Agonia della Terra

1

Il cataclisma

Kenniston comprese più tardi che quella era proprio come la morte. Sapeva che avrebbe dovuto morire, un giorno o l’al­tro, ma non ci credeva. Sapeva che la guerra atomica, tanto temuta, poteva cominciare con un colpo a tradimento, ma non lo aveva mai creduto.

Non lo aveva mai creduto, cioè, fino a quel mattino di giu­gno, quando la bomba cadde proprio su Middletown. Non ci fu, del resto, tempo per accorgersene. Non si può dire o vede­re una cosa che arriva più veloce del suono. Stava cammi­nando per Mill Street, verso il laboratorio, e si accingeva a parlare alla guardia che veniva verso di lui, in quel momento, il cielo si spalancò.

Fu come se la volta celeste si fendesse in due, e sopra tutta la città scesero un calore e una vampata di luce cosi rapidi, così violenti che l’aria stessa parve incendiarsi e divampare in una fiammata enorme. In quella frazione di secondo, mentre il cielo fiammeggiava e il terreno sobbalzava violen­temente, Kenniston capì che quello era l’attacco di sorpresa tanto temuto e che la prima bomba superatomica era esplosa sulla città...

Quello doveva essere l’effetto dello spostamento d’aria, pensò Kenniston, mentre si trovava disteso, con la bocca sul marciapiede viscido. Proprio lo strano effetto che impedisce ai morenti di sentire dolore. Rimase così, disteso, ad aspetta­re la fine. Ma il bagliore accecante che aveva attraversato il cielo svanì e la terra tornò immobile. In una frazione di se­condo era tutto finito.

Doveva essere morto. Oppure, molto probabilmente, stava morendo adesso, e ciò spiegava forse la luce offuscata e quello spaventoso silenzio.

Riuscì ad alzare la testa e si rimise poi in piedi, tremante, col respiro grosso e il cuore che gli batteva furiosamente, mentre cercava di reprimere l’impulso di mettersi a correre, chissà dove. Guardò lungo Mill Street. Si aspettava di vedere edifici polverizzati, crateri fumanti, fuoco, vapori e devasta­zioni. Ma quel che vide era assai più sorprendente e, strano a dirsi, anche più spaventoso.

Vide cioè che Middletown si stendeva come sempre, im­mutata e pacifica, sotto il sole.

La guardia alla quale stava per parlare prima dell’esplosio­ne era ancora là, davanti a lui: si stava rialzando lentamente, aiutandosi con le mani e coi ginocchi, nel punto dove la scos­sa l’aveva gettata. Aveva la bocca spalancata e il berretto gli era ruzzolato lontano. Più in là, c’era una vecchia con uno scialle sulla testa. Anche lei si trovava in quel punto prima dell’esplosione. Si appoggiava ora al muro e guardava il sac­chetto di provviste che le era caduto a terra sfasciandosi e spandendo in giro cipolle e scatole di conserve. Automobili e autobus si muovevano ancora in fondo alla strada e stavano rallentando per fermarsi. Nient’altro.

La guardia si avvicinò a Kenniston.

Era un giovane svelto e intelligente, ma adesso aveva la faccia inespressiva e gli occhi imbambolati.

«Che cos’è successo?» domandò con voce rauca.

«Siamo stati colpiti da una bomba, una superatomica» rispose Kenniston. Le sue parole sembravano strane e im­probabili anche a lui.

«Siete pazzo?» disse l’uomo, fissandolo stupito.

«Sì, credo di esserlo davvero. Credo proprio che questa sia l’unica spiegazione.»

Il suo cervello ricominciava a ragionare. L’aria si era fatta improvvisamente fredda e strana. La luce del sole si era affie­volita, aveva una colorazione rossastra e non riscaldava più. La vecchia, stretta nel suo scialle, piangeva. Poi, sempre piangendo, si mise in ginocchio. Kenniston credette che vo­lesse pregare; si mise invece a raccogliere le sue cipolle, con gesti impacciati come quelli di un bambino, cercando di ri­metterle nel sacchetto di carta che si era strappato.

«Ma certo!» disse la guardia. «Ho letto tante cose, sulle bombe superatomiche, nei giornali. Ho letto che sono migliaia di volte più potenti delle atomiche di una volta. Se una superatomica colpisse una città, la distruggerebbe completamente.» Si convinceva sempre più di quanto af­fermava. «Quindi, non dev’essere stata una superatomica. Questo è certo.»

«Ma non avete visto quella tremenda vampata in cielo?» disse Kenniston.

«Certo che l’ho vista, ma...» E qui la faccia della guar­dia si rischiarò. «Be’, deve essere stata una bomba che ha fatto cilecca. Hanno voluto spaventare tutto il mondo con questa superatomica... e poi non è nemmeno scoppiata.» Rise rumorosamente, con visibile sollievo. «Non è ridico­lo? Vi raccontano su tutti i toni, per anni, quanto è terribile, e poi fa soltanto una vampata come una girandola di fuochi artificiali!»

Poteva anche darsi che fosse così, pensò Kenniston, con un selvaggio impeto di speranza. Poteva anche darsi che fos­se così.

Poi guardò in alto, e vide il sole.

«Forse è stata solo una fanfaronata, sin dal principio» continuò la guardia. «Forse non avevano nemmeno la su­peratomica!»

Kenniston, senza abbassare gli occhi dal sole, parlò con le labbra aride: «L’avevano, l’avevano, purtroppo. E ne hanno usata una contro di noi. E credo anche che noi siamo morti e non lo sappiamo ancora. Non sappiamo ancora che non sia­mo più che spiriti e non viviamo più sulla terra.»

«Non viviamo più sulla terra?» proruppe la guardia, adirata. «Be’, sentite...»

Ma le parole si spensero in un mormorio, mentre i suoi oc­chi seguivano la direzione dello sguardo di Kenniston e si fis­savano nel sole.

Non era il sole! Non era, cioè, il sole che essi e tutte le ge­nerazioni d’uomini che li avevano preceduti avevano visto sempre e conosciuto come una luminosa orbita dorata. Questo sole, che ora vedevano, lo potevano guardare benis­simo, senza nemmeno socchiudere gli occhi. Potevano guardarlo a lungo, finché volevano, perché non era più che una grossa palla rossastra, con una sottile aureola di splen­dore ai margini. Si trovava più in alto, nel cielo. E l’aria era più fredda.

«Non è più allo stesso posto» disse la guardia. «E sem­bra diverso.» Rimase assorto, cercando di ricordarsi le no­zioni imparate a scuola, poi riprese: «La rifrazione, dev’essere. La polvere sollevata da quella bomba della malora, che ha fatto cilecca!»

Kenniston non volle insistere. A che poteva servire? Non valeva certo la pena di dirgli ciò che egli, come scienziato sa­peva benissimo, che cioè nessun possibile fenomeno di rifra­zione avrebbe mai potuto influire sul sole in quel modo e far­gli assumere un aspetto simile.

«Può darsi che abbiate ragione» disse, semplicemente.

«Ma certo, che ho ragione!» disse la guardia, ad alta vo­ce. Ma non guardava più, lassù nel cielo, verso il sole; sem­brava volesse evitarne la vista.

Kenniston riprese la strada lungo Mill Street. Stava per andare al laboratorio, quando quella cosa terribile era acca­duta. Continuò in quella direzione. Voleva sapere ciò che Hubble e gli altri gli avrebbero detto, su quanto era accaduto.

Rise un po’, parlando fra sé.

«Sono uno spettro che va a discorrere con altri spettri, della nostra improvvisa morte.» Poi si riscosse, con un sen­timento di ribellione e di fermezza: «Smettila! Sei uno scienziato. A che serve, la scienza, se perdi così facilmente le staffe di fronte a un fenomeno inspiegabile?»

Quella, tuttavia, era una sottovalutazione degli avveni­menti. Una superatomica scoppiata su una cittadina di cin­quantamila abitanti, e nulla mutava, fuorché il sole nel cielo. Era qualcosa di più che un fenomeno inspiegabile.

Kenniston proseguì la sua strada. Camminava in fretta perché l’aria era stranamente fredda. Non si fermò a parlare con le persone sbalordite che incontrava. Si trattava, per lo più, di operai che stavano avviandosi al lavoro negli stabili­menti di Middletown, quando il fatto era accaduto; e stavano ora discutendo di quel lampo e di quella fiammata improvvi­si. La parola che Kenniston udiva più frequentemente era terremoto. Non apparivano tuttavia preoccupati, quegli uo­mini. Sembravano eccitati e forse erano anche soddisfatti che qualcosa fosse venuto a interrompere la grigia unifor­mità della loro vita. Alcuni di loro guardavano su, nel cielo, quello strano sole rossastro, ma sembravano più perplessi che preoccupati.

L’aria era fredda e umida. E quella luce rossa, nebbiosa, era assai strana. Ma ciò non preoccupava molto quegli uomi­ni che non ci trovavano nulla di diverso dall’aria fredda e dal­la luce sporca che spesso preannunciano un uragano, nel Middle West.

Kenniston entrò dal cancello nell’edificio di mattoni, annerito dal fumo, che recava l’insegna LABORATORI RICER­CHE INDUSTRIALI. Il guardiano, imperturbabile, gli fece un cenno.

Né quel guardiano, né alcuno dei cinquantamila abitan­ti di Middletown, salvo pochi funzionari, sapevano che quegli apparenti laboratori industriali erano in realtà uno dei più importanti centri per la difesa atomica degli Stati Uniti.

Gente furba, pensava Kenniston. Gli incaricati del decen­tramento dei laboratori atomici erano infatti stati molto fur­bi nel collocare quell’importante centro di ricerche in quella piccola cittadina industriale del Middle West.

Ma non abbastanza furbi, pensava.

No, certo. Non abbastanza furbi. Il nemico, ancora sconosciuto, doveva avere scoperto il segreto e aveva dato la prima mazzata proprio su quel centro nevralgico della difesa atomica, nascosto nella piccola città di Middle­town.

Una superatomica, per annientare quel centro nevralgico, prima ancora che la guerra scoppiasse. Solo che la superatomica aveva fatto cilecca. Ma era poi vero? Il sole era un sole diverso. E l’aria era fredda e strana.

Crisci incontrò Kenniston all’ingresso dell’edificio centra­le. Crisci era il membro più giovane del personale scientifico. Era un uomo alto, dai capelli neri. Cercava di celare la pro­pria emozione con un’aria indifferente.

«Sembra che sia cominciata» disse, rivolgendo a Ken­niston un sorriso. «Il cataclisma atomico! I fuochi d’artifi­cio di fine spettacolo!» Poi, il suo viso si fece serio. «Ma perché quella bomba non ci ha polverizzati, Kenniston? Ne capisci qualche cosa, tu?»

«Gli apparecchi non hanno registrato nulla?» gli do­mandò Kenniston.

«Nulla. Assolutamente nulla.»

Questo, pensò Kenniston, confermava la pazza improba­bilità di tutta quella faccenda.

«Dov’è Hubble?» domandò.

Crisci fece un gesto vago.

«Lassù. Ci ha ordinato di chiamare Washington; ma tut­te le linee sono interrotte e anche il contatto radio non è stato ancora possibile.»

Kenniston attraversò il cortile. Hubble, il capo del laboratorio, guardava il cielo annebbiato e quel sole rosso e opaco che si poteva impunemente fissare senza rimanere abbaglia­ti. Non aveva che cinquant’anni ma sembrava più vecchio, in quel momento. Aveva i capelli in disordine e il suo viso ma­gro aveva i lineamenti contratti.

«Non si può nemmeno immaginare di dove sia venuta quella bomba» disse Kenniston.

Poi capì che i pensieri di Hubble erano altrove, perché l’al­tro fece col capo, distrattamente, un segno di assenso.

«Guarda quelle stelle, Kenniston.»

«Stelle? Delle stelle, in pieno giorno?»

Poi, guardando in alto, Kenniston si accorse che si poteva­no vedere le stelle, ora. Apparivano come dei deboli punti scintillanti, dappertutto, sopra quello strano cielo oscurato, persino vicino a quel sole opaco.

«Sono in una posizione sbagliata» affermò Hubble. «Sono tutte in una posizione sbagliata.»

«Ma che cosa è accaduto?» domandò Kenniston. «È vero che quella superatomica ha fatto cilecca?»

Hubble abbassò lo sguardo su di lui, sbattendo le pal­pebre.

«No» disse a bassa voce. «Non ha fatto cilecca. È scoppiata per davvero.»

«Ma se quella superatomica è scoppiata, allora...»

Ma Hubble non lo ascoltava più. Entrò nel suo ufficio e cominciò a togliere dagli scaffali dei volumi. Con grande sorpresa di Kenniston, li aprì alle pagine relative ai dia­grammi astronomici. Poi, Hubble prese una matita e comin­ciò a scarabocchiare rapidamente dei calcoli su un bloc­chetto di carta.

Kenniston gli afferrò una spalla.

«In nome del Cielo, Hubble, questo non è il momento adatto per le teorie scientifiche! La città non è stata colpita, ma qualche cosa di veramente grosso è accaduto, e...»

«Vai al diavolo e lasciami stare» brontolò Hubble senza voltarsi.

Quell’insolito modo di fare di Hubble ridusse Kenniston al silenzio. Hubble continuò nei suoi calcoli, consultando spes­so i diagrammi dei libri. L’ufficio era silenzioso, come se nul­la di nulla fosse accaduto. Infine, Hubble si volse. La sua ma­no tremava un poco, mentre indicava i calcoli tracciati sul blocchetto di carta.

«Vedi quei calcoli, Ken? Sono la prova: la prova di qualche cosa di impossibile. Che deve fare uno scienziato, quan­do si trova di fronte a una situazione simile?»

Kenniston poté scorgere, nel grigio volto di Hubble, il dubbio, il tormento e il timore, e questo aumentava la paura istintiva da cui si sentiva afferrare. Ma prima che potesse parlare, entrò Crisci.

«Non ci è stato ancora possibile metterci in contatto con Washington» annunciò questi. «Non riusciamo a capire: le nostre chiamate rimangono completamente senza rispo­sta. Pare quasi che, all’infuori di Middletown, non vi sia altra stazione al mondo che trasmetta alcunché.»

Hubble gettò un’occhiata sul blocchetto dei suoi calcoli.

«Tutte queste circostanze confermano la mia ipotesi. Proprio così!»

«Ma che cosa pensate?» domandò Crisci, ansiosamen­te. «Quella bomba è esplosa su Middletown, anche se non ci ha colpito. Eppure sembra che tutto il mondo, all’infuori di Middletown, sia improvvisamente diventato muto!»

Kenniston, ancora impressionato da quanto aveva veduto sul viso di Hubble, attese che l’anziano scienziato dicesse lo­ro ciò che sapeva o pensava. Ma il campanello del telefono ri­suonò in quel momento, stridente.

Era l’apparecchio di comunicazione con il guardiano, al­l’ingresso dei laboratori. Hubble afferrò il ricevitore.

«Sì, lascialo entrare» rispose dopo un attimo, e appese. «È Johnson, l’elettricista che ci ha fatto dei lavori di ripara­zione» disse rivolto agli altri due. «Abita alla periferia del­la città.»

Quando Johnson entrò, Kenniston si accorse subito che quell’uomo era in preda a un folle terrore.

«Ho pensato che voi poteste saperlo» disse a Hubble. «Qualcuno deve pur dirmi che cosa è accaduto, altrimenti impazzisco! Ho un campo di grano, signor Hubble; è un campo abbastanza esteso, recintato da una siepe, e al di là di quella siepe vi è la fattoria del mio vicino.»

L’uomo cominciò a tremare.

«Ebbene, cosa è accaduto al vostro campo di grano?» domandò Hubble.

«Una parte del mio campo è scomparsa» disse Johnson «e anche la siepe, e anche la fattoria! Signor Hubble, è tutto scomparso, tutto...»

«Effetto dello spostamento d’aria» spiegò Hubble, gentilmente. «Una bomba ha colpito la città pochi minuti or sono, lo sapete.»

«No» insistette Johnson. «Mi trovavo a Londra, du­rante l’ultima guerra. So che danni può fare un’esplosione. Questa non è una distruzione. È...» Si interruppe. Pareva cercasse le parole adatte, ma non le trovava. «Ho pensato che voi poteste sapere cos’è.»

Kenniston sentì in quel momento che quel gelido senso premonitore che gli era sorto nell’animo assumeva ora la for­ma di un indistinto terrore, troppo forte e angoscioso da sop­portare.

«Voglio uscire a dare un’occhiata» disse.

Hubble lo guardò e fece un cenno di assenso col capo. Poi si alzò, lentamente, come se non volesse andare ma costrin­gesse se stesso a farlo.

«Possiamo vedere ogni cosa dalla torre dell’acquedotto, credo...» disse. «Quello è il punto più alto della città. Tu in­sisti nel tentativo di comunicare con l’esterno, Crisci.»

Kenniston uscì con lui dai laboratori e, attraverso Mill Street e le rotaie del deposito ferroviario, si diresse verso la torre dell’acquedotto di Middletown.

L’aria si era fatta più fredda. I raggi rossi del sole non ave­vano alcun calore, e Kenniston, quando afferrò la ringhiera della scala per cominciare a salire sulla torre, sentì che le sbarre di ferro erano fredde come ghiaccio. Seguì Hubble su per la scala, tenendo gli occhi fissi sulle scarpe del suo supe­riore. Fu una lunga salita. Dovettero fermarsi una volta, per riposare. Il vento soffiava sempre più forte, a mano a mano che salivano. Pareva a Kenniston che quel vento umido aves­se un odore di muffa; come se quell’aria soffiasse da profon­de tombe scavate nella roccia.

Giunsero infine alla piattaforma, riparata da una ringhie­ra che correva tutto attorno al grosso serbatoio dell’acqua. Kenniston guardò, in basso, la città. Vide gruppi di persone che si raccoglievano agli angoli delle strade. Vide automobili, alcune delle quali si muovevano lentamente, ma le più erano ferme e ingombravano le strade. Regnava su tutto un silen­zio pesante.

Hubble diede uno sguardo rapido alla città. Middletown era tutta sotto di loro, coi suoi fabbricati intatti nel punto do­ve si erano sempre trovati, con la statua bronzea di una senti­nella, a ricordo dei caduti nella Guerra Civile, proprio al cen­tro della piazza, col fumo che saliva lentamente dalle ciminiere degli stabilimenti. Poi Hubble guardò verso l’esterno della città. Non parlò, ma rimase immobile, con gli occhi fis­si. Anche Kenniston volse istintivamente lo sguardo in quella direzione.

Guardò a lungo, prima di cominciare a rendersi conto del­la realtà. Le retine dei suoi occhi continuavano a registrare quella immagine, ma il cervello si rifiutava di dare un senso, un significato qualsiasi a quella incredibile visione. Impossi­bile... impossibile... No! No! Doveva essere la polvere, o la ri­frazione, o una illusione creata da quella nebbiosa luce sola­re, qualsiasi cosa, ma non la realtà. Non ci poteva essere, per tutte le leggi note dal tempo della Creazione, una realtà come quella!

Tutto il paesaggio, attorno a Middletown, era scomparso. I campi, i campi verdi e lisci del Middle West, il fiume, i tor­renti, le vecchie fattorie sparse qua e là, tutto era scomparso. Quel paesaggio era completamente diverso, estraneo, e si stendeva attorno alla città come un paese sconosciuto.

Pianure tristi e vuote, fatte di terra color giallo ocra, battu­te dal vento, si perdevano in una catena di colline frastaglia­te, che non erano mai esistite prima. Il vento soffiava su quel mondo nudo e senza vita, muoveva le zolle e sollevava nubi di polvere giallognola. Il sole sovrastava tutto ciò come un grande occhio opaco, dalle ciglia di fuoco. Le stelle scintil­lanti pendevano solenni nel cielo, e tutto, la Terra, le stelle, il sole, aveva un aspetto di morte. Tutto era avvolto da un silen­zio di attesa, in una dimensione che non aveva più nulla di nuovo.

Kenniston strinse spasmodicamente le sbarre di ferro del­la ringhiera, con la sensazione spaventosa che tutta la realtà gli crollasse attorno, e cercò freneticamente una spiegazio­ne, una spiegazione razionale qualsiasi di quell’impossibile scenario.

«Ma, allora, la bomba... la bomba ha in qualche modo di­strutto tutto il paesaggio attorno a noi, invece di distruggere Middletown?»

«Potrebbe mai una bomba far scomparire un fiume, e far sorgere quelle colline, e trasformare i campi, in quella ter­ra arida e gialla?» disse Hubble. «Potrebbe mai, una bom­ba, fare tutto ciò?»

«Ma, per l’amor del Cielo, allora... che cosa...»

«Quella bomba ci ha colpito, Kenniston. È scoppiata proprio su Middletown, e ha fatto qualche cosa...» Hubble si interruppe, balbettando, poi proseguì: «Nessuno sapeva, in realtà, che cosa potesse fare una bomba superatomica. Esistevano teorie logiche, previsioni sui suoi effetti, ma nes­suno sapeva nulla in realtà, eccetto il fatto che una forza im­mane sarebbe stata improvvisamente scatenata. Ebbene, quella forza è stata scatenata sopra Middletown. Ed è stata una forza violentissima. Tanto violenta che...»

Hubble si arrestò nuovamente, come se non avesse abba­stanza coraggio per esprimere la certezza che si era ormai formata in lui. Fece un gesto vago verso il cielo annebbiato.

«Quello è il nostro sole» disse «proprio il nostro sole... ma è vecchio ora, molto vecchio. E quella Terra che vedi lag­giù è vecchia anch’essa, nuda, sterile, corrosa e morente. E le stelle... Hai guardato le stelle, Ken, ma non le hai vedute. So­no diverse. Le costellazioni sono scompaginate dal moto del­le stelle, e questo è unicamente dovuto all’opera di milioni di anni.»

«Milioni di anni?» bisbigliò Kenniston. «Ma, allora, tu credi che la bomba...» Tacque di colpo, e capì in quel mo­mento che cosa aveva dovuto provare Hubble quando aveva compreso la realtà. Come si poteva dire una cosa che nessu­no aveva detto mai, prima?

«Sì, la bomba...» disse Hubble. «Una forza, una vio­lenza più grande di qualsiasi altra mai conosciuta. Una vio­lenza troppo grande per essere contenuta nei confini ordina­ri della materia. Troppo grande per sprecare la sua energia in una insignificante distruzione fisica. Invece di distruggere gli edifici, quella violenza ha distrutto lo spazio e il tempo. »

Il rifiuto di Kenniston a tutto ciò si espresse in un grido rauco.

«Hubble! No! Questa è pazzia! Il tempo è assoluto...»

«Tu lo sai che non è così» obiettò Hubble. «Tu lo sai, dai lavori di Einstein, che il tempo per se stesso non esiste, che esiste invece una continuità spazio-tempo. E questa con­tinuità è ricurva, e una forza sufficientemente grande potreb­be sbalestrare la materia da un punto all’altro della curva.»

Sollevò una mano tremante verso quello spettrale paesag­gio, oltre i limiti della città.

«E quella forza immensa, sprigionatasi dalla prima bomba superatomica, ha compiuto tutto ciò. Ha spedito que­sta città in un’altra parte della curva spazio-tempo, in un’al­tra epoca, a milioni di anni nell’avvenire, in questa Terra mo­rente del futuro!»

2

L’incredibile

Quando tornarono nei laboratori, il resto del personale li sta­va attendendo. Erano in tutto una dozzina di uomini, di età varia, da quella di Crisci a quella del vecchio Beitz, e se ne stavano, rabbrividendo, di fronte all’edificio, nella fredda e rossastra luce del sole. Anche Johnson era con loro, in attesa della sua risposta. Hubble guardò Johnson, poi tutti gli altri.

«È meglio che rientriamo» disse.

Nessuno rivolse quelle domande che pur premevano den­tro ciascuno di loro. Silenziosamente, seguirono Hubble at­traverso il portone dell’edificio. Si muovevano a scatti, con impaccio, come se la tensione nervosa fosse divenuta tale da inibire i loro riflessi. Anche Kenniston li seguì, ma non per tutto il percorso.

Si fermò davanti alla porta del suo ufficio, e disse: «Vo­glio accertarmi che non sia successo niente a Carol.»

«Non dirle nulla di quanto è accaduto, Ken» gli consi­gliò Hubble.

«No» ribatté Kenniston. «Non le dirò nulla.»

Entrò nel suo piccolo ufficio e chiuse la porta. Allungò una mano sulla scrivania per afferrare il ricevitore, ma poi la ri­trasse. Il terrore che prima lo aveva sconvolto ora si era tra­sformato in una specie di torpore, di insensibilità, come se fosse stato troppo grande per essere contenuto in un corpo umano e fosse traboccato fuori, portando con sé tutta la for­za e la volontà. Guardò quel familiare strumento e pensò alla sua inutilità, alla inutilità di quei grossi elenchi della guida telefonica, con una quantità di nomi e di numeri appartenen­ti a persone che erano una volta vissute nei villaggi e nelle città vicine e che ora non esistevano più, da... da quanto tem­po? Un’ora e poco più, se si pensava in un dato modo. Ma, se si pensava in un altro modo...

Sedette sulla poltroncina della scrivania. Aveva lavorato a lungo seduto su quella poltroncina e ora tutto quel lavoro non aveva più alcun significato. Troppe cose avevano cessato di avere significato. Progetti e idee, dove trascorrere la luna di miele, il modo in cui desiderava vivere, in quale casa, tut­to. La Florida e la California e New York erano parole senza senso, come ieri e domani. Tutto, era scomparso, i tempi e i luoghi, e non restava più nulla, eccetto Carol. E forse nemmeno lei, Forse se n’era andata con sua zia per una piccola gita in campagna e, se non si trovava in Middletown quando quella cosa terribile era accaduta, anch’essa, allora, se n’era andata, per sempre... sempre...

Afferrò il ricevitore con ambo le mani e ripeté il numero più volte. La centralinista fu molto paziente, con lui. Tutti telefonavano a Middletown, tutti si chiamavano, e al di so­pra di quei frammenti di conversazioni confuse, Kenniston udiva rimbombare nelle sue orecchie le pulsazioni del suo cuore, e pensava che non aveva alcun diritto di desiderare che Carol fosse ancora là, in casa sua. Avrebbe dovuto anzi pregare il Cielo che fosse andata in qualche altro posto, per­ché non poteva desiderare che una persona amata fosse co­stretta a fronteggiare quella vita terribile, che li attendeva. E che vita li attendeva? Chi poteva immaginarselo, in mezzo a tutti quegli orrori indistinti che avrebbero potuto prendere forma?

«Ken?» disse una voce, nel suo orecchio. «Ken, sei tu? Pronto! »

«Carol!» disse Kenniston. Tutta la stanza scomparve, come in una nebbia, ai suoi occhi, e non vi fu più che quella voce.

«Ken! È tanto tempo che cerco di chiamarti. Che cosa è accaduto? La città è tutta sottosopra. Ho visto un lampo ter­ribile nel cielo, ma non vi è stato alcun temporale, e poi, quel­la scossa... E tu, come stai?»

«Sì, sì, sto benissimo...» Non era affatto spaventata, Ca­rol, almeno non ancora. Era ansiosa, preoccupata, ma non spaventata. Un lampo e una scossa. Allarmante sì, ma non terrificante, non certo la fine del mondo... Kenniston si irri­gidì, facendo forza su se stesso, e disse: «Non lo so ancora, che cosa sia stato.»

«Ma puoi saperlo? Qualcuno dovrebbe saperlo.» Non era al corrente, naturalmente, che Kenniston lavorava in un centro atomico. A lui non era stato consentito di dirlo a nes­suno, nemmeno alla sua fidanzata e, per lei, Ken non era al­tro che un semplice tecnico di un laboratorio industriale, va­gamente occupato in prove di materiali e cose del genere. La ragazza non aveva mai dimostrato molta curiosità per il suo lavoro, e lui gliene era stato grato, perché ciò gli aveva rispar­miato la necessità di mentirle. Ora le era anche più ricono­scente, perché Carol non poteva crederlo capace di darle informazioni sull’accaduto. In quel modo, avrebbe potuto risparmiarle la verità ancora per un poco, e rimettersi, lui per primo, dal colpo ricevuto.

«Farò del mio meglio» la rassicurò. «Ma finché non saremo sicuri di che si tratta, desidero che tu e tua zia rima­niate in casa, lontano dalla strada. Non si può sapere come si comporterà la gente, se è presa dal panico. Me lo prometti? Sì... sì. Verrò da te non appena mi sarà possibile.»

Kenniston riappese il ricevitore e, non appena interrotto il contatto con Carol, perse nuovamente il contatto con la realtà. Si guardò attorno, e l’ufficio gli parve d’improvviso co­me un ambiente irreale, perché non aveva più significato per lui. Avrebbe voluto andarsene al più presto, eppure, quando si fu alzato, rimase per un poco con le mani appoggiate alla scrivania, mentre le parole di Hubble gli martellavano in te­sta. Ricordava l’immagine del sole e delle stelle, il triste e in­consueto aspetto della Terra. Si sforzava di convincersi che era tutto impossibile, eppure i fatti non si potevano negare. La lunga sequenza del tempo e poi, d’un tratto, una forza di­rompente... Desiderava disperatamente di fuggire. Riscuo­tendosi, uscì nel corridoio e si diresse all’ufficio di Hubble.

Erano tutti lì, i dodici uomini del personale e Johnson. Johnson si era rifugiato in un angolo. Lui aveva visto ciò che era accaduto laggiù, ai limiti della città, mentre gli altri non si rendevano ancora conto. Cercava di capire l’accaduto e la spiegazione che di esso aveva appena udita. Non era una co­sa piacevole vederlo ripiegato in quello sforzo mentale. Ken­niston guardò gli altri. Aveva lavorato a stretto contatto con tutti loro. Credeva di conoscerli molto bene, avendo vissuto con loro i successi e gli insuccessi del lavoro comune. Capiva ora, invece, che erano tutti estranei, sia verso di lui, sia tra di loro. Erano soli, ognuno in balia della propria paura.

«Anche se questo fosse vero» stava dicendo, in tono quasi truce, il vecchio Beitz «non potete però affermare esattamente quanto tempo sia trascorso. E soprattutto, ba­sandovi unicamente sulle stelle.»

«Non sono un astronomo» ribatté Hubble «ma chiun­que può calcolarlo dai diagrammi, in base al moto delle stelle e ai mutamenti delle costellazioni. Non esattamente, certo, ma con quell’approssimazione che può, almeno per ora, inte­ressarci.»

«Ma se la continuità del tempo fosse stata realmente spezzata, se questa città avesse realmente fatto un balzo di milioni di anni...» La voce di Beitz si perdette in un mormorio indistinto. Si morse le labbra, cosciente della inutilità di quanto stava dicendo, e rimase, come tutti gli altri, a guarda­re Hubble con una espressione cupa.

«Non crederete certamente a tutto questo, finché non avrete visto coi vostri occhi» concluse Hubble, scuotendo il capo. «Non vi biasimo affatto. Ma per il momento, dovrete accettare la mia spiegazione come una possibile ipotesi.»

Morrow si schiarì la gola.

«E che direte alla gente... agli abitanti della città? Avete intenzione di dir loro la verità?» domandò.

«Almeno una parte della verità dovranno conoscerla» rispose Hubble. «La temperatura si farà più fredda, molto più fredda, specialmente durante la notte, e dovranno essere preparati ad affrontare questa evenienza. Ma dobbiamo evi­tare le manifestazioni di panico. Stanno venendo da me il sindaco e il capo della polizia, e decideremo la cosa con loro.»

«E quei due ne sono già a conoscenza?» domandò Kenniston.

«No» rispose Hubble.

Johnson si mosse d’improvviso. Si avvicinò a Hubble: «Sarà al sicuro, mio figlio?»

«Vostro figlio?» domandò Hubble, guardandolo inter­detto.

«Sì. Se n’è andato stamattina di buon’ora alla fattoria di Martisen, per farsi preparare un aratro. Quella fattoria si tro­va a due miglia fuori dalla città, verso nord. Che ne è stato di lui, signor Hubble... è al sicuro?»

Quello era il segreto tormento che non aveva ancora espresso a parole.

«Credo che non abbiate da preoccuparvi per lui, signor Johnson» rispose Hubble con pietosa menzogna.

Johnson fece col capo un cenno affermativo, ma appariva sempre preoccupato.

«Grazie, signor Hubble» disse. «Sarà meglio che torni a casa, ora. Ho lasciato mia moglie in una crisi di dispera­zione.»

Un paio di minuti dopo la sua partenza, Kenniston udì al­l’esterno la sirena di un’auto, che venne a fermarsi davanti al­l’edificio.

«Dovrebbe essere il sindaco» disse Hubble.

Un ben debole appoggio, in una circostanza come questa, pensò Kenniston. Non che il sindaco fosse un cattivo uomo. Non era più presuntuoso, inefficiente o venale di qualsiasi altro sindaco di provincia. Gli piacevano i bambini e l’oratoria, si preoccupava dei colori della sua cravatta e si diceva che fosse, comunque, un buon marito e un buon padre. Ma Kenniston non poteva certo immaginarsi Bertram Garris come capo del suo popolo. Questi suoi pensieri non mutarono af­fatto quando Garris entrò con le sue guance rosee di uomo ben pasciuto, con quel suo viso di piccolo uomo soddisfatto della sua piccola carriera nella sua piccola città. In quel mo­mento, appariva considerevolmente turbato e perplesso, ma solo superficialmente, anzi, forse più interessato che spaven­tato dalla prospettiva di essere al centro di un avvenimento importante.

Kimer, il capo della polizia, era tutt’altra cosa. Era alto e angoloso, era stato testimone di molte brutture ed esprimeva una specie di dura saggezza. Non un uomo brillante, certo, pensò Kenniston, ma capace di imporre le cose che si dove­vano fare. E Kimer appariva assai più preoccupato del sin­daco.

Garris si volse immediatamente a Hubble. Era ovvio che aveva un grande rispetto per lui e che era orgoglioso di tro­varsi da pari a pari con un personaggio tanto importante che, com’egli sapeva, era uno degli scienziati atomici più in vista nella nazione.

«Avete qualche notizia, dottor Hubble? Non abbiamo ancora potuto metterci in comunicazione con l’esterno e cor­rono dappertutto le voci più disparate. Credevo dapprima che aveste avuto un’esplosione qui nel laboratorio, ma...»

Kimer lo interruppe.

«Si sta spargendo la voce che una bomba atomica ci ha colpiti, dottor Hubble. Molti abitanti sono spaventati. Se la paura si diffonde, dovremo presto fronteggiare il panico. Ho sparpagliato i miei agenti nelle strade per calmare la popola­zione, ma desidererei avere una storia precisa da raccontare, e soprattutto una storia che sia credibile.»

«Una bomba atomica!» esclamò il sindaco Garris. «Ma è una sciocchezza, questa! Siamo tutti vivi e non vi è stato alcun danno. Il dottor Hubble può ben dirvi che le bombe atomiche...»

Per la seconda volta, Garris fu interrotto brevemente, que­sta volta da Hubble.

«Non si tratta di una bomba ordinaria, e le voci che corrono sono purtroppo vere, a questo proposito.» Tacque un attimo e poi, lentamente, sillabando le parole, aggiunse: «Una bomba superatomica è esplosa un’ora fa, per la pri­ma volta nella storia, proprio su Middletown.»

Hubble lasciò che i due nuovi venuti comprendessero il si­gnificato delle sue parole. Era una cosa piuttosto penosa, e Kenniston distolse lo sguardo per guardare fuori della fine­stra, verso quel cielo annebbiato e quel sole rosso e triste, e si sentì un nodo allo stomaco. “Eravamo stati ammoniti” pensò “per anni, che stavamo giocando con forze troppo potenti per noi.”

«La bomba non ci ha distrutti» stava dicendo Hubble.

«In questo, siamo stati fortunati. Ma ha avuto certi... effetti.»

«Ma io non capisco» disse il sindaco, con tono lamen­toso. «Non capisco davvero... Certi effetti? Quali?»

Hubble espose loro con tranquilla chiarezza le sue conclu­sioni.

Il sindaco e il capo della polizia di Middletown, uomini normali di una città normale, abituati a vivere la loro vita in modo normale, ascoltavano quella cosa incredibile. Ascolta­vano, cercando di comprendere. Cercavano di comprendere, ma non vi riuscivano. Perciò respinsero quella conclusione incredibile.

«Ma è pazzesco» esplose irosamente Garris. «Middle­town scaraventava nel futuro? Solo a sentir dire una cosa si­mile... Che cosa volete farci credere, dottor Hubble?»

Si espresse in modo anche più vivace di questo. E altret­tanto fece Kimer. Ma Hubble li ridusse alla ragione. Tran­quillo, implacabile, indicò loro il paesaggio desolato attorno alla città, il freddo che si faceva sempre più acuto, il sole ros­so e invecchiato, la cessazione di ogni contatto col mondo esterno. Spiegò sommariamente la natura del tempo e dello spazio, e in che modo quella cosa incredibile si era realizza­ta. I suoi due ascoltatori non potevano comprendere le sue teorie scientifiche. Ma le accettavano con la fiducia che gli uomini del ventesimo secolo avevano per gli interpreti delle complesse scienze che essi non erano in grado di capire. Le conseguenze fisiche le comprendevano tuttavia perfetta­mente. Anche troppo bene, ora che vi erano costretti dall’evi­denza.

Infine si convinsero. Il sindaco Garris si lasciò cadere su una sedia. Il suo viso non appariva più roseo e le guance si erano fatte cascanti.

La sua voce non era più che un bisbiglio, quando do­mandò: «E adesso, che cosa facciamo?»

Hubble aveva una risposta pronta, almeno per una parte di quella domanda.

«Dobbiamo fare in modo che non si sparga il panico» disse. «Gli abitanti di Middletown dovranno apprendere la verità molto lentamente. Questo significa che nessuno degli abitanti deve per ora uscire dalla città... altrimenti capirebbe subito ogni cosa. Vi consiglierei di annunciare che il terreno attorno alla città è contaminato dalla radioattività, impeden­do a chiunque di uscire dal perimetro urbano.»

Kimer, il capo della polizia, afferrò subito con patetico ze­lo quella possibilità di fronteggiare un problema che poteva più facilmente comprendere.

«Posso mettere uomini e barricate alle estremità delle strade, verso la campagna, questo è abbastanza semplice.»

«E la compagnia della Guardia Nazionale si sta riunen­do nell’Arsenale» intervenne il sindaco Garris. Aveva anco­ra la voce tremante e l’espressione stordita.

«E come vanno i servizi pubblici?» domandò Hubble.

«Sembra che ogni cosa funzioni perfettamente... l’elet­tricità, il gas e l’acqua potabile» rispose il sindaco.

“Me l’ero immaginato” pensò Kenniston. La centrale ter­moelettrica, il serbatoio dell’acqua e l’impianto di gas artifi­ciale della città di Middletown avevano superato, con gli abi­tanti e le case, l’abisso del tempo.

«I servizi, i viveri, i combustibili, tutto deve essere imme­diatamente razionato» stava dicendo Hubble. «Proclama­te questo come misura d’emergenza.»

Il sindaco Garris parve più sollevato nel sentirsi dire ciò che doveva fare.

«Sì. Provvederemo subito.» Poi domandò, timidamen­te: «Non vi è alcuna possibilità di mettersi in contatto col resto del mondo?»

«Il resto del mondo» gli ricordò Hubble «è rimasto dietro di noi di alcuni milioni di anni. Dovrete ricordarvi di questo.»

«Già... è vero. Me ne dimentico continuamente» disse il sindaco. Poi rabbrividì e cercò di pensare ai compiti che lo attendevano. «Ci occuperemo subito di quanto avete sugge­rito.»

Quando i due se ne furono andati, Hubble guardò acci gliato i suoi colleghi silenziosi. «Parleranno dell’accaduto, naturalmente. Ma se la cosa si diffonde lentamente, non sarà tanto preoccupante. Ci darà modo di accertare, prima, alcu­ne cose.»

Crisci scoppiò in un riso stridente.

«Se tutto ciò è vero, dev’essere un bello scherzo! Tutta la città scaraventata nel futuro, verso la fine del mondo, senza che nemmeno lo sappia! Cinquantamila persone che non san­no ancora, per esempio, che la loro cugina Agnes, abitante a Indianapolis, è morta e ridotta in polvere da milioni di anni!»

«E non debbono saperlo» disse Hubble. «Non ancora, per lo meno. Non ancora, finché non avremo chiarito con precisione che cosa dobbiamo fronteggiare, in questa Terra del futuro.»

Continuò poi a pensare ad alta voce.

«È indispensabile andare a vedere che cos’è accaduto là fuori, fuori della città, prima di poter fare qualsiasi progetto. Kenniston, dovresti andare a prendere una jeep. E porta pa­recchia benzina di scorta. E anche abiti pesanti. Ne avremo bisogno, là fuori. E, Ken... porta anche delle armi con te.»

3

Il pianeta mortale

Kenniston ritornò in Mill Street e si diresse verso la rimessa nella quale aveva lasciato la sua macchina un miliardo di an­ni prima, quando cose del genere avevano ancora qualche importanza. Sapeva che tenevano in quel garage una jeep per il servizio stradale, e sapeva pure che non ne avrebbero più avuto bisogno, per il semplice fatto che di strade, fuori della città, non ve n’erano più. Si pentiva di non avere preso con sé un cappotto. L’aria si raffreddava rapidamente e la tempera­tura sarebbe presto scesa sotto lo zero.

Vi era molta gente, in Mill Street, una via che anche nor­malmente era sempre molto affollata. Era la strada dei gros­si stabilimenti e delle piccole aziende commerciali; congiun­geva Middletown con le vie del Sud. Vi erano sempre auto­bus, macchine e pedoni. Forse il traffico era un po’ più disor­ganizzato del solito e i gruppi di cittadini avevano una maggior tendenza a riunirsi e a discutere animatamente, ma questo era tutto.

Kenniston conosceva alcune di quelle persone, ma non si fermò a parlare con loro. Non desiderava nemmeno incontrarne gli sguardi. Si sentiva in qualche modo colpevole, per­ché sapeva la verità mentre quelli ne erano ancora all’oscu­ro. Che sarebbe accaduto, se avesse spiattellato tutto? Che cosa avrebbero fatto? Era una tentazione terribile, quella di liberarsi del suo segreto. Aveva una voglia pazza di mettersi a gridare.

Alcuni oziosi, sul ponte di Mill Street, guardavano il letto fangoso del fiume e cercavano di spiegarsi l’improvvisa scomparsa dell’acqua. Nelle numerose birrerie, che davano un tono allegro a quella strada popolare, vi erano più clien­ti del solito, data l’ora. Mentre passava, Kenniston poté udi­re le loro voci, voci alte, eccitate, un poco litigiose, ma an­cora prive di terrore.

Una donna di casa parlava con un’amica da una finestra, verso la casa di fronte.

«Non riesco a prendere alcuna stazione, all’infuori di quella di Middletown, oggi. Non posso più sentire le mie soli­te rubriche.»

Kenniston fu lieto quando giunse al garage di Bud. Bud Martin, un giovane alto e magro, con una macchia di grasso sotto un labbro, stava rimontando un carburatore e rimpro­verava nel frattempo il suo aiutante.

«La vostra macchina non è ancora pronta, signor Kenni­ston» protestò. «Vi ho detto alle cinque, ricordate?»

Kenniston scosse il capo e disse a Martin ciò che desidera­va. Martin acconsentì immediatamente.

«Certo che posso noleggiarvi la jeep! Sono troppo occu­pato, oggi, per rispondere a richieste dalla strada.»

Non si preoccupò affatto di domandare a Kenniston cosa volesse fare della jeep. Il carburatore non funzionava e Bud si mise a imprecare. In quel momento, un uomo con un grembiule bianco da fornaio ficcò la testa nella rimessa.

«Bud, hai sentito la novità? Gli stabilimenti chiudono... tutti!»

«Ah, frottole!» disse Martin. «È tutta la mattina che ascolto novità del genere. C’è gente che non fa che andare in giro a raccontare baggianate. Ho troppo da fare per ascol­tarle.»

Kenniston riempì alcune latte di benzina, le caricò nella jeep e partì verso nord.

I cappotti avevano fatto la loro comparsa in Main Street. Gruppi di persone erano fermi agli angoli della strada. La gente che attendeva gli autobus guardava curiosamente il sole rosso e il cielo annebbiato. Ma i negozi erano aperti, le massaie camminavano con la borsa della spesa, alcuni ra­gazzi correvano in bicicletta. Non era ancora cambiato mol­to, non ancora.

Anche la Walters Avenue, dove Kenniston abitava, era cal­ma, benché gli alberi avessero assunto degli strani riflessi, al­la luce rossastra del sole. Fu lieto che la sua padrona di casa fosse uscita, perché non se la sentiva di rispondere a nuove domande.

Caricò sulla jeep la sua carabina da caccia e una rivoltella automatica, insieme ad alcune scatole di cartucce. Indossò un pastrano e prese anche una giacca di pelle per Hubble. Si ricordò persino dei guanti. Poi, prima di risalire sulla jeep, fece di corsa il breve tratto di strada che lo divideva dalla ca­sa di Carol Lane.

La zia di Carol gli venne incontro. La signora Adams era grassa e rosea, ma appariva turbata.

«John, sono tanto lieta che tu sia venuto! Forse mi potrai dire che debbo fare. Devo coprire i miei fiori?» Balbettava ansiosamente. «È una cosa strana, in pieno giugno. Ma fa già tanto freddo. E le mie petunie e gli altri miei fiori soffro­no molto il gelo. E le rose...»

«Io le coprirei, signora Adams» rispose Kenniston. «Le previsioni affermano che farà ancora più freddo.»

La donna alzò le braccia al cielo.

«Che tempo! Non si è mai vista una cosa simile!» E cor­se a prendere dei teli per coprire i suoi fiori, quei fiori che non avevano ormai più di poche ore di vita. Questo particola­re colpì Kenniston, facendogli intravedere un’altra triste realtà. Non più rose, sulla Terra, dopo oggi. Non più rose, mai più.

«Ken... hai saputo che cosa è successo?»

Era la voce di Carol, dietro di lui, e Kenniston capì, anche prima di voltarsi a guardarla, che non avrebbe potuto dare ri­sposte evasive, come aveva fatto con gli altri. Quella ragazza non sapeva nulla di scienza, né di tempo e spazio, né di conti­nuità o altro. Ma lo conosceva bene, e non gli avrebbe dato possibilità di fingere.

«È vero ciò che dicono, che una bomba atomica è caduta su Middletown?»

Da quando le aveva telefonato, aveva avuto tutto il tempo per allarmarsi. Aveva capelli e occhi scuri; era slanciata ma forte, con caviglie snelle, una bocca ferma e un’espressione dolce. Le piacevano Tennyson, i bambini e i cagnolini, amava accudire la casa e aveva una conversazione tranquilla che da­va l’impressione di una lieta serenità. Era una cosa terribile, pensava Kenniston, che dovesse starsene in un giardino mo­rente, parlando di bombe atomiche.

«Sì» rispose, tuttavia. «È vero.» La vide impallidire e proseguì rapidamente. «Nessuno è rimasto ucciso. Non vi sono effetti radioattivi sulla città, non vi è nulla da temere.»

«Ma qualcosa c’è: lo posso vedere nel tuo viso.»

«Ebbene, vi sono ancora fatti da accertare. Io e Hubble partiamo ora per fare ricerche.» Le prese le mani. «Non ho tempo di parlare, ora, ma...»

«Ken» disse la ragazza. «Perché proprio tu? Che ne sai tu, di queste cose?»

Kenniston capì che si avvicinava il momento temuto, che aveva sempre paventato e che aveva sempre sperato di poter rimandare indefinitamente, quello in cui avrebbe dovuto di­re a Carol qual era il suo vero lavoro. Con quali reazioni lei avrebbe appreso la verità? Non lo sapeva, non lo sapeva affat­to. Era lieto in ogni modo, di poter rimandare ancora una volta, foss’anche per poco. Fece uno sforzo, per sorridere.

«Ti dirò tutto più tardi, al mio ritorno. Rimani in casa, Carol, promettimelo. Solo così non starò in pena.»

«Va bene» disse Carol, lentamente. Poi lo richiamò, d’improvviso: «Ken...»

«Che cosa?»

«Nulla. Sii prudente.»

Kenniston la baciò e tornò di corsa verso la jeep. Grazie al cielo, Carol non era una ragazza isterica e, particolarmente in questa situazione, le era molto grato di ciò.

Salì in macchina e si diresse ai Laboratori, pensando a quale sarebbe stata la sorte sua e di Carol. Sarebbero stati an­cora vivi, domani, e il giorno successivo? E se fossero soprav­vissuti, che genere di vita sarebbe stata la loro? Pensieri tri­stissimi, pieni di amarezza e di rimpianto, gli affollavano la mente.

Hubble lo attendeva all’ingresso dei Laboratori, con un contatore Geiger e altri strumenti per il controllo della ra­dioattività. Caricò gli strumenti con cura, indossò la giacca di pelle e salì sulla jeep a fianco di Kenniston.

«Benissimo, Ken... usciamo dalla città, verso sud. Salen­do sulle colline che abbiamo scorto in quella direzione, po­tremo osservare i dintorni.»

All’estremità sud della città, dovettero arrestarsi di fronte a una barriera, all’intimazione della polizia di guardia. Do­vettero attendere finché il sindaco telefonò un’affrettata au­torizzazione che consentiva a Hubble e a Kenniston di uscire dalla città per un’ispezione delle regioni contaminate.

La macchina percorse ancora una strada di cemento, fra piccole fattorie suburbane, per un tratto di circa mezzo mi­glio. Poi la strada e i prati, d’improvviso, s’interruppero.

Da quella netta demarcazione in avanti, si stendeva solo una desolata pianura color ocra, a est e a ovest, dovunque, a perdita d’occhio. Non un albero, non un filo d’erba, rompeva quella monotonia. Solamente terra giallastra, e polvere, e vento.

Hubble fissò Kenniston. «Nessuna traccia di radioatti­vità. Puoi andare avanti.»

Davanti a loro sorgevano delle basse colline, desolate e nu­de. Al disopra di loro stava un cielo livido e freddo. Il sole, pallido, le stelle, pallide, e sotto di esse nessun suono, all’infuori del triste fruscio del vento.

Col motore che ruggiva e la carrozzeria che sobbalzava sul fondo sconnesso di quella pianura desolata color ocra, la jeep li portò avanti, nel silenzio sepolcrale della Terra morta.

4

La città morta

Kenniston si concentrò tutto sul volante, stringendolo tanto da farsi dolere le mani. Guardava fissamente il terreno da­vanti a sé; guidava con attenzione, cercando di evitare ogni roccia, ogni cunetta, ogni crepa, assorto in quei gesti mecca­nici come se, in tutto l’universo, non vi fosse stato nulla di più importante. Invidiava la macchina per la sua abilità di poter superare senza alcuna emozione quel percorso terribile, ver­so la fine del mondo. Questo pensiero gli parve così strano che scoppiò a ridere.

Poco dopo, la macchina cominciò a salire il fianco di una di quelle colline, col motore che scoppiettava e ruggiva. Il fa­miliare brontolio del motore accentuava ancora di più il si­lenzio assoluto che regnava tutt’attorno, in quella luce crepu­scolare di morte. Kenniston avrebbe voluto che Hubble di­cesse qualche cosa, qualsiasi cosa. Ma l’altro taceva, e Kenniston non riusciva a parlare. Gli pareva di essere sperduto in un incubo, nel quale non doveva far altro che guidare.

Un urlo stridulo risuonò a un tratto davanti a loro. Ambe­due sobbalzarono con violenza. Con le mani coperte di sudo­re freddo, Kenniston fece fare alla macchina uno scarto di fianco e intanto scorse un bruno animale peloso, della gros­sezza di un piccolo cavallo, che saltava al di là di un crepac­cio e si allontanava a lunghi balzi irregolari. Tutto tremante Kenniston fermò la macchina.

«Allora, c’è ancora una vita animale, sulla Terra... in qualche modo. E, guarda un po’ là...» Additò un piccolo pozzo nel teneno polveroso, con un breve orlo di terra fresca e bruna attorno. «Quell’animale stava scavando in quel punto. Probabilmente cercava acqua. La superficie è arida, perciò deve scavare per poter bere.»

Esaminarono il pozzo e l’orlo di terra fresca che lo circon­dava. Vi erano segni di denti sulla corteccia dei pochi miseri arbusti che spuntavano sull’orlo del pozzo.

«Denti di roditore» osservò Hubble. «Enormemente più sviluppati, però, dei denti di qualsiasi animale del nostro tempo.»

Si guardarono, ritti nella luce fredda e rossastra. Poi Hub­ble tornò verso la macchina.

«Andiamo avanti» disse.

Proseguirono il cammino lungo il crinale della collina. Scorsero due altri pozzi scavati da quegli animali, ma erano più vecchi e dovevano essere stati abbandonati. L’occhio ros­so e opaco del sole sembrava guardarli freddamente. Kenni­ston pensava con ossessione a quell’animale peloso e spaven­tato che fuggiva a balzi su quella pianura desolata, che era stata una volta la Terra degli uomini.

Raggiunsero, più avanti, un punto elevato della collina, e Kenniston arrestò la macchina in modo da poter osservare la pianura che si stendeva davanti a loro a perdita d’occhio.

Hubble guardò verso sud e le sue mani tremarono visibil­mente.

«Ken, guarda! Vedi anche tu?»

Kenniston guardò nella direzione indicata.

Il sollievo gli allargò il cuore. Provò una gioia selvaggia, nello scoprire che non erano più soli, su una Terra senza vita!

Laggiù, sulla pianura desolata, si ergeva una città. Una città di bianchi edifici, completamente racchiusa e protetta da una cupola trasparente.

Guardarono a lungo, assaporando un sentimento di scon­finato sollievo. Data la distanza cui si trovavano, non riusci­rono a scorgere nessun movimento entro la città, ma la sua stessa esistenza indicava chiaramente che dovevano esserci degli abitanti.

Poi, lentamente, Hubble disse: «Può darsi che non ab­biano bisogno di strade. Forse usano aerei per spostarsi.»

Istintivamente, ambedue alzarono il capo per esaminare il cielo cupo; ma non vi erano che il vento e le stelle e quel sole con la sua corona di brevi raggi, come la testa di una Medusa.

«Non si vede nemmeno una luce» disse Hubble.

«È ancora giorno» osservò Kenniston. «Non avranno bisogno di luci. Dovrebbero essere abituati a questa specie di crepuscolo.»

Un’improvvisa ansietà si impossessò tuttavia di lui. Riuscì a compiere con difficoltà i movimenti per rimettere in mar­cia il motore, fece urlare gli ingranaggi del cambio e avviò la macchina con uno strappo.

«Va’ adagio, e sta’ calmo» disse Hubble. «Se c’è gente, non abbiamo fretta. E se non c’è nessuno...» La sua voce tremava un poco, e dopo un momento finì la frase «... allora non c’è fretta, egualmente.»

Parole. Null’altro che parole. A Kenniston pareva di non poter sopportare quell’attesa. La pianura si stendeva, infini­ta, davanti a lui. La macchina sembrava procedere lentissi­ma. Rocce e crepacci e screpolature parevano inserirsi mali­gnamente sul percorso. La città dava l’idea di beffarli e allon­tanarsi sempre più.

Kenniston si mordeva le labbra, impaziente e agitato.

Poi, a un tratto, la città protetta dalla cupola enorme ap­parve loro in piena vista. Si alzava alta nel cielo, come una montagna di vetro sorta per incanto da una fiaba. Dal punto in cui si trovavano, la superficie ricurva della cupola riflette­va i deboli raggi del sole.

Trovarono infine una strada, larga e liscia. Quella strada portava direttamente verso una grande porta ad arcata, aper­ta nella cupola. La grande porta era spalancata.

«Se hanno protetto questa città con una cupola per ripa­rarsi dal freddo» disse Hubble «perché questa porta è aperta?»

Kenniston non diede risposta. Non poteva rispondere nul­la. Si rifiutava di accettare il pensiero che gli era sorto nella mente.

Attraversarono la porta, e si trovarono entro la città, sotto la grande cupola trasparente. Dopo la desolazione della pia­nura, la vista della città e della sua possente veste protettiva aveva qualcosa di miracoloso.

Era anche più caldo, dentro. Non proprio caldo, nel vero senso della parola, ma l’aria era priva di quel tono mordente di gelo che si provava all’esterno. Percorsero lentamente un largo viale, mentre i battiti dei loro cuori si facevano sempre più forti. Il rombo del motore si levava, altissimo, nel silen­zio, e si ripercuoteva a lungo, alto, irriverente, in quel silen­zio di tomba.

Una coltre pesante di polvere copriva i marciapiedi e si sollevava al passaggio della macchina; era anche più spessa nei punti più riparati e nascosti, negli androni delle porte e degli archi, e sui davanzali delle finestre.

Gli edifici erano alti e massicci, infinitamente più belli e semplici, nelle loro linee, di quanto Kenniston avesse mai po­tuto immaginare. Una città piena di grazia, di simmetria e di dignità, resa anche più incantevole dalle tinte morbide delle lisce superfici in materia plastica, dalla lucentezza dei metal­li e dalla bellezza delle pietre.

Milioni di finestre guardavano quella macchina e quei due uomini provenienti da un’altra epoca; sembravano milioni di occhi, offuscati da cataratte di polvere, occhi vuoti, ciechi. Alcuni di quegli occhi erano aperti, altri chiusi, ma tutti era­no privi di vita e non vedevano più nulla.

Il freddo vento, penetrando dalla grande porta spalanca­ta, sibilava su e giù per le strade, vagando senza tregua attra­verso i grandi parchi che non erano più verdi e splendenti di fiori, ma solo coperti di desolati cespugli e di una densa pol­vere. E nulla, assolutamente nulla si udiva, all’infuori del vento.

Eppure, Kenniston andò avanti. Quella visione sembrava troppo orribile, per poterla accettare. Era impossibile che quella grande città, sotto l’immensa cupola di protezione, non fosse che uno scheletro, un cadavere abbandonato, e che Middletown fosse veramente sola nella Terra morente.

Continuò a procedere, gridando, urlando a piena voce, suonando il clacson della macchina come impazzito, mentre aguzzava gli occhi verso strade tenebrose e deserte. Certa­mente in qualche posto di quel luogo che gli uomini avevano costruito, doveva nascondersi un viso umano, una voce umana! Certamente almeno in una di quelle innumerevoli stanze e sale deserte, doveva pulsare la vita!

Ma non vi era nessun segno di vita!

Kenniston procedette più lentamente, sempre più lenta­mente. Cessò di gridare e di suonare il clacson. Cessò persino di guardare. Lasciò che la macchina si fermasse in una gran­de piazza centrale. Fermò il motore, e un silenzio pauroso scese su di lui e su Hubble.

Poi Kenniston si strinse il capo tra le mani e rimase sedu­to, così, per lungo tempo. Udì la voce di Hubble, che diceva: «Sono tutti morti o scomparsi.»

Kenniston sollevò il viso.

«Sì, morti e scomparsi. Tutti, molto tempo fa.» Si guardò attorno, guardò quegli splendidi edifici. Poi riprese: «Sai che cosa significa questo, Hubble? Significa che sulla Terra la vita umana non è più possibile. Persino in questa città, protetta da una cupola, non sono riusciti a vivere.»

«Ma perché non ci sono riusciti?» disse Hubble. Indicò una vasta estensione di serbatoi bassi, aperti, che ricoprivano una grande area al limite della città. «Quelli erano serbatoi idroponici, credo. Potevano coltivare in essi ciò che volevano.»

«Se avessero avuto acqua. Forse è l’acqua che mancava. Hubble scosse la testa.»

«Quegli animali che abbiamo visto trovano l’acqua. An­che gli uomini avrebbero potuto trovarla. Voglio dare un’oc­chiata.»

Scese dalla macchina e si diresse verso i serbatoi polverosi più vicini. Kenniston rimase immobile a osservarlo.

Poi si decise a scendere anche lui e cominciò a curiosare dentro gli edifici attorno alla piazza. Vi erano camere piccole ma alte e ben arredate, illuminate solo dalla triste luce che filtrava attraverso le finestre polverose. In alcune di quelle camere vi erano mobili di metallo, pesanti e massicci, ma graziosi. In altre, invece, soltanto polvere.

Una grande tristezza, un sentimento di inutilità, scese su Kenniston mentre girava lentamente lungo le strade silen­ziose. Che importava, dopo tutto, che una città, scaraventata fuori della sua epoca, si trovasse a fronteggiare la morte? Là, tutta una razza era morta, e la Terra che li ospitava non era che una solitudine selvaggia.

Kenniston fu scosso dalle sue morbose riflessioni dalla vo­ce di Hubble.

«C’è ancora acqua, là dentro, Ken... grossi depositi, sotto quei serbatoi: non è la mancanza d’acqua, che li ha fatti scomparire. È stato qualche cosa d’altro.»

«Che importanza può avere per noi, ora, sapere ciò che li ha fatti scomparire?» domandò Kenniston, cupamente.

«Ci importa molto, invece» disse Hubble. «Stavo pen­sando che... Ma non abbiamo tempo di parlarne, ora. La not­te e il freddo stanno sopraggiungendo. É meglio che ce ne an­diamo.»

Con sorpresa, Kenniston si accorse in quel momento che il sole stava calando a ovest e che le ombre degli edifici im­mensi si allungavano, nere, sui marciapiedi. Rabbrividì un poco e tornò verso la macchina con Hubble. Nuovamente, il frastuono del motore profanò quel silenzio mortale, mentre rifacevano la strada percorsa e uscivano dalla grande porta.

«Dobbiamo tornare indietro» stava dicendo Hubble. «A Middletown non sanno nulla di quanto li attende.»

«Se li informiamo della esistenza di questa città» os­servò Kenniston «se vengono a sapere che non vi sono altri esseri umani, che sono forse del tutto soli sulla Terra, impaz­ziranno per il terrore.»

Il sole era molto basso all’orizzonte; non era più che una striscia di rosso sul limite lontano del cielo. Le stelle si erano fatte più lucenti, quelle stelle che avevano assistito impassi­bili alla scomparsa degli uomini sulla Terra. Il freddo si face­va sempre più penetrante, e l’oscurità più fitta.

Tutto l’orrore della notte che scendeva sul pianeta moren­te afferrò il cuore di quei due uomini come in una morsa. En­trambi si sentirono sollevati quando la macchina arrivò infi­ne sulla sommità dell’ultima collina.

Di fronte a loro, irreale in quella Terra morente, scintilla­vano le luci familiari delle strade di Middletown. Si vedevano le brillanti trasversali di Main Street e di Mill Street, le luci più deboli delle vie secondarie, le insegne rosse al neon delle birrerie di South Street... e tutto risplendeva nella notte geli­da di un mondo morto.

«Mi sono dimenticato di mettere l’anticongelante nel ra­diatore della macchina» disse Kenniston.

Il freddo era intensissimo, ora. Il vento era tagliente come la lama di un rasoio e ambedue rabbrividivano continua­mente, anche sotto i loro indumenti pesanti.

Hubble fece col capo un cenno affermativo, poi aggiunse:

«Bisognerà avvertire la popolazione anche di questo. Non sanno ancora che freddo farà, stanotte.»

«Ma dopo questa notte... quando il combustibile e i vive­ri saranno finiti, che accadrà? Vale forse la pena di lottare?»

«Certamente no, se la pensi a questo modo! Non ne vale assolutamente la pena» disse Hubble. «Ferma la macchi­na: ci stenderemo a terra e moriremo comodamente conge­lati.»

Kenniston continuò a guidare per un poco, poi convenne: «Già, hai ragione. Ne vale sempre la pena.»

«La situazione non è del tutto disperata» riprese Hub­ble. «Vi possono essere, sulla Terra, altre città protette da cupole, altre città che non siano morte. Potremmo trovare gente, aiuto, compagnia. Ma dobbiamo resistere, finché avremo trovato tutto ciò. È proprio questo, che stavo pensan­do prima.»

Mentre si avvicinavano alla città, aggiunse: «Andiamo prima di tutto al Municipio.»

Accanto alla barriera di Jefferson Street era stato acceso un grande falò. Le guardie di polizia e un piccolo gruppo di guardie nazionali senza uniforme, li stavano aspettando, aguzzando gli occhi nell’oscurità. Accolsero l’arrivo della macchina con grida eccitate, facendo domande ansiose, mentre il loro respiro fumava nell’aria gelata. Ma Hubble si rifiutò di dare qualsiasi risposta. Vi sarebbero stati presto dei comunicati. Dovevano attendere.

Ma il piccolo capitano di polizia che faceva loro strada aveva anche lui le sue domande da fare.

«Ho sentito dire al Municipio che tutta la Terra è morta. Che cosa significa questa storia della caduta attraverso il tempo?»

Hubble rispose evasivamente.

«Non siamo ancora sicuri di nulla. Ci vorrà tempo, pri­ma di accertare ogni cosa.»

Il capitano di polizia domandò ancora: «Ma che avete trovato, laggiù? Qualche segno di vita?»

«Già, qualche segno di vita lo abbiamo trovato» rispose Hubble. «Non abbiamo trovato alcuna persona, ma vi sono segni di vita.»

Solo un animale, furtivo e timido, in cerca del suo scarso cibo, pensò Kenniston. L’ultimo segno di vita, le ultime pove­re creature che erano le sole eredi della Terra.

Frustata da un vento gelido, la South Street era deserta co­me in una notte di febbraio. Ma le insegne delle birrerie e dei bar erano ancora accese e i locali apparivano affollati.

Alcuni ragazzi erano riuniti attorno allo stagno del parco di Mill Street. Kenniston capì la ragione del loro eccitamento e delle loro grida quando si accorse che un sottile strato di ghiaccio ricopriva l’acqua dello stagno. Il freddo aveva già posto in fuga la folla di Main Street. Uomini perplessi e gesti­colanti discutevano tuttavia ancora, agli angoli delle strade.

Hubble, guardandoli, disse all’improvviso: «Ken, biso­gna dir loro come stanno le cose. Ora, subito. Finché non sa­pranno la verità, non riusciremo a convincerli a fare ciò che è necessario.»

«Non ci crederanno» rispose Kenniston. «Oppure, se ci crederanno, nascerà un pandemonio.»

«Può darsi. Ma dobbiamo correre questo rischio. Dirò al sindaco di trasmettere un comunicato dalla stazione radio.»

Quando Kenniston stava per scendere a sua volta, davanti al Municipio, Hubble lo fermò.

«Non ho bisogno di te, per ora, Ken. So che sei preoccu­pato per Carol. Va’ a vederla e cerca di tranquillizzarla.»

Kenniston proseguì in macchina verso nord, nelle strade già quasi completamente deserte. Il freddo era sempre più intenso e le foglie degli alberi e dei cespugli pendevano stra­namente, rigide e senza vita. Si fermò al suo alloggio. La pa­drona di casa lo accolse con un torrente di domande, alle quali Kenniston rispose brevemente informandola che avrebbero trasmesso un esauriente comunicato radio. La donna corse ad accendere l’apparecchio. Kenniston salì in camera sua e ingollò un bicchiere di whisky. Poi si affrettò verso la casa di Carol.

Dal camino della casa di lei, come da tutti i camini della città, si levava il fumo. Trovò Carol e sua zia accanto al cami­netto acceso.

«Non sarà abbastanza» disse Kenniston alle due don­ne. «Bisogna accendere subito la caldaia del termosifone. Bisogna anche mettere i doppi vetri alle finestre.»

«In giugno?» balbettò perplessa la signora Adams.

«Tu sai molte cose che non vuoi dirci, Ken» disse Carol. «Forse lo fai per non impressionarci, ma... desidero sapere cosa accade.»

«Non appena accesa la caldaia e montate le doppie fine­stre, ti dirò ogni cosa» replicò Kenniston con voce stanca. «Accendete la radio, intanto, signora Adams, e tenetela ac­cesa.»

Gli sembrava strano che, per difendersi dalla fine del mondo, occorresse affaccendarsi attorno a una caldaia in un freddo sotterraneo, montare doppi vetri e imprecare contro i ganci arrugginiti. Lavorava all’esterno, in una oscurità quasi totale, con le mani irrigidite dal gelo.

Come se non potesse più sopportare l’attesa, Carol uscì anche lei, mentre Kenniston finiva il suo lavoro. Un’esclama­zione della ragazza lo fece sobbalzare, pronto a qualsiasi eve­nienza. Ma Carol, ritta, guardava il cielo a oriente. Una luna enorme, mostruosa, di un color rame opaco, stava salendo nel cielo. Non era come erano abituati a vederla, era una Lu­na ingrandita innumerevoli volte, coi crateri, le pianure e le catene di montagne perfettamente visibili a occhio nudo: un’immagine paurosa. Kenniston ebbe un momento di verti­gine, quasi la sensazione che quella massa enorme cadesse su di loro e li schiacciasse. Carol lo aveva afferrato per le braccia, in una stretta così angosciata che Kenniston dimen­ticò del tutto l’orribile spettacolo.

«Ma che cosa accade?» gridò la fanciulla, e per la prima volta la sua voce si fece stridula, come se stesse per soccom­bere a una crisi di nervi.

In quel momento, la signora Adams li chiamò dalla porta.

«Venite, presto! Sta parlando il sindaco. Deve fare di­chiarazioni importanti!»

Kenniston condusse Carol in casa. Sì, importanti dichia­razioni davvero, pensava. Le più importanti che fossero mai state udite.

La fine del mondo avrebbe dovuto essere annunciata da una voce di tuono, che venisse dal cielo: dalle trombe degli arcangeli, non dalla voce spaventata e tremante del sindaco Bertram Garris.

5

L’aurora rossa

Kenniston fu svegliato, il mattino seguente, dallo stridulo ri­chiamo del telefono. Si alzò dal divano, intontito dal sonno, oppresso da cattivi presagi, e si avvicinò incespicando all’ap­parecchio. Fu solo quando udì la voce di Hubble che la sua mente si schiarì e si ricordò di quanto era accaduto il giorno prima.

Hubble parlò brevemente.

«Puoi venire qui subito, Ken? Al deposito di carbone di Keystone. Temo che si verificheranno dei disordini.»

Kenniston uscì nel mattino gelido.

Era ancora quasi buio, il sole smorto non si era del tutto levato e si attardava a oriente, come un mostro bavoso lordo di sangue. Riempì d’acqua il radiatore della macchina, che aveva svuotato la sera prima. Kenniston si accorse dapprima che dovunque regnava un grande silenzio. Le sirene degli stabilimenti, il fragore degli autotreni, i fischi perentori delle locomotive, tutto era cessato. Le rose erano tutte morte e il gelo aveva annerito i cespugli e i rami degli alberi.

Le strade erano deserte. Middletown aveva assunto, in una notte, l’aspetto di una tomba. Il fumo saliva da tutti i co­mignoli e la gente se ne stava rintanata nelle case. Visi smorti apparivano dietro i vetri delle finestre incorniciate di gelo. Da ogni chiesa veniva il suono di inni e preghiere. Anche i bar erano affollati, perché erano rimasti evidentemente aperti tutta la notte, a dispetto della legge sull’ora di chiusura.

Kenniston capì che la città sarebbe morta in breve tempo. Il combustibile si sarebbe presto esaurito e, senza di esso, non vi era modo di sopravvivere. Fu afferrato da un senso di completa disperazione. Gli sembrava una beffa che Middle­town fosse sopravvissuta al più grande cataclisma della sto­ria, solo per perire miseramente di freddo.

Un pensiero gli balenò nella mente, un pensiero che co­minciava appena a prendere forma. Quel pensiero mitigava un poco la sua disperazione, ma, prima che potesse ben chia­rirlo, giunse al deposito di carbone di Keystone. In quel po­sto, in contrasto con la quiete mortale della città, vi era abba­stanza vita e rumore.

Agenti di polizia e della Guardia Nazionale avevano for­mato cordoni attorno al deposito e ai suoi grossi mucchi di carbone. Di fronte a essi stava tutta una folla dall’aspetto po­co rassicurante, che si limitava per il momento a gridare, ma che presto sarebbe passata ai fatti.

Hubble gli venne incontro dall’interno del deposito. Erano con lui un ufficiale di polizia, preoccupatissimo, e Borchard, il proprietario del deposito.

«Volevano saccheggiare il deposito» lo informò Hub­ble. «Poveri diavoli! Era estate, prima, e si sono trovati sen­za combustibile. Alcuni hanno persino bruciato i mobili, per tenersi in vita.»

«Non vogliamo che ci siano vittime. E in questo momento si lasceranno convincere da voi scienziati più che da chiunque altro» disse Borchard.

Hubble fece un cenno affermativo.

«Parlagli, Ken. Li conosci meglio di me, e di te hanno più fiducia.»

«Ma non mi ascolteranno!» protestò Kenniston. «E d’altra parte, che cosa dovrei dir loro? “Andate a casa, brava gente, a morire tranquillamente di freddo, e non facciamo scenate disgustose.”»

«Forse non ci sarà affatto bisogno che muoiano di fred­do» disse Hubble. «Forse un rimedio c’è.»

Il pensiero che già si era formato nella mente di Kenni­ston, gli ritornò d’improvviso alla memoria. Guardò Hubble e si accorse subito che il suo superiore aveva avuto quel me­desimo pensiero, ma vi aveva dato forma più rapidamente, e in modo più chiaro. Una scintilla di speranza cominciò a ri­scaldare il suo cuore.

«La città protetta dalla cupola» disse.

Hubble fece un cenno di assenso.

«Sì. Conserva il calore in grado considerevole, durante la notte. Questo lo abbiamo constatato. Per questa ragione la cupola è stata costruita... chissà quanto tempo fa. Ma non importa. È ora il nostro solo rifugio. Dobbiamo andar là, Ken, tutti là. E presto! Non possiamo sopravvivere a molte notti come questa, rimanendo a Middletown!»

La folla cominciava a disperdersi quando arrivò Kimer, il capo della polizia. Aveva il viso con la barba di due giorni, l’e­spressione stanca per la notte insonne e gli occhi cerchiati di rosso. Non parve molto preoccupato della sommossa al de­posito di carbone.

«Abbiamo avuto ben altro da fare che questo, durante tutta la notte» disse.

Kenniston apprese allora ciò che era accaduto a Middle­town, dopo che il sindaco aveva finito di palare. Morti per sincope, suicidi, tentativi di saccheggio nelle vie più periferi­che. Una dozzina di persone, in gran parte ubriachi, era mor­ta di congelamento.

«Ma le barriere ai limiti della città ci hanno dato il maggior filo da torcere» continuò Kimer, con voce stanca. «Dovete sapere che parecchie persone provenienti da fuo­ri sono state colte qui dall’accaduto. Queste, oltre ad alcuni cittadini di Middletown, hanno cercato di uscire a forza dalla città.»

Poi aggiunse, mentre ritornava verso la sua automobile:

«Mi hanno detto che questa notte più di duemila persone sono state battezzate.»

«Veniamo con voi al Municipio» gli disse Hubble. «Sì, vieni anche tu, Ken. Per questo piano di evacuazione conto sul tuo aiuto, oltre che sull’aiuto del sindaco. Devi soprattut­to aiutarmi a convincere il sindaco.»

Pareva impossibile che quel piccolo sindaco grassottello potesse diventare un problema. Era stato fino ad allora doci­le, pateticamente ansioso di accogliere suggerimenti e di ese­guire ordini, ma quando, in Municipio, Hubble lo mise di fronte alla necessità di un piano per evacuare la città, sul viso del sindaco Garris apparve una sorda e ostinata irritazione.

«Ma è una cosa da pazzi!» sbottò. «Volete prendere tutta una città di cinquantamila abitanti e portarla in un al­tro posto, un posto di cui non sappiamo nulla. È una cosa da pazzi.»

«Vi sono abbastanza autobus, automobili e autocarri per trasportare la popolazione e le provviste» lo rassicurò Hub­ble. «E vi è abbastanza benzina per trasportare tutto.»

Dapprima i membri del consiglio reagirono nello stesso modo del sindaco. Kenniston, in cuor suo, non li biasimava del tutto. Le difficoltà di spostare una popolazione di cin­quantamila abitanti e di trasportarla letteralmente, nel mi­nor tempo possibile, in un luogo che nessuno di loro aveva veduto né udito nominare fino a quel momento, erano tali da preoccupare chiunque. Ma gli argomenti di Hubble erano inattaccabili. Bisognava muoversi o morire, e tutti i presenti se ne resero perfettamente conto, cosicché, alla fine, la deci­sione venne approvata. Il sindaco Garris, povero ometto sfi­nito e atterrito, se ne andò per trasmettere il comunicato alla popolazione.

6

Carovana verso il domani

Kenniston non riuscì nemmeno più a tener dietro al corso delle sue stesse emozioni, nell’impeto degli avvenimenti che seguirono e dei compiti che dovette svolgere. Il Municipio di­venne il ganglio nervoso centrale dell’operazione di evacua­zione. La polizia e la Guardia Nazionale vi si erano già riunite, e altri uomini furono chiamati: i commercianti all’ingros­so, i magazzinieri, i capi delle agenzie di trasporti, quelli del­le linee turistiche e di trasporto merci e passeggeri. McLain, il grosso e ossuto direttore della più grande casa di trasporti della città, si rivelò una tempra eccezionale di organizzatore. Era stato ufficiale dei trasporti nell’ultima guerra mondiale e aveva un’ottima esperienza del trasferimento di uomini e di cose.

La radio, ora, emetteva continuamente comunicati, dan­do istruzioni, diramando raccomandazioni e suggerimenti. Gli agenti della polizia e della Guardia Nazionale furono in­viati in ogni sezione della città, con un uomo responsabile a capo di ciascuna squadra. Avevano ordine di esaminare le ca­se, strada per strada, per assicurare una completa evacuazio­ne e anche per accertare quante macchine private avrebbero potuto essere adibite al trasporto. Gli autobus della città po­tevano naturalmente evacuare soltanto una piccola parte della popolazione.

Fu McLain che pensò ai pazienti degli ospedali di Middletown, e inviò uomini a raccogliere ambulanze, generi di conforto e qualsiasi cosa potesse loro servire. I furgoni della polizia e alcuni grossi autocarri militari furono adibiti alla traduzione dei prigionieri dalle carceri, a eccezione di pochi che vennero rimessi in libertà. Ma tanto gli ammalati quanto i prigionieri vennero trasferiti per ultimi, allo scopo di assi­curare loro alloggi adatti nella nuova città.

Colonne di autocarri vennero inviate ai magazzini, con elenchi frettolosamente compilati di tutti i viveri e altri gene­ri di prima necessità che dovevano essere trasportati insieme alla popolazione.

«Possiamo organizzare più tardi una linea di autocarri per le provviste che occorreranno in seguito» disse McLain a Kenniston. «Ma occorre portare ora i viveri e le cose di cui la popolazione avrà bisogno subito.»

Carol e sua zia erano state comprese nel primo giorno di evacuazione. Kenniston accomodò le cose in modo da poter­le andare a visitare prima della partenza.

Si pentì tuttavia di averlo fatto. La signora Adams stava piangendo nel salotto, e Carol lottava da sola con coperte, materassi e valigie, con un’espressione chiusa e amara sul volto, che Kenniston non riusciva a comprendere.

Il mattino seguente, prima delle nove, Kenniston lasciò il Municipio con McLain, allo scopo di controllare personalmente i preparativi. Sotto l’occhio freddo e rossastro del sole, Middletown appariva tutta permeata da una eccitata attività.

Le automobili venivano caricate al massimo, persino sui tetti e sui parafanghi. Riuniti i bambini, e legati i cani, le fa­miglie si radunavano in tutta fretta. Il rombo dei motori riempiva l’aria invernale. I grandi autocarri da trasporto rug­givano nelle strade prospicienti i magazzini, mentre le mac­chine della polizia si aggiravano dovunque, accompagnate dall’urlo delle sirene.

La gente nelle strade, carica di fagotti, di bambini e di ca­ni, appariva più stupita che spaventata. Alcuni, persino, ride­vano, un riso un po’ forzato, provocato dall’eccitazione. Solo poche donne singhiozzavano.

McLain e Kenniston giunsero in jeep nel centro della città. Là faceva capo il primo scaglione di partenti.

«Il primo e secondo scaglione usciranno dalla città nel­l’ordine previsto» disse McLain a Kenniston. «Del primo scaglione vi incaricherete voi, in quanto dovete indicare la strada.»

Gli agenti della polizia e della Guardia Nazionale stavano già incolonnando le macchine sulla South Jefferson Street. Gli autobus della città e quelli delle scuole erano affollati da coloro che non avevano auto proprie, e vi ammucchiavano i loro bagagli. Agenti della polizia in motocicletta correvano veloci dovunque trasmettendo gli ordini.

«Agganciate dei sidecar a quelle motociclette» ordinò McLain. «Non ce la farete altrimenti sul terreno acciden­tato.»

«Scaglionate lungo la colonna gli autocarri-officina, co­sicché possano riparare le macchine che si arresteranno per guasti» ordinò ancora.

E a un ufficiale della Guardia Nazionale gridò, con voce perentoria: «No, no! A che diavolo potrebbero servire, le vo­stre armi? Lasciatele nell’armeria e prendete invece cappotti, coperte, tende da campo e cose del genere!»

Poi McLain saltò su un’auto e si allontanò, gridando anco­ra a Kenniston: «Fate mettere in marcia la colonna per mezzogiorno! Farò suonare la sirena del Tubificio come se­gnale di partenza!»

Poi si allontanò per raggiungere il punto di raccolta del se­condo scaglione. Kenniston si trovò attorniato da agenti del­la polizia e della Guardia Nazionale, da deputazioni, funzionari, e un sacco di altre persone che gridavano e chiedevano il suo parere.

«Che dovremo fare, con quelle macchine? Almeno la metà di esse sono così sovraccariche che non giungeranno mai in nessun posto!»

Kenniston s’accorse che l’osservazione era giusta. Le mac­chine che giungevano erano stipate non solo di cose essen­ziali, ma anche di radio, strumenti musicali, grandi ritratti di famiglia in cornice, e ogni sorta di oggetti.

«Percorrete la colonna e scaricate tutto quanto non è in­dispensabile» ordinò. «Incolonnatevi lungo la South Jef­ferson Street... ma solo in due colonne, perché alcune delle strade del South Side sono molto strette.»

Mentre si affannava per dirigere le macchine che si radu­navano, cercava con gli occhi il coupé turchino di Carol. Fi­nalmente la vide: era pallida ma guidava con piena padro­nanza, mentre sua zia guardava sbigottita la folla. Kenniston le si avvicinò e la instradò verso la testa della colonna, poi tornò veloce sulla piazza.

Le squadre incaricate dell’ordine, riportarono le disposi­zioni di Kenniston: «Avanti gli abitanti della Adams Street! Avanti gli abitanti della Perry Street! Avanti la Lincoln Avenue...»

Sulla piazza, sotto un grosso albero di sicomoro, un uomo alto e scarno, dagli occhi accesi, brandiva una Bibbia e grida­va: «La fine del mondo... La punizione dei peccati...»

Lauber, lo spedizioniere che McLain aveva lasciato in for­za al primo scaglione, agli ordini di Kenniston, gli si avvicinò di corsa quando raggiunse la South Jefferson Street.

«Questa gente è pazza!» ansimò. «Quelli già pronti vogliono partire subito... e non sanno nemmeno dove an­dare!»

Kenniston vide che la polizia aveva eretto uno sbarramen­to di grossi autocarri attraverso la strada, alcuni metri più in là. Gruppi di macchine premevano contro quello sbarramen­to, coi motori rombanti, mentre i guidatori urlavano e face­vano suonare i clacson in un coro assordante.

Poi, sopra il frastuono dei motori, si udì un altro suono. Un suono lungo, lontano, che gradatamente si mutò in un violento ululato. Il frastuono dei motori e dei clacson cessò di colpo.

«È la sirena del Tubificio!» urlò Lauber. «È il segnale!»

Kenniston lanciò la sua jeep in testa alla colonna.

«Benissimo! Lasciate passare quelle macchine! Ma sfate tutti in colonna. Indietro! Tutti in colonna! Non fate ressa!»

I grossi Diesel che barricavano la strada incominciarono a muoversi ruggendo, pesanti come pachidermi. Kenniston si pose alla testa della colonna. Ma quasi subito le altre macchi­ne cercarono di spingersi ai lati.

«Affiancate gli autocarri a tre a tre!» gridò allora Ken­niston a Lauber. «Questo impedirà i sorpassi!»

Attraversarono la Jefferson Street, il letto del fiume, le vecchie case, chiuse accuratamente, il campo di gioco do­ve i bambini non avrebbero giocato mai più. Oltrepassaro­no la Home Street, gli stabilimenti silenziosi, le birrerie della South Street. Da una finestra, un ubriaco gridava pa­role incoerenti, brandendo una bottiglia. Superarono le ul­time case, coi loro piccoli giardini e i loro fiori anneriti dal gelo.

Kenniston scorse dinanzi a sé la linea di demarcazione, il confine fra il passato e ciò che rimaneva della Terra. Rag­giunsero la linea, l’oltrepassarono...

Poi la pianura sterminata, di quel giallo ocra, deserta e de­solata, sotto l’occhio rosso del sole, si spalancò davanti a lo­ro. Il vento freddo li investì, mentre attaccavano la salita del­le colline. Dietro la sua jeep, i grossi Diesel, le vetturette, gli autobus, le auto da turismo, arrancavano rombando in un nuvolone di polvere.

Kenniston guardò giù, lungo la china. Anche l’altro sca­glione si era mosso, ora, ed egli ormai avanzava alla testa di una gigantesca carovana di veicoli che iniziava alla periferia di Middletown... una carovana che usciva dalla Terra di una volta, per sempre scomparsa, verso il suo ignoto, impenetra­bile domani.

7

Sotto la cupola

Quando raggiunsero la cresta delle colline e per la prima vol­ta arrivarono in vista della città lontana, con la sua cupola che scintillava nella pianura ai pallidi raggi del sole, Kenni­ston capì che un lungo istante di perplessità e di dubbio do­veva percorrere quell’esercito in marcia, di fronte a uno spet­tacolo così incredibile.

Persino lui, vedendola per la seconda volta, si sentì incerto ed esitante. Col ricordo recente della familiare città che ave­va appena lasciata, quella strana, solenne e trascendentale metropoli, protetta da una cupola, gli appariva come un im­possibile rifugio. Cercò di frenare quel senso di timore, dove­va frenarlo a ogni costo, perché bisognava andare là dentro, o rassegnarsi a morire.

«Avanti! Non fermatevi!» ordinò urlando e facendo ge­sti autoritari di comando. «Avanti!»

Superò quel breve attimo di smarrimento, riuscendo a far rimettere in moto la colonna, che si diresse giù per il versan­te delle colline, avvolta in densi nuvoloni di polvere.

Intravide il sindaco Garris, con la faccia grassoccia, spa­ventato e pallido. Cercò anche di indovinare quali pensieri passassero per la mente di Carol, mentre osservava quella specie di bolla, solitaria e risplendente, nella triste distesa de­solata e deserta.

L’interminabile carovana, avvolta nella polvere, era già a metà strada nella discesa del versante delle colline, quando Kenniston udì un rabbioso suonare di clacson e si volse a guardare. Una vecchia berlina si era fermata proprio in mez­zo allo stretto sentiero aperto dagli autocarri di testa nel ter­reno accidentato. Le macchine sopraggiungenti si raggrup­pavano attorno a essa, affondando nel terreno molle, e for­mando una confusione inestricabile. Dietro, la colonna inte­ra si andava arrestando.

Kenniston urlò a Lauber di mantenere la colonna in mar­cia verso la cupola lontana, e quindi mosse velocemente, con la sua jeep, verso il punto dell’incidente. Un gruppo di perso­ne era raccolto attorno alla vecchia berlina, causa di tutto quel pandemonio. Kenniston si fece strada fra di esse.

«Ma che diavolo succede, qui?» domandò. «Di chi è questa macchina?»

Un uomo di mezza età, dal viso abbronzato, si volse verso di lui con viso spaventato, in tono di scusa.

«È la mia... la mia macchina» disse. «Sono John Borzak.»

Fece un gesto vago in direzione del sedile posteriore della vecchia berlina. «Mia moglie sta avendo un bambino là dentro.» Poi aggiunse, a guisa di commento: «Il mio quin­to bambino.»

«Per l’amor del Cielo! Ci mancava anche questa!» gridò Kenniston, mentre Borzak assumeva un’espressione contrita. Ma Borzak appariva talmente spaventato, che Kenniston scoppiò in una risata. Allora tutti si misero a ridere, e questo valse ad allentare la tensione nervosa.

Stando in testa alla colonna, Kenniston era fuori del pol­verone e poteva guardare avanti, verso la misteriosa città lontana. Era ancora una piccola bolla scintillante all’oriz­zonte, un piccolo punto splendente, sperduto e soffocato nel­la vasta solitudine desolata... Quanti chilometri mancavano? Tutto il vasto mondo morto, gli oceani immensi, i luoghi do­ve sorgevano le grandi città, era diventato tutto così? Era co­sì il fondo dell’Atlantico? Erano così i posti dove un tempo sorgevano New York e Parigi? Erano così anche i poli?

Erano ormai arrivati sullo stradone di cemento che porta­va all’ingresso della città. La cupola dell’ultimo rifugio del­l’uomo sulla Terra torreggiava, colossale, immensa, di fronte a loro.

Kenniston vide che gli uomini di Hubble avevano chiuso la grande porta. Quella era, naturalmente, la prima cosa da fare, per conservare il massimo calore possibile e difendere l’interno dal vento gelido. La grande porta si aprì e un uomo armato alzò le braccia in atto di saluto e sorrise. Poi saltò sul predellino della jeep per indicare la strada.

«Andate diritto per questo viale, poi voltate. Vi mostrerò la strada da percorrere. Sì, è tutto pronto. No, nessun segno di vita, sinora. Credo che qui non abiti più nessuno, nemme­no un topo.» Una pausa, poi proseguì: «Sono molto con­tento che siate venuti. Questo posto è talmente silenzioso che spaventerebbe chiunque.»

Gli altissimi, bianchi e silenziosi edifici si susseguivano da­vanti a loro, come torri gigantesche. Sembrava osservassero, coi loro milioni di occhi sbarrati, la lunghissima fila di mac­chine e autocarri polverosi che sfilavano lungo i viali deserti.

Il frastuono dei motori, enormemente ingrandito, echeg­giava e rimbalzava dalle facciate degli edifici e si ripercuote­va debolmente sotto l’altissima cupola. Il rumore di quegli echi faceva rabbrividire Kenniston.

All’infuori di tutto quel fragore meccanico, un curioso, strano silenzio si era impadronito dei nuovi venuti. Tutte le teste si sporgevano dai finestrini delle macchine, guardando attonite, esaminando l’altezza degli edifici dei quali non riu­scivano nemmeno a vedere la cima, osservando i colori e le forme che erano del tutto inconsuete per loro, in quell’in­quietante silenzio che tutto pervadeva.

Era una cosa troppo enorme, troppo inconsueta, e Kenniston capiva benissimo ciò che essi sentivano. Persino un abi­tante di New York sarebbe rimasto stupefatto davanti a quel­le immense torri. Gli abitanti di Middletown, poi, abituati al­le loro piccole case coperte di ardesia, ai loro piccoli edifici di mattoni, dovevano sentire un senso di oppressione, non di­sgiunto da un vago timore.

La testa della carovana raggiunse un punto sbarrato da corde. Queste vennero tolte e le macchine proseguirono.

La squadra di avanguardia di Hubble era pronta. Senza quegli uomini risoluti, la sistemazione di quasi diciassette­mila persone in quartieri improvvisati, sarebbe stata impos­sibile. Per merito loro, dopo i primi momenti di caos, ogni cosa fu sistemata senza molto rumore. Uomini e donne si muovevano con una specie di attonita docilità, osservando di sfuggita la polvere e le ombre, le grandi finestre e le alte stan­ze deserte, quasi timorosi di alzare il tono della voce. Grada­tamente il rombo dei motori si spense e le strade assunsero un aspetto spettrale nel loro immenso, soprannaturale silen­zio. Era un silenzio tanto profondo che neppure il suono di molte voci, nemmeno il lavoro di scarico degli autocarri e delle macchine, potevano turbarlo. Ogni rumore andava di­sperso in quel cupo silenzio.

Kenniston fece il suo rapporto a Hubble e andò quindi in cerca di Carol. Qua e là, alcune persone sedevano ancora nel­le macchine, rifiutando di muoversi da quell’ultima loro fa­miliare realtà. Più avanti, una vecchia era accucciata nella polvere della strada e piangeva, stringendo a sé un fagotto di coperte. Quel sentimento di disperazione si impadronì an­che di Kenniston. Quella gente non si sarebbe mai adattata. Aveva persino paura di incontrarsi con Carol; ma continuò a cercarla, finché la trovò.

Stava in una grande sala a volta, a livello della strada. In quell’ambiente stagnava un odore di polvere e di stantio. Al­tissime finestre lasciavano entrare quel poco di luce che era possibile, ma ciò nonostante, tutto l’interno era immerso nel­la penombra. Vi erano, in quella sala, venti donne di tutte le età e di tutte le condizioni. Tutte si affaccendavano attorno alle valigie e ai pacchi di viveri, non cessando però di lamen­tarsi sconsolatamente. Fra quelle venti donne c’erano Carol e sua zia.

Si erano un poco appartate dalle altre, in modo tutto ca­ratteristico. La signora Adams si era lasciata cadere su un let­to improvvisato e Carol stava mettendo un po’ d’ordine, co­me poteva, tra le poche cose che avevano portato.

«Va tutto bene?» le domandò Kenniston, ansiosamen­te, ed ella fece col capo un cenno affermativo. Dal suo giaci­glio sul pavimento, la signora Adams bisbigliò, con voce lagrimosa: «Ma perché ci hanno portati qui, in questo posto orribile? Perché non ci hanno lasciati nelle nostre case?»

Carol le fece cenno di tacere, come se fosse una bambina capricciosa e testarda.

Due ragazze in lacrime si erano avvicinate a Kenniston per rivolgergli delle domande. Dietro di loro, una donna di mezza età, piccola e massiccia, andava su e giù sbattendo le porte.

«Dove sono i gabinetti?» chiedeva, in tono bellicoso.

Kenniston condusse Carol nel vano di una porta, dove avrebbero potuto stare un momento tranquilli, anche se non era possibile rimaner soli.

«So che per te è una cosa molto dura, ma è solo per po­co... voglio dire... questa specie di promiscuità. C’è posto in abbondanza per tutti, qua dentro, e potrete scegliervi i locali che più vi piacciono, tutti per voi. Posso portarti qualsiasi co­sa ti occorra, da casa tua, i tuoi libri, gli oggetti che preferisci, anche i mobili, se vuoi...»

Ma Carol lo interruppe.

«No! Non voglio che si tocchi nulla, là. Voglio che tutto rimanga come l’ho lasciato. Potrò almeno ricordare la mia casa così com’è sempre stata, e chissà che...» Scosse il ca­po, poi proseguì: «Ken, il vecchio signor Peters, che abita­va nella nostra via, ha avuto un altro colpo, quando siamo giunti qui. Lo hanno portato via in una barella. Stava mo­rendo, e ho visto il suo viso. Guardava quegli enormi e spa­ventosi edifici, con un viso così smarrito e pieno di spaven­to. Cercava di capire, di capire, e non poteva.» La fanciulla rabbrividì.

«La morte non è una cosa bella, in qualsiasi luogo avven­ga» disse Kenniston. «Ma siamo giovani e forti e non stia­mo per morire.» Prima di lasciarla, aggiunse: «Un bambi­no è nato durante il percorso. Pensa a questo, Carol, invece di pensare a quel povero vecchio moribondo.»

Se ne andò, depresso e turbato. Carol gli era apparsa di­versa, e non credeva che fosse unicamente a causa della stanchezza. Forse Carol aveva legami tanto profondi con Middletown, con la mentalità di quella cittadina, col suo modo di vi­ta, da non riuscire a dimenticare. Ebbene, quel modo di vive­re era andato in frantumi, ora, e lei e tutti gli altri avrebbero dovuto adattarsi.

Immerso in questi angosciosi pensieri, Kenniston aveva oltrepassato due piazze, prima di accorgersi che un muta­mento era avvenuto nelle strade. Cercò di capire che diavolo fosse. La gente si era quasi tutta riparata negli edifici, ora, e pochissimi erano rimasti nelle automobili, ma non era que­sto. Vi era qualche cosa, qualche cosa...

Le strade erano diventate improvvisamente vive e non ca­piva perché.

Poi, d’un tratto, capì. Erano stati i bambini. Intimoriti dap­prima dalla stranezza del posto e dal comportamento dei grandi, avevano infine compreso che c’era tutta una città a lo­ro completa disposizione... enormi edifici vuoti, pieni di mi­steri e di tesori, nuove strade, nuovi stretti passaggi, novità do­vunque, un territorio assolutamente vergine, da esplorare... A due, a tre per volta, quegli spiriti avventurosi si erano accinti alla grande avventura. Grida e piccoli piedi in corsa risonava­no ora dovunque, piccole figure apparivano qua e là sui mar­ciapiedi, le loro ombre guizzavano in movimento, si udivano le loro voci e il loro riso dovunque, insieme ai rimproveri adi­rati dei parenti. Un monello dal viso intelligente e furbo aveva scoperto che poteva provocare l’eco. Un altro, affascinato dal­le immacolate distese di muri bianchi e lisci, vi stava traccian­do con un pennarello dei caratteri calligrafici che gli parvero diventare sempre più grandi. Quel piccolo accidente!, pensa­va Kenniston, divertito. Affrettò il passo, subitamente rinfran­cato. Capiva che tutto sarebbe andato bene, ormai. La razza umana era una razza dura a morire, dopo tutto!

Altre prove ne ebbe nei due giorni che seguirono. Le gran­di ondate di evacuazione riversarono altre migliaia e mi­gliaia di persone, attraverso le colline polverose, entro la grande porta che si apriva per lasciarle passare. E per quelli che vennero il secondo e il terzo giorno, la prima impressio­ne non fu tanto brutta come per la prima carovana di evacua­zione. I primi diciassettemila pionieri avevano spezzato l’in­canto e la maledizione di quel vuoto silenzio. Cucine comu­ni, funzionanti a petrolio e a benzina, riempivano l’aria col casalingo e ravvivante odore del caffè. Vi erano cibi caldi, l’eccitazione di ricercare gli amici, il desiderio di scambiarsi impressioni. Massaie infaticabili si affaccendavano con le scope, inducevano i mariti a pulire le finestre, sculacciavano i bambini irrequieti. E le automobili si allineavano, in file in­terminabili, lungo le strade e i viali di quella specie di città di sogno, in una Terra più vecchia, una Terra del futuro.

Il terzo giorno furono trasportati i malati, che vennero ospitati in un grande edificio convertito in ospedale. Arriva­rono anche i carcerati, che furono rinchiusi in un altro edifi­cio. Un enorme palazzo della piazza centrale diventò il nuo­vo Municipio. E al cadere della terza notte non restò più, a Middletown, anima viva. Tutti i suoi abitanti erano stati ac­colti sotto la grande cupola della città sconosciuta.

«Chiameremo questo posto Nuova Middletown» aveva proclamato il sindaco Garris. «Ci sarà più simpatico.»

Kenniston passeggiava con Carol, quella sera, lungo i viali scuri della città. Candele e lampade brillavano alle porte e al­le finestre. Un bambino piangeva, in qualche posto, e la voce di una mamma lo acquietò cantando una ninnananna. Dei cani abbaiavano in lontananza. La voce metallica di un fono­grafo cantava: Non posso darti che l’amor, bambina.

Kenniston pensò che gli altissimi edifici dovevano ora guardare giù con occhi stupefatti... Quella città, sotto la sua cupola incastonata di stelle, era stata in silenzio tanto a lun­go; su quel silenzio immenso, il sole smorto e gelido si era av­vicendato innumerevoli volte; e ora...

Poteva una città ricordarsi del passato? pensava Kenni­ston. Ricordava, quella città, i giorni lontanissimi dei suoi co­struttori, degli amanti che avevano passeggiato per le sue stra­de, dei bambini che avevano conosciuto i suoi angoli e i suoi nascondigli più segreti? Era lieta, quella città, che gli uomini fossero ritornati ancora, o le spiaceva di aver perduto quel si­lenzio e quella pace, che si perdevano negli abissi del tempo?

Carol rabbrividì e si abbottonò il pesante cappotto.

«Sta facendo più freddo.»

Kenniston fece un cenno affermativo col capo.

«Ma non tanto freddo come a Middletown... Solo come in una notte di ottobre, nel mondo di una volta. Questo è un freddo che possiamo sopportare.»

La fanciulla lo guardò, con gli occhi scuri nel pallore del viso.

«Ma come faremo a vivere qui, Ken? Voglio dire, come faremo a vivere quando i rifornimenti portati dai magazzini di Middletown finiranno?»

Tanto Kenniston quanto Hubble sapevano bene che quella domanda sarebbe stata fatta, presto o tardi, ma avevano pronta una risposta. Non una risposta precisa, ma la sola possibile.

«Vi sono grossi serbatoi idroponici alla periferia di que­sta città, Carol. Gli antichi abitanti coltivavano le loro derra­te in quei serbatoi. Noi potremo fare la stessa cosa. Abbiamo una quantità di sementi a Middletown.»

«Ma... e l’acqua?»

«Ce n’è una quantità» rispose prontamente Kenniston. «Enormi serbatoi sotterranei, che debbono essere in comu­nicazione con sorgenti a grandi profondità. Hubble l’ha fatta esaminare. È perfettamente potabile.»

Camminarono lentamente verso la piazza. Ora la Luna era sorta. Quella Luna color rame, irrealmente grande, tanto più vicina alla Terra che nelle epoche di una volta. La sua lu­ce cupa filtrava attraverso la cupola immensa della città. Le bianche torri degli edifici sembravano perdute in un sogno.

Kenniston pensava alla storia della Terra. Milioni di anni, trilioni di vite umane piene di dolori, di speranze e di lotte, e tutto per che cosa? Per questo?

Anche Carol provò un senso di vuoto e di nullità, e si strin­se più forte a lui.

«Ma sono tutti morti, Ken? Tutta la razza umana, eccetto noi?»

Anche per questa domanda, Kenniston e Hubble avevano preparato una risposa, la risposta che avrebbero dovuto dare a tutti.

«Non c’è alcuna ragione di ritenerlo. Ci possono essere altre città ancora abitate. Se è così, ci metteremo presto in contatto con esse.»

Carol scosse il capo.

«Parole, Ken. Non ci credi nemmeno tu.» Si allontanò un poco da lui. «Siamo soli» aggiunse. «Ogni cosa che avevamo è scomparsa: il nostro mondo, tutta la nostra vita, e siamo completamente soli.»

Kenniston le passò un braccio attorno alla vita. Avrebbe voluto dirle qualcosa che la confortasse, ma la ragazza rima­neva rigida e tremante, e d’improvviso sbottò: «Ken, in cer­ti momenti credo quasi di odiarti.»

Troppo sorpreso per potersi arrabbiare, Kenniston la la­sciò andare.

«Carol» disse «sei troppo stanca e preoccupata per...»

Ma la voce di lei era lenta e aspra. Le parole le venivano al­le labbra come se non avesse più potuto trattenerle.

«Troppo stanca e preoccupata? Può darsi. Ma non posso fare a meno di ricordare che se tu, e altri con te, non foste ve­nuti a Middletown con quel laboratorio segreto, cinquanta­mila persone non avrebbero dovuto soffrire di una cosa simi­le. Questa sventura ce l’avete procurata voi...»

Kenniston cominciò a capire, ora, la causa delle rigide maniere di Carol e dei suoi silenzi poco amichevoli.

Rimase per un momento furiosamente indignato, tanto più perché la fanciulla lo aveva ferito in un punto sensibile. Rimase a guardarla con occhi accigliati, poi la sua ira svanì, ed egli l’afferrò per le spalle.

«Carol, parli a vanvera, e lo sai bene! Sei amareggiata perché hai perduto la tua casa, il tuo modo di vivere, il tuo mondo, e per tutto questo fai di me un capro espiatorio. Ma non puoi farlo! Abbiamo bisogno l’uno dell’altro, ora più che mai, e non dobbiamo perderci per cose di questo genere.»

Carol lo guardò freddamente, poi cominciò a singhiozza­re, e si appoggiò a lui, piangendo.

«Oh, Ken, non credermi una stupida! Sono così turbata, e non capisco più nemmeno me stessa.»

«Tutti siamo in questo stato d’animo» la confortò Ken­niston. «Ma tutto finirà bene. Dimentichiamo, Carol!»

Ma mentre la teneva stretta fra le braccia cercando di cal­marla, guardava quelle altissime torri punteggiate di milio­ni di finestre e l’aspetto di quella luna strana, e capiva che Carol non avrebbe mai potuto completamente dimenticare. Quel profondo risentimento non sarebbe facilmente svani­to, e avrebbe dovuto lottare a lungo, contro di esso. Sarebbe stata una lotta dura, perché nelle parole di Carol c’era una parte di verità, che tuttavia non avrebbe voluto sentirsi rin­facciare mai.

8

Qui, Middletown!

Quando si svegliò, Kenniston rimase per qualche tempo av­volto nelle coperte, guardandosi in giro per la grande came­ra, col medesimo sentimento di irrealtà che provava ogni mattina.

Era una camera molto vasta, con pareti graziosamente ri­curve e il soffitto di una materia plastica morbida, color avo­rio. Ma non era così vasta come sembrava, perché i costrut­tori di quella città avevano imparato l’arte di usare spazi li­mitati e farli apparire assai più ampi.

Guardò le alte finestre polverose e si domandò a cosa aves­se potuto essere adibita, una volta, quella camera. Faceva parte del grande palazzo della piazza, perché il sindaco Garris aveva insistito che tutto il personale dei laboratori di Middletown alloggiasse vicino al Municipio.

Era stato, ovviamente, un edificio pubblico, quello in cui si trovava, ma all’infuori di alcune tavole massicce, la camera era quasi vuota e non si poteva capire chiaramente a che cosa avesse potuto servire.

Guardò gli altri suoi colleghi: Hubble dormiva ancora, cal­mo. Beitz dormiva di un sonno leggero muovendosi ogni tan­to con qualche lamento, il sonno dell’età avanzata. Crisci era invece del tutto sveglio, e guardava il soffitto.

Kenniston ricordò d’improvviso, con un senso di pena, qualche cosa che aveva del tutto scordato, nell’impeto degli avvenimenti. Si avvicinò a Crisci e bisbigliò: «Me ne dispia­ce molto, Louis. Mi devi scusare se ho pensato solo ora alla tua ragazza.»

«Perché dovresti pensarci?» La voce di Crisci era bas­sa e senza espressione. «Perché avresti dovuto pensarci, quando è accaduto tutto questo?» Tacque per un attimo, poi proseguì, sempre con voce smorzata: «D’altra parte, è accaduto tutto molto tempo fa. È morta da milioni di anni, forse.»

Kenniston si attardò un poco, cercando le parole da dire, ricordando con quanto entusiasmo Crisci parlava della ra­gazza che avrebbe dovuto sposare... quella ragazza che abita­va a cinquanta miglia da Middletown. Ma non trovò le paro­le. La tragedia di Crisci era comune a molta di quella gente... la madre il cui figlio era andato in California, la moglie il cui marito era partito in viaggio d’affari, fidanzati, famiglie, ami­ci, divisi per sempre da quell’incommensurabile abisso di tempo.

Ringraziò ancora il Cielo che Carol fosse sopravvissuta con lui, e decise che ne avrebbe conservato l’affetto a qualsia­si costo.

Kenniston stava accendendo una sigaretta, mentre gli altri si alzavano. D’un tratto si Fermò di colpo. «A proposito, pensavo...»

Hubble gli sorrise.

«Lo so, lo so a che stai pensando. Pensavi al tabacco. Tu, e tutti gli altri, dovrete presto farne a meno.»

Mentre uscivano per far colazione alla più prossima cu­cina da campo, Hubble lo mise al corrente degli avveni­menti.

«McLain torna a Middletown a prendere motori a benzi­na e pompe. Dobbiamo rimettere subito in attività il sistema idrico della città. Può darsi che ci voglia del tempo per calco­lare la forza di propulsione del sistema. I vecchi abitanti do­vevano forse disporre di motori atomici, ma non ne sono si­curo.»

«E che è stato deciso, per il razionamento dei viveri?»

«Viveri e medicine verranno posti sotto controllo, in ap­positi magazzini. Verranno subito stampate tessere di razio­namento. L’uso delle automobili è vietato, naturalmente. Ognuno è confinato al suo quartiere, almeno per ora, per im­pedire infortuni. Abbiamo già organizzato squadre speciali per esplorare la città.»

Kenniston fece col capo un cenno di assenso.

Estrasse, prima di continuare, il mozzicone di una siga­retta, divenuto improvvisamente prezioso, poi proseguì: «Queste sono ottime cose, ma il principale problema sarà indubbiamente quello morale, Hubble.» Pensava a Carol, e aggiunse: «Non credo che questa gente potrà sopportare l’idea di essere rimasta sola sulla Terra.»

Hubble apparve preoccupato.

«Lo so» disse. «Ma vi devono essere altre persone, da qualche parte. Questa città non è stata abbandonata a causa di un improvviso disastro. Devono essere semplicemente evacuati per trasferirsi in altre città, in città migliori.»

«Ma nessuno ha risposto ai richiami radio» gli ricordò Kenniston.

«È vero. Ma credo che facciano uso di qualche cosa di diverso dal nostro sistema radio. È per questo che ho biso­gno del tuo aiuto, questa mattina, Ken. Ieri sera Beitz ha tro­vato un sistema di comunicazione, in un edificio poco lonta­no da questo. È dotato di grossi apparecchi, che Beitz ritiene siano a sistema televisivo. Sei più esperto di noi, tu, in queste cose.»

Kenniston dimostrò subito un acuto interesse, l’interesse del tecnico che nemmeno la fine di un mondo può distrugge­re completamente.

«Mi piacerebbe dargli una occhiata.»

Mentre stavano camminando, nel rosso e freddo mattino, Kenniston fu sorpreso dall’atteggiamento di consuetudine con cui gli abitanti si muovevano sotto la gigantesca cupola protettiva di quell’irreale città.

Famiglie intere si affrettavano verso le cucine comuni, con l’aria di chi si reca a fare una merenda in campagna. Dei bambini sbucarono da una via laterale, accompagnati da un cane peloso che abbaiava festoso e frenetico. Un uomo calvo dal viso rosso guardava da una finestra, in maniche di cami­cia, con moderata curiosità. Due grosse donne si chiamava­no da una porta all’altra, e una di loro abbottonava la giacca a un bambino riluttante.

«... e dicono che la signora Biler stia ora assai meglio, ma suo marito è sempre indisposto...»

«Gli esseri umani» osservò Hubble «si adattano facil­mente. Dobbiamo ringraziarne il Cielo.»

«Ma... se sono gli ultimi che esistono? Non potranno adattarsi, a questo.»

Hubble scosse il capo.

«Già, credo che non sia loro possibile.»

Dopo colazione, Beitz li condusse in un grande edificio quadrato poco lontano dalla piazza.

Nell’interno c’era una vasta sala scura, in cui giganteggia­vano in una lunga fila dei blocchi quadrati di apparecchi. Erano, ovviamente, apparecchi televisivi. Ciascuno di essi aveva uno schermo quadrato, un microfono e, sotto, un qua­dro di comandi, di quadranti, e di altri strumenti meno iden­tificabili.

Kenniston trovò il modo di aprire, dalla parte posteriore, uno degli apparecchi. Un breve esame del complicato appa­rato che osservò lo lasciò scoraggiato.

«Devono proprio esser strumenti per comunicazioni te­levisive. Ma i principi in base ai quali funzionano mi sono as­solutamente sconosciuti. Avevano evidentemente superato da tempo le nostre tecnologie.»

«Non potresti riuscire a mettere in azione una di queste trasmittenti?»

Kenniston scosse il capo.

«Questo sistema è assolutamente estraneo alle mie cognizioni. Non assomiglia affatto ai nostri rudimentali appa­recchi televisivi.»

«Non sarebbe possibile usare unicamente il sistema tra­smittente sonoro... usare uno di questi apparecchi come una normale trasmittente sonora?» domandò Hubble.

Kenniston esitò.

«Credo che questo potrebbe forse essere possibile. Dovrò lavorare un poco alla cieca. Ma alcuni particolari mi sono noti...» Rimase un poco assorto, poi disse: «I conduttori di corrente vengono dall’esterno. Non c’è qui vicino qualche co­sa che assomigli a una centrale elettrica?»

Il vecchio Beitz fece un cenno affermativo.

«Nella via accanto. Ci sono grosse turbine atomiche co­razzate, di un tipo che non ho mai visto, accoppiate a genera­tori.»

«Ci metteremmo anni, se volessimo imparare a far fun­zionare le loro turbine atomiche» disse Kenniston.

«Potremmo accoppiare quei generatori a motori a benzi­na» suggerì Hubble. «Potrebbero fornire abbastanza cor­rente per cercare di far funzionare una di quelle trasmittenti.»

Kenniston lo guardò.

«Per chiamare le altre persone che rimangono ancora sulla Terra?» domandò.

«Già. Se ce ne sono, non udranno gli appelli dei nostri apparecchi radiotrasmittenti. Ma questo è un loro apparec­chio trasmittente. Quello lo udranno.»

«Sta bene» assentì Kenniston. «Datemi la corrente, e proverò.»

Nei giorni che seguirono, Kenniston fu troppo preso dal fascino della missione che gli era stata affidata per po­tersi accorgere di quanto gli abitanti di Middletown si an­davano adattando a Nuova Middletown. Poteva udire gli autocarri che rombavano continuamente sotto la cupola, mentre McLain, infaticabile, proseguiva nel suo compito di trasportare viveri dalla vecchia città abbandonata e de­serta.

Portarono così i motori a benzina necessari, non solo per mettere in azione il sistema idrico dei grandi serbatoi, ma anche per far funzionare uno dei generatori della cen­trale elettrica. Una volta rifornito di corrente, Kenniston cominciò i suoi esperimenti. Essendo certo di non riuscire a comprendere i principi coi quali quelle strane super-ra­diotrasmittenti erano state costruite, egli cercò semplicemente di capire il modo col quale potevano esser messe in funzione.

Gli autocarri portarono altre cose... viveri, sempre più vi­veri, ma anche vestiti, mobili, apparecchi sanitari, libri. McLain cominciò a predispone i piani per una spedizione nelle regioni circostanti. E, nel frattempo, le squadre già or­ganizzate per esplorare Nuova Middletown facevano ricer­che in ogni strada, in ogni edificio. E avevano già fatto sor­prendenti scoperte.

Hubble distolse Kenniston dal suo lavoro per esaminare una di quelle scoperte. Lo condusse attraverso una lunga ca­tena di corridoi a catacomba, sotto la città.

«Sai già che, in questa città, la temperatura è di alcuni gradi superiore a quella che potrebbe esserci in virtù del solo calore solare» disse Hubble. «Ho scoperto che c’erano grosse condutture che portavano l’aria calda in ogni parte della città. Perciò ho incaricato alcuni uomini di rintracciare dove facessero capo quelle condutture.»

Kenniston si sentì invaso da un’improvvisa eccitazione.

«La fonte, vuoi dire? Un grosso impianto di riscalda­mento artificiale, forse?»

«No, non è questo» replicò Hubble. «Ma dai tu stesso un’occhiata.»

Erano giunti in una vasta sala sotterranea. Tutto finiva sull’orlo di un enorme pozzo abissale... un grande pozzo cir­colare il cui fondo si perdeva in una profondissima oscurità. Kenniston guardava perplesso. Poi osservò che le grosse con­dutture uscivano da quel pozzo e si diramavano in tutte le di­rezioni.

«Quell’aria leggermente più calda proviene da questo pozzo» disse Hubble, accennando alla voragine. Poi ag­giunse: «So che sembra una cosa impossibile alla nostra esperienza di costruttori e di tecnici. Ma credo che questo pozzo sia profondo molti, molti chilometri. Credo che giun­ga fino alle abissali profondità della Terra.»

«Ma le viscere della Terra dovrebbero essere una massa ardente, incandescente» obiettò Kenniston.

«Già, lo erano una volta, milioni di anni or sono» cor­resse Hubble. «E mentre la terra diventava sempre più fred­da, mentre la superficie diveniva inabitabile, hanno costrui­to questa città protetta da una cupola, e forse altre come que­sta... e hanno scavato un grande pozzo per catturare il calore delle massime profondità. Ma anche le profondità della Terra sono più fredde, ora, quasi spente. Cosicché non giunge più che un calore appena sufficiente per riscaldare un poco la città.»

«Ed è questa la ragione per la quale non potevano più vi­vere qui... facevano assegnamento sul calore interno della Terra, e quando questo diminuì...» Kenniston si interruppe, accigliato.

La seconda scoperta fu fatta da Jennings, un giovane rappresentante di automobili che guidava una delle squa­dre di esplorazione. Ne fece un confuso resoconto agli scienziati, e Kenniston andò, con Beitz e Crisci, a vedere di che si trattava.

Era una vasta sala per adunanze, semicircolare, in uno dei maggiori edifici, e disponeva di parecchie centinaia di posti a sedere.

«Una sala consiglio, o forse una sala per conferenze» disse Beitz. «Che c’è di strano?»

«Guardate quei posti nella seconda fila» disse Jen­nings.

Capirono, allora, che cosa volesse dire. I posti di quella fila non erano normali sedili metallici come gli altri. Erano di­versi... diversi dai sedili normali e diversi l’uno dall’altro.

Alcuni di essi non sembravano affatto sedili. Alcuni erano molto ampi, piatti e bassi, con larghi schienali piegati un po­co verso l’interno; altri erano strettissimi, senza schienale al­cuno; altri ancora erano simili a sedie a sdraio, ma la curva era assolutamente troppo profonda.

«Se si tratta di sedili» disse Jennings «non erano certo destinati a uomini come noi.»

Kenniston e gli altri si guardarono, sorpresi e spaventati. Kenniston ebbe d’improvviso la grottesca visione di una grande sala affollata di congressisti, congressisti che in parte erano esseri umani e in parte... che cosa? Forse che l’uma­nità, nelle sue ultime epoche, aveva condiviso la Terra con al­tre razze che non erano umane?

«Siamo troppo precipitosi nelle conclusioni» commen­tò Beitz, rompendo il silenzio. «Possono anche non essere affatto sedili.» Ma mentre lasciavano la sala, disse a Jen­nings: «È meglio che non facciate parola di tutto ciò. Po­trebbe impressionare la gente.»

Ciò che le altre squadre di esplorazione avevano scoperto, venne riassunto in un breve discorso di Hubble, di fronte alla popolazione di Middletown che si era riunita il pomeriggio della domenica successiva, nella piazza maggiore.

Erano state indette, quella mattina, funzioni religiose, senza campane né organi, né vetri istoriati, naturalmente, ma in grandi sale immerse nella penombra e piene di au­stera solennità. Era poi seguito il primo congresso di Nuo­va Middletown. Erano stati installati altoparlanti in modo che tutti, nella grande piazza, potessero udire, e il sindaco Garris, più invecchiato e più umile, parlò alla popolazione adunata. Cercò naturalmente di essere il più possibile in­coraggiante.

Il sistema di razionamento funzionava bene, disse. Non c’era pericolo alcuno di patire la fame, perché la coltivazione idroponica sarebbe stata presto iniziata. Potevano perciò vi­vere a Nuova Middletown anche indefinitamente, se neces­sario.

«Il dottor Hubble» aggiunse poi «vi esporrà ora ciò che le squadre di esplorazione hanno trovato in Nuova Mid­dletown.»

Hubble fu conciso. Insistette sul fatto che gli originari abi­tanti di Nuova Middletown avevano lasciato la città delibera­tamente.

«Si sono presi i loro effetti personali, i libri, i vestiti, gli apparecchi più piccoli, gli strumenti e i mobili. Le cose che hanno lasciato erano tutte cose troppo massicce per essere facilmente trasportate; tra queste ultime ci sono rimaste, fra l’altro, alcune macchine che riteniamo fossero azionate ato­micamente, ma che debbono essere studiate con gran cura prima di cercare di rimetterle in attività. Riteniamo che ci di­verrà possibile, col tempo, l’utilizzazione di tutta questa at­trezzatura.»

Il sindaco Garris si alzò prontamente per aggiungere: «E almeno uno di questi apparecchi è ora pronto per l’uso! Il si­gnor Kenniston è riuscito a rimettere in funzione una delle radiotrasmittenti qui esistenti, per cui comincerà a trasmet­tere appelli per collegarci con gli altri popoli della Terra.»

Un grande applauso scoppiò istantaneamente da parte de­gli abitanti di Nuova Middletown. Kenniston appena sciolta l’adunanza, si trovò assediato da cittadini eccitati che gli fa­cevano mille domande. Dovette perciò confermare quanto aveva annunciato il sindaco, aggiungendo che avrebbe subi­to iniziato a lanciare appelli per radio.

Tuttavia, quando riuscì a trovarsi solo con Hubble, il suo viso era corrucciato.

«Garris non avrebbe dovuto annunciare una cosa simile! Questa gente è matematicamente sicura che riusciremo pre­sto a parlare con altre città popolate!»

Anche Hubble parve preoccupato.

«Sono così sicuri che vi siano altri uomini viventi sulla Terra... che, per loro, l’unica vera difficoltà è quella di metter­si in contatto con loro.»

Kenniston lo guardò.

«Credi che vi siano realmente altri uomini viventi sulla Terra? Io comincio a dubitarne, Hubble. Se non hanno potu­to vivere in una città come questa, non hanno certamente po­tuto vivere in nessun altro luogo.»

«Può darsi» ammise Hubble, piuttosto perplesso. «Ma non possiamo essere sicuri di nulla. Dobbiamo tentare, e con­tinuare a tentare.»

Kenniston mise in attività la trasmittente quella sera stes­sa, usandola solo per dieci minuti ogni ora, per risparmiare al massimo la benzina.

«Qui, Middletown!» urlava nel microfono. «Qui, Middletown!»

Era superfluo aggiungere altre parole. Non potevano in­fatti far funzionare un ricevitore per udire la risposta. Pote­vano solamente chiamare, per rendere nota la loro presenza e attendere, nella speranza che qualsiasi altro essere vivente che ancora fosse rimasto sulla Terra morente ascoltasse l’ap­pello e venisse da loro.

Una fitta folla lo guardava, al di là della porta, mentre egli trasmetteva il suo appello. Quella folla rimase là tutta notte, e il giorno seguente, e il giorno seguente, e il giorno successi­vo ancora. Stavano tutti in silenzio, ma la speranza che si leg­geva sui loro visi turbava fortemente Kenniston. Mentre altri due giorni passavano, sentiva in sé tutta l’ironia di quelle fu­tili parole che andava ripetendo all’etere.

«Qui, Middletown!»

Ma a chi si rivolgeva, quel suo appello? A una Terra mo­rente, ormai vuota di ogni presenza umana. A una sfera fred­da e arida che aveva spacciato l’umanità chissà quanti milio­ni di anni prima. Eppure, nonostante ciò, doveva continuare nel suo compito, doveva continuare a trasmettere quell’ap­pello, quel grido di un uomo perduto attraverso le epoche che cercava gli altri esseri della sua specie, quel grido che egli ben sapeva nessun orecchio umano poteva più ascolta­re, sulla Terra.

«Qui, Middletown!... Qui, Middletown!...»

9

Nessuna risposta

Alcune settimane erano ormai trascorse, mentre Kenniston e Beitz, dandosi il cambio, continuavano a trasmettere l’appel­lo. Ma dal silenzio che pesava sulla Terra morente non era ve­nuta alcuna risposta. Per ore e ore avevano ripetuto quelle parole, ormai divenute senza senso. Fra l’uno e l’altro di que­gli assurdi appelli, avevano cercato di manipolare gli strani ricevitori senza alcun risultato positivo. Per Kenniston di­ventava sempre più penoso il momento in cui doveva lascia­re quell’edificio e attraversare la piccola folla di abitanti pie­ni di speranza che era sempre adunata all’esterno.

«No, non ancora» doveva dire, cercando sempre di mo­strarsi fiducioso. «Ma può darsi che presto...»

«Ma può anche darsi che non riuscirai mai» obiettava Carol, disperatamente, quando erano soli. «Se qualcuno avesse udito, avrebbero ormai potuto raggiungerci, da qual­siasi parte della Terra, in tutte queste settimane!»

«Può anche darsi che non abbiano aeroplani» ribatteva Kenniston.

«Se avevano radiotrasmittenti tanto complicate avreb­bero dovuto pur avere anche aeroplani, non ti pare?»

La logica di Carol era ineccepibile. Per un momento Ken­niston rimase in silenzio. Poi aggiunse: «Non dir nulla di tutto ciò, Carol, a nessuno, te ne prego. Tutta quella gente spera sempre... È questa speranza che li spinge ad andare avanti. La speranza di trovare altra gente. Senza di essa si sentirebbero tremendamente sperduti.» Sospirò, e poi ag­giunse: «Continueremo a lanciare i nostri appelli. È tutto quello che possiamo fare. E può darsi anche che McLain e Crisci trovino qualcuno, là, nella pianura. Dovrebbero ormai essere di ritorno.»

McLain era infatti riuscito a organizzare una spedizione per esplorare le regioni circostanti. C’erano volute intere set­timane di preparazione, per predisporre i serbatoi di benzina necessari, per progettare le vie da seguire. Due settimane prima, infine, la piccola carovana di jeep era partita e avrebbe dovuto essere ormai di ritorno.

E mentre quella carovana andava alla ricerca della vita nella desolata pianura polverosa, mentre Kenniston e Beitz continuavano a lanciare i loro appelli senza risposta, la vita proseguiva, a Nuova Middletown.

Hubble aveva contribuito a progettare uno schema di la­voro. Occorreva ormai preparare i serbatoi idroponici. L’in­tera città doveva essere ripulita dalla polvere. I viveri portati da Middletown dovevano essere inventariati.

Una squadra di funzionari scelti aveva assegnato gli uomi­ni ai vari lavori. Ogni uomo aveva il suo compito, le sue ore di lavoro, la sua paga in tessere di razionamento. Le scuole era­no state rimesse in attività. I tribunali e la legge funzionava­no nuovamente, benché a tutti fosse concessa la libertà, sal­vo che nei casi più gravi.

Bambini nascevano ogni giorno a Nuova Middletown. La mortalità fu dapprincipio molto alta, specialmente fra i vec­chi che non potevano sopportare di star lontani dalle case nelle quali erano vissuti. Un tratto di terra, al di fuori della cupola, era stato accuratamente cintato e serviva da cimite­ro. Ma, sotto quella bene organizzata attività, c’era pur sem­pre una città in attesa. Una città che attendeva, con terribile ansia, una risposta a quell’appello che veniva continuamente lanciato, ogni ora, nello spazio, in quell’infinito silenzio sen­za risposta.

Kenniston capiva l’inutilità di quell’appello. Non riusciva nemmeno a capire bene i trasmettitori che usava. In quelle settimane ne aveva persino smontato completamente uno senza poter riuscire a comprendere l’enorme complessità dei suoi circuiti. Era sicuro che venissero usate radiofrequenze assai lontane dallo spettro elettromagnetico del ventesimo secolo. Ma la maggior parte dei circuiti rimanevano per lui un mistero. Le parole impresse sugli apparecchi non erano affatto comprensibili, erano scritte in quella medesima lin­gua, completamente ignota, che era stata usata per tutte le scritte della città. Non poteva far altro che continuare a lan­ciare quell’eterno appello, quel messaggio pieno di speranza, nell’ignoto.

«Qui, Middletown! Qui, Middletown!»

Infine, ritornò anche la spedizione di McLain. Carol corse da Kenniston con la notizia. Kenniston si recò con lei alla porta della città, dove migliaia di abitanti si erano già ansio­samente radunati.

«Hanno dovuto sostenere una dura fatica» disse Kenniston, mentre le macchine si fermavano davanti alla porta. McLain, Crisci e gli altri avevano la barba lunga e incolta, erano coperti di polvere e apparivano esausti. Alcuni erano accasciati sui sedili.

La voce di McLain tuonò, in risposta alle domande che gli venivano rivolte da tutte le parti.

«Vi diremo tutto più tardi! Per il momento siamo stanchi morti, non ne possiamo più.»

Ma la voce affaticata di Crisci lo interruppe.

«Perché non dirlo subito? Hanno il diritto di saperlo!» Si volse verso la folla, d’improvviso ammutolita, e disse: «Abbia­mo trovato qualche cosa, sì. Abbiamo trovato una città, due­cento miglia a ovest da qui. Una città protetta da una cupola, proprio come questa, e quasi grande come questa.»

Bertram Garris fece allora la domanda che urgeva nella mente di tutti.

«Ebbene? C’erano abitanti, in quest’altra città?»

«No» rispose Crisci, abbassando la voce. «Non c’era nessuno. Nemmeno un’anima. Era una città morta, morta da molto tempo.»

«È vero» aggiunse McLain. «Non abbiamo visto segni di vita, in nessun posto, se si eccettuano alcuni piccoli ani­mali che abbiamo notato nella pianura.»

Carol, di colpo impallidita, si volse verso Kenniston.

«Ma allora non c’è più nessuno, sulla Terra? Siamo noi, gli ultimi?»

Un silenzio di morte era piombato sulla folla in attesa. Tutti i presenti si guardarono, ammutoliti. Fu in quel mo­mento che Bertram Garris dimostrò una inattesa capacità organizzativa. Salì di colpo su una delle jeep e si mise a parla­re, allegramente.

«Ascoltatemi, gente! Non dovete lasciarvi abbattere da questa notizia! La spedizione di McLain ha percorso sola­mente duecento miglia, e la Terra è enormemente più vasta. Ricordatevi che gli appelli del signor Kenniston vengono tra­smessi ogni ora.» E proseguì, con sempre maggiore cordia­lità: «Abbiamo tutti lavorato sodo, e abbiamo bisogno di un po’ di divertimento. Perciò questa sera faremo una grande fe­sta nella piazza maggiore. Sarà la festa della nostra città... Dite a tutti di venire!»

La folla si rianimò un poco. Ma, mentre tutti si allontana­vano, Kenniston vide che alcuni si voltavano a guardare an­cora, con viso rattristato, le jeep appena arrivate.

«È stata una buona idea, la vostra» disse a Garris. «Proprio quello che ci voleva per distogliere la loro attenzione dagli avvenimenti.»

Il sindaco apparve compiaciuto.

«Certo! Sono troppo impazienti. Non capiscono che può anche essere necessario molto tempo, prima che possano ri­spondere ai nostri appelli.»

Kenniston capì allora che la fiducia di Garris non era af­fatto una finta. Malgrado la nuova rivelazione, tutt’altro che confortante, il sindaco era ancora fiducioso che vi fossero al­tri esseri umani sulla Terra.

Ma Hubble si fece cupo, quando udì la notizia.

«Un’altra città morta? Allora non c’è più alcun dubbio. La Terra dev’essere proprio assolutamente senza vita.»

«Devo ancora continuare a lanciare gli appelli per radio?»

Hubble esitò.

«Sì, Ken» disse poi. «Ancora per un poco. Non dob­biamo guastare la loro festa, questa sera.»

La festa della città, quella sera, ebbe l’insolito lusso della luce elettrica, fornita da un generatore portatile. Un’orche­stra era stata collocata su una piattaforma e un vasto spazio era stato cintato per le danze. Kenniston si mescolò alla folla, con Carol, perché Beitz si era offerto di prendere il suo posto. Tutti lo conoscevano e lo salutavano, ma Kenniston osservò che non gli chiedevano più, ora, se i suoi appelli avessero avuto risposta.

«Stanno perdendo ogni speranza» confidò a Carol. «Temono che non ci siano altri esseri umani, e non vo­gliono pensarci.»

Kenniston cercò di trovare parole di conforto per Carol, al momento di lasciarla, ma non poté. Non c’era più conforto per nessuno. Dovevano tutti fronteggiare la real­tà, nella certezza, ormai, di essere gli ultimi sopravvissuti sulla Terra.

Si avviò lentamente attraverso le strade silenziose e vuote, per dare il cambio a Beitz. La Luna era già sorta e, attraverso la grande cupola, faceva cadere la sua luce di rame sulla piazza deserta. E poi, d’improvviso, Kenniston si fermò udendo uno scalpiccio di piedi in corsa e una voce che lo chia­mava.

«Signor Kenniston, signor Kenniston!»

Riconobbe subito Bud Martin, il padrone della rimessa nella vecchia Middletown. Il magro viso del giovane Bud era tutto eccitato, e le parole che diceva erano rapide e incoeren­ti, quasi incomprensibili.

«Signor Kenniston! Signor Kenniston! Ho visto un aero­plano passare sopra la cupola, molto in alto! Ma la sua for­ma... Sembrava piuttosto un grosso sommergibile, che un grosso aeroplano. Ma l’ho visto. Sono certissimo di averlo visto!»

Kenniston pensò subito che una cosa come quella avrebbe dovuto aspettarsela. Nella loro reazione all’amaro disingan­no, molti degli abitanti, c’era da aspettarselo, avrebbero cre­duto di vedere le altre persone viventi che tanto desideravano di vedere.

«Ma non ho udito niente, Bud» obiettò.

«Nemmeno io ho udito. Volava velocissimo e silenzioso, molto in alto. Ho appena fatto in tempo a vederlo.»

Kenniston guardò in alto, insieme a Bud. Guardarono per alcuni minuti, ma il cielo illuminato dalla Luna appariva freddo e deserto. Abbassò allora gli occhi.

«Sarà forse stata l’ombra di una nuvola, Bud. Non c’è nulla, nel cielo.»

Bud Martin si mise a imprecare; poi disse, con voce ferma: «Sentite, signor Kenniston, non sono una donnetta isteri­ca! Ho visto qualche cosa, vi dico!»

Ciò ammutolì Kenniston. Per un momento i battiti del suo cuore gli salirono in gola. Era mai possibile? Fissò ancora il cielo, per lunghi minuti. Ma il cielo rimaneva deserto. Eppu­re la sua eccitazione non si calmava.

«Andiamo da Hubble» disse infine. «Ma non dite nul­la a nessuno. Dare false speranze, in questo momento, sareb­be addirittura disastroso.»

Hubble stava, con McLain e Crisci, in una camera illumi­nata da una candela, ad ascoltare il loro resoconto sull’altra città morta che avevano trovato. Ascoltò le dichiarazioni di Bud Martin, e poi guardò Kenniston con occhi interrogativi.

«Io non ho veduto nulla» ammise Kenniston. «Ma at­traverso la cupola, è difficile vedere alcunché, a meno che sia in linea perpendicolare.»

Hubble si alzò.

«È meglio che diamo un’occhiata fuori. Mettetevi i cap­potti.»

Avvolti nei pesanti cappotti, tutti e cinque percorsero le strade silenziose fino alla porta, e uscirono all’esterno della cupola nella notte. Percorsero ancora un centinaio di metri sulla strada di cemento coperta di sabbia, e quindi si ferma­rono, esaminando il cielo. Il freddo era intenso. La grossa lu­na risplendeva con un duro chiarore di rame, che inondava di luce la cupola di Nuova Middletown.

Kenniston osservò con attenzione il cielo stellato. Le co­stellazioni erano molto cambiate, col passare delle epoche, ma alcune stelle si potevano riconoscere ancora. La defor­mata costellazione dell’Orsa Maggiore, l’alterata disposizio­ne della Lira. Stelle individuali brillavano ancora di intenso splendore; Vega, per esempio, di un bianco azzurro, Antares, di un rosso fumoso, Altair, di un color oro limpido.

«Questa gente vedrà, d’ora in avanti, una quantità di co­se» disse McLain, scettico. «Faremmo meglio a...»

«Ascoltate!» fece Hubble seccamente, interrompendo­lo e alzando una mano.

Kenniston udiva solo l’ululato del vento. Poi, debolmente, gli parve di udire un rumore pulsante che si alzava, si abbas­sava, si alzava nuovamente.

«Viene da nord» disse Crisci. «E sta ritornando verso di noi, ora...»

Tutti e cinque rimasero rigidi, attanagliati da un’emozione troppo grande per essere espressa a parole. I loro occhi scru­tavano sempre il cielo. Il rumore pulsante si fece più forte.

«Questo non è un motore di aeroplano!» esclamò McLain.

Era vero. Kenniston lo aveva già capito. Non era né il rom­bo dei motori a combustione interna né il sibilo dei motori a reazione. Era una specie di ronzio profondo, che sembrava riempire tutto il cielo. Si accorse che il cuore gli martellava forte nel petto.

Crisci si mise d’un tratto a urlare, alzando le braccia. La vi­dero tutti, quasi subito. Era una massa nera, allungata, che saettava rapidissima nel cielo, attraverso le stelle.

«Ma sta venendoci addosso!» gridò Bud Martin con quanta voce aveva.

In un batter d’occhio, quella cosa era divenuta una massa enorme, scura, che precipitava su di loro con la rapidità del fulmine. Ritornarono tutti di corsa verso la porta, scivolando e incespicando nella sabbia.

«Guardate!» urlò ancora Crisci. «Guardatela!»

Si volsero, non appena raggiunta la porta. Kenniston capì allora che la discesa di quella massa oscura su di loro, quasi che volesse schiacciarli, era stata solo un’impressione provo­cata dalla sua mole. Quella cosa, che non si capiva bene cosa fosse, con un ronzio altissimo si stava ora adagiando sulla pianura a mezzo miglio da Nuova Middletown. Una nuvola enorme di sabbia ne velò per un attimo la vista. Poi, quando la sabbia ricadde, la massa gigante riapparve nuovamente, adagiata nella pianura.

Kenniston vide subito che si trattava di un’aeronave. La descrizione di Bud Martin era stata molto efficace. Quella cosa sembrava infatti un sommergibile gigantesco, senza torretta, che si fosse in qualche modo arenato nella sabbia.

Il forte ronzio pulsante si era arrestato. Quella cosa miste­riosa giaceva sotto la luce della Luna, grande, scura, assolu­tamente silenziosa. Tutti rimasero impietriti, ancora incapa­ci di muoversi.

«Un’astronave venuta da un altro mondo!» bisbigliò in­fine Kenniston. «Una nave spaziale!»

«Infatti, dev’essere così. Ma non vi sono reattori. Deve far uso di un’altra forza motrice.»

«Ma perché non escono, ora che sono atterrati?»

«Che sono venuti a fare, allora? Chi sono?»

Quella forma enigmatica rimaneva sempre immobile, si­lenziosa, come priva di vita. Poi Kenniston udì un clamore di voci che sorgeva dalla città, dietro di lui. Anche altri avevano visto e avevano diffuso la notizia. Tutti gli abitanti di Nuova Middletown cominciavano a riversarsi, eccitatissimi, verso la porta della città.

La figura tozza del sindaco Garris si avvicinò di corsa.

«Ma è vero? Sono veramente venuti? Sono venuti altri esseri umani?»

«Tenete indietro la folla!» urlò Hubble, con voce stri­dula. «Nessuno deve uscire! È arrivato qualche cosa, ma finché non sapremo niente di preciso dobbiamo essere pru­denti.»

Nella mente di Kenniston passò come un lampo il ricordo di quella sala da riunioni che Jennings aveva scoperto nella città, coi suoi strani sedili che non potevano essere destinati ad alcun uomo o donna al mondo. Sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Che specie di esseri viventi potevano mai esserci, in quella massa mostruosa adagiata nella pianura?

La voce di Garris appariva un poco spaventata.

«Ma... ma... io non ho mai pensato alla possibilità di in­contrare dei nemici.»

Si volse tuttavia per gridare ordini agli agenti della polizia e della Guardia Nazionale, che erano già accorsi.

«Tenete indietro la folla! Tenete indietro la folla! E pron­te le vostre armi!»

Finalmente la folla fu respinta nelle strade adiacenti. Una ventina di agenti armati rimasero ad attendere, con Hubble, Kenniston e gli altri, sulla soglia della grande porta.

«Dovremo andar loro incontro?» domandò il sindaco, con i denti che gli battevano dal freddo.

Hubble scosse il capo.

«No» disse. «No, non siamo sicuri di nulla. Dovremo aspettare.»

Attesero, rabbrividendo nel vento gelido, mentre una tur­ba di pensieri mulinava nel cervello di Kenniston. Quella grande nave spaziale proveniva dagli spazi interstellari, ma da che parte era venuta, verso la Terra morente? Da qualche pianeta vicino? Dalle stelle più lontane? E perché era venuta? Che cosa accadeva, ora, nel suo interno? Quali occhi li stava­no osservando?

Attesero. Tutti gli abitanti di Nuova Middletown attendeva­no e guardavano, mentre la Luna saliva lenta verso lo zenit e le stelle tremolavano e il freddo diveniva sempre più intenso. Ma nulla accadeva. Quella mostruosa massa metallica giaceva sempre nella pianura, senza luce, senza suono, senza vita.

Le stelle risplendevano sempre più brillanti. Poi, la loro lu­ce impallidì leggermente. Un’altra luce, di un grigio cupo, stava sorgendo a oriente.

McLain si mise improvvisamente a imprecare.

«Se non vengono a trovarci» disse «potremmo anche andare noi, a trovarli.»

«Aspettate!» lo bloccò Hubble.

«Ma sono ore che aspettiamo, ormai... e...»

«Aspettate!» ordinò ancora Hubble. «Vengono ora!»

E Kenniston vide. Un’apertura scura era apparsa sul mar­gine inferiore dell’enorme chiglia dell’astronave. Alcune figu­re, che apparivano vagamente irreali nella pallida luce del­l’alba, stavano emergendo da quell’apertura. Ecco! Ora si di­rigevano, lentamente, verso Nuova Middletown!

10

Venuti dalle stelle

Kenniston li guardò avvicinarsi: erano quattro vaghe figure che camminavano lentamente, attraverso l’alba, verso Nuo­va Middletown. Il cuore gli martellava nel petto, aveva la boc­ca arida e una oscura paura lo invadeva.

Era forse la stranezza del loro arrivo, che gli dava quell’im­pressione... la massa enigmatica di quell’astronave scono­sciuta... quel lungo, cauto silenzio... Il loro modo di compor­tarsi faceva pensare che anch’essi fossero dubbiosi, incerti, prudenti.

Le tre figure che camminavano in testa si distinguevano ora più chiaramente. Erano uomini, e indossavano vesti pe­santi, contro il freddo intenso. Il quarto della compagnia camminava a qualche distanza dietro agli altri tre, ma la sua forma massiccia non si poteva ancora ben distinguere, avvol­ta com’era nella polvere sollevata dal vento.

«Sembrano proprio uomini come noi» osservò il sinda­co Garris, con aria stupita. «Credo che la razza umana non sia molto cambiata, dopo tutto, in un miliardo di anni.»

Kenniston fece col capo un cenno affermativo. Per qual­che ragione inspiegabile, il nodo che sentiva allo stomaco permaneva sempre. Vi era davvero qualcosa di soprannatu­rale, in quell’incredibile incontro fra due epoche.

Guardò gli altri. Il loro viso era bianco e teso. Un senti­mento di eccitazione, molto vicino all’isterismo, aveva inva­so tutti.

Gli sconosciuti erano ormai tanto vicini da poter distin­guere le loro fisionomie. La massiccia figura di retroguar­dia rimaneva ancora indistinta, ma dei tre che avanzavano in testa, Kenniston si accorse ora chesolo due erano uomi­ni. La terza persona era una donna, alta e sottile, dagli oc­chi azzurri, coi capelli di un color oro pallido raccolti attor­no alla testa. Kenniston ne fu colpito. Aveva visto molte donne bellissime, ma ne aveva visto raramente una che, co­me quella, avesse tanta grazia e autorità, con uno sguardo tanto acuto e intelligente. Quasi immediatamente, sentì per lei un sentimento di avversione, forse perché capiva che quella donna doveva avere un bagaglio di conoscenze e d’e­sperienze assai superiore a quello di qualunque uomo del ventesimo secolo come lui. Eppure quella donna aveva un atteggiamento amichevole, una bocca forte e volitiva, aper­ta al sorriso.

Il più giovane dei due uomini era grosso, robusto e sano, aveva i capelli rossi e un viso franco e gioviale che pareva scolpito nella selce. Il suo atteggiamento era, come quello della donna, di prudente e cauta riservatezza.

L’altro uomo era magro e disinvolto, molto umano nell’a­spetto. Non aveva nulla della fredda riservatezza dei suoi compagni. Era eccitato, e lo mostrava apertamente, osser­vando curiosamente la folla che gli stava davanti. Kenniston provò per lui una istintiva simpatia.

Vi fu uno strano silenzio. La donna e i due uomini si ar­restarono. Guardavano tutte quelle persone davanti a loro, e queste li fissavano con gli occhi sbarrati. Poi la donna dis­se qualcosa ai suoi compagni, in una lingua rapida, scono­sciuta.

L’uomo più giovane fece un cenno affermativo col capo, senza parlare, e l’uomo magro cominciò a parlare concitata­mente con loro.

Il sindaco Garris fece un passo avanti, esitante...

«Io...» cominciò, ma s’interruppe subito. Quell’unica parola si disperse portata dal vento e il sindaco non fu capace di trovarne altre. La donna bionda lo osservava col suo sguardo intelligente, lievemente divertita.

L’uomo magro fece un passo verso di loro. Poi, pronun­ciando le parole molto lentamente, disse: «Qui, Middletown!» E dopo un attimo ripeté: «Qui, Middletown!»

Kenniston era scosso da uno stupore enorme. Udiva anco­ra se stesso, con la voce stanca, estenuata, gridare quelle pa­role disperate, quelle due parole supplichevoli, in un silenzio nel quale nessuno udiva, nessuno rispondeva.

Ma quell’appello era stato udito! A quell’appello era stato risposto, da qualche parte. Da dove? Da un’altra stella? Da un altro mondo? Non da qualche posto della Terra, sicura­mente.

Quella grande nave spaziale veniva certamente da un lun­ghissimo viaggio.

Udì in quel momento il sindaco Garris che emetteva un grido di terrore. Un’ondata di raccapriccio, udibile nel respi­ro affannoso di ogni uomo presente, passò sulla folla che as­sisteva allo spettacolo. I pensieri confusi di Kenniston torna­rono di colpo alla realtà.

Il quarto dei sopraggiunti si era avvicinato e si era unito agli altri. E Kenniston stesso fu atterrito da ciò che vide.

Il quarto sopraggiunto non era un uomo! Era simile a un uomo questo sì... ma non era un uomo.

Era molto alto, con il corpo forte e massiccio, le braccia enormi che finivano in due mani simili a smisurate zampe. Era vestito della sua sola densa e ruvida pelliccia, completata da una specie di finimento. Aveva il capo schiacciato, il muso prominente come quello di un animale, le orecchie ritte, ton­de, circondate da ciuffi di peli. E i suoi occhi... La cosa più spaventosa erano i suoi occhi. Quei suoi occhi si incontraro­no con quelli di Kenniston. Erano occhi grandi, scuri, pieni di una vivida, penetrantissima intelligenza. Occhi cordiali, curiosi, sorridenti...

Il sindaco era arretrato di alcuni passi. Aveva il viso palli­dissimo.

«Ma... non è un uomo, quello!» urlò, con voce stridula.

L’essere peloso parve stupito di quell’accoglienza. Diede un’occhiata alla donna e agli altri due uomini, e tutti e quat­tro guardarono Garris, con la fronte corrugata, come se non riuscissero a capire la ragione del suo spavento.

Quell’essere strano mosse un passo o due verso Garris, con le grosse mani tese. Parlava con una voce lenta, romban­te, e sorrideva, mostrando una fila di denti grandi e forti, che scintillavano cupamente, come sciabole, nella pallida luce dell’alba.

Garris lanciò un altro urlo. Kenniston si accorse che il pa­nico si stava impadronendo dei presenti, vide gli agenti pun­tare le armi.

«Aspettate! Fermatevi!» gridò allora Kenniston, spin­gendo da parte il sindaco. «Per l’amor del Cielo! Aspettate! Siete pazzi!» Aveva affrontato gli agenti armati, mettendosi in modo da far scudo col suo corpo all’essere strano che era sopraggiunto. Sentiva egli stesso una invincibile repulsione per quella creatura che era a un tempo bestiale e umana. Ma quell’essere peloso lo aveva guardato, e gli aveva sorriso...

«Non sparate!» urlò ancora. «È un essere intelligente! È uno di loro!»

«Fatevi da parte, Kenniston!» urlò il sindaco, con voce acuta, tremante per il terrore. «Quel bruto è pericoloso, vi dico!»

Le armi puntate si erano improvvisamente dirette altrove. Kenniston, voltandosi di scatto, vide che i quattro soprag­giunti s’erano fatti un poco da parte. E, immediatamente, la scena svanì. La donna aveva levato una mano, in un rapido gesto. Dalla nave spaziale, laggiù nella pianura, partì un lam­po di luce bianca. Quella luce colpì inesorabile. Colpì coloro che si trovavano davanti alla porta. Colpì e disparve, in un attimo.

Anche Kenniston si trovava sul passaggio di quel lampo di luce. Sentì un improvviso stordimento in ogni nervo. La pe­na fisica non ebbe la durata che di una frazione di secondo, poi sopravvenne una specie di paralisi, come da una scarica elettrica. Vide Garris, Hubble e gli altri barcollare, coi visi pallidi e scossi. Le armi erano cadute dalle mani degli agenti ormai prive di forza.

Poi, l’essere peloso si avvicinò nuovamente a Kenniston. I suoi occhi scuri sorridevano sempre. Con la sua voce rom­bante emise alcuni suoni rassicuranti. Poi, con gesto esperto, massaggiò brevemente, con le sue grosse mani pelose, la nu­ca di Kenniston. La paralisi che aveva colpito Kenniston co­minciò allora a dileguarsi.

L’uomo dai capelli rossi aveva fatto alcuni passi avanti e aveva raccolto una delle armi cadute. Un sentimento di indi­cibile stupore trasparì subito dai suoi occhi, mentre la esami­nava. Disse qualcosa, con voce rapida, agli altri. Anch’essi esaminarono l’arma da ogni parte. Poi, stupefatti e increduli, guardarono Kenniston e i suoi compagni che stavano ora ri­mettendosi dalla temporanea paralisi che li aveva colpiti.

«Dispongono di un raggio della morte o di qualche cosa del genere!» urlò nuovamente Bertram Garris, con voce soffocata dallo spavento. «Possono ucciderci tutti!»

«Finitela!» proruppe infuriato Hubble. «State facen­do una figura da imbecille. Quell’arma che hanno usato era un semplice mezzo di difesa, niente affatto letale, e proprio voi li avete costretti a usarla contro di noi.»

La donna chiamò a sé, eccitata, l’essere peloso.

«Gorr Holl!» Era questo, evidentemente, il suo nome. E Gorr Holl raggiunse gli altri tre. Egli pure emise suoni di in­credula meraviglia, mentre esaminava l’arma che gli mostra­vano.

Kenniston si rivolse a Hubble, non curandosi più di Garris né degli attoniti agenti disarmati.

«Credo che abbiano cominciato a sospettare di dove ve­niamo.»

L’eccitazione dei quattro sconosciuti era ovvia. Fu la don­na, notò Kenniston, che si riebbe per prima dalla sorpresa. Essa parlò rapidamente all’uomo magro, quello che poco prima aveva ripetuto con voce gioiosa: “Qui Middletown, qui Middletown!”. Dal ripetuto uso del suo nome, Kenniston im­maginò che quell’uomo dovesse chiamarsi Piers Eglin. Ed era proprio Piers Eglin che appariva il più stupefatto di tutti e, strano a dirsi, il più lieto.

Piers Eglin, si avvicinò a Kenniston, quasi divorandolo coi suoi occhi miopi.

«Middletown» disse. E aggiunse, dopo un momento, in inglese: «Amici!»

Kenniston colse subito quell’occasione.

«Amici?» ripeté. «Ma allora, parlate inglese?»

Quella parola, inglese,mandò Piers Eglin in un visibilio di gioia e di eccitazione. Cominciò a parlare nuovamente con gli altri, ma la donna lo interruppe con un gesto di comando.

Egli si rivolse allora nuovamente a Kenniston.

«Lingua... inglese...» balbettò, ansimando. «Voi... par­late... lingua... inglese?»

Kenniston fece semplicemente un cenno affermativo col capo.

Una espressione di immensa meraviglia apparve negli oc­chi miopi di Piers Eglin.

«Chi... No!» Si interruppe e ricominciò di nuovo. «Di... dove... venite... voi?»

«Dal passato» rispose Kenniston, e sentì, in quel mo­mento, tutta l’assurda realtà di quanto diceva. «Da molto lontano, nel passato» aggiunse.

«Quanto... lontano?»

Kenniston capì che le date del ventesimo secolo non avrebbero significato nulla, per quella gente, dopo tante epo­che passate. Pensò un momento, poi disse: «Da molto lon­tano, nel passato. Nella nostra vita, la potenza atomica era stata appena scoperta.»

«Tanto? Tanto?» bisbigliò Piers Eglin, con voce tre­mante, sbalordita. «Ma... come? Come?»

Kenniston scosse le spalle, incapace di spiegarsi. Poi ag­giunse: «Vi è stata una esplosione atomica sulla nostra città. Ci siamo trovati, con tutta la nostra città, in questa epo­ca. Ecco tutto.»

Piers Eglin tradusse, febbrilmente, quelle parole agli altri. La donna mostrò subito un vivo interesse. Ma fu Gorr Holl, l’essere peloso, che fece il più lungo commento, con la sua voce sorda e rombante.

Piers Eglin si rivolse di scatto nuovamente a Kenniston, ma Kenniston interruppe le ansiose domande dell’altro con una domanda sua.

«E voi, di dove venite, voi?»

Piers Eglin indicò il cielo, ora illuminato dall’alba.

«Da...» ma si interruppe, evidentemente per cercare di ricordarsi il nome antico del pianeta. Poi aggiunse: «... da Vega.»

Fu la volta di Kenniston, a rimanere sbalordito.

«Ma voi siete esseri umani, terrestri!» obiettò. Poi, fa­cendo un cenno verso la pelosa figura di Gorr Holl, domandò ancora: «E quello, chi è?»

Nuovamente, Piers Eglin si sforzò di ricordarsi un nome antico. Poi disse: «Capella, Gorr Holl viene da Capella.»

Vi fu una pausa di silenzio, durante la quale i quattro nuo­vi venuti continuarono a guardare sorpresi gli uomini di Middletown. Nella mente di Kenniston, i pensieri turbinava­no caoticamente. L’unica cosa che gli appariva chiara era questa: gli apparecchi radiotelevisivi della città da essi occu­pata erano stati ben al di là di ogni sua possibile comprensio­ne. Quegli apparecchi erano destinati a comunicazioni inter­stellari. Il suo appello aveva percorso quelle distanze, e da quelle distanze era venuta la risposta... da Vega, da Capella, dalle stelle!

«Ma voi parlate la nostra vecchia lingua!» esclamò, in­credulo, rivolto a Eglin.

Confusamente, con voce balbettante, Eglin si spiegò.

«Io sono uno... storico. Sono specializzato nella civiltà preatomica della Terra. Ho imparato la lingua dai vecchi li­bri. È per questo che ho chiesto di partecipare a questa spedi­zione sulla Terra.»

La donna lo interruppe. Rabbrividiva un poco, e parla­va ora a voce bassa, rapida. Eglin si rivolse allora ai pre­senti.

«Questa è Varn Allan, la governatrice di questo... questo settore. Questi...» e accennò il giovane dai capelli rossi «è Norden Lund, viceamministratore.» Gli riusciva difficile ri­cordare le parole in inglese, e gli riusciva anche più difficile pronunciarle. Poi aggiunse: «Varn Allan vi chiede che noi... che noi parliamo entro la città, perché qui fa freddo.»

Kenniston aveva già immaginato che la donna fosse a ca­po del gruppo e avesse piena autorità su di esso. Non ne fu af­fatto sorpreso. La vibrante energia di quella donna era dav­vero notevole.

Il sindaco Garris, che era anche lui mezzo congelato, fu ben felice di aderire a quella richiesta. Si volse verso la gran­de porta, dietro la quale migliaia di persone si accalcavano per vedere, ed erano trattenute indietro con difficoltà. I loro visi apparivano come una massa biancastra, attraverso il ve­tro plastico della cupola.

«Fate largo! Fate largo!» ordinò Garris, col suo tono di voce più importante. Fece dei cenni agli agenti di polizia, tut­ti trafelati, che trattenevano la folla. «Fate largo! Aprite un passaggio, ora, stiamo per entrare!» Poi, alzando la voce per farsi udire dalle persone più lontane, aggiunse: «Fatevi indietro, per favore! Tutto va bene. I visitatori che attendeva­mo sono giunti, finalmente, e desiderano vedere la città, la nostra città. Lasciateli passare, lasciateli passare...»

La folla, con penosa riluttanza, aprì uno stretto passaggio, che fu subito allargato dagli sforzi degli agenti. Facendo da guida ai visitatori venuti dalle stelle, la dignità del sindaco era un po’ menomata dalla inquietudine che gli faceva fare un balzo in avanti ogni volta che la gigantesca figura di Gorr Holl gli si appressava, durante il percorso. Ma Garris riuscì, ciò nonostante, a conservare il suo tono gioviale di capo del suo popolo, gridando nel frattempo che ogni cosa andava be­ne, che non vi era nulla da temere, e pregando tutti di tenersi indietro e di fare a meno di spingere.

Varn Allan fu la prima a seguire Garris attraverso la gran­de porta. Esitò, è vero, ma appena un istante, trovandosi di fronte quella enorme folla urlante, e la folla da parte sua levò un applauso così forte da scuotere persino la cupola. Norden Lund sorrise e scosse il capo come se si trattasse di bambini capricciosi. Anche Varn Allan sorrise alla popolazione e pro­seguì il cammino, mentre la folla si muoveva tumultuando di gioia.

Kenniston li seguiva da presso, a fianco di Gorr Holl. La folla non lo aveva ancora visto, eccetto che come una vaga fi­gura al di là del vetro plastico ricurvo della cupola. Quando lo videro, tutti ammutolirono, per un attimo. Le donne, che avevano lottato per mettersi in prima fila, lottavano ora per farsi indietro, e lo stretto passaggio si allargò d’improvviso. Kenniston camminava accanto alla grossa mole di Gorr Holl, tenendogli una mano su una delle potenti spalle, per mostrare alla folla che non vi era affatto da aver paura. E la folla guardava, intimorita e sbalordita.

Piers Eglin era fuori di sé dall’eccitazione. La pelliccia di una donna lo mandò in visibilio. Era una pelliccia molto ordi­naria, ma Kenniston capì subito che doveva essere sicura­mente di un animale ormai estinto da milioni di anni. I tessu­ti, i cuoi, apparivano, agli occhi di Piers Eglin, come dei tesori inestimabili. Parlava incessantemente, febbrilmente, indi­cando questa o quella meraviglia ai suoi compagni, inter­rompendosi di tanto in tanto per tornare al suo inglese stenta­to e fare a Kenniston qualche domanda. Quando poi vide un’automobile, divenne addirittura frenetico.

L’automobile li interessava tutti, Varn Allan e Norden Lund si fermarono per esaminarla, e anche Gorr Holl, libe­randosi gentilmente da un codazzo di bambini che lo aveva­no circondato, raggiunse i compagni per poter esaminare il fenomeno. Il grosso essere peloso parve indovinare subito dove si nascondesse la forza motrice e fece segno a Kenni­ston che desiderava esaminarne l’interno. Kenniston ne sol­levò subito il cofano. Tutti e quattro i visitatori si chinarono immediatamente per esaminare il motore e tutta quella folla di abitanti scoppiò a ridere, quando vide quella specie di grosso animale addomesticato curvarsi anche lui come i suoi padroni a esaminare i congegni. I visitatori parlavano fra lo­ro, nella loro rapida lingua sconosciuta, e Norden Lund ac­cennava alle varie parti del motore con la medesima meravi­glia, un poco canzonatoria, che un uomo del ventesimo seco­lo avrebbe dimostrato per un carro tirato da buoi. Gorr Holl parlò allora a Piers Eglin, e questi si volse a Kenniston.

«Un motore così bello! Tanto primitivo!» bisbigliò, giungendo le mani. Poi aggiunse: «Vogliono che lo faccia­te... che lo facciate...» Non trovava le parole, ma Kenniston capì che cosa voleva dire. Trovò le chiavi della macchina infi­late nella serratura, e avviò il motore. Gorr Holl ne fu affasci­nato. I quattro visitatori continuarono per un po’ a parlare animatamente fra loro. Poi la benzina finì e il motore si spen­se. I visitatori si guardarono l’un l’altro, poi, a un cenno della donna, proseguirono il cammino.

Il sindaco Garris era in piena forma. Nel suo orgoglio e nel suo eccitamento, non aveva più paura nemmeno di Gorr Holl. Mostrava ai visitatori in che modo Nuova Middletown era stata resa abitabile, parlava, balbettando, del governo, delle scuole, dei tribunali e della distribuzione dei viveri. Piers Eglin cercava di tradurre qualche cosa, ma Kenniston dubitava che i visitatori capissero gran che. Un risentimento irragionevole cominciava a farsi strada in lui.

Poi, d’un tratto, i visitatori si fermarono e conferirono a lungo fra loro. Evidentemente avevano preso una decisione, poiché Piers Eglin si volse e disse: «Abbiamo visto abba­stanza, per questa volta. Più tardi...» e qui la sua voce tremò di eccitazione e i suoi occhi brillarono come quelli di un se­gugio «più tardi... visiteremo la vostra vecchia città, che ci avete detto esiste ancora. Ma ora Varn Allan dice che dobbia­mo ritornare alla nostra nave per riferire al Governo centrale ciò che abbiamo trovato.»

«Ascoltate!» esclamò Kenniston, ansioso. «Abbiamo bisogno di aiuto. Ci occorre la forza motrice, e il nostro com­bustibile è quasi finito.»

Hubble, che era sempre stato accanto ai visitatori per tutto il percorso, fece col capo un cenno affermativo, e ag­giunse: «Se potete mettere in azione alcuni dei generato­ri atomici che esistono qui...»

Piers Eglin si volse subito a consultare Varn Allan, che guardò Kenniston e Hubble e fece quindi un cenno di as­senso.

«Naturalmente, ha detto di sì» disse Piers Eglin. «Ha detto che dovrete trovarvi a vostro miglior agio, finché ri­marrete qui. L’equipaggio del Thanis vi sarà di aiuto. Lavore­ranno sotto la direzione di Gorr Holl, che è il nostro capotec­nico atomico.»

Il sindaco Garris rimase interdetto. Piers Eglin si schiarì la gola.

«Ve ne saranno altri, altri... nell’equipaggio. Vi sembre­ranno molto strani. Ma vi saranno amici. Farete meglio a rassicurare i vostri abitanti.»

I visitatori partirono, ritornando da dove erano venuti, attraverso la grande porta e attraverso la pianura polverosa. Mentre se ne andavano, il sindaco Garris diede l’annuncio alla folla. Vi sarebbe stata la forza motrice, più acqua, più luce, forse anche più calore. L’applauso frenetico e giubilan­te che seguì, riecheggiò a lungo sotto la cupola. Mentre la folla continuava ad applaudire, Hubble domandò a Kenniston: «Cosa intendeva, quando ha detto... “finché rimarre­te qui”?»

Kenniston scosse il capo. Non lo sapeva. Ma un gelido dubbio si faceva strada in lui, una specie di presentimento. Quell’impressione che sentiva non era basata su nulla che fosse stato detto o fatto, ma semplicemente sulla constata­zione dell’enorme abisso che separava la civiltà della vecchia Middletown da una civiltà che aveva invece percorso tanto cammino, fra le stelle e le costellazioni, ed era andata così lontano che la Terra appariva del tutto dimenticata.

Si domandava in che modo quelle due culture così incre­dibilmente diverse avrebbero potuto comprendersi. Rimase a lungo a rifletterci, mentre osservava la folla che si disperde­va, e perfino il pensiero che fra poco i grossi generatori ato­mici si sarebbero rimessi in moto non riuscì a liberarlo dalle preoccupazioni.

11

La rivelazione

L’equipaggio del Thanis arrivò a Nuova Middletown nel po­meriggio, e Kenniston, Carol insieme a tutti gli altri abitanti li videro insieme.

Erano una quarantina. Avevano un po’ l’atteggiamento abile ed efficiente dei marinai, che Kenniston aveva visto tante volte, ma i mari che questi solcavano erano le incalco­labili profondità dello spazio e avevano il viso abbronzato dai raggi di altri soli lontani. Venivano ora attraverso la pol­vere sollevata dal vento di questo mondo che li aveva gene­rati, e li aveva perduti, e vi erano fra loro anche quelli ai quali aveva accennato Piers Eglin... gli strani figli di altri pianeti.

Kenniston aveva cercato di spiegare a Carol l’aspetto di questi esseri. Carol infatti non aveva visto, al disopra della folla, che la testa di Gorr Holl e le sue orecchie pelose; ella aveva supposto, come gli altri, che si trattasse di una specie di animale domestico. Kenniston non era tuttavia molto si­curo di essersi fatto capire a sufficienza dalla ragazza.

«Ma se vengono da Vega» aveva detto Carol, rabbrivi­dendo e guardando il cielo profondo nel quale le stelle scintillavano anche in pieno giorno «se vengono da Vega, Ken, non possono essere come noi. Nessuna creatura umana po­trebbe più essere come noi, dopo tanta lontananza.»

Kenniston rimase colpito nel sentire i suoi stessi pensieri espressi dalla fanciulla, ma disse, in tono rassicurante: «Non possono aver mutato molto, immagino. E gli altri, gli... uma­noidi, potranno avere un aspetto molto strano, ma saranno comunque nostri amici.»

Si trattava proprio della medesima cosa che il sindaco Garris aveva annunciato alla popolazione.

«Qualunque sia l’aspetto dei nuovi venuti, debbono esse­re trattati col dovuto rispetto. Una buona prigione sarà desti­nata a chiunque li disturbi. Avete capito bene? Qualunque sia il loro aspetto, dovrete trattarli come se fossero uomini!»

Ma sentire è una cosa, e vedere è un’altra. E ora, le dita di Carol stringevano convulsamente la mano di Kenniston e il corpo di lei si stringeva spaventato a quello di lui. La folla, che si era radunata per assistere a quel secondo ingresso de­gli incredibili visitatori, rimase ora sbalordita, stupefatta, at­territa. Si udivano bisbigli sommessi, si vedevano persone appartarsi timorose.

Uno di quegli esseri era grosso e pesante, e procedeva on­deggiando sulle gambe massicce. La sua pelle, grigia e rugo­sa, ricadeva in grosse e pesanti pieghe. Il viso era largo e piat­to, senza espressione, con occhi piccoli e saggi, da vecchio, che guardavano con acuta comprensione la folla attonita e silenziosa al suo passaggio.

Altri due, invece, erano magri e scuri, e si muovevano co­me cospiratori, avvolti in mantelli neri. La loro testa sottile era senza peli e lo sguardo era intelligente ed espressivo. Kenniston si accorse di colpo, con un sussulto di raccapric­cio, che quei mantelli non erano altro che ali, che essi teneva­no strette attorno al corpo.

Ve n’era un altro, che aveva una grazia tutta particolare e sembrava che scivolasse, invece di camminare. Dava subito l’idea di forza e il suo portamento era sprezzante e orgoglio­so. Era molto bello, con una criniera di pelliccia, bianca co­me la neve, che gli partiva dalla fronte, e aveva una sottile espressione di crudeltà.

Questi quattro, e in più Gorr Holl che la folla aveva già vi­sto, erano simili a uomini, ma non erano uomini. Erano figli di altri mondi lontanissimi, e camminavano ora, con piena disinvoltura, sulla vecchia Terra.

«Ma sono orribili!» bisbigliò Carol, tirandosi indietro. «Sono perfino sacrileghi. Come puoi sopportare di stare vi­cino a questi esseri?»

Kenniston lottava egli stesso contro un sentimento di re­pulsione. Gli abitanti di Middletown guardavano a bocca aperta, bisbigliando turbati e arretrando, in parte per un sen­timento di timore nei confronti del soprannaturale, in parte per una pura avversione razziale. Era difficile ammettere che quegli esseri non umani esistessero, ma ancora più difficile era l’accettarli come eguali, come propri simili. Un animale era un animale e un uomo era un uomo, e non vi poteva esse­re alcuna via di mezzo...

Diversamente la pensavano i bambini di Middletown. Essi trascuravano del tutto gli uomini veri e propri che passavano abbronzati davanti a loro, e si affollavano invece attorno agli umanoidi. I bambini non avevano nessuno dei preconcetti dei loro genitori. Quelle erano per loro creature da fiaba di­venute realtà, e ciò li eccitava molto.

Piers Eglin si avvicinò a Kenniston.

«Hubble ha fatto aprire le sale dei generatori atomici» disse Kenniston. «Ci attende là. Vi condurrò io.»

Egli sospirò.

«Grazie!» disse. Aveva un’aria infelice. Kenniston sa­lutò in fretta Carol e si incamminò a fianco dello storico.

«C’è qualche cosa che non va?» gli domandò.

«Ho avuto ordini» spiegò Piers Eglin. «Debbo fare da interprete e debbo insegnare ad alcuni di voi la nostra lingua.» Scosse il capo deluso. «Ci vorranno molti gior­ni, e quella vostra vecchia città... Avrei già dovuto essere là da tempo, a visitarla, e invece...»

Kenniston sorrise.

«Cercherò di imparare presto» disse.

Si avviarono verso il punto in cui Hubble aspettava, e Ken­niston poteva sentire dietro di sé i passi inconsueti di quegli altri individui che non erano umani. Gli sembrava incredibi­le, dover lavorare a fianco di quegli esseri che gli davano un brivido ogni volta che passava loro vicino. Certamente non potevano comportarsi come uomini!

Entrarono nell’edificio, poi in una enorme sala piena di strutture torreggianti e polverose che racchiudevano i mec­canismi che né lui né Hubble erano riusciti a comprendere e a usare. Hubble si unì a loro, guardando incuriosito gli uma­noidi.

«Abbiamo supposto che questi fossero i generatori ato­mici principali» disse Kenniston. Parlava a Piers Eglin, in quanto questi doveva tradurre, ma guardava Gorr Holl e gli altri quattro che stavano ritti accanto a lui. «Se potete dav­vero ripararli e metterli in funzione, noi...»

Ma si interruppe. Quelle cinque paia di occhi, strani e so­prannaturali, lo osservavano; Kenniston vedeva i loro cinque corpi respirare e agitarsi. La cresta di pelliccia bianca sul cranio di quello dall’aria più orgogliosa si rizzò d’un tratto, in modo talmente animalesco che Kenniston capì quanto fosse impossibile tentare di considerarli esseri umani. Il dubbio, il disgusto, e anche un certo timore, gli si dipinsero sul viso. Piers Eglin aggrottò un poco la fronte.

Lavorando attorno ai polverosi generatori atomici, Gorr Holl si trasformò immediatamente da essere assurdo in un tecnico di alta abilità. Facendo funzionare certe leve nasco­ste, aprì il pannello di copertura di uno dei grossi meccani­smi, prima che Kenniston potesse capire come avesse fatto. Poi da una borsa appesa al finimento di cui era vestito, estrasse una lampada e, facendosi luce, ficcò la testa pelosa dentro il meccanismo. Lo si udiva borbottare fra sé qualche cosa, in tono di disapprovazione. Infine, Gorr Holl ritirò la testa dal meccanismo e parlò in modo disgustato. Eglin tra­dusse, nel suo inglese stentato.

«Dice che questo vecchio impianto è stato malamente progettato e si trova in cattive condizioni. Dice che vorrebbe avere tra le mani i tecnici che lo hanno costruito.»

Kenniston scoppiò in una risata. Quel grosso Gorr Holl as­somigliava in tutto a un autentico tecnico riparatore della Terra.

Mentre Gorr Holl esaminava gli altri generatori, Piers Eglin subissava Hubble e Kenniston di domande sul loro tempo lontano. Kenniston riuscì finalmente a fargli, a sua volta, una domanda che gli premeva molto ma che né lui né Hubble avevano ancora potuto fare.

«Ma perché la Terra è ora senza vita? Che è accaduto a tutti i suoi abitanti?»

«Molto tempo fa» disse Piers Eglin «gli abitanti della Terra sono emigrati in altri mondi. Ma non sugli altri pianeti del sistema solare: anche questi erano freddi e Venere era troppo coperta di acque e disponeva di troppo poca superfi­cie solida. Sono perciò andati nei mondi di altre stelle, al di là della Galassia.»

«Ma alcuni di loro saranno pur rimasti sulla Terra» obiettò Kenniston.

«Lo hanno fatto» rispose Eglin, scuotendo le spalle «finché la temperatura è divenuta così fredda che anche in queste città coperte da una cupola la vita è divenuta dif­ficile. Allora, anche gli ultimi uomini se ne andarono verso mondi che avevano soli più caldi.»

«Nella nostra epoca non eravamo nemmeno riusciti a raggiungere la Luna» disse Kenniston. Tutto quel racconto gli dava le vertigini. “Nei mondi di altre stelle, al di là della Galassia...” aveva detto Eglin.

Gorr Holl si riavvicinò infine a loro, e parlò a lungo. Eglin tradusse.

«Crede che sia possibile rimettere nuovamente in azione i generatori. Ma ci vorrà tempo, e avrà bisogno di materiale: rame, magnesio, anche platino.»

Kenniston e Hubble ascoltarono attentamente le spiega­zioni di Eglin. Poi Hubble fece un cenno affermativo col ca­po, e disse: «Potremo trovare tutte queste cose nella vecchia Middletown.»

«La vecchia città?» gridò Piers Eglin, improvvisamente entusiasta. «Verrò sicuramente con voi! Partiremo subito!»

Il piccolo e magro storico era pazzo di gioia, alla pro­spettiva di poter dare finalmente un’occhiata alla vecchia città. Continuò a insistere finché lui, Hubble e Kenniston non partirono in jeep attraverso la desolata pianura color ocra.

«Vedrò finalmente, proprio coi miei occhi, una città del­l’era preatomica!» diceva esultante.

Era una cosa piuttosto strana, arrivare alla vecchia Midd­letown così deserta e silenziosa, in mezzo a tutta quella deso­lazione. Le case erano ancora come le avevano lasciate, con le porte e le finestre sbarrate. Le strade erano invase da uno spesso strato di polvere. Gli alberi erano nudi e anche l’ulti­mo filo d’erba era ormai morto.

Kenniston vide che Hubble aveva gli occhi umidi e sentì che anche il suo cuore si contraeva in una terribile e ango­sciosa nostalgia. Si pentì di essere tornato là. Trovandosi nel­l’altra città, assorbito nello sforzo di sopravvivere, poteva al­meno dimenticare quale era stata la sua vita di prima.

Guidava la jeep attraverso quelle strade, silenziose e mor­te, e la memoria gli parlava di lontane estati... ragazze in vesti vivaci, alberi carichi di fiori, il gridìo dei passeri, le luci, i suo­ni delle voci umane nella sera sonnolenta...

Piers Eglin era ammutolito per la meraviglia. Era come perduto in un suo sogno di storico, che ora si avverava. Di­sceso dalla macchina, camminava per le strade e spiava nei negozi e nelle case.

«Dev’essere tutto conservato» bisbigliò. «È troppo prezioso, tutto questo. Farò costruire una cupola per difen­dere tutta la città dalle intemperie e dal tempo, e farò sigilla­re la cupola... Quante cose...! Le insegne, i manufatti, i bellis­simi pezzi di carta...!»

«C’è qualcuno qui» disse Hubble, d’improvviso.

Kenniston vide che, davanti a loro, vicino alla porta dei vecchi Laboratori, era ferma una specie di vettura molto pic­cola, a forma di proiettile.

Dall’edificio uscivano in quel momento Norden Lund e Varn Allan.

La donna parlò a Eglin, e questi tradusse: «Stavano rac­cogliendo dati per la loro relazione al Governo centrale.»

Kenniston scorse un’espressione di disgusto nel viso in­telligente della giovane donna, mentre i suoi occhi azzurri osservavano il panorama dei vecchi stabilimenti, le cimi­niere scure annerite dal fumo, le ringhiere arrugginite, le piccole e modeste case allineate sulle strade anguste. Ne provò un acuto risentimento, e disse, quasi in tono di sfi­da: «Domandatele che ne pensa della nostra piccola città.»

Eglin fece la domanda e Varn Allan rispose con parole incisive. Il piccolo storico apparve imbarazzato, quando Kenniston gli domandò di tradurre la risposta. Egli esitò. Infine disse: «Varn Allan dice che è incredibile che esseri umani abbiano potuto vivere in un posto così misero e sor­dido.»

Lund scoppiò a ridere. Kenniston arrossì violentemente, e per un attimo detestò quella donna. La detestò per quella sua fredda, imperiosa superiorità. Guardava la vecchia Middletown come avrebbe potuto guardare uno sporco antro di scimmie.

Hubble vide ciò che passava nell’animo di Kenniston, e gli mise una mano sul braccio.

«Vieni, Ken. Abbiamo del lavoro da fare.»

Kenniston seguì il suo superiore nei Laboratori, mentre Piers Eglin li accompagnava.

«Ma perché hanno messo quella bionda altezzosa a capo della loro spedizione?» domandò Kenniston.

«Probabilmente perché era competente a farlo» rispo­se Hubble. «Non mi vorrai far credere che sei tormentato da un atavico orgoglio mascolino?»

Piers Eglin aveva capito ciò che dicevano, perché si mise a ridere.

«Non è un sentimento così atavico come credete. Anche a Norden Lund non piace affatto essere agli ordini di una ra­gazza.»

Quando uscirono dall’edificio coi materiali che occorreva­no a Gorr Holl, Varn Allan e Norden Lund se n’erano già an­dati.

Al loro ritorno, trovarono che Gorr Holl e i suoi compagni si erano già messi al lavoro e stavano smontando i generato­ri. Lanciando ordini a destra e a sinistra, attaccando ogni ge­neratore come se fosse un suo personale nemico, Gorr Holl riusciva a ottenere miracoli da quegli strani tecnici che lo ac­compagnavano.

Kenniston, nei giorni che seguirono, dimenticò ogni im­pressione di stranezza e di imbarazzo, nell’intenso interesse tecnico del lavoro. Lavorava come poteva; mangiava e dor­miva con quei suoi strani colleghi e cominciò ad apprendere la loro lingua con sorprendente rapidità. Piers Eglin lo aiuta­va con molta sollecitudine e, dopo che Kenniston ebbe sco­perto le analogie tra la loro lingua e l’inglese, le cose andaro­no assai più speditamente.

Si accorse, un giorno, che lavorava con gli umanoidi nel modo più naturale del mondo, come se lo avesse sempre fat­to. Non gli sembrava più tanto strano, ora, che Magro, quel­l’essere elegante con la criniera bianca, fosse un esperto di elettronica il cui rapido e preciso lavoro lasciava Kenniston a bocca aperta.

I due fratelli alati, Ban e Bal, erano veri maestri nel lavoro di riparazione. Kenniston invidiava la loro abilità nel rimet­tere a nuovo le parti logorate, la facilità con la quale i loro agili corpi si levavano in volo, come pipistrelli, per raggiun­gere i punti più alti degli apparecchi atomici, dove agli uomi­ni normali non era possibile giungere.

Lal’lor, il vecchio grigio dal corpo massiccio, che parlava poco ma vedeva molto coi suoi occhi piccoli e saggi, possede­va un genio matematico stupefacente. Kenniston se ne accorse, quando Lallor si recò con lui, Hubble e Piers Eglin, a dare un’occhiata al grande pozzo calorifico.

Lo storico disse che il pozzo scendeva probabilmente fino alle più lontane profondità della Terra.

«È stata una grande opera. Sia questa, sia gli altri pozzi costruiti nelle città protette da cupole hanno conservato la Terra abitabile per molte epoche, più di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. Ma ormai non si può più ricavare calore dalle profondità della Terra.» Così dicendo sospirò. «Que­sto è il destino di tutti i pianeti, presto o tardi. Anche quando i loro soli si sono affievoliti, possono vivere fintanto che il ca­lore interno li mantiene caldi. Ma quando quel calore interno muore, il pianeta deve essere abbandonato.»

Lal’lor parlò allora, con la sua voce profonda e gutturale.

«Ma Jon Arnol, come sapete, afferma che un pianeta morto e freddo può essere fatto rivivere. E le sue equazioni sono inattaccabili.»

E il grosso e grigio umanoide ripeté di punto in bianco tut­ta una serie vertiginosa di equazioni, alla quale Kenniston non poté nemmeno tener dietro.

Piers Eglin, per qualche ragione speciale, parve strana­mente imbarazzato. Evitando gli occhi di Lal’lor, disse allora in fretta: «Jon Arnol è un entusiasta, un teorico fanatico. Sapete bene ciò che è accaduto, quando ha voluto tentare un esperimento.»

Non appena Kenniston poté farsi comprendere nella nuo­va lingua, Piers Eglin considerò finito il suo compito e partì per la vecchia Middletown, a rabbrividire e congelare alle­gramente fra i tesori arcaici che ivi abbondavano in ogni strada. Lasciato solo con gli umanoidi interplanetari, Kenni­ston si accorse che dimenticava sempre più ogni diversità di epoca e di cultura nonché di razza, mentre lavorava con loro a ricondurre la vita nelle arterie energetiche della città.

Rimisero così in pieno funzionamento il sistema di rifor­nimento idrico di Nuova Middletown, e il lusso di poter apri­re quegli strani rubinetti e vederne sgorgare l’acqua in quan­tità illimitata era una cosa veramente stupenda. Molti dei grandi generatori atomici ripresero finalmente a funzionare, compreso un gigantesco sistema di riscaldamento ausiliario che fece aumentare di parecchi gradi la temperatura dell’aria sotto la cupola. Ma Gorr Holl e Magro lavoravano sodo per realizzare il miracolo definitivo.

Giunse così una sera in cui Gorr Holl chiamò Kenniston in una delle sale dei generatori più grandi. Magro e altri tec­nici della nave spaziale erano pure riuniti là dentro, sporchi di polvere e di grasso, ma sorridenti per aver finalmente compiuto un difficile lavoro. Gorr Holl mostrò a Kenniston una finestra.

«Affacciati a quella finestra» gli disse «e sta’ a guar­dare.»

Kenniston guardò fuori, sulla città in penombra. Non vi era Luna e le grandi torri dei palazzi erano ormai avviluppa­te nell’oscurità, mentre le gole profonde delle strade erano qua e là illuminate dal debole chiarore di qualche candela e dalle poche lampadine elettriche che splendevano attorno al Municipio.

Gorr Holl attraversò la sala, e si avvicinò a un enorme qua­dro di comandi che occupava fino a metà altezza la parete. Si udì uno scatto, mentre un commutatore veniva chiuso, e d’improvviso su tutta quella vasta città immersa nel buio del­la notte, dilagò una luce brillantissima.

Le torri degli edifici si accesero di un bagliore accecante. Le strade divennero fiumi di luce radiante, morbida e chia­ra, e al disopra di tutto ciò apparve un nuovo cielo nottur­no... Era la meravigliosa luminescenza della cupola che, co­me una grande bolla, decorata a raggi lunari e a nubi varia­mente colorate, incoronava le torri scintillanti degli edifici, in una apoteosi di luce. Era una cosa talmente strana e tal­mente bella, dopo quel lungo periodo di oscurità e di ombre, che Kenniston rimase a lungo immobile a guardare quel mi­racolo di luce; si accorse solo più tardi di avere le lacrime agli occhi.

La città dormiente si svegliò. Gli abitanti si riversarono nelle strade brillantemente illuminate, e il suono delle loro voci si levò altissimo, fino a divenire un lungo grido di gioia. Kenniston si volse a Gorr Holl, a Magro e agli altri. Voleva dir loro qualche cosa, ma non poteva trovare le parole. Infine scoppiò a ridere, felice, ed essi risero con lui, e uscirono poi tutti insieme nelle strade illuminate.

Incontrarono quasi subito il sindaco Garris che veniva di corsa dal Municipio. Erano con lui Hubble e quasi tutti gli appartenenti ai vecchi Laboratori, nonché una vera folla di abitanti. Senza tanti preamboli Gorr Holl, Magro e gli altri membri dell’equipaggio della nave spaziale si trovarono issa­ti sulle spalle degli abitanti più entusiasti e portati in proces­sione trionfale attorno alla piazza, mentre le urla e gli applausi divenivano assordanti. Più ancora dell’acqua, più an­cora del calore, la folla apprezzava quell’immenso dono della luce. E da quella notte accettarono e accolsero tutti gli uma­noidi come fratelli.

Più tardi, una festosa riunione ebbe luogo in Municipio. Vi erano Gorr Holl e Magro, Kenniston, Hubble e il sindaco. Bertram Garris prese la grossa mano di Gorr Holl e, sorri­dendo anche a Magro, cercò di esprimere i suoi ringrazia­menti per tutto ciò che essi e gli altri avevano fatto. Gorr Holl ascoltava, sorridendo.

«Cosa dice?» domandò a Kenniston che fungeva ora da’ interprete.

Kenniston scoppiò in una risata.

«Vuol sapere che cosa deve fare per mostrarti la sua gra­titudine: come per esempio regalarti la città, darti sua figlia in moglie, oppure qualche pinta del suo sangue. Ma, parlan­do seriamente, Gorr, ti siamo tutti molto grati. Col vostro la­voro avete fatto nuovamente rivivere la città, e... be’, vi è qualche cosa che possiamo fare per dimostrarvi la nostra gratitudine?»

Gorr Holl pensò un poco. Guardò Magro e questi fece col capo un solenne cenno di approvazione. Allora, Gorr Holl disse: «Ebbene, essendo primitivi come noi siamo, ci fareb­be piacere un buon brindisi!»

Hubble, che aveva frattanto imparato qualche cosa della lingua, diede in una risata. Kenniston tradusse al sindaco le parole di Gorr Holl e il sindaco, rinunciando immediatamen­te a ogni restrizione, corse a prendere alcune bottiglie dal mobile che era stato adibito a credenza. Fu una lieta celebra­zione, e Kenniston sentì veramente la mancanza di Bal e Ban e del grigio Lal’lor, che erano ritornati alla nave spaziale il giorno prima.

Con una infelice ispirazione, Kenniston disse, allora: «Ri­tengo che partirete presto tutti, ora che il lavoro è finito.»

Magro scosse le spalle.

«Questo dipenderà da molte cose» replicò, guardando ironicamente Gorr Holl.

Gorr Holl era ormai un poco ubriaco; non molto, ma quel tanto da farlo stare allegro e farlo parlare ad alta voce. Anche il sindaco si sentiva a suo agio e batteva amichevolmente una mano sulla grossa spalla pelosa di Gorr Holl.

«Desidero farvi capire» diceva sinceramente Garris «quanto io sia spiacente per quella stupida accoglienza che vi ho fatto all’inizio. Siamo tutti spiacenti, per quella stupida accoglienza, pensando a quanto bene ci avete fatto.»

«Be’, non abbiamo fatto gran che» rispose Gorr Holl quando Kenniston gli ebbe tradotto le parole del sindaco. «Ma la luce e tutto il resto serviranno a farvi stare più a vostro agio, mentre attendete.»

Kenniston lo guardò stupito.

«Che vuoi dire... mentre attendete?»

«Ma... mentre attendete di essere evacuati, naturalmen­te» disse Gorr.

Vi fu un improvviso silenzio. Kenniston si sentì d’un tratto i nervi stranamente tesi. Sapeva che quella era la rivelazione che egli aspettava da tempo, una rivelazione per nulla piace­vole che egli temeva da tempo.

«Gorr» disse lentamente, cautamente «non riusciamo a capire ciò che hai detto. Che cosa è questa storia dell’eva­cuazione?»

Il grosso Gorr Holl lo guardò fisso, con una viva sorpresa nei grandi occhi scuri e nel viso da orso. Ma, d’un tratto, par­ve a Kenniston di capire che quella sorpresa non fosse del tutto sincera e che Gorr Holl avesse voluto rivelare quella no­tizia per osservare la loro reazione.

«Ma non vi ha detto nulla, Piers Eglin?» chiese Gorr Holl. «Già, non credo. Credo che abbia avuto istruzioni di non dirvi nulla. Hanno creduto che voi foste esseri troppo emotivi, come Magro e me, e che meno penserete a questo, meglio sarà per voi.»

Kenniston ripeté, lentamente, con voce ferma: «Che cosa intendi per evacuazione?»

Gorr Holl lo guardava ora fisso negli occhi, lealmente.

«Voglio dire semplicemente questo: che, per ordine dei Governatori, tutti voi sarete evacuati dalla Terra, per essere trasportati su di un altro pianeta.»

12

Crisi

I tre uomini della Terra guardarono il grosso Gorr Holl, e per una lunga, lunghissima pausa, nessuno parlò. Gorr Holl pa­reva assorto nella contemplazione del bicchiere che teneva in mano. Magro li guardava coi suoi brillanti occhi felini.

La splendida luce proveniente dall’esterno inondava tutto l’ambiente, e quei tre uomini sembravano diventati di pietra.

Bertram Garris ritrovò alla fine la parola. Ma fu solo per ripetere le stesse parole di Gorr Holl, come Kenniston le ave­va tradotte.

«Evacuazione?» disse poi. E ripeté: «Evacuazione?»

«Sopra un pianeta di un’altra stella» aggiunse Kenni­ston, lentamente. Aveva le labbra strette. Si piegò su Gorr Holl e gridò: «Ma di che cosa credono che siamo fatti?»

Gorr Holl si guardò attorno, guardò i loro visi, poi disse, imbronciato: «Ho paura di avere parlato troppo.» Ma quel suo broncio non appariva più convincente della sua sorpresa di poco prima.

Il sindaco Garris aveva cominciato a tremare. Un’ira fu­riosa si stava scatenando in lui, una furia sincera, che non aveva nulla a che fare coi suoi soliti atteggiamenti studiati. Guardò Magro e Gorr Holl con occhi accesi.

«Lo sapevano già sin da principio, quella donna e tutti gli altri» esclamò. «Sono venuti qui, fingendo di essere nostri amici, e nel frattempo, dietro le nostre spalle...» Si interruppe. La furia e il terrore lo soffocavano, soprattutto perché venivano subito dopo la gioia di poco prima. La sua voce si elevò ancor più di tono. «Dite loro, Kenniston, dite loro da parte mia... che, se credono che ce ne andiamo di punto in bianco dalla Terra verso qualche... qualche...» Si interruppe nuovamente incapace di spiegare ciò che voleva dire «... verso qualche altro dannato posto del cielo... ebbe­ne, si sbagliano o sono pazzi!»

Hubble si rivolse a Kenniston.

«Domanda loro se è una cosa che fanno normalmente, questi Governatori. Voglio dire, questo cacciare le popolazio­ni da un mondo all’altro.»

Gorr Holl confermò la cosa.

«Oh, sì! Ogni volta che la vita, su qualche pianeta, diven­ta economicamente impossibile, o il margine di sopravviven­za è troppo piccolo, i Governatori decidono l’evacuazione della popolazione verso un mondo migliore. Di questi mondi ve n’è una quantità enorme. Sono buoni pianeti, caldi, fertili, disabitati o quasi. Così hanno fatto col mio stesso popolo, che hanno trasferito da Capella Cinque ad Aldebaran.»

«E anche il mio popolo» disse Magro. «Questo è avve­nuto molto tempo fa. I nostri vecchi hanno detto proprio le stesse parole che dice ora il vostro sindaco. Ma sono stati tra­sferiti egualmente.»

Kenniston si mise a gridare, infuriato.

«E i vostri popoli si sono lasciati fare una cosa simile? Non hanno nemmeno resistito?»

«I popoli...» disse Gorr Holl. «Gli esseri umani, i terre­stri, hanno milioni di anni di civiltà dietro di loro. Sono abi­tuati a governi pacifici, sono abituati all’obbedienza, e hanno continuato a muoversi da un mondo all’altro, sin da quando lasciarono la Terra molte epoche fa. Perciò il fatto di essere mandati su un pianeta o su un altro non ha nessun significa­to per loro. Ma gli esseri umanoidi primitivi, civilizzati solo in epoche più recenti, come me e Magro, non sono così ragio­nevoli. Questa questione dell’evacuazione ha sollevato molto risentimento, fra di loro. Infatti, se lo debbo dire... la detesta­no... proprio come la detestate voi.»

«Ebbene» proruppe Hubble d’un tratto. «Dove anda­te, ora?»

Si rivolgeva al sindaco, il quale stava in quel momento camminando a grandi passi verso la porta. Hubble afferrò di peso Garris, trattenendolo per gli abiti. Il sindaco cercava di liberarsi.

«Voglio dirlo a tutti» gridò, accennando violentemente col capo alle urla di gioia che continuavano a provenire dalla piazza. «Evacuarci dalla Terra! Quelli là fuori avranno sicu­ramente qualche cosa da dire su una proposta simile!»

«Che volete fare?» ribatté irato Hubble. «Volete far nascere un pandemonio? Non fate lo sciocco! Questo non è il modo di trattare una questione simile. No! È a quella bionda di ghiaccio che dobbiamo parlare, e a quel suo compagno, Lund.» Scosse Garris per le spalle. «Piantatela, vi dico! Le cose peggioreranno ancora, se vi mettete a fare il galletto.»

Garris non insistette. Guardò Hubble e Kenniston.

«Benissimo!» disse. «Parleremo con loro. Ma è bene che si mettano in testa che non hanno a che fare con un greg­ge di pecore addomesticate.» Si avvicinò agli altri, sempre infuriato. «Ordinarci di evacuare il nostro mondo... Man­date via questi due imbroglioni, Kenniston! Avevo ragione sin da principio. Non bisogna fidarsi di loro, sono...»

«Oh, finitela!» proruppe Kenniston, impaziente. «Non sono Gorr e Magro che hanno fatto la legge. Ci hanno fatto an­zi un piacere dandoci un’informazione che non avremmo avuto altrimenti se non troppo tardi.»

Sapeva che ci doveva essere qualche altro motivo ad ave­re indotto quei due a parlare, ma era ancora troppo scon­volto per riuscire a individuarlo. Si volse perciò a Gorr Holl e a Magro.

«Ascoltate!» disse. «Avete visto come ha reagito il sin­daco alle vostre informazioni. Ebbene, vi posso assicurare che tutti i nostri abitanti reagiranno nel medesimo modo, e molto più violentemente, anche. Dite questo, dunque, a Varn Allan, e ditele anche che farà meglio a venire da noi per par­lare di questa evacuazione, prima di andare troppo in là con le sue decisioni. Ditele che non ci piace affatto che si decida­no le cose alle nostre spalle, senza interpellarci. Ditele...» Si interruppe, sorpreso egli stesso della sua furia. «No, è me­glio che non diciate nulla di tutto questo» aggiunse.

Gorr Holl sorrise.

«Quale primitivo come te, comprendo perfettamente ciò che vuoi dire» disse.

«Molto bene! E tanto tu, Gorr, quanto Magro e gli altri, farete bene a rimanere fuori della città. Quando si verrà a sa­pere una cosa simile, non me la sentirei di garantire la sicu­rezza di nessuno.»

«Oh» fece Gorr Holl, sorridendo «saremo più che si­curi, rinchiusi nella nave spaziale. Io, poi, ho agito come non avrei dovuto. Ho parlato di una faccenda che, per politica, dovevamo tacere.»

Kenniston e i due umanoidi si guardarono, con piena comprensione. Kènniston pose una mano sulla spalla pelosa di Gorr Holl e ne strinse, amichevolmente, i muscoli saldi co­me il ferro.

«Un’altra cosa ancora, Kenniston» disse Magro. «Se vi saranno guai, e mi pare davvero di sentirne l’odore nell’a­ria, diffida di Lund. Varn Allan si sente forse un po’ troppo si­cura di sé ma è leale e onesta. Lund, invece... ebbene, Lund vorrebbe il posto di Varn e taglierà la gola a chiunque pur di averlo...»

«È proprio così» confermò Gorr Holl. «Ricordatelo, Kenniston.»

«Lo ricorderò. E... grazie.»

Se ne andarono, per recare il loro messaggio di sfida alla nave spaziale. E Kenniston li guardò, mentre se ne andava­no, e il sindaco pure li guardò, mentre si udivano gli applausi della folla, che li accompagnarono fino alla porta della città.

«Mi spiace di averli chiamati imbroglioni» si ramma­ricò d’un tratto il sindaco. «Per tutti i diavoli! Sono certo più umani loro di tutta quella gente che si trova nella nave spaziale!»

Hubble fece un cenno affermativo.

«Il loro livello di cultura è più vicino al nostro. I nostri si­mili ci hanno invece troppo sorpassati. Tutto il loro modo di pensare è diverso dal nostro. Noi... insomma, siamo estranei alla nostra stessa razza.»

A Kenniston, gli applausi e la felicità degli abitanti di Middletown risuonavano ora come un’amara ironia. Se aves­sero saputo ciò che si progettava per loro...

Si volse a Hubble, accennandogli il sindaco.

«Vuoi tenerlo d’occhio tu per impedirgli di fare scioc­chezze, e specialmente stai attento che non dica nulla a nes­suno! Ascolterà te più di qualsiasi altro.»

«Sta bene, Kenniston» disse Hubble. «Ora va’ a ripo­sare un poco. Hai lavorato molto, in questi ultimi giorni, e... tanto Varn quanto Lund non saranno qui prima dell’alba.»

Kenniston tentò di riposare, ma il suo sonno fu breve e agitato. Nonostante la stanchezza, le parole di Gorr Holl gli risuonarono in testa come campane per tutto il resto della notte: evacuare... evacuare... verso il mondo di un’altra stel­la... E il pensiero di tutti gli abitanti di Middletown che cre­devano i loro guai felicemente conclusi... il pensiero di Carol, particolarmente di Carol... e soprattutto il pensiero di Varn Allan, che cominciava a odiare... lo tormentavano. Aveva paura.

Non ci voleva molto a capire ciò che la ristrettezza mentale del sindaco non aveva capito... Una vasta e potente macchina di governo della quale la grossa nave spaziale e i suoi occupan­ti non erano che un simbolo. Non sembrava possibile che un pugno di uomini su un pianeta morente potesse lottare con successo o per lungo tempo contro un governo simile.

Hubble lo risvegliò, alla fine, da quel sonno tormentato, per dirgli che Varn Allan e Lund erano giunti, e che il sindaco aveva riunito il consiglio municipale.

«Abbiamo bisogno di te come interprete, Ken» disse. «Tu parli meglio di chiunque altro la loro lingua, e questa è una questione troppo importante per correre il rischio di malintesi.»

Nessuno di loro parlò durante il percorso verso l’alto edificio che era divenuto sede del Municipio. Kenniston poté ac­corgersi che anche Hubble era, come lui, inquieto e preoccu­pato.

Una grossa folla si era raccolta sulla piazza, una folla feli­ce, venuta ad applaudire i buoni amici che li avevano aiuta­ti. Nel Municipio, il consiglio di Middletown sedeva attorno a un massiccio tavolo di metallo. C’erano il sindaco Garris, Borchard, il commerciante di carbone, Moretti, il commer­ciante di alimentari e un’altra mezza dozzina di persone. Al­l’altra estremità del tavolo sedevano la donna e l’uomo di Vega, che erano gli amministratori di un vasto settore di spazio, con tutti i suoi mondi e i suoi popoli.

Il sindaco Garris si attaccò a Kenniston sin dal momento che questi entrò. Dal viso si capiva che aveva dormito anche peggio di Kenniston, e il suo umore non era affatto mutato, dalla sera prima.

«Domandatele, Kenniston» esordì «domandatele se questa storia della evacuazione è vera.»

Kenniston fece la domanda.

Varn Allan fece un cenno affermativo: «Verissima. Mi spiace che Gorr Holl abbia parlato tanto prematuramente... sembra che ciò vi abbia messi in subbuglio.» Diede un’oc­chiata ai visi cupi dei membri del consiglio e al viso teso del sindaco. Kenniston si accorse, in quel momento, che la don­na doveva essersi già trovata in circostanze simili con altre popolazioni, e che affrontava perciò il problema con una specie di stanca pazienza.

«Sono sicura» disse «che col tempo capirete che cer­chiamo di servire unicamente i vostri migliori interessi.»

«I nostri migliori interessi?» gridò Garris, quando ebbe udito la traduzione. «Allora perché non ce lo avete detto sin da principio? Perché avete progettato tutto ciò alle nostre spalle?»

«Ve lo avevo detto che sarebbe stato meglio...» co­minciò Norden Lund, con un risolino ironico, rivolto alla donna.

«Discuteremo ciò più tardi!» lo interruppe seccamente quest’ultima. Kenniston poté vedere lo sforzo che ella faceva per dominare l’ira, mentre si rivolgeva direttamente a lui.

«Volevamo attendere finché si sarebbe potuto presentar­vi un piano completo di evacuazione, in modo da non turba­re troppo la vostra gente.»

«In altre parole» sbottò Kenniston, con ira «credevate di trattare con un mucchio di selvaggi nei confronti dei quali era necessario nascondere la verità?»

«Non vi comportate voi stesso proprio nel modo primiti­vo di cui parlate?» domandò Varn Allan. Ancora una volta lei si sforzò di reprimere la propria irritazione. Poi parlò di nuovo con calma, come se cercasse di spiegare la cosa a un bambino. «Una nave spaziale di esperti in evacuazione, è attualmente in viaggio verso la Terra, e dovrebbe presto arri­vare. Potranno accertare i bisogni del vostro popolo e trovare un mondo che sia adatto alle sue esigenze fisiche e psicologi­che. Cureremo che sia un mondo il più possibile somigliante alla vostra Terra di una volta.»

«Siete molto gentile davvero» disse Kenniston, ironico.

Gli occhi azzurri della donna lampeggiavano ora con aperta ostilità. Kenniston distolse gli occhi da lei perché Garris chiedeva la traduzione. Kenniston tradusse senza atte­nuare le espressioni dure della donna.

Nella sua indignazione, Garris dimenticò completamente l’oratoria. Gridava, addirittura.

«Se credono che noi ci muoveremo dalla Terra per an­darcene in qualche altro pazzo mondo del cielo, si sbagliano di grosso! Spiegatelo loro bene, questo!»

Varn Allan apparve sinceramente sbalordita, quando Ken­niston le tradusse le parole del sindaco.

«Ma non posso credere che vogliate rimanere esposti al freddo e ai pericoli di questo mondo morente!»

Kenniston notò che la rabbia e un’istintiva paura si face­vano sempre più evidenti sul viso pallidissimo del sindaco. Del resto le sue reazioni erano identiche.

«Non riesce a crederlo?» proruppe Garris, parlando pe­nosamente, con la gola attanagliata dall’emozione. «Non riesce a crederlo? Ascoltate ciò che dice! Abbiamo lasciato la nostra epoca. Abbiamo dovuto abbandonare la nostra città, le nostre case. Questo è abbastanza! È tutto ciò che possiamo sopportare, in una vita sola! Lasciare la Terra? Abbandonare il nostro mondo? No!»

Non parlava più con accenti oratori, adesso. Era come un uomo a cui fosse stato richiesto di morire.

Kenniston parlò a Varn Allan. Anche la sua voce era turba­ta, ora.

«Cercate di capire. Siamo nati sulla Terra. Tutta la nostra vita, tutte le generazioni prima di noi, sin dall’inizio...»

Non riusciva a mettere in parole quell’appassionato atto di fede nella Terra.

La Terra che Egli ha dato ai figli degli uomini...

La Terra, il suolo, i venti e le piogge, il sorgere e il morire delle generazioni, gli animali, gli alberi, l’uomo. Non si pote­va dimenticare tutto ciò. Non si poteva rinnegare l’eredità di un mondo come se non fosse mai esistito.

Norden Lund si mise a parlare con Varn Allan, guardando con disprezzo gli uomini di Middletown.

«Vi avevo avvertita, Varn, che questi primitivi sono trop­po emotivi per subire i metodi ordinari.»

La donna, con un’aria di turbamento negli occhi azzurri, non fece attenzione a Lund, e si rivolse a Kenniston.

«Dovete mostrare loro i fatti quali sono. La vita qui è im­possibile, e perciò debbono andarsene.»

«Lo dica lei alla popolazione, questo!» disse il sindaco con voce soffocata. «No! Lo dirò io stesso!»

Si alzò e lasciò la sala del consiglio.

Nella sua piccola, grassoccia figura, vi era ora una incon­sueta, curiosa dignità. Borchard, Moretti e gli altri lo segui­rono. Anch’essi mostravano un istintivo timore, una istintiva avversione per ciò che era stato loro proposto. Uscirono sui gradini, e Kenniston e Hubble, insieme ai due venuti dalle stelle, li seguirono.

Fuori, sulla piazza, erano ancora ammassati migliaia di abitanti: operai, massaie, banchieri e contabili, vecchie e bambini. Erano ancora felici, e applaudirono con grida gio­iose che echeggiarono fra gli edifici.

Il sindaco Garris afferrò il microfono dell’altoparlante.

«Ascoltate tutti!» disse. «Ascoltate attentamente! Questi due ci dicono ora che dobbiamo lasciare la Terra. Di­cono che ci daranno un mondo migliore, in qualche posto, lassù, fra le stelle. Che dobbiamo fare? Volete andarvene...? Volete andarvene dalla Terra?»

Vi fu un lungo silenzio, durante il quale Kenniston vide i visi degli abitanti sbalorditi, increduli. Guardò il profilo ta­gliente di Varn Allan e si accorse che era segnato dalla stan­chezza. Capì ancora più, in quel momento, che due epoche, due modi assolutamente diversi di pensare e di vivere, stava­no fronteggiandosi, e trovavano assai difficile una reciproca comprensione.

Quando infine la folla degli abitanti afferrò appieno il significato della cosa, la risposta giunse in un crescente coro di esclamazioni.

«Andarcene dalla Terra? Andare ad abitare in qualche posto del cielo? Ma quei due sono matti!»

«È già molto penoso lasciare Middletown per questo po­sto! Ma lasciare addirittura la Terra?»

Un uomo rozzo, dalle grosse mani callose, in cui Kenni­ston riconobbe Lauber, un camionista di McLain, salì i gradi­ni e parlò al sindaco.

«Che significa tutto questo, in ogni modo? Stiamo benis­simo qui, ora. Perché dovremmo andarcene sulla Luna, o su qualche altro posto?»

Il sindaco si volse ai due venuti dalle stelle. «Vedete? La mia popolazione non vuole nemmeno ascol­tare la vostra proposta!»

La donna apparve sbalordita.

«Ma nessuno sfida così i Governatori! Essi sono il corpo esecutivo di tutta la Federazione delle Stelle.»

La Federazione delle Stelle! V’era in questo nome un ac­cento di lontana minaccia. Kenniston capì ancora una volta l’incomprensibile, vertiginosa vastità di quella civiltà dei cie­li, di cui quella donna e quell’uomo erano i rappresentanti. Esasperato, disse: «Ma non riuscite a capire che, per questa gente, le stelle non sono che punti di luce nel cielo? Non riu­scite a capire che soli e mondi e Governatori non hanno per loro alcun significato?»

Norden Lund colse quel momento per intervenire. Con vo­ce suadente, disse a Varn Allan: «Non credete che, davanti a un ostacolo di questo genere, dovremmo consultare il Gover­no Centrale?»

Ella gli rivolse uno sguardo imperioso.

«Vi piacerebbe che io ammettessi così la mia incapacità a risolvere da sola la situazione, è vero? No! Riuscirò a mette­re le cose a posto, e quando avrò finito me la vedrò personal­mente con Gorr Holl, per aver fatto precipitare gli eventi in questo modo.»

Si rivolse poi nuovamente a Kenniston: «Il vostro po­polo deve comprendere che la nostra decisione non è cru­dele. Spiegate loro che cosa sarebbe la vita su questo pia­neta morto... una vita isolata, precaria, sempre più dura e pericolosa, senza nessuna prospettiva all’infuori della morte per attrito e per disgregazione. Capiranno allora che ciò che mi chiedono è di abbandonarli a un ben fune­sto destino.»

«Può darsi» ammise Kenniston «ma non ci farei asse­gnamento, se fossi in voi. Non ci conoscete ancora. Come po­polo, non siamo pusillanimi.»

Parlava ora con maggiore ostilità, perché capiva, suo mal­grado, che c’era della verità nelle parole di Varn Allan, una verità che non voleva riconoscere.

Ella lo guardò negli occhi, come se lo misurasse e con lui misurasse in un giudizio solo tutta la popolazione di Middletown. Poi disse tranquillamente: «Ricordatevi bene che un decreto formale approvato dal Comitato dei Governatori è una legge che dev’essere rispettata ed eseguita. L’evacuazio­ne è stata ordinata e sarà posta in esecuzione.»

Fece un cenno a Lund, che scosse le spalle e la seguì. Sce­sero i gradini e attraversarono la piazza. La folla, sussurran­do, allarmata e confusa, ma non ancora ostile, li lasciò pas­sare.

Kenniston si volse a Hubble.

«Che dobbiamo fare?» domandò.

«Non lo so. Ma c’è una cosa che non dobbiamo fare, ed è il ricorso alla violenza. Sarebbe fatale. Dobbiamo calmare la popolazione prima che arrivi il corpo di evacuazione e la si­tuazione precipiti.»

Kenniston fece del suo meglio, nel corso della giornata. Ripeté e spiegò le parole di Varn Allan fino alla nausea, ma nessuno lo volle ascoltare. La città funzionava, avevano la lu­ce e l’acqua, non erano soli nell’universo, e la vita ora poteva procedere normalmente. Con l’irreprimibile ottimismo della razza umana, erano convinti che avrebbero potuto rendere il domani anche migliore. E non volevano assolutamente la­sciare la Terra. Questo era come chiedere loro di lasciare il loro stesso corpo.

Lo choc che avevano ricevuto quand’erano stati sbalzati via dalla loro epoca e dal loro modo normale di vita era già stato abbastanza duro. Era uno choc che avrebbe potuto sopraffarli completamente. Kenniston lo sapeva, e sapeva anche che, in un certo modo, quel colpo era stato attutito. Per un po’ erano persino rimasti nella loro vecchia città, e la loro vecchia città era ancora là, oltre le colline, come un’ancora per i loro ricordi. Si poteva dire che avessero portato con sé parte della loro stessa epoca, poiché la vita nella nuova città era stata adattata, per quanto possibile, alla vita della vecchia Middletown. Si erano nuovamente adattati, si erano ricostruiti la loro esistenza familiare. Era stato uno sforzo, ma vi erano riusciti. Non potevano ora, d’improvviso, gettare tutto e ricominciare di nuovo, in qualche mondo completamente estraneo alla loro espe­rienza.

Kenniston comprendeva perfettamente che non era solo un attaccamento atavico alla Terra che li aveva nutriti, a far loro respingere così fieramente l’idea di lasciarla. Era anche l’orrore fisico e istintivo di entrare in una nave spa­ziale del tutto sconosciuta e di lanciarsi al di là dei cieli, dove...? Nell’ignoto! Nella notte e nel nulla, tra gli abissi imperscrutabili che non avevano fine, lasciandosi definiti­vamente alle spalle la loro Terra, la Terra comprensibile, solida, protettiva, e perduta per sempre! Era questo lo sta­to d’animo della popolazione. E anche la sua mente rifug­giva dal prospettarsi un’avventura simile. Perché quella donna non poteva capire? Perché non poteva capire che un popolo per il quale l’automobile era un’invenzione ancora recente, non era psicologicamente capace di avventurarsi nello spazio?

L’astronave era sempre ferma laggiù, nella pianura, e per tutto il pomeriggio e per tutta la sera la popolazione si aggirò inquieta intorno alla parete vitrea della cupola per guardarla, discutendo irosamente in piccoli gruppi. Le strade erano pie­ne di mormorii, di voci, di movimento. Una grossa folla si ad­densava nella piazza e un distaccamento della Guardia Na­zionale, in pieno assetto di guerra, si mise di guardia davanti alla porta della città. Stanco, oppresso, tormentato dall’an­sia, Kenniston andò a trovare Carol.

Ella sapeva tutto, naturalmente. Tutti lo sapevano, a Nuova Middletown. La fanciulla lo accolse con l’espressio­ne cupa e amara che le affiorava sempre più di frequente sul viso, da quel giorno di giugno in cui il loro mondo era finito, e disse: «Ma non possono fare una cosa del genere, ti pare? Non possono costringerci ad andar via!»

«Credono che sia la cosa migliore» rispose Kenniston. «Occorre far loro capire che non è così.»

Ella cominciò a ridere, con un riso per niente allegro.

«È una cosa senza fine» disse. «Prima abbiamo dovu­to lasciare Middletown. Ora dobbiamo lasciare la Terra. Per­ché non siamo rimasti nelle nostre case e non siamo morti là, se dovevamo morire, come esseri umani? È stata una follia, sin dal principio... questa città, e ora...»

Smise di ridere, lo guardò, e aggiunse, calma: «Non vo­glio andarmene, Ken!»

«Non sei la sola, a pensarla così» le disse Kenniston. «Dobbiamo convincerli di questo.» L’irrequietudine lo ri­prese. Si alzò e suggerì: «Facciamo una passeggiata. Ci sen­tiremo meglio tutti e due.»

Uscirono insieme. Le luci erano accese, tutte quelle luci che avevano salutato con tanta gioia. Camminarono, par­lando poco, oppressi dai loro pensieri. Kenniston era con­scio nuovamente della barriera che sembrava alzarsi fra di loro, anche quando non c’erano motivi apparenti. Il loro si­lenzio non era il silenzio della comprensione, ma il silenzio di due esseri che potevano ormai comunicare solo con le pa­role.

Si avvicinarono a quella parte della cupola dalla quale era visibile, di lontano, la nave spaziale. L’inquietudine, nella cit­tà, era aumentata fino al parossismo. Una grossa folla stazio­nava nelle vicinanze della porta. Nessuno si avvicinava a es­sa. Attraverso la parete curva e trasparente della cupola, la forma illuminata del Thanis non era che una macchia scintil­lante e deformata. Carol rabbrividì e volse il capo.

«Non voglio guardarla» affermò. «Torniamo indietro.»

«Aspetta!» la trattenne Kenniston. «C’è Hubble.»

Hubble gli si avvicinò, soffocando una imprecazione.

«Ti ho cercato per tutta la città» disse. «Ken, quel paz­zo esaltato di Garris ha perso completamente la testa, e sta spingendo tutta la popolazione a combattere. Devi venire con me! Bisogna cercare di calmarlo!»

«Non c’è da meravigliarsi che Varn Allan pensi che siamo un branco di primitivi» commentò amaramente Kenni­ston. «Benissimo, Hubble, vengo con te. Prima accompa­gneremo a casa Carol.»

Rifecero il cammino percorso, attraverso le strade illu­minate da quel morbido, brillante, bellissimo chiarore che penetrava dovunque; ma la gente affollata in quelle strade, i gruppi di persone in discussione eccitata, i visi preoccu­pati, le domande che si incrociavano dovunque, formava­no un contrasto stridente con la vivida bellezza di quella luce.

L’inquietudine della città pareva aumentare sempre più. A un tratto, un lungo grido corse per le strade. Le persone si chiamavano, le grida aumentavano, le mani si tendevano verso l’alto, visi pallidi e frementi guardavano in su, verso la grande cupola scintillante.

«Ma che diavolo...» proruppe impaziente Hubble. Kenniston gli fece cenno di tacere.

«Ascolta!» disse.

Al disopra delle voci udirono allora un suono che già ave­vano udito una volta, un suono che aumentava sempre più. Era una vibrazione, più che un suono, una specie di vibrazio­ne profonda che proveniva dal cielo, troppo profonda e in­tensa per essere attutita dalla grande cupola.

La vibrazione scese rapida su di loro, divenne più intensa, sempre più intensa, poi di colpo si fermò. La gente correva ora verso la porta della città e lo strepito confuso della folla si ripercuoteva dovunque.

«Un’altra nave spaziale» disse Kenniston. «È giunta un’altra astronave.»

Il viso di Hubble si era fatto cupo e preoccupato.

«È il corpo di evacuazione. Quella donna aveva detto che sarebbero arrivati presto. E proprio ora che la città è in preda al panico... Ken, ecco a che punto siamo!»

13

Città in battaglia

Col cuore tormentato, Kenniston guardò Hubble mentre ascoltavano il clamore che sorgeva dalla città. Carol parlava e le parole di lei gli giungevano come da una distanza lonta­nissima.

«Non badare a me, Ken! Andrò a casa da sola.»

«Sì» disse Kenniston. «Temo che dovremo correre su­bito dal sindaco. Rimani in casa, Carol, lontana dalla strada.»

La baciò rapidamente sulle guance e si volse, camminan­do in fretta. Avrebbe voluto accompagnarla, ma non c’era tempo da perdere. Hubble si era già incamminato verso il Municipio e Kenniston lo raggiunse.

Incrociavano ora migliaia di persone che andavano in sen­so opposto, verso la porta della città. Quelle persone erano spaventate, bellicose, con gli occhi troppo accesi, le voci troppo alte. Kenniston e Hubble correvano, ormai, ma anche così facendo ci vollero alcuni minuti per raggiungere la piaz­za di fronte al Municipio. Mentre l’attraversavano, alcune jeep cariche di guardie nazionali partirono dal palazzo del Municipio e si avviarono a tutta velocità lungo il viale. Gli uo­mini sulle jeep erano imbacuccati fino agli occhi.

«Ecco, vanno fuori della città» gemette Hubble. «Che cosa avrà combinato, quell’idiota?»

Salirono di corsa le scale dell’edificio. Nella sala del consi­glio trovarono il sindaco insieme a Borchard, Moretti e la maggior parte degli altri consiglieri.

Garris camminava su e giù, col viso chiazzato di rosso, gli occhi scintillanti per quel coraggio improvviso, nato dalla paura, da cui si sentiva pervaso. Si volse a Kenniston e Hub­ble, mentre questi entravano, e c’era nel suo sguardo una cu­riosa espressione vacua, una specie di assenza della ragione che fece perdere a Kenniston anche la poca speranza che aveva.

«Così, vogliono mandarci via per forza dalla Terra!» esclamò Garris. «Ebbene, la vedremo! Vedremo se ce la fa­ranno e fino a che punto potranno andare.» Aveva la voce tremante. Le sue mani grassocce erano strette per la dispera­zione. «Ho fatto riunire tutte le unità della Guardia Nazio­nale e... avete visto quelle jeep? Sono dirette alla vecchia Middlestown, per portare qui i cannoni che abbiamo nell’ar­meria. I cannoni, Hubble, i cannoni! Questo è l’unico modo per mostrar loro che non siamo uomini che si lasciano sbale­strare qua e là come trottole!»

«Siete pazzo!» gridò Hubble. «Ecco cosa siete, un pazzo!»

Poi si trattenne. Borchard gli si era avvicinato, minac­cioso.

«Il sindaco agisce con la nostra completa approvazione» esclamò. «E aggiunse, non meno minaccioso:» Signor Hubble, badate alle vostre cose scientifiche e non immischia­tevi negli affari del governo.

«Sì, proprio così!» approvò Moretti. Ripeté anzi queste parole due o tre volte e gli altri membri del consiglio appro­varono anch’essi.

Hubble li affrontò con decisione.

«Ascoltatemi bene!» disse. «Siete tutti così spaventa­ti che non vedete nemmeno cosa vi stia dinanzi. I cannoni! Non fatemi ridere! Tutti i vostri cannoni non potranno fare nulla, nemmeno l’effetto di una rivoltella scacciacani, di fronte a ciò che essi possono usare contro di noi, se lo vo­gliono. Quella gente ha conquistato le stelle, potete almeno capire questo? Possono conquistare anche noi, semplice­mente con quel raggio di cui dispongono sulla nave spazia­le. E, ricordate, l’uso della violenza li farà montare in colle­ra e li spingerà a farne uso, siatene certi!»

Garris avvicinò il viso fremente a quello di Hubble.

«Avete paura, voi! Avete paura di loro!» ringhiò. «Noi non abbiamo paura, invece. Noi combatteremo!»

I membri del consiglio applaudirono.

«Benissimo!» disse Hubble. «Fate a modo vostro. È perfettamente inutile stare a discutere con degli idioti. L’uni­ca possibilità che avevamo di cavarci da questo pasticcio, era di assumere un comportamento da uomini civili. Avrebbero potuto ascoltarci, allora, e rispettare i nostri sentimenti. Ma ora...» Fece un gesto di rassegnazione e di inutilità. Il sinda­co rise amaramente.

«Parole! Parole! Abbiamo visto che bel risultato hanno avuto i vostri discorsi. No, signore. Tratteremo la questione a modo nostro, e potete ringraziare il Cielo che il vostro sinda­co e il consiglio della città non abbiano dimenticato come si difendono i diritti del popolo!»

Il suo tono di voce si era gradatamente elevato e il sindaco aveva addirittura urlato le ultime parole, per farsi udire da Hubble, che era già uscito dalla sala, immediatamente segui­to da Kenniston.

Fuori, sulla piazza, Kenniston disse: «C’è una sola cosa da fare... parlare a Varn Allan. Se consentisse a richiamare i suoi cani per un po’ di tempo, le cose potrebbero frattanto acquietarsi.» Poi scosse il capo, con espressione triste e stanca. «Non mi piace troppo dover ammettere con quella bionda dispotica che siamo governati da un mucchio di gen­te senza testa, ma...»

«Non si possono del tutto biasimare, in fondo» disse Hubble. «Noi siamo veramente come bambini posti di fronte all’ignoto, e per non fare ciò che ci chiedono ricorria­mo alla guerra. Solamente che facciamo le cose proprio nel modo sbagliato...» Sospirò. «Va’ alla nave spaziale, Ken. Cerca di fare quello che puoi. Io torno al Municipio per vede­re se mi riesce di far ragionare il sindaco e gli altri. Se ne avrò la pazienza, almeno... Insomma, buona fortuna!»

Rientrò in Municipio, e Kenniston rifece, con passo stan­co, il percorso verso la porta della città.

La folla era ormai raddoppiata, da quando l’aveva vista poco prima. Tutti si spingevano verso la porta, affollandosi ai lati di essa, dalla parte interna della cupola. Fuori, sulla pia­nura, scintillavano le luci di due navi spaziali. La gente le guardava e un cupo mormorio correva tra la folla, come il ru­more del vento prima della tempesta. La compagnia della Guardia Nazionale, in pieno assetto di guerra, aveva occupa­to la porta.

Kenniston si avvicinò ai soldati. Fece un segno di saluto col capo ad alcuni che conosceva, e disse: «Devo andare da loro... un colloquio importante.»

Cercò di passare attraverso lo sbarramento, ma le guardie lo fermarono.

«Ordine del sindaco» affermò l’ufficiale che li coman­dava. «Nessuno deve uscire dalla città. Proprio così. So chi siete, signor Kenniston. Ma ho ordini precisi. Nessuno deve uscire dalla città.»

«Ascoltate!» tentò Kenniston, disperatamente, inven­tando una menzogna. «Mi ha mandato il sindaco. Devo an­dare da loro per conferire.»

«Portatemi un ordine scritto» gli intimò l’ufficiale. «Solo allora potremo lasciarvi passare.»

La fila degli uomini armati rimase stolidamente immobi­le. Kenniston pensò per un attimo di forzare lo sbarramen­to, ma poi vi rinunciò. L’ufficiale lo stava guardando tanto sospettosamente che a Kenniston venne un dubbio. Egli parlava la lingua dei visitatori e aveva lavorato a lungo in stretto contatto coi loro tecnici. I buoni abitanti di Middletown avrebbero anche potuto crederlo un traditore o una spia...

«Se è veramente il sindaco che vi ha mandato» ripeteva frattanto l’ufficiale «vi darà certamente un ordine scritto.»

Kenniston se ne ritornò al Municipio, ma dovette passare il resto della notte, con Hubble, fuori della porta sorvegliata dell’edificio, in cui il sindaco, il consiglio al completo e gli uf­ficiali della Guardia Nazionale stavano redigendo un piano di battaglia.

Subito dopo il sorgere dell’alba, un portaordini arrivò di corsa al Municipio e fu ammesso nella sala del consiglio. Im­mediatamente, il sindaco, i membri del consiglio, e gli uffi­ciali uscirono in massa. Garris, torvo, con gli occhi cerchiati ma trionfante, vide Kenniston e gli intimò: «Venite! Avremo bisogno di voi come interprete.»

Stanco e disperato, Kenniston si unì alla piccola proces­sione. Hubble, che gli camminava al fianco, si curvò su di lui e mormorò: «Cerca di destreggiarti bene, Ken. La tua cono­scenza della lingua è la nostra unica risorsa, in questa male­detta circostanza.»

Raggiunsero la porta della città quasi nello stesso momen­to in cui vi giungevano gli altri, provenienti dalle navi spazia­li. Varn Allan e Lund erano i soli, nel gruppo, che Kenniston riconoscesse. Degli altri, una era una donna matura e il resto erano uomini di varie età. I sopraggiunti dalle navi spaziali rimasero a fissare, più sorpresi che preoccupati, lo sbarra­mento di soldati. Varn Allan corrugò la fronte.

Il sindaco si diresse verso di lei, mentre lo sbarramento si ricomponeva dopo averlo lasciato passare. Col suo mise­ro aspetto di ometto preoccupato e intimorito, convinto della sua saggezza e sicuro che il suo popolo fosse con lui, col coraggio teso fino all’ultimo limite, laddove esso confi­nava col più disperato terrore, egli affrontò quegli scono­sciuti venuti dalle stelle, e disse a Kenniston: «Dite loro che questo è il nostro mondo, e che solo noi diamo ordini, qui. Dite loro di tornare sulle navi spaziali e di andarsene. Spiegate bene che si tratta di un ultimatum, e che siamo pronti a usare la forza.»

La folla, dietro di lui, applaudì.

Un leggero turbamento era apparso sui visi degli scono­sciuti. Quell’ululato della folla, quei soldati armati, il com­portamento del sindaco, dovevano aver risvegliato in loro qualche dubbio. Varn Allan parlò tuttavia con assoluta cal­ma, rivolgendosi a Kenniston, senza nemmeno attendere che il sindaco avesse finito di parlare.

«Volete aprirci un passaggio?» Indicò i nuovi venuti che erano con lei, e aggiunse: «I funzionari che sono con me fanno parte di una numerosa commissione di esperti in emigrazioni di massa. Inizieranno lo studio preliminare del­l’evacuazione, ed è molto importante che voi cooperiate...»

Kenniston la interruppe.

«Ascoltatemi bene» disse. «Dovete prendere i vostri funzionari e tornare alle vostre navi spaziali.»

La folla cominciava a spingersi avanti, premendo contro lo sbarramento di soldati. Grida isolate sorgevano da quella folla, grida rabbiose, minacciose. Il sindaco, nervosissimo, si muoveva qua e là.

«Glielo avete detto?» domandò a Kenniston. «Che co­sa dite? Glielo avete detto?»

«Tornate alle vostre navi spaziali, e presto!» gridò anco­ra Kenniston. «Non vedete che tra poco nessuno riuscirà più a trattenere la folla?»

Ma sembrava che Varn Allan non capisse il pencolo.

«È inutile discutere ancora» disse, come se la sua pa­zienza fosse giunta all’estremo. «Siamo qui per ordine di­retto del Comitato dei Governatori, e debbo chiedervi...»

Parlando molto distintamente, Kenniston scandì: «Sto cercando di impedire atti di violenza. Ritornate subito alle vostre navi spaziali. Verrò a parlare con voi più tardi.»

Ella lo fissò, assolutamente sbalordita.

«Violenza? Contro i funzionari della Federazione?»

Kenniston pensò d’un tratto che ella forse non aveva mai udito parlare di violenza. Nel momentaneo silenzio che se­guì, l’impeto e il vociare della folla crebbero e, d’un tratto, Norden Lund scoppiò a ridere.

«Ve lo avevo detto che non era questo il modo di trattare con i selvaggi» disse. «Faremmo meglio ad andarcene.»

«No!» Sicura, nel suo orgoglio, sicura dell’autorità di cui era investita dalla Federazione delle Stelle, sicura della sua provata abilità come amministratrice, Varn Allan non voleva assolutamente fuggire davanti alle urla di una folla. Si volse nuovamente a Kenniston, con la voce perfettamente calma e tagliente come una lama.

«Credo che voi non comprendiate» disse. «Quando un ordine viene emesso in nome del Comitato dei Governa­tori, quell’ordine dev’essere eseguito. Vorrete perciò infor­mare di ciò il vostro sindaco, e ordinargli di disperdere la sua popolazione... e subito!»

Kenniston strinse i pugni e gemette.

«Per l’amor del Cielo...» cominciò. Ma il sindaco, in quel momento, ansioso, bellicoso, impaurito, lanciò lui stes­so la fiamma della rivolta.

«Dite loro che faranno meglio ad andarsene in tutta fret­ta!» urlò con voce abbastanza forte da essere chiaramente udito dalla folla. «Dite loro di andarsene, oppure li caccere­mo noi!»

«Cacciamoli!» gli fece eco un uomo della prima fila, su­bito seguito da un altro, da cento altri. «Cacciamoli! Cac­ciamoli!» Le grida salirono al massimo e la pressione della folla dilagò al di là della porta. Se anche i soldati l’avessero voluta trattenere, non l’avrebbero più potuto fare.

Kenniston colse, in un attimo, tutto un caleidoscopio di vi­si umani diversamente atteggiati. La donna anziana del gruppo aveva la bocca spalancata in un grido. Gli altri fun­zionari avevano gli occhi increduli, come se non potessero credere a ciò che vedevano. Varn Allan aveva le guance infuo­cate d’ira repressa. Lund indietreggiava già, con un’espres­sione mista di timore e di trionfo dipinta sul viso.

Varn Allan disse ancora: «Se osate toccare i funzionari della Federazione...»

«Tornate alle vostre navi!» urlò Kenniston con quan­ta voce aveva. «Andatevene via!» La prima ondata della folla era già su di loro. Urla, pugni tesi, piedi in corsa. Ur­lavano inferociti contro Varn Allan perché era lei a capo di tutti gli altri. Kenniston vide il pericolo imminente, il peri­colo che non si poteva più scongiurare. Afferrò allora Varn Allan per un polso e cominciò a correre verso il Thanis tra­scinandola con sé. Gli altri funzionari, compreso Lund, si erano già dati alla fuga. Fuggivano tutti, verso la nave spa­ziale.

Kenniston continuò a trascinare con sé Varn Allan e, per alcuni secondi, ella non fece alcuna resistenza. Capì più tardi che quella doveva essere stata la prima volta che ella aveva dovuto cedere alla forza fisica, e che era perciò troppo stupe­fatta per pensare di opporre resistenza. Poi, tutt’a un tratto, la donna gridò irosamente: «Lasciatemi andare!» e puntò i piedi saldamente nella sabbia.

La folla si appressava a loro come un’ondata. Non era il momento di far complimenti, Kenniston le diede allora uno strattone al polso, che le fece perdere l’equilibrio, e ricomin­ciò nuovamente a correre, trascinandola di peso. Poi, mentre il Thanis era ormai vicino, Kenniston inciampò d’un tratto nella sabbia, e Varn Allan si liberò di lui.

Mentre si agitava per rimettersi in piedi, Kenniston vide un pallido raggio di luce scaturire dal fianco dell’astrona­ve. Il raggio compì un lungo semicerchio, sollevando un urlo di raccapriccio dalla folla. Poi colpì anche lui e, questa volta, il colpo fu fortissimo. Ricadde nella sabbia e vi rima­se, come morto, assolutamente immobile e privo di cono­scenza.

Quando tornò in sé, si trovava disteso su una cuccetta, mentre le dita potenti di Gorr Holl gli stavano massaggiando i centri nervosi lungo la colonna vertebrale.

«Grazie agli dei, hai ripreso conoscenza! Sono ormai due ore che ti sto massaggiando!»

Kenniston si mise penosamente a sedere. Si trovava in una piccola cabina senza finestrini, arredata con uno scrit­toio e una sedia adatta alla grossa dimensione di Gorr Holl, e capì allora che doveva trovarsi all’interno del Thanis.

«In che modo sono arrivato qui?» domandò. Gli riusci­va ancora difficile parlare. La sua lingua, come tutto il suo corpo, sembrava insensibile e pesante come piombo.

«Varn Allan ha ordinato di portarti qua dentro. Ha capi­to più tardi che cercavi di salvarla, e che farti abbattere era stato un errore. Ha ordinato di farti rinvenire il più presto possibile.»

Kenniston era troppo intontito per fare del sarcasmo. Ge­mette ancora e mormorò:

«Che è accaduto, Gorr?»

«Moltissime cose... e tutte brutte. Guarda!»

Toccò un bottone, e un riquadro della parete metallica di­venne perfettamente trasparente.

Kenniston si rimise in piedi con difficoltà e guardò fuori, verso la lontana cupola scintillante di Nuova Middletown. Vide gli uomini di Middletown che lavoravano alacremente nella polvere color ocra davanti alla porta della città, scavan­do trincee, riempiendo sacchi di sabbia, preparando la linea del fuoco.

Gorr Holl gl’indicò poi, al di là della desolata pianura, ver­so le colline lontane; Kenniston vide laggiù una piccola caro­vana di jeep, uscita dalla vecchia città, che procedeva veloce in direzione della cupola, trascinando alcuni piccoli canno­ni... i piccoli cannoni che avrebbero dovuto sfidare la Federa­zione delle Stelle.

«Ci hanno concesso tre ore per andarcene» lo informò Gorr Holl «... il tempo necessario per piazzarci contro le lo­ro batterie. Dopo di che, apriranno il fuoco.»

«Ma sono pazzi!» bisbigliò Kenniston. «Sono dei po­veri pazzi!» Sebbene capisse perfettamente che quella era una pazzia, avrebbe potuto piangere d’orgoglio, per quell’at­to di forza.

Il termine era quasi trascorso. Quei cannoni avrebbero presto raggiunto la porta della città, sarebbero stati puntati contro le astronavi e gli uomini di Middletown avrebbero de­ciso la loro stessa distruzione.

«Debbo impedire questa pazzia, Gorr» disse. «In qua­lunque modo, debbo impedire questa pazzia!»

Gorr Holl lo fissò con uno sguardo curioso, come se voles­se misurare la fermezza di quella decisione.

«Quanto sei disposto a rischiare, nel tentativo?» chiese.

«No! Aspetta a rispondere. Non sarà una cosa facile. Spe­cialmente per te, nella posizione in cui ti trovi; non sarà una cosa facile.»

«Spiegati!» pregò Kenniston. Afferrò convulsamente un braccio di Gorr Holl, colpito da una improvvisa speranza. «Suvvia! Di che si tratta?»

«Vi sono altri pianeti morenti, oltre alla vostra Terra» disse Gorr Holl. «E, come ti ho detto, noi primitivi siamo attaccati ai mondi che ci hanno dato la nascita, proprio come voi. Vi è stata una... ecco, una cospirazione, chiamiamola co­sì, fra le razze primitive, per interrompere queste migrazioni in massa, e tutto il nostro piano si basa sul procedimento di cui ti ha parlato Lal’lor. Si tratta del procedimento di Jon Arnol per far rivivere i mondi morti, il procedimento che è stato vietato dalla Federazione. Kenniston, potremmo provare con la Terra...!»

«In altre parole» disse Kenniston, lentamente «volete coinvolgere me e il mio popolo in un movimento contro la legge della Federazione?»

«Se debbo parlarti francamente, sì!» disse Gorr Holl. «Ma si tratta anche del vostro interesse. Avrete la Terra e noi avremo i nostri mondi, per rimanervi a nostro piacere. Perdendo la partita... ebbene, le vostre condizioni non sa­ranno peggiori di quelle che sono adesso.» Posò la grossa mano su una spalla di Kenniston. «Varn Allan si trova ora al televisore, per chiedere al Centro di Vega l’autorizzazione a usare la forza nell’esecuzione dei suoi ordini. Pensaci in fretta, Kenniston!»

Kenniston rifletté rapidamente. Gli sembrava di muoversi in una nebbia profonda, ma intuiva qualche cosa, intuiva i contrasti che esistevano fra le stelle. Egli non aveva il diritto di coinvolgere se stesso e Middletown in una lotta della quale non sapeva quasi nulla... Ma laggiù, al di là di quel finestrino, stavano trincee piene di uomini infuriati e sconvolti, e quei cannoni che si avvicinavano... Non avrebbero certo potuto cacciarsi in una situazione peggiore di quella... Se vi fosse stata anche una minima via di uscita...

«Che debbo fare?» domandò.

Gorr Holl sorrise.

«Bene!» approvò. «E ricordati, avrai degli alleati in questa missione! Ora seguimi: ti racconterò tutto strada fa­cendo.»

14

Ultimo appello

Il grosso Gorr Holl lo condusse lungo un groviglio di stretti passaggi che correvano all’interno del Thanis. Non incontra­rono nessuno, e Kenniston intuì che Gorr Holl evitava i corri­doi principali.

Kenniston guardava di sfuggita i particolari della nave spaziale. Non gliene importava nulla, ora. Tutto ciò che lo preoccupava, era invece l’urgente necessità di impedire il di­sastro che stava per accadere. I suoi nervi erano tesi fino allo spasimo, in attesa del primo colpo di cannone contro il Tha­nis. Sapeva che era ancora presto, ma i minuti scorrevano ve­loci.

Gorr Holl gli diede rapidamente alcune spiegazioni, men­tre procedevano.

«L’ordine di evacuazione è venuto dal Comitato dei Go­vernatori attraverso un Comitato esecutivo. Secondo le leggi della Federazione, tu puoi avanzare appello, contro quell’or­dine, al Comitato dei Governatori in seduta plenaria. Ora, Kenniston, nessuno può negarti il diritto di appello, perciò non lasciarti intimorire da un eventuale rifiuto.»

Erano giunti, attraverso uno scuro corridoio, di fronte a una porta chiusa.

«Quella è la cabina del televisore. Varn Allan è in contat­to col Comitato, ora. Entra là dentro e fa’ il tuo appello. E ri­cordati bene: c’è anche Lund!»

Gorr Holl sparì nel buio del corridoio. Kenniston fece po­chi passi e si trovò davanti alla porta chiusa. Fece girare la maniglia, e la porta si spalancò. Kenniston entrò in una cabi­na alta e stretta, nella quale stavano Varn Allan e Norden Lund che si volsero di scatto, attoniti, a guardarlo.

Kenniston li notò appena. Fu qualcos’altro a colpire la sua attenzione e a trattenerlo immobile, come impietrito.

Due delle pareti della cabina erano occupate da complica­ti meccanismi, tutti apparentemente automatici. Di fronte a lui stava la terza parete, uno schermo gigantesco, che riflette­va delle figure in modo così chiaro e limpido da sembrare una finestra.

Una finestra aperta su un altro mondo...

In quello schermo, quattro personaggi sedevano davanti a un tavolo nero di materia plastica. Tre erano uomini, vestiti come gli occupanti del Thanis. Uno di essi era molto vecchio, il secondo era anziano, il terzo era di mezza età, di carnagio­ne scura e aspetto arcigno. Il quarto non era un uomo. Era un umanoide come Magro, e come lui aveva una criniera bianca e una strana espressione felina, nel viso bello e lieve­mente crudele. Ma era più vecchio e più grave e solenne di Magro.

Quei quattro sembravano uomini d’affari, interrotti nel mezzo di una importante seduta. Essi guardarono, fuori del­lo schermo, verso Kenniston, e l’uomo più giovane, quello dalla carnagione scura, domandò a Varn Allan: «Chi è quel­la persona?»

Kenniston rimase immobile, guardando con fierezza nel­lo schermo: l’ambiente in cui sedevano i quattro personaggi era simile a quello nel quale si trovava ora lui stesso, ma assai più grande, una grande sala piena di banchi di manovra e di schermi. Attraverso la finestra di quella sala, a miliardi di chilometri da lui, Kenniston poteva vedere le torreggianti pa­reti di un edificio titanico. Dardeggiava un sole dai raggi ada­mantini, soprannaturale, magnifico, che diffondeva nel cielo una vivida luce biancoazzurra.

Ancora la voce secca si fece udire, al di là della Galassia, assai più veloce della luce, per miracolo di una scienza avan­zatissima.

«Varn Allan! Chi è quell’uomo?»

«È uno dei primitivi della Terra, signore» ella rispose irosamente, e si volse nuovamente a Kenniston.

«Non avete alcun diritto di rimanere qui» disse. «An­datevene subito!»

«No» replicò Kenniston. «Non me ne andrò finché non avrò detto ciò che intendo dire.»

«Lund» disse Varn Allan «volete chiamare le guardie e farlo allontanare con la forza?»

Kenniston si mosse, impaziente.

«Non me ne andrò!» ripeté.

Lund rifletté. I suoi occhi andavano dai pugni stretti di Kenniston al viso adirato di Varn Allan, e sorrideva.

«Dopo tutto» disse «ritengo che quest’uomo sia ora un cittadino della Federazione. E possiamo negargli il diritto di parlare?»

Gli occhi azzurri di Vafn Allan ebbero un lampo d’ira. Poi ella parlò alle immagini vive che si vedevano nello schermo.

«Mi spiace moltissimo, signori, ma forse questo inci­dente vi illustrerà la situazione meglio di un lungo discor­so. Non ho avuto alcuna cooperazione da parte dei primiti­vi, e perfino un subordinato cerca ora di eludere la mia au­torità.»

L’uomo più giovane, dalla carnagione scura, parlò impa­ziente dallo schermo: «Questo non è il momento per ascol­tare reclami sulla disciplina dei vostri sottoposti!»

Kenniston fissava ora il quartetto del lontanissimo mondo di Vega, che sembrava tenere in mano il destino degli abitan­ti di Middletown.

«Siete voi il Comitato esecutivo responsabile dell’ordine di evacuazione?» domandò con tono deciso, rivolto verso lo schermo.

L’uomo più vecchio gli rispose con voce calma: «Non vi è alcun bisogno di parlare con arroganza. Sì, siamo noi, quel Comitato.» Poi, guardò Varn Allan. «Credo, Allan, che, siccome una interruzione vi è stata, sarà bene che veniamo subito a un chiarimento.»

Varn Allan scosse le spalle, e Lund sorrise apertamente.

«Mi spiace molto» proseguì Kenniston «ma non c’è tempo per le cortesie. Fra pochi minuti gli abitanti della mia città faranno fuoco sulle vostre navi spaziali. Non voglio che questo accada. Non voglio che la mia gente sia uccisa, e nem­meno la vostra.»

«Non vi saranno uccisioni» rispose il vecchio. «Il rag­gio paralizzante, usato a piena potenza, può immobilizzare, senza alcun pericolo per nessuno, tutta la popolazione della vostra città.»

Kenniston scosse il capo.

«Questo è solamente un rinvio. Quando riprenderanno conoscenza, riprenderanno a combattere. È proprio questo che voglio assolutamente farvi capire. Finché il mio popolo vivrà, combatterà per rimanere sulla Terra!»

L’accento di verità, in quel grido appassionato parve tur­barli profondamente. Questa volta l’umanoide dalla criniera bianca intervenne e disse lentamente:

«Questo può essere vero. Anche taluni del mio popolo serbano tuttora un illogico attaccamento al loro pianeta.»

Lund parlò allora, con quel suo tono ironico e deferente a un tempo: «È proprio il punto di logica psicologica che ho cercato di far capire all’amministratrice Allan.»

«Se avete un suggerimento da dare, mi piacerebbe udir­lo» disse Varn Allan, gelida.

«Naturalmente» disse allora Lund «è del tutto impos­sibile consentire che questo popolo rimanga sulla Terra. Una cosa simile stabilirebbe un fatale precedente per gli altri pia­neti morenti, la cui popolazione deve pure essere trasferita. La mia idea è dunque...»

Qualunque fosse la proposta di Lund, nessuno la poté udire perché Kenniston, fulmineo, lo aveva atterrato con un pugno.

«All’inferno, voi e le vostre idee!» gridò. Poi si avvicinò ancor più allo schermo. «Vi chiedo formalmente di revoca­re l’ordine di evacuazione» proruppe.

L’uomo più vecchio allargò le mani in uno stanco gesto di diniego.

«Questo non è possibile» rispose.

«Allora» insistette Kenniston duramente «mi appello, contro la vostra decisione, al Comitato dei Governatori, in seduta plenaria!»

A queste parole seguì un attimo di silenzio impacciato. Tutti gli occhi, dentro e fuori lo schermo, si fissarono su Ken­niston.

«Così, il selvaggio ha imparato la legge!» esclamò Lund, che si era rimesso dal pugno sferratogli da Kenniston. Poi rise. «Ma, naturalmente... Gorr Holl e i suoi amici gli hanno insegnato la lezione.»

Varn Allan si avvicinò a Kenniston.

«È una perdita di tempo» disse. «Il Comitato dei Go­vernatori confermerà l’ordine già emesso.»

«Proprio così!» approvò l’uomo più giovane dallo schermo. «È semplicemente uno stratagemma per guada­gnare tempo.»

«Ciò malgrado» dichiarò l’umanoide, osservando Ken­niston con uno sguardo lievemente divertito nei suoi occhi felini «la sua richiesta è perfettamente legale.»

L’uomo più vecchio sospirò.

«Sì» disse guardando Kenniston. «Sono costretto, dalla legge della Federazione, a concedervi il diritto di appel­lo. Ma vi avverto che ciò che ha detto l’amministratrice Allan è vero. Il Comitato dei Governatori non farà che ratificare la nostra decisione.»

«Ebbene, nel frattempo» incalzò Kenniston «vi chie­do di ritirare dalla Terra le navi spaziali che hanno provocato questa situazione critica.»

L’uomo più vecchio fece con riluttanza un cenno di as­senso.

«Anche questa è una legittima richiesta. Le navi spaziali verranno temporaneamente richiamate a Vega. E voi verrete con loro, poiché gli appelli al Comitato dei Governatori deb­bono essere fatti di persona.»

Di persona? Il significato di quelle due semplici parole colpì Kenniston come una mazzata e lo fece quasi barcollare, sostituendo alla sua vaga speranza una più vertiginosa e per­sonale emozione.

Quelle due parole significavano... significavano che lui, John Kenniston, avrebbe dovuto lasciare la Terra, avrebbe dovuto lanciarsi nell’abisso oscuro, fuori, nello spazio, at­traverso metà dell’universo stellato, dietro una speranza perduta.

Avrebbe dovuto andare in un mondo sconosciuto, incredi­bilmente lontano, per difendere la causa di Middletown da­vanti a esseri sconosciuti, con tutte le probabilità contro di lui! Capiva ora ciò che Gorr Holl aveva voluto dire: “...nella posizione nella quale ti trovi, non sarà una cosa facile”.

La voce tagliente di Varn Allan lo stava ora sfidando.

«Consentite ad andare? Rispondete in fretta...! Non resta ormai che poco tempo per notificare la cosa al vostro popolo, prima che l’attacco venga sferrato.»

Il ricordo di quell’imminente attacco, che avrebbe signifi­cato il disastro irrevocabile della sua gente, irrigidì Kenni­ston. Doveva evitarlo, a qualsiasi costo.

Inspirò profondamente: «Sì!» affermò con voce ferma. «Andrò!»

«In questo caso, amministratrice Allan» disse l’uomo più vecchio «ritirerete le navi spaziali dalla Terra, entro due ore al massimo.» Così dicendo si alzò, facendo segno che il colloquio era terminato. E aggiunse: «Notificherò la richie­sta di appello al Comitato dei Governatori.»

Lo schermo si fece bianco. Varn Allan guardò Kenniston, e disse: «Farete bene ad andare subito ad avvertire il vostro popolo.»

Kenniston capì, mentre usciva, che Varn Allan era irata, molto irata. Ma Lund sembrava stranamente soddisfatto.

Con la massima rapidità, Kenniston percorse il tratto di deserto che lo separava dalla porta della città; e a ogni passo che faceva, diventava sempre più chiara in lui l’incredibile realtà della sua imminente avventura.

“Te ne vai dalla Terra. Rientrerai in una nave, in quella astronave, e ti staccherai dalla Terra per avventurarti nello spazio, fuori dell’atmosfera della Terra, nell’universo, fra le stelle...”

Quel pensiero gli dava una specie di vertigine, un senso in­sopprimibile di repulsione. Capiva che non doveva pensarci, che non doveva pensare a quel balzo immenso nello spazio... non doveva pensarci, altrimenti quel pensiero lo avrebbe so­praffatto.

Davanti alla porta della città incontrò i soldati dello sbar­ramento che gli puntarono contro i moschetti, che abbassa­rono solo quando l’ebbero riconosciuto. Al di là dello sbarra­mento si levava il polverone causato dai badili che scavavano trincee e dagli uomini che piazzavano i cannoni.

«Che accade laggiù?» gridò un ufficiale. «Hanno deci­so di attaccarci, quelle navi spaziali? Stanno forse...?»

«Dov’è il sindaco?» lo interruppe Kenniston.

«Subito dietro la porta. Sono tutti là, in attesa.»

Kenniston li oltrepassò, saltando oltre le trincee per metà scavate, e vide Hubble e la maggior parte dei membri del consiglio raggruppati attorno al sindaco, subito al di là della porta, all’interno della cupola.

La maggior parte della popolazione stava affollata nelle vi­cinanze, trattenuta da sbarramenti di corde e di agenti. Non gridavano più ora, e tutti i visi apparivano ansiosi. Kenniston capiva che quella dimostrazione della terribile potenza del raggio paralizzante che avevano avuto poco prima, aveva calmato la loro ira e generato in essi un altro e ancora più grave motivo di preoccupazione.

Anche il viso grassoccio di Garris era livido dalla stan­chezza, e fu con uno sguardo sospettoso che egli accolse l’av­vicinarsi di Kenniston.

«Che cosa vi ha fatto ritornare? Credevo che sareste ri­masto là, coi vostri amici» lo apostrofò.

«Andate al diavolo!» gridò Kenniston, esasperato. «Ho lottato e discusso finora per salvare la vostra pelle. Ho perfino consentito ad andarmene fino a Vega, per farlo. E questa è l’accoglienza!»

Poi si vergognò del suo scoppio d’ira e cercò di padroneg­giare i nervi.

«Le navi spaziali se ne andranno. Partiranno fra due ore, e io andrò con loro. Ho presentato appello, contro l’evacua­zione, al loro Comitato dei Governatori.»

Un silenzio attonito regnò su tutti, dopo quelle parole. Lo guardavano sbalorditi, senza comprendere, eccetto Hubble, che aveva subito capito di che si trattava.

«Buon Dio, Ken...!» esclamò lo scienziato. «Tu... a Ve­ga? Ma servirà a qualche cosa?»

«Lo spero» disse Kenniston. E senza badare agli altri si rivolse a Hubble spiegandogli rapidamente come stavano le cose. Poi concluse: «Vi è ancora una possibilità che io possa far comprendere loro il nostro caso, e li convinca a lasciarci in pace.»

Il sindaco Garris pareva avesse solo allora cominciato a intuire. Il suo viso si era come trasformato... c’era ora in quel viso una speranza ansiosa, la stessa che si faceva strada an­che nei visi degli altri.

Kenniston capiva quanto disperati avevano dovuto sentir­si, prima del suo arrivo. Tutti loro, i soldati, l’intera popola­zione, si erano resi conto della futilità di una simile lotta quando si erano accorti della potenza del raggio paralizzan­te. Si erano convinti che combattevano una battaglia già per­sa sin dall’inizio. E ora, egli aveva suscitato la speranza di un’altra possibile via di uscita.

«Ora sì che va bene» disse Garris con voce ansiosa e malferma. «È quello che avevo pensato sin da principio. Una cosa che fosse perfettamente legale, una discussione pacifica. Non potevo consentire che il mio popolo fosse fat­to oggetto di violenza.» Si interruppe, sopraffatto dall’an­sia e dalla speranza. Afferrò una mano a Kenniston, e prose­guì: «Farete del vostro meglio per tutti noi, lassù, Kenni­ston! Lo so che lo farete! Non possono essere tutti così te­stardi come quella donna maledetta!»

E, del tutto rianimato, Garris si volse alla folla ansiosa e gridò: «Va tutto bene! Non si combatte più, per ora. Il si­gnor Kenniston andrà di persona nel mondo da cui quella gente è venuta, per discutere la cosa col loro Governo e chie­dere che ci trattino nel modo più giusto!»

Scoppiò un lungo applauso. Mentre quegli applausi anco­ra duravano insistenti, il sindaco impallidì nuovamente. Un nuovo pensiero gli aveva attraversato la mente. Si rivolse a Kenniston, per chiarire il suo dubbio.

«Ma se qualcuno dovrà andare là per rappresentarci, for­se vorranno che il sindaco...» Kenniston lo ammirò davve­ro, stavolta, mentre Garris cercava di pronunciare quelle ul­time e, per lui, spaventose parole «... forse, come sindaco, dovrei andarci io?...»

Kenniston scosse prontamente il capo.

«Siete necessario qui, signor Garris» lo rassicurò. «E, d’altra parte, non parlate la lingua. Perciò la vostra partenza sarebbe inutile.»

«Già, è così!» fece il sindaco, cominciando a respira­re nuovamente. «Naturalmente, è così! Già, infatti. Ebbe­ne, Kenniston, che possiamo fare per aiutarvi? Qualsiasi cosa che...»

«No, non ho bisogno di nulla» rispose Kenniston. «Non ho molto tempo. Debbo solo prendere alcune cose personali e salutare qualcuno. Hubble, vuoi venire con me?»

Hubble assentì. E mentre si allontanavano, dirigendosi ra­pidamente all’interno della città, udirono il sindaco che gri­dava, tutto rincuorato, per spiegare più minuziosamente alla folla la notizia, e udirono le esclamazioni di sollievo e di giu­bilo di tutta la popolazione.

Quella gente si era vista sul punto di essere gettata in una lotta contro armi alle quali non avrebbe potuto resistere, e ora, improvvisamente, non si sarebbe più combattuto; le na­vi spaziali se ne sarebbero andate; uno di loro sarebbe anzi partito per cercar di convincere il Governo delle Stelle che non poteva sloggiare in quel modo tutti gli uomini della Ter­ra. Ogni cosa andava bene, dunque!

Kenniston gemette: «Vorrei che non fossero così male­dettamente sicuri! Questo è solo un rinvio!»

«Quali probabilità vi sono, Ken?» chiese Hubble. «Questo fra noi, naturalmente, in confidenza.»

«Se debbo dire la verità, Hubble, non lo so nemmeno io! Mi sono impigliato in una specie di congiura sotterranea che non riesco ancora a comprendere pienamente.» Gli rac­contò poi ciò che Gorr Holl gli aveva confidato, e aggiunse: «Gorr e tutti gli umanoidi sono dalla nostra parte, ma può darsi che si valgano di me unicamente come di un’ultima ri­sorsa contro la Federazione delle Stelle. In ogni modo, farò del mio meglio.»

«Lo so, che farai del tuo meglio» disse Hubble. «Vor­rei tanto venire con te... ma sono troppo vecchio, e qui hanno bisogno di me.» Poi aggiunse: «Andrò a chiamare Carol, mentre prepari le tue cose per la partenza.»

L’irrealtà d’incubo di tutta quella situazione colpì Kenniston nuovamente, mentre raccoglieva in fretta gli oggetti di cui avrebbe potuto aver bisogno. Era proprio come fare la valigia per un viaggetto di una giornata a Pittsburgh o a Chi­cago, invece che per un viaggio attraverso la Galassia. Pareva incredibile che una cosa del genere dovesse capitare a lui...

L’espressione di Carol, quando arrivò, non gli fu di alcun conforto. Era pallidissima, e quando Kenniston l’abbracciò e cercò di spiegarle la cosa, lei si limitò a dire: «No, Ken... no! Non puoi andare! Tu non sei come loro! Morirai lassù!»

«Non morirò, e potrò forse essere utile a tutti» le rispo­se Kenniston. «Ascoltami, se riesco... se riesco a trovare una via d’uscita per tutti noi, questo compenserà un poco l’accusa di aver attirato tanta sventura su Middletown, a cau­sa del Laboratorio, non ti sembra? Non ti sembra?»

Ma Carol non lo ascoltava nemmeno. Lo guardava in viso, stringendolo a sé con espressione an­gosciata. Poi disse, d’improvviso: «Sei tu, che vuoi andare!»

«Sono io che voglio andare?» ripeté Kenniston. «Ho una paura folle, invece! Mi si arriccia la pelle, solo a pensar­lo! Ma debbo andare, ecco, debbo andare!»

«Sei tu, che vuoi andare» ripeté Carol, e lo guardò nuo­vamente, come se una barriera sorgesse davvero e definitiva­mente fra loro. «Questa è la diversità, fra noi due: è sempre stato così. Io desidero solo le vecchie cose tanto amate. Tu desideri invece le cose nuove.»

Il tempo passava rapidamente, e una specie di disperazio­ne si impadronì di Kenniston. Abbracciò Carol strettamente, con una specie di brutale parossismo, come se volesse, con quella stretta, difenderla contro quella intangibile marea che li divideva sempre più.

«Me ne vado» disse. «Vado a fare ciò che posso per tutti noi. E tornerò come prima, hai capito? E tu mi aspette­rai, Carol!»

La baciò un’ultima volta, ed ella gli restituì il bacio con una strana tenerezza, come se pensasse di non rivederlo mai più, e ricordasse in quel momento tutte le belle giornate sere­ne che avevano trascorso insieme.

Quando la lasciò andare, gli occhi di Carol erano pieni di lacrime.

Poi Kenniston si avviò rapido verso la porta della cupola, accompagnato da Hubble. Tutta la città era ora vibrante di una nuova speranza, di una nuova eccitazione, che si accen­trava sulla sua persona. Ma Kenniston tremava, in cuor suo, al pensiero di ciò che lo attendeva.

Vedeva appena i visi tra la folla, che lo guardavano con an­siosa speranza, mista a rispetto. Udiva appena le voci che gli gridavano: «Buona fortuna, signor Kenniston! Buona for­tuna!» Oppure gli ricordavano il suo compito: «Dite a quella gente che non vogliamo andarcene! Diteglielo!»

Col cuore sconvolto, Kenniston uscì dalla città, attraversò il tratto di pianura desolata, e gli sportelli ermetici di quel­l’incredibile quanto paurosa astronave, si aprirono per acco­glierlo.

15

In missione, per la Terra

No! Kenniston non avrebbe mostrato alcun timore! Tutti si aspettavano, nella nave spaziale, di vederlo sconvolto dalla paura, e lo osservavano, di sottecchi, con sguardi pieni di in­teresse e non privi di un’espressione leggermente canzonato­ria. Ma Kenniston serrò i pugni nelle tasche dei pantaloni e decise fermamente che li avrebbe delusi tutti.

Aveva paura, sì. Una cosa era leggere, parlare e discutere di viaggi spaziali; un’altra cosa, e assai più dura e spavente­vole, era viaggiare realmente nello spazio, lasciare, con un balzo immane, la solida Terra, per irrompere nel vuoto in­commensurabile di una voragine senza mondi.

Se ne stava ritto, con Gorr Holl e Piers Eglin, sul ponte in­terno del Thanis,guardando avanti a sé, attraverso i finestri­ni ricurvi, e una sensazione gelida, di repulsione fisica, gli at­tanagliava le viscere.

«Non è poi tanto emozionante come credevo...» disse con voce un poco malferma. «Solo quelle stelle là, davanti a noi...»

Lottava contro l’impulso istintivo di afferrarsi a qualche cosa per non cadere. No, non lo avrebbe fatto. Non avrebbe mai fatto una cosa simile, mentre quegli uomini dal viso ab­bronzato, dietro a lui, da tempo abituati a viaggiare nelle profondità dello spazio, lo osservavano curiosamente.

Un ronzio profondo e un leggero vibrare delle grandi strutture attorno a lui erano l’unico indizio che il Thanis si muoveva.

Kenniston vedeva una oscurità profonda, di un nero asso­luto, nella quale le stelle fiammeggiavano come fiaccole. La vivida luce azzurra di Vega era al centro di quel soprannatu­rale spettacolo, circondata dalla costellazione della Lira e da quella dell’Aquila, attraversate, a sinistra, dalla Via Lattea, smagliante e formicolante.

Solo quella sezione di cielo appariva chiara e limpida. Tut­to il resto del firmamento, che si stendeva come uno sfondo immane, era una vista incredibilmente confusa di stelle, i cui raggi sembravano torcersi, vibrare, danzare in un tripudio di luce.

Gorr Holl gli accennò un grande quadro di comandi dietro al quale sedevano quattro uomini.

«Conosci il principio della propulsione? Si tratta di raggi di reazione, innumerevoli volte più veloci della luce, che agi­scono contro il pulviscolo cosmico dello spazio.»

Kenniston sospirò: «Mi sento ignorante come un bambi­no. L’esistenza di raggi simili era assolutamente insospetta­bile, ai miei tempi. Le equazioni di Einstein dimostravano che se la materia si fosse mossa più velocemente della luce, avrebbe finito con l’espandersi indefinitamente.»

Gorr Holl rise, divertito.

«Il vostro Einstein era un grande scienziato» disse «ma abbiamo aperto nuovi campi di conoscenza, da allo­ra. Il controllo della massa, per esempio, che impedisce quella espansione, e altre cose.»

Kenniston ascoltava solo a metà. Guardava l’occhio biancoazzurro di Vega, che sembrava fissarlo, arrogante, dal grande abisso cosparso di stelle. E il guardare a quella stella lontana lo rendeva in qualche modo conscio della loro spa­ventevole velocità, del loro precipitare, della loro caduta da incubo attraverso l’infinito.

Quella sensazione era anche peggiore del momento della partenza. Eppure aveva pensato che nulla, assolutamente nulla, sarebbe stato peggiore di quel momento. Se fosse an­che vissuto per sempre, non avrebbe mai più dimenticato quegli ultimi eterni minuti, prima dello strappo dalla Terra, legato com’era su una poltrona, mentre cercava di rilassare i propri nervi e non vi riusciva, mentre osservava le luci che al­l’interno s’affievolivano, mentre sentiva il vibrare profondo dell’astronave che si preparava al balzo fuori dell’atmosfera terrestre, mentre i battiti del cuore lo soffocavano e un sudo­re ghiacciato gli scendeva per tutto il corpo, mentre cercava disperatamente di persuadersi che quella partenza non era per nulla diversa da un normale decollo di aeroplano... E poi il balzo, la pressione, la penosa sensazione del respiro che viene a mancare, la claustrofobia provocata dal sentirsi rin­chiuso in quella cosa che si muoveva a vertiginosa rapidità e sulla quale egli non aveva controllo alcuno.

Non poteva ancora sapere per quale maestria della scien­za gli occupanti di quella nave spaziale erano difesi dalle enormi pressioni di quella accelerazione. Eppure, difesi lo erano, perché la pressione non era affatto peggiore di quella che si può provare in un velocissimo ascensore. Eppure, sa­pere che la Terra si stava allontanando vertiginosamente in un abisso pauroso, rendeva quell’ascensione veramente orri­bile. Poté udire il lamento dapprima, e poi il fischio e infine l’urlo irrefrenabile dell’aria contro l’involucro metallico della nave spaziale, e poi, quasi a un tratto, tutto finì. Si trovava ora nello spazio. E sentiva profondo, nelle viscere, l’atavico terrore degli abissi, retaggio delle epoche più lontane. Pensò al vuoto immane che si apriva sotto i suoi piedi, oltre la sotti­le lastra di metallo del pavimento, e serrò i denti, spasmodi­camente, per trattenersi dal gridare.

«Non pensarci!» gli aveva detto Gorr Holl. «E ricorda­ti! Vi è stata una prima volta anche per tutti noi! Ho creduto, io stesso, di non sopravvivere a quella prima prova.» Aiutò quindi Kenniston a rialzarsi. «Andiamo sul ponte interno. È meglio che tu affronti tutto in una volta: poi ti sentirai più sollevato.»

Erano saliti sul ponte interno, e Kenniston aveva guardato nello spazio, dove i grandi soli bruciavano senza alcun velo e dove non esistevano né aria né nubi che li nascondessero. E aveva dovuto far forza su se stesso, per non gettarsi a terra e piangere e uggiolare come un cane.

Cercò di immaginarsi le difficoltà che lo attendevano a Vega, dove avrebbe dovuto difendere la causa della piccola Middletown davanti ai Governatori delle Stelle. Come avreb­be potuto far capire l’appassionata devozione del suo piccolo popolo per il suo piccolo e antico pianeta, a gente che viag­giava con tanta facilità in navi spaziali come quella?

Eppure, se falliva nel suo scopo, avrebbe anche mancato al compito che si era assunto verso la popolazione di Middle­town, che aveva riposto tanta speranza nella sua missione. Era questo, a cui doveva pensare... non allo spazio, non alle sue sensazioni personali, ma al compito che lo attendeva.

Diede un’occhiata a Gorr Holl, e disse: «Ho visto abba­stanza, per ora, andiamo!»

Lasciarono Piers Eglin e scesero nei corridoi inferiori. Quando furono nel corridoio principale, soli, Kenniston dis­se: «Adesso, Gorr, vorrei sapere qualche cosa di più su quanto mi hai detto.»

Gorr Holl fece un cenno di consenso.

«Andiamo da Magro e Lal’lor. Ci attendono.»

Lo condusse lungo misteriosi corridoi, sino a una cabina accanto alla sua. Kenniston provò sollievo nel trovarsi anco­ra in un posto chiuso, senza finestre, dove non poteva vedere il vertiginoso vuoto dello spazio. Sotto la sua istintiva paura vi era tuttavia una selvaggia esultanza... ma un uomo del ven­tesimo secolo, e suo malgrado attaccato al ventesimo secolo, non poteva certo assorbire tali e tante emozioni in una volta sola.

La figura massiccia di Lal’lor era china su una tavola co­sparsa di fogli coperti di complicati simboli matematici. Ma­gro, che era sdraiato in una cuccetta, diede delle spiegazioni a Kenniston.

«Lal’lor si occupa di teoremi per divertimento. Pretende persino di capire a fondo tutte quelle cifre che scrive.»

Lal’lor gli lanciò uno sguardo divertito coi piccoli occhi in­telligenti nel viso curiosamente piatto e inespressivo. Poi al­lontanò con un gesto i fogli che aveva davanti e disse: «Sie­di, Kenniston. Così siamo alleati, ora, oltre che amici.»

«Desidererei» disse Kenniston «che qualcuno mi spiegasse in che consiste questa alleanza. Sto giocando i de­stini del mio popolo sulla parola, sulla buona fede, senza sa­pere nulla di ciò che voi sapete.»

«Non vi è nulla di sinistro, in tutto ciò» disse Gorr Holl. Si accomodò, con la sua pesante mole pelosa, su un angolo della tavola di Lal’lor, che era abbastanza solida per sostenerne il peso. Poi proseguì: «Come ti ho detto, tutti noi abbia­mo lo stesso problema, la cui soluzione si basa su un uomo e su un procedimento.»

Si fermò un attimo, assorto, poi riprese: «Per un caso piuttosto originale, Kenniston, ti sei trovato meglio con noi che con gli uomini della tua stessa stirpe. Le razze umane si sono diffuse dalla Terra nell’universo molto tempo fa, e han­no continuato a muoversi e a diffondersi, allargando sempre la loro crescita d’azione, sino a perdere ogni senso di attacca­mento al loro mondo d’origine. L’intero universo è la loro pa­tria, e non un solo pianeta.»

Questo, Kenniston cominciava a comprenderlo sempre meglio; le impersonali immensità dello spazio, tante volte at­traversate, tendevano a staccare l’uomo dalle sue ristrette correnti di pensiero. Carol, in questo, aveva intuito bene.

Gorr Holl continuò: «Ma noi razze umanoidi, non la pensiamo affatto in questo modo. Quando gli uomini venne­ro nei nostri mondi, eravamo quasi del tutto barbari e felicis­simi nella nostra barbarie. Ebbene, ci hanno civilizzati, e sia­mo ora accettati da loro come eguali. Ma noi siamo ancora primitivi, nel pensiero, nella mentalità; noi siamo ancora at­taccati ai nostri mondi originari, e ogni volta che diventa ne­cessario rimuoverci noi siamo contrari, proprio come è con­trario il vostro popolo... abbiamo solo imparato a essere me­no violenti. Alla fine, naturalmente, abbiamo sempre ceduto. Ma in questi ultimi anni abbiamo resistito più disperatamen­te, perché avevamo qualche cosa in cui sperare... e questo qualche cosa è il procedimento di Jon Arnol.»

«Continua!» lo incoraggiò Kenniston. «Finora, di Jon Arnol, non conosco che il nome. In che cosa esattamente consiste il suo procedimento? Mi hai detto, se non sbaglio, che si trattava di un procedimento per ringiovanire i pianeti freddi e morenti.»

Lal’lor intervenne, per spiegare di che si trattava.

«Il progetto di Arnol consiste in questo: iniziare un ciclo di trasformazione dell’energia-materia simile alla trasforma­zione dell’idrogeno-elio che dà al sole la sua energia... inizia­re questo ciclo nucleare di trasformazione operando profon­damente entro il pianeta freddo.»

Kenniston lo guardò fisso, completamente stupefatto.

«Ma» disse alla fine «questo equivarrebbe a creare un gigantesco forno solare nelle più intime viscere di un pianeta!»

«Già! Un’idea audace e brillante. Risolverebbe il proble­ma di molti mondi freddi e morenti in tutta la Federazio­ne... perché, come sai, un pianeta può vivere del suo calore interno per molto tempo dopo che il calore del suo sole è cessato.» Si arrestò per un attimo, poi riprese: «Sfortu­natamente, quando Arnol provò il suo procedimento su di un piccolo asteroide, i risultati furono disastrosi.»

«Disastrosi?»

«Proprio così. La bomba-energia, progettata per iniziare il ciclo nell’interno di quell’asteroide, non ebbe successo e provocò terribili terremoti e l’asteroide ne fu devastato. Ar­nol asserisce che ciò è accaduto perché non gli è stato con­cesso un pianeta abbastanza grande per la sua prova. Le sue equazioni confermano le sue dichiarazioni.»

«Perché allora» domandò Kenniston «non ha fatto un’altra prova su un pianeta più grande?»

«I Governatori non glielo hanno permesso» disse Lal’lor. «Dicevano che era troppo pericoloso.»

«Ma non poteva ritentare la prova su un pianeta disabi­tato, e perciò senza pericolo per nessuno?»

Lal’lor sospirò.

«Non capisci, Kenniston. I Governatori non vogliono che il procedimento di Arnol riesca. Non vogliono che sia possibile ai popoli primitivi di restare attaccati ai loro mondi originari. Questo è proprio il genere di patriottismo provin­ciale cui sono contrari, nel loro sforzo di fondare una vera comunità stellare cosmopolita.»

Kenniston rifletté sulla cosa. Tutto ciò combinava con quanto aveva visto e udito della vasta Federazione delle Stel­le. Eppure...

«Se ho ben capito» disse lentamente «la conclusione è che volete usare il mio mondo, la nostra Terra, per provare un procedimento che i vostri Governatori, qualunque ne sia­no i motivi, hanno già giudicato pericoloso.»

Lal’lor fece, calmo, un cenno di conferma.

«Sì. La conclusione è proprio questa. Ma non si tratta per ora di tentare la prova, per la prima volta, sulla Terra, o su qualche altro pianeta abbandonato. La questione è un’al­tra, quella cioè di costringere il Comitato dei Governatori a permettere un’altra prova.»

«Non vedi come tutto combina?» intervenne Gorr Holl. «Da sola, la tua richiesta di rimanere sulla Terra verrebbe respinta, perché non puoi presentare altra alternativa all’eva­cuazione. Ma presentando come alternativa il procedimento di Jon Arnol, potrai aiutare la Terra e anche noi!»

Kenniston cercava di comprendere la cosmica comples­sità del problema.

«In altre parole, se potessimo persuadere i Governatori a concedere un’altra prova, questo ritarderebbe l’evacuazione della Terra?»

«Infatti!» confermò Lal’lor. «E se il procedimento di Arnol ha successo, la Terra e anche i nostri mondi, che si tro­vano nelle medesime condizioni della Terra in tutta la Fede­razione, potranno nuovamente essere resi caldi e abitabili. Non vale la pena di tentare?»

«Se ponete la questione così» disse Kenniston «certo, certo vale la pena di tentare.» Cominciava a sperare ancora. «E credi che questa... questa specie di forno solare possa avere successo? In modo non pericoloso, intendo dire.»

«Secondo tutte le dimostrazioni matematiche, sì.»

Kenniston esitava ancora, e Gorr Holl disse: «La decisio­ne dovrebbe essere presa dal tuo popolo, Kenniston, e non da te... intendo dire la decisione di assumere quel rischio. Si tratta di una piccola popolazione che potrebbe essere assai facilmente trasportata altrove, durante la prova, finché ogni pericolo sia scomparso.»

Questo era vero. Non doveva aver paura di prendere impe­gni troppo decisivi per il suo popolo, perché non ne aveva l’autorità. E poteva essere una soluzione. Poteva esserlo dav­vero!...

«Siamo d’accordo, allora?» domandò Lal’lor. «Arnol è mio amico da molti anni, e posso fargli avere subito un mes­saggio perché ci venga incontro al nostro arrivo. Può aiutarti a preparare l’appello.»

Kenniston li guardò. Guardò i visi familiari di quei tre umanoidi. Doveva fidarsi di loro, doveva accettare le loro di­chiarazioni sulla parola. All’improvviso capì che poteva fi­darsi di loro.

«Benissimo!» disse. «Credo che qualsiasi speranza sia meglio di niente.»

«Allora, siamo d’accordo» concluse Lal’lor, tranquilla­mente.

Kenniston rimase un poco senza respiro, come se avesse preso una decisione irrevocabile, molto al di là delle sue intenzioni. Gorr Holl gli lanciò uno sguardo penetrante e disse: «Hai bisogno di qualche cosa, Kenniston. E credo di sapere cosa.»

Uscì e ritornò di lì a poco con un grosso flacone piatto di metallo grigio. Sorrise, mostrando i denti, in quel modo che pochi giorni prima aveva spaventato la popolazione di Middletown.

«Fortunatamente» sorrise «non facendo parte del personale di navigazione, non ci è vietato, come personale tecnico, di prendere degli stimolanti. Prendi dei bicchieri, Magro.»

Magro prese solo tre bicchieri di plastica.

«Il nostro saggio Lal’lor» disse «preferisce stimolarsi con le equazioni.»

Lal’lor approvò sorridendo. Gorr Holl versò con cura un li­quido limpido nei bicchieri.

«Prova questo, Kenniston!»

Quel liquido aveva uno strano sapore di muffa, di mu­schio. Poi, parve esplodere nello stomaco di Kenniston, man­dandogli ondate di calore fino alla punta delle dita. Quando poté nuovamente respirare, balbettò: «Ma che diavolo è, questa roba?»

«È distillato da alcuni funghi dei nostri mondi di Capella» spiegò Gorr Holl. «Forte, vero?»

Kenniston, dopo aver bevuto un altro sorso, sentì svanire un poco le sue preoccupazioni. Sedette, più rilassato, ad ascoltare quei figli di altri mondi lontani, che parlavano. Sa­peva che parlavano per cercare di rasserenarlo.

«I primi viaggi possono essere molto duri» diceva Ma­gro. Era accovacciato sulla cuccetta come un gatto addor­mentato, con uno splendore sognante e remoto negli occhi felini. «Ricordo il mio primo viaggio. Attraversammo le Pleiadi con le macchine che funzionavano a energia ridotta, e i piccoli mondi si affollavano attorno a noi come api infero­cite.»

Gorr Holl assentì con un cenno.

«Ti ricordi» disse «quella caduta sulla stella Algol? Ho perduto degli ottimi amici, in quel disastro. Una tomba geli­da e profonda nel vuoto!»

Kenniston ascoltava, mentre essi parlavano di vecchi viag­gi al di là delle frontiere stellate della Federazione, di pericoli provenienti dalla nebulosa, dalle comete, dalle nubi cosmi­che, di naufragi su mondi sconosciuti e selvaggi.

Quei discorsi lo interessavano vivamente e lo sbalordiva­no a un tempo. Dopo un poco, citò ad alta voce un passo che gli era tornato alla memoria: «Allora non ascolteremo più miseri discorsi su Magellano e su Drake. Udremo allora il racconto di viaggiatori che hanno circumnavigato l’eclittica e doppiato la Stella polare come il Capo Horn.»

«Chi ha scritto queste parole?» domandò Lal’Ior, inte­ressato. «Qualche scienziato della vostra epoca che aveva previsto i viaggi spaziali?»

«No» spiegò Kenniston «si tratta di un uomo di un se­colo prima della mia epoca. Si chiamava Melville, e anche lui era marinaio, ma sui mari della Terra.»

Gorr Holl scosse il capo.

«Strani tempi debbono essere stati quelli, quando non v’erano che gli oceani d’acqua di un piccolo pianeta per le av­venture dell’uomo!»

«Eppure vi era un vastissimo campo di avventura, su quegli oceani» disse Kenniston. «L’Atlantico in piena tem­pesta, il Golfo in una notte lunare...»

Una dolorosa nostalgia lo afferrò di nuovo, la terribile no­stalgia per una Terra perduta per sempre, per l’odore dei falò che bruciavano nelle rigide notti d’autunno, per i campi fio­riti sotto il sole estivo, per i cieli azzurri e le verdi colline, per le montagne nevose e i villaggi sonnolenti, per le vecchie città e le vecchie strade che le attraversavano, per tutto ciò che era scomparso e che non sarebbe ritornato mai più. Quei pensieri gli facevano persino desiderare la Terra com’e­ra ora, il vecchio pianeta stanco e morente che conservava almeno la memoria del mondo che egli aveva conosciuto, la memoria delle persone che avevano conosciuto quel mondo. Carol aveva ragione! Il vecchio modo di vivere, le vecchie co­se, erano le migliori! Che faceva lui, ora, in quelle immensità del vuoto?

Allora vide che gli altri lo guardavano con una luce di com­prensione nello sguardo, in quel loro sguardo strano, eppure così familiare e amichevole.

«Datemi ancora da bere» disse.

Ma non servì a scacciare la nostalgia cocente della Terra. Parve anzi rendere più acuto il suo impossibile desiderio. Al­lora, Kenniston si alzò di colpo, come per scrollarsi di dosso quel peso amaro, e lasciò i compagni avviandosi verso la sua cabina.

Spense le luci della cabina, una volta entrato, e premet­te il bottone che trasformava in finestra la solida parete. Il nero baratro punteggiato di stelle si spalancò davanti a lui, in un vuoto senza fine. Sedette sull’orlo della cuccetta e ri­mase a guardare a lungo, come affascinato, quello spetta­colo di disumana solitudine, fantasticando sulla sua dispe­rata missione. D’un tratto si accorse che qualcuno aveva bussato alla porta della cabina. Si alzò e aprì la porta. La luce che proveniva dal corridoio gli mostrò chi era. Era Varn Allan.

16

A Vega

Varn Allan diede una rapida occhiata, dal viso di lui alla cabi­na immersa nell’oscurità, e quindi ancora al viso, con uno sguardo di comprensione. Poi domandò: «Posso entrare?»

Kenniston si spostò di fianco per lasciarla passare e sol­levò la mano per riaccendere la luce.

«No» disse lei. «Piace anche a me, questo spettacolo.»

Sedette sulla sedia accanto al finestrino e rimase in silen­zio per alcuni minuti, guardando fuori, mentre il pallido chiarore delle stelle le illuminava il viso.

Kenniston, con un sentimento di immediata ostilità un poco temperato dalla meraviglia, attese che parlasse. Ella se­deva quasi rigida, un poco impettita, ma Kenniston credette di scorgere segni di stanchezza e di preoccupazione nei li­neamenti affilati del suo viso.

Poi la donna si volse e lo guardò, coi suoi occhi azzurri pensosi, e Kenniston pensò che Varn Allan si trovasse a disa­gio con lui, che volesse dire qualche cosa e non sapesse in che modo dirla. Allora anch’ella era preoccupata, per quel viag­gio a Vega? Pensò, infuriato, che lo meritava, che questo la faceva scendere dal suo piedistallo di alto funzionario della grande Federazione fino al livello di una donna ansiosa, anzi di una ragazza.

«Sono venuta a dirvi che...» ella disse a un tratto «in considerazione della natura urgente di questo caso, il Comi­tato dei Governatori ci ha concesso due ore di seduta il gior­no successivo al nostro arrivo a Vega.»

«Due ore!» esclamò Kenniston. Non gli sembrava mol­to, per decidere la sorte di un mondo.

«I Governatori debbono decidere sui problemi di metà della Galassia. Non possono concedere a chiunque un tempo maggiore di questo. Perciò preparate accuratamente il vo­stro caso. Non viene mai concesso un secondo appello.»

Kenniston pensò che non doveva essere venuta per dirgli semplicemente questo e attese, per costringerla a parlare. Capiva ora che la tensione e la stanchezza di lei erano pari alle sue. Infine, con riluttanza, Varn Allan disse: «Come viceamministratore del settore, Norden Lund avrà anch’egli il diritto di parlare su questo problema, di fronte ai Gover­natori.»

Kenniston lo aveva previsto, ma non gli importava molto, e lo disse.

«Può avere una grande importanza, invece, per voi e per il vostro popolo» osservò Varn Allan.

«In che modo?» domandò Kenniston.

«Lund è ambizioso» disse Varn Allan. «Desidera esse­re amministratore, e, più tardi, Governatore... persino Presi­dente, forse. Le sue aspirazioni sono senza limiti.»

Ora Kenniston cominciava a capire un poco.

«In altre parole, come ha detto Gorr Holl, Lund vuole il vostro posto?»

«Sì. Sarebbe per lui un passo avanti. E per compiere quel passo commetterebbe senza esitazione un’ingiustizia. Di questo sono sicura.» Varn Allan si piegò verso di lui. «Lund vede, in questo problema della Terra, un’occasione senza pari per farsi avanti. La vostra inaudita irruzione in questa epoca, dal lontano passato, ha creato un immenso, un tremendo interesse per voi. E molti mondi si interesse­ranno al vostro caso.»

Nella sua ansia, Varn Allan si era alzata e stava ritta di fronte a lui, parlando con cura, scegliendo bene le parole, per fargli chiaramente capire ciò che voleva.

«Se Lund riuscirà a dominare la seduta, se potrà presen­tare una prova sensazionale che io ho commesso un errore nel trattare il problema della Terra e che egli ha previsto co­me sarebbero andate le cose, allora avrà modo di distinguer­si agli occhi di tutti.»

Kenniston era sicuro di aver completamente compreso, ma, celando i propri sentimenti, domandò: «Allora, temete che Lund tenga in serbo un colpo di scena per quella se­duta?»

«Sì» confermò Varn Allan. «So che ha in mente qual­che cosa. Ha mostrato un’aria trionfante fin dal momento che siamo partiti. Ma che cos’abbia in mente, non lo so.»

Guardò Kenniston, preoccupata, poi riprese: «Lo sapete, forse, voi? Vi è qualche aspetto del vostro popolo, di questo problema della Terra, che Lund potrebbe usare alla seduta come un’arma?»

Kenniston si alzò. La guardò in viso, e scoppiò in una risa­ta. Era una risata amara, irosa, in cui sfogava tutto il risenti­mento che aveva sentito per lei sin dal principio. Ella lo guardò sorpresa, senza capire.

«Questo» sbottò Kenniston «è molto divertente, dav­vero! Siete venuta sulla Terra come rappresentante legale della Federazione, come suprema autorità, ci avete conside­rati tutti come un branco di pecore, ci avete ordinato questo e quello e non avete nemmeno voluto ascoltare ciò che i po­veri esseri primitivi avevano da dire. E poi, a un tratto, quan­do il vostro prezioso posto è in pericolo, correte da me per­ché vi aiuti a salvarlo!»

Il viso di Varn Allan, a quelle parole, divenne pallidissimo, incredulo, i suoi occhi azzurri fiammeggiarono, la sua perso­na sottile si eresse, rigida e tesa.

Kenniston proseguì, sempre più adirato: «Sapete che vi debbo dire? Non me ne importa un accidente di chi sarà am­ministratore, se voi o Lund! Né l’una né l’altro siete della mia razza. Se vi prenderà il posto, se avrà più potenza e autorità di voi... questo non muterà affatto le cose, né per me né per il mio popolo.»

Dal viso pallidissimo e adirato di lei, Kenniston capì subi­to che l’aveva finalmente colpita a fondo, che quel competen­te e brillante funzionario in gonnella era soggetto a emozioni come qualsiasi altra donna.

«Così» disse Varn Allan, respirando a fatica «avete creduto che volessi implorare il vostro aiuto per salvare il mio posto?»

La sua voce si levò, più forte, mossa da un’ira che pareva troppo grande per poter essere contenuta e repressa nella sua sottile persona. Fu come se Kenniston avesse toccato una molla che liberasse un violento risentimento da troppo tempo represso.

«Il mio posto... il mio rango di funzionario! Ma credete che io sia come Lund, che il potere di dare ordini mi faccia piacere? Che ne sapete voi, primitivo come siete, di una tra­dizione di servizio nella Federazione? Credete che abbia cer­cato il potere a tutti i costi, che mi sia divertita a studiare per anni mentre altre ragazze si divertono invece a danzare, che la mia idea di una vita felice fosse quella di passarla in una nave spaziale, percorrere qua e là, su mondi nemici? Credete che questo mi sia tanto caro da tormentarmi, da farmi com­plottare, da spingermi a implorare persino il vostro aiuto, per conservarmelo?»

Soffocava letteralmente dall’indignazione, e si volse, de­cisa, verso la porta. Kenniston, colpito da quello scoppio violento, obbedì a un impulso improvviso e l’afferrò a un braccio.

«Aspettate! Non andatevene! Io...»

Ella lo guardò con occhi fiammeggianti e ordinò: «La­sciatemi andare, altrimenti chiamerò una guardia!»

Ma Kenniston non le lasciò il braccio. Disse invece, imba­razzato: «No! Aspettate! Ero fuori di me. Ne sono molto spiacente...»

E lo era infatti. Si vergognava di sé, non ne comprendeva esattamente la ragione, ma le parole di quella ragazza lo ave­vano colpito. Odiava qualsiasi forma d’ingiustizia e sentiva che era stato ingiusto con lei.

Lo disse, e Varn Allan lo guardò con occhi ancora irati, ma dopo un momento si allontanò dalla porta.

«Sta bene, dimentichiamo tutto questo» disse, rigida­mente. «La colpa è stata mia, perché mi sono lasciata vince­re dalla collera, come...»

«Come un primitivo» disse Kenniston, terminando la frase per lei.

«Esattamente, come un primitivo» ella confermò, a denti stretti.

Kenniston scoppiò a ridere. La sua ostilità per lei e per la sua gente non era svanita, ma aveva perduto quel risenti­mento provocato da un senso di inferiorità che lo aveva tur­bato e irritato sin dal primo momento che l’aveva vista.

L’aveva perduto da quando ella, da funzionaria competen­te e autoritaria, si era rivelata come una ragazza preoccupata e indifesa.

«No, no, non rido di voi!» disse, rapidamente, nel timore che ella lo fraintendesse. «E ora ditemi, perché avete rite­nuto necessario parlarmi dell’atteggiamento di Lund?»

«Per salvare il mio rango e il mio posto!» ella motteg­giò, amaramente. «Perché avevo paura di perderli, di...»

«Già, avete ragione. Ma vi ho fatto le mie scuse» prote­stò Kenniston, impaziente. «Per tutti i diavoli, che gente su­scettibile siete!»

Per un momento, Varn Allan rimase in silenzio. Poi disse: «Credete che non importi nulla, se Lund parlerà o no alla seduta, perché siete convinto che ambedue siamo contro il vostro popolo. Invece vi sbagliate, Kenniston.»

«Ma ambedue volete evacuarci dalla Terra» le ricordò Kenniston. «E allora, che differenza c’è tra voi?»

«C’è una grande differenza» ella disse, ansiosamente. «Posso aver commesso degli errori nel trattare col vostro popolo, ma il mio desiderio è sempre stato quello di effettua­re una evacuazione tranquilla, pacifica. Lund vorrebbe inve­ce risolvere con la forza il problema della Terra... vorrebbe cioè che l’evacuazione fosse forzata.»

«Forzata?» ripeté Kenniston, irrigidendosi. «Ma ho detto chiaramente ad ambedue cosa significherebbe, se vi metteste in mente di usare la forza!»

«Lo so, e vi credo abbastanza per desiderare di risolvere pacificamente questo problema dell’evacuazione, anche se ciò dovesse rendere necessario un ritardo. Questa è la mia idea sui compiti di un’amministratrice. Ma Lund sa benissi­mo che, a causa della vostra strana situazione, e del fatto che questo caso della Terra rimette in discussione la lunga con­troversia circa l’evacuazione dei mondi, tutti gli occhi saran­no puntati su quella seduta, ed egli vuole approfittarne, a ogni costo, senza curarsi degli effetti disastrosi che il suo comportamento potrebbe avere per la Terra.»

La sua logica era molto chiara, e combinava perfettamen­te con quanto Kenniston sapeva già sul conto di Lund. Una intensa e più forte preoccupazione lo invase.

«Ma che cosa potrebbe dire Lund, sulla Terra o sul pro­blema della Terra, che possa costituire un colpo di scena alla seduta?» domandò.

Varn Allan scosse il capo.

«Non lo so» disse. «Credevo che voi lo sapeste. Ma qualcosa ha in mente, di questo sono sicura.»

Kenniston rimase assorto.

«Non riesco a immaginarmi che cosa possa essere» dis­se. «Ma forse, Gorr e gli altri ne hanno un’idea. Voglio pro­vare a domandarlo a loro e cercar di scoprire che cosa sia.»

La guardò, così dicendo e, quali che fossero i suoi senti­menti verso di lei, dovette ammettere che era ormai convinto del suo sincero attaccamento al dovere e che, se anche le loro idee della giustizia non collimavano, ella non voleva tuttavia essere deliberatamente ingiusta. Le disse, perciò: «Vi rin­grazio per avermi avvertito. E... mi spiace ancora di essermi lasciato trasportare dal risentimento.»

«So che siete snervato... per il viaggio e per l’ansietà» disse lei, calma. «Ma... non lasciatevi incoraggiare a spera­re troppo, da Gorr e dagli altri. L’evacuazione in se stessa non può essere evitata. È il modo in cui dovrà essere eseguita, che mi preoccupa.»

E aggiunse, con un improvviso senso di stanchezza: «Vorrei essere una ragazza della vostra Middletown, che non ha mai lasciato il suo mondo e per la quale le stelle non sono che luci nel cielo.»

Kenniston scosse il capo.

«Avreste egualmente le vostre preoccupazioni, credete­mi. Scagliati fuori dalla vita di un tempo, in questa epoca... Carol, proprio ora, è più sconvolta di quanto voi possiate mai essere stata.»

«Carol? È quella ragazza con la quale vi ho visto spesso?»

«Sì» confermò Kenniston. «La mia ragazza. È stata allevata in quella nostra vecchia città. Le sue preoccupazioni erano solamente la scuola, le scampagnate, i ricevimenti, i vestiti che doveva mettersi, e cose del genere, e poi, a un trat­to... tutto è scomparso! Si trova qui, in questo pazzo mondo del futuro, e non le è nemmeno concesso di rimanere sulla Terra!»

«Che strano dev’essere» rifletté Varn Allan a voce bassa, col viso assorto «nascere ed essere allevati su di un piccolo, piccolo pianeta, vivere una piccola vita, circoscritta da picco­le cose... In un certo senso, invidio la vostra ragazza. E mi spiace tanto, per lei.»

Varn Allan si volse per andarsene. Kenniston le tese la mano.

«Nessun rancore, allora?» disse.

Ella rimase per un attimo incerta, stupita del suo gesto, come se non comprendesse. Poi parve capire, sorrise e posò la mano, con un senso di imbarazzo, su quella di lui. Ma la ri­tirò subito, come se la mano di lui scottasse, e uscì.

Kenniston la guardò mentre si allontanava nel corridoio.

«Ebbene!» mormorò. «Chi avrebbe pensato che un ti­po come lei, così volitiva e autoritaria, avesse paura degli uo­mini?»

La sua ostilità e il suo risentimento erano svaniti. Il fatto che ella fosse incaricata dell’evacuazione non lo preoccupava molto ora. Ciò che invece lo turbava era Norden Lund.

Più pensava a Lund e più la sua ansia cresceva. Infine, sempre più tormentato, andò nella cabina di Gorr Holl e parlò con lui.

Gorr Holl apparve subito molto allarmato.

«Questo non ci voleva!» borbottò. «Lund può far na­scere un pandemonio, se è a conoscenza di qualche cosa. Ma che può essere?»

«Credevo che tu lo sapessi» disse Kenniston.

«Non lo immagino nemmeno» disse Gorr Holl. Rimase un momento assorto, poi aggiunse: «Aspetta un po’... Piers Eglin si è trovato molto spesso con Lund, in questi ultimi tempi. Forse lui ne sa qualche cosa.»

Kenniston si alzò.

«Piers vuol sempre parlare con me, sulla vecchia città e cose del genere. Se sa qualche cosa, riuscirò forse a farglielo dire.»

Ma non fu che il giorno seguente, nella strana alba artifi­ciale dell’astronave, che ebbe occasione di vedere il piccolo storico e di parlargli.

Dopo aver conversato di altre cose, gli domandò brusca­mente: «Sapete che cosa Lund abbia in mente di dire, a quella seduta?»

La domanda turbò profondamente Piers Eglin.

Cercò di tergiversare, distolse lo sguardo da Kenniston con espressione preoccupata, e mormorò: «Perché me lo domandate? Che cosa dovrei sapere?»

Kenniston lo guardò negli occhi.

«Siete un mentitore dilettante, Piers. Dite, piuttosto, che cosa effettivamente sapete?»

Eglin cominciò a balbettare, piuttosto incoerentemente.

«Kenniston, ascoltate...! Non dovete trascinarmi nei vo­stri guai! Mi siete molto simpatico, desidererei tanto potervi aiutare... Ma sono uno storico, questa è la mia vita, e quella vostra vecchia città, sulla Terra, è per me come un sogno di­venuto realtà. Per salvarla farei qualunque cosa... qualunque cosa!»

«Che diavolo state dicendo?» domandò Kenniston. «Che c’entrano gli abitanti di Middletown, in tutto questo?»

Il piccolo storico proseguì, parlando febbrilmente: «Ma voi non capite la sua importanza. Voi e la vostra gente mori­rete e scomparirete ma quella vostra città, dal lontano passa­to, può essere conservata per sempre come uno dei più gran­di tesori della storia. Io potrei conservarla, conservarla per ogni studio del futuro, se avessi un appoggio ufficiale...»

Kenniston capì d’un tratto che cosa si nascondeva dietro le parole di Piers Eglin.

«E Norden Lund vi può dare questo appoggio ufficiale che cercate, vero? Ma in cambio di che cosa? Che cosa avete trovato, per aiutare lui?»

Eglin scosse il capo, con aria desolata.

«Non posso dire nulla, Kenniston. Davvero, non posso dire nulla!»

Aveva quasi le lacrime agli occhi, mentre si allontanava. Kenniston lo guardò andarsene, perplesso e profondamente scosso egli stesso.

Raccontò la cosa a Gorr Holl e agli altri. Magro non sape­va più che pensare.

«Ma che potrebbe fare, Piers Eglin, per aiutare Lund? Non riesco a capire» disse.

«Forse avrà sentito qualcuno della popolazione fare mi­nacce o altro del genere, e lo ha riferito» azzardò Kenni­ston.

Gorr Holl scosse la testa.

«Una cosa riportata non avrebbe che poco valore» dis­se. «E, in ogni modo, Piers non ha molto frequentato la po­polazione dopo la prima giornata... Ha trascorso invece qua­si tutto il suo tempo nella vecchia città.»

«Tutto questo non mi piace» disse Lal’lor, lentamente. «Cerca di scoprire che cosa ha fatto Piers, Kenniston.»

Kenniston si accorse tuttavia, nei giorni che seguirono, che Piers Eglin lo evitava deliberatamente. Non vide nemme­no più il piccolo storico sinché giunse il momento dell’arrivo a Vega Quattro.

Aveva passato ore, quel giorno, sul ponte interno del Thanis,guardando con incredula meraviglia lo sconosciuto sistema solare che prendeva forma nel vuoto, i pianeti che giravano in curve maestose nel brillante cerchio di luce di Vega.

La nave spaziale stava ora calando sul quarto pianeta. Kenniston vedeva il globo nebbioso che si faceva loro incon­tro. Poi avvertì ancora la formidabile pressione, magicamen­te attenuata. Mentre calavano, coi motori ronzanti, fu colpi­to da un vertiginoso terrore che quel viaggio terminasse con uno schianto.

Vide un vasto paesaggio, i cui colori dominanti erano del tutto dissimili da quelli della Terra. Alte montagne aspre, di una roccia nero-rossastra, si elevavano al di là di vaste pia­nure azzurre. Poi la nave spaziale passò come un lampo so­pra una grande distesa di un giallo vivissimo... un oceano dorato che rifletteva in modo accecante la luce brillante di Vega. E infine, una città! Una città torreggiante, grande co­me un continente che, anche se veduta dalla stratosfera, ba­stava da sola a mozzare il respiro a Kenniston. Accanto a quella città c’era un enorme spazioporto per le navi spaziali, e il Thanis vi stava calando, districandosi abilmente nel traf­fico intenso delle altre navi spaziali in arrivo e in partenza. Poi, con una leggerissima vibrazione, la nave spaziale si ar­restò.

Vega Quattro! Vi era giunto, finalmente! E non poteva cre­dere a se stesso, nemmeno ora!

Gorr Holl gli slacciò le cinghie che lo avevano tenuto lega­to durante la decelerazione dell’atterraggio su Vega. Il grosso umanoide era teso e preoccupato quanto Kenniston.

«Jon Arnol dovrebbe essere qui ad attenderci» disse ra­pidamente. «Le sue officine sono sull’altra faccia di questo pianeta. Vieni, Kenniston.»

Jon Arnol? Kenniston si era quasi dimenticato di lui, nella tensione di quello strano arrivo. Nel fascino conturbante di quell’evento, gli riusciva difficile raccapezzarsi persino delle ragioni di quel viaggio.

Scese con Gorr Holl nell’ampio vestibolo dello spaziopor­to. Una strana luce solare azzurra scintillava sul pavimento metallico. Un’aria strana, carica di lievi profumi sconosciuti, gli giungeva alle narici.

Lund e Varn Allan erano già nel vestibolo, e la donna gli disse: «Sarete alloggiato al Centro del Governo. Posso ac­compagnarvi là.»

Gorr Holl, che guardava un uomo magro e scuro che si avvicinava a passi rapidi verso di loro, intervenne: «No, non vi disturbate. Accompagneremo noi Kenniston al suo alloggio.»

L’uomo magro e scuro si era nel frattempo avvicinato. Ave­va forse dieci anni più di Kenniston, ma aveva un viso sciu­pato e gli occhi da sognatore, e le mani incerte di un uomo in stato di grande eccitazione.

Varn Allan appuntò lo sguardo su di lui, e disse: «Ora ca­pisco! Jon Arnol, era questo che avevate in mente, Gorr Holl. Ma non riuscirete.»

«Forse riusciremo, questa volta» borbottò Gorr Holl.

Norden Lund, dopo aver osservato Arnol mentre entrava, rise e senza dire una parola se ne andò. Varn Allan si sof­fermò un istante, come se volesse dire qualche cosa a Kenni­ston, ma non lo fece. Disse invece: «Allora siete voi respon­sabile per la sua comparsa, domani, alla seduta, Gorr.» E si allontanò.

Kenniston, guardandola mentre se ne andava, avrebbe de­siderato che gli avesse parlato. Avrebbe anche desiderato che Lund non avesse riso così beffardamente. Era già abbastan­za preoccupato.

Arnol li aveva raggiunti e salutava Lal’lor come un vecchio amico, sorridendo anche a Magro e a Gorr Holl.

Il suo sorriso, i suoi movimenti erano bruschi, come se i nervi tesi del suo corpo agissero indipendentemente dal cer­vello.

«Credo che abbiamo una buona occasione, questa volta, Lal’lor!» diceva intanto, con voce rapida. «Sia ringraziato il Cielo! La questione della Terra può essere proprio ciò che attendevamo, l’occasione per far loro accettare il mio proce­dimento, piaccia o no! È proprio un colpo di fortuna!»

«Questi è Kenniston, della Terra» gli disse Gorr Holl.

Jon Arnol parve un poco turbato e confuso, mentre si ri­volgeva a Kenniston.

«Mi spiace di essermi dimostrato un poco egoista. So che avete anche voi il vostro terribile problema. Ma se sape­ste quanto ho sudato, atteso e sperato! Sono uno scienziato, null’altro ha importanza per me, e ho visto il lavoro e gli sfor­zi di tutta la mia vita sciupati dalla politica...»

Gorr Holl lo interruppe.

«Questo non è il posto adatto, per discorrere. Andiamo al Centro del Governo. Potremo parlarne nell’alloggio di Kenniston, e abbiamo molto da dirci, prima di domani!»

Kenniston si avviò con loro e, per un momento, tutti i pro­blemi della Terra gli parvero incredibilmente lontani.

Stava su un mondo sconosciuto, sotto un sole sconosciu­to, e tutt’attorno a lui fremeva la vita intensa dello spaziopor­to, dove giungevano e partivano per mondi ignoti le grandi astronavi. Qui, più che nello spazio, aveva la chiara percezio­ne di quei contatti che si svolgevano coi soli più lontani, la realtà di quelle scintillanti vie attraverso le nebulose, verso i numeri infiniti di porti di infiniti mondi senza nome. Un sen­timento di meraviglia e di orgoglio sorgeva in lui, al pensiero che uomini provenienti dalla Terra avessero raggiunto tali mete.

Il ronzio delle grandi navi spaziali faceva vibrare il suolo all’intorno, le potenti forze atomiche allestivano le grandi piastre metalliche per le corazze, le nere chiglie si levavano maestose contro il cielo. Kenniston non si sarebbe mai stan­cato di guardare se Gorr Holl, presolo per un braccio, non lo avesse condotto con sé.

Jon Arnol aveva una vettura ad attenderlo, un veicolo che non assomigliava affatto a quanti Kenniston avesse mai visto eccetto per il fatto che correva veloce rasente al suolo. Il suo percorso sembrava automaticamente controllato nell’incre­dibile traffico delle strade, delle rampe, dei ponti sospesi che collegavano la città come una tela di ragno. Partirono veloci, ma non tanto veloci che egli non potesse guardare.

Guardando quella città, Kenniston si sentiva come un barbaro venuto dal deserto a Babilonia. Era più una nazio­ne che una città, troppo vasta, troppo enorme, per poterla comprendere. Già l’oscurità si addensava, ma le vie profon­de erano tutte illuminate di una luce brillante e il traffico proseguiva dovunque, come grandi fiumi in piena. E men­tre la vettura procedeva rapida, i suoi compagni, per nulla impressionati da quello spettacolo, continuavano a parlare animatamente del domani, della seduta, della grande occa­sione.

Kenniston guardava le strade affollate e lucenti, quelle migliaia di sconosciuti che le percorrevano, e pensava atto­nito che quello era il centro della Galassia, la capitale di mi­gliaia e migliaia di mondi. Uomini, donne e umanoidi, abiti di seta ed epidermidi pelose, spalle ricoperte di ali, voci umane e non umane, musiche sconosciute che lo snervava­no, palpiti di macchine nascoste, e, al di sopra di tutto, il ron­zio profondo di altre navi spaziali, innumerevoli, che calava­no dal cielo oscuro.

Come da una distanza remota, udì Gorr Holl che gli parla­va, indicandogli un gruppo di edifici titanici che sorgevano, come una bianca cordigliera, con le cime che si perdevano nel cielo. Con la mente confusa, capì che quello era il Centro del Governo, il posto al quale erano diretti, il posto dove, fra poco, si sarebbe trovato di fronte a quegli stranieri delle stel­le per parlare loro della sua lontanissima Terra.

17

Il giudizio delle Stelle

Kenniston strinse spasmodicamente i pugni sotto la tavola di lucente materia plastica, come per aggrapparsi a una realtà.

“Questo è vero, tutto questo è vero” diceva a se stesso, con­vulsamente. “Tutto questo sta proprio accadendo, e io non sono un pazzo. Io sono proprio John Kenniston. Solo poche settimane or sono mi trovavo a New York. Ora mi trovo in un posto che si chiama Centro di Vega. Sono sempre io, sono John Kenniston. Solo il mondo è cambiato. Ma è sempre realtà.”

Ma sapeva che non era così. Sapeva che quel Centro di Ve­ga e il vastissimo anfiteatro di marmo nel quale sedeva, era­no solo le ombre di un incubo spaventoso dal quale non riu­sciva a svegliarsi.

Con occhi incerti, guardò in alto. Sedevano tutti, silenzio­si, a migliaia e migliaia, in un cerchio smisurato ove risuona­va l’eco, in file innumerevoli che si elevavano verso la volta, perduta nella penombra. Migliaia e migliaia di occhi che lo guardavano, occhi umani e non umani. Migliaia e migliaia di occhi che lo fissavano curiosi, intenti.

Gli ospiti della Federazione delle Stelle! Il Comitato dei Governatori, in seduta plenaria!

Migliaia di esseri che venivano dai mondi lontanissimi di tutta la Galassia... Per loro, per tutti loro, egli doveva avere un aspetto altrettanto irreale. Doveva sembrare loro impossi­bile di stare realmente guardando un uomo che veniva dal più lontano, dal più dimenticato, da un quasi incredibile pas­sato.

La voce tranquilla, tagliente di Varn Allan interruppe i suoi pensieri turbinosi. In quel momento stava concludendo il suo rapporto su Middletown.

«Questa è una situazione molto complessa» diceva. «Nel trovare una soluzione per essa, vi chiedo di ricorda­re che questo popolo rappresenta un caso speciale, del qua­le non vi è alcun precedente nella storia. È mia convinzione che questo popolo abbia diritto a una speciale considera­zione.»

Vi fu una pausa, poi Varn Allan proseguì: «La mia racco­mandazione è perciò la seguente: che la proposta evacuazio­ne venga ritardata finché gli abitanti siano psicologicamente in grado di adattarsi all’idea di un trasferimento. Questo adattamento psicologico, a mio parere consentirebbe di ese­guire l’evacuazione senza difficoltà.»

Varn Allan guardò Norden Lund, che sedeva accanto a lei.

«Forse il viceamministratore Lund ha qualche cosa da aggiungere al mio rapporto.»

Lund sorrise.

«No. Mi riservo per più tardi il diritto di parlare.» I suoi occhi scintillavano di beffarda aspettativa.

Vi fu un momento di silenzio. Kenniston poteva udire il lieve e diffuso fruscio, il respiro e il fremito di quelle migliaia e migliaia di Governatori in ascolto.

Il Presidente, un uomo piccolo e dal viso intelligente, che rappresentava la voce del Comitato, l’interrogatore, e che se­deva alla medesima tavola con loro, disse allora: «Il Comi­tato dei Governatori riconosce a voi, Kenniston, il diritto di parlare in nome di Sol Tre.»

I Governatori di tutta la Galassia attendevano con impa­zienza che egli parlasse.

Anche gli altri attendevano. Attendevano nell’oscurità e nel gelo mortale di Sol Tre, il piccolo mondo il cui antico no­me di Terra era stato del tutto dimenticato in quella riunio­ne di governo. Attendevano gli operai, le massaie, i ricchi e i poveri, tutto il popolo di Middletown, pieno d’ansietà, at­tendeva.

Varn Allan lo guardò e gli sorrise con simpatia.

Kenniston respirò profondamente. Con uno sforzo enor­me di volontà si indusse a parlare. Si sforzò perché le parole gli venissero alle labbra, dagli oscuri meandri dell’anima, da quel terrore che aveva sentito palpitare nel cuore dei suoi, nella sua Terra lontana.

«Noi non abbiamo chiesto di venire nella vostra epoca. Essendoci venuti, ci troviamo sotto la legge della Federazio­ne, e non sfidiamo la vostra autorità come tale. Non voglia­mo far nascere guai. Il nostro problema è un problema psico­logico...»

Cercò di spiegare, a quegli uomini della Federazione, qualche cosa di ciò che era stata la loro vita, prima di quel fa­tale mattino di giugno. Cercò di far loro capire come il suo popolo fosse legato al suo mondo, e perché vi si aggrappasse tanto disperatamente.

«Comprendo i problemi tecnologici che rendono diffici­le continuare a vivere in un mondo come il nostro. Ma abbia­mo conosciuto anche prima, molte volte, la privazione e la sofferenza. Non ne abbiamo paura. E siamo convinti che, col tempo, riusciremo a risolvere i nostri problemi.» Si fermò un momento, poi concluse: «Non chiediamo nemmeno il vostro aiuto, benché vi saremo sempre grati, se vorrete dar­celo. Tutto ciò che chiediamo è di essere lasciati soli, per provvedere noi alla nostra salvezza!»

Tacque. Il silenzio, e quelle migliaia e migliaia di occhi che lo guardavano, lo opprimevano come un peso schiacciante.

Kenniston lottò per cercare una parola finale. Tante cose c’erano, che non aveva dette... tante cose che non avrebbero mai potuto essere formulate in parole.

Come spiegare, in una frase, la storia della razza degli uo­mini, l’orgoglio e il dolore del loro inizio nel tempo?

«La Terra è la madre dalla quale siete discesi» disse. «Non potete lasciarla morire!»

Ecco tutto! Era finito! Per il bene o per il male, aveva fini­to. Non vi era altro da aggiungere.

Jon Arnol, sbalordito, si piegò verso di lui dal posto dove sedeva, allo stesso tavolo.

«Magnifico!» bisbigliò. E ripeté: «Magnifico!»

Il Presidente domandò: «È con l’applicazione delle teorie di Jon Arnol, che sperate di riportare la vita su Sol Tre?»

Prima che Kenniston potesse rispondere, Arnol stesso gridò: «Su questo punto, domando la parola!»

Il Presidente fece un cenno di assenso.

Arnol si alzò. La fiera energia che lo spingeva non avrebbe potuto essere contenuta più a lungo. Parve che affrontasse di colpo tutto il Comitato dei Governatori, volgendo verso di lo­ro lo sguardo di sfida dei suoi occhi neri.

«Mi avete negato un’altra occasione di tentare il mio pro­cedimento... e ciò a onta del fatto che nessuno scienziato può impugnare le mie equazioni. Mi avete negato quella occasio­ne per considerazioni politiche che sono note a chiunque, qua dentro. Sono le stesse considerazioni che hanno fatto fallire deliberatamente la mia prima prova, scegliendo per essa un mondo troppo piccolo per lo scoppio di energia libe­rato nel suo interno.

«Ma la Terra non è un mondo come quello. Là, l’esperi­mento avrà successo. Vi chiedo di consentire che venga ten­tato. Questo procedimento non risolverà solamente il pro­blema che avete davanti a voi, ma qualsiasi futuro problema di mondi morenti. Voi credete che l’evacuazione, il trasferi­mento delle popolazioni, sia una soluzione migliore ma non potete continuare a trasferire delle popolazioni, per sempre!»

Fece una pausa. Poi la sua voce risuonò ancora, duramen­te: «E nemmeno potete voi, per preconcetti di filosofia po­litica, ritardare per sempre il progresso scientifico. Io affer­mo che non avete alcun diritto di negare ai popoli della Fe­derazione il bene incalcolabile che questo procedimento può rappresentare per loro. Vi domando quindi di permet­tere un nuovo esperimento, usando il pianeta Sol Tre come soggetto.»

Jon Arnol sedette. Un mormorio confuso si levò dalle file innumerevoli dei Governatori. Le teste si avvicinavano per scambiare impressioni. Kenniston osservava ansiosamente tutti quei visi. Impossibile dire...

«Credo» bisbigliò Jon Arnol «che questa volta daran­no il consenso!»

Il Presidente alzò la mano, per annunciare l’inizio della votazione.

Ma, in quel momento, Norden Lund disse: «Chiedo ora la parola!»

La parola gli fu concessa. E Kenniston sentì il cuore che gli batteva nel petto fino a scoppiare.

La voce di Lund risuonò per tutto l’anfiteatro: «Vi è un fatto che riguarda gli abitanti della città di Middletown, un fatto che non è stato menzionato... un fatto che il mio supe­riore diretto non ha nemmeno scoperto! Un fatto che è stato accertato dai registri della loro vecchia città, decifrati dall’e­sperto linguistico e storico della nostra missione.»

I nervi di Kenniston erano tesi fino allo spasimo. Così, si avvicinava il momento, il momento in cui avrebbe saputo ciò che Lund aveva scoperto per mezzo di Piers Eglin.

«Vi è stato detto che questi abitanti di Middletown sono brava gente, inoffensiva. Vi è stato chiesto di prenderli in spe­ciale considerazione, di concedere loro indulgenze speciali, di sorvolare sulle loro piccole violenze. E perché? Perché so­no patetiche creature, vittime innocenti di uno scherzo del destino che li ha scagliati fuori dal loro mondo e dalla loro epoca.»

La voce di Lund si indurì e tuonò, irosa: «Ma non è stato il capriccio del destino a scagliarli nella nostra epoca. È stato un atto di guerra!»

Si arrestò, per far ben capire ciò che aveva detto. Kenni­ston guardò il viso di Varn Allan. Varn Allan guardava Lund stupefatta.

Lund proseguì: «Kenniston smentisca, se può! Fu l’e­splosione di una bomba atomica che infranse la continuità del tempo e scaraventò la sua città nella nostra epoca. Que­gli uomini sono figli della guerra, nati e cresciuti in un’epo­ca di guerra!

«Considerate la violenza della folla, le minacce fatte contro i funzionari della Federazione, il rifiuto di accetta­re un’autorità pacifica! Considerate che, in questo mo­mento, i buoni abitanti di Middletown sono pronti a far fuoco sulla prima nave spaziale della Federazione che toc­chi la Terra!»

La voce di Lund si abbassò in un tono più drammatico e intenso.

«Vi avverto che quegli abitanti sono infetti dalla piaga della guerra. Per secoli, noi della Federazione abbiamo lotta­to per liberarci dalle guerre, e ce ne siamo liberati. Ora, la guerra è nuovamente apparsa tra noi. E noi, i sostenitori del­la legge della Federazione, indugiamo davanti a una intima­zione di forza!»

Kenniston era balzato in piedi. Jon Arnol lo aveva afferra­to, trattenendolo. Varn Allan si era curvata sulla tavola, bisbi­gliandogli, in tono disperato: «No, Kenniston! No! Cercate di padroneggiarvi!»

Il Presidente chiese a Lund: «Quale linea di condotta rac­comandate al Comitato dei Governatori?»

Lund, allora, gridò: «Dimostrate a quegli abitanti che non possono rendere vana un’autorità pacifica con una mi­naccia di guerra! Confinateli al più presto possibile in qual­che mondo lontano e isolato, alle frontiere della Galassia... un mondo tanto lontano che essi non possano infettare con la loro brutale psicologia le correnti di pensiero della Federa­zione!»

Kenniston si liberò con uno scatto dalla stretta di Arnol. Si precipitò davanti a Lund e lo afferrò al petto, curvando su di lui un viso così pallido e furente per la rabbia, che Lund, ve­dendolo, emise un gemito.

«Chi sei tu» ringhiò Kenniston «per emettere giudizi su di noi?»

La rabbia lo soffocava, gli impediva di parlare oltre. Allon­tanò Lund da sé con un gesto violento, scagliandolo lontano, cosicché Lund cadde sui ginocchi alcuni metri più in là, poi si rivolse all’assemblea dei Governatori.

«Sì, abbiamo combattuto le nostre guerre! Dovevamo farlo, perché il pensiero e il progresso e la libertà potessero sopravvivere nel nostro mondo. Voi, voi ci dovete tutto que­sto! Ci dovete tutto questo, per gli uomini che sono morti, perché vi potesse un giorno essere una Federazione delle Stelle. Anche la potenza atomica, ci dovete! Noi ne abbiamo fatto un cattivo uso, ma è la forza che ha costruito la vostra civiltà, e siamo noi che ve l’abbiamo data!

«Pensate a queste cose, voi, uomini del futuro! Dalla Terra siete venuti, e tutta la vostra civiltà ha le sue radici nel nostro sangue. Voi vivete in pace perché gli uomini della Terra sono morti nelle guerre. Ricordatevi di questo, quando sedete sui vostri scanni, per giudicare il passato!»

Rimase ritto, in silenzio, tremante, e Varn Allan gli si avvi­cinò, per ricondurlo al suo posto.

Lund, che si era rimesso in piedi, disse: «Lascio che il ge­sto violento di Kenniston parli da sé, come mio argomento fi­nale.» E sedette.

Il Presidente alzò di nuovo la mano e l’abbassò poi lenta­mente per indicare l’inizio della votazione.

Kenniston si accorse appena dell’operazione di voto. Lot­tava contro una marea sconvolgente di dubbi, di rabbia, di timori, in palpitante attesa delle parole del giudizio, che sareb­bero presto state pronunciate. E infine, il momento venne.

«È decisione definitiva del Comitato dei Governatori che la popolazione di Sol Tre venga evacuata in conformità all’or­dinanza ufficiale già emessa.

«Nessun esperimento del procedimento Arnol su scala planetaria può essere considerato cosa sicura, in questo mo­mento.

«È desiderio dei Governatori che la popolazione di Sol Tre sia pacificamente assimilata nella Federazione. Si spera che il suo atteggiamento, nel futuro, sia tale da rendere ciò possi­bile. In caso diverso, dev’essere loro dimostrata l’inutilità di una resistenza armata.

«La seduta è tolta.»

Kenniston capì che Arnol gli diceva di alzarsi. Si alzò, e uscì dall’anfiteatro con gli altri. Udì la voce di Varn Allan che parlava, con ira amara, a Norden Lund, ma questi sorrise e se ne andò.

Non si ricordò più chiaramente di altro, finché fu ritorna­to al suo alloggio, dove Gorr Holl gli mise in mano un bic­chiere. Magro e Lal’lor avevano atteso là il verdetto. Varn Al­lan era ancora con lui, e anche Arnol.

«Mi spiace molto, Kenniston» disse Varn Allan, e Ken­niston sapeva che diceva la verità. Ma Kenniston scosse il capo.

«È stata colpa mia. Non avrei dovuto perdere la pa­zienza...»

«Non biasimatevi, Kenniston. E scusatemi. Ma Lund aveva dalla sua parte quella verità, ed era una verità tale da fargli vincere la partita. Perché né voi né la vostra gente ci avete mai detto che vi trovavate in guerra, in quella vostra epoca?»

Kenniston scosse il capo.

«Perché non eravamo affatto in guerra. Non avete capi­to? La bomba che ci lanciò fuori dal nostro tempo cadde in tempo di pace! Qualsiasi cosa accadde dopo, non possiamo saperlo, perché non ci trovavamo più là!»

Varn Allan andò su e giù per la camera, con la fronte cor­rugata, poi disse: «Farò in modo che questo ordine di eva­cuazione sia eseguito il più lentamente possibile. Questo po­trà alleviare un poco il colpo, per la vostra gente. Avevo in passato un po’ d’influenza sui Coordinatori... Ora, non so, Lund mi ha colpita a fondo nella mia autorità.»

Kenniston capì in quel momento che quella giornata era stata una sconfitta anche per lei, e una sconfitta ingiusta. Era stato, sino ad allora, troppo sconvolto dalla sua stessa dispe­razione per accorgersene.

«Me ne dispiace molto» disse a sua volta.

Ella sorrise un poco e si volse per andarsene, fermandosi un attimo per appoggiare una mano sulla spalla di lui.

«Non prendetevela troppo» lo consolò. «Nessuno avrebbe potuto fare meglio di quanto avete fatto.»

Poi uscì. Rimasti soli, si guardarono allora in viso, i due uomini e i due umanoidi. Visi tristi, cupi, irosi...

«Ebbene» commentò Gorr Holl «è stato un ottimo tentativo. Io voto, ora, per una buona bevuta.»

«Sarà una brutta notizia anche per i nostri popoli, Gorr» osservò Magro. «Cominciavano a sperare anche loro.»

«Lo so» disse Gorr Holl. «Sta’ zitto!»

Porse un bicchiere a Kenniston e un altro a Jon Arnol, che se ne stava seduto fissando la parete.

«State allegro» lo rincuorò. «Il vostro procedimento è destinato a vincere la partita, un giorno o l’altro.»

«Può darsi» disse Arnol «ma questo non darà alcun sollievo al vostro popolo... a tutti i popoli umanoidi che han­no sostenuto e finanziato il mio lavoro e hanno posto in esso tante speranze. Vi ho dato una bella delusione!»

«Niente affatto!» ribatté Gorr Holl.

Kenniston pensava con amarezza alla sua gente, che aveva lasciata sulla Terra, in attesa ansiosa del suo ritorno. Pensava anche a Carol, e disse lentamente: «Non posso tornare sulla Terra! Non posso andare da loro e dire che ho fallito!»

«Si rimetteranno dal colpo» obiettò Gorr Holl, in un va­no tentativo rassicurante. «Dopo tutto, andare in un mondo sconosciuto è assai meno che essere scaraventati avanti nel tempo. Hanno resistito a ben peggiori sconvolgimenti.»

«Ma quella cosa è accaduta prima che essi lo sapesse­ro» disse Kenniston. «È molto diverso. E si trovavano sempre, in ogni modo, in un posto che conoscevano. No! Non si abitueranno a una cosa simile, ti dico. Combatteran­no fino all’estremo.»

Allargò le braccia, in un gesto di inutile rabbia.

«È proprio questo che non riesco a far capire, nemmeno a te!» disse, rivolgendosi a Gorr Holl. «Appartengono alla Terra. La Terra è come una parte del loro corpo. Affronteran­no qualsiasi pericolo, sfideranno qualsiasi minaccia, per ri­manere su di essa!»

Il suo sguardo cadde poi su Jon Arnol, sul suo viso amaro, cupo, rattristato dalla delusione. E, a un tratto, il cuore gli diede un balzo nel petto.

Ripeté, a bassa voce: «Qualsiasi pericolo... qualsiasi mi­naccia... Sì! Per tutti i diavoli, sì!»

Era tutto scosso da una terribile, disperata speranza. Si alzò e, attraversando la camera, si avvicinò a Jon Arnol.

«Mi avevi detto che avevi un piccolo incrociatore spazia­le di tua proprietà, con relativo equipaggio, non è vero?» gli domandò.

«Sì» confermò Arnol. «Lo tengo, di solito, nelle mie officine al di là delle montagne.» Poi aggiunse, amaramen­te: «Avevo avvertito i miei uomini, l’altra sera, di preparare l’incrociatore spaziale per un viaggio alla Terra. Ero così si­curo che il nostro momento era venuto, che...»

Kenniston gli domandò allora, a voce bassa: «Dimmi una cosa, Arnol. Credi veramente nel tuo procedimento?»

Arnol balzò in piedi. Aveva gli occhi sbarrati e sembrava quasi che volesse colpire Kenniston.

Ma Kenniston, imperterrito, aggiunse: «Ci credi abba­stanza, voglio dire, ci credi tanto da sfidare un ordine del Co­mitato dei Governatori?»

Arnol si irrigidì. Dopo un momento, disse: «Spiegati, Kenniston!»

E Kenniston spiegò ciò che aveva in mente. Tutto treman­te, parlò a lungo. E, gradualmente, gli occhi di Arnol risplen­dettero febbrili.

«È una cosa che si potrebbe sbrigare molto in fretta, là sulla Terra» mormorò. «Quelle antiche perforazioni, fatte per trarre il calore dal sottosuolo, eliminerebbero la neces­sità di eseguirne di apposite...»

Ma poi scosse il capo, con una specie di terrore dipinto sul viso.

«No! Significherebbe l’espulsione dal Collegio degli scienziati, l’esilio per tutto il resto della vita. Non posso farlo, Kenniston, non posso.»

«Hai lavorato e sperato per tanti anni» gli ricordò allora crudelmente Kenniston. «Un bel giorno rinuncerai anche a sperare, e il tuo procedimento sarà dimenticato e perduto.»

Arretrò di un passo, e aggiunse: «Non ti dirò altro... solo questo: che qui c’è un’occasione per te, se hai il coraggio di afferrarla. C’è la possibilità di tentare sulla Terra il tuo proce­dimento di ringiovanimento dei pianeti!»

Attese in silenzio, Gorr Holl e gli altri guardavano ansiosi, essi pure in silenzio. Gorr Holl aveva gli occhi scintillanti.

Arnol si mise le mani nei capelli, gemendo.

«Non posso, non posso! Eppure... non consentiranno mai lo so. Il lavoro di tutta una vita, perduto...»

Kenniston lo guardava soffrire in silenzio, tormentato fra il desiderio e la paura. Alla fine, Arnol si decise. Esitante, dis­se: «Dovrebbe essere il tuo popolo a decidere, Kenniston. Dovranno acconsentire ad accettare il rischio.»

«Li conosco, e so che acconsentiranno!» esclamò Ken­niston. «E se acconsentono?»

Gocce di sudore imperlavano la fronte di Arnol.

«Se acconsentono, lo farò» disse infine, con voce ferma.

Una grande eccitazione invase Kenniston. Una possibili­tà... un’ultima possibilità, dopo tutto!

Guardò Gorr Holl, Magro, e Lal’lor, e domandò: «Siete con noi, in tutto questo?»

Gorr Holl scoppiò in una grossa risata.

«Se siamo con voi?» Si avvicinò a Kenniston, e disse: «Noi, umanoidi, abbiamo combattuto questa battaglia per lungo tempo. Credi che vogliamo ritirarci ora?»

Gli occhi felini di Magro scintillavano. Non parlò nemme­no, ma si limitò a fare un cenno di assenso col capo.

Jon Arnol disse allora, eccitato: «Il mio incrociatore spa­ziale è ora attraccato al porto Sud, qui vicino. Non ci vorrà molto per giungere alle mie officine, nelle montagne.»

«Verrò anch’io...» disse Lal’lor.

«No» lo interruppe Gorr Holl «tu, vecchio mio, rimar­rai qui a fare da copertura. Dirai a chiunque che siamo anda­ti a far visitare la città a Kenniston.»

«Benissimo, Gorr» sospirò Lal’lor. «Ma cercate di es­sere prudenti... tutti voi.»

Lasciarono così l’alloggio di Kenniston. Mezz’ora più tar­di, l’incrociatore spaziale di Arnol fendeva la notte, diretto al­l’altra faccia di Vega Quattro.

18

Fatale ritorno

Un’altra notte era sopraggiunta. Sotto vivide, ignote stelle, i picchi neri delle montagne sembravano guardare accigliati la scena di febbrile attività che si svolgeva sul piccolo alto­piano.

Luci accecanti illuminavano il piccolo gruppo di bassi e lunghi fabbricati, il magazzino con le sue gru, e l’oscura mas­sa metallica di un piccolo incrociatore spaziale dalle lamiere logorate dal lungo uso.

Verso una grande apertura sul fianco dell’incrociatore, Kenniston e i suoi tre compagni stavano spingendo con cura un grosso ordigno ovale, nero e massiccio, adagiato su di un grosso carrello.

«Non dovete aver paura... non vi è alcun pericolo di scop­pio, perché manca l’elettrofusore» diceva Jon Arnol, in tono rassicurante.

«Se questa bomba atomica cambierà la faccia a un pia­neta, debbo trattarla con molto rispetto!» bofonchiò Gorr Holl.

A Kenniston pareva di agire come in un sogno. Tutti quegli avvenimenti, che si susseguivano, gli sembravano frutto del­la fantasia di un cervello malato. Quella grossa massa nera che la sua mano toccava... come poteva cambiare il futuro di un mondo?

Cercò di allontanare quei dubbi. Gli scienziati di quell’as­surdo mondo del futuro, maestri di una scienza che andava al di là della sua comprensione, avevano confermato la fon­datezza della teoria di Arnol. Era questo che lo aveva spinto a formulare quel progetto, e a ciò doveva attenersi. Era troppo tardi, ormai, per avanzare altri dubbi.

Era stanco, stanco morto. Avevano lavorato senza tregua per tutta la giornata, lui, Gorr Holl e Magro, aiutando Arnol e i suoi tecnici a caricare masse di materiale e i misteriosi ap­parecchi necessari all’esperimento.

Il piccolo incrociatore spaziale era l’officina volante di Ar­nol. Lo aveva portato in molti voli spaziali scientifici attra­verso tutta la Galassia. E i giovani tecnici delle officine, che avevano lavorato e sognato tanto a lungo a fianco di Arnol, non avevano fatto alcuna domanda. Kenniston non riusciva nemmeno a capire se sapessero cosa stavano facendo e quale fosse la loro missione.

Il capo pilota si avvicinò ad Arnol, mentre questi, aiutato dagli altri tre, stava caricando il suo pericoloso fardello.

«L’incrociatore è già stato messo a punto, ed è pronto a partire in qualsiasi momento.»

Arnol fece un cenno affermativo col capo. I tecnici stavano ora innescando la grossa bomba atomica, l’avevano assicura­ta nel suo alveolo, all’interno dell’incrociatore spaziale, in modo che fosse protetta da qualsiasi urto.

«Non appena pronti, partiremo» annunciò Arnol. Guardò Kenniston e gli altri, con un sorriso stanco e trion­fante. «Fra circa venti minuti, credo.»

Fu in quel momento che Kenniston vide la striscia lumi­nosa di una nave spaziale attraversare il cielo dirigendosi verso l’altopiano.

Anche gli altri la videro. Rimasero fermi in attesa, mentre i tecnici proseguivano rapidamente nel loro lavoro, e Kenni­ston diceva: «Deve essere Lal’lor con qualche messaggio.»

«Sì» concordò Arnol. «Nessun altro può sapere che ci troviamo qui.»

Eppure la loro ansietà aumentò, mentre la nave spaziale toccava l’altopiano. Kenniston pensava, disperatamente: “No, nessun altro poteva sapere! Non possiamo essere stati seguiti!”.

Senza nemmeno accorgersene, seguì gli altri, correndo at­traverso il piccolo spiazzo, verso il punto di atterraggio.

Vide la persona che scendeva dalla nave spaziale. No, non era Lal’lor. Era un uomo che non aveva mai visto... un uomo imponente, dai capelli grigi e dal portamento austero.

Dietro quello sconosciuto veniva Varn Allan, e con lei, il vi­so sorridente e trionfante, c’era anche Norden Lund.

Kenniston si fermò, col cuore stretto da una fredda dispe­razione. Il grosso sconosciuto si fermò anch’egli, guardando con occhi stupiti e increduli i tecnici affaccendati intorno al­l’incrociatore spaziale.

«Non avrei mai creduto una cosa simile!» disse con vo­ce attonita. «Lund, avevate ragione. Volevano farlo senza consenso.»

Lund assentì, gongolante.

«Sì, signore. Lo sospettavo, ed è per questo che li ho fatti sorvegliare. Potete vedere voi stesso!» E a Kenniston, ad Arnol e agli altri, disse beffardo: «Permettete che vi presenti: questi è il Coordinatore Mathis.»

Varn Allan guardava, sorpresa e incredula, nel violento ba­gliore dei fari. Sembrava che non potesse nemmeno credere ai suoi occhi.

«Io non volevo crederci» disse infine, lentamente, a Kenniston. «Quando il Coordinatore mi ha informato di ciò che Lund gli aveva detto, di ciò che stavate facendo, ho ri­fiutato di crederci. Sono venuta con lui per provargli che ave­va torto.»

Tacque per un attimo, con gli occhi azzurri fiammeggianti fissi su Kenniston.

«Ma ho avuto torto io. Siete un bastardo completo, che non ha alcun rispetto per la legge. Comincio a pensare che la vostra gente debba veramente essere confinata!»

Mathis, il Coordinatore, osservava burbero Jon Arnol.

«Siete andato troppo lontano, questa volta, Arnol!» dis­se. «Voi dovete sapere quale è la pena per chi trasgredisce la legge della Federazione, anche se questo Kenniston non lo sa ancora.»

«L’arresto» intervenne Lund, con voce ironica. «L’ar­resto e l’esilio per tutti. Spero, signore, che ricorderete che sono stato io a svelare il complotto di questi criminali, dopo che il mio superiore diretto ha dimostrato una aperta simpa­tia per loro.»

«Lo ricorderò» disse Mathis bruscamente. «Ora avvi­sate subito di questa situazione il Centro di Vega.»

Lund si volse per tornare verso la nave spaziale. Il radiotelevisore di bordo lo avrebbe messo in immediato contatto col Centro del Governo; Kenniston lo sapeva bene.

Si lanciò allora avanti. Raggiunse Lund in pochi passi di corsa. Con una mano lo afferrò a una spalla e lo fece voltare di colpo. Con l’altra mano gli sferrò un pugno violentissimo alla mascella, atterrandolo.

Mathis fece un passo indietro, inorridito da quella violen­za. Varn Allan si slanciò di corsa verso Kenniston, mentre Lund cercava di rialzarsi.

«Fermatevi, Kenniston!» gli ordinò. «Non siete più sul vostro mondo barbarico, ora. Non potete...»

Ma non ebbe il tempo di finire. Lund si era rialzato, e stringeva in pugno un piccolo oggetto di cristallo che aveva estratto di tasca. Aveva previsto la reazione di Kenniston, ed era venuto armato.

Ma la grossa forma pelosa di Gorr Holl si levò alle spalle del viceamministratore. Una sua mano, enorme, afferrò quella di Lund che stringeva l’arma. Con l’altro braccio lo af­ferrò attorno al corpo e lo sollevò in alto come un bambino. Le sue dita potenti strinsero. Lund lasciò cadere l’arma di cristallo.

«Lasciatemi andare!» sibilò affannato, sentendosi mancare il respiro. «Vi ordino di...»

«Avresti potuto uccidere un uomo» brontolò Gorr Holl, scuotendo Lund fino a fargli sbattere i denti. «Non puoi or­dinarmi più nulla, piccolo uomo miserabile!»

Si guardò intorno, stringendo sempre Lund immobilizza­to fra le sue braccia.

«E ora, che facciamo?» domandò.

Mathis disse, con voce un poco tremante: «Io vi chiedo, in nome della Federazione...»

Ma nessuno badò alle sue richieste, ed egli tacque.

Arnol si era avvicinato. Aveva le mascelle serrate, ora, e uno sguardo di determinazione sul viso.

«Siamo già colpevoli per quanto abbiamo fatto. Ci aspet­tano già l’arresto e l’esilio. Non possono farci niente di più, anche se mettiamo in esecuzione il nostro progetto. Siete an­cora decisi?»

«Sì» disse Kenniston. Poi aggiunse, guardando Varn Allan e Mathis: «Mi spiace che siate venuti. Ora dovrete ve­nire con noi, ...voi, e anche Lund. Non possiamo lasciarvi in­dietro a dare l’allarme.»

Gli occhi di Varn Allan, fermi, si incontrarono con quelli di Kenniston.

«Questo non muterà le cose. La nostra scomparsa, e la vostra, saranno notate prestissimo.»

Non disse altro. Diede un’occhiata alla nave spaziale, poco lontana, e poi agli uomini che la circondavano, e all’agile, fe­lino corpo di Magro. Non tentò di fuggire.

Arnol si rivolse ai suoi uomini, e disse: «Voi non siete re­sponsabili dei miei piani. Nessuna pena potrebbe ancora col­pirvi. Perciò siete liberi di decidere, ora, se volete o no venire con me.»

Il capo pilota si fece avanti. Era un giovane alto, col viso fermo e un sorriso imperturbabile; gli occhi non rivelava­no alcun timore. «Troppe volte ho guidato questo gingillo attraverso la Galassia per pensare di lasciarvi ora» disse. «Non so che ne pensino gli altri ragazzi, ma io vengo.»

Gli altri, tecnici e uomini dell’equipaggio, gridarono il loro consenso.

«Abbiamo lavorato troppo a lungo e troppo duramente per lasciar perdere un’occasione come questa! Siamo con voi, Arnol!»

Gli occhi neri di Arnol erano velati di lacrime di commo­zione. Ma la sua voce risuonò, ferma, per dare gli ultimi or­dini.

«Allora preparate tutto per la partenza! Le navi spaziali del Governo ci inseguiranno non appena si accorgeranno dell’assenza del Coordinatore, di Varn Allan e di Lund!»

Gli uomini si affollarono di corsa attorno all’incrociatore spaziale; Kenniston li seguì, tenendosi ben vicino a Varn Al­lan, mentre Gorr Holl gli veniva appresso, sempre stringendo nelle sue robuste braccia Lund che protestava e strillava. Ma­gro si occupava di Mathis che non parlava né faceva alcuna resistenza.

Gli sportelli furono chiusi. Mentre seguiva Arnol lungo uno stretto passaggio, Kenniston udì i suoni confusi della partenza che si susseguivano rapidi: luci di allarme si accen­devano qua e là, campanelli di avvertimento risuonavano.

Poi, con una leggera vibrazione seguita da un sordo ron­zio, i potenti motori si misero in moto.

Arnol spalancò due porte che si trovavano di fronte, nello stretto passaggio. Indicandone una, disse: «Credo che que­sta sia la cabina più comoda, amministratrice Allan. Ci per­donerete, se terremo chiusa la porta.»

Varn Allan entrò, senza una parola. Lund e Mathis furono rinchiusi nella cabina opposta, senza che nessuno prestasse attenzione alle furenti minacce di Lund.

Arnol diede un’occhiata alle luci di allarme.

«È tutto pronto, ora» disse. «Venite.»

Kenniston si sistemò nell’incrociatore spaziale, assistendo con occhi annebbiati ai preparativi precedenti immediata­mente la partenza, schiacciato da un’enorme stanchezza. Poi un campanello d’allarme suonò per un’ultima volta, e la pic­cola astronave si sollevò dolcemente nello spazio. Come già nel Thanis,si aveva qui un effetto molto attenuato della tre­menda forza di accelerazione. Kenniston aveva ora appreso quali fossero le forze statiche che, in una nave spaziale, tem­peravano l’inerzia di quei momenti.

Come in sogno, Kenniston ascoltò il sibilo della sferzata violenta dell’atmosfera contro le lamiere corazzate dell’incrociatore spaziale. Poi, attraverso il finestrino, vide la gran­de mole nebbiosa di Vega Quattro allontanarsi insensibil­mente, con lenta maestà. Infine il cielo scomparve, sostituito dalla nera volta dello spazio, nel quale erano sospesi soli fiammeggianti e sconosciuti.

Si accorse d’un tratto che Gorr Holl gli aveva posato una mano sulla spalla.

«Vieni, Kenniston! Sei sfinito. È bene che tu vada a ripo­sare.»

Il grosso umanoide lo prese in braccio, come un bambino, lo portò in una cabina e lo depose in una cuccetta.

Kenniston non si svegliò che parecchie ore più tardi, tutto intorpidito e ancora stanco per lo sforzo fisico e psichico di quegli ultimi giorni. Guardò fuori dal finestrino. L’incrocia­tore si trovava ora in pieno spazio, superando, a tremenda velocità, il vuoto vertiginoso che lo separava dalla Terra. Kenniston sentì un brivido involontario di piacere. Quei viaggi nelle grandi profondità interstellari cominciavano a diventargli familiari.

Si recò sul ponte interno e vi trovò Magro che parlava col capo pilota.

«Sono stato in ascolto al televisore» diceva Magro. «L’allarme non è ancora stato dato, su Vega.»

«Ma lo daranno non appena si accorgeranno della scom­parsa di Mathis, Varn e Lund, e della nostra fuga.»

«Già. Le navi spaziali del Controllo ci inseguiranno allo­ra come cani. Non avremo molto tempo, sulla Terra.»

Kenniston ascoltò in silenzio. Poi domandò: «Dov’è Arnol?»

«Lo troverai nel compartimento della bomba.»

Mentre Kenniston percorreva una serie di scale, per rag­giungere il compartimento dove la bomba riposava nel suo alveolo, a prova di ogni urto, un pensiero tormentoso lo as­salì nuovamente.

Fino ad allora ne era stato distolto dalla rapidità degli eventi. Ma ora gli sembrava di nuovo assolutamente fantasti­co che si dovessero puntare le speranze dell’ultimo popolo della Terra su quel grosso fuso nero. Era stato provato una volta sola, e quella prova aveva avuto un esito disastroso...

Ma Jon Arnol era seduto, nella penombra del comparti­mento che ospitava la bomba, e sorrideva sereno, felice.

«Stavo ammirando la mia creatura, Kenniston. Ti sembrerà una cosa sciocca, non è vero? Ma ho messo tutta la mia vita in questa cosa inerte. Poi ho atteso... quanto tempo ho atteso! E ora, fra poco...»

Il suo sguardo si posò nuovamente sull’ovoide di metallo nero che stava ai suoi piedi.

«Sembra un sogno, ma si tratta del lavoro di tutta una vi­ta, è una potenza che ridarà la vita a tutto un mondo.»

Scosso dal dubbio che lo tormentava, Kenniston gridò: «Ma potrà questa bomba effettivamente riaccendere il ca­lore spento nell’interno della Terra? In che modo?»

«So qual è l’incertezza che ti tormenta, Kenniston» dis­se Arnol, con voce stanca. «Vorrei spiegarti le mie equazio­ni. Ma come potrei farlo, senza prima insegnarti tutti gli svi­luppi che, attraverso le epoche, sono venuti a determinare una nuova scienza?»

Tacque un momento, perplesso. Poi proseguì: «Anche se sei uno scienziato primitivo, però, sei sempre uno scien­ziato. Cercherò almeno di farti capire il principio su cui mi sono basato. Sai che la maggior parte dei soli ricavano la loro energia da una reazione nucleare che trasforma quat­tro atomi di idrogeno in un atomo di elio, attraverso una serie di trasformazioni graduali coinvolgenti il carbonio e l’idrogeno.»

«Sì, quel ciclo carbonio-idrogeno è stato scoperto nella mia epoca. Gli scienziati lo hanno chiamato Fenice Solare. La piccola frazione di peso atomico residuante dal ciclo era la fonte della radiazione solare.»

«Esattamente» approvò Arnol. «Ciò che non potevi sapere è questo: che gli scienziati, nelle epoche successive, sono riusciti ad applicare reazioni cicliche analoghe ad altri e più pesanti elementi. Questa è proprio la chiave del mio procedimento.

«La maggior parte dei pianeti, come la Terra, hanno al centro una specie di anima costituita da ferro e nichel. Ora, una trasformazione del ferro e nichel in reazione ciclica è stata eseguita in laboratorio ed è riuscita, con liberazione di una enorme energia. Allora mi sono domandato: invece che nel laboratorio, perché non si potrebbe iniziare la reazione all’interno di un pianeta?»

Kenniston lo interruppe, incredulo: «E allora? Avrebbe riprodotto, in quel pianeta, la reazione basica solare?»

«Non proprio così» ammise Arnol «perché il ciclo ferro-nichel non cede una radiazione tanto terrificante come quella della vostra cosiddetta Fenice Solare. Creerebbe, però, una gigantesca fornace solare nell’interno del pianeta, e fa­rebbe salire di molti gradi la temperatura di superficie di quel mondo.»

La voce di Kenniston era preoccupata, mentre doman­dava: «E non vi sarebbe il pericolo che la reazione nucleare raggiungesse, scoppiando, la superficie?»

«No, non potrà mai raggiungere la superficie» affermò Arnol. «Il ciclo può solo alimentarsi su nichel e su ferro, e la massa esterna di silicio e alluminio, che avvolge l’anima in­terna, conterrà la reazione per sempre.

«Questa è la ragione per la quale la bomba energetica che provoca la reazione dev’essere fatta deflagrare entro l’anima del pianeta. E questa è la ragione per la quale possiamo ap­plicare rapidamente il procedimento alla Terra... perché que­gli antichi pozzi, scavati per ricavarne calore, forniscono un accesso immediato all’anima del pianeta, senza alcun biso­gno di un preliminare ed elaboratissimo lavoro di perfora­zione.»

Kenniston fece col capo un cenno affermativo. La teoria gli sembrava abbastanza solida. Eppure...

«Ma» disse lentamente «quando hai tentato la prima volta questo procedimento, il pianeta sul quale l’hai speri­mentato è stato quasi interamente distrutto dai terremoti provocati dalla convulsione iniziata nell’anima del pianeta stesso.»

«Non si trattava di un pianeta, ma di un planetoide» corresse Arnol, con la sua voce stanca. «Questo l’ho già spiegato tante volte. La massa del planetoide non era suffi­ciente a sostenere l’esplosione.» Poi, d’improvviso, ebbe uno scatto d’ira. «Perché sono stato così pazzo da accettare quell’impossibile tentativo? Ma, te lo ripeto, Kenniston, so ciò che sto facendo. L’intero Collegio della Scienza non ha potuto portare alcuna critica alle mie equazioni. Dovrai ac­contentarti di questo.»

«Sì» disse Kenniston. «Ne sono convinto.»

Lasciando Arnol, Kenniston non poté interamente soffo­care le sue apprensioni. Creare una fornace nel cuore di un pianeta era, per la sua mentalità, non meno incredibile di quanto doveva essere apparsa la creazione del fuoco per il primo uomo. E se, contrariamente a quanto diceva Arnol, avesse condannato la Terra definitivamente, invece di sal­varla?

Con un improvviso senso di colpa, pensò a Varn Allan. Tanto lei quanto Lund e Mathis, prigionieri contro la loro vo­lontà, avrebbero dovuto essere posti in libertà prima del grande rischio. Doveva almeno darle quell’assicurazione.

La porta della cabina aveva una serratura a combinazione cifrata e i numeri erano stati comunicati a tutti, in caso di ne­cessità. Kenniston aprì la porta ed entrò.

Varn Allan stava seduta, come già a bordo del Thanis,guardando dal finestrino l’immensità dello spazio. Kenni­ston capì che non aveva dormito, perché aveva il viso stanco e pallido.

Al suo ingresso, lei si rialzò e si rivolse a lui con atto di sfida.

«Siete tornati ragionevoli e avete deciso di abbandonare il vostro criminale progetto?» domandò.

Il duro sguardo dei suoi occhi azzurri risvegliò l’ira nel cuore di Kenniston.

«No» rispose questi. «Sono venuto semplicemente ad avvertirvi che a voi, a Lund e a Mathis sarà concesso di la­sciare la Terra prima che il tentativo venga eseguito.»

«Credete che mi preoccupi della mia salvezza?» gridò Varn Allan. «Mi preoccupo per le migliaia di persone del vo­stro popolo, che voi mettete in pericolo, con questa pazza sfi­da alla legge della Federazione.»

«All’inferno la legge della Federazione!» proruppe ruvi­damente Kenniston.

Gli occhi di Varn lampeggiarono.

«Imparerete a conoscerne la potenza. Le navi spaziali del Controllo giungeranno sulla Terra prima che possiate dar corso al vostro esperimento.»

Kenniston, esasperato oltre misura, l’afferrò alle spalle, con l’impulso brutale di scuoterla.

In quel momento accadde un fatto assolutamente inatte­so. Varn Allan scoppiò a piangere.

L’ira di Kenniston svanì di colpo. Varn Allan gli era sempre apparsa così fredda e padrona di se stessa, che si sentiva as­solutamente sconvolto nel vederla in lacrime.

Dopo un attimo, Kenniston le accarezzò una spalla, imba­razzato.

«Mi dispiace moltissimo, Varn. So che avete cercato di aiutarmi, là, al Centro di Vega. E potrà sembrarvi che io mi dimostri ingrato. Ma non è vero! È che debbo, debbo tentare quell’esperimento, per non vedere gli abitanti di Middletown umiliarsi combattendo contro la vostra Federazione.»

Varn Allan lo guardò, con occhi umidi, e mormorò: «Mi sto comportando come una stupida...»

Anche Kenniston la guardò, ma lei lo respinse. Sembrava volesse evitare gli occhi di lui.

«So che siete sincero, Kenniston. Ma so pure che avete torto, e che non potete sfidare con successo la potenza di tut­te le stelle.»

Kenniston si sentì stranamente depresso, quando la la­sciò. Cercò di non pensare... cercò di scacciare il ricordo di quel contatto con lei, il ricordo della fugace emozione che lo aveva afferrato quando le aveva accarezzato le spalle.

«È una cosa pazza...» mormorò fra sé. «E poi, c’è Carol...»

Non andò più da lei, in tutte le ore e i giorni in cui il picco­lo incrociatore spaziale varcava a piena velocità il vuoto im­menso della Galassia. La evitava. Temeva il momento in cui l’avrebbe nuovamente incontrata.

La tensione crebbe nell’animo di Kenniston; intanto la lu­ce rossa del sole si ingrandiva nello spazio. Mentre l’incrocia­tore rallentava la sua corsa al di là degli altri pianeti esterni senza vita, Arnol gli si avvicinò.

«Dovremo lavorare in fretta, una volta giunti» gli disse Arnol. Anch’egli aveva il viso contratto dallo sforzo. «Le na­vi spaziali della Federazione debbono già essere in viaggio per arrestarci.»

Kenniston non rispose. Il dubbio che lo tormentava da tempo gli s’ingrandiva nel cuore mentre vedeva il grigio glo­bo della vecchia Terra ingigantirsi sulla loro direttrice di corsa.

Il suo popolo era là, in attesa. Che cosa portava a loro e al loro pianeta morente? Una nuova vita, o la morte definitiva?

19

Middletown decide

Coi nervi tesi, Kenniston attraversò la polvere e la desolazio­ne della pianura, verso la lucida cupola di Nuova Middle­town. Erano con lui Arnol e il grosso Gorr Holl. Tutto era come prima, come lo ricordava: il vento gelido e il sole rossa­stro, con la sua orbita cinta da una breve corona di raggi.

«Perfetto!» mormorò Arnol. «Perfetto! Proprio il mondo che io ho sempre sognato per compiere la mia prova!»

«Eccoli! Vengono!» disse Gorr Holl, indicando la gran­de porta della città.

Le guardie armate avevano riconosciuto Kenniston e Gorr Holl. La notizia si era immediatamente diffusa, e gli abitanti si riversavano fuori della porta, per andare loro incontro.

Dopo pochi secondi erano già circondati da una grossa folla che gridava e acclamava, tutta eccitata. Kenniston ri­conobbe visi a lui noti... Bud Martin, John Borzak, Lauber, e altri.

La figura torreggiante di McLain si avvicinò a lui, tra la folla.

«Che è accaduto lassù, Kenniston?» domandò.

«Sì! Sì. Qual è il verdetto?» gridò un’altra voce. E un’al­tra ancora: «Ci lasceranno star qui, dunque?»

Kenniston alzò la voce per farsi udire dalla folla.

«Tutti alla piazza!» gridò. «Passate la parola anche agli altri. Vi dirò tutto sulla piazza, quando sarete riuniti.»

«In piazza! In piazza!» gridarono allora tutti.

Alcuni cominciarono a tornare di corsa verso la città, per portare la notizia attraverso le strade. Altri circondarono Gorr Holl, lieti di rivederlo. Molti guardarono curiosamente Jon Arnol, chiedendo chi fosse, ma Kenniston scosse il capo. Quella storia sarebbe stata tutt’altro che facile da spiegare, e non voleva ripeterla due volte.

Cercò nella folla il viso di Carol. Desiderava molto veder­la... eppure, nel profondo della sua mente, in qualche modo indistinto, provava una strana riluttanza a incontrarla, a tro­varsi nuovamente con lei, e non ne capiva il perché. Ma non la vide. Avrebbe dovuto sapere che non si sarebbe avventura­ta in mezzo a quella folla eccitata.

Il sindaco Garris si precipitò verso di lui sulla porta della città, precedendo Hubble e alcuni membri del consiglio mu­nicipale.

«Avete messo a posto le cose, Kenniston?» gridò. «Hanno capito, lassù, ciò che volevamo?»

«Farò il mio rapporto nella piazza, dove tutti potranno udire» rispose Kenniston.

Il sindaco gli diede un’occhiata ansiosa e preoccupata, quasi spaventata, e si fece in disparte. Kenniston afferrò Hubble per un braccio.

«Ho bisogno di parlarti, Hubble» disse. «Ho fatto qualche cosa, e non so...»

Parlò rapidamente, a bassa voce, allo scienziato anziano, mentre percorrevano le strade che conducevano alla piazza.

La reazione di Hubble fu identica a quella di Kenniston quando aveva udito per la prima volta il progetto. Arretrò spaventato, impallidendo di colpo.

«Per l’amor del Cielo, Ken! È una cosa... pazzesca, peri­colosa...»

Ma, mentre ascoltava ulteriori chiarimenti, la sua espres­sione di allarme si mutò in un’altra, di grave attenzione, e in­fine in un acuto interesse.

«Sì, sembra una cosa perfettamente logica, anche secon­do i principi della nostra stessa scienza fisica.» Guardò Jon Arnol. «Se potessi soltanto parlargli chiaro...»

«Non servirebbe a nulla» disse Kenniston seccamen­te. «È proprio questo il punto più terribile. La sua scienza è milioni di anni più avanti di ogni nostra concezione scientifica.»

Hubble si volse a Gorr Holl. Aveva lavorato a fianco di quel grosso gigante peloso, lo conosceva e aveva fiducia nella sua abilità e perizia come tecnico atomico.

«Riuscirà Arnol nel suo procedimento?» gli domandò, ansioso.

«Credo nel suo procedimento quanto basta per rischiare la mia vita per aiutarlo» disse Gorr Holl semplicemente.

Kenniston tradusse la frase, e Hubble parve rassicurato.

«Mi sembra ancora un grosso rischio, Ken» disse. «Ma... a ogni modo vale la pena di tentare.»

Dopo pochi minuti Kenniston salì i gradini del Municipio e rimase zitto, davanti al microfono.

Di fronte a lui, a migliaia, erano affollati gli abitanti di Middletown... era tutto un caleidoscopio di visi ansiosi, ecci­tati, frementi nell’attesa.

Quello era il momento a cui aveva tanto pensato... il mo­mento che aveva spesso temuto di non poter sopportare. Di­re quella cosa era assai più duro di quanto immaginasse. Ep­pure occorreva dirle, quelle parole.

Non sarebbe servito a nulla usare precauzioni, dire la ve­rità a poco a poco. La disse, invece, quasi brutalmente.

«La decisione è contro di noi. Hanno detto che dobbia­mo andarcene.»

Ascoltò il clamore furente che accolse quelle parole, le gri­da irate di tutta quella folla esasperata fino al parossismo.

Il sindaco Garris espresse con la sua voce, alta e tremante, l’appassionata reazione di tutta Middletown.

«Non lasceremo la Terra! E se vogliono spingerci a com­battere, combatteremo!»

Kenniston alzò le mani, chiedendo silenzio.

«Aspettate!» gridò nel microfono. «Ascoltate! Forse non vi sarà alcun bisogno che ve ne andiate dalla Terra, e for­se non vi sarà alcun bisogno che combattiate. Vi è ancora una possibilità...»

Spiegò loro, nel modo più semplice e cauto che poteva, il grande esperimento che veniva proposto da Jon Arnol.

«La Terra diventerà calda nuovamente... forse non così calda come prima, ma abbastanza perché possiate viverci comodamente per tutto il tempo futuro.»

Vi fu un grande silenzio. Kenniston sapeva che quel pro­getto era troppo enorme perché potessero assimilarlo subito. Ma cercavano di comprendere il senso di quanto egli aveva esposto. Il significato planetario di quel concetto non poteva­no capirlo: dovevano avere il tempo per riportarlo a una di­mensione più modesta, che potessero afferrare.

Infine John Borzak si fece avanti, con quel suo viso rozzo e squadrato, dai capelli grigi, di uomo che aveva passato la vita lavorando duramente. «Sentite un po’, signor Kenni­ston» disse. «Volete dire che potremmo, allora, ritornare a Middletown?»

«Sì!» rispose Kenniston.

Dalla folla si alzò allora un applauso che scosse gli alti edi­fici delle fondamenta.

«Tornare a Middletown? Avete sentito? Potremo tornare a Middletown!»

Kenniston ne fu enormemente commosso. Per loro, il ri­dare la vita a un pianeta significava soprattutto una cosa: la possibilità di ritornare alla piccola e modesta città, al di là delle colline, la città che per loro significava ancora una casa.

Alzò le mani, nuovamente, per chiedere silenzio.

«Debbo però avvertirvi» aggiunse. «Questo esperi­mento non è mai stato tentato, sinora, su un mondo come la Terra. È anche possibile che non abbia successo. Se così fos­se, la Terra potrebbe anche essere distrutta da terremoti.»

La folla rimase in silenzio. Kenniston poteva vedere il ti­more sui loro visi, vedeva che si parlavano l’un l’altro, scuote­vano la testa e si guardavano ansiosi attorno.

Infine, una voce gridò: «Che cosa ne pensate, voi e il dot­tor Hubble? Siete scienziati. Qual è il vostro parere?»

Kenniston esitò. Poi disse, lentamente:

«Se io fossi solo, sulla Terra, tenterei. Ma non vi posso dare un consiglio. Dovete prendere da soli la vostra deci­sione.»

Hubble intervenne, parlando nel microfono: «Non pos­siamo darvi un consiglio, perché noi stessi non sappiamo va­lutare la fondatezza scientifica di questo esperimento. Ci tro­viamo di fronte a una scienza che è al di là delle nostre possi­bilità di comprensione. Non possiamo che accettare ciò che i loro scienziati affermano, sulla loro parola.»

Hubble fece una pausa, poi proseguì: «I loro scienziati affermano che la loro teoria è assolutamente esatta. Noi vi abbiamo avvertiti della possibilità di un insuccesso. Il rischio è grande, ma siete voi che dovete decidere se volete affrontar­lo, oppure no.»

Kenniston si rivolse al sindaco Garris, e gli disse: «Av­vertiteli anche voi, che debbono riflettere intensamente, prima di decidere. Poi si farà una votazione... Quelli che sa­ranno in favore del tentativo si raggrupperanno sul lato op­posto.»

E volgendosi a Hubble, aggiunse: «Occorrerebbe dare lo­ro dei mesi, per fare una scelta del genere, invece che pochi minuti!»

Allora, il sindaco Garris esortò i cittadini a esporre la loro decisione. La folla ondeggiò e si rimescolò nella piazza, mentre si formavano gruppi e si scambiavano opinioni. Frammenti di conversazioni accalorate giungevano sino agli orecchi di Kenniston: «Quei tecnici venuti dalle stelle si sono comportati molto bene. Hanno rimesso in attività tutta la città e i suoi impianti. Sanno di sicuro ciò che stanno facendo!»

«Ma... non so. E se quell’esperimento provocasse terribi­li terremoti?»

«Quella gente sa il fatto suo! E dev’essere così, se sono riusciti a vivere nelle stelle!»

«Già! Proprio così! Ma preferirei rimanere qui, anche in mezzo ai terremoti, piuttosto di andarmene a zonzo per la Via Lattea!»

Alla fine, il sindaco Garris gridò: «Siete pronti per il voto?»

Erano pronti. Erano sempre stati pronti a qualsiasi even­tualità, pur di non lasciare la Terra.

Kenniston attese, scrutando la folla, col cuore che gli bat­teva forte. Al suo fianco, anche Jon Arnol osservava ansiosa­mente. Kenniston gli aveva spiegato come avrebbe avuto luo­go il voto. Sapeva ciò che in quel momento Jon Arnol prova­va, mentre attendeva che tutto il lavoro della sua vita fosse deciso da quel voto.

Per un poco, i moti della folla non furono che un caotico rimescolio. Poi, gradatamente, il movimento di separazione si accentuò.

Quelli in favore dell’esperimento, alla destra della piazza...

Quelli contro l’esperimento, alla sinistra...

Lo spazio tra le due fazioni si allargò sempre più netta­mente. Kenniston vide alla fine che, a sinistra della piazza, non rimanevano che un paio di centinaia di persone circa.

Il voto si era concluso. L’esperimento era stato approvato.

Kenniston si sentì tremare le ginocchia. Guardò Arnol. Il suo viso era contratto dal sollievo e dalla gioia. Egli stesso provava un’eccitazione selvaggia... eppure, anche ora, persi­no ora, non riusciva a soffocare i timori.

Ora tutto dipendeva da lui, da Arnol e dai suoi uomini. La vita o la morte dipendevano da loro.

Afferrato il microfono, gridò ancora: «Dobbiamo proce­dere all’esperimento il più presto possibile. Abbiamo pochis­simo tempo davanti a noi, prima che le navi spaziali della Fe­derazione vengano a impedirci di agire. Prego tutti voi di prepararvi a lasciare la città immediatamente, con un preav­viso di pochi minuti. Per precauzione, nessuno deve rimane­re sotto la cupola della città quando la bomba verrà fatta esplodere. Quelli di voi che hanno votato contro, potranno lasciare la Terra prima che l’esperimento abbia luogo. L’in­crociatore spaziale col quale siamo venuti ne potrà traspor­tare lontano solo una parte, perciò tirerete a sorte, fra voi, co­loro che dovranno salirvi.»

Si volse di scatto verso il sindaco.

«Volete incaricarvi voi del resto?» disse. «Organizzate voi l’evacuazione della città e la partenza... Noi avremo biso­gno di ogni minuto che ancora ci resta!»

«Credo» osservò Hubble «che faremo bene a mostrare subito ad Arnol il pozzo che immette nelle profondità del­la Terra.»

Il personale tecnico di Arnol era frattanto giunto sul po­sto. I tecnici studiarono il grande pozzo, insieme ad Arnol, Gorr Holl e Magro, mentre Kenniston e Hubble attendevano il loro giudizio.

«Va benissimo!» disse infine Arnol. «Giunge proprio fino alle profondità desiderate. Ma i pozzi analoghi, delle al­tre città a cupola esistenti sulla Terra, dovranno essere fatti saltare ed essere sigillati prima dello scoppio.»

Kenniston ne fu colpito. Non aveva pensato a una cosa si­mile.

«Ma ci vorrà tempo...»

«No, non molto tempo. Alcuni miei uomini possono rag­giungerli in breve tempo, con l’incrociatore spaziale, e far tutto molto in fretta. Ho portato con me, naturalmente, delle carte della Terra... e le città a cupola non sono più di una mezza dozzina.»

«Quanto tempo servirà per i preparativi, qui?» do­mandò Kenniston.

«Se facciamo un miracolo» rispose Arnol «potremmo essere pronti domani, a mezzogiorno.»

«Benissimo!» disse Kenniston. «Farò del mio meglio per aiutarvi, e tutti, qui, faranno come me. Ho bisogno solo di dieci minuti, ora.»

Dieci minuti non erano molti. Non erano molti per passar­li con la propria ragazza, dopo avere attraversato metà del­l’universo. Ma tempo non ce n’era. E anche quel poco tempo che egli si prendeva per andare da Carol era un tempo pre­zioso, sottratto al bisogno comune.

Eppure, di fronte a quella terribile decisione che era stata presa, di fronte a quella cosa sovrumana che stavano facen­do alla Terra, doveva assolutamente vederla, per acquietare i suoi timori e rassicurarla nel modo migliore. Pensava che, forse, Carol avrebbe voluto all’ultimo momento rifugiarsi sull’incrociatore spaziale e pregava il cielo di poterglielo nel caso concedere.

Carol lo attendeva, come se avesse saputo della sua visita. Ma, con grande sorpresa di Kenniston, non era affatto spa­ventata. Era, al contrario, piena di ansia e di speranza, con gli occhi che le brillavano come egli non aveva mai visto fin dai giorni lontani in cui erano stati così felici.

«Ken, potrà veramente riuscire?» gridò. «Riuscirà davvero? Renderà davvero la Terra più calda?»

«Ne siamo così sicuri, che giochiamo il tutto per tutto» disse Kenniston. «Naturalmente, c’è sempre la possibilità di un insuccesso...»

Ma Carol non voleva nemmeno udire una cosa simile. Gli stringeva le braccia, e aveva il viso tutto eccitato, mentre esclamava: «Ma questo non importa, non importa affatto! Vale la pena di correre qualsiasi rischio, pur di avere una possibilità di riuscita... pur di poter tornare nella vecchia Middletown!»

Kenniston vide negli occhi di lei, fra le lacrime, un deside­rio disperato, mentre bisbigliava: «È una gioia solo a pen­sarci... poter tornare alla nostra città, alle nostre case, alla nostra gente...»

Kenniston capiva, ora. Nell’intimo di Carol vi era una di­sperata nostalgia per la vecchia città, per il vecchio modo di vivere. E quella nostalgia era talmente profonda che riusciva a vincere qualsiasi timore.

Kenniston la prese tra le braccia e la baciò. Le accarezzò i capelli, e frattanto pensava: “Sì, mi ama... ma solo come una parte della vita che se n’è andata, non me solo, non solo John Kenniston, ma il Kenniston di Middletown. E sarà ancora fe­lice con me se potremo trasformare la nostra vita sino a farla assomigliare un poco alla vita di prima”.

Ma perché quel pensiero non gli portava nessuna gioia? Perché pensava a Varn Allan, in quel momento, stanca e sola, che affrontava coraggiosamente l’intero universo, portando un peso e svolgendo un compito troppo grave per lei?

«Com’era la vita, Ken, lassù?» gli stava domandando Carol.

Kenniston scosse il capo.

«Una vita strana...» disse «e ostile... e anche bella, ma in un modo terribile.»

«Credo che ti abbia cambiato» disse Carol. «Un poco, sì. Ma credo che cambierebbe chiunque.»

E rabbrividì come se, anche solo a toccarlo, sentisse il re­spiro gelido delle profondità sconosciute, degli abissi infiniti che egli aveva attraversato.

«No, Carol» disse Kenniston «non sono cambiato. Ma non posso rimanere, ora. Debbo ritornare... ogni minuto è prezioso...»

Mentre si affrettava per raggiungere gli altri, Kenniston si accorse che Nuova Middletown era invasa da una eccitazio­ne frenetica. Voci lo chiamavano, mani cercavano di tratte­nerlo, uomini e donne volevano fargli domande. Fu lieto quando poté raggiungere gli altri attorno al grande pozzo.

Gorr Holl gli sorrise.

«Ora, mettiamoci al lavoro!» disse.

Per un tempo che gli parve un’eternità, Kenniston lavorò con gli altri. Fabbri e meccanici furono reclutati nella popo­lazione, fu fatta incetta di metalli e attrezzi. Materiali furono trasportati dall’incrociatore spaziale fino al pozzo. I martelli battevano con assordante clamore, lavorando il metallo su forge improvvisate.

Venne così costruita, gradualmente, penosamente, a prez­zo di sforzi e sudore, una grande incastellatura al disopra del pozzo.

Magro lavorava coi tecnici per mettere a punto gli inne­schi, nonché i comandi elettrici che, da lontano, avrebbero fatto scendere ed esplodere l’ordigno.

Kenniston aveva poco tempo per pensare. Eppure la sua mente ritornava stranamente a Varn Allan, chiusa nella cabi­na a bordo dell’incrociatore spaziale, e si domandava a che cosa stesse pensando.

Venne il mattino. La città doveva essere abbandonata a mezzogiorno. Uomini e donne tenevano riuniti i bambini, pronti ad allontanarsi. Non avrebbero preso nulla con loro. In un modo o nell’altro, non avrebbero più avuto bisogno di nulla.

La massa nera ovoidale della bomba fu posta in posizio­ne accanto al pozzo. Con essa vennero approntati altri quat­tro oggetti rotondi, assai più piccoli, di aspetto del tutto di­verso.

«Sono bombe di sicurezza» spiegò Arnol. «Le ab­biamo preparate nel laboratorio dell’incrociatore spaziale durante il viaggio. Verranno lasciate cadere dopo la bomba nucleare ed esploderanno nel pozzo prima di essa, per si­gillarlo e impedire qualsiasi ripercussione quassù dello scoppio.»

Kenniston guardò i tecnici mentre disponevano le bom­be sulla incastellatura, l’una al disopra dell’altra. La caduta di quelle bombe sarebbe avvenuta per mezzo di un teleco­mando.

Kenniston sentiva aumentare i suoi timori, mentre il mo­mento fatale si avvicinava. Pensava agli abitanti di Middletown che avevano accettato con fiducia l’autorità degli scien­ziati: con la medesima fiducia noncurante con la quale gli uomini avevano un tempo accettato l’autorità degli stregoni e dei maghi.

Sperava almeno, se l’esperimento si fosse risolto in un di­sastroso insuccesso, di poter avere la fortuna di non soprav­vivere.

Gli esperti elettronici stavano lavorando disperatamente per terminare gli intricati contatti dei meccanismi che avrebbero dovuto rispondere ai comandi con infinita preci­sione.

Una delle travi della incastellatura aveva leggermente ce­duto, e gli operai sudavano per sostituirla.

Ancora poche ore, ormai, e tutto sarebbe stato pronto. Per mezzogiorno, o poco più tardi, avrebbero saputo se la Terra doveva vivere o morire.

In quel momento, uno degli uomini di Arnol li raggiunse. Aveva fatto di corsa tutta la strada, dall’incrociatore spaziale. Era trafelato, senza respiro e aveva gli occhi sbarrati.

Gridò ad Arnol: «Un messaggio sul televisore, dalla squadra di navi spaziali del Controllo! Dicono che stanno avvicinandosi alla Terra, e ordinano di cessare immediata­mente ogni operazione!»

20

Appuntamento col destino

Kenniston capì che si stavano sbriciolando tutte le sue dispe­rate speranze, e tutte le disperate speranze degli abitanti di Middletown. Si volse ai tecnici con gli occhi allucinati, e que­sti lo guardarono, con espressione incerta.

Come un’eco tremenda, gli tornavano in mente le parole di Varn Allan: “Non potete lottare contro la legge della Fede­razione!”

Ma Jon Arnol, infuriato nel vedere il sogno della sua vita minacciato così, proprio all’ultimo momento, si lanciò sul messaggero.

Lo afferrò per il colletto e urlò: «Hai pensato a usare il misuratore di distanza, quando hai captato il messaggio di quelle navi spaziali?»

«Sì» disse l’altro prontamente «il quadrante indi­cava...»

«All’inferno il quadrante!» urlò Arnol. «A che distanza si trovavano le navi spaziali dalla Terra?»

«Credo che siano a tre o quattro ore di viaggio, se vengo­no a tutta velocità.»

«Puoi stare sicuro che verranno a tutta velocità» ribatté Arnol, sempre infuriato. Aveva il viso tutto sudato, i denti stretti, i nervi tesi, mentre si rivolgeva ai suoi uomini: «Ce la facciamo?»

«I comandi sono a posto» rispose uno dei tecnici. «Ci vorrà ancora un’ora o poco più per finire il resto.»

Kenniston riacquistò un poco di speranza, quando udì il piccolo margine di tempo che potevano ancora avere.

«Possiamo farcela di sicuro, Arnol!» gridò. «Dirò che sgombrino la città, immediatamente!»

Il sindaco Garris non era lontano. Con gli occhi pieni di terrore e pallido come un morto, aveva assistito sino ad allo­ra ai preparativi attorno al grande pozzo.

Kenniston gli si avvicinò con un balzo.

«Fate uscire immediatamente la popolazione!» gli gridò. «Fatela salire sulle colline. Solo gli ammalati e i vec­chi useranno le automobili... gli altri debbono camminare. Non possiamo correre il rischio di un ingorgo di traffico!»

«Sì!» balbettò il sindaco. «Sì! Subito!» Ma, dopo aver dato quella pronta risposta, il sindaco afferrò il braccio di Kenniston e, volgendosi a guardare la forma ovoidale del­la potente bomba energetica, domandò, a voce bassa, come se avesse paura di dimostrare ancor più apertamente il ter­rore che gli si leggeva in viso: «È molto grave il pericolo, Kenniston?»

Kenniston lo scosse, per rassicurarlo.

«Non preoccupatevi!» disse. «Andate subito, e fate uscire tutta la popolazione dalla città!»

Avrebbe desiderato di poter essere sicuro egli stesso.

I minuti che seguirono furono un vero incubo. Lavorando così, sotto pressione, lottando contro il tempo che passava inesorabile, sembrava che tutto cospirasse contro di loro. I metalli, i meccanismi, persino gli attrezzi, sembrava volesse­ro tradirli.

Infine, la mole scura della bomba scivolò lentamente al suo posto, nell’incastellatura, al disopra del pozzo. Gli ultimi contatti vennero innestati, e tutto fu pronto.

«Prendete i vostri apparecchi, subito» disse Kenniston. «Andiamo! Vi è ancora altro da fare!»

Uscì con Hubble, Arnol e tutti gli altri. La città era come l’aveva vista la prima volta: vuota, silenziosa, senza vita. La popolazione se ne era andata. Mentre usciva dalla porta della cupola, poté vedere la massa scura degli abitanti di Middletown che si moveva, già lontana, nella pianura. L’avanguar­dia attaccava già la salita delle colline lontane.

Ansiosamente Kenniston esaminò il cielo, come se temes­se di vedersi piombare addosso, da un momento all’altro, la squadra di navi spaziali della Federazione.

Arnol mandò avanti i tecnici, verso le colline, con gli stru­menti e gli apparecchi di comando a distanza. Gorr Holl, Ma­gro e Hubble seguirono i tecnici. Poi Kenniston e Arnol si av­viarono di corsa verso l’incrociatore spaziale.

Attorno a esso vi era un piccolo gruppo di persone: gli abi­tanti che dovevano lasciare la Terra.

Kenniston li guardò stupefatto. Da circa duecento che era­no, si erano ora ridotti ad appena una ventina.

Arnol disse loro, brevemente: «Potete salire, ora.»

Alcuni di essi rimasero irresoluti, guardando i loro com­pagni e Kenniston, come se volessero dire qualcosa, ma non dissero nulla. Infine salirono e scomparvero nell’incrociato­re spaziale.

Kenniston li contò. Due uomini, due donne e un bambino.

«Ebbene» urlò agli altri «che aspettate? Salite!»

«Credo» disse uno del gruppetto rimasto «che... pre­ferirei rimanere con gli altri.»

Detto questo, si mise a correre per raggiungere la folla or­mai lontana.

A uno a uno, anche gli altri lo seguirono, finché non furo­no che piccoli punti neri che si allontanavano di corsa, nella pianura desolata.

Arnol sorrise.

«Fra la vostra gente, Kenniston» commentò «anche i vigliacchi sono coraggiosi. Dev’essere una cosa anche più du­ra, in certo modo, per coloro che hanno deciso di andarsene.»

Entrarono nell’incrociatore e liberarono Mathis, Norden Lund e Varn Allan dalle cabine nelle quali erano rinchiusi. Varn Allan non parlò, ma il Coordinatore disse, gelido: «Co­sì, volete realmente farlo?»

«Sì» rispose Arnol. «Il mio capo pilota si allontanerà con l’incrociatore spaziale. Sarete salvi, comunque vada.»

«Spero» disse Norden Lund, amaramente «che finia­te in frantumi! Ma anche se non fosse così, anche se riusciste, non vincerete egualmente. Avrete ancora di fronte la legge della Federazione. Ci penseremo noi!»

«Non ne dubito» ribatté Arnol. «Ma ora dobbiamo andarcene.»

Arnol gli volse le spalle, ma Kenniston si fermò ancora, guardando Varn Allan. Il viso di lei era un poco pallido, ma non vi era in esso alcuna traccia d’ira, come in quello di Lund.

Ella lo guardava con occhio attento, indagatore.

Kenniston avrebbe voluto parlare, liberarsi da un peso che si sentiva dentro, ma non riusciva a trovare le parole. Infine, poté soltanto dire: «Mi spiace infinitamente, Varm, che le cose siano andate così. Addio...»

«Aspettate, Kenniston.»

Egli si fermò di nuovo, ed ella gli si avvicinò, pallida e cal­ma, con gli occhi azzurri che lo fissavano in viso.

«Rimarrò qui» disse «mentre farete quella cosa.»

Kenniston la guardò, muto per la sorpresa. Udì Mathis esclamare: «Allan, siete pazza? Che vi salta in mente, ora?»

Ma Varn Allan disse, lentamente, a Mathis: «Sono l’amministratrice di questo settore. Se i miei errori hanno causa­to questa crisi, non ne eviterò le conseguenze. Rimarrò qui!»

Lund si rivolse a Mathis, infuriato.

«Non pensa affatto alla sua responsabilità! Pensa solo a questo selvaggio primitivo, a questo Kenniston!»

Varn Allan si volse verso di lui, come per dargli una furiosa risposta. Ma non parlò. Guardò invece Kenniston, col viso pallido, teso, stanco.

Freddamente, Mathis le stava dicendo: «Non vi ordinerò di venire con noi. Ma siate sicura che questa vostra condotta verrà tenuta nel debito conto.»

Varn Allan chinò il capo, senza una parola, in cenno di as­senso; si volse, e abbandonò l’incrociatore spaziale. Kenni­ston, che la seguiva, sentiva dentro di sé una meravigliosa, incredibile emozione.

Uscirono così nella luce rossastra del sole. Con un lieve ronzio, l’incrociatore spaziale si innalzò, dileguandosi nel cielo.

Gli ultimi abitanti di Middletown stavano scomparendo sulle colline quando Kenniston, Varn Allan e Arnol s’incam­minarono in quella direzione.

«Presto!» li sollecitò Arnol. «Anche ora può essere troppo tardi...»

Quando raggiunsero le colline, Gorr Holl, Magro e Hubble li attendevano coi tecnici e i loro apparecchi. Quando li vide giungere, Gorr Holl emise una esclamazione.

«Me l’ero immaginato, che sareste rimasta, Varn!»

Vam Allan rialzò il capo e disse, un poco adirata: «Ma perché mai...?» Ma improvvisamente si interruppe, e rima­se silenziosa per un attimo. Poi domandò: «Quanto manca?»

«Siamo tutti pronti, ora» rispose Gorr Holl.

Kenniston si avvide che i comandi a distanza e tutti gli al­tri strani apparecchi erano già stati montati ed erano a pun­to. Diede allora un’occhiata ad Arnol.

Il viso dello scienziato era bagnato di sudore. Era pallidis­simo e gli tremavano le mani. In quel momento stava tirando le somme di tutta la sua vita, era vicino alla conclusione di tutte le pene e gli sforzi che aveva dovuto sopportare.

Disse, con una voce stranamente inespressiva: «Sarà be­ne che tu li avverta, Kenniston. Ora!»

Sotto di loro, sul versante della collina sulla quale Kenni­ston e i suoi compagni si trovavano, attendevano ormai le migliaia di abitanti di Middletown.

Kenniston scese verso di loro. Parlò loro gridando, e la sua voce parve lieve e irreale, nel vento gelido, attraverso le rocce nude, la polvere soffocante, la terra arida.

«Riparatevi dietro la collina! Passate parola! Riparatevi dietro la collina! Fra poco, avverrà l’esplosione!»

Tutti guardarono verso di lui. Una massa di visi mortal­mente pallidi nella fosca luce del sole... quel sole morente che li guardava tutti, come un grande occhio indifferente.

Un grande silenzio calò sulla folla. Dapprima isolatamen­te, poi a centinaia s’inginocchiarono a pregare. Altri, a centi­naia, rimasero ritti, immobili, muti, con gli occhi fissi sulla cresta della collina, dove si trovavano i tecnici.

Qua e là, qualche bambino piangeva.

Lentamente, Kenniston risalì nel punto dove stavano Ar­nol e gli altri. Lontano, al di là della folla, vedeva la cupola della città, ancora scintillante di luci come l’avevano lasciata, vuota e solitaria, nella vasta desolazione della pianura.

Pensò a quella cosa nera, quella cosa nera e terribile, che attendeva, sola nella città, il momento di compiere il suo sal­to d’incubo nel cuore della Terra, e un violento tremito lo scosse.

In quell’ultimo minuto, prima che le dita tremanti di Arnol premessero i contatti degli apparecchi che aveva davanti a sé, Varn Allan guardò, oltre Kenniston, verso quella folla si­lenziosa di migliaia e migliaia di persone in trepida attesa, ultimi sopravvissuti di tutte le razze della vecchia Terra.

«Capisco ora» bisbigliò «che, malgrado tutto ciò che noi abbiamo guadagnato in questi milioni di anni, abbiamo tuttavia perso qualcosa... qualcosa di coraggioso, di cieca­mente fiducioso, di supremamente bello... Sono lieta di esse­re rimasta!»

Arnol emise un profondo e penoso sospiro.

«È fatta!» disse.

Per un lungo, eterno minuto, la Terra morta rimase immo­bile. Poi, Kenniston sentì la cresta della collina sobbalzare violentemente ai suoi piedi... Una volta, due, tre, quattro vol­te. Le secche esplosioni delle bombe di copertura che sigilla­vano per sempre il grande pozzo.

Arnol osservava gli aghi dei quadranti, che vibravano. Non tremava più, ora. Era ormai troppo tardi per qualsiasi sentimento, anche per l’emozione.

Dalle profondità imperscrutabili della Terra partì un tre­mito, come un brivido lungo, che si dilatò, salì lentamente, fino alle nude rocce, dove tutti stavano in attesa. Un brivido lungo, che parve toccarli tutti, e svanire.

Fu come se un cuore morto avesse d’improvviso comin­ciato a battere ancora; a battere forte, esultante. Il cuore di un pianeta rinato...

Le lancette dei quadranti, sui quadri di controllo, impazzi­rono per un attimo; poi, a poco a poco, tornarono normali. Tutte le lancette, a esclusione di una sola fila di quadranti, che Arnol e i suoi tecnici osservavano con una morbosa, so­vrumana intensità.

Kenniston non poté sopportare più a lungo quel terribile silenzio.

«È...» Ma non poté proseguire. La sua voce si perdette in un roco mormorio.

Arnol si volse lentamente verso di lui. Lentamente, come se gli riuscisse difficile parlare, disse: «Sì. La reazione è co­minciata. Vi è una grande fiamma di calore e di vita, nel cuo­re della Terra, ora. Ci vorranno delle settimane, prima che quel calore e quella vita raggiungano la superficie, ma giun­geranno!»

Volse quindi le spalle a Kenniston e a tutti gli altri. Ciò che aveva da dire, ora, era per i suoi tecnici, i suoi tecnici fe­deli e stanchi, che avevano lavorato con lui tanto a lungo. A loro disse: «Qui, su questa piccola Terra, molto, molto tempo fa, uno dei nostri selvaggi antenati ha acceso il fuoco, per la prima volta, per riscaldarsi. Ora, noi abbiamo acceso un mondo. E vi sono tutti gli altri mondi, i freddi mondi mo­renti, lassù...»

Kenniston non poté udire più nulla. Una babele si era sca­tenata. Varn Allan si era stretta istintivamente a lui. Gorr Holl urlava in modo assordante. Kenniston udì il sindaco Garris che balbettava domande, con voce tremante. Udì la voce tremante di Hubble.

Ma, al disopra di tutto questo, udì il calpestio precipitoso di migliaia di piedi, sulla roccia nuda. Gli abitanti di Middletown correvano, a migliaia, verso la cresta della collina, con una sola, un’unica domanda, di vita o di morte, sui visi spet­tralmente pallidi.

«Parla, Ken!» gridò Hubble, con la voce rotta dall’emo­zione. «Parla, Ken! Vogliono sapere!»

Kenniston saltò su una roccia, e tutta quella folla si fermò d’improvviso, in un silenzio teso, mentre egli urlava, a gran voce: «L’esperimento è riuscito! L’esperimento è riuscito! Ogni pericolo è scomparso! Fra poche settimane il calore delle profondità della Terra comincerà a raggiungere la su­perficie...»

Ma s’interruppe. No, non erano quelle le parole che pote­vano raggiungere i loro cuori. Allora trovò quelle parole, e le gridò a quelle migliaia di cuori in attesa: «Per milioni di an­ni, il gelo dell’inverno ha ricoperto la Terra. Ma ora, presto, la primavera ritornerà, sulla Terra. La primavera! »

Questo lo potevano capire. Cominciarono allora a ridere e a piangere, e poi a gridare, a gridare a perdifiato.

Gridavano ancora quando i grandi incrociatori del Con­trollo calarono velocissimi, ronzando nel cielo, su di loro.

21

Un mondo risorto

Lentamente, molto lentamente, durante le settimane che se­guirono, la primavera era venuta. Non era la primavera della vecchia Terra, ma ogni giorno che passava, il vento soffiava meno freddo, e ora, alla fine, i primi fili d’erba spuntavano, macchiando qua e là di verde le pianure color ocra.

Ma solo per sentito dire, Kenniston sapeva tutto questo. Confinato con gli altri in un edificio di Nuova Middletown, gli sembrava che il tempo non passasse mai. Settimane di at­tesa per il Comitato speciale dei Governatori, inviato da Vega, settimane di interrogatori fra la popolazione, la lenta rac­colta delle testimonianze, il vagliare accurato dei motivi e delle circostanze. E poi, giorni e giorni, in attesa del verdetto definitivo.

Arnol non era preoccupato. Era un uomo felice. In tutti gli interrogatori aveva parlato molto poco, ma aveva sempre avuto negli occhi una luce di trionfo. Il lavoro della sua vita era ben giustificato, ed egli era contento.

Anche Gorr Holl e Magro non erano affatto preoccupati. Il grosso Gorr Holl, anche ora, in attesa della decisione, era sempre giubilante.

«Al diavolo! Che possono fare?» diceva a Kenniston per la centesima volta. «La cosa è fatta, ormai. Il procedimento di Arnol si è dimostrato praticabile, e a quest’ora lo sanno or­mai in tutta la Galassia. Non possono rifiutare, ora, di lascia­re che anche gli umanoidi ne facciano uso, sui loro mondi morenti. Non oserebbero!»

E Magro aggiunse: «E nemmeno possono obbligare il tuo popolo a evacuare la Terra ora che diventa più calda. Sa­rebbe una cosa senza senso.»

Kenniston osservò: «Ci potrebbero tenere rinchiusi per il resto della nostra vita, e questo non sarebbe una cosa diver­tente.»

Gorr Holl sorrideva, col suo largo sorriso, e diceva:

«Ricordati, uomo, che noi siamo per loro dei selvaggi emotivi, e questo sarà per noi un’attenuante.»

Quando furono ricondotti nella grande sala per il verdet­to, gli occhi di Kenniston corsero non al gruppo dei giudici, tre uomini e un umanoide, che sedevano a un grande tavolo, ma a Varn Allan. Kenniston sapeva che anche la carriera di lei era in gioco, in quell’udienza. Ma ella non appariva preoc­cupata e, quando incontrò i suoi occhi, gli sorrise.

Lund, che le stava al fianco, aveva uno sguardo attento, ora, e pareva piuttosto preoccupato. Lanciò a Kenniston un’occhiata dura, ma questi dovette distogliere gli occhi, in quel momento, perché avevano iniziato la lettura del ver­detto.

L’uomo che lo leggeva, il più vecchio dei quattro Governa­tori presenti, non aveva alcuna espressione di cordialità nel viso. Parlava come una persona che assolveva, riluttante, uno spiacevole compito.

«Voi, i promotori di tutto ciò che è accaduto, vi siete resi colpevoli e meritevoli delle più dure pene della legge della Fe­derazione, per la vostra aperta sfida ai Governatori» disse. «Sarebbe pienamente regolare emettere una sentenza di imprigionamento a vita.»

Li guardò freddamente, l’uno dopo l’altro. Gorr Holl bisbi­gliò: «Cerca di spaventarci...» Ma non sembrava più tanto fiducioso, ora.

Il vecchio Governatore continuò: «Tuttavia, in questo caso, è del tutto impossibile raggiungere un verdetto su di una base puramente legale. Dobbiamo ammettere, nostro malgrado, che il vostro fatto compiuto ha creato una situa­zione nuova. Il Comitato dei Governatori ha ora dato la sua approvazione per l’uso del procedimento Amol su altri pia­neti...»

A Kenniston sembrava difficile capire. Gli sembrava im­possibile che una così lunga battaglia per la sopravvivenza dei mondi si risolvesse in quella semplice frase.

«... su altri pianeti» continuò il vecchio Governatore «e questo ci mette di fronte alla impossibilità di procede­re. Punirvi, ora, per l’uso che avete fatto di questo procedi­mento, sarebbe come punirvi, moralmente se non legal­mente, per una infrazione a una legge che non esiste più.»

Gorr Holl emise un lungo e rumoroso sospiro di sollievo, che una occhiataccia gli fece prontamente reprimere.

«Non possiamo fare altro, perciò, che liberarvi, con un rimprovero ufficiale da parte del Comitato dei Governatori, per il vostro comportamento.»

Ora che il momento era passato, ora che era tutto finito, Kenniston provò pochissima emozione, a ben vedere. Le sorti in gioco erano state talmente vaste che avevano quasi an­nullato il significato della sua sorte personale. Kenniston sa­peva che quell’impressione sarebbe scomparsa col tempo, che più tardi sarebbe stato lieto, e grato, ma ora...

Il vecchio Governatore, tuttavia, non aveva finito. Si rivol­geva ora, direttamente, a Varn Allan.

«Al disopra delle circostanze principali, rimane la con­dotta dei funzionari che ne avevano la responsabilità. Siamo quindi costretti a esprimere una censura ufficiale per ciò che appare una imperdonabile incomprensione di un problema psicologico da parte dell’amministratrice in carica, e...» a questo punto si rivolse direttamente a Norden Lund «e, da parte del viceamministratore, per gli evidenti e imperdona­bili tentativi di menomare l’autorità di un superiore in cari­ca, per scopi puramente egoistici.»

La voce fredda del vecchio Governatore terminò breve­mente, in tono aspro: «Abbiamo perciò proposto, al Centro dei Governatori, per l’amministratrice Allan: retrocessione, di un grado. Per il viceamministratore Lund: retrocessione, di un grado. L’udienza è tolta.»

Kenniston guardò, attraverso la vasta sala, Varn Allan. Il viso di lei non era mutato. In silenzio si volse per andarsene.

Gorr Holl gli dava ora grandi manate sulla schiena, e Ma­gro stava dicendo qualcosa, eccitato, ma Kenniston si liberò di loro e seguì Varn Allan. Lei lo vide avvicinarsi e lo attese. Ma Norden Lund sorse come un fantasma fra di loro.

Lund aveva il viso pallido di rabbia repressa, e la sua voce era roca, mentre si rivolgeva a Kenniston: «Così, voi primi­tivi avete rovinato la mia carriera!»

Varn Allan lo interruppe, con disprezzo: «Ve la siete rovi­nata voi stesso, Norden, coi vostri ambiziosi complotti.»

Lund si volse e si allontanò, livido in volto per l’ira. Varn Allan, guardandolo andar via, sospirò e disse: «Vi siete fatto un mortale nemico, Kenniston.»

«Mi siete nemica anche voi, per quello che vi ho fatto?»

Lei scosse il capo.

«No!» disse. «Non è stata colpa vostra. Di fronte a una situazione nuova e confusa, ho sbagliato. Ecco tutto.»

«Al diavolo ciò che pensate! Sono stati ingiusti con voi, invece! Voi avete fatto del vostro meglio, e...»

«E non è stato abbastanza» terminò per lui Varn Allan. Poi gli sorrise: «Non è una tragedia, del resto. Il compito di un amministratore non è cosa facile. Non ne sono del tutto addolorata.»

Kenniston non aveva mai ammirato come in quel mo­mento il coraggio di quella donna. Avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto dirle molte cose, ma lei si allontanò un poco da lui, e disse: «Questo è un gran giorno per voi, Kenni­ston. Perché proprio oggi hanno permesso, a quelli del vo­stro popolo che lo desiderano, di ritornare alla loro vecchia città.»

«Sì, me ne hanno informato. So che è oggi.»

«E tornerete là anche voi, con la vostra Carol. Ne sarà molto lieta, quella ragazza.»

Kenniston disse: «Varn...»

Ma lei non lo guardava più in viso. Disse, calma: «Questo non è il nostro addio. Ritornerete qui, prima che lasciamo la Terra.»

Kenniston rimase muto, oppresso da emozioni che non poteva definire. Infine disse: «Sì! Sì! Ritornerò qui, prima che ve ne andiate.»

Ella lo lasciò, e Kenniston rimase a guardarla, finché ab­bandonò la sala. Poi, lentamente, anche lui uscì nella strada.

Un tremendo clamore lo colpì al viso. La piazza era affol­lata, ma un grande passaggio era aperto tra la folla, lungo il viale che conduceva alla porta della città. E la banda di Middletown, impettita e rigida nella sua uniforme scarlatta, fra un rullo alto di tamburi e un clamore di trombe, marcia­va, in testa a un lungo corteo, verso la porta.

Dietro la banda veniva una grossa macchina verde, sco­perta, col sindaco che ritto sul sedile posteriore, il faccione di nuovo aperto al sorriso, sventolava il cappello, gioiosamente, alla folla acclamante. E dietro quella macchina ne venivano molte altre, le vecchie macchine di un tempo, piene di uomi­ni eccitati e di donne che piangevano, le prime macchine del­la lunga carovana che si stava formando, per ritornare alla vecchia Middletown.

Kenniston vide la popolazione inneggiante che circonda­va Jon Arnol, e Hubble, e Gorr Holl, e Magro, poco lontano. Sapeva che sarebbe stato trascinato in quel gruppo, e allora, rientrato nella sala e uscito da un’altra porta, si avviò, per strade temporaneamente deserte, all’alloggio di Carol e di sua zia.

Carol lo accolse con un festoso saluto, quand’egli entrò.

«Oh, Ken, allora sei libero? Avevano detto che sarebbe stato oggi, e ti aspettavo...»

«Sì, è tutto finito» disse Kenniston.

«Allora possiamo partire, come gli altri?» domandò la signora Adams. «Possiamo ritornare a Middletown?»

«Non appena avrete preparato le vostre cose e io avrò condotto qui la jeep.»

«Ma ho preparato tutto da giorni» ribatté la vecchia si­gnora. «Non vorrei rimanere in questo posto un minuto più del necessario. Ma immaginate! Mi hanno detto che molti, di quelli più giovani, vogliono rimanere qui. Di loro volontà, pensate: dicono che a loro questa città piace più di Middle­town, ora!»

Kenniston provava un curioso senso d’irrealtà mentre ca­ricava tutto nella jeep e si accodava alla grossa colonna di au­tomezzi che si snodava verso l’uscita della città.

Era proprio vero che finiva tutto così? Era proprio vero che ritornava alla vecchia città, alla vecchia vita, dopo quello che aveva fatto e veduto?

Avanti, lungo il grande viale, tra gli altissimi e bianchi edi­fici, e poi attraverso la grande porta, fuori, nella vasta pianu­ra... Il sole, rossastro, brillava sempre, opaco; ma ora un ven­to più caldo di quanti la Terra avesse mai sentito da milioni di anni soffiava attraverso la pianura, facendo ondeggiare i primi e timidi fili della nuova erba, portando dovunque un caldo soffio di vita nuova.

Ora oltrepassavano il piccolo incrociatore spaziale di Jon Arnol, e poi le grosse masse titaniche delle grandi astronavi della Federazione, adagiate sulla pianura.

Kenniston guardò le gigantesche navi e pensò ai vasti spa­zi, cosparsi di mondi e di stelle, che avrebbero percorso, poi tornò a guardare davanti a sé.

E alla fine, le macchine oltrepassarono la cresta delle colli­ne e discesero, gioiosamente, verso la vecchia Middletown.

Lungo tutte le vecchie strade familiari, le case comincia­vano a riaprirsi alla vita. Le imposte venivano spalancate, le doppie finestre tolte, le porte spalancate al vento tiepido, le donne si affaccendavano già con le scope sotto i portici inva­si dalla polvere. Le grida dei bambini e l’abbaiare dei cani si mescolavano al suono delle trombe delle macchine.

Avanti, lungo la Mill Street, lungo la Main Street, e avanti ancora. E infine, ecco la vecchia casa grigia, proprio come l’avevano lasciata.

Kenniston fermò la jeep accanto al marciapiede. La signo­ra Adams scese. Salì lentamente i pochi gradini, e aprì con la chiave la porta. Rimase ferma un istante, guardando nell’in­terno.

«Niente è cambiato» mormorò. «Ma tutta questa pol­vere! Dovrò mettermi a fare pulizia...»

Poi, improvvisamente, sedette sulla sua poltrona, accanto alla finestra, e si mise a piangere.

Carol non entrò subito. Facendo forza su se stesso, con uno strano imbarazzo, Kenniston domandò: «Sei contenta anche tu, Carol?»

«Sì, Ken» rispose la ragazza, sorridendo.

«Bene...» disse Kenniston. «Ora debbo ritornare a Nuova Middletown per vedere Gorr e gli altri, prima che par­tano. Ma tornerò presto.»

Carol lo guardò, e scosse il capo: «No, Ken. Non devi tor­nare.»

Kenniston la guardò sorpreso.

«Carol, cosa vuoi dire?»

Ma il viso di Carol era fermo.

«Voglio dire che tu non appartieni più a questo posto, Ken. Sei cambiato, quando sei andato lassù, fra le stelle. E cambierai ancora di più, nei giorni che verranno. Ti volgerai sempre più a quella nuova e strana vita. Mentre io non posso cambiare, Ken. Non a quel punto. Passeresti una vita infeli­ce, con me, attaccata come sono alle vecchie cose.»

«Ma i progetti che abbiamo fatto insieme, Carol...»

Carol scosse il capo.

«Ho fatto quei progetti con un altro uomo, un uomo che non è più qui, che non ritornerà qui mai più.»

Si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò. Quindi entrò in ca­sa e richiuse la porta.

Kenniston rimase per qualche attimo incerto, esitante. Quindi, lentamente, risalì nella jeep e uscì dalla vecchia Middletown.

Dalla cresta delle colline poté vedere nuovamente i grandi incrociatori spaziali, ancora adagiati sulla pianura accanto alla città della cupola. E quella città viveva ancora. Erano i giovani di Middletown, che avevano deciso di rimanervi; i giovani, che potevano ancora guardare verso il nuovo, verso il futuro.

Le grandi navi dello spazio avrebbero continuato a venire, ora che la Terra era nuovamente abitabile. I popoli delle stelle lontane si sarebbero mescolati col popolo di Middletown, e i giovani della Terra sarebbero andati verso gli altri soli, e gradatamente tutta la strana vicenda di Middletown sarebbe stata assorbita nella grande corrente della Storia.

Kenniston lanciò la jeep a tutta velocità, verso la città lon­tana, dalla cupola splendente nel cielo. Sentiva ora un senso nuovo di libertà, e anche una profonda gratitudine per Carol, che non aveva cercato di trattenerlo. Ma sentiva anche una incertezza, una perplessità nuova. Nuovi e vasti orizzonti si allargavano di fronte a lui ora, illimitati orizzonti di spazio, illimitate vie di nuovo pensiero. Ma si sentiva ancora un fi­glio della vecchia Terra, e quella nuova vita sarebbe stata una vita strana e solitaria. Si sarebbe sentito solo, solo.

Trovò gli altri ancora riuniti nella piazza, che parlavano fra loro: Gorr Holl, e Magro, e Arnol. E, con essi, c’era Varn Allan.

Lo videro, e Gorr Holl alzò le braccia, salutandolo a gran voce. Mentre s’avvicinava a loro, vide gli occhi ansiosi di Varn Allan che lo guardavano, in attesa, e capì d’un tratto che aveva avuto torto poco prima, e che, nella stranezza di quegli anni futuri, non sarebbe stato solo.

FINE