All’alba tutto appariva diverso, come sempre. Sweeney aprì gli occhi in una afosa, grigia alba silenziosa; le foglie pendevano senza vita dagli alberi sopra di lui e la terra su cui giaceva era dura, così che tutto il suo corpo ne dolorava. Aveva la bocca cattiva, che sembrava impastata con qualcosa di innominabile, innominabile nel libro, voglio dire, non per Sweeney. Egli infatti la nominò, poi si passò la lingua sulle labbra per inumidirle, inghiottendo più volte.

Si strofinò gli occhi con le mani sporche e tirò una bestemmia a un uccello che sull’albero vicino faceva un chiasso del diavolo. Si alzò a sedere, piegato in avanti, col viso tra le mani, pungendosi le dita con la barba ruvida. Un autocarro che passava per Clark Street fece un fracasso pari a quello di un terremoto, o della fine del mondo. Non di più, ma pari senz’altro.

Se svegliarsi non è mai piacevole, qualche volta riesce addirittura orribile. Quando si sono accumulate due settimane di sbornie, è orribile. Ma l’unico rimedio, come Sweeney sapeva benissimo, stava nel muoversi, senza restar seduto a soffrire, senza distendersi sul terreno duro e cercare di riaddormentarsi, perché in quello stato non si riesce a riaddormentarsi. Finché uno non riesce a orientarsi è un inferno completo, quando poi si è svegliato e orientato è un inferno per metà, fino a che non ci si riempie lo stomaco con un po’ di alcol. Allora tutto va bene. Cioè, bisogna chiederselo: va bene?

Sweeney respinse il terreno che sembrava trattenerlo a sé e si drizzò in piedi. Le gambe funzionavano, lo portarono fuori del prato, sull’asfalto, fino alla panchina, dove Diomede ancora dormiva tranquillo con un russare sommesso. Accanto a lui giaceva la bottiglia vuota.

Sweeney spinse indietro i piedi di Dio e sedette sull’orlo della panca. Appoggiando il mento pungente di barba sulle mani sporche, si chinò coi gomiti sulle ginocchia, ma non chiuse gli occhi. Riuscì a tenerli aperti, mentre si domandava se il peggio fosse ormai passato. La donna e il cane. Non aveva mai sofferto di allucinazioni fino ad allora.

La donna e il cane. Non poteva crederci. Era una di quelle pochissime cose che non possono accadere nella realtà. Perciò non era accaduta. Questa doveva essere la conclusione. Stese una mano davanti a sé per osservarla e vide che tremava notevolmente, ma non peggio delle altre volte. La riappoggiò sulla panchina e facendo leva sulle braccia riuscì ad alzarsi. Le gambe funzionavano ancora, se ne servì per attraversare la piazza e giungere a Dearborn Street e poi fino a Chicago Avenue. Più che un uomo era un dolore in cammino. I freni di un taxi stridettero nello scarto per evitare d’investirlo: attraversava la strada senza nemmeno guardare intorno, e l’autista gli urlò qualche improperio incomprensibile. Sweeney arrivò fino a State Street e proseguì in direzione sud. Percorse i tre quarti di un isolato e si trovò davanti al «portone». Si fermò a fissarlo intensamente, poi si accostò ai vetri e guardò nell’interno: era piuttosto buio, ma riusciva a vedere fino alla porta all’altra estremità dell’atrio.

Un piccolo strillone gli si fermò accanto, con la borsa dei giornali penzolante dalla spalla. — Ehi, è successo qui, vero? — domandò.

— Sì — rispose Sweeney.

— Io la conoscevo — affermò il ragazzino — le porto sempre il giornale. — Allungò la mano per aprire la porta. — Devo entrare per lasciare i giornali. — E Sweeney si scostò per lasciarlo passare. Quando il ragazzino uscì, Sweeney entrò nell’atrio e si fermò accanto alle cassette della posta. Proprio là dove stava ora, lei era caduta. Guardò in terra, poi si chinò per scrutare il pavimento da vicino: c’erano delle piccole macchie scure. Sweeney si rialzò e andò in fondo all’atrio ad aprire la porta che dava sul retro della casa: vi era solo un marciapiede di cemento che conduceva ai piani superiori: si accesero due lampade, una sopra di lui, in fondo alle scale, l’altra vicino alle cassette per la posta. La luce era fievole e gialliccia nel grigiore della mattina. Spense le lampade, poi, notando qualcosa sul pannello di legno della porta, le riaccese. Vi erano nel pannello delle profonde graffiature verticali, una vicina all’altra, e avevano tutta l’apparenza di zampate di un cane, oltre a essere fresche: come se la bestia si fosse lanciata contro la porta, cercando poi di graffiarla nella speranza di aprirsi una strada attraverso di essa.

Sweeney, spenta definitivamente la luce, uscì portandosi via uno dei giornali che il ragazzo aveva lasciato in pile ordinate sotto le cassette della posta. Quando ebbe voltato l’angolo della strada, sedette sul marciapiede e aprì il foglio. Vi era un articolo su tre colonne, con due fotografie, una della ragazza e una del cane, e il titolo diceva:

UNA BALLERINA AGGREDITA DALLO SQUARTATORE SALVATA DAL PROPRIO CANE LO SCONOSCIUTO SI È DATO ALLA FUGA. «NON SAPREI RICONOSCERLO» DICHIARA LA VITTIMA.

Sweeney osservò attentamente le fotografie, che erano delle pose, evidentemente destinate in origine alla pubblicità. Sotto il cane la didascalia diceva: DEMONIO, e Sweeney lo fissò a lungo: sul giornale era impossibile ritrovare il bagliore giallo di quegli occhi, ma appariva un animale che nessuno desidererebbe incontrare sulla propria strada. “Ha sempre l’aria di un lupo” pensò Sweeney “e di un lupo feroce.”

Ma i suoi occhi tornarono a osservare la donna. La dicitura IOLANDA LANG spinse Sweeney a domandarsi quale fosse il suo vero nome. Per quanto, guardando il suo ritratto, non ci si curasse più molto del suo nome; anche se, purtroppo, in quel ritratto non era visibile tutto ciò che Sweeney aveva potuto vedere la notte prima. Era un mezzobusto, e Iolanda Lang indossava un abito da sera senza spalline, che incorniciava e metteva in rilievo la sua bellezza, quella bellezza che Sweeney sapeva essere autentica e non frutto di vari trucchi, dai capelli biondi morbidi, con i riccioli che ricadevano sopra le spalle ancora più morbide. Anche il viso era affascinante. La notte prima Sweeney non aveva notato il viso. E non potrete criticarlo per questa piccola distrazione.

Comunque, anche il viso meritava di essere osservato, ora che non c’era niente altro a distoglierne l’attenzione: un volto dolcemente grave e gravemente dolce. In tutto, meno che in qualcosa intorno agli occhi. Ma un ritratto riprodotto in un giornale su tre colonne non permette di essere sicuri delle sfumature.

Sweeney ripiegò con cura il giornale e lo depose sul marciapiede: un lieve sorriso gli increspava le labbra. Si alzò e faticosamente tornò a Bughouse Square. Dio stava ancora russando sulla panca e aprì gli occhi cisposi, quando Sweeney lo scosse. Lo guardò dal basso e brontolò: — Va’ via.

Sweeney insisté. — Ci sono. Per questo sono venuto a dirtelo. Guarda, era questo che volevo dire.

— Che cosa?

— Quello di ieri sera — continuò Sweeney.

— Sei matto — rispose Dio.

Il sorrisetto riapparve sulla faccia di Sweeney. — Tu non l’hai vista, perché non c’eri, ieri sera. Saluti.

Attraversò il prato fino a Clark Street e si fermò. Aveva un mal di testa terribile e desiderava disperatamente qualcosa da bere. Stese una mano e la osservò tremare, poi se la infilò in tasca per non pensarci. Cominciò a percorrere Clark Street verso sud: il sole ormai era alto, invadendo le vie da est a ovest. Il traffico in aumento si andava facendo rumoroso e complicato.

Sweeney Che Cammina Nella Luce Del Giorno. Ancora quel pensiero. Sweeney sudava, e non solo per il caldo, ed emanava cattivo odore, lo sentiva benissimo. Gli facevano male i piedi ed era tutto uno sporco dolore, dentro e fuori, in cima e in fondo. Sweeney Che Cammina Nella Luce Del Giorno.

Attraversò il Loop, a sud fino alla Roosevelt Road: non osava fermarsi. Alla Roosevelt Road, girato l’angolo verso est, camminò fino all’ingresso di una casa-albergo e vi entrò. Suonò un campanello dei tanti posti in fila vicino all’ingresso e attese lo scatto della porta interna che veniva aperta. Salì tre piani di scale e giunse a una porta socchiusa, da cui sporgeva una testa calva. La faccia sotto la testa calva, quando scorse Sweeney spuntare dalle scale, ebbe una smorfia di disgusto e un secondo dopo la porta si chiudeva sbattendo. Sweeney continuò a salire sostenendosi al muro con una mano sporca e quando fu davanti alla porta prese a bussare energicamente. Continuò per un buon minuto, poi fu costretto a prendersi la fronte con le mani, abbandonandosi contro il muro. Si riprese dopo qualche istante e ricominciò a bussare più forte di prima. Qualcuno arrivò ciabattando vicino alla porta, all’interno. — Vattene all’inferno o chiamo la polizia.

Sweeney continuò a picchiare. — Chiamala, bellezza — gridò. — Andremo dal giudice e ci spiegheremo.

— Cosa diavolo vuoi?

— Apri — ripeté Sweeney, bussando ancora più forte.

Una porta nell’atrio si aprì e apparve la faccia sconvolta di una donna. Sweeney continuò a picchiare all’uscio, finché la voce dall’interno borbottò: — Va bene, va bene. Aspetta un secondo. — I passi si allontanarono, poi si riavvicinarono alla porta e finalmente la chiave girò nella toppa.

La porta si aprì e l’uomo calvo si tirò indietro. Indossava un informe accappatoio e delle pantofole scalcagnate e, a quanto pareva, niente altro. Era un poco più basso di Sweeney, ma teneva la mano destra in tasca e questa era stranamente gonfia. Sweeney entrò e richiuse con un calcio la porta dietro di sé. Avanzando fino al centro della stanza in disordine e girandosi intorno, disse dolcemente: — Ohi, Goetz.

L’uomo calvo stava ancora accanto alla porta. La sua risposta fu un brontolio: — Cosa diavolo vuoi?

— Venti dollari — replicò Sweeney. — Sai perché. O hai bisogno che te lo ripeta sillabando?

— Venti dollari un corno! Se credi che te li dia io! E se hai ancora in mente quella maledetta corsa e quel maledetto cavallo, te l’ho già detto che non ho potuto puntare la scommessa. Ti ho ridato i tuoi cinque dollari e tu li hai presi.

— Li ho presi in acconto — disse Sweeney. — Non avevo tanto bisogno di soldi da impuntarmici sopra. Adesso invece ne ho bisogno. Andiamo, su, ripetiamo tutta la storia. Tu mi hai gonfiato la testa con le tue chiacchiere su quella bestia, l’idea è stata tua. Alla fine io ti ho dato i cinque dollari per scommettere, il cavallo ha vinto per cinque a uno e tu sei saltato su a dirmi che non avevi potuto puntare per me.

— Dannazione, non ho potuto. Da Mike era già chiuso e la corsa era cominciata e…

— Tu da Mike non hai nemmeno provato a giocare. Ti sei semplicemente intascato i soldi della mia scommessa: se il cavallo avesse perduto, come tu ti aspettavi, ti sarebbe rimasta la puntata. Perciò, che tu abbia puntato o no i miei soldi, mi devi venti dollari.

— Va’ all’inferno. E va’ fuori di qui. — L’uomo calvo estrasse di tasca la mano che impugnava una piccola automatica calibro 25.

Sweeney scosse la testa con aria triste. — Se il gioco valesse ventimila dollari, avrei paura di quell’affare, forse. Ma per venti dollari non correresti mai il rischio di una sparatoria. Non vorresti certo avere i poliziotti a curiosare qui dentro per venti miserabili dollari. Per lo meno, io credo che non li vorresti: ci scommetterei su, anzi.

Guardò in giro per la stanza, finché scorse un paio di pantaloni appoggiati su una sedia. Si avvicinò subito a essi, mentre l’uomo calvo toglieva la sicura alla rivoltella, sibilando: — Figlio di puttana.

Sweeney afferrò i pantaloni per i risvolti e cominciò a scuoterli: caddero sul tappeto un mazzo di chiavi e degli spiccioli, ed egli continuò a scuotere, dicendo: — Goetz, verrà un giorno in cui chiamerai figlio di puttana qualcuno che lo è veramente, e quello ti darà una lezione.

Dalla tasca posteriore dei calzoni cadde a terra un portafoglio che Sweeney raccolse. Lo spalancò ed emise un brontolio di disapprovazione. — Cosa succede con tutti i tuoi pasticci delle corse? Va male? — Nel portafoglio c’erano soltanto un biglietto da dieci e uno da cinque dollari. Sweeney tirò fuori quello da dieci e gettò il portafoglio sul cassettone.

L’espressione dell’uomo calvo non era cordiale, in verità. Esclamò soltanto: — Te l’avevo già detto allora. La corsa era già cominciata. Adesso hai avuto i tuoi quattrini e fila.

— Ne prendo dieci — concesse Sweeney — non porterei mai via gli ultimi cinque dollari di un poveraccio, bellezza. Gli altri dieci li prenderò in beni: un bagno, una barba, una camicia e delle calze.

Così dicendo, si sfilava la giacca e scivolava fuori dei pantaloni. Poi, sedendo sull’orlo del letto disfatto, si tolse anche le scarpe. Entrò nel bagno ad aprire l’acqua della vasca e ne uscì nudo, con un malloppo di roba in mano: la sua camicia, le calze e gli indumenti intimi, che gettò tutti nel cestino della carta straccia.

L’uomo calvo era ancora accanto alla porta, ma la rivoltella era tornata nella tasca della vestaglia. Sweeney gli sorrise e gridò al di sopra dello scroscio dell’acqua: — Non chiamare la polizia, adesso, Goetz. Vedendomi così, potrebbero ricevere un’impressione sbagliata! — Rientrò in bagno e sbatté la porta.

Restò sdraiato nell’acqua calda a lungo, poi si rase la barba con il rasoio elettrico di Goetz. Per fortuna era elettrico, perché le mani di Sweeney tremavano ancora sensibilmente.

Quando finalmente uscì, Goetz era tornato a letto, e stava con la schiena voltata alla stanza. — Dormi, tesoro? — domandò Sweeney. Nessuna risposta.

Sweeney aprì un cassetto e scelse una camicia bianca sportiva con il colletto floscio: gli era stretta di spalle e il collo non si abbottonava, ma era comunque una camicia bianca e pulita. Anche i calzini di Goetz gli erano un po’ stretti, ma riuscì a infilarli. Contemplò con disgusto le sue scarpe e i suoi vestiti, ma non poteva trovare altro, dato che quelli di Goetz non gli si sarebbero mai adattati. Si diede da fare con le spazzole per le scarpe e per i vestiti e quando infine indossò i pantaloni verificò che in tasca vi fossero sempre al sicuro i dieci dollari. Spazzolò energicamente anche il cappello e si avviò per uscire. — Buona notte, tesorino — disse — e grazie di tutto. Adesso siamo pari. — Chiuse silenziosamente la porta, scese le scale e uscì fuori, nel sole scottante. Risalì a nord fin oltre la Dearborn Station, fermandosi in un piccolo bar a bere tre tazze di caffè e a tentar di inghiottire una delle due brioches che aveva ordinato. Aveva sapore di cartapesta, ma riuscì a mandarla giù.

Poco più lontano, si fece lucidare le scarpe e poi, nel piccolo retro del negozio dov’era entrato, attese tremando leggermente che il suo vestito venisse smacchiato e stirato. Avrebbe avuto bisogno ben più che di una smacchiatura, ma quando lo indossò era già passabile. Si diede un’occhiata nel lungo specchio e si giudicò quasi presentabile. C’erano sì dei cerchi sotto gli occhi, e gli occhi stessi non apparivano scintillanti di gioia e di benessere, e inoltre doveva tenere le mani in tasca, finché non fosse stata superata la crisi di tremito, ma nel complesso aveva un aspetto umano. Quando ebbe tirato fuori il colletto della camicia sportiva, sopra il bavero della giacca, si sentì ancora più a posto.

Dirigendosi a nord attraverso il Loop, si manteneva accuratamente nel lato in ombra della strada: cominciava di nuovo a sudare e di nuovo si sentiva sporco e aveva la netta sensazione che si sarebbe sentito sudicio così per molto tempo, per quanti bagni potesse fare. Come fa un individuo in possesso delle sue facoltà a vivere a Chicago durante un’ondata di caldo tropicale? E come fa uno a vivere a Chicago? E del resto, perché si vive? Il mal di testa di Sweeney si era intanto trasformato da un cupo dolore diffuso, in un dolore localizzato dietro la fronte e dietro gli occhi con un martellio ritmico e persistente. Le palme delle mani erano umide e appiccicose e, per quanto se le strofinasse lungo i calzoni, subito tornavano a essere appiccicose e umide. Sweeney Che Cammina Attraverso Il Loop. All’altezza di Lake Street dovette fermarsi in un drug-store a bere un altro caffè, con due pillole di bromuro. Si sentiva come una molla arrotolata troppo stretta, come uno che soffre di claustrofobia rinchiuso in una cella, come un miserabile pezzente. Il caffè sembrava nel suo stomaco l’acqua fangosa di una barca che fa acqua. Un fango tiepido, salato, pieno di piccole alghe verdi, ammesso che le alghe siano verdi. Quelle di Sweeney comunque erano di color verde e si muovevano anche.

Attraversò il Wacker Drive, con la segreta speranza che un’automobile lo travolgesse, ma nessuna lo fece; percorse il ponte nello splendore incandescente del sole, e il camminare gli era un faticoso alternarsi di sforzi per alzare e abbassare un piede dietro l’altro, finché, superato il Rush senza osare fermarsi, stringendo le mani sudate dentro le tasche, svoltò in uno spiazzo tra due edifici e infilò un portone aperto. Quella era casa sua, sempre che ci fosse ancora per lui una casa. Per il momento, rappresentava il problema più grave. Tolse di tasca la mano destra e bussò gentilmente a un uscio del pianterreno, poi ritirò in fretta la mano. Dei passi pesanti si avvicinarono lentamente e la porta si aprì.

— Salve, signora Randall. Io… — cominciò Sweeney, ma lo sbuffare della donna gli troncò ogni speranza di continuare.

— No, signor Sweeney — disse.

— Hm… volete dire che avete affittato ad altri la mia stanza?

— Voglio dire che non vi lascio entrare a prender la roba da impegnare per bere ancora. Ve l’ho già detto due volte la settimana scorsa.

— Me l’avete detto? — domandò stupito Sweeney. Si ricordava di quel fatto o no? Ora che lei glielo rammentava, una delle due volte gli tornava vagamente alla memoria. — Credo di essere stato piuttosto sbronzo — ammise e tirò un gran sospiro. — Ma adesso è passata. Sono a posto.

La donna sbuffò di nuovo. — E le tre settimane che mi dovete? Sono trentasei dollari.

Sweeney pescò fuori i biglietti sparsi nella tasca, uno da cinque dollari e tre da uno. — È tutto quel che ho trovato — disse — posso darvene otto in acconto.

Lo sguardo della donna passò dal denaro alla faccia di Sweeney. — Penso che adesso siate proprio a posto e non ubriaco, Sweeney, e se avete dei soldi non andrete a cercar di impegnare la roba, dato che con otto dollari potreste bere un mucchio di whisky.

— Sì — ammise Sweeney, e la donna si ritirò dalla porta, per lasciarlo entrare.

— Entrate, su. Sedetevi e rimettetevi in tasca i vostri soldi. Ne avrete molto più bisogno di me, finché non vi sarete sistemato di nuovo. Per quanto tempo vi può bastare?

— Per pochi giorni — rispose Sweeney, sedendo — ma appena sto bene, faccio in fretta a procurarmene dell’altro. — Rinfilò in tasca le mani e il denaro. — Hm… io… ho paura di aver perso la chiave. Forse voi avete…

— Non l’avete perduta. Ve l’ho presa io una settimana fa, perché stavate cercando di portare fuori il vostro giradischi per impegnarlo.

Sweeney si prese la testa fra le mani. — Buon Dio, l’ho fatto?

— No. Io vi ho costretto a riportarlo indietro e a darmi la chiave. Così ci sono ancora tutti i vestiti, tranne il soprabito e l’impermeabile, perché dovete averli presi prima che chiudessi. E c’è anche la vostra macchina da scrivere. E l’orologio, se non siete riuscito a prenderlo.

Sweeney scosse lentamente la testa. — No, è andato. Ma grazie lo stesso per avermi salvato il resto.

— Avete proprio una brutta cera. Volete una tazza di caffè? È già pronto.

— A momenti il caffè mi uscirà dalle orecchie — rispose Sweeney — però, sì, ne bevo un’altra tazza. Ben forte. — Mentre la donna si muoveva davanti ai fornelli, Sweeney la osservava pensando che dovrebbe esserci al mondo un maggior numero di donne come la signora Randall: dure come il ferro, all’apparenza (e devono esserlo per dirigere una pensione) e tenere come il burro, dentro.

La padrona tornò con il caffè e lui lo bevve d’un fiato. Prese la chiave e salì per le scale. Riuscì a entrare in camera e a chiudere la porta prima che il tremito lo dominasse completamente e rimase così appoggiato alla porta, finché l’attacco gli fu passato. Poi si avvicinò al lavabo e diede di stomaco. La cosa gli procurò un certo sollievo, per quanto il rumore dell’acqua corrente aumentasse il dolore alla testa.

Quando il malessere gli passò, avrebbe desiderato stendersi e dormire, ma invece si spogliò di nuovo, infilò l’accappatoio e si recò in bagno. Si immerse per la seconda volta nell’acqua bollente, crogiolandovisi a lungo prima di decidersi a tornare in camera. Prima di vestirsi, fece un rotolo degli abiti sporchi e consunti che aveva indossato e della camicia stretta e delle calze prese a Goetz e gettò via tutto quanto. Si vestì con indumenti puliti, compreso il suo miglior abito estivo, completando il quadro con una cravatta da cinque dollari e le scarpe più eleganti. Riordinò con cura meticolosa la stanza, e cercò alla radio una stazione che desse fra i vari programmi anche il segnale orario: regolò la sveglia rimasta silenziosa e la caricò, per deporla poi in vista sul cassettone. Infine, preso dal guardaroba il cappello di panama, uscì dalla stanza.

Mentre scendeva le scale, la porta della signora Randall si socchiuse. — Signor Sweeney?

Sweeney si chinò sulla balaustrata per vederla. — Sì?

— Ho dimenticato di dirvi che stamattina presto, verso le otto, hanno telefonato per voi. Un certo Walter Krieg, del giornale dove lavorate, o lavoravate. Non so, adesso…

— Lavoravo, credo — disse Sweeney. — Cos’ha detto? E voi che cosa gli avete detto?

— Ha domandato di voi e gli ho detto che non c’eravate. E allora lui ha detto che se tornavate prima delle nove, dovevate telefonargli. Voi non siete tornato prima… non che io vi aspettassi… ma insomma mi sono scordata di dirvelo subito. Ecco tutto. — Sweeney la ringraziò e uscì. Al negozio all’angolo comperò una bottiglia di whisky e se la mise in tasca, poi entrò nella cabina del telefono e chiese del direttore del giornale.

— È Krieg? — domandò Sweeney. — Sono appena arrivato a casa. Ho avuto il tuo messaggio e non sono sbronzo. Che cosa volevi da me?

— Adesso niente. È troppo tardi, Sweeney, mi dispiace.

— Va bene, d’accordo: è troppo tardi e ti dispiace. Ma che cosa volevi?

— La tua testimonianza oculare, se sei abbastanza in te da ricordarti quel che è accaduto stanotte. Un poliziotto ha detto che eri in quei paraggi quando è stata trovata la Lang. Te ne ricordi?

— Altro che trovata! Accidenti se me ne ricordo! Perché è troppo tardi? Hai fuori la prima edizione, ma la più importante va in macchina adesso e poi ce ne sono altre due. L’edizione nazionale non è ancora in macchina, non è vero?

— Ci va tra un quarto d’ora. Ti ci vuole più tempo a…

— Non perdere tempo — lo interruppe Sweeney — dammi uno stenografo. Subito. Gli do mezza colonna in cinque minuti. Possibilmente Joe Carey: è il più svelto.

Mentre aspettava, Sweeney raccolse le idee, finché non udì la voce di Joe. Allora cominciò a dettare, rapido e preciso. Quando ebbe finito, attaccò al gancio il ricevitore e si appoggiò alla parete della cabina. Non aveva chiesto di parlare di nuovo con Krieg: quella faccenda poteva anche aspettare e sarebbe stato anzi meglio che si recasse da Walter di persona. Ma non ancora, non subito.

Tornò nella sua stanza e preparò sul bracciolo della sua ampia poltrona la bottiglia di whisky con un bicchiere. Si tolse giacca e cappello, e slacciò la cravatta e il colletto. Poi si accoccolò davanti al giradischi, esaminando la raccolta di dischi. Non che avesse bisogno di rileggerne i titoli: sapeva già quale avrebbe suonato. Era la Sinfonia N. 40 di Mozart. Probabilmente a guardarlo non avreste mai pensato che fosse così, ma la Sinfonia N. 40 in do min. op. 550 era la preferita di Sweeney. Accomodò i tre dischi, depose la puntina sul primo e si sdraiò sulla poltrona ad ascoltare.

Perché dovrei dirvi ancora qualcosa di Sweeney? Se conoscete la N. 40 di Mozart, l’oscura irrequietezza che la agita, il cupo sfondo che appare dietro il contrappunto pieno di grazia e di spirito, potete conoscere anche Sweeney. E se la N. 40 di Mozart è per voi semplicemente un elegante e talvolta monotono minuetto, che può accompagnare una conversazione da salotto, allora Sweeney non sarà per voi che un altro qualsiasi cronista a cui succede periodicamente di ubriacarsi. Ma lasciamo andare: quel che pensate voi e quel che penso io non ha nessuna importanza per quanto riguarda Sweeney che apre la bottiglia e si versa da bere. E beve.

Al mondo vi sono molte cose strane. E una delle più strane è una scatola di legno che contiene dei fili di rame e dei dischi di metallo, una mezza dozzina di spazi vuoti come il nulla e un filo nero che termina dentro il muro, da cui proviene qualcosa che chiamiamo elettricità perché non sappiamo che cosa sia. Pure, essa giunge, e la materia inorganica prende vita; davanti a voi sta un piatto che gira, recando un disco, un ago scorre in un’incisione. Una punta che danza nella riga sottile e un diaframma che vibra, e tutta l’aria intorno a voi si riempie di vibrazioni; i pensieri di un uomo che è morto da un secolo e mezzo vi si affollano intorno e voi vivete nelle luci e nelle ombre dell’anima di un morto. Dividete le sensazioni tormentate di un piccolo musico di corte, pieno di vitalità e oppresso da una terribile miseria, che forse avverte l’avvicinarsi della morte e perciò lavora con rapidità prodigiosa, portando a compimento in poche settimane la più grande sinfonia che egli abbia mai scritto.

Sì, esistono strane cose. Sweeney era là, centellinando il suo secondo bicchiere mentre con il terzo disco si iniziava il secondo movimento, l’andante leggero. Li finì insieme, il disco e il bicchiere. Sospirò e si alzò dalla poltrona; gli faceva ancora male la testa e si sentiva abbattuto, ma il tremito delle mani era scomparso. Risciacquò il bicchiere e ripose la bottiglia, ancora piena più che a metà. Voltò i tre dischi e si riaccomodò ad ascoltare il resto della sinfonia.

Chiuse gli occhi e si dedicò soltanto ad ascoltare la fine del secondo movimento. Fin troppo brevemente sorsero e morirono le note chiaroscure del minuetto e trio del terzo movimento, per lasciare il posto a quel che egli aveva aspettato fin dal principio: l’amaro finale, l’allegro molto, immagine del potere e della infinita malinconia della gloria.

Sweeney restò seduto ad ascoltare il silenzio, e dopo qualche tempo si mise a ridere, ma non forte. Ormai era fuori, era a posto, era sobrio. Fino alla prossima volta, che poteva presentarsi dopo mesi o dopo anni. Dopo che l’inferno si fosse accumulato dentro di lui in maniera tale da costringerlo a inzupparsi di alcol; fino ad allora sarebbe potuto essere normale e bere normalmente. Lo so, gli alcolizzati non possono far questo, ma Sweeney non era un alcolizzato; poteva (e lo faceva) bere con moderazione, normalmente, e solo una volta ogni tanto poteva cancellare la cupa profondità dell’umore mutandola in una lunga ubriachezza. Esiste questo tipo di bevitore, anche se negli ultimi tempi la maggioranza dei bevitori è costituita dagli alcolizzati.

Ma Sweeney ora aveva superato il momento; era scosso, ma non più tremante, e stava bene: poteva anche riprendere il suo lavoro, ne era certo, se solo avesse mangiato un boccone. Avrebbe potuto pagare i debiti in poche settimane e tornare al punto in cui era, dovunque quel punto si trovasse.

Oppure… Sì, stava bene. Ma quella decisione assurda o soluzione o quel che era stato… E d’altronde, perché no? «Tutto ciò che vuoi.» Non aveva forse indovinato qualcosa di giusto Dio, dicendo così? «Tutto quello che vuoi, purché tu lo voglia con tanta intensità da concentrarti tutto nello scopo di ottenerlo.» Si trattasse di una piccola cosa come un milione di dollari o di una cosa immensa come il trascorrere una notte con… come si chiamava?… Iolanda Lang.

Rise di nuovo, chiudendo gli occhi per ricostruire nella memoria l’incredibile scena di cui era stato spettatore dietro la vetrata del portone di State Street. Dopo pochi secondi cessò di ridere e si disse: “Sweeney, tu vai in cerca di guai. Prima di tutto hai bisogno di soldi: un piccolo cronista come te non può farcela con una donna come quella. In secondo luogo, per far centro, devi dare la caccia allo Squartatore. E potresti anche trovarlo”.

E il trovarlo non sarebbe stata di certo una bella cosa, Sweeney lo sapeva, dato che nutriva un vero orrore, una fobia addirittura, per il gelo dell’acciaio, per l’acciaio appuntito e freddo. Acciaio affilato come una lama di rasoio che può attraversarti il ventre e spargere i tuoi visceri sul marciapiede, dove non ti servirebbero più a nulla, Sweeney. Proprio, se lo disse: “Sei un dannato idiota, Sweeney”.

Ma lo sapeva già da molto tempo.