NOVELLE UMORISTICHE

Novelle umoristiche

DI

Adolfo Albertazzi

Humour: il bell'umore e il buon umore

e il malumore insieme contemperati.

Tommaseo.

IL SUICIDIO DEL MAESTRO BONARCA. — LA GIOCATRICE. — DONI NUZIALI. — DALL'ELDORADO. — IL CAPPELLO DEL MARITO. — EFFICACIA D'UNA GIARRETTIERA. — LA FORTUNA DI UN UOMO. — UNA «SCAMPANATA». — IL POLSO. — COME FINÌ LA MODESTIA. — L'ENTUSIASTA PUNITO. — L'AGNELLO. — IL FALCONE. — IN ARCADIA.

MILANO Fratelli Treves, Editori 1914 — Nuova edizione riveduta e corretta.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

Milano. — Tip. Treves.

INDICE

Il suicidio del maestro Bonarca.

I.

Felicità è una vana parola? — Persona alta e forte; baffi neri e fieri; voce baritonale e, se bisognava, imperiosa; eppoi: un pennacchio bianco al kepì; spada al fianco e assisa quasi militare; saluto alla militare dai subalterni; dominio sul palco in piazza a dirigere la banda nei giorni di festa; precedenza a tutti nelle processioni e nei trasporti funebri; direzione dell'orchestra in teatro; autorità di maestro sui cittadini idonei alla musica; autorità di cittadino notevole; stipendio sufficiente per una vita tranquilla; tranquillità di scapolo: tutto ciò dovrebbe pur bastare a rendere felice un uomo!

Che se il maestro Bonarca incolpava i creditori dell'essere caduto in miseria da tanta sua felicità, egli era ingiusto appunto perchè ogni creditore, benefattore con o senza usura, corre il pericolo che il beneficato ponga fine al debito ponendo fine alla vita.

Ah! vana parola è la gloria; e rovinosa passione l'ambizione; e debolezza la confidenza nel nostro ingegno, non meno che fallaci, insani sono i sogni dell'anima nostra; e morbo la poesia e la melodia di cui risuoni l'anima nostra. Infatti quando il maestro Bonarca non avesse dato ascolto ai cattivi amici e a sè medesimo, non si sarebbe incamminato mai verso il canal Torbo con il proposito d'affogarvi.

Fu così: In poco tempo aveva composta la Sposa selvaggia (centocinquanta lire al poeta del libretto: prima spesa), e i giornali cittadini avevano preannunciato il capolavoro (sovvenzioni ai cronisti: seconda spesa); poi (altre spese) il maestro era andato a Milano, a Torino, a Bologna in cerca di un editore, di un mecenate, di un impresario. Quindi aveva avuta la sciagurata idea di assumere per sè l'impresa al teatro della sua città. Gli amici incitavano; qualcuno prometteva aiuto e, sebbene il Comune ricusasse la dote teatrale, uno stimato commerciante accondiscese a firmare l'avallo nelle cambiali di lui, che sacrificava alla gloria tutte le economie del passato e molte economie dell'avvenire. E la Sposa selvaggia aveva ottenuta fortuna quasi uguale a quella desiderata. Se non che i cittadini d'una città piccola non vanno a teatro tutte le sere; nè i paesani delle vicinanze, ignoranti che sarebbero accorsi in folla a udir la Traviata o il Trovatore, si lasciaron persuadere da una costosissima réclame e dalla fama dell'opera nuova. Inoltre, ammalatasi la prima donna, l'altra, chiamata d'urgenza a sostituirla, aveva messo voce e opera a caro prezzo. E infine, dopo tante angustie che solo un uomo di coraggio eroico poteva dissimulare; dopo tante contese, vinte a fatica di polmoni strepitosi e di occhi biechi, con i cantanti, i suonatori, i pittori, i macchinisti, i coristi che non rimettevano a dopo il sabato il pagamento della mercede, era avvenuta la catastrofe: il commerciante dell'avallo contro ogni previsione era fallito e fuggito. Avevano sparsa nel giorno la tremenda notizia: fuggito con i quattrini! Canaglia! ladro! assassino! Socio al maestro Bonarca. Sul quale si riverserebbero l'odio e le calunnie dei creditori; le cambiali protestate; il disprezzo della cittadinanza; la diffidenza della patria tutta. L'infelice, per colpa della sua Sposa, si vide perduto; si credè abbandonato; si sentì solo al mondo, solo con la Sposa selvaggia e col disonore....

Ond'ecco, a pochi passi, il canale e la morte.

II.

Dal ponte il maestro Bonarca guardava l'acqua che trascorreva lenta e cheta, e della luna, attraverso la tenue nebbia, non riceveva luce bastevole per rifletterne a specchio l'imagine. Similmente la sua vita poteva forse trascorrere placida ed uguale, non accogliendo dall'arte maggior lume che quello sufficiente a una capacità mediocre. Ah sì! Gli parve ora d'essere rinsavito; di saper con giustezza misurare il proprio ingegno; di comprendere ch'egli s'era illuso e che l'avevano illuso; e, a convincersene, riandava ancora una volta, l'ultima volta, coraggiosamente e disperatamente, l'opera sua. L'adagio della sinfonia era soltanto una povera nenia; piacevole per il volgo. Nient'altro.

Atto primo. Vi balenava, nell'iniziale oscurità, qualche lucida frase; v'appariva un pensiero melodico, che cadeva subito come un volo cui mancò la possa dell'ali; e il duetto...; il duetto sarebbe stato bello se non avesse ricordato troppo l' Ernani. Dunque: a giudizio di critica giusta, serena, coraggiosa, il primo atto valeva poco, o nulla. Per fortuna era breve!

Atto secondo. Stringi e stringi.... Vuoto! vuoto! vuoto! L'introduzione?... Quale le promesse di certi amici. Dopo, la preghiera; che non commoveva neppure la platea e che appunto per ciò i critici avevano definita un canto di sirena nordica, senza rammentarsi che la Sposa selvaggia era affricana. Poi, il coro; elaborato senza dubbio per quella rispondenza degli ottoni al richiamo degli archi, ma privo di originalità; lento; fiacco; lungo; eterno. E il terzetto?... Il terzetto.... Ah il terzetto, vivaddio, no e poi no! Questo era bello; c'era tant'anima! c'era il cuore del pubblico che sobbalzava rapito quasi una volta a quello dei Lombardi! Bellissimo! Un pezzo simile sfidava la critica, sfidava la malignità degl'invidi, sfidava il tempo; nè chi l'aveva scritto moriva! No e poi no! Non morirebbe quantunque s'annegasse, umilmente, nel canal Torbo!

Un tal pezzo bastava a ribattere l'accusa di vanità al secondo atto; come la romanza del tenore, nel terzo, bastava a render celebre un nome!

Sposa selvaggia, addio!

Io morirò per te!

Così soave e così semplice, questa soave e semplice e limpida sorella della «Casta Diva» attesterebbe al mondo che nella terra di Bellini, non ostante le diavolerie dei wagneriani e i disaccordi che mortificano ingegni, anime e gusto; nella terra di Bellini nulla, mai, nessuno, mai, spegnerà il senso della melodia, l'amore dell'armonia, lo spirito dell'amore meridionale, il fuoco della nostra passione. Mai e poi mai! Viva l'Italia!

E morire! Ma il dì dopo, alla notizia, quella divina romanza, che tutti avevano imparata la prima sera, tornerebbe come invocazione di pietà alla memoria di tutti, anche dei nemici; e si piangerebbe il giovane maestro, che una sorte diversa avrebbe condotto a rinnovare l'antica e pura arte della patria....

Morire!... Morire, perchè il maestro Bonarca anteponeva l'onore alla gloria; perchè il mondo non dicesse che del commerciante fuggito con i quattrini il maestro Bonarca era stato complice; perchè egli riconosceva i suoi debiti e prevedeva che non avrebbe potuto pagarli mai più; perchè insomma lo superava un destino crudele e non voleva si credesse da alcuno della cittadinanza onorata e dal sindaco che egli avesse paura di morire!

Perciò era pronto; tutto era pronto! In tasca, la lettera al questore: «Mi uccido per ragioni che è inutile rivelare....» (Infatti chi non se le imaginerebbe?) «Ringrazio i miei concittadini per la loro benevolenza alla mia Sposa selvaggia....»

Erano due righe, ma animose; di un uomo senza paura. Qual rammarico tuttavia nel pensare che la sua tragica fine servirebbe di réclame, e l'opera presto data alla Scala o al Regio o al San Carlo solleverebbe il pubblico, entusiasta del terzetto e della romanza, a chiamare il maestro, che, essendo morto annegato, non potrebbe assistere alla rappresentazione!

D'improvviso Bonarca si chiese: «Se aspettassi?...» Un'idea gli balenò nella tempesta dell'anima come suscitata da sentimenti opposti: un po' di pietà, che finalmente aveva di sè stesso, e il coraggio ch'egli era convinto di poter spingere fino all'audacia. «Se aspettassi.... a vedere cosa i giornali diranno, domattina, della mia morte?» Certo, dopo morirebbe più volentieri; sia che i giudizi postumi gli confermassero meriti e compianto, sia che la pubblica giustizia, fatta libera dalla morte, lo condannasse senza pietà. Ma non era un'idea da matto? Per riflettere si strinse il capo tra le palme. E un birocciaio che transitava, lo vide; e una vecchia, la quale passava con un cesto al braccio, si volse indietro a riguardarlo. Egli si rivolse tranquillo e fiero; giacchè la sua idea non sarebbe da matto quando riuscisse a sfuggire a ogni altro sguardo fino all'ora dei giornali, e a provvedersi dei giornali. Non esitò più. Dopo tutto, ai condannati a morte è lecito soddisfare, qual si sia, l'ultima voglia!

Ed essendo impossibile che qualcuno non passasse di là, non vedesse il paletot, non leggesse la lettera e non la portasse in questura prima della notte, egli si tolse il paletot e lo pose sul parapetto del ponte; gettò il cappello alla corrente livida, e quasi a scorgere, così travolta, la sua testa o quella d'un fedele amico, ne distolse subito gli occhi per non commuoversi; quindi scese lungo la riva in cerca d'un nascondiglio. Ricordava che alla distanza di forse un chilometro, fra le canne e i giunchi, era la casupola d'un piccolo mulino abbandonato; oltre il quale il canale tornava fosso e, per esser diruto l'argine a sinistra, impaludava il piano. Si avviò per il sentiero all'abitacolo; v'entrò da una porticella, e al lume d'un fiammifero vide ove mettersi: su poco strame, dietro un pezzo di macina; nè egli chiedeva più tenero letto a riposare dalla dura battaglia. Ivi attenderebbe il giorno: per i giornali manderebbe il primo ragazzo o galantuomo che transitasse per la via e a cui farebbe credere, ridendo, che gli era caduto il cappello dal ponte. Freddo gli sembrava assai, ma sopportabile a chi non temeva il freddo della morte.... Così, nell'attesa, si mise a pensare a cose che lo distraessero. Le altre sere a quell'ora, se non aveva teatro, giocava a biliardo col marito di.... «Non pensiamoci!» (Non voleva pensare a donne, per non intenerirsi).... Ma quel marito, via!, non giocava mica male; anzi, da competitore formidabile.... E il delegato Rosta?... Un bravo amico, questo; sincero, sebbene questurino; giocatore mediocre a suo confronto, eppure vincitore in una classica partita.... Che meraviglia! Era stato al tempo delle prove.... Oh le sudate prove della Sposa!...; con quei violini che non andavano; con quella cornetta.... Benvoluto da tutti, però; rispettato; temuto. Gli artisti di vaglia hanno in sè qualche cosa che fa perdonare ogni scatto. Per esempio, egli qualche volta era stato feroce; e mai un lamento. Solo Camandri, il bombardone, aveva detto a un compagno, dopo la seconda prova: — Se torna a darmi della bestia in orchestra, lo fracasso con lo strumento. — Ma lui, alla terza prova: — Camandri: è un la! un la! un la!, corpo di!...; e Camandri, giù gli occhi e il bombardone a posto; frenato e impaurito da quello sguardo....

Sparsasi la triste notizia fra i suonatori e i discepoli, quanti non direbbero, con certo orgoglio: — Bravo maestro! Gli uomini di fegato e di carattere fanno così; non scappano come quel mercante traditore.... — A proposito! (fe' Bonarca) I tre soldi per i giornali? — Li aveva; aveva il resto dell'ultima lira, che si era tratta di saccoccia per l'ultimo cognac...

Dunque?

Dunque, poichè si fu riacconciata la paglia addosso ed ebbe appoggiato il capo alla pietra...., a poco a poco, senza perdere il coraggio, s'addormentò.

III.

«Il nostro valente capobanda, l'esimio maestro, il fortunato autore della Sposa selvaggia, nel quale tante speranze riponevano gli ammiratori concittadini, l'arte e la patria, ierisera si è miseramente ucciso gettandosi nel canal Torbo. Povero, illustre amico! Quale fu la causa che ti condusse al triste passo nel fiore della balda giovinezza destinata a uno splendido avvenire? Noi, a cui la commozione e l'ora d'andare in macchina impediscono d'enumerare adesso tutti i meriti del perduto amico, noi non solleveremo il velo della sua tomba. Noi rispettiamo il segreto e il desiderio del maestro Bonarca. Solo per debito di cronaca accenneremo che, appena sparsasi l'infausta notizia, si è vociferato in città di un amore infelice....»

— Un amore infelice? — esclamò Bonarca, stupito, non comprendendo, da prima il perchè di quella invenzione. — Infelice in amore lui, che delle amanti ne aveva avute tre in una volta: una nubile, una maritata e una nè maritata nè nubile? Infelice in amore un uomo della sua forza (con quei baffi)? Alla prima rappresentazione della Sposa, quando si voltava indietro a ringraziare il pubblico, non vedeva che, volendo, tutte le signore dei palchetti, in isplendide toilettes, sarebbero state sue? Ma di fra le righe della necrologia gli venne la luce; afferrò la ragione della pietosa menzogna; si commosse fino alle lagrime.

Per la ragione stessa gli parve anche più nobile e felice la trovata del Radicale, che gli dedicava un articolo di due colonne.

················

«Sposa selvaggia, addio!

«Io morirò per te!

«Lui! lui!, il povero compositore, è morto per la sua sposa; e la sua sposa — noi lo sappiamo — era l'arte. Un artista tanto più è grande quanto più è grande il concetto che ha dell'arte sua. Povero Bonarca! Aveva appena colti i recenti allori e non ne godeva; ne soffriva anzi, perchè gli sembrava di non aver fatto nulla in confronto a ciò che fecero Rossini e Verdi, Beethoven e Wagner: a ciò ch'egli temeva di non poter fare! E la bell'anima seguendo la mente alata che volava alla gloria, su in alto, nell'armonia dei cieli, si è sbigottita, è caduta, è precipitata nel canal Torbo.

«Io morirò per te!

················

Più breve, sebbene prodigo anch'esso di lodi, il Vero cattolico concludeva:

«Il nostro cordoglio è grande, avvegnachè nemmeno per il maestro Bonarca possiamo trovare un'eccezione alla regola della religione e della coscienza. Ripetiamolo a norma dei nostri lettori dilettissimi: Ogni suicida è un peccatore che o mancando di fede ha patito l'influenza del demonio, o è soggiaciuto a una improvvisa demenza.»

Proprio così: nell'opinione dei giornali, cioè nell'opinione pubblica, egli poteva, doveva essersi annegato o per il diavolo, o per il cervello voltosi sossopra, o per la donna, o per l'arte; non per la causa vera, nota a tutti. Come dire: che un artista il quale s'ammazza per i debiti non è artista. E questa era la ragione di quelle menzogne.

Ma artista e grande lo proclamavano tutti; con sincerità evidente, perchè essendo morto, nessun interesse lo legava a quei giornalisti; e perciò annegandosi egli compirebbe una corbelleria. E questa era la ragione del buonsenso.

Ecco l'efficacia d'un giusto conforto! ecco la necessità della logica! Doveva lamentare d'aver deposto il paletot con in tasca la lettera, sul ponte. Ma se non avesse deposto il paletot, non si sarebbe convinto della sua postuma gloria. Doveva lamentare di non essersi annegato subito. Ma se si fosse annegato subito non avrebbe appreso che annegarsi per debiti è una corbelleria. E, d'altra parte, non impunemente si scrive a un questore «mi uccido»; giacchè il ridicolo è anche peggio dell'onta, nè v'è cosa che più muova a disprezzo e a riso del venir meno per viltà a una faccenda seria come il suicidio. Ah! che errore non essersi buttato nell'acqua la sera innanzi mentre passava il birocciaio! Buttarcisi ora, in vista a qualcuno il quale lo salvasse, sarebbe peggio che peggio! A quest'ora nell'opinione pubblica egli era morto; cadavere era, quando a mente fredda (e si sentiva tutto intirizzito dal freddo della notte) rifletteva che alla fine il diavolo non è brutto come si dipinge e i creditori non sono crudeli quanto s'imagina; che agli artisti meritevoli della stima universale non mancò mai, alla fine, un insperato soccorso; che se egli, da quell'uomo coraggioso che era, avesse vinta l'ultima battaglia, l'avvenire l'avrebbe consolato di gloria e di quattrini. Morire, misero Bonarca, quando a' suoi occhi d'artista natura e vita apparivano così belle, pur nel grigio mattino autunnale, tra i miasmi del padule e nella desolazione dell'abituro ov'egli era tornato a gemere! Oh la natura! Udiva il cinguettare dei passeri; un lontano abbaiare; un lontano scampanare a festa e, giocondo, lo squasso dello sciacquatoio. Oh ammirare ancora una volta il sole, il verde!

Per vedere, si affacciò alla finestra.... Ma si ritrasse d'urto, atterrito: due carabinieri, preceduti da un signore nero, in abito nero.... (Forse l'amico Rosta? Il delegato Rosta? il compagno delle partite a biliardo?...) si avvicinavano al mulino. Ad arrestar chi? lui? per i debiti? per simulato suicidio?... con le pertiche? Rosta! Confuso, spaventato quasi, il maestro s'avvolse nella paglia, si ritrasse in sè....

Le voci s'avvicinavano sempre più; si fermarono proprio sotto la finestra, chiarendosi benissimo la voce dell'amico Rosta. Ma non entrarono.

.... — Che imbecille! poteva ammazzarsi in altro modo. Cinque ore di perlustrazione, signor delegato: siamo proprio stanchi!

— Certo, poteva impiccarsi!

— O farsi saltare il cervello.

E la voce del delegato amico gridò, forse a quelli delle pertiche:

— Spicciatevi, ragazzi!

Poscia:

— Se avesse posseduto un revolver, caro brigadiere, l'avrebbe venduto in piazza....

A chi si riferivano tali parole? Per fortuna l'amico s'interruppe di nuovo a chiedere con voce più alta:

— Si sente? C'è?

Da lungi uno rispose:

— Niente!

Proseguiva il dialogo, mentre proseguiva la misteriosa ricerca.

— Dicono che avesse da dare anche duecento lire al trattore....

— .... E cinquanta alla padrona di casa — fece la seconda voce ignota, del carabiniere. Allora Bonarca fu certo di chi discorrevano.

Rosta aggiunse: — Sfido! Non ne aveva nemmeno da pagare i debiti di gioco. A me, mi doveva le ultime tre partite che gli ho vinte a biliardo.

Ah cane! ah vigliacco! Che voluttà arrivargli addosso con un paio di schiaffi da rovesciarlo e dirgli: — Eccoti la paga delle tre partite, questurino mentitore! — Invece, no, non poteva muoversi; doveva restar lì rannicchiato nella paglia! «Mentitore infame!» Una delle partite, ne aveva vinta: una sola! per caso! «T'insegnerei io a calunniare i morti!»

Di nuovo l'amico s'interruppe a chiedere:

— Niente?

Silenzio. Quando risposero, ripeterono:

— Niente!

Il delegato ripigliava:

— In fondo, però, era un buon diavolo. Ebbe il torto di dar retta ai giornalisti, che per quattro pezzi rubati qua e là e cuciti insieme alla meglio, gli avevano fatto credere che diventerebbe un Mascagni!

Gridarono: — Non c'è!

Non ci poteva essere: Bonarca già si era ricordato che al mulino del canal Torbo si pescavano i cadaveri degli annegati. Coloro che gridavano non c'è erano senza dubbio i suoi becchini.

— Cercate ancora! Cercate!

Il brigadiere frattanto preferiva la Cavalleria Rusticana al Nabucco e stancava vieppiù il delegato; il quale propose:

— Se andassimo a sedere qui dentro?

Parve a Bonarca che il pertugio dell'abitacolo si oscurasse all'interporsi d'una faccia e si sentì, con un brivido, perduto. Ma il brigadiere sconsigliava:

— Non sente che tanfo?

E i tre si mossero verso i ricercatori; lasciando il misero in una disperazione così grave e violenta che fu per fracassarsi la testa su la macina. Certo si sarebbe impiccato se si fosse sovvenuto della cinghia con cui usava reggersi i calzoni.

Ma in verità era un dilemma atroce: egli avrebbe dovuto vivere per dimostrare che tutti i calunniatori, come quell'amico infame, avevan torto e che avevano ragione i giornalisti; e vivere non poteva senza meritarsi il disprezzo universale!

Quando, poco dopo, coloro tornarono indietro.

.... — Vuol scommettere che invece d'annegarsi è scappato anche lui?

— Non credo. Non era uno da farcela così da furbo. Dite piuttosto che si sarà buttato giù, con una pietra al collo, in altro sito, per non essere pescato. Del coraggio ne aveva....

Meno male!

— Andiamo, ragazzi! — E i ragazzi — i becchini — trascorsero anch'essi. Uno sbadigliò:

— M'è venuto appetito.

.... Indi a poco, per finirla, Bonarca uscì di soppiatto; si diresse non alla parte del borro pieno e profondo, perchè i manigoldi avrebbero forse udito il tonfo, ma alla parte dove per l'acquitrino o per lo scolare di poc'acqua, imputridiva una gora. Ivi non era possibile annegarsi. Se non che ci si affoga anche nel pantano. E d'un salto, deciso com'era, vi balzò.

Giù.... giù.... Nera e fetida l'acqua gli affluì intorno, alla superficie; e sotto, adagio adagio, i piedi, e poi i polpacci, e poi i ginocchi, e poi le coscie erano invischiate, impeciate, prese, strette dalla tenace poltiglia. Giù.... giù....

Egli tendeva gli occhi ai manigoldi che se n'andavano per l'argine opposto. Nè poteva fermarsi: se avesse voluto, non avrebbe avuto ramo o tronco a cui aggrapparsi; nè i piedi incontravano sasso o fondo sodo. Che morte!

Giù..., sebbene più piano; giù.... Gli premeva il ventre quel brago in cui forse pascevano i più schifosi vermi; gli fasciava lo stomaco; gli saliva al petto. Oh Dio!; nè si fermava. Al petto! aveva la pegola al petto! Gli toglieva oramai il respiro; e se gli arrivava alla gola, alla bocca....

Che orribile morte! E ancora giù, adagio adagio.... Maledetta la Sposa selvaggia!... Addio, Elena (la maritata)! Addio, Teresa (la nubile)! addio, Lilì, per sempre!

Non si fermava ancora.... Ancora?

Quando gli parve d'aver toccato fondo, chiuse gli occhi per non vedere la sua morte, così. Ma a voce alta emise il grido degli estremi spiriti:

— Oh Dio!

Non chiedeva aiuto, lui! Nè fu udito. Infatti, non voleva morire?

Più forte gemettero gli spiriti vitali: — Diooò oh! E fu un urlo che finì in modo straziante; atroce, acuto, lungo. Egli però non capiva più nulla. Non volle capire più nulla. Finchè con l'aiuto di Dio, dopo un secolo....

— È lui! Corriamo!

— È Bonarca!

— Là! presto! affoga! — Correvano.

— È lui! Chi sa da quante ore!

— È già spacciato! — Arrivavano.

— No; non vedete? Muove la testa come una galana....

— Una corda.... Le pertiche!

— Maestro! maestro!

Senza dir nulla egli intravvedeva a pochi metri il delegato, i carabinieri, i becchini; e udiva battere il suo cuore, ton, ton, ton, a grande velocità.

— S'attacchi!

— S'attacchi alla pertica!

— Attáccati, amico!

— Forza!

— Coraggio, caro maestro!

Niun dubbio che per essere salvo gli sarebbe bastato afferrarsi alle pertiche. Ma non voleva morire?

— Coraggio! — Forza! — Bravo!

— Tira!

— Viene!

Salvo? Non doveva morire? Sì, ma che colpa n'ebbe lui?

Gli spiriti vitali si aggrapparono essi a quelle pertiche. Alle pertiche, prima; poscia a quelle braccia. Egli si lasciò trascinare e afferrare....

E salvo, ma svenendo davvero nelle braccia dell'amico, balbettò:

— Lasciatemi morire....

La giocatrice.

I.

Con un semplicissimo ragionamento, e chiarissimo, Gianni Limosa avrebbe dovuto convincersi che il suo affetto non escluderebbe mai dal cuore di Claudia Verbani l'affetto delle carte; che Claudia giocatrice — eppure così bella, così giovane, così vedova! — non aveva, nè avrebbe mai più, tempo, voglia, affanni d'amore.

Il ragionamento chiarissimo e semplicissimo sarebbe dovuto esser questo: L'uomo può dedicarsi con le sue energie a più vizi in una volta; dove la donna, con le energie sue, non si dà quasi sempre che a uno solo, e con l'anima sua in uno solo raccoglie, smarrisce tutta sè stessa. Ma ogni vizio è una passione; e come, da che mondo è mondo, la donna ebbe taccia d'incostante in amore, l'amore per la donna o non è una passione, e quindi non è un vizio, o tutt'al più è passione non intensa e profonda quanto un vizio: per esempio, il gioco.

Se non che Limosa invece d'essere un filosofo era uno sportman innamorato; perciò non è meraviglia ragionasse, o meglio, sragionasse così: «Questa donna, che è una signora eccezionale, io l'amo alla follia e con buone intenzioni: per forza; perchè è onesta; e la sposerei anche. Disgraziatamente essa non mi ama perchè ha un vizio. Un vizio? Sì: come Luisella la mia puledra.... Luisella adombrava al passaggio del treno o d'una bicicletta, e balzava o scappava o voltava indietro; sudava tutta; tremava; e guai se gliel'avessi data vinta! Io, traendola alla ferrovia e facendola sorprendere incontro, dietro o di fianco, con una bicicletta, e intanto frenandola e frustandola a mio modo, l'ho domata che è diventata un'agnellina. Ma Luisella è una cavalla, e Claudia una signora. Per questa dunque mi atterrò a un metodo affatto contrario.»

Ora, la fallacia del ragionamento apparisce manifesta nel credere che per essere Luisella una bestia e Claudia una donna, l'una ragionevole e l'altra no, patissero o peccassero in modo affatto contrario e bisognassero di opposti rimedi.

Ma, salvo il rispetto, in una qualità almeno rassomigliavano: che eran femmine ambedue.

II.

Gianni Limosa aveva molti meriti: capelli neri a spazzola; barba corta all'inglese; abiti che rivelavano il tipo, quasi scomparso ai nostri giorni, del gentiluomo campagnolo, ma abiti di stoffa costosa e di bella fattura; muscoli temprati agli esercizi del corpo; un naturale buon umore e bastevole intelligenza e cultura perchè egli non si confondesse in conversazione alcuna. Dei contadini, fra cui viveva otto o nove mesi dell'anno senza orgoglio e senza abbassarsi troppo, o degli amici e delle amiche che trovava ai campi di corse, chi mai se lo sarebbe imaginato timido e trepidante? Bisognava vederlo tirare ai piccioni! saltar le siepi! guidare Luisella!

Però egli meritava anche scusa, tant'era graziosa e sagace quella signora Claudia; con certi modi ingenui e volontari da far girar la testa a ben altri che a uno sportman non filosofo! Nè Claudia stentò molto a introdurre il povero Gianni in un dialogo per cui egli credè meglio finirla e confessarsi innamorato cotto.

— Sissignora! Io sono un uomo alla buona, franco, robusto, sano. Non leggo romanzi, io! E non avrei mai creduto d'innamorarmi fino a questo punto.

— Di chi?

— Oh bella! Di lei!

Gianni rispose con voce un po' aspra, perchè il cuore gli picchiava il petto; e con la sinistra accomodava la barba, mentre Claudia, niente affatto meravigliata, restava con la testa appoggiata al divano mostrandogli, senza volere, la bianca gola e sorridendo d'un'ironia lieve, non priva d'indulgenza.

— Povero Limosa! — ella disse poi. — Non conosce neppur tutta la gravità del suo malanno! Perchè, scusi, se non è sano chi legge romanzi, non sarà sano neppure chi è innamorato come nei romanzi e come dice di essere lei.

Egli mormorò:

— Già, mi contraddico; non capisco più nulla!... Tanto più che io amo non da eroe, ma da onest'uomo; disposto a qualunque sacrificio.

— Bravo! E quale sarebbe il sacrificio più grande?

— .... Rinunciare alla mia libertà!

Il modo con cui fece l'offerta e il tono che aveva imposto alle parole un peso maggiore a quello stesso ch'egli v'attribuiva, ottennero dalla signora una risata schietta.

— Dio mio! Ma il sacrificio della propria libertà è il più piccolo, il più semplice, il più naturale per l'amore, cioè per il matrimonio! È necessario; se no, il matrimonio non sarebbe un legame!

— Ebbene — disse rosso in volto Limosa —, io farò di più: rinuncerò ai cavalli, alla caccia, alla campagna; andrò nel bel mondo; leggerò dei romanzi; cercherò duelli; farò della politica; ascolterò concerti wagneriani; ballerò la season....

— Inutile, povero Limosa!

— Perchè lei non mi amerà mai? mai?

Che impeto nella dimanda! che passione, che disperazione nel secondo «mai!»

Allora Claudia abbassò il capo, coprendosi la faccia con le mani, ascoltandosi e riflettendo; indi scosse il capo a viso scoperto.

— Io — disse — potrei rinunciare a tutto: ai cavalli, al mondo, ai romanzi, ai concerti, alla season....; a tutto, fuorchè alla mia libertà!

— Come? — esclamò pieno di gioia Limosa, dopo aver riflettuto anche lui. — Voi, dunque?... Voi..., lei.... Amandomi lei non rinuncerebbe alla sua, alla nostra libertà? Voglio dire che se poteste non rinunciare alla vostra libertà, voi forse...?

Non solo Claudia, ma nessun altro ci avrebbe capito nulla; o avrebbe capito che il cervello a quell'infelice gli aveva dato la volta.

Tuttavia la signora strinse le ciglia quasi dubitasse d'un'offesa e attendesse un opportuno schiarimento.

— Sì! — egli dichiarò. — Non son io che lei odia; non è l'amore che lei odia: è il matrimonio!

E pareva aggiungere: «Quando tutto l'ostacolo stesse qui, non ci vedrei tante difficoltà a superarlo.»

Ma la signora con voce e attitudine convenevoli alle parole, eppure quasi benigna:

— Io non odio nulla e nessuno, amico mio; solo, non ho voglia d'amare, perchè più mi piace viver libera; nè una donna come me intenderebbe l'amore senza il sacrificio assoluto e.... legale della propria libertà. Chiaro?

A ogni parola la faccia di Limosa era andata acquistando una linea di mestizia; sicchè all'ultima rassomigliava, lui, a Iacopo Ortis, ma in barba corta all'inglese.

— .... Perciò, amico mio..., lasciate.... (dolcemente ella cedette al voi ).... lasciate questo discorso; e piuttosto facciamo una partita a scopa.

Il naso sul mento e il mento sul petto, Gianni, quando rispose, disse con un sospiro che venne fuori dal broncio:

— Non conosco le carte!

— Nemmeno avete imparato a conoscerle? — ella domandò tra compassionevole e ironica, secondo la sua usanza.

Allora egli proruppe:

— Per l'addietro vi dicevo: non so giocare; oggi, signora, vi dico: nemmeno conosco le carte! e me ne vanto!

— Oh oh!... Ma dunque che fate assistendo alle nostre partite? a che pensate?

La passione lo rese eloquente e furente.

— A voi penso! Io vi guardo; vi studio; vi esamino; vi giudico; entro in voi; scappo disperato; mi perdo.... Oh che martirio amarvi e vedervi con le carte in mano! Un supplizio! Diventate cattiva e debole; perfida con chi vince; lusinghiera con chi vi fa vincere....

— Limosa!

— Quante volte soffro io più di voi a vedervi palpitante, tremante, pallida in attesa d'un colpo di fortuna! Quante volte vi ho sorpresa con occhi pieni di fiamma interrogare, invitare, accarezzare un compagno più brutto del demonio! Quante volte ho dovuto augurarmi d'essere io il re bello, che vi rallegrava, o l' asso di bastoni o il bagattino!

— O l' angelo, o il diavolo, bugiardo che siete! — esclamò giuliva la signora. — Conoscete fino i tarocchi!

Ma l'altro seguitava a infuriarsi:

— Quante volte ho pianto, ho quasi pianto a vedervi consumare in tal modo gioventù, bellezza, salute, intelligenza, anima! Ma io che vi amo tanto, io giudico che anche questa è una colpa, perchè è questo esecrabile vizio, questa obbrobriosa catena che v'impedisce di amare e di rinunciare alla vostra libertà. Vergogna!

A questo punto Gianni s'aspettava che ella rispondesse un «grazie» per canzonatura, o che inferocita lo mettesse alla porta; tanta foga egli aveva data all'invettiva. Al contrario, fredda e severa, Claudia parlò:

— Il vostro rimprovero è ingiusto. Non mi offende: mi affligge; e non vi perdonerei se non vi credessi innamorato perbene e troppo inesperto nell'amore onesto.

Bel colpo!; che Gianni ricevette senza ribattere.

— Sapete voi perchè gioco? — ella continuava.

Cosa poteva saper lui, che non sapeva neanche perchè si fosse innamorato così?

— .... Gioco perchè l'alcoolismo in una donna è turpe; perchè se sono religiosa, non sono bigotta, non ipocrita nè egoista; perchè (e qui la bella voce s'inteneriva), perchè quando mio marito m'ebbe abbandonata sola al mondo, io, che l'amavo perbene, non gli sarei sopravvissuta e mi sarei lasciata struggere dal dolore se non avessi trovato scampo e consolazione in una passione onesta. Inebriarmi? Schiodar Cristi? Mai! Il mio Vittorio m'aveva insegnato lui il faraone, il macao, il tresette, i tarocchi, la scopa!... — E sgorgarono le lagrime; piovvero lagrime sul fazzoletto.

— Perdono, perdono! — scongiurava Limosa, pari a un eroe da romanzo, afferrandole una mano e coprendola di baci; mentre si chiedeva: «Debbo mettermi in ginocchio?»

— .... Perdonatemi! — riprese. — La colpa è proprio della mia inesperienza! Se io fossi avvezzo a innamorarmi, non invidierei le carte e non desidererei per me quel che date a loro; mi negherei il diritto di ingelosire; riconoscerei il mio torto di amarvi tanto; mi persuaderei ch'è pazzia voler persuadere una donna che.... che.... Mi fate impazzire! Parola d'onore, impazzisco!

In fatti si stringeva il capo tra le mani. Onde, al suo solito modo, Claudia un po' s'affliggeva e un po' godeva.

— Allontanatevi, amico — ella consigliò buona buona. — Guarirete.

— Allontanarmi? Ma se per venire dalla mia villa alla vostra non ho cavallo che corra abbastanza! Se fin Luisella mi sembra una tartaruga!

— Distraetevi.

— Già, mi distrarrò! — egli disse alzandosi e sospirando. — Mi distrarrà o il vino, o la religione, o.... una rivoltella!

— Limosa! Gianni! — gridò impaurita la signora trattenendolo. — Che discorsi sono questi? Fermatevi, Gianni, per carità!

Egli la guardava tra minaccioso e meravigliato che ci fosse da spaventarsi in quella maniera. Finchè lasciò trarsi per il braccio, dolcemente.... Dove?... A un tavolino.

— Sedete! Ubbidite!

Ubbidì.

— Ora — ella conchiuse ridente, bellissima — v'insegnerò io, signorino, come si gioca a scopa!

III.

Ma studiando indefessamente, sin quasi ad ammalare di neurastenia, otto giorni dopo Gianni aveva imparato anche gli altri giochi d'ingegno e d'azzardo che appassionavano la signora Verbani, e s'era deliberato a questi termini: «O io rovinerò lei, o lei me; e verrà il giorno che, per rimorso, o per gratitudine, o per necessità, Claudia maledirà le carte e un prete benedirà il nostro amore.»

Con Luisella, la puledra, Gianni Limosa non sarebbe venuto mai a un tal patto:

«io accopperò te; o tu, me.»

Intanto gli amici vecchi e brontoloni, che dalle ville intorno si recavano dalla Verbani per le partite diurne e notturne, cedettero ogni primato al nuovo competitore e, invidiando, assistettero ai singolari certami per cui boni da cento lire sostituirono nelle poste quelli da dieci. Benevola, pur troppo, e d'accordo col proverbio ( fortunato in amor.... ) la fortuna assisteva Gianni Limosa, a cui sarebbe parso meglio rovinarsi; poichè vincendo temeva guadagnarsi anche l'antipatia della signora. E alle occhiate di sfida e di corruccio sempre rispondeva con occhiate dimesse, a rassegnazione e a doglianza, come a ripetere: «Io v'amo!» Ella aveva talvolta sorrisi di scherno e lampi d'odio. Ma poscia la fortuna si stancò di favorire chi non la curava, anzi l'incolpava di danni; e Claudia vinse; vinse tanto, in poche settimane, che la somma, sebbene profusa in beneficenza, scandalizzò la compagnia e il mondo intorno.

Godeva Gianni di quelle voci avverse; ne accrebbe la gravità vendendo, quasi per bisogno, due cavalli; inoltre un giorno, senza bisogno, chiese quattrini in prestito a uno di quegli amici ostili. Repugnanza e rimorso non tardarono quindi ad abbattere la gentile colpevole, e le partite a scopa moderate a poche lire tornavano alla memoria di lei come, dopo il fallo, il bene della virtù perduta. Ah retrocedere! Ah limitarsi alle pure briscole!

Ma Gianni, ch'era sano, robusto e caparbio, procedeva nelle scope, e peggio.

— Quest'inverno vado a Montecarlo — le disse un giorno.

— Non voglio! — ella esclamò. — La roulette è stupida.

Ah sì? Egli tacque dicendo press'a poco con gli occhi:

«La roulette è stupida? E la briscola no? e il macao? e la scopa? e la bestia? e io? e voi? Non comprendete dunque il vostro lungo delitto? il mio lento suicidio? Non potremmo fare qualche altra cosa di meglio?»

Seguì un giorno nuvoloso; di un nuvolo coerente e indifferente, in quella tinta grigia, di latta, onde par greve sino la luce; e solo, a quando a quando, snebbiava un po' di pioggia; minuta, silente, inutile pioggia. Mortificate, le piante del giardino non muovevan foglia; senza tremito eran le frange degli abeti; senza voci gli alberi e il tetto; senza volo gli uccelli; senz'anima la vita; senza vita l'universo; senza l'universo.... Una giornata insomma o da briscola o da suicidio. Ebbene, chi lo crederebbe?...

Claudia mormorò:

— Non ho voglia di giocare, oggi!

E a Gianni, riavutosi dallo stordimento repentino, non parve vero d'esclamare:

— Facciamo qualche altra cosa!

— Chiacchieriamo.

Egli tacque.

— Non andate a Erba, quest'anno?

— No: Gringoire s'è azzoppato.

— E Luisella?

— Non è da corsa a galoppo: l'ho allevata al trotto; e non la sciuperò mai in un ippodromo.

— È buona..., lei?

— Oh sì!

— Senza vizi?

— Un tempo adombrava delle biciclette: adesso, più.

— Bella, è bella — dovè ammettere un po' a malincuore Claudia. Indi chiese: — Siete venuto qua con lei? con la charrette?

— Sì.

Che capriccio le veniva? Andò alla finestra; disse:

— Se non piovesse..., vorrei conoscere anch'io le virtù di Luisella.

— Facciamo una trottata! — gridò Gianni.

Il cielo, a sua consolazione, si rischiarava; non sgocciolava più.

— Posso fidarmi?

— Di Luisella? Garantisco!

— E di voi?

Da uomo leale Gianni tacque prima di portare una mano al petto; ma poi rispose: — Sì.

.... Andarono per la diritta via, che la puledra, con trotto uguale, ampio e sonante, sorpassava recando nella charrette il signore e la signora.

Provava questa il piacere d'un sollazzo fanciullesco e quegli d'un rapimento giocondo; e l'uno sussurrava e l'altra ascoltava vezzose apostrofi: — Biondina...; birichina...; capricciosa...; cattiva, etc.; — mentre l'aria, risentita dell'autunno e rinfrescata dalla recente pioggia, al veloce incontro suscitava nel loro sangue brividi di delizia.

— Yop! Via, Luisella!

Luisella volava.

— Mi comprendete, oggi? — chiese Gianni, a un punto, con nuova dolcezza.

E Claudia:

— Comprendo il piacere d'aver domato così bene questa bella bestia.

— Oh c'è una gioia più grande: domare un angelo!

— Difficile impresa per un uomo!

— No: per un asino come me, che ha soggezione di voi anche oggi!

Gianni s'adirava.

— Un altro non si sarebbe messo una mano al petto....

— E io, allora, non mi sarei fidata. Dunque, buono! e.... sperate. Da bravo! Dicono che Amore faccia miracoli.

Divina creatura! Quando parlava sul serio, non si poteva crederle; ma quando scherzava, persuadeva.

Rassegnato, tratto tratto Gianni si specchiava negli occhi di lei, ove gli pareva vedersi più vivo e più bello, o attendeva a vedere come l'aria lusingava que' fini capelli biondi. Intanto Amore preparava il miracolo.

Ecco: modestamente la signora, fra quelle carezze, e arditamente Luisella, guardavano innanzi per la strada diritta e libera, mentre Gianni guardava da un lato; e non si sa quale delle due prima, Claudia.... — oh Dio!...: una bici.... — vide; e Luisella, a tal vista — una bicicletta! — sbalzò, per voltare indietro...; voltò. Un indefinibile, duplice grido: l'urto della ruota a un paracarri: la fredda, rigida sensazione d'un istantaneo volo, d'un rapido rovescio, d'una botta tremenda a terra per cui l'anima s'insaccasse e profondasse nel corpo e il corpo si schiacciasse.... Tutto ciò in due secondi! La catastrofe d'un sogno mortale; la realtà d'un salto mortale!

Dal cielo in terra! Gesummaria, che disastro! In terra, fermi, inerti, tutti e due; anzi, tre, con la charrette senza stanghe.

.... Nè prima Gianni ebbe certezza di non essersi rotto nulla, che si vide appresso, morta, Claudia; vide quel della bicicletta accorrere a loro; vide già lontana lontana correr via, maledetta!, Luisella; poi non vide più che la signora, morta!

— Claudia! Claudia! — invocava disperato, anelante, bianco di terrore in faccia, e tutto inzaccherato. Ma il ciclista giungeva avvertendo: — Io medico! medico, io! —; e affannoso anche lui, colui s'inginocchiò a slacciare il busto della poverina e a richiamarla in vita; mentre Gianni, che non aveva mai vista una donna svenuta, si strappava i capelli e ripeteva: — Morta!

Ma ecco il miracolo: rinvenne: sospirò: emise un gemito lungo....

— Rotta! — fece lo straniero nel deporla con cura.

Gianni lamentava: — Claudia! Claudia! Ah sì! la poverina s'era rotto un braccio! Ora bisognerebbe descrivere l'animo di Limosa, in cui combattevano e si confondevano la voglia di ammazzare il ciclista a pugni, e dolore, amore, disperazione, speranza; bisognerebbe rappresentarlo nell'angosciosa attesa della carrozza mandata a prendere alla villa per un contadino; ma sarebbe cómpito arduo non meno che rintracciar le parole italiane, francesi, tedesche con cui quel medico straniero pregava la pericolata che facesse il piacere di ricuperare i sensi per non ismarrirli di nuovo, subito dopo. Tre volte ella tornò in sè a gemere, da sul cuscino, ch'era caduto con loro dalla charrette; finchè alla quarta rimase, più dolente e piangente, in vita.

Adagiatala, quando Dio volle, su la carrozza — poichè il forestiero raccomandava di portarla al luogo più vicino — la trasferirono senza scrupolo a Villa Limosa. Del resto, il medico ciclista la credeva moglie del signore. E con gran premura accertò Gianni che, fuori del braccio, votre femme non aveva patito danno notevole; e si compiacque a fare lui, benissimo, la fasciatura; e lasciò qualche consiglio pel collega italiano che arriverebbe dal paese; e dimandò, a solo compenso, la firma nell' album dei ricordi. Infine, lieto d'essere stato utile, saltò in bicicletta e buon viaggio! — Al diavolo!

Era a quel che aveva detto e a quel che si seppe poi, un medico di gran nome; il quale per provare i benefizi della ginnastica e per convincere della sentenza mens sana in corpore sano faceva il giro del mondo in bicicletta.

IV.

Il giorno dopo Claudia chiamò Gianni e gli disse:

— Iddio mi ha castigata, amico mio!

A che, triste, l'amico:

— Ci ha castigati tutti e due; purtroppo!

— Avrei preferito — essa aggiunse — rimetterci il braccio che offendere il mio buon nome. Pensate: sono in casa vostra!

Ribattè Limosa:

— E io? tocca a me rimediare!

— Io — soggiunse la signora — sperava di non rimaritarmi se non di mia spontanea volontà.

— E io — ribattè Gianni — non voleva sposarvi prima di esser certo di tutto il vostro amore.... Claudia — pregò —, me ne date almeno un poco?

Ella tacque; poscia rispose:

— Sono così dolente della percossa che non ho più forza di sentir altro. Lasciate che mi ricuperi l'anima, che possa riflettere, che mi ricordi.

Più tardi lui tornò da lei; ed ella gli disse come se dicesse una cosa buffa:

— Mi ricordo che quando mi parve d'andar per aria e invece andavamo in terra, sentii che con voi morivo volentieri.

Ah! quale allora il cuore di Gianni! Ella lo amava! lo amava sul serio! Così, finalmente, un purissimo bacio fu suggello alla promessa fede di quelle due anime oneste.

Dopo il quale, Gianni corse nella scuderia a veder Luisella; e, a vederlo, Luisella, ch'egli aveva bastonata a furia, nitrì senza rancore e senza rimorso.

Se la puledra avesse perduto il vizio, Claudia si sarebbe mai accorta di amarlo fino a sentire di morir volentieri con lui?

No. Dunque il grave odio, l'ardente ira da cui il giorno prima egli era stato infiammato contro Luisella, non solo per la caduta di Claudia ma per la ricaduta d'essa, la puledra, nell'antico fallo (e se non fosse stata una bestia, certamente l'avrebbe uccisa), ora divenne fervida e carezzevole riconoscenza. Gianni Limosa abbracciò al collo la sua cavalla.

V.

Appena in grado di levarsi la signora partì per la città ad affrettarvi i preparativi delle nozze e la riparazione dello scandalo: questo tanto più ingiusto in quanto che era seguito a una disgrazia grave. Ma incrudelivano nelle chiacchiere i vecchi compagni di gioco; e quindi una nuova ragione per Limosa a detestare le carte. Egli, in quel mentre, rimeditava la purissima luna di miele anticipata; le ore di felicità trascorse al letto dell'inferma quando, parlassero o stessero cheti, sì dolci cose s'erano dette.

Era un fenomeno stranissimo: pareva a Gianni che Claudia si adattasse a lui con le parole, gli sguardi, i sorrisi, le intenzioni del pensiero e dell'animo; nè avvertiva che lui s'adattava a lei, s'ingentiliva, poetizzava sè medesimo; e parlava a voce sommessa; e camminava in punta di piedi....

Come ebbero risoluti tutti i problemi della felicità avvenire e scelti i luoghi da stare durante le quattro stagioni, e i viaggi da fare, e i metodi da tenere nell'educazione dei figlioli maschi e femmine, e contenuti i trasporti d'amore, per divagarsi si eran dati alle Letture. Limosa leggeva I tre Moschettieri, ritrovandosi non in Porthos, a cui rassomigliava un poco, ma in D'Artagnan; ed ella trovando lui in Aramis, al quale non rassomigliava affatto. Oh la beatitudine di quelle ore!; la gioia di comprendersi a vicenda, di conoscersi ogni dì meglio!

Inutile dire che le carte non eran state desiderate dalla signora, la quale avrebbe dovuto giocare (ohibò!) con un braccio solo e sul letto; e che il buon Limosa alle carte quasi non ci pensava più. Pensandoci diceva tra sè: «Se mi sbagliai nel metodo di correggere Luisella, che è una bestia, non sbagliavo certo per Claudia, che è un angelo. Nessun dubbio che dalla mia abnegazione era già nata la pietà, e che dalla pietà sarebbe venuto l'amore. Luisella però — che sia benedetta in eterno! — l'ha fatta innamorare e guarire del vizio in un colpo solo. Adesso posso star sicuro che di gioco non se ne parlerà mai più.» Infatti chiodo scaccia chiodo, o un diavolo scaccia l'altro.

Compiuti dunque i preparativi, subito Claudia telegrafò: Sono pronta; e Gianni, che era pronto da un pezzo, accorse....

*

.... I testimoni e i congiunti più stretti hanno accompagnati gli sposi alla ferrovia, ammirando la disinvolta esperienza nella sposa, la semplicità d'uomo un po' inesperto in certe cose di circostanza, ma sicuro di sè, nello sposo. E senza lagrime si affrettan gli addii; sono giocondi gli auguri di buon viaggio.

Tatà.... Un fischio.... Partenza!

Nè il treno è ancor fuori della tettoia che già lo sposo tira le tende della carrozza, forse perchè il sole a loro festa dardeggia i cristalli, o perchè non gl'importa, a Gianni, della veduta esterna. Or come la sposa lascia cadere il mazzo di fiori, che effondono una fragranza soverchia, lo sposo mormora:

— Finalmente soli! liberi! Sei mia, Claudia! Legàti per sempre! Oh Claudia!

Ella sorride in un modo, in un modo....

Ma ecco: si alza, si svincola; e mentre col braccio risanato trattiene lui e l'impedisce, dalla tasca del mantello trae fuori un pacchetto, e mostrandolo vittoriosa, gloriosa, irresistibile:

— Facciamo una partita?

Doni nuziali.

I.

.... — Gioielli, no; che a te come a me non piace il lusso; e neanche alla sposa, speriamo. Dunque?

— Ma niente, zio.... Non si disturbi!

— E tu dàlli! Torno a dirti che non voglio sfigurare in faccia a nessuno. Cosa daranno i parenti della sposa, quelli così signori? E i testimoni?

— Ma....

— Eh eh! Me l'imagino: chi la spilla, chi le boccole, chi il monile.... Vedrai...: sciocchezze, grandezze! moda! fumo, insomma! Ma se io avessi preso moglie (non l'ho presa perchè le donne costano), primo patto: fuori di casa i parenti della sposa, i parenti alla moda!

— Già!, chi potesse....

— Niente regali! nessun obbligo, con nessuno! Perchè, si sa, i parenti che non hanno più cuore che quattrini, presto o tardi ti fan scontare le carezze e i regali. Ma io....

— Oh sì! lei è buono; mi ha sempre voluto bene.... — interruppe Terpalli.

— Mio dovere. Dunque?

— Non so....

— Al corredo ci avrà pensato la mamma della sposa; alla mobilia ci hai pensato tu. Scommetto anzi che hai provveduto a tutto, da bravo omino; che non vi manca proprio nulla!

— Ho fatto il possibile...; ma provvedere a tutto.... capirà....

— Ti bisognano tovaglie e salviette? Hanno aperto un bel negozio in via Garibaldi....

— No: grazie; ne abbiamo.

— Seggiole?... Tende?...

— Grazie....

— Che imbroglio, Signore Iddio! Parla! Di' su! spiegati!

— Faccia lei!... Quel che vuole....

— Quel che voglio? Io non voglio niente, io! L'orologio? l'hai. Vestito, sei vestito.... A meno che non ti bisognasse.... Oh! Vuoi un bel lume?

— Piuttosto...; giacchè lei è così buono, se crede...; se non le par troppo...; anche la Gigia gradirebbe «un servizio da caffè».

Pareva avesse invocata una cosa dell'altro mondo!

— Un servizio da caffè? — esclamò lo zio.

— Prendete il caffè voi altri?... Non vi dà ai nervi?

— Ma.... per gl'invitati; per qualche amico che capiti, alle volte....

— Bene bene! Vada per il «servizio »; conforme, però, alle mie povere forze; se vi contenterete....

Contentissimo, Gustavo Terpalli invitò lo zio alla colazione nuziale; lo scongiurò che non mancasse.

Poi quando egli fu giunto di corsa dalla fidanzata, ed ebbe detto a lei e alla madre del casuale incontro con lo zio Tarabusi, tutti e tre scoppiarono in una risata gioconda. Infatti, da che aveva avuta notizia del prossimo matrimonio, lo zio sfuggiva il nipote — al quale, scontroso e timido, rincresceva andare a cercarlo — e per risparmiarsi il dono di nozze si sarebbe nascosto sotterra; quantunque fosse pieghevole ai rispetti umani e sempre dubitasse di apparire avaro come era.

— Figuratevi con che aria mi diceva «me ne rallegro!»; con che inchini ha risposto all'invito della colazione, e con che bocca mi ha detto (e Terpalli boffonchiava): «Grazie! Vedrò..., potendo.»

La fidanzata rideva sino alle lagrime e le sembrava vedere quella faccia nuda e tonda simile a quella d'un comico, e il lungo soprabito, e gl'inchini....

— E figuratevi come è diventato rosso a udire chi sono i vostri parenti. Ah ah! signori!... signoroni!

— E il regalo? — domandò la mamma.

— L'ha proposto lui!

— Lui?

— Lui? Che cosa?

— Eh! dopo mia lunga tiritera..., per non cascare in cose di troppo costo..., ha offerto.... un lume!

La Gigia battè le mani.

— Io invece mi son fatto coraggio e gli ho domandato un «servizio da caffè».

— Bravo! — esclamò la Gigia. — È meglio! molto meglio!

Ma la madre scosse il capo.

— No. Era meglio il lume.

— Scusi — ribattè Gustavo —; ieri sera non diceva anche lei che il «servizio da caffè» ci sarebbe necessario? Chi deve pensare a regalarcelo?

— Una bella lampada nel salottino ci vuole: l'ho detto sempre — insisteva la vecchia. — Adesso è fatta....

— La compreremo.

No e sì. Comprerebbero piuttosto due candelabri. Sì e no. Ma l'orologio avvertì Gustavo che era trascorsa l'ora, perchè aveva perduto tempo con lo zio.

— Addio, Gigia; addio, mamma....

E via.

.... Povero e bravo Terpalli! La buona volontà, la nativa tendenza ai protocolli e ai libri mastri, la mano calligrafica e il bisogno gli consentivano poco più di mezz'ora ogni giorno e di un'ora ogni sera agli amorosi colloqui con la sposa e con la suocera. Oggidì quanti giovani potrebbero enumerarsi che stiano dalle nove alle quindici in un ufficio comunale; poi dalle sedici alle diciotto e quindi dalle venti alle ventidue in un ufficio privato, ove senz'astio, tranquillamente, sommare rendite e spese d'un conte milionario? A un uomo che si sottoponga a così disumano lavoro e che non scorga al suo termine una oasi o un giardino fiorito, non la gloria, non la ricchezza, ma sempre cammini con passo uguale per una pianura uguale sempre, per un deserto lungo una vita intera, a un tal uomo non basta il conforto di fumare qualche sigaro. Troppo poco! Era destino che Gustavo Terpalli si ammogliasse. E, per economia, egli smise anche il vizio di fumare; e guai per lui se non fosse incappato in una donnina savia: Ma in fatto di mogli la fortuna, che in altri generi talvolta sembra parziale per i birbanti, è imparziale e davvero cieca con tutti. Terpalli aveva potuto chiamarsi fortunato e restare un onesto ragazzo quand'era venuto ad alloggiare in casa d'una umile vedova, la cui soave figliola sentiva volare il tempo senza speranze di nozze e di vita.

Proprio la ragazza adatta a lui! Egli era magrolino e timido d'animo come di baffi, che radi radi sotto il naso acquistavano un po' più di vigore solo agli angoli della bocca; e la Gigia era piccolotta e grassoccia, molto timida fuori di casa, e con un po' di peluria anche lei agli angoli delle labbra. Finchè, un bel giorno, alla dimanda della vedova: — Perchè non prende moglie, signor Terpalli? —, egli aveva risposto guardando alla figliola:

— Ci penso spesso, all'ufficio. E lei? (Non osava dire «signorina».)

La ragazza era arrossita sino alla gola ridendo commossa, eccitata dal suo stesso pensiero che le occhiate patetiche e fuggevoli del giovane, nei dì addietro, non dissimulassero un inganno; e, poverina, per trarsi d'impaccio e giustificare quel riso disse una stupidaggine:

— Se ci penso.... all'ufficio?

Parve una canzonatura; per cui Terpalli, un po' permaloso, aveva scosse le spalle e tenuto il broncio quasi una settimana. Dopo, si pacificarono con nuove occhiate; e poi la dimanda alla madre, e l'assenso.

Ed era una consolazione a vederli, quei ragazzi; così di rado la fortuna aiuta con indulgenza e prontezza due cuori a intendersi e ad appagarsi pienamente l'uno dell'altro. Che se l'amore buono è interpretazione, chiaroveggenza reciproca, presentimento e consentimento, è telepatia, l'amore della Gigia e di Gustavo Terpalli era un perfetto amore. Pensava l'uno durante le ore d'ufficio:

«Cosa farà adesso?... Adesso ripulisce i miei panni; aiuta la mamma a spolverare». Oppure: «Cuce per il corredo; discorre con la sarta». Oppure: «Attende al desinare.... Batte il prezzemolo.... Ohi ohi!: affacciatasi per caso, un momento, alla finestra, un giovanotto la guarda...; e lei, via!; scappa. È un angelo!»

E l'altra pensava:

«Cosa farà?... Mette lettere a protocollo; registra un atto; esaurisce una pratica; sbriga un importuno.... Oh Dio! Scrive per il conte, di nascosto, tanta ha voglia di spicciarsi stasera.... Ma se lo sorprende il capufficio?... Ecco, ecco: lo sorprende, lo sgrida!...» — E accadde che un giorno Gustavo si sforzasse a contener l'ira a cui l'aveva acceso il capufficio, perchè la Gigia lo quetasse e l'esortasse a non infrangere mai più, per amor suo, alcuna regola; ed accadde che con la mite cattiveria delle ragazze ingenue e buone la Gigia un giorno raccontasse a Gustavo:

— Oggi, sai, mi sono affacciata un momento alla finestra, e passava un bel giovinotto.... — Per gioco si bisticciavano, talora, quei figlioli: e la mamma li lasciava fare guatandoli felice.

Non mancavano tuttavia i gravi pensieri; le spese per allestire la nuova casa. A provvederla di solo quanto era necessario, e non superfluo, non sarebbero bastati a Terpalli i risparmi di due anni, se la mamma non gli fosse venuta in soccorso con tutto il suo avere; e per le cose superflue — di assoluta necessità, una volta provviste le altre — lasciarono l'incarico al caso nella consuetudine dei doni nuziali. Uno specchio per il salotto; una lampada da appendere, o due candelabri; uno o due vasi giapponesi, di quelli in cui si gettano, sparsi, fiori e penne; un bell'«album» da ritratti e un cofano, alla moda, per i biglietti, eran tutte cose che premevano. Seguivano, soltanto desiderabili, sei posate in luogo di quelle comuni ereditate dalla mamma; e forse d'un «servizio da caffè» non avrebbero potuto fare a meno neppure se Gustavo non si fosse imbattuto in quell'ipocrita dello zio Tarabusi.

II.

Questi, subito, quasi avesse fretta di levarsi un peso d'addosso, mandò un «servizio» di sei tazze, poh! abbastanza fine: Ginori di seconda qualità.

— Di terza, di terza! — mormorò la mamma, meno paga e sempre astiosa con l'ipocrita e avaro donatore. Ma — A caval donato.... — aggiungeva per suo stesso conforto.

Quanto agli altri regali desiderati e attesi: nessuno; e quale rabbia allorchè una prozia e una cugina, su la cui intelligenza s'era fatto assegnamento, inviarono la prima un ombrello di raso paonazzo e la seconda un astuccio per guanti! Stupide! La Gigia era forse una donna più da passeggio che da casa? Chi regalerebbe ora il cofano, i candelabri o il lume, lo specchio e l'album? Forse la zia paterna, ch'era ricca assai, manderebbe alla sposa le posate? Forse lo zio paterno manderebbe i vasi giapponesi?

.... — Vostro zio? — domandava Terpalli ogni volta che rincasava, facendo quattro gradini alla volta.

Sì! Lo zio materno — a loro che avevano rinunciato al viaggio di nozze — regalò.... una borsa da viaggio!

.... — La zia?

Un monile bello, assai bello, regalò la zia; ma la Gigia avrebbe preferita qualche cosa di più utile sebbene di minor prezzo; avrebbe preferito restar disadorna lei a lasciar il salotto disadorno, nudo.

Nè le amiche poterono far molto: un libro da messa; una scatola di profumi; cinque metri di pizzo; un cuscino da sofà; un portafogli ricamato all'antica....

Quand'ecco, alla vigilia del gran giorno, la mamma su la scala venne incontro a Terpalli più che desolata, irosa e sbuffante. Una combinazione incredibile! La signora Tecla, antica loro conoscente, memore d'aver visto nascere la Gigia, aveva pensato a un regaluccio: e aveva pensato proprio a.... un «servizio da caffè»! A guardare la faccia della mamma mentre diceva: — Eh! che ne dite? —, Gustavo credè leggervi come un'accusa di complicità sua col caso; e provò tal pena a veder lagrimosa la Gigia mentre essa diceva: — Si può essere più disgraziati? — che si sforzò a ridere, da uomo di spirito.

— Faremo così: quello di mio zio — disse — l'useremo per romperlo; e quello della signora Tecla lo metteremo nel salotto per conservarlo.

— Già: sulla tavola, con l'ombrello aperto! e, sotto, la borsa, il libro da messa, la scatola di profumi e il cuscino! Che bel salotto! — esclamò la Gigia.

Propose Gustavo:

— Perchè non avvertire la signora Tecla? Potrebbe ottenere qualche cosa in cambio, dal negoziante.

— Oh io non m'attento! — borbottò la mamma.

E la figliola:

— Nemmeno io!

— Dunque si tiene il secondo «servizio» e si ringrazia! — disse Terpalli, al quale rincrebbero il broncio della vecchia e l'ironia della sposa.

— Lo butterei dalla finestra! — esclamò la Gigia, alla quale per contro rincresceva l'indifferenza ostentata dallo sposo.

— Ma la colpa è vostra! — esclamò la mamma, che il riso del genero aveva inviperita.

— Che colpa?

La vecchia tacque; poi sospirò e borbottò:

— E siete senza parenti; non avete che quell'avaro gesuita!

— Colpa mia? — Gustavo dimandava. — Colpa mia? — ripeteva.

Presentendo il litigio, la ragazza pregò:

— Zitti! basta!

— Se non ho parenti, ho degli amici — asserì lo sposo. — Ho i colleghi!

Allora la signora Clotilde si mise a ridere lei.

— I colleghi? Un mazzo di fiori e tanti saluti! Un bouquet, come daranno i vostri testimoni; e ciao!

— E il conte? Perchè è in viaggio credete si dimentichi?... Mi vuol bene, lui!

Terpalli l'aveva ricordato per il colpo finale.

Il signor conte non solo non si dimenticherebbe, ma spedirebbe o le posate o lo specchio.

— Vedrete!

Questa la sua fede.

— Il conte? — ribattè la mamma rivelandosi del tutto suocera. — Neanche un biglietto vi manda! Ci scommetto!

— Forse sì e forse no.

— Oh che pretendereste da lui? Cosa può regalare a un impiegato così.... modesto come voi?

— Il lume! — rispose in modo di canzonatura Gustavo.

Frattanto la Gigia pregava:

— Smettetela; finitela....

— Il lume dovevate chiederlo a quel tanghero; e adesso non avreste due servizi da caffè!

— Ma sono un profeta, io? — urlò Terpalli.

— Profeta, no; timido, sì.

.... — Mamma! Gustavo!

— Timido?

— Timidissimo! Avete avuto paura d'obbligarvi troppo con vostro zio, e gli avete domandato quel che costa meno!

— Sissignora! E ho fatto uno sforzo a domandare anche così poco!

— Ma Dio vi ha castigato! Chi non si aiuta..., mio marito lo diceva sempre, muore senza aver goduta una zuppa calda!

— Mio marito; — grugniva Gustavo senza attendere alla Gigia che lo tirava per la giacca. — Sempre «mio marito»! Lui, lui sapeva stare al mondo!

— Ah, meglio di voi, signorino!

— Infatti....

.... E la Gigia scoppiò in pianto. E lo sposo afferrò il cappello, e scappò via.

— Gustavo! Gustavo!

— Mio marito era un uomo! — la suocera gli gridava dietro. — Si può dir forte: era un uomo lui! Se fu disgraziato....

Insomma, la buona donna aveva bisogno di sfogare un gran malumore; e la buona figliola ebbe ragione di gemere:

— Il cuore me lo diceva che eravamo troppo felici!

III.

ALLA CITTÀ DI PARIGI. Grande assortimento di orologi e sveglie. Novità in ogni genere. Bijouteria — Chincaglieria — Argento christofle. Revolvers e fucili. Emporium per regali — giocattoli.

Il commesso s'inchinò ai tre signori, che entrando l'uno dopo l'altro gettarono uno sguardo intorno, come per sorprendere un oggetto e riposarvi il pensiero incerto; quindi, dopo i tre inchini, chiese:

— Desiderano?

— Un regalo per nozze.

— S'accomodino. Ne abbiamo di tutte le sorta.

Infatti troppe cose attiravan l'occhio là dentro.

Per di più, Bonariva, Sandri e Guizzi, quantunque d'accordo a spendere poco in cosa che desse apparenza di molta spesa, erano discordi nel dono da scegliere.

— Se prendessimo.... un tavolino da lavoro, per la sposa? — suggerì primo Bonariva; quantunque poco lieto lui stesso della proposta.

— Ti pare? — esclamò Sandri. — Tocca farli ai parenti cotesti regali da buona famiglia! Tocca alle amiche della sposa.

— Piuttosto due vasi — proponeva Guizzi.

— Vasi di vero Giappone, o d'imitazione tedesca.... Da trecento lire a quindici. Vedano.... — Così dicendo il commesso accennava a quelli da trecento lire.

— Ce ne mostri da venti — rispose Guizzi, intanto che Bonariva disapprovava col capo.

— Belli, eh? Mi piacciono. — Piacevano anche a Sandri, e costavano poco.

— Osservo — disse Bonariva — che i vasi sono pericolosi....

— Già, se vanno in terra....

— No, non per questo! Chi non sa che cosa regalare, regala due vasi, sempre: c'è il pericolo d'una combinazione.

Nè Sandri poteva dargli torto. Guizzi allora mutò consiglio.

— Prendiamo uno specchio.

— Peggio! Credi che non l'abbiano uno specchio?

— Ma bello; per il salotto.

— Che! Non son gente da salotto!

— Veramente sarebbe meglio conciliare il bello con l'utile — mormorava Sandri.

E a lui il commesso:

— Un nécessaire da viaggio?... Un lavabo?

— No, no. — Bonariva insisteva per qualche cosa di più utile e di meno comune.

— Un astuccio per guanti? un cofanetto? Sono di moda; servono a tanti usi! Guardino questo: dorato a fuoco. Resterà tale e quale cent'anni.

— Perchè no? — Guizzi quasi quasi.... Ma Bonariva scoteva il capo.

— Costa? — domandò Sandri.

— Ottanta lire!

— Ahi!

— Un calamaio?... un portafogli?... un fermacarte? un portabiglietti?

— Io torno alla mia prima idea — Sandri disse —: un bell'album con i nostri ritratti....

— È pericoloso! Potrebbe indur la sposa in tentazione — fece Bonariva, mentre Guizzi, per gusto suo, maneggiava e considerava un bastone dal pomo cesellato, e diceva:

— Vuoi che non l'abbiano un album?

— Eppoi, io non l'ho neanche il ritratto! — aggiunse Bonariva. Quand'ecco, a sollevare o a distrarre la pazienza del commesso, entrò una signora. I tre rimasero così a guardarsi in viso, con un'aria di tacito e vicendevole rimprovero; finchè uno chiese a un secondo giovane del negozio:

— Cos'è quell'affare là, di vetro?

— Un portafiori in cristallo di Boemia: stupendo! Se vuole....

— No, no! È troppo bello!

Guizzi adesso mormorava:

— Non abbiamo pensato a un ventaglio.... — Quasi a sì bella idea fosse possibile il consenso degli amici!

— Ohibò!...

— Si regalano alle signore che non si maritano, i ventagli!

— Dunque?

Parlava il giovine:

— Scusino.... Vogliono fare un dono cumulativo?

— Cioè?

Ah, l'aveva avuta lui l'idea buona!

— Dodici posate d'argento Christofle...?

— Troppo, troppo!

— Sei, allora....

— Poco: troppo poco!

— Poi le avranno già le posate! — Sandri ripeteva.

Proseguiva il commesso:

— Oggetti di toilette? Candelabri?...

— Un lume! — esclamò Bonariva alla fine, contento. Se non che Guizzi si mise a ridere.

— Un lume! Gli amici che mandano il lume! — E al commesso che proponeva: — Un orologio? una sveglia? —, rispose: — Da sveglia farà la sposa: non dubiti!

Così fu eccitato il riso anche in Bonariva, che quando cominciava non la smetteva più. Disse Bonariva:

— Prendiamo un organetto, o un'armonica per calmare la signora dopo la luna di miele!

A che Guizzi:

— Sarebbe meglio un revolver!

Ma Sandri, avendo moglie, ammonì con un'occhiata i colleghi ad essere seri. Anche, li rimproverò:

— Se aveste dato retta a me e avessimo chiesto allo sposo che cosa gradirebbe....

Perchè non sapevano proprio che cosa scegliere.

IV.

Impazienza, ira e litigi promuovono le piccole sventure; non le grandi, le quali abbattono quanti ne sono colpiti in un pietoso filantropico accordo.

— Che volete farci? — mormorava la signora Clotilde dinanzi al terzo «servizio da caffè» e alla muta desolazione dei fidanzati. — Buon viso a cattiva fortuna, figlioli!

Disse finalmente Gustavo:

— Dimani bisognerà ridere; ingoiare la rabbia; fingere che niente sia; se no, ci metteranno su le ventole!

— Sarà bene avvertirli prima, gl'invitati, perchè si meraviglino meno — disse la Gigia, finalmente.

Non era possibile, infatti, nascondere i due primi servizi, il donatore e la donatrice essendo invitati alla colazione; e non volendosi sottrarre il terzo, quello dei colleghi, che appariva, al confronto, magnifico. Per suprema ironia era magnifico!

Nè il domani mattina alla funzione nuziale, in chiesa prima e dopo al municipio, fu alcuno che al vedere la sposa un po' turbata, un po' troppo smorta, non ne ammirasse la commozione del solenne ufficio che si compieva, il verginale panico per il solenne sacrificio a cui era condotta, il trepido cuore per l'amore che la beava: nessuno ci fu che pensasse a un estraneo disturbo di tanta felicità. La poverina aveva, insistente, la visione d'un collegio di chicchere vigilate da matrone, che erano le caffettiere e le zuccheriere. Quanto allo sposo, avanti di arrivare a casa, rivelò a un testimonio una sola causa di cruccio: l'ingratitudine del conte.

— Nemmeno un biglietto! E son dieci anni che lavoro per lui senza aumento di stipendio!

— Pensate — aggiungeva — che ogni volta che capitava in ufficio era sempre lì a dirmi: «Terpallino.... Gustavino....: quando la facciamo la corbelleria?»

— Dov'è adesso? — chiese uno.

— A Firenze col maestro di casa, che mi promise di rinfrescargli la memoria.... Ma sì!...

Esclamò uno dei testimoni, che era socialista: — Tutti uguali i nobili! — L'altro, moderato, tacque.

Avanti d'entrare in casa, Terpalli s'arrestò dicendo:

— Ora vedrete i tre «servizi»!

Tanta serenità e disinvoltura indussero tutti a ridere: anche la sposa e la mamma; anche gli invitati che attendevano, e quelli che sopraggiunsero; toltane, s'intende, la vecchia amica signora Tecla, a cui il suo servizio sembrava il più brutto dei tre, e s'arrovellava a valutare gli altri due.

— Che caso! — Oh che caso!

— Sono casi però che fanno rabbia — disse lo zio materno.

— Son brutti scherzi del destino! — esclamò un secondo. — Una cosa che non si crederebbe! — borbottava un terzo; di guisa che l'ilarità diveniva compianto sincero nell'attesa della colazione.

— A tavola! a tavola! — chiamò la mamma.

— Chi manca?

Mancava lo zio di Gustavo. Ma lindo, nitido, sorridente, senza peli, con una impressione di maschera benevola su la faccia tonda, eccolo, lo zio Tarabusi.

— Fortunato!... felice!... Stieno comodi — rispondeva alle presentazioni, dopo aver baciata su la fronte la sposa, la «cara figliola» — Oh caro: oh! carissimo! — diceva a quelli che conosceva. — Tanto, tanto piacere! — ripeteva alle nuove conoscenze.... Finchè diede una sbirciatina alla tavola dei regali. — To'! quante chicchere! Pare un reggimento di fanteria....

— Eh, zio: che ne dice? — Raccontavano la storia.

— Oh bella! bellissima!... Ma se io avessi potuto prevedere.... Oh senti — aggiunse con quella sua bocca melliflua, traendo a sè lo sposo. Quindi a bassa voce: — Sai? debbo partire...: alle dieci e trenta per Modena....

— Come?

Più piano:

— Eh!... Bella figura m'hai fatta fare!...

— Ma..., zio....

— Dovevi avvertirmi...; tuo dovere.... I confronti sono odiosi.

— Creda....

— Dovevi avvertirmi!

Ogni preghiera fu inutile. Tornò mellifluo tra gli altri.

— Dicevo qui, a Gustavo, che non posso trattenermi.... Mi scusino.... Debbo partire.... per Modena: alle dieci e trenta. Mi scuseranno tutti questi signori....

— Rimanga, zio!

— Resti, signor Tarabusi!

— Diavolo!..., signor Tarabusi!

.... — Non posso, davvero.... Sposina, i miei auguri!

— Due confetti, zio....

— Grazie....

— Il caffè, zio? Un goccio di caffè, almeno...? Offrire il caffè a lui (in quale delle chicchere?) sarebbe stato un grave insulto, se lo zio non avesse compatito il nipote come uno che avendo preso moglie aveva perduta la testa, e se Gustavo non si fosse corretto subito:

— Un cognac, almeno...?

— Bevo di rado cognac... Grazie.... Un'altra volta, caro. Addio! riverisco! addio! Stiano bene.... tutti! — E con un nuovo inchino e un: — Evviva gli sposi! — quel Tarabusi se ne andò.

.... La colazione nondimeno procedè benissimo. Vini e liquori dissiparono ogni ombra dall'anima della sposa, rapirono allo sposo il ricordo dello zio e dell'ingrato conte; avvivaron giocondità e malizia nelle giovani donne; suggerirono motti agli uomini, e bei racconti. Quando, d'improvviso, squillò il campanello. Chi mai?

Alla Gigia era sobbalzato il cuore. E Gustavo correva alla porta gridando:

— Il conte! — Un telegramma forse?..., o il regalo?... — Il conte!... — Il conte.... senza dubbio!

— Oooh!... — fecero tutti, vòlti al facchino dell'agenzia che veniva a deporre una cassetta.

— Viva il conte! — Su la cassetta era scritto fragile; la sposa vi teneva lo sguardo smorto.

— Presto! un martello, un coltello! — Con una lama da interporre alle assicelle del coperchio Gustavo tornò dalla cucina; mentre il testimone socialista gridava:

— Il primo aristocratico galantuomo che conosco!

— Oh ce ne sono! — ribatteva il testimone moderato. — E di cuore!

— Se vuol bene a Gustavo, Gustavo se lo merita: ecco tutto! — osservava un altro.

— Non dico; ma....

— Viva il conte! Viva il conte!

Crac fece l'assicella allo sforzo di Gustavo. Allora tutti tacquero, ansiosi, nell'attesa che la cassa fosse aperta interamente. Ma perchè la cugina aveva scambiato uno sguardo d'intelligenza col socialista, quasi a un vicendevole ridevole dubbio? Perchè lo zio paterno tabaccava adagio, quasi a togliersi d'imbarazzo? Perchè il testimonio moderato fumava in fretta guatando alle donne; e la mamma e l'amica Tecla tenevan gli occhi su la sposa come temessero d'uno svenimento? Quale idea uscita di mente alla sposa o dalla cassetta, e venuta in mente a tutti, accresceva l'ansia e dipingeva nel viso di chi più avrebbe dovuto esser felice il terrore d'un malefizio, e accendeva negli occhi degli altri una perfida speranza di lunghe risa? Gravava un destino assurdo o tremendo su quella cassa, su quelle anime?...

Lo sposo — crac — con l'angustia di quando, ancora in preda a un sogno funesto, si ricorre, nel destarsi, alla vita, sollevò del tutto il coperchio....

Dall'Eldorado.

I.

Raccogliendo e riprendendo con la sinistra la scarsa barba, dalla tavola a cui sedeva Polla guardava a quanto poteva scorgere del temporale. Passavano di furia i nuvoloni neri: uno ne dilacerò un fulmine. E cominciava a piovere; nè ancora cessava il vento che faceva sbattere le imposte, da Polla lasciate sbattere.

«Oh portasse via la bufera anche la casa! Una tempesta enorme rovesciasse Roma e tutte le città d'Europa! Un ciclone rovinasse, magari, il mondo!»

Non che Polla — il quale amava tutti gli uomini come fratelli e pel quale i borghesi sfruttatori e capitalisti erano non uomini ma belve — si arrovellasse così, in un desiderio di distruzione, per malanimo o per teoria socialista o per lotta di classe: no, no; solo risentiva lui stesso di quel turbamento elettrico e meteorico e, per di più, gli sommoveva pensieri neri come le nuvole, che si aggrappavano nel cielo di contro, un appetito ahi quel dì insaziabile! All'ora infatti in cui i borghesi andavano a desinare, egli restava alla tavola deserta, perchè già pioveva e non aveva ombrello e perchè non aveva un soldo in tasca e non sapeva qual trattore potesse più accoglierlo a credito. Fino a quando?... Ah che appetito! In verità, quel giorno sarebbero appena bastate al suo desiderio una porzione di spaghetti, una di lesso, una di vitello, una di fragole e una bottiglia di barolo, il vino che prediligeva.

Frattanto, di sottovento, la pioggia entrava nella camera con tal impeto e abbondanza che il buon Polla finalmente si alzò per chiudere i vetri. Ed ecco sembrargli che una nuvola più densa, opaca, precipitasse, abbattuta da una ventata, giù, alla volta della sua finestra.... Una nuvola? Arrivava con la velocità d'una palla da cannone e non era una nuvola: un corpo strano, solido, straordinario: un enorme animale!... Oh! Nell'attimo, Polla fece appena in tempo a scampare alla parete, che già piombava nella camera: vi cadde con un tonfo profondo su l'impiantito.... Che cosa? Chi?...

Un condor spaventevole, un pipistrello pauroso? Era un misterioso involto, che, come cosa morta, non si moveva più affatto. Riavendosi però dal primo spavento, invece d'invocare soccorso, il socialista tacque, avanzò; retrocedette. Non era un condor, non era un'aquila, non era un pipistrello! Avviluppata nell'ali che s'erano raccolte al cessare del volo, l'insolita bestia non dava a conoscersi che per le estremità inferiori. Ebbene, Polla si avanzò di nuovo e ruppe in un'esclamazione di meraviglia alla vista di sì fatti piedi e di cosifatte gambe. Quell'animale era un uomo o, alla peggio, una donna volante! Una creatura umana, immota, svenuta o morta al suolo della sua stanza!

Con che cuore egli la volse supina e ne udì battere il cuore (era un uomo)! Con che cuore si sforzò a trascinare e adagiar il miracoloso viaggiatore nei suo lettuccio, dopo averlo spogliato delle fine e seriche ali e della giubba cui stavano connesse! Un uomo non calvo! I capelli lunghi e aurei diffusi su la bianca fronte e la lunga e gentile barba non scemavano giovinezza all'aspetto venerabile; e tutta la persona incuteva tal rispetto di beltà che, non potendo paragonarlo a un angelo, in cui non credeva, il positivista Polla lo paragonò a Adone, se pure Adone aveva la barba. N'esercitava frattanto il sangue al cuore con massaggio; ne spruzzava d'acqua il volto; finchè sospirarono entrambi: l'uomo che ricuperava vita e coscienza, e l'uomo che aveva salvato un fratello, quantunque volante.

Polla disse subito:

Good day!

No. Era biondo, ma non inglese.

Guten abend! — Non tedesco.

Bonjour, monsieur! — Non francese.

Buenas dies, caballero! — Non spagnolo.

Ricordandosi infine di essere italiano, Polla fece, cortesemente:

— Ben arrivato!

D'un soave sorriso, avvivando gli occhi da prima incerti quali d'uno che davvero sia cascato dalle nuvole, lo straniero mormorò qualche melodiosa incomprensibile parola; poi contorse la bocca a pronunciare una parola di lingua evidentemente non sua; di lingua internazionale.

— Volapuk?...

— Volapuk! — gridò Polla, che dai comizi aveva presa l'abitudine di parlare a voce alta. — Oh, oh! Al vostro paese si studia il volapuk? Non ha attecchito da noi! Non importa. A poco a poco, fratello, c'intenderemo lo stesso! E, ditemi....

Ma o per quel chiasso dell'eloquente socialista, o per il dolore della caduta, o per lo sfinimento di cui era prova il pallido viso, l'infelice forestiero sarebbe svenuto ancora, quando con uno sforzo supremo non avesse rialzato il capo, e stringendo all'estremità le dita della destra, non avesse portata due volte la mano alla bocca mentre lo sguardo aiutava l'espressione del gesto.

— Avete fame? — comprese e chiese Polla. — Poveretto! Anch'io ho fame! Ma io non posso offrirvi che un bicchier d'acqua!

Quasi indovinasse le condizioni economiche dell'ospite, l'altro affrettava un segno della mano verso l'involucro rimasto sul pavimento. E Polla ubbidì. Presso al punto ove ai fianchi dell'arnese (fosse corpetto o giubba) eran fisse le ali, egli avvertì subito due bisacce; nè esitò a introdurvi la mano, quantunque il forestiero già accennasse di tastar più in basso. Ma..., e là cosa c'era? Sentiva un peso non lieve, come di ciottoli, e per accertarsi se era o no la zavorra, introdusse la destra. Questa volta Polla, che non credeva in Dio, che credeva solo nel «fattore economico», esclamò:

— Dio! Non sono pezzi di vetro! Non sono sassi! — Che cosa erano? Che cosa erano?

Erano diamanti, smeraldi, oro! E non un sogno! Ma realtà! Un miracolo! Diamanti! smeraldo! rubini! oro! Fu tale la meraviglia di Polla che attese a lungo prima d'accorgersi come l'infelice girasse e chiudesse gli occhi, e sveniva. Presto, più giù, ove disperatamente il misero aveva volto il cenno, l'ospite trovò un grazioso vasetto piccolo piccolo, che quasi si aperse da sè effondendo un cordiale profumo.... Conteneva roba così buona che ne bastò un pizzico a ristorare d'un tratto dal profondo del cuore, il forestiero estenuato. Il quale poscia offerse il vaso all'amico; sorrise d'un suo dolce e luminoso sorriso; e per riposare reclinò il capo e chiuse gli occhi, non più alla morte, ma al sonno.

Polla aveva fame: aveva sotto gli occhi, sotto il naso, presente alla gola l'«estratto» ch'effondeva quel profumo saporito, ineffabile; eppure non lo toccò, sdegnò ristorarsi anche lui, per tornare all'involucro volatile. Nè riusciva a persuadersi che non sognava; la zavorra era tutta quanta di gemme preziose! E se poteva ingannarsi intorno alla qualità e al prezzo d'alcune delle pietre, su altre non s'ingannava certo. Convinto, alla fine, le depose tutte in terra, in un mucchio, e stette a contemplarle. C'era proprio da impazzire; tanto più che la fatica della contemplazione accresceva la debolezza del digiuno.... E non si risolveva ancora ad approfittar dell'«estratto»! Solo quando si sentì venir meno, allora prese un pizzico di polvere dal vasetto, e parendogli néttare o ambrosia ne prese un secondo, eppoi un terzo, eppoi un quarto, eppoi un quinto; finchè n'ebbe nausea; che quella roba era troppo sostanziosa e focosa. Ma sublime! ma incomparabilmente migliore d'ogni nostro più squisito cibo! Inoltre, a ingoiarla, seguiva un fervore nel sangue, come per un eccitante liquore, e una gran fretta e lucidità di idee e una gran letizia nell'animo.

— «Il tuo è mio!» — cantava Polla tornando alle gemme per raccoglierle e metterne nella sua tasca più d'una. Ma, e se il forestiero non le teneva in conto di ciottoli ed era un borghese? Ebbene, in tal caso, éccogli restituita la sua zavorra! Lui, Polla, non prendeva che uno smeraldo per far moneta, per esercitare secondo conveniva gli uffici dell'ospitalità e provvedere da pranzo non a sè, che non aveva più fame e solo aveva sete di un po' di barolo ma all'ospite, che tra poco si sveglierebbe e avrebbe fame e sete. In ogni caso, lo strano uomo dalla strana visita contraeva obbligo di gratitudine, di amicizia, di compenso al disturbo.... Lui, Polla, si prendeva dunque uno smeraldo. Una cosa da niente in confronto al resto! Un ciottolino da non ringraziarne nemmeno la Provvidenza, quand'anche un socialista marxista e inscritto al partito avesse potuto ammettere la Provvidenza.

Dopo di che Polla sarebbe uscito di casa, allegro come mai in vita sua, se al limitare non l'avessero trattenuto queste domande: Lo smeraldo non era troppo grosso e non susciterebbe ingiusti sospetti nel gioielliere? Qualcuno non aveva forse visto entrar là l'uomo volante? Aveva questi un foglio di via? Non ne sapevan nulla le guardie di pubblica sicurezza?

Per tutta risposta, tornò indietro, sollevò giubba e ali; osservò meglio il piccolo e semplice congegno di molle riposte tra seta e fodera e provò di adattarsi quell'abito. Ma dopo inutili tentativi s'avvide che il congegno era guasto; forse irreparabilmente guasto! Gli bisognava restare a terra, restar a Roma. Rassegnandosi, Polla sostituì al grosso smeraldo un men grosso rubino, e dimenticandosi, non di mettere questo in tasca, ma quello nel mucchio, con uno sguardo pieno di gratitudine stette a considerare il forestiero che dormiva dolcemente, senza russare; ad ammirare quell'uomo la cui bellezza assumeva a' suoi occhi un'imagine bella come nessun'altra mai.

Caro amico! Si rassomigliavano senza dubbio, lor due, quantunque Polla avesse il naso un po' troppo aquilino, e l'altro l'avesse perfettamente fidiaco; Polla avesse barba scarsa, dura e rossiccia, e l'altro una barba aurea, fine e copiosa; Polla fosse calvo e l'altro capelluto; Polla vestisse nè con garbo nè con grazia, e l'altro indossasse sandali, calzoni e maglia di un'ignota materia che aderiva alle membra e le proteggeva senza impacciarle. Ma a Polla sembrava di vedere se stesso elevato a una razza superiore, o sè stesso trasferito in un secolo di perfezionamento futuro; e lieto anche di questo, uscì e discese. Si era già accertato che aveva ben chiuso l'uscio a chiave.

II.

Anche l'ambrosia può far male. Polla, di ritorno a casa con una sporta gravida di vettovaglie e con una bottiglia di barolo vecchio, fu costretto a sedersi sul primo gradino della scala per riacquistar lena e rimettersi in equilibrio. Alla testa gli si era diffuso lo spirito di quello squisito estratto, mentre lo stomaco, contraendosi, stentava e soffriva a digerirne la parte soverchia, e l'intestino già cominciava a dolersi di ricevere sostanza sconosciuta e così calorosa. Però, consapevole dell'ebbrezza, Polla non dubitava di non ragionare; anzi credeva di ragionare benissimo, e ora guardando alla bottiglia, ora premendo col braccio il petto e il portafogli, vedeva naturale quella sua avventura quasi inverosimile; gli pareva la cosa più semplice del mondo che un uomo volante fosse stato portato da una corrente aerea fino a Roma e spinto proprio dentro la sua finestra; giudicava agevole ottenere in dono dall'ospite metà almeno delle pietre; pensava che dopo ciò non gli sarebbe più necessario fare il socialista e che se non gli riuscisse d'arrivare, per una via o per l'altra, al paese di quel signore, potrebbe vivere allegramente, conservatore o borghese, anche in Europa. E i compagni? e la promessa fede? e l'aiuto al partito? e la teoria di Marx? e l'evoluzione pacifica? e tutti i problemi economici e sociali? Sciocchezze! Adesso un problema solo aveva da risolvere: in che modo salirebbe fin lassù alla sua stanza, al quarto piano, ahi, con la testa in giro e le viscere commosse.

Nondimeno, e dopo molte pause, vi giunsero sane e salve la sporta e la bottiglia; e lui, senz'altro male che dolori forti come morsi. Ma allorchè intoppava la chiave Polla udì ridere dentro la camera. Aperto che ebbe, lo straniero gli venne incontro con viso di giocondità cordiale e con graziosi inchini.

— Ridete? — gemette Polla abbandonandosi su d'una seggiola. — Io invece sono rovinato! Accidenti...! Mai più estratti! mai più peptoni! — Quindi premendosi con le mani: — Oh che male allo stomaco! — aggiungeva. — Oh che male alla pancia!

— Stomaco?... Pancia?... — ripetè l'altro, che non essendo tanto afflitto dalle doglie dell'amico quanto studioso d'apprenderne e ritenerne il linguaggio, indovinava dagli atti il significato di quelle parole.

— Se provassi — continuava Polla — se provassi a mandar giù un po' d'acqua, o un sorso di barolo?...

— Barolo? — ripetè lo straniero. E sorridendo alla forma della bottiglia la sollevava e la sturava lui stesso.

Come ebbe bevuto, a sentirsi meglio, il socialista disse:

— Bevetene anche voi! Bevete: è mio e vostro. Sorseggiando un mezzo bicchiere lo straniero ebbe una grande voluttà; sicchè, con un sospiro, portò una mano al cuore per troppa dolcezza, quale un uomo che non avesse mai gustato vino.

— Mangiate qualche cosa.... — Polla esortava, meglio che a parole, a cenni. — Tanto, io..., per ora almeno..., ahi!... non posso farvi compagnia.

Da qual paese veniva quel signore così intelligente che subito coglieva il significato dei cenni e delle parole e con meravigliosa facilità fonetica ripeteva le parole udite? Era un uomo così straniero che al veder le fragole e le ciliege fuori della sporta, rimase come resterebbe uno di noi a scorgere fragole e ciliege grosse più che cocomeri!

Non si descrivono neppure le espressioni delle labbra, degli occhi e dell'armonico eloquio con cui accertava che mai, mai avrebbe pensato di trovar sì buone quelle fragole così piccole. Anche, non gli spiacque il roastbeef; benchè da prima quasi gli repugnasse e benchè non ne mangiasse più di mezza fetta. Ma le ciliege a dirittura lo deliziarono, lo fecero ingordo al punto da ingoiarne il nocciolo.

Polla, che ora stava peggio, gli raccomandava di mangiare senza complimenti, di mangiar tutto e mormorava:

— Si direbbe che costui non è avvezzo che agli estratti e ai peptoni chimici.

Infatti ogni incitamento divenne inutile, perchè l'altro diede a conoscere che non solo era sazio, ma che aveva mangiato troppo. Sempre cortese, dopo, dimandò:

— Stomaco?... Pancia?...

— Ahi! — rispose Polla, a cui l'ebbrezza soltanto era cessata, non il male.

Per passare il tempo e arricchire la sua cultura l'uomo volante cominciò allora a toccare questa o quella cosa, rallegrato o stupito dalla forma di esse e dai nomi che ai suoi atti di richiesta gli diceva Polla.

— Catino.... Già.... per lavarsi; e quella, sì, la brocchetta dell'acqua.... Sedia! si chiama sedia!... Il letto, appunto, da dormire! Questo?... Comò!; da tenervi i vestiti..., chi ne avesse!

A che l'altro, con prontezza di lingua e di memoria, riepilogando:

— Catino per lavarsi; brocchetta dell'acqua; sedia; letto da dormire; comò da tenervi i vestiti chi ne avesse.

Era proprio un brav'uomo, oltre che bello; e da qualunque parte fosse giunto, per l'ingegno che aveva non poteva essere che un socialista. Pertanto, in un momento di tregua, l'ospite declinò il suo nome.

— Io ho nome Polla, e voi?

— Nome.... Polla? — Non aveva compreso.

— Mi chiamo così! — Poscia, a spiegarsi meglio, finse che uno lo chiamasse «Polla!», e finse di rispondere: «Eh?»

— Io ho nome Edon! — esclamò l'altro avendo compreso bene.

— Fortunatissimo, caro Edon, di offrirvi la mia ospitalità e i miei servigi! — Polla disse, mentre gli prendeva e gli stringeva la mano; senza prevedere che dopo questo atto l'altro correrebbe al catino a lavarsi. Certamente in quel paese non usavano salutarsi in tal modo contrario all'igiene.

.... Ripreso l'esercizio di nomenclatura e di lingua vi s'intrattenevano da quasi un'ora, quando Edon, non avendo peranche finito di ridere a veder Polla che accendeva una candela, s'abbandonò sul letto e in puro italiano lamentò:

— Oh che male allo stomaco! Oh che male alla pancia!

Era vero. Come aveva imaginato Polla, egli non era uso che ai cibi chimicamente ridotti, e aveva fatta un'indigestione grave di quel poco cibo nostrano.

Entrambi giacquero perciò fraternamente addolorati, eppur lieti di cominciare a intendersi e di poter chiacchierare? con le interruzioni di gastrici ohi ed ahi! Nè è meraviglia se già prima d'addormentarsi Polla ebbe appreso come Edon veniva da un luogo ove tutti gli abitanti volavano, e come era stato rapito dal vento. E poichè i giornali avevano preannunciato un ciclone in viaggio dall'Atlantico, giustamente il socialista pensò che l'amico proveniva da una qualche terra d'America; la quale, abbondando di ciottoli ch'erano smeraldi, rubini, diamanti e pezzi d'oro, doveva essere l'Eldorado.

III.

.... — E perchè fuggire da un paese come l'Eldorado?

— Ero infelice — mestamente rispose Edon, e rilevò gli occhi dal vocabolario italiano-volapuk che Polla, la mattina, gli aveva portato a casa e da cui egli in due ore aveva imparato quanto linguaggio basterebbe a certi eruditi professori per uso domestico se non universitario.

Alla risposta dell'amico, Polla s'intenerì. Non potendo credere che in un paese dove per le vie e per i campi tutti potevano raccogliere di quei tali ciottoli, ci fossero divisioni di classi, nè che dove gli uomini volavano ci fossero tiranni e mancasse la libertà, pensò che qualche terribile sventura, fuori dell'ordine economico e politico, avesse colpito l'uomo a lui caro, ormai, più che un fratello; e si propose di tenerlo allegro, distrarlo in ogni modo e, sopratutto, nascondergli i guai della nostra vita civile. «Edon ha cuore — diceva fra sè —; ha l'intelligenza di un uomo perfetto; dunque per non affliggerlo con suicidi, delitti, miserie e con le carneficine internazionali e i resoconti dei Parlamenti, abolisco i giornali quotidiani!» Gli premeva insomma che, essendo irreparabile l'ordigno per volare, l'amico non scappasse per ferrovia appena fosse deluso e stanco del vecchio mondo e dopo che si fosse accorto del pregio che vi hanno i diamanti, gli smeraldi, i rubini e anche i pezzi d'oro.

Certo, sarebbe stato meglio per ambedue che Edon non apprendesse mai il potere delle gemme e dei quattrini in cui Polla le convertiva; e da bravo amico Polla ci si provò, recandosi lui solo dai gioiellieri con una o due pietre alla volta e piccine, e pagando di nascosto i conti all'albergo nel quale s'erano trasferiti. Ma presto l'altro volle andare in tram, dove curiosamente vide scambiare i soldi coi biglietti.

— Non usano questi da voi? — chiese l'amico con faccia tosta, mostrandogli le monete.

Edon sorrise; negò col capo; cercò di esporre l'ordinamento economico della sua patria. Ivi i quattrini non usavano più da secoli, perchè vi abbondavano i frutti della terra da cui la scienza chimica traeva e riduceva gli alimenti; vi abbondavano inoltre i prodotti del suolo necessari alle arti e alle industrie, sì che ciascuno viveva secondo il proprio bisogno e secondo il proprio desiderio.

Polla era rimasto intontito, quasi a ricevere un colpo di mazza sulla testa.

— Come? — gridò poi. — Non solo ci avete la realtà dell'ideale socialista, ma anche dell'ideale anarchico!

— Ideale socialista?... — ripeteva Edon traendo il vocabolario, — Ideale anarchico? —; e intanto Polla ricorreva alla difficoltà più grande che aveva incontrata ne' suoi studi e nella sua fede.

— Dite, dite — domandò: — in che modo vi regolate, voialtri, per la misura del lavoro?

Edon non comprendeva e stava per chiedere più ampia spiegazione, quand'ecco uscì lui pure in un oh! di meraviglia, perchè scorse scintillare la mano di una cocotte che avevano di fronte.

Il socialista era divenuto di bragia in volto, non per pudore. Susurrò in fretta all'orecchio dell'amico:

— È un brillante falso!... È una cocotte.

Ma già lo sguardo di Edon aveva sorpreso in altre mani senza guanti, oro e smeraldi, e fu bell'e fatta; che se gli anelli si portavano per ornamento, avevano un pregio, e se avevano pregio gli anelli, ne avevano anche le pietre; e se per andare in tram erano necessari i soldi, più soldi dovevano essere necessari per adornarsi mani e orecchie.... In conclusione, Polla dovette chiedere l'ordinamento finanziario ed economico del nostro sciagurato paese, e, quasi fosse una bella cosa, permettere all'ingenuo fratello di tornare a casa perchè voleva pietre da cambiare subito in valute!

Ah quanto Polla fu pentito di non aver messo da parte per sè alcuno dei brillanti più grossi! Che colpa essere troppo onesti!

Per fortuna Edon era buono, ingenuo al pari di un bambino, nè avvertì altri guai dopo quello della moneta. Anzi per le strade e per le piazze manifestava una giocondità, una meraviglia, una beatitudine a cui era difficile trovare confronto. Si meravigliava e godeva come noi quando fossimo trasportati d'improvviso in una illustre città al periodo splendido del Rinascimento e vivendo di quella vita, per noi oggi storica e fantastica insieme, conservassimo l'illusione per cui il passato ci sembra più bello del tempo presente, e di quella età conoscessimo i beni senza conoscerne male alcuno. Ora attonito, ora ilare, ora meditabondo a cercare la ragione di una cosa e, trovatala, giulivo ed entusiasta, Edon non si stancava di correr qua e là sebbene non fosse avvezzo a girar molto e quantunque tanto frastuono di ruote e di carri lo stordisse. In estasi a dirittura lo traeva la vista delle signore, così eleganti negli abili diversi; così agili e provocanti nelle forme; così facili al sorriso nel salutare; così flessuose nell'incedere, così graziose nell'arrestarsi, nel sogguardare, nel porgersi allo sguardo altrui. Commentando l'ammirazione sua propria, che le costringeva a dolci soliloqui, egli con interrotte parole riferiva all'amico che nel suo paese ragioni di pubblica salute avevano privata di grazia la donna abolendo busti e cinture, e che l'igiene v'imponeva una sola e pallida tinta nelle stoffe, e, che, per di più, il perfezionamento della specie aveva condotto il genere femminile a quasi un sol tipo; onde qua da noi gli piacevano fin le brutte. Ma quasi non minore diletto gli dava la vista dei cavalli, il nobile e mite animale espulso d'Eldorado dal progresso meccanico.

— Non ci avete nemmeno asini? — domandò Polla.

— Asini? — Edon consultò il vocabolario.

Più resistenti, di asini ne restava qualcuno anche là. E i tram?

I tram elettrici non gli erano riusciti del tutto nuovi, ricordandosi d'averne visti, sebbene costruiti meglio, nella sua fanciullezza.

Del resto, troppo ci sarebbe a dire intorno le impressioni ch'egli riceveva dalla vita multiforme e molteplice della grande città; dai monumenti storici per noi e quasi preistorici per lui; dalle case e dai palazzi moderni per noi e per lui antichi: basti affermare che un ragazzo venuto di campagna o un barbaro si sarebbe divertito meno.

Ma nessuna sorpresa di Edon doveva superare quella che per Edon medesimo ebbe Polla. Il quale, non potendo accontentare l'amico desideroso di vestire a mo' d'un ufficiale dei corazzieri o di un ufficiale di cavalleria, il giorno dopo fu costretto a istruirlo intorno agli eserciti permanenti e a rivelargliene i danni con non poche maledizioni tribunizie a tutte le nazioni europee.

Ebbene, Edon il quale già parlava spiccio (oh che disposizione alle lingue!) ribattè che quella degli eserciti gli sembrava un'istituzione saggia. Aggiunse press'a poco:

— La guerra è nella natura delle cose, degli animali e degli uomini; ma noi d'Eldorado, che abbiamo aboliti gli eserciti, abbiamo violata la natura. Miseri noi!

Polla, che non voleva disgustarlo, si strinse nelle spalle e si limitò a ripetere che gli eserciti costavano troppo.

Invano: l'uomo d'Eldorado era già persuaso che nel costo delle cose, cioè nel comprare e nel vendere, e nell'uso del denaro fosse la più attiva forma di civiltà e di progresso; giudicava che il lavoro a salario fosse proficuo alla «produzione» e alla vita d'un popolo; e ragionava press'a poco così:

— Chi spende di più, è più forte! Chi è più forte, è più potente! Chi è più potente, è più temuto! Chi è più temuto è più glorioso! Chi è più glorioso, è più contento! Beati gli europei! beati voi, o italiani!

Allora Polla, invece d'urlare come nei comizi, tacque; finchè disse:

— Levatemi una curiosità. In che modo vi regolate da voi per lo scambio dei prodotti? Mi spiego: voi che professione esercitavate laggiù..., o lassù?

— Il giardiniere.

— Bella professione! Ma che regola avevate nel dare i fiori in cambio o dei cibi o dei vestiti o degli ordigni per volare? Che regola vi hanno tra loro i commercianti, i professori, gli operai?

Sorridendo alla domanda strana e inutile, rispose Edon:

— L'educazione.

— L'educazione? — urlò Polla.

Già: per educazione lavoravano tutti; per educazione non richiedevano più del ragionevole negli scambi. Ad esempio lui, Edon, che faceva il floricultore, non avrebbe mai voluto da un meccanico più d'un paio d'ali, o più d'una poesia da un poeta, per un mazzo delle sue rarissime rose azzurre.

«Oh povero me! — pensava Polla — in Eldorado sono a tal punto?» In che modo avrebbe dunque potuto illudere e ingannare a lungo nelle belle apparenze della nostra società un uomo disgraziato senza dubbio in famiglia, ma allevato in una società così perfetta?

— A parte le disgrazie domestiche — mormorò il socialista, prima uso a sbraitare, — quali cittadini, voi d'Eldorado, sarete felici.

Non l'avesse mai detto!

— Felici? — gridò Edon a voce alta, rosso in viso quale non era stato mai. — Felici in un paese dove il valore delle cose è determinato dall'educazione? dove la ricchezza non è premio alla fatica? dove non si lavora per guadagnarsi il pane col sudore della fronte? — Si arrestò mormorando a sua volta qualche parola del suo armonioso linguaggio: forse bestemmie, forse insolenze; poi, data un'occhiata al vocabolario per rimettersi, riprese: — In Eldorado è sconosciuto il piacere d'adempiere i propri doveri, la voluttà del sacrificio! L'istinto battagliero dell'uomo vi si è perduto! Mentre voi avete fino i re, i presidenti di repubblica, i pontefici, noi non abbiamo nemmeno i policemen! Oh sì.... la felicità degli uomini è nella disuguaglianza economica, civile, morale!

«È pazzo!» pensò Polla, mentre si mordeva le labbra; e taceva. Egli, che amava le polemiche, era costretto a non discutere, per paura di disgustar l'amico; era costretto a non svelare i mali segreti della nostra misera civiltà. «È matto da legare!»

La sorpresa e la paura del bravo socialista scemavano solo al pensiero che un ignoto dramma domestico avesse turbate le facoltà mentali dell'amico.

Ma l'altro intanto pareva attendere una conferma alla sua sentenza. E allora Polla, non ostante il suo prudente proposito, non potè non sorridere e non dire:

— Io però credo che in Eldorado non si stia male come voi dite. Vorrei andarci!

L'amico lo guardò negli occhi. A vedere che non scherzava, rimase triste e silenzioso. Non parlò più sino a che non rientrarono all'albergo; dove, abbandonando il vocabolario, parlò per chiedere:

— Come chiamate voi uno a cui?... — e fece con la mano un gesto che significava il cervello andato a rovescio.

Polla comprese.

IV.

«Benissimo! — pensava il buon Polla. — Il pazzo sono io che non voglio affliggerlo; che ho vergogna delle nostre colpe sociali; che non lo condurrò mai per gli ospedali e per le carceri!»

Pietoso dell'amico e di sè stesso, a ricordarsi che l'amico doveva avere avuta una terribile sventura e che ora sapeva quante pietre componevano il gruzzolo, non lo conduceva nemmeno ai teatri ove si rappresentavano o i drammi di Ibsen o melodrammi così patetici da far ammattire i savi.

— Al teatro quando ci andiamo? — Edon chiedeva.

E Polla:

— Io non sono robusto come voi. Giriamo troppo il giorno, e mi vien sonno presto.

Era assonnato e stanco all'avemaria. Pure egli promise che se dessero l' Albergo del libero scambio, ve lo accompagnerebbe.

Or mentre il terzo giorno di quella vita fraterna vagavano per le strade udirono avanzare una sinfonia lemme lemme e videro crescere, in distanza, la folla. Polla subito cercò trar via seco l'eldoradese. Ma questi, al contrario, desiderava sapere che cosa ci fosse da vedere.

— No....; andiamo! Non è uno spettacolo per voi.

— Che è? che è?

Rispose un signore molto gentile:

— Un trasporto....

— Un trasporto? — fece Edon, resistendo all'amico che lo tirava per la giacca.

— Sì. Portano un brav'uomo all'ultima dimora. Andiamo!

Ma fu peggio di prima.

— All'ultima dimora?...

Arrabbiandosi, Polla esclamò:

— Al cimitero: non capite?

E il signore:

— È un patriotta che una polmonite ha ucciso in tre giorni.

E Polla, con ira già sarcastica:

— Non usano le polmoniti da voi?

Veramente Edon non aveva notizia di tali malanni. Anzi, alla richiesta se in Eldorado si godesse buona salute, rispose:

— Ottima. Abbiamo, oltre l'igiene, un'acqua pura come l'aria. Poi ai piedi del nostro monte il clima è caldo; a mezza costa, è primavera continua, e freddo in alto; cosicchè a guarire le nostre piccole e rare indisposizioni e a trovar la stagione conveniente per ogni organismo, ci basta mutare residenza e volare di qua o di là.

— Se crederete che da noi le malattie sono molte e gravi — amaramente osservò allora Polla —, se crederete che da noi si muore anche a venti anni, ammetterete che per questo almeno si sta meglio in Eldorado che in Europa.

Ma Edon non si diè vinto.

Disse:

— Mi ricordo che il mio bisnonno viaggiando all'estero una volta s'ammalò, e soleva dire che il maggior piacere della vita si prova nella convalescenza. Ecco un piacere che noi non gustiamo mai. E poi non pensate all'afflizione della scienza che in Eldorado troppo di rado può vantarsi di salvare un uomo?

Il funebre convoglio frattanto si avvicinava: quattro cavalli bardati in nero e coi pennacchi; il cocchiere nero e rigido; fiori su la carrozza e ai lati; e quei signori che reggevano i cordoni con il viso impresso dell'onore meritato; e la turba dietro, fra cui ogni persona pareva compiacersi d'essere vista. Poichè la musica sonava così adagio e tutti camminavano così piano. Edon aveva ragione di credere che tutti amassero di essere visti e di vedere; in particolar modo le signore e le ragazze, delle quali più d'una rispondeva con un sorriso a più d'un sorriso.

Edon, pertanto, allegro e festoso entrò nel corteo, dicendo a Polla che pur troppo al suo paese la morte non meritava alcuna pompa: vi appariva un fenomeno molto semplice: una materiale trasformazione. Da tempo immemorabile gli scienziati vi avevano scoperto il modo di decomporre elettricamente i corpi morti e di restituire le cellule alla natura affinchè le usasse in nuovi uffici. Per la qual fede scientifica non era rimasta in loro alcuna traccia di una esistenza spirituale al di là di quella decomposizione; nè temevano la morte come trapasso a castighi, nè la desideravano come viaggio a miglior vita. Per essi non c'era «ultima dimora». Per essi inutili e ridicole sarebbero state la musica e le lagrime. Imaginarsi poi i discorsi!

E quando la carrozza finalmente fece sosta e un oratore prese a parlare con tutte le forze, Edon si mise in ascolto: approvava anche lui, contentissimo, le più nobili frasi; quali: «il desiderio che l'integro, intemerato cittadino lascia di sè»; il «cavaliere senza macchia e senza paura»; il «benefattore e l'amico dei poveri»; il «patriotta ardente».... «Addio, amico! Che la terra ti sia leggera!»

Finito ch'ebbe il primo, fra un mormorio di assenso unanime, un secondo oratore prendeva la parola. Ma adesso Edon tirò la manica di Polla accennando l'oratore già vuoto che consegnava un foglietto a un giovane salutante a destra e a sinistra.

— Chi è? Perchè? — Edon chiedeva.

Polla rispose:

— È un giornalista; gli ha dato il sunto del discorso.

— Dunque — esclamò Edon — la gloria dei morti giova da voi anche alla gloria dei vivi? — E sospirava; pareva dire: «Proverò io mai il conforto di rammentare al pubblico la virtù d'un amico estinto? Morirete prima voi, Polla?»

Tutti adesso chiacchieravano, perchè il secondo elogio era noioso; mentre Polla, sempre più a disagio, cercava togliere all'amico illusioni inutili: che a lodare un morto non era necessario averlo ben conosciuto in vita; che, in sostanza, le virtù domestiche e civili essendo sempre quelle, le lodi ai morti eran sempre quelle; che non essendo opportuno nell'ora del compianto rammentare vizi e difetti, ma essendo invece di consuetudine i discorsi funebri, si attribuivano molte virtù anche a chi non ne aveva mai avute.

Ah! Edon era quasi fuori di sè per ammirazione.

— Beati voi! Voi potete vivere da birbanti e morire tranquilli; chè i giornali diran bene di voi: voi potete viver bene con la speranza in un futuro premio, o viver male con la speranza del perdono....

Ma d'improvviso l'eldoradese s'interruppe.

— L' Albergo del libero scambio! — fece, accennando a un uomo che tra la folla del trasporto recava al disopra di un'asta quell'annuncio réclame.

— Questa sera a teatro! — aggiungeva Edon fregandosi le mani.

Il socialista cominciava a smarrirsi. Invero, un uomo che si era divertito tanto a una funzione funebre, logicamente poteva rattristarsi a una pochade; e, d'altra parte, se Edon non era rimasto commosso a uno spettacolo di morte, non doveva esser stata la morte di qualche persona cara che l'aveva indotto a fuggire d'Eldorado. Forse il tradimento d'una donna amata?... Ma v'ha pochade senza inganni di donne? E che accadrebbe a tale spettacolo?... Invece che ridere, Edon, forse, s'appassionerebbe....

E Polla balbettò:

— Penso ora che all' Albergo del libero scambio vi scandalizzerete. È una commedia immorale.

A che Edon:

— Bene! Ne sono così stanco, io, dell'arte morale!

Quella sera dunque bisognò andare a teatro.

Povero socialista! Non solo il compagno fu rapito sin dalle prime scene all'azione comica; non solo dopo il primo atto battè le palme sin quasi a scorticarle (nel suo paese non usava) e mostrò d'agitarsi nel vortice del secondo atto, come s'egli medesimo si trovasse a quei casi allegri e a quegli equivoci ameni: al calar della tela, dopo il secondo atto, proclamò:

— Questa è arte!

— A me sembra roba inverosimile — osservava Polla.

— Appunto questo è il bello! Disgraziatamente in Eldorado si ostinano a credere che il bello consista nella rappresentazione del vero! Io credo invece che la vita rappresentata in teatro possa essere piacevole per i ragazzi, che non la conoscono; non per gli uomini e per le donne che non hanno più nulla da imparare.

Polla ascoltava a bocca aperta.

— Aggiungete, amico — l'altro proseguiva —, che la perfezione è noiosa per sè stessa e che la vita in Eldorado è pur troppo quasi perfetta. Imaginate dunque come si sbadiglia nei nostri teatri!

Per fortuna la piccola orchestra, nell'intervallo, cominciò a stonare in tal modo il valzer della Madame Angot che Polla fu costretto a turarsi gli orecchi. Ed ecco che quando scostò le dita, udì Edon mormorare in estasi:

— Questa è musica! — L'amico cantarellava, accompagnando le stonature e stonando allegramente per conto suo.

Non solo! Non solo! Voleva anche giustificarsi!

— La nostra musica suscita desideri incerti, desideri e sensazioni dell'infinito; fa piangere...; fa male. La vostra al contrario, che delizia!

Per non arrabbiarsi, il socialista chiese:

— E in letteratura voi come state?

Risposta:

— La nostra poesia è di una nobile semplicità, non nego; ma così semplice che tutti la capiscono. Si scarseggia pure in aggettivi, pretendendosi dipingere con l'armonia e con la precisione dei vocaboli. Ora io domando a voi se la poesia, che di sua natura è sublime, dev'essere semplice e compresa da tutti e se si può dipingere, fuori della fotografia, senza colore!

— E la pittura? e la scultura?

Questa volta Edon sospirò:

— Non v'ha artista da noi che goda a imitare con l'opera del suo pennello e del suo cervello la divina natura.

— Oh! perchè?

— Noi abbiamo la fotografia a colori e chiunque abbia un po' di genio artistico può introdurre l'arte nella natura stessa e fare che questa si ritragga da sè. Bel gusto! Della scultura, infine, è inutile parlare. Non ne facciamo uso come fate voi. Nelle nostre scuole s'insegna che non i monumenti ma le opere debbono consacrare l'immortalità, e i grandi morti s'imparano a conoscere nelle scuole, non per le vie e per le piazze.

Interruppe, gridò Polla:

— Voi dunque non avete monumenti?

— No. Nelle nostre piazze e nelle nostre strade non ci sono che case e alberi: perciò non sono amene come le vostre.

A questo punto l'altro si mise a ridere con apparenza insolente.

— Perchè ridete?

— Pensavo al dottor Panglos.

— A chi?

— Al dottor Panglos: un filosofo che trovava tutto bello, tutto a meraviglia....

— Io sono un giardiniere e non un filosofo — disse Edon — e non oso dir tanto. Dico solo che qui da voi si sta meglio che in Eldorado; perchè in Eldorado tanti beni sono cagione di grandissimi mali e qui, al contrario, molti mali sono cagione di grandissimi beni.

— Ma in nome di Dio! — esclamò l'amico non sapendo più quello che si dicesse. — Non siete fuggito di là anche per una sventura domestica?... Quale fu?

I vicini zittirono. La tela si alzava al terzo atto.

E, dolente, Edon mormorò:

— Ve la dirò dopo.... Ora lasciatemi godere.

V.

Sospirando come chi è tratto a ricordare la sua maggiore sventura, Edon cominciò:

— La compagna che io m'ero scelta nella vita, la donna che io amava, la donna che mi amava, era un angelo. Dal giorno del nostro connubio, quasi un anno vivemmo felici; d'una incredibile, divina felicità; quindi, a poco a poco, vivemmo meno bene, finchè la nostra esistenza divenne insopportabile.

Disse Polla, già dolente della sua richiesta inopportuna e dolorosa:

— Non andavate d'accordo...?

Edon gli volse lo sguardo di uno che tema d'essere canzonato.

— Andavamo troppo d'accordo!

E poichè l'amico, a sua volta, lo fissava con sospetto, aggiunse:

— Sì! Eravamo eravamo d'indole e carattere identici; ci amavamo tanto che l'amore aveva soffocato in noi ogni egoismo; aveva distrutta in noi ogni forza d'indipendenza: io viveva per lei, e lei per me; io non potevo vivere senza di lei nemmeno un secondo, e lei non poteva vivere senza di me: così giunse presto il giorno che non potemmo più vivere nessuno dei due.

Era troppo! Pareva a Polla di destarsi come a una rivelazione improvvisa; e rosso, prima, di rabbia; poi giallo di bile, con lo sguardo velato e la voce tremante gridò:

— Finalmente vi ho compreso! Voi scherzate.... Ma con me tutt'al più si discute: non si scherza!

— No, amico: non scherzo.

— Voi mi avete preso in gioco, sempre. Siete entrato perciò dalla mia finestra!

— No, in verità.

— Voi mentite! Siete un «emissario» della borghesia!

Allora, con severità tranquilla, disse Edon:

— Noi in Eldorado non conosciamo l'arte della menzogna. Non dovendo mentire per necessità, cioè per politica, per industria, per commercio, per patriottismo, per la storia, per la gloria, per l'arte e per l'amore (l'amore pur troppo è libero da noi), noi non diciamo bugie neanche per divertimento. Appunto per questo, perchè non seppi ingannare e fingere, la mia vita coniugale doveva essere tanto infelice!

«Pensate che quello che io volevo, la mia compagna voleva; quello che lei voleva, io volevo; e a poco a poco io non volli più nulla, aspettando che volesse lei; e ugualmente faceva lei con me. Imaginatevi un amore senza volontà; una funzione senza affanni, senza virtù, senza conforto. D'altra parte, noi ci leggevamo nell'anima in modo che ogni tentativo di ridestare la fiamma amorosa era inutile; e se io accusavo qualche malanno imaginario per farla soffrire, essa non mi credeva; e s'essa accennava a qualche suo particolare godimento, a qualche suo proprio capriccio per ingelosirmi, io vedeva in lei un inutile sforzo.

Che noia! Che tedio! Che accidia! Ma voi direte che io avrei potuto dividermi dalla mia compagna; cercarmene un'altra. Ahimè! Da noi le donne, perchè l'amore è libero, sono fedeli; e la mia, per quanto si annoiasse, non credeva di poter trovare un amico mio da preferirmi. Io poi vedendo che le nostre donne si rassomigliano tutte, come già vi dissi, non sperai di trovarne una che mi risparmiasse la noia e la sazietà, e con un supremo sforzo fuggii su le mie ali abbandonandomi ai venti di oltre mare.»

Sopraffatto dagli argomenti di un avversario, più d'una volta Polla aveva dato di piglio a una seggiola e aveva dimostrata con quella la filantropia della sua fede; ma ora stava cheto, a testa bassa. L'altro lo credette in meditazione su gl'inconvenienti dell'amore libero, e proseguì:

— In Europa, per quello che m'imagino, la vita matrimoniale dev'essere deliziosa. Essendo un vincolo il matrimonio, ai coniugi verrà spesso la voglia d'infrangerlo; cosicchè l'uno cercherà ogni via per sedurre e avvincere sempre più l'altro. Il sospetto del tradimento diventerà esca all'amore; mentre non sarà difficile distrarsi, ingannarsi a vicenda, senza che l'uno sappia o mostri sapere dell'altro. Voi, Polla, non prendete moglie?

— Io.... — mormorò Polla, sconfortato, desolato, quasi in tono di chi invoca pietà: — Io.... sono socialista. Predico il libero amore!

Allora Edon, pentito della sua richiesta inopportuna e dolorosa:

— Perdonatemi se vi ho afflitto; perdonatemi, amico, se dopo la vostra confessione, sono obbligato a confessarvi che d'ora innanzi mi vedrete fare l'onesto borghese. In Eldorado non mi ci vedono più! Ma voi non mi abbandonerete, è vero, Polla? Sebbene abbiamo opinioni contrarie, noi staremo allegri; discuteremo; ci godremo i frutti delle mie pietre; e quando io avrò preso moglie (con vincolo, s'intende, civile e religioso), noi vivremo felici tutti e tre.

Povero Polla! «I frutti delle mie pietre» aveva detto Edon: non delle nostre!

VI.

In questo mondaccio europeo sono rare le amicizie che non sussistano o per concordia di opinioni, o più tosto per concordia di affari e di vantaggi. Supponendo che Edon e Polla, oramai troppo discordi in idee, smarrissero le pietre preziose, chi non giudicherebbe naturale la fine della loro consuetudine fraterna? Ma smarrire le pietre non potevano, perchè le custodivano dentro una piccola cassaforte che aprivano ogni sera, traendone a seconda del bisogno più o meno grossi zaffiri, o rubini, o smeraldi, o diamanti, o ciottolini d'oro da convertire in moneta.

Quando, un giorno, dopo aver comperato cavalli e carrozze. Polla di malavoglia brontolò:

— Bisognerà metter mano a qualche bel diamante — e con il consenso dell'amico avanzò verso il ripostiglio della cassaforte. Avanzò; retrocedette; si rivolse pallido come un moribondo; die' un grido....

La cassa non c'era più!

Nè l'altro aveva ancora mosso palpebra, che già Polla scendeva a precipizio le scale dell'albergo urlando:

— Al ladro! al ladro!

Ma anche il ladro non c'era più. Accorrevano il proprietario dell'albergo, e camerieri, cittadini e forestieri; interrogavano tutti in una volta Edon, il quale si stringeva, sorridendo, nelle spalle; interrogavano Polla che rispondeva con rotte parole:

— La nostra cassaforte!... Questa notte c'era.... Pigliatelo! Pigliatelo! Poveretto me!

Fin le guardie vennero.

Queste, non essendo presente il ladro, esortarono Polla d'accompagnarle in questura; a che egli accondiscese volentieri per timore che non arrestassero lui. E quando tornò, apparve disperato più di prima.

— Ci s'immischia la Pubblica sicurezza — lamentava. — Addio pietre! addio ladri!

A tanta disperazione, rispose Edon:

— Poco male, amico! Anzi un bene; ora per vivere dovremo lavorare! dovremo combattere! Coraggio!... Ora noi vivremo davvero!

In tal guisa fu dato l'ultimo strappo alla pazienza di Polla. Certo che la cassaforte non sarebbe stata ricuperata mai più, egli parlò con sfogo veemente, con sollievo come da un peso; parlò da fiero nemico e vendicatore solenne; da oratore popolare: parlò inoltre con eleganza, per superare Edon che ormai parlava meglio d'un accademico.

— Sciagurato! Stolto! Sappi che qui, in questo mondo civile che tu vedi così bello, qui dove si deruba un ottimista ingenuo come te e si rovina un socialista convinto come me, qui, ai nostri giorni, c'è chi patisce la fame mentre il borghese usurpa la mercede all'operaio; c'è il ragazzo che ammala nell'officina mentre il capitalista presta a usura; c'è la madre senza pane per i suoi figli mentre la dama s'adorna dei diamanti che ci hanno rubati! E c'è la vergine che si prostituisce; e c'è il vizioso che per bruciarsi le viscere con l'acquavite commette lenocini e infamie; e ci sono i forti che deprimono i deboli; e c'è la legge intessuta di cabale e la giustizia cieca e sorda alle ingiustizie e ai soprusi! Qui si vende l'onore! Qui gli onori si comprano! Qui lo sciagurato uccide! Qui l'infelice si uccide!

Dopo di che, non sapeva più che cosa dire.

Ma col suo dolce sorriso Edon ribattè dolcemente:

— Certo: la miseria, il vizio, il delitto, il suicidio sono grandissimi mali. Però non così grandi che non permettano qualche bene. Ditemi: vi pare una gran prova di amore e di fratellanza scambiare senza fatica quattro rose azzurre con un paio d'ali? Ma io imagino la consolazione di un affamato che riceva il pane dal fratello; io non so imaginare il piacere di chi offre il mantello a chi ha freddo. Credete che sia molto meritevole la virtù in chi non ne conosce il rigore e vi s'abitua da ragazzo come a mangiare? Oh il sublime cómpito di piegare il potente a pro del debole! di redimere la donna! di soccorrere il ragazzo! di evitare il delitto! di salvare il disperato! Oh il piacere del vizioso che torna alla virtù, del potente mitigato, della prostituta redenta, dell'omicida perdonato, del suicida....

— Domani...! — interruppe l'altro tendendogli contro il braccio minaccioso. — Domani ti condurrò in Parlamento! A Montecitorio! — urlava. — A Montecitorio! — quasi volesse condurlo all'inferno, o alla fonte di tutti i mali.

Ma Edon non tacque. Disse:

— Grazie. In Eldorado, ove il prato abbonda, le pecore pascono senza fretta, senza angustie, senza litigi; quasi senza far nulla. Sono proprio curioso di conoscere come si governa un popolo che si agita e opera. Domani, finalmente, vedrò e udrò i dibattiti da cui sfavilla l'ingegno, scaturisce la verità, prorompe la civiltà, s'eleva il progresso!

VII.

Quella seduta del 14 giugno, al Parlamento, fu degna di storica memoria e di lagrimevole ricordo. Fu degna di storia, non perchè si dovesse deliberare e si deliberasse una legge intorno all'incremento delle industrie e dei commerci, o alla cultura intellettuale o agricola. Non si doveva trattare che di certe riforme al regolamento; per cui, secondo una parte dell'assemblea, sarebbe possibile discutere senza pericolo di vita, e per cui, secondo l'altra parte, non sarebbe più possibile discutere senza pericolo della libertà. E se perciò tutti o quasi tutti i deputati furono presenti, e i cronisti del giorno dopo riferirono come le tribune erano affollate e come la tribuna delle signore, fresche, a tutte le età, negli abiti estivi e a varie tinte, dava l'imagine d'una smaltata aiuola; neanche per questo rimase una memorabile seduta.

Nè si creda fossero lagrimevoli i discorsi che vi si tennero. Si ebbero appena due oratori: primo, l'onorevole Malchiori; e la sua orazione, quantunque la bella frase «violazione delle garanzie statutarie», vi ricorresse dodici volte, e nove volte l'altra di «sacro diritto della parola», fu interrotta da basta! da uh di protesta e da bravo! in tono ironico; e non potè durare più di mezz'ora.

Quanto all'onorevole Stigliani, egli fu costretto anche a maggior brevità da un suon di tamburi che gli teneva troppo grave bordone e che ottenevano le mani battute sui banchi; onde, invece di piangere, si rideva. E se le sue ultime parole: «.... la maggioranza saprà vincere senza violenza, con la ragione, con l'educazione, con la virtù....» suscitarono esse la tempesta, neppure per ciò si dice che quella fu una seduta degna di storia e di compianto.

E nemmeno fu tale per la disgrazia che capitò all'autorità del Presidente. Il quale dopo aver rotti due campanelli, al cominciare delle sfide («Forcaioli!» e «Buffoni!»; «Sanculotti!» e «Sanfedisti!» etc), comprese difficile sorreggere la dignità dell'Assemblea e allungò la mano a destra.... Invano. Volse la mano a sinistra.... Invano: il cappello, che cercava per coprirsi, era sparito! Un ministeriale credendo certa la vittoria per il Governo quando fosse possibile venire a un voto, s'era tranquillamente seduto al suo scanno con due cappelli su le ginocchia.

Nè, infine, importano alla storia e alla pietà umana i conflitti frequenti e comuni a tutti i parlamenti europei; così piacevoli, del resto, a vedere dall'alto.

A Montecitorio quel giorno si scorgeva e si ammirava una confusa agitazione di teste e di braccia alzate a colpire: una mischia qua e là feroce a corpo a corpo, o di più corpi contro uno. «Vigliacchi! Imbecilli! Addosso! Avanti! Abbasso! Dagli! Prendi! Aiuto! Forza! Oh Dio!» erano le voci mal distinte nel frastuono dell'omerica pugna: occhiali spezzati in terra o sui nasi; strappate catene d'orologio; perdute medaglie. Chi sanguina; chi cade travolto; chi colpisce a tergo; chi si duole; chi fugge; chi ride atrocemente. E dalle tribune, delle quali i campanelli elettrici stentano lo sgombero, le donne gridano piangendo la sorte dei mariti o dei congiunti come un dì le donne corintie, quando nell'anfiteatro della loro città vedevano l'ultima lotta dei loro padri, dei loro mariti, dei loro figli, con i Romani vittoriosi.

Ahimè! Ciò che di quel giorno merita ricordo e lagrime fu invece la morte di un innocente; furono il modo della morte e il nobile e gentile aspetto della vittima.

Edon, da prima, stava benissimo e aveva detto a Polla che molto lo divertiva quella fiera lotta, pur non sapendo se parteggiare per i ministeriali o per gli oppositori; gli parevano tutti uguali.

E si era messo a ridere alle prime contumelie; e a ridere forse troppo, con le mani sul ventre, all'inizio dell'attacco. Ma poi, alle gesta dei pugni e dei calci, gli era accaduto come accade a un ragazzo che veda una tenzone di marionette, e si era abbandonato a un parossismo di riso. Così non aveva avuto più lena all'ultimo colpo: allorchè Polla, travolto nella demenza che da basso s'era diffusa alle tribune, acceso in volto, bieco, feroce, con le braccia contro di lui e i pugni stretti:

— Smettila! — aveva gridato. — Finiscila! asino! farabutto! mascalzone! miserabile!, o ti butto là giù. Smetti di ridere e di godertela, o.... ti strozzo!

A veder quel ceffo d'assassino, a ricevere tali ingiurie da Polla; dal socialista che amava tutti gli uomini come fratelli; dall'intimo amico suo; da colui ch'egli aveva beneficato non poco, Edon era rimasto a bocca aperta, quasi per attingere fiato a una risata anche più clamorosa. Ma aveva avuta un'improvvisa scossa di tutte le fibre; un intoppo del sangue al cuore o un afflusso di sangue al cervello: sbarrati gli occhi, era caduto di fianco....

Morto per eccesso d'ilarità!

Il cappello del marito.

I.

Di due amici, Giulio Galardi e Alfonso Varchi, quello che, agiato di casa sua, apparentemente non aveva nulla da fare, viveva scapolo; e l'altro, direttore di una grossa azienda, commerciante, consigliere comunale e membro di commissioni e istituzioni e opere pie, l'altro, il quale aveva tanto da fare, s'ammogliò.

Ma in realtà Giulio Galardi faticava molto anche lui, da quando con un grosso patrimonio aveva ereditato da un parente materno il titolo di nobiluomo e si era introdotto nella società che suol dirsi migliore, sebbene non buona. Per le sue belle doti egli era stato ricevuto a porte aperte pur nelle case più aristocratiche; e appena si seppe che in certo palazzo era ricevuto anche a braccia aperte, diventò amabile e considerevole; ebbe il soprannome di Sìsì e fu perdonato di tutti i suoi difetti, i quali non erano nè piccoli nè pochi. Gli mancava un palmo di statura ad essere un bel giovane; era, in viso, troppo roseo e sollevando il baffo superiore ostentava un po' troppo i nitidi denti; affrettava gl'inchini d'un attimo più del necessario; vestiva con eleganza ligia alla moda, senz'alcuna di quelle anticipazioni o di quei ritardi o di quelle sprezzature che rivelano l'artista nel lion; esasperava camminando il peso del corpo su le gambe, di guisa che, a differenza degli altri, che parevano quasi montanari, pareva un montanaro del tutto; e affermando diceva sempre:

— Sì sì.

— È simpatico Sìsì — ammettevano concordi le signore; nè mancò qualche lettrice di Bourget la quale osservasse com'egli, ne' suoi discorsi e ne' suoi modi, aveva qualche cosa d'insolito, d'ignoto, per cui a volte acquistava una caratteristica spirituale quasi esotica.

Che cosa fosse quella cosa sconosciuta e nuova Giulio Sìsì non l'avrebbe saputa indovinare; forse era un fondo della rettitudine paterna, che gli restava dalla prima educazione. O forse era l'abilità con cui diceva le bugie. Essendosi accorto che la bugia è l'arma delle donne d'ogni ceto, egli disarmava le signore aristocratiche con invenzioni più verosimili e opportune di quelle che usavano gli altri per vincerle od esse per resistere, e in tal modo divenne presto un corteggiatore fortunato. Ma se per lui una donna tirava l'altra come le ciliege, anche per lui una bugia tirava l'altra; onde la fatica di arrestarne il corso a tempo debito e di mescolarle convenientemente con la verità.

E però, bisognoso di riposo e voglioso di sincerità, a quando a quando Giulio visitava l'amico Varchi e si distraevano a vicenda; l'uno con i racconti sinceri, nudi e crudi, delle sue avventure e l'altro con le relazioni de' suoi affari sempre più gravi, sempre più intricosi.

— Che c'è di nuovo lassù? — domandava Alfonso.

— Che c'è di nuovo quaggiù? — domandava Giulio. Distinguevano così il mondo in cui vivevano, compatendosi reciprocamente.

— Ma perchè porti quel colletto? — chiedeva Varchi.

— È di moda.

E Varchi chinava la testa e pensava: «Bisogna proprio essere ingenui a impiccarsi per la moda!»

— Ma perchè ti preoccupi tanto delle elezioni comunali? — chiedeva Giulio.

— Dovere di cittadino!

E Galardi chinava la testa e pensava:

«Che ingenuo!»

Nè un'amicizia tanto cordiale, disinteressata, antica e fedele potè essere interrotta allorchè Alfonso Varchi prese moglie.

II.

Del resto, quand'anche Alfonso Varchi fosse caduto a temer dell'amico per la sua tranquillità domestica e fosse stato preso da gelosia, si sarebbe dovuto acquietare in un confronto fra le donne accostate da Giulio nell'alta società e sua moglie: questa non era una donna per Giulio. Bella sì, ma non sentimentale, non intellettuale, non nevrotica: Giovanna era sana e savia. E Giulio Galardi, per parte sua, non si curava punto di quella signora Giovanna, che agli aneddoti e ai pettegolezzi da lui riferiti fedelmente e coscienziosamente, porgeva orecchi e occhi incerti, come a storie inverosimili, e quasi per opporre la serietà sua alla fatuità di quelle eroine, domandava al marito notizie politiche, commerciali, industriali e agricole. Lieto della felicità dell'amico, Giulio si ripeteva spesso:

— Che stupida! Alfonso non poteva essere più fortunato!

Passarono così tre anni; durante i quali nella famiglia Varchi e nello scapolo Galardi nulla avvenne, a loro credere, che adombrasse la reciproca e triplice confidenza. Frattanto Giovanna procreò l'un dopo l'altro due mirabili maschiotti; Alfonso s'ingolfò sempre più nelle faccende, non restandogli tempo oramai che d'accarezzare i bimbi dopo pranzo; e Giulio mutò quattro o cinque illusioni d'amore in delusioni, trovando le une e le altre sempre identiche. La migliore società infatti è sempre tale e quale: in tutti gli uomini, in tutte le donne — gentiluomini e gentildonne — che la compongono; in tutte le cose; in tutte le passioni; in tutti i capricci.

Sì sì! Che noia!

L'amore? noia! Il gioco? noia! I teatri? noia! I cavalli? noia! Uf!

Appunto da questo terribile male, la noia, che è la figlia di tutti i vizi, dovevano cominciare i guai di Galardi; e cominciarono appunto dal dì che all'entrare in casa Varchi gli parve di tornare in porto, non quale nocchiero dopo lunga tempesta, ma quale pescatore che non ha pescato niente. I guai cominciarono quando egli, stufo e ristufo di troppe donne «per lui», contò i suoi anni e si chiese: «Se prendessi moglie anch'io? una donna come...?»; quando sentì una fitta al cuore, mentre abbassava il capo alla dura riflessione che gli venne fatta: «Di Giovanne ce n'è una sola!» Altro che stupida! Bella sì, ma tutt'affetto per i figli, per il marito, per la casa; onesta, pacifica, tenera, economa.

A farla corta, Giulio Galardi s'innamorò senza volere (e fu veramente il suo primo amore) della signora Giovanna Varchi; ella — stupida o no, poco importa, chè di certe cose se ne accorgono anche le stupide — se n'accorse; e Alfonso Varchi non se ne accorse.

III.

«Tradire» nell'alta società significa per i gentiluomini «tradire un amico» e per le gentildonne «tradire con un amico»; ma per quel fondo di rettitudine che gli rimaneva, al traditore Galardi fino allora era parso di essere un riparatore di torti, un giusto vendicatore di povere donne contro mariti o infedeli o depravati o sciocchi o gelosi e senza ragione diffidenti di lui e della moglie. Invece Alfonso era leale, morigerato, intelligente, galantuomo, modello di padre di famiglia e di marito; e Giulio non aveva cuore nemmeno di provarsi ad ingannarlo.

« Sì sì! Finchè Alfonso restasse quel che era, era impossibile tradirlo!»

Vincere quindi l'insana passione sarebbe stato il meglio; e da uomo dabbene Giulio se lo propose. Impossibile! Divenne una passione irresistibile al punto ch'egli per essa avrebbe dato tutto il sangue, o metà del sangue avrebbe dato per trovar ragione a dolersi dell'amico, per accertarne qualche colpa, per scoprire difetti che spiacessero anche a Giovanna.

Ora si comprende che arrivato a meditare l'opportunità, anzi la necessità di accusare e incolpare un amico come Varchi, inconsapevolmente, si può dire, e presto, l'animo e il pensiero di Galardi dovessero volgersi a fallaci impressioni e a giudizi erronei.

Cominciò a credere che con tutte quelle faccende e fatiche e affannosi guadagni Alfonso presumesse di rinfacciare il quieto e dolce far nulla a chi aveva il diritto di godersi il frutto di fatiche e di guadagni aviti e paterni.

«Colpa mia se sono ricco?» Galardi diceva tra sè. Oh! forse suo padre non aveva lavorato tanto, e il suo prozio non l'aveva lasciato erede col titolo di nobiluomo per fargli godere il mondo? «Dovrei forse lavorare anch'io come una bestia?»

Senza occuparsi di politica, Giulio era conservatore quanto Alfonso, che si arrabbiava anche per la politica; nondimeno il primo aveva già per il secondo un rancore quasi di partito.

«Tutto mi annoia? — Giulio proseguiva a meditare. — Ma starei forse allegro in Consiglio comunale? Non sono ambizioso, io!» Per lui, Alfonso era ambizioso e intristito nelle misere gare di campanile e di municipio.

«Mi piacciono le donne? Grazie! Non piace anche a lui Giovanna?» Alfonso la teneva, quella povera donna, in un assoluto dominio; con tale egoismo che anche l'animo di lei si avviliva nell'avidità della ricchezza; e il sentimento di lei restava confinato al domicilio. Giovanna infatti nulla sapeva di arte; non comprendeva la musica tedesca; non leggeva un poeta! (Ah che di poeti ne leggeva pochi anche lui, Galardi!).

Ma non solo: Alfonso Varchi si alleverebbe egoisti gli stessi figlioli; senza entusiasmi per idealità superiori alla vita comune; senza intendimenti dei maggiori problemi che turbano la società moderna.

Da che si comprende come Giulio era già innamorato in modo da leggere, per distrarsi, i giornali socialisti; e fu miracolo se la malinconia non lo condusse a inscriversi al partito.

E come non si vive solo per sè e per i quattrini, così non si dovrebbe abusare nemmeno in conversazione dell'economia politica e privata. Dàlli e dàlli, una sera in cui Giulio desinava dai Varchi, riflettendo sul fritto abbruciato e l'arrosto mal cotto chè dove regna la felicità coniugale è infelice sin la cucina, Alfonso s'abbandonò a un interminabile sproloquio intorno a giuochi di borsa, di rendita bassa, di dazi, d'importazioni e d'esportazioni.... Dàlli e dàlli, avvenne che la signora, alle frutta, non potè rattenere uno sbadiglio e non volgersi a Giulio con uno sguardo e un sorriso che significavano: «Gran brav'omo mio marito! ma che seccatura!»

Quattro anni, da quando lei stessa interrogava, interessata e preoccupata, intorno alle imprese commerciali dello sposo, non erano dunque trascorsi indarno?

Giulio Galardi prese animo.

— Lascia parlare a me — interruppe. E si diede a raccontare un fatto, a suo dire, della cronaca mondana: una storia la quale egli rese pietosissima addossando tanta volgarità e brutalità a un marito e tanta bontà e gentilezza a una moglie, che in questa pareva scusabile qualunque pazzia.

— Bene; chi lo crederebbe? — Giulio esclamò vedendo commossa la signora Giovanna. — La marchesa, la vittima, sul punto di cedere a un gentiluomo perfetto che l'ama da anni e che essa ama, si pente, respinge l'amante, si rinchiude in casa e confessa tutto al marito!

Alfonso fece:

— Meno male!

— No; malissimo, dico io — ribattè Galardi. — E lei, signora Giovanna?

Giovanna chiese:

— Il marito ha poi mutato carattere?

— Che! Peggio di prima!

— Allora la marchesa poteva aspettarsi a confessarsi a un prete.

— Ma prima del peccato o dopo? — Galardi incalzò.

— Oh! Prima.

Dopo! Dopo! Giulio lesse negli occhi di Giovanna: — «Se non ci fosse Alfonso, direi dopo

.... Finalmente — e senza spendere una goccia di sangue, ma solo con un po' di fantasia — Giulio potè convincersi che Alfonso assomigliava al marito di sua invenzione e che Giovanna teneva per sciocca, in certi casi, la virtù coniugale.

IV.

Che due lunghi mesi appresso la signora Varchi consigliasse Giulio Galardi ad ammogliarsi, non è meraviglia. Quando una donna savia s'approssima al pericolo, sempre esorta l'uomo pericoloso a prender moglie; onde, a scelta, una prova della bontà o della malignità dell'indole femminile. Perchè, una delle due; o Giovanna desiderava legittimo in un'altra l'amore di Giulio che era proibito a lei, o voleva togliere a donne più fragili di quanto lei si credeva il piacere d'essere conquistate da Galardi e, anche, togliere a questo il piacere di conquistarle.

Ma come Giulio, triste, scuoteva il capo, per convincerlo Giovanna dovè dichiarare:

— Lei ha tutte le qualità che rendono felice una donna. — E queste parole, purtroppo, logicamente traevano in perdizione chi le pronunciava.

Alla vigilia della quale perdizione, mentre Giulio scongiurava Giovanna di recarsi il domani a vedere il suo elegante appartamento di scapolo e gli oggetti d'arte che vi aveva raccolti, ed ella ricusava sorridendo, eppoi, fidandosi alle promesse e ai giuramenti di lui, rispondeva sì, con le lagrime agli occhi; mentre ciò avveniva, a un tratto, Giulio e Giovanna impallidirono: i passi di Alfonso nella stanza attigua!

Lei e lui mormorarono:

— Sì sì: nulla di male....

— Questa non è che una visita di dovere...

— Come mai è venuto a casa prima del solito?...

— Se la cameriera gli ha detto che ci siete vi vorrà a desinare.

— Ah no! Non ci resto, oggi!

Alla vigilia di quel giorno, egli non tollererebbe discorsi di rendita «in rialzo» e «in ribasso»; di «esportazioni» e «importazioni».

E Giulio se n'andò per sfuggire all'amico, che già odiava; infilò rapido, all'ingresso, il soprabito, prese il cappello, e via.

Via per la strada con l'intensa, confusa gioia che precede una gioia attesa imminente. Non gli sembrava vero: «Giovanna, dimani, da me!» «Gio-van-na!» L'onesta, tranquilla, seria, casalinga Giovanna!

Alla maniera di tutti i conquistatori, Galardi magnificava a sè stesso l'impresa compiuta; e come altri, un tempo, rientrando in patria, avrebbe enumerati i tesori d'una terra di conquista, egli, sempre più uscendo di sè, enumerava a sè stesso i tesori della donna così diversa dalle altre.

Ma se, diversa com'era dalle altre, Giovanna si contenesse, secondo i patti, in una semplice visita di amicizia? se, pur non intendendosene punto, si limitasse a lodare i ninnoli artistici del salotto?...

— Oh, sì sì: la vedremo! — esclamò, battendo il piede sul lastrico, certo, senza timore, l'eroe.

E allora non vide più nulla; perchè il cappello, al movimento imperioso, gli calò fin sugli occhi.

Rabbrividì al sospetto; si scoperse; guardò in un attimo davanti, dietro, dentro quel cappello.... Più scuro; più largo.... Il cappello di Alfonso! Che errore! che orrore!

E che fare? Correre subilo a casa Varchi!... Già vi s'incamminava. Ma gli toccherebbe affrontare l'amico, ridere dell'equivoco; rimaner là a desinare. Quel giorno? No! Impossibile ch'egli mangiasse, quel giorno, il pane a tradimento!

Tornò indietro, sempre con in testa l'impressione che avrebbe provata girando con iscarpe non sue e troppo larghe; s'arrestò, guardò l'orologio....

Quand'ecco, dall'altro lato della strada, frettoloso e intento a leggere una carta (con in testa, sulle quarantatrè, il cappello non suo) passare.... Alfonso! Incontrarlo e dirgli: — A te, dammi il mio —, sarebbe stato il modo più semplice per restituire il mal tolto e riavere il proprio; era anzi un fortunato incontro. Eppure Giulio Galardi non si mosse; guatò; nè potè muoversi fino a che l'amico non disparve.

Perchè Alfonso non gli era venuto incontro lui? Leggeva. Un documento, forse, che portava prima del desinare a qualche avvocato o in qualche ufficio. Dunque gli premeva più l'avvocato e il documento che il cappello del suo migliore amico! più il documento o l'avvocato, forse, che la moglie! Oh! non v'ha castigo che non meriti un affarista!

E Galardi, con un malessere invano respinto, che dal capo gli discendeva a tutto il corpo e pareva condensarsi al cuore, venne a casa sua per trar dall'armadio un cappello vecchio e uscire a desinare. A casa però si sentì stanco morto; di mala voglia; malconcio.

Sedè presso il tavolino, dove aveva deposto quel maledetto....

V.

Era, anche a prima vista, un cappello onesto. Esternamente patito solo nell'orlatura e nel nastro, al margine inferiore; ma per il colore resistente e per il denso feltro meritava lode alla manifattura nazionale.

Qua e là, è vero, nell'ala, al di sopra, e sulla cupola un critico esteta avrebbe potuto rintracciare indizi di gocce asciugate prima dalla polvere che dal sole; ma alla carezza di una mano o di una spazzola ogni ombra sarebbe tosto dileguata. Elegante non era: nè alto, nè basso; nè stretti, nè larghi i risvolti; nè pesante, nè lieve; d'una forma, di un'indole quasi, non troppo avversa e non troppo data alla moda; non perturbabile in vicende di stagioni e di gusti; non asservita a umani giudizi. L'età senza infingimenti appariva dall'interno; e forse per conoscerla, con un moto dispettoso, con l'amarezza e la bieca avidità con cui il colpevole indaga l'altrui coscienza, Giulio lo rovesciò, vi fissò lo sguardo. Ma non attese al marocchino che annoverava tre mesi di sudori anche invernali; nemmeno sorrise all'aquila, la marca di fabbrica esotica, che apriva l'ali sul nome del cappellaio italiano: ebbe, al contrario, istantaneo, uno sbigottimento; provò il turbamento e il ribrezzo di chi avventa una vertiginosa occhiata entro un cratere.

Quante idee là dentro, agitate e agitabonde, in una comprensione caotica! Quante prorompevan fuori; ricadevano nel vortice; superavano la cinta; s'arrestavano, o precipitavano concrete; vaporavan vane, o risplendevan fatue! Quante faccende, propositi e illusioni e disinganni; quanti conti, e missive e risposte di lettere, e trattative, e imbrogli da districare, e tranelli a cui sfuggire, e colpi di fortuna avversa o buona, e contrattempi, e questioni e contratti, e crediti e debiti! Tutte le commozioni e le vicende d'un uomo d'affari che si consuma la vita per lucro; tutti gli affanni di un uomo in balìa ora della propria testa ora della sorte, e involto nelle complicazioni del commercio e delle industrie; tutti i gaudi che generano l'operosità e la fede; tutto ciò, in tumulto, aggiravasi là dentro, turbinava agli occhi e alla fantasia di Giulio Galardi, quantunque non vi guardasse più.

E d'improvviso nel turbine imaginario la sua fantasia gettò un grido il quale disperse ogni cosa: — Tua moglie ti tradisce! — E successe, là dentro, un'immobilità di stupore, un abbattimento di disperazione, una quiete di morte.

«Tua moglie ti tradisce!»

E tutto era finito!

Perchè, per chi, tanti lavori? tanti triboli? tante angustie? tanti sforzi? Per la famiglia; per i figlioli.

Logoratasi l'esistenza, Alfonso sarebbe morto non vecchio, ma avrebbe lasciato in buona condizione i suoi cari: i figli sarebbero cresciuti onesti con poca fatica; i nipoti benedirebbero un giorno la memoria dell'avo che loro tramandava una cospicua eredità di quattrini e di virtù.

«Tua moglie ti tradisce col tuo miglior amico!»

Il disonore! il tradimento! la felicità distrutta; perduto ogni affetto, ogni bene! Una tempra d'acciaio spezzata d'un colpo; una vita rigogliosa, fulminata! Infamia! Infamia!... Ahi!

Giulio palpita; tace; si ascolta: gli pare che gli si sia rotta qualche cosa dentro: un rovescio: un disastro. E non è nulla; non è altro che il risveglio della coscienza.

E tornano i ricordi; e si rivede ragazzo compagno di Alfonso, quando Alfonso, generoso fin d'allora, a scuola, gli dava a copiare i compiti; e si rivede uomo quando Alfonso, fuori d'ogni sospetto, gli annuncia il suo matrimonio, gli presenta la moglie, l'invita a pranzo. Disgraziato! disgraziati entrambi: lui e Alfonso! disgraziati tutti e tre, anche Giovanna!

— Porta questo cappello al signor Varchi: se non c'è, aspetta; e prendi il mio! — Galardi comandò fieramente al servo accorso allo scampanellare spaventevole.

Ma pochi minuti dopo il servo rientrava, essendosi imbattuto nella cameriera che veniva proprio per il cambio.

Oh con che sollievo Giulio si mise il cappello suo!

Gli stava ancora bene. Pure, non lo tenne; lo depose: lo giudicò in un confronto spregiativo. Sì sì: era un cappello elegante, ma vanesio; la cui ala, in una linea esageratamente ondulata, accusava l'affettatura della moda; la cui sagoma significava volubilità e leggerezza; e quantunque l'abito non faccia il monaco, perchè il cappello non manifesterebbe qualche cosa del capo che lo porta?

Tornandogli perciò la nausea di prima e non volendo confessare agli amici che un cappello gli aveva fatto male, Giulio non andò a desinare quel giorno al solito luogo. Andò altrove; rincasò presto. E subito si mise a letto.

Cattiva notte. Indarno cercava di pensare amorosamente a Giovanna; e costretto a ragionare, indarno cercava di sragionare. Impedire in qualche modo la caduta d'una donna era fortezza o viltà? Viltà forse per lei, la donna amata, e forse per tutte le donne, e certo, per tutti gli amici e gli uomini di mondo; ma era fortezza per tutti i mariti, per le anime timorate, i moralisti. Oh i moralisti! Cos'è la morale se non il vantaggio dell'individuo in rapporto alla società? se non un egoismo collettivo? se non una menzogna della civiltà? Maledetti i pregiudizi che avvelenano il piacere!

Felice la barbarie! I barbari accordano la morale al loro vestire — per lo più van nudi —; hanno il capo libero o tutt'al più portano una semplice penna che non riscalda il microbio della calvizie, e hanno libero l'arbitrio. Invece l'uomo che ha inventato telegrafo e telefono, l'uomo dell'elettricità e del vapore, si copre il capo con un coso o una cosa convessa, che è focolare d'infezione; ignobile difesa di idee false e di pregiudizi atavici; strumento di servitù e di assenso al patto sociale; simbolo, in certi casi, di virtù e di vizio; emblema dell'uomo operoso o dell'uomo vano, del sapiente o dello stolto, del buon amico o del cattivo amico!

Da tali pensieri affaticato, Giulio non si addormentò che verso l'alba. Nè dormiva da molte ore quando il servo venne a svegliarlo con una lettera urgentissima.

Egli la lesse, d'urgenza:

«.... Che cosa avete fatto! Appena siete uscito voi. Alfonso è corso da me col vostro cappello in mano.

«Era così triste! Mi ha domandato: — Come mai Giulio ha potuto confondere il mio col suo? — Ah! che angustia! che paura! Pareva dubitasse.... Ma io mi sono convinta che mio marito è fiducioso, è un modello di marito e di padre di famiglia; e mi è bastato vederlo uscire col vostro cappello, che non gli stava in testa, per comprendere tutta la mia colpa. Sarebbe un'infamia!

«E vi avverto che non verrò da voi nè oggi nè mai più. Però vi prometto che non mi confesserò a mio marito come quella vostra marchesa; perchè nella vostra storia, scusatemi, non ci ho creduto....»

*

Giulio Galardi e Alfonso Varchi rimasero amici fedeli.

Solo, Giulio concepì un inestinguibile odio contro i cappelli sodi e ne adottò uno floscio, quale Alfonso non avrebbe portato mai. Ma con questo gli pareva di star così male che, dubitando di poter più innamorare le donne degli altri, prese moglie anche lui.

Efficacia d'una giarrettiera.

L'ora pericolosa non è l'ora del confessionale, quando abitudine o gravezza o vigile coscienza delle divine funzioni assunte per rappresentanza mortifica ogni senso. Nemmeno è l'ora del riposo, quando in letto molle e caldo tornano alla memoria le dure veglie degli anacoreti e dei Padri e le dibattute vittorie con i demoni nel deserto: il pericolo è all'ora della siesta; quando mentre fermenta il cibo nello stomaco e nelle vene il sangue fluisce più abbondevole, una dolcezza sale o scende, non si sa di dove, a cullare il pensiero che si quieta, e l'anima (fuori sia freddo o il sole si spenga nella rossa calura dell'agosto), l'anima risponde all'anima in cui avrebbe dovuto integrarsi e che, ahi, le fu tolta, e il cuore domanda un altro petto che l'ascolti. Sembra l'anima o il cuore; e sono forse i fumi del vino. Ma allora basta — e grazie se si abbia! — il cuore d'un amico. Se no: — Chiamatemi il sagrestano per la partita (a carte o a bocce)! Presto! —

«Gli propongo una partita a briscola?» si chiese, quella sera, don Giuseppe guardando padre Ignazio e riprendendo la bottiglia.

— Padre Ignazio, un altro gocciolo?

— Solo un gocciolo — disse il gesuita; il quale avanzò il bicchiere con la mano aperta; senza badarvi lo ritrasse pieno, e sorseggiò meditabondo. A che pensasse, non diceva; certo, non a cose per distrarsi dalle quali fosse opportuna una partita a carte.

Che amico! che faccia!: smorta, magra, arcigna. Ma un predicatore, ve', di prima forza; da metter terrore dell'inferno nel più accanito liberale. Onde a ragione don Giuseppe, che per essere un buon prete, gaio, grasso tecchio, abbonito e domesticato da vent'anni di cura, non riusciva a impaurire parrocchiani e parrocchiane, l'invitava a predicare lassù e a metter cervelli e coscienze a posto.

— Gran bella predica, padre Ignazio! Ce n'era bisogno! Perchè è proprio quel peccato il peccato in cui i miei fedeli pericolano di più.

— Non si assolvono. — Appena questo disse padre Ignazio, sempre con l'occhio alle sue idee e col mento alla palma sinistra, il gomito su la tavola.

Allora don Giuseppe sospirò; pensò che colui non era un amico meritevole di confidenza nè utile in ogni circostanza, e che gli sarebbe stato meglio non dir nulla. Infatti la risposta del gesuita lo spinse più a dentro in quei pensieri da cui altra volta avrebbe trovato scampo in una partita col sagrestano.

Proprio vero! Si può essere un po' goloso, un po' avaro o di non troppa carità, o invidiare il vescovo, invidiar magari un padre gesuita, o lasciarsi prendere dall'ira come padre Ignazio quando predica, e rimanere un prete quasi buono. Ma uno scappuccio in quel tal peccato, che pure non è il primo nè il secondo nell'ordine dei peccati capitali, e ti saluto! Cattivo prete! Addosso! Che se per questo il parroco non assolvesse i parrocchiani, i parrocchiani s'arrogherebbero loro il diritto di lapidare il parroco!

.... Quand'ecco:

— Raccontatemi qualche cosa, don Giuseppe.

Deo gratias! Era accaduto un prodigio! Perchè, vuotato il bicchiere, padre Ignazio aveva rivolto il viso all'ospite; e il viso non più bieco, ma sereno, sorrideva, aveva luce come riverberato anch'esso dal raggio di sole che colpiva i vetri. Così don Giuseppe si consolò tutto; sorrise anche lui; poi, súbito, senza interrompere il corso alle idee di prima, si rammentò dell'aneddoto che già gli era tornato in mente la mattina, alla predica, e che ora gli parve piacevole nel tempo stesso che giovevole per sè quanto un tresette.

— Vi racconterò un mio caso — disse ilare — che potrebbe servirvi di esempio, di prova a quel che dicevate stamattina così bene: che il Signore, nella sua divina misericordia, spesso ci soccorre nel fatto medesimo della colpa.

— Sentiamo.

— Un esempio però non da predica — sfuggì detto al buon prete —; il fine non giustifica il mezzo.

— Lo giustifica qualche volta, se non sempre, come affermano i machiavellici; e.... Ma sentiamo il racconto, prima.

Uso a procedere francamente, senz'ambagi, ne' suoi racconti, il curato ebbe uno sguardo di preghiera all'amico che non interrompesse; e cominciò:

— Fu del '70 dopo il fatto....

L'altro scosse il capo, d'intesa.

— .... e io ero in aspettativa d'una cappellania; e abitavo in una cameretta a un terzo piano. Di contro a me ci stava una signora vedova....

Vidua, periculosa — mormorò don Ignazio, riprendendo il mento nelle mani.

— .... giovane e belloccia.

Ma padre Ignazio chiese malignamente:

— Chi ve l'aveva detto ch'era belloccia?

Divenuto più rosso sui pomelli delle guance, don Giuseppe s'imbrogliò un poco.

— Già; lo dicevano.... Io no...; io ero in cerca d'una cappellania.

E parendogli che l'amico desse soverchia importanza all'aneddoto, che altrimenti egli avrebbe narrato in due parole, e già a disagio per quelle interruzioni inopportune, il buon curato procedè meno sicuro.

— Quella vedova era mia penitente.

— Uhm!...

Uhm! che cosa?... — Penitente sincera, fervida! Pareva. Mi chiedeva anche dei consigli....

— Di che genere?

— .... aveva una questione con i parenti del marito e voleva mettermi in mezzo per riconciliarsi.

— Al solito; un pretesto.

Spento il sole, la faccia che non riceveva più riverbero, rincupiva. Si pentiva don Giuseppe d'aver ceduto all'apparente indulgenza di un inquisitore interruttore. Nè poteva fidarsi alla fantasia e attenuare o accomodare il racconto; giacchè a un certo punto, al punto capitale del fatto, era inevitabile arrivarci.

— Un giorno dunque, tutt'allegra, la vedova mi chiamò in casa sua. Aveva proposte di conciliazione; ed era allegra.

Lætitia, periculosa....

— Io la consigliava a non fidarsi degli avvocati.... Ma in quel mentre la punta d'un suo piede, di lei, faceva toc toc per terra.

Invece d'interrompere, questa volta padre Ignazio sorrise; rianimando così il povero amico.

Oh forse era meglio, per dilettar un gesuita che sorrideva in quel modo, in quel certo modo, indugiare nelle particolarità da cui l'aneddoto acquistasse più sapore? Chi li capisce i gesuiti?...

— Era, si può dire, il primo piede che vedevo, d'una donna; e la scarpa non era una scarpa.

— Pantofola?

— Aperta come una pantofola, per lasciare scorgere la noce, il....

— Malleolo.

— Il malleolo. E la calza.... Oh malizia di femmine! La calza era nera; la prima che vedevo, in una donna. Avrei sempre creduto che anche le vedove portassero le calze d'altro colore!

Nuovo sorriso, agli angoli della bocca, di padre Ignazio.

— La calza non si vedeva solo sul collo del piede. Anche un po' più su, si vedeva; e.... Ho dimenticato di dirvi che la scarpa non era nera.

— Non importa.

— Importa! importa! Una scarpa di colore, come dire?, caffè e latte. Che pelle è?

— Non so...; di capra.

— Dunque.... Il diavolo scoteva quel piede; toc toc; la gamba tremava tutta ogni volta, da mettermi il convulso, mentre discorrevamo della conciliazione.... Io (chi lo direbbe?) ho sempre patito un po' di convulso. E voi, padre Ignazio?

— No; grazie a Dio.

Don Giuseppe sospirò. Poi riprese:

— Come vi dicevo, discorrevamo di avvocati e di cose legali, ma non sapevo più dove guardarla. In faccia? Gli occhi!... Che occhi! In terra? C'era il piede. Dove avreste guardato, voi?

— Al muro.

— Bravo! Ma io non potevo guardare al muro, per colpa di quel piede.... Non sapevo più che cosa mi dicessi. Quel piede grande così (il narratore con la mano destra divise la sinistra), quel piede indiavolato, che non poteva star fermo, e la calza, e la scarpa, e il toc toc, mi trasportavano verso il diavolo: ecco! Finchè il diavolo se n'accorse, e smise di battere in terra.

Giunto a questo punto, don Giuseppe tacque, lasciando perplesso il padre.

— È finita?

— Ah no! Pur troppo un minuto dopo il diavolo mise una gamba a cavallo dell'altra, e quella di sopra cominciò a dondolare così, come se niente fosse! Voi che siete un sant'uomo, padre Ignazio, sareste scappato via....

— E voi?

— A me, per disgrazia, mi cadde il cappello. Mi chino...: il polpaccio!

— Cosa?

— Vidi.... cioè, vidi la calza nera, sino al polpaccio. E.... Un altro gocciolo, padre Ignazio; un altro gocciolo....

— No, no; non ne voglio più. Avanti!

Dunque ci pigliava gusto? Bevve lui, don Giuseppe; cercò, trovò l'idea di sostegno a proseguire con tono più dimesso, lentamente.

— Sentite. Quest'autunno, nell'orto, vidi un giorno una melagrana matura, tanto piena che era crepata e per la crepa facevan gola una fila di grane rosse: la colsi; non potei stare! L'altro dì, quando mi portarono i quattrini dell'uva, li contai due volte; prima mi sembrarono abbastanza; ma dopo no, dopo mi sembravan pochi. A udirvi predicare, padre Ignazio, vorrei che predicaste in eterno; ma quasi quasi vi invidio....

— Oh che vi confondete adesso in una confessione generale? — esclamò padre Ignazio, con un gesto d'impazienza.

— Fo per mostrarvi che non credo di essere un perfetto prete. Allora però io stavo per diventare un prete del tutto cattivo, e solo perchè quella gamba mi tentava più che una melagrana, o una sommetta di quattrini, o le vostre prediche, padre Ignazio.

Che discorsi!... Il gesuita ebbe un gesto più duro dicendo:

— Dunque.... la gamba?

— La gamba? Non ho detto bene. La calza, fu. Perchè io sono certo, certissimo che quella gamba non mi avrebbe messo sottosopra il giudizio e la coscienza se noi sacerdoti invece di nere portassimo le calze bianche o di un'altra tinta, dopo che le donne le hanno messe su nere. Quel nero....

L'amico affrettava:

— Concludiamo.

— Quel nero che, come dire?, per noi è il colore della mortificazione, là faceva pensare a tutt'altro. Insomma, mi sconvolse la testa. Ma con l'aiuto di Dio, la stessa causa del male giovò poi al buon effetto.

— Quale effetto?

— Voglio dire — proruppe d'un fiato don Giuseppe togliendosi il peso d'addosso —; voglio dire che se per la tentazione della calza arrivai a.... vedere il legaccio, per quel nero il legaccio mi fece più colpo: mi tirai indietro, tornando in me; balzai in piedi, salvo! Salvo, padre Ignazio! — ripetè pieno di gioia don Giuseppe. — Io ero salvo! — E pareva uscito allora allora dal pericolo.

Ansioso, chino verso di lui a intendere ciò che non intendeva, il gesuita dimandò:

— Come? il legaccio? che cosa?

— Sì. Non v'ho detto ch'eravamo del '70, dopo il settembre?

— Del '70.... Il legaccio?... Non capisco! Il legaccio della calza?

— Sì! La gerr....

— La giarrettiera! Ebbene?

— .... bianca, rossa e verde!

La fortuna di un uomo.

I.

Lo zio Giorgio Bicci era noto a Bologna quale curioso tipo di patriotta, di filantropo, di pensatore profondo e di parlatore arguto. Se fosse stato uno scrittore, gli eruditi l'avrebbero forse assomigliato a qualche filosofo umorista moderno e accusato di plagio, quantunque egli non leggesse che i classici latini e i giornali quotidiani. Scapolo e scettico, come in molte cose, intorno alle donne, viveva d'amore e d'accordo con soli il servo Luigi e il nipote Gaspare. Ma questi, al contrario dei più, non poteva credere che lo zio non avesse mai amato alcuna donna.

Essendo ancora ragazzo, una sera tardi, dalla sua camera Gaspare aveva udito una voce angosciosa esclamare sommessamente:

— Figlia mia!...

Ond'egli, per la curiosità che è comune a tutti i ragazzi e che di lui era il difetto più grave, aveva spiccato un salto dal letto ed era corso a spingere lo sguardo per la serratura dell'uscio. Oh! Di là, nella sala attigua, al fioco lume della lampada, una signora vecchia in vesti nere, lo zio Giorgio e un terzo stendevan le mani, a contatto, su di un tavolino, e il tavolino sembrava che ballasse!

A tal vista e alla vista dello zio coi capelli irti, gli occhi accesi e fuori delle orbite, la faccia pallida e contraffatta, Gaspare era ritornato subito sotto le lenzuola, giurando di non scrutare mai più che diavolo si facesse in casa a certe ore notturne; già guarito, e per sempre, del suo difetto più grande. Nè soltanto a ciò gli valse quella paura, perchè nell'avanzare degli anni e nel meditare su quel ricordo fanciullesco si convinse che se lo zio aveva avuto tale orrore dall'esperimento spiritico, certo era meglio lasciar in pace i morti e non confondersi nel mistero della morte; e anche si convinse che se lo zio aveva amato una donna sino a rievocarla in quel modo, con l'aiuto della madre di lei, certo era bene non innamorarsi così appassionatamente.

Quanto a Luigi, meglio che servo, poteva dirsi amico dello zio Giorgio. Commilitoni nelle schiere di Garibaldi, avevano combattuto l'uno a fianco dell'altro; inoltre, il secondo aveva prestato quattrini al primo; e come questi, da ignorante qual era, non dimenticava i benefizî, quegli, da filosofo qual era, si affezionava ai suoi debitori, dimentico dei crediti.

In più d'una battaglia Luigi, il servo, aveva sospettato che il compagno cercasse la morte, e il signor Bicci che il compagno volesse salvargli la pelle. Solo alla presa di Palermo, sul ponte, erano stati divisi nella mischia; ma il domani, dopo lunghe ricerche, l'incolume aveva rinvenuto il ferito all'ospedale: ferito al ventre e a una gamba in modo che si credeva impossibile rattopparlo. Ne rincresceva allo zio Giorgio; e più gli rincresceva che a Luigi, esuberante di giovinezza e di energia, dovesse spiacer molto il morire; e, con cuore di filantropo e con mente di savio, s'era proposto di prepararlo al passo dubbioso affinchè lo varcasse meno malvolentieri.

— Morire per la patria, in campo di battaglia o dopo la battaglia, è sempre glorioso e dolce.

Fra gli spasimi Luigi rispondeva:

— Una delizia. Ma io non muoio!

— Speriamo — augurava l'altro. Poi seguitava: — Non credere, del resto, che la morte sia brutta come dicono i deboli. Seneca.... — e aveva tradotto la sentenza dello stoico.

E Luigi:

— Il suo Seneca può dir quel che vuole; ma io non muoio!

— Quasi quasi non te lo augurerei, di vivere — disse il signor Bicci. Poscia tentò una nuova via: — Morte, che sei tu mai? Ciro Menotti, caro Luigi, recitava il sonetto del Monti nell'andare alla forca.

— Ma io non recito niente, perchè io non vado alla forca: sto qui: non muoio!

— Forse. Quando però non si riuscisse a salvarti, non dubitare che io, di ritorno a Bologna, porterò i tuoi saluti e dirò le tue ultime volontà ai tuoi fratelli.

A questo punto Luigi si drizzò a mezzo del letto.

— Perdio, vuol capirla sì o no? Non muoio! non muoio! non muoio! Se non lo so io, chi l'ha da sapere?

— E tu vivi! — gridò non meno forte lo zio Giorgio, perdendo la pazienza. — Ma la tua vita, bada, sarà legata per sempre alla mia, che non importava t'incomodassi a difendere! Chi sta bene al mondo ha l'obbligo sacrosanto di tener compagnia a chi ci sta male. Hai capito?

II.

Quantunque sappiamo tutti che la perdita dei genitori è il più gran dolore umano, sarebbe disumano dir fortunato Gaspare Bicci perchè nacque postumo e perdè la madre non ancor giunto agli anni della discrezione. Egli però riconosceva che per lui, orfano, era stata una fortuna grande l'aver avuto a fargli da padre e da madre, con alterna vicenda, a seconda dei casi, lo zio Giorgio e Luigi.

Riandando gli anni della puerizia e dell'adolescenza, Gaspare non vedeva che rose senza spine. Fin delle scuole e degli studi, che angustiano e deprimono tutti i ragazzi, serbava grata memoria; così per tempo aveva saputo adattarsi alle necessità del mondo; tanto affetto gli era rimasto dei buoni maestri; tanto agevole gli era parso ciò che appariva disagevole agli altri. A superar gli esami tranquillamente lo zio Giorgio gli aveva dato in aiuto un vecchio precettore, il quale valeva una mediocre enciclopedia; e a guida negli svaghi e nei sollazzi gli aveva concesso Luigi, che gli lasciava lungo il guinzaglio.

Quando di guida non ebbe più bisogno — all'età cioè, in cui tutti pericolano — lo zio lo sorresse donandogli trattati d'igiene e trattati intorno le cause e le forme di morbi insanabili: per di più, le precauzioni non essendo mai troppe, gli regalò il codice penale. Così Gaspare crebbe sano di mente e di corpo; non di molto ingegno, ma abbastanza da comprendere che il grande ingegno rende infelici; abbastanza di cuore da commiserare il prossimo suo, ma non tanto tenero da patir danni, a mo' dello zio Giorgio, per gli altri; abbastanza di buon senso da persuadersi che i desideri superiori ai mezzi tolgono quiete e pace, e da scorgere in sè e fuori di sè prove indubbie della sua buona fortuna.

Oltre a questo, anzi prima di ogni cosa, chi non gli avrebbe invidiata la nativa arrendevolezza ai bisogni, alle convenienze, alle contingenze, ai consigli della ragione?

Gaspare Bicci non si preoccupò nemmeno delle due sole pretese in cui lo zio Giorgio insisteva. L'una: che suo nipote dimostrasse come i ricchi debbano servire la patria ugualmente ai poveri e come l'anno di volontariato sia un'ingiustizia e una vergogna; l'altra: che suo nipote conseguisse una laurea. «È vero — diceva — che troppe volte è meglio un asino morto d'un dottore vivo; ma giacchè gli asini vivi superano i dottori vivi, e quelli credono aver necessità di questi, è lecito trar partito dal comune pregiudizio.»

Ora, a proposito della laurea, Gaspare non dubitava che presto o tardi, scampato agli scogli della licenza liceale, appagherebbe lo zio e se stesso con un diploma d'ingegnere; e quanto alla milizia, sapeva bene che i volontari d'un anno soffrono, invisi come «signori», le angherie dei caporali e dei sergenti, e che, essendo egli un giovane istruito, diventerebbe presto un bravo sergente, benvisto dagli stessi volontari. Niente, dunque, volontariato!

La qual preparazione ad ambedue gli impegni dell'avvenire gli era così tranquilla, e quasi così grata, che la fortuna avrebbe potuto risparmiarsi la fatica di soccorrerlo.

Invece fu soccorso. Perchè mai? Un triste dubbio gli penetrò per la prima volta nell'animo: che la fortuna sua portasse jettatura agli altri; ed ecco come. Alle prove di licenza s'incagliò nella traduzione del greco; s'ingarbugliò in un maledetto periodo ipotetico, lungo lungo, da cui tutto il resto dipendeva in connessione logica e da cui egli, per quanto tirasse, non riusciva a strappare un senso razionale. E le ore passavano. Già qualcuno copiava la traduzione in buona copia; già i professori guardavano biechi, passando, ai fogli pieni di cancellature e di triboli, che non davan speranza di prossima fine.

E passò un'altra ora. Poscia uno consegnò il cómpit; quindi, in breve, molti; dei quali chi tornava dalla cattedra con aria dimessa: «sarà quel che sarà!»; e chi con viso lieto: «anche questa è fatta!»; e tutti con la colazione davanti agli occhi e l'anima alleggerita.

Ma gl'infelici in ritardo s'asciugavano la fronte; si curvavano sempre più sulle sudate carte e sui vocabolari copiosi e indifferenti; inghiottivano, sentendosi mancare le idee, la speranza e la lena, un pezzetto di cioccolata o s'attaccavano alla bottiglietta del cognac; si compromettevano con segni di richiamo e gettiti di pallottoline che recavano in seno una domanda o una risposta, un'invocazione d'aiuto o l'aiuto d'uno sproposito; vedevano, i miseri, la paterna e la materna angoscia.

Gaspare vedeva lo zio Giorgio e Luigi.

A un tratto il compagno di destra mise un profondo sospiro; guardò con, negli occhi, la gioia della vittoria e insieme una luce di carità; poi chiese a Dicci, piano piano:

— E tu?

— Se non ci fosse quest'ottativo....

— A te! copia...; ma cambia le frasi.

.... Gaspare Bicci fu ammesso all'esame orale, si salvò anche dal greco; e il compagno che l'aveva disimpacciato, fu bocciato in greco!

L'anno dopo Bicci andò a estrarre il numero di leva.

In un gran camerone, pieno di fallaci speranze e d'un'allegria fittizia, egli attendeva rassegnato e tranquillo.

— Bicci Gaspare!

.... Alla peggio, diventerebbe e rimarrebbe caporale.

— 824!

— Accidenti!, — fece uno tra i giovani che aveva più vicini; un operaio.

Parve a Gaspare di leggergli in viso il presentimento che non toccherebbe a lui ventura simile; a quel povero giovane, che col padre o la madre o i fratelli piccoli da mantenere, agognava un numero alto e n'aveva necessità, per rimanere in terza categoria.

Bicci, tra impietosito e curioso, volle aspettarne la sorte; e con un cordiale augurio ne accompagnò la mano entro l'urna.

— 12!

«Jettatore! jettatore!»

Ah era un dubbio assai triste! Quasi per un pudore arcano, Gaspare non osava confidarlo nemmeno allo zio; non prevedeva che questi l'avrebbe consolato subito in quattro parole: La jettatura è un pregiudizio così stupido che fa torto all'intelligenza degli uomini cattivi e alla bontà degli uomini poco intelligenti. Quanto alla fortuna, sia o non sia sottoposta alla divinità, essa è una potenza innegabile. Bada però che è relativa: che, cioè, la fortuna dell'uno è quasi sempre la disgrazia dell'altro; e che ciò che ci sembra fortuna oggi, ci sembrerà disgrazia domani.

Questo, o press'a poco, gli avrebbe detto lo zio. Ma Gaspare si consolò da sè per una diversa riflessione: dal non avere egli mai un forte mal di capo; dal non prendersi neppure un grosso raffreddore, non dovevan conseguire le pleuriti e le polmoniti altrui.

Per fortuna non conosceva dei medici i quali gli dicessero che, secondo la scienza moderna, anche il raffreddore è un'infezione, la benefica natura distribuendo nell'aria, per gli uomini e per le bestie, moltitudini di microbi frigoriferi; onde se la fortuna risparmia qualche suo prediletto dall'ingoiarne, tanti più ne rimangono, di microbi, a danno degli altri uomini e delle altre bestie.

Gaspare tuttavia non credeva d'essere un uomo fuori del genere o sottratto alle conseguenze del peccato originale, ed era appena uscito dal dubbio della jettatura che cadde in un timore più forte. Ricordava che suo padre e sua madre, di cui riteneva la sanità del sangue e della fibra, eran morti giovani entrambi per malattie casuali e violente. Non avrebbe egli la medesima fine? Sarebbe come un rovescio tutto d'un colpo; come una giustizia sommaria che lo rimetterebbe nella regola dell'infelice destino umano!

E per evitare un tal colpo egli era condotto a desiderare qualche piccola disgrazia: una piccola malattia, un fiasco alla Scuola di applicazione.

Ma che! Il diploma d'ingegnere l'ottenne, se non con lode, senz'infamia. Non ebbe subito impiego; ma non lo cercò, avendo modo di vivere modestamente, di leggere romanzi, disegnare, dipingere alla meglio, suonare alla peggio il pianoforte e andare a spasso: di vivere, insomma, senza far nulla. Nè si ammalò lui.

Una sera lo zio Giorgio venne a casa male in gambe, e con un gran freddo addosso.

III.

La malattia dello zio Giorgio fu breve, forse perchè non ne aveva avute altre mai in vita sua.

Sentendo irreparabile il danno del morbo e prossima l'ora, parlò al nipote con la serenità d'un savio antico. E disse:

— Un savio ti esorterebbe a vivere secondo il suo esempio; io, al contrario, non so proprio che consigli darti.

Disse Gaspare:

— Ci penserai quando sarai guarito. Adesso sta tranquillo.

Ma l'infermo, volgendogli uno sguardo in cui languiva il sorriso abituale:

— Credi che io abbia paura della morte? No no. Muoio volentieri: rerum novarum cupiditate. E poi, son convinto di aver già sofferto abbastanza.

Nella faccia serena gli si vedeva ora che aveva sofferto molto, povero zio Giorgio! Seguitava:

— Tu, per soffrir meno, provati a fare in molte cose il rovescio di quel che ho fatto io. Ama te stesso un po' più del prossimo tuo. Non dubitare di un Dio giusto e misericordioso, e per crederci fermamente, non dimandarti mai se ci credi fermamente. Non confidar troppo nella scienza, perchè in fondo a ogni vero che essa scopre, rimane un mistero. Prendi moglie....

Gaspare, a cui sino a questo punto pareva non aver udito nulla di nuovo, spalancò gli occhi.

— Prendi moglie. Una buona moglie è una vincita al lotto, lo so; ma, non ostante il calcolo delle probabilità, al lotto qualcuno vince. Del resto, se molti mariti sono ingannati, tutti gli scapoli sono ingannati, o, che è peggio, ingannano.... In politica, sii conservatore: è il solo partito che progredisca senza che nessuno se n'accorga; e nessuno l'incolperà mai di mutar bandiera o di retrocedere.... Ama l'arte, ma sta lontano dagli artisti. Ama la poesia, ma temi la fantasia tua più d'ogni altra cosa, dopo Dio....

E l'affanno gli spense la parola: cadde affranto. Non giovando a risollevarlo dimanda alcuna, nè sorsi di marsala, Gaspare mandò súbito per il medico.

Questi, che di grande appetito faceva colazione, credette lo disturbassero per un vano timore; cosicchè, quando arrivò, trovò l'infermo avviato a migliorare.

— Coraggio, zio! — disse Gaspare tornando al letto. — Il medico assicura che sei fuori di pericolo.

— Allora..., son bell'e spacciato.

Infatti non parlò più che verso sera, allorchè mormorò:

— Vado.

E aggiunse:

— Buona permanenza.

Uno stoicismo sublime! Per ammirazione, per emulazione quasi, cordialmente, Gaspare avrebbe forse risposto: — Buon viaggio — se Luigi, dall'altro lato del letto, non fosse scoppiato in singhiozzi costringendo a singhiozzare anche lui.

Intanto l'anima onesta voleva andarsene, ma il corpo, con le fibre che gli avanzavano salde, la tratteneva in un supremo sforzo e in un'agonia penosa; sì che, a ogni minuto, Gaspare sperava lo strappo finale. Per fortuna i minuti furono pochi.

— Zio!... zio!

Passato che fu, Gaspare e Luigi gli chiusero gli occhi, uno per uno, e lo baciarono: prima Gaspare, poi Luigi.

Quindi il servo accese una candela e attese, silenzioso, tutto in lagrime. Attese a lungo; ma come Gaspare, col capo fra le mani, non dava segno di muoversi, nè poteva credersi pregasse ancora o meditasse, Luigi gli si accostò.

— Signorino!... Vuol morire anche lei? Coraggio! Vada a prendere un po' d'aria. Adesso qui....

Alla mente di Gaspare corse la visione delle tristi cose alle quali la morte obbliga i superstiti; nè tardò a pensare, con gratitudine, che l'incarico di quelle cose sarebbe stato suo quando nel servo non avesse avuto allora e sempre il migliore amico.

Frattanto Luigi lo spingeva fuori della camera; e lasciatolo nell'altra, poco dopo vi rientrava con una tazza.

— A lei! Una goccia di brodo....

Gaspare consentì senza voglia. E domandò:

— Ti par proprio che sia morto volentieri?

— Sì; anzi, se non fosse perchè non lo vedremo più....

Gaspare alzò gli occhi al ritratto che pendeva alla parete.

— Per vederlo — Luigi si corresse, — pazienza: c'è il ritratto. Ma non sentir più la sua voce.... Quella voce, mai più!...

Gaspare corse a rivedere il morto; Luigi, dietro a lui.

Così:... morto. E l'anima?

Era, quel brutto giorno, una bella domenica alla metà di marzo, al tempo che già ferve per tutto un senso di vita nuova. Solo Gaspare Bicci non se n'accorgeva: andava per la strada affollata, solo, raccolto in sè; quasi sotto un peso opprimente; e dopo aver pensato agli uffici di pietà che gli restavano da compiere e alle forme di lutto da osservare, ripensava al mistero della morte.

Riflettè: «Dovendo morir tutti, ed essendo necessario, per morir volentieri, aver sofferto molto, ecco che anche il soffrire diventa un benefizio. Ma si è sempre a tempo.»

Eppure, lui soffriva; si sentiva stanco, stanco anche nelle gambe. Ah zio, zio! perchè morire? così buono!... Quand'ecco, a scorgere una carrozza che passava vuota, egli fe' un cenno al fiaccheraio e salì.

— Dove vuoi; per un'ora.

Indi riprese i tristi pensieri. Ma perchè lo zio Giorgio aveva patito assai? Oltre che la passione d'amore, a cui serviva di richiamo il tavolino delle esperienze spiritiche, quali altri guai aveva avuto quel nobile cuore?

A queste dimande risponderebbe forse qualche carta lasciata, per memoria, nello scrittoio; insieme col testamento.

Perchè, senza dubbio, lo zio Giorgio aveva provveduto in bel modo e in perfetta regola alle sue ultime volontà; senza dubbio sarebbe il nipote l'erede di tutte le sostanze, all'infuori di una giusta donazione a Luigi e all'infuori d'alcuni lasciti per beneficenza.

Veramente, nè lui, Gaspare, aveva bisogno di nulla, nè il patrimonio dello zio, il quale troppo per l'addietro aveva speso a pro' della patria e molto sempre, nel beneficare, era cospicuo. Di più: agenti e fattori ladri; disgrazie di grandinate e carestie, etc.

A conti fatti....

Gaspare faceva i conti quasi senz'accorgersene: tanto, la possidenza di Poggiogrande; tanto, la risaia di San Piero; tanto, la villa: una villa malconcia dagli anni, desolata, nell'incuria, laggiù, in una pianura malinconica.... Un ristauro sarebbe stato necessario.

In questo mentre il fiaccheraio, libero per quell'ora del suo arbitrio, credè che il più bel luogo ove condurre un signore svogliato e senza meta fosse il giardino pubblico. Ma come Gaspare, a mo' di chi si ridesta d'improvviso, si vide fra la gente che andava al passeggio o ne tornava, rimorso dalla sua sventatezza ordinò in fretta:

— No di qua! Torna indietro!

Ed ecco che, al voltar della carrozza, nel voltar gli occhi....

Dio! che bellezza!

Una signorina bionda; modesta nell'abito semplice; con due occhi tra celesti e verdi, meravigliosi, portentosi! Che occhi!

In un istante, nell'attimo che la carrozza voltava, quegli occhi gli scoprirono in viso una sciagura; indovinarono che egli non aveva nessuno, non madre, non sorella, non moglie a consolarlo; affermarono: io, per consolarvi almeno come moglie, verrei in carrozza, a casa con voi, piuttosto che andare al giardino, alla musica, con la mamma; promisero, quegli occhi, pur mostrando di promettere invano, conforto, pietà, fede, amore! E tutto in un istante!

Inondata l'anima di poesia. Gaspare, se poeta, avrebbe lì per lì composto un inno alla donna in genere; alla donna, del cui sublime ufficio al mondo l'avevano persuaso lì per lì, e per la prima volta, gli occhi di quella giovinetta.

La donna! Fiore che inebria. Carezze e baci. Vaso di consolazione. Incitamento alla vita perchè essa si rinnovi in altre vite. Tesoro....

«Ammógliati»; era questo il miglior consiglio che lo zio Giorgio gli aveva dato affinchè stesse di buon animo, con Luigi.

E quell'incontro istantaneo, quell'occhiata fugace e profonda acquistavano la significazione d'una volontà che così, per divina grazia, si manifestasse e ripetesse subito, d'oltre la terra.

«Ammógliati».

Gaspare Bicci provava nell'animo una impressione quale di carezza lunga, continua; e il suo sguardo a poco a poco avvertiva come un fervore di luce che s'andava definendo in un miraggio di felicità.

IV.

Per beneficenza il signor Giorgio Bicci non lasciò nulla; perchè — era detto nel testamento — beneficando in vita aveva voluto vedere il buono o cattivo uso del suo denaro; e per carità cristiana non aveva voluto, beneficando in morte, che nessuno si compiacesse della sua morte. Erede di tutto lasciò il nipote Gaspare; con solo l'obbligo di una donazione al servo fedele e con l'avviso che, se era difficile trovare un nipote come lui, Gaspare, era impossibile trovare un servo come Luigi. Le quali parole e la massima: «Ama te stesso un po' più del prossimo tuo», contennero Gaspare in così equa misura nel far la donazione che a lui non parve compiere alcun sacrificio e a Luigi parve ricevere più di quanto meritava.

— Signorino, è troppo! è troppo!

Ah sì, era un uomo sincero, Luigi! Non nascondeva la letizia di poter vivere agiatamente, insieme col suo Gaspare, gli ultimi anni; tuttavia si ricordava del morto e mormorava spesso con gli occhi pieni di lagrime: — Dove sarà mai, povero padrone?

Ma gli amici! Nelle loro condoglianze quelli vecchi, dello zio, avevano manifestato, più che il dolore della perdita, il presentimento doloroso del comune destino: hodie tibi, cras mihi.

E gli amici di Gaspare, che venivano a trovarlo o che incontrava per via, dicevano, tra mentite frasi, con lo sguardo o, se schietti, addirittura con la bocca:

— Fortunato te! Avere avuto uno zio ricco che ti ha tolto ogni incomodo e lasciata l'eredità!

Se, tutt'al più, avessero detto: — Comprendiamo il tuo dispiacere d'aver perduto una persona che amavi, e, nello stesso tempo, il piacere dell'eredità che hai fatta, poh!, in riguardo all'umano egoismo avrebbero meritato scusa. Dicevano invece, o parevano dire senz'altro: — Congratulazioni —, e invidiavano. Onde Gaspare doveva sfuggirli: a mostrarsi afflitto, non gli credevano; e mostrarsi lieto nè voleva nè poteva, essendo men tristo di loro.

Indispettito, così, delle amicizie, egli sentiva sempre più il bisogno di un'anima che lo comprendesse.

.... Or come una sera rincasava, appena dentro la porta Gaspare udì chiedere dall'alto:

— Sei tu?

Rispose:

— Nossignora, sono io.

Era la moglie dell'ingegner Tredòzi, da poco venuto ad abitare al primo piano.

— Stia comoda. Ci vedo — aggiunse Gaspare, mentre accendeva un cerino.

Ma la signora continuava a fargli lume; ed egli, per non bruciarsi, gettò il resto del cerino e salì più in fretta.

Ella disse: — Credevo fosse mio marito.

— Troppo gentile; s'accomodi..., s'accomodi — ripeteva Bicci, che era corso a suonare il campanello.

Se non che Luigi o dormiva o era fuori.

— Colgo l'occasione — disse la signora — per farle, benchè in ritardo, le mie condoglianze.

— Grazie.

Ed ella, nell'attesa, proseguiva:

— Sempre sciagure! Siamo proprio al mondo per soffrire!

— Mah!... — fece Gaspare in tono mesto, con lo sguardo in alto quasi intravvedesse lassù, nella vòlta, la ragione suprema della vita. E Luigi non veniva! Tornò a suonare.

La signora Tredòzi sorrise.

— Una fatalità: la mia donna, malata, e il suo Luigi....

Allora il sangue diè un tuffo a Gaspare. Fosse morto anche Luigi?

Ma no, eccolo.

— Eccolo, eccolo! Grazie... buona notte, signora. Grazie! Scusi!

— Buona notte, signor Bicci.

Perchè mai una donna così gentile e così bella (non per la prima volta quella sera Gaspare l'aveva trovata bella) era caduta nelle mani di un ingegnere così brutto e così villano come quel Tredòzi?

Le cose che non piacciono, o che dispiacciono, sembrano anormali ed enormi anche quando sono le più naturali del mondo; e questa interrogazione, sebbene egli cercasse di rispondervi ragionevolmente, ricorse al pensiero di Gaspare anche nei giorni di poi, quando rivedeva la signora Silvia. Perchè mai una donnina tanto graziosa apparteneva a un ingegner Tredòzi?

E per pietà di lei, dopo il colloquio su le scale, Gaspare volle rivedere la signora; e si vedevano spesso. Ella dal balcone, a cui si affacciava, e lui dalla finestra della sua camera, potevano anche parlarsi.

Cominciarono infatti con i «buon giorno» e i «come sta?» e con quelle parole che non giovano se non a confermare simpatia tra persone che hanno poca consuetudine, di trovarsi insieme: considerazioni del tempo; accenni a qualcuno o a qualche cosa nella strada. Finchè essa ebbe un favore da chiedere al signor Bicci: un libro, perchè si annoiava.

Gaspare le portò sei romanzi. Conoscendone già cinque, lei ne ritenne uno solo; grata, nondimeno, e ancor più gentile e amabile. E nel breve incontro, a cui il prestito aveva dato occasione, Gaspare apprese molte cose. Prima di tutto, che la signora Silvia diveniva più bella più le si andava vicino. Poi, che era infelice per colpa di quel tanghero: mai a un teatro; mai a conversazioni; sempre in casa ad annoiarsi! Infine, che era una signora molto colta e che perciò egli, il quale desiderava essere cortese, avrebbe dovuto provvederla di altri romanzi moderni: e uno alla volta, per godere più spesso della sua gradevole compagnia.

Così, appena il primo libro gli fu restituito, Gaspare ne portò uno nuovo di stampa; e via via. Discorrevano di romanzi. Ma come discorrere di romanzi senza parlar d'amore? Parlavano d'amore. Che se non sempre si trovavano d'accordo intorno al carattere delle eroine e degli eroi, sempre però convenivano in un punto: non essere possibile innamorarsi davvero senza commettere qualche sproposito. Orbene, Gaspare un pomeriggio si rinchiuse nella sua camera stupito, sbigottito: non di sentirsi innamorato della signora Silvia, che non c'era da meravigliarsene (per la solitudine del suo cuore dopo la perdita dolorosa, e per la stagione in cui erano: di primavera), ma stupito dell'aver scoperta innamorata di lui la signora Silvia!

Subito, di rimbalzo, tornò al ricordo dello zio; e subito, coll'intelligenza di un innamorato, egli scorse che all'articolo del matrimonio lo zio aveva avuto a un tempo ragione e torto.

«Gli scapoli sono ingannati, o, che è peggio, ingannano». Certo: ma non eran quelle donne lì, tanto soavi e infelici, che ingannavano gli scapoli; eran quelle altre! Del resto, se per regola ingannare sembra peggior cosa che essere ingannati, ingannare un Tredòzi non era ingannare un amico o un marito che non meritasse di essere ingannato. Un'eccezione, insomma; della quale lo zio moribondo non aveva avuto tempo di avvertire la possibilità, e per la quale il nipote compirebbe un'opera quasi pietosa confortando una povera donna.

— Io l'amo! — Gaspare esclamò senza più temere di commettere uno sproposito, e tuttavia abbastanza sicuro che un tale amore non trasgredirebbe al buonsenso fino a divenire una passione.

E l'indomani, interrotta la signora che, nervosa, con un tremito alle palpebre, prolungava un discorso vano, egli, col tono di un peccatore che si confessa o di un infermo che palesa il suo male al medico:

— Signora — disse d'improvviso, — io.... l'amo!

La signora Silvia impallidì, lo guardò attonita; s'alzò, ricadde; si nascose il viso fra le mani, e — oh gioia! — si mise a piangere.

V.

Gaspare Bicci non si era mai proposto il pericoloso mestiere del conquistatore: nè mai si sarebbe imaginato di navigare per il mare della colpa a vele così gonfie, con tanto vento in poppa e a sì grande velocità. Troppa grazia! Perchè una mattina Silvia gli gettò le braccia al collo in un impeto d'allegrezza annunciando: — Siamo liberi!

C'era da spaventarsi. Liberi?... come?

— Sì. Lui va in montagna per un ponte che s'è rotto, non so dove. Resterà fuori un mese e mezzo!

La libertà inattesa, per la quale si sottraeva all'usato giogo, la inebbriava, l'ammattiva.

— Ne vogliam fare di tutte le sorta! — ella esclamò. Pensò Gaspare che quand'anche proseguissero a farne di una sorta sola, bastava.

E Silvia, ridendo, soggiungeva:

— Figurati che lassù c'è solo una lurida osteria! Dormirà male, mangerà male, etc.: astinenza in tutto. Che castigo!

Ancora una volta la fortuna, per favorire un uomo, ne costringeva un altro — povero diavolo! — a disagi e a danni, e un po' ripugnava a Gaspare la soverchia letizia della bella. Tradire il marito poteva essere, sì e no, una perdonabile colpa; ma deriderlo e compiacersi del suo malanno, era davvero mancanza di generosità. E se dopo appena un mese che aveva il merito di confortare la signora Silvia, Gaspare Bicci teneva l'ingegner Tredòzi per un «povero diavolo» e l'ingannarlo giudicava una colpa, per quanto perdonabile, Gaspare Bicci non poteva dunque più negare a sè stesso che già gli sbollivano i primi ardori. Anzi, al sentimento della cattiva azione che commetteva, a un senso di profanazione che per quella tresca faceva al recente lutto, e all'amarezza del possesso diviso, gli si aggiungeva il timore d'un vincolo indissolubile. Silvia non dubitava neppure d'un lontano abbandono. «Ci ameremo anche quando saremo vecchi, per l'amore d'adesso» — ripeteva. Vecchi?

Egli contava i suoi anni: ventitrè; e gli anni di lei: ventotto o ventinove o trenta; e della differenza misurava l'entità nell'avvenire; e in proposito all'amore eterno si chiedeva se, caso mai, non fosse predisposto da natura ad amar eternamente una bionda piuttosto che una bruna, quale la signora Silvia.

Però a riflessioni più gravi lo condusse l'assenza dell'ingegnere. Silvia, da amante saggia che era, diventava pericolosa.

Strana donna! Prima, piangeva il suo fallo; temeva l'onta; raccomandava cautele.

— È geloso? — domandava Gaspare.

— Non so; non gliene ho mai data occasione. Ma so che non mi stima e io voglio che mi stimi a suo dispetto.

Onesta per dispetto!

— E tu — chiedeva lei — mi stimi?

Meno dell'altro; sebbene sentisse il dovere di rispondere: — Sì.

— Io tradisco un uomo — mormorava lei.

E lui:

— E io non t'aiuto forse a tradirlo? — Ciò che significava chiaramente: «dimandami se io stimo me stesso, e ti dirò la verità anche per te».

Ora, questa donna che pretendeva stima fin dall'amante, lontano che fu il marito volle a ogni costo informare il mondo che aveva un amante lei pure. Non solo lo traeva a gite in campagna, all'uso (secondo i romanzi) di Parigi: l'obbligava ad accompagnarla nei luoghi cittadini più frequenti; ivi gli dava del tu non a bassa voce o a voce troppo bassa; ivi pareva cercare le amiche perchè la vedessero. Inutilmente Gaspare l'ammoniva: — Giudizio! Qualcuno ne parlerà a tuo marito; qualche voce gli arriverà all'orecchio. — Silvia scrollava le spalle: — Ti amo! Alla peggio, mi ammazzerà, o io fuggirò con te. — Due cose da mettere i brividi solo a pensarle; e nè l'una nè l'altra sembrava la peggiore di tutte: la peggiore, la più probabile, era per Gaspare una terza: una revolverata a lui, Gaspare!

Bicci pertanto cominciava a stancarsi di quel fortunato amore; già desiderava, invocava il ritorno di Tredòzi, affinchè Silvia rientrasse nei limiti della discretezza.

*

Quando mai Gaspare Bicci ebbe un desiderio che, pur senza sua grande intenzione, non gli fosse esaudito?

Egli e Silvia una mattina, soli (la serva era uscita per le spese), stavano discorrendo del più e del meno e non attendevano al mal tempo e alla pioggia dirotta, allorchè un'improvvisa tremenda scampanellata li interruppe.

— Lui!

Gaspare non disse nulla: trovò; si mise il cappello in testa.

— Che sia proprio lui? Una seconda scampanellata.

— Dio!... Nasconditi; subito!

— Dove?

— Sotto il letto;

Già egli era ginocchioni, col cappello in testa.

— No! Meglio nell'armadio! — Mentre ve lo spingeva e ve lo rinchiudeva, Gaspare sentì di odiare quella donna.... E una terza scampanellata, lunga, atroce.... Poscia, dall'armadio, si udirono avanzare le voci; bestiale l'una; fioca l'altra.

— Corpo di...! Son bagnato da capo a piedi, e tu mi lasci fuori al fresco!

— Non avevo sentito; soffro tanto, oggi!

— Si vede: sei gialla. Cos'hai?

— Vertigini.

— E io? Almeno almeno mi sarò presa una polmonite, causa tua! — Tossiva. — Maledetto il tempo, il ponte, la Provincia, il Governo! Auf...! — Sbuffava. — Presto! una camicia; un paio di mutande.... Alle dieci debbo essere in prefettura! — Gridava. — Camicia! Mutande!

E quindi la voce fioca:

— Ecco la camicia; ecco le mutande.

Due tonfi: di scarpe che cadevano sull'impiantito.

— Presto: le altre scarpe! l'abito nero! il cappello sodo!

E Silvia, dopo un poco; dopo un'eternità per Bicci, là dentro:

— Ecco le scarpe; ecco il cappello.

— L'abito!

— Lo cerco.

— Dove lo cerchi? nel comò? È nell'armadio!

— Credo d'averlo messo io nel comò, l'altro ieri.

— Spicciati!

Ma:

— Non c'è.

Allora il marito cadenzando la parola con ira:

— È nell'armadiooo!

— No, ti dico!

— Sì, ti dico!

Due passi di lui a quella volta..., alla volta dell'armadio. La vita di Gaspare Bicci s'atteneva a un ultimo filo di speranza: Se il marito tradito era in mutande, non poteva avere indosso il revolver; a prenderlo occorrerebbe un certo tempo.... Ma uno strido modificò la catastrofe.

— Oh Dio! Muoio! Un po' d'acqua!... Presto!... Dell'aceto! Muoio!

Il marito esclamò, più forte della moglie:

— Sei matta?

— Per carità!... Aceto!... Muoio, muoio!...

— Io non ho tempo da perdere!... Cristo!... Dov'è ora l'aceto?

— In cucina; corri!... Oh Dio!... Ah....

················

Gaspare spingeva. Ella aperse.

— Scappa — disse — e chiudi l'uscio!

VI.

Tira e tira, poichè l'uscio d'ingresso non si chiudeva, a chiuderlo con istrepito Gaspare preferì trarlo accosto. Ma uscendo, il marito al quale pareva d'averlo chiuso lui, si meravigliò e collegò un primo sospetto alla storia dell'abito che la moglie aveva voluto non fosse nell'armadio e allo svenimento improvviso; sicchè i sospetti crebbero.

— Per persuaderlo — disse poi Silvia a Gaspare — ho dovuto svenire altre due volte, dopo desinare.

Ebbene, tutto ciò era brutto, era immorale! Le scampanellate; il rifugio nell'armadio; gli svenimenti sapevano di pochade; e assistendo alle pochades Gaspare aveva riso sempre, di gran gusto, ma non gli era mai parso bello imitarne gli eroi. S'aggiunga che nella vita diviene non di rado tragedia quel che in teatro equivale alla pochade; e Tredòzi non aveva faccia d'uomo da lasciarsi prendere pazientemente in giro.

Tredòzi sospettava: perciò Bicci aveva il dovere di ridar la pace a un uomo e di salvare la vita anche a una donna; e perciò bisognava, anzitutto, allontanarsi, essendo la vicinanza che eccitava a pazzie l'innamorata. Bisognava, magari, mutar casa.

Veramente a cambiar residenza stimolava Gaspare un secondo motivo, che non avrebbe confessato neppure a un amico intimo, neppure a Luigi.

Ed era questo: due notti addietro egli aveva preso sonno prima d'aver spento il lume e facendo per spegnerlo in un intervallo di risveglio, gli era comparsa dinanzi una donna bianca, o meglio, un'imagine, una larva che lo guardava con occhi stupiti e dolenti quasi di non riconoscerlo. Balzato a sedere sul letto, la fantasma si era dileguata súbito. Un'allucinazione senza dubbio. E la mattina dopo ne aveva riso. Ma la sera per precauzione non si era dato il disturbo di spegnere la candela. Ed ecco, a trarlo con freddo orrore del dormiveglia, ecco lo spirito entrare, avanzare adagio adagio, con lo sguardo doloroso e incerto; più vicino, più vicino....

Questa volta egli aveva messo un grido. E lo spirito, via.

Alla visione era seguito nel pensiero di Gaspare un raziocinio: forse quell'anima, non sentendosi da tempo più chiamare per mezzo del tavolino, veniva lei in cerca dello zio Giorgio; onde arguivasi che l'anima dello zio era andata da un'altra parte.

Ma continuerebbero quelle visite spaventevoli?

.... Un'insania? Sciocchezze, che la scienza positiva deride?... Insomma, fosse pazzia o no, per tutta la notte non gli era stato possibile richiuder occhio; e conveniva evitare una malattia d'insonnia, e paure, angustie.

A tempo dunque venivano i sospetti dell'ingegnere. Confermandolo nella determinazione della notte, permettevano a Gaspare d'andarsene e di ridere de' suoi terrori notturni.

Rimaneva una difficoltà. Luigi si rassegnerebbe ad abbandonar la casa ove era invecchiato e dove il padrone era morto?

Mentre Gaspare meditava, Luigi gli venne davanti con aria meditabonda.

— Signorino, questa casa non è più per noi.

Forse anche lui aveva avuta la visione paurosa? O forse il buon uomo, consapevole della tresca, ne temeva lui pure le conseguenze?

Gaspare non interrogò; rispose:

— Hai ragione. Cercheremo un appartamento ammobigliato.

Lo trovarono lo stesso giorno; elegante; in una delle vie principali; a buon prezzo: in casa del cavalier Squiti.

Quanto alla signora, essa ebbe una lettera, che Bicci le gettò nel balcone: In casa e nel vicinato tutti sapevano, spettegolavano, malignavano, mormoravano, spiavano. Era inevitabile una tragedia se qualche voce perveniva all'orecchio di Tredòzi. Diveniva obbligo d'un gentiluomo, in tal caso, salvar la fama e la vita d'una signora, allontanandosi. Oltre a ciò, per faccende d'interessi, Gaspare chiedeva a Silvia una licenza di quindici giorni; trascorsi i quali e chetati sospetti e ciarle, riprenderebbero i loro colloqui nella casa in cui egli andava ad abitare, o altrove.

Piacesse o no alla signora, questo era buon senso, questa era prudenza!

VII.

Il cavalier Squiti, padrone di casa, alto impiegato della Provincia e persona molto grave, non aveva solo la moglie. Gaspare vide, alcune volte, alla finestra.... Che bellezza! Due occhi tra celesti e verdi; capelli biondi; portamento modesto e gentile.... Assomigliava alla signorina che si recava al giardino pubblico il dì mortale dello zio Giorgio. Lei?

Forse non era; ma le assomigliava in modo che a vederla una dolcezza grande veniva, per gli occhi, al cuore di Bicci e, insieme, un panico quasi alla presenza di una divinità. Rapidamente, con la rapidità del destino, egli, che dalla brutta tresca aveva avuti incitamenti all'amore buono e al consiglio dello zio, ne rimase conquiso. Tale, infatti, tale gli appariva la donna vagheggiata ne' sogni dai giorni che non conosceva l'amore al dì ch'egli l'aveva conosciuto! Tale era la donna amata e da amare: fatalmente. Bando, dunque, al peccato! Mai più signora Silvia! Pace e salute all'ingegner Tredòzi! E a Gaspare, certo che stavolta era la buona, gli bisognava accertarsi anche se il cavaliere Squiti presto o tardi gli darebbe l'angelica giovinetta in moglie.

Accadde che circa ventiquattr'ore dopo aver visto quell'angelo per la quinta volta, Gaspare uscendo s'imbattesse appunto nel cavaliere, che usciva; e s'accompagnassero per istrada.

Scambiati i soliti complimenti: — Ah suo zio! Che galantuomo! — esclamò l'uno.

E l'altro: — Lo conosceva?

— Eravamo amici. Un po' originale, a dire la verità; un filosofo; ma che cuore, che cuore! E che carattere! Uomini d'antico stampo, caro Bicci!

— Ah sì!

— E che bene le voleva, a lei! A discorrere di suo nipote, ci godeva; proprio come un padre.

— È strano — disse Gaspare: — di me non ne parlava mai con me.

Ma il cavaliere si fermò di botto.

— A proposito: lei, senza dubbio, suona?...

Distratto dal ricordo dello zio o dall'apparente incongruenza di quell' a proposito, Bicci chiese:

— Suono?...

— Il piano?

— Sì, alla peggio.

— Anch'io suono — disse il cavalier Squiti levandosi gli occhiali, pulendone le lenti e rinforcandoli: — non il pianoforte, però; uno strumento più geniale — come dire? — più canoro, più.... cordiale.

— Il violoncello?

— No, il clarinetto.

Gaspare si figurò la persona grave del cavaliere col clarinetto in bocca; e tacque.

— Creda a me: la musica è il miglior conforto nelle disgrazie — seguitò l'altro.

— Lo credo.

— Se mi favorirà qualche volta, suoneremo.

Gaspare allora esclamò entusiasta:

— Volentierissimo!

— Stasera?... Potrebbe?

E gli occhi dello Squiti rifulgevano dietro le lenti.

— Sissignore, posso.

Ripresero la strada; e il cavaliere riprese a dire, senza più sorridere, con tutta gravità:

— Io in casa ci avrei una pianista; ma adesso non ha tempo.

— La sua figliola? — domandò Bicci, al quale battè forte il cuore.

— Non ho figliole: la mia pupilla.

«La sua pupilla? La signorina era sotto la sua tutela?» E Bicci pensò con nuova tenerezza: «Orfana come me!»

— La signorina Roccaforte è per me quel che era lei per suo zio. L'ebbi in casa bambina. Il padre....

Gaspare ascoltava il racconto religiosamente, intanto che benediceva suo zio e il clarinetto.

Poi, essendo già innamorato e con la testa nel cuore, si dimenticò di chiedere allo Squiti perchè la signorina Roccaforte non aveva tempo di sonare.

Nè (importa notarlo?) si ricordava più affatto della signora Silvia. Ah la virtù di ogni amor buono su ogni amore disonesto!

Mai, mai come la sera di quel giorno il giovano Bicci si studiò di rendersi elegante; ed entrò dagli Squiti con grandi palpiti e insieme con la disinvoltura d'un uomo uso al mondo. Ma il cavaliere, che scartabellava della musica, l'accolse solenne; in tono ufficiale lo presentò alla moglie, che faceva la calza. E chiamò ad alla voce:

— Erminia!

Ella dalla finestra (aperta: era di maggio) si fece innanzi, lentamente....

— La signorina Erminia Roccaforte — .... e voltosi a un giovane, che la seguiva (oh Cielo!), il cavaliere presentò: — L'avvocato Enrico Griboldi, suo promesso sposo.

— Tanto piacere.... — All'imbarazzo di Gaspare, la signorina Erminia sorrise a pena a pena.

— A noi! — esclamò lo Squiti in un'istantanea mutazione di gioia. — Badi che io odio la musica tedesca. Non è mai accaduto a lei, caro Bicci, di odiare una cosa bella?

— Ah sì! — rispose Gaspare, che ora odiava la signorina Erminia.

Il primo pezzo — del Faust — procedè a meraviglia, quantunque le mani di Bicci qua e là affrettassero come un cavallo che abbia amor proprio e cui rincresca restar addietro al compagno. Finito il pezzo, la signora Squiti depose la calza e battè le mani; la signorina avvertì che la gente si arrestava per la strada ad ascoltare; il cavaliere, deposto il clarinetto, abbracciò il compagno dimenticandosi d'esser grave.

— Oh che orecchio! che orecchio!

Ma gli altri pezzi ebbero peggior sorte, per colpa di Gaspare che cadeva in pensieri estranei. Pensava: «Io non sono forse meglio di colui? Si può dire un bel giovane? robusto come me? — Avvocato! — E non sono ingegnere, io? Che meriti avrà? Niente: fortuna! Quest'è fortuna! Una moglie bella — così bella! — ricca; e orfana...; nemmeno la suocera!»

— Pazienza...: Terza battuta: là! — riprendeva il cavaliere.

Al diavolo anche il clarinetto! Bicci sudava: con il freddo nel cuore.

Già infelice, sembravagli d'esser stato sventurato sempre; di dover essere infelice sempre, per tutta la vita; e pativa della più grande sventura che possa capitare a un uomo: quella d'innamorarsi d'una ragazza innamorata e fidanzata d'un altro.

VIII.

Assente da lei credeva che il solo contemplarla quale un'imagine di pura bellezza o una cosa intangibile basterebbe a ristorargli l'inedia dell'anima; e vicino, oltre il martirio del clarinetto, che pena la vista dei fidanzati in abboccamenti, in sorrisi, in bisbigli! Era una sconvenienza sociale! Perchè ai fidanzati dev'esser lecito dirsi delle sciocchezze o, magari, parlar male del prossimo a bassa voce, in cospetto del prossimo? Non avevano riguardo quei due nemmeno a una persona giovane, che, in fin dei conti, veniva lì per far servizio al padrone di casa!

Così il povero Gaspare, invece di contemplare, doveva torcere gli occhi altrove; doveva dubitare che gl'innamorati ridessero di lui; doveva resistere alla tentazione di fracassar la tastiera del pianoforte.

Se n'andava. E appena fuori, ogni sentimento d'invidia e d'ira cedeva al desiderio del mirabile viso.

«Siamo seri! ragioniamo!» egli si ripeteva indarno. «Il meglio sarebbe che io mi distraessi.» Ma non trovava il modo; anzi le distrazioni che gli capitavano, gli accrescevano il desiderio d'Erminia. Gliene capitò una, un giorno.... La signora Silvia, avendo scoperto il rifugio di lui, vi penetrò.

— Lei.... tu!...: qua?

— Traditore! — Ella alzò il velo per mostrar meglio due occhi rabidi.

— .... col pericolo di compromettervi? — proseguì lui, trovando il tono giusto.

— Vile!

Ma Gaspare assunse l'aria d'un uomo superiore agl'insulti; freddo, quasi sprezzante.

— Non vi avevo chiesto quindici giorni di libertà? Ho i miei affari anch'io; avevo, ho bisogno di tranquillità, di riposo.

— Ah Gaspare, Gaspare!

Ora gli occhi si riempirono di lagrime e fiammeggiarono; a un tempo, lagrime di duolo e fiamma di tentazione e di colpa.

— Tu, Gaspare! Chi me l'avrebbe mai detto! Non l'hai dunque l'anima? Dodici giorni senza passare sotto le mie finestre! Senza scrivermi nemmeno una riga!

Il dolce rimprovero lo punse più che le offese. Deliberato tuttavia a finirla, Bicci, che voleva finirla da gentiluomo, esclamò:

— Silvia! Debbo dirvi la verità. A me, uomo leale, rincresce offendere un uomo leale com'è l'ingegner Tredòzi! Ecco tutto!

A quest'affermazione Silvia avvampò più che a uno schiaffo.

— Ecco tutto? Tu menti! Non avevi scrupoli prima, quando.... Tu menti! Adesso capisco che non mi ami più!

Infatti, che cosa ha mai a che fare la coscienza con l'amore?

— .... Adesso voglio saper il resto; proprio tutto! Perchè abbandonarmi?... Dimmene la causa vera, subito! — L'investiva, inviperita. — Subito!

Che dirle? Rispose:

— Che volete che vi dica? Incompatibilità di carattere: voi siete piena di fuoco; e io....

— Bugiardo! Incompatibilità di carattere non può esserci che tra marito e moglie! La ragione vera le la dirò io! Tu hai una nuova amante!

— No; ve lo giuro.

— Spergiuro! Infame spergiuro!

Era inutile discutere quando non valeva giurare. Gaspare non aveva ancor scosse le spalle che già Silvia gridava:

— Ah, tu credi che tutto sia finito tra noi? T'inganni! Io ti detesto, ma io ho dei diritti su di te; fra noi due c'è un vincolo; un vincolo morale!... — (Lo chiamava un vincolo morale!) — Tu mi hai sedotta!... C'è il vincolo del rimorso fra noi, e se scoprirò che tu hai un'amante, ti caverò gli occhi; a te o a lei; così imparerai a conoscere le gentildonne!

Su l'uscio, calato il velo, si rivolse per ripetere: — Io sono una gentildonna! — E partì, finalmente.

.... Se non che Bicci non gioì neppure della liberazione da quel giogo. Soggiaceva perduto, affannato, disperato a un maggior peso, all'amore fatale e contrastato dal destino. E non un amico col quale confidarsi! Avrebbero riso gli amici: un innamorato muove sempre a riso come chi cada goffamente in terra. Lui dove mai era caduto?

Con la testa tra le mani, negli occhi l'apparenza del suicidio, si abbandonò e parlò al solo che lo compiangerebbe.

— Sono innamorato, Luigi.

Luigi si mise a ridere.

— Eh, lo so da un pezzo!

— Della signora? Di quella dell'altra casa? — esclamò Gaspare, abbattuto. — Credi di quella?

— Di tutt'e due: di quella e di questa.

— No no: solo di questa qui, della signorina — egli protestò —; ed è già impegnata!

Allora Luigi chinò lo sguardo, quasi pensasse ch'essere innamorato di una sola fosse un malanno assai più serio. Poi disse:

— Perchè non andiamo in campagna? A mutar aria....

Il consiglio era semplice e buono; e la lontananza, gli svaghi campestri, la caccia, il ristauro della villa potrebbero davvero guarirlo. Alla fin fine, non sarebbe una corbelleria morir d'amore?

IX.

Una corbelleria senza dubbio. Ma intanto che passava il tempo, la cotta permaneva. La passione del nipote diveniva una passione più grave, più affannosa forse che quella del povero zio! Perchè se Erminia fosse morta dopo avere amato lui, com'era accaduto allo zio, meno male! Erminia invece non lo amerebbe mai: Erminia amerebbe sempre quell'altro! E Gaspare era innamorato in modo che quando, in certi momenti, credeva d'esser guarito e si rallegrava tutto, ecco d'un tratto tornargli la parvenza cara e nemica, e con essa quella pena al cuore come di un male che, dopo un breve assopimento, rincrudisce; un'amarezza quale di torto ricevuto o di oltraggio patito; una intollerabile smania di rivedere in realtà l'amata donna; una rodente gelosia. Oramai egli non si diceva neppur più uno stupido, convinto sempre più che Erminia era per lui la donna unica; che lei, proprio lei aveva incontrato al passeggio nel giorno funesto; che altre bionde così belle o più belle ne potevano esistere, ma che egli non avrebbe potuto amarle; che, quasi quasi, l'amore è più forte del buonsenso. Essendo perciò impossibile la guarigione e assurda ogni speranza, Bicci aspettava il compimento del suo destino, qualunque si fosse. E compieva frattanto il ristauro della villa; il quale era proceduto a meraviglia.

Appunto la mattina di quel memorabile giorno — 26 luglio — egli se ne stava tra gli operai allorchè Luigi gli portò la posta. C'era, coi giornali, un annuncio di morte. A Gaspare — sempre triste — parve di veder l'annuncio della sua morte; ma, aperto il foglio e letto il nome — oh! — rimase lì stordito, sbalordito, e non di dolore. Oh gioia! A precipizio, come pazzo, discese e corse dietro a Luigi.

Dentro, una voce gli gridava: «jettatore! jettatore!»; eppure un'onda di gaudio gli travolgeva ogni pensiero; gli travolse ogni sentimento umano; e, in un abbraccio all'amico servo, con lagrime ferme su gli zigomi — lagrime di felicità — gridò:

— È morto!

— Chi?

— L'avvocato Enrico Griboldi!

*

Ebbene: tosto che gli fu scemata la grande commozione, Gaspare, con moto quasi inconscio dell'animo, riuscì a conciliare l'amore al buonsenso.

Riflettè che per una ragazza il perdere un «ottimo partito», non in colpa sua, sì della morte, giova di réclame: e che egli, se non fosse se cauto, poteva restar privo d'Erminia un'altra volta. «D'altra parte — riflettè — si consola più presto una vedova propriamente detta che una fanciulla vedovata prima del tempo ed inesperta»; e però gli bisognerebbe aspettare.

— Quanti mesi?

Gaspare non temeva d'offendere la bontà di Erminia augurandone più breve che fosse possibile il cordoglio.

E verso la metà di settembre Gaspare fu a trovare in ufficio il cavalier Squiti; che, desolatissimo, gli disse:

Morte fura i migliori e lascia stare i rei.

Rimorso come reo, Gaspare parlò sinceramente, in un'induzione dal caso singolare a un genere di sventura.

— Ha ragione, signor cavaliere. Che cosa terribile dev'essere morire nella pienezza della gioventù! con uno splendido avvenire! amato!...

— Per fortuna — rispose il cavaliere, — Griboldi è morto senza saperlo, d'una meningite acuta!

— Meno male! — fece Bicci. Dopo chiese, pallido: — E la signorina?

L'altro scosse il capo.

— Sempre lagrime; sempre sospiri; non vuol più veder nessuno; non esce di casa: un martirio! Le è venuto a noia anche il clarinetto. anche la musica, che è il miglior conforto nelle disgrazie.

«Aspettiamo», si ripetè Gaspare. Infatti non tornò ad abitare a Bologna che al termine dell'ottobre.

Ah che battaglia, la prima visita! Dirle: — Mi condolgo — oppure: — Signorina, le mie condoglianze — gli repugnava; non poteva. Egli salutò e tacque, senza sospirare; Erminia tacque, volgendo gli occhi a terra; la signora Squiti sospirò e taceva. Finalmente — poichè il silenzio si prolungava un po' troppo — Bicci ebbe una espressione felice: — Povero giovane!

Allora la signorina scoppiò in singhiozzi e la signora intraprese l'elogio del morto. Annuiva Gaspare ad ogni lode, e gli costava così poco!; ma spesso gli occhi gli sfuggivano a guardar la dolente; e pensava: «O il dolore è per le donne, o le donne sono per il dolore: diventano più belle!»

Quella visita, insomma, fece bene a tutti e tre; di guisa che la Squiti, accompagnandolo sino alla porta, gli susurrò:

— Lei abita in casa nostra; lei è un amico di casa, e la sua compagnia ci sarà di sollievo. Se ne ricordi.

— Non dubiti, signora.

Gaspare non chiedeva di meglio. Non di rado però nelle seguenti visite quotidiane, non volendo mentire o mentir troppo, fu per smarrire la bussola. Poco giovava che la signora Squiti s'appigliasse a tutti gli argomenti, se tutti i discorsi cadevano nel muto affanno d'Erminia.

Come Dio volle, egli ebbe un'idea.

— Perchè non si prova a leggere, signorina?

— Non posso; no; è impossibile!

— E se leggessi io?

— Anzi! — disse la signora Squiti; — distrarrà anche me. Bravo, signor Bicci!

E Gaspare andò a leggere ogni giorno.

Dava tempo al tempo. Venne il dicembre; si avvicinarono le feste natalizie. «Quanto saranno tristi per lei! — Bicci pensava. — Non la conforterebbe sapere che io l'amo, anche se lei, per adesso, non abbia voglia di far all'amore?»

Còlto quindi un momento che la signora Squiti non v'era, egli interruppe una lettura per guardare Erminia negli occhi. I quali si abbassarono; subito il bel volto si afflisse. Non era un'esagerazione, oramai? Un po' troppo, via!...

— Come lo ha amato! — esclamò Bicci perdendo la bussola.

— No — Erminia rispose in modo semplice e in tono tranquillo.

Ora parve a Gaspare di cader dalle nuvole.

E lei:

— Io gli volevo molto bene.

E poichè Gaspare non capiva, ella si spiegò:

— A me sembra che amare significhi più e meno di voler bene. A Enrico io gli volevo bene, perchè egli mi amava; ma sono certa che divenuto mio marito mi avrebbe anche voluto bene. Capisce?

Gaspare avrebbe capito subito, se non fosse rimasto perplesso a chiedersi: «E io che cosa dovrei dirle? Che l' amo, o che le voglio bene?» Tuttavia, a poco a poco, la luce si fece nel suo cervello. Evidentemente, pur volendo bene assai al Griboldi, Erminia non ne era molto innamorata. Perbacco!... Quasi spinto da una molla allora balzò in piedi:

— Signorina! Questo ufficio di consolatore mi è odioso!

Ella interrogava con lo sguardo, stupita.

— L'amo! Io l'amava due giorni prima di sapere che lei era fidanzata; forse l'amavo avanti di conoscerla! Io l'amai solo a vederla, un giorno che lei andava al giardino; e adesso che la vedo soffrire, l'amo e le voglio bene!

La signorina, fredda, rispose:

— Me ne dispiace per due ragioni: la prima, perchè adesso il mio cuore è di pietra; la seconda, perchè, dopo quello che lei mi ha detto, io debbo pregarla di cessare le sue visite.

— Oh questo poi no! — esclamò risolutamente Gaspare. — Io non vivo senza vederla! Muoio anch'io! Mi conceda la grazia che io la veda ogni giorno....

Ella taceva.

— Signorina....

Gli occhi a terra; e zitta.

— Me la fa la grazia? — ripetè Gaspare a mani giunte, attendendo.

Per fortuna, nell'entrare, la signora Squiti s'arrestò, trattenuta da un improvviso sospetto; così Erminia dovè concedere due grazie in una volta.

— Sì. — E alla signora Squiti: — Il cavaliere — ella disse — può riprendere il clarinetto.

X.

Quando alla signorina Erminia non mancava che un mese per compiere l'anno di lutto, Gaspare Bicci ne chiese la mano al tutore cavalier Squiti. Non si meravigliò il tutore, ma assunse nella risposta un'apparenza anche più solenne della solita.

— Il padre della signorina affidata alle mie cure mi lasciò l'obbligo di non concederla in moglie a chi non esercitasse una professione; fosse anche milionario. Lei....

— Io sono ingegnere! — affermò Bicci con l'impeto di un naufrago che si salva.

— Dunque eserciti!

Ma come? ma dove? Gaspare smarrì l'animo di nuovo ricordando e avvertendo che erano brutti tempi, quelli, per gl'ingegneri.

Allora lo Squiti: — È indetto un concorso al Genio Civile. Perchè non concorre? La raccomanderò io a due deputati miei amici e otterremo ciò che vorremo.

Fu buono il consiglio; e Gaspare concorse; e attese confidando. Un mese passò; ne passaron due, tre. Ma non se ne doleva egli, che impaziente, fuor che un po' nell'amore, non era stato mai, e che giudicava non perduto il tempo del fare all'amore.

Provava, intanto, una gran voglia di lavorare; scopriva in sè una naturale disposizione a valutar terre, a costruire case e ponti, a tracciar strade, a riparar fiumi.... Ed ecco, dopo soli tre mesi e mezzo, cioè abbastanza presto, venir la notizia del concorso. Per i suoi giusti meriti Bicci era riuscito fra i primi. Si comprende dopo ciò che per quelle tali raccomandazioni non gli doveva riuscir difficile nemmeno l'ottenere il posto desiderato alla sede di Bologna.

*

E non con altro sentimento che una trepidazione di gioia, al giorno e all'ora prefissi, Gaspare Bicci entrò all'ufficio, su, in Palazzo Comunale. Ma ahi! con una trepidazione diversa guardò all'ingegner capo. Misericordia!

Quegli stava scrivendo; e mentre scriveva, aggrottate le ciglia, immoto il viso ferino, senza guardare, chiese:

— Lei è il signor Bizzi?

— Nossignore: Bicci.

— Uhm! Cominciamo male! — grugnì l'altro. Aggiunse: — Il decreto dice Bizzi. — Però, nell'atto dell'alzar gli occhi, dovè ammettere un errore nel decreto; giacchè fece una smorfia di meraviglia.

— Oh bella! Il nipote del signor Giorgio!

Misericordia! L'ingegner capo era....

Balbettò Gaspare:

— Sissignore, sono io —; quantunque, a dir vero, fosse divenuto irriconoscibile a riconoscere colui: Tredòzi!

— Bene! Son contento! Suo zio era un bravomo.

— Cercherò....

— Benone! Venga di qua.

Lo condusse nella camera attigua, in cui altri due giovani scrivevano o disegnavano; e prese alcune carte.

— Oggi mi bisognerebbe questo, e questo.... Alle quattro vedremo che cosa avrà saputo farmi.

— Non son cose difficili. — disse Bicci.

— Benissimo! E prima d'andarsene Tredòzi lo battè con la mano su la spalla:

— Gran bravomo suo zio!

Dopo un poco uno dei giovani colleghi si volse a Gaspare:

— Fortunato lei!

E il compagno:

— È il primo che quel cane non tratta da cane.

Se non che anche di così innocente fortuna, dovuta in gran parte a una virtù o memoria famigliare, Gaspare ebbe a dolersi presto: alle quattro; allorchè tornò l'ingegner capo.

Il quale, esaminata l'opera di lui, disse: — Benone! —; disapprovò l'opera degli altri due; poi, appena costoro furono usciti, ordinò a Gaspare:

— Lei oggi verrà a desinare da me.

— Impossibile!

A quella decisa risposta sparì dal viso di Tredòzi ogni impronta di umanità.

— Tenga a mente che per me non c'è nulla d'impossibile, mai!

— Ma...; ecco....

— Che cosa.... ecco?

— Io sono fidanzato....

— Benone! No! malissimo!

— .... e per stasera ho promesso....

— Meglio! Cominci dal mancar lei alle promesse; l'avvezzi per tempo, la sposa. Crede che sua moglie un giorno manterrà tutte le promesse che le fa ora?

Fu inutile resistere.

Ma se quell'uomo, ch'egli aveva rispettato e compianto troppo tardi, fingeva, lo traeva in un'insidia?

— Senza complimenti, s'intende — disse quell'uomo — perchè io sono alla buona: leale, sincero, schietto come suo zio e come sarà lei.

Respiro! L'insidia pareva proprio da escludere. Nondimeno non era una disgrazia anche questa? correr pericolo che Silvia, in uno scatto d'amore o d'odio, si compromettesse e lo compromettesse? E in tal caso che accadrebbe, buon Dio?

Nulla accadde. Silvia, invece, fu mirabile; lieta a conoscere di persona il nipote del signor Giorgio, che (già!) conosceva solo di vista.... Non un discorso in cui ella s'imbarazzasse, o che imbarazzasse. Benissimo! E Gaspare, a tanta disinvoltura e sicurezza di spirito, si convinse d'essere un giovane spiritoso e disinvolto.

Ma a tavola, al secondo piatto, l'ingegnere uscì a dire — e aveva uno sguardo torvo:

— Sai che questo disgraziato prende moglie?

Passò, negli occhi di Silvia un lampo; per il quale Gaspare rabbrividì.

Invece ella, dopo, sorrideva.

— Davvero? Me ne congratulo!

— E io me ne dolgo! — ribattè il marito. — Io lo compiango! Una corbelleria! uno sproposito! un delitto che, se suo zio fosse al mondo, non commetterebbe!

Rispose Gaspare: — Tutt'altro! Me lo consigliò lui, quand'era moribondo....

— Ah sì? Ciò prova che quando si è moribondi si ha perduta la testa!

Intanto Silvia esortava Gaspare:

— Non gli badi. Scherza.

— Eh! — proseguì Tredòzi —; se Bicci stesse per annegare e io gli allungassi una mano, ci si attaccherebbe; ma perchè lo consiglio di annegarsi piuttosto che dar retta alle donne, sta pur sicura che darà retta a te!

— Tredòzi!

Imperterrito il marito proseguì:

— Pensare che io cederei fino mia moglie!

— Tredòzi! Tu mi offendi! — gridò la signora Silvia rossa in viso, in atto d'alzarsi. Ma Tredòzi non si scompose.

— Non offendo nessuno. Confronto il bene della libertà individuale al vincolo del matrimonio e dico che se debbo augurare a Bicci la minor sventura possibile, gli auguro la fortuna che ho avuta io.

— Grazie! — scappò detto a Gaspare.

Per fortuna la signora Silvia introdusse un altro discorso, e l'ingegnere, il quale perdeva l'argomento preferito, si quietò e riparlò solo tardi, ad annunciare che usciva per i sigari.

L'ora della cavata d'occhi era giunta. «Ci siamo!» riflettè Gaspare.

— Dunque è vero? — chiese, sorridente, la signora.

— Capirete.... Ho ventiquattr'anni.... Oh! Ella non si turbava.

— Ammògliati pure: una moglie non è un'amante; e io non ne sono gelosa.

Per gratitudine, Gaspare quasi quasi l'avrebbe baciata. Ma non c'era da fidarsi ch'essa interpretasse giustamente la ragione di quel bacio.

— Ed è bionda, o bruna?

— Bionda.

— Ho piacere; tanto piacere!... Quanti anni ha?

— Diciannove.

— Una bambina! Tanto, tanto piacere!

Si vedeva che gioiva. Credeva forse che d'una bionda si stancherebbe, presto? E volle le narrasse la vera storia dell'innamoramento; a che egli accondiscese con qualche ripiego d'innocenti bugie, nella maniera di tutti gli autobiografi. Infine la signora chiese:

— Perchè, caro Gaspare, se non ci è più lecito amarci, non possiamo volerci bene?

La distinzione d'Erminia!

— .... e non restiamo amici?

— Anzi amicissimi! — esclamò l'ingenuo, lieto, salvo. S'imaginava d'esser salvo da ogni castigo.

....Quando fu di ritorno, Tredòzi guardò all'orologio e parlò pacatamente:

— Se il far la corte a mia moglie bastasse, caro Bicci, per mandare a monte il suo matrimonio, la pregherei di restar qui sino a mezzanotte; ma non avendo questa speranza, l'avverto che sono le dieci, e andiamo a letto.

XI.

Come certe cose procedono sempre a un modo per tutti, non è da far meraviglia che anche per Gaspare ed Erminia le nozze, il viaggio di nozze e il resto, tutto procedesse bene. Ma per Erminia e Gaspare la luna di miele sarebbe durata Dio sa quanto, se Dio non avesse permesso a una cattiva donna d'intorbidarne il dolce chiarore; di provare quel che possa l'odio di una donna e a che perfidia la sospinga la vendetta.

Fu così: l'ingegner capo, quando Bicci tornò all'ufficio, riebbe ore di umor buono; durante una delle quali disse a lui, il solo benvisto subalterno: — Silvia desidera fare la conoscenza della sua signora. Contentiamola. Tanto, da mia moglie sua moglie non imparerà nulla che già non abbia imparato.

Tredòzi errava, ignorando che Silvia qualche cosa sapeva la quale Erminia non avrebbe dovuto saper mai. E a parte anche ogni sospetto, a un uomo onesto quale Bicci ripugnava un'alleanza tra sua moglie e l'antica amante.

Sarebbe un'immoralità! Faremo una visitina di dovere, e basta....

Ingenuo! La signora Silvia, ch'era sagace, in questo mentre aveva conchiusa amicizia con la Squiti; cosicchè la relazione temuta e sconvenevole diventò naturale, necessaria.

Eppure Gaspare s'illudeva ancora; perchè alle conversazioni in casa Tredòzi venivano, oltre che gli Squiti, molti altri; e si ciarlava e sonava (solo Tredòzi fuggiva appena vedeva il clarinetto); nè rimanevan tempo e agio per confidenze tra Silvia e Erminia.

Ma a poco a poco la perfida donna, abile a non farsi scorgere da alcuno fuorchè dalla sposina, cominciò a tormentar Gaspare con occhiate patetiche. E non bastava: gli susurrava, fugacemente, parole all'orecchio; parole di nessun conto, ma piano piano, quasi in segreto.

«Se Erminia non ingelosisce — pensava Bicci — è un angelo».

Più! più! La cosa andò tant'oltre che egli dovè pensare:

«Se non ingelosisce, non mi ama». Ah! l'infelice — molto infelice, tra breve — non imaginava in che belva l'angelo si trasformerebbe, in che demonio scatenato!

Infatti incontratolo un giorno per via, Silvia gli disse:

— Oh, caro amico! Andiamo! Accompagnatemi a casa.

Si schermì: non poteva; l'attendeva Erminia.

— Allora accompagnerò io voi.

— Non importa....

Ella sorrise.

— Non temete che Erminia sia gelosa. Non è una stupida, lei!

Altro che gelosa! Lo accolse, dopo, un mostro infernale.

— Miserabile! Infame! Vi ho sorpresi, finalmente! Quella sfacciata t'accompagna anche a casa, dopo i convegni!

— Non è vero!

— Sì: me l'han detto! lo so! lo sapevo! Chi era quella che veniva a trovarti quando io era fidanzata a Enrico? E me ne sono accorta troppo tardi! Assassino!...

— Erminia, t'inganni....

— Infame! Mi son lasciata ingannare! Io! A questo modo! Io! da te!

La bile si disciolse in pianto; ed ella prese a invocare il morto, in guisa che straziava l'anima:

— Ah Enrico, Enrico! Tu mi amavi! Tu mi saresti rimasto fedele eternamente!... Non mi avresti tradita, tu, con la moglie del tuo capoufficio! Oh il mio Enrico!... È un'infamia! un'infamia!

Proteste, giuramenti non valsero; la confessione sincera e piena non fu creduta; la felicità di due che s'adoravano, distrutta per sempre; il letto coniugale diviso per sempre....

*

No: il letto restò diviso solo due notti; chè Erminia volle togliere al marito ogni ragione di tradirla.

Ma certi libri dello zio spaventarono, atterrirono Gaspare un mattino ch'egli li consultò, sentendosi alcune fitte alla nuca. Urgeva, secondo quei libri, un rimedio.

«Mi farò trasferire lontano di qui; dove mia moglie non abbia più ragione d'amarmi tanto».

Maledetta però la gelosia! Dice il proverbio chi sta bene non si muova; e chiedere un trasferimento da Bologna valeva come sfidare la pazienza dei superiori. Ah quanto fu brutto quel mese d'incertezza affannosa nell'attesa del trasloco!... Lo manderebbero in Sicilia? in Sardegna? in Calabria? Dove? Dove, buon Dio?

.... Fu trasferito a Milano. Ma eccoli che anche questo bel colpo di fortuna non fu sufficiente alla pace di tutti, alla contentezza assoluta di Gaspare. Perchè, alla notizia, Luigi divenne cupo; scosse il capo mestamente.

— A Milano? A Milano, io? Signorino, le due torri io non le lascio! Eppoi, se con la signora, andiamo poco d'accordo a Bologna, s'imagini a Milano! Insomma, io non ci vengo.

— Luigi, ti prego....

Ogni preghiera fu inutile. Asciugandosi gli occhi, Luigi scoteva il capo, e ripeteva nel suo linguaggio:

— Povero padrone! Che «zuccata!» Oh che «zuccata» abbiamo avuta!

XII.

A chi non piacerebbe Milano? Ebbene, alla signora Bicci non piaceva. Una città, a parer suo, di bassa gente boriosa, idonea solo a mercare e in tutto sprovveduta del senso d'arte: bastava a convincerne l'architettura plebea e goffa, d'un fasto da parvenus. La Galleria? Un ridotto per i cantanti a spasso e le cocottes. Il Duomo?... Oh il Duomo d'Orvieto!

Quanto Erminia avrebbe preferita la mistica solitudine d'Orvieto al pandemonio di Milano! Una donna invero, Erminia Roccaforte, da fare un poeta, o un eroe. Suo marito, al contrario, si sentiva non più che un borghese pacifico nell'equilibrio delle sue facoltà; un ingegnere al Genio Civile; un uomo che aveva nome Gaspare, che si chiamava Bicci, e a cui Milano sembrava la più bella città del mondo.

Diversi i gusti, diversi gli animi. In breve la dimora a Milano fu causa e pretesto ai dissidi, dei quali per l'addietro la gelosia era parsa la sola cagione; in breve appicchi e ripicchi si acuirono. Che giovava a Gaspare l'arrendersi?

Fomite alla discordia era anche il trovarsi d'accordo. Se egli dava torto alla moglie, erano raffacci, lagrime, svenimenti, convulsioni: un inferno; e se le dava ragione o taceva, essa inveleniva perchè non voleva la considerasse malata o matta.

Addio al tempo in cui la sventura era sconosciuta e non temuta! Addio sereni giorni del celibato! Addio voluttuosi giorni della luna di miele!

E come per l'addietro si era compiaciuto di non aver figlioli, risparmiandosi tutte le pene dell'allevamento e dell'educazione, così adesso il povero Gaspare attribuiva alla mancanza dei figli la sua disgrazia coniugale. E almeno avesse avuta la suocera, che per lui sarebbe stata, adesso, di sollievo. Ridotto a desiderare la suocera!

Ma finalmente Erminia si ammalò davvero.

— Isterismo — disse il medico. — Si distragga! — E al marito —: La distragga.

Ahi! come distrarre una creatura che preferiva Orvieto a Milano? che non voleva uscire di casa? che non voleva veder nessuno e non conoscer nessuno? che non parlava quasi più? E venne il dì che a Gaspare parvero invidiabili i giorni in cui almeno si litigava.

Durante quel silenzio ostinato e irragionevole della sua signora i più neri pensieri, i più foschi sospetti trovavano luogo pur nella testa di Bicci; tali, che una sera anticipò d'un'ora il ritorno a casa, abbreviò la consueta passeggiata e la sosta al caffè. Anticipare, lui, d'un'ora, il ritorno a casa? Non solo! Non solo! Quatto quatto entrò: al buio, nell'ingresso; poi, in punta di piedi, venne alla cucina. Buio anche là. Avanzò allora fino all'uscio della camera da pranzo, ascoltando...; e udì, lieve come un sospiro:

— Enrico!

Oh non aveva dunque avuto torto di sospettare! Infami!

Furibondo, irriconoscibile, quale un uomo che non s'è adirato mai in vita sua, Gaspare spalancò l'uscio.... E la signora e la serva, senza far motto, lasciarono andare il tavolino su cui avevano tenute a contatto le mani.

— Via! Via di casa mia! Fuori di qua! Domattina.... A te! A te! — e con voce strozzata, dopo avere indicata la porta, il padrone trasse, gettò, venti, trenta lire alla serva che lo contemplava stupita.

— Vattene! Vattene!

— Ma cosa ho fatto?

— Tener mano!... Via! fuori!

— Ma che male c'è? — cominciarono a dire insieme le due donne.

— Via! Via!

Sempre più minaccioso, con la destra in alto, lui, Bicci, Gaspare!, spinse con la sinistra la serva al di là dell'uscio e si volse. Erminia sorrideva sarcastica.

— Sei impazzito? — ella chiese. — Non m'hai insegnato tu? non mi dicevi tu che faceva così tuo zio?

A tanta audacia, a vedere e a udire l'uso che la sciagurata aveva fatto e faceva d'una confidenza ricevuta al tempo della luna di miele, Gaspare non trovò più parola: perdè forza o fiato: cadde a sedere su di una seggiola e si strinse il capo tra le mani. Muoveva a pietà; quantunque Erminia sorridesse sempre. Poi scotendo il capo, tranquillamente, ella si mise a leggere il giornale.

«Siamo seri! Ragioniamo!» in quel mentre Gaspare diceva tra sè, già stupito lui stesso d'essersi lasciato trasportare a tal punto. «Vediamo un poco.... Può darsi che sia da considerare, questo fatto che mi ha esasperato, come uno scherzo, un gioco, un innocente passatempo.... Ma no: è una cosa tremenda; che faceva terrore a un filosofo quale mio zio.... Un'esperienza? È in questo caso un delitto! un delitto enorme; tant'è vero che non è nemmeno contemplato nel codice! Sì, un tradimento mostruoso...: intendersi con l'amante morto quando il marito è vivo! Orribile!... Eppure, Erminia ci ride...; e anche la serva non ci vedeva niente di male.... La scienza positiva ne ride.... Ma insomma!, io ho o non ho il diritto di riposare almeno la notte? di dormire i miei sonni tranquilli?...»

Dopo di che egli s'alzò e parlò con voce tremula e bassa:

— Erminia, a te sembra una cosa da nulla quella che a me sembra una colpa grandissima. Un accordo tra noi due non è dunque più possibile; bisognerà venire alla separazione.

Erminia aveva alzati gli occhi a guardarlo impavida. Gaspare proseguì:

— A ogni modo, prima, interrogherò il cavalier Squiti....

Solo a quest'ultima parola Erminia impallidì, si fece seria; e quindi scoppiò in pianto dirotto, e cominciò a lamentarsi e a scongiurare:

— Hai ragione, Gaspare! Perdonami! Ti giuro che non lo farò più.... Mai più!

Fosse la soggezione e il tedio ch'ella sentiva, anche da lontano, del cavalier Squiti, o la paura di essere ancora condannata al clarinetto, il fatto fu che mai un marito ingannato ebbe la consolazione di veder pentita la colpevole come Gaspare vide Erminia, quella sera.

XIII.

Nè mai sarebbe stato così giusto il proverbio che tutto il male non viene per nuocere, se Erminia avesse seguitato a lungo nel buon mutamento. Riprese a uscire di giorno e di sera; riprese a discorrere e, grazie a Dio, senza litigare. Ma tanta felicità poteva durare un pezzo?

E sopravvenne di nuovo la noia nell'animo dell'isterica donna, con la intollerabile intolleranza d'ogni cosa, d'ogni persona; nessuno al mondo avrebbe saputo da che lato prenderla. Non poteva soffrire neanche le persone che avessero avuta qualche somiglianza di gusti con lei.

Infatti una volta all' Eden, ove egli si divagava ma si annoiava Erminia, Gaspare scorse, non più rivisto da anni, il più caro compagno e più allegro amico della prima giovinezza: Gino Monarchi, un pittore già in fama a Parigi; e benchè ricordasse il consiglio dello zio «Sta lontano agli artisti» (il povero zio l'aveva anche esortato ad ammogliarsi!), egli lo chiamò:

— Ehi, Monarchi!

— Oh! Chi vedo!... Bicci!

— Tu, qua?

— Tu, qui?

A un abbraccio cordiale e a baci fraterni tenne dietro la presentazione della signora.

Il Monarchi era un bel giovane; forse troppo elegante, con la caramella all'occhio destro e copiosi capelli alla simbolista; ma un parlatore delizioso, un osservatore arguto. Parlò d'arte, di Parigi, fino d'Orvieto. «Erminia ne resterà contenta» pensava Gaspare. Invece, chi lo crederebbe?, quando se ne fu andato Erminia disse:

— Mi è molto antipatico, il tuo amico! Se verrà a trovarmi prima di partire, farò dirgli che non sono in casa.

Nè del Monarchi si discorse mai più; nè più lo rividero, tranne, da lungi, due o tre sere a teatro.... A teatro?

Sì, Erminia ebbe all'improvviso questa nuova smania, una nuova pazzia! Convinta che per essere notati a Milano bisognava spendere, si mise a spendere e a spandere rovinosamente in gioielli e abiti; e dal suo palco pretendeva insegnar «il buon gusto nella moda» alle milanesi! «Non basta seguire la moda!» diceva.

Come il marito l'ammonì che non erano abbastanza ricchi da impartire cotesto insegnamento, ella gli si scagliò contro:

— Perchè mi hai sposata, se non puoi mantenermi? Dov'è la mia dote? Quando, con chi l'hai consumata? — E così via, fino a giungere allo svenimento e alle convulsioni.

C'era da temere si rinnovassero anche le invocazioni di «Enrico! Enrico!» e le pratiche spiritiche. Per evitar tutto ciò Gaspare lasciò dunque correre, rassegnato alla rovina. «Qualche santo — pensava — mi aiuterà».

E infatti un bel giorno Erminia si disse stanca; desiderosa di quiete e di solitudine. Un santo era intervenuto.

Ma troppa grazia! Perchè essa cominciò anche a meditare il suicidio; e lo diceva. Che giorni per un marito di cuore e di coscienza! Mentre a casa attendeva quali ore di tregua le ore dell'ufficio, all'ufficio, lui, il povero marito, dubitava di trovarla, al ritorno, impazzita del tutto, oppure asfissiata.

Un Calvario! E non era più possibile tirare avanti un pezzo così. E solo un colpo di fortuna poteva ridar la pace a Gaspare Bicci.

*

Verso le cinque pomeridiane egli saliva le scale di casa sua, superando ogni gradino con lo sforzo di chi ascenda al patibolo.... Quand'ecco, era appena davanti all'uscio, che l'uscio si spalancò alla disperazione della cuoca.

— La signora.... non c'è più!

Morta?

— Dov'è andata? — chiese lui, livido e anelante.

— Dove sarà andata? — chiese, per risposta, la donna.

Nell'angoscia Gaspare rispondeva a sè stesso: «Ad annegarsi. È finita! Ma che guaio!»

— Di', parla! A che ora?...

— Dopo colazione, è uscita con la valigetta.

Ad annegarsi con la valigetta?

— E non ti ha detto nulla?

— Sissignore; che c'è una lettera per lei, su lo scrittoio.

— Ah! Meno male!

Si precipitò nello studio. Lesse:

« Gaspare,

«Io ti ho reso molto infelice.... Lo riconosco lealmente, e ti giuro che mi annegherei se non fossi persuasa di saper rendere felice Gino Monarchi. Vado con lui a Parigi. Tu vieni in Francia: vi faremo divorzio; così sarai libero di trovarti una donna degna di te. Addio.

« Erminia. »

— Sciagurato! — gridò Gaspare volto il pensiero al traditore.

Per altro, gli sembrava che una mano benefica gli levasse, o dalle spalle, o dal petto, o dal cuore — non sapeva da qual parte, certo d'addosso — un enorme peso; e tant'era il sollievo, che gliene conseguì una mitigazione all'ira, un senso di dolcezza; e tant'era buono, Bicci, che a poco a poco il sollievo e la dolcezza gli si convertirono in un senso di pietà.

«Sciagurato! — ripetè, a bassa voce. — S'accorgerà presto di qual natura è quella donna!» «Dopo tutto — aggiunse in un risveglio d'irresistibile letizia —, meglio a lui che a me!»

E quasi fuori di sè medesimo, o piuttosto ritornato interamente a se medesimo, da morte a vita, scrisse — senza nemmeno riflettere che arriverebbe prima lui della lettera —:

« Caro Luigi,

«Un amico mi ha portata via la moglie. Sono salvo, libero, felice; l'uomo più fortunato del mondo! E corro a Bologna da te.

« Il tuo Gaspare. »

Una “scampanata„.

In Romagna.

Tornavano dalla parrocchia, dopo i vesperi, frotte loquaci di donne, uomini e fanciulli e coppie amorose, sorridenti o serie nel loro bisbiglio; i dami col garofano all'occhiello.

Una gran dolcezza primaverile calava dal cielo, ove serenamente moriva il lume crepuscolare e, sensibile e ineffabile, si effondeva dalla terra ove il nuovo verde pareva velarsi a poco a poco e oscurarsi e, lontano, sparire. Come due ragazzi s'arrestarono per tirar sassate in un ricovero di passeri, nel fitto del cinguettio, il nonno d'uno di loro ammonì a voce aspra:

— Lasciateli stare, poveri animalini! — Ubbidirono; lanciarono i sassi nel fiume; e nel ricovero di fronde le piccole voci ripresero richiami, proteste, confidenze, querele, saluti.

A un punto della strada, la Faziòla e Fulgenzio, che venivano fra gli ultimi, l'uno dal lato destro, l'altra a sinistra, si videro.

— Buona sera, Fulgenzio.

— Buona sera, Faziòla.

— Il sole è calalo bene. Avremo bel tempo anche domani.

— Ce n'è bisogno.

— Dove siete a lavorare, adesso?

— Vanghiamo le vigne.

— Sarete in molti.

— Quindici o sedici.

— E han fatto «caporale» Giulio, eh?

— Giulio.

— Povero Fulgenzio! Non c'era era ragione di farvi torto.

— Chi comanda ha sempre ragione.

Dopo una pausa lei chiese:

— Ma è vero quel che dicono?

— Dicono.

La loro malignità non andava più oltre dell'accennare alla ciarla che Giulio dovesse ai meriti della moglie la nomina a capo degli operai braccianti.

— Per fortuna non avete famiglia da mantenere, voi.

— Oh! io mi contento che Dio mi lasci la salute. Ma.... — E l'infelice guardò la Faziòla sorridendo in quella sua maniera di bontà ingenua per cui appariva men brutto e più triste: — .... Ma se mi viene una febbre, io non ho un cane che mi porti una goccia d'acqua.

Allora, quantunque compiangesse lui, la Faziòla sospirò per sè.

— Meglio non aver nessuno, che aver dei cani, per modo di dire, che vi porterebbero via il boccone di bocca, se potessero.

— Non vi trattan bene in casa?

Essa volle attenuare.

— Capirete anche voi: le annate vanno scarse e uno di più in famiglia, aggreva.

— Ma voi lavorate.

— Questo è vero. C'è la tela da fare? Tocca a me. C'è da rappezzare la roba? Tocca a me; la sera o la mattina. Al dì, o si va alla foglia, o all'erba con le ragazze; o s'aiuta la reggitora. In ozio non ci sto; quest'è vero.

Era disgraziata anche lei, la parte sua, povera Faziòla!

Quindi Fulgenzio riprese:

— Avete fatto male a non maritarvi un'altra volta, quando eravate a tempo.

— Le vedove che non han quattrini si lascian dove sono; lo sapete pure. Piuttosto voi, Fulgenzio, perchè non avete preso moglie?

Entrambi s'erano già dimenticati d'aver riconosciuto un vantaggio in lui il non aver famiglia da mantenere; e lui tornò a sorridere.

— Chi volete che mi prendesse?

Infatti da giovane era anche più brutto e più magro, sembrava più zoppo; sembrava tirasse l'anima coi denti.

— Una ragazza non dico — la Faziòla rispose. — Le ragazze han delle pretese; ma una donna quieta....

— Trovarla una donna quieta!

Tacquero, mentre la Faziòla diceva fra sè e a occhi bassi, nel silenzio: «Oh non c'ero io?» Almeno così egli credette, perchè sorrise ed esclamò commosso:

— Ah, lo capisco il mio sbaglio! Avrei dovuto sposarvi voi, Faziòla! Voi eravate proprio la donna per me.

— E io vi avrei preso, Fulgenzio!

Mormorò l'uno:

— Adesso è fatta.

— Adesso è fatta — mormorò l'altra.

Nè parlaron più finchè furono vicini a casa.

Ma quando la Faziòla stava per augurar la buona notte, lasciar la strada e passare la siepe, Fulgenzio, fermo, si guardò attorno, raccolse il fiato e con voce tremula disse:

— Sentite: la gente può dir quel che vuole; ma io, di una donna ne ho proprio bisogno.

— Lo dico anch'io.

— Se voi mi voleste....

Alla proposta lei si mise a ridere forte.

— Ma siete matto? Ho cinquant'anni; sono vecchia....

— Mi volete?

Ridevano tutti e due, tanto la cosa era seria; tanto egli temeva un no e tal voglia aveva lei di rispondere sì.

Ma vinse la ragione.

— Bisogna pensarci su, per non pentirsi dopo.

— Pensiamoci. Domenica ne discorreremo.

— Va bene. Buona notte, Faziòla.

— Buona notte, Fulgenzio.

*

Avevano una settimana per pensarci; ed era troppo; e la settimana fu lunga. Finchè aveva sperato di migliorare un po' la sua condizione risparmiando il corpo malconcio, Fulgenzio aveva sperato anche di trovar donna non molto innanzi con gli anni la quale lo compensasse della giovinezza perduta senza amore; ma cadutagli ogni speranza e presunzione, doveva ringraziar Dio se la Faziòla lo voleva! Era una brava donna, che a opera nei campi o a tessere, guadagnerebbe tanto da non tornargli di peso; una buona donna da cui, quando Dio lo chiamasse per primo a sè, avrebbe amorevole assistenza. Davvero?... Non seduceva la Faziòla il solo interesse? Non si era sparsa voce ch'egli aveva da parte qualche soldo? Questo sospetto lo infastidiva; ma, insomma, la donna era buona o no? Sì, era buona. E allora, via il pensiero maligno!

Quanto a lei, la Faziòla, uscir di quella casa in cui i parenti la trattavano da serva e le invidiavano il pane che mangiava; e faticar meno, e vivere in casa sua, giudicava tal fortuna che a rifiutarla le sarebbe parso d'offendere la Provvidenza. Pure un ritegno le restava. Perchè? si sentiva il coraggio di sfidare la gente, o no....

Finalmente venne la domenica a chiuder la settimana dell'attesa e dell'incertezza.

— Come la mettiamo? — chiese, al ritorno dai vesperi, Fulgenzio. E sorrideva in quel suo modo faticoso.

— Ho paura del mondo.

— Io no; non ci bado io!

— Ci faranno la «scampanata».

— E che la facciano!

Egli cercò inanimirla; e tanto disse, che lei accondiscese. Pur mentre incoraggiava, quella giusta apprensione degli scherni che turberebbero forse per anni la loro pace; quel timore dell'avversione o della condanna pubblica, toglieva ardimento a lui stesso e l'induceva, il dì dopo, a interrogare l'arciprete. — A costo di spender qualche cosa, non si potevano evitare le pubblicazioni matrimoniali? —

— Impossibile!

L'arciprete però fece coraggio a Fulgenzio: — Non badassero a rispetti umani! —

— Un po' di meraviglia in principio, eppoi smetteranno.

— È quel che dico anch'io.

Altro che meraviglia! Fu stupore, fu ilarità mal repressa per tutta la chiesa quando l'arciprete disse dall'altare:

— Si pubblica per la prima volta la domanda di matrimonio di Fulgenzio Landi con la Violante Stradelli vedova Faziòli.

E, dopo, la fidanzata non osava più uscir dalla porta di casa, avvelenata in casa dalle canzonature dei nipoti e dei pronipoti; nè il fidanzato osava cercarla. Essa ignorava in che modo resisteva lui alla tempesta. E Fulgenzio sorrideva e taceva.

«Presto o tardi smetteranno!»

Altro che smettere! Dio sapeva quel che preparavano per il dì delle nozze!

Fortunatamente l'arciprete ebbe un buon consiglio; e allorchè, nel gran giorno, la gente accorse alla prima messa per assistere allo sposalizio, apprese che da due ore gli sposi eran già fatti e che già erano a casa loro.

— Stamattina ce la siam cavata — sospirava la Faziòla. — Il peggio sarà stasera.

Ripeteva Fulgenzio:

— Non ci pensate.

Intanto si vedeva che lui ci pensava.

Attendevano, intanto, a riordinar la casa, oh senza alcuna smania di sposi novizi!: irritati, al contrario, che a loro due, così quieti e consapevoli degli anni e dei malanni che portavano addosso, il mondo attribuisse simili sciocchezze.

Molte erano le faccende. Anzitutto, il letto, primo talamo della Faziòla, da riconnettere; e i pagliericci da riempir di foglie, e i cuscini da rifare; quindi, ripulire le masserizie, riordinare e spartire la biancheria e i panni che meritavano rattoppi; e nettar la cucina in modo che non ci fosse da vergognarsi nemmeno se v'entrassero l'arciprete e il fattore.

— Ah le mani d'una donna! — diceva Fulgenzio strofinando, dentro, il paiolo.

Inoltre, si prepararono il desinare di nozze con le tagliatelle in brodo e il lesso.

— Sono dieci anni che non ho sentito un poco di manzo; da quando si maritò mia sorella — confessò Fulgenzio.

Similmente la Faziòla gustava il vino.

— Buono! Buono! Non me ne davano mai, in casa, a me!

E, d'improvviso, il vino le fece concepire l'idea mirabile, che schiarì del tutto il malumore in entrambi. Se dessero da bere agli offensori?

— Ho fatto un pensiero curioso — lei disse. — Se dessimo da bere?...

Fulgenzio ascoltava, sorridendo; approvando,

— Sì, sì! Un bel pensiero! Sicuro!... Rideremo! — E rideva.

— Il vino dove lo mettiamo?

— In un bigoncio.

E poco dopo egli fermò il bigoncio nella carriola; e andò alla fattoria a riempirlo di quello buono.

Ma al ritorno vide la moglie desolata, pentita d'averlo indotto alla grave spesa.

— Ne avremmo tante delle spese da fare! — Infatti mancavano di questo; mancavan di quest'altro....

Allora Fulgenzio si sentì in obbligo di consolarla; di rivelarle il segreto contenuto nell'animo a fatica. Trasse dalla tasca della giacca il libercolo.

— Guardate qui! Non siamo poi disgraziati come vi credete.

— Cos'è?

— Il libretto della cassa di risparmio.

Essa aveva spalancati gli occhi; guardava; ma non sapeva leggere.

— Dice — spiegò Fulgenzio — che ci ho settecento franchi, senza i frutti.

— Ma vi fidate voi a lasciarli in mano di altri?

— Eh! alla cassa....

— Io no: io non mi fido di nessuno! Volete vedere dove li tengo, io?

Salirono nella camera del talamo. Ivi lei, rimestato che ebbe in fondo alla cassapanca, elevò la calza trionfale, sonante e gravida del gruzzolo; e disse, sgroppandola e riversandola sul letto:

— Contiamoli. Non so neanche quanti me ne abbia.

Il marito aveva le lagrime agli occhi men per la gioia che per il rimorso di quel suo dubbio, che la donna l'avesse sposato per interesse. In un'occhiata si vedeva che dei quattrini n'aveva più lei!

Altre lagrime, non di gioia, non di rimorso velavan gli occhi della moglie.

— Sono quei pochi — disse — che mi rimasero dopo la morte di Faziòli, e quelli che misi insieme a vendere la roba quando perdei il ragazzo.

Ma se fosse vissuto il suo figliuolo, oh no, non avrebbe pensato a rimaritarsi, a cinquant'anni!

— Povera la mia Faziòla! — esclamò, intenerito, Fulgenzio.

Per impedire ogni tenerezza e per sottrarsi alla dolorosa memoria, lei ripetè:

— Contiamoli.

Cominciarono il conto, il loro sguardo si riaccendeva mentre distinguevano le monete e le ammucchiavano sorte per sorte, ed enumeravano i biglietti di banca; mentre il vino, a cui non erano avvezzi, ferveva loro nel sangue. Così, a poco a poco, i diversi sentimenti si confusero in una gioia comune.

E il marito non potendo terminare il conto, distese le magre braccia a un timido abbraccio.

— Povera la mia donna!

Lei sorrise.

Fu un momento. In quel momento avrebbero dato fors'anche il libretto della cassa e tutte quelle monete per tornare indietro di dieci anni; ma la sposa subito tornò in sè:

— Sono vecchia, Fulgenzio!

Nè lui insistette; ebbe anche lui la coscienza della sua propria insania; e ripresero il conto.

*

.... La turba frenetica avanzava avanzava. Era una gara a chi strepitasse più forte: un fracasso di secchi battuti a furia; di cassette di latta bastonate senza tregua; di coperchi picchiati l'un contro l'altro come piatti striduli; di campanacci — quelli che s'appendono al collo de' buoi per la fiera — scossi da instancabili mani; e corna di bue roboanti, e voci umane fatte bestiali: grugniti, gallicini, ragli, fischi. Un ex soldato, trombettiere, si sfiatava nel suo strumento; un cacciatore, con meno fatica, sparava a quando a quando colpi di schioppo all'aria, e due cani abbaiando e latrando s'introdussero nella compagnia.

La dimostrazione veniva solenne, memorabile. All'infernale sollazzo dava motivo e impeto l'oscura coscienza rusticana, avversa a che la vecchiaia presuma cosa da giovani, e offesa da una vedovanza interrotta. Nessuno di coloro pensava certo che invece di schernire un connubio ridevole e sozzo, scherniva l'alleanza di due povere anime e di due timorosi egoisti condotti dalla fortuna a reciproco soccorso.

Ma la Faziòla e Fulgenzio ridevano.

— Sono qui! — disse la donna. — Vado a smorzare il lume.

A posta, per far credere che erano a letto e per accrescersi il piacere dell'improvvisata, l'avevano acceso nella camera nuziale.

Quindi, al mancar di quella luce, le oscene grida e le risa superarono tutti i suoni.

— Adesso accendiamo il lanternino.

Così fecero, nascosti sotto la scala; e attesero.

— Bisogna lasciarli un po' sfogare — ammoniva Fulgenzio.

— Sentite la voce di Mauro?

— E quel della tromba chi sarà?

— È Martino dell'Argine.

— Che matti!

— Vogliamo ridere!

Ma in quel punto il cacciatore sparò due colpi.

— Anche delle schioppettate!

E la moglie:

— Non ci faran del male, eh? Quando si è matti!...

— Lasciatemi andare innanzi.

Innanzi lui, con la carriola su cui il bigoncio; dietro, andò la donna col bicchiere e il lanternino.

A quell'apparizione improvvisa, chi tacque un istante, chi sonò o soffiò con più lena; e in massa tutti s'appressarono alla porta.

Miauu...; chicchiricchì...; ohn: ohn: ohn!...; buum buum buum...; taratatà taratatà, taratatà...; cococodè!...; e, prevalenti, strazianti, i cian cian dei metalli e il dan dan dei campanacci.

— Bravi ragazzi! Bravi! Venite a bere!... Ohe!... gente! Chi vuol bere?

— Vino buono, vino buono! — ripeteva la Faziòla. — E di cuore, ragazzi!

Súbito porse il bicchiere pieno a colui che ebbe di fronte. Quegli lasciò cadere la secchia disarmonica per bere d'un fiato, e gridar dopo:

— Viva gli sposi!

— A voi! — disse la sposa riempiendo a sua volta il bicchiere per un altro.

Gli ultimi, di dietro, sospingevano: — Cosa c'è? — Cosa fanno?... Dan da bere! — Un bigoncio! — Ohe! ci siamo anche noi! — Vino!

Di súbito la meraviglia, l'ammirazione e un senso quasi di gratitudine avevan còlti gli animi; di súbito, secondo avviene nella gente rude, i cuori s'erano aperti a un sentimento nuovo, opposto.

Non come altri, nella condizione loro, la Faziòla e Fulgenzio avevano gettato dalla finestra, per vendicarsi, immonde cose o inani minacce; o non avevan taciuto, essi, in una vile rassegnazione; ma passavan da bere, e vino buono! Succedevano alle grida folli e ai motti sconci, voci di gioia e motti che esprimevan benevolenza; e tutti in una volta.

— La fanno da signori, gli sposi!

— Viva gli sposi!

— Ehi! Faziòla! Il primo che nascerà voglio tenervelo io al battesimo!

— Guardatevi dai compari, Fulgenzio!

— Adesso che ha moglie, Fulgenzio diventerà caporale anche lui!

— No, no! la Faziòla non gli farà torto!

— Fulgenzio è geloso!

— Fulgenzio è pacifico!

— Viva gli sposi!

— Viva l'allegria!

Il trombettiere impose silenzio.

— Zitti! state zitti! — e avventava scapaccioni ai ragazzi più ostinati nel frastuono. — Adesso gli sposi ballano la monferina! — La proposta fu accolta da applausi; la monferina fu intonata dalla tromba, cantata e zufolata; mentre altri tentavano di convincere Fulgenzio, il quale si schermiva con ambedue le braccia.

— Ho gambe da ballare io, matti che siete? — Rideva dimenandosi fra le mani e le braccia che l'urtavano, lo spingevano.

— Avanti! Forza! — Forza, Fulgenzio!

— Lasciatemi stare! Lasciatemi andare!

Ma la Faziòla diede al marito la prima prova di abnegazione; una gran prova, anzi, di virtù. Comprendendo che per acquetarli era necessario che lei almeno accondiscendesse, tosto s'adattò al ballo con l'agilità e la disinvoltura de' suoi vent'anni e del ballerino che combinò a saltarle di contro.

Ebbene: la virtù fu premiata; Fulgenzio lasciato tranquillo; e, per emulazione più che per burla, i giovani gettarono i recipienti sonori, i campanacci e i corni; e in mancanza di donne, si misero a ballare tra loro, intanto che Fulgenzio attingeva e offriva il vino attorno con viso lieto.

— Chi ne vuole, ragazzi?... È poco, ma volentieri.... Finchè ce n'è!... Di cuore!

Quando egli ebbe vuotato il bigoncio e il trombettiere perduto il fiato, tutti ripresero gli strumenti del baccano.

Adesso però ciascuno dava dentro nel suo con l'anima d'un inno glorioso.

.... — Felice notte!

— Viva gli sposi!

— Viva l'amore!

— Viva l'allegria!

*

.... E finalmente gli sposi andarono a letto, felici per il sollievo del peso che aveva preoccupato a lungo il loro animo; per il piacere d'una vittoria guadagnata, in disuguale battaglia, con l'astuzia; per la gioia d'essersi sottratti, anche in avvenire, a beffe o biasimi, meritando invece indulgenza e benevolo ricordo.

E aggiungendosi a ciò un eccitamento intimo, di reciproca gratitudine, e la certezza di giorni meno tristi, forse ebbero allora la persuasione! che avevano saputa togliere agli altri l'illusione, che a torto prima presupposta in essi, aveva indotta la terribile turba a tanto sbattere, gridare e scampanare.

Il polso.

Nel settecento:

per i mariti d'oggidì.

Difficile dire se il conte La Fratta amasse più sè stesso o la marchesa Arnisio; ma poichè per acquistarsi dal mondo e dalla marchesa la lode di cavaliere perfetto e per secondare gli stimoli del cuore insisteva da un anno a servire con cura paziente e con indulgente costanza una dama così mutabile di pensiero e di animo, egli certo amava troppo sè stesso e oltre il necessario a un cavalier servente egli amava l'Arnisio.

A dire il vero, e a sua scusa, ella esercitava tuttavia su di lui l'attraenza dell'ignoto e del nuovo; la virtù quasi d'un fascino arcano; quantunque, a dire il vero, egli in un anno n'avesse conosciute molte singolarità e usanze e malizie. Già sapeva La Fratta quando fosse bene contrapporsi e quando fosse meglio accondiscendere a quello che alla dama piacesse affermare; già aveva appreso a distinguere su le sue labbra rosate tutti i gradi di sprezzante pietà e d'ironia sottile che vi segnasse il sorriso; già comprendeva tutto quanto comandasse o esprimesse dalla sua abile mano il ventaglio irrequieto: anche, tra lui e lei, quand'ella aveva l'emicrania — ed era spesso — l'esperienza e la consuetudine avevano sancita una specie di prammatica ai modi e ai discorsi d'entrambi; e a lui toccava parlare di mille cose per divagarne il pensiero doloroso e pesante, e a lei bastava rispondere, a diritto o a rovescio, no, sempre no, o sì, sempre sì.

Questo ed altro il conte sapeva della marchesa; ma una cosa non sapeva: se ella avesse il cuore o non l'avesse. «L'ha o non l'ha?» egli si chiedeva ogni giorno, e addentrandosi ogni giorno più nella ricerca dell'ignoto n'era più avvinto dal fascino; cosicchè ogni giorno più s'innamorava della dama e di sè, che con sua gloria resisteva a servirla.

Finalmente l'Arnisio, agli scatti di stizza e alle bizze nel brio e alle arie annoiate alternando gli accordi e i riposi e gli assensi, cominciò ad accarezzarlo di certe occhiate tanto lunghe e sentimentali ch'egli credette di giungere a proda: il sentimento deriva dal cuore; dunque il cuore l'aveva! Nè il cuore della marchesa doveva battere per altri che per lui, che da un anno la serviva con cura paziente e con indulgente costanza; non per altri. Ond'ecco La Fratta a studiare di quale e quanto e quanto duraturo amore fosse capace il cuore piccoletto della graziosa Arnisio. Perchè ella non aveva con lui quelle espansioni compiute, quei confidenti abbandoni e neppure quei moti meditati o spontanei di gelosia che tutte le donne amando, o fingendo d'amare, sogliono avere. E nello studio La Fratta aguzzò così i suoi occhi e il suo pensiero a leggere nel pensiero e negli occhi della dama che, ahimè!, troppo credette d'apprendervi.

Le ire e i languori; le inquietudini fanciullesche e le remissioni di donna usata alla vita; i capricci, le allegrezze, le noie traevan forse cagione non solo dall'indole bizzarra, ma da un intimo, segreto travaglio che le eccitava e tribolava lo spirito: lo sguardo di lei, spesso stanco o vagante e la voce spesso velata e mesta, dicevan forse che il suo spirito vagava dietro un inafferrabile bene, finchè, con uno sforzo mal nascosto di volontà, non le riuscisse di riaversi o mentire; e allora abbondava di cachinni e di frizzi, cattiva a un tempo e vezzosa. Anche, l'assiduo disturbo dell'emicrania, invece che la simulazione d'un malanno alla moda, poteva essere la dissimulazione di un urgente rovello; gli sdegni di lei contro lui non erano forse, come egli aveva sempre creduto, modi di civetteria sagace, ma più tosto non rattenuti impeti di sfogo sincero; e quelle carezzevoli occhiate, quelle occhiate lunghe e sentimentali, potevano non essere tardi e magri compensi alle fatiche della sua servitù, ma, tutt'al più, segni di compassione per lui in una confessione oramai manifesta: «Il cuore l'ho, oh se l'ho!; ma non per voi, povero conte!» Or bene, il conte La Fratta non disse alla marchesa Arnisio come Publio a Barce nel melodramma del Metastasio:

Se più felice oggetto

Occupa il tuo pensiero,

Taci, non dirmi il vero.

Lasciami nell'error!

È pena che avvelena

Un barbaro sospetto;

Ma una certezza è pena

Che opprime affatto un cor;

no: i due amori, l'uno della dama e l'altro di sè, che premevano l'animo del conte e vi si rafforzavano senza confondersi, lo sospingevano ad accertare la verità; l'uno, perchè chi è innamorato talora dubita a torto; l'altro, perchè, se non dubitasse a torto, egli ritraendosi a tempo non compromettesse la sua dignità e la sua fama di cavaliere di spirito.

Bel tema, è vero?, sarebbe stato per una satira il caso d'un patito che con zelante servitù e con dabbenaggine inconscia facesse riparo all'amore ignoto della sua dama!; e La Fratta aveva in odio le satire. O, dunque, la marchesa amava alcuno di quelli che le farfalleggiavano intorno, il quale, come minore del conte, ella non potesse assumere a servirla senza scapito agli occhi del mondo; o amava chi attendeva, incurante o ignaro di lei, ad altra dama della quale ella fosse gelosa. E come ella avrebbe lasciato La Fratta nel dubbio, ed egli non voleva restarci, egli interrogava il mistero, scrutava, investigava. Ma invano: tal donna era l'Arnisio che davanti a niuna persona e in niuna circostanza perdeva il predominio di sè; nè mai, appuntando i suoi sospetti su questo o su quello che a lei fosse d'intorno, il conte riusciva a sorprenderle in volto ombra alcuna di rossore o di pallore, di smarrimento o di vergogna. Il mistero per La Fratta permaneva fitto, fosco, quasi spaventevole; e il suo caso diveniva pietoso e tendeva a diventare ridicolo.

Ond'eccolo a richiedere di consiglio l'abate Fantelli: un abate di umore giocondo e di mente arguta, caro a tutte le dame di cui conosceva le corde più sensibili al tocco delle sue allusioni e de' suoi frizzi, nè men caro agli amici, cui giovava d'esperienza e di senno.

L'abate consigliò: — Tastale il polso.

Come La Fratta non comprendeva, quegli aggiunse:

— Nè i palpiti del cuore nè i battiti del polso si possono frenare. Allorchè ricorderai alla marchesa il tuo rivale sconosciuto, il suo cuore batterà più forte, e non potrai sentirlo, ma il suo polso batterà più in fretta e tu potrai sentirlo.

Al conte questa parve un'invenzione mirabile. L'abate continuò:

— Non si falla; ma ricordati che io confido la ricetta alla tua segretezza.

— Son cavaliere! — rispose La Fratta. E corse dalla marchesa Arnisio.

*

Essa, all'entrare del conte, era abbandonata sul canapè con la testa reclinata mollemente e la mano sinistra su gli occhi. Ai passi lievi dell'amico non si mosse; e al saluto di lui e al bacio di lui su la sua destra, rispose con un sorriso ambiguo, meno soave che doloroso.

— L'emicrania, eh? — domandò La Fratta.

— Sì — rispose ella in tono flebile.

La Fratta sospirò triste pur godendo d'un'emicrania almeno quel giorno opportuna a' suoi fini.

— Chi l'avrebbe detto ierisera? — seguitò egli, non per rammentare il tempo felice nella miseria ma per avviarsi súbito alla meta. Prima però chiese: — Desiderate un po' di melissa?

— Sì — ripetè la marchesa, perchè di prammatica quel giorno era il sì; e trasse un breve sorso dalla boccettina che l'amico le accostò alle labbra.

— Che sguardo febbrile! — disse il conte prima ch'ella riabbassasse le pálpebre; e sedutosi a lato di lei e recatosi il cedevole braccio di lei su le ginocchia, con le due prime dita ne cercò il polso attentamente.

Toc.... toc.... toc...: nelle arterie, che rigavano d'una trama azzurrina la bella carne bianca, il sangue perveniva dal cuore pulsando all'avambraccio in misura placida ed uguale.

— Chi l'avrebbe detto ierisera? (il conte riprendeva il cammino). Corgnani giurava di perdere a tarocchi perchè lo costringevate a guardarvi, tanto eravate leggiadra; Travasa sostenne d'avervi ravvisata a Versailles in una procace figurina di Boucher o di Fragonard; Terenzi proclamò che nessuna dama di Parigi saprebbe ballar meglio di voi il paspié. — E ristando, per prudenza: — No — disse — non avete febbre. — Pure, come più d'una volta aveva profittato dell'emicrania per tenere a lungo nelle sue una mano della dama, ritenne invece il polso, e riandando le vicende della sera innanzi, passata con lei alla conversazione di una dama illustre, e riferendone vanità e pettegolezzi, con abile arte potè nominare coloro di cui aveva maggior sospetto. Ma il polso batteva sempre uguale e placido.

«Se non è questo, se non è quello, chi sarà?» domandava intanto La Fratta a sè stesso. «Quello non può essere: proviamo quest'altro.»

Proseguì nell'esame e nella tentazione a quel polso ritmico e muto sinchè ebbe percorsa invano la via che si era proposta. Oramai retrocedeva; s'ingarbugliava in nuove ipotesi; s'imbrogliava in nuovi dubbi. Infine, s'appigliò a chi gli capitò dinanzi al pensiero:

— Il duchino, eh?, il duchino sdilinquisce per l'Arboldi; sdilinquiscono tutt'e due, il duchino e vostro marito.

Oh Dio! gli era parso che il polso affrettasse; gli era parso; ma non era possibile che il sangue di una dama come la marchesa Arnisio si commovesse al ricordo di un vagheggino quasi adolescente! Per altro, la marchesa era così strana....

— Io credo — riprese egli — che l'Arboldi non preferirà quel bamboccio a un cavaliere qual è vostro marito. — Non c'era più dubbio! La marchesa amava il duchino; amava — strana donna! — il frutto acerbo!; il polso che aveva confessato era lì pronto a ripetere la confessione. Il duchino! Per prima vendetta il conte volle discorrere e burlarsi di lui affinchè, magari, la capricciosa dama arrabbiasse o magari, piangesse, svenisse. Ma il sangue nell'arteria rifluì placido ed uguale.... E solo allora, trasecolando, La Fratta ebbe un'idea, un lampo, quasi un fulmine: — il marito?... — Parlò del marito.

E nessun dubbio: a parlare del marito e dell'Arboldi il polso precipitava, martellava, scottava! Come scottato, il conte abbandonò il braccio della dama e balzò in piedi. Stupito, stordito, non sapeva più che si dicesse. Diceva:

— Dunque, se l'abate Fantelli.... No, non è possibile! — Ed era possibile!... Appena si fu ricomposto, senza esitare, rapido, asserì: — Voi siete innamorata, marchesa! Voi siete innamorata; ditemi, non è vero?

— Sì — rispose la dama; ma poteva essere il sì di prammatica.

— Siete innamorata di.... vostro marito!

La Fratta s'aspettava una risata dinegatrice. Invece la dama, la quale, meravigliata anch'essa, era per gridare — Chi ve l'ha detto? —, la dama ebbe tant'ira di scorgersi scoperta nel suo segreto, e scoperta dal conte, e sentì tant'odio per il conte, che frenò la curiosità e tacque.

— È vero? — incalzava l'altro —: di vostro marito?

— Sì! — E questo non fu il solito sì; fu un sì aspro, secco, trafiggente. L'altro continuò:

— E voi fino ad oggi avete sofferta la mia servitù solo per la moda?

— Sì!

— .... e io vi ho annoiato sempre, sino ad oggi, senza accorgermene?

— Sì!

La Fratta divenne rosso. Ma era cavaliere, e si contenne.

— Dunque — conchiuse solennemente — non vi annoierò più, signora marchesa! Solo permettetemi l'ultimo consiglio: se non volete far ridere il mondo, non riferite questo nostro colloquio all'abate Fantelli. — E per un supremo sforzo di galanteria cercò di baciare la destra dal polso febbrile e loquace. Ma la marchesa ritrasse la destra; ond'egli, senza guardarla, di corsa uscì dalla camera.

La tenda era appena ricaduta dietro di lui quando la dama, alzatasi vispa e gaia come quella che da un mese non aveva avuta emicrania, con un lungo sospiro di soddisfazione esclamò: — Finalmente!

Indi si chiese: «Perchè non dir tutto all'abate Fantelli?»

Egli solo, infatti, avrebbe saputo spiegarle da che mai il conte avesse ricevuto la rivelazione improvvisa. «Gli dirò tutto — fece —; e che egli rida e il mondo rida! Anzi!»

Infatti porgendosi vittima volontaria alla derisione del mondo, ella dava al marito una prova d'amore sublime fino al sacrificio, e, sollecitato e disposto da quella al suo amore, il marito non avrebbe più resistito — n'era certa — alle altre prove e più seducenti prove del suo amore.

*

Intanto La Fratta, di ritorno dalla dura battaglia, contemplava la gravità della propria sconfitta e cercava rimedio a quello de' suoi affetti che dolorava ferito: l'affetto di sè; giacchè l'altro pareva rimasto estinto di colpo. Rifletteva il conte che raccomandando alla dama di tacere, aveva obliato la natura di lei, e che s'ella parlasse — e parlerebbe — il mondo riderebbe di lui e non di lei, della quale, tanto era stramba, nulla poteva sorprendere. Anzi, mentre egli considerava fra sè il capriccio di lei, si stupiva di non essersene accorto prima; e si rassegnava a giudicar quel capriccio meno enorme di quanto l'aveva giudicato prima.

Il marchese Arnisio era un bel giovane, alto, pallido per sangue nobile da secoli, con modi di secolare nobiltà. Che meraviglia se la moglie, gelosa della dama la quale egli serviva, se n'era accesa a dispetto del mondo e del cavalier servente?

E l'orgoglio del conte dolorava; e l'altro affetto, quello della dama, che ancora non era spento del tutto, sussultava d'un ultimo spasimo. Peggio, assai peggio che la derisione del mondo, sarebbe la derisione della marchesa quand'ella innamorasse e seducesse il marito!

Perciò il battuto, fugato, disperato La Fratta concepì il disegno di salvare il suo decoro e la sua dignità nella stima del mondo e nella stima della marchesa.

Ond'eccolo in cerca del marchese Arnisio. Lo trovò per istrada; e al saluto di lui non fece nè parola nè cenno. L'Arnisio gliene chiese la causa, e della risposta fu così poco contento da ammonire La Fratta che non salutare chi merita rispetto e onore è villania. Ma poichè la taccia di villania a chi merita rispetto e onore è grave ingiuria, il conte trasse la spada: trasse la spada il marchese; e al terzo colpo la lama del conte segnò di rosso la destra dell'avversario.

Pronto il marchese strinse con la pezzuola di batista il taglio che non era profondo; poi domandò, senz'ira:

— Ora mi direte perchè un cavaliere come siete voi ha voluto attaccar briga con un cavaliere come sono io.

— Per provarvi — rispose La Fratta alla dimanda che s'aspettava —; per provarvi che se da oggi in avanti non servirò più vostra moglie e non entrerò mai più nella vostra casa, la colpa è vostra.

Il marchese, udita tal spiegazione del fatto, ne capì meno di prima. Ribattè:

— Spiegatevi!

E il conte:

— Vostra moglie è sdegnata con me e infastidita della mia servitù perchè io, e non voi, ho scoperto ch'essa è innamorata di voi.

Allora l'Arnisio rimase proprio quale era rimasto La Fratta alla rivelazione del polso; fors'anche con uguale timore volse il pensiero al riso del mondo, e chiese, con tono e impeto d'incredulità e di sorpresa:

— In che modo l'avete saputo? Ne siete sicuro?

— Il modo — rispose dignitosamente La Fratta — è un segreto dell'abate Fantelli; ma di ciò sono tanto sicuro, che solo per ciò un cavaliere come sono io ha potuto attaccar briga con un cavaliere come siete voi!

A tali parole il marchese sorrise, e porgendo la mano ferita all'amico:

— Conte La Fratta — esclamò contento —, io vi ringrazio!

Come finì la Modestia.

Bum! bururùm bum bum! — Bururùm bum bum! — Bum! Barnùm! — Cium! papaciùm! cium cium!

················

La donna umile: — Che cos'è questo fragore? questo squillar di trombe, strepitar di piatti e tuonar di gran cassa? Chi arriva?... Oh! una carrozza a quattro cavalli: anzi, un carro trionfale; su cui troneggia la più bella donna che io vedessi mai! Ha gli abiti mirabilmente variopinti e fulgidi di gemme; e sotto di lei siedono gentiluomini in tuba e cravatta bianca. Qualcuno invece della tuba porta una corona d'alloro; qualcuno agita un ramo di mirto; qualche altro ha il viso da bestia, fors'è una bestia.... Io arrossisco a lasciarmi vedere. Mi nasconderò dietro la siepe.

La donna sovrana: — Voi dite, postiglioni, che bisogna dar riposo ai cavalli? A cavalli di razza quali i miei? Vi concedo mezzoretta. Ma giuro che nemmeno per svago non viaggerò mai più per le campagne d'Italia! Io son usa al treno lampo, alle automobili, agli aeroplani; non ho tempo da perdere! Oggi, per vendere a pena un centinaio di aratri a vapore, affollare d'infermi tre stabilimenti idroterapici, aprire due esposizioni agricole, me la son presa comoda; ma ho consumato un giorno e sciupati quattro puledri che vinsero le corse a Longchamp, e che serbavo da galoppare piano piano in Inghilterra, quando per caso mi ci trovassi in domenica. Però io ringrazio voi, miei seguaci, d'avermi tenuta compagnia nel noiosissimo viaggio e vi porgo un marengo perchè andiate all'osteria laggiù, a bere un litro alla mia salute. Un marengo anche a voi, postiglioni e musici. Spicciatevi! Quanto a voi, poeti, se v'aggrada, andrete qui intorno cercando il Gran Pan.

Frattanto, in questa valletta ombrosa e fresca, io penserò un milione di telegrammi da spedire domattina ai miei segretari sparsi nel mondo per il progresso delle industrie, delle arti e dei commerci e mediterò un nuovo modo d'annunziare il Tot e le Pink.

.... Che frescura! Che quiete!

Avvezza al fracasso e alle corse sfrenate, quasi quasi mi vien sonno....

La donna umile: — Ahi!

La donna sovrana: — Chi va là, dietro la siepe?

La donna umile: — Scusi, signora, se l'ho disturbata.... Uno spino mi ha punto un piede....

La donna sovrana: — Perchè cammini scalza? Vieni qui. Chi sei?

La donna umile: — Un'infelice; una povera creatura.

La donna sovrana: — Vedo. Le tue vesti non le comprasti certo nei magazzini del Louvre; e la tua faccia par quella del mio amico Succi. Che naso! Oh che naso!

La donna umile: — Me l'han tirato in tanti, signora; ho provate tante delusioni; ho patiti tanti disinganni!

La donna sovrana: — Accostati; senza ritirarti in te stessa, vergognosa! Come ti chiami?

La donna umile: — Modestia.

La donna sovrana: — Modestia? La nipote di madama Virtù, che presa per un'aristocratica fu fatta ghigliottinare da Robespierre? La figlia della Semplicità e del Buoncostume? la sorella dell'Onestà?

Modestia: — Sì, signora....

La donna sovrana: — Bel caso! bell'incontro! Da un pezzo non ho riso così di gusto!

Modestia: — Scusi, signora: la conosce lei mia sorella Onestà? Per amor di Dio, mi dica se la conosce e se sa dov'è!... Non mi restava più altri della mia famiglia. I miei parenti mi hanno abbandonata!...

La donna sovrana: — Eh! Poco posso dirti. Molti e molti anni sono essa mi chiese aiuto; ma era povera e non potemmo conchiudere nessun affare; e d'allora in poi m'è uscita di vista.

Modestia: — Sapesse quant'è che la cerco! Un giorno, in una grande città, ci perdemmo in mezzo alla folla....

La donna sovrana: — Non piangere. La troverai.

Modestia: — Dove? dove?

La donna sovrana: — In un paese dove non si distribuiscano commende.

Modestia: — Oh Dio!... Dunque mia sorella è morta anche lei!

La donna sovrana: — Non piangere, ti dico! Io non piango nemmeno ai drammi di Ibsen. Raccontami piuttosto la tua storia.

Modestia: — Uh! la mia storia!... Disperata, mi ero ridotta a vivere qui nei dintorni, e ci campavo, perchè nessuno s'accorgeva che ci fossi; quando la mia disgrazia volle, l'altro giorno, che diventasse sindaco il salumaio del villaggio. Costui m'ha deferita all'autorità giudiziaria quale vagabonda, priva di mezzi di sussistenza e forse anarchica; e i carabinieri hanno già avuto l'ordine di arrestarmi se entro otto giorni non mi trovo occupazione e domicilio.

La donna sovrana: — Bene! Imparerai a stare al mondo!

Modestia: — Per grazia di San Francesco mio protettore, ier sera tardi, passando sotto le finestre d'una villa, udii leggere un giornale: uno leggeva che lo scrittore francese Giulio Claretie invidia i letterati e gli artisti italiani; perchè, egli dice, in Italia chi ha dei meriti si fa strada da sè solo, e chi non ne ha, non riesce, come in Francia, a spingersi innanzi con l'impudenza della Réclame....

La donna sovrana: — Bada a come parli!

Modestia: — Scusi.... Ripetevo le parole del Claretie.

La donna sovrana: — Tira avanti!

Modestia: — .... Non sapendo più dove andare, se anche in campagna adesso mi odiano, avrei pensato di mettermi per cameriera presso qualche scrittore o artista d'Italia....

La donna sovrana: — Bella idea! Ti credevo ingenua; ma non sino a questo punto. Ah ah!... E non mi conosci?

Modestia: — Non ho questo onore.

La donna sovrana: — Io discendo da quell'imperatrice che un amico della tua famiglia, Giuseppe Parini, osò chiamare «venerabile» per sarcasmo. In America ebbi a padre putativo un certo Barnum; ma, oriunda di Francia, io, come un romanzo di Bourget, sono cosmopolita; tanto che Policarpo Petrocchi m'introdusse senza scrupolo nel suo vocabolario. Mio dominio, il mondo; tutti gli uomini si raccomandano a me, s'arrendono alle mie lusinghe benedicendomi. Io sono la Réclame! La Réclame sono io!

Modestia: — Oh San Francesco!

Réclame: — Tu non mi fuggirai....

Modestia: — Mi lasci andare! Per carità, mi lasci andare!

Réclame: — Non mi fuggirai.... Non hai forza, povera diavola! Guarda: invece che odiarti mi fai compassione!

Modestia: — Dunque mi lasci.... La prego! La scongiuro!... Che cosa vuole da me, Maestà?...

Réclame: — Aiutarti, distoglierti dal tuo insano proposito. Hai visto coloro che viaggiano meco?

Modestia: — Maestà, sì.

Réclame: — Bene: tra i miei musici cantano critici e giornalisti; i miei fedeli, che hai veduti, sono letterati e artisti che all'annuncio del mio arrivo son corsi a me dai loro eremi, ove attendevano a opere luminose in una superba meditazione di conquista.

Modestia: — E se tornano qua ora? se mi vedono?... Mi lasci andare!...

Réclame: — No: non ti ravviseranno. Del resto, io li conosco per bravi ragazzi che non farebbero male a una mosca, sebbene talvolta nei loro grandi disdegni invochino il dio Terremoto. In altri tempi avrebbero forse conquistato un arcipelago: adesso, non sono che scrittori, i quali, come uomini d'intelligenza, vanno verso la Vita.

Modestia: — Ah sì?... A far che cosa?

Réclame: — Tante belle cose; fra cui l' atto di Vita coronante il rito misterioso come l'Orgia.... Non arrossire.... Via! Dammi quel libro ch'è là, nella mia carrozza, fra gli annunzi dell' Emulsione Scott, dell' Iperbiotina e del Depilatorio Clauser; e saprai altre cose di gioia. Quello!... Brava!...

················

Ora ascolta come parla uno il cui pensiero è bruciato dall'ambizione.

«L'orgoglio e l'ebrezza del suo duro e pertinace lavoro; la sua ambizione senza freno e senza limiti constretta in un campo troppo angusto, la sua insofferenza acerrima della vita mediocre, la sua pretesa ai privilegi dei principi, il gusto dissimulato dell'azione onde era spinto verso la folla come verso la preda preferibile, il sogno d'un'arte più grande e più imperiosa che fosse a un tempo segnale di luce e strumento di soggezione, tutti i suoi sogni insaziabili di predominio, di gloria e di piacere insorsero e tumultuarono in confuso abbagliandolo....»

Modestia: — Cieco! Quanto doveva essere infelice, questo peccatore!

Réclame: — Al contrario, felicissimo: perchè la felicità è tal cosa che l'uomo deve foggiare con le sue proprie mani su la sua incudine; ed egli, il peccatore, in certi momenti, vedeva bene che il mondo era suo!

Modestia: — Con tutto il rispetto, io non lo credo! In letteratura i fabbri potranno bearsi a batter le frasi perchè diano faville; ma nella realtà le faville, se non acciecano, vanno a finire in niente, proprio come questi sogni letterari!

Réclame: — E che importa se ti paion sogni? Purchè tu ne sia esclusa.

Modestia: — Ma anche lei, signora...; mi permetta dirle che anche lei ne è esclusa. Non è mica la Gloria lei!

Réclame: — La Gloria è un'illusione, di cui io sono la realtà! Vedi? Tu stessa non ragioni più, perchè madama Ragione, tua bisavola, è morta, non solo in arte, da un pezzo!

Modestia: — Però io spero che non tutti i letterati d'Italia vagheggeranno conquiste d'arcipelaghi o invocheranno il dio Terremoto.

Réclame: — Se non tutti, molti! molti! Perchè al Verbo dei maestri, i discepoli divengono armento. E se è vero che i discepoli sempre esagerano i meriti dei maestri, non sola tu, ma anche tutti i tuoi parenti prossimi e lontani sono spacciati! La Morale e l'Onore si suicideranno a vicenda, come due amanti infelici; le Virtù Teologali e Cardinali emigreranno nel centro dell'Affrica, dove non siano ancor giunti superuomini. Tu dove andrai?... Quo vadis?

Modestia: — .... Quanto soffrire, o mio Dio, che insegnasti «Chi si esalta sarà umiliato»! Dove andrò?... Non troverò nemmeno un letterato vecchio o non più giovane che mi protegga?

Réclame: — Non dubitare, cara mia, che pur cotesti vecchietti amano me con animo pronto, sebbene con carne stanca! Quanti ne conosco che seguono l'esempio di Vittore Hugo!

Modestia: — Cioè?

Réclame: — Il buon Vittore diffondeva lui le lodi di sè per i giornali della Francia.

Modestia: — Ah! lo so, lo so! Tutti i mali vengono dalla Francia.

Réclame: — Non credo. Già secondo quel tuo miserello Leopardi ogni uomo celebre sempre diventò celebre dando fiato per primo alla sua tromba.

Modestia: — Oh il mio Giacomo!... Poverello! Ma io lo consolavo augurandogli la giustizia del Tempo....

Réclame: — Invano! Ai miei cenni egli dubitava che pur questa fosse un'illusione; egli prevedeva il giorno in cui io avrei proclamato all'universo l'ultimo e supremo trionfo della scienza e la mia gran vittoria su tutti i letterati della terra.

Infatti la gloria del Leopardi s'è già estinta nella fredda considerazione scientifica de' vizi e de' malanni che alla sua poesia furono come l' humus ai funghi; e il giorno della mia vendetta e della mia vittoria universale è venuto.

Sin la Fortuna, un dì superba al par di Giuno, mi chiede vita, e tutti gli dei d'Olimpo rivivono per me, e la Natura che io denudai alla libidine del Naturalismo, che ho velata di nebbia alle lussurie dell'Idealismo, mi chiama: le ho concesso oggi, per questi campi, quest'ora del mio desto riposo.

Odi tu la sua voce che mi saluta?

Modestia: — Non sento niente.

Réclame: — Tu non puoi sentirla. I tuoi sensi non sono usi a incontrare il mistero e a rabbrividirne. Il fatto è che la Natura, essendo poesia, ha bisogno del mio soccorso, perchè ha bisogno dei poeti suoi interpreti, che sono miei schiavi.

Modestia: — E i prosatori?

Réclame: — La poesia si fa anche in prosa, scioccherella!, quando la prosa si mette in versi e nelle porcherie i sensi diventano strumenti d'infinita virtù..., atti a penetrare i misteri più reconditi, a scoprire i segreti più reconditi. Ma tu non puoi comprendere.... Piuttosto, dimmi: Perchè gli scrittori scrivono?

Modestia: — Per conforto all'amore e alla sventura.

Réclame: — Rispondi bene, o torno a leggere!... «Colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha goduto....»

Modestia: — Basta, basta.... Dirò che scrivono per guadagnare.

Réclame: — In Italia? Nemmeno gli agenti delle tasse dan valore ai libri!

Modestia: — Non so, allora....

Réclame: — Non mentire!

Modestia: — Dirò che scrivono per la gloria....

Réclame: — Bene!... Ma oggi chi crede più che l'anima sopravviva al corpo? Dunque gli scrittori, nel dubbio di non poter visitare le biblioteche in ispirito, fra secoli, a conoscere quali opere vi si leggeranno, fan bene a rincorrere la gloria, per ogni via, finchè sono in vita. Aggiungi che oggi la chimica insegna come l'inchiostro e la carta dei libri moderni, a differenza dei cinquecentisti e delle pergamene, sono facile preda di microbi, e fra tre o quattro secoli non saranno intelligibili che i libri in carta a mano: proprio quelli degli scrittori ricchi, dilettanti. Dunque il tempo commetterà enormi ingiustizie senza saperlo, alla maniera dei giurati; e così ai romanzieri e ai poeti val meglio provvedere alla loro fama presente, finchè sono in vita.

Modestia: — Che disperazione! Non capisco più nulla.... Ma San Francesco.... Oh! Ora che mi ricordo.... I letterati non sono i soli artisti italiani invidiati da Giulio Claretie. Mi restano i pittori!

Réclame: — Perchè no? Tu andrai al loro cospetto nel costume di quelle donne che stanno in chiesa, presso una bara, nell' Ultimo Convegno; e ti farai credere, con cotesto naso, una modella. Poh! con qualche moina riuscirai forse a ingannarne qualcuno. Tuttavia, credimi, ti troverai a disagio; perchè, dopo l'invenzione del prerafaelismo le modelle digiunano. Io poi ho elevato le imagini prerafaelite agli annunzi d'ogni cosa; a tutti i muri e a tutte le cantonate; sicchè i pittori riconoscono anch'essi da me la loro insolita fortuna.

Modestia: — Gli scultori, dunque...?

Réclame: — Gli scultori ti odiano. È per colpa tua che essi han da fare pochi monumenti!

Modestia: — I musici.... Andrò da un musico....

Réclame: — Perchè egli dedichi a te, invece che a sè stesso, le sue opere? Spera, spera! Per amor mio, fino i sacerdoti di quel Dio che insegnò: «Chi si umilia sarà esaltato», oggi hanno un conforto alle passioni antiche della politica e della corruttela: nei loro giornali possono leggere fra i telegrammi della cronaca artistica «.... Al duetto di Gesù con la Maddalena, tutto il tempio scoppiò in frenetici applausi....»

Modestia: — È finita!... Dove andrò, o Signore?...

Réclame: Quo vadis?... Ahi!... Non ti resta che venire al mio servizio. Metterò qualche volta i tuoi abiti a mia cugina l'Ipocrisia, e metterò a te gli abiti e la maschera di lei....

Modestia: — Piuttosto morire!

Réclame: — Via! via! Aspetta almeno a quando avrai marito, per fare come Lucrezia romana, che dopo l'ultimo piacere si tramandò, o per te, o per l'Onore o per me o per tutti noi insieme, all'immortalità.

Modestia: — No! subito, o morire o fuggire dal consorzio civile! Andrò al polo nord!...

Réclame: — Come il dottor Cok! E tu cammini a piedi, a piedi scalzi e senza un soldo in tasca; così quando arrivassi alla terra degli Esquimesi troveresti ch'essi avrebbero già attaccati ai loro blocchi di ghiaccio, duri più del marmo, gli avvisi di casa Bertelli e di casa Suchard; e quando arrivassi nel cuore dell'Affrica, troveresti i cannibali già intenti a leggere i romanzi italiani tradotti in francese.

Ma ecco i miei fedeli. — To'! Me l'aspettavo! Sono tutti ubbriachi fradici. Anche i poeti, che, poverini, han preferito Lieo al Grande Pan....

Postiglioni, mi raccomando a voi....

················

Addio, Modestia, fatti coraggio!

················

Un urlo straziante, una scossa della vettura.... Che cosa è stato? Ah niente! S'è gettata la Modestia fra le zampe dei miei puledri, sotto le ruote del mio cocchio. Una maniera di suicidio che Maupassant trovò per uno de' suoi personaggi: un plagio; e neanche i plagi commuovono più le fantasie! Poi, bel gusto ammazzarsi in una campagna solitaria ove non c'è nessuno a provar raccapriccio! Inutile a sè stessa in vita, neppure morendo la Modestia ha saputo provvedere alla propria fama. Doveva finire così!

L'entusiasta punito.

Per l'abuso che ne fecero i poeti, chi ammira più i palpiti e i raggi delle stelle? Ma l'anima di Carlo Dònnola ancora aveva rapimenti a un fulgido cielo. Nemmeno gl'innamorati oggidì s'intendono nella bramosia dell'argento lunare e preferiscono la povertà delle tenebre; ma Carlo Dònnola beveva il latte della luna con tal gioia che le pupille gli s'inumidivano come a uno spirituale liquore s'inumidiscono le pupille d'un ebro. E se in noi fu esausta dall'artificio l'ammirazione per i fiori, tanto che d'una rosa fresca diciamo «sembra di seta o di cera», a Dònnola una viva rosa carnicina sembrava tuttavia di «carne»; e contemplata e annusata a lungo una bella rosa pallida, egli elevava il naso elevando gli occhi, come a una visione, e «Dolce signora — esclamava mestamente — io v'amo!»

Con ciò non si afferma che Carlo fosse ancora vergine alle impressioni della natura; bensì che era in lui una nativa, particolare attitudine a sorprendere il bello in tutte le cose, in tutta la vita; ad avvertire quel che gli altri spesso, mortificati dal brutto, non avvertono e che egli con sincero entusiasmo e con un sibilo iniziale rivelava per mezzo degli aggettivi, spiccioli o a coppie, «stupendo! sovrano! — superbo! squisito! — supremo! sovrumano! — straordinario! sublime!»

Neanche perciò si afferma ch'egli fosse un poeta; giacchè si sa, e Teofilo Gautier lo dice, che i poeti vedono il bello dove non è: « Les poètes prennent habituellement d'assez sales guenipes pour maîtresses »: Carlo Dònnola invece vedeva il bello dov'era. Così mentre altri alle esposizioni artistiche fuggiva dalle sale di scultura, egli s'arrestava d'improvviso dinanzi a qualche grazioso ninnolo statuario, il quale all'occhio comune era impercettibile fra tanti orrori; o ristando dinanzi a ciò per cui inorridivano gli altri, egli solo, súbito, indicava o la minima parte o la linea lodevole.

Quante volte nelle tele sciagurate di colore e di disegno non vantava giustamente l'intenzione del pittore? E, non a torto, quando in cospetto a un nuovo edificio tutti biasimavano l'architettura moderna, egli notava: — Che bel camino! — Beato lui! A una sinfonia d'imitazione wagneriana cadeva ogni possa anche nel più classicista ascoltatore e critico; ma Dònnola riteneva, per zufolarle dopo, quelle poche note che erano state come una fugace spera di sole tra una nebbia folta o in una roboante tempesta.

Beato lui! Nei versi e nelle prose di qualche magnifico scrittore moderno molti si smarrivano a cercare pensiero e sentimento; ma egli, pronto, afferrava aggettivi e li ripeteva all'altrui meraviglia.

— Sì; bell'aggettivo — confessavano. — E l'idea?

E lui:

— Il verso è per l'aggettivo, e non per l'idea. Simbolismo!

Carlo Dònnola era dunque un uomo d'ingegno, sebbene in fama di stupido. L'uomo d'ingegno, veramente, è infelice, perchè non meno ammira il bello di quel che s'offenda del brutto; invece Carlo viveva felice pascendosi soltanto di bellezza. Quando però venne il dì che lo vidi soffrire, allora io non dubitai più oltre che la sua fama di stupido era ingiusta.

*

Si erra pure a dir volubile quell'ammiratore della bellezza femminile che vedendo oggi una più bella donna, non dispregia per essa la donna lodata o amata ieri. Carlo non procedeva nemmeno a confronti: progrediva nell'entusiasmo, perchè la sua fortuna ogni giorno gli recava innanzi creature in tutto o in parte più mirabili. Gli amici se ne affliggevano, invidiosi. — Excelsior! — dicevano ironicamente. — Ma trovata che abbia l'eccelsa, la perfetta, lo vedremo precipitare! —

Nossignori. Carlo Dònnola vide l'eccelsa: Teresa Gurli; la sposò e continuò a salire. Infatti la conoscenza della perfezione non si acquista che a gradi; esercizio e pratica bisognano alle indagini e alla percezione del bello. D'altra parte, il bello e il bene, secondo i filosofi, sono una cosa stessa, e chi ama l'uno ama l'altro; quindi nelle donne ammirate, desiderate e amate Carlo non aveva mai conosciuto se non i saggi che delle loro grazie la legge morale (cioè il bene entro certi limiti) concede alle donne di porgere al mondo, a tutti: il resto è o dovrebbe essere per il solo eletto, per il marito. E divenuto per la prima volta marito, Carlo ebbe imprevedute rivelazioni, innumerevoli meraviglie, estetiche scoperte, portentose gioie, straordinarie squisite stupende supreme sublimi esclamazioni.

Io strinsi amicizia con lui appunto in quei giorni che il matrimonio lo traeva all'estasi. Oramai, come insufficienti, dimenticava gli aggettivi dall'iniziale sibilante; e non ripeteva più, come esigua, l'esclamazione «divina» riserbata fino allora per lode sintetica a qualche esemplare del «femminino eterno»; bensì elevava al cielo, senza dir nulla, gli occhi sprizzanti una letizia sovrumana. Tale, quale un uomo antico a cui una dea apparisse senza spaventarlo. Tale, rovesciava in me le confidenze che gli alleviavano la felicità soverchia.

— Teresa — mi disse una volta — è sterile. Pensa: nessuna deformazione, nessun danno per la sua bellezza!

— La corporale bellezza di Teresa — un'altra volta mi accertava — è nulla a paragone dell'anima sua. Se tu sentissi l'anima sua!

E io, da amico sincero, da amico che eccitava l'imaginativa a comprendere così prezioso tesoro, per poco non gli dicevo:

— Deh! fammela sentire!

*

Or bene, quest'uomo nato a bearsi della vita e degno, degnissimo della felicità; quest'uomo....

Conviene ripeterlo: Carlo amava anche la virtù: che è la bellezza dell'animo non caduca, non fragile alle offese dei malanni, non deperibile alla diuturna ingiuria del tempo; che è il balsamo conservatore dell'amore coniugale, la maglia di salute per le anime sensibili a quelle intemperie le quali conturbano lo spirito moderno, e penetrano e soffiano tra le domestiche pareti, e raffreddano il sentimento in guisa che la ragione scusi poi l'«incompatibilità di carattere», la «separazione», il divorzio, il vizio, l'a....dulterio! Ah quando le malattie non isciupassero troppo presto in Teresa il formoso corpo per cui Dònnola era assorto a gustarne l'anima, a poco a poco, senz'accorgersene, egli assisterebbe all'opera distruggitrice, lenta e assidua, degli anni: scolorate, anzi, le belle forme; pacati i sensi; sfiorita la giovinezza, più libera risplenderebbe l'intima virtù che agli occhi almeno del suo Carlo renderebbe Teresa giovanilmente amabile sino alla vecchiaia.

Ebbene, quest'uomo io lo rividi non un anno dopo il matrimonio e non lo riconobbi subito.

— Che hai? Cos'hai fatto, Carlo?

Portava abiti alla moda, ma con l'abbandono di un lion che ritorni verde da una bisca; avrei potuto scommettere che quel giorno non s'era mutato, lui!, di camicia; e i baffi, erti una volta ad arco, gli spiovevano simili ai baffi di un cinese.

Rispose:

— Mah!... — E alzò il capo in una vana scossa dal peso enorme che l'abbatteva.

— Tua moglie.... è ammalata?

— No no. — Disse «no no» a mezza voce, triste, negando insieme e non negando. Sembrava più confermare che negare.

— Forse — io insistetti per pietà, mentre già sorridevo per conforto — forse è incinta?

— No no. — Negava e non negava. E m'attristai anch'io credendo d'indovinare, finalmente.

— Un.... aborto?

— No no —; come dianzi.

Allora con rapida memoria io, che avevo il dovere di confortarlo, riandai quanti malanni possono colpire una donna; con rapido esame li paragonavo a quella disperazione abbandonata e quasi muta; nè a tanta afflizione trovai convenir altra sventura che una che non era da esprimere se non con una perifrasi misericorde.

— Scusami, Carlo, se insisto...; ma a un amico come me.... Di' dunque: l'isterismo.... fa certi scherzi..., passeggeri però; di cui si guarisce....

No, Teresa non era impazzita. Eppure, egli non negava del tutto neppur questo!

— Ti dirò poi — Dònnola m'interruppe, stendendomi la mano.

Oh!...

Oh Dio! Senza chiedergli più nulla gli strinsi la mano, gli dissi: — Coraggio —; gli dissi con uno sguardo che avevo compreso tutto!... Sua moglie lo tradiva.

Lo tradiva! Ma quantunque io leggessi molti romanzi francesi e italo-francesi, quantunque frequentassi il teatro drammatico, non sapevo persuadermi che quella donna avesse tradito l'amico mio prima d'un anno dalle nozze. A poco a poco, dubitai d'aver errato nella mia interpretazione e ricordai che nel lasciarmi Carlo mi aveva quasi detto con gli occhi: «Tradimento, sì; ma che tradimento intendi?»

Forse era un'infedeltà di nuovo genere. Poi riflettei su quel suo negare e non negare a ogni mia precedente dimanda....

Forse Teresa?... E mi convincevo così, adagio adagio, d'una colpa e d'una sciagura mostruosa a cui fossero parti integrali il morbo, la figliazione, l'aborto, la demenza, il tradimento, la turpitudine; sebbene non potessi chiaramente definire qual cosa mai l'indegna moglie avesse fatta. Quando....

.... Ah sì, povero Carlo!... Non m'ingannavo più! Che colpa! che sciagura! che orrore! quando ricevetti:

Petali e corolle versi di Teresa Gurli Dònnola.

L'agnello.

Bèee....

Niveo bioccolo, con le quattro zampe legate in mazzetto; raccolto, dentro il canestro, nel giaciglio di erba ancor fresca, a quando a quando l'agnellino alzava il capo, che subito gli ricadeva come in un abbandono o in un esaurimento di disperazione. Allora sui miti occhi cristiani cadevano le palpebre; indi, ecco: languido languido lo sguardo sembrava cercar di nuovo la landa troppo presto perduta e di nuovo spegnersi a quel fervore di luce, mentre dalla gola riarsa e dal petto ansioso tornava l'invocazione della perduta madre:

Bèee.

Prorompeva il frastuono della musica; rombava, negli intervalli, il susurrio delle voci e lo scalpiccio della folla; e, per tutto, saluti, richiami, risa, sorrisi. Allegria.

Sempre triste, il professore Riccardo Biscaglia entrò nella sala. E allorchè, nell'avvicinarsi là dove suscitavano ammirazione i doni in mostra per la lotteria, udì pervenire dal cesto la voce di duolo, egli tese il capo.

Oh come soavi quei due occhi cilestri che sembravano cercare due occhi fraterni!

Infatti: una fanciulla si avvicinò. Oh come sembrò palpitante il petto chiuso nella veste bianca allorchè la signorina ebbe scorta la bestiola che soffriva! Non era un inganno di civetteria; non un pretesto a farsi notare; spontaneamente, inconsciamente quasi, ella alzava una mano quasi a indicare ed accusare la tortura delle quattro zampe strette nel vincolo di seta, mentre al doloroso bèee rispondeva, vòlta alla madre: — Poverino!

*

E poverino anche lui, il professor Biscaglia; il quale era un uomo molto triste; sempre triste; prima di tutto perchè essendosi arrotondata ogni anno più la sua pancia, l'annoso abito delle occasioni solenni era andato restringendosi così che il gilet gli comprimeva lo stomaco e i calzoni stentavano ad acquistare in larghezza quel dito di misura che perdevano in lunghezza; e i piedi, non coperti sino al collo e al calcagno, apparivano più grandi di quanto erano. Erano così grandi!

Ma, oltre questi particolari disturbi, rattristava Riccardo Biscaglia il dolore universale, e l'aveva recato seco pur alla festa di beneficenza. E a tanto pessimismo il professore non aveva motivi dallo Schopenhauer o dal Leopardi: non dagli studi; bensì dall'antico contrasto dell'istinto poetico con la realtà della vita. Se il Governo rinsavisse e comprendesse che, dopo o avanti la cultura della terra, ciò che più importa è la cultura delle menti e degli animi, i professori sarebbero pagati meglio: pagati meglio, si distrarrebbero anch'essi in modi leciti e onesti e si avrebbero quindi meno poeti di dolore e meno scapoli. Senza dubbio un aumento di stipendio avrebbe attenuata in Biscaglia l'antitesi tra il Sancio Panza e il Don Chisciotte che discordavano entro di lui, quando il primo gli diceva: — Non prendere moglie, per carità! Tu sei troppo povero per una ricca e troppo più povero per una povera —; e il secondo l'incitava: — Cerca e trova la tua Dulcinea ideale: colei che, nè ricca nè povera, e bella, sana, buona, ti faccia parere men brutta l'esistenza!

Ahimè! Chi può andare in cerca della felicità senza quattrini in tasca? Ma sconsolato Tartarin, perchè le sue cacce si limitavano a sorprendere e colpir spropositi nei cómpiti dei discepoli, nè più gloriosa conquista poteva vantare in un mese che quella delle cento e tante lire puntualmente riscosse al ventisette, Biscaglia se la prendeva, più che col Governo, con la mala educazione che corrompe le ragazze. — È l'educazione del cuore che manca! — diceva lui. — Se l'adulterio apparisse non una desiderabile offesa alle leggi, ma una cattiva azione, una crudeltà, egli, per star meglio, avrebbe compiuto fino il sacrificio di sposare una ricca, e non si sarebbe adirato nemmeno col Governo, nè rattristato alla fatalità del dolore umano. Questo, è vero, l'induceva a frequenti sfoghi di versi. Ma a che pro'? Gli editori non credono più nei poeti, e le ragazze, corrotte e senza cuore, alla malinconia preferiscono stare allegre.

*

Quella sera dunque Biscaglia era entrato alla festa, solo, con un solo biglietto per la lotteria, non aspettandosi uno spettacolo che lo commovesse così dolcemente: la creatura nel cesto e la creatura che stava a guardarla. Nessuna, nessun'altra di tante signore e signorine che vi erano, si era fermata compassionando dinanzi all'agnello. Tutte agognavano i premi di gran prezzo; tutte, tranne quella madre e quella figlia, civettavano intorno, stupide di mente e di cuore.

— Poverino! Vedi, mamma, com'è carino, com'è bellino? — E poichè anche la madre disse: — Povera bestiola! —, fu manifesta una affinità di sentire tra l'animo materno e il figliale e fu certo per Biscaglia che chi meritasse la pietà della madre meriterebbe anche la pietà della figlia o viceversa.

.... — Estrazione — gridarono a un tratto. — Estrazione!

Seguì maggior ressa di gente. Più pronte, le signore s'affollavano intorno al palco donde era venuto stentoreo l'annuncio e dove un signore in frac scampanellava per avviso ai più lontani.

— Estrazione!

Già si cominciava.

— Numero!...

— Attenti!...

— Cinquantotto!

Biscaglia chinò lo sguardo sul suo biglietto, senza meravigliarsi di non aver lui il 58 e di udire un altro gridare: — L'ho io! — Era stato vinto un magnifico vaso d'argento.

— Numero...!: quattordici!

Sì! Biscaglia aveva il quattrocentododici! E intanto il nuovo vincitore si portava via un'altra bella cosa.

— Numero...!: due!

Il professore scosse le spalle; mise il biglietto in tasca e si mosse. Già era disgraziato in tutto! Del resto, quand'anche vincesse, bella consolazione! Non un premio di lotteria l'avrebbe mutato d'infelice in felice, nè avrebbe diminuito a' suoi occhi il dolore universale.

— Numero...!: ventisei!

Piuttosto invidiava un suo collega, il quale ora ciarlava appunto con quella mamma e quella bionda figliola così pietose. Gli sarebbe piaciuto di tentare un po' l'anima della ragazza in qualche poetico discorso e avrebbe voluto esserle presentato dal collega; ma, disgraziato sempre, non osava nemmeno accostarsi al gruppo.

— Numero...!: quattrocentododici!

Eh? Che? Quattrocento...? Non era il suo? Sì sì: l'aveva lui, il professore Riccardo Biscaglia, il 412!

— L'ho io! — E lo mostrava. — Io!

— Bravo! — gridò dal gruppo il collega.

Biscaglia avanzò, rosso in viso, coraggiosamente. Ma diè indietro alla vista del premio.

L'agnello!

— Un agnello! — esclamarono i prossimi al banco. — Un agnello! — l'agnello! — Si rideva; si applaudiva.

E Biscaglia salì e quindi discese dal palco; pallido come chi ascende al patibolo senza speranza di discendere.

— Bravo! — ripetè più forte e contento il collega, a vederlo col cesto nelle mani.

Fu quel «bravo», venutogli da un uomo di spirito, che assumendo quasi il valore di una lode meritata per un'ardua prova rianimò il professore. E di animo ne aveva bisogno: ella era lì dinanzi e sorrideva un po' triste; diceva con gli occhi: «Perchè l'ha vinto lei e non io?»; e: «Lei gli vorrà molto bene, è vero?»; mentre la mano senza guanto, bella, ripassava sul capo dell'agnellino; e gli occhi e la bocca del professore, che pareva una balia col fantolino in braccio, non dicevan nulla.

— Sei stato fortunato, tu! — fece il collega; aggiungendo la presentazione:

— Il professore Biscaglia...; le signore Crocchi.

— La sorte le ha favorito l'innocenza, il candore — disse la mamma.

— Quanto l'invidio! quanto è bellina questa bestiola! — disse la figlia.

Bèee....

Allora cesto e agnello per poco non caddero di mano a Biscaglia, tale fu l'urto che l'amico gli diede col gomito per suggerirgli l'idea che, del resto, era venuta anche a lui.

— Cosa vuoi fartene tu? — chiese l'altro.

Onde Biscaglia parlò, rosso rosso:

— Se la signorina mi permettesse.... Ella potrebbe averne maggior cura di me.... Io non ho moglie....

— Ma sicuro! E non ha nè erba nè ovile — disse l'altro.

All'offerta, la figlia guardò la mamma; la mamma annuì; ringraziarono; e il candore e l'innocenza, avvolti di nuove carezze, passarono dal professor Riccardo Biscaglia al soave dominio della signorina Irma Crocchi.

*

Più e meglio che alla follia, Riccardo Biscaglia s'innamorò assennatamente; perchè era un amore nato da un affetto non cieco: dall'ammirazione della bontà; perchè più che la bellezza aveva potuto sul suo cuore quella prima vista della signorina Irma nell'attitudine compassionevole. La bellezza è caduca; non la bontà, se spontanea; non la gentilezza, se sincera e nativa. Essere amato da tale donna forse non sarebbe stato consolazione ad ogni travaglio, ad ogni dolore, ad ogni fatica, a tutti i danni della vita? A tutti, forse no; per la fatalità del dolore umano; ma a molti sì. E ahi! Riccardo Biscaglia, per quell'eterno conflitto che alimentava in sè stesso, vivrebbe e morirebbe scapolo. Infatti quell'angelo che era la signorina Irma non poteva essere che troppo povera. Ma egli l'amava. Ma egli aveva l'obbligo di una visita alle signore che avevano accolto il suo dono.

Deliberò di adempiere a questo dovere, e solo per accertarsi e mantenere con maggior forza il cervello a posto, chiese a quel tale collega: — Le Crocchi non han mezzi, eh?

— Han qualche cosa.

Oh! Nè povera nè ricca! Era l'ideale nella realtà!

Ma ci fu dunque il sole

Su questa terra un dì?

Fu il raggio che infrange il nuvolo; fu il faro nelle tenebre tempestose. Diveniva possibile la conciliazione dell'idea col sentimento; dell'amore col senno, della poesia con la prosa! Irma possedeva un cuore — tanto cuore! — e possedeva qualche cosa più di quanto costi una capanna a comperarla in due, o a prenderla in affitto in due! Egli dunque poteva domandar la mano della signorina che amava! La felicità non era dunque illusione! Benedetto l'agnellino! Dell'agnello Biscaglia fece il paraninfo del suo amore, il compagno de' suoi sogni, l'argomento delle sue rime, il simbolo del suo cuore. Bèee....

Or come Don Chisciotte e Sancio Panza erano d'accordo mentre Tartarin saliva il Righi, così erano d'accordo adesso nell'animo del professore Biscaglia mentre egli saliva quelle scale.

Una.... Due.... Tre.... Abitavano molto in alto, le signore. Salendo crescevano i palpiti, calava il sangue. Smorto, anelante, il professore si arrestò all'ultimo pianerottolo; dove, a una porta, lesse il nome: Crocchi.

Nessun dubbio; quell'angelo stava là dentro.

Ma lui si sentiva così smorto che non ardì toccar súbito il bottone del campanello; e prima si fregò le guance con le mani. L'atto però gli parve ridicolo; temè che qualcuno fosse a guardarlo o a spiarlo per la finestra della scala; si volse....

Dalla finestra della cucina, di contro, pendeva, spaccato, l'agnello.

Tradotta in tedesco da C. Brenning e pubblicata (1902) in Feuilleton Zeitung, Zürcher Post, Düsseldorfer Zeitung, Frankfurter Nachrichten, Neueste Nachrichten für Elberfeld, Dortmunder Zeitung, Unterhaltungs-Beilage, Die Selbsthilfe, Hansa-Theater, Neue Saarbrücker Zeitung.

Il falcone.

Nel medio evo:

per le signore d'oggidì.

Il castellano di Ripalta s'era allevato con amore un valletto di nome Ugo e con desiderio, esercitandolo a cavalcare e ad armeggiare, attendeva il giorno che lo armerebbe cavaliere. Nè di quel bene del signore per il valletto ingelosiva madonna Ginevra, poichè la giovinezza di lei fioriva infeconda e il ragazzo, tenuto quasi in conto di figlio, le risparmiava i rimbrotti del marito.

Madonna viveva lieta. L'amore del marito, le cacce e il conversare con le sue donne e cogli ospiti, le divagavano la vita uguale e solitaria del castello non meno che le faccende casalinghe, cui essa accudiva umilmente. Come rideva a osservar le galline, che al solo vederla chiocciando e sbattendo le ali le correvano dietro e si disputavano in frotta avida e litigiosa il becchime che gettava, così rideva se a diporto il palafreno saltasse imbizzarrito o adombrato, o se nell'arazzo da rammendare le riuscisse peggio che lo strappo il rattoppo; e mentre cuciva presso la finestra, dalla quale scorgeva l'ampio paesaggio a basso e d'intorno, ella cantava e i villani, giù nella valle, udivano limpide e schiette le cadenze della sua bella voce.

Gioconda natura! Per essa madonna Ginevra era amata dai servi, quantunque fosse anche temuta perchè gli occhi del padrone vedevano tutto con gli occhi di lei e perchè ogni capriccio di lei diventava la volontà del sire. Solo Ugo il valletto la serviva baldanzoso e sicuro, e quando fallava sapeva vincerne lo sdegno fingendosi egli sdegnato e mesto; sicchè lei finiva con immergergli le dita tra i capelli folti, per ridere. Ugo allora si divincolava e la guardava tutta in un'occhiata.

Veramente molte cose erano permesse a Ugo. Poteva arrampicarsi su per gli alberi dell'orto a inzepparsi di frutta; poteva ordire le più strane burle al vecchio maggiordomo o assestare un pugno allo scudiero che gli minacciava un pugno; poteva spiare dietro una porta l'ancella che si stava spogliando; che, accusato alla padrona, la padrona rideva, e accusato al padrone, il padrone taceva.

Ma quand'ebbe compiuti i quindici anni il valletto parve mutare costume, e il signore notò lo studio di lui a imitarlo affinchè nessuno, neppure madonna Ginevra, lo considerasse più un ragazzo. Egli stesso, Ugo, sentiva mutarsi; sentiva una smania di cose nuove, d'altri svaghi, d'altri luoghi, d'altri pensieri; mentre la vita e la natura che fervevano attorno a lui gli rivelavano cose sconosciute e gli suscitavano sensazioni nuove. E intanto che la forza sensuale si sviluppava in lui e per l'istintiva penetrazione della pubescenza egli imparava da tutta la natura il segreto dell'amore, quel desiderio peranche indefinito gli avvolgeva il cuore di una insolita tristezza e tenerezza. Amava, già amava, senza sapere chi amasse e senza sapere che amava.

Ma risalendo un giorno dalla valle al castello (era di fitto meriggio e sotto la forza del sole il mondo dormiva d'un sonno fervido) Ugo a un tratto udì cantare lontana, dall'alto, simile a un'allodola, madonna Ginevra; e d'un tratto l'imagine incerta del suo desiderio e de' suoi sogni acquistò ai suoi occhi sembianza e forma di persona viva: madonna Ginevra!

La sera nel porgere, avanti cena, l'acqua alle mani della padrona, al valletto tremavano le mani. Egli se n'accorse, sebbene non chinasse lo sguardo; amava da uomo; senza paura amava, e senza vergogna.

Quante consolazioni nell'avvenire la sua mente innamorata ebbe allora da fantasticare! Secondando i ricordi delle storie, che gli avevano raccontate a veglia, di cavalieri fatti eroi per gloria delle loro dame, e invidiando a sè stesso i pochi anni che gli mancavano alla piena giovinezza, s'imaginava vincitore di tornei in cui madonna Ginevra l'assisteva sorridendo, o difensore e salvatore di madonna in un notturno assalto di nemici.

Per altro, quell'ardore e il compiacimento di quell'ardore patirono presto il freddo dell'ignara noncuranza della dama, la quale aveva due grand'occhi solo per vedere, non per osservare; e poichè egli non fallava più, tal cura e tal forza metteva nel servirla, essa non aveva neppur più ragione d'immergergli le dita tra i capelli.

Fino a quando essa avrebbe dunque ignorate le sue pene?

E col volgere dei mesi l'affetto di Ugo s'andò come condensando in modo più virile; onde la sua fantasia, cedevole ai richiami e agli impeti dei sensi riscaldati dal primo e precoce calore della giovinezza, l'abituava a desiderare nella bella donna le delizie corporali e le gioie della colpa. A poco a poco egli perdette, così, la baldanza, il coraggio, la fede del suo amore; e il timore lo prese che il sire ne scoprisse il segreto e l'intenzione.

Passarono mesi; passò un anno. Ma quanto più gli diminuiva la speranza, tanto più cresceva in lui la bramosia di essere soddisfatto.

Madonna Ginevra era sempre bella e fresca: rosa fresca in tutta la sua bella fioritura. Come spesso, dopo la cena, Ugo sorprendeva afflitto certe occhiate desiose del marito a lei! Con che travaglio percepiva negli occhi e nel riso di madonna gli assensi e le promesse! Il desiderio sensuale, non più vago e dimesso ma deciso e tempestoso, affaticava l'animo del valletto non più riposato nei primi propositi; e il pensiero di rimettersi al futuro gli diveniva un ritegno insufficiente e un'attesa intollerabile. Già si sentiva morire d'amore; avrebbe alla prima buona circostanza rivelata alla dama la sua passione sconsolata.

Avvenne che una mattina, montando il suo cavallo migliore e seguito da scudieri in vesti nuove, il sire di Ripalta partì per una festa. Quantunque fosse quello il giorno aspettato dal valletto con penoso e lungo desiderio, tuttavia appena il signore fu scomparso al basso del colle, tra le macchie, egli, nell'imminenza della felicità se l'assistesse la fortuna, o del suo ultimo malanno se madonna non volesse ascoltarlo o mancasse a lui il coraggio d'ottenere ascolto, provò un turbamento grande di paura. Pensava: «Prima di notte le dirò tutto. Le dirò il bene che le voglio. Ma come comincerò?»

E il sole cadeva che non aveva ancora trovato il modo acconcio per incominciare. Quando però, la sera, si fu accorto che la padrona era entrata nelle sue stanze, non più dubitando salì, s'introdusse guardingo, spinse francamente quella porta.

Madonna Ginevra, già sciolti i capelli e un po' discinta, sedeva su la cassapanca: alzati, al rumore, gli occhi sonnacchiosi, riconobbe Ugo e componendosi la veste in fretta, tra sorpresa e sorridente disse: — Vieni, vieni. Cosa vuoi?

A Ugo, rinfrancato, precipitò in mente la dimanda che s'era proposto di far dopo, e raccolto il fiato bastevole per non restare a mezzo, chiese:

— Madonna, se chierico o cavaliere, borghese o valletto, non importa chi amasse da gran tempo una bella donna, damigella o dama, contessa o regina, non importa chi, e non avesse cuore di dirglielo, sarebbe savio?

La domanda piacque a madonna, lieta non ostante l'assenza del marito; e per burlarsi del ragazzo, gli rispose: — Sarebbe stolto. Anche un valletto, purchè fosse bello e valente come te, dovrebbe parlare. Chi ama non sia vile; e ogni donna, anche una regina, n'avrebbe almeno almeno compassione.

Ugo con tutta l'anima bevve quelle buone parole e quasi ebbro di gioia esclamò: — Madonna Ginevra, ecco! sono io! Come ho patito, io, per voi! Aiutatemi, madonna!

La dama non rise: non credè che il ragazzo volesse burlarsi lui di lei, perchè gli scorse la passione in faccia; anzi indispettita d'essersi lasciata cogliere e offesa da quell'audacia, gridò severa: — Ah, ma tu sei matto! Che mi vai cicalando con le tue fole? Che so io dei tuoi amori? Che cosa mi hai chiesto? Che cosa l'ho risposto? Vattene, vattene! Oh come godrà il sire quando glielo dirò! Vattene!

Stordito, con gli occhi spalancati e disperati, Ugo non si mosse. Nel tumulto dei pensieri, ebbe forza di cercare la suprema invocazione alla pietà della dama, l'affermazione estrema del suo amore e una minaccia quasi di vendetta all'acerbità di lei; e disse: — Voi mi sgridate così, e la colpa è vostra. Perchè non mi ammazzate piuttosto? Meglio morire!... In fe' di Dio, io non mangerò più finchè non mi avrete accontentato! — E con un'angoscia che pareva lo strozzasse, uscì di là.

Madonna Ginevra rise forte e pensò: «Oh che gli è venuto in mente a quel ragazzo?»; poi, nello spogliarsi, guardandosi, rise e ripetè: «Cosa gli è venuta in mente?»; infine, si distese sotto le lenzuola e, come il marito era lontano, s'addormentò senz'altro pensiero, col riso su le labbra.

Ugo invece, che se avesse pianto avrebbe sfogato tosto il suo rovello, per non piangere si dimenò a lungo nel letto e non riuscì a chiudere occhio prima d'essersi convinto che la prova che si era imposta era degna d'un cavaliere innamorato, se era prova che davvero gli metteva in pericolo la vita. Ma al risvegliarsi, la mattina, ebbe fatica, quasi pena a riandare il fatto della sera innanzi; capì d'aver commessa un'imprudenza; credè fino d'aver commesso un grosso errore, fino un'azione da ragazzo; e si provò a dimenticare. Non poteva: in che modo comparire al cospetto di madonna? E l'amore gli diè ragione; gli rinfocolò la fantasia; gli fece parer eroica la deliberazione presa. Quando furono a cercarlo disse: — Ho un gran peso qua — segnava lo stomaco —; non potrò più mangiare. — E non si alzò.

Il giorno dopo madonna chiese del valletto. — Non ingoia nulla — risposero. Nè egli cedè ad alcuna preghiera o ammonizione. E il terzo dì una serva gli portò una tazza di latte appena munto, spumante, che faceva voglia, e un'altra un ovo ancora caldo. Ma chiudeva gli occhi e rifiutava. Anche, tardi, il maggiordomo fu a trovarlo e gli porse, dondolandolo per il gambo, un grappolo d'uva primaticcia con acini neri e grossi, vellutati da una bianca nebbiolina tra altri ancora rossi ed in agresto: egli lo divorò un momento con gli occhi, resistette e lo respinse.

Allora il maggiordomo venne dove madonna Ginevra, che quel giorno non cantava, ricuciva un vecchio saio, e mentre ordinava alcune cose per la stanza, quasi fra se, il vecchio disse:

— Tornerà il padrone; ma non staremo allegri.

— Perchè? — chiese con simulata indifferenza la padrona.

Rispose l'altro: — Ugo morirà: non gli va giù neanche un granello d'uva.

Madonna Ginevra arrossì; si levò; si recò alla cameruccia del valletto.

Stava il valletto con le palpebre abbassate perchè nel languore dell'inedia tutto ondeggiava dinanzi al suo sguardo; e aveva il viso stanco e smorto smorto. Trasalì ai passi leggeri della dama, riconoscendola.

— Valletto Ugo, dormi? — chiese lei dolcemente.

Egli disse:

— Per l'amor di Dio, madonna, abbiate compassione di me!

Ed essa inacerbita di nuovo da tanta ostinazione: — Da me non avrai mai grazia nella bella maniera che domandi! È questa la tua ricompensa al bene che il padrone ti vuole? È questa l'affezione che gli porti? Tornerà....

— Oh se tornasse! — sospirò Ugo, insensato più che ardito.

— Tornerà e s'arrabbierà, e ti romperà le ossa!

— Ma non mangerò! — conchiuse Ugo.

La dama uscì col proposito di dire ogni cosa al marito appena fosse giunto. Però, intanto che cuciva, ebbe timore che il marito la rimproverasse d'aver tentata per capriccio e accarezzata in qualche modo la folle passione del valletto; e a nascondergli la verità, non la rimprovererebbe di non averlo sovvenuto con un medico e con medicine e con premure? Che imbroglio! Non iscorgeva mezzo per disimpacciarsi.

Quand'ecco s'udì il corno in lontananza e uno scudiero venne ad annunziare che il castellano arrivava in compagnia di più ospiti. «Chi sa — riflettè madonna Ginevra — che a vedere il padrone non lo domi la vergogna?»

Così quando nel tinello, in cui su la tavola imbandita col più ricco vasellame fumavano le vivande, il sire chiamò Ugo, la moglie gli disse: — È a letto da tre giorni, e non tocca cibo, per un capriccio. Provatevi voi a rimettergli il giudizio.

Il marito volle andare a vederlo; ed essa lo seguì.

— Cos'hai? — domandò il sire entrando.

Ugo rispose: — Un peso qua, alla bocca dello stomaco, che non mi va giù niente.

— Non è vero! — ribattè subito la dama. — Non è vero! Per il male che ha, potrebbe mangiare, — Poi rivolta a Ugo disse: — Adesso io gli dirò perchè digiuni da tre giorni. Mangerai?

— Voi potrete ben dire. Io non mangerò — rispose. Raccoglieva gli spiriti a vincere, morendo, la battaglia; e il signore, cui piacque quella risposta così franca e cui dava sospetto l'aria misteriosa della moglie, già incolpava la moglie di qualche torto verso Ugo. Ma Ginevra soggiunse: — Il giorno che partiste, a sera, osò entrare nella mia camera mentre mi spogliavo.... —; onde il sire capì che il torto era proprio del ragazzo e: — Perchè? — le domandò impaziente.

La dama invece tornò a chiedere al valletto:

— Mangerai?

Egli, che era risoluto di morire, negò ancora col capo, sospirando.

— Io mi spogliavo — proseguì la dama —, e lui venne da me, tutto strano, a domandarmi.... Imaginate!

— Insomma! — fece il sire.

— Mangerai? — ripetè la dama per l'ultima volta. E per l'ultima volta: — No! — ripetè forte Ugo, che teneva fissi gli occhi negli occhi di madonna. La quale allora per dir tutto, e tuttavia a stento, riprendeva: — Mi richiese...; — ma il marito senza più badarle, come nella reticenza comprendesse quanto imaginava, con collera afferrò il braccio del valletto e gridò bieco: — Cosa le chiedesti?

Ugo tacque. Da' suoi occhi traspariva una volontà virile che l'amore rendeva ineluttabile; disperato amore, più forte della morte; tale, che madonna Ginevra ammirandone la fermezza minacciosa insieme e supplichevole e temendo a un punto stesso per sè e per lui l'ira del marito che minacciava con quasi brutale veemenza, vinta dalla pietà, dall'ammirazione e forse dall'amore (quel ragazzo ormai era un bel giovine) concepì un'idea provvida e sagace.

— Mi chiese — rispose lei — il vostro falcone pellegrino, che non dareste a nessuno, nè a conte, nè a principe, nè ad amico; e, per averlo, s'è impuntato a digiunare.

Alle parole della donna il credulo marito contenne l'ira; anzi rise e disse: — Oh! se il tuo male è questo, non voglio che tu ne muoia! Mangia, mangia, valletto; e avrai il falcone. — Dopo, uscì.

Ma la dama prima d'andarsene si fece più presso a Ugo, che la speranza aveva ravvivato e colorito in faccia, e disse rapida, giuliva:

— Già che il sire ti vuol contento, anch'io ti vorrò contento. — Meglio che con le parole ella prometteva sorridendo con uno sguardo lungo e tenero come una carezza.

Ugo, dunque, mangiò. Ed ebbe il falcone.

In Arcadia.

Rioronco, su l'Appennino, è lontano quasi trenta miglia da Bologna e dieci dal men grosso paese, Castello. La strada che vi menava una volta era per lungo tratto il greto del fiume Idice, e poi una carraia, stretta fra balzi e rotta spesso da lavine, della quale non avrebbe potuto rendersi comparativa idea neppure chi avesse vista una via di Milano scomposta per prova di un nuovo pavimento. Ma, or è qualche anno, fu condotta dalla costa dell'Idice una strada comunale che passando di lassù doveva contribuire anch'essa ai fatti di questo racconto. E lassù, dal sagrato della chiesa, il luogo è delizioso: aperto davanti e al di sopra di colline o più basse montagne, di cui una ha nome dall'antica Pieve, e chiuso, dietro, da monti più alti, su cui sorgono evidenti i tozzi campanili di San Martino, di San Giorgio e di Cignano. Fra i castagneti appaiono le case bianche; tra balze, fratte e pioppi il rio va a cadere nell'Idice, che ai dì sereni si distende in nitido e obliquo letto per la plaga occidentale, alla pianura.

Di forestieri a Rioronco non capitano che i carabinieri, a quando a quando, o, pur troppo, il cursore del comune. La scuola è distante e fuori della strada nuova. Un giornale vecchio d'un anno, se pervenga a chi sa leggere, è un foglio pieno di meravigliose novità.

Anche, a pochi passi dalla chiesa, un'osteria serve da spaccio d'ogni genere; fin di sigari toscani, i quali, stagionati come sono, mitigherebbero il più fiero nemico della «Regia Privativa.»

Ma oltre questi benefizi, e oltre i bei castagneti che, se non ci si metta la malattia della foglia, producono assai, e le belle vigne, che, se non le guastano malanni delle foglie e del grappolo, producono assai; oltre la terra fertile di formentone e di meliga, il rio Rosso ha per i più poveri qualche pesce e molti gamberi; qualche anguilla e tanti ranocchi!

I ranocchi si prendono la notte con la «facella»; ciò e un pugno di canne le quali, accese, bruciano adagio e alla cui fiamma quelle curiose bestiole si destano, espongono a fior d'acqua e di fra le alighe il capo stupefatto, e restano immote, fisse, incredule ai loro stessi occhi, non si sa bene di che cosa. Forse scambiano quella luce con l'aurora, o credono a qualche scientifica scoperta degli uomini; il fatto sta, che nell'estasi sono raccolti e gettati in un sacco, dove, al ruvido contatto della tela con le loro membra tenerelle, imparano giù prima d'esser fritte che vantaggio ci sia in questo mondo a farsi delle illusioni.

Quanto agli altri animali del rio Rosso — detto Rosso per le sue sabbie bionde, ma senza traccia d'oro —, si prendono trattenendo con una chiusa la corrente e con le pale gettando l'acqua fuori del borrone finchè questo rimanga asciutto. Che piacere allora! Gli uomini afferrano anguille che si appiattano nella melma e pesci che si raccomandano a bocca aperta e muta; e i ragazzi aggrappano i gamberi, e poi godono a vederli arrossare, retrocedendo su le bracie come eroi che tentino uno scampo senza voltarsi indietro.

Di pernici e starne, a dir vero, non abbondano oggigiorno neanche i boschi di Rioronco; tuttavia la cacciagione vi è meno scarsa che in pianura; e d'inverno i ragazzi dissimulano lacci e trappole e in primavera fan posta ai nidi con la poetica speranza d'allevarsi in gabbia o un cardellino, o un fringuello, o un merlo. Il quale di solito — ingozza che t'ingozzo — basisce per il troppo pane biascicato che gli s'impartisce con troppo buon cuore.

Tutti buoni, o quasi, lassù! Non si ricorda a Rioronco un solo omicidio: una baruffa vi è un avvenimento come un furto di pollaio; intorno al quale di casa in casa si discorre per un mese, e del quale non si fa denuncia poichè quasi sempre si sa da tutti in che pentole quelle due o tre galline andarono a finire. Nè i costumi vi sono corrotti come nei paesi dove le mamme fan la guardia alle figliole fidanzate. Notevole soltanto, a questo proposito, è l'innocente manìa per cui dopo sette, o otto, o talvolta nove mesi di matrimonio, i padri cercano nel lunario e propongono alla moglie puerpera i nomi più strambi e difficili, da storpiare barbaramente sul neonato o sulla neonata che vanno a battezzare.

I.

Nella felice terra di Rioronco viveva ancora, pochi anni sono, un patriarca: un alto e forte vecchio dai capelli bianchi, dalla faccia tutta sbarbata, dall'occhio vivo, dal naso aguzzo. Senza far ridere alcuno portava le brache corte, con le calze al ginocchio d'estate e con le ghette d'inverno; e in famiglia poteva contare con la moglie, vecchia meno di lui ma già imbecillita, tre figli, tre nuore, un genero, una quindicina di nipoti, il più grande dei quali, per riparare in qualche modo all'assenza di due cugini soldati, aveva preso moglie anche lui, rendendo bisnonno il vecchio Carlone.

Carlon dei Carli alla Cà scura, la casa de' suoi avi, governava tranquillamente e assolutamente come quello nella cui volontà e nelle cui tasche trovavano regola ed equilibrio le spese della casa e le rendite della terra coltivata da tutta la famiglia. Egli vigilava ai lavori; parlava poco con i figlioli; era aspro con le donne, complimentoso col curato, loquace con gli amici, terribile con i ragazzi e buono con i bambini che, seduto nella panca sotto il moro, elevava qualche volta a cavallo d'un ginocchio per cantarellare trotta trotta, cavallon, e farli ridere.

Saldo nelle antiche costumanze, fra le altre usava sedere a capo di tavola con gli uomini attorno e in fondo i ragazzi già pervenuti alla prima comunione: i minori mangiavano dopo con le donne. E per la rigida osservanza al vivere antico, e per la sua religione e per l'esperienza dei consigli, il vecchio godeva nella parrocchia d'una supremazia che gli aveva meritata rinomanza pure nei dintorni.

Quand'egli si assentava — ma di rado e solo per la fiera al paese o per qualche grossa vendita in città — la Cà scura si commoveva in un avvenimento quasi di liberazione; e degli uomini, chi scappava all'osteria, chi dall'amorosa; mentre i ragazzi correvano a vuotar borri nel rio Rosso, liticavano e si picchiavano; e le nuore sfogavano le ire e le gelosie per lungo tempo contenute; sicchè il tiranno, che partendo era stato salutato da sospiri di sollievo, tornava non solo temuto come giudice, ma desiderato spesso come salvatore. All'annunzio: — c'è il nonno! c'è il nonno! — la Cà scura cadeva di subito in una quiete conventuale.

Tornava Carlone dalla città tutt'intronato, stanco, con l'oscura e quasi atterrita coscienza della sua prossima morte, perchè in quelle ore laggiù egli si era sentito fuori del suo tempo; e col pensiero avvinto alle cose vedute pativa un fastidio da cui stentava a liberarsi. Se gli affari gli erano andati a modo, si consolava alla vista dei nipotini e borbottava: «Loro, laggiù, hanno il vapore che ha avvelenata l'aria, ed hanno perduto il timor di Dio: dunque stiamo meglio noi altri!» Se poi gli affari gli erano andati male, allora lamentava: — Noi diciamo che si stava meglio una volta; e a Bologna dicono lo stesso: che si stava meglio una volta. Dunque la gente a questo mondo non la trovo mai piana, in nessun sito. — Ma egli era un povero ignorante; e per più giorni faceva il cattivo in casa, quasi temesse d'aver perduta o temesse di perdere l'autorità famigliare.

Ed ecco che a turbarlo in simile modo risparmiandogli la fatica di viaggi alla città, ecco che ad amareggiare gli ultimi giorni del patriarca venne lassù l'ingegner Stoia, erede d'un conte pontificio, ch'era morto a Roma e a Rioronco non si era visto quasi mai. La strada nuova divideva il possesso di Carlone dal possesso dell'erede: alla massiccia Cà scura s'opponeva, nell'estimazione pubblica, il nobile Palazzetto, di recente restaurato; alla supremazia del vecchione minacciava di succedere la supremazia di quel signore patito e guardingo, che i contadini dicevano cattivo come il loglio.

Invano il curato studiavasi a difendere l'intruso che gli si era dato a conoscere per uno dei capi clericali in Bologna; invano ne esagerava i meriti. Carlone protestava: — Oh che ha preso Rioronco per un covo di ladri?

Infatti aveva messo le stanghe all'entrata delle carraie; tese reti metalliche lungo la strada; piantati pali con su la scritta «bandita». E il curato: — La moglie del signor ingegnere veste cinque bambine per la cresima.... Il signor ingegnere ha mandata la panca per la chiesa.... Il signor ingegnere fa questo; la signora fa quest'altro. — Dopo il ristauro della villa, ristauravano anche il piccolo oratorio di Sant'Anna, di fronte alla villa.... — Oh che bravo signore! che brava signora!...

Carlone scoteva la testa: — Chi mal pensa, mal fa; chi non guarda in faccia, non è sincero; non mi fido io di colui!

Nè tardò ad aver ragione. Al principio d'agosto, il cursore del Comune venne alla Cà scura con tanto di carta stampata e scritta, e firmata dal sindaco.

A norma della legge sui lavori pubblici e dell'articolo num. 12 del Regolamento.... etc..., s'intima al signor Carlo Carli il taglio, nel suo predio denominato la Zucca, di tutti i rami di quella quercia che impediscono la viabilità della strada comunale in Ronco..., con minaccia di dar corso immediato agli atti di contravvenzione.... etc....

Parve a Carlone di ricevere un pugno su la testa. Rosso d'ira fe' portare da bere all'uomo; poi chiese:

— Oh perchè non han mai detto niente prima d'oggi?

— Cosa volete sappia io? — il cursore rispose.

E bevuto ch'ebbe ripetè la sentenza con cui, indifferentemente, si difendeva dalle lagnanze, dalle minacce e dalle proteste:

— Carta canta e villan dorme. Bisogna ubbidire!

Diceva Carlone: — Ma qui su dei carri non ne passano, e la quercia non arriva alle birocce.

— Cosa volete che vi dica io? La quercia farà ombra a qualcuno. — Poscia, con la stima d'ogni servo per chi lo paga, il cursore aggiunse: — Le leggi, caro voi, ci sono per tutti; ma in Comune non se ne ricorderebbero se un qualche furbo di tanto in tanto non ci avesse tornaconto a metterle in memoria al Sindaco e alla Giunta.

— È così! Ho capito.... Vedremo!... — brontolava il vecchio.

Il quale, appena se ne fu andato il messo, chiamò i figlioli e il cane, li mandò a provvedere in fretta un «arrostino», quantunque fosse ancora tempo di caccia vietata, ed egli recò la biada alla sua mula.

A cavallo, discendendo poco dopo, preparava il discorso per convincere che la quercia non faceva danno a nessuno; e sperava evitarsi una prepotenza e un'ingiustizia. Così sospirando brontolando e rammentando che al tempo del Papa le strade passavano tutte in mezzo a quercie folte, che era una delizia, giunse la sera al paese. Naturalmente, in vista dell'arrosto, il segretario promise di interporre la sua autorità perchè l'ordine fosse sospeso; tornasse fiducioso due o tre giorni dopo.

E naturalmente quando Carlone de' Carli venne per la risposta, apprese che l'arrosto era stato squisito e il sindaco irremovibile.

II.

Dunque il vecchio doveva sfrondare e diramare la bella quercia, che rivedeva uguale nei ricordi della sua puerizia; la maestosa quercia, alla cui ombra ristava il mendicante a mangiare il frusto di pane, riposavano nei caldi meriggi il cacciatore e il viandante, giocavano i ragazzi a guardia delle pecore. Per un pretesto, perchè un intruso lassù non ne aveva una simile, bisognava lacerarla, squarciarla, mutilarla nelle braccia la feconda, la buona quercia che dava tante staia di ghiande ogni anno!

Col dispiacere d'imaginare le membra recise, Carlone pensava le parole di coloro che nel transitare per la strada osserverebbero quello strazio. Direbbero i buoni: — Che peccato! Così bella quercia! —; e i cattivi: — Ah, ah! gliel'han fatta a Carlone della Ca' scura! — E in lui era il rancore d'un sopruso patito; il cordoglio come d'un'offesa atroce, d'uno sfregio ignominioso contro non solo a lui ma a tutta la sua famiglia, ai suoi figlioli, ai suoi nipoti, ai suoi pronipoti.

L'albero resistente e poderoso, per cento e cento anni ancora dopo la sua morte attesterebbe, così deturpato ad ogni primavera, l'antica sconfitta del nonno; significherebbe la rassegnazione, di tanto in tanto rinnovata, a una lontana ingiustizia e a una remota provocazione dell'invidia e dell'orgoglio.

Ah come sarebbe stato meglio che l'avesse buttata giù, troncata di colpo, il fulmine!

Sempre in quei tristi giorni che, solo, scampando allo sguardo altrui, andava alla quercia a contemplarla, Carlone si ripeteva: — Meglio il fulmine! meglio una saetta!

E se l'uno o l'altro dei figlioli gli ricordava l'intimazione del sindaco e diceva: — Bisogna rassegnarsi e potarla — il vecchio ergeva il capo quasi minaccioso rispondendo:

— No!

— Andremo incontro a dei guai....

— No!

Ma alla mattina dell'ottavo giorno Carlone disse ai tre figli e al nipote maggiore:

— Prendete le zappe, il piccone e la mannaia. — E quelli compresero che a tagliarla preferiva abbatterla, e tacquero.

Come i ragazzi volevano seguirli, il nonno, che precedeva per il sentiero, si rivolse:

— Via! voi altri!... Non voglio nessuno!

Soli loro cinque andarono. Cominciarono ad aprire la buca, ampia, intorno al pedale che tre uomini non abbracciavano; mentre il vecchio assisteva immobile con le mani in tasca. Apparvero lombrichi; apparvero fra la terra gialliccia le prime barbe, molli e scure, che allo scavar delle vanghe restavano recise con netto taglio, o, tócche, si spelavano bianche come serpi. Finchè serpeggiando si delineò la prima radice di un rosso terrigno, grossa quanto un braccio. Scalzata che fu con i picconi, Carlone recise lui la prima radice in due colpi. E alcuni passeri che s'inseguivano dalla siepe, non impauriti da quel battere della scure, volarono su la cima e garrirono tra le frondi più alte e lontane.

Taciti i figli ripresero ad approfondire la buca: scoprirono a destra, più giù, un'altra radice più grossa, che il primogenito tagliò. E poi un'altra. E poi un'altra; e sempre intorno al pedale restavano di quelle radichette bianche, lisce, umide come serpi, con qualcuna delle vecchie nera e marcita.... E poi un'altra, rubesta.

Quindi il vecchio, che assisteva tuttavia in piedi, immobile, all'apparenza impassibile, ordinò al nipote di poggiare la scala e di salire a legar la corda da ramo a ramo, in giro, nell'alto. La faccenda fu lunga. Dopo di che, tornarono all'opera.

Uno chiese se venderebbero anche il ceppo; ma il padre non rispose. E di quelli che frattanto passarono per la strada, fu uno che attese e, ricambiato un saluto, disse:

— Farete di bei quattrini! Chi ne avesse un bosco!

Esclamò un altro:

— È campata abbastanza, eh, Carlone?

— Abbastanza! — rispose.

Ma a un terzo, ch'era un contadino dell'ingegnere, il vecchio disse:

— Potete andar di lungo, voi. Io non vengo a disturbarvi nei vostri interessi!

Quegli rispose:

— Avete ragione, avete; — e proseguì.

Dopo un'altra ora la buca era già così profonda che a ogni nuova radice recisa, tre degli uomini s'attaccavano alla corda e il quarto faceva forza contro il fusto per tentare se non rimaneva che il fittone. Indarno: non ancora il fusto sentiva la scossa. Finchè — e fu verso mezzodì — ebbero certezza che sola la radice maestra rimaneva.

E il vecchio disse:

— La mannaia a me!

Discese lui nella fossa: cominciò a colpire; mentre i figli ai capi della corda, lontano, tiravano, squassavano.

Cupi, ritmici, precisi e fondi su l'estrema radice di quella vita gigantesca cadevano i colpi del fiero vecchio. Quando il taglio fu innanzi, Carlone risalì, venne lui pure alla corda. Ma l'albero non voleva cedere; invano s'incitavano l'un l'altro.

— D'un colpo! — comandò il vecchio, dando un grido per avviso allo sforzo concorde....

Cedeva.... S'udì uno schianto di legno che sia troncato: poi, subito dopo, uno schianto molteplice, diverso, confuso e pieno di tutte le vette, di tutti i rami, di tutte le fronde che toccarono la terra madre; e parve che l'immensa pianta si sfasciasse tutta quanta, cadendo.

Allora Carlone senza dir nulla, col grande fazzoletto rosso s'asciugò, tra il sudore, due lagrime.

III.

Il dispiacere di Carlone amareggiò anche il curato. Era questi un buon prete, superstizioso e religioso a un tempo; un po' asprigno e cocciuto anche lui, un po' interessato, un po' gobbo, un po' sporco, perchè tabaccando non spazzava il tabacco rimasto dalla presa sul panciotto più rosso che nero; ma abbastanza affezionato al suo gregge e al suo ovile e amico a Carlone de' Carli, col quale da anni e in ogni stagione faceva la partita quotidiana a casa di lui, all'ombra del moro o sotto il portico del forno o nella stalla. Veramente nei primi anni di cura la prevalenza del vecchio aveva urtato il parroco e quasi inanimito a un conflitto di poteri; presto però egli si era convinto che disgustarsi Carlone sarebbe stato come disgustarsi tutta la parrocchia e che non potendo contrastare a un avversario, conveniva preferirne l'amicizia. Carlone inoltre era liberale verso la chiesa; e il figlio maggiore di lui serviva da collettore nella «compagnia di San Vincenzo», che s'era estesa per le parrocchie vicine; e tra le donne della Ca' scura si sceglievano quasi sempre o la «priora» o la «rettora».

Ma venuto che fu al Palazzetto il nuovo proprietario, súbito il curato dubitò d'una rivalità fra il vecchio capoccia e l'ingegner Stoia, che da paladino clericale s'intrometteva nelle faccende ecclesiastiche pur in campagna, nè dubitò che tra i due litiganti resterebbe lui con la testa rotta quando non riuscisse a barcamenare. A ciò non era molto abile, e piuttosto che giovare, nuoceva alla sua intenzione onesta con far a Carlone troppi elogi del forestiero e a questo troppi elogi di Carlone: nondimeno volse il mese da che le radici della quercia eran state messe al sole senza che il conflitto avvenisse. Per poco il curato non imbaldanziva; non gli pareva più tanto difficile navigare in buone acque fino ai Santi, il tempo in cui il bravo ingegnere e la sua ottima signora se n'andrebbero, grazie a Dio, di villa in città.

Ma egli non pensava a San Michele, che viene ai 29 di settembre; o meglio, non prevedeva che dovesse recargli noie proprio la maggior festa della parrocchia. Quell'anno non era stata scelta alla Ca' scura che la priora; e rettora sarebbe la moglie d'un fittavolo. La signora Stoia non avrebbe perciò ragione di gelosia.

Quando, una mattina, l'ingegnere così bravo ma così petulante, venne in canonica, ed entrato nel discorso della prossima festa, espose chiaro e tondo il desiderio che la processione si recasse all'oratorio da lui fatto restaurare; come a dire che San Michele facesse una visita a Sant'Anna.

A che il parroco, tendendo la testa e gli occhi quale un cavallo che adombri, esclamò in quella sua maniera un po' rude:

— Impossibile! Questo, signore, è impossibile!

Di consuetudine, la processione calando dalla chiesa prendeva una viottola a bivio con la strada comunale (con la strada appunto che conduceva al Palazzetto) e saliva fino a un olmo, le cui fronde composte in cupola facevan da tempio a una Madonnina in voce di miracolosa. E l'olmo apparteneva al figlioccio di Carlone. Imaginarsi dunque se si poteva mutare itinerario!

Ma l'ingegnere a scorgere la bocca storta del curato, invece di arrendersi, insistette. Il desiderio pietoso era della sua signora: a lui pareva che l'Oratorio valesse più d'un olmo. Lasciò comprendere quanto gli dispiacerebbe dover abbandonare con malanimo quei luoghi dove si era proposto far del bene; e alle giuste osservazioni che la gente di lassù era ostinata; che la novità troverebbe oppositori; che la Madonnina dell'olmo si credeva miracolosa, disse:

— Le imagini davvero miracolose non si tengono sotto un albero! Io sarei ben lieto, ben fortunato, di sottoscrivere la prima offerta per una nuova cappella, se lei mi accertasse che questi miracoli sono di grande importanza.... Quanto agli ostinati, lei li avverta. In caso, se non basterà, m'incarico io di ricorrere a Sua Eminenza o, magari, alle autorità civili.

«Misericordia!» pensò atterrito il parroco. «Piuttosto tentare....» Forse Carlone si persuaderebbe....

Insomma, il curato finì con ritenere e dire possibile quello che prima gli era parso e aveva detto impossibile.

Per una settimana il poveromo anticipò la visita al vecchio; lo prevenne più volte nell'offrirgli il tabacco; perdè più d'una partita senza prendersela con le carte; ma quelle benedette parole: — Dite su, Carlone: vi dispiacerebbe a voi se invece d'andare alla Madonnina....; — quelle parole non riusciva a pronunciarle: gli si annodavano in gola per la certezza di non riuscire a bene; per il timore di far peggio, e per il dispetto di dover pregare invano quell'ostinato vecchio e riconoscerne senza profitto l'autorità.

Finalmente il lunedì precedente alla festa il prete andò alla Ca' scura zoppicando; disse per un gran male ai piedi. Scherzò anche, sebbene addolorato ai piedi: lui già vecchio e Carlone un giovinotto!

— Basta — concluse con un sospiro mentre raccoglieva le carte dal desco —; domenica, se Dio vuole, non avremo da passare su tutti quei sassi come gli altri anni....

Carlone levò gli occhi dalle carte e glieli piantò in faccia a mo' di chi stando su l'avvertita discopra il tiro.

Pallido, il curato seguitò senza guardarlo:

— Andremo all'oratorio....

Ma aveva appena compiuta la parola che Carlone lasciò cader forte il pugno sul deschetto, gridando:

— Ah questa volta il suo ingegnere non se la cava! Finchè campo io, glielo dica a mio nome, non se la cava!

— E c'è da stizzirsi? — ribattè dolcemente il curato, rosso d'ira.

Tacquero. Poi zitti e cheti ripresero le carte e giocarono.

.... Ogni giorno, dopo la partita, Carlone accompagnava il prete fino alla siepe; quel dì l'accompagnò oltre la siepe, per il sentiero. Intanto che andavano, l'uno aspettava che l'altro parlasse; e pensavano entrambi: «Tocca a lui a tornare nel discorso.» E finalmente Carlone si fermò.

— Ci rivedremo, signor curato. — La sua voce pareva di pentimento.

— Addio — rispose duro il prete.

— E si ricordi — il vecchio aggiunse più forte: — si ricordi di quel che ho detto.

Ma il prete si rivolse:

— Oh quanto a quello, voi ubbidirete al vostro curato; si sa....

Allora il vecchio venendo a lui e tenendolo per un braccio, eppoi ponendosi la mano al petto:

— Il mio dovere, sissignore, son qui a riconoscerlo! Nelle cose giuste io a lei mi caverò sempre il cappello! — e se lo levava. — Ma se lei si mette a gloriare i birboni, signor curato, mi creda, non c'intenderemo più!

— I birboni? — il curato esclamò. — Già: chi non fa a vostro modo è un birbone! Ma, in fin dei conti, chi siete voi che vorreste stare di sopra alle leggi? di sopra ai superiori? di sopra a tutti? fare sempre a vostro modo? e chi non fa a vostro modo è un birbone? Chi siete, voi?

Ribattè, umile, il vecchio:

— Io? niente! Sissignore, io non sono niente! Ma la processione non è solo lei che la fa! e la processione andrà dov'è sempre andata; glielo garantisce a lei e a tutti gli ingegneri della madre terra, Carlone della Ca' scura!

Fu in queste parole una semplicità così dignitosa, una tal fermezza quasi solenne, che il curato ebbe nell'animo un consiglio di prudenza; e si sarebbe contenuto in modi remissivi, se già prima non avesse meditate e predisposte le minacce che dovevan servirgli a mezzo estremo. Come contro sua voglia, queste gli scapparon fuori in fretta.

— Ah sì? Bene, bene! Tutti abbiamo da morire...; voi non siete più un ragazzo. La morte non guarda in faccia neanche ai giovani; da un momento all'altro.... Ricordatevi che mettere la disunione in una parrocchia è come metterla in una famiglia; ricordatevi che al curato si deve ubbidire come a un padre di famiglia; ricordatevi che le prepotenze si scontano, presto o tardi, e che un'offesa fatta alla madre della Santissima Vergine, a Sant'Anna....

— Io non so neanche chi sia Sant'Anna! — proruppe Carlone, di subito arrossato in volto, preso da un oscuro timore che quei ricordatevi gl'incutevano; e tratto anche lui, contro sua voglia, dai gangheri.

Il prete per contro, a coglierlo in fallo, prese coraggio.

— Bestemmiate! bestemmiate pure, per giunta! All'anima vostra ci penserete voi....

— Io penso che ho la Madonna per me! che è lei che offende la Madonna! che nostro Signore castigherà lei, perchè è lei che porta le novità e la disunione in parrocchia! Ci fu mai niente da dire, tra noi due, prima d'ora? Prima che lei, per il suo interesse....

— Interesse, voi dite? — interruppe il prete in cui l'altro aveva toccato il tasto debole e la cui coscienza non era abbastanza tranquilla. — Vi sbagliate di molto, credetemi! È l'amore dei parrocchiani; è il timore di far nascere una guerra; è la voglia che ho di sopire un odio nato da una sciocchezza...: per una quercia!... Negate che la questione è tutta qui? Negate che se non ci fosse la quercia di mezzo, non vi parrebbe vero anche a voi di andare all'oratorio e di fare onore alla vostra famiglia?... Ah, ah, Carlone! Ci conosciamo da un pezzo noi due!

Carlone fece, incrollabile: — Son sincero. Non la nego io la verità! Ma torno a dirle che se il signor ingegnere ha avuta vinta la prima, non vincerà la seconda.... E schiavo suo!

Ora il curato andò lui verso il vecchio; lo trattenne senza sforzo, per un braccio; gli disse umilmente in tono di preghiera:

— Sentite.... — E mentre l'altro lo guardava con l'occhio di un cagnotto che non si fidi a chi gli mostra il pane dopo avergli mostrato il bastone, proseguì: — Vogliamo aggiustarci? A voi! Io vi prometto che otterrò dal signor ingegnere che si vada prima alla Madonnina e dopo all'oratorio.... Siete contento?

Il vecchio scosse il capo ripetendo: — Nessuna novità! nessuna novità!

— Bene! — allora il curato gli gridò dietro. — La vedremo, signor prepotente! oh, se la vedremo!

IV.

Appena dichiarata la guerra, il capitano sagace affretta i preparativi a combattere e occupa con mosse rapide il campo di battaglia. Invece il curato di Rioronco se ne stette fino a sera colle mani in mano, irato e incerto sul da fare. Nemmeno informò subito don Sigismondo, il pretino ch'era in pratica da cappellano e che essendo tutto dolcezza, tutto tenerezza, egli giudicava un uomo nato fatto per andare in Paradiso in carrozza: ossia un buono a nulla.

Niuna meraviglia perciò che Carlone de' Carli, andando e mandando subito i suoi in giro per la parrocchia, riuscisse meglio al suo intento e prontamente componesse quel partito che nella storia del luogo fu poi detto il «partito della Madonnina». Si sa che Carlone aveva molti amici ligi per interesse e per soccorsi o consigli ricevuti, e che aveva tre nuore e un genero, i quali alla lor volta contavano fratelli e sorelle ch'eran mariti o mogli in altre famiglie; e aveva nipoti già ambiti per amore e per nozze in altre case; così una metà forse dei parrocchiani, costretti dalla consanguineità o dall'utile o da vicendevole timore di danni, dichiararono, promisero, alcuni anche giurarono quella stessa sera che la processione di San Michele non muterebbe cammino. Si aggiunga che Procolo, il primogenito di Carlone, dirigeva come si è detto, la «Compagnia di San Vincenzo»; onde bastò che Procolo facesse passare da compagno a compagno la voce di resistenza al prete, perchè in poche ore il drappello più vistoso e più solenne della processione fosse tutto avverso al nuovo itinerario.

E quando, la mattina dopo, il cappellano, la Perpetua, il campanaro, la moglie del campanaro che con la Perpetua aveva faccende commerciali d'uova e di polli, il becchino, il falegname che costruiva le casse da morto e che aveva in moglie la figlia del campanaro, e il crocifero che serviva da sagrestano e da chierico, quando insomma tutti coloro che avevano buone ragioni da sostenere il parroco tornarono dalla missione loro, eran tristi e dolenti. A conti fatti, resterebbero al «partito di Sant'Anna» una dozzina di «figlie di Maria», il vessillifero, lo «scalco» che porta il mazzuolo del comando, uno dei due portatori di lampade e, a seguito, i contadini dell'ingegner Stoia e pochi più altri! Imaginarsi la rabbia del curato, il quale era tornato tutt'allegro in canonica poichè la rettora — sperando di ottener dal prete quattrini a frutto per il marito fittavolo — gli aveva detto francamente che aveva ragione lui; e che la priora, nuora di Carlone de' Carli, era stata invano a tentarla; e che lei andrebbe all'oratorio, o non andrebbe in processione.

Si tenne consiglio di guerra. Il cappellano ripeteva che contrastare a Carlon de' Carli gli pareva tempo perso ed esortava a cedere, inasprendo sempre più il curato.

— Perchè non avvisa le autorità? — chiese il falegname.

— Bravo! — risposero a una voce il curato e il campanaro. — Le autorità proibirebbero la processione per sempre!

— Dia la scomunica a tutti — consigliò il sagrestano: proposta che fece ridere amaramente. Dopo la quale il consiglio rimase muto a lungo.

Riprese il sagrestano ancora fiducioso nelle minacce spirituali:

— Una bella predica!...

Ma il campanaro, più pratico, oppose:

— Ci voglion fatti, non parole! Io direi che noi facessimo per amore quel che gli altri faranno per forza....

Alla parola d'amore il cappellano chiese:

— Cioè?

— Che la processione andasse tutta insieme fino alle due strade; e dopo, una parte alla Madonnina e l'altra all'Oratorio; e dopo....

— Bel consiglio! — interruppe il curato elevando la voce. — Credete voi che si rassegnino, loro là, a far senza del Santo? Volete che restiamo noi senza il Santo?

Ma come il campanaro si grattava la testa perchè non sapeva ribattere, il cappellano raccolse lo sguardo di cielo in terra, ispirato, fervido; si alzò in piedi.

— Signor curato, lasci fare a me! Bella idea! Accomoderò tutto io! — E si accomodava il nicchio in testa. — Corro alla Ca' scura.... Vado e torno!

— A far che cosa? a far che cosa? — domandava il parroco.

— Lasci fare a me!

La Perpetua, che aveva inteso, guardò dalla finestra di cucina al pretucolo che usciva, e mormorò sorridendo: — Sì, sì: lasciate fare a lui, povero don Sigismondo!

Ebbene: il cappellanino biondino, roseo e zuccheroso, fu lui che piegò Carlon de' Carli. Gli piacque nel presentarglisi con l'atto di Ponzio Pilato e col dire: — Per me, viva la Francia o viva la Spagna, è lo stesso! — E parlò senza ambagi diplomatiche, senza apparenza politica. Sapeva che se la domenica prossima accadessero dei guai, il signor curato, che aveva il solo torto di essere un po' cocciuto, avrebbe disgusti gravi con Sua Eminenza e con la Prefettura; eran da prevedere fin processi penali in cui Carlone stesso sarebbe chiamato; ma più addolorava don Sigismondo il pensiero dello scandalo. La parrocchia di Rioronco era stata sempre una famiglia sola, a cui Carlone aveva dato sempre bell'esempio di bontà. Se si bastonassero, perchè gli animi erano riscaldati molto in quella divisione; se, Dio liberi!, si ammazzassero, che cosa direbbe il mondo? quali rimorsi non avrebbero il curato e lui, Carlone?... Ah! solo a pensarci il cappellano aveva le lagrime agli occhi.

Commosso, il vecchio fece: — Purchè nè io nè i miei, con tutti i nostri, non andiamo all'oratorio, io per me son disposto a tutto! — Quindi temendo d'aver detto troppo e di parer debole, aggiunse con foga: — Anch'io avrei rimorso se succedesse qualche lite; anch'io sarò sempre per la pace e per il timor di Dio!; ma piuttosto che andare all'oratorio, don Sigismondo, andrei in galera; andrei (si fa per dire) all'inferno!

Dio liberi! parlare così quando c'era il modo di accontentare tutti! Bastava andar tutti insieme fino alle due vie; di dove il partito di Sant'Anna discenderebbe all'oratorio e il partito della Madonnina salirebbe per la carraia, all'olmo; e dopo, riunendosi per l'ultimo tratto, ritornerebbero insieme come prima.

— Lo so, lo so! — disse il cappellano prevenendo l'osservazione del vecchio. — Resterete per un poco senza il Santo. Ma gli altri non resteranno senza la «Compagnia»? E voi non potreste onorare la Madonnina con una bella «fioriera»?

In un contorno e sotto una corona di fiori di tela, che sembrerebbero veri e freschi, la Madonnina dimostrerebbe al mondo l'amore dei suoi parrocchiani più fedeli. Non solo! Carlone comprese che quello era il mezzo per far onore a sè stesso; vide subito che la sua autorità ne riuscirebbe non diminuita, ma accresciuta; pensò che per tal modo castigherebbe il curato e umilierebbe l'avversario.

— Faremo così! — disse.

E tosto la voce della pacificazione si sparse; e tutti ne furono lieti. Gli ardimentosi convertirono l'ardore pugnace in un ardore di emulazione e in una speranza di maggior festa; gl'incerti, che non eran pochi, parteggiarono a viso fermo senza paura di danni; le mogli e le madri che già avevano esortati i mariti o i figli a restare a casa, o li avevano imaginati feriti o morti, ringraziarono il Cielo e benedissero San Michele. Tutti, o quasi tutti, furono contenti: fu tolto da quegli animi semplici l'amarezza della vendetta e della ribellione; il superstizioso panico di un'offesa religiosa; il peso della violenza meditata e preparata; il dubbio della sconfitta e della vergogna.

Inoltre, il giorno di poi, i meglio informati accertarono che l'ingegnere darebbe spettacolo di fuochi artificiali, di cuccagna e di palloni; che Carlon de' Carli assolderebbe per conto suo cantori e musici; e che per la «fioriera» Procolo era andato a Bologna; e che dalle parrocchie vicine altre «compagnie» verrebbero ad allearsi con i compagni di San Vincenzo. Insomma: un'aspettazione grande e gioiosa quale non c'era stata mai.

Che se ci furono de' malcontenti, essi non furono più di tre e per cagioni intime. Primi: Samuele soprannominato il Moretto e Canuto il sarto, soprannominato il Sartoretto, che vagheggiavano entrambi una ragazza meritevole in modestia di star fra le «figlie di Maria» e nello stesso tempo idonea a far spasimare due innamorati in una volta.

Quei due s'incontrarono a caso la vigilia della festa.

— Tu per chi sei? — domandò con aria di noncuranza il Sartoretto.

Il Moretto, che già conosceva l'opinione della bella, rispose:

— Per Sant'Anna. E tu?

— Anch'io. — Poi il Sartoretto, divenendo spavaldo, aggiunse: — Tu però faresti meglio a star con quelli della Madonnina.

— Io sto con chi mi pare!

E il rivale proseguendo per la sua strada:

— Oh oh, che aria tira, stasera!

Nient'altro. Una rivalità da non tenerne conto; perchè in fatto di donne e gelosie, tutto il mondo è paese.

Malcontento anche era rimasto quel contadino dell'ingegner Stoia a cui Carlone, quando abbattevano la quercia, aveva ingiunto di tirare innanzi senza pensiero degli affari altrui. Quegli aveva sperato di venire a dirittura alle mani e, deluso, per vendicarsi e ingraziarsi il padrone disse al bottegaio che avrebbe da guadagnar soldi chi schernisse, la domenica, Carlon de' Carli. Uno scherno per cui gli calasse la boria: non già da fargli del male.

E il bottegaio, che aveva tanto professata e vantata la sua neutralità, per far quattrini strinse in segreto patto i suoi tre avventori più a corto di quattrini: Remigio lo zoppo, che aveva indole non del tutto buona; Anacleto dell'Orto (attenti ai nomi!), un millantatore; e Silverio detto, per scempiaggine, il Chiù.

È vero che questi avevano promessa fede a quelli della Madonnina, ma di ciò non è a far gran caso; giacchè anche per simile genia di fedifraghi o traditori, tutto il mondo è paese.

V.

Mai con più lena il campanaro di Rioronco s'attaccò alla corda delle sue campane festaiole; mai i parrocchiani d'ogni età e d'ambo i sessi godettero più di allora in un consenso d'allegrezza, nell'attesa dei vesperi solenni al dì di San Michele; mai più di quel giorno il Santo nell'atto di configgere la lancia sul serpente (di stucco anch'esso) sembrò sorridere dall'altar maggiore e dire a' suoi protetti: All'inferno il demonio!; sia pace e gioia a voi, uomini e donne di buona volontà!

Fino il curato era allegro; perchè lo scisma ridotto a quell'innocente bipartirsi della processione, accresceva magnificenza alla festa; significava come due prove di fervor religioso in una volta o due modi di onorare pomposamente il Santo.

Ma pienamente felice era Carlone: libero di timori, libero di rimorsi; orgoglioso del suo panciotto damascato e della giacca di velluto e più orgoglioso che la nuora priora fosse tutta vestita di nero col velo bianco, quando la rettora non aveva che un abito di lana verde. Suo giudicava il trionfo: tale che aveva permesso a quelle delle «figlie di Maria» ch'erano rimaste al suo partito di andar con le altre, bastandogli al fasto della sua parte le tre «compagnie»: quella di San Vincenzo, con le mantelline rosse, quella di San Martino, con le mantelline gialle; e quella di San Giorgio con le mantelline celesti. Poi, gli parve che i suoi sonatori e i suoi cantori avessero più fiato degli altri quando la processione s'incamminò e lui e la priora si mossero dal loro luogo con la stupenda «fioriera» da portare alla Madonna. Così cantando inni e sonando, fra i doppi delle campane e lo scoppiar dei mortaretti, e fra l'ammirazione degli spettatori, la processione partiva dalla chiesa.

In questo mentre i due soli carabinieri venuti dalla stazione della Pieve erano corsi innanzi, all'angolo del bivio; e si eran messi là, immobili, di malavoglia. Ciò che stava per succedere e di cui tardi avevan avuta notizia e, più che interrogando, ascoltando le voci della folla, li teneva perplessi; maledicevano il Governo timorosi d'un disastro. Ma quando la processione giunse al bivio e sostò, non accadde che un po' di subbuglio nel separarsi delle due parti e nel comporsi di ciascuna processione in capo alla propria strada. Alla prima, ubbidendo a Carlone, precedette uno dei lampadari per far le veci del crocifero o del portastendardo: súbito dopo si mise la prima «compagnia di San Martino»; poi i cantori e i suonatori; quindi la numerosa «compagnia di San Vincenzo», a cui seguirono, come preceduti da quella «guardia del corpo», il priore e Carlone con la corona dei fiori finti, e dietro la terza «compagnia» e il seguito delle donne e dei partigiani. Alcuni di questi s'abbandonavano a una commozione di riso; altri avevan le lagrime agli occhi. Un po' a stento, eppur bene, si formò la seconda schiera: le figlie di Maria presero il posto delle «compagnie» dopo ai cantori e ai suonatori, e nonostante che il cappellano dicesse: — aspettate! aspettate! — le vergini ripresero l'inno con voci acute e alte, quasi per sfida, appena udirono dall'altra parte l'intonare della musica. E si avviarono anche i preti col Santo.

Per tal modo, in mezzo ai curiosi e dinanzi ai carabinieri, passavano lentamente le due file rivolte alle lor mete diverse. Ma passate che furono, i carabinieri avanzarono, e certi entrambi del da fare, come per un accordo che non avevano conchiuso, l'uno si volse a destra e l'altro a sinistra. Di che, meravigliati a vicenda, dissero a una voce: — Di qua! —; ciascuno non trovando ragionevole l'errore del compagno.

L'uno era piemontese, l'altro toscano, nè tra quei due bravi giovani c'era mai stata parola a dire da quando si trovavano nella stessa stazione e da quando infrangevano insieme il regolamento per far all'amore a certa cascina dove avevano due belle ragazze, una per uno.

— Per da sì! — ripetè il piemontese. — Noi dovuma stè a j ourdin! I ourdin a soun d'andé à prés à la processioun, e la processioun bouna a l'è coula!

Ribattè il toscano:

— Bada, amio. Il nostro doere gli è quello di attende all'ordine pubblio; e chi lo minaccia 'un son mia i preti: sono i rivoluzionari! Dunque s'ha ire 'on esti!

Ma il compagno non l'intendeva; scoteva la testa brontolando:

— Noi en doi, miraco i podouma nen fene!

Se sempre l'unione fa la forza, tanto più l'unione è necessaria quando la forza è rappresentata da due persone sole: chè due carabinieri possono impaurire, ma un solo, tra la folla, muoverebbe a riso. E loro non eran che due, e non potevano dividersi; non potevan fare miracoli.

— Ma l'ourdin à l'è d'andé à prés à la processioun, à la processioun ufficiale! — Evidentemente il piemontese sperò di piegare il compagno con questa grave parola. Invece l'altro:

— Giuraddio! Mi faresti scappà la pazienza! Bada: do'è che stanno i più scontenti? i più curiosi? là! Dunque si dee ire là!

Che! I bugianen son bugianen! Il buon piemontese non cercava ragioni da opporre; voleva essere ubbidito, poichè egli si sapeva nelle grazie del brigadiere e aveva fede nel tenente e s'aspettava da un giorno all'altro la promozione ad appuntato; e, oltre a ciò, era più vecchio d'anni e di servizio. Egli dunque severamente chiamò l'amico per il cognome:

— Rappaini! l'ansiano soun mi! Andouma!

— Oh che anziani e che non anziani! Io vo' far il mi doere! 'Un vo' mia gastighi per motio tuo! 'Un vo' mia perdere il grado se mi fanno appuntao!

— Cribio!... Rappaini, andouma!

— Io? piuttosto, ve', 'un mi movo! Fo così! — E il toscano si mise a sedere sul paracarri; si pose il moschetto a traverso, su le ginocchia; su queste puntò i gomiti e poggiando la faccia alle mani guardava l'amico.

Il quale, a tal vista, si era acceso in volto, con tali occhi da spaventare. Ma Rappaini ch'era più furbo riprese:

— Tanto; voaltri piemontesi d'idee vu nun n'aete! Dimmi un po'....

S'allontanavano i canti e i suoni delle processioni.

— .... Di': se ha a succede qualche 'osa indòe dee succedere? Io dio, che succederà qui, quando torneranno indreo! No? Qui. Se se danno, se le daranno qui! e no quando i du' partiti sian fuor di tiro!

L'argomento era giusto solo in parte: perchè essi a quel punto dell'incontro avrebbero potuto trovarcisi anche accompagnando una delle processioni. Ma i toscani hanno il cervello fine.

— Ci vol prudenza, ci vol! Noi s'ha a mostrà ch'un si diffida nè di esti nè di elli!

E fu tale argomento che il piemontese, vinto e tutto contento d'essere stato vinto, alla fine esclamò ridendo:

— Voi autri toscani con le vostre ciàciare i stuparie la buca a' na foumna! Ma par sta volta, va!, at a rasoun! — E andò a sedere anche lui sul paracarri di fronte; deponendo il moschetto da lato e su le ginocchia la borsa della corrispondenza.

Amici dunque più di prima tornarono a discorrere di ciò che più loro premeva, mentre guardavan le processioni che dilungavano, già scomparivano. Ah! le loro ragazze non eran venute alla festa di Rioronco....

— .... Quando la pigli tu, la Balbira?

— Quanc i' divento vicebrigadie, i' la sposo dal parroco. — Prendeva la «ferma», faceva la carriera. Ma il compagno, che a sentir lui poteva vivere di rendita, disse:

— Se possono passà esti du anni, io me ne vo; che n'ho auto abbastanza della patria! Vo a lavorà il mi podere, la mi vigna.... Uh! Se tu sentissi il mi vino!... Me la porto 'on me, la mi ragazza....

*

.... Eppure, strada facendo, nell'una processione e nell'altra s'estese un nuovo malcontento; sia perchè la realtà riesce sempre inferiore all'aspettazione, sia perchè Carlon de' Carli aveva avuto il torto di non lasciare almeno una «compagnia» al curato e questi aveva avuto il torto di non concedere almeno un prete in cambio di tante «figlie di Maria». In entrambe le schiere serpeva quel malessere che dan le cose imperfette; quel malanimo che dopo le risoluzioni pacifiche talvolta rinasce anche ne' più docili e generosi avversari. Or come fu pervenuta alla villa Stoia e vi fu accolta da tal frastuono di mortai che pareva il finimondo, la processione sacerdotale avanzò e ristette all'oratorio dove per la porta spalancata era esposta agli sguardi di fuori l'altare tutto adorno e luminoso. Ivi, dopo il Jube Domine, San Michele s'inchinò a destra e a sinistra a benedire la folla genuflessa, tra cui erano molti signori e signore; e cantori e preti ripresero il canto; e il cappellano diede l'ordine del ritorno.

Per ritornare come nella venuta, si comprende che gli uomini, i quali prima erano in coda, avrebbero dovuto far ala sì che passassero lo «scalco», il lampadaro, il crocifero, il vessillifero e quindi le «figlie di Maria». Ma non tutti così fecero. Quasi la funzione fosse compiuta, alcuni rimasero proprio in mezzo alla strada, per alloccaggine e storditezza; e quando giunsero le vergini, non si ritrassero; ne interruppero, confusi e confondendo, la prima fila. Era tra quelli il Moretto, uno di quei due giovani che, già si disse, amavano con incerta fortuna la stessa «figlia di Maria»; mentre l'altro, il Sartoretto, attendeva e guardava bieco a costa della strada. E il restare del primo là in mezzo fu sospettosamente interpretato dal secondo, il quale appena la bella gli fu dinanzi con le compagne, senza tante cerimonie le si mise a fianco.

Arrossì la vergine. E impallidì e si fermò allorchè il Moretto, d'improvviso, affrontava il rivale e diceva:

— Cosa pretendi tu?

— Io? — ribattè il Sartoretto. — Fare i miei comodi! e tira via, milordo, che è ora!

Il milordo gli lasciò andare uno sgrugnone: il colpito l'afferrò, e, accapigliati, caddero. Tutto ciò in minor tempo di quanto bisogna a raccontarlo; così presto che, quantunque costrette anch'esse ad arrestarsi, le ultime ragazze e i preti non avrebbero pensato a una lite se non avessero visto accorrere di qua e di là coloro che speravano dividere i contendenti.

— Cosa c'è? cosa è stato? Avanti! avanti!

Di dietro, chi spinge; chi interroga; chi allunga il collo: arriva don Sigismondo. Ma d'innanzi, le prime ragazze si son voltate; il crocifero chiama lo «scalco»; questi, che giungendo un momento prima avrebbe subito fatto largo, ora lascia andar bastonate alla cieca sui litiganti e sui pacieri: e un paciere afferra lui; e lui, perduto il mazzuolo, invoca aiuto. Don Sigismondo intanto con le mani nei capelli e gridando misericordia torna indietro, verso i colleghi e il curato; e i suonatori e i cantori corrono innanzi ad aiutare il crocifero e il vessillifero, che son corsi ad aiutare lo scalco.

Chi l'avrebbe mai detto? Parve una scintilla in un pagliaio; forse perchè, alle esortazioni e alle preghiere di don Sigismondo, i sacerdoti furon concordi nel pensiero e nell'errore di riportare il Santo all'Oratorio; e tutta quella gente rimase come senza ritegno, senza rispetto a nulla, senza timor di Dio. Accesa da un'improvvisa voglia di combattere, la folla precipitò d'ogni parte alla mischia; addosso ai cantori e ai suonatori o a chi capitava, capitava. Addosso! addosso con i ceri, con giannette e randelli e pugni; e bòtte da orbi. Ci furono fratelli che diedero pugni ai fratelli; padri ai figli, e figli ai padri; ci furono anche molti che nei giorni di poi confessarono d'aver creduto di combattere con quelli della Madonnina; e molti che confessarono d'essersela goduta un mondo a battere con le mani e coi piedi non sapevano chi, ignari affatto della causa che aveva generata la battaglia. I timidi, in quel mentre, fra gli urli delle donne e dei ragazzi, scampavano e fuggivano d'intorno, urlando....

*

.... Con grande impeto di tromboni e voci il partito della Madonnina era per giungere all'olmo. La viottola essendo diruta e stretta, Anacleto Dell'Orto, Remigio lo zoppo e Silverio detto il Chiù (i traditori) avevano tentato troppo tardi di mettersi innanzi, di precedere a tutti, perchè penetrati fra i «compagni di San Giorgio» avevan dovuto cedere al comando di: — Indietro voi altri! — che Carlone aveva dato loro con faccia minacciosa. A disagio perciò, quasi si credessero scoperti, i tre scambiarono parole sommesse tra i seguaci, in coda.

— Come si fa? — domandava quello scemo di Silverio. E Anacleto:

— Ve l'avevo detto io? Bisognava andar prima!

E Remigio: — Non mi sarei mai creduto che ci venissero in tanti! Saranno quaranta solo quelli di San Martino!

— Si direbbe — aggiungeva tuttavia ridendo Silverio il Chiù —, si direbbe che Carlone ha imparato qualche cosa....

— Tu avrai cantato! — diceva biecamente Remigio lo zoppo.

— Io? Non ho detto niente io! fossi minchione!

Allora Anacleto, lo spaccamonti:

— Ho bell'e visto! Voi altri avete paura!

— Paura io?

— Paura io?

— .... e ridarete i suoi quattrini al bottegaio.

— Ma se non ne ho più uno! — disse ridendo il Chiù, che n'aveva avuti meno degli altri; mentre lo Zoppo, bilioso, mormorava contro Anacleto:

— Perchè non vai innanzi tu, dunque?

Queste rampogne furono udite da un Tizio che sarebbe stato meglio non udisse nulla; un muratore fedele alla Cà scura. Se poi costui fosse informato intorno al tradimento dall'onesto bottegaio e avesse incarico da Carlone stesso di invigilare le tre canaglie, non è certo; è uno di quei punti oscuri che s'incontrano in tutte le storie e senza cui i critici della storia non avrebbero più niente da fare.

Quel Tizio domandò:

— Cosa avete, ragazzi?

— Niente abbiamo — rispose ridendo il Chiù.

— Avete bisogno d'aiuto?

— Avete bisogno voi? — ribattè Anacleto con insolenza. Il muratore, sempre più insospettito, tacque. Tacquero i tre, urtandosi con il gomito l'un l'altro. E il lungo corteo andava più piano; finchè voci e musica cessarono. Ma allora la siepe non contenne più i curiosi: alcuni la saltarono; altri vi fecero un varco; altri l'allargarono; e la gente affrettò e si strinse di qua e di là dal fosso, intorno all'albero; al quale il figlioccio di Carlone aveva già poggiata la scala, già ricevendo dalla priora e dal vecchio la «fioriera», per attaccarla ai rami e fermarvi, nel mezzo, l'imagine.

Ecco il momento. I cospiratori, che vorrebbero far cadere la «fioriera» come per disgrazia, e che a forza di gomiti e di urti si son fatti innanzi quasi per veder meglio, non dovrebbero che dare una spinta alla scala, e la darebbero se il muratore non la tenesse ferma e non vigilasse.

Timoroso, il Chiù ride. Anacleto fissa il muratore con aria di sfida, ma non si muove; lo Zoppo esorta: — Dagli! — Dagli! — susurra anche, ridendo, il Chiù; sicchè Anacleto, mal disposto dallo sguardo del muratore, che ha dinanzi, e dalle sollecitazioni, che ha di dietro, si rivolta e dice troppo forte: — Dategliela voi altri la spinta! Io ho da tener a posto questo qui.

— Me? — il muratore grida con un braccio a difesa della scala e l'altro in aria. Il segreto è svelato, la cospirazione fallita; invano Anacleto risponde: — Dicevo così per ridere....

Tutti vorrebbero sapere:

— Cosa c'è? Cosa c'è?

Ma l'Imagine ha già la gloria dei fiori e comincia il coro ultimo dei fedeli:

Maria, mater gratiae....

Già discende il figlioccio di Carlone: è al penultimo gradino. Quando, oh! — che è? che non è? — il muratore dà una spallata ad Anacleto; il quale s'afferra alla scala; e la scala e l'uomo, che è all'ultimo gradino, precipitano insieme nel fosso. S'odon grida. Cogliendo l'opportunità di farsi onore lo Zoppo e il Chiù s'avventano a difesa del compagno, che il muratore martella di pugni, intanto che s'invoca soccorso....

Mater misericordiae....

Irrompono a difesa del maestro due o tre manovali; s'avanza Carlone per metter pace.

— Ohe, ragazzi! — minaccia. Poi prega: — State buoni, ragazzi! — Ma come pacificarli a parole? — Di questi ci vogliono! — urla uno dei cantori, che è un Ercole e che dove batte, abbatte. — Son qua io, Carlone!

Pur troppo però l'Ercole è d'un'altra parrocchia; e che c'entra lui? Infatti una voce, non si sa di chi, ripete immantinente d'intorno: — Son quelli di San Martino! — Si ripete fra i più lontani: — Tradimento! aiuto! Son quelli di San Martino che portano le liti!... Son pagati dall'ingegnere! Traditori! Addosso!

E i poveri «compagni di San Martino» si raccolgono insieme, si guardano in faccia; spengono le torcie per usarle come armi.

— Dalli a quelli di San Martino!

— Dalli! — grida Anacleto dell'Orto sanguinoso e felice d'essere scampato dalle mani del muratore.

— Addosso! — grida lo Zoppo che nella battaglia par diventato dritto.

— Vigliacchi! — grida Silverio il Chiù, scappando via senza più ridere.

E i «compagni di San Vincenzo» commisti ai «compagni di San Giorgio» si gettan sui «compagni di San Martino», e gli spettatori forestieri sui parrocchiani di Rioronco. Carlone piange, grida pietosamente con le mani nei capelli....

*

.... Così, mentre il carabiniere piemontese, tacendo finalmente l'altro, cominciava a raccontare una sua avventura molto seria con una tota di Torino, l'altro balzò in piedi dicendo:

— Hai udito?

Eran grida confuse e lontane, verso il monte: all'Olmo. Già dalla viottola comparivano donne affannate, disperate, che a vederli alzavano grida e braccia chiamando, terribili:

— Correte! correte!

I carabinieri accorrevano. Ma avevan fatti appena pochi passi (e il toscano aveva appena mormorato: — Te lo diceo io?) — quando di giù, dalla strada vennero altre voci pietose, altre donne ansiose invocavano....

Cuntacc!

— S'ammazzano all'Oratorio! — gridavano — s'ammazzano all'Oratorio!

*

Oh no! Non gravi ferimenti; non morti.

Dal sereno cielo il sole cadeva in una letizia fervida; s'attenuava in una gioia di colori digradanti dalle fiamme della fede al biancore della carità; si spegneva in vista alle prime stelle ch'esprimevano raggi di meraviglia. Ombre di pace velavano i culmini e i dorsi dei monti più alti; calavano; e il fremito della notte penetrava tra le fronde e le foglie come voci d'anime ch'esortassero silenzio ai viventi per udirsi in concordia tra loro; e il rio diceva al mondo con che soave fluire le ore della quiete e le sue acque scorrerebbero tra gli steli cullati dall'aria, tra i sassi arrisi dalle stelle, tra le piante dormienti anch'esse (se Darwin non errò). E quante anime avevano veste di penne, si obliavano sicure d'ogni minaccia, nei loro ripari, col capo sotto l'ala tepida e parecchi con una zampina in alto; e i buoi russavano senza brutti sogni d'amore; e da tutta la terra pareva uscire un respiro immenso di tregua e di riposo.

A domani! A domani le cure e le battaglie degli uomini di cattiva volontà! Ma quei montanari semplici e buoni come animali, pur non udendo altre esortazioni che dei vecchi e dei preti, sentirono, quando se ne furon ben date, che anche per le bastonate e le querele era tempo di finirla; e chiotti chiotti o rumorosi, divisi o a gruppi, e senza lo spettacolo dei fuochi e del resto, se ne tornarono alle loro case. Non più di due o tre ore dopo, tutti, anche gli innamorati che non avevan ricuperato il tempo perduto, anche il Moretto e il Sartoretto oramai men gelosi che indolenziti, dormivano placidamente. Tutti, fuorchè Carlone e il curato; i quali meditavano la loro colpa e la colpa del diavolo vittorioso a Rioronco proprio il giorno di San Michele. E quando fu stanco di dar volta per il letto, e sempre più rimorso, il buon vecchio si levò — avanti giorno —; e andò all'Oratorio in cerca di sollievo, a chiedere perdono a Sant'Anna.

Poscia rincasando, s'imbattè nel figlioccio. Questi in segretezza gli raccontò che un birocciaio la notte aveva visto il diavolo vestito da prete correre, leggero e veloce come una piuma, verso l'olmo. Forse il diavolo non aveva più orrore della Madonna, dopo che l'avevano quasi nascosta in quella «fioriera»?

Ma Carlone comprese e sorrise tutto contento. Senza dubbio il curato, non resistendo ai rimorsi, si era alzato, la notte, ed era andato alla Madonnina per domandar perdono anche lui!

INDICE.

Il suicidio del maestro Bonarca Pag. 1

La giocatrice 20

Doni nuziali 41

Dall'Eldorado 63

Il cappello del marito 105

Efficacia d'una giarrettiera 124

La fortuna di un uomo 133

Una “scampanata„ 201

Il polso 217

Come finì la Modestia 230

L'entusiasta punito 243

L'agnello 251

Il falcone 260

In Arcadia 272