IN FACCIA AL DESTINO
In faccia al destino
ROMANZO
DI
ADOLFO ALBERTAZZI
MILANO Fratelli Treves, Editori Quarto migliaio.
Milano, Tip. Treves — 1921.
IN FACCIA AL DESTINO
PARTE PRIMA.
I.
Ero da pochi giorni a Valdigorgo, e già deluso nel tentativo estremo per cui mi ero trasportato da Molinella, alla casa dell'amico Moser, alle Prealpi.
Non avevo avuto la speranza che l'aria di lassù mi purificasse lo spirito; soltanto avevo pensato che la famigliarità con gente di cuore potrebbe scuotermi il cuore. Tre anni innanzi, quando combattevo i primi fieri assalti del nemico insorto in me, non avevo attinto lassù, nuove forze alla resistenza? là non avevo provato il sollievo di lunghe tregue?
Claudio Moser con animo aperto e affetto antico; Eugenia, sua moglie, con la bontà che io non sapevo paragonare se non alla bontà di mia madre; le figliole — Marcella e Ortensia — soavi e liete; il piccolo Mino, instancabile al trotto delle mie ginocchia, quante volte parlandomi nella memoria mi avevano chiamato a loro, come in porto e a rivivere!
Ma invano! Avevo fatto invano il lungo viaggio! Fortunatamente, se io ero a tal punto da non sentire più nulla e da rincrescere agli altri oltre che a me stesso, fortunatamente io avevo trovato la famiglia Moser in condizioni diverse: Claudio, sovraccarico di faccende, s'assentava interi giorni; la moglie, non era ancora in piena convalescenza d'una malattia quasi mortale; Marcella, da brava massaia diciannovenne, s'intratteneva a diriger la casa; Ortensia, assisteva la madre; e il fanciullo, prossimo ormai all'età della discrezione, preferiva, al trotto delle mie ginocchia, tamburi, pifferi e schioppi.
— Qua sei il padrone tu — mi aveva detto Moser. — Fa quel che vuoi per annoiarti più o meno, secondo la tua filosofia.
Pur troppo io non volevo nulla: soltanto restar solo. Dal dì dell'arrivo non avevo più varcato il cancello. Mi appartavo nel giardino a giacere e a sonnecchiar ignaro.
Così indifferente ero divenuto, che non mi ero accorto della differenza delle cose intorno; non avevo riconosciuto i vecchi alberi, non osservate le nuove piante e le recenti aiuole, quasi fossero per me luogo e paesaggio nuovi ma senza novità, o vecchi e sempre uguali, e sempre visti uguali.
E non per intimo impulso, ma come per inerzia, salivo ogni dì, alle ore solite, dall'inferma. Ne' suoi occhi freddamente io scorgevo un velo di rassegnazione se la fede di guarire le venisse meno; e al suo orecchio le mie parole giungevano fredde, perchè non confortavano, ma soltanto confermavano una cosa certa alla mia scienza: la guarigione. Nè a vederla così emaciata mi veniva fatto di ripensarla quale era ancora in salute, tanto bella e fiorente una volta! Quanti anni innanzi? Non più di quattordici. Allora io, ero appena laureato; essa aveva Marcella di cinque o sei anni e Ortensia piccolina. Che bellezza a vederla con la fanciulletta a lato e quell'angiolo biondo in braccio! Una bellezza materna. E come Eugenia era bella allora, io ero baldanzoso e ambizioso. Rapito nel mio sogno di scienza e di gloria, appena mi accorgevo di quel fiore di donna; e non l'invidiavo all'amico. Restavo chiuso nella mia camera quasi tutto il giorno a studiare; non mi distraeva la delizia del luogo; non mi rimproverava la cortesia della buona signora, a cui tenevo sì povera compagnia.
Talvolta, nella passeggiata avanti desinare per andar incontro a Claudio, Eugenia, come senza volere, ingenuamente, mi aveva detto di essere troppo racchiuso in me stesso, richiamando la mia attenzione alla vita esterna, ai bei tramonti, al bel paesaggio; e che soggezione era in lei se io mi inducevo a discorrere delle mie idee e dei miei studi! Mi ascoltava avvolgendomi del suo sguardo; lo sguardo che abbelliva ora Marcella. Per la via chi ci vedeva sogguardava forse malignamente: Eugenia non aveva ombra di alcuna malizia; e quando incontravamo Moser ed essa sorrideva e s'accendeva di gioia, oh allora io mi compiacevo che neppur l'ombra di un pensiero sinistro offendesse, entro di me, l'amore e la gioia di Claudio! Non avevo avuto mai, non ebbi mai per Eugenia un pensiero di profanazione; sempre ebbi per lei una devozione affettuosa e pura.
Ma ora quasi mi pareva naturale che Eugenia fosse così intristita e smunta, quasi fosse stata sempre così. A udirla narrare adagio e piano della sua malattia e delle pene de' suoi, mi pareva d'ascoltare un racconto non più doloroso; mi pareva naturale che nello sguardo di Marcella passasse l'ombra di tante angosce; naturale che Ortensia poggiasse il capo accanto al capo della madre e che le rosee guance e le guance emaciate stessero insieme un poco sul cuscino bianco, e che le labbra vive di sangue ricercassero a quando a quando, come per riscaldarla, la fronte esangue.
Finchè un giorno, mentre Ortensia usciva dalla stanza, dissi senza intenzione di recar piacere, senza intenzione alcuna:
— Sono belle, Eugenia, le vostre figliole.
La madre non negò. Affermò:
— Sono buone.
Io tacqui, parendomi naturale che la madre, non io, che pure le conoscevo, ne avvertisse la bontà e che io tacessi.
Ma quello stesso giorno, avanti desinare, Ortensia mi sorprese laggiù, sotto i tigli.
Disse scherzosa: — Riverisco! — e s'inchinò.
— Chi t'ha svelato il mio rifugio? — domandai a mezza voce. (Ubbidendo a Moser proseguivo a dar del tu alle signorine, tuttavia bambine agli occhi del padre....)
— Lo sapevo — ella rispose. Poi aggiunse franca: — E voglio saper tutto, tutto!
— Che cosa?
— La mamma lo dice da un pezzo: Sivori è mutato. Si può sapere cos'ha?
Quantunque ardita innanzi a me, Ortensia m'interrogava con un sorriso incerto; col dubbio manifesto che non le rivelerei il mio segreto, e col rammarico che neppur lei, la mia «piccola amica» d'una volta, meriterebbe tal confidenza. Dubitava d'un mistero. E io, che non sapevo che dirle:
— Sono stanco — dissi; e la guardai in modo da toglierle il sospetto del mistero.
— Stanco fin di parlare?
— Sì....; non d'ascoltare, però. Parla tu.
— Santa pazienza! Parlare? Ma di che, con lei?
Frattanto siede nell'erba e s'abbandonò non scomposta, reclinando il capo a un tronco, e chiese:
— Che debbo dirle? Su! presto!
Ma io non avevo ancora parlato ch'essa si rialzò d'un tratto a seder meglio.
E fermando al petto un grosso mazzo di margherite:
— È stanco anche dei fiori?
Non risposi.
Allora venne a pormi due margherite all'occhiello della giacca, mentre ripeteva: — Sivori non è più lui! non è più lui!
Ed io scossi le spalle, impaziente:
— Parla d'altro!
— Cosa debbo dirle? Andiamo!
— Raccontami della tua vita in città, quest'inverno. Andavi a scuola?
— A scuola, io? a diciassette anni? Ho diciassette anni!
Ne pareva meravigliata essa stessa.
— E ne sai abbastanza?
— Di matematica, sì! Oh la maestra di matematica! Per tre mesi — siamo rimaste a Milano tre mesi — tutti i giorni quella seccatura! Io non ne azzeccavo una; le somme non tornavano, le moltiplicazioni peggio che peggio! Come sarà che da me i numeri non si lasciano moltiplicare? Basta; la maestra, poveretta, scuoteva la testa come una tartaruga e sospirava: «Non ha disposizione alla matematica!» Il guaio è che diceva lo stesso la maestra di francese, madame Duret. La conosce madame Duret? No? non la conosce? — (Rideva di gran gusto) —. Immagini un uomo vestito da donna, con una sottana di color malva corta corta, una mantellina nera, un cappello di fil di ferro, il fusto s'intende, ma con il velo e i nastri sossopra che lasciavano vedere il fusto; e un naso, oh che naso! Buona però, tanto buona, Madame Vous-vous?... Sa perchè io la chiamavo così, Madame Vous-vous? Perchè lei diceva: Bonjour, mademoiselle! E io: Bonjour, madame. Comment vous portez? Mi dimenticavo sempre, a posta, il secondo vous. E lei: portez vous! vous! Quelle étourderie!
— Eppoi?
— Eppoi cosa?
Non trovai altra domanda che intorno i divertimenti di lei, all'inverno.
Conversazioni? Ma che! non andavan da nessuno; non ricevevan nessuno. A teatro sì, qualche volta....; a opere o a commedie, di cui finsi ignorare l'argomento per non aver necessità d'interloquire e per lasciar dire a lei, chiacchierina agile e fervida. Nell'esprimere impressioni lontane e ancora sensibili essa aveva una prontezza insolita, e s'arrestava a quando a quando per esser confermata nel suo entusiasmo. Domandava: — Non è forse un bel dramma? Che bella musica, è vero?
Ma tosto io non le badai più affatto. Mentre proseguiva a discorrere, io, non so perchè, o perchè talora ella acuisse la voce al tono fanciullesco e da ciò fossi condotto a ripensarla ragazzetta, o perchè in quell'ora i suoi occhi avessero una luce più viva, o perchè la tinta rossa del tramonto mi rappresentasse, d'improvviso, un altro simile tramonto; non so perchè e come, io ebbi l'istantaneo presentimento d'un risveglio in me nel rinnovarsi d'un ricordo. La memoria, repentinamente e spontaneamente ridesta, mi ridiede in quello stato mortale una fugace coscienza di vita.
Non rammentavo un fatto che importasse, allora, alla mia esistenza; era anzi un fatto minimo che rivedevo e nel quale mi rivedevo con precisione e reintegrazione di circostanze, di azioni, di aspetti, di suoni. Con ogni senso percepii il ricordo.
E anche oggi lo riprendo e ripeto senza sforzo alcuno; in evidenza, per me, tragica, sebbene agli altri possa parere una futile rimembranza.
Un giorno d'autunno salivo al poggio dove una volta i frati del vicino convento riposavano dagli ozi della preghiera svagando l'occhio nel paesaggio intorno, ascoltando capinere e rosignoli, odorando effluvii di menta e di ginepro, bevendo aria vitale e dimenticando, paghi, che il paradiso è per dopo la morte. Ma quel giorno, a vespero, il dominio della mia solitudine era stato invaso; e da chi mi dichiararono alcune voci più alte fra il chiasso che mi giunse a mezza costa. Erano i miei amici; ragazzi e ragazze. Che facevano lassù? Quale nobile impresa? Volli sorprenderli. M'inerpicai di traverso; mi celai a spiare tra una macchia.
Ma bravi! ma bene! Non ci mancava nessuno. Le signorine Marcella Moser e Anna Melvi diricciavano castagne a colpi di pietra e parlavano sommesse; di contro, Guido Learchi, già studente di medicina, zufolava interrompendosi per sgridare, quale direttore all'opera, e finiva di comporre un forno con mattoni e sassi. Gli servivano da manuali Ortensia Moser e Pieruccio Fulgosi, affaticati a raccogliere il combustibile.
— Là!
— Nella siepe!
— Sotto al noce!
Furettavano dappertutto e per poco non mi scovavano.
Pieruccio più svelto di tutti ammucchiava foglie e fronde, che Ortensia recava a bracciate.
Guido protestava:
— Legna grossa e secca! Con questa non si fan bracie!
— Ecco! A te! prendi!
— Che uomini! Un'ora per fare un po' di fuoco! — gridava Ortensia.
E Learchi a bofonchiarla: — Meh! meh! meh!
Poi egli diede uno scapaccione a Pieruccio ordinando:
— Spicciati, tu! Altra legna! legna! dico legna!
Finchè annunciò: — Pronti! — e appiccò il fuoco. Un clamore d'applausi salutò le prime volute di fumo.
— Forza! Siete in ordine?
— Sì, ma non le bracie!
Quand'ecco Pieruccio venne da lungi con grida più alte:
— Legna grossa, signori! legna da carbone! — Si traeva dietro una panca.
— Da bruciare?
— Sei matto?!
— Bruciamola! Bruciamola!
— Non si può! Non è nostra! — protestava Marcella.
— È rotta!
— Bene! Va bene, questa!
— Bruciamola!
— No!
— Sì!
— Sì! Bruciamola!
Urtoni, strappi, scappellotti, strida.
E io piombai in mezzo alla mischia.
Allora! Dopo il breve silenzio della sorpresa:
— Eh! Chi si vede! Ben arrivato! Buona sera! — Sta bene? — Ma si accomodi! — Che cosa comanda? — Uh, che faccia!
Sostenendo io, quantunque a fatica, il cipiglio di severità, le tre signorine, raccolte insieme a braccetto per comune difesa, mi risero in faccia; mentre Guido ripeteva inchini e chiedeva:
— In che possiamo servirla?
Quieto solo lui, Pieruccio, mi attaccava un riccio nella giacca, alle spalle.
— Punto primo! — urlai (Oh in che imbroglio mi ero messo!) — Qui si è rubato!
— Nossignore! — S'inganna! — Non è vero!
— Lasciatelo dire!
— Si sono sbattuti i castagni!
— È falso! — Calunnia! — Calunnia! — Lasciatelo cantare! Ha invidia! — Si calmi....
— Questi ricci sono stati staccati dalle piante! Ho visto! Si vede!
— Uh!... Bugia! Li abbiamo raccolti in terra!
— Tutti? — interrogavo ora chi non mentiva mai: Ortensia.
— In terra! erano in terra!
Ma Ortensia rispose:
— Due soltanto....
— E chi li ha tolti?
— Io!
Sincera fino alla sfacciataggine. Tutti, tranne Pieruccio, il quale cheto cheto proseguiva l'addobbo al mio dorso, risero, e le dissero: — Brava!
Io urlai ancora:
— Punto secondo! È proibito mangiar castagne o cotte o crude prima di desinare.
— Brrr! — Ha ragione! — Non gliene daremo nemmeno una! — Sì! una, perchè ne faccia la voglia! — Nessuna! Nessuna! — Poverino!...
Anna aggiunse: — La finisca! —; e la timida Marcella, anche lei: — La smetta!
A cui seguì stentorea la minaccia di Guido; la minaccia studentesca, piazzaiuola, anarchica, spaventevole:
— Abbasso i poliziotti!
— Abbasso!
Che fare? Chi mi salverebbe? Solo un incidente imprevedibile. Infatti Pieruccio, compiuta l'opera sua, mi punse d'un riccio a un polpaccio, e io mi gli rivolsi contro....
— Evviva! — Parve si scoprisse un monumento. Tal gioia fu a vedermi tappezzato a quel modo, che le signorine e il monello minore fecero, a mano a mano, catena; mi rinchiusero in un cerchio; mi rigirarono cantando in coro:
È arrivato l'ambasciatore,
Ulì, ulì, ulera!
È arrivato l'ambasciatore,
Ulì, ulì, ulà!
Intanto Guido sopperiva alla bisogna.
Punf! paf! Due castagne scoppiarono: Marcella e Anna mi presero a braccio; Ortensia mi ripuliva; Pieruccio accorse e si scottò le dita.
— Sia buono! — cominciarono a pregarmi i meno ingordi. — Non faccia la spia! Mangi con noi! — E mi convenne sedere al banchetto, complice o manutengolo.
Ma (approssimava il tramonto) dal fondo dell'anima io mi sentiva sorgere a poco a poco un'uggia che oscurava il sollazzo cercato con simpatia puerile; e in me avvertivo come uno sforzo a dimenticare la differenza dell'età fra me e coloro, e provavo come il rimpianto di quell'età, e mi chiedevo se a quindici anni io avessi avuto una giornata di così piena giocondità, di così assoluta spensieratezza. I compagni ridevano, motteggiavano, bofonchiavano, si eccitavano a vicenda, maggiori e minori, per esilarare ed esilararsi sempre più; e il giorno era per morire, nel modo dei giorni d'autunno.
Finchè, sazii, si levarono; avventarono nel fuoco quanto fogliame poterono raccogliere d'intorno, e dopo nuovi applausi ed evviva, a rincorse, strillando giù per il viale, tutti m'abbandonarono: un drappello di passeri che aveva spiccato il volo.
Si confusero le voci; echeggiarono forti; tornarono deboli; cessarono interrotte e furon riprese là in fondo, lontano, da un richiamo più alto; morirono.
Intanto il sole cadeva in un'onda di vivo sangue e i raggi che ne sprizzavano, colpendo il monte avverso, vibravano tra i faggi, gli abeti e i castagni della densa costa boschiva, sì che pareva, a fusti d'ametista e di zaffiro, una selva incantata, tutta fulgida d'oro, sfavillante. A nord i monti in cerchia dove non avevano luce o non ricevevan riverbero, annerivano; mancavano i profili e i contorni; scemavano e sfumavano le ultime vette; e dalla parte di mezzodì, sulla plaga che scampa alle due catene protese quasi per un impotente abbraccio, su per la pianura immensa aperta all'orizzonte, il cielo digradava dalle tinta di viola e un'opalina bianchezza, a un cilestre che diventava azzurro, a un azzurro che incupiva sempre più; finchè terra e cielo insieme terminavano nell'oscurità.
E silenzio. Non più voce alcuna; non una squilla. D'improvviso, come non mai, neppure in una notte serena lontano agli uomini e perduto sotto l'infinito; neppure in mezzo al mare ricordando la patria e cercando indarno un limite terrestre, io mi sentii allora, come non mai, solo. Non un grido, non un suono; oblio. E in quell'oblio d'ogni cosa viva per me, d'ogni mio pensiero, smarrendomi nella percezione dell'attimo, veramente io patii il senso di un superstite che scorgeva dall'una parte la cruenta morte del sole e dall'altra l'estrema illusione della vita, mentre da dietro incalzavano le tenebre, la morte precipitava; e avevo dinanzi l'infinito per rifugio, e tutte le mie forze vi tendevano quasi in un disperato ritorno per una disperata salvezza; e invano, chè una forza più valida mi avvinceva lassù: solo.
Cercai anche con incerti occhi il fumo che rimaneva del falò acceso dai ragazzi; e quel povero segno umano vaporava subito, svaniva; non altro a vederlo che quanto rimaneva d'un rogo con cui pochi mortali, già travolti nelle tenebra, avessero creduto placare il Dio o il fato inesorabile.
Non un suono, non un grido; morte. Ma allo smarrimento di me stesso, che volevo fuggire da me stesso e non potevo, mi seguiva a poco a poco una rassegnazione di schiavo, una prostrazione di vile, un impulso a pregare, una tentazione a piangere, un doloroso desiderio dei miei, che mi avevano preceduto nella morte e nell'ombra.
— Che fa quassù?
Mi voltai. Ortensia accorreva.
— È ora di pranzo — esclamò giuliva.
Ella ansimava per la corsa e per l'erta.
Ma arrestandosi d'un tratto, non attese più a me; rapita d'un tratto, più presto di me, con maggior impeto verso quella splendida agonia del giorno.
Quindi mutata in viso mormorò:
— Che tristezza, non è vero?
Io la guardai negli occhi. E vidi un'anima.
Non era strano che questo ricordo di tre anni avanti mi tornasse in mente ora, quando la mia mente ripugnava da ogni considerazione che non fosse il mio male presente e immenso?
Poi seguì al ricordo un'idea ugualmente strana: — per riprender la vita non mi gioverebbe tornar fra ragazzi quale un ragazzo? — Guardai Ortensia mentre chiacchierava.... Avevo visto un'anima.... Ma adesso Ortensia era sui diciassette anni; era una giovinetta; e come per tutte le altre della sua età, belle o brutte che siano, null'altro le ferveva negli occhi che la giovinezza.
Ancora deluso, in me svanì l'effetto di quel primo risveglio della memoria; scomparve l'idea che l'aveva seguito fugace al pari di un baleno; ripiombai nel vuoto.
— Ohe! Non risponde? — esclamò Ortensia quando fu stanca e, a una sua dimanda rimasta sospesa, s'accorse che non le badavo più. Aggiunse, malcontenta: — Mio Dio! che uomo!
Mi sembrò allora che la baldanza della giovinetta celasse un segreto timore; pensai ch'ella e forse altri dei Moser dubitassero di vedermi impazzire.
A confermarmi nel sospetto quella stessa sera, a desinare, Claudio si ricompose la barba come soleva in caso di pensieri molesti, e un po' oscurato nella faccia, di solito così serena, mi disse:
— Senti, Carlo: aut aut: o tu mi accompagni giù in pianura, tutti i giorni, a goderti con me trentacinque gradi all'ombra, o mi dai la tua parola....
— Ah! — interruppi — Eugenia ha detto anche a te che Sivori non è più quello?
Fu una dimanda aspra, con un sorriso amaro.
— Non c'entra Eugenia. Io, io, a ricordarmi che ho un amico a casa mia che s'annoia mortalmente e che per non annoiarsi è costretto a meditare su l'impossibile....
Scossi, annoiato, le spalle.
—.... un amico che non lavora come me, all'antica, più con le gambe che con la testa, ma un uomo moderno, che lavora solo di cervello e che è venuto da me per riposarsi e non può, perchè non ha distrazioni e non ne vuole, io ci patisco, perdio! me ne dispiace molto! Sforzati a cacciare il malumore....
(Sorrisi a udirmi attribuire soltanto del malumore....)
—.... Devi darmi la tua parola che uscirai dal covo, ti muoverai, andrai in paese, alla fabbrica, da qualche parte insomma, purchè quando torno a casa non ti veda con quel muso da Spinoza!
— Sta tranquillo! — feci io —; non medito; non mi annoio: mi riposo. L'aria di Valdigorgo basterà per guarire un po' di stanchezza....
— Sicuro che dovrebbe bastare!...; ma intanto il tuo muso da Spinoza offende Valdigorgo, offende questo paradiso terrestre, offende me!
Mino chiese: — Babbo, chi è Spinoza?
Claudio lo conosceva solo di nome; tuttavia rispose pronto e feroce:
— È un bravomo senza giudizio come Sivori! Se diventassi uno Spinoza anche tu, ti strozzerei! E voi, — aggiunse rivolto alle figlie — perchè dimenticate la consegna di non lasciare a Sivori un minuto di quiete? Tormentatelo, talpe!; fategli tutte le birichinate che vi verranno in mente!...
Marcella si scusò dicendo che temevano disturbarmi. Più ardita, Ortensia mi fissò un istante e promise che lei e Mino mi avrebbero scovato da per tutto e me ne avrebbero fatte delle belle.
II.
La mattina dopo mi incamminavo al di là del cancello per la via montana a cercar un nuovo e più sicuro nascondiglio. Ma troppo tardi! Ortensia mi raggiunse di corsa.
— Andiamo a salutare Giovannin?
Andammo là, presso il muricciolo di fronte alla villa, dove ogni mattina Giovannino il cieco veniva, con lo sgabelletto sotto il braccio, l'organetto in una mano e il bastone nell'altra. Ivi, accanto al muro, sedeva ad aspettare l'elemosina mentre riprendeva dallo sfiatato strumento l'«addio, mia bella, addio!»; e intanto borbottava e sorrideva, nessuno sapeva a chi.
Per gli occhi aperti e immoti non vedevano le spente pupille; non aspetto di cielo e di campagna o di persona tornava alla memoria di quel povero diavolo. Giovannin sorrideva, ma d'un sorriso cieco anch'esso, come per una insistente contrazione delle labbra, o per ebetudine; finchè non sopravvenivano i monellacci. Allora, giù l'organetto e su il bastone! S'alzava in piedi, ad armarsi anche dello sgabelletto, quando i nemici l'assalivano troppo da presso; e alle beffe rispondeva con parole oscene, che anch'egli aveva apprese. Senza dubbio però quell'omicciattolo dalle gambe rachitiche e storte, dalla testa enorme, su cui non bastava il cappello elemosinato, dalla fronte nera di schianze per botte contro i muri, dal dorso informe nel gabbano non proprio, dai piedi perduti in mostruose scarpe, quel miserabile aveva talvolta consolazioni per le quali sorrideva in altro modo, con un barlume di pensiero e di sentimento.
Ortensia gli chiese:
— Sai chi sono?
Subito egli, tutt'allegro:
— Ortensia di Claudio!
Fin da bambine Ortensia e Marcella gli recavano i dolci e le frutta.
— Mi vuoi bene?
— Come a Dio!
La ragazza ruppe in una risata esclamando: — Troppo! troppo! — Ma quel troppo rispondeva a una elemosina più copiosa del solito.
Scambiate poche altre parole col cieco, Ortensia mi chiese:
— Va a spasso?
— Sì.
— Buona passeggiata!
Nient'altro ella disse; non dimostrò intenzione d'accompagnarmi, nè fece alcun accenno alle raccomandazioni paterne della sera innanzi. Fosse nel suo contegno delicatezza spontanea, o suggerita dalla madre, le scorsi in viso il sincero augurio che la passeggiata mi facesse bene. Quasi che camminando io potessi fuggir da me stesso!; quasi che io potessi non riferir la mia miseria a ogni cosa che trattenesse il mio sguardo, a ogni persona che incontrassi! Mi confrontavo a Giovannino. Ero forse men cieco di lui io che vedevo senza lume di ragione l'infinito universo e nell'infinito universo vedevo senza un perchè l'atomo del mio corpo, l'attimo della mia esistenza? Ma Giovannin almeno or s'adirava, or sorrideva. Io invece non sentivo nulla, più nulla! Oh, non potendo amare, se avessi potuto odiare! Odiare con la voluttà del despota che uccide e distrugge, con lo scherno del misantropo che nega ai credenti e agli illusi la possibilità d'esser felici! Odiare il gregge matto che pasce e si riproduce nei pascoli opimi o fra i triboli, e bela invocazioni alla felicità! Odiare l'umanità che trovò il telegrafo e perdè Dio; che rintraccia bacilli mortiferi e patisce il raffreddore; che proclama fratellanza e perfeziona la guerra; che va in chiesa e s'uccide per amore; che scrive poemi e pute!
Ma neanche odiare potevo! Nulla! Per me al mondo non c'era più nulla! Solo quel vuoto enorme entro di me.... — Buona passeggiata! — Voleva forse l'augurio che divagassi lo sguardo per i noti luoghi e ricuperassi altri ricordi?
Ebbene: mentre salivo alla strada dell'antico convento, sulla porta della prima casupola, trovai, di poco mutata, la pallida fanciulletta che un giorno, con gli occhi nel mistero, m'aveva dimandato: — Li fa la gatta i gattini?
Ed ecco da questo ricordo derivarne, non so come, un altro: di una faccia puerile anche più pallida. Era tra le memorie della mia gaia vita di studente l'impressione che provai un giorno, quando su la tavola anatomica vidi un compagno spolpare le gambe d'un bambino. Tranquillamente m'ero esercitato in più d'un cadavere.... Eppure la vista di quel bambino...., che impressione! Or dunque ascoltai se questo ricordo mi rinnovasse il senso penoso di quell'impressione antica. No. Rimase un ricordo del tutto mentale; non sentivo più nulla; e la pallida ragazzetta, riconoscendomi, stupì che non le dicessi nulla.
— Buona passeggiata! — Poco oltre, a una seconda casupola, intravvidi il calzolaio socialista, che, un giorno, alla mia richiesta se pensasse di non dover più tirar lo spago nella sua repubblica sociale, aveva tratto dalle ginocchia una logora ciabatta, e mostrandomela aveva risposto:
— Invece che rappezzare di queste, cuciremo scarpe nuove!
Così il ciabattino concepiva le sorti progressive dell'umanità! Ma a rivederlo, ecco un altro ricordo: nelle sorti progressive dell'umanità io ci avevo creduto più di lui! Una fede più grande io avevo avuta!
Ah i bei tempi quando dallo studiare il male in questo o in quell'uomo ero risalito a studiar la vita di tutti gli uomini; dalla medicina alla storia, dalla storia all'antropologia, alla biologia, alla psicologia, etcetera, e avevo distrutto dei e religioni, filosofi e sistemi, per conquistare positivamente Dio!
Bei giorni anche quando avevo visto morire i miei con sereno dolore, con nobile rassegnazione alla necessità della vita!
Bei giorni quando la morte non mi faceva ancora ombra all'amore e delle donne amate per brev'ora non scorgevo lo scheletro, non mi chiedevo perchè e come era viva la carne che ne rivestiva lo scheletro!
Chi mi avrebbe mai detto in quei tempi di fede: Verrà il dì che proverai in te un male a cui non basteranno le docce, da te consigliate adesso a chi non ha la tua fede! — Altro che nervi esausti! Il cuore, il cuore era esaurito; e non di sangue; e a tal punto che...
Meglio ridere!
Al bivio presi la via del monte. Ci rividi Martino, cenciaiuolo e merciaiuolo, che scendeva con la biroccia e l'asino. Dei due, chi mostrava più segni del tempo trascorso nella mia assenza, non era l'asino, era Martino. Aveva la barba bianca e camminava curvo; non come una volta a lato alla biroccia, ma dietro. L'asino invece, tale e quale: nel pelo, nell'andatura, in tutto. E dei tre, il cenciaiuolo, l'asino ed io, chi più invecchiato? Io! Ma che cosa mai aveva meritato o demeritato dalla sorte in quei due anni l'onesto Martino? Così invecchiato mi appariva, che non potei non interrogarlo.
— Nessuno al mondo è felice come voi! — io gli dissi per ridere, per divagarmi.
Mi guardò e rise lui per rispetto; chè alle canzonature degli eguali rispondeva in altro modo.
— No? — continuai. — Vostra moglie non sta bene?
— Bene; grazie a Dio.
— Foste ammalato voi?
— Grazie a Dio, nossignore.
— E l'asino sta benone! Dunque è cresciuto il prezzo della mercanzia?
— No, no! Il percalle anzi si compra meglio; anche la tela. Ma.... — sospirò.
— Calato il prezzo degli stracci?
Scosse il capo guardandomi tuttavia incerto.
— Ah, capisco! Qualche disgrazia, forse, che non potete confidarmi....
Il poveretto, da uomo uso a longanimità, chinò la testa e tacque a lungo. Quindi si sfogò:
— Le par poco, a lei, lavorar vent'anni, da casa a casa, a stentare il soldo? Consumare le gambe; mangiar polenta, e non avanzarsi un soldo per....
Io lo prevenni:
— Per aprir bottega!...
— Non è vita da cani questa?
A parte la vita da cani; ah! ah! ecco il male di Martino! Una botteguccia nel villaggio gli avrebbe reso meno che il mestiere ambulante; e altra volta avevo cercato persuaderlo con argomenti e conti. Invano: la bottega era il suo sogno e il suo rovello. Più che la stanchezza di gambe e di pazienza e peggio che la polenta lo tribolava l'ambizione non soddisfatta. Affanno assiduo e pane quotidiano, per cui invecchiava, gli era un'ambizione insoddisfatta! Ma io perchè ero più invecchiato di lui? Ecco un altro ricordo: senz'aver avuto mai nè donna nè asino che mi volesse bene, o a cui io volessi bene, come Martino, io avevo avuto una assai più nobile ambizione. La gloria! la gloria! la gloria!
Quanto all'asino....
Il collo dimesso, le orecchie pendule e gli occhi sonnolenti, l'asino che io interrogavo per ridere, per divagarmi, rispondeva:
— Solita vita, caro signore! — Tritar fieno e paglia, nel sacco che gli dondolava al collo, strada facendo; brucare acacie, arrivandoci, e scorticare il prato quando aveva erba fresca; d'estate arrostarsi dalle mosche con la squallida coda o drizzare il pelo indosso l'inverno; grattarsi la schiena, nella stalla, contro il muro e fuori, in mezzo alla polvere, con ragli e gamba all'aria; dare il buon giorno, in suo modo, al padrone e tutto il giorno vagar con lui senza intromettersi a contratti e a diatribe. Neppur si curava, per ragioni sue intime, non meditate e non lamentate, delle asine in cui s'incontrasse: appena a primavera le salutava; ma d'un saluto fraterno, o d'un reciproco ingenuo poetico richiamo alla natura novella.
E poichè l'asino di Martino era anche utile al commercio e all'industria, forme e prove di progresso umano; poichè all'industria e al commercio senza dubbio è più utile un merciaiuolo che un filosofo; poichè, secondo filosofia, di me viveva meglio il cenciaiuolo, ma, secondo natura, del cenciaiuolo viveva meglio l'asino, fra i tre il più sapiente era dunque l'asino e fra i tre il più asino ero dunque io!
Ridere?... Ripensavo:
Interrogai la divinità, non mi rispose. Interrogai gli uomini, non seppero rispondermi. Interrogai le cose, mistero! Interrogai me stesso, e seppi che non posso sapere....
Dall'asino, tutt'al più, posso apprendere che per vivere non importa sapere; e un tempo mi sarebbe bastato opporgli: senza sapere che importa vivere? E adesso io vivo senza sentire!
— Addio Martino! Cerca fortuna, per la bottega....
Per me non c'era più alcuna fortuna, alcuna speranza!
Voglio dirla la cosa orrenda! Voglio dir tutto!
Ero arrivato a tal punto d'insensibilità che i miei morti — mio padre e mia madre!... — tornavano al mio pensiero, c'insistevano, ma io non ne avevo più il sentimento! Che io non pensassi nemmeno a mia madre morta quando nella morte scorgevo solo un fatto fisico, una trasformazione materiale, pazienza! Ma ora le ombre dei miei tornavano a me; e non parlavano più al mio cuore; come illusioni inutili! come niente! Ora io pensavo che la morte non fosse annientamento della coscienza, non fosse solo trasformazione della materia, nondimeno ogni affetto dei miei cari, anche ogni affetto dei miei cari era spento in me! Comprendete tutta la mia miseria?
Orribile! Se la scienza, non per effetto necessario ma per sola conseguenza occasionale, può avere condotto un uomo, un solo uomo, a tale estremo, sia pur maledetta la scienza!
— Buona passeggiata! — Proseguivo per l'erta via che congiunge Valdigorgo a Paviglio. Da Valdigorgo giungeva ancora, a quando a quando, un confuso murmure di voci e d'opere. Salivano donne fastidiosamente liete della vendita o della compera al mercato; transitavano carbonai e somieri: ai lati, ora spazi di campi, ora lembi di bosco, e verdi ripe, lente o scoscese; qua donne con le vesti succinte che ammucchiavano il fieno; là una mucca che pasceva, una pecora che sbucava da una macchia; più oltre una casupola nitida. Chioccolii nella fratta. Ma la vita che scorgevo e udivo intorno a me, no, non mi ridava l'anima! Tra due massi scaturiva un'acqua sorgiva che rigava d'una limpida vena un fossatello senza limo. Nè io avevo sete. Un birocciaio però, venendo con la biroccia carica di legna, lasciò procedere i muli, e gettatosi in ginocchio a terra, con la testa indietro e teso il collo, ricevette il zampillo nella bocca; avido, ingordo, d'un solo fiato. La gola riarsa si dilatava, palpitava al passar del liquido e della frescura.
Ristoro ineffabile! Splendevano gli occhi all'uomo quando si rialzò con un forte: — Ah!... — E riafferrata la frusta mentre si asciugava la bocca col dorso dell'altra mano, egli la fe' schioccare, e mandò da lungi un grido alle sue bestie.
A me parve un uomo che avesse ricuperato la vita.
III.
Si vedrà poi il perchè io mi costringa a raccontare la mia storia. Non la racconto, certo, per voluttà di dolorose rimembranze — le spasmodie romantiche han stancato il mondo, — nè per dilettantismo letterario — bel gusto parere un letterato ai medici e un medico ai letterati! — No, no; il mio intento è non so se più umile o più alto.
Ma poichè la prima cagione di un lungo soffrire fu l'infermità che mi condusse a Valdigorgo, bisogna pure che io accenni un po' più chiaramente a quel che avevo.
Medico non senza qualche nozione di psichiatria, facilmente io avrei saputo definire in altri il mio caso. In costui — avrei detto — ci sono indizi sicuri di «lipemania», c'è «atonia della sfera psichica», c'è «malinconia lucida». Se non dimostra egli stesso gravi anomalie o asimmetrie somatiche, il suo albero genealogico deve annoverare individui colpiti da pazzia degenerativa: costui è candidato al manicomio o al suicidio. — Così avrei detto di un altro; ma di me mi ostinavo a pensare diversamente, e non solo perchè mi mancavano di quelle tali anomalie o asimmetrie gravi, e non solo perchè il mio albero genealogico, da quante generazioni ne conoscevo, non aveva fruttato mai pazzi o lipemaniaci.
Del mio male senza dubbio c'eran cause all'in fuori dell'ordine fisiologico. Quali cause, insomma? Vi dirò: immaginate un uomo che credè di poter volare al cielo.... — «il sapere» disse Shakespeare «è l'ala con cui si sale al Cielo» —, e immaginatelo quest'uomo precipitato dall'alto del suo sogno in un abisso buio e freddo, con addosso l'irrisione di tutto l'universo e di sè stesso. Non comprendete? Oh come manifestarvi allora, in poche parole, la mia miseria? Io ero vittima del mio orgoglio e mi ritenevo nientemeno che una vittima del secolo scientifico. Nell'immenso, stupendo progresso delle scienze nel secolo XIX avevo sorprese certe relazioni forse sfuggite a tutti, certe comprensioni sintetiche sfuggite a tutti nell'abuso dell'analisi; e poggiando su di esse avevo preteso di superare i limiti della scienza.... Il meglio della mia vita era stato sacrificato così, dolorosamente, ad apprendere la vanità de' miei sforzi. Eran stati lunghi anni di lotta. Avanti per la verità! avanti per la gloria!; e ogni giorno più dubitavo e soffrivo; finchè, al crollo del mio edifizio, caddi, vinto, nel nulla. Nel nulla!
Forse fu ingiusta l'imprecazione di un filosofo: «Scienza, perchè arricchisci la mente a scapito del cuore?»; forse ciò non è vero. Ma io, che non ero più uno scienziato o che, avendo violentato il potere della scienza, non lo fui mai, io più spaventosamente d'ogni altro dovevo pagare il fio della mia insania: il mio cuore era esaurito; non sentivo più nulla. Ecco perchè non giudicavo quest'apatia un semplice caso di «atonia della sfera psichica».
Non basta. Negli esauriti o neurastenici è frequente la tentazione della morte e, insieme, l'orrore della morte. Ed io pure, uomo divenuto inutile a tutti, a tutto e a sè stesso, io pure desideravo morire e non osavo. Ma in me non c'era un avvilimento inconsapevole: io avevo voluto dimostrare con modo e metodo positivo che al di là della trasformazione del nostro organismo in dissoluzione l'anima sopravvive....; e da quel tentativo di confermare con la scienza l'antica fede mi era rimasta l'apprensione dell' al di là. Ecco perchè non mi credevo semplicemente un neurastenico. Mi credevo invece caduto non per stanchezza ma per disperazione; e nello stesso tempo mi vedevo pessimista insanabile non per «depressione del tono vitale», ma per la certezza che eran stati vani i miei sforzi e sarebbero sempre vani gli sforzi della scienza a varcare i limiti di ciò che si definì l' inconoscibile.
Non importa dire in che errasse, o quanto, la mia diagnosi: importa vedere com'era grande la mia miseria. Consideravo in me effetti e fenomeni diversi da quelli ben noti alla psichiatria, e pur scorgendone la somiglianza con quelli, li consideravo più paurosi, d'un'entità vaga e più vasta; la mia miseria era quindi più grande che quella di un medico che scorga in sè stesso una malattia incurabile, con fenomeni fisiologicamente chiari, patologicamente certi, senza tenebrose estensioni....
Eppoi.... Eppoi, tiriamo innanzi!
IV.
Tra i pochi che venivano alla villa Moser c'era per me una sola persona nuova; l'ingegnere che Claudio aveva assunto a dirigergli la fabbrica di laterizi. La fornace che era stata principio alla fortuna di Moser e che aveva dato aumento al lavoro degli operai in Valdigorgo, era divenuta una delle più rinomate nell'Italia settentrionale; a vigilarne l'andamento non bastò più la sola attività di Claudio da quand'egli si fu addossato altre imprese.
E soli assidui alla villa, per lo più di sera, erano i Fulgosi, i Learchi e le Melvi: pochi, perchè Moser pretendeva libertà e pace almeno in casa sua, nell'asilo del suo riposo, sebbene anche qui piuttosto che riposare egli svariasse la sua alacrità.
Profittando della distanza dal paese (la villa era a monte e il paese tre chilometri a valle), Eugenia sapeva accontentare il marito conservando buone relazioni con le famiglie paesane più notevoli senza che queste potessero, come forse desideravano, turbar la pace di lassù. Non la turbavano essi, i villeggianti prossimi e vecchi d'amicizia e di consuetudine. Ma nell'infermità dei miei tristissimi giorni come eran noiosi, insoffribili per me anche quei pochi e vecchi conoscenti!
Primo, il cavaliere Fulgosi. Un uomo invidiabile; uno di coloro a cui il mondo serve di sfondo e cornice per la loro figura, per la loro apparenza. Pensionato d'uno di quegli uffici che rendon l'uomo uniforme, preciso e sciocco come un regolamento, a sessant'anni poco o nulla differiva da quel che era stato a trenta: sempre elegante, cioè vano; sempre amabile in società, cioè fatuo. A Valdigorgo chi poteva competere con lui? Unico a far toilette due o tre volte al giorno; unico a portar in tasca lo specchietto e il pettinino per considerare ogni mezz'ora se gli scarsi capelli, d'un biondo bianchiccio e d'un biondo sporco, celassero, ben disposti, le lacune dell'età, e se i baffetti rilevassero l'esili punte su e contro il profilo della barbetta, e se la cravatta, a colori sentimentali, conservasse sempre il giusto mezzo; unico a contemplar in sè medesimo ora il candor delle unghie o la forma delle scarpe, ora i gemelli o i polsini o le armoniche tinte delle calze di seta; ora l'orecchia del fazzoletto, gentilmente colorato, fuor della tasca, o il brillar degli anelli nelle scarne dita. Per parlare egli s'era adornato della fraseologia e dei motti dei giornalisti brillanti; spropositava spesso nella pronuncia delle frasi inglesi, ch'eran le preferite, e ripescava, per di più, qualche sentenza scolastica o classica.
Con aria diplomatica discuteva troppo spesso in politica, poichè un'ambizioncella politica gli si era inacidita nel cuore, nè ancora aveva cessato di ripetere a se stesso: j'attends mon astre. Aveva il suo programma nel motto «ordine nella libertà e libertà nell'ordine» senza che paresse comprenderne egli stesso il pieno, solenne significato che pareva attribuirvi. Infatti questo amatore della libertà nell'ordine, questo amabile gentleman, era stato un tirannico capo-ufficio ed era adesso un petulante marito pensionato. Angustianti smorfie e tic nervosi gli opponeva la signora Fulgosi; ma apostrofandolo «imbecille» in casa, la moglie non mancava mai di chiamarlo «cavaliere» fuori. Ella portava a Valdigorgo la correttezza dei modi e la scorrettezza dei pettegolezzi e degli isterismi aristocratici. Il loro figliuolo, Pieruccio, nato certo in conseguenza di un litigio, manifestava, ora più che sedicenne, com'erano inconciliabili anche in lui la natura materna e paterna. Fastidioso e incoercibile per metà del giorno; compassato e affettato la sera, dopo la toilette; antipatico sempre.
Involontario riscontro ai Fulgosi facevano i Learchi. Egli, Learchi padre, era un risaiolo arricchito. Aveva dunque il diritto d'insegnare agli altri la maniera di viver bene. In tutto si sarebbe dovuto fare come aveva fatto e faceva lui. Ignorante e testardo; gran mangiatore e non minore bevitore e fumatore di pipa. Ligio alle pratiche religiose, vi tranquillava la coscienza; si assicurava con esse a star di là, anche meglio che di qua, e frattanto sorreggeva il perfetto egoismo cattolico dicendosi clericale «e me ne vanto». Sua moglie, la signora Redegonda, era buona di cuore e sempre ilare; ma di testa piccola. L'universo per lei consisteva nella cucina, dove esercitava molt'arte, e con ingenua rozzezza stupiva a ogni altra cosa che non fossero manicaretti, pasticci, dolci d'ogni sorta. Felici entrambi dell'aver maritata bene, a un ricco, la figliola, aspettavano per di più la consolazione di aver dottore il figliolo. E questi — Guido — poteva piacere o spiacere al pari d'ogni cuor contento.
Quanto alle Melvi, la madre non riusciva a nascondere a me l'ipocrisia e la malignità della paesana che non potè mai uscir di paese e che in paese vuol sembrar amica di tutti perchè invisa a tutti. Lingua iniqua! Ma quante esclamazioni, espansioni d'affetto! La bontà si sarebbe detto trasudasse da tutti i pori della sua piccola e grassa persona; la virtù in lei sembrava tanta da permetterle di congratularsi a ogni nuovo matrimonio che s'annunciasse o celebrasse a Valdigorgo, quando la rodeva l'invidia, la tormentava il dubbio di non poter accalappiare un marito per la sua Anna;, la sua Anna, irresistibile, per lei, di vezzi e più di carne. Ed Anna.... Che dire di Anna Melvi: come esprimere quel che io provo ora, scrivendo queste due parole?
Di rado tutti costoro, nei primi giorni del mio ritorno lassù, si eran trovati insieme alla villa. Di solito l'una e l'altra mamma saliva da Eugenia, e sol talvolta, quando Eugenia riposava, le ragazze e i giovani si erano raccolti nell'ampia sala a terreno, o nella terrazza, ai loro giochi di pegni, mentre Moser si divagava aizzando il cavalier Fulgosi contro il Learchi padre. Io per lo più avevo cercato scampo nella mia camera, col pretesto di dormire.
Ma venne la buona novella; il medico curante, pago della mia approvazione non che del buon effetto delle sue cure, annunciò che a giorni permetterebbe alla convalescente d'alzarsi.
Eugenia era in piena convalescenza. Ed io?... La sera della buona novella andavo per la casa cercando invano di raccogliere in me il senso di quella letizia che vedevo fuori di me. Non potevo fingere un piacere che mi sfuggiva; avrei voluto fuggire accusandomi quale un amico indegno; neppur mi commoveva la gioia di Claudio!
Egli fece portare due bottiglie nel salotto, per gli amici; e mi attendeva con Fulgosi e Learchi. Dovetti entrare.
— Lupus in fabula! — esclamò il cavaliere. — E Claudio: — Sentite questa! Quando eravamo all'Università a Bologna, io agli ultimi anni e Sivori ai primi, facevamo qualche scappata a caccia nelle risaie di Molinella. Ci accompagnava un omicciattolo, un falegname soprannominato il Biondo.... Ah! il Biondo! ma par di vederlo! Aveva uno schioppo che pareva un catenaccio; mirava chiudendo gli occhi, e non sbagliava un colpo. È vero?
Accennai di sì col capo; non celando la poca voglia di riudire aneddoti della mia biografia. Ma Claudio proseguì:
— Dunque mentre io e il Biondo stavamo alla posta delle anitre, e non pensavamo che alle anitre, quel bel matto lì (e accennava a me) era spesso colla testa nelle nuvole e metteva giù lo schioppo per guardare al libro che portava in tasca. Una bella maniera d'andare a caccia! Non si sarebbe accorto d'un rinoceronte quando leggeva. Ma un giorno che ritornavamo in barca — era d'autunno inoltrato — io gli prendo il libro e glielo scaravento in mezzo all'acqua. Cosa fa lui? Spicca un volo e gli va dietro alla pesca.
— Non fu così — interruppi fiaccamente.
— Così! Proprio così! Il Biondo è ancor vivo e sano, e sebbene sia il tuo fittavolo, adesso, è un galantuomo capace di testimoniare la verità.... Bene! noi sudammo a pescar lui, l'amico; lo tirammo su sporco e fracido come si meritava; e con la tremarella addosso. Io gli davo quanti pugni potevo, più per sfogare la rabbia che m'era venuta che per mantenergli la circolazione del sangue, e Sivori, lo credereste?, si lamentava: — Il mio libro!... Il mio libro... Non ho capito una cosa!... — Non vi dico altro! Quasi quasi si era affogato solo perchè non aveva capito una cosa!
— Non è vero! — brontolai. — Era un'edizione pregevole....
Nessuno mi badò. Ridevano tutti, e più di tutti rise il piccolo Mino, che era venuto in cerca di me. Non desiderando di meglio che sottrarmi alla filosofia del buon senso, chiesi al ragazzo che cosa voleva.
— Se mi comperi i burattini, ti racconto una bella favola.
Ripigliò Moser: — Sublimi poi erano le discussioni col Biondo falegname! Sivori sosteneva che ammazzare una quaglia era uno strappo all'anima universale, come diceva lui; il Biondo invece sosteneva che Domineddio non avrebbe creato le quaglie se non dovessero essere mangiate arrosto. Avevano così diversi punti di vista che Sivori con cinquanta colpi non strappava nulla, e il Biondo — lo confesso, lo ripeto — tirava meglio di me! Ma le quaglie chi le mangiava? chi le gustava di più? Ah quei bocconcini di anima universale! Altro che Spinoza eh, Sivori?
Risero di nuovo. Finchè Mino tirandomi per la giacca mi forzò ad appartarmi con lui in un angolo. Ivi solennemente prese a raccontare:
— «Castelli in aria».... Beppe andava per il bosco.
Intanto udivo Learchi sentenziare, vuotato il bicchiere:
— La filosofia sta nel seguir la volontà di Dio, ricordandosi però che lui dice: «Aiutati che t'aiuto!»; e quando la coscienza è tranquilla, tutto va bene a questo mondo!
— Il mondo bisogna farselo! — ribatteva Moser. — Farsi una, famiglia; lavorare per la propria famiglia e non pensare ad altro!
— Io sono fatalista — avvertiva il cavalier Fulgosi. — «Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce....»
Tratto dall'astuccio il piccolo pettine, il cavaliere si pareggiò i baffi, si mirò allo specchietto; poi aggiunse che io ero uno di quelli nati apposta per far camminare il mondo.
— Senza filosofia, caro signor Learchi, il mondo non camminerebbe. È la scienza delle scienze, che innalza l'umanità. Excelsior!
— Il mondo andrebbe benone lo stesso! — urlava Learchi. — Religione, fede per sopportare i guai; e basta!
Mino tornò da capo:
—.... Beppe andava per il bosco, e trovò un pulcino. Lo portò a casa e lo mise a dormire nella stoppa. Beppe diceva: Quando il pulcino sarà grande, diventerà una gallina; e la gallina farà le ova e comprerò un'agnellina. E l'agnellina diventerà una pecorina, e la pecorina farà le ova....
Le ova della pecorina? Mi sovvenne delle mie opere. Il pulcino morto nella stoppa della scienza? Il mio ingegno!... Questa, questa, o esimio cavalier Fulgosi, questa è la morale della favola!
.... Non mi sarei dunque stancato mai d'interporre sempre, da per tutto, la mia accidia? Con stento ero entrato là nel salotto a udir parlar di me; con stento ascoltavo il ragazzo....; ma appunto perciò avrei dovuto avvertire un risveglio nella mia volontà. In me c'era già stato qualche mutamento notevole. Non seguirebbe questi mutamenti, sebbene lievi, una riscossa dell'anima? Come in un barlume riflettei su le mie impressioni e le mie azioni dei giorni innanzi.
Già Mino era riuscito a farmi guardar il mondo attraverso un vetro color rosa e a farmi dire con lui che così il mondo era più bello; mi aveva costretto a inventare e a narrargli una favola, che ora ricambiava con: «Castelli in aria» e con le ova della pecorina. Già la timida Marcella mi aveva veduto salir più spesso a trovar la madre e a sorprender lei nell'ansietà delle faccende domestiche, la cui importanza ironicamente esageravo. Ortensia poi aveva ripresa con me tutta la confidenza d'un tempo, di quando era la mia «piccola amica». Ah se avessero potuto immaginare che fatica mi costava tutto ciò! Ma intanto io mi domandavo perchè non approfitterei del loro aiuto a ricuperare il dominio della mia volontà. Volli restar con Mino; volli vedere che facevano gli altri.... Mi affacciai alla porta della sala dove la signora Fulgosi cominciava a tempestar un waltzer sul pianoforte; le ragazze e i giovani le facevan chiasso d'intorno. Quand'ecco tonò una voce gioconda.
Era l'ingegnere preposto da Moser a dirigere la fabbrica di laterizi.
— Arrivo! Pazienza! — egli rispose alle voci che lo chiamavano.
Ma prima corse a consegnar delle carte a Moser, a dargli notizie, a prender ordini. Di sulla porta io l'osservavo.
L'ingegner Roveni quando parlava d'affari era parco nelle parole, immobile, attento. Aveva risposte pronte. L'antipatia che mi separava da tutti gli estranei non poteva resistere contro di lui; anzi dal primo giorno che l'avevo visto non mi era spiaciuto quel giovane dalla fisionomia decisa: non bella per il naso breve un po' all'insù, ma abbellita da due folti baffi biondi; e dalla persona robusta e a mosse un po' dure, quasi di macchina non ben levigata e non in piena attività, eppure in un perfetto equilibrio di tutte le forze alla regola dell'arbitrio. Per una inesplicabile contraddizione non mi spiaceva quell'uomo, ambizioso, si vedeva, fin dal modo di camminare.
Passandomi accanto egli mi salutò con un franco:
— Buona sera, dottor Sivori! — e andò difilato a prender Anna Melvi per ballare il waltzer.
Io mi riaccostai agli uomini seri.
— Che fibra! — disse Claudio, che ora parlava di Roveni. — Tutto il giorno lavora per me e la notte studia per sè.
Aggiunse che Roveni s'occupava con passione in studi d'elettricità.
Quindi disse:
— Io penso con dolore al giorno che dovrà abbandonarmi.
Una risposta mi venne al pensiero e alle labbra: — «Hai un mezzo molto semplice per trattenerlo: dagli in moglie una delle tue figliole».
Ma sarebbe stato come dire a uno che possegga un tesoro: — dallo al tale —, o almeno sarebbe stato come proporre un sacrificio intempestivo; perchè nel sereno egoismo del suo amor famigliare, Moser non s'era ancora accorto che le figliole pervenivano all'età da marito. Perciò tacqui.
E feci bene. Rientrando poco dopo nella sala dove ballavano, scorsi d'improvviso che la maggiore delle sorelle Moser e la più adatta al Roveni (il quale era sui ventotto anni), aveva già disposto del suo cuore.
Sì: la timida Marcella...., con Guido Learchi.... Mentre con Roveni ballava Anna Melvi e Ortensia con Pieruccio Fulgosi, Marcella e Guido si dicevano meno parole con le labbra che cogli occhi; vedevano l'uno negli occhi dell'altra la propria felicità. Non ne mostravano meraviglia nè la Melvi madre nè la signora Learchi, che assistevano da presso il pianoforte. Meravigliato rimasi io; poi disgustato per un turbamento strano; poi, preso da una voglia anche più strana di ridere, ridere d'ironia. — Forse per rivivere vivendo con questi ragazzi dovrei fare all'amore anch'io? — mi chiesi; e fissai Guido ridendo.
Egli venne da me rosso in faccia, con l'indice al naso:
— Zzz.... zitto, per carità!
— Oh! credi che anche gli altri non abbiano gli occhi per vedere?
— Gli altri fingono di non vedere e non dicono nulla — rispose con voce dolente. Sorrideva anche lui, ma per timore. Ed io per spasso quasi crudele chiamai Marcella:
— Debbo dar retta a Guido?
Ella era divenuta più rossa di lui; si provava a fingere, a nascondersi.
— Perchè? che vuol dire?
— Debbo aiutarvi?
— Non so..., non capisco.... Mi lasci andare!
Invece la strinsi al braccio e le chiesi piano:
— Gli vuoi molto bene? —; e la guardavo negli occhi come per impedirle di sfuggirmi. Sentiva essa la punta della cattiveria nelle mie parole e nei miei modi apparentemente scherzosi? Ah io volevo distrarmi: volevo sottrarmi a me stesso: interpormi meschinamente alla vita che vedevo fuori di me, e che mi sfuggiva!
— Non è vero!...; non so.... Chi gliel'ha detto? — rispondeva la poverina, cedendo a poco a poco.
— E tua madre lo sa?
Abbassò gli occhi, esitando ancora:
— Sì.... credo di sì; ma il babbo, no! — Mi scongiurava con i begli occhi.
— Il babbo presto o tardi dovrà saperlo!
— Oh per amor di Dio non dica nulla! È tanto buono lei! Non ci comprometta, Sivori! Guai, guai, se il babbo lo sapesse ora! — Pregava apertamente; sperava nella sua preghiera ed in me, e appariva ancor timorosa del pericolo. Soave creatura!
Anna Melvi, rasentandoci, ammiccò; fece: — Zzz.... — e ruppe in una bella risata; e i due colombi, Guido e Marcella, mi scapparono.
Passavano davanti a me, intanto che Anna afferrava Pieruccio e si slanciava con lui, Roveni e Ortensia. Forse anche questa una coppia amorosa? Mi sembrarono estranei l'uno all'altra. L'ingegnere era tutto intento a condur giusto il passo e a non farsi scorger peggior ballerino di quel che era; e Ortensia non dimostrava che il piacere della danza: in un pieno abbandono d'ogni energia al ritmo; con ogni energia raccolta e diffusa nel giacere che le vibrava nel sangue, tutta la persona di lei esprimeva giovinezza lieta, e solo gioia e grazie ignare. Nondimeno allorchè ella cessò il ballo e venne a me, io le dissi con intenzione maligna:
— Bel giovane, Roveni....
Oh! essa non si turbò per nulla! Rise domandando:
— Lo dice a me?
— A chi dovrei dirlo, piuttosto?
— Ad Anna.
— E due! — esclamai persuaso che Ortensia intendesse svelarmi in Anna e nell'ingegnere il secondo paio d'innamorati.
Appunto allora Roveni, il quale conversava e scherzava ugualmente con le vecchie e con le giovani, lasciava la Melvi madre e la Learchi, e come avrebbe parlato a qualsiasi altra delle ragazze domandò a Ortensia: — Sarà lei che farà ballare il dottor Sivori? — Ma Ortensia non fece in tempo a rispondergli, perchè Anna si staccò d'un tratto da Pieruccio, lo piantò e si porse a Roveni; e via.
Pieruccio rimase intontito là dove l'aveva lasciato Anna; con quegli occhi bovini rivolti verso di noi, anzi verso Ortensia. A questa susurrai, col solito sarcasmo:
— Quell'infelice soffre; e si direbbe che soffre per te.
— No — ella rispose —: soffre per il colletto. — L'alto e rigido colletto l'attanagliava infatti; l'affogava.
In questo mentre la Melvi accresceva l'esitazione di Roveni e l'induceva a stringerla più forte mancando al tempo o cadendo in contrattempi: gli s'abbandonava affaticata e liberava una mano per risollevare i capelli che le si erano sciolti; ansimava e rilevava il petto turgido alla inspirazione frequente. Poscia di fronte a Pieruccio Fulgosi sorrise a lui, lusinghiera insieme e beffarda. Civettava con l'ingegnere e nello stesso tempo si burlava del giovincello. Ma questi era degno figlio di suo padre, e con l'aplomb di un uomo di spirito s'avvicinò ad Ortensia:
— Permette?... Posso?
Ella accondiscese senza dir nulla; rivolse a me un'occhiata che diceva quanto colui era antipatico anche a lei, e riprese dopo pochi passi quella letizia ingenua che nel ballo dimostrava con ogni compagno.
Io tornai ad osservar Marcella. Più di Ortensia la vista di lei tratteneva la mia attenzione perchè Marcella, che, a guida di Roveni e di Fulgosi danzava in maniera scolastica e fredda, la vedevo ora, che ballava di nuovo con Learchi, quasi arrisa tutta dal lume de' suoi occhi: era la felicità di un rapimento, l'accondiscendenza di un'anima pura alla felicità dell'anima che la rapiva seco. Ugualmente per Guido. Inconsci di quanto poteva essere di materiale e d'umano nel commotivo sollazzo, trasalivano in rapidi giri con un desiderio di sollevarsi, guardandosi così, lungi agli uomini, fuori del mondo, liberi da quello stesso contatto dei corpi che li inebbriava e li intimidiva a vicenda. E quando Learchi accompagnò Marcella a sedere, egli ristette in piedi presso di lei senza parole; ambedue in un'attitudine quasi dolorosa: quel distacco repentino, quel ritorno al riposo materiale, era uno strappo alle loro anime che, accomunate nel piacere, non avrebbero voluto o potuto dividersi subito così.
A tal vista io provavo un rancore, un astio di cui non avrebbe dato sufficiente ragione neppure l'invidia, se l'invidia fosse stata possibile in me.
— Che fa lei qui? — mi chiese Anna Melvi.
— Studio — risposi, per dir qualche cosa.
Mi fissò per un attimo e disse:
— Ne imparerà delle belle!
Avrei voluto pungerla, ferirla quella ragazzaccia sguaiata; ma Ortensia la chiamò. Salivano da Eugenia. Quando rientrarono, Ortensia tornò subito a me dicendomi, felice:
— La mamma dorme.... Vedesse! È queta queta.
Ma fin quella tenerezza filiale mi amareggiava! Senza badare che il mio turbamento, di una tristezza oscura e profonda, era pur esso indizio di risveglio psichico, io, di fronte alla affettuosa espansione della giovinetta, ebbi vergogna di me e provai il bisogno di dissimulare. Finalmente cercai parole che sembrassero buone.
— Dunque presto la porteremo in giardino, tua madre?
— Sì! E lei starà sempre con noi? Non scapperà più? Non sarà più stanco e nelle nuvole? Terrà compagnia alla mamma?
Certo — risposi appena.
Ortensia mi ringraziò e nel ringraziarmi ella mi guardò quasi dicesse: «Lei crede di comprendere tutto il bene ch'io voglio a mia madre. Ma io gliene voglio di più, molto di più!»
Come dopo un riposo la signora Fulgosi ebbe trovato l'andare del dancing, l'ingegner venne a prendere Ortensia. Su di lei raccolsi ora la mia attenzione quasi sperando da lei sola una commozione diversa e benefica. Ancora ella procedeva semplice e vaga, pur quando la nuova danza imprimeva una consapevole mollezza e cadenze a riprese leggiadre fino alla leziosaggine; e nei trapassi violenti al ritorno vorticoso, trascorreva leggera e composta, liberandosi con spontanea agilità dal contatto terreno.
Una voce dietro a me susurrò:
— E charmante quella bambina!
Aveva parlato il cavalier Fulgosi.
— Che pezzo di carne! — disse invece il signor Learchi padre, alludendo ad Anna, che si rapiva Pieruccio.
— Anna è più coquette — giudicava il cavaliere. — E Learchi:
— Ha più grazia di Dio addosso. A quel che pare, suo figlio in queste partite è della mia opinione.
— Prime armi! — fe' contento il mondano genitore.
Io continuavo a considerare Ortensia.
Alta, snella, bionda. I copiosi e fini capelli non erano di un biondo aureo, ma acquistavano riflessi d'oro a ogni luce; le linee del volto erano già in armonia così viva che essa poteva forse scemare, non perfezionarsi nella piena fioritura della giovinezza. Gli occhi aveva strani per un colore nè cilestre nè verde, e ombrati da palpebre lunghe; e sotto agli occhi due archi pallidi ma lievi lievi sarebbero stati segni di mestizia a chi l'avesse vista riposata e silenziosa: se non che era un po' difficile vedere Ortensia riposata e silenziosa!
Le labbra si componevano insieme con un vezzoso moto involontario se prolungava le parole: meno belle quando parlava, anche per giuoco, con ira; e forse non belle in esclamazioni di dolore e di pianto: erano fatte per sorridere.
Mirabili, signorilmente perfette, le mani.... E a quella freschezza giovanile cresceva lume una nativa gentilezza, manifesta per i modi spontanei, per le acconciature semplici, per le vesti umili e le tinte chiare, e sin per i fiori che si puntava al petto.
Ma a lei, se Roveni perde vasi con Anna, non restava altro adoratore che l'antipatico Pieruccio?
Meglio così per «la mia piccola amica»!; meglio ritardasse a conoscere i perfidi inganni della giovinezza e le stupide illusioni dell'amore!...
E in quella sera di gioia per tutti, a me parve non aver altro pensiero buono che questo.
V.
A tanto era ridotto il sapiente osservatore della vita umana nel tramite dei secoli: a scrutare anime di giovinette e a rintracciare amori di villeggiatura!
Ma io medico, che dovevo curare me stesso d'un male così strano e pauroso, intravedevo ancora un progresso nella mia coscienza: dai ricordi ero passato a osservazione di cose, persone, animi; e seguendo il barlume di ragione che m'aveva condotto, quella sera, a interpretar l'animo di chi mi stava intorno e a dimostrarmi cogli altri abbastanza disinvolto e mutato, pensavo ora che potrei di nuovo essere attratto alla vita e ricuperare la facoltà di sentire. N'era prova l'amarezza suscitata in me dallo spettacolo della giovinezza e della gioia.
Però la ragione mi diceva che la salvezza sarebbe nel dimenticar me stesso; e per dimenticarmi era necessario accrescere l'esercizio della volontà.
Come? Non in cose grandi o in cose gravi poteva più esercitarsi la volontà di un uomo annichilito. Mi ripetei che bisognava mi limitassi a piccoli desiderii, piccoli affetti, piccoli doveri.
Sì, anche doveri. L'amicizia me ne imponeva uno che cercai presentare alla mia coscienza come impellente. Guido e Marcella facevano all'amore e Claudio non ne sapeva nulla. Ed Eugenia sapeva, ma taceva e annuiva? Impossibile! Bugie; imbroglio! I due giovani avevano fiducia in me, ma io non dovevo prestarmi a ciò che un giorno mi costasse rimproveri; non dovevo tradir l'amicizia. Urgeva parlar a Guido, subito.
Gli parlai infatti, appena lo vidi.
Egli mi disse che sua madre voleva un gran bene a Marcella, perchè era una ragazza senza capricci; e ne aveva discorso lei stessa, alla signora Eugenia, delle intenzioni del figliolo.
— E Eugenia?
— Interrogò subito Marcella. — Sì che gli voglio bene, a Guido — (Il ragazzone contraffaceva, nella voce, anche l'innamorata). — Allora la signora chiamò me e mi fece una predica....
— Una predica? Eugenia?
— Un discorsetto: che senza il consenso di Moser non poteva permettermi d'essere assiduo; che, d'altra parte, finchè non fossi laureato, l'ingegnere s'opporrebbe.... Capisce, lei, adesso, perchè abbiamo tanto giudizio? — conchiudeva Guido ingenuamente — Marcella io non la vedo che la sera....
— Di sera in casa....; di giorno alla finestra.
— Ahi! — Con una comica smorfia, che gli era abituale, egli significò il dispiacere d'essere stato scoperto.
Tuttavia, stando così le cose, io non avevo più nè diritti ne obblighi d'intromettermi. E Guido, in attesa della felicità, era felice. Laureatosi, eserciterebbe la professione per conservare il patrimonio; e ora studiava solo per superare gli esami. La ricchezza del padre; la fortuna di Moser; il carattere e le abitudini di sua madre; l'arrendevolezza di Eugenia, tutto era predisposto alla felicità di lui, tutto il mondo per lui. Che beatitudine!
Ma di nuovo che amarezza in me! O forse la contentezza altrui mi suscitava finalmente odio? Per fortuna non potevo odiar Mino, che mi assaliva con richieste di nuove favole. E Ortensia l'assecondava; come indovinasse che il proposito di adattarmi a loro mi farebbe bene.
Di su le ginocchia della sorella il fanciullo mi ascoltava ad occhi spalancati; entrambi mi ricompensavano di risate trionfali se attraverso i semplici intrichi portavo in salvo il debole dal forte, il topolino dal gatto, la pecora dal lupo, il bambino dall'orco.
Ma allorchè i miei ascoltatori ridevano più di cuore, io ricordavo Diderot:
«Amici! raccontiamo storielle! Finchè si dicon racconti non si pensa a nulla; il tempo passa e si compie la favola della vita senza accorgersene.»
Questo consigliava un uomo che aveva goduto il mondo con tumultuosa natura e ferrea fibra; che aveva negato Dio e proclamata la sovrana libertà della mente umana....
Ohi ma se tutte le gioie dell'amore, tutte le lusinghe dell'arte e del sapere, tutte le ebbrezze della gloria, tutte le frenesie di tutte le passioni, valgono in realtà meno che le favole della nostra fantasia, e lo scopo della vita è l'illusione, l'inganno, l'oblìo della vita, a che vivere?
.... Appunto in quei giorni, ad accrescere la mia pena, un'anima semplice e umile presso a me benediceva la vita.
Per Eugenia era imminente il «gran giorno».
La sera prima di quello Ortensia mi chiamò.
— Venga con me!
— Dove?
— Dove? Dove? Venga con me: lo saprà. Avrà una bella improvvisata.
Mi fece andar da sua madre. La convalescente era ancora alzata nella poltrona, presso l'ampia finestra, e avevan spenta la lampada, poichè la luna, quasi piena a mezzo il cielo, bastava.
Eugenia sembrava una imagine di cera in un velo di luce bianca.
— Alzata? — io dissi entrando. — Non vi affaticherete troppo?
— Mi sento così bene — rispose. — Guardate che sera!...
— Una delizia! un incanto! Par di sognare! — esclamò Ortensia, entusiasta. — Io stasera sono felice.
Felice, venne ad appoggiare la sua guancia a quella della madre, come soleva.
— E Marcella? — chiese poscia la madre.
— Sono tutti nella terrazza.
— Va tu pure, se vuoi. Da me resta Sivori.
Quando Ortensia fu uscita, sedetti. A lungo tacemmo. Eugenia taceva forse perchè io ammirassi quello splendore; ed io tacevo indifferente. Finchè dissi:
— Dunque dimani vi avremo in giardino?
Allora la mia voce ruppe l'incantesimo di quella bianca luce che nel silenzio investiva la convalescente e ne rendeva bianco il pallido viso.
— Mi porteranno giù da voi. Solo a pensarci provo un piacere....; un piacere che non so esprimere. La mia guarigione è quasi un miracolo: è vero? Bene; immaginate, Sivori, che io abbia avuto un miracolo e me ne senta degna; abbia ottenuto una grazia per me e le mie figliole, dopo il perdono, dopo un'espiazione....
Scosse il capo.
— No, è impossibile esprimere il piacere che provo a pensare che tornerò alle mie faccende, che rivedrò i fiori, che potrò girare.... Questa notte — proseguiva adagio adagio, quasi per ricuperare l'apparenza del sogno — questa notte ho sognato che prendevo dall'armadio la biancheria, per darle aria, e che l'odore della tela e il profumo di lavanda mi riempivano il cuore. Lo credete? anche adesso mi sento intorno il profumo di lavanda.
— Segno che siete guarita — dissi io freddamente —, ma che siete debolissima. Vi bisogneranno ancora molti riguardi.
L'ammonimento tolse da noi l'impressione di gioia che aveva avuta la sua voce trepida; e io non provavo che un'impressione di freddo, di silenzio e d'immobilità a guardare il lume di luna. Esanimi, gli alberi del giardino prolungavano ombre di morte. Nel cielo senza una nube il lume scialbo spegneva il palpitante mistero delle stelle e per me non rischiarava che l'impenetrabile vôlta d'aria sospesa su questo povero mondo, sbiancando con neri contrasti questo povero mondo diaccio, muto, scheletrico, quasi fosse tutto un cimitero.
Pensavo a Ortensia, a quel che aveva detto, alla sua felicità. Per lei, per gli altri, gravava al cuore una lenta dolcezza e in quello splendore un'anima fluiva per tutto e tutto era un'anima. Una creatura sola era priva di un tal senso di vaga letizia; io solo n'ero privo: il mio cuore n'era privo! Pativo in me la condanna di un'esclusione inumana; provavo una mortale stanchezza, come se su di me solo cadesse il peso di una maledizione universale. Invocavo le tenebre.
— Il piacere della convalescenza! — dissi a un tratto. — Ecco un piacere che non proverò più!
Eugenia fissò ne' miei occhi il suo sguardo appena percettibile.
Nei brevi colloqui, durante le visite che le facevo ogni giorno, avevo notato che essa cercava parlare di cose estranee a noi e piuttosto di sè che di me. Ma dopo quelle mie parole, pensò forse prossima l'ora in cui spontaneamente le rivelerei il mio animo, ed ebbe un accenno:
— Io ho da chiedervi perdono, Sivori.
— Perchè?
— Dubito che le ragazze e Mino v'importunino.... Siete troppo buono con loro, soprattutto con Ortensia....; e io commisi l'errore....
L'interruppi.
— Credete forse che io resterei quassù, da voi, se qualcuno mi desse pena o se dubitassi di dar troppo pena a qualcuno?; se non mi paresse di star meglio qua che a casa mia?; se non fossi certo che in nessun altro luogo troverei amicizia così riguardosa, così paziente? — Ma ciascuna di queste interrogazioni era cercata per attenuare la durezza che mi restava nella voce e nell'aspetto.
Invece Eugenia fu commossa essa di gratitudine. Mormorò:
— Noi vorremmo vedervi contento, Sivori....; ma comprendo che purtroppo questo non sta nè in noi nè in voi.
— In chi sta, dunque? — chiesi con violenza mal repressa. Ella non rispose subito; poi rispose:
— In Dio.
Esclamai:
— Ah Dio mi ha tradito anche lui!... Voi pensate che Dio bisogna cercarlo non nella mente ma nel cuore, è vero?
— Sì.
— Sì, perchè Dio dovrebbe esser la vita e la vita dovrebbe esser qui (mi toccavo il cuore). In tal caso (e cercai d'attenuare in forma dubitativa ciò che per me era certo) in tal caso, io comincio a temere che la vita non mi serbi più nulla, più nessun bene! Temo, Eugenia, che la mente mi abbia divorato il cuore.
— Sivori! Sivori! — pregava la buona donna. — Non vi abbandonate alla tristezza, al dubbio. Siete ancora giovane, non siete un debole....
Tacevamo di nuovo. Ingrato e tristo io invocavo Ortensia, o qualcun altro, a liberarmi, o a mutar discorso. E fui soddisfatto. Batterono all'uscio. Il cavalier Fulgosi veniva a portare i suoi omaggi, le sue congratulazioni, i suoi auguri alla «cara signora Eugenia».
— Come va, cara signora?
— Sono molto debole....
— Sfido! È stata una gran batosta! Ma adesso ne siamo fuori.... A la bonne heure!
Ripigliò:
— Eh, io lo dicevo anche con mia moglie: la nostra signora Eugenia è più forte di quel che sembra. Vedrete che se la cava; vedrete! Poi è bene affidata. Un gran bravo dottorino, quel Minguzzi!; lo dicevo ieri col sindaco: un giovane studioso, tranquillo, in questi tempi che tutti i medici fanno i socialisti e dovrebbero piuttosto essere moderati. La scienza, è vero, dottor Sivori?, deve procedere adagio. Festina lente. Soprattutto la medicina. A lei, che più che un medico è un filosofo, posso confessarlo: nella medicina io ci credo poco. Medice, cura te ipsum! E per me, di medicine non ne prendo mai.... Un po' di cremor tartaro, alle volte. S'intende però che nei casi seri, come il suo, signora Eugenia, bisognava aiutare la natura con tutti gli sforzi della scienza. Basta: ora ringraziamo il Cielo e stiamo allegri. Hurrà! Domani a desinare in casa Fulgosi si leveranno i calici alla salute della signora Moser, e mai toast sarà stato più cordiale.
— Grazie — ripeteva Eugenia, — grazie, cavaliere!
— E lei, dottore, benone? Si vede.
— Benone — io feci.
— Già l'ingegner Moser esagera a dire che il troppo studio ammazza. Eh! quando si è sani le fatiche intellettuali si sopportano come le altre.... Ne so qualche cosa anch'io....
In quel mentre al lume di luna il cavaliere si guardava alle scarpette nere e lucenti: ad una delle quali il nastrino s'era sciolto, o almeno sembrava non più del tutto uguale all'altro. Lo ricompose; e rialzando il capo guardò alla luna e l'apostrofò a tu per tu.
— Casta diva.... Che sera! eh, dottore? Peccato non aver vent'anni!... Del resto, per tornare a quel che si diceva, mens sana in corpore sano; e, viceversa, se è sana la mente è sano anche il corpo. Quando non si è sani e forti, non si fanno le opere del dottor Sivori.... No, no, dottore; mi lasci dire. Non è flatterie, è verità....
— Voi siete ancora molto debole, ed è tardi — io dissi a Eugenia, alzandomi....
VI.
Nel giardino, dietro i due abeti gemelli, un folto di ligustri, mirti e semprevivi formava capanna. Là Claudio e il medico curante portarono, sulla poltrona, Eugenia. Li avevamo seguiti io e le ragazze, timorose queste; ma io non provavo niente di quel che provavano gli altri.
Più visibili, là fuori, erano nella convalescente le tracce della malattia che l'aveva prostrata; manifeste vene azzurrine segnavano alle tempie la pura fronte; profonde e oscure, nel pallore diafano del volto, le occhiaie; infossate le guance; violento il rilievo agli zigomi e alle mandibole. E le mani.... così bianche! così affilate!...
— Ah Sivori! — ella mormorò con un pallido sorriso, quasi mi dicesse: «Come sono contenta».
— Zitta! — impose Moser. — Zitte anche voi! — disse alle ragazze, che non fiatavano e guardavano ora alla madre ora al medico.
Ma questi, ristato un po' in attenzione dinanzi ad Eugenia, si mostrò del tutto tranquillo per lei e pago di sè.
Io pensavo che avrebbe dovuto consigliarla a chiudere gli occhi, a riposare, forse anche a dormire, piuttosto che permetterle di guardare, ascoltare, accogliere di urto, subito, la vita che le ferveva intorno. Invece egli disse solo:
— Si ricordi, signora, che appena si sentirà stanca dovrà dirlo; e l'ingegnere e il dottor Sivori la porteranno in casa. Mi raccomando!
Dopo la quale raccomandazione e poche altre parole, prese commiato.
— Come ti senti? — chiedeva Moser indi a poco.
— Bene, tanto bene!
Per lasciarla tranquilla, Claudio si mise ad andar su e giù lungo il viale, al margine dell'erba, fermandosi a quando a quando a riguardare. Marcella, tacita, sedette sul sedile di macigno, presso alla madre e ripigliò il crochet; e Ortensia di su un più basso sedile di pietra, dall'altro lato, poggiava il mento su uno dei bracciali della poltrona; e non potendo tacere, susurrava puerili e dolci espressioni d'affetto: — Mamma buona....; mamma bella.... — Io, in piedi, ero col dorso appoggiato a un tronco. Ora con interpretazione perspicace, sicura, seguivo in Eugenia ogni successiva impressione; i moti del cuore e dei nervi; la vicenda e l'aumento delle sensazioni; e insieme con queste il rampollare delle idee.... Appena oso dirlo. Prevedevo che l'impeto della vita fra breve sarebbe, per la delicatezza e sensibilità di Eugenia, troppo rapido e violento; ma non ne avevo timore. Freddamente, curiosamente, l'osservavo; e senza sforzo, come per abitudine antica a oggettivarmi, vedevo tutto quello che succedeva in lei. Tutto!
Il suo viso, così pallido, esprimeva la meraviglia, lo stupore di una coscienza adulta in un corpo che rinasca; l'ineffabile, sovrumana letizia d'un'anima che scorga e misuri e accresca di sè un rinnovarsi di sensazioni infantili.
Poichè i suoi sensi, che il lungo riposo aveva affinati e indeboliti la malattia, non comportavano tutte le impressioni in una volta, ella, da prima, non potè non socchiudere gli occhi e raccogliersi come percepisse indistinta, dalla minor vista e dai più tenui fremiti, l'anima universa; e, con l'imaginativa, in ogni vena d'erba, sentì fluire dalla terra l'umor fresco, fecondo e perenne; e vide l'alito che molceva le foglie, passava tra le fronde; e potè discernere, fugaci o più vive d'ogni altro suono, recondite armonie di api e d'insetti. Che sapore incerto di menta e di timo! che vago profumo! Dei fiori, volle; ma poco odorosi, poco odorosi.... Poi guardò; volse lo sguardo: a lungo attese a una turba di moscerini che in vortice, per un inesplicabile fine, s'incorreva entro una spera di sole; e la distrasse una ragnatela che fra due rami riluceva quasi d'argento; e vi tremava al disopra una foglia da una fibra sola trattenuta in un'agitazione alacre e incessante. Ma ecco: una capinera, lontana lontana, accennò, interruppe, riprese con arte. Mentre così cantava la capinera, lontana lontana, men lungi, repentinamente, un uomo urlò e prolungò un nome.
E intanto — anche prima? — l'arguto ribattere di un incudine, che nel suono rendeva una visione di sprizzanti scintille, a ogni colpo. Da presso, non prima udita, rumoreggiava per uomini e per carri la via: eppure non si perdette nel tumulto uno stridìo di rondini....
Ma stordiva il tumulto, a poco a poco sempre più vasto, molteplice, pieno: stormivano le frasche, cinguettavano i passeri, risonava la strada, e l'incudine; e umane voci; e uno schiamazzar di galline; e un trottar fondo di cavalli; e un rimbombar di echi. Un richiamo di mille voci in una voce sola; un clamoroso accordo d'innumerevoli creature in terra; una sensibile intesa di anime in cielo; una confusione enorme; un portentoso palpito; un'intensa fatica; una gioia insopportabile; un affanno mortale....
— Mamma! — gridò atterrita Ortensia, più pallida della madre. — Mamma! mamma! — invocò Marcella. E Claudio accorse.
Ma io, che avevo previsto, mi mossi appena.
— Non è nulla — dissi —; una lieve commozione.... È vero, Eugenia?...
Essa, scorgendo con quale angoscia avevan dubitato che mancasse, e strappandosi del tutto, con la volontà, da quella partecipazione intensa e da quell'abbandono della sua vita rinnovata alla vita universale, e risentendosi del tutto salva, nel sangue e nell'anima, salva per l'amore de' suoi, sorrise; e pianse.
Ripeto: tutto ciò, o per vista o con immaginazione positiva, io avevo osservato con «occhio clinico»; avevo inteso con scientifica penetrazione, misurato e valutato con razionale precisione, senza turbamento alcuno! Anche il grido d'Ortensia e di Marcella, e l'accorrere di Claudio, e le lagrime di Eugenia tutto, tutto «naturale», tutto «necessario», come la «funzione» d'un qualsiasi organo, o l'andamento di una qualsiasi macchina! Il miglior amico dei Moser era rimasto impassibile alla loro angustia. Non solo: io avevo taciuto ciò che, per aver previsto, avrei dovuto consigliare evitando agli altri un'apprensione grande, e un pericolo, forse, ad Eugenia....
Pensai allora, in quegli istanti, che anche un delitto in me era possibile.... Possibile? Per provar rimorso indietreggiai nei ricordi; riflettei sul diritto che aveva Claudio alla mia gratitudine e al mio affetto: niente!... Rammentai la bontà di Eugenia....: niente! Il mio cuore era sordo; il mio cuore era incurabile!...
— Rientriamo? — ripeteva, insisteva Claudio.
Eugenia pregava:
— Ancora un poco....: dite, Sivori?
— Ma si!; un poco....
.... Ah che respinto del tutto in me stesso, non cercavo più che me stesso, disperatamente!
«Anche un delitto era possibile». Con rapida, ansiosa riflessione, volli accertarmi del mutamento in cui per qualche giorno avevo confidato; tutto quel che avevo detto e fatto ricercai con la disperazione di chi comprende d'aver tentato invano; e non vorrebbe credere....
Invano avevo ripreso l'esercizio della volontà; invano mi ero raccolto, per dimenticarmi, in azione e considerazione di piccole cose; invano avevo giocato con Mino e avevo voluto abbattermi nella puerilità.
Io era un uomo che una vendetta orrenda aveva gettato a vivere in un abisso e che di laggiù, dalla profondità tenebrosa, per rincrudimento alla condanna, riceveva fuggevoli barlumi.... Peggio! Peggio! Io era un naufrago alla cui speranza era rimasto, in mezzo alle onde, il solo appiglio di fuscelli!
«Anche un delitto....» E perchè no? Forse mi bisognava ricorrere al male, a un male più grande, per uscire da quello stato in cui mi trovavo; ricorrere a qualunque mezzo.... Io dovevo procurarmi forse un rimorso per mezzo d'una colpa a cui non potesse sfuggir più la mia coscienza.
Eugenia risollevò le palpebre. Sorrideva; mi sorrise.
— Vedete che la mamma ride? Vedete? — disse Ortensia beandosi nelle carezze che faceva a sua madre.
Io fissai Ortensia: bionda; rosea in viso; bella; con gli occhi luminosi; con un sorriso che aveva e dava luce. Che bella figliola!
Quale disgrazia se l'ala della morte toccasse d'improvviso quel fiore! se quella giovinezza cadesse atterrata; fatte smorte quelle guance; chiusi quegli occhi; fermo e freddo quel cuore: divenuta, a vederla in volto, quale il ragazzo che, da studente, avevo visto spolpare nella sala anatomica....
Ecco: c'era lì dinanzi a me una madre la cui esistenza era stata trattenuta per un filo, mesi e mesi, all'esistenza de' suoi...., con tante cure! con tante ansie! con una vicenda crudele di speranze e disperazioni. Quante volte Claudio, mentre era tra gli operai e le opere, al veder sopravvenire qualcuno di casa, aveva temuta la notizia.... Moribonda?... morta?
Più d'una volta Marcella e Ortensia, sole nella camera vegliando la notte, col brivido, esse, della morte, avevano creduto che la madre assopita fosse morta....
Ebbene: questa madre ora sorrideva per piacere alla sua figliuola, che l'accarezzava; sorrideva, per non ingelosirla, pure a Marcella; e due vite tornavano a compiersi della sua, ch'era stata sospesa e tronca anche per loro; e nella loro si reintegrava la vita di lei. Che spaventevole commozione proverebbe mai un uomo....; proverei io, se d'improvviso...., in un modo sanguinoso, precipitassi a colpire.... io, al cuore...., la più vivace di quelle tre creature?... Che istantaneo strappo;.... che strazio.... se io lì, presente sua madre...., io.... in tanta gioia, nel silenzio di beatitudine così tranquilla, ora, in tanta luce...., ammazzassi, io.... strangolassi.... Ortensia? Ah gettarmi su di lei! Un attimo....
Come mi trattenni? Sono certo che se avessi avuto un'arma avrei compiuto quel che pensai in quell'attimo. È vero! È vero! Un coltello...., e l'avrei piantato nel cuore di Ortensia.... Inerme, trattenuto forse dalla percezione di una insuperabile difficoltà materiale, ebbi il tempo di avvertire l'enormità del mio pensiero....
Rimasi come in preda a una allucinazione, con un nodo alla gola; eppoi con uno sforzo sovrumano uscii dalla capanna, adagio, senza gridare, disperato:
— Salvatemi! Salvatemi!
VII.
Ero salvo.
Per quanto attento a me stesso io non comprendevo che vagamente quel che era accaduto dentro di me; e, non volendo ammettere d'essere lipemaniaco, la tentazione o l'allucinazione del delitto, che nei lipemaniaci è frequente, mi aveva lasciato uno stupore enorme e un orrore profondo. Tosto però ebbi l'impressione che finalmente mi si fosse disgelato il cuore; un'onda, quale di passione a lungo contenuta, irrompendo infrenabile, aveva sollevato dal petto il peso che mi soffocava; il rimorso m'aveva ridestata del tutto la coscienza.
Tornerei lieto di speranza? Smetterei per sempre quel sarcasmo che mi avvelenava le parole?
Non potevo ancor chiedermi questo. Neanche avvertivo che un indizio che il mio pensiero restava non poco torbido era nel bisogno di tornar a considerare i passi della mia vita dolorosa e di misurare gli sforzi sostenuti.
Che giorni! e a che prezzo avevo ricuperato la facoltà di sentire!
Sì: ora soffrivo; non rivedevo più Ortensia senza patire, patire veramente, un vero rimorso; desideravo che ella mi dicesse a parole o a sguardi che mi credeva buono. Non più per infingimento, ma per moto sincero dell'animo, cercavo ora di mostrarmi diverso.... E cercai anche di mitigare le antipatie che mi avrebbero reso insopportabile. Così, di sera, scambiai qualche parola con le signore; lasciai che la Fulgosi, sbattendo le palpebre e raggricciando il naso, mi riferisse le delizie delle soirées aristocratiche; ascoltai dalla Learchi ricette di buon mangiare; concessi alla Melvi madre di narrarmi, in disparte, con grandi scossoni di risa, l'ultimo scandalo paesano. Ad Anna Melvi mi accostai senza quell'aria di uno che volesse provocarne l'ostilità, sebbene ancora mi urtasse l'intenzione manifesta in lei di sedurre il sicuro e guardingo Roveni; e le strizzavo l'occhio quando scomponeva quel manichino di Pieruccio. Ma di Pieruccio e delle sue occhiate languide a Ortensia mostravo di non curarmi affatto; Ortensia non gli badava e correva volentieri a raccontarmi tante cose! (E che orrore di me se, mentre Ortensia parlava, mi rammentavo del mio immaginario delitto!)
Fin al cavalier Fulgosi rivolgevo dimande intorno le condizioni politiche di Valdigorgo, col pericolo che la mia affabilità divenisse davvero per lui, com'egli diceva, una great attraction, cioè egli mi s'attaccasse come una sanguisuga.
Soprattutto mi sforzavo a rasserenarmi quando stavo con Eugenia, o rincasava Claudio.
Ogni giorno le ragazze ed io ci mettevamo con Eugenia al solito rezzo. Essendo noi soli, mentre le ragazze cucivano o ricamavano, non di rado cadeva il discorso; ma i brevi silenzi erano pieni d'anima; d'anime concordi nell'armonia del giorno e della vita. Io la sentivo, quell'armonia; non in me ma intorno a me. Sentivo....: io sentivo!
Allorchè non interloquiva Ortensia a bisticciarsi, per chiasso, con la sorella, interrompeva il silenzio la capinera da lungi, o, da presso, il reattino. Zerr....; ed ecco la più lieta fra le più liete creature del mondo, sbucare, balzar dalla siepe al cespuglio; penetrarvi svelto, riuscirne alacre; arrestarsi spiando, inchinando il capo per curiosità e drizzando la coda; e subito con un nuovo zerr, giù in terra!; e via, difilato, rapidissimo, a ficcarsi nel noto intrico, ove pareva trovar sempre qualche preda.
Diventò presto nostro amico, quel reattino così ardito e pettegolo, seppure il tremendo Mino non sopravveniva a spaventarlo; e quando s'era cibato ben bene, non dimenticava una modulata lista di note cadenti, sgranate e limpide, che si ricomponevano in trillo.
— Bravo!
— Dov'è?
— Sparito! S'è consumato nel canto.
Spesso interveniva Guido Learchi, o perchè si diceva mandato dalla madre a prender notizie della convalescente, o perchè passava di là «per caso». Io e Ortensia trovavamo i motti che pungevano lui e Marcella; ed egli arrossiva, si schermiva mal destro. Marcella levava dal ricamo il suo sguardo ombrato e trepido, quasi a dirci: «Sì, tutto il mondo lo sa che ci vogliamo bene. Non siate cattivi, voi due....»
Pur Eugenia, esente da inutile severità o furbizie materne, sorrideva.
E quanti fiori recava Guido Learchi! Per monti e boschi, con lo schioppo sulla spalla e tutto in pensieri di Marcella, raccoglieva fiori insoliti o non facili a raccogliere, che servissero a copia di ricamo: rododendri, campanule, anemoni, giacinti selvatici, salcerelle e rosse valeriane, in fascio con erbe odorose, bacche, foglie a vaghe tinte e a strane forme.
— Questo? — domandava Guido scegliendo, per l'esame di botanica, fra il mazzo.
Ortensia rispondeva con tali spropositi che lo scandalizzavano a lungo. Marcella, ingenua, correggeva:
— Euphrasia officinalis.
E noi a ridere; perchè ella sola rammentava le lezioni di Guido.
Finchè l'ora declinava, e il cielo, a lembi, tra i rami, e nella plaga verso i monti, impallidiva; e noi ad ogni suono di trotto nella strada, ci mettevamo in ascolto. Però fra i rumori vivaci o sordi, prossimi o lontani, io non avevo peranche appreso a distinguere il trotto del cavallo di Moser, che di subito le figlie e la madre lo riconoscevano, e annunziavano spesso a una voce:
— Il babbo!
Correvano le ragazze al cancello, o per la via. Eugenia si appoggiava al mio braccio e facevamo qualche passo incontro: Guido sgattaiolava.
— Ben arrivato! Babbo, babbo!
Nè prima la carrozza s'arrestava al cancello, che già Moser era a terra d'un salto; e se veniva dalla ferrovia, dopo più d'un giorno d'assenza, con maggior trasporto e fretta dava saluti e chiedeva notizie.
— Come va, Eugenia? Bene! Benone! Le bimbe? Benissimo! E tu, vecchio? (a me) E Mino?
Il monello, giungendo, gli si gettava al collo.
— Basta! Auff! Che caldo! Sono stanco morto! Capite: 35 gradi all'ombra, laggiù! — Perde, frattanto che snoda la cravatta e respira a pieni polmoni, con piena gioia, cartocci e carte; esprime dal volto onesto il sollievo della fatica; la consolazione come d'un premio meritato; la forza e la bontà. — Ah! ora sto meglio! Andiamo a sedere.
Tutti c'incamminiamo lasciando parlare lui solo; il quale si guarda felice intorno e par che non creda d'essere salvo dall'afa e dalla carcere e dalle faccende cittadine.
— Valdigorgo! Questo è il paradiso! Una delle più belle opere di Domineddio! Che cielo! Che aria! Che fresco!
Poi a vedere le figliole che corrono per il bicchiere di acqua, già prima d'esserne richieste, si ricorda che ha sete e urla:
— Marcella! Ortensia! un bicchier d'acqua! Ho sete!
— La fabbrica? — domanda Eugenia.
— A meraviglia! Siamo al terzo piano; e tra un mese....; insomma, un buon affare, Eugenia; sta sicura!
E arriva l'una o l'altra delle figlie col bicchiere annebbiato.
— Oh che acqua! l'acqua di Valdigorgo! Non vantarla sui giornali, amico (egli mi prega): se no, ce la portan via, o vengono a bercela!...
Segue una pausa, perchè le ragazze e Mino possan chiedere:
— La lana, babbo?
— La trottola?
— La lana?! la trottola?! Oh credete che non abbia per la testa, laggiù, che i vostri capricci? La fabbrica, i capomastri, gli artieri, le seccature; corri in provincia, in comune, allo studio, dai clienti: chi mi cerca, chi mi sfugge.... Paga questo; licenzia quest'altro.... E voi, come se nulla fosse, la lana? la trottola?
Ma poi egli trae di tasca il cartoccino della lana e lo getta alle ragazze; mentre parla a me:
— E tu hai scoperto finalmente la quadratura del circolo?
Rispondo: — Eureka! — quando già le ragazze strillano:
— Dio! che lana!
— Che colore! Cos'hai fatto, babbo? Ma il campione?
— Il campione! il campione! — brontola il padre. — Dunque non ci ho colto?...
— Un orrore!
— Eh.... se l'avessi avuto, il campione!...
— Te l'ho dato!
— Te l'abbiamo involto in un pezzo di giornale. Lo mettesti nel gilet!
— Sì! E io sono corso dal negoziante, prima di partire. «Mi vuole della lana così....» Se non che il campione non si trova. Fuori tutte le tasche; cerca tra le carte, sul banco, sotto il banco, per la strada: irreperibile! Non importa: «mi dia della lana verde per pantofole.... da regalarmi nel mio onomastico....»
Altro grido delle ragazze: — No! Non è vero!
Tuttavia, rifacendo la scena, prosegue egli:
— «Di verdi, signore, ce ne sono molti....»
«Bene, me li mostri....» Che volete? Io mi ricordavo tanto bene il tono della voce di Marcella quando mi disse «un verde così», che ho scelto tra le matasse a colpo sicuro.
— Vergogna!
— Cattivo!
— Scegliere la lana a orecchio!
— Eh.... per pantofole....
— No: per un berretto da notte!
È questa la vendetta delle ragazze.
— Ah! infami! Un berretto da notte a me?... a me?!
Infine Claudio si ricorda che è stanco e si rimette a sedere con le mani in tasca. Allora, non senza sua grande meraviglia, come a un miracolo, leva la destra con qualche cosa fra le dita....: il campione della lana.
Ma segue Mino, che richiede il giocattolo.
— Non mi amareggiare, figliolo! Non ho potuto comprarlo; non avevo più soldi....
Il ragazzo si vendica puntando, senza piangere, l'indice al viso del padre e accusandolo alla madre.
— Mamma: il babbo ha detto una bugia! Guarda! guarda che bugia!
Talora giunge anche Roveni, per il viale, con quel suo passo da conquistatore.
— Oh! Roveni! Novità?... Andiamo!
E quell'uomo, stanco morto, corre col giovane nello studio; dove rimane fino a che, chiamato una terza volta a desinare, precipita in camera da pranzo, arrabbiandosi contro di me.
— Bravo, Sivori! Che uomo sei, perdio? Neppur buono a dar scodelle! Come fate quando non ci sono io?.... Vedi: si fa così!
Ma non è raro il caso che un ritardo ad afferrarla, o un disguido, rovesci, tra le grida e le risa, la scodella sulla tovaglia.
Egli, Moser, fu più lieto dopo che ebbe visto rischiararsi la mia faccia.
— Finalmente Valdigorgo ti fa bene anche a te — mi diceva. — Bada che sino alla prima neve non si parte di qua: nessuno!
Negli occhi e nei modi d'Eugenia io notavo invece il dubbio che mi facessi forza a stento.
Talvolta il cuore intende meglio dell'ingegno.
Al consueto luogo, nel giardino, colsi una di quelle occhiate per dirle:
— Claudio ha ragione: sto meglio. Quest'aria fa bene non solo a voi; ed ero forse più esaurito, più debole di voi, io!
Eugenia scosse il capo, e arrossendo lievemente:
— Voi — disse — non siete debole. Ora vi dominate per non affliggerci.
— Perchè pensate così? — domandai io con impeto. — Che cosa pensate, che cosa avete pensato di me? Voglio saperlo! Non temete di svelarmi tutto il vostro pensiero, se davvero credete che io non sia debole.... Vi prometto che non torneremo mai più su quest'argomento.
— Dirvi quel che penso? quel che ho pensato di voi? Ecco: i primi giorni ch'eravate qua dubitavo soffriste per una passione.
— Una passione d'amore? — feci ridendo.
— Sì — rispose senza ridere. — Non ci sarebbe stato da meravigliarsene; nulla di strano. Ma presto capii che il vostro male era molto più grave.
— Perchè?
— Una passione.... — esitava; indi risoluta: — forse me l'avreste confidata o, almeno, non avreste tentato di nasconderla così, a noi, a me. Il vostro male doveva essere molto più grande, perchè avevate timore che io e Claudio ce ne accorgessimo....; eppure non potevate nasconderlo. Non eravate più quello d'una volta. Perchè? Da prima ero un po' curiosa, lo confesso; ma l'altra sera, quando vi costrinsi io a svelarvi un poco, indovinai, e avrei voluto non indovinare.
— Come? Che cosa indovinaste?
— Ricordavo con che entusiasmo mi parlavate una volta dei vostri studii. Io sono una povera donna; non so nulla. Ma quante volte mi dissi: «E se non fosse possibile arrivare dove Sivori vuole?» Comprendevo le fatiche che doveva costarvi il vostro ideale; comprendevo che voi non avevate nulla, non volevate nulla fuori di quello. Tutta la vostra vita era là. Mi dicevo: «Sivori non vuole ammogliarsi.... Come vive? perchè vive? Per i suoi studii. Non ha altro bene al mondo. Ma: e se per una causa qualunque perdesse la sua fede?...»
— Avete indovinato! — esclamai stringendomi il capo tra le mani e coprendomi la faccia con le palme.
Perplessa, col timore d'avermi fatto troppo male a vedermi in quel modo, essa ristette un poco. Poi riprese:
— Debbo dirvi tutto. Avere un ideale come il vostro e perderlo, deve essere un dolore immenso, una sventura immensa! Ma voi avete resistito. Avete sostenuto una lotta terribile, è vero?; ma avete resistito! Vedete dunque che siete forte. E siete ancora giovane. Perchè non volete persuadervi che potete avere altri affetti, altre consolazioni, forse un'altra fede?
— No! Quando si è perduta, la fede non si riacquista più; e io ho perduta la fede più bella, la fede di me, del mio ingegno, del mio cuore In chi credere? in che cosa? L'altra sera vi dissi: «temo che la mente mi abbia divorato il cuore»; poco fa vi ho detto; «sto meglio», e infatti il mio cuore non è più di pietra. Ma adesso mi domando: «Non è forse peggio? Soffrire senza affetti, senza speranze, senza uno scopo, non è forse peggio che non sentir nulla?»
Eugenia avrebbe voluto parlare ancora. La trattennero dei passi che venivano alla nostra volta; e tacque, pensosa. Confrontava la mia miseria alla miseria di chi per vivere non chiede che un tozzo di pane? o alla squallida miseria d'un uomo roso da un morbo insanabile?
— Una sorella.... — mormorò in fretta, seguendo il corso del suo pensiero mentre Ortensia veniva a noi. — Perchè Dio non vi ha dato una sorella?
Ancora il sentimento le aveva detto il solo bene che avrebbe impedito o mitigato il mio male. Per risponderle, il mio cuore palpitò. Ma Ortensia, senza badare a noi, a voce alta e lieta, riferiva non so che ambasciata, o notizia.
— Cervellina! — le disse la madre in tono di soave rimprovero, rialzandole i capelli su la fronte. — Cervellina!
La ragazza si rivolse, passò dietro la madre per trarne a posto il cuscino su cui poggiava le spalle, e mi guardò; e accortasi che quella sua gaiezza era giunta inopportuna, attese, incerta, con le braccia allo schienale della poltrona.
Senza badare a lei, io dissi a Eugenia:
— Sì; ho pensato spesso di che benefizio mi sarebbe stata e mi sarebbe una sorella. La sorella è la custode della bontà materna; è la immagine materna che sopravvive.
La signora annuiva. Ma io mi corressi:
— Forse esagero, perchè attribuisco a questo bene, che mi manca e che comprendo, anche la parte pura del sentimento che nessuna donna esaurì pienamente dal mio cuore. Sono certo però che quest'affetto può bastare a sè stesso; gli basta, per sussistere, nutrirsi di sè stesso; e ciò lo rende superiore forse a ogni altro.
Eugenia disse:
— Infatti quante mogli non buone sono sorelle buone.
Io proseguii concitato.
— Oh l'affetto che nessuna colpa contamina, che nessuna volontà o finzione o profitto dirige, e che si esprime spontaneo, placido, continuo, in prove d'abnegazione, nella voluttà del sacrifizio! Disperato, solo, io mi son visto in un'interminabile via, irta di triboli. Tutti i beni a cui feci rinuncia eran perduti, e la vetta a cui tendevo era sparita. Sarei caduto se avessi avuto le parole che son balsamo allo strazio? le stesse parole che avrebbe avute per me mia madre? Maledirei così il mio pensiero se io vedessi negli occhi di una sorella le lagrime stesse che piangerebbe, a udirmi, mia madre? Maledirei la vita se sentissi un cuore fraterno partecipare del mio cuore? Ma — conchiusi, triste: — una sorella non si trova!
Eugenia taceva, triste. Senza guardarmi, essa rigirava gli anelli nelle dita, considerandole, pareva, come bianche.
Mi guardava intanto, fisa, stupita, Ortensia; quasi quella mia disperazione fosse una rivelazione per lei....
Ed io le vidi l'anima negli occhi, come un'altra volta le avevo veduta....
Fu un attimo. In un attimo ebbi io pure l'impressione d'una rivelazione improvvisa, d'una gioia ineffabile, d'un sollievo insperato e certo al mio lungo soffrire. Due anime, in quell'istante, s'intesero. E Ortensia sorrideva d'un sorriso trepido, quale il suo sguardo....
Un attimo: le nostre anime ricaddero in noi. Ma l'affettuoso patto era già conchiuso.
VIII.
— Vuoi esser tu la mia sorella?
— Sì.
— Per tutta la vita?
— Sì! — rispose Ortensia con maggior fermezza.
Mi porgeva, a conferma, la mano. Ma credè non bastasse:
— Sarò buona. Vedrà! Glielo prometto!
A me parve più bella; e mi sovvenne del birocciaio che avevo visto, stanco ed assetato, gettarsi alla sorgiva, innondare di ristoro il petto e riprender l'erta con vigore nuovo. Un benefizio consimile ma più grande, più grande io avrei dal consentimento di Ortensia; e questo non era, no, un'allucinazione, un'aberrazione, una puerilità di mente immiserita e di animo appena ridesto in un rinnovamento precario e ingannevole. No! Non speravo una guida al lume della fede e del vero; non supponevo nemmeno un ritorno alla fiducia in me stesso; ma dalla corrispondenza di un semplice affetto, di un bene umano, mi attendevo ciò che nessuna altra cosa avrebbe potuto darmi: ricupererei pienamente il senso della vita; il mio pensiero si purificherebbe nel pensiero di Ortensia; il mio cuore tornerebbe vigile e buono; l'anima triste si allieterebbe dell'anima lieta. Attendevo, volevo il ristoro di quella inconsapevole dolcezza, di quella spontanea vivacità, di quella ingenuità forse non più ignara del male, ma su cui la conoscenza del male passava come ombra che non agita e non intorbida....
Qua, sorellina, che ti riveda! Riluce ne' tuoi occhi la poesia che un'eterna forza di giovinezza esprime in mille modi, in vite innumerevoli d'intorno a te: i sogni, i tuoi sogni, ti accompagnano a volo, t'avvolgono il capo biondo e tolgono ogni nube alla tua fronte. Li scorgi? Guarda: ti si specchiano dinanzi nella realtà.... Qua che ti riveda nella veste più umile: la gonna bleuastra, il corpettino chiaro con la fascia di seta bianca, e i fiori al petto, mentre con mano impaziente rialzi i capelli sulla fronte e sorridi. A vederti, dilegua ogni ricordo di morte. Parla! Le parole sgorgano limpide dalla tua bocca e cadono con soavità lunga....
— Che uomo! Sempre triste! Su, signor dottore! A raccoglier dei fiori; presto! andiamo!
Va; e che le spine non pungano le tue mani divinamente belle!...
.... Il dolore risparmierebbe quell'anima? Già questo io mi chiedevo. Non era dunque un affetto egoista, il mio, se già mi facevo questa domanda; e un'affezione disinteressata mi pareva tuttavia utile al mondo: per Ortensia non sarebbe inutile avere in me un bene fraterno, quand'anche la fatalità della sventura le fosse indulgente.
Ma io che difendevo Ortensia, io che la conoscevo meglio di tutti, scorgevo meglio di tutti i pericoli dell'indole sua. «Cervellina» la diceva la madre; nè la queta e mansueta Marcella, che troppe volte doveva attender da sola alle faccende domestiche, aveva tutti i torti a lamentar frequenti strappi ai diritti della primogenitura e a chiamarla svogliata. E le altre?
La signora Redegonda — la madre di Guido — chiudeva un occhio, ridendo senza volere, allorchè giudicava Ortensia. — Buona sì; ma non le piaceva star in cucina; non una donnina da casa come Marcella.
E la Fulgosi s'eccitava e agitava a vantar l'educazione inglese, che concede molta libertà alle ragazze, e biasimava Ortensia appunto perchè godendo tanta libertà non era seria come le ragazze inglesi.
Peggio poi la vecchia Melvi. Diceva che Ortensia era «una farfalla, leggera leggera». Lei, la madre di Anna, diceva così, in tono di rimprovero! E pensare che sua figlia, anche quando scherzava chiassosa e pareva abbandonata alla più innocente gaiezza, non diceva parola, non faceva atto che non ubbidisse a un'intenzione o a un'abitudine acquistata per intenzione! Ma Anna non era riprovevole perchè era falsa.
Ortensia invece era spontanea in tutto; schietta e franca anche nei difetti: presto o tardi n'avrebbe danno; l'ammettevo io pure. A diciassette anni, era ancor troppo mutevole e impetuosa: non potevo negarlo. Troppo la sua volontà cedeva alle facoltà spirituali, che nè gli ammonimenti materni nè il nativo buon senso bastavano a disciplinare; era irriflessiva spesso; troppo fiduciosa di sè e degli altri; impaziente.... Concedevo tutto questo. Ma Eugenia notava: — Quando Ortensia ha detto no, è no! Per fortuna — aggiungeva —, a saperla prendere è facile prevenire il no e ottenere il sì.
Dunque Ortensia aveva forza d'animo. Me lo confermavano alcuni ricordi.
Anni innanzi, quando era sui dodici anni, Ortensia s'impauriva ancora ad andar sola, di sera, nell'oscurità. Una sera il padre la derise, per questo, più del solito. Improvvisamente lei s'alzò da tavola; traversò tutta la casa al buio; e tornò pallida, ma vittoriosa.
E da bambina respingeva ogni tentazione di dolci e di frutta che le venivan offerti a patto di rivelare chi delle sue compagne di scuola avesse commesso qualche marachella. Golosa, mangiava quelle buone cose con gli occhi, ma non c'era modo di farla parlare. Ed ora perchè sembrava più ardita e più consapevole di sè, quando, sul serio o per gioco, esclamava d'impeto: — Voglio! —?
Allorchè tant'anima si raccoglierebbe nell'amore o nel dolore, che forza di volontà avrebbe al suo soffrire! Era figlia di Claudio Moser, il quale tutto doveva a una volontà ferrea. Come pure aveva del padre la focosa cordialità, che manifestava spesso puerilmente.
— Tesoro! — quanti erre nell'esclamazione, mentre quasi soffocava il gatto con le carezze. Io le dicevo:
— Una volta o l'altra ti graffia. Sei troppo fidente: credi buoni sino i gatti!
— Ma non vede com'è bello?
E il vitellino alla cascina? Era un lattonzolo fulvo e ispido, che ne ascoltava le più affettuose espressioni con i grandi occhi stupiti e immoti e le gambe anteriori tese e aperte a un imminente sbalzo, se non di riconoscenza, di pazza gioia. Espressioni per il vitellino da fare invidia a un innamorato! Quanto a Sansone, il vecchio e bianco cavallo di Moser, lo abbracciava mentre esso le posava il capo su la spalla e tritava lo zucchero; ed erano abbracci così furiosi che per miracolo quello non se ne liberava con una zampata.
Con tali indizi d'indole affettuosa andavan altri che davano a conoscere non men vive le facoltà spirituali.
— Dopo che la mamma è guarita non provo più nessun bisogno di pregare. Come sarà? Certo non va bene!
Questo era effetto della giovinezza ritornata del tutto lieta; ma chiedeva a me:
— E lei non prova mai il bisogno di pregare? Mai?...
Io sorridevo, tacendo.
— È orribile! — Ortensia esclamava allora, dolente in modo da rivelare uno spirito passionale e profondo.
Che sarebbe di quest'anima all'uso della vita? Tenace nella passione, a chi s'affiderebbe quest'anima? Scemando l'esuberanza della giovinezza, così impulsiva, che mutamento avverrebbe in lei? Ogni indagine mi pareva una preparazione a difenderla un giorno, e nello stesso tempo accresceva l'intima ragione del mio affetto.
Volli sapere i suoi più grandi desideri.
Alla domanda, dondolandosi a pena a pena nella poltrona ad arco, chinò le palpebre su gli occhi, quasi a raccogliere e a precisare una visione.
— Viaggiare! Viaggiar molto! viaggiar sempre!
— Perchè?
— Oh bella! Per vedere il mondo; altri monti; pianure; città; il mare. Oh il mare!
— Calmo....; a lume di luna.... — suggerivo io.
— E in tempesta no? Non l'ho mai visto in tempesta. Dev'essere stupendo!
— Dalla spiaggia....
—.... Le onde bianche, il cielo nero, i lampi.... Brrr! che bellezza!; ma a non esserci, là in mezzo!
— Brava! E poi?
— Un altro desiderio grande grande? Un bel cavallo roano.... Roano o morello? Morello! con una stella bianca nella fronte!; e mi portasse via di galoppo, dove volessi io.... S'intende, più giovane e più focoso di Sansone. Sa che è un bel tipo, Sansone? Cascasse il mondo, lui non si turba! Sola io riesco a farlo inquietare un po', quando non gli lascio ingoiar lo zucchero.... È buono, Sansone; tanto buono!; ma con lui si va poco lontano!
— E poi? altri desideri?
— Mi lasci pensare....
Invece io la prevenni:
— Gioielli?, toilettes?, feste?, teatri?
— Si sa! Quale è la ragazza che non le desideri, queste cose?
— E poi? — io continuavo. — Diventar moglie d'un gran signore; magari d'un principe?
— Uh!, non mi dispiacerebbe.
— Ma io avrei preferito che tu dicessi: moglie d'un grand'uomo; d'un grande artista....
— Non ci ho mai pensato!
— Ah, dunque pensi a diventar moglie d'un principe?
— O di chi, allora? Di Pieruccio Fulgosi?
Fece una risata così significativa che anche a me parve di veder Pieruccio conficcato nell'alto colletto, smorto, con gli occhi imbambolati e i calzoni rimboccati.
— Sei senza pietà con quel povero ragazzo....
Arrossendo, Ortensia dimandò:
— Troppo sgarbata, è vero?
— Ierisera cosa ti disse quando gli voltasti le spalle?
— Eh! la solita storia!; non sa dir altro.
— Cioè?
— Che sono bella.
— E tu?
— Seccatura! Io non so dirgli altro che seccatura! Se lo merita; bamboccio!
— Però non gli dai torto del tutto quando ti dice che sei bella.
— Per me son tutti belli, fuori che lui! È bello per me anche suo padre!
Un'altra risata; e si levò di scatto per andar a guardarsi a una delle specchiere, che stavano alle pareti opposte della sala, quasi per togliersi un dubbio improvviso.
— Pfu! — fece, mentre ripeteva atti soliti: rialzò i capelli sulla fronte, e interponendo la destra al colletto che le stringeva la gola, tentò allargarlo, irosa, alzando gli occhi: bellissimi per il contrasto luminoso delle pupille e dell'iride col bulbo chiaro, che lo sforzo più distingueva.
— Però — riprese —, gli occhi di Marcella son più belli dei miei. Marcella ha gli occhi della mamma. Non sarebbe meglio fossi bruna io e bionda mia sorella? Tanto, a Guido gli sarebbe piaciuta lo stesso, e io mi piacerei di più a me!
Io dissi, tornando in argomento:
— Via!, consolati; chè gli artisti preferiscon le bionde. Ti daremo in moglie a un poeta.
— No, un poeta no. Non lo voglio!
— Perchè?
— Perchè?... Perchè?... non lo so nemmen io il perchè. Un pittore, forse...., un maestro di musica, celebre....
— Perchè preferiresti uno di costoro?
— Ma sa che è un bel tipo anche lei? Vuol sapere il perchè di tutto! Perchè? perchè? perchè?...
Mi canzonava. Fu così travolto in riso il resto della mia indagine.
Ortensia rideva di gusto; e se non ne trovava il motivo fuori di sè, lo trovava in sè medesima, quasi per espressione, e sfogo di giovinezza; saltando, magari, e cantando per ridere delle sue mosse e del suo canto; ma non era mai un riso sciocco. E diceva:
— Lasciatemi ridere, ora che la mamma è guarita!
Poi mi piantava lì, dov'ero, per correre a veder la madre.
.... Quantunque non protesse star molto in piedi, Eugenia aveva ripreso a dirigere le faccende di casa. Più brevi divennero quindi le nostre conversazioni al rezzo; più lunghi i miei colloqui con Ortensia, la quale adesso ardiva sgridarmi non solo se mi vedesse accigliato e col «sorriso brutto», ma anche se non la ubbidivo e trascuravo certe sue giuste pretese. Per diritto e dovere fraterni mi sgridava se m'impolveravo gli abiti e non attendevo abbastanza alla toilette; e spazzolandomi e riacconciandomi la cravatta, borbottava:
— Oh che uomo! oh che uomo!
IX.
Ero certo che l'amore non aveva ancor molestato il cuore di Ortensia e che nessun corteggiatore le dava maggior pensiero di Pieruccio Fulgosi.
La breve dimora a Milano, l'inverno, le aveva consentito la molteplice distrazione d'una grande città, ma le abitudini della famiglia l'avevano sottratta alle occasioni di conversazioni e ridotti, che son propizie agli innamoramenti.
A Valdigorgo non vedevo chi potesse innamorarla.
Quando le Moser passavano in paese — e fuor dei giorni festivi era assai di rado — il giovane ufficiale postale e telegrafico esponeva il capo dall'inferriata dell'ufficio; l'assistente del farmacista correva sulla soglia della bottega; i perdigiorni del caffè interrompevan la partita a carte o a bigliardo.
— Le Moser! le Moser!
Ma tutti costoro, e gli altri non da meno e non da più di essi, restavano come a una visione celeste e tiravan di gran sospiri: il cielo è solo per gli eletti!
Dell'ingegner Roveni io non sospettavo affatto, perchè ero sicuro di questo: nelle poche ore che restava alla villa egli non trattava Ortensia diversamente da Marcella, cioè con confidenza disinvolta e, insieme, un po' rude.
— Un giovane serio! — ripeteva Ortensia. Infatti, nè con lei nè con Marcella scherzava mai come con Anna Melvi; e con la Melvi, la quale lo provocava, scherzava in modo che pareva dire: «Tu cerchi di farmi cascare, ma non ci riuscirai. Sarà brava quella che ci riuscirà!»
E rideva, con Anna, quasi per togliersi di imbarazzo, quasi per forza; in modo che — ridendo egli poco o punto con tutti gli altri — poteva parere un po' volgare. Anche ciò mi confermava nell'opinione che fosse un uomo lontano e libero da preoccupazioni sentimentali; libero fors'anche per misura, forse per calcolo. Ma non poteva passarmi per la mente l'idea che dissimulasse; nè, pensandoci, ci avrei potuto trovare ragione alcuna.
Del resto, Ortensia, per parte sua, col suo carattere, mi persuadeva che quando pur avesse avuto cento adoratori attorno, e uno più esperto dell'altro, sarebbe stata ugualmente lontana dal pericolo di languir di passione. Chi pensa a sè stesso, perchè ama o è in attesa di amare, non ha di quelle impressioni improvvise, di quei rapidi entusiasmi per la vita esterna che aveva lei.
In ciò rassomigliava alla madre quand'era giovane; ma mentre in Eugenia l'ammirazione dei fenomeni naturali era temperata dall'affetto raccolto nel marito e nella famiglia, in Ortensia la stessa ammirazione prorompeva giù spontanea, più vivace, più grande; immediata. Ecco forse perchè all'arte della poesia, che domanda, a comprenderla e a gustarla, studio e riflessione, essa preferiva la pittura e la musica.
Con Ortensia non si facevan molti passi, non si stava un po' fuor di casa, senza udirla ripetere: — Guardi! che bellezza! Stupendo, è vero? — E mi chiamava spesso a voce alta: — Sivori! venga a vedere! corra!
Se non che per godere del tutto la libertà delle sue giornate, Ortensia non avrebbe dovuto aver nulla da fare in casa. E, pur troppo, la vecchia cameriera veniva in cerca di lei con gravi incombenze di Marcella o della madre.
Uf! che pazienza! Di solito scappava in casa di corsa per trarsi d'impaccio al più presto possibile; ma talvolta rispondeva:
— Sì, sì, ho capito! Subito! Vengo subito! — e allora a rivederci, Marcella; o arrivederci, mamma!
Quando poi non poteva esimersi dal cucir qualche cosa, o dal rammendare il bucato, si addossava in un giorno il lavoro di una settimana. In quel giorno di clausura, che manteneva con fermezza eroica, io la vedevo di giù, dal giardino, seder presso una finestra, contro al fondo scuro della camera.
A capo un po' chino, con movimento ritmico, alzava il braccio e tendeva il filo a ogni punto: ne scorgevo ad ogni volta la mano bianca; e come di tratto in tratto elevava il capo a guardar fuori, al cielo, i suoi occhi mi parevano più luminosi e profondi.
Ma ottenere di cotesti miracoli era impossibile per imposizione.
Aveva la ribellione nel sangue; al punto che si ribellava anche a Sivori.
Una mattina ricorsero a me, l'una dopo l'altra, Marcella, la cameriera, Eugenia.
— Sa dove sia Ortensia? —; dove sia la signorina? —; dove sia la cervellina?
No, neppur Sivori lo sapeva. L'avrebbe saputo Mino; ma Mino appunto era stato prescelto da lei ad accompagnarla nel bosco, di là dall'antico convento, per raccogliervi bulbi di ciclami.
Senza di me! Quando tornò a casa, la rimproverai con acerbezza; come avesse commessa una colpa grave davvero. Essa però prese i rimproveri allegramente.
— Perchè non ho chiamato lei, invece di Mino? Perchè?... per farle, dopo, una improvvisata! Non va bene? Una scusa che non va? Allora perchè....: per evitare una sgridata! Raccoglier cipolle di ciclami nel bosco.... Orrore! Ma no: neppur questo «perchè» la soddisfa? Ecco dunque la verità: m'è parso un passatempo non da uomo così.... burbero!
Quindi a me non rimase da far di meglio che star a vederla a piantar i bulbi nell'aiuola, solo sgridandola che s'interrava le mani, e lodando Mino, il quale, più savio, scavava con un paletto.
— Che m'importa delle mani? — ella disse. — Vedrà, vedrà che ciclamini! Io li preferisco a tutti i fiori.... E lei? Qual è il fiore che le piace di più? Dica! Voglio saperlo!
E Mino anche lui: — Di' dunque, Sivori!
— Indovinate — risposi, ripensando al tempo che mi piacevano i fiori.
Mino esclamò, pronto:
— Le freddoline!
Ma Ortensia:
— I fiordalisi? Di giugno, quando il frumento è alto e giallo, i papaveri e i fiordalisi, là in mezzo, non son belli forse?
Non era il fiordaliso che io ammiravo di più, un tempo....
— La rosa! — gridò Mino con l'entusiasmo di una scoperta indubitabile.
Via! Ortensia non poteva ammettere che il fiore che più piace a tutti, più piacesse a me.
— La rosa thea?
Dissi:
— Anche le thea hanno le spine....
Con alacre pensiero, cogliendo le immagini più vive che le venivano alla mente, Ortensia proseguì:
— La camelia? È stupida! Il mughetto? Sì, è grazioso...., ma poi! I tulipani? l'ireos? No, no, non credo. Il tuberoso? Niente di straordinario! Le viole? Peggio!; le viole mammole le han fatte diventar noiose a scuola, con la storia della modestia; le viole del pensiero io non le posso soffrire! Dopo l'ortensia, la viola del pensiero è il fiore più antipatico per me. Ortensia!: potevano ben mettermi un altro nome!
— Il geranio è bello — disse Mino.
— Sta zitto, tu! L'orchidea?... — continuava l'altra. — Ma lo dica, una volta! Il garofano?
Assentii.
Mino gridò: — È brutto!
Ma Ortensia riflettè un istante; e poscia:
— È vero; è molto bello il garofano!
Quanti anni eran passati da quando il mondo a me pareva bello anche nei fiori, e il garofano il più bel fiore?
Rividi nella memoria il mio paese nativo, ai dì di festa; mia madre.... Era molto bello il garofano rosso; il fiore del popolo: fiore della forza e della libertà; fiore dell'idea e fiore del sangue.
— Prendi! — disse Mino portandomene uno, di corsa.
Ecco.... Il calice capace e alto, merlato, ben munito al fondo; i petali copiosi, con quelle brevi frange marginali che sembrano moltiplicarli; il calamo così sottile e lungo, che ai nodi non si piega ma si tronca — frangar non flectar —; le foglioline del gambo esili ma salde, forti, affilate come lame; e quel colore ardente fra l'umile verde opalino della pianta, e lo sboccio impetuoso fuori dell'intricato cesto, gli danno una apparenza di bellezza audace, di stranezza semplice, di letizia rude, di vigoria nobile e selvaggia.
Al mio paese, tornando dai vesperi, i giovani portano il garofano all'orecchio, quale segno di conquista; e le ragazze non se ne adornano esse, ma li coltivano con gelosia in una pentola crinata, che adorna la finestra della loro camera, e se ne valgono a prove d'amore; tentazioni, sfide, promesse, premi e pegni d'amore.
Ma se ci son fiori che appaiono più belli quando sono sbocciati appena appena, o in prima fioritura, il garofano non è bello che nella virilità. Prima, allorchè gl'innumerevoli petali, vivi e freschi, fanno forza al calice che li costringe a non espandersi e nascondono le antere e i pistilli, come per un pudore di adolescenza, allora è di una timidezza senza grazia, di una robustezza troppo impacciata e quasi stenta. Ma quando è maturo e aperto, quando nella festa della sua vita fende il calice, prorompe con vigore esuberante, e i petali, per la fenditura, in basso, formano un bitorzolo bianco come son bianchi gli organi generativi non più nascosti, e in alto i petali sorgono pieni di colore e di sangue, e quelli esterni si chinano e soggiacciono quasi alla stanchezza di una fatica, grande e gioconda; quando da tutta quell'intima complessione tenera e viva sgorga il profumo intenso che non cesserà nella morte, oh allora è mirabile il fiore del desiderio ardente, dell'amore cupido e della voluttà!
.... Ebbene, da quel giorno, spesso Ortensia si mise, insieme, due o tre garofani sul petto; e da quel giorno il garofano perdè ai miei occhi ogni espressione sensuale, e mi parve più bello.
X.
— Ho promesso e mantengo! — proclamò l'ingegner Roveni. — Domani si va alle Grotte.
Lo ricompensò un clamore di grida gioiose; e subito le ragazze furono intorno a me per costringermi ad andar con loro.
Anna Melvi urlava:
— Chi fa l'istanza? chi ci è più interessata? — e sospingeva Marcella, timida e ridente in quel suo modo per cui stringeva un po' le ciglia e velava con le palpebre gli occhi soavi.
Inanimita, Marcella pregò:
— Andiamo, Sivori!: sia buono! Se non verrà anche lei, la mamma non ci lascerà andare.
E la Melvi:
— Dovremmo rivolgerci al cavaliere. Francamente, tra i due, preferiamo ancora lei!
Io tacevo con un sorriso incerto.
— Non capite che Sivori non ne ha voglia? — esclamò Ortensia dopo avermi fissato a lungo, in silenzio.
— Si annoierà più a restare in casa — ribattevan le altre.
— No, no! Si vede! È inutile: non-ne-ha-voglia!
Pronunciando in cadenza l'ultima affermazione Ortensia manifestava malcontento e nello stesso tempo minaccia di abbandonarmi alla mia svogliatezza.
Io le dissi:
— A quel che pare, tu sei disposta a andar senza di me. Mi vuoi o non mi vuoi?
Rispose forte e soltanto:
— Sì!
— E io ci verrò!
Il dì dopo andammo dunque noi sette — io, i tre giovani e le tre ragazze — a far colazione alle Grotte.
Se durante quella gita io avessi potuto o saputo conoscere a dentro l'animo d'alcuni della compagnia; se avessi potuto scorgere i motivi reconditi di atti in apparenza quasi involontari e di parole in apparenza leggere; se quel giorno avessi pensato un po' meno a me stesso, quanto dolore sarebbe stato evitato?
Per andare da villa Moser alle Grotte si teneva prima il sentiero che guidava al piccolo oratorio del Crocifisso; ivi si passava per il ponte di legno e si prendeva la strada, la quale or costeggia la destra del fiume, ora se ne allontana; ora aperta, ora chiusa in lembi di bosco o solo ombreggiata da noci e da querce, finchè si arriva all'aspra montagna che la via mulattiera assale fra i castagni frondosi e bistorti.
L'ingegnere s'accompagnò subito a me, ed Anna, chiassosa fin nella veste rossa, fu costretta a correre innanzi con Ortensia e con Pieruccio, la vittima, schiamazzando. Dietro andavano Guido e Marcella nella lor piena felicità. Roveni, fatti pochi passi, respirò ampiamente come chi si solleva dalle spalle un peso enorme e come dicesse: «il mondo è mio», disse:
— Questa giornata di svago mi voleva e me la prendo! Moser è rimasto lui alla fabbrica, oggi; ma senza bisogno: ho predisposto tutto io stanotte.
Era la prima volta che discorrevamo insieme liberamente noi due soli, e colsi l'occasione per dirgli:
— Moser prevede che lei, che gli è così utile, lo abbandonerà.
Senza guardarmi l'ingegnere mormorò:
— Vedremo.
—.... Però le dà ragione. Lei può pretendere migliore impiego.
— Davvero? Moser non me ne vorrà male, se mi converrà lasciarlo?
Era grato anche a me, che l'accertavo di no.
Io pensavo intanto: «Ecco un uomo! Abbastanza di sentimento; ma finchè non gliene venga danno». Pensai pure: «Se Ortensia avesse qualche anno di più....» Ma guardando il giovane respinsi subito quel pensiero. «Una moglie a costui sarebbe d'impaccio. Per andar lontano, vuol essere libero. Costui è un uomo!»
Egli proseguiva:
— Certo, Moser non potrà dire che gli do il calcio dell'asino. Avrei potuto andarmene già l'anno scorso. È vero che.... Basta! La vita è lotta. Io, dottore, ho lottato sempre dai quindici anni in poi.
Era rimasto orfano giovanetto; a prezzo di stenti e di fatiche aveva compiuti gli studi.... Poi ripetè che a Moser egli era tanto affezionato....
Avrei dovuto supporre qualche cosa di dubbio e di segreto nelle sue parole, e in quella reticenza: «È vero che....», per cui si era trattenuto da una confidenza inopportuna?
Non so. Anche ora rivedendo Roveni nella mia memoria qual egli era quel giorno mentre mi camminava accanto — più alto e più robusto di me; energico in tutta la persona che indossava il solito vestito bigio, col cappellone a larga tesa; i grossi baffi arditamente eretti, lo sguardo sicuro come il passo — anche ora mi sembra naturale che allora io soggiacessi alla simpatia di quell'uomo. Notai, sì, ch'egli mi guardava di rado e che tendeva gli occhi innanzi a sè; ma perciò vedevo in lui l'abitudine di chi guarda a un suo scopo, lontano. Notai pure che nella sua fisionomia prevalevano la volontà fredda e l'ambizione; ma la stessa durezza di lineamenti non aveva per me nulla di oscuro.
Proseguiva:
— Ho lottato sempre e non dispero di vincere. — Aggiunse: — Lei è di quelli che credono vile la conquista del denaro? Non credono che il denaro, la ricchezza sia un elemento di felicità?
— Felicità è possedere la forza di volontà che lei dimostra — risposi.
— La forza di volontà non basta! — ripigliò il giovane. — Bisogna ben determinare il campo d'azione; saper limitarlo secondo le proprie forze; segnarvi la via diritta da percorrere, e correre, correre, correre! La vita moderna è una corsa. Ma non basta. Vede? Moser corre. Però dissipa qua e là le sue forze: architetto, costruttore, appaltatore e fabbricatore di laterizi. Troppo! Ma criticare è facile. Io riuscirò dove voglio?
Interrogava l'avvenire.
— Lei riuscirà — dissi con amarezza, pensando a me stesso più che a Moser, quantunque la parte del discorso che gli si riferiva avrebbe dovuto raccogliere la mia attenzione. — Lei sa misurare gli ostacoli e li abbatterà.
— Non basta! non basta! La vita moderna pretende che abbattiamo anche intorno a noi, non solo davanti a noi! I concorrenti bisogna abbattere che mirano al nostro scopo e al nostro posto, e son tanti! Ma non è facile. Mai come in questi tempi bisognò armarsi di prudenza per colpire poi a spada tratta....
Mentre Roveni diceva così io ripensavo a me; già mi sentivo ricadere in me stesso.
E gli altri, tutti insieme, ci affrontarono rimproverando la gravità dei nostri discorsi e la lentezza dei nostri passi.
— Oggi non rideremo come l'anno scorso, quando andammo a Monfalco — disse Ortensia.
Presero a raccontarmi della gita dell'anno innanzi, ch'era stata interrotta da un nebbione formidabile.
— Dovemmo pernottare in una capanna.
— Merito tuo e del babbo, che vi ostinaste a salire — disse Marcella a Ortensia.
Pieruccio affermò:
— Ma io e Roveni ci arrivammo, alla vetta!
— Non è vero! — gridò Guido. — Vi nascondeste nella nebbia, vicino alla capanna, per paura di perdervi.
— Ci arrivammo!
— Storie!
Roveni taceva quasi non valesse la pena di sostenere la verità di così piccola impresa.
— Oh che notte, là dentro! Che notte! — ripeteva Marcella. Raccontava Ortensia:
— Immagini che fummo costretti a gettarci nella paglia per riposare un poco. Che freddo!... Io e la signora Fulgosi avevamo uno scialle in due! Bene: stavamo tutti zitti, e il cavaliere sospirò e si lamentò che non ci fosse nemmeno un po' di tè. Allora chi si mise a sospirare perchè non aveva la cuffia da notte; chi brontolava perchè non aveva le pantofole; chi voleva l'acqua di Vichy. Anna piangeva perchè non le portavano due guanciali!
Ma Anna, sogguardando a Roveni come per un richiamo a un loro particolare ricordo:
— Nemmeno l'ingegnere chiuse occhio in tutta notte.
L'ingegner Roveni sorrise appena e disse: — Lei non dovrebbe saperlo se io chiusi o non chiusi gli occhi. Eravamo al buio.
Ortensia sola rideva ingenuamente e con più vivacità di ogni altro, perchè aveva più viva degli altri nella memoria la rappresentazione del fatto e la comicità delle persone. Però quella sua giocondità, alla quale io non partecipavo, e quelle rimembranze estranee alla mia memoria aumentavano il mio turbamento. Avevo nell'anima il crollo di una grande speranza. Ora, come l'anno prima nell'altra gita, Ortensia era lontana da me, lieta senza di me.
Correva innanzi, adesso, a chiamare il cane di Guido, che impazzava a levar passeri, o ristava per dire qualche cosa a ragazzi o a vecchi che vedeva nei campi o nella strada, o ascoltava me e Roveni e borbottava: — Noiosi! —, e s'accompagnava per breve tratto a Pieruccio e ad Anna.
Per divertirsi di più, ottenne da Guido, il quale aveva una naturale attitudine a contraffar il prossimo, che imitasse Roveni: persona eretta, mosse risolute, passi lunghi, gambe svelte e solide. Poi, la studiata andatura di Pieruccio. Risate. Quindi imitazione della mia voce e alcune attitudini mie. E applausi. Ancora: gallicinii e qua qua. Gli disse Pieruccio:
— Fa l'asino, che ci riesci così bene!
Tranquillamente Guido si mise a ragliare; e da una cascina un cane accorse abbaiando; e il cane di Guido gli s'avventò contro: ne nacque una zuffa, aizzata dal terzo cane, ch'era Guido, e dalle grida delle ragazze.
Tra queste pur Marcella mi spiaceva e mi pareva perdesse quella soavità di spirito che le dava una beltà così gentile; ma per Ortensia sempre più provavo il senso doloroso di un intimo distacco e lo strappo di un'illusione necessaria.
Ahimè! bastavano quelle poche distrazioni, cui ella acconsentiva, per persuadermi che l'affezione di lei, per quanto sincera, scemerebbe a poco a poco nel mutare delle circostanze della nostra vita.
Mi chiedevo ora se avrei osato confessare ad altri, pur ad Eugenia, che io avevo creduto sul serio di sopperire a un affetto naturale con un affetto che non doveva in realtà superare i limiti dell'amicizia.
Non mi riderebbero in viso gl'innamorati (Guido e Marcella); i desiderosi d'amore (Pieruccio e Anna); la gente positiva (Roveni), se io chiamassi Ortensia, per uso, col nome di sorella? Dunque la mia speranza era insana! Ortensia stessa doveva comprendere d'aver ceduto a un'ingenuità puerile promettendomi il suo affetto, se una breve interruzione della nostra consuetudine quotidiana e l'uscir fuori dei soliti luoghi, in cui restavamo insieme, potevano così distoglierla da me.
Intanto Anna, indispettita perchè l'ingegnere rimaneva al mio fianco, sfogava il suo rovello impedendo a Pieruccio di rimaner con Ortensia. Chi più disgraziato dei due: io o Pieruccio? Chi più ridicolo?
Povero ragazzo, che forse aveva riposte tante speranze anche lui in quella passeggiata!
Aveva il binocolo a tracolla, e poichè non poteva servirsene a mirar Ortensia o ad ammirar sè stesso, come suo padre faceva con lo specchietto, ogni punto di vista gli era buono perchè traesse l'arnese dalla busta e ristesse a osservare il paesaggio.
— Signor dottore: vuole? — mi chiedeva con un inchino. Ma Ortensia e Anna accorrevano.
Ortensia, che poco prima aveva rifiutato il binocolo, ora insisteva:
— Voglio veder io! voglio vedere!
Ma da Ortensia il cannocchiale passava ad Anna; e cominciava la guerra per ricuperarlo. Anna fuggiva ridendo e sperando d'esser rincorsa anche da Roveni. E risate e grida.
Io mi servii di Pieruccio per sfogare il mio tedio.
— Oh l'infelicità del primo amore! — dissi con l'ingegnere. — Che fatiche! che sacrifizi! L'adolescente innamorato patisce un appetito formidabile e rifiuta il cibo; casca di sonno e si sforza a vegliare; con tutto il pensiero cerca l'immagine adorata, che dovrebbe specchiarsi chiara e netta alla sua mente, ma col naso divino, gli occhi divini, la bocca divina, che la mente gli delinea, non riesce mai a comporre la faccia divina, e invece gli balzan dinanzi le facce più estranee e più antipatiche. E questo è nulla! Vagheggiare qualche eroica impresa; o salvar da un pericolo mortale la bella per meritarne l'amore, o sfidare e ferire a morte il rivale, e sudar intanto nelle scarpe troppo strette o troppo larghe, e fare e rifare il nodo della cravatta, or sperando or disperando che parta da essa il colpo della vittoria! E questo è nulla! Proporsi di esser spiritoso e irresistibile, e non riuscir a trovar motto che non sia stupido e a trovar un gesto che non sia goffo.
Questa volta Roveni rise sgangheratamente; troppo. Non rise Ortensia; mi fissò e disse:
— Brutto giorno, oggi! — e via!
A un punto la perdei di vista; finchè, ella ricomparve con Anna, su di un poggiòlo in mezzo a una fratta. Di là ci chiamavano, urlavano i nostri nomi.
Disse Roveni: — Che bella voce ha Anna! — E forte: — Canti, signorina Melvi!
Allora la monellaccia, con voce squillante:
L'amore è una catena!
L'amore è una catena
che non si spezza....
.... Quando arrivammo a Rivalta, il villaggio dei tagliapietra, a più che due terzi del cammino,, era già tardi, e noi assetati e affamati. Or mentre io guardavo ai tagliapietre e agli scalpellini che quadravano e appianavano i massi — e schegge e lapilli balzavano diffusi ai colpi dei martelli, e i birocciai davano voce ai muli, e rintronavano da lungi le mine — le ragazze avvertirono, entro una porta, un magnifico cesto di pere, e si misero a mangiarne ingorde, invitando noi a pagarne il prezzo.
Allora, nel veder mordere i grossi frutti dalle polpe succose, come io invidiai la gioia di vivere!
Non bastavano quelle belle frutta a dimostrare la provvidenziale disposizione della natura alla gioia umana? Non erano destinate a gioie umane quelle labbra rosse, che sui pericarpi color d'oro secondavano il taglio avido dei denti?
E mi volsi a cominciar solo la salita dell'ardua costa montana.
Da un lato s'ergeva la costa a perpendicolo, tutta di massi grigi e neri sovrapposti come per un gigantesco assalto alla vetta; dall'altro lato precipitava la rovina sino al fiume, sul greto del quale il sole batteva irradiato dalla scarsa corrente.
Io non guardavo là dove il sole splendeva: a un passo più scosceso una nera croce di legno ammoniva che di là un viandante era precipitato e morto. Morire così!
Ma mi raggiunsero i giovani; mi raggiunse la vita, e sempre più incresciosa. Anche ora risento di quell'uggia; e non riferirei più oltre di quella gita se non fossero state gravi le conseguenze che ebbe.
.... Come entrammo nelle grotte, avanzarono per primi Ortensia, Marcella e Guido; seguimmo io e Pieruccio e gli altri due. Roveni, senza opposizione, reggeva la candela rifiutata da Pieruccio.
Intanto il cane si precipitava fin dove giungeva l'ultimo riverbero e s'arrestava abbaiando alle tenebre; poi facendo l'occhio all'oscurità, o scorgendo altro barlume, procedeva ancora e si perdeva, e impaurito a non udir le nostre voci o a udirle lontane, latrava e guaiva, finchè riusciva a trovarci, per riprendere quel nuovo sollazzo subito dopo. Acute strida seguivano a fremiti veri o immaginari di pipistrelli. E veramente ogni volta che si rinnovava l'oscurità, perchè o aria o ala di pipistrello od altro spegnesse la candela, la tenebra gravava su di noi; il freddo umido penetrava le ossa e l'attesa della nuova luce pareva eterna a chi frattanto non facesse qualche cosa.
Che facesse Anna non sapevo; ma insospettito, quando la candela fu riaccesa la quarta o quinta volta, mi ritrassi da parte per lasciar l'adito a lei e Roveni; e sorpresi Anna nell'atto di soffiare alla fiammella.
Finalmente usciti di là e superata l'ultima costa, tornammo nel prato, a far la colazione che un servo aveva predisposta.
Di lassù spaziava la vista della valle, ove le case apparivano frequenti come un gregge bianco in parte diffuso e in altre parti raccolto: verdi di boschi erano i monti prossimi, e tra il verde, or cupo or diverso per mezzi toni o sfumature ai riflessi di luce, casupole e ville; giù, candido il fiume, e i monti anteriori eran brulli e scuri, e azzurrine o già nebulose le estreme vette.
D'improvviso un suono di campane, multiplo e confuso dagli echi, ruppe quel sensibile silenzio; il silenzio quasi fervido della conca sonora: l' Angelus vibrò nell'aria.
Esultavano i miei compagni, mangiando, senza badare a quei rintocchi tardi e fiochi. Stranamente, dall'immagine ancor viva dei tagliapietre, che mi pareva veder deporre martelli e scalpelli ed entrare alle case per la zuppa fumante, ma non lieti e stancati dai duri macigni, io corsi all'immagine dell'operaio al mio paese: deponeva la vanga e traeva dalla bisaccia pane e cipolla; questa schiacciava col pugno e ogni scoglio, che toccava al cartoccio del sale, accompagnava di un morso di pan nero. Non gli zampillava vicina alcuna sorgente giuliva e fresca.... Infelici i poveri!
Ma forse la felicità era in quelle ville di contro a noi?
— Qual è la villa De Mol? — chiesi. Me l'accennarono.
— Perchè? — mi domandò Ortensia, quasi indovinasse il mio pensiero.
Non risposi. Sapevo che là era morta anni addietro una giovinetta.... Come dovè esser bello a vederlo, di là dove eravamo, il corteo funebre!
Morì etica. Bella, dicevano, anche morta. Ricchissima, la portarono giù di giorno, in una carrozza nera; e una fila lunga lunga di bambine e ragazze vestite di bianco l'accompagnava; e gli alberi del viale, per cui ella aveva corso fanciulletta, tagliavano a tratti la vista del corteo. O la felicità era d'intorno a me?
Che cosa dicevano i miei compagni? perchè ridevano?
Ascoltai.... Anna e Ortensia, alla fabbrica Moser, erano entrate furtivamente nella dimora, nella camera di Roveni.
— Quando? — chiesi.
— L'altro ieri.
— A far che?
— Non ha sentito? — Ortensia proseguiva. — Tutto sossopra! Abiti, biancheria, cravatte.... Ma Anna non ha fatto in tempo, come me, a scappar via, e Roveni s'è vendicato!
— In che modo?
— A pizzicotti.
Io guardavo, stupito, l'ingegnere. Egli, indifferente, corresse:
— Non è stata vendetta, ma legittima difesa.... Ecco la vita! Quei due avevan già forse contaminata l'anima d'Ortensia!
Dissi aspramente: — Ogni malesempio vien da Anna.
Ma senza temere e ridente Anna mi chiese:
— Cosa può dire, lei, di me?
Risposi: — Niente, io....
Ella si alzò, mi si avvicinò minacciosa tendendo le mani:
— Se lei pensa male di me le cavo gli occhi!
— Troppo! — le susurrai —: basta spegnere la candela.
— Ah infame! — Dica subito cosa ha pensato.... Subito!
All'orecchio le dissi (ecco la vita!):
— Ho pensato che si può spegnere una candela per infiammare un uomo.
La ragazzaccia protestò:
— Maligno! Perfido! Non è vero!... —; poi, a vedermi un sincero disprezzo negli occhi, mi volse le spalle mentre diceva forte: — Me ne infischio!
.... E il ritorno fu triste. Roveni, silenzioso e come dolente del tempo perduto, andava innanzi tagliando a colpi di giunco le vette che sopravvanzavano alla siepe; Marcella e Guido, a braccetto, procedevano poco loquaci, come marito e moglie; Anna conversava sul serio con Pieruccio, forse perchè discorreva di me; e Ortensia mi faceva indugiare a nominarle piante e fiori, per affrettarmi dopo. Ma anche lei era molto diversa del mattino; era stanca, si vedeva, di sè stessa. Mormorò:
— Povero Sivori! S'è annoiato, eh?
Invece di rispondere le domandai:
— Dov'ero io, l'altro ieri, quando siete andate da Roveni?
Non si confuse.
— Dov'era? E chi lo sa? Lo cercammo da per tutto; in casa; nel giardino.... Anna diceva che si era nascosto per non accompagnarci. Ma dopo me ne dispiacque, davvero! E quando tornammo a casa non le dissi della scappata: se no, guai! Non voglio rimproveri, io, da lei!
— Oh — feci scotendo le spalle —: per me, che tu vada a raccoglier ciclami con Mino o accompagni Anna a prender pizzicotti, dovrebbe essere lo stesso: non deve importarmene; nè forse importerà a te che io abbia molta stima dell'ingegner Roveni e nessuna stima di Anna Melvi. Tu non sai ancora che un uomo non ci perde se una donna leggera si contiene con lui come fa Anna....
Non badò nemmeno a quest'ultime parole.
— Non ci andrò più con Anna — disse d'impeto, per togliermi subito il rammarico. — Glielo prometto!
Poi, riflettendo alle ragioni della promessa, ripetè:
— Ha ragione. Non ci andrò più!
La Melvi, ci avesse o no uditi, venne a noi e pregò Ortensia di lasciarla sola meco.
— Debbo parlare al dottor Sivori.
Fu allora, per quel solo tratto, che Ortensia si accompagnò a Roveni; e nel mentre discorrevamo io e la Melvi, li guardavo; e respingevo ancora l'idea che l'ingegnere e Ortensia fossero adatti ad amarsi, sebbene a vederli sparisse ogni ripugnanza di persona e di età.
Anna diceva:
— Lei, signor dottore, mi giudica troppo male; lei dà troppo peso a cose innocenti.
— Forse.
— Non me ne rincresce per me: me ne rincresce per lei.
— Per me?
— Un uomo come lei preoccuparsi delle nostre ragazzate! Eppoi, io e lei dovremmo essere amici; e non so perchè siamo nemici.
— Perchè dovremmo essere amici?
La mia domanda fu così pacata, mi dimostrò così indifferente, che vidi Anna abbandonare la risposta che le correva alle labbra. Ebbene: se adesso non mi meraviglio che al mattino io non avvertissi in Roveni la sagacia di sospendere e nascondere un pensiero improvviso, mi meraviglio che avvertendo una dissimulazione in Anna, non cercassi di scoprirla. Non solo! Io non attesi affatto alle parole che ella sostituì al primo pensiero.
Io ascoltai come fossero dette candidamente queste parole:
— Dovremmo essere amici — disse Anna —, se non per altro, perchè ci conosciamo da tanto tempo!
Tacque un istante, per riprendere con disinvoltura:
— Che pelle buggerona ero io a sei o sette anni! Ricorda? Io mi ricordo quando lei venne la prima volta quassù. E mi par di vedere Ortensia piccola piccola in braccio a sua madre. Che bellezza era allora la signora Eugenia! Una Madonna! Bambina com'ero, la paragonavo a una Madonna. Mi ricordo anche che quando lei e la signora Eugenia andavano incontro a Moser, io e Marcella correvamo innanzi; e se qualcuno ci domandava chi era lei, non sapevamo cosa rispondere: rispondevamo: — Un signore tanto bravo.... — quando ci dava dei dolci!
Avrebbe forse detto di più se il solito Pieruccio non fosse sopravvenuto col solito cannocchiale. Guardassi di là alla fabbrica Moser: si scorgevano gli operai. Io scorsi invece l'espressione di malcontento con cui Roveni, restituendo a sua volta il cannocchiale, scosse il capo.
Quasi a un presentimento istantaneo di un lontano soffrire, mi tornò a mente il giudizio che la mattina l'ingegnere mi aveva dato di Moser; e non badai più affatto alla Melvi. Mi distolsi da Anna per interrogar Roveni senza essere udito.
— Ingegnere — gli chiesi —, lei è malcontento della fabbrica? Forse Moser per attendere a troppe cose non se ne cura abbastanza?
— Tutt'altro! Se ne cura troppo. Oramai gli converrebbe diminuire la produzione.
— Come? Ma non è stata la fabbrica la fortuna di Claudio? Non gli rende molto?
— In altri tempi. Oggi la bontà del materiale non basta più a vincere la concorrenza; e aumenta ogni giorno il prezzo della mano d'opera. Moser dovrebbe almeno licenziare degli operai; ma è troppo buono, e ostinato.
Dunque la fortuna di Claudio non era quella che io mi credevo?
.... Dopo Rivalta, Ortensia, sempre più quieta, si riaccompagnò a me. Disse:
— Sarebbe state meglio che noi due ce ne fossimo restati a casa. Adesso non la vedrei così. Non voglio vederla così!
Anche per Ortensia il ritorno era triste. Sola Anna Melvi rideva forte, perchè, finalmente, poteva parlare a Roveni, sottovoce.
XI.
Ortensia non osava più, adesso, varcare il limite del cancello senza avvertirmene.
Risento il piacere di quando, o dalla sala a terreno o dalla terrazza, l'udivo chiedere alla madre o ad altri: — Dov'è Sivori? —. Impaziente gridava forte: — Sivori! —, come chiamando Mino; come si chiama un fratello. E se non mi trovava a terreno saliva di corsa alla mia camera.
Toc toc.
— Che c'è?
— Mi accompagna alla bottega? — Era una botteguccia sulla via maestra, in cui vendevano un po' di tutto. — Andiamo a comperar aghi e cotone....
Oppure: — Vado all'orto per la frutta. Chi mi accompagna, lei o Mino?
— Tutt'e due!
Con maggiore attraenza andavamo alla cascina, non solo perchè c'era il lattonzolo da riverire, le faraone e le anitre in attesa di becchime e la massaia ridanciana; ma perchè la viottola che vi conduceva, al di là dell'antico convento, era deliziosa per querce e per radure che svelavano a tratti cielo e terra.
Quando poi aveva da cucire, Ortensia non restava più chiusa nella sua stanza; cercava ne ammirassi ora la voglia di lavorare, la pazienza fin a proseguire il ricamo di Marcella. Spesso diceva:
— Sono buona?
Buona, compiacevasi di udirselo ripetere, appunto perchè consapevole della energia di volontà che, come le faceva parer bella talvolta la ribellione, ora la conteneva in tanta sommissione con me.
Ripeteva: — Non mi sgriderà più: è vero? Mai più!
Per poco io non rimproveravo me stesso dell'aver dato soverchia importanza a scappatelle; e pur temendo il malesempio di Anna, ripensavo di Ortensia: «Il male è giunto al suo orecchio e alla sua mente, ma senza contaminarla».
E pareva che questo pensiero mi facesse bene.
Anche con Mino, che avevo indegnamente tradito andando alle Grotte senza di lui, avevo fatto la pace; ed egli interveniva ai miei colloqui con la sorella, e pretendeva lo aiutassi a incollare o ingommare. Saldo su le gambe, sicuro nel grembialone come in una corazza, col pennello in resta, guai a non ubbidirgli!
Ma pur troppo io ero solo con me la mattina presto, allorchè mi pareva più difficile riprendere la vita.
— Poltrone! — dicevo a Mino. — Ed egli:
— Più poltrona Ortensia! Diglielo a lei, che si alzi prima; lei è più grande.
Non glielo dissi a Ortensia; ma essa ci udì, e diventò mattiniera.
Ai primi albori, dalla finestra spalancata della mia camera, io vedevo ogni giorno un chiarore tenue, come di neve lontana nella notte profonda. E più sollecita di ogni altro alato, una capinera mandava il primo richiamo da lungi. Di dove mai? Nessuno rispondeva: essa ripeteva più forte. Nessuno; e ripeteva più forte, approssimando. D'improvviso, dal tetto o da un abete, sorgeva nitida, vigorosa, breve, la risposta.
Si ritrovavano così le piccole creature, e sol due, risvegliate nel mondo immenso quando ancora tutti dormivano e tutto dormiva, e forse rabbrividendo alla frescura sogguardavano con gli occhietti pavidi al cielo, fuorchè da una parte, ancora notturno. Nelle loro voci era un'ansietà di letizia non consentita a pieno, una trepidazione, uno smarrimento quasi di paura. Piccole, innocenti creature, sol due nel mondo immenso! Il giorno volevano; la luce, il sole! Quanto tardava!
Ma ecco il suono delle campane mattutine.... Nell'aria quieta e densa i rintocchi suscitavan copiose onde vibranti, sì che tutta l'aria sembrava agitata da un tremito metallico.... Poi il sole sormontando suscitava innumerevoli specchi dalle foglie del platano e del cedro aperte a rifletterlo, e crivellava di punti vividi i sempreverdi, e indorava le ragnatele tra gli aghi degli abeti. Un brivido scorreva per tutte le fronde, e tutte le piante parevano adergersi in una nuova intensione di vita verso il cielo e verso il sole.
Infine, i rumori della strada....
Io risentivo fuori di me, per tal modo, l'armonia del giorno; ma tuttavia mi chiedevo che cosa me ne avesse escluso, m'impedisse ancora di parteciparvi con tutta l'anima. Quale colpa? qual destino?
A lungo attendevo, così. Quindi mi richiamava la bella voce: — Buon giorno, Sivori!
Appena alzata Ortensia veniva sotto la mia finestra a salutarmi con un lieve inchino, sorridente, il sole nei capelli.
«Dimenticare me stesso!» E scendevo.
.... Nè tacerò di un altro conforto che ebbi in quei giorni.
Pieruccio Fulgosi, dopo la gita alle Grotte, spasimò a dirittura e visibilmente per Ortensia. Alle canzonature di Anna, alle contraffazioni di Guido, ai miei sorrisi pietosi, agl'incitamenti di Roveni, che battendogli una mano sulla spalla gli diceva: — Coraggio, giovinotto! —, e sopra tutto all'incuranza di Ortensia, egli la sera, durante i ballonzoli e i giochi, opponeva una faccia patibolare, un silenzio patetico, un colletto sempre più angusto.
Quando, un pomeriggio, la signora Fulgosi, adducendo con Eugenia non so che pretesto, venne da me per parlarmi in segreto. Aveva gli occhi fuor del capo, come spesso; il viso pallido come sempre, e più del solito il tic delle palpebre e le raggricciature del naso. Sobbalzando con le parole dietro le idee precipitose, quelle sue smorfie rappresentavano gli sforzi per trattenere il filo delle idee e la furia delle parole, mentre accrescevano l'espressione dell'aspetto tragico.
— Ah dottore, dottore! — cominciò affannosa e tremando —. Mi aiuti lei! mi consigli!
Dubitai che in un accesso isterico avesse sofferto di qualche nuovo malanno, e stavo per ricordarle che non esercitavo la medicina. Ma ella esclamò: — Pieruccio! —; e recò le mani alla fronte, contro i capelli, disperatamente.
— Che passione! Il mio Pieruccio..., questa notte.... — proseguiva piano per aumentar l'enormità del fatto —, questa notte è uscito di casa! Fuori di casa, la notte! Me ne sono accorta io!... Mi son gettato uno scialle indosso e l'ho seguito. Immagini una povera madre, di notte, per la strada, a quel modo, rasentando la siepe per non esser vista.... Si è fermato qua, di fronte alla villa, proprio dove sta Giovannin il cieco, e pareva aspettasse.... Immagini, dottore, immagini la mia angustia! Pensavo che la finestra s'aprisse; che Ortensia gettasse le chiavi del cancello.... Che scandalo! Sarebbe stata una sciagura per tutti!...
— Ma la finestra è rimasta chiusa, — feci io sorridendo, certo.
— Sì.... Avrò avuto torto di pensar male della ragazza.... Ma troppa libertà! troppa libertà, dottore! Le ragazze in Inghilterra godono di molta libertà, ma si educano in altro modo.... E intanto Ortensia mi ha innamorato Pieruccio.... Capisce? Per esserle più vicino col pensiero viene qua di notte! Poverino! È una passione terribile! A diciassette anni.... Che passione!
Io contenevo a stento un commento sarcastico. Ella proseguiva:
— A vederlo immobile là, sotto la finestra di Ortensia, non mi è rimasta una goccia di sangue nelle vene. Meditava il suicidio?... Gli ho detto, accostandomi a poco a poco: «Torna a casa con la tua mamma»; e lui, poverino, mi ha seguita come un agnello.
Colsi la pausa, che la commozione imponeva, per suggerire:
— Lo allontani.... Guarirà presto.
Ma la signora m'investì quasi a un affronto:
— Guarirà presto?! Presto?! Ah lei non sa che cosa ha fatto appena a casa!... Una frenesia! un orrore! È nervoso come me.... Improperii, bestemmie, maledizioni: anche a lei, dottore!...
(.... Poco male!)
—.... Maledizioni a tutti: Anna, Roveni, Guido, Moser. Non riuscivo a quetarlo! Ha fracassato le seggiole, ha rovesciato il tavolino, ed è andato in terra, in frantumi, il portafiori!: un portafiori di Boemia, stupendo, magnifico!, dono di mia zia, la De Mol... Ha minacciato fin suo padre, che è accorso....; e anche la cameriera!
(.... Come non ridere?)
— Allontanarlo, lei dice? È la mia idea. Subito! Domani! Lo manderò da suo zio, mio fratello, il colonnello De Mol, a Varezze.... Bel sito, Varezze! Ci son molti villeggianti e ci si divertono. Ma mandarlo con chi, Pieruccio? Con suo padre?
— Con suo padre.
Non l'avessi mai detto! La signora gridò:
— Il cavaliere...., mio marito, a Varezze, in mezzo alla società, alle donne? Non tornerebbe più a casa! — E spalancò le braccia come se il cavaliere le fosse fuggito allora di seno. —.... Ah dottore!, i misteri delle famiglie! Mio marito ha colpa di tutto! È lui la pietra dello scandalo! Fulgosi è un uomo.... che non invecchia, un seduttore, un gentleman traviato che non esiterebbe, se potesse, se io non tenessi sopra tutto al mio decoro...., non esiterebbe a disonorarmi, a tradirmi fin con donne vili! Ma io sono una gentildonna, una De Mol, parente dei De Mol che han la villa a Rivalta! Maria, la povera Maria, che morì etica — un angiolo! — era mia seconda cugina....
— L'accompagni lei, Pieruccio....
— Peggio! Lasciarlo a casa con la cameriera, mio marito?... Non mi fido! Capisce?
— Capisco.... — (Il cavaliere cominciava a diventarmi simpatico). — Dunque, lo lasci andar solo, Pieruccio....
— Solo, no. Temo, dottore.... L'avesse visto ierisera! Oggi dorme: gli ho data tanta camomilla! Ma la passione.... Se si getta sotto il treno?
A queste parole la povera donna contrasse la faccia in modo da far rabbrividire. Se non che io ero sordo e cieco alla pietà, anche perchè avevo compreso ch'essa voleva l'accompagnassi io, il suo Pieruccio, a quel paese.
Spietato a dirittura mormorai: — Se l'accompagnasse la cameriera?
— Oooh! — La signora non dubitò che io scherzassi, ma si meravigliò non tenessi suo figlio per più che un ragazzo. La passione lo ingigantiva agli occhi materni; la passione.... e la lettura dei giornali.
— Sempre suicidi d'amore! Per me, io non voglio armi in casa. Pieruccio desiderava lo schioppo per andar a caccia con Guido Learchi. Niente! Gli ho regalato invece il binocolo....
Ah! il binocolo fu la mia salvezza.
— Stupendo binocolo! — esclamai; e assunta tutta la gravità possibile parlai a lungo, da sapiente consigliero. — Nei giovani, signora, l'ambizione di primeggiare supera ogni altra passione; vince, se soddisfatta, ogni altro desiderio, ogni male. Il binocolo che lei ha regalato al suo figliolo è davvero invidiabile in un luogo come Varezze per scrutar il mare, la riviera, l'orizzonte, le signore e le signorine. I giovinotti invidieranno Pieruccio. Le signore e le signorine se lo contenderanno.... — (il binocolo se non Pieruccio) — Ed è questo il mio consiglio: che lei lasci travedere al suo figliolo il piacere che troverà laggiù; l'invidia che vi susciterà. Conosco i giovani: son certo ch'egli partirà volentieri....
Io avevo corso il rischio d'infuriare la gentildonna e d'esser assalito come capitava al cavaliere. Ma per fortuna anche stavolta la mia serietà non la lasciò nel dubbio di una canzonatura; e la mia esperienza nella medicina delle passioni dovè convincerla.
Infatti il giorno dopo Pieruccio partiva, accompagnato dal binocolo invece che da me o dalla cameriera.
Anna Melvi ne fu dolente, chè perdeva chi le serviva da contraccolpo alle chiassose lusinghe con cui tentava Roveni. Quanto a Ortensia, ella trasse un sospiro di soddisfazione; disse: — buon viaggio! — e non ne parlò più.
Ma chi lo crederebbe? La mia soddisfazione fu assai più grande!
Già più volte io avevo chiesto a me stesso: «Se il mio affetto non è assurdo e insano, che farò quando, presto o tardi, saprò Ortensia fidanzata? quando andrà sposa?» E avevo risposto con animo tranquillo: «Farò come un fratello. Ne godrò».
Ebbene, il godimento che provavo per l'allontanamento di Pieruccio non era forse quello di una gelosia cessata? Non avrei osato confessarlo, ma mi aveva tenuto inquieto a lungo quello scimunito, che ricercava invano lo sguardo di Ortensia; mi aveva turbato quel meschino ragazzo che si era ridotto a vagheggiare il suo amore di notte, attraverso la finestra chiusa e dal sito ove Giovannin il cieco stirava dall'organetto l'«addio mia bella, addio»! Senza mai confessarlo a me stesso, io avevo temuto che vagheggiata da Pieruccio Fulgosi, Ortensia riflettesse come ella poteva già essere amata, più virilmente, da altri; oscuramente io avevo temuto che questo solo pensiero in Ortensia mi carpisse parte del suo affetto per me!
.... Fu dopo la partenza di Pieruccio che Eugenia, a vedermi la fronte sempre più schiarita, si compiacque del mio miglioramento.
— Merito vostro, di voi tutti — io le dissi. — Sento il bene che mi volete e non me ne sento più indegno. Come ricambiarvi?
— Restate qua con noi sino all'inverno.
— Impossibile!
Pur troppo il tempo volava e presto dovrei abbandonare Valdigorgo per cercar lavoro, sebbene non sapessi nè dove nè come. Io non ero tal possidente da vivere di sola rendita; nè speravo più rendite dagli studi, a cui avevo rinunciato per sempre.
Eugenia riprese:
— Non parliamo di partenza adesso; ve ne prego anche per Claudio. Per Claudio? — aggiunse sorridendo. — E Mino? E Ortensia?
Allora io le dissi: — Sapete che mi par d'avere una sorella in Ortensia?
— Fosse davvero! Anzi; trattatela proprio da sorella; correggetela de' suoi difetti.
— Sono così bei difetti!
— No, Sivori. Ortensia mi dà molto pensiero per il suo carattere. È eccessiva in tutto. A vederla, sembra sicura, sicurissima di esser felice per tutta la vita e si direbbe che non si preoccupi di nulla, ma poi, di tratto in tratto, senza che se ne sappia il perchè, ha certe malinconie...; i famosi capricci. Ve ne sarete accorto anche voi, benchè da poi che siete qui voi questo sia accaduto più di rado. Ma vi ricorderete delle bizze che faceva da bambina a contrariarla. Adesso per lei è una contrarietà intollerabile ogni volta che s'accorge che la vita non possiam farcela noi a nostro modo. E a questo mondo bisogna invece sopportare, soffrire. Ci son tanti doveri da compiere!; e la nostra volontà non val nulla in quello che non dipende da noi. Vorrei vederla persuasa di queste cose, per risparmiarle dolori più grandi in avvenire. Ho torto?
— No — risposi.
— Per darvi un'idea del suo carattere: quando ero malata diceva con ira al medico: «Voglio che la mamma guarisca». Voglio! Il medico e la malattia dovevano ubbidire a lei. Io peggiorai; e allora fu per parecchi giorni una disperazione muta, continua. Non mangiava, non dormiva più, sempre al mio letto, e guai se il medico o Claudio o Marcella tentavano di confortarla. Ma se io morivo?
Il discorso fu interrotto dal sopravvenire di Ortensia....
XII.
Però quelle parole di Eugenia m'impensierirono. Per la prima volta, dopo, esaminai la mia condotta, meditai sugli obblighi che m'imponeva l'amicizia, dubitai che uno squallido e sordido egoismo mi trascinasse a colpa di cui un giorno la coscienza mi rimorderebbe. Egoista, io cercavo dall'affetto di Ortensia un benefizio assecondando in lei quelle tendenze che a giudicarle con senno e con lume d'esperienza erano dannose. Volendo dimenticar me stesso cercavo di veder lei spensierata, e volendo reprimere dentro di me un pessimismo mortale cercavo quella sua serenità a cui tutto appariva bello e buono. Infelice, io traevo rimedio da lei consentendo a una felicità fuori della vita reale. Ma se io volevo bene davvero a Ortensia dovevo esentarla dai pericoli di una infelicità futura; dovevo predisporla agli urti della realtà, armarla contro le violenze del destino.
Eugenia aveva ragione. Il compito che la madre mi affidava, di contenere nella figliola le facoltà e le illusioni pericolose, diveniva per me un imperioso dovere per lo stesso affetto che mi ricambiava Ortensia.
Come chi si rassegna a cosa inevitabile, deliberai dunque di ubbidire alla mia coscienza, che ora mi pareva del tutto ridesta.... Oh la coscienza! Perchè non mi avvertì dell'errore in cui cadevo? Che precettore della vita potevo essere io che non avevo una fede? Senza il conforto di una fede, a qual concetto e a qual sentimento della vita potevo ammonire che non esprimesse il veleno di un pessimismo mortale?
A compier tale dovere temetti da prima di nuocere a me medesimo, ora che mi sentivo ravvivare; poi (lo confesso come si confessa un delitto), provai la soddisfazione appunto dell'adempiere un dovere grave, e avrei detto che anche in ciò si rinforzassero in me le energie dell'animo.
Se non che la fatica della mia volontà era poca.
È così facile intorbidare un'acqua limpida! M'era così facile, appena succedevano in me rivolgimenti di malumore, ripetere a voce alta note voci di pessimismo e di duolo, che ricorrevano per abitudine alla mia memoria!
Oh come orribil sei — mondo gentil!
Oppure:
Ascolta, Azzarellina:
La scïenza è dolore,
La speranza è ruina,
La gloria è roseo nugolo,
La bellezza è divina — ombra d'un fiore.
O peggio:
.... Amaro e noia
La vita: altro mai nulla, e fango è il mondo!
Ortensia protestava:
— Vede se ho ragione io di non volerne sapere dei poeti? Noiosi! Han sempre da lamentarsi!
— Essi però han più ragione di te: essi han vissuto e guardato nella vita.
— No! no! han torto! Non posso credere! Noiosi!...
Protestava, batteva i piedi, ma come chi s'impazienta a udire ciò che potrebbe esser vero.
E le ripetevo:
— Tu vedi tutto bello e tutto buono. Presto imparerai che al mondo c'è più cattiveria che bontà e che il brutto supera il bello.
— Dio! Dio! che uomo! — esclamava; e rimaneva sopra pensiero un istante, guardandomi quasi mi ricercasse nel cuore quanto dolore e quanta sciagura m'avessero condotto a creder così. Le restava come un timor panico negli occhi.
Anche le dicevo:
— Tu sei facile alle impressioni, ma rifletti poco. Comincia dunque dal riflettere su le impressioni degli altri: leggi.
— Leggeremo! purchè non sgridi, non rimproveri....
Ma di leggere non avrebbe trovata opportunità se non si fosse mutato il tempo.
Al principio di settembre piovve alcuni giorni di seguito, con autunnale ostinazione; e poichè non bastava cucire o ricamare a sbalzi per passar la giornata, Ortensia dovè prendere un libro. Avevo vinto. E qual migliore consigliere di un buon libro? Io ne sceglievo di quelli che rappresentassero la vita qual è. Potevo così interrompere il triste ufficio di ammonitore e quietarmi nella consuetudine che il maltempo rendeva più raccolta e più cara, costringendoci a restar quasi sempre in casa.
Però anche lei, la sorellina, aveva vinto oramai. Era così ubbidiente, paziente, affettuosa! Io per lei sentivo rifluirmi nelle vene il sangue della salute, nè mi bisognava più uno sforzo di volontà a bandire dalla mente i pensieri maligni.
Mentre la pioggia or bruiva a pena a pena or squassava a dirotto, dalla poltrona ov'ero adagiato io sogguardavo, con le palpebre un po' chine, alla cupa linea boschiva, in fondo, tutta velata sotto il cielo piovoso, e dinanzi, giù nel giardino, agli abeti densi, dall'innumeri braccia ad arco e dalle esili vette immote a ricever l'acqua come Dio la mandava.
Ortensia leggeva. Non leggeva male; rilevava anzi agevolmente il senso e variava senza leziosaggine la bella voce, e di tratto in tratto s'arrestava, colpita.
— To'! Questo è vero! Questo è bello!
Ma talvolta non coglieva giusta la pronuncia di parole, o non poneva giusto l'accento tonico. Correggerla era tempo perduto.
— Si dice così — avvertiva io. — E lei:
— Si dice così, ma io dico a mio modo; mi piace di più!
E avanti impavida.
Sopravveniva Eugenia.
— Cerca Ortensia; cerca Ortensia.... Dov'è? con Sivori! Sempre con Sivori! Ma non vi stanca?
— Voi vedete.... Mi mette di buon umore.
— Non ditelo a lei, che è capace di vantarsene, la cervellina!
— Sì, mamma, che me ne vanto!
Quando non avevo voglia d'ascoltare, abbassavo del tutto le palpebre. Sognavo? No. Avevo in quest'affetto un legame alla vita; non era più un'illusione: per quest'affetto muterei in una operosità determinata e proficua l'attività del pensiero che male avevo usata in difficoltà insuperabili, rodenti ed estenuanti. La vita non sarebbe più per me una condanna; la morte non mi darebbe più un'apprensione continua; l'avvenire non m'era più pauroso, perchè non avevo più da sopportare danni e sventure senza che una voce mi dicesse: «sopporta se non per te, per me!» E mi sembrava che nel mio avvenire sorgesse, con novella aurora, il sole.
Intanto pioveva. Quando però la pioggia scemava, quasi snebbiasse, Ortensia correva a prendere l'immane preistorico ombrello di tela cerata verde, che sudavo a portare, e via, qua e là, quasi sempre non dove la strada era buona, ma per strade fangose.
Immaginarsi la fatica! Le scarpe caricandosi di fango, diventavano grandi e pesanti come case; nondimeno bisognava ubbidire alla signorina.
Al terzo o quarto giorno di quel bel tempo, l'acqua cessò quasi per uno stacco improvviso; cadde un fascio di raggi tra il nuvolo. Ortensia gridò felice:
— Non piove più! Andiamo al Ponte del Crocefisso, a vedere la piena?
Io astrologavo.
— Tra poco ricomincia.
— No. Lei non se ne intende! Non vede che Monfalco è scoperto? «Monfalco senza cappello, fa bello, fa bello»!
— Ma l'ombrello non farà male.
— Le dico che non piove più! Sono pratica io!
Via dunque senza ombrello, alla volta del Ponte.
Ella provava la stessa gioia che traeva i passeri di sotto il tetto a litigare, a garrire e a bagnarsi, o forse delle piante e delle erbe che si asciugavano ricreate. Cadeva una luce pallida, che si sarebbe detta umida anch'essa a vederla sull'erboso velluto del clivo; finchè a levante trasparve, si colorì, si delineò, s'avvivò a un tratto, andò attenuandosi e scomparve, l'arcobaleno.
— L'iride! — aveva esclamato Ortensia. — Glielo dicevo? Non pioverà più!
— È già sparito. Noi torneremo a casa molli fracidi.
Infatti da mezzodì avanzava una schiera d'altri nuvoloni, più neri, che avrebbero persuaso un eroe romano a tornare indietro e che invece attraevano alla meta la mia compagna. Ci arrivammo, come Dio volle, a osservar l'acqua torbida che passava gemebonda sotto il ponte, superava enormi massi alle rive, piegava i giunchi e le canne da cui l'oscura vôlta era invasa. Da lato, più gaia, chiara e spumeggiante, precipitava nel torrente l'acqua che un canaletto formato d'asse riceveva da un serbatoio in alto. La chiesuola a capo del ponte e a ridosso del monte, usciva candida dal verde folto e cupo, e dinanzi alla porta, più bassa, aveva un piccolo portico.
— È uno spettacolo stupendo! un paesaggio stupendo! — Ortensia ripeteva.
Io guardavo il cielo livido, plumbeo.
— Ortensia, ci siamo!
— Uhm! Comincio a crederlo anch'io! M'è caduto un gocciolone sul naso!
Ci rifugiammo, di corsa, là sotto il piccolo portico.
Ora quasi mani invisibili con infantile divino sollazzo rovesciavano dal cielo secchie a furia; fitta fitta, grossa grossa, scrosciava la pioggia: precipitava; piegava ramoscelli e rami; penetrava tutto, si raccoglieva in rigagnoli, correva, allagava; e sotto quel chiasso il rombo sinistro del fiume e il fragor della cascata.
La breve zona asciutta, ove eravamo, assumeva in tale diluvio, in tale violenza, un'apparenza di protezione miracolosa; e a guardar per la grata nell'oratorio, veniva da quel silenzio di là dentro, da quel senso di chiuso, da quella penombra in cui giaceva il Cristo di rozza pietà, una promessa di pace contro tanto fracasso.
Ortensia guardò là dentro anche lei; poi sorrise a riveder l'intemperie.
— Come si sta bene qui! — Ascoltava.
A me una voce diceva: «Per due anime concordi c'è sempre un asilo».
E il giorno dopo:
— Che piova un poco, pazienza! Ma così! — Ortensia batteva i piedi per l'ira. Soggiunse:
— È ora di finirla! Non ha desiderio d'un po' di sole anche lei?
Ebbene, sì, anch'io desideravo il sole! Con un piacere, con una letizia lo desideravo, quale non avevo provata forse mai in mia vita.
Oh il sole! il sole!
Comprendevo la gioia che del sole avrebbe Ortensia; e dal medesimo nostro desiderio apprendevo che la nostra consuetudine era divenuta l'affinità spirituale da me voluta; io sentivo che finalmente godrei del sole come Ortensia, con Ortensia.
XIII.
Il sole! Il sole!
.... Ortensia, là in mezzo al prato, con la gonna bleuastra e il corpetto chiaro, sorgeva evidente dal verde e contro il verde; e l'aria là in mezzo sembrava più luminosa, ed essa una forma di vita più viva d'ogni altra e più bella.
— Ortensia! — Io la chiamai a voce alta, compiacendomi del mio grido.
— Che cerchi, Ortensia?
Non rispondeva; faceva pochi passi, l'occhio intento a terra. Ma avvicinandomi, compresi.
— Cerchi la buona fortuna, per me?
Rispose sorridendo: — Sì.
— Non la troverai!
— Io? — esclamò col tono d'impazienza e d'ira che per giuoco assumeva spesso. — Io non la troverò?
— Nè tu, nè altri. Del resto, non so che farmene della fortuna!
Scherzavo; ero lieto. Ella ne fu certa e sorrise, esclamando:
— Dunque il trifoglietto per l'amore!
— Che sai tu dell'amore e de' miei amori?
— So che lei un dì o l'altro prenderà moglie e che....
— Oh se per questo — interruppi —, non lo troverai il trifoglietto dalle quattro foglie!
— Io lo troverò anche se lei non prenderà moglie! Lo voglio, e basta!
Ma là non ce n'era di pronto al suo sguardo; e sapeva dove la fortuna ne nascondeva.
— Venga con me!
Per un viale tortuoso, fra le macchie, si giungeva a un prato estraneo al giardino, in cui alcune donne risciacquavano il bucato in una cisterna. A questa recava l'acqua un piccolo fosso, queto queto, alle sponde del quale cresceva l'erba e abbondava il trifoglio.
Le donne ci osservarono tra le file dei lenzuoli stesi su corde da palo a palo; poscia ripresero il cicaleccio e lo squasso.
— Sarà meglio la cerchi io per te, la fortuna! — dissi io.
— Avanti! a chi la trova!
E andavamo adagio adagio, lungo il piccolo fosso.
— Una sposina per Sivori: bella...., buona....
Quindi passando rapida, come soleva, dal pensiero presente a un pensiero o a un ricordo che apparentemente non aveva con quello uno stretto legame, Ortensia aggiunse:
— Anna.... Oh! io la disprezzo, Anna!
— Adesso....
— No, sempre; anche prima che lei venisse quassù!
— E l'accompagnavi a trovar Roveni?
— Insisteva tanto! Poi, non facevo niente di male, io!
— Ne sono convinto, di te. Ma Anna che faceva?
Mi provai ad attenuare nel tono della domanda, non la curiosità, bensì il timore che m'induceva a interrogarla. Quasi non osavo guardarla in faccia.
— Non so...., non posso dir nulla....
— Non vuoi dirlo!
— Non posso dire quello che non ho visto.
— E allora perchè accusi?
— Perchè...., perchè quel giorno dei pizzicotti, io scappai a veder lavorare in fabbrica. Quando tornai e fui sotto la finestra dello studio, sentii che Roveni sgridava ad Anna....
— Cioè?
— Diceva piano: «C'è Ortensia....» Capisce? Era lui, Roveni, che doveva sgridare ad Anna! Dunque, mi pare....
Io, senza più titubanza avevo fissato lo sguardo negli occhi di lei per scoprirne tutto il pensiero; nè riuscendoci, perchè volevo più del suo pensiero, sentii il bisogno di rimproverarla ancora.
— Tu ascoltavi, sotto la finestra!
— No! glielo giuro!
In questo mentre una delle donne con la gerla piena di biancheria veniva verso di noi. Salutò, si fermò e chiese con faccia franca:
— Cosa cerca, signorina?
— Cerchiamo fortuna, Teresa!
— Eh non ne han bisogno loro! — disse la donna sorridendo un po' maliziosa. Ma Ortensia, ingenua:
— Non ci credi, tu, nel trifoglietto dalle quattro foglie?
E l'altra guardando a me;
— La povera gente non ci crede in queste cose!
— Male! Se tu ci avessi creduto quand'eri ragazza, adesso non faresti più la lavandaia; saresti contessa o duchessa.
— Oh ne trovavo tanto anch'io, quand'era giovane! — confessò la donna intanto che riprendeva il sentiero. — Ma sì! Ci vuol altro!
Per dire qualche cosa, io dissi:
— Hai sentito? Andiamo, che è tempo perduto.
— Nossignore! — esclamò Ortensia. — Io ci credo!
Così proseguimmo; lei dimentica del discorso di prima, e io tornandoci in segreto, quasi per forza, e con un sentimento di profanazione.
Aveva appena diciassette anni: che le avevano appreso i sogni? le letture? le compagne? l'esempio di Anna? Quanto sapeva, insomma...., dei piaceri e delle brutture dei sensi?
Possibile che dell'amore non presentisse quei diletti che il mistero ingrandisce alla fantasia nelle prime commozioni del sangue? Possibile non avesse pensato che certe «brutte cose» diventano lecite e desiderabili solo per la benedizione del prete e per il vincolo della legge?
Che turbamento avevano lasciato nell'animo suo le audacie della Melvi con Roveni? Che cosa, a quelle parole, terribili per me e sollecitatrici per lei: «C'è Ortensia....», aveva immaginato? un bacio?... soltanto? Ciò che poteva aver immaginato essa cercavo d'immaginar io; e ora mi pareva eccessivo il mio pensiero, e ora limitato troppo; e avrei voluto chiarirmi con inchieste che non sapevo nè dovevo fare: il senso di profanazione s'accresceva entro di me a un ribrezzo quale per una indagine vergognosa.
La guardavo. Sì, sì, era affatto dimentica del discorso di prima: il sole le splendeva nei capelli; cercava, bambina, il trifoglietto dalle quattro foglie.
Io, uomo e corrotto, non sapevo neppure perchè temevo tanto; edotto dalla scienza, non sapevo perchè ora vedessi un male in una necessità fisiologica, se qualche imperioso moto del sangue e dei sensi richiamasse in Ortensia immagini sensuali. Temevo; soffrivo; e mi consolavo a guardarla.... Mi ripetevo che voci di colpa erano giunte al suo orecchio, ma non all'anima sua; e io avevo ben visto in lei il contrasto fra la voglia puerile di mostrarsi perspicace e il pudore istintivo che le faceva parere enorme quel che ricordava; il lume degli occhi, mentre parlava, e il lieve colore passato nelle sue guance, subito avrebbero dovuto accertarmi che a lei ripugnava rimeditare ogni impurità, proprio per un pudore d'istinto; per uno oscuro sgomento dello spirito; per una nativa repulsione da ciò che l'intelligenza le aveva appreso senza volere. E la stessa sua attività fisica....
— Ebbene? Non dice più nulla? — mi chiese tutta contenta di costringermi a pazientare con lei nella ricerca. — A che pensa? Ohe! signor dottore!...
Ma repentinamente io avevo osservato.... Gridai: — Là! — Nè avevo compiuto il monosillabo che Ortensia, con più alto grido di gioia, raccoglieva il quadrifoglietto, al margine del fosso.
— L'ho visto prima io — feci rallegrato, più che dal caso, da quella allegrezza di lei, che bastava a dissipare dalla mia mente e dal mio animo l'ultima ombra.
— No, prima io! Mi chinavo a raccoglierlo proprio quando lei ha detto: — Là!
— Non è vero!
— È vero! — S'inquietava. Finchè, rabbonita, mi disse:
— A lei: glielo offro.
— Non lo voglio! Sono io che l'offro a voi, signorina, per ricordo, per augurio, per gratitudine, per omaggio.
— Auff! — Diventando minacciosa, gridò: — Lo butto nell'acqua!
— Guai! la fortuna si vendicherebbe di tutti e due: anche di me che non l'ho cercata per me.
— Dio! Dio! Che pazienza!
Ma infine ebbe una buona idea.
— Leveremo a sorte chi debba conservarlo; benchè sia di tutti e due.
La sorte favorì Ortensia; e io godetti anche di questo!
Ero dunque riuscito nell'intento di attenuare la mia esistenza, così e così ricuperavo la vita con piena letizia, e dissipavo ogni fosco pensiero e obliavo? O dovevo al sole la novella gioia? Che deliziose ore riebbi nel giardino di Moser! Rivedendomi nei giorni del mio rinnovamento, con che cuore rivedo il bel luogo!
Verso nord acacie e robinie e alberi in ischiera disegnavano l'erta, con la strada del vecchio convento; e più oltre, riprese di boschi.
Alla parte occidentale, era un confine di siepi, tigli e platani: a mezzodì la catena di monti in linea uguale, netta, tagliava il cielo; simile a un limite remoto ma preciso. E da questo limite, d'un cupo verde, alle ore meridiane sormontavano nel cielo cristallino nuvoli di bambagia lucente al sole, che cadevano all'ombra delle montagne occidue con pallore improvviso. Più spesso, sorgevano vapori bianchi, quasi segnali d'una terra ignota e invisibile. Sopra, nello spazio di cielo, passeri traversavano, pari a frecce, e le rondini esercitavano obliqui voli e volteggiamenti.
Là dentro, nel giardino, ricevevo adesso impressioni di cui non credevo più capace il mio spirito; mi beavo nell'amore della campagna. Vedevo che riflessi metallici il sole traeva dalle foglie lisce delle magnolie e dei lauri; come penetrava radioso tra il folto degli abeti; che toni gialli suscitava dalle acacie e dai tigli; che denso e lieto verde gli opponevano le tuje; di che sovrano fulgore investiva i fiori e allagava il prato. Poi, di quelle piante conoscevo tutte le attitudini e le movenze: dai molli abbandoni nell'aria mite, alle agitazioni penose nella furia del vento. Anche avvertivo effluvi di profumi semplici e commisti, alcuni dei quali da me non avvertiti mai. Certo, in quella famiglia di piante ed erbe conoscevo pur dei rami che intisichivano, e steli che pativano, e fiori che perdevano petali; ma tali indizi di infermità e di morte sparivano dal mio sguardo confusi in un vasto e complesso aspetto di giovinezza, di vita intensa, feconda, continua, gioiosa: fiori e verde, luce e calore, giovinezza e amore!
Il sole! il sole! Finalmente nell'eterno splendore che avvolgeva tutte le cose io rivedevo l'energia della vita universale e nella vita universa tornavo a sentire me vivo. Al cielo, che bianco intorno al divino lume diventava con insensibile gradazione del più puro cobalto e del più puro indaco, tendeva da tutta la terra un'anima sola, letificata: e in quella letizia comunicavano con voci udibili e con voci inaudite le anime di quanti corpi volavano per l'aria; le anime di quanti corpi correvano e indugiavano su la terra, o serpevano tra l'erba, o si ricercavano sotto terra; le anime di tutti i fiori e le anime d'ogni natura vegetativa; le anime delle acque fluenti, dei fuochi e dei vapori latenti; le anime in tutte le forme ancora ignote ad occhio umano, e l'anima mia. E per l'addietro io avevo infranto in me il vincolo di tale comunione! Per essere felice, m'ero staccato dalla universale vitalità; al lume del sole avevo creduto poter opporre il lume del mio pensiero, e vivere! Pazzo!
Ora io mi gettavo su l'erba col gaudio di un bambino che ritorni tra le braccia della madre. Navigavo con lo sguardo per il cielo fin dove lo sguardo poteva resistere, e ascoltavo ogni più debole suono, e addentrandomi con lo spirito nelle sensazioni molteplici, smarrivo felice la continuità del mio pensiero. Oh non pensare! non pensare mai più! e vivere!
Nè pensavo ai filosofi che predicarono il benefizio del tornare all'amore della terra e della campagna: sentivo in me una virtù superiore alle loro concezioni.
E non pensavo al piacere di chi va per i campi in traccia della sua scienza di cause e di effetti, nè alla consolazione del poeta solitario il quale chiama cielo e terra a testimone del suo amore.
Perchè io sapevo di una vita più viva, di una consolazione più pura, di una gioia più umana e naturale insieme: quella della fanciulla che viveva meco là fuori, nel giardino, con finezza sensitiva, con anima ignara, con intelligenza serena. Per Ortensia tutto viveva; a lei tutto parlava, senza sua riflessione, spontaneamente. Strapparla via di là, a un tratto e per sempre, sarebbe stato come recidere un fiore.
Ella ne recideva, dei fiori, per adornarsene; ma alcune volte l'udii dire: — peccato! —; e altre volte notai che dalla pianta non staccava il fiore più bello.
XIV.
Chi mi richiamava a cose più gravi?
Moser a vedermi «così chiaro», come egli diceva, diventava più chiaro anche lui.
La sera, di ritorno a casa, m'abbracciava, esclamando:
— Te lo dicevo io? L'aria di Valdigorgo fa miracoli! Non ti resta che abbandonare per sempre Spinoza e compagnia, e sarai l'uomo più felice del mondo!
Quanto a lui, Moser, continuava la sua vita di lavoratore indefesso e fiducioso. E gli argomenti che egli adduceva a sostegno della sua fiducia, mi persuasero a poco a poco che la disparità di criteri fra lui e Roveni indicasse in Roveni un po' di gelosia per la superiorità di Moser. Il direttore avrebbe voluto primeggiare in tutto e su tutto, nell'azienda; dominare anche il principale, perchè tal era la sua natura; di qui il suo malcontento.
Così mi tranquillai, e tranquillato non pensai più agli affari di Moser. Solo, ad accorgermi che negli occhi di Roveni persisteva un'ombra, ne riferii il motivo al dissidio, lieve del resto, che egli aveva con Claudio. Del resto, all'infuori di quell'ombra, la quale poteva essere anche indizio di stanchezza, nulla appariva di mutato nelle abitudini e nelle attitudini del giovane ingegnere. Mi par di vederlo allorchè veniva a noi, la sera, dallo studio di Moser, là dove l'aspettavamo. Si arrestava su la soglia della sala o della terrazza, quasi a prender possesso della situazione. La sua prima occhiata era diritta alla mia volta; ma non me ne meravigliavo, perchè di solito ero nel gruppo giovanile, e di là prorompevano le grida che sfogavan la lunga attesa; applausi di Anna e Ortensia; rimproveri a mezza voce di Marcella; comiche esclamazioni di Guido.
— Che si fa? — domandava, sembrava comandare Roveni.
Se gridavano polka o waltzer, egli afferrava, senza indugio nella scelta, o Anna o Marcella o Ortensia, e trasportava la ballerina seguendo la novella foga della signora Fulgosi, sotto le cui rapide mani il pianoforte scontava le colpe del cavaliere.
Veramente Roveni rideva poco o punto, e per me sarebbe stato non bell'indizio se non ci fossimo trovati in mezzo a compagni che ridevan tanto. Mi pareva ch'egli dovesse sentirsi di tempra diversa e più forte. Sorrideva a pena pur quando Ortensia voleva strisciar il waltzer con il cavalier Fulgosi e il povero gentleman era costretto a scomporsi e ricomporsi alle norme dello strascico musicale, che la moglie protraeva per dispetto.
Talvolta però scherzava anche lui, l'ingegnere. Non di rado si schermiva dai giuochi e attaccava discorso con le signore e con i soliti contendenti politici, il cavaliere e il vecchio Learchi. Mi chiamava allora senza badare ad Anna, che l'avrebbe sempre voluto al suo fianco.
— Qua, dottor Sivori! È vero o no che in paese è corsa la voce....
Serio, mi obbligava ad attestare una strampalata notizia di sua invenzione, la quale era un po' scandalosa e faceva sobbalzare per le risa l'adipe della Melvi madre. Oppure dal gruppo degli uomini diceva a voce alta verso di me: — Me n'appello al dottor Sivori! È vero o no che la guerra è nella natura delle cose? È vero o no che secondo Darwin, o Spencer che sia, la prevalenza della forza è la legge dell'esistenza universale? Dunque i fautori della pace universale sono i peggiori nemici della società. I socialisti poi...., a domicilio coatto! in galera! mitraglia!
Io assentivo allo scherzo, pur osservando che anche in questo si rivelava l'energia dell'uomo.
Il vecchio Learchi grugniva: — bravo! —; e il cavaliere spalancava le braccia.
— No, dottore, no!... Non faccia bonne mine à mauvais jeu! Stasera il nostro bravo ingegnere è un po' farceur. Prima di tutto, confonde i socialisti con i più nobili, più puri pensatori della pace universale! Eppoi...., eppoi condannare sans façon tutti i socialisti, condannarli in nome della scienza...., ohibò...., è un'eresia! La scienza è amore!
E giù uno sproloquio per finire con la libertà nell'ordine e viceversa. Ma parlava con arte il cavaliere, mentre ascoltava e osservava sè stesso. Il suo gestire era effetto di lungo studio, perchè gli altri ascoltatori ammirassero i polsini, i gemelli nei polsini, gli anelli delle dita, il candore e l'arco delle unghie. Ed ora tendeva il braccio agitando due o tre volte la mano aperta a dita aperte; ora col gomito nel braccio della poltrona abbandonava la mano fuor del polsino quasi fosse sostenuta da quello; or appuntava all'avversario l'indice teso fuor del pugno mollemente socchiuso col pollice a contatto del medio; or apriva ad arco ambedue le braccia e concedeva la vista d'ambedue le palme nell'atto del porgere....
Bisogna anche dire il perchè da quando era stato bandito Pieruccio l'eloquenza del cavaliere navigava per il mare magnum della pacificazione sociale. Da che moveva in lui, a che tendeva il desiderio di così vasta idealità?
Moveva dalla guerra domestica; intorno a cui informavano le Melvi. La lontananza di Pieruccio aveva sollevato l'impenitente Don Giovanni, il vieux marcheur, da un grave peso, dal timore di scandalizzare il figliolo; e un giorno la signora l'aveva sorpreso mentre egli affrettava gli approcci alla facile fortezza della cameriera. Questa, bandita a sua volta, era andata rivelando per il paese le velleità del padrone e la gelosia frenetica della padrona; onde chiacchiere e risa. Il ridicolo!
La famiglia Fulgosi nel ridicolo!
— Colpa vostra: vergognatevi! — diceva la signora.
— Colpa vostra! — ribatteva il marito. — Siete nervosa nervosa nervosa! E bisbetica! e accattabrighe! Gentildonna in apparenza; in realtà, povera donna! Sì: povera donna!; lo ripeto senza tema di essere smentito: povera donna!
Senza smentire, la gentildonna scagliò una spazzola a scomporre l'accurata pettinatura della barbetta maritale.
Onde l'idea di fondare in Valdigorgo il «Club della caccia» con inaugurazione al 20 settembre. Sissignori: dalla guerra famigliare nacque nel cavaliere il desiderio di portare la pacificazione sociale a Valdigorgo.
Dividevano il paese: socialismo germinante fra gli operai della fabbrica Moser; moderatume governante in municipio con irremovibile fede nel consiglio: «Adagio, Biagio!»; codineria collegante il grasso priore al non men grasso e più cocciuto Learchi, ai quali tenevan bordone clienti o satelliti in buon numero.
Anche lassù covava dunque l'odio di classe. Covava? Generava nelle osterie, nel caffè di mezzo e nel caffè grande, lunghe e feroci discussioni, che alla lor volta partorivano odii personali, indegni del vivere civile, dell'amor di patria e dell'alta politica quale insegnarono Cavour, Bismarck, Gladstone, e quale insegnava il cavalier Fulgosi.
La pace è il maggior bene dei popoli, dei paesi, di un paese! Il cavalier Fulgosi nel caffè grande esortava al bene di Valdigorgo: «Primo passo, unitevi, o cittadini, nel nome dello sport!» Solo sport a Valdigorgo era la caccia. Ebbene: in un club ove si raccogliessero per amor della caccia avversari d'ogni sorta, quanti dissidi potrebbero esser composti, quante questioni risolute, quante diatribe mitigate, quanti danni riparati, quanti vantaggi provveduti! Perciò l'idea del cavaliere comprendeva la sublime elevazione di un volo lirico: dall'amor della caccia all'amor della pace, all'amor del paese, all'amor della patria tutta! Il proposito poi d'inaugurare il nuovo club nel giorno anniversario della compiuta unificazione della patria con la capitale Roma, non aveva forse qualche cosa del moderno machiavellismo cavouriano, bismarchiano o gladstoniano? Come potrebbero esimersi dal partecipare alla festa nazionale cacciatori d'ogni sorta, fossero pure socialisti o clericali, se l'invito apparentemente non chiamava che a festeggiare l'amor della caccia e della cacciagione? Fin il sindaco, che cominciava a dubitare della sua resistenza nella onorifica carica da molti anni occupata, ascoltò il consiglio del segretario:
— Appoggi! appoggi! L'idea del cavaliere è buona.
Ma segretario e sindaco, poveri ingenui, ignoravano che cosa meditava il cavaliere! (Alle prossime elezioni....) Intanto essi favorivano. E il comitato presieduto dal cavaliere si mise a raccogliere soci; e un comitato di signore s'adoperava ad accumulare premi che rendessero più gloriosa una gara di tiro nel dì solenne.
Se non che non cessavano le battaglie nella famiglia Fulgosi e nelle vicinanze. La signora Fulgosi dubitava che la cameriera attirasse il marito in paese e faceva ancora volar le spazzole. Inoltre al signor Learchi padre bastava, per politica, bere, mangiare, pipare e predicar la castità ai rondoni....
Diceva: — Cacciatore è chi va a caccia; io a caccia non ci vado; quindi del suo club, stimatissimo signor cavaliere, non so cosa farmene. Religione ci vuole! Altro che caccia!
A parte la religione, l'ingegner Moser non andava più a caccia; l'ingegner Roveni non aveva tempo di andarci; Sivori — l'illustre pensatore — che cosa poteva cacciare? Eppure eran stati dei primi ad associarsi. Perchè? Per vantaggio del paese, per amor della patria tutta!...
.... In uno di quei giorni in cui si faceva scarrozzare a spese del futuro club, il leggiadro cavaliere piombò alla villa mentre io ero con Ortensia ed essa stava leggendo.
— A quelque chose malheur est bon! — egli disse entrando nella sala. — Dolentissimo di non aver trovato l'ingegner Moser....
— Il babbo non torna che domattina — l'interruppe Ortensia.
— Me l'ha detto la signorina Marcella.... Felicissimo però, se non disturbo, di mettermi al coperto e trattenermi in così amabile compagnia. Come vedono, torniamo da capo. — Poi in accento toscano: — Il tempo si rimette.... a piovere, Dio bonino!
Sorgeva infatti un nuvolone nero.
— La signorina leggeva? Ah! Dickens! Lo conosco poco, a dire la verità. Non è uno de' miei autori. — E strizzandomi l'occhio: — Io preferisco De Koch.
Gli chiesi:
— Come va il club?
— All right! — Mi prese a braccio per susurrarmi in modo che Ortensia udisse: — Bisogna persuadere l'ingegner Moser ad accettare la presidenza effettiva.
— Saremo invitati anche noi alla festa? al banchetto? — domandò Ortensia.
— Invitate, sì: diavolo! Ma banchetto, no! Un lunch....
— Con molte paste!
—.... e farewell!
— Chi fa il discorso?
Sorrise.
— Forse io....; si capisce: per non urtar nessuno, al 20 settembre, ci vuol tatto, savoir-faire.
E poichè tuonava:
— Niente paura! Sempre non è seren, sempre non piove!
Ma Eugenia e Marcella chiamavano
— Ortensia! Ortensia!
Marcella correva al piano di sopra ove il vento sbatteva vetri e finestre.
— Una nuvola che passa! — garantì il cavaliere seguendo Ortensia, che usciva, con gli occhi mollemente pecorini. — Quindi scosse il capo per asseveranza a quanto diceva. — Sempre più bella, quella ragazza! Ce ne sono delle più belle?... Grazie! Ma bellezze che non dicono niente; Ortensia invece.... che simpatia! che charme! Eh eh! Il mio Pieruccio non aveva poi tutti i torti.... Solo, alla sua età le ragazze sono pericolose; meglio le signore, per imparare ad amare. Laggiù a Varezze non gli mancherà occasione di far pratica, a quel ragazzo!
Una pausa. Eppoi:
— Tornando a Ortensia, beato lei, dottore!
Io, che guardavo fuori, al tempo, mi rivolsi con un'occhiata feroce. Ma egli continuò:
— Lei è un uomo superiore ad ogni sospetto, superiore in tutto. Su di lei non è possibile far malignità, è inutile fin ripetere: Honny soit qui mal y pense. Voglio dire che lei può gustare tutta l'amabilità della signorina senza dar la minima ombra; la loro è un'invidiabile amicizia, un' entente semplicemente cordiale. Però mi consenta dirle anche che se Ortensia avesse solo qualche anno di più....
— Lei scherza! — feci io, aspro.
— Non scherzo niente affatto! Che a lei questa mia idea non sia venuta, è naturale, perchè lei è un uomo superiore. Ma per me, non ci sarebbe niente di strano; anzi ci sarebbe da rallegrarsi d'un così bel matrimonio...., fattibile, ora aggiungo, fattibilissimo pur con la differenza di età che ci corre fra la signorina e lei.
Non scherzava il cavaliere, e che piacere mi fece!; come di una gratissima improvvisata. La mia antipatia per lui finì d'un tratto. Non era un uomo sagace?
— Che acquazzone! — esclamai.
— Una nuvola che passa. Ma senta: un mio amico, il commendatore Fiscaglia, ha sposato, a cinquant'anni, una ragazza di ventidue; e sono felici, con un bel maschiotto.... La questione sta nella scelta; nel volersi bene....; purchè, intendiamoci, si sia ben portanti e sani....
Trasse l'astuccio dello specchietto, e pareva dire: «Se io fossi vedovo!»
— Lei, dottore, non ne conta cinquanta delle primavere. Quante ne conta? Trentasei, trentotto? Ebbene, francamente, senza complimenti, per la pura verità, se io fossi nella signorina Ortensia io non esiterei un istante nella scelta, tra lei e....
A questa parola di «scelta» io mi era rivoltato d'improvviso, fissandolo non so come; come chi aspetta una cosa inaudita, come chi minaccia un guaio a un incauto.
Ma il cavaliere aveva già preso lo sdrucciolo, e sebbene avvertisse il passo falso dovè tirare innanzi.
—.... non esiterei nella scelta tra lei e l'ingegnere Roveni.
Roveni?... Ero pallido, immoto nella persona e nello sguardo. Il mio stupore, forse più che altro, esprimeva il dolore profondo d'un animo generoso colpito a tradimento. E al dolore sottentrava irrefrenabile lo sdegno.
Con il presentimento di una battaglia più dura di tutte le altre, il cavaliere aveva tolte dall'astuccio le sole armi che potessero levarlo d'imbarazzo: lo specchietto e il pettinino; e con tutta la disinvoltura che potè assumere, con la più tenera occhiata de' suoi occhi pecorini, con l'ingenuità di chi spera ancora di riparare dopo averla fatta grossa:
— Che sia poi vero quello che si dice? — domandò.
Io l'investii:
— Si dice?...
Più pallido di me, tenendo il pettinino nella destra e lo specchietto nella sinistra, a mezz'aria:
— Non assumo alcuna responsabilità — mormorò: — Nessuna responsabilità delle chiacchiere altrui.... Si dice, dicono, lo dice anche la mia signora, che la signorina Ortensia sposerà.... l'ingegner Roveni.
Stavo sempre immobile, quasi aspettando ancora. L'altro, al mio silenzio, si smarrì del tutto, precipitò sino in fondo.
— Sarebbe un matrimonio già combinato....
Allora io gli gettai in faccia una sola parola:
— Sciocco!
E tornai a guardare il cielo. Fremevo, cieco d'ira; tremavo; non vedevo più l'altro, che balbettava:
— Ma.... ma...., dottore.... È un'offesa....
Ancora tacqui. Durante il nuovo silenzio freddo e pesante il poveromo si chiedeva che cosa gli restasse a fare. Intascare l'astuccio.... E poi? Mandarmi i padrini. Se no, la dignità del futuro sindaco di Valdigorgo correva un rischio terribile. Un gentleman a rischio di parer vile! Ma, d'altra parte, urgeva non comprometter la pelle. Che fare, dunque? Ah l'ingegnoso diplomatico che trovata ebbe!
Arditamente e solennemente disse:
— Dottor Sivori: lei mi ha offeso; lei ha offeso.... un vecchio!
Quasi disperato, per salvarsi, riconosceva ciò che altrimenti gli sarebbe stato più grave di ogni insulto: si confessava vecchio!
Ma non solo per questo io ruppi in una risata ironica, mentre Ortensia stava per rientrare....
E a veder Ortensia, il cavaliere, come ricuperasse l'anima che il mio riso respingeva su l'abisso, con uno sforzo sublime di spirito, mi lasciò, andò alla volta della ragazza, e varcando la porta salutò franco:
— Au revoir, signorina!
XV.
— Il signor Oliviero mi piace! mi piace molto! — disse Ortensia riprendendo il romanzo e rimettendosi al solito posto, contro alla porta della terrazza.
Ancora su la soglia di quella io le voltavo le spalle, impietrato sotto il peso della cosa enorme: l' amavo!
— Dove siamo rimasti, Sivori?... Prego! Stia attento qui, adesso. Il mondo non casca più e il cavaliere, grazie al Cielo, se ne è andato!... Au revoir!... Ah! ecco dove eravamo.... Senta dunque.
Riprese a leggere. Io non osavo riguardarla. D'un tratto, la guardai...., in piena luce; nella luce d'una beltà divina. E non era più come una sorella.... Destinata in moglie a Roveni.... L'amavo! io l'amavo!
Tumultuarono in me, sotto il peso della cosa enorme, in quella luce di rivelazione, sentimenti mal definiti e violenti: gelosia; rabbia quasi per una sanguinosa offesa; dolore quale di chi patisce il furto di ciò che ha più caro....; strazio: Ortensia mi aveva ingannato! Tutto quel tumulto, tutto quel peso enorme mi travolse come nella rovina estrema della mia esistenza; mi sconvolse e mi oscurò il pensiero intorno a un'idea sola, superstite, viva e fugace come un lampo: ucciderla! Con una mano afferrai la porta della terrazza, mi trattenni colla sensazione di chi si afferra a uno sterpo sul lembo di un precipizio, con la sensazione che avevo provata un'altra volta, al folgorare nella mia mente di quella stessa idea; ma il mio terrore fu vinto da quello sforzo, fu convertito quasi in una muta ilarità, che mi si agghiacciò in faccia.
Ortensia, al volger d'una pagina, disse:
— Basta, signor Oliviero!; sono stanca. — Poi: — Che è stato? — esclamò balzando in piedi. — Il sorriso brutto! Perchè?
Proruppi:
— A questo mondo tutto è possibile! Ogni errore, ogni colpa, ogni vigliaccheria, ogni infamia! È fin possibile che tu m'inganni; che tu sia falsa!...
Alle mie parole subito il volto di lei dimostrò uno stupore così doloroso, un'angoscia tale di ingiusta accusa, che fui costretto a contenermi, pentito, dall'eccesso della passione. Ella domandava:
— Perchè mi dice così?
Era atterrita
— Non spaventarti — risposi con viso diverso ma con sorriso sempre ironico. — Una nuvola che passa.... Ho appreso una bella notizia.... Solo, mi è spiaciuto apprenderla da altri, non da te.
— Quale notizia?
— Che l'ingegner Roveni...., forse o senza forse....
— Anche lei! — m'interruppe riavendosi e tendendomi un dito agli occhi, al modo di Mino quando incolpava qualcuno. — Anche lei?! Da lei, questa, non me l'aspettavo! No, no! non me l'aspettavo! — essa ripeteva sdegnata.
Triste io, e incauto, procedetti al solo rimprovero che potevo muoverle:
— Però tu hai detto: «anche lei!» Dunque molti lo dicono, e io non lo sapevo! Io non sapevo quel che sa il cavalier Fulgosi!
— Non è vero! Non è vero! — esclamò battendo i piedi.
Ed io a insistere, immiserendomi nel mio stesso affanno.
— Vero o non vero, io non lo sapevo!
Stette zitta un po', e poi disse:
— Senta: lei mi rimprovera che non rifletto, che sono sventata.... Ha ragione. Ma lei di me ha molta stima; ha molta fiducia in me; ne sono sicura! Non sono come Anna io, per lei!... Bene! A venirle a dire: Sa? Dicono che Roveni vuol sposarmi....; non è vero ma lo dicono....; a venirle a dir questo, mi sembra anche adesso che sarei stata come Anna. Anna avrebbe potuto dirle così, e ridere. Io no; io non ho potuto! Mi crede? Non ho potuto! Non so spiegarmi, ma mi pareva una cosa sconveniente. Ah se fosse vero quel che dicono; se Roveni mi facesse la corte (nella frase di prammatica arrossì, rivelandomi in quel pudore gentile forse la miglior ragione del suo silenzio).... se fosse vero, gliel'avrei detto subito. Ma non è vero! — ripeteva alzando ogni volta più il tono della voce —; non è vero! non è vero! E vuol sapere il perchè non è vero?
Io non avevo ancora assentito che già ella si correggeva:
— Non posso dirglielo, il perchè; è un segreto.
— Un altro segreto — mormorai.
— Non mio: della mamma. Ma via! a lei si può confidare. — Susurrava:
— Presto, quest'altr'anno forse, Roveni se ne andrà. Capisce? Il babbo non deve saperlo; almeno per ora....
C'era tanta sicurezza, franchezza e sincerità nelle sue parole! Tanta ingenuità! Ed io, che potevo far io se non sforzarmi a dissimulare, a mentire?
— E se tornasse? — domandai, comprimendomi dentro il peso dell'infingimento in cui mi avvilivo. — Potrei io desiderarti un giorno, se tornasse, sposo più degno?
Allora essa volse in burla la domanda patetica.
— Oh no! Un buon giovane! un bravo giovane! un bel giovane!... Che partito invidiabile! Tornare, chi sa di dove, a Valdigorgo per sposar me! E quanti confetti! ma pare di vederli, di mangiarli!
— Io non scherzo!
— Io sì.
Ella aveva assunto qualche cosa della mia amara ironia. Ma diceva la verità.... E che bene mi voleva!
Rasserenata, proseguiva:
— Lei, quando è di cattivo umore, va a cercare con la lanterna tutte le ragioni per far inquietare anche me. Basta! basta! non ne parliamo più! Le perdòno. E che ne dice di Roveni? Andarsene; lasciare il babbo.... Me ne dispiace molto per il babbo. Per me, stia pur certo Roveni che non piangerò quando partirà. Avrò dispiacere, ma piangere!... Anna piangerà; che ne è innamorata cotta!
Era sincera. Ella non amava Roveni e voleva un gran bene a me. Ma a me tanto bene non bastava più!
Che giorno fu quello! Appena fui solo, mi parve ancora di precipitare nel considerar di nuovo la cosa incredibile e vera, ridicola e tremenda. O meglio, mi vidi in un labirinto angoscioso e senza uscita; mi vidi goffa vittima d'un mio proprio inganno e miserevole vittima d'inganni altrui; vidi come io — che odiavo la menzogna — d'allora in poi avrei dovuto mentire e come a me, stanco d'ogni finzione, sarebbe stato necessario nascondere segretamente, per tutti e per sempre, il mio errore, la mia colpa, la mia vergogna; vidi che per guarire d'un male, per cui non avevo cercato e trovato a rimedio la morte, ero caduto in un maggior male, onde avrei dovuto essere più forte e sarei stato più vile! Io l'amavo!: questa la verità rivelata d'improvviso, a me stesso, quasi per uno strappo, dalla notizia che già Ortensia poteva essere amata da un altro; e non più da un ragazzo: da un uomo quale Roveni. Io avevo trentasette anni ormai; Ortensia diciassette; e l'amavo! Io avevo desiderato la morte, desideravo la morte; e amavo, io, Ortensia! L'amavo come non avevo mai amato. E la coscienza del mio amore, della mia colpa, della mia demenza, del mio tradimento, della mia vergogna m'era venuta dal più torbido fondo della passione: la gelosia. Poteva esser vero che Roveni non l'amasse; ma, ad ogni modo, ella non avrebbe dovuto essere amata da nessun altro che da me! Io già ingelosivo del suo avvenire!
E che sarebbe di me se io non sapessi mentire e fingere? In che condizione mi mettevo con Claudio? con Eugenia? con la mia coscienza? Avvertendo la mia follia, avvertivo l'oscuro presentimento d'un delitto o di una tragica catastrofe, inevitabile. Comprendevo fin d'allora che sarei dovuto fuggire subito, anche per pietà di me. Fuggire? Ma io non scorgevo più che due termini a un imminente, lungo, incommensurabile, sconosciuto soffrire: o la felicità o la morte! E la felicità non era assurdo pensarla? Il cavalier Fulgosi non sapeva che non solo la differenza di età mi divideva da Ortensia. Non avevo una fede, io! Non avevo fede in me; e l'amore non basta alla felicità; e renderei infelice Ortensia perchè sarei sempre un uomo infelice! Dunque: fuggire! Non udir più la sua bella voce; non rivederla mai più! Andrebbe sposa.... E perchè non a Roveni?
Possibile che in quel che si diceva non ci fosse nulla affatto di vero? Ma Eugenia non me ne avrebbe detto nulla? Mi sembrava che io e Ortensia fossimo avvolti in un mistero; e poichè nei frangenti della passione anche ciò che accrescerà il male assume spesso l'illusione di un bene, mi parve che chiarir il mistero potesse alleviarmi il nuovo tormento. Ma perciò dovevo dissimulare, fare il disinvolto, osservare freddamente.... Non ci riuscii.
La sera Roveni, entrando, guardò al solito modo; ma Ortensia non era vicina a me. Tentava di persuader Mino a ubbidire. Oh come ho viva nella memoria questa scena!
Quando aveva più sonno Mino si ostinava a star alzato, e la vecchia cameriera lo chiamava invano. Quella sera egli pretendeva che l'accompagnasse Ortensia. Nascondeva il viso nella poltrona piagnucolando e sgambettando contro tutte le sollecitazioni del pubblico; anche contro di me.
— Voglio Ortensia!
Finalmente Eugenia, stanca, minacciò di chiamare il padre.
Presto!...; il babbo arrivava; su, Mino: eccolo!
Tacque un po' e quindi, forse più per il rimorso che per il timore d'un castigo, si gettò al collo della sorella rompendo in un pianto ch'era invocazione di pietà. E Ortensia impietosita se lo caricò in braccio.
Ah io vidi lo sguardo che Roveni posò su di lei, mentre ella usciva col fratellino in braccio! Era vero! Ah come dileguò allora l'ombra che già avevo notata nel suo sguardo! Come l'amava! Cieco io ero stato, cieco a non accorgermene prima! Io vidi e invidiai come l'amava: d'un amore sano, perfettamente umano, anticipandone a sè stesso le migliori gioie. Aveva guardata in lei la sua donna; la moglie che portava in braccio così un loro figliolo. Quanto affrettava nella sua speranza quel giorno! Quanto gli rincresceva che per la sua stessa felicità avvenire, per prudenza e sagacia, non potesse comunicare quel suo gioioso pensiero a Ortensia! Con che cuore accresceva di due anni, di un anno la giovinezza di Ortensia! Non farneticavo; comprendevo tutto, ora.... Certo a Roveni doleva di abbandonar Moser per cercare la sua fortuna, che poteva mancargli. Che azione avrebbe dunque commessa innamorando di sè e abbandonando la figlia del suo benefattore? Ah, costui che dominava in sè, così, le due più forti passioni umane: l'ambizione e l'amore, costui era un uomo! Io non ero stato cieco ma egli, egli usava di una meravigliosa forza a dissimulare; e chi dissimulava così doveva esser capace di una passione grande! L'ammiravo e l'odiavo. Era il nemico che mi feriva a morte, e l'ammiravo e sentivo, più virile, la bramosia di misurare la mia forza con la sua in un contrasto violento. Ma non dovevo; egli doveva restare il più forte! Pure, potevo dirgli: «Voi credete che io non abbia gli occhi? Gli altri per pettegolezzo, sapendovi nelle grazie di Moser, han conchiuso nella loro fantasia il vostro matrimonio, senza saper nulla in realtà. Io so, io ho visto quanto l'amate! Non dissimulate almeno con me: voi!»
E mi accostai sorridendo, coll'intenzione di domandargli:
— Dunque, è vero?
Ma subito, presso a lui, mi sentii a disagio.
Con tanta tranquillità mi guardava; era così fermo il suo volto, così saldo l'animo in quel volto, che la simulazione mi sembrò onesta in lui e disonesta, vergognosa, in me. Inoltre, di subito, giudicai inopportuna la dimanda che stavo per fare. Venendogli da me, la richiesta acquisterebbe troppa gravità e precipiterebbe l'evento temuto; la risoluzione che egli, per sue buone ragioni, ritardava.
Mi aspettò tranquillo dicendomi, quasi per risalutarmi:
— Dottore....
E dietro di me una voce, in tono di canzonatura, imitò quel saluto: — Dottore....; ingegnere....
Uno sdegno più forte di quello suscitato in me dal cavalier Fulgosi provai allora contro la Melvi; una smania di vendetta quasi fosse lei e lei sola colpevole del mio soffrire. Le chiesi, tra ironico e minaccioso:
— Ha bisogno della mia compagnia o di quella dell'ingegnere?
Anna si era appoggiata a un tavolino, su cui ardeva una lampada, e dava la caccia a una farfalletta che svolazzava intorno al lume.
Rispose arditamente: — La sua compagnia è troppo seria, per me!
Roveni fece: — Oh oh!
Io mi accostai alla Melvi; e mentre ella bruciava la farfalla alla lampada, dissi per provocarla:
— Essere troppo serio per lei non significa che io sia molto serio!
— E questo vuol dire che io sono così allegra.... che non dovrei prendere sul serio nemmeno lei? nemmeno un poco?
— Un poco, via! Se non per altro, per la mia abitudine di indagare nell'animo della gente, di scrutare i cuori umani.
— Indaghi, dottore; ma badi che i medici van soggetti a sbagliare. Fan certi spropositi!... Per esempio, lei, che legge nei cuori, non si è ancora convinto che dovremmo essere amici noi due e non nemici! Gliel'ho detto un'altra volta.
Già: me l'aveva detto di ritorno dalle Grotte; e allora aveva data spiegazione diversa da quella che era stata per dire.
— Si spieghi meglio! Perchè dovremmo essere amici?
— Indovinala grillo!
E fuggì dalla porta della terrazza, da cui si scendeva nel giardino, evidentemente per attirarmi là a discorrere. Non la seguii; vidi Ortensia rientrare dalla porta opposta: Roveni, che stava ciarlando con la Fulgosi e la vecchia Melvi, si voltò di scatto. Un altro non si sarebbe voltato. Ma ecco Anna rientrare anch'essa, di corsa, trafelata e ridente perchè inseguita da Guido. Entrò nel salotto attiguo; ove si abbandonò su di una seggiola.
— Lasciala stare! — dissi a Guido. — Ho da parlarle.
Andai risoluto, chiudendo l'uscio dietro di me.
— Voglio sapere chiaramente perchè io e lei dovremmo essere amici!
Ella attese un poco, eppoi agitò incontro a me le mani strette a palma a palma, come per preghiera ed esclamò:
— Ma insomma! sono io che non capisco niente, o è lei? Ha piacere lei che Roveni sia innamorato di Ortensia? No, a quel che pare! Ebbene (e allargava le braccia alla spiegazione che mi concedeva): lei dovrebbe essermi grato se io cerco distrarre Roveni e di liberargliela, la sua Ortensia!
Insolenza, disprezzo, livore, erano in essa.
Il cavaliere mi aveva adirato soltanto; costei sommoveva in me l'astio profondo dell'uomo svergognato, dell'uomo messo alla gogna; addensavo la mia rabbia, la mia bile per una pronta vendetta che, fosse pure indegna, mi riscuotesse subito da una umiliazione intollerabile.
Tesi il braccio e la mano verso la ragazza, quasi ad arrestarla perchè il colpo non fallisse.
— Chi non capisce niente è proprio lei, signorina Melvi! Lei, che non capisce di poter dire a me «la sua Ortensia» senza ferirmi. Sì: Ortensia è mia; ma in un senso che sfugge alla intelligenza della malignità!
— Malignità? Poverino! Dal modo con cui lei or ora guardava a Roveni....
— E chi invece capisce qualche cosa sono io, proprio io! — proseguii interrompendola: — Io, che ho capito il suo gioco!
— Ah sì? Quale?
— Questo: Roveni è un uomo leale, ma confinato a Valdigorgo, lontano dagli svaghi che calmano il sangue. Che importa se è innamorato di un'altra? Per lei basta che egli abbia uno smarrimento istantaneo...., quando va a trovarlo alla fabbrica! Roveni è onesto: dopo, sarà costretto a riparare! Ecco perchè io e lei siamo nemici!
Anna si era alzata in piedi con la veemenza di una fiera frustata. Dubitai m'affrontasse rabbiosa. Ma la fiamma delle guance e degli occhi si spense d'un tratto; e rimase bianca, con le labbra tremule. Indi sorrise, scosse le spalle dicendo:
— Me ne infischio!... — Ma aggiunse con un'occhiata di ricuperata energia e di minaccia: — Per ora!...
XVI.
Risi della minaccia di Anna perchè dalla scienza non avevo imparato a temere la vendetta delle donnicciole, nè mi dolsi d'aver inveito in tal modo contro di lei perchè l'odiavo: l'odiavo per la sua condotta equivoca, per essere stato accertato da lei dell'amore di Roveni, per essere stato ferito da lei, nonostante il mio diniego, nel mio amore. Ma se mentre vegliavo, nella notte, non mi agitava più il pensare ad Anna, mi travagliava il pensiero che altri sguardi d'amore si fossero posati su di Ortensia prima de' miei: questo il mio dolore, il mio sdegno, la mia rabbia, come per una violazione patita, per un furto crudele! — L'anima d'Ortensia — mi dicevo durante l'ambascia — deve essere mia, divenire interamente mia: a ogni costo!
Non era giusto che fossi io la vittima; che per tutto trovassi dolore, io; che dal destino fossero contaminate le mie intenzioni più pure, i miei affetti più semplici, innocui, generosi!
Ah io avevo errato a credere in un affetto di misura e di natura fraterno? In me, in un uomo della mia età quel concetto e quella fede di un affetto fuori dell'ordine umano meritavano rimprovero o scherno? Io meritavo compianto! E se Ortensia, non esperta del cuore umano, aveva consentito ingenuamente a quell'affetto semplice e naturale, ebbene io sapendo che il suo affetto era già teso all'estremo grado, non esiterei...: ancora un passo, una parola sola, e io farei vibrare d'amore quell'anima! Perchè ristare? Non era una colpa che io avessi vent'anni più di lei, e a nessuno, non al Fulgosi e nemmeno ad Anna, pareva inverosimile che io l'amassi e ne fossi amato. Io potevo contare ancora quattordici o quindici anni di forte virilità. Sano, ero. Quante infermità psichiche sono generate da cause che non toccano gli organi essenziali? In una appunto, per cause estranee alla fisiologia, era pur io caduto; ma già me ne sentivo risollevato.
Non mi temevo più in preda d'un misterioso male, io, che altro malanno non avevo avuto se non il mio pensiero; io che un semplice affetto era bastato a guarire! Del resto, mi sarebbe facile accertarmi della mia valida costituzione recandomi da qualche insigne collega, di cui indovinavo il responso, dopo l'ascoltazione e la percussione: «Cuore sano; polmoni sani; cervello sano....; nessuna lesione nel cerebro»: di questo potevo star certo! Nessun ostacolo nell'età o nella salute fisica. Non ero ricco; nè uomo da affidare la mia famiglia e la felicità famigliare alla dote di mia moglie. Ma troverei senza dubbio un buon impiego; tranquillo; di lavoro materiale e agevole....
Esagerando, per la rivelazione improvvisa del mio amore, avevo accusato in me quale fonte d'infelicità la mancanza di una fede. Ma alla fede perduta sostituirei la fede in Ortensia e l'amore della famiglia. Dalla fredda ragione il mio amore non ripugnava dunque più come un'enormità; io potevo dunque conchiudere che per nessuno al mondo sarebbe inverosimile, anormale, enorme, un mio colloquio con Moser press'a poco in questi termini:
— Moser, sono innamorato.
— Bene!
—.... d'una ragazza di diciassette anni!
— Di una ragazza di diciassette anni? tu?
— Sì!
— Annegati, caro amico!
— Ma bada...: la ragazza è Ortensia.
Un istante di stupore; di silenzio; uno scoppio d'ira.
— Ortensia è una bambina!
— Ha diciassette anni.
E la risoluzione:
— Ortensia è tua moglie!
Sarei felice!
Già m'immaginavo il delizioso turbamento di Ortensia, quando chiederei la sua mano.... E mi smarrivo così nell'ebbrezza della felicità, nel sogno. Per quanto?... Viva, imperiosa, sicura, mi si affacciava d'un tratto la persona di Roveni. E balzavo, d'un tratto, nel confronto di me con Roveni; poichè dovevo anteporre, alla mia, la felicità d'Ortensia; considerare, come un fratello, s'essa sarebbe più felice o meno infelice sposando me o lui.... Che differenza! Egli era un forte, un conquistatore della vita, un uomo a cui la fede di sè e l'equilibrio di tutte le facoltà, davano in pugno l'avvenire. Io invece....: un caduto a stento risorto; un debole imbaldanzito dalla speranza e nel sogno; un infermo che a mala pena aveva ricuperato la salute.
Sì? Ero guarito? io? un uomo di trentasette anni che amava perdutamente una giovinetta minore di vent'anni?
Del tutto dissennato, piuttosto! Ridicola vittima di un amore quasi senile in confronto all'amore di Roveni; ridicolo più di un ragazzo....
Eccomi, dinanzi agli occhi, anche Pieruccio Fulgosi: magro e pallido, soffocato dal colletto e dall'amore e impalato a contemplar Ortensia; con quegli occhi imbambolati e il sorriso ebete allorchè io lo deridevo, o quando egli s'accostava timidamente a me per ingraziarsi: «Permette»; «scusi».... Egli soffriva, chè aveva tutti ostili, e l'incuranza di Ortensia gli acuiva lo spasimo di un amore senza speranza; dell'amore sublime che accende l'animo quando, nell'adolescenza, la vita conserva tuttavia il velo di un divino mistero e la lusinga di una felicità fatale; dell'amore che io avevo schernito vilmente. Ma io soffrivo più di lui perchè ero più ridicolo di lui; pativo in me, più dura, dell'irrisione altrui, la mia propria irrisione; avevo più angosciosa che l'indifferenza d'Ortensia, la necessità di nascondere a Ortensia il mio amore quasi una colpa. Questo dunque era il benefizio atteso dal proposito di impicciolirmi e di ricuperare in me, da tenui fonti, la vita? Ma non stavo meglio quando dall'apprensione dell'immensità ero precipitato in un morboso annientamento, a non sentir più nulla? Qual destino, qual maledizione m'aveva risospinto a giocare e raccontar favole con Mino, a riconoscere la gioia dell'esistenza nell'anima fervida di Ortensia, a ricercare il sole?
Il sole! Oh il sublime ristoro del dì che avevo sentito il sole innondare tutto il mio essere, penetrarmi in ogni vena, riscaldarmi le vene e rischiararmi la mente perchè nella sua luce io vedessi la luce di Dio, che la scienza mi aveva contesa, negata! Dio! Era Dio forse a volere che io amassi così? Amassi Ortensia perchè amassi la vita? Dio forse mi chiamava alla felicità, o mi puniva al punto che non mi comprendessi in balia di una frenesia morbosa?
Fra questi estremi mi dibattevo: o credermi pazzo, o credermi risollevato pienamente, con l'amore e per l'amore, alla norma più umana della vita, e alla più alta intenzione dello spirito!
Amavo e non avevo amato mai in tal modo. Così si ama una volta sola; e quanti erano al mondo che potessero dire d'aver amato in tal modo? Poteva dirlo Roveni? Impossibile!
Ma egli era un forte! Dunque la mia passione era debolezza!... Tra questi estremi mi dibattevo! E Anna Melvi ghignava alla mia fantasia, nelle tenebre.... Poi: Eugenia; il resto del mistero. Dubitavo che Eugenia m'avesse taciuto per secondo fine quel che si diceva di Roveni e d'Ortensia; pensavo anche che per pietà di me mi avesse nascosto il proposito dell'ingegnere, a lei già noto! E la rimproveravo per la libertà che lasciava alle figliole, sicchè Learchi e Roveni avevan potuto innamorarsene a sua insaputa....
Rimproveravo fin Claudio perchè riteneva ancora bambine le sue figliole!
Insomma, ero proprio come Pieruccio nell'ora, del parossismo e della maledizione!
E la voce di scherno m'arrovellava dentro: dissennato!
.... Mi tranquillai verso l'alba, convincendomi, al cessar delle tenebre, che Eugenia interrogata non potrebbe nascondermi la verità. E se mi rispondesse: — Per la felicità di Ortensia si farà questo matrimonio; — e se veramente ella desiderasse d'avere in Roveni il marito della sua figliola, ebbene.... io, a qualunque costo, io rispetterei il suo desiderio; vorrei io pure, come un fratello, la felicità di Ortensia. Non debole; non un ragazzo! Ero un uomo capace di una folle passione; ma sarei un amico leale.
XVII.
A rivedere Ortensia così serena io, con bramosia angosciosa, l'immaginai trasformata dal desiderio vago e profondo, dalla malinconia soave e dalla gioia appassionante, dal sentimento impetuoso e ineffabile con cui l'amore invade, la prima volta, l'anima di una giovinetta. Innamorata di me! Quale delizia, quale voluttà più grande che rivelare a sè stessa, innamorata, un'anima? Con una sola parola, che sorriso non avrei io raccolto da quelle labbra? che bacio? — Non dovevo! E forse.... Illusione! illusione! Convinta e ferma in un bene fraterno, ella forse apprendendo il mutamento avvenuto in me, non potrebbe amarmi: a una mia parola d'amore si ritrarrebbe, forse, con un freddo senso di ripugnanza, di profanazione, triste e delusa; nemica per sempre. Tradire il nostro affetto! Sì, ella mi voleva bene come a un fratello, con tutta l'anima! Sì, questo doveva bastarmi! O tanto, o niente! Ad altri l'amore: a Roveni, presto, i primi palpiti; le prime commozioni.... — impossibile che io sopportassi!
Ricominciava in me la battaglia; e per non esser vinto m'afferrai con tutta la volontà al proposito già preso: dissimulare e parlare, quel giorno stesso, a Eugenia. Ma non sapevo come introdurmi nel discorso di Roveni. Ci voleva un pretesto; nè potevo addurre le chiacchiere della Melvi senza turbare Eugenia, se le ignorava. Mi venne in pensiero Marcella, da cui apprendere almeno se anche lei, come Anna, dubitava che io amassi Ortensia.
Con che invidia osservavo ora la quieta Marcella! I suoi dolci occhi esprimevano la fede costante in una felicità avvenire, attesa senza colpa e senza dubbio. Con che fatica mi trattenni dall'aprire a lei il mio cuore e confessarle, — Amo tua sorella. Dimmi tu: sono pazzo?
Le dissi invece: — Per fortuna le Melvi non vengon qua di giorno. Se no, mi taglierebbero i panni addosso.
— Perchè?
— Mi vedrebbero sempre con Ortensia....
— Eh! Ma tutto il mondo lo sa che Ortensia è la sua «piccola amica»! Che c'è di male? Sarebbe bella che per far piacere alle Melvi lei dovesse annoiarsi anche più di quello che si annoia! Faccia come me: non dia mai retta ad Anna, che ha poco giudizio.
Cercai anche di Guido e, trovatolo presso a casa sua, lo tenni in discorsi per condurlo al termine desiderato: a dirmi se qualcuno mormorava per la mia consuetudine con Ortensia.
— Bah! Lei potrebbe essere suo padre! — rispose Guido, beato nella faccia tonda. — Se la signora Eugenia avesse tanta fiducia in me!
Egli voleva persuadermi, con quella faccia così diversa dalla mia, che adesso era disgraziato; e parlava, parlava....
I giorni nei quali Eugenia convalescente passava le ore con noi in giardino erano trascorsi, pur troppo, e adesso egli non aveva che la sera a sua delizia; e anche di sera gli conveniva dimostrarsi molto riguardoso. Mi narrò come un tentativo perchè la signora Eugenia permettesse alle figliole un'altra passeggiata più lunga che quella delle Grotte, era fallito; che Eugenia minacciava ogni giorno di aprir gli occhi a Moser....
— Succederà un patatrac!
In conclusione, Guido aveva bisogno del mio aiuto; umilmente, con insistenza, mi pregava d'interporre, con Eugenia, una buona parola....
Perchè no? Sarebbe il pretesto ad affrontare Eugenia per il discorso che mi premeva molto di più.
— Tu abbi giudizio — (consigliavo io giudizio agli altri!) —. Non dar materia alle chiacchierone.... Sai che tra di loro han già combinato il matrimonio di Roveni e Ortensia?
Guido non rise, questa volta.
— Lo dice Anna, per paura che sia vero! Lo vorrebbe lei, Roveni!
Fremevo. Con quanta più forza potei farmi, domandai:
— Ma tu credi che sia vero?...
— Per me, io credo che il padrone del mondo.... punf! paf! paf! punf! (imitava l'andatura di Roveni).... finirà con l'andarsene alla Mecca senza di Anna e senza Ortensia. Furbo, l'amico!
— Perchè?
— Di Anna ne ha già avuto abbastanza!
— E Ortensia?
— Ortensia non è ragazza per lui. Con Ortensia, scusi, bisogna ubbidire, non comandare!; e lui invece: paf! punf!; punf! paf!
Anche questa ragione m'affidava poco; piuttosto le parole e la mimica di Guido giovarono a schiarirmi quello che già Anna mi aveva lasciato comprendere: dicendo, cioè, che l'ingegnere sposerebbe Ortensia, ella sperava ingelosirmi e indurmi a domandare la mano della Moser: Roveni resterebbe a lei.
Tuttavia io rifacevo la mia strada come un uomo che abbia una meta di dolore.
Quand'ecco il cavalier Fulgosi, dal suo villino, m'invocò, mellifluo:
— Dottore, ehi! Dottore! — Venne al cancello, con la mano tesa, declamando:
Mon amitié n'est pas semblable au baromètre
Qu'un air rude ou plus doux fait monter ou decroître!
Quel povero diavolo mi aveva giudicato non indegno di sposar Ortensia e io l'avevo ricompensato dandogli dello sciocco! Gli strinsi forte la mano senza dir nulla.
— L'ho disturbato? Mi perdoni! — aggiunse egli ritraendosi con nobile contegno. — Lei, vedo, medita all'aperto come me. Da quando sono in pensione ho bisogno d'aria per trovar le idee. Ora poi che ho da preparare il discorso per il 20 settembre!...
Chi gli avesse detto su che cosa meditavo io!
E affannoso e timoroso andai a cercar Eugenia.
Non era facile trovarla sola, la buona signora. Di solito non scendeva a terreno che all'ora della colazione e del desinare. Riceveva nella sua camera o la contadina o l'ortolana per i conti di compre e vendite; o aveva la tessitrice; o la cucitrice; questa o quella paesana; e Marcella quasi sempre alle costole. Quel giorno però essa, per caso, era rimasta sola.
— Le ragazze e Mino sono andati a cercarvi al convento — mi disse.
Risposi palpitando:
— Vengo dalla strada maestra...., dove ho visto Guido, molto afflitto....
— Bravo, Sivori! Venite pure a difendere il vostro amicone, che presto presto mi farà scappar la pazienza.
— Per far scappare la pazienza a voi bisogna aver commesso un delitto. Che delitto ha commesso Guido?
— Abusa della mia debolezza. Dite la verità, non sono troppo debole a permettere che tutti sappiano di questi amori, fuorchè Claudio? Voi, che mi conoscete, non vi meravigliate che io permetta dei sotterfugi?
— Guido ha buone intenzioni. D'altra parte, conoscendo Claudio....
— Sì: guai a parlargliene adesso, a Claudio, di maritar le figliole! Ma avrebbe poi tutti i torti se si opponesse all'assiduità di Guido? Guido non ha ancora la laurea, e, dopo, credete che suo padre sarà disposto ad aiutarlo? Insomma, quel benedetto ragazzone dovrebbe essere più guardingo, più serio. E già che siamo in questo discorso, vi dirò che c'è un altro, qua, più serio, più prudente di lui....
Mi corse tutto il sangue al viso. Se Eugenia non avesse avuti gli occhi abbassati sul lavoro, m'avrebbe letto in faccia l'enorme segreto.
— È Roveni — io mi sforzai a dire con voce ferma.
— Ve n'ha parlato Ortensia? — Eugenia chiese con ansia.
— Ortensia non crede a quel che si dice: ecco tutto.
Tanto la signora fu sollevata dalla mia risposta quanto in me pesava il presentimento del mio inevitabile sacrificio.
Ella proseguì: — Roveni sta ai patti. Non ve n'ho mai parlato appunto perchè ho voluto che vi facciate un concetto sicuro di lui e della sua condotta. Francamente: ve ne siete accorto voi stesso che egli ha simpatia per Ortensia?
— No: forse non me ne sarei accorto se non me n'avesse avvertito il cavaliere. — E aggiunsi, per alleviarmi l'angoscia con una digressione:
— Il cavaliere è il trombettiere delle pettegole.
— Povero Fulgosi! Ma con le Melvi voi siete troppo severo. Chiacchierano, han la lingua un po' lunga.... In fondo, però, non sono cattive. Io non dimenticherò mai le premure che ebbero per me quando ero ammalata....
— Anna è una civetta! — esclamai io. — Mi duole che per amor di pace non possiate allontanarla da casa vostra.
Eugenia tacque un po' e disse:
— Dovrebbe bastarmi la vostra opinione per allontanarla subito. Ma ho fiducia che le mie figliole non abbiano intenzione d'imitarla.
— Questo è giusto.... — E ripresi:
— Dunque Roveni?
— Oh, è una storia molto breve. Un giorno la Melvi madre mi avvertì che parlando con l'ingegnere aveva scoperto in lui a dirittura un grande amore per Ortensia. Sapendo che la Melvi è facile a esagerare in tutto, non le credetti che poco. Anche qui, del resto, mi rassicurava il contegno di Ortensia: con Roveni si comportava come per il passato; impossibile ch'egli le facesse la corte e che essa non me l'avesse lasciato comprendere. Pure volli chiarir la cosa. L'ingegnere mi aveva già confidato che dubitava di poter restare un pezzo a Valdigorgo, e io tornai sul discorso. Ripetè che trovando un impiego migliore dovrebbe andarsene; e infine confessò d'aver molta simpatia per Ortensia, e che non disperava nell'avvenire. La sua franchezza, la sua lealtà mi piacque. Ma Ortensia è così giovane! con un carattere così strano; e io mi sentivo allora tanto male! Non volevo preoccupazioni e angustie. Ebbene, ottenni da Roveni la promessa che non turberebbe per adesso la pace mia e di Ortensia. Voi siete testimonio che ha mantenuta la parola. Ma ditemi: che ne pensate voi, di lui?
Eugenia mi strappava il cuore! Avessi potuto fuggire! scomparir in quell'istante da questa stupida scena del mondo!
Risposi che pensavo assai bene dell'ingegnere.
— La sua condotta non potrebbe essere più corretta.
Eugenia proseguì:
— Dite pure che egli è prudente anche per non compromettersi. Ma non è giusto? Il suo avvenire non sta solo in lui; è nelle mani di Dio. Dio voglia che un giorno egli renda felice mia figlia!
Se Eugenia avesse detto tutto ciò in altro modo, io avrei creduto volesse abbattere la mia insana rivalità; ma ella aveva parlato adagio, semplicemente, e il solo dubbio di tale intenzione sarebbe stato un'offesa.
— È giusto! — ripetei. (Fuggire! dovevo fuggire!)
Concluse Eugenia:
— Son contenta che mi diate ragione per Roveni e che non mi diate torto per Guido.
Con uno sforzo supremo io sorrisi; conclusi anch'io:
— Gli farò una predica all'amico. E con l'affetto che ho per tutti voi, auguro che le vostre figliole siano un giorno ugualmente felici. Lo meritano, perchè sono buone come voi, Eugenia!
Ero sincero in queste parole. Ma un nodo mi stringeva alla gola....
(Fuggire! dovevo fuggire!)
XVIII.
La vittoria è dei forti! Questo almeno sapevo per scienza ed esperienza. Dunque.... fuggire!; inutile competere con Roveni, forte di nervi, di mente, di animo, di fortuna! Già nel desiderio di Eugenia egli era eletto sposo di Ortensia e presto il capo biondo, che avevo visto un giorno poggiare con affettuoso abbandono sul petto materno, s'abbandonerebbe per amore su quel petto forte. Fuggire.... Quando? Ah se fui debole! se fui vile! Mi affidai alla mia debolezza per ritardare quell'ora; per non correre subito al limite verso il quale il destino mi spingeva e di là dal quale non vedevo che cosa ci fosse: la tenebra; il vuoto; il nulla come un tempo: peggio che la morte! Mi raccomandai alla ragione. La mia partenza improvvisa dopo il colloquio con Eugenia avrebbe rivelato il mio segreto a Eugenia, ad Ortensia, a Claudio, a tutti! Ancora qualche giorno per nascondere il mio segreto; per distogliere ogni sospetto anche da Anna Melvi; per compiere il sacrificio che, lontano, conforterebbe forse il mio dolore, tratterrebbe forse il mio braccio dall'estrema insania contro me stesso! Ancora qualche giorno!
Per la mia vita infelice, per la mia triste giovinezza, per quel che avevo sofferto e avrei da soffrire resistendo a vivere, impetravo da me stesso qualche giorno ancora! — Rimasi. E intanto dissimulare, fingere, mentire! Perduta la rettitudine del procedere, dubitavo e temevo. Mi spaventava il dubbio che Ortensia s'avvedesse del mio dolore e dei miei rossori; se ne avvedessero gli altri.
Avrei voluto conoscere quel che pensassero o dicessero di me la Melvi madre, la Fulgosi e la Learchi; ma in ognuna temevo ragioni di celarmi il loro pensiero. E per tutte queste indagini e per tutti questi sospetti provavo come il disgusto di un avvilimento indegno di me e della mia passione.
Peggio; a quando a quando mi abbattevo del tutto come sotto una condanna meritata. Avevo voluto rivivere; non potevo rivivere che così miseramente.... Quale un cieco che smarrito cerchi un sostegno, io cercavo adesso Ortensia. Essa era la luce dei miei occhi.
Il suo sguardo, il riflesso dei suoi capelli, l'armonia della sua voce, l'euritmia delle sue forme potevano nel mio animo sconvolto come (non esagero) il sole che fenda l'oscurità e spazzi via un nembo. «A ogni costo essa non deve soffrire!» — giuravo allora con un sentimento di pietà e di gioia, con tutta la voluttà del sacrificio.
Non so dire con che cuore in quegli ultimi giorni la vedevo tornare a me al mattino, sorridente e viva. Ella sorgeva adagio dalla scala della terrazza, e giungendo su la soglia si fermava un istante: staccata dal fondo arioso e chiaro, nella fresca e chiara veste, m'appariva immagine sorridente, vivace, palpitante. E poi diceva: — Buon giorno....
Nè so dire di quale refrigerio mi era la sua voce. Il dolce suono dell'accento paesano or si prolungava or si rinvigoriva in una particolare dolcezza di timbro; in una soavità calda e tremula nelle vocali forti, che s'acuiva a una intonazione nitida se elevava o affrettava la parola o rideva. — Parla! — le dicevo, quasi per raccogliere quell'armonia nel cuore e non perderla mai più.
Ma alla prima gioia di rivederla e di riudirla, sottentrava dopo pochi minuti il cordoglio, la disperazione. E dovevo fingere, celarmi!...
Poi ebbi una nuova perplessità.
Perchè essa non era più mattiniera come una volta; tardava tanto a discendere?
Un mattino quell'attesa fu anche più lunga.
— Dorme Ortensia? — domandai a Mino, che scendeva le scale.
Mino portò l'indice al naso, perchè tacessi; corse in tinello e tornò con due bei grappoli d'uva: uno bianco e uno rosso.
— Glieli porto.... Come riderà a vederli quando si sveglia! — Si avviò; tornò indietro:
— Ne ho mangiata tanta anch'io! Ne vuoi, Sivori? — Io gli diedi un bacio. — Va, va; portali a tua sorella!
Salì infatti, per discendere poco dopo e dirmi:
— A vederli s'è svegliata!
L'immaginavo nell'atto di spiccare le dolci grane, desiosa, gioconda, senza pensiero di me che l'aspettavo triste, solo, pensando a lei; la scorgevo riabbandonare il capo al cuscino, dipartire dalla fronte i capelli e guardare la striscia di cielo per le imposte socchiuse. Ricadeva, dopo la prima allegrezza, nella pigrizia piacevole che lascia il sonno non del tutto scosso dalla frescura del mattino di settembre, e appena appena abbassando le palpebre raccoglieva ad una ad una, quasi dalla luce esterna, le idee. Erano ricordi? desideri? propositi per l'oggi? speranze lontane? Era amore?
Ah non per me, che aspettavo ansioso, da basso: ella stessa non sapeva per chi, ma non per me, fermo nel proposito di non dirle: «il tuo affetto, sorella, non mi basta più!»
Quando giunse, mi parve che i suoi occhi mi leggessero in cuore; che il mio segreto le fosse già manifesto; ch'ella stessa fosse mutata. E durante il giorno mi parve che le sue assenze per le faccende domestiche si prolungassero troppo. Forse la tratteneva Eugenia, che forse già sapeva di me....
Voglio confessare tutti quei miei affanni, quelle mie debolezze, quelle mie tristezze!
Non solo provavo vergogna dell'infingimento: quel mostrarmi allegro e disinvolto con Eugenia e con Moser; quello sforzo a padroneggiarmi e a non mutar colore se si parlava d'Ortensia ch'ella non ci fosse, o al sopravvenire improvviso di lei; quel cercarla non più franco e senza incertezza come prima, ma con desiderio irrequieto; quell'attenderla a lungo in un luogo senza parere...: non solo! La gelosia divenne in me torva quale la gelosia di un uomo in preda a un amore senile; maligna e gretta quale la gelosia di un marito vecchio per una moglie giovine. Invano a veder Roveni ballare con Ortensia, nelle ultime sere, tentai persuadermi che egli amava senza impeti e senza urti; a sorrisi di poca significazione ed a inavvertibili occhiate, quasi prendendo l'amore per un gioco tranquillo: ogni suo sguardo, ogni sorriso, ogni atto valeva per me un'ardente ed evidente espressione d'amore; nè l'avaro che vide rubarsi un tesoro patì mai tanto quanto io a seguire con l'occhio, nel ballo, Ortensia e Roveni. Se parlavano, mi avvicinavo per udirli; se ridevano, ne chiedevo, dopo, il perchè a Ortensia.
A poco a poco mi si faceva strada nell'animo il sospetto che fossero d'accordo per ingannarmi; solo per il piacere d'ingannarmi; oppure pensavo che Ortensia mentisse meco per pietà, accortasi della mia passione; o anche perchè fosse stata sua madre a pregarla d'avere misericordia di me....
A questo punto! A tal punto cresceva il mio soffrire che in certi momenti mi pensavo in diritto di confessare il mio amore.
Ma non dovevo. Per la sua felicità, non dovevo! per la pace di Claudio e di Eugenia, non dovevo! per la mia dignità e per il mio orgoglio, non dovevo! Soffrire e tacere! Vederla ignara e tacere! Vedermela portar via, e tacere!
Spiavo. Un pomeriggio Roveni venne ad attendere Moser. Io lasciai che egli si accompagnasse, per il viale del giardino, con Ortensia, allontanandomi con un pretesto. Poscia, di nascosto, li prevenni dalla parte opposta e mi nascosi dietro la macchia ch'era intorno agli abeti gemelli. Quando afferrai che parlavano di lawn-tennis ebbi tal gioia da svelarmi con un grido, come fossi là per impaurirli.
Alla gelosia ingiusta, seguiva più tormentoso il rimorso; e per purificarmi del veleno che mi sembrava avere ingoiato, avrei versato il sangue a gocce, da ferite. Che, dolcezza se avessi potuto domandar perdono a Ortensia! Per giustificarmi almeno un poco, entro di me, ebbi desiderio di narrarle i miei antichi amori; di apprenderle il disprezzo, il ribrezzo, la nausea, la cattiveria che me n'era rimasta: accrescerle così orrore della sensualità, della colpa e del tradimento; ma avrei fatto male e mi vinsi.
Eppure si sarebbe potuto credere che qualche cosa di quel che turbinava nella mia testa giungesse alla mente di Ortensia.
Uscì a dire con disgusto:
— Anna, che sguaiata! Non ha avuto il coraggio di chiedermi se l'accompagnerei ancora alla fabbrica?
— E tu?
— Io le ho risposto di no. — Perchè no? — mi ha chiesto. — Perchè no! e basta. — E lei: — Avrai da tener compagnia a Sivori. A te, che gli vuoi bene, non fa le critiche che fa a me.
— Certo che gli voglio bene a Sivori: tanto tanto! — Gliel'ho detto perchè ci ha rabbia. Ma non parliamone più, di colei. Mi fa ribrezzo!
Se non che un istante dopo aggiunse:
— Sa che Anna studia il canto?
— Per caffè-chantant è adatta — io mormorai.
— E sa che nome mi ha messo a me, per canzonarmi? «La Regina Ortensia di Valdigorgo.» Crede di farmi dispetto! Eh! perchè faccio spesso a mio modo e dico: piace a me e basta; e comando a tutti, anche a Sivori, il nome non mi sta male!
— Anche a Roveni comandi?
— Sì che anche Roveni mi ubbidirebbe! Ma non comando mai nulla, a lui.
Io ripresi, senza più sorridere, con risoluzione che sembrò improvvisa:
— Anna lasciala cantare. Quanto a me, presto la libererò del mio fastidio. Tra pochi giorni me ne vado....
A questa notizia Ortensia mi guardò incredula; balzò in piedi; venne a me, che le sedevo, di fronte, su la poltrona alla parete opposta, e severa, con un atto imperioso della mano:
— Non voglio!
— Ma io non ti riconosco per la Regina di Valdigorgo!
Con voce mutata, meno forte, seria, ella ricordò:
— Il babbo non la lascia partire prima che cada la neve. Non sono d'accordo? — E rianimandosi: — Immagini, Sivori, la prima neve quassù, che delizia! Immagini: tutto bianco.... I monti, là; e il giardino tutto coperto; gli abeti, così alti, vestiti di bianco! E correre fuori, là in mezzo? — Ma dubbiosa dell'efficacia della sua descrizione, pregava con tutta la grazia degli occhi, della voce; premendomi con una mano al braccio.
— Stia qui da noi, Sivori, finchè andremo in città, a Natale.
— Impossibile!
— Io e Mino non la lasceremo partire.... Pensi al dispiacere di Mino!
Ripetei: — Partirò a giorni.
— Mi getterò in ginocchio, a' suoi piedi.... Lasciarmi qua sola!
Le pareva che resterebbe sola!
— Ti restano tanti: il cavaliere....; Anna....
— Zitto! Non la nomini!
— La signora Learchi....; la Fulgosi.... — E in altro modo dissi: — Roveni....
— Cattivo! Cattivo! Oh com'è cattivo! Anna ha ragione quando le dice cattivo! — S'allontanava imbronciata.
Io....: ancora soffrire! ancora! ancora!
Era così dolce soffrire! Ancora ebbi pietà di me.
— Resterò due giorni di più e dirò a tutti: sono rimasto due giorni di più, non per voi, per Ortensia! Sei contenta?
Allora tornò lieta.
— Due giorni? Proprio! Qua il lunario, che le dirò io il giorno della partenza! Non ha nemmeno un calendario? Oh che uomo! — Uscì; tornò col calendario, dicendo:
— Ne abbiamo? Dodici. Dodici settembre. I Santi vengono? Al primo novembre. Dunque.... Dunque Sivori dovrebbe partire il tre: va bene? Il tre per non lasciarmi sola il giorno dei Morti, con quella malinconia. Otto e tre fanno undici.... È deciso!
Annunciò a voce alta, a una folla, immaginaria:
— Il dottor Sivori partirà da Valdigorgo fra due mesi, l'undici di novembre! Avete inteso, signori? Ordine mio: della Regina Ortensia di Valdigorgo!
Io pensavo ai monti e al giardino bianchi di neve. In tinello, il fuoco acceso e crepitante.... Fuori, nel silenzio, fioccava; e tutti eravamo attorno al fuoco; e io a raccontar favole, che Mino ascoltava da su le ginocchia di Ortensia.... Ma rialzando gli occhi....: Ortensia aveva perduto ogni segno della vivacità fanciullesca di pocanzi.
A che pensava?
XIX.
Mi amava?
Al sospetto rispose in me un proposito che poteva già essere effetto di rimorso: «Ortensia non deve soffrire!»; e per i pochi giorni che resterei ancora lassù, saprei attenuare ogni espressione affettuosa, ponderare ogni parola, correggere ogni sguardo, affinchè l'affezione di lei per me non prorompesse in amore e dolore, e il mio sacrificio fosse pieno e grande.
«Non deve soffrire! Come vuole sua madre, deve viver lieta sino a quando Roveni le manifesterà le sue intenzioni. Allora amerà e andrà sposa felice».
Virtù? Sacrificio? Non eran vane parole. Ma il pensiero di perderla interamente, tardi o presto, mi dava tale spasimo da scusarmi d'ogni pensiero più insano.
«Che io mi posponga a Roveni, è giusto; ma non è giusto che io creda alla felicità di Ortensia perchè egli le darà i gaudi dell'amor materiale ed ella soggiacerà alla turpe legge dei sensi».
Ed eccomi a chiamar ribelli sublimi coloro che rifiutano di vivere nel mondo per rifiutarsi alla legge universale, bestiale e prepotente; e si mortificano e muoiono lieti d'esser sfuggiti all'inganno del piacere e d'aver servito alla sensualità. Avessi potuto rapir meco, salva da ogni cupidità e da ogni bruttura, la vergine che aveva inteso in me un bene libero da quella esperienza materiale e torbida!
Ed ecco un altro tormento. In me, ora, un involontario contatto della persona con Ortensia, sedendo vicini o passeggiando, o l'abbandono innocente e confidente della sua mano alla mia, che non la ricercava, destava un sospetto oscuro, improvviso, infrenabile, rapido come un brivido: nel mio sangue, non nella mente.
Il mio pensiero ripugnava da quella istintiva concitazione sensuale, mentre io la vedevo e la sentivo così fervida e giovine. La guardavo fisso, con un timore doloroso. E lei diceva:
— Perchè mi guarda così?
Alla dimanda, mi si allargava il cuore, perchè non scorgevo ne' suoi occhi nemmeno l'ombra di quel mio sospetto; perchè il suo sguardo mi cadeva limpido nell'anima quasi a purificarla subito; perchè rivelandosi ignara, fin nella voce, del motivo che io aveva avuto a guardarla così, essa non attendeva risposta nè mostrava dubitare d'altro motivo che non fosse un affettuoso e semplice indizio di tenerezza....
Ma il più lieve contatto d'altri, o un altro sguardo, avrebbe potuto proporle e insinuarle il desiderio; una differente stretta di mano avrebbe potuto darle la sensuale commozione che non le davo io.... E un altro la contaminerebbe!
In confronto a questa infamia — era un medico che la chiamava un'infamia! — sembrava cessare ogni colpa nel mio amore nobile e puro; e mi dicevo che se Ortensia mi amava, mi amava allo stesso modo di me, nè proverebbe mai voluttà più grande....
.... Mi amava?
Era tanto mutata!; o mi pareva. Diversa nei modi: non accorreva più come una volta, non rideva più con l'impeto di prima; diversa nello sguardo, più luminoso e profondo; e in tutta la persona di lei sembrava definirsi la gravezza di un intimo raccoglimento, d'una meraviglia deliziosa, intensa, continua; quasi d'una beatitudine meditata e riflessiva.... Se pure non m'ingannavo!
La consideravo con timida gioia. Ma diveniva tosto una gioia affannosa, paurosa; e con più speranza che timore mi ripetevo:
«Forse m'inganno».
XX.
O forse tutto era un inganno? Per difendermi del male che facevo e che avevo, inveii contro me stesso e rimproverai Ortensia. Innamorato, al pari di tutti gl'innamorati forse io ero uno stolto che alla donna reale aveva sostituito la creatura del suo sogno. Troppa bellezza, troppa intelligenza avevo attribuito a quella ragazza diciassettenne; e bisognava rompere l'incanto, non solo per risparmiarle soffrire, ma per risparmiarmi soffrire.
Era bella; nessuno poteva negarlo: un fiore. Beltà però facile a deperire presto, come accade di tutte le bionde.
Poi mi meravigliavo perchè adesso Ortensia non chiacchierava più come per l'addietro, e la credevo perciò innamorata? Ma taceva solo perchè tacevo io! A suggerirle argomenti, era stata loquace: da sè non trovava da dire cose notabili. Del resto, le donne molto intelligenti si dimostran tali nell'eleganza e nel buon gusto: Ortensia non aveva sempre buon gusto.
— Perchè ti sei messa questa giubba grigia, che ti sta così male?
— Comincia a far fresco, la mattina.... È di flanella. Ma non la porterò più.
— Te l'ho detto un'altra volta che è un colore che ti fa parer brutta.
— È vero; non me ne sono ricordata.
E io, dopo una pausa:
— Sei infatti molto smemorata, Ortensia! Tua madre e tua sorella hanno ragione di dirtelo.
Rispose paziente, con un queto sorriso:
— Metterò giudizio, e lei non avrà più da sgridarmi.
Ahimè! I tentativi di rompere l'incanto erano vani! Essa mi guardava in un modo....
Ma a quella frase di «metter giudizio» rammentai le raccomandazioni che mi aveva fatte Eugenia e che avevo dimenticate da un pezzo. Tuttavia aspro ripigliai:
— Tua madre desidera che io ti corregga.... Son gli ultimi consigli.
Essa, con un tremito nella voce (non m'ingannavo), esclamò:
— Ultimi? perchè ultimi?
— Ti ripeto che debbo partire lunedì. Sbigottita, pallida (non m'ingannavo), mi fissò dicendo:
— Non lo credo; nessuno lo sa, in casa!
— Lo sapranno oggi stesso.
— Ma perchè? che è stato?
Ed io, col cuore che palpitava come il suo:
— Nulla.... L'altro dì te lo dissi pure che sarei partito a giorni.
— Io credevo scherzasse.... Non mi promise....?
L'interruppi:
— Fu una promessa della tua fantasia. Eccoti un consiglio: non affidarti mai alla fantasia contro le imposizioni della realtà.
Questo le dissi, io, che avevo tentato invano di romper l'incanto!
Ma essa si strinse nervosamente le mani, a capo chino; poi mi guardò in quel modo.... Non m'ingannavo! Mi sembrò di vacillare; non potei non mitigare la voce, non dire:
— In realtà.... tu sei buona.
— Buona? — Sorrideva così triste!; un sorriso di amore dolente.
— Sì, buona! — proseguii fingendo di non capire e cercando pretesto a inasprirmi di nuovo. — Il mondo invece è cattivo! Che dolore sarebbe per me, un giorno, se dovessi apprendere che tu ti sei mutata all'esperienza del mondo!
A sua volta, quasi suo malgrado, ribattè fiera, aspra:
— Lei ha poca fiducia in me; ed io ne ho tanta in lei!
— Che sai di me, tu? — esclamai senza più chiaramente avvertire quel che mi dicessi. — Ricordati che ogni infamia è possibile: anche quelli che stimiamo di più ci possono mancare!
Il mio pensiero, trasportato dalle mie stesse parole, corse a Roveni. Ma indietreggiai; contenni l'impeto della gelosia, a cui stavo per abbandonarmi.
— No: esagero. Non tutti quelli che stimiamo si dimostrano indegni della nostra stima. Io di Roveni....
— Sivori! — Ortensia gridò, sdegnata, quasi minacciosa, come non l'avevo mai vista.
— Lasciami dire. Di Roveni io ho tanta stima che non posso pensare alla tua felicità senza pensare alla sua felicità.
Allora essa mormorò:
— Non credevo....; non credevo.... — e fuggì via. Non credeva che io fossi spietato!
.... Annunciai poco dopo a Eugenia che partirei il lunedì prossimo. Eugenia mi disse:
— Perchè non restare ancora un po' da noi? Speravamo restaste fino all'inverno!... Volete andar laggiù, in pianura, in autunno?
Non andrei a Molinella.
— Farò come Roveni. Andrò anch'io lontano a cercar lavoro; ma con minori speranze di lui!
— Vedete che non siete guarito? — la signora mormorò notando il modo delle mie parole. Scoteva il capo; e come un giorno aveva detto: «perchè Dio non v'ha dato una sorella?», ora disse:
— Se aveste una famiglia, vostra....
Questo dovevo udir io, da sua madre, senza rompere in pianto!
A desinare, dalle occhiate bieche di Claudio mi avvidi che Eugenia l'aveva già informato della mia decisione. Mi avvidi anche che n'era informata Marcella: Ortensia arrossì, guardandomi....
Quanto mi amava!
XXI.
Assistere alla commedia della vita col pianto nel cuore: anche questo è la vita!
Alla festa del XX settembre, in Valdigorgo, che avrebbe dovuto redimere il cavalier Fulgosi dal ridicolo in cui egli asseriva d'esser precipitato per colpa della moglie, anch'io risi; ma la comicità dei casi è solo nella mia memoria mentre ho vivo nel cuore il dolore che in me accompagnava la stentata ilarità. Sì gran dolore risento, da non poter indugiare nel racconto, quasi per un senso di profanazione. Tre immagini, del resto, importa solo che io rilevi dalle ricordanze di quel dì e le scorga nella lor propria luce: in luce d'amore, Ortensia; chiaramente perfida, Anna Melvi; nella penombra da lui sempre cercata, Roveni.
E mi rivedo, prima, nella sala del Municipio, rigurgitante di pubblico; con il popolo in fondo; con le file delle signore in cospetto all'oratore e, dietro, in poltrone, le autorità del Comune e del Circolo che s'inaugurava. L'oratore parlava su di un palco, davanti a un tavolino; e il discorso procedeva alla volta della pace universale, tediosamente inzeppato di frasi a doppio senso, per congiungere il tema della caccia alla politica. «Sappia l'Italia che il punto di mira dei Valdigorghesi è il bene della patria»....; e così via: col paretaio della difesa nazionale; con le poules e il bersaglio del patriottismo....
Durante il fastidio dell'enfatico sproloquio, Ortensia cercava con insistenza il mio sguardo. Mi sorrideva, e quel lieve sorriso senza circospezione, senza sospetto, nell'innocente abbandono di un bene che nulla più può contenere, mi angustiava di consolazione e di pena. Ritraevo gli occhi da lei provando l'impressione che quello sguardo mi rinnovasse l'anima; e pur conservando nella vista mentale l'amorosa immagine, non resistevo alla tentazione di tornar a guardarla e tremavo all'istantaneo riscontro dei nostri occhi. Là fra le altre essa era sovrana non solo per la bellezza, ma perchè il suo aspetto aveva perduto ai miei occhi ogni apparenza d'adolescente ignara, e io la vedevo in tutto lo splendore della giovine innamorata e orgogliosa dell'amore che le fioriva in petto. Ora temevo che gli altri ci sorprendessero; ora, in un impeto di insania, avrei voluto che tutti scorgessero come essa mi amava.
Sola cosa buona che facesse il cavaliere era quella che con la sua personcina elevata sul palco impediva a Roveni di scorger Ortensia.
E rivedo Roveni che, impassibile, seduto acconto a Moser, s'estendeva i folti e arditi baffi, o incrociava le braccia puntando lo sguardo al soffitto. Anna Melvi sorrideva all'oratore; avventava occhiate a me; guatava Ortensia.
Eppoi, dopo lung'ora, la catastrofe. A vendetta di Learchi e degli altri capoccia clericali, ch'eran rimasti assenti, il cavaliere improvvisava un inno al lavoro, e col «sacrosanto grido di: pane e lavoro!» gettava l'offa ai socialisti. Più di una volta i suoi pugni eloquenti non avevan per poco rovesciato il tavolino; ma quando egli volle mitigare l'audacia di quel suo favore al socialismo e mandò un poderoso grido di «Viva l'Italia!», allora.... Un crac formidabile; un rovescio fragoroso e simultaneo del tavolino, dell'oratore, della bottiglia e del bicchiere che eran sul tavolino. Un'asse del palco s'era rotta e il palco s'era sfasciato.... Immaginare il trambusto, il tumulto!
Della folla tutti si alzarono in piedi, addosso gli uni agli altri per vedere; molti, troppi, accorrevano per soccorrere. La signora Fulgosi svenne; le Melvi ridevano sgangheratamente; io e Moser rialzammo il caduto, che ci raccomandava di raccogliere le cartelle del discorso, mentre il dottor Minguzzi gli appiccicava un pezzo di taffetà in una guancia sanguinosa.... Quand'ecco a quello scompiglio successe un clamore più grande. Lo provocò una voce che gridava:
— Sono stati i clericali!... Tradimento dei clericali! — E alcuni clericali o lor difensori, i quali si trovavan là in fondo, protestarono con violenza.
Si videro braccia in aria; pugni piombar su teste; confondersi gente in mischia....
Queste, furon queste le conseguenze del nobile intento della pacificazione universale!...
Ebbene, in quel disordine, io rivolsi gli occhi più d'una volta a Roveni e lo vidi sempre là, in piedi ma al posto di prima, immobile a guardare freddamente lo spettacolo inaspettato; superiore a tutti nella gazzarra. Era come lo spettatore di una farsa: di una farsa però che non riesce a farlo ridere e di cui attende tranquillo la fine, quale che sia. Anzi egli s'imponeva tanto alla mia attenzione e m'aveva confermato in tale opinione della sua energia, che l'avrei paragonato la un valoroso il quale assistesse a un conflitto non degno del suo intervento. A chi mai, vedendolo in quell'attitudine, sarebbe venuto il dubbio che quell'uomo fosse un vile? O chi avrebbe dubitato che, se invece di comico il caso fosse stato tragico davvero, egli non si sarebbe comportato diversamente?
.... Poi mi rivedo nella sala del buffet. Ivi gli invitati, mangiando paste e sandwich, si preparavano ad assistere alla gara di tiro.
Io passavo di gruppo in gruppo, con la sola intenzione di star lontano da quello in cui era Ortensia.
Insieme con la sorella, due o tre signorine paesane e alcuni giovani corteggiatori, essa era rimasta confinata presso al balcone; nè il mio sguardo poteva correre là senza incontrare lo sguardo di lei. Essendomi avvicinato una volta, lei si staccò dagli altri e venne a me, in apparenza ardita, ma mi chiese pavida, a bassa voce:
— Perchè non sta qua con me?... con noi?
Colto all'improvviso, non seppi che rispondere. Risposi sorridendo come chi muova un benevolo rimprovero: — Bambina....
Essa, di pallida che era, avvampò.
Roveni, intanto, percorreva la sala con il fare di un padrone di casa. Osservai che quel giorno gli occhi del giovane erano senz'ombra alcuna; anzi il suo sguardo, così freddo per solito e teso innanzi a lui, pareva più limpido e ricercava come per un'accondiscendenza o cortesia nuova il mio sguardo. Aveva già saputo della mia partenza? Così pensai. Eppure non potevo odiarlo!; tale concetto ne avevo!
— È vero che Ortensia sta bene vestita così? — mi chiese. E ci accostammo insieme a quel crocchio.
Ortensia suggeriva qualche cosa all'orecchio di Marcella, la quale prima parve disapprovare o schermirsi; indi, fattasi animo, ripeteva la cosa a Guido. Questi fece due salti fregandosi le mani, tutto contento, ed esclamando: — Bene! benone! benissimo!
— A Sivori non dispiacerà? — domandò ancora Marcella.
Infatti Ortensia era incerta, quasi dubitasse a interrogarmi.
Finalmente l'arcano mi fu chiarito da Guido.
— Lei e le ragazze se ne stanno in giro qui, per il paese. Io faccio di tutto per sbagliare il primo colpo; mi metto fuori concorso; scappo e torno da loro. Va bene?
Roveni udì e non fiatò. Invece dagli altri sorsero proteste per la defezione delle Moser, appena esse ebbero ottenuto l'assenso del padre.
Ma Ortensia non si confuse:
— Assistere a una strage di piccioni? Lo lasciamo a voi questo bel divertimento!
— Un capriccio, al solito — esclamò Anna Melvi accostandosi col dottorino Minguzzi al fianco.
Marcella, confusa, le disse:
— Vieni anche tu, con noi....
— No, cara! Mi son prestata abbastanza.... Basta, oramai!
La povera Marcella divenne rossa rossa; Ortensia scosse il capo sdegnosa; Guido ruppe in una risata. Ma Roveni con aria di perfetta indifferenza domandò alla Melvi:
— Prestata a che?
— A sfidar la malignità per favorire l'amicizia!
Ribattè Roveni, col tono di prima:
— Eh! per la malignità lei non ha niente da temere! — Al colpo io sorrisi; Anna mi vide; si morse le labbra, e mentre fissava l'ingegnere con quei suoi occhi di vipera, non nascose lo sforzo a trovare una risposta adeguata. La trovò e colpì anche me.
— C'è sempre da temere quando si hanno amici e nemici in una posizione equivoca.
Il nemico ero io!
— Da una posizione equivoca — dissi — si può sempre uscire per la via diritta, ma non si sa dove si possa finire con una condotta equivoca.
— Uhm! Una distinzione molto sottile — ribattè Anna astutamente. — Non la capisco. E tu, Ortensia?
Ortensia rispose:
— Io non me ne intendo di queste cose.
E vedendo che io approvavo e sembravo incitarla aggiunse:
— Se non capisci tu, ho da capir io?
— Brava! — fece Roveni, non poggiando troppo sulla lode e andandosene.
— Andiamo! Andiamo. È ora! Al campo di tiro, signore e signori! Al Poligono, per la gara! — ripeteva il segretario a destra e a sinistra.
Esclamò Anna:
— Dottor Minguzzi, noi sappiamo dove andiamo a finire: al Poligono!; e senza equivoci, noi!
L'altro tergiversava, ma Anna se lo prese a braccetto e s'avviò, dopo avermi avvolto in una occhiata di sprezzo.
Roveni intanto mi attendeva a capo della scala. Lasciò che le Moser ci precedessero, per dirmi:
— Sono stato ferito da due parti in una volta; dalla frecciata della Melvi e dalla risposta che lei ha data alla Melvi. Ma dica: per lei, io sono soltanto in una posizione equivoca, o è equivoca la mia condotta?
Non aveva certo l'aria di un provocatore; in quella sua calma però scorgevo il desiderio di metter carte in tavola. Sarebbe stata forse diversa la mia risposta se mi fossi ricordato del proverbio: «chi è in difetto è in sospetto»; ma gli scienziati, per quanto psicologi, han poco uso di proverbi. Sinceramente, senza attenuazione alcuna, risposi che potevo arrogarmi il diritto di giudicare la condotta di Anna, non la sua.
— Non credo — aggiunsi — che lei sia uomo da percorrere vie oblique, e non la credo affatto in una posizione falsa.
L'ingegnere disse: — Grazie; ad ogni modo, desidererei parlarle in proposito. Ma lei non viene mai a trovarmi alla fabbrica!
— Verrò domani; sarà la visita di congedo.
Non mostrò meraviglia della notizia e conchiuse: — L'aspetto.
Sulla porta m'attendevano le sorelle; e noi tre soli c'incamminammo per il paese. Nella maniera con cui Ortensia mi scrutava era evidente il pensiero: «Lei lo sa già il bene che le voglio. Non avrà una buona parola per me?»
Perciò essa aveva voluto restassimo soli; ma io, io, che avevo ceduto temendo lo scorgere degli invitati alla festa, non volevo piegarmi.
Mi risonavano all'orecchio le parole di Roveni; mi rimproveravo e insieme mi rinfrancavo pensando alla lealtà di lui; mi pareva nello stesso tempo che io avessi tardato troppo a frenar la passione di Ortensia; e ch'ella vi si abbandonasse troppo debolmente.
E non potevo dirle: — Se tu sapessi il bene che ti voglio!
Quasi strappandosi dai suoi pensieri, Ortensia esclamò:
— Sai, Marcella? Sivori non parte più per ora.
— Come? — feci io nel tono di chi respinge un brutto scherzo.
— Si è sfogato. È stato feroce. Non saran più i pettegolezzi di Anna che lo faran partire così d'improvviso. Ad Anna nessuno bada più; neanche Roveni.
— Ma io non parto per questo!
— Perchè dunque? — fece Marcella senza malizia.
— Perchè lunedì debbo essere a Milano.
Ortensia ritardava il passo sì da lasciar avanzar un po' la sorella, e velata di subitanea tristezza, mormorò:
— Non credevo....; non credevo....
Le chiesi a voce alta:
— Che cosa non credevi?
Mormorava:
— Che lei mi tenesse ancora per una bambina....
— Ma no! via!
— Leggera, dunque; capricciosa; falsa, come Anna!
— Chi t'ha detto questo? Non è vero!
— Si vede, si vede!
— Ti prego, Ortensia....
Marcella, che si era fermata ad attenderci, rise.
— Vi bisticciate?
Proseguimmo in silenzio.
Io vincerei; ma a che prezzo! Nè tardai ad avvedermi che l'intima battaglia di Ortensia superava forse, per asperità, quella che io sosteneva in me. Ah il sogno della giovine innamorata s'abbatteva; s'infrangevano le ardite speranze contro la mia durezza? Ma il silenzio di lei mi significava che la giovinetta, che per un momento avevo creduto debole, già m'opponeva la fierezza di una passione pienamente consapevole, di una donna già consapevole e guardinga della sua dignità. Dalla bella persona, alta e snella, che mi camminava al fianco, ricevevo una impressione di severità e di nobiltà, che non poteva essere solo l'abito elegante e di colore insolito a conferirle.
Quant'era mutata in pochi giorni! Nè era quella mutazione un travisamento innaturale e transitorio, quale deriva talvolta da un gran dolore; era come un raccoglimento rapido eppur naturale e duraturo che una misteriosa energia aveva imposto a quell'animo irrequieto e della quale tutta la persona pareva improvvisamente dominata e investita. Non osavo guardarla negli occhi, nei begli occhi in cui poco prima avevo scorto uno stupore di gioia e di vita nuova e poi un tremulo desiderio d'abbandono: temevo ora di scorgervi lo sdegno e il rimprovero di un'imperdonabile offesa.
Per togliermi e togliere Ortensia da tanta pena cercavo invano d'apparir disinvolto, traendo argomento a discorrere da ciò che osservavo nella via.
Ricordo che dalla piazza avanti la chiesa un figuro giullaresco chiamava a suon di tromba gli ultimi curiosi attorno a una sonnambula.
— Facciamoci dir la sorte anche noi — propose Marcella. — Io acconsentivo; ma Ortensia: — No. Non voglio! non voglio profezie di sventure!
— Sciocchina, ci crederesti?
Non rispose alla sorella; tacita diede a me una di quelle occhiate che mi passavano sul cuore come su di una ferita un'acuta punta.
Più tardi, da una svolta venne verso di noi un uomo, che riconobbi da lungi, benchè a stento. Com'era deperito l'onesto Martino, il merciaiuolo ambulante, da poi che non l'avevo rivisto! Curvo, portava in ispalla un piccolo sacco e gli pendeva la bilancia dall'altro braccio.
— Come va, Martino?
— Ah! — fece egli in atto di chi è stato colpito da un'enorme disgrazia.
Marcella chiese:
— Vostra moglie?...
Ma egli si mostrò afflitto per ben altro che per la perdita della moglie! Allorchè potè parlare, brontolò:
— Mi è morto l'asino....
L'asino che io avevo invidiato era morto! Il ricordo mi fece sorridere. E Ortensia:
— Ecco il sorriso brutto...., che speravo non vedere mai più!
— Tu non sai il perchè sorrido. Sorrido perchè un giorno io mi confrontai all'asino di Martino; e c'è chi mi crede un grand'uomo!
A lei alludevo, che forse era stata indotta ad amarmi dall'opinione che i suoi avevan di me.
Proseguivo:
— Sorrido anche perchè, a mio scapito, un giorno io mi confrontai a Martino, che ora piange la morte dell'asino come non piangerebbe la morte di sua moglie. E c'è chi mi crede un uomo diverso dagli altri!
Con la mia stessa ironia Ortensia ripetè la frase udita più volte da me:
— Ogni infamia è possibile....: anche che lei non sia diverso dagli altri.
Tacqui, io, ora; e forse per il mio silenzio la sua speranza si ridestò in un tentativo estremo.
— Da tanto tempo — mormorò — io mi son detto che non c'è uomo eguale a lei. Perchè dovrei essermi ingannata?
Era pur dolce sentirla parlare senza ironia, senza amarezza, con pentimento, con fede! Tacevo.
Fissandomi quasi per accendere ne' miei occhi smarriti la fiamma che aveva nell'anima e per vincermi con una confessione ardita e violenta:
— Sì! sì! — ripetè senza dire di più.
Sì: non si era ingannata; voleva non essersi ingannata nel concetto di me; sì, mi amava. Ma io chinai il viso...; non volevo vedere ciò che di più sublime può attingere l'idealità e la passione umana: come nella bella e fiorente giovinezza di una tal creatura una misteriosa inspirazione aveva reso perfetto il sentimento della vita con l'improvviso palpito dell'amore.
Essa.... Ancora sperava?
— Mino — disse dopo un poco — m'ha chiamata, stamattina al suo letto per dirmi in un orecchio: «Se Sivori mi prende a Milano, ci vieni anche tu, Ortensia?»
Mi riferiva l'innocente domanda del fratello per intenerirmi; ma fu come non avessi udito.
— Da Milano, lei, va dopo a casa sua, a Molinella?
— No: all'estero. Laggiù andrò quest'altr'anno; d'estate.
— E non verrà a Valdigorgo?
— Non so se potrò venirci.
Non le restava più alcuna speranza! Tornò d'un tratto sarcastica.
— Ci ha qualche sorella, laggiù?
Ah! quanto male mi fece! Eppure non dissi: «Perchè mi fai tanto male?»; risposi:
— Non ci ho che due vecchi: il Biondo e sua moglie.
— Le vogliono bene?
— Poveri vecchi!
— Ah dunque c'è qualcuno al mondo che le vuol bene!
Così, con la mia stessa ironia....
E non parlò più. Nel caffè, dove sedemmo ad attender Guido, fingeva leggere i giornali. Ma quando Guido giunse, gli chiese impaziente:
— Il babbo tarderà molto?
Oh se tardò!; se fu grande la pena dell'attesa!
Infine rammento che Moser venendo a noi, con la carrozza, annunciò:
— Il primo premio all'assessore; il secondo a Roveni. — E rivolto a me e a Guido: — Voi due avete fatto bene a squagliarvi. Costui (accennava a Guido) tira ai piccioni come tu, Sivori, tiravi alle anitre. — Mentre parlava, Claudio guardò Ortensia, aggrottò le ciglia; quindi le chiese: — Cos'hai?
— Nulla, babbo; perchè?
— Mi pareva....
Marcella nel salire in carrozza mormorò in modo che io solo la udissi: — Cervellina!
XXII.
Quando entrai alla fabbrica, Roveni, su la porta della piccola casa che serviva a dimora ed ufficio del direttore, era intento a una faccenda strana, quantunque potesse parere uno spasso di dopo colazione: ripuliva un rewolver. Del resto, con l'usata franchezza di parole e di modi, egli impedì subito la mia meraviglia.
— Mi brucia d'esser stato battuto ieri, al tiro. Ho sbagliato l'ultimo piccione. A tiro a segno non sarebbe andata così.
Nè mi meravigliò il rancore che dimostrava così dicendo; indizio di tenacia anche nell'amor proprio.
Aggiunse:
— Voglio vedere se oggi ho il polso fermo.
Appena fuori della porta era una carretta da trasportar mattoni. A una parete di essa egli segnò un cerchio; si mise a distanza di una quindicina di passi; mirò per alcuni istanti, e sparò.
— Centro! — disse un operaio che accorse per primo.
— Bravo! — feci io. Roveni con un lieve movimento del capo significò: n'ero sicuro.
Non m'invitò a tirare, quasi dubitasse di umiliarmi; tranquillamente riprese a pulire il rewolver. Chi avrebbe dubitato che tutto ciò seguisse a un proposito e tendesse a un fine recondito?
Poi entrammo nell'ufficio; d'onde, dall'ampia finestra, si osservava l'andamento laborioso degli operai. Laggiù, coloro che informavano le crete agli stampi e la lunga fila delle carrette che recavano alla fornace il materiale pronto alla cottura: un'altra fila di carrette ne usciva con il materiale già cotto. Risonavano i mattoni nel venir scaricati e ammucchiati. Transitavano intanto, con fragore di ruote e tinnio di sonagli e voci di birocciai, le birocce di trasporto alla ferrovia.
La produzione era davvero grande. Come spacciare tanta roba?
— Ora Moser ha una buona idea — disse Roveni mentre, deposta l'arma, rovistava su lo scrittoio. — Pensa di costituire una società in cui entrerebbero altri appaltatori.... Purchè non v'entrino le piovre!
— Chi sono?
— Si capisce: amici; ai quali è costretto a ricorrere nei momenti d'angustia. Per il fondo di scorta non gli bastano certe volte i prestiti concessi dalle banche. E la piovra più insaziabile è il signor Learchi.
— Learchi!... — esclamai stupito. Che Learchi fosse stato un affarista un tempo, lo sapevo; ma lo credevo.... in riposo. E apprendevo ch'egli strozzava il padre della sua futura nuora, quando gli si sarebbe dato, tutt'al più, del burbero benefico!
— Com'è difficile conoscere gli uomini!
Ora che cerco di rappresentarmi Roveni quale mi si dimostrò in quel giorno, con ogni sua mossa e parola, ne ricordo la fuggevole occhiata alla riflessione con cui accompagnai l'esclamazione di meraviglia. E ricordo ora che non di rado egli aveva di tali occhiate, le quali sembravano sfuggirgli, per quanto fosse padrone di sè, come sospettasse d'esser lui in sospetto d'altri. Ma già Roveni aveva trovata la carta ricercata.
— Vede? — disse. — È la proposta di un impiego per me. Potrei uscire anche adesso, subito, dalla posizione apparentemente falsa in cui mi trovo....
Richiamandomi così direttamente a quanto egli mi aveva detto dopo il mio dibattito con Anna, l'ingegnere s'imponeva di nuovo, più leale di me, al mio giudizio e alla mia stima. Per il peso della simulazione che io avrei voluto gettarmi d'addosso, e non potevo, tentai interrompere il discorso.
— Le ripeto che lei non mi deve alcuna spiegazione.
— Anzi! — ribattè egli. — Io ho proprio il dovere di spiegarmi con lei. Lei è il più fidato amico della famiglia Moser ed è bene che veda chiaro nel mio modo di procedere. È strano che un giovane della mia età, non un bambino come Pieruccio Fulgosi, pensi sul serio a una ragazza e si contenti di guardarla senza dirle nulla. Sembra un mistero.
— Ma io so che Eugenia volle promessa da lei di tacere ad Ortensia, per adesso....
— Ah! sa? Benissimo! Ho avuto riguardo alla signora Eugenia, che è tanto apprensiva; e ho mantenuta la promessa, da uomo leale. Ma questa lettera, questa proposta d'impiego mi scuserebbe abbastanza se uscissi da ogni riserbo. Diavolo! Posso provare che un impiego non mi mancherà, e con tutto il rispetto alla signora Eugenia, potrei cominciare a corteggiare Ortensia, che non è più una bambina.... Invece, no: lei ha visto; lei vede come mi comporto. Perchè? Appunto perchè non mi piace di stare in una posizione falsa; perchè io debbo riguardi anche a Moser e non voglio si dica che, mentre mi dispongo ad abbandonarlo, gli innamoro la figliola senza avere la certezza assoluta di sposarla. La certezza assoluta! L'impiego che mi propongono non l'accetto: è vantaggioso; molto vantaggioso; ma non mi soddisfa del tutto. Eppoi: non voglio, non debbo abbandonare Moser finchè non si sia provvisto di un altro direttore, o non abbia costituita la società.
Costui era un uomo! Io?... Mi sentivo umiliato, avvilito; ebbi di nuovo una smania impetuosa di riscuotermi, di svelarmi, di non restare inferiore a lui.
— La sua condotta, ingegnere, non merita che lodi. Suo solo errore è d'aver preso per sè un rimprovero che non era nelle mie intenzioni; che lei forse potrebbe riferire a me stesso.
Egli mi fissò come non era solito e come chi dubita d'aver frainteso.
Quindi disse (e io non badai che le sue parole non s'accordavano del tutto all'espressione da me attribuita alla sua occhiata):
— Lei pensa che io abbia dato retta alle chiacchiere di Anna? — E scrollò le spalle.
— Quali chiacchiere? — domandai. — Che io sono innamorato di Ortensia?
— E che Ortensia è innamorata di lei.
Se io mi lasciavo andare alla confessione del mio amore, non compromettevo Ortensia, per allora e per l'avvenire? Perciò sorrisi in modo che quel sorriso valeva una menzogna; e dissi:
— Lei non crede ne l'una cosa nè l'altra? Perchè?
— Prima di tutto, perchè lo dice Anna. Povera diavola! Cercava persuadermi che lei sposerebbe Ortensia, naturalmente per trarmi nella rete. Non poteva capacitarsi, Anna, che Ortensia mi piacesse davvero!; sperava sostituirla! Ma ha visto ieri come dà la caccia, adesso, al dottor Minguzzi?
Intanto Roveni lasciava sospeso il discorso di prima. Ripresi io:
— E per quali altre ragioni le sembra inverosimile ciò che la Melvi dice di me e di Ortensia?
— È impossibile che un uomo come lei abbia voluto innamorarsi di Ortensia; un uomo di studio, di studi ben diversi dai miei; un uomo che forse non ha mai pensato ad accasarsi e che, se mai ci pensasse, non si perderebbe con una giovinetta...
— Oh bella! — esclamai dissimulando la ferita che mi diede quest'argomento. — Non è possibile che io abbia voluto innamorarmi? Non potrei essermi innamorato senza volere?
— No. Io non credo all'amore fatale dei romanzi. O meglio, credo che gli amori romanzeschi siano per la gente debole, malata, senza volontà. La volontà, per me, entra anche nell'amore.
— Uhm! — feci io lieto di dare al colloquio un avviamento di discussione psicologica. Ed egli:
— Anche nell'amore c'entra la volontà! Ma scusi: un uomo sano, normale, con la testa a posto, desidera una donna. Che deve fare per ottenerla? Deve misurare gli ostacoli che lo separano da lei. Sono superabili? Avanti! Non sono superabili? E allora non ci pensa più!
— Il guaio è che l'amore accieca, fa perder la testa.
— Accieca chi non ha occhi; fa impazzire chi non ha giudizio!
—.... O illude: attenua gli ostacoli che sembrarono superabili. In chi non li può superare l'amore diventa poi romanzesco, come dice lei.
— L'uomo sano deve prevedere questo pericolo!
Poi con la sicurezza di un giusto orgoglio Roveni troncò la teoria per addurre l'esempio di sè.
— Io spero di non illudermi; spero di superare gli ostacoli che si frappongono per adesso a fidanzarmi con Ortensia; voglio superarli. Non ci riuscirò? Non mi ammazzerò per questo, come si usa nei romanzi. Solo — aggiunse — si può vivere anche senza moglie!
Quell'uomo di volontà indomita, quell'uomo che con la energia della persona e della fisionomia pareva domandar a confronto la saldezza del granito o del bronzo, e che pareva condensare e raffreddare a un tempo tutta l'energia dell'animo e dei nervi nello sguardo degli occhi chiari, quasi bianchi, quando disse: — Si può vivere anche senza moglie! — tremò nella voce; le sue labbra ebbero un tremito! Ora io domando: chi a osservare così vivi contrasti avrebbe giudicato tal uomo all'opposto di quel che lo giudicavo io? Per me era un forte che amava fortemente; che aveva giurato a sè stesso: o Ortensia, o nessun'altra!
Con amarezza; con invidia non abbastanza respinta nel cuore, osservai:
— Lei però dimostra anche che quanto più son gravi gli ostacoli, tanto più aumenta l'amore, sia o no volontario....
Non si diè per vinto. Esclamò:
— Bene! Ecco perchè lei, dottor Sivori, non può essere innamorato di Ortensia! Che cosa le impedirebbe di sposarla, se la volesse?
— La differenza di età.
— Che! Moser per darla in moglie a lei aggiungerebbe dieci anni addosso a sua figlia!
— Ma io potrei non volerla per timore di renderla infelice; per la fiducia almeno che moglie di un altro sarebbe meno infelice.
L'ingegnere ruppe in una sghignazzata. Rideva di rado, ma quando rideva, rideva così: con violenza.
— Oh questa è grossa! Questa farebbe ridere anche in un romanzo! Amare una donna vuol dire desiderare di renderla felice; vuol dire sperare, aver certezza di renderla felice, come nessun altro: se no, che amore sarebbe? — E proseguì: — Ma lei scherza! Si vede. Non nego però che forse qualcuno le darebbe ragione, a costo di far ridere i polli. Piuttosto che confessare la propria debolezza c'è chi cerca di gabellare la debolezza per eroismo, e chiama egoisti gli altri. Io non li posso soffrire.... So bene che lei non è di questi! Lei scherza!
Nelle ultime parole Roveni insistè per escludere assolutamente il sospetto di un'allusione; mentre io sorridevo proprio a mo' di chi ha scherzato. Per non scherzar più, avrei dovuto dirgli: «Ebbene: Ortensia sarà mia!» Ma una voce mi diceva dentro: — «Il tuo sacrificio è ridicolo per lui, per la sua forza; ma tu devi compierlo per la felicità d'Ortensia!»
Tuttavia il discorso non era compiuto. Fiaccamente, quasi solo per proseguire nell'argomento scherzoso, chiesi anche:
— E perchè Ortensia non potrebbe essere innamorata di me?
— Innamorata? Come dice Anna? Eh!, conosco le donne! conosco le ragazze! Un capriccio....; un fuoco di paglia, potrebbe darsi; se lei stesse ancora qua, o tornasse presto: sarebbe un primo amore; e io mi ricordo di quello che disse lei del primo amore a proposito di Pieruccio. Una ragazza come Ortensia, a diciassette anni, non fa passioni.... Affezionarsi, sì. Questo è indiscutibile: a lei Ortensia è molto affezionata; ed è un bene. Io ne sono contentissimo!
Spalancai gli occhi. Egli proseguì tranquillamente:
— Da un po' di tempo s'è fatta più seria, la signorina! Aveva tanti capricci! Ma adesso diventa una donnina a modo. Brava! Perchè c'era da preoccuparsene. Non sono un poeta io; sono un meccanico!
Quasi per concludere, ma in realtà per togliermi ogni timore in proposito e ogni scrupolo, io mi sforzai a domandargli anche quando penserebbe di chiederle la mano d'Ortensia.
— Appena sarò sicuro del mio avvenire; gliel'ho già detto.
— Ma lei è sicuro del suo avvenire!
— Non ancora. Le ripeto che non amo i castelli in aria e che sono un uomo leale. Cerco un buon impiego; stabile. Quando l'avrò trovato, mi terrò sciolto dalla promessa che ho fatta alla signora Eugenia e parlerò liberamente a Ortensia. La mia partenza, a ogni modo, non sarà avanti la primavera di quest'altr'anno; così avrò tempo di spiegarmi anche con Moser. Va bene?
Gli strinsi la mano.
Forse un altro che ricordasse il proverbio «guardati da chi si dice uomo leale», un altro forse avrebbe sospettato un motivo recondito e oscuro alla condotta di Roveni; avrebbe potuto diffidare di lui appunto perchè egli aveva voluto dissipare ogni possibile equivoco.
Ma io! Io mi chiesi: «Se fossi davvero fratello di Ortensia potrei desiderare per mia sorella marito migliore?» La scienza mi suggeriva ch'egli era un uomo eletto per forza, equilibrio, sanità, saviezza, fede, predominio di sè e dominio della vita.
Che ero mai io al paragone di lui?... E Ortensia non saprebbe mai il mio sacrificio!
«Ah morire per te, sorellina!»
Essa non era rimasta ad attendermi; ma vedendomi tornare, mi aspettò presso il cancello. Non sorrise; non mi chiese di dove venivo. Disse:
— Porto l'elemosina a Giovannin. Quanti giorni ce ne siamo dimenticati!
Allora sorrise; con l'ineffabile tristezza di un bel sogno dileguato. Poi disse:
— Gli dia qualche soldo anche lei, per domani, che è festa.
Come Ortensia, senza dir nulla, pose il cartoccio su le ginocchia del cieco, questi trattenne il suono dell'organetto e alzando quel suo volto, che l'improvvisa gioia illuminava accrescendo l'orrore delle pupille spente, esclamò:
— Ortensia di Claudio!
— Mi vuoi ancora bene, Giovannin?
Egli rispose, goffamente solenne:
— Come a Dio!
— Prendi — dissi io, buttandogli alcune monete nel cappello.
— Voi chi siete? — domandò allora il cieco perplesso, serio; meravigliato egli stesso, pareva, che la voce non gli manifestasse di subito la persona. Finchè rise dalla enorme bocca, che mostrava i denti candidi, e con modo di stupida furbizie:
— Ah! Lo so chi siete!
— Chi sono?
— Lo so! lo so!
Era contento; godeva a indugiare nella risposta. Esclamò infine:
— Siete....: lo sposo di Ortensia!
Ella arrossì, mentre io ridevo più stupidamente del poveretto.
— Suona Giovannin....; — Ortensia disse con intenzione ironica, nell'avviarsi.
Quando fummo di nuovo al cancello (e il cieco straziava l'«addio, mia bella, addio!») essa mormorò:
— Giovannin è forse da invidiare!
Io avevo l'angoscia alla gola; avrei voluto ribattere: «Anch'io credetti invidiarlo un giorno! Ma tu in avvenire sarai felice!»
Chiesi invece, per celarmi:
— Dove vai?
— Su in casa, a cucire.
Nè la rividi in tutto il giorno. «Mette a prova la sua forza di volontà — io pensavo. — Se resiste alla tentazione di star meco le ultime ore, resisterà all'amore fino a guarirne, e forse in breve». Anche lei più forte di me!; ed essa ignorava quant'io soffrivo!
Sul tardi Eugenia, passando dalla sala terrena e scorgendomi solo, si meravigliò e ristette.
— Ortensia non è qui, con voi?
— No: m'ha detto che saliva a cucire.
La madre scosse il capo.
— Al solito — disse —: ieri si è divertita, e oggi è un brutto giorno. Vedete se ho ragione di lamentarmi? Non si fa forza nemmeno per non dispiacere a voi, gli ultimi momenti che siete qua.
Che dire? Pregai che la lasciasse queta; tentai scusarla con lo stesso argomento: il malumore, dopo le ore di svago, era segno di una rara, bella facoltà spirituale....
— Voi la scusate sempre! — disse l'ingenua madre.
Quindi volse il discorso alla mia visita alla fabbrica, della quale l'avevo informata la mattina.
Credei desiderasse sapere se Roveni m'aveva parlato di Ortensia. Ma ella mi prevenne:
— Roveni v'ha parlato di Moser? degli affari?
E vedendomi incerto, aggiunse:
— Io non so nulla, non debbo saper nulla. Claudio è fatto così.... Parla di tutto in casa, fuor che degli affari. Ma la notte è spesso desto....; sospira. Temo mi nasconda qualche cosa di brutto.
M'affrettai a dirle del disegno che Claudio aveva di comporre una società e che Roveni approvava; sebbene Claudio stentasse a ridurcisi. — Vorrebbe esser solo; far tutto da solo. Però sarà meglio limiti le sue fatiche....
— Certo che sarà meglio! Così non potrebbe continuare. Si consuma l'esistenza....
Tranquillata intorno a ciò, Eugenia mi domandò se Roveni mi aveva parlato di Ortensia.
Con acerba soddisfazione della mia coscienza, con l'acre voluttà di contrappormi all'ingegnere e di essere forte come egli non avrebbe immaginato mai, le risposi di sì: me ne aveva parlato; mi aveva manifestato chiaramente le sue intenzioni.
Egli l'amava tanto, Ortensia, che aveva giurato a sè stesso: — o Ortensia, o nessuna!
— Farà felice la vostra figliola; e sarà degno di lei.
Questo dissi!
— E di Ortensia, voi, che cosa pensate?
— Ha molta stima di Roveni; dalla stima verrà la simpatia, l'amore.
Questo dissi! Avevo vuotato il calice sino alla feccia! Ma Eugenia, la buona amica che per bontà mi leggeva nel cuore, questa volta non mi lesse nel cuore.
XXIII.
L'agonia cominciò la mattina dopo; la domenica. L'ultimo giorno! Perchè si ostinava Ortensia a starmi lontana anche in quelle ultime ore? Per nascondermi il suo dolore, l'amore, lo sdegno? Per dimostrarmi la sua fierezza? Avrei dato metà del mio sangue per rivedermela lieta dinanzi ancora una volta, come quando accorreva ad augurarmi il buon giorno, e il sorriso in cui m'appariva tutta la sua persona placava la cura che mi rodeva. Non più quel sorriso! Mai più! Patire, frattanto, il castigo quasi d'un delitto; dubitare che fosse insania non l'amore ma l'azione generosa che mi era imposta da un destino crudele.... Ortensia! Ortensia! Era una crudeltà.... Non poter chiamarla a voce alta per quelle ultime ore; non poter invocarla a sostenere con la sua presenza quell'agonia....
Dalla terrazza udii affrettare passi alla mia volta. A distrarre la mia pena veniva invece il cavalier Fulgosi con un fascio di giornali, che sollevava e agitava come un trofeo.
— Dottore! Hurrà!
La Campana e Il Corriere della Valle, allora giunti, riferivano che alla festa del 20 settembre in Valdigorgo era stato presente anche un illustre scienziato; perciò il cavaliere veniva a portarmeli così per tempo, e a portarne copie alle signorine. Ma perchè io partivo l'indomani? Avrei potuto, dovuto attendere a partir con lui e con la sua signora appena Pieruccio sarebbe ritornato da Varezze, ove era guarito....
(Pieruccio era guarito!...)
— Si guarisce presto dell'amore a diciassette anni! E le medicine della giovinezza sono dolci. Ma alla mia età — sospirò Fulgosi traendo di tasca lo specchietto — è amaro non poter ammalarsi così! A me non resta che trovar dolci le amarezze della politica. Eppoi...: tout passe, tout casse, tout lasse!
Per non apparir gioioso, qual era, della réclame che s'era fatta egli stesso nei giornali, si mutava a quell'aria di melanconia.
Sospirò e disse:
— Lei, dottore, almeno ha la scienza....
— Almeno?
Vedendosi in pericolo, aggiunse subito:
—.... se sdegna l'amore.
— E chi le ha detto che io lo sdegni?
— Nessuno.... Immagino....; suppongo....; forse.... Ah! è qua l'amabile Ortensia. «Venite a noi parlar, s'altri nol niega!»
Ortensia, che sopravvenendo salvava il cavaliere dalla china perigliosa, non si curò di lui e si rivolse a me concitata, quasi per ira mal rattenuta:
— A messa in paese io non ci vado! Vado all'Oratorio. M'accompagna lei, Sivori?
Io non avevo ancor risposto che Fulgosi s'inchinò come a una regina, e disse:
— Anch'io, se crede.... — Ma ella l'interruppe, evidentemente decisa a non volerlo.
— Domenica prossima m'accompagnerà lei, cavaliere.
— Volentierissimo! Parigi val bene una messa!
— Farà lei questo sacrificio.... — E Ortensia mi guardava.
— Un sacrificio — il cavaliere oppose — che il corrispondente della Campana invidierebbe. Legga, signorina, che cosa si dice qui.... — E le porse uno dei giornali.
Da prima sommessamente, poi forte, Ortensia lesse; ma nel suo volto pallido la lettura sostituiva tosto alla noia un'impronta di sarcasmo. Mi parve di vedere un'anima intristita. E quando dalle lodi del cavaliere «oratore splendido», degno di essere assunto non pure «alla più alta carica municipale, ma a quella di rappresentante dell'intera nazione», il corrispondente passò a descriver la festa, a nominar le persone cospicue del pubblico e a vantar le «ideali parvenze» delle signorine Moser, allora Ortensia proruppe: il cavaliere rimase innondato da un'onda di torbida ilarità.
— Ma bravo! Bravo, signor cavaliere! E lei crede che nessuno se n'accorga? Ah Ah! Ma la corrispondenza l'ha fatta lei! Tutti lo capiranno; e se qualcuno non lo capirà, lo dirò io! io! a tutti!
Fulgosi affogava. Si mise a scongiurare:
— No, signorina, non lo creda; non è vero; non lo dica!... Anche se lo crede, per carità non lo dica!... Noblesse oblige.... Lei così gentile perchè vuol rovinarmi?
— A tutti! Tutti debbono saperlo! Mamma, Marcella, venite a leggere che coraggio ha avuto il cavalier Fulgosi!
Fortunatamente Eugenia e Marcella, le quali venivano già pronte per andare in paese, interpretarono quello sfogo come uno scherzo; e io stesso m'intromisi a mutar la cosa in gioco.
Salvo, il cavaliere s'accontentò dei ringraziamenti che gli fece Marcella; poi s'accomiatò più frettoloso di quando era venuto.
— Dunque — disse Eugenia — tu, Ortensia, che fai?
— Vado all'Oratorio.
— Un capriccio!
— Con Sivori, ci vado!
— Meno male! — disse Marcella. — Un capriccio questa volta che ha una buona intenzione!
— Io vado con la mamma — interloquì Mino, che certo aveva qualche affare in paese. — Piuttosto, di', Sivori (e mi susurrò all'orecchio): — Mi prendi a Milano?
Risposi sogguardando a Ortensia, quasi per mitigare con la mia dolcezza l'asprezza di lei.
— Volentieri, caro amico! Ma la difficoltà più grande è il permesso del babbo. Bisognerà trovare una buona ragione o una grossa bugia.
Il fanciullo meditò a lungo, finchè quasi sapesse che a me non era più difficile quel che ancora era difficile a lui:
— Dilla tu, Sivori, la bugia!
Intanto Ortensia raccomandava alla sorella; e alla madre: — Spicciatevi: se no, perderete la messa! — E a me: — Andiamo?
Appena ci fummo incamminati io vidi che dalla concitazione, dall'eccitazione di pocanzi il suo animo era caduto in una depressione angosciosa. Che battaglia aveva sostenuta, in sè stessa, per esser meco l'ultima volta! Certo non affidava più alcuna speranza a quella gita, ma voleva forse che io comprendessi il male che le avevo fatto, o comprendessi quant'era grande l'amore che io avevo ostinatamente respinto. Il dì innanzi aveva resistito in un proposito di fierezza: poi la passione doveva averla persuasa ch'era per lei maggior forza confessarmi tutto. Se non che ora, a ritrovarsi sola meco, non poteva nemmeno celare il panico che le incuteva il suo fermo proposito. Procedeva a capo chino, senza trovar parola. Tornava la giovinetta inesperta, intimidita dalla stessa passione che le aveva data tanta forza. E io dopo la scena di pocanzi mi sentivo più colpevole: avevo io forse intristita quell'anima?
Finalmente disse:
— Sono stata cattiva con Fulgosi! Ora me ne dispiace....
A udir la sua voce così diversa, a vederla così rabbonita, ebbi un infrenabile moto di consolazione entro di me; le sorrisi.... L'amore ci voleva buoni entrambi, nell'ultima ora che stavamo insieme! Il sole, il cielo ci volevan buoni se non potevamo essere, per quell'ora, felici!
— Che giornata! — io dissi guardando intorno allo svoltar della viottola. Solo in un punto vapori candidi quasi impercettibili velavano il cielo: sul resto, nel chiaro azzurro, andava diffuso il sole ormai autunnale, e per i dorsi bruni dei monti e per gli spazi verdeggianti, e i molli declivi e i campi tracciati di solchi e carraie, effondeva una dolcezza che non ha la primavera. Sui tetti d'ardesia, nel paese, la luce si rifletteva come ad accenderli; prorompeva entro le finestre; vibrava intorno il campanile dalla croce scintillante in alto. Con più frequenza che in primavera giungevan pigolii dai campi, e richiami nitidi di luì e gazzarre festose di passeri. Bianche farfalle sorpassavano la siepe; vagolavano a due a due: lievi anime in rincorse d'amore. La costa boschiva dell'antico convento era immersa in un fulgore immoto, in uno splendore coerente e meraviglioso.... Io mi ricordai d'un tramonto....
Ortensia guardava anch'essa; e ripetè: — Che giornata!
Indugiava quasi ad assaporare quella dolcezza; scosse il capo come quella dolcezza le si mutasse dentro, nell'animo, in una mestizia profonda. Quindi, per dire qualche cosa, disse:
— Don Pietro si spiccia in venti minuti. Ma il priore, in parrocchia, non la finisce mai.
Aggiunse: — Del resto, per pregar bene non basta un minuto?
— Anche meno, per chi può pregare. Tu non puoi; me lo confessasti.
Senza titubanza, ma con un breve rossore, ribattè:
— È vero. Quand'ero così allegra, dopo la guarigione della mamma, non ne sentivo il bisogno, di pregare, neppure per un secondo.... — La voce le cadde interrotta perchè interruppe l'espressione del pensiero, che doveva compiersi nella esclamazione: «ma ora!...» Riprese: — Lei però non prega nemmeno quando è triste. Non crede a nulla!
A niente: nemmeno a lei, che mi amava! Invano ella mi aveva voluto tanto bene; invano mi amava così; e io, che non raccoglievo dalle sue parole il rimprovero e le lagrime, io ero perverso; ero spietato, io, che non osavo guardarla negli occhi e sorprendervi quanto amore vi tremava per me!
Esclamai:
— T'inganni! Oggi credo fino a me stesso! Mi sento buono oggi.... E tu? — Mi sembrava di correre su l'orlo di un precipizio con il senso della vertigine. — E tu credi a ciò che senti?
— Certo!
Tacque a lungo, dopo. Voleva pur dire; e non osava; finchè i nostri occhi s'incontrarono.
Disse:
— Ho sempre pensato.... una cosa strana!: che ci rassomigliamo, noi due.... Ma io non so esprimermi! Ecco — proseguiva rianimandosi — se non ci rassomigliassimo, io non avrei tanta fiducia in lei. Invece, credo che con lei non avrei paura di nulla, che potrei seguirla, a occhi chiusi, nei più grandi pericoli....
Fin nelle parole c'era una voluttà d'abbandono! Perchè, strappato ogni ritegno, dimesso ogni infingimento, io non la riceveva ed essa non s'abbandonava nelle mie braccia? Fui per scongiurarla: «Abbi pietà di me, di noi! lasciami fuggire! Non dir più una parola!»
Sorrise.
— Ma quante volte ho creduto che lei mi credesse sciocca! Per fortuna, mi consolavo a indovinare....
— A indovinare che cosa?
—.... i suoi pensieri....; che so?...; le cause del suo malumore. Lei invece.... non ha mai indovinato nulla di me!
— Questo ho indovinato: che hai l'anima di tua madre e il cuore di tuo padre.
Il suo sguardo s'accese di una gioia istantanea....
Intanto chiamava la campanella dell'Oratorio, e affrettammo.
Poi rallentammo i passi senza che ce ne accorgessimo. Quando avrei voluto chiederle: — a che pensi? — mi chiese essa:
— A che pensa? — provocandomi, per disperazione, a finir quell'angoscia.
— A nulla!
— Non si può non pensare a nulla. La notte, al buio, cerco il sonno e non lo trovo, se mi viene in mente qualche cosa....; e provo a non pensarci. Ma che! Non ci si riesce!
— Tu hai diciassette anni — ribattei amaramente: — io venti di più. Alla mia età si può anche non pensare a nulla!
Ma pensavo, ancora, al male che avevo fatto!
Che possanza ogni mia parola, ogni mio atto, a poco a poco, di giorno in giorno, aveva avuta su quell'intelligenza e in quel cuore!
— Non hai fiori oggi — dissi chinandomi a raccogliere un fiore di colchico.
— Mi dia quello!
— No. È velenoso.
— Che importa? Me lo dia, Carlo!
E mentre lo fermava al petto:
— Non voglio più dirle: Sivori. Carlo: che bel nome!
Dal tono della voce m'accorsi che nel suo segreto più volte ella doveva aver ripetuto forte, così, il mio nome.
— Andiamo: arriveremo a messa finita!
Quando arrivammo il campanello indicava il Sanctus; le donne s'inginocchiavano.
Ortensia s'avvicinò a loro, là, dove ci eravamo rifugiati il dì della bufera. Ed io, poggiato al pilastro, liberamente, adesso, avvolgevo Ortensia del mio sguardo.
.... Dove andrei? in qual parte scamperei ai mio soffrire? M'accogliesse, anzi che monti aprichi e boschivi, una landa; m'arrestassero lo sguardo i muri d'una città anzi che estendermelo un orizzonte sterminato: che importava? Per tutto ella mi seguirebbe a farmi soffrire! Dolente immagine, mi seguirebbe? o ridente? Salva del mio amore? felice un giorno nell'amore di Roveni? Ah se tutto non era vanità come l'ombra che ci proteggeva; se tutto non era illusione come la fede che le pareva sentire adesso, perchè il suo Dio non le toccava il cuore e non le diceva: «Sii di me solo?»
Non impazzivo! All'Elevazione abbassai gli occhi, per non vederla, e cercai invano nel mio cuore una preghiera infantile.
Ma se non potevo pregare, neanche potevo più maledire! Impossibile in quel trepido silenzio invocare, come un tempo, un disordine enorme che lanciasse il mondo delle passioni umane nelle tenebre e nella morte! Impossibile sognare mai più che una potenza suprema, mostruosa e gaia, si rivelasse a por termine alla sua commedia, ordinando: «Basta! Basta con l'amore!; col dolore!» Per i buoni, per gl'ingenui, per i forti, — se non per me — una fede, un Dio, c'era! E gettando lo sguardo all'aperto: «Sì, tutto nell'autunno deperirebbe e ingiallirebbe, e marcirebbe nell'inverno; ma in quel cielo cristallino e fervido, in quella letizia luminosa e festiva, risplendeva, certa, una promessa di vita.
Dal mio stesso dolore, nel sacrificio, non rampollerebbe un bene?... Senza più ira, senza più gelosia mi provai a riguardarla....
E quando, finita la messa, la vidi venirmi incontro con quel sorriso di dolore non più respinto, ma palese e quasi solenne, io era deliberato al pari di lei. Lasciammo sfollare; indugiammo per il sentiero risalutando chi oltrepassava e ci salutava.
Tra gli ultimi fu una coppia amorosa. La giovane arrossì; il giovane ci fe' un saluto confidenziale.
— Lo ravviso....
— È un operaio della fabbrica. — Ma sì dicendo Ortensia ristette. Non più vane parole!
— Domani, dunque.... È deciso?
Irremovibile nel pensiero, con il pensiero di fatalità che la parola comprendeva, risposi:
— È necessario!
Anche qualche passo procedemmo; Ortensia, a capo chino, oppressa.
Ma s'arrestò di nuovo raccogliendo tutta l'energia della sua volontà per guardarmi, parlarmi, dirmi con tutta la pietà, con tutto lo strazio del suo cuore nella voce:
— Carlo! Che cosa le ho fatto, io?
La guardai. Tacqui un istante.
— Senti! Senti che cosa mi hai fatto! — esclamai in uno sfogo di gratitudine e di passione. — Senti! Io ero un miserabile perchè non credevo più in me; desideravo la morte, la distruzione, il nulla; io era cattivo perchè invocavo a dividere un soffrire ignobile, per un egoismo feroce, un'anima buona, e cercavo una sorella. Ma la sorella vedeva sereno il cielo, ridente la terra, lieta come lei ogni cosa. Era tanto giovane! Sua madre era guarita, ed essa coglieva dei fiori, e cantava. E la giovinezza e la vita poterono più che l'apatia e la morte: io fui vinto: essa mi fece rivivere: mi ridiede la coscienza della vita.... Ecco che cosa mi hai fatto!
Oh quello sguardo, allora!
Continuavo:
— Ma io che farò per te?... Non è lontano il giorno che io scorgo, che io invoco per te, per i tuoi.... per lui, lui, che ti ama e ti vuol sua.... Io sento fin da oggi quel che t'augurerà quel giorno tuo padre. E tu sarai felice, perchè noi ti vogliamo felice! Tu dovresti essere felice, pienamente felice, per sempre! Ma se a Dio non bastassero le preghiere di tua madre; se contro il destino non bastasse il nostro volere; se mai in un lontano tempo la sventura passasse sul tuo capo....
— Carlo! Carlo!
S'abbandonò, rompendo in singhiozzi, disperata, al mio petto.
Io la risollevai un poco perchè, piangendo, vedesse nei miei occhi l'anima mia....
E la baciai nella fronte.
XXIV.
Tànn!... Uno.... Tànn!... Due.... Sei tocchi così. Fosse la campana di bronzo buono, o l'aria pura fosse più capace che altrove d'estendere, limpide e vibranti, le onde dei suoni, l'orologio di Valdigorgo cantava le ore. Rispondeva a colpi piccoli, nitidi, frettolosi, da lungi, quello di Paviglio.... Mezzanotte.
Io davo volta nel letto. A che pensare per non pensare a lei?
A quel che m'aveva detto Moser. Dopo desinare l'avevo affrontato nello studio mentre egli, allo scrittoio, faceva conti.
— Claudio: parto domattina con la prima corsa. Debbo essere a Milano nel pomeriggio; e ci sarò!
— A Milano? Benissimo! Sabato ci debbo essere anch'io. Puoi attendere. Ci andremo e torneremo insieme. — E si era rimesso a scrivere e a borbottar cifre.
Sapendo che irritarmi gl'impedirebbe d'irritarsi, avevo ribattuto in tono decisivo:
— Ti ripeto che io debbo trovarmi là domani!
— Tredicimila e quattrocento lire.... Dicevi? Domani? Bene! Se è vero, va! Sabato però ci vedremo; torneremo insieme.
— Ti ripeto che mi converrà forse prendere la via del Gottardo....
— Mattoni seimila!... I preventivi di Moser fallan di poco, caro amico! Gira e rigira, la spesa non sarà inferiore alle ventottomila lire.... Eh! Eh! proprio così!... Dunque? Ma che Gottardo! ma che Gottardo! Ti dovrebbe venire la malinconia di viaggiare, adesso! Non sai che tutto il mondo è paese ma che il più bel paese del mondo è Valdigorgo?; salvo il rispetto, s'intende, a Molinella, dove pure abbiamo riso molto...., col Biondo.... Ah! Mi dimenticavo le finestre; il ristauro alle finestre!...
Una pausa. Poi:
— Ho voglia di rivedere il Biondo e la Rita.... Bei tempi quelli! E tirare alle folaghe?... ora che sono presidente del Club! Perchè no? Se mi riesce.... Sai che ho in mente di prendermi due soci nella fabbrica?
— È una bella idea, perchè tu lavori troppo; abbracci troppo....
— Se mi riesce, dopo, faccio una scappata a Molinella a trovarti.... Ma.... Tutto sommato: Ventottomila e settecento lire.... Meno è impossibile!... Ma a te di fermarti a Molinella, per un pezzo, non ti consiglierei. Voialtri Spinoza avete il nemico dentro di voi; avete bisogno di distrazioni più che del pane per vivere.... Oh! mi credi proprio un imbecille?
Nel dir questo aveva gettata via la penna e m'aveva piantati gli occhi in faccia.
— Perchè?
— Credi che non me ne sia accorto, io, che te ne vai press'a poco com'eri quando venisti da noi? Non è vero che abbi necessità d'andartene! La verità è che dappertutto stai male! che neanche l'amicizia ti basta! che neanche Valdigorgo ti basta! Ma sei ancora in tempo per far l'ultima prova. Spicciati! Ammogliati!
— Se tu sei un galantuomo, e se io sono infelice, dovresti dirmi che sarebbe un delitto trascinassi una donna nella mia infelicità.
— Ma perdio! — egli gridò esasperato —: perchè sei tanto infelice?! perchè?
Gli avevo risposto quello che una volta sarebbe stata la verità piena e che purtroppo adesso non ne era che parte:
— Perchè non ho nessuna fede.
E a reprimere il suo sorriso più di pietà che di scherno, avevo soggiunto:
— Io non sono come voialtri che sapete prenderla pel suo verso la vita! Voi sapete perchè siete al mondo, perchè lavorate, perchè soffrite, perchè amate, perchè godete.... Voi leggete nel vostro destino; nel mio, io non so leggere. Lasciami andare al mio destino: quello che è e quello che sarà.
— Il tuo destino è qui! — Claudio si era alzato in piedi; rosso di collera; si era battuta con la mano la fronte. — Qui! Nella testa! Altro che filosofia! Sai cosa ho da dirti? Che è peccato mortale volerti bene! Non lo meriti! Ti vogliam bene tutti; Eugenia, le ragazze, Mino; e per compenso, tu: «Lasciatemi andare al mio destino!» al Gottardo!
Dopo il quale sfogo la scena si era conchiusa con un fraterno abbraccio e con la mia promessa di tornar presto....
.... Di nuovo mi voltai per il letto; pensai ai saluti degli amici dopo la conversazione: Roveni serio, sempre uguale a se stesso, m'aveva stretto forte la mano; il cavaliere si era industriato a commuoversi, con di più la preghiera d'inviargli le mie opere, cui farebbe degna meritata réclame; la sua signora m'aveva augurato buon viaggio con smorfie gentili e disinvoltura aristocratica; Guido, al quale avevo imposto di passare, scrivendomi, dal lei al tu, m'aveva detto addio grato e ridente nella faccia tonda, quantunque gli spiacesse la mia partenza, che gli diminuiva sempre più la libertà di amoreggiare e gli toglieva un protettore....
Le Melvi, per fortuna, non eran venute....
Transitava intanto, nella notte fonda, un tinnio di sonagli col rumor basso delle ruote....
Ed Eugenia mi aveva detto: — A Molinella ci avete i ricordi; ma la vostra casa, è qui. Nessuno vi vuol bene come noi.
E Marcella:
— Domani avremo tutti la luna!
.... Io cercavo con gli occhi chiusi il sonno e non trovavo che le tenebre; e se li riaprivo, scorgevo dalla finestra aperta la serena oscurità celeste. In attesa, così, del giorno.
Finalmente: Tànn!... Un'ora.
.... Quanti giorni ero rimasto lassù?...
Dodici giorni dopo il mio arrivo avevamo portato Eugenia in giardino....
Curioso però il pensiero di Eugenia, a indagare il mio male nei primi giorni della mia dimora lassù! Con che sorriso io avevo risposto al dubbio di lei, che soffrissi per una passione d'amore!
Già: Amore e morte....
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha; non han le stelle!
.... Un tempo io avevo studiato il terrore della morte in animaletti: in un sorcio; in una cavia. Ferii un giorno una passera, che precipitò senza un grido dall'albero, e quando fui per raccoglierla, sollevò le palpebre invocando pietà e aperse il becco come per l'ultima inspirazione di vita. Mi pareva vederla....
Meglio saltar dal letto; vestirmi; spalancar le vetrate e mettermi alla finestra, al fresco. O no; meglio rivoltarsi e guardare con gli occhi chiusi alle tenebre vorticose; meglio il buio che le stelle! Aspettare. Suonerebbe pure quel maledetto orologio, che non aveva battuta dei quarti d'ora; e i quarti dell'orologio di Paviglio erano così deboli che non mi giungevano.
Proprio una maledizione! Quando stavo per assopirmi transitò un'altra biroccia.... Finchè, volta di qua e torna dall'altro lato....: tànn!
Ah finalmente suonarono quelle maledette due ore!...
Ma che mi veniva in mente adesso? quanta demenza travolgeva la mia povera testa? Che fatica persistere al desiderio d'alzarmi; d'uscire piano piano; e andar sotto quella finestra! Forse era socchiusa. Temeva addormentarsi....; voleva essere alzata alla mia partenza.... Come Pieruccio! Scendere e mettermi sotto la finestra di lei.... Ma Pieruccio era guarito dalla sua passione!
Io partivo com'egli era partito. Non guarirei? Avrei almeno il conforto d'aver compiuta una buona azione.... E dopo? Non vederla mai più, se Roveni basterebbe alla felicità di lei! Quetare il dolore in una vita nuova, se quest'affetto aveva rinnovato in me una sorgente di vita; vivere.... Oh meglio non pensarci!... Vivere con un vano ricordo d'amore era la mia sorte....
Ah Roveni, lui sì che vivrebbe felice! Vile io ero stato! Vile! Avrei dovuto dirgli: — Io, io stesso, che l'amo, vi voglio felice! — Immaginavo un conflitto tra me e lui, quale sarebbe potuto avvenire. — Voi non sapete come io l'amo! Io che ho più anni, più esperienza, più pensiero, più anima di voi!...
Rispondeva Roveni: — Io sono giovane; e voi, ormai vecchio! Io ho pensato sempre alla vita; e voi ancora pensate alla morte! Io sono forte; e voi? La vittoria è dei forti!
Al sorriso che immaginavo seguire a tali parole mi raccoglievo in me con stento angoscioso....
Eppure dovetti cadere un poco nell'incoscienza del sonno, perchè presto, mi parve, suonarono le tre. Ma una eternità ci volle prima che un gallo cantasse.
Quando cantò balzai dal letto, da quel letto, per sempre!
Era uno stellato splendido. Da quanto tempo non avevo guardato alle stelle! Nel loro palpitante mistero vidi una luce che non avevo visto mai: una luce d'amore; sol ragione della vita alla nostra meschina conoscenza.
Finalmente, alle cinque, Claudio batteva all'uscio.
— Svegliati, che è tardi!
— Pronto!
— Faccio attaccare....
Non uscii che quando ebbi udito il rumore della carrozza.
— Se perdi la corsa, casca il mondo! — brontolò Claudio. — Non mi sono fidato di nessuno; neanche della sveglia! Andiamo?
— Aspetta.... — diss'io. — Indosso il paletot.... I guanti? Sono qui.... Aspetta! Ho lasciato l'ombrello.
— Andate a prendergli l'ombrello! Presto!
— Il caffè, signor dottore? — pregava la vecchia cameriera reggendo il vassoio con le due mani.
— No, grazie....; scotta.
— Bevi....; c'è tempo!
Eccola....: Ortensia.
— Perchè alzarti? — La mia mano tremava reggendo la tazza.
— Quando la rivedremo? — ella disse; perchè il padre la guardava.
Ecco anche Marcella.
— Ohe! signorine complimentose! Vostro padre, non si saluta?
E a me Claudio ripeteva burbero: — Andiamo?
Marcella disse: — Buon viaggio, Sivori; non si dimentichi di noi. Ci scriva! Ci scriva spesso!
— Addio.... — La sua mano era fredda.
Quando già salivamo in carrozza giunse anche Mino; senza bugie, ma, caso mai non tornassimo tosto, con la tromba in una mano e il tamburello nell'altra.
— Vengo con te, Sivori!
— Via! — gridò il padre, frustando Sansone.
— Addio!
— Buon viaggio! Buon viaggio! — ripetevano Marcella e i servi.
Ortensia non disse nulla; mi guardò; sorrise appena; trasse d'impeto nelle sue braccia Mino, che urlava piangendo:
— Voglio andare a Milano, con Sivori!
Come la carrozza svoltava dal cancello, scorsi quello sguardo lungo; che mi seguiva. Essa pareva tendere a me col fanciulletto, che sosteneva da un lato per vedermi....
Quello sguardo lungo, privo di lagrime, mi seguiva innocente e doloroso quale lo sguardo d'una vittima.
PARTE SECONDA.
I.
Mi ero proposto di rimanere a lungo a Berlino, perchè ivi spendevo assai ed ero costretto a lavorar molto.
La moda mi aiutava a scrivere articoli o relazioni di pseudo-scienza per giornali e periodici non solo d'Italia; e per lo più volgevo in apparenze di sociologia facili osservazioni intorno la vita privata e pubblica della Germania. Allorchè qualche rivista, di quelle più gravi, mi impose argomenti più seriamente scientifici, fui obbligato a studiare «sul serio»....; e di tutto ciò, in fondo, ridevo amaramente. Però al disprezzo dell'opera seguiva in me un conforto anche maggiore di quel che dà il lavoro per sè solo; il conforto di una nuova energia che mi sosteneva quando mi sentivo più stanco. Era la coscienza di me stesso ricuperata; era un impulso di emulazione per cui, al solito, mi confrontavo a Roveni quasi a un ideal tipo di uomo temperato a una vita sana e potente. Roveni mi aveva creduto debole. Ebbene, ora io faticavo duramente per vivere e vivevo per vincere la mia passione.
Ma vincerei? Tutto ciò che non era ricordo di Valdigorgo mi pareva fittizio, erroneo, falso; e rincasando ogni sera, nel silenzio dopo il tumulto, provavo l'impressione di un artista comico che si spogli degli abiti scenici per tornare alla vita vera; e con un abbandono, quasi violento, ai ricordi tornavo lassù.
Soffrivo in modo che m'era necessaria una speranza. Speravo appunto che quella mia condanna volontaria, quel mio esilio volontario, quel mio faticar volontario un dì o l'altro finirebbe; uscirei da quello stadio di prova; supererei la prova. Dopo, raccolte e ricomposte tutte le mie forze, ritemprato e tranquillato, io potrei rivederla, Ortensia; potrei risentirne la voce.... Oh se l'amavo ancora!
Più spesso che nei sogni, nella prima apprensione del sonno l'immagine di lei tornava a me, non dolente ma sorridente; così viva che sobbalzavo.... — Ortensia! Ortensia! — Avrei voluto chiamarla, la chiamavo a voce alta, come lassù....; ma io non udivo dentro di me la sua voce; non riuscivo a ricuperare nella memoria il timbro, il suono preciso della sua voce; ed era uno spasimo.
Una volta, a una festa dell'ambasciata italiana, stavo chiacchierando con un giornalista, quando egli, d'improvviso, mi vide impallidire e mi chiese:
— Che avete?
Avevo intravvista, agile e bionda, passare nella ressa, tra le signore, una giovinetta.... Le rassomigliava.
Volli esserle presentato.
Ma parlando perdetti il senso della somiglianza che avevo percepita; invano, invano cercai nella sua voce un accento solo della voce d'Ortensia, e mi allontanai desolato, pentito quasi di una colpa. E talora la dolce immagine m'appariva per i luoghi più tumultuosi, impensatamente; spariva tra la folla; mi lasciava doloroso come se mi fosse crudelmente strappata una parte di me dopo un istantaneo gaudio di tutto il mio essere.
Nè avevo un ritratto di Ortensia!
A me non era lecito possederne nemmeno il ritratto, mentre Roveni poteva vederla, udirne la voce ogni giorno. La lontananza e il tempo assopirebbero in cuore ad Ortensia il ricordo di me; la ragione alleandosi alla giovinezza, che in lei domanderebbe amore vivo e fervido, la persuaderebbe che io stesso l'esortavo a consentire a Roveni. A poco a poco ella avrebbe nel cuore l'accensione della nuova e più vigorosa fiamma, non più contenuta....
Io l'avevo baciata sulla fronte: Roveni le carpirebbe sulle labbra il primo bacio, le prime ebbrezze....
A questo pensavo! Con che tormento, con che strazio! Era debolezza, questa? Ancora m'infliggevo lo strazio degli ultimi giorni di Valdigorgo preparandomi al giorno in cui apprenderei che Roveni aveva il diritto di possederla.... Volevo, dovevo dominare in me, così, la gelosia: Roveni possederebbe Ortensia interamente! E correvo al di là di quel mio soffrire, al di là di quel giorno forse non lontano per la felicità di Ortensia, cercando d'immaginare me stesso rassegnato, pacato nell'animo. Rivedrei Ortensia moglie e madre; potrei un giorno, senza rancore e pago della felicità di lei, accogliere tra le mie braccia i suoi figliuoli....
Era debolezza, questa?
In data 2 dicembre 1890, da Pavia, ov'era all'Università, Guido mi scrisse:
Caro dottore,
Un po' in ritardo ti do la notizia del mio patatrac! e della mia successiva felicità. Cominciando dal patatrac, esso avvenne un mese fa, per colpa di quel vecchio imbecille di Sansone, il cavallo di Moser, nonchè di Gigi il servitore.
Come sai, Gigi aveva molti obblighi verso di me, che gli prestavo lo schioppo e gli regalavo le cartucce per tirare ai beccafichi; e in compenso lui trasmetteva degl'innocenti bigliettini a Marcella.
Ma Gigi un brutto giorno lasciò inginocchiare Sansone. Se per causa del suo servitore, Moser si fosse rotta lui una gamba, non c'è dubbio che avrebbe perdonato subito. Invece, a vedere spelate le ginocchia dell'amato Sansone si arrabbiò, come sai che si arrabbia delle volte; e Gigi, per difendersi cominciò a dire insolenze, non al padrone, che le avrebbe perdonate, forse, ma al cavallo; e fu bell'e fatta! Gigi fu licenziato, e venne a sostituirlo un cretino, che al primo biglietto da consegnare a Marcella, si fece cogliere dalla signora Eugenia. Per fortuna, nel biglietto io (che avevo fatta una scappata a casa dopo gli esami) dicevo solo che presto dovrei tornare a Pavia all'università e che bisognava far buon uso del tempo; e pregavo Marcella di venirmi incontro per la strada. Apriti Cielo! Un biglietto! Un appuntamento! Come se fosse una gran cosa, una novità! La signora Eugenia cominciò ad aprir gli occhi a Moser e lui...: apriti, o terra!, spalancati, inferno!
Tu, Sivori, penserai che Moser si sia inquietato tanto perchè crede Marcella ancora una bambina o perchè io non sono ancora laureato. Niente affatto! Si è inquietato perchè è in rapporti d'affari con mio padre! Non è un bell'originale? Un altro direbbe: Essendo noi genitori in rapporti d'affari, tanto meglio se i nostri figli si vogliono bene! Si fa tutta una famiglia, e buona notte! Moser invece è andato in bestia appunto per ciò.
Ora tu t'immagini di vedermi piangere come un vitello; ma t'inganni!
Io rido, felice e contento; perchè l'ingegnere ha sgridato tanto; Marcella, poverina, ha pianto tanto; mia madre s'è mostrata così afflitta, che la signora Eugenia, ha dovuto riparare al mal fatto; e a poco a poco ha quietato il Cerbero numero uno. Figurati che adesso io vado a trovare Marcella a Milano (dove i Moser sono da quindici giorni) proprio come un fidanzato ufficiale! Ma c'è anche il Cerbero numero due; mio padre! A questo ci penserà mia madre, se vuole presto un nipotino in tutte le regole!
Non ho altro da dirti. Anna Melvi è spesso a Milano anche lei. Studia il canto per calcare le scene. Ortensia, nell'ultimo tempo che stettero lassù, era divenuta insopportabile.
Adesso accompagna Moser di qua e di là; ma io non dico che questo è un capriccio, per non farti dispiacere....
Nel suo giocondo egoismo, Guido non vedeva cosa d'importanza che non si riferisse al suo amore; non immaginava che impressione mi farebbe quella sola frase: «Ortensia era divenuta insopportabile». Dunque la tristezza di lei era cresciuta! La smania di divagamento, a cui Guido alludeva infine, non significava forse che ella si tormentava come me per dimenticare?
Approssimando l'anno nuovo, da Milano, Marcella ricambiò «a nome di tutti» i miei auguri; e a una mia domanda abbastanza, esplicita intorno a sua sorella, rispose così:
Di Ortensia cosa vuole che le dica? li ha sempre avuti, anche da bambina, i grilli per il capo, gli alti e bassi di buon e di cattivo umore, ma adesso! Si irrita per niente; e quando è triste, si vede proprio che soffre. E perchè? A Milano non ci voleva venire, e viceversa, a Valdigorgo si annoiava a morte; ma adesso vorrebbe tornar in campagna, con questo freschino! Quella linguaccia di Anna direbbe che stando a Milano Ortensia si è innamorata di Roveni.... Ma io per Roveni ci spero poco! Quando partimmo egli le disse, in mia presenza, che coltivava una speranza....; essa finse di non capire. Cervellina sempre!
II.
Mi amava ancora? Era effetto di passione quel che a sua sorella e a sua madre sembrava difetto d'indole e di carattere? Se io mi rispondevo: — Sì, mi ama ancora —, ecco l'immagine di Roveni che si affacciava a dirmi, come mi aveva detto alla fabbrica: «Fuori dei romanzi, nella realtà vera, non può resistere in una ragazza di neppur diciotto anni un amore che fu interrotto appena nato. Resiste in voi, spirito infermo!»
E mi adattavo a pensare che Ortensia soffrisse non per amore, ma per rancore, per l'amarezza della prima delusione, per l'abbandono in cui l'avevo lasciata. Non sempre però mi riposava questo pensiero; spesso anzi, per reazione, mi abbandonavo al ricordo di Ortensia con disperata voluttà e disperatamente godevo di quella mia passione come di un'elevazione sublime. S'acuiva allora in me l'intendimento delle più nobili facoltà dello spirito; mi pareva d'intender Dio. Ortensia, nell'aspetto di una giovinetta, era un'anima bella che aveva avvinta l'anima mia, a cui l'anima mia si era avvinta per sempre, contro ogni ritegno, ogni resistenza di pregiudizi e di piccoli doveri.
Stolto! Avevo creduto ingiusta quell'affinità di due anime per differenza d'età!; avevo misurato ad anni quel che è immortale!; avevo sacrificato a basse convenienze la felicità di un amore trascendente la vita materiale e comune!
E una voce mi diceva: — Ortensia intende l'amore così!
Ah se avessi dato ascolto a quella voce!
III.
Finalmente venne la primavera; venne una lettera di Marcella. La poverina impiegava più pagine per dire soltanto che, essendo Roveni necessario alla fabbrica (poichè Moser aveva assunto una grande impresa edilizia a Novara), Roveni si era indotto a rimaner a Valdigorgo per un altro anno; e che non molto dopo il loro ritorno da Milano a Valdigorgo una spiegazione era intervenuta tra Ortensia e lui. Alla esplicita dichiarazione dell'ingegnere Ortensia aveva risposto:
— Per adesso non ci penso, a maritarmi.
L'ingegnere anche stavolta non si era adontato; aveva detto tranquillamente: — Bene, bene!; ne riparleremo poi!
Indispettita, Marcella osservava:
Roveni tratta l'amore come un affare. Chi direbbe a vederlo che è innamorato davvero? Cosa fa per vincere la freddezza di Ortensia? Quando parlano insieme, parlano in un certo modo....; come se avessero paura di scottarsi! E che bei discorsi! Piove? Pioverà oggi?...
Altro commento facevo io: così amava quell'uomo!; con fermezza, con tenacia, con avvedutezza quali bisognavano a piegare una volontà poco arrendevole. Nell'apparente freddezza o tranquillità, con che prudente ritegno di sè stesso conquisterebbe a poco a poco il cuore di Ortensia, che egli vedeva non ancora libero dal ricordo di me!
Nella stessa lettera la buona Marcella mi prometteva presto una grande notizia. Questa me la diede Guido, indi a poco, e ci ragionava su da filosofo felice.
Suo padre s'era opposto al matrimonio.
— Se vuoi moglie pensa tu a mantenertela — diceva il padre. Ma la madre si era accordata con la signora Eugenia, che per Marcella aveva garantito una parte della sua propria dote, non potendo Moser compromettere allora, in alcun modo i suoi capitali....
E diceva Guido:
Se non ci fossero state tante questioni, il mio fidanzamento si sarebbe prolungato chi sa quanto! Le questioni invece hanno invelenito mio padre al punto che egli ha giurato di lasciarmi rompere il collo, come dice lui, senza curarsene; quindi mia madre, sempre più commossa, ha finito coll'assicurarmi che mi aiuterà lei di sottomano finchè sarò in grado da guadagnare come voi altri mediconi. Stando così le cose, perchè protrarre lo sposalizio? Maritandoci in estate, Moser avrà vicino per più mesi la figliuola e ne sentirà meno il distacco in seguito, quando io andrò a Milano a cercar clienti. Dunque, appena laureato....
Infatti in giugno ebbi l'annunzio che l'Italia aveva un medico di più e pochi giorni dopo ebbi la partecipazione che il mondo contava un marito e una moglie di più. Del resto, era felice anche Claudio; che trovò il tempo di raccontarmi a suo modo il lieto evento.
Per poco non aveva preso a revolverate quel traditore che gli portava via una delle sue «bambine». Ma s'era consolato a veder in Marcella, ipso facto, «una bella sposa»; e invitava anche me ad ammirarla.... Aspettami, povero Moser!
IV.
Con che accorata nostalgia, durante l'estate che m'ero condannato a trascorrere in terra straniera, ripensavo ai luoghi più grati alla mia memoria! Le fresche acque correnti ai lati delle vie; il Gorgo spumeggiante al ponte del Crocifisso; l'erta e ombrosa strada di Paviglio; il colle boscoso dell'antico convento; la chiostra dei monti a sfondo del cielo nitido, quale era a riguardarla dal giardino fiorito della villa....; oh dolci e tristi visioni nella memoria dell'esule! E che amarezza rammentando ogni giorno le ore belle degli stessi giorni dell'anno innanzi; le ore passate con lei! Nulla più di meschino, di puerile, in quel mio passato: la lontananza di luogo e di tempo imponeva alla ricordanza tanta poesia! Provavo il compiacimento come di un'arrendevolezza generosa e gioiosa ripensando anche alla pazienza con cui consentivo ai giochi di Mino e com'egli mi trattava da pari a pari, mi comandava saldo in gambe, impettito nel grembialone quasi in una corazza, con le braccia dimenate a misura dei passi; e il cappello di carta, e lo schioppo in ispalla..
Nè egli, Mino, si dimenticava degli amici, sebbene fosse divenuto un letterato.
Caro amico,
Come è bello quel bastimento a vapore che mi ai mandato, tutto il giorno io mi bagno nel fosso della lavandaia e faccio rabiare un poco la mamma ma voglio fare il marinaio.
È stato un gran regalone e adesso ti sono proprio affezzionato. I miei genitori sono stizziti con te perchè non vieni a Valdigorgo specialmente il babbo che mi comprerà un cavallino vero di carne, perchè sono passato all'esame.
Anch'io sono instizzito micca con te, con Ortensia che è cattiva, ma non dirlo alla mamma, non mi racconta più delle favole vere, di uomini, non ne voglio di bestie. Se tu non vieni mandami delle favole di uomini, ma spero che verrai e ti aspeto giorno per giorno.
Mino.
Ti ringrazio tanto tanto. Scusami degli sgarabocchi....
Povero Sivori! che cosa vi toccherà mai di leggere? Io non debbo saperlo, perchè Mino non vuole, ma approfitto della sua bella lettera (non so se l'abbia scritta con la complicità di Marcella) per mandarvi saluti cordiali. Noi stiamo bene. Fateci un'improvvisata, Sivori!
Eugenia.
Mino mi scrisse così con la complicità di Marcella; non di Ortensia. Ortensia era cattiva.
Sì: non mi scriveva lei! E anche i nuovi coniugi Learchi avevan pensiero d'altro che di me! Silenzio di tutti fino all'anno nuovo. Poi, all'anno nuovo, Eugenia prevenne i miei auguri inviandomi auguri per tutti loro; Eugenia, non Ortensia!; ed Eugenia prevenendo a scrivermi cercò forse evitare mie domande, cui le sarebbe stato difficile rispondere....
Forse...., forse....; forse....: per quanto tempo ancora la mia vita si atterrebbe su questo dubbioso termine? Per quanto tempo ancora?
Quattro mesi dopo (aprile del 1892) Guido mi annunciava che egli era padre, il più felice dei padri. Aggiungeva:
Quando Marcella si sarà riposata (perché dar un nipotino a Moser le è costato più fatica che dargli le solite pantofole) ti racconterà lei con che sorta di no senza attenuanti Ortensia ha risposto alla definitiva richiesta di Roveni.
Come rimasi a legger queste parole! Ortensia aveva risposto no!... Un no «senza attenuanti» alla definitiva richiesta di Roveni!...
Il bello è — seguitava allegramente Guido —, il bello è che costui ha preso licenza da Moser, ma solo per la fine dell'anno. Capisci? Dopo un tal no ha il coraggio di restar a Valdigorgo anche altri otto mesi! Comincio a credere che il padrone del mondo, a cui basta battere il piede in terra per aver impieghi, non sappia dove batter la testa per trovarne uno. Punf! Paf! Paf! Punf! A Valdigorgo, dopo tutto, non ci si sta male anche senza Ortensia; e se un affare è andato male, ci si può rimediare con un altro. Forse spera anche lui nella società che Moser è ormai costretto a costituire.
Non attesi il racconto di Marcella. Scrissi a Eugenia chiedendo a dirittura se le sue speranze di un tempo intorno a Roveni erano mancate, come Guido mi lasciava credere.
Candidamente Eugenia mi rispose che Ortensia aveva consultato il suo cuore e aveva confessato di non poter promettere a Roveni, nè allora nè poi, l'affetto che rendesse felici entrambi.
A me mi è dispiaciuto perchè di Roveni ho la stessa opinione che avete voi, ma meglio questa franchezza di Ortensia adesso, che un pentimento dopo. Roveni mi par rassegnato. Solo desidera che Claudio non sappia nulla di tutto questo.
E quando Marcella si fece viva, non aggiunse altro che Ortensia era stata troppo rude con Roveni.
Ma, francamente! la colpa è anche di lui. Non si fa così a innamorare le ragazze! Troppa sicurezza; troppa aria di padronanza! Figurarsi se una ragazza come Ortensia poteva innamorarsi per ubbidienza!
V.
Amando Ortensia di tanta passione avrei dovuto correr subito a lei, dopo la notizia che essa aveva respinto Roveni?
Sì, fu un errore non dar retta al consiglio che la passione mi dava; ma questo fu conseguenza di un errore più grande: il più grande errore della mia vita; un errore enorme, che solo una mente ottenebrata da pregiudizi più dannosi di qualsiasi malattia poteva commettere.
Nel concetto che m'ero fatto di Roveni avevo errato ed erravo così! E per me allora erravano invece tutti gli altri: Guido, Marcella, Eugenia.
Guido si meravigliava che l'ingegnere restasse a Valdigorgo dopo lo scacco che gli era toccato e non ci scorgeva altra ragione che l'interesse: io credei fermamente che Roveni non fosse rassegnato, come diceva Eugenia, e che respinto da Ortensia, non si tenesse ancora per sconfitto e sperasse ancora di piegarla restando a Valdigorgo per altri otto mesi.
Marcella non si meravigliava del no di Ortensia, perchè l'ingegnere, secondo lei, l'aveva sdegnata con i suoi modi; perchè egli non aveva saputo usar le affettature e le delicature di una educazione molle, o gl'inchini, i complimenti, le adulazioni dei frivoli corteggiatori: io pensavo che sotto la scorza dell'uomo positivo Ortensia avesse ben inteso un amore forte e tenace e che con le mezze parole, le espressioni rudi, le occhiate e i silenzi, Roveni le si fosse manifestato meglio che con i sospiri e i languidi discorsi. Non perciò le era divenuto antipatico! Essa non aveva ancor potuto dimenticarmi del tutto e forse si attendeva di rivedermi nel prossimo estate: da ciò la sua ripulsa.
Ma io non andrei; non dovevo tornare a Valdigorgo prima della fine dell'anno, se davvero temevo ch'ella perdesse per causa mia un felice avvenire! E che accadrebbe? Forse Ortensia farebbe tra me e Roveni un nuovo confronto: io dimostravo di averla abbandonata per sempre; egli, il rude e freddo Roveni, non si rassegnava ad abbandonarla: sperava di superar la volontà di lei e di meritar affetto e gratitudine per tanta costanza. Le nature volontarie amano le nature volontarie. Forse Roveni vincerebbe.
Se poi tornasse vero quel che pensava Eugenia: «Quando Ortensia ha detto no, è no »...., oh allora!... Allora ogni ritegno cederebbe alla volontà di Ortensia e il nostro amore basterebbe alla sua e alla mia vita!
Vedete se speravo anch'io! Era una speranza che mi pareva or ragionevole, or folle; un'ansietà che durerebbe mesi e mesi, sino alla fine dell'anno.
A un nuovo invito di Claudio, nel giugno, risposi che non potevo allontanarmi da Berlino, perchè mi ero messo a esercitar la medicina. Ed era vero; e faticavo non senza fortuna. Ma chi osservando con quale intensità e alacrità partecipavo ora alla vita, avrebbe mai immaginato quanto io ero stato infermo un tempo e quanto affanno avevo nel cuore?
Amavo la vita, ora; ne compiangevo le sofferenze; in esse mi ritempravo. Speravo.
Venne finalmente il termine imposto alla lunga perplessità e alla liberazione — quale si fosse — della schiavitù di me a me stesso.
Ma alla fine dell'anno non ebbi alcuna notizia; solo un biglietto di Eugenia, col solo nome: muto. Perchè mai? Scrissi a Guido; nessuna risposta. Che era successo? Pazientai per tutto il gennaio.
Quando un giorno, gettando a caso lo sguardo su la rubrica finanziaria di un giornale italiano — un giornale di parecchi dì innanzi....
Che freddo mi corse per tutti i nervi!: come a un colpo mortale! Rimasi un istante stordito, con lo smarrimento in cui la mente cade alla rivelazione di un fatto terribile che si sarebbe dovuto prevedere. Poi rilessi: C. Moser, fabbrica di laterizi, Valdigorgo. — Ha chiesto la moratoria.
Ma era una grande sventura! Claudio era rovinato! Un presentimento certo rispondeva adesso in me al presentimento oscuro di due anni e mezzo avanti, quando avevo detto a Ortensia: «Se mai la sventura passerà sul tuo capo....» Claudio, i suoi, pativan già tutte le angosce di un rovescio di fortuna!
Che potevo, dovevo fare? Quel che Claudio avrebbe fatto per me se mi avesse saputo in disgrazia. Oh! forse già Ortensia aveva pensato: — Sivori ci abbandonerà anche lui! —; forse aveva già detto alla, madre: — Sivori vi abbandonerà anche voi!
Partire, subito!
Partii, infatti, quella sera stessa, perchè a casa trovai una lettera di Guido che accresceva i miei timori: Moser invano aveva chiesto la moratoria; era stato inevitabile il fallimento.
Ma perchè solo allora, mentre rileggevo la lettera di Guido, sembrò squarciarsi il velo che mi aveva ottenebrata la conoscenza? Perchè Roveni ricorse al mio pensiero e la figura di lui vi balzò, da un repentino sospetto, in una realtà che lo trasformava?
Lo vidi innanzi a me saldo nella persona: ma era saldezza ostentata; con gli occhi bianchi e freddi intenti a uno scopo: ma eran pieni di simulazione e falso ne era lo scopo; serio: ma non rideva, essendo tristi coloro che non ridono o ridon male.
Lo rividi, allora soltanto, nell'attitudine sospettosa del dì che andammo alle Grotte; nella franchezza equivoca dell'ultimo giorno che gli parlai alla fabbrica....
Perchè solo a legger quella lettera di Guido, e solo allora dubitai di essermi ingannato intorno a quell'uomo? M'ero ingannato davvero?
Mi parve di veder anche Ortensia. Chinava il capo sul petto della madre e ne confortava il dolore con un male in sè, nel suo cuore, più grande del male che confortava: il male che le avevo fatto io.
VI.
Quel triste giorno di febbraio era sull'imbrunire quando io sonavo all'uscio del dottor Guido Learchi, in via Manzoni, a Milano. Una voce di donna e una voce infantile dicevano forte: — Il babbo! — Ba-bo! — e la cameriera, aprendo, rimase stupita come il bambino che aveva in braccio a veder me invece del padrone.
— Il signor dottore?
— Tarderà poco....
— La signora...?
La signora mi corse incontro, sorpresa e commossa
— Sivori! che miracolo! che fortuna!
— Marcella.... — Anch'io non trovavo parole.
—.... E Guido?
— Tarderà poco. Come resterà a vederla!
Eravamo appena nella linda cameretta da desinare (ove già dalla tavola fumava la zuppiera) che Guido arrivava tutto rubicondo, con tale confusione di piacere che si dimenticò di darmi del tu.
— Lei!... Sivori! — Ci gettammo l'uno nelle braccia dell'altro.
— Hai fatto benissimo, Sivori, a arrivarci addosso così all'improvviso! — proseguì Guido rimettendosi. — Io l'ho sempre pensato che se non cascava il mondo tu, un giorno o l'altro, ci avresti sorpresi, me e Marcella, con un rampollo degno di noi, proprio a quest'ora: all'ora di desinare! — Egli rideva di gran gusto; e mi obbligò a sedere a tavola. — Ci racconterai poi della tua vita a Berlino.... Prima mangia, mangia come me.... Io non ho nessuna vittima su la coscienza, oggi! — E aggiunse facendo boccaccia: — Purtroppo!
Si sarebbe detto l'uomo più contento del mondo se tra l'una e l'altra delle prime cucchiaiate non mi avesse fatto un furtivo cenno d'occhio e di bocca che significava: «brutta storia!» Io, per non lasciar scorgere a Marcella tutta la mia ansietà, accarezzavo il bambinone, che mi guardava torvo dalle braccia della madre.
— Su! da bravo! — l'esortava Marcella. — Non guardarlo in questo modo.... È l'amico dello zio Mino!
— Un amico ormai vecchio — dissi.
— Ma stai bene — Guido osservava.
— E tu che omone! I baffi però non sono troppo folti! (non erano più visibili d'una volta nella faccia canonicale) E voi, Marcella, che bella mamma!
Dalla maternità aveva acquistato una più bella pienezza di forme. Ma i suoi occhi miti non celavano l'intima cura.
— Ah sì! — ella mormorò. — Saremmo felici, se.... Lei sa, è vero?
Assentii senza dir nulla. Guido interloquì di corsa:
— Abbiamo la nostra croce, ora; ma ce la leveremo presto d'addosso! Diavolo! Mio suocero non è uomo da avvilirsi se la macchina gli è uscita all'improvviso di rotaia! Riparerà; rimedierà.... — E vòlto alla moglie: — Le notizie sono buone, sta tranquilla! Vogliamo desinare in pace e quiete.
— Ma il babbo oggi non è venuto da noi, come aveva detto.
— Eh! Se non è venuto oggi, verrà dimani! Benedette donne! Sempre pensare al peggio.... Per fortuna, Bebe somiglia a me! Guarda, Sivori, come ride.... — Bòoo! — gli faceva il padre; e il bimbo si mise a ridere d'un riso istantaneo, quasi d'un tratto gli cadesse ogni diffidenza e la mia immagine gli divenisse gioconda a udire il mio nome.
— Ti.... vovi — si provò a dire.
— Bevi, Tivovi, e raccontaci qualche cosa di Berlino — disse Guido. Ma anch'egli mangiando e bevendo in fretta e tirandosi i baffi, che non aveva, non dissimulava abbastanza il desiderio di trovarsi solo con me.
Poichè io ebbi date mie notizie e trovato un pretesto alla mia partenza da Berlino, Guido cominciò a scimiottare il cavalier Fulgosi e a inventar su di lui aneddoti scandalosetti.
— Ma Guido! ma Guido! — Invano Marcella cercava trattenere il narratore per la lubrica china.
A un certo punto, chiesi:
— Che fa Anna Melvi?
— Anna studia il canto e impara dal cavaliere le regole dell'alta coquetterie, perchè il cavaliere vuol lanciarla lui, tra le quinte. Le irregolarità Anna le sa da un pezzo: gliele insegnarono Roveni e Minguzzi.
Fu la sola volta che, presente la moglie, a Guido scappò di bocca il nome di Roveni; a udir il quale apparve una fugace impressione avversa nel soave volto di Marcella.
Essa intanto ripeteva: — Non gli dia retta! non è vero niente!
— È verissimo! Il cavaliere dava lezioni a Anna in casa sua, in casa della sua signora. Ma l'altro giorno egli osò.... permettere ad Anna di stirargli un baffo, e apriti Cielo! La signora Fulgosi (Guido ne imitava le smorfie) giurò che se Anna tornava in casa sua, d'una gentildonna come lei, la lancerebbe anche lei: ma dalla finestra!
— E Pieruccio?
— Tra pochi mesi Milano lo vedrà ufficiale. Sarà uno spavento in Galleria!
Guido s'alzò per contraffare il tenente Fulgosi a passeggio in Galleria.
E il marmocchio faceva risatine e si provava di nuovo a dire: — Tivovi. — Finchè egli cominciò a nicchiare; eppoi, a pena in braccio alla cameriera, a piangere.
Marcella si alzò per portarlo a dormire.
— Dunque Moser?... — chiesi subito a Guido.
— Non c'è che dire! Moser è in cattive acque! — Ma scorgendomi addolorato. Guidò cercò attenuare: — Io però domando e dico: c'è proprio da disperarsi? da avvilirsi? da sospirare come fa Marcella? piangere? Benedetta donna! Non capisce che i lagni e i sospiri a me mi vanno alla testa, e che se debbo pensare sempre a lei non posso, di coscienza, esercitare la professione!
Una risata; indi riprese:
— Siamo giusti! Quanti non sono gl'industriali che falliscono? Invece son pochi quelli che, come Moser, offrono il 60 per cento ai creditori. Mio suocero sarà stato un pasticcione....
Volli protestare.
— Galantuomo sì; ma pasticcione! Galantuomo sì; ma minchione! Un altro avrebbe intestato i beni nella moglie per mettersi al sicuro.... Lui, no. Così tutto andrà venduto....
— Tutto? — esclamai a questo, ch'era il colpo più forte.
Guido, indovinando il mio pensiero recondito, confermò:
— Anche la villa....; per dare il 60 per cento ai creditori.
Anche la villa! Impossibile! Perdere il luogo di dove egli, Claudio, attingeva l'energia della sua vita? dove soltanto egli trovava conforto e riposo? E Ortensia? Staccarla di là, Ortensia!...
— Il guaio più grande non è questo — proseguì l'amico, che nel suo egoismo e ottimismo pensava prima di tutto a sè stesso. — Il guaio più grande sai qual è? Mio padre è rimasto scottato più di tutti ed è feroce anche contro di me e Marcella. Ne abbiamo una bella colpa noi se Moser l'ha ingannato!
— Moser — protestai di nuovo — ingannare? Eh via! La buona fede di Claudio è al di sopra d'ogni sospetto.
— Concedo — rispose Guido. — Ma con l'affare di Novara, l'anno scorso, mio suocero lusingò troppo mio padre; e mio padre ha fatto la figura d'imbecille a credergli. L'affare invece era magro; e crac!... Dicono che si sarebbe potuto aggiustare ogni cosa con la società....
A questo punto l'amico ristette d'improvviso, come chi s'accorge di correre a un inciampo.
— Perchè non si è fatto la società?
— Eh! i creditori ne son stati dissuasi da Roveni, sembra.... Dico sembra, perchè è tutto un pasticcio! Roveni sarebbe creditore anche lui di Moser, ma, viceversa, avrebbe cercato lui il suo proprio danno.... Perchè? Ci capisci niente, tu?
— Forse.... per vendicarsi di Ortensia?
Allora Guido non si sforzò più a dissimulare.
— Uhm!; forse il no di Ortensia gli brucia più del danno. Punf! paf! Ortensia ha fatto male a urtarlo, il padrone del mondo!
Io tacevo. Pensavo se mi fossi ingannato interamente a giudicar bene Roveni, o se piuttosto un uomo di tal tempra si fosse mutato di bene in male per l'ostacolo che aveva incontrato, più forte della sua volontà e della sua forza.
Guido continuò:
— Basta! Speriamo ancora che i creditori si accomodino; che Roveni non s'opponga....; ma per me, io vorrei prima di tutto che Marcella rassomigliasse un po' meno a.... sua madre; prendesse un po' il mondo come viene.... Bevi, Sivori!
— E Ortensia?
Avevo compreso nel pensiero di Learchi che il termine di confronto a Marcella era stato Ortensia, non la madre.
Ortensia, venuta pochi dì innanzi a Milano con Claudio, aveva rimproverato Marcella di non saper piegare il suocero al concordato dei creditori....
(Anche Learchi padre, dunque, ci si opponeva!)
— Una scena, mio caro! Marcella ha pianto tanto! Ma, francamente, quella ragazza è così apprensiva, così.... fantastica! Esagera tutto.... Uf! Non nego, io, che debban essere in angustie, lassù! Ma.... Siam sempre lì; che ci si guadagna ad angustiarsi?... Bevi, Sivori!
Invece di bere io chiedevo altre spiegazioni.
— Se andassi tu a Valdigorgo? — disse Guido. — Ti chiariresti di tutto; faresti bene; li consoleresti.
Marcella rientrava; e il marito, a voce alta, perchè ella non si adombrasse, die' una svolta al discorso.
— Anche in commercio ci vuol fortuna! Ecco tutto! Come in medicina. Vedi? io non conosco medico più sfortunato di me! I miei clienti si spiccian tutti in pochi giorni: o di là, o di qua; a gran velocità guariscono o muoiono. Merito mio? Ma che! Io anzi avrei bisogno di quei bei casi che durano mesi e mesi; non tanto per imparare, s'intende, quanto per diminuire i sospiri e i vaglia di mia madre. Eppure, sfortunato come sono, non mi dispero io!
.... Esortai Marcella ad ascoltare la sana filosofia di suo marito e le promisi che l'indomani sarei andato a Valdigorgo. Marcella mi ringraziò più con gli occhi che con le parole.
VII.
Mentre la carrozzella mi trasportava dalla stazione di Valdigorgo a Villa Moser, poco dopo il meriggio, io cercavo prepararmi al penoso incontro con Claudio e all'incontro desiderato e temuto con Ortensia.
Dagl'ingarbugliati discorsi di Guido non avevo chiaramente compreso quel che potessi fare a pro di Moser; tuttavia avevo inteso abbastanza da rammaricarmi di non esser ricco e di non poter rendere il mio intervento ben più profittevole. Se io avessi consumati gli anni migliori della mia giovinezza a guadagnare, Claudio ora non sarebbe stato alla mercè di amici venali! Invece ero vissuto quasi soltanto con il reddito del podere de' miei vecchi, affittato al Biondo; uomo onesto ma non abile forse a trar dalla terra tutto il frutto che poteva dare. Vendendo quel po' di roba, che mi resterebbe? La professione che avevo non curata sempre; ripresa da poco per disperazione o per necessità! Immaginare se Claudio permetterebbe simile rinuncia! Ma al pensiero di Ortensia cedeva ogni difficoltà: per risparmiarle dolore affronterei anche la miseria, con o senza il permesso di Claudio!
La strada dilungava cinerea sotto il cielo caliginoso; non incontravamo che qualche birocciaio intabarrato fino al mento.
Nei campi non c'era neve; appariva scoperto il tenero e pallido verde del grano tra gli alberi scheletriti. Lembi di neve restavano qua e là sul dosso dei monti, svelati solo di tratto in tratto; e la nebbia fumava contro le oscure moli con pigre volute. Le case dei contadini, chiuse, deserte, parevano avvolte nel freddo. D'improvviso, in quella solitudine di morte, proruppero da un'aia e corsero alla strada, alcune grida di gioia e risate. Eran poveri ragazzi mascherati con maschere di carta e cenciose sottane di donna. E rammentai che eravamo agli ultimi giorni di carnevale, e mi si riempiron gli occhi di lagrime. Quella gaiezza puerile, quasi insorgente a dispetto dello squallore e della tristezza che desolavan la campagna tutt'intorno, mi rattristò più che se avessi intravvisto un festoso spettacolo di gioia, perchè riebbi nella memoria il contrasto d'altre grida gioiose e d'altre risate: di giorni pieni di sole e lieti di verde e di fiori, quando Ortensia era ragazzetta felice...., lassù.
Come la rivedrei ora?
Con che palpiti scorsi, da lungi, la villa! Un raggio di sole finalmente aveva rotto la nebbia proprio là perchè io la vedessi da lungi!
Ma quando arrivai mi sorprese che nessuno si facesse vivo. Mi era immaginato di vedermi subito accolto da Claudio, da Ortensia: invece un nuovo e umile servo tardò a venire al cancello.
Ecco un primo contrattempo: Moser non c'era; era partito la mattina per Milano..
— La signora? La signorina?
A stento il servo acconsentì a introdurmi nella bella sala a terreno; ora gelida. Ma tra la cima degli abeti il sole riapparve, dalle vetriate, nel giardino.... E d'improvviso una delle porte laterali s'aperse: Eugenia.
— Lo sapevo che Sivori non ci avrebbe abbandonati! — Furono queste le sue prime parole. Io, per prima cosa, mi avvidi che quella donna così patita e debole nell'aspetto, con molti capelli bianchi, con le guance scarne, conservava e manifestava negli occhi una meravigliosa forza; la fede le diceva: «Devi sopportare e soffrire; e ne avrai bene per te e per i tuoi!»
— Voi non ci avete abbandonati nella sventura — ripetè; e mentre io stringevo e tenevo stretta nella mia la sua mano, aggiunse, chinando gli occhi:
— Una sventura forse irreparabile....
— Non lo credo. Sì riparerà; supereremo questa prova!
Tal sicurezza di parola e d'intenzione in me fece rialzare lo sguardo d'Eugenia; schiarì il suo volto, quasi s'accendesse di una nuova speranza non solo ma si compiacesse dell'energia nuova che io dimostravo. Proseguii lamentando di non aver trovato Claudio.
— Vi siete incontrati per viaggio.
— Mino?... Ortensia?
— Mino è a scuola in paese; Ortensia è già avvertita: ora scende.
Per vincere e dissimulare l'impazienza narrai della mia visita a Marcella e a Guido, e affrettai dimande su quanto era accaduto.
La signora mi riferì che il più ostinato avversario al concordato dei creditori era il vecchio Learchi. Conoscendo bene costui, ormai Claudio non sperava più che nessuna cosa o ragione riuscisse a smuoverlo: era irremovibile, più che per altro, per il rancore del danno patito.
Lei, la povera Eugenia, appunto perchè persuasa essa stessa che nulla valevano su Learchi le buone ragioni, era afflitta del non trovare nessuno, non un amico, non un congiunto, il quale piegasse quell'uomo toccandogli il cuore.
— Il male è che tanta cocciutaggine gl'impedisce, a Learchi, di vedere qual è veramente il suo interesse. Se non si fa il concordato, perderà tutto; se si fa, non perderà che una parte del suo credito.
Io chiesi:
— Siete certa di questo?
— Claudio e il curatore ne sono convinti.
Dunque all'ostinazione di un uomo così esoso doveva esserci un incitamento segreto; qualche cosa o qualcuno l'acciecava! Dimandai anche:
— Ed è vero che la disgrazia si sarebbe evitata se Learchi avesse consentito a comporre la società?
— È vero.
— Chi l'ha acciecato, dunque? — esclamai. Eugenia intese a chi alludevo, ma scosse il capo.
Io insistetti apertamente:
— Roveni?
— No, non credo che arrivi a questo punto. Learchi è acciecato dalla rabbia; non ha più fiducia in nessuno....
Forse la buona donna difendendo Roveni difendeva Ortensia?
E Ortensia tardava. Perchè tardava così? Non avrebbe dovuto accorrere come per un'attesa improvvisamente interrotta e non delusa? Non le avevo io detto che sarei tornato a lei il giorno della sventura?
— Però al dire di Guido — io ripresi — anche Roveni è stato od è ingrato con chi gli ha fatto del bene.
— Purtroppo anche lui ci è diventato nemico, per interesse; non per altro. Sarebbe una cattiveria troppo grande! Sapete che colpa fa a Claudio? Claudio si teneva certo che si farebbe la società, e un giorno che aveva un pagamento urgente, non potè rifiutare una somma che Roveni stesso gli propose. Ma il progetto della società andò a monte; e Roveni adesso dice che Claudio l'ingannò.
— Di quanto è creditore, Roveni?
— Duemila lire.
Povera Eugenia! Non altra ragione per lei aveva l'odio dell'ingegnere! Ma io, che tanta stima. avevo avuta di lui un tempo, io ora pensai che per un meditato fine di vendetta egli doveva aver proposta la piccola somma a Claudio.
In quel punto la porta laterale fu riaperta d'impeto. Ortensia s'arrestò su la soglia quasi pentita di un errore, quasi cessasse d'un tratto lo sforzo che l'aveva spinta di corsa fin là. Un istante; poi s'avanzò risoluta verso di me, che le andavo incontro.
— Come sta?
Non risposi. Ogni mia dissimulazione cadde; non potei nasconderle la violenza del mio cuore. E le sue labbra tremavano e il color roseo che le era corso alle guance disparve. Imbarazzata al mio imbarazzo, Ortensia attendeva ansiosamente che io togliessi lei pure di pena. Il pensiero che Eugenia ci guardava, mi sospinse; mormorai:
— Cara Ortensia!
— Questa bambina è forte — Eugenia disse mentre ci riaccostavamo a lei; e la trasse a sè e ne raccolse il capo sul petto a mo' di una volta. Ma quando rialzò il viso, Ortensia mi apparve spaventosamente pallida; la vidi mordersi le labbra prima di parlare, per contenere la commozione; e parlando fissò su di me uno sguardo profondo. Io non mi sentii mai così debole come in quegli istanti, sotto quello sguardo prepotente. Non era un'accusa; era una condanna!
— Glielo dica anche lei, Sivori, alla mamma, che non bisogna affliggersi tanto. Piangere perchè non siamo più ricchi! Non è una sciocchezza? — Anche nel tono della voce c'era un'acerbità, un'asprezza, quasi ostile. E un velo oscurò quel fervido sguardo. Non era in lei la semplice concitazione del parlane; non era più la commozione protratta dal rivedermi: l'agitava un'eccitazione nervosa; si premeva con una mano al cuore.
Risposi ricuperando del tutto me stesso e rivolgendomi a Eugenia:
— Le cose non sono certo al punto che il timore vi fa vedere e che io non vedo. Moser è tal uomo che in ogni caso saprà riparare. Intanto la stima dei buoni sarà cresciuta per lui.
— I buoni? — Ortensia esclamò stupita di udir questo da me. Con sguardo di nuovo ardente, iroso, aggiunse: — Oh dove sono i buoni? — Poi sorrise di un sorriso che io ben conosceva, che avevo sol visto fugacemente sulle sue labbra, e che ora v'insisteva: il mio sorriso d'una volta!
— Un amico buono è qui — disse la madre.
A che la figliola, sforzandosi a non ripetere quel sorriso:
— Un'eccezione! La sola. Ma gli altri! Cattivi; tutti cattivi, perfidi, vili! — Aumentava ad ogni frase, ad ogni parola la concitazione violenta. — Si divertono a tormentar mio padre coi rimproveri, con le accuse, coi consigli! Ci compiangono! Oh la compassione di certa gente che male fa! Ipocriti!: godono del nostro male; ne sono felici; e ci compiangono!
— No, Ortensia.... — mormorava Eugenia invano.
— E le promesse? «Vedremo; cercheremo; chi sa?; bisogna sperare!»; eppoi nulla. Non è un'agonia questa? Non sono atroci questi alti e bassi? Ora tutto piano, tutto liscio, tutto accomodato; ora tutto a monte, tutto perduto! L'ostacolo che pareva piccolo diventa enorme; una difficoltà da nulla diventa, un disastro! E tutti dicono, l'uno dell'altro: — Io vorrei aiutarlo quel disgraziato, ma non posso, e chi può non vuole.
— Non è un martirio? C'è da impazzire! Lo dica lei, Sivori, alla mamma ch'è meglio finirla, uscirne una volta, a qualunque costo!
Indovinavo che Ortensia, senza più speranza, cercava il mio aiuto per preparare la madre all'ultimo crollo. Io riflettevo. Ma nello stesso tempo, e pur così turbata, come Ortensia mi pareva bella! I capelli, sfuggenti al grosso pettine e diffusi, eran sollevati sulla fronte e la fronte bianca aveva un lume che non aveva avuto mai; il pallido viso dall'ovale perfetto aveva un lume che non aveva avuto mai! Bella di dolore, bella d'orgoglio!...
La madre taceva, a capo chino. Le chiesi:
— Se andassi io, ora, a tentar qualche cosa con Learchi?
Eugenia annuì; Ortensia, al contrario, scosse il capo come per un tentativo inutile; e la madre mi guardò quasi a dire: — Vedete?
Finchè ella trovò un pretesto perchè la figlia uscisse; e allora mi susurrò:
— Ortensia è forte, ma anche questa forza mi dà una pena! C'è in lei una sfiducia, un vuoto, una disperazione!... Sembra disprezzare anche la sventura; ma come soffre!
Vinta, Eugenia, proseguì piangendo:
— La rimproveravo una volta perchè stava oziosa; adesso ricama, cuce tutto il giorno per imparar a guadagnare: mangia pane asciutto per prepararsi alla povertà!
La signora Learchi m'accolse quale un messo del Cielo. A esprimere la sua gioia, quasi non le bastasse il viso roseo e lucido d'inverno come d'estate e la bocca ridente quant'era larga, s'aiutò con complimenti strepitosi:
— Che miracolo! che improvvisata! che degnazione! che bella visita! — E trafelate scuse: la casa in disordine, lei vestita male, col raffreddore! Il raffreddore infatti l'obbligava a farmi festa sternutando.
— Innocenzo! Innocenzo! — invocava.
Il signor Learchi, nuovo sindaco di Valdigorgo (mi ero dimenticato di dirlo), se ne stava davanti al camino nella camera da desinare, pipando pensoso più di se stesso che de' suoi amministrati ed economizzando con le molle le brace che rimanevano del ceppo ormai del tutto consunto. Alle esclamazioni e alle apostrofi della moglie si mosse, mentre io entravo, e senza far parola depose le molle; si levò di testa con una mano il cappellaccio (un cappello fuor d'uso, estivo ma buono a riparare dall'umidità invernale, tant'era unto); emise un lungo oh! levandosi di bocca la pipa con l'altra mano, e m'attese seduto, non restandogli più mani libere da reggere le brache che si era sbottonate per far largo alla digestione.
— Vedete chi è qua, Innocenzo! — ripeteva la moglie. — Che onore! Chi se lo sarebbe aspettato, con questo freddo?
Il marito era così lontano dall'aspettarsi una mia visita che tardava a dissipar dal volto da beone l'ombra della improvvisa seccatura; e mi fu visibile lo sforzo che fece di ricoprirsi con la maschera di uomo cordiale.
— Il signor Sivori! — ruppe a dire finalmente. — Il signor dottore! Oh oh oh! Proprio vero che le montagne.... Bravo! Sta bene?... Un piacerone!... Qui vicino a me, a scaldarsi! Senza complimenti!
— Si scaldi! — diceva, la moglie. — Si metta a sedere.... Su, della legna, Innocenzo!
E il signor Innocenzo, ancora imperfettamente mascherato ma di nuovo col cappello in testa:
— Perchè non è venuto un po' prima? Avrebbe desinato con noi; alla buona...., si sa, da montanari.... come siamo.
— Redegonda! Presto!... qualche cosa al signor Sivori, al signor dottore!
— Che cosa? — Ella correva intorno alla tavola, avanzava, retrocedeva domandandomi:
— Caffè? cioccolata? latte? cognac? un zabaglione? Le faccio un zabaglione? un vino brulè? un punch?
— Moscato bianco! — urlò il sindaco. — Il mio moscato bianco, che riscalda le budella: riservato per gli amici!
Quindi, dopo avermi lasciato un po' schermire:
— Lei non era a Vienna? Che c'è di bello a Vienna?
— A Berlino, vorrete dire! Era a Berlino! — correggeva la signora Redegonda, mentre usciva per la bottiglia e qualche altra cosa.
Sì, venivo da Berlino; ma già m'ero fermato a Milano....
A queste parole la Learchi ristette sulla soglia, con la bocca ridente e gli occhi sbigottiti, e tornò indietro quasi per soccorrermi.
— L'ha visto? Li ha visti? — Sopprimendo i nomi sperò di attutir lo sdegno che prevedeva.
Infatti il signor Innocenzo le volse due occhi rabidi:
— Eh! Aveva obbligo di vederli?
Forte e senza titubanza io rispondevo:
— Ho visto Guido, Marcella, il bimbo; una famiglia che consola a vederla...
Povero me! Sempre ridendo in silenzio la donna spalancò le braccia in segno di disperazione. Ma il sindaco riaccendeva la pipa per ingoiar l'ira.
— Bah! bah! — fece aspirando. — Altro è il parlar di morte, altro è il morire! A lei sembran consolazioni...., perchè ha avuto giudizio, lei! Non ha voluto provarle, queste consolazioni.... che costano! Mio figlio...., povero imbecille...., le ha pagate care.... carissime!... Ma lasciamo andare!; parliamo d'altro! Dunque, a Berlino bella vita, eh?
Per assecondarlo un po' dissi qualche cosa di Berlino nel frattempo che la sindachessa usciva e rientrava recando in braccio un vaso di ciliege nello spirito e la serva sturava la bottiglia e mesceva.
— Alla sua salute!
— Alla sua!
Lodai il moscato e subito aggiunsi (per cogliere quel momento di dolcezza) che tanta cortesia mi dava a sperar bene dalla mia visita. Entrando in argomento dissi che quale amico comune, di Moser e del signor sindaco, io ero venuto a sentire quel che si potrebbe fare....
— Caro amico: niente! niente da fare! — E allontanando la pipa il signor sindaco sputò. — Meglio non parlarne per non sputar veleno! M'han guastato il sangue. (Bevve). È amaro, per me, adesso, anche il mio moscato!
La signora Redegonda da dietro le spalle maritali traeva lentamente, ascoltando, le ciliege dal vaso con un cucchiaio e le deponeva in un piattello; e poichè non poteva impedire alla sua bocca di sorridere ancora, scuoteva il capo per significare come disapprovasse quel che il marito diceva e direbbe, e con languide occhiate chiamava il soffitto in testimonio del suo dispiacere; delle sue buone intenzioni; delle sue rinnovellate speranze nel mio intervento.
Io ripigliai: — Da Eugenia e Ortensia non ho avuto che notizie confuse; ma ho potuto comprendere il loro dolore perchè lei, che ha fatto tanto per Moser, debba essere o voglia essere sacrificato....
— Dolore? Ah ah! Ci vuol altro! Dolore! parole! Altro è il parlar di morte altro è il morire!
— Io credo si possa almeno attenuare le conseguenze....
— Parole, caro il mio amico! Parole! niente da fare! Meglio non parlarne....
— È vero o no — esclamai — che chi non vuole l'accordo dei creditori è lei?
— Io? — Parve cascar dalle nuvole brandendo la pipa — Vede?; vedete chi è che inganna? Ci prendon tutti per imbecilli...., come mio figlio!
— Le senta....; — intervenne allora la Redegonda porgendomi il piattello delle ciliege.
— Lei dunque è disposto — proseguii rivolto al marito — a trattar dell'accordo?
— Io.... Io dico, ripeto, torno a dire per l'ultima volta che non voglio più pasticci, non voglio avvocati e liti, non voglio curatori, non voglio crepare! Vogliono, quegli altri signori, il concordato? Mi diano una garanzia che tutto andrà liscio....; la garanzia che piace a me....; e son qua! Se no, vada il resto, vada tutto!... Ci rimetto tutto.... Che cosa pretendono di più? Che ci rimetta anche il sangue? la pelle? l'anima?
— E la garanzia che lei desidera sarebbe....?
— La garanzia dell'ingegner Roveni.
— Ma che garanzia può essere quella di uno che non possiede niente?
— Garanzia che non nasceranno altri imbrogli. Mi basta! Ma se non ci fosse questo pericolo, degl'imbrogli, Roveni la farebbe la garanzia! E non la fa! non la fa! non la fa!
Me la cantava in musica battendo il tempo con la pipa: — Non la fa!
Il mistero mi pareva chiarito del tutto; sicchè la Redegonda sorrise fino alle orecchie per la luce che mi vide in faccia; scosse, sorridendo, il capo, per assicurarmi che adesso ero su la buona strada; sternutò e si soffiò il naso; accennò coll'indice al piattello delle ciliege, e uscì piano piano, lasciandomi libero il campo alla vittoria. Procedetti:
— Il perchè Roveni non fa la garanzia è un altro! Non ha inteso dire anche lei, signor Innocenzo, che costui aveva pretensioni su Ortensia e che Ortensia l'ha rifiutato? È una vendetta! Si vendica della ragazza con la rovina del suo benefattore! Ecco che uomo è costui! E ha ingannato anche un uomo sagace come Innocenzo Learchi!
Due, tre copiose e formidabili boccate di fumo uscirono dalla bocca del mio interlocutore, in cui le ultime mie parole fecero un effetto del tutto contrario a quello desiderato. La lode di sagacia parve offenderlo più che l'accusa di essersi lasciato ingannare e, livido, stentando a frenar la rabbia con un ultimo sforzo di ipocrisia:
— Signor dottore.... stimatissimo! — esclamò. — Lei è lei; ma se non fosse lei....!; con tutto il rispetto.... Che storia mi tira fuori? Dica la verità: per chi m'ha preso? Per un imbecille come....
Rise sgangheratamente.
— Ah povero signor dottore! Come l'hanno imbottito bene! E lei ci ha creduto? Ha creduto che Roveni avesse intenzione di sposar una ragazza senza dote? Ah! Ah! E pensare che la ragazza non l'ha voluto lei! lei non l'ha voluto, Roveni! non lo vuole! Spera in un partito migliore, la ragazzina!... Ah povero signor dottore!
Strappargli la pipa di mano e sbattergliela sul muso!
— Anche la signora Redegonda deve saperne qualche cosa — riuscii a dire.
— E io dovrei credere quel che han dato a intendere a mia moglie? Ah! Ah! Ma non lo sa che mia moglie è la madre di mio figlio?
Non ne potendo più, mi alzai.
— La verità è questa che le ho detta io! Lei non la crede? Ebbene: lei da tutti gli onesti sarà giudicato quale un complice di Roveni e avrà il rimorso d'aver messo in miseria i suoi parenti.
— Parenti, serpenti! — Ricaricava con mano tremante la pipa. — E i rimorsi.... non li proverò io, caro amico; no no: stia pur sicuro! Io sono tranquillo! Non ho falsificato niente, io....; sono un galantuomo, io! un uomo onesto....
In piedi con la pipa in bocca il sindaco di Valdigorgo abbottonava i calzoni per congedarmi.
Allora l'investii domandando:
— Falsificato.... che cosa? chi?
Ma egli retrocesse.
— Zitto! C'è mia moglie.... Se vuol spiegazioni, si rivolga a Roveni.... Io non so niente! Non voglio dir più niente! Non voglio saper più niente!... Un altro bicchiere, e amici più di prima....
— Altre due ciliege — pregava, la signora Redegonda sorridendo, ma con voce di pianto, a vedere che avevo perduta la battaglia.
Non tutto era scoperto. Un'infamia mi restava da scoprire!
Ritornavo inveendo entro di me contro gli onesti che insultano impunemente all'innocenza e alla sventura, perchè fatti ricchi e potenti dalla fortuna e dall'abilità di commettere il male all'ombra della legge.
Ortensia mi venne incontro. Tacque a lungo poichè io le ebbi detto: — Non ho ottenuto niente per ora, ma....
D'improvviso si accese in volto.
— Com'è vile quell'uomo! Non capisce quell'uomo senza cuore, nessuno capisce che non è la miseria che ci spaventa? che ci son patimenti più grandi che la fame? Vili! Non conoscono mio padre! L'ammazzano! È un assassinio!
Io mi provavo a quietarla, turbato da quella sua alterazione; da quella violenza di passione manifesta per gli occhi più che per le parole.
— Quietati — le dicevo —; riparto subito per Milano e qualche cosa so di poter fare! Il tuo dolore è santo — aggiunsi — ma non bisogna esagerare.
Ella sollevò in me lo sguardo affievolito da una infinita tristezza.
— Ah Sivori! anche per lei (si corresse), anche per voi esagero! Conoscete mio padre; sapete che dovrà abbandonare la sua casa (accennava alla villa), che era il premio di una vita di lavoro, che era il luogo dove voleva morire, dove nacquero i suoi figlioli; e io esagero! Mio padre non vuole abbandonarla la sua casa; non può credere di dover abbandonarla! Ieri mattina, con un operaio, nel giardino, disegnava nuove aiuole; diceva: — Quest'altr'anno leveremo i ligustri; pianteremo altri abeti nel prato. — Quest'altr'anno, diceva. Invece quest'altr'anno nuovi padroni raccoglieranno i fiori del nostro giardino; dormiranno nelle nostre camere. E io esagero! Quassù mio padre è stato un benefattore, ma gli operai, per cui faticava, non lo salutano più, lo incolpano della loro rovina.... E io esagero! E questo è nulla! La colpa di tutto quello che è avvenuto e che avverrà, è mia! E io esagero!...
Come io cercavo parole di protesta, essa con mano convulsa m'afferrò a un braccio, mi fece ristare, e disse più piano, severa, in quell'agitazione contenuta con la fatica che esprimeva il suo sguardo fiso nei miei occhi:
— Sentite, Sivori! Voi siete sempre per noi l'amico di un tempo; siete per me quello di un tempo: un fratello. Non voleste così allora? Così doveva essere! Un fratello: non altro dovevate essere per me in passato; non sarete altro in avvenire.... È vero?; così! Dunque, sentite! Se domani io potessi trar d'agonia mio padre, tutti noi, con una sola parola, e questa parola mi ripugnasse come una viltà, un'abiezione; se con una sola parola io domani potessi salvar la vita di mio padre, dovrei vincere la ripugnanza del mio animo, della mia coscienza, di tutto il mio essere, e pronunciarla, questa parola? Dite! dite!
— No! Mai!
— E se con questa sola parola io potessi salvare.... potessi salvare l'onore di mio padre?
Risposi, freddo e sicuro:
— L'onore di Claudio Moser è al disopra d'ogni sventura e d'ogni vendetta!
Ma Ortensia sorrise con quella ironia quasi spasmodica.
— L'avete conosciuto bene, voi, Roveni! Credete che sia uomo da minacciare invano!
— Quando, come ti ha minacciata?
— Me l'ha detto.... e scritto, che ha tanto in pugno da far condannare mio padre.... per ladro! È lui, lui che non vuole che Learchi ceda perchè ceda io! Se io cedo, mio padre è salvo!
Ristette; congiunse, per scongiurarmi, le mani:
— O Sivori...., Carlo...., dite, Carlo....: sono ancora in tempo! Debbo cedere?... salvar mio padre?
— Tu non gli avrai risposto.... — Questo dubbio mi affliggeva più che non mi afflisse quella affannosa preghiera. — Non devi cedergli. Mente! È un'insidia!
— No..., non gli ho risposto....; ma se arresteranno mio padre...., come un ladro...; se lo condanneranno.... per colpa mia...., io morirò....
Si compresse con la sinistra al cuore; e aggiunse:
— Non è meglio finirla? Tutte le speranze in Learchi non sono perdute? Bisogna preparar la mamma, a tutto....
Riafferrandole la mano io, con un'attitudine che esprimeva, di me, la sincera e profonda commozione e la preoccupazione di un monito solenne: — Ortensia! — dissi —. Per tutto quello che hai sofferto, che ti ho fatto soffrir io; per il bene che voglio a te e a tutti voi altri; per tuo padre e tua madre, ti scongiuro: non t'abbandonare alla disperazione, così; abbi in me, ora, la fiducia che non meritai in passato. È impossibile che io non riesca a sventar le trame di un birbante, perchè è impossibile che tuo padre non sia stato sempre un galantuomo! Resisti; tu sei forte!
E dando alla mia voce, alle mie parole tutta la tenerezza e la dolcezza che potei attingere dal mio amore:
— Solo, tu hai il cuore di tuo padre. Bisogna frenarlo, questo cuore, che la bontà fa pulsare troppo in fretta.... Mi prometti, sorellina, di confidare in me....; almeno un giorno o due...? Via! Riceverai la buona novella.... Trionferà la giustizia; supereremo l'infamia di quell'uomo....
Non pianse; mi guardava stupita come non potesse credere alle mie parole e alla speranza che io dimostravo di esser creduto.
Poscia mormorò percuotendosi il cuore:
— Carlo! Carlo! non c'è più bontà qua dentro! C'è solo del male!
Io le accennai sua madre, che veniva verso di noi.
Le dissi, a Eugenia, che benchè Learchi mi fosse sembrato ostinato più di un mulo, il colloquio con lui mi aveva confermato nel proposito di recarmi subito dal curatore del fallimento.
Credevo d'aver trovata una via....; e altre bugie pietose dissi, per confortarla.
Ella esclamò rivolta a Ortensia:
— Vedi se bisogna sperane?
.... Io ripartii senza avere in me la fede di Eugenia. E mi seguiva lo sguardo di Ortensia: lo sguardo di una vittima.
VIII.
Il mio colloquio con il curatore del fallimento fu breve. Il ragioniere *, a udirmi amico di Moser e a udir il mio nome, ebbe uno scatto che non tentò di reprimere, e un'impressione di piacere che tentò di celare, ma indarno.
In sostanza ecco quel che mi disse:
Il fallimento Moser gli si era presentato in una situazione più che discreta. Strano quindi per lui il fatto che non avesse avuto buon esito la moratoria. Convocati i creditori, si era loro proposto un dividendo del 60 per cento. Ma uno di essi, il signor Learchi, aveva richiesta, come la legge concede, una garanzia, insistendo perchè fosse garante l'ingegner Roveni. Forse lo rendeva dubbioso il troppo lauto dividendo! Poteva, a prima vista, recar meraviglia la pretesa d'aver garante uno dei creditori minori, quale il Roveni; ma questi più d'ogni altro aveva pratica dell'azienda fallita e meritava perciò, più d'ogni altro, la fiducia del Learchi. Se non che il Roveni non aveva accettato subito questa prova di fiducia; aveva voluto tempo a riflettere; ed era stata rimessa a un'altra convocazione dei creditori la sua risposta. Perchè mai?
Il curatore a questo punto sembrò attendere da me la spiegazione. Io, infatti, cominciavo:
— Evidentemente Roveni stesso consigliò Learchi a chiedere la garanzia, e Roveni seppe persuaderlo che egli solo....
Ma il ragioniere, quasi mal pago dell'«evidentemente» con cui era incominciata la mia risposta, m'interruppe:
— Prego! Mi lasci dire.... So di dire una cosa grave.... A lei non chiedo che la sua parola....
In fede del segreto io portai una mano al petto. Egli proseguì risoluto:
— Il contegno dei signori Learchi e Roveni mi insospettì. Avrò torto...., badi; posso aver torto; mai il sospetto si è confermato in me, da ieri. Insomma: io dubito che nella gestione Moser ci siano irregolarità mascherate così bene da esser sfuggite alle mie indagini.
(Era la falsificazione a cui aveva alluso Learchi!)
Nè il curatore esitò ad aggiungere che il giorno innanzi Moser era stato da lui e a certe dimande aveva risposto, confuso, che gli schiarimenti desiderati poteva darli solo il Roveni. A questo, negli ultimi tempi, aveva affidato anche parte dell'amministrazione.
— È la verità, senza dubbio — dissi io.
L'altro non attese al mio asserto; come non m'avesse udito.
— Ho pregato quindi l'ingegner Roveni di venir da me per schiarimenti sui libri dell'azienda. Non è venuto; m'ha scritto che egli nell'amministrazione Moser non ha nulla a vedere, tranne il suo piccolo credito; e riferisce una clausola del contratto da lui conchiuso col Moser quando assunse la direzione della fabbrica. Per quella clausola va esclusa, ogni sua responsabilità amministrativa.
Volendo io di nuovo interloquire, il curatore mi trattenne con un moto d'impazienza.
— Non m'interrompa!... Si dirà che Roveni ha messo le mani avanti per precauzione, per prudenza. Io però voglio le spiegazioni che ho richieste invano! Attendo documenti che dimostreranno meglio i rapporti della ditta Moser con due case commerciali; e se mi convincerò di quel che dubito, non esiterò un istante a compiere il mio dovere.
Io m'alzai d'impeto, esclamando:
— Ma io proverò che una vendetta indegna spinse il Roveni a tradire il suo benefattore! Un'infamia! scoprirò un'infamia!
Il curatore si strinse nelle spalle, quasi ciò importasse poco e punto.
Insistetti:
— Moser è un galantuomo! Ha avuto un solo torto: quello di addossarsi imprese superiori alle forze di un uomo e di aver fiducia illimitata in un birbante! Sopraffatto dal lavoro, lasciò tutto in mano a Roveni, senza pensare che costui si varrebbe di quella tal clausola per tradirlo!
Sdegnato, il curatone oppose:
— E perciò? Se io non m'inganno nei miei sospetti non sarà tutto questo che salverà Moser da un processo per bancarotta!
Finalmente avevo scorto il punto a cui il ragioniere aveva voluto condurmi: dovevo prevenire in lui la certezza che gli darebbero i documenti; se no, Claudio era perduto! Anzi il ragioniere era già certo; ma fingeva dubitare, perchè credeva anche lui nella buona fede di Claudio.
Che cosa dovevo dunque fare io? Che cosa potevo fare?
Rispose:
— Prima che io abbia le spiegazioni che voglio, si potrebbe, per evitarne le conseguenze.... probabili, pareggiare il passivo all'attivo. Non è poi necessaria una gran somma! Calcolando che dalla vendita dei fondi e della villa si ricavino ottomila lire più del prezzo di stima — e ho già una proposta —, basteranno ventimila lire per accomodare ogni cosa.
— Quanto tempo mi concede a trovarle?
— Quarantotto ore.
Misurai nella mente il tempo che bisognava per andar a Molinella, restarvi un po' e tornare; e dissi:
— Amico di Moser, io tenterò di trovane questa somma. Ma...., e se le irregolarità che lei teme non ci fossero?
Il curatore mi tese la mano e disse senza rispondermi:
— L'ingegner Moser, nella sua sventura, ha una grande fortuna: quella di avere un amico come lei....
Quando, giovani, io e Claudio andavamo a caccia in risaia ci accompagnava talvolta il Biondo falegname, divenuto poscia mio fittavolo. Come Claudio faceva ridere quell'omiciattolo, a proposito della mia filosofia! Ma chi avrebbe mai detto allora che un giorno io avrei dovuto ricorrere al Biondo, perchè Claudio scampasse dal Tribunale?
IX.
E nello stesso giorno, partenza per Molinella!
Non era più per me, allora, un destino assurdo che in pochi giorni mi sbalzava da Berlino a Milano, da Milano a Valdigorgo, da Valdigorgo al mio piccolo paese nella pianura emiliana. Mi trasportavano volontà e coscienza: più forti anche del dolore, più forti anche dell'amore!
L'amore?... Quale speranza poteva restarmene, ormai? La mia passione era stata una colpa e doveva avere il suo castigo. Ogni illusione doveva cedere alla realtà, che mi rinchiudeva, mi stringeva come in un cerchio di ferro. Il mio soccorso cancellerebbe nel cuore di Ortensia fin le ultime tracce d'amore, se vi rimanevano; ed io con l'azione che stavo per compiere confermavo irremovibilmente, per sempre, l'antico proposito di essere per Ortensia un fratello: non altro.
Ma è pur vero che il dolore aggiunge lume alla bellezza! Ancora ancora, avidamente, mi richiamavo l'immagine d'Ortensia alla memoria: più alta della persona; con quegli occhi che un tempo avevan solo un riso di gioia e adesso ardevan di sdegno o si velavano d'angoscia; con il viso un tempo pieno e roseo ed ora pallido e magro, ma come illuminato da una luce ideale: con le belle mani, che un tempo ella recava a sollevare dalla fronte l'onda dei capelli copiosi ed ora stringeva in uno spasimo di preghiera; con quelle attitudini decise, quei moti improvvisi, non più indizio come un tempo di un fervore di giovinezza sana e lieta ma reazione al tumulto di un'anima inferma, ma eccitazione di un'energia abusata fino alla violenza. In lei il patema d'animo aveva trovato una predisposizione nella delusione d'amore e nel male che io le avevo fatto col mio pessimismo, col mio tristo esempio, con la negazione d'ogni bene e d'ogni fede.
Le parole d'Eugenia mi si ripercotevano nel cuore e nella mente: «C'è una disperazione in lei...!» Ortensia non vedeva più intorno a sè che il male, a cui resisteva per naturale impulso ma col vuoto dell'anima....
Tali i pensieri che mi accompagnarono più assidui nel viaggio da Milano a Bologna. Però il fine a cui tendevo sopravanzava di tratto in tratto. Riuscirei? Ero sicuro che il Biondo teneva in casa grosse somme; mi ricordavo di quante volte egli aveva manifestato diffidenza delle banche e dei cassieri, e chiedendomi consigli intorno al miglior modo d'investir capitali, aveva espresso avversione a ipoteche o a prestiti d'altro genere.
Ma con il timore di mettere in pericolo i suoi risparmi e perder la tranquillità, c'era in lui, per di più, la preoccupazione di nascondere al prossimo il vero stato delle sue finanze. Confesserebbe il Biondo di posseder in casa quanto andavo a chiedergli? Non gli parrebbe di confessarmi che dall'affittanza aveva ricavato ciò che negava con le lamentanze annuali? E se egli non voleva darmi, o se veramente non aveva disponibile l'intera somma, che mi bisognava fare? Basterebbe per il resto una cambiale con le firme di me e del Biondo? A chi rivolgermi altrimenti?
Dubitavo; eppure anche questi dubbi non mi abbattevano; la speranza mi inanimiva, e m'immaginavo di veder salvo Moser e Roveni sconfitto.
.... Quando finalmente, a Bologna, ebbi lasciato il treno più rapido per quello che mi trasporterebbe a Molinella, e quando nel freddo e tetro pomeriggio m'approssimai al luogo ove nacqui, invece della mestizia dell'esule che ritorna dove sa di non trovare più nessuno del suo sangue, provai, questa volta, un senso di conforto ineffabile.
Con occhio tranquillo guardai, giungendo, a quel po' di terra che fra poco non sarebbe più mia; e con sguardo affettuoso cercai la mia casa, la vecchia casa appartata dal paese e dalla via maestra e indicata da pioppi fedeli. Il Biondo, me la lascerebbe, la mia vecchia casa paterna; io serberei in essa l'ultimo asilo.
Lo sorpresi, il Biondo, mentre nell'ampia cucina stava piallando un'assicella; e la moglie, seduta al focolare, filava in cospetto del gatto. Bisogna sapere che da quindici anni, da quando era divenuto mio fittavolo, il Biondo non esercitava più il mestiere del falegname ma aveva conservato affezione alla sega e alla pialla per un alto ideale: la carità dell'infanzia morta. Nelle ore, cioè, nelle quali non doveva andare al mercato e per i campi con l'invidiata carrozzella, riprendeva il mestiere di San Giuseppe e se la passava a fabbricar piccole casse da spedir angioli in Paradiso! Il Signore domandava un'anima d'infante? E il Biondo regalava la cassa. Egli si consolava in tal modo d'essere invecchiato senza figliuoli.
Al mio entrare in casa, all'improvviso richiamo, gli occhiali dal naso del Biondo caddero sul banco; e la rócca non si lasciava svincolare dal fianco della Rita (soprannominata Pulicreta per lode di pulizia). La Rita gemeva: — Gesù, chi si vede! — Io vedevo loro due sempre più invecchiati, ma sani e contenti; il marito con la berretta verde divenuta gialla e spelato il fiocco; con le anelline alle orecchie, la faccia paffuta, le palpebre cadenti, pesanti come foderate di prosciutto, e, sul pomello destro, i due bottoncini vermigli come coralli; la donna grinzosa, con le vene grosse quali corde alla gola e alle mani e i bianchi capelli ben pettinati. Sempre rispettoso, il Biondo intonò il solito: — Laus Deo! Ben tornato, padroncino! — E la moglie ripetendo: — Com'è bello! com'è arioso! —, si asciugava col dorso della mano un gocciolone all'occhio destro.
Furono spalancate le finestre della mia camera dal letto immenso; della camera di mia madre, sempre fredda da poi che rimase priva di quella voce; della camera da desinare, dipinta a righe bianche e azzurre che il tempo non discolora....
— Chissà che freddo là, nei paesi di dove viene! — mi diceva la Pulicreta facendo fuoco al caminetto.
— Il signor Claudio è da quelle parti anche lui? — domandava il Biondo; perchè essi non sapevano dimenticarsi di Moser, il quale non avevano più visto da quasi vent'anni e del quale mi richiedevano ogni volta tornavo a casa. Era uno dei loro ricordi più cari.
— È sempre quel bel matto allegro?
La domanda del vecchio suggerì a me stesso un'altra dimanda: dove fosse in quell'ora e che cosa facesse il povero Claudio. Al Biondo risposi:
— Adesso Moser è in guai.
Ma a me che cosa potevo rispondere? Ah! ogni risposta che mi diedi quant'era lontana dalla crudele verità!
Ecco che cosa faceva Moser a Valdigorgo quello stesso giorno, nella stessa ora.
Convinto che Eugenia s'illudeva sperando nella mia visita al curatore; convinto che il curatore non m'avesse rivelato il pericolo che lo minacciava; vinto dalla certezza che Roveni l'aveva tradito e che egli doveva pagare il fio della frode commessa da Roveni, egli, Claudio, meditava di fuggire! Commettendo i brogli Roveni aveva ben provveduto al suo scampo: allo scampo di lui chi poteva provvedere? La legge, in nome della Giustizia, sovrastava su di lui responsabile; e dinanzi all'accusa che varrebbero le attestazioni di buona fede? Sperare in Sivori? Ma dove avrebbe trovate ventimila lire, Sivori, dalla sera alla mattina? Sivori apprenderebbe, impotente, che Claudio Moser era accusato di frode e che si leverebbe contro di lui mandato di cattura! Moser in carcere: Moser in Tribunale, a esser condannato per ladro!
E Claudio in quel giorno raccoglieva tutta l'energia della sua fibra per resistere alla disperazione. Disonorato in Italia, lavorerebbe altrove, sconosciuto, per risparmiar la fame alla sua famiglia. Ma in Tribunale no: morire piuttosto! E in quell'ora Claudio con uno sforzo che non valeva a nascondere la disperazione, cercava persuadere Eugenia che gli era necessario partire. Fuggire! Intanto Ortensia udiva la voce di lui, udiva il terribile silenzio della madre!...
No: io non potevo immaginare ciò che accadeva a Valdigorgo mentre il Biondo e sua moglie chiacchieravano, mi colmavano di notizie paesane, e io stentavo a non abbandonarmi alla stanchezza del viaggio e provavo la tentazione di un riposo dolce quale non mai, quale di una tregua a una dura battaglia.
Poi il discorso del Biondo si rifece alla solita antifona: la popolazione che cresceva e la miseria che cresceva.
E il socialismo con gli scioperi? E le malattie? Tifo e pellagra; tanto che in paese c'era gran malcontento perchè non prendevano un altro medico; e ci voleva proprio un medico di più....
Finchè mi riscossi. Ordinando alla donna di prepararmi subito un po' di cena, attesi ch'essa trottarellasse via per dire al vecchio:
— Biondo! Prima di partire....; parto stasera stessa....; ho bisogno.... di vendere il podere!
Credo che egli fosse stato sempre dell'opinione di Claudio: che la filosofia una volta o l'altra m'avrebbe rovesciato del tutto il cervello; e a ripensarlo quale rimase alle mie parole, ora credo s'accertasse, di colpo, che questa volta era la buona. I grossi coralli che gli abbellivano la faccia divennero paonazzi, simili ai bargigli di un tacchino in amore; le palpebre, così grevi che pareva impossibile uno sforzo bastevole a sollevarle al di là della metà degli occhi, si alzarono in modo da scoprire due occhi enormi, quali nessuno avrebbe mai supposti; e per lo sforzo di sollevare quelle cateratte, e per il terrore del colpo ricevuto, la bocca gli rimase aperta ma senza voce. Parlai io.
— Debbo partire con i quattrini in tasca, questa sera. Capisci?
Allora il buon uomo mi scorse in volto una risoluzione e, nello stesso tempo, un'attesa penosa più di qualsiasi indizio di demenza. Impaurito più per me che per sè, calò le ribalte e chiuse la bocca dicendo:
— Cos'è successo?
— Debbo versare domattina, a Milano, ventimila franchi; e vendo il fondo.
Fosse la risposta che non del tutto a tono potè significargli poca confidenza, o fosse il dubbio che per quella misteriosa disgrazia io vendessi il podere lì per lì a un altro, il vecchio cadde a sedere, smorto anche nei bargigli e guatò intorno, quasi il compratore potesse nascondersi in qualche parte là dentro, o stesse per entrare dall'uscio, o dalla finestra.
— Vende....; a chi?
— A te!
— A me?!
Respirò, sollevò le palpebre a due terzi dell'altezza normale, e si cavò la berretta per ringraziarmi dell'onore. Ma disse piano:
— E il cumquibus?
— L'hai! O mi darai, per adesso, tutto quello che hai in casa. Ma bada! È un affare. Se non ti conviene, il fondo resta tuo, per questa obbligazione (e gli porsi la scrittura in carta bollata),... resta tuo solo fino a quando avremo trovato un altro compratore.
Avevo parlato quasi duramente; ma aggiunsi abbastanza commosso:
— Son ricorso a te perchè son certo che non mi strozzerai; e poi perchè non vorrai portarmi via la casa dove è morta mia madre.
Speravo fosse questa, la via che affrettasse il fine della mia impresa.
Ma a quell'attestazione di stima e a quel ricordo il Biondo temè di commuoversi troppo e senza più muovere difficoltà sul cumquibus tolse dalla busta gli occhiali; li mise; li levò per tabaccare, prima, liberamente; li ripose all'estremità del naso; e lesse o mostrò di leggere l'obbligazione mentre, a pausa a pausa e con le cateratte giù, diceva:
— Quel che posso fare lo farò volentieri per lei! Non me la scordo io quella buon'anima di sua madre.... E io, morta la mia donna, chi ci ho al mondo? Chi mi resta? (Non dubitava affatto che la Rita morirebbe prima di lui). Nessuno del mio sangue, mi resta; solo un nipote della donna, che farebbe patto col diavolo perchè morissimo d'accidente — salvo il rispetto — tutt'e due in una volta.
Ma a ridargli l'intero dominio di sè e la debita ponderazione ossia lentezza a trattar l'affare, occorse l'intervento della Pulicreta; la quale annunciava che la cena era pronta.
— Lasciateci stare quando si discorre d'interessi! — rimbrottò il marito, dimentico che l'affamato ero io e non lui. E s'addentrò in un lungo ragionamento, protestando anzitutto che — salvo il rispetto — i quattrini sono sempre quattrini, e proseguendo a contare le tornature del campo, e a stimar il prezzo delle tornature, e a sommar il prezzo totale, e a rifare e correggere quel benedetto totale.
— Nel valore del fondo c'è o non c'è la capienza per la somma che ti chiedo? — feci io, impaziente.
C'era e non c'era. I socialisti per un verso, le stagioni, che non son più quelle, per l'altro, deprezzavan la terra, laggiù.... Poi, a dir la verità, chi avrebbe comprato il campo senza la casa padronale, con la casa del contadino che non stava più, dritta? Finalmente, dopo più prese di tabacco e vani tentativi di rialzar le palpebre:
— Per me.... ecco.... sissignore!... il fondo li vale ventimila franchi.... Ma come l'intenderà la donna?
Non avevo pensato che ci fosse da persuadere anche lei.... la Rita, perchè anche lei aveva parte nel cumquibus. Il Biondo s'alzò tabaccando; andò fino all'uscio; tornò:
— Alla donna io non ci penserei nemmeno! Fa quel che voglio io! Ma...., e il nipote?... quel brigante di suo nipote?
Anche questa! Era necessario anche il consenso del brigante?
— Altro che consenso! Se impara che abbiam comprato il fondo, ci dà il veleno, come è vero Dio in croce, per far l'eredità! È il nostro tormento: vagabondo, giocatore....
Tranquillai il vecchio assicurandolo che la vendita resterebbe segreta e giurai, per di più, che morivo di fame e che morirei di fame piuttosto che cenare prima che l'affare fosse concluso. Egli uscì.
Intanto, in quell'ora, che cosa accadeva a Valdigorgo?...
L'appresi mesi dopo....; e come sarebbe stato meglio non l'apprendessi mai!
Mentre Ortensia, dietro la porta, ascoltava suo padre, che tentava persuadere Eugenia a lasciarlo partire — fuggire! —, Eugenia pensò che la ferrea fibra di Claudio fosse anch'essa piegata, infranta; anche la mente di lui fosse travolta in una disperazione che ne velasse la percezione della realtà. Essa ebbe come il presentimento che quella fuga sarebbe un doloroso e vano errore, e si provava a dissuadere il marito.
Questi, al nuovo ostacolo, abbandonò, per superarlo, il freno a cui si era tenuto pietosamente, e, affranto, rispose rivelando tutto: che non si lascerebbe nè arrestare nè processare nè condannare. I singhiozzi gl'impedirono di compiere la minaccia: che piuttosto morirebbe.
Allora Ortensia precipitò nelle braccia del padre. Lo pregava, lo scongiurava ad attendere facesse lei un ultimo tentativo.
Quale? con chi?
Con Learchi! Ancora lui, solo lui avrebbe potuto risparmiar l'onta, la morte?
Oh c'era un altro! Ma Eugenia sollecitò la figliuola:
— Sì! Va tu, con Mino!
Da prima Claudio si oppose; quindi, o perchè in quegli istanti fosse come il naufrago che s'appiglia a un fuscello, o perchè non gli reggesse il cuore di dire addio alla figlia e al figliuolo, parve accondiscendere.
Con tutto l'impeto, l'eccitazione del suo dolore, Ortensia condusse seco per mano il fratellino e si presentò con lui a Learchi.
Avrebbero impietosito un sasso; ma neanche l'innocenza di Mino, che piangeva, tra le braccia della signora Redegonda, intenerì quell'uomo.
Rispose:
— Nulla da fare; lasciamo andare!
E allora.... (quel che io provo scrivendo questo!), allora Ortensia,... Ortensia s'inginocchiò dinanzi a quell'uomo! Ortensia a mani giunte, in terra, come dinanzi a un dio!... Egli ripeteva, con la pipa, in bocca: — Nulla da fare!
E dava consigli: — Lasciate correr l'acqua per il suo verso.... Quando la matassa è tutto un imbroglio, il meglio è tagliare. — Tagliare! Meglio era per lui, il processo, il disonore, la condanna!
Ma Ortensia, esasperata dall'umiliazione, si rialzò, fuggì per rivedere, forse per l'ultima volta!, suo padre.... Il padre non c'era più! E un pensiero atroce attraversò la mente della figlia, intanto che la madre diceva a Mino: — Preghiamo Dio, se gli uomini non ci ascoltano....
.... Nello scrittoio del suo studio Moser da anni e anni teneva un revolver, che Ortensia aveva veduto più volte. Ella corse nello studio.... Il revolver non c'era più!
Fuori di sè, la misera tornò da sua madre; allontanò Mino; poi confessò tutto, a voce rotta: confessò che mi aveva amato, che per me aveva respinto Roveni, che odiava Roveni e che per salvare il padre doveva cedere a Roveni! Disordinatamente ripeteva quel che Roveni le aveva detto, le aveva scritto; dimandava alla madre in che modo dovesse telegrafare.... — Sarebbe sua — purchè egli le salvasse il padre!
Eugenia, la debole Eugenia, per un istante si sentì attanagliata dal dilemma: o il disonore del marito, o il sacrificio della figliuola....
Ma la fede sorresse ancora quella debole donna. Accarezzava, baciava la figliuola per quietarla; le ravviava i capelli su la fronte e le diceva, sublime: — Tuo padre è onesto e la sua onestà trionferà presto o tardi! Tu non devi essere di chi usò questi mezzi per possederti!
Ah! Ortensia non cedeva; gemeva: suo padre era partito con un'arma!... Eugenia sollevò gli occhi al Cielo, ad attingere il supremo coraggio, e rispose sicura:
— Dio tratterrà la sua mano!
Contemporaneamente io, laggiù, sentivo il tempo volare attendendo il Biondo; e me l'aspettavo con un pacco di biglietti di banca, e mi chiedevo, sempre più ansioso, quanto mi mancherebbe a compier la somma necessaria.
Con un sorriso tra i peli delle palpebre semichiuse e a fior delle labbra rase il Biondo venne alla fine, seguito dalla Pulicreta.
Ella brandiva la rócca quasi ad attestare che non vi rinuncerebbe sebbene fosse divenuta proprietaria, e stordita dall'avvenimento non sapeva se dovesse rallegrarsi della compera o affliggersi perchè era già fredda la minestra.
— Mi scuserà — disse il Biondo — se le ho fatto perdere la pazienza. Cosa vuole? Sono avvezzo a far tutto adagio!
Esclamai, allegro:
— Il tuo difetto! Se non ci avessi pensato su tanto, adesso avresti una dozzina di figliuoli. È vero, Rita? — Essa rise; ridevano ambedue.... Ma, e i quattrini?
— Zitto! — fece il Biondo. — Venga di qua con noi.
Mi condussero nella loro camera; e dopo essersi battuta entrambi la punta del naso coll'indice, tesero la mano sotto il talamo.... Misericordia! Che vista! C'eran due casse da morto; non di quelle piccole, per angioli; ma grandi, per due grosse creature com'erano proprio la Pulicreta e il Biondo! Eran due belle casse di noce: senza, dubbio i capolavori del Biondo. Ne trassero una in mezzo alla stanza.... Ivi stava il morto provvisorio.
— Zitto! — ripetè il vecchio —: che nessuno lo sappia! Ci fidiamo di lei; se no, ci ammazzano!...
— Per l'amor di Dio! — aggiunse la vecchia.
Aprendo, la cassa appariva vuota; ma il Biondo l'aveva costrutta a doppio fondo e nel fondo segreto era il morto: pacchettini di biglietti di banca, nuovi nuovi; oro, argento, e anche cedole al portatore.... Uno spettacolo tutt'altro che funebre! Basti dire che tolto quel che mi abbisognava, vi rimase abbastanza da non rendere inutile il doppio fondo della cassa.
— Zitto, per carità! — Ridevano sommessamente.
Ridevamo tutti e tre, proprio come se io fossi stato un loro figliolo a cui avessero fatto sì bella improvvisata.
Solo alla terza volta che rifece il conto della somma il Biondo spalancò le cateratte per veder bene il passaggio repentino di quella parte di sè stesso dalle sue alle mie mani; nè potè trattenere un sospiro.
Ma la cena fu gaia. Forse da un pezzo i vecchi coniugi non avevano cenato con cuore così pieno. Si comprendeva, a veder in che modo mi guardavano, l'una di sottecchi e l'altro di sotto le ribalte, che il merito di quella gioia era mio.
Quando fui per partire il Biondo mi trasse in disparte:
— I quattrini.... sono per il signor Claudio, è vero?
X.
Lieto che io avessi mantenuta la parola, il curatore mi accertò che nessuno potrebbe più mettere in dubbio l'onestà di Moser e che con l'arma a doppio taglio, preparata a strumento della sua perfidia, Roveni non potrebbe più ferire che sè stesso.
— Mi dispiace di non poterlo denunciare! — disse. — Le ha saputo far così bene, quel birbante! Ma se non avesse un documento che lo salva!...
«Sfuggirà anche a me?», io pensavo uscendo, verso il mezzodì, dallo studio del curatore. Prima di tutto però volevo veder Guido; dargli e ricever notizie. Quand'ecco, fatti pochi passi, m'incontrai.... Immaginate in chi! Nel cavalier Fulgosi!
Era stupendo nel ricco e lungo paletot; con un colletto così alto che pareva averlo ereditato da suo figlio, e la cravattina a tinte scozzesi, e i guanti gris-perle; con i baffetti e la barbetta d'un biondo pallido pallido: l'uomo di spirito, avverso ad ogni tintura, aveva ceduto allo spirito della conservazione apparente. E l'uomo di mondo in una città cosmopolita non si confuse a vedermi: mi fe' un inchino alla francese, mi diede una stretta di mano all'inglese e improvvisò un complimento da italiano e patriotta:
— Il dottor Sivori è come Romagnosi: quando si direbbe che è morto è più vivo di prima!
Quale insigne opera meditavo? Quale nobile impresa mi aveva ricondotto in patria? Le risposte che gli diedi non l'impedirono dall'accompagnarsi meco e dal cadere, dopo pochi passi, in discorso di Moser. Sapeva qualche cosa, non tutto, della disgrazia; quel tanto che aveva appreso da Guido, con cui egli, sempre uomo superiore, era rimasto in buona amicizia nonostante l'inimicizia ch'era divenuta sempre più grave tra lui e il Learchi padre, ora sindaco di Valdigorgo. Soavemente compianse la «gentile» Eugenia, la «amabile» Ortensia, la «dolce» Marcella, e rievocò i bei giorni di Valdigorgo.
— Che bei giorni, eh, dottore?...; quando non pioveva....
Già: quel giorno che gli avevo dato dello sciocco, pioveva!
Ma il culto di così care memorie l'induceva a chiedermi un favore grande, memorabile anch'esso.
— Non mi dica di no.... La mia signora sarà felice di rivederla! Mi faccia grazia.... di venire a pranzo da noi, oggi.
Impossibile! avevo tante faccende!
— Lo credo, illustre amico; lo credo. Però dovrà pur rubarlo un po' di tempo alle faccende, per desinare: lo rubi, e me ne faccia dono.
— Impossibile! — ripetei duro come un tedesco.
— Non vuol oggi? Ebbene: domani!
Dàlli e dàlli; gutta cavat lapidem; e, come si usa in ogni paese per levarsi un peso d'addosso, finii per preferire l'oggi al dimani. Che peccato non fosse a Milano anche Pieruccio! Era partito, il dì innanzi, per Modena; di dove tornerebbe, fra pochi mesi, con le spalline.
— Ah le spalline e vent'anni! — sospirò il cavaliere allargando le braccia e invidiando suo figlio. Di suo figlio le donne andavan fanatiche anche al solo vederlo in divisa da collegiale.
— Si figuri che l'altra sera, all'ultima festa in casa De Mol....
Mentre narrava le figliali prodezze il cavaliere s'arrestava di tre in tre passi, compiacendosi che i suoi gesti oratori attirassero l'attenzione dei passanti. Tutti parevan chiedersi chi fosse quel signore elegante e nello stesso tempo austero. Un senatore, così giovane? O piuttosto un deputato? O un presidente di Corte d'Appello, o un ex-ministro: un' eccellenza insomma? Ed egli diceva:
—.... La giovine signora del colonnello.... — Pieruccio era stato sul punto di sedur la moglie di un colonnello!
— Vede già la via per diventar generale — dissi io, indulgente.
— A proposito! — il cavaliere riprese. — C'era anche Anna Melvi in casa De Mol. Cantò deliziosamente.... Si fa; si fa! è una ragazza che si fa! La lanceremo!... E lei sa, dottore, che anche Roveni è a Milano? L'ho visto più volte, il bravo ingegnere.
Io m'affrettai a metter da parte il «bravo ingegnere» preferendo il minor male. Meglio discorrer della Melvi.
— Badi, cavaliere, che la Melvi è una ragazza pericolosa.
Un altro sospiro venne su dal cuore e dal colletto di quell'apparente Eccellenza. Quindi:
— On ne badine pas avec l'amour. Ma io mi occupo di Anna solo per l'amore dell'arte e per amore del mio paese. Ho la fortuna di alte relazioni, e la lanceremo: vedrà! — Aggiunse che non poteva invitarla a pranzo con noi perchè la sua signora — a torto, ve'! — ne era un tantino gelosa. Ma a questo punto un'idea attraversò la mente di Sua Eccellenza, che si fermò mormorando:
— A quest'ora ci dovrebbe essere....
— Chi? — esclamai io — Anna? Non voglio vederla! Intendiamoci!
— No, no — rispose egli. — Mi è venuto in mente che debbo vedere un'altra persona prima di déjeuner e mi rincresce lasciarla, caro dottore: a meno che ella non si compiaccia d'accompagnarmi sin qui all' Orologio. Due minuti....; due passi.... Ci viene? Bravo! Quanto è gentile!
— È la mia strada — dissi, senza alcun sospetto.
Giunti al Ristorante dell' Orologio, Fulgosi mi lasciò sulla soglia. Ma, appena dentro, si rivolse accennandomi d'entrare: — Scusi, dottor Sivori! — Quando gli fui presso, m'indicò, fra la gente, una persona seduta a una tavola e chiamò forte:
— Ingegnere!
Roveni si volge: mi vede e resta immoto a guardarmi, mentre io resto a guardarlo; e il cavaliere ride, felice della bella improvvisata che mi ha fatta; solo non comprende il perchè io e Roveni non ci salutiamo, non accorriamo l'uno incontro all'altro; e precipita lui alla conclusione.
— Senza complimenti, ingegnere! Oggi lei è invitato a desinare da me, con l'illustre....
Avanzando, io interrompo l'uno per dire all'altro:
— Ingegner Roveni! avrei bisogno di parlarle entro oggi, in libertà; senza testimoni. I testimoni, se mai, li troveremo poi!
Egli risponde, pallido più di me, corrugando un po' le ciglia:
— Sta bene! Fra un'ora, allo studio dell'ingegner Salghi, viale Monforte, 5. Saremo soli.
— Sta bene — io ripeto; e col capo fo segno al cavaliere che mi segua.
Fulgosi era sconvolto in modo indefinibile; dava l'impressione di un uomo, e un uomo superiore, denudato all'improvviso là in mezzo a tutta quella gente che faceva colazione.
Come quando una repentina bufera agita, piega, rovescia un arbusto fiorito, sì che ne vedi il fusto brullo e le branche spinose, e i fiori e le fronde esterne sembrano vanità in balìa del vento, io vidi allora tutta l'intima povertà del cavaliere in quel fallace rivestimento d'eleganza e di rettorica. Mi seguiva tacito, a capo chino nonostante il puntello del colletto, e pareva attendersi l'ultimo sconquasso. Non gli diedi dell'imbecille: gli imposi di non riferire ad anima viva il mio incontro con Roveni e rimisi a miglior occasione l'invito del pranzo. Dopo tutto gli dovevo gratitudine, perchè, mercè sua, affrettavo la risoluzione che mi premeva.
E mi recai da Guido come avevo divisato. Ma se nella bufera il cavalier Fulgosi scopriva miseramente sè stesso, Guido Learchi vi smarriva interamente sè stesso. Gli affanni in Guido erano fuori di posto; lo svisavano, e la sua faccia gioconda cedeva a impronte quasi di un dolore fisico acuto, straziante; per esempio di un atroce dolor di ventre. Finchè aveva potuto ripetere a se stesso: speriamo!, e immaginar prossimo il ritorno a una beata pace famigliare, egli era riuscito a illudere anche la sua Marcella e a mantener aperta la vena del buon umore: sopravvenuto l'evento a cui non trovava rimedio nel suo ottimismo e nella sua immaginazione, mi si presentò nell'aspetto tragico, alla sua maniera.
— Che è successo di nuovo? — esclamai io, davvero atterrito.
— Zitto! per carità!...
Marcella indovinava una nuova disgrazia, e lui, con quella faccia, non sapeva più che cosa darle a credere.
—.... che Marcella non ci senta!
Poi con un fil di voce e le braccia penzoloni mi annunciò: — Moser.... è scappato!
Il mio telegramma da Molinella era giunto a Valdigorgo troppo tardi. Invano Eugenia aveva sperato che avvertendo Guido, Guido giungesse in tempo di veder Claudio al suo possibile arrivo a Milano, prima che prendesse altro treno.... Nè si sapeva che via avesse presa.
XI.
Successione così precipitosa di avvenimenti e di fatti comprendeva fors'anche, per me, la corsa alla morte? «Altro il parlar di morte, altro il morire», diceva a dritto e a rovescio il signor Learchi sindaco di Valdigorgo; eppure io, attendendo l'ora del colloquio con Roveni, parlavo a me stesso della morte ben diversamente da quando l'apprensione di essa annientava in me la vita, e mi pareva di esserci preparato con animo sicuro e freddo. La notizia della fuga di Claudio mi accresceva il fastidio di un destino avverso; accresceva l'odio che mi sospingeva contro Roveni. E Ortensia non mi amerebbe mai più come io l'amavo; e all'amicizia avevo già pagato il mio debito. Dunque?... In un duello a pistola non m'era difficile immaginare che Roveni colpisse me come alla fabbrica aveva colpito nella carretta. Era stato, quello, un ammonimento molto preciso....
Morire! «Quali dolci sorprese ci prepara la morte?» Credetemi: queste parole di Pascal mi suonavano ora all'orecchio con invito più dolce che quello d'andar a pranzo dal cavalier Fulgosi. Anzi! Un'impressione strana provavo, quasi di lungo soffrire che riceverà lenimento, o quasi di un amante che sarà appagato dopo lunga attesa.... Certo, poteva anche accadere che io ammazzassi l'avversario; poteva accadere quel che accade più spesso, che restassimo incolumi entrambi; ma, ad ogni modo, bisognava far sul serio!
A Milano non ci avevo molti amici. Deliberai, alla fine, che ricorrerei a due antichi compagni di scuola miei concittadini; l'uno ufficiale, che mi avevan detto di stanza a Milano; l'altro che sapevo esservi giornalista.
E risoluto, mi recai ove mi aspettava Roveni.
M'aspettava, allo studio dell'ingegner Salghi, ritto in piedi tra la finestra e l'ampia tavola da disegno, fumando un sigaro virginia, con l'aria di chi s'adatta a stento a ricevere un importuno o un inferiore.
Non aveva pronunziata che una parola: «avanti!», quando io, di fronte a lui, fermo, fissandolo, dissi senza preamboli:
— Moser è scappato...
Alla notizia, mi accorsi che egli non rimase padrone di sè quale voleva parere, e lo sforzo che sosteneva per sembrar tranquillo fu manifesto a un istantaneo abbassar dello sguardo.
Pensò senza dubbio che se Moser era fuggito, Ortensia, non avendo più da temere denuncia o processo per il padre, gli sfuggiva.
Io gli chiesi:
— La notizia vi meraviglia?
Allora i suoi tocchi bianchi tornarono su di me; con la sinistra s'affilò l'uno dei baffi e disse a mezza voce, affettando incuranza.
— Peggio per lui se è scappato!
— No! peggio per voi! — Mi sentivo superiore io poichè la sua voce era stata malferma; e volevo tagliar corto. — Peggio per voi!
E aggiunsi nello stesso tono: — Io so perchè Moser è fuggito come un ladro! so che la colpa è vostra!
Roveni rise sguaiatamente deponendo lo sigaro su la tavola e incrociando le braccia; ma la risata cessò d'un tratto, del tutto; anche nell'ironia non serbava sorriso. Poi disse:
— Benone! Se Moser è fuggito come un ladro la colpa è mia! E se domani s'imparerà che si è ammazzato, sarò io l'assassino che l'avrà ammazzato!
— A questo punto? — io gridai. — Così, con tutta la brutalità che non avete più coraggio di nascondermi, voi potete pensare a questa sciagura estrema, a questa conseguenza ultima del vostro tradimento? È l'incoscienza! E io che son venuto qua per accusarvi dinanzi alla vostra coscienza! Non vi ho ancora conosciuto abbastanza! Volevo dirvi che non avete saputo ordire così bene i vostri inganni da scampare alla condanna degli onesti. Ma mi accorgo che non vi ho ancora conosciuto abbastanza! Come dovete esser tristo!
Per lui furono parole che gli diedero tempo di rimettersi e delle quali non sospettò tutta la gravità. Credè, forse, che io parlassi vagamente d'inganni, nè supponeva che Moser fosse salvo e che mi fosse nota la frode perpetrata nei libri della ditta. Sempre pallido, ma sicuro adesso nello sguardo freddo e nella voce, e privo di sorriso, ribattè:
— Adagio, signor dottore; calma! Corre troppo, lei! Lei mi ha già detto, tutto in una volta, che io sono un ingannatore, un traditore, un tristo, un incosciente. Lei mi sembra un rappresentante del Pubblico Ministero che fa la requisitoria a un povero diavolo d'accusato e gli scaglia contumelie in nome della legge. Ma prima di far la parte di accusato io voglio domandarle in nome di chi e con che diritto si assume, lei, la parte di Pubblico Ministero!
— In nome della vostra vittima; col diritto che mi dà l'amicizia di Moser; col diritto di chi ebbe il torto di credervi diverso da quel che siete e di favorire senza volere i vostri inganni.
Tacque; ripigliò il virginia. Il suo sguardo mi sfuggì mentre lo riaccendeva riflettendo. Allo stesso modo che Learchi dalla pipa, egli attingeva forza e prudenza dallo sigaro.
— Benone! — fece poi. — Ora le concederò di giudicarmi. Solo la prego di lasciar da parte le parole grosse, che su di me non hanno presa. Amo i fatti, io. Dunque: sono accusato d'inganni. Con molta calma, come vede, rispondo che l'ingannato sono io, e glielo provo. Non ho nulla da nascondere, io!
Il suo sguardo, divenuto tagliente, compiva il significato dell'ultima frase: accusava egli me di simulazione. Ma troppo lontano dall'immaginare che cosa comprendeva quella frase «non ho nulla da nascondere, io!», non la raccolsi e attesi.
Egli proseguì:
— Per dirle tutto, le dirò anche cose che lei conosce; ma è necessario togliere ogni dubbio, ogni equivoco fra noi due.... Quando l'ingegnere Moser ebbe bisogno di un direttore che gli raddrizzasse la baracca, mi chiamò a Valdigorgo e mi promise mari e monti. Fin d'allora aveva in vista il fallimento. Io usai tutta la mia energia per riparare; introdussi economie e riuscii a ordinare e migliorare il personale, a migliorare la produzione. Per contratto non avevo obbligo di far la metà di quel che feci: per compenso del di più non ebbi un soldo di più del meschino stipendio, e le promesse sfumarono. Ma l'ingannatore sono io! Avrei potuto trovar di meglio e andarmene subito dopo il primo anno, e lo dissi. Mi scongiurarono di restare. M'ero affezionato alla famiglia....
— Affezionato alla famiglia! — interruppi ironico.
— Sì: affezionato alla famiglia! Lo ripeto. Aggiungo che a Valdigorgo rimasi anche perchè una delle ragazze Moser cominciava a piacermi. Per essere sicuro del terreno dove mettevo i piedi, come vuole il mio temperamento, un giorno discorsi di quella mia simpatia alla madre. La signora o previde che io non piacerei alla capricciosa figliuola o per la bella figliuola sperava un miglior matrimonio; ma, d'altra parte, temeva che io piantassi in asso il marito, e mi pregò di lasciar passar qualche tempo prima di dichiararmi.... E l'ingannatore sono io!
— Eugenia Moser accusata di sotterfugi, di simulazione, da voi?...
— Non da me; dai fatti — oppose egli. — Sono fatti, questi! Se li può smentire, aspetti che io abbia finito: ci sbrigheremo più presto.
Lo lasciai dire.
— Un bel giorno arrivò l'amico di casa....
Ma a vedermi urtato dalla espressione, si corresse subito: —.... un vecchio amico della famiglia; non così vecchio però da non innamorare a poco a poco la signorina che piaceva a me. Io non sospettavo; pensavo a un'affezione quasi paterna; non badavo alle chiacchiere. Il dottor Sivori sapeva le mie intenzioni, le sapevan tutti: perchè sarebbe stato sleale? Invece egli amava e innamorava la signorina.... E l'ingannatore sono io!...
Questa volta aveva colpito meglio. Io tacqui ancora. Fatto più sicuro dal mio silenzio, Roveni continuò:
— Ma dovetti pur persuadermi che la signorina era incapricciata di lei, dottor Sivori. Perciò le domandai quel colloquio prima della sua partenza; e volli dimostrarle la serietà dei miei propositi. Sivori ha molto potere su Ortensia — mi dicevo —; la convincerà a non far sciocchezze, a non trattarmi indegnamente. Invece lei, signor dottore, fingeva. Dopo aver innamorata la ragazza, scappava; per una misteriosa ragione, senza il minimo tentativo di riparare al mal fatto, scappava.... E l'ingannatore sono io!
Domandai: — Avete finito?
— Non ancora! Quando fui stanco di fare il collegiale e di aspettare la manna celeste, ed ebbi una nuova proposta d'impiego lontano, volli uscir d'incertezza; interrogai Ortensia. Mi rispose: «Non ci penso, per adesso, a maritarmi». Non era un no: potevo sperare, e rimasi. Ma la signorina non disse no allora per riguardo al babbo, che aveva bisogno di me. Il no venne dopo, quando la società progettata da Moser pareva sicura e non si danneggiava il babbo disgustandomi. E sono io l'ingannatore!
— Avete finito? — ripetei più forte.
E Roveni, più forte ma pur come chi si padroneggia anche nella vittoria:
— Non ce n'è abbastanza? Vuol dell'altro? Ecco! L'affare della società andò a rovescio. Moser stava per fare il capitombolo; gli operai, senza paga, minacciavano di prenderlo a sassate. All'ultimo momento mi domanda una somma per restituirmela, s'intende, il giorno dopo. Io gli do tutto quello che ho: i miei poveri risparmi; e il giorno dopo Moser fallisce.... Chi è l'ingannatore? Adesso ho finito!
Buttò in terra il resto del sigaro; incrociò le braccia e con un moto del capo più insolente che accondiscendente:
— A lei!
— Avete finito male, come avete cominciato! — feci io, a mia volta. — Per accusar di falsità Moser, Ortensia, Eugenia, me, non vi siete accorto che svelavate voi stesso del tutto: falso in tutto, falso sempre! Consapevole del vostro basso egoismo, voi assumeste la figura di un uomo risoluto e diritto nel pensare e nell'operare, ma foste sempre un calcolatore; non prudente: astuto, doppio. Finchè, per disgrazia, vi siete smarrito in una passione e l'arma vi si è scambiata in mano: dopo essere stato astuto siete stato audace; e siete caduto.
— Caduto, io? — Rise in quel suo tristo modo.
— Voi! Oh credete che io sarei venuto a questo diverbio se non fossi certo di superarvi e di smascherarvi? Giù la maschera! I vostri benefici per Moser che scopo ebbero? Aiutare Moser valeva assicurarvi la dote della ragazza che vi piaceva. Ma non eravate uomo, voi, da compromettervi per un capriccio: tastar terreno, metter le mani innanzi, predisporre la madre prima della ragazza senza compromettervi nè con l'una nè con l'altra, era la tattica nascosta sotto l'apparenza di franchezza e di lealtà. Corteggiare Ortensia era pericoloso; correvate il rischio di non poter più liberarvene se le faccende di Moser si volgessero al peggio. Il vostro riserbo intanto.... — Ortensia era così giovane! — vi meritava la stima della madre; il padre non poteva stimarvi di più, e Ortensia adora i suoi; al momento opportuno avrebbe ascoltato il loro consiglio....
Con una smorfia di riso, che parve ora una stigmata di cattiveria, Roveni venne di qua dalla tavola, si arrestò spavaldo di fronte a me, e m'interruppe:
— In quel mentre però avrei potuto spassarmela anch'io con la ragazza di nascosto, come faceva chi portava la maschera dell'amico di casa!
— Tacete! — urlai sul punto di scagliarmegli addosso. — Non osate malignare, voi, sul mio affetto e su la mia condotta! Per spassarvela voi avevate Anna Melvi! Ortensia non le rassomigliava: a diciassette anni avrebbe già saputo frenare la vostra volgarità. Oh quando penso che dopo gli eccitamenti di un'Anna voi, chissà quante volte, avrete contaminato nel vostro pensiero.... — (mi arrestai con ribrezzo) — Ma appunto ciò fu quello che vi vinse! Ortensia era tanto diversa dall'altra!, dalle altre! Ve ne innamoraste troppo; come non avreste mai creduto, come non riusciste a celare nemmeno ai miei occhi; ed ero cieco per voi, allora! Chi l'avrebbe mai detto? Venne il giorno che l'avreste sposata anche senza dote, Ortensia! Gli affari di Moser andavano male, ma non avevate più la forza di lasciar Valdigorgo. E non potevate immaginarvi che Ortensia vi rifiutasse; così buon partito! Finchè venne un altro giorno che Ortensia vi disse no, addirittura. No, a voi! no, a Roveni! Insisteste: fu peggio. La volontà di una ragazza di diciassette anni era più forte della vostra voglia! L'amore diventò in voi una passione delittuosa; e dinanzi all'ostacolo ricorreste alle minacce.
— Verissimo! L'avvertii, la signorina, che potevo far molto bene e molto male a suo padre. Colpa sua se volle il male!
— E il primo passo fu quello di dissuadere i creditori dal compor la società: è vero?
— Sì! — Mi sfidava apertamente a proseguire sperando d'arrestarmi tosto, e rifarsi.
Proseguii:
— Ortensia non si piegò! Allora prestaste duemila lire a Moser per interporvi ai creditori e dominarli; per impossessarvi di Learchi e aver in mano la rovina di Moser. Ortensia non cedè neppur allora. E voi affrettaste il fallimento, dopo aver falsato i libri della ditta....
A udir questo, Roveni divenne livido fin nelle labbra e fece come un serpe che si raccoglie in se stesso, incerto se di celarsi ancora o d'avventarsi. Tentò di sorridere; ma fu un sorriso viscido e velenoso; gli occhi bianchi mandarono fiamme. Poscia ricuperò idee e voce:
— È un'insinuazione ridicola!
Io procedevo:
— Impossessandovi anche dell'onore di Moser pensavate: se Ortensia vuol salvare suo padre dal disonore, cederà; se non cede, mi vendico! Ah avere amato, desiderato, aspettato per degli anni, voi, e senza riuscirci! Aver speso duemila lire! Si ha diritto di possedere una bella ragazza per duemila lire!... La vostra vendetta doveva esser degna del vostro amore; della vostra passione!
Roveni rifletteva, senza più sforzo di dissimulare. Adagio, contro la mia irruenza, disse:
— E così io avrei dato di cozzo nel codice?.
— Non so che pezzo di carta basta a difendervi!
Anche questo mi aveva detto il curatore! Colpo non aspettava colpo. Bisognava fingere di nuovo.
— Benone! — egli riprese. — Ma che tutto ciò è assurdo, che è roba da romanzo, lo prova un'ipotesi molto semplice, molto probabile, che lei si è dimenticato di fare. Le parole grosse mandano a rotoli la logica! È logico supporre che nello stesso tempo che Ortensia avrebbe dovuto arrendersi a discrezione il curatore avrebbe potuto scoprir la frode. Come avrei fatto io, in tal caso, a salvar il padre per amor della figlia?
— Persuadendo Learchi ad accomodar tutto, o trovando altrove ventimila lire. L'avrete ben prevista la via di uscita!
— E lei è proprio convinto di tutto questo?
— Convinto? Ma non vi ho già detto che Moser è fuggito come un ladro? La frode è scoperta!
A questo punto, in un istante, vacillò e s'avventò:
— Benone! Oggi stesso informerò io il Procuratore del Re che si è scoperta una frode nel fallimento Moser e che Moser l'ha fatto fuggire lei d'accordo col curatore!
Credeva d'avermi abbattuto, finalmente!
Ma a udire:
— Troppo tardi! Moser è già salvo! —; a udir tali parole Roveni rimase come a ricevere una mazzata sul capo. Il sangue gli affluì tutto al volto. Fuori di se, mi assalì, mi afferrò al petto, inferocito — una tigre — urlando:
— Chi l'ha salvato?
— Io!
Allora il braccio gli ricadde pesantemente; chinò il capo; sghignazzò, livido di nuovo; disse:
— Anna Melvi aveva dunque ragione!... L'amico di casa ha salvato l'onore del marito.... Adesso potrà sposarla, la figliola...., senza più dispiacere alla madre....
Che cosa? Una cosa orribile! Mi parve di comprendere; compresi.... E afferrandogli un braccio con violenza pari alla sua:
— Spiegatevi! — Aveva gettato fango e veleno su Eugenia! Eugenia! — Spiegatevi!
Egli mi guardava fisso: — Voglio dire che il codice non contempla il caso dell'amante della madre che sposa la figliola.
La mia destra sfiorò la guancia del miserabile. D'un balzo egli si era sottratto da un lato. Si ritrasse verso la porta laterale e toccò il bottone d'un campanello. Fu un attimo. Contro di lui urlavo:
— Vigliacco! Calunniatore infame! — Ma già un servo o un portiere che fosse, evidentemente in attesa mi tratteneva. — Vigliacco! — urlavo. — I sicari! Hai sicari in agguato! — e tentavo divincolarmi, rivolto a lui.
Immoto, su la soglia, Roveni mi guardava; pareva attendere che mi quietassi per parlare. Stretto da quell'altro io gridavo sempre più forte:
— Vile! vile! Calunniatore di donne! falsario! E mi dibattevo.
— Insultatemi impunemente! — Roveni potè dire alla fine. — Non mi batterò; non voglio mandarvi una palla nello stomaco! Dovete vivere! Devi vivere! — Mi par di sentirlo ripetere «devi vivere!»
E agitando la destra, quasi a farmi grazia, e volgendomi le spalle, nel rinchiudere la porta dietro di se, mormorò non so che di «vendetta».
— Fuori! fuori! — ripeteva intanto quell'altro, che mi spingeva verso l'altra porta. Io gridavo ancora: — Vigliacco!
XII.
Non si batterebbe. Anche se insultato, oltraggiato in pubblico, si comporterebbe da quel facchino che era e non si batterebbe, per un lontano e oscuro scopo di vendetta. Ah no?... Ma non aveva previsto, l'uomo sagace, che per indurlo a operare da gentiluomo e per evitarne le bassezze c'era un modo più persuasivo di quel degli schiaffi: c'era la stampa. Egli comporterebbe la vergogna di ogni offesa in un pubblico ristretto e in luogo limitato, ma alla minaccia d'esser trattato da vigliacco su pei giornali non potrebbe resistere. Doveva premergli la stima dei molti a quell'ipocrita della lealtà, a quell'ambizioso!
Così, ardendo d'ira com'è facile immaginare, andai subito in cerca degli amici che già avevo prescelti ad assistermi nel duello: il giornalista e l'ufficiale.
Di buon grado essi accettarono l'incarico.
.... Non pochi che si sian trovati in attesa d'andar sul terreno avranno avuto, oso credere, un timore più grande che quello d'arrischiar la pelle: il timore di fare una magra figura. Un passo di più o di meno; un colpo di sciabola tirato un po' più in basso o un po' più in alto; un colpo di pistola sparato un secondo prima o un secondo dopo, basta a «squalificare» un gentiluomo; cosa orribile fin nel vocabolo. E c'è di peggio: perchè è anche possibile far ridere con qualche errore di inesperienza; e il danno del ridicolo è in proporzione alla solennità della funzione che si compie. Che cosa c'è che eguagli la solennità di un duello? Nessuna. Tutte le altre funzioni, dal matrimonio al funerale, accomunano ogni sorta di gente; ma i gentiluomini che si battono con tante regole son gente fuori del comune e più in alto; se no, non si batterebbero così. Ne viene che uno che faccia ridere in un duello è disprezzato pur dalla gente comune, la quale non si batte con tanta solennità. Ebbene, io ero disposto a morire, ed ebbi questo timore! Attendendo che i padrini tornassero cercai prepararmi con la fantasia ad evitare così gran disgrazia; nè mi domandavo se per l'addietro ci avrei pensato su tanto; nè mi meravigliavo d'essere così tenuto a modalità della vita proprio sul punto di rinunciarvi. Contraddizione ridicola, insomma, ma prova anche questa del mutamento avvenuto in me.
Mi immaginavo sul terreno; avanzavo numerando i passi; sparavo mentre vedevo Roveni procedere nella stessa guisa. Con uno sforzo resistevo alla tentazione istintiva di chiuder gli occhi e li spalancavo al momento del colpo. Guai se chiudessi gli occhi!: farei credere d'aver paura!; farei ridere i testimoni dell'una e dell'altra parte! Studiavo anche la miglior maniera di comportami durante le disposizioni preliminari; e non esitavo a figurarmi la catastrofe, cadessi io o cadesse Roveni....
Però insieme con questo ricordo di vaga e insulsa comicità mi è rimasto il ricordo serio di un sentimento che allora mi sembrò un presentimento assai triste. Mentre fantasticavo in tal modo, mi si affacciarono alla mente, d'improvviso, le immagini di mio padre e di mia madre; con perspicue sembianze di dolore. Mia madre ancora giovine, pallida, sorridendo di quel sorriso che nessun volto mai ebbe per me, e quale mi guardava allorchè io, ragazzo, ero malato; mio padre con quei suoi occhi pieni di bontà e il capo un po' chino, come sotto un peso di sventura. L'impressione che n'ebbi mi fece dubitare di rimanerne troppo a lungo commosso. Forse...., di là...., mio padre e mia madre attendevano, così, il mio destino incerto anche per essi?
«Chi sa quali sorprese ci prepara la morte?»
Ma, di ritorno, gli amici apparvero visibilmente malcontenti nello stesso modo e nella stessa misura, non so se più di me o di Roveni. Mentre il giornalista mi sogguardava, ripulendo gli occhiali col fazzoletto, il rigido ufficiale parlò:
— L'ingegner Roveni s'è trincerato dietro l'articolo 151.
— Che articolo?
— «Si respinge la sfida dell'offensore che ha provocato ed offeso senza giusto motivo».
— Senza giusto motivo?
Era il colmo della sfrontatezza!
— Lo sfidato — riferì il capitano con l'attitudine di chi cita un nobile esempio — ha ascoltato le nostre comunicazioni senza commento; solo, ha preso il codice Gelli e ha indicato l'articolo 151 dicendo: «Ecco la mia risposta».
— Io però — disse il giornalista — son uscito dalla prammatica che obbliga i padrini a non discutere e ho avvisato quel signore che si pubblicherebbe il verbale. E lui: «Risponderò pubblicamente, se il dottor Sivori vorrà lo scandalo!» E io: C'è poco da rispondere! E lui: «Mi basterà dire ciò che potrò provare: che l'ingiuriato fui io; che credetti mio dovere non raccogliere le offese, e credo mio dovere non dar seguito alla vertenza per non compromettere due signore: quella che il dottor Sivori si sente in obbligo di difendere e quella che io non ho l'obbligo di difendere, ma che mi fornì la notizia sgradita al dottor Sivori».
(Eugenia Moser e.... Anna Melvi!)
— Allora io ho detto — proseguì il giornalista —: Badi, signor ingegnere, che nessun articolo di nessun codice o nessuna signora di questo mondo tratterrà Sivori dall'assalirla pubblicamente, e la stampa riferirà l'accaduto. E lui: «In tal caso, trascinerò il dottor Sivori in Tribunale, e lo scandalo sarà più grande e più doloroso per una terza persona: il dottor Sivori sa quale».
Ortensia! Ortensia apprenderebbe ciò che si diceva di me e di sua madre!
— Dopo ciò, che si fa? — il giornalista mi chiese.
Ero annichilito! Ad ogni costo, dovevo evitar il pericolo di quella propalazione infame! Dovevo cedere alla minaccia.
— Dopo ciò — io dissi — voi vi sarete convinti che io ho a che fare con un mascalzone furbo e pericoloso.
Ma il giornalista: — Io sono convinto che tu hai a che fare con uno che ha paura!
— Roveni — osservai sorridendo, per celare l'intima angoscia — è un formidabile tiratore a pistola.
Osservò l'ufficiale:
— Eh! credi non si possa essere tiratore formidabile e nello stesso tempo aver paura?
XIII.
«Si ricorda?» Con compiacenza patetica Anna Melvi, quel dì che andammo alle Grotte, m'aveva chiesto: — «Si ricorda di quando io e Marcella, piccoline, correvamo innanzi, mentre lei e la signora Eugenia andavano incontro a Moser, e la signora Eugenia portava in braccio Ortensia? Una Madonna! E a chi ci domandava chi era lei, noi non sapevamo che cosa rispondere....»
Io sarei stato, allora, l'amante di Eugenia!
Anna quel giorno lontano pensava: «Verrà forse l'ora che te ne farò ricordare amaramente». Così pensava per punirmi del mio disprezzo. Io la ferivo; io avevo scoperta e manifestata la sua intenzione di accalappiare Roveni. Guai se l'ingegnere le sfuggisse!
Finchè aveva sperato di sedurlo, la Melvi aveva taciuto: perduta ogni speranza, essa si era proposto di vendicarsi, a un tempo e a un modo, di me, di Ortensia — la rivale preferita —, e di Eugenia, colpevole d'esser la madre di Ortensia. E non era un bel colpo far appunto Roveni strumento della sua vendetta?
Ortensia infatti amava me; dell'ingegnere non voleva saperne. Ma Roveni apprendendo che io ero stato l'amante della madre, troverebbe ben lui la via a impedirle il mio matrimonio con la figliola!
Quante volte Anna Melvi, mentre osservava Ortensia con l'invidia e l'odio di cui è capace una rivale abbattuta, doveva aver pensato: «Per colpa tua e del tuo Sivori io non avrò Roveni, ma tu non avrai Sivori!»
Nè c'era da meravigliarsi che Roveni avesse creduto a una donna spregevole anche per lui! Le anime triste hanno legami di reciproca fiducia pur quando sembrano avverse. Poi, nessuno meglio della Melvi, la quale fin da bambina capitava alla villa Moser, poteva malignare con apparenza di verità intorno all'antica amicizia di Sivori e di Eugenia. Poi, venne il giorno che Sivori abbandonò Ortensia, e ciò confermava la calunnia; persuadeva magari Anna stessa d'aver cólto nel segno! Ah verrebbe forse un altro giorno: quello che Ortensia imparerebbe il perchè io l'avevo abbandonata: perchè ero stato l'amante di sua madre! Tal giorno dovette parer prossimo ad Anna quando Ortensia respinse definitivamente Roveni.
Se non che costui non era solito a precipitare: aveva creduto alla calunnia, ma se ne varrebbe solo a tempo opportuno....
(Sfinito dai lunghi viaggi, dalle notti insonni, dalle battaglie di pensieri e parole, io m'ero gettato sul letto.
Ma mi contorcevo e dibattevo in questa rete in cui i miei nemici mi avevano preso).
.... E mi ero dimenticato affatto, per lungo tempo, di Anna Melvi...! M'era uscito affatto dalla memoria quel suo: «Me ne infischio.... per ora!» Intanto l'altro sghignazzando mi ammoniva alla prudenza: «Giudizio! Non provocatemi in nessun modo; se no, rivelerò tutto a Ortensia». Questa la minaccia che Roveni aveva sospesa sul mio capo, di una terribile vendetta avvenire.
Ma insomma: chi conoscendo Eugenia Moser e me potrebbe credere alla calunnia, a un'infamia? Nessuno, tranne quelle due anime triste. Potrebbe dunque credervi Ortensia se Roveni arrivasse alla vigliaccheria estrema? Era un sospetto assurdo, il mio! mi ripugnava fin concepirlo più chiaramente..... Infatti, a poco a poco, la mente mi si ottenebrava. M'assopii. Mi riscosse il pensiero di Claudio. Allora mi sfogai contro di lui.
Avevamo pattuito io e Guido che il primo a ricever nuove di Moser le recherebbe all'altro. Guido non era venuto a cercarmi all'albergo nè mi aveva mandata alcuna notizia. Nessuna notizia! Claudio però avrebbe dovuto aver più fiducia in me e ritardare quant'era possibile così dolorose angustie alla sua famiglia. Sapeva Ortensia della fuga del padre? L'avevo vista in preda a un orgasmo di follia allorchè mi aveva detto, a Valdigorgo, che l'onore del padre era in pericolo. Che aveva fatto, quanto aveva sofferto se Eugenia non era riuscita a celarle la verità della fuga? Ah! che pena, mio Dio!
Ma anche una tal pena, a poco a poco, cedette alla stanchezza; e mi addormentai.
.... Dopo non forse più di mezzora mi risvegliò la voce del cameriere, il quale mi annunziava la visita di un ignoto.
Benchè desto di soprassalto, io mi sentivo nel sangue il breve ristoro e nello spirito quella leggerezza che si ha dopo il riposo e prima di riacquistare la piena coscienza dei propri mali. Accolsi quasi lietamente il visitatore. Egli, il signore ignoto al cameriere, era il cavalier Fulgosi; e io pensai, lì per lì, che venisse per riparare con i complimenti e le scuse al caso topico della mattina. Ma tutta la sua persona, cedendo a strane mosse, rivelò un turbamento nuovo e più grande. Volgeva il capo a destra e a sinistra, come una galana, per accertarsi che potevo udirlo io solo; quindi avanzando come le gambe lo reggessero a fatica esclamò con quanta efficacia d'espressione può attingere un afono: — Ha scritto!...
Moser — compresi subito — aveva scritto a lui; a lui che così pallido dava immagine di un morto con la barbetta e i baffetti tinti. Cadde a sedere e:
— Ha scritto.... Son compromesso!
Quel terrore senza ragione e, più, l'amarezza che egli manifestava d'essere sacrificato senza voglia, indegnamente, mi fecero gustare un po' d'indugio a dimostrargli che avevo compreso.
— Ha scritto.... Chi?
— Lui! — E si guardò attorno balbettando: — Ci Emme.
— Claudio Moser? — feci io a voce alta.
Il gentleman tenne per strombazzato a tutto l'albergo il suo pericoloso segreto; s'immaginò l'albergo circondato dalla polizia; e alzati gli occhi al Cielo e aperte le braccia al fato, significò che tutto egli aveva perduto benchè avesse fatto il possibile per non perder nulla.
— Moser ha scritto a lei?
Annuì col capo in silenzio; trasse dal portafoglio e mi porse una lettera. Scriveva da Genova. Al cavaliere, quale fidato amico, Moser accennava che dolorose circostanze l'avevano indotto ad allontanarsi da Milano e lo pregava di cercare di me. Mi troverebbe dove gli direbbe Guido: io, con falso indirizzo, l'informerei nel caso gli convenisse imbarcarsi....
— Perchè scrivere proprio a me, che ho famiglia? — susurrava, nel mentre che io leggevo, il cavaliere. — Compatisco...., compiango....; ma per riguardo alla mia posizione, nella mia qualità di ex-ufficiale dello Stato...., non avrebbe dovuto.... mettermi a rischio.... di comparire suo.... complice! Che accadrà...? se si scopre che io?...
«Scappi anche lei in America», ebbi voglia di rispondere. Senonchè l'ometto poteva essermi utile; e gli tolsi la paura di corpo.
— Stia tranquillo! Moser ha perduto la testa. Non ha mai avuto e non avrà mai conti da pareggiare con la Giustizia.
— Davvero? Proprio? Oh come ne godo!
Avevo ridato la vita al morto!
— Se lo dice lei, dottore, non ci può esser dubbio!
E il più bell'indizio del miracolo da me compiuto fu che il cavaliere estrasse il fazzoletto e si spolverò le scarpe; quindi ricorse al noto taschino che teneva in serbo il famoso astuccio con lo specchietto e il pettinino dei baffi.
— Ne godo, da amico! Non dubitavo neppur io, in fondo.... Mi pareva impossibile che quel bravo ingegnere!... Solo, lei comprende, era legittimo, umano il timore che io, così impreparato al servizio, piccolo servizio impostomi dall'amicizia, io, dico, potessi rimettere del mio decoro....: l'onore.... l'onore avant tout!
— Via! — feci, non concedendogli per buone quelle scuse —: da un uomo di cuore quale è lei, un uomo d'onore e in disgrazia quale è Moser deve sperare qualche cosa di più che parole!...
Con lo specchietto a mezz'aria Fulgosi non dissimulò di sentir il rimprovero e disse sinceramente e umilmente:
— Giacchè lei m'assicura...., dica tutto quello che posso fare e lo farò volontieri.
Così dicendo pareva un altro uomo; diveniva simpatico.
— Ad avvertire Moser che non corre alcun pericolo e che deve ritornare, penso io. Lei e Guido pensino a Eugenia. Anzi: perchè non lei solo, subito?
— Io? Ma certo! Vuol telegrafare? Corro subito! — esclamò l'ometto scattando in piedi. — Ho la carrozza!
— A telegrafare penso io. Lei.... va a Valdigorgo! Meglio di ogni altro lei può tranquillare la povera Eugenia, e Ortensia. La visita di un amico cordiale in questi casi è un gran benefizio. Lei dirà che mi ha visto tranquillo e contento; che io stesso l'ho pregato di recar lassù la buona novella: gli affari del nostro amico sono accomodati.
— Ci vado! — Riposto al suo luogo l'astuccio dello specchietto e del pettinino, Fulgosi portò la mano al cuore quasi per un giuramento o per un voto. — Ci vado davvero! Coute que coute.
Tosto però l'entusiasmo sembrò cadergli nella dimanda:
— Ma arriverò in tempo per il treno delle diciotto e venti?
Arriverebbe in tempo, affrettando il fiacre, anche ad avvisare la sua signora, che non dubitasse di un dramma o non soffrisse di gelosia se non lo vedeva a casa all'ora del desinare.
— Vado! — ripetè; non senza aggiungere:
— E la ringrazio, dottore, d'avermi dato occasione a dimostrare la mia sensibilità per quelle gentili signore, a torto provate dalla sventura!
Mosse rapido fino alla porta. Ma ivi s'arrestò; si voltò indietro, come trattenuto da un ostacolo impensato, insormontabile.
— E desinare? Dove desino?
— Nel vagone restaurant!
— Parbleu! — L'idea gli irradiò il volto. Desinare in un vagone restaurant nobilitava vieppiù il suo sacrificio.... E partì.
XIV.
Per parte sua, Guido Learchi nell'apprendere da me che era imminente l'arrivo di Moser si mise a ballare con poca dottorale dignità. Tutte le bugie inventate faticosamente, per quietare Marcella intorno l'assenza del padre, gli disparvero dalla faccia come le nubi, che restano di un temporale, al soffiare d'una brezza rasserenante; e la timorosa Marcella, a quel ritorno di letizia, si accertò che un gran malanno era accaduto e rimediato. Con insistenza non tediosa m'interrogava, mentre dalle sue braccia il bambino mi guardava con la stessa dolcezza degli occhi materni. Non mi schermii abbastanza bene; ella si persuase che suo padre mi doveva molto; e forse fin d'allora concepì la prima idea del tiro che mi giocò poi.
Quello stesso giorno, tornato all'albergo per attendervi Claudio, pensavo che dovrei riprendere subito la via dell'esilio, ove cercar maggior guadagno che per il passato, e partirei forse senza rivedere Ortensia, quand'ecco mi sovvenne di certe parole udite dal Biondo, laggiù, allorchè mi preparavo a dargli il gran colpo. A quel ricordo s'accompagnò un'idea curiosa, ridicola dapprima, quindi sempre meno strana, sempre più opportuna e lusinghiera. M'aveva detto il Biondo che a Molinella era richiesto un altro medico.... Perchè no? Io ero certo che sarei bene accetto al paese e a quell'amministrazione comunale. Il dottor Sivori ridursi medico in risaia! — rimbrottava in me l'orgoglio. — Per guadagnar più che per il passato! — ghignava l'interesse. — Fine degna di un filosofo! — notava la coscienza a cui non sfuggiva la nuova contraddizione.
Infatti la mia vecchia casa, che adesso mi pareva di amare più di quel che l'avessi amata mai, poteva scusarmi del ricercare un magro stipendio là dove non possedevo più quasi nulla e di dove ero partito coll'indefinibile proposito di rifarmi, lontano, una fortuna; poteva scusarmi sin la filosofia, che consiglia di abbandonare ogni ambizione e d'essere contento del poco; ma io non speravo più nulla del mio amore. A che restare in Italia? Non solo: la minaccia di Roveni non mi intimoriva a patto che io andassi lontano da Ortensia.
Tuttavia accolsi con fretta quell'idea stramba. Scrissi subito al sindaco di Molinella proponendogli l'opera mia.... Sì, una contraddizione! Ma pensate: i miei affetti più forti eran qui, nella terra delle memorie e dei rimorsi; qui in patria avevo ripreso a vivere col proposito di umiliarmi in una attività non più inutile; qui avevo conosciuto la gioia, prima ignota, del sacrificio; qui mi tornerebbe cara la solitudine per amare e soffrire; qui un giorno Ortensia mi rivedrebbe lieto del suo perdono.
Ecco tutto ciò che desideravo. Non troppo, è vero? E bastava perchè all'antico pessimista sorridesse, ora, la vita!
La speranza però non mi rifioriva in cuore senza spine. Di quella più acuta mi fece sentire le punture l'amico Fulgosi; il cui ritorno precedette di poco quello di Moser.
Più di una volta, a guardarlo bene nella faccetta sbiadita e nella personcina arida, io, dentro di me, avevo paragonato il cavaliere a un limone spremuto; ma nessuno, che si sforzasse a spremere qualche goccia da una buccia di limone, faticò mai più di quanto faticassi io a spremere dal cavaliere ricordi che non fossero alla sola superficie della sua memoria quando giunse da Valdigorgo. Cominciò la relazione dicendo:
— Sempre loro, sempre uguali, quelle care signore; così gentili! così buone! Si figuri che accoglienza mi hanno fatta! Quanti complimenti! Troppi in confronto al mio merito. Ma ho avuto il piacere di vederle sorridere, per qualche barzelletta. Son proprio felice di aver fatta questa visitina! In viaggio poi me la son passata benissimo. Buon menu al restaurant.... A Novara è salita nel mio vagone una signora.... ehm!...
L'interruppi: — Mi parli di Eugenia; mi dica come l'ha trovata....
— Abbastanza bene, poverina! Davvero, credevo di trovarla peggio! È inutile dire che i ringraziamenti per lei, per il suo telegramma, per tutte le sue premure, sono stati infiniti, come infiniti gli elogi, ben giusti!, a tutte le qualità di mente e di animo dell'amico Sivori....
Ripetei impaziente: — Mi parli delle signore, non d'altro! Che impressione ha ricevuto di Ortensia?
A questa domanda il cavaliere lentamente spalancò le braccia ed elevò gli occhi con mossa così tragica che mi spaventò.
— Che cos'è stato? Mi dica!; mi dica tutto!...
— Vuol che le dica tutto, tutto in due parole?
— Sì!
— Ortensia.... è troppo bella!
L'avrei accoppato! Egli continuò scioccamente:
— Ah se io fossi mio figlio.... quando sarà capitano!
— Ma perchè «troppo bella?»
— Perchè una creatura simile non dovrebbe soffrire! È un'ingiustizia esporre tanto charme alle traversie della vita! Questa almeno è la mia opinione.
— Dunque Ortensia le è parsa molto deperita? È eccitata?
— Infatti.... si è adirata anche con me!... Per colpa mia, però; ne ho fatta una grossa e me ne confesso umilmente.
Era il suo destino.
— Racconti tutto! andiamo!
Sospirò:
— Io ignoravo che tra Ortensia e Anna Melvi ci fossero state divergenze....
— Ma eran momenti quelli da rammentar la Melvi?
— Non mi mortifichi, illustre amico!
Il pover'uomo aveva tanta paura di pericolare!
—.... Che dovevo dire per distrar le signore? I progressi di Anna nel canto potevano, in qualche modo, prestare argomento a discorrere....
— Ebbene?
— Questa è la premessa; la pregiudiziale. Io non sapevo....
— Ho capito. Eppoi?
— Quando sono stato per partire, Ortensia mi ha ringraziato con effusione; mi ha commosso.... Quasi che alla famiglia Moser non resti altro amico che me! Come era mio dovere, ho protestato: «La famiglia Moser, signorina, ha un amico al cui confronto io debbo scomparire: il dottor Sivori». E la signorina....
— Avanti!
—....È sembrata quasi offesa. S'è adirata e mi ha detto: «Lei dovrebbe sapere che Sivori non è un amico; è come uno della nostra famiglia! Lo dica, lo dica alla Melvi che per me Sivori è un fratello. Ha capito? Un fratello! Glielo dica!»
Meno male! borbottai. Ma al compiacimento in me sottentrò timore subito dopo.
— Faccia a mio modo, cavaliere. Con Anna, con Roveni, non parli mai più nè di me nè dei Moser. Sarà meglio per tutti. Le vipere sono sempre pericolose.
Egli si ritrasse e mi guardò sbigottito, quasi a sentirsi mordere; poi inchinandosi:
— Mi rimetto al suo consiglio!
.... L'ambasciata che Ortensia mandava ad Anna non pareva una risposta a qualche malignità?
Era possibile che Ortensia non fosse del tutto ignara della calunnia. A Valdigorgo, nella mia visita recente, non avevo scorto in lei qualche segno come di avversione per me; quale uno sforzo a vincere un sentimento ostile? Si era rialzata così pallida dal seno della madre! E quella sua eccitazione non seguiva forse a un'intima lotta, più fiera di quante aveva sostenute e sosteneva per la sventura del padre? Aveva chiesto il mio consiglio forse per trovare nuove ragioni di confidare nella purità della mia amicizia; per accertarsi che se non l'esortavo a cedere a Roveni io, per me, non avevo da temere Roveni in nulla....
Ancora la fantasia mi tormentava. Era un sospetto assurdo! Ma se questo era assurdo, non mi pareva più tale il sospetto del dì innanzi.
A Roveni, per togliermi l'affetto di Ortensia, bisognava e bastava gettare nell'animo di lei un'ombra sinistra di sua madre e di me. Avevo creduto inverosimile che Ortensia potesse mai dubitare di sua madre. Ma la serena anima di un tempo, caduta per colpa mia in una tristezza d'amore, era stata sconvolta da una subitanea e turbinosa esperienza di male. Sua madre stessa me l'aveva detto: — Ortensia non aveva più fiducia in nessuno, in nulla. — Ed io avevo visto Ortensia in preda all'ossessione di questo pensiero: che la vita è una lotta contro il male.
In tal condizione ella era predisposta ad accogliere per vera qualsiasi interpretazione più obliqua di due fatti che male si spiegavano altrimenti. Perchè amandola io l'avevo abbandonata?
E perchè io sacrificavo quanto possedevo a pro dell'amico, allorchè tutti gli altri amici e sin i congiunti disertavano o tradivano? Per pura amicizia?
Se a queste dimande arrivasse in risposta la calunnia di Roveni e di Anna Melvi, la colpa attribuita ad Eugenia e a me non poteva essere assurda neanche per Ortensia....
Così mi tormentavo!
XV.
E seguì il ritorno di Moser, l'incontro atteso da me e da lui con desiderio protratto ma con aspettazione timida. In lui, insieme col pudore dei suoi errori e della sua disgrazia, era il torto di non avermi confessato in quali condizioni si trovava da tempo: troppe cose io gli avevo celate e dovrei celargli ancora!; nè egli saprebbe mai quanto male io avevo fatto a lui, che aveva il cuore pieno di gratitudine per me.
«Cuor dei cuori» posso giustamente ripetere per Claudio Moser. A rammentare quel periodo angoscioso della sua vita provo un sentimento profondo e misto di tenerezza, di pietà, di ammirazione.
A che prezzo aveva scontato i suoi difetti!, primi la soverchia fiducia in sè stesso e l'ostinazione. Era ostinato. Ma nel periodo di fortuna favorevole questo difetto era pur stato la virtù per cui Moser aveva potuto dare incremento a una industria, ed egli era potuto divenire uno degli ingegneri più noti dell'Italia superiore. Al contrario e più gli aveva nociuto una virtù vera: la generosità. Valdigorgo, prima che egli aprisse la fabbrica, aveva la miseria dei piccoli paesi che le ferrovie correnti tra città e città lasciarono in disparte; e la fabbrica Moser ridiede la vita a Valdigorgo. Se non che quei primi entusiasmi di pubblica riconoscenza appagarono il benefattore, e quanti ne approfittarono! Quanti si rimpannucciarono a sue spese!
E mentre s'appagava d'essere benvoluto, egli veniva trascinato nella lotta della concorrenza. Che vita la sua in quegli anni! Audacie non impedite da affannose riflessioni; coraggio lungamente meditato ad uscir dalle incertezze; tentativi ora prudenti ora arditi, eppur vani; sconfitte saviamente dissimulate con rare vittorie. Poi le angustie dei pagamenti; le ripulse di aiuti esosi; la resistenza inconcussa a ogni slealtà; il disdegno dei birbanti fortunati; gli sforzi inani; le lusinghe delle speranze e i ritegni dell'esperienza; la lenta struggente apprensione di un'inevitabile rovina. Ma nessuno avrebbe immaginato tutto ciò quando, nelle ore di tregua, Claudio attingeva da sè stesso tanta giocondità e serbava tanta serenità nell'animo; nessuno, neppur di noi che lo conoscevamo intimamente, avrebbe indovinato così intensa fatica del suo cervello e dei suoi nervi quando lo vedevamo gioire alle semplici cure del giardino, all'umile distrazione di un giuoco alle bocce. E quel suo sorriso? Era il sorriso di un gran cuore, ma consapevole; d'uomo che guarda alle cose e agli uomini con bontà intelligente.
Avvenuta la catastrofe di tutte le speranze e le illusioni, la rovina di una fortuna composta con tanti sudori, egli patì strazi di martire.
Aveva voluto il bene dei suoi cari, e anche negli occhi de' suoi cari temeva scorgere il rimprovero; aveva creduto meritarsi la gratitudine e la stima degli amici e gli amici (ben lo sapeva Ortensia!) lo compassionavano chiamandolo «tre volte buono», o lo canzonavano: «che bravomo!»; aveva accarezzato il segreto orgoglio di trarre dalla miseria gran numero di operai, e gli operai lo maledicevano o dicevano: «gli sta bene!». Egli conobbe gli affronti indegni e gli scherni mal celati da conforti ambigui; provò l'amarezza d'impensati inganni; le punture velenose della mala fede; le umiliazioni dinanzi agli umili di ieri e dinanzi alla possente viltà dell'oggi; le insidie e la certezza del tradimento. Tutto questo Moser conobbe e provò, ma non perdè il suo nobile sorriso. Avvilito, affranto, fu visto sorridere e ristorarsi a una parola buona di un buono, riconfortarsi come ricuperasse sè stesso alla stretta di mano d'un galantuomo. Io lo vidi sorridere così, quando egli aveva lo strazio nel cuore, la voce tremula e il tremito nelle labbra per la passione e per lo sforzo di trattenere le lagrime....
Sorrise staccandosi dalle mie braccia e mormorando con espressione d'immenso affetto per me:
— Vecchio mio! — Ma egli, egli era tanto invecchiato!: incanutito; quasi del tutto aveva bianchi anche i baffi; la barba, non rasa da più giorni, rendeva più smorte le guance flosce.
Dubitosi a vicenda, di non contenere abbastanza la nostra commozione, cercavamo una frase per cui attaccar discorso, e tacevamo. Alla fine io dissi con aria di chi perdonando un torto ricevuto vuol passare ad altro:
— Ebbene?
E allora lui con l'aria di chi domanda schiarimento di una colpa, benchè già perdonata:
— Come hai fatto, tu, a trovar quella somma?
La bugia era pronta da un pezzo:
— Un prestito....; un mutuo col Biondo.
Claudio si mise a sedere, abbassò gli occhi. Quanto più grande sarebbe stato il suo dolore se gli avessi detta la verità: che avevo preferito vendere il podere!
— Hai ipotecato il fondo? a che frutto?
— Al cinque.
— E hai pensato che io non avrò più di quindici anni di lavoro utile davanti a me? I frutti ti saranno pagati puntualmente ogni anno; ma il capitale? Farò in tempo a renderlo?
— Sì — risposi scuotendo le spalle. — Non mi sembra una gran somma!
A poco a poco, per i miei modi bruschi, egli si rianimava; nè tacqui il rimprovero:
— Però debbo dirti che ci saremmo risparmiate molte pene, tutti, se mi avessi avvertito a tempo....
— Hai ragione — mormorò ancora a capo basso. Ma d'un tratto balzò in piedi (io avevo ottenuto l'intento!): — No, hai torto! Che gli altri mi giudicassero male, mi dessero dell'imbecille, pazienza! Ma tu, no! Non volevo!
Ribattei: — Sapendo che io ero qua, potevi almeno avvertirmi che non ti credevi sicuro.
— Perchè tu mi persuadessi a rimanere, a lasciarmi arrestare? Ti giuro, perdio! che non mi sarei lasciato prendere vivo, mai! La mia vita era legata a un filo; intendi? La mia difesa, la difesa della mia innocenza non mi avrebbe salvato. Dunque? Sono un galantuomo! — aggiunse con un grido di rabbia.
La commozione lo stringeva alla gola; e si mise a percorrere la camera su e giù: il suo sguardo pareva misurare un abisso.
Io non trovavo più alcun rimprovero che potesse impedire la crise. Finchè egli ridendo come non l'avevo mai sentito ridere, esclamò:
— Il costruttore Moser dovrà assistere alla sua completa distruzione!
— Sì — dissi io freddamente —: ma per ricostruire dopo. È necessario, mi pare!
Altro silenzio; altri passi concitati. Eppoi affrontandomi:
— Voglio sapere una cosa che tu devi sapere!
— Quale?
— Il perchè del voltafaccia di quell'assassino!
Continuò violento:
— Roveni, Roveni arrivar a questo punto? Perchè? Che cosa gli ho fatto io di male? Era appena uscito dal Politecnico; me lo raccomandarono....; aveva patita la fame; trovargli subito un buon impiego non era facile. Lo presi con me, lo trattai come un figliolo. No? E perchè dunque questa parte di Giuda? C'è un mistero! Non ha tradito, lui, per trenta denari: ci ha rimesso duemila lire, a tradirmi! Perchè? Tu ne sai qualche cosa! Parla una volta!
Mentire ancora e del tutto era inutile, oramai.
Risposi: — La spiegazione è facile. Immagina che Ortensia da qualche anno non sia più una bambina; immagina che Roveni ne fosse innamorato....
Claudio spalancò gli occhi come alla cosa più inverosimile di questo mondo; ne parve atterrito.
— Immagina — proseguii — che Ortensia abbia risposto un bel no, uno dei tuoi no, a tutte le speranze, a tutte le richieste, a tutte le insistenze di Roveni, e che Roveni, dopo aver tentata invano la via buona, abbia mutato strada.... per piegarla....
Claudio intravide in confuso un eroismo nella fierezza e nella fermezza della figliola....
— Ortensia! — fece a voce strozzata, e coprendosi il volto con le mani scoppiò in singhiozzi.
Fu uno sfogo non breve. Ma si riscosse con l'impeto dell'antica energia, sorrise, mi prese e strinse forte la mano. Riapparve il Moser di una volta mentre diceva:
— Hai ragione, Carlo! Per Ortensia; per la mia famiglia; per te ho ancora molto da fare! Lavoreremo!
PARTE TERZA.
I.
All'uscio di cucina il Biondo aveva attaccato il Lunario del Campagnolo: Sant'Antonio in rozza stampa, lunga barba, col pastorale e il campanello; il porco a destra e a sinistra, in terra, il sacro libro e una gran fiamma; ai lati, l'ordine dei mesi con le insegne zodiacali, e, sotto, la leggenda che rammentava i mali dell'anno già caduto «nel numero dei più» promettendo migliore l'anno nuovo.
«Nel nuovo anno gli uomini fatti savi dall'esperienza, che è la miglior maestra della vita; abbandonate le malsane idee, che per un momento poterono turbare le menti umane sotto l'influsso di false massime, vivranno fra loro nella maggior concordia. Tutte il male non vien per nuocere. Avanziamoci fiduciosi incontro all'avvenire, e le nostre speranze non saranno deluse; dopo la scarsità, avremo l'abbondanza....»
E sebbene non ancora a mezzo di quest'anno nuovo il Biondo si dolesse delle stagioni avverse all'abbondanza e del socialismo avverso alla concordia, io m'attenevo alla profezia e umilmente la rileggevo ogni dì: fatto savio ormai dall'esperienza; abbandonate ormai le malsane idee e le false massime, e quasi fiducioso nell'avvenire, io mi sentiva in bastevole concordia col mio più fiero nemico e padrone: con me medesimo.
Concordia, intendiamoci, non era tranquillità, e di pensieri ne avevo anche troppi.
Ma senza dubbio il mutamento in me, da un pezzo incominciato, era grande; era divenuto così grande che non mi perdevo nemmeno a indagarne le cause. Quali esse fossero mi chiedo ora. Forse a riscuoter tutte le mie forze, accidiate da tanto tempo; a darmi resistenza per le fatiche del nuovo ufficio che esercitavo in campagne solitarie e lontane; a tenermi desto la notte dopo giornate laboriose per studiar quanto di medicina pratica o avevo disimparato o ignoravo; a ringiovanire insomma nella vita attiva senza sforzo di volontà, forse mi bastò il consiglio di Claudio, il dì della mia partenza per Molinella: — Lavoriamo! —? Generoso esempio di un uomo la cui fibra non era stata infranta da tante batoste e dolori, la cui riconoscenza per me non era limitata dall'intenzione di sdebitarsi meco!
Ma la virtù che mi rianimava doveva esser ben altra che quella dell'esempio; ben altra che il beneficio dell'attività!
E veramente nell'esercizio e negli obblighi di una professione gravosa, ingloriosa, angusta, molte volte sentii e vidi, al letto de' miei squallidi malati, che il compito assunto per necessità era più importante, più attraente, più umano, più nobile che quello di tendere alle cose inafferrabili. Se non che mi accompagnava per tutto un sentore di lezzo, un'impressione di miseria avvilita e non domata, un'eco di minacce segrete e di odî già palesi.
Piuttosto m'eccitava dunque a una vita forte e utile la virtù del sacrificio da me compiuto a pro dell'amicizia?
Via! Contro le pene che mi dava il ricordo dei Moser, poco valeva la soddisfazione del servigio reso a Claudio. Per Claudio era già venuto il dì dell'ultimo strappo: dell'addio alla villa. Che cuore era stato il suo in quel giorno? E Ortensia, che era rimasta con lui fino all'ultimo momento?... Poi sapevo come Claudio, dopo aver trasferito la famiglia a Milano con la speranza di trovarvi subito impiego, consumava la smania di operare in una triste vicenda d'illusioni e delusioni.
Intanto Ortensia e Eugenia dimoravano a Milano, col pericolo d'imbattersi in Roveni o d'esserne insidiate. Senza dirle quale vendetta egli forse meditava, io, partendo, avevo scritto a Eugenia affinchè stesse in guardia; invigilasse soprattutto alla posta e sottraesse qualsiasi lettera indirizzata a Ortensia: dubitavo di una lettera anonima. Eugenia mi aveva risposto che seguirebbe attentamente il consiglio. Ma quel dubbio della lettera anonima mi era, in certi giorni, un'ossessione; mi affliggeva anche il timore che Eugenia potesse scoprire la calunnia incombente su di lei; e avevo un bel dirmi: «avvenga che può, coscienza ci assicura».
Ortensia non l'avevo più riveduta. Per ripugnanza che io assistessi più oltre alla sua distruzione, Claudio non aveva insistito che l'accompagnassi a Valdigorgo, e io non avevo osato andar con lui, quasi a raccogliere riconoscenza. Così non potevo raffigurarmi Ortensia che con le attitudini e le parole dell'ultima volta che l'avevo vista, l'unica volta dopo tre anni; e mi ripetevo: «Quel giorno, lassù, pur nel momento in cui mi confidò il conflitto tragico dell'animo suo, pur quando disperata invocò il mio consiglio, qualche cosa di misterioso s'interpose a quella espansione».
Era stato l'ultimo rancore del male che le avevo fatto? Era stato l'orgoglio ferito dal soccorso che io promettevo alla sua famiglia o dallo stesso consiglio ch'ella si sentiva costretta a chiedermi? O quali altri sospetti ottenebravano l'anima dolorosa mentre l'agitava lo spavento del disonore paterno?
Questo, questo, il mio maggior tormento nelle tregue dalle fatiche quotidiane, o nelle notti insonni!
E quando non ne potei più, sapete che feci? Scrissi a Ortensia, col pretesto d'aver da lei notizie della famiglia. Per poco non mi rimproveravo di soverchia audacia! Ella rispose subito. A leggere e rileggere quelle poche righe — la prima lettera di Ortensia che io ricevevo! — facevo rabbia a me stesso; tentavo esprimere da poche parole un significato che non avevano; non sapevo persuadermi che dopo tanto amore e con tanto amore io dovessi rassegnarmi a una letterina di stile perfettamente amichevole. Stanco di me e della lettera, la stracciai; mi pentii d'averla stracciata. Affettuosamente — e a me pareva in modo freddo — Ortensia mi dava notizie di tutti: del padre sempre in speranze; della madre sempre fidente in giorni migliori; di sè che stava «discretamente». Aggiungeva:
Si parla ogni giorno di voi, Sivori; se ne parla non solo come di un benefattore ma come di uno di noi, della nostra famiglia che sia lontano.
«Già, un fratello! — io gridavo a me stesso: — Ortensia vuol dire che non mi ama più e che non mi amerà mai più!»
E con tutto ciò, con tutti questi contrasti, io.... non me la prendevo con Sant'Antonio! Ne consultavo il lunario e senza ironia me ne ripetevo le parole: «Tutto il male non viene per nuocere. Bisogna aver fiducia nell'avvenire».
Quali dunque le cause o la causa del mio mutamento? Forse all'intendimento della vita e all'elevazione dell'animo il dolore può anche più dell'amore? E una notte feci questo sogno:
Nella vecchia chiesa del paese, ove fanciullo io avevo pregato a fianco di mia madre, si celebravano nozze solenni. Il Biondo gongolava; la Rita piangeva di gioia.... Poi la chiesa con tutta la gente scomparve, e vidi una nota camera: Ortensia, con me, entrava pallida e arridente sposa nella camera dove mia madre era morta.
II.
Verso la fine d'aprile ricevei una lettera di Claudio per la quale mi convinsi sempre più che la fortuna lusingava e confermava le mie speranze.
Mi giungeva quella lettera in un giorno così luminoso di primavera! Leggendola su la porta di casa, con avanti a me il prato pieno di fiori, mi balzava il cuore quasi a un portento.
Claudio mi pregava d'informarmi, con prudenza, se davvero si era costituito in Bologna un consorzio delle fabbriche di laterizi poste su le rive del Reno, e se davvero cercavano un direttore. Solo nel caso che queste notizie, da lui avute in segreto da un antico cliente, fossero certe, io avrei dovuto presentarmi al proprietario d'una delle fabbriche, che egli mi nominava, e fare il suo nome.
Come se tutto ciò fosse più che sicuro, e Moser già prescelto all'ufficio desiderato, pensai che i Moser verrebbero a dimorare vicino a me, a un'ora e mezza di viaggio. Figurarsi con che fretta corsi a Bologna!
Le notizie non erano del tutto conformi al vero. La concorrenza, che aveva rovinato Moser, angustiava anche nell'Emilia gli industriali in laterizi, e tra essi era corso il progetto di un concordato.
Ma due o tre dei più potenti non avevano ancora acconsentito e non parevano ben disposti. Perciò quelli che avevano fabbriche presso Bologna vagheggiavano una società fra loro. Le cose erano solo a questo punto quando io con un biglietto di presentazione, prudentemente richiesto ad un amico, mi recai dall'industriale nominato da Moser. Ma non ero un diplomatico, io, quale il cavalier Fulgosi; e dovendo dar ragione della mia visita, sostituii l'audacia alla prudenza e dissi a dirittura che l'ingegner Moser non sdegnerebbe assumere la direzione tecnica della nuova società, se si costituisse.
— Moser? — esclamò il mio interlocutore — Moser che aveva la fabbrica a Valdigorgo? Quello che ha perfezionati i forni Hoffman?
Avevo fatto colpo. Subito dopo, l'altro cercò di attenuare in me l'impressione della sua meraviglia osservando, con bel garbo, che il fallimento del mio amico non lo raccomandava troppo.... Opposi che Moser non si raccomandava quale amministratore, sebbene io sapessi che la colpa della sua sventura economica non era tutta di lui: si raccomandava come tecnico; e non dubitavo che qualche industriale di Lombardia o Piemonte non tarderebbe ad approfittare dell'opera sua. L'interlocutore fece una smorfia. In conclusione, dopo la visita e l'inchiesta, potei scrivere a Claudio un modesto: «Chi sa?». Ma non potevo credere che il nome e l'offerta di Moser dovessero affrettare la costituzionale della società anonima: Fabbriche di laterizi in Valrenana.
Un telegramma mi richiamava a Bologna pochi giorni di poi. Si voleva sapere da me se mai...., se nel caso poco probabile, del resto, che si componesse la società...., l'ingegner Moser avanzerebbe pretese molto alte....: quale direttore tecnico.... solo tecnico.... Una domanda quasi per semplice curiosità: senza impegno! senza impegno!
Risposi che se la intendessero con lui; e s'intenderebbero forse.... (io almeno lo credevo...., speravo....) s'intenderebbero facilmente.
Passarono alcuni altri giorni senza che sapessi più nulla in proposito; finchè una cartolina di Claudio mi annunciava che egli veniva a Bologna a concluder l'affare.
Chi l'avrebbe mai detto? Costì, di dove partii per cominciare a far soldi, ci vengo par ricominciare!
Ma io non potei andar a Bologna nè egli recarsi a Molinella; non ci vedemmo.
Altro silenzio; un silenzio tuttavia pieno di questa attesa: «verranno tutti a Bologna!»
Per un po' di tempo parve invece che Claudio volesse stabilirsi a Bologna solo, ed Eugenia, Ortensia e Mino dovessero far famiglia con Guido e Marcella. Finchè Eugenia mi scrisse:
Ortensia non vuol restar lontano da suo padre. Non le importa affatto di abitare in città anche d'inverno. Aiutate Claudio a trovar una villetta per noi, in un sobborgo vicino al luogo dove Claudio avrà l'ufficio.
Feci subito ricercare un'abitazione, che convenisse, nel suburbio a destra del Reno.
E non trovai. Ma Claudio, nei pochi giorni che precorsero alla sua assunzione all'impiego, cercò e trovò: una, villa — egli mi scriveva — a poco più di un chilometro dalla fabbrica ove risiedeva l'ufficio principale. Neanche distava molto dal sobborgo, ove Mino andrebbe a scuola; ed era prossima alla ferrovia, alla strada carrozzabile, alle botteghe, alla chiesa; e, quel che più importava, in bella e buona posizione, quantunque in pianura, e tutta rimessa a nuovo. Sembrava l'avessero fatta a posta per lui! Si chiamava nientemeno che la Ca' rossa!
E come Dio volle, cioè ai primi di maggio, mi fu annunciata la partenza dei Moser da Milano.
Ortensia a Bologna! Potrei vederla! rivederla di frequente!... — E Roveni? — Ah che la mia consolazione era tale da lenirmi la spina che avevo nel cuore!
Non ero esente da ogni timore, ma la mia gioia era tanta da rappresentarmi il pericolo di Roveni come sempre più dubbio.
Quando Ortensia fosse vicina a me la difenderei meglio e mi difenderei meglio!
Mi giustificava, in ciò, la passione, m'illudeva la speranza d'aver abbastanza sofferto per mitigare il mio destino; l'energia ricuperata mi pareva bastevole a superar il destino, se mai mi tornasse avverso!
III.
La prima domenica di maggio vidi la Ca' Rossa nella realtà, priva della poesia con cui me l'aveva descritta Moser. Di lontano, dalla strada, appariva quale una vecchia casa di campagna messa a uso di villeggiatura e ritinta, se non di rosso, di gialliccio. Vi piombai inatteso durante l'intervallo fra due corse del tram a vapore. A scorgermi dal cancello — un cancello di legno — Mino, che giuocava alle bocce con un operaio, gridò: — C'è Sivori! c'è Sivori! —; e Claudio, che assisteva alla partita, fumando, mi corse incontro anche lui; mi furono addosso, con abbracci soffocanti.
— Un saluto in fretta.... — rispondevo a quell'aggressione gioiosa. — Ho un malato grave laggiù.... Non posso trattenermi....
— Eugenia! Ortensia! Correte!; se no, scappa! — urlava Claudio.
— C'è Sivori! Sivori! — urlava Mino correndo intorno e tornando ad abbracciarmi.
Non ci eravamo visti da tanto tempo, noi due! Com'era cresciuto, il piccolo Mino! La commozione della nostra amicizia scusava il turbamento con cui mi presentavo a Eugenia ed Ortensia.
Erano uscite per la loggia, da una camera a terreno, ove scorgevasi della biancheria distesa su una tavola: Eugenia con un oh! di grata meraviglia; Ortensia pallida.... Nulla dell'impeto mal represso con cui era venuta a me a Valdigorgo; era pallida, quasi stanca, e mesto il sorriso.
— Come state, Sivori?
— Sapete che non vuol restar da noi oggi? — riprendeva Claudio. Ed Eugenia e Ortensia a una voce:
— Perchè?
— Perchè, perchè un povero diavolo laggiù ha bisogno del suo permesso per andare all'altro mondo! Gli credete? a costui?
— Sì — rispose, naturalmente, Ortensia.
— Non insistiamo — disse Eugenia —, se ci promettete di tornar presto.
Avrei voluto indugiarmi a discorrere con le signore; ma Claudio mi trascinò seco.
— Andiamo dunque! presto! a dare il tuo giudizio della Ca' Rossa, che ho scoperta io e non tu! Cominciamo, signor critico, dall'esterno.
Intanto Mino aveva ripresa la partita; e madre e figlia ci accompagnarono un tratto ma ristettero dinanzi a pochi meschini vasi di gerani al sole.
— Il panorama non è molto vario — ammetteva Claudio. A levante erano la strada e l'ingresso; a mezzodì, di là dal prato, che una siepe di biancospino in fiore limitava, si estendeva la vigna: tra questa e l'orto, spaziante a ponente e a settentrione, scendeva una carraia....
— La carraia passa da quella casupola laggiù, dove sta l'ortolano vignaiuolo: colui, là, che gioca con Mino. E la carraia prosegue sino al fiume, e di là un sentiero lungo la riva mi conduce, in due passi, alla fabbrica. Potevo essere più fortunato di così?
Io osservavo il solo albero del prato: un lazzeruolo a rami nodosi e involti.
— Fronte indietro!
Claudio ora m'indicava la disposizione degli ambienti.
— A terreno, loggia, salotto, camera da desinare, cucina; di sopra, a mezzogiorno, la camera di noi vecchi; quella di Mino, a ponente; quella di Ortensia, a levante; quella dei forestieri, a nord. Va bene? Passiamo all'interno!
Su la porta l'ortolano trattenne Claudio per avvertirlo di non so che cosa, ed Eugenia, ch'era rientrata con Ortensia a continuar la faccenda della biancheria, colse il momento e mi disse, con commozione:
— Sivori: non ci siamo più riveduti dopo quanto faceste per noi....
— Non ne parliamo! — risposi io, mentre lo sguardo di Ortensia mi avvolgeva.
— Ma — ribattè Eugenia — noi dobbiamo dirvi anche a voce come vi siamo grati, tutti. — E si volse alla figlia quasi meravigliata del suo silenzio.
— Tutti; per sempre! — Ortensia disse con voce viva e forte.
Gratitudine viva nel cuore per sempre: così disse; così vedevo; ma nei begli occhi non era più l'anima di una volta.
— Non è uno scalone — disse Moser entrando, in fretta come era solito, e precedendomi per la piccola scala.
Appena di sopra entrammo nella camera matrimoniale.
— Il letto, vedi, è un documento storico. Però io ci sto da papa. Anche il comò era massiccio e meschino....
— Quelle, guarda, con le quattro stagioni.
Alludeva alle oleografie appese alle pareti. Dalla finestra si scorgevano, oltre la vigna, filari d'alberi e campi uguali sparsi di case e le torri e le cupole della città. Invece dalla camera di Mino non si scorgeva che un lungo camino a fuso sorgente tra il verde: era quello della fabbrica.
— Mio figlio ogni mattina potrà vedermi andare al lavoro e potrà pensare che lavorare non basta.... Via, via! — aggiunse Claudio rivelandomi, se già non me ne fossi avveduto, quant'era sforzata tutta quella vivacità di parole e di umore. — Via!: ecco la camera di Ortensia.
Su la soglia, ristetti; ero trattenuto da un panico segreto e indefinibile.
— Ho fatto quel che ho potuto, per accontentarla.
Il letto in ferro, nuovo: bello il comò....
Una titubanza strana mi aveva trattenuto, quasi da una violazione. A Valdigorgo non ero entrato mai nella sua camera.... E mi affacciai anche là alla finestra, che aveva di contro lo squallido lazzeruolo.
Per la strada polverosa transitavano birocce e buoi condotti al macello, che mugghiavano.
.... A Valdigorgo la sua finestra vedeva nel giardino le opulenti magnolie, gli abeti snelli dai rami digradanti e copiosi, dalle molli frange ondulanti, e i vividi colori delle aiuole penetravano tutto quel verde: s'apriva la cerchia dei monti a concedere, nella bella conca, frescura di estate e tepore in primavera e in autunno: dal cielo puro, intensamente azzurro, e da oltre quei monti chiamava un'ignota, immensa felicità....
— Ah! Non è la sua camera di una volta! — disse il padre chinando il capo sul petto; abbattuto a un tratto dal pensiero della felicità sognata un tempo per la sua figliola.
— Andiamo! — feci io. Ma nel passare dinanzi al comò guardai alla fotografia che vi stava sorretta da un'umile cornice e il cuore mi palpitò. Era una piccola fotografia di Valdigorgo, e sotto al cristallo aderiva, nel mezzo, una fogliolina di trifoglio.... Quella? Quella che avevamo raccolta insieme, un giorno, al fosso delle lavandaie?
Il puerile segno di memoria imperitura indicava forse un'illusione non perita del tutto?
— Andiamo! andiamo! — ripetei vivamente.
Nella loggia c'imbattemmo in Ortensia che usciva dall'altra camera, ove portava la biancheria. Ella ristette con noi alla ringhiera e forse avvertì che io aveva avuta un'impressione gradevole.
— Bisognerà aumentare i vasi del giardino — le dissi —; mi permetterete, Ortensia, di mandarvi dei garofani della mia massaia.
E Moser:
— Sono straordinari i garofani della Pulicreta; rossi come i bargigli di suo marito!
— Qui la massaia sono io e faremo giardiniera la mamma. Vita nuova! — mormorò Ortensia con sorriso amaro. Mentre il padre entrava nella camera di Mino, ella aggiunse: — Vita di pianura.
— Ma non vita bassa. Anche qui proverete gioie; forse quali non avete provate mai!
Lo sguardo di Ortensia m'interrogò profondamente per interpretare tutto il mio pensiero; poi, come non mi credesse, volse gli occhi altrove. Accanto a me, così, mi pareva bella di fierezza: l'esile ma alta e proporzionata persona aveva la nobiltà del portamento che è dono divino della natura; nè alcun poeta avrebbe potuto desiderare più bella fronte e più bei capelli per far di una strofa una corona.
La fierezza che un tempo era fugace ne' suoi occhi e ne' suoi «voglio», pareva in lei esser divenuta, ora, abituale.
— Dev'esser molto triste la vostra pianura, laggiù!
— Triste — risposi —; ma d'una tristezza pacata e dolce.
Passava in quel punto il fragore di un treno: ansioso, rapido, forte, violento, e scemava; poi, subito dopo, riprendeva intenso, più veloce, e ancora diminuiva, si perdeva; eppoi ancora, per un istante, un fondo e uguale roteare metallico, e più nulla. Dall'orto venivan voci di donne, invisibili.
— È un'impressione curiosai — disse Ortensia. — Qui, a me, mi sembra di udire la vita come se fosse lontana, lontana, fuori di me.... Non so spiegarmi!...
Indugiò prima di aggiungere:
— Mi sembra di udirla da una tomba. Claudio tornava; e Ortensia, chiamata dalla madre, ridiscese.
— Che te ne pare di quella bambina? A vederla così pallida mi strozzerei — disse Moser, in cui era cessato l'impeto di pocanzi. — Ma qui avrà del sole, dell'aria, del verde.... Purchè non le dispiacciano questi luoghi! Tu credi che non le dispiaceranno? che tornerà bianca e rossa..... come lassù?
— Certo!
— Falle un po' di predica. Voglio vederla correre; sentirla cantare....
Infatti egli mi lasciò ancora solo con lei alla ringhiera, appena essa ebbe riposta nella camera della madre la roba portata di sopra.
— Ortensia — le dissi francamente. — Bisogna dimenticare e riamare la vita!
Esclamò:
— Dimenticare? Ma la mia vita è nei ricordi! Voglio ricordare tutto il bene che ho perduto, tutto il male che ho imparato! Quando non comprendevo nulla, quand'ero una ragazza senza giudizio, godevo di essere così; ora godo d'aver sofferto e di soffrire! Non c'è anche la voluttà del dolore? Io almeno, la provo. Voi, no?
E sorrise diversamente, cercando invano di mitigare quell'acerbezza. Proseguì:
— Sivori adesso mi consiglia una cosa da nulla: amare la vita! Andiamo! ditemi voi come si fa.... Che cosa si deve fare per mettere in pratica il vostro consiglio?
— Amare! — risposi. Non avevo trovata altra risposta; e il rossore che mi corse al viso e il tremito della mia voce le dissero quanto io l'amavo ancora.
Mi fissò; vedendo che non s'ingannava chinò gli occhi. Indi riprese:
— Sarà un destino anche questo: che non s'intendano fra loro neppure le persone più affezionate. O la colpa è sol mia? Certe volte non comprendo nemmeno mio padre. Sono cattiva! Non comprendo come mio padre possa scherzare, fingersi allegro. E la fede della mamma, la sua rassegnazione, la sua religione mi fa dispetto, alle volte!... Dunque sono cattiva! Ma lasciatemi come sono; non mi inasprite di più se non potete comprendere il veleno che ho nel cuore, nel sangue!
— Tu hai sofferto molto — ribattei con fermezza —; ma il bene che noi ti vogliamo è più grande d'ogni male che hai patito; il nostro affetto ti guarirà!
Mi fissò di nuovo per un istante. Quella mia fermezza le significava, più che speranza, una fede sicura; e la meravigliava, la stupiva.
— Non ci comprendiamo più — mormorò.
— Perchè? — le chiesi con forza.
— Oh Sivori; una spiegazione ci farebbe tanto male!
— È necessaria!
— Non ora! non ora! — ripetè con voce dolente, quasi pregando.
E si mosse.
Scendemmo.
A basso, sul punto di partire, volli che Claudio mi promettesse di venire a Molinella.
— Vi voglio là tutti, un giorno.
— Te lo promettiamo — ripeteva Claudio. — Credi non abbia voglia, io, di far un'improvvisata al Biondo e alla sua signora?
Eugenia sorrideva; per lei, che ci verrebbe, garantiva Mino saltandomi al collo.
E Ortensia mi diè la mano. Fredda!... Ma nei suoi occhi non era più asprezza; la sua voce fu dolce salutandomi:
— A rivederci, Sivori!
IV.
Uscendo al sole dai tuguri ove i malati gemevano o deliravano, mi pareva di gettarmi in un bagno che mi purificasse e ravvivasse d'un tratto. Più: certe volte la vita esterna mi colpiva con tal forza che ricevevo un'impressione quasi dolorosa, quasi di una ferita troppo presto esposta a un calore forte e improvviso.
Comprendevo ora come effetto d'una stessa necessità il fervore che agitava le messi sempre più rigogliose, che moveva i ragazzi e i vitelli a correre e a ruzzare nei prati e la vecchia Rita a cantare con la stessa anima dei passeri affaccendati intorno al tetto della mia casa. Nè io mi ritraevo più da quel fervore, non sfuggivo più a quella necessità; e mi chiedevo quante primavere resterebbero ancora ai miei sensi; e avvertivo in me un egoismo profondo e buono perchè naturale.
Ma abbandonandomi in questo sentivo che gran parte di me stesso mancava ancora a me stesso: sentivo che felicità mi era possibile e che felicità mi rapiva, mi strappava, divisa da me, Ortensia. La sete d'amore in quei momenti mi esasperava. Se allora avessi avuto dinanzi a me Ortensia e mi avesse convinto che essa non mi amerebbe mai più, che io non saprei mai più ridestarla al mio amore.... che avrei fatto?
Chi mi aveva condotto ad amarla in tal modo? Lei! Lei mi aveva ridata la vita; per lei rivivevo così! Quale ragione, qual fatto, qual mistero o destino le dava il diritto di ricacciarmi in una miseria peggiore della morte? Perchè ora non ci comprendevamo più? Non comprendeva, Ortensia, la mia passione?
Passione che mi tribolava da tre anni; che costringeva un uomo di ormai quarant'anni a invocar la felicità, a chiamar lei, Ortensia, per nome come un ragazzo innamorato!»
E in quelle tiepide notti di maggio, sotto il cielo stellato e la prima luna.... (perchè non era meco?).... io piansi.
Frattanto il Biondo e la Rita, avendo appreso che Moser era a Bologna con la famiglia, non mi davan più tregua. E: — Quando viene dunque a trovarci il signor Claudio? — E: — Verrà con la sposa, con i figlioli? — «E: — Verrà anche la figliuola? Abbiamo tanta voglia di vederla!
Scrissi a Claudio che non potevo per allora tornar alla Ca' Rossa; che anzi non vi andrei più se prima non venissero loro a Molinella. Claudio finalmente mi annunciò la gita per il primo giorno che avrebbe un po' di vacanza.
La domenica prossima?
V.
La sera di quello stesso giorno che mi consolò la lettera di Moser, il caso (sempre il caso?) mi volle solo spettatore d'un fatto che restò quale orribile episodio di miseria e di sventura nella storia del mio paese. Lo narro perchè io, atterrito un tempo dal pensiero della morte, fin da esso derivai argomento d'esaltare la vita.
Ero tornato a casa da qualche ora e fumavo alla finestra della mia camera. Dalla luna quasi colma pioveva sul mondo una luce di letizia.
Mi giungeva il cricrire copioso e vasto dei grilli e il gracidare delle rane e il canto dei birocciai, dalla via maestra:
Guarda la bella notte e il bel sereno!
Quest'è una notte da rubar le donne:
Chi ruba donne non si chiama ladro;
Si chiama giovinotto innamorato....; ma al di sopra e al di là di quelle voci era l'immenso sensibile silenzio della notte feconda, quando la natura raccoglie e rinfranca in segreto le sue molteplici forze e si prepara alle più rigogliose espansioni.
Improvvisamente, da sotto la finestra, il Biondo mi chiamò:
— Signor dottore!
— Che volete?
— C'è qui giù la Tisa dello Zingaro, che ha suo marito che sta male.
Bisognò discendere. E venne innanzi l'ombra della donna. Aveva due bambini, uno a destra e l'altro a sinistra; entrambi divoravano il pane che loro aveva dato il Biondo. Il più grandicello, trattenendosi, porse il crostino alla madre e con un accento di meraviglia più che di gioia, esclamò:
— Mamma, del pane!
Non sapeva credere che mangiava proprio del pane.
Senza badargli la donna, timida, mi rispondeva che suo marito aveva una gran febbre e pareva diventato matto.
Al solito: era tifo. Scrissi una ricetta e la consegnai al Biondo; poi dissi: — Andiamo!
Lo Zingaro, così soprannominato per il colore del viso e per la miseria, era un risaiolo che abitava in una lurida capanna presso il serbatoio della risaia.
A quella volta, io andavo innanzi, con la donna dietro: sola; i bambini affamati e assonnati li aveva lasciati al Biondo e alla Rita.
La donna raccontava:
— Tornò l'altra sera dal Traghetto....
— Cos'era andato a farvi?
— In prestito, signore, di un poco di farina gialla. Non avevamo più niente da mangiare; e qui nessuno ci fa credito, signore.
— Avrà bevuto dell'acqua laggiù.... Non lo sapete che è l'acqua che avvelena?
Forse la donna aveva tale speranza nel mio aiuto da esserne rianimata; o forse era in uno stato d'orgasmo, perchè mi rispose ridendo:
— Eh! lo credo anch'io che sarebbe meglio ber del vino!
Continuò:
— Quando fu a casa, e io facevo la polenta, cominciò a lamentarsi dal freddo, che per quanto fuoco mi facessi non si poteva riscaldare; e si mise a letto. In tutto ieri non volle mangiare. Ma questa sera mi sono preso paura; fa dei discorsi da matto.
Dopo ch'ella tacque, le chiesi se aveva solo quei due, figlioli.
— Ah! ne ho un altro di cinque mesi. L'ho lasciato a casa per far più presto. Dormiva.
Andavano frettolosi; io ero incitato dalla donna che mi veniva dietro, quantunque ella tacesse e camminasse scalza. E volgevo il pensiero al disgraziato in preda alla febbre.
Se moriva, la poveretta era condannata all'elemosina. Ma la mia mente non poteva insistere in quella tristezza; invano il sentiero era oscurato ad ogni tratto dai pioppi, dalle acacie e dai giunchi: trapassando i rami e le fronde la luna, di là, pareva più fulgida, e nel chiarore diffuso sopra e intorno a me fluiva quella pacata letizia, l'illusione di una felicità tranquilla e uguale, per sempre.
Ortensia! Ortensia!
.... Finchè tornai a riflettere, quasi rimorso, all'ufficio che dovevo compiere; e solo allora pensai che poteva essermi necessario un lenzuolo, per un impacco.
Chiesi alla donna:
— Un lenzuolo l'avete?
— Oh, signore! Dove vuol che l'abbiamo un lenzuolo? Sono tre anni che non ne ho più uno!
Io stavo per dirle:
— Tornate indietro a prenderlo, a casa mia, quando la donna fece:
— Cos'è là? — Tendeva la mano.
Un bagliore: dietro i pioppi che separavano il campo dalla risaia. Un bagliore d'incendio.
Che cosa poteva essere? Che cosa bruciava? Non era stagione da bruciar stoppie o rovi nei campi. Una cascina? una casa? Ma non ce n'erano da quella parte, non ce n'erano così vicine!... Il «capanno».... dello Zingaro?
— Brucia il capanno! — urlò la donna urtandomi, precedendomi, correndo.... Una furia; e gridava, forsennata, il nome del marito; invocava Dio, invocava aiuto. Le sue strida di «aiuto» trafiggevano quel silenzio atroce, quella serenità divenuta subitamente spaventosa.
Era vero: bruciava il capanno!
Muto, con lo sguardo teso al bagliore e alla distanza da superare, correvo io pure, e nell'approssimare mi pareva di scorgere l'ombra dell'uomo in delirio che agitasse le vampe dentro un cumulo denso e fondo. Era in salvo, l'infermo? O.... bruciava anche lui? Correvamo. E.... — il sangue mi si gelò nelle vene —: non mi aveva detto quella sciagurata che aveva lasciato a casa il figliolo più piccolo? «Dormiva».
Infatti chiamando aiuto, chiamando il marito quasi potesse udirla, essa teneva come sospese quelle terribili grida su di un grido che non osava gettare.... Oh tutto ciò straziava il cuore; gravava, enorme peso, sul capo!... Correvamo, correvamo.
Vicini, ormai: la donna tacque. Ad ogni nostro passo innanzi l'incendio, così luminoso di lontano, affoscava; le lame rossastre tagliavano la fumana prorompendo dalla piccola finestra, dalla porta, alzandosi sul culmine.
Era un soffoco di fumo greve, un tanfo di canne abbruciacchiate. E non una voce....; nessuno! Morti?... Fossero almeno morti, prima...., d'asfissia!
Ah no!
Dio! Dio!... no; un vagito! là! Dinanzi all'uscio, era; in un involto di cenci! Là era il bambino! Lo raccolse, la madre; riebbe la voce: un grido di gioia sovrumana: — El mi ragazzól! — mentre là dentro.... Nessuna altra voce!; muto, anche l'incendio.
D'impeto, senza coscienza del pericolo, avanzai alla porticella: ma fui respinto dal fumo infuocato, come per l'urto a una parete solida. Ritentai (la donna urlava adesso il nome del marito, strappava l'anima). Dovetti ritrarmi, appena in tempo! Con fracasso il tetto precipitò; l'abituro si sfasciò in una rovina fiammeggiante e fumante....
Non so dire in che modo urlava e che diceva quella donna frenetica col bambino in braccio; non posso ricercare quello che io provassi allora assistendo al fumare della rovina; a immaginare il corpo umano che si era contorto nelle fiamme; a comprendere la verità....
Compresi la verità a poco a poco. Un istinto di generosità paterna, l'amor di padre aveva spinto quell'uomo delirante a mettere là in salvo, dalla sua disperazione, la piccola creatura; poi, con mostruosa demenza egli aveva dato fine al male che lo affannava, aveva dato fuoco alla sua intollerabile miseria.
VI.
Al raccapriccio seguì tosto in me una commozione paragonabile a quella che proverebbe un credente nella subitanea rivelazione della divinità. Prevalse in mie alla visione orribile dell'incendio e della donna pazza per dolore e angoscia, l'immagine stupenda della madre che nel raccogliere salvo il suo bambino m'era sembrata impazzire di felicità; e più che la pietà del miserabile, perito orrendamente, poteva in me l'ammirazione per la forza arcana e portentosa che aveva costretto il misero padre ad esentare dalla distruzione la creatura del suo sangue. Mai, per nessun fatto che esaltasse l'amor di padre o di madre, mai io ero rimasto commosso in tal modo: una luce che non era di scienza mi illuminava ora il mistero della vita; e la ragione delle sue leggi imprescindibili e la ragione della morte mi si manifestava d'un tratto nella rivelazione del bene sommo conceduto ai viventi. Quanto affetto aveva condotto quell'uomo spietato verso sè stesso ad aver pietà del suo nato! Quanto affetto aveva sollevato la misera donna a dimenticar fino il padre dei suoi figli, che bruciava là sotto, perchè ella gioisse così, nell'istante che ricuperava il suo figliolo! Quale gaudio sublime è negato dunque a chi si rifiuta alla procreazione? che è mai la morte se non il mezzo a trasmettere questo, il maggior gaudio dell'esistenza?
Invece di dire: «la morte è necessaria a propagare la vita» si dovrebbe dire (io pensavo): la morte è necessaria a propagare la felicità dell'esistenza e la felicità si attinge soltanto nella procreazione.
A consolare gli uomini privati d'ogni fede la filosofia moderna ha detto loro: «La morte non esiste perchè la vita è continuo rinnovamento e continua trasformazione».
Invece io pensavo: «La morte esiste, ma il più gran dolore che la morte può dare è nulla in confronto alla più gran gioia che dà la vita, e la più gran gioia della vita è nell'amore per le creature della nostra vita».
Ed io a quarant'anni, nella virilità piena, ignoravo quest'amore così grande che oltrepassa la capacità della vita individua; così grande da render riguardoso della vita l'uomo che con frenesia feroce la troncava in se stesso!
Un desiderio nuovo penetrava ora la mia passione, la rischiarava del tutto; m'infondeva un senso di vitalità potente: proverei le gioie dell'amore paterno; Ortensia sarebbe la madre della mia prole!
E per un contrasto men strano forse che naturale la memoria di mia madre, in quei giorni, mi accompagnava nei noti luoghi più viva che mai.
VII.
Avevo predisposti il Biondo e sua moglie alla visita che m'aspettavo, ma avevo anche raccomandato loro di non far troppi preparativi e di fingersi ignari, per lasciar a Claudio il piacere dell'improvvisata.
La domenica, al giungere del secondo treno del mattino, il vecchio indossò la giacca da festa e calcò in capo la berretta nuova; la vecchierella, ben pettinata e tutta nitida, si strinse intorno al collo un fazzoletto di seta rossa che su l'invernale gabbano di flanella a scacchi e sotto il candor dei capelli dava segno di primavera e d'allegrezza; ed entrambi s'appiattarono in casa ad attendere, palpitando. Io guardavo di fuori, dal prato.
Ahimè! Il treno giunse; ristette; ripartì; e l'attesa fu vana.
Proteste e brontolio della Rita, che aveva fatto sin la torta! Ma il Biondo ripeteva:
— Volete scommettere che vengono con la corsa delle tre e mezza?
Ci colse. Poco dopo che fu passato quel treno, eccoli spuntare.
Ma non tutti: soli Claudio e Ortensia.
Andai alla loro volta. Moser più spontaneamente lieto di quel che non fosse stato da un pezzo, sbraitava:
— È un'ora che ti chiamo! Ho cominciato a chiamarti dalla stazione! Sei diventato sordo?
E Ortensia:
— Il babbo, se non ero io a trattenerlo, si metteva di gran corsa....
— Ma è l'ora questa?... — io dicevo. — E Eugenia e Mino?
Rispondevano insieme:
— Mino non ha meritato la vacanza....
— Non ha imparato la costituzione di Servio Tullio!
— La mamma ha dovuto restare a casa a far la guardia....
— Ohe! Biondo! Pulicreta! Siete ancora al mondo? — urlava Moser.
Mormorava Ortensia.... (Come bella!... Vestita di chiaro; un po' riscaldata in viso; e si levò l'ampio cappello, e il sole la irradiò):
— Il maestro ha riferito al babbo che Mino non ha voglia di studiare e che non passerà all'esame.... Non è da compatire? Ha sofferto anche lui; ora si distrae. Il babbo questa volta è stato inflessibile.... Ma — chiese forte — perchè dite che non è aria buona quaggiù?
— In primavera....
— L'aria! — m'interruppe Moser. — L'aria, sì, è sempre quella: un po' pigra; ma buona anche qui, perchè, grazie a Dio, siamo in Italia! Il resto, bambina mia, è mutato. Tutto mutato.... Non vedi? Io non riconosco più nulla: mi sembra tutto vecchio!; fino quegli olmi giovani là mi sembrano decrepiti.
Non pensava che invecchiato era lui.
— Anche la casa è sempre quella, dici tu, Sivori? Ammetto: «Salve, dimora casta e pura!» Ma intanto il Biondo non c'è! la Pulicreta non si vede! Bisogna cantare, invece, il De profundis?... Ohe, Rita detta Pulicreta! Ohe tu che fosti il Biondo! Venite! Sorgete! Fuori!
E come Lazzaro all'imposizione di risorgere, il Biondo mosse la testa fuor della porta, poi uscì del tutto con la berretta in mano, inchinandosi al forestiere che fingeva di non conoscere. Moser rimase fermo, a bocca aperta.
Diceva il Biondo:
— Io lo ravviso...., questo signore...., e non mi posso ricordare.... Corpo....! Direi che ravviso anche quella signorina lì; e sono certo, certissimo di non averla mai vista! Certissimo!
Ma Claudio assalì il vecchio mentre faceva tal meditazione con le palpebre basse e l'obbligò a scoprir le pupille:
— Sei tu davvero?! il Biondo?!
— Ma è lei?!... Claudio! Ah corpo!... il signor Claudio! Rita! Rita! Venite a vedere chi c'è! Il signor Claudio! il cacciatore! l'amico del signor Carlo....; — e intanto Moser per poco non lo schiacciava abbracciandolo.
Ortensia sorrideva. Rise alla seconda scena, quando comparve la donna.
— Oh Vergine Santissima!: il signor Claudio!
— Oh Vergine Pulicreta!, come siete vecchia! Qua che vi abbracci anche voi.... — E staccandosi da lei: — Una bella vecchietta, però! Camperemo cent'anni, noi due!... Evviva!
E lei a ripetere: — Oh che matto! che matto!
Indi i complimenti alla signorina:
— Me ne rallegro tanto di vederla così bella! La mamma cosa fa? Sta bene?
— Su, presto! Dammi lo schioppo! Due colpi, prima d'andar in paese a trovar le vecchie conoscenze.
— Ma non si può, signor Claudio! È tempo proibito, adesso! — avvertiva il vecchio.
— Dammi il «catenaccio» ti dico!
Il Biondo dovè portargli lo schioppo secolare, che Claudio chiamava il «catenaccio».
Caricandolo — prima la polvere; poi la stoppa; poi i pallini, e ancora stoppa — Moser brontolava:
— Questo almeno non è invecchiato!
— Badi, signor Claudio, che ci sono i carabinieri; il delegato può credere che siano schioppettate di socialisti! — ammoniva ancora il Biondo. — Ai tempi che corrono....
E io:
— Ti proibisco di tirare alle rondini!
Ne accennai il nido ad Ortensia.
— No! babbo! sii buono! — pregò essa con pietà che parve improvvisamente ridestata in lei. — Hanno il nido!
— Lasciatemi fare! I rondoni sono scapoli!
E sparò contro una rondine, s'intende, senza colpirla.
Dopo che la colazione fu divenuta merenda e mentre Claudio e il vecchio s'incamminavano verso il paese, io e Ortensia prendemmo il sentiero più breve per giungere alla risaia. Ortensia non aveva notizia della sciagura dello Zingaro; nondimeno evitai la parte ov'era stato il «capanno» e la condussi a costa della landa, di dove più spaziava lo sguardo. Ella guardava, con poche parole: io godevo che lo splendore del giorno le penetrasse nello spirito. Mai più chiaro cielo; mai aria più aulente e quieta; mai più vivaci fiori nell'aperta piana, in cui il fieno maturava per la seconda falciatura.
La varietà dei colori assorgeva concorde dal verde come quella delle voci in una sinfonia meravigliosa: giallo di stelline, crocifere e ranuncoli; lilla di porrette; viola di morette, castagnole e salvie; bianco di magnugole e nigelle, ravizzi e narcisi; rosa di ginestrine, lupinella e trifoglio; rosso di serpillo, sorbastrella e papaveri; porpora di graziole; cilestre e azzurro di giacinti e fiordalisi, di poligole e buglasse....; e margherite da per tutto! Quante!
Di tratto in tratto Ortensia si chinava a spiccare un fiordaliso, o un garofano, o un geranio campestre. Poscia tendendo la mano esclamò:
— Oh gettarsi là, in mezzo; a correre e cantare!...
— Va! — dissi io.
Ella sorrise triste:
— Non si può, senza calpestare.
Timidamente, nei tardi passi, io avvertivo che il suo sguardo era pieno di ricordi. Ma il suo sguardo era triste, mentre in me pareva approfondirsi la coscienza dello spirito, estendersi la capacità vitale d'ogni senso, vibrare ogni minima forza a una sconosciuta armonia. Che giorno!
Rapiva una letizia lieve quasi di sogno eppure tenace e valida; era un'illusione suscitata e mantenuta dalla divina realtà intorno; un vago desiderio, continuo, di continuo esaudito nel fluire degli attimi; e più che la promessa della semplice felicità umana, ferveva nel sole, nell'aria, nella terra palpitante di fecondità, una felicità certa e immanente, naturale e sublime.
Ma Ortensia era triste....
Giungemmo all'argine. Quasi per frenare una sensazione troppo forte, essa teneva la mano contro il cuore: attese prima di salire e disse: — Qui l'aria mi sembra più greve.
— Anche pochi passi — diss'io — e saremo al serbatoio.
Di su l'argine mi domandò perchè la risaia era così divisa, in tanti quadri.
Risposi:
— Perchè il vento non agiti l'acqua e l'acqua non rompa le pianticelle ancora tenere.
— Ma dell'acqua ce n'è poca!
— L'acqua è ancora fredda, e, al contrario, la prima messe del riso ha bisogno di caldo.
Eran dimande e risposte che protraevano altre dimande e altre risposte. Io aggiunsi:
— V'immaginate la vita delle risaiole a strappare, ad una ad una, le piante maligne, con l'acqua alle ginocchia, i piedi nel fango e il sole che batte sulla schiena?
— Disgraziate anche loro! — E accennando: — Quegli alberi là?
— Sono i salici del serbatoio. Andiamo!
In breve fummo al luogo d'imbarco; lo schifo era legato a un piuolo....
— Mi fido poco io, di voi! — fece Ortensia, per un istante eccitata dalla novità.
— Alla prova! — esclamai io sostenendola all'entrar nella barca; e sciolsi la corda.
Ai primi colpi di remo, ella fu persuasa della mia valentia.
— Bravo! — Poscia guardando intorno mormorò quasi vinta: — Bello!
Infatti anche l'acqua sembrava riposare e godere in distesa azzurra, chiazzata qua e là dal verde delle ninfee e sparsa di macchie, or scarse or copiose in cannucce e giunchi, e chiusa all'ingiro dalle sponde ombrose di salici; mentre la barca procedeva piano piano, soavemente, per quella frescura.
Canerini di valle s'elevavano con un vocìo sottile, così lieto da crederlo non voci di paura ma di più viva gioia nel volo.
Finchè la barca trovò adito in mezzo alla macchia più folta e ristette dove l'acqua, bruna bruna sotto l'ombra, rivelava un brivido, al rezzo.
Udimmo uno sparnazzar d'anitre e di folaghe; poi, silenzio.
— Restiamo un poco? — io domandai.
— Sì.
D'improvviso, Ortensia esclamò: — Avete sentito?
Dopo un fruscìo d'ali e di fronde udimmo un richiamo.
Io allora feci avanzare la barca, perchè ella rimovesse le fronde. E gettò un grido di meraviglia.
Un nido di folaghe....
Ma era giunta, finalmente, l'ora. Ella lo sentiva; io ebbi un tumultuoso risveglio di tutto il passato: propositi, prove di abnegazione, battaglie; vittorie angosciose; angosce di lontananza; tormenti di gelosia; rimorsi; disperazioni; speranze; tutto, tutto sarebbe stato inutile se io in quell'ora non avessi vinto!
Abbandonati i remi afferrai la destra di Ortensia; la interrogai a lungo con lo sguardo prima di parlare.
Ella sostenendo il mio sguardo aspettò le parole che non poteva più evitare.
— E la spiegazione?
Arrossì. Chiese, risoluta:
— Volete soffrire? farmi soffrire? Ebbene, son pronta! Dite dunque, dite! Che cosa volete sapere da me?
— Perchè siete così mutata con me? Perchè mi guardate con diffidenza? Perchè non vedo più nei vostri occhi la luce d'un tempo? Perchè, Ortensia, mi hai detto che non ci comprendiamo più e non comprendi tutto il bene che io ti voglio?
Stringevo la sua mano con tremito convulso. Nella mia attesa doveva trasparire il timore d'una grande speranza che stia per mancare, di una disperazione forse che stia per prorompere: ella ritrasse la destra, la passò su la fronte come a diradare e schiarire una folla d'idee confuse; poi, pallida, ma con voce più ferma della mia:
— Sono mutata: è vero; ma non solo con voi, con tutti! Vi guardo così, come dite, perchè vi temo.
— Che male...? — Volevo dire che male potevo farle ancora.
M'interruppe:
— Vi temo perchè v'illudete e la vostra illusione ci renderà più infelici tutti e due. Sì: non ci comprendiamo più. V'illudete! Credete che io possa tornare quella di una volta.... È impossibile! Riflettiamo, Sivori: che ero io una volta? Sciocca, ero. Dopo che la mamma fu guarita — vi ricordate? — mi pareva che avessero creato il mondo apposta per me, per la mia felicità. Quella mia spensieratezza, quella mia gaiezza vi fece vedere in me una ragazza diversa dalle altre.... Ma v'ingannaste: ero una cervellina come tante altre. Solo, avevo molto cuore. Voi mi attribuiste più intelligenza di quella che avevo e non conosceste il cuore che avevo: da qui tutto il male.
— Ah no! Se non avessi conosciuto il tuo cuore non avrei sofferto tanto; non ti avrei amata così! Tutto il male fu nel mio amore che non seppi nascondere; questa fu la mia colpa! Ma l'ho scontata.... Ortensia, Ortensia! Quanto soffrire! Se io fossi stato più forte, se non ti avessi indotta ad amarmi, la passione non avrebbe fatto cattivo un uomo che forse non era cattivo; non dovrei incolparmi della rovina di tuo padre....
— Non è vero....
—.... e tu forse.... — almeno io lo desiderai allontanandomi da te.... — tu saresti stata felice!
Ella appuntò l'indice della sinistra verso i miei occhi.
— Vedete? Ecco come mi avete conosciuta! Pensate anche adesso che io avrei potuto amare un altro come amai voi! Anche adesso ignorate il bene che vi ho voluto.... È una crudeltà! un'offesa! Mi difendo, ora! Dovete sapere tutto il male che mi avete fatto!
Sempre più concitata e pallida riprese:
— Sentite! Vi amavo fin da bambina! Per quello che udivo dire di voi da mio padre, da mia madre, vi avrei amato anche se non vi avessi mai visto; ma vi conoscevo. Ragazzetta, quando si parlava d'amori e di nozze, dicevo: «Voglio sposar Sivori». A diciassette anni, quando v'aspettavamo a Valdigorgo, dicevo: «Sono grande! sono una ragazza!, ma non voglio pensare a nessun altro che a Sivori, voglio pensare sempre a lui. Nessuna donna potrà mai dirgli, a Sivori, quel che gli dirò io un giorno: ho pensato sempre a voi; non ho mai pensato che a voi!» Veniste. Eravate così triste; infelice, malcontento di tutto. E mi diceste se volevo essere io la vostra sorella. Sorella! Avevo udito dirvi che bene sarebbe stato per voi quest'affetto; e mi parve una cosa sublime. Fui felice a scorgere il bene che vi facevo. Ma ero tanto inesperta! A poco a poco il mio affetto mutava, diveniva quale doveva essere, come era prima, ma più grande, molto più grande! E mi accorsi che anche voi mi amavate di più, in un altro modo. Oh allora! Il mio amore, diventò così grande che il bene di una sorella era nulla al confronto, era uno scherzo; un amore così grande che m'impauriva. Io vi amavo in modo che mentre sembravo così coraggiosa non osavo parlarvi, molte volte! molte volte tardavo a cercare di voi e avrei voluto nascondermi; e non potevo più vivere senza vedervi. Era un amore in cui entravano molte fanciullaggini, molte sciocchezze, forse; ma in cui c'era anche dell'orgoglio, della fede. Non pensavo più che poteste sposarmi: ve lo giuro! Mi bastava sapere che voi mi amavate. Non so esprimere quel che provavo: c'era in me una vita diversa, più forte.... Io, tanto inesperta, ingelosivo del vostro passato, io dubitai di non amarvi abbastanza! Così vi amavo! E mi abbandonaste! Non aveste pietà di me.... Speravate che io vi dimenticassi? Il martirio cominciò invece con la vostra partenza! Non trovavo ragione del vostro abbandono. Le parole che mi diceste di ritorno dalla messa erano state un pretesto.... Come potevate credere, voi, che io potessi amare un altro? Un pretesto! Forse voi non volevate per moglie una giovinetta? Ma voi mi amavate: l'avevo visto! Il nostro amore, l'amore come io lo pensavo non doveva avere paure o riguardi: era un pretesto anche la differenza d'età! Perchè dunque? Voi nascondevate il vostro amore ai miei; pareva un delitto.... Ebbi un dubbio....
— Quale? — domandai ansioso, con un brivido nelle vene. (Non era, forse, un dubbio suscitato dalla calunnia di Anna,: che io fossi stato l'amante di sua madre?...)
— Dubitai aveste, lontano, una donna amata.... Mi sarei uccisa di rabbia; ma anche questo sospetto cadde. Il mio amore era superiore a tutto; doveva essere il solo, il vero amore anche per voi; e avrebbe dovuto infrangere ogni vincolo. Ridete! Mi appigliai a un'idea stupida: che mi aveste messo alla prova.... Mia madre si maritò a diciott'anni; quando io avrei la stessa età, sareste tornato per chiedermi ai miei in isposa. Pazza addirittura: vi aspettavo per il dì del mio compleanno! In questa speranza avevo ore di tal gioia, di tal fede che mi pareva di essere felice come da bambina. Ma queste furon poche ore; quante ore invece furono atroci!
A questo punto Ortensia passò di nuovo la mano su la fronte e disse:
— No. Son cose che non posso, non debbo confessarvi!
— Parla! — gridai io riafferrandole la mano e dimostrando con che passione l'ascoltavo. — Debbo saper tutto il male che t'ho fatto!
— Ma non tutto il male che m'han fatto gli altri.
Col brivido di pocanzi insistetti:
— Gli altri: chi? Anna Melvi? L'ho immaginata la sua perfidia.... Parla; di' tutto!... Voglio saper tutto!
— No! — ripetè. — La perfidia di Anna aveva del resto, lo stesso motivo del mio dolore, della mia disperazione. Anche per lei c'era un mistero. Perchè mi abbandonaste?
Gli occhi d'Ortensia mi fissavano con intensità.
Vedevo orrore nelle sue rimembranze le pensai ch'ella mi rinnovasse quella dimanda, conoscendo interamente la malignità di Anna. La fissai a mia volta, e adagio, con voce divenuta sicura, e con la forza della coscienza, le dissi:
— Ortensia! Io sono un miserabile risorto alla vita. Ma non si risorge alla vita senza riacquistare una fede. Almeno questo credo: che mia madre non sia morta del tutto. Il suo spirito aleggia forse intorno a noi. Ella forse mi ode. Ebbene: per l'anima di mia madre che io credo m'accompagni oggi teco, come in un consenso d'amore, per l'anima di mia madre io ti giuro, Ortensia, che t'abbandonai solo perchè il mio amore non ti rendesse infelice, perchè tu fossi un giorno sposa felice d'un altro!
Un sorriso o uno spasimo prevenne su le labbra di Ortensia, queste altre parole:
— Ne io nè Anna potevamo credere a tanta generosità, a una rinuncia per beneficenza! Io avevo desiderato di morire.... Avevo messo l'amore a pari della morte: non potevo metterlo a pari dell'interesse! E Anna.... Oh Anna spiegava le cose dal punto di vista della sua bassezza.... — Così dicendo chinò il viso e si strinse convulsamente le mani, per frenarsi. Ma non potè non soggiungere: — Io non l'ascoltavo, Anna; però l'udivo e le sue parole eran veleno che m'entrava nel sangue.... Voi credete d'avere indovinato qualcuna delle sue insinuazioni? Che! furono piccoli morsi, soltanto, nei primi mesi. Dopo, diventarono ferite che mi squarciarono il cuore.
Tacendo di nuovo Ortensia accrebbe in me l'impressione del suo strazio.
Ma d'un tratto, con l'eccitazione a cui già l'avevo vista abbandonarsi a Valdigorgo, proruppe:
— Sì: avete ragione! Dovete saper tutto! Il vostro giuramento accresce i miei rimorsi, ma c'è la vostra parte di colpa da chiarire! Anna — sentite — mi diceva: «Sivori ti ha abbandonata?» Non le rispondevo; scuotevo le spalle. Essa sorrideva. Eppoi, dopo qualche tempo: «Sivori è rimasto fedele a qualche antica fiamma». Il mio interrogarla, conoscere la verità a prezzo del mio stesso dubbio! E che ne sapeva lei? Avrei voluto sangue; e tacqui sempre. Essa lasciò passare qualche tempo, eppoi: «Hai finalmente scoperto il mistero?» O mi compiangeva ridendo: «Povera bambina!» Finchè disse: «Hai scoperto che l'antica fiamma di Sivori non è a Berlino?», e disse questo in un modo, in un modo.... Alludeva a persona vicina, a persona che io conoscevo. A chi? a chi? Un'«antica fiamma».... Ah un pensiero orribile mi attraversò la mente! Non volli più vederla, colei, perchè ogni sua parola mi richiamava quell'idea orribile.... Mi accordai con Marcella per allontanare Anna da casa nostra. Ma incominciò la lotta che doveva durare non solo giorni; dei mesi! Pensavo: Sivori dice che il mondo è fango. C'è tanta cattiveria al mondo che Anna forse.... s'è intesa d'infamare mia madre? È impossibile! Chi non conosce che donna è mia madre? Con tutta l'anima respingevo il sospetto...., il solo sospetto che si potesse infamar mia madre. Capite? Questo solo sospetto! Ed era nulla! Temei, sperai impazzire perchè una voce diabolica mi suggeriva tutto quello che dicevate voi, esperto del mondo: al mondo tutto è brutto; tutto è finzione, menzogna! Ma se questo era vero.... Ecco, Sivori, a che fui condotta! Orribile! Era un'idea che mi balenava coi ricordi del vostro pessimismo, della vostra sfiducia di tutto e di tutti. «Se il mondo è fango.... non potrebbe esser vero.... quel che sembra dir Anna?» Che martirio! Se mia madre avesse visto, allora il mio martirio! Ma l'idea assurda, atroce dava la spiegazione del mistero: «Ecco perchè Sivori m'ha abbandonata!» Quante volte mi gettai nelle braccia della mamma per accarezzarla, per sentire il suo cuore, che mi perdonasse! E quante volte vi avrei scritto: — Carlo! impazzisco.... Tornate!... — Mi pareva che al solo vedervi mi sarei purificata l'anima e vi avrei perdonato tutto il male che mi avevate fatto, tutto il male che mi avevate insegnato!
Non resse più oltre; nascosto il viso con le palme, Ortensia singhiozzò. Io la pregavo, la scongiuravo di perdonarmi; non potevo dir altro: — Perdonami.
Ma furon pochi istanti; senza badarmi, volle pur dire come nel suo cuore aveva salvata la virtù di sua madre.
— Lottai; vinsi. Mi svegliai dal sogno. Avevo sognato che la vita, brutta per tutti, sarebbe stata bella per noi, per il nostro amore. In realtà, voi non mi avevate amata; mi eravate affezionato soltanto: sorellina! Non era stato dunque un abbandono, una fuga: era stata semplicemente una partenza, la vostra. E la malignità di Anna non aveva altro scopo che affliggermi per la simpatia che mi dimostrava Roveni. In realtà, io ero stata malata, ero malata; ma guarirei. Povera mamma! Una santa! Però dovevo imparare anch'io a stare al mondo! Non dovevo toglier subito ogni speranza a Roveni; e cercai di sopportare le sue maniere; di vincere l'antipatia che a poco a poco suscitava in me. Ma quando tentò d'imporsi con le minacce, quando tentò di profanare il segreto dell'anima mia, gli risposi no! Ricaddi; lottai di nuovo; dubitai di non guarire mai più e invocai una sventura. La desideravo per sottrarmi a quel martirio; per avere un dolore diverso.... Vi ho amato?
— Povera Ortensia! — io mormorai, con un nodo alla gola.
— La sventura venne. Voi tornaste. E io vinsi ancora: con la coscienza tranquilla potei chiamarvi fratello.... Non avreste dovuto esser altro per me; non sareste più altro. Così avevate voluto voi un giorno, così vi ripetei. Lo stesso vi ripeto oggi.... Dunque che pretendete?
— Che tu mi perdoni....
— Vi ho già perdonato.
— Non mi basta!
— Io ho per voi la gratitudine di una sorella che vi deve più della sua vita!
— Non mi basta! — gridai affannoso, fuori di me. — Non mi basta perchè io t'amo come tu mi amavi un tempo; e tu devi amarmi come io ti amo! Per il mio amore devi amarmi; per tutto quello che m'hai fatto soffrire, e non sai; per tutto quello che t'ho fatto soffrirei! Devi amarmi per queste lagrime; per le ferite che m'hai inferte oggi; per la debolezza che un tempo mi faceva temere e desiderare la morte e per la forza con cui oggi ti chiamo alla vita! Io debbo la vita a te; ma tu non hai il diritto di togliermela: me l'hai data non solo a prezzo d'amore, ma di dolore! Quando l'esistenza m'era divenuta un peso inutile, per te riacquistai la facoltà di amare; ma appresi anche che c'è qualche cosa di più alto dell'amore: il dolore. Mi sollevò il dolore; mi diede forza il dolore, mi diede fede e bontà il dolore! Ecco perchè devi amarmi come ti amo, come mi amavi!
Scuoteva il capo. Senza guardarmi mormorò:
— Sono forse in preda di una malìa? Mi pesa sul capo una maledizione? Credetemi, Carlo! non posso più amare così; non sono più degna di essere amata così! Nel cuore alle volte mi par d'avere una pietra, un pezzo di ghiaccio; mi pare di essere condannata a un'eterna tristezza. Quei fiori che abbiamo visti laggiù come son belli!: ma non per me. Oggi è una giornata meravigliosa: ma non per me. Voi siete buono: ma non per me.... Ho nell'anima la vostra tristezza d'un tempo; la vostra disperazione.
Con le mani nei capelli esclamai:
— Adesso capisco tutto il male che ti ho fatto! — Vedevo la distruzione di quell'anima; irreparabile.
Meglio morire!
Oh morire tutti e due!...; travolgerla meco nel lago!...
Essa disse:
— A mio padre gli han confitto le spine nella fronte, ma poi gli han detto: sei una vittima. A mia madre le han gettato il fango addosso; ma lei lo ignora. Io sì che ho ingoiato tutto il fiele.... Come potrei amare? Che moglie, che madre sarei io? Che dovrei insegnare, io, ai miei figlioli? A odiare! Ho l'odio nel sangue, Carlo! Non posso più piangere.... E volete che ami!
.... Travolgerla meco nel lago. Finire!
Di contrasto il pensiero mi ricorse a Eugenia.
— Tua madre.... Tua madre sa.... di me?
— Sa il bene che vi volli....
— Dunque anche tua madre benedirebbe il nostro amore!
Ortensia sembrò non udirmi. Immobile, tendeva lo sguardo, come perduto innanzi a sè, all'orizzonte. Il sole calava sanguigno e l'acqua ne rendeva quel rossore di sangue. A un tratto....
— Ortensia! — gridai — Ortensia! — l'invocavo ebbro di gioia. Non m'ingannavo!
I suoi occhi risplendevano dell'antica luce....
Disse piano:
— Vi ricordate, quand'ero ragazzetta, quel giorno che ci sorprendeste sul prato del convento? Vi lasciammo lassù, solo. Ma io tornai da voi.... Era un tramonto così.... Come ero felice, allora!
Scoppiò in pianto dirotto. Salva! Io la trassi al mio petto, al mio cuore: salva!
E i miei baci ricuperarono quell'anima.
VIII.
In piedi su la porta di casa, con le mani ai fianchi, la Rita era contemplata di sottecchi dal marito, che col naso e i bargigli più rossi del solito e la berretta un po' disorientata, le sedeva di fronte.
In quell'accordo idilliaco i coniugi aspettavano tornassi dall'aver accompagnati gli ospiti alla ferrovia per ammettermi al discorso, che ad essi suggeriva un'idea contemporaneamente venuta al loro pensiero.
Non sospettavano che la stessa idea fosse venuta anche a me; e a meravigliarli già bastava il fatto di esserne illuminati ambedue in una volta. Anzi la combinazione avrebbe avuto del miracolo se in essi fosse stata minor opinione della loro furberia e pratica del mondo. Però anche ai furbi bisogna prudenza quando hanno da aprir gli occhi a chi li tien chiusi di sua propria volontà.
E per aprir gli occhi a me, lui, il Biondo dagli occhi soppiattati, cominciò a dire alla moglie:
— Il signor Claudio dimostra più anni di quel che ha.
La moglie assecondava.
— Sicuro!; lo dico anch'io; è sempre un matto allegro; ma ha fatto i capelli bianchi.... Eh, a stare al mondo!...
— Un uomo troppo buono. Lo so io se ha del cuore! Quando gli ho detto della vedova dello Zingaro è andato subito al portamonete.... M'ha dato troppo, vi dico!
— Il Signore gliene renderà merito; gli farà crescer bene il figliolo; gli mariterà bene anche quest'altra figliola.
Pausa. Eppoi il Biondo, accomodandosi la berretta e sollevando le palpebre verso di me:
— Che bella ragazza!
— Bella e buona — aggiunse la Rita.
Io domandai:
— Come fate a saperlo che è buona?
— Si vede!
— È figlia di suo padre!
— Sta a vedere che il signor Carlo verrà a dirci lui, adesso, che è cattiva!
La Rita, così dicendo, rideva.
Proseguivano:
— Ha degli occhi che parlano.
— Ehm! Non vorrei io che invece di lei, poverina, fosse cattivo qualchedun altro con lei!
— Cosa intendete dire? — domandò, furbo, il marito.
— Niente! niente! Una mia idea....
— A Molinella — affermò il Biondo — non c'è mai capitata l'uguale. Ce n'è, qui, delle ragazze che hanno una bella dote? Ma tutte bùggere! aria! fumo!
— La più bella dote sta nell'affezione....
— Bene! Ho un'idea anch'io, se volete saperla: che l'affezione c'è, a quest'ora, e come! Con quegli occhi che parlano.... Si vede!
— Ma siete matti da legare! — gridai io, finalmente. Press'a poco con lo stesso tono avevo dato un giorno dello sciocco al cavalier Fulgosi.
E la Rita: — Non ve l'ho detto che il cattivo questa volta è lui, il signor Carlo?
— Ma non sapete — gridai di nuovo — che potrei essere suo padre?
A questo grave argomento la Rita oppose un proverbio: «Se il marito non è in età, la moglie giudizio non ha». E il Biondo oppose un'argomentazione che tagliava la testa al toro, meglio dei proverbio:
— Se lei, signor Carlo, avesse i miei anni, poh! avrebbe ragione di pensarci su; ma se io avessi suoi...., ah! corpo di....! non ci penserei su tanto!
Quindi la Rita avanzò di due passi verso me parlando più seriamente che mai.
— Vuol campar sempre solo come un cane? Quando siam morti noi, chi ci ha più, al mondo?
— Dove vuol trovarla una ragazza così a ragione? — insistette il Biondo alzandosi e avvicinandosi anche lui per stringermi con la moglie come in una tanaglia.
Io finsi un principio di resa.
— E se la ragazza non mi volesse?
Peggio che peggio! Non concepivano nemmeno che una donna potesse rifiutar la fortuna di essere posseduta da me.
— Se questo fosse — disse il Biondo — mi sbattezzerei, quant'è vero Dio!
E la Rita scuotendo le spalle e abbandonandomi alla mia cattiveria:
— Ma lasciatelo cantare! Credete che non lo sappia che è innamorata cotta, la poverina?
Però il Biondo e la Rita sarebbero stati meno entusiasti di Ortensia quando avessero conosciuta questa lettera, che ricevevo il giorno dopo:
Carlo!
Vi ho promesso di scrivervi, ierisera, ma non vi ho detto il perchè.
Io vi voglio bene, vorrei correre da voi, dirvi: sono vostra per sempre e saremo felici!
Ma per quanto saremmo felici? Con quali dolori saremmo condannati a scontare la nostra felicità? Non di voi diffido! non di voi! Diffido di me e del destino. Non è debolezza che mi trattiene, credetemi, Carlo! È forza, è resistenza; perchè io non voglio veder soffrire per me, per causa mia!
Mi direte che saremo più infelici a non essere congiunti, a vivere separati così, poichè ci vogliamo bene; direte che io non vi amo come mi amate voi. Invece io sono orgogliosa del vostro amore e vorrei abbandonarmi a voi senza più temere, per la vita e per la morte!
Ma ora sento d'aver fatto più male io a voi che voi a me e temo di dovervene fare ancora. Temo, temo..., e vi scongiuro Carlo: riflettete! non sono più quella di una volta. Che non dobbiate pentirvi! Ve ne scongiuro piangendo, ora che posso piangere!
Ah per voi due, Biondo e Rita, questa ragazza ha meno giudizio di quel che pareva? Per voi, quando una ragazza ha chi le discorre di buon animo e lei gli vuol bene, non ci dovrebbero più essere tante dubbiezze?
Ortensia non dovrebbe piangere, ma cantare a squarciagola, come ai vostri vent'anni, o Rita?
Ebbene; sentite, cari vecchi! Io vi assicuro che Ortensia diventerà mia moglie!
················
(E Roveni?)
IX.
La mia gran fede, che aveva riscossa e commossa quell'anima, la riscaldava a poco a poco.
Diverse espressioni ricorsero nelle sue lettere che significavano in lei il prossimo, compiuto ritorno a sè stessa. Questa, per esempio:
Ho sognato che mi passavi una mano su la fronte e così mi toglievi ogni antico male, ogni brutto ricordo. La dolcezza del sogno m'è rimasta tutt'oggi nelle vene; mi è parso di sognare tutt'oggi e di vivere in uno splendore.
Le mie visite non erano frequenti. Essa mi imponeva lo stesso riserbo che per il passato. Perchè?
Diceva: — Voglio aver la consolazione di dire io al babbo: «Io sono più ostinata di te, ma Sivori è più ostinato di noi due insieme! Si è messo in testa di sposarmi, e bisognerà cedere!»
Quando direbbe ciò?
Oh anche in questo indugio, che sembrava un capriccio, c'era tanta delicatezza! Prima di tutto io comprendevo tacitamente il perchè voleva rivelar lei al padre il nostro segreto.
Per quanto ottimista, Claudio come resterebbe se la notizia gli venisse da me o se Eugenia gli dicesse: — Sivori domanda la mano di Ortensia? — D'un amico come me non era da dubitare gli domandassi in moglie la figliola in compenso dei quattrini che mi doveva; ma, insomma, per quei maledetti quattrini gli potrebbe essere amareggiata una gioia che Ortensia sperava piena e perfetta se lasciassi fare a lei.
Poi Ortensia non aveva torto del tutto quando esclamava:
— Abbiate pazienza, signor dottore! Volete che i miei credano che sono tornata buona solo per voi? che torno allegra, solo per voi, che non penso che a voi?.... Ho dei rimorsi — aggiungeva più piano. — Con mio padre, quando si sforzava di nascondere il suo dolore, ero sgarbata e urtante; avrei voluto vederlo soffrire come soffrivo io. E con la mamma, quando mi ribellavo alle sue parole di conforto, alla sua rassegnazione? Mi ricordo di certe sue occhiate che adesso mi sembrano quelle di una povera creatura ferita a morte, tant'ero irritata, cattiva!... No, Carlo: è troppo presto dire a lei e al babbo che sono disposta ad abbandonarli. Lasciamo passare almeno qualche mese, che s'avvezzino un po' a questi luoghi, a questa solitudine....
— Ma credi che tua madre non ci legga in faccia il nostro segreto e non ne goda? — le dicevo io.
— Non importai Vorrei anzi che indovinasse tutto; anche la nostra riserbatezza. Così si abituerà meglio all'idea del mio abbandono.
.... Io andavo alla Ca' Rossa due o tre volte la settimana.
O di giorno o di sera, erano ore di felicità.
Ivi, alla Ca' Rossa, avanzando l'estate, mi ristoravo in quella frescura spirituale che v'infondeva la novella quiete.
Ortensia m'appariva più bella nella veste umile, con il lungo grembiule attinente alla persona ardita e disinvolta; e la gola, che sorgeva bianca dal corpetto un po' scollato, e la nuca scoperta sotto l'onda dei capelli copiosi strettamente raccolti, davan cenno di forme che la salute rifiorendo renderebbe in breve tempo perfette. Più era lieta se colta in faccende di massaia o di giardiniera. Perchè già il lazzeruolo proteggeva una corona di molti vasi in cui era solo da temere l'eccesso dell'acqua che Mino v'impartiva; ed erano questioni con la sorella, che pareva averli inventati lei i garofani e i gelsomini e l'arte di coltivarli!
Dall'altro lato della casa schiamazzavano galline in un piccolo recinto, e Ortensia sperava ricavar tante ova da farne spedizione fin a Milano; ma un cocodè poco naturale rivelava spesso che Mino a ber le ova cantava con la stessa gioia che le galline a farle. Ah quel Mino! A sentir lui non gli piacevan solo le ova fresche; gli piaceva anche l'astronomia. Nell'infinito riscintillamento di una sera senza luna accennai ad Ortensia massaia che anche in cielo passeggiava una chiocciola con un drappello di pulcini; e Mino cominciò a pretendere gli dicessi i nomi di tutte le stelle: tutte!
Infatti, oltre che la Stella Polare gli insegnai a riconoscere la smeraldina Vega e il rubicondo Antares, Arturo e il Delfino, e, benchè pianeti, Marte e Giove.
Disgraziatamente gli esami di Mino pretendevano ben altro!; e durante il giorno egli faceva altro che studiar grammatica, aritmetica e storia: martellava, inchiodava, impiastricciava dei più vivi colori certi fogli che avrebbero sbigottito fin un pittore impressionista. Incarcerato nella sua camera, vi declamava per cinque minuti i verbi irregolari o la costituzione di Servio Tullio; poi governava una tribù di formiche restìe ai suoi ordini. Redarguito, rispondeva piangendo d'aver appreso a scuola che chi studia troppo, muore; e poichè il troppo è relativo all'indole e al giudizio delle persone, asseriva in coscienza che studiare due ore al giorno era per lui uno sforzo; e gliene doleva sinceramente perchè avrebbe voluto diventar ingegnere navale o ufficiale d'artiglieria.
Di conseguenza, a luglio fu bocciato agli esami in tutte le materie (in astronomia non l'interrogarono). Dopo di che gli pesò addosso la minaccia di essere messo in collegio se non riparasse in autunno.
Perciò avrebbe studiato in luglio e in agosto più di due ore al giorno, a costo di morire, se per distrarsi dalla pesante minaccia del collegio non avesse anche studiato la marcia reale al suono di un'ocarina di terracotta, e se non avesse dovuto perfezionarsi al tiro al bersaglio per divenire un bravo ufficiale d'artiglieria.
Mio buon Mino!
X.
.... L'8 settembre, giorno di festa, Ortensia mi scriveva: Sono felice, oggi! Se tu fossi qua, Carlo, saresti felice come me a vedere che oggi io sono proprio quella d'una volta. Domandalo alla mamma se non corro e canto e non l'abbraccio così forte che essa è costretta a dirmi, come allora, cervellina! Tutto il brutto è passato; non mi ricordo più di altro che ti voglio molto bene, che vi voglio tanto bene a tutti e che.... Zitto, signor dottore! Mi guardo nello specchio; vediamo la sposa.... Poh!; non c'è male.... Il merito sai di chi è? dell'aria e della festa. Non senti anche tu che la festa è nell'aria, oggi? Dottore, se vi vedessi sorridere da incredulo mi dispiacerebbe, perchè io alla messa ho pregato per la nostra felicità e perchè sento proprio che la mamma ha ragione; bisogna aver fede. In questi luoghi cantano le litanie in un modo malinconico; eppure quando le donne e i ragazzi hanno finito il canto, mi pareva che tutti dovessero essere felici come me.
Quando siamo tornati dalla chiesa io e Mino, il babbo ci è venuto incontro tutto allegro anche lui e mi ha domandato: — Sivori viene oggi?
Tu forse sospetti che egli cominci ad aprir gli occhi? No, no! sta sicuro! Solo non può ammettere che si stia allegri in casa senza la tua presenza. Gli ho detto che verrai domenica.
— Domenica non è oggi, — ha brontolato lui — e mi pare anche a me che questo sia vero.
Oggi avresti dovuto esser qui! Ma chi sa che prima di sera.... Se giungi, dico tutto al babbo, oggi....
P. S. Invece di te è arrivata una lettera di Marcella che annunzia per sabato o domenica la sua venuta con Bebe e con.... Non te lo dico con chi verrà invece di Guido; no e no!
La venuta di Marcella mi darà più forza per aprir gli occhi al babbo e per salvar Mino dal collegio.
Non voglio che restino qui soli, quest'inverno, i nostri vecchi!
E chi pensava più a Roveni?
XI.
Colui il quale invece di Guido accompagnò Marcella a trovare i suoi era, manco a dirlo, il cavalier Fulgosi. Ma per che complesse vicende famigliari la gelosa signora Fulgosi se n'era andata in licenza a Varezze con il tenente Piero suo figliolo, lasciando o relegando il marito a Valdigorgo? Forse la sua fosca gelosia s'era spenta al brillare delle spalline figliali? O la gloria delle figliali imprese l'inteneriva come l'avevano inasprita un tempo quelle del marito, e lui, il cavaliere, godeva di una relativa e nuova libertà? O con quali finezze diplomatiche giustificava egli le sue scappate da Valdigorgo a Milano e meritava il permesso d'accompagnar Marcella a Bologna?
Non so e non m'importa rispondere; so che il cavaliere m'accolse alla Ca' Rossa con tutti gli antichi segni di deferenza e ammirazione. Mi avvertì subito che la scienza aspettava ansiosamente il profitto dei miei studi sulla malaria, o la pellagra, o il tifo, o il socialismo, o qualche altra malattia fisica o morale o sociale per cui mi fossi umiliato a medico condotto a Molinella.
Io intanto ammiravo lui. Con risoluzione eroica egli aveva raso dal mento e dalle ganasce la stopposa barbetta, conservando solo, per un più adeguato uso della tintura, gli esili baffi; e i capelli lasciati crescere dove ce n'erano e appiccicati a ricoprire, con economia, la lacuna nel bel mezzo del cranio, gli facevan da parrucca. Rideva ora a bocca un po' più stretta per attenuare la novità di qualche dente. E anche l'abito bigio, attillato, e il gilet bianco e il ventaglietto, che gli risparmiava troppe assidue contemplazioni di sè medesimo nello specchio del pettinino, gli conferivano un'aria di baldanza tra giovanile ed estiva.
Marcella, la florida Marcella, trovò opportunità a narrarmi che partendo da Milano il cavaliere s'era messo in mente d'apparire, agli occhi dei viaggiatori ignari, quale suo marito e padre del bimbo. In vagone egli aveva discorso in modo da evitare l'uso del lei, e fino a un certo punto c'era riuscito. Ma quando Marcella aveva udito uno dei compagni di viaggio susurrare a un altro: — Che moglie giovane ha quel vecchietto! — aveva essa rotto l'incanto dicendo, per una dimanda qualsiasi: — Scusi, cavaliere....
Egli però si era consolato ad ogni stazione con l'esporre dallo sportello il bambinone, che accarezzava paternamente senza timore di passare per nonno.
A dir vero la timida Marcella, che rideva così di gusto, si era fatta ardimentosa! Ne diede prova anche più vivace mentre io e Ortensia ci rubavamo il suo Bebe. Ortensia pareva divorarlo a baci fragorosi, ed io glielo rapii.
— Tivovi! Tivovi!
— Vuoi più bene a Sivori o alla zia? — gli chiese la madre.
Risposi io ch'egli voleva più bene a Tivovi, perchè lo baciava meno forte e non gli faceva male e lo faceva trottare su di un ginocchio.
— Già! — esclamò Ortensia fingendosi irritata meco: — io faccio del male anche quando faccio del bene? Cattivo! Oh come è cattivo Sivori!
E Marcella:
— Chi non vi conoscesse direbbe che siete cane e gatto, voi due!
Dimandò Ortensia:
— Ci conosci, tu?
— E come! Tutti e due.... (si battè coll'indice in mezzo alla fronte per dire che avevamo entrambi poco giudizio). Se vi metteste d'accordo, una buona volta!
— Faremmo una pazzia sola — io dissi ridendo.
— Ma la fareste finita: sarebbe ora!
Guardai Ortensia. Ella esclamò:
— Io non voglio, farla finita! Sempre cane e gatto noi due! E il gatto sono io!
Soffiava contro al bambino e lo minacciava con le unghie.
Egli mi sfuggì, per rincorrerla.
Allora Marcella mi susurrò:
— Se il babbo non fosse cieco, o io potessi parlare....
— Zitta!
— Sì, sì: starò zitta; ma è ora di finirla! Aspettatevi un tiro birbone, Sivori!
Ed io m'aspettai il tiro birbone. Chi m'avrebbe mai detto che Marcella me ne giocherebbe non uno ma due, e uno più ardito dell'altro?
Dopo colazione, Bebe e il cavaliere — che ci promise una grande, strepitosa notizia per l'ora del desinare, entre la poire et le fromage — andarono a godersi un meritato riposo; e mentre Ortensia attendeva a faccende e Claudio e Mino conversavano fuori all'ombra con Cleto l'ortolano, Eugenia mi disse che lei e Marcella avevano una cosa da dirmi.
Marcella m'aspettava nella camera da pranzo. Su la tavola era un piccolo pacco e a quello ricorsero gli sguardi delle signore, che sorridendo l'una all'altra non mi celavano un grande imbarazzo.
— Parlo io o parli tu? — chiese Eugenia alla figliola.
— Tu, mamma. Sivori mi mette sempre un po' di soggezione.
— Poco fa non si sarebbe detto — osservai io, ridendo. E Marcella:
— Ma adesso si tratta di tutt'altra cosa!
— Che cosa mai?
Eugenia cominciò:
— La notizia, che il cavaliere ci ha promessa speriamo sia bella, ma è più bella questa che vi diamo noi ora. Grazie a Dio, Learchi s'è riconciliato con Guido.
La figliola scosse il capo:
— No, mamma; non cominci da quello che importa di più a me e a Guido.
E rivolgendosi a me:
— Anche voi dovete esservi meravigliato che Guido non facesse nulla per mio padre, quando avvenne la disgrazia. Allora tutti i rimproveri cadevano su di me. Ortensia....
— Questo è inutile — interruppe Eugenia. — Basta che Sivori sappia la minaccia di tuo suocero....
— Appunto! Noi non lo dicevamo, ma mio suocero aveva minacciato di diseredare Guido. Avete capito? Odiava tutti; me più di tutti, e la mia creatura....
Necessariamente Guido non aveva potuto compromettersi ad aiutar Moser con quel pericolo addosso: che alla morte del padre gli rimanesse solo la parte legittima dell'eredità.
Ripigliò Eugenia: — Il vostro intervento, Sivori, ebbe anche l'effetto di mitigare quell'uomo.... — E alla figliola: — Racconta tu....
— Adagio, mamma! Prima bisogna dire che cosa la signora Redegonda mi scrisse dopo che il marito ebbe recuperato il suo avere. Mi scrisse che quell'avaraccio riteneva il dottor Sivori un gran galantuomo e cominciava a ritenere l'ingegner Roveni una canaglia. Allora lei non lo lasciò più vivere; gli diceva sempre: — Bella figura avete fatto col dottor Sivori quando venne a trovarci! Bella stima avrà di voi il dottor Sivori a udire che odiate fin il vostro sangue!; — e così via.
Dopo aver disposto il marito a vergognarsi, un bel giorno la signora Learchi aveva detto di voler andare a Milano. Il marito rifiutava di accompagnarla. — Andrò sola — disse lei.
E sì che la signora Redegonda non aveva mai viaggiato da sola; non era uscita da Valdigorgo che due o tre volte in vita sua! Il marito dovè cedere; l'accompagnò; ma giurò che non avrebbe messo piede nella casa di suo figlio.
E la signora Redegonda: — Ci andrò sola. Mi aspetterete su la porta. — Ma quando furono su la porta giurò a sua volta che non sarebbe discesa finchè il marito non fosse salito a prenderla.
Di nuovo animosa e rapida Marcella riferiva la scena intercalando frequenti: avete capito? capite?
— Guido, capite? arriva a casa e vede.... suo padre con nostro figlio in braccio!
Anche Eugenia rideva di gusto.
Già: Learchi era salito; era entrato in casa chiamando ferocemente:
— Redegonda! Andiamo via! Vado via!
Ma la moglie voleva desinare, prima. E si era messa ad apparecchiar la tavola, mentre Marcella fingeva di preparare in fretta il desinare già preparato.
Bebe piangeva a veder quel vecchiaccio; la signora Redegonda glielo pose in braccio perchè lo quietasse lui. Allora arrivò Guido.
— Bella scena! — ripetevo io.
Ma Learchi si era vendicato a tavola; perchè tra un boccone e l'altro non aveva risparmiato mortificazioni, e alla fine si era alzato dicendo al figlio:
— Il vino è amaro; ma ho mangiato bene.... Buon pranzo; bella casa! Devi guadagnar molto.
Guido colse la palla al balzo:
— Guadagno abbastanza; se continuo così, in pochi anni pago i debiti.
Immaginarsi la faccia del Cerbero!
— Debiti! Debiti! Hai dei debiti?
Era una bugia credibile quella di Guido, giacchè Learchi ignorava gli aiuti che la signora Redegonda dava a Guido.
Marcella proseguì:
— Debiti! debiti! — urlava il vecchiaccio. — Andiamo via! Via! — Strappò seco la signora Redegonda, la fece sin piangere.... alla sua maniera.
— Ride anche quando piange — notò Eugenia.
— In conclusione.... Adesso parla tu, mamma....
(Eravamo al quia e Marcella perdeva l'animo tutto in una volta).
— In conclusione, qualche tempo fa la signora Redegonda ispedì a Guido una certa somma, quella lì sulla tavola, che ottenne dal marito perchè il figlio pagasse alcuni debiti. Oh non una gran somma! Ma per di più la buona donna annunciava che Learchi assegnava al figlio un tanto al mese, sempre per estinguere quei famosi debiti e non farne altri.
— Guido però ne ha abbastanza, per la famiglia, di quel che guadagna e dell'assegno materno....
— Guadagna davvero, Guido — asserì Marcella.
—.... e Guido desidera assumersi lui il credito che avete voi con Claudio.
Me l'aspettavo!
— Capite? — interloquiva Marcella per aiutar la madre. — Non abbiamo più alcun timore per l'eredità.... La belva è ammansata. Senza sacrificio possiamo mettere in disparte qualche cosuccia ogni anno....
— Eccovi intanto cinquemila lire in contanti — conchiuse Eugenia porgendomi il pacco, e quindicimila in cambiali in bianco, con la firma di Guido e della signora Redegonda.
Che dire?
— Non vi offenderete.... — pregavano a una voce Eugenia e Marcella.
— Lo sa Claudio? — domandai.
— Sì; e trova giusta la cosa.
Allora dissi:
— Sia dunque fatta la vostra volontà! Ma vi dichiaro che non credo sia della signora Redegonda la parte principale di questa storia: è vostra, cara Marcella.
Ella rise, pur protestando:
— Ho detto la verità; credetemi.
Eugenia mi porse la mano.
— La restituzione della somma non ci sdebiterà con voi. La nostra gratitudine è anzi più grande perchè non ve ne avete a male.
Eh! Altro che avermene a male! Accettando, affrettavo la mia felicità. Infatti Marcella preparava il secondo tiro; e si valeva questa volta del fratello per lanciare una bomba a dirittura.
Mino in quel giorno di festa passeggiava e correva per ogni parte con un libro (chiuso) in mano; tanta aveva voglia di studiare! Con Marcella abbondava in carezze: a un certo punto si vide che le confidava le sue pene. Ne seguì un lungo colloquio; ma mentre fratello e sorella andavano a braccetto su e giù per la loggia, m'insospettirono le occhiate che il ragazzo mi volgeva di traverso. Poi, a un tratto, egli cercò Ortensia e le balzò al collo a baciarla senza dir nulla. La udivo gridare per liberarsene:
— Diventi matto?
Che diavolo mai gli aveva suggerito Marcella?
XII.
Prolungando la nostra aspettazione e acuendo la nostra curiosità il cavalier Fulgosi accresceva l'importanza della notizia che ci aveva promessa.
— Cavaliere, la notizia? — La notizia, cavaliere?
Resistè fino a mezzo il desinare; poi solennemente, dall'alto della sua prosopopea cominciò:
— Signore e signori! Ho, non dico l'onore, non dico il piacere, ma la bonne chance di parteciparvi per primo che l'esimia artista di canto signorina Anna Melvi da qualche giorno ha giurato fede di sposa all'egregio giovane signor....
— Ingegner Arturo Roveni! — conchiuse precipitosamente Marcella.
A un oh! di stupore seguiron particolari commenti.
— Disgraziata! — fece Moser.
— Bene accompagnati! — mormorò Ortensia.
E Eugenia guardandomi:
— Così va il mondo!
Io tacevo. Provavo un senso di nausea e nello stesso tempo un'apprensione di malefizio.
— Che interesse ha avuto Roveni a legarsi a quella donna? — chiesi al cavaliere.
— Anna guadagna molto — Marcella disse ingenuamente. — Canta benissimo.
— Benissimo! — ripetè il cavaliere, che era rimasto deluso dalla consapevolezza di Marcella. — Ma se ella, signora mia, ha appreso dai giornali ciò che io ho appreso per partecipazione diretta, ella, mi consenta dirlo, non può sapere il perchè o i perchè di questo matrimonio. Io sono in grado di rispondere alle dimande del dottor Sivori.
Si fece assoluto silenzio; ma allora l'eloquenza del cavaliere arrembò dinanzi a una difficoltà non preveduta nel primo slancio. Bisognava parlare in modo da non offendere orecchie caste, e proprio allora non gli vennero in mente frasi inglesi che fossero del caso.
— Sono due le versioni che corrono di così inopinato avvenimento. Secondo l'una.... ehm!... si tratterebbe di.... riparazione. Mi spiego? L'ingegnere.... ehm! si sarebbe lasciato cogliere dalla signora Melvi madre....
— Basta! — esclamò Claudio. — Se continua, cavaliere, chi sa dove va a finire!
— Secondo l'altra versione, che ho da miglior fonte....
— Sentiamo! — interruppi io —; perchè la prima è inverosimile. Roveni non è uomo da riparare!
— Secondo, dicevo, una miglior fonte, un gentleman inglese del Transvaal, capitato a Milano quando Anna cantava al Lirico, se ne sarebbe innamorato e....
— Avanti! — comandò Moser.
L'oratore proseguì di corsa:
—.... l'inglese avrebbe offerto un impiego nelle miniere all'ingegner Roveni, altro ammiratore della diva, e l'ingegnere avrebbe sposata la diva per compenso, e tutti e tre en bon ménage sarebbero partiti da Milano alla volta del Transvaal. Mi sono spiegato?
Moser rispose: — Anche troppo!
— Questo è certo che gli sposi sono già in viaggio.
Dopo una pausa Fulgosi mi domandò se la seconda versione mi pareva più verosimile ed io risposi che la credevo nel vero. Era uno scandalo degno dei personaggi!
—.... Per savoir vivre — il cavaliere concluse senza più timore di pericolare — bisogna savoir faire. La fortuna il più delle volte è soltanto ruse.
Ora bisogna sapere che quando il cavaliere parlava, Mino l'ascoltava con ammirazione manifesta. Che brav'uomo!, pareva dire il ragazzo ad ogni vocabolo francese o inglese ch'egli non capisse.
Ma di ciò che non capiva Mino non aveva mai chiesto schiarimento; forse per una riverenza quasi religiosa che gli imponeva di non sciupare l'efficacia del misterioso eloquio, o forse perchè pensava: verrà il giorno che ti comprenderò anch'io! Se non che a quella parola ruse, o fosse per la sua propria singolarità di suono o fosse per il modo perfettamente parigino con cui il cavaliere la pronunciò, il ragazzo rimase sbigottito. Che conseguenza ebbe questo sbigottimento! Produsse lo scoppio della bomba che Marcella aveva predisposta e affidata al fratello, dopo colazione.
— Ruse — Mino si provò a ripetere. — Cosa vuol dire?
Io, che avevo visto negli occhi di Eugenia e di Ortensia quant'esse disdegnavano la teoria del cavaliere e che sentivo il bisogno di sfogarmi, risposi:
— Ruse, nel significato che vi attribuisce il cavalier Fulgosi, vuol dir accortezza per far quattrini a prezzo dell'infamia; vuol dire sguazzare nel fango senza affogarvi; vuol dir l'abilità di contaminare la virtù, l'onore, la dignità umana senza incorrere in alcuna pena.
Il cavaliere s'inchinò esclamando: — Bravo!
Ma tant'è la significazione che può assumere una parola, che Moser rivolto a Mino aggiunse per conto suo:
— Quella parolaccia vuol dire anche che non sempre chi ha ingegno, è bravo, ha voglia di lavorare, è un galantuomo. Chi poi non ha nemmeno voglia di studiare....
Ne prevedesse, del tutto o in parte, la conclusione morale Mino interruppe il padre con un'affermazione che gli pareva incontestabile:
— Io sono un galantuomo!
— No — ritorse l'altro, inquieto. — Chi non ha voglia di studiare non è un galantuomo!
Ma Mino non tacque. Consultò, guardandola, Marcella, e nel modo di chi medita tra sè e sè, disse:
— Adesso dovrò studiare più di due ore al giorno perchè non ci posso più andare, in collegio.
— Eh?!
A quell'eh?! paterno ma feroce io e Ortensia ci scambiammo un'occhiata che diceva «ci siamo», e invano Ortensia cercò di trattenere il fratello chiamandolo a nome; anzi fu peggio.
— In collegio non ci vado più! — il ragazzo rispose, risoluto, a suo padre.
Questi con uno sguardo più feroce che mai gli imponeva di chiarire il perchè di così nuova oltracotanza; e la spiegazione precipitò mentre Marcella abbassava gli occhi sul piatto.
— Chi ci resta con te e la mamma se Ortensia sposa Sivori?
Che cosa accadde alla rivelazione? Non è difficile immaginarlo. Io feci una risata sciocca; Ortensia, rossa rossa, gridò: — Ma Mino! —; Mino gridò: — È stata Marcella! —; Marcella gridò: — Non è vero! — in modo da confermare l'accusa; Eugenia sorrideva guardandomi e il cavaliere era già in piedi col bicchiere in mano e un toast sulla punta della lingua, aspettando che Claudio deponesse la forchetta. Perchè Claudio faceva paura, in parola d'onore: i suoi occhi partendo da Mino avevano scrutato foscamente ogni volto intorno alla tavola e a scorgere gli indizi di una complicità universale egli era rimasto con la bocca aperta, non per ricevere il boccone che la forchetta tratteneva a mezz'aria, ma per lasciar passare un'esclamazione tremenda che non voleva uscire. Per fortuna dovè pensare che era impossibile infilzarci tutti quanti se prima non liberava la forchetta d'ogni impedimento, e ingoiò il boccone; e il boccone respinse in gola l'esclamazione tremenda; sicchè, dopo, Claudio non seppe più che dire.
Disse:
— M'avete preso, tutti quanti, per un imbecille?
Nessuno rispose; o meglio, per timore del proverbio «chi tace conferma» credemmo meglio ridere tutti in una volta.
— Dunque è vero? — urlò egli con l'arma rivolta verso il principale colpevole, che ero io e tacevo.
Chi tace conferma: sì, è vero non che tu sei un imbecille, ma che io sono felice!
E Ortensia mi salvò. Si alzò; venne a susurrare non so quali portentose parole all'orecchio del padre. Vittoria! Claudio mosse all'indietro la testa per attingere dagli occhi della figliola una conferma e, persuaso alla fine che essa diceva sul serio, si diè per vinto benchè gridasse:
— Son brutti scherzi!... Una congiura!... Un tradimento! — E con voce già malsicura: — Ma se è vero.... Cavaliere, faccia pure il brindisi!
— Bene auspicando.... — Etcetera: il brindisi si prolungò in un'orazione che ebbe per termine il motto sursum corda! S'alzarono invece i bicchieri, ma al tocco di essi parve proprio che si toccassero i cuori.
Quando ci levammo da tavola io non pensai affatto a disingannare Claudio; il quale, sempre per uscir dal dubbio d'essere quel che aveva detto, borbottava: — Un tradimento! Tutti d'accordo.... anche Mino! È stato un tradimento!
Io ero ansioso di giustificarmi con Eugenia.
Ella parlò prima di me.
— Lo sapevo da un pezzo che vi volevate bene.... Ma se l'avessi saputo anche prima, quando — vi ricordate? — vi dissi, lassù, delle intenzioni di colui....
— Il mio silenzio d'allora — esclamai —; la mia dissimulazione fu la mia colpa. Voi saprete perchè tacqui?
— L'ho immaginato: Ortensia era tanto giovane! Eppoi, non volevate ammogliarvi....
Non bastava a mia scusa; e la buona donna cercò togliermi ogni traccia di rimorso:
— La colpa, del resto, fu più mia che vostra. Io, io avrei dovuto accorgermene.... Ma è un destino che in certe cose io sia come Claudio: non abbiamo occhi per vederle al momento opportuno. E forse....; io lo credo, Carlo: credo che voi e lei siate stati provati così duramente per essere più felici adesso.
Era una felicità troppo grande?
Eugenia sembrò leggermi negli occhi la dimanda e non potè non dire di Roveni e della Melvi:
— Ora quei due.... se ne vanno lontani; non abbiamo più nulla da temere.
Marcella udì queste parole. E poichè io mi accompagnavo a lei, nel prato, per ringraziarla del suo tiro birbone, anche lei prevenne quel che volevo dirle, e scampando in altro discorso, disse sommessamente:
— È strano! Un'impressione, di ieri....; e me ne son ricordata solo poco fa. Quando a Bologna, fummo scesi dal treno, e cercavamo l'uscita, mi parve di veder uno che rassomigliasse a Roveni in una carrozza di coda.... Un'impressione, vi ripeto. Non poteva esser lui. Ma è strano che non ci abbia più pensato affatto.
Io.... Ah io l'avevo ancora la spina nel cuore!
— Che hai? — mi chiedeva Ortensia.
— Finalmente! — risposi soltanto all'anima mia.
Finalmente potevam dirci che tutti sapevan del nostro amore. Però nessuno al mondo immaginava quanto ci amavamo!
Ma appena l'aria si fu rinfrescata io presi a braccio il cavalier Fulgosi (che era ancora insolitamente rosso e faceva complimenti a Marcella fin in Milanese) e lo sottoposi a un'inquisizione.
— Da chi aveva appreso che i Roveni eran già in viaggio?
Aveva la prova in tasca; e mi esibì un biglietto di Anna datato da Milano e scritto press'a poco in questi termini: «Sul punto di partire per Genova e per altri lidi sento il dovere di ringraziarla di quanto fece per me, anche a nome di mio marito». Il marito aveva aggiunto di proprio pugno: «Saluti dal suo dev. Roveni».
— In relazione?... Ecco: si era imbattuto in Anna un giorno, sotto la Galleria.... Essa gli aveva annunziato il suo imminente matrimonio.
Come evitare di mandarle un bouquet il dì delle nozze? Era stato lui, il cavaliere, a introdurla al Lirico....
— E dal giorno dell'incontro non s'eran più riveduti?
— No: in fede di gentiluomo!
— E quel giorno avevan parlato d'altro? dei Moser?
— Anna aveva chiesto: I Moser sono a Bologna, è vero?
(Il cavaliere ebbe una reticenza).
— Dovevo non dire di sì?
— Soltanto? Non aveva detto qualche cosa di più?
— Anna aveva domandato, sempre con aria di semplice curiosità: «Lei andrà a trovarli?» Ed egli s'era schermito con un «forse». Null'altro, in fede di gentiluomo!
Ma ahi! Anche i gentiluomini possono dimenticare qualche parola di poca importanza. — Il cavaliere, per esempio, potè dimenticarsi d'aver risposto, invece, che andrebbe a trovare i Moser «forse.... tra qualche giorno».
Io però, allora, mi tenni pago, anzi contento dell'inchiesta. — Non c'era dubbio! Marcella senza dubbio si era ingannata! I coniugi Roveni navigavano per altri lidi.
XIII.
E alla Rita....
Lasciatemi indugiare in questi grati ricordi. Sono di un uomo che per troppo tempo aveva sol visto, in tutti e in tutto, infelicità e tristezza.
Fino il sorriso che i miei poveri ammalati trovavano al mio saluto, mi era, in questi giorni, d'augurio; e tornando dalle loro case ristavo al rezzo dei pioppi.
Nei fossati scorrevano limpide le acque; nei maceri, già ripuliti della canepa, si specchiavano nitidamente case e alberi; nei campi le glebe riflettevano il sole dal netto taglio dell'aratro e le grida che incitavano i buoi passavan lente ma non sgradevoli, quali voci di tranquilla pazienza; dalla terra dissodata, dalle vigne cariche d'uva e dalle acaciaie sorgevano festose schiere di passeri e storni, e invisibili nel più cristallino cielo di settembre, le allodole s'inebriavano di voli, di trilli e di sole. Osservavo e ascoltavo.... Né io potevo più sentir punture della spina che mi restava nel cuore, se Dio con tanto impeto di vita mi penetrava nel cuore. — Dio, Dio mi voleva felice! Dio doveva aver attutito la vendetta nel cuore del perfido, che ora navigava dimentico....
E alla Rita dissi che, che secondo l'usanza del paese, mi preparasse presto gli zuccherini nuziali. Non mi credeva, credeva scherzassi. Ma poichè insistetti, mi domandò se la sposa sarebbe quella che s'intendeva lei, la figliola del signor Claudio?
— Certo! Chi vuoi che sia?
Non scherzavo; e la vecchia cominciò a urlare:
— Biondo, correte! Correte!
Il Biondo sapeva che la moglie da cinque mesi giuocava, ogni settimana, più numeri che con cabala sapiente aveva ricavati dalla gran disgrazia dello zingaro, e perciò egli trottò verso di noi domandando:
— Son venuti? Ambo o terno?
I quattrini fan sempre piacere! Ma la moglie rispondeva:
— L'ha avuto lui, il signor Carlo, il terno secco! Meglio di un terno secco ha avuto! Non vedete che faccia? Non ve lo dicevo: date tempo al tempo?
E così via; finchè il Biondo ebbe appreso che la mia sposa era proprio quella che s'intendeva lui:
— La figliola del signor Claudio!
Si trasse la berretta e alzando la testa e le braccia al soffitto cantò, col più sincero fervor religioso: Te Deum laudamus!
Ma dopo, per tutto quel giorno, il Biondo tenne le palpebre abbassate. Chi gliele avesse alzate avrebbe forse aperta la strada a due lagrimoni. E non segò nè piallò, quel giorno; nè andò nel campo a guardar all'uva; non andò in paese a comprar tabacco. Solo fece fretta alla moglie che mi preparasse la cena e, n'avessi voglia o no, fui condotto a cenare mezz'ora prima del solito. Mentre io cenavo il vecchio veniva sempre a farmi compagnia. Quella sera però egli taceva, e invano cercava un pizzico nella tabacchiera. A un tratto mi diresse uno sguardo di sottecchi e contemporaneamente una domanda, che mi fece ridere!
— Me lo sa dire lei perchè il Signore non m'ha dato un figlio?
In verità io non potevo sapere quel che ignoravano lui e la Rita!
Ma egli non attese alla celia, e adagio adagio, come soleva, mi disse che se il Signore non gli aveva dato un figlio poteva ben dargli un figlioccio; e che un figlioccio sperava d'averlo se il primo figlio che mi nascerebbe glielo lascerei tenere al battesimo. Fui per rispondere: è un onore!; perchè mio figlio o mia figlia (egli si contentava anche di una figlioccia) non avrebbe potuto desiderare per santolo un galantuomo più galantuomo del Biondo. Parve invece che troppo onore fosse concesso a lui e che egli avesse studiato il modo di meritarlo. Riprese a dire che non poteva dimenticarsi dei miei vecchi, da cui aveva ricevuto del bene; e che io e lui eravamo senza parenti degni, e che la sua donna aveva quel tal nipote sciupone e vizioso; e la sua donna poteva chiamare erede anche il nipote se così le piaceva; e che lui, a sua volta, nominerebbe erede chi più gli piacerebbe. In sostanza, il podere che era stato dei miei vecchi potrebbe tornar proprietà della mia famiglia e dei miei discendenti.
— Dipende da lei — concluse il Biondo, tabaccando senza tabacco fra le dita.
Io gli espressi la mia gratitudine scherzando ancora.
— Ah! dipende da me? Dunque se tu non ne hai avuti dei figlioli....
Comprese dove sarei andato a parare; scrollò il capo e il fiocco della berretta; mi minacciò con la mano e rise, e trottò via leggero a comperar il tabacco. Rimasi a considerare quel che un tempo io aveva pensato del Biondo; liberale, lo credevo, soltanto nel regalar le casserelle per i piccoli morti; galantuomo sì, ma non alieno dallo sfruttarmi per avarizia.
Dalle quali considerazioni non favorevoli anch'esse alla mia psicologia, ne sorgeva un'altra contraria del tutto al mio antico pessimismo.
Alla generosità con cui mi ero prestato per Moser facevan riscontro la generosità della signora Redegonda per un verso, e la generosità del Biondo per l'altro.
Sarebbe vero che chi semina bene raccoglie bene?
XIV.
Ma quale fu il mio stupore allorchè, giungendo due giorni dopo alla Ca' Rossa, Ortensia mi venne incontro e mi disse tranquilla, sebbene un po' pallida:
— Anna mi ha scritto!
— Non è partita! — esclamai; e pensai: «Marcella non s'ingannò! Roveni era a Bologna».
— È partita — Ortensia continuò. — Ti confesso che ho voluto leggere alcune righe della sua lettera infame e stupida prima di stracciarla. Diceva in principio: «Quando riceverai questa mia, sarò molto lontana.» Era la lettera che io aveva temuta da tanto tempo!; la lettera della calunnia e della vendetta: solo che Roveni, invece di mandarla anonima, aveva voluto che sua moglie, con ardimento degno d'entrambi, affermasse o confermasse lei ad Ortensia la colpa della madre e mia.
— E tua madre, sa?...
— No. Per fortuna la mamma era entrata in casa allora, quando il portalettere mi fece segno, mi chiamò dal cancello. Non gridò, come al solito, «posta!»
«Ecco perchè — pensai — Roveni venne a Bologna». E chiesi:
— Che data aveva la lettera? Hai visto? — insistetti io.
— Sul timbro di Genova c'era un quindici: son certa.
— Già; alla metà d'ogni mese partono molti vapori da Genova....
Rapidamente facevo tra di me questo calcolo: il nove od il dieci settembre Anna aveva inviato al cavaliere il biglietto datato da Milano; l'undici Fulgosi e Marcella erano alla Ca' Rossa.
Mentre Anna partiva per Genova, Roveni aveva potuto seguir Marcella e il cavaliere a Bologna; prendervi disposizioni perchè la lettera andasse a posto, proprio in mano d'Ortensia, essere il quattordici a Genova; dettare e spedir la lettera, e imbarcarsi colla moglie. Tutto ciò era possibile; verosimile, vero. Era vero dunque che i nostri nemici navigavano per altri lidi! Finalmente m'era tolta del tutto la spina del cuore!
Infatti Ortensia diceva:
— Un'infamia stupida! Ho visto che Anna mi dava la notizia del suo matrimonio, eppoi:
«E tu, Ortensia, quando ti sposi? Bando agli scrupoli!...»
Nel riferire queste parole Ortensia ebbe il volto improntato del velenoso sorriso che Anna aveva dovuto avere scrivendole. Ma si ricompose; tornò lei, fiera e cosciente della sua fierezza: — Non ho letto altro! Ho stracciato...; non ho voluto un nuovo rimorso. Il solo rimorso che mi resta sai quale è? Quello d'aver ascoltato il giuramento che tu mi facesti a Molinella. Per me doveva essere inutile!
— Io, io, — esclamai — non avrei dovuto giurare quel che non è dubbio: che il sole passa sul fango e non s'imbratta! La virtù di tua madre è limpida come il sole! Ma io cercavo il momento di prevenire l'ultimo colpo, che mi aspettavo, che è venuto; io cercavo, piuttosto che difendermi, difenderti da una nuova offesa....
— Povero Carlo, avesti ragione: ma adesso siamo tranquilli per sempre. Nessuna ombra turberà più la nostra felicità!
Oh nel dirmi questo che luce Ortensia aveva negli occhi!... Eppure libero da ogni dubbio, io aveva tuttavia bisogno di schiarirmi l'azione di Roveni.
Aveva potuto credere che in tanti mesi non avessi preso alcuna precauzione contro la sua vendetta? Rispondevo ch'egli era convinto che io fossi stato l'amante di Eugenia. E la sola precauzione di sicura efficacia che io avrei potuto prendere sarebbe stata appunto quella di predisporre Ortensia a respingere l'odiosa accusa assicurandola con un giuramento. E Roveni non mi credeva uomo da giurare il falso. Dunque sperava certo l'effetto da lui sperato nella lettera di Anna.
Ma Roveni non avrebbe dovuto prevedere che Ortensia straccerebbe la lettera accusatrice? No — mi rispondevo — Roveni sa che Ortensia è fiera e forte. Chi è fiero e forte straccia prima di leggerla un'anonima; non la lettera di un nemico. — E infatti Ortensia aveva letto quanto a parer di lui sarebbe bastato al suo fine.
Così mi dicevo. — Eppure nella vendetta del nostro nemico sentivo ancora qualche cosa di inferiore, di meschino; mi pareva inferiore alla sagacia di lui quella sua gita di lui a Bologna per poi fare impostare la lettera a Genova e studiare qua il modo più sicuro perchè la lettera andasse a posto.
Ma la smania della vendetta rende gretti l'animo e l'intelligenza. E che torbidi commovimenti doveva dare la passione a un uomo come Roveni!
Pensavo: quando egli possedeva Ortensia nella sua immaginazione, attendendo di possederla in realtà, che cosa lo tratteneva dal cedere alle seduzioni di Anna Melvi? Il confronto fra Anna e Ortensia. Le delizie che gli promettevano la bellezza di Ortensia superavano di tanto le tentazioni della Melvi che lui uomo sensuale, resistette; non si compromise. Ora fra le braccia di Anna quel confronto sarà tornato alla sua mente, e quale tempesta avrà suscitato nella sua mente e nel suo animo! Quale disgusto avrà egli di quella donna, e quale amarezza gli darà il pensiero del bene perduto! Anna, che non ha mai amato, Anna da cui ha un aiuto ignobile, l'accompagnerà da per tutto per rimprovero continuo della sua bassezza; Anna già lo vincola per pena della sua sconfitta, lo stringe per incitamento ai rimorsi....
Che castigo sarebbe questo se Roveni non trovasse lenimento nella vendetta! E perciò si capisce quello studio, quella cura a far pervenire ad Ortensia, con assoluta certezza, la infame lettera. Ma Roveni ha commesso un errore più grande del mio! Io non conobbi lui; ma lui non ha conosciuto Ortensia. — Così mi dicevo.
Ma no: anche con tutto questo, troppo, troppo in basso mi pareva che Roveni fosse precipitato! La immagine di lui s'affoscava ancor più nella penombra in cui egli stesso aveva sempre cercato d'involgersi. Qualcuno o qualche cosa al di fuori della volontà sua mi pareva dover averlo spinto a tale abiezione.
Il destino? Forse il destino si era valso di Roveni quasi di uno strumento cieco? Sì: forse era stato necessario che quell'uomo attraversasse il nostro cammino e si comportasse in tali modi perchè io, dopo uno stato d'infelicità morbosa e con l'amore, l'errore, il rimorso, riuscissi a concepire altrimenti la vita; perchè Ortensia, dopo tanti patimenti ed affanni e con l'energia del suo animo, fosse risollevata a quella fede nella vita ch'ella sola aveva saputo ridarmi.
Ma se così era, oh io potevo finalmente guardare al destino senza più trepidare! Chiaramente ora vi leggevo il perchè della umana necessità del soffrire: per l'elevazione dello spirito umano. La nobiltà, la redenzione del dolore, ecco quel che cominciavo a leggere in faccia al Destino!
XV.
E perchè la vecchia Rita faceva bagnar dalla guazza e imbiancar dal sole la tela più fina ch'essa tessè al tempo delle sue materne speranze? Un corredo di tovaglie e tovaglioli era forse il dono che destinava alle mie nozze. — E perchè il Biondo si era dato a rilevar di scalpello sul legno, lavorando zitto e cheto e accarezzando l'opera con sguardo d'artista, di dietro gli occhiali e di sotto le cateratte? Non componeva una delle solite casserelle: forse una culla?...
Solo affliggeva il povero Biondo il prossimo obbligo d'indossare, per la prima volta in vita sua, un vestito pienamente nero. — Il sarto, che glielo faceva, andava propalando per tutto il paese che sarebbe appunto il Biondo uno dei testimoni al matrimonio del dottor Sivori. Sempre fortunato quel vecchio!
È già nella tabella delle pubblicazioni matrimoniali, appesa nell'atrio del Municipio, si leggevano insieme il mio nome e quello di Ortensia. Se non che a non pochi quel cognome di Moser urtava i nervi; le ragazze di Molinella si chiamano più alla buona; nè perciò ve n'era alcuna disposta a ritenersi inferiore per bellezza a una straniera, francese o inglese o tedesca che fosse, e per bella che fosse! Intanto Ortensia ripeteva: — Sono contenta! —, con la stessa vivacità d'una volta. Era contenta perchè avevo acconsentito che si celebrassero le nozze non a Milano o a Bologna, ma al mio paese; era contenta perchè un giardiniere disegnava aiuole nel prato della mia vecchia casa, e perchè nelle vecchie camere si rinnovavano le tinte e le stampe senza mutarle....
— Ma tu, mamma, non sei contenta?
— Che vuoi? — Eugenia le rispose una sera. — Stento a credere che devi lasciarmi anche tu.
Per abituarsi a questo pensiero Eugenia si pose al collo il vezzo di perle che portava lei quand'era fidanzata....
Ed io benedicevo il giorno che nacqui, se fin da quel giorno m'era destinata la felicità che m'attendeva imminente; benedicevo le tristezze della mia fanciullezza pensosa e della mia adolescenza solinga; benedicevo le audacie e gl'inani sforzi della giovinezza ambiziosa e le rodenti invidie e le frenesie dell'orgoglio, indomito prima e poscia abbattuto, se per tutti questi mali avevo meritato il bene che mi attendeva; benedicevo la mortificazione delle energie fisiche in cui m'ero annichilito e l'intorbidamento della mente e l'abbassamento dello spirito, se m'erano stati mali necessari affinchè tanta gioia mi venisse con la guarigione, la purificazione e l'elevazione di tutte le mie facoltà; benedicevo la scienza che pur dopo le ruinose delusioni m'aveva serbato tanto di sè da lasciarmi intendere, ai dì della gioia, armonie segrete e remote bellezze della vita e del mondo; benedicevo il sentimento religioso che dai miei umili avi mi era disceso nel sangue e che avevo rinnegato nei più oscuri giorni, e che adesso mi rifluiva liberamente al cuore come per un aumento di fiducia e di gaudio rivelandomi totalmente l'amore.
Benedetta sii tu da tutti i cuori che sentono e da tutte le menti che pensano, o arcana Onnipotenza d'amore, che Ti riveli così formidabile nella immensità dei cieli come pia nella brevità terrestre!
Sii benedetta, o amore infinito in tutto quanto ci circonda, e infinito nel mio cuore che vuole che io ti benedica!
Così io pensavo; così io sentivo....
E non per altro che per questo, — per l'amore, — ho scritto, — capite adesso? — la mia storia.
XVI.
Finirò la mia storia con lo strazio, lo spasimo che mi tiene in vita. E mi bisogna pur dirlo il perchè ho scritto finora, comprimendo in cuore un dolore insanabile per rammentar fin particolari della verità che talvolta facessero sorridere!
Oh io non ho voluto soltanto dolermi della giustizia umana che si lasciò sfuggire un colpevole!
Narrando tutto della mia storia io ho avuto per iscopo il mistero dell'esistenza umana.
Dopo uno stato di infelicità morbosa, con l'amore, l'errore, il rimorso, il sacrificio io ero riuscito a concepire altrimenti la vita e credevo essere divenuto degno della felicità. Valendomi sin della fosca tragedia del risaiuolo io avevo elevato la mente a considerare la felicità della vita!
Ma che dico di me? Ortensia, Ortensia che io e la sventura traemmo a così lungo soffrire, Ortensia che da tanti turbamenti e affanni fu risollevata, per la energia del suo spirito a quella fede nella vita ch'ella solo aveva potuto ridarmi, Ortensia io credevo meritasse di essere felice!
Ebbene: io domando se il caso, solo il caso, o la malvagità di un uomo, solo la malvagità di un uomo, potè arrestarci al punto di toccare la meta; o se fu piuttosto il destino non mio, non d'Ortensia, ma il destino che pesa su tutta l'umanità. Io domando se quando ero caduto in così squallida miseria di pensiero e di cuore e quando la vita pareva anche a me inutile miseria, io non ero più nel vero allora che dopo, quando con vigoroso animo e intensa vitalità percepivo tutte le gioie dell'esistenza e con sguardo inebbriato d'avvenire vedevo come fosse mio l'universo. O — io mi domando — fui travolto dalla fatalità per una colpa di cui mi sfugge La conoscenza?... O la colpa che meritò tanto castigo fu il mio pessimismo non abbastanza punito, la mia antica disperazione e tristezza?
Ma chi mi risponde? Io sono qua solo, in faccia al Destino; e mi par d'esser solo a interrogarlo con l'animo sopraffatto da tutta l'infelicità umana....
XVII.
.... Ogni giorno all'approssimare dell'ora che suo padre soleva tornare a casa, Ortensia gli andava incontro per la viottola fra l'orto e la vigna.
Mino restava nella sua camera perchè Claudio, rincasando, lo trovasse a studiare; e studiava infatti, povero ragazzo, per i prossimi esami.
Ma a quando a quando, egli svagava l'occhio dalla finestra, socchiusa per non essere visto, e invidiava la sorella che andava incontro al padre per la viottola, al tramonto.
Così il 29 settembre. Mino è alla finestra e Ortensia è a mezza via. Come al solito, quando sarà al pioppo sradicato, laggiù, ella siederà ad attendere il babbo e torneranno insieme....
Quand'ecco dalla vigna sbuca, d'improvviso, un uomo; s'imbatte quasi in Ortensia. Non è l'ortolano. È un operaio.... o un povero? Ortensia si è fermata un istante e si rivolge: fa alcuni passi tornando indietro.... L'uomo resta immobile, con un braccio teso quasi per trattenerla. Ortensia si ferma; si rivolge di nuovo. Parlano; si comprende dai gesti d'Ortensia ch'essa lo sgrida. Che cosa dirà? Dirà: — Andate a lavorare, vagabondo!
Ma perchè non chiama Cleto? Dove sarà Cleto, l'ortolano? La vigna è già vendemmiata; e Cleto sarà lontano, nell'orto....
— Mamma, mamma! Vieni a vedere! Corri!
Mino vede; ha paura.
— Mamma! — urla subito dopo; e si slancia fuori della camera. Ha visto quell'uomo gettarsi su Ortensia, atterrarla.... — Aiuto! L'ammazza!...
XVIII.
Da un giornale:
«Un'audace aggressione è avvenuta ieri sera, verso le ore diciotto, nei pressi dell'Arcoveggio. Mentre la signorina Ortensia Moser, figlia dell'ingegner Moser direttore della Società Renana di fabbriche laterizi, passeggiava nella località denominata Ca' Rossa, è stata affrontata da un individuo, in apparenza operaio, che con insistenza le ha chiesto denaro. Al rifiuto di lei, il malfattore l'ha assalita strappandole dal collo una collana di perle e tentando soffocarla perchè non gridasse. Fortunatamente il pronto accorrere dell'ortolano Cleto Gualandi ha impedito l'efferato proposito. L'aggressore scomparve in una vigna attigua e finora è riuscita vana ogni ricerca per arrestarlo e identificarlo».
XIX.
Colui che doveva consegnarmi il telegramma mi credette presso un malato mentre io ero da un altro più lontano; ed io tornai a casa a sera ormai tarda, quando il messo era ancora in cerca di me.
Di chi poteva essere il telegramma? Di Ortensia? di Moser? perchè? quale disgrazia?
L'ebbi finalmente; diceva:
Coraggio vieni subito — Claudio.
Come un baleno in una notte buia, nelle tenebre della mia mente corse l'idea che la vendetta di Roveni era compiuta!
E non c'era più un treno in partenza per Bologna! Trovammo un cavallo che andasse un po' più forte che quello del Biondo....
.... Di quel viaggio eterno mi restano nella memoria sensazioni piuttosto che pensieri.
Pareva che il galoppo del cavallo mi si ripercotesse nel cervello e un'eco continua l'accompagnasse: — Roveni, Roveni, Roveni....
.... Morta? Se Ortensia, al mio arrivo, fosse morta?
A lunghi tratti la povera bestia che mi trasportava, cessava il galoppo nonostante le frustate, per rifiatare. Io, similmente, interrompevo l'angoscia per sperare.
Nell'apprensione esagerata del pericolo, quale si fosse, senza dubbio Claudio non aveva compreso che terribile cosa potrebbe significare quella sua parola coraggio! Raccomandava coraggio a me lui, suo padre! quasi ci minacciasse una sventura più crudele per me che per lui, suo padre! Non era possibile!...
Roveni, Roveni, Roveni....
Morta?
Provavo la sensazione d'un sogno in cui, per sfuggire a un pericolo enorme, si corre, si corre, e un abisso vi si apre improvvisamente dinanzi, e bisogna precipitarvi.
Ricordo anche l'urlo di un birocciaio che a stento evitò la carrozza; e ricordo che a una borgata vidi una fiammella dinanzi a una Madonna; in una osteria altercavano.
Eppoi, quando giunsi alla Ca' Rossa?
Claudio su la porta mi abbracciò singhiozzando, e nella loggia, illuminata da una candela, due occhi sbarrati, immobili, mi guardavano....: Mino.
A piè della scala, per informarmi o prepararmi, mi arrestò uno sconosciuto: il medico. Io sembravo ascoltarlo attento e freddo, ma di quel che diceva non afferravo che poche parole.
— Trauma.... per spavento.... Sincope con paralisi... minaccia al cuore.... Vano ogni tentativo di ridestare le facoltà psichiche....
Salimmo. Entrando scorsi nello stesso tempo il volto cereo di lei, in una apparenza di morte soave, e, accosto al letto, un mucchio di vesti nere; era Eugenia....
— Ortensia!
Non aveva più udito suo padre, sua madre; udì la mia voce; ma le labbra livide non ebbero che un tremito.
Io sentivo il polso; guardai le pupille; le posi una mano sul cuore.... Fra poco.... E tutto ciò avvertivo come per una morente estranea al mio affetto. Ma per una estranea mi sarebbe parso inutile ricorrere a qualsiasi eccitazione.
Il medico, che assisteva, scosse il capo, per dire anche lui che tutto era inutile....
— Faccia ancora un'iniezione!
Volevo. Accondiscese; ed io col ribrezzo di una profanazione ritrassi lo sguardo. La morte era più forte e vinceva: era della morte oramai la persona che avrebbe dovuto essere del mio amore.
Ma la voce, quella voce ancora una volta sarebbe mia! mie le ultime parole! mio l'ultimo sospiro!
Ecco.... Le pupille si rianimavano; le labbra livide si muovevano.
— Lasciatemi solo — dissi.
Anche Eugenia s'alzò....
Con viso senza lagrime, con espressione dura, imperiosa, sua madre venne a me e toccandomi al braccio:
— Una parola.... sia per Dio.
Ah la religione sarebbe più spietata della morte? Per Dio sarebbe l'ultima, parola d'Ortensia; non per me!
— Carlo....; il tuo Carlo — dicevo, col viso al viso di lei.
A un tratto la morente fu scossa in tutto il corpo: il viso, che aveva già una dolcezza di mortale riposo, si contrasse; gli occhi, che parevano già spenti, espressero un terrore, uno spavento di follia. Sollevò una mano, gridò:
— Roveni là.... Roveni!... Senti, Carlo! Dice: fermati.... se no.... t'ammazzo.... Ah senti? dice: Non devi sposarlo.... l'amante di tua.... Assassino! Menzogna! assassino! Carlo!... Mamma.... aiuto! Carlo!
Ricadde; e Eugenia, rientrando, s'abbattè ancora in ginocchio presso il letto con le mani giunte, ma gli occhi al Cielo.
Un prete s'avanzava....
Io sentivo il polso sempre più debole e vedevo il volto cereo contratto dalla convulsione riprendere quell'espressione di dolcezza. Fra poco sarebbe morta e non sarebbe diversa a vederla. Eppure io.... come se fossi impietrato, nel cuore. L'insensibilità d'una volta?
Vi ricorsi col pensiero e frenai un grido al ricordo, al riscontro pauroso, alla fatalità misteriosa che mi travolgeva.... Quel giorno che avevano portata Eugenia convalescente nel giardino non avevo io pensato di uccidere Ortensia così.... come Roveni?
Abbandonai il capo su le coltri.... Ma i singhiozzi mi s'annodarono alla gola; finchè il grido trattenuto proruppe.
— Ortensia! — gridai con tale strazio che Eugenia allora gemette: — Dio! Dio!
Non poteva sopportare di più. E il prete ristette, in disparte: Dio gl'impose d'aver pietà di me.
.... Quella voce! quella voce, ancora una volta!
Io la chiamavo per l'ultima volta....
Ella sorrise.... balbettò:
— Sorellina....
FINE.
Opere di ADOLFO ALBERTAZZI:
Ora e sempre, romanzo L. 3 50 Novelle umoristiche L. 3 50 In faccia al destino, romanzo L. 7 — Il zucchetto rosso e Storie d'altri colori L. 7 — Il diavolo nell'ampolla, novelle L. 4 — Facce allegre, novelle L. 4 — Cammina, cammina, cammina...., novelle per ragazzi. In-8, con illustrazioni di G. Riccobaldi, legato alla bodoniana L. 12 —