’aria qualunque colpo per metterla al sicuro, e per tirarla fuori avrei anche ammazzato qualcuno. E questi imbecilli pensano ancora che l’abbia uccisa io! Gesù Cristo!
— Quando hai scoperto l’accaduto?
— I giornali della mattina. Ero in un albergo e sono quasi diventato matto perché l’unica cosa che riuscivo a pensare era di trovare quel figlio di puttana che l’aveva ammazzata e ridurlo in poltiglia, un po’ per volta. Ma non sapevo come fare a cercarlo, senza cascare nelle mani dei poliziotti, e, se ci fossi cascato, non avrei più potuto fare un cavolo. Tutto quel che ero arrivato a decidere era di stare al riparo finché il chiasso fosse passato, ma è chiaro che ero troppo sottosopra e non sono stato abbastanza attento, perché mi hanno preso, e adesso, prima che io esca di qui, quel porco sarà morto di vecchiaia. Perciò, con tutto che Cristo Dio sa se io odio la polizia, ho sputato tutto a loro, ho fatto tutto quel che ho potuto, con la speranza che almeno servisse a dargli una traccia. — Sammy Cole si allungò sulla sedia con aria stanca e sospirò, chiedendo: — Ce l’avresti una sigaretta?
Sweeney gli porse un pacchetto di sigarette e una bustina di fiammiferi. — Tienli pure, Sammy. E dimmi, se non ti avessero preso, che cosa avresti fatto? Da dove avresti cominciato?
— Col padrone, da “Raoul”. Forse c’entra per qualcosa, e forse no, ma lo avrei spulciato tutto finché fossi stato sicuro.
— Che cosa potrebbe essere accaduto nel negozio? Che l’abbia pescata mentre prendeva il malloppo di una vendita? O qualcosa di simile? Deve averla buttata fuori, se lei è andata a casa ed è stata trovata nel passaggio di casa vostra.
Sammy Cole disse: — Questo non lo saprei. I poliziotti mi hanno interrogato, ma non mi hanno detto niente. Tutto quello che so è quel che dicevano i giornali, e dopo, di giornali non me ne hanno dati più: qui si possono avere i giornali e tutto il resto, se si hanno quattrini. Ma io sono all’asciutto.
Sweeney gli tese un biglietto da dieci dollari. — Dimmi, potrebbe darsi che Lola avesse rubato della merce? Forse anelli o qualcosa del genere? Quei negozi spesso hanno una quantità di piccoli oggetti di valore.
Sammy Cole scosse la testa energicamente, rispondendo: — Lo escludo. Posso garantire che non lo ha fatto. Glielo avevo cacciato in testa ben chiaro: troppi pericoli, troppo facile esser presi, troppo facile lasciar tracce, e troppo difficile ricavare più della ventesima parte del valore che avete in mano. Neanche un paio di orecchini. Glielo avevo detto ben chiaro.
— Di che genere era il colpo grosso a cui stavi lavorando? Potrebbe esserci stata presa in mezzo?
— No, assolutamente. Io non ho confessato niente di quello, perché ero in coppia con un altro e non ho voluto tirarlo in ballo. I poliziotti non sono riusciti a tirarmi fuori niente, perché non sono un idiota. E soprattutto è impossibile che la faccenda entri in quella di Lola: né il mio collega, né l’altro con cui avevamo a che fare, la conoscevano o sapevano della sua esistenza. E lei sapeva molto poco di loro. Perché io le avevo parlato del colpo, ma senza particolari e senza nomi. Capito?
— Bene, Sammy, grazie — disse Sweeney. — Credo di non poterti essere utile in nulla, ma ti terrò informato. Ciao.
Procurò una viva sorpresa al ladruncolo, stringendogli la mano, e uscì dalla stanza, salutando con un cenno del capo il guardiano che aspettava fuori.
Un orologio nel corridoio lo informò che erano le otto e un quarto ed egli restò ad attendere fuori delle carceri l’arrivo di un taxi. Quando ne arrivò uno, vi salì e disse: — Division Street. Il numero lo cercheremo, mentre andremo in su per la strada: l’ho dimenticato. È un negozio che si chiama “Da Raoul”.
L’autista si mise a ridere. — Lo conosco. Il padrone è uno di quelli… Una volta voleva provare anche con me… Dite, ma voi non siete per caso… — si voltò a scrutare Sweeney. Poi riprese: — No, non siete voi — e tornò a occuparsi del volante.
V
Sweeney era fermo davanti alla vetrina di “Raoul”, intento in apparenza a osservare gli oggetti esposti, in realtà a scrutare nell’interno, al di sopra del basso fondale divisorio della vetrina. Due clienti, due donne, erano davanti al banco e insieme a Raoul stesso formavano tutta la popolazione del negozio.
Sweeney esaminò anche la vetrina e constatò che non era un caotico ammasso di oggetti a poco prezzo, come sono in genere quelle vetrine. Gli oggetti esposti erano pochi e abbastanza belli. Vi erano dei cani di porcellana cinese, curiosità del Messico, chincaglieria da sera di buon gusto, anche se vistosa, un paio di candelieri in ottone di forma squisitamente semplice; non c’era un solo oggetto che Sweeney avrebbe comperato, eccetto… eccetto forse i prezzi che non erano esposti. La sua opinione su Raoul salì di parecchi gradini.
Una delle clienti concluse il suo acquisto e uscì, mentre l’altra era evidentemente incerta, e Raoul, dopo averle offerto, a quanto sembrava, il suo aiuto, si appoggiava stancamente al banco.
Sweeney entrò nel negozio, e il proprietario gli si fece incontro con un sorriso propiziatorio, che si mutò in una smorfia, quando Sweeney si presentò. — Sono del “Blade” e vorrei parlarvi dell’affare di Lola Brent.
Raoul condusse Sweeney nel retrobottega, fuori della portata di orecchie indiscrete.
Sweeney chiese: — Quando aveva ottenuto l’impiego? Il giorno prima?
— Sì. Si erano presentati in molti in risposta all’annuncio sul giornale, il vostro giornale, il “Blade”. Aveva ottime referenze di un negozio di New York, e io non ho capito che erano false: era vestita bene e aveva una personalità attraente e simpatica. Inoltre, era libera, disposta a cominciare subito. Perciò le dissi di venire il giorno dopo.
— E venne a mezzogiorno?
— Infatti.
— Che cosa accadde, allora? L’avete pescata a rubare sugli incassi e l’avete buttata fuori?
— Non proprio così; l’ho già spiegato alla polizia.
Sweeney insisté. — Potrei farmelo raccontare da loro, ma preferirei di no, se a voi non è di troppo disturbo.
Raoul sospirò. — Dal mezzogiorno fin verso le tre siamo stati in negozio insieme. Non ci sono stati molti clienti, e io avevo occupato quasi tutto il tempo a mostrarle gli oggetti, i prezzi e tutti gli accorgimenti che le sarebbero stati necessari nel lavoro. Alle tre e un quarto circa sono dovuto uscire, per una faccenda personale. Al mio ritorno, le chiedo che cosa aveva venduto e lei mi risponde che c’era stato solo un cliente che aveva comperato un paio di portalibri da sei dollari. E infatti era l’unica cifra registrata alla cassa. Ma proprio allora vedo che manca qualcosa.
— Di che si trattava?
— Una statuetta, una figurina femminile, che costava ventiquattro dollari. Doveva essere al suo posto su quello scaffale — indicò con la mano — e siccome l’avevo vista messa di sbieco, proprio pochi minuti prima di uscire, l’avevo raddrizzata. Quindi la ricordavo in particolare. E ne ho notato la mancanza pochi minuti dopo essere rientrato. Su quel ripiano dovevano esserci tre statuine e invece ce n’erano solo due, avvicinate in maniera da nascondere il vuoto che si era formato tra di esse. Perciò domandai alla Brent se l’aveva spostata lei, ma lei negò anche di averla vista. — Sospirò. — Naturalmente era una situazione imbarazzante: io sapevo che non mi diceva la verità, perché, dato come si erano svolte le cose, ero certo che la statuina c’era al momento della mia uscita.
— Non poteva essere stata rubata da estranei?
— Quasi impossibile. Era alta venticinque centimetri e, per quanto fosse sottile, aveva le braccia tese in avanti e sarebbe stato molto difficile nasconderla sotto la giacca, mentre in una tasca non sarebbe mai potuta entrare. Non era assolutamente uno di quegli oggetti che vengono scelti dai ladruncoli soliti, ve lo assicuro. Inoltre, la Brent mi aveva detto che un solo cliente era stato nel negozio. Io non avevo alcun dubbio, signor… signor…
— Sweeney. Allora l’avete accusata di aver venduto la statuetta e di essersi tenuti i soldi?
— Che altro dovevo fare? L’ho avvertita che non avevo la minima intenzione di denunciarla e che l’avrei lasciata andare senza noie, se solo mi avesse permesso di perquisirla nella stanza del retro.
— Le avete trovato addosso il denaro?
— No. Ma quando ha visto che ero pronto sul serio a chiamare la polizia se non avesse confessato, ha ammesso il furto: i ventiquattro dollari, in un biglietto da venti e quattro da uno, li aveva nascosti in una calza. Un nascondiglio squisitamente femminile.
— Allora non l’avete perquisita?
— Ma sì che l’avevo fatto, avevo soltanto dimenticato quel particolare. Ma poi, dato che lei stessa aveva ammesso la sua disonestà, come potevo sapere se non aveva venduto anche qualcos’altro? Non potevo mettermi a inventariare il negozio; poteva per esempio aver venduto cinquanta dollari di chincaglierie e aver nascosto il denaro nell’altra calza o nel reggiseno o altrove.
— L’avete fatto?
— No. O almeno io non ho trovato altro denaro, fuorché pochi dollari nella borsetta, che sono propenso a credere anche ora che fossero proprio suoi. Era piuttosto restia a farsi perquisire, ma quando comprese i motivi della mia insistenza, si mostrò ragionevole e non era poi tanto ingenua da pensare che io volessi procedere alla perquisizione per… un qualsiasi altro motivo. Voi mi capite, credo.
— Capisco — rispose Sweeney. — Perciò, quando se ne andò, dovevano essere circa le quattro?
— Sì, non più delle quattro e un quarto, benché io non abbia guardato l’ora esatta.
— Se ne andò sola?
— Naturalmente. E tanto per prevenire la vostra prossima domanda, vi dico subito che non ho notato nessuno che l’attendesse fuori. Come era logico, sapendo che tipo era, la tenni d’occhio finché fu uscita dalla porta, poi non me ne occupai più, perciò non vidi che direzione prendesse. Deve essersi recata subito a casa, dato, a quanto mi risulta, che è stata trovata morta là davanti, alle cinque. Per arrivare a casa aveva almeno mezz’ora di strada da qui, attraversando il Loop, e forse anche di più.
— Tranne nel caso che prendesse un taxi o che qualcuno l’aspettasse per darle un passaggio.
— Sì, ma il taxi non è probabile, dati i pochi quattrini che aveva nella borsetta.
Sweeney annuì. — Anche il passaggio è difficile, poiché il suo amico doveva venire a trovarla in negozio alle sei, ma non poteva trovarsi nei paraggi già alle quattro e un quarto.
Le sopracciglia di Raoul si alzarono un poco. — Doveva venire a trovarla in negozio?
— Sì, per ritirare quel che lei aveva trattenuto sugli incassi.
— Veramente? La polizia non me lo ha detto.
Sweeney rise. — La polizia non va a raccontare alla gente le proprie storie. Ecco perché ho voluto parlare con voi invece che con loro. Comunque, vi è sembrato che Lola Brent mostrasse di riconoscere qualcuno dei clienti entrati in negozio quel pomeriggio, finché eravate presente?
— No, sono quasi assolutamente sicuro di no.
— Com’era la statuetta? Una figura femminile, a quanto ho capito, ma con o senza vestiti?
— Senza. Proprio senza, se mi capite.
— Credo di capire — rispose Sweeney — vi sono anche donne che riescono senza vestiti a essere più nude delle altre. È un dono di natura.
Raoul alzò al cielo le mani in gesto espressivo. — Non voglio assolutamente dire che quella statuetta fosse anche in minima parte pornografica o eccitante. Anzi, aveva un che di virgineo, in un modo tutto suo particolare.
— Questo mi confonde — replicò Sweeney. — Quante maniere esistono dunque di essere vergini? Credevo di sapere ormai tutto in proposito, ma…
Raoul sorrise. — Una stessa qualità può essere espressa in molte maniere. In questo caso particolare, la verginità era espressa attraverso il terrore, la paura, l’urlo. La verginità, o forse meglio la virginalità…
— Che differenza c’è? — interruppe Sweeney, ma rispose a se stesso per primo. — Aspetti, credo di aver compreso: una è una dote fisica, l’altra è spirituale. Giusto?
— Infatti. Possono coesistere oppure no. Molte donne sposate sono virginali, anche se non più vergini, perché non sono mai state toccate realmente: solo l’atto materiale si è verificato. Mentre, al contrario, una giovanetta che sia fisicamente virgo intacta può essere ben lontana dalla virginalità, se i suoi pensieri… mi seguite?
— Sì, ma ci allontaniamo dalla statuetta.
— Non molto. Volete vederla? Non quella venduta dalla Brent, ma la sua copia. Ne avevo ordinate due e mi piacevano tanto, che ne tenevo, e ne tengo ancora, una in casa mia, nel palazzo accanto. Ormai è ora di chiudere e… credetemi, signor Sweeney, non ho motivi reconditi…
— Grazie — disse Sweeney — ma non credo che sia necessario, perché la statua in sé non può aver nulla a che fare col delitto.
— No certamente, ma pensavo che vi interessasse su un altro piano. — Sorrise. — Vi dirò fra l’altro che è conosciuta col nome di «La statua che urla».
— Se me lo permettete, avrei cambiato idea — disse Sweeney — e vorrei conoscere questa statuetta, signor… Raoul è il vostro cognome?
— No, Reynarde, signor Sweeney, Raoul Reynarde. Scusatemi un momento solo… — Si recò ad avvertire la cliente che era l’ora di chiusura, e, dietro a lei, anche Sweeney uscì dal negozio, ad attendere che Raoul avesse spento tutte le luci. Percorsero un breve tratto di Division Street, poi entrarono in un palazzo e salirono al secondo piano.
— Non potrò trattenervi a lungo, signor Sweeney — si scusò Reynarde, mentre accendeva la luce nell’interno dell’appartamento — perché… aspetto un ospite. Però abbiamo il tempo di bere qualcosa. Posso prepararvi un cocktail?
— Sì, grazie, ma intanto dov’è la statuetta?
— Là, sul caminetto.
Lo sguardo di Sweeney, che era andato vagando per la stanza ammobiliata con eleganza raffinata, seppure un poco femminea, si fermò infine sulla statuetta, alta venticinque centimetri circa, sul marmo del caminetto. Attraversò la stanza per osservarla da vicino, e comprese allora che cosa aveva inteso dire Reynarde. La figuretta nuda aveva veramente un’aura virginale, ma lo si avvertiva solo in un secondo tempo: «La paura, l’orrore, l’urlo», aveva detto Reynarde, ed erano viventi non solo nel volto, ma nella contorta rigidità del corpo. La bocca era spalancata in un urlo silenzioso, mentre le braccia si tendevano avanti, con le palme aperte, a cercar riparo da un incombente orrore.
— Un oggetto squisito — disse la voce di Reynarde dall’altro lato della stanza, dove stava versando le bevande presso un piccolo mobile-bar di mogano, fornito anche di frigorifero. — Ed è fatta di una nuova materia plastica che non si distingue dall’ebano, se non la si tocca. La superficie è come quella dell’ebano. Ma se quella figurina fosse, come sembra, di ebano lavorato a mano e fosse un originale, avrebbe un valore enorme. — Fece un gesto circolare che indicava tutta la stanza. — Molti degli oggetti che vedete qui sono originali. Io li preferisco.
— Non sono d’accordo. Preferirei sempre una riproduzione di Renoir a un originale di una scuola d’arte qualsiasi. Ma è questione di gusti personali. Potreste procurarmi una di queste?
La voce di Reynarde risuonò proprio alle spalle di Sweeney. — Ecco il vostro bicchiere, signor Sweeney. Sì, credo che potrei trovarvi una «Statua che urla». La ditta che le fabbrica, una piccola azienda di Louisville, può averne qualche residuato. Di solito ne fanno poche centinaia di esemplari, quando si tratta di oggetti simili. Se però voi ci tenete davvero, posso vendervi questa. Pur essendo stata sul mio caminetto, è sempre virginale. — Rise da solo e proseguì: — Oppure, se vi sembra in questo modo di averla di seconda mano, potrei riportarla in negozio e vendervela là. È questo uno dei vantaggi di essere commercianti: io non arrivo mai in tempo a stancarmi di un oggetto d’arte o di un soprammobile, perché spesso mi trattengo degli oggetti del negozio qui in casa, finché ne sono sazio, e li scambio con altri. Penso che ormai quella creatura cominci ad annoiarmi. Alla vostra salute, signore!
Sweeney bevve senza neppure accorgersene, senza distogliere lo sguardo dalla statuetta e vuotando il bicchiere in un sorso. Poi disse: — Prima che cambiate idea, Reynarde… — Appoggiò il bicchiere sul caminetto e trasse dal portafoglio ventiquattro dollari. — Come mai le è stato dato quel nome? Siete stato voi o la ditta fabbricante?
Reynarde si morse le labbra. — Non so, non ricordo… però, sì! Il nome è arrivato dalla ditta fabbricante, ma non come nome ufficiale, è logico.
— Chi ha creato la statuetta? l’originale, s’intende.
— Non lo so proprio. La ditta è la Ganslen Art. Fabbricano molti portalibri e scacchiere, ma di quando in quando fanno anche questi piccoli lavori di scultura, che sono eccezionalmente belli per il loro prezzo. Volete che ve la incarti?
Sweeney rise. — Metterle le sottane? Mai. La porterò nuda per le strade.
— Un altro aperitivo, signor Sweeney?
— No, grazie. Credo che sia ora che la statuetta e io ce ne andiamo.
Prese in mano gentilmente la figurina, ma Reynarde disse: — Sedete un momento, signor Sweeney — e si adagiò per primo in un’ampia poltrona, benché Sweeney restasse in piedi. — C’è qualcosa che mi interessa, anche se non è per nulla affare che mi riguardi. Siete un sadico?
— Io?
— Voi. Mi ha incuriosito vedere come quella statuetta abbia esercitato un richiamo su di voi. È un vero inno al masochismo, e solo per un sadico può rappresentare un richiamo.
Sweeney lo guardò pensieroso. — No, io non sono sadico, ma capisco il vostro punto di vista riguardo al richiamo esercitato dalla statuetta. Però non posso rispondere. Nel momento in cui l’ho vista, ho sentito che avevo bisogno di possederla, ma non ho la minima idea della ragione.
— Forse come oggetto artistico?
— No, perché è ben fatta, con gusto e abilità, ma non è grande arte ispirata.
Reynarde sporse le labbra. — Forse qualche associazione mentale nel subcosciente?
— Potrebbe darsi — rispose Sweeney. — In ogni caso, grazie e arrivederci. Debbo andare.
Reynarde lo accompagnò alla porta, inchinandosi leggermente alla sua uscita. Mentre la porta si chiudeva dietro di lui, Sweeney si domandava perché aveva voluto quella statuetta. E anche perché si era seccato che Reynarde cercasse di scoprire i motivi del suo acquisto. Osservò la statuetta che teneva in mano e rabbrividì leggermente, non nel corpo, ma nello spirito. Non era bella né sensualmente significativa. Perdiana, Reynarde aveva ragione: poteva attrarre solo un sadico o comunque uno che fosse anormale. Eppure lui, Sweeney, aveva speso ventiquattro dollari per portarsela a casa. Era ubriaco di nuovo?
No, non lo era; anzi, la nebbia della sua mente si andava diradando, ed egli colse in un lampo una sensazione che avrebbe potuto costituire quell’associazione di idee cui aveva alluso Reynarde. Ma la nebbia calò di nuovo sul suo cervello. Bene, il lampo però sarebbe tornato, e Sweeney, sospirando, cominciò a scendere le scale. Incontro a lui saliva un bel ragazzo, biondo, roseo e ricciuto, che incrociandolo scrutò con curiosità la statuina di Sweeney, ma non fece commenti e si fermò a suonare il campanello di Reynarde.
Sweeney continuò a scendere e uscì nella sera punteggiata di cento luci, nell’aria calda e umida. Si diresse a ovest, poi a sud, per Dearborn Street, domandandosi fino a quando avrebbe resistito a camminare; quanto avrebbe resistito senza mangiare e senza dormire. La nausea tornava ad assalirlo, e il pensiero del cibo era sempre disgustoso, ma era un supplizio a cui doveva sottoporsi. Quando fu in Chicago Avenue, entrò in un piccolo ristorante lindo e simpatico e sedette al banco. Un uomo in grembiule bianco, che ricordò a Sweeney un chirurgo, gli si accostò dall’altra parte del banco, rimanendo in attesa degli ordini, mentre i suoi occhi fissavano affascinati la statuetta nera che Sweeney aveva deposto sul banco davanti a sé.
— Ehi, puoi procurarmi un pranzo proprio speciale? — disse Sweeney.
— Se abbiamo quello che volete, lo possiamo preparare.
— Pane — spiegò Sweeney. — Due fette di pane bianco, solo, senza burro. Non troppo fresco, ma neppure stantio. Con la crosta. E su un piatto bianco. Credo che riuscirò a mangiarlo. Il pane, s’intende, non il piatto. Puoi farmelo?
— Domanderò al cuoco. Anche caffè?
— Nero, carico. In una tazza.
Sweeney chiuse gli occhi per concentrarsi su un pensiero, così da evitare di prestar attenzione agli odori del ristorante, ma riuscì solamente a concentrarsi sugli odori. Quando udì il rumore del piatto e della tazza che gli venivano posti dinanzi, aprì gli occhi. Bevve un sorso di caffè bollente e cominciò a spilluzzicare una fetta di pane. Bene, pareva che andasse giù e fosse disposta a rimanerci.
Aveva quasi finito la seconda fetta, quando ritornò il cameriere. Si appoggiò al banco contemplando la statuetta e disse: — È una di quelle cose che prende, quando la si guarda. Da chi l’avete avuta?
— Da una fata — rispose Sweeney. — Quanto devo?
— Quindici cents. Sapete a che cosa mi fa pensare questa statua? Allo Squartatore. — Sweeney quasi si affogò col caffè; poi depose la tazza sul piattino con precauzione. Il cameriere non aveva notato nulla e continuava: — Voglio dire: a una donna attaccata dallo Squartatore. Nessuna donna sarebbe così spaventata se la rapissero semplicemente, ma con un pazzo che la insegue con un coltello in mano e magari la spinge in un angolo…
Sweeney si alzò lento in piedi, prese dal portafoglio cinque dollari e li mise sul banco, dicendo: — Tienti il resto — poi, afferrata saldamente la statuetta, uscì dal ristorante. Per la seconda volta nella giornata, un’automobile evitò per miracolo di investirlo mentre lui attraversava la strada. La nebbia era scomparsa; ora sapeva qual era l’associazione d’idee e sapeva perché aveva voluto «La statua che urla». Avrebbe potuto comprenderlo al momento in cui Reynarde aveva accennato all’attrazione della statua per un sadico; e certo lo avrebbe compreso allora, se la sua mente fosse stata chiara. Ma adesso tutto era trasparente come il gin. Un’ora o due prima di venir uccisa, Lola Brent aveva venduto «La statua che urla», e la sua morte non era collegata al suo furto sull’incasso, ma all’aver venduto lei la statua. L’acquirente era stato evidentemente un pazzo sadico, che l’aveva aspettata fuori dal negozio e l’aveva seguita fino a casa. Per lui era stata una fortuna miracolosa che Lola fosse scacciata e dovesse andare subito a casa, dove l’aveva aggredita nello stretto passaggio. Chissà se l’avrebbe comunque uccisa, nel caso che fosse uscita regolarmente all’ora del tè?
Se la mente era finalmente limpida, il corpo era ridotto a brandelli. Affrettò il passo, perché adesso poteva e doveva dormire.» E doveva arrivare a casa prima di cadere a terra.
VI
La mattina seguente era venerdì ed era quasi mezzogiorno quando Sweeney si svegliò. Dopo essere rimasto sveglio a letto, per qualche minuto, si alzò a sedere e mise fuori i piedi: la testa non gli faceva male, ma a parte quello, non aveva altro che andasse bene. La stanza sembrava piena di nebbia, ma riuscì a mettere a fuoco la sveglia e vide che erano le undici e quaranta. Cioè aveva dormito dodici ore.
Sopra al giradischi, sulla metà che non si poteva aprire, spiccava una statuetta alta circa venticinque centimetri, tutta nera. Rappresentava una fanciulla nuda, con le braccia tese a difendersi dallo Squartatore, la bocca aperta in un eterno urlo silenzioso. Il corpo, che in riposo sarebbe stato bello, era leggermente contorto e irrigidito nel terrore. Solo a un sadico sarebbe piaciuta, e Sweeney, che non lo era, distolse gli occhi con un brivido. Ma il contemplare «La statua che urla» lo risvegliò e lo fece ricadere nell’incubo, spingendolo a desiderare di bere, spingendolo a ricordare con nostalgia il torpido stato di indifferenza in cui ancora si trovava due giorni prima, un giorno e mezzo prima. Gli faceva desiderare di tornare indietro di nuovo. Perché no, del resto? Aveva un mucchio di denaro: non poteva dunque uscire a bere un bicchiere e poi un altro e così via?
Il caldo entrava a ondate dalla finestra spalancata, e Sweeney era coperto di sudore mentre respirava affannosamente. Si alzò in piedi con un gesto inconsapevole per respingere la nebbia e il caldo, e prese un accappatoio nell’armadio. Attraversò l’atrio fino al bagno e rimase a sedere sul bordo della vasca a guardare l’acqua scendere, acqua quasi gelata. L’entrarvi lo risvegliò: trasse un gran respiro e si lasciò scivolare giù fino al collo, così che il freddo cancellasse il calore del suo corpo e la nebbia della sua mente.
Il calore, pensava, è ciò che l’uomo vuole, è quello per cui vive, per cui lavora, finché ne ha troppo… e allora il freddo è un elemento meraviglioso. Per esempio, il pensare di dover giacere per l’eternità in una gelida tomba, d’inverno è una previsione spaventosa, mentre d’estate… Ma quella era pazzia. Come il pensare a Lola Brent, tanto innamorata di un ladro da diventare disonesta per aiutarlo.
E aveva venduto una statuetta nera a un uomo che, con lo sguardo, aveva confrontato lei e la sua statua… Sweeney bestemmiò. Che cosa importava a lui di quella ballerina scomparsa, che ormai era sottoterra? Ci sarebbe finita comunque, fra cinque o fra cinquant’anni. La morte è una malattia incurabile, che nasce insieme con gli uomini e con le donne e prima o poi li vince. L’assassino non uccide mai, in realtà, soltanto anticipa i tempi, uccidendo sempre qualcuno che è già sulla via della morte, che è già vinto. E, nella realtà, l’assassino non fa mai male alla vittima che uccide, ma a quelli che l’amavano e che debbono continuare a vivere. L’uomo che aveva ucciso Lola, aveva fatto molto più male a Sammy Cole che a lei. Se lui, Sweeney, fosse arrivato a odiare intensamente Doc Greene e avesse voluto fargli male nel modo peggiore…
Balzò a sedere nella vasca. Forse…? Ma no, era sciocco. Certo poteva esserci chi odiasse Doc Greene con tale forza da volerlo colpire uccidendo Iolanda, ma allora gli altri delitti restavano insoluti. Lola Brent, Stella Gaylord, Dorothy Lee. Nessun essere umano (dotato di facoltà «normali», ma, d’altra parte, qual è la normalità?) era concepibile che odiasse quattro uomini diversi al punto di ucciderne le quattro amanti. E poi, quella soluzione lasciava fuori il sadismo e la statua, mentre «La statua che urla» era la chiave. Invece di riadagiarsi nell’acqua, Sweeney uscì e si asciugò rapidamente. Mentre finiva di farlo, guardava il piccolo rigurgito dell’acqua mentre la vasca si vuotava. E gli venne la domanda: ho commesso un assassinio? Non è forse una vasca d’acqua, quando è piena, un’entità? Un ente che ha, se non la vita, per lo meno un’esistenza propria? Ma allora la vita nel corpo umano è come l’acqua in una vasca: non può darsi che attraverso la canalizzazione delle arterie e delle vene essa scorra verso una specie di lago Michigan e poi forse in un oceano, quando viene tolto il tappo di chiusura alla vasca? Eppure anche così è un assassinio, perché anche se l’acqua continuerà a esistere, quella data vasca non esisterà mai più, non vivrà mai più.
Cancellò l’evidenza del delitto sciacquando la vasca e tornò in camera sua. S’infilò soltanto un paio di calze e le mutande, più che sufficienti, con quel caldo, fino al momento in cui sarebbe uscito.
Qual era la seconda? Stella Gaylord, la ragazza di Madison Street. Poteva procedere in ordine cronologico. Il delitto di Lola Brent era avvenuto due mesi prima; quello della Gaylord dieci giorni prima. Mise la pila di giornali su una seggiola, accanto al letto, così da raggiungerli facilmente, e accomodò il cuscino contro la spalliera. E perché non avere un po’ di musica? Lo aiutava sempre a concentrarsi e, per qualche strana ragione, gli restava meglio impresso quel che leggeva, se lo leggeva con un accompagnamento musicale. Acquistava maggior vivezza. L’uso della musica in questo senso era l’unica novità che avessero scoperto i produttori cinematografici.
Esaminò gli album dei dischi, cercando quello che avrebbe potuto accompagnare l’assassinio di Stella Gaylord. Qualcosa di maestoso e misterioso, forse. Esitò sulla Sagra della primavera, ma proseguì. La Morte e Trasfigurazione di Strauss? La Patetica? No, meravigliosa, ma troppo potente. La sua mano tornò indietro alla Morte e Trasfigurazione. Sistemò i dischi e diede il via al giradischi, poi si sdraiò sul letto e prese il primo giornale di dieci giorni prima, con il resoconto della morte di Stella Gaylord.
Era in prima pagina, in alto a destra, un titolo in neretto, su una colonna:
IN UN VICOLO, RAGAZZA UCCISA A COLTELLATE.
Sweeney lesse il pezzo che seguiva e trovò che, data l’assoluta mancanza di particolari, avrebbero potuto anche mettere il titolo e basta. Oh, c’erano il nome della donna e l’indirizzo (West Madison Street) fra la State Street e la Dearborn. Il cadavere era stato rinvenuto alle tre e mezzo del mattino e, stando alle dichiarazioni del medico che aveva esaminato il corpo, la donna era morta da meno di un’ora. A quanto si poteva constatare, non si era trovata traccia di furto, e la vittima, con un divertito stupore da parte di Sweeney, evidentemente non era stata aggredita violentemente. La polizia sospettava che vi fosse in circolazione un pazzo omicida, sebbene il caso della Brent sembrasse dimenticato e non se ne facesse parola. Il numero seguente riproduceva una fotografia della Gaylord, ma se ne poteva ricavare soltanto l’impressione che doveva essere una bella ragazza. Vi era qualche altra notizia su di lei, compreso l’indirizzo del locale di West Madison Street dove lavorava a percentuale. Là era stata vista viva per l’ultima volta, quando ne era uscita, sola, alle due del mattino, un’ora prima che il suo cadavere venisse ritrovato. Per la prima volta l’assassinio di Stella veniva collegato con quello della Brent e si suggeriva la possibilità che uno stesso maniaco le avesse colpite entrambe. Nei giornali dei giorni successivi erano riportati alcuni particolari nuovi, ma la vicenda non aveva avuto alcuno sviluppo.
Sweeney si raddrizzò per fermare il giradischi e in quel gesto la vista della statuetta gli rammentò qualcosa che doveva fare. Infilò l’accappatoio e si recò al telefono nell’atrio.
Riuscì a farsi dare in pochi minuti dal centralino interurbano la Ganslen Art Company a Louisville, nella persona del suo direttore generale, Ralph Burke.
— Questo è il “Blade” di Chicago — disse Sweeney. — Pare che si sia venuti a scoprire un collegamento tra una delle vostre statuette e un assassinio, su cui si vanno facendo ricerche. Si tratta di una giovane donna atterrita e qualcuno di voi l’ha battezzata «La statua che urla».
— Ah, sì, certamente; ora la ricordo. Cosa vorreste sapere?
— Potete dirmi quante copie ne sono state vendute e in particolare quante nella città di Chicago?
— Non molte, che io sappia. Non è stato un oggetto di grande successo, tanto che non l’abbiamo neppure inclusa nel catalogo. Abbiamo fatto una prova con dodici dozzine, ma ci sono rimaste quasi tutte invendute. Ne abbiamo dato un campione a tutti i rappresentanti sei mesi fa, e qualcuno ne ha piazzato alcuni esemplari. Se attendete un minuto al telefono, posso guardare quante ne sono state vendute a Chicago. O volete che vi richiami io più tardi?
— Aspetto in linea — rispose Sweeney.
Non era trascorso più di un minuto che la voce del direttore risuonava al telefono. — Ho tutto qui con me. Per fortuna registriamo separatamente ogni articolo. Dunque… ce ne sono state soltanto due vendute a Chicago. Due sole ed entrambe a un negozio che si chiama “Da Raoul”. Tutt’insieme ne abbiamo vendute una quarantina. Volete i dati precisi?
— No, grazie — disse Sweeney — ditemi invece, per favore, che cosa ne farete delle cento statuette che vi rimangono?
— Ce ne libereremo l’anno venturo, con lotti misti di merce. Se un cliente ci ordina, per esempio, una dozzina di figurette varie a nostra scelta, le paga alla metà del prezzo di listino e noi ci liberiamo così dei residui e dei fondi di magazzino. Ci perdiamo, naturalmente, ma è sempre meglio che buttarle via.
— È evidente — disse Sweeney. — Ricordate chi ha trovato il nome «La statua che urla»?
— Il nostro contabile: per lui è una mania cercare dei nomi che accompagnino gli articoli, perché dice che lo aiuta a ricordare gli articoli stessi. — Il direttore fece una risatina. — Ogni tanto ne azzecca qualcuno a meraviglia: mi ricordo per esempio…
— Mi piacerebbe quasi ordinarvene una copia — lo interruppe Sweeney. — Ma torniamo alla statua. Chi l’ha disegnata o scolpita o modellata?
— Un tale che si chiama Chapman Wilson. Artista e scultore che vive a Brampton, nel Wisconsin. L’aveva modellata in creta.
— E ve l’ha mandata?
— No, l’ho comperata io da lui a Brampton. Sono io che mi occupo degli acquisti, durante i molti viaggi che faccio apposta nel corso dell’anno. Abbiamo un certo numero di artisti dai quali acquistiamo modelli ed è molto più pratico andare di persona nei loro studi a vedere che cos’hanno, piuttosto che avere qui in magazzino un monte di roba, di cui la maggior parte si dovrebbe poi rimandare indietro. «La statua che urla» l’ho comperata da lui un anno fa, insieme ad altre due figurine. Per le altre ho indovinato perché si vendono benissimo.
— Questo Chapman Wilson… ha copiato la statua dal vero o come?
— Non saprei; non gliel’ho domandato. L’originale era in creta, della stessa misura delle nostre copie, circa venticinque centimetri. Ho accettato il rischio di prenderla perché era diversa dal solito. L’insolito può avere un magnifico successo oppure essere un fallimento. È il rischio che corriamo noi.
— Non sapete nulla su Chapman, personalmente?
— Non molto. È piuttosto stravagante, ma quasi tutti gli artisti lo sono.
— È sposato?
— No. O almeno credo di no. Non gliel’ho domandato, ma non ho mai visto in casa sua una donna o qualche traccia femminile.
— Mi avete detto che è stravagante: potrebbe essere addirittura uno psicopatico?
— Credo di no. È un poco svaporato, e basta. La maggior parte della sua produzione è graziosa e normale e si vende benissimo.
— Grazie mille — disse Sweeney — credo di non avere altro da chiedervi. Arrivederci. — Si segnò le unità telefoniche, per sistemare i conti con la signora Randall, e tornò in camera.
Seduto sull’orlo del letto, guardava la statuetta nera: era stato più fortunato di quanto non avesse sperato. Soltanto due statuette erano state vendute a Chicago ed egli ne aveva una davanti agli occhi. L’altra… forse in quel momento la guardava lo Squartatore.
La fortuna degli irlandesi, pensò Sweeney: si occupava del caso da un giorno e aveva una traccia per cui i poliziotti avrebbero dato un occhio. Inoltre, si sentiva pronto per il compito che lo aspettava. Provava perfino un certo appetito, e sarebbe probabilmente riuscito quel giorno a inghiottire un intero pasto. Si tolse l’accappatoio e, appendendolo a un gancio, si stirò piacevolmente. Si sentiva più grande e sorrise alla statuetta, pensando: “Tu e io, piccola, siamo di un passo avanti alla polizia e tutto quel che dobbiamo fare è di trovare la tua sorellina”.
La statuetta continuò nel suo silenzioso urlo di terrore, e il sorriso di Sweeney disparve: in qualche angolo di Chicago, un’altra statuetta stava urlando come la sua e con miglior motivo. Era un pazzo armato di un coltello a possederla, un essere dalla mente contorta e dal rasoio diritto e affilato. Un essere che non avrebbe mai voluto che Sweeney lo scoprisse. Mentalmente Sweeney si scosse per allontanare quel pensiero e si voltò verso lo specchio sopra il lavabo, passandosi una mano sulla faccia. Doveva farsi la barba: nel pomeriggio avrebbe conosciuto Iolanda, se Doc Greene manteneva la parola. Aveva idea che l’avrebbe mantenuta. Stese in fuori la mano per osservarla: sì, era abbastanza ferma perché potesse farsi la barba col rasoio affilato senza tagliarsi. Prese sulla mensola il sapone da barba e il pennello, immerse questo nell’acqua bollente e si insaponò abbondantemente la faccia. Poi cercò il rasoio: non c’era, non era là dove sarebbe dovuto essere. La mano gli era rimasta a mezz’aria, sopra alla mensola, in una immobilità gelida, come l’urlo della statuetta, finché, con uno sforzo meditato, la ritirò. Chinandosi in avanti guardò con la massima attenzione e la massima incredulità un segno sul lieve strato di polvere che copriva la mensola, un segno identico alla forma del rasoio.
Ripulì con cura la faccia dal sapone con una salvietta bagnata e si vestì. Poi scese al piano inferiore. La porta della signora Randall era socchiusa. Lei lo chiamò. — Entri, signor Sweeney.
Sweeney si fermò sulla soglia. — Quando avete spolverato in camera mia, l’ultima volta?
— Be’… ieri mattina.
— Vi ricordate di aver visto… — Stava per domandarle se avesse scorto il rasoio al suo posto, poi si rese conto che non doveva domandarlo. Che la donna lo ricordasse o no, il segno fresco sulla polvere indicava che il rasoio era stato ancora là dopo il passaggio dello strofinaccio per la polvere. Allora cambiò la domanda. — È andato qualcuno in camera mia, ieri sera o ieri pomeriggio, dopo che ero uscito?
— No, perché? Non che io sappia con certezza, perché non c’ero. Sono stata al cinema. Vi manca qualcosa?
— Niente di valore — disse Sweeney — forse l’ho preso io quando ero ubriaco, l’ultima volta che sono entrato. Già… e voi non siete più andata in camera mia da ieri mattina?
— No. Anzi, uscite oggi? Vorrei rifarvi il letto e, se andate fuori, posso salire subito.
— Fra pochi minuti avrò sgombrato il campo. Grazie.
Tornò in camera e chiuse la porta, poi, acceso Un fiammifero, esaminò minutamente il segno sulla polvere: sì, c’era un velo lieve di polvere anche sulla forma del rasoio, un velo che aveva metà dello spessore di quello intorno. Quindi, dopo la spolveratura, il rasoio era rimasto ancora là: doveva essere stato asportato nel tardo pomeriggio o nella serata precedente.
Sedette in poltrona e cercò di ricostruire se avesse visto il rasoio quando era rientrato con la statuetta, o anche prima, quando era salito a cambiarsi gli abiti. Non ricordava di averlo visto, ma non lo aveva nemmeno cercato, perché si era sbarbato con il rasoio elettrico di Goetz, nella camera di Goetz.
Mancava forse qualcos’altro? Andò al cassettone e aprì il primo dei cassetti, dove conservava i piccoli oggetti vari. Tutto sembrava intatto, finché gli venne in mente un temperino a due lame che si sarebbe dovuto trovare dentro il cassetto. Ma che adesso non c’era.
Non mancava niente altro: vi erano in bella vista dei gemelli d’oro, che valevano tre o quattro volte il temperino. Vi era una spilla da cravatta con uno zircone, che a un ladro sarebbe potuto anche sembrare un diamante. Ma dal cassetto era stato sottratto solamente il temperino. E dalla stanza soltanto il rasoio.
Sweeney guardò la statuetta e capì quali dovessero essere i suoi sentimenti.
VII
Il rasoio lucente scivolava sulla gola di Sweeney, scendendo sotto il mento per grattare gentilmente all’insu, asportando schiuma e peli e lasciando una superficie morbida e liscia. Infine risalì sulla faccia.
— Prendete l’affare dello Squartatore — diceva il barbiere, mentre puliva il rasoio su una salvietta e lo riportava sulla faccia. — Ha messo in subbuglio la città e ieri sera mi ha anche fatto fermare dagli agenti.
Sweeney grugnì in tono interrogativo.
— Perché avevo con me un rasoio, il migliore che ci sia in commercio, uno Swatty; lo tengo a casa perché qui potrebbero anche portarmelo via e perciò ogni volta mi porto a casa un rasoio, e nessuno ha mai avuto niente da dire. L’ho messo nel taschino della giacca e la punta si vedeva, e guarda tu se un poliziotto non mi ferma per la strada e comincia a far domande. Per fortuna che potevo dimostrare di essere un barbiere, altrimenti mi avrebbe portato dentro senza discussioni. Ma ci è mancato proprio poco. Anche perché tutti dicono che lo Squartatore deve essere un barbiere. Ma non lo è di certo.
Il rasoio grattò nel contropelo e Sweeney domandò: — Come fate a saperlo?
— Le gole. Un barbiere che diventasse matto taglierebbe le gole: tutto il giorno si hanno davanti delle persone con la gola nuda ed esposta e il mento all’indietro e uno non può fare a meno di pensare come sarebbe facile e… insomma, capite!
— Capisco. Anche voi avete provato qualcosa del genere — rispose Sweeney. — Spero che oggi non abbiate di questi impulsi.
— No, non abbiate paura — ridacchiò il barbiere — ma certe volte, così a un tratto… sapete com’è, vengono certe idee in testa…
— A voi! — replicò Sweeney. Il rasoio grattò ancora.
— Una delle tre ragazze che ha ammazzato — continuò il barbiere — lavorava a pochi passi da qui, nel locale all’angolo.
— Lo so — disse Sweeney — stavo andandoci. La conoscevate voi?
— L’ho vista diverse volte, abbastanza da riconoscerla quando hanno pubblicato la fotografia sul giornale. Ma non vado in quei locali molto spesso, coi miei incassi. Senza accorgersene uno si trova con cinque o dieci dollari di meno fra le mance, il bere e il resto. Non che io non sia pronto a spendere cinque o dieci dollari per ottenere qualcosa di più di una «conversazione» con una donna, dato che di chiacchiere ne sento abbastanza tutto il giorno! I seccatori che si siedono su questa poltrona! — E picchiettando sulla faccia di Sweeney un panno umido e caldo, continuò: — Ma, in ogni caso, lo Squartatore adopera un coltello invece di un rasoio. Si potrebbe certo usare anche un rasoio in quella maniera, ma mi pare che debba essere troppo difficile tagliare così profondamente come fa lui, perché si dovrebbe sfilare il manico per avere una buona presa nel tagliare e allora sarebbe quasi impossibile portarlo con sé. Anche perché, se qualcuno lo vedesse, sarebbe come una confessione. Io credo che adoperi un temperino, e di misura piccola, che possa essere portato tranquillamente: uno di quelli importati prima della guerra, con la lama di vero acciaio, in modo da essere affilata come una lama di rasoio. Debbo tagliarvi i capelli?
— No — rispose Sweeney.
— Voi che cosa credete che usi lo Squartatore? Un coltello o un rasoio?
— Mah… — rispose Sweeney, alzandosi. — Quanto vi devo? — Pagò e uscì nel torrido sole di agosto, dirigendosi verso l’indirizzo che aveva letto sul giornale. Il locale aveva un aspetto scintillante: le scritte al neon, di un rosso malinconico nel sole, proclamavano che quello era il locale di Susie, dove le vetrate esagonali erano riparate all’interno da pesanti tende, e portavano in mostra pudiche fotografie rappresentanti impudicissimi esemplari di femminilità. Se ci si provava, dai vetri sfaccettati si poteva anche guardare nell’interno. Ma Sweeney non provò: spinse addirittura la porta ed entrò. C’erano fresco e oscurità, e mancavano i clienti. Un barista ciondolava ozioso dietro il bar, all’estremità del quale sedevano due ragazze, vestite una di rosso e l’altra di paillettes biancodorate. Nessun bicchiere appariva davanti a loro, e tutti si voltarono a scrutare Sweeney, quando entrò.
Egli sedette su uno sgabello a metà del bar e posò sul banco un biglietto da cinque dollari. Subito il cameriere si avvicinò, e la ragazza vestita di rosso si preparò a scendere dal proprio sgabello. Il cameriere la superò in velocità e Sweeney fece in tempo a chiedergli whisky e selz, prima che quella, ormai sullo sgabello vicino a lui, esclamasse: — Ciao.
— Ciao — rispose Sweeney. — Sola?
— Questo devo dirlo io, tocca a me. Mi puoi offrire da bere, se vuoi.
Sweeney annuì, mentre il barista stava già riempiendo il bicchiere, per poi allontanarsi discretamente e lasciarli in solitudine. La fanciulla in rosso rivolse a Sweeney un sorriso luminoso. — Sono felice che sei venuto. È stato sempre un mortorio oggi, da quando sono arrivata. Andiamo a sederci in uno dei salottini? Mi chiamo Tess, te lo dico, così ci siamo presentati. Su, andiamo in un salottino, e Joe ci porterà…
— Conoscevi Stella Gaylord?
Troncando la frase a metà, la ragazza fissò Sweeney, e domandò: — Non sei un altro poliziotto, vero? Qui pullulavano, dopo quanto è successo a Stella.
— Allora la conoscevi — disse Sweeney. — Bene. No, non sono un poliziotto, sono un giornalista.
— Uno di quegli altri. Posso bere, per piacere?
Sweeney assentì, e il cameriere, che non si era recato poi molto lontano, accorse subito a versare.
— Parlami di Stella.
— Parlarti come?
— Tutto quello che sai. Pensa che io non abbia mai sentito parlare di lei. Tanto più che, agli effetti pratici, veramente non ne ho sentito parlare, perché non ho lavorato al caso, quando è avvenuto. Ero in vacanza.
— Oh, e adesso ci stai lavorando?
Sweeney sospirò: doveva soddisfare la curiosità della ragazza, prima che lei potesse soddisfare la sua. — Non per il giornale — disse — debbo scrivere la storia per una rivista di cronaca nera e romanzi gialli. Non solo di Stella, ma di tutto il caso dello Squartatore. Ma la potrò vendere solamente quando il caso sarà risolto, perché gli editori non si occupano di casi rimasti insoluti. Però voglio essere pronto a scriverla subito e voglio avere tutti gli elementi, non appena il caso sarà risolto.
— Oh, vedo. E pagano bene per racconti come questo, non è vero? Quanto c’è per me?
— Un altro bicchiere — disse Sweeney, con un cenno al barista. — Senti, sorella, io andrò a parlare con almeno cinquanta persone che abbiano conosciuto Stella e Dorothy e Lola e anche con i poliziotti e con i giornalisti che si sono occupati della faccenda. Non ti sembra che sarei in un bel pasticcio se dovessi distribuire a tutti un pezzettino del guadagno? Anche se il caso venisse risolto e io vendessi il racconto, ne uscirei senza un soldo per me, ti pare?
La ragazza rise. — Tentar non nuoce!
— Certamente no. E, tanto per informarti, ti dirò che se saprai darmi indicazioni per risolvere il problema, a te darò una fettina. Non conosci per caso l’assassino?
La ragazza assunse un’espressione dura. — Se lo sapessi, caro mio, lo saprebbe anche la polizia, perché Stella era una brava ragazza.
— Parlami di lei: qualunque cosa. Quanti anni aveva, di dove veniva, che cosa voleva, a che cosa assomigliava: tutto.
— Non so quanti anni avesse, credo fosse sui trenta. Veniva da Des Moines, e una volta mi ha detto che era arrivata cinque anni fa. Ma io la conoscevo solo da un mese.
— Sei stata tu a entrare qui, un mese fa, o lei?
— Io: lei c’era già da due mesi circa. Io prima ero da Halsted, che per tanti lati era peggio di questo, ma io ci facevo più affari. Però c’erano sempre guai, santo cielo, e io non li posso soffrire. Io vado d’accordo con la gente, se la gente va d’accordo con me. Io non comincio mai…
— Torniamo a Stella — interruppe Sweeney. — Che cosa sembrava? Com’era? Ho visto la fotografia sul giornale, ma non era molto chiara.
— Lo so, l’ho vista. Stella era molto carina. E aveva una bellissima figura; aveva anche cercato di fare l’indossatrice, una volta, ma bisogna avere degli appoggi. Era sui trent’anni, gli occhi azzurri, i capelli biondo-scuro. Avrebbe potuto tingerli, ma non voleva.
— Ma lei, dentro, com’era? — insisté Sweeney. — Che cosa voleva fare?
Il vestito rosso si strinse nelle spalle. — Che cosa cerchiamo di fare tutti quanti? Tirare avanti, no? E come faccio a sapere come era dentro? È una bella pretesa da parte tua! Cosa ne diresti di bere qualcosa?
— Subito — disse Sweeney. — La notte della sua morte, tu eri qui al lavoro?
— Sì. Ho già detto ai poliziotti quello che ne so.
— Dillo anche a me.
— Ha fatto un extra. Cioè dopo le due di mattina, perché qui si chiude alle due. Era un tale che è arrivato verso le dieci o le undici ed è rimasto a parlare con lei per più di mezz’ora. Non l’avevo mai visto prima e non l’ho più visto dopo.
— È venuto a prenderla alle due?
— Doveva andare lei a trovarlo non so dove. Credo al suo albergo. — Si volse a guardare Sweeney. — Non è una cosa che facciamo per chiunque, ma qualche volta, se uno ci piace, perché no?
— Perché no? — ripeté Sweeney. — E poi con le percentuali che prendete qui non fate grandi affari.
— Non tanto da vestirci come ci vestiamo. E tutto il resto. Non è un gran posto, ma ce ne sono di peggio. Per lo meno possiamo scegliere quelli che ci piacciono e riceviamo venti o trenta proposte al giorno. — Gli sorrise con impudenza. — A quest’ora non succede spesso, però. Tu saresti il primo, quando ti deciderai.
— Se mi deciderò — disse Sweeney. — Ti ricordi quel tale con cui doveva incontrarsi?
— Praticamente no, perché non ho notato niente in lui. Dopo che era uscito, Stella tornò da me, che ero rimasta sola per caso per pochi minuti e mi accennò che avrebbe dovuto rivederlo dopo le due e mi domandò che cosa pensassi di lui. Bene, io l’avevo appena guardato mentre era seduto con lei e tutto quel che ricordavo era un tipo molto normale, vestito di grigio, mi pare. Né vecchio né giovane, né alto né basso, né grasso né altro di speciale, se no lo avrei ricordato. Non credo che lo riconoscerei, vedendolo.
— Non aveva la faccia rotonda e un paio di grossi occhiali?
— Non ricordo. Non potrei giurare di no. Ma ti dirò una cosa: nessun altro qui lo ha notato o ha qualche idea in merito. Questa è l’unica certezza che i poliziotti hanno tirato fuori da tutti. È inutile chiederlo a George al bar o a Emmy, la ragazza vestita di bianco. C’erano tutti e due, quella notte, ma non sanno niente più di me.
— Aveva nemici Stella?
— No, era una cara ragazza. Anche noi che ci lavoravamo insieme le volevamo bene, e anche il padrone, che è tutto dire. E, per risparmiarti la prossima domanda, ti dirò anche che non c’era nessun uomo veramente importante nella sua vita e non viveva con nessuno. Non che non andasse via qualche volta con una valigetta per due o tre notti, ma non viveva con qualcuno seriamente.
— Aveva una famiglia a Des Moines?
— Un giorno mi ha detto che i genitori erano morti, e se aveva altri parenti non ne ha certo mai parlato. Ma non credo che ne avesse di prossimi.
— Viveva nella West Madison, secondo l’indirizzo pubblicato. A pochi passi da qui, vero? Che cos’è, un albergo o una casa privata?
— Un albergo, il “Claremore”. Una porcheria. Posso bere un altro bicchierino?
Sweeney schioccò le dita verso il cameriere. — Anche per me, questa volta. — Spinse indietro il panama sulla testa. — Senti, Tess, mi hai detto che cosa faceva e cosa appariva. Ma che cosa era in realtà? Che cosa la interessava davvero, che cosa voleva?
La ragazza in rosso alzò il bicchiere scrutandone il contenuto. Poi, per la prima volta, fissò apertamente Sweeney. — Sei un bel tipo, tu. Credo proprio che mi piaceresti.
— Che esagerazione — rispose Sweeney.
— Mi piace anche il modo con cui dici così. Prendi in giro come un demonio, eppure… non so neanch’io che cosa voglio dire. Nel nostro mestiere si incontrano tutti i tipi di uomini e… — Rise leggermente e vuotò il bicchiere, poi continuò: — Immagino che se io fossi stata uccisa dallo Squartatore, ti saresti preoccupato di scoprire che cosa interessava a me, che cosa io volessi realmente. Avresti… oh, al diavolo!
— Ormai sei adulta, non una ragazzina — disse Sweeney — non te la prendere. Mi piaci anche tu, davvero.
— Sì, certo, certo. Io so bene quel che sono, perciò è meglio passarci sopra. Ti dirò quello che Stella desiderava: un istituto di bellezza. In una cittadina piccola, lontano da Chicago. Puoi riderci sopra, ma era per quello che risparmiava denaro, proprio per quello. Aveva già messo via un po’ di soldi, facendo la cameriera, e poi si era ammalata e aveva consumato tutto. Questo mestiere non le piaceva, come alla maggior parte di noi, ma ormai c’era da un anno e con un altro anno avrebbe avuto abbastanza da potersene andare.
— Aveva dei risparmi, dunque. Chi li ha presi?
La ragazza scrollò le spalle. — Nessuno, credo, a meno che non sia comparso qualche parente. Aspetta, che mi viene in mente qualcosa: Stella aveva un’amica che fa la cameriera in un posto vicino a dove è stata uccisa. È un ristorante che resta aperto tutta la notte, in State Street, un po’ più su della Chicago Avenue, dove lei andava quasi sempre a mangiare dopo le due. Io l’ho detto anche ai poliziotti che forse uscendo di qui sarà andata là a mangiare un panino prima dell’appuntamento con quel tale. O forse si è incontrata con lui al ristorante, invece che in albergo o in un altro posto.
— Non sai per caso il nome della cameriera?
Tess scosse il capo. — No, ma conosco il ristorante. È la terza o quarta porta dopo la Chicago Avenue, sul lato ovest di State Street.
— Grazie, Tess — disse Sweeney. — Adesso devo andare. — Guardò il denaro sul banco: tre dollari e qualche spicciolo di resto ai dieci da lui consegnati.
— Mettiteli sotto il materasso. Ci rivedremo, ciao.
Lei gli pose la mano sul braccio. — Aspetta, cosa vuoi dire? Che tornerai?
— Forse.
Tess sospirò e tolse la mano. — Bene, allora non tornerai, lo so. I ragazzi simpatici che mi piacciono non lo fanno mai.
Quando Sweeney uscì sul marciapiede, il caldo lo investì con una vampata ed egli esitò un momento prima di avviarsi.
Tutto quel che dalla strada era visibile dell’Hotel Claremore era una rampa di scale assolutamente inattraente. Sweeney si arrampicò per i gradini fino al sudicio pianerottolo del secondo piano, dove scorse un uomo brutto e tarchiato, che non si radeva la barba da almeno due giorni, intento a scegliere la posta su un banco. Alzò gli occhi su Sweeney e brontolò: — Pieno. Completo — poi tornò a occuparsi della posta.
Sweeney si appoggiò al banco in attesa, finché l’uomo rialzò lo sguardo. — Stella Gaylord viveva qua? — disse Sweeney.
— Dio Onnipotente, un altro poliziotto o un altro giornalista. Sì, viveva qua. E allora?
— Allora niente — rispose Sweeney.
Si volse a osservare il corridoio scuro, dove le porte perdevano la vernice, e le scale nude che portavano al pianterreno. Annusò l’aria e concluse che Stella Gaylord doveva desiderare davvero il suo negozio di bellezza per riuscire a vivere in una simile topaia.
Scrutò di nuovo l’uomo tarchiato, incerto se fargli un’altra domanda, poi decise di mandarlo all’inferno.
Voltò le spalle, scese le scale e uscì in strada.
L’orologio in mostra nella vetrina di un orefice accanto al portone gli disse che mancava un’ora all’appuntamento con Greene e Iolanda all’“El Madhouse”.
Gli ricordò anche che lui non possedeva più un orologio, così entrò a comperarne uno. Riponendo il resto nel portafoglio, domandò al gioielliere: — Conoscevate per caso Stella Gaylord?
— Chi?
— Ecco la fama cos’è! Lasciate perdere.
Appena fuori, si fece portare da un taxi in State Street: probabilmente la cameriera amica di Stella non sarebbe stata di servizio a quell’ora, ma poteva ottenerne l’indirizzo e forse altre informazioni.
Il ristorante si chiamava “Dinner Gong” e vi erano due cameriere dietro il banco, mentre un uomo in maniche di camicia, con l’aria del proprietario, stava al banco dei tabacchi, dietro a un registratore di cassa.
Sweeney acquistò delle sigarette, dicendo: — Sono del “Blade”. So che avete una cameriera che era amica di Stella Gaylord. Fa sempre il turno di notte?
— Parlate di Thelma Smith, vero? Se n’è andata una settimana fa. Aveva paura a lavorare in questi paraggi, dopo quel che era successo alla Gaylord.
— Avete il suo indirizzo?
— No. Voleva andarsene dalla città. È tutto quel che so. Parlava di New York e può darsi che sia andata là.
Sweeney tentò: — Stella è stata qui, quella sera?
— Certo. Io allora non c’ero, ma c’ero dopo, quando la polizia ha interrogato Thelma. E lei ha detto che Stella era venuta poco dopo le due a prendere un panino e un caffè e poi era uscita.
— Non disse a Thelma dove era diretta?
Il padrone scosse la testa. — No, ma è probabile che fosse qua vicino, se no non sarebbe arrivata da Madison Street a qui per un panino. I poliziotti pensavano che avesse un appuntamento in qualche albergo qua attorno, per la notte, dopo finito il lavoro nel locale.
Sweeney lo ringraziò e uscì. Era sicuro che non valesse la pena di rintracciare Thelma Smith; la polizia l’aveva già interrogata e, se nella sua partenza ci fosse stato qualcosa di sospetto, ci avrebbe pensato lei a rintracciarla.
Mentre attendeva il momento per attraversare la Chicago Avenue, si avvide di aver dimenticato di porre una domanda a Tess, così, attraversata finalmente la strada, le telefonò nel locale di Susie.
— Sono quel tale con cui parlavi una mezz’ora fa, Tess — le rammentò. — Mi è venuta in mente una cosa. Stella ti ha mai detto nulla di una statuetta… la figura di una donna, nera, alta circa venticinque centimetri?
— No. Dove sei?
— Mi sono perduto nella nebbia. Sei mai stata in camera di Stella?
— Sì, pochi giorni prima del… prima che morisse.
— Non aveva una statuetta come quella che ti ho detto?
— No, però aveva una statuetta sul comodino, bianca. Era una Madonna e mi ricordo che mi ha detto che l’aveva da molto tempo. Perché? Cosa vuol dire questa storia della statuetta?
— Probabilmente nulla. Senti, Tess, la frase: «La statua che urla» ti dice qualcosa?
— No. Che cos’è, un gioco?
— No, ma non posso dirti altro. Comunque, grazie. Ci vedremo qualche volta.
— Ci scommetto!
Uscendo dal negozio dove aveva telefonato, si diresse all’“El Madhouse”.
VIII
Lei aveva nella realtà l’aspetto che Sweeney le aveva attribuito nella sua mente, eccetto naturalmente il particolare che era vestita. Sweeney le sorrise e lei gli ricambiò il sorriso, mentre Doc Greene diceva: — Non la dimenticherete di certo, Sweeney. Da quando vi siete seduto, non avete smesso di fissarla.
Iolanda intervenne. — Non dategli retta, signor Sweeney. È un cane che abbaia e non morde.
Greene sogghignò. — Non dare di queste notizie a Sweeney, che mi attribuisce già delle origini bastarde, cara. — Fissò Sweeney attraverso le spesse lenti e dolcemente mormorò: — Io posso mordere.
— Se non altro — disse Sweeney a Iolanda — mi abbaia alle calcagna e non mi piace.
— No, Doc è carissimo, signor Sweeney. Scherza con voi.
— Sarebbe meglio che non scherzasse su di me. Doc, vi radete con un rasoio non di sicurezza?
— Se mi capita, sì.
— E in questo caso adoperate il vostro o quello degli altri?
Gli occhi di Doc si strinsero leggermente, dietro i pesanti occhiali. — Qualcuno ha adoperato il vostro?
Sweeney accennò di sì. — La vostra perspicacia mi confonde di nuovo. Sì, qualcuno ha preso il mio. E anche un temperino: erano gli unici due oggetti taglienti disponibili nella stanza.
— Per non parlare del vostro cervello, Sweeney. Quello ve lo ha lasciato. O era là anche lui, al momento del furto?
— Ho i miei dubbi, perché deve essere accaduto di sera, mentre ero fuori, piuttosto che quando ero addormentato. Lo deduco dal fatto che guardandomi allo specchio stamattina non ho visto nessuna sottile linea rossa sulla gola.
Greene scosse lento la testa. — Avete guardato nel posto sbagliato. Il nostro amico Squartatore ha una marcata preferenza per i visceri. Avete controllato?
— Non con particolare attenzione, Doc. Ma lo avrei notato quando ho fatto la doccia.
Iolanda rabbrividì e spinse indietro la sedia. — Temo di dovervi lasciare, signor Sweeney, perché debbo parlare con il maestro per un nuovo numero. Verrete a vedermi ballare, stasera? Il primo numero comincia alle dieci.
Gli tese la mano sorridendo, e Sweeney, restituendole il sorriso, strinse la mano fra le sue. — Complimenti, Iò. O posso chiamarvi Iolanda?
La donna rise. — Credo che mi piaccia di più. Lo dite in modo pieno di significato.
Si allontanò oltre l’arcata che portava dal bar alla sala. Il cane, che era rimasto sdraiato accanto alla sua sedia, la seguì. E altrettanto fecero i due poliziotti che avevano atteso seduti al tavolo vicino.
— È un vero corteo — osservò Doc Greene.
Sweeney, restando seduto, continuò a far cerchi sul tavolo con il fondo del bicchiere, finché, dopo un minuto, alzò gli occhi. — Salute, Doc. Non mi ero accorto che foste qui.
— Trovato qualcosa, Sweeney? Una traccia?
— No.
Greene sospirò profondamente. — Carissimo nemico del mio cuore, ho paura che non vi fidiate di me.
— E dovrei fidarmi?
— In un certo senso, solo quello che vi indicherò io. Cioè per quanto riguarda trovare lo Squartatore. — Si curvò avanti con i gomiti sulla tavola. — Per quanto riguarda Iolanda, no. Per quanto riguarda voi personalmente, no. Per quanto riguarda il denaro, no, benché questo argomento non abbia ragione di esistere tra noi. Ma per quanto riguarda lo Squartatore sì, potete fidarvi di me. Perché io starò in pena per Iolanda finché quello sarà in libertà. Preferirei addirittura che fosse ucciso, invece che preso, dato che ha osato toccarla.
— Con una lama fredda — disse Sweeney — e non con una mano ardente.
— Qualunque cosa. Comunque, è passato. Ma il futuro mi preoccupa: per ora ci sono due guardiani con Iò, in ogni momento, a tre turni di otto ore l’uno. Ma la polizia non continuerà così per l’eternità. Trovatemi lo Squartatore, Sweeney.
— E poi?
— Poi, potete andare al diavolo.
— Grazie, Doc. L’unico guaio è che voi siete talmente sincero, che non posso credervi.
Greene sospirò di nuovo. — Sweeney, non voglio che perdiate tempo a sospettare di me. Anche la polizia ci aveva fatto un pensierino, dato che non potevo fornire un alibi per l’ora in cui lo Squartatore attaccò Iolanda. Non so dove mi trovassi, salvo che ero nella South Side, con una cliente, una cantante del Club Cairo, fino a mezzanotte, e avevo piuttosto bevuto. Andai a casa, ma non posso provare quando ci sono andato e poi non lo so nemmeno io, quando.
— Tutto può essere — replicò Sweeney — ma perché dovrei crederci?
— Per la stessa ragione per cui ci ha creduto la polizia. Perché succede anche che io abbia dei solidissimi alibi per altri due degli attacchi dello Squartatore. Sono andato a cercare, e la polizia è andata a controllare quel che avevo detto io. Per il caso Brent, due mesi fa, non ho potuto trovare dov’ero: è passato troppo tempo ormai. Ma per il secondo… come si chiamava?
— Stella Gaylord.
— È stato nella notte del ventisette luglio e io mi trovavo a New York per affari, dal venticinque al trenta del mese. E la sera del ventisette per mia fortuna mi sono trovato anche con persone orribilmente rispettabili dall’ora del pranzo alle tre del mattino. E non perdete tempo a chiedermi cosa facevo io insieme con della gente rispettabile, perché non ha alcuna importanza. Lo ha controllato la polizia, potete chiederlo all’ispettore Bline. E il primo agosto, nel momento in cui è stata ammazzata la segretaria, quella Dorothy Lee, io ero qui a Chicago, ma, guarda caso, ero in tribunale a testimoniare in un processo per rottura di contratto contro un agente teatrale. Il mio alibi è stato avallato dal giudice Goerring, dal sergente, dal cancelliere e da tre avvocati, uno mio e due dell’avversario, tutti quelli che ho potuto trovare. Ora, se volete che io sia un mezzo Squartatore, al lavoro nel primo e nell’ultimo caso e in vacanza nel secondo e nel terzo, siete il benvenuto. Ma non siete poi così stupido neppure voi.
— C’è qualcosa di vero — ammise Sweeney, prendendo di tasca un foglio di carta e una matita. — Voglio occuparmi di un solo alibi. Nella sezione del giudice Goerring, avete detto? Dà quando a quando?
— La causa è stata chiamata alle tre e ha proseguito fin dopo le quattro. Prima di cominciare sono stato a discutere con gli avvocati per mezz’ora nell’anticamera dell’aula. Stando ai giornali, la Lee lasciò, viva, l’ufficio, alle tre meno un quarto, per recarsi a casa. Fu trovata morta in casa sua alle cinque, e la morte è stata fatta risalire a un’ora prima circa. Perdio, Sweeney, non avrei potuto combinare un piano di difesa migliore! Fu uccisa nel momento preciso in cui io stavo sul banco dei testimoni, a tre chilometri da lei. Vi basta questo?
— Lo accetto — continuò imperterrito Sweeney. — Come si chiamavano gli avvocati?
— Siete duro, Sweeney. Perché volete sospettare di me? Nello stesso modo potreste sospettare di Joe Blow, al bar, o dell’uomo vicino a lui!
— Perché qualcuno ha perquisito la mia stanza stanotte. Solo un rasoio e un temperino sono stati presi, e lame e rasoi si collegano con la faccenda dello Squartatore. Fino a ieri sera, soltanto un numero incredibilmente limitato di persone era al corrente del mio interesse per lo Squartatore. E voi eravate una di queste.
Greene rise. — E io come l’ho capito? Leggendo la storia che avete scritto per il “Blade”. Qual è la tiratura del “Blade”? Mezzo milione di copie?
— Scusatemi allora se sono ancora vivo — ribatté Sweeney. — Vi offrirò da bere per questo, Doc.
— Bourbon liscio. E ora, ditemi, avete trovato una strada buona?
Sweeney rispose solo dopo aver dato gli ordini al cameriere. — Non una traccia — disse e, puntando la matita sulla carta, continuò: — Come si chiamavano gli avvocati?
— Credevo che voi foste un segugio, Sweeney, ma invece siete un mezzo bulldog. Il mio avvocato è Hymie Fieman, nel Central Building. Gli altri erano dello studio Raenough, Dane e Howell. Dane, Charles Dane, mi sembra, e un giovane neofita che lavora nello studio, ma non è ancora socio della ditta, erano presenti alla causa. E il giudice era Goerring, G-o-e-r-r-i-n-g. È un repubblicano, perciò non si presterebbe a favorire uno squartatore.
Sweeney accennò di sì, con moderazione. — Vorrei uscire da quest’incubo e riflettere con calma. Sono nervoso come un gatto.
Spiegò il foglio di carta appallottolato e lo lisciò perfettamente. Poi lo appoggiò sulla mano destra aperta e volta in su. Il lieve tremito, ingrandito, si propagava agli orli del foglietto.
— Meno peggio di quanto pensassi. Scommetto che voi non riuscireste a fare di meglio. — Guardò Greene. — Scommetto cinque dollari.
— Non batterei mai un uomo al suo gioco — disse Greene — non ho neppure mai provato, ma voi mi ci attirate. Siete un relitto umano, e io ho nervi d’acciaio.
Greene prese il foglio e lo appoggiò in equilibrio sul dorso della mano. Tremò leggermente, ma molto meno che sulla mano di Sweeney.
Sweeney osservava molto attentamente il foglietto e domandò all’improvviso: — Doc, avete mai sentito parlare della «Statua che urla»?
La vibrazione agli orli del foglietto non mutò e, guardandolo, Greene disse: — Credo di aver vinto, Sweeney. Finita la scommessa?
Non ci fu risposta, ma Sweeney imprecò silenziosamente contro se stesso. L’uomo che aveva comperato la statuetta non poteva conoscere il nomignolo che le era stato attribuito nella ditta: Lola Brent, commessa nuova nel negozio, non avrebbe potuto dirglielo.
— Una statuetta nera, di una donna che urla.
Doc Greene alzò gli occhi dal foglio di carta, ma le vibrazioni di quest’ultimo non mutarono, per quanto Sweeney lo fissasse.
Doc appoggiò la mano sul tavolo. — Che cos’era? Un tranello?
— Lo era, Doc. Ma avete vinto la scommessa — disse Sweeney, porgendogli i cinque dollari. — Ne vale la pena. Avete risposto alla mia domanda, così adesso posso credervi.
— Avete detto «La statua che urla»? Non ne ho mai sentito parlare.
— Io non avevo ragioni sufficienti per credere alle vostre parole, Doc, ma posso credere a quel pezzo di carta…
— Intelligente, Sweeney. Uno scopritore di bugie casalingo… no, meglio, un segnalatore di reazioni. Mi tengo la vincita della scommessa, ma per berci qualcosa. D’accordo?
Sweeney annuì e Doc fece segno al cameriere. Poi mise i gomiti sul tavolo. — Allora voi mentivate: avete trovato una traccia. Vuotate il sacco, potrei anche aiutarvi.
— Non vorrei correre il rischio di trovarmi un taglio nel pancino.
— Mi sottovalutate, Sweeney. Credo che potrei trovarla, quella traccia, anche senza il vostro aiuto. E adesso ho proprio la curiosità di farlo.
— Provate.
— Benissimo. — Gli occhi di Doc apparivano enormi, con un potere ipnotico, dietro le grosse lenti. — Una statuetta nera, soprannominata «La statua che urla». E molte di queste statuette vengono messe in vendita nei negozi d’arte e di chincaglieria. Una delle ragazze uccise lavorava in uno di questi negozi, proprio nel giorno del delitto. Non ricordo più dove, ma sui giornali lo ritroverei. Se trovassi il padrone e gli domandassi notizie della «Statua che urla» mi servirebbe a qualcosa?
Sweeney alzò il bicchiere. — Vi ho sottovalutato davvero, Doc.
— E io voi, Sweeney, quando quasi mi ero convinto che non aveste trovato nessuna traccia. Alla vostra cattiva salute!
— Alla vostra!
Bevvero entrambi, poi Greene domandò: — Allora, devo andare a cercare il padrone del negozio o vuotate il sacco?
— Posso anche farlo. Lola Brent ha venduto una statuetta nera di una donna nuda, urlante, proprio poco tempo prima di venire uccisa. È una buona ragione per pensare che il suo cliente sia stato lo Squartatore, che l’abbia seguita verso casa e l’abbia fatta fuori. Probabilmente la statuetta lo aveva sconvolto: ha qualcosa che può influire su uno psicopatico.
— A voi piace?
— Non mi piace, ma la trovo affascinante. E fra l’altro è veramente ben lavorata. Ho svolto qualche indagine: a Chicago ne sono state mandate soltanto due. Io ne ho una, e lo Squartatore l’altra.
— La polizia lo sa?
— No, sono sicuro di no.
— L’avevo detto io, Sweeney. La fortuna degli irlandesi. In questo caso, la vostra fortuna la seguite da lontano o state per difendervene da vicino?
— Difendermi?
— Sì, con una rivoltella o un’arma qualsiasi. Se lo Squartatore, o un altro anche, fosse venuto a trovarmi per portarsi via la mia piccola armeria di temperini e rasoi, io metterei in moto l’artiglieria. Se lo Squartatore sapesse dov’è la mia camera, dormirei con una rivoltella sotto il cuscino, senza la sicura. O forse lo Squartatore sa tutto?
— Cosa vorreste dire?…
— Sì…
Sweeney sogghignò. — Volete il mio alibi? Bene, di due mesi fa non so niente, e non credo di poter ricostruire la serata. Quanto ai due successivi assassinii, ero in giro per una sbornia di quindici giorni. Solo Dio sa dov’ero e che cosa facevo, ma non sono stato sempre con Dio. Quanto alla notte scorsa, quando Iolanda è stata aggredita, sono arrivato sulla scena del delitto press’a poco nell’ora in cui è stato commesso. Come vi sembrano questi alibi?
Doc Greene emise un grugnito, e disse: — Ne ho sentiti di meglio e non posso ricordare di averne sentiti di peggio. Sweeney, come esperto di psichiatria, non mi sembra che siate lo Squartatore, ma potrei anche sbagliare. Lo siete?
Sweeney si alzò. — Che sia dannato se ve lo dico, Doc. Nel piccolo e piacevole scambio di cortesie che esiste tra noi, questo è un grosso punto a mio favore. E lascerò che voi cerchiate. Nel caso che io lo sia, grazie dell’avviso per la rivoltella.
Uscì, ed era ormai sera. Il mal di testa era scomparso e si sentiva di nuovo quasi un normale essere umano.
Scese per Clark Street senza pensare a dove si dirigeva e, in fondo, senza pensare a nulla. Lasciava la sua mente sola, e la sua mente lasciava solo lui, cosicché si accordavano perfettamente. Si udì canticchiare e, prestando ascolto alla sua voce con attenzione, riconobbe la Danza ungherese di Brahms. Smise di ascoltarsi e si dedicò invece a esaminare le immagini che passavano nella sua mente, constatando che erano immagini bellissime. Iolanda che sedeva di fronte a lui al tavolo, come era stata poco prima; Demonio, il cane, accovacciato ai piedi di lei, con un piccolo e assurdo cerotto sulla testa, risultato del colpo abile del poliziotto che gli aveva sparato attraverso il vetro. Sweeney ammirò nella sua mente la perfetta mira del poliziotto così sentitamente, benché non nello stesso modo, quanto ammirava l’immagine apparsagli in seguito: il corpo meraviglioso di Iolanda, illuminato dal cono di luce della torcia elettrica.
Sospirò e poi sorrise. Non aveva mai pensato che una donna potesse essere così splendida e ancora non riusciva a crederci. Recandosi all’“El Madhouse” per incontrare Doc e Iolanda, quasi aveva temuto una delusione, perché, dopo tutto, era stato proprio ubriaco quando aveva scorto la scena quaranta ore prima. Se la donna fosse stata nella realtà diversa da come egli l’aveva vista, gli sarebbe dispiaciuto, ma la delusione non lo avrebbe sorpreso. Invece, ecco, era più affascinante di quanto ricordasse, soprattutto nel viso. E c’era di più: un’aria di mistero la circondava e quasi emanava da lei, quaranta ore prima, che egli aveva attribuito interamente alle particolari circostanze verificatesi nell’atrio. Invece era così: un mistero circondava la donna, e Iolanda aveva qualcos’altro oltre al più bel corpo che Sweeney avesse mai contemplato.
Pensò: “Diomede, hai ragione”. E sorrise, perché sapeva con assoluta chiarezza che Diomede aveva ragione. Se una cosa la volete davvero, la otterrete. Ed egli era sulla strada per ottenerla.
Se anche aveva nutrito dubbi prima dell’incontro con Doc Greene, ora non ne aveva più. Nel caso che Iolanda fosse stata una quarantenne, grassa (e non era né l’una né l’altra) si sarebbe rotto la testa a domandarsi perché lui e Greene si odiavano con tanta forza. Quell’uomo gli era ripugnante in un modo addirittura fisico.
Se solo avesse potuto provare che Doc era lo Squartatore…
Ma c’erano i due alibi. La polizia li aveva accettati o, almeno, Doc Greene aveva raccontato che la polizia si era occupata di lui e aveva accettato gli alibi. C’era però un elemento che egli stesso poteva controllare, e che avrebbe controllato subito.
Attraversò Lake Street, dirigendosi al Loop, da “Randolph”, dove si riunivano i colleghi del “Blade”.
In quel momento non era ancora giunto nessuno di loro e, nell’attesa, Sweeney ordinò un whisky e soda. Scorgendo al banco il gerente del locale, Burt Meaghan, gli domandò: — Credi che verrà qualcuno dei ragazzi, dopo il lavoro?
— Sarebbe un’eccezione se non venissero. Dove siete stato per tutto questo tempo, Sweeney?
— Qua e là. A bere. Non te l’ha detto nessuno?
— Sì, l’ho sentito dire, e vi ho visto qua due o tre volte, la prima settimana, ma ormai non vi vedevo da qualche giorno.
— Non ci hai perso molto. Burt, conosci Harry Yahn?
— Di fama, non di persona. Io non ho conoscenze in ambienti così altolocati. Ha messo su un locale poco lontano di qui, che dirige di persona. Ed è interessato in qualche altro.
— Sono rimasto un po’ fuori dell’ambiente — disse Sweeney. — Come si chiama il locale che dirige lui?
— Sulla facciata c’è scritto “Tit-tat-toe”, ma solo sulla facciata di fuori. Volete entrarci?
— Non importa, posso riconoscere Harry quando esce. Avevo solo perso le tracce della sua attività.
— Non c’è da molto tempo: un mese circa. Scusatemi, Sweeney.
Si allontanò verso l’estremità del banco per occuparsi di un altro cliente. Sweeney continuò a disegnare cerchi sul banco col fondo del bicchiere, domandandosi se fosse necessario parlare con Yahn. Sperava di no, perché scherzare con Yahn era come mettere le mani su una sega circolare. D’altronde, presto avrebbe avuto bisogno di soldi e doveva trovarli da qualche parte. Degli assegni pagati da Wally, gli restavano ancora circa centocinquanta dollari, ma non sarebbero serviti a molto con il piano che aveva in mente. Si voltò, sentendo una mano appoggiarglisi sulla spalla: era Wayne Horlick. Sweeney esclamò: — Proprio quello che volevo vedere! E poi si dice della fortuna degli irlandesi!
Horlick gli sorrise. — È una fortuna che ti costerà dieci dollari, Sweeney. Sono contento di vederti: vale i dieci dollari.
Sweeney sospirò. — Da quando?
— Dieci giorni fa. Qui. Non ti ricordi?
— Ma certo — mentì Sweeney, dandogli il denaro. — Un bicchierino come interesse?
— Perché no?
Sweeney ingollò l’ultimo sorso del bicchiere che aveva davanti e ne ordinò altri due. — Se ti interessa, ti volevo parlare perché lavori al caso dello Squartatore.
— Già. Negli ultimi giorni, però: dell’affare Brent, di due mesi fa, non so nulla. Ho cominciato dal secondo, di Stella Gaylord.
— Hai tracce o idee?
— Nessuna traccia, Sweeney. E se ne avessi una, la direi subito alla polizia, con gioia e rapidità. Lo Squartatore non è un tipo che vorrei incontrare, tranne che al di là di alcune solide sbarre, come lo metterebbe Bline, dopo averlo preso. Lo sai che c’è una squadra speciale della polizia, distaccata per questo lavoro e diretta dall’ispettore Bline?
— Me l’ha detto Carey. Credi che lo prenderanno?
— Di sicuro lo prenderanno, se continua a sfregiare belle signore. Ma non ci riusciranno se si ferma adesso. Dimmi un po’, sei riuscito a parlare con la Lang?
— Sì, un’ora fa. Perché?
Horlick rise. — Perché me lo immaginavo, dopo aver letto il tuo pezzo di cronaca. Scritto bene, vecchio. Faceva venire l’acquolina in bocca anche a me e da quel momento ho cercato di vederla per un’intervista, ma non ci sono riuscito. Però immaginavo che ci saresti riuscito tu.
— Perché? — domandò con curiosità Sweeney. — Non perché io ho provato, ma perché immaginavi che io sarei riuscito dove nessun altro ce l’ha fatta?
— Per l’articolo che hai scritto! Lontana da me l’idea di lodare quel che scrive un altro, Sweeney, ma era un piccolo capolavoro classico di giornalismo. E quel che conta di più, valeva diecimila dollari di pubblicità per la signora, al di sopra e al di là di ogni pubblicità che potesse farle l’essere stata colpita dallo Squartatore e l’averla scampata, unica e sola, fra le vittime. Doc Greene deve amarti come un fratello.
Sweeney rise. — Certo, come Caino amava Abele. Dimmi, Horlick, sui vari casi è venuto fuori qualcosa che i giornali non hanno pubblicato? Io ho letto tutto di Lola Brent e di Stella Gaylord, ma non sono arrivato ancora alla terza, alla Lee.
Horlick rifletté e poi scosse il capo. — Niente che io ricordi, o che valga la pena di essere notato. Perché? Ti interessa davvero? Oltre all’intervista che hai avuto? Perché quella non hai bisogno di spiegarmela.
Sweeney decise di attenersi alla bugia detta a Joe Carey. — Dovrei scriverci un giallo per un editore e il modo migliore per farlo è di avere tutto pronto in modo che, appena il caso viene risolto, io possa precipitarmi in velocità.
— È una buona idea, nel caso che riescano a risolvere il problema. E ci riusciranno se quello continua a squartare, perché non può aver sempre fortuna. Spero che Wally ti dia il caso, al posto mio: a me non piace. Vuoi che gliene parli?
— Ci pensa Carey, perciò è meglio che tu non lo faccia: Wally potrebbe insospettirsi se gliene parlaste troppo. Che cosa sai di Doc Greene?
— Perché? Vorresti attribuirlo a lui?
— Mi piacerebbe tanto. Anch’io gli voglio bene come a un fratello. Mi ha detto che la polizia ha avuto la stessa mia impressione, che lui aveva ottimi alibi per due dei delitti e che i poliziotti li hanno accettati. Ne sai qualcosa?
Horlick scosse di nuovo il capo. — Dev’essere stato per l’ultimo attacco dello Squartatore, contro Iolanda, naturalmente, in questi due giorni. No, Bline non mi ha accennato di aver indagato su Greene, ma credo, d’altronde, che abbiano indagato su chiunque fosse in qualche modo collegato con una delle quattro signore.
— Tu, personalmente, che impressione hai avuto di Greene?
— Mi dà i brividi, se è di questo che vuoi parlare.
— Esattamente di questo — disse Sweeney. — E perciò ti offro un altro bicchierino.
— Whisky.
— Bene, whisky per Horlick, Burt. Io questa volta rinuncio. — E rinunciò davvero, per quanto Horlick insistesse. Dopo mezz’ora si avviò verso casa.
Udendolo entrare, la signora Randall aprì la porta. — Signor Sweeney, un signore vuole vedervi. Siccome voleva aspettarvi, l’ho fatto entrare in salotto. Devo dirgli…
Un uomo piuttosto grosso avanzò dietro di lei, dicendo: — William Sweeney? Io mi chiamo Bline, ispettore Bline.
IX
Sweeney porse la mano e il poliziotto fece altrettanto, con scarso entusiasmo. Ma Sweeney finse di non notarlo. Disse anzi: — Volevo proprio incontrarmi con voi, capo, dato che ho sentito che vi occupate dello Squartatore. Volevo chiedervi qualcosa. Accomodatevi in camera mia.
Bline lo seguì per le scale, fino in camera, sedette nella sedia indicatagli da Sweeney, quella scricchiolante, che gemette sotto il suo peso.
Sweeney si accomodò sull’orlo del letto e, guardando il giradischi, disse: — Un po’ di musica, mentre parliamo, capo?
— Diavolo no, dobbiamo parlare, non cantare duetti. E spetta a me fare le domande, Sweeney.
— A che proposito?
— Potete già immaginarvelo. Per esempio, non credo che vi ricorderete dove vi trovavate nel pomeriggio dell’otto giugno, no?
— No, non lo ricordo. A meno che non fossi a lavorare. Ma anche in questo caso non saprei se mi trovavo a scrivere o se ero fuori per un servizio. Tranne che… forse, se ero a correggere le bozze delle ultime edizioni della sera e delle prime del mattino, potrei rintracciarle e ricordare quali mi sono passate sotto le mani.
— Non ve ne è passata nessuna: quel giorno non lavoravate. Ho già controllato al “Blade”.
— Allora tutto quel che posso dirvi è quel che ho probabilmente fatto, ma non sarà molto. Probabilmente ho dormito fino a mezzogiorno, ho passato la maggior parte del pomeriggio qui a leggere o ad ascoltare dischi, e probabilmente la sera sono uscito a bere qualcosa e a fare una partita. O forse sono andato al cinema o a un concerto. Quest’ultima parte potrei forse anche controllarla, ma non il pomeriggio, e credo che sia proprio il momento che vi interessa.
«Nessuna speranza nemmeno per la prossima domanda che state per farmi, capo. Il primo agosto. Sa Dio dove mi trovassi in quei due giorni, tranne la certezza che ero a Chicago. Che io sappia, nelle ultime due settimane non sono stato fuori città.»
Bline grugnì. Sweeney sorrise. — Soltanto, io non sono lo Squartatore. Vi garantisco che anche se non so dov’ero e che cosa facevo quando sono state uccise la Gaylord e la Lee, so di non aver ucciso la Brent, perché allora non ero ubriaco, per lo meno non tanto da non ricordare che cosa facessi. In nessun giorno di giugno. E so di non aver fatto il colpo contro Iolanda Lang, perché ricordo bene mercoledì sera: cominciavo a smaltire la sbornia ed era un vero inferno. Domandi a Dio.
— A chi?!
Sweeney aprì la bocca e la richiuse. Era inutile far portare il povero vecchio Diomede alla polizia, perché Diomede non era in grado di fornirgli un alibi per l’ora in cui Iolanda era stata colpita. Disse: — È un modo di dire, capo. Solo Dio potrebbe provare che cosa io facessi mercoledì notte. Ma fatevi coraggio, se lo Squartatore continua a squartare, forse per la prossima volta avrò un alibi sicuro.
— Sarà un grande aiuto.
— Nel frattempo, capo, e seriamente, perché siete venuto da me a chiedermi i miei alibi? È stato un uccellino a sussurrarvi una paroletta? O un certo Greene?
— Sweeney, sapete benissimo perché sono qua. Perché voi eravate davanti a quel maledetto portone nella notte di mercoledì. E probabilmente lo Squartatore era anche lui davanti a quel portone. Secondo le nostre supposizioni, aspettava alla porta del retro, poi è entrato e ha colpito la donna, mentre avanzava verso di lui. Ha sbagliato il colpo di pochi centimetri, e il cane gli è saltato addosso, così è dovuto scappare, chiudendo la porta senza la possibilità di un secondo tentativo. Che cosa può aver fatto dopo?
— Voi avete fatto la domanda — disse Sweeney. — Rispondete.
— Può essere uscito, naturalmente. Ma se ha seguito l’esempio di molti altri assassini pazzi, deve essere uscito sul marciapiede del retro ed essere venuto fin sul davanti della casa; quindi doveva trovarsi fra la gente raccolta all’ingresso, all’arrivo della polizia.
— E può darsi anche — aggiunse Sweeney — che abbia telefonato alla polizia dal bar all’angolo.
Bline scosse il capo. — No, abbiamo trovato chi ha fatto la chiamata. Un tale che era stato per ore al bar a chiacchierare con altri due. Uscì verso le due e mezzo e tornò indietro dopo pochi minuti, raccontando a quei due e al barista che in un atrio un po’ più giù stava succedendo qualcosa: c’era una donna per terra e un grosso cane che non permetteva a nessuno di aprire la porta ed entrare e che perciò gli sembrava bene telefonare alla polizia. Lo fece, poi lui e gli altri due andarono insieme sul posto e all’arrivo della pattuglia erano là. Ho parlato con tutti e tre, perché il barista ne conosceva uno e ci ha permesso di rintracciare gli altri. Secondo loro c’era una dozzina di persone davanti alla porta. Secondo voi è lo stesso?
— Quasi lo stesso. Certo non più di quindici.
— E i poliziotti, anche dopo aver riconosciuto la mano dello Squartatore, non hanno avuto abbastanza intelligenza da trattenere tutti. Dei dodici o quindici ne abbiamo individuato cinque. Se solo potessimo trovarli tutti…
— Chi era il quinto? — domandò Sweeney. — I tre che erano insieme, e io facciamo quattro. Chi altri?
— Uno che vive in quella casa. Dev’essere stato il primo a trovare la donna e il cane: tornava a casa e non è potuto entrare perché il cane gli saltava addosso ogni volta che cercava di aprire la porta. Altri passanti, vedendo quel che succedeva, si fermarono a guardare e quando arrivò il tizio del bar, quello che poi ci ha chiamato per telefono, si erano riunite sei o sette persone. Al suo ritorno insieme con i due amici, ce n’erano nove o dieci.
— Io probabilmente sono arrivato dopo — disse Sweeney — un minuto prima che giungesse la polizia. E, per rispondere alla vostra domanda, vi dirò che non ho notato nessuno tra la gente. Non sarei in grado di identificarne neppure uno. Tutto quel che ho notato è stato quanto c’era nell’atrio e l’arrivo dei poliziotti. Ma non identificherei nemmeno loro.
Bline rispose amaramente: — Non mi occorre che voi riconosciate i poliziotti, ma darei non so cosa per conoscere tutti quelli che erano là davanti. Invece di quei cinque, anzi quattro, che conosco.
— Non tenete conto di me?
— Non tengo conto di voi.
— Quali spiegazioni offre l’uomo che vive nella casa, quello che, secondo la sua versione, arrivò per primo sul posto?
— È piuttosto chiaro. Lavora di notte al “Giornale del Commercio” sulla Grand Avenue, è un tipografo. Ha segnato sull’orologio-controllo l’ora d’uscita, cioè l’una e tre quarti, e gli ci è voluto certamente tutto il tempo che ha detto per arrivare. Non avrebbe avuto il tempo di andare sul retro, aspettare e poi tornare davanti. Inoltre, ha solidi alibi per gli altri tre delitti, tutti alibi controllati da noi. — Aggrottò la fronte. — Così, dei cinque uomini che siamo riusciti a individuare nel gruppetto davanti alla porta, voi siete l’unico che non abbia un alibi. Comunque, qui c’è la vostra raccolta di lame.
Trasse di tasca una busta e la porse a Sweeney. Senza aprirla, Sweeney sentì con la mano che conteneva il temperino e il rasoio. Disse: — Potevate chiedermeli. Avevate un mandato di perquisizione?
Bline sogghignò. — Non volevamo avervi tra i piedi, mentre cercavamo e, quanto al mandato, ormai che cosa importa?
Di nuovo Sweeney aprì e richiuse la bocca. Sarebbe stato anche abbastanza matto da protestare, perché quella storia gli aveva fatto passare brutti momenti; d’altra parte, gli sarebbe stato utile, se non indispensabile, ottenere un aiuto amichevole da Bline, perché la polizia poteva fare ciò che a lui non era possibile.
Perciò, mitemente disse: — Potevate almeno lasciarmi un biglietto. Quando ho visto che mi mancavano quei due oggetti, ho pensato che lo Squartatore credesse che io fossi lo Squartatore. Ditemi, capo, che cosa sapete di quel Greene?
— Perché?
— Mi piace pensare che sia lui lo Squartatore, ecco tutto. Mi ha raccontato di avere alibi che voialtri avete controllato. È vero?
— Più o meno. Nessun alibi per la Brent, e quello per la Lee piuttosto insufficiente.
— Insufficiente? Credevo che si trovasse in tribunale con il giudice Goerring.
— I tempi non corrispondono al millesimo. Il suo alibi arriva sino alle quattro e dieci; la Lee è stata trovata morta verso le cinque, piuttosto dopo che prima. Il medico che l’ha vista alle cinque e mezzo ha dichiarato che doveva essere morta da un’ora circa, il che significa che è stata colpita verso le quattro e mezzo, venti minuti dopo che è finito l’alibi di Greene. In taxi, dal tribunale a casa di lei, potrebbe benissimo esserci andato lui.
— Quindi non ha alibi.
Bline ripeté: — Non a prova di bomba. Ma ci sono altri punti: lei lasciava il lavoro di solito alle cinque, mentre quel giorno è uscita alle due e tre quarti per andare a casa, perché stava male. Ammesso che Greene la conoscesse, e non c’è alcuna prova che fosse così, non poteva immaginare di trovarla a casa, precipitandovisi dal tribunale. Solo qualcuno che lavorava con lei poteva saperlo.
— O qualcuno che è andato all’ufficio o le ha telefonato.
— Vero. Ma Greene non ci è andato. E non avrebbe avuto il tempo di telefonarle, prima di correre da lei. — Bline corrugò la fronte. — Le probabilità diminuiscono.
— Credete? Supponiamo che Greene la conoscesse intimamente. Poteva avere un appuntamento a casa di lei dopo le cinque. La causa in tribunale finisce poco dopo le quattro e lui va ad aspettarla. Forse aveva anche la chiave ed è entrato ad attendere, pur non sapendo che sarebbe arrivata a casa prima perché stava male e che l’avrebbe trovata già là.
— Oh, è possibile, Sweeney. Vi ho detto che non era un alibi perfetto. Ma dovete ammettere che tutto questo non è molto probabile. Invece, è più che probabile che lo Squartatore l’abbia seguita fino a casa, vedendola per la prima volta in strada, quando è uscita dal lavoro. Nello stesso modo con cui probabilmente ha seguito Lola Brent dal negozio a casa. Non può essere stato ad aspettare la Brent fuori del negozio, per due motivi: primo, perché non poteva sapere che sarebbe stata licenziata in tronco e sarebbe andata a casa presto; secondo, perché lei viveva con un uomo, Sammy Cole, e non poteva essere sicuro di non incontrare proprio Sammy.
— Però — disse Sweeney — Lola non è stata ammazzata in casa, ma nel passaggio fra due palazzi. Certamente era stata seguita. E altrettanto è stato per Stella Gaylord, seguita fino all’imbocco del vicolo. Però lo Squartatore non ha usato sempre la stessa tecnica del pedinamento. La Lang non l’ha seguita a casa: l’aspettava fuori della porta.
— Lo avete proprio studiato questo caso, Sweeney?
— Perché no? È il mio lavoro.
— Per quel che so io, non vi è stato ancora affidato. O sbaglio?
Sweeney esaminò la possibilità di dare a bere a Bline la storiella del racconto giallo per una rivista e decise di non farlo, perché Bline avrebbe potuto chiedergli quale rivista e poi controllare.
— Non proprio, capo — rispose — ma mi è stato affidato l’ultimo scorcio del caso quando Wally Krieg mi ha incaricato di fare la cronaca della Lang. E per questo io mi ci sono immedesimato, pensando che quando tornerò al lavoro, lunedì, mi darà tutta la faccenda. Ho letto i resoconti dei giornali e mi sono posto alcuni problemi.
— Per vostro divertimento?
— Perché no? Mi interessava. Voi vi occupereste ancora della faccenda, anche se non ne foste più incaricato, no?
— Credo di sì — ammise Bline.
— E l’altro alibi di Greene, quello di New York? Come fila?
Bline sogghignò. — Siete proprio deciso a tirare Greene in mezzo al pasticcio?
— Voi lo avete conosciuto, capo?
— Certo.
— Questa è la ragione. Io lo conosco da un giorno e mezzo e ritengo che il fatto che viva ancora un uomo simile è un’ottima prova che io non sono lo Squartatore. Se lo fossi, sarebbe già morto.
Bline scoppiò in una risata. — Questo è un discorso a doppio taglio, Sweeney. Anche a Greene, a quanto pare, voi piacete come lui a voi. E anche voi siete ancora vivo. Ma, per tornare all’alibi di New York, noi lo abbiamo domandato alla polizia di laggiù, che lo ha controllato: Greene è stato effettivamente segnato all’albergo dal venticinque al trenta luglio, all’“Algonquin”.
Sweeney si chinò verso di lui. — È tutto qui il controllo? L’assassinio della Gaylord è stato il ventisette, e tra Chicago e New York ci sono in tutto quattro ore di aereo. Potrebbe essere partito di là la sera e aver fatto ritorno la mattina seguente.
Bline scosse le spalle. — Avremmo cercato ancora, se ve ne fosse stato motivo. Siate onesto, Sweeney: che cosa avete contro di lui, tranne che vi ispira antipatia? Anche a me, lo ammetto. Ma, a parte questo, conosce una sola delle donne aggredite: è già un alibi, per conto mio.
— Perché credete questo?
— Quando prenderemo lo Squartatore, scommetto che scopriremo che conosceva tutte le donne oppure che non ne conosceva nessuna. Gli assassini, anche quelli che sono pazzi, hanno questo sistema, Sweeney: non colpiscono tre ignote e una conosciuta, vi do la mia parola.
— E avete controllato…?
— Diavolo, certo che abbiamo controllato. Abbiamo fatto gli elenchi più completi possibile di tutti quelli che conoscevano tutte e quattro le vittime e abbiamo confrontato gli elenchi. Un solo nome è apparso su due liste e ciò è dovuto molto probabilmente a una coincidenza.
— Chi è?
— Raoul Reynarde, il padrone del negozio che ha scacciato la Brent il giorno dell’assassinio. È risultato che conosceva vagamente anche la Gaylord.
— Buon Dio, e come?
— Vedo che lo avete conosciuto — sogghignò Bline. — Ma perché non avrebbe dovuto aver contatti con la Gaylord? C’è un mucchio di gente che ha delle donne per amiche. Voi avete degli uomini per amici, no? Comunque, era una amicizia superficiale, a quanto è risultato sia dalle parole di Reynarde sia da quelle degli altri amici della Gaylord che sono stati interrogati.
— Ma allora poteva conoscere anche le altre due. Non è facile provare che non abbia incontrato…
— In uno dei casi, no, ma non possiamo interrogare Dorothy Lee. Abbiamo potuto solo fare domande ai suoi amici, e nessuno di loro aveva sentito nominare Reynarde. Potevamo, e lo abbiamo fatto, interrogare la ballerina: ma Iolanda Lang non ha riconosciuto né il nome, né la fotografia.
— Avete controllato anche gli alibi?
— Ottimi in due casi, specialmente quello della Brent. Non avrebbe potuto seguirla a casa, dopo averla licenziata, senza essere costretto a chiudere il negozio ed è invece evidente e provato che non lo chiuse.
Sweeney sospirò. — Allora cancelliamolo. Io propendo ancora per Doc Greene.
— Sweeney, siete un maniaco. Tutte le vostre ragioni sono che quell’uomo non vi piace. Ma non esiste altro punto a suo sfavore: abbiamo molti altri ben più sospetti di Greene.
— Volete alludere a me?
— Infatti, intendevo proprio voi. Vedete, non avete l’ombra di un alibi per nessuno degli omicidii. C’è il vostro estremo interessamento per tutta la faccenda e il fatto che voi siete psichicamente piuttosto sbilanciato, altrimenti non sareste un alcolizzato. E che, in uno dei quattro casi, vi abbiamo trovato sulla scena del delitto nell’ora del delitto stesso. Non sostengo che sia sufficiente per incriminarvi, però è più di quanto abbiamo raccolto su chiunque altro. Se voi non foste…
— Se non fossi?…
— Lasciamo andare.
— Capisco — rispose Sweeney — se non fossi un giornalista, volevate dire, probabilmente mi mettereste dentro e mi strappereste quel che so. Ma pensate che scriverò ancora sul caso e che non potreste trattenermi per molto tempo e, una volta fuori, le colonne del “Blade” farebbero un bel chiasso sull’ispettore di polizia incaricato del caso dello Squartatore.
Il sorriso di Bline fu piuttosto imbarazzato. — Immagino che sia quasi così Sweeney, ma dannazione, non potreste indicarmi qualche elemento per cancellarvi dalla lista dei sospetti e non farmi perdere tempo con voi? Ci deve pur essere modo di verificare dove eravate durante almeno uno degli assassinii.
Sweeney fece un gesto di diniego. — Vorrei che ci fosse, capo — disse, guardando l’orologio — ma ditemi voi quale. Io farò qualcosa di meglio: vi offrirò qualcosa da bere, all’“El Madhouse”. Il primo spettacolo comincia fra pochi minuti, alle dieci. Sapete che la ragazza stasera riprende a ballare?
— So tutto. Tranne il nome dello Squartatore. Stasera avevo già intenzione di andar là a dare un’occhiata. Andiamo pure.
Sulla soglia, voltandosi a spegnere la luce, Sweeney guardò la statuetta nera sulla radio, la sottile fanciulla nuda, dalle braccia tese a proteggersi contro un invisibile persecutore, mentre un silenzioso grido era raggelato per l’eternità sulle sue labbra. Le ammiccò e le inviò un bacio sulla punta delle dita, prima di girare l’interruttore e seguire Bline giù per le scale.
In Rush Street presero un taxi. Sweeney ordinò all’autista: — All’“El Madhouse” — poi si abbandonò sullo schienale per accendersi una sigaretta. Guardò Bline che, con gli occhi chiusi, si era sdraiato sul sedile, e gli disse: — Voi non pensate seriamente che io sia lo Squartatore, capo. Perché non vi abbandonereste così.
— Così come? — La voce di Bline suonava bassa e morbida. — Sorvegliavo le vostre mani e vi lasciavo credere di essere a occhi chiusi. Nella mia tasca destra c’è una rivoltella, puntata contro di voi, con la mano già pronta che la impugna. Potrei adoperarla più in fretta di quanto voi usereste il coltello, se accennaste a farlo.
Sweeney scoppiò a ridere.
E poi si domandò che cosa ci fosse di divertente.
X
L’“El Madhouse” era affollato e a Sweeney parve strano non averlo previsto. Con tutta la pubblicità che era stata fatta intorno a Iolanda Lang, Sweeney pensò che avrebbe dovuto immaginare la folla raccolta nel locale. Entrando, poté scorgere fermo alla porta interna il cameriere che allontanava i clienti. Sopra alle spalle del cameriere, vide che c’era un numero di tavoli maggiore del solito, addossati l’uno all’altro nel salone, e tutti erano affollati.
Un’orchestra di tre elementi, né buoni né cattivi, stava suonando in fondo al salone, e una donna con un sasso in gola cantava una complicata canzone che doveva essere il primo numero del programma. Dalla sala esterna, con il bar, era però impossibile scorgere il palcoscenico.
Sweeney grugnì disgustato, ma Bline lo prese sottobraccio e lo condusse verso un tavolo da cui si alzava in quel momento una coppia. Conquistarono le sedie e Bline disse: — Non abbiamo bisogno di entrare subito: lo spettacolo è appena cominciato e Iolanda non comparirà per altri quaranta minuti.
— Sa il diavolo come riusciremo ad arrivarci, là. A meno che… Iolanda stessa mi ha invitato a venire, e forse ha avuto più buon senso di me e mi avrà prenotato un tavolo. Vado a vedere; voi potete intanto tenermi il posto… — e fece il gesto di alzarsi.
— Sedetevi e state calmo — disse Bline — siete scortato dalla polizia e possiamo entrare là dentro quando vogliamo, anche se per noi dovessero mettere le sedie sopra i tavoli. Però non credo che lo dovranno fare; ho detto a uno dei ragazzi di riservarmi un posto e ci potremo aggiungere un’altra sedia per voi.
Afferrò al volo per un braccio un cameriere che passava, dicendo: — Mandami Nick, per favore, subito.
Il cameriere cercò di liberarsi. — Nick è occupato. Stiamo tutti diventando matti, stasera. Bisogna che voi…
La mano libera di Bline fece balenare per un attimo la piastrina d’argento dietro il bavero della giacca, mentre ripeteva: — Mandami Nick.
— Chi è Nick? — domandò Sweeney, mentre il cameriere svaniva tra la folla.
— È il gerente del locale, a nome di Yahn — sogghignò appena. — Non che io abbia proprio bisogno di vederlo, ma è l’unica maniera per ottenere da bere subito. Che cosa prendete?
— Whisky. Forse dovrò comperarmi anch’io una di quelle placche. È un buon sistema, se funziona sempre.
— Funziona — rispose Bline, e alzò gli occhi verso un uomo vivace e tarchiato che si avvicinava al tavolo. — Ehi, Nick. Tutto sotto controllo?
L’uomo tarchiato brontolò, in risposta: — Se non ci fossero tanti piedipiatti si starebbe meglio. Quattro poliziotti in sala portano già via posto abbastanza, e adesso arrivate anche voi!
— C’è anche Sweeney, Nick. Questo è Sweeney, del “Blade”, è venuto anche lui. Non puoi trovare una sedia in più anche per lui?
Nick sorrise e Sweeney a quel sorriso si aspettava che addirittura si fregasse le mani in segno di gioia. Invece si limitò a porgerne una a Sweene. — È tutto a vostra disposizione, signor Sweeney. Ho letto il vostro articolo. Ma ci è anche costato.
— Diavolo, e come?
— Greene. Ci sta facendo pagare bene l’importanza che ci dà la sua cliente. — Si volse ad afferrare al volo un cameriere, lo stesso che Bline aveva trattenuto poco prima. — Che cosa bevete, signori?
— Whisky e soda per tutti e due — disse Bline.
— Portane tre, Charlie, e in fretta — disse Nick al cameriere, poi aggiunse: — Un momento solo, vado a procurarmi una sedia. — Ne trovò una in qualche angolo e sedette al tavolo di Sweeney finché giunsero le bevande.
— E come fa Greene ad alzarvi i prezzi? Non ha un contratto la Lang? — domandò Sweeney.
— Certo che lo ha, per altre quattro settimane. Ma…
Sweeney lo interruppe brusco. — Greene mi ha detto per tre.
— Greene non dice la verità nemmeno per scommessa, anche quando non è necessario mentire, signor Sweeney. Se fossero state tre settimane, vi avrebbe detto quattro. Dunque, la ragazza ha il contratto fino al cinque settembre, ma c’è una clausola a parte.
— Come molti contratti — osservò Sweeney.
— Già. Secondo questa clausola, la Lang ha diritto a non lavorare se è ammalata o indisposta, e Greene ha ottenuto che uno dei medici dell’ospedale le rilasciasse un certificato secondo il quale per lo choc subito non dovrebbe lavorare per una o anche due settimane.
— Ma dovrebbe venir pagata nel periodo di interruzione?
— Certo no. Ma guardate quel che guadagnamo se lei lavora, guardate la gente che c’è stasera, ed è anche di quella che spende. Visto che Doc ci teneva per il collo, abbiamo dovuto offrire un extra enorme che le facesse dimenticare lo choc. Un extra… quel che Doc chiama un regaletto.
— Ma è in condizioni di ballare, stasera? — domandò Sweeney. — Perché ha veramente sofferto per lo choc, l’ho ben visto sulla sua faccia quando si è alzata nell’atrio.
— Non avete parlato della sua faccia, nel pezzo!
— Ma l’ho vista. Prima che il cane tirasse la cerniera del vestito. Di’, Nick, come mai sotto quel vestito non aveva neppure un paio di slip e un reggiseno? Non ho pensato di chiederlo prima, ma, a meno che la polizia non abbia cambiato le sue norme, avrebbe dovuto indossarli, per lo spettacolo.
— Non li aveva davvero? Credevo che voi aveste un poco esagerato per migliorare il pezzo.
— Dio m’aiuti se l’ho fatto — dichiarò Sweeney.
— Bene, può anche darsi. Noi qui abbiamo un bello spogliatoio con doccia, e mercoledì era una serata caldissima. È probabile che dopo l’ultimo spettacolo abbia fatto una doccia e non abbia voluto infilarsi nulla sotto il vestito per andare soltanto fino a casa a dormire. O qualcosa del genere.
— Se fosse stato qualcosa del genere, non sarebbe stata sola — notò Sweeney — ma qui usciamo dall’argomento. Non è un po’ presto perché ricominci a lavorare?
— No. Se anche ha avuto lo choc, le è passato con la notte di sonno. La graffiatura era proprio soltanto una graffiatura: ha un cerotto lungo sei pollici sopra la ferita, è quello che i clienti pagano per vedere. — Spinse indietro la sedia e si alzò. — Ora ho da fare. Volete entrare? C’è da aspettare ancora una mezz’ora, ma lo spettacolo non vi annoierà troppo.
La voce di un fantasista che raccontava spiritosaggini, giungeva dalla sala, e tanto Sweeney che Bline scossero il capo. — Quando vorremo entrare, vi chiameremo.
— Certamente, intanto vi manderò altre due bibite.
Se ne andò, riportando la sedia nel posto in cui l’aveva presa.
Sweeney domandò a Bline: — Iolanda fa un numero solo?
— Adesso sì. Prima del fattaccio ne faceva due. Un ballo vero e proprio come primo numero e poi il numero del cane. Ma Nick mi ha detto oggi pomeriggio che nell’accordo nuovo hanno deciso che farà solo il numero del cane in ogni spettacolo. Non che questo importi molto, perché avranno sempre una folla così a vederla, sia che faccia un numero o due. Arrivarono i loro bicchieri, e Bline, dopo aver contemplato il proprio per qualche istante, squadrò apertamente Sweeney. — Forse sono stato un po’ troppo rude con voi, stasera, Sweeney. In taxi, voglio dire.
— Sono stato contento che vi siate comportato così — rispose Sweeney.
— Perché? Così potrete attaccarmi sul “Blade” con la coscienza tranquilla?
— Non per questo. Per quanto ne so io, voi non meritate nessun attacco, per il modo con cui avete condotto l’inchiesta. Ma ora posso tenervi testa con la coscienza tranquilla.
Bline corrugò la fronte. — Non potete negare l’evidenza, Sweeney. Che cosa significa tenermi testa? — Si piegò in avanti, improvvisamente attento. — Avete forse notato qualcosa, ieri notte, in State Street, di cui non avete parlato nell’articolo? Avete riconosciuto forse qualcuno o avete visto qualcosa di sospetto? Se è così…
— No. Su questo ho detto la verità e nient’altro che la verità. Cioè, se occupandomi della faccenda e facendo i miei interrogatori e le mie ricerche ho messo le mani su qualcosa che voi non avete osservato, è affar mio. Almeno fino a quando io non abbia raccolto abbastanza da battervi nel risolvere il caso.
Bline disse: — Decidiamo subito e qui come stanno le cose. Mi date la vostra parola d’onore di rispondere sinceramente a una domanda?
— Se risponderò, sarà sinceramente. Purché la domanda non sia per caso se io sono lo Squartatore!
— No. Se lo siete, non posso aspettarmi una risposta sincera. Perciò vi pongo la domanda, supponendo che non lo siate. Ma, perdio, vi assicuro, Sweeney, che se non mi rispondete, “Blade” o non “Blade”, vi schiaffo dentro e vi faccio sputare tutto. E lo stesso succederà se mi raccontate una storia. Voi avete scoperto o presumete di scoprire chi sia lo Squartatore? Di vista o di nome, potete sospettare di qualcuno?
— No, con esattezza no. Tranne Doc Greene, e per lui non ho un briciolo di prove, se non che vorrei che fosse lui.
Bline si riappoggiò allo schienale della sedia, esclamando: — Allora, va bene. Ho tutto un gruppo di uomini alle mie dipendenze per questo lavoro e in più ho l’intero corpo di polizia pronto a dare una mano. Se voi avete trovato qualcosa che noi non abbiamo visto, è un vostro gioco. È facile che vi procuri un coltello nello stomaco, ma anche questo è affar vostro.
— Allora andiamo d’accordo, capo. E per queste parole amichevoli, specialmente riguardo al coltello, vi perdonerò di avermi sottratto rasoio e temperino, senza avvertirmi, e vi perdonerò di avermi fatto morire di spavento quando me ne sono accorto. Perché non mi avete lasciato un messaggio per spiegarmi la faccenda?
— Volevo vedere la vostra reazione, Sweeney. Se voi foste stato lo Squartatore, non trovandoli, vi sareste spaventato molto di più, avreste fatto un passo falso e vi avremmo preso. Sapete, Sweeney, ho deciso proprio che voi non siete lo Squartatore.
— Molto gentile da parte vostra, capo. Ma vi sfido a dirlo a tutti i vostri ragazzi. Perché, logicamente, sono stato seguito, finché pensavate che lo fossi.
— Oggi sì. Ieri non ci sono riusciti. Ma adesso credo che vi toglierò l’angelo custode, tanto più che ormai ne siete al corrente.
— Io vi suggerirei di passarlo a Doc Greene. Dite, non è stato per caso un discorsino di Doc a suggerirvi per la prima volta l’idea di sospettare me?
Bline sorrise. — Come vi volete bene voi due! E questa è già una risposta alla vostra domanda. Bene, ora che ne direste di entrare? Fra dieci minuti sarà il suo turno.
Trovarono Nick ed egli li guidò oltre il grosso cameriere che sorvegliava la porta. Mentre si facevano strada faticosamente negli stretti passaggi fra i tavoli, c’era di nuovo la cantante con il sasso in gola che sillabava la sua canzone. Non c’erano tavoli da tête-à-tête, pensò Sweeney, in una serata simile: ogni tavolo aveva almeno quattro persone, tranne quelli dove ce n’erano cinque o sei.
Avevano appena cominciato ad attraversare la sala, che Sweeney si sentì afferrare per un braccio e, volgendosi, vide Bline piegarsi verso di lui, per dirgli a bassa voce, in modo che lui solo potesse udirlo: — Ho dimenticato di dirvi, Sweeney, di tenere gli occhi ben aperti qui dentro. Guardate tutte le facce e vedete se c’è qualcuno che ricordate di aver incontrato al portone in State Street. Capito?
Sweeney annuì. Poi riprese a seguire Nick, ma intento a scrutare il maggior numero possibile di facce lungo il percorso. Non che credesse di poter riconoscere una qualunque persona che avesse assistito insieme con lui allo spettacolo del mercoledì notte: tutto quel che aveva scorto fuori dell’atrio erano state delle schiene. Ma provare non nuoceva, e la supposizione di Bline, che lo Squartatore potesse essere venuto sul davanti della casa per unirsi all’altra gente, appariva ragionevole. E altrettanto gli sembrava ammissibile l’ipotesi che lo Squartatore fosse in quel momento in sala.
Nick li condusse a un tavolo dove erano già seduti tre uomini: c’era una sedia vuota, appoggiata a un angolo del tavolo. Disse: — Vi manderò un cameriere con un’altra sedia, potete stringervi un poco. Lo stesso da bere, voi due?
Bline accettò, dicendo: — Sedete, Sweeney. Voglio parlare a qualcuno dei ragazzi, prima di mettermi a posto.
Sweeney prese la sedia e osservò i suoi tre compagni, tutti intenti alla cantante e indifferenti alla sua presenza. Uno di loro gli era quasi familiare, ma gli altri erano sconosciuti. Guardò la cantante: non era spiacevole da vedere, ma avrebbe preferito non doverla anche ascoltare.
Prima che Bline tornasse, arrivarono la sedia e i liquori. Sweeney si scostò per fare posto al capo e Bline lo presentò agli altri tre. — Sweeney… Ross, Guerney, Swann. Novità, ragazzi?
Il giovanotto chiamato Swann rispose: — Quel tizio al tavolo d’angolo si è un po’ agitato, lo tengo d’occhio: è quello con il garofano all’occhiello. Ma forse è soltanto ubriaco.
Bline gettò un’occhiata nella direzione indicata, poi disse: — Non credo. Lo Squartatore non richiamerebbe l’attenzione su di sé vestendosi a quel modo e col fiore, per di più! Né penso che lo Squartatore vada in giro sbronzo.
— Grazie per questa opinione — intervenne Sweeney.
Bline si rivolse a lui. — Visto qualcuno che potrebbe essere stato al portone quella notte?
— Solamente il giovanotto davanti a me, che mi avete presentato come Guerney. Non era uno dei poliziotti intervenuti là?
Udendo il proprio nome, Guerney si era voltato. — Sì. Sono stato io a sparare al cane.
— Bel colpo — osservò Sweeney.
Bline disse: — Guerney è uno dei migliori tiratori del dipartimento. E anche il suo compagno, Kravich, che è al bar a guardare la gente che entra ed esce.
— Non l’ho notato.
— Ma lui ha notato voi. Quando siete entrato, l’ho visto scattare nella vostra direzione, poi, accorgendosi che io vi accompagnavo, si è fermato. Ero sicuro che non ve ne foste accorto.
— No, e ora silenzio… — pregò Sweeney. L’annunciatore era apparso sul palcoscenico (erano riusciti a ottenere un palcoscenico, per quanto piccolo, profondo otto piedi e largo dodici), per presentare in qualche maniera Iolanda Lang e la sua danza, ormai di fama mondiale, della «Bella e la Bestia».
Il discorsetto non meritava per la verità molta attenzione: l’annunciatore aveva rinunciato al suo spirito ironico ed era pateticamente idiota, pensò Sweeney. Cercò di non ascoltare l’orazione sul coraggio della brava, forte, piccola donna che si era alzata dal suo letto di dolore per obbedire al richiamo dell’arte e al desiderio del suo pubblico, per rivivere dinanzi a esso la più sensazionale e meravigliosa danza del mondo, con l’aiuto del cane più meravigliosamente istruito del mondo, il cane che era anche il più coraggioso, che aveva coraggiosamente salvato la vita della padrona, rischiando la propria, ed era anche stato colpito, ma coraggiosamente aveva… Sweeney non poté sopportare il seguito e disse a Bline: — Chi crede di presentare quell’imbecille? Giovanna d’Arco?
Bline sussurrò: — Ssst… — e Sweeney dovette prestare ascolto per altri quarantacinque secondi, poi, grazie al cielo, la storia finì: nulla può durare in eterno, nemmeno un presentatore con un’incredibile capacità drammatica. Le luci si abbassarono e la sala divenne silenziosa. Miracolosamente quieta come se le duecento persone trattenessero tutte il respiro. Avreste potuto udire distintamente lo scatto dell’interruttore, quando il riflettore si accese in fondo alla scala, proiettando sul palcoscenico un cerchio vivo di luce gialla. Tutti gli sguardi erano fissi su quel cerchio, a sinistra del palcoscenico. Un tamburo cominciò a battere in sordina e il suo ritmo costrinse Sweeney a rivolgere l’attenzione al trio orchestrale: non c’era più. Cioè, due terzi del trio erano scomparsi, il pianista e il sassofonista. Il batterista aveva abbandonato tutti i suoi strumenti e sedeva davanti a un solo grande tamburo, dal suono basso, con due bacchette dalle grosse teste imbottite.
“Bello” pensò Sweeney e si domandò se il merito di quell’innovazione andasse a Iolanda o al suo agente. Era un ritmo ossessivo, senza musica, poiché neppure il più rumoroso dei batteristi riuscirebbe a creare una melodia, con delle bacchette imbottite, fuori della portata dei suoi timpani e campanelli e piatti vari.
Il tamburo rimbombava con un lento crescendo, e la luce si oscurò del tutto: nell’oscurità avreste potuto cogliere l’ombra di un movimento, poi d’improvviso il cerchio giallo si riaccese luminoso, e Iolanda ne era al centro, immobile.
Era splendida, su ciò non esisteva possibilità di dubbio. L’immagine che Sweeney aveva conservato nella sua mente non era neppure vagamente esagerata. In quell’attimo pensò che Iolanda era la donna più bella che avesse mai visto e dal sospiro collettivo del pubblico comprese di non essere il solo a provare quella sensazione. Ma che cosa faceva, rifletté, una donna simile in un locale come quello, nella Clark Street di Chicago? Anche se non fosse stata capace di ballare…
Indossava un abito uguale a quello che l’aveva coperta nell’atrio, tranne che questa volta era nero e non bianco. Era anche meglio, notò Sweeney, nel contrasto di nero e bianco. Non aveva spalline e modellava carezzevole ogni curva del suo corpo.
Era a piedi nudi e l’abito era palesemente l’unico indumento che la copriva. Non portava né guanti, né bolero, né sciarpe, non vi era un passaggio graduale dal nero al bianco, alle spalle: sembrava che un lampo si sprigionasse, dall’abito alla carne.
Il tamburo batteva sempre.
L’avreste creduta una statua, e poi, tanto lenta che all’inizio non lo si notava, prese a muoversi, volgendo soltanto la testa.
E i vostri occhi dovevano seguire i suoi: allora vedevate anche voi, come lei, l’ombra accovacciata all’altro lato del palcoscenico: Demonio, il cane. Ma in quel momento non aveva più nulla del cane, era solo un demonio. Stava rannicchiato, le labbra tirate indietro in un silenzioso balenare di denti candidi, gli occhi gialli lucenti nell’ombra.
Il tamburo si abbassò fino a non udirsi quasi più. E in quel silenzio quasi assoluto, il cane ringhiò forte: fu lo stesso, preciso suono che Sweeney aveva udito due notti prima, che gli dava un brivido per la schiena e che glielo diede anche in quel momento.
Ancora mezzo accucciato, l’animale alzò una zampa rigida verso la donna, ringhiò di nuovo e si preparò a saltare.
Un improvviso movimento al tavolo costrinse Sweeney a distogliere lo sguardo dalla scena: nel medesimo istante la mano di Bline afferrava attraverso il tavolo il braccio di Guerney. Il poliziotto impugnava la rivoltella.
Bline mormorò rudemente: — Maledetto idiota, fa parte della scena. È istruito apposta per far così, non vuol farle del male.
Guerney bisbigliò in risposta: — Tanto per esser pronto. Nel caso che le saltasse addosso. Lo prenderei prima che le arrivasse alla gola.
— Metti giù quell’arnese, dannato imbecille, o ti butto fuori.
La rivoltella tornò lentamente nella fondina, ma Sweeney si avvide che la mano di Guerney restava appoggiata all’impugnatura.
Bline insisté. — Non fare il franco tiratore! Il cane le salta addosso perché è così nella scena, perdio!
La mano di Guerney uscì dalla giacca, ma rimase accanto al bavero. Gli occhi di Sweeney si volsero di nuovo alla scena, mentre un singhiozzo risuonava nel silenzio del pubblico. Era una donna al tavolo vicino al palco, che aveva emesso un grido strozzato.
Il cane spiccò un balzo. Ma anche la donna si era mossa di fianco e la bestia le passò accanto, una saetta scura, e si accovacciò di nuovo per ritentare il salto, mentre lei si riportava al centro della scena. Di nuovo, quando l’animale scattò, non c’era più. Sweeney si domandò se avrebbe continuato all’infinito così, ma non continuò: era l’ultima volta. Il cane, come se si fosse persuaso che non sarebbe riuscito a coglierla, si era accucciato in mezzo al palco, mentre lei gli danzava intorno, e la seguiva con lo sguardo.
La ragazza sapeva ballare; bene, se non magnificamente, e con grazia, seppure senz’anima. Il cane, senza più ringhii, si girava per non perderla di vista, coi suoi occhi gialli. Allora, presso la Bestia ormai domata, la Bella si inginocchiò e gli pose una mano sul capo: un ringhio ancora, ma la carezza fu tollerata.
Il tamburo riprese, a ritmo accelerato. E Iolanda si alzò con eleganza in piedi di fronte al pubblico, in mezzo al cerchio di luce gialla che già accennava ad abbassarsi, gradatamente, mentre il cane si alzava dietro di lei. Si sollevò sulle zampe posteriori, alto come lei, e mentre ricadeva a terra, i denti afferrarono il fermaglio della cerniera e tirarono.
L’abito nero cadde, all’improvviso, come quello bianco, ai suoi piedi.
Era incredibilmente bella, pensò Sweeney, benché fosse troppo coperta. Troppo coperta sul petto da una lievissima rete trasparente, a maglie larghe, diafana come l’aria, che sembrava accentuare invece che coprire la bellezza dei suoi seni; troppo coperta da un minuscolo cache-sex, che nella luce bassa poteva anche non esserci e alla cui esistenza si doveva credere per fiducia nella serietà della squadra del buon costume di Chicago; troppo coperta da un altro oggetto: un nastro adesivo nero di quindici centimetri, che si stendeva dall’ombelico al seno. E il contrasto di quel nero sul bianco accentuava la sua nudità, mostrandola ancora più nuda di quanto Sweeney l’aveva contemplata due notti prima.
Il tambureggiare pian piano si abbassò. Iolanda alzò le braccia, stendendo nel gesto i seni, e allargò le gambe; il cane entrò sotto quell’arco e rimase così, con la donna a cavalcioni sul dorso, e la sua testa si alzò per sfidare chiunque ad avvicinarsi a quella che era ormai sotto la sua protezione.
— Cerbero che sorveglia l’ingresso del paradiso — bisbigliò Sweeney a Bline.
— Che? — replicò Bline.
Il suono del tamburo andò ancora abbassandosi e la luce diminuì fino a scomparire. Quando si riaccesero le lampade in sala, il palcoscenico era vuoto.
All’improvviso riapparire delle luci, tutti balzarono in piedi: il pubblico applaudiva frenetico, ma Iolanda non riapparve, nemmeno una volta.
Superando il chiasso, Bline domandò a Sweeney: — Che cosa ve ne pare?
— Del ballo o di lei?
— Del ballo.
— È probabile che sia un simbolo, ma simbolo di che cosa, lo sa il diavolo! Credo che nemmeno il coreografo lo sapesse. Se pure c’è stato un coreografo. Secondo me, è una creazione di Doc Greene. È abbastanza intelligente e abbastanza di gusto… col suo temperamento italiano.
— Greene non è italiano — ribatté Bline. — Piuttosto penso che sia tedesco.
Sweeney si risparmiò la risposta perché Guerney si era voltato e Bline lo guardava minacciosamente. — Pezzo di cretino, per poco non ti toglievo la pistola per farti andare in giro senza…
Guerney arrossì. — Non avrei sparato, capo, se non…
— Se il cane non le fosse saltato addosso. E lo ha fatto, per due volte. Buon Dio, ma sarebbe stato un disastro, per noi!
Sweeney provò un certo dispiacere per il poliziotto e disse: — Se avessi sparato a quel cane, Guerney, ti avrei difeso!
Bline replicò: — E gli avreste fatto un gran bene!
La comparsa di Nick al loro tavolo risparmiò a Guerney ulteriori frecciate.
— Ancora qualcosa da bere, signori? — disse Nick. — Vi è piaciuto lo spettacolo? Certo che quel cane lo ha ammaestrato bene, no?
Sweeney osservò: — Certo che mantiene in simili circostanze un sangue freddo che io non saprei mantenere!
— Neanch’io — disse Guerney e accennò un principio di sorriso, ma, cogliendo uno sguardo di Bline, comprese di essere ancora in disgrazia. — Voglio dire che vorrei vedere chiunque… cioè, credo che saprei mantenerlo… Scusatemi. — E filò via in mezzo ai tavoli.
Nick si accomodò sulla sedia rimasta libera, annunciando: — Mi fermo un minuto finché torna. Avete osservato qualcosa di interessante durante lo spettacolo, capo?
Sweeney intervenne. — Tutto quello che non era coperto. Sapete, qualche volta penso che mi piacerebbe anche vederla senza nulla addosso.
Nick lo fissò. — Credevo, secondo il vostro articolo…
Sweeney scosse il capo con malinconia. — Guanti. Portava dei lunghi guanti, bianchi.
Bline brontolò: — Questo ragazzo è un maniaco, Nick. Cosa intendevi dire, domandandomi se avevo osservato qualcosa durante lo spettacolo?
Nick si chinò in avanti. — Solo questo: nel momento in cui la ragazza è ferma, davanti al pubblico, in mezzo al palco, mentre la luce si abbassa. Vedete, io non posso correre rischi cambiando lo spettacolo (non che importi, perché avrei la folla così, anche per sentir cantare Annie Laurie) ma sono preoccupato. Non vorrei che la ammazzassero, perché se lo Squartatore venisse qua, quello sarebbe il momento buono.
— Forse, ma in che modo?
— La sala è al buio, quasi per tutto il tempo. E se gli saltasse in mente di tirare fuori il suo rasoio, sarebbe difficile scoprire da dove è arrivato.
Bline restò pensieroso per qualche minuto, poi fece segno di no. — Mi sembra molto improbabile, Nick. A meno che non si tratti di un lanciatore di coltelli, gli occorrerebbero mesi per far pratica. E non credo che userebbe una rivoltella: quelli come lui si fermano su un’arma sola e su un solo modo di impiegarla. Non credo nemmeno che la ucciderebbe in pubblico, comunque. Secondo me, il pericolo vero è nel tempo che impiega per andare da qui a casa sua, o da casa a qui. E di questo ci stiamo già occupando.
— Per quanto tempo continuerete?
— Fino a che avremo preso lo Squartatore, Nick. In ogni caso, senz’altro finché lavorerà qui dentro. Perciò tu puoi stare tranquillo.
— Avete messo qualcuno a perquisire il suo appartamento, prima che ci entri lei?
Bline si seccò. — Senti, Nick, non vado a raccontare a nessuno quali precauzioni prendiamo e non prendiamo. Specialmente con un giornalista vicino che lo andrebbe a scrivere subito sul giornale, finendo col mettere in guardia l’assassino.
— Grazie per questo riconoscimento alla mia qualità di reporter — disse Sweeney — però il suggerimento di perquisire la casa prima che lei ci entri è buono, se non lo fate già. Se fossi io lo Squartatore e volessi colpirla, non ci riproverei per strada; starei sotto il letto ad aspettarla. Demonio dorme in camera con lei?
Bline lo guardò con intenzione. — Questo è riservato, da non pubblicare. Però ci dorme.
— E quanto al lanciatore di coltelli — insisté Nick — se riuscisse a tirarlo?
Sweeney disse: — Eccolo che arriva. Chiedetegli se ci riuscirebbe.
XI
Doc Greene avanzava verso di loro, aprendosi la via faticosamente tra la folla che usciva dopo lo spettacolo, con un sorriso soddisfatto sulla faccia rotonda che Sweeney avrebbe volentieri riempito di pugni.
Bline si voltò a guardare ostentatamente l’uomo che si avvicinava e poi si volse con aria disgustata verso Sweeney. — Voi e quel maledetto tipo!
Anche voi forse vi sareste disgustati di lui e in questo caso non ho nulla da dire a suo favore. Era davvero un maledetto tipo, e sapete anche voi che cosa può nascere tra un tipo così e un testone irlandese; se anche non lo sapevate al principio del libro, adesso ne siete informati. Quando un verme come quello si imbatte in un irlandese, ne può scoppiare un’esplosione. Oppure, caso molto migliore, l’irlandese può cercare di appurare se il tipo-verme è in grado di sfuggire a un’incisione praticata con un rasoio o un coltello. E questo fu lì lì per accadere, ma non ancora, non in quel momento, in cui Doc si avvicinava con un grosso sigaro, ma senza coltelli.
Nick si alzò e disse: — Salve, Doc. Bene, io devo andare. Arrivederci a tutti. — Doc gli fece un cenno di saluto e domandò a Bline se gli era piaciuto il numero.
— Grande — rispose Bline. — Accomodatevi, Doc.
Guerney, tornando, si fermò esitante davanti alla sua sedia occupata. Bline si voltò verso di lui per dirgli di andare a prendere una boccata d’aria fresca. E Guerney si allontanò.
Doc Greene fece una specie di sorriso a Sweeney. Non era un bel sorriso. E disse: — Devo chiedervi se vi è piaciuto?
— No — rispose Sweeney — ho sentito che avete pelato Nick, o meglio Harry Yahn, di mille dollari.
— Non lo chiamerei pelare. Iolanda non avrebbe dovuto lavorare così presto dopo l’incidente, perché è un pericolo per la sua salute. È logico perciò che meriti un extra per farlo.
— Lo ha ottenuto?
— Naturalmente, e io come suo agente ho la mia percentuale.
— Di quanto è?
— Questo è affar mio.
— E un buon affare — replicò Sweeney. — Sapete, Doc, c’è una cosa che vorrei domandarvi.
— Potrei anche rispondere, forse.
— Come mai Iolanda balla in un locale di questo genere? È una sciocchezza, dato quello che voi potreste trovarle.
— Lo so bene. Ma qui abbiamo un contratto, ve l’ho detto, e Yahn non ce lo lascia rompere. Sapete che cosa si prende qua dentro? Solo duecento alla settimana. Adesso potrei trovarle facilmente anche mille dollari alla settimana, ma siamo legati per un altro mese. E per il momento…
— Non cambiate discorso — lo interruppe Sweeney. — Quel che domando io è perché Iolanda lavora in un posto da duecento dollari alla settimana. Anche senza pubblicità, dovrebbe trovarsi molto più su che in una Clark Street.
Greene allargò le braccia. — Voi forse sapreste fare meglio di me. È facile parlare, Sweeney. Solo che voi non avete avuto occasione di trovarvici. Io l’ho presa con un contratto.
— Per quanto tempo?
— Anche questo è affar mio.
— Io penso — insisté Sweeney — che non le abbiate trovato nulla di meglio come scritture, per vostri motivi personali.
— Siete sempre pieno di idee. Volete suggerirmi uno di tali motivi?
— Lo posso indovinare facilmente. Ma posso anche fare un’altra ipotesi. — Sweeney, con una rapida occhiata, si assicurò che Bline li stava ascoltando.
— Questa, per esempio: forse lo Squartatore non ha mai attaccato Iolanda. Forse è stata solo una trovata pubblicitaria. Nessuno ha visto lo Squartatore aggredirla. E forse siete stato voi a combinare la scena: la signorina può essersi ferita da sé con un, diciamo, rasoio, facendosi un taglietto e poi può essersi lasciata andare in terra, finché qualcuno di fuori l’ha vista.
— E ingoiandosi probabilmente anche la lama del rasoio?
— Potrebbe averla lasciata cadere, per esempio, nella sua casella delle lettere, dato che si trovava in piedi proprio vicino alle caselle.
Bline intervenne. — No, Sweeney. L’atrio è stato tutto perquisito, comprese le caselle della posta. Nessun’arma. E non ne aveva neppure nelle scarpe o nei vestiti. È stata perquisita anche lei, all’ospedale. Non crediate che non abbiamo immaginato la possibilità che tutto fosse un trucco.
Sweeney esclamò impulsivamente: — Doc poteva esserci anche lui e può essersi portato via la lama altrettanto bene come lo Squartatore poteva esserci e andarsene con la propria arma.
Greene si inchinò ironicamente. — Grazie, Sweeney, per aver implicitamente ammesso per la prima volta che lo Squartatore non sono io.
— Non ditelo. E poi, capo, c’è un’altra ipotesi, a cui forse avete già pensato. La ferita era leggerissima, tanto da non immobilizzare la donna. Come potete essere sicuro che si trovasse già nell’atrio? Potrebbe anche essere arrivata a casa, essersi recata nell’appartamento, essersi ferita col rasoio, poi averlo lavato e gettato via e infine esser tornata di sotto a gettarsi per terra, aspettando che qualcuno la trovasse.
Bline rispose: — Ci abbiamo pensato. Ci sono molti punti in contrario, di poca importanza, e uno di grande portata: tra i piccoli punti le graffiature sulla porta, che potrebbero anche essere state fatte, lo ammetto, appositamente. E c’è il fatto che occorrerebbe una bella forza di nervi per ferirsi a quel modo. Certo si può anche farlo. E un’altra piccola cosa: come essere certi che voi vi trovaste là, Sweeney, per scrivere il vostro articolo, senza essere d’accordo? O l’accordo c’era?
Sweeney sogghignò. — Ma sicuro! È per questo che io ne ho parlato! Doc non mi ha dato la mia percentuale e io mi vendico di lui. Ma quale sarebbe la prova vera che la mia congettura è sbagliata e che non si è trattato di un trucco?
— Lo choc, Sweeney. È rimasta in quello stato per dodici ore solamente, è vero, ma quando l’hanno ricoverata all’ospedale, era davvero in preda a un forte choc. Forte e genuino. Ho parlato con i dottori che l’hanno curata, e sono concordi nel dichiarare che non può averlo finto, e che non è stato provocato da droghe. Era uno choc genuino e non si può negarlo.
— Benissimo — disse Sweeney — poteva essere un’idea. Ma sono contento che sia sbagliata. Avrei fatto una pessima figura col mio articolo.
Greene intervenne con tono blando. — Riferirò a Iolanda quanto voi pensavate e quanto avete voluto suggerire alla polizia. Dopo ciò, Iolanda vi vorrà certo più bene. — Sweeney lo fissò intento. Greene sorridendo si curvò verso di lui. — Quel che mi piace in voi, Sweeney, è che le vostre reazioni siano tanto prevedibili, tanto primitive e mancanti di sottigliezza. Dovreste sapere che non farei mai una mossa così sciocca da informare Iolanda delle vostre volgari insinuazioni.
— Perché no?
— Perché io sono sottile e civilizzato. L’ultima cosa che farei sarebbe di indisporre Iolanda nei vostri confronti, per non provocare in seguito una reazione alla collera. Le donne più o meno colte e civilizzate che siano, hanno una mente acuta. Ma voi non potete capire. Però potete capire che, se avessi intenzione di raccontare tutto a Iò, non vi avvertirei, prima di farlo!
Bline stava sorridendo a Sweeney. — Mi piace questo duello. Ora tocca a voi.
— Preferirei discuterne fuori — rispose Sweeney.
— L’animale semplice — osservò Greene — e le tre caratteristiche degli irlandesi: bere, fare a pugni e… be’, la terza, nel caso di Sweeney, si riduce a un contemplare! — Si piegò ancor di più verso Sweeney e parlò senza più sorridere. — E proprio per questo vi odio profondamente, Sweeney.
— Allora la maschera è caduta, adesso — notò Sweeney, calmo. — Siete veramente uno psichiatra, Doc?
— Lo sono.
— E non vi accorgete di essere voi stesso uno squilibrato? Vedete, io non conosco i vostri rapporti con Iolanda, ed è inutile che vi affanniate a spiegarmeli, perché non sono capace di credervi, in nessun modo. Ma in ogni caso il vostro atteggiamento verso la ragazza non è sano né normale. Come suo impresario, la vedete andare a spogliarsi davanti a una folla di imbecilli, eccitati dal piacere di guardarla, e lo sopportate. Forse, anzi, vi piace addirittura. Forse siete voi la vittima di un contemplatorismo invertito, o cose simili. Io non lo so, ma voi dovreste saperlo, essendo uno psichiatra.
Bline guardava dall’uno all’altro con evidente soddisfazione. — Alt, ragazzi — intervenne — io arbitro l’incontro. Il primo che perde le staffe al punto da picchiare l’altro, perde. E forse finisce dentro.
Né Greene né Sweeney lo degnarono di un’occhiata. Sweeney continuò: — Migliaia di uomini l’avranno desiderata e avranno cercato di averla. Voi non potete aver avuto in tutti i casi la reazione che avete avuto con me; le vostre ghiandole surrenali non avrebbero resistito. Il che significa che nel mio caso si è verificato un elemento diverso. Qual è, Doc?
Greene era sul chi vive, gli occhi quasi chiusi. Si sarebbe potuto contare fino a dieci prima che egli rispondesse e disse soltanto: — Non lo so. — Appariva sinceramente imbarazzato.
— Allora ve lo dirò io. Voi sapete che io otterrò quello che voglio.
Bline doveva aver sorvegliato l’espressione di Greene perché balzò in piedi e si lanciò verso di lui, nel momento stesso in cui Greene si gettava al di sopra del tavolo contro Sweeney. La sedia di Greene si rovesciò a terra, ma l’uomo si fermò, sentendo la mano di Bline afferrargli il braccio, pur non prestando alcuna attenzione all’ispettore. Scandì piano: — Io vi ucciderò, Sweeney. — Poi si liberò della stretta del poliziotto e si allontanò.
Nick apparve all’improvviso. — Qualcosa che non va, signori?
— Tutto è delizioso — gli rispose Sweeney.
Nick guardava incerto dall’uno all’altro. — Vi mando ancora da bere?
— No, grazie, per me no — rispose Sweeney.
Bline aggiunse: — Neanche per me, questa volta, Nick.
— Non sta succedendo qualche guaio?
— No, Nick — disse Bline — ma… tutto sommato ci berrò sopra qualcosa.
Nick annuì e li lasciò. Bline si abbandonò sulla spalliera e si rivolse a Sweeney. — Sarebbe bene che foste più cauto, Sweeney.
— Ritengo che abbiate ragione, capo. Ma penso sinceramente che quell’uomo non sia normale. Ecco perché non lo sopporto e volevo dimostrarvelo.
— È naturale che non poteva parlare sul serio, minacciando di uccidervi: non lo avrebbe detto davanti a me se lo avesse pensato sul serio. Voleva soltanto impaurirvi.
— Vorrei esserne sicuro — disse Sweeney. — Se è sano di mente, sì. Ma, Squartatore o no, non scommetterei sulle sue condizioni psichiche.
— E per quel che riguarda voi personalmente?
Sweeney rise. — Posso essere squilibrato, ma non sono pazzo. — Si alzò. — Mi sembra che ci sia stato abbastanza movimento per una sola serata. Sono del parere di andarmene a casa.
— La vostra porta ha una buona serratura?
Sweeney lo scrutò. — Voi dovreste saperlo già. A meno che io non l’avessi lasciata aperta, l’altra sera, quando avete preso in prestito il mio rasoio.
Anche Bline si alzò. — Vi accompagnerò per un pezzetto di strada. Mi farà bene un po’ d’aria.
Mentre camminavano per Clark Street, Bline disse: — Se la mancanza del rasoio vi ha davvero impressionato, mi dispiace, Sweeney. È stato così: io ho mandato due ragazzi a cercar di voi per portarvi da me all’interrogatorio, giovedì notte, e ho ordinato di portare il vostro arsenale di armi, se foste stato fuori. E loro hanno un po’ esagerato. Uno dei ragazzi, non vi dirò quale, è un esperto in serrature e ama mostrare la sua abilità.
— Immagino chi è e non c’è bisogno che me lo diciate.
— Non dite sciocchezze, Sweeney. C’è un mucchio di gente nella polizia che con le serrature ci sa fare.
— Ma nella mia stanza prima di allora ce n’era stato uno solo, e chiunque altro avrebbe dovuto domandare alla signora Randall, invece di salire direttamente. E se ci fosse stata lei, non sarebbero entrati. Perciò l’individuo non può essere che quello che immagino io. Io lo giudicavo un amico.
— Dimenticate l’episodio, Sweeney. Diavolo, ragazzo, l’amicizia non conta, quando si cerca un assassino. E voi, ve l’ho detto, eravate molto sospetto. Sweeney, dobbiamo prendere quell’uomo, assolutamente, prima che faccia fuori qualche altra donna.
— Per risparmiare le donne o per salvare i vostri stipendi?
— Per tutt’e due le ragioni, credo, ma per conto mio non si tratta solo di stipendio. Non mi sono occupato della Brent due mesi fa, ma mi hanno dato anche quel caso, dopo il secondo delitto, quando si è cominciato a pensare a un pazzo maniaco. Ho visto la Gaylord all’obitorio e ho visto la Lee prima che la portassero via. Cristo, vi assicuro che non erano belle da guardare! — Si volse a fissare Sweeney. — Voi avete visto soltanto un esempio dell’opera dell’assassino e un esempio mal riuscito. Ma non sarebbe stato tanto piacevole vedere l’opera completa.
— Non ho mai creduto che fosse piacevole.
— È per questo che vorrei che voi e Doc piantaste lì la questione e non perdeste tempo ad accusarvi a vicenda di essere lo Squartatore. Sì, mi ha proprio soffiato lui il sospetto, Sweeney: è stato dopo un colloquio con lui che ho mandato i miei uomini a cercare voi e quanto di affilato possedevate. Non sapevo allora che fosse mosso solo dal suo odio personale contro di voi.
— E ritenete che se io cerco di spingervi a sospettare di lui, è per motivi personali, nello stesso modo.
— Non è così forse? In gran parte?
Sweeney sospirò. — Per quello e perché è un verme.
— Bene, continuate pure con la fissazione, se volete. Ma non aspettatevi che io faccia altrettanto. Gli alibi di Greene non saranno magari perfetti, ma per me sono abbastanza buoni, soprattutto perché, come vi ho detto, sono certo che l’assassino deve aver conosciuto tutte le donne oppure nessuna di loro. C’è un tipo di assassino che uccide la donna per cui va pazzo, ma c’è il tipo che segue le sconosciute e uccide quelle. E, secondo me, anche se non sono psichiatra, non ce n’è uno che segua i due sistemi contemporaneamente.
Si andavano avvicinando all’angolo di Erie Street, e Bline rallentò il passo.
— Voi ora voltate di qua, e io dovrò tornare alla sede. Datemi retta, state lontano da Greene. Non vorrei dovervi arrestare tutti e due per qualche guaio e ho paura che succederà, invece, se continuate a stuzzicarvi. — Tese la mano. — Amici, Sweeney?
— Allora, non sono lo Squartatore? Siete sicuro?
— Ragionevolmente sicuro.
Sweeney prese la mano tesa e sorrise. — E io sono ragionevolmente sicuro che voi non siete uno sporco figlio di puttana, capo. Mentre vi assicuro che per qualche ora l’ho pensato.
— Non posso biasimarvi. Arrivederci!
Sweeney sostò all’angolo per un momento. Scorse Bline guardarsi intorno e attraversare la strada in diagonale, fuori della direzione per l’“El Madhouse”, dove si sarebbe dovuto recare. Ma Sweeney comprese quando lo vide dopo un centinaio di metri fermarsi a parlare con un uomo fermo a una vetrina, che si allontanò poi con l’ispettore.
Ciò significava, a meno che non ce ne fosse un altro appostato, ma era difficile, che Bline aveva tolto la sorveglianza a Sweeney. Per assicurarsene, questi finse di percorrere State Street, fermandosi in un vano per vedere se qualcuno voltasse l’angolo della strada dietro di lui. Ma nessuno comparve. Tornandosene verso casa, fischiettava.
A casa, non c’era nessuno Squartatore ad aspettarlo, ma c’era «La statua che urla». La sollevò stringendola gentilmente, e la statuina lanciò il suo urlo verso di lui, tendendo le mani imploranti. Un piccolo brivido ormai noto gli corse per la schiena. In qualche altra parte di Chicago, c’era un’altra statuetta, uguale a quella, che aveva una ragione per urlare così. Lo Squartatore la possedeva. Chiamiamola la statuetta n. 1. Ma cosa sarebbe successo, se l’assassino avesse saputo che lui possedeva la n. 2?
Lo Squartatore però non poteva saperlo. Tranne che fosse Raoul Reynarde, che gli aveva venduto la seconda statuetta. Se Raoul fosse stato lo Squartatore, non avrebbe avuto però nessun motivo di parlargliene e… Dannazione, se lo Squartatore era Reynarde, tutta la storia di Lola Brent che aveva venduto una statuetta poteva essere stata un trucco per distrarre l’attenzione da se stesso. Ma allora Raoul ne avrebbe parlato anche alla polizia. Certo, Raoul doveva aver detto tutto anche alla polizia, ma quelli non avevano fatto caso al particolare della statuetta e non erano risaliti a cercare il duplicato di essa: non avevano intuito che l’assassino era l’uomo che l’aveva acquistata. Nemmeno Raoul lo aveva indovinato. Anche lui, Sweeney, non avrebbe compreso, se non fosse stata la strana sensazione che lo aveva spinto a comperare la statuetta da Raoul e poi… l’osservazione del cameriere al ristorante. Posò delicatamente la statuetta: avrebbe voluto che smettesse di urlare così; ma la statuetta non avrebbe smesso mai. Un grido silenzioso non potrà mai tacere. Senza dubbio, la polizia non ne sapeva niente, altrimenti Bline non sarebbe rimasto a sedere in quella stanza senza notarla o farne il nome. Tanto più che l’aveva guardata attentamente per una volta, prima di andarsene.
Poi, la statuetta era stata nominata anche a Doc, ma Doc non aveva reagito. Poteva darsi, per quanto non ci credesse, che Doc avesse saputo controllare i suoi nervi tanto da non far muovere il foglio di carta, quando lui aveva gettato la frase sulla «statuetta nera». E allora, se Greene era l’assassino, a dispetto degli alibi e di ogni considerazione, forse la statuetta portava a un vicolo cieco, forse lo Squartatore non era stato l’acquirente della figuretta nel negozio con Lola Brent. “Sweeney” ammonì se stesso “non puoi mangiare la torta e intanto metterla via. Se la statuetta è la traccia vera che porta all’assassino, l’assassino non può essere Greene, come tu saresti tanto felice che fosse.” E sospirò. Poi sedette sul letto e cominciò il lavoro per il quale era tornato a casa: cioè leggere la storia del terzo delitto, quello della Lee. Ormai sentiva di conoscere bene la Gaylord e la Brent.
Prese il “Blade” del 1° agosto. Non c’era bisogno di cercare il servizio sul giornale: era la terza impresa dello Squartatore, e fin dal primo giorno risaltava in prima pagina, coi caratteri vistosi che il “Blade” impiegava per le dichiarazioni di guerra o gli armistizi.
ANCORA UNA VITTIMA DELLO SQUARTATORE.
Vi era una fotografia su tre colonne di Dorothy Lee, e Sweeney la esaminò con cura. Era bionda, come Lola, come Stella, come Iolanda, e certo molto carina, anche se non bella. Era una bella foto e, se era recente, la donna non mostrava di avere più di venticinque anni. I particolari non erano ben visibili, come se si fosse trattato di un ingrandimento da una fotografia formato piccolo o, più probabile, essendo un ritratto di una foto in color seppia sfumato. Comunque, Dorothy Lee era stata molto attraente e poteva anche essere stata bellissima. L’articolo la definiva bella, ma questo lo avrebbe detto in ogni caso, posto che era al di sotto dei quarant’anni e non aveva i denti guasti né gli occhi storti.
Secondo l’articolo, la donna era Dorothy Lee, venticinquenne, bionda e bella segretaria privata del signor J.P. Andrews, direttore delle vendite della Real Corporation, con sede in Division Street (vicino a Dearborn Street, osservò, Sweeney). L’indirizzo privato, egli vide con sorpresa, era in East Erie Street, a pochi metri da casa sua. Pochi metri dal luogo dove egli sedeva ora a leggere la storia dell’accaduto. Buon Dio, pensò, perché Bline non glielo aveva detto? Già, Bline certo pensava che lui lo sapesse, dato che si occupava della faccenda. E forse quello era un altro buon motivo perché Bline avesse sospettato di lui.
Prima di continuare nella lettura, disegnò mentalmente una pianta della città e determinò i punti dove si erano svolti i quattro assassinii. Tre erano stati molto vicini, nei quartieri nord. Quello della Brent era stato verso sud, a chilometri di distanza, ma era cominciato probabilmente nei quartieri nord, quando l’assassino aveva preso a seguirla all’uscita dal negozio di Division Street, che si trovava a breve distanza da lì. E anche Dorothy Lee poteva essere stata seguita dall’ufficio a casa per la stessa via. Fissati quei punti immaginari sulla pianta della città, riprese a leggere. Il corpo era stato rinvenuto pochi minuti dopo le cinque dalla signora Rae Haley, divorziata, che abitava nell’appartamento accanto a quello della Lee. Rientrando dal cinema, la Haley aveva scorto quel che sembrava un fiume di sangue, e che più tardi fu riconosciuto veramente come tale, uscire dalla fessura della porta della Lee. Poteva darsi che la signorina, che là Haley conosceva, avesse rotto una bottiglia di salsa di pomodoro, ma la Haley, come tutta la città, era in allarme contro lo Squartatore. Non aveva bussato alla porta della Lee nel timore che potesse venirle aperta da qualcuno che non desiderava incontrare; era corsa in casa propria e, chiusa accuratamente la porta con la catena di sicurezza, aveva telefonato al portiere per avvisarlo di quanto aveva scorto. Il portiere, David Wheeler, si era messo in tasca una vecchia rivoltella ed era salito al terzo piano, composto di cinque appartamentini, compresi quelli della Lee e della Haley. Con la pistola spianata, aveva suonato il campanello, poi aveva provato la maniglia: la porta era chiusa. Chinatosi a esaminare il rivoletto scuro a terra, aveva giudicato che fosse proprio sangue.
Aveva suonato alla porta della Haley e, quando lei finalmente l’aveva socchiusa, le aveva comunicato che sarebbe stato meglio avvertire la polizia. La Haley stessa aveva telefonato, troppo spaventata ormai per aprire la porta anche al portiere stesso. Wheeler era rimasto di guardia nell’ingresso, fino all’arrivo della polizia. La porta dell’appartamento era stata abbattuta e Dorothy Lee era stata trovata a terra, a un metro di distanza dalla soglia.
La catena della porta non era chiusa e la serratura era una di quelle a scatto, che doveva essersi chiusa da sé alle spalle dell’assassino, quando era uscito. Non c’era motivo di dubitare che fosse uscito regolarmente dalla porta. Entrambe le finestre dell’appartamento erano spalancate, ma nessuna dava su una scala antincendio e non era possibile fuggire da una di esse, a meno di fare un salto di sei metri nel vuoto per finire su un pianerottolo. Dalla posizione del corpo, la polizia riteneva che l’assassino non fosse nemmeno entrato del tutto nella casa. La Lee aveva ancora in testa il cappello (faceva caldo e la donna non aveva soprabito) ed era evidentemente appena rientrata. Secondo la polizia, l’assassino l’aveva seguita fino a casa e aveva suonato il campanello appena lei era rientrata. Quando la Lee aveva aperto, l’assassino aveva fatto un passo nell’interno e aveva usato il suo coltello. Forse la vittima non aveva avuto neppure il tempo di gridare: e se lo aveva fatto, nessuno aveva udito. La polizia stava svolgendo ricerche per appurare se e quali altri inquilini della casa si trovavano in quel momento nelle loro abitazioni.
Dopo aver compiuto l’impresa — avevano ricostruito i poliziotti — l’assassino era uscito, chiudendo la porta. A parte il cadavere, nell’appartamento non esisteva traccia della sua apparizione, tutto era pulito e in ordine perfetto. La borsetta della Lee giaceva su un tavolino presso la porta e conteneva circa quattordici dollari. Non erano stati asportati né l’orologio né l’anello con un opale che la donna aveva al dito.
Lei aveva lasciato l’ufficio alle due e tre quarti, lagnandosi di un forte mal di denti, e il direttore le aveva consigliato di andare dal dentista e a riposare. Non si erano ancora potuti ricostruire i movimenti della vittima dopo quel momento, ma la polizia andava interrogando i dentisti dei quartieri nord e del Loop, per accertare da quale si era recata la Lee. Il medico della polizia, che l’aveva visitata, aveva riscontrato che doveva davvero essere stata medicata da un dentista: aveva una medicazione in un dente, che sembrava aver sofferto di un ascesso. Se la medicazione non le aveva tolto il dolore, lo aveva fatto l’assassino. Secondo il medico legale, che l’aveva visitata alle cinque e mezzo, la donna doveva essere morta fra le tre e mezzo e le quattro e mezzo, e quando la Haley l’aveva trovata, doveva essere morta da almeno mezz’ora. L’articolo finiva con alcune dichiarazioni del capo della polizia e dell’ispettore Bline, incaricato ufficialmente del caso dello Squartatore.
Sweeney aprì il numero successivo del giornale, alla ricerca di ulteriori particolari. Il dentista si era presentato: era un certo dottor Krimmer, che aveva lo studio in Dearborn Street, a pochi metri da Division Street, e che, riconoscendo la sua cliente dalla fotografia sul giornale, si era presentato alla polizia, prima che questa lo avesse rintracciato.
Dorothy Lee si era recata da lui alle tre, in preda a un violento mal di denti. Non aveva appuntamento ed era una cliente nuova, ma, considerandone le condizioni di sofferenza, il medico l’aveva ricevuta subito dopo il cliente che aveva già in sala. Dovevano essere circa le tre e dieci. La Lee era rimasta nello studio dieci o quindici minuti per sottoporsi alla medicazione provvisoria, destinata soltanto a lenirle il dolore. Il dentista le aveva proposto una seconda visita per la mattina seguente, e la ragazza lo aveva pregato di spostarla al pomeriggio, dato che la mattina era occupata in ufficio. L’appuntamento era stato fissato per le quattro del sabato, al primo momento libero che il medico aveva nel pomeriggio, ma egli le aveva detto pure che, se il dolore fosse stato eccessivo, poteva recarsi nello studio anche prima dell’appuntamento. Il medico non aveva segnato l’ora precisa in cui la cliente aveva lasciato lo studio, ma non potevano essere state più delle tre e mezzo.
Riflettendo su quei particolari, Sweeney constatò che non mutavano la situazione riguardo all’ora del delitto. La Lee poteva essere giunta a casa alle tre e mezzo, prendendo un taxi, e, tornando alla pianta mentale della città, Sweeney rifece la valutazione delle distanze. Tornando a piedi, sarebbe dovuta arrivare a casa alle quattro meno un quarto o alle quattro circa. Sempre che non si fosse fermata per la strada.
Scorse rapidamente il resto dei giornali, ma non trovò altri particolari importanti. Riprese allora il primo e osservò la fotografia della Lee. Gli era vagamente familiare, e ciò non era strano, data la vicinanza delle abitazioni: diamine, era facile che l’avesse incontrata una mezza dozzina di volte. Desiderò di averla conosciuta meglio: in quel caso, l’avrebbe giudicata naturalmente una piccola impiegata sciocca, vanitosa ed egocentrica che preferiva Berlin a Bach e le Confessioni romantiche ad Aldous Huxley. Ma la morte l’aveva trasfigurata, e cose simili non avevano più alcun peso. E forse anche nella realtà non hanno peso. Rinunciò alle speculazioni sottili per occuparsi del problema immediato. L’assassino, lo Squartatore.
Dunque, Bline aveva ragione per quanto riguardava l’alibi di Greene: non era perfetto, ma era buono. Se l’alibi, confermato da un giudice e da due avvocati, lo riparava sino alle quattro e dieci, Greene sarebbe potuto giungere in taxi a cogliere di sorpresa la Lee solo nel caso che lei si fosse fermata nel tratto di strada tra lo studio del dentista e la sua abitazione. Ma non era ammissibile. Una corsa dal tribunale a…
Maledetto Greene, pensò. Se solo avesse potuto eliminare del tutto Greene, sarebbe forse riuscito a costruire qualcosa di positivo in un’altra direzione. Si alzò per passeggiare su e giù, cercando di riflettere. Guardando l’orologio, vide che non era ancora mezzanotte. Forse avrebbe potuto quella notte stessa eliminare Greene. E forse, con molto maggior piacere, avrebbe potuto incriminarlo. Un tentativo di furto, ben eseguito, avrebbe soddisfatto i suoi dubbi.
E, deciso, afferrò la giacca e il cappello.
XII
Chiuse la porta, lasciando la statuetta sola a urlare nel buio. Si fermò al telefono nell’atrio e chiamò un modesto albergo di Clark Street. Quando ebbe chiesto una certa stanza, gli rispose una voce annoiata.
— Ehlers? — domandò Sweeney. — Qui è Sweeney.
— Al diavolo, Sweeney. Sono appena rientrato. Sono stanco. Ma da quando mi chiami Ehlers, invece di Jay?
— Dalla notte scorsa.
— Come?!
— Da ieri notte — sillabò chiaramente Sweeney — quando sei entrato in camera mia senza permesso.
— Cosa? Senti, Sweeney, avevo degli ordini. E poi che cosa è venuto in mente a Bline di spifferarti che sono stato io?
— Non me lo ha detto Bline. E non c’erano ordini.
— Oh, va’ all’inferno! — esclamò Ehlers. — Che cosa vuoi, adesso? Che venga in ginocchio a chiederti scusa?
— No — rispose Sweeney. — Una cosa più difficile e più utile. Vestiti mentre ti raggiungo. Ci metterò dieci minuti, in taxi.
Depose il ricevitore e, dopo un quarto d’ora, bussava alla porta di Ehlers. Jay aprì e lo invitò a entrare. Era leggermente imbarazzato e combattivo insieme. Non aveva indosso la cravatta né la giacca, ma per il resto era completamente vestito.
Sweeney si accomodò sul letto, accese una sigaretta e guardò Ehlers.
— Dunque — disse — tu hai pensato che io fossi l’assassino.
— Non lo pensavo io, Sweeney. È stato il capo.
— Certo, e per suo conto poteva anche essere. Bline non mi conosceva. Non era mio amico da dieci e più anni. E ha mandato te e qualche altro a prendermi, insieme con le armi che avreste potuto trovare da me. Io non c’ero e tu hai avuto la brillantissima trovata di mostrare la tua abilità, aprendo la mia stanza per frugarci dentro. Tu non hai eseguito degli ordini, li hai superati. E tutti i bicchierini bevuti insieme in dodici anni di amicizia, tutte le partite a carte, tutti i soldi che ci siamo prestati a vicenda? E quella volta che… all’inferno, non voglio stare a parlartene.
Il volto di Ehlers si era coperto di rossore. Disse: — Ricordo benissimo quando tu mi hai salvato dal licenziamento, non hai bisogno di ricordarmelo. Va bene: avrei dovuto pensarci su due volte. Ma c’è qualcos’altro o sei venuto qua solamente per sfogarti?
— No, c’è uno scopo. Ti offro un’occasione per cancellare quel che hai fatto. Voglio che tu mi apra una porta, la porta dell’ufficio di un tale.
— Sei impazzito, Sweeney? Di chi?
— Di Doc Greene.
— Non posso farlo, sei matto!
— Eri matto forse tu quando hai aperto la mia porta? E lo hai fatto di tua volontà, senza ordini e mandati.
— Ma è diverso, Sweeney. Per lo meno avevo degli ordini da eseguire. Mi avevano detto di portare al laboratorio il tuo rasoio e qualunque coltello tu avessi. Che cosa vuoi cercare nell’ufficio di Greene?
— La stessa cosa. Solo che non me ne occuperò, se non saranno insanguinati e se non troveremo un elemento che possa incriminare Greene.
— Non penserai che Doc sia sul serio lo Squartatore?
— Voglio accertarmene in un modo o nell’altro.
— E se ci pescano?
— Ci avranno pescato. Cercheremo di tirarci fuori.
Ehlers fissò Sweeney e scosse la testa. — Non posso, Sweeney. Perderei il posto, qualunque cosa potessimo raccontare. E dovrei passare di grado tra pochi mesi.
— Passerai di grado di nome, ma non di fatto.
— Cosa vuoi dire?
— Che non siamo più amici, Ehlers — rispose Sweeney — che tu scomparirai dalla lista degli amici del “Blade”, che dirò una buona parola a tutti i giornalisti e cronisti che conosco, che non vedrai scritto il tuo nome se da solo fermerai una banda di ladri in una banca, ma lo vedrai a lettere cubitali se sputerai sul marciapiede. Significa che questa è l’unica occasione per te di cancellare la vergogna dello sporco gioco che mi hai fatto e, se tu non l’afferri al volo, perdio, metterò in moto ogni mio potere, nella polizia come nella stampa, per crearti dei guai.
— Cosa? Maledizione, non puoi…
— Posso sempre tentare. Comincerò domani denunciando la polizia del dipartimento per aver eseguito una perquisizione senza mandato, scassinando la porta della mia camera e asportando oggetti.
Ehlers cercò di ridere. — Non potrai ottenere niente.
— Certo che no. Ma non credi che sarà aperta una piccola inchiesta da parte degli ispettori, per appurare come stanno le cose? Salteranno addosso a Bline, e Bline dirà la verità. E pescheranno te, per evitare che i danni ricadano sul dipartimento. Io non potrei dare le prove della mia asserzione, a lungo andare, che tu ci sia o no immischiato, ma avresti parecchio da sudare con i superiori lo stesso. All’inferno il tuo grado: torneresti nella bassa forza a far pattuglie notturne, da non poterne più.
— Non faresti mai una cosa simile, Sweeney.
— Credevo che tu non avresti mai perquisito la mia stanza e mi sbagliavo. Tu credi che io non lo farei, e ti sbagli.
— Dov’è l’ufficio di Greene? — Ehlers era sudato, ma forse solo a causa del caldo.
— Al palazzo Goodman, non lontano da qui. Io conosco la casa e non ci saranno disturbi o pericoli. Non occorrerà più di un quarto d’ora.
Vide di aver vinto la partita e sorrise. — E prima ti offrirò da bere. Che poco fegato, se hai più paura di Greene che di me!
— È diverso, Sweeney.
— Infatti: io ero un tuo amico, e Greene no. Andiamo.
Dopo che ebbero bevuto il bicchierino per rincuorare il «fegato» di Ehlers, in taxi raggiunsero il palazzo. Era una costruzione di una decina di anni di vita, destinata a uffici, occupata da avvocati, agenti, impresari in buone condizioni, seppure non dei più floridi e, come Sweeney sapeva, da parecchi scommettitori e da una sala di pugilato di terz’ordine.
Come Sweeney aveva previsto, era il tipo di casa aperta ventiquattr’ore al giorno, per quegli inquilini che preferiscono il lavoro notturno. Passarono sul marciapiede di fronte al palazzo e scorsero molte luci ancora accese alle finestre. Nell’ingresso potevano vedere il ragazzo dell’ascensore, che leggeva un giornale, seduto accanto alla porta aperta della cabina.
Continuarono a camminare ed Ehlers domandò: — Dobbiamo correre il rischio di farci portare su da lui? Possiamo mandarlo a dormire per un’oretta, ma sarà sempre in grado di riconoscerci.
Attraversarono la via, e Sweeney rispose: — Cercheremo di non colpirlo. Adesso aspetteremo, per poco, fuori senza farci vedere; quando sentiremo l’ascensore salire, potremo attraversare l’atrio senza farci vedere.
Ehlers accettò con piacere l’idea e attesero quieti fuori della porta, finché, dopo solo dieci minuti, udirono il ronzio dell’ascensore che partiva, mentre rimbombava ancora il colpo della porta che si chiudeva. Passando nell’atrio, Sweeney lesse il numero dell’ufficio di Greene, 411, e presero a salire le scale. Mentre si trovavano sul pianerottolo fra il secondo e il terzo piano, passò l’ascensore in discesa. In punta di piedi, arrivarono al quarto piano, dove si trovava il 411. Nessun altro ufficio sul piano fortunatamente sembrava occupato. Ehlers non dovette così applicare speciali precauzioni per fare uso dei suoi arnesi: la porta fu aperta in sette minuti precisi.
Appena entrati, accesero la luce e chiusero l’uscio. Era un buco, contenente una scrivania, un tavolo, un mobile, un armadio e tre sedie.
Sweeney spinse indietro il cappello, guardandosi in giro. — Non ci vorrà molto, Jay — annunciò. — Siediti e riposati. Tu hai fatto la tua parte, a meno che non trovi un cassetto chiuso. Ma non vedo serrature.
Il primo cassetto del mobile conteneva un paio di soprascarpe, una mezza bottiglia di whisky e due bicchieri polverosi. Il secondo cassetto era vuoto, il terzo era pieno di corrispondenza, tutta in arrivo. A quanto sembrava, Greene non batteva mai le sue lettere con copia. Sweeney notò con disappunto che le lettere erano solo approssimativamente raccolte in ordine cronologico. Non c’era una cartella a parte per Iolanda. Ma non sprecò troppo tempo con i cassetti del mobile, limitandosi a dare un’occhiata alle lettere sparse riponendole subito. Tutto quel che ne ricavò fu che Doc faceva davvero l’agente e aveva altri clienti per i quali otteneva delle scritture, benché, evidentemente, non in luoghi molto raffinati o famosi.
Lasciò il mobile e si dedicò all’armadio. Sul ripiano vi erano oggetti di cancelleria, da un gancio pendeva un impermeabile, e una macchina da scrivere portatile era posata sul fondo. Cercò nelle tasche dell’impermeabile, ma non vi erano che un fazzoletto sporco e due vecchi programmi teatrali. Aprì l’astuccio della portatile e constatò che conteneva veramente una macchina da scrivere.
Assomigliava molto a quella che lui stesso aveva posseduto, fino a pochi giorni prima, quando l’aveva venduta per bere. Era la stessa marca e lo stesso tipo, ma, osservandola da vicino, dovette riconoscere che non si trattava della stessa macchina; una scoperta che lo avrebbe riempito di gioia.
Il cassetto del tavolo non conteneva nulla di più interessante di un vecchio compasso; due delle tre sedie erano vuote e la terza sosteneva solo Jay Ehlers, che lo scrutava con una certa ironia.
— Bene — disse Jay — trovato qualcosa?
Sweeney grugnì una risposta senza parole e andò alla scrivania. Su di essa stavano un telefono, una cartella di carta assorbente e una stilografica da tavolo. Sotto la cartella, niente. Provò i cassetti. Solamente il primo a sinistra era chiuso a chiave. — Jay — chiamò — questo tocca a te.
Era il cassetto che lo interessava. Mentre Jay lo apriva, esaminò rapidamente gli altri. Non contenevano niente di importante per Sweeney, tranne forse uno, con una bottiglia di whisky piena. Ma in quel momento non poteva occuparsene.
Jay aprì il cassetto e guardò l’orologio. — Muoviti, Sweeney. Hai detto un quarto d’ora e sono già ventitré minuti. — Dentro il cassetto giacevano una grossa busta scura, dalla scritta Contratti in corso, e un’agenda. Sweeney sfogliò prima l’agenda: era un libro-giornale, che elencava in ordine cronologico entrate e uscite. Vide che non gli sarebbe servita a nulla, tranne che per dargli la certezza che Greene era un agente con un legittimo e reale movimento di affari. Probabile che le cifre non fossero esatte, ma erano evidentemente pronte per ogni visita fiscale. Prese infine la busta dei contratti. Ve ne erano una dozzina, ma uno solo interessava Sweeney: quello fra l’“El Madhouse” e Iolanda Lang. Il contratto parlava di duecento dollari la settimana per le prestazioni di Iolanda e di Demonio. Ma né Iolanda né il cane avevano firmato. Le firme erano di Nick Helmos e di Doc Greene. Sweeney alzò un sopracciglio. — Forse che lei non sa scrivere?
— Chi non sa scrivere?
— Posso capire che il cane non abbia firmato…
— Dimmi un po’, io credevo che tu cercassi un rasoio o una lama…
Sweeney sospirò: il vero oggetto delle sue ricerche era stata una statuetta nera. Ma se ne era Doc il possessore, la teneva a casa o in albergo, o comunque nel posto in cui viveva, e non in ufficio. E ammettendo pure che a quell’ora egli potesse scoprire l’abitazione di Doc, non poteva sfidare la sua fortuna al punto di rubarla in quella notte. E infine, perché non riusciva ad allontanare Doc Greene dalla sua mente, così da potersi concentrare su qualche altra traccia? Una visita a Brampton, nel Wisconsin, per esempio, a quello scultore… come si chiamava? Chapman Wilson… che aveva creato la statuetta. Era un indizio, uno qualunque, che avrebbe potuto condurlo a un risultato. Ma non sapeva quale risultato e come. O forse anche, ritornando a Greene, sarebbe stata utile una capatina a New York per controllare se il suo alibi fosse solido al cento per cento. La polizia poteva anche non aver scavato in profondità, accontentandosi di averlo visto registrato in un albergo.
Oppure, se avesse avuto a disposizione del denaro, avrebbe potuto assoldare un investigatore privato di New York, risparmiandosi il viaggio. Ma sarebbe stata una spesa a carico di Sweeney, perché il “Blade” non l’avrebbe mai accettata. Maledetto il denaro! Possedeva ancora circa cento dollari di quelli datigli da Walter Krieg, ma, col ritmo che avevano nello scomparire dalle sue mani, sarebbe riuscito appena ad arrivare alla fine dei dieci giorni mancanti prima del nuovo pagamento del “Blade”. Era solo a spendere denaro per lo Squartatore o per Iolanda.
Udì Jay muoversi inquieto e tornò a osservare il contratto. — Un minuto solo, Jay — disse.
Rilesse attentamente il contratto e corrugò la fronte. Esaminò uno dei paragrafi per essere certo che dicesse proprio quel che gli era sembrato e ne fu rassicurato. Ripose il contratto insieme agli altri nella busta e la busta nel cassetto. Poi permise a Jay di richiuderlo.
— Allora, hai trovato quel che cercavi? — domandò Jay.
— No. Cioè, sì. Non quel che cercavo, ma qualcosa di buono sì.
— Che cosa?
— Sia dannato se lo so — rispose Sweeney. Ma riteneva di esserne perfettamente consapevole. Avrebbe trovato il denaro, a patto di correre un rischio.
Jay brontolò, mentre la serratura scattava a posto: — Allora andiamo. Filiamo fuori di qui. Ne parleremo davanti a un bicchiere di qualcosa.
Sweeney spense le luci e attese sul pianerottolo che Jay richiudesse la porta del 411.
Discesero al secondo piano e là Sweeney schiacciò il bottone di chiamata dell’ascensore. Appena udirono il tonfo della porta che si chiudeva, si precipitarono per le scale e furono al primo piano, nell’attimo in cui la porta dell’ascensore si apriva al secondo. Uscirono dall’edificio mentre ancora l’ascensore in discesa si fermava al primo piano.
Ehlers disse: — Il ragazzo dell’ascensore dirà che qualcuno lo ha fatto salire in modo da uscire dal palazzo senza farsi vedere.
— Certo che lo dirà, ma intanto non ci ha visto e non ci potrà seguire.
Infatti, l’uomo dell’ascensore non ci provò neppure.
Prima di chiamare un taxi, attesero di aver voltato l’angolo, poi, alla domanda di Sweeney, Jay suggerì di andare da Burt Meaghan: era a due passi dal suo albergo e sarebbe potuto rientrare a piedi. Da Burt, Sweeney stava per avvicinarsi al banco, quando Jay lo prese per un braccio. — Dobbiamo parlare un poco in privato.
Al tavolo egli fissò Sweeney, aspettando che il cameriere fosse venuto a prendere gli ordini e poi a portare i bicchieri. Quando furono soli, disse: — Allora, Bill. Ho scassinato la tua porta e non avrei dovuto. Però ne ho scassinato un’altra per farti piacere e così siamo pari. Giusto?
— Giusto.
— Siamo amici?
— Amici. Tutto è dimenticato.
— Allora cominciamo da qui — disse Jay. — Adesso siamo amici, ma non lo resteremo se tu vuoi andare avanti senza di me. Fuori la storia: voglio sapere perché sei andato nell’ufficio di Greene, che cosa cercavi e che cosa non hai trovato. Io sono un poliziotto, Sweeney, e lavoro al caso dello Squartatore. Sono agli ordini di Bline, d’accordo, ma ci lavoro anch’io. E voglio sapere a che punto siamo. Non posso costringerti a parlare, perché tu hai il coltello dalla parte del manico. Non posso raccontare a Bline e a nessun altro che tu sei andato nell’ufficio di Greene, perché perderei il posto per quel che ho fatto. Tu sei in una botte di ferro, va bene, ma perdio, se tu non parlerai, ti cancellerò io dalla lista degli amici.
Sweeney assentì. — D’accordo, Jay. Dunque, io avevo un forte sospetto che lo Squartatore fosse Greene. Senza un motivo preciso: una fissazione, dovuta al fatto che quell’individuo mi è odioso. E un’altra piccola considerazione: il ruolo gli si adatta. Psichiatra o no, è uno psicopatico. Due ore fa, all’“El Madhouse”, l’ho stuzzicato, e lui ha minacciato di uccidermi. A voce alta e davanti alla polizia. Davanti all’ispettore Bline, per essere precisi. E ad altri due poliziotti, Ross e Swann, seduti allo stesso tavolo. E io l’avevo provocato apposta per farlo scattare.
— All’inferno! Ma che cosa c’entra l’ufficio con questo?
— Speravo di trovarci un elemento che mi permettesse di farla finita con Doc Greene, colpevole o no. Ma, parola d’onore, non l’ho trovato, Jay. Non ho trovato un maledetto minimo indizio che provasse che lui è lo Squartatore, ma neppure che non lo è. Tranne la prova che fa sul serio l’agente teatrale, come lui sostiene.
— Continua. Che cosa hai trovato?
— Qualcosa che mi interessa personalmente. Il contratto tra Iolanda e Demonio e l’“El Madhouse”. E c’è in quel contratto una clausola di cui vorrei fare uso. Ma un uso illegale: preferirei che tu non ne fossi al corrente.
— In che modo illegale?
— Per avere la somma che mi occorre.
— Da chi?
— Dal padrone dell’“El Madhouse”.
— Parli di Nick Helmos o di Harry Yahn?
— Di Yahn. Nick è solo un prestanome.
Jay Ehlers si morse le labbra e guardò per un poco il suo bicchiere, poi disse: — Attento, Bill. Harry Yahn è un osso duro.
— Lo so. Ma riuscirò a morderlo. Con un morso abbastanza piccolo da non spingerlo a muovere le sue batterie contro di me. È duro, ma intelligente: non corre rischi per stupidaggini.
— Quanto a me, preferirei aver a che fare con lo Squartatore.
— Anch’io — sogghignò Sweeney. — Ma devo toccare Yahn per avere il mezzo di trovarmi davanti allo Squartatore.
— Tu sei pazzo, Bill.
— Lo so. Un altro bicchiere?
Ehlers rispose che era ora di andarsene e si allontanò. Sweeney per un poco restò a osservare quattro tizi che giocavano a carte, poi si recò al bar a bere. Quello che aveva bevuto all’“El Madhouse” era ormai dimenticato, e l’unico bicchierino inghiottito in quei pochi minuti era stato troppo poco perché se ne accorgesse. Un bicchierino ancora, o due, non gli avrebbero fatto male.
Ne bevve due e non gli fecero male.
XIII
Se anche non gli avevano fatto male, i due bicchierini non gli fecero però bene. Quando uscì dal “Meaghan’s bar” nella notte, era freddamente sobrio. Nella notte solitaria e affollata. La calda e freschissima notte. La scura notte luminosa.
Aveva paura ed era seccato di averla. Non si trattava dello Squartatore: quello era l’ignoto, il mistero. Ma gli seccava aver paura di Harry Yahn. Harry Yahn era un duro. E intorno a lui non c’era alcun mistero: anche ciò che di lui non si conosceva con precisione, era noto alla polizia, pur non trovandosi prove per dimostrarlo.
Harry Yahn era veramente un duro, ma niente di più. Sweeney si era detto e ripetuto di non aver paura, perché il morso con cui stava per attaccare Yahn non era tanto grosso da disturbare un uomo con le sue entrate.
La cosa più divertente era che aveva considerato Yahn come possibile fonte di reddito anche prima della visita all’ufficio di Greene; c’erano alcune notizie che Sweeney possedeva sul conto di Yahn, di imprese del passato, che avrebbero fruttato denaro… a quel pazzo che si fosse arrischiato a chiederlo. Ma la nuova possibilità era molto migliore e più sicura. Non era proprio un ricatto.
La scritta al neon rosseggiava: “Tit-Tat-Toe”. Sweeney tirò un gran sospiro ed entrò. Era un locale qualsiasi, più piccolo del “Meaghan’s”, occupato in quel momento dal barista e da una mezza dozzina di clienti. Aveva l’aria di uno di quei bar che possono anche essere qualcos’altro. E lo era.
Sweeney andò al banco e lo arricchì di un biglietto di banca. Il barista arrivò e Sweeney ordinò: — Whisky, puro. — E prima che l’uomo si allontanasse, continuò: — C’è Harry?
— Harry chi?
— Io mi chiamo Sweeney. Bill Sweeney. Lui mi conosce.
Il barista trafficava con bottiglie e bicchieri. Versando il whisky, disse: — Voltato l’angolo, bussate alla porta del retro. Se Willie vi conosce, vi farà entrare.
— Willie no, ma Harry sì.
— Ditelo a Willie. Potete parlare e dirlo a Harry. Se Harry c’è.
— Benone — rispose Sweeney. — Bevi con me?
— Volentieri.
— E fammi gli auguri!
— Certo — ripete il barista — volentieri: auguri!
— Grazie.
— Di che cosa?
Sweeney rise e si sentì meglio. Voltato l’angolo, bussò a una porta massiccia, che si aprì di uno spiraglio minimo, lasciando intravedere una faccia, i cui occhi, non particolarmente gradevoli a vedersi, erano all’altezza dei capelli di Sweeney. Sotto quegli occhi c’era un naso rotto, e sotto il naso un paio di grosse labbra che brontolarono: — Sìì? — mettendo in mostra dei denti spezzati.
Sweeney esclamò: — Willie Harris. Non sapevo che il Willie alla porta fosse Willie Harris.
— Sì. Che cosa vuoi?
— Diavolo, Willie. Non ti ricordi di me? Ho seguito tre dei tuoi incontri, quando ero allo sport. Bill Sweeney: allora ero al “Tribune”.
La porta si aprì un po’ di più, quindici centimetri invece di dieci.
— Sì? — ripeté Willie.
I pugni, pensò Sweeney. Disse: — Certo, non puoi ricordarti tutti i giornalisti che ti hanno intervistato. Senti, Willie. Vorrei parlare con Harry Yahn. Per affari. Non per divertimento. Lui mi conosce: digli che Bill Sweeney vuole parlargli. Bill Sweeney.
Frasi così brevi e chiare le avrebbe capite anche Willie. Rispose: — Sweeney. Vedrò.
— Bill Sweeney, ricordatelo, Willie. Bill Sweeney.
La porta si chiuse.
Sweeney si appoggiò al muro e accese una sigaretta. Era arrivato alla metà, quando la porta si riaprì completamente. Willie guardò fuori per assicurarsi che non vi fosse nessun altro insieme con Sweeney. — Bene, vuole parlarti.
Guidò Sweeney lungo un breve corridoio, fino a una porta. — Là dentro. Avanti.
Sweeney entrò. — Salve Harry.
Yahn rispose: — Ehi, Sweeney, siediti.
Harry Yahn, piazzato a una scrivania che sembrava comperata di seconda mano per dieci dollari, appariva come un Babbo Natale senza baffi. Era grasso e cordiale, con aria compiaciuta e compiacente. Sweeney non si lasciò ingannare, ma fu soddisfatto di trovarlo almeno solo.
— Non ti vedo da un pezzo, Sweeney. Sempre al “Blade”?
Sweeney annuì. — Letto l’articolo su Iolanda?
— Quale?
— La cronaca della scena nell’atrio. Sul “Blade”.
— Diavolo, l’hai scritto tu? Gli avevo dato un’occhiata, ma senza vedere la firma.
Sweeney non gli diede del bugiardo. Rispose soltanto: — Sì, l’ho scritto io. Ed è un pezzo, me lo dico io stesso… perché non dovrei, dato che tutti lo fanno?
— Lo so, Sweeney, non ha certo fatto del male all’“El Madhouse”. Anzi, dove abiti? Dico ai ragazzi di mandarti una cassa di whisky.
— Grazie — disse Sweeney — ma sono a posto per questo. Quasi. E ho avuto un’idea migliore, Harry. Cosa ne diresti di affidarmi la pubblicità per te nelle prossime quattro settimane, mentre Iolanda recita là?
Yahn si morse le labbra e scrutò Sweeney. — Sarebbe stata una buona idea, prima che succedesse tutto il pasticcio. Adesso non ci serve. A quanto mi dice Nick, l’“El Madhouse” deve addirittura mandare indietro i clienti e quindi che cosa ci può interessare averne di più? Per appenderli agli attaccapanni? E poi, con Iolanda abbiamo un contratto solo di quattro settimane e alla fine di questo periodo se ne andrà. — Scoppiò a ridere. — Hai perduto il treno, Sweeney. Certo che ti avrei pagato per farti scrivere quel pezzo sul giornale, ma ormai è già stato pubblicato: è una faccenda morta. E poi… c’è stato un mucchio di pubblicità, anche al di fuori dell’articolo, col solo essere aggredita dallo Squartatore. Basta questo per mandare la gente a vedere Iolanda. Il tuo articolo non ha fatto altro che incartare la faccenda, nel cellophane, ma ormai tutta la pubblicità che ci serviva, l’abbiamo avuta.
Sweeney scrollò le spalle. — Era solo un’idea. Vuol dire che ci lavorerò dall’altra parte.
— Quale altra parte?
— La parte di Doc. Un po’ più di pubblicità, e credo che riuscirei a farla, e potrebbe farla scritturare per grosse cifre in qualche posto di quelli che valgono venti volte l’“El Madhouse”. Potrà prendere due o tremila dollari la settimana, invece di duecento. O invece di quattrocentocinquanta, come sarebbe, se tu accettassi di suddividere nelle quattro settimane i mille dollari che chiede per il suo immediato ritorno al lavoro.
Harry Yahn teneva gli occhi semichiusi, come fosse stato quasi addormentato. Ripeté: — È un’idea. Se tu potessi montarmi bene la pubblicità per altre quattro settimane, potrebbe ancora renderci quel denaro che mi costa.
Sweeney riprese: — In questo momento li merita. Ho visto il suo spettacolo all’“El Madhouse”, stasera. La sala ha una capacità di duecento persone; fai pienone a ogni spettacolo, e con tre di essi sono seicento persone ogni sera. Sta’ pure basso nei prezzi e fa’ pagare cinque dollari a ogni cliente, considerando di guadagno netto un solo dollaro. Seicento dollari al giorno danno quattromiladuecento dollari la settimana e, in quattro settimane, sedicimilaottocento dollari.
Yahn replicò secco: — Abbiamo fatto buoni affari anche senza la Lang.
— Di sicuro, quasi la metà di quello che farete nelle prossime quattro settimane. Diciamo pure che in questo periodo Iolanda vi frutta diecimila dollari di guadagno, che non sarebbero altrimenti esistiti. Va bene?
— Troppo alto. Comunque, a che cosa miri tu?
— D’accordo, è troppo alto. Diciamo allora che vale settemila dollari. È abbastanza esatta la cifra di settemila?
Gli occhi di Yahn erano quasi completamente chiusi ed egli sorrideva appena: in quel momento assomigliava più a un Budda dormiente che a un Babbo Natale, ma Sweeney non si lasciava ingannare. Harry Yahn non stava né dormendo né contemplando il Nirvana. Certo, non mentre si parlava di migliaia di dollari.
Yahn parlò. — Spero che tutte queste chiacchiere portino a un fatto concreto.
Sweeney a ragion veduta tardò a rispondere, gingillandosi con una sigaretta e accendendola con calma. Infine disse: — Se io faccio pubblicità a Greene e a Iolanda, invece che all’“El Madhouse”, debbo consigliarli di concludere immediatamente una scrittura in un altro posto, invece di aspettare quattro settimane. Però questo, Harry, ti costerà settemila dollari, e a me non piacerebbe farlo, dato che ti ho sempre considerato un amico.
— Iolanda è legata a noi dal contratto per quattro settimane.
Sweeney sorrise. — Hai letto il contratto con attenzione?
Yahn aprì gli occhi a metà e fissò Sweeney. — Sei qui a nome di Greene, per questa faccenda? Ti ha mandato lui per farmi muovere?
— No. E nessuno cerca di farti muovere, Harry.
Harry Yahn pronunciò una parolaccia. — Non funziona la storia, Sweeney. Se nel contratto ci fosse una sola virgola che permettesse a Greene di portare Iolanda altrove, sarebbe qui lui a mostrarmela. Per suo proprio conto. Perché ne ha parlato a te?
Sweeney si abbandonò all’indietro comodamente sullo schienale della seggiola. — Non me lo ha detto lui. E ancora non ne sa niente. Avevamo fatto una scommessa su quanto guadagnavano Iolanda e Demonio all’“El Madhouse”, e lui mi ha mostrato la copia del contratto, firmata da Nick, per vincere la scommessa. Infatti l’ha vinta, ma io mentre avevo in mano il foglio ho letto per caso quella virgola. Capito?
— Qual è il punto?
— Semplicissimo: dev’essere una formula fissa di contratto, un contratto-tipo che tu fai per l’“El Madhouse”, perché è pieno di clausole a favore del primo contraente, cioè l’“El Madhouse” stesso; ma c’è una clausola favorevole al secondo contraente, una clausola che in casi normali non avrebbe alcuna importanza. Soltanto che qui non ci troviamo di fronte a un caso normale.
— Quale clausola?
— Una che non varrebbe nulla se fosse rivolta a chiunque altro, Harry: prevede che il contratto possa essere rescisso dalla seconda parte contraente col pagamento della somma totale prevista dal contratto stesso, mediante la rifusione di tutti i pagamenti ricevuti e l’aggiunta dei pagamenti futuri calcolati in base alle precise disposizioni del contratto. Il contratto di Iolanda vale per sette settimane, di cui tre sono già passate e quattro debbono passare, a duecento dollari la settimana. Doc può liberarla dall’impegno pagando sette volte duecento dollari, millequattrocento dollari in tutto. E se gli riesce di farla scritturare in un altro posto a duemila la settimana, si beccano seimilaseicento dollari lui e Iolanda. Forse anche di più. Pensavo che adesso potrebbe prendere anche più di duemila dollari, con la pubblicità che ha, anche se io non ci metto le mani.
Sweeney si chinò avanti e spense la sigaretta sul portacenere che spiccava sopra la grande scrivania di Yahn. — L’unico guaio è che la fortuna di Greene sarebbe un male per te.
— Greene non ha visto questa possibilità del contratto?
— È chiaro che no. Probabile che abbia letto il contratto al momento di firmarlo, ma senza prestare attenzione a una clausola che in quel momento non significava nulla per lui. Solo nel caso che un attore improvvisamente acquisti un valore dieci volte più grande, quella clausola può rappresentare una scappatoia. E c’è una probabilità su mille che ora vada a rileggersi il contratto: crede di conoscere a memoria quello che c’è scritto. — Sweeney si alzò in piedi, concludendo: — Bene, saluti, Harry. Mi spiace che non possiamo lavorare insieme per fare un po’ di pubblicità al tuo locale.
— Siediti, Sweeney.
Yahn schiacciò un bottone sulla scrivania e non aveva ancora alzato il dito che Willie era sulla soglia, dicendo: — Sì, capo?
— Entra e chiudi la porta, Willie. E aspetta.
— Devo mettere a posto questo tizio per voi, capo?
— Non ancora — rispose Yahn — per lo meno, non ce n’è bisogno, se si mette a sedere.
Sweeney sedette e Willie restò in piedi, pronto. Osservando la faccia di Willie, avreste pensato che da molto tempo Willie non avesse dovuto «mettere a posto» nessuno e ne sentisse profondamente la mancanza. Sweeney almeno ebbe quest’impressione, ragione per cui smise di guardare Willie e, presa un’altra sigaretta, l’accese con movimenti lenti e cauti, così da non urtare la suscettibilità di Willie, con il desiderio di sentirsi a proprio agio, come sperava di apparire agli occhi altrui. Yahn alzò il ricevitore del telefono sulla scrivania e fece un numero: era quello di Nick. Parlò subito: — È Harry, Nick. Hai in cassaforte il contratto della Lang. Prenditelo, mettilo in tasca e richiamami. Subito e con assoluta discrezione. Adopera il telefono dell’ufficio sul retro e assicurati che non ci sia nessuno ad ascoltare nelle vicinanze, capito? E non far vedere a nessuno che cosa prendi nella cassetta… Bene.
Riappoggiò il ricevitore e fissò Sweeney. Sweeney non parlò. Nessuno parlò finché, dopo tre minuti, il telefono squillò di nuovo.
Sweeney allora intervenne. — Chiedigli del sesto paragrafo, Harry. Ti risparmierà tempo.
Yahn parlò secco e breve e poi rimase in ascolto. — Bene. Rimettilo via, Nick. E non parlarne. Sì, è per questo che ti ho detto di leggermelo… Ne riparleremo domani. Come va il lavoro? — Restò un poco in ascolto, poi concluse: — Bene — e riappese.
— Come va il lavoro? — ripeté Sweeney.
Yahn per un poco non lo guardò, poi alzò gli occhi verso di lui. — D’accordo, quanto vuoi?
Sweeney rispose: — Credo che fare la pubblicità per te in questo mese meriti novecento dollari.
Yahn non aveva l’aria né del Babbo Natale, né del Budda. Domandò solo: — E se Greene lo vede? Se gli salta in mente di rileggere il contratto?
Sweeney scosse le spalle. — Può succedere, ma non vedo la ragione per cui dovrebbe farlo.
Harry intrecciò le dita, posandole sopra il ventre e fissandosi le nocche. Senza alzare lo sguardo, disse: — Willie, va’ a dire a Haywood di darti novecento dollari. Portali qui. — Willie uscì.
— Come mai novecento? — domandò Yahn. — Come ti è venuta in testa proprio questa cifra?
Sweeney sogghignò. Dentro di sé, riconobbe che era un sogghigno piuttosto trepidante e sperò calorosamente che all’esterno apparisse più sicuro. Poi rispose: — Per mio conto, Yahn, sei un uomo da quattro cifre e io mi sono tenuto al di sotto. Se te ne avessi chiesto mille, forse… avrei ricevuto qualcos’altro.
Harry scoppiò a ridere e di nuovo sembrò un Babbo Natale. — Sei un bel figlio di puttana, Sweeney. — Alzandosi, batté una manata sul dorso di Sweeney, mentre Willie rientrava con il denaro in mano. Lo porse a Yahn, e Yahn lo porse a Sweeney senza contarlo. Neanche Sweeney lo guardò, ma lo ripose in tasca.
Yahn ordinò: — Accompagnalo fuori, Willie. E lascialo entrare ogni volta che vorrà venire a trovarmi. — Willie aprì la porta e Sweeney uscì nell’ingresso; Willie lo seguì, ma fu richiamato da Yahn. Poi uscì di nuovo e andò a spalancare la porta d’uscita. Mentre Sweeney gli passava davanti, una mano di Willie, grande come le due di Sweeney messe insieme, lo afferrò per la spalla, costringendolo a girare su se stesso, mentre con l’altra mano, chiusa in un pugno grosso come un pallone da football, ma molto più pesante e dura di un pallone, tirava un colpo nello stomaco del giornalista. Quando lo lasciò andare, Sweeney cadde, ripiegato su se stesso, senza svenire, ma stroncato dal dolore improvviso. Era una tale sofferenza da togliere il respiro, che provò il desiderio di perdere i sensi, specie se altri colpi del genere lo avessero colpito. Ma non lo colpirono.
Willie arretrò di un passo, dicendo: — Harry ha detto di dartelo — e aggiunse, con l’aria di domandarsi perché Sweeney fosse stato così fortunato: — Ha detto uno solo e leggero.
Era chiaro che lui, personalmente, avrebbe preferito che fossero molti e duri.
Poi chiuse la porta.
Dopo un minuto, Sweeney fu in grado di raddrizzarsi in piedi e di arrivare al lavabo. Vomitò e solo così riuscì a mettersi diritto. Lasciando scorrere l’acqua fredda nel lavandino, si lavò la faccia, che nello specchio gli appariva bianca come la porcellana del lavabo stesso. Ma ormai respirava quasi regolarmente, anche se lo stomaco e il ventre erano troppo doloranti per toccarli, tanto da costringerlo ad allentare di due buchi la cintura, per diminuire la pressione.
Si appoggiò al muro e, tratto di tasca il denaro, lo contò con cura. Erano proprio novecento dollari, veri e tangibili: aveva ottenuto quel che voleva e solo un piccolo particolare in più. Era stato veramente molto fortunato.
Ripose il denaro nel portafoglio e, camminando con un lieve ondeggiare, come sulle uova, uscì dal bar del “Tit-Tat-Toe”, senza dare nemmeno uno sguardo al barista o a chiunque altro.
Quando fu all’aperto, respirò l’aria fresca della notte, non con respiri profondi, perché gli avrebbero causato un dolore insopportabile, e non si guardò neppure indietro se qualcuno lo seguisse, perché sapeva che nessuno lo avrebbe fatto.
Aveva avuto una fortuna incredibile, perché, in fondo, anche quel pugno nello stomaco era un buon segno. Harry non avrebbe incaricato Willie di darglielo, se avesse avuto l’intenzione di spedirgli qualcuno dei ragazzi a sparargli o a combinargli un «lavoretto». Non che avesse temuto davvero di ricevere un colpo di rivoltella, solo per novecento dollari. Ma la possibilità di una «sistemazione» c’era stata, una sistemazione che lo avrebbe tenuto all’ospedale per una settimana o per un mese e che gli avrebbe guastato tutti i piani. Adesso invece poteva nutrire una ragionevole sicurezza di essere stato pagato del tutto, sotto ogni aspetto. Sarebbe stato piuttosto malconcio per qualche giorno e avrebbe dovuto evitare di dormire bocconi, ma non c’era nessun «guasto» definitivo: aveva sopportato altre volte anche di peggio e per ragioni minori.
Un taxi gli passò vicino ed egli lo fermò con un gesto. Gli si avvicinò con l’andatura di un vecchio e anche aprirne la portiera gli provocò un dolore lancinante.
— Va’ lungo il lago e poi un poco verso nord. Mi sento poco bene e ho bisogno di aria fresca.
Entrò, e chiudere la porta lo fece sobbalzare nervosamente. L’autista si voltò a guardarlo. — Vi sentite male come? Non vi succederà qualcosa proprio sulla mia auto?
— No. E non sono ubriaco.
— Volete che vi accompagni al pronto soccorso?
— Ho avuto un pugno nello stomaco.
— Oh — rispose l’autista e ingranò la marcia. Percorso il Michigan Boulevard, si diresse verso il Lake Shore Drive, mentre Sweeney, sdraiato sul sedile, cominciava a sentirsi meglio, specie dopo che, sulla riva del lago, una brezza fresca riempì la vettura.
Il taxi non lo scuoteva e, anzi, il lieve movimento sembrava che gli fosse di aiuto a riprendersi. Tanto più che con novecento dollari in tasca e nessun altro guaio per averli ottenuti si sentiva veramente soddisfatto. Un pugilatore per ottenere molto meno di quanto aveva lui, corre rischi molto maggiori e prende molti pugni di più. Non era affatto in collera con Willie: era un pugile di carriera e aveva ricevuto degli ordini, anche se si era divertito a eseguirli e se gli sarebbe piaciuto picchiarlo di più. Ma troppi pugni erano arrivati sul cervello di Willie, su quel poco che aveva mai posseduto, per pretendere altro da lui.
E non ce l’aveva neppure con Harry Yahn: dopo tutto, il suo era stato un ricatto, e Harry gliel’aveva lasciato passare abbastanza facilmente. Vedendo che passavano per Diversey Parkway, disse all’autista: — Credo che ormai sia abbastanza; puoi tornare.
— Bene. State meglio, adesso?
— Quasi del tutto.
— Valeva la pena di vedere quell’altro?
— Certo — rispose Sweeney — avresti dovuto vederlo: un metro e ottanta e ottanta chili.
— Perdiana, dev’essere Willie Harris, dato che vi ho preso su davanti al “Tit-Tat-Toe”.
— Dimentica quel che ho detto. Stavo scherzando.
— Certo. Dove vi lascio, adesso?
— Bughouse Square.
— A quest’ora, a Bughouse Square? Cosa diavolo ci andate a cercare?
— Voglio parlare con Dio — replicò secco Sweeney.
L’autista non gli rispose. E non disse più una parola finché non furono giunti a destinazione.
XIV
Bughouse Square si stendeva senza pace nella notte afosa, quando Sweeney vi giunse. Sulle panchine si allineava il solito carico umano e anche sull’erba giacevano uomini addormentati. Chiuso il passaggio a ogni brezza dagli alti edifici di Dearborn Street, le foglie pendevano immobili dagli alberi e i fili d’erba non avevano neppure il più lieve dondolio; il movimento scuro della piazza era dato dal girarsi e dall’agitarsi degli uomini che dormivano o che cercavano di addormentarsi, non avendo altro da fare.
La quarta panchina a destra, sul lato nord-est, doveva essere occupata da Diomede, se lui c’era. Infatti era là, con un aspetto più vecchio e più scalcinato dell’ultima volta che Sweeney l’aveva visto. Ma forse sembrava così per la legge dei contrasti: lo sguardo e l’aspetto di Sweeney erano ben diversi da quell’ultima volta in cui aveva visto Dio. Senza volere, uno giudica gli altri confrontandoli con se stesso; e se due persone hanno entrambe mangiato cipolle, nessuna delle due sopporta l’alito dell’altra.
Ma Sweeney non cercò di odorare l’alito di Dio. Scosse il vecchio per una spalla, prima gentilmente poi con maggior rudezza, finché Dio aprì un occhio e lo guardò, borbottando: — Che diavolo c’è?
Sweeney gli sorrise. — Non mi riconosci?
— No, non ti riconosco. Fila, prima che chiami un poliziotto.
— Hai voglia di bere, Dio? Voglia abbastanza?
— Abbastanza per che cosa?
— Per mettermi una mano nella tasca destra della giacca.
La mano di Dio s’infilò nella tasca, vi trovò qualcosa e restò ferma. Quando parlò, la voce suonò rauca. — Grazie. È da questo pomeriggio che non bevo. Sarebbe stata una giornataccia domani. Che ore sono?
— Quasi le tre e mezzo.
Dio appoggiò i piedi a terra. — Bene. E a te come va, Sweeney?
— Bene.
Dio finì di mettersi a sedere sulla panchina, mentre Sweeney gli diceva: — Guarda bene la figura che c’è su quel biglietto, prima di farlo cambiare.
Dio trasse la mano di tasca e osservò l’angolo del biglietto di banca spiegazzato. Poi scrutò Sweeney. — Un dannato capitalista.
Rimise la mano in tasca e si alzò, allontanandosi senza voltarsi indietro. Sweeney sorridendo lo guardò allontanarsi finché fu giunto alla strada, soprattutto per essere sicuro che nessuno avesse visto o sentito e lo seguisse. Ma nessuno si mosse.
Sweeney si diresse dalla parte opposta e prese un taxi sulla Chicago Avenue. Quando arrivò a casa erano quasi le quattro e si sentiva stanco, ma prima di andare in camera sua, si fermò nell’atrio per telefonare alla stazione ferroviaria del nord-ovest. Certo, gli risposero, Brampton, nel Wisconsin, era sulla linea del Northwestern; il primo treno era alle sei, fra due ore circa. Il treno successivo? Nessuno fino alla sera. A che ora arrivava a Brampton il treno delle sei? All’una e un quarto del pomeriggio.
Sweeney ringraziò e depose il ricevitore.
In camera sua guardò con nostalgia e desiderio il letto, ma sapeva benissimo che se si fosse sdraiato per dormire un’ora prima della partenza del treno, non sarebbe più riuscito ad alzarsi al suono della sveglia.
E se avesse rimandato la partenza fino alla sera, avrebbe perduto una giornata, proprio quando gli era più preziosa. Era già sabato e il lunedì mattina si sarebbe dovuto presentare al lavoro al “Blade” e, anche ammettendo che Wally gli affidasse il caso dello Squartatore, non gli avrebbe mai permesso di fare un viaggio a Brampton nei giorni di lavoro. Al massimo gli avrebbe concesso di andare a New York a controllare l’alibi di Greene. Se non si fosse verificato qualche fatto nuovo, avrebbe dovuto fare un volo sin là alla fine della settimana prossima durante il suo giorno di vacanza, e a sue spese. Ma quella non costituiva più una preoccupazione.
Un’ora prima, con i cento dollari che ancora gli erano rimasti in tasca, possedeva mille dollari. Adesso, dopo l’incontro con Dio, ne aveva ancora novecento. Rifletté che se gli fosse rimasto un briciolo di buon senso, con quella somma avrebbe potuto combinare qualcosa di buono e non se la sarebbe portata in giro tutta. Ma non aveva quel buon senso. Guardò di nuovo l’orologio e sospirò. Guardò la statuetta e imprecò contro di lei per essere così importante da fargli perdere il sonno per ritrovare la sua origine e parlare al suo creatore, con così poche speranze di rintracciarlo.
Andò a voltarla con la faccia verso il muro, per non udirne più il grido, ma anche vista così, ogni linea del suo corpo esprimeva il terrore. Per un attimo si immedesimò tanto in essa, che prese a considerare la possibilità dell’eutanasia. Ma anche spezzarla e distruggerla non avrebbe impedito che la statuetta in qualche altro luogo continuasse a urlare in silenzio.
Faticosamente, e con molte precauzioni per il suo stomaco dolorante, si spogliò. Fece un bagno, si rase la barba e indossò degli abiti puliti. Poi uscì per andare alla stazione, senza portare nulla con sé. Era presto ancora per il treno, ma aveva intenzione di fermarsi a bere un bicchierino per strada. Non per il piacere di bere, ma perché gli avrebbe permesso di dormire in treno, altrimenti la stanchezza gli avrebbe impedito anche di prendere sonno su una vettura normale. Avrebbe anche pagato il doppio, per andare su una vettura-letto, ma sapeva che non ce n’erano: le ferrovie hanno la strana opinione che la gente viaggi in posizione orizzontale solo durante la notte.
Per trovare un taxi, dovette arrivare in State Street, nella grigia alba quieta. Salì sulla macchina a breve distanza dalla stazione, che si sarebbe aperta verso le cinque. Si fermò a bere i suoi due bicchierini e poi anche un terzo, domandandosi se non fosse il caso di comperarne una bottiglia da portare con sé in treno. Ma non la comperò, perché bere troppo lo avrebbe tenuto sveglio.
Alle sei meno un quarto giunse alla stazione, sperando che il treno fosse già pronto. Infatti lo era e per fortuna aveva anche una vettura pullman, per la quale il bigliettario gli disse che non occorreva prenotazione, dato lo scarso affollamento. Non era in realtà affollata ed egli poté scegliere il posto più comodo. Si adagiò con cura e mise il biglietto sul tavolino accanto, in modo che il controllore non avesse bisogno di svegliarlo, stese le gambe, e depose il cappello sulla parte sofferente del suo corpo. Era un panama leggero e non gli dava fastidio. Comunque, se anche gliene dava, non se ne accorse, perché in un minuto era caduto addormentato. Dopo quasi due ore aprì per un attimo gli occhi, mentre il treno usciva da una stazione: era Milwaukee e stava piovendo. Riaprì gli occhi qualche minuto dopo mezzogiorno, e il treno era giunto a Rhinelander, dove il sole splendeva. E lui aveva una fame da lupo. Si recò al vagone ristorante e mangiò il pasto più abbondante che da settimane fosse riuscito a inghiottire. La seconda tazza di caffè era giusto alla fine, che il treno entrava a Brampton.
Prima di uscire dalla stazione, cercò sull’elenco telefonico il nome di Chapman Wilson: non ce n’era nemmeno uno. Sweeney si diresse allo sportello della biglietteria, dove domandò: — Sapete per caso dove abiti in città Chapman Wilson?
— Chapman Wilson?
— Sì.
— Mai sentito.
— Grazie.
Sweeney uscì dalla stazione e sostò a guardare la città. Doveva essere di circa cinquemila abitanti, calcolò rapidamente, e non doveva quindi essere molto difficile trovare una persona, anche se priva di telefono. Si trovava già sulla via principale, e alla sua sinistra cominciava subito il quartiere degli affari. Entrò nel primo negozio a domandare di Chapman Wilson. Buco nell’acqua. E così nel secondo, nel terzo, nel quarto. Neanche da parlarne del quinto e del sesto. Il settimo era un bar e, prima di porre la solita domanda, ordinò da bere. Quando lo servirono, fece la sua richiesta. Il liquore era buono, ma la risposta no. Mentre il barista se ne andava, Sweeney imprecò a se stesso. Se avesse capito male le parole del direttore della Ganslen Art Company? No, lo aveva detto chiaramente: «Un tale che si chiama Chapman Wilson, e vive a Brampton, nel Wisconsin. L’aveva modellata in creta». Per lo meno, era sicuro del «Chapman Wilson». Che avesse capito male la città? Chiamò di nuovo il barista.
— Nel Wisconsin c’è qualche altra città con un nome simile a Brampton?
— Come? Ah, sì, capisco. Un momento… c’è Boylston vicino a Duluth.
— Non è abbastanza simile.
— Stoughton? Burlington? Appleton? C’è anche Milton, ma il nome intero è Milton Junction.
Sweeney scosse il capo con tristezza. — Avete dimenticato Wisconsin Rapids e Stevens Point.
— Ma non somigliano a Brampton!
— Appunto! Datemi da bere, per favore.
— Certo, grazie.
— Ma non avete mai sentito parlare di un certo Chapman Wilson?
— No.
Sweeney bevve un sorso riflettendo. Si domandava se avrebbe potuto telefonare a Louisville a qualcuno della Ganslen Art. Ma non avrebbe trovato nessuno in un sabato pomeriggio. Gli sarebbe forse riuscito di ritrovare l’uomo che aveva parlato con lui, Burke? Sì, si chiamava Burke. Ma non era una grande idea.
Sweeney per tutto il resto della vita non ne andò affatto orgoglioso, ma fu proprio il cameriere che in quel momento salvò la situazione.
Chiese: — Ma cosa fa questo Chapman Wilson?
— Lo scultore, è pittore e scultore.
Per alcuni secondi non accadde nulla. Poi il cameriere esclamò: — Che sia dannato! Deve essere Charlie Wilson.
Sweeney lo fissò. — Non fermarti qui, Esmeralda. Continua.
— Continuo che cosa?
— A versarmi da bere. E poi parlami di Charlie. Scolpisce delle statuette?
Il barista si mise a ridere. — È proprio lui, Charlie lo svanito.
Sweeney si aggrappò con le mani all’orlo del banco. — Svanito? Matto? Uno che ha avuto a che fare con un rasoio?
— Rasoio?! Oh, voi parlate di quella faccenda. Ma era un coltello, non un rasoio.
— Una bionda, una magnifica bionda…
— Chi? La ragazza? Sì, era proprio così. Una delle più belle della città. Fino a che non l’hanno assalita con quel coltello.
Sweeney chiuse gli occhi e contò lentamente: uno, due… Non poteva essere vero. E lui era stato sul punto di tornarsene a Chicago.
Era troppo bello per essere vero. Non possono accadere cose così. Domandò: — Assalita? Come nell’affare dello Squartatore?
— Eh, sì, proprio. Proprio come in quella storia di Chicago che hanno detto alla radio.
— Non state parlando per caso di una statuetta nera? Volete proprio parlare di una donna vera, che è stata assalita qua, in città?
— Certo. Una bionda, come quelle che ha detto la radio, che erano a Chicago.
— Quando?
— Tre anni fa, quando io ero sceriffo.
— Voi eravate sceriffo?
— Sì. Lo sono stato sino a due anni fa. Poi ho comperato questo locale e non potevo fare due cose insieme, così da due anni ho lasciato la carica.
— E siete stato voi a occuparvi del caso dello Squartatore?
— Sì, io.
Sweeney sospirò. — Sono veramente orgoglioso di conoscervi. Mi chiamo Bill Sweeney.
Il barista gli tese una grossa zampa attraverso il banco. — Felice di conoscervi. Io mi chiamo Henderson.
Sweeney gli strinse la mano. — Sono del “Blade” di Chicago. E voi, sceriffo, siete la persona che cercavo.
— Ex sceriffo.
— Sentite, sceriffo, c’è modo di parlare un po’ con calma, in privato, senza che veniate interrotto?
— Non so, veramente… è sabato, eccetera…
— Vi compero una bottiglia dello champagne più costoso che possediate e ce la facciamo fuori mentre discorriamo.
— Bene, credo che mia moglie possa venire un momento a sostituirmi. Abitiamo al piano di sopra. Però, prendiamo una bottiglia di Haig and Haig, perché il mio champagne non è un gran che e ci vorrebbe troppo tempo per farlo gelare.
— Vada per l’Haig — disse Sweeney, posando un biglietto di banca sul piano della cassa.
Henderson prese il denaro e gli diede il resto, poi cercò una bottiglia sullo scaffale, se la mise nella tasca posteriore dei calzoni e disse: — Andiamo. Adesso chiamo mia moglie.
Gli fece strada verso una porta in fondo alla stanza, che dava su una scala e gridò: — Mà! Puoi scendere per due minuti?
Una voce rispose dall’alto: — Sì, Jake — e dopo pochi secondi discese una donna alta e magra.
Henderson le presentò Sweeney. — Questo è Sweeney di Chicago, Mà. Dobbiamo andar su a parlare un po’. Puoi fermarti tu al banco?
— Certo, Jake. Ma non metterti a bere. Ricordati che è sabato e c’è lavoro.
— Non una goccia, Mà.
Guidò Sweeney per le scale e poi in una cucinetta. — Credo che qui parleremo meglio e abbiamo bicchieri a portata di mano. Ci volete mescolare qualcosa?
— Nell’Haig and Haig? Non dite sciocchezze, sceriffo.
Henderson sorrise. — Sedetevi. Prendo i bicchieri e apro la bottiglia.
Tornò con i bicchieri e la bottiglia aperta, e versò per entrambi una dose generosa. Sweeney alzò il bicchiere: — Al delitto.
— Al delitto. Come vanno le cose a Chicago? — rispose Henderson.
— Squartano. Ma veniamo a Brampton. Prima di tutto bisogna essere sicuri che il Chapman Wilson di cui parlo io sia il Charlie pazzo che dite voi. Raccontatemi di questo tale.
— Si chiama Charlie Wilson. È pittore e scultore e credo che i guadagni migliori li abbia con delle figurine che modella per grandi ditte. Piccole cose da artigiano. Non penso che di quadri ne venda molti.
— Allora è lui — disse Sweeney — è probabile che usi Chapman come nome d’arte, perché suona meglio di Charlie. Ma in che modo è pazzo?
— Non lo è veramente. Quando non è ubriaco, è soltanto, come dire?… un po’ eccentrico. Ma è un tipo fatto a modo suo e quando ha bevuto… be’, ho dovuto buttarlo fuori dal mio locale una mezza dozzina di volte. Soprattutto perché vuole dar pugni a destra e a sinistra. — Henderson sogghignò. — È alto un metro e mezzo e peserà vestito cinquantacinque chili. Se uno gli desse un pugno sul serio, lo ammazzerebbe addirittura, eppure lui va sempre attaccando briga con tutti.
— Ma nel suo lavoro fa qualcosa di buono?
— Diavolo, no. Non credo che guadagni più di cinquecento dollari l’anno. Vive in una catapecchia alla periferia, dove non andrebbe a vivere nessun altro. L’affitta per pochi dollari al mese. Ed è orgoglioso come un demonio. Pensa di essere un grande artista.
— Forse lo è.
— Allora perché non riesce a guadagnare?
Sweeney aprì la bocca per citare Van Gogh e Modigliani e alcuni altri che avevano guadagnato anche meno di cinquecento dollari l’anno, ma poi ricordò chi era il suo interlocutore e lasciò perdere.
Invece domandò: — E Charlie Wilson adesso va in giro libero per la città?
— Naturale. Perché non dovrebbe? È innocuo.
— Be’, per la faccenda dello squartamento. Come c’è entrato lui?
— Gli ha sparato.
— Charlie ha sparato allo Squartatore o lo Squartatore a Charlie?
— Charlie allo Squartatore.
Sweeney trasse un respiro profondo. — Ma lo Squartatore è scappato?
— Niente affatto! È morto secco: Charlie lo ha preso in pieno con un fucile da caccia a due metri di distanza. Gli ha fatto un buco che ci sarebbe passata tutta la sua testa dentro. È stata l’unica cosa buona che ha fatto Charlie in tutta la sua vita. Per un po’ di tempo è stato una specie di eroe della città.
— Oh — osservò Sweeney, con un certo disappunto, perché uno Squartatore morto non aveva molto valore per lui. Bevve un altro sorso del suo Haig e riprese: — Proviamo dall’altra parte. Chi era lo Squartatore?
— Si chiamava Pell, Howard Pell. Un pazzo omicida fuggito dal manicomio della Contea che è a trenta chilometri da qui. Aspettate, dunque… deve essere stato quattro anni fa; ho sbagliato quando vi ho detto tre, perché è successo nel primo anno del mio secondo periodo di carica e quindi sono almeno quattro anni, qualche mese in più piuttosto che in meno. Sì, qualche mese in più, perché è stato in maggio e adesso siamo in agosto. Mi pare sia stato proprio in maggio.
— E che cosa è successo?
— Bene, questo Pell è scappato dal manicomio. Ha ammazzato con le sue mani due guardie: era un pezzo d’uomo enorme come un bue, più grosso di me. È arrivato fuori prima che suonassero le sirene e ha fermato un’automobile per avere un passaggio; e quel maledetto idiota del guidatore lo ha preso su. Era uno che si chiamava Rogers. Pell è salito sull’auto e ha ammazzato Rogers: lo ha strozzato.
— Ma ha usato un coltello anche?
— Ancora non lo aveva. Ma lo ha trovato lì pronto. Rogers era un commesso viaggiatore in batterie da cucina d’alluminio e fra l’altro aveva con sé quella volta anche batterie di coltelli. Il coltello che ha scelto Pell era una bellezza, lungo trenta centimetri e largo cinque, e affilato come un rasoio. Non so con precisione che cosa andasse cercando nell’automobile, ma ha trovato quello. E gli è piaciuto. Lo ha provato su Rogers, con tutto che era già morto. Volete i particolari?
— Non adesso. Ma vorrei un altro bicchierino.
— Peccato. — Henderson versò il bicchierino. — Be’, lavorò sopra a Rogers e ne gettò il corpo fuori della macchina, nella cunetta della strada. Non subito, capite?
Sweeney rabbrividì leggermente e bevve ancora in fretta. — Ancora non ho capito del tutto, ma continuate pure.
— Dunque, erano circa le otto di sera, o almeno era quell’ora quando hanno scoperto le due guardie morte e la fuga di Pell dal manicomio. Mi hanno telefonato subito, come a tutti gli sceriffi della Contea e agli ufficiali di polizia e a tutti, e intanto tutte le guardie che potevano staccare dal manicomio, le hanno mandate in giro in macchina a cercare. Poco lontano hanno trovato quel che rimaneva di Rogers, e i segni dell’automobile hanno mostrato l’accaduto e che Pell aveva un’auto. Sono tornati al manicomio e hanno telefonato a me e a tutti che doveva trovarsi in macchina e di bloccare le strade, per prenderlo. Noi le abbiamo bloccate subito, ma lui ce l’ha fatta. Si era diretto a Brampton, ma la macchina l’ha lasciata fuori della città, in una strada secondaria e lui è venuto attraverso i campi a piedi. Ci è scappato proprio fra le mani, con tutto che il capo della polizia e io controllavamo tutti i passaggi entro un quarto d’ora da che avevamo ricevuto la telefonata del manicomio.
— Un bel lavoro svelto — approvò Sweeney.
— Accidenti se è stato un lavoro svelto, ma non è servito a niente perché lui ci è scappato via. Il giorno dopo abbiamo seguito tutto il suo percorso, perché era coperto di sangue. Vedete, aveva tagliuzzato Rogers proprio nel posto del guidatore e poi ci si era dovuto mettere lui per guidare e quindi era tutto coperto di sangue. Santo Dio, ne aveva sopra i capelli e sulla faccia e le scarpe addirittura inzuppate. E in quel modo, tutto sanguinante e con il coltello coperto di sangue in mano è arrivato addosso a Bessie che faceva la doccia.
— Chi è Bessie?
— Chi era Bessie. Bessie Wilson, la sorella minore di Charlie. Aveva diciotto o diciannove anni allora, ed era andata da lui perché era ammalata. Lei non viveva a Brampton, era impiegata a St. Louis, come guardarobiera o qualcosa di simile in un club notturno, ma si era ammalata ed era andata dal fratello. I genitori erano morti già da dieci anni. Io credo che quando è tornata non sapesse che lui era in cattive acque, altrimenti non sarebbe tornata. Ma dalle lettere di lui doveva aver creduto che gli andasse bene. Comunque, era ammalata e aveva bisogno di aiuto, ma non credo proprio che quello che le è capitato a Brampton l’abbia molto aiutata. Forse sarebbe stato meglio se fosse morta subito.
— Pell l’ha assalita?
— In un certo senso sì. Non è riuscito a metterle le mani addosso, ma l’ha fatta impazzire e dopo ne è morta. È andata così: quella casupola di Charlie è una stanza grande dove lui vive e lavora. Sul retro della casa c’è un’altra stanzetta, una specie di tettoia coperta, dove Charlie ha piantato una doccia rudimentale. Insomma, saranno state le otto e mezzo e la ragazza, Bessie, è andata a fare la doccia e ha attraversato il cortile, in vestaglia e pantofole. E Pell deve averla vista proprio in quel momento, arrivando nel cortile, mentre entrava in città evitando le strade principali. L’ha vista entrare nella baracchetta. Col coltello in mano, è andato là e con una spallata ha aperto la porta.
— Non c’era una maniglia?
— Vi ho detto che era come un bue. L’ha spalancata con tanta forza, che è uscita dai cardini. E Bessie era là in piedi, nuda, sotto la doccia, che stava per chiuderla. Lui ha fatto un passo verso di lei, alzando il coltello. Volete un bicchiere?
— È un’ispirazione celeste — rispose Sweeney.
Henderson ne versò anche per sé. E continuò: — Non si può biasimarla se è uscita matta, no? Era già malata e poi trovarsi davanti a quello… Un uomo alto quasi due metri, con l’uniforme di un manicomio, che era stata grigia una volta ed era diventata rossa di sangue, insanguinato in faccia e sui capelli, che le arrivava addosso con un coltello lungo trenta centimetri. Buon Dio!
Sweeney poteva facilmente immaginare la scena. Aveva visto la statuetta.
Bevve un altro sorso di whisky. E domandò: — Che cosa accadde?
XV
Henderson proseguì: — Io ero a poca distanza e l’ho sentita urlare e urlare senza smettere. Ci avrò messo cinque minuti ad arrivare e tutto era finito quando arrivai, ma lei stava ancora urlando. Era successo che quando lei cacciò il primo urlo, Charlie afferrò il fucile (lo aveva perché va molto a caccia, non per divertimento come facciamo noi, ma per mangiare) e corse verso la baracca. Vide sulla soglia l’uomo col coltello e dietro di lui, nell’angolo, Bessie ancora sotto l’acqua della doccia, che urlava. Si precipitò verso la porta: ci sono soltanto tre metri dalla casa alla baracca, si mise di fianco per prendere Pell senza colpire anche Bessie e sparò. E fece nel corpo di Pell un buco, che, ve l’ho detto, ci avreste potuto metter dentro la testa anche voi.
— Lo dovrei? — domandò Sweeney. Allo sguardo stupito dell’ex sceriffo, mutò la sua domanda. — E Bessie Wilson diventò pazza?
— Sì. E dopo sei o sette mesi morì. Completamente pazza. Non nel manicomio qua vicino, perché è degli incurabili, e invece lei avevano sperato di curarla, in principio. È stato in una piccola clinica privata vicino a Beloit. C’era stato un gran chiasso su tutta la faccenda e uno dei dottori di là si interessò del caso: aveva una nuova cura e, pensando di provarla con Bessie, la prese per un’opera di carità. Ma non servì a nulla: dopo sei o sette mesi era morta.
Sweeney domandò: — E Charlie? Si è svanito allora o lo era già?
— Come vi ho detto, non è proprio matto. Ma era già svanito prima del fatto, e non credo che sia peggiorato per quello. È un artista. E bisogna essere matti per fare gli artisti, no?
Sweeney rispose: — Penso di sì. E dove si trova la casa di Charlie?
— In Cuyahoga Street; non molto lontano di qui, verso ovest, quasi al limite della città. Il numero non lo so, sempre ammesso che ci sia un numero. Comunque, è poco più su di Main Street, che è questa strada dove siamo adesso. È dipinta di verde; non potete sbagliare. Un altro bicchiere? Ce ne sono rimasti giusto due.
— Perché no?
Non c’era alcuna ragione per dire di no, perciò Henderson versò i due bicchieri, vuotando la bottiglia.
Sweeney fissava il suo bicchiere. Una mezz’ora prima, tutto era sembrato molto promettente. Aveva trovato uno Squartatore. Ma era morto, morto da più di quattro anni, con un tal buco in corpo che Sweeney avrebbe potuto metterci dentro la testa se avesse voluto. Ma non lo voleva, specialmente perché lo Squartatore era morto da quattro anni.
Bevve un sorso e guardò Henderson, come se la colpa fosse stata sua. Poi gli venne un’altra idea, per quanto poco plausibile. Domandò: — E Charlie Wilson, è mai andato fuori città?
— Charlie? Che io sappia no. Perché?
— Mi domandavo solo se fosse stato a Chicago.
— No, non potrebbe pagarsi un biglietto fino a Chicago. E poi non è stato lui.
— Dove non è stato lui?
— A commettere i tre delitti dello Squartatore. Il nostro nuovo sceriffo, Lanny Pedersen, ne parlava al bar l’altra sera. Logicamente tutti noi abbiamo osservato la coincidenza del nostro Squartatore con questo, anche se il nostro era morto, e io ho domandato a Lanny di Charlie, se non poteva essergli venuta qualche idea da quel che aveva visto, o roba del genere, e ha detto che ci aveva pensato anche lui, ma che aveva già controllato che Charlie non era stato fuori città, interrogando i suoi vicini in Cuyahoga Street. Lo hanno visto tutti i giorni e per quasi tutto il giorno è stato a dipingere o a scolpire nel cortile.
Sweeney bevve un altro sorso. — E questo Pell — insisté — siete sicuro che Charlie lo abbia ucciso? Voglio dire, il colpo non lo avrà preso in faccia in modo da renderlo irriconoscibile?
— No, la faccia è rimasta intatta. Nessun dubbio sull’identità, anche ammesso che non bastassero l’uniforme insanguinata e tutto il resto. Il colpo lo ha preso nel petto, perché deve aver sentito Charlie avvicinarsi ed essersi voltato. Un colpo nel petto che gli ha fatto un buco da metterci dentro la testa.
Sweeney concluse: — Grazie lo stesso. Pensavo che potessero esserci dei legami con il nostro caso dello Squartatore — e si alzò — ma sembra improbabile, dato che Charlie ha un alibi e gli altri implicati sono tutti morti. E, in ogni caso, voi ci avreste pensato anche prima di me. A ogni modo, vi ringrazio.
Aspettò che Henderson avesse lavato i bicchieri e avesse gettato la bottiglia vuota nel secchio della spazzatura, poi scese con lui al bar. Quando la moglie di Henderson uscì dal banco, lasciando il posto al marito, li fissò attenta e Sweeney comprese che le precauzioni di Henderson con i bicchieri e la bottiglia erano state inutili. Se anche non avesse trovato la bottiglia, avrebbe saputo con certezza che ce n’era stata una.
Nel bar si trovavano solo quattro clienti, e Sweeney, sentendosi infelice per l’esito della sua inchiesta, offrì da bere a tutti, prima di andarsene. Personalmente, si accontentò di una birra.
Poi tornò alla stazione e si informò del primo treno per Chicago.
— Alle undici e un quarto — gli rispose un ferroviere.
Sweeney guardò l’orologio appeso al muro e vide che erano le quattro e mezzo. — C’è un aeroporto vicino, da cui si possa prendere un aereo per Chicago?
— Un aereo per Chicago? Mi pare che il più vicino sia l’aeroporto di Rhinelander. Potete trovarlo lì.
— Come ci arrivo a Rhinelander?
— In treno — rispose l’uomo — con quello delle undici e un quarto. È il primo che vada fin là.
Sweeney tirò una maledizione. Comperò un biglietto per Chicago e fece telegrafare dal ferroviere per riservargli un letto: almeno sarebbe arrivato a Chicago la domenica mattina con una buona nottata di sonno alle spalle. Sedette su una panchina della stazione e si domandò come avrebbe potuto occupare quelle sette ore di attesa, senza bere da ammazzarsi. Se avesse cominciato, non avrebbe preso il treno e la giornata seguente sarebbe stata perduta, l’ultima giornata libera prima di rientrare al “Blade”. Sospirò e decise che dato che si trovava là senza nulla da fare per ammazzare il tempo, tanto valeva parlare con Charlie-Chapman Wilson.
Ma ormai aveva perduto ogni entusiasmo in proposito. Era apparso tutto così bello, quando lo sceriffo aveva accennato a un pazzo Charlie Wilson e a una bella donna bionda assalita da uno Squartatore. Tanto bello che per reazione ora avrebbe voluto non conoscere nemmeno l’esistenza di Brampton, Wisconsin.
Gli restava sempre la statuetta, come traccia, ma ora doveva andare in avanti, invece che all’indietro, a cercare lo Squartatore che possedeva l’altra copia. Il rintracciarla all’origine aveva mostrato solo una coincidenza, ma una coincidenza che confermava l’idea che la statuetta dovesse avere grande influsso su uno Squartatore: in certo senso, era nata a causa di uno squartatore. Soltanto, purtroppo, non si trattava di quello all’opera a Chicago.
Bene, avrebbe potuto parlare con Chapman Wilson. E se era un ubriacone, una bottiglia sarebbe stata il modo migliore per invitarlo a chiacchierare. Comperò una bottiglia di whisky, da un quinto, mentre si recava da Main Street in Cuyahoga Street. Trovò facilmente la casupola dipinta di verde, con una baracchetta sul retro. Ma nessuno rispose al battere delle sue nocche sull’uscio.
Provò la porta della baracchetta, ma neanche lì vi fu risposta. Però era aperta: vi era solo un gancio all’interno e Sweeney lo alzò dalla fessura ed entrò. Un angolo era chiuso da un paravento per evidenti ragioni e nell’angolo opposto, senza alcun riparo o divisione, vi era la rudimentale doccia descritta dallo sceriffo.
Un cordone appeso accanto alla porta serviva per accendere e spegnere la luce, una lampada nuda in mezzo al soffitto. Sweeney l’accese e vide sul muro di fronte, tra la doccia e il paravento, il punto su cui era finito il colpo di fucile: ci era stato inchiodato sopra un pezzo di tappezzeria.
Tornò a guardare nell’angolo della doccia e rabbrividì immaginando una figura come la sua statuetta, a grandezza naturale, diversa solo perché di un morbido biancore, invece che di dura materia nera, là, in piedi, urlante, con le tenere braccia rotonde tese in un indicibile terrore, per ripararsi. Spense la luce e chiuse la porta. Non c’era da meravigliarsi che la povera creatura ne fosse impazzita.
Tornò alla casa e bussò di nuovo. Poi si avvicinò alla casa vicina e bussò anche lì. Gli aprì un uomo dai grossi baffi rigidi, al quale Sweeney domandò se sapesse se Charlie Wilson era a casa o sarebbe tornato presto.
— Dovrebbe tornare presto, credo. L’ho visto andare in città due ore fa e torna sempre a casa a prepararsi la cena; non mangia in città.
Sweeney lo ringraziò e tornò alla casa dell’artista. Erano le cinque e cominciava a far buio; poteva aspettare o fare qualunque altra cosa gli saltasse in mente.
Sedette sul gradino d’ingresso e depose la bottiglia incartata sull’erba accanto al gradino, resistendo al desiderio di aprirla prima dell’arrivo di Charlie.
Erano le sei ed era sceso il crepuscolo, quando vide giungere Charlie. Lo riconobbe facilmente dalla descrizione di Henderson: un metro e mezzo e cinquantadue chili. Sembrava ancora più piccolo, forse perché non era ubriaco, almeno in apparenza.
Di età poteva andare dai venticinque ai quarantacinque anni, pensò Sweeney, mentre quello si avvicinava. Era senza cappello e i capelli spettinati avevano il color della paglia; gli abiti erano malconci e la barba risaliva ad almeno due giorni prima. Gli occhi avevano uno sguardo vitreo.
Sweeney si alzò in piedi. — Il signor Wilson?
— Sì. — La testa gli arrivava giusto al mento di Sweeney.
Sweeney porse la mano. — Sweeney. Vorrei parlarvi di una statuetta scolpita da voi: una ragazza che urla.
La mano di Wilson avanzò, superando quella di Sweeney senza stringerla, si chiuse a pugno e raggiunse lo stomaco dolorante del giornalista. Lo stomaco diede in un urlo silenzioso e cercò di contrarsi fino ad appoggiarsi sulla schiena.
Quanto a Sweeney, articolò un suono impreciso e si ripiegò in due, mettendo così il suo mento alla portata del suo avversario Charlie. Infatti il pugno di Wilson lo colpì, facendolo vacillare, ma senza raddrizzarlo. In quel momento nulla avrebbe convinto Sweeney a rialzarsi. Nulla al mondo. Non si era nemmeno accorto del colpo sul mento, per l’intensità del dolore allo stomaco: quando avete una gamba in una tagliola non fate caso alla puntura di una zanzara.
Sweeney indietreggiò, sempre ripiegato su se stesso, fino a sedersi sul gradino, con le mani strette sullo stomaco a protezione. Non gli interessava che Wilson lo colpisse in faccia, purché non gli toccasse lo stomaco. Niente al mondo lo interessava, tranne che proteggere il suo stomaco. Sempre comprimendolo con le mani, si piegò da una parte e rigettò.
Quando si fu abbastanza ripreso da poter guardare in su, scorse Wilson che a braccia incrociate lo fissava con profondo stupore. La sua voce risuonò sorpresa come il suo viso. — Ch’io sia dannato! Vi ho battuto!
Sweeney grugnì. — Grazie.
— Ma non vi ho fatto proprio male, vero?
Sweeney rispose: — È una cosa carina. Tutto è molto bello qui. — E rigettò di nuovo.
— Non avevo intenzione di farvi male, davvero. Ma, diavolo, ogni volta che cerco di fare a pugni con qualcuno le prendo, così provo a piazzare qualche colpo finché sono in tempo. Volete qualcosa da bere? Devo avere del gin dentro. Dentro la credenza, voglio dire, non dentro di me. Lì c’è whisky.
— Whisky?
— Sì, dentro di me. Volete un sorso di gin?
Sweeney raccolse la bottiglia accanto al gradino. — Se volete aprire questa…
Wilson l’aprì con l’angolo di una chiave e con i denti, porse la bottiglia a Sweeney, che ne bevve un lungo sorso, poi gliela restituì. — Bevete anche voi. All’inizio di una bella amicizia.
— Odio i giornalisti.
— Oh, capisco — rispose Sweeney. — Che cosa vi ha fatto pensare che io fossi un giornalista?
— Siete il terzo in una settimana. E se no chi altri…? — Uno sguardo meravigliato gli apparve negli occhi.
— Già, chi altri? Ma provate a guardare da un’altra parte. Voi siete Chapman Wilson?
— Sì.
— Io mi chiamo Sweeney, Mortimer Sweeney. Della Ganslen Art Company, di Louisville.
Charlie Wilson si strinse la fronte tra le mani. — Oh, Dio!
— Potete ben dirlo.
— Sono desolato, veramente. Sentite, adesso riuscite a stare in piedi? Così potrò aprire l’uscio. Cioè no, state fermo, ho una maniera migliore. Vado dentro dall’altra parte e vi apro dall’interno, per aiutarvi.
Entrò in casa dalla parte della baracca, con un aspetto molto più normale e vivo di quando era arrivato. Sweeney udì aprirsi la porta sul retro e poi quella dell’ingresso, che gli sfiorò la schiena.
La voce di Wilson disse: — Scusate, avevo dimenticato che si apre verso l’esterno. Dovete alzarvi per forza perché io possa aprire. Ce la fate?
Sweeney si alzò. Non del tutto, ma quanto bastava per spostarsi ed entrare una volta aperto l’uscio. Si abbandonò sul primo sedile che gli si trovava vicino: una sedia sgangherata, senza spalliera; ma la cosa non aveva importanza, dato che non provava il minimo desiderio di abbandonarsi all’indietro.
La luce era accesa, una lampada in mezzo al soffitto, come nella baracchetta. Wilson stava lavando due bicchieri nel lavandino in un angolo. Il lavandino era pieno di piatti, mentre la scansia sopra all’acquaio era vuota. Era evidente che Wilson lavava i piatti quando e se ne aveva bisogno invece di usare il sistema più ortodosso di lavarli ogni volta che li aveva adoperati.
Dalla bottiglia di Sweeney versò un’abbondante dose nei due bicchieri e ne porse uno al giornalista.
Sweeney ne bevve un sorso e si guardò intorno: i muri, senza escluderne neppure un centimetro, erano coperti di tele non incorniciate. Paesaggi alla maniera di Cézanne e interessanti disegni astratti, ma Sweeney non era un conoscitore tanto profondo da giudicare quale fosse il loro valore reale. Avrebbe detto però senz’altro che non erano male. Non c’erano, a quanto pareva, ritratti né figure.
Da una parte, su un piedestallo da scultore, spiccava l’abbozzo di quello che, una volta finito, sarebbe stato un gladiatore.
Wilson aveva seguito lo sguardo di Sweeney. — Non guardate quell’affare — disse — non è finito ed è orribile. — Attraversò la stanza e gettò un panno sopra la statuetta di creta, poi sedette dalla parte opposta della camera, di fronte a Sweeney.
Questi cominciava a star meglio. — Non è male — disse — il gladiatore. Ma direi che l’olio è il vostro vero mezzo espressivo e che le statuette sono dei ripieghi. Vero?
— Non del tutto, signor Sweeney. Naturalmente, se voi non foste della Ganslen, direi di sì. Comunque, che cosa desiderate da me?
Sweeney si era già posto quel problema. Non sapeva nulla dell’organizzazione della ditta di Louisville e, peggio ancora, non sapeva fin dove Wilson ne fosse al corrente: poteva anche aver visitato la sede ed essere amico dei principali. Inoltre, egli non desiderava affatto fare o rifiutare acquisti. Disse: — Sono solo un viaggiatore di commercio della ditta, ma quando il principale ha sentito che passavo da Brampton durante il viaggio, mi ha raccomandato di fermarmi da voi.
— Signor Sweeney, credete, io sono davvero spiacente di…
— Non fa nulla — mentì Sweeney — ma ditemi piuttosto: come va la storia dei due giornalisti, quei due che sono stati da voi? Di quali giornali e perché?
— Dei giornali di St. Paul. No, uno forse era di Minneapolis. Era per quella statuetta di cui parlavate anche voi. È per questo che ho creduto che anche voi foste un giornalista, mi pare. Voi invece che cosa volevate sapere?
— Prima ditemi che cosa cercavano quei due imbec… quei giornalisti sulla statuetta.
Wilson aggrottò la fronte. — Era per quei delitti dello Squartatore di Chicago: volevano un resoconto di quando io ammazzai quel pazzo, quattro o cinque anni fa. Sapevano già della statuetta che avevo fatto di Bessie, perciò penso che avessero parlato con lo sceriffo Pedersen prima di venire da me.
Sweeney bevve pensosamente un sorso di whisky. — L’avevano vista, o avevano una fotografia?
— Mi pare di no. Tutto quel che domandavano, era a quale ditta l’avevo venduta. Se l’avessero vista, non avrebbero avuto bisogno di domandarmelo: il nome è inciso sulla base.
— Allora lo sceriffo della città è al corrente che voi avete scolpito la statuetta, ma non sa a chi l’avete venduta?
— Infatti. E non l’ha mai veduta. C’è stata tutta una chiassata in proposito una sera che mi ha condannato per disordini.
Sweeney annuì, sentendosi risollevato. I giornali di St. Paul e Minneapolis dunque non erano in possesso della parte più importante della storia della statuetta. Ne conoscevano i punti più secondari, quelli che anche lui aveva appreso quel giorno dall’ex sceriffo, ma non sapevano l’essenziale, cioè che lo Squartatore ne possedeva una copia. E non ne avevano neppure una fotografia. Tutto quel che potevano tirar fuori era una rievocazione della vecchia storia locale, che sarebbe apparsa sui loro giornali, ma non sarebbe stata trasmessa a tutto il paese dai cavi dell’“United” e dell’“Associated Press”, per guastare il piano di Sweeney.
Wilson si appoggiò al muro e accavallò le gambe. — Ma la Ganslen perché vi ha mandato a parlare con me, Sweeney?
— Una faccenda che temo non potrà funzionare, se voi non volete pubblicità sulla statuetta e sulle sue origini. Vedete, così come stanno le cose ora, quel pezzo è per noi una perdita. Ne abbiamo fatto una partita, per provare, ma la si vende troppo lentamente per giustificare un quantitativo forte. Abbiamo in magazzino quasi un centinaio di copie, che sembra non vengano ricercate da nessuno.
Wilson annuì. — Io l’avevo detto al signor Burke, quando l’ha comperata. È una di quelle cose che vanno così: o piacciono moltissimo o non piacciono affatto.
— A voi, da un punto di vista d’artista, come sembra? Come la giudicate?
— Io… non so, Sweeney. Vorrei non averla mai scolpita, né mai venduta. È troppo… personale. Gesù mio, rivedo Bessie là in piedi che urla, come l’ho vista allora dalla porta… ecco, l’immagine si era fissata nella mia mente finché ho dovuto riprodurla, per cancellarla. Mi ha perseguitato fino all’anno scorso. Dovevo dipingerla o scolpirla e siccome col pennello la figura non mi riesce molto, l’ho modellata in creta. Una volta finita, avrei voluto distruggerla. Ma l’avevo appena terminata, che è arrivato il signor Burke in uno dei suoi viaggi e gli è piaciuta. Non volevo vendergliela, ma lui ha insistito e io avevo un tale bisogno di soldi che non ho saputo resistere. È stato come vendere mia sorella, l’ho sentito così bene che sono rimasto ubriaco per una settimana. Così anche i soldi non mi son serviti a nulla.
— Capisco quel che dovete aver provato — assentì Sweeney.
— Ma io ho detto al signor Burke che non volevo nessuna pubblicità in proposito e lui ha promesso che non avrebbe raccontato a nessuno la storia per vendere qualche copia di più. E allora adesso perché torna alla carica?
Sweeney si schiarì la gola. — Ecco… pensava che forse, date le nuove circostanze che si sono presentate, potevate aver cambiato idea. Ma io capisco che siete ancora troppo sensibile su questo punto e non mi proverò nemmeno a insistere.
— Grazie. Ma le nuove circostanze quali sono?
— Quel che vi hanno raccontato i giornalisti di St. Paul. Vedete, proprio in questi giorni, c’è a Chicago uno Squartatore in attività ed è una grossa faccenda non limitata a questa zona, ma di importanza nazionale; una storia di delitti che è forse la più importante dopo quella di Dillinger. In questo momento, battendo il ferro finché è caldo, potremmo venderne una quantità, basando la pubblicità sul fatto che è la figura dal vero di una donna assalita dallo Squartatore, ritratta dalla memoria di uno scultore che ha visto l’aggressione con i suoi occhi e che ha salvato la donna. Ma per fare questo dovremmo raccontare tutta la storia.
— Capisco quel che volete dire. E forse significherebbe anche per me un guadagno extra. Ma… no, credo di no. Come vi ho detto, mi dispiace anche di averla venduta e di aver buttato in pubblico la povera Bessie… Un altro bicchierino? Il whisky è vostro.
— Nostro — rispose Sweeney. — Sapete, Charlie, voi mi siete simpatico. E non l’avrei creduto dopo la maniera in cui mi avete accolto.
Wilson riempì i bicchieri. — Sono sinceramente dispiaciuto di averlo fatto. Ve l’assicuro. Credevo che voi foste un altro di quei maledetti cronisti, come i primi due, ed ero deciso a non tollerarne un terzo.
Sedette di nuovo con il bicchiere in mano. — Quel che mi piace in voi è che non cercate di convincermi a fare quel che chiede la Ganslen. Se insisteste potrei anche cedere: Dio sa se ho bisogno di soldi e Dio sa se mi farebbe male guadagnarli in questo modo. Anche con i prezzi sbalorditivi che fissate voi, con una pubblicità simile ne vendereste a migliaia. E con tutto quel denaro…
— Quanto denaro? — domandò Sweeney con curiosità. — Burke non mi ha spiegato con precisione quali condizioni vi ha fatto.
— Le solite. Solite per me, perché non so che contratti facciano con gli altri scultori. Per quelle che comperano da me, mi danno cento dollari, fino alle prime mille copie vendute. Fino a quel punto, dice Burke, sono sulle spese ed è solo superando tale cifra che cominciano a guadagnare. È vero?
— Abbastanza — rispose Sweeney.
— Se ne vendessero due o tremila copie, a me verrebbero due o tremila dollari. Ma ancora non è mai successo. E Dio mi aiuti se non succederebbe… in questo caso! Vi ho detto che con i cento dollari avuti per la vendita di quella figuretta di Bessie sono rimasto ubriaco per una settimana: ecco, se prendessi mille o duemila dollari gettando sui giornali tutta la storia un’altra volta, con tutto che lei ormai è morta, mi ubriacherei in tale maniera che non ne uscirei vivo. E se anche resistessi io, non restisterebbe il denaro. Sarei finito e odierei me stesso per il resto della vita.
Sweeney sentì che poteva reggersi in piedi ormai, anche se un po’ incerto, e stese la mano. — Datemi la mano, Charlie. Voi mi piacete.
— Grazie. E voi piacete a me, Sweeney. Un altro bicchiere? Del vostro whisky?
— Il nostro whisky. Certo, Charlie. Ditemi, qual è il vostro nome, Charlie o Chapman?
— Charlie. Chapman è stata un’idea di Bessie. Diceva che era più artistico. Era una bella ragazza, Sweeney. Qualche volta un po’ strana.
— Non lo siamo tutti?
— Io credo di esserlo. Qui mi chiamano tutti matto.
— A Chicago probabilmente chiamano pazzo anche me. — Sweeney alzò il bicchiere. — Vogliamo bere alla pazzia?
Charlie per un istante lo fissò cupamente. — Al nostro genere di pazzia, Sweeney — disse.
— Perché… oh, sì. Alla nostra pazzia, Charlie.
Toccarono i bicchieri e bevvero, e Sweeney si rimise a sedere.
Charlie fissava il bicchiere vuoto. — La vera pazzia è orrenda, Sweeney. Quell’assassino, coperto di sangue, con il coltello ricurvo in mano… E Bessie… era così viva. E vederla andare in pezzi… forse non è giusto dire andare in pezzi, perché implica l’idea di un progredire graduale. Invece lei è diventata pazza in un attimo, davanti a quell’esperienza. Le dicevamo di vestirsi, perché era nuda quando… ma voi avete visto la statuetta, lo sapete… Io credo che sia stato un bene che sia morta, Sweeney. Io almeno preferirei cento volte morire, che impazzire come ha fatto lei.
Si strinse la testa fra le mani.
— Terribile — mormorò Sweeney — e aveva diciannove anni.
— Venti, allora. E quando è morta nella clinica, quattro anni fa, ne aveva ventuno. Ed era bella. Non un angelo, certo. Era selvaggia, qualche volta. I nostri genitori erano morti quando io avevo ventiquattro anni e Bessie quindici, dieci anni prima. Lei è andata da una zia, che ha cercato di educarla, ma poi se ne è scappata a St. Louis. Però con me si faceva viva spesso. E quando cinque anni dopo si è trovata nei guai, è da me che è venuta. Era… be’, quella faccenda con il pazzo l’ha portata fuori di carreggiata. — Alzò gli occhi. — Forse è molto meglio che ormai ne sia fuori: la vita può essere un inferno.
Sweeney si alzò e batté sulla spalla di Charlie. — Non pensateci più, andiamo! — Versò un altro bicchiere a entrambi e infilò quello di Charlie nella mano di lui.
Andò in giro per lo studio a esaminare i dipinti appesi, da vicino. Non erano male, per niente male.
Charlie riprese a parlare. — Eravamo vicini, molto vicini, molto di più di quanto non siano di solito fratello e sorella. Non abbiamo mai mentito uno con l’altro. Lei mi aveva raccontato tutto quel che aveva fatto a St. Louis e tutti gli uomini che aveva incontrato. Era stata cameriera e poi corista in una commedia musicale; ed era quello il suo mestiere quando si è accorta di aspettare un figlio. Allora è venuta qui. E poi quel miserabile scappato…
— Non parlatene più, basta — ordinò secco Sweeney.
— È morto troppo in fretta. Se gli avessi sparato alle gambe invece che al cuore, avrei potuto prendergli il coltello e… ma non l’avrei fatto, lo so. — Scosse lentamente il capo. — In ogni modo, gli ho fatto un bel buco. Tanto grande da farci passare dentro la testa.
Sweeney sospirò e sedette. — Dimenticatelo, Charlie. Parliamo di pittura.
Charlie annuì lento. Parlarono di pittura e poi di musica e poi tornarono alla pittura. La bottiglia di Sweeney fu vuotata e passarono al gin di Charlie. Era discretamente perfido. Dopo un poco, Sweeney trovava difficile fermare lo sguardo sui quadri di cui stavano discutendo, ma la mente gli era rimasta chiara. Abbastanza chiara da rendersi conto che stava trascorrendo una magnifica serata, con una delle conversazioni più interessanti che godesse da molto tempo. Non gli dispiaceva più di essere venuto a Brampton: Charlie gli piaceva, era della sua stessa razza. E teneva bene l’alcol, proprio bene. Aveva la lingua impastata, ma parlava sempre con logica.
Anche Sweeney era in quelle condizioni ed era ancora tanto in sé da tener d’occhio l’orologio. Quando furono le dieci e un quarto, un’ora prima della partenza del treno, disse a Charlie che doveva andare.
— In auto?
— No. Ho prenotato un posto sul treno delle undici e un quarto. Ma c’è un bel po’ di strada per la stazione. Ho passato una splendida serata.
— Non c’è bisogno di andare a piedi. C’è un autobus che percorre Main Street. Potete prenderlo all’angolo. Vi accompagno.
L’aria fredda della notte gli fece bene e cominciò a riportarlo alla sobrietà.
Charlie gli piaceva e avrebbe voluto fare qualcosa per lui. Anzi, d’improvviso vide in un lampo il «modo» di essergli utile. — Charlie — disse — ho un’idea per farvi guadagnare quei dollari con la statuetta, senza la pubblicità che non volete. Deve essere una pubblicità per la statuetta in sé, senza nominare né voi né vostra sorella.
— Va bene, se potete farlo…
— Certo che posso. Proprio da Chicago. Vedete, Charlie, io so qualcosa che nessun altro sa ancora e che può fare un gran chiasso intorno alla statuetta, senza parlare di come sia stata concepita e modellata. Il vostro nome e quello di vostra sorella non c’entreranno neppure.
— Se potete tenerne fuori Bessie…
— Certo, è facile. La vostra storia non è quella che importa veramente, almeno per quello di cui io voglio parlare. È un peccato, ma possiamo non farne cenno. E per quel che vi riguarda, manderò un telegramma alla Ganslen, perché comincino la lavorazione di un grosso lotto di statuette, per averle pronte quando scoppierà la bomba. Sentite, Charlie, non venite mai a Chicago?
— Da un paio d’anni no.
— Quando avrete ricevuto un po’ di quei dollari, venite a passare una serata con me. Vi mostrerò la città. Se arrivate in città di giorno telefonatemi, al “Blade”, in cronaca. Se arrivate di sera, invece, chiamatemi al…
— Cronaca? “Blade”? Voi siete un giornalista?
— Oh, Dio! — esclamò Sweeney disperatamente. Non avrebbe dovuto parlare, avrebbe dovuto mettersi subito e in fretta le mani sullo stomaco. Ma non lo fece.
Il pugno di Charlie arrivò sfiorando il polso di Sweeney e questi si piegò come un burattino, in tempo per ricevere il secondo pugno di Charlie sul mento. Ma, come era accaduto prima, sul mento non lo sentì neppure. Udì Charlie dire: — Sporco vigliacco, figlio di puttana, bugiardo… vorrei che ti alzassi per picchiarti.
Nulla era più lontano dalla mente di Sweeney, o meglio da quello che restava della sua mente. Non riusciva neanche a parlare, perché, se avesse aperto la bocca, ne sarebbe uscito qualcosa, ma non parole.
Udì Charlie allontanarsi.
XVI
È superfluo descrivere come si sentisse Sweeney: era la terza volta che riceveva un pugno nello stomaco e non era molto diverso dalle prime due, salvo che per il numero. Entrare in particolari sarebbe un sadismo, se non una ripetizione, ed è già sufficiente che egli abbia dovuto sopportarlo per la terza volta, perché voi e io non lo sopportiamo.
Dopo qualche minuto riuscì a sedere sul marciapiede, sempre tenendosi piegato, finché vide e udì arrivare l’autobus e, alzandosi in piedi, per quanto non diritto, arrivò a salirci sopra.
Sull’autobus sedette ripiegato in due, e ripiegato sedette in attesa alla stazione, e infine in treno si ripiegò su se stesso nella cuccetta prenotata. Non riuscì a prendere sonno, pesantemente, altro che alle prima luci dell’alba, quando ormai il treno era in vista di Chicago.
Comunque, nel tempo che impiegò per arrivare a casa, constatò che il peggio era ormai passato e infilatosi a letto, si addormentò. Si risvegliò che era pomeriggio inoltrato (le due e tredici minuti, se volete la precisione assoluta) ed era ormai in grado di camminare diritto.
Era domenica, l’ultimo giorno delle sue vacanze, e si erano già fatte le tre, prima che egli fosse lavato e vestito.
Sceso in strada, si guardò intorno con occhio smarrito, su e giù per Erie Street, finché decise di dirigersi a est, per tentare di scoprire su Dorothy Lee e sul suo assassinio qualcosa che la polizia non avesse scoperto. Non credeva affatto di riuscirci, affatto.
La fortuna lo assisté, facendogli trovare in casa sia il portiere sia la signora Rae Haley, la donna che aveva telefonato alla polizia. Ma non lo assisté nelle risposte dei due: non gli diedero alcun elemento nuovo e utile. In quindici minuti aveva esaurito tutte le domande possibili con il portiere, che non aveva neppure conosciuto bene di persona la Lee. Gli occorse invece un’ora e mezzo per ascoltare tutte le cose che la signora Haley ritenne opportuno comunicargli, e dopo quell’ora e mezzo sapeva di Dorothy Lee molto più di quanto non sapesse prima, e quasi tutto a favore di lei, ma nulla di significativo o di utile per le sue ricerche, se non in senso negativo.
Rae Haley, una donnetta dai capelli tinti e con un trucco leggermente eccessivo per un pomeriggio domenicale in casa, si rivelò per una informatrice di un giornale avversario, ma parve ugualmente ansiosa di parlare con il “Blade” o con Sweeney.
Aveva conosciuto piuttosto bene Dorothy Lee e le era simpatica: «era bella e buona». Sì, era entrata spesso in casa della Lee. E spesso avevano mangiato insieme, alternandosi a cucinare, ognuna nella propria cucina. Non sempre, è naturale, ma parecchie volte ogni settimana. Perciò conosceva bene l’appartamento di Dorothy e, come già Sweeney si aspettava, l’accenno a una «statuetta nera» provocò uno sguardo sorpreso. L’appartamento veniva affittato ammobiliato e Dorothy non era mai andata in giro e comperare statuette o quadri. Aveva, sì, un bel giradischi, con bellissimi dischi: «cose molto dolci e carine». Sweeney nascose un brivido di disgusto.
Sì, Dorothy aveva amici, uomini; qualche volta usciva con alcuni di loro, ma nessuno era stato «una cosa seria». La Haley li aveva conosciuti tutti e ne aveva detto i nomi alla polizia. Non che alcuno di loro potesse trovarsi implicato in quell’orribile delitto, ma la polizia aveva insistito a chiederglieli. A quanto sembrava, però, anche la polizia li aveva trovati a posto, perché, se ne avesse arrestato qualcuno, lo si sarebbe letto sui giornali, no? Sweeney l’assicurò di sì, e lei continuò dicendo che erano tutti cari ragazzi, proprio cari, e ogni volta che l’avevano accompagnata a casa, l’avevano salutata al portone senza entrare. Dorothy era una brava ragazza.
Povera figliola, pensò Sweeney e si domandò se fosse morta vergine. Sperò vivamente di no, ma non lo disse a voce alta. È bello, pensava mentre la Haley continuava a chiacchierare, che una ragazza si conservi per il Bene, ma è un pessimo scherzo se il Male le piomba addosso prima del tempo, sotto forma di un coltello affilato. Anche il modello della «Statua che urla», la povera Bessie Wilson, non era stata risparmiata da quel Male.
Sweeney sentiva, senza motivi speciali, che Bessie gli sarebbe piaciuta, e quasi desiderava averla conosciuta. E, diavolo, gli piaceva Charlie Wilson, nonostante quel che gli aveva fatto. Un piccolo ometto eccitabile, simpatico, quando non andava tirando pugni nello stomaco altrui.
Decise di mantenere comunque la promessa fatta a Charlie e di spedire il telegramma alla Ganslen. Stava scrivendolo nella sua mente, quando si ricordò del luogo in cui si trovava e si rese conto che la Haley stava ancora parlando e che lui non l’aveva ascoltata. Le diede retta quanto bastava per essere certo di non aver perso nulla di importante e se ne andò, declinando un invito a cena.
Scese al Loop e trovò un ufficio telegrafico aperto. Sedette con la matita e un blocco di carta, e consumò due o tre fogli prima di compilare un testo, anche troppo concentrato. Lo rilesse, scoprì che mancavano alcuni punti importanti, e rinunciò all’impresa. Andò ai telefoni e si fece dare una linea di comunicazione diretta con Louisville. Per fortuna aveva buona memoria per i nomi e ricordava nome e cognome del direttore generale della Ganslen, col quale aveva parlato la prima volta. Lo ritrovò nell’elenco degli abbonati, entrò in cabina e pochi minuti dopo parlava con il direttore generale e direttore agli acquisti della Ganslen Art Company.
— È Sweeney — disse — del “Blade” di Chicago, signor Burke. Ho parlato con voi qualche giorno fa, a proposito di una statuetta della vostra ditta. Siete stato allora tanto gentile da dirmi chi ne era lo scultore.
— Sì, ricordo infatti.
— Per ricambiarvi il favore, vi dirò qualcosa che procurerà molti guadagni a voi e a Chapman Wilson. Vi chiedo solamente di tener segreto quanto vi dirò fino a domani pomeriggio, quando sul “Blade” apparirà tutta la storia pubblicata. Siete d’accordo?
— Mah… d’accordo su che cosa, precisamente, signor Sweeney?
— Semplicemente a non dire a nessuno tutto quello che io sto per raccontarvi, prima di domani pomeriggio. Voi potete far tesoro dell’informazione e mettervi al lavoro anche subito. E prepararvi a incassare.
— Questa è una notizia piacevole.
— Bene, la faccenda sta qui: voi avete venduto a Chicago due copie della «Statua che urla». Una l’ho comperata io e l’altra lo Squartatore. Avete sentito parlare dei delitti dello Squartatore, vero?
— Ma certo! Buon Dio! E voi dite…
— Sì. Domani il “Blade” pubblicherà una fotografia della «Statua che urla», quattro colonne in prima pagina, se non mi sbaglio, insieme con la storia. Probabile che si riesca a prendere lo Squartatore. Un amico o la sua governante o qualcuno avrà visto in casa sua la statuetta e telefonerà alla polizia: non può esserne stato in possesso per due mesi, senza che qualcuno gliel’abbia vista. Ma comunque finisca, che lui sia arrestato o no, è una faccenda che riempie tutto il paese. Voi sarete sommersi per settimane da ordinazioni di statuette. Io vi consiglierei di metterle in lavorazione immediatamente. Chiamate un turno di notte alla fabbrica, se riuscite a pescare qualcuno. E se fossi in voi, non venderei quelle cento copie che avete ancora in magazzino: le darei ai rivenditori come campioni per ricevere gli ordinativi. Soprattutto ai rivenditori di Chicago. Mandate qua uno dei vostri uomini stanotte stessa, con un baule di quelle figurine.
— Grazie, signor Sweeney. Io non so come esprimervi la mia riconoscenza per avermi dato quest’informazione…
— Aspettate — lo interruppe Sweeney — non ho finito. Vi prego di fare una cosa, però. Su tutte le statuette che fabbricherete e venderete d’ora in poi, mettete un marchio speciale, in un punto qualsiasi, così da distinguerle da quella dello Squartatore. Tenete il marchio segretissimo, in modo che egli non possa imitarlo, e quando la polizia arriverà da voi, rivelatelo solo a lei. Perché, quando sarà scoppiata la bomba, verranno di certo a trovarvi. Altrimenti salterebbero addosso a me, per aver fatto riempire di un fiume di statuette il mercato di Chicago, vi pare? Ma capiranno che in realtà facciamo loro un favore: se vi saranno molte statuette in arrivo, lo Squartatore conserverà la sua, mentre se sapesse che in tutta Chicago ce n’è soltanto un’altra oltre la sua, si affretterebbe a liberarsene. E non saprà del marchio che distinguerà le altre. Sentite, come marchio, fate una piccola tacca all’angolo destro anteriore della base, in modo che sembri casuale, se qualcuno la vedesse.
— Bene, sarà facile.
— Io lo farò sulla mia copia. E voi spero che abbiate un registro per le altre quaranta circa che avete venduto nel resto del paese, vero?
— È tutto segnato sui libri.
— Bene, allora se compare una statuetta senza marchio, si potrà rintracciarne la provenienza per provare che non è quella acquistata dallo Squartatore. E un’altra cosa…
— Sì?
— Io non parlerò delle origini della statuetta. Charlie, cioè Chapman Wilson, è molto sensibile su quanto accadde alla sorella e qui abbiamo già materiale sufficiente, senza rivangare l’altra storia. Dopo tutto, è roba ormai passata, mentre il nostro Squartatore è molto attuale. Mi ha detto Wilson che voi gli avevate promesso di non far uso della vicenda per pubblicità, perciò mantenete la vostra promessa.
— Naturale, signor Sweeney. E grazie, mille volte grazie!
Appeso il ricevitore, Sweeney telefonò a Iolanda, ma nessuno gli rispose. Era troppo presto perché lei fosse al club, probabilmente era a pranzo fuori. Bene, poteva anche aspettare a parlarle fino al giorno dopo, quando sarebbe apparso il pezzo nel “Blade”, con la storia della «Statua che urla». E forse in quel momento anche lo Squartatore sarebbe già stato arrestato e lei non avrebbe avuto una scorta di poliziotti dovunque si recasse. Naturalmente sarebbe andato la sera a vederla ballare. Cioè, poteva andarci o no?
Cercò il numero del “Tit-Tat-Toe” e chiamò. Una breve discussione e il suo nome gli fecero ottenere la comunicazione con Harry Yahn. La voce di Harry rimbombò cordiale nel telefono: — Salute, Sweeney. Come vanno le cose?
— Bene, Harry. Sto per pubblicare domani una grossa storia sullo Squartatore. Pubblicità extra per Iolanda.
— Questo è un bel colpo! E… c’è qualcuno che io conosca?
— No. A meno che tu non conosca lo Squartatore. Lo conosci?
— Non con quel nome. E allora, che cosa c’è? Non vorrai altro denaro, spero.
— Santo Dio, no — disse Sweeney. — Quella è una faccenda chiusa e seppellita, ormai. Voglio sapere se siamo ancora amici o no.
— Ma sicuro, Sweeney; hai motivi per pensare il contrario?
— Sì — replicò Sweeney. — Comunque, il conto è pari? In parole povere, sono una persona non gradita? Cioè, se entro all’“El Madhouse” o al “Tit-Tat-Toe” posso poi uscirne sano e salvo? O debbo mettermi un’armatura?
Harry Yahn scoppiò a ridere. — Sei sempre il benvenuto, Sweeney. Sul serio, come hai detto tu, è una faccenda chiusa e seppellita.
— Bene — disse Sweeney. — Volevo solo esserne certo.
— Uhm… Willie è stato discreto?
— Per essere Willie, direi di sì. Volevo essere sicuro che non avessi passato la parola a Nick. Stasera dovrò andare probabilmente all’“El Madhouse”.
— Ottimo. Nick mi deve telefonare tra poco, e gli dirò di riservarti un tavolo e di non farti pagare il conto. Senza scherzi, Sweeney, mi sei simpatico. Nessun risentimento?
— Sentimenti tenerissimi — replicò Sweeney — e il peggio è che quella tenerezza è stata lavorata altre due volte da allora. È per questo che volevo essere sicuro prima di entrare all’“El Madhouse”. Visto che è così, arrivederci e grazie di tutto.
— Non dirlo neppure, Sweeney. Stammi bene.
Dopo aver riattaccato il microfono, Sweeney trasse un lungo respiro e, per quanto lo stomaco fosse ancora dolorante, si sentì molto meglio. Tornò dalla centralinista e si fece chiamare New York, dove al centralinista locale lasciò tutto il tempo necessario per ricercare sull’elenco il numero di Ray Land, dato che era certo che Land avesse un telefono a casa. Era stato un poliziotto addetto alla squadra omicidi di Chicago e ora dirigeva una piccola agenzia di sua proprietà a New York. Ray era a casa.
— Sono Sweeney. Ti ricordi di me?
— Certo. E allora, che c’è?
— Voglio che tu controlli un alibi per me. A New York. — Diede i dettagli del nome di Greene e dell’albergo e le date esatte. — So che è registrato all’albergo per tre giorni: lo ha già controllato la polizia. Quello che voglio scoprire con sicurezza, non come probabilità, è se la notte del ventisette si trovava là.
— Posso provare. Sono passate quasi due settimane. Fin dove devo arrivare?
— Dove puoi. Parla in albergo a tutti quelli che possono averlo visto entrare o uscire, alla cameriera che gli ha rifatto il letto, a chiunque, insomma. Senti, il momento cruciale è alle tre di mattina. Se puoi seguirlo per sei o sette ore prima e dopo quel momento, andrà benone.
— Dodici ore non sono poi molte. Forse ce la faccio. Quanto vuoi spendere?
— Tutto quel che ti pare, purché tu ci riesca. Entro limiti ragionevoli, è naturale. Ti manderò un vaglia telegrafico di un centinaio di dollari, in deposito. Se non basterà, anche il doppio.
— Credo che basterà, Sweeney. È la spesa di due giorni e dato che è a Manhattan, non ci sono trasferte. Se non ci riesco in due giorni, vuol dire che non ci riesco più. Perché il margine di sei ore?
— Voglio convincermi che non poteva trovarsi a Chicago alle tre di mattina. Calcolando il tempo per andare e venire dagli aeroporti, e per noleggiare un aereo e tutto il resto, è il minimo necessario. Cinque ore sarebbero più sicure. Se puoi provare che alle dieci di sera o alle otto di mattina era in albergo, mi basterà. E, per il caso qualcuno lo avesse sostituito, usando il suo nome, te lo descrivo. — Rapidamente Sweeney gli descrisse Greene e aggiunse: — Se non gli trovi l’alibi, prova con la descrizione all’aeroporto. Ma se arriviamo a questo, posso mandarti una fotografia. Quando avrai raccolto i dati, chiamami. Va bene?
— Bene. Comincerò stasera, perché ci saranno i turni di notte che mi occorrono.
Uscendo dall’edificio dei telefoni, Sweeney vide che era ormai buio e scoprì di aver fame. Si accorse pure di non aver letto neppure un giornale della domenica e di aver potuto quindi perdere qualche notizia importante: a un’edicola trovò due ultimissime edizioni del lunedì mattina, ancora umide di stampa, e due ultime copie della domenica. Le comperò tutte e quattro e se le portò al ristorante.
Leggendo mentre mangiava, vide che nel frattempo non era accaduto né era stato rivelato nulla di nuovo. Dappertutto la storia era ancora importante, troppo grossa perché si potesse far passare un’edizione senza parlarne, ma le poche aggiunte o rimaneggiamenti non avevano cambiato la situazione.
Prolungò il pranzo e la lettura sino alle dieci, poi uscì. Ricordandosi dell’assegno, si fermò di nuovo all’ufficio della Western Union per spedirlo a Ray Land.
Gli restavano così ancora più di settecento dollari e sentì che avrebbe desiderato spenderli in qualche modo per Iolanda. Ce ne sarebbe stato il tempo, dopo la sparizione dei poliziotti di guardia. Nel frattempo, c’era un omaggio che poteva rivolgerle. In un grande albergo, trovò un fioraio ancora aperto e ordinò di mandare al più presto due dozzine di rose rosse all’“El Madhouse”, a Iolanda. Per scrivere il biglietto d’accompagnamento, ne stracciò tre, finché sul quarto scrisse Sweeney e basta.
Prese un taxi per l’“El Madhouse”: sarebbe arrivato giusto al primo numero di Iolanda.
Infatti arrivò al momento preciso e Nick gli aveva riservato un posto. Dopo il numero che già conosceva (non vorrete che ve lo descriva di nuovo, vero?) riuscì a trovarsi un posticino al bar, ma gli ci vollero dieci minuti per ottener da bere. Bevendo si mise a riflettere sulla bomba che avrebbe fatto scoppiare, raccontando che lo Squartatore possedeva l’altra copia della «Statua che urla». Era l’unica traccia reale che avesse trovato: il fatto che l’uccisore di Lola Brent, due mesi prima, era indubbiamente lo stesso individuo che aveva comperato da lei l’oggetto, di cui la ragazza aveva rubato l’incasso. Sweeney non aveva dubbi in proposito: coincidevano i dati perfettamente. Doveva essere così.
Ma per il resto non possedeva nulla di preciso. Il viaggio a Brampton era stato un tentativo del tutto a vuoto, un tentativo pullulante di piccoli ometti che gli riempivano di pugni lo stomaco dolorante, prima e dopo aver bevuto con lui. E anche peggio di quei pugni era stata la conclusione negativa, dopo aver trovato uno Squartatore, una bionda e un artista pazzo, che lo Squartatore e la bionda erano morti da un pezzo e che l’artista possedeva un alibi. Inoltre, se anche Charlie Wilson non avesse avuto l’alibi, Sweeney non avrebbe mai potuto vederlo sotto l’aspetto di uno Squartatore. Aveva un temperamento collerico, ma non era tipo da brandire coltelli acuminati.
Bene, l’indomani avrebbe raccontato tutto. Se una fotografia della «Statua che urla» su quattro colonne nella prima pagina del “Blade” non avesse provocato qualche reazione… Sospirò e bevve un altro sorso.
Una mano gli batté sulla spalla.
XVII
Sweeney si voltò e si trovò davanti le spesse lenti che riparavano gli occhi di Greene e li rendevano così grossi e impressionanti.
Sorrise. — Ehi, Doc. Volete bere?
— Ho già bevuto al tavolo. Nick sta difendendomi due sedie. Venite con me.
Sweeney lo seguì a un tavolo d’angolo, portandosi dietro il suo bicchiere. Nick, in piedi accanto a loro, lo salutò e se ne andò per le sue faccende. Sweeney e Greene si sedettero.
— Trovato qualcosa? — domandò Greene.
— Forse. Non so ancora. Domani butterò fuori un grosso colpo; uno dei più grossi che si siano visti.
— Al di fuori degli assassinii di questi giorni.
— Forse più grosso.
— Sarebbe inutile chiedervi che cos’è, immagino.
— Voi ne avete già saputo qualcosa, Doc. Ma state allegro: entro dodici ore sarà per tutta la città.
— Lo aspetterò sveglio. Sono sempre preoccupato per Iolanda. Perciò spero che veramente voi abbiate scoperto qualcosa. — Si tolse gli occhiali e li pulì con cura, e Sweeney, osservandolo, notò che senza di essi cambiava espressione: appariva veramente preoccupato e stanco. E, quel che era più strano, appariva umano. Sweeney, quasi (non del tutto, ma quasi), desiderò non avere spedito a New York quei cento dollari.
Doc Greene rimise gli occhiali sul naso e fissò Sweeney attraverso le lenti, con gli occhi tornati enormi. Sweeney decise che quei dollari erano stati ben spesi.
— Nel frattempo — disse Greene — Sweeney, prendetevi cura di voi.
— Lo farò. C’è qualche motivo speciale?
Greene sogghignò. — Sì, per il mio bene. Da quando l’altra sera ho perduto la pazienza e ho parlato chiaro, l’ispettore Bline mi tiene d’occhio: pare che abbia preso sul serio il mio piccolo sfogo.
— È nel giusto?
— Mah… sì e no. In quel momento mi avevate esasperato e credo di aver parlato con convinzione. Ma, naturalmente, dopo averci riflettuto a freddo, ho giudicato di essere stato uno sciocco. Parlando in quel modo, ho compiuto proprio l’atto che vi mette al sicuro da me. Se mai decideste di uccidere un uomo, Sweeney, non andatelo ad annunciare alla polizia sperando di farcela lo stesso.
— Allora perché mi avete avvertito di badare a me stesso?
— Come vi ho detto, per mia tranquillità. Bline mi ha detto, mi ha anzi promesso, che se vi accadrà qualcosa, dopo la mia infelice e stupida dichiarazione, mi arresterà e mi manderà al diavolo. Anche se avessi un alibi, sarebbe sempre certo della mia colpevolezza. Se succede qualcosa a voi, Sweeney, io sono spacciato.
Sweeney sorrise. — Voi mi spingete a uccidermi, Doc, senza lasciare il biglietto d’addio.
— Non fatelo, per favore. Non penso che voi lo fareste, ma mi avete messo in allarme con la rivelazione che farete domani. Potreste averlo detto a qualcun altro, che non desiderasse affatto vedere sui giornali una simile rivelazione, per paura delle conseguenze. Capite quel che voglio dire.
— Sì, capisco. Ma voi siete il primo a Chicago cui io ne parli. L’altro che lo sa, si trova a centinaia di chilometri di qui. A parte che invece voi potreste raccontarlo.
— Non pensateci neppure, Sweeney. La vostra sicurezza personale è diventata fondamentale per me. Vi ho spiegato il perché. — Scosse il capo. — Sono veramente stupito di me stesso, per aver detto una cosa così stupida, in una simile compagnia. Io, un esperto psichiatra… Avete qualche nozione di psichiatria? Dalla maniera abile con cui mi avete spinto a perdere il controllo di me stesso, direi di sì… Comunque, non ha importanza, se non vi accadrà nulla. Però, finché dura questa storia, se volete prendervi una guardia del corpo, sono pronto a pagare la metà del prezzo. Willie vi piacerebbe? Avete mai incontrato Willie Harris?
— Willie è magnifico — rispose Sweeney — ma non credo che Harry Yahn sia disposto a dividerlo con me. Grazie, Doc; che abbiate parlato seriamente o no, io corro i miei rischi senza guardie del corpo. E se dovessi assumerne una, non lo verrei a dire a voi.
Greene sospirò. — Non avete ancora fiducia in me, Sweeney. Bene, debbo andare a trovare un cliente in un altro locale. Badate a voi stesso.
Sweeney tornò al bar a farsi riempire il bicchiere. Lo bevve lentamente e occupò l’intervallo fino alla seconda parte dello spettacolo, preparando il pezzo per il “Blade” dell’indomani.
Nella seconda parte dello spettacolo c’era una differenza, minima, ma molto importante: Iolanda Lang aveva una rosa rossa appuntata alla vita, sull’abito nero. Le rose di Sweeney erano dunque arrivate, nell’intervallo tra i due tempi dello spettacolo.
E lei ne aveva preso una con sé. Era tutto quel che voleva sapere. Gli parve, senza esserne certo, che gli occhi di lei incontrassero i suoi nell’attimo in cui il cane le si drizzava alle spalle. Ma quello non contava: contava solo che la rosa era sul suo abito.
Dopo lo spettacolo non cercò di vederla né di parlarle, domandandosi se fosse veramente un astuto psicologo come lo aveva definito Greene. Intorno a lei ci dovevano essere i poliziotti e Doc, se anche fosse andato a trovarla. Forse la sera dopo i poliziotti non ci sarebbero stati più a farle la guardia. E Doc… be’, a Doc avrebbe pensato al momento opportuno. Se non altro, fino a quel momento non aveva nulla da temere da parte di Greene: di ciò era convinto. Doc si era fregato con le sue stesse mani, con quella aperta minaccia alla vita di Sweeney.
Non attese la terza parte dello spettacolo: l’indomani sarebbe stata una grande giornata ed era ormai mezzanotte passata. Andò a casa e a letto, dove restò sveglio a leggere fino alle due. La sveglia alle sette e mezzo: era lunedì.
Era lunedì, una giornata luminosa e allegra, con un sole forte ma non eccessivo, considerando che si era all’11 agosto. Nessuna nuvola in cielo, e una brezza fresca dal lago. Tutto appariva piacevole.
Fece un’ottima colazione e alle nove si presentò al “Blade”, puntualmente. Appese giacca e cappello, si diresse all’ufficio di Wally Krieg, prima che il redattore capo potesse chiamarlo. Sotto il braccio portava la statuetta in un pacco.
Wally alzò la testa al suo ingresso. — Salve, Sweeney. Già passato da Crawley?
— No. Prima voglio mostrarti qualcosa — e cominciò a disfare il pacco.
— Va bene, però dopo va’ da Crawley. Stanotte hanno rubato a un rappresentante di commercio in gioielleria i suoi campioni e vogliamo arrivarci subito. È…
— Taci — interruppe Sweeney, allontanando la carta dal pacco e posando la statuetta sulla scrivania, davanti al capo redattore. — Wally, ti presento «La statua che urla».
— Piacere. Adesso togli di mezzo quella roba e…
— Taci — lo interruppe di nuovo Sweeney. — «La statua che urla» ha una sorella gemella. Una sola in tutta Chicago.
— Sweeney, che cosa stai almanaccando?
— Lo Squartatore. È lui che possiede la sorella della «Statua che urla». Noi possediamo questa, e non credere che vada in conto spese per una cifra minore del suo effettivo prezzo di vendita. Questo, naturalmente, sempre che tu voglia mandarla alla sezione fotografica e pubblicarne un ritratto in prima pagina oggi.
— Dici che lo Squartatore ne ha una copia? Sei sicuro?
— Nei limiti del possibile lo sono. Ce n’erano due a Chicago e lo Squartatore ne ha comperata una da Lola Brent proprio prima di ucciderla. Ed è probabilmente essa stessa il motivo ultimo della sua mania omicida! Prova a guardarla!
— E questa è l’unica altra esistente a Chicago?
— Sì — rispose Sweeney — se non ti interessa, la riporrò nel cassetto della scrivania e mi presenterò a Crawley. — Prese la statuetta e si diresse alla porta.
— Ehi! — urlò Wally.
Sweeney si fermò in attesa. — Wally — disse — io sono stufo marcio di questa faccenda dello Squartatore. Faresti bene a lasciarmi fuori. Naturalmente posso farti tutto il servizio per la prima edizione di oggi, ma non posso darti la statuetta comunque, se la vuoi, e uno qualunque dei ragazzi può rintracciarne la storia, come ho fatto io, attraverso Raoul Reynarde, e può darti il pezzo per domani o per l’ultima edizione di stasera. Io veramente…
— Sweeney, piantala di vaneggiare. Chiudi la porta.
— Certo, Wally. Da che parte?
Wally si limitò per tutta risposta a guardarlo e Sweeney giudicò di aver toccato il limite consentito e chiuse la porta dall’interno. Wally stava parlando al telefono con la cronaca, e abbaiava che per il gioielliere andasse un altro, perché Sweeney aveva un servizio speciale. Poi telefonò alla sezione fotografica e fu apparentemente soddisfatto di quel qualunque primo venuto che gli aveva risposto, perché diede l’ordine di presentarsi immediatamente a lui.
Poi si volse a Sweeney. — Metti giù quell’affare e con attenzione, prima che ti caschi in terra e si rompa.
Sweeney appoggiò la statuetta sulla scrivania. Wally la fissò attento, poi guardò Sweeney.
— Che cosa stai aspettando? Un bacetto di addio? Fila a fare il pezzo. Aspetta un momento, non subito. C’è un mucchio di tempo per la prima edizione: siediti e raccontami tutto. Ci può essere qualcosa che può fare un altro, mentre tu lavori.
Sweeney sedette e raccontò quasi tutta la vicenda. Tutto ciò che aveva intenzione di rivelare nell’articolo. Fu interrotto dall’arrivo del fotografo, al quale Wally affidò la statuetta, con precise istruzioni e minacce di orribili punizioni se essa fosse andata rotta prima di essere stata fotografata. Il fotografo uscì, camminando con precauzione e reggendo la statuetta come fosse stata un guscio d’uovo. Poi Sweeney riprese il suo racconto e lo terminò.
Wally concluse: — Bene. Adesso va’ a scriverlo. Credo però che tu non abbia fatto un gran bene ad avvertire la Ganslen di fabbricare le copie subito; alla polizia non andrà nulla a genio, perché vorranno avere in tutta Chicago una sola statuetta, finché sarà possibile. E anch’io sono di questo parere: anzi, ordinerò che questa copia venga distrutta appena sarà stata fotografata chiaramente. Mettilo nell’articolo, perché restringe il campo delle ricerche. Ma cosa diavolo volevi fare con quella telefonata alla ditta, per avvertirli?!
Sweeney si sentì a disagio: era stato un errore, certo, ed egli non voleva spiegarne i veri motivi riguardanti Charlie Wilson. Protestò debolmente. — Pensavo di doverli in qualche modo ripagare del favore che mi avevano fatto nella prima telefonata, dicendomi di averne venduto solo due a Chicago. Senza quello, Wally…
— Va bene — ammise Wally — li chiamerò io mentre tu scrivi la storia. Ecco, tu scrivi pure che la statuetta è stata fabbricata dalla Ganslen Art Company di Louisville e non avranno bisogno di mandare nessun rappresentante e nessun campione a Chicago e nella zona. Saranno sommersi di ordini per telefono, solo con le tue poche righe e la fotografia sul giornale. Ogni commerciante della zona gliela chiederà. Perciò adesso li chiamo e glielo dico. Con chi avevi parlato tu?
— Il direttore generale, quel Burke.
— Benissimo, lo dirò a Burke e lo pregherò di accettare, ma di tenere in sospeso tutti gli ordini di questa zona finché gli sarà possibile temporeggiare. E gli ripeterò di seguire il tuo consiglio di mettere il marchio segreto su ognuna delle copie. Ma questo non dirlo nell’articolo. E quando hai finito, portamelo qui, voglio passarlo io stesso.
Sweeney assentì e si alzò in piedi, mentre Wally continuava: — E farò un’altra cosa: telefonerò a Bline. Se pubblichiamo questa storia senza avvertirlo prima, diventeremo il numero uno della lista nera del dipartimento. Gli racconterò tutto e lo avvertirò che la pubblicheremo oggi, dopo averlo comunicato a lui.
— E se lui ne informa gli altri giornali?
— Non credo che lo farebbe. Se farà così, non vedrà né la statuetta né una sua fotografia, e la storia senza la fotografia serve a poco. Io penso di metterla in mezzo alla prima pagina, su quattro colonne.
— Devo dire che pubblichiamo la fotografia a colori, dal vero… cioè in nero?
— Va’ all’inferno, fuori di qui!
Sweeney andò all’inferno fuori di lì e sedette alla sua scrivania. Mentre infilava il foglio nella sua vecchia Underwood, pensò che le idee di Wally erano state buone; raccontare la storia alla polizia due ore prima non avrebbe nociuto, né avrebbe nociuto alle vendite della Ganslen (e ai guadagni di Charlie) il non evadere gli ordini provenienti da Chicago per una settimana o poco più. Il racconto sarebbe rimasto sempre interessante e sarebbe migliorato se avesse dato come risultato la cattura dello Squartatore.
Guardando l’orologio, scoprì di avere un’ora a disposizione per scrivere il pezzo e partì a battere sui tasti. Il suo telefono suonò: era Wally.
— Hai abbastanza tempo? — domandò. — O vuoi uno stenografo per dettare e far più in fretta?
— No, ce la faccio da solo.
— Benone. Mandami il pezzo man mano che esce dalla macchina, una pagina per volta. Ti metto un fattorino alla scrivania. Intitola «La statua che urla».
Sweeney intitolò «La statua che urla» e attaccò a scrivere. Un minuto dopo, un ragazzino gli soffiava nel collo il suo respiro, ma Sweeney ci era abituato e non ne provava più fastidio. Spedì l’ultima cartella dieci minuti prima che l’edizione andasse in macchina.
Accese una sigaretta e finse di essere molto occupato, così che Crawley non gli trovasse qualche altro lavoro da fare. Quando il trambusto della chiusura dell’edizione fu cessato e giudicò che Wally dovesse essere libero di nuovo, tornò all’ufficio del direttore.
— Come sta la «Statua che urla»? — domandò.
— È una donna finita. Se non ci credi, guarda nel cestino della carta.
— Preferisco di no — replicò Sweeney.
Entrò un ragazzetto con un fascio di giornali, che depose sulla scrivania di Wally. Sweeney ne prese uno e guardò la prima pagina: c’era la statuetta, un poco più grande del vero. Quattro colonne per la fotografia, due di testo. Wally stesso aveva fatto i sottotitoli.
— Bella presentazione — disse Sweeney e Wally grugnì un’approvazione, leggendo. — È un bel pezzo — continuò Sweeney — grazie per avermi raccontato la storia. — Wally grugnì di nuovo. — E per il resto della giornata che faccio? — domandò Sweeney.
Questa volta Wally non grugnì; depose il giornale e si preparò a esplodere. — Sei impazzito del tutto? Sei stato via per due settimane, sei tornato a lavorare da due ore e…
— Sta’ calmo, Wally. Non uccidere un uomo morto! Da dove credi che sia uscita la storia? Dall’aria? Ci ho lavorato tre giorni per venti ore al giorno. Tre giorni delle mie vacanze. Sono arrivato qui che l’avevo pronta da scrivere. E ho portato la statuetta per farmi compagnia. E perché? Perché ho lavorato fino alle quattro di stamattina e ho dormito due ore, ecco perché. Son caduto dal letto mezzo addormentato per venire qui a scrivere il più grosso colpo dell’anno per te e tu…
— Piantala. Va bene. Vattene all’inferno, fuori di qui. Di tutti i maledetti ubriaconi…
— Grazie. Davvero, Wally, adesso vado a casa. Resterò in camera mia per tutto il giorno e mi puoi telefonare quando vuoi. Mi butterò sul letto senza nemmeno spogliarmi e, se succede qualcosa in questa storia, chiamami subito. Arriverò con la stessa velocità che se stessi a ciondolare qua in giro. D’accordo?
— D’accordo, Sweeney. Se succede qualcosa, ci vai. E, senti, che vada o no, è un bel pezzo e un bel colpo.
— Grazie. E grazie di mandarmi all’inferno e di avermi tenuto il posto, mentre ero…
— Questo colpo d’oggi cancella tutto. Sai, Sweeney, oggi ci sono ben pochi cronisti che sappiano il loro mestiere. Mentre tu…
— Basta — interruppe Sweeney — se no fra poco piangeremo insieme di commozione dentro i nostri bicchieri e non ne abbiamo a disposizione, qui.
Prese con sé una copia del giornale dalla scrivania di Wally, per non doverne cercare un’altra o aspettarla in strada, e se ne andò a casa. Chiamò un taxi, in parte perché era ancora in possesso di molto più denaro di quanto gliene occorresse, in parte perché si sentiva improvvisamente preso da una stanchezza invincibile. Forse era la reazione, ma soprattutto era perché, per il momento, non c’era nulla di sensato da fare, tranne che aspettare.
La rivelazione della statuetta avrebbe potuto condurre alla cattura dello Squartatore oppure no. Se sì, sarebbe accaduto nel pomeriggio o nella notte. Se no, pazienza. L’indomani mattina alle nove sarebbe tornato al lavoro e non credeva che Wally lo avrebbe ancora tenuto fuori dal caso dello Squartatore. Avrebbe dovuto dimenticare la statuetta e cercare da un’altra parte. Forse andando in giro, a indagare con maggior insistenza dove aveva già indagato.
A casa si sistemò comodamente e rilesse tutto l’articolo, con attenzione e calma. Wally lo aveva completato con brevi resoconti degli altri tre assassinii (la storia della statuetta riguardava in particolare soltanto Lola Brent che l’aveva venduta allo Squartatore), ma non aveva cambiato una parola del pezzo di Sweeney.
Questa volta lesse anche il seguito dell’articolo in un’altra pagina, poi ripiegò il giornale e lo pose in cima al mucchio degli altri che narravano le imprese dello Squartatore.
Si abbandonò cercando di rilassarsi completamente, ma gli era impossibile. Accese il giradischi che appariva nudo senza la statuetta nuda, e suonò la Quarta sinfonia di Brahms. Lo confortò un poco, ma non riuscì a concentrarvisi.
Alle due aveva fame, ma non volendo correre il rischio di perdere una possibile telefonata, scese dalla signora Randall a chiederle un panino col prosciutto. Aveva deciso però di non pensare più al telefono. In quel momento l’apparecchio suonò e Sweeney quasi si strangolò col boccone di sandwich che aveva appena addentato e quasi rotolò per le scale, precipitandosi a rispondere. Ma la chiamata era per un altro pensionante.
Ridiscese al pianterreno a finire il panino, poi tornò in camera. Mise sul giradischi i dischi di De Falla e, ascoltandoli, tentò di leggere le novelle brevi di una raccolta di Damon Runyon. Ma non arrivava né ad ascoltare né a leggere bene.
Il telefono squillò. Ci arrivò in un istante, sbattendo la porta della stanza, per non udire il suono del giradischi, impiegando così un secondo meno di quanto sarebbe occorso fermandosi a chiudere l’apparecchio.
Era Wally. — Salute, Sweeney. Va’ in State Street. L’indirizzo lo sai.
— Che cosa c’è?
— Hanno preso lo Squartatore. Stammi a sentire, noi abbiamo la notizia e un comunicato ufficiale nell’ultima edizione che va in macchina adesso, e non possiamo fermarla per i particolari. Abbiamo il succo, ma non tutta la storia, quella la metteremo domani. È un avvenimento della sera: noi battiamo quelli della mattina con il comunicato e la notizia, ma loro ci batteranno con i particolari. Comunque, ormai non c’è fretta. Va’ là e raccogli tutti i dati. Ma scriviti poi il pezzo con calma, quando vieni qua domani.
— Ma che cos’è successo, Wally? Ha attaccato un’altra volta la Lang? Lei sta bene?
— Pare di sì. Sì, ha provato un’altra volta e il cane l’ha preso, come era quasi riuscito la volta scorsa, quando invece lui ha sbattuto la porta…
— So benissimo com’è andata l’altra volta. Ti domando cosa è successo oggi.
— Ma te l’ho detto, maledizione. Lo hanno preso. È ancora vivo, ma non credo che durerà molto. L’han portato all’ospedale, ma non ci perdere tempo: non ti lascerebbero parlare. È caduto dalla finestra. Al posto della ragazza, credo. Buon lavoro, Sweeney. La tua storia ha avuto un bel successo: non solo aveva la statuetta, ma l’aveva con sé.
— Chi? Voglio dire, sapete il nome?
— Il nome? Naturale che sappiamo il nome. È Greene, James J. Greene. L’ispettore Bline ha detto che lo aveva sempre sospettato. E adesso smetti di interrogare me. Va’ là.
Il colpo del ricevitore che Wally riattaccava rimbombò nell’orecchio di Sweeney, ma per lungo tempo egli rimase immobile a fissare il nero apparecchio silenzioso, prima di deporre a sua volta il microfono.
XVIII
In certo modo era incredibile: ci aveva pensato per tutto quel tempo, eppure era difficile accettarlo come una realtà. Per una cosa, una cosa sola non riusciva a immanginare Doc Greene morto. Ma Horlick, che si trovava già sul posto all’arrivo di Sweeney, gli aveva detto che era proprio moribondo.
— Sì — aveva detto — Bline ha avuto una telefonata dall’ospedale; ha mandato due dei suoi uomini da Greene per ottenerne una confessione completa e firmata, ma credo che non ci siano riusciti e che in ogni caso non avrebbe potuto firmare dato che, fra le altre cose, ha tutt’e due le braccia spezzate. E a quanto ho sentito, non era neanche in sé. Io sono arrivato qui prima che lo portassero via.
— Come mai così in fretta?
— Pura fortuna. Ero già in strada per venire qui: Wally mi aveva mandato a intervistare Iolanda Lang e a chiederle se non aveva mai visto la statuetta. Se non l’aveva vista, com’era probabile, avrei dovuto comunque imbastire un pezzo per le ultime edizioni domandandole le sue impressioni davanti alla fotografia e se questa poteva essere una rappresentazione dei suoi sentimenti quando lo Squartatore l’aveva aggredita. Così sono arrivato qui press’a poco insieme all’ambulanza della polizia.
— E Iolanda non è più in casa?
— No, è scappata col cane subito dopo la faccenda. Un altro choc o lo spavento: è probabile che si trovi in un posto qualsiasi in preda a un attacco isterico. Io vado al giornale con il materiale che ho. Tu va’ su a vedere se puoi scoprire qualcos’altro che ti serva. Ci troverai Bline.
Se ne andò per State Street mentre Sweeney si apriva un passaggio tra la folla raccolta dinanzi all’ingresso, quello stesso nel quale Sweeney poche notti prima aveva scorto una donna e un cane. Questa volta la folla era più numerosa, benché oltre i vetri dell’atrio non vi fosse nulla di interessante. Sweeney, grazie alla sua tessera di giornalista, riuscì a oltrepassare il poliziotto di guardia alla porta e corse fino al terzo piano.
L’appartamento di Iolanda Lang, dei quattro componenti il terzo piano, era quello rivolto a settentrione. Era inutile cercare il numero sulla porta, dato che era spalancata e le stanze rigurgitavano di poliziotti. Almeno così sembrava: quando Sweeney entrò, vide che in realtà ce n’erano soltanto due oltre a Bline.
Bline gli si avvicinò. — Se non fossi tanto felice, Sweeney, vi tirerei il collo. Da quanto tempo possedevate quella dannata statuetta?
— Non ricordo con precisione, capo.
— È quel che dico io. Però… comunque, ormai abbiamo preso lo Squartatore e senza neppure un altro delitto, anche se deve esserci arrivato molto vicino. Perciò vi perdono tutto e sono pronto anche a offrirvi da bere. Credo di aver finito qui; lascerò soltanto uno dei ragazzi ad aspettare la Lang per essere sicuro che stia bene.
— Potrebbe anche star male?
— Fisicamente, certo no. Non è riuscito a toccarla con il coltello, perché il cane gli è saltato addosso prima. Ma mentalmente è probabile che sia in una condizione molto peggiore dell’altra volta. E, perdio, la capisco.
— Demonio ha ammazzato Greene?
— Lo ha azzannato per bene, ma non da ammazzarlo: Doc deve essere riuscito a tenergli un braccio attraverso le mascelle. Però poi è caduto dalla finestra: deve essere arretrato fino al davanzale e il cane, saltandogli addosso, lo ha spinto fuori.
Bline accennò a una finestra spalancata, a cui Sweeney si affacciò: due piani più sotto si apriva un cortiletto di cemento, graziosamente guarnito dai rifiuti che i vari inquilini avevano buttato dalla finestra.
— Dov’è la statuetta? — domandò Sweeney.
— Quel che ne rimane è nel cortile. Ne abbiamo trovato tanti pezzi che bastano a identificarla: è evidente che Doc la stringeva ancora in mano quando è caduto, forse nel tentativo di respingere con essa il cane. C’era anche il coltello. Doveva tenere in una mano la statuetta e nell’altra il coltello: è molto strano anzi che il cane non si sia ferito. Immagino che Doc dovesse manovrare con un braccio per coprirsi la gola e con l’altro non riuscisse a essere abbastanza svelto. Un cane come quello ad avercelo addosso è un carro armato!
Sweeney guardò di nuovo il cortile e rabbrividì un poco.
— Accetterò da bere, capo — disse — e poi offrirò io. Ma andiamocene di qui.
Si recarono al bar all’angolo, dal quale era partita la telefonata di allarme nella notte della prima aggressione a Iolanda. Bline ordinò da bere.
— Sono al corrente di tutto — disse Sweeney — tranne che dell’accaduto. Volete raccontarmelo in ordine?
— Tutta la storia? O solo questo pomeriggio?
— Questo pomeriggio.
— Iolanda era sola in casa — narrò Bline — poco dopo le tre. Lo sappiamo perché avevo messo uno dei miei di guardia: avevamo già preso in affitto l’appartamento di fronte, dove c’era sempre un agente, tranne nelle ore in cui la ragazza era al club a lavorare. E avevamo praticato un’apertura così da sorvegliare la porta. L’agente vide giungere Doc Greene con una scatola sotto il braccio e bussare alla porta. Fin lì tutto era a posto; Doc era venuto altre volte e io avevo ordinato di lasciarlo entrare. Se si fosse trattato di un estraneo, Garry, l’agente di servizio, avrebbe aperto la porta e puntato la rivoltella.
— Doc veniva per affari? Parlo delle altre volte che era stato qui — disse Sweeney.
Bline scosse le spalle. — Non lo so e non importa. Non siamo la squadra del buon costume; dovevamo solo cercare lo Squartatore. E dall’alibi di Greene avevo proprio creduto che lui fosse a posto, invece mi sbagliavo. Voi, Sweeney, lo sospettavate sul serio o ne parlavate soltanto perché vi era antipatico?
— In verità non lo so, capo. Ma che cosa è successo?
— Dunque, Iolanda ha aperto la porta e lo ha fatto entrare. Non erano passati neanche cinque minuti che si è scatenato l’inferno. Garry ha sentito Iolanda urlare, il cane ringhiare e Greene gettare un grido, quasi tutti insieme: allora ha spalancato la porta ed è corso attraverso l’atrio. Si è buttato contro la porta di Iolanda, ma era chiusa e, mentre stava per sparare nella serratura, la porta si è spalancata. Garry ha visto Iolanda che lo ha spinto indietro col viso bianco come un lenzuolo e l’espressione di chi ha visto qualcosa di orribile. Però non era sporca di sangue né ferita. Garry, impacciato dalla rivoltella in mano, ha cercato di afferrarla con l’altra, ma il cane gli è balzato addosso, e lui è stato costretto a lasciarla andare per coprirsi la gola. La bestia è riuscita a strappargli una manica senza però prendergli il braccio. Intanto, Iolanda lo aveva superato ed era corsa giù per le scale seguita dal cane, così Garry non ha sparato all’animale. Dato che Iolanda sembrava incolume, si è precipitato nell’appartamento per vedere cosa era accaduto. Era vuoto e Garry si è domandato che cosa fosse successo di Greene; poi ha sentito un gemito dal cortile e, affacciandosi alla finestra spalancata, di quelle che si aprono in fuori invece che verso l’alto, ha visto Greene a terra. Mi ha chiamato subito e io sono arrivato con l’ambulanza. Era ancora vivo, ma in agonia e incosciente. Ha detto poche parole, ma sufficienti.
— Per quale motivo credete che Greene sia venuto qui?
— Quali pensate che possano essere i motivi per un pazzo omicida, Sweeney? Come diavolo posso saperlo, io? Io credo che sia stato il vostro articolo sulla statuetta a farlo uscire di sé. Era in suo possesso e forse Iolanda lo sapeva: appena lei avesse visto il vostro giornale, sarebbe stato scoperto tutto. Perché se la sia portata dietro in una scatola, venendo qui a uccidere la ragazza, non lo capisco. Però, negli ultimi istanti, quando il cane ha salvato Iolanda, saltandogli addosso, teneva la statuetta in una mano e il coltello nell’altra. Forse è addirittura saltato dalla finestra per sfuggire al cane, ma ritengo più probabile l’ipotesi che sia caduto per caso essendovisi appoggiato.
— Che cosa è accaduto a Iolanda, secondo voi?
— Un altro choc, è evidente. È probabile che stia vagando intontita, ma è ormai al sicuro: si riprenderà da sé e ritornerà. In caso contrario, non sarà difficile trovarla; una donna come lei con un cane come quello! Bene, vado a far rapporto. Saluti, Sweeney.
Bline se ne andò e Sweeney ordinò un altro bicchiere. Poi un altro e un altro ancora, e quando lasciò il bar per tornare alla casa di Iolanda era ormai buio. C’era ancora un agente di guardia all’ingresso e da lui Sweeney fu informato che Iolanda non era ancora tornata.
Percorrendo Clark Street si fermò in un ristorante, dove ordinò una aragosta. Mentre gliela cuocevano, entrò nella cabina del telefono e chiamò Ray Land, l’investigatore di New York.
— Sono Sweeney, Ray. Raccontami cosa hai trovato.
— Me l’ero immaginato, Sweeney. Ho sentito alla radio, mentre pranzavo, che il vostro Squartatore di Chicago era stato preso e il suo nome mi era familiare. Ho pensato perciò che tu non mi avresti fatto continuare l’inchiesta. Ci ho impiegato un giorno solo e ti rimanderò un assegno di cinquanta dollari.
— Hai scoperto qualcosa?
— Non ancora, non era facile, dato che erano passate già due settimane. Il punto più interessante è stata la risposta della cameriera che si è ricordata di aver trovato una mattina il suo letto intatto. Ma non è riuscita a rammentarsi di quale mattina si trattasse. Avrei dovuto parlarle un’altra volta, dopo averle lasciato il tempo di rifletterci. L’assegno devo mandartelo al giornale?
— Certo. E grazie, Ray.
Chiamò la centrale di polizia e chiese dell’ispettore Bline. — Nessuna notizia di Iolanda?
— Sì, Sweeney, una piuttosto strana. — La voce di Bline esprimeva stupore e imbarazzo. — Mezz’ora dopo l’aggressione di Greene, si è presentata all’“El Madhouse” e, dopo essersi fatta dare del denaro da Nick, è scomparsa di nuovo. Finora nessun’altra notizia.
— All’inferno! — esclamò Sweeney. — Come si comportava?
— Un po’ agitata, ha detto Nick, ma non troppo. Era pallida e con un’espressione strana, ma Nick non ci ha fatto caso: non aveva ancora saputo quel che era successo a Doc e lei non glielo ha raccontato. Ha soltanto chiesto del denaro, inventandogli una storia qualunque sulla necessità di comperare qualcosa, facendo un buon affare. Nick ha dichiarato di aver pensato che le fosse stata offerta una pelliccia di visone rubata o roba del genere per poche centinaia di dollari e che lei, pur desiderandola, avesse un po’ paura della faccenda e perciò apparisse innervosita.
— Quanto le ha dato?
— Una settimana di stipendio. Avrebbe dovuto in ogni caso pagarla domani sera e perciò non gli è importato pagarla un giorno prima.
— È molto strano tutto questo.
— Sì, ma spiegabile. Credo che la ragazza voglia restare nascosta per uno o due giorni. Ha subito uno choc, ma solo per qualche minuto, quando è fuggita dopo l’aggressione; ha superato evidentemente in fretta il peggio, se entro mezz’ora è potuta andare da Nick e ha potuto parlargli in modo normale. Credo di indovinare che non si senta in grado di affrontare noi e i giornalisti e tutto il resto. Fra pochi giorni, appena ripreso il suo equilibrio, si farà vedere; non manderà certo a monte il suo contratto, con la pubblicità e il resto.
— Può darsi. Voialtri la cercate?
Bline rispose: — No. Perché? La troveremmo con facilità: basterebbe controllare gli alberghi. Ma da quanto ha detto Nick, la ragazza sta bene e quindi a noi non interessa. Se sapessi che va in giro come una smemorata per lo choc…
— Non è tornata a casa a prendere i vestiti?
— No, il mio agente è ancora là e ha l’ordine di telefonarmi appena lei arriva. Penso che sia stato anche per questo che ha voluto il denaro; per non tornare indietro ad affrontare tutto il baccano.
— Bene, capo — disse Sweeney — grazie mille. Tornò al tavolo proprio mentre arrivava l’aragosta.
La mangiò pensosamente: non comprese con esattezza che cosa lo rendesse pensoso, finché non ebbe ridotto l’aragosta al solo guscio.
In quel momento, a un tratto, lo seppe, e in lui si scatenò l’inferno.
XIX
Non si affrettò. Gli portarono il caffè ed egli lo bevve con lentezza, ancora odiando se stesso per quel che pensava. Poi fu anche peggio, perché scoprì di non «pensarlo» più: lo «sapeva». Era come un gioco a incastro, dove ogni risposta da lui indovinata si adattava a una posizione e a nessun’altra.
Pagato il conto, si recò all’“El Madhouse”. Nick vedendolo entrare gli andò incontro. — Salve, Sweeney. Sono preoccupato: sapete qualcosa di dove si trovi Iolanda e se stasera abbia intenzione di venire?
— Anch’io sono preoccupato — disse Sweeney. — Non avete visto, Nick, se Iolanda uscendo sia salita in taxi?
— No, si è incamminata a piedi, verso nord.
— Com’era vestita?
— Di verde, un abito da pomeriggio, senza soprabito né cappello. E il cane era senza guinzaglio. Ditemi, per Doc è finita, vero?
— Sì.
— E aveva minacciato di ammazzare voi! Siete fortunato, Sweeney.
— Sì.
Uscì domandandosi fino a che punto sarebbe stato fortunato. Da cinque ore ormai Iolanda si era allontanata da quel luogo ed era già un colpo di fortuna che fosse andata verso nord, invece che nel Loop, dove sarebbe stato impossibile rintracciarla.
Ebbe fortuna. Dopo un isolato e trenta domande trovò un giornalaio che era rimasto a quel posto per tutto il pomeriggio e aveva visto Iolanda. Certo che la conosceva, di vista. E spiegò che gli era passata davanti voltando poi in Ohio Street.
Anche Sweeney voltò in Ohio Street.
Non era poi troppo difficile. Una bionda magnifica, vestita di verde chiaro con un cane che sembrava uscito da un romanzo di James Oliver Curwood. Dopo cinquanta metri aveva trovato altre due persone che l’avevano notata.
E infine, sulla stessa via, arrivò alla sua meta: un tabaccaio non solo aveva visto la ragazza e il cane, ma li aveva scorti entrare nella casa di fronte. — Proprio quella là, con il cartello stanze ammobiliate. — Sweeney entrò in quella casa: accanto all’uscio c’era un campanello con una scritta che diceva: Suonate per la portinaia. E Sweeney suonò.
La portinaia era una donna grossa e sciatta con un occhio storto. Le maniere dolci con lei non potevano avere efficacia e sembrava anche meno rude di quanto fosse in realtà. Sweeney tirò fuori il portafoglio e ne estrasse un biglietto da venti dollari in maniera da mostrarle la figura nell’angolo. — Vorrei parlare con la signora che ha affittato una stanza questo pomeriggio tardi. Quella col cane.
La donna non mostrò la minima esitazione nel prendere la banconota. La fece scomparire nella scollatura, in un seno così abbondante che Sweeney si domandò se le sarebbe riuscito di ritrovarla senza una lunga opera di ricerca. — Ha preso una stanza al secondo piano — rispose. — La porta in faccia alla scala.
Sweeney la ringraziò e trasse dal portafoglio un’altra banconota dello stesso valore. La donna stese la mano, ma lui non gliela diede. — Vorrei sapere i particolari: che cosa vi ha detto e che cosa ha fatto dopo essere arrivata qui.
— Che cosa volete da lei? E chi siete?
— Non importa, va bene. Vado su addirittura a parlarle — disse Sweeney e cominciò a infilare il biglietto nel portafoglio.
La donna allora parlò molto rapidamente. — È arrivata nel pomeriggio tardi e ha chiesto una stanza. Io ho detto che non teniamo cani e lei ha detto che avrebbe pagato extra e che il cane era educato, così le ho dato la stanza. Non aveva bagaglio e neppure una giacca o un cappello.
— Per quanto ha detto che si sarebbe fermata?
— Non lo sapeva, ma ha detto che avrebbe pagato per tutta la settimana senza badare a quanto si sarebbe fermata.
— Quanto ha pagato?
— Venti dollari — rispose la donna, dopo aver esitato un attimo.
Sweeney la fissò, pensando: “E tu, carogna, la vendi per altri venti”. A voce alta domandò: — E dopo?
— È uscita lasciando il cane in camera ed è tornata carica di pacchi. Poi è ridiscesa per portare a spasso il cane al guinzaglio. Prima invece non lo aveva. E si era travestita: aveva una parrucca nera, un altro vestito e degli occhiali di tartaruga. Proprio non la si sarebbe riconosciuta.
— Era una parrucca o aveva tinto i capelli?
— Una tintura non si sarebbe certo asciugata tanto presto.
— Avete altro da dirmi su di lei?
La portinaia rifletté un poco, poi scosse la testa. Sweeney le tese il secondo biglietto con precauzione, per evitare di toccarla. Lo guardò sparire nell’ampio petto e pensò che neppure per quaranta dollari sarebbe sceso in quelle profondità a ripescare le sue banconote. Qualcosa nella faccia di lui costrinse la donna a ritirarsi.
Fu un bene, perché Sweeney non desiderava sfiorarla mentre passava dirigendosi verso le scale. Quando si trovò a metà salita, udì la porta sbattere. Per quaranta dollari la portinaia poteva disinteressarsi della visita alla sua nuova ospite. Sweeney desiderò di non averle dato il denaro: avrebbe potuto comunque ricevere da lei quell’informazione e si vergognava di se stesso per aver scelto la via più facile.
Infine si trovò davanti alla porta del secondo piano e non pensò più alla portinaia che gliela aveva indicata.
Bussò delicatamente. Vi fu all’interno un movimento e l’uscio si aprì di pochi centimetri. Due grandi occhi lo fissavano dietro le lenti cerchiate di tartaruga. Ma quegli occhi lui li aveva già visti più di una volta. Lo avevano fissato senza sguardo attraverso una vetrata nella State Street, in una notte che sembrava appartenere ad anni e anni prima. Lo avevano guardato al di là di un tavolo all’“El Madhouse” e lo avevano sfiorato dal palcoscenico.
E lo avevano fissato dal viso di una statuetta nera che urlava in silenzio come la sua modella aveva urlato nella realtà.
Sweeney la salutò. — Salve, Bessie Wilson.
Gli occhi si spalancarono e la donna sussultò. Ma fece un passo indietro e Sweeney entrò.
Era una stanza piccola e misera con un letto, un armadio e una sedia, ma Sweeney non poté farci attenzione. A lui sembrò completamente riempita dal cane. Per quanto la portinaia avesse parlato dell’animale, per quanto lui stesso ci avesse pensato e avesse rintracciato Iolanda per mezzo suo, pure non aveva calcolato che Demonio sarebbe stato lì. Ma Demonio c’era. Si accucciò pronto a saltare alla gola di Sweeney e il suono che usciva dalla gola del cane era quello stesso brontolio minaccioso che Sweeney aveva già udito una volta.
— Fermo, Demonio. Tienilo d’occhio — ordinò Iolanda. Aveva chiuso la porta e Sweeney sentì la sua fronte inumidirsi e una sensazione di freddo percorrergli la schiena. Improvvisamente si rendeva conto di essersi tanto impegnato a risolvere il problema da dimenticare il pericolo in cui la soluzione di esso lo avrebbe posto.
Guardò Iolanda Lang… Bessie Wilson.
Anche con la parrucca e gli occhiali era incredibilmente bella. A quanto pareva, l’unico indumento che la copriva era una vestaglia, da cui spuntavano i piedi nudi. La vestaglia era chiusa davanti da una lunga chiusura lampo.
Sweeney si domandò… poi si rese conto di non aver tempo di domandarsi nulla. Avrebbe fatto meglio a dire qualcosa, qualunque cosa.
— Alla fine l’ho capito, Bessie, tranne che in qualche particolare. Il medico della clinica a Beloit, quello che si è interessato del vostro caso dopo… l’affare di Brampton, dev’essere stato Doc Greene. Non è vero?
Se lei avesse risposto, anche per dichiarare inutilmente di non capire il suo discorso, Sweeney si sarebbe sentito meglio, ma la donna non parlò. Si tolse gli occhiali e la parrucca e li posò sul tavolino accanto alla porta. Scosse la testa, e i capelli biondi ripresero le loro morbide pieghe. Lo fissava gravemente, ma in silenzio.
Sweeney aveva la gola secca e dovette schiarirsi la voce prima di riuscire a parlare. — Deve essere stato Greene, sia pure con un altro nome. E si è innamorato di voi pazzamente. Un amore davvero folle, tanto da distruggere la propria carriera per restare con voi. O forse aveva combinato qualche guaio che lo costrinse per forza a lasciare la professione. Siete al corrente che Doc scrisse a vostro fratello che eravate morta? E anche oggi Charlie crede alla vostra morte. Ma Greene deve avere firmato dei documenti per portarvi fuori della clinica e ha lasciato il suo posto per accompagnarvi a Chicago. Deve aver creduto di avervi guarita fin dove era possibile guarirvi, ma presumeva di riuscire a dominarvi e a controllarvi come psichiatra. Infatti lo poteva e lo ha fatto, immagino, finché è accaduto un fatto nuovo a sua insaputa che vi ha sconvolto la mente. Era un tipo molto intelligente, Iolanda. Scommetterei che la coreografia del vostro ballo col cane l’ha creata lui. Ed è buona, maledettamente buona. Mi sono domandato per qualche tempo perché non vi procurasse scritture migliori… ma deve essere stato per non correre rischi facendovi diventare famosa, in una simile situazione. A ragion veduta vi tratteneva in un ambiente di second’ordine, come a ragion veduta aveva nascosto i vostri veri rapporti di medico e di ammalata, col diventare agente teatrale e trovarsi altri clienti.
Sweeney si schiarì la gola di nuovo, sempre sperando che lei parlasse. Non parlò: lo guardava soltanto. Ed il cane lo fissava con un bagliore giallo, pronto a scattare alla minima parola o gesto della sua padrona, o al minimo movimento di Sweeney.
Egli riprese: — E voi siete stata bene fino a quel giorno, due mesi fa, quando siete entrata per caso nel negozio di Raoul e avete comperato da Lola Brent la statuetta. L’avete riconosciuta, Iolanda, quella figura?
Pensava che a questo avrebbe potuto rispondere. Non lo fece.
Sweeney trasse un profondo respiro e al lieve movimento delle sue spalle il cane cominciò a ringhiare. Sweeney si immobilizzò e la bestia tacque.
Riprese di nuovo a parlare. — Bessie, quella statuetta l’ha creata vostro fratello Charlie e voi ne siete stata il modello. Rappresentava quasi alla perfezione i vostri sentimenti quando… quando accadde il fatto che vi fece impazzire. Non so se vi siate riconosciuta in quella figura e abbiate compreso che era opera di Charlie. Ma il vedere quella statua distrusse tutto ciò che Doc Greene aveva fatto per voi. Solo che nella vostra mente si è operata una trasposizione. Nel vedere voi stessa, nella statuetta, come una vittima, nel vedervi dall’esterno in quella condizione, vi siete trasformata dentro di voi nell’aggressore, l’essere armato del coltello. La donna che vi ha venduto la statuetta era una bella creatura bionda e la vostra mente si è fissata su di lei. Siete uscita, avete comperato un coltello e avete aspettato, con l’arma nella borsetta, finché l’altra non è comparsa. Era stata licenziata e non c’è voluto molto perché giungesse. L’avete seguita fino a casa e l’avete uccisa, così come lo Squartatore di Brampton avrebbe ucciso voi, se Charlie non avesse sparato. Così…
Dal «così» non c’era più dove dirigersi e la parola rimase sospesa nel silenzio. Quando fu stanco di restare attaccato a quel «così», Sweeney ricominciò a parlare. — Portaste la statuetta a casa e… ne avete fatto un idolo, vero, Iolanda, o qualcosa di simile? Forse lo adoravate con dei riti basati sul coltello? O no?
Ancora nessuna risposta ed egli ebbe l’impressione che quegli occhi, fissi su di lui, luccicassero nell’ombra. Continuò a parlare, perché aveva paura di quel che sarebbe accaduto quando avesse smesso.
— E avete ucciso altre due volte. Ogni volta una bella donna bionda. Ognuna di loro era passata davanti a voi in State Street poco prima di venir uccisa. E sono certo che ogni volta voi uscivate da un rito con l’idoletto, dopo il quale scendevate nella strada, seguivate e uccidevate la prima donna che passava, che fosse bionda e bella e rispondesse alle esigenze della vostra follia. Ed è stato solo dopo il terzo assassinio che Doc Greene ha scoperto o ha compreso improvvisamente che voi eravate colpevole. Ancora non sapeva della statuetta, ma in un modo o nell’altro riuscì a ricostruire la vera personalità dello Squartatore e ne fu allarmato: se la verità fosse stata risaputa, si sarebbe trovato in un mare di guai. Quanto a voi, vi avrebbero semplicemente rinchiusa in manicomio, ma Doc… non so quali accuse gli avrebbero mosso, ma ce n’erano a dozzine. Lo avrebbero schiacciato. Perciò fece un tentativo disperato. Sapevate, Iolanda, che era stato lui ad aggredirvi quella notte?
Se soltanto avesse risposto…
Continuò lui: — Doc ha tentato una cura estrema: lo choc. Ha pensato che il venir di nuovo aggredita potesse capovolgere la vostra fissazione, o per lo meno farvi rientrare nel tipo di pazzia precedente. E tutto sarebbe stato meglio che vedervi omicida. Forse aveva immaginato di riuscire a vincere e stroncare qualunque istinto criminale in voi. Perciò quella notte vi aggredì nell’atrio. Non fece uso naturalmente di un normale rasoio o coltello, perché non intendeva farvi del male. Deve aver adoperato un pezzo di legno, direi, con una lama di rasoio, sporgente non più di un paio di centimetri, così da produrre una ferita superficiale. E, per quanto eterodossa, la sua cura aveva ottenuto un risultato fino a un certo punto. Se avesse saputo allora quello che significava veramente la statuetta per voi e l’avesse portata via mentre voi eravate all’ospedale, forse voi non avreste di nuovo perduto la ragione. Ma non lo sospettava finché io non ho pubblicato il pezzo stamattina sul giornale. E deve aver tremato per tutto il tempo che io riuscissi a scoprire la verità, per quanto fingesse, tenendosi in contatto con me, di prodigarsi per la cattura dello Squartatore per sapere voi al sicuro da ogni pericolo. Ci siamo molto divertiti Doc e io. Sono veramente addolorato che…
Trasse un lungo sospiro e riprese: — Ma quando ha letto il giornale di oggi, Doc ha capito l’importanza della statuetta e ha capito che era stata il motivo della vostra pazzia omicida, perciò ha deciso di portarvela via subito. Nel pomeriggio è venuto a casa vostra, con una scatola vuota, per mettervela dentro. Non voleva che lo vedessero uscire con un pacco, non introdotto già da lui, non voleva che chiunque vi fosse di guardia potesse domandare che cosa conteneva il pacco. Ha giocato ancora la sua vita per voi e questa volta ha perduto. Ha trovato la statuetta, sul cassettone o sulla scrivania o dovunque voi la tenevate, assieme al coltello. Li stringeva in mano tutti e due e quella vista di lui che toccava il vostro feticcio, vi ha fatto… sì, vi ha fatto scatenare Demonio, che lo ha ucciso.
Sweeney gettò un’occhiata a Demonio e dopo avrebbe preferito non averlo fatto. Tornò a guardare Bessie Wilson. — Voi non sapevate con certezza se fosse morto o vivo, laggiù nel cortile, e non sapevate che cosa avrebbe svelato alla polizia, perciò siete scappata. Ma Doc non vi ha dato la colpa. Invece, sapendo che stava per morire, ha preso la colpa su di sé al vostro posto e ha detto di essere lui lo Squartatore. Deve aver pensato o sperato che, una volta spezzata la statuetta, voi sareste stata a posto anche senza di lui.
La fissò e aprì la bocca per rivolgerle la domanda vera. — Sei tu? E ora stai bene?
Ma non ebbe bisogno di formularla. La risposta era là, negli occhi di lei.
Pazzia.
La mano destra della donna salì al fermaglio della lampo, lo trovò, diede uno strappo e la vestaglia le cadde a terra, in un cerchio intorno ai piedi nudi. Sweeney trattenne il respiro per un attimo, come aveva fatto nella notte in cui l’aveva scorta dai vetri.
Allungando la mano dietro di sé, la donna aprì un cassetto del mobile e vi frugò dentro. Quando trasse la mano, brandiva un coltello, un coltello nuovo, affilato, lungo una ventina di centimetri.
Era una sacerdotessa officiante nuda con il coltello sacrificale.
Sweeney sudava. Cominciò ad alzare le mani, e il cane ringhiò e si rattrappì per lo slancio prima ancora che si fosse mosso. Rinunciò a muovere anche un dito.
Parlò di nuovo con voce calma e piana, e sicura. — Non farlo, Iolanda. Non sono io quello che tu vuoi uccidere. Non sono né biondo né bello. Non sono un’immagine di Bessie Wilson aggredita da un pazzo… — Sorvegliava gli occhi di lei e comprese che lei non ascoltava e non afferrava una sola parola del suo discorso, che le facoltà normali della sua mente si erano spezzate, chissà quando. Al momento in cui egli aveva taciuto, la donna aveva fatto un passo avanti e si era fermata pronta, con il coltello alzato, ma le parole, il suono della voce l’avevano fermata. Il fluire delle parole l’aveva incantata, non il loro significato. Forse, se continuava a parlare… Lei avanzava di nuovo, il coltello brandito. Di nuovo Sweeney accennò appena un passo indietro e di nuovo il cane ringhiò e si preparò a saltare.
— Ottantasette anni fa — disse Sweeney — i nostri padri crearono su questo continente una nuova nazione, concepita nella libertà e basata sul principio dell’uguaglianza umana…
Iolanda si era fermata di nuovo, in una immobilità quasi catalettica. Il sudore scorreva sui fianchi di Sweeney, da sotto le ascelle. — E ora — continuò — siamo impegnati in una grande guerra civile, che testimonia come… la nazione… È tutto quel che ricordo. Mary aveva un agnellino; il vello era bianco come la neve…
Finita la cantilena di Mary e l’agnellino, passò a brani del Rubaiyat, poi al monologo dell’ Amleto. A un certo punto si rese conto di potersi anche ripetere e dopo un certo tempo si avvide del fatto che, spostandosi di un millimetro per volta, poteva lentamente arrivare al muro, contro il quale gli sarebbe stato almeno possibile appoggiarsi.
Ma gli era impossibile spostarsi anche di un millimetro solo verso Iolanda o verso la porta. Né poteva alzare le mani.
Dopo qualche tempo, un lungo tempo, la sua gola era così stanca che non poteva più parlare. Ma continuò come poteva, a ogni costo. Se avesse taciuto anche per dieci secondi, sarebbe stata la morte.
Dalla piccola finestra della stanza, di fronte a lui, Sweeney vedeva l’oscurità esterna. Dopo alcuni anni, un orologio in qualche posto batté la mezzanotte. Secoli e secoli dopo, alla finestra apparve il primo bagliore di luce.
— Sotto un fronzuto albero di noce — continuava rauca la voce di Sweeney — stava il fabbro del villaggio. E il fabbro era un grand’uomo, sotto l’albero di noce. Una rosa di qualunque tipo disperderebbe inutilmente il suo profumo in un deserto. E tutto il nostro passato è disseminato di errori lungo la via che conduce alla morte. Quando il pasticcio fu tagliato, tutti quanti si misero a cantare…
Tutti i muscoli del suo corpo doloravano. In quella poca luce di ragione che gli era rimasta, si meravigliava che Iolanda potesse restare così immobile, in piedi, incredibilmente bella, incredibilmente nuda: catalessi, certo, ipnosi, tutto quel che volete, pure era difficile crederlo…
— … Ahimè, povero Yorick! — declamava Sweeney. — Io lo conoscevo, Orazio: un uomo di grandissimo spirito, di meraviglioso… la civetta e il gattino entrarono in mare, in una bella barchetta verde…
Lentamente si faceva giorno, sempre più chiaro. Erano le nove del mattino, quando risuonò un colpo alla porta. Un colpo deciso, autoritario.
Sweeney alzò la voce, con uno sforzo pari a quello necessario per trasportare un pianoforte. Fu come un rauco suono inumano. — Bline? Entrate con la rivoltella pronta. Il cane assalirà uno di noi.
La bestia ringhiando si era messa in modo da sorvegliare insieme Sweeney e la porta, che improvvisamente trasmetteva dei suoni. Ma la porta si mosse e Sweeney no e il cane balzò contro Bline, sulla soglia. Bline, avvertito, aveva raccolto la giacca intorno al braccio e mentre il cane, balzando, afferrava e stringeva fra i denti la stoffa, il calcio della pistola lo colpiva sul cranio.
— Il topo caricò la sveglia — diceva Sweeney, con una voce ridotta a un rauco bisbiglio — e la sveglia suonò un colpo… Grazie al cielo, siete arrivato, capo. Sapevo che, ripensandoci, avreste scoperto delle falle nella confessione di Doc e che avreste cercato Iolanda e l’avreste trovata come ho fatto io. Sentite, capo, io devo continuare a parlare, senza fermarmi. Iolanda non vi ha ancora guardato e non si rende conto di quanto accade, se non di un mio silenzio… avvicinatela da quella parte e toglietele il coltello…
Bline prese il coltello. Sweeney, ancora mormorando rauco, scivolò lentamente lungo la parete.
Era notte alta. Diomede era sulla sua panchina e Sweeney gli sedette accanto. — Credevo che tu fossi a lavorare — disse Dio.
— C’ero. Ma ho portato a Wally un colpo tanto grosso, che mi ha permesso di starmene un po’ in giro, senza stipendio. Una settimana o due o quanto voglio.
— Sei rauco, Sweeney. Hai passato una notte con la donna che ti piaceva tanto?
— Per questo sono rauco — rispose Sweeney. — Senti, Dio, questa volta, ho lasciato alla mia padrona di casa più di metà dei miei soldi, ma mi restano ancora trecento dollari. Credi che riusciremo a ubriacarci, con trecento dollari?
Dio volse verso Sweeney la sua testa scarmigliata. — Se lo vogliamo veramente. Se vuoi qualcosa proprio sul serio, abbastanza sul serio, puoi ottenere tutto quello che vuoi, Sweeney. Come una notte con la tua bella… Io te l’avevo detto che ci saresti riuscito.
Sweeney rabbrividì. Tirò fuori dalle tasche della giacca due panciute bottiglie e ne porse una a Dio…