Indice
- MATERNITÀ MATERNITÀ GÈRMINA L'ÈSTASI DIALOGO LE DOLOROSE INSIEME MARA MARTHA ELIANA «VENGO, NINÌ» È PARTITA L'ABBANDONATO ZINGARESCA IL CORREDINO «MATER INVIOLATA» NINNA-NANNA DI NATALE QUEL GIORNO RITORNO A MOTTA VISCONTI LA CULLA UN RICORDO DESTINO IL CALVARIO DELLA MADRE
- DOLCEZZE SONETTO D'INVERNO PRIMULE IL RITORNO DI BIANCA RICÒRDATI ACQUERELLO CANTILENA L'ACQUAZZONE CANTA A' MIEI PIEDI.... L'OMBRA PICCOLA CASA TU SOLA LA CENTENARIA
- ACQUEFORTI GLI AMANTI DELLA MORTE LACRIME SILENZIOSE LA VECCHIA PORTA L'ORGANETTO L'ULTIMO VALZER SETTE MAGGIO 1898 FUNERALE DURANTE LO SCIOPERO REDENZIONE INCONTRO DILUVIO CAMPANA A MARTELLO ALPE A MIA MADRE LONTANA SUL MONUMENTO DI EDVIGE V*** PASQUA DI RISURREZIONE IN MEMORIA PICCOLA TOMBA PIAZZA DI SAN FRANCESCO IN LODI IL SOGNO DI DRAGA NATALIA IL MINUTO MADRE TERRA SACRA INFANZIA IL SALUTO FRATERNO
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MATERNITÀ
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MATERNITÀ
Io sento, dal profondo, un'esile voce chiamarmi: sei tu, non nato ancora, che vieni nel sonno a destarmi? O vita, o vita nova!... le viscere mie palpitanti trasalgono in sussulti che sono i tuoi baci, i tuoi pianti. Tu sei l'Ignoto.—Forse pel tuo disperato dolore ti nutro col mio sangue, e formo il tuo cor col mio core; pure io stendo le mani con gesto di lenta carezza, io rido, ebra di vita, a un sogno di forza e bellezza: t'amo e t'invoco, o figlio, in nome del bene e del male, poi che ti chiama al mondo la sacra Natura immortale. E penso a quante donne, ne l'ora che trepida avanza, sale dal grembo al core la stessa devota speranza!... Han tutte ne lo sguardo la gioia e il tremor del mistero ch'apre il lor seno a un essere novello di carne e pensiero; urne d'amore, in alto su l'uomo e la fredda scïenza, come su altar, le pone del germe l'inconscia potenza. È sacro il germe: è tutto: la forza, la luce, l'amore: sia benedetto il ventre che il partorirà con dolore. * Oh, per le bianche mani cucenti le fascie ed i veli mentre ne gli occhi splende un calmo riflesso de i cieli: pei palpiti che scuoton da l'imo le viscere oscure ove, anelando al sole, respiran le vite future: per l'ultimo martirio, per l'urlo de l'ultimo istante, quando il materno corpo si sfascia, di sangue grondante pel roseo bimbo ignudo, che nasce—miserrima sorte!...— su letto di tortura, talvolta su letto di morte: uomini de la terra, che pure affilate coltelli l'un contro l'altro, udite, udite!... noi siamo fratelli. In verità vi dico, poichè voi l'avete scordato: noi tutti uscimmo ignudi da un grembo di madre squarciato. In verità vi dico, le supplici braccia tendendo: non vi rendete indegni del seno che apriste nascendo. Gettate in pace il seme ne i solchi del campo comune mentre le forti mogli sorridon, cantando, a le cune: nel sole e ne la gioia mietete la spica matura, grazie rendendo in pace a l'inclita Madre, Natura.
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GÈRMINA
Calma e silenzio, in torno. Dietro le mie cortine muore tra nebbie fine il giorno. Ne la penombra, i volti noti, da le cornici, mi affisano.—Che dici, che ascolti, che abissi d'acqua fonda schiudi al mio nero sguardo, o amor di Leonardo, Gioconda?... .... Ne la penombra io sono sola.—Non veramente.— L'anima veglia e sente un suono lievissimo, un tremare d'ali, un sommesso pianto, come in conchiglia il canto del mare. L'anima veglia e prega: e su la vita informe che nel mio grembo dorme si piega. Io sembro inerte. E pure son come zolla al sole. S'aprono in me viole oscure di sogni, ardenti flore d'un incantato maggio. Porto io forse un messaggio d'amore?... Di pace un senso pio per ogni vena io sento. Sono io forse strumento di Dio?... La Sfinge dolorosa sul tuo mortal destino come suggel divino si posa; ma tu, che da me bevi la forza essenzïale, ed il bene ed il male ricevi, rompi, potente seme, la zolla inturgidita. Benedirem la vita insieme.
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L'ÈSTASI
Cuce, in silenzio, sotto la lampada, una cuffietta rosa. Mai non si vide più leggiadra cosa. Trasale, a un tratto, ne l'ampia tunica, con un sorriso strano. La cuffietta le scivola di mano. Così, velato lo sguardo, pallida come una morta, ascolta. A qual raggio l'intenta anima è vôlta?... Mai questo acuto spasimo d'èstasi le scolorò la faccia quando la cinser l'adorate braccia; mai fu sì bella, fra riso e lacrime, quando, folle d'amore, il suo prescelto le posò sul core. Così la bruna figlia di Nàzareth udì la sacra voce, congiungendo le mani ùmili in croce: piccola voce nova e terribile che dice a l'infinita tenerezza materna: Eccomi, o vita!...
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DIALOGO
È lui.—Dal mistero profondo dei sogni si desta, mi chiama, mi dice: —«Nel pallido Ignoto vagavo, felice.... perchè tu mi vuoi nel tuo mondo?... È triste il tuo mondo.—Dai morti lo seppi, che ad esso non tornano più. O madre, io non chiesi di vivere. E tu perchè nel tuo grembo mi porti?... Non temi che un giorno, con voce di vinto, io ti dica che tutto è menzogna, e spezzi il tuo core con l'aspra rampogna: —È troppo pesante la croce?...» —«O figlio, vi sono viole ne i prati. Vi sono farfalle ne l'aria. È bello, da un ciglio di via solitaria, fissare lo sguardo nel sole.» «O madre, ho paura. Nel cozzo de l'ire terrene son troppi i caduti. Su l'erbe calpeste procombono, muti, con l'ultimo rantolo mozzo dal colpo di grazia.»—«O figliuolo, temprando io ti vado la spada e la maglia: di atleti ha bisogno la santa battaglia: tu forse cadrai, ma non solo; chè al fosco tuo cor la mia voce dirà le parole d'un'unica fede; saprò, lacerando la veste ed il piede, portare con te la tua croce.» .... «O madre, nel sogno, fra queste penombre fiorite di strane corolle, per sempre abbandona colui che non volle venire a le vostre tempeste....» «O figlio, al solenne richiamo nessuno è ribelle. Se amore t'adduce, fiorisci al tuo sole, t'avventa a la luce, vivi, ardi, sorridimi, io t'amo.»
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LE DOLOROSE
Ed a me giunse un ulular di pianti come suono di molte acque scroscianti. E mi parea venisse di lontano, col bianco spumeggiar de l'Oceàno: e mi parea sorgesse di sotterra, dal cuore immenso de la Madre Terra: e mi pareva empisse il mondo e l'aria in torno a la mia stanza solitaria: entrò con la fremente ombra e col vento, mi travolse fra il buio e lo sgomento: e la voce che udìi fra la tempesta qui, eterna, ne la scossa anima resta. «Noi concepimmo senza gioia il figlio che splende ai sogni come splende un giglio. Noi portammo nel sen la creatura con fatica, con fame e con paura. Ne le soffitte dove manca l'aria, ne le risaie infette di malaria, ne' campi dove passa, orrida Iddia, la pellagra con occhi di pazzia, ne' luoghi di miseria e di servaggio, chiedemmo a Dio Signor forza e coraggio; pregando, allor che la virtù svaniva: —Prenditi il figlio, o Dio, prima ch'ei viva—. * «Noi procreammo in viscere malate le tristi creature a pianger nate. Il guasto sangue de le nostre vene ebbero, e il peso di nostre catene; ben vorremmo, nel giorno, esser con loro ma il giorno è breve ed è lungo il lavoro: ci afferran del bisogno i rudi artigli, mentre la strada ne corrompe i figli. Madri noi siamo per l'angoscia e il pianto, non per cantar su rosee culle un canto: cantalo tu—che il mondo abbia pietà— questo supplizio di maternità!... * «Tu che scrivi col sangue de i fratelli caduti e coi singulti de i ribelli; tu che lottasti con nemica sorte, canta il dolor più forte de la morte. Ricòrdati, ricòrdati: così pianse tua madre ne i lontani dì. Ricòrdati, ricòrdati: e il tuo grido sia come uccello di selvaggio nido; come popol che irrompe a la battaglia, come fiamma che incendia la boscaglia: dica a la terra: Salvezza non v'ha se umiliata è la maternità!...» * Tacquer—ma come, in notte senza lume di stelle, mugge un procelloso fiume, durò ne l'aria in fremebondi giri l'eco dei pianti e dei lunghi sospiri. Oh, fin ch'io soffra in questa esil parvenza ove s'infiamma la mia pura essenza, sempre, nel ritmo de la vita oscuro, dovunque, nel presente e nel futuro, udrò quel lagno senza fine e quelle vane preghiere d'anime sorelle: sempre nel cuore avrò, come un rimorso, quel torvo e disperato urlo: Soccorso!...—
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INSIEME
Sul letto sta, rigida e scialba, la Morta, che sembra dormire. Ai vetri è il sospiro de l'alba. La Morta è vestita di bianco come una fanciulla, con fiori di neve sul petto, sul fianco; e pare una vergine, un giglio; ma incrocia le mani, in eterno, sul grembo ove dorme suo figlio. Il grembo che il germe raccolse e il germe anelante a la vita la stessa tempesta travolse; al vento che romba e che geme piegarono il boccio ed il fiore insieme; si spensero, insieme, il grande ed il piccolo cuore. * La Morta sorride.—Una pace di sogno e di cielo s'imprime sul volto, sul labbro che tace. Le mani incrociate con pio lor gesto, sul grembo che è tomba al figlio, par dicano: È mio.— —Io n'ebbi la prima parola che sola compresi: nessuno lo sa, ciò ch'ei disse a me sola. Se visse de l'anima mia, morì de la stessa mia morte: laggiù ci farem compagnia. Chi sa?... forse avrebbe smarrita, lontano da me, la sua strada. Che è mai, senza madre, la vita?... Chi sa?... forse un solo ed un vinto nel mondo che è senza pietà.... .... Oh, meglio, o mio sangue, a me avvinto sparire, ne l'eternità.—
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MARA
La donna fila, presso il focolare. Fra la cenere è ancor qualche favilla. La lampadetta d'olio a tratti brilla sul dolce viso che d'avorio pare. Non vecchia ancora—ma son tutte bianche le rade chiome, e l'orbite infossate non contan più le lacrime versate. La donna fila, con le mani stanche. Suo figlio ha ucciso un re.—Più mai, nel mondo ella potrà vedere il suo figliuolo. Solo è, per sempre e senza fine solo, vivo e pur morto, d'un abisso in fondo pieno di sangue—e il nero sangue a fiotti corre, sprizza, zampilla insino al cuore materno.—O sempre rinnovato orrore de i lunghi giorni, de le lunghe notti!... Ella non pensò mai che fosse ingiusto per l'altrui pane coltivar la spica, con tristezza, con fame e con fatica guadagnando la vita a frusto a frusto: arò la terra e dondolò la culla, senza riposo e senza gioia.—Al fianco le crescea quel figliuolo esile e bianco, esile e bianco come una fanciulla; e le chiedea talor, con veemente desìo ne gli occhi, una storia di re. «Non so narrarti una storia di re: che ne sa del suo re, l'umile gente?... Egli è solo e lontano, come Iddio: fra la sua torre e il nostro casolare ci sta tutta la terra e tutto il mare: egli è in alto ed è solo, o figlio mio.» .... Ed il figlio partì.—Ne le rombanti fabbriche il torvo ansare udì dei mostri d'acciaio a mille artigli, a mille rostri, de le donne sposarsi ai tristi canti; il tremendo silenzio udì talvolta de gli scioperi: star, muti ed inerti, i mostri vide, ma con gli occhi aperti per afferrar le prede un'altra volta. .... E passò.—Qualcheduno egli cercava al di là de la folla e de la strada, col grigio sguardo acuto come spada pieno di lampi tra la chioma flava. E passò tra il fetor de le taverne, tra l'immensa putredine ove langue l'ignota gente che di pianto e sangue bagna il calvario de l'angosce eterne; tra l'orror de le carceri e l'orrore de gli ospedali e il fango del selciato passò, co' suoi felini occhi in agguato, una fiaccola d'odio accesa in cuore; e un giorno—un giorno, finalmente, a Quello ch'egli cercava da l'età lontana giunse, fendendo una muraglia umana, e gli cacciò nel petto il suo coltello. * Tu fili, o Madre, presso il focolare insanguinato.—Le tue labbra smorte che bevvero a la coppa de la morte, non osan più, non sanno più pregare. Entro il tugurio tuo nulla è mutato. V'è l'uguale miseria e v'è l'uguale nuda tristezza, e un tanfo glacïale qual di covo selvaggio abbandonato. Tu fili, o Madre, o Martire, il lenzuolo ove sarai, per la tua pace, avvolta. E implori presso il figlio esser sepolta, perch'ei non sia, pur ne la morte, solo. L'ami, il tuo figlio che ne l'odio scritto portò il suo fato.—Forse, incoscïente, un germe de la tua psiche dormente passò in lui, fecondando il suo delitto. L'ami, ferita in lui, per lui dannata de la vergogna a l'implacabil giogo, de l'insonne rimorso al laccio al rogo, complice ignara, santa e disperata. E ancor nel sogno l'accarezzi, come ne gli spenti crepuscoli di pace, quand'ei, lupatto indomito rapace, scarno fra l'ombra de le flave chiome, ti chiedeva, col grigio occhio felino pieno di lampi, una storia di re. Tu tremavi—e gravar su lui, su te sentivi, enorme e fredda ombra, il Destino.
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MARTHA
Sopportò gli urti de l'acerba doglia ritta, bianca, silente, al suo telajo. Quando ogni opra cessò, sotto il rovajo corse a la casa, e cadde su la soglia. E gemè senza freno—e allor che sôrto fu il pallido mattin, la sventurata con un urlo di bestia lacerata mise a la luce un angioletto morto. Il piccolo cadavere fu tolto da gli occhi de la madre—e tutto tacque. Tre dì sovra i guanciali ella si giacque, fatta di pietra ne l'immobil volto; ma il quarto giorno—e gelido il rovajo soffiava ancora—volle alzarsi, esangue come avesse perduto tutto il sangue.... .... Così disfatta, ritornò al telajo.
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ELIANA
Un'ombra è ne' suoi strani occhi. Il suo petto è scosso da un brivido. Sul rosso velluto le sue mani s'abbandonano, come morte. E di morta è il volto, fra l'ondeggiar disciolto de le scomposte chiome. Premerà dunque il greve travaglio, il peso enorme, le sue scultorie forme, la sua beltà di neve?... Spasimerà la pura marmorea carne anch'essa, dilanïata, oppressa da l'immortal tortura?... No.—La superba vuole de i balli fra le chiare pompe gioir, regnare, come rosa nel sole!... E le purpuree tende quasi regali, e i densi tappeti, e i vasi immensi ove l'oro s'accende, son complici a l'abisso perfido che la tenta. Oh, come ella diventa livida!... oh, come fisso si fa il suo sguardo!... come arde!... ma condannato ha il figlio.—È decretato l'atto che non ha nome. * .... Morrai fra poco, umano germe che il mondo ignora, e che, nel sonno, l'ora vital sognasti in vano: morrai fra poco, o cuore soffocato ne i brevi tuoi battiti da lievi mani, senza rumore: pura alba, che diritto avevi a la tua sera!... Non teme la galera chi osò questo delitto. Ne i balli andrà, qual giglio immacolato il viso, la Pallida, che ha ucciso se stessa nel suo figlio: andrà, come se fosse viva.—Ma un sordo male misterïoso, da le viscere che le rosse sue mani han profanate succhierà il sangue, lene lene, fin che le vene avrà tutte vuotate; e una manina informe l'attirerà fra l'onda del gorgo senza sponda ove il rimorso dorme.
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«VENGO, NINÌ»
«Vengo, Ninì.—So bene che mi aspetti da tanto tempo, e ti struggi in pianto quando la notte viene. So che non hai riposo che col tuo capo sulla mia mano.—A la tua culla di fango il furïoso uragano s'abbatte. T'infràdicia la piova la camicina nova ch'io t'ho cucita. E batte e batte la manina su l'assi de la bara: —Mamma, la terra è amara se non mi sei vicina!...— .... Lascia ch'io metta i fiori ne i vasi, e accenda il foco pel babbo, che fra poco ritornerà da fuori. Ch'ei trovi ogni sua cosa linda, anche in questo giorno; e i crisantemi in torno al tuo ritratto rosa.... .... Povero babbo!... solo sarà, per sempre.—Vengo, Ninì.—Se mi trattengo un poco, o mio figliuolo, se m'indugio così, è perchè penso, sai, al babbo, che più mai, più mai....—Vengo, Ninì.—»
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È PARTITA
Stesa fra il letto e il muro ei la trovò stanotte. Sul cuore un grumo oscuro di sangue; fra le dita la rivoltella; calmo il volto, come in vita; bella qual'era ai lieti anni di giovinezza, quando mirti e roseti non eran freschi come il fior de la sua bocca, il fior de le sue chiome. Nulla lasciò: nè pure un foglio che dicesse — perdonami. —Nè pure una riga d'addio. Ne la sinistra ancora stringe,—davanti a Dio che il suo Ninì le prese,— un ricciolo del bimbo seppellito da un mese.
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L'ABBANDONATO
Un'ombra di donna comparve ne l'ombra notturna, strisciante, radente, fuggente pel vicolo tetro. Depose un fardello, disparve—così, taciturna, così, senza volgersi indietro. È vivo il fardello.—Ne parte un sottile vagito, lamento d'implume perduto che chiama il suo nido. Le mura, le porte, le pietre di cupo granito ascoltan quel tremulo grido. La bassa finestra ne parla al rossiccio fanale che s'apre qual fumida piaga nel cuor de la via. Il vento che passa ne parla a la stella immortale, al cielo che in alto s'oblìa. Il trivio, con sordo ribrezzo, bisbiglia a la fogna: —C'è un bimbo là in fondo, c'è un bimbo che muor sul selciato: Colei che nel mondo lo mise, per fame o vergogna al fango così l'ha gettato.... .... Perchè?... che ferocia di leggi su gli uomini grava se fame o vergogna può vincer l'istinto materno?... che benda t'accieca?... che lacci, o degli uomini schiavi t'attorcono il cuore in eterno?...» Il fioco vagito che chiama la madre e la culla diventa singhiozzo, poi rantolo.—Il vicolo guarda con occhi sbarrati, morire quel bimbo, quel nulla, in grembo a la notte codarda.... La notte trapassa, fremente di pianti non pianti, d'angosce non dette, di sdegno terribile e muto. Vorrebbe, non può—vano strazio di tenebre oranti!... salvar quell'umano rifiuto. Si spengono gli astri nel brivido primo de l'alba che sparge di cenere il cielo, che schiude le porte, che chiama le donne a le soglie, fantastica, scialba, dicendo: È passata la Morte.... Là giù, come un piccolo cencio che il lastrico ingombra appare, nel giorno, l'Ignoto.—Egli è nudo ed è solo.— Nè madre, nè casa, nè croce.—Più lieve di un'ombra....— .... Raccoglilo tu, cenciaiuolo.
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ZINGARESCA
Fra i pioppi, mentre sorge alta la luna, al tardo passo de i cavalli stanchi, l'errante casa va de i saltimbanchi, inseguendo l'ignoto e la fortuna. V'è un lumicino ad una finestrella, e guizza e trema ne l'incerto andare; presso il lume, il suo pargolo a cullare, canta una donna con fioca favella; limpida e triste, di dolcezza piena, di lacrime e d'amor, ai pioppi de la via la cantilena tesse i suoi fili d'ôr. «Dormi a l'ombra de' miei lunghi capelli, de' miei lunghi capelli zingareschi, piccolo bimbo tutto mio, da i freschi labbri e da gli occhi regalmente belli: quando tramonterà la luna chiara sul fiume, al primo impallidir de l'alba, sostando fra le siepi di vitalba saluteremo la stella boara; respirerem la brezza vagabonda che avviva fiore e stel; liberi come barca sopra l'onda, allodola pel ciel!... * Di questi cenci non aver paura, non temer quando sibila il rovajo, o la neve implacabile, a gennajo, ci blocca su le vie. La vita è dura. Meglio liberi andar con freddo e fame che infrangerci a le sbarre de la legge. Questa che tutto afferra e tutto regge pesando come cupola di rame su i ricchi schiavi ai quali è scudo e cella, si chiama civiltà. Piccoli schiavi de la vita bella, voi ci fate pietà!... * Dormi.—T'avvolge la mia chioma nera, ombra di sogno e sfavillìo di spada. Dormi, o nato su l'orlo d'una strada, senza dolore, un giorno di bufera. Io t'ho create vèrtebre di belva, occhi di falco ed anima di sole. La magnifica terra a sè ti vuole co' suoi effluvii di solco e di selva; quel ch'io t'ho dato è sangue rutilante di razza imperïal che de la piena libertà vagante sa il fascino immortal!...» * Va e va per la tacita pianura come un fantasma al raggio de la luna, inseguendo l'ignoto e la fortuna il carro zingaresco, a la ventura. Va e va.—Ma gorgheggiano le smorte labbra di lei che stringe il bimbo al core la canzone più forte del dolore, più forte del martirio e de la morte; ebra di spazio e di malinconia, ai rami, ai nidi, ai fior l'indomita selvaggia rapsodìa tesse i suoi fili d'ôr....
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IL CORREDINO
Da l'alba, febbrilmente, ella cuce, in silenzio. Sul lavoro le lacrime come gocce d'assenzio, cadono a tratti, lente. Un'angoscia infinita il petto le attanaglia. E pure ella sa vincersi, stoica ne la battaglia del cor contro la vita; e lavora, lavora. Par che non pensi a nulla fuor che a quel bianco e morbido corredino di culla.... Lavora—e passa l'ora. Oh, cessare un istante, oh, rotolarsi a terra, gridando a Dio lo strazio cieco che il cor le serra, povero cor tremante!... No.—Dev'esser finito il corredino, a sera. Reclina ella su l'agile mano color di cera il visino patito; e ammassa febbrilmente punti e punti, in silenzio. Sul lavoro le lacrime, come gocce d'assenzio, cadono a tratti, lente.
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«MATER INVIOLATA»
Un bambino agonizza a l'ospedale: suor Benedetta veglia al suo guanciale. Le manine contratte sul lenzuolo annaspano, e la bocca un nome, un solo nome sospira: O mamma!...—ne l'affanno del rantolo. I velati occhi si fanno di vetro. Egli non vede più.—Ma ancora, perdutamente,—O mamma, o mamma!...—implora. La suora a confortar quell'agonia dice, mentendo con la voce pia: —Ecco la mamma: ecco, è venuta: taci: senti le mie carezze ed i miei baci?... Starò con te, fin che sarai guarito: taci.—Verrà l'april gaio e fiorito, e il tuo visetto tornerà di fiamma: càlmati, dormi presso la tua mamma....» .... S'acqueta il bimbo. Il moribondo viso si ricompon ne l'ultimo sorriso; fra l'invocate ali materne giace; spira la consolata anima, in pace. .... Ma quando l'alba torna a la crociera, trova la suora immobile, dov'era. Sta presso il morticin curva a ginocchi, e una luce novella è ne' suoi occhi: uno spasimo strano, una diffusa onda di amore irruppe ne la chiusa sua vita: sopra un mar glauco e sonoro aprirsi vide ella una porta d'oro; le parve in quelle immense onde sparire, tremò, comprese, si sentì morire.
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NINNA-NANNA DI NATALE
— Ninna-nanna ....—gelato è il focolare, fanciul: non ti svegliare. Per coprirti dal freddo, o mio bambino, cucio in un vecchio scialle un vestitino. Ma il lucignolo trema e l'occhio è stanco, bimbo dal viso bianco. Chi sa se per domani avrò finito questo che aspetti povero vestito!... Ninna-nanna —È la notte di Natale.... Libera nos dal male. Cade la neve senza vento, fitta: sgocciola un trave qui, ne la soffitta. Io ti narrai la storia di Gesù, bimbo.—Guardavi tu lontano coi pensosi occhi che sanno già tristi cose, e tante ne sapranno; e mi chiedesti: È ver che nacque in una stalla, ed ebbe per cuna un po' di paglia, e andò povero e solo per noi, nel mondo?...—È vero, o mio figliuolo. E redimerci volle, ed un feroce odio il confisse in croce; e invan, da venti secoli di guerra, l'ombra de la sua croce empie la terra; chè sempre il viver nostro si trascina fra bettola e officina, fra l'ignoranza e la miseria nera, fra il vizio, l'ospedale e la galera. .... Pace ed amor non avrem dunque mai?... O bimbo!... tu non sai.— La notte è santa.—Mulinando cade la neve bianca su le bianche strade; e domani, con l'alba, le campane diran: riposo e pane a gli uomini di buona volontà!...— Ma menzogna terribile sarà. Sarà menzogna sino a quando, o figlio, in ogni aspro giaciglio simile a questo, in ogni nuda stanza simile a questa, ove non è speranza, a l'alba di Natale ogni bambino che soffra il tuo destino e mangi pan con lacrime commisto, si sveglierà con l'anima di Cristo: e tutte le soffitte avranno un fiero fanciul che andrà il pensiero temprando a gli urti de la vita grama, sino a foggiarne un'invincibil lama: e un giorno insorgeranno a milïoni con fulmini e con tuoni questi profeti: e al loro impeto alato il vecchio mondo crollerà, stroncato: ed il Vangelo allor sarà sovrana legge a la vita umana: e—Pace,—allora, dire si potrà agli uomini di buona volontà!... Ne le viscere nostre oppresse e macre di popolane, sacre a la fatica ed al servaggio muto, il miracol di Dio sarà compiuto. Ed ora, o figlio, del tuo letto al piede, con inesausta fede questa leggenda di Natale io dico: —Cristo del sangue mio, ti benedico.—
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QUEL GIORNO
Quel dì la terra avrà, sotto i divini cieli adoranti, un rispuntar gioioso di fronde, e un mite aulir di biancospini. Ogni soglia quel dì sarà fiorita d'ulivo, a custodir la dolce casa ove l'amor benedirà la vita. Ed ogni madre allatterà suo figlio con letizia e con pace, in lui versando la potenza del suo sangue vermiglio; o pur, china sul forte giovinetto da lei cresciuto, d'incorrotti sensi gli tesserà salda corazza al petto, con le parole che le labbra oranti ripeteran ne' giorni in cui si muore, pensando il casto viso e gli occhi santi. Più non dovrà, più non dovrà nessuna donna, per legge di servil fatica, lasciar la casa e abbandonar la cuna. Libera Dea di tempio immacolato, verso la luce condurrà l'Eroe da la sua carne e dal suo spirto nato. E tutti allor saran fratelli in questa religïon del doloroso grembo che li creò pel sole e la tempesta: nel sogno, nel lavoro e ne la messe fratelli:—in nome di Colei che in tutti gl'idiomi del mondo e con le stesse infinite carezze in fondo al pio sguardo e le stesse lacrime nel cuore, perdonando susurra: O figlio mio!...—
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RITORNO A MOTTA VISCONTI
Ella dintorno si guardò, tremando, e riconobbe la selvaggia e strana terra che a fiume si dirompe e frana entro l'acque, che fuggon mormorando. Il guado antico riconobbe e il prato e le foreste, azzurre in lontananza sotto il pallor de i cieli: e il passato di lotta e di speranza, il suo ribelle e splendido passato ricomparve, senz'ombra e senza veli. Piegavano gli steli in torno, ed ella respirava il vento: vento di libertà, di giovinezza, soffio di primavere sepolte, belle come messaggere di gloria, piene d'ali e di bufere vïolente e d'immemore dolcezza!... Ora, silenzio.—Un battere di remi, solitario, nel fiume: un lontanare di cantilene lungo l'acque chiare, e nel suo petto il cozzo de' supremi rimpianti.—Oh, prega, anima che t'infrangi a l'onda de i ricordi, travolgente come tempesta a notte: anima stanca in vene quasi spente, così giovane ancora, oh, piangi, piangi con tutte le tue lacrime dirotte qui dove i sogni a frotte ti sorrisero un giorno!... Ora è finita.— .... E strinse fra le mani il capo bruno: a lei da la profonda coscïenza, com'onda chiama l'onda nel plenilunio a fior de l'alta sponda, salivano i ricordi ad uno ad uno. E rivide la vergine ventenne con la fronte segnata dal destino sfiorar diritta il ripido cammino, baldo aquilotto da le ferme penne. La nuda stanza fulgida di larve rivide, e il letto da le insonnie piene di cantici irrompenti; ed il sangue gittato da le vene robuste, il sangue di veder le parve, ne la febbre de l'arte su gli ardenti ritmi a fiotti, a torrenti gittato—E i versi andarono pel mondo, da la potenza del dolor sospinti; e parvero campane a martello; e le case senza pane e senza fuoco e la miseria inane dissero, e l'agonie torve de i vinti. Ma la vinta or sei tu, che de la morte senti, a trent'anni, il brivido ne l'ossa, e ben altro aspettavi da la rossa tua giovinezza così salda e forte!... Tutto dunque fu vano?... e così fugge oscuramente dal tuo cor la vita, dal cerebro il fervore de i ritmi, come sabbia fra le dita?... Ah, niun guarisce il mal che ti distrugge!... .... Pur de le sacre tue viscere il fiore, la bimba del tuo amore torna da i boschi, carica di rose. Essa che porta la divina fiamma del sogno tuo ne gli occhi, lascia cader le rose a' tuoi ginocchi, e dice, e par che l'anima trabocchi ne la sua voce: Perchè piangi, mamma?...—
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LA CULLA
Ora ella veglia, calma nel sorriso, presso il lettuccio ove la bimba dorme. Hanno nel sonno le infantili forme una soavità di paradiso. S'addormentò la bimba con la mano ne la sua mano; ed ella più non osa toglier le sue da quelle piccole dita, petali di rosa. S'addormentò la bimba su lo strano ritmo d'una canzon d'ali e di stelle e di bionde sorelle, ch'ella cantava:—ora la sogna, forse.— E ne la calma quasi augusta, piena di taciti pensieri, la smorta donna dai grand'occhi neri ripete nel suo cor la cantilena. «C'era una volta....»—ma perdutamente si spezza la canzon nel triste cuore. L'anima antica insorge in un clamore di tempesta.—Sei tu, quasi morente?... Sei dunque tu la zingara boema libera come il raggio e come l'onda, che respirò l'ebrezza del sole e de la rondine errabonda, e ne i canti onde l'aria par che frema ancor, tutta versò la giovinezza?... L'infinita stanchezza del tuo viso confessa il lungo male che a poco a poco ti vuotò le vene. E pur tu condannata non sei.—Ti vuole a sè quest'adorata culla ove dorme e palpita il tuo bene. —Vivrai per questa bianca creatura che uscì da la tua carne dolorosa. Una potenza che a te stessa è ascosa avvampa ancor ne la tua fibra oscura. Ancor tu guarderai la vita in faccia per lei, per lei ch'è sangue del tuo sangue; e ascenderai le cime eccelse, ove lo spirito non langue; per lei, per lei ritroverai la traccia. Se l'anima nel pianto si redime, raccogli tu ne l'ime fibre la poesia del tuo dolore: poi va—trasumanata.—E avanti, avanti, fin che ti regga il piede, fin che non abbia la tua nova fede infiammati d'amor tutti i tuoi canti!.... .... Passano l'ore e passano le stelle pallide su quel sonno d'innocente, mentre la donna fragile e possente dal fermo cuore ogni viltà si svelle. .... «O creatura mia, piccolo fiore che chini e chiudi le tue foglie a sera per riaprirle al raggio de l'alba: solo ed inesausto amore oltre la vita, oltre la morte nera: guida il mio sogno, tempra il mio coraggio lungo il cammin selvaggio!...» .... Passano l'ore e passano le stelle. La madre veglia—e ancora, nel divino silenzio, ella non osa toglier la sua da quella man di rosa che tiene avvinto tutto il suo destino.
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UN RICORDO
Un meriggio di luglio, un'afa bassa: io consunta di febbre, abbandonate su le lenzuola le braccia stroncate, e immobil come salma ne la cassa. Ne l'orrenda stanchezza un solo, acuto pensier: la bimba.—La sua voce piana giungeva a me da una stanza lontana, come ne i sogni:—tutto il resto, muto.— E il suo piccolo passo udìi venire, dopo, sino al mio letto.—Dolcemente mi prese, mi baciò la mano ardente.... .... ed a quel bacio io mi sentìi morire. Precipitava i colpi vïolenti il cor malato, sino a soffocarmi. Le tempie, come tizzi, eran roventi; le membra, fredde come freddi marmi. Tentavi con le tue di riscaldare queste povere mani moribonde. Io mi sentiva l'anima affondare in un mar senza scampo e senza sponde. Dissi, come in un soffio: La bambina.— E vidi ne' tuoi buoni occhi una forte promessa.—Al buio, come un'assassina, stava in agguato, dietro a me, la morte.
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DESTINO
Non dovevo morir.—V'è una parola Che niuno ancora su la terra ha detta. Scriverò la parola benedetta col puro sangue del mio grembo, io sola. Solo una madre il gran mister può dire che disserra le fonti de la vita. Io sarò quella madre.—Io l'infinita gioia che fa ogni volto impallidire canterò.—Coi fanciulli su i ginocchi, febbricitanti di dolcezza, tutte le donne in me saran sospese, tutte le donne avranno in me raccolti gli occhi, e un'ebrezza d'orgoglio al cor profondo sentiranno affluir per ogni vena al mio grido: Ave o Madre, o Gratia plena , che porti e nutri ne' tuoi fianchi il mondo.
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IL CALVARIO DELLA MADRE
Grembo materno strazïato e forte, di tua fecondità l'invitto segno in te impresso sarà fino a la morte. Ave. Bocca materna, non avrai più baci che non sien quelli di tuo figlio—come sigilli d'oro fulgidi e tenaci. Ave. Occhi materni, voi vedrete il mondo dietro un velo di lagrime, seguendo ansiosi il folleggiar d'un bimbo biondo. Ave. Mani materne, voi più non saprete che blandire e sanar le rosse piaghe di colui che a la terra offerto avete. Ave. Vita materna, non sarai più nulla fuor che l'Ombra vegliante ad ali aperte, con lunghe preci, a fianco d'una culla. Ave. Cuore materno, cuore crocifisso, cuor benedetto, cuore sanguinante, cuore pregante a l'orlo d'un abisso, non più per te, non più per te vivrai; ma pel figlio, pel figlio in mille forme di perdono e d'amor rinascerai. Ave.
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DOLCEZZE
A Giovanni
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SONETTO D'INVERNO
Cade la neve a falde larghe e piane da ore e ore, senza mutamento. Non una voce, non un fil di vento, non echi a le casupole montane. Ne i boschi e su le immote alpi lontane ogni soffio di vita sembra spento: sotto il bianco lenzuolo è un sognar lento di piante, d'erbe e di tristezze umane. Qui, nel camino, ardon le fiamme a spire: tu mi sorridi: io penso, amico mio, che dolcezza ha in quest'ora il nostro nido. Cerco il tuo labbro che non sa mentire, mi stringo al cor che non conosce oblìo, m'abbandono tremante al petto fido.
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PRIMULE
Sbocciano al tenue sole di marzo ed al tepor de' primi venti, folte, a mazzi, più larghe e più ridenti de le viole. Pei campi e su le rive, a piè de' tronchi, ovunque, aprono a bere aria e luce, anelando di piacere, le bocche vive. E son tutti esultanza per esse i colli; ed io le colgo a piene mani, mentre mi cantan per le vene sangue e speranza; e a dirti il dolce amore che a te solo m'allaccia e a cui non credi, con un palpito in cor getto a' tuoi piedi fiore su fiore.
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IL RITORNO DI BIANCA
Ella verrà.—Noi ci guardiamo in viso pallidi, col tremor che dà la gioia quando trabocca; e il tuo labbro ha un sorriso di gaiezza così trepida e buona, che a l'aperte tue braccia io vengo, amico, con l'anima che tutta s'abbandona. Ella verrà.—La casa è trasformata, pel giunger de la piccola regina, come da un tocco magico di fata. Ella si guarderà con meraviglia dintorno, spalancando i suoi grand'occhi già pensierosi sotto lunghe ciglia; e i suoi piccoli piedi, come rose freschi, e le mani piene di carezze, e i trilli, e i giochi, e le leggiadre cose di quell'infanzia saran nostra vita: per essa tu ritornerai bambino, io sarò come pianta rifiorita. Troverò nuovi ritmi e nuovi canti che a onde a onde sgorgheran dal cuore, i suoi sonni a cullare e i lunghi pianti; e tu starai, devoto, ad ascoltare quel che ogni essenza di bellezza aduna: d'un bimbo il blando e placido sognare, e una mamma che canta su la cuna.
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RICÒRDATI
Ricòrdati, ricòrdati, anima, il tempo, il luogo, il sogno ed il tremore. Ricòrdati la rossa tunica ch'io vestivo, il mattutino cinguettìo de le rondini, il pallore del cielo, la voce di mia figlia nel giardino. Ricòrdati, ricòrdati, anima: —Mamma!... trillava la voce d'argento. E come per malìa tutti i mandorli e i peschi erano in fiore, e tremavano i petali nel vento: ricòrdati com'io sentìi spuntarmi l'ali al cuore. Tutto l'essere mio ne l'infinita delizia era sommerso, come àtomo nel sole, come fronda sul ramo, e vita ne l'eterna vita: non mai letizia umana fu così profonda. Ricòrdati, ricòrdati, anima, di quell'ora perfetta e fuggitiva: pei giorni che verranno, per la noia, per l'ombra e per il male che t'aspettano, oh, serba intatta e viva l'imagine di quell'ora che a te parve immortale. Ricòrdati, ricòrdati, anima!... Cadrà questo mio corpo esile in polve, e in altre forme, in altre vite tu passerai.—La creatura ove, per il mister che il mondo avvolve, o anima, rivivrai come forza di Natura, in un'ora d'aprile da un'ebrezza di gioia sarà vinta, senza saper perchè: dirà, tremando: —Dove, come io provai questa dolcezza un giorno?... In qual giardino sconosciuto, e quando?...— Ricòrdati, ricòrdati, anima!... Il gaudio a lei verrà da la radice de l'essere, ove freme la memoria del senso.—E non saprà in quell'unica e sacra ora felice, o anima, donde le venga la felicità!...
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ACQUERELLO
Gioca una schiera di bambini sul prato.—È mite il giorno. Piena di luce e di carezze, in torno aleggia Primavera. Ridono i cieli e l'erbe nuove: senza fronde, pura, biancheggia la virginea fioritura de i mandorli e de i meli. A le finestre schiuse a la gioia de l'aria e del sole, portano i venti olezzi di viole, di timo e di ginestre. Svolan canore le rondini, che amor tutte conduce; salutano coi freschi inni la luce, il nido, il bimbo, il fiore. E sono belli i bimbi, e v'è fra lor la mia piccina che, incerta ancor del passo, una manina tende ai più grandicelli: timidamente coglie primule d'oro, e poi pispiglia; e le brilla d'ingenua meraviglia il bruno occhio ridente.
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CANTILENA
Dammi la piccola mano, vieni con me tra le selve. Per l'aria fragrante d'aromi le bianche farfalle ti cercano. Sei la sorella de i fiori, de le libellule azzurre; de l'erbe il sommesso linguaggio comprendi, e rispondi cantando. Sento un accordo sommesso fra lo stormir de le foglie, fra i brividi lunghi de l'acque, o figlia, e il tuo gaio parlare. Forse eri un giorno la felce che a l'ombra folta verdeggia; riscioglierai forse il tuo volo, o allodola, un giorno, pei cieli.
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L'ACQUAZZONE
Si sciolsero le nubi, a l'improvviso: piovve a dirotto.—Al limite del campo vidi la bimba, fra uno scroscio e un lampo, bello fra i ricci bruni il fresco viso. Tesi le braccia; ed a traverso il nembo la bimba accorse, fradicia e ridente, e mi cadde sul cuore, e il suo fremente piccolo corpo mi raccolsi in grembo.... .... Passano i giorni, passano—e si muore. Ben altre furie di tempesta tu affronterai—ma non ci sarà più la tua mamma a raccoglierti sul cuore.
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CANTA A' MIEI PIEDI....
Canta a' miei piedi, come uccel fra i rami, la bimba.—Come zolla a primavera, per lei la stanza olezza di ciclami. Parla con la sua bambola, e la culla con miti atti materni, e con lei ride. Nulla mirai di così dolce, nulla udìi che avesse la freschezza alata di questa voce: aura tra foglie, vena garrula d'acque, musica sognata.... .... Testina bruna e bocca di sorriso, cuore che vivi di felicità, io penso, intenta e scolorata in viso, a l'avvenir che fra le nebbie sta. Come lontano!... ma verrà.—V'è un'ora per tutto.—Or giochi; ed in te dorme intanto l'eterna sfinge che se stessa ignora. Dormono istinti e sogni, e il bene e il male, e l'energie de la tua razza, e il foco roditor de la carne, e l'ideale; l'opera forse ch'io non ho compìta, e che risorgerà per la vittoria in te, vibrando di più vasta vita; forse il poema de l'uman dolore.... .... Potrò seguirti per l'ignota via?... Perdutamente ora ti stringo al cuore, o bimba, o bimba, or che sei tutta mia.
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L'OMBRA
Sediamo, tacendo, sul queto balcone che guarda il giardino: io cucio, e tu fingi di leggere: ti gioca la bimba vicino. Rintoccan da lungi le piane campane de l'Ave Maria. Un'ombra ci scende su l'anima, non sai, non sappiamo che sia; così, come un'ombra di nube o d'ala, che rapida passa. Non dico la cosa terribile, nè pur con la voce più bassa: lo so, temerario è tentare la morte, sia pur con un detto. —Silenzio.—Tu stringi con braccia di ferro la bimba al tuo petto. .... Passaron per te, con la vita, le torve tempeste del cuore, le smanie che a te pur sembravano, —e forse non eran—l'amore: passaron per me, con la vita, degli estri il magnifico grido, e i sogni di gloria.—Ci pènetra ormai la dolcezza del nido; per questa dolcezza viviamo, serrati a la bimba, così.... Che cosa faremmo, se l'angelo di casa non fosse più qui?... * Io, sì, potrei vivere ancora, sai?... viver fra i muti balocchi, gli sparsi alfabeti e le bambole sue bionde, che chiudono gli occhi: canuta e disfatta, ma vivere, per vincer con torbida e forte superbia il mio strazio, e costringerlo nel verso che sfida la morte: costringerlo tutto, con brani di cuore, cogli urli supremi, con tale irruenza di spasimo che il mondo ne soffra e ne tremi.... Ma fuor de la semplice culla che il bianco tuo fiore cullò, oh, tu non avresti più nulla, tu t'ammazzeresti.—Lo so.—
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PICCOLA CASA
Piccola casa che da' tuoi balconi respiri il verde e ridi a Primavera, piccola casa ov'Ella un dì non era, ov'Ella schiuse i suoi lucenti occhioni: piccola casa linda come un fiore ove il mio core in Lei trovò la pace, che taci, mesta, se la bimba tace, che lieta echeggi a l'infantil rumore: in te sien puri ogni atto, ogni parola: schiuse sien le tue porte a chi domanda pane, e a la tua pietà si raccomanda: da te prorompa il gesto che consola. Palpita, come un nido: apri tua fronda, come un rosajo. Il calmo declinare del giorno aduni, in torno al focolare, pie fronti ove rimorso non s'asconda; e le finestre a l'albe senza veli schiudansi per desìo di luce e d'aria, salutando l'allodola che svaria inebriata pel nitor de i cieli; salutando col sol la gioia eterna del moto, e il ritmo de le forze umane. Amore, amore, amor dona col pane, piccola casa semplice e fraterna: ogni cantuccio in te serbi un'alata eco, un sorriso, una gentile istoria: tutto di te sia dolce a la memoria, piccola casa ove mia figlia è nata.
[pg!153]
TU SOLA
Corona di spine e di raggi, martirio invocato con braccia protese, con supplice cuore, maternità!... tu sola sul mesto femineo destino fiorito d'amore e di pianto imprimi il suggello divino. Torrente di vita che rompi le viscere d'Eva, a nutrire la gioia e il vigor de la terra, maternità!... tu sola redimi e consacri del senso la cieca follìa; tu, sbocciata da un bacio, in aromi d'incenso. La gracile Schiava, strumento d'ebrezza, di sogno e di morte, fra l'ombre de gli evi te attese, maternità!... te sola che a lei redimisse la fronte di pallide rose, a celare del lungo servaggio le impronte. Se, libera e sacra, Ella segua domani la fulgida via che il Dio de la vita le impone, maternità!... tu sola potrai, col tuo verbo profondo, avvincer le razze: tu sola sarai la salvezza del mondo.
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LA CENTENARIA
Prega—e in un soffio spirali le preghiere tremanti su la bocca ùmile e tarda— la venerata candida Vegliarda che vide più di cento primavere. Tutto ne la sua casa è come un giorno era: ma triste, solitario, immoto: figli e nepoti verso il grande ignoto fuggiron tutti, senza far ritorno. Prega—ma non ricorda, e non desìa. —Forse ella è morta prima di morire.— Lo stanco cuor che non sa più soffrire s'aggela in una immemore agonia. .... Fuori, da l'alba, neve senza vento. Bianche le case, bianca la pianura. Par che avvolga un candor di sepoltura la cieca Ava pregante, il mondo spento. Ella fu un giorno fresca come il fiore de i prati, ed ebbe la serena fronte d'Ebe, e sciacquò le vesti al chiaro fonte, stornellando di rondini e d'amore. Andò sposa a colui che fra i valenti figli del solco a lei parve il più forte; cinse d'ulivo e d'edera le porte de la sua casa, e custodì gli armenti. Nacquero i figli dal suo bronzeo grembo di vincitrice, audaci come belve, liberi per radure e campi e selve, esperti in guadar fiumi al sole e al nembo. Crebbero come il grano su l'arista, in un fulgor di forza aspra e possente; e ognun lasciò la Madre, avidamente sognando il mondo per la sua conquista. Ella rimase presso il focolare sacro, traendo a l'alta rocca il fuso. Nuova talor de' figli al nido chiuso come rondin venìa, da terra e mare. Tumultuanti d'energie superbe trasfuse in lor da le materne vene, toccavan essi il sommo segno, il bene eccelso, invitti ne le pugne acerbe. Ella rimase, casta guardiana de la casa e de i campi abbandonati. Quante volte tornò l'erba ne i prati, quante volte fiorì la maggiorana?... Quante volte passò l'aguzzo dente de l'aratro nel solco, ed il baleno di cento falci sotto il ciel sereno rise di gioia fra la messe aulente?... Ella non sa.—Più non ricorda.—Prega.— Forse or non è che un vano simulacro di vita,—Il corpo assiderato e macro sotto un terror d'eternità si piega. Ella fu come l'albero che diede tutti i suoi fiori e tutte le sue fronde; ella temprò le forze sitibonde de i figli con l'ardor de la sua fede; creò la stirpe e fu sovrana.—Espande or la stirpe selvaggia un irruente fiume di gioia per le arterie spente de gli uomini.—E la Madre, ùmile e grande, posa.—Sovra le innumeri vittorie, tremula e bianca illusïon di vita, posa, a custodia de la casa avita che tace, oppressa da le sue memorie. E tutto tace, in torno a l'alte mura. La neve cade, lenta e maliarda, avvolgendo la terra e la Vegliarda ne lo stesso candor di sepoltura. Sogna la terra, sotto il largo oblìo, fiori di pesco e gemme di vermène. Sogna l'Ava la pace ultima, il lene battito d'ali che la porti a Dio.
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ACQUEFORTI
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GLI AMANTI DELLA MORTE
Essi erano stanchi di tutte le cose vedute. Nessuna veniva, di tutte le cose sognate. La vita, come una straniera dal freddo sorriso indolente, ignota passava, fra gente ignota.—Non era, non era la vita che un pugno possente brandisce, scudo, asta o bandiera. E accadde che un giorno i fieri assetati pensarono la fonte che sazia ogni arsura, la fuga che è senza ritorno, la gioia de l'ultima oscura rinuncia, del freddo guanciale, del bacio che è senza l'uguale, del sonno immortale. E ti chiamarono, o Velata.— Ma tu non rispondi che a l'ora nel tempo fissata.— Ed essi sognarono allora vïolentare le tue labbra smorte: sognarono il gesto feroce, lo stupro terribile, o Morte!... * E tu, prostituta del mondo, che sai tutti i baci, vampiro che succhi ogni vena con labbra voraci, tu fosti a quegli occhi la fata dormente nel chiuso giardino, il giglio lontano e divino, la bocca non anco baciata.— Ti pregarono, a capo chino. Ti dissero: Vieni, o Velata. —Con te nel silenzio del bosco ove foglia non s'agita e voce d'uccello non canta: fra cespi di mirto e d'assenzio, fra tronchi che l'edera ammanta, o amore di terra lontana, o luce di fata morgana!...— .... Fu vana, fu vana la lunga preghiera, o Velata. Tu solo rispondi ne l'ora dal tempo fissata.— Ed essi sognarono allora vïolentare le tue labbra smorte: sognarono il gesto feroce, lo stupro terribile, o Morte!... * E come fanciulla dormente t'han presa.—Lo so.— La bocca brutale rovente la tua soggiogò. E tu, che prepari implacate torture a colui che ti fugge, col morbo che làncina e strugge, con lunghe agonie disperate, tu fosti l'Amante che rugge d'ebrezza fra braccia adorate, e versa le estreme delizie con l'ultimo rantolo; l'Amante com'edera avvinta che tutta si dona, che freme, che morde—tu vinta, tu vinta!... .... Fra cespi di mirto e d'assenzio or giaccion gli Atleti, in silenzio. Eterno è il silenzio, eterna la pace.—Un sorriso di fiera dolcezza s'effonde sul rigido viso. Risognan le gioie profonde ch'hanno strappate a le tue labbra smorte: poichè tu ben ami chi t'ama, o bianca, o terribile Morte.
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LACRIME SILENZIOSE
Mute, senza singhiozzi, allor che nessuno le vede, quando, venute l'ombre, de i visi la maschera cede, mute, senza singhiozzi, solcando roventi le gote, goccian, da fiere mani nascoste, le lacrime ignote. Come inesausta fonte, oh, sgorgan nel freddo silenzio, sciogliendosi su i labbri con acre sapore d'assenzio. L'ombra le guarda e tace, le ascolta cadere dirotte, e tace; e in essa il loro segreto d'angoscia s'inghiotte. Stille di piombo fuso su viscere dilanïate, ricadono su i cuori—e tutti ne abbiamo versate. Chi mai, chi mai, fratelli, nel mondo può dir che le sole lacrime sieno quelle che i cenci rivelano al Sole, porte e finestre aprendo per chieder pietà su le vie, pietà pei bimbi scarni, pietà per le ignude agonie?... * Mute, senza singhiozzi, allor che nessuno le vede, quando, venute l'ombre, de i visi la maschera cede, mute, senza singhiozzi, solcando roventi le gote, goccian, da fiere mani nascoste, le lacrime ignote. Piangon su i vecchi sogni, sul vecchio lontano dolore che il labbro dice—spento—che è piaga insanabil nel core; piangon su i figli ingrati, sul mesto avvizzir de la vita che, come sabbia d'oro, ne sfugge da l'avide dita; su quel che tu non dici nè pure a te stessa talvolta, anima miseranda, nel buio, nel dubbio travolta!... Gocce di vivo sangue, o lacrime ignote, sgorgare da ignoti occhi vi sento—e, ahimè!... non vi posso asciugare. Lo metteran sotterra, il cor che in segreto vi pianse: non saprà mai nessuno che oscura tristezza l'infranse.
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LA VECCHIA PORTA
Quadro di A. Baertsoen. A Elisa Ricci. La vecchia porta s'apre nel fianco del vicolo oscuro: goccia miseria e lebbra la crosta del viscido muro. Nera come un abisso, è muta, è sinistra la porta: sotto le basse nubi sta, fredda, terribile, morta. Morta?... no, pensa.—Cose nel tempo sepolte ella sa. Molto ricorda—amore, dolore, delitto, pietà. .... Passò, scherzosa, a l'alba, tornò, stanca e pallida, a sera, con le compagne, l'esile fanciulla che avea ne la fiera bocca e ne gli occhi glauchi la luce d'un sogno.—Non fu vista tornare, un giorno. Nessuno la vide mai più.— .... La vecchia porta pensa:—ne l'andito buio, una notte, due corpi avviticchiati, un colpo, uno schianto, due rotte parole: A me! soccorso!...—Durò, dentro l'andito muto, tutta la notte il rantolo de l'uom che morì senza aiuto. Piccole, strette bare di bimbi rachitici, spenti da tabe e da miseria nel fiore de gli anni innocenti, passarono.—Non pianse la madre, o assai breve fu il pianto: è dolce ai bimbi infermi la pace del pio camposanto. Passarono i braccianti, cantando. Ma avevan le note un ritmo grave, un senso d'ignote tristezze, d'ignote lacrime.... e una fanciulla da l'alto guardava, chinato il viso fra i cespugli di qualche geranio malato. Quanti singhiozzi e sogni di povere vite ascoltò la vecchia porta?... ora essa è stanca. —Ora pensa: Cadrò.— * Con voluttà di gioia, le picche e i martelli, domani, faran le grigie case del sordido vicolo a brani. Abbatteranno i muri stillanti la febbre del tifo, le garrule ringhiere, degli anditi immondi lo schifo, le stanze ove s'ammucchian, su stretti promiscui giacigli, pel torbido riposo i padri e le madri coi figli. Udran le tristi razze la prima parola d'amore, sapran che su la terra vi sono degli alberi in fiore, e gioie ùmili e sante, e case dai lindi balconi pieni di vento, pieni di gaie ridenti canzoni. E tu, tu, vecchia porta, travolta ne l'ampia ruina, vedrai la prima volta, cadendo, la luce divina: coi palpiti di marzo che sveglian le fresche viole, respirerai, morendo, la gloria feconda del sole.
[pg!181]
L'ORGANETTO
Amo le tue canzoni, o vecchio organetto scordato, da un monco veterano per ùmili strade guidato. A lui, che in Aspromonte pugnava fra i pallidi insorti, tu canti ancor: «Si scopron le tombe, si levano i morti....»: quando s'addensan l'ombre de' plumbei tramonti pei cieli, tu arridi a lui con l'inno fedel di Goffredo Mameli. Amo i tuoi stanchi ritmi, che sanno a la povera gente portare un soffio, un raggio di queta gaiezza ridente; che a le donne, sedute coi bimbi rachitici al seno, dicon non so che sogno, non so che miraggio sereno. Rapsodo vagabondo, nel buio de' freddi cortili getti, come d'incanto, l'effluvio de' liberi aprili; Nina, Rosetta, Bice discendono a salti le scale, ansando un poco, smorte del lento terribile male che sugge a goccia a goccia le vene del povero.—E tu suoni per quella gioia le danze del tempo che fu: oh, vana, oh, breve gioia di corpi a la vita anelanti, chiusi doman fra il sordo fragor de le macchine urlanti!... Rapsodo vagabondo, va dunque, le tue serenate cantando a le finestre d'anemica ruta infiorate: getta i tuoi vecchi ritmi ne' trivii ove il popolo muore, così, come si getta sul fango del lastrico un fiore: Beethoven de la strada, un vento di turbine, un'onda d'oscura angoscia infrange talor la tua voce profonda. Ne le tue rotte corde, nel buono ramingo tuo core l'anima de la plebe passò col suo stanco dolore, e piange....—come il cieco vagante a tastoni entro il velo d'ombra che gli contende l'azzurro implorato del cielo.
[pg!185]
L'ULTIMO VALZER
Fra le sue braccia ella è flessibile come un virgulto nel lungo strascico color viola. Danzano, danzano senza parola. Fra densi effluvii, fra luci gemmee piegano, ondeggiano, stretti trasvolano ritmicamente; ed ella fingere tenta un sorriso nel bianco viso; ma il viso mente, ma il valzer mente, non s'aman più. A onde, a fremiti, a spire, a vortici si snoda il valzer pieno di lagrime, pieno di baci. E passan agili coppie fugaci: corpi di giglio, spume di rosei veli, auree treccie, lenti bisbigli, carezze lente.... bellezza e musica, eterna e vana fata morgana: follia di danza, fresca esultanza di gioventù!... .... La dama pallida non è più giovane, non è più bella. Fra i ricci morbidi v'è un filo bianco, nel petto il fragile cuore è già stanco. Danzano, danzano, avvinti inseguono nel ritmo l'ultimo miraggio, l'ultima speranza in vano. Giro di valzer rapido e lieve sei, vita breve!... La terra accoglie le vizze foglie: il sogno fu. .... Danzano, danzano la ridda funebre sui fiori morti. L'amore in livido gorgo s'affonda; ma ancor del valzer spumeggia l'onda. Con lunghi brividi, con molli e perfide carezze avvinghia, trascina, intorbida l'anima e il senso. Oh, fra le immemori ultime spire così sparire: di mari ignoti naufraghi ignoti, non soffrir più!...
[pg!191]
SETTE MAGGIO 1898
Ho quell'ore ne l'anima inchiodate: la via deserta, sotto un ciel di piombo: ad un tratto, da lungi, un sordo rombo di folla, e un grandinar di fucilate. Porte e finestre in un balen serrate lugubremente—poi silenzio.—Il rombo già s'avvicina, sotto il ciel di piombo: colpi, fischi di palle, urli, sassate. Fin ch'io vivrò mi resterà ne l'ossa quell'angoscia, quel soffio d'agonia su gente inerme del suo sangue rossa; e vedrò quel fanciul, senza soccorso morente—un bimbo!...—in mezzo de la via, china e intenta su lui come un rimorso.
[pg!195]
FUNERALE DURANTE LO SCIOPERO
Carro povero e nudo e senza un fiore che lentamente porti il fèretro del vecchio muratore a la casa de i morti, come un carro di re verso il riposo che non ha fine, vai: il corteo che ti segue è glorïoso come niun altro mai. Son diecimila e pur sembrano un solo, calmi, quasi sereni. Unica e grande sul compatto stuolo par che un'idea baleni; e nel ritmico passo e ne l'uguale respiro e ne le assorte fronti parli e s'affermi, alta sul male, sul pianto e su la morte. «O Camerata, che ne l'aspro e degno conflitto eri con noi, e moristi, sperando, in questo segno, fra le braccia de' tuoi; volgiti indietro, e guarda. Eccoci tutti a le tue pompe estreme. Quel giorno solo noi verrem distrutti che non saremo insieme. Sappiamo ormai che, in nostra fede avvinti, rinnoveremo il mondo. Son retaggio de i deboli e de i vinti il gesto furibondo, il cieco sasso, de gli incendii il lume sanguigno, e il pazzo urlare. Noi siamo il grande e maestoso fiume che volge il corso al mare; il ghiacciaio noi siam bianco e silente che leva al ciel la fronte, e a poco a poco, inesorabilmente, spacca e sommuove il monte. L'ultimo aiuto e la speranza estrema perduta avrem dimane. Non tener, Camerata. Il cor non trema se pur ci manca il pane. Oh, come lungi ancor le radïose battaglie del lavoro, fra canti di fanciulli e aulir di rose sboccianti a l'albe d'oro!... Quante vittime ancor lungo la via irta di sassi e spine, ne la guerra inugual, ne l'agonia tremenda e senza fine de la fatica che non ha conforto, de la scarsa mercede, del duro pane!... O Camerata morto, dormi, ne la tua fede. Siam diecimila in torno a la tua cassa, doman sarem milioni. L'ira nostra non è turbin che passa denso di lampi e tuoni: è l'avanzar compatto ed incessante fra torbidi perigli, non per noi, non per noi, ma per le sante gioie de' nostri figli: è il batter senza tregua coi pesanti martelli il duro masso, a poco a poco disgregando, ansanti, le vèrtebre del sasso: nostra fede portar come un bel fiore su l'elsa d'una spada: stringer le file se un fratel ci muore, e seguitar la strada.»
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REDENZIONE
L'uomo che molto pianse e maledisse e s'abbrutì per fame, a colei che di sè mercato infame lungo i trivii facea,—Seguimi—disse. Vide ch'ella, a vent'anni, rifinita era, come vegliarda; e avea ne la pupilla opaca e tarda la vergogna e il terror de la sua vita. Egli dunque le disse: «O condannata al bacio, àlzati e vieni. Con quest'occhi che un dì furon sereni tra i rifiuti del mondo io t'ho cercata. Perduta sei com'io perduto sono: pietà di me nessuno commoverà, pietà di te nessuno: chi è fuor di legge non avrà perdono. La tua china è la mia, giù, sino al fondo. In questo è la salvezza. Noi avrem la terribile dolcezza d'amarci come niun s'amò nel mondo. Per l'infanzia di stenti e di percosse che ricordi tremando, pel tuo livido corpo miserando, per la fame che a venderlo ti mosse; pel trivio cieco, ove randagie e scarne ombre velate in viso offronsi col più squallido sorriso che mai finga il piacere in triste carne; per le taverne ove il barabba porta il rauco ritornello d'un'oscena canzone, il suo coltello pronto a ferire, e la sua donna smorta; per l'alba d'ôr che Iddio promise, io t'amo, io t'amo.—Così sia.— V'è una terra nel mondo ove s'espìa per rinascere.—Credi: àlzati: andiamo.» * Vanno—per espiar.—Tutto il rossore de i colpevoli e ciechi anni trascorsi, e i tumulti de l'anima e i rimorsi vibrano in quell'amore: come lavacro su le fronti oranti, scroscïando dal ciel tinto di lutto, cadono al par di tempestoso flutto tutti del mondo i pianti. Vanno—per espiar.—La fulgida ora non suonò—ma rischiara a poco a poco le trepidanti anime un riso, un foco di speranza e d'aurora. Passano ignoti per ignote strade, fin che cessa la pioggia e il giorno appare: giungono a un piano vasto come il mare, magnifico di biade. E caste madri e giovani e vegliardi da la libera festa del lavoro tra l'erbe verdi e tra le spiche d'oro miran con dolci sguardi i due ploranti, e tendono le braccia, salmodiando il cantico di Cristo: —Ben venga chi sofferse ignudo e tristo, e chi smarrì la traccia: chi, delitti non suoi scontando, infranse le mura de la legge per un pane, e tutte seppe le vergogne umane, e il suo sfacelo pianse!... Qui ogni vita risorge e si trasmuta: qui si crede e si canta; e la sublime giustizia de l'amor salva e redime il ladro e la perduta.—
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INCONTRO
Noi c'incontrammo. Io mi sentìi repente il gelo su la faccia e un tuffo al core, e per tutte le membra un'opprimente gravezza.—Ella era smorta del pallore stesso che volto e labbra a me coprìa: tremava del medesimo tremore. Piegò vêr me la testa in atto muto, silenzïosa io reclinai la mia: e mai covò tant'odio in un saluto.
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DILUVIO
E piove, e piove senza mai cessare: piove con odio su la terra scossa. La rauca voce del torrente ingrossa più e più, sotto il cieco imperversare. Empie la stretta valle che s'infossa fra i monti—e sale, e pare urlo di mare, l'eco de gli opifici a soverchiare come rombo di popoli in sommossa. .... Ascolto—sola.—E penso a le fiumane che, non lungi di qui, sfascian le rive, tutto affogando in gialle onde incalzanti; di qui non lungi, udir credo, su schianti di case e lagni d'ombre fuggitive, un ruinar precipite di frane.
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CAMPANA A MARTELLO
Dan-dan di campana lontana che turbi la pallida Notte, che rompi la calma del sonno con grida d'angoscia, con rotte parole, che piangi, che incalzi ne l'ombra, portato da i venti, e piombi e ripiombi su i cuori, che al buio trasalgono, intenti: qual fiume strarìpa?... qual dramma si svolge di sangue fraterno?... qual fiamma divora le case, divora le vite, ed avventa ne i cieli da l'arse ruine con folle superbia le spire crudeli?... E pur non rosseggia d'incendio de i cieli la curva profonda, non rombo di fiume ne giunge che gonfio travolga la sponda. Dan-dan di campana lontana che chiami, che chiami, che chiami, da quale fantastica torre tu mandi i tenaci richiami?... Non sei de la terra?... nel vuoto ti getta il dolor d'uno spirito ignoto?... Le bianche, le tacite stelle che piano tramontano in mare te ascoltan con voce inesausta pregare, pregare, pregare. Dan-dan di campana a martello squillante dal buio Infinito, ne l'ora d'un sogno tremendo noi tutti t'abbiamo sentito. Vorremmo assopirci ne l'ombra, ma tu sei de l'ombra più forte: ci sveli il perchè de la vita, ci sveli il perchè de la morte. E tutte le cose bugiarde, e il tempo perduto ne l'opere tarde, e tutte le ignavie vigliacche del cor che a se stesso ha mentito, ne dici, campana a martello squillante dal buio Infinito!... E il piccolo cuor che ha creduto di battere eterno, la Sfinge a un tratto comprende: si sente caduco; ma il tempo già stringe. Fu errata la strada e la fede; fu un sogno la gloria; fu vano l'amore.—Mentisti a te stesso—ripete il rintocco lontano. —O cuore, riprenditi intero: t'imbevi di luce, combatti pel vero: vuoi dunque morir senza dirla, la pura, la grande Parola che devi?...—Così la campana singhiozza—fatidica—sola.—
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ALPE
Non posso amarti, o vetta ove risplende fredda la neve ne' silenzî immoti, ed il ghiaccio cristàllino si fende su abissi ignoti. Tu stai sovra le nubi e sovra il male, t'avvolge l'ampia nudità de l'aria: pria di sfiorarti irrigidiscon l'ale, o Solitaria che non sai, che non senti e che non muori. Fra la mia vita e le tue nevi eterne sta un miserrimo stuol d'odii, d'amori, d'ansie fraterne: tremano gli echi de i singhiozzi umani, danzan le ridde de gli umani strazî; ma tu non hai pietà, da' tuoi lontani gelidi spazî. E se l'uom, te mirando, un'ideale grandezza pensa, gli rispondi: Mai: a questa calma eccelsa ed immortale non giungerai.— * Forse, chi sa?... tu pur soffri.—Tu, stanca forse de' tuoi silenzî ampî di tomba, e d'esser sempre immobilmente bianca sul mondo che qua giù turbina e romba, sogni.—Sogni un torrente aureo di lava che salga dal tuo core a le tue cime, e vi squarci un cratere, e su te schiava trabocchi, ardendo d'un amor sublime.
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A MIA MADRE LONTANA
Ti sogno.—A le gracili mani appoggi la testa che langue. Oh, mai così pallida, oh, mai così esangue ti vidi ne i tempi lontani. Tu ascolti il cammino de l'ore, o madre, d'intense memorie vivendo; e passano l'ore, cadendo pesanti sul chiuso tuo core. E pensi a me sola, a me sola: con tutta l'oscura energia di quella che t'arde mortal nostalgia chiamando me sola, me sola. Oh, qui, dove perdutamente a un rogo d'amore la vita abbandono, ti grido—Perdono, perdono— o madre diserta e cadente; e sempre ti sogno. Le mani raccogli, bianchissime, in croce, e parli—e nel soffio de l'esile voce rivivono i tempi lontani.
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SUL MONUMENTO DI EDVIGE V***
Ritta presso il sarcofago, non geme l'alta immobile donna, e non impreca: ascolta, intenta e dolorosa insieme. Lo sguardo e il viso essa tremando tende, socchiuso il labbro, giunte ambo le mani: e forse il sogno del mistero intende, poi che le vibra tutta la persona, e gli occhi, fissi al limitar del cielo, spiran l'essenza d'ogni cosa buona. In questi giorni di novembre, grevi di nebbie, e quando coprirà l'inverno le fosse col pallor de le sue nevi, e sempre, nel fluir del tempo ignoto, muta sfinge di bronzo, ascolterai, perduti i supplicanti occhi nel vuoto; ma quel che intendi non saprem giammai. * Noi non sappiamo nulla.—Ferrea porta si chiude, nel presente e nel futuro, su quel che resta de la nostra Morta. Noi null'altro che ciechi atomi siamo, e su la Cara che ci lasciò soli oh, nulla, fuor che pianger, non sappiamo. Luceva in Essa quell'ardor di bene che sommove le pietre e tutti i cuori trascina e spezza tutte le catene: e mentre Ella, di fiori una regale copia spargendo con le bianche mani, assurgeva al suo culmine mortale, mentre un suo riso semplice e gagliardo a noi volgeva, a un tratto sparve.—Sola tu sai, tu, sfinge da l'intento sguardo, del suo sepolcro l'intima parola. * È parola di speme e di quiete che a te sommessa come un bacio giunge da queste ov'Ella dorme ombre secrete?... O pure è pianto, è gemito d'angoscia, urlo e singhiozzo per cui trema il marmo come a tumultuosa acqua che scroscia?... O è sogno d'altri mondi e d'altri cieli, cantico e riso di novella vita che commove i tranquilli echi fedeli?... .... Noi non sappiam che piangere, vaganti come bimbi smarriti ne la notte, mentre il tempo ne spinge avanti, avanti, ove Ella aspetta.—E tu, sfinge, che il puro viso tendi ascoltando e preghi e tremi, tacerai nel presente e nel futuro, sino al cieco affondar de gli anni estremi.
[pg!233]
PASQUA DI RISURREZIONE
Io canto la canzon di Primavera andando come libera gitana in patria terra ed in terra lontana, con ciuffi d'erba ne la treccia nera. E con un ramo di mandorlo in fiore a le finestre batto, e dico: Aprite: Cristo è risorto e germinan le vite nove e ritorna con l'April l'amore!... Amatevi fra voi, pei dolci e belli sogni ch'oggi fioriscon su la terra, uomini de la penna e de la guerra, uomini de le vanghe e de i martelli. Schiudete i cuori: in essi irrompa intera di questo dì l'eterna giovinezza. Io passo e canto che vita è bellezza, passa e canta con me la Primavera.
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IN MEMORIA
Alla mia seconda bambina vissuta un mese. Non odi?... il frondoso giardino è tutto un cantare di passeri, è tutto un susurro di foglie nel fresco mattino. Mio piccolo fiore selvaggio, perchè rifiutasti di vivere?... È ver, tristi giorni ha novembre; ma poi torna maggio. Velata di candidi veli saresti or fra queste mie braccia; avresti ne gli occhi vaghissimi l'azzurro de i cieli; ed io ti direi le gioiose parole che tutte bisbigliano le madri ai bambini, cogliendoti a fasci le rose. Ma tu non volesti. Il vagito tuo primo, o mia bimba, fu l'ultimo: suggella i tuoi labbri il silenzio: eterno, infinito. Schiudesti sul mondo l'ignara pupilla, o mia bimba, un sol attimo: che vide?...—Suggella il silenzio la culla e la bara. E pure al mio sogno che sparve io grido: perchè?... Fra le braccia materne, perchè, bimba, inutile la vita ti parve?...
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PICCOLA TOMBA
O piccola tomba lontana, è il giorno de i Morti.—Chi sa se l'erta stradetta montana qualcuno per te salirà!... M'han detto che cadde la neve su i colli di Santa Maria: io penso la grigia, la breve colonna troncata, fra un chiuso di fronde rossiccie, di rami bagnati, in un velo diffuso di nebbia.—La candida Morta io penso, che quasi non visse. S'aprì, si rinchiuse la porta di Vita, in un'ora, per lei. E fuor che quegli occhi, sì grandi, sì limpidi e simili ai miei, io d'essa non vedo.—Nel cuore non so ricomporre quel viso, quell'esile grazia di fiore.... .... Morivo, lo so.—Sui cuscini rizzata la testa convulsa, io vidi quegli occhi divini. Tentaron le labbra una pia parola di benedizione. Poi vinse, su me, l'agonia.— O tu che portavi ne i tristi tuoi occhi il perchè del mio male, o tu, che di quello moristi; da lunge mi guardi, mi guardi, con muta struggente pietà.— Comprendi?... mi aspetti?... È già tardi, fra poco la mamma verrà.
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PIAZZA DI SAN FRANCESCO IN LODI
Se de la patria il giovanile e fresco disìo sale al mio cor come un incenso, tutta bianca nel sole io ti ripenso, piazza di San Francesco. Cresce fra le tue pietre, o solitaria, tranquilla l'erba come in cimitero. —Sole e silenzio.—Un passo—un tremar nero d'ali, fendenti l'aria. Ed eran quel silenzio e quella pace che in te bevevo a sorsi larghi e puri; e il bacio amavo su' tuoi vecchi muri de l'edera tenace. L'antico tempio, presso l'ospedale, svolgea sue linee semplici e divine. Per due bifori in alto, snelle e fine, rideva il ciel d'opale. L'antico tempio avea canti e colori d'una soavità che ancor mi trema dentro.—O speranze, o poesia suprema de gli anni miei migliori!... Gravi note de l'organo, salenti a gli archi de le vôlte longobarde, su l'alte mura tremolar di tarde stelle e fluir di venti!... Come un suggello mistico al pensiero da voi mi venne—e forse ho sempre amate per voi le grigie case abbandonate ove dorme il mistero, i muschi densi a piè de l'erme, i queti cortili pieni di sole e di verde, i portici de i chiostri ove si perde l'anima de i poeti; i tristi luoghi ruinanti in pace ove sol parla il soffio de le cose, de i sogni morti e de le morte rose, e tutto il resto tace.
[pg!247]
IL SOGNO DI DRAGA
Sorrise con labbra procaci, con piccoli denti felini la donna al suo sogno, ne l'ombra. Sì grande era il sogno che vincer le parve follìa; ma grande era pur la malìa de gli occhi d'amore, di sotto a le pàlpebre chini; ma il fiero destino era scritto nel suo nome, nel suo nome, lucente, terribile e dritto qual filo di spada. Creata ad ambigue vittorie ella era; in quel corpo era chiusa la forza di tutte le glorie del senso.—Ella sorse.—L'effusa sua chioma pareva una veste regale.—Ella andò.—Le tempeste a lei saettavano i fianchi, gonfiandole il labbro di sfide, gonfiandole il cuore d'orgoglio. Salì fino a te, salì dal tuo letto al tuo soglio, o giovine re!... * Co' suoi tenebrosi capelli la pallida Maga t'avvinse. Tu, contro la storia e la plebe, tu, contro i destini di patria, fanciullo selvaggio, bevesti a quel bacio, a quel raggio la fede, la vita. Ed ella il tuo cuore si strinse nel piccolo pugno di fata, invincibile, invincibile, allor che, al tuo piede prostrata, susurrava: T'amo.— Mentiva. Mentiva, pel trono gonfiando il suo grembo infecondo, indegna di tregua e perdono, profanante a gli occhi del mondo per sete di regno un altare. Sfidò, come scoglio nel mare, il nembo fischiante.—Fu sola in faccia a l'Europa.—Con denti difese e con unghie di belva il suo sogno, o re. E cadde qual tigre a la selva, ma cadde con te!... * Regina di Serbia, stanotte scordasti, per l'ore solenni, la veste di rosso broccato?... Purpurea qual sangue di vinti è la tunica slava che avvolger ti dee, prima schiava d'un torbido regno, di patria ne l'ore solenni. Ma gli ebbri soldati, o superba, ti preparano, ti preparano, col piombo, la tunica Serba. Per vènti ferite cadendo, due volte sovrana, scontando con l'empio martirio la gloria terribile e vana, il vano infecondo delirio, scagliando ancor l'ultimo insulto sul viso a la Serbia in tumulto, tu insanguinerai terra e mare col tuo sangue di leonessa. Il manto regal di Teodora volesti per te. Or cadi, com'essa, ne l'ora fatale de i re!... * Nel campo ove immemore l'erba verdeggia su l'umili fosse, o Draga, il tuo sogno è sepolto con te.—Tu passasti sul capo di cento ribelli, sul filo di cento coltelli, fra il plumbeo silenzio che cova fragor di sommosse, armata di scudo e d'elmetto pel tuo sogno, pel tuo sogno, che or serri, in eterno, sul petto. Tessuto di perle e d'oro, gemmato di ardenti rubini, grondante di sangue, ti avvolge le membra possenti fra spire fantastiche d'angue. In vita toccasti il tuo segno: nel mondo godesti il tuo regno: se rosso martirio ti lava, se crisma di morte t'assolve, riposa—o pirata del soglio.— Riposi con te, sgabello al tuo misero orgoglio, il fosco tuo re!...
[pg!255]
NATALIA
E tu, che di beltà quasi divina fosti, ed or soffri nel lontano esiglio, e pregare non puoi, se pur regina, su la terra ove ucciso hanno il tuo figlio!... Stai, come Niobe, curva sotto il fato, senza lamenti.—E pur sento cadere lacrime e grida sul tuo cor malato, —gocciole di veleno in un bicchiere:— sento, o vagante e tragica Sorella, —e la pietà per te mi fa più buona— l'inconfessato intimo strazio della maternità che porta una corona.
[pg!259]
IL MINUTO
Minuto che passi fuggendo, veloce pulsante fra il cielo e la terra fiorita, minuto che passi, fermare nel ritmo sonante io voglio la breve tua vita. Io fragile donna con gesto d'amor ti conquido, ti strappo a la notte d'oblìo: rapito a la corsa del tempo, nel bronzo t'incido: sei bello, sei vinto, sei mio. E sento vibrar nel tuo cerchio le immense energie de l'aria, de l'acque, de l'uomo; il vento ne i boschi, su l'alpi, fra vele e sartìe di alati navigli sul dòmo abisso de i mari; fragor di veicoli urtanti gli asfalti di libere strade, respiro di folla, respiro di fronde, vaganti canzoni per campi di biade; stridore di seghe e di leve, di cinghie e catene, vicenda di remi su l'onda, di mine fra i monti, d'aratri spaccanti le vene al sen de la Madre feconda. Mi giungon risate e singhiozzi, susurri di baci, preghiere di voci commosse; baleni di falci che taglian le messi feraci, di vanghe che scavan le fosse; conflitti di forze lottanti ne l'aspra conquista de l'uom su i selvaggi elementi; bisbigli sommessi de l'erba che cresce non vista ne gli orti de i vecchi conventi. Rapisco a la donna che siede con gli occhi su l'ago il sogno che ride al suo cuore; il primo suo gemito al bimbo che nasce, presago di pianto, fra il sangue e il dolore; l'alato onniforme pensiero a la folla dispersa su mari su terre fraterne; ti chiudo in me sola, minuto di vita universa, lanciato a le tènebre eterne: io centro del cosmo, regina de gli atomi erranti, respiro, adorando, i fulgori di tutti i tuoi raggi, la gioia di tutti i tuoi canti, l'aroma di tutti i tuoi fiori.
[pg!263]
MADRE TERRA
La Terra Madre chiama. Ne la luce del sol stesa e sommersa, de i tristi figli la tribù dispersa tenacemente chiama. La Terra Madre piange. Ne le pallide notti senza luna sotto le stelle abbandonata e bruna, perdutamente piange. E grida: Ove fuggiste, o figli, o figli del mio grembo nero, ch'io pel mio bacio crebbi, unico vero, e per le bionde ariste?... Quale malvagio istinto vi trascinò ne le città tremende ove a l'intrigo verità s'arrende, ove il respiro è vinto da torpidi miasmi, per meandri tortuosi ed atri, —.... o nati per le falci e per gli aratri!...— vanno i vostri fantasmi?... Arde come in un rogo la gran città di febbre e di peccato. Tra quelle fiamme un sogno insazïato vi preme, arido giogo. In brume ampie s'avvolge la città di menzogna e di tumulto. Di passïone un trepido sussulto per essa vi travolge: averla al piè, domata come una schiava avvinta per le chiome, e ch'ella gridi il vostro, il vostro nome, con voce innamorata.... Ma la leggiadra belva vi dissangua con bocca di vampiro. Tornate, o figli, al libero respiro del vento ne la selva; ai fiumi vinti a nuoto, ai voli in groppa di puledri indòmi. Io so l'ombre de i lauri e so gli aromi del desiderio ignoto. Io vi darò le pure notti, quando tra il fien cantano i grilli, e par che il cielo tremulo sfavilli amor su le pianure; e il fiorir bianco e lento de l'albe a maggio, allor che il giorno pare un campo di conquista ove balzare cogli orifiammi al vento. .... Gonfie di vizio e d'oro cadranno a fascio, in un boato immane di ruina ciclòpica, le insane città, vinte dal loro orgoglio.—Io sola e grande resterò.—Verran vergini e poeti ai miei solchi, ai miei tralci, ai miei roseti, a le mie vaste lande. Chini sovra il mio cuore dal ritmo innumerevole, sapranno la verità che Iddio, sul basso inganno de gli uomini e l'errore, pose.—E dal mio possente seno gonfio di germi e di dolore zampillerà per quelle bocche in fiore la magica sorgente di Vita: polla d'acque fresche come nel biblico mattino, quando, vergin di forze, ad un divino cenno, la Vita nacque.
[pg!269]
SACRA INFANZIA
A Ersilia Majno Sacra infanzia del povero, io ti vidi soffrire e mendicar per tutti i lidi. Vidi fragili carni avvelenate da tabe; esili membra già piagate da i colpi; labbra fatte pel sereno riso, schiudersi al ghigno, al detto osceno; grandi occhi d'innocenza aperti in fondo a turpi abissi; anime dal profondo palpito, ansanti verso la bellezza del mondo, anime piene di dolcezza e d'impeto, stroncarsi al giogo, intrise di melma e d'odio, mutilate, uccise. Sacra infanzia del povero, io lo sento entrar ne le mie fibre il tuo lamento. Viene da i bassi vicoli ove i muri sanno l'istoria di delitti impuri; da i rossi forni de le vetrerie, da i fondaci, da i porti, da le vie d'esilio, da le torride solfare, da le soffitte strette come bare, da tutti i luoghi ove son vite ardenti di bimbi oppressi, torturati a lenti spasimi, deturpati in mille forme di servaggio e d'infamia, a torme a torme. Noi, liete madri di superba prole che va coi piè ne i fiori e il viso al sole, non lo vogliamo, su le creature nostre, il rimorso de le tue torture; non le vogliam, le viscere de' tuoi martiri, per nutrire i nostri eroi. Coi rosei figli su le forti braccia di te veniam, fra sterpi e fango, in traccia; su te gettando, con l'amor che ignori, gioia di baci e nuvole di fiori; te guidando con gesto ardente e pio ove ogni vita tocca il suo disìo. Oh, madri anche per te!... Le consacrate viscere che a crear furon create, tanta han potenza in lor gioir fecondo da contener tutto l'amor del mondo. Vieni coi nostri figli, benedetta com'essi, al sole, a l'avvenir che aspetta. Vieni al robusto anelito, a la febbre de la conquista e de la gloria, a l'ebbre ore di gaudio che la vita dona quando al suo bacio il forte s'abbandona: godi il tuo maggio e cogli il frutto e il fiore, fra cielo e terra respirando amore.
[pg!275]
IL SALUTO FRATERNO
Salve, fratello.— Tu non mi conosci, non so il tuo nome: non ti vidi mai prima d'ora.—Qui, dove t'incontrai, mugghia il fragor de' carri e batte il polso vibrante de la strada affaccendata. Ognuno accorre con lena affannata verso il suo sogno o il suo dolore. Ognuno s'urta, senza guardarsi.—Ed io ti miro, lieve passando—oh, il tempo d'un respiro, oh, il tempo d'un addio breve, d'ignota a ignoto, in mezzo a la ruggente via: —Dio ti salvi, fratello—e così sia.— Non m'importa saper donde tu venga nè chi tu sia, nè che farai domani. Non m'importa saper se le tue mani sien pure.—O nato, come me, da grembo dolente; o fatto de la stessa carne, o preda de le stesse adunche e scarne unghie de l'Ombra che in silenzio attende dietro una porta, a l'angolo d'un muro, per colpir quando il colpo è più sicuro: tu che piangesti come forse io piansi, volgiti a questa voce de la via: —Dio ti salvi, fratello—e così sia.— Pel dondolìo de la lontana culla che ti cullò; pei baci di tua madre, se madre avesti che di sue leggiadre cantilene protesse il tuo riposo; per le poche dolcezze e per le molte lacrime, e le speranze che hai sepolte, come piccoli morti, in fondo al cuore; pel senso oscuro de la vita, uguale in tutti; per la sacra ansia immortale che sospinge le razze a l'avvenire; per la tua fede e per la fede mia, —Dio ti salvi, fratello—e così sia.— E vada, come a te, questo saluto a l'ampia folla che le strade ingombra: a la donna che passa, ombra ne l'ombra, contro i muri, velata: a chi un amore insegue, o un odio, o il pane: a l'uom del maglio e del telajo, fiero del travaglio compiuto, e gaio d'una sua canzone: al poeta, al fanciullo, al morituro che sogna, e crede eterno il suo futuro, e domani, con me, con te, dissolto andrà pel cosmo in onde d'armonia: —Dio ti salvi, ora e sempre—e così sia.— Fine