Chiuse la porta, lasciando la statuetta sola a urlare nel buio. Si fermò al telefono nell’atrio e chiamò un modesto albergo di Clark Street. Quando ebbe chiesto una certa stanza, gli rispose una voce annoiata.
— Ehlers? — domandò Sweeney. — Qui è Sweeney.
— Al diavolo, Sweeney. Sono appena rientrato. Sono stanco. Ma da quando mi chiami Ehlers, invece di Jay?
— Dalla notte scorsa.
— Come?!
— Da ieri notte — sillabò chiaramente Sweeney — quando sei entrato in camera mia senza permesso.
— Cosa? Senti, Sweeney, avevo degli ordini. E poi che cosa è venuto in mente a Bline di spifferarti che sono stato io?
— Non me lo ha detto Bline. E non c’erano ordini.
— Oh, va’ all’inferno! — esclamò Ehlers. — Che cosa vuoi, adesso? Che venga in ginocchio a chiederti scusa?
— No — rispose Sweeney. — Una cosa più difficile e più utile. Vestiti mentre ti raggiungo. Ci metterò dieci minuti, in taxi.
Depose il ricevitore e, dopo un quarto d’ora, bussava alla porta di Ehlers. Jay aprì e lo invitò a entrare. Era leggermente imbarazzato e combattivo insieme. Non aveva indosso la cravatta né la giacca, ma per il resto era completamente vestito.
Sweeney si accomodò sul letto, accese una sigaretta e guardò Ehlers.
— Dunque — disse — tu hai pensato che io fossi l’assassino.
— Non lo pensavo io, Sweeney. È stato il capo.
— Certo, e per suo conto poteva anche essere. Bline non mi conosceva. Non era mio amico da dieci e più anni. E ha mandato te e qualche altro a prendermi, insieme con le armi che avreste potuto trovare da me. Io non c’ero e tu hai avuto la brillantissima trovata di mostrare la tua abilità, aprendo la mia stanza per frugarci dentro. Tu non hai eseguito degli ordini, li hai superati. E tutti i bicchierini bevuti insieme in dodici anni di amicizia, tutte le partite a carte, tutti i soldi che ci siamo prestati a vicenda? E quella volta che… all’inferno, non voglio stare a parlartene.
Il volto di Ehlers si era coperto di rossore. Disse: — Ricordo benissimo quando tu mi hai salvato dal licenziamento, non hai bisogno di ricordarmelo. Va bene: avrei dovuto pensarci su due volte. Ma c’è qualcos’altro o sei venuto qua solamente per sfogarti?
— No, c’è uno scopo. Ti offro un’occasione per cancellare quel che hai fatto. Voglio che tu mi apra una porta, la porta dell’ufficio di un tale.
— Sei impazzito, Sweeney? Di chi?
— Di Doc Greene.
— Non posso farlo, sei matto!
— Eri matto forse tu quando hai aperto la mia porta? E lo hai fatto di tua volontà, senza ordini e mandati.
— Ma è diverso, Sweeney. Per lo meno avevo degli ordini da eseguire. Mi avevano detto di portare al laboratorio il tuo rasoio e qualunque coltello tu avessi. Che cosa vuoi cercare nell’ufficio di Greene?
— La stessa cosa. Solo che non me ne occuperò, se non saranno insanguinati e se non troveremo un elemento che possa incriminare Greene.
— Non penserai che Doc sia sul serio lo Squartatore?
— Voglio accertarmene in un modo o nell’altro.
— E se ci pescano?
— Ci avranno pescato. Cercheremo di tirarci fuori.
Ehlers fissò Sweeney e scosse la testa. — Non posso, Sweeney. Perderei il posto, qualunque cosa potessimo raccontare. E dovrei passare di grado tra pochi mesi.
— Passerai di grado di nome, ma non di fatto.
— Cosa vuoi dire?
— Che non siamo più amici, Ehlers — rispose Sweeney — che tu scomparirai dalla lista degli amici del “Blade”, che dirò una buona parola a tutti i giornalisti e cronisti che conosco, che non vedrai scritto il tuo nome se da solo fermerai una banda di ladri in una banca, ma lo vedrai a lettere cubitali se sputerai sul marciapiede. Significa che questa è l’unica occasione per te di cancellare la vergogna dello sporco gioco che mi hai fatto e, se tu non l’afferri al volo, perdio, metterò in moto ogni mio potere, nella polizia come nella stampa, per crearti dei guai.
— Cosa? Maledizione, non puoi…
— Posso sempre tentare. Comincerò domani denunciando la polizia del dipartimento per aver eseguito una perquisizione senza mandato, scassinando la porta della mia camera e asportando oggetti.
Ehlers cercò di ridere. — Non potrai ottenere niente.
— Certo che no. Ma non credi che sarà aperta una piccola inchiesta da parte degli ispettori, per appurare come stanno le cose? Salteranno addosso a Bline, e Bline dirà la verità. E pescheranno te, per evitare che i danni ricadano sul dipartimento. Io non potrei dare le prove della mia asserzione, a lungo andare, che tu ci sia o no immischiato, ma avresti parecchio da sudare con i superiori lo stesso. All’inferno il tuo grado: torneresti nella bassa forza a far pattuglie notturne, da non poterne più.
— Non faresti mai una cosa simile, Sweeney.
— Credevo che tu non avresti mai perquisito la mia stanza e mi sbagliavo. Tu credi che io non lo farei, e ti sbagli.
— Dov’è l’ufficio di Greene? — Ehlers era sudato, ma forse solo a causa del caldo.
— Al palazzo Goodman, non lontano da qui. Io conosco la casa e non ci saranno disturbi o pericoli. Non occorrerà più di un quarto d’ora.
Vide di aver vinto la partita e sorrise. — E prima ti offrirò da bere. Che poco fegato, se hai più paura di Greene che di me!
— È diverso, Sweeney.
— Infatti: io ero un tuo amico, e Greene no. Andiamo.
Dopo che ebbero bevuto il bicchierino per rincuorare il «fegato» di Ehlers, in taxi raggiunsero il palazzo. Era una costruzione di una decina di anni di vita, destinata a uffici, occupata da avvocati, agenti, impresari in buone condizioni, seppure non dei più floridi e, come Sweeney sapeva, da parecchi scommettitori e da una sala di pugilato di terz’ordine.
Come Sweeney aveva previsto, era il tipo di casa aperta ventiquattr’ore al giorno, per quegli inquilini che preferiscono il lavoro notturno. Passarono sul marciapiede di fronte al palazzo e scorsero molte luci ancora accese alle finestre. Nell’ingresso potevano vedere il ragazzo dell’ascensore, che leggeva un giornale, seduto accanto alla porta aperta della cabina.
Continuarono a camminare ed Ehlers domandò: — Dobbiamo correre il rischio di farci portare su da lui? Possiamo mandarlo a dormire per un’oretta, ma sarà sempre in grado di riconoscerci.
Attraversarono la via, e Sweeney rispose: — Cercheremo di non colpirlo. Adesso aspetteremo, per poco, fuori senza farci vedere; quando sentiremo l’ascensore salire, potremo attraversare l’atrio senza farci vedere.
Ehlers accettò con piacere l’idea e attesero quieti fuori della porta, finché, dopo solo dieci minuti, udirono il ronzio dell’ascensore che partiva, mentre rimbombava ancora il colpo della porta che si chiudeva. Passando nell’atrio, Sweeney lesse il numero dell’ufficio di Greene, 411, e presero a salire le scale. Mentre si trovavano sul pianerottolo fra il secondo e il terzo piano, passò l’ascensore in discesa. In punta di piedi, arrivarono al quarto piano, dove si trovava il 411. Nessun altro ufficio sul piano fortunatamente sembrava occupato. Ehlers non dovette così applicare speciali precauzioni per fare uso dei suoi arnesi: la porta fu aperta in sette minuti precisi.
Appena entrati, accesero la luce e chiusero l’uscio. Era un buco, contenente una scrivania, un tavolo, un mobile, un armadio e tre sedie.
Sweeney spinse indietro il cappello, guardandosi in giro. — Non ci vorrà molto, Jay — annunciò. — Siediti e riposati. Tu hai fatto la tua parte, a meno che non trovi un cassetto chiuso. Ma non vedo serrature.
Il primo cassetto del mobile conteneva un paio di soprascarpe, una mezza bottiglia di whisky e due bicchieri polverosi. Il secondo cassetto era vuoto, il terzo era pieno di corrispondenza, tutta in arrivo. A quanto sembrava, Greene non batteva mai le sue lettere con copia. Sweeney notò con disappunto che le lettere erano solo approssimativamente raccolte in ordine cronologico. Non c’era una cartella a parte per Iolanda. Ma non sprecò troppo tempo con i cassetti del mobile, limitandosi a dare un’occhiata alle lettere sparse riponendole subito. Tutto quel che ne ricavò fu che Doc faceva davvero l’agente e aveva altri clienti per i quali otteneva delle scritture, benché, evidentemente, non in luoghi molto raffinati o famosi.
Lasciò il mobile e si dedicò all’armadio. Sul ripiano vi erano oggetti di cancelleria, da un gancio pendeva un impermeabile, e una macchina da scrivere portatile era posata sul fondo. Cercò nelle tasche dell’impermeabile, ma non vi erano che un fazzoletto sporco e due vecchi programmi teatrali. Aprì l’astuccio della portatile e constatò che conteneva veramente una macchina da scrivere.
Assomigliava molto a quella che lui stesso aveva posseduto, fino a pochi giorni prima, quando l’aveva venduta per bere. Era la stessa marca e lo stesso tipo, ma, osservandola da vicino, dovette riconoscere che non si trattava della stessa macchina; una scoperta che lo avrebbe riempito di gioia.
Il cassetto del tavolo non conteneva nulla di più interessante di un vecchio compasso; due delle tre sedie erano vuote e la terza sosteneva solo Jay Ehlers, che lo scrutava con una certa ironia.
— Bene — disse Jay — trovato qualcosa?
Sweeney grugnì una risposta senza parole e andò alla scrivania. Su di essa stavano un telefono, una cartella di carta assorbente e una stilografica da tavolo. Sotto la cartella, niente. Provò i cassetti. Solamente il primo a sinistra era chiuso a chiave. — Jay — chiamò — questo tocca a te.
Era il cassetto che lo interessava. Mentre Jay lo apriva, esaminò rapidamente gli altri. Non contenevano niente di importante per Sweeney, tranne forse uno, con una bottiglia di whisky piena. Ma in quel momento non poteva occuparsene.
Jay aprì il cassetto e guardò l’orologio. — Muoviti, Sweeney. Hai detto un quarto d’ora e sono già ventitré minuti. — Dentro il cassetto giacevano una grossa busta scura, dalla scritta Contratti in corso, e un’agenda. Sweeney sfogliò prima l’agenda: era un libro-giornale, che elencava in ordine cronologico entrate e uscite. Vide che non gli sarebbe servita a nulla, tranne che per dargli la certezza che Greene era un agente con un legittimo e reale movimento di affari. Probabile che le cifre non fossero esatte, ma erano evidentemente pronte per ogni visita fiscale. Prese infine la busta dei contratti. Ve ne erano una dozzina, ma uno solo interessava Sweeney: quello fra l’“El Madhouse” e Iolanda Lang. Il contratto parlava di duecento dollari la settimana per le prestazioni di Iolanda e di Demonio. Ma né Iolanda né il cane avevano firmato. Le firme erano di Nick Helmos e di Doc Greene. Sweeney alzò un sopracciglio. — Forse che lei non sa scrivere?
— Chi non sa scrivere?
— Posso capire che il cane non abbia firmato…
— Dimmi un po’, io credevo che tu cercassi un rasoio o una lama…
Sweeney sospirò: il vero oggetto delle sue ricerche era stata una statuetta nera. Ma se ne era Doc il possessore, la teneva a casa o in albergo, o comunque nel posto in cui viveva, e non in ufficio. E ammettendo pure che a quell’ora egli potesse scoprire l’abitazione di Doc, non poteva sfidare la sua fortuna al punto di rubarla in quella notte. E infine, perché non riusciva ad allontanare Doc Greene dalla sua mente, così da potersi concentrare su qualche altra traccia? Una visita a Brampton, nel Wisconsin, per esempio, a quello scultore… come si chiamava? Chapman Wilson… che aveva creato la statuetta. Era un indizio, uno qualunque, che avrebbe potuto condurlo a un risultato. Ma non sapeva quale risultato e come. O forse anche, ritornando a Greene, sarebbe stata utile una capatina a New York per controllare se il suo alibi fosse solido al cento per cento. La polizia poteva anche non aver scavato in profondità, accontentandosi di averlo visto registrato in un albergo.
Oppure, se avesse avuto a disposizione del denaro, avrebbe potuto assoldare un investigatore privato di New York, risparmiandosi il viaggio. Ma sarebbe stata una spesa a carico di Sweeney, perché il “Blade” non l’avrebbe mai accettata. Maledetto il denaro! Possedeva ancora circa cento dollari di quelli datigli da Walter Krieg, ma, col ritmo che avevano nello scomparire dalle sue mani, sarebbe riuscito appena ad arrivare alla fine dei dieci giorni mancanti prima del nuovo pagamento del “Blade”. Era solo a spendere denaro per lo Squartatore o per Iolanda.
Udì Jay muoversi inquieto e tornò a osservare il contratto. — Un minuto solo, Jay — disse.
Rilesse attentamente il contratto e corrugò la fronte. Esaminò uno dei paragrafi per essere certo che dicesse proprio quel che gli era sembrato e ne fu rassicurato. Ripose il contratto insieme agli altri nella busta e la busta nel cassetto. Poi permise a Jay di richiuderlo.
— Allora, hai trovato quel che cercavi? — domandò Jay.
— No. Cioè, sì. Non quel che cercavo, ma qualcosa di buono sì.
— Che cosa?
— Sia dannato se lo so — rispose Sweeney. Ma riteneva di esserne perfettamente consapevole. Avrebbe trovato il denaro, a patto di correre un rischio.
Jay brontolò, mentre la serratura scattava a posto: — Allora andiamo. Filiamo fuori di qui. Ne parleremo davanti a un bicchiere di qualcosa.
Sweeney spense le luci e attese sul pianerottolo che Jay richiudesse la porta del 411.
Discesero al secondo piano e là Sweeney schiacciò il bottone di chiamata dell’ascensore. Appena udirono il tonfo della porta che si chiudeva, si precipitarono per le scale e furono al primo piano, nell’attimo in cui la porta dell’ascensore si apriva al secondo. Uscirono dall’edificio mentre ancora l’ascensore in discesa si fermava al primo piano.
Ehlers disse: — Il ragazzo dell’ascensore dirà che qualcuno lo ha fatto salire in modo da uscire dal palazzo senza farsi vedere.
— Certo che lo dirà, ma intanto non ci ha visto e non ci potrà seguire.
Infatti, l’uomo dell’ascensore non ci provò neppure.
Prima di chiamare un taxi, attesero di aver voltato l’angolo, poi, alla domanda di Sweeney, Jay suggerì di andare da Burt Meaghan: era a due passi dal suo albergo e sarebbe potuto rientrare a piedi. Da Burt, Sweeney stava per avvicinarsi al banco, quando Jay lo prese per un braccio. — Dobbiamo parlare un poco in privato.
Al tavolo egli fissò Sweeney, aspettando che il cameriere fosse venuto a prendere gli ordini e poi a portare i bicchieri. Quando furono soli, disse: — Allora, Bill. Ho scassinato la tua porta e non avrei dovuto. Però ne ho scassinato un’altra per farti piacere e così siamo pari. Giusto?
— Giusto.
— Siamo amici?
— Amici. Tutto è dimenticato.
— Allora cominciamo da qui — disse Jay. — Adesso siamo amici, ma non lo resteremo se tu vuoi andare avanti senza di me. Fuori la storia: voglio sapere perché sei andato nell’ufficio di Greene, che cosa cercavi e che cosa non hai trovato. Io sono un poliziotto, Sweeney, e lavoro al caso dello Squartatore. Sono agli ordini di Bline, d’accordo, ma ci lavoro anch’io. E voglio sapere a che punto siamo. Non posso costringerti a parlare, perché tu hai il coltello dalla parte del manico. Non posso raccontare a Bline e a nessun altro che tu sei andato nell’ufficio di Greene, perché perderei il posto per quel che ho fatto. Tu sei in una botte di ferro, va bene, ma perdio, se tu non parlerai, ti cancellerò io dalla lista degli amici.
Sweeney assentì. — D’accordo, Jay. Dunque, io avevo un forte sospetto che lo Squartatore fosse Greene. Senza un motivo preciso: una fissazione, dovuta al fatto che quell’individuo mi è odioso. E un’altra piccola considerazione: il ruolo gli si adatta. Psichiatra o no, è uno psicopatico. Due ore fa, all’“El Madhouse”, l’ho stuzzicato, e lui ha minacciato di uccidermi. A voce alta e davanti alla polizia. Davanti all’ispettore Bline, per essere precisi. E ad altri due poliziotti, Ross e Swann, seduti allo stesso tavolo. E io l’avevo provocato apposta per farlo scattare.
— All’inferno! Ma che cosa c’entra l’ufficio con questo?
— Speravo di trovarci un elemento che mi permettesse di farla finita con Doc Greene, colpevole o no. Ma, parola d’onore, non l’ho trovato, Jay. Non ho trovato un maledetto minimo indizio che provasse che lui è lo Squartatore, ma neppure che non lo è. Tranne la prova che fa sul serio l’agente teatrale, come lui sostiene.
— Continua. Che cosa hai trovato?
— Qualcosa che mi interessa personalmente. Il contratto tra Iolanda e Demonio e l’“El Madhouse”. E c’è in quel contratto una clausola di cui vorrei fare uso. Ma un uso illegale: preferirei che tu non ne fossi al corrente.
— In che modo illegale?
— Per avere la somma che mi occorre.
— Da chi?
— Dal padrone dell’“El Madhouse”.
— Parli di Nick Helmos o di Harry Yahn?
— Di Yahn. Nick è solo un prestanome.
Jay Ehlers si morse le labbra e guardò per un poco il suo bicchiere, poi disse: — Attento, Bill. Harry Yahn è un osso duro.
— Lo so. Ma riuscirò a morderlo. Con un morso abbastanza piccolo da non spingerlo a muovere le sue batterie contro di me. È duro, ma intelligente: non corre rischi per stupidaggini.
— Quanto a me, preferirei aver a che fare con lo Squartatore.
— Anch’io — sogghignò Sweeney. — Ma devo toccare Yahn per avere il mezzo di trovarmi davanti allo Squartatore.
— Tu sei pazzo, Bill.
— Lo so. Un altro bicchiere?
Ehlers rispose che era ora di andarsene e si allontanò. Sweeney per un poco restò a osservare quattro tizi che giocavano a carte, poi si recò al bar a bere. Quello che aveva bevuto all’“El Madhouse” era ormai dimenticato, e l’unico bicchierino inghiottito in quei pochi minuti era stato troppo poco perché se ne accorgesse. Un bicchierino ancora, o due, non gli avrebbero fatto male.
Ne bevve due e non gli fecero male.