INDICE

PREFAZIONE SONETTO CODICI PROEMIO

Primo Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo

V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII Capitolo

IX Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII Capitolo

XIII Capitolo XIV Capitolo XV Capitolo XVI Capitolo

XVII Capitolo XVIII Capitolo XIX Capitolo XX Capitolo

XXI Capitolo XXII Capitolo XXIII Capitolo XXIV Capitolo

XXV Capitolo XXVI Capitolo XXVII Capitolo XXVIII Capitolo

XXIX Capitolo XXX Capitolo XXXI Capitolo XXXII Capitolo

XXXIII Capitolo XXXIV Capitolo

ALLA MAESTÀ DEL RE VITTORIO EMANUELE III

Sire,

In un’opera, che rimarrà immortale, come la saviezza e la bontà da Voi già dispiegate, durante il Vostro regno, la Maestà Vostra ha dimostrato quanto Le stieno a cuore gli studi della erudizione, e come sia convinta, dopo certe sapienti, lunghe indagini, debba, da ogni sforzo di dottrina, derivar un nuovo civile incremento.

Nel nome di Dante l’Italia rafferma la sua gloria di madre d’ogni alta cultura e però, con libero pensiero, con omaggio devoto, ho voluto offrire al Sovrano che, sin da’ suoi giovani anni mostrò intelletto infiammato del sapere, questo studio di schietta italianità.

Della Vostra Augusta Maestà

Dev. mo Obbed. mo Suddito Enrico Bemporad EDITORE

Firenze, 1º settembre 1914.

PREFAZIONE

PER la prima volta si pubblicano, corrette nel testo, ridotte alla lor vera lezione, e sottoposte ad indagine critica, rivendicate, con validi argomenti, al suo autore le Chiose alla prima Cantica della Divina Commedia, scritte da Jacopo, figlio di Dante Alighieri.

E c’è da meravigliarsi che fosse lasciato così negletto un testo prezioso per la ermeneutica dantesca: uno fra i più antichi commenti del sublime poema, e che contiene una interpetrazione nuova, con singolarissimo intendimento, per la prima volta or da noi messo in rilievo. E non accade l’insistere su la importanza di tale sottile interpetrazione circa le allegorie della Divina Commedia, se si riflette che Jacopo può averla udita, raccolta dalle stesse labbra del padre.

Ma procediamo per ordine.

Furono, sino ad oggi, raccolte in copia notizie risguardanti i figliuoli di Dante Alighieri, ma non si è ancora appurato, tali notizie essendo sovente incompiute, qual de’ figliuoli fosse il primogenito, o Pietro, o Jacopo. Forse, Pietro è da reputarsi il maggiore, poichè, mentre il padre avea preso stabile dimora in Ravenna, egli era già investito di due benefici ecclesiastici[1]. E ciò si ritrae da una sentenza del Cardinale Bertrando del Poggetto:—sentenza, da cui s’apprende che Pietro si rifiutò di pagare le procuragioni dovute al Cardinale, ed è del 4 gennaio 1321: otto mesi innanzi la morte di Dante. E i benefici doveano essere stati a Jacopo ottenuti dalla moglie di Guido Novello da Polenta.[2] Allorchè il padre ebbe bando da Firenze, nel 1302, i figliuoli rimasero nella città con la madre, stretti d’angustie, ridotta la famiglia a scarso, sottil tenore di vita. Dopo la battaglia di Monteaperti, per l’atto di condanna del novembre 1315, anche i figliuoli son cacciati in bando (Dantem Allagherii et filios): non già perchè avessero compiuto gesta contro la saldezza della Repubblica, ma per effetto della legge spietata che accomunava nella condanna de’ ribelli eziandio i lor figliuoli, che avesser tocco i quindici anni. Sbanditi dalla patria, si rincontravano col padre su la via dell’esilio; ed egli amorevolmente li accolse e li ebbe seco prima a Verona, poi a Ravenna. Nè ci soccorrono documenti a chiarirci del tempo da essi trascorso col padre: ben sappiamo che in Ravenna si trovavano alla morte di lui e, con l’aiuto di Ser Pier Giardini, misero a ordine, devotamente, i manoscritti lasciati dal divino poeta.

Rileviamo dal Boccaccio che gli ultimi tredici Canti del Paradiso andaron smarriti per circa otto mesi e furono, per ventura, dopo assidue, insistenti ricerche, trovati. E già se ne disperava al segno che Jacopo, il più acceso negli studii letterarii, avea formato il disegno di supplire egli alla mancanza. Lieti per la preziosa recuperazione, volsero l’animo a significare la gratitudine degli esuli verso Guido Novello da Polenta, allora podestà per i bolognesi, e ch’era stato agli esuli fiorentini generoso di ospitalità. E fecer disegno, e il posero in atto, di offrire a quel Signore la prima copia integra della Divina Commedia, accompagnata da un Sonetto e da un Capitolo, scritti da Jacopo a dilucidare in quali e quante parti è diviso e suddiviso il grande Poema.

Di lì a breve tratto (nel settembre 1322) i due figli dell’Alighieri, scaduta la signoria de’ Polenta, lasciavan Ravenna. E, nel 1323, nel 1324, Pietro era in Firenze. Come gli desse l’animo di tornare nella città donde era stato sì aspramente cacciato, non sappiamo al certo; ma non ci è conteso il supporre ch’egli facesse questo pensiero: era stato sbandito unicamente come figliuolo dell’Alighieri e, morto il padre, non veniva a mancar la ragione del suo bando? Tanto più che nella sentenza di condanna non era neppure specificato il nome di lui. Questo egli, forse, credeva, ma andava errato. Nel bando era pur segnata la sua condanna di morte: e, sovrappreso da timori, sollecitato da consigli, prima che contro di lui si risollevassero gli odii, si sguinzagliasser le invidie, e il malanimo sì aspro e operoso contro il padre, si dannò da sè a nuovo esilio e si ritrasse in Verona, ove fu giudice del Comune e Vicario del Podestà.

Morì nel 21 aprile 1364 in Treviso ed ivi ebbe sepoltura in Santa Margherita degli Eremitani, oltre il Sile.

Nel 1325 la Signoria di Firenze concedeva perdonanza a’ cittadini mandati in bando e, dava loro balìa, salvo a’ ribelli, di tornar in patria, se assentissero di pagar una certa quota su la ammenda, della quale erano stati colpiti. Jacopo di Dante volle approfittar di quella congiuntura e rifarsi fiorentino. Fu allora ordinata una pratica per appurare se egli dovesse avvantaggiarsi delle larghezze concesse: e fu deciso in suo prò e ciò, verosimilmente, per un garbuglio di legulei, poichè nella sentenza di condanna, secondo abbiamo toccato più sopra, era accennato a’ «figliuoli di Dante» senza specificarne i nomi.

Tuttavia, egli non prese stanza in Firenze, ma riparò a Fiesole ove, nel 1326, ebbe i primi ordini ecclesiastici. Nè si attutivano gli odii contro di esso, aizzati da’ nemici del padre. Acchetate le parti de’ Bianchi e de’ Neri, si era formata un’unica parte, schiettamente guelfa: ma non s’erano acchetati i rancori verso coloro, che avean macchinato contro l’ordine, la ragione dello Stato e fra essi Dante primeggiava: acerbo, implacato riprensore de’ costumi de’ suoi concittadini; disfogatore, senza tener modo, delle sue ire contro personaggi e famiglie, cui non aveva il suo focoso risentimento risparmiato alcun vitupero e che aveva dannato a perpetuo dileggio, ad una infamia insanabile. Donde l’acuta avversione de’ Donati che non sapean perdonare neppure alla sua memoria. I genii sono, generalmente, importuni: prendono troppo posto nel mondo, appaiono invasori, sono dominatori, loro malgrado. Egli era stato, e con spiccatissimi tratti, e quasi a studio, importuno a molti.

E costoro si sfrenavano sempre in calunnie contro il poeta, aveano in dispetto il suo Libro divino, che s’ingegnavano tener nella oscurità (da cui i secoli l’hanno rivendicato) credevano poter spengere quella fiamma, che dovea essere una tra le luci più vive del civile consorzio. Alla divulgazione della Divina Commedia fu contrapposto in Firenze ogni ostacolo, con subdoli espedienti, o recisi pareri: coloro che il poeta aveva percossi, o sfiorati della sua folgore; coloro ch’egli aveva collocati, con scherni sublimi, nelle sue bolgie infernali, urlavano come dannati contro di lui. La morte del poeta non li placava: sentivano che la loro onta dovea essere immortale. Il poema, combattuto a Firenze, era già letto, comentato, diffuso, suscitava ammirazioni in altre città d’Italia, per esempio a Bologna; nella patria del fiero ghibellino rafforzava, perpetuava le inimicizie. Un comentatore, contemporaneo d’Jacopo, esclama: Universus et totus infernus florentinis noscitur esse plenus. E a cotale esclamazione fa seguire i nomi di circa una trentina di ragguardevoli fiorentini, che in varii cerchi infernali son dal poeta allogati.

Se è lecito trar paragoni tra uomini e tempi, tanto diversi, Dante fu tra molti de’ fiorentini suoi contemporanei in disgusto, come furono, nel decorso secolo, fra gl’inglesi Giorgio Byron, e fra i tedeschi Enrico Heine: e ciò per lo stesso motivo, per la sanguinosa satira de’ loro compatriotti, per aver flagellato ove credeano fosse buono e degno l’assestar colpi.

Un’idea dell’accanimento de’ nemici di parte contro il poeta è da rilevarsi dallo stesso opuscolo di un suo contemporaneo, il frate Vernani, da noi ripubblicato e tradotto dal latino, nel quale l’autore del De Monarchia è chiamato «ignorante» e dipinto, scusate se è poco, com’uomo di mal’affare. Già il qualificativo di «barattiere» del quale egli gratificò sì copiosamente altrui era stato, con fermezza, aggiunto al suo nome.

E, scomparso il poeta dalla scena del mondo, il livore non posava, nè stava pago di scatenarsi contro l’opera di lui, anzi inveleniva contro il figliuolo Jacopo. Costui traeva alquanto al vanitoso, era di una sfolgorata ambizione, ma aveva culto, quasi religioso, per l’ingegno del padre: e non si ristava dall’adoperarsi alla divulgazione della Commedia. Infatti, fra il 1330 e il 1340 appaiono scritti un gran numero di Codici danteschi fiorentini, non pochi fregiati con lo stemma degli Alighieri, ed è agevole l’inferirne che a tanta copia di codici, oltre l’attrattiva esercitata dall’opera su le menti degli amici, non dovessero essere estranei il fervore, lo zelo di Jacopo.

Tale amore filiale faceva acuire a’ pertinaci nemici del poeta le lor vendette. E nel 1335 fu riaperta la pratica contro Jacopo e si pose innanzi, di nuovo, il dubbio, se a lui fosse lecito rimanere in Firenze, senza offesa delle leggi.

Ma l’esito di questa seconda pratica non ci è noto: pur abbiam documento che, negli anni 1341-42, egli si trovava un’altra volta lontano dalla sua città natale. E menò vita assai avventurosa. Fu, nel 1342, reintegrato nel possesso de’ beni paterni. E narreremo di lui qualche tratto ben singolare. Da giovane, insieme col fratello, avendo voluto rendersi prete, ricevette gli ordini, e si era pur dato tutto alle cose dell’anima e avea scritto versi su la Morte, che gli accattaron favor popolare per la sincerità della loro ispirazione. E nel 1341 e ’42 godeva la prebenda di un canonicato, in quel di Verona: procacciatagli, è da farsi congettura, dal fratello Pietro. Giunto all’età matura venne in desiderio di tor moglie: e poco stette in tal proposito, chè fu condannato per mancata promessa di matrimonio e per non aver restituito la dote, che aveva, alla chetichella, arraffata.

Si sa che venne a morte prima del 1350; manca ogni data più precisa.

Il Boccaccio chiama i due fratelli Alighieri «dicitori in rima». E già conosciamo di Pietro una Canzone morale contro a’ Pastori: una Canzone per Papa Giovanni XXII e per l’Imperatore Lodovico. Di Jacopo, oltre il sonetto a Guido da Polenta, il Capitolo, in questo volume riprodotto, e che contiene un sì abile, fedel riassunto della Commedia e i versi su la Morte, di cui toccammo più sopra. Di Jacopo si è pur conservato un sonetto, indirizzato a Paolo dell’Abbaco e un poemetto intitolato Dottrinale, in cui egli si atteggiò a dare insegnamenti di Cosmologia.

Ond’io da mia natura,
non per troppa scrittura
ardisco a tale impresa,
però ch’io ho difesa
dalla mia compagnia
d’avere Astrologia,

Acciò che sia palese
per ciaschedun paese
del sito italiano
da presso e da lontano
l’esser dell’universo,
dirò a verso a verso.

Nel nome del Signore
ch’è superno motore
che mi concede gratia
sì ch’io possa far satia
di verità la gente
et futura et presente....

Che piagnendo mi dice
che sua vera radice
quaggiù non è intesa
da que’ che l’han compresa:
anzi le par travolta
e tra bugie ravvolta.

Ond’ella se ne duole,
e riparar si vuole
forse col mio ingegno,
bench’i’ non ne sia degno,
a voler ch’io ripeti
filosofi e poeti....

Ond’io volto a Levante,
Jacopo di Dante,
incomincio mia boce
col segno della croce,
che mi conceda tale,
ch’io faccia un Dottrinale.

Ma i due figliuoli di Dante furono tutt’e due commentatori della Commedia: Pietro di tutto il poema, Jacopo non andò oltre la prima Cantica. A Jacopo, mentre ebbe dimora in Firenze, molti dovean far capo per richiederlo di spiegazioni su i passi più ardui. Ed è curioso che il possessore di un antichissimo codice scrivesse in margine ove non s’intendeva: Jacobe, facias declarationem. In una tra le varie stesure dell’ Ottimo è riferita, col nome di Jacopo, una chiosa, mentre altre, numerosissime, di leggeri riconoscibili per la singolarità del dettato, vi si leggono senza che ne sia accennata la provenienza.

Nel codice Palatino 313, che contiene grandissima parte del Comento di questo figlio di Dante, sebbene spesso le sue chiose sien corrotte e alterate, interposte ad altre d’indole e di dettato differenti, quasi ogni chiosa è segnata della sigla Jac (Jacopo). Al Commento, contenuto nel Codice laurenziano XC. Sup. 124 si attribuiva maggior credito, poichè vi si notava il figliuolo di Dante averlo trascritto di sua mano, e fin nel secolo decimosesto la dichiarazione di Jacopo fu con diligenza ricercata.

Siamo nel settecento, al ravvivamento degli studi danteschi. Il Commento di Jacopo fu conosciuto dal Pelli, dal Melius, che non vi assegnarono molta importanza e soltanto nel 1848 un gentiluomo inglese, lord Vernon, insigne per promovimento dato agli studi della classica letteratura italiana, tenero, rispettoso di ogni gloria nostra, più che non fossero in quel tempo molti italiani, lo dava in luce a sue spese.

Ma, contro il divisamento del nobile signore, la pubblicazione riusciva assai imperfetta, quasi inutile per i troppi errori accumulativi, per difetto di critica indagine. L’edizione, di soli cento esemplari, potè esser nota a pochi eruditi: ed ormai è a dirsi introvabile. Però di questa edizione e della nostra discorreremo, con più larghezza, altrove.

I pochi, cui riuscì ad aver contezza di queste Chiose non vi trovaron ciò che, senza fondamento, si ripromettevano di attingervi.

Avevano in animo di ritrarre dalle Chiose di Jacopo ragguagli di fatti storici avvenuti al suo tempo, notizie curiose su i personaggi satireggiati, o lodati, nel poema. Non tenner conto che a Jacopo riusciva ben disagevole l’aver di nuovo ricetto, come sbandito, nella patria e ottenere la restituzione de’ beni paterni. Gli approdava, dunque, il tenersi lontano da ogni causa di dissidii cittadineschi, il dissimulare, anzi, menare il buon per la pace e non andare stuzzicando vespai. Si stava contento alla esposizione delle principali allegorie del poema.

Male erano ispirati coloro che alle Chiose dello scrittore, cui era consigliata tanta prudenza, chiedevano, come oggi si dice, le indiscrezioni di uno stemperato cronista. La forma delle Chiose apparisce un po’ grezza, ispida se vuolsi, con l’arida impronta di altre prose scolastiche in quel tempo: vi ricorron penose circonlocuzioni, i periodi vanno alquanto intralciati, v’è una certa sconnessione e spesso la sintassi è zoppicante. Ciò, specialmente, nella prima versione. E da tali sconci molti furono turbati e sentenziarono che non si trattava di un lavoro originale, ma bensì di una cattiva traduzione dal latino. Altri sollevarono dubbi perfino su la autenticità di tale scrittura.

Ma un uomo di gran sapere, lo Scheffer-Boichorst, fu il primo a dimostrare di quanto rilievo fosse il breve Commento e vi rivolse l’attenzione degli studiosi. Egli pose in chiaro l’analogia che è fra alcuni brani del Commento e il Capitolo di Jacopo, intitolato Divisione: e analogia di sostanza e di dettato. Tale Capitolo si riscontra, o solo, o insieme con l’altro Capitolo di Busone da Gubbio in molti codici della Commedia, e in modo da formar quasi parte integrale del poema. La stessa intima relazione col Commento ha il Dottrinale di Jacopo, come accennò nel 1890 il dottissimo dantista Fr. Roediger, e vi sono pure strette attinenze col Sonetto indirizzato a Guido da Polenta. E se ne può trarre la conclusione che chi aveva scritto quelle rime fosse pur l’autore del Commento.

E, poichè queste somiglianze ricorrono anche in certi vocaboli singolari e costrutti piuttosto ricercati, si corrobora, in favor del volgare, la questione circa la lingua in cui, originariamente, furon scritte le Chiose.

Restava però sempre da dire. E nel 1903 il prof. Luiso tentava mandare a rifascio l’edificio, appena eretto, in onore del nostro autore. Egli brandiva, qual arma formidabile a spulezzar via quanto era stato, con dottrina, accumulato il Codice Laurenziano (XC, Sup. 114) già ben noto, da tempo, ai colti nella ermeneutica dantesca, e che reca la notizia che il figlio di Dante lo fece «co le sue mani»: forse perchè la prima chiosa che vi si legge è traduzione del principio delle Chiose di Jacopo. Per assegnare ad Jacopo il commento latino, contenuto in questo Codice, si credette necessario, anzitutto, di recare al niente le Chiose, andate sin’allora sotto il nome di lui.

Ma peccato che il valentuomo, il quale si avventava ad una sì temeraria risoluzione, non credesse opportuno darsi la briga di mettere a raffronto i due testi. Con questo piccolo avvedimento si sarebbe chiarito che la chiosa italiana è assai più precisa e più nitida della latina e il preteso volgarizzatore non merita di essere tanto svilito.

Ed era pur da procedere, se non erriamo, al raffronto fra altre chiose che offrono, nel codice Laurenziano (XC, Sup. 114) spiccati riscontri con quelle volgari di Jacopo: ad esempio la chiosa su Amfiarao, ove il figlio di Dante cita Stazio «nel suo Thebaidos», mentre il compilatore del Commento contenuto nel codice Laurenziano XC, Sup. 114, dice «Stazius secondo Thebaidos» prendendo forse il suo di Jacopo per una abbreviazione[3].

Ma, senza poterci offrire un testo latino che risponda in tutto alle Chiose volgari, e i due testi son molto dissimili, salvo in qualche chiosa che hanno a comune, il censore si dette a rifrustare nel commento volgare i latinismi e, sin il vocabolo leno gli sa di latino e non gli sovviene che leno significa arrendevole e in questo senso non solo spesso si trova nelle scritture del trecento, ma e’ corre pur oggi, qual moneta di buon conio, nella lingua parlata.

Un altro dotto, Michele Barbi, sventò tali censure e con la virtù della sua dialettica, n’ebbe facil vittoria.

Che, se non bastasse il por mente alle intime affinità tra le Chiose e le altre opere di Jacopo, sarebbero ancor da accennare i brani e vocaboli che son recati nelle Chiose dalla Divina Commedia e dal Convivio. E ciò non avrebbe potuto derivarsi da un testo latino, nè sarebbe occorso ad un volgarizzatore sciatto ed imperito.

Ed al Luiso doveva saltare agli occhi tale difficoltà: egli che, con tanto accorto giudizio, rimette (7º capitolo) nel testo delle Chiose le parole senno umano, invece di sermo umano che offrono i due manoscritti: e la correzione risponde perfettamente alle parole senni umani (nell’ Inferno, VII, 81). Ed è, senza dubbio, la genuina lezione, come risulta anche dal codice Ashburnhamiano 833, dove questa chiosa è citata col nome di Jacopo.

Se nel suo Commento è qualche latinismo si spiega con l’aver egli dovuto ricorrere sovente ad interpretazioni latine antecedenti alla sua opera; ma lo stile artificioso, strano è eguale dal principio alla fine: stile tutto proprio d’uno scrittore, e che non può essere stato calcato su un preteso originale latino. Secondo noi, rispetto alla lambiccatura del dettato nel Commento vi è, forse, una spiegazione nel fatto che Jacopo, il quale era vanitoso, e sentiva orgoglio d’esser figlio di Dante, abbia creduto imitare il padre, o inalzarsi, eleggendo uno stile artificioso e usando vocaboli e modi nuovi, giusta l’esempio paterno. Ma di Dante mancavano al figlio il genio poderoso, il gusto e gli studii profondi: studii, in cui si era fatto molto innanzi il figlio Pietro, ma nel quale l’arte del dire non pareggiò la dottrina. Jacopo credè supplire alla coltura con la felice natural disposizione dell’ingegno: ed ebbe studio più di stranezze che di eleganze: e si persuase venir in opinione con ostentati artifici. E non sai s’e’ riesca più bizzarro, o più risibile in quella sua solenne sicumèra con cui si atteggia ad insegnare a tutti i principii della Cosmologia «per sua natura» così e’ dice, non per troppa scrittura. Per natura egli vuol significare ingegno, intellettualità. E di ciò pur si ha riscontro nelle prime terzine del suo Capitolo:

O voi che siete dal verace
lume
alquanto illuminati nella mente,
ch’è sommo fructo de l’alto volume,

perchè vostra
natura
sia possente
più nel veder l’esser dell’universo,
guardate a l’alta Commedìa presente.

E si mettano a riscontro con questi versi il Sonetto a Guido da Polenta e le linee onde muovon le Chiose.

«Acciò che del frutto universale novellamente dato al mondo per lo illustre filosofo Dante Allighieri fiorentino con più agevolezza si possa gustare per coloro in cui il lume naturale alquanto risplende senza scientifica apprensione, io, Jacopo, suo figliuolo ecc.».

Insomma siccome egli è intellettuale, ma senza troppa «scrittura» così scrive anche nel linguaggio nativo (in prosa materiale)[4] per quelli che sono di mente lucida, ma senza «scientifica apprensione». E chi riflette a quanti autori occorrono per illustrare la Divina Commedia sarà preso da meraviglia nell’avvenirsi a vederne citati nelle Chiose pochissimi: Omero, Aristotile, Orazio, Virgilio, Lucano, Ovidio, Tito Livio, Boezio, Terenzio, la Bibbia, tra i quali si debbon escludere Omero e Aristotile, Terenzio e Boezio che, per varie ragioni, egli certamente non ebbe fra mano e forse anche alcuni altri, che soleva citare di rimbalzo.

In generale, non va oltre alla sommaria citazione delle sue fonti; e suol dire «secondo i poeti, secondo le poetiche scritture» le storie di Antenore e d’altri[5].

Vuolsi pur ammettere che Jacopo abbia preso a prestito un certo numero de’ suoi racconti, delle sue esposizioni da altri scrittori sincroni. Così, ad esempio, nel tratto ove parla delle Furie, per il significato delle quali si richiama a’ soliti «poeti»: ed una parte di questa Chiosa proviene da Lattanzio, l’altra da Sant’Isidoro: e il tutto si legge in altro Commento dantesco del tempo, ove non pur son menzionati i detti autori, ma se ne riferiscon quasi testualmente le parole.

Pur tuttavia le Chiose del nostro furon tenute in conto quale opera d’un figliuolo di Dante e fin che non le surrogarono Commenti più ampii e diffusi a tutto il Poema.

A noi delle Chiose pervennero soltanto due copie nel testo integrale e due frammenti.

L’importanza del lavoro di Jacopo non è da ricercarsi nella quantità e qualità del materiale d’erudizione e di raffronto, di cui disponeva, bensì nella esposizione, ch’ei fa con tanta evidenza, della struttura del Poema e nella dimostrazione omogenea e continua delle sue allegorie, ciò che non si riscontra in alcuno degli antichi commentatori. E, se afferma nel Proemio di voler dimostrare parte del profondo ed autentico intendimento della Commedia, ciò si riferisce essenzialmente al contenuto allegorico.

Però lascia in disparte la descrizione dello stato delle anime dopo la morte, con i loro martìri, e le loro gioie, quale resulta dal senso letterale del testo; muove dal concetto che si debba ravvisar nel Poema un Trattato di filosofia morale in cui si dimostrano «le qualitadi della generazione umana»: la prima, quella de’ viziosi mortali, chiamandola Inferno; la seconda quella dei penitenti, il Purgatorio; e la terza quella dei perfetti, il Paradiso «a dimostrare la beatitudine loro e l’altezza dell’animo congiunta con la felicità, senza la quale non si discerne il Sommo Bene.»

Jacopo, dunque, reca tutto alla vita attuale e, astraendo dal magnifico dramma, dalle situazioni, dalle figure che il poeta ha scolpito sì di forza, suggeritegli dalle tradizioni popolari e chiesastiche, e considerandole quali mezzi atti a muovere la immaginazione, ci rivela il loro intimo significato, magistralmente nascosto dal poeta sotto il colore di una visione d’oltre tomba.

Gli orribili, tremendi castighi dell’ Inferno si riducono a sofferenze insite nei vizii stessi e derivanti dallo stato morboso in cui si trovano i contravventori alla legge divina: le consolazioni del Purgatorio ad aspirazioni verso la libertà; le beatitudini del Paradiso alle sodisfazioni del vivere in purezza e conforme a’ dettami della celeste Bontà. Alle ardenti fantasie dantesche subentra un arido schema di filosofia morale: alle esaltazioni estetiche, procurateci dalle immortali bellezze del Poema, è sostituito lo scopo pratico di «dare correzione e lode a chi n’è degno.»

Il concetto di Jacopo ci ravviva e ravvalora la dichiarazione del soggetto del Poema, contenuta nella Epistola di Dante a Cangrande: Homo prout, merendo aut demerendo per arbitrii libertatem justitiae praemianti aut punienti obnoxius est e, come causa finale, removere viventes in haec vita de statu miseriae et producere ad statum felicitatis.

Simili concetti sono pur espressi nei Commenti di Pietro Alighieri e di Guido da Pisa: e l’uno e l’altro ne trasser forse l’ispirazione dalla lettera a Cangrande, ma nell’uno e nell’altro non con la continuità, la pertinacia onde Jacopo vi si attenne.

E vediamolo all’opera: scrutiamo nella sostanza del suo nuovo commento.

Dante, nell’età di trentatrè, o trentaquattro anni, si trovava smarrito nella selva oscura, o voglia dirsi smarrito tra le molte genti offuscate dalla ignoranza; già la sua mente era irradiata dal fulgore della intellettuale verità, quando fu affrontato dalle tre fiere: la lonza, il leone, la lupa: simboli de’ tre vizii prevalenti, o fondamentali: lussuria, superbia e avarizia. Allo smarrito si para innanzi Virgilio, cioè l’effetto della umana ragione, che lo campa dalla lupa insaziabile e proferisce il vaticinio della prossima venuta del veltro, cioè d’una costellazione migliore della presente e onde sarà trasfusa la pace negli animi angustiati. Lo invita poi a seguirlo qual messaggero delle tre donne celesti: Beatrice, simbolo della Sacra Scrittura; la gentil donna interpretata la profonda mente della Deità; e Lucia, la grazia di Dio.

Il corto andar alla felicità non è possibile all’uomo, «attratto tanto dalla dolcezza de’ vizii quanto dall’altezza delle virtù». Occorre prima avere una esatta conoscenza delle une e degli altri.... Riconosciuto poi, mercè la Ragione, che le allettative de’ vizii hanno, in fondo, dell’amaro, l’uomo si deciderà a seguire le virtù, che gli assicurano vera felicità.

Così Dante, guidato dalla Ragione, si avvia alla contemplazione de’ viziosi: e prima si abbatte ne’ vili, ma guarda e passa, non si curando di loro che non fanno al suo proposito. Son morsi, punzecchiati da vili insetti, simboleggianti la nullaggine, l’acuta inanità del loro pettegolezzo, della disutile loro ciarla: e corron dietro ad una insegna, senza che ad alcun di loro dia il cuore di sopravanzar gli altri. È la turba de’ meschini, nè buoni, nè rei, senza valore per la contemplazione de’ vizii, cui vuol darsi il poeta.

Discende poi il primo de nove gradi, ond’è composto l’ Inferno, dove son allogati coloro, che non ebber battesimo e gli antichi valorosi, che vivono senza speme, in disìo, come dice Jacopo, per il loro non colpevole difetto.

Comincia dal secondo grado dell’ Inferno la caterva dei viziosi, che si estende dal secondo al quinto, ove han posto gl’incontinenti. E, mentre nel primo le anime sono imbarcate dal demonio Caron, del secondo troviamo guai motore e giudice il demonio Minos. Il continuo agitarsi dei lussuriosi corrisponde alle inquietudini amorose, perchè come dice Jacopo, l’effetto di ogni peccato è degnamente pena dell’operante.

Terzo grado: i golosi. Motore il demonio Cerbero, le cui tre bocche simboleggiano i tre appetiti. Pena: le infermità, le gotte, le podagre, che si accumulano in siffatti peccatori. E, sia detto qui di volo, nel suo tipo del goloso, in Ciacco, il poeta raffigura uno tra gli uomini cui attribuisce la maggiore intelligenza nel suo tempo, e lo interroga con curiosità, poichè molto si aspetta dal dire di quell’uomo raffinatissimo, in cui riconosce somma autorità e previdenza dell’avvenire.

Quarto grado: Avari e prodighi. Motore, il demonio Pluto (posto qui da Dante probabilmente per la somiglianza tra Pluto e il vocabolo greco Plutos ). Pena: infinito affaticare così nel ritenere come nello sparnazzare.

Quinto grado: Iracondia e Accidia. Motore, il demonio Flegias. Pena: la affuocata irruenza degl’iracondi e degli accidiosi, la occulta e finta irata voglia.

Arriva al sesto grado, cioè al peccato della malizia: la eresia, protetta dalle Furie, che raffigurano il «malo pensamento» il dischiesto (sconveniente) parlare, come dice Jacopo e la malvagia e infuriata operazione. La città è chiusa in mura, che sembran di ferro, per la segretezza della eresia. È impossibile avervi adito senza la esperienza della mente che, simboleggiata dal messo del cielo, gli vien in aiuto, aprendogli le porte. Le Furie son cinte di serpenti, a indicar il trascorrere d’un pensiero in altro e per la proprietà di fredda e velenosa malizia degli eretici. Per la gran diversità delle eresie, diverse arche tramischiate di fiamme per dimostrare l’ardente fermezza degli eretici nelle loro credenze.

Col settimo grado i bestiali: motore il Minotauro: o, come si scrive in certe rubriche, Hominotauro: qualità umana unita alla bestiale.

I bestiali sono compartiti in tre classi:

1.ª Quelli che fanno forza, violenza altrui in cosa o in persona. I centauri raffigurano i correnti pensieri bestiali.

2.ª Quelli che se stessi offendono personalmente, o realmente. Personalmente i suicidï, trasformati in sterpi, poichè de’ tre animati: vegetabile, razionale e sensitivo loro è rimasto soltanto il primo. Le Arpie raffigurano le tristi ricordanze. Realmente, gli scialacquatori, sparnazzatori delle loro sostanze. Ignudi, perchè si spogliavano delle loro sostanze: perseguitati da nere e bramose cagne, a indicare la oscurità, i triboli della indigenza.

3.ª Coloro che sforzano la natura, cioè Iddio, e la lor qualità è suddivisa in tre classi: quelli che bestemmiano Iddio; quelli che peccano in lussuria contro la natura; gli usurai.

Ottavo grado: i fraudolenti. Motore, Gerione che accoglie in sè tre qualità: uomo, serpente e scorpione.

Dieci bolgie: i lusinghieri, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, mali consiglieri, seminatori di scandalo, falsari. I simoniaci han volto le piante de’ piedi in su per lo ritroso loro affetto, sommettendo le spirituali dovizie della misericordia alle terrestri ricchezze.

Commentando il ventesimo Canto della prima canzon dei «sommersi» Jacopo espone che gl’indovini hanno ritroso il viso per la loro ritrosa operazione. Gl’ipocriti della sesta bolgia portan cappe dorate di fuori per una singolare etimologia della parola «ipocrisia»: da ipo (hippo!) quod est supra e kresis (chrepsos): quod est aurum.

Eccoci a’ ladroni della settima bolgia: essi sono spartiti in tre categorie: quelli che non ne hanno l’abito continuo, senza alcun determinamento del sì o del no; subito fanno e si pentono dopo: quelli che di continuo sono adusati ad arraffare: e, infine, quelli che non continuamente rubano, con determinato volere del sì o del no, ma soltanto parandosi la occasione ne prendon diletto.

La nona bolgia è spartita in due: gli scismatici e i seminatori di scandali. I falsatori dell’ultima bolgia son compartiti in tre classi: realmente, personalmente e quelli che falsificano le monete.

Eccoci al nono grado che accoglie i traditori, e vi son posti a guardia i giganti, simboli della «iniqua superbia nella qualità frodolenta». Come la «superbia passa oltre il dovere della natura, così i giganti oltre il dovere di grandezza e di possa.» I traditori son divisi in quattro classi: Caina, quelli che tradiscono i loro carnali e parenti, e sono raffigurati nell’algore di ghiacci, a significare la freddezza dell’animo loro, privo d’ogni naturale calore: Antenora, color che tradiscono lor genti in patria: Tolomea, quelli che servono e tradiscono chi li adopera.

E abbiam negletto, nel nostro riassunto, altre allegorie delle pene assegnate ai peccatori; allegorie tutte aggiustate su la medesima traccia già esposta, poichè vi si riflettono sempre le naturali conseguenze caratteristiche per ogni specie di viziosi.

Non sembra che Jacopo abbia mai esteso ad altra Cantica del Poema il suo Commento, sebbene verso la fine delle Chiose si legga: «Siccome nelle chiose del seguente libro si conta».

E non accadrebbe dire che il Luiso cita un passo, riferentesi al Paradiso, e che dal chiaro erudito è tenuto per un brano del Commento della Seconda Cantica. Ma quel brano non è del figliuolo di Dante: non è altro, se non una delle rubriche, onde son preceduti i singoli Canti delle Tre Parti della Commedia, e si trovano, ora in latino, ora in volgare in numerosissimi manoscritti, che furono eziandio divulgati più volte per la stampa.

Le Chiose di Jacopo non recano alcuna data e, per questo rispetto, non si può, neppure approssimativamente, accertare il tempo in cui furono scritte.

L’unico modo a scuoprir il posto, che loro spetta nella ermeneutica dantesca, è da ottenersi nello scrupoloso esame del loro contenuto, in un paziente raffronto fra esse e altri Commenti sincroni. Tali raffronti lunghi e minuziosi, non entrerebbero però ne’ termini imposti a questa Prefazione.

Ma ci contenteremo di qualche osservazione succinta.

Dal passo sul veltro si ricava che Jacopo confuta l’opinione di altri, che vollero vedere nel veltro, o un personaggio di nazione gentile, o anche di bassa estrazione. Egli l’una e l’altra ipotesi ribatte come non conformi alla intenzione del poeta. E pur sembra che, nel parlar di Alberigo dei Manfredi, si rivolga contro altri, i quali allegarono che l’anima del frate non poteva essere posta nell’inferno, essendo egli ancora vivo.

Abbiamo già accennato agli scarsi studi d’Jacopo e a’ pochi mezzi, ch’egli possedeva per risalir direttamente alle fonti, valersi di materiali utili alla erudita interpetrazione del poema.

Non siamo sicuri che pur dove accenna, in termini generali, alle sue fonti, citando nomi d’autori, egli li abbia veramente consultati. Così non può aver trovato nella Bibbia certi ragguagli, che asserisce; come pure non può aver letto «in Ovidio, o negli altri poeti» che Cerbero era «alcuno così nominato che più in cotal vizio (la golosità) si resse»; nè in Omero che Chirone «fu crudelissimo e bestiale in tutte sue operazioni, ecc.». Abbiam pur menzionato il fatto che per due chiose allegoriche dove Jacopo non cita alcun nome, e che son di Lattanzio e Isidoro, da altro commentatore sincrono, non pur son richiamati i nomi degli autori, ma riprodotte le lor testuali parole.

A ridurla a oro, è evidente che Jacopo si serviva di altre esposizioni del poema ove trovava materiali a lui acconci. Non si può, dunque, consentire col ch. Rocca, che volle metter le Chiose a capo di tutti i commenti, supponendole scritte nel 1325, anteriori, quindi, d’un anno al Commento di Ser Graziolo, cancelliere bolognese, il più antico sin ora conosciuto.

Il Rocca basa la sua ipotesi, specialmente, su le identità della Chiosa allegorica circa le tre bocche di Cerbero.

E noi crediamo pregio dell’opera il riprodurre integralmente la Chiosa di Ser Graziolo e quella di Jacopo.

Ser Graziolo: «Questo Cierbero è uno demonio preposto in questo terzo Cerchio a tormentare l’anime; il quale, siccome si truova, è uno cane infernale, e ha tre teste; e neentemeno in questo presente capitolo punisce il vizio della gola. Per questo Cierbero che ha tre teste propriamente si figura l’appetito della gola, il quale si divide in tre parti: in qualità, in quantità e in quanto continovo. L’appetito della qualità si è desiderare buoni cibi e non curare della quantità d’essi; l’appetito della quantità si è desiderare molti cibi e molto mangiare, e non curare della qualitade d’essi. L’appetito del quanto continovo si divide in quanto contiovo e quanto partito (discreto). L’appetito del quanto contivo si è desiderare continovamente di mangiare; l’appetito del quanto partito si è desiderare per spazii di tempi.»

Jacopo di Dante: «Per lo detto demonio l’appetito della gola si considera, che in ciò gl’induce; il quale con tre gole figurativamente è formato, siccome per tre modi cotale appetito per loro si possiede: de’ quali l’uno è di quantità, l’altro è di qualità, il terzo è di quanto continovamente. In quel di quantità comunalmente d’ogni cibo assai si desidera gustare; in quel di qualità particularmente di cose elette, non curandosi di quantità. Il terzo, il quanto continovo, in due modi diviso si contiene: cioè il quanto continovo e il quanto discreto. Il quanto contiovo è continovo esser goloso, e il quanto discreto è alquanto esser goloso e alquanto non essere.»

Or si dice, ma non è un bene apporsi, che la Chiosa è bene a suo luogo nel Commento di Jacopo, poichè essenzialmente allegorico: dà stupore nella esposizione di Graziolo che non contiene se non rarissime allegorie.

L’argomento sta proprio a martello? E non poteva Jacopo, che già aveva tolto a presto chiose allegoriche da Guido da Pisa, averne preso un’altra, che gli andava a genio, a Ser Graziolo? Il singolare è che tal chiosa contiene un errore, in cui son caduti e l’uno e l’altro scrittore. Chè, mentre gli appetiti, simboleggiati dalle tre bocche di Cerbero, dovrebbero essere tre, in realtà vi si parla di quattro. I due primi sono la qualità e quantità dei cibi, cioè mangiar bene e mangiar molto e tu supporresti, di leggeri, che terza dovesse essere la qualità con la quantità riunita, cioè mangiar bene e molto. Ma non così divisavano gli antichi commentatori, mettendo come terzo appetito un «quanto continuo». Ed ecco qui è ora l’errore.

Questo «quanto continuo» si suddivide, alla sua volta, in «quanto continuo» e «quanto discreto»: cioè «quanto partito» come traduce le parole di Ser Graziolo un volgarizzatore trecentista del Commento del bolognese.

Ed oltre alla contradizione de’ quattro appetiti corrispondenti alle tre bocche di Cerbero, vi è ancora un’altra difficoltà, poichè appar evidente che il «quanto discreto» non potrà essere una suddivisione del «quanto continuo». Quindi, a fil di logica, suppone il valoroso Rocca si debba correggere in modo che la quantità si divida in due parti, cioè la quantità discreta e la quantità continua, secondo ben afferma, del resto, Ser Graziolo, poichè la «quantità discreta» è mangiar molto per spazii di tempi (per intervalla temporum) e la «quantità continua» è l’aver sempre l’appetito desto e trovarsi disposto al mangiare.

E l’errore nel testo latino di Ser Graziolo si spiega facilmente così: che invece di scrivere appetitus quantitatis abbia ripetuto appetitus quanti continui, che aveva scritto poco discosto, mentre non si spiega nel testo di Jacopo, che dice: il terzo, cioè il quanto continovo.

Ma la questione si ingarbuglia sempre più. Guido da Pisa, che aveva trovato la Chiosa nel Commento di Ser Graziolo, fraintendendo le parole per intervalla temporum, cioè «per spazii di tempi» aveva difformato l’ultimo inciso così: Quantum vero discretum est et aliquando multum et aliquando parum et procurare et comedere.

A ciò sono in tutto rispondenti le parole di Jacopo: «Alquanto discreto è alquanto esser goloso e alquanto non essere». Per il vocabolo alquanto, traduzione dal latino aliquando è evidente che Jacopo deriva la sua Chiosa dalla esposizione di Guido da Pisa, che l’aveva trovata nel Commento di Ser Graziolo. E la serie cronologica di questi Commenti è forse da porsi in tal modo:

1.º Ser Graziolo (1324).

2.º Guido da Pisa (fra il 1325 e 26).

3.º Jacopo Alighieri (dopo il 1326).

Tutti e tre non vanno col loro Commento oltre la Cantica dell’ Inferno. Solo Jacopo sembra avesse in intendimento di chiosare anche la Cantica del Purgatorio, ma non si ha notizia, fin ora, che il recasse in atto.

Concludiamo: noi non abbiamo risparmiato cure in questa pubblicazione e crediamo aver gettato ampia luce su un punto, sì controverso, della nostra storia letteraria.

Nelle indagini, nella cura del testo, nel raffronto dei varii codici, fu a noi guida sapiente il dott. Fr. Roediger, maestro nella più eletta erudizione della nostra letteratura e fra i pochissimi stranieri assolutamente padroni del linguaggio nostro.

E chiunque vorrà far paragone della nostra edizione con la precedente, scarsa di notizie, e tanto errata nel testo, e pur da tempo esaurita, potrà ben dire che queste Chiose potean, sin ora, considerarsi come inedite. E la lode de’ buoni, e discreti, sarà il massimo guiderdone alla nostra non lieve fatica.

Jarro.

NOTE:

[1] Guerrini e Ricci.[2] Il codice che contiene la notizia: Jacobe, facias declarationem è il laurenziano XLII, 15.[3] La storia di Amfiarao è riportata da Stazio nel 7-8 libro.[4] Il maggior numero de’ codici offre la lezione materiale. Volendola sostenere sarebbe da immaginare ch’egli contrapponga alla forma poetica della sua Divisione e ad altre sue dichiarazioni in versi del Poema le sue Chiose scritte in prosa materiale.[5] Aggiunge, di solito: favoleggiando; vocabolo che adopera anche per la Bibbia e nel parlar di Elia e di Eliseo.

FAC-SIMILE DEL CODICE BARBERINIANO

FAC-SIMILE DEL CODICE BARBERINIANO

FAC-SIMILE DEL CODICE BARBERINIANO

FAC-SIMILE DEL CODICE BARBERINIANO

FAC-SIMILE DEL CODICE BARBERINIANO

FAC-SIMILE DEL CODICE BARBERINIANO

FAC-SIMILE DEL CODICE BARBERINIANO

FAC-SIMILE DEL CODICE BARBERINIANO

FAC-SIMILE DEL CODICE BARBERINIANO

SONETTO di Jacopo di Dante a Guido da Polenta.

Acciò che le bellezze, signor mio,
Che mia sorella nel suo lume porta,
Abbian d’agevolezza alcuna scorta
Più in color in cui porgon disìo,

Questa Divisïon presente invio,
La qual di tal piacer ciascun conforta;
Ma non a quelli c’han la luce morta,
Chè ’l ricordar a lor serìa oblìo.

Però a voi, ch’avete sue fattezze
Per natural prudenza abituate,
Prima la mando che la correggiate,

E s’ella è digna, che la commendiate:
Ch’altri non è che di cotai bellezze
Abbia, sì come voi, vere chiarezze.

Factus fuit per Jacobum filium Dantis et per ipsum missus ad magnificum et sapientem militem Dominum Guidonem de Polenta, anno millesimo trecentesimo vigesimo secundo die primo mensis Aprilis[6].

NOTE:

[6] Così nel Cod. Parig. it. 538 (De Batines, N. 414). Il Trivulziano XVI: «Sonectus iste cum divisione predicta missus fuit per Jacobum filium Dantis Allaghierij ad magnificum et sapientem militem Dominum de Polenta, anno domini MCCCXXIJ, indictione die prima mensis Madij», cf. il Cod. Grumelli di Bergamo: «Questo canto fece il figliuolo di Dante, contiene tutta la materia della Commedia e mandato a Messer Matteo da Polenta», e il Cod. Cavriani, (De Batines, 244).

CODICI

1.— Cod. Laurenziano XL. 10, del 300, scritto a 2 colonne. Contiene in principio il testo del Poema, con la rubrica in rosso: «Inchomincia la chomedia di dante allighieri di firenze, nella quale tratta delle peni (sic) e punimenti de vizij e de meriti et premij de la virtu. Comincia il chanto primo de la prima parte, la quale si chiama inferno; nel quale capitolo fa l’autore proemio a tutta l’opera». Finito il Poema, la sottoscrizione: «Qui finisce la chonmedia di dante alleghieri di fiorenza. Lode e grazie n’abbi iddio.» Segue il Capitolo di Busone da Gubbio, e quindi il «Proemio di achopo figluolo di dante aleghieri sopra la Commedia». (È il noto Capitolo, ossia la Divisione ).

Finalmente il Commento: «Libro primo. Chiose di achopo figluolo di dante Allighieri sopra alla chommedia». Terminato il Commento: «Conpiute sono le chiose de l’ynferno di achopo di dante». Per essere discretamente corretto, mi sono servito di questo manoscritto per il testo. In caso di lacune o di lezioni evidentemente erronee abbiamo ricorso ai codici che indichiamo, come pure ad altri manoscritti che recano qualche brano delle nostre Chiose, come, per es., il codice Poggiali 313 e l’Ashburnham. 832.

2.— Il Codice Poggiali Vernon, della fine del 300, che oltre ai Commenti di ser Graziolo, Guido da Pisa, Benvenuto da Imola, racchiude anche le Chiose di Jacopo. Esso servì alla prima stampa del Commento, sebbene scorretto per modo che moltissimi passi rimangono a dirittura privi di senso. L’editore aggiunse, a piè di pagina, le varianti del Laurenziano XL, 10, ma con parecchie inesattezze.

3.— Il frammento Barberiniano-Vaticano XLV, 101 (ant. 1729), di sole 4 carte, aggiunte al Commento latino di Pietro di Dante. È anche esso del 300. Lo pubblicò il Crocioni nel Bullettino della Società filologica romana, N.º IIII, p. 70 e sgg., dove si legge pure il testo del

4.— Frammento di una sola carta, inserito nel cod. Riccardiano 1414, e scoperto dal Morpurgo. Contiene pochi passi dei Capit. XIV e XV. È del 300.

Questi codici sono ben diversi l’uno dall’altro, ciascuno di essi offre lacune che non si riscontrano negli altri. Una certa parentela si nota fra il Laur. XL, 10 e il codice Vernon-Poggiali. Rimane però escluso che l’uno possa esser copiato dall’altro.

PROEMIO D’Jacopo Figliuolo di Dante Aleghieri sopra la Commedia

O
voi che siete nel verace lume
alquanto illuminati nella mente,
ch’è sommo frutto de l’alto volume,
Perchè vostra natura sia possente
più nel veder l’esser dell’universo,
guardate all’alta commedia presente
Ella il dimostra, e ’l simile e ’l diverso
dell’onesto piacere, il nostro oprare
e la cagione che ’l fa o bianco o perso.
Ma perchè più vi debbia dilettare
della sua intenzione entrar nel senso,
come è divisa in sè vi vo mostrare.
Tutta la qualità del suo immenso
o vero intendimento si divide
prima in tre parti senz’altro dispenso.

La prima viziosa dir provide,
però che prima più ci prende e guida,
e già Enea con Sibilla il vide.
E questa i nove gradi fa partida,
sempre di male in peggio, infino al fondo
dov’el maggior peccato si rannida;
Con propria allegoria formata in tondo,
sempre scendendo e menomando il cerchio,
come conviensi all’ordine del mondo.
Sopra da questi nove per soperchio,
sanza trattare di lor, fa dirisione
di que’ che sono nel mondo sanza merchio.
Poscia nel primo, sanza altra ragione
che d’ordine di fe, mostra dannati
quei ch’ànno la innocente offensione,
E quei che son più dal voler portati
per lor disij che da ragione umana,
son nel secondo per lei giudicati.
Nel terzo quella colpa ci dispiana
con propii segni ch’è del gusto inizio,
da cui ogni misura istà lontana.
E quelle due opposizioni in vizio
nel quarto fa parer per giusto modo,
che rifiutò il buon Roman Fabrizio.
Nel quinto l’altre due che son nel nodo
del mal incontanente, ci fa certi,
con accidioso ed iracondo brodo.
E quei che son dalla malizia esperti
co lor credenze eretiche e fiammace
nel sesto dona lor simili merti.
Seguendo la bestial voglia fallace,
nel settimo la pon, diviso in tree:
la prima violenza in altrui face
E la seconda offende pure a see,
la terza verso Iddio porge dispregio
e Soddoma e usura con essa ee
Nell’ottavo conchiude il gran collegio
della semplice froda, che non taglia
però la carta al fedel privilegio.
E questo in diece parti cerne e vaglia:
ruffiani, lusinghieri e simonia
e chi di far fatture si travaglia,
Barattieri e ipocreta resia,
ladroni e frodolenti consiglieri,
scommetitori di scismatica via,
Con quei che fanno scandal volentieri,
falsator d’ogni cosa in fare e ’n dire,
figurandogli a modo aspri e leggieri,
Nel nono quella froda fa seguire
che rompe fede ed in quattro il diparte:
lo primo chiama Caym a tradire.
Quei che la patria tradiscono o parte,
nel secondo gli mette in Antenora;
e nel terzo chi serve e fa tale arte,
Chiamando Tolomea cotal dimora,
e il quarto Giudecca, che riceve
ciascun che trade chi ’l serve e onora.
Quello il fondo d’ogni vizio greve
de lei, chiamato inferno e figurato;
e qui fo punto per parlar più breve.

Nella seconda parte fa beato,
purgando per salir infino al sito
che fu al nostro antico poco a grato.
Ed à in otto parti ancor sortito
cotal salir in forma d’un bel monte,
ma fuor di loro in cinqu’è dipartito,
Però che cinque cose turba il ponte
over la scala da ire a purgarsi:
cioè diletto, violenza ed onte.
Onde convien di fuor da set[t]e starsi,
con questi infino al termine lor posto
i nigligenti o uffizial trovarsi.
Nel primo ci dimostra esse[r] disposto
prima a purgarsi sotto gravi pesi
quel superbir che ’n noi s’accende tosto.
E propiamente nel secondo à lesi
gl’invidiosi con giusta vendetta,
nel terzo gl’iracondi fa palesi,
Nel quarto ristorar fa con gran fretta
l’amor del bene iscemo, e dentro al quinto
con gran sospiri gli avari saetta.
E l’appetito nostro à si distinto
quel che soperchia dentro al sesto giro,
che ’l vero è quasi da tal forma vinto.
Nell’infiammato settimo martiro
ermafrodito, Sodoma e Gomorra
cantar dimostra il lor aspro disiro.
E poi di sopra, per ch’altri vi corra,
della felicità dimostra segni
a chi la sua scrittura non aborra.
Ma ora, per seguire i suoi contegni
dir mi conviene dell’opera divina,
e voi assottigliate i vostri ingegni.

La terza parte con alta dottrina
in nove parti figurando prende,
simili al ben che da essi declina.
La prima con quella vertù risplende
che con freddezza d’animo a eccellenza,
che carità di spirito s’intende.
E la seconda celestial semenza
al governo del mondo cura e guarda,
secondo il senso de la sua sentenza.
La terza par che in foco d’amore arda
e la quarta risplenda tanta luce
che sapienzia a suo rispetto è tarda.
La quinta che feroce ardire adduce
tanta vertute e forza corporale
che solo il militar prende per duce
D’ogni grandezza e animo reale
La sesta par che al suo parere imprenti
la mente dove sua vertute cale;
E la settima par che si contenti
a castitate in sacerdotal manto;
e ciò dimostran bene suoi argomenti
Diversamente d’ogni abito santo
l’ottava, e d’ogni ben fa esser madre
per la vertù ch’ell’à in sè cotanto;
La nona in sè conchiude come padre
mobile più ciascun moto celeste,
e qui l’enchiude sincere e leggiadre.
Poscia di sopra a tutte quante queste
vede l’essenza del primo fattore,
che l’universa macchina si veste.
I’ lei discerne del nostro colore,
per dimostrar che sola nostra vista
sensibil può vedere il suo amore
Però vedete omai quanto s’aquista
studiando l’alta fantasia profonda
dalla qual Dante fu comico artista.
Vedete ben come il suo dir si fonda
nel bene universal per nostro exemplo,
acciò che i’ noi il mal voler confonda.
Mettete l’affezione a tal contemplo,
non vi smarrite per lo mal cammino
che ci distoglie dall’etterno templo,
Nel quale e’ fu smarrito pellegrino,
finchè dal ciel no gli fu dato aita,
la qual gli venne per voler divino
Nel mezzo del camin di nostra vita.

LIBRO PRIMO

Chiose d’Jacopo, figliuolo di Dante Alighieri sopra alla “Commedia”

A ciò che del frutto universale novellamente dato al mondo per lo illustre filosofo e poeta Dante Allighieri fiorentino con più agevolezza si possa gustare per coloro in cui il lume naturale alquanto risplende sanza scientifica apprensione, io Iacopo suo figliuolo per maternale prosa dimostrare intendo parte del suo profondo e autentico intendimento, incominciando in prima a quello che ragionevolmente pare che si convegnia, cioè che suo titol sia, e come partito, e la qualità delle parti, procedendo poi ordinatamente la disposizione di lui, secondando il testo. Il cui ordine brievemente così comincio che, secondo quello che ciertamente appare in quattro stili ogni autentico parlare si conchiude, de’ quali: ¶ Il primo tragedia è chiamato, sotto ’l quale, particularmente d’architettoniche magnificenze si tratta, si come Lucano e Virgilio, nell’Eneidos. ¶ Il secondo, commedia, sotto il quale generalmente, e universalmente si tratta di tutte le cose, e quindi il titol del presente volume procede. ¶ Il terzo, satira, sotto il quale si tratta in modo di riprensione, siccome Orazio. ¶ Il quarto, e ultimo, elegia, sotto il quale d’alcuna miseria si tratta, si come Boezio. La cui divisione procedendo in cotale modo permane, che principalmente si divide in tre parti, delle quali la prima figurativamente Inferno si chiama, la seconda Purgatorio, e la terza e l’ultima Paradiso. La prima in nove parti, cioè gradi, si divide, de’ quali il settimo in tre; l’ottavo in diecie e ’l nono in quattro. ¶ Ancor si divide la seconda in sette gradi ordinati, e in due extraordinati, l’uno superiore, e l’altro inferiore si divide. Il quale inferiore in cinque parti ancora è diviso. La terza e l’ultima in due[7] sanz’altra divisione si divide, delle quali generalmente l’allegorica qualità avegniachè per più propio secondo l’ordine del volume recitare si convegna, non di meno quì per questo proemio dichiarerò parte de’ suoi principii per abbreviarmi più nelle seguenti cose, dicendo ch’el principio delle intenzioni del presente autore è di dimostrare di sotto alegorico colore le tre qualitadi dell’umana generazione. ¶ Delle quali la prima considera de’ viziosi mortali, chiamandola Inferno, a dimostrare che ’l mortale vizio opposito alla altezza della vertù siccome suo contrario sia. Onde chiaramente s’intende che il luogo determinato de’ rei è detto Inferno, per lo più basso luogo e rimosso[8] dal cielo. ¶ La seconda considera di quegli che si partono da’ vizi per procedere nelle virtudi, chiamandola Purgatorio, a mostrare la passione dell’animo che si purga nel tempo ch’è mezzo dall’uno operare all’altro. E perchè dal partirsi dalle vertù a l’entrar ne’ vizî spazio non ha di tempo, però no gli si oppone opposita qualità, chè sanza mezzo di tempo è fatto vizioso chi si parte da virtù per procedere ne’ vizij, chè dove non è tempo non è passione. ¶ La terza e l’ultima considera degli uomini perfetti, chiamandola Paradiso, a dimostrare la beatitudine loro, e l’altezza dell’animo congiunto con la felicità, sanza la quale non si discerne il Sommo Bene. E così figurando per le parti sopradette, come conviensi, sua intenzione procede, la quale per più chiarezza simigliantemente mi conviene seguitare, dichiarando, dove bisognia quella parte del libro prendendo per titolo che a ciò si conviene. Nel quale incominciando così procedo:

NOTE:

[7] Il cod. B e il Parigino nove: lezione forse preferibile.[8] Cod. B remoto.

Comincia il Primo Capitolo

Nel mezzo del camin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva iscura
Chè la diritta via era ismarrita

IN questo cominciamento del libro, siccome proemio, significa l’autore la quantità del tempo suo nel quale egli era quando il lume della verità gli cominciò prima a raggiare nella mente, avendo infino allora dormito col sonno della notte continua, cioè nell’oscurità della ignoranza, mostrando che fosse nel mezzo del camin di nostra vita; per lo quale si considera il vivere di trentatre, o vero di trentaquattro anni, secondo quello che del più e del meno e del comunale appare e simigliantemente quel c’appare del vivere[9] e del morire di Cristo, il quale, per essere perfetto in tutte sue operazioni il mezzo comprese. Nel quale essendo s’avide ch’egli era in una oscura selva, dove la dritta via era smarrita. Per la quale, figurativamente, si considera la molta gente che nella oscurità dell’ignoranza permane, con la quale è impossibile di procedere per la via dell’umana felicità, chiamandola selva, a dimostrare che differenza non sia da loro sensibile e razional suggietto al vegetabile solo. Onde propriamente di cotal gente selva d’uomini si può dire come selva di vegetabili piante.

Tanta e amara che poco è più morte
Ma per trattar del ben ch’io vi trovai
Dirò dell’altre cose ch’io v’ho scorte.

❡ Per questo bene di che egli trattare intende il dichiarare al mondo la passione de’ rei e la gloria de’ buoni si considera, la qualità loro secondando per dare correzione e lode a chi n’è degnio.

Io non so ben ridir com’io v’entrai,
Tant’era pien di sonno in su quel punto
Che la verace via abbandonai.

❡ Naturalmente a ciascuno è gnoto della detta selva l’entrata per lo principio puerile, nel quale si dorme l’affetto di ciascuna inpressione.

Ma quando fu’ a pie’ d’un colle giunto,
Là dove terminava quella valle,
Che m’avea di paura il cor conpunto.

❡ Essendosi raveduto dell’essere istato nella bassezza della detta ignoranza, la quale figurativamente quì valle si chiama, l’animo suo al pie’ d’un colle incontanente pervenne, per lo quale l’altezza dell’umana felicità si considera, la quale coll’intelletto de’ raggi del sole coperta la vide, cioè della chiarezza dell’intellettuale verità, con la quale dirittamente si guida chi co’ lei si rimira.

Allor fu la paura un poco queta
Che nel lago del cor m’era durata
La notte ch’io passai con tanta pieta.

❡ Ritrovandosi nel cominciamento di cotanto bene, la paura della notte ch’avea passato, cioè del tempo in che nella ignoranza era stato, alquanto gli fu sollevata per la speranza che già nell’intelletto la sopradetta chiarezza gli dava.

Così l’animo mio, ch’ancor fuggiva
Si volse in dietro a rimirar lo passo
Che no lasciò già mai anima viva.
[10]

❡ Per questo passo, al quale egli qui si rivolse la sopra detta viziosa e ignorante vita, figurativamente si considera, la qual non lascia aver vita d’alcuna vertuosa fama dietro a la morte, a chi di lei fia impresa.

Ecco quasi al cominciar dell’erta
Una lonza legier e presta molto
Che di pel maculata era coperta.

❡ Cominciando coll’animo a salire su pe la detta altezza, mostra che tre bestie gli si parassero dinanzi per isturbarlo, per le quali figurativamente si conprendono i principali tre vizii più contrarii a bene operare dell’animo, de’ quali il primo è lussuria, formandola in lonza, però che come lei è macchiata di molti e diversi colori, sì come di molti e diversi piaceri e di simigliante umidità e superflua caldezza disposta. ¶ Il secondo superbia in forma di leone figurata, la cui significazione apertamente si vede. ¶ Il terzo avarizia, formata in lupa, a significazione di sua bramosa e infinita voglia, sì come per lei tra gli altri animali di ciò golosamente sembianza vede e di ciascuna mostrando a cotale salire come grande è l’offesa.

Tempo era del principio del mattino
E ’l sol montava su con quelle stelle
Ch’eran co lui, quando l’amor divino
Mosse di prima quelle cose belle.

❡ Essendo occupato nell’animo da’ sopradetti vizii alcuna cagione di speranza, l’ora del tempo gli dava e la dolce stagione e della fiera la gaetta[11] pelle, immaginando che la chiarezza del felice lume gli avea incominciato a raggiare nella mente nel principio del dì sì come in principio di luce e fine d’oscurità, essendo il sole in compagnia colle stelle dell’ariete, con le quali, secondo la divina scrittura era acconpagnato, quando in prima ebber moto, però che si vedeva con l’universo in uno medesimo tempo accordante: Per lo quale si segue che fosse di primavera ne’ dì del suo mezzo Marzo. E simigliantemente, immaginando alla vaghezza della gaetta pelle, pensando che la naturale par che conceda, che dove più è valore più cotal fuoco s’accenda, avegna che ciò non si debba accettare se non come vizio.

Mentre ch’io ruinava in basso loco
Dinanzi agli occhi mi si fu offerto
Chi per lungo silenzio parea fioco

❡ Ritornando con l’animo nell’usato luogo, cioè nell’ignoranza per la forza de’ detti tre vizi, l’effetto dell’umana ragione dinanzi agli occhi della mente gli apparve, dal quale è compreso indizio e forza di procedere per la via dell’umana felicità; il quale effetto, figurativamente, nel detto luogo ingnorante, in forma di colui che più nella ragione umana poetando si stese, compone cioè di Vergilio, dal quale per tutto il cammino che a lei s’appartiene figurativamente sì come da essa, per questo libro prende sua guida.

Molti son gli animali a cui s’ammoglia,
E più saranno ancor in fin ch’el veltro
Verrà che la farà morir con doglia
[12]

❡ Con ciò sia cosa che, per volere di Dio, ciascuno animale da’ corpi celestiali, cioè dalle stelle, abito[13] e forma comprenda; però il loro effetto così qui è da entrare che, secondo quello che visibilmente appare, la presente umana età più della cupidità dell’avarizia che d’altra impressione aver mostra e questo è quello che nelle presenti parole se tocca, diciendo che pur crescier debbia infin che suo corso trascorra e poi venir meno ragionevolmente sì come ella comincia per la continua e velocissima variazione delle stelle. ¶ Per la quale definizione, che figurativamente qui veltro si chiama, la seguente impressione di lei si considera, la quale esser conviene virtudiosa, perchè dala presente ciascun vizio dipende, chiamandola veltro per contrario della presente, ch’è lupa. La cui nazione serra tra feltro e feltro, considerando cioè tra cielo e cielo. Ver è che per certi diversa intenzione sopra ciò si contiene, dicendo che ’l detto veltro debbia essere alcuno virtudioso che per suo valore da cotal vizio rimova la gente approvando ch’altro che di gentil nazione non possa essere. ¶ Onde per abbattere cotale opinione, cioè che così di vile come di gentile non possa essere, qui per contrario solamente tra feltro e feltro così si consente, si come tra vile e vile, però ch’è drapo di vile condizione, avegnia che la intenzione del presente autore a questa ultima però non consente.

NOTE:

[9] Dalla parola che alla parola vivere togliamo dal codice B.[10] Il cod. B legge persona.[11] Il cod. L gaeta, il cod. B gaecta.[12] Il cod. B legge invece di con, di doglia.[13] Il cod. B animo.

Comincia il II Capitolo

Lo giorno se n’andava, e l’aire bruno
Toglieva gli animai che sono in terra
Dalle fatiche loro e io sol uno

ESSENDOSI esaminato e provveduto con la ragione umana, cioè con Virgilio, qui in questo principio del secondo capitolo si fa cominciamento d’entrare nella sopradetta qualità prima degli uomini, cioè nell’inferno, significando che fosse nella fine del dì, e nel cominciamento dela notte, a figurare la scurità dell’ignoranza, la quale prima ragionevolmente gli conviene mostrare, però che prima e più all’umana generazione è accostante.

Tu dici che di Silvio il parente
Corrutibile ancora ad immortale
Secolo andò e fu sensibilmente

❡ Temendosi di non potere fornire quel che già cominciato era nell’animo suo con Virgilio di quel che tratta nell’Eneide del padre di Silvio, cioè di Enea, si ragiona non vogliendo simigliante operazione agguagliare a lui, si come dell’andata che figurativamente con Sibilla per lui all’inferno si fece, pensando all’effetto del suo gran processo, si come principio e padre di Roma, nel quale la Chiesa e l’Imperio inizio fece, e simigliantemente al vas d’eletione, cioè a san Paolo, il qual poi per cotal modo, figurativamente per l’inferno si mise per dar conforto e correzione alla cristiana fedel gente. Onde a così grande due cagioni considerando, la sua imposibile quasi gli pare.

Io son Beatrice che ti faccio andare
Vegnio del luogo ove tornar desìo
Amor mi mosse che mi fa parlare

❡ Per conforto della detta temenza qui per Virgilio la cagion che lui mosse si conta, di Beatrice dicendo la qual per tutto questo libro la divina scrittura s’intende, si come perfetta e beata.

Donna è gentil nel ciel che si compiange
Di questo impedimento ov’io ti mando
Si che duro giudicio lassù frange

❡ Figurativamente per questa gentil donna la profonda mente della deità si considera, della quale ogni essere procede; per lo quale suo rotto giudicio che qui si ragiona, il trarre l’abito mortale dell’ignorante giudicio per farlo de vertù grazioso s’intende, chiamando cotale grazia Lucia si come grazia di dio, la quale per suo volere si move al soccorso di ciascuno che dall’ignoranza si parte.

Lucia nimica di ciascun crudele
Si mosse e venne al luogo dov’io era
Che ivi sedea con l’antica Rachele.

❡ Si come nella Bibbia si contien Jacob pare che due sirocchie insieme per sue mogli avesse, cioè Lia e Rachele, per la cui continenza figurate sono alla vita attiva e alla contemplativa; delle quali per la contemplativa la seconda, cioè Rachele si considera. Onde per la contemplatione della teologia, cioè della divina scrittura, allato di lei, si come simile permanendo si pone.

Non odi tu la pietà del suo pianto,
Non vedi tu la morte ch’el combatte
Sulla fiumana onde il mar non à vanto

❡ Per questa fiumana la viziosa e ignorante operazione del mondo s’intende, la quale Acheronte si chiama, cioè sanza allegrezza interpetrata, si come principale fiume de’ quattro infernali che nelle infrascritte chiose si contano.

E venni a te così com’ella volse;
Dinanzi a quella fiera ti levai
Che del bel monte il corto andar ti tolse

❡ Qui si consideri che non sia possibile a salire all’umana felicità a niuno, cosi l’effetto de’ vizi, come delle virtudi ignorante, avendo solamente alcuno indizio di virtù; però che tanto di sopra detti vizi è l’amara dolcezza, e specialmente dell’avarizia che di ciò lo sturba, onde sanza operarlo ciascun vizio come le virtudi conoscere si dee. Per la quale cosa, figurativamente, il presente autore a dimostrare le virtudi e’ vizii s’induce, per dare al mondo correzione ed esempio.

Comincia il III Capitolo

Per me si va nella città dolente,
Per me si va nell’eterno dolore,
Per me si va tra la perduta gente

IN questo cominciamento del capitolo il prencipio dell’entrare ne’ vizi si significa, trovandosi sanza serrame una porta, sopra la quale le proposte parole si contengono. Per la quale la vaghezza puerile, più tosto disposta sanza serrame alla viziosa dolcezza che alla chiarezza delle virtudi si considera. Ma più propio parlando il cominciamento d’ogni vizioso operare della gente significa, nel quale conservandosi ogni speranza di vedere il sommo bene, cioè Iddio, lasciar si conviene, chiamandosi cotale essere città dolente per propietà de’ suoi posseditori; la quale dolore eterno si può dire si come opposito del paradiso ch’è vita eterna. ¶ E perchè la natura del mondo, cioè Iddio perfine di vedere lui all’umana generazione ha dato, però è perduta la presente qualità del suo essere chiama, si come nemica e fallace del proposito del suo circustante fattore.

Ed egli a me: questo misero modo
Tegniono le anime triste di coloro
Che visser sanza fama e sanza lodo

❡ In tre qualitadi convien di necessità essere disposta e divisa l’umana generazione, l’una ad essere buona e l’altra rea, e la terza a non esser buona ne rea. Tra le quali questa ultima, si come nemica delle virtù e de’ vizij dentro alla detta porta e fuori delle nove parti cioè gradi nell’inferno sortiti, si pone con numero e quantità infinita per dimostrare che l’altre due nel mondo di numero vinca e ch’ella da mosconi e da vespe e da simiglianti animali sia trafitta, a dimostrare i suoi vilissimi e piccioli intendimenti, i quali finalmente di vilissimi effetti siccome vermini poi sono ricolti. E ch’ella dietro a certa insegna velocissima corra a dimostrare la miseria comune di lei che la guida, però che niun di lei particolarmente a tanto cuore che sopra agli altri s’inducesse, sarebbe. E così questa innumerabile qualità figurativamente per se sola si pone.

Poscia ch’io n’ebbi alcun riconosciuto
Vidi e conobbi l’ombra di colui
Che fecie per viltà il gran rifiuto

Per più conoscenza qui d’alcuno della presente qualità si ragiona, il quale essendo papa di Roma, e nominato Cilestrino, per viltà di cuore temendo altrui rifiutò il grande ufficio apostolico di Roma.

Ed ecco verso noi venir per nave
Un vecchio bianco per antico pelo
Gridando: guai a voi, anime prave

❡ Veduta la detta qualità de’ miseri, nella prima de’ viziosi mortali qui si procede, mostrandosi che prima si giugniesse ad un gran fiume al primo infernal grado circustante, sopra ’l quale con grandissimo affetto di passare fossero innumerabili anime, e come per uno vecchio tutte eran passate. Sopra la quale allegoria, ora cominciando sottilmente, ora è da considerare, e in prima che la essenza di tutta la qualità rea figurativamente in forma d’una ritonda fossa in su l’ambito della terrestre spera, immaginata si pone ampia di sopra per circonferenza di.... miglia e appuntata di sotto; la quale punta, il centro dell’universo in sè ritenga, compartendola in nove parti, cioè gradi, l’uno sotto l’altro circostantemente degradando sì come nove qualità di peccati, le quali secondo la lor gravezza e più e meno lontani dal cielo, cioè dal sommo bene, ordinatamente sortisce. La cui allegoria nelle parti, cioè nelle chiose di ciascuno, ordinatamente si dimostreranno. E cominciando principalmente a questo primo, così di lui per principale cosa[14] posto si considera, la quale si come men grave, la innocente puerile, e di coloro che virtudiosamente vivettero innanzi alla cristiana fede sintende. La cui figurata pena solamente di non avere isperanza di vedere Iddio si concede, a dimostrare la loro non colpevole colpa fuor dell’accesso fedele, per cui cotale speranza si taglia, chiamandosi linbo, si come superna stremità di tutto l’inferno. Il cui detto circostante fiume, nominato Acheronte, il cominciamento e ’l passo delle viziose operazioni s’intende, simigliantemente il vecchio che sopra lui le passa, nominato Carone, all’affetto che nella presente amara dolcezza gli induce e si figura, il quale così per loro affettuosamente si mostra, a dimostrare negli uomini il pronto e acceso desìo di pervenire alla sopradetta amara dolcezza dei vizij.

NOTE:

[14] Il cod. B copia: colpa?

Comincia il IV Capitolo

Ruppemi l’alto sonno nella testa
Un grande tuono sì ch’io mi riscossi
Come persona che per forza è desta

ESSENDOSI dentro al detto fiume passato, qui in questo capitolo la detta qualità del presente primo grado si dimostra, ecome per cominciamento il trono di tutti i peccati nella memoria sonnolente, non usa a somigliante esercizio, gli percosse.

Dimmi, maestro mio, dimmi signore,
Comincia’ io, per volere esser certo
Di quella fede che vince ogni errore

❡ Per fare alcuno ricordamento sopra la fede nella resurrezione di Cristo in cotal modo di ciò qui si risponde, contando coloro che della presente eterna dannazione per suo vittorioso piacere furono estratti.

Venimmo al piè d’un nobile castello,
Sette volte cerchiato d’alte mura,
Difeso intorno d’un bel fiumicello

❡ Con ciò sia cosa che nel presente primo grado ciascuno altro ch’è da sè innocente si conceda di molti filosofi e uomini di bontade famosi qui per esempio si fa menzione, a’ quali figurativamente alcuno lume è dato a dimostrare la chiarezza della scienza e della bontà, la quale con tutto che sieno dannati col piacer di Dio e del mondo gli alluma, figurandogli in sito verde a dimostrare il viver di lor fama, essendo morti. E un nobile e forte castello di sette mura cerchiato, un fiumiciello per lo quale la filosofica e poetica scienza figurativamente s’intende; della quale e’ si vestiro. Di cui le sette mura le sette liberali arti significano, le quali di necessità essere convengono circostante al filosofico e poetico intelletto. La cui circostante difesa il detto fiumiciello si contiene; per lo quale l’operare delle mondane e viziose dilettazioni si considera, le quali del non entrare nel presente castello sono cagione.

Io vidi Elettra con molti compagni
Tra quai conobbi Ettore ed Enea
Cesare armato cogli occhi grifagni

❡ Veduto ed esaminato l’essere del presente castello di molti suoi abitanti, per esempio del mondo, nominandogli qui si ragiona, incominciandosi in prima a coloro che la bontà sanza scienza seguirono, e specialmente al suo più antico principio, il quale fu Elettra figliuola del re Atlante d’Africa, e moglie del re Dardano, il qual fu principio di re e della casa di Troia, seguitando negli altri ordinatamente, come nel presente testo si contiene. ¶ Ettore fu figliuolo de’ re Priamo di Troia, il quale finalmente da Achille nell’esercito de’ greci a Troia combattendo, fu morto. ¶ Enea fu figliuolo d’Anchise della casa di Troia e antico principe di Roma, come nelle sue storie per Virgilio si conta. ¶ Cesare fu romano, vocato Giulio, e primo imperadore di Roma. ¶ Cammilla fu una vergine di Tiria, la quale gran tempo signoreggiando, Italia resse, e finalmente morta conbattendo colla gente d’Enea nelle contrade di Puglia. ¶ Pantaselea fu donna e reina del regno femminoro, la quale essendo con grande cavaleria di donne in aiuto de’ troiani, venuta da’ greci finalmente fu morta. ¶ Il re Latino fu re d’Alba e di Puglia e padre di Lavinia, la qual fu terza moglie d’Enea. ¶ Bruto fu romano e padre di Lucrezia, per la quale essendo da Sesto figliuolo di Tarquino re di Roma carnalmente sforzata, da lui, cioè da Bruto, il detto Tarquino col figliuolo, col volere del popolo di Roma di fuori, a furore fu cacciato. ¶ Giulia fu figliuola di Cesare e prima moglie di Pompeo romano. ¶ Marzia fu di Roma e moglie di Catone, dal quale per sua vechiezza vivendo ad Ortenso romano per moglie la diede. ¶ Cornelia fu figliuola di ..... di Roma e seconda moglie di Pompeo. ¶ Saladino fu ..... e soldano di Babilonia, il quale, e i quali sopradetti uomini e donne, come di sopra si conta, di molta bontà ebber grazia, dietro a’ quali procedendo e più la vista inalzando, cioè a più perfetti iscienziati intelletti, il maestro di coloro che sanno, cioè Aristotile, nel più degno luogo si vede, dinanzi al quale molti altri filosofi secondo la loro facoltà propinqui gli stanno, la cui notizia assai chiara qui nel testo procede.

Comincia il V Capitolo

Così discesi del cerchio primaio
Giù nel secondo che men luogo cinghia
E tanto più dolor[e] che punge a guaio

DIMOSTRATA la qualità del primo grado infernale, in quella del secondo qui si procede, la quale di coloro in cui la ragione umana all’abituato talento della lussuria è sottomessa, si considera; la cui essenza nella seguente chiosa, figurativamente, si contiene, seguitandosi qui nella disposizion di Minos, il qual, per motore nel presente grado e giudicatore degli altri si pone. La cui figurata allegoria in cotal modo permane che si come in ciascuno uomo naturalmente delle sue mali operazioni è coscienza contradicente giudicandosi sè stesso propiamente e più e meno lontano del sommo bene, cioè da Dio, secondo la colpa commessa, così qui il detto Minos giudicatore delle colpe in lei si figura, giudicando e approvando con certa sua coda, a dimostrare, che solamente con la fine di ciascuno sia più propio il giudizio, si come negli animali e nell’altre cose ella generalmente è fine. E perchè di sè medesimo più che di niun’altro e più propio il giudizio, però cotale coscienza, nominata Minos, figurativamente in questo secondo grado principalmente si pone. La quale, nel sopra detto grado non si concede, perchè non è di qualità di colpa commessa; e col sopra detto nome chiamandola, a similitudine d’alcun Re di Creta, nominato Minos, il quale anticamente fu di tanto giusto giudizio abituato, che per ciascun pagano si credea che nello inferno finalmente giudicator divenisse.

Io venni il luogo d’ogni luce muto
Che mugghia come fa mar per tempesta
Se da contrari venti è combattuto

❡ Si come l’effetto di ciascun peccato degniamente è pena dell’operante, così qui in questa seconda qualità e nell’altre simigliante l’effetto delle fatte operazioni si concede: la pena in questo cotale figurativamente si sostiene, che alcuna fortuna di vento, percotendosi insieme sanza alcuno riposo, gli porti. Per la quale si considera la veloce voglia di coloro in cui, ardendo la lussuria vince, i quali da desiderosi piaceri di lor voglie sanza posa niuna d’uno in altro, e là e qua sono guidati; tra’ quali d’alquanti antichi e moderni per esempio degli altri, nelle seguenti chiose procedendo si conta.

La prima di color di cui novelle
Tu vuo’ saper, mi disse, quelli allotta
Fu inperadrice di molte favelle

❡ Semiramis fu moglie del re Nino, la quale, dietro alla morte di lui, gran tempo in paesi d’Asia e d’Africa con sì grande abito di lussuria resse, che per legge cotale volontà appagare a ciascuno lecito fece vogliendo di sè medesima cotale biasimo torre.

L’altr’è colei che s’uccise amorosa
E ruppe fede al cener di Sicheo,
L’altr’è Cleopatras lussuriosa.

❡ Questa che amorosa sè uccise fu Didone moglie de’ re Sicheo di Cartagine, la quale, dietro alla morte di lui sopra il suo cenere di non accompagnarsi con altro uomo, secondo l’usanza, promise. Per la cui caldezza di lussuria, finalmente ad Enea troiano, essendo arrivato alla detta terra, carnalmente per moglie si diede. Ond’ei partito per venire in Italia, ed ella aspettandolo, per dolore del suo non tornare, sè stessa ucise. ¶ Cleopatras fu moglie del re Tolomeo d’Egitto, amica di Cesare, poi che della prigione del fratello liberata, lo trasse, essendo morto Pompeo. E poi fu moglie d’alcuno nipote di Cesare nominato Marcantonio, il quale essendo dallo imperadore Ottaviano cacciato per mare, finalmente fu morto. Per lo quale dolore ella simigliantemente fuggiendo, due velenosi serpenti al petto si pose, da’ quali così la morte innamorata prese.

Elena vidi per cui tanto reo
Tempo si volse e vidi il grande Achille
Che con amore alfine combatteo

❡ Elena fu moglie de’ re Menelao di Grecia, la quale fu tolta per Paris figliuolo del re Priamo di Troia, per cui finalmente la detta terra per li Greci deserta rimase. ¶ Achille fu figliuolo de’ re Peleo d’Atilia, detta Civita di Creti, il quale, essendo a Troia nell’oste de’ Greci con certi compagni per fare alcuna pace della morte d’Ettore, da quei dentro fu falsamente fidato, dovendo torre Polisena figliuola de’ re Priamo, di cui egli era vago, per moglie, e dare Andromaca, cioè la moglie ch’era stata d’Ettore, a Pirro suo figliuolo. Nel quale trattamento in alcun tempio di Troia, essendo per vendetta d’Ettore da’ fratelli a tradimento fu morto. ¶ Paris fu figliuolo del detto re Priamo, il quale tolse e fece le sopradette cose. ¶ Tristano fu figliuolo de’ re Meliadusse di Logres, e finalmente morto da re Marco suo zio per cagione della bionda e bellissima Isotta, come nel leggere della Tavola Rotonda si conta.

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
E cominciai: Francesca, i tuoi martiri
A lagrimar mi fanno tristo e pio

❡ Essendosi degli antichi infino a qui ragionato, di due modernamente si segue, de’ quali l’un fu una donna nominata monna Francesca figliuola di messer Guido da Polenta, cioè Guido vecchio da Polenta di Romagna, e della città di Ravenna, e l’altro Paolo d’i Malatesti da Rimini, la quale essendo del fratello del detto Paulo moglie, il quale ebbe nome Gianni Isciancato, carnalmente con lei usando, cioè col detto suo cognato, alcuna volta insieme, dal marito fur morti.

Comincia il VI Capitolo

Al tornar della mente che si chiuse
Dinanzi alla pietà d’i due cogniati
Che di tristizia tutto mi confuse

IN questo sesto capitolo, seguentemente, la qualità del terzo grado si dimostra, la quale di coloro si considera che nell’appetito della gola sanza alcun freno si producono; la cui essenza figurativamente cotal si consente che a lei gragniuola acqua tinta e neve continuamente piova, appuzzando il sito, che ciò figurativamente riceve, e che per un demonio con tre gole crudelmente sia vietata. Per la quale piova figurativamente si considerano gl’infermi accidenti di superflui umori che nelle carni de’ detti golosi continuo piovono sì come malattie di fianchi e di gotte e di podragre e di simiglianti effetti. ¶ E simigliantemente per lo detto demonio l’appetito della gola si considera che in ciò gl’induce. Il quale con tre gole, figurativamente, è formato, si come per tre modi cotale appetito per lor si possiede. De’ quali l’uno è di quantità, l’altro è di qualità, e il terzo di quanto continuo: il quale di quantità comunalmente d’ogni cibo assai si disidera gustare. Il quale di qualità, particularmente di cose elette, non curandosi di quantità è ’l terzo cioè il quarto, continuo in due modi diviso si contiene, cioè il quanto continuo e il quanto discreto. Il quanto continuo è continuo esser goloso, il quanto discreto è alquanto goloso e alquanto non essere. Il qual demonio, si come motore del grado presente, Cerbero figurativamente si chiama a derivazione d’alcuno così nominato, che più in cotal vizio si resse, secondo che per Ovidio o per gli altri poeti si conta. Tra’ quali golosi d’alcuno nelle seguente chiose per notizia degli altri nominando si conta.

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco
Per la dannosa colpa della gola
Come tu vedi alla pioggia mi fiacco

❡ Per dar notizia d’alcuno della presente qualità qui d’alcuno fiorentino nominato Ciacco si fa menzione, il quale nel presente vizio fu molto corrotto, e perchè della memoria in nuove fantasie fu sottile predicendo le cose future, per qui però lui significando di Firenze così si predice come nel presente testo apertamente s’intende[15].

NOTE:

[15] V. P. aggiunge: Cierbiro, cioè divoratore di carne.

Comincia il VII Capitolo

Pape satan pape satan Aleppe
Cominciò Pluto colla boce chioccia
E quel savio gentil che tutto seppe.

PROCEDENDOSI, la gravezza delle viziose colpe in questo capitolo, quella del quarto grado, cioè dell’avarizia e della prodigalità, si dimostra. La quale, figurativamente, in volgere certi pesi colla forza del petto si pone riscontrandosi insieme a due punti del cerchiato sito e rimproverandosi l’uno coll’altro l’effetto di loro opposite colpe. Sopra la quale Pluto demonio per motore si contiene. La cui allegoria in cotal modo permane. ¶ Che, con cio sia cosa che di ciascuna operazione il mezzo, virtù si consideri, di ragione le stremità sue, cioè il troppo e ’l poco deon essere vizij, però del temporale spendio le sue, cioè avarizia e prodigalità, qui contrarie egualmente sono messe. Per lo quale sopra detto affaticare del volgere i pesi l’infinito affaticare dell’animo, così ne’ ritenere come nello scialacquare si significa. Per la cui contrarietade figurativamente qui nelle due stremità del diviso cierchio contrariamente si scontrano, rinproverandosi, contrarie, si come nemiche, delle quali per lo sopra detto motore il male volere che l’operazione a simigliante effetto produce si considera, sopra le cui proposte parole cotal dispositione si ritegna. ¶ In prima che pape è avverbio ammirativo, Satan nome propio d’alcun diavolo, cioè d’alcun male volere; Alep in lingua ebrea e in latina A, e altri dissero alpha, però si come principio della scrittura, la quale in sè tutto contiene figurativamente qui si dice Alep, cioè Iddio, si come principio di tutto l’universo, maravigliandosi dell’essere del presente autore.

Come fa l’onda là sopra Cariddi
Che si frange con quella in cui s’intoppa
Così convien che qui la gende riddi

❡ Per comparazione della presente qualità, qui del contrario percuotere delle marine onde, che nella riviera di Calavra a rimpetto l’isola di Cicilia tra certi scogli si fa, che si chiama Cariddi, si ragiona, il quale per lo ritenere del crescere e del discrescere della marina che fa la detta isola dal levante al ponente addiviene.

Maestro, diss’io lui, or mi di’ anche:
Questa fortuna, di che tu mi tocche,
Che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?

❡ Perchè dalle cose tenporali l’avarizia e la prodigalità si derivano però qui di ragionare accade di quella divina voglia, che, dando e togliendo a cui le piace, il distribuisce. Sopra la quale naturalmente così si consideri che, si come la divina mente prende ministra e guida nella sua qualità ciascun cielo si come da Angeli ed Arcangeli e da’ Principati e dagli altri seguenti, così alle qualitadi Inferiori da lei simigliantemente son date, tra le quali quella de’ beni temporali fortuna si chiama, la qual dà e toglie il suo reggimento a cui le piace, contra la quale il senno umano riparando non è possente. E perchè continuamente l’umana generazione nascendo si rinnovella però di necessità conviene che suo dominio d’uno in altro tramuti. La cui voglia subita e occulta come serpente tra erba permane, onde sanza ragione di lei s’abiasima a cui togli però che già da lei dalla sua grazia assentita, la qual di necessità, come detto di sopra, d’uno in altro distribuita si segue.

Or discendiamo omai a maggior pieta
Già ogni stella cade che saliva
Quando mi mossi e il troppo star si vieta

❡ Qui l’ora del tempo così significa, vogliendosi nel quinto infernal grado discendere, dicendo ch’ogni stella cadeva, nel cominciamento della sera di loro intrata saliva, per la quale si segue che già la mezzanotte corresse, però che ogni stella s’intende salire dall’orientale orizzonte al meridionale cerchio e poi discendere infino all’occidentale orizzonte. ¶ Nel quale quinto grado scendendosi, alcuna fontana con acqua turbata e bogliente si trova, la quale il cominciamento della seguente colpa significa, e del secondo fiume infernale che Stige si chiama, cioè tristizia. Il quale, figurativamente, per lo quinto presente grado s’impadula, nel quale propiamente la colpa dell’iracundia e dell’accidia si conserva, mostrandosi di ciascuna per suo segno la propietade, si come degli iracondi la bogliente e palese rabbia, e delli accidiosi la occulta e tinta irata voglia; delle quali per più notizia si come delle stremità di temperanza nella dimostrazione del nascimento dell’ira così si procede, che, secondo la speculativa e natural verità, ira e desiderio di vendetta d’alcuna ricevuta ingiuria, nascendo d’un vizio, che arroganza si chiama, il cui suggetto è reputarsi d’essere migliore e più possente che l’essere non porta, della quale due dispetti iracundi finalmente nascono de’ quali l’uno è semplice, e l’altro contumelioso. Il semplice, vedendo alcuno immaginarsi d’esser tenuto da lui vile o cattivo non essendovi la cagione del dovere e il contumelioso essere ingiuriato da alcuno in sua presenza personalmente, ovvero per parole rapportate da lui, per la quale arroganza l’altezza della torre del presente grado si considera, e i detti due dispetti le fiammelle che appresso, figurativamente, si pongono, come nel seguente capitolo si conta.

Comincia lo VIII Capitolo

Io dico, seguitando, che assai prima
Che noi fussimo al piè dell’alta torre
Gli occhi nostri n’andâr suso alla cima

SEGUITANDOSI la qualità del presente quinto grado, in questo principio del canto l’altezza dell’arroganza figurativamente si mostri e le fiammelle de’ suoi ardenti dispetti, e come per un demonio si governa e ministra il presente iracundio ed accidioso pantano, per lo quale figurativamente s’intende l’abito e ’l volere iracundo ed accidioso, il quale alla vendetta dei suoi dispetti velocissimo corre, chiamando Flegias per similitudine d’alcuno così nominato, in cui cotali vizij più che in altrui compresi furono e abituati secondo quello che per ..... si conta; la qual digressione qui ed altrove per troppa materia non si consente. Fra’ quali accidiosi e iracundi operanti, d’alcuno nelle seguenti chiose per esempio degli altri si conta.

Tutti gridavano: a Filippo Argenti
Al fiorentino spirito bizzarro
In sè medesimo si mordea co’ denti

❡ Perchè di ciascuna qualità per più certezza la similitudine bisogna, però in questa e nell’altre d’alcuna si fa minzione, nelle quale qui un cavaliero fiorentino, nominato Messer Filippo Argenti degli Adimari si trova, il quale iracundissimamente vivendo si resse.

Lo buon maestro disse: Omai figliuolo
S’appressa la città ch’ha nome Dite
Con gravi cittadini e ’l grande stuolo

❡ Si come per Aristotile nell’Etica si contiene, in tre disposizioni la infernal qualità è partita, delle quali la prima incontinenza si chiama, la seconda malizia, e la terza bestialità. Per la incontinenza le quattro sopradette colpe s’intendono, dalle quali è possibile partirsi, onde così apertamente figurate in questo inferno in prima si contengono. Ma perchè dalla malizia e dalla bestialità è impossibile il partirsi, però figurativamente il cerchio di lor sito Murato di ferro si mostra, a figurare la fermezza continua dell’animo loro, chiamandola città di Dite, cioè città di peccato interpetrata nelle quale più contrarie alla natura le colpe digradando procedono che nelle sopradette incontinenti, dalle quali partendosi qui in lei si procede.

Chiuser le porte que’ nostri aversari
Nel petto al buon segnor che fuor rimase
E rivolsesi a me con passi rari

❡ Qui la chiusa voglia de’ maliziosi principalmente si dimostra, a ciò che di loro non si palesino li orribili peccati ne’ quali per sè sola la ragione umana per notizia non puote entrare sanza la sperienza dell’animo, si come nel seguente capitolo si conta.

Comincia il IX Capitolo

Quel color che viltà nel cor
[16]
mi pinse,
Vedendo il duca mio tornare in volta
Più tosto dentro il suo novo ristrinse

ASPETTANDOSI d’entrare nella presente città in questo cominciamento del capitolo con temenza sopra le dette parole, così si ragiona, immaginandosi che tali colpe si fosser lasciate cercare, procedendo che in dietro tornando in loro si come vizioso finalmente il terrebbero.

Ver è ch’altra fiata qua giu fui
Congiurato da quella Ericon cruda
Che richiamava l’ombra
[17]
a’ corpi suoi

❡ Eripthon fu una donna vecchissima femmina delle parti ....., di cui anticamente a’ corpi morti per suo congiuramento tornare si credeva, la quale da Virgilio, alcuna volta, favoleggiando così pare che toccasse.

Dove in un punto furon dritte ratto
Tre furïe infernal di sangue tinte
Che membra femminine aveano e atto

❡ Per queste tre furie, secondo i poeti, ira cupidità e voloptà in vizioso modo usate si considerano, si come ira in offensione, la quale usare si dee in familiaria correzione. ¶ Cupidità in avarizia la quale usare in necessario procuramento de’ bisogni si dee, e voloptà in lussuria la quale a fine di procreazione di figliuoli legittimamente si dee usare. Per le quali l’animo umano in ciò disposto in furia e in percussione permane, onde così figurativamente sono disposte qui per principio e chiamate, e secondo i pagani in forma di tre femmine co’ capegli serpentini, così s’appellano cioè, ira cupidità e voloptà nel sopradetto modo usate. Ma, secondo quello che nel presente libro si contiene, prendendo il soggetto delle dette parole, così è da considerare, che si come ciascuna qualità corporale e operazione, secondo i pagani, à per suo motore alcuna Idea, così le scellerate maliziose e bestiali operazioni hanno tre idee cioè Aletto, Tesifoni e Megera, per le cui interpetrazioni chiaramente s’intendono le tre qualità da cui generalmente ciascuno male si muove, cioè mal pensamento, dischiesto[18] parlare e malvagia e furibonda operazione delle quali Aletto [im]pausabile[19] cioè mal pensamento interpetrato s’intende. Thesifo dischiesto parlare e Megera iniqua e furibonda operazione. Le quali figurativamente sopra l’entrata della presente città si concedono, a significare il pianto e la difesa loro contra la correzione, e la propietà simigliante che nell’abito degli eretici si contiene, le quali, sì come per diverse immaginative e pensieri si conserveno, così figurativamente cinte di diversi serpenti, e specialmente il luogo determinato della memoria, figurano, a significare il trascorrere d’un pensiero in altro, che per lor si produce, che, simigliante al moto di serpenti, subito si concede e alla propietà di loro fredda e velenosa malizia.

E quei che ben cognobbe le meschine
Della reina dello eterno pianto
Mi disse: guarda le feroci Erine

❡ Secondo quello che per Ovidio e per gli altri poeti favoleggiando si tratta, la reina dello eterno pianto, la luna s’intende, riducendola nel nome di colei che Dite prese nell’isola di Cicilia cogliendo suoi fiori, la quale Proserpina si chiama. Onde così nominata, reina dello inferno s’intende, si come Dite, cioè Lucifero, Re; della quale ancille e principii di tutto suo seguito sono come nella sopradetta chiosa si conta. E riducendola negli altri suoi due nomi quando Luna si chiama in cielo si considera, e quando Diana in luoghi salvatichi e diserti si come in selve o boschi, idea si intende; per li quali tre detti suoi nomi in alcun luogo Trivia si chiama, le cui allegorie tra l’altre in loro essere si prendano.

Vegnia Medussa si ’l farenn di smalto
Dicevan tutte rimirando in giuso
Mal non vegniammo in Teseo l’assalto

❡ Medussa, secondo le favole d’Ovidio fu delle parti di ponente e figliuola d’alcuno nominato Forco e serocchia di Sten e di Euriale, la quale per sua bellezza Nettuno, Iddio del mare, esendone vago, carnalmente nel tempio di Pallade, idea di sapienza, a suo piacere la tenne. Del quale oltraggio non possendosi vendicare di Nettuno Pallade, perchè, come ella, era Idio, di Medusa cotal vendetta ne fece, che ciascuno suo capello per sua fattura in serpente divenne e che chi la vedea diventava di pietra. La cui allegoria chiaramente s’intende, che fallando nel mare, cioè nelle mondani operazioni contro al dovere di sapienza, sanza alcun senso di ragione si permane, si come pietra. La quale così nelle dette parti dimorando e guastando la gente che lei rimirava, alcun virtudioso delle parti d’oriente, nominato Persio, con alcuno suo ingegno di specchio per non vederla con gli occhi, tagliandole il capo, finalmente l’uccise. La cui testa così crinata, appiccandolasi di dietro a sua cintura, nelle parti d’oriente tornandosi addusse, chiamandola Gorgone, cioè appetito di peccato. Onde figurativamente le dette furie per paura di non essere corrette, ond’elle perdan posseditori per correzione d’alcuno virtudioso, così chiamandolo dicono incontro al presente autore, acciò che voglioso del peccato diventi, si che in ciò più non proceda, rinproverandosi per lui l’assalto che fece Teseo a’ vizij infernali, si come per ....., favoleggiando, si contiene, del qual non fecer vendetta, sì che altri non si fosse più messo in simigliante cammino. La cui storia in cotal modo permane.

Vid’io più di mille anime distrutte
Fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
Passava Stige colle piante asciutte

❡ Però che sanza la sperienza della mente nella qualità dell’effetto malizioso e bestiale, come in quel della incontinenza non si può entrare, qui figurativamente si pone che per lei la cittade presente, cioè qualità, al presente autore sia aperta. La quale vegniendo colla sinistra dinanzi al viso se fatica, a dimostrare che nella sinistra operazione al presente proceda, e che ciascuna anima le si fuga dinanzi, a dimostrare il naturale volere che in ciascuno la conoscenza in altrui delle sue mali operazioni. La quale propiamente messo di Dio si considera per la correzione che di lei si procede.

Che giova nelle fata dar di cozzo
Cerbero nostro, se ben si ricorda
Ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo?

❡ Per lo ricalcitrare che qui di diavoli si contiene, cioè degli affetti maliziosi alla beatitudine delle vertù, cioè dell’autore, il sopradetto messo celestiale contro a loro così ne ragiona, rammentando quello che per Teseo alcuna volta fu fatto loro, specialmente al demonio Cerbero, si come di sopra nella sua chiosa si conta.

Hanno i sepulcri tutt’i’ luogo varo
Così facievan quivi d’ognie parte
Salvo che ’l modo v’era più amaro

❡ Essendosi entrato nella presente qualità maliziosa, cioè nel sesto infernale grado, nel quale la colpa della resia si concede, così sua qualità figurata si pone, che, si come per molte e diverse credenze, fuor di quella cattolica della deità si contiene, così qui figurativamente arche mischiate di fuori e dentro di fiamme si concedono, a dimostrare l’ardente fermezza dell’animo nelle dette credenze, tra le quali d’una, per esenpio, dell’altre così si ragiona, che, tra gli altri filosofi, ne fu uno nominato Epicuro, il quale credette che, morto il corpo, fosse morta l’anima. Onde ciascuno di tale intenzione seguace nella sua arca s’intende, si come nella sua credenza con lui s’intende, e simigliantemente nell’altre credenze ciascun seguace nella sua arca si pone, chiamandole resiarche, cioè principali di loro credenze, nelle quali simile con simile così son sortiti.

NOTE:

[16] La volgata: di fuor.[17] L’ombre.[18] P. 313 disonesto (?), abbiamo pure dischiesto per sconvenevole, inopportuno, non richiesto.[19] Impausabile. Isidoro Etim VIII, II.

Comincia il X Capitolo

Ora sen va per un segreto calle
Tra ’l muro della terra e gli martiri
Lo mio maestro e io dopo le spalle

IN questo cominciamento del decimo canto, la qualità dell’eretica credenza presente si dimostra, nominandone alcun de’ seguaci del detto Epicuro come nelle seguenti chiose si contiene.

O Tosco che per la citta del fuoco
Vivo ten vai così parlando onesto
Piacciati di restare in questo loco

❡ Tra l’altre resiarche qui con alcuno di quelle di Epicuro si ragiona, nominato messer Farinata degli Uberti di Firenze, dicendo sopra fatti futuri e passati di lei, cioè di Firenze, come nel libro chiaramente qui si contiene. Col qual simigliantemente un altro cavaliere di Firenze si vede, nominato, Messer Cavalcante de’ Cavalcanti, il quale con simigliante credenza vivendo si tenne.

Ond’io a lui lo strazio e ’l grande sciempio
Che fece l’Arbia colorata in rosso,
Tale orazion fa far nel nostro tempio

❡ Perchè la sconfitta ch’ebbono da’ Sanesi anticamente i Fiorentini a Monte Aperti, fu più per valore degli Uberti che d’altri loro usciti, però contra a loro cotal contumacia si tiene; per la quale sconfitta ad uno fiumicello della detta contrada, nominato Arbia, per lo sangue si vole dire che l’acqua in rosso colore si turbasse, dietro alla quale vittoria tra certi grandi caporali ragionandosi di levare via Firenze del suo propio sito e di farne altrove più parti, per lo detto Messer Farinata finalmente ciò fare si distolse, e questo è quello che qui nel suo ragionamento di ciò si contiene.

Comincia l’XI Capitolo

In su la stremità d’un alta ripa
Che facevan gran pietre rotte in cierchio
Venimo sopra più crudele stipa

PROCEDENDOSI, nella presente qualità, in questo cominciamento, qui d’alcun altra eretica credenza in teologia si fa menzione, che si come per molti filosofi de la deità diverse credenze come detto si tennero, così per molti di teologia in divinità diversamente nelle credenze della fede fuor della cattolica si tenne si come Donato e molti altri; tra’ quali uno nominato Futino, il quale in Cristo una natura sola essere credette, nella cui credenza alcun papa di Roma nominato Hostagio animosamente si mise, partendosi dalla verace tologica, per la quale eresia finalmente dell’uficio apostolico fu casso.

Figliuol mio, dentro da cotesti sassi,
Cominciò egli a dir, son tre cierchietti
Di grado in grado come que’ che lassi

❡ Veduta la qualità del sesto infernal grado vogliendosi discendere nel settimo disaminando prima della qualità de seguenti tre gradi si ragiona, acciò che più apertamente procedendo con l’intenzione si pigli, dicendosi che ciascuna malizia, cioè peccato, che da Dio odio aquista, di necessità è per suo fine ingiuria, la quale o con forza o con froda conviene essere usata; ma perchè la violenza non è tanto colpa dell’uomo quanto è la froda, però nel primo de’ seguenti tre gradi considerata si pone. Il quale in tre parti si divide si come per tre modi la forza si conserva: cioè contro a Dio dispregiandolo, e sè daneggiando e ’l prossimo. E perchè semplicemente la froda si può usare sanza mezzo e come mezzo di fidanza, nel secondo quella sanza mezzo di fidanza per men grave diviso in dieci si pone si come per dieci modi operando si consenta, però che solamente il naturale Amore ch’è tra uomo e uomo divide, le cui distinzioni nelle infrascritte lor chiose ordinatamente si contano. Considerando nel terzo e nell’ultimo l’altra, cioè quella che con mezzo di fidanza naturale accidentale si conserva, la quale volgarmente tradimento si chiama e in quattro parti dividendola, si come per quattro modi operata si contiene, le cui distinzioni, come è detto di sopra, nelle parti di ciascuno grado notificate saranno.

Ancora un poco in dietro ti rivolvi
Diss’io là ove dì che usura offende
La divina bontade e ’l gropo solvi

❡ Ogni arte generalmente prende modo e forma da sua natura, si come naturalmente in filosofia e nella divina scrittura si contiene; però qualunque in operato è fuori di suo essere e mess’a contradio si falla, si come dell’usura colla moneta, la quale è contra a sua natura e contro all’arte. Contra sua natura è guadagnandosi moneta per moneta, la quale per sua natura è disposta a essere mezzo solamente in aguagliare ogni mercato; e contro all’arte quando per sè medesimo si fa arte, e non è. Onde così di lei qui ragionando veramente contro a Dio e contro all’arte falla chi ciò procura.

Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace
Chè pesci guizzan su per l’orizzonta
E ’l Carro sopra tutto il Coro giace
E ’l balzo vie là oltra si dismonta

❡ Essendosi disaminate le dette cose, e vogliendo nel settimo grado discendere, l’ora del tempo qui per cotal modo si significa, dicendosi ch’e pesci guizzavano su per l’orizzonta, essendo il carro sopra tutto il Coro, per lo quale s’intende che fosse nell’ora del mattino, che è innanzi dì, però che, come nelle chiose del primo capitolo si contiene, la mossa del presente cammino a mezzo marzo si fece essendo il sole nel cominciamento delle stelle dell’Ariete. Onde quelle de’ Pesci essendo nell’orizzonta orientale, il carro, cioè il settentrionale sopra la parte che è tra mezzo dì e ponente, che Coro[20] si chiama, si segue, che solo in sogno precede innanzi al sole; che spazio di due ore in cotale tempo si piglia. Per lo quale appressamento di luce, figurativamente, qui s’affretta per fornire sanza mediata luce il presente cammino, la cui allegoria nelle prime chiose si conta.

NOTE:

[20] L toro—Coro ( caurus ) o ponente maestro.

Comincia il XII Capitolo

Era lo loco, ove a sciender la riva
Venimmo, alpestro, per quel che v’era anco
Tal ch’ogni vista ne sarebbe ischiva

IN questo cominciamento del capitolo dal sesto al settimo grado, il disciedere si mostra, nel quale, diviso in tre, come sopra si conta, la bestial ..... qualità dell’operazione umana si contiene, per la cui similitudine nel suo cominciamento il Minotauro si pone, a significare l’abito umano congiunto e col bestial unito. Il quale, secondo i poeti, così si figura togliendo alcun principio in cotal modo di lui, che alcuna reina, nominata Pasiphe, moglie de’ re Minos di Creta, per sua lussuria con un vitello istare carnalmente s’accese, la quale alcuno ingiegnioso, nominato Dedalo, che in sua corte si riducea, di ciò pregando richiese, e come a lui parve, in uno cuoio di vacca, ignuda si mise, nel quale col detto vitello usando s’incinse, di cui finalmente una criatura nacque, dal petto in su uomo e l’altro busto d’un toro. Onde maravigliandosi i’ re di cotale nazione e per suo figliuolo riputandolo, di doppio nome nominarlo volle, siccome era di doppia natura, cioè Minotauro; per lo quale s’intende Minos e Taurus. Del quale crescendo con furioso e crudele abito, finalmente agli orecchi de’ re la verità di lui pervenne, per lo quale isdegno e per sua furia raffrenare al detto Dedalo un luogo per lui determinato ingegnosamente far fece; nel quale chi v’entrasse uscire non ne sapesse, nominandolo laberinto; al quale essendovi rinchiuso, a ciascuna città del detto re signoreggiata, in ogni capo di tre anni una pulcella vergine in luogo di tributo mandare convegna, la qual finalmente divorava: con patto che chi v’entrasse il detto Minotauro uccidesse, che d’ogni tributo libera fosse sua patria. Fra le quali per la città d’Atene il suo, nominato Teseo, per liberarla si mosse. Al quale essendo giunto nel sopradetto paese, e nella corte dimorando, alcuna figliuola de’ re, nominata Arianna, innamorata di lui, sentir di se per cotal modo gli fece, che se per moglie la togliesse menandolane in suo paese, che del laberinto uscire e uccidere il Minotauro gl’insegnerebbe. Ond’egli acciò consentendo con gli ammaestramenti di lei, che delle sette arti sapea, ad entrarvi si mise, nel quale finalmente la morte gli diede, tornandosi poi nel suo paese colla vittoria e colla detta Arianna. Onde così in lui figurata qui la bestial qualità si conchiude.

Da tutte parti l’alta ripa feda
Tremò sì ch’io pensai che l’universo
Sentisse amor, per lo qual è ch’i’ creda
Più volte il mondo in caos converso,

❡ Siccome per la nostra fede è manifesto, anzi che ’l suo principio, cioè Cristo, morendo, l’umana generazione ricomperasse, egualmente il giusto come il peccatore, nel primo grado infernale, cioè ne ’l limbo era dannato. Onde vogliendosi dimostrare che nella vittoria di lui, cioè nella resurrezione, ciascun grado avesse sua via, e spezialmente quegli che in prima di colpa non ne aveano soggetto di cotale tremare, figurativamente, qui si ragiona, affigurandolo a una certa opinione d’alcuno filosafo, nominato Empedocles, il quale si come per molti altri filosofi diverse credenze dell’universo s’intendero, così questa per lui così fatta si tenne, che solamente per gli alimenti il mondo si reggesse, e che tra loro si prendesse due diversi principii, cioè odio e amore, per li quali insieme in odio regnando che ’l mondo ben si reggesse e in amore il contrario, si come confusione di molte cose unite che niente non fosse, chiamando cotale amore caos, cioè confusione di molti e diversi uniti effetti. Onde cotal dire, per tal modo figurato, qui si conchiude.

E tra ’l piè della ripa e essa in traccia
Correan centauri armati di saette
Come soglion nel mondo andare a caccia.

❡ Entrandosi nella dimostrazione bestiale del presente settimo grado, la quale in tre qualitadi divisa si pone, della prima cioè di coloro che sforzano altrui in avere e in persona, figurativamente, così si ragiona che nella circunferente stremità del grado presente una fossa di sangue bogliente immaginata permagna, nella quale ciascun cotale operante, secondo la sua facultà, ladentro più e meno sia sortito. La cui allegoria apertamente s’intende che sì come la lor voglia di torre l’altrui e di dare morte s’infiamma, così qui il somigliante significa. E che da molti centauri, cioè uomini dal petto in su, e l’altro busto cavallo, correndo sopr’essa sien vicitati, i quali significano i correnti pensieri bestiali e voglie di loro che in ciò fargli conservano, approvandogli per esempio i molti che di tale qualità anticamente più furono impressi de’ quali, poeticamente favoleggiando, di loro essere così si ragiona, che alcuno uomo nominato Ixion per alcuno tempo sforzandosi di congiungersi carnalmente con Junone, moglie di Giove, e non possendo perchè era iddea, tra’ nuvoli sua corruzione sparta trascorse, della quale diversi animali in due nature formati si generarono, cioè, di natura umana dal petto in su, e da indi in giù di cavallo. La cui allegoria, come di sopra si conta, la bestial qualità delle genti significa, d’i quali umana forma e abito bestiale si discerne, tra’ quali per più conoscenza di lor simili qui d’alquanti si fa ricordanza, incominciandosi ad un grande di Grecia, nominato Aschiro, il quale, secondo Omero, fu crudelissimo e bestiale in tutte sue operazioni, nella cui signoria principalmente Achille figliuolo del re Peleo crebbe, e seguentemente d’un altro nominato Folo, il quale tra gli altri con più ira si resse, co’ quali di Nesso, che per la bella Dianira fu morto così si ragiona. La cui vendetta e storia in cotale modo permane, che alcuna volta, in compagnia d’Ercole e Dianira sua moglie, andando, ad uno gran fiume pervennero, per lo quale temendo Ercole di Deianira che passar nol potesse, in sulla groppa di Nesso, fidandosi di lui finalmente la puose; il quale, sentendosi sopra colei di cui egli era vago, con l’intenzione d’averlasi dinanzi ad Ercole correndo a fuggire si mise, dal quale così fuggendo fu mortalmente lanciato. Ond’egli incontanente a Dianira si volse dicendo come per lei moriva; e perch’ella in amor d’Ercole ritornasse partendosi dall’amore ch’era tra lui e Giunone moglie di Giove, che la sua sanguinosa camicia togliesse, e celatamente alcuna volta ad Ercole la facesse vestire, però che tal virtù in sè ritenea, e così il detto Nesso morto, ella col marito, cioè con Ercole permanendo, credendo quel che Nesso insegnato l’avea, la detta camicia nascosamente ad Ercole mise, per la quale, essendone in su la carne vestito, incontanente fu morto. Così di se stesso il detto Nesso ingannando la sua vendetta si fece.

Quivi si piangon disperati danni
Quivi è Allesandro e Dionisio fero
Che fecie aver Cicilia dolorosi anni

❡ Significata la qualità de’ centauri qui l’essenza degli altri operanti, nominandone certi si contiene, incominciandosi al grande Alessandro di Macedonia, il quale tiranneggiando signioreggiò le due parti del mondo, cioè Asia e Africa, e seguentemente al feroce Dionisio, per lo quale con grandissimo furore e forza l’isola di Cicilia lungo tempo si resse. Tra’ quali antichi modernamente di messer Azolino da Romano della Marca trivigiana con la testa bruna per sembianza si vede, il quale, ferocemente tiraneggiando Trivigio, Padoa, Vicenzia e Verona, signioreggiandole resse, e simigliantemente con la testa bionda il marchese Obizzo da Este in cotal colpa si vede, il quale signioreggiando Modona e Ferrara dal ....., finalmente fu morto.

Mostrocci un’ombra da un canto sola
Diciendo colui fesse in grembo a Dio
Lo cuor che ’n sul Tamigio ancor si cola.

❡ Digradandosi la vista, secondo il più e ’l meno dell’operazione per la presente qualità di coloro che infino alla gola nel sangue sortiti sono, qui d’alcuno, nominato conte Guido di Monforte d’Inghilterra, così si ragiona. Il quale essendo nimico della casa de’ re d’Inghilterra uno di loro, nominato Messer Arrigo d’Inghilterra, nella città di Viterbo, levandosi il corpo di Cristo, finalmente uccise, con consentimento de’ re Carlo Vecchio, essendo collui, del quale secondo l’usanza, il cuore del corpo fu tolto e in sua terra portato, il quale in un calice d’oro coperchiato in mano ad alcuna statua in una chiesa sopra il fiume de Londre, nominato Tamigio, ancora onorato si china.

La divina giustizia di qua punge
Quell’Attila che fu fragello in terra
E Pirro e Sesto: ed in eterno munge

❡ Ancor della presente qualità nel più profondo per maggior colpa alcuno Unghero, Attila nominato si concede, il quale sanza alcun titolo di ragione ferocemente anticamente si mosse, e nelle parti d’Italia con grandissimo esercito venne rubando e ardendo le terre che a le mani gli venivano, tra le quali Padova e Firenze per lui diserte rimasero. E così operando e finalmente essendo ad assedio ad una terra di Romagna nominata Rimino, e sconosciutamente entratovi per novelle di suo stato sentire, e conosciuto da alcuno giucandovisi a scacchi collo scacchiere in sul capo percosso, incontanente fu morto. E simigliantemente in cotal colpa Pirro, figliuolo d’Achille, si considera, il quale, la marina rubando, corse nel tempo del maggior dominio di Roma, e Sesto figliuolo di Pompeo, il quale, dietro alla morte del padre, la marina simigliantemente rubando, gran tempo con suo legno corse. Co’ quali antichi ancor modernamente di due ragionar si concede. De’ quali l’uno fu de’ Pazzi di Valdarno, nominato Rinieri, e l’altro da Corneto di Maremma, simigliantemente chiamato; per li quali le strade gran tempo di Toscana furono corse e rubate.

Comincia il XIII Capitolo

Non era ancor di là Nesso arrivato,
Quando noi ci mettemmo per un bosco
Che da nïun sentiero era segniato

DIMOSTRATA la prima qualità bestiale, cioè parte delle tre del grado presente, qui in questo capitolo, seguentemente procedendo, delle colpe [contra] il dovere, la seconda procede, cioè, quella che a sè medesimo personalmente, e realmente offende, la quale, figurativamente, in forma d’un alpestro bosco si pone dentro al detto fosso per ordine circustante, per la cui fronde certi pennuti animali, in aspetto umano volando, trascorrino. La cui allegorìa, propiamente cotale modo si procede, che si come naturalmente si vede l’umana generazione tre animati si possiede cioè vegetabile, razionale e sensitiva, delle quali la vegetabile, cioè, quella che in vita crescendo permane, alla sua fine giammai non consente. Ma perchè nel corpo umano la rationabile e la sensitiva a sua morte talora consente, però in piante silvestre cotal qualità di gente, figurativamente, si forma, siccome creature in isola vegetabile rimase, essendoci dell’altre due sè stesse private. Le cui vegetazioni di pennuti animali, le triste ricordanze e memorie di lor propia privazione significano, le quali così figurate Arpìe poetando si chiamano; delle quali, così figurativamente, secondo che tratta Virgilio nel suo Eneidos, Enea Troiano con sua gente, essendosi da Troia partito, di certe Isole, nominate Strofade, in cotal modo già furon cacciati, procacciandovi d’aver preda con sua gente da vivere, tale quali difendendosi da lor colle spade dalla Maestra di loro, nominata Cileno, ad Enea fu finalmente così detto: Tu vai per signioreggiare Italia e qui a torre mia preda se’ giunto; ma prima che tu signoreggi, tu e tua gente, i taglieri in su ch’avete mangiato per fame ancora manicherete. Il quale annunzio finalmente avvenne, secondo che nelle sue istorie per Vergilio si conta. Onde così in piante salvatiche, col dolore delle dette ricordanze e memorie, ciascun che di vita si priva, figurativamente qui si concede, tra’ quali d’alcuno nelle seguenti chiose per esempio si conta.

I’ son colui che tenni anbo le chiavi
Del cor di Federigo e che le volsi
Serrando e disserando sì soavi

❡ Per seguitar, con esempio d’alcuno della presente qualità ominato Piero dalle Vigne, qui si ragiona, il quale, si come naturale e isperta persona nella corte dello ’nperadore Federigo in sì grazioso stato si vide, che solamente in lui ogni segreto del segnore si volgea, tenendo a suo volere le due chiavi del cuore, cioè il sì e no del suo imperato dovere, di cui per gli altri cortigiani tanta invidia si prese che falsamente dinanzi al signore abominandolo più volte, in disgrazia ricadde. Per lo qual dolore, essendone abbacinato, e menato alcuna volta presso da Sanminiato del Tedesco a Pisa in alcun suo borgo, nominato fosso arnonico, per isdegno di sè, percotendosi il capo a un muro, finalmente sè uccise.

*   *   *

[Il codice Laurenziano contiene, in più, la seguente chiosa]:

Ed ecco due dalla sinistra costa
Gnudi e graffiati fuggendo sì forte
Che della selva rompean ogni rosta

❡ Si come per due modi l’offensione di sè medesimo per l’uomo operata puote essere, cioè personalmente e realmente, così qui nel presente sito, essendosi la personal dimostrata, la real continenza si segue, cioè la qualità di coloro che di ben temporali, e spezialmente dell’avere, distruggendo, si spogliano; figurandogli ingnudi per la detta cagione; e perchè della persona per lor non si priva, tra le piante del bosco presente personalmente in umanità son formati, i quali, figurativamente, da nere e bramose cagne, così son cacciati e disfatti, a significare la oscurità delle ’ndigenze, cioè di bisogni necessarii, che dietro alla distruzione correnti seguiscono perseguitandogli per due guise, si come per due modi cotal distruzione per lor si conserva, cioè lungo tempo vivendo mendico e povero dietro alla sua struzione [e] d’appresso di lei incontanente avere fine. Di quali per esenpio qui di ciascuno si dimostra, proponendosi l’uno in alcuno cavaliere padovano nominato messer Iacopo della Capella, cioè santo Andrea da Monselice, il quale di grandissima ricchezza lungo tempo in grande povertade divenne, e l’altro in alcun sanese nominato Lano, il quale, avendo con la scialacquata brigata di Siena sua ricchezza finita, e nella sconfitta dalla Pieve al Toppo perdente con gli altri suoi cittadini ritrovandosi, e potendosi a suo salvamento partire per non tornare nel disagio in che incorso era, tra nemici Aretini a farsi uccidere percotendo si [mise][21]. Onde chiaramente qui si significa il diverso cacciato correre di loro.

*   *   *

Ricoglietele a piè del tristo ciesto,
Io fui della città che nel Batista
Mutò il primo padrone, ond’ei per questo

❡ Però che de’ Fiorentini è propio vizio d’appiccare sè medesimi, come degli Aretini il gittarsi ne’ pozzi, qui di tutti quei di Firenze che ciò fanno, in uno si ragiona, acciò che ciascun leggendo del suo parente si creda, il quale, per sua patria nominandosi, cioè di Firenze, di lei alcuna condizione in cotal modo significa, dicendo, che per lo mutamento di suoi padroni che anticamente per accrescimento della fede cattolica d’uno in altro si fece, lasciando l’idolo di Marte, il quale, secondo i poeti, Iddio delle battaglie si chiama, e san Giovanni Batista prendendo, che per tale privamento con sua impressione il detto Marte la farà sempre dolere, privandola delle vittorie di sua arte. E finalmente approvandola, che s’e Fiorentini anticamente non l’avessero ricolto e in atti riposto, com’è al presente nella testa del loro vecchio ponte si vede, che indarno di dietro alla distruzione di Firenze che per Attila Unghero anticamente si fece per loro edificato, così si sarebbe, per lo qual significamento, secondo l’arte della strologia, in alcun vero cotal principio per ascendente s’intende.

NOTE:

[21] Corretto col P p. 313.

Comincia il XIV Capitolo

Poi che la carità del natio loco
Mi strinse, ragunai le fronde sparte
E rendêle a colui ch’era già fioco.

NOTIFICATA la prima e la seconda qualità del presente settimo grado, la terza in questo capitolo ordinatamente procede, la quale s’intende di coloro per cui la natura, cioè Iddio, coll’operazione e con la mente contro al suo dovere è sforzata la quale, si come per tre effetti, cioè modi, si produce, si come con la mente immaginando con abito di lussuria e con arte, cioè con usura, così per tre qualitadi di genti figurativamente ordinata permane, in circonferenza dentro alle sopra dette due parti figurandola in aridisimo e secco sito, sopra il quale fiammelle di fuochi continue, privan[d]o[22] a dimostrare l’asciutta caldezza dell’animo e di loro imprensione e le infiammante lor voglie. Delle quali notizia per esempio di ciascuna nelle seguenti chiose si vede sempre dal men grave peccato, incominciando secondo l’ordine del dovere nella intenzione del presente autore procedendo, figurando cotal sito alla rena d’Etiopia, cioè pianura caldissima d’Africa, sotto la meridional parte, per la quale anticamente il buon Cato di Roma, con certi Romani, innanzi alla signoria di Cesere, essendo morto Pompeo, per volere libertà in fuga si mise.

Chi è quel grande che no par che curi
Lo ’ncendio e giace dispettuoso e torto,
Si che la pioggia non par che ’l maturi

❡ Tra l’altre qualitadi della presente terza parte, della prima esenpio per alcuno qui si dimostra, cioè di coloro che col cuore contro a Dio parlando e dispregiando faciendoli nel detto sito sotto le fiamme giacere, a dimostrare, che quanto Idio più si dispregia, che tanto più basso al contrario dell’essere e con più pena si permagna. Tra’ quali d’alcun re, nominato Capaneo, per simigliante si fa menzione, per lo quale niuna fede negli dii vivendo si tenne, reggendo sotto alcuna regola di ragione, sanza credenza di dii, suo reame, tra’ le quali sue operazioni d’una finalmente così si ragiona: che alcuna volta essendo l’uno de’ sette regi che con Polinice assediarono Teba, essendovi dentro il fratello, nominato Eteocle, il quale, dovendogli dare a parte di reggimento la terra si come a fratello ribellandosi da lui si tenea e in sulle mura della terra, combattendo contro a’ Tebani, dispregiando gli Dii che per loro dentro si sagrificavano, in cotal modo dica: Dite a Jove e Bacco vostro iddio ed agli altri generalmente che v’aiutino ora se gli hanno forza e non hanno potenza e non sono nulla! Al quale, così dispregiandogli, per vendetta dal cielo una saetta folgore venne, che divorando l’uccise. Onde per tal vendetta ancor di sua fermezza, cosi si ragiona, affermando che se Jove ancora con tutta sua forza così il saettasse, come nella battaglia tra gli dii e giganti fece nel monte di Flegra, che chiara vendetta di lui non avrebbe. La quale battaglia, secondo i poeti, tra gli dii e giganti nel detto luogo per cotal modo si fece che, essendo l’una parte e l’altra raggiunta, finalmente gli giganti combattendo arebbono vinto, se Giove, si come signore delli altri idii, soccorso così non avesse gridando, a Vulcano iddio del fuoco, che saette folgore in quantità fabbricasse con le quali i giganti finalmente fosser percossi. ¶ Onde per gli dii la detta battaglia per cotal modo finalmente si vinse, figurativamente Mungibello in ciò nominando, però che per i poeti favoleggiando si dice, che in lui fabrica di Vulcano per l’apparenza di suo fuoco visibile sia, il qual Mongibello nell’isola di Cicilia così fiammante permane.

In mezzo il mar siede un paese guasto,
Diss’egli allora, che s’appella Creta
Sotto ’l cui rege fu già il mondo casto

❡ Per lo sopradetto rivo che, per la presente qualità visibilmente trascorre, sopra il quale figurativamente ogni caldezza si spegnie [si segue] sottilmente così è da considerare: ¶ In prima, che dall’effetto di secoli, cioè dall’etadi, una acqua dipenda, cioè operazione, della quale quattro fiumi nell’infernal qualità si dirivano, de’ quali, il primo Acheronte si chiama, cioè senza alegrezza interpetrato; il secondo Stige, cioè tristizia; il terzo Flagietonta, cioè incendio; il quarto e l’ultimo Cocito, cioè pianto. I quali quattro subietti delle viziose operazioni significano, la cui forma, e ’l cui principio poetando, così si produce. ¶ In prima che, secondo i Pagani, la prima età del mondo quella di Saturno s’intende, nella quale il mondo sanza alcuna malizia si resse, la cui dimora nell’isola di Creta, figurativamente, così si comprende; del quale nascendo un figliuolo, nominato Giove, a Rea sua moglie comandamento espressamente fece che tal figliuolo incontanente uccider facesse; però che rivelato gli era che, vivendo, per lui della dominazione sarebbe finalmente disposto. Onde ella pietosa del detto figliuolo nascosamente con alquante nutrici in alcuna montagna nominata Yda nella detta isola di Creta, acrescere lo fece; per lo quale il padre, cioè Saturno, del dominio finalmente fu casso procedendo Jove e di Jove in Marte suo figliuolo, e simigliantemente digradandosi nelle altre seguenti a questo, cioè nell’idolatrie di lor deitadi, infino alla presente, che per molti diversamente si contiene alle quali figurativamente si fa cominciamento di viziose operazioni a quella di Giove, però che la prima, cioè quella di Saturno, sanza alcun vizio si resse, dalla quale d’una in altra digradando crescendo cotal cominciamento si piglia. E secondo la cristiana intenzione, la prima età da Adamo purissima s’intende infino all’ora del primo peccato, dalla quale, seguentemente di Noè in Abraam, da Abraam in Mosè, di Mosè in Cristo, d’una in altra digradando, così procede. La cui allegoria poetando, figurativamente, in alcuna statua umana così formata si pone, la quale, secondo che per alcuna scrittura del Testamento vecchio si conta per visione d’alcun grandissimo primo temporale signore nominato Nabucodinosor in Babilonia dimorando, così si conchiude, che alcuna volta, dormendo, la detta statua in visione così formata gli venne, della quale i suoi savii, domandandone che ciò significasse, niente sapere ne potea. Finalmente, per alcuno ebreo, in sua prigione incarcerato, nominato Daniello, avendo a due prigioni di loro sogni ridetta la veritade, cioè di due suoi serventi, de’ quali l’uno tornato in grazia e l’altro impiccato, finalmente fu, sognando sopra sè corbi, e l’altro di primere uve in una coppa servendo dinanzi a lui, per la detta rivelazione menato, promettendogli di liberalo se di sua visione la verità gli dicesse: in cotale modo gli fu la visione rivelata, dicendo di lei come di sopra, figurativamente dell’etadi del mondo si conta. ¶ Onde così formata, qui nel presente libro nella sopra detta Montagna di Creta si pone, a significare, secondo i Pagani, il primo cominciamento di lei, e ch’ella riguardi Roma, volgendo le spalle a Damiata, a dimostrare che il dominio del presente secolo in Roma si contegna e da Babilonia partito, pognendo Damiata per segno, però che alcuna montagna tra levante e ponente, tra Babilonia e Roma mediata. Per la cui dorata testa il purissimo cominciamento di lei si considera, digradando poi ne metalli secondo la disposta qualità, della quale, finalmente, il destro piede di terra cotta si vede, per lo quale l’ultimo presente spiritual secolo si considera. Il quale di terrestre umanitade col calore divino in Cristo figliuolo di Dio si produsse, sopra ’l quale più il presente secolo che nell’altro, cioè nel temporale, si sostiene, dalla quale statua, così figurando, come detto di sopra, la qualità viziosa del mondo digradando procede.

NOTE:

[22] V. P. piovendo.

Comincia il XV Capitolo

Ora cien porta l’un d’i duri margini
E ’l fumo de’ ruscel di sopra aduggia
Sicchè dal fuoco salva l’acqua e gli argini

DIMOSTRATA la prima qualità della terza del grado presente, della seconda qui in questo capitolo l’esser procede, cioè di coloro in cui l’ardente fuoco della lussuria contra natura s’induce, si come i sodomiti, e a simiglianti effetti, figurandola per diverse schiere andando, a significare in loro diversi affetti che sanza posa in cotali operazioni gli producono, tra’ quali d’alquanti, per notizia di loro, come nelle seguenti chiose e testo si contiene e dimostrano facendosi qui nel cominciamento alcune operazioni dell’essere del presente rivo, assimigliandolo a quel che e Fiamminghi per temenza del fiotto della marina fanno, la qual, secondo la grandezza sua cresce e dicresce, secondo il montare e lo scendere della luna dall’oriente all’occidente. Il qual fiotto cotal crescer s’intende naturalmente in ciascuna marina, non considerando il più e ’l meno della grandezza di loro, siccome dell’Oceano che per la sua grandissima facultà solamente di lui si ragiona. ¶ Ancora simigliantemente, a quel che per temenza i Padoani di lor fiume per iscampo di loro colture fanno, il quale delle parti fredde di Chiarantana giù deriva, la cui abbondanza nel tempo che ’l caldo della neve e il ghiaccio in acqua converte, procede, inalzando gli argini del detto fiume, nominato Brenta, per la sopra detta temenza, e simigliantemente i Fiamminghi le loro marine pianure.

E quegli: figliuol mio, non ti dispiaccia:
Ser Brunetto Latino un poco teco
Ritorna indietro e lascia andar la traccia

❡ In questa seconda qualità, per simigliante si trova un Fiorentino nominato ser Brunetto Latino, il qual fu valorosa e natural persona, come ne’ suoi Tesori[23] testimonianza si vede, nel cui ragionamento d’alcuni altri di sua qualità si palesa, come nel testo e qui si contiene, cioè di Presciano, e di messer Francesco d’Accorso di Bologna, di legge civile dottore, e del vescovo Andrea de’ Mozzi di Firenze, il quale essendo pastore della detta città, per cotal vizio dal papa nel vescovado di Vicenza fu trasmutato, il cui fiume così Bacchiglione è chiamato, come Arno quel di Firenze, nel quale finalmente morta sua lussuria rimase.

Comincia il XVI Capitolo

Già era in loco ove s’udìa rimbombo
Dell’acqua che scendea nell’altro fosso,
Simili a quel che l’api fanno rombo.

ANCORA nella presente rena per vizio di lussuria d’alquanti cittadini di Firenze in questo capitolo si fa ricordanza, e della qualità dell’ottavo seguente grado, come nelle seguenti chiose si conta.

Nepote fu della buona Gualdrada,
Guido Guerra ebbe nome ed in sua vita
Assai fece col senno e con la spada

❡ Tra gli altri della presente qualità, qui ragionandosi, con un cavaliere di Firenze nominato Messer Iacopo di Rusticucci, e del conte Guido Guerra, antico di conti Guidi si fa ricordanza, e di messer Teghiaio Aldobrandi de Cavicciuli di Firenze, si come di valorose persone fuor di tal vizio onorate con quali in ragionamento finalmente si conchiude alcuno valoroso uomo di corte, nominato Guglielmo Borsiere.

Come quel fiume ch’à proprio cammino
Prima dal monte Viso in ver levante
Dalla sinistra costa d’Appenino

❡ Per similitudine del figurato romore del presente rivo scendendo del settimo grado nell’ottavo, d’alcun fiumicielo di Romagna qui si ragiona prendendo di lui il romore che in alcuna sua scesa si fa in una contrada dell’Alpe, che San Benedetto si chiama, la cui continenza, secondo il presente parlare, così si contiene; che alcuno monte sopra le parti di Monferrato e della Genovese riviera, nominato Monte Viso, principio sia della lunga giogana d’Appennino, la quale quella s’intende che Lombardia, Romagna, la Marca d’Ancona e Abruzzo, dalla Toscana, e dalla Val di Spoleto, cioè il ducato, e da terre di Roma con Puglia piana diparte, la cui sinistra costa guardando verso il levante quella che ’l mare Adriatico dichina sue acque s’intende, delle quali acque, cioè fiumi, il Po pricipalmente dal sopra detto Monte Viso col suo propio nome alla detta marina discorre, togliendolo a molti altri, che per la detta costa derivano, tra’ quali quel che, seguente lui, realmente infino alla marina sanza mettere in Po col suo nome corre [e] Montone per lo piano di Romagna, si chiama, e per la montagna, acqua queta: dal quale, come di sopra, si conta figurativamente esenpio dell’uso della presente scesa si piglia.

I’ avea una corda intorno cinta
E con essa pensai alcuna volta
Prender la lonza della pelle dipinta

❡ Avegna che la terza qualità della presente terza parte del settimo grado ancor dimostrata non sia, qui essendosi in sulla sua interna stremità, alcuna significazione dell’ottavo grado figurando si prende, gittandovisi alcuna cintura per segno, per lo quale alcuno abito di froda in lussuriosa operazione si considera, a dimostrare che ne’ frodolenti vizij sanza alcuno segno di froda intrar non si possa, si come il simile che al simile si palesa; per lo quale segno, figurativamente, in su la frodolente forma ritorna come nel libro qui e nelle seguenti chiose di lei si contiene.

NOTE:

[23] Le due sue opere: Il Tesoro e Il Tesoretto.

Comincia il XVII Capitolo

Ecco la fiera colla coda aguzza
Che passa i monti, rompe muri e arme
Ecco colei che tutto il mondo apuzza

IN questo cominciamento la fiera forma dell’umana froda, figurativamente, così si dimostra, la cui qualità ne’ seguenti due gradi permane, figurandola con umana figura a dimostrare che il principio della froda sia di giusta e benigna apparenza, e con busto di serpente macchiato di molti colori, a dimostrare il variato e ’l velenoso volere che in lei si contiene e ch’ell’abbia sua coda aguzza a dimostrare che finalmente sua operazione sia aguzza e mordente sempre in altrui offensione. La quale in due acute punte sua punta divide siccome per due modi finalmente offende, cioè con mezzo e sanza mezzo di fidanza, dicendo ch’ella passi muri e armi, a dimostrare che nulla da lei si difenda.

Com più color sommesse e sopraposte
Non fer ma’ drappo Tarteri nè Turchi
Nè furn tai tele per Aragnia imposte

❡ Per esempro di variati colori della sopra detta fiera qui di coloro che meglio tessendo colorano, a comparazione si ragiona, tra’ quali d’alcuna donna delle parti di Libia, nominata Aragnia, così si conchiude, la quale, secondo le favole d’Ovidio, si anticamente sue tele maravigliosamente sanza arte tesseva che con alcuna idea di sapienza, nominata Pallas, alcuna volta a provare si produsse, con la quale finalmente cotal prova perdette, per la quale arroganza la detta idea un ragnatelo diventare la fece, dalla quale poi tutti gli altri così nominati discesoro. La cui allegoria in cotal modo s’intende che sempre ogni sottile intelletto e operazione contro all’ordinato senno dell’arte perdente rimane.

Come talvolta stanno a riva i burchi,
Che parte sono in acqua e parte in terra,
E come là tra gli Tedeschi lurchi
Lo bivero s’assetta a far sua guerra

❡ Ancora per assempro del suo figurato permanere in su l’orlo del grado presente e parte nel vano che sopra l’ottavo permane, qui della qualità d’alcuno animale, nominato bivero, così si ragiona, che nelle lagune della Magna naturalmente stando e vivendo di pesci, alcuna stagione dell’anno, così a sua pastura s’acconcia, essendo di grandezza e di forma come faina, ed avendo la coda formata di pescie, la quale con tanta grassezza permane, che, stando alla riva, e percotendola nell’acque, scandelle come d’olio per l’acqua rimagnono, alle quali i pesci traendo, da lui finalmente son presi.

Per gli occhi fuori scoppiavan lor duolo;
Di qua, di là soccorrien colle mani
Quando a’ vapori, e quando al caldo suolo

❡ Essendosi dimostrate le due qualità della terza presente parte del settimo grado, cioè di quella che giace, e di quella che in andando non passa, qui la sua terza ultimamente, sedendo a tale pena si truova, la quale di coloro si considera che in arte contra natura procedono, i quali usurari volgarmente s’appellano. E perchè in alcuna chiosa dell’undecimo canto cotale offensione disaminata permane, però solamente qui al loro essere così si procede, figurandogli nella detta rena sedere con certe borse al collo di lor segni notate, a significare il rinsedio dell’animo loro, che solamente a la moneta rimira, offendendo a Dio in ciò, come di sopra si conta, tra’ quali per conoscenza di loro detti segni, d’alquante case e uomini speciali qui si ragiona, incominciandosi in prima a Gianfigliazzi di Firenze per la borsa gialla con un leone azzurro, che per loro arme si contiene. E seguentemente per la rossa con l’oca bianca gli Obriachi della detta terra. E per la bianca con una troia azzurra gli Scofrigni di Padova, pronunziando per cotal colpa l’esser co’ loro alcun suo vicino, nominato messer Vitaliano dal Dente di Padova, e simigliantemente un altro cavaliere fiorentino, nominato messer Gianni Buiamonte, nominandolo per suo segno che tre becchi neri nel campo giallo si contiene; e così dimostrato il settimo grado nell’ottavo oggimai si procede.

Omai si scende per sì fatte scale:
Monta dinanzi; ch’io vogli’ esser mezzo
Sicchè la coda non possa far male.

❡ Essendosi generalmente tutte le qualitadi del settimo grado vedute, qui alla dimostrazione dell’ottavo principalmente si scende, figurandosi sopra la detta fiera, come nel presente testo si conta, a dimostrare che solamente con la froda la froda si possa cercare, come nelle sopra scritte chiose si contiene, e che Virgilio, cioè la ragione umana, in mezzo tra ’l capo e la coda si contegna, a dimostrare che dove il senno è mezzo tra cotal fine e altrui, avvedendosene che niente operando danneggia. La qual così figurata Gierion si chiama a derivazione d’alcun re delle parti d’occidente così nominato, il quale, secondo che per Virgilio in alcuno luogo si tratta, fu il più frodolente uomo che mai la natura formasse, conoscendo nel suo reggimento impressione di tre qualitadi, cioè umana e di serpente e di scorpione, la cui significazione assai chiaramente di sopra si contano.

Maggior paura non credo che fosse,
Quando Fetonte abandonò gli freni,
Per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse

❡ Per similitudine della paura di cotale scendere, alcuna favola poetica d’un figliuol del Sole, nominato Fetonte qui ragionando si conta, la quale in cotali modo permane: che alcuna volta scherzando, si come fanciullo tra gli altri fanciulli, il detto Fetonte, detto gli fu che figliuolo, come si tenea del Sole, non era, ond’egli adirato, alla madre sua, nominata Elimine per certificarsi di ciò a domandarlane corse. La quale certificandolone per più pruova di ciò, verso il padre in oriente lo ’ndusse, dicendogli che per similitudine di sè e di lui assai certo sarebbe. Ond’egli nell’oriente giunto, di ciò il padre suo, cioè il Sole, di tal tema domandò. La cui risponsione certamente nel sì si stesse, proferendogli liberamente come a figliuolo ciò che volesse. Per la quale promessa il detto Fetonte, per provarlo, cotal grazia gli chiese, che solamente un dì il suo carro gli lasciasse guidare; di che il Sole molto nell’animo suo fu crucioso. Ma perchè promesso gli avea, la sua domanda gli attenne, ammaestrandolo della via che col carro dovesse tenere, e come di cavalli tegnendo gli freni si reggesse, il quale essendo mosso, e sotto il segno del celestiale scorpione ritrovandosi, di lui tanta paura comprese, che i freni de’ suoi detti cavalli abbandonati dimise, i quali, non sentendosi avere guida, fuori della detta strada trascorrendo si misero. Per cui il cielo, come nella sua galassia si vide, così si ricosse, e simigliantemente ardendo la terra, a pregare l’alto Jove s’indusse, il quale per liberare lei e il cielo, d’una saetta folgore il percosse, per la quale nel maggior fiume d’Italia, cioè nel Po, morto finalmente cadde. La cui allegoria in cotal modo permane, che male al padre e al figliuolo avegna, quando ogni voglia del figliuolo si consenta, e così la temenza del presente testo figurando si conta.

Nè quando Icaro misero le reni
Sentì spennar per la scaldata cera,
Gridando il padre a lui: mala via tieni

❡ Ancora simigliantemente, per assempro della detta temenza, qui d’alcuno altro di Puglia, nominato Icaro, figliuolo di Dedalo a ricordamento si toglie, il quale essendo col padre nell’isola di Creta apposta del buon re Minos e non possendosi partire, essendo dal detto re col detto Dedalo per sua eccellenza d’ingegno costretto, sanza arbitrio di partirsi da lui, cioè dell’isola, così eran tenuti. Il quale disiderando di sè libertade, e non trovando chi per mare il levasse, a sè e al detto Icaro alie di penne con ingegno conpuose, ammaestrandolo, che dietro a lui, nè più alto, nè più basso di lui, volando, tenesse, assegniandogli ragioni, che, se più alto volasse, che la caldezza del sole gli stempererebbe l’impegolata cera delle penne; e se più basso, che l’umido della marina l’aggraverebbe. Ond’ei movendosi per passare il mare, tra Creta e Puglia, ed essendosi in aria volando levati, e sentendosi Icaro in su l’ali leggiero oltre il comandamento del padre in alto si mise, gridandogli il padre che dietro a lui non così alto volando tenesse. Per la qual sopra detta cagione, nella marina finalmente cadde; quinci l’exempro presente procede, la cui allegoria brevemente così si contiene, che finalmente ciascuno figliuolo fuor dell’ammaestramento del padre operando, in suo danno procede.

Comincia il XVIII Capitolo

Logo in inferno detto Malabolge
Tinto
[24]
di pietra e di color ferrigno
Come la cerchia che d’intorno il volge

SICCOME nel proemio delle presenti chiose e nell’undecimo canto si contiene, l’ottavo infernal grado, nel quale qui a proceder si comincia, in dieci parti, cioè qualitadi ordinate e distinte si divide, siccome per dieci modi la semplice froda, cioè quella che fidanza non rompe operando, si porge, la quale, come detto in questo presente grado figurativamente, così si contiene, che in dieci gran fosse, circustante l’una nell’altra, il suo spazio diviso si piglia, nel cui mezzo il vano del nono grado permanga. Le quali, figurativamente, bolge si chiamano, cioè luoghi per sè determinati sotto una generale qualità, nelle quali, secondo la gravezza del peccato, di lor modi d’una in altra ordinatamente si procede. ¶ Alle quali incominciando in questo canto, prima quella de’ ruffiani si dimostra, nella quale, figurativamente, con contrario andamento d’anime si pone, a dimostrare che due modi contradi la froda e lo ’nganno contra le femmine operata si segnia, cioè per suo propio diletto, o per altrui, per amistà, o per guadagno promesso, e che de’ certi diavoli isforzati sieno a significare i lor disii, da’ quali continovamente nelle operazioni spronati sono, tra quali per simiglianti nelle seguenti chiose d’alquanti si fa menzione.

Io fu’ colui che la Ghisola bella
Condussi a far la voglia del marchese
Come che suoni la sconcia novella

❡ Per l’una qualità della presente colpa, qui d’alcuno cavaliere bolognese, nominato Messer Vinedico di Caccianimisi si ragiona, il quale, per certa quantità di moneta, la serocchia carnale alla voglia del marchese Obizo da Este carnalmente condusse; e per dimostrare che Bologna, più ch’altra terra di tal vizio più sia corrotta, di ciò favellando così si ragiona, prendendo per segno di lei il sito suo tra due fiumi, cioè tra Savena e Reno, e simigliantemente per alcuno suo vocabolo che sipa[25] favellando producano.

Il buon maestro, sanza mia domanda,
Mi disse: guarda quel grande, che viene,
E per dolor non par lagrime spanda

❡ Dell’altra qualità della presente bolgia, qui di Jansone, figliuolo de’ re Ysion, e fratello del re Pelleo di Grecia si ragiona, la cui storia in cotal modo permane: che regnando il detto re Pelleo colla corona di Grecia, e sentendo appresso di sè Jansone suo fratello, di valoroso e magnanimo cuore, con gran temenza che non gli togliesse il dominio di lui dimorava; per la qual cosa con intenzione di farlo morire nelle parti di Chochia, a conquistare un certo montone d’oro, con certa cavalleria cavalcar lo fece, il quale, essendo giunto nella detta parte, e proveduto alla guardia del detto montone, la quale era un aspro dragone, i cui denti prima si dovieno avere che ’l montone, e in un certo giardino seminarli con salvatici buoi, de quali denti doveano cavalieri nascere, co’ quali si conquista il Montone, come ciò potesse fornire, e nol sapiendo, dimorando pensava. Nella quale dimora, alcuna figliuola de’ re di Chocia, nominata Medea, siccome vaga di lui, promettendo gli disse che, se per moglie la togliesse, che il modo d’acquistarlo gl’insegnerebbe. Ond’egli il suo volere accettando, per suo ammaestramento arando e seminando, come di sopra si conta, così fece; con la qual Medea, e col montone, nelle sue parti vittorioso tornossi. Nelle quali dimorato alcuno tempo, Medea sua moglie, siccome iscienziata persona delle sette arti, alla vecchiezza del suocero suo, cioè di Yxion, procurando provide, facendo alcuna acqua da ringiovanire, al quale le sue vene aprendogli e della detta acqua rimettendoglivi in giovane prosperità lui produsse. La qual cosa le figliuole del re Pelleo veggiendo, graziosamente per lo padre cotal medicina le chiesero. Ond’ella, maliziosamente, acciò ch’ei morisse, perchè a Giasone procedesse i’ reame, il sopra detto modo con altra acqua insegnando compuose; colla qual medicina, credendosi far bene al padre, dormendo tagliaron le veni, rimettendovi la maliziosa acqua detta, per la quale il detto re Pelleo finalmente morto rimase, a Jasone la signoria del reame, colla quale signoria permanendo, lasciando Medea, un’altra moglie riprese; per lo qual dolore ella celatamente due suoi figliuoli in alcuno convito mangiare gli fece, per lo quale inganno parte di suo dovere qui della presente bolgia si segue.

Ivi con segni e com parole ornate
Ysifile ingannò, la giovinetta
Che prima avea tutte l’altre ingannate

❡ Ancora del detto Iasone d’un altro ingannato simigliantemente così si ragiona, che, andando nel sopra detto paese di Chochia ad alcuna isola di mare, nominata Lenno, pervenne, della quale, secondo i poeti, tutte le femmine con saramento insieme d’uccidere tutti i loro maschi, per alcuno odio ch’era tra loro e loro, fermamente si proposero. Per lo quale, sentendo i’ re della detta isola la notte che ciò si faceva, il lamento e ’l pianto che de’ suoi medesimi ciascuna faceva, a sua figliuola, nominata Isifile, domandamento ne fece, la quale rispondendogli la continenza giurata gli disse, e simigliantemente che della terra, cioè dell’isola incontanente si dovesse partire, però che a lei il cuore non sofferìa, come all’altre d’ucciderlo. Per la quale, partita l’altre da lei in cotal modo, ricevettero inganno. E così sole per alcun tempo stando, il detto Jiasone, come è detto di sopra, quivi ad esse pervenne, nella quale per pugna d’assedio con certi compagni, a patti finalmente fu messo, dove colla reina delle dette femmine, nominata Isifile, a stare carnalmente si mise, promettendole che nella sua tornata nelle sue parti la menerebbe. E così gravida di lui, nel detto luogo, sanza tornarvi mai, vi rimase. Per lo quale inganno simigliantemente qui si concede.

Quindi sentimo giente, così nicchia
[26]
Nell’altra bolgia, che col muso isbuffa
E sè medesma colle palme picchia

❡ Veduta la qualità della prima bolgia, qui nella seconda si procede, nella quale la frodolente qualità di lusinghieri così si conchiude, che, si come da vilisimo intelletto allusingar dipende confessando altrui così nel male come nel bene a ben piacere per effetto d’alcuna utilità, così nel male per lo fastidio che di ciò nella mente si sostenne, figurativamente qui in alcuna bruttura di sterco sommessi, tra’ quali un cavaliere di Lucca nominato messer Alesso Intermintelli per simigliante si trova.

Taide la puttana che rispose
Al drudo suo quando disse: ò io grazie
Grandi apoi te: anzi maravigliose

❡ Ancora per simigliante della presente qualità, secondo che per Terenzio in alcuna sua comedia si tratta, d’una femmina nominata Taide così si ragiona: che tra l’altre sue lusinghe alcuna volta, essendo d’alcuno uomo amata, mostrando d’amare lui, e niente l’amava, ritraendo con lusinghe da lui assai frutto, ed essendo da lui domandata se mai grazie da lei aspettando le avesse, rispose di sì, e che maravigliose sarebbono, per le quali qui così si concede.

NOTE:

[24] La volgata tutto.[25] L si fa, ma la lettera f non ha la forma solita. P 313 sipa.[26] La volgata che si nicchia.

Comincia il XIX Capitolo

O Simon mago, o miseri seguaci
Che le cose di Dio, che di bontade
Deono essere ispose e voi rapaci

PROCEDENDOSI nelle frodolenti colpe, qui in questo cominciamento del capitolo, quella della terza bolgia si dimostra, cioè il vendere e il conperare gli spirituali e celestiali benefici, il quale per cotal principio simonia propiamente si chiama. Che essendo San Piero dietro a la passione di Cristo pastore e principe dello spiritual ufficio, e spezialmente degli apostoli suoi, alcuno nominato Simone mago, perch’era arte magico, della grazia di Cristo gli chiese, cioè che gli facesse de suoi apostoli, promettendogli che della sua ricchezza assai gli darebbe. Per la quale domanda, non potendosi per danari comperare, lui maladisse e chi il simigliante facesse, dal quale poi, si come principale, cotale operazione simonia ne’ seguenti s’appella, tra quali d’alcuno per simigliante nelle seguenti chiose si conta. La cui forma, figurativamente, in cotal modo permane, che col capo di sotto piantato in certe ritonde buche ciascuno cotale operante permagna, le cui piante de’ piedi sieno accese di fuoco, a dimostrare il ritroso loro effetto, sommettendo lo spirituale dovere della misericordia alle terrestre e temporali ricchezze, che si come per loro la parte spirituale superiore nell’animo è sottomessa, e l’inferiore terrestra sopra posta, così la superna umana lor parte, cioè il capo qui nella terrestra piantato di sotto si pone, e ’l calore celestiale della carità di sopra alle lor piante, come di sotto da loro è tenuto, e così figurata la presente bolgia si segue.

E veramente fui figliuol dell’Orsa
Cupido sì, per avanzar gli orsatti,
Che su l’avere e qui mi misi in borsa

❡ Per simigliante della presente qualità, qui d’alcun papa di Roma degli Orsini nominato Nicolaio si ragiona, il quale per sua cupidezza, veramente figliuolo dell’orsa si come d’animal cupidissimo si figura, col quale di molte cose di suoi successori si ragiona, come nel presente testo si contiene, rammentandogli l’ardire, che per suo male aquisto di sua moneta il Re Carlo di Francia aparentando richiese, per lo quale sdegno non avendo il detto Re, a ciò consentito, la Cicilia con suoi trattamenti e altre terre assai finalmente perdere gli fece.

Nuovo Giason sarà, di cui si legge
Ne’ Maccabei: e come a quel fu molle
Suo re cosi fia lui chi Francia regge

❡ Tra l’altre cose qui per papa Niccolao si ragiona di papa Clemente di Guascogna, abominandolo in cotal modo procede; assomigliandolo ad alcuno del popolo isdraello, nominato Giasone, il quale, secondo che di lui nel libro de’ Maccabei si contiene, ad Antioco che dell’ufficio temporale allora era signore, lo spirituale dominio chiese, prometendogli di tale uficio, secondo sua voglia, osservare. Ond’egli, al male operare leno, affermando cotale domanda. Seguente cotale simigliante il re di Francia s’intende dal detto papa Clemente richiesto. Per la quale simonia rinproverando, essenpro di san Piero, e degli altri apostoli così si produce. I quali nel luogo dell’anima ria, cioè di Giuda, per danari san Mattia non rimisero, come al presente il contrario si vede.

Di voi, pastor, s’accorse il vangelista,
Quando colei che siede sopra l’acque
Puttaneggiar co’ regi a lui fu vista

❡ Approvandosi ancora le dette operazione contr’a moderni pastori, la visione dell’Apocalisse di san Giovanni qui nel presente per loro così si dispone che quella che colle sette teste nacque, cioè colle sette virtudi, per la quale la chiesa di Cristo s’intende, e delle dieci corna ebbe argomento, cioè da dieci comandamenti che Dio a Moisè diede, formandone due in ciascuna delle tre, cioè a fede, a speranza e a carità, e una singolarmente all’altre, cioè a prudenza, a continenza, e a magniminitade si come nella essenza di ciascuna, dopo i singolari sono tenuti. Puttanegiare co’ regi a lui fu vista sopra l’acque, cioè sopra le mondane operazioni permanendo: la cui significazione apertamente per colpa de’ moderni pastori nel suo vero si vede.

Comincia il XX Capitolo

Di nuova pena mi convien far versi
E dar materia al ventesimo canto
Della prima canzon, ch’è d’i sommersi

PROCEDENDOSI la gravezza della presente froda della quarta bolgia, cioè qualità di lei, in questo ventesimo canto della prima canzon de’ sommersi, cioè di questo primo libro infernale, così si contiene, dimostrandosi in lei figurativamente l’operazion di coloro, che per diversi isperimenti e impossibili fatture in altrui con inganno producono, per la quale co’ ritroso viso e andamento in lei si figurano a dimostrare la ritrosa e impossibile operazione di loro contraria al dovere dell’umana Natura, si come di indovini e d’arte magici e di simiglianti di loro, tra’ quali per più conoscenza d’alquanti, per simigliante effetto nelle seguenti chiose si contano.

Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
S’aperse agli occhi d’i Teban la terra
Per che gridavan tutti: dove rui

❡ Anticamente, per usanza, ciascuna terra e provincia, alcuno arte magico a suo producimento tenea, tra’ quali Amfiarao coi Greci così si produsse che, secondo che per Stazio si scrive nel suo Tebaidos di Teocle e di Polinice fratello del re di Tebe, dovendo con determinato ordine tra loro a parte di tempo ciascuno i’ reggimento tenere, reggendo Teocle, finalmente la signoria comune a Polinice disdisse. Per la qual cosa il detto Polinice con l’ammaestramento di Amfiarao intorno alla città di Tebe con grande esercito ad assedio finalmente si pose, nel quale, essendo il detto Amfiarao, secondo usanza, personalmente sopra un suo carro, la terra di sotto lui rovinando in abisso s’aperse; di che ciascuno Tebano veggendolo con grande allegrezza, contra a lui isgridava; per le cui operazioni qui si concede.

Vidi Tiresia che mutò sembiante
Quando di maschio femmina divenne
Cambiandosi le membra tutte quante

❡ Tiresia fu greco e aguro, cioè arte magico di Tebe, il quale, secondo le favole poetiche, alcuna volta veggendo due serpenti congiunti a generare con una verga ispartendo gli percosse, di che egli incontanente di maschio femina divenne. ¶ Onde lamentandosi poi alcun tempo agli Dii di cotale avenimento, da loro per rimedio in cotal modo fu ammaestrato, che una altra volta con la verga ispartire gli dovesse. Il quale così nel primo modo facendo nel suo primo virile stato divenne; per la quale trasformazione da Giove e da Giunone sua moglie ancor favoleggiando, alcuna volta così fu richiesto, ed essendo l’un coll’altro del diletto carnale in tencione, dicendo Giove che la femmina più che l’uomo di ciò diletto prendea, e Giunone il contrario, e non trovando ragionevolmente chi determinarlo potesse, a lui, perchè maschio e femmina era istato l’uno e l’altro finalmente per tal sentenza si mise; per la quale essendo data contra a Giunone, ella, per vendetta, si come Idea, il detto Tiresia del lume degli occhi incontanente dispose, il quale non possendone da Giove essere atato, perchè, com’egli era, Idea, per grazia e per guiderdone di lui, arte magico incontanente divenne. La cui allegoria per troppo digresso qui immaginando si pensi.

Aronta è que’ ch’al ventre gli s’atterga
Che ne’ monti di Luni dove ronca
Lo carrarese che di sotto alberga

❡ Ancora per simigliante della presente qualità d’alcuno arte magico di Roma, cioè aguro, qui si ragiona, il quale per esser più destro alla scoperta vista della marina e delle stelle, come a cotale arte bisogna, per sua dimora l’alpestra Montagna marmorea di Luni elesse.

E quella che ricuopre le mammelle
Che tu non vedi colle treccie sciolte
E à di là ogni pilosa pelle

❡ Simigliantemente d’alcuna donna, figliuola del detto Tiresia nominato qui si ragiona, la quale, essendo il suo padre morto, e veggendo serva la città di Bacco, cioè Tebe, per lo mondo ciercando e fuggendo ogni carnale essere umano, per molte provincie trascorse; tra le quali, finalmente, in alcuna parte d’Italia, Lonbardia nominata, per sua dimora si pose. Nel quale stando e operando sue arti magiche, di che ella come ’l padre era isperta, alcuna gente a lei circunstante con lei si raccolse, incominciando la terra che al presente Mantova si chiama, il cui principio e processo assai chiaro qui nel libro procede. ¶ Ma per meglio intendere, come la detta sua patria serva divenne, cioè Tebe, qui cotal modo si conta che, secondo che per ..... si conta e sonvesi, essendosi in sul campo morti Teocle e Polinice, con molti di ciascuna parte seguaci dalla detta terra, alcuno suo cittadino nominato ..... per sua forza si fece signore, il quale con tanta crudeltà la reggea, che i corpi morti della detta battaglia, per dispetto, secondo l’usanza arder nelle pire, cioè ne’ costumati fuochi, per sepultura di loro no lasciava. Per lo quale disdegno, le donne della detta terra al buon duca d’Atene, cioè a Teseo, ad andare si misero, dinanzi al quale pregando, proposero che di lor terra la signoria gli piacesse, deponendo il sopra detto crudele. Ond’egli il lor prego accettando, con grandissimo esercito alla detta terra pervenne, la quale, per ordinata battaglia di campo, finalmente prese, e in ordinato tributo la sottomise alla patria sua, cioè ad Atene, e così di libera la città di Tebe serva divenne.

Già fur le gienti sue dentro più spesse
Prima che la mattia di Casalodi
[27]
Da Pinamonte inganno ricevesse

❡ Vogliendosi dimostrare che la detta terra di Mantova già di più abitanti fosse che ’l presente non mostra, del cominciamento di sua briga qui si ragiona, cioè d’un cavaliere della detta terra, nominato messer Pinamonte d’i Bonacosi, il quale signoreggiandola con gli uomini di sua schiatta, per esser solo a dominio, cacciando gli uomini di sua casa, ad un’altra schiatta grande della terra, nominata casa Lodi, parteggiando si prese. Colla quale i detti suoi consorti di fuori della terra cacciati produsse. E simigliantemente poi esendosi imparentato con loro, agli uomini della detta casa Lodi cotal volta fece; per la quale impresa grandissimo abbassamento di cittadini procedendo si segue.

Euripilo ebbe nome e così ’l canta
L’alta mia tragiedia in alcun luogo
Be’ sai tu che la sai tutta quanta

❡ Procedendo ne’ simiglianti qui d’alcun altro della presente qualità auguro e arte magico di Greci, nominato Euripilo, ancora si ragiona, il quale essendo grandissimo esercito del re Menelao di Grecia apparecchiato per passare a Troia, vogliendo del muovere il buon punto eleggere, cotal sacrificio ad alcuna Idea nominata Diana in prima propose che più bello animale che vivesse a lei sacrificandosi dovesse morire. La qual sentenza finalmente sopra Figenia figliuola del detto re Menelao, bellissima, accadde. E fatto cotal sacrificio in alcuna terra marina di Grecia, nominata Aulide, con alcuno altro auguro, nominato Calcanta, il punto della mossa del navilio generalmente provide, tagliando in prima del principal legno la legata sua fune, per cui immantinente tutti gli altri il simigliante seguirono, procedendosi della detta impresa di Troia finalmente vittoria, come nelle sue istorie si conta.

Quell’altro che ne’ fianchi è così poco
Michele Ascotto fu, che veramente
Delle magiche frode seppe il gioco

❡ Dimostrati i sopra detti antichi, qui d’alquanti moderni in simigliante qualità si ragiona, e principalmente d’un di Scozia, nominato Maestro Michele, il quale di cotal maestria fu molto eccellente; e seguentemente d’un altro da Forli di Romagna, nominato Guido Bonatti, il quale, col conte Guido vecchio da Montefeltro, così operando, lungo tempo vettorioso si resse, ed ancora d’un altro da Parma di Lombardia, nominato Asdente, finalmente così conchiude, al quale, essendo calzolaio, per simigliante cagione molta gente grossa già corse.

Ma vienne omai che già tien nel confine
D’amendue gli emisperij e tocca l’onda
Sotto Sobilla, Caino e le spine

❡ Vogliendosi dimostrare l’ora della notte presente, colla quale per tutto l’inferno, figurativamente si procede in cotale modo, significando si prende, assegniandosi, che la luna alcuna cosa iscema[ndo],[28] presso fosse a l’occidentale orizonte di Gerusalem, il quale le parti di Sobilla s’intende, per la quale si segue che nell’opposito suo orientale giae il sole s’appressasse, cioè nel mattutino. Onde per proceder tutta la viziosa qualità sanza mediata luce in oscurità di tempo, sentendosi così surgere la luce del die, così, figurativamente qui ragionando s’affretta.

NOTE:

[27] Il codice nostro legge Casa Lodi.[28] V. P. sciemando.

Comincia il XXI Capitolo

Così di ponte in ponte altro parlando
Che la mia comedia cantar non cura,
Venimmo e tenevamo il colmo quando

DELLA qualità di coloro che frodolentemente in parole e in fatti rivendono altrui, la quale volgarmente baratteria si chiama, qui in questo capitolo nel suo rimedio, cioè nella quinta bolgia, sua continenza, figurativamente così si concede, che si come ella è accostante e attegniente il loro ardente affetto per l’aquistar, che ne segue, così in alcuna bogliente pegola qui figurativamente si pone, nella quale copertamente ciascun suo operante dimori, a significare la coperta e occulta frodolente operazione di loro, e ch’ella sia di color nero, a dimostrare la oscurità del frodolente vizio, e che da molti diavoli sia guardata acciò che di lei nessuno si discuopra, a significare i molti e diversi pensieri e voglie di loro, dalle quali nella presente operazione mantenuti e prodotti sono. Tra’ quali, per exempro degli altri, d’alcuno nelle seguenti chiose si conta.

A quella terra che n’è ben fornita
Ogn’uom v’è baratier fuor che Bonturo
Del no per gli danar vi si fa ita

❡ Qui d’alcuno cittadino di Lucca nominato Bonturo, cosi si ragiona, il quale essendo ricco mercatante, per guadagnare nel presente modo comune l’esser mercatantesco dimise.

E così vid’io già temer i fanti
Che uscivan pattegiati di Caprona
Vedendo sè tra nimici cotanti

❡ Alcuna tenuta del contado di Pisa, nominata Caprona, per alcun tempo per Fiorentini a patti si prese, securando le persone de’ fanti che tenuta l’aveano, della quale, fidati, partendosi, e veggendosi tra tanti nimici, ciascuno ne’ sembianti temenza mostrava, la quale per assempro della presente qui figurativamente si piglia, veggiendo gli atti e la moltitudine di figurati presenti demoni.

Ier cinque ore più oltre ch’a quest’otta
Mille dugiento con sessanta sei
Anni compie che qui la via fu rotta

❡ Per dimostrare il dì del cominciamento del presente cammino, in quel della passion di Cristo, così si conchiude; il quale fu, come nelle prime chiose si conta, nel mezzo marzo, intrante il sole in Ariete nella indizione del mille treciento, che così essere si segue, essendo presso al dì con cinque ore più oltre passando; per lo quale incominciamento di venerdì santo, figurativamente si ritrae l’esser tratto di lui della morta oscurità di vizij e prodotto nella chiara vita dell’umana felicità, si come per la morte e resurrezione di Cristo l’umana generazione di morte in vita divenne. ¶ Per la quale ressurrezione qui della bolgia seguente, cioè della epocrisia, d’alcuna sua rovina, vogliendo di così fatta colpa la propietà dimostrare, così si ragiona. Cioè, che per lei dalla passata alla seguente usanza, cotal colpa si dipartisse, si come per più propio processo, di lei, come in alcuna chiosa dell’undecimo canto pasato si canta; e simigliantemente per dimostrare che sanza sensibile introducimento di lei, si come d’alcune altre passate e seguenti, propiamente non si possa chiarire, la cui forma e allegoria nel suo canto pienamente procede.

Comincia il XXII Capitolo

Io vidi cavalier già muover campo
E cominciare istormo e far lor mostra
E tal volta partir per loro iscampo

NEL cominciamento di questo capitolo, procedendosi nella sopra detta colpa, alcune similitudini a’ sopra detti suoi diavoli si propongono, per le quali il processo e il modo di così fatti voleri chiaramente s’intende, seguitando poi per tutto il canto l’essere di tale condizione con essempro di certi, che nelle seguenti chiose per cotal colpa son conti.

Lo duca mio gli s’accostò a lato
Domandollo onde fosse, e quei rispuose:
Io fui del regno di Navarra nato

❡ Qui per l’autore, favoleggiando d’alcun di Navarra, nella presente colpa si conta, a dimostrare che bello e utole sia in ciascuna condizione, quando bisognasse di sapere, ragionando, così compilare col quale di molti altri, che veramente di cotale qualità si vestirono introducendo ragiona come giù si contiene.

Chi fu colui, da cui mala partita
Di’ che faciesti per venire a proda?
E que’ rispuose: fu frate Gomita

❡ Frate Gomita fu alcuno di Sardegna, vicario e fattore del giudice Nino di Galura, il quale, avendo di suo donno[29] cioè di suo signore, alquanti nemici presi, per certa quantità di danari ricievuti da loro, gli dimise, per lo quale fallo, e per più altri, finalmente il detto suo signore per la gola impiccare lo fece.

Usa con esso donno Michel Zanche
Di Logodoro; e a dire di Sardigna
Le lingue lor non si senton stanche.

❡ Donno Michel Zanche fu alcuno altro dell’isola di Sardigna e d’una parte, che Logodoro si chiama; il quale, essendo fattore della madre del re Enzo, figliuolo dello ’mperadore Federigo, per sue rivenderìe in tanta ricchezza divenne, che dietro alla morte della detta donna, giudice, cioè signiore, del detto paese si fece; per le quali colpe così figurativamente qui si contiene.

NOTE:

[29] Varianti dopno.

Comincia il XXIII Capitolo

Taciti soli sanza compagnia
N’andavan l’un dinanzi a l’altro dopo
Come frati minor vanno per via

DIPARTENDOSI dalla quinta bolgia, cioè qualità, la sesta in questo canto compiutamente si conchiude, cioè di coloro in cui all’onesta appresenza l’operazione non si segue, che volgarmente ipocrisia si chiama ab ipos quod e[st] supra et cresis quod e[st] aurum, cioè sopra dorata qualità non perfetta, la cui condizione qui così si figura, che così fatta gente in questa bolgia, cioè qualità, con gravissimi incappucciati amanti[30] di piombo sopra dorati, lamentandosi movea, a significare la chiarezza dell’onesto spirituale colore di fuori, falsato dentro dalla gravezza del peccato, tra’ quali d’alquanti, per exempro nelle seguenti chiose si conta.

Di fuor dorate son sì ch’egli abbaglia,
E dentro è piombo tutto e gravi tanto
Che Federigo le mettea di paglia

❡ Per comparazione della gravezza di cotali amanti di peso di paglia qui quegli dello imperadore Federigo si fanno, i quali, anticamente, per lui si faceano, che, dovendosi alcun malfattore giustiziare, così vestito di piombo in certo vaso era messo, di sotto al quale facendovisi fuoco, fondendo moriva.

Frati Godenti fummo, e Bolognesi,
Io Catalano e questi Loderingo
Nomati fummo e da tua terra presi

❡ Per conservamento d’alcuna pace che tra’ Ghibellini e Guelfi di Firenze generalmente alcuna volta si fece, per due buoni uomeni cavalier godenti, di Bologna, l’un guelfo e l’altro ghibellino, per lo comune si richiese dando loro arbitrio e signoria, si come a potestà di ciascun reggimento, de’ quali per guelfo fu frate Catalano d’i Catalani, e per ghibellino frate Loderingo d’i Carbonesi di Bologna, per le cui operazioni falsamente per parte insieme disposte il detto frate Loderigo con suoi seguaci, dal frate Catalano di fuor di Firenze, si come rubello, fu cacciato. Onde gli Uberti, principalmente, si come ghibellini, di tutte lor case furono disfatti, come d’intorno al Guardingo di Firenze si vede, delle quali operazioni loro essere in questa presente qualità si concede.

Fra Catalano che di ciò s’accorse
Mi disse: quel confitto che tu miri
Consigliò i Farisei che convenia
Porre un uom per lo popolo a’ martiri

❡ Per questo così confitto Caifas si considera, il quale essendo sommo pontefice sotto spirituale amanto, i Farisei e’ sacerdoti a martoriare un uomo per [la] salute del popolo produsse, il qual martirio e morte in Cristo pervenne. Per la qual colpa, si come principio di lei e maggiore, qui così figurativamente rovesciato e confitto si pone, sostegnendo sopra se il processo di lui e simigliantemente Anna suo suocero con gli altri che tal concilio fermarono s’intende.

NOTE:

[30] ammanti.

Comincia il XXIV Capitolo

In quella parte del giovinetto anno
Ch’el sole i crin sotto l’acquario tempra
E già le notti a mezzo dì sen vanno

PRINCIPALMENTE nel cominciamento di questo capitolo a comperazione d’alcun sopradetto sembiante in alcun villano per simigliante così si conchiude, che nel giovinetto anno, cioè nel tempo che poco del suo cominciamento sia corso, siccome di febbraio, per le notturne brinate, così si lamenti, delle quali poco dura il sembiante per la vertù del sole, che già sotto l’Acquario tornando, verso la state col freddo emisperio si tempra; per lo quale si segue l’ombra della terra, cioè la notte in verso la meridionale parte cadere per l’opposito suo ch’a tramontana ritorna. E provedendosi poi dietro alla detta comperazione la qualità di coloro che furtivamente alla froda si danno, siccome ladroni, la cui continenza e allegoria nelle seguenti chiose del presente canto si mostra.

Tra questa cruda e tristissima copia
Correvan gienti ignude spaventate
Sanza spettar pertugio o ellitropia

❡ Veduta la qualità della sopradetta sesta bolgia, qui della settima, cioè di ladroni così si ragiona, e che da molti e diversi serpenti sia stimolata e trafitta, a significare, molti e diversi pensieri di coloro che di tale qualità sono operanti, colle quali serpi le mani dietro abbian legate, passando il capo e la coda per le reni, e dinanzi dal petto sè stesse annodate, a dimostrare che le dette tentazioni e pensieri affettuosamente per lo cuor loro trapassino, per la cui contraria operazione figurativamente le mani sono legate nel contrario di loro. La quale qualità per tre modi qui operata si pone. Delle quali la prima è di coloro che, non essendo continuamente di cotal vizio abituati, sanza alcun determinamento del si o del no abbattendosi acciò di subito il fanno, vergognandosi poi, e pentendosi dietro alla commessa operazione. ¶ Il secondo è di quegli che naturalmente e continuamente con diletto abituati ne sono. ¶ E ’l terzo, di coloro s’intende che no continuamente di ciò abituati con diterminato volere del si o del no, alcuna volta veggendosi il destro, con diletto si conducono a farlo. Le cui continenze ordinatamente nelle seguenti chiose figurativamente, partite si contegnono, seguitandosi di ciascuno di sua gravezza il dovere.


O

I
si tosto mai si scrisse
Com’ei s’accese e arse e in ciener tutto
Convenne che cascando divinisse

❡ Delle sopradette tre qualitadi di ladroni, qui la prima così si figura, cioè in quella che sanza diterminamento di si o di no, con pentimenti s’aopera che da certi serpenti i suoi operanti in sul collo sien morsi e trafitti e finalmente ardendo di loro forma disfatti, ritornandosi di subito in lor primo stato a significar la subita tentazione, che nel luogo diterminato dell’appetito all’operare gli trafigge, e che partendosi dal dovere ragionevole, l’uomo è di sua forma compressionata disfatto, dalla qual cosa pentendosene e ravveggendosene nell’esser di lei poi si ritorna; nella quale alcun per simigliante, come nelle seguenti chiose si conta, così figurato si trova.

Erba ne biada in sua vita non pascie,
Ma sol d’incenso e lagrime; d’amomo
E nardo e mirra son l’ultime fascie

❡ Per exempro della presente qualità così dell’uccel Finicie, qui a simigliante si conta, il quale, secondo le novelle de’ Savi, pare che solamente di lacrime, cioè di gomma d’incenso e d’amomo nel termine di cinquecento anni viva, revolvendosi poi sè medesimo in alcuna erba secca nominata nardo, da lui ragunata e con alcuna gomma d’albore, nominata mirra, sopra la quale sue ali battendo per lo moto di lor vento vivo fuoco nella detta erba sotto di lui s’accende, del quale, essendo arsa, la cenere in sè putrefacendosi, formandosi nel suo primo stato ritorna, la cui dimora nelle parti orientali d’India si crede.

Vita bestial mi piacque, non umana
Si come a mul ch’io fue; son Vanni Fucci
Bestia, e Pistoia mi fu degna tana

❡ Per simigliante qui d’alcuno Pistolese, nominato Vanni Fucci, così si ragiona, il quale, si come bastardo e reo alcuna volta i begli arredi e tesoro della sagrestia di Santo Jacopo di Pistoia a inbolar si mise, per lo quale furto finalmente alcuno altro, non colpevole, ne fu morto; dal quale, ragionando d’alcuna condizione di Firenze e di Pistoia che poi adivenne, così si predice, che alcuna setta di Pistoia, chiamata nera, da un altra nominata bianca, in prima alcuno oltraggio riceva, per lo quale oltraggio simigliantemente ne’ Fiorentini prodotto col cominciamento de’ marchesi Malispini di Val di Magra, cioè di Lunigiana, Marte, cioè pianeto producitore di guerre, sopra Campo Picceno, il quale sito Pistoia s’intende, scotendo sua piova produca, per la quale la parte nera ivi e in Firenze finalmente vittoriosa rimagna, e così, figurativamente, per lui nel mille treciento, cioè predicendosi, seguente poi adivienne.

Comincia il XXV Capitolo

Al fine delle sue parole il ladro
Le mani alzò con amendue le fiche,
Diciendo: togli Iddio, che a te le squadro

A dimostrare della superba e disperata ira del detto Vanni, propiamente così si figura, chiamandosi per lui verso la sua terra che per fuoco ardendo si risolva, da che pur in male operare il suo seme avanza. Il quale seme, cioè principio di lei si considera, che anticamente fosse Catellina Romano colla sua iniqua e disperata gente dietro alla fiesolana patria, secondo che nelle sue istorie si conta. Per le cui antiche maligne operazioni, i presenti suoi discendenti volgarmente così son tenuti approvandosi ancora per più crudele e disperato il sopradetto Vanni contro a Dio, che il re Capaneo, il quale, secondo che nelle chiose del quarto decimo canto passato si conta, dispregiando gli Dii sopra le mura di Tebe da una folgore caggiendo fu morto.

Lo mio maestro disse: questi è Caco
Che sotto il sasso di Mont’Aventino
Di sangue fecie spesse volte laco

❡ Siccome nelle chiose del duodecimo passato canto si conta, ciascuno avolterato dalla natura in appetito e abito bestiale, violente in altrui principalmente sopra gli altri centauro si chiama; onde con quella forma che figurativamente acciò si conviene qui in questa presente qualità d’alcuno nominato Caco siccome di centauro, così si ragiona, che trascorrendo figurativamente sopra se si porti molti e diversi serpenti, e specialmente un drago ardendo chiunque in lui si riscontri, per lo qual si considera l’ardente appetito pieno di malvagi pensieri che la mente altrui a cotale effetto produce e, per che la violenta sua froda occultamente per lui si fece, però co’ suoi fratelli, cioè co’ violenti sopradetti centauri non si concede, i quali sanza occulta froda violenza seguiro, come nel sopra detto capitolo si conta; la quale in cotal modo per lui fu usata, che, dimorando alcun tempo ad una sua tenuta in sul Tevero, nominata Monte Aventino, tra la marina e una terra, nominata Palantea, il cui sito al presente Roma si chiama, ispesse volte di persone e di bestie in alcuna caverna sotto il gran sasso che la rocca tenea, lago di sangue faceva, mangiando e vivendo occultamente di così fatta preda, e specialmente di quelle d’Ercole, il quale, tornando delle parti occidentali con grandisima preda di bestiame, avendo combattuto e sconfitto i’ re Gerione nella campagna del detto Monte Aventino, per pasturarlo alquanto tempo soggiornando ristette; di che Ercole avedendosi più volte che ’l suo armento iscemava, a guardarlo d’intorno si mise, e così alcuna volta a piè delle grotte di monte Aventino e intorno passando, per lo mughiare del bestiame, che nella detta caverna era nascosto, del suo gran furto s’avide; nella quale finalmente entrando e trovandovi Caco, con una mazza animosamente l’uccise.

Com’io tenea levato in lor le ciglia,
E un serpente con sei piè si lancia
Dinanzi all’uno, e tutto a lui si piglia

❡ Dimostrata la prima qualità di ladroni, qui la seconda figurativamente così si contiene, cioè di coloro che continuamente con diletto di cotal vizio abituati sono, facendogli da certi serpenti esser compresi, come nel libro qui apertamente si conta, a significare i loro primi abituati pensieri, da’ quali continuamente poi nell’operazione son guidati, tra’ quali, per notizia e assempro degli altri, d’alcuno Fiorentino, nominato Agniolo d’i Brunelleschi, qui cotal si ragiona, e simigliantemente d’un cavaliere della detta terra, nominato Ciamfa Donati.

E quella parte, onde prima è preso
Nostro alimento l’un di lor trafisse
Poi cadde giuso innanzi lui disteso

❡ Procedendosi alle sopradette due qualità di ladroni, della terza e dell’ultima, qui così si contiene, cioè di coloro che, non essendo naturalmente abituati, per caso d’alcuna cupidità con diterminato volere a cotale operazione si producono, figurandogli da certi serpenti esser trafitti nel luogo prima disposto al vitale nutrimento, cioè nel bellico e alterando lor forme, come qui chiaramente nel libro si legge. Per la quale figura allegoricamente considerar si dee, che, siccome principalmente nella creatura umana l’accidentale nudrimento per lo bellico si porge, così l’accidentale appetito ad operazione qui trafiggendo gli punga, e che siccome cotal pensiero dell’umana nazione gli diparte, così usando, trasformato l’uno nell’altro divegna; tra’ quali d’alquanti nelle infrascritte chiose si fa menzione.

Taccia Lucano omai là dove tocca
Del misero Sabellio e di Nasidio
Ed attenda a udir quel ch’or si scocca

❡ Vogliendosi dimostrare che per Lucano nè per Ovidio in alcune loro trasformazioni, non così propiamente, come nella presente si procedesse, verso di loro arditamente così si ragiona, le quali figura[te][31] in cotale modo ne’ sopradetti Nasidio e Sabellio per loro favoleggiando si contano, come nelle loro iscritture si contiene.

Ch’io non ne scorgessi ben Puccio Isciancato
L’altro era quel che sol di tre compagni
Che venner prima, non era mutato.
L’altro era quel che tu Gaville piagni

❡ Ancora di due Fiorentini per simiglianti nella presente qualità si fa ricordanza, de’ quali l’un fu de’ Galigari, nominato Puccio Isciancato, l’altro de’ Cavalcanti, nominato messer Guercio, il quale dagli uomini d’un castello di Firenze, nominato Gaville, finalmente fu morto; per la cui vendetta molti del detto castello da que’ di casa sua procedendo poi ne son morti, onde cotal pianto procede.

NOTE:

[31] V. P. figurate.

Comincia il XXVI Capitolo

Godi Firenze, poi che se’ si grande
Che per mare e per terra batti l’ali
E per lo ’nferno tuo nome si spande

SEGUITANDOSI le dimostrazioni delle frodolenti colpe dietro alla settima nel presente canto, l’ottava si segue, nella qual bolgia, figurativamente, la qualità di coloro che frodolentemente consigliano altrui si dimostra, occultamente, formandogli in certe fiamme di fuochi, a dimostrare la caldezza dell’animo loro che acciò gli produce con palese effetto e occulto volere, tra’ quali nelle seguenti chiose per simiglianti d’alquanti l’esser si conta[32].

Quale colui che si vengiò cogli orsi
Vide il carro d’Elia al dipartire
Quando i cavalli a cielo erti levorsi

❡ Per essempro delle presenti fiamme d’alcuna istoria qui a comperazione di loro si ragiona, la quale favoleggiando in cotal modo permane, che essendo alcuna volta un profeta, nominato Liseo, con un altro profeta suo compagno, nominato Lia, in certa parte camminato e arrivato alla riva d’un fiume che un carro di fuoco loro apparisse, il quale col detto Lia per l’aria celandolo nelle parti dond’eran venuti, velocemente con lui si ritornasse; per la qual partita ancora vivo essere si crede. Onde rimanendo Eliseo, e riguardandogli dietro alle dette presenti fiamme così si figura; il qual finalmente in tanta vecchiezza pervenne, che da’ fanciulli del paese, dov’era rimaso, grandissima noia prendea. Per la quale, pregandone Iddio che di ciò vendetta per lui ne facesse, cotale addivenne che subitamente di grandissima moltitudine d’orsi nel paese appariti, divorandogli eran morti, e così con gli orsi sua vendetta si fece.

Chi è in quel fuoco che vien sì diviso
Di sopra, che par surger della pira
Dov’Eteocle col fratel fu miso?

❡ Anticamente, ciascun corpo morto, per usanza, in certe legne s’ardea, nelle quali dal più prossimano suo parente il fuoco era messo, ricogliendo cotale cenere poi e in alcuno vaso sepolto; i quali fuochi volgarmente chiamati erano pire, tra le quali, essendosi insieme in sul campo morti Teocle e Polinice, fratelli e re di Tebe, per la division del dominio che tra loro era stato, come in alcuna passata chiosa si conta, quella dove finalmente insieme dalle lor donne fur messi, ardendo due fiamme divise faceva a figurare la carnale divisione che infino a morte tra loro era stata, la quale per essenpro di due grandi della presente colpa così figurativamente qui uniti si piglia, la cui continenza giù si contiene.

Rispose a me: là entro si martira
Ulisse e Diomede e così insieme
A la vendetta vanno com’a l’ira

❡ De’ sopradetti due Greci qui per simiglianti così si ragiona, de’ quali l’un fu chiamato Ulisse, l’altro Diomede, figurandogli insieme a modo della sopradetta pira nelle presenti fiamme, a dimostrare la gran compagnia che di cotali operazioni tra loro si ritenne, tra le quali d’alquante ordinatamente qui per ricordanza si danno, incominciandosi a quella dell’agguato del cavallo, col quale Troia da’ Greci finalmente fu tolta. La quale brevemente così si contiene, che essendo grandissimo tempo, per cagione della tolta Elena, l’esercito de’ Greci intorno da Troia dimorato, al principale di loro, cioè a’ re Menelao, per loro cotale consiglio ordinatamente si diede, che falsamente una statua grandissima d’un cavallo fosse fatta, nella quale certa quantità di gente armata si nascondessi, facendo poi celatamente l’esercito partire, e in certo luogo riporre: con la quale alcun rimanesse mostrandosi di non essere partito, e che, lasciandosi pigliare a’ Troiani dovesse loro dire che cotale istatua a sacrificio e a laude di Pallada e di tutti gli Dii, e che così sola fosse lasciata a ciò che gli Troiani la disfacessono. Per la quale essendo guasta, da loro si doveva avere Troia. ¶ Onde così per loro ordinato e fatto, uscendo i Troiani fuori, e disaminando la detta guardia, il quale Sinone avea nome, per non perdere la terra contro alla falsa opinione sacrificandolo nella terra il tirarono. Per la cui grandezza non possendo per la porta essere messo, per loro gran parte del muro della terra, disfacendolo, s’aperse. Per la quale entrata essendosi vinta la terra e corsa da’ traditori ch’eran dentro coll’agguato di Greci che nel cavallo permanea, Enea Troiano con molti altri gran cittadini per campare fuggendo si misero, dietro alla quale partita, secondo che per Virgilio si tratta nel suo Eneidos, in Italia pervennero, d’i cui discendenti finalmente Roma si fece.

Piangevis’entro l’arte per che morta
Deydamia ancor si duol d’Achille
E del Palladio pena vi si porta

❡ Ancor di lor seguaci operazioni qui contra Deidamia così operando seguiro, che essendo l’esercito de’ Greci, com’è detto, a Troia, alcuna volta rivelato fu loro dagli dii che per loro non s’avrebbe vittoria sanza il figliuolo de’ re Peleo nominato Achille. Onde a grandissima cierca i detti Greci per trovarlo si misero, tra’ quali finalmente Ulisse e Diomede ciercandone, l’esser d’alcuno re dell’isola d’Aschiro, nominato Nicomede, sentito, siccome di molti e di diversi paesi avea damigelle per compagnia di sua figliuola Deidamia, immaginandosi che tra loro, siccome fanciulla isconosciutamente Achille esser potesse, il quale dalla madre sua, essendo i’ re Peleo [morto] in forma di fanciulla femina per sua guardia al detto re fu fuggito;[33] ond’egli per femmina ricevendolo, a conpagnia di sua figliuola il lasciava, colla quale crescendo, l’un dell’altro innamorati s’aviddero, usando insieme carnalmente più volte. E pervenne il detto Ulisse e Diomede alla detta isola [e] vogliendo delle dette damigelle fare prova, nobilissimi arredi da donne e da uomini per donargli loro, insieme mischiati, portarono, si come di cinture e di ghirlande, e di borse e di coltella e di spade, immaginandosi che nel prendere de’ doni naturalmente ciò si vedesse. Tra le quali, essendo alla prova, e tuttavia ragionando de’ fatti de’ Greci, e prendendo, con volontà de’ re, delle dette gioie, al suo diletto, ciascuna: per Achille una spada si prese. Per la quale così conosciuto, incontanente da Ulisse e da Diomede amorevolmente fu preso, certificandosi[34] di lui col detto re Nicomede, e significandogli la cagione che convenia che nell’oste de’ Greci tornasse. Del quale, così partendosi, la detta Deidamia grossa, per l’usanza che co lui avea fatta, d’uno figliuolo maschio rimase, il quale nominato fu Pirro. Per lo quale Achille nell’esercito di Troia permanendo, a grandissima vittoria finalmente si venne, e a nobilissimi fatti, secondo che nelle sue storie si conta. Onde per cotale isconsolazione e inganno che Deidamia per Achille da loro ricevette, qui così si ragiona e simigliantemente per la tolta di Pallade, idolo de’ Troiani, cioè Iddio di sapienza, che per loro sagacitadi e malizie si fece, sanza qual tolta la detta terra pei Greci acquistare non si potea, in istatua d’oro nella rocca d’Ilion di Troia permanendo, con fattura d’alquanti cittadini traditori finalmente tra le mani de’ Greci pervenne, per cui diserta e abbassata incontanente fu Troia [in] ogni grandezza, secondo che nelle sue istorie si legge.

Mi diparti’ da Circie, che sottrasse
Me più d’un anno là sopra Gaeta
Prima che sì Enea la nominasse

❡ Perchè della morte d’Ulisse nel mondo mai come di Diomede certezza non s’ebbe però qui di lui di ciò così si risponde, cominciandosi dal suo dipartire da Circe, la quale, secondo le poetiche favole, fu una donna figliuola del Sole, che, dimorando in alcuna montagna di Calavra, sopra una terra nominata Gaeta, co’ suoi beveraggi, bestie gli uomeni faceva diventare; si che tornando alcuna volta il detto Ulisse di Grecia con sua compagnia nella detta montagna pervenne, nella quale molta di sua gente così abbeverata rimase, di che egli essendosi guardato ed essendone istato da lei più volte richiesto, finalmente con alquanti compagni da lei partendosi, così cercando il mare e la terra con loro procedette, come nel presente testo apertamente si conta. Per la quale Circe, figurativamente si comprende, la secura e negligente vita sanza fama permanendo trapassa.

Cinque volte racceso e tante casso
Lo lume era di sotto da la luna
Poi ch’entrati eravam nell’alto passo

❡ Dimostrandosi, figurativamente favoleggiando, la qualità della presente fine d’Ulisse, della quantità del suo trascorso tempo, qui si ragiona dicendosi che cinque volte era acceso e spento il lume di sotto della luna, il quale di sotto della luna s’intende la mezza parte di lei che inverso la spera terrestre continuamente rimira, la quale di necessità tutto il suo corso dall’uno accendere all’altro misurato aopera, per cui cinque mesi lunari già per lo grande Oceano navigati si segue, per lo quale, figurativamente, si considera il suo trascorrere della mente per le mondane operazioni, per le quali a scura altezza finalmente pervenne.

NOTE:

[32] Nel L. la chiusa: tra’ quali ..... si conta è intercalata nel periodo precedente tra caldezza e dell’animo loro.[33] V. P. Ma a guardo al detto re fugito. Cfr. Iacopo Della Lana, Inf. V. 15.[34] L. cierti fidandosi, corretta dal Luisio.

Comincia il XXVII Capitolo

Già era dritta in su la fiamma e queta
Per non dir più e già da noi se giva
Colla licienza del dolce poeta.

PROCEDENDOSI ancora nella presente colpa in questo canto d’alcuno altro modernamente ragionando si conta, assomigliando sua voce a quella d’un bue di metallo che per alcun tempo nell’isola di Cicilia si fece, la cui storia in cotal modo permane. Che regnando per alcuno[35] nella detta isola un crudelissimo signore nominato Falerio, dilettandosi d’uccidere diversamente la gente, alcuno orafo del paese, credendosigli compiacere, un bue di rame per donarglielo ingegniosamente fece, nel quale mettendovisi entro il malfattore e ’l fuoco di sotto, naturalmente mughiava, la qual prova principalmente con volontà del detto signore al detto maestro, perchè fatto l’avea, fu fatto provare. E così sua boce, a quella figurando, nelle infrascritte chiose suo essere procede.

Romagna tua non è, nè non fu mai
Sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni
Ma nessuna palese or vi lasciai.

❡ A petizione d’alcun grande tiranno già stato di Romagna, nominato conte Guido da Montefeltro, qui della condizione della detta Romagna così si risponde, incominciandosi a Ravenna e a Cervia, per la cui aquila l’arme di que’ da Polenta, che lungo tempo signoreggiate l’hanno s’intende. E per quella che fe già la lunga prova, Forlì, sopra la quale il comune di Bologna colla forza del conte di Romagna anticamente con gran gente francesca lungo assedio compose, dietro a le cui guerre finalmente col sopradetto conte Guido isconfiggendogli in vittoria rimase, la quale al presente, cioè nel mille treciento, sotto le branche del mezzo leon verde degli Ordelaffi signoreggiata si stava. E seguitando la condizione d’Arimino per messer Malatesta vecchio e per Malatestino suo figliuolo d’i Malatesti, della detta terra, anticamente d’un suo castello, nominato Verrucchio, si come villani di nazione discesi, che, come soleano, ancor da loro fosse guidata, ricordandosi per Malatestino il mal governo, cioè la morte che colle sue mani a Montagna de’ Parcitadi[36] da Rimino [ed] a certi altri suoi consorti, essendo in prigione, finalmente diede. E delle cittadi di Lamone e di Santerno, cioè di Faenza e d’Imola e per loro fiumi qui così nominati, che, somigliantemente, dal leoncello azzurro nel campo bianco, cioè di Maghinardo antico da Susinana reggendo fosser guidate mutando parte dalla state al verno, cioè che in Toscana era guelfo, e ghibellino in Romagna, figurando, per comperazione, Toscana alla state, perchè sotto mezzodì più che Romagna permane. E così finalmente che quella in cui, il fiume nominato Savio, la sua costa bagna, cioè Cesena, così, si come solea, istato franco di tirannia ancor si reggesse.

Io fui uom d’arme e poi fu’ cordelliero
Credendomi si cinto fare amenda
E certo il creder mio veniva intero

❡ Siccome di sopra si conta, nella presente qualità per simigliante qui il detto conte Guido vecchio da Montefeltro si notifica, il quale, finalmente, in sua vecchiezza pentendosi delle sue grandissime e inique operazioni, dell’ordine de’ frati di san Franciesco si fece, nel qual permanendo, con malvagio consiglio sopra i Colonnesi di Roma il papa Bonifazio produsse, come nel presente testo apertamente si conta.

NOTE:

[35] Per alcun tempo?[36] L. dipartita, corretto col Laur. XL, 7.

Comincia il XXVIII Capitolo

Chi poria mai pur com parole sciolte
Dicier del sangue e delle piaghe a pieno
Ch’io ora vidi, per narrar più volte?

DIMOSTRATA l’ottava sopradetta bolgia, cioè qualità della semplice froda, in questo canto procedendo la nona si segue, cioè quella di coloro che con aperta e palese dimostrazione maliziosamente in scisma e in iscandali commettono errori. La cui essenza formando, così figura che per loro diverse incisioni e macole per le carni diversamente si sostengano, a dimostrare i simiglianti[37] prodotti da loro operazioni; per la cui grandissima quantità e qualità qui per simiglianti mali, e per essempro di lei di molte passate guerre e battaglie nelle contrade di Puglia fatte si contano, delle quali principalmente, incominciando a quella de’ Troiani, cioè d’Enea contr’al re Latino e Turno s’intende. E la seconda di quella che tra l’Africano Annibale e i Romani [per] dieci sette [anni] trascorse, la cui battaglia finalmente nella detta Puglia ad un luogo, nominato Cannuole[38] si fece, per la quale, secondo che Tito Livio scrive, grandissima quantità d’anella d’oro nel detto luogo rimase, per dimostrare la grandissima milizia de’ cavalieri romani e africani che quivi rimasono. E seguentemente la terza di quella d’alcun grande principe di Fiandra, nominato Roberto Guiscardo, contro a’ Pugliesi, i quali sotto sua signoria lungo tempo si ressero. La quarta di quella de’ re Manfredi, il quale, essendo ingannato da ciascun Pugliese per lor false promissioni in alcuno luogo nominato Ceperano, in Puglia, da re Carlo di Francia, finalmente combattendo con sua gente fu morto. E la quinta, di quella di Corradino simigliantemente s’intende, il quale finalmente dal sopradetto re Carlo in alcuno luogo di Puglia, nominato Tagliacozzo, fu morto, la cui isconfitta per alcuno cavaliere del re Carlo, nominato messer Alardo, si fece il quale, per sua vecchiezza col senno, sanza arme così [si] reggea, de’ quali così per loro facultade, figurati, d’alquanti nelle seguenti chiose per essempro si conta.

Vedi come storpiato è Maumetto
Dinanzi a me sen va piangendo Ali
Fesso dal mento infino al ciuffetto

❡ Conciosiacosa che per due modi la presente colpa si contiene, in prima qui dello scismatico, siccome per men grave, si conta, il quale lo scommettere d’una fede in altra errando s’intende. Tra’ quali d’alcun grande prelato di Spagna, nominato Maometto, con alcuno suo conpagno nominato Ali, qui si concede, il quale anticamente essendo dal papa di Roma alcuna volta mandato oltremare, per invidia di sua facultade con grande inpromissione a predicare [di] Cristo, e con vittoria di fede tornando, e non trovando alle promessione fermo volere, ritornato di là e il contrario predicando ridisse, affermando la credenza che al presente pe’ saracini si ritiene. Onde per cotale aprire d’animo e d’intelletto, come per lui e simigliante per [lo suo] compagno contra nostra fede predicando si fece, così figurativamente aperti qui i lor corpi si fanno e così simigliantemente degli altri s’intende. Tra’ quali consideratamente alcun frate predicatore vivendo nominato frate Dolcino per somigliante s’annunzia, il quale così simigliante operazione nella montagna di Novara di Lombardia si ridusse, per la quale non possendo resistere dall’assedio celestiale della neve ed essendo da tutti i Lombardi per comandamento della chiesa ancora assediato, finalmente da lor fu preso, e nella sopradetta terra con alcuna altra sua compagnia arso.

Rimembriti di Pier da Medicina
Se ma torni a riveder il dolcie piano
Che da Vercielli a Marcabò dichina

❡ Dimostrata la prima qualità della presente colpa, cioè della scisma, qui dell’altra, che volgarmente scandalo si chiama, si contiene, il quale essere s’intende lo scommettere maliziosamente male tra uno ed un altro, figurandogli con diverse piaghe picciole e grandi, secondo la facultà dello scommesso male e con simigliante effetto a significare in loro quel che per loro di male si produsse. Tra’ quali d’alquanti, per essempro di ciò si ragiona; incominciandosi ad alcuno di Romagna, nominato Piero da Medicina, il quale con così fatto vizio vivendo si resse; per lo quale prediciendo d’alcun tradimento fatto per Malatestino de’ Malatesti contra due da Fano della Marca, in cotal modo si conta, a’ quali essendo da lui fidati, e facendogli, ritornando, accompagnare in mare, sopra la Cattolica tra Pesaro e Fano affogare finalmente gli fece.

Questi iscacciato il dubitar sommerse
In Ciesare, affermando che il fornito
Sempre con danno l’attender sofferse

❡ Qui per simigliante colpa del sopradetto Piero, alcuno grande romano nominato Curio, si notifica, il quale essendo Cesare rubello di Roma, con gran malizia di cavalieri nella città di Rimino di Romagna già giunto, tornando di Francia, come nel Lucano nelle sue istorie si conta, con molti altri confinati di Roma per Ponpeo, a lui nella detta cittade pervenne; al quale, tra gli altri consigli, più volte proponendo e affermando dicea, che sempre con danno è l’aspettare del fornito che dovesse guerriando operare. Onde per cotale parlamento, figurativamente, qui sanza la lingua si pone, per dimostrare, che solo la eccellenza della lingua a ciò lui produsse, e quindi la sua veduta d’Arim[in]o amara procede, però che quivi più cotal colpa commise.

Gridò: ricordera’ti ancor del Mosca
Che dissi: lasso! capo ha cosa fatta,
Che fu mal seme per la giente tosca

❡ Anticamente per alcun parentado giurato in Firenze e non osservato tra Bondelmonti e gli Amidei della detta terra, gli Uberti colla parte ghibellina di Firenze tra loro per cotale disdegno consigliando pruoposero che a quel ch’avea promesso il detto parentado, cioè a messer Bondelmonte de Bondelmonti fosse tagliato il naso, e chi dicea che d’una cosa fosse battuto, e chi d’un’altra, tra’ quali messer Mosca Lamberti affermando che fosse morto propose, dicendo che cosa fatta avea capo. Il cui consiglio finalmente si prese. Per la cui morte il cominciamento del partito istato di Firenze ebbe processo, ond’ei, figurativamente, sanza le mani nella presente colpa si pone, per lo scommettere dell’operazione simigliante, che per lui ordinato si fece.

E perchè tu di me novella porti,
Sappi ch’io son Beltram dal Bornio, quegli
Che diedi a re Giovanni
[39]
i ma’ conforti

❡ Ancora d’alcuno altro di questa qualità, nominato Beltram Dal Bornio, castellano d’uno castello d’Inghilterra nominato Altaforte, qui così si ragiona, che dimorando alcun tempo nella corte del buon re giovane d’Inghilterra con sue frodolenti e maliziose parole inrubellion del padre il produsse; per la quale il detto Re giovane finalmente dallo sforzo dal suo padre guerriando fu morto. Onde figurativamente qui sanza il capo il suo busto si pone, a dimostrare, che così come partì la congiunzione del padre al figliuolo che tanto è unita, che così da sè partito proceda. La qual giustizia anticamente in ciascun malificio, così nel mondo osservata contrapasso volgarmente era detta.

NOTE:

[37] P. V. simiglianti mali e. P. 303 similglioni.[38] P. 303 Channi, 7ª e.[39] L. Giovanni, deve correggersi: giovane.

Comincia il XXIX Capitolo

La molta gente e le diverse piaghe
Avien le luci mie si ’nebriate,
Che dello stare a pianger eran vaghe

IN questo principio del capitolo della sopradetta colpa ancor si contiene, diterminandosi per misura di miglia la circonferenza del suo sito, la quale, secondo che qui e nel seguente canto si contiene, in [diecie parti][40] questo grado diviso per diecie si parte, procedendo negli altri secondo la larghezza della circonferenza superna, la quale si pone digradando secondo l’arte aritmetiche per.... dalla superna larghezza all’appuntato centro, la cui allegoria nelle prime chiose si conta. E significando ancora del tempo per cotal modo l’ora, dicendo la luna esser già presso che sotto i loro piedi, per la quale essendo istata il passato dì tonda, appresso del dì si considera, però che nello scorpione, essendo il sole in ariete, già nell’oriente cielo il capricorno corre. Onde per l’opposito manco l’ariete già nell’oriente si leva. Nella qual colpa finalmente ancora per simigliante un Fiorentino degli Aleghieri, nominato Gieri del Bello, si notifica, il quale, per così fatto vizio finalmente fu morto.

Quando noi fummo su l’ultima chiostra
Di Malebolgie, sì che i suoi conversi
Potean parere alla veduta nostra

❡ Della decima e ultima bolgia qui a dimostrare incominciando si segue, la cui qualità di coloro si considera, che semplicemente loro operazioni falsificando producono, figurandogli con molte e diverse infermitadi a dimostrare la similitudine delle inferme lor voglie, che contra natura gl’inducono. E perchè contra natura così operando la mente non sana si trova, però qui figurativamente, secondo la facoltà passionata si pone; tra’ quali d’alquanti nelle seguenti chiose divisamente si fa menzione.

Non credo che veder maggior tristizia
Fosse in Egina il popol tutto infermo,
Quando fu l’aer sì pien di malizia

❡ Per essempro della presente qualità, qui d’alcuna favola poetica così si ragiona, la cui essenza in cotal modo permane che, essendo per alcun tempo l’aria ad infermità molto corrotta in una terra di Grecia, nominata Egina, della quale era signore il re Eaco, padre del re Peleo, e avolo d’Achille, e veggendo il detto re tutta la gente, cioè il popolo della terra, morire, agli Dii lamentandosene più volte s’indusse, tra li cui prieghi, alcuna volta veggendo molte formiche sopra alcuno arbore, in uomini agurandoglisi questo così fece; di che gli Dii incontanente sua voglia seguiro.

Onde per cotal modo il suo morto popolo ristorato di seme di formiche riebbe, la cui allegoria per più brevità nella memoria si ritenga.

Io fui d’Arezzo; ed Alberto da Siena,
Rispuose. Lui mi fe metter al fuoco
Ma quel perch’io morii qui no mi mena

❡ Tra gli altri della presente qualità qui d’un d’Arezzo, nominato Grifolino, e d’un Fiorentino, nominato Capocchio, così si ragiona. E principalmente di Grifolino, il quale, usando di fare alchimia alcuna volta ad alcun Sanese, Alberto nominato, di volare insegnare gli promise; per la qual cosa non possendosi fornire, e riputandosi il detto Alberto da lui ingannato, a un certo inquisitore de’ Paterini in Firenze, per Paterino arder lo fece. Il quale inquisitore, padre del detto Alberto, certamente da molti era tenuto.

Onde l’altro lebbroso che m’intese
Rispuose al detto mio: tranne lo Strica
Che seppe far le temperate ispese

❡ Qui dell’altro, cioè di Capocchio, così si ragiona, il quale per eccellente operazione d’alchimia finalmente in Siena fu arso, per cui qui così della vita di Sanesi così si risponde, e spezialmente di quella d’alcun suo cavaliere, nominato Messer Niccolò Bonsignori, per lo garofano che in mano a un donzello dal cominciamento del desinare o della cena alla fine, mangiandosi poi, innanzi sè tenere lo facea, lo quale costume di Francia con seco in Siena produsse.

NOTE:

[40] L. undici questo.

Comincia il XXX Capitolo

Nel tempo che Giunone era crucciata
Per Seme[lè] contro al sangue tebano
Come mostrò ed una ed altra fiata

ACCIÒ che più pienamente la rabbiosa voglia di cotal qualità si dimostri, qui nel cominciamento di questo capitolo, d’alquante antiche e sceleratissime opere ancor non tanto, quanto le presenti feroci si contano, tra le quali in prima, quella d’alcun re di Tebe, nominato Atamante, dir si concede, la quale, secondo il poetico favoleggiare, così si contiene: che, essendo Giunone Idea e moglie di Giove per lungo tempo contra Tebani adirata, per alcuna donna di Tebe che Jove, per sua amica tenea, nominata Semel, della quale Bacco re de Tebani e del quale era nato[41] molte pistilenze lor producea; tra le quali il detto re Atamanto sì fuor di memoria produsse, che veggendo la moglie sua, nominata Ino, alcuna volta con due suoi figliuoli nelle braccia, rabbiosamente gridando, prese l’uno, nominato Learco e a un muro il percosse, per lo quale dolore ella coll’altro, nominato M[el]certa,[42] ad annegarsi nella marina correndo si mise. E così questa prima comperazione si contiene.

E quando la fortuna colse in basso
L’altezza de Troian che tutt’ardiva,
Si che ’nsieme col regno i’ re fu casso

❡ Seguentemente ricordandosi colla sopradetta crudeltà qui di quelle che Ecuba, moglie del re Priamo di Troia, contra sè vide, si contano, le quali così brievemente seguirono, che, essendo da’ Greci la terra di Troia già tolta, come nelle sue istorie si conta, a’ re Priamo, suo marito, con alquanti suoi figliuoli crudelmente la morte da’ Greci dar vide, e simigliantemente alla sua bella figliuola Polissena, del cui sangue pe’ Greci sagrificio, per la morte d’Achille che per lei era morto si fece; ond’ella quindi isconsolata partendosi, nelle parti di Tracia, cioè di Turchia, finalmente pervenne, credendosi con Polidoro suo figliuolo dimorare, il quale di gran tempo innanzi con la volontà del re Priamo a guardia di molto avere nel detto paese era stato. Nel quale trovando lui morto, dal Re del detto paese, Polinestor nominato, per cagion d’aversi il detto tesoro, essendo Priamo morto, tanto dolor le giunse che, come cane latrando, abbaiava; la quale così forsennata, cioè fuor di senno, per le contrade andando, finalmente fu morta. Per le quali crudeltà il dire del presente testo per esempio si piglia.

E l’Aretin, che rimase tremando
Mi disse: quel folletto è Gianni Schicchi
E va rabbioso altrui così conciando

❡ Siccome per falsadori realmente i sopra detti Grifolino e Capocchio figurativamente in questa colpa prima si pongono, cosi personalmente di due qui si ragiona, d’i quali, l’uno fu un cavaliere di Firenze nominato messer Gianni Schicchi de’ Cavalcanti, il quale, tra l’altre sue operazioni, alcuna volta, a petizione d’un altro cavaliere di Firenze, nominato Messer Simone de’ Donati in un zio del detto Messer Simone, nominato Messer Buoso, in fine di morte stando in sul letto, falsamente trasformato il testamento di lui a suo modo fece, lasciando reda della maggiore parte del suo il detto messer Simone, nel qual testamento finalmente una sua cavalla di pregio d’alcun suo armento a sè medesimo diede. L’altra fu una donna, nominata Mirra, figliuola d’alcuno re delle parti d’oriente, nominato Cinara, quale alcuna volta, in un altra donna trasformata, nel suo letto carnalmente per sua voglia si stette, la quale, essendosen’egli avveduto per alcun segno poi, e vogliendo ella uccidere, da lui si fuggì, di cui finalmente un figliuolo maschio fece. Per le cui maliziose rabbie figurativamente in trafiggere i sopradetti falsatori di cose si pongono, a dimostrare che per loro immaginato indizio nel luogo del collo, cioè nell’appetito, l’operazioni sien sospinte.

Alla miseria del maestro Adamo;
Io ebbi vivo assai di quel ch’io volli,
Ed ora lasso un gocciol d’acqua bramo

❡ Per la terza qualità di falsadori, si come di monete qui d’alcun maestro monetiere, nominato Adamo, si conta, il quale a posta del conte Guido e del conte Alessandro da Romena di conti Guidi, fiorini d’oro falsi coniando produsse, per li quali finalmente in Firenze fu arso. Onde così figurato si pone, a dimostrare la grandissima e pregna rinchiusa sete di ciascuno in cui la cupidità della moneta così signoreggia.

L’una è la falsa ch’accusò Giuseppo:
L’altr’è il falso Sinon Greco di Troia:
Per febbre aguta gettan tanto leppo

❡ Essendosi dimostrate le tre qualitadi della presente colpa, qui ultimamente quella della mente parlando si conta, riducendosi primamente in alcuna donna, nominata ..... e figliuola d’alcuno signore nominato ..... delle parti d’oriente, la quale, secondo le storie della Bibbia, d’un suo famigliaro, nominato Gioseppo, figliuolo di Jacob, ardentemente era vaga, il quale, essendo venduto al sopradetto signore da’ fratelli, come nelle sue storie si conta, contra lui di lei niun fallo accettava. Ond’ella alcuna volta con lui in camera istando, e proferendogli di sè il diletto, e egli non vogliendo, per panni gridando, per farlo perire, lui prese. Per la cui ispaventevole partita de’ suoi panni in mano le rimase, mostrando cotal segno al marito e dicendogli come sforzar la voleva. Onde il marito pigliandolo, nella prigione del re Faraone meterlo fece. Della quale finalmente, per rivelazione d’alcuno sogno de’ re Faraone, secondo che nelle sue istorie si conta, liberato n’uscì. E così alcun altro Greco, nominato Sinone, ancora cotale colpa s’induce, il quale, secondo che nelle troiane storie si conta, essendo rimaso solo col cavallo, nel quale l’agguato de’ Grecci si mise, e lasciandosi ei pigliare a’ Troiani falsamente essendone disaminato da loro, di tale dificio rispose, secondo che nella chiosa del vigesimo sesto canto di questo libro, in alcun luogo per Ulisse si conta. Le cui ardenti e fiammanti qualitadi figurativamente significano le superflue caldezze false che in loro animo si conservano.

Tu hai l’arsura, e ’l capo che ti duole
E per leccar lo specchio di Narcisso
Non vorresti a ’nvitar troppe parole

❡ Secondo alcuna favola d’Ovidio, Narcisso fu un bellissimo giovane, il quale, alcuna volta veggendo sè medesimo ispecchiandosi in una fontana, tanta vaghezza, di sua vista comprese che non partendosene finalmente quivi la morte comprese, per cui asemplative ciascuna fontana suo specchio s’appella. La cui allegoria brevemente si considera, che rimirando e attendendo troppo alla vaghezza corporale, a morte intellettuale ciascun si produce.

NOTE:

[41] Della quale e del quale Bacco.... era nato.[42] Corretto col P. 303.

Comincia il XXXI Capitolo

Una medesma lingua pria mi morse
Sì che mi tinse l’una e l’altra guancia
E poi la medicina mi riporse

DIMOSTRATA la semplice frodolente qualità del presente ottavo infernal grado, qui in questo canto in verso il nono ultimamente si procede, facendosi qui nel cominciamento alcuna conperazione della sopradetta correzione di Virgilio a lui ad alcuna virtudiosa proprietade che già della lancia de’ re Peleo di Grecia e d’Achille suo figliuolo si credea, la quale, in cotal modo poetando si conta, che niuno da lor ferito giammai non gueriva, se quella medesima lancia nella ferita un’altra volta pacificamente non entrasse. E così procedendo, la qualità del nono grado si segue.

Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdè la santa gesta
Non sonò sì terribilmente Orlando.

❡ Per similitudine del figurato suono che qui nel presente testo si conta, di quel che per Orlando si fece quando Carlo Magno perdè la sua gesta, cioè de’ Paladini, nella battaglia di Santa Maria di Valle rossa[43] essendo con loro e’ da’ Saracini isconfitti, così si ragiona.

Sappi che non son torri, ma giganti
E so’ nel pozzo intorno dalla ripa
E dal bellico in giù son tutti quanti

❡ Acciò che nella allegoria della seguente qualità, cioè del nono grado, più ordinatamente si proceda, qui sopra la qualità di suoi figurati giganti in prima, così è da considerare, che, si come sanza iniqua superbia nella qualità frodolente che tradimento volgarmente si chiama, non si procede così qui circustanti al suo sito figurativamente i giganti per entrata e a guardia son posti, i quali, come nelle filosofiche e poetiche iscritture, alle dette superbie qui figurati sono. La cui allegoria in cotal modo permane, che, si come la superbia oltre il dovere della natura con grandissimo cuore operando trapassa, così in forma umana oltre il dovere di grandezza e di possa figurati si fanno, le cui qualità qui e nell’altre iscritture diversamente secondo loro propietadi si danno.

Si che la ripa che v’era per zoma
[44]
Dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto,
Di sopra, che di giungere alla chioma

❡ Izoma anticamente si chiamava alcuna vesta di panno, che solamente dal mezzo in giù, cioè dal bellico infino alle gambe copriva, la qual è cinta e increspata in queste parti, come nelle meridionali s’usava.

Poi disse a me: egli stesso s’accusa
Quest’è Nebroth per lo cui mal coto
Pur un linguaggio nel mondo non s’usa

❡ Secondo le storie de’ giganti che per la divina e filosofica scrittura si conta, una superbia dall’età di Noè dietro al diluvio così fatta discese, la quale figurativamente Nembroth chiama, nella cui istoria figliuol di Noè si considera, il quale essendo queto il diluvio nelle parti d’India, una grandissima torre, per superbia di salire a Dio, ordinato compose, la cui altezza acciò che più non procedesse, la comune loquela di loro il voler d’Iddio in più parti divise. Onde figurativamente suo favellare sanza alcuna intelligenza qui si compone.

O tu, che nella fortunata valle
Che fece Scipion di gloria reda
Quando Annibal [co’ suoi] diede le spalle

❡ Tra l’altre qualitadi di superbie, figurativamente nominate e in giganti formate, qui d’una, nominata Anteo, così si ragiona; il quale, secondo le poetiche iscritture, in alcuna valle di Barberia, appresso Cartagine, con grandissima e furiosa forza lungo tempo si resse, nella quale da Ercole essendo passato di Grecia con intenzione di liberarla da lui, combattendo, finalmente fu morto. La quale superbia, cioè Anteo, siccome per meno grave a rispetto dell’altre, qui per passo si toglie, lodando e lusingando suo essere e rammentandogli la grande battaglia di Flegra tra li Dii e giganti, e della fortunata valle le sue prede, a dimostrare la qualità del superbo, che solo per lode di sè s’aumilia. La quale fortunata sopradetta valle di Cartagine fortunata si chiama per le molte guerre e battaglie che anticamente in lei si son fatte, tra le quali quella che per lo buono Scipione di Roma vittorioso contra Annibale Africano si fece, fu l’una; l’altra, quella di Giulio Cesere contra Iuba e Catone, essendo morto Pompeo com molte altre assai, delle quali qui non si ragiona. E così figurando, per lui nel nono e ultimo grado si scende, la cui qualità e allegoria nelle infrascritte sue chiose [per ordine si conta][45].

NOTE:

[43] P. 303. Rossavalla in Ispagna.[44] La volgata: “si che la ripa ch’era perizoma ”; voce greca: veste.[45] « per ordine si conta » manca nel L.

Comincia il XXXII Capitolo

S’io avessi le rime aspre e chioccie,
Come si converrebbe al tristo buco
Sovr’ ’l qual pontan tutte l’altre roccie

SECONDO l’ordine delle cose infernali il quale nelle soprascritte chiose in più luoghi si tocca, ultimamente in questo nono grado quella che con froda rompe l’amore naturale e la fidanza promessa e non promessa procede, la quale, volgarmente tradimento chiamata, in quattro partiti circostanti al centro dell’universo nel presente grado si pone, siccome per quattro modi cotale effetto si segue, d’i quali i due naturali, cioè di naturale fidanza, e gli altri volontarii si considerano. E perchè dell’uomo è meno colpa la fidanza naturale che la volontaria incisione, però prima, secondo l’ordine della gravezza usato qui nella men grave di lei a dimostrar procede, la qual di coloro s’intende che ne’ lor carnali e parenti ciò fanno, chiamandola Caina, a derivazion di Caino, che di ciò fu principio. E figurandogli in una freddissima ghiaccia, a significare la freddezza dell’animo loro, privato d’ogni calore d’amore natural che per loro si contiene. Per la qual ghiaccia l’ultimo di quattro fiumi infernali si considera, cioè Cocito, che pianto interpetrato si chiama. Fra’ quali nelle seguenti chiose d’alquanti per simiglianti si conta, procedendo nell’altre con simigliante allegoria secondo la gravezza di loro.

Ma quelle donne aiutino il mio verso
Ch’aiutar Amfïone a chiuder Tebe,
Sicchè dal fatto il dir non sia diverso

❡ Anticamente alcun di Tebe, nominato Amfione, e nelle dieci iscienze naturalmente complesionato, vogliendo per più fortezza di mura chiudere sua terra, con tanta dolcezza pregando d’aiuto la gente richiese, che compiutamente al suo volere ne pervenne. Onde per vertù delle donne, cioè delle dette iscienze, cotale edificio per cotal modo si fece, alle quali chiamandosi qui per simigliante l’effetto produce.

Se vuoi saper chi son cotesti due,
La valle, onde Bisenzio si dichina,
Del padre lor Alberto e di lor fue

❡ Tra gli altri di questa prima natural qualità che Caina si chiama, qui del conte Alessandro e del conte Napoleone fratelli del conte Alberto in prima così si ragiona, i quali l’uno coll’altro sempre mai si tradiro.

Non questi a cui fu rotto il petto e l’ombra
Con esso un colpo per la man d’Artù;
Non Focaccia; non questi che m’ingonbra

❡ Ancora d’un cavaliere della Tavola rotonda, nominato Messer Morderet, per simigliante qui si ragiona, il quale essendo nipote de’ re Artù, alcuna volta traditolo, da lui d’una lancia per lo petto passando dall’altra parte delle reni per vendetta sentio. E d’un altro cittadino di Pistoia de’ Cancellieri, nominato Focaccia, che in simigliante si resse. E simigliantemente d’un Fiorentino nominato Sassol Mascheroni, al quale essendo ei rimaso manovaldo d’alcun suo nipote, abbiendolo ucciso[46] per redare suo avere, la testa in Firenze finalmente fu tagliata.

E perchè no mi metti in più sermoni
Sappi ch’io fui il Camicion de’ Pazzi
Ed aspetto Carlin che mi scagioni

❡ Qui avendo i sopradetti notificati, finalmente, di messer Uberto Camiscione de’ Pazzi di Valdarno si conta, il quale tradì e uccise alcun suo consorto, per cui d’alcuno altro di sua casa, nominato Carlino, moreggiando[47] s’aspetta, predicendo alcun tradimento che perlui poscia si fece.

E mentre ch’andavamo in ver lo mezzo,
Al quale ogni gravezza si raguna,
Ed io tremava nell’eterno rezzo

❡ Dimostrata la prima qualità del naturale rompimento di fidanza e d’amore, qui della seconda procedendo si segue, la quale è di coloro che tradiscono lor gente o patria si considera. E perchè non solamente questa, come la sopradetta, all’offeso danneggia, per più grave seguente di lei si concede, chiamandosi Antenora, a derivazione d’Antenor Troiano, il quale anticamente, secondo le sue istorie, alla sua terra e patria tradimento fece, tra’ quali d’alquanti nelle seguenti chiose per simigliante si conta.

Piangendo mi gridò: perchè mi peste?
Se tu non vieni a crescer la vendetta
Di Monte Aperti, perchè mi moleste?

❡ Qui alcuna ricordanza si fa della sconfitta che i Fiorentini, anticamente, da’ Sanesi ricevettero a monte Aperti, reducendosi la colpa a un cavaliere degli Abati di Firenze, nominato Messer Bocca, il quale, essendo nella fiorentina ischiera per determinato tradimento, con una ispada a colui che la loro insegnia tenea la man dal braccio ricise; onde il processo della sconfitta seguio. Per lo quale così d’alquanti della sua qualità ragionando si conta, e spezialmente in prima d’uno cavaliere di Cremona, nominato Messer Buoso da Duera, il quale contra sua parte a’ cavalieri de’ re Carlo vecchio per danari, nel distretto di Brescia il passo d’Italia diede. Per lo quale, essendo per mare in Italia il detto re Carlo venuto, la sua patria, cioè Cremona, e la parte ghibellina finalmente si strusse. E seguentemente d’un altro di quei da Beccaria di Pavia, il quale essendo abate di Vallenbrosa col seguito d’alcun Fiorentino, la parte guelfa di Firenze tradio, per lo quale tradimento la testa finalmente in Firenze gli fu per giustizia tagliata. E ancora simigliantemente d’un altro cavaliere de’ Soldanieri di Firenze, nominato Messer Gianni, e d’uno di Lanbrasi da Faenza di Romagna, nominato Tribaldello, il quale, essendo alcuna volta il detto messer Gianni podestà della detta terra di Faenza, a’ Bolognesi di notte tempo la dierono. Tra’ quali sopradetti così nominati, finalmente di Ganellone di Maganza così si conchiude, per lo quale la gran gesta de’ Paladini finalmente, essendo e’ tra loro fu tradita.

Non altrimenti Tidëo si rose
Le tempie a Menalippo per disdegno,
Che quei faceva il teschio e l’altre cose

❡ Per essempro di due altri della presente colpa, qui alcuna istoria di Tideo Tebano ragionando si tocca, il quale, alcuna volta combattendo co’ Greci, da un Greco, nominato Menalippo, mortalmente di colpo fu tocco, per lo quale dolore il detto Tideo spronandogli addosso, colla spada la testa dal busto gli recise, la quale testa essendo nella terra, per la detta fedita gravemente tornato del campo recare la si fece, sopra la quale, vogliosamente mangiando, la sua vita finì.

NOTE:

[46] V. P. morto.[47] L. morreggiando.

Comincia il XXXIII Capitolo

La bocca sollevò dal fiero pasto
Quel peccator, forbendola a’ capelli
Del capo, ch’egli avea dirietro guasto

IN questo cominciamento del capitolo, ancora della detta seconda qualità di due così si ragiona, di’ quali l’uno fu il conte Ugolino de’ conti Gherardeschi di Pisa, e l’altro degli Ubaldini, l’arcivescovo Ruggieri di Pisa, il quale, colla forza del popolo di Pisa, il detto conte Ugolino con tre suoi figliuoli e uno nipote a tradimento per fame in alcuna torre siccome prigione fe’ morire per alcuno tradimento di castella pisane, per lui a’ Lucchesi e a’ Fiorentini concedute. Per lo quale tradimento e crudeltà il detto conte Ugolino sopra all’arcivescovo qui figurativamente così si ristora, la cui continenza chiaramente nel testo procede.

Noi passammo oltre, dove la gelata
Ruvidamente un’altra gente fascia
Non volta in giù, ma tutta rovesciata

❡ Determinate[48] le due prime qualità del tradire rompendo fidanza e amor naturale, qui nelle seguenti due volontarie, cioè in quelle dove l’amore naturale e la volontà accidentalmente a fidanza disposta si rompe, a dimostrare si procede, delle quali l’una è quella che servendo tradisce il servito, e l’altra è quella che servita tradisce il servente. E perchè il servendo tradir non è a meritabile debito come l’altro legato, però prima qui per men grave penultimamente si pone. Nelle cui qualità d’alquanti nelle infrascritte chiose per simiglianti si fa ricordanza, con quella medesima pena e cagione che di sopra per l’altre due passate si conta, disvariandosi solo al supino e carpone dimorare. La cui allegoria al più e al meno della vergogna passionando si tira, chiamandola Tolomea, a derivazione d’alcuno Ebreo del popol d’Isdrael, nominato Tolomeo, il quale anticamente a un convito per lui ordinato a cierti suoi amici fidati, la morte, essendo alle tavole, diede.

Rispuose dunque: io son frate Alberigo:
Io son quel delle frutte del mal’orto;
Che qui riprendo dattero per figo

❡ Della presente terza qualità qui d’alcun frate godente di Romagna, nominato frate Alberigo di Manfredi da Faenza, non essendo ancor morto, così si ragiona, il quale convitando di suoi gran cittadini e vicini circostanti, siccome fidati e intimi amici, al chiamar delle frutte finalmente uccidere gli fece.

Cotal vantaggio à questa Tolomea
Che spesse fiate l’anima ci cade
Innanzi che Antropos morte le dea

❡ Conciò sia cosa che qui alcuno errore alla comune gente par che si mostri, fermamente l’anima dannando prima che ’l corpo sia morto, possendo per pentimento salvarsi, così nel suo vero, figurativamente è da considerare che, secondo naturalmente appare, l’umana generazione in due principii si fonda, cioè in amore, e razionale intelletto, del quale accidentalmente poi la fede ch’è tra uomo e uomo si cria. Onde, privandosi di cota’ due principii, non più uomo, ma iniquo volere si considera, e dove non è principio, pentimento di contrario non cape. La quale privazione solamente nella presente qualità si concede, per la fede rotta da loro nell’apparenza promessa; sì che, figurativamente parlando, ragionevolemente innanzi al dare d’Antropos, di loro così si può dire; per la quale Antropos, secondo la considerazione di’ pagani, la generale morte s’intende; i quali al corso dell’umana vita tre idee così produceano; la prima nel compilare della generazione infino al nascimento, chiamandola Cloto; la seconda nella conservazione della vita chiamandola Lacchesis; la terza nella difinizione della vita, chiamandola Antropos, come qui in simigliante si conta[49].

Tu ’l dei saper se tu vien pur mo giuso.
Egli è ser Branca Doria e son più anni
Poscia passati ch’el fu si rinchiuso

❡ Ancor vivendo, qui della presente qualità d’alcun cavaliere genovese, nominato Messer Branca Doria, per simigliante così si ragiona, il quale alcuna volta essendo nell’isola di Sardigna, e convitando alcun grande ricco uomo, nominato Michele Zanca, per posseder sua ricchezza, mangiando insieme, con un suo nipote l’uccise.

NOTE:

[48] L. determinato.[49] P. 303. Cletos ..... Lachesis ..... Atropos.

Comincia il XXXIV Capitolo

Vexilla regis prodeunt inferni
Verso di noi; però dinanzi mira,
Disse il maestro mio, se tu discerni

IN questo ultimo capitolo del primo libro, ultimamente la quarta qualità del tradimento, cioè quella che trade il servente per più grave di tutte l’altre, così si conchiude, che siccome ella è più grave di tutte [e] contrarie al dovere della natura, cioè d’Iddio, così nel più lontano e contrario sito dal cielo figurativamente qui immaginata si pone, el quale[50] l’intimo mezzo della terrestre isfera e di tutto l’universo s’intende, al quale naturalmente, siccome mezzo dell’universo, d’ogni parte ogni gravezza, si pigne, figurandosi i suoi operanti nella detta ghiaccia per diversi modi trasvolti, a dimostrare che intorno dal presente indivisibile punto diversamente il sotto e ’l sopra di loro ad una vista si ponga; nel quale punto tra gli altri il sommo superbo nel suo mezzo per più basso considerato si pone, cioè colui che contro al sommo fattore in prima con superbia s’accese, il quale per questo libro Dite si chiama, cioè peccato e volgarmente Lucifero. È figurato grandissimo con tre visi e con tre grandissime ali, a significare che tutto il peccato del mondo che in lui si raguna, siccome sommo male per tre modi si piglia, cioè per ignoranza, per odio e per inpotenzia, siccome nel suo opposito, cioè il sommo bene, ogni bene in tre modi si prende, cioè per prudenza, per amore e per potenza; delle cui colorate faccie quella di mezzo, cioè la rossa, a l’iniqua e odiosa ira si figura, la gialla e bianca mista a l’impotenzia e alla scurità dell’ignoranza; la nera, delle cui bocche figurativamente son morsi i tre traditori che le due maggior potenzie tradiro siccome Giuda Scariotto ispiritualmente in Gesù Cristo, e Bruto e Cassio di Roma in Cesare, primo [segnore][51] temporalmente, i quali, secondo le storie di Lucano, in tanta grazia di lui permanieno che ciò che volieno era fatto, da’ quali finalmente per superbia in sul palagio di Roma con due stili di ferro finalmente a tradimento fu morto. Per lo quale Giuda, siccome traditore di più alto dominio, la presente ultima qualità Giudecca si chiama.

Quando noi fummo là, ove la coscia
Si volgie al punto in sul grosso dell’anche
Lo duca con fatica e con angoscia

❡ Qui figurativamente si dimostra per non poter più scendere l’immaginato trasvolgersi sotto sopra del centro per procedere a salire nell’opposita parte della determinata infernale, la quale in opposito emisperio alla quarta abitabile immaginata s’intende, nella cui sommitade il monte della felicità nostra, cioè il purgatorio immaginato si pone, siccome nelle chiose del seguente secondo libro si conta.

Levati su, disse il maestro, in piede!
La via è lunga e ’l cammino è malvagio
E già il sole a mezza terza riede

❡ Per dimostrare la quantità del tempo col quale per l’inferno s’è ito, e simigliantemente di quel col quale partendosi di sopra si torna per la diversità di due detti emisperii del sole così si ragiona per lo quale essendosi disceso tutta una notte, come per lo libro in più luoghi si conta, e finalmente presso che ’n sull’oriente prodotto, nell’altro emisperio rivolti, il contrario si segue, cioè che la notte vi surga come nell’altro la luce, la quale a mezza terza, cioè al luogo del cielo, onde quindi mezza terza si toglie, nel detto emisperio si tornava. Onde per l’inferno una notte e un’altra sanza mediato giorno per uscirsene infino al cominciamento del purgatorio per ispazio di tempo si piglia, la cui allegoria nelle prime chiose assai chiara si conta, considerandosi cotale emisperio opposito a quello sotto, il cui colmo, cioè il mezzo, il sito di Gerusalem, dove Cristo fu morto, siccome mezzo di gran secca, cioè della quarta abitabile permane. E così dimostrata la prima viziosa infernale qualità in quella di quinci innanzi secondamente procede, che è tra lei e le stelle.

❡ Compiute le chiose di Dante sopra la prima parte dell’Inferno ovvero cantico, o comedia, fatte per Iacopo di Dante sido ( sic ) Figliuolo, Amen[52]

Amen.

NOTE:

[50] L. al P. 303 el.[51] P. 303: il primo romano temporale segnore. Ma bisogna lasciare il temporalmente che corrisponde all’ ispiritualmente.[52] P.: Com piute sono le chiose delynferno diAcopo.di.Dante.

Finito di stampare nella Tipografia “L’Arte della Stampa” Successori Landi, in Firenze il giorno 30 Settembre 1914 *