In missione, per la Terra

No! Kenniston non avrebbe mostrato alcun timore! Tutti si aspettavano, nella nave spaziale, di vederlo sconvolto dalla paura, e lo osservavano, di sottecchi, con sguardi pieni di in­teresse e non privi di un’espressione leggermente canzonato­ria. Ma Kenniston serrò i pugni nelle tasche dei pantaloni e decise fermamente che li avrebbe delusi tutti.

Aveva paura, sì. Una cosa era leggere, parlare e discutere di viaggi spaziali; un’altra cosa, e assai più dura e spavente­vole, era viaggiare realmente nello spazio, lasciare, con un balzo immane, la solida Terra, per irrompere nel vuoto in­commensurabile di una voragine senza mondi.

Se ne stava ritto, con Gorr Holl e Piers Eglin, sul ponte in­terno del Thanis,guardando avanti a sé, attraverso i finestri­ni ricurvi, e una sensazione gelida, di repulsione fisica, gli at­tanagliava le viscere.

«Non è poi tanto emozionante come credevo...» disse con voce un poco malferma. «Solo quelle stelle là, davanti a noi...»

Lottava contro l’impulso istintivo di afferrarsi a qualche cosa per non cadere. No, non lo avrebbe fatto. Non avrebbe mai fatto una cosa simile, mentre quegli uomini dal viso ab­bronzato, dietro a lui, da tempo abituati a viaggiare nelle profondità dello spazio, lo osservavano curiosamente.

Un ronzio profondo e un leggero vibrare delle grandi strutture attorno a lui erano l’unico indizio che il Thanis si muoveva.

Kenniston vedeva una oscurità profonda, di un nero asso­luto, nella quale le stelle fiammeggiavano come fiaccole. La vivida luce azzurra di Vega era al centro di quel soprannatu­rale spettacolo, circondata dalla costellazione della Lira e da quella dell’Aquila, attraversate, a sinistra, dalla Via Lattea, smagliante e formicolante.

Solo quella sezione di cielo appariva chiara e limpida. Tut­to il resto del firmamento, che si stendeva come uno sfondo immane, era una vista incredibilmente confusa di stelle, i cui raggi sembravano torcersi, vibrare, danzare in un tripudio di luce.

Gorr Holl gli accennò un grande quadro di comandi dietro al quale sedevano quattro uomini.

«Conosci il principio della propulsione? Si tratta di raggi di reazione, innumerevoli volte più veloci della luce, che agi­scono contro il pulviscolo cosmico dello spazio.»

Kenniston sospirò: «Mi sento ignorante come un bambi­no. L’esistenza di raggi simili era assolutamente insospetta­bile, ai miei tempi. Le equazioni di Einstein dimostravano che se la materia si fosse mossa più velocemente della luce, avrebbe finito con l’espandersi indefinitamente.»

Gorr Holl rise, divertito.

«Il vostro Einstein era un grande scienziato» disse «ma abbiamo aperto nuovi campi di conoscenza, da allo­ra. Il controllo della massa, per esempio, che impedisce quella espansione, e altre cose.»

Kenniston ascoltava solo a metà. Guardava l’occhio biancoazzurro di Vega, che sembrava fissarlo, arrogante, dal grande abisso cosparso di stelle. E il guardare a quella stella lontana lo rendeva in qualche modo conscio della loro spa­ventevole velocità, del loro precipitare, della loro caduta da incubo attraverso l’infinito.

Quella sensazione era anche peggiore del momento della partenza. Eppure aveva pensato che nulla, assolutamente nulla, sarebbe stato peggiore di quel momento. Se fosse an­che vissuto per sempre, non avrebbe mai più dimenticato quegli ultimi eterni minuti, prima dello strappo dalla Terra, legato com’era su una poltrona, mentre cercava di rilassare i propri nervi e non vi riusciva, mentre osservava le luci che al­l’interno s’affievolivano, mentre sentiva il vibrare profondo dell’astronave che si preparava al balzo fuori dell’atmosfera terrestre, mentre i battiti del cuore lo soffocavano e un sudo­re ghiacciato gli scendeva per tutto il corpo, mentre cercava disperatamente di persuadersi che quella partenza non era per nulla diversa da un normale decollo di aeroplano... E poi il balzo, la pressione, la penosa sensazione del respiro che viene a mancare, la claustrofobia provocata dal sentirsi rin­chiuso in quella cosa che si muoveva a vertiginosa rapidità e sulla quale egli non aveva controllo alcuno.

Non poteva ancora sapere per quale maestria della scien­za gli occupanti di quella nave spaziale erano difesi dalle enormi pressioni di quella accelerazione. Eppure, difesi lo erano, perché la pressione non era affatto peggiore di quella che si può provare in un velocissimo ascensore. Eppure, sa­pere che la Terra si stava allontanando vertiginosamente in un abisso pauroso, rendeva quell’ascensione veramente orri­bile. Poté udire il lamento dapprima, e poi il fischio e infine l’urlo irrefrenabile dell’aria contro l’involucro metallico della nave spaziale, e poi, quasi a un tratto, tutto finì. Si trovava ora nello spazio. E sentiva profondo, nelle viscere, l’atavico terrore degli abissi, retaggio delle epoche più lontane. Pensò al vuoto immane che si apriva sotto i suoi piedi, oltre la sotti­le lastra di metallo del pavimento, e serrò i denti, spasmodi­camente, per trattenersi dal gridare.

«Non pensarci!» gli aveva detto Gorr Holl. «E ricorda­ti! Vi è stata una prima volta anche per tutti noi! Ho creduto, io stesso, di non sopravvivere a quella prima prova.» Aiutò quindi Kenniston a rialzarsi. «Andiamo sul ponte interno. È meglio che tu affronti tutto in una volta: poi ti sentirai più sollevato.»

Erano saliti sul ponte interno, e Kenniston aveva guardato nello spazio, dove i grandi soli bruciavano senza alcun velo e dove non esistevano né aria né nubi che li nascondessero. E aveva dovuto far forza su se stesso, per non gettarsi a terra e piangere e uggiolare come un cane.

Cercò di immaginarsi le difficoltà che lo attendevano a Vega, dove avrebbe dovuto difendere la causa della piccola Middletown davanti ai Governatori delle Stelle. Come avreb­be potuto far capire l’appassionata devozione del suo piccolo popolo per il suo piccolo e antico pianeta, a gente che viag­giava con tanta facilità in navi spaziali come quella?

Eppure, se falliva nel suo scopo, avrebbe anche mancato al compito che si era assunto verso la popolazione di Middle­town, che aveva riposto tanta speranza nella sua missione. Era questo, a cui doveva pensare... non allo spazio, non alle sue sensazioni personali, ma al compito che lo attendeva.

Diede un’occhiata a Gorr Holl, e disse: «Ho visto abba­stanza, per ora, andiamo!»

Lasciarono Piers Eglin e scesero nei corridoi inferiori. Quando furono nel corridoio principale, soli, Kenniston dis­se: «Adesso, Gorr, vorrei sapere qualche cosa di più su quanto mi hai detto.»

Gorr Holl fece un cenno di consenso.

«Andiamo da Magro e Lal’lor. Ci attendono.»

Lo condusse lungo misteriosi corridoi, sino a una cabina accanto alla sua. Kenniston provò sollievo nel trovarsi anco­ra in un posto chiuso, senza finestre, dove non poteva vedere il vertiginoso vuoto dello spazio. Sotto la sua istintiva paura vi era tuttavia una selvaggia esultanza... ma un uomo del ven­tesimo secolo, e suo malgrado attaccato al ventesimo secolo, non poteva certo assorbire tali e tante emozioni in una volta sola.

La figura massiccia di Lal’lor era china su una tavola co­sparsa di fogli coperti di complicati simboli matematici. Ma­gro, che era sdraiato in una cuccetta, diede delle spiegazioni a Kenniston.

«Lal’lor si occupa di teoremi per divertimento. Pretende persino di capire a fondo tutte quelle cifre che scrive.»

Lal’lor gli lanciò uno sguardo divertito coi piccoli occhi in­telligenti nel viso curiosamente piatto e inespressivo. Poi al­lontanò con un gesto i fogli che aveva davanti e disse: «Sie­di, Kenniston. Così siamo alleati, ora, oltre che amici.»

«Desidererei» disse Kenniston «che qualcuno mi spiegasse in che consiste questa alleanza. Sto giocando i de­stini del mio popolo sulla parola, sulla buona fede, senza sa­pere nulla di ciò che voi sapete.»

«Non vi è nulla di sinistro, in tutto ciò» disse Gorr Holl. Si accomodò, con la sua pesante mole pelosa, su un angolo della tavola di Lal’lor, che era abbastanza solida per sostenerne il peso. Poi proseguì: «Come ti ho detto, tutti noi abbia­mo lo stesso problema, la cui soluzione si basa su un uomo e su un procedimento.»

Si fermò un attimo, assorto, poi riprese: «Per un caso piuttosto originale, Kenniston, ti sei trovato meglio con noi che con gli uomini della tua stessa stirpe. Le razze umane si sono diffuse dalla Terra nell’universo molto tempo fa, e han­no continuato a muoversi e a diffondersi, allargando sempre la loro crescita d’azione, sino a perdere ogni senso di attacca­mento al loro mondo d’origine. L’intero universo è la loro pa­tria, e non un solo pianeta.»

Questo, Kenniston cominciava a comprenderlo sempre meglio; le impersonali immensità dello spazio, tante volte at­traversate, tendevano a staccare l’uomo dalle sue ristrette correnti di pensiero. Carol, in questo, aveva intuito bene.

Gorr Holl continuò: «Ma noi razze umanoidi, non la pensiamo affatto in questo modo. Quando gli uomini venne­ro nei nostri mondi, eravamo quasi del tutto barbari e felicis­simi nella nostra barbarie. Ebbene, ci hanno civilizzati, e sia­mo ora accettati da loro come eguali. Ma noi siamo ancora primitivi, nel pensiero, nella mentalità; noi siamo ancora at­taccati ai nostri mondi originari, e ogni volta che diventa ne­cessario rimuoverci noi siamo contrari, proprio come è con­trario il vostro popolo... abbiamo solo imparato a essere me­no violenti. Alla fine, naturalmente, abbiamo sempre ceduto. Ma in questi ultimi anni abbiamo resistito più disperatamen­te, perché avevamo qualche cosa in cui sperare... e questo qualche cosa è il procedimento di Jon Arnol.»

«Continua!» lo incoraggiò Kenniston. «Finora, di Jon Arnol, non conosco che il nome. In che cosa esattamente consiste il suo procedimento? Mi hai detto, se non sbaglio, che si trattava di un procedimento per ringiovanire i pianeti freddi e morenti.»

Lal’lor intervenne, per spiegare di che si trattava.

«Il progetto di Arnol consiste in questo: iniziare un ciclo di trasformazione dell’energia-materia simile alla trasforma­zione dell’idrogeno-elio che dà al sole la sua energia... inizia­re questo ciclo nucleare di trasformazione operando profon­damente entro il pianeta freddo.»

Kenniston lo guardò fisso, completamente stupefatto.

«Ma» disse alla fine «questo equivarrebbe a creare un gigantesco forno solare nelle più intime viscere di un pianeta!»

«Già! Un’idea audace e brillante. Risolverebbe il proble­ma di molti mondi freddi e morenti in tutta la Federazio­ne... perché, come sai, un pianeta può vivere del suo calore interno per molto tempo dopo che il calore del suo sole è cessato.» Si arrestò per un attimo, poi riprese: «Sfortu­natamente, quando Arnol provò il suo procedimento su di un piccolo asteroide, i risultati furono disastrosi.»

«Disastrosi?»

«Proprio così. La bomba-energia, progettata per iniziare il ciclo nell’interno di quell’asteroide, non ebbe successo e provocò terribili terremoti e l’asteroide ne fu devastato. Ar­nol asserisce che ciò è accaduto perché non gli è stato con­cesso un pianeta abbastanza grande per la sua prova. Le sue equazioni confermano le sue dichiarazioni.»

«Perché allora» domandò Kenniston «non ha fatto un’altra prova su un pianeta più grande?»

«I Governatori non glielo hanno permesso» disse Lal’lor. «Dicevano che era troppo pericoloso.»

«Ma non poteva ritentare la prova su un pianeta disabi­tato, e perciò senza pericolo per nessuno?»

Lal’lor sospirò.

«Non capisci, Kenniston. I Governatori non vogliono che il procedimento di Arnol riesca. Non vogliono che sia possibile ai popoli primitivi di restare attaccati ai loro mondi originari. Questo è proprio il genere di patriottismo provin­ciale cui sono contrari, nel loro sforzo di fondare una vera comunità stellare cosmopolita.»

Kenniston rifletté sulla cosa. Tutto ciò combinava con quanto aveva visto e udito della vasta Federazione delle Stel­le. Eppure...

«Se ho ben capito» disse lentamente «la conclusione è che volete usare il mio mondo, la nostra Terra, per provare un procedimento che i vostri Governatori, qualunque ne sia­no i motivi, hanno già giudicato pericoloso.»

Lal’lor fece, calmo, un cenno di conferma.

«Sì. La conclusione è proprio questa. Ma non si tratta per ora di tentare la prova, per la prima volta, sulla Terra, o su qualche altro pianeta abbandonato. La questione è un’al­tra, quella cioè di costringere il Comitato dei Governatori a permettere un’altra prova.»

«Non vedi come tutto combina?» intervenne Gorr Holl. «Da sola, la tua richiesta di rimanere sulla Terra verrebbe respinta, perché non puoi presentare altra alternativa all’eva­cuazione. Ma presentando come alternativa il procedimento di Jon Arnol, potrai aiutare la Terra e anche noi!»

Kenniston cercava di comprendere la cosmica comples­sità del problema.

«In altre parole, se potessimo persuadere i Governatori a concedere un’altra prova, questo ritarderebbe l’evacuazione della Terra?»

«Infatti!» confermò Lal’lor. «E se il procedimento di Arnol ha successo, la Terra e anche i nostri mondi, che si tro­vano nelle medesime condizioni della Terra in tutta la Fede­razione, potranno nuovamente essere resi caldi e abitabili. Non vale la pena di tentare?»

«Se ponete la questione così» disse Kenniston «certo, certo vale la pena di tentare.» Cominciava a sperare ancora. «E credi che questa... questa specie di forno solare possa avere successo? In modo non pericoloso, intendo dire.»

«Secondo tutte le dimostrazioni matematiche, sì.»

Kenniston esitava ancora, e Gorr Holl disse: «La decisio­ne dovrebbe essere presa dal tuo popolo, Kenniston, e non da te... intendo dire la decisione di assumere quel rischio. Si tratta di una piccola popolazione che potrebbe essere assai facilmente trasportata altrove, durante la prova, finché ogni pericolo sia scomparso.»

Questo era vero. Non doveva aver paura di prendere impe­gni troppo decisivi per il suo popolo, perché non ne aveva l’autorità. E poteva essere una soluzione. Poteva esserlo dav­vero!...

«Siamo d’accordo, allora?» domandò Lal’lor. «Arnol è mio amico da molti anni, e posso fargli avere subito un mes­saggio perché ci venga incontro al nostro arrivo. Può aiutarti a preparare l’appello.»

Kenniston li guardò. Guardò i visi familiari di quei tre umanoidi. Doveva fidarsi di loro, doveva accettare le loro di­chiarazioni sulla parola. All’improvviso capì che poteva fi­darsi di loro.

«Benissimo!» disse. «Credo che qualsiasi speranza sia meglio di niente.»

«Allora, siamo d’accordo» concluse Lal’lor, tranquilla­mente.

Kenniston rimase un poco senza respiro, come se avesse preso una decisione irrevocabile, molto al di là delle sue intenzioni. Gorr Holl gli lanciò uno sguardo penetrante e disse: «Hai bisogno di qualche cosa, Kenniston. E credo di sapere cosa.»

Uscì e ritornò di lì a poco con un grosso flacone piatto di metallo grigio. Sorrise, mostrando i denti, in quel modo che pochi giorni prima aveva spaventato la popolazione di Middletown.

«Fortunatamente» sorrise «non facendo parte del personale di navigazione, non ci è vietato, come personale tecnico, di prendere degli stimolanti. Prendi dei bicchieri, Magro.»

Magro prese solo tre bicchieri di plastica.

«Il nostro saggio Lal’lor» disse «preferisce stimolarsi con le equazioni.»

Lal’lor approvò sorridendo. Gorr Holl versò con cura un li­quido limpido nei bicchieri.

«Prova questo, Kenniston!»

Quel liquido aveva uno strano sapore di muffa, di mu­schio. Poi, parve esplodere nello stomaco di Kenniston, man­dandogli ondate di calore fino alla punta delle dita. Quando poté nuovamente respirare, balbettò: «Ma che diavolo è, questa roba?»

«È distillato da alcuni funghi dei nostri mondi di Capella» spiegò Gorr Holl. «Forte, vero?»

Kenniston, dopo aver bevuto un altro sorso, sentì svanire un poco le sue preoccupazioni. Sedette, più rilassato, ad ascoltare quei figli di altri mondi lontani, che parlavano. Sa­peva che parlavano per cercare di rasserenarlo.

«I primi viaggi possono essere molto duri» diceva Ma­gro. Era accovacciato sulla cuccetta come un gatto addor­mentato, con uno splendore sognante e remoto negli occhi felini. «Ricordo il mio primo viaggio. Attraversammo le Pleiadi con le macchine che funzionavano a energia ridotta, e i piccoli mondi si affollavano attorno a noi come api infero­cite.»

Gorr Holl assentì con un cenno.

«Ti ricordi» disse «quella caduta sulla stella Algol? Ho perduto degli ottimi amici, in quel disastro. Una tomba geli­da e profonda nel vuoto!»

Kenniston ascoltava, mentre essi parlavano di vecchi viag­gi al di là delle frontiere stellate della Federazione, di pericoli provenienti dalla nebulosa, dalle comete, dalle nubi cosmi­che, di naufragi su mondi sconosciuti e selvaggi.

Quei discorsi lo interessavano vivamente e lo sbalordiva­no a un tempo. Dopo un poco, citò ad alta voce un passo che gli era tornato alla memoria: «Allora non ascolteremo più miseri discorsi su Magellano e su Drake. Udremo allora il racconto di viaggiatori che hanno circumnavigato l’eclittica e doppiato la Stella polare come il Capo Horn.»

«Chi ha scritto queste parole?» domandò Lal’Ior, inte­ressato. «Qualche scienziato della vostra epoca che aveva previsto i viaggi spaziali?»

«No» spiegò Kenniston «si tratta di un uomo di un se­colo prima della mia epoca. Si chiamava Melville, e anche lui era marinaio, ma sui mari della Terra.»

Gorr Holl scosse il capo.

«Strani tempi debbono essere stati quelli, quando non v’erano che gli oceani d’acqua di un piccolo pianeta per le av­venture dell’uomo!»

«Eppure vi era un vastissimo campo di avventura, su quegli oceani» disse Kenniston. «L’Atlantico in piena tem­pesta, il Golfo in una notte lunare...»

Una dolorosa nostalgia lo afferrò di nuovo, la terribile no­stalgia per una Terra perduta per sempre, per l’odore dei falò che bruciavano nelle rigide notti d’autunno, per i campi fio­riti sotto il sole estivo, per i cieli azzurri e le verdi colline, per le montagne nevose e i villaggi sonnolenti, per le vecchie città e le vecchie strade che le attraversavano, per tutto ciò che era scomparso e che non sarebbe ritornato mai più. Quei pensieri gli facevano persino desiderare la Terra com’e­ra ora, il vecchio pianeta stanco e morente che conservava almeno la memoria del mondo che egli aveva conosciuto, la memoria delle persone che avevano conosciuto quel mondo. Carol aveva ragione! Il vecchio modo di vivere, le vecchie co­se, erano le migliori! Che faceva lui, ora, in quelle immensità del vuoto?

Allora vide che gli altri lo guardavano con una luce di com­prensione nello sguardo, in quel loro sguardo strano, eppure così familiare e amichevole.

«Datemi ancora da bere» disse.

Ma non servì a scacciare la nostalgia cocente della Terra. Parve anzi rendere più acuto il suo impossibile desiderio. Al­lora, Kenniston si alzò di colpo, come per scrollarsi di dosso quel peso amaro, e lasciò i compagni avviandosi verso la sua cabina.

Spense le luci della cabina, una volta entrato, e premet­te il bottone che trasformava in finestra la solida parete. Il nero baratro punteggiato di stelle si spalancò davanti a lui, in un vuoto senza fine. Sedette sull’orlo della cuccetta e ri­mase a guardare a lungo, come affascinato, quello spetta­colo di disumana solitudine, fantasticando sulla sua dispe­rata missione. D’un tratto si accorse che qualcuno aveva bussato alla porta della cabina. Si alzò e aprì la porta. La luce che proveniva dal corridoio gli mostrò chi era. Era Varn Allan.