ADOLFO ROSSI
I.
La forca.
Angelo Cornetta era un povero e ignorante suonatore d'organetto, nativo di Serre di Persano, in provincia di Salerno, il quale in età di ventiquattro o venticinque anni era emigrato in America, come fanno tanti. Sei o sette anni dopo egli conviveva a New-York con una irlandese che un giorno si ammalò e che prima di morire all'ospedale lo accusò di averla orribilmente maltrattata.
Non essendo risultato bene dal processo se quella donna era morta di whiskey —il cognac nord-americano—o di bastonate, Cornetta fu condannato a due anni di reclusione nel penitenziario di Sing-Sing. Stava scontando la pena quando una mattina attaccò lite con un altro prigioniero e lo uccise.
Durante il secondo processo io, che dirigevo l'unico giornale italiano quotidiano esistente allora nell'America del Nord, andai a trovare Cornetta nel carcere di White Plains, a trenta miglia da New-York, bello e tranquillo paese circondato da ridenti colline e formato di casette bianche e di gaie palazzine sepolte nella verdura.
È una strada pittoresca, che si percorre in un'ora coi treni della New-York and Harlem R. R., in prossimità del fiume Hudson, il Reno d'America; s'incontrano allegri villaggi, s'attraversano boschetti di pini appiedi dei colli, si respira un'aria purissima.
Introdotto subito nel carcere con quella premura cortese con cui negli Stati Uniti si ricevono i reporters, cominciai col domandare al detenuto la causa della sua condanna nel penitenziario di Sing-Sing.
—Vi dirò la verità—mi rispose.—Io vivevo da qualche tempo con una irlandese, la quale formava la mia disperazione. Giravo tutto il santo giorno a suonare e alla sera tornando a casa, trovavo quella donna ubbriaca. Ella spendeva in liquori i denari che io guadagnavo. Una notte aveva bevuto tanto che, quando rincasai, al primo rimprovero che le feci diventò furiosa e si mise a gridare come un'ossessa. Il vicinato, tutto sottosopra, chiamò un policeman, il quale la fece portare all'ospedale, dove essa morì quella notte stessa. Allora mi arrestarono e accusarono me di averne causata la morte.
—Ma voi non la maltrattavate quando si ubbriacava?
—Ecco: io ebbi molti diverbi con quella donna. L'ho sempre rimproverata di consumare in liquori tutti i miei risparmi, ma non sono io che l'ha fatta morire: furono le bevande che la uccisero.
—Tuttavia vi hanno condannato,
—Sì, a due anni di prigione che stavo terminando di scontare a Sing-Sing, quando avvenne la lite con Daniel Cash.
—Come andò?
—Mancavano due mesi soli per finire la condanna, quando per la mia buona condotta fui mandato dai guardiani nella cucina dello stabilimento a sbucciar patate insieme con un prigioniero americano, di origine irlandese: il Cash. Costui mi odiava e specialmente dopo che un mio connazionale, certo Mangano, aveva ucciso nella stessa prigione un negro, mi colmava di ingiurie e chiamava noi altri italiani porci e sudici. Quella mattina io non mi sentivo bene e gli dissi: «Cash, sono mezzo ammalato, e non posso lavorare: vorrei tornare nella mia cella e buttarmi sul letto.» Egli mi rispose: «Lavora, lavora, italiano, se non vuoi che ti getti in faccia queste patate.» Gli replicai: «Guardatene!» Egli, allora, si avvicinò, e, dandomi uno schiaffo, disse: «Credi forse di farmi paura perchè sei italiano?» Acciecato dalla rabbia, esasperato dagli insulti e dallo schiaffo, io gli scagliai una tazza sulla testa. L'irlandese mi si gettò addosso e col coltello mi menò un colpo che parai, riportando una leggera ferita alla mano destra. Guardate. (E mostrò la mano che conservava la cicatrice.) Appena vidi il sangue, brandii io pure il coltello e glielo ficcai nel cuore. Dico la verità, io: perchè negare?
—Erano lunghi quei coltelli?
—No, erano i coltellucci con cui si mondavano le patate. Anzi non avrei mai creduto di poter con uno di quelli causare una ferita mortale.
La County Jail, cioè la prigione della contea in cui Cornetta stava rinchiuso a White Plains, era un edifizio quadrato di tre piani, in pietra grigia. Le quattro muraglie esterne, che invece di finestre avevano alcune strette feritoie, formavano una specie di cinta coperta della vera prigione di due piani, che sorgeva di dentro, come un edifizio affatto separato dal tetto e dai muri che lo circondavano.
Cornetta si trovava al secondo piano, in una cella di quattro metri su tre, nella quale non penetrava che una luce scialba, e che conteneva un materasso appeso a due catene, un piccolo water closet in un angolo, un secchio d'acqua, un bicchiere di latta e una tavoletta infissa nel muro, ad uso di scaffale, su cui giaceva un polveroso volume del Nuovo Testamento: sulla parete di fronte alla porta erano incollati i ritratti di Lincoln e di Arthur.
Cornetta aveva un viso solcato da brutte rughe, la carnagione giallastra e gli occhi chiari, senza espressione: era di statura ordinaria e mentre prima si sbarbava e teneva i capelli tagliati corti, durante il secondo processo se li era lasciati crescere alla nazarena.
Prima della sentenza si mostrava fermamente convinto che non sarebbe stato condannato a morte.
—A morte, io?—diceva sbarrando gli occhi. Ma giammai! Non sapete che —ho tirato a colui per difendermi? Non capite che stavo per uscir di —prigione quando avvenne la lite? No, no: chiunque nei miei panni —avrebbe fatto altrettanto. Dovevo farmi ammazzare come una pecora? —Potevo subire in pace tutti gli insulti di cui quell'uomo mi —colmava?
Quando sentì che era stato condannato a morte, montò su tutte le furie: tentò da principio di suicidarsi tagliandosi la gola con un pezzo di ferro acuminato che aveva strappato dalla porta della cella; ma, sorpreso nell'atto, non si produsse che una leggera ferita. Allora egli annunziò la sua determinazione di voler sfuggire alla forca lasciandosi morir di fame. E per cinque giorni non si cibò e invano i custodi lo tentarono presentandogli dei piatti appetitosi. Lo si dovette nutrir per forza.
Man mano che si avvicinava il giorno fatale, la ragione di Cornetta vacillava. Il condannato ora piangeva e implorava le guardie di salvarlo, ora rideva e diceva che dovevano metterlo in libertà.
Quando mancavano sei giorni soli a quello fissato per l'esecuzione, io andai a rivederlo, insieme con un suo conoscente e benefattore, il negoziante Aliano di New-York.
Cornetta appariva tutto cambiato e non ci riconobbe. Mentre la prima volta s'era confessato reo, quel dì negava tutto.
—Vi apparecchiate dunque al gran passo?—disse Aliano.
—Che passo?—fece Cornetta stralunando gli occhi.
—Eh! l'avvocato vostro tenta gli ultimi sforzi per salvarvi; ma c'è ben poca speranza: è meglio che vi rassegniate e che vi prepariate.
—Ma che prepararmi!—gridò drizzandosi e torcendosi le mani.—Io non devo morire: sono innocente!
—Eppure fareste molto meglio se vi preparaste da uomo e da cristiano.
—Mio caro Antonio—piagnucolò Cornetta, asciugandosi col fazzoletto le lagrime che non uscivano—io ti giuro che sono innocente; io non aggio ucciso alcuno.
—Mi dispiace di sentirvi parlare così: vi credevo più franco e più forte.
—Come?—disse il condannato, cambiando improvvisamente tuono e maniere.—Voi venite dunque a trovarmi per insultarmi? Invece di difendermi, voi prendete la parte dei miei assassini? Se continuate a dire che sono reo, vi faccio arrestare!
E mostrò i pugni al buon Aliano, con uno sguardo feroce.
Aliano, persuaso che il disgraziato aveva l'intelletto turbato, gli offrì una manata di sigari. Cornetta li rifiutò con piglio sdegnoso e villano. Stavamo per uscire, quando il direttore del carcere, Duffy, sottosceriffo ci disse:
—Domandatategli un po', if you please, che cos'è quella lettera che ha ricevuto giorni fa.
—Quella lettera?-esclamò Cornetta.—Non voglio mostrarla. Nessuno deve sapere ciò che contiene.
—Come?—disse il Duffy.—Io non voglio misteri. Ho in consegna quest'uomo, ne sono responsabile e devo vedere quella lettera appunto perchè la cela.
Invitato reiteratamente a porgerla, Cornetta rifiutò. Allora il Duffy, pezzo d'uomo grande e robusto, chiamò due suoi dipendenti, aprì la porta ed entrò nella cella.
—Volete dare quella lettera, sì o no?—chiese per l'ultima volta.
—No—fece Cornetta risolutamente.
Duffy afferrò il condannato e lo gettò sul letto. Gli altri due uomini lo presero per le gambe e lo tennero fermo. Cornetta si dibatteva urlando. Duffy lo frugò, trovò la lettera e ce la porse.
Era una lettera ancora chiusa, proveniente da New-York. L'aprimmo. Un amico scriveva a Cornetta che aveva saputo la sua condanna e che gli dispiaceva di non poterlo andar a salutare per la difficoltà di ottenere il permesso. Nient'altro.
Tutto era già pronto, per l'esecuzione e stava per rizzarsi la forca, quando, qualche giorno dopo la nostra visita, il Comitato giudiziario del Senato avvertì che la Legislatura aveva approvato un bill, il quale stabiliva che se un condannato, come aveva fatto Cornetta, si appellava al General Term, si doveva sospendere l'esecuzione fino a che la Corte del suddetto General Term non avesse esaminato il caso e preso una decisione in proposito.
L'esecuzione, quindi, era stata sospesa: ma ben presto si venne a sapere che la legge citata, la quale emendava alcuni articoli del codice criminale dello Stato di New-York, non era valida nel caso di Cornetta, perchè votata ed approvata dopo il processo e la condanna del Cornetta stesso. L'esecuzione, perciò, non poteva essere rimandata. Ma, viceversa, fu accordata una dilazione, essendo sorta una questione sull'effetto retroattivo della nuova legge.
E intanto, con queste alternative di vita e di morte, il condannato si trovava in uno stato orribile e diventava completamente pazzo.
Infatti, quando il 5 aprile veniva condotto davanti al giudice della Corte Oyer and Terminer di White Plains per sentirsi confermare la sentenza, portava in mano un piccolo crocifisso che teneva rivolto verso il giudice, e richiesto se aveva qualche cosa da opporre, pronunziava in italiano, fra pianti e sospiri, un discorso sconclusionato che non aveva nulla da fare col processo.
Solo quando il giudice gli disse che doveva essere giustiziato il giorno 11 maggio successivo:
— Me not die! —esclamò il prigioniero col suo orribile inglese.—Io non morirò!
E mostrò al giudice il crocifisso. Si dovette usare la forza per farlo uscire: tirava calci, mordeva sceriffo e policemen con ferocia bestiale, facendo fuggire tutti gli astanti impauriti.
Legato e rinchiuso nella cella, ora dava in terribili smanie, imprecando contro lo sceriffo e rifiutando di cibarsi; ora stava sdraiato, immobile sul letto, e ricusava i conforti religiosi mentre continuava a tener sempre con sè il crocifisso.
Nelle ultime settimane s'era messo in testa che l'11 maggio, giorno fissato per l'esecuzione, egli doveva essere messo in libertà. Appariva così evidente che con tutte quelle lungaggini lo sciagurato era impazzito, che alcune caritatevoli persone pregarono lo sceriffo Horton di affidare ad una commissione medica l'esame delle condizioni mentali del condannato. Lo sceriffo acconsentì, ma incaricò della perizia i due medici del paese, i quali visitarono Cornetta quella sera stessa e lo dichiararono sano!
Intanto ai preti, che lo invitavano a pensare a Dio, Cornetta rispondeva:
—Non sono cattolico, io: sono democratico.
Alla vigilia dell'esecuzione io tornavo a White Plains insieme coi reporters dell' Herald, del Sun, del Times e del World. Nel cortile della County Jail, fra il carcere e la Court House, vicino a un ponticello che unisce i due edifizi e che si chiama dei sospiri, sorgeva la forca senza palco: le solite tre travi, due verticali e una di traverso; una forca alta sedici piedi e larga dodici, con un contrappeso di ferro pesante 275 libbre. Varie persone entravano ed uscivano liberamente dal cortile ed esaminavano con curiosità il patibolo.
Lo sceriffo ci permise di vedere il Cornetta, ma non volle che alcuno gli parlasse. Appena lo salutammo, il condannato, pallido, cogli occhi stravolti, si affacciò alle sbarre della porta e ci guardò fissi: non mi riconobbe.
—Come va, Angelo?—gli dissi in italiano.
Egli salutò col capo, fu agitato da un tremito nervoso e strinse convulsivamente i ferri della porta. Davanti alla cella stavano seduti due uomini, le guardie della morte.
Il padre Giulio, un prete cattolico, ci raccontava che quel giorno aveva parlato due ore con Cornetta, ma non era riuscito a convincerlo che all'indomani doveva morire. Il condannato s'era fitto in mente che invece del 10 quel giorno era l'11 maggio e affermava che doveva essere messo in libertà.
E quando il prete lo esortava a pensare all'anima, rispondeva:—Mi confesserei, padre, se dovessi essere giustiziato, ma io invece devo essere posto in libertà.
—Insomma—ci diceva il padre Giulio—non ha la coscienza dell'orribile posizione in cui si trova e temo che domani mattina la scena dell'impiccagione debba riuscire raccapricciante.
—Ella è persuaso, padre, che il disgraziato sia veramente impazzito?
—Sì, e credo che lo stesso sceriffo ne sia convinto, ma ha dovuto rimettersi al giudizio superficiale dei due medici che non parlano l'italiano e che non capivano perciò quello che Cornetta diceva.
Ritornammo al carcere verso mezzanotte. Ci dissero che il condannato aveva passata la serata abbastanza tranquillamente e che dormiva, sicuro di essere liberato all'indomani.
Il villaggio era tranquillo e la notte stupenda.
* * *
La mattina dell'11 maggio, siccome si era annunziato che l'esecuzione avrebbe avuto luogo di buon'ora, entrammo pochi minuti dopo le sei nel cortile del carcere, dove s'erano già radunate quasi cento persone, le quali facevano circolo intorno, alla forca.
Il boia, certo Stephen Marshall, un ometto grasso, prese una scala, l'appoggiò al patibolo, salì, si mise a cavallo della trave orizzontale e infilò nel buco la corda; una corda nuova, provvista di un anello di ferro da una parte e assicurata dall'altra al contrappeso. Poi discese e ne provò la solidità attaccandovisi, dondolandosi e sorridendo con compiacenza.
Il cielo era nuvoloso; minacciava di piovere. Continuava a entrar gente, e alle sette c'erano nel cortile quasi quattrocento persone, mentre la sera innanzi lo sceriffo aveva detto che trattandosi di un pazzo come il Cornetta, non avrebbe accordato più di cinquanta permessi.
Quella gente fumava, rideva e chiacchierava ad alta voce, tanto che pareva di essere a un mercato, o in attesa di uno spettacolo di Barnum. Uno dei presenti era già completamente ubbriaco di whiskey, traballava e salutava lo sceriffo dicendogli: Helloo, Bill! E lo sceriffo gli stringeva cordialmente la mano.
Mentre il cortile riempivasi di questo pubblico da circo equestre, il Cornetta si alzava. Nella sua cella, invece degli abiti ordinari, trovò una camicia di bucato con cravatta di seta nera e un abito nero completo.
Quando le guardie gli dissero che doveva indossare quei panni nuovi, la sua faccia si rischiarò.
—Ah! ve lo dicevo io—esclamò—che oggi dovevo essere condotto alla Court House e messo in libertà. Vedete, è il giudice che mi manda questo magnifico vestito. Che bravo giudice: lo voglio baciare.
E si vestì adagio, con cura, assaporando tutto il piacere di mettersi dopo tanto tempo degli abiti nuovi.
Appena giunsero il padre Giulio e più tardi il padre Edgerton, egli li salutò e ripetè loro le stesse parole. Inutilmente il prete cattolico e il ministro protestante, ciascheduno alla sua volta, tentarono di richiamare in sè l'infelice e di fargli riflettere che quella era l'ultima sua ora; egli sorrideva loro sul viso con aria di compassione e non mostrava altro che l'impazienza di essere accompagnato davanti al giudice.
La sentenza di morte gli era stata letta alla vigilia, in italiano e in inglese, senza che egli la comprendesse, cosicchè quella mattina lo sceriffo e le guardie non avevano altro da annunziare al condannato che l'ora dell'esecuzione; e lo fecero; ma il Cornetta protestò che mentivano e dichiarò che li avrebbe fatti arrestare!
Allora lo lasciarono nella sua illusione e, visto che era quieto, gli permisero di uscire dalla cella e di aspettare nel corridoio il momento fatale.
Frattanto entrarono nel cortile il capitano Mangin con cinque policemen che si disposero intorno alla forca, facendo fare un po' di largo: altri nove policemen erano di guardia all'esterno della prigione. Il boia salutava alcuni amici vicino alla forca. Da una tasca gli usciva un pezzo del laccio destinato al Cornetta.
Pochi minuti prima delle sette e mezzo giunsero gli undici deputati sceriffi della Contea e furono introdotti nel carcere. Allora il capo sceriffo s'affacciò al cancello di ferro che dava sul cortile e chiamò il boia e il suo assistente. Erano le sette e mezzo precise.
Il boia, il suo aiutante, il carceriere e altri due robusti sottocarcerieri si avvicinarono a Cornetta nel corridoio interno della prigione e gli dissero di star fermo, perchè gli dovevano legar le braccia.
Appena Cornetta vide le corde, diventò giallo in viso, stralunò gli occhi, strinse i pugni, diede un urlo e minacciò chiunque gli si accostava. I cinque uomini gli si gettarono simultaneamente addosso: due gli afferrarono le braccia, due le gambe, e il quinto, il boia, s'accingeva a legargli i gomiti insieme dietro la schiena; ma il condannato gridava, si torceva come un serpente e tentava di mordere come un cane idrofobo. Altri cinque uomini dovettero intervenire e Cornetta fu legato da dieci persone.
Egli diceva con voce altissima e lamentevole:
—Ma che fate? Che fate? Sono democratico, io! Nessuno può condurmi alla morte. Ah! lasciatemi…
Appena fu domo e legato, il boia trasse di tasca il laccio e glielo accomodò intorno al collo, aggiustando il nodo scorsoio sotto un orecchio: poi gli mise in capo il cappuccio nero, lasciandogli però scoperto il viso.
Cornetta, livido, esausto, guardò, sentì, singhiozzò e gemette: nelle confuse parole che gli uscivano dalla gola c'era insieme come il pianto di un bambino, l'angoscia di uno che trema e ha paura, la rabbia di chi vorrebbe resistere ed è impotente.
Appena gli fu messo il laccio al collo vi fu un istante in cui stette immobile fissando il boia e gli astanti. Che cosa passò per la mente dell'infelice in quel momento? Forse ebbe un lucido intervallo, durante il quale si vide irremissibilmente perduto. Ma fu un lampo e tornò subito a piangere e a dibattersi furiosissimamente.
Tutto ciò avvenne in meno di quattro minuti. Alle sette e trentaquattro minuti precisi si riaprì la porta del carcere e in mezzo al più profondo silenzio dei presenti Cornetta apparve fra le braccia di quattro uomini che lo trascinavano a stento.
La forca distava dalla porta del carcere quattro passi soli. Il condannato vi fu portato sotto di peso, senza che i suoi piedi toccassero terra, mentre si dibatteva e urlava:
—No, no, che fate? Che fate? Ah! Ah!
Giunti i quattro uomini sotto la corda, in meno che non lo si dice il boia calò il cappuccio sul viso del condannato, attaccò il laccio all'anello, battè il piede destro per terra, e a quel segno, tagliata dall'assistente la corda che sosteneva il peso, tac: la massa di ferro cadde sopra un materasso e Cornetta venne tirato su, a sei piedi da terra.
Uno degli astanti più vicini alla forca stramazzò svenuto.
Il corpo nero del condannato pendette, rivolto verso l'occidente, il collo si allungò e le mani si raggrinzarono. Si fermò immobile qualche secondo e poi fu tutto agitato da una terribile contrazione; le gambe si allungarono e tremarono parecchie volte: poi tutto finì.
Il collo di Cornetta diventò prima paonazzo, quindi livido e finalmente nero: le mani bianche. I medici gli sbottonarono il gilè, accostarono l'orecchio al petto, ma non dissero dopo quanti secondi precisi Cornetta era spirato: il cadavere fu staccato dalla corda e deposto nella cassa dopo quattordici minuti.
La giustizia americana era soddisfatta: aveva strozzato un pazzo furioso.
II.
La danza dei milioni.
Quella orribile esecuzione era stata uno dei primi spettacoli a cui avevo dovuto assistere nella mia qualità di giornalista negli Stati Uniti: mi fece, naturalmente, una tristissima impressione.
—Ma si può impiccare un pazzo?—dicevo alla sera in una famiglia italiana stabilita da ventiquattro o venticinque anni a New-York.—Che modo è questo di amministrare la giustizia? Si fissa la data dell'esecuzione, poi si accorda una dilazione, si perdono settimane su settimane e il condannato impazzisce.
E dopo aver descritto la scena, domandavo:
—Quando si è visto che un condannato ha perduto la ragione, deve essere permesso in un paese civile di impiccarlo?
—E che cosa avreste voluto che si facesse?—m'interruppe uno degli interlocutori, un giovane mio amico di ventidue anni, figlio di genitori italiani, ma nato negli Stati Uniti.—Metterlo in un manicomio, curarlo perchè guarisse e, appena il disgraziato avesse riacquistato l'uso della ragione, condurlo sulla forca in tutta la pienezza dei suoi sentimenti? Dal momento che qui si mantiene la pena di morte, che in Italia dite di aver abolito, ma che conservate ancora nell'esercito, e posto che Cornetta era stato condannato a morte, fra il giustiziarlo col cervello sconvolto e il giustiziarlo con le idee ben chiare e ordinate, mi pare anzi più umano l'averlo soppresso quando non capiva nulla.
—Infatti Cornetta aveva la fissazione che oggi doveva essere liberato. Ma dovreste considerare che pazzo significa malato moralmente. Se un condannato, supponiamo, alla vigilia dell'esecuzione, fosse malato fisicamente, avesse il tifo o qualche cosa di simile che gli impedisse di alzarsi dal letto, lo si impiccherebbe? Io non capisco come voi americani o americanizzati trattiate i pazzi come i malvagi sani. Se vi fu mai un assassino col cervello guasto era certo l'uccisore del presidente Garfield, Guiteau, affetto da mania religiosa, che si credeva inviato da Dio e che in prigione sorrideva dolcemente contemplando nel soffitto il seggio di gloria e l'aureola luminosa che l'attendevano nella Nuova Gerusalemme. Ora neppure per Guiteau si volle riconoscere che un manicomio era più opportuno della forca.
—Ah! sì, il manicomio! Se non si sbrigavano a impiccarlo, sarebbe stato linciato!
—Eh! già: ricordo che vi fu perfino uno, il sergente Mason, che gli tirò una revolverata mentre lo conducevano dal carcere al tribunale. E appena fu fissato il giorno dell'esecuzione, quanti cittadini si offrirono di sostituire il boia! Fu spedita a Washington una vera collezione di corde per il collo di Guiteau; le signore americane mandarono una cappa nera, filettata di rosso con le loro mani, per incappucciare il condannato! E il dì dell'impiccagione fu giorno di gioia in tutta l'Unione. Alla mattina, di buon'ora, in diverse città, Guiteau veniva anticipatamente impiccato in effigie da una folla entusiasta. Ve ne ricordate? I birrai distribuivano gratis lager-beer ed ale per celebrare l'esecuzione dell'assassino presidenziale che saliva il patibolo gridando con voce ferma e inspirata: Gloria, gloria, alleluia!
—Ebbene?—fece il giovane italo-americano—e non è meglio sbarazzarsi di simili pazzi più presto che si può? I buoni yankees credono che non valga la pena di mantenerli in un carcere o in un manicomio: sarebbero denari spesi molto male.
—Oh! volete finirla con questi lugubri discorsi?—saltò su a dire in inglese, perchè l'italiano lo parlava con imbarazzo, la signorina Mary, sorella del mio amico, nata essa pure a New-York, una giovane diciottenne molto colta e intelligente, che studiava nel Normal College.—Se parlaste un po' invece del gran ballo in costume che darà domani W. K. Vanderbilt, uno dei più famosi milionari newyorkesi, nella sua residenza di Fifth Avenue, lo splendido palazzo la cui sola costruzione costò cinque milioni di dollari?
—Io ho potuto procurarmi un biglietto—disse il fratello.—Venite anche voi—continuò rivolgendosi a me—coll'invito che avrà ricevuto il vostro giornale: così dopo domani sera avremo cose più allegre da raccontare a mia sorella e ai miei genitori.
—Da parecchi giorni—seguitò la signorina Mary—non si parla d'altro. Si dice che sarà una festa di cui non si è veduta mai l'uguale nella metropoli; che il ballo storico dato a New-York qualche anno fa da Augusto Belmont non reggerà al confronto con questo di Vanderbilt, il quale servirà a dimostrare l'enorme progresso della società nordamericana in fatto di buon gusto e di eleganza. Si citano le grosse somme prodigate in fiori e si assicura che i milleduecentocinquanta invitati vedranno splendori degni del conte di Montecristo e delle Mille e una notte.
La signorina Mary m'aveva messo addosso una grande curiosità e la sera appresso non mancai di recarmi alla gran festa con suo fratello.
Alle dieci e mezzo centinaia e centinaia di carrozze cominciavano ad arrivare davanti alla reggia di Vanderbilt e ne uscivano dame e cavalieri vestiti di ricchissimi costumi di tutte le epoche, dai colori smaglianti, carichi di gioielli, di collane, d'anelli preziosissimi. Man mano che giungevano, le coppie salivano il principesco scalone sovra il quale le statue e i busti di pietra di Caen guardavano in basso con quella stupida tranquillità che Mark Twain attribuiva alle mummie egiziane; imboccavano i vasti corridoi illuminati da migliaia di candele di cera ed entravano negli sfarzosi saloni.
Per la maggior parte degli invitati l'ingresso nel palazzo Vanderbilt tutto decorato internamente in istile gotico medioevale e rénaissance costituiva un vero avvenimento: a New-York sono ben rari gli interni artisticamente lavorati. Era la prima volta che uno sfoggio reale di ricchezza architettonica veniva gettato in faccia all' high-life della città.
Un artista avrebbe condannato la soverchia ornamentazione delle sale e notato che se tutte indistintamente le pareti non fossero state dipinte a quadri, l'insieme ci avrebbe guadagnato. Ma gli intervenuti non erano tipi da preoccuparsi di ciò: per essi anzi la confusione degli stili e l'eccesso degli ornamenti davano maggior pregio al palazzo; si accorgevano di questo solo, che la ricchezza era buttata là a piene mani e ne rimanevano sbalorditi.
E passando dall'esame delle sale a quello di loro stessi, gli invitati, anzichè ai costumi, badavano prima di tutto ai milioni di dollari che erano rappresentati al ballo,
—Vogliamo provare a fare il conto?—diceva uno in un gruppo.—Cominciamo dal padrone di casa. W. K. Vanderbilt, venticinque milioni di dollari; suo fratello più giovane, due; gli Astor, duecento; Russel Sage, sessantacinque; Josè Navarro, dieci; Cyrus Field, quindici; George Pulmann, venti; i Lorillard, quaranta; i Belmont, quindici; D. O. Mills, dieci; la signora Stevens, otto; gli Iselin, la famiglia Fish, Sidney Dillon e Henry Clews, dieci milioni di dollari per ciascheduno; i Goelet, venticinque…
—Senza contare—aggiunse uno—i patrimoni da cinque milioni di dollari, come quelli di Horace Porter, di Galloway, di J. B. Houston, di Livingstone, dei Schermerhorn, e trascurando tutti quei gentlemen che valgono quattro, tre, due, un milione di dollari.
—E pensare—osservò il mio amico—che quasi tutta questa gente lavora e commercia sempre, e che nei loro negozi di Broadway domani possiamo comperare due metri di tappeto o un'oncia di tabacco! Vedete là quella signora alta, magra, col naso rosso? È una milionaria anch'essa, che va in persona a esigere i fitti delle sue case e bestemmia peggio di un facchino del porto.
Quella aristocrazia nord-americana non era che una congrega di giuocatori di borsa, di speculatori, di mercanti arricchiti; ebbene, cosa curiosa, la maggioranza dei costumi indossati rappresentava la nobiltà storica europea: erano tutti re e regine, imperatori e imperatrici, principi, duchi, conti e marchesi; Enrichi VIII e conti di Guisa; Franceschi I e Marie Antoniette; cardinali Mazzarino e regine Elisabette; Marie di Borgogna e Marie Stuarde; Luigi XV e Kings Lear; Don Carlos e Luigi XII; Enrichi IV e Carli IX: pochissimi i vecchi Knickerbockers, cioè i veri nobili americani, le famiglie blasonate d'Europa emigrate sulla costa dell'Atlantico quando gli attuali Stati Uniti erano colonie inglesi.
In mezzo a quella strana ricerca della nobiltà del vecchio mondo una circostanza mi colpì: Arthur, allora presidente della repubblica, passò quasi inosservato nella festa; ottennero un maggior successo di curiosità certe rose fresche, che costavano dieci lire l'una.
W. H. Vanderbilt, padre del padrone di casa, arrivò tardi, ed evitando la folla salì inosservato al secondo piano del palazzo. Me lo additò il mio amico, facendomi notare come le spalle del vecchio milionario apparissero più curve del solito e come i di lui occhi sembrassero inquieti.
—Chissà—mi diceva il fratello di Mary—che egli non tema di vedere la figura arcigna di suo padre, il rozzo barcaiuolo di Staten-Island, guardare con sarcasmo queste pompe; o chissà che non pensi al fratello suicida, o non deplori l'acquisto forzato della Nickel Plate Railroad, che in un giorno solo creò sei milionari. Forse si augura semplicemente che la sua puledra prediletta, Maud S., la cavalla più veloce che si conosca, vinca anche alle corse di domani. Comunque sia, quest'uomo che vale (come si dice) duecentotrenta milioni di dollari d'oro, cioè millecentocinquanta milioni di lire italiane, è di cattivo umore e non mostra di divertirsi.
* * *
Meno di cinquant'anni fa non si aveva idea a New-York di tante ricchezze.
Da una curiosa statistica, pubblicata nel 1846 negli uffici del Sun, si rileva che allora il più ricco americano del Nord era John Jacob Astor, che possedeva per circa venticinque milioni di beni stabili a New-York. Venivano quindi i patrimoni di Van Rensealeur, valutato dieci milioni, e di William B. Astor, cinque. La lista dei cittadini e dei patrimoni valutati ciascuno mezzo milione o meno d'un milione conteneva appena quarantacinque nomi.
Allora non si parlava nè di Bennett, nè di Cyrus Field, nè di Jay Gould, nè di Russel Sage. Dopo il 1846, la maggior parte di coloro che trovavansi nella lista, sono diventati molto più ricchi, essi o i loro discendenti; ma nel frattempo si formarono altre fortune enormi, la cui origine è meravigliosa quanto la nascita di Minerva dal cervello di Giove.
I soli patrimoni riuniti di Jay Gould e di Vanderbilt costituiscono più del doppio delle ricchezze, di tutti i milionari e mezzo milionari della metropoli di cinquant'anni fa.
—Come mai—domandavo quella notte al mio amico uscendo dal ballo—hanno potuto questi individui accumulare tanto rapidamente ricchezze così enormi?
Non era difficile la risposta: con le speculazioni più arrischiate, con la frode e con le corruzioni. La vita di tutti i re della Borsa e dei magnati ferroviari americani, non è che una storia di imbrogli. È impossibile mettere insieme dal nulla, con mezzi onesti e in pochissimi anni, simili sostanze. Il più meschino dei predetti magnati delle ferrovie è molto più ricco dell'opulento ed arrogante Marco Crasso, la cui fortuna veniva considerata la più colossale della Repubblica Romana.
I fondatori delle dinastie reali degli Asburgo, degli Hohenzollern e via dicendo erano briganti o soldati di ventura, ma almeno arrischiavano continuamente la vita per la fama e per la fortuna. La nuova aristocrazia americana, invece, ha sostituito la scaltrezza al coraggio, la frode e le arti della corruzione nella politica ai pericoli del campo di battaglia.
La maggior parte di questi milionari si sono insomma arricchiti ingannando il pubblico e corrompendo le persone alle quali il popolo aveva affidata la legislazione degli Stati e della Nazione.
—Certe operazioni di Borsa—mi diceva il mio amico, pratico di Wall Street—sono così immorali che quando si verificarono ultimamente alcuni grossi fallimenti, avendo la stampa gridato allo scandalo, il governo ordinò una inchiesta sui corners e sui futures.
—Che cosa significano queste parole?
—Sono colpi di mano che gli speculatori più furbi e più pratici fanno a danno dei piccoli capitalisti: sono nuovi imbrogli non preveduti dai codici. Il Comitato incaricato dell'inchiesta credette bene di cominciare le sue investigazioni chiedendo informazioni e schiarimenti ai giuocatori più famosi e fortunati, a Vanderbilt, Gould e Hatch, tre colossi di Wall Street, la trinità che impera sulla Borsa di New-York. Figurarsi se costoro, che s'ingrassano di corners e di futures, hanno dato al Comitato risposte tali da provocare una legge contro le loro speculazioni!
—Mi pare che sia come se un agente di polizia incaricato di una investigazione sulle gesta di una banda di briganti, si rivolgesse per avere spiegazioni ai capi della banda stessa!
—Precisamente. I milionari interrogati risposero scherzando. Essi sapevano che l'inchiesta sarebbe finita in nulla. Gli speculatori, che rovinano spesso tante famiglie, che riducono tanti giuocatori a farsi saltare le cervella, sono gente fuori delle leggi. Basta pensare che le ferrovie degli Stati Uniti sono valutate sei miliardi di dollari e che meno di una ventina di individui amministra a suo talento più della metà di questo immenso capitale. Non c'è da meravigliarsi se questi signori spadroneggiano anche nei tribunali. Le amministrazioni stesse degli Stati si trovano alla loro mercè, poichè nella maggior parte degli Stati i loro impiegati sono abbastanza numerosi per eleggere i pubblici funzionari. Venti dei principali direttori di strade ferrate se si coalizzano possono decidere delle principali elezioni per mezzo degli impiegati di cui regolano i voti.
—Vedo, pur troppo, che tutto il mondo è paese.
—Sapete come fa spesso il presidente o uno dei principali azionisti di una società di ferrovie o di altre imprese per assicurarsi il voto del Consiglio amministrativo? Col mezzo di uno speciale servizio di polizia segreta, egli si procura un archivio nel quale è documentata la vita di ciascun membro del Consiglio stesso. Siccome quasi tutti questi signori speculatori all'ingrosso hanno qualche magagna sulla coscienza, venuto il giorno in cui si ha bisogno del loro voto, se qualcheduno è contrario, riceve all'improvviso la visita di un misterioso dectetive, il quale gli dice: «Domani dovete dare il vostro voto al tale progetto: se non lo farete saranno pubblicate queste interessanti notizie di cui vi rilascio copia.» E gli consegna un manoscritto in cui il ricattato trova esattamente narrati con nomi e date certi fatti che lo riguardano, che egli credeva ignorati da tutti e che divulgati causerebbero scandali e processi.
—Sembrano fantasie da romanzo!
—Eppure vi assicuro che queste sono cose comuni in Wall Street e che molti milionari sono legati in tal modo come schiavi ai carri di speculatori milionari più astuti di loro. Vedete: quando Jay Gould e altri pezzi grossi come lui si recano alla Borsa, sono sempre pedinati da parecchie guardie in borghese che non li lasciano un minuto senza sorveglianza. Gould e compagni si sono straordinariamente arricchiti usando tali arti e riducendo alla disperazione tante persone, che temono di trovare ad ogni angolo di strada qualcheduna delle loro vittime con un revolver in mano.
* * *
Eppure la vita di alcuni di questi briganti della Borsa e del monopolio ci presenta un esempio meraviglioso di attività, di ingegno, di audacia e di perseveranza.
Ecco qui, per esempio, brevemente, quella di Jay Gould, il colosso delle finanze nord-americane.
Egli nacque miserabile, nel 1836, in Roxbury, Stato di New-York, da una famiglia di contadini che possedeva poche vacche, e la sua prima occupazione fu quella di aiutare le sorelle a pascolare e mungere le bestie. A quattordici anni disse a suo padre che non amava la vita dei campi e che voleva partire per procurarsi una buona educazione e cercar fortuna.
Il padre lo lasciò libero di fare a modo suo e il ragazzo, andatosene, trovò in una vicina città di provincia un fabbro ferraio il quale acconsentì di dargli vitto ed alloggio, purchè nelle ore in cui era libero dalla scuola gli tenesse i libri di bottega.
A quindici anni il futuro milionario diventava commesso in un piccolo negozio in cui doveva fare di tutto: servire gli avventori, badare ai conti, spolverare e scopare il locale. Il suo lavoro cominciava alle sei del mattino e finiva alle dieci di sera. Siccome però aveva una grande passione per la matematica, si alzava alle tre e studiava fino all'ora di aprir bottega.
Ben presto ne seppe tanto da ottenere la patente di agrimensore e si mise, per venti scudi al mese, come assistente al servizio di un ingegnere incaricato di rilevare le mappe della Ulster County. Questi lo mandò in campagna a eseguire certe misure e a tracciare dei disegni, dicendogli di prendere a credito lungo la strada ciò che gli abbisognava: egli lo avrebbe seguito a pochi giorni di distanza e si sarebbe incaricato di pagare.
Jay Gould partì, ma il terzo giorno essendosi presentato in una osteria, non trovò credito nè per il pranzo nè per l'alloggio: gli fu detto che il suo padrone aveva fallito tre volte ed era pieno di debiti per tutto il paese.
Gould, che non aveva un centesimo, continuò la strada molto mortificato: a un certo punto si buttò sull'erba e si mise a piangere dirottamente; ma ben presto si vergognò e decise d'andare avanti.
Poco distante trovò una fattoria dove una buona donna gli offrì del pane e del latte: stava per partire ringraziando, quando la contadina gli domandò se sapeva disegnare una meridiana. Il giovane rispose di sì e fece immediatamente quanto gli veniva richiesto. Col dollaro che gli diede la massaia per tale lavoro, pagò il pane e il latte; poi proseguì contento il suo cammino: aveva trovato un'industria lucrosa.
Così continuò tutta l'estate a girare per la contea, rilevando le sue mappe e pagando le sue spese col disegnar meridiane sulle case di campagna. Verso la fine del giro, l'ingegnere fallì per la quarta volta e Gould perdette tutto il suo stipendio, sul quale non aveva mai ricevuto un soldo di acconto: ma da tale fallimento cominciò la sua fortuna.
Due ricchi ingegneri furono incaricati di continuare il lavoro delle mappe, e, conoscendo la capacità di Gould, gliene affidarono la cura, accordandogli una parte d'interesse nell'operazione. Gould, poi, assunse simili lavori per altre contee, e in breve tempo mise da parte cinque mila dollari.
Con questa somma si associò con un conciatore di pelli, e i suoi affari prosperarono in modo che quando sopraggiunse la crisi economica del 1857 egli ebbe credito abbastanza per comperare tutte le azioni della piccola ferrovia Rutland-Washington, cadute al dieci per cento, senza sborsare un soldo.
Sotto la sua abile amministrazione la ferrovia prese un nuovo sviluppo; egli la estese fino a metterla in comunicazione con la linea Rensslaer-Saratoga, ed avendone così aumentato enormemente l'importanza ed il valore, rivendette al 120 per cento le azioni comperate al dieci: e realizzò una somma vistosissima.
D'allora in poi Gould non s'occupò d'altro che di comperare, vendere e costruire ferrovie: e la sua fortuna continuò ad accrescersi con rapidità vertiginosa. Avendo danari alla mano in un'epoca di terribile disagio economico, potè fare ciò che volle; tutti i possessori di azioni ferroviarie, stretti dal bisogno, minacciati di bancarotta ad ogni istante, vendevano a rotta di collo, pur di avere il danaro per far fronte ai loro impegni. Così pochissimi poterono attraversare la crisi senza naufragare; molti finirono col farsi saltar le cervella.
Fu in tale occasione che Jay Gould comperò al quindici per cento tutte le azioni della Union-Pacific, rappresentanti una somma enorme al valore nominale. Quando le rivendette valevano il centoventi ed erano ricercatissime. Un simile aumento, è giusto riconoscerlo, non si doveva solo alla cessazione della crisi, ma anche all'abilità, alla pratica, al colpo d'occhio di Jay Gould in affari ferroviari. Una linea passiva diventava presto produttiva nelle sue mani; le azioni considerate prima quasi prive d'ogni valore, salivano sempre sotto la sua direzione a prezzi superiori a quelli d'emissione, e in tal modo Gould non investì mai i suoi capitali senza almeno triplicarli: qualche volta li decuplicò.
Col medesimo successo egli si è dedicato negli ultimi anni anche alla costruzione di linee telegrafiche e alla speculazione sulle azioni delle medesime. Fece da principio costruire la linea Atlantic and Pacific perchè fosse una rivale della Western Union; ma vedendo che la concorrenza tornava più rovinosa a lui che alla Western, seppe adoperarsi con tanta scaltrezza che la Western acconsentì a consolidarsi, come si dice nel gergo della Borsa, colla Atlantic and Pacific, si rialzarono le tariffe, e il pubblico dovette sottomettersi a pagare tutto ciò che gli si chiese.
Per dare un'idea della tenacia di questo milionario, basti l'aneddoto seguente. Quando fu operata la fusione delle due grandi compagnie or ora nominate, Gould credeva che un suo intimo amico, il generale Eckert, sarebbe stato nominato direttore dell'unione delle compagnie stesse. Invece non lo fu, e allora Gould volendo ad ogni costo che il suo amico si trovasse alla testa di quella grande amministrazione, si mise a costruire una nuova linea, la American Union, e ne affidò la direzione al generale Eckert. Dopo poco tempo, come doveva accadere, l' American Union, entrò nel consorzio delle altre due compagnie e il generale Eckert fu nominato direttore delle tre linee consolidate.
Io ebbi occasione di conoscere Jay Gould all'epoca di un grande sciopero dei telegrafisti della colossale compagnia Western Union, sciopero che durò parecchie settimane con danno gravissimo del commercio, del pubblico, della compagnia e degli scioperanti.
I telegrafisti sostenevano giustamente che la fusione delle linee telegrafiche (negli Stati Uniti queste non sono nelle mani dello Stato) e di gran parte delle ferroviarie, levando la concorrenza che prima esisteva fra esse, rendeva pochi individui (direttori delle gigantesche compagnie monopolizzatrici) arbitri assoluti tanto di fissare la paga giornaliera delle molte migliaia d'uomini e di donne che erano al loro servizio, come di imporre ai privati e al commercio quei prezzi che essi volevano pei trasporti e per le comunicazioni.
Il pubblico era in favore degli scioperanti e sperava che questi l'avrebbero spuntata, perchè non si credeva possibile che la Compagnia potesse sostituire subito un numero così grande di esperti impiegati. Durante lo sciopero il servizio telegrafico sulle linee della Western era fatto in modo così lento che conveniva meglio servirsi della posta anzichè del telegrafo e sembrava che i reclami e l'indignazione del pubblico avrebbero dovuto forzare i monopolisti a capitolare. Invece accadde il contrario. La Compagnia, enormemente ricca, fece orecchie da mercante ai lamenti della popolazione ed aspettò che gli impiegati ribelli fossero costretti ad arrendersi per fame.
Quando i poveretti ebbero esauriti i fondi loro e quelli delle associazioni per sostenere lo sciopero, dovettero curvare la fronte e tornare al lavoro alle stesse condizioni di prima.
Questo fatto provocò un'inchiesta. Un comitato di senatori dello Stato fu incaricato di vedere quanto di vero e di fondato vi fosse nei lamenti della classe lavoratrice, e quali fossero i rimedi che, senza offendere le leggi nè i diritti individuali di chicchessia, si potessero adottare per impedire che poche persone o corporazioni giungessero ad accumulare nelle loro mani la maggior parte dei capitali del paese e diventassero in tal modo padroni di imporre la loro volontà, non solo al numeroso personale da essi dipendente, ma anche all'intiera popolazione.
Jay Gould, W. H. Vanderbilt, Cyrus Field, Russel Sage e pochi altri rappresentanti il monopolio causa dello sciopero, furono interrogati. Per tutta spiegazione, Jay Gould raccontò al Comitato e ai reporters presenti la sua storia e quella della sua fortuna, come furono brevemente riassunte in questo capitolo. In quanto poi all'ultimo conflitto fra capitale e lavoro, egli emise delle opinioni che non nutriva certamente quando batteva le campagne per disegnar mappe e meridiane. Disse, per esempio, che qualora si elevasse il salario degli operai e degli impiegati, i capitalisti e fabbricanti troverebbero maggior convenienza nel far eseguire i loro lavori altrove: non aggiunse però se egli sarebbe andato a costruire ferrovie o linee telegrafiche in Europa.
Concluse il suo interrogatorio con questa bella trovata: le grandi corporazioni finanziare non sono monopolii, perchè non impediscono ad alcuno di formarne altre consimili!
In occasione di quello sciopero vi fu una interessante polemica. Qualche giornale espresse l'opinione che non costituendo gli scioperanti che una minima parte del pubblico, non avevano alcun diritto di far danno a tutto il pubblico. Se non piaceva loro di lavorare per la Western Union, potevano cambiare. Dal momento che le ferrovie ed i telegrafi devono essere sempre al servizio del pubblico, bisogna che gli impiegati pensino a questa necessità prima di entrare a lavorare per le compagnie ferroviarie o telegrafiche.
C'è questa differenza, rispondevano i giornali difensori degli scioperanti, che le Società telegrafiche ricevono dal pubblico grandi e speciali vantaggi, e necessariamente devono avere verso il pubblico speciali obbligazioni: mentre invece gli impiegati, nulla ricevendo dal pubblico, nessuna obbligazione devono avere. Vengono pagati dalle Società, non sono responsabili che verso le Società, non hanno da trattare per il loro lavoro che con le Società.
In altre parole, la questione non era fra gli impiegati e il pubblico, ma fra gli impiegati e le compagnie che sono una minima frazione del pubblico. Il pubblico era davanti al fatto che gli impiegati volevano essere pagati discretamente e che le Società volevano pagare troppo poco. A chi la responsabilità?
—Non si può ammettere—venne fuori a dire la New-York Tribune —che da un momento all'altro un comitato di scioperanti possa alzare audacemente la mano e guastare, se non rompere del tutto, il delicato organismo di una grande impresa nella quale esso non ha alcun interesse personale.
—Che non abbiano alcun interesse si fa presto a dirlo—replicarono in coro quasi tutti gli altri giornali, amici e difensori delle classi lavorataci—eppure gli uomini che compongono questo comitato rappresentano qualche cosa; essi rappresentano venti mila operai, come il Consiglio della Western Union rappresenta alcuna migliaia di azionisti; essi rappresentano il loro pane quotidiano e quello dei loro compagni, come gli amministratori rappresentano il loro dividendo e quello dei loro cointeressati.
—Voi—disse allora la New-York Tribune —siete colpevoli di una vergognosa indifferenza verso gli interessi commerciali del vostro paese.
—Gli interessi commerciali di chi?—esclamarono i telegrafisti.—Noi pure siamo dei commercianti e vendiamo il nostro lavoro alle Società telegrafiche. Nei giorni passati trovammo che il nostro lavoro non veniva pagato abbastanza e lo togliemmo dal mercato. E ciò facemmo per favorire i nostri interessi, poichè nel commercio ognuno cerca innanzi tutto il proprio tornaconto. Il pubblico non ci ha accordato nulla e nulla noi dobbiamo al pubblico, come non gli devono nulla i calzolai o i muratori. Tutti i nostri doveri sono verso i nostri padroni e il pubblico non può ritenere che i padroni responsabili di una interruzione di servizio causata da una contestazione a proposito di salari.
Dopo lunghe e inutile trattative con la Compagnia, lo sciopero era cominciato una mattina, dietro un segnale telegrafico convenuto, dato da un giovane telegrafista dell'ufficio centrale, nello stesso minuto, i ventimila impiegati avevano abbandonato tutti il loro posto.
Ora, durante quella lotta, mentre il servizio rimaneva sospeso, io dovetti notare che lo Stato non si sognò mai di intervenire in qualsiasi modo; si lasciarono tenere tutti i comizi che si vollero e se ne tennero da migliaia di cittadini non telegrafisti anche contro la Compagnia, alla quale fu detto che coi suoi lauti guadagni poteva pagar meglio la sua gente.
Molti fili telegrafici vennero tagliati da ignoti amici dei telegrafisti, ma la Western Union non chiese alla polizia l'arresto dei capi scioperanti e non pensò di ritenere i suoi impiegati responsabili dei guasti.
III.
Gli alimenti nervosi.
La signorina Mary mi dava sulla voce ogni volta che io dicevo male degli Stati Uniti e mi rimproverava di fermarmi a considerare solamente i difetti del paese. Dopo il ballo di Vanderbilt facemmo una grande discussione. Ma prima di continuare il racconto bisogna ch'io presenti ai lettori la signorina Mary.
Vi sono degli stranieri che, visitando gli Stati Uniti e osservando la grande libertà che godono e in cui sono allevate le fanciulle, notando la differenza dei culti e delle idee nelle signore, rilevando la vita che conducono molte, le quali non pensano che a divertirsi con le amiche e a visitare i magazzini di mode, s'affrettano a scrivere ai loro amici:
—Le signore nord-americane sono belle, spiritose, disinvolte, ma noi altri del vecchio continente non le piglieremmo per ispose.—
Giudizi superficiali. Negli Stati Uniti non si può parlare di una donna americana tipo, come si potrebbe fare in Europa della russa o dell'inglese, perchè nell'Unione, e specialmente nelle grandi città della costa atlantica, si trova nelle donne una varietà di tipi e di caratteri straordinaria.
Vi sono le donne nate nell'America del Nord da americani ricchi o poveri, vi sono quelle nate da genitori europei, vi sono quelle sbarcate negli Stati Uniti da bambine; e ciascuna di esse, secondo la razza, la nazionalità e la famiglia da cui è uscita, e secondo l'educazione avuta, presenta una fisionomia speciale, un tipo che più o meno si scosta da quello delle altre.
In generale è vero che le ragazze non crescono negli Stati Uniti come nel vecchio continente, sempre attaccate alle gonnelle della mamma; sono più franche, più ardite, più coraggiose; escono sole di casa e vanno pei fatti loro senza bisogno di farsi accompagnare; e nondimeno riescono spose e madri che non hanno nulla da invidiare alle nostre, anzi curano di più l'educazione pratica, la pulizia e l'igiene dei figli, e sono più amanti del comfort della casa.
La signorina Mary, nata a New-York da genitori italiani emigrati poco dopo il matrimonio (suo padre era un distinto architetto), aveva diciassette anni. Di statura ordinaria, possedeva bellissime forme, aveva i capelli e gli occhi grandi e neri e la carnagione un po' pallida, come quella di quasi tutte le donne nate a New-York: era intelligentissima e studiosa, e frequentava i corsi dell'ultimo anno del principale collegio normale della città come studente libera.
I genitori, cresciuti nella religione cattolica, lasciavano ai figli la scelta delle loro credenze. Mary era libera pensatrice, e, senza alcuna affettazione, senza sparlar mai della fede altrui, alla domenica assisteva alle conferenze che sul libero pensiero facevano a New-York gente di gran talento, come il prof. Adler.
Sebbene la sua famiglia fosse di agiata condizione, attendeva molto volentieri al disbrigo delle faccende domestiche. Sapeva cucire e ricamare magnificamente, ma era anche buona cuoca. Solo ogni tanto l'assalivano delle velleità da bambina. Quando fioccava la neve, indossava improvvisamente il waterproof e correva in istrada a farsi tirare in una piccola slitta dal fratello minore e a baloccarsi insieme con alcune amiche.
Non assumeva mai quelle arie sentimentali che hanno spesso le fanciulle d'Europa appena arrivate alla pubertà; era anzi allegra, vivacissima, e si abbandonava sovente a risate rumorose che mettevano in mostra i suoi bellissimi denti.
Si recava alle lezioni del collegio sola, come tutte le compagne, coi suoi bravi libri sotto il braccio, viaggiando nell' Elevated Railroad, la strada ferrata che attraversa la città. Vestiva con buon gusto senza civetteria ed amava i fiori, ma preferiva i confetti.
Quando io la conobbi non sapeva forse ancora esattamente ciò che fosse l'amore. Probabilmente ne sentiva già il bisogno senza volerlo e fra un capitolo della breve storia degli Stati Uniti e un problema aritmetico, intravvedeva qualche paio d'occhi neri e di baffetti nascenti. Forse non ci aveva ancora pensato e il giorno in cui avesse trovato la cosidetta incarnazione dell'ideale sotto le forme di un bel giovinotto, avrebbe perduto gli ultimi giocondi vestigi della fanciullezza e il suo carattere avrebbe subito qualche modificazione, come avviene in tutte le giovinette quando il loro cuore s'apre per la prima volta all'ignoto dio.
Intanto rideva e studiava, e i suoi giorni trascorrevano lieti e sereni.
—Ebbene?—mi disse quando ci rivedemmo dopo il ballo di Vanderbilt.
—Ohimè!—feci io—dove sono andati i tempi semplici e patriarcali di Washington e di Franklin?
—La costituzione della nostra repubblica dice però ancora oggi che nessun titolo di nobiltà sarà concesso dagli Stati Uniti.
—Sì, voi non avete principi, duchi, marchesi, conti o baroni. Molte giovani ricche acquistano un titolo col mezzo del matrimonio; ma, all'infuori di quelle che si vendono a un nobile spiantato straniero per sentirsi dire contesse o marchese e farsi ricamare una corona sul fazzoletto, non potete vantarvi di avere neppure un meschino cavalierato come quello che viene conferito in Inghilterra a mercanti di candele arricchiti o a sarti in voga, le cui mogli hanno l'ambizione di essere chiamate my lady.
—E dunque?
—Con tutto ciò avete anche voi la vostra aristocrazia. La ricchezza guadagnata, non importa come, prende il posto del merito o del sangue turchino. Come nessuno domanda da noi se gli antenati di un conte abbiano rubato del bestiame, così qui nessuno chiede se il padre d'una milionaria abbia rubato delle ferrovie. Ho veduto da Vanderbilt che quando un americano conta le sue ricchezze a centinaia di milioni, prende il suo posto alla testa della società, precisamente come il duca di Norfolk ha la precedenza, nella sua qualità di primo duca e conte, alla Corte d'Inghilterra. Ho veduto a quel ballo che, per appartenere all'aristocrazia americana, una signora può avere le mani rosse, la pelle ruvida, la voce rauca, i modi più volgari, ma deve essere molto ricca e vestire sfarzosamente. Allora può entrare nella migliore società e ricevere gli omaggi del mondo americano.
—Queste sono eccezioni—fece la signorina Mary.
—Sì, ma quando in un paese la coltura e la virtù non contano nulla e tutto è l'oro, visto che col danaro solo si ottiene quello che si vuole, si fanno pazzie per cercare di arricchirsi rapidamente. L'altro giorno un medico mi diceva che è incredibile la quantità di morfina che si usa a New-York per lavorare con attività febbrile.
—Questo è vero, pur troppo.
—Il caffè, il the, il tabacco, mi raccontava, e tutti gli altri alimenti nervosi, narcotici ed eccitanti di cui si contentavano finora gli uomini, non hanno più alcun effetto sopra i nervi malati di moltissimi nostri giovani. Essi ricorrono all'oppio e alla morfina. Cominciano coll'iniettarsi piccole dosi di quest'ultima quando hanno l'emicrania, l'insonnia o il mal di denti, e poi finiscono per prenderne tutti i giorni, aumentandone la quantità, vivendo in uno stato di benessere fattizio, sparito il quale si sentono spossati, malinconici, tristissimi. Quel medico mio amico conosce parecchi di questi infelici i quali hanno la pelle delle braccia tutta bucherellata dall'ago con cui si fanno le iniezioni. Un giorno gliene capitò uno in ufficio, pallido, cogli occhi semispenti. Lo pregò di dargli della morfina, ne prese una fortissima dose sottocutanea e gli confessò: «Non avevo più denaro per comprarne, e non posso più vivere senza questo narcotico.»
—È proprio così—appoggiò Giorgio, il fratello di Mary.—Abusano degli alimenti nervosi coloro specialmente che lavorano col cervello: vi sono giornalisti e pubblicisti che ricorrono all'oppio per trovare l'energia e la forza d'ingegno che non hanno; scrivono con maggior facilità sotto l'influenza della droga asiatica, ma finiscono poi col logorarsi le cellule e diventano ben presto incapaci di fare quello che facevano prima di ricorrere all'oppio.
—Guai—disse il signor Antonio, l'architetto padre di Mary e di Giorgio—se l'emigrazione non versasse sulla costa atlantica dei veri torrenti di sangue fresco e sano!
—Gli americani—continuò Giorgio—sono il popolo più nervoso che esista. I costumi, le faccende politiche, finanziarie, sociali ed intellettuali contribuiscono a mantenerli in uno stato di eccitabilità permanente. Noi (essendo nato qui posso parlare in plurale) abbiamo la sensibilità dei francesi senza la loro elasticità, la serietà del temperamento inglese senza la sua flemma; come razza siamo trascuratissimi per tutto ciò che riguarda le abitudini sistematiche della vita. La maggior parte dei decessi succede relativamente fra i giovani, e la causa deve ricercarsi nell'esaurimento del sistema nervoso. Quando abbiamo spinto a forza i nostri nervi nello stato cronico di un'incessante e dolorosa irritabilità, allora cominciamo «a medicarci». E ricorriamo sempre a casaccio a certi narcotici (io pure mi lasciai tentare dalla morfina e mi ci volle una gran fatica a smettere per quanto il vizio non fosse in me radicato), a certi eccitanti della cui natura poco o nulla sappiamo. Se non ci sembra di soffrire sotto i loro effetti, ne soffrirà la prossima generazione.
—Avete notato—riprese il signor Antonio—il tipo uniforme che vanno prendendo i giovani americani della classe media? Sono per lo più magri, dal collo sottile, dalle mani e dai piedi lunghi…
—Chicago feet!—interruppe Mary ridendo, alludendo all'opinione corrente a New-York che gli americani dai piedi più lunghi siano quelli di Chicago.
—Pare—continuò il signor Antonio—che dalla mescolanza delle razze emigrate nell'America del Nord stia per uscire una razza nuova. È stato notato che dopo la seconda generazione il yankee mostra segni del tipo indiano; più tardi la pelle diventa secca, il colore vermiglio delle guancie sparisce e dà luogo, negli uomini, ad una tinta terrosa, e nelle donne ad una livida pallidezza. La testa diventa più piccola, rotonda e persino acuminata; si osserva un grande sviluppo degli zigomi; le fosse temporali si fanno più profonde, più massiccie le mascelle, e gli occhi giacciono in occhiaie incavate e molto vicine: le ossa lunghe si allungano, specialmente nelle membra superiori…
—Tant'è vero—interruppe nuovamente Mary che in nessun altro paese, —neppure in Inghilterra, che è tutto dire, si fabbricano guanti dalle —dita lunghe come negli Stati Uniti.
—Il clima—seguitò il signor Antonio—deve forse entrare per qualche cosa nella formazione di questo nuovo tipo e nella fretta nervosa degli americani del Nord. Ne possiamo far fede noi europei, che diventiamo qui più attivi e irritabili, che cambiamo professione con tanta facilità e che acquistiamo il mutabile istinto girovago, la febbre degli affari e delle cose nuove. Eppure, a parte il clima, gli alimenti nervosi e la vita che conducono, io sono persuaso che una causa della magrezza dei giovani nord-americani sia il loro genere di alimentazione. Da noi (il signor Antonio era oriundo milanese e conservava il culto del patrio risotto) si fanno dei pasti regolari, abbondanti, si mangiano delle buone minestre fatte col brodo, dei pollastri e della carne, e si beve del buon vino; qui si fanno delle refezioni che sembrano apparecchiate per bambini: fettoline di pane spalmate di burro, piattini dolci, piattini di riso con lo zucchero, piattini di verdura, acqua ghiacciata e the o caffè alla mattina, a mezzogiorno, alla sera e prima di andare a letto. Non hanno di buono che il roast-beef. Se dite ad un popolano di scegliere fra un beefsteak da venticinque soldi e un pezzo di pasticcio dolce da dieci soldi, vi lascerà il beefsteak e si rassegnerà ai fish balls (polpette di pesce) per godersi l' home made pie (pasticcio di mele cotte o d'altre frutta conservate).
—Nella mia qualità di newyorkese—osservò Giorgio—io devo farvi notare che per la razza, non può prendersi come modello la città di New-York, la quale sopporta la maggior parte dei danni e gode la minima parte dei vantaggi dell'emigrazione europea. Gli emigranti che hanno qualche soldo, passano e vanno nell'interno: qui, nel porto, restano i miserabili e i viziosi. Il 25 per cento rimane e il resto procede oltre. New-York è stata giustamente paragonata ad un filtro, attraverso il quale si purifica il fiume dell'emigrazione nel suo corso verso l'ovest.
—Avete mai veduto New-York—mi domandò la signorina Mary—in tutta la sua lunghezza percorrendola coll' elevated railroad dal Battery Park fino ad Harlem? È una gita molto interessante: vi sono da vedere delle cose curiose, ignorate dagli stranieri. La faremo insieme dopodomani, che è domenica?
—Con vivissimo piacere—risposi, desideroso com'ero di studiare la grande città.
* * *
Dopo la China, l'America del Nord è oggi il paese dove si fuma la maggior quantità di oppio. Secondo le statistiche della dogana di San Francisco, dopo il 1879 gli Stati Uniti hanno cominciato ad importare ogni anno dalle 140 alle 150 mila libbre d'oppio preparato, per le quali l'amministrazione delle gabelle incassa da 880 a 900 mila scudi di tassa.
Fino a pochi anni addietro l'oppio si fumava liberamente negli Stati dell'Unione, ma, dopo essersi accorte dei danni che produceva, le autorità fecero chiudere tutte le sale chinesi dove si fumava la droga perniciosa. Tuttavia si continua a fumare egualmente in segreto e il vizio va diffondendosi.
A San Francisco, a New-York e nelle altre principali città della repubblica, malgrado il divieto della polizia, esistono sale clandestine pei fumatori eleganti e luoghi sotterranei per la gente poco denarosa, dove per un dollaro o due nei posti migliori, e per cinquanta soldi nei più bassi, si può abbandonarsi allo snervante letargo.
Il peggio si è che i chinesi si servono spesso dell'oppio per condurre nelle loro spelonche molte ingenue ragazze, le quali finiscono poi col non tornare più ai loro genitori, per darsi completamente alla mala vita.
Un giorno si trovò in Pell Street, a New-York, una cantina dove le fanciulle dai dieci ai venti anni venivano indotte a entrare da qualche donna loro conoscente già corrotta; là, dopo alcune pipe d'oppio, perduta la ragione, le disgraziate si abbandonavano al primo capitato.
Una volta gustato l'oppio, dopo aver superato le prime nausee, le infelici non hanno più la forza di astenersene, e, anche condotte a casa dai loro parenti, fuggono alla prima occasione per procurarsi i piaceri inebbrianti della droga fatale.
Il signor O'Brien, presidente di un Comitato costituitosi per fare la guerra ai ridotti dei fumatori d'oppio, mi raccontava che questi andavano prosperando e crescendo in modo spaventevole. I chinesi, non solo pagavano fitti enormi, ma, per entrare in possesso di un nuovo locale, sborsavano forti indennità agli inquilini, i quali, naturalmente, le accettavano e andavano a stare in un altro quartiere, lasciando così il posto libero ad una nuova sentina di corruzione.
Quando io mi trovavo a New-York non passava quasi settimana senza che i giornali registrassero o la scoperta di un nuovo salon o i casi toccati alla gente annoiata e disutile che si dà all'uso della droga chinese. Eccone qualche saggio.
Una sera un giovane americano entrò in una sala pei fumatori d'oppio in Bowery. Quando si svegliò, s'accorse che durante il sonno gli erano stati rubati i cento dollari che aveva in tasca. Contemporaneamente s'avvide della presenza di una donna che giaceva addormentata sul sofà accanto al suo. Sospettò che essa fosse la ladra e la denunziò alla polizia. Ma la donna, che era una pallida giovanetta, ammise di essere un'arrabbiata fumatrice d'oppio, respingendo però l'accusa di furto. E siccome i denari rubati non si trovarono nelle sue tasche, si dovette rilasciarla libera.
Una notte, il capitano di polizia Petty essendosi assicurato che, all'ultimo piano della casa N. 8 Pell Street, un certo Ah Foo, chinese, teneva un ridotto pei fumatori d'oppio, vi entrò con alcuni agenti e fece arrestare quanti vi si trovavano, cioè il padrone, la moglie e quindici fumatori.
Di questi ultimi, tre erano donne di malaffare, sei uomini chinesi e sei bianchi, fra cui un attore del teatro di Union Square. Quasi tutti gli arrestati avevano indosso una piccola bottiglia d'oppio; uno teneva un limone la cui scorza era bucata in vari punti per saturarlo d'oppio. Sul tappeto giacevano molte pipe e una provvista di oppio da fumare, che il capitano raccolse e portò seco come corpi di reato.
Un'altra notte il dottor Cowles notificava alla polizia che in un vasto fabbricato, al N. 98 Mott Street, vi erano due appartamenti che servivano da ridotti pei fumatori d'oppio. Erano tenuti da chinesi, rimanevano chiusi tutto il giorno e si aprivano alle sette di sera. Nelle ore tarde vi entravano donne giovani, signorilmente vestite, e molti chinesi. La cosa continuava già da parecchi mesi.
Oltre che nei ridotti segreti, si era trovato modo di fumare l'oppio anche nelle pubbliche vie. In certe botteghe si vendevano in eleganti scatolette delle piccole sigarette fatte col tabacco più fino esposto al fumo dell'oppio ardente sopra un braciere, finchè si era impregnato ben bene degli effluvi della droga. I vecchi fumatori usano scientemente tali sigarette allo scopo di poter abbandonarsi alla loro passione in pubblico senza destar sospetti.
Un giorno avevo deciso di entrare in un Opium Saloon a fumare il narcotico famoso per provarne e descriverne le sensazioni. Ma ne fui dissuaso con una semplice osservazione.
—La prima volta—mi si disse—non sentireste piacere di sorta; l'oppio, anzi, vi causerebbe nausee ed emicrania. Se per abituarvi lo fumaste poi a piccolissime dosi, aumentandole volta per volta, non provereste da principio alcuna sensazione piacevole, e quando poi foste arrivato a gustarlo, sareste perduto. Diventereste un vizioso incorreggibile e non vi curereste più di analizzare l'ebbrezza.
Per queste ragioni non ho mai provato a fumare una sola pipa d'oppio e mi contentai di interrogare qualche magro e pallido fumatore, ottenendone risposte molto laconiche.
—È impossibile—mi disse un giovane, vittima del vizio fatale—parlarvi dell'effetto che fa l'oppio. È come se un cieco nato domandasse ad uno che ci vede che cos'è la luce. È tutto un mondo nuovo che mi si schiude davanti quando ho fumato; sotto l'influenza del narcotico possiedo tutto quello che un uomo può desiderare; e quando mi sveglio, mi sento così fiacco, la vita reale mi sembra tanto meschina e noiosa, che non vedo il momento d'immergermi nuovamente nel letargo.
—Ma non pensate che vi rovinate il corpo, che vi logorate il cervello, che diventate una mummia e v'accorciate la vita?
—E che m'importa? Non vi sono molti che se si sentissero offrire un patrimonio colossale a patto di dover morire dopo otto o dieci anni di una vita da nabab, accetterebbero con entusiasmo? Ebbene, nello stesso modo io preferisco vivere pochi anni nelle ebbrezze che mi procura l'oppio, di quello che passare una vita ordinaria, regolare ed insipida. The opium is the key of paradise! (L'oppio è la chiave del paradiso!)
Così i fumatori non ignorano che dopo il periodo dei godimenti viene un momento in cui il narcotico non produrrà loro che degli spasimi; sanno che allora raddoppieranno, triplicheranno, moltiplicheranno le dosi per non averne in compenso che il delirio e la morte; ma non si curano dell'indomani.
La maggior parte, invece di fare confessioni umilianti ai profani, negano il loro vizio. Una sera, ricordo, un giovane che cercava la sorella fuggita di casa da alcuni giorni, accompagnò la polizia in una retrobottega di Mott Street. Là, distesi per terra sulle stuoie, c'erano dieci o dodici chinesi e cinque o sei donne bianche, fra le quali la sorella del giovane.
Parte fumavano l'oppio, parte ne erano già inebriati e dormivano. La stanza era piena d'un fumo che tramandava un odore forte ed acre.
Condotta dal fratello alla stazione di polizia, la giovane negò freddamente di essere una fumatrice disse che, condotta da un'amica, visitava per la prima volta un opium eden per semplice curiosità.
Dopo pochi giorni fuggiva nuovamente di casa per non tornarvi mai più.
IV.
Il riposo festivo.
Ma una delle cose che mi sorprese di più nell'America del Nord, paese che è considerato il più libero e più pratico del mondo, fu di veder conservate ancora negli statuti di alcuni Stati certe leggi puritane, quacchere, ridicole, odiose, medioevali, che fanno ai pugni con le idee e con le consuetudini moderne.
Alcuni articoli di quegli statuti di origine inglese, sono assolutamente contrari ad ogni principio di libertà, allo spirito medesimo della costituzione americana; eppure non furono ancora aboliti. La maggior parte delle leggi più assurde caddero in disuso, ma non in tutti gli Stati. In quelli dell'Est specialmente, sulla costa atlantica, si ritrovano nei codici delle disposizioni degne di un governo teocratico.
Ecco un saggio di queste leggi che ricordano quelle di Cromwell.
Nel codice penale di New-York la bestemmia è punita di multa e prigionia. È considerata come bestemmia la semplice evocazione del nome di Dio o di Gesù Cristo in senso profano, cioè in ogni altra circostanza che non sia la preghiera o il rito ecclesiastico.
È ugualmente punita di multa e prigionia la violazione della festa. Il codice dice:
—Ogni occupazione mondana, sia di piacere, sia di speculazione, è proibita alla domenica: in tal giorno, non solo ogni luogo di divertimento dovrà rimaner chiuso, ma la misura sarà estesa ad ogni negozio piccolo o grande, non esclusi quelli per gli oggetti di prima necessità. È fatta eccezione per quelle case, come gli alberghi, dove la merce si consuma sul luogo stesso, per le farmacie, pei venditori di latte, carne e pesce, i quali però non devono tener aperto il negozio che fino alle nove del mattino.—
Lo stesso codice così punisce il suicidio:
—Colui o colei che tenta di togliersi la vita, è passibile d'una condanna a due anni di carcere e a mille lire di multa, mentre chi presta mano al suicidio di un'altra persona si rende colpevole di omicidio in primo grado.—
Per il duello c'è questo gingillo:
—Chiunque si batte in duello, sia che lo scontro venga seguito da morte o no, sarà punito con la pena da due a dieci anni di carcere e perderà il diritto di occupare per tutta la vita alcuna carica pubblica, civile o militare.—
Gli articoli più strani, tuttavia, sono quelli sul riposo della domenica. Eccoli testualmente:
—Ogni sorta di lavoro servile è proibito nel primo giorno della settimana, eccettuati i casi di necessità pubblica.
Ogni sorta di tiro a segno, la caccia, la pesca, le corse di cavalli, i trattenimenti musicali, i giuochi e ogni genere di pubblici esercizi, passatempi o rappresentazioni, sono proibiti nel primo giorno della settimana, come pure è proibito qualunque rumore che disturbi la quiete di tal giorno.
La violazione di questa legge sarà punita col carcere, da uno a cinque giorni, e con la multa, da uno a dieci dollari. Le merci esposte in vendita verranno sequestrate a beneficio dei poveri. Chi contravvenisse alla proibizione delle rappresentazioni teatrali et similia pagherà cinquecento dollari di multa e perderà la licenza.—
Gli articoli di questo codice erano a poco a poco caduti in disuso: si osservava solo apparentemente quello che impone la chiusura delle birrerie durante la domenica; anche tale disposizione si violava continuamente dai birrai, dagli osti e dai liquoristi, tenendo chiusa la porta davanti delle botteghe e socchiusa quella di dietro, d'accordo coi policemen.
Ma, verso la fine del 1882, vi fu un risveglio di puritanismo, e col I° dicembre di quell'anno il codice penale di New-York venne rimesso in vigore in tutta la sua forza. Ciò significava che, alla festa, non si poteva comperar un sigaro, nè un caffè; che tutte le botteghe dovevano esser chiuse; che qualunque lavoro era proibito; che per le strade non si vedevano nè vetture, nè omnibus, nè carri dei tramways, nè vagoni dell' Elevated.
Non dimenticherò mai la prima domenica che passai sotto la restaurazione di quel codice.
Uscito di casa alle otto di mattina, secondo il solito, cercai coll'occhio, nelle vie deserte, un lustrascarpe. Vana ricerca. Gli innumerevoli italiani, negri e americani che hanno il loro deschetto e la sedia in quasi tutte le cantonate, erano irreperibili. Anche il lustrare le scarpe è un'opera servile, proibita dalla legge.
Soltanto dopo una mezz'ora all'angolo della 22^a strada e dell'ottava Avenue, scoprii, sulla soglia di una porta, un povero ragazzo irlandese col viso paonazzo, che, in attitudine sospetta, celava sotto la giacca la sua scatola di lustrascarpe.
Mi accostai a quel povero ribelle e gli chiesi se aveva il coraggio di violare la legge.
Egli si guardò intorno e non vedendo alcun policeman, s'inginocchiò mormorando:
— Hurry up, boss! (Facciamo presto, principale!).
—Che cosa pensi della nuova Sunday law? (legge della domenica)—gli domandai.
—Penso—rispose—che io sono un povero orfano e che devo mangiare anche alla domenica.
Uno stivale era già lucidato alla bell'e meglio e il ragazzo s'accingeva a lustrare anche il secondo, quando comparve improvvisamente sulla cantonata un policeman, col suo bravo club (bastone corto) in mano.
Io non potei trattenere una risata, ma il policeman si accostò con aria minacciosa e disse al ragazzo spaventato:
— Boy, tu vuoi proprio che t'arresti? È la seconda volta che stamane ti colgo in contravvenzione. A casa subito: se ti vedo ancora, ti conduco alla Station House.
—Lascerete almeno che finisca le mie scarpe!—osservai io.
—No—interruppe severamente l'ufficiale di polizia.—Ringraziatemi se vi lascio andare per la vostra strada; osservate la legge!
Con uno stivale lucido e l'altro no, andai verso la bottega del mio barbiere: era chiusa e sulla porta stava scritto tanto di closed. Mi avvicinai alle porte di parecchie altre; tutte chiuse egualmente. Mi rassegnavo a passar la festa con la barba da fare, quando bussando per l'ultima volta all'uscio della bottega di un barbiere tedesco vidi un occhio al buco di una tendina abbassata. Quando quell'occhio si convinse che non ero nè un policeman, nè un detective, una voce mormorò:
—Entrate per la porticina laterale.
Tre barbieri, alla luce del gas, stavano radendo tre persone, cogli usci chiusi a chiave, silenziosamente. Parevano malfattori in atto di commettere qualche brutto delitto. Di lì a qualche minuto un policeman bussò, ma nessuno gli rispose. Soltanto il padrone bestemmiava fra i denti e diceva:
—Ho cinque figli da mantenere, io. Senza il guadagno della domenica mattina, potrei chiudere durante il resto della settimana.
Quella mattina un cittadino veniva arrestato ai Five Points mentre si faceva radere e condotto in prigione con mezza barba fatta e l'altra guancia insaponata, insieme col barbiere.
Il direttore della sala dei concerti «Koster and Bial's» che volle provare a dare una rappresentazione con un programma sul quale era scritto:—A beneficio dell'Ospedale tedesco—dovette prestare una cauzione di cinquecento dollari per non essere arrestato, e lo spettacolo venne interrotto. Lo stesso accadde all'Alcazar.
Prima di mezzogiorno una cinquantina di persone si trovavano alla Corte di Polizia, accusate di violazione della legge domenicale. Nel sedicesimo distretto erano stati arrestati due lustrascarpe negri. Quattro barbieri sorpresi mentre lavoravano segretamente e condotti subito davanti al giudice, ebbero un bel dire che se non sgobbavano alla festa perdevano la maggior parte dei loro guadagni, e invano protestarono ricordando che perfino ai tempi della Santa Inquisizione fu fatta un'eccezione pel lavoro dei barbieri: dovettero pagare quattro dollari di multa per ciascheduno.
Un episodio buffo. A mezzogiorno un tedesco usciva con un canestro coperto sotto il braccio dalla porta laterale di una birraria di Houston Street. Essendo proibito di comperare alla domenica qualunque cosa, anche il pane, un policeman lo fermò e gli chiese:
—Che cosa avete in quella cesta?
Il tedesco, che aveva un boccale di birra, rispose prontamente:
—Un gatto arrabbiato che vado ad annegare nel fiume. È anche questo un lavoro proibito dal codice?
Alla domenica successiva si rinnovarono le medesime scene. Non solo i saloons grandi e piccoli, ma anche i principali alberghi della metropoli vennero attentamente sorvegliati e alcuni di essi, come l' Astor House, sospesero totalmente la vendita delle bevande spiritose, rifiutandone perfino alle persone alloggiate nella casa.
Nei vari quartieri della città si eseguirono più di cento arresti, per lo più di uomini e di ragazzi colti mentre uscivano dalle porte di servizio dei Lager Beer Saloons con qualche pinta di birra. Quelli fra i contravventori che vennero arrestati al mattino poterono prestare una cauzione e tornare a casa nello stesso giorno; ma coloro che si lasciarono prendere ad ora tarda dovettero passare la notte nelle Station Houses in attesa che la Corte di polizia si riunisse il giorno appresso.
La terza domenica si ebbe un omicidio. Il policeman John W. Smith era stato mandato in giro, vestito in borghese, alla scoperta di qualche violatore della legge domenicale. Per la solita porticina laterale egli entrò nella birraria di un certo Patrick Reagan in Madison Street e, senza farsi conoscere, domandò un bicchiere di salsapariglia che gli fu servito dal padrone stesso.
Poco dopo entrarono tre avventori i quali chiesero tre schooners (grandi bicchieri di birra). Mentre il Reagan spillava il liquido da un barile, il policeman travestito si bagnò un dito sotto il rubinetto del barile stesso, e, portatolo alla bocca e assicuratosi che la bevanda versata era realmente birra, dichiarò senz'altro il birraio in arresto. In prova della sua autorità gettò sul banco la placca metallica che è il distintivo degli addetti alla polizia.
Il Reagan prese la placca e gliela scagliò sulla testa, dicendo che non si curava di tutte le spie della città: quindi, levando di sotto al banco una vecchia sciabola (il birraio apparteneva ad una di quelle associazioni militari che costituiscono la guardia nazionale), si avventò contro il policeman. Questi lo prese di mira col revolver, fece fuoco e lo ferì mortalmente al petto. Il Reagan spirò poco dopo, mentre gli venivano amministrati gli ultimi sacramenti.
Questo omicidio, accaduto per causa di una legge la cui applicazione richiedeva un odioso spionaggio, provocò un grido di protesta da parte del pubblico, e i giornali si misero alla testa dell'agitazione.
—Invece della statua di Bartholdi da erigersi nella baia—diceva il Puck —invece della Libertà che illumina il mondo, gli americani dovrebbero eternare la memoria del codice penale di New-York col seguente monumento.
E disegnava il progetto di una statua della libertà incatenata, che sorgeva in mezzo a una strada, la quale, essendo domenica, era tutta deserta: soltanto davanti a ogni albergo, teatro, bottega di qualsiasi genere, stava ritto, col bastone in mano, un policeman. Sotto il disegno si leggevano queste parole:—La metropoli nazionale nell'anno 107° della indipendenza americana.—
Vennero poi i meetings e si formarono delle associazioni, le quali si proponevano di ottenere la abrogazione di tutti quegli articoli del codice che, col pretesto del rispetto della domenica, violano la libertà del commercio e sono una vera rovina.
La questione fu portata alla Camera dei rappresentanti di Albany—la capitale dello Stato di New-York—e suscitò una vivace discussione, specialmente a proposito dell'articolo che proibisce le corse dei cavalli e gli esercizi ginnastici. Il signor Murphy suscitò una grande ilarità chiedendo che fosse eccettuata dalla proscrizione domenicale almeno la pesca alla canna. Ma tutto fu inutile: la maggior parte degli oratori fecero dei discorsi da predicatori, sulla utilità morale e igienica dell'assoluto riposo festivo, ed espressero una profonda indignazione contro qualunque tentativo di europeizzare la domenica nord-americana.
Così il codice dello Stato di New-York rimase invariato: si tollera solo che, alla domenica, i cittadini si facciano lustrare le scarpe e radere la barba. Le porte principali delle birrarie e delle botteghe di liquori sono chiuse, ma si può entrare per la porticina di dietro. Ipocrisie grottesche.
Quello che vidi a New-York in fatto di leggi domenicali è un nulla in confronto di ciò che osservai a New-Haven nel Connecticut.
* * *
Quello Stato, come la Nuova Inghilterra, è già famoso da un pezzo per le sue blue laws votate al principio del secolo. Eccone una pagina:
—Nessuno potrà dare il suo voto se non è iscritto in una chiesa di questo dominio.
Nessuno camminerà in giorno festivo o passeggerà nel suo giardino o altrove, eccetto che, con compunzione, dalla sua casa alla chiesa e viceversa.
Nessuno viaggerà, cuocerà cibi, rifarà letti, spazzerà case, si taglierà i capelli o si farà la barba in giorno festivo.
Nessuna donna bacerà i suoi figliuoli nei giorni consacrati dalla Chiesa a pregare il Signore.—
Se i baci erano proibiti alle madri, figurarsi ai giovani! Sentite un po' quello che toccò a Sara Tuttle e a Jacob Newton per aver osato di trasgredire al codice blue.
Sara era una buona ragazza, nella primavera della vita, che aveva una gran voglia di prendere marito ed era innamorata di Jacob, un povero e bravo giovinetto del vicinato. Ella avrebbe voluto fare all'amore con lui, ma il pudore le impediva di essere la prima a parlare, e, da parte sua, il giovinotto non ardiva di farsi avanti perchè Sara era troppo ricca per lui. Ma in questi casi, ove manca il coraggio dell'uomo, supplisce l'astuzia della donna.
Una domenica mattina Sara incontrò Jacob per la strada, e, per trovar modo d'attaccar discorso, lasciò cadere i guanti fingendo di non avvedersene. Jacob li raccolse e disse sorridendo a Sara:
—Se li volete, desidero una ricompensa.
—Ma io non ho denaro con me—rispose la biricchina.—Che cosa posso fare per voi?
Jacob mise insieme tutto il suo coraggio e disse:
—Vorrei un bacio!
Sara non se lo fece dire due volte e lo baciò. Una pinzochera ingiallita e invecchiata nel desiderio di baci che non aveva mai ottenuti, osservò e denunziò il fatto. E i due colpevoli furono citati davanti al competente magistrato, il quale li condannò a pagare la multa di cinquanta scellini per ciascheduno.
Ma torniamo alla capitale del Connecticut. Una domenica di novembre del 1883 mi recai a New-Haven a trovare un amico. Da New-York si va a New-Haven in un paio d'ore, attraversando, fra gli altri paesi, Bridgeport, la patria di Barnum, dove il famoso showman teneva i suoi quartieri d'inverno pieni di cavalli e di bestie feroci. Da quelle stalle, per far parlare di sè, di tanto in tanto Barnum lasciava scappare qualche elefante che scorrazzava per i campi circostanti e rovesciava parecchie siepi, affinchè non languisse la cronaca dei giornali locali.
New-Haven conta più di sessanta mila abitanti, ma è tranquilla come un villaggio; ha strade belle e larghe, fiancheggiate da filari d'alberi, e le sue case sono quasi tutte di legno, piccole, eleganti e simpatiche come tante palazzine di villeggiatura. È rinomata pel collegio Yale, per le sue fabbriche di carrozze e per la severità con cui si osserva il riposo della domenica.
Yale Colege —uno dei più rinomati e importanti degli Stati Uniti—è un complesso di edifizi che non hanno nulla di grandioso. A vederli così semplici non si direbbe che in essi studiano e alloggiano circa 1300 giovani provenienti da tutti gli Stati dell'Unione, insieme con un centinaio di professori, fra cui alcuni di gran fama, come O. C. Marsh, direttore dell'istituto; Dana, un dotto geologo; e Whitney, profondo in filologia e lingua sanscrita. Del corpo insegnante faceva parte anche un italiano, il professore C. L. Speranza. Un uso notevole fra gli studenti più intelligenti è quello di unirsi in una associazione segreta i cui membri si promettono di conservarsi amici anche dopo finiti gli studi e di aiutarsi sempre a vicenda nel corso della vita: una specie di ciò che dovrebbe essere la massoneria.
La colonia italiana di New-Haven conta circa un migliaio e mezzo di pacifici e laboriosi operai, i quali non fanno mai parlar di loro per risse e coltellate, e che anzi sono assai ben visti dalla popolazione. Quasi tutti lavorano nelle numerose fabbriche di carrozze e di oggetti di gomma. Per provare il buon conto in cui li tiene, il Municipio aprì per essi una scuola nella quale si danno lezioni gratuite serali d'inglese.
Straordinario è il numero di chiese d'ogni culto. Nel solo centro della città ne sorgono cinque, a pochi passi l'una dall'altra. Mentre le esaminavo, vidi spuntare da una strada un distaccamento della Salvation Army (Esercito della Salute), con pifferi e tamburo alla testa: alcune donne leggevano ad alta voce, camminando, non so quali salmi o canzoni. Sembrava una mascherata carnevalesca. Soltanto, invece dell'allegria, quei disgraziati apostoli avevano i segni del cretinismo sulle loro faccie angolose.
Uno dei punti più belli di New-Haven è dove la città finisce sulla riva del Sound. A levante sorgono alcune collinette e a ponente si stendono fino a perdita d'occhio le acque calme del fiume, popolate di barche e di qualche schooner. Quella vista deve essere molto pittoresca nella bella stagione, quando gli alberi sono verdi, quando il fondo scuro del paesaggio fa risaltare lo specchio limpido del Sound e il bianco delle case lontane.
Mentre io e l'amico tornavamo in città, facemmo quella domenica uno strano incontro. Ventun persone, fra uomini e donne, elegantemente vestiti, venivano condotti a New-Haven prigionieri, scortati da alcuni policemen. Gli arrestati appartenevano alla miglior società ed ecco di che cosa si erano resi colpevoli.
Ignorando che le autorità avevano deciso di rimettere in vigore le puritane blue laws, quei signori erano usciti a passeggiare in carrozza come il solito di tutte le feste. Giunti a un certo punto vennero arrestati come contravventori alla legge sulla domenica, rinchiusi in una masseria come un branco di montoni, e condotti quindi tutti insieme a New-Haven. Tradotti davanti al giudice, alcuni furono rilasciati pagando una cauzione di venticinque dollari, altri trattenuti in prigione.
Quella inattesa risurrezione di leggi cadute in disuso era dovuta all'iniziativa del gran constabile Thompson, il quale agiva dietro richiesta degli abitanti della borgata di Foxon. Costoro si lagnavano che «quelli di New-Haven violavano costantemente la domenica passando in vettura a Foxon, con grande noia e scandalo dei buoni cittadini.»
È comico il modo usato dal Thompson per fermare quelli che passavano in carrozza, i quali, se avessero dubitato del minimo pericolo, avrebbero potuto sfuggire facilmente alla cattura frustando i cavalli. Il signor Thompson aveva imboscato i suoi uomini in un punto in cui la strada era tutta coperta dalle noci che il vento aveva fatto cadere dalle piante circostanti. Come il malizioso constabile aveva preveduto, tutti quelli che arrivarono in carrozza a quel punto, vedendo le belle noci, scesero per riempirsene le saccoccie. In quella sbucarono i policemen e li dichiararono in arresto.
V.
In ferrovia aerea.
Quella mattina che si era stabilita, insieme con la signorina Mary e con suo fratello Giorgio feci la gita di nove miglia dalla Battery fino alla 155^a strada sul ramo ovest dell' Elevated Railroad, la ferrovia aerea che attraversa New-York in tutta la sua lunghezza.
Partendo dalla stazione che sorge in fondo al Battery Park, si gode una magnifica vista della baia newyorkese, meno incantevole del Corno d'oro di Costantinopoli, ma bella quanto quella di Napoli, di Rio Janeiro e di San Francisco e importante per movimento di navi quanto queste tre ultime riunite insieme. All'ingresso del porto si costruivano le fondamenta per la statua colossale della Libertà col faro in mano.
I miei due amici mi mostrarono il balcone dal quale Giorgio Washington pronunziò il giuramento come primo presidente degli Stati Uniti. Dove sventolò per la prima volta la bandiera americana, vi sono oggi le insegne di due mercanti di grano; nulla che ricordi il patriottico avvenimento.
Girando verso Greenwich Street, si oltrepassa Castle Garden, la stazione d'arrivo degli emigranti, che una volta era un forte che difendeva sull'Hudson la punta dell'isola di Manhattan, e che poi fu un teatro d'opera dove la Jenny Lind, col famoso Barnun per impresario, andava a cantare passando sotto un arco trionfale degno di una regina. Si fiancheggia Broadway, oggi tutta palazzi e magazzini, e pochi anni fa l'unica strada carrozzabile che conduceva a Boston e sulla quale crescevano l'erba e i fiori di prato; e si giunge alla ricca Trinity Church.
S'intravvedono la chiesa di San Paolo, già frequentata da Washington, e i tetti del palazzo del New York Herald fabbricato nel luogo dove per tanti anni Barnum tenne un museo di curiosità e di fenomeni; poi gli edifizi della Posta e dei grandi uffici di giornali della Printing House Square (piazza della Stampa).
Si costeggiano fabbriche, negozi, magazzini a migliaia e quartieri uno diverso dall'altro; Union Square, con la bella statua di Lafayette, con quella di Lincoln bruttissima e con un discreto monumento a Washington; la 23^a strada col massiccio Tempio Massonico e col non meno solido teatro Booth, palazzone di marmo che costò un milione di dollari e che allora si stava demolendo per dar luogo a nuovi magazzini.
Verso Madison Square sorge il palazzo dove pochi anni fa venne assassinato il vecchio banchiere Nathan. Fu un orribile delitto che rimase avvolto nel più profondo mistero. Una mattina di luglio un figlio del defunto, senza scarpe e con le calze macchiate del sangue del padre, apriva la porta di quel palazzo gridando al soccorso. Il banchiere era stato trovato morto nella sua stanza, con la testa schiacciata. Vicino al cadavere giaceva una grossa mazza di ferro che l'assassino aveva preso nella stalla dietro la casa. Fra l'ucciso e l'uccisore doveva esservi stata una lotta tremenda, perchè il pavimento e i muri erano tutti insanguinati; persino lungo le scale c'erano delle chiazze rosse.
E non si seppe mai nulla. Quella notte dormivano nel palazzo due figli del banchiere, uno al quarto, l'altro al terzo piano. Al secondo trovavasi il padre e al primo stava una vecchia portinaia. Tutti dichiararono di non aver udito alcun rumore. Solo un medico dimorante nella casa accanto depose di aver sentito del baccano nella stalla. I più abili detectives non riuscirono a scoprire la minima traccia degli assassini.
Ma il treno procede rapido e senza rumore: le case si succedono alle case, le strade alle strade. A poco a poco i fabbricati diventano più rari; però le aree sono carissime egualmente. La grande massa scura che si stende a destra è il Central Park.
Ci troviamo nella vasta zona, fra il parco e il fiume Hudson, fra la 62^a e la 110^a strada.
—Facciamo un conticino—disse Giorgio.—Questi 192 blocks di 64 lotti di terreno cadauno formano 12288 lotti, i quali, al valore medio di seimila dollari per ciascuno, rappresentano la somma di quasi 74 milioni di dollari. Più avanti, dalla 110^a alla 155^a strada, dalla quinta Avenue al fiume, vi sono 45 strade e 315 blocks: un capitale di più di 141 milioni di dollari. E al disopra della 155^a strada si trovano altri 414 blocks stimati 13 milioni e mezzo di dollari. Giacciono qua, dunque, più di 228 milioni di dollari di capitali morti: terreno sassoso e desolato che gli speculatori vendono, man mano che la popolazione aumenta, ai ricchi, i quali vi costruiscono i loro palazzi.
—E intanto—osservavo io—mentre qui c'è tanta aria pura e tanto spazio libero, nella città bassa migliaia e migliaia di famiglie languono negli oscuri e malsani tenement houses.
Appunto la settimana prima l'Assemblyman Oakley aveva fatto un rapporto alla Commissione sanitaria di New-York intorno a certe case di Mulberry Street occupate da un numero di italiani molto superiore a quello che possono contenere. La relazione concludeva così:—In molti appartamenti delle case summenzionate gli abitanti vennero trovati che dormivano sul pavimento, a mucchi, senza letti.—
La zona di terreno di cui mi parlava Giorgio è tutta dentro nell'isola su cui sorge New-York; ve n'ha un'estensione altrettanto vasta al di là di Harlem e l'enorme capitale infruttifero raddoppia di valore ogni dieci anni.
In pochi lustri tutta quella terra sarà coperta di case: quell'anno stesso le fabbriche sorgevano come funghi. Da Battery ad Harlem l'isola di Manhattan sarà zeppa di edifizi, intersecata da nuove ferrovie, e non basterà a contenere la massa della popolazione che aumenta di giorno in giorno.
Quando si è giunti al cimitero della Trinità si sono percorse le nove miglia della ferrovia alta. A pochi passi scorrono le acque tranquille dell'Hudson: quale contrasto fra la calma che regna lassù e il baccano della metropoli che si stende abbasso!
Scendemmo dalla stazione: facendo una passeggiata in quei recessi silenziosi, Giorgio descriveva lo sviluppo meraviglioso di New-York in questo secolo. Ottant'anni fa la città non contava settantamila abitanti; oggi ne ha più di un milione e mezzo nei soli limiti del Municipio; coi sobborghi e con le città che le fanno corona e dalle quali non è separata che da pochi minuti di Steam-boats, è più popolata della stessa Londra.
E pensare che solo al principio del secolo venivano selciate Broadway, Duane e Reade Streets e che si doveva scavare un fosso lungo il percorso attuale di Canal Street per raccogliere gli scoli dei prati di Lispenard!
Facendo la nostra gita passammo davanti ad una trattoria dove un certo W. S. Walcott di Harlem aveva scommesso di mangiare ogni giorno per un mese un paio di quaglie arrosto.
Simili scommesse sono comuni negli Stati-Uniti e vengono spesso organizzate da proprietari di alberghi e di restaurants per chiamar gente: poi servono a un certo pubblico per scommettere pro o contro come alle corse dei cavalli.
I mangiatori straordinari, possessori di stomachi da struzzo, diventano celebri nell'America del Nord e fanno parlar molto di sè quando si misurano con avversari della medesima forza.
Uno dei più conosciuti era un certo Peter Ellison di Albany, un robustissimo vecchio che, per una scommessa, il giorno in cui compiva sessant'anni, mangiò, in un solo pasto e nel tempo che si impiega usualmente per pranzare, un tacchino ripieno che pesava quasi ventidue libbre inglesi.
Qualche tempo prima, uno sportsman offrì di scommettere contro il senatore John Morrissey, gran mangiatore anche lui, che avrebbe trovato un uomo capace di mangiare un tacchino di ventitrè libbre in un pasto solo. Prima di accettare la scommessa, Morrissey volle sapere il nome del mangiatore e quando intese che era Ellison:—Lo conosco—rispose, e non volle scommettere.
In quell'epoca una gran gara aveva avuto luogo fra Ellison e un altro potente divoratore all'albergo Snedicker nel Long Island. Si trattava di mangiare polli giovani cotti alla graticola. Ogni pollo veniva spaccato a mezzo con grande precisione e l'albergatore ne dava, di mano in mano, una metà ad ognuno dei due scommettitori. Ellison ne mangiò trentadue metà, cioè sedici pollastri, e vinse.
Qualche volta le scommesse hanno luogo fra donne. Due negre si sfidarono un giorno a chi mangiava la maggior quantità di granturco verde bollito. Una ne mangiò ventisei pannocchie e l'altra ventinove. Quest'ultima non soffrì minimamente; ma la prima morì in trentasei ore.
—Se continua questa volgare e antigienica mania—disse Giorgio—ne sentiremo presto delle belle. Leggeremo nei giornali: «il celebre dinamitardo O'Donovan Rossa ha depositato cinquanta cents nell'ufficio del Clipper con una sfida, aperta a tutti, di misurarsi con lui nella sua grande specialità di mangiare mille pagnottelle in mille quarti d'ora consecutivi.»
—Oppure—disse la signorina Mary che si divertiva a quei discorsi—il seguente: «Un gentleman dimorante a Brooklyn ha vinto ieri una forte scommessa mangiando tre solini di carta al giorno per cento e sette giorni consecutivi. L'unica bevanda accordatagli dai termini della scommessa per inaffiare il suo pasto piuttosto asciutto era amido diluito in poca acqua.»
—Uno sconosciuto—riprese Giorgio—scommette di mangiare un paio di tavolette di lievito compresso, bevendo acqua tepida, per trenta giorni consecutivi. Accetta di sottomettersi alla prova accanto ad una stufa ben riscaldata.
—Un tristissimo caso d'insuccesso—seguitò Mary.—Il signor Smith, avventore della pensione di Mrs. Lodyett, ha scommesso recentemente di mangiare in una settimana una delle bistecche che fornisce quella pensione. Il tentativo è fallito completamente, quantunque il signor Smith abbia impiegato della dinamite e una leva di ferro.
VI.
La città della luce.
Alla domenica mattina non c'è famiglia americana che non si rechi a messa se è cattolica o al sermone se è protestante. Le chiese di tutte le varietà del protestantismo, che è la religione dominante, sono numerose, e alcune di esse si fanno la concorrenza come i teatri, scritturando i migliori oratori.
I pochi che non professano alcun culto sono ascritti a qualche associazione filantropica e si raccolgono egualmente per curare qualche opera di beneficenza: scuole, ricoveri e via dicendo.
La signorina Mary apparteneva alla Ethical Culture Society, di cui è presidente il prof. Felice Adler, uno dei più profondi pensatori degli Stati Uniti, il quale tutti gli inverni tiene a New-York un pubblico corso di conferenze sul libero pensiero.
Figlio di un celebre e ricco rabbino newyorkese, dopo avere molto studiato e viaggiato, Adler divenne ateo, abbandonò la religione dei suoi avi, rinunziò alla successione paterna e fondò un'associazione che cresce tutti i giorni, per diffondere le sue idee, per spiegare, cioè, come si possa essere buoni cittadini senza credere in un dio personale, come si debba lavorare ed essere onesti per l'obbligo che incombe a ciascheduno di adempiere ai propri doveri nella società, e per l'onestà per sè stessa, non per timore di essere puniti in un'altra vita o per guadagnarsi gli ozi beati di un paradiso.
Bob Ingersoll (altro campione del libero pensiero negli Stati Uniti) combatte la religione col motteggio e con la satira, analizzando tutti gli errori e le contraddizioni delle cosidette sacre scritture; egli riscatta gl'ingenui dalla schiavitù della fede con la sferza del ridicolo.
Adler, invece, serio, semplice, sereno e più profondo, converte al libero pensiero senza far ridere; egli fa anzi fremere d'ira e di compassione per tutti i miliardi d'uomini che furono e per i milioni di viventi che calcolano la vita come un semplice viaggio, fanno del bene per egoismo, per interesse, per amore della futura ricompensa, e si astengono dal male per paura della collera divina.
Bob Ingersoll qualche volta è volgare; i suoi giuochi di parole, i suoi scherzi su certi versetti della Bibbia non sono di buon gusto.
Felix Adler, al contrario, è spesso poeta: quando dimostra come sono egoisti i credenti e chiede se è più nobile, più generoso, l'uomo ateo intemerato e buono, o il credente pure buono e senza macchia, ma guidato nelle proprie azioni dal sentimento religioso, la sua fronte s'illumina, la sua parola è ispirata.
E convince e persuade più di Ingersoll: la serietà di Adler fa più impressione del sorriso volterriano dell'avvocato delle Star Routes.
Una domenica in cui accompagnavo la signorina Mary alla conferenza, il professor Adler si occupava di un fatto avvenuto nella Pensilvania. In un tribunale di Filadelfia, un onesto cittadino era stato citato, giorni prima, come testimonio, in una causa. Invitato a prestare il giuramento prescritto dalla legge, rispose:
—Giuro sul mio onore, sulla mia coscienza, ma non in nome di un dio personale nel quale io non credo.
Il tribunale rifiutò la testimonianza del libero pensatore e lo fece uscire dalla sala.
—Capite?—esclamò Adler indignato.—Le leggi americane non accettano la testimonianza nostra, se non pronunciamo una formula medioevale. La maggioranza dei cittadini che crede a un dio foggiato a sua imagine, rifiuta il giuramento di noi liberi pensatori, i quali riconosciamo un ordine supremo, ma non la deità personificata.
La sala del Chickering-Hall era piena zeppa di un pubblico scelto e attentissimo.
—E poi si ha il coraggio di affermare—continuò l'oratore—che negli Stati Uniti tutte le credenze e tutte le religioni sono eguali davanti alla legge? No, no, no! Questa vantata eguaglianza non è estesa che alle religioni cristiane: il presbiteriano è eguale al cattolico, l'anabattista all'episcopale. Ma un ebreo, un libero pensatore, un maomettano non è riconosciuto eguale al cristiano. Che vergogna per la giurisprudenza americana! Che onta per un governo sedicente civile! Quando si comprenderà che un governo non deve immischiarsi delle coscienze dei cittadini, che deve essere al di sopra di tutte le religioni, di tutte le credenze religiose e irreligiose? Non vedete che oggi, in pieno secolo decimonono, ciascuna religione è intollerante, esclusivista, e distruggerebbe tutte le altre, se lo potesse? Non vedete che si sgozzano, si massacrano ancora gli ebrei e si costringono a esiliare, a fuggire dai luoghi nativi, ad abbandonare i loro beni, i loro negozi?
E combattè fieramente il pregiudizio da cui sono ispirate tante leggi, che cioè la moralità dipenda dal cristianesimo.
—Noi non avremo—disse—una libera costituzione finchè si manterranno nelle nostre leggi elementi di inquisizione.
Infatti, l'intollerante spirito del prete traspira sempre dalle costituzioni americane.
In sei Stati dell'Unione tutti coloro che non credono nell'esistenza di un dio personificato sono dichiarati ineleggibili a qualsiasi impiego e vengono così privati di uno dei diritti essenziali del cittadino.
La costituzione della Carolina del Nord dice:—Le seguenti classi di persone sono dichiarate inabili a qualunque impiego: Primo, tutti coloro che negano l'esistenza di Dio onnipotente….—
La costituzione della Carolina del Sud dice:—Nessuna persona che nega l'esistenza dell'Essere Supremo potrà avere un pubblico impiego sotto questi statuti.—
Le costituzioni del Mississipì e del Maryland contengono gli stessi articoli. Gli statuti di Pensilvania e del Tennessee non si contentano della semplice credenza in un dio personificato, ma richiedono anche che si creda in una ricompensa o in un castigo oltre tomba. Tutti coloro che professano opinioni differenti sono legalmente incapaci di coprire qualsiasi impiego.
Non basta: senza una dichiarazione di fede in un divino capo di polizia che ricompensa i buoni e punisce i malvagi in questa o nell'altra vita, la deposizione di un testimonio non può ritenersi come attendibile.
Solo una metà degli Stati—e New-York è nel numero—ha adottato nella costituzione la clausola di escludere l'incompetenza per mancanza di credenza religiosa. È permesso tuttavia di far sorgere la questione del credo di un testimonio, allo scopo di pregiudicarne la deposizione.
Chiunque sia membro di associazioni di liberi pensatori o abbia semplicemente espresso opinioni avanzate in fatto di religione, può trovarsi ogni giorno esposto alla mortificazione di sentire queste opinioni citate in una corte di giustizia, col solo scopo di denigrare il suo carattere e d'invalidare la sua testimonianza di fronte a un giurì che spesso è composto di ignoranti.
—Nell'udire queste cose—diceva Adler—il nostro primo impulso è di domandare se, nelle leggi di una repubblica della quale Thomas Paine fu uno dei fondatori e la cui dichiarazione d'indipendenza fu firmata da Thomas Jefferson, può essere possibile una tale flagrante violazione dei principi di eguaglianza e di libertà religiosa.
L'unica scusa per gli americani è che tali leggi non sono state fatte da loro, ma conservate dai loro avi quali esistevano quando le Colonie si separarono dall'Inghilterra e quando il cristianesimo era inteso come facente parte del diritto comune.—Il cristianesimo—diceva lord Hale—è una parte della legge d'Inghilterra, e il parlar contro la religione cristiana è un discorrere sovversivo alla legge.—
—E così—esclamava Adler—questo è rimasto un paese puramente cristiano, e noi non siamo che poveri intrusi a cui la cittadinanza è accordata per un favore, non per un diritto.
Stefano Girard aveva espressamente stabilito nel suo testamento che nessun prete, ministro o missionario di qualsiasi setta fosse ammesso ad un impiego qualunque nella famosa istituzione da lui fondata, e che a tali persone non venisse accordato l'ingresso nella casa neppure come semplici spettatori. Egli voleva che gli alunni fossero allevati unicamente coi principi della moralità e dell'onestà e che solo fattisi adulti scegliessero il culto religioso che più loro conveniva.
Ebbene, Daniele Webster, il grande, il celebrato oratore, nell'impugnare il testamento, giunse perfino a dire che la carità di Girard, tendente a diminuire il rispetto dell'umanità verso il cristianesimo, non era affatto carità.
Un altro bel discorso che sentii da Adler era contro la preghiera. Dopo averne analizzato diligentemente le forme diverse, egli diceva:
—Vi sono molte forme di preghiera, ma in generale la preghiera è una petizione con cui il credente chiede qualche cosa al suo dio. La stessa parola preghiera in tutte le lingue significa chiedere umilmente qualche cosa, supplicare, mendicare. Come! L'uomo sano, intelligente, che col proprio lavoro mantiene sè e la famiglia e si rende utile alla società, è obbligato a inginocchiarsi davanti al dio per chiedergli egoisticamente un aumento di guadagno, una stagione propizia e via dicendo? E a questo dio onnisciente, che tutto vede e di tutto è informato, il fedele deve specificare la domanda, fare una lunga e minuziosa storia dei propri bisogni? E perchè? Perchè, vi rispondono, l'uomo non è che una creatura, venuta alla luce del sole a propria insaputa e senza averlo chiesto, ma che deve essere riconoscente al Creatore d'averla messa al mondo, anche quando è miserabile, storpia, stupida, piena di difetti fisici e morali. Per il credente non vi deve essere carattere, dignità personale, fiducia nelle proprie forze: no, tutto dipende dal capriccio di quel padrone che gli ha fatto il regalo dell'esistenza.—
Adler ha espresso la sua fede nel progresso e nel miglioramento della razza umana in una poesia intitolata: La città della luce (The city of light), che anche nel testo inglese, sebbene i versi siano belli e semplicissimi, ha una nebulosità che risalta maggiormente nella prosa povera e nuda della traduzione. Ma l'autore ha usato forse a bella posta il linguaggio mistico e figurato che meglio colpisce la mente delle masse.
Ecco la traduzione letterale:
«Udiste mai parlare della città d'oro menzionata nelle antiche leggende? Eterna luce risplende sopra di essa e si narrano di essa storie meravigliose.
«Solo uomini e donne giusti abitano entro le sue mura lucenti: il male è bandito da' suoi confini; la giustizia vi regna suprema su di tutti.
«Se voi domandate dov'è questa città in cui regna la perfetta giustizia, io devo rispondervi che cercate invano dov'essa sorge.
«Potete vagare per monti e per valli, attraversare il mare e la terra, cercar per tutto il vasto mondo; è quella una città che ha ancora da nascere.
«Noi siamo i costruttori di questa città; tutte le nostre gioie e tutti i nostri dolori contribuiscono ad innalzare le sue mura risplendenti: tutte le nostre vite sono le pietre che la compongono.
«I più non possono fare che gli umili servizi, spaccar rozze pietre e scavare il suolo; mentre pochi solamente raccolgono gloria e onore dal loro lavoro.
«Mentre pochi possono edificare gli archi, le graziose e artistiche colonne e realizzare un pensiero grande e una ideale bellezza in quel luogo.
«Ma umili o superiori, tutti sono chiamati a un còmpito grandioso, tutti aiutano a condurre a termine un sublime disegno.
«Quale sia questo piano noi non lo sappiamo; noi non sappiamo quanto sia alto il seggio della giustizia, come codesta città delle nostre visioni apparirà all'occhio umano.
«Nessuna mente può figurarsi ciò, nessuna lingua può dirlo; noi possiamo soltanto intuire le glorie della città del futuro.
«Solo per essa noi dobbiamo sempre lavorare, per essa sopportare pene e dolori, in essa trovare il fine dell'esistenza nostra.
«Pochi e brevi anni noi lavoriamo; presto finiscono i nostri giorni, altri lavoratori ci sostituiscono e il nostro posto non si riconosce più.
«Ma l'opera che noi abbiamo edificata, spesso con mani insanguinate, con lagrime, con confusione e angoscia, non perirà col termine de' nostri anni.
«Essa sarà, alla fine, resa perfetta; essa coronerà gli sforzi delle legioni d'uomini lavoratori.
«Essa sarà compiuta e brillerà trasformata nel regno finale della giustizia; essa emergerà fra lo splendore della Città della Luce.»
Dopo quella fondata da Adler, la più importante società nord-americana di liberi pensatori è la Freethinkers' Association (Associazione dei liberi pensatori). Eccone la platform:
«Noi domandiamo che le chiese e le altre proprietà ecclesiastiche non restino più a lungo esenti dalle tasse.
«Noi domandiamo che gli impieghi di cappellani nel Congresso, nelle legislature degli Stati, nella marina, nell'esercito, nelle prigioni, negli asili e in tutte le altre istituzioni mantenute col pubblico denaro, vengano aboliti.
«Noi domandiamo che cessi ogni stanziamento di danaro pubblico per qualsiasi istituzione di educazione e di carità di carattere religioso.
«Noi domandiamo che ogni servizio religioso ora sostenuto dal Governo venga soppresso, e specialmente che l'uso della Bibbia nelle scuole pubbliche, sia come libro di testo, sia come trattato religioso, sia proibito.
«Noi domandiamo che cessi completamente il diritto, sia nel presidente degli Stati Uniti, sia nei governatori dei differenti Stati, di fissare giorni dedicati a pubbliche feste religiose o digiuni.
«Noi domandiamo che il giuramento nei tribunali e dovunque venga abolito e che vi sia sostituita la semplice affermazione, sottoposta, in caso di riconosciuta falsità, alle stesse penalità dello spergiuro.
«Noi domandiamo che vengano abrogate tutte le leggi tendenti, direttamente o indirettamente, a imporre l'osservanza della domenica.
«Noi domandiamo che tutte le leggi che tendono a imporre la moralità cristiana siano abolite, e che esse vengano rifatte sui principi della morale naturale, dei diritti eguali e della libertà comune.
«Noi domandiamo che non venga concesso alcun vantaggio o privilegio alla religione cristiana nè ad altra qualsiasi; che il nostro intero sistema politico sia basato su di un principio puramente civile, e che qualunque modificazione alle nostre convenzioni trovata necessaria per raggiungere questo scopo venga eseguita in modo pronto ed efficace.»
La Freethinkers' Association tiene ogni anno un gran congresso in una sala, intorno alla quale si leggono le seguenti iscrizioni:
—Il Governo degli Stati Uniti non è basato sulla religione cristiana.— Giorgio Washington.
—Questo mondo è la mia patria; far bene, la mia religione.— Tommaso Paine.
—Datemi le tempeste del pensiero e dell'azione piuttosto che la morta calma dell'ignoranza e della fede.— Roberto Ingersoll.
—In ogni paese e in ogni età il prete fu ostile alla libertà.— Tommaso Jefferson.
VII.
La guerra ai mormoni.
L'intolleranza delle varie religioni cristiane si manifesta negli Stati Uniti anche nella guerra continua ai mormoni. Ogni nuovo presidente finisce generalmente il suo primo discorso col promettere che cercherà di combattere e di distruggere la poligamia nell'Utah.
Per realizzare questo progetto bisognerebbe sopprimere l'autonomia del territorio dei mormoni e sostituirvi il Governo federale. E con quale diritto può il potere esecutivo di Washington imporre le sue leggi in un paese che non è uno Stato dell'Unione?
—Per la morale—si risponde—perchè la poligamia è una barbarie, un insulto alla civiltà dei popoli vicini.
Ma bisogna ricordarsi che i mormoni non abitano con le loro famiglie nelle città americane e non vanno in giro a sfoggiare i loro harems: risiedono nel paese che essi soli hanno coltivato, popolato e reso ricco.
La pluralità dei loro matrimoni offende il popolo degli Stati Uniti? Non è vero, come non è vero che le nazioni cristiane del vecchio continente si siano mai sognate di offendersi della poligamia dei Turchi.
Un amico che tornava a New-York, dopo aver visitato il paese dei mormoni, mi confessava:
—Io ti dico in confidenza che in fondo in fondo codesti bravi mormoni sono da invidiarsi. Essi hanno realizzato un sogno classico. Quando sono ricchi, diventano nelle loro case altrettanti patriarchi, circondati da donne e da fanciulli. Li credo più franchi e onesti di noi che giuriamo fede a una donna sola e poi rompiamo il giuramento nostro, non curandoci che di salvare le apparenze. Nell'Utah c'è meno ipocrisia. Laggiù non trovi donne pubbliche nè fanciulli abbandonati, ma lavoro e armonia.
E infatti, esaminandola da un certo lato, non è antipatica questa gente che si separò volontariamente dal consorzio umano e che, guidata da un nuovo Mosè, lasciò i paesi nativi per andarsene in mezzo ai deserti a vivere indipendente, secondo i dogmi della sua religione.
Brigham Young ha detto al mondo cristiano:—Io sfido che mi si provi con la Bibbia che non ho diritto di prendere quante spose mi garbano: Salomone ha ben avuto mille mogli!—
A parte le idee bibliche che risveglia lo spettacolo della tribù dei mormoni, tranquilla e laboriosa, la quale non domanda che di essere lasciata in pace in mezzo alle sue praterie e alle sue montagne, è evidente che—ammesso pure nel Governo federale degli Stati Uniti il diritto di tentar di distruggere la poligamia nel territorio dell'Utah—non è con la violenza che si riuscirà nell'intento.
Furono appunto il martirio del profeta e le persecuzioni contro i suoi seguaci che consolidarono la Chiesa detta dei Santi. Molti ricorderanno i disordini avvenuti nel 1871, quando il generale Grant—come un dì Napoleone I con Pio VII—fece mettere in prigione il papa e gli apostoli del mormonismo, i quali non volevano saperne di abrogare l'istituzione, che è una delle pietre angolari della loro religione.
E poi i mormoni sono calunniati. Generalmente vendono creduti una razza lussuriosa, mentre invece chi li visita a casa loro dice di non aver mai veduto un popolo più serio e di costumi più semplici: i mormoni praticano la poligamia senza scandali e senza tener le donne a guisa di tante schiave, come avviene presso i musulmani.
Nessuno di essi prende due mogli se non ha i mezzi di mantenerle agiatamente (molti non ne hanno neppur una) e non avvengono mai, fra loro, divorzi. Si contano sulle dita le mogli di mormoni che abbandonano il marito e il paese. Spesso è la prima moglie che indica al consorte una brava ragazza e lo consiglia di sposarla, per essere aiutata nel disbrigo delle faccende domestiche.
La fede compie il miracolo di distruggere fra i mormoni la gelosia: le donne cresciute nell'Utah credono di piacere a Dio col vivere d'accordo fra loro e sottomesse al loro capo.
Per colpire la poligamia si approvò a Washington una legge in forza della quale tutti coloro che vivono o hanno vissuto in relazioni maritali con più di una donna perdono i diritti elettorali. Si voleva con ciò far decadere dai loro diritti i mormoni e mettere il meccanismo governativo del territorio in mano della piccola minoranza dei gentili (così i mormoni chiamano i dissidenti dell'Utah).
Per la migliore esecuzione della legge si mandarono sul luogo dei commissarii incaricati di far prestare a tutti i mormoni, prima di ammetterli a votare, il giuramento che non erano poligami. Questa misura ebbe per conseguenza di tener lontani dalle urne migliaia di cittadini, ma non si ottenne l'effetto desiderato, poichè fino dal primo esperimento tutti i candidati mormoni riuscirono trionfalmente coi voti dei mormoni che hanno una sola moglie.
I mormoni trovarono poi degli alleati anche fra i liberali non appartenenti alla loro religione nel sostenere che la legge è ingiusta e che l'esigere un giuramento da chi si accosta alle urne è anticostituzionale.
I mormoni o i Santi degli ultimi giorni, come essi si chiamano, sono adesso circa 160 mila e aumentano continuamente. Quasi tutte le settimane sbarca nei porti della costa atlantica qualche carovana di neofiti, guidata da un missionario, che va diritta a stabilirsi nell'Utah.
La maggior parte dei neofiti provengono dalla Svezia, dalla Norvegia, dalla Danimarca, dalla Scozia e dall'Inghilterra. Viaggiando lungo la linea del Pacifico se ne incontrano spesso dei vagoni pieni.
Io ne vidi arrivare a New-York, parecchie volte. Erano vigorosi contadini e robusti operai che avevano l'aria di recarsi al Lago Salato per isfruttare quelle vergini terre e darsi all'industria e al commercio allo scopo di procurarsi una buona posizione, non già per diventare tanti piccoli pascià e possedere una casa piena di donne e di marmocchi.
Infatti, la maggior parte degli emigranti mormoni sono maritati e si può star sicuri che le mogli e le madri di famiglia non si deciderebbero al gran viaggio se non fossero persuase che ai loro mariti non frulla in capo l'idea di prender in casa altre donne, come permette la nuova religione.
La giovane sposa di un neofita, interrogata sulle cause che l'avevano decisa a emigrare nell'Utah, rispose che la ragione per cui s'era potuta risolvere a cambiar religione stava nella certezza di migliorare la sua posizione.
—E non temete—le fu chiesto—che a vostro marito salti poi il ticchio di prendere un'altra moglie?
—Lo vorrei un po' vedere—esclamò la giovane sgranando tanto d'occhi.
I convertiti che arrivano già ammogliati nell'Utah, non possono pigliare altre donne senza un certificato del presidente della chiesa che attesti la bontà della loro condotta e della loro riputazione e dichiari inoltre che essi sono in grado di mantenere una seconda o una terza moglie e i figli che ne potrebbero venire.
Un missionario, certo signor King, mi diceva che non c'è paese oggi più favorevole dell'Inghilterra pel mormonismo. Di cento missionari che lavorano per la propagazione della fede in Europa, più di quaranta si trovano in Inghilterra. In Irlanda non c'è nulla da fare: sarebbe anzi pericoloso predicare colà la nuova religione.
Il fondatore della setta è stato com'è noto il profeta Giuseppe Smith, figlio di un povero fittaiuolo, nato nel 1805 nello Stato di New-York, il quale nel 1827 annunziò che un angelo gli aveva rivelato le nuove tavole della legge, e battezzò per immersione i suoi primi discepoli, che in numero di sei furono i suoi apostoli.
Nel 1830 la «Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell'ultimo giorno» era definitivamente costituita: aveva insieme del giudaismo, del maomettanismo e del protestantesimo, il tutto mescolato a pratiche più o meno barocche e a credenze più o meno misteriose, raccolte in un libro. La propaganda cominciò subito attivamente e i neofiti, trasformati in coloni, costituirono nell'Ohio e nel Missouri negozi, fattorie e mulini.
La prosperità della nuova chiesa le suscitò contro un mondo di invidiosi e di nemici. Una notte il profeta Smith fu sacrilegamente strappato dal suo letto, incatramato, impiumato (supplizio che per molti anni fu una specialità del popolaccio americano) e crudelmente percosso. Si tentò anche di fargli inghiottire dell'acqua ragia. E da allora in poi le persecuzioni non ebbero più tregua. Gli stabilimenti dei mormoni furono in gran parte saccheggiati e distrutti.
Ma i santi non si scoraggiarono. Nel 1837 sette missionari, partiti dagli Stati Uniti senza un soldo in tasca, viaggiando alla ventura come una volta gli apostoli di Cristo, predicarono per la prima volta il nuovo vangelo in Inghilterra e fecero ben presto un migliaio di aderenti.
L'anno seguente, temendosi la loro ingerenza vittoriosa nelle elezioni del Missouri, i mormoni furono in gran numero trucidati; gli altri, cacciati e spogliati dei loro beni, andarono a fondare Nauvoo, nell'Illinois. Questa città diventò in breve importante, ma neppure là cessarono le persecuzioni e nel 1844 Giuseppe Smith fu arrestato e poi ucciso nella prigione insieme con suo fratello.
Due anni dopo, guidati da Brigham Young, il successore di Smith, i mormoni erano costretti ad abbandonare anche l'Illinois, per andar a cercare un po' di pace nelle solitudini dell'Utah, sulle rive del Gran Lago Salato.
Il memorabile esodo cominciò nella primavera del 1847. Nuovo Mosè, Brigham Young partì coi suoi pionieri per il Far-West. Dovettero lottare spesso cogli indiani. Le donne, i fanciulli e i vecchi duravano fatica a tirar innanzi. Parecchi rimasero per istrada, estenuati, morenti. Mancavano di bestie da tiro, di carri. Alcuni infermi furono trascinati su carretti a mano, lungo tutta la strada.
In causa dell'inverno precoce e terribile, la traversata delle Montagne Rocciose fu una vera rotta, come una ritirata di Russia.
Già strada facendo erano mancate l'acqua e l'erba pel bestiame. Quanti mormoni caddero nella neve per non rialzarsi più! Finalmente, dopo parecchi mesi di stenti e di fatiche inenarrabili, Brigham Young e i suoi scorsero, dall'alto delle montagne, il Lago Salato, e, nella pianura, un ruscelletto che si gettava nel lago. Erano il Mar Morto e il Giordano del nuovo popolo di Dio: così furono battezzati dai mormoni che si chiamarono essi stessi i Santi dell'ultimo giorno. Lì presso risolvettero di gettare le fondamenta della nuova Sion.
—Condotti—dice Brigham Young;—dall'Onnipotente, perchè nessuno di noi conosceva il paese, noi arrivammo il 24 luglio al Lago Salato, dopo aver percorso quattrocento miglia d'un sentiero da cacciatori, e aperta una nuova strada sopra seicento cinquanta miglia. Il paese non produceva che delle erbe sottili, alte appena quattro o cinque pollici, e il suolo era coperto da miriadi di cavallette, che servivano di nutrimento agli indiani.
Durante l'autunno del 1847 arrivarono settecento carri pieni di emigranti, con tutte le loro famiglie. Brigham Young ripartì per cercare gli altri, che giunsero l'inverno seguente su mille carri.
All'arrivo, altri fastidi aspettavano gli emigranti. Le cavallette avevano divorato la raccolta e si erano talmente moltiplicate, che l'Altissimo—dice Brigham Young—«dovette mandare una nuvola d'uccelli per mangiarle, senza di che le cavallette non avrebbero lasciato un filo di verde.» Si potrebbe—osserva uno storico—domandare a Brigham se Dio, che si prende tanta cura dei mormoni, in luogo di mandare gli uccelli per divorare le cavallette, non avrebbe fatto meglio non mandando le cavallette stesse!…
I mormoni non piantarono gli alberi fruttiferi e i cereali soltanto nei dintorni della città del Lago Salato e lungo il Giordano. In tutte le valli irrigate, al nord e al sud del territorio, dovunque la terra può ricevere sementi e farla fruttificare, il colono andò, e la fertilità del suolo ricompensò ben presto i suoi sforzi. Nel sud dell'Utah si piantò il cotone, il gelso, e si stabilirono manifatture per filare; nel centro si seminò la canapa, il lino e si premettero i semi per estrarne l'olio. Sulla maggior parte dei corsi d'acqua si stabilirono segherie di legnami, mulini di farina. Sopra altre parti più aride si allevarono pecore, la cui lana fu tessuta. Tutti gli apostoli si arricchirono in queste operazioni agricole e industriali.
Dal 1848 in poi i mormoni non cessarono di prosperare. Il territorio di Utah fu costituito nel 1851, e Brigham Young venne riconosciuto governatore con un atto del governo federale.
Appena la popolazione oltrepassò i trentamila abitanti, il territorio avrebbe dovuto essere ricevuto come Stato nella federazione degli Stati Uniti ed esercitare il diritto di mandare a Washington due senatori e un numero di congressisti proporzionato ai suoi abitanti.
Ma, per la questione della poligamia, l'Utah è ancora un semplice territorio.
Per finire. Si attribuisce a Brigham Young un ragionamento molto curioso per difendere la pluralità delle mogli.
—O il matrimonio è buono, o è cattivo. Ora esso è buono, dal momento che tutti si ammogliano; e siccome delle cose buone è utile essere bene provveduti, così è saggio colui che prende più di una moglie.
San Paolo non era dello stesso parere.
Se piglierete moglie—diceva—farete bene e se non la piglierete farete meglio.
VIII.
La distruzione delle Pelli Rosse.
Non parliamo poi del modo disumano con cui gli americani del Nord vanno distruggendo gli ultimi indiani.
Dopo averli confinati in certe zone di terreno chiamate reservations violano i patti; i soldati fanno invasioni continue e si abbandonano alla caccia del bisonte e degli altri animali, per il solo piacere di distruggerli, mentre formano l'unico nutrimento del Pelle Rossa; gli impiegati, poi, rubano quasi tutti i doni e le merci inviate dal Governo agli indiani.
Le insurrezioni delle Pelli Rosse non sono causate che dalle violazioni dei confini delle loro riserve per opera dei bianchi. Vedendosi molestati nelle proprie sedi, gli indiani per vendicarsi fanno qualche scorreria fuori dei loro confini; allora interviene la truppa e succedono i combattimenti.
Poi vi sono i preti delle varie religioni che vanno a portare la discordia fra i Pelli Rosse.
Interessantissime e piene di solennità riescono sempre le conferenze in cui i capi delle tribù espongono i loro lagni ai rappresentanti del Governo. In una tenuta a New-York nella gran sala del Cooper Institute, un capo, chiamato Nube Rossa, diceva con voce lenta, cadenzata, sonora, accompagnata da gesti pieni di nobiltà:
—Voi siete miei fratelli e amici venuti per sentirmi. Noi tutti siamo opera del Grande Spirito. Voi non mi pagaste mai le terre che mi avete prese. Il Grande Spirito vi ha fatti bianchi e ricchi: noi rossi e poveri. Quande veniste la prima volta in questo paese, voi eravate pochi e noi molti: oggi siamo noi i pochi. Io rappresento la razza indigena, la prima che apparve su questo continente. Noi siamo buoni e non cattivi; vi abbiamo dato le nostre terre. Conoscete qualcheduno che sia venuto da noi e non sia stato ben trattato?
Nube Rossa si lagnava poi dei trattati violati dalle faccie pallide, dei cattivi trattamenti inflitti dai coloni bianchi agli indiani che vollero, secondo i loro consigli, coltivare la terra, e finalmente del Gran Padre (il presidente della Repubblica) che è a Washington, che promette sempre di rendere giustizia ai suoi fratelli rossi e non lo fa mai.
Era la prima volta che Nube Rossa, un capo che disponeva di tremila uomini, acconsentiva a trattare col governo. Fino allora alle ambasciate speditegli dai commissari federali egli aveva risposto che non si degnava d'incomodarsi per andar a vedere i suoi padri bianchi e per firmare con essi il trattato di pace.
—Faceva freddo, non voleva mettersi in via e preferiva cacciare il bisonte. A che pro questa visita alle faccie pallide che l'avevano sempre ingannato e che fabbricavano dei forti sulle sue terre?
In un'altra seduta Nube Rossa diceva:
—Il Grande Spirito mi fece nudo, e nudo mi allevò… Ciò che voglio dire a voi, a questi uomini e al mio Gran Padre, è questo: Guardatemi, io era nato dove sorge il sole e ora vengo dal paese dove esso tramonta. (Nube Rossa vuol dire che la sua tribù occupava una volta la riva sinistra dei Missouri e che i bianchi lo respinsero all'estremo ovest, appiè delle Montagne Rocciose). Qual è il popolo che primo fece sentir la sua voce su questo continente? È il popolo rosso, che fa uso dell'arco. La nostra nazione si dilegua e sparisce come la neve sul pendio delle montagne, quando il sole è caldo; invece il vostro popolo è numeroso come i fili d'erba delle praterie all'approssimarsi dell'estate… Guardate bene: quando me n'andrò, se io sono macchiato di sangue; voi, voi avete inaffiato di sangue le zolle delle grandi pianure sulla linea del forte Fettermann. Voi fate passare delle strade di ferro attraverso al mio paese, e per la superficie che esse occupano non ho ricevuto nemmeno il valore d'un anello di rame. Voi fabbricate ogni sorta di munizioni; perchè non me ne date? Avete paura che vi faccia la guerra? Voi siete molti e potenti; noi non siamo che un pugno d'uomini. Non è per farvi la guerra che voglio munizioni, è per cacciare. Vedo bene che dovrò finire per coltivare la terra, ma per il momento ciò mi è impossibile. Ho detto.
Gli indiani non vogliono sentir parlare di coltivar la terra.
—Noi vogliamo vivere come siamo stati allevati, cacciando gli animali delle praterie. Non ci parlate dunque di riserve o di coltivazione della terra!—diceva il gran capo dei Corvi, Piede Nero, ai commissari adunati nel forte Laramie.
E aggiungeva:
—Lasciateci andare dove va il bisonte. Mandate i vostri agricoltori, ma non in mezzo a noi. Il Corvo scorre traverso le praterie e caccia l'antilope e il bufalo: esso non ama altro. Padre, guardate me e tutti i Corvi; essi non hanno altra opinione che la mia.
Dente d'Orso, altro gran capo che aveva parlato prima di Piede Nero, non era stato meno esplicito:
—Padri, voi mi dite di coltivare la terra e di allevare il bestiame; io non voglio sentire di questi discorsi; sono stato allevato col bisonte e lo amo. Fin dalla mia nascita ho appreso come i nostri capi a esser forte, a levar la mia tenda quando è necessario e correre traverso le praterie come mi pare e piace.
* * *
Vi sarebbe uno studio interessantissimo da fare sullo stile oratorio di questa razza destinata a scomparire e sulle sue leggende, alcune delle quali sembrano inventate da un Giacosa dei Pelli Rosse.
Eccone un saggio:
«Un capo degli Siù ha una bellissima figlia, la quale s'innamora un giorno del figlio del capo di una tribù nemica.
«Una notte questo giovane rapisce la fanciulla, la porta in una caverna, si sposano. Il vecchio capo Siù, appena viene informato del ratto, monta su tutte le furie, insegue gli amanti, li sorprende e ordina ai suoi guerrieri di gettare il giovane giù da un burrone, non lasciandogli che il tempo necessario per intuonar un inno di morte.
«E appena il sole sparì dietro le grandi montagne dell'ovest, mentre le prime stelle illuminavano il puro firmamento, dietro un segnale del vecchio capo, quattro guerrieri s'impadronirono del giovane e lo lanciarono nel burrone. In quell'istante, ratta come il baleno, la fanciulla si scioglieva dalle braccia di suo padre e gridato per due volte il nome dell'amante, spiccava un salto e spariva nello stesso precipizio.»
Un'altra leggenda indiana, intitolata Il laccio incantato, dice così:
«Un povero giovane che non aveva nè parenti nè amici e che si chiamava Jena, ossia il vagabondo, errava solo soletto di foresta in foresta. Egli avrebbe desiderato vivamente che una compagna fosse venuta a consolare la sua vita; ma chi avrebbe voluto dividere la sorte di un disgraziato il quale non possedeva altro che un vestito di pelli e un laccio per prendere gli animali?
«Un giorno, partendo per la caccia, Jena sospese il suo laccio a un albero per non avere il fastidio di portarlo.
«Tornando alla sera nello stesso sito, fu lietamente sorpreso di trovare, al posto dove aveva lasciato il laccio, una piccola capanna graziosissima nella quale era assisa una bella giovanetta ai cui piedi stava il suo laccio da cacciatore.
«Quel giorno Jena portava, fortunatamente, un daino che gettò davanti alla porta della capanna.
«Subito, senza dare neppure il benvenuto al cacciatore, la giovane accorse per vedere se il daino ucciso era grasso, e nella sua fretta fece un passo falso e cadde sul limitare della capanna.
«Jena la guardò con disgusto e pensò:
«—Io credevo di essere felice, ma vedo che mi sono ingannato. Tienti pure il daino, o donna ingorda: te lo regalo!
«Quindi riprese il suo laccio, e dopo aver camminato per qualche tempo, arrivò presso un altro albero dove sospese di nuovo il laccio; e partì in cerca di selvaggina.
«Egli fu ancora fortunato, tornò con un daino e trovò che una capanna si era innalzata accanto all'albero. Guardò dentro e vide una magnifica ragazza che stava seduta in un angolo col suo laccio allato.
«Essa si alzò per esaminare il daino deposto sulla porta, mentre Jena, stanco della sua caccia che l'aveva condotto molto lontano, entrò nella capanna e si riposò accanto al fuoco.
«La giovane non tornava: Jena si domandava quale motivo poteva trattenerla fuori; si alzò per guardare attraverso la porta, e la vide intenta a mangiare avidamente tutto il grasso del daino.
«Allora esclamò:
«—Io speravo di essere felice, ma invece mi sono ingannato.
«Poi, rivolgendosi alla donna:
«—Povera faina—disse—non disturbatevi e divorate pure tutta la cacciagione che ho portato.
«Prese nuovamente il suo laccio e se ne andò; poi, secondo il solito, lo sospese a un albero prima di allontanarsi per cercare della selvaggina. Tornò alla sera recando un superbo daino. Una capanna aveva sostituito l'albero e attraverso una feritoia Jena scorse un'altra incantevole giovinetta che accudiva al fuoco.
«Appena egli entrò, essa si alzò con aria gentile, gli diede il benvenuto, e senza perdere tempo si mise a scuoiare il daino come si deve, e ne sospese la carne per affumicarla. Quindi ne apparecchiò un pezzo per il cacciatore che avea molta fame. Allora il nostro giovane disse fra sè:
«—Adesso finalmente ho trovato la vera felicità.
«Ogni sera, quando suo marito ritornava dalla caccia, la buona sposa lo accoglieva, con piacere, gli faceva trovare tutto in ordine, si prendeva cura della cacciagione, preparava il desinare, e da allora in poi Jena fu l'uomo più felice del mondo.»
Aveva trovato una moglie—serva ideale!
* * *
Qualche tribù indiana conserva l'uso di celebrare ogni anno certe feste religiose con danze che sono spettacoli di fanatismo barbaro e feroce e che l'autorità di Washington è riuscita a impedire quasi completamente.
La festa principale solennizzata dagli Siù con scene di sangue è quella del sole o del serpente. Ai bianchi che cercavano di dissuaderlo dall'orribile costume, il vecchio Orso Veloce rispondeva:
—Voi avete avuto un Cristo che morì sulla croce per voi e ne menate gran rumore. Noi facciamo quello che voi non osate fare: ci leghiamo noi stessi sulla croce del nostro dio e soffriamo con lui: voi non avreste il coraggio di fare altrettanto!
Ora però l'antica cerimonia ha perduto molto del rigore con cui veniva osservata. Una volta i giovani guerrieri erano obbligati a prender parte alla danza: ora vi intervengono solo coloro che devono sciogliere un voto a Wkaortaorka, il Grande Spirito. Tali voti sono di più maniere: un indiano si obbliga di ballare durante le danze del sole o del serpente se guarisce un suo figlio, un amico, una persona cara, oppure se ottiene un successo in qualche sua impresa, anche se questa sia di un genere non ammesso dal codice penale.
Un araldo, vestito di pelli di bufalo, annunzia il giorno e il luogo del trattenimento alle varie bande indiane. Il campo che viene preparato è ordinariamente di cinque miglia di circonferenza: alla festa accorrono da otto a dieci mila indiani. Davanti alla tenda, dove i danzatori devono aspettare gli ordini per eseguire il loro programma, giace un cranio di bufalo contornato da erbe selvatiche e da altri emblemi strani e misteriosi.
Pochi giorni prima della festa un drappello di cavalieri va a cercare un tronco conveniente da piantare nel centro del campo riservato al ballo. Si sceglie di solito un olmo gigantesco, che viene tagliato da una vergine indiana espressamente consacrata a quell'ufficio.
Appena il tronco è rizzato e adorno di fronzoli e nastri, ha luogo la corsa del palo. Mille guerrieri a cavallo si precipitano in una corsa vertiginosa giù pel ripido pendio di una vicina collina verso l'albero, e siccome il terreno è reso artificialmente liscio e sdrucciolevole, uomini e cavalli cadono in grande quantità, fracassandosi le gambe e qualcheduno anche l'osso del collo, con immensa soddisfazione del pubblico.
All'ultima gran festa del sole celebratasi vicino all'Agenzia Indiana di Rosebud, Dakota, mentre io attraversavo quelle regioni, la schiera dei mille guerrieri era composta di quegli stessi indiani che sorpresero e massacrarono la brigata dell'infelice generale Custer: molti avevano ancora le selle e le armi che furono il loro bottino dopo la triste giornata di Yellowstone.
A mezzogiorno preciso di un lunedì di luglio, arrivarono i danzatori del Sole, quindici in tutto, per sciogliere i loro differenti voti. Essi si chiamavano: Segue una donna, Vive nell'aria, Buco grandissimo, Vitello bianco, Segna a tre, Cane maschio, Piccolo giorno, Ragazzino, Corno vuoto, Aquila, Tettoia, Aquila doppia, Giallo, Povero cane e Falcone battagliero.
I guerrieri erano nudi fino alla cintola e portavano fascie fatte con scialli rossi. Dalle loro cinture pendevano nastri azzurri davanti e di dietro. Sul capo s'erano messi come ornamento dei mazzi d'erba e dei corni di bufalo. Sul petto avevano dipinte immagini del sole e allacciati ai polsi vari amuleti ed emblemi distintivi di famiglia.
I cantanti cominciarono a strillare accompagnati da una specie di tamburi scordati. I danzatori accostarono alle labbra il loro fischietto d'osso d'oca ornato della rara piuma dell' uccello medico, e si misero a ballare in su e in giù. Essi dovevano seguitar a fischiare finchè duravano a ballare, cioè fino al tramonto del giorno successivo. Alcune donne supplivano alla musica difettosa col cantare, con voce stridula, battendo il tempo coi piedi.
Venuta la notte non c'era un lume in tutto il recinto. L'albero coperto di pezzi di stoffa, era illuminato dal chiaro della luna: verso la sua cima era attaccato in senso orizzontale un fascio di vimini che gli dava così una certa rassomiglianza con la croce cristiana. Da quel fascio pendevano varie figure tagliate nel cuoio e rappresentanti il Sole, lo Spinto buono, lo Spirito cattivo e altri simboli.
I danzatori resistettero tutta la notte e finchè risplendette la luna si volsero con la faccia e coi gesti ad essa; ma appena spuntò il sole, Gheezis, voltarono le spalle alla luna e si misero a complimentare l'astro maggiore. Così seguitarono tutto il giorno. Se uno mostrava stanchezza, veniva condotto all'ombra e gli si permetteva di aspirare due o tre boccate di fumo da una pipa, oppure gli si faceva masticare un pizzico di salvia selvatica per facilitargli la salivazione.
Intorno ai danzatori, gli indiani se ne stavano spettatori indifferenti, rosicchiando pan nero e bollito di cane portato dalle loro donne in sudici recipienti di latta. Al di fuori del recinto i ragazzi giuocavano, i piccoli correndosi dietro e gettandosi per terra l'un l'altro; i grandi facendo all'amore, pigliando qualche bruna ragazza e avvolgendosi con essa nella medesima coperta che serve loro di scialle e di vestito.
Durante la danza del Sole gli indiani adolescenti vengono introdotti nell'arena per aver bucate le orecchie, cerimonia che conferisce loro i diritti civili nella tribù. Questa operazione richiede da parte del candidato un piccolo sacrifizio, che ordinariamente è quello di un puledro: nella festa di cui parlo i puledri offerti furono circa settecento.
Verso mezzodì del secondo giorno il medico capo dipinse gli uomini che dovevano essere legati all'albero. Ciò fatto, essi furono guidati successivamente verso i quattro punti cardinali; indi si recitò la preghiera seguente:
—Dio, noi siamo venuti per festeggiare il giorno che tu ci hai dato. Noi ci teniamo in piedi per dare a te la nostra carne. Abbi cura delle nostre mogli, dei nostri figli ed amici, e aiutaci a sostenere questa prova.
E la prova orribilissima cominciò. Il primo a essere martorizzato fu Segue una donna. Venne gettato a terra e il medico con un acuto coltello gli praticò due incisioni sopra ambo le mammelle. Nei buchi così aperti furono introdotti due pezzi di legno attaccati a una corda, e il paziente venne alzato da terra e sospeso all'albero per rimanere in quella posizione finchè il suo proprio peso, stracciando le carni, l'avesse fatto ricadere sull'erba.
Benchè abbattuto da quindici ore di fatica, sfinito dalla fame e dalla sete, il giovane guerriero sopportò, senza mostrare la minima debolezza, l'atroce tortura. Essa fu breve: le carni si lacerarono in cinque minuti ed egli cadde a terra e si rimise immediatamente a ballare cogli altri.
Vive nell'aria venne dopo Segue una donna, e penò più di quest'ultimo, avendo dovuto rimanere sospeso più di dieci minuti prima che gli si rompesse la carne. Il più disgraziato di tutti, come se il nome gli avesse portato sventura, fu Poor Dog ( Povero cane ). Le incisioni praticategli erano state troppo profonde: per quanto egli sgambettasse in aria per circa mezz'ora, la carne resisteva. I muscoli del petto gli si staccavano dalle ossa; le stesse donne indiane piangevano nel vederlo; eppure durante una così dolorosa agonia, non uscì dalle sue labbra una parola di lamento.
V'erano anche penitenze d'altre specie, non meno crudeli. Giallo, per esempio, fu forato in una spalla, e nel buco s'introdusse una corda che dall'altro capo era attaccata al collo di un cavallo. Si batteva quest'ultimo, che scalpitava e scuoteva la testa, lacerando le carni del paziente e si continuò così finchè la corda stracciò del tutto la carne, lasciando libero il prigioniero.
Molti indiani poi, di quelli che non prendevano parte alla danza, facevano differenti sacrifici tagliandosi dei pezzi di carne dalle braccia.
I danzatori intanto offrivano uno spettacolo orribile: essi continuavano a saltare, esausti, coperti di sangue, col fischietto sempre stretto fra le labbra inaridite. Nessuno si ritirò se prima non compì il voto e non sopportò la sua pena fino all'ultimo. Nessuno domandò soccorso nè si lasciò sfuggire un gemito. Chi l'avesse fatto, avrebbe perduto per sempre il suo posto fra i guerrieri: sarebbe stato messo fra le donne e anche queste l'avrebbero disprezzato.
* * *
A proposito degli indiani. Dacchè l'America fu scoperta gli scienziati si scervellarono per sapere quali popoli l'abitarono per i primi.
Ora un fatto semplicissimo è venuto a sconvolgere diverse teorie e a dar ragione a coloro che sostengono essere stata l'America popolata da gente sbarcata da altri continenti.
Poco tempo fa in una miniera della Columbia Inglese, alla profondità di sei metri sotto la superficie, furono trovate alcune monete chinesi riunite con un filo di ferro. Appena toccato ed esposto all'aria, il fil di ferro si sciolse in polvere; ma non così avvenne delle monete, le cui iscrizioni provano che furono coniate da oltre tremila anni.
Cosicchè qualche secolo prima di Colombo i caudati figli del Celeste Impero avrebbero scoperto l'America, e, se non ne furono i primi abitatori, aprirono la via a qualche altro popolo dell'Asia. I vecchi messicani e gli indiani discesero probabilmente da qualche famiglia asiatica trasportata in America dai venti, sopra una zattera di tronchi d'albero.
Due o tremila anni fa fra l'Asia e l'America esistevano forse altre terre, altre isole, che facilitavano le comunicazioni e che successivi sconvolgimenti e terremoti sommersero poi nelle profondità dell'Oceano.
IX.
Una lezione di miss Mary.
Una mattina d'estate la signorina Mary e una sua compagna di collegio mi pregarono di accompagnarle a pescare nel Sound.
Con un canestro di provvigioni salimmo alle sette in una barchetta e costeggiando Glen Island prendemmo il largo finchè si giunse presso alcune roccie frequentate, secondo l'amica di Mary, da molto pesce. E, calata l'àncora, gettammo gli ami.
La marina era tranquilla e liscia; man mano che saliva, il sole avvolgeva l'isola di Manhattan di raggi infuocati, ma sull'acqua non faceva molto caldo, e poi avevamo il capo riparato da cappelloni di paglia che parevano ombrelli.
Si cominciò a pescare pazientemente, da principio con infelici risultati: solo dopo due buone ore, quando cambiammo posizione e ci recammo in vista d'una isoletta disabitata, alcune sfoglie, parecchi black-fish e mezza dozzina di grosse anguille si lasciarono prendere con grande gioia delle mie compagne.
Verso le undici approdammo nell'isoletta più vicina, una bella isoletta dalla spiaggia dirupata e pittoresca, piena d'alberi, di cespugli e di ombre. Ormeggiato il battello, scaricammo le provvigioni, sedemmo sotto un albero e mangiammo con grande appetito.
Davanti a noi, in lontananza, aveva luogo una corsa di yachts, e presso gli stessi scogli dove noi avevamo pescato si ancoravano due altre barchette piene di pescatori e di pescatrici.
Alleggerito il canestro decidemmo di aspettare all'ombra che calasse la marea per tornare a New-York.
—Per impedire che vi addormentiate come Gesù in barca—disse Mary—io e la mia amica abbiamo portato con noi il compito che il nostro professore di francese del Normal College, ci ha dato. E un articolo d'una rivista nella quale il signor Jacolliot, vecchio magistrato francese che ha compiuto testè un viaggio negli Stati Uniti, riferisce il racconto fattogli da un suo compatriota stabilitosi da molti anni in un comune della California: un racconto da cui avrete qualche cosa da imparare anche voi che trovate tante cose da criticare negli Stati Uniti. State, dunque, attento e spiegateci le parole che non comprendiamo. È il vecchio stabilito a Meffilld, nella California, che racconta la propria vita al signor Jacolliot.
E cominciò con la sua bella voce così:
«Io sono nato a Condrieux, piccolo villaggio sulle rive del Rodano, rinomato nelle provincie vicine per il suo delizioso vino bianco e per i suoi formaggi. I miei genitori erano poveri contadini che guadagnavano con fatica da venticinque a trenta soldi al giorno zappando, falciando il grano e il fieno o vendemmiando, secondo la stagione. Appena io fui in grado di camminare, li seguii nei loro giri attraverso il distretto, lavorando un giorno qui, un giorno là, e passando la notte nei fienili.
«Nè mio padre, nè mia madre sapevano leggere: essi non si curavano di mandarmi alla scuola, essendo su tale questione del parere del curato, il quale diceva che l'abbecedario non serviva a nulla per lavorare la terra.
«Nel 1848 io aveva diciott'anni. Sentii dire dovunque che la repubblica era la caduta del dispotismo e l'emancipazione dei proletari; vidi che tutti si armavano e facevano le manovre sulle piazze, e io m'intruppai cogli altri senza capir nulla, senza rendermi conto di ciò che succedeva.
«Un giorno si grida nel villaggio che i tiranni tornavano, che a Parigi si battevano, che bisognava prendere il fucile. Io non sapeva che cosa fossero quei tiranni di cui si parlava tanto; la sola idea che me ne facevo è che fossero degli individui i quali non volevano lasciarci lavorare tranquilli. Seguii la folla, si bevette molto, poi, non so come la faccenda accadesse, ma all'improvviso la casa del sindaco e quella del curato si trovarono in fuoco.
«I gendarmi di Vienne accorsero a prestare man forte a quelli di Condrieux, e alla sera una trentina di contadini, fra cui io e mio padre, furono incatenati e diretti verso le carceri di Lione.
«Io capivo meno che mai: ci eravamo sollevati per combattere i tiranni, e invece di applaudirci, come s'era fatto tre anni prima, ci privavano della nostra libertà. Era il 3 dicembre 1851.
«Fui messo in cella, separato dai miei compagni. Appena mi trovai solo pensai alla mia povera vecchia madre che rimaneva senza alcuna risorsa, e piansi; per la prima volta deplorai di non saper scrivere.
«Fummo tradotti davanti alla Corte d'Assise. Un uomo tutto vestito di nero e in modo così buffo che ne avrei riso in altra occasione, gridò e gesticolò durante una giornata intiera, chiamando Dio in testimonio, parlando del salvatore della Francia, pregando i giurati di purgare la società.
«Domandai a un gendarme che cosa significava quella commedia.
«—Ciò vuoi dire—mi rispose ridendo—che vi taglieranno il collo a tutti.
«Spaventato dalla feroce risposta, rimasi convinto che tutti quegli uomini rossi e neri che domandavano la nostra testa non erano altro che i tiranni di cui avevo inteso parlar tanto senza aver potuto mai vederli.
«Il gendarme non s'era ingannato che a metà: la sentenza fu terribile. Sette dei disgraziati miei compagni vennero condannati a morte; tutti gli altri ai lavori forzati a vita. Io solo fui rilasciato, in causa della mia giovinezza, mi dissero; poi pare che fossi stato veduto aiutare i pompieri a gettare dell'acqua sulla casa del sindaco: io non mi ricordavo di nulla.
«Guardai mio padre che piangeva in un angolo; quando mi dissero di andarmene, rifiutai, e allora mi misero fuori a colpi di calcio di fucile.
«Trovatomi così in istrada, una sera del febbraio 1852, senza un soldo in tasca, mi misi in cammino alla volta di Condrieux. Faceva molto freddo e la terra era coperta di neve. Provavo una stretta al cuore pensando alla mia vecchia madre, senza legna e senza pane in quel terribile inverno. Traversai di corsa Saint-Fons, Serezin, Chasse, Etressin, passai il Rodano a Vienne, e arrivai a Condrieux verso le undici di sera.
«Il villaggio giaceva sepolto sotto un lenzuolo di ghiaccio, e il silenzio della notte non era turbato che dal rumore del torrente, dai sibili del vento e dai latrati di qualche cane di masseria che sentendomi passare usciva dal casotto.
«Io tremavo avvicinandomi alla povera capanna dove era trascorsa la mia infanzia. Tutto a un tratto sentii il sangue affluirmi al cuore, alla testa, dappertutto. Ero davanti a un mucchio di rovine…
«Mia madre era morta di dolore e di miseria: nessuno l'aveva aiutata. I contadini sono feroci verso i loro compagni colpiti dall'autorità o dalla giustizia. Poco tempo dopo anche mio padre terminava di tribolare negli ossari di Caienna.
«Non c'era lavoro per me nel distretto e la polizia sorvegliava tutti i miei passi. All'epoca della vendemmia, avendo voluto recarmi nel Beaujolais per guadagnare qualche soldo, fui arrestato lungo la strada malgrado le mie proteste, e condannato a un mese di prigione per vagabondaggio.
«Uscito dalla prigione, passai nella Svizzera, di dove partii poco dopo per la California, arruolato come operaio da una società di miniere. Portai con me mille vitigni che avevo fatto venire dalle rive del Rodano; mi avevano detto che non c'era uva nel paese a cui eravamo diretti e io desideravo di ombreggiare di pampini la mia capanna di minatore: cacciato dal suolo nativo, non volevo allontanarmi senza portarne un ricordo. I pochi vitigni che riuscii a salvare malgrado tre mesi di viaggio, hanno formato la mia fortuna e arricchito questo paese.
«Ecco quale fu il mio passato nel vecchio mondo: permettetemi ora di dirvi in due parole ciò che devo all'America del Nord.
«Vi giuro che quando lasciai la Francia io non capivo assolutamente nulla, nè dei movimenti politici che avevo veduto compiersi sotto i miei occhi, nè delle condanne che avevano colpito mio padre e i poveri contadini delle rive del Rodano. Non sapevo nè leggere, nè scrivere, ignoravo le cose più semplici della vita, e vedendo il mondo diviso in ricchi e poveri, mi figuravo ingenuamente che il buon Dio avesse creato gli uni per non far nulla e gli altri per servirli.
«Ero insomma una cosa, una macchina da lavoro: l'America ha fatto di me un uomo, ed ecco come.
«Sulla collina di Meffilld non c'erano tre case e già un pastore presbiteriano vi fondava una piccola cappella e una scuola; per dieci anni, malgrado le occupazioni dei campi, io fui uno dei più assidui ai corsi serali, ogni giorno più desideroso di istruirmi man mano che l'orizzonte si apriva davanti a' miei occhi.
«Il mio esempio fu seguito: tutte le colline favorevoli a questa coltivazione si coprirono a poco a poco di viti, la contrada si popolò di villaggi e nel 1857 uscì da' miei vigneti la prima botte di vino, che in gran pompa e coperta di fiori fu condotta a San Francisco.
«Per quel primo saggio ricevetti un premio di cinque mila dollari (venticinque mila lire): nel vecchio mondo si crede d'aver fatto tutto quando si sono date cinquecento lire in un concorso agricolo.
«Meffilld ingrossava rapidamente: bisognò organizzare il comune, innalzare pubblici edilizi, costruire strade e fontane. Ogni domenica prendemmo l'abitudine di riunirci in meeting per discutere i nostri interessi. In sedici anni sono stato eletto tre volte sindaco da' miei concittadini, i quali recentemente mi hanno mandato, quasi a unanimità di voti, alla legislatura dello Stato.
«Maritatomi con la figlia di un allevatore di bestiame che ha ventimila montoni e mille buoi nel suo ranch, ebbi sei figli.
«In conclusione, coll'istruzione e col lavoro io mi sono qui innalzato e arricchito e mi sento felice in questa terra di libertà che mi ha accolto a braccia aperte. Credete che io debba qualche cosa alla Francia? Non vi pare che la mia patria sia là dove si seppe fare di me un uomo? Nel vecchio mondo io sono un vagabondo, un recidivo: nel nuovo rappresento il mio distretto alla legislatura. Ah! io morrò certamente a Meffilld.»
—Ebbene, che ne dite?—mi domandò la signorina Mary, terminato che ebbe il racconto.—Non è istruttiva la carriera percorsa in meno di vent'anni da quest'uomo, il quale non domandava che di istruirsi e di lavorare, e che al principio della sua vita non aveva incontrato che le tristi severità d'una società invecchiata? Come si capisce il suo odio vigoroso verso le istituzioni egoiste e meschine che reggono la maggior parte degli Stati d'Europa!
—Il racconto è interessantissimo—risposi io che ne ero rimasto realmente impressionato—ma bisogna riflettere che i vecchi Stati europei non possono offrire a tutti i loro abitanti i terreni e i mezzi di arricchirsi così facilmente come una volta la California. L'America ha bisogno di braccia, e riceve continuamente dall'Europa dei carichi di lavoratori per allevare i quali non ha speso un centesimo.
—Ecco precisamente le obbiezioni fatte dal signor Jacolliot. E sapete come le ha combattute il sindaco di Meffilld? Ha risposto che egli non rimproverava al suo paese di non averlo provveduto fin dalla nascita d'un pezzo di terra: sarebbe una follia il pretendere che la società supplisca al lavoro individuale, e la moralità e le leggi non hanno peggiori nemici dei parassiti. Ma ciò che si ha diritto di esigere dal gruppo di individui, dal Comune, dallo Stato, a cui si porta il proprio concorso, è che obblighi all'istruzione come obbliga all'imposta, al servizio militare e a tutti gli altri oneri comuni, perchè questi oneri che l'ignoranza considera come tanti abusi, l'istruzione ce li fa considerare come altrettanti doveri.
—Da noi, molti fanciulli non possono andar a scuola perchè mancano di scarpe.
—Lasciate finire il vecchio di Meffilld—interruppe Mary.—Egli diceva:
«Quando un paese come la Francia scrive in testa dei suoi codici che non è ammessa l'ignoranza della legge, non fa che sancire una triste e odiosa finzione, se non procura che ognuno sia obbligato di studiare le istituzioni che reggono il paese. Il maestro di scuola deve precedere il gendarme.
«È questa finzione legale che ha ucciso mio padre! Egli prende le armi nel 1848 e gli si dice che s'è battuto contro i tiranni e che ha ben meritato della patria. Fa lo stesso nel 1851, lo si tratta da brigante e lo si manda a morire negli stagni della Guiana.
«Come volete che il popolo, educato sistematicamente nell'ignoranza più completa di tutto ciò che riguarda la vita sociale e forma la grandezza degli Stati liberi, possa distinguere il vero dal falso nelle vostre istituzioni antiquate davanti alle perpetue capitolazioni di coscienza della maggior parte dei vostri uomini politici, e alle discussioni puerili delle vostre assemblee?
«Quando avete ancora degli uomini capaci di affermare sfacciatamente che le masse non hanno bisogno d'istruzione per lavorare e che per tutto il resto devono rimettersi alle classi dirigenti, che sono le loro tutrici naturali; quando un paese si trova a questo punto, è la decrepitezza, è l'infanzia senile che comincia.
«Da alcuni anni io studio il movimento delle istituzioni francesi. Ebbene, sono convinto che l'egoismo e l'inettitudine delle alte classi (le quali mettono ostacoli sopra ostacoli per arrestare il torrente della democrazia, in luogo di regolarne il corso coll'istruzione e di avviarlo a un oceano di libertà, come si è fatto qui), non faranno che condurre a lotte periodiche e sanguinose, alla fine delle quali il paese troverà inevitabilmente la rovina.
«Non crediate che sia la facilità di acquistare la terra in America che rende qui l'uso della libertà più facile e meno nocivo, come dicono gli uomini di Stato europei. Se sapeste a quali lavori faticosi sono obbligati di accingersi i pionieri che vanno nell'interno degli Stati Uniti, lungi dai centri abitati, in regioni prive di strade e di comunicazioni, e quanti patimenti devono soffrire per ottenere un risultato!
«Gli uomini pericolosi non vanno a domandare ai duri lavori della terra una vita onesta e libera; essi preferiscono il soggiorno nelle città dove possono più facilmente sfruttare l'ignoranza e i vizi dei loro concittadini.
«Il possesso della terra non significa nulla senza l'istruzione e la libertà. Nella Turchia asiatica, per esempio, avete immense quantità di terreni coltivabili, a due lire l'ettaro. Perchè l'emigrazione fugge quei luoghi? Perchè sarebbe un cadere da una dominazione sotto un'altra.
«Credetelo, ciò che si viene a cercare specialmente in America è il mondo nuovo, è la società liberata dai legami ieratici e monarchici del passato, è l'eguaglianza degli uomini davanti all'istruzione che eleva e moralizza, è la coscienza e il pensiero, è l'associazione e il lavoro liberi.
«Alla mia patria io auguro una organizzazione comunale simile alla nostra, che le permetta di disfarsi una buona volta di tutti i suoi dottrinari, di tutti i suoi uomini parlamentari, ciarlatani politici che si dicono conservatori, e non conservano che una sola cosa: l'ignoranza perpetua a profitto di un perpetuo dispotismo.»
La signora Mary terminò battendo le mani e domandandomi in aria trionfante:—Ebbene, signor europeo?—
Ma prima che la marea fosse troppo bassa dovemmo rimetterci in barca e tornare a New-York, e io rimandai ad altra occasione le risposte alle interrogazioni della mia giovane amica.
X.
A bordo del «Pilgrim».
Non ebbi occasione di rivedere la signorina Mary che qualche giorno dopo, quando con lei e con suo fratello andammo a Boston per assistere alla inaugurazione dell'Esposizione.
Si va da New-York a Boston in una notte, coi vapori della Fall River Line, che sono capolavori di eleganza e di arte navale. A bordo di essi si è precisamente come in uno splendido albergo galleggiante, nel quale si può mangiare e bere quello che si vuole, dormire in bellissime stanze, radersi la barba, leggere e scrivere in sontuosi saloni illuminati con la luce elettrica, e ascoltare della musica. Oltre il comfort di un hôtel di lusso, tali vapori offrono il vantaggio di far respirare la salubre aria marina e di presentare ad ogni passo i pittoreschi paesaggi delle rive che costeggiano.
Noi viaggiavamo a bordo del Pilgrim, il gioiello della Fall River Line, un bastimento che pare una reggia e che costò cinque milioni di lire. Chi lo vede per la prima volta, percorrendo le vaste sale, le scale signorili ed esaminando la ricchezza dei tappeti, la bellezza dei lampadari e dei mobili, stenta a credere di trovarsi in mare.
Il Pilgrim ha cabine da una e due persone, provvedute perfino del bagno, per milleduecento viaggiatori; le sue macchine sono della forza di 5500 cavalli, e corre con una velocità di venti miglia inglesi all'ora, senza il minimo rullìo.
Dopo aver cenato nel restaurant, quella sera andammo a sederci a poppa, sul ponte, a guardare i lumi delle case tremolanti lungo le rive, ad ascoltare i fischi dei vapori che incontravamo.
—Con tanto passaggio di vapori in questi paraggi—dissi a Giorgio—devono essere facili le collisioni, quando c'è la nebbia.
—Ne accadono sovente, pur troppo—rispose—ma se i viaggiatori conservassero, durante il pericolo, maggior sangue freddo, non se ne annegherebbero tanti. Vedete, qui, oltre le cinture di salvataggio, con le quali, dovendo saltar in acqua, potremmo rimaner a galla diverse ore, e oltre i battelli, abbiamo i materassi dei letti, i quali sono imbottiti di tal roba che, lanciati in mare, galleggiano sempre e sono capaci di sostenere il peso di quattro o cinque persone. Ma negli scontri, invece, il panico fa perdere la testa e i viaggiatori si affogano a centinaia.
Il Pilgrim filava leggiero e silenzioso; Giorgio era sceso nel salone più vicino, dal quale non eravamo separati che da una scaletta, per leggere i giornali della sera. Mary, rimasta a sedere vicino a me, contemplava l'oscurità circostante e le stelle.
—Sapete—mi disse a un tratto—che per le mie lezioni di francese ho continuato a tradurre l'articolo del signor Jacolliot sul suo giro in California? È un lavoro che m'interessa molto, perchè nei panni del vecchio magistrato francese mi pare di veder voi, arrivato negli Stati Uniti con tanti pregiudizi europei. Volete sentire ciò che il sindaco di Meffilld fece vedere al suo compatriota dopo avergli raccontata la propria storia?
—Sì, sì, con gran piacere.
—Il sindaco di Meffilld, dunque, cominciò col condurre il signor Jacolliot al Common Hall (casa comunale, municipio) e lo pregò di assistere ad una seduta, nella quale il Board of the work (comitato dei lavori) doveva cercare con quali mezzi poteva dare, soddisfazione al Board of the health (comitato della salute), il quale aveva dichiarato che le acque di Meffilld erano di cattiva qualità e che bisognava procurarsene di più pure. Fu una cosa molto spiccia: in pochi minuti, senza discorsi, senza frasi, il Comitato risolvette di servirsi delle acque riconosciute ottime di un piccolo lago distante qualche chilometro e di costruire all'uopo un acquedotto. Siccome del Comitato facevano parte dei mercanti di pietre e di calce, dei capimastri muratori e un ingegnere, il conto della spesa fu presto fatto. E fu deciso di pagarla in parte con sottoscrizioni volontarie e in parte con una somma inscritta nel bilancio pei lavori comunali. Per dar subito mano all'opera, poi, in un Comizio che ebbe luogo il giorno appresso, gli abitanti del Comune s'impegnarono di incaricarsi a loro spese per tre mesi della manutenzione delle strade, ognuno per la parte che fiancheggia la sua proprietà. Così si potevano adoperare per l'acqua i fondi iscritti per le strade.
—In Italia o in Francia per decidere un simile lavoro occorrono molti mesi e una quantità di permessi e di autorizzazioni.
—È quello che rilevò il sindaco di Meffilld, il quale disse che tutte le leggi e i decreti che chiamate il vostro diritto amministrativo sarebbero un'opera di follia, se non fossero un istrumento di dispotismo. Perchè mai un comune, che a proprie spese vuole costruire una scuola, un ponticello, un lavoro qualunque, che deve servire ad esso solo, ha da chiedere tanti permessi al prefetto, ai ministeri? Tutte le formalità burocratiche, con l'aiuto delle quali si paralizza in Europa la libertà comunale, sono altrettante catene che, riunite in una sola mano, servono a tenere obbediente un popolo di schiavi.
—Queste sono verità sacrosante.
—Il sindaco di Meffilld faceva questo ragionamento semplicissimo: l'uomo ha diritto di contrattare, di acquistare, di vendere, di donare e via dicendo. Nessuno glielo impedisce, nevvero? Quando dieci, cento, mille individui sono riuniti in un Comune, in virtù di qual principio si viene a paralizzare il loro diritto di occuparsi dei propri affari, e a sottometterli per ogni atto della vita comune all'autorizzazione del potere centrale, il quale non è altro che il loro mandatario?
—Siamo perfettamente d'accordo.
—Fate il Comune libero nello Stato (provincia o gruppo di provincie) sovrano—diceva il vecchio di Meffilld a Jacolliot—e voi la finirete per sempre con quello che chiamate le rivoluzioni. La rivoluzione non è altro che il movimento di un corpo il quale cerca il proprio equilibrio.
Mentre la signorina Mary così parlava, io non potevo trattenere un sentimento di ammirazione per il sistema americano di educazione col quale, prima che le costituzioni di Sparta e di Atene, gli scolari imparano a conoscere quella vigente nel proprio paese e a parlarne come si parla degli interessi di famiglia.
—Mary s'è data alla politica—disse sorridendo Giorgio, che era tornato sul ponte.
—No—rispose la sorella—mi sono semplicemente entusiasmata all'apologia che quel vecchio di Meffilld fa delle istituzioni nord-americane. Ma pensate: in Francia scrivono su tutti i pubblici edifici la parola libertà fra quelle di fratellanza e di eguaglianza e non hanno neppure la libertà comunale, come se vi potesse essere repubblica senza il comune libero e senza il federalismo.
—Non tocchiamo l'unità nazionale!—vi risponderebbero da noi.
—E che c'entra l'unità politica coll'amministrazione dei comuni? Il sindaco di Meffilld osservava giustamente che l'accentramento esagerato del potere è il dissolvente più rapido di ogni spirito patriottico. Voler regolare con le stesse leggi perfino nei più piccoli bisogni dei comuni, trenta o quaranta milioni di cittadini, è una cosa insensata. Alla minima ruota che si rompe, tutto il sistema va a catafascio. Infatti ogni quindici o vent'anni si fa in Francia una rivoluzione che termina invariabilmente con fucilazioni e deportazioni, e i cadaveri delle vittime non sono ancora raffreddati che quegli uomini politici non trovano nulla di meglio da fare che di rabberciare la vecchia macchina sotto l'intelligente protezione di trecentomila baionette. Nessuno pensa a costruire una macchina nuova nella quale l'equilibrio delle forze sia meglio distribuito.
—Voi parlate, cara Mary, come un vecchio filosofo. Ma circa alla perfezione del sistema politico americano, io ho da esporvi un'idea che risponde anche alla lezione che mi avete fatta quel giorno che andammo a pescare insieme.
—Sentiamo, sentiamo.
Ma l'ora s'era fatta tarda, e i camerieri, camminando senza rumore sopra i tappeti, spegnevano le lampade elettriche dei corridoi.
Lasciammo andare i discorsi e scambiandoci un cordiale good night entrammo nelle nostre rispettive cabine.
* * *
La mattina seguente sbarcavamo a Boston. Era una domenica di settembre e, secondo le sue vecchie tradizioni, la capitale del Massachussets, in omaggio al riposo festivo, sembrava un cimitero; la solitudine poi appariva ancora maggiore del solito correndo una stagione in cui le migliori famiglie sono in campagna.
L'Esposizione internazionale che si doveva inaugurare il giorno seguente era stata organizzata modestamente, non con le proporzioni grandiose di quella precedente di Filadelfia e della successiva di Chicago, per solennizzare il primo centenario del trattato di pace firmato a Parigi da D. Hurtley per Sua Maestà Britannica, e da Beniamino Franklin, John Adams e John Jay per gli Stati Uniti.
Muniti delle carte di reporters che ci davano accesso ai locali della mostra prima dell'apertura, dopo aver fatto colazione al Yung's Hôtel, ci recammo al Charitable Mechanic's Association Building, vasto edificio tutto imbandierato. Le esposizioni delle nazioni europee non erano ancora pronte: nella sezione italiana si vedevano i soliti mosaici di Venezia e una cinquantina di quadri.
Trovammo all'ordine invece la esposizione indigena, nella quale ci divertimmo a esaminare la sezione dei cow-boys, dei celebri guardiani d'armenti dell'ovest, tutta piena dei loro originali costumi alla messicana, di grandi selle e di lacci.
Il cow-boy non somiglia affatto ai pastori dei nostri paesi, che conducono la vita più pacifica del mondo. Per fare il cow-boy nelle immense pianure del Texas, del Kansas, dell'Arkansas e negli altri Stati dell'Unione ricchi di pascoli, non basta esser buon cavaliere e saper guidare i branchi di buoi e di vacche nei terreni più favorevoli, provveduti di acqua e di erba buona: bisogna essere giovani robusti e arditi, capaci di tener testa ai ladri o agli indiani e di sostenere talvolta dei veri combattimenti a colpi di carabina e di revolver.
Il vestito del cow-boy consiste in un paio di stivaloni dai larghi speroni, in una camicia di lana, in pantaloni e giacca di velluto o di pelle adorni di frangie lungo le cuciture, e di un cappello di feltro dalle larghissime falde alla messicana.
D'estate il cow-boy fa a meno anche della giacca. Egli è molto semplice nel vestire, ma sfoggia un vero lusso nelle armi. Alla cintura, accanto alla cartucciera, tiene sempre uno e anche due revolvers delle migliori fabbriche e ad armacollo una carabina di gran valore. Esercitandosi fin da ragazzi e quotidianamente, i cow-boys diventano tiratori d'una abilità e d'una precisione meravigliose. I loro divertimenti abituali nelle praterie consistono tutti in gare alla corsa o al tiro.
Gettano sull'erba dei fazzoletti e poi lanciandosi a corsa sfrenata li raccolgono curvandosi da un lato senza rallentare minimamente l'andamento del cavallo. Gettano in aria delle uova correndo e le colpiscono col fucile prima che ricadano. Il colpo cosidetto di Guglielmo Tell, di levare un piccolo oggetto dalla testa di uno con una revolverata, è per loro un vero giuocattolo. Solamente questa grande famigliarità con le armi fa sì che essi mettano mano al revolver a ogni piccolo diverbio.
Un'altra loro abilità è quella di adoperare il laccio, una lunga striscia di pelle che tengono sempre attaccata alla sella, per fermare i buoi che si sbrancano.
La vita avventurosa di questi guardiani, i romanzi pubblicati negli Stati Uniti sul loro coraggio, sulle loro lotte con gli indiani, sui loro duelli, fanno sì che una quantità di giovani spostati, di mattoidi, vanno nell'ovest a fare i cow-boys. E così avviene che fermandosi in qualcheduna di quelle stazioni della ferrovia del Pacifico, dove si caricano lunghi treni di buoi, il viaggiatore trova con sorpresa, fra i guardiani che accompagnano gli armenti, dei giovani cow-boys che hanno veramente maniere da gentiluomo, parlano correntemente due lingue e sembrano cacciatori, touristes, anzichè butteri. Un giorno ne fu veduto uno che leggeva un numero della Vie Parisienne di cui era abbonato; egli faceva ogni settimana non so quante miglia a cavallo per andarsi a prendere la posta nella più prossima stazione.
Accanto al cow-boy romantico c'è naturalmente quello brutale, maleducato, vero brigante delle praterie, che qualche volta lascia il suo mestiere per fare il ladro da strada, per organizzare grossi furti di bestiame o per mettersi a barare nelle case da giuoco, nelle piccole città di legno che s'improvvisano nel far-west.
Dopo aver lavorato qualche mese nelle praterie, lontani da città e da villaggi, i cow-boys si procurano qualche giorno di permesso e vanno a divertirsi nella capitale dello Stato in cui si trovano, capitale che spesso non conta più di quaranta o cinquanta mila abitanti, ma che ha in abbondanza teatri, birrerie, caffè-concerti, case da giuoco, ecc.
Allora essi somigliano ai marinai che toccano il porto dopo una lunga traversata: sono avidi di donne, di liquori, di spettacoli d'ogni genere, impazienti di spendere il denaro di cui hanno piene le tasche. Dopo essersi comperato qualche oggetto di vestiario, una sella, armi, munizioni, entrano nei bar-rooms e si abbandonano all'orgia. Di notte si vedono con la bocca piena di tabacco, andar in visibilio davanti ai cancans primitivi di orribili cantanti intonacate di belletto, contendersi a manate di dollari nelle birrerie i favori di certe chellerine che sono il rifiuto delle grandi città, o farsi pelare nelle case da giuoco fino all'ultimo pezzo da five cents.
Quand'è rimasto senza un soldo, il cow-boy inforca il cavallo, torna a' suoi armenti e alle sue tende sognando il giorno in cui potrà di nuovo ubbriacarsi in braccio di una Jennie quarantenne o di una Minnie che gli darà da intendere di aver cantato a Parigi.
* * *
Una mostra più interessante era quella del giornalismo. Alcuni dei principali giornali degli Stati Uniti avevano fatto l'esposizione dello sviluppo raggiunto in pochi anni dal loro formato e dalla loro diffusione.
Il New-York Herald aveva mandato il suo primo numero, un foglietto magro magro, scritto da Bennett padre in una soffitta di Ann Street, e l'ultimo numero della domenica, di sette grandi fogli, la maggior parte dei quali pieni d'annunzi, stampato da sette macchine doppie, che non solo stampano ma tagliano e piegano 2333 copie al minuto, senza arrivare quasi in tempo per soddisfare a tutti gli ordini dei committenti.
Quel numero, eguale del resto ai fascicoli domenicali di vari grandi giornali americani, si componeva di centosettantotto colonne, per la cui composizione erano occorse più di duemila libbre di caratteri e per la cui stereotipia s'erano fuse dieci tonnellate di metallo.
Alla prosperità della stampa nord-americana tre cose hanno principalmente contribuito: la libertà completa, il fatto che in nessun altro paese del mondo si legge come negli Stati Uniti, e il grande uso che si fa della réclame.
Dall'Atlantico al Pacifico non si è mai saputo che cosa siano nè gerenti responsabili, nè la censura preventiva, nè l'obbligo di presentare la prima copia al procuratore del re o della repubblica. I reati che si possono commettere col mezzo della stampa sono preveduti e puniti dal codice senza bisogno di leggi speciali.
E bisogna confessare che gli Stati Uniti dimostrano come nessun inconveniente possa venire dalla completa libertà di stampa. I giornali libelli non attecchiscono là, perchè se i libellisti fanno nomi e specificano fatti, vi sono i tribunali che li fanno smettere, e se calunniano con vaghe allusioni non compromettenti, i loro fogli non vengono letti e cadono ben presto sotto il peso del pubblico disprezzo.
Rimane la questione politica, l'offesa al capo dello Stato, alle istituzioni e via dicendo. Ebbene, o il giornalista calunnia, e allora, come per i privati, c'è il giudice; o dice la verità, e in questo caso ha il diritto di stamparla. Un esempio fra mille che si potrebbero citare. Quando risultò che il presidente Hayes era riuscito eletto per frode in luogo di Tilden, il Sun di New-York un bel giorno stampò un gran ritratto del presidente, sulla cui fronte era incisa a grossi caratteri la parola Fraud: l'immagine di Hayes, con la taccia di ladro scolpita in fronte, circolò così a migliaia di copie in tutti gli Stati Uniti. Se l'Hayes non era realmente un imbroglione, avrebbe permesso lo scandalo? No, certo; ma si sapeva colpevole degli intrighi addebitatigli e dovette tacere, sicuro che, citato in tribunale, il Sun gli avrebbe provato con le cifre di avere stampata la sacrosanta verità.
La stampa, dicono gli americani, non è altro che la pubblica manifestazione delle opinioni. Se le opinioni sono libere, se in un paese retto da una data forma di governo si è padroni di patteggiare per un'altra, perchè non si deve essere liberi di stampare ciò che si pensa, ciò che si dice tutti i giorni conversando in pubblico?
Non è per la morale, aggiungono, o per proteggere l'onore delle persone che in Europa s'inceppa la libertà della stampa; è perchè si teme la propaganda di quelle idee coll'avanzarsi delle quali certi governi devono inevitabilmente cadere. Libero intieramente non è quel paese dove gli onesti cittadini d'ogni partito non possono liberamente manifestare i loro pensieri su qualsiasi argomento e su quello politico in ispecie.
La grande diffusione e i guadagni che in ragione di essa procura la pubblicità, permettono ai giornali americani di eccitare, pagando bene, le attitudini di una quantità di bravi reporters, ognuno dei quali ha una specialità— sport, hig-life, descrizioni di feste pubbliche, descrizioni di delitti e inchieste sui medesimi, descrizioni degli incendi, resoconti di meetings, di processi, di sedute del Consiglio comunale, della legislatura dello Stato o del Congresso di Washington, teatri, bassifondi, curiosità d'ogni genere—e tutte queste qualità di reportage formano poi una delle specialità della stampa americana.
Il vero reporter, quello che ha intelligenza, vocazione e passione per il suo mestiere, sta sempre all'erta, come una sentinella, come un agente di polizia o un pompiere, in attesa di una parola, di un'informazione, di un dispaccio o di un avvertimento telefonico che gli segnalino il fatto del giorno riguardante il servizio a cui è addetto. Ricevuta la prima notizia, egli entra in un periodo febbrile di attività. Dimenticando fame, sonno e qualunque altra cosa, corre col mezzo più rapido sul luogo dove è successo il dramma, il furto, l'incendio, lo scontro ferroviario, la collisione nella baia, l'avvenimento qualunque esso sia; si scolpisce in mente la scena con la precisione di una macchina fotografica; interroga i superstiti, i testimoni, i feriti, gli agenti della forza pubblica, e con un pezzetto di lapis, con pochi segni quasi stenografici, nota ogni cosa, raccogliendo i particolari più minuti, frettoloso e diligente nello stesso tempo, in preda sempre a uno strano orgasmo, smanioso di arrivare il primo e di avere la maggior copia di informazioni, e conservando contemporaneamente una flemma, un sangue freddo che gli permettono di non dimenticare la più piccola circostanza.
In quel momento il buon reporter è come la personificazione della curiosità pubblica; egli sente istintivamente la sua importanza di rappresentante di un giornale, il quale ha migliaia di lettori avidi di essere ben informati, e reputa come un diritto la facoltà di entrare dappertutto, di interrogare, di investigare, come se fosse un detective o un giudice istruttore.
È in tale periodo che il reporter non conosce ostacoli e che, per saper tutto nel più breve tempo possibile, diventa astuto, audace, indiscreto e magari anche arrogante. Non è più lui che agisce, lui, che magari nella vita privata è un tranquillo e indifferente giovanotto: egli corre e lavora mosso, come per una misteriosa suggestione, dalle esigenze della stampa moderna, da quella forza che è il giornale diffuso. La sua personalità sparisce completamente: dimentica la salute e la famiglia e affronta qualsiasi pericolo colla massima indifferenza. In una guerra, marcia coll'avanguardia, sotto le prime palle, per descrivere le prime scaramuccie; nelle epidemie va a visitare i malati nei centri più infetti; negli incendi si spinge coi pompieri nei punti più minacciati da scoppi o da crolli di mura; nelle pubbliche dimostrazioni deve essere alla testa, fra gli spintoni e magari le schioppettate; nei tempi ordinari bazzica ogni giorno negli ospedali, nelle sale anatomiche, nelle camere mortuarie, nelle prigioni e nei luoghi meno puliti, nello stesso modo con cui va ad assistere a un processo celebre o ad una festa di lusso.
Vi sono dei reporters specialisti per inchieste segrete, per investigazioni su misteri che la stessa polizia non è stata capace di scoprire, pronti a tutto per ottenere lo scopo.
Un giorno si sparse a New-York la voce che gli alienati rinchiusi in un manicomio municipale erano vittime di sevizie e di violenze da parte dei medici e degli inservienti. I giornali ardevano dal desiderio di pubblicare informazioni esatte in proposito; ma come ottenerle? Il personale sanitario e di servizio si guardava naturalmente dal dire la verità e alla testimonianza di qualche pazzo guarito non si poteva attribuire molta fede.
Il city editor (cronista) del New-York Herald convocò la squadra dei suoi reporters e disse che bisognava ad ogni costo penetrare nel manicomio e sorprenderne i misteri. I bravi giovani, che già avevano fatto e girato molto invano, si torturavano il cervello, quando uno di essi si avanzò calmo e sereno e annunziò d'aver trovato il modo di saper esattamente quanto avveniva fra le mura del manicomio in questione.
—Come? In che maniera?—gli si domandò.
—Ecco:—egli rispose tranquillamente—io fingerò d'essere diventato pazzo, mi farò rinchiudere là dentro cogli alienati; appena avrò visto e notato tutto, guarirò; e il pubblico sarà informato d'ogni cosa. Silenzio e prudenza!
E, salutati i colleghi, corse a casa e si chiuse a chiave nella sua stanza.
A mezzanotte si odono in quella casa delle grida furiose, degli urli disperati. Tutti i vicini si svegliano; la vecchia signora, presso la quale il reporter dell' Herald abitava, corre alla stanza da cui proveniva il baccano, trova l'uscio chiuso, bussa, e non ottenendo risposta mentre le grida continuavano terribili, fa aprire da un fabbro la porta e vede il reporter che si rotolava in camicia sul pavimento, cogli occhi stralunati, con la schiuma alle labbra.
Interrogato, il reporter non risponde; urla sempre in modo compassionevole, e nei rari intervalli di calma non pronunzia che frasi insensate.
Si chiama un'ambulanza e il giovane viene condotto alle prigioni e rinchiuso in una cella delle Tombs —il carcere principale di New-York. Dopo tre giorni un medico constata che egli è pazzo, con accessi furiosi, e lo manda a quel tale manicomio municipale.
I giornali cittadini raccontano il fatto e deplorano con vivo dispiacere che un collega, così buono e valente, sia stato colpito da una simile disgrazia. Passano tre mesi: le voci che circolavano sui misteri del manicomio parevano svanite, quando una mattina il New-York Herald esce con una relazione in minutissimo carattere che occupava due pagine intiere, nella quale il reporter «guarito» narrava diffusamente ciò che accadeva nel manicomio: le voci corse erano vere ed egli raccontava storie di sequestri di persone sane, di torture, di fame, di sete, di patimenti atroci, inauditi.
La relazione finiva coll'invitare gli increduli a visitare il reporter stesso, il quale era uscito dal manicomio magro, pallido, sfigurato, che pareva un Ecce Homo. Non occorre dire che le rivelazioni dell' Herald provocarono una rigorosa inchiesta che pose fine agli abusi e ai mali trattamenti.
Il giornalismo americano ha molti difetti che facilmente si perdonano quando si vede che sua cura principale è di descrivere e raccontare tutto ciò che succede in modo imparziale, non preoccupandosi che dell'esattezza e della sollecitudine. Quelli che da noi si chiamano articoli di fondo e che spesso non sono che noiose tiritere e soliloqui di redattori che pretendono di giudicar tutti e di parlare di tutto, anche delle questioni che meno conoscono, nei giornali nord-americani si riducono a brevi e succose note, a commenti stringati, nei quali sono espressi sulle cose del giorno i pareri di uomini competenti. Negli Stati Uniti si crede che il giornale debba essere quasi unicamente un bollettino delle notizie di tutto il mondo, un resoconto preciso di ciò che succede: i giudizi devono essere lasciati al gran pubblico. Se il giornale ne vuole esprimere, devono provenire da gente che conosce a fondo l'argomento.
—In quanto ai commenti sulle questioni del giorno che non implicano speciali conoscenze—diceva un giorno il signor Dana, direttore del Sun, in una riunione di giornalisti—per dare efficacia alle note editoriali occorrono i seguenti ingredienti: buon senso; fede sincera nei principî democratici e in quella grande esposizione dei diritti dell'uomo che è la costituzione degli Stati Uniti; l'abilità di esprimere le idee chiaramente, senza ambiguità; il tutto condito da una dose abbondante di umorismo e di spirito.
Con lo sviluppo preso dalla stampa negli Stati Uniti è naturale che i giornalisti americani parlino con compassione dei loro confratelli d'Europa.
—Tutti i giornali parigini—mi diceva un redattore del Cornhill Magazine —pubblicano molte appendici e nessuno di essi dà una relazione esatta, imparziale, coscienziosa, di un meeting politico. Alcuni hanno adesso qualche reporter cosidetto all'americana. Ohimè, quale meschinità! Il sedicente reporter all'americana ha la specialità delle interviste colle celebrità del momento, di strappare i segreti dal petto dei diplomatici e degli uomini di Stato, e di corrompere i camerieri dei re in viaggio per sapere quello che il monarca mangia a colazione. Il reporter all'americana giunge certamente a sapere una quantità di fatti interessanti, ma i resoconti che scrive o che telegrafa sono troppo pieni della sua personalità.
Uno dei più giovani giornali di New-York che in pochi anni seppe raggiungere una tiratura media quotidiana di trecento mila copie, è il N. Y. World, fondato e diretto da Joseph Pulitzer, il quale, all'angolo di Park Row e di Frankfort Street, si è costruito un ufficio che costa due milioni di dollari, altissimo, di tredici piani, sormontato da una torre di cinque piani e del diametro di cinquanta piedi.
Gli uffici di redazione e di reportage si trovano appunto in quella torre che è il building più alto della metropoli, dove sono anche i locali pei compositori, con ampi finestroni tutto all'intorno e il restaurant cooperativo per gli impiegati del giornale.
A pianterreno sono situati gli uffici per l'amministrazione, per le inserzioni a pagamento, per la distribuzione e la spedizione del giornale; nel basement (sotterranei) una macchina motrice della forza di mille cavalli; la macchina per gli elevators (ascensori); l'officina per la stereotipia delle forme; le dieci macchine quadruple, della forza di seicento cavalli, che stampano il giornale; la macchina elettrica, che alimenta 3500 lampade; quattro elevators pneumatici per portare la carta.
Gli altri undici piani sono destinati a uso di uffici, di cui centocinquanta sono affittati.
L'edifizio è provveduto di sei ascensori: due pei compositori tipografi; tre per gli uffici appigionati, e uno che parte dal pianterreno, e, senza fermarsi, va direttamente al piano decimottavo, riservato esclusivamente ai reporters e ai redattori.
Le spese di redazione del New-York World oltrepassano di molto il milione di dollari all'anno.
XI.
Un'altra lezione.
—Ebbene, il sindaco di Meffilld ha finito la sua apologia degli Stati Uniti?—domandai alla signorina Mary la prima volta che la vidi dopo la nostra gita a Boston.
—No—rispose sorridendo—egli parla anche del mandato imperativo, che è una delle nostre cose migliori.
—Non ve lo contesto, quando penso a certi deputati dei paesi latini i quali dicono ai loro elettori: «Studierò la questione, agirò secondo la mia coscienza…» quasi che venissero mandati al Parlamento per fare un corso di studi e non già per agire secondo il programma dei cittadini che li hanno eletti.
—Precisamente il contrario di quello che succede qui, dove l'eletto non è che il portavoce dell'elettore e non può agire che nel senso del suo mandato. Il membro del Congresso non deve far altro, nei suoi discorsi e nei suoi voti, che difendere i principi dell'assemblea di elettori che lo ha nominato.
—E colui che qualche volta tentennasse?
—Sarebbe additato come un traditore e disprezzato anche dal partito avverso a cui avrebbe portato il suo aiuto. Tempo fa un certo Haigh, rappresentante della California, avendo, in una questione di principio, votato contro l'opinione democratica che era quella dei suoi elettori, fu, uscendo dalla seduta, ucciso in un duello al revolver, sulla scalinata del palazzo legislativo, dal giudice Field, che rappresentava esso pure la California. E ciò accadde fra gli applausi dei rappresentanti dei due partiti, unanimi nell'odiare tutto ciò che è viltà e capitolazione della coscienza politica.
—Il sistema di punizione è molto radicale!
—Noi pensiamo—diceva il sindaco di Meffilld—che la maniera con cui il nostro rappresentante eseguirà il suo mandato, sarà subordinata al suo grado d'intelligenza, alla sua abilità, alla sua capacità; non possiamo su tutte le questioni tracciargli la linea di condotta: ma c'è un punto sul quale siamo in diritto di pretendere che non transiga sotto pena di non rappresentarci più; egli deve restare fedele al partito dei suoi elettori. Che se nel corso della legislatura le sue opinioni cambiassero su qualche punto importante, egli dovrebbe dimettersi, poichè non fu inviato al Congresso per fare la sua educazione politica o per eseguire delle variazioni di coscienza, ma bensì per rappresentare un dato numero di concittadini dei quali ha accettato il programma.
—Giustissimo.
—Voi vedete—seguita a dire il buon sindaco—che da una macchina incosciente per votare, all'onesto uomo il quale resta fedele al programma politico che ha giurato ai suoi elettori di difendere, c'è una bella differenza. Invece di accettare un candidato che domanda la deputazione, respingetelo, concludeva, per questo solo che egli si presenta da sè (non può essere che un ambizioso volgare); scegliete voi stessi il vostro rappresentante fra i galantuomini che avranno accettato il vostro programma, e allora non esporrete più il vostro paese a cadere sotto il giogo demoralizzatore di un parlamento il quale non tiene conto alcuno della volontà nazionale e di cui tre quarti dei membri hanno la pretesa di non rappresentare che «la propria coscienza.»
Dopo una breve pausa, la mia studiosa amica continuò:
—Negli Stati Uniti abbiamo poi l'istruzione veramente estesa a tutti, ricchi e poveri, in un modo più pratico che non si faccia in Europa, senza greco e senza latino. Noi non ammettiamo che, vivendo in società, un padre possa fare di suo figlio un essere nocivo o inutile coll'ignoranza. A questo proposito il vecchio di Meffilld diceva a Jacolliot: «Fate dell'ordine con molta libertà ed una istruzione solida ed eguale per tutti. Invece di concentrare la vita pubblica in poche città che custodite con molti soldati, date a tutti i comuni la loro completa autonomia amministrativa, non occupatevi dei loro affari come non vi occupate di quelli di un privato, e vedrete che finiranno le rivoluzioni. Ma sopratutto non separate la libertà dall'istruzione: l'una non può esistere senza l'altra. La scuola deve essere lo stabilimento più importante del comune: fate passare il vostro suffragio universale dalla scuola ed esso si dirigerà da sè.» Ecco tutta la scienza sociale…
—Non dico di no, ma…
—Non c'è ma che tenga. Jackson Davis, un nostro noto pubblicista, ricordava a questo proposito al signor Jacolliot l'esempio di ciò che è successo in Francia dopo i disastri del 1870, nella Francia che manca sempre di uomini politici e che è governata da politicanti volgari, da ambiziosi senza carattere e senza principi. Caduto l'impero e proclamata la repubblica, si aspettava qui ansiosamente di sentir annunziato dal telegrafo il vigoroso proclama d'un governo provvisorio qualunque, che chiamasse la Francia intiera prima alle urne e poi alle armi. E immensa fu la sorpresa negli Stati Uniti quando si sentì che i capi della Sinistra avevano formato un governo che non sottoponevano neppure all'accettazione della Francia. Essi si impadronirono di quel potere che nessuno ha il diritto di esercitare senza una delegazione diretta, regolare, espressa della nazione.
—Il nemico aveva invaso il paese, e tutti avevano perduto la testa: erano momenti eccezionali.
—Jackson Davis dice appunto che sarebbe uscito qualche cosa di grande da un'assemblea di sette od ottocento membri, nominati davanti al nemico, e che avrebbe tenuto le sue sedute tutta fremente, al chiarore degli incendi di Bazeilles e Châteadun. La Francia aveva bisogno di uomini energici e in quell'assemblea se ne sarebbero rivelati. E poi sarebbe stato il paese che avrebbe decretato, agito, combattuto, e non già una dozzina di individualità senza mandato. Jackson Davis crede che Gambetta, col suo ardente patriottismo e colla sua energia, avrebbe salvato la Francia senza il tradimento di Bazaine; ma crede altresì che Bazaine avrebbe esitato a tradire, se la Francia fosse stata governata da una assemblea uscita dal suffragio popolare.
—È probabile.
—Non dimenticatelo! esclamava Davis: tutte le avventure che capiteranno ancora alla Francia e ai paesi che le somigliano saranno dovute ai politicastri, che spingono il popolo nella via delle rivoluzioni senza averlo preparato alla pratica della libertà e senza conoscere essi stessi, come hanno dimostrato, le istituzioni che formano la grandezza e la forza dei paesi liberi. I vecchi paesi d'Europa non hanno che un mezzo per rialzarsi: fare la crociata dell'istruzione, fondare delle scuole, combattere senza posa l'ignoranza, allevare una generazione di cittadini, nella quale non vi sia uno solo che non conosca la storia politica, sociale, industriale e scientifica dell'umanità. Poi devono predicare l'indipendenza intiera, completa, dei comuni, fare dei costumi repubblicani, e allora avranno fondato per sempre la libertà.
—Siamo d'accordo: solamente….
—Solamente bisogna ricordarsi che la libertà si acquista e non si conquista, che un progresso è sempre il corollario di un altro progresso realizzato e che coi colpi di mano e con le rivoluzioni non si arriva che al dispotismo. Al principio stesso della rivoluzione del 1789 tutti i grandi uomini di Stato americani, Hamilton, Morris, Jefferson, Madison, John Adams non credettero ad un successo definitivo perchè era cominciata col disordine e coll'anarchia. Il giorno 8 ottobre 1789, quando Luigi XVI possedeva ancora una parvenza di autorità, Washington rivolgeva queste parole profetiche al rappresentante degli Stati Uniti in Francia: «Desidero di ingannarmi, ma se ho ben compreso il carattere della nazione francese, io temo che vi sarà molto spargimento di sangue e un dispotismo più rude di quello che essa si lusinga di aver distrutto.»
—Washington sapeva che fu più difficile sbarazzare gli Stati Uniti dal disordine e dai politicanti ambiziosi, che dalle truppe inglesi.
—Non fu già cacciando gli inglesi e versando il proprio sangue per l'indipendenza dell'America, che Washington e i suoi amici hanno reso i maggiori servigi al loro paese: fu dandogli una costituzione. E non era una cosa facile il mettere d'accordo, dopo la vittoria, non solo i vari Stati unitisi per sottrarsi all'autorità dell'Inghilterra, ma anche gli uomini che con la penna o con la spada si erano distinti durante quella guerra. A sentire certi politicanti europei, nell'America del Nord il terreno era pronto, qui non c'erano nè un passato monarchico, nè partiti, nè divisioni, nè odii, e la Repubblica si fondò senza sforzi, come un semplice risultato della situazione.
—Se non avevano degli uomini come Washington e compagni, stavano freschi anche qui!
—Oh! meno male. Chi ha studiato un po' la nostra storia, sa che, all'indomani della pace, esercito e Congresso entrarono in lotta: vincitore dello straniero, l'esercito aveva la velleità di rappresentare una parte all'interno; lo spirito pretoriano s'infiltrava nei ranghi dei soldati, gli ufficiali volevano conservare e gradi e paghe, e vivere sul bilancio; essi mantenevano l'agitazione mentre il Congresso, il quale aveva imparato dalla Storia come si svegliano le nazioni che s'addormentano fra le braccia dei militari, voleva licenziare l'esercito. Due volte l'esercito si ammutinò, rifiutando di riconoscere l'autorità del Congresso. E due volte Giorgio Washington, suo capo supremo, approfittando della sua influenza e del culto fanatico che l'ultimo dei soldati professava per lui, lo fece tornare al dovere.
—Se non c'era lui!
—Un giorno un proclama anonimo chiama l'esercito a un meeting e lo invita a offrire la dittatura al suo capo; Giorgio Washington accorre e rivolgendosi ai suoi soldati, grida: «Non crediate che io acconsenta ad accendere la discordia e la guerra fra l'esercito e l'autorità civile. L'Europa ha ammirato il vostro coraggio e il vostro patriottismo; distruggerete voi in un istante una riputazione acquistata con tanta fatica? In nome della vostra patria comune, in nome dell'onore vostro che deve esservi sacro, in nome dell'umanità, se ne rispettate i diritti, in nome dell'onore nazionale e militare dell'America, esprimete l'orrore che deve ispirarvi l'uomo, il quale con speciosi pretesti tentasse di distruggere i fondamenti della nostra libertà, di suscitare la guerra civile e di annegare nel sangue un impero appena nato.» Fu in questi termini che Washington rispose all'offerta di un trono appoggiato sull'esercito.
—Se egli fosse stato un avventuriero, un ambizioso, addio libertà nord-americana!
—L'istituzione della repubblica negli Stati Uniti si deve realmente in gran parte all'onestà di un uomo. Passato quel pericolo, si dovette lottare cogli interessi differenti e spesso contrari degli Stati e con le varie teorie degli uomini politici. Dal 1783 al 1789 l'America del Nord visse schiacciata dai debiti, senza unità all'interno e senza prestigio all'estero. Invitato da Henry Lee ad accorrere per salvare la patria, Washington rispondeva invariabilmente che bisognava fare una costituzione, la quale conservando l'indipendenza degli Stati, creasse l'unità dei popoli nord-americani, la forza federale. E fu solo quando si diede retta a Washington e gli Stati nominarono un Congresso incaricato di redigere quella costituzione, che l'America trovò la pace. Non si venga a dire, dunque, che la repubblica degli Stati Uniti si è fatta facilmente e senza disordini, quando per venti volte corse pericolo di fallire.
—Negli Stati Uniti il federalismo ha costituito l'unità del paese, e in Europa c'è un partito numeroso che lo respinge come pericoloso per l'unità nazionale!
—È l'osservazione precisa fatta da Jacolliot a Jackson Davis, il quale gli rispose che questo partito è quello che tenta continuamente di far l'avvenire con l'aiuto della leggenda del passato, e che, erede delle dottrine dei giacobini, sogna una repubblica autoritaria con un presidente dai poteri estesi. Ora è stato precisamente questo partito che coi suoi eccessi ha ucciso il movimento pacifico delle idee dell'ottantanove: è questo partito, che, con la sua ignoranza, con la mancanza di spirito politico e col sangue sparso inutilmente e stupidamente, raggruppò la Francia intiera e l'esercito intorno a Cesare. Fu ancora questo partito che perdette la Francia nel giugno 1848, il 4 settembre 1870 e il 18 marzo 1871. Esso non respinge il federalismo (il quale creando l'indipendenza e l'autonomia completa dello Stato-Provincia e del Comune per tutte le questioni d'amministrazione interna, distruggerebbe per sempre l'idea monarchica) se non che per governare a sua volta il paese, imponendogli le sue idee.
—Ma chi le insegna al popolo queste cose?
—Eh! pur troppo, son pochi gli onesti e i disinteressati che vogliano presso voi farsene banditori. Jackson Davis dice che c'è una storia da rifare in Europa per il popolo ed è quella della rivoluzione dell'89. La massa, nel suo insieme, ignora il lavoro di preparazione di tutti i grandi spiriti del secolo decimottavo; essa non sa a che punto le idee di eguaglianza e di libertà avevano fatto strada nel mondo, e che la maggior parte dei troni erano occupati da principi molto più liberali della maggior parte dei loro sudditi; essa non sa che il lavoro delle riforme era finito il 4 settembre 1791 e che la Convenzione, innalzando la forca sulle pubbliche piazze e terrorizzando, uccise la libertà. Ebbene, se il popolo ignora queste cose, se è sempre pronto a imitare gli eccessi della Convenzione, se la Comune fucila e incendia, se migliaia di poveri diavoli sono morti sotto la mitraglia nelle giornate di giugno come in quelle di maggio, di chi la colpa, se non di quegli uomini che per quindici o vent'anni hanno lusingato la folla per farsene un piedestallo, parlandole continuamente della sua sovranità, dei suoi diritti imprescrittibili, dei principî della immortale rivoluzione, senza farle conoscere che tutti questi diritti hanno come corollario altrettanti doveri e che nulla si acquista nè si conserva senza la saggezza e la moderazione?
—Ah! i demagoghi: ha ragione Dario Papa che li odia tanto.
—Jackson Davis diceva a Jacolliot che lasciando l'America del Nord avrebbe portato con sè una provvista di odio vigoroso contro gli ambiziosi che insanguinano periodicamente la Francia. E tornava a battere quel chiodo, che in Europa non avete degli uomini politici, ma degli agitatori, i quali quando hanno rovesciato un governo, credono d'aver fatto tutto inalberando sui muri le insegne della repubblica, invece di preoccuparsi, sopratutto e innanzi tutto, di cambiare le istituzioni. Le riforme verranno un po' alla volta, essi dicono; bisogna tener conto dei pregiudizi e degli interessi; e, mentre distribuiscono i portafogli e mandano i loro amici nelle prefetture, tutti gli ingranaggi monarchici che essi non hanno osato di spezzare, si muovono….
—E continua a funzionare la macchina di prima!
—Come americano, conchiudeva Jackson Davis, io non sono partigiano delle rivoluzioni; credo che il progresso si possa conquistare con le lotte intelligenti e pacifiche, e che non vi sia governo, il quale non sia obbligato di seguire il movimento delle idee. Noto che in Europa i popoli i quali non fanno rivoluzioni a mano armata, l'Inghilterra, il Belgio, la Danimarca, la Svezia, l'Olanda, la Svizzera, sono i più liberi.
A questo punto la signorina Mary, che con tanta foga e convinzione mi aveva riassunto le sue lezioni ed esposte le idee e le osservazioni di Jacolliot e di Jackson Davis, s'interruppe e mi guardò.
—Ma io mi accorgo—mi disse di lì a un momento—che voi ascoltate senza manifestarmi il vostro intimo pensiero. Mostrate di approvare, sì, ma con qualche restrizione.—Che cos'è che avete ancora da dire a carico degli Stati Uniti dove io sono nata, contro la mia patria?
Stavo finalmente per rispondere ed esporre ciò che mi veniva con insistenza alla mente durante gli istruttivi discorsi della mia brava amica, quando il treno dell' Elevated, che ci trasportava a casa dalla passeggiata, si fermò alla stazione vicino all'abitazione di Mary. Dovemmo scendere in fretta.
—A dopo domani, dunque—mi disse Mary mentre io la salutavo.—Le mie lezioni sono finite e voglio assolutamente sentire quello che finora mi avete taciuto.
XII.
Dario Papa in America.
Nel capitolo precedente si è nominato Dario Papa, il valoroso direttore dell' Italia del Popolo, uno dei più forti scrittori che onorino il giornalismo italiano.
Vi sarebbe uno studio psicologico interessantissimo da fare sul giro compiuto negli Stati Uniti da Dario Papa mentre io mi trovavo a redigere il Progresso Italo-Americano di New-York e sul suo nuovo indirizzo politico dopo quel viaggio, indirizzo che sorprese solamente coloro che non conoscevano Papa da vicino e che parve invece logico e naturale a chi era testimonio dei suoi scatti nervosi di ribelle, dei suoi sfoghi tanto contro i ciarlatani della democrazia come contro i bigotti della monarchia.
Quando Ferdinando Fontana me lo presentò una sera nel Restaurant Riccadonna in Union Square poco dopo il loro arrivo a New-York, io lo guardai con una specie di ingenua diffidenza, sapendo che era uno dei più reputati redattori del Corriere della Sera e che combatteva cioè per un partito, per il quale, a parte gli uomini, io non avevo molta simpatia.
—Che sia—pensavo—uno di quei giornalisti che pretendono di studiare e di conoscere una nazione in quindici giorni, e che sia venuto qui per mettersi, dopo poche osservazioni superficiali, a scriver male delle istituzioni repubblicane degli Stati Uniti?
Io allora mi trovavo in America da qualche anno; ero reduce da un lungo viaggio nel Far-West e sulle Montagne Rocciose; vedevo che più mi fermavo nel paese e più imparavo a stimarne il carattere degli abitanti e l'organismo politico e amministrativo; e mi irritava la sola idea che un campione del partito moderato italiano si fosse prefisso di fare una rapida escursione nella repubblica nord-americana per non occuparsi che dei suoi difetti e per metterli in ridicolo, esagerandoli, alla scopo di trarne profitto e dire che in fin dei conti è meglio tenersi cara la tale monarchia.
Sapevo già che nei giornali conservatori si ricorreva a questo ritornello, a ogni gaffe dei repubblicani francesi, i quali certamente, avendo conservato tutto l'accentramento delle monarchie e degli imperi, si prestano alle critiche più giustificate, ma che, non fosse altro, si sono liberati da quell'avanzo dei tempi di Bertoldo che è il cosidetto diritto divino.
Ma mi bastò mezz'ora di conversazione per capire che Dario Papa non era uno di coloro che si rinchiudono nella botte dei loro dogmi, rifiutando di vedere e di sentire. Era invece un Diogene uscito precisamente dall'ambiente in cui le combinazioni della vita lo avevano fatto crescere, che viaggiava deliberatamente con la sua brava lanterna per esaminare e studiare il paese famoso della libertà.
E che avesse intenzione di studiare sul serio e profondamente lo mostrò appena arrivato: invece di prendere alloggio in un albergo italiano, incominciò coll'andar ad abitare in un boarding-house americano e a vivere esclusivamente fra gli americani, parlando continuamente inglese, lingua che conosceva imperfettamente e che gli diventò ben presto famigliare.
Poco tempo dopo il suo arrivo s'accorse che New-York non è l'America del Nord e che anzi, per l'affluenza di gente di tutte le razze, è un porto di mare cosmopolita più che una città schiettamente americana. Si persuase che per conoscere bene il paese bisognava spingersi nell'interno, attraversare il vasto continente dall'Atlantico al Pacifico, fermarsi negli Stati centrali, visitare quel curiosissimo territorio che è l'Utah dei Mormoni, oltrepassare la catena delle Montagne Rocciose, arrivare fino a San Francisco, in California.
Per compiere una simile escursione ci vogliono molti mezzi e quelli di cui disponeva Dario Papa come giornalista italiano in vacanza erano piuttosto scarsi, per non dire assolutamente insufficienti. Un altro avrebbe rinunziato al lungo viaggio: egli partì egualmente, sottoponendosi a mille privazioni, pur di vedere e di studiare. Ci vuole una bella dose di energia per intraprendere simili studi!
Quando tornò dopo qualche mese da quel suo viaggio d'istruzione molto dura e spartana, ricordo che era dimagrato e abbronzato dal sole delle grandi praterie, ma contento come una Pasqua, sebbene tormentato di tanto in tanto dalla tosse.
Sceso dalla stazione ferroviaria, prese il tramway della Terza Avenue e venne a trovarmi nell'ufficio del giornale in Centre Street per esprimermi tutta la sua gioia di aver percorso per lungo e per largo il vastissimo paese e per dirmi che solo a quel modo aveva potuto conoscerne tutta la grandezza e vederlo da vicino nella sua agricoltura, nelle sue industrie, nelle sue immense estensioni di terre da coltivare, nei villaggi nascenti e sopratutto nell'esercizio continuo e pacifico della libertà.
Quello che dimenticava di dirmi erano i sacrifici che la lunga peregrinazione gli era costata.
Contenti ambedue di rivederci dopo tanto tempo, andiamo quella mattina a far colazione insieme in un albergo: mentre si mangia allegramente discorrendo dell'interno degli Stati Uniti, sentite un po' che cosa succede. Un pappagallo dell'albergatore si arrampica pian piano sull'attaccapanni, e, senza che alcuno se n'accorga, comincia a lavorare col becco e fa un gran buco proprio nel cappello di Dario Papa, un cappello rotondo di feltro, piuttosto in cattiva condizione.
—Ah! anche questa mi mancava!—esclama Papa, appena se n'accorge.—Non m'era rimasto che un cappello solo ed eccolo rovinato! Dovrò cambiare l'ultimo napoleone d'oro che m'è rimasto…
I napoleoni mi ricordano un altro curioso aneddoto. Prima di partire per l'America, Papa aveva sentito dire che in viaggio era facile essere derubati e che i denari bisognava metterli in una cintura da tenersi sulla pelle. Egli seguì il consiglio alla lettera.
Una sera ci trovavamo a pranzare insieme con altri amici in un restaurant e volle pagar lui il conto. Ma quando questo gli fu presentato dal cameriere, egli s'accorse che aveva dimenticato di preparare il denaro e, senza dir nulla, si ritirò misteriosamente in un camerino attiguo alla sala: era andato a cavare un luigi dalla famosa cintura che teneva sotto la camicia!
Era in certe cose ingenuo e schietto come un bambino. Rimasto orfano da ragazzo e allevato da una zia con cure materne, egli nutriva per quella sua parente un sentimento di vera adorazione, le scriveva continuamente, ne parlava sempre con profonda tenerezza.
Quando si occupava di politica, invece, diventava un altro uomo, irrequieto, nervosissimo, qualche volta violento e intrattabile. Prima di scrivere certi articoli di polemica, passeggiava in su e in giù per l'ufficio, sbuffando tutto indignato, buttando via i fasci dei giornali, apostrofando a voce alta i suoi avversari, chiamandoli pezzi d'asini, bellissimo nella sua irrequietezza e in quegli impeti d'ira. E quando aveva trovato qualche idea felice, qualche frase tagliente, si fregava rapidissimamente le mani sempre camminando, curvo e sorridente.
Pensato l'articolo in quei suoi giri per la stanza, lo buttava poi giù sulla carta in pochi minuti, scrivendo con grande velocità, in preda sempre a una specie di orgasmo. Finito l'articolo, appariva come sollevato da un gran peso, tornava mite e mansueto e cercava con interesse la compagnia di alcune signore newyorkesi molto istruite, con le quali aveva stretto relazione, e imparava non solo a conoscere sempre meglio la società americana, ma anche l'inglese.
Per conoscere da vicino anche il giornalismo, dopo il suo viaggio nell'interno si fermò sette od otto mesi a New-York, collaborando nel Progresso italo-americano e fu in quel periodo che lo vidi lavorare. Egli non si era ancora liberato da certi pregiudizi europei di educazione, di vita pubblica, e in lui aveva luogo una lotta continua fra ciò che aveva creduto fino allora nel mondo vecchio, e ciò che vedeva in pratica coi propri occhi in quello nuovo. Era un lavorìo incessante nella sua mente, che gli dava molta pena e che lo rendeva più nervoso che mai.
Un giorno lo vidi arrabbiarsi al punto da gettar per aria tutti i libri e tutti i calamai dell'ufficio: pareva che stesse per impazzire.
Un'altra volta, era d'estate, stanco di quella battaglia con sè stesso e col suo passato, che lo spossava e lo rendeva come uno straccio, decise di rifugiarsi per un paio di mesi in campagna, e cercò un asilo tranquillo a Bradford, nella Pensilvania.
Ma anche là era la stessa storia; aveva sotto gli occhi l'esempio di un piccolo comune completamente autonomo, che si amministrava in tutto e per tutto da sè, senza bisogno di permessi, di visti, di autorizzazioni prefettizie o ministeriali; vedeva in azione il suffragio universale e il mandato imperativo; notava che il miglior edifizio del paese era quello delle scuole comunali; che i maestri erano pagati molto bene e rispettati come i primi funzionari; che dovunque mancava la burocrazia; che tutte le cose si facevano alla buona, alla spiccia, nel modo più semplice e pratico del mondo.
E anche da Bradford, dimenticando che s'era ripromesso di riposare, mandava di tanto in tanto al Progresso dei lunghi articoli in cui riassumeva lealmente i suoi studi e le sue impressioni.
Prima che egli, completamente persuaso di aver battuto una falsa strada, si decidesse a buttare alle ortiche la cocolla dell'ordine monarchico moderato, ci volle qualche anno; ma fu in quei mesi di viaggi e di osservazioni che cominciò a perdere l'antica fede; da quell'epoca fino al giorno in cui si distaccò completamente dal vecchio partito, fu un periodo laborioso, faticoso e doloroso, di cui egli solo potrebbe fare la storia esatta in uno studio autobiografico, in un libro che riescirebbe di grande istruzione per i nostri giovani, intitolato: Come io diventai repubblicano federalista.
XIII.
L'ultima conversazione con Mary.
Era una triste sera di gennaio, piena di nebbia.
Una nera fanghiglia copriva le strade di New-York e di minuto in minuto si sentivano i fischi lunghi e lamentevoli che emettevano i vapori e i steam-boats per non investirsi nella baia.
Dovendo imbarcarmi il giorno seguente per l'Europa, andavo a salutare la signorina Mary e i suoi parenti che erano i miei migliori amici. Dopo che si parlò del viaggio che avevo da compiere in una stagione così sfavorevole e del piroscafo scelto, la signorina Mary mi ricordò la promessa fattale di esporle il mio intimo pensiero intorno agli Stati Uniti.
—Sentiamo, dunque, un po'—mi disse—l'idea che mi avete sempre taciuta.
—È di una semplicità infantile—risposi.—Io parto pieno d'ammirazione per questo paese il quale, malgrado certi difetti che abbiamo più volte notato insieme, è governato dalla costituzione più democratica che si conosca. Qui regna realmente l'eguaglianza fra i cittadini; non avete esercito, nè Corti, nè ordini cavallereschi; la prima cosa che curano i vostri liberi comuni è la pubblica istruzione; ogni cittadino è elettore; il presidente della Repubblica, sebbene siate tanto ricchi, non vi costa che duecento mila lire all'anno; siete senza burocrazia e l'amministrazione della giustizia procede con grande sollecitudine, senza abuso di carcere preventivo; avete risoluto il problema politico coll'esercizio del suffragio universale e dell'autonomia comunale, coll'esercizio cioè della sovranità popolare; ma non vi siete ancora preoccupati della questione economica.
—È segno che non ne fu sentito ancora il bisogno.
—Ciò è esatto fino a un certo punto. È verissimo che per la estensione immensa del territorio e per la sua ricchezza, per la mancanza dell'esercito, della marina da guerra e di tante altre spese che stremano i bilanci delle Nazioni d'Europa, negli Stati Uniti non si trova la miseria del vecchio continente e i salari sono qui più alti che altrove. Ma non è meno vero che anche voi avete nelle città dei quartieri pieni di gente povera, lacera, affamata, pigiata in cameraccie prive d'aria e di luce; non è meno vero che anche qui vi è dell'infanzia abbandonata e che molte giovani derelitte sono costrette a far mercato di sè stesse; non è meno vero finalmente che i lavoratori di tutte le classi, sebbene relativamente pagati meglio che in Europa, sono sfruttati dai capitalisti e dai monopolii.
—Questo è innegabile.
—Quel sentimento di giustizia e di fratellanza che commuove in questa fine di secolo tutto il mondo e che fa vendere tante migliaia di copie del libro del vostro Bellamy,[Nota: La vita sociale nel 2000, romanzo di E. BELLAMY, tradotto da G. OBEROSLER, sulla 330^a edizione originale americana, ampliata con un Post-scriptum e con l'aggiunta di un Dizionario economico-sociale. Editore Max Kantorowicz, Milano, 1892.—Prezzo L. 1.] non è ancora entrato nel cuore dei vostri legislatori. Neppure qui il diritto all'esistenza è stato riconosciuto. Accanto ai re delle ferrovie, del lardo, del petrolio, della Borsa, di tutte le speculazioni, stracarichi di ricchezze e di diamanti, trovate spesso anche nelle vostre città più fiorenti l'operaio disoccupato e digiuno, l'orfano scalzo, la famiglia senza tetto e senza pane. Come diceva Macaulay molti anni fa scrivendo ad un amico, finchè avrete negli Stati Uniti un'immensa estensione di terra fertile e non ancora occupata, i vostri lavoratori staranno infinitamente meglio di quelli del vecchio mondo. Ma tempo verrà in cui la Nuova Inghilterra sarà popolata come la vecchia. Presso di voi il salario diminuirà e subirà le stesse fluttuazioni come in Europa. Voi avrete la vostra Manchester e la vostra Birmingham dove gli operai, a centinaia di migliaia, avranno sicuramente i loro giorni di crisi. Allora si leverà per le vostre istituzioni il gran giorno della prova. La miseria rende dovunque il lavoratore malcontento e rivoltoso, preda naturale dell'agitatore, il quale gli espone quanto è ingiusta questa ripartizione in cui l'uno possiede dei milioni, mentre l'altro è incerto del pane. Da noi, negli anni di crisi, vi sono molti lagni ed anche qualche tumulto; ma poco importa, poichè la classe sofferente non è la classe governante. Il potere supremo è nelle mani di una classe numerosa, che è la più colta e la quale è e si stima profondamente interessata al mantenimento dell'ordine, alla guardia delle proprietà. Ne segue che i malcontenti sono repressi con fermezza e si passano i momenti critici senza spogliare il ricco per assistere il povero. Ma come ve la caverete voi quando al principio del secolo venturo avrete da affrontare prove consimili?
—Bisogna prevederle e prepararsi in tempo per trovare il modo di superarle felicemente.
—È il voto di tutti, ma l'ipotesi più verosimile è invece che quando arriveranno i momenti tristi, il vostro governo non sarà capace di contenere una maggioranza sofferente e irritata. Perchè qui il governo è nelle mani delle masse, e i ricchi, che sono in minoranza, si trovano in balìa di esse. Giorno verrà in cui la moltitudine, fra una metà di colazione e la dubbia prospettiva di una metà di desinare, nominerà i legislatori. E possibile concepire un dubbio sul genere di legislatori che saranno nominati? Da una parte avrete un uomo di Stato che predica la pazienza, il rispetto dei diritti acquisiti; dall'altra un demagogo che declama contro la tirannia dei capitalisti e degli usurai e domanda perchè gli uni bevono vino di Champagne e passeggiano in carrozza, mentre tanta gente onesta manca del necessario. Quale di questi candidati avrà la preferenza dell'operaio che ha sentito i suoi ragazzi chiedergli del pane? Oh! allora avverranno qui di quelle cose, dopo le quali la prosperità non può più rinascere. Allora, o qualche Cesare, o qualche Napoleone prenderà con una mano potente le redini del governo, oppure la vostra repubblica sarà nel xx secolo saccheggiata e devastata come lo fu l'impero romano dai barbari, con questa differenza: che i devastatori dell'impero romano, gli Unni e i Vandali, venivano di fuori, mentre i vostri barbari saranno i figli del vostro paese.
—Secondo tutte le probabilità—disse la signorina Mary, dopo un po' di riflessione—i barbari verranno fuori prima nei paesi più poveri, in Europa, se i governi del vecchio continente non si decidono a ritardarne l'avvento col disarmo, che vorrebbe dire rifiorimento di tutte le industrie, dell'agricoltura e del commercio, e che nella sola Italia significherebbe una economia di un milione e mezzo al giorno. Ora l'esempio di ciò che succederà in Europa servirà di ammaestramento agli Stati Uniti: almeno speriamolo.
Ed essendo sopravvenuto. Giorgio, si cambiò discorso.
XIV.
Rimpatriando.
M'imbarcai sul Rhynland della Read Star Line una mattina di gennaio, mentre nevicava. Non eravamo a bordo che in cinque passeggieri di prima classe e in cinque di seconda, la maggior parte dei quali appena si prese il largo, essendo il mare molto grosso, si dovettero mettere a letto. Ben presto non rimase più a farmi compagnia a tavola e nello smoking-room che il dottore, un inglese dalla barba rossa, molto amante dei liquori e della birra.
Dopo tre giorni, oltrepassati i banchi di Terranova, il tempo si rasserenò un poco e qualche passeggiero sbucò dalle cabine; ma ben presto tornò la tempesta; il Rhynland riprese le sue danze; l'acqua spazzava ambedue i ponti. Per respirare un po' d'aria e contemplare le ascensioni e le discese del piroscafo, dovetti farmi legare con una corda, dopo aver indossato l'impermeabile, a un albero: era un piacere nuovo quello di sentirsi coprire dalle onde altissime e di sparire di tanto in tanto per un momento sotto il liquido elemento.
Ma per lo più bisognava stare tappati sotto il ponte e io approfittavo della solitudine per riandare il passato e vedere ciò che avevo imparato. Ero stato quasi cinque anni negli Stati Uniti, tre dei quali, gli ultimi, fermo a New-York; sentivo di essermi spogliato di molti pregiudizi, di rimpatriare con criteri più pratici e positivi di quelli con cui ero partito e non vedevo l'ora di arrivare in Italia per fare dei confronti ed esaminare i contrasti che più mi avrebbero dato nell'occhio.
Dodici giorni dopo la partenza dal porto di New-York il Rhynland passava al largo di Lizard Point ed entrava nell'English Channel, pieno di nebbia: dopo mezzogiorno si vedeva a occhio nudo la prima striscia di terra inglese. Erano alcune roccie che scendevano a picco nel mare. Al tredicesimo giorno si entrava nella Schelda e l'Olanda ci si presentò sotto forma di alcuni mulini a vento: nel pomeriggio il Rhynland gettava finalmente l'àncora nel porto di Anversa.
Il treno diretto internazionale Bruxelles-Strasburgo-Basilea mi portava il giorno seguente a Milano. Passate alcune settimane presso i parenti che non vedevo da tanto tempo, intrapresi un breve giro in Italia, per visitare alcune città, come Roma, che non avevo mai visto prima di emigrare in America.
Andrei troppo per le lunghe se dovessi descrivere minutamente tutte le impressioni provate. La prima—provenendo dagli Stati Uniti, paese di settanta milioni di abitanti, dalle grandi città dove il movimento dà le vertigini—è che l'Italia pare un bel cimitero. Con le scarse vetture, coi rari trams, con la mancanza di ferrovie nell'interno, le nostre maggiori città mi sembravano silenziose e come addormentate.
Le strade poi mi apparivano strette in un modo straordinario. Abituato alle ampie avenues dai doppi filari di alberi, quelle che passano qui per le vie più comode mi parevano calli veneziane. Il Po, l'Adige, il Tevere erano diventati per me fiumiciattoli dopo aver attraversato il Missouri e il Mississipì. Trovavo tutto piccolo, gretto, meschino, così negli uomini, come nelle cose. Solo Roma mi presentava qualche cosa di grande; memorie però, del passato; avanzi, come le Terme, i quali dimostrano quanto gli antichi romani fossero più puliti di noi, che non abbiamo oggi nella capitale un grande stabilimento di bagni, riscaldato internamente all'inverno, dove si possa fare una doccia senza buscarsi un raffreddore.
Ma la cosa più brutta di Roma sono le strade selciate così male e per lo più senza marciapiedi, che quando piove si riempiono d'acqua. Aveva ragione Nathaniel Howthorne, nei suoi Italian Note Books, di chiamarle indescribably diseagreable. E la mancanza di water-closets? Il non trovarne di decenti neppure nei caffè più eleganti, pare incredibile al forestiero.
Gli è che da noi si cura più l'apparenza della sostanza. Così abbiamo una quantità di gente che non guadagna dieci lire al giorno e che vuole vestire, frequentare i teatri, tener la casa come se ne guadagnasse venti o trenta. Come faranno costoro? O dei gran debiti o dei gran digiuni.
E l'apparenza non la si ritrova solo nei falsi eleganti, che vogliono vestire meglio di quello che la loro condizione comporterebbe, ma nei discorsi e negli atti più insignificanti della vita. Quanti complimenti, quante chiacchiere inutili!
Un'altra cosa, che in Europa e specialmente in Italia e in Francia fa una sgradevole impressione, è il pullulare dei periodici pornografici, la mostra pubblica delle fotografie di cocottes, di attrici o di ballerine seminude. Un popolo giovane, forte e lavoratore rifugge dalla corruzione. E a proposito di effeminatezza, fa un curioso effetto l'uniforme dei giovani ufficiali con la giubba tanto corta.
Una pessima impressione si riceve poi dalla moneta in circolazione, dalla scarsezza dell'argento, dalla mancanza dell'oro, dall'uso dei grossi soldi di rame e dei piccoli biglietti da cinque e da dieci lire. Il corso del centesimo e dei pezzi da due centesimi da specialmente nell'occhio come un segno di grande miseria.
Una spiacevole impressione fa altresì la caccia che i giovani della piccola borghesia danno all'impiego meschinamente retribuito, invece di dedicarsi all'industria, al commercio, all'agricoltura.
Che dire poi della politica! Si trova che tutto in Italia si fa alla rovescia. Alla vita pubblica dovrebbe prender parte la maggioranza dei cittadini col mezzo del voto, e invece una parte è privata di quel diritto e l'altra, sfiduciata, se ne disinteressa e lascia brigare una piccola minoranza di ambiziosi. All'epoca delle elezioni invece di gran comizi di elettori che, secondo il partito, scelgano i candidati che accettino il loro programma, si vedono dei candidati che si presentano da loro a piccole riunioni facendo essi il programma: precisamente il contrario di ciò che dovrebbe logicamente avvenire.
Tutto alla rovescia, dicevo. Le cure principali dello Stato, delle provincie e dei comuni in un paese come l'Italia dovrebbero essere dedicate alla pubblica istruzione e all'agricoltura, e invece i bilanci di questi due ministeri sono appunto i più poveri e trascurati: e mentre tanti sono i disoccupati che soffrono la fame, si spende un milione e mezzo al giorno nell'esercito e nella marina da guerra, si ha la vanità di costruire dei bastimenti più grandi di quelli dell'Inghilterra e si commette il gravissimo, imperdonabile errore di sperperare milioni in un lembo d'Africa che le potenze più ricche d'Europa hanno sempre sdegnato di occupare.
Si capisce che la causa principale della nostra rovina, dell'abbandono in cui lasciamo l'agricoltura e le industrie è l'esercito permanente. Ma—si dice tutti i giorni—finchè l'Europa intiera non si mette d'accordo per disarmare gradatamente e simultaneamente, chi è che può commettere la pazzia di farlo isolatamente?
E perchè? replica chi viene da un paese senza esercito. Se l'Italia è in pace con tutti e non ha alcuna idea, almeno per ora, di andar a molestare chicchessia, chi è che le potrebbe impedire di sostituire in breve tempo all'esercito permanente tutta la sua gioventù liberamente addestrata al tiro a segno?
Anzichè una imprudenza, non sarebbe, da parte della nazione più giovane, un atto di saggezza e un buon esempio?
Chi può supporre sul serio che un altro popolo da noi non provocato venga a occupare il nostro territorio? E se ciò pure potesse accadere, chi può credere per un solo momento che la gioventù italiana sopporterebbe un invasore in casa? Giusto gli Stati Uniti, nella guerra di secessione, hanno dimostrato come un popolo sa battersi valorosamente anche senza essere regolarmente reggimentato. Ma, senza ricorrere a esempi stranieri, non abbiamo veduto i giovani volontari di Garibaldi? Avevano essi forse imparata la manovra in piazza d'armi?
Lo straniero in Italia! Vedrebbero i paurosi come risorgerebbero i Balilla!
A chi viene da lontano pare veramente strano che per le beghe che la Francia può avere con la Germania o l'Austria con la Russia, l'Italia debba essere alleata con una o due di queste potenze e mantenersi in piede di guerra come esse, levandosi il pane di bocca, indebitandosi fino agli occhi! Sembra poi un colmo il vederla alleata precisamente con la potenza che tiene ancora sotto di sè un lembo di territorio italiano.
Davanti a simili rebus chi viene dagli Stati Uniti pensa subito che eserciti permanenti e alleanze come sono oggi non esistono per il bene e per la sicurezza dei popoli, di cui anzi sono la rovina, ma per il solo interesse delle dinastie quasi tutte imparentate fra loro.
Disgraziatamente la maggioranza del popolo mantenuta sempre nell'ignoranza—poichè anche la pubblica istruzione è regolata più a vantaggio dei ricchi e delle fabbriche di avvocati, che dei poveri—non ha potuto ancora accorgersi che nel nostro bel paese tutto procede alla rovescia; ed è il guaio peggiore, poichè invece di pacifiche e progressive trasformazioni nel meccanismo politico e amministrativo, avremo così un giorno, inevitabilmente, le scosse violente.
In luogo di cittadini istruiti che si mettano tranquillamente d'accordo per modificare lo Statuto e porlo in armonia con le aspirazioni e i bisogni dei tempi nostri, che sono ben differenti da quelli del '48, salteranno pur troppo fuori i barbari, gli unni e i vandali indigeni di cui si parlava con Mary.
A meno che coloro che stanno in alto non aprano gli occhi alla verità e all'amore del prossimo. Come diventerebbero, allora, sul serio, i padri della patria e come oltrechè al bene pubblico provvederebbero anche al proprio.
Ma, sì; andate, parole al vento!
APPENDICE
Alberto Mario a New York.
Fino dai primi tempi in cui stavo a New-York, cercai di raccogliere notizie intorno al viaggio che nel 1858 fece negli Stati Uniti il mio concittadino Alberto Mario insieme con sua moglie, la signora Jessie White.
E seppi che poco dopo essere sbarcato dal Kangaroo, verso la metà di novembre di quell'anno egli fece a New-York, in una Hall della Quarta Avenue, fra la 19^a e la 20^a strada—ora demolita—una conferenza in lingua italiana sulle condizioni d'allora e sulle speranze dell'Italia. Vi assistettero tutti gli italiani più colti di New-York, oltre parecchi americani amanti del nostro paese e profughi stranieri. L'introito fu da Alberto Mario mandato a Mazzini.
Avendo sentito dire dai più vecchi italiani residenti a New-York che il discorso era stato stupendo, e che a loro pareva sempre di vederlo il giovane e biondo patriota, che parlava con l'accento di una profonda fede nella libertà della patria, che affascinava coi suoi grandi occhi e con la bellissima voce, provai un acuto desiderio di ricercare quel discorso ed ebbi la fortuna di rintracciarne una copia—l'unica, probabilmente, esistente—appunto fra le carte della famiglia della signorina Mary.
La madre di Mary, che aveva assistito alla conferenza, mi diceva che doveva essere stata scritta dall'autore durante la lunga traversata dell'Atlantico. A me è sembrata così interessante che, trattandosi anche di uno scritto inedito che è un vero documento storico, chiedo ai lettori il permesso di farne un sunto, citandone testualmente qualche brano.
La conferenza era intitolata: L'Italia, e portava questa epigrafe di Seneca: Vivere, mi Lucili, militare est. (Traduzione libera: Vivere, o fratelli, è pensare, patire e fare ).
Cominciava così:
«Signore e signori: vi venne mai fatto d'incontrarvi in qualche patrizio di stirpe antichissima e gloriosa, presentemente decaduta e nella povertà? Ebbene; l'avrete veduto indolente e altiero, imbelle e millantatore: non vi avrà parlato che degli emblemi della sua arme gentilizia e vi avrà detto:—Questo berretto che sovrasta all'arme è il corno ducale; perchè io sono nipote di dogi: queste bandiere e queste lancie avviluppate, ricordano due miei arcavoli che mossero in Palestina guerrieri crociati. Ebbi fra gli avi miei magistrati integerrimi, letterati insigni, capitani che morirono sulle mura della patria. Sangui illustri per un lungo ordine di generazioni si mescolarono col sangue de' miei maggiori. Non vi dirò nè dei palagi, nè delle ville, nè delle campagne che facevano straricca la mia famiglia.
«E voi, suppongo, avrete interrotto l'orgoglioso ripetitore dell'inventario gentilizio chiedendogli:—Ma tu che possiedi ora? quali sono le opere tue?—Ed egli:—Ma gli avi….—Che avi! parla di te, e rispondi.—E il pover'uomo avrà confessato mormorando:—Nulla!
«Ed a costui le genti straniere assomigliano l'Italia, e la chiamano patrizio spiantato e inetto, e le dicono con sorriso maligno: sta bene, ci hai affaticate le orecchie da lungo tempo narrandoci le tue glorie passate….»
Qui l'oratore, con uno squarcio mirabile in cui sono condensate le più belle pagine della nostra storia, diceva che gli stranieri ricordano che l'Italia, erede della civiltà greca, l'ha diffusa con le sue conquiste nel mondo noto agli antichi, traducendone il pensiero dall'ordine speculativo nella realtà delle istituzioni politiche e municipali, nella pratica delle discipline legislative alle quali tolse il carattere di ineguaglianza civile, che rompeva la società in frammenti gli uni sovrapposti agli altri gerarchicamente, e così si fece precorritrice dell'eguaglianza morale predicata dal cristianesimo.
Nei giorni crudeli e dolorosi in cui la decrepita razza latina si rifondeva nel violento rimescolamento con quelle truci orde venute dall'Asia, l'Italia, col mezzo dei suoi primi pontefici, ha alleggerite le sofferenze agli oppressi, inculcando nel cuore dei tormentatori le pietose dottrine del vangelo, disarmandone le ire e ridicendoli a propositi più miti, e diede asilo segreto nei monasteri a quei tesori di sapienza antica che per poco si sottrassero alle devastazioni della barbarie armata; ha fatto conoscere, che mentre l'Europa dormiva il profondissimo sonno dell'ignoranza, ella, splendida di genio e di dottrina, sorgeva iniziatrice della civiltà moderna con quel miracolo di ingegno che fu Dante Alighieri, il quale non solo ebbe aperti nuovi mondi e vie inusitate alla poesia ed alle arti, ma sorse a formulare la più virile protesta pronunciata da labbro mortale contro il papato degenere e diventato principalissima e perpetua calamità degl'italiani.
Dietro quel Nume della sua letteratura ha fatto conoscere, come astri di corteggio intorno al sole, una schiera di spiriti pellegrini che svilupparono i germi del pensiero moderno raccolti e chiusi nella sintesi dantesca: Petrarca
…..Quel dolce di Calliope labbro Che Amore, in Grecia nudo e nudo in Roma, D'un velo candidissimo adornando, Rendea nel grembo a Venere celeste;
al quale e al Boccaccio l'Europa è debitrice del primo saggio di restituzione delle opere greche e latine, di quel tesoro che, annotato, commentato e volgarizzato, si diffuse mercè le tipografie italiane: imperocchè fino dal 1465 le cento città tramutaronsi in officine ove si sudava alla perpetuazione delle idee.
In tal guisa richiamata l'attenzione e l'interesse del genere umano al mondo reale, esso fu sottratto al suicidio a cui lo avrebbe trascinato il trionfo della dottrina cattolica, la quale insegna che noi siamo qui di passaggio, che la nostra patria è il cielo, che i maggiori nostri nemici sono il mondo e la carne, che la virtù vera, l'ideale divino consistono nel celibato, nella macerazione del corpo e nella verginità custodita in mezzo ai chiostri.
E la letteratura fino a Torquato Tasso fu uno scroscio di risa a questa dottrina, che risuonarono sin entro ai tabernacoli del santuario cattolico; dal Decamerone del Boccaccio alle Novelle di Franco Sacchetti, al Morgante del Pulci, all'Orlando dell'Ariosto, che riassume e sigilla quest'epoca luminosa del Risorgimento; e dopo quelle risa il Cattolicismo non ha più potuto parlare sul serio per gl'intelletti illuminati, imperocchè evidentemente esso aveva compiuta la sua missione sul cammino del progresso universale; e quelle risa prepararono il terreno ed affrettarono l'ora solenne della Riforma; e apostoli primi e primi martiri della Riforma furono cittadini delle gloriose repubbliche italiane: Arnaldo da Brescia, i Catari e i Paterini, e Girolamo Savonarola, che volevano ridurre la Chiesa Romana alle massime dell'Evangelio, e porre in accordo la fede colla ragione; Arnaldo da Brescia sino dai primi anni del secolo undecimo corse la penisola a propagarvi le teorie dell'avvenire che si incarnarono nelle democrazie comunali del medio evo, aiutò Crescenzio a stabilire la repubblica in Roma, dichiarò dal Campidoglio decaduto il papa dal dominio temporale, e fu bruciato vivo dal papa più tardi alla Porta del Popolo: i Catari e i Paterini formavano una grande associazione di repubblicani nel Lombardo-Veneto, e furono scannati in massa dal papa; Gerolamo Savonarola era capo della democrazia pura in Firenze, al letto di morte di Lorenzo il Magnifico gli rifiutò la assoluzione perchè non volle restituire la libertà alla repubblica, ch'egli aveva usurpata, inalberò primo la bandiera «Dio e Popolo,» Savonarola fu fatto gettare sul rogo dal papa.
L'Italia ha fatto conoscere—seguitava l'oratore con un crescendo di eloquenza meraviglioso—che diede all'Europa i primi e più perfetti modelli delle costituzioni politiche; dal meccanismo complicato e sorprendente della Repubblica di San Marco, agli istituti radicali di Firenze, ove si degradava un cittadino malvagio facendolo nobile e si rimunerava il nobile virtuoso iscrivendolo nell'albo dei lanaiuoli e dei tintori, ove fu ideato e praticato il principio di vera giustizia distributiva sociale, cioè a dire la imposta unica e proporzionata sul capitale.
Ha fatto conoscere, che sue sono le massime invenzioni commerciali—la bussola, le banche, i contratti di assicurazioni marittime—e suoi i trovati dei Monti di Pietà; che opera sua furono i grandi e molteplici viaggi e la navigazione; opera sua gli emporî e le corrispondenze commerciali in Europa, in Asia e in Africa, tutte sistemate e protette con trattati e consolati e statuti, i quali costituivano un genere di potenza sconosciuta e che fu estesa per tutto il globo; ha fatto conoscere, che introdusse in Europa, con Leonardo Fibonacci, le cifre arabiche e l'uso dell'algebra, che ha creata la meccanica e ricostrutta dalla base l'astronomia con Galileo, scoperta la circolazione del sangue con Fra Paolo Sarpi, stabilite le fondamenta della matematica sublime con Cavalieri, sciolti i maggiori problemi di algebra con Tartaglia, Cardano, Ferrari, e d'architettura con Brunellesco e Michelangelo, rilevata di pianta l'anatomia con Malpighi, aperte nuove e interminabili regioni alla fisica con la pila d'Alessandro Volta, della quale la telegrafia elettrica non è che una delle numerose applicazioni, ridotta a scienza la legislazione con Accorso, Alciato e Filangieri, spenti i roghi e rotte le funi con Cesare Beccaria, ridotta a scienza l'economia politica con Antonio Genovesi, con Intieri e con Galiani, l'arte militare con Raimondo Montecuccoli e con Napoleone Bonaparte, la politica con Macchiavelli, e la storia con Giambattista Vico, ammonì che tanto importante fu la opera del Vico, e così straordinario prodotto della mente umana, che essa caratterizza le tendenze intellettuali del nostro secolo.
Ha fatto conoscere, che fu maestra solenne nelle arti del disegno e della musica e nominò Ghiberti, Buonarroti, Raffaello, Cellini, Tiziano, Canova, Pergolesi e Rossini, a ciò che ogni uomo s'inginocchi e adori le divine sembianze del genio; ha fatto conoscere, che la filosofia moderna è uscita dalla sua grande scuola filosofica del secolo XVI e XVII, la quale liberò il pensiero umano dall'aristocrazia di Aristotile che lo teneva prigioniero in un circolo vizioso di arzigogoli teologici e lo svigoriva con una ginnastica improduttiva di sillogismi e di entelechie, pasticcio filosofico noto sotto il nome di filosofia scolastica, di cui, com'è naturale, fu patrocinatrice la Chiesa romana; perchè era supremo interesse, era questione di esistenza per la Chiesa romana di perpetuare l'ignoranza, ovvero (che è peggio), non potendo riuscirvi, di evirare lo ingegno con sottigliezze e con metafisicherie, le quali, assurde nella loro base, non possono condurre a nessun risultato pratico, a nessuna utile applicazione.
Sorse Bernardino Telesio, soggiunse, e insegnò che la sola esperienza e il metodo induttivo possono guidare alla conoscenza del vero: Tommaso Campanella sulla traccia di Telesio tentò una ricostruzione enciclopedica delle scienze filosofiche nei loro rapporti cogl'Istituti politici, sociali ed economici; poi in un altro libro segnò le prime linee della società futura, ove sono adombrate alcune idee fondamentali dei socialisti moderni: e quel libro—intitolato «La città del sole»—è la repubblica di Platone presieduta da Cristo.
Il cancelliere Bacone da Verulamio non fu che un continuatore di Celesio, più celebre e più applaudito, ma meno grande di Campanella. Pietro Pomponazzi e Lucilio Vanini si posero intorno ai dogmi, alla dottrina e alla morale del Cattolicismo e assoggettati alla critica della ragione, incominciarono la demolizione scientifica e furono i fondatori di quel metodo che si chiama criticismo filosofico, e i primi maestri di Pietro Bayle, di Voltaire, degli Enciclopedisti francesi. Giordano Bruno nelle sue speculazioni sublimi si distaccò affatto dal sovrannaturalismo, cioè dalla rivelazione immediata divina (onde precorse a Cartesio), e costrusse un sistema di filosofia ove sollevò l'uomo, sino allora depresso, decaduto e maledetto, alle altezze della divinità, fece dell'uomo, di Dio e del mondo un tutto che si manifesta con forme o con rappresentazioni differenti, ma sostanzialmente identiche. L'oratore trovò trasfuso quel panteismo in varia misura nelle opere di Spinosa, di Mallebranche, di Leibnitz, di Hobbes, di Shelling e di Hegel, e conchiuse: quel Panteismo, diventato subbiettivo con Fichte, è il genio della filosofia moderna.
Ha fatto conoscere, che nella giornata di Legnano, fiaccata l'oltracotanza dell'imperatore Barbarossa, guarentì l'esistenza delle due repubbliche; che in Sicilia vendicò l'onta di un'oppressione insolente uccidendo tutti, senza eccezione, i francesi insultatori al suono dei vespri immortali; che la sua Venezia, con una costanza di lotte secolari, ha salvata l'Europa dalla barbarie musulmana; che in Napoli, sotto i piedi della sua plebe, calpestò l'orgoglio di Spagna; che a Genova i suoi popolani (pagina di gloria insuperata) cacciavano ignominiosamente 44 mila austriaci dalle loro mura, e poscia vittoriosamente e per lunghi mesi ne sostennero l'assedio, comechè quegli eterni nemici suoi fossero aiutati dal loro vecchio alleato il re di Piemonte; che combattè con valore antico con le bandiere napoleoniche, e nella disfatta di Russia salvò le reliquie della grande armata francese che, senza gl'italiani, sarebbero tutte cadute sotto la lancia del cosacco; che il suo popolo di Milano sostenne quasi inerme cinque giorni di duello immortale contro 16 mila austriaci e finì col gettarli in isbaraglio talmente, che malconci, disordinati, avviliti, spossati impiegarono la metà di un mese ad arrivare fino a Verona; che in pochi giorni ne cacciò 60 mila dal Lombardo-Veneto e li costrinse fra l'Adige e il Mincio; che il 24 maggio 1848, in Vicenza, 15 mila furono messi in fuga da 8 mila italiani; che nel settembre un pugno di patriotti rompeva più battaglioni di loro in Mestre, faceva centinaia di prigionieri, prendeva sei cannoni, e, quel che più vale, una bandiera giallo nera a viva forza; che un altro pugno di italiani, il 30 aprile 1849, cacciava le baionette nelle reni di francesi fuggitivi.
Alberto Mario continuò:
«Tutto codesto, o Italia, ci facesti conoscere, dicono le genti straniere, e ci ripeti tuttodì, con mille bocche, e tutto codesto è gloria, grandezza, magnanimità, genio; e sta bene. Ma che possiedi ora? Rispondi.
«Dove sono le tue arti? Dove la tua letteratura? Dove le tue scuole filosofiche? Dove i tuoi sapienti che procedano sulle tradizioni di quei grandissimi dianzi rammentati? Dove il frutto delle tue scoperte, delle tue invenzioni, delle tue conquiste? Dove il commercio, le industrie, gli avventurosi veleggiamenti, e le navi temute, e la bandiera formidabile e rispettata?
«Vediamo una bandiera a tre colori sulle fortezze del re Savoiardo, ma quei colori sono impalliditi e guasti da un quarto colore che non è tuo e da uno stemma regio che non è tuo, imperocchè tu non hai altro stemma che la corona di torri, e quella bandiera oggi è fatta cencio e raccolta dietro l'aquila nera dello tsar di Russia, e dietro l'aquila usurpata e infame dello tsar di Parigi. Di'…. Rispondi…. Che sei oggi?
«Schiava invilita tolleri l'onta di un re di Napoli che la storia ricorderà col soprannome di Bomba, il quale flagella i tuoi figli al cavalletto, li tortura con la cuffia del silenzio, e li fa morire di sete nelle carceri, nutrendoli di aringhe salate, per istrappar loro di bocca una rivelazione; l'onta d'un re, che un uomo di Stato inglese, Gladstone, chiamò negazione di Dio.
«Tolleri l'onta peggiore di un prete padre della menzogna che siede principe sulle teste di tre milioni d'italiani, insanguinate da quattro armate straniere; di un prete empio che in nome di Dio taglia le ali al pensiero e soffoca le aspirazioni della coscienza.
«Tolleri l'onta di due tirannucci—quel di Modena e quel di Parma—crudeli quanto sono piccini.
«Tolleri l'onta del soldato austriaco che ti rapisce ogni anno 16 mila de' tuoi figliuoli più eletti, divine speranze del tuo avvenire, che ha bastonate a Venezia e a Milano pubblicamente le tue donne quasi ignude e che ti degrada al cospetto del mondo incivilito. Su via, rispondi. Ma che puoi rispondere? O levati di dosso l'ignominia della schiavitù, ovvero soffri e taci.»
Così l'oratore riassumeva il linguaggio degli stranieri sulla patria nostra, linguaggio per verità, egli stesso diceva, troppo severo e in qualche parte non giusto, perchè, disotto all'apparente quiete di sepolcro che pesava sull'Italia, la sua gioventù generosa e devota stava apparecchiando in mezzo al popolo gli elementi della risurrezione, e ogni qual volta quella falange sacra era scemata di qualche caduto nelle mani del vigile tormentatore, e il quale ascendeva il patibolo gridando: «Viva l'Italia», il posto per lui vacante veniva occupato da altro che immediatamente gli succedeva; e quella falange di apostoli e di martiri evangelizzava la parola di salute col discorso e con la stampa; acquistava e distribuiva armi, raccoglieva continuamente i patriotti in isquadre e in reggimenti invisibili all'oppressore, e di tempo in tempo alcuni di loro insorgevano e lo assalivano per mostrare all'Italia il suo dovere e il suo diritto, per additarle la via unica di compierlo e di esercitarlo per significare ai suoi manigoldi che la battaglia non era punto terminata, e al mondo che l'Italia era schiava per la cospirazione del dispotismo europeo, ma schiava fremente e indomata e che oggi o domani, o più tardi, ma infallibilmente, si sarebbe sollevata ad affermare luminosamente la propria personalità nazionale.
E quella sacra falange, non solo si componeva di patriotti che vivevano nella penisola, ma di quanti dannati all'esilio serbavano in cuore intatta la religione della patria e sentivano l'obbligo imperioso di non istarsene spettatori inerti del lavoro, degli sforzi e della virtù cittadina dei loro fratelli, e coi gomiti sulle ginocchia e la faccia tra le mani, di non attendere che la libertà cadesse dal cielo come le quaglie agli ebrei nel deserto, ovvero che venisse regalata dai re e dalla diplomazia, che ne sono gli avversali naturali e perpetui.
Nè quelle audacie, quel martirio e quell'esempio riuscirono infecondi. Il fremito di patria dei pochi magnanimi oggimai si riappalesava nelle moltitudini, e si capiva che non doveva tardar guari a risuonare la campana a martello del popolo.
—Però—continuava Alberto Mario—finchè rimane il fatto che l'Italia è serva, quel fatto ci vieta di rispondere vittoriosamente alle accuse e ai rimproveri degli stranieri; e siamo costretti a mormorare loro come quel patrizio— avete ragione. Se non che, è in nostra facoltà di poter soggiungere ciascuno e tutti: ma lavoriamo acciocchè quel fatto cessi. E potete voi affermarlo dal canto vostro? Se l'Italia, la santa madre nostra vi domandasse: O voi presenti, che fate per me? Quale risposta potreste darle? Non basta dire: «Laggiù si lavora a quest'uopo»; ognuno di noi è parte d'Italia; e vuolsi che la coscienza di ciascuno di noi ci ripeta: anche io adempio al mio dovere di cittadino.
Quindi raccomandava agli italiani residenti a New-York di non pensare alla distanza che li separava dalla patria, di associarsi e di porsi in comunicazione con quanti si affaticavano pel suo riscatto: la sola adesione morale sarebbe una forza aggiunta al cumulo delle forze che si stavano ragunando ed organizzando contro l'oppressione.
—Propagate la dottrina del dovere fra i vostri fratelli—diceva— ridestateli alla santa carità della patria se mai fosse muta nei loro petti: formatevi in compagnie, in battaglioni, in reggimenti, addestratevi alle armi: date il vostro obolo mensile per acquistarle: qui nel paese più libero del mondo, potete fare apertamente ciò che altrove ai fratelli vostri è interdetto. Provvedete così di trovarvi pronti alla prima chiamata del paese. Colla parola e coll'esempio mostratevi degni della libertà che volete conquistata alla vostra terra materna. Questo libero popolo americano non vedrà più in voi una gente dispersa sulla faccia del mondo senza tenda e senza intento come l'Ebreo errante, ma un sodalizio di confessori di un'idea, di sacerdoti d'una causa sacra e vi avrà in considerazione e rispetto e vi fortificherà della sua adesione morale e forse anche del suo aiuto.
* * *
Nella seconda parte del suo discorso Alberto Mario esaminava la questione di sapere come e sotto quale bandiera l'Italia si sarebbe alzata a combattere la battaglia per l'unità nazionale e la sua indipendenza.
Si accusavano gli italiani di essere discordi; da ogni lato loro si predicava l'unione, perchè, secondo il vecchio proverbio, l'unione costituisce la forza.
—Ma, per avere la forza—diceva l'oratore—vuolsi l'unione di elementi omogenei, se no, in sua vece avremo miscuglio e confusione che generano la debolezza e l'impotenza. Vuolsi una bandiera che rappresenti l'idea nazionale, segni la via che conduce alla meta, e tolga le incertezze, le perplessità e i governi provvisori che partoriscono necessariamente la sconfitta. Si è mai veduta unione più meravigliosa di quella degli italiani nel 1848? Tutti ripetevano ad una voce: «Non si discuta ora di nulla! prima fuori lo straniero, poi c'intenderemo sul da farsi!» e furono veduti re, cortigiani, commissari di polizia, spie, preti, papa e popolo tutti in un mucchio per cacciare lo straniero, e dappertutto governi provvisori e bandiera neutra. E il risultato? L'Italia più schiava di prima. E perchè? perchè quella era un'unione bastarda, un accozzamento assurdo di elementi eterogenei e intrinsecamente nemici.
E qui esaminava codesti elementi e per giudicare il carattere e le tendenze del popolo italiano, ne indagava la vita anteriore. Qual è, domandava, la vita passata del nostro popolo, quale la sua tradizione storica? La risposta si compendia in un motto: la repubblica.
Non andrò, diceva, così lontano da cercarvi le prime radici della tradizione italiana nelle trentasei Lucumonie etrusche, gloriosissima federazione repubblicana che comprendeva oltre due terzi d'Italia, quanto è chiuso tra il Ticino, le Alpi, il Po, l'Arno, il Tevere—da Ercolano e Pompei alla città di Adria:—non nelle repubbliche della magna Grecia e di Sicilia; non nella Repubblica Romana e nell'Impero, degenerazione, o meglio trasformazione della Repubblica Romana, ove l'imperatore era elettivo, nè osò mai chiamarsi re, e imperatore significava comandante di eserciti, e durante l'Impero si è gettata una delle basi del principio repubblicano avvenire—l'uguaglianza sociale.
La Repubblica aveva dichiarata l'uguaglianza fra gli Dei, e aperse il Pantheon a tutti indistintamente.
Stabilito questo principio, doveva derivarne logicamente l'uguaglianza fra gli uomini, perchè la società umana è sempre un raggio riflesso della sua religione. I Cesari, pertanto, furono gli esecutori necessari e forse inconsapevoli del programma religioso della repubblica romana. Studiate Tacito e ravviserete nei Cesari due persone distinte—il mostro e il legislatore.—E voi forse stupirete udendo che Augusto assicura la libertà e la dignità delle donne; Tiberio stabilisce in nome dello Stato il credito fondiario senza interesse; Nerone rende gratuita la giustizia e propone di abolire le imposte, difende la causa degli affrancati contro la nobiltà, e Domiziano ne assicura l'uguaglianza coi cavalieri, e Claudio rende inviolabile la vita degli schiavi; Adriano Commodo e Alessandro proteggono lo schiavo dalla prostituzione, dall'abbandono e persino dall'ingiuria, e Caracalla sorpassa il pensiero dei Gracchi riconoscendo l'uguaglianza sociale in tutto il mondo romano, tanto è grande, nota Edgardo Quinet, la potenza di un nuovo dogma quando comincia a penetrare le istituzioni sociali, che i mostri stessi vi obbediscono! I Cesari, che sembravano altrettante barriere all'innovazione, ne divengono gl'istrumenti servili. Taluno di quei feroci trascina ruggendo il carro dell'umanità. Ma lasciando in disparte queste epoche remotissime, benchè si rapportino alle posteriori e recenti per una catena di nessi, per una sequela di germi sviluppatisi più tardi e che sfuggono agli osservatori superficiali, basta limitare le osservazioni all'età moderna.
Sino dal secolo dodicesimo l'Italia cominciò ad essere popolata di repubbliche da Torino ad Amalfi, tutte d'indole popolare, compresa la stessa Venezia, che serbossi democratica per 700 anni, uscite quasi magicamente di sotto al turbinìo delle trasmigrazioni barbariche, mentre in tutto il resto dell'Europa non ne derivò che il feudalismo—seconda edizione con aggiunte della barbarie.
Dante e Macchiavelli, Enrico Dandolo e Sarpi, Lercaro e Colombo, Giotto e Michelangelo, quanto insomma vi ha di grande negli ingegni, nei monumenti, nei fatti, sino all'età nostra, nacque, crebbe e cessò con le repubbliche.
Ma una cancrena irreparabile erasi infiltrata anticipatamente nel cuore istesso della penisola: e vietò a quelle repubbliche di sentirsi sorelle, figlie d'una madre comune, l'Italia, di stringersi insieme a rendere inaccessibile altrui il mare e le Alpi; inutili Alpi, come le disse Carlo Cattaneo malinconicamente e profondamente. E questa cancrena fu il papato.
I papi dominando sui cuori, sugli intelletti e sulle azioni del mondo occidentale con autorità assoluta ed infallibile derivata dallo Spirito Santo dal quale, ad udirli, pigliavano ogni mattina la parola d'ordine per reggere le pecore umane, cosicchè disponevano a loro talento delle corone dei re e delle sorti dei popoli, i papi spiegarono nel modo seguente la dottrina di Cristo.
Cristo ha detto—il mio regno non è di questo mondo: dunque, soggiunsero i papi, questo mondo appartiene al suo vicario. Stabilita la massima pensarono all'applicazione e riuscirono.
Ma la sovranità morale sulla terra, comechè conquista gravissima e preziosa, non soddisfaceva la loro cupidigia. Volevano qualche cosa di reale, di effettivo e che si toccasse con mano, perchè i papi, del resto, benchè vivano in una mistica conversazione col Paracleto, furono sempre uomini pratici.
Volevano uno Stato e una corona, volevano cioè armi, soldati, pubblicani, birri, ergastoli, forche, carnefice e un popolo da mugnere, scorticare e impiccare, e il tutto a maggior gloria di Dio e della sua santissima religione. E se l'ebbero dagli stranieri che per dieci secoli eglino stimolarono senza posa e affannosamente a irrompere sull'Italia ogni qualvolta il loro regno pericolava, e vi chiamarono successivamente Franchi, Sassoni, Inglesi, Angioini, Spagnuoli, Ungheresi, Turchi, Svizzeri, Francesi, Austriaci per essere protetti dalle impertinenze dei sudditi che considerando il papa-Dio un impostore;—e il papa-re un usurpatore e un tiranno, non avrebbero tardato un'ora, senza quegli angeli custodi, a metterlo alla porta e peggio.
Se non che non si accontentarono di flagellare l'Italia con tutti gli stranieri possibili: perchè il giuoco atroce sarebbe stato ben presto interrotto dalla resistenza concorde delle repubbliche; ma—e qui sta il danno maggiore—posero ogni studio nel suscitare, risuscitare e invelenire l'idra della discordia fra quelle repubbliche, spingendole a sbranarsi l'una coll'altra, e impedendo che germogliasse nel loro animo l'idea salvatrice che tutte erano individui di una stessa famiglia, membra d'uno stesso corpo.
E i papi riuscirono, e Dante, Moroni e Macchiavelli che pensarono e patirono per la unità d'Italia, sono morti inascoltati. Laonde venne fatto allo straniero di piantarvisi definitivamente; le repubbliche a una per una perirono, e l'Italia sin dal 1530—dalla caduta di Firenze—rimase immutabilmente rotta in sette od otto principati, retti da dinastie straniere o bastarde di papi, stabilitevi dagli stranieri e loro vassalle obbedientissime.
Dopo lo stabilimento finale delle monarchie, dopo cioè il 1530, l'Italia cessa di essere un popolo e diventa una mera espressione geografica; non più moto, nè vita politica, nè gloria.
Tutto isterilisce e muore al soffio avvelenato della reggia, come gli alberi e i fiori al vento del deserto: il Papato coi suoi 500.000 frati, colla Compagnia di Gesù, allora allora fondata, e col Concilio di Trento, le uccide l'anima e l'intelletto; lo straniero la depaupera colle imposte e le rapine; i principi vassalli suoi manigoldi le uccidono il corpo con le torture e i patiboli.
Abbiamo veduto, per esempio, organizzare un massacro periodico contro i Valdesi, e quando non si impiegava l'esercito ai servigi dell'Austria o di Francia o di Spagna, sfrenarlo a dar la caccia a quei poveri e pacifici valligiani che non credevano all'infallibilità del papa; e ridurre i poveri sudditi a tale stadio d'ignoranza, che nel secolo scorso istituitasi una Università italiana, narra il Denina, storico ultra monarchico, dovettersi cercare tutti i professori nelle altre parti d'Europa.
Dopo lo stabilimento delle monarchie adunque non più arti, nè lettere, nè storia, nè filosofia.
Dante si è trasformato in Metastasio, il poeta che cantò Cola da Rienzi nell'abate Chiari, Macchiavelli in Algarotti, e Michelangelo Buonarroti in Michelangelo da Caravaggio; le lettere, le arti e la filosofia non vivono che sotto le grandi ali della Libertà. E se qualche poeta o storico o filosofo in nome dell'inviolabilità della ragione è sorto apostolo di verità e di progresso, morì martire; Galileo torturato, Paolo Sarpi pugnalato, Pietro Carnesecchi, Giordano Bruno, e altri bruciati vivi dal Papa; Macchiavelli torturato dai Medici, Campanella torturato sette volte e tenuto in carcere ventisette anni dal proconsole spagnuolo in Napoli, Pietro Giannone dannato a prigione perpetua.
E se in questi tre secoli di lutto e di degradazione qualche raggio di vita gloriosa ha solcato il cimitero d'Italia, non è certamente uscito dalle aule dei re o dal Vaticano, ma dalle viscere stesse del popolo.
Fu il popolo che scosse il giogo spagnuolo in Napoli nel 1647—e nell'anno medesimo, capitanato da Giuseppe d'Alessio, operaio battiloro, cacciò Los Velez vicerè e tutti gli spagnuoli da Palermo e nel 1746 ributtò gli austriaci da Genova.
Fu Venezia repubblica, comechè decrepita e oligarchica, che fece risuonar alto il nome italiano dalle acque di Candia ove vinse i turchi in due battaglie navali, e dalle mura della città ove sostenne un assedio lunghissimo ed eroico.
Finalmente suonò l'ora della resurrezione universale dei popoli. La rivoluzione francese del 1789 diede il segnale del riscatto. La testa di Luigi XVI rotolata ai piedi del patibolo dimostrò che il diritto divino e l'umano appartengono agli oppressi, dopo di cui la storia rovesciò il volume e cominciò a scrivere il cominciamento della fine.
D'allora mutarono i protagonisti del gran dramma della vita: prima erano i re, poi principiarono ad essere le nazioni: scoppiata la lotta definitiva fra queste e quelli, fu una vicenda di disfatte e di vittorie.
A questo punto Alberto Mario domandava:
—Quale è stata la condotta dei re nostri in Italia? Tutti in compagnia dell'Austria, loro naturale sostegno, studiarono di opporsi al torrente delle nuove idee. Il re di Piemonte cercò d'impedire il passo delle Alpi ai repubblicani francesi: vinto e minacciato anche dal popolo, fuggì in Sardegna; il papa fu fatto prigioniero e il re di Napoli riparò in Sicilia. Poco di poi piegate le sorti in loro favore si vendicano atrocemente da Napoli sino a Torino, e migliaia di patriotti periscono per mano del carnefice, e fra essi gli uomini più eminenti d'Italia, o agonizzano nelle segrete, o errano sulla via dolorosa dell'esilio. Nel 1820 e 21, ridestatosi nel popolo il sentimento dell'indipendenza nazionale, egli ne commette l'incarico ai principi che simularono di partecipare, ed è tradito tanto a Napoli come altrove da re i quali passarono in Ispagna sotto le armi francesi a combattere quella medesima costituzione che avevano giurata dinanzi a Dio ed agli uomini. E quivi comincia la tragedia dello Spielberg.
Continuava ricordando che nel 1831 questo popolo insorge di nuovo e crede nel duca di Modena. Il duca svela il disegno all'Austria, fugge in Mantova, trascina seco Ciro Menotti, depositario di tutto il segreto e capo della cospirazione, ritorna e lo impicca.
Nel 1833 nuova illusione, un re italiano offre all'Austria, in espiazione dell'antica macchia di carbonaro non abbastanza lavata al Trocadero, un'ecatombe di patrioti, e onde cattivarsela con nuovi segni di sincera amicizia dà la mano di suo figlio a un'arciduchessa.
Nel 1848 il popolo sorge con tale unanimità di sforzi, con propositi così risoluti e con auspici tanto favorevoli che parve anche agli stessi nemici il tempo segnato dal dito di Dio per la libertà d'Italia, anzi per la libertà europea.
Un'altra volta il popolo italiano, immemore delle terribili lezioni avute, generoso sempre sino ad essere incauto, ne affida il còmpito sublime a due dei suoi re ancora tiepidi del sangue dei fratelli Bandiera, di Vochieri e di Effisio Tola: al granduca di Toscana austriaco e al papa che non ha patria. Che ne consegue? Il papa, alla vigilia della vittoria finale, disapprova la guerra con una lettera-enciclica, e santamente intenerito, stringe in un amplesso paterno i croati suoi figliuoli in Cristo; il granduca cospira occultamente con l'imperatore, e intanto spreme sugo di papaveri sulla Toscana commossa, e più tardi fugge; il re Bomba pensa a massacrare la Sicilia, richiama le truppe dal teatro della guerra nazionale, insanguina Napoli co' suoi svizzeri, e spergiuro e scellerato riconfermasi re assoluto.
L'altro re stassi spettatore indifferente alla lotta ciclopica dei milanesi, e arresta al Ticino la gioventù ligure-piemontese che correva a dividere con Milano i cimenti e la gloria. Cacciati gli austriaci dal popolo, il re costretto dalla minacciosa attitudine dei propri sudditi, passa il Ticino cinque giorni dopo la vittoria lombarda, collo scopo reale dichiarato alle potenze europee di soffocare lo sviluppo della rivoluzione e con quello apparente dichiarato agli italiani di aiutarli fraternamente all'espulsione degli austriaci oltralpe.
Intanto lascia libera la ritirata agli Austriaci che poteva tagliare per la via di Piacenza e di Cremona, si accampa fra l'Adige e il Mincio; in vari scontri col nemico, vince ma non profitta mai della vittoria, e così spegne l'entusiasmo e scema il valore mirabile delle sue truppe, rifiuta il sussidio dei volontari, ammorza l'ardore del popolo, ordina alla sua flotta di non attaccare l'austriaca, lascia aperta la porta del Tirolo, non si cura punto del Veneto, offre agio al nemico di rimpolparsi con nuovi rinforzi, viola i patti preliminari di decidere le sorti interne a guerra vinta, volendo che i Lombardo-Veneti si fondano nel suo regno.
Ottenuta la fusione il 29 maggio, lascia massacrare nel giorno medesimo quasi sotto ai propri occhi in Curtatone e Montanara 5000 fra Toscani e Napoletani che combatterono un giorno intiero contro 16.000 Austriaci. Attaccato egli pure il giorno appresso in Goito, comechè i Piemontesi fossero inferiori di numero sul campo di battaglia, rovescia e sbaraglia Radetzki, che disfatto si ritira in Verona.
E qui il sovrano invece di profittarne inseguendo il nemico, si arresta in Goito e dà un crollo mortale alla fede e alla disciplina dell'esercito, e fa dire al Parlamento in Torino, per bocca di Franzini, ministro della guerra, che non venne perseguitato il nemico, perchè pioveva, quasi che per gli Austriaci il cielo fosse stato sereno. Nella giornata di Goito ebbe anche Peschiera resasi per fame.
Intanto Radetzki passa nel Veneto, si unisce a Welden e con tutte le sue forze, 44.000 uomini, dieci giorni dopo assalta Vicenza che gli resiste per diciotto ore.
L'occasione era suprema. Si sarebbe potuto decidere le sorti d'Italia valicando l'Adige sgombero, e piombando alle spalle del nemico con quindici o ventimila uomini.
Nulla, nulla di tutto ciò.
Radetzki ritorna trionfante a Verona, e il re raccolto il nerbo della sua armata nelle paludi di Mantova per bloccarla e disteso il resto sino a Rivoli, l'assottiglia con le febbri e le scema la virtù con l'inazione.
Ma che voleva egli adunque? Aspettava la fusione di Venezia.
Avuta Venezia il 4 luglio, la offre all'Austria il 7 come prezzo della sovranità di Lombardia. Così rimanevano ancora deluse le speranze dei patrioti italiani.
Intanto Radetzki ricevuti i debiti rinforzi gettasi unito sui Piemontesi e li rompe. Il re, fallitogli il disegno di aver la Lombardia, pensa unicamente a mettere in sicuro la Corona consegnando al maresciallo Milano che era il cuore della rivoluzione: così ammansato il nemico, salvasi dalla temuta invasione oltre il Ticino. Ritornato nel proprio regno, si lusinga nel sollecito ritorno dello statu quo.
Ma 20.000 milanesi, e più di 50.000 delle provincie Lombarde esulati ne'suoi domini, fomentano l'ardore del popolo piemontese di vendicare la umiliazione dell'armistizio di Salasco e di ispazzare l'alta Italia dall'ultimo soldato straniero. E tanto crebbe questo fermento che il re forzato nuovamente alle armi, sguainò la spada unicamente per vedere di stipulare coll'Austria una pace onorevole.
Senonchè i reazionari, ossia i bigotti della monarchia, vedendo, in una vittoria qualsiasi dell'esercito piemontese, risuscitata più gagliarda che mai la rivoluzione in tutta la penisola, e quindi riconoscendo impossibile di venire a patti col nemico quando al re fosse piaciuto, perchè la volontà della nazione risollevata e in armi sarebbe stata più forte della volontà del re e avrebbe travolto il regno nella gran tempesta che sarebbe scoppiata, si accinsero a sfabbricare la disciplina dell'esercito con tutti i mezzi e riuscirono a far nominare un generale straniero, Ciarnowski, esecutore delle sue mene segrete.
Furono adunque disposte le cose in maniera che parte dell'esercito fosse messo fuori di combattimento, parte fuggisse e si disperdesse; ed è quanto avvenne ad eccezione di alcuni reggimenti.
Così Carlo Alberto fu vittima dei suoi cortigiani e dovette abdicare: e la Monarchia Sarda tuttavia pagava nel 1858 una pensione come generale al Ciarnowski.
Siffattamente in tre giorni finiva la seconda campagna regia, e Vittorio Emanuele re successore firmava un trattato coll'Austria nel quale la riconosceva legittima padrona del Lombardo-Veneto, le prometteva pace e buona amicizia, le pagava 75 milioni di franchi per buona mano, accettava che i croati facessero la sentinella nella fortezza di Alessandria, e fra lui e l'imperatore eravi un ricambio di croci e di decorazioni.
* * *
Dopo questa fiera requisitoria contro le monarchie, Alberto Mario chiedeva:
—Ora vi pare che i duchi, i granduchi, i re e i papi sieno elementi nazionali che il popolo italiano deve tesaurizzare e coi quali deve unirsi nuovamente per iscuotersi di dosso gli austriaci e diventare una nazione signora e sovrana dei propri destini? No per fermo.
E affermava quindi che l'unione, di cui aveva tenuto antecedentemente parola, doveva consistere in un'associazione di pensiero e di azione del popolo italiano, la quale avesse per oggetto di abbattere i duchi, i granduchi, i re e il papa come nemici naturali dell'indipendenza italiana, e di scacciare lo straniero coi mezzi e colle forze che allora erano nelle mani di quei granduchi, di quei re e di quel papa.
—Ma qualcuno—seguitava—mi farà l'obbiezione seguente: non più patti col papa, col re di Napoli e coi duchi, e la ragione è evidente; ma la Monarchia Sarda vuolsi eccettuata, perchè ci pare rinsavita: da dieci anni, in mezzo al turbine della reazione europea, conserva uno statuto liberale, tiene in piedi un'armata valorosa, dà asilo agli esuli politici delle altre parti d'Italia, e mostra buona intenzione per la guerra nazionale.
Rispondeva l'oratore che l'obbiezione era apparentemente grave. Egli aveva vissuto nove anni continui negli Stati sardi e si trovava in grado di dare alquanti schiarimenti su quello scrupolo di coscienza.
Dopo la disfatta di Novara due vie erano aperte alla Monarchia Sarda per l'avvenire: la ristaurazione dell'assolutismo o il mantenimento dello statuto. La prima le rapiva per sempre ogni speranza d'ingrandimento allineandola fra i nemici aperti dell'emancipazione italiana, tanto più che nel marzo del 1849 il moto rivoluzionario europeo era ben lungi dalla sua fine.
Per l'Ungheria erano quelli i più bei giorni della sua lotta gigantesca contro l'Austria; la Toscana si reggeva a popolo, gli Stati Romani del pari; la Sicilia combatteva contro il Borbone, e Venezia stava incolume in mezzo alle sue lagune cogli allori di Cavallino e di Mestre, e nel marzo 1849 veruno poteva seriamente temere il crimine del 2 dicembre 1851 per la Francia, ove la repubblicana assemblea costituente ancora esisteva.
—La Monarchia Sarda, adunque—conchiudeva—provvide largamente ai propri interessi conservando lo Statuto.
Aggiungeva che per abbattere lo Statuto volevasi o l'uso delle armi proprie contro i cittadini, che l'avrebbero difeso, e queste armi furono disperse a Novara, e le poche rimaste si adoperavano a bombardar Genova; ovvero volevasi il sussidio degli Austriaci; ma la Francia non avrebbe permesso alle schiere dell'Austria di avvicinarsi alle Alpi, ed all'uopo valicarle per domar la Savoia ove questa fosse sorta a propugnare il nuovo Patto conquistato dalla rivoluzione sulla monarchia; in ogni modo la Corte di Sardegna invocando i soccorsi austriaci avrebbe perduta l'indipendenza.
—Fu adunque—ripeteva—accorto consiglio conservare lo Statuto. Lo Statuto porta i seguenti vantaggi alla Casa di Savoia: dapprima seminando speranze di futura riscossa fra gli italiani delle altre parti della Penisola, e inducendoli a confidare in lei che si vanta di spiare l'occasione propizia a ricominciare la guerra contro l'Austria, tiene lontana per quanto è possibile l'insurrezione nazionale; ed è facile trovare partigiani quando si dice loro: Voi non avete altro ufficio che di starvene tranquilli, voi non correte pericolo di sorta, perchè il mio esercito incomincerà la battaglia; allora voi verrete esercito di riserva e formerete la guarnigione dei forti, delle piazze e delle città; il momento opportuno per me di scendere in campo non è giunto, ma verrà; intanto voi accrescerete con la propaganda pacifica le vostre file. In tali termini sta la situazione della Monarchia Sarda.
—Così—continuava—i suoi seguaci possono fare del patriottismo a buon mercato. Così mentre s'illudono di essere liberali e patriotti, sono nel fatto, e forse inconsapevolmente, egoisti. Che se l'Italia non avesse dovuto confidare se non nelle proprie forze e nel proprio diritto, puossi senza illusione congetturare che invece di disperdere i tesori morali guadagnatisi alle barricate di Milano, ai bastioni di Roma, ai forti di Venezia, a Vicenza, a Bologna, a Brescia, seguendo una fallace fantasima, non avrebbe sopportata per dieci anni la tirannide atroce dell'Austria, del papa e dei loro vicari, nè sarebbe solcata da due partiti, ma, animata da un solo pensiero, sarebbesi con forze compatte affrettata alla riscossa.
—In secondo luogo—diceva l'oratore con sentimento profetico—ove, o emersa dalle viscere istesse della nazione, o procurata dall'esempio di un altro popolo oppresso, la rivoluzione finalmente scoppiasse—Casa di Savoia, mercè dello Statuto, si renderebbe possibile col nuovo ordine di cose. Casa di Savoia potrebbe dire all'Italia con le solite amplificazioni: «Mira, per trent'anni in mezzo alla reazione universale, fra mille spinose difficoltà mi conservai fedele alla tua causa, ho fatto rispettare sulle mie torri il tuo stendardo, ho ammaestrato alla guerra il mio esercito in Crimea, affinchè potesse affrontare vittoriosamente i tuoi perpetui nemici. Eccomi armata e pronta a suggellare col trionfo la battaglia da te incominciata. Io ti precedo, seguimi.» E l'Italia immemore del passato, sorda agl'insegnamenti della storia, e alle lezioni dell'esperienza, la seguirebbe probabilissimamente e le confiderebbe i suoi fati.
Esaminato il passato e il presente della Monarchia Sabauda, che restringeva la libertà di stampa, che non cambiava i codici, che anche si alleava con quell'imperatore francese che occupava Roma militarmente, che poneva mano alla restaurazione del murattismo, Mario insisteva nel sostenere che la insurrezione doveva precedere l'aiuto sardo e che chi amava l'Italia doveva unirsi a coloro che consacravano tutti gli sforzi a preparare quell'insurrezione.
—La bandiera che questi spiegheranno nel giorno della sollevazione, sarà la bandiera a tre colori, la bandiera che non rappresenta nè un partito, nè una classe, nè una tendenza esclusiva, ma la bandiera di ventisei milioni, che rappresenta la sovranità della nazione. Chi si rifiuterà di seguirla, di combattere e di morire per essa? E quando dinanzi a questa bandiera saranno scomparsi il re di Napoli, il papa e i duchi, quando tutta l'Italia meridionale e centrale padrona di sè e delle proprie forze, rovesciandosi sovra gli Austriaci e suscitando l'insurrezione Lombardo-Veneta, o rafforzandola se scoppiata, li avrà ributtati oltre le Alpi, a Roma l'Assemblea nazionale liberamente delibererà come la nazione dovrà essere amministrata. E se il re Sardo avrà gagliardamente partecipato a quella lotta, l'Italia, se il crederà opportuno, gl'imporrà sul capo la corona di torri.
Ma l'insurrezione, ripeteva, non nasce, nè si sviluppa da sè come i fiori del prato; è indispensabile apparecchiarla. E già essa stavasi alacremente organizzando per opera di patrioti sparsi da Palermo a Milano, in Grecia, nelle isole Jonie, a Costantinopoli, a Smirne, in Alessandria, a Tunisi, in Barcellona, in Inghilterra, a Buenos-Aires e a New-York.
—Or bene—concludeva—io non vi ho qui invitati per dirvi soltanto parole; le parole sono suoni vacui e inutili ove non si traducano in fatti. E il fatto che voi dovete compiere è di unirvi agli altri fratelli vostri, di prestar loro il vostro concorso al riscatto della patria comune. Venite dunque a questa tribuna a dare il vostro nome. Vi invito in nome dell'Italia nostra, schiava e insultata, in nome dei nostri fratelli morti per essa sul patibolo e nell'esilio, in nome dei centomila che per essa tuttora gemono nelle carceri dei nostri tormentatori.
* * *
Quella conferenza, come si disse, fruttò seduta stante parecchie centinaia di dollari che furono subito spedite a Giuseppe Mazzini.