Henderson proseguì: — Io ero a poca distanza e l’ho sentita urlare e urlare senza smettere. Ci avrò messo cinque minuti ad arrivare e tutto era finito quando arrivai, ma lei stava ancora urlando. Era successo che quando lei cacciò il primo urlo, Charlie afferrò il fucile (lo aveva perché va molto a caccia, non per divertimento come facciamo noi, ma per mangiare) e corse verso la baracca. Vide sulla soglia l’uomo col coltello e dietro di lui, nell’angolo, Bessie ancora sotto l’acqua della doccia, che urlava. Si precipitò verso la porta: ci sono soltanto tre metri dalla casa alla baracca, si mise di fianco per prendere Pell senza colpire anche Bessie e sparò. E fece nel corpo di Pell un buco, che, ve l’ho detto, ci avreste potuto metter dentro la testa anche voi.
— Lo dovrei? — domandò Sweeney. Allo sguardo stupito dell’ex sceriffo, mutò la sua domanda. — E Bessie Wilson diventò pazza?
— Sì. E dopo sei o sette mesi morì. Completamente pazza. Non nel manicomio qua vicino, perché è degli incurabili, e invece lei avevano sperato di curarla, in principio. È stato in una piccola clinica privata vicino a Beloit. C’era stato un gran chiasso su tutta la faccenda e uno dei dottori di là si interessò del caso: aveva una nuova cura e, pensando di provarla con Bessie, la prese per un’opera di carità. Ma non servì a nulla: dopo sei o sette mesi era morta.
Sweeney domandò: — E Charlie? Si è svanito allora o lo era già?
— Come vi ho detto, non è proprio matto. Ma era già svanito prima del fatto, e non credo che sia peggiorato per quello. È un artista. E bisogna essere matti per fare gli artisti, no?
Sweeney rispose: — Penso di sì. E dove si trova la casa di Charlie?
— In Cuyahoga Street; non molto lontano di qui, verso ovest, quasi al limite della città. Il numero non lo so, sempre ammesso che ci sia un numero. Comunque, è poco più su di Main Street, che è questa strada dove siamo adesso. È dipinta di verde; non potete sbagliare. Un altro bicchiere? Ce ne sono rimasti giusto due.
— Perché no?
Non c’era alcuna ragione per dire di no, perciò Henderson versò i due bicchieri, vuotando la bottiglia.
Sweeney fissava il suo bicchiere. Una mezz’ora prima, tutto era sembrato molto promettente. Aveva trovato uno Squartatore. Ma era morto, morto da più di quattro anni, con un tal buco in corpo che Sweeney avrebbe potuto metterci dentro la testa se avesse voluto. Ma non lo voleva, specialmente perché lo Squartatore era morto da quattro anni.
Bevve un sorso e guardò Henderson, come se la colpa fosse stata sua. Poi gli venne un’altra idea, per quanto poco plausibile. Domandò: — E Charlie Wilson, è mai andato fuori città?
— Charlie? Che io sappia no. Perché?
— Mi domandavo solo se fosse stato a Chicago.
— No, non potrebbe pagarsi un biglietto fino a Chicago. E poi non è stato lui.
— Dove non è stato lui?
— A commettere i tre delitti dello Squartatore. Il nostro nuovo sceriffo, Lanny Pedersen, ne parlava al bar l’altra sera. Logicamente tutti noi abbiamo osservato la coincidenza del nostro Squartatore con questo, anche se il nostro era morto, e io ho domandato a Lanny di Charlie, se non poteva essergli venuta qualche idea da quel che aveva visto, o roba del genere, e ha detto che ci aveva pensato anche lui, ma che aveva già controllato che Charlie non era stato fuori città, interrogando i suoi vicini in Cuyahoga Street. Lo hanno visto tutti i giorni e per quasi tutto il giorno è stato a dipingere o a scolpire nel cortile.
Sweeney bevve un altro sorso. — E questo Pell — insisté — siete sicuro che Charlie lo abbia ucciso? Voglio dire, il colpo non lo avrà preso in faccia in modo da renderlo irriconoscibile?
— No, la faccia è rimasta intatta. Nessun dubbio sull’identità, anche ammesso che non bastassero l’uniforme insanguinata e tutto il resto. Il colpo lo ha preso nel petto, perché deve aver sentito Charlie avvicinarsi ed essersi voltato. Un colpo nel petto che gli ha fatto un buco da metterci dentro la testa.
Sweeney concluse: — Grazie lo stesso. Pensavo che potessero esserci dei legami con il nostro caso dello Squartatore — e si alzò — ma sembra improbabile, dato che Charlie ha un alibi e gli altri implicati sono tutti morti. E, in ogni caso, voi ci avreste pensato anche prima di me. A ogni modo, vi ringrazio.
Aspettò che Henderson avesse lavato i bicchieri e avesse gettato la bottiglia vuota nel secchio della spazzatura, poi scese con lui al bar. Quando la moglie di Henderson uscì dal banco, lasciando il posto al marito, li fissò attenta e Sweeney comprese che le precauzioni di Henderson con i bicchieri e la bottiglia erano state inutili. Se anche non avesse trovato la bottiglia, avrebbe saputo con certezza che ce n’era stata una.
Nel bar si trovavano solo quattro clienti, e Sweeney, sentendosi infelice per l’esito della sua inchiesta, offrì da bere a tutti, prima di andarsene. Personalmente, si accontentò di una birra.
Poi tornò alla stazione e si informò del primo treno per Chicago.
— Alle undici e un quarto — gli rispose un ferroviere.
Sweeney guardò l’orologio appeso al muro e vide che erano le quattro e mezzo. — C’è un aeroporto vicino, da cui si possa prendere un aereo per Chicago?
— Un aereo per Chicago? Mi pare che il più vicino sia l’aeroporto di Rhinelander. Potete trovarlo lì.
— Come ci arrivo a Rhinelander?
— In treno — rispose l’uomo — con quello delle undici e un quarto. È il primo che vada fin là.
Sweeney tirò una maledizione. Comperò un biglietto per Chicago e fece telegrafare dal ferroviere per riservargli un letto: almeno sarebbe arrivato a Chicago la domenica mattina con una buona nottata di sonno alle spalle. Sedette su una panchina della stazione e si domandò come avrebbe potuto occupare quelle sette ore di attesa, senza bere da ammazzarsi. Se avesse cominciato, non avrebbe preso il treno e la giornata seguente sarebbe stata perduta, l’ultima giornata libera prima di rientrare al “Blade”. Sospirò e decise che dato che si trovava là senza nulla da fare per ammazzare il tempo, tanto valeva parlare con Charlie-Chapman Wilson.
Ma ormai aveva perduto ogni entusiasmo in proposito. Era apparso tutto così bello, quando lo sceriffo aveva accennato a un pazzo Charlie Wilson e a una bella donna bionda assalita da uno Squartatore. Tanto bello che per reazione ora avrebbe voluto non conoscere nemmeno l’esistenza di Brampton, Wisconsin.
Gli restava sempre la statuetta, come traccia, ma ora doveva andare in avanti, invece che all’indietro, a cercare lo Squartatore che possedeva l’altra copia. Il rintracciarla all’origine aveva mostrato solo una coincidenza, ma una coincidenza che confermava l’idea che la statuetta dovesse avere grande influsso su uno Squartatore: in certo senso, era nata a causa di uno squartatore. Soltanto, purtroppo, non si trattava di quello all’opera a Chicago.
Bene, avrebbe potuto parlare con Chapman Wilson. E se era un ubriacone, una bottiglia sarebbe stata il modo migliore per invitarlo a chiacchierare. Comperò una bottiglia di whisky, da un quinto, mentre si recava da Main Street in Cuyahoga Street. Trovò facilmente la casupola dipinta di verde, con una baracchetta sul retro. Ma nessuno rispose al battere delle sue nocche sull’uscio.
Provò la porta della baracchetta, ma neanche lì vi fu risposta. Però era aperta: vi era solo un gancio all’interno e Sweeney lo alzò dalla fessura ed entrò. Un angolo era chiuso da un paravento per evidenti ragioni e nell’angolo opposto, senza alcun riparo o divisione, vi era la rudimentale doccia descritta dallo sceriffo.
Un cordone appeso accanto alla porta serviva per accendere e spegnere la luce, una lampada nuda in mezzo al soffitto. Sweeney l’accese e vide sul muro di fronte, tra la doccia e il paravento, il punto su cui era finito il colpo di fucile: ci era stato inchiodato sopra un pezzo di tappezzeria.
Tornò a guardare nell’angolo della doccia e rabbrividì immaginando una figura come la sua statuetta, a grandezza naturale, diversa solo perché di un morbido biancore, invece che di dura materia nera, là, in piedi, urlante, con le tenere braccia rotonde tese in un indicibile terrore, per ripararsi. Spense la luce e chiuse la porta. Non c’era da meravigliarsi che la povera creatura ne fosse impazzita.
Tornò alla casa e bussò di nuovo. Poi si avvicinò alla casa vicina e bussò anche lì. Gli aprì un uomo dai grossi baffi rigidi, al quale Sweeney domandò se sapesse se Charlie Wilson era a casa o sarebbe tornato presto.
— Dovrebbe tornare presto, credo. L’ho visto andare in città due ore fa e torna sempre a casa a prepararsi la cena; non mangia in città.
Sweeney lo ringraziò e tornò alla casa dell’artista. Erano le cinque e cominciava a far buio; poteva aspettare o fare qualunque altra cosa gli saltasse in mente.
Sedette sul gradino d’ingresso e depose la bottiglia incartata sull’erba accanto al gradino, resistendo al desiderio di aprirla prima dell’arrivo di Charlie.
Erano le sei ed era sceso il crepuscolo, quando vide giungere Charlie. Lo riconobbe facilmente dalla descrizione di Henderson: un metro e mezzo e cinquantadue chili. Sembrava ancora più piccolo, forse perché non era ubriaco, almeno in apparenza.
Di età poteva andare dai venticinque ai quarantacinque anni, pensò Sweeney, mentre quello si avvicinava. Era senza cappello e i capelli spettinati avevano il color della paglia; gli abiti erano malconci e la barba risaliva ad almeno due giorni prima. Gli occhi avevano uno sguardo vitreo.
Sweeney si alzò in piedi. — Il signor Wilson?
— Sì. — La testa gli arrivava giusto al mento di Sweeney.
Sweeney porse la mano. — Sweeney. Vorrei parlarvi di una statuetta scolpita da voi: una ragazza che urla.
La mano di Wilson avanzò, superando quella di Sweeney senza stringerla, si chiuse a pugno e raggiunse lo stomaco dolorante del giornalista. Lo stomaco diede in un urlo silenzioso e cercò di contrarsi fino ad appoggiarsi sulla schiena.
Quanto a Sweeney, articolò un suono impreciso e si ripiegò in due, mettendo così il suo mento alla portata del suo avversario Charlie. Infatti il pugno di Wilson lo colpì, facendolo vacillare, ma senza raddrizzarlo. In quel momento nulla avrebbe convinto Sweeney a rialzarsi. Nulla al mondo. Non si era nemmeno accorto del colpo sul mento, per l’intensità del dolore allo stomaco: quando avete una gamba in una tagliola non fate caso alla puntura di una zanzara.
Sweeney indietreggiò, sempre ripiegato su se stesso, fino a sedersi sul gradino, con le mani strette sullo stomaco a protezione. Non gli interessava che Wilson lo colpisse in faccia, purché non gli toccasse lo stomaco. Niente al mondo lo interessava, tranne che proteggere il suo stomaco. Sempre comprimendolo con le mani, si piegò da una parte e rigettò.
Quando si fu abbastanza ripreso da poter guardare in su, scorse Wilson che a braccia incrociate lo fissava con profondo stupore. La sua voce risuonò sorpresa come il suo viso. — Ch’io sia dannato! Vi ho battuto!
Sweeney grugnì. — Grazie.
— Ma non vi ho fatto proprio male, vero?
Sweeney rispose: — È una cosa carina. Tutto è molto bello qui. — E rigettò di nuovo.
— Non avevo intenzione di farvi male, davvero. Ma, diavolo, ogni volta che cerco di fare a pugni con qualcuno le prendo, così provo a piazzare qualche colpo finché sono in tempo. Volete qualcosa da bere? Devo avere del gin dentro. Dentro la credenza, voglio dire, non dentro di me. Lì c’è whisky.
— Whisky?
— Sì, dentro di me. Volete un sorso di gin?
Sweeney raccolse la bottiglia accanto al gradino. — Se volete aprire questa…
Wilson l’aprì con l’angolo di una chiave e con i denti, porse la bottiglia a Sweeney, che ne bevve un lungo sorso, poi gliela restituì. — Bevete anche voi. All’inizio di una bella amicizia.
— Odio i giornalisti.
— Oh, capisco — rispose Sweeney. — Che cosa vi ha fatto pensare che io fossi un giornalista?
— Siete il terzo in una settimana. E se no chi altri…? — Uno sguardo meravigliato gli apparve negli occhi.
— Già, chi altri? Ma provate a guardare da un’altra parte. Voi siete Chapman Wilson?
— Sì.
— Io mi chiamo Sweeney, Mortimer Sweeney. Della Ganslen Art Company, di Louisville.
Charlie Wilson si strinse la fronte tra le mani. — Oh, Dio!
— Potete ben dirlo.
— Sono desolato, veramente. Sentite, adesso riuscite a stare in piedi? Così potrò aprire l’uscio. Cioè no, state fermo, ho una maniera migliore. Vado dentro dall’altra parte e vi apro dall’interno, per aiutarvi.
Entrò in casa dalla parte della baracca, con un aspetto molto più normale e vivo di quando era arrivato. Sweeney udì aprirsi la porta sul retro e poi quella dell’ingresso, che gli sfiorò la schiena.
La voce di Wilson disse: — Scusate, avevo dimenticato che si apre verso l’esterno. Dovete alzarvi per forza perché io possa aprire. Ce la fate?
Sweeney si alzò. Non del tutto, ma quanto bastava per spostarsi ed entrare una volta aperto l’uscio. Si abbandonò sul primo sedile che gli si trovava vicino: una sedia sgangherata, senza spalliera; ma la cosa non aveva importanza, dato che non provava il minimo desiderio di abbandonarsi all’indietro.
La luce era accesa, una lampada in mezzo al soffitto, come nella baracchetta. Wilson stava lavando due bicchieri nel lavandino in un angolo. Il lavandino era pieno di piatti, mentre la scansia sopra all’acquaio era vuota. Era evidente che Wilson lavava i piatti quando e se ne aveva bisogno invece di usare il sistema più ortodosso di lavarli ogni volta che li aveva adoperati.
Dalla bottiglia di Sweeney versò un’abbondante dose nei due bicchieri e ne porse uno al giornalista.
Sweeney ne bevve un sorso e si guardò intorno: i muri, senza escluderne neppure un centimetro, erano coperti di tele non incorniciate. Paesaggi alla maniera di Cézanne e interessanti disegni astratti, ma Sweeney non era un conoscitore tanto profondo da giudicare quale fosse il loro valore reale. Avrebbe detto però senz’altro che non erano male. Non c’erano, a quanto pareva, ritratti né figure.
Da una parte, su un piedestallo da scultore, spiccava l’abbozzo di quello che, una volta finito, sarebbe stato un gladiatore.
Wilson aveva seguito lo sguardo di Sweeney. — Non guardate quell’affare — disse — non è finito ed è orribile. — Attraversò la stanza e gettò un panno sopra la statuetta di creta, poi sedette dalla parte opposta della camera, di fronte a Sweeney.
Questi cominciava a star meglio. — Non è male — disse — il gladiatore. Ma direi che l’olio è il vostro vero mezzo espressivo e che le statuette sono dei ripieghi. Vero?
— Non del tutto, signor Sweeney. Naturalmente, se voi non foste della Ganslen, direi di sì. Comunque, che cosa desiderate da me?
Sweeney si era già posto quel problema. Non sapeva nulla dell’organizzazione della ditta di Louisville e, peggio ancora, non sapeva fin dove Wilson ne fosse al corrente: poteva anche aver visitato la sede ed essere amico dei principali. Inoltre, egli non desiderava affatto fare o rifiutare acquisti. Disse: — Sono solo un viaggiatore di commercio della ditta, ma quando il principale ha sentito che passavo da Brampton durante il viaggio, mi ha raccomandato di fermarmi da voi.
— Signor Sweeney, credete, io sono davvero spiacente di…
— Non fa nulla — mentì Sweeney — ma ditemi piuttosto: come va la storia dei due giornalisti, quei due che sono stati da voi? Di quali giornali e perché?
— Dei giornali di St. Paul. No, uno forse era di Minneapolis. Era per quella statuetta di cui parlavate anche voi. È per questo che ho creduto che anche voi foste un giornalista, mi pare. Voi invece che cosa volevate sapere?
— Prima ditemi che cosa cercavano quei due imbec… quei giornalisti sulla statuetta.
Wilson aggrottò la fronte. — Era per quei delitti dello Squartatore di Chicago: volevano un resoconto di quando io ammazzai quel pazzo, quattro o cinque anni fa. Sapevano già della statuetta che avevo fatto di Bessie, perciò penso che avessero parlato con lo sceriffo Pedersen prima di venire da me.
Sweeney bevve pensosamente un sorso di whisky. — L’avevano vista, o avevano una fotografia?
— Mi pare di no. Tutto quel che domandavano, era a quale ditta l’avevo venduta. Se l’avessero vista, non avrebbero avuto bisogno di domandarmelo: il nome è inciso sulla base.
— Allora lo sceriffo della città è al corrente che voi avete scolpito la statuetta, ma non sa a chi l’avete venduta?
— Infatti. E non l’ha mai veduta. C’è stata tutta una chiassata in proposito una sera che mi ha condannato per disordini.
Sweeney annuì, sentendosi risollevato. I giornali di St. Paul e Minneapolis dunque non erano in possesso della parte più importante della storia della statuetta. Ne conoscevano i punti più secondari, quelli che anche lui aveva appreso quel giorno dall’ex sceriffo, ma non sapevano l’essenziale, cioè che lo Squartatore ne possedeva una copia. E non ne avevano neppure una fotografia. Tutto quel che potevano tirar fuori era una rievocazione della vecchia storia locale, che sarebbe apparsa sui loro giornali, ma non sarebbe stata trasmessa a tutto il paese dai cavi dell’“United” e dell’“Associated Press”, per guastare il piano di Sweeney.
Wilson si appoggiò al muro e accavallò le gambe. — Ma la Ganslen perché vi ha mandato a parlare con me, Sweeney?
— Una faccenda che temo non potrà funzionare, se voi non volete pubblicità sulla statuetta e sulle sue origini. Vedete, così come stanno le cose ora, quel pezzo è per noi una perdita. Ne abbiamo fatto una partita, per provare, ma la si vende troppo lentamente per giustificare un quantitativo forte. Abbiamo in magazzino quasi un centinaio di copie, che sembra non vengano ricercate da nessuno.
Wilson annuì. — Io l’avevo detto al signor Burke, quando l’ha comperata. È una di quelle cose che vanno così: o piacciono moltissimo o non piacciono affatto.
— A voi, da un punto di vista d’artista, come sembra? Come la giudicate?
— Io… non so, Sweeney. Vorrei non averla mai scolpita, né mai venduta. È troppo… personale. Gesù mio, rivedo Bessie là in piedi che urla, come l’ho vista allora dalla porta… ecco, l’immagine si era fissata nella mia mente finché ho dovuto riprodurla, per cancellarla. Mi ha perseguitato fino all’anno scorso. Dovevo dipingerla o scolpirla e siccome col pennello la figura non mi riesce molto, l’ho modellata in creta. Una volta finita, avrei voluto distruggerla. Ma l’avevo appena terminata, che è arrivato il signor Burke in uno dei suoi viaggi e gli è piaciuta. Non volevo vendergliela, ma lui ha insistito e io avevo un tale bisogno di soldi che non ho saputo resistere. È stato come vendere mia sorella, l’ho sentito così bene che sono rimasto ubriaco per una settimana. Così anche i soldi non mi son serviti a nulla.
— Capisco quel che dovete aver provato — assentì Sweeney.
— Ma io ho detto al signor Burke che non volevo nessuna pubblicità in proposito e lui ha promesso che non avrebbe raccontato a nessuno la storia per vendere qualche copia di più. E allora adesso perché torna alla carica?
Sweeney si schiarì la gola. — Ecco… pensava che forse, date le nuove circostanze che si sono presentate, potevate aver cambiato idea. Ma io capisco che siete ancora troppo sensibile su questo punto e non mi proverò nemmeno a insistere.
— Grazie. Ma le nuove circostanze quali sono?
— Quel che vi hanno raccontato i giornalisti di St. Paul. Vedete, proprio in questi giorni, c’è a Chicago uno Squartatore in attività ed è una grossa faccenda non limitata a questa zona, ma di importanza nazionale; una storia di delitti che è forse la più importante dopo quella di Dillinger. In questo momento, battendo il ferro finché è caldo, potremmo venderne una quantità, basando la pubblicità sul fatto che è la figura dal vero di una donna assalita dallo Squartatore, ritratta dalla memoria di uno scultore che ha visto l’aggressione con i suoi occhi e che ha salvato la donna. Ma per fare questo dovremmo raccontare tutta la storia.
— Capisco quel che volete dire. E forse significherebbe anche per me un guadagno extra. Ma… no, credo di no. Come vi ho detto, mi dispiace anche di averla venduta e di aver buttato in pubblico la povera Bessie… Un altro bicchierino? Il whisky è vostro.
— Nostro — rispose Sweeney. — Sapete, Charlie, voi mi siete simpatico. E non l’avrei creduto dopo la maniera in cui mi avete accolto.
Wilson riempì i bicchieri. — Sono sinceramente dispiaciuto di averlo fatto. Ve l’assicuro. Credevo che voi foste un altro di quei maledetti cronisti, come i primi due, ed ero deciso a non tollerarne un terzo.
Sedette di nuovo con il bicchiere in mano. — Quel che mi piace in voi è che non cercate di convincermi a fare quel che chiede la Ganslen. Se insisteste potrei anche cedere: Dio sa se ho bisogno di soldi e Dio sa se mi farebbe male guadagnarli in questo modo. Anche con i prezzi sbalorditivi che fissate voi, con una pubblicità simile ne vendereste a migliaia. E con tutto quel denaro…
— Quanto denaro? — domandò Sweeney con curiosità. — Burke non mi ha spiegato con precisione quali condizioni vi ha fatto.
— Le solite. Solite per me, perché non so che contratti facciano con gli altri scultori. Per quelle che comperano da me, mi danno cento dollari, fino alle prime mille copie vendute. Fino a quel punto, dice Burke, sono sulle spese ed è solo superando tale cifra che cominciano a guadagnare. È vero?
— Abbastanza — rispose Sweeney.
— Se ne vendessero due o tremila copie, a me verrebbero due o tremila dollari. Ma ancora non è mai successo. E Dio mi aiuti se non succederebbe… in questo caso! Vi ho detto che con i cento dollari avuti per la vendita di quella figuretta di Bessie sono rimasto ubriaco per una settimana: ecco, se prendessi mille o duemila dollari gettando sui giornali tutta la storia un’altra volta, con tutto che lei ormai è morta, mi ubriacherei in tale maniera che non ne uscirei vivo. E se anche resistessi io, non restisterebbe il denaro. Sarei finito e odierei me stesso per il resto della vita.
Sweeney sentì che poteva reggersi in piedi ormai, anche se un po’ incerto, e stese la mano. — Datemi la mano, Charlie. Voi mi piacete.
— Grazie. E voi piacete a me, Sweeney. Un altro bicchiere? Del vostro whisky?
— Il nostro whisky. Certo, Charlie. Ditemi, qual è il vostro nome, Charlie o Chapman?
— Charlie. Chapman è stata un’idea di Bessie. Diceva che era più artistico. Era una bella ragazza, Sweeney. Qualche volta un po’ strana.
— Non lo siamo tutti?
— Io credo di esserlo. Qui mi chiamano tutti matto.
— A Chicago probabilmente chiamano pazzo anche me. — Sweeney alzò il bicchiere. — Vogliamo bere alla pazzia?
Charlie per un istante lo fissò cupamente. — Al nostro genere di pazzia, Sweeney — disse.
— Perché… oh, sì. Alla nostra pazzia, Charlie.
Toccarono i bicchieri e bevvero, e Sweeney si rimise a sedere.
Charlie fissava il bicchiere vuoto. — La vera pazzia è orrenda, Sweeney. Quell’assassino, coperto di sangue, con il coltello ricurvo in mano… E Bessie… era così viva. E vederla andare in pezzi… forse non è giusto dire andare in pezzi, perché implica l’idea di un progredire graduale. Invece lei è diventata pazza in un attimo, davanti a quell’esperienza. Le dicevamo di vestirsi, perché era nuda quando… ma voi avete visto la statuetta, lo sapete… Io credo che sia stato un bene che sia morta, Sweeney. Io almeno preferirei cento volte morire, che impazzire come ha fatto lei.
Si strinse la testa fra le mani.
— Terribile — mormorò Sweeney — e aveva diciannove anni.
— Venti, allora. E quando è morta nella clinica, quattro anni fa, ne aveva ventuno. Ed era bella. Non un angelo, certo. Era selvaggia, qualche volta. I nostri genitori erano morti quando io avevo ventiquattro anni e Bessie quindici, dieci anni prima. Lei è andata da una zia, che ha cercato di educarla, ma poi se ne è scappata a St. Louis. Però con me si faceva viva spesso. E quando cinque anni dopo si è trovata nei guai, è da me che è venuta. Era… be’, quella faccenda con il pazzo l’ha portata fuori di carreggiata. — Alzò gli occhi. — Forse è molto meglio che ormai ne sia fuori: la vita può essere un inferno.
Sweeney si alzò e batté sulla spalla di Charlie. — Non pensateci più, andiamo! — Versò un altro bicchiere a entrambi e infilò quello di Charlie nella mano di lui.
Andò in giro per lo studio a esaminare i dipinti appesi, da vicino. Non erano male, per niente male.
Charlie riprese a parlare. — Eravamo vicini, molto vicini, molto di più di quanto non siano di solito fratello e sorella. Non abbiamo mai mentito uno con l’altro. Lei mi aveva raccontato tutto quel che aveva fatto a St. Louis e tutti gli uomini che aveva incontrato. Era stata cameriera e poi corista in una commedia musicale; ed era quello il suo mestiere quando si è accorta di aspettare un figlio. Allora è venuta qui. E poi quel miserabile scappato…
— Non parlatene più, basta — ordinò secco Sweeney.
— È morto troppo in fretta. Se gli avessi sparato alle gambe invece che al cuore, avrei potuto prendergli il coltello e… ma non l’avrei fatto, lo so. — Scosse lentamente il capo. — In ogni modo, gli ho fatto un bel buco. Tanto grande da farci passare dentro la testa.
Sweeney sospirò e sedette. — Dimenticatelo, Charlie. Parliamo di pittura.
Charlie annuì lento. Parlarono di pittura e poi di musica e poi tornarono alla pittura. La bottiglia di Sweeney fu vuotata e passarono al gin di Charlie. Era discretamente perfido. Dopo un poco, Sweeney trovava difficile fermare lo sguardo sui quadri di cui stavano discutendo, ma la mente gli era rimasta chiara. Abbastanza chiara da rendersi conto che stava trascorrendo una magnifica serata, con una delle conversazioni più interessanti che godesse da molto tempo. Non gli dispiaceva più di essere venuto a Brampton: Charlie gli piaceva, era della sua stessa razza. E teneva bene l’alcol, proprio bene. Aveva la lingua impastata, ma parlava sempre con logica.
Anche Sweeney era in quelle condizioni ed era ancora tanto in sé da tener d’occhio l’orologio. Quando furono le dieci e un quarto, un’ora prima della partenza del treno, disse a Charlie che doveva andare.
— In auto?
— No. Ho prenotato un posto sul treno delle undici e un quarto. Ma c’è un bel po’ di strada per la stazione. Ho passato una splendida serata.
— Non c’è bisogno di andare a piedi. C’è un autobus che percorre Main Street. Potete prenderlo all’angolo. Vi accompagno.
L’aria fredda della notte gli fece bene e cominciò a riportarlo alla sobrietà.
Charlie gli piaceva e avrebbe voluto fare qualcosa per lui. Anzi, d’improvviso vide in un lampo il «modo» di essergli utile. — Charlie — disse — ho un’idea per farvi guadagnare quei dollari con la statuetta, senza la pubblicità che non volete. Deve essere una pubblicità per la statuetta in sé, senza nominare né voi né vostra sorella.
— Va bene, se potete farlo…
— Certo che posso. Proprio da Chicago. Vedete, Charlie, io so qualcosa che nessun altro sa ancora e che può fare un gran chiasso intorno alla statuetta, senza parlare di come sia stata concepita e modellata. Il vostro nome e quello di vostra sorella non c’entreranno neppure.
— Se potete tenerne fuori Bessie…
— Certo, è facile. La vostra storia non è quella che importa veramente, almeno per quello di cui io voglio parlare. È un peccato, ma possiamo non farne cenno. E per quel che vi riguarda, manderò un telegramma alla Ganslen, perché comincino la lavorazione di un grosso lotto di statuette, per averle pronte quando scoppierà la bomba. Sentite, Charlie, non venite mai a Chicago?
— Da un paio d’anni no.
— Quando avrete ricevuto un po’ di quei dollari, venite a passare una serata con me. Vi mostrerò la città. Se arrivate in città di giorno telefonatemi, al “Blade”, in cronaca. Se arrivate di sera, invece, chiamatemi al…
— Cronaca? “Blade”? Voi siete un giornalista?
— Oh, Dio! — esclamò Sweeney disperatamente. Non avrebbe dovuto parlare, avrebbe dovuto mettersi subito e in fretta le mani sullo stomaco. Ma non lo fece.
Il pugno di Charlie arrivò sfiorando il polso di Sweeney e questi si piegò come un burattino, in tempo per ricevere il secondo pugno di Charlie sul mento. Ma, come era accaduto prima, sul mento non lo sentì neppure. Udì Charlie dire: — Sporco vigliacco, figlio di puttana, bugiardo… vorrei che ti alzassi per picchiarti.
Nulla era più lontano dalla mente di Sweeney, o meglio da quello che restava della sua mente. Non riusciva neanche a parlare, perché, se avesse aperto la bocca, ne sarebbe uscito qualcosa, ma non parole.
Udì Charlie allontanarsi.