LA GUERRA DEI PIRATI E LA MARINA PONTIFICIA
DAL 1500 AL 1560
PER IL
P. ALBERTO GUGLIELMOTTI
DELL'ORDINE DEI PREDICATORI, TEOLOGO CASANATENSE.
VOLUME PRIMO.
FIRENZE. SUCCESSORI LE MONNIER. — 1876.
INDICE DEL VOLUME PRIMO.
Proemio Pag. 1
Libro Primo. — Capitano Lodovico del Mosca, cavaliere romano (1500-1503) 3
Libro Secondo. — Capitano Baldassarre da Biassa, gentiluomo genovese (1503-1513) 57
Libro Terzo. — Capitano Paolo Vettori, marchese della Gorgona (1513-1526) 125
Libro Quarto. — Capitano Andrea Doria, dei signori di Oneglia (1526-1533) 271
Libro Quinto. — Capitano Bernardo Salviati, cavaliere di Malta e priore di Roma (1533-1534) 335
Libro Sesto. — Capitano Gentil Virginio Orsini, conte dell'Anguillara dal 1534 al 1548. Parte prima (dal 34 al 37) 391
Note
PROEMIO.
Gli Storici latini hanno chiamato Piratica la guerra combattuta sul mare da Pompeo il Grande contro gli schiavi della Cilicia, ribelli alle leggi ed alla maestà del popolo romano; ed ora sono io che penso attagliarsi dirittamente al mio proposito l'esempio e l'aggiunto medesimo per distinguere il presente dagli altri miei lavori, e per compendiarne a un tratto l'unità. All'epoca che ormai tocca la presente narrazione, tutto il corpo dei nostri marini nella difesa della civiltà e della religione dispiegano e mantengono costante e principale l'assunto di reprimere gli attentati della grande pirateria musulmana, divenuta gigantesca a pubblico danno del popolo cristiano, durante il periodo de' sessant'anni, pe' quali adesso dovremo trascorrere: per ciò questa parte della mia storia, come è singolarmente intesa a seguire passo passo i fasti dei maggiori Capitani nel tempo e nello scopo prescritto, così vuole starsene da sè; e insieme vuole mantenere il legame di prima origine e di finale intendimento cogli altri miei volumi. In somma lo scritto sulla guerra dei pirati, secondo sua entità individua, e, presso che non dissi personale, tratta a nome suo dei fatti suoi; e come membro di maggior famiglia prenderà il posto nell'ordine convenevole tra gli antecessori e i susseguenti, e formerà insieme cogli altri volumi una sola storia della Marina e del suo svolgimento in ogni parte, tenuto sempre fermo l'addentellato sulla marina romana. Di questa, tra tutte a me più nota e più vicina, ho potuto meglio da cima a fondo studiare le vicende; ed essa, comecchè di ogni altra infino ad ora la più negletta, continuerassi nel servigio delle più avventurose, e nella risoluzione dei problemi storici, tecnici e filologici, dovunque occorra cessare oscurità e dubbiezze pel vasto argomento. I nomi degli Orsini, dei Salviati, degli Sforza, e di altrettali campioni, che daranno il titolo agli otto libri seguenti, entrano mallevadori intorno alla importanza del subbietto: il quale per questo non si resterà sempre circoscritto negli angusti termini delle nostre spiagge, ma a buon diritto anderà cercando anche da lungi le imprese navali di maggior momento più che altri in genere non penserebbe oggidì, e certamente più che taluno non vorrebbe consentire, se non fossevi condotto e ritenuto dalla pienezza delle testimonianze, donde è la forza del mio discorso. Gli estratti degli scrittori contemporanei, e i documenti degli archivi, non per lusso, ma per necessità introdotti nel testo e nelle note, faranno di scusare le altrui ricerche, di togliere le difficoltà, di chiarire i fatti: e l'abbondanza delle prove mi confido di vedere dai lettori non tanto menata buona, quanto efficace a sdebitarmi pur di qualche negligenza nelle scritture mie per la distrazione perpetua della mente verso le cifre e le citazioni delle altrui. Non mi dilungo nel proemiare: ringrazio i benevoli, riconosco i favorevoli, osservo i critici; e del resto nel corpo della storia, quando il destro me ne verrà maggiormente spontaneo ed evidente, darò miglior conto delle mie ragioni, e volgerò come si deve risposte proporzionali alla cortesia delle domande.
Di Roma, alla Minerva, Casa generalizia dei Domenicani, 31 dicembre 1875.
p. Alberto Guglielmotti, o. p.
LIBRO PRIMO. Capitano Lodovico del Mosca,
cavaliere romano.
[1500-1503.]
SOMMARIO DEI CAPITOLI.
I. — Introduzione. — Origine della pirateria musulmana. — La grande pirateria. — I maggiori pirati del cinquecento ammiragli dell'Impero e sovrani nell'Africa. — Ragioni e titolo di questi due volumi.
II. — L'anno del giubileo (1500). — Disegni di crociate contro i Turchi. — Il capitan Lodovico del Mosca e la guardia del mare. — Il capitano Mutino. — Costruzione di galere in Civitavecchia (1501).
III. — Compra di artiglierie, e documento. — Durano le bombarde. — I carri di munizione al triplo delle bocche da fuoco. — I tromboncini di marina. — La Metraglia.
IV. — Sotto colore di crociata i Francesi a Metellino e gli Spagnuoli alla Cefalonia (1501). — Lustre, non mine. — Le due armate danno in Italia, cacciano re Federigo, pigliano il Regno, che resta alla Spagna.
V. — Cesare Borgia. — La marineria nelle guerre intestine (maggio 1501). — Assedio di Piombino. — Il Mosca piglia l'Elba e la Pianosa. — L'Appiano fugge. — Il Borgia, tornato da Capua, entra in Piombino e lo fortifica (agosto 1501). — Suoi architetti, il Sangallo e Leonardo.
VI. — Viaggio di Papa Alessandro (febbrajo 1502). — Sei galèe, due galeoni, ed altri legni. — La rôcca di Palo e di Civitavecchia. — Il palazzo del Vitelleschi a Corneto. — Le provvigioni di Castro. — Navigazione a Piombino (febbrajo 1502).
VII. — All'Elba per due giorni. — Ritorno, tempesta, e disagi per quelle maremme. — All'Argentaro. — Il Deflusso alla spiaggia di Corneto, e la Deriva. — Rifugio a Portercole. — Ritorno in Roma (marzo 1502).
VIII. — Morte del capitano Mosca (29 marzo 1502). — Funebri onori. — Lapida. — Continuazione dell'anno e del libro sotto il nome dello stesso Capitano.
IX. — Armamento contro i Turchi, sei galèe di Civitavecchia, due di Ancona, altre assoldate in Venezia (aprile 1502). — Giacopo da Pesaro e Angelo Leonini: Documenti. — Congiunzione dei nostri coi Veneziani.
X. — Il capitano Cintio Benincasa e i suoi antenati. — Portolani e cartografi anconitani. — La declinazione della Bussola segnata primamente da loro. — Lettere e risposte (luglio 1502).
XI. — L'isola e fortezza di Santamaura. — Il salto di Saffo. — Presidio di milizia regolare e di pirati.
XII. — Piano di attacco. — La divisione romana nel canale. — Battute dodici galeotte di pirati. — Occupato il ponte e il borgo. — Investita la piazza (23 agosto).
XIII. — I Veneziani dall'altra parte a chiudere il circuito. — Il soccorso ributtato da quattro galèe romane. — Proposizioni di resa, e rotta di pirati. — Occupata la piazza e il castello (29 agosto).
XIV. — Lettera del nostro Commissario. — Ritorno del capitano Cintio. — Dissidî dei principi cristiani. — Notizie dell'espugnazione. — Parte principale sostenuta dai Romani (15 settembre).
XV. — Considerazioni sulla offensiva. — Sfratto dal mare all'armata nimica. — Scelta del punto d'attacco in terra. — Divisioni convergenti. — Marcia di fronte. — Vantaggio sui passi coll'artiglieria dal mare. — Ciascuno al suo posto.
XVI. — Differenza tra corsaro e pirata. — E tra milizia regolare e piratica. — La forca ai pirati.
XVII. — Le fortificazioni nuove di Santamaura. — Ingegneri di Roma e di Venezia. — Fortezze di nuova forma nel principio dell'arte nuova.
XVIII. — Tutti contro il Turco, a parole. — Disegni sopra Costantinopoli, resi vani dalle guerre dei Francesi e degli Spagnuoli nel Regno. — La mina a Castel dell'Uovo: ripetizione dall'originale e primitivo magisterio del Martini. — Morte di Alessandro VI, e precipizio di Cesare Borgia (18 agosto 1503).
LIBRO PRIMO. CAPITANO LODOVICO DEL MOSCA, CAVALIERE ROMANO.[1500-1503.]
I.
I. — Facendomi a scrivere della guerra piratica, combattuta sul mare pel continuato periodo di sessant'anni, anche dai nostri capitani, con grande dimostrazione di virtù, ed altrettanto splendore di nobili ammaestramenti, mi bisogna alla prima ricordare come per gli stessi principî fondamentali del Corano gli Islamiti di ogni luogo e di ogni tempo si sono messi alle guerre di invasione, ed alle guerre di piraterìa. L'abominio contro la civiltà del Vangelo, la propagazione della loro setta colla spada, e la cupidigia dell'altrui, dovevano senz'altro menare i seguaci di Maometto nella Siria, nell'Egitto, nella Grecia, nell'Ungheria, nella Polonia, sotto Buda e sotto Vienna, alle battaglie campali ed agli assedî; e similmente gli stessi principî avevano a spingere la bordaglia moslemica per tutti i mari sbrigliatamente ai ladronecci. Costoro, contro dei quali adesso in specialtà avremo a fare, sulle riviere marittime in privati conventicoli adunavansi, sceglievano a libito i condottieri, costruivano legni da corso, metteansi al remo e alle armi, entravano sui passi, ed ora coll'arte, ora cogli inganni, ora colla violenza ghermivano quanto lor si parava dinanzi, bastimenti, merci, danaro, persone, e tutto facevan proprio e divideansi nei loro paesi, in parti proporzionali alla ribalderia di ciascuno. Scendevano ancora soppiatti nelle nostre campagne, tramavano insidie ai grandi personaggi; come a papa Leone per le campagne Laurentine, al duca di Savoja sulle coste di Villafranca, al grammaestro Lilladamo sulla via di Rodi, ed alla celebre Giulia Gonzaga nella villa di Fondi. Ad ogni modo davano sul bestiame, sulla gente del contado, massime se femmine o fanciulli. Di qua tra noi lacrime, incendî, rovine mettevano; di là nei loro serragli prede sempre maggiori menavano: tanto che non era nell'Africa così misera cittaduzza, che non avesse tre, cinque e più migliaja di Cristiani in durissima schiavitù condotti a mercato dai ladroni. I quali senza legge, senza patenti, senza tribunali, senza pietà, contro il giure di natura e delle genti, persecutori perpetui tanto dei nemici che degli amici, non erano solamente corsari, come alcuni dicono adesso, sì veramente pirati e ladroni di mare, come gli chiamavano i popoli e gli scrittori di allora; se ne togli quei pochi di Francia e di Venezia, che per diversi rispetti di pace o di alleanza, costretti talvolta a dissimulare, davan loro del corsaro, e non intendevano di meno parlare di pirati, descrivendone le opere ladre. L'evidenza dei fatti rimena al giusto il significato della lusinghiera parola[1].
Non dico per questo che la piraterìa sia uscita improvvisa e tutta armata dal centro del secolo decimosesto: anzi pei fatti e pei principî che ho posti qui ed altrove, si può facilmente intendere quanto pertinace e quasi congenita abbia a dirsi cotesta magagna in tutte le razze musulmane, tanto che non si è mai potuta totalmente estirpare nel Mediterraneo, se non di fresco colla presa di Algeri: nondimeno è pur noto nella storia, e qui meglio si vedrà, che la principale epoca della grande piraterìa corse terribile nel mezzo del secolo decimosesto, quando ai ladroni fu dato salire sui troni di Barberia e diventare ammiragli di Costantinopoli. Cotesta grandezza sul capo di coloro che pubblicamente infestavano il mare per proprio mestiere, non si incontra costante in verun altro tempo, nè prima, nè poi; ma solamente nel periodo dove siamo per entrare col nostro discorso. Vedremo gli stessi Imperatori ottomani, nella briga di sottomettere l'Africa settentrionale, e di cacciarne le antiche dinastie degli Arabi, portare innanzi costoro ugualmente rapaci e bugiardi a danno dei Cristiani, che degli Islamiti. Pensate uomini arcigni e scalzi, colle mani incallite sul remo e col dorso incurvato sotto al fardello, i quali nondimeno levano lo sguardo e le speranze infino ai troni: essi si chiamano Camalì, Curtògoli, Gaddalì, il Moro, il Giudèo, Cacciadiavoli, Oruccio, Barbarossa, Moràt, Dragutte, Scirocco, Luccialì; surti tra le brutture della plebe, qualcuno rinnegato, altri fellone, e tutti schiume di ribaldi, che nel secolo decimosesto avranno a essere sovrani di Algeri, di Tunisi, di Tripoli, di Tagiora, di Alessandria, e delle isole maggiori dallo Jonio alle Gerbe; ed oltracciò tutti ammiragli o comandanti di squadra nell'armata dell'imperio ottomano. Pensate che contro a costoro, sovente nelle piccole avvisaglie e talora nei grandi fatti d'arme, coi nostri capitani ed alleati avremo a sostenere durissima lotta per salvare la civiltà cristiana dalla barbarie moslemica, e così farete ragione al titolo e all'argomento del presente volume.
La fortuna nei sessant'anni non ci fu sempre propizia. Sei volte noi affrontammo le maggiori forze dei nemici; e con tre splendide vittorie ottenute presso alle muraglie di Corone, di Tunisi, e di Afrodisio, toccammo tre grossi rovesci nelle acque della Prèvesa, di Algeri, e delle Gerbe; e saremmo rimasti lì colla peggio, se non fosse venuta dappoi la settima giornata di Lepanto a rilevarci. Dirò dei grandi e dei piccoli successi, tirando fuori anzi tutto i particolari meno conosciuti dei capitani di Roma, col nome dei quali divido in otto libri la mia storia. Ma non intendo tanto strettamente tenermi contro i pirati, che non abbia a riferire qua e là gli altri fatti attenenti alle nostre marine, e allo svolgimento dell'arte nautica e militare, e similmente ai viaggi lontani ed alle guerre vicine, sieno desse state gloriose o no. Pesami l'incontro di nojose brighe, proprio nei primi decennali del mio racconto: nè ciò tolgasi a mal grado il lettore, che io non potevo cominciare dove mi tornasse meglio, ma donde ho lasciato nei miei libri del Medio èvo; e non posso ora narrare a libito, ma devo mettere in ordine gli avvenimenti come seguono, secondo il tempo. Andiamo innanzi con franchezza, chè ogni cosa provvedutamente verrà al suo punto; e l'argomento principale, a grado a grado rilevandosi, campeggerà tra gli accessorî, che non si potevano omettere senza sconcio. Basta di ciò: e per menomare il fastidio di chi legge e di chi scrive valga la varietà intorno all'unico subbietto, e lo stile rispondente alla materia. Andremo talora a basse vele sul margine del lido, e ci gitterem talvolta in alto mare sulla cresta dei marosi, come ci menerà la fortuna, seguendo sempre per filo il nostro cammino.
II.
[1500.]
II. — Eccoci all'anno secolare del giubileo, quando gli spirituali propositi, e i religiosi pensamenti, e le visite ai santuarî di Roma, rinfocolavano in ogni parte del mondo cristiano gli antichi disegni delle crociate, a propria difesa contro le perpetue infestazioni dei Musulmani. I naviganti, i pellegrini, e chiunque andava e veniva da lontane parti per le vie del mare, più frequentate allora delle vie di terra, diceva lo sgomento e le molestie patite dai pirati; e tutti speravano nell'alleanza proposta ai principi cristiani da papa Alessandro.
Le speranze parevano toccare alla certezza, niuno potendosi persuadere che non si dovesse venire ai ferri per una impresa tanto necessaria, e da tutti desiderata, alla quale dicevano volersi mettere col massimo delle forze i sovrani di Francia e di Spagna; oltre agli Ungheri ed ai Polacchi, che già con grand'animo combattevano contro le orde di Bajazet, ed oltre ai Veneziani che nei mari di Levante più che mai valorosamente difendevano dal medesimo tiranno i loro possedimenti. Le cose erano tanto innanzi nei congressi di Roma, che papa Alessandro spediva il diploma di capitano generale dell'armata cristiana al grammaestro di Rodi e cardinale di sant'Adriano, Pietro d'Aubusson, uomo di gran valore e di sommo accorgimento[2]: ed il futuro maestro delle cerimonie papali componeva la formola delle orazioni da recitare nella distribuzione delle Croci, e nella benedizione del comune stendardo della lega[3].
I trattati della spedizione generale contro i Turchi correvano per le corti lontane e pei tempi futuri sopra quei fondamenti che in breve vedremo; e insieme insieme crescevano le provvisioni vicine per assicurare le spiagge e per reprimere le minute infestazioni dei pirati. La squadra della guardia, ordinata fin dall'anno precedente con quei capitoli che altrove ho pubblicati, pel concorso grandissimo dei pellegrini in quest'anno, aveva ricevuto rilevante incremento: quanto al numero era salita dai tre ai dodici legni; ciò è dire tre galèe, tre brigantini, tre fuste, due galeoni, e una baleniera[4], la cui comparsa vedremo tra poco nelle acque dell'Elba; e quanto alle persone, era venuto al supremo comando, come uomo di maggior fiducia, il capitano Lodovico del Mosca, cavaliere romano, di antica e nobile famiglia, ora estinta: giovane di alti spiriti e di molta perizia nelle cose del mare, cui nulla sarebbe mancato per farci rivedere in tutta la chiarezza il pristino vigore del sangue romano, se avesse potuto vivere più lungamente in tempi migliori[5]. Il Mosca col suo collega Lorenzo Mutino si tenne tutto l'anno in crociera dall'Argentaro al Circèo, e per le isole vicine di Toscana e di Napoli, ad assicurare i passi dei naviganti verso Roma, quanto durò sulla spiaggia romana il movimento dei pellegrini. Niun disastro nell'annata: anzi tutela dei viaggiatori, e abbondanza delle cose necessarie alla vita nei porti dello Stato e negli alberghi di Roma. Il nome del Mosca era temuto dai barbari; e la virtù del Mutino onorata dai Romani, che vollero ascriverlo alla nobiltà, e pareggiarlo al collega[6].
Oltracciò il capitano del Mosca davasi gran faccenda negli apprestamenti della spedizione generale; e metteva in costruzione sul cantiere di Civitavecchia sei galèe, come principio di quelle venti che papa Alessandro aveva promesso mandare di sua parte nella guerra di Oriente. Ecco in prova un documento inedito e breve[7]:
«Addì undici di gennajo mille cinquecento e uno. Avendo il Santissimo padre e signor nostro comandato che si paghino mille ducati d'oro in oro di Camera al signor Lodovico del Mosca ed a Mutino di Moneglia, prefetti della guardia sulla spiaggia o marina romana, per metter mano alla costruzione di alcune galèe da essere unite insieme coll'armata della santa romana Chiesa contro i Turchi, come si ritrae dalla cedola di nostro Signore, registrata nella cancelleria della Camera apostolica al libro intitolato Diversorum, foglio cennovantasei; così i predetti Lodovico e Mutino personalmente costituiti innanzi alla Camera apostolica, spontaneamente ec., hanno promesso a nostro Signore, e alla detta Camera, ed a me Notajo ec., di spendere i medesimi ducati mille bene e diligentemente nell'opera delle galèe, e di darne buona ragione al bisogno ogni volta che ne siano richiesti; ed hanno giurato secondo la formola camerale, sotto le pene consuete, di eseguire ciò che nella predetta cedola si contiene ec. Presenti nella detta Camera Pietro Chioma, e Bernardo foriere di palazzo, insieme ai Cursori per testimonî. Genesio di Fuligno.»
III.
III. — E per non tornare a salti sopra questa materia delle costruzioni e degli armamenti, qui adesso dirò che per la diligenza del capitan Lodovico si ebbero prestamente le sei galèe fornite di tutto punto nel porto di Civitavecchia[8]; e appresso furono comperate a vilissimo prezzo per tredici mila ducati tutte le artiglierie che il re Federigo, fuggendo dal Regno, aveva raccolte in Ischia; a dire che valevano più di cinquanta mila. I due Capitani se le tirarono a bordo presso la riva dell'isola, e le condussero su pel Tevere alla ripa di Roma, donde poscia le avviarono per Campodifiore a Castel Santangelo. Gli spettatori lungo il passaggio noverarono trentasei bombarde maggiori col seguito di ottanta carri; alcuni tratti da cavalli, altri da bufali: tiri a scempio, a coppia, a quattro, e a sei[9]. Due carri pieni di schioppetti per le barche; nove carri con circa quaranta bombardelle, messe a tre, quattro e sei per carro: dodici con ventiquattro bombarde ordinarie, altrettanti carri per le dodici bombarde grosse; trentasette carri con palle di ferro, tre con polvere; e cinque finalmente con nitro, verrettoni, e pallette mescolatamente. Artiglieria bellissima, di lavoro eccellente, e di gran forza, scortata da duemila uomini d'ordinanza, oltre ai manipoli che andavano avanti, e tra carro e carro, e alla coda.
Dunque al principio del cinquecento si avevano pur care, e si stimavano ancora ad alto prezzo le antiche bombarde e bombardelle; e questo sia ricordo dell'ultimo periodo: da qui innanzi avremo cannoni calibrati al peso della palla di ferro. Dunque i carri da trasporto sorpassavano del triplo il numero delle bocche da fuoco di grosso e di mediocre calibro: e quindi nel traino di guerra, anche al tempo di Carlo VIII, il numero dei carri doveva superare due o tre volte quello delle artiglierie da fazione: tanto che leggendo per quei tempi cencinquanta carri, si ha a intendere una quarantina di pezzi, col seguito di tre carri di munizioni per ciascuno, con qualche altro di rispetto. Valga il documento del Burcardo a confermare le avvertenze del maggiore Angelucci.
Passando alle cose navali, abbiamo qui gli schioppetti per le barche, che avevano a essere archibusi sulle forcelle, corti di canna e larghi di bocca; come tuttavia si mettono alle bande dei piròscafi o delle barche armate quelle minute armi da fuoco, che diciamo petrieri a coda, o vero tromboncini di marina. Finalmente le pallette alla rinfusa, poste mescolatamente negli ultimi carri delle munizioni, fannomi pensare alla metraglia, di che ho dato il primo esempio nell'anno 1453[10]. Ripeto Metraglia, termine tecnico, di comune uso e legittimo tra i nostri soldati, i quali lasciano come stanno in altro senso le voci Scaglia, Cartoccio, e simili. Le quali voci, tuttochè nitide ed eleganti, non esprimono il concetto della voce Metraglia, cioè quella quantità collettiva di pallette, di ferro battuto, di numero e peso determinato, che si mettono insieme nel pezzo per battere il nemico con molti projetti ad ogni tiro. La voce è registrata dal Grassi, e dal Fanfani; ed ha esempî del Colletta, del Giordani, e di più altri. Il Guerrazzi[11] ha voluto scrivere coll' i, Mitraglia; ed a punto per questa mitra, calcata infino agli occhi, non ha potuto vederne l'etimologia; ed ha lasciato che altri la supponesse di origine francese; laddove il Gassendi e lo Jal (francesi ambedue), ce la rimandano qua, facendola derivare dal latino Mittere[12]. Anzi meglio (per la desinenza non latina, ma tutta propria della lingua italiana, in aglia ) possiamo noi ridurla al verbo Mettere, come a dire Metteraglia; la qual voce, al pari delle nostrane Pedonaglia, Nuvolaglia, ed altrettali, esprimono l'accozzaglia di più oggetti simili, messi insieme a formare un tutto collettivo: e così Metraglia per una certa quantità di projetti simili messi insieme, come se fossero un projetto solo. L'Angelucci ha pubblicato un documento, dove è scritto precisamente Mettraglia[13]. Dunque questa sarà etimologia ragionevole, e voce necessaria per esprimere cosa diversa dalla Scaglia in tritumi, dalle Ghiande allungate, dalle Pallette elementari, e dai Grappoli tropologici; e così per distinguere il contenente dal contenuto; cioè i projetti dalle Ceste, Lanterne, Cuffie, Cartocci, Sacchetti, e Tonnelli che li contenevano, secondo le espressioni spesso ricordate con lodevole proprietà anche dagli antichi bombardieri.
IV.
IV. — Con tanti armamenti, e con sì larghe promesse dei principali sovrani della cristianità, pareva che si sarebbero fatte imprese segnalate in Oriente contro i Turchi nell'anno presente. Luigi XII, re di Francia e signore di Genova, aveva allestito grossa e bella armata di galere e di navi, sotto la condotta del conte Filippo di Cleves Ravenstein: ma costui senza intendersi nè coi Veneziani, nè col Legato di Rodi, entrato nell'Arcipelago, fece soltanto le viste di mettersi in guerra contro la casa ottomana; assaltò Metellino, dètte batteria senza profitto, e rese il bordo a ponente, perdendo nel viaggio la nave ammiraglia, dove esso stesso navigava; e poco dopo un altro de' suoi maggiori vascelli, con quasi tutta la gente[14].
Similmente l'armata di Ferdinando, detto il Cattolico, re di Spagna, prese le vie di levante sotto il governo di Consalvo di Cordova, chiamato il gran Capitano. Questi si unì co' Veneziani alla Cefalonia, dove l'armata di san Marco e le fanterie sbarcate in terra stringevano di assedio il castello principale dell'isola; e là ostentò le stesse apparenze, tiri di cannoni, scorrerie di soldati, assalti di marinari. Se non che poco si trattenne, e sempre sur un'àncora di leva, pronto a salpare e a volgersi indietro, secondo le secrete istruzioni della sua corte. Perciò non mette conto confutare quei pochi che, seguendo il Giovio, gli attribuiscono fatti stupendi e specialmente una mina colla polvere da bombarda[15]. Piaggerie gioviali, di che non fanno motto i contemporanei, nè gli storiografi ufficiali di Venezia e di Spagna[16].
Filippo e Consalvo sotto il vessillo della santa crociata coprivano biechi intendimenti: non a danno dei Turchi, sì dei Cristiani, dei parenti, degli amici, tramavano insidie[17]. Essi maneggiavano doppio trattato: fingere la guerra contro i Turchi, distendere nello Jonio grandi forze, addormentare Federigo re di Napoli, coglierlo alla sprovvista, cacciarlo dal trono, e dividersi il Regno. Alla Francia, Napoli, Terra di Lavoro ed Abbruzzi; alla Spagna, Calabria e Puglia. Le due armate navali, nel momento convenuto, dettero dentro a sostenere gli eserciti di terra, presero ogni cosa, cacciarono il Re, fecero gazzarra. Ma poi, nata questione a chi dei due si dovesse la Capitanata, si azzuffarono tra loro intorno alla preda: e dopo molti scontri finalmente i Francesi colla peggio furono al tutto cacciati dal Regno, e le due Sicilie per tre secoli restarono provincie di Spagna. Quando riscontro nelle storie sì fatte vergogne, imposture, tradimenti e soperchierie, resto allibbìto. Non dico di più: stimo i miei lettori, e son certo della loro virtù nel patire e nel tacere[18]. Ne avrem bisogno, e andiamo innanzi.
V.
[Maggio 1501.]
V. — Per questi tempi era in Roma gonfaloniere della Chiesa, e supremo governatore delle armi, Cesare Borgia; uomo già tanto conosciuto, che non fa di mestieri spendere parole a ritrarre i lineamenti della sua laida e crudele natura[19]. Congiunto a real principessa del sangue di Francia, sostenuto dal suocero e dal padre, investito del ducato di Romagna, sottomessa la plebe de' tirannetti sotto al giogo di maggior tirannia, agognava a crescere sempre più di potenza e di stati. Esso gittava le armi romane nel vortice incerto delle guerre intestine, donde non avevano a uscire se non col sacco di Roma. Insomma il Borgia, sotto certi pretesti, che a tali uomini non mancano mai, deliberò di fare conquiste in Toscana; e di menarvi dall'altra parte il Capitano della marineria, secondo la forma del capitolo decimoquinto, intorno alla guardia del mare, già da me nei libri precedenti pubblicato[20]. L'impresa di Toscana io non per vanto, ma per necessità, devo inserire; perchè nulla manchi alla storia mia, e al tempo stesso si veda come all'ombra di tristo padrone intristisce la generazione dei servi.
Già prima di movere, il Valentino aveva dato voce anche esso di apparecchiarsi per terra e per mare contro i Turchi; e la buona gente di ogni paese tanto meglio aggiustavagli fede, quanto maggiormente tutti desideravano la stessa cosa. Se non che Cesare da Faenza, valicato l'Appennino alla uscita d'aprile con settemila fanti ed ottocento uomini d'arme, scendeva in Toscana appresso a certi fuorusciti fiorentini, per opera dei quali sperava che avessero a nascere novità nel paese, da rivolgere poscia a suo profitto. Ma poichè Luigi XII, il quale per l'acquisto di Milano e di Genova tanta parte aveva nelle cose d'Italia, ebbe spiegata la protezione sua verso il popolar reggimento di Firenze, e fatto divieto al Valentino di molestarlo, costui per non dire di averci rimesso di riputazione passando di là senza niuno acquisto, se ne andò a danni di Giacopo d'Appiano signore di Piombino. Prestamente occupò Sughereto, Scarlino, Baratto, e le altre terre del contado: e quindi pose il campo sotto alla piazza principale, dove il Signore si era ridotto col nervo delle sue genti, risoluto ad ostinata difesa.
[Giugno 1501.]
Allora Cesare chiamò da Civitavecchia la squadra del Mosca per bloccare Piombino dalla parte di mare, sì che ai difensori venisse meno ogni speranza di soccorso[21]. All'entrante di giugno Lodovico uscì dal porto di Civitavecchia con sei galere, tre brigantini, due galeoni, e duemila fanti di sbarco; i quali prima di tutto si rivolsero all'Elba, isola di molta importanza per le miniere e pei porti; isola di rifugio nel nostro secolo a un imperatore spodestato. Di colà cacciò i ministri e le guardie dell'Appiano, pose presidio nelle terre, e prese il castello e l'isola della Pianosa: indi strinse più da presso Piombino. Saviamente il celebre architetto Simone del Pollajolo agli otto di giugno scriveva di Firenze a Lorenzo Strozzi, pel quale murava il notissimo palazzo, dicendo[22]: «Il Valentino con duemila è ito nell'Elba; molti dichono che fugge i Francesi, io per me credo che vada a pigliar l'isola, considerato che Piombino non può aver soccorso se non dall'Elba.» Sottile e giusta riflessione, schizzata di volo in una letterina, donde si pare quanto stesse bene a Simone il nomignolo del Cronaca.
[Agosto 1501.]
Ciò non pertanto il signor Giacopo con gran cuore e con maggior bravura tennesi più che due mesi a difendere la terra, e dall'altra parte i Borgiani a batterla, e il cavalier Lodovico sempre innante col suo naviglio a sforzarla. Nel qual tempo il Valentino, senza mai sciogliere l'assedio nè per terra nè per mare, seguì con parte de' suoi l'esercito francese alla conquista dì Napoli; e sfogate in Capua quelle sue tanto conte crudeltà e libidini, tornò con Vitellozzo Vitelli e Giampaolo Baglioni a stringere maggiormente l'espugnazione. Allora l'Appiano persuaso di non potersi più lungamente sostenere, e abbandonato dai vicini, che avrebbero potuto ajutarlo, pensò fuggirsi celatamente verso la Francia per non venire a niun trattato con un uomo, cui la fama pubblica e l'evidenza dei fatti davano taccia di solennissimo traditore[23].
[Sett. dic. 1504.]
Uscitone il Signore, la guarnigione si arrese al duca Valentino; il quale volse tutto lo studio a fornire il nuovo stato d'armi sufficienti tanto a difenderlo, quanto ad accrescerlo, venendone il destro, con qualche altro lembo di Toscana, specialmente dalla parte di Pisa: ed in oltre fece ripararne le fortificazioni per opera (come si deve pensare) del suo architetto ordinario, Antonio Giamberti da Sangallo[24]; e certamente coll'assistenza di Leonardo da Vinci[25], che in quel passaggio di Toscana era divenuto suo familiare, architetto, ed ingegnere militare.
VI.
[17 febbrajo 1502.]
VI. — Nè a ciò contento, per quietare i popoli e per mostrare grandiosità e fermezza, volle menare colà papa Alessandro; dove io, costretto dalla evidenza e notorietà del fatto, devo seguirlo. Ma in questo terrommi da parte colla mia navicella a vele basse e piombinando del continuo, per non urtare in veruno scoglio, secondo le migliori carte marine, e il parere di eccellenti e accreditati piloti[26].
Giovedì diciassette di febbrajo di buon mattino Alessandro uscì di Roma a cavallo col Duca, e con quell'accompagnamento maggiore che loro si conveniva: sei cardinali, Pallavicino, Orsino, Cosenza, Sanseverino, D'Este e Borgia; sette vescovi, gli oratori dei principi, il tesoriero, il secondo cirimoniere, sei cantori della cappella, e tutta la famiglia così del Papa come dei cardinali, e di quegli altri signori, cencinquanta persone. La prima notte si posarono a Palo nel castello di casa Orsina. Dopo il desinare del dì seguente, tutti di nuovo a cavallo per la via Aurelia, e la sera in Civitavecchia; dove Alessandro e il Duca alloggiarono nella Rocca, e gli altri qua e là per le case della terra.
[19 febbrajo 1502.]
Nel porto sorgeva pavesata a festa la squadra navale per scortare i viaggiatori e per traghettarli all'Elba ed a Piombino: sei galèe nuove, altrettanti legni minori, e due galeoni di alto bordo colle masserizie, e co' cavalli. Alla testa il capitan Lodovico del Mosca, e sottesso gentiluomini e cavalieri di paraggio, e gran rinforzo di fanterie borgiane[27]. Per supplimento alle ciurme, ed a rinforzo del palamento, non avendo schiavi maomettani, il Valentino aveva fatto mettere al remo quasi tutti i carcerati di Roma, e una grossa brigata di oziosi e di vagabondi tolti alle strade e alle bettole della città; di che venne biasimo anche al Mosca. Il sabato seguente sull'ora di vespro le galèe sfilavano in parata verso la fossa di Corneto, e la corte cavalcava alla volta della stessa città, dove giugnevano la sera per riposare nel palazzo del fu cardinale Giovanni Vitelleschi. Questo insigne capolavoro di architettura, murato nella prima metà del quattrocento, esiste ancora: e quantunque non mai condotto a compimento, fa di sè nobilissima mostra per ricca magnificenza e squisita leggiadria. Chiunque sente il bello dell'arte non può essere che non lo riguardi sempre con maggiore ammirazione e diletto. Bellissima la fronte principale, grandiosa la corte e il portico interno, ricca la decorazione delle finestre e delle cornici, graziosi e delicati i fregi scolpiti di rilievo sul travertino. Monumento importante per la storia delle arti, non conosciuto quanto si merita, perchè fuor di mano in piccola città. Il capitano Sacchi ne' suoi Ricordi determina l'epoca del lavoro nel 1439, tace il nome dell'architetto[28], nè ho potuto saperne di più da quegli egregi coltivatori delle memorie patrie che sono monsignor Domenico Sensi, e conte Pietro Falzacappa.
Divisava Alessandro partirsi di Corneto la sera della domenica, dirigendosi a Castro, città vescovile poscia distrutta, e voleva alla spiaggia di Montalto imbarcarsi verso Piombino. Ne fa fede la lettera seguente[29]: «Ai Toscanesi, salute ec. Essendoci noi partiti di Roma a fine di pigliare alcun conforto per sollievo dello spirito affaticato, e volendo visitare la città di Piombino, ci troviamo questa sera in Corneto, e passeremo il prossimo lunedì per la nostra città di Castro. Ma perchè sentiamo dire che colà patiscono carestia di biade, e che al contrario la città vostra ne abbonda, noi per tenore delle presenti, e per quanto avete cara la nostra grazia, ed evitar volete la nostra indignazione, vi imponiamo che dobbiate con ogni cura e sollecitudine mandare alla suddetta città di Castro orzo e fieno quanto si può; e similmente pane e ogni altra maniera di vettovaglia, tanto che per le ore antimeridiane del predetto giorno di lunedì tutto sia in punto nella stessa città. Così voi sarete per fare a noi cosa grata, altrimente grandissimo dispiacere. Di Corneto, 19 febbrajo 1502, del nostro pontificato anno decimo.»
[21 febbrajo 1502.]
Le provvigioni di Toscanella saranno servite solamente al cardinal di Cosenza, ai cerimonieri, ed a pochi altri, mandati avanti l'istesso giorno per la via di terra a preparare splendido ricevimento nel punto di arrivo; chè tutta la corte, dopo il vespro della domenica venti di febbrajo, entrarono nelle galèe alla spiaggia di Corneto, e la mattina seguente al tocco del mezzodì, sparando a festa le maggiori bombarde, con gran gazzarra di trombe e di tamburi, discesero alla riva di Piombino[30]. Pensate luminarie, giuochi, suoni, e danze menate dalle genti di quel luogo; e pensate liberalità, grazie, e doni, ricevuti.
VII.
[25 febbrajo 1502.]
VII. — Io seguo il Mosca, che a' venticinque di buon mattino si rimette alla vela, e trasporta Alessandro, Cesare, e la corte all'Elba, distante circa dieci miglia da Piombino[31]. Dopo un'ora, traversato il canale co' venti di Levantescirocco a mezza nave, entra nel sicurissimo seno di Portoferrajo, donde i viaggiatori passano quel giorno e il seguente in feste e in visite, alle borgate e ai luoghi vicini, specialmente alle inesauste miniere del ferro. La sera del sabato ventisei tornano tutti a Piombino, e finalmente il martedì primo di marzo prendono congedo per tornarsene a Roma. Alessandro coi sei cardinali, i prelati e la famiglia sulla Capitana; Cesare per sua maggior comodità sulla Padrona, e gli altri si allogano sui diversi legni, tra la consueta gazzarra degli spari e dei suoni, pensandosi a gran diletto navigare.
[1-5 marzo 1502.]
Ma il mese di marzo, che tutti sappiamo stravagante più d'ogni altro nell'anno, entrava proprio di quel giorno a confondere le vane speranze: e lo Scirocco regnante nel Tirreno, che si era infino a lì tenuto maneggevole, cresceva furioso, e più che mai contrario al ritorno. Gran vento, grosso mare, dirotta pioggia; cielo scuro, orizzonte ristretto e vergato per ogni parte dai fili spessi ed obbliqui dell'acqua a vento. In somma tetra prospettiva, adombrata dal fosco colore che pigliano le vele sempre che siano bagnate. Archeggiavano e prueggiavano di piccole bordate: ma certi ormai di non avanzare nel viaggio, e risoluti di non voler tornare indietro a Piombino, gittavansi stentatamente nei ridossi deserti di quelle maremme: prima nel golfo della Follonica, poi alla cala del Forno, dove passavano tre giorni senza riposo e senza conforto. Intanto le provvigioni, che non erano fatte per sopperire a lungo, cominciavano a mancare; nè si poteva far cucina. Di che smagati i cortigiani, e conquisi dallo spavento, dal disagio e dal digiuno, cadevano ammalati; e qualcuno in compendio ne moriva. Tutti soffrivano, e più d'ogni altro il Mosca, non essendoci persona che da lui non volesse qualcosa d'impossibile; ed egli di notte e di giorno, all'acqua e al vento, in mezzo a tutti in faccenda. Finalmente senza dir verbo, faceva risolutamente salpare i ferri, e con tutto lo sforzo dei remi, e qualche scossa di vela nel momento opportuno, pigliava rifugio a Santostefano sulla bocca dello stagno d'Orbetello la sera del cinque; menandosi appresso la brigata tanto avvilita, che niuno si ardì toccare tromba o tamburo, nè dar voce, nè ammettere visita o invito dei terrazzani, per non lasciarsi vedere in quello stato.
Il dì seguente cedeva alquanto la furia del vento, ma non del mare: ed Alessandro, smanioso di levarsi al più presto da tanto travaglio, ordinava la partenza, e cresceva lo schianto. Imperciocchè doppiato l'Argentaro, e venuti all'altura di Corneto, non potevano accostarsi a terra: anzi per quanto incalzassero di remo, di vela, e di manovra, e vie più facessero di spingere i legni a riva; di tanto il mare fluttuante ricacciavali indietro[32]. Fenomeno non raro, nè ignoto ai marini e agli idraulici, diverso dal tormentoso sussulto dei colpi riverberati dalle risacche; e propriamente chiamato Deflusso: il quale si produce in certe condizioni di lido, quando il mare gonfio, sollevato sulle battigie, e incalzato continuamente dai flutti seguenti sotto un angolo di obliquità (come nel caso nostro dalla furia sinistra dello Scirocco), perduto l'equilibrio e l'oscillazione, ricade fuggendo dal lato di minor resistenza; e indi in poi piglia natura di corrente straordinaria, che mena i galleggianti nella sua direzione con violenza proporzionale alla massa e velocità del deflusso medesimo. Entrati adunque i nostri legni nella zona della detta corrente, dopo lunghi ed inutili sforzi delle misere ciurme, vedendosi sempre più andar lungi in deriva, presero il partito di rendere il bordo, e di poggiare per rifugio a Portercole. Nel qual tragitto corsero come perduti, imbarcando da poppa, e talvolta anche da prua, tanto mare, che non fu passeggiero alcuno che non si tenesse spacciato. Solo il Valentino, prima di virare, saltando sopra un grosso palischermo con quattordici robusti rematori, riuscì ad afferrare la spiaggia: e solo Alessandro tornandosi addietro mantenne l'aria intrepida, seduto in un seggiolone di scarlatto, e segnandosi in fronte ad ogni colpo di mare.
A bello studio ho scritto Deriva, parlando qui avanti dei nostri bastimenti, menati a ritroso dalla corrente del mare: e quando mi accaderà altrimenti alcun trasporto violento per causa di vento laterale, dirò Scarroccio. Vocaboli diversi di cose differenti: ambedue tecnici, nostrani, e necessarî; che non si vogliono nè confondere per sinonimi, nè rifiutare per forestieri, come taluno ha tentato. La Crusca registra al mascolino il Derivo, esprimente il Derivare intransitivo, cioè l'Andar giù come il rivo, il Discendere, il Deviare: però i marinari chiamano con proprietà di lingua Deriva, quella Anomalia di trasporto oltre o fuori del rombo assegnato che soffre nella navigazione un bastimento menato dalla corrente del mare. L'etimologia sprizza evidente dal Rivo, perchè le correnti marine vanno come i fiumi; e l'effetto si pare quel desso, in ambedue i casi, di spingere in giù, di ritardare in su, e di volgere da lato i galleggianti, o inerti o semoventi, secondo la risultante delle diverse forze e direzioni. Il fenomeno presso alle ripe è visibile pel rilievo dei punti fermi: ma in alto mare, il flutto, la scia, il bastimento, e tutto va dalla stessa parte; e non puoi addartene coi sensi, ma devi seguire l'invisibile carro di Nettuno con risultamenti proporzionali alla direzione e velocità della corrente e della rotta, sommate, sottratte o composte, secondo l'angolo. Qui approdano gli studî del Maury in America, del Cialdi in Italia, e di altri maestri a gara in ogni parte. Onde cresce a maggior importanza l'intendimento di questa voce, alla quale mi ha condotto la stessa corrente che respinse i reduci dal lido di Tarquinia, e ricacciolli a Portercole.
[11 marzo 1502.]
Vi giunsero la sera dello stesso giorno sei di marzo: e non vedendo segno vicino di miglior fortuna, volsero le spalle al mare. Tutti quelli che sentivansi in forza di cavalcare seguirono Alessandro per le medesime strade, donde erano venuti: gl'infermi in gran numero restarono negli alberghi lungo la via, e i viaggiatori senza le consuete accoglienze rientrarono in Roma agli undici del mese[33]. Navigazione certamente straordinaria, che dette da dire alla gente: e non pochi si fecero lecito di salire fino ai superni consigli, pensando e scrivendo che in quel modo si fosse voluta ricordare la caducità delle cose mondane a chiunque dimenticata l'avesse.
VIII.
[29 marzo 1502.]
VIII. — Per conseguenza abbiamo ora a compiangere la immatura morte di quegli che più d'ogni altro era stato messo a tortura. Il capitano del Mosca, rimenata la squadra in Civitavecchia, se ne venne a Roma, e ai ventinove dell'istesso mese sull'ora di terza morissi nella ancor fresca età di anni trentasei, mesi dieci e giorni cinque. Uno scrittore contemporaneo ci ricorda l'ultima sua comparsa, dicendo[34]: «Lodovico del Mosca, cavaliero romano, e capitano delle galèe di Nostro Signore, il quale aveva jeri sull'ora di terza terminato il corso di sua vita, fu portato oggi in chiesa, vestito di una sopravveste nuova di broccato sopra un farsetto di velluto violetto tutto di nuovo; una bella spada sul petto, sproni d'oro alle calcagna, e quattro anelli gemmati nelle dita. Innanzi alla bara sessanta doppieri di cera bianca, e appresso molti amici e compagni d'arme in gramaglie. Passò il convoglio dalla sua casa, che è presso al chiassetto della parrocchia di santo Stefano in Piscinula, girando pel rione fino a Campodifiore, indi alle case de' Capodiferro, e appresso per la Regola entrò nella parrocchiale, dove il morto fu seppellito col farsetto, la sopravveste, la spada, gli speroni, ed uno anello nel dito, toltine gli altri tre. Ebbe accompagnamento onorevole più che alcun altro signore da molti anni a questa parte. Egli aveva fatto testamento il giorno avanti, alla presenza dei suoi genitori. Tra l'altre cose ordinando di essere sotterrato colle vestimenta e distintivi predetti, e a lume di sessanta doppieri. Rogato l'atto, chiamò il mercante presso al letto, e fecegli tagliare quattro canne di velluto violetto pel suo vestire; ed una canna di broccato d'oro per la sopravveste, da esser messa col suo corpo nella sepoltura. Per memoria dei posteri i genitori vi posero una pietra colla iscrizione che così riproduco, come si legge nel Galletti, e nell'autografo più antico di Teodoro Amayden intorno alle nobili famiglie romane, gelosamente conservato nella nostra Casanatense[35]:
«A Lodovico del Mosca, cavaliere romano, capitano della navale armata pontificia, che dopo onorati servigi nella questura dell'erario pubblico e nel dicastero della penitenzieria apostolica, mostrando a chiare prove il pristino vigore del sangue romano, in quei durissimi tempi che tutt'intorno per terra e per mare fremevano l'armi, da Alessandro sesto pontefice massimo nominato comandante supremo della marina, espugnato Piombino, sottomessa l'Elba, condotto in quei luoghi l'istesso Pontefice, nel fiore delle speranze sue e di ogni altro, e specialmente del Popolo romano, oppresso dall'avversità morissi li ventinove di marzo dell'anno di salute 1502. Visse anni trentasei, mesi dieci, giorni cinque. Evangelista e Francesca genitori infelicissimi al figlio dolcissimo e benemerito posero.»
La mestizia, compagna indivisibile di qualunque dipartita, mi torna ora più acerba nel dire l'estremo vale al primo Capitano venutomi innanzi nel primo libro. E, poichè altrimenti non potrei crescergli onoranza, mi sarà concesso dedicare al suo nome la continuazione del libro medesimo, senza mutarne il titolo. Tanto più che le imprese migliori seguono nel corso dell'istesso anno per opera dei compagni, dei navigli e degli ufficiali addestrati da lui.
IX.
[Aprile 1502.]
IX. — Squilla dunque un'altra volta sulle marine del Tevere la tromba di giusta guerra contro Turchi e pirati: ed io là mi volgo, dove i cavalieri di Rodi e i Veneziani già combattono contro il nemico comune, aspettando alle armi loro incremento di riputazione e di conforto dalle armi di Roma. Papa Alessandro, memore delle promesse, intima la partenza alle sei galere tornate dall'Elba col capitano Lorenzo Mutini, ne spedisce altre due venute di Ancona col capitano Cintio Benincasa; e pel compimento di maggior numero manda a Venezia quello stesso Angelo Leonini, vescovo di Tivoli, che dalla prima gioventù erasi mostrato destro e valente in simili maneggi, come altrove si è detto[36]. In somma tredici galere, alcuni brigantini, dumila cinquecento fanti delle bande borgiane, e per commissario straordinario Giacopo da Pesaro, vescovo Pafense, infino a tanto che non ne desse il comando al cardinale grammaestro di Rodi[37].
La corte di Roma, tenace delle antiche costumanze, ritorna all'antico: e dopo la morte di un capitano laicale sostituisce due ecclesiastici. Un vescovo per commissario, e un cardinale per comandante; come si usava nel Medio èvo, massime nelle imprese contro infedeli. Era l'uso del tempo, non solamente in Roma, ma in ogni altra parte d'Europa: e cesserà la maraviglia chi sappia come in Francia infino ai tempi di Luigi XIV v'avea vescovi e cardinali per capitani di vascelli e di galèe e di armate navali, largamente ricordati sopra autentici documenti dello storiografo più recente della marina francese[38].
Il vescovo Giacopo da Pesaro di gran nascita tra i Veneziani, e di non minore esperienza nelle cose del mare, fresco di età, di bell'aspetto e prode, a chi ne cerca si mostra tuttavia quasi vivo per mano di Tiziano ritratto in una tavola di altare nella chiesa dei Frari a Venezia, genuflesso innanzi a san Pietro, e da lui fisamente riguardato con occhio affettuoso in grazia dei servigi resi alla causa del cristianesimo[39]: si mostra altresì scolpito in bianco marmo nel mausolèo della famiglia con una sentenziosa iscrizione che lo ricorda vissuto per anni ottantuno, come si dice di Platone: e più anche al nostro proposito si mostra negli annali ecclesiastici pel diploma di papa Alessandro, che qui traduco nel nostro volgare dal testo latino pubblicato nell'opera del Rainaldo[40]: «Al venerabile fratello, Giacopo vescovo di Pafo, nuncio e commissario nostro, salute ec. Alessandro papa sesto ec. — Avendo noi per difesa della cristianità deliberato di mandare la nostra armata navale contro i Turchi oppressori e nemici del nome cristiano, ci bisogna un prefetto che ne prenda il carico, e la conduca al diletto figliuolo nostro Pietro di sant'Adriano, diacono cardinale e grammaestro dell'ospedale di san Giovanni gerosolimitano; personaggio già sopra questa guerra, per consiglio dei venerabili fratelli nostri, Cardinali di santa romana Chiesa, eletto e costituito Legato nostro e della Sede apostolica coll'autorità di governare e provvedere alla detta armata. Or dunque, sperando bene di te e della tua prudenza, destrezza e prontitudine nell'eseguire fedelmente gli ordini nostri, ti abbiamo nominato nuncio e commissario della armata medesima al fine di reggerla, e di condurla all'istesso cardinale Legato e di rassegnargliela da parte nostra, e di seguirlo nelle spedizioni che vorrà fare. Intanto tu avrai facoltà di comandare, di mettere e togliere gli ufficiali, di punire i delinquenti, e di fare ogni altra cosa necessaria ed opportuna al predetto fine, secondo che richiede l'onor nostro e della santa Sede, e insieme il buon governo e condotta della stessa armata. Laonde per autorità apostolica, a tenore delle presenti ti facciamo, nominiamo, e deputiamo nuncio e commissario per eseguire i già detti ordinamenti, ec. Dato a Roma, presso san Pietro, addì venti d'aprile dell'anno 1502, del nostro pontificato anno decimo.»
[Luglio 1502.]
Prese le lettere, Giacopo navigò difilato all'isola del Cerigo, dove erano ad aspettarlo cinquanta galèe di Venezia sotto Benedetto da Pesaro suo fratello; più tre galere di Rodi, comandate dal cavalier di Scalenghe; e quattro di Francia col capitano Prégeant de Bidoux, cavaliere gerosolimitano, chiamato dai nostri Piergianni, uomo assai noto nella storia del suo paese, per essere stato dei primi a rilevare colà le arti marinaresche[41]. Piergianni voleva in breve tornarsene a ponente, i Gerosolimitani dovevano proseguire verso Rodi, e i Veneti, già padroni del mare per averne cacciato il nemico, divisavano congiungersi coll'armata di Roma per gittarsi improvvisamente sull'isola di Santamaura, e toglierla dalle mani dei Turchi. Avrebbe voluto Giacopo, secondo gli ordini di papa Alessandro, condursi oltre fino a Rodi, e rassegnare il naviglio e le genti al cardinale Legato: ma stretto dalle preghiere e dalle ragioni dei Signori veneziani, ebbe per bene di compiacerli e di restarsi con loro, non inviando altri al Grammaestro che il capitano Cintio Benincasa con una sola galèa per fare le sue scuse e portargli le lettere che da Roma e dal Cerigo gli si mandavano.
X.
X. — Cintio nobile anconitano, come tutti sanno, specialmente nella sua patria, dove tuttavia si mantiene nell'antico splendore la famiglia dei marchesi Benincasa, era cavaliero destro e valente tanto nelle armi quanto nelle lettere; capitano, oratore e poeta di chiara fama; accetto nelle corti dei principi, feudatario del re d'Ungheria; ed uomo (secondo la tempra delle nostre città marittime) atto ad ogni cosa onorata e forte. Nelle arti marinaresche poi eccellentissimo per tradizione dei suoi maggiori, tra i quali primeggia Grazioso Benincasa, autore di un Portolano composto nel 1435, non sopra altre carte, ma (come egli stesso scrive) tratto dal vero, toccato colle mani e veduto cogli occhi. Portolano in dieci o dodici esemplari autografi tutti bellissimi, che si conservano ancora negli scrigni di Ancona, e di altre biblioteche in Europa; noverandoci anche quello di Andrea, figlio di Grazioso, custodito nella biblioteca di Ginevra. Non mi dilungo, quantunque richiesto, appresso agli antichi portolani, e molto meno appresso alle carte marine dei secoli passati, perchè è impossibile trattarne a dovere senza il sussidio delle figure e delle tavole, che non rilevano a' miei editori. Valgami il desiderio di saperle una volta tutte raccolte e riprodotte a facsimile in grandioso Atlante per soddisfare alle ricerche degli studiosi ed alle citazioni degli scrittori. Allato alle tavole del vecchio Torcello, e dell'Anonimo posseduto dal Luxoro; allato a tanti altri cartografi genovesi e veneziani non disgraderà la comparsa del Crescentio di Roma, e dei Benincasa d'Ancona; e con essi entrerà quel Freduccio che primo segnò nel 1497 la declinazione della bussola; e quel Bonomi, parimente anconitano, che offerì ai Colonnesi la carta portata da Marcantonio vincitore a Lepanto[42].
Ma frattanto il capitano Cintio era giunto in Rodi, ed aveva presentato al Grammaestro le lettere di papa Alessandro, del commissario Giacopo, e del generale Benedetto. Le prime contenevano scuse per l'anno passato e speranze pel presente. Il Commissario scriveva di essersi congiunto al Cerigo coll'armata, e aver dovuto cedere alle pressantissime istanze del Generale di restarsi con lui per dargli mano nell'impresa imminente, come udirebbe a voce dal messaggiero. Finalmente il Generale con due lettere, confermando le cose scritte dal Commissario, aggiugneva che volendo questi a ogni modo andare a Rodi, non aveva altrimenti lasciato di farlo che per le grandi preghiere dello stesso scrivente, cui non sembrava nè onesto nè utile perdere il migliore tempo in distrazioni e viaggi di complimenti, quando si avevano eccellenti opportunità di combattere, come secretamente gli verrebbe riferito dal Capitano di Ancona e dai suoi Cavalieri.
Il Grammaestro, udite le relazioni di Cintio, lodavane il bel garbo; e ponendogli innanzi ricca collana di oro da portare sul petto per amor suo, gli consegnava le risposte. Al Papa diceva di spedire forze maggiori, e di procurare il concorso efficace delle grandi potenze: al Commissario di attendere con buona licenza e di grande animo all'impresa divisata: e al Generale, le stesse cose ripetendo, aggiungeva buoni consigli, notizie recenti, e offerte amplissime di sè e dell'Ordine suo[43].
XI.
[Agosto 1502.]
XI. — Mentre queste lettere di andata e di ritorno solcavano il mare Carpazio, Veneti e Romani movevano verso lo Jonio col disegno di abbassare l'orgoglio del terribile pirata Camalì Aichio, che faceva da principe nell'isola di Santamaura; e da quel centro con molti bastimenti sottili infestava le riviere e i naviganti dell'Adriatico e dello Jonio.
Fra le sette isole possedute lungamente dai Veneziani, che non ha guari formavano stato indipendente sotto la protezione dell'Inghilterra, ed ora stanno insieme col regno di Grecia, non ultima di grandezza e di popolazione avvisiamo l'isola di Santamaura, chiamata altresì Leucade; e specialmente ricordata nelle storie pel salto che dicono quindi abbia fatto da una rupe nel mare la poetessa Saffo, tradita dal giovanetto Faone: salto che per lungo tempo a gara ripetevano gli amanti disperati della Grecia e di Roma, pensandosi di spegner pure nella scossa repentina delle gelide acque il fuoco ardente della passione. L'isola si prolunga da presso alle coste dell'Epiro, proprio rimpetto alla provincia dell'Acarnania; non essendovi di mezzo altro che un canale di dieci miglia, angusto altrettanto che lungo, e nella estremità superiore verso borea tanto sottile, da farci supporre che nei secoli più remoti sia stata congiunta da quella parte l'isola al continente. Ma nel tempo della nostra impresa, come al presente, essa era ed è circondata per ogni lato dal mare, quantunque nella parte più ristretta, sopra bassi fondi, ed a cavaliere di alcune isolette o scogli vi sia stato gittato un ponte che sbarra il canale, mette l'isola in comunicazione colla terraferma, e mena di fronte alla metropoli, donde tutta l'istessa isola piglia il nome. Questa città così posta, e con buoni sorgitori attorno, è stata sempre piazza di molta importanza per chiunque guerreggia nello Jonio, e più o meno fortificata secondo i tempi. Nel principio del secolo decimosesto ell'era ricinta in giro di grossa e buona muraglia, fiancheggiata da massicci torrioni, munita di molta artiglieria, e maggiormente assicurata da un castello di pianta quadrilunga, protetto da cinque grandi torri rotonde, e da quattro piccole torri quadrate. Intorno alle scarpate della piazza e del castello fossi profondissimi, allagati dal mare; e aperto alle spalle sur una penisola il borgo, abitato da pescatori e da povera gente[44].
XII.
[23 agosto 1502.]
XII. — Volendo pertanto il General veneziano, e il Commissario nostro, da ogni lato circondare la piazza, dove per l'abbarramento del ponte non potevano spiegare in giro l'armata, fermarono di procedere con due divisioni convergenti da un lato e dall'altro al medesimo punto obbiettivo: sì che la divisione romana colla prua a borea per didentro, fin dove è più angusto il canale tra il continente e l'isola, tagliasse le comunicazioni colla terraferma, e togliesse ogni via di sortita e di soccorso al presidio: allo incontro la divisione veneziana, per di fuori a largo mare, fino al porto di Demata, investisse la piazza e battessela dall'altra banda.
Era il ventitrè d'agosto, e il Commissario nostro colle dodici galere romane, favorito dai venti australi, infilava rapidamente tra la terraferma e l'isola; oltrepassava lo Scorpione, il Drepano, la punta delle Torrette, il forte Sangiorgio; ed entrava nel grande stagno presso la estremità del canale, dove si tenevano in posta dodici galeotte di pirati. Costoro, già sugli avvisi, speravano poter cogliere l'armata nostra sprovveduta, o almeno conquidere i legni ad uno ad uno, come venissero a sfilare dall'angusto passaggio. Ma i Romani altrettanto animosi che guardinghi, sempre col piombino in acqua, tenendosi stretti tra loro in due linee di fronte, al primo comparire dei nemici, poggiarono tutti insieme sopra di loro, arrancando con tale impeto, e fulminando con tanta furia di cannonate, che tutte le galeotte volsero in fuga alla spiaggia; e i pirati gittandosi a guazzo fuggirono, lasciando i dodici legni abbandonati in potere dei vincitori[45].
Non per questo i nostri marini indugiarono punto in festa o in bottino: anzi provvidamente seguirono la vittoria. E poichè niuno più poteva togliere dalle loro mani la preda, tirarono innanzi, ruppero il ponte, appostarono quattro galèe alla terraferma per impedire i soccorsi; e sbarcando sull'isola un migliajo di fanti, investirono la piazza dal lato meridionale, e occuparono il borgo. La sera dello stesso giorno, coperti dalle case, ponevano l'alloggiamento vicino al castello, e ne tagliavano l'acquedotto. Prosperi successi per terra e per mare dove è accertata la direzione.
XIII.
[29 agosto 1502.]
XIII. — Il Generale dei Veneziani, che doveva dall'opposta banda consentire all'assalto improvviso, giunse coi venti australi in capo all'isola, fino alle piagge dei Pineti; ma non potè orzare tanto da accostarsi alla piazza: però in tutto quel giorno fu costretto tenersi largo sulle volte. Ma la dimane, favorito dalla brezza notturna, sbarcò la fanteria con alcuni pezzi di grosso calibro, e prese a battere in breccia il castello. Quindi da ogni parte più e più vigorosa l'oppugnazione. Quei di dentro, quattrocento assappi, cento giannizzeri, e duemila terrazzani, quasi tutti pirati, disperatamente rispondevano all'urto e alle percosse sempre più incalzanti dei Cristiani. E dalla parte dell'Epiro, affacciatosi il soccorso di mille cavalli con qualche nervo di fanti, spediti dal governatore di terraferma, furono talmente più volte frustati e rifrustati a metraglia dalle quattro galere romane, che gran ventura ebbero di potersi salvare con disperatissima fuga, e di non farsi più rivedere alla testa del ponte.
Questa cacciata abbassò l'orgoglio del presidio, composto di gente riottosa e discorde. I quali vedendo di non potersi a lungo sostenere, e sfiduciati omai del soccorso, dopo sette giorni di batteria, e già aperta la breccia, uscirono tumultuariamente sulla porta per trattare la capitolazione: chiedevano salva la vita e le sostanze di tutti, dappoichè la piazza e il castello più salvare non potevano. Nondimeno in quella che i capitani delle due parti dibattevano la forma dei capitoli, volendo specialmente il Generale veneziano ricevere a giusti patti i soldati regolari del presidio, e lasciare fuori della legge a sua discrezione i pirati; costoro, infelloniti quasi più contro i compagni che contro i nemici, presero ad altercare, mostrandosi pronti ad ogni eccesso. Pensate le milizie borgiane e marcoline se potevano tollerare in sul viso minacce e millanterie di pirati! Al primo lampo d'indignazione sprizzato dalla mano d'un fante incollerito, tutti gli altri dettero dentro, sforzarono il passo, ed ebbero di presente la terra e il castello. Così addì ventinove d'agosto venne in poter dei Cristiani la fortezza di Santamaura, dove il nostro Commissario scioglieva le catene a gran numero d'infelici pugliesi, siciliani e calabresi che gemevano in dura schiavitù; e il Generale veneziano di presente faceva appiccare ai merli per la gola o tagliare a pezzi i più tristi pirati di quel luogo; tra i quali l'istesso Camalì Aichio, detto dai Turchi Kamàl-raìs[46]. Tal sia del primo.
XIV.
[15 Settembre 1502.]
XIV. — Jacopo il commissario, scrivendo al cardinal Legato in Rodi, narra distesamente questi successi: e perchè nella lettera si contengono particolari importanti alla marineria, io non posso nè devo lasciare di riprodurla qui per esteso, come si legge nelle colonne del Bosio: avvertendo però che Sopraccomito era il titolo che si dava al comandante di un naviglio, quando non si diceva Capitano se non di squadra, o di armata. I Veneziani, più d'ogni altro tenaci, ne hanno mantenuto l'uso, anche nel secolo decimosesto. La voce è formata da Comito, primo ufficiale della marinaresca, e da Sopra in significato di eccellenza, come dire superiore degli ufficiali e genti di una galèa o nave. La voce Ammiraglio, derivata dall'arabo Al-Emir, principe dell'armata navale, fecesi nostrana al tempo delle Crociate, colle varianti di Almirante, Almiraglio, ed Armiraglio, che si leggono nei secoli decimoterzo e decimoquarto: ma nel decimosesto niuno dei grandi in Italia ha avuto questo titolo, nè anche Andrea Doria; e il grado supremo esprimevasi col dire Capitan generale. Anzi in Venezia la voce Ammiraglio era venuta tanto giù da non significare altro se non il primo Nostromo dell'armata, o del porto, dell'arsenale[47]. Ecco la lettera[48]:
«Reverendissimo ecc. Hier sera che fu a' quattordici del presente ritornò Francesco Cintio anconitano sopraccomito a salvamento con la galera pontificia, e bacio le mani alla S. V. R.ma de' favori e delle cortesie usategli. V. S. è prudentissima et haverà molto bene compreso quanto grande sia il buon animo di Sua Santità, e quanto ella sia stata defraudata delle speranze, delle promesse, e della fede datale dalli potentati cristiani, che unitamente contro le cose turchesche intervenir dovevano. Questo procede, Reverendissimo Signore, dalle differenze nate tra loro, onde non può la Santità Sua adempiere ciò che a V. S. R.ma significato haveva, in far concorrere et intervenire i potentati suddetti, e tutti i fedeli popoli cristiani a questa santa speditione. Ma poichè contro ogni speranza restano le cose dei Cristiani così fredde et addormentate, come V. S. R.ma può molto bene comprendere; e che Sua Beatitudine resta con infinito dispiacere e rammarico di non poter adempire l'ardentissimo suo desiderio in reprimere le forze di questi cani turchi, non vedo io in ciò altro rimedio che pregare la divina clemenza, alla quale ogni creatura è sottoposta, che si degni illuminare le menti e muovere i cuori dei Principi cristiani.
»Delle galèe apostoliche io non ne ho ricevute se non tredici; e siamo già si può dire nel verno: nè tengo speranza alcuna delle altre che mancano al compimento delle venti. Le tredici sono stipendiate solamente per quattro mesi, che spirano per tutto ottobre; nè a me sarebbe lecito preterire i limiti et il termine statuitomi da Sua Santità, senza altro suo espresso comandamento.
»L'armata di Francia non è venuta: e si crede che, per le differenze nate tra lui et il re di Spagna per conto del regno di Napoli, non verrà altrimenti. Le quattro galere del capitan Prejanni francese[49] sono partite tredici giorni sono da Santamaura, per andare al soccorso del re di Francia; essendosi il detto Capitano partito subito che intese che i Francesi erano in arme contro Spagnoli nel detto regno di Napoli.
»L'armata veneziana, ed io con essa, fummo ai ventitrè del passato a Santamaura, nido di corsali turchi[50], che facevano mille danni: e con l'ajuto di Dio ai ventinove del medesimo pigliammo la terra et il castello con seicento Turchi, e molte femine et fanciulli. Il magnifico Generale fece tagliare a pezzi i corsali, facendo prigioni i giannizzeri ed altri soldati. Abbiamo liberati molti Cristiani schiavi.
»Questa felice vittoria in gran parte attribuir si deve all'armata apostolica, la quale era dalla banda dove erano più di mille cavalli turchi ben armati con buon numero d'infanteria turchesca, che più volte tentarono di soccorrere Santamaura; e con le nostre artiglierie pontificie glielo abbiamo proibito, con morte di molti di loro.
»E perchè il magnifico Generale ha risoluto di fortificare il castello di Santamaura, non si potrà assentare di qua; anzi sarà necessario (dopo che avrà fatto le debite provvisioni), che lasci qui da quindici galere per ajutare la fabbrica e la fortificatione. Onde V. S. R.ma può considerare che egli rimarrà con poche galere: e conseguentemente la S. V. R.ma resta defraudata delle promesse e della fede datale, e della speranza di vedere unite insieme e di comandare alle galere del Papa, del re di Francia, e di questa repubblica veneziana. Oltrechè noi non siamo in tale stato da fare l'onorata et utile impresa, alla quale V. S. R.ma proposto havea di condurci. Resta solamente che Ella si degni accettare il mio buon animo; e che mi favorisca di farne fede alla Santità di Nostro Signore con sue lettere.
«Dall'isola di Santamaura, nella galera capitana del Sommo Pontefice, a' 15 settembre 1502. — Giacopo da Pesaro, Com.º»
XV.
[Ottobre 1502.]
XV. — Non mi crederei di avere pienamente soddisfatto al mio debito, se pei fatti ora narrati, e pei documenti prodotti non venissi alle conseguenze, onde il magisterio della storia discende alla pratica utilità. Però devo segnalare la tattica dei nostri antichi marini: i quali senza gran fatto smarrirsi nelle astruserie dell'analisi, come oggi dicono della scienza, risolvevano a colpo sicuro i più ardui problemi della milizia navale, e non fallivano alla meta.
Eccoli pigliare guerra offensiva contro i Turchi sul mare; e primamente volgere tutte le forze contro l'armata nemica per isbrattarla dal campo, senza pensare sul principio nè ad isole nè a castelli. Questa è semplicissima teoria, e di gran momento: tuttochè non sempre osservata da altri. Col nemico vicino e grosso, le isole non si pigliano; ma in quella vece si toccano le busse a doppio tra terra e mare: essendo impossibile tentare piazza ben difesa e non patire avaria nell'armamento e perdita nella gente, intanto che il navilio del nemico resta intatto, e può sempre a suo vantaggio piombare improvvisamente e opprimerti lacero e stanco.
Dunque gli antichi coi fatti e colle parole dicevano: prima di tutto cerca l'armata nemica, e sfidala a battaglia. Se accetta, devi contare di averla vinta, posto che tu imprenda a ragione guerra offensiva con forze sufficienti. Se il nemico non accetta, suo peggio: chè dovrà tenersi vituperato agli occhi propri ed altrui, con quell'effetto morale di abbattimento, che pareggia e talvolta supera una disfatta. Nell'uno e nell'altro caso ti rendi padrone del campo. Così nel fatto presente i Veneziani fin dal principio della guerra avevano costretto l'armata turchesca a sgombrare dallo Jonio, ed a ritirarsi dietro alle guardie dei Dardanelli. Quindi divenuti padroni del mare potevano a scelta tentare l'espugnazione di questo o di quel castello o isola, che loro tornasse meglio, senza temere altro impaccio.
Sopraggiunta l'armata romana al Cerigo nel mese di luglio, i capitani alleati appuntano tra tutte la piazza di Santamaura, la cui importanza ancor si mantiene, come una delle chiavi dell'Adriatico e dello Jonio; e dove tutti i dominatori, fino al primo Napoleone e al ultimo Palmerston, han tenuto l'occhio e il presidio. Gli alleati formano due divisioni di tutta l'armata, perchè non si può altrimenti circuire la piazza: ma vanno spediti e convergenti allo stesso punto; corrono co' venti medesimi a un tempo verso borea sulle due parallele; gli uni di dentro per le coste orientali, gli altri di fuori per le occidentali; e spargono da ogni parte lo sgomento nel cuore del presidio. Ben possono andar sicuri, tanto congiunti che divisi, perchè non v'ha armata nemica appresso per attaccarli a ritaglio.
Il nostro Commissario entra improvvisamente nel canale, procede serrato in battaglia con ordine di fronte, secondo l'uso perpetuo dei legni militari muniti di rostro e di artiglierie sulla testa: dico artiglierie d'ogni genere, antiche o moderne, da corda o da fuoco. Alla vista delle galeotte piratiche, egli non dispiega le file, nè si perde in giravolte e ritortole (come altri farebbe, incaponito nel metodo eccezionale dei vascelli a vela); ma dritto ed abbrivato corre a investire: con che obbliga il nemico alla fuga, e piglia sulla spiaggia tutto il suo navilio. Nè qui si arresta: anzi procede oltre allo scopo principale, rompe le comunicazioni tra il continente e l'isola, occupa il ponte, si alloggia nel borgo, investe dalla sua parte la piazza; e appostatosi dì prua in terra colle artiglierie di quattro galèe, impedisce ogni movimento dei nemici, e ricaccia sempre indietro le migliaja dei cavalli e dei fanti che cercano rompere le linee dell'assedio. Dove è da notare il gran vantaggio delle batterie navali per la difesa dei passi in litorale aperto o di piano inclinato; perchè esse possono incrociare i fuochi e spazzare da ogni parte la campagna, senza correre pericolo di essere prese d'assalto, come non di raro avviene alle batterie, tuttochè ben difese, sulle colline.
Dall'altra parte la prima divisione corre coi venti del secondo quadrante fino all'altura della piazza, indi orza a raso, e non potendosi prolungare contro vento, tanto da presso archeggia, che alla prima brezza favorevole della notte mette in terra le genti e le artiglierie, munisce le trincere, apre la breccia, e in pochi giorni costringe alla resa il castello, e piglia tutta l'isola. Effetti sicuri di cause ordinate, quando è posto l'uomo certo alla cosa certa, e quando ciascuno fa a dovere la parte sua.
XVI.
XVI. — Venendo ai capitoli, voglionsi distinguere le condizioni diverse del presidio: altri i patti convenienti ai giannizzeri ed alle milizie regolari; altri i patti ai pirati, contuttochè chiamati corsari. Dove torna acconcio notare la enormità del confondere queste due voci, capitalmente diverse, quantunque date per identiche, e diffinite l'una per l'altra anche dalla Crusca, e dai seguaci. Non tutti i naviganti sono corsari, nè tutti i corsari sono pirati: convengono nel genere rimoto del correre; chè naviganti, pirati, e corsari tutti corrono sul mare; ma si distinguono per le diverse ragioni de' corsi loro: e le differenze si hanno a cavare non tanto dalle scritture private dei letterati, quanto dalle sentenze dei pubblicisti e della giurisprudenza marittima, cominciando dal classico Consolato del mare. Corsaro propriamente dicesi Colui, che, quantunque privata persona, nondimeno (autorizzato con lettere patenti dal suo governo) comanda un bastimento armato, e corre il mare contro i nemici del paese, in tempo di guerra, a suo rischio e guadagno. Per estensione dicesi pur corsaro o corsale il bastimento e l'equipaggio. Essi portano la bandiera nazionale, sono soggetti alle leggi dello stato, hanno tribunali che ne giudicano i fatti e le prede: devono essere rispettati dai neutri, possono rifugiarsi nei loro porti; vincitori o vinti godono sul mare le medesime guarentigie che il diritto di natura e delle genti accorda ai comandanti e persone dei corpi franchi in terra. Al contrario i pirati si pareggiano in tutto cogli assassini: Compagnia di ribaldi senza altra legge che il libito, uniti insieme per rubare sul mare, senza bandiera, o vero con bandiere bugiarde, senza rispetto di pace o di tregua, senza patenti, senza tribunali: pubblici nemici di tutti, peste e flagello dei mari.
Or di che tempra fossero quei cotali delle dodici galeotte e del castello, si fa manifesto dalle forche, assegnate non a tutti i prigionieri, ma a loro soltanto; perchè essi soli in ogni tempo, o di guerra o di pace o di tregua, rubavano e infestavano i mari per mestiero e pertinace costume ladronesco. Erano dunque veri pirati, e non corsari. Per tali gli ebbero i giannizzeri, che nella difesa li provarono riottosi; par tali i vincitori che, avutili prigioni, li fecero a pezzi; per tali, senza equivoci, gli avranno i miei lettori.
XVII.
XVII. — Presa l'isola, si pensa subito a mantenere e a fortificare il castello della capitale: perciò un distaccamento di quindici galere, come dire buon numero di gente ai lavori; di ufficiali a dirigerli, di ciurme ad eseguirli, di soldati a difenderli. Duolmi non trovare nome di ingegnere; perchè essendo già da cinque lustri inventata la nuova maniera di fortificare, ed oltre alle due scuole del Sangallo e del Martini surta pur la scuola mista con Basilio e con Leonardo, come altrove ho detto e dirò, doveva naturalmente svolgersi l'arte medesima nella guerra viva, nell'assedio e nella difesa delle piazze, e nei loro risarcimenti. Indi si potrebbe forse dimostrare che le opere a cantoni di nuova maniera, le teste del ponte, e i tre rivellini fiancheggiati intorno al vecchio castello, tanto dalla parte dell'isola, che di terraferma, come si vedono delineati nelle carte del cinquecento e del seicento[51], sono stati primamente imbastiti di terra e di fascine nel 1502 dagli ingegneri che le armate di Venezia e di Roma in quel tempo non lasciavano mai di aver con loro in qualsivoglia spedizione. Dovevano probabilmente essere tra i Veneziani gli allievi Urbinati del Martini, dell'Amoroso, di Ciro; perchè il Senato dalla Romagna e dalla Marca traeva il nervo delle sue fanterie; e già sentivano della nuova maniera i primi Savorgnani, Girolamo Genga, e quel Basilio della Scola che era stato sopra l'artiglieria di Carlo VIII e dei Signori veneziani, e aveva poco anzi fatto modelli di fortezza in nuova forma[52]. Tra le genti di Roma dovevano essere ingegneri della scuola Sangallesca; perchè in quel tempo di tanta ricchezza e concorrenza di maestri si raunava in Roma attorno al Valentino per amore o per forza il fiore dei grandi artisti, come Antonio Giamberti, Leonardo da Vinci e i loro seguaci; per opera dei quali in questi tempi avevano a rafforzarsi con opera di nuova maniera il castello di Santangelo, le rocche di Nettuno e di Civitacastellana, e le due fortezze di Bologna e di Perugia. Qualcuno degli allievi di cotesti maestri deve aver diretto i nuovi lavori a Santamaura. Fia bene averlo notato per quei riscontri che col tempo e con altri documenti potranno venirci innanzi.
Finalmente dal contesto e dalle esplicite dichiarazioni del nostro Commissario, secondo la lettera diretta al Grammaestro, apertamente si rileva come tutti allora volevano dare al Turco e ai pirati; e come pur tutti si scusavano di non poterlo fare. Niuno taceva la necessità di spegnere l'incendio, questi lo diceva a quello, e ciascuno ne lasciava il carico all'altro. Il mondo sempre a un modo: ostacoli, impotenze, e scuse non mancano mai a chi ne cerca; e la buona volontà sempre di mezzo. Che dubbi? Tutti hanno ragione. E per tanta sovrabbondanza di ragioni in ogni tempo sono cresciuti, durano e dureranno i disordini.
XVIII.
[1503.]
XVIII. — Nel vero l'acquisto di Santamaura avrebbe potuto riscaldare le pratiche della lega, e dar campo al Grammaestro, almeno nell'anno seguente, di eseguire il suo divisamento: ciò era condurre l'armata del Papa, di Francia, di Venezia, e di Spagna a Costantinopoli, mentre Bajazet era impigliato ai confini estremi ed opposti del suo imperio nelle guerre cogli Ungheresi e co' Persiani. Poteasi a un tratto cessare dal cristianesimo la calamitosissima peste e il vituperosissimo servaggio. Ma Consalvo di Cordova allora allora rompeva la tregua e assaltava i Francesi, volendo cacciarli al tutto dal Regno; allora l'Italia da un capo all'altro andava sossopra, e allora volavano le famose mine contro il castello dell'Uovo, condotte secondo i principî del nostro Francesco di Giorgio Martini, ingegnere sanese; alle quali, checchè ne abbia altri congetturato[53], è impossibile assegnare lui stesso come direttore, perchè era già morto l'anno avanti del mese di gennajo, nella sua villetta della Volta a Fighille, come pur da venti anni sopra sicuri documenti il Milanesi ha dimostrato[54].
Bisogna tuttavia notare che delle mine al castello dell'Uovo nel 1503 si è fatto gran rumore di maraviglie e di scritture, perchè eseguite dagli stranieri, tuttochè non fossero altro che copie: al contrario tanto poco si è detto della prima mina originale, allumata quivi stesso in Napoli otto anni avanti contro Castelnovo da un italiano, che infino a jeri si dubitava dell'inventore e dell'esecutore. Sorte comune di tutti quasi i nostri successi domestici. Ma ora gli è tempo di mettere la cosa a certezza colla testimonianza dei contemporanei: essendo oramai evidente che la prima mina, condotta con principî tecnici, e di efficace operazione, e con pieno successo, brillò il venerdì ventisette novembre 1495 contro la cittadella o mastio di Castelnovo in Napoli, tenuto dai Francesi di Carlo VIII, ed assalito da Ferdinandino di Aragona, durante il breve risorgimento della sua Casa[55]. Certo altresì l'ingegnere nella persona del celebre Francesco di Giorgio Martini, scrittore di quell'importantissimo Trattato di architettura civile e militare che fu pubblicato dal professor Carlo Promis. Il quale Martini più volte era stato richiesto dell'opera sua dai principi Aragonesi, e certamente nell'assedio di Castelnuovo serviva di ingegnere maggiore al giovane re Ferdinando, come ne fa fede lo Spannocchi, oratore dei Senesi in corte di Roma, per una lettera pubblicata dall'Angelucci[56]; e per lungo discorso il contemporaneo Vannoccio, ed altri[57]. Dunque il Narciso toscano del Giovio, celebre macchinatore di opere ammirabili, maestro di lavori sotterranei, che offerì l'opera sua al re Ferdinandino per espugnare Castelnovo di Napoli, fu senza dubbio il nostro Francesco[58]; il quale oltracciò nelle sue tavole lasciò disegni bellissimi delle mine, certamente finiti prima del cinquecento tre.
[18 agosto 1503.]
In mezzo ai rumori delle mine e delle armi, nazionali e straniere, morissi a' diciotto d'agosto papa Alessandro, precipitò Cesare Borgia, Giacopo d'Appiano riprese Piombino, tutti gli altri tornarono alle case loro: e per quel che riguarda i successi della nostra marina devo chiudere il primo libro dicendo che i Veneziani, costretti a fare la pace col Turco, seppero dare buon conto di Santamaura per ricuperare in cambio la Cefalonia che avevano perduta[59].
LIBRO SECONDO. Capitano Baldassarre da Biassa,
gentiluomo genovese.
[1503-1513.]
SOMMARIO DEI CAPITOLI.
I. — Giulio II, e i suoi capitani di mare. — Baldassarre, Giovanni e Antonio da Biassa (novembre 1503).
II. — Disegni di Giulio e accentramento. — Il sistema feudale, i baroni, e le città libere. — Mossa contro i Bentivogli e i Baglioni. — Le due fortezze di Bramante e del Sangallo (1506).
III. — Le città di Romagna in mano ai Veneziani. — Ingegneri e capitani di papa Giulio (1507). — Gita a Civitavecchia per la pietra angolare della fortezza (dicembre 1508). — Propositi colà coll'Ambasciatore veneziano.
IV. — Costruzione di sei galere in Ancona. — Capitani anconitani. — Breve di Giulio (15 gennaio 1509). — Altro Breve, e termine della costruzione nell'anno medesimo.
V. — Mosse e intendimenti diversi degli alleati di Cambrè (giugno 1509). — Molestie dei pirati nella Liguria. — Ruine nel Tirreno. — Una delle nostre galèe presa dai pirati (agosto 1509). — Trofei di bandiere in Africa. — La sorte delle sei galere perdute.
VI. — La guerra di Ferrara. — L'armata navale dei Veneziani sul Po. — Ponte di barche e ridotti alle due teste. — Scorrerie nel ducato, e pericolo di Ferrara (21 dicem. 1509). — Provvisioni del duca e batterie coperte dietro gli argini.
VII. — Si apre il fuoco la mattina (22 dicembre 1509). — Rotta dell'armata veneziana. — Acquisto di quindici galèe e di altri legni e prigioni. — Il ritorno militare, e i palischermi.
VIII. — I Veneziani chiedono la pace. — Capitoli e convenzioni sulla libertà del mare (20 febbrajo 1510).
IX. — Rottura coi Francesi. — Fatti d'arme in Lombardia e alla Mirandola. — Condizioni di Genova sotto i Francesi. — Giulio move l'armi per cacciarli (giugno 1510).
X. — Armamenti e fuorusciti in Civitavecchia. — Sei galèe romane, e diciassette veneziane. — I nostri bloccano Genova. — Le Caracche. — Posizioni del blocco (luglio 1510).
XI. — Ordinanza del capitano Piergianni per rompere il blocco. — Giuoco delle barche armate e dei legami. — Ritirata dei nostri. — L'arte antica e i suoi pregi. — La tattica secondo gli emergenti. — Vantaggi degli assalitori. — Discapito di chi non può muovere in ordine di battaglia.
XII. — Le artiglierie usate in queste fazioni (luglio 1510). — Origine del cannone, e perchè chiamato Pezzo. — Nomi arbitrarî delle artiglierie nei primi tempi. — Forme e composti diversi, ed a più canne. — Magnificenza degli ornati. — Criterio logico del nuovo ordinamento a multipli. — I tre generi, e le specie subalterne delle artiglierie.
XIII. — Ritorno e armamento maggiore sopra Genova. — Rassegna alla foce del Tevere. — Donativo. — Giulio s'imbarca ad Ostia, scende in Civitavecchia, e va in Lombardia. — Le due armate a Portovenere. — Combattimento sotto vela su due linee parallele. — Ardimento di Giano Fregosi. — Ritirata (settembre 1510). — Genova caccia i Francesi.
XIV. — Capitoli col capitan Giovanni da Biassa per la guardia del mare contro i pirati (15 settembre 1511).
XV. — Considerazioni sui capitoli. — Forza delle galèe e dei brigantini. — Soldi, razioni, specchio.
XVI. — Tassa del due per cento. — Servigio di guerra, di dogana, e di polizia. — Freno alle rappresaglie. — Metodo per duplicare la forza dell'armamento. — Rifacimento dei danni. — Proibizione dei noli. — Amici e nemici. — Malfattori al remo. — Missioni straordinarie.
XVII. — Concilio di Laterano. — Richieste dei padri, e trattati di lega contro i Turchi. — Documento (3 maggio 1512). — Apparecchi per la spedizione. — Morte di papa Giulio (21 febbraio 1513). — Fine del Biassa.
LIBRO SECONDO. CAPITANO BALDASSARRE DA BIASSA, GENTILUOMO GENOVESE.[1503-1513].
I.
[Novembre 1503.]
I. — Morto papa Alessandro Borgia, e in men d'un mese andatogli appresso Pio III dei Piccolomini, salì al supremo seggio nel primo giorno di novembre dell'anno medesimo il cardinal Giuliano della Rovere, nipote di Sisto IV, e vescovo Ostiense, che si fece chiamare Giulio II. Più volte nei libri precedenti ho parlato di lui: e senza ripetere a sazietà ciò che tutti sanno, mi terrò ora contento a considerare l'applicazione del marzial suo genio alle cose del mare.
Fin dal principio chiamò capitano dell'armata navale, ed intimo consigliere nelle marittime bisogne, Baldassarre da Biassa, prode uomo, di antica famiglia genovese, della quale ora non resta discendenza; ma soltanto nella riviera occidentale della Spezia, tra Marinasco e Pegazzano, il castello di originaria pertinenza chiamato Biassa; e nel blasone ligure presso a quel nome resta lo stemma segnato con un lione rampante in campo d'azzurro, sotto corona di marchese. Baldassarre, veterano della naval milizia, affine dei Fregosi, discendente di valorosi marini, e benemerito del cardinal Giuliano della Rovere per averlo trafugato da Ostia a Savona, quando pericolosi frullavano i risentimenti borgiani, fu da lui medesimo (divenuto papa) largamente riconosciuto e nominato capitano del mare[60]. Modesto titolo, che in quei tempi scusava i più sonanti dei moderni ammiragli, e portava pari grandezza e maggiore autorità. Il capitano del mare, comandante supremo, nominava e toglieva gli ufficiali, faceva giustizia, a niuno cedeva eccetto al sovrano, e intorno alla sua persona adunava cinquanta o sessanta gentiluomini o capitani veterani, che formavano la sua casa militare. Insieme con questi mettete Giovanni, figlio e successore di Baldassarre, come vedremo[61]; metteteci Antonio della stessa famiglia[62]; e poi Lorenzo degli Egidi, gentiluomo civitavecchiese[63]; e tre nobili anconitani, Gabrio Bonarelli, Galeazzo Fanelli, Melchiorre Acquieri[64]; e i due Mutini, Lorenzo e Girolamo[65]; e avrete in compendio, secondo il tempo, lo stato maggiore della marina.
Con questi campioni papa Giulio si andava preparando alle imprese già di lunga mano meditate, infino a tanto che duravano i fastidî continui dei segni e contrassegni per ricuperare le rôcche del Valentino; e più anche i fastidî delle guerre ancor vive tra Francesi e Spagnoli nel Regno. Col suo da Biassa, ora sulle galèe, ora sul bucintoro, navigava all'occasione pel Tevere e pel Tirreno ad Ostia e a Civitavecchia: mirava a Genova, attendeva il tempo opportuno, e faceva grande assegnamento sulla marina per venire a capo dei suoi divisamenti. Il Bembo, solenne conoscitore del Papa e delle sue tendenze, con un solo tratto di penna e da gran maestro scolpisce uno dei principali caratteri dell'animo di lui, non avvertito da altri: ciò è dire che l'unico diletto di Giulio, per riposo di stanchezza, era spaziare sur una barca pel mare[66]. Paride de Grassi, prefetto delle cirimonie, non ha omesso alcune volte di registrarne le navigazioni, specialmente quando si terminavano sul Tevere alla basilica di san Paolo, e gli andavano all'incontro i Cardinali[67].
II.
[1506.]
II. — L'ardente animo di papa Giulio, in quelle traversate, grandiosi e forti disegni mulinava: ed anzi tutto ricuperare gli stati della Chiesa romana, sbrattare dalle grandi città gli ostinati ribelli, e ridurre le provincie a più stretto legame colla capitale.
Ciò che Cesare Borgia aveva principiato con frode ed a privato vantaggio, voleva Giulio alla scoperta e per pubblico beneficio compiere. Trent'anni di cardinalato, e lunga esperienza nei grandi affari veduti, uditi, e trattati, davangli convincimento di giustizia nelle sue intenzioni: e per la dignità dello Stato, e per la quiete de' popoli, pensava non dover più oltre tollerare l'oltracotanza dei baroni. Allora gli Estensi di Ferrara, i Bentivogli di Bologna, gli Ordelaffi di Forlì, i Manfredi di Faenza, i Riari di Cesena, i Malatesta di Rimini, gli Sforzeschi di Pesaro, gli Uffreducci di Fermo, i Varani di Camerino, i Vitelli di Castello, i Baglioni di Perugia, i Feltreschi di Urbino, i Colonnesi, gli Orsini, i Conti, i Savelli, i Gaetani, i Capizzucchi, i Cesarini, i Farnesi per tutta la campagna romana, erano in continui tafferugli tra loro e cogli altri, a pubblico danno. Principati, ducati, baronie, repubbliche, comuni, quel che volete: ma sempre più o meno dipendenti da Roma, sempre attenenti a quello Stato che era venuto nel dominio dei Pontefici. Errore sofistico sarebbe chiamare assolutamente indipendenti le predette o qualunque altra città o provincia dal Tronto al Po, e dall'Argentaro al Circèo: errore il non volerle comprese nel dominio della storia pontificia. Impossibile distruggere il fatto, in quanto tale. Sarebbe pure ingiustizia chiamare indistintamente tiranni tutti i baroni o cittadini che vi dominavano. La maggior parte non erano tali di origine, avendo ricevuto dagli stessi Pontefici dei tempi passati le investiture a titolo di feudo o di vicariato; e spesso la condotta militare, includente la ricognizione baronale e il consentimento dei popoli, donde traevano le milizie: e in quanto al modo del governare, essi procedevano come gli altri principi maggiori e minori del tempo loro. Ma il sistema feudale aveva ormai finito il corso, e doveva dar luogo alle esagerazioni del biasimo, seguace perpetuo d'ogni forma dismessa: doveva esser seguìto dalla monarchia assoluta, di che Ferdinando spagnuolo aveva fatto piantare il primo tipo nel Regno per mezzo di Consalvo; tipo perfezionato dappoi per gli studî di Carlo V in ogni altra parte del vecchio e del nuovo mondo.
I tempi dunque volgevano propizî ai disegni di Giulio: il quale come ebbe veduto quietare le armi di Francia e di Spagna, mosse da Roma per l'impresa di Perugia e di Bologna, contro ai Baglioni e ai Bentivogli. Occupò fortemente le due città, riformò lo stato, e fece disegnare due fortezze per mantenerlo. Alla Bolognese, presso porta Galliera, pensò il Bramante, che ne fece il disegno, e ne commise l'esecuzione a Giulian Leno, architetto romano, suo domestico ed erede[68]. Se ne ignora la forma: ma deve essere stata solamente imbastita di fascine e di terra, perchè non guari dopo i Bolognesi la distrussero in due giorni.
Per la fortezza di Perugia fu chiamato da Arezzo Antonio, il vecchio, da Sangallo, ingegnere militare dei Fiorentini; il quale sull'altipiano rimpetto alla cattedrale, alla piazza, e al corso, molto acconciamente pel sito di quei dirupi, disegnò la pianta secondo le regole dell'arte nuova, già da lui stesso osservate in Roma, in Nettuno, e in Civitacastellana. Secondo il primitivo disegno del primo Antonio la rôcca fu condotta a compimento dal secondo Antonio, detto il giovane, nel pontificato di Paolo III[69]. I cartoni dell'uno e dell'altro, che ho visti nella Galleria di Firenze, potranno supplire alle memorie del tempo futuro: perchè la fortezza dopo il 1860 è stata totalmente disfatta e rasata. Antonio il giovane prese nome più dello zio, come questi superò la fama del fratello, perchè l'uno e l'altro vissero più tempo dopo Giuliano, quando l'arte della fortificazione, per tante occasioni propizie, e per tanti ingegni eccellentissimi, ogni giorno progrediva; ma quanto al merito dell'invenzione, Giuliano è stato e sarà sempre il maestro del fratello e dei nipoti e di quanti altri vennero dappoi.
III.
[1507.]
III. — Assettate le cose di Bologna e di Perugia, tornossene Giulio in Roma ai ventisei di marzo del 1507, col pensiero di andare oltre nell'assunto, e di ritogliere ai Veneziani Ravenna, Cervia, Rimini e Faenza: le prime due già da molto tempo perdute, e le altre cascate di mano a Cesare Borgia nella ultima catastrofe. Perciò dovette entrare in molti maneggi, e trattati, e spedizioni, e guerre; nelle quali lo servirono i migliori ingegneri di quella e di ogni altra età, come Bramante, Antonio da Sangallo, Baldassarre Peruzzi, Andrea da Sansovino; ed i capitani più eccellenti, come Marcantonio Colonna seniore, Francesco M. della Rovere, Alfonso da Este, Lodovico Pico, Francesco da Gonzaga, Giovanni Sassatelli, Raniero della Sassetta, Lucio Malvezzi, e Renzo da Ceri. Forte e sicuro dell'appoggio e delle opere di tali uomini, si dette a trattare la famosa lega di Cambrè, secondo le particolari vedute sue.
[Dicembre 1508.]
E, come se non avesse altri pensieri pel capo, s'imbarcò a Ripa sul bucintoro[70], e se ne andò a Civitavecchia, dove voleva murare una buona fortezza per la difesa del porto e della città[71]. Pose esso stesso colle sue mani la prima pietra addì quattordici dicembre del 1508, che fu principio a quel nobile edificio militare, disegnato da Bramante, che tuttavia si ammira, e del quale farò altrove più largo discorso.
Fra i grandi personaggi, che in quella occasione seguirono il Papa in Civitavecchia, vuolsi annoverare Giorgio Pisani ambasciatore di Venezia, il quale aveva dal Senato pressantissime commissioni di por mente a tutto ciò che potesse nella romana curia succedere, di tener l'occhio ai maneggi, di chiarire i sospetti, e di conseguire l'investitura delle quattro città controverse. Ed egli spiando diligentemente ogni luogo ed ogni tempo opportuno per venire a capo di negozio tanto difficile, finalmente un giorno, che tutti colà vedevano Giulio col capitano da Biassa e cogli altri ufficiali delle galèe scendere in terra del consueto bucintoro bellissimo e della passeggiata intorno al porto ed alla prossima marina sommamente lieto, non si lasciò fuggire l'opportunità; ed entrò apertamente nel discorso di Romagna, sperando in quella larghezza di cuore trovare la via per giugnere all'intento[72].
Quando precipitò la casa Borgia, e il duca Valentino in un giorno perse lo stato, i Veneziani avevano tolto dalle mani di costui Rimini e Faenza: e volendone mantenere l'acquisto, supplicavano Giulio che, come già da Cardinale aveva consigliato il Senato a liberare quelle città dal crudelissimo tiranno, così da Pontefice permettesse loro di ritenerle agli stessi patti di feudo e di vicariato, con che il Borgia le aveva tenute. Nel qual discorso, e col medesimo esempio dell'istesso Borgia, contrapponendo Giulio alla caducità di piccolo principe la tenace fermezza di potente repubblica; e quindi la facilità di ricuperare una volta dall'uno, e la malagevolezza di riavere mai nulla dagli altri; conchiudeva non poter acconsentire alla domanda. Ma al tempo stesso (toccando pur di altre differenze occorrenti tra Roma e Venezia, specialmente intorno a Ravenna, a Cervia, ed alla libertà del mare) si lasciò andare a promettere la concessione di Faenza e di Rimini in feudo a quel gentiluomo veneziano cui volesse il Senato presentarle; tanto che la repubblica potesse di fatto avere quelle città; e la romana Chiesa almeno in apparenza non perderle. Tutto inutile: Giorgio, dicendo non esser costume della veneta repubblica far principi i suoi cittadini, rifiutò l'offerta, e non fece motto di ciò nè al Senato nè al collega Giovanni Badoaro, restatosi infermo per quei giorni in Roma. Così per negligenza dell'ambasciatore in un punto di tanta importanza si trovò Venezia a un pelo dal precipizio: e gli uomini ebbero da apprendere come uno stato pieno di ricchezza e di riputazione, dopo essere per dieci secoli sempre cresciuto di potenza e di dominio, poteva in un sol giorno essere quasi totalmente rovinato. Proprio allora gli alleati di Cambrè pubblicavano i capitoli e le convenzioni di quasi tutta l'Europa contro Venezia[73].
IV.
[15 gennajo 1509.]
IV. — Giulio tornato in Roma sul bucintoro per la via del mare e del fiume; aspettandosi di lunghe e fortunose guerre, anche nell'Adriatico, considerate le brighe dei Veneziani; e volendo tenersi pronto alla spedizione contro i Turchi, di che esso pure ed ogni altro sentiva la necessità; indusse gli Anconitani a costruire sei galèe, promettendo di mettere per capitani sopra tre delle medesime gli ambasciatori della città che allora stavano in corte, cioè Gabrio Bonarelli, Galeazzo Fanelli, e Melchiorre Acquieri. Il Breve di papa Giulio, che per essere inedito volgarizzo col testo latino a fronte, diceva così:[74] «Ai figli diletti, Anziani e Consiglieri, della nostra città d'Ancona, Giulio papa II. — Diletti figliuoli salute ecc. Dappoichè ci è stato concesso dalla divina bontà quello che noi sempre abbiamo desiderato e ricerco; ed oramai i principi cristiani, tolto via ogni fomite di contenzione, sono venuti tra loro a concordia, tanto che finalmente possiamo sperare di poterci volgere più che mai forti e con possente armata contro la perfidia dei Turchi e degli altri nemici del nome cristiano; volendo noi andare innanzi a ogni altro coll'opera e coll'esempio, quando si tratta di spedizione pietosa altrettanto che necessaria, abbiamo deliberato di apparecchiare poderosa armata navale. Sapendo per tanto che in cotesta città nostra di Ancona, specialmente diletta, si possono costruire eccellenti galèe, vogliamo che intanto ne siano cominciate sei sotto la vostra direzione. Il governo delle tre prime galèe abbiamo già assegnato di nostra spontanea volontà ai diletti figliuoli, oratori vostri appo noi, Gabriele de' Bonarelli cavaliere, Galeazzo de' Fanelli, e Melchior Acquieri, uomini prodi e che ci sembrano attissimi a tale ufficio. Vi esortiamo dunque con paterno affetto a mettere tutta la vostra cura e diligenza nella predetta costruzione, e noi penseremo alle spese. Perchè intanto l'opera proceda spedita e voi abbiate il danaro occorrente al taglio dei legnami, vogliamo e comandiamo al diletto figlio Niccolò Calcagni, tesoriero in cotesta provincia nostra della Marca, che di presente vi conti cinquecento ducati d'oro. Di più espressamente comandando, ordiniamo ai diletti figli, uomini e popoli delle nostre terre di Montesanto, di Santelpidio, di Civitanova, e di Castelfidardo, che a voi ed ai vostri ministri benignamente permettano tagliare e trasportare pei loro territorî e distretti il legname necessario alla costruzione delle nominate galèe; messa onninamente da parte ogni scusa e contradizione.»
«Dato a Roma addì quindici di gennajo 1509, del nostro pontificato anno sesto. — Sigismondo»[75].
Gli Anconitani pigliarono a volo la bella occasione che loro s'offriva: ed istruiti altresì dalle lettere private degli ambasciatori capirono il gran conto dell'armamento e della fabbrica, secondo l'interesse della città, del porto, del commercio e della navigazione, come tra poco vedremo. Nell'anno medesimo le sei galèe erano fatte, varate, e in punto di ogni cosa, tranne il corredo mobile; di che non avevano ricevuto nè istruzione nè danaro[76]. Perciò l'istesso Giulio alla fine dell'anno, di nuovo encomiando la diligenza degli Anconitani, ordinava il fornimento degli attrezzi e del corredo; e spediva danaro, come dalla lettera seguente, che per la sua importanza nell'istesso modo qui pubblico[77]:
«Ai figli diletti, eccetera. Pei discorsi del diletto figliuolo Galeazzo Fanelli, concittadino ed oratore vostro (più volte e sempre volentieri da noi veduto ed udito), e insieme per le relazioni del venerabile fratello Antonio arcivescovo Sipontino, generale uditore della Camera, testè tornato d'Ancona, abbiamo inteso il procedere delle fortificazioni di cotesta città nostra, e delle galèe da voi per ordine nostro costruite. Gratissime le notizie dell'uno e dell'altro: e noi approviamo pienamente e lodiamo la vostra diligenza e sollecitudine. Ma perchè poco sarebbe l'avere ben cominciato opere degne, se non si facesse di condurle poscia a perfezione con pari diligenza e premura, noi confidando sempre nella vostra prontezza e sollecitudine vi commettiamo di provvedere al fornimento delle dette galèe con tutti quegli attrezzi e corredi che fanno al navigare; cioè vele, remi, áncore, antenne, alberi, ed armamenti; e tutto col minor dispendio e la maggiore celerità possibile; perchè, come il bisogno ne venga, noi ce ne possiamo immediatamente servire. Sarà nostro pensiero somministrarvi il danaro: e intanto, perchè possiate meglio eseguire le nostre commissioni, abbiamo già scritto al diletto figlio Tesoriero di cotesta nostra provincia che vi paghi a vista mille ducati d'oro della nostra Camera a conto delle spese; e appresso liberalmente vi manderemo quel che sarà necessario.
«Dato a Roma, presso san Pietro sotto l'anello del Pescatore, addì quattro dicembre 1509, del nostro pontificato anno settimo. — Sigismondo.»
V.
[Giugno 1509.]
V. — Mentre questi armamenti si facevano con gran pressa in Ancona, altrettanto rapide correvano le spedizioni da Roma e da Civitavecchia, come portava l'accesso di Giulio alla lega di Cambrè; e l'impetuosa indole di lui, che avrebbe voluto ogni cosa pensata e fatta a un tempo solo. Tutto verso Romagna e verso Lombardia, dove squillavano già da più parti le trombe contro Venezia. Massimiliano imperatore voleva togliersi dal viso la vergogna della cacciata poc'anzi sofferta, e contava unire all'imperio il Friuli, Verona, Treviso, Vicenza, e Padova: Lodovico di Francia consentiva con lui per annettere al Milanese Crema, Cremona, Brescia, e Bergamo; Ferrante spagnuolo per riscuotere Brindisi, Trani, Otranto, e Monopoli; il duca di Savoja per ottenere il reame di Cipro; il Papa per ricuperare Ravenna, Cervia, Faenza, e Rimini; i Fiorentini per assicurarsi il dominio di Pisa; e il duca di Ferrara per arrotondare i suoi confini d'Oltrepò. La congrega di tanti competitori, con intendimenti così diversi, non poteva durare più d'un anno; e i Veneziani facevano assegnamento sulla rivalità dei nemici per sostenersi: non così però che nel primo impeto della guerra, concorrendo da ogni parte tanta gente contro di loro soli, non perdessero a un tratto quasi tutto lo stato di terraferma.
Io non seguirò l'esercito di Francia alla battaglia della Ghiaradadda, nè le schiere imperiali dentro Padova, nè le bande roveresche intorno a Ravenna; perchè non devo torcere lo sguardo dai navigli e dalle acque dell'Adriatico e del Tirreno, dove in quest'anno occorrono due fatti assai diversi presso al Tevere di Roma, e sul Po di Ferrara. Comincio dal primo.
[Agosto 1509.]
I Barbareschi tra le nostre discordie e le continue guerre intestine crescevano d'arte e di ardire; e non trovando contrasto, venivano da padroni sulle riviere d'Italia. L'anno precedente avevano saccheggiato la Liguria, menando preda di sostanze e di schiavi da ogni parte, specialmente dal Diano, grossa terra di quella riviera, dove gli abitanti collo stormo dei paesi vicini erano a pena riusciti a sollecitare la ritirata dei nemici, senza poterne ricuperare nè roba nè persona[78]. In quest'anno i medesimi pirati, come i nomadi dell'Africa che mutano cogli armenti le pasture dopo aver consumato le erbe dei prati, finchè non siano ricresciute, facevano accolta di rapina sulle maremme di Toscana e di Roma, avventurandosi sino alla foce del Tevere presso Ostia. Erano colà alla guardia due galèe del Biassa, tutte fiacche e dimesse per aver mandato le migliori fanterie al campo di Ravenna, e però esposte a perdita quasi necessaria. Non mi richiedete il numero dei nemici, nè l'arte del mostrarsi in pochi, nè gli agguati dei molti, nè il combattimento dei sorpresi: i contemporanei non toccano i particolari di questo fatto; ed io vorrei ignorarlo, e presso che non dissi cancellare ogni memoria delle due galere. Vi basti questo: una fuggita, e l'altra presa[79].
Così i Romani impararono a calcare le vie di Algeri rasati, scalzi, e incatenati: così i pirati, che avevano già raccolto nell'Africa le bandiere delle altre nazioni, e dei monarchi maggiori della cristianità, poterono ridurre a compimento l'araldica collezione degli stemmi, aggiugnendo a suo luogo anche la bandiera papale. Dove mi bisogna notare che, sopra cencinquanta e più legni nemici in questi sessant'anni della guerra piratica presi dai nostri marini e dalla loro brigata, ne abbiamo perduti solamente sei. La galèa del Biassa nel mare di Ostia, la capitana del Vettori l'anno diciotto nel canal di Piombino, la sensile del Divizi il trentotto alla Prèvesa, e la generalizia colle due conserve dell'Orsino il sessanta alle Gerbe. Della prima e dell'ultime due, mai più novella: in somma tre perdute per sempre, e tre ricuperate. Quella del Vettori dopo un anno rimenata a Civitavecchia da Andrea Doria, quella del Divizi ripresa alla Capraja da Gentil Virginio dopo tre anni, e la generalizia dell'Orsini riconquistata dopo undici anni per mano di Ruggero degli Oddi alla battaglia di Lepanto.
VI.
[21 dicembre 1509.]
VI. — Intanto i Veneziani, da ogni parte compressi, sdrucivano con tutto l'impeto della indignazione contro il duca di Ferrara: nemico più vicino, debole, ed odioso[80]. Avendogli già preso ed arso Comacchio, divisavano percuoterlo della stessa o peggior rovina dentro Ferrara, col concorso dell'esercito dalla parte di terra, e dell'armata di galere, di navi e di barche pel Po. E quantunque alcuni senatori volessero dissuadere la intramessa dei navigli nelle acque interne; e tra gli altri si dichiarasse contrario il capitano Angelo Trevisani, dicendo che per le molte fortificazioni piantate dal Duca sulle ripe del fiume, e per la magrezza delle acque non si poteva rimontarlo tanto addentro senza grave pericolo; nondimeno prevalendo negli altri l'opinione della propria possanza navale, e non avendo altrove come impiegarla, il Senato ordinò allo stesso Trevisano di eseguire gli ordini, e di assalire gli stati del Duca pel fiume con diciotto galere, sei navette, ed altri legni minori.
Il Trevisano venne nel Po per la bocca delle Fornaci; ed abbruciata Còrbola, predando il paese intorno, salì il fiume infino al Lagoscuro; e mandò oltre un grosso corpo di cavalleggieri, che per terra lo accompagnavano, a scorrere le campagne sulla riva sinistra dall'Occhiobello al Ficheruolo. Esso coll'armata, non potendo passare avanti, si fermò in mezzo al fiume dietro l'isoletta di qua della Polesella; luogo distante undici miglia da Ferrara, e molto acconcio a travagliarla; dove voleva aspettare l'esercito di terra che prosperamente procedeva da quella parte, ricuperata Montagnana, e quasi tutto il Polesine di Rovigo. Intanto allestiva il bisognevole ai vegnenti: gittava un ponte di barche per assicurare il passo ai fanti e ai cavalli, e con grandissima prestezza muniva le teste del ponte medesimo con due ridotti molto forti sulle opposte ripe del Po.
Erasi il Duca adoperato inutilmente ad impedire la costruzione e l'afforzamento del ponte: e di ciò esso, e i capitani suoi, e i Romani e i Francesi venutigli di soccorso, stavano in gran pensiero; parendo a ciascuno che la città di Ferrara non fosse in quel modo senza pericolo[81]. E chi un partito, chi un altro proponendo, finalmente gli stessi Ferraresi per la perizia loro dei luoghi e del fiume facilmente ponevano il modo di sgominare l'armata, il ponte, e i ridotti dei nemici: cose da principio sembrate difficilissime.
Pertanto il ventuno di dicembre il duca Alfonso, e con lui il fratello Ippolito cardinale da Este, i Trotti, i Mori, i Guidi, i Bagni, gli Ariosti, i Tassoni, la nobiltà e il popolo ferrarese, e insieme i capitani di Roma e di Francia, assaltarono a furia il ridotto bastionato di verso Ferrara. Non che pensassero di poterlo espugnare al primo attacco, ma solamente volevano costringere i Veneziani a chiudervisi dentro, ed a lasciare sgombro l'argine circostante del fiume, per coprire liberamente gli agguati dietro certe risvolte che non potevano essere dal ridotto nè battute, nè viste. Poi nella notte, forato l'argine a fior d'acqua in più luoghi, secondo il divisamento del Cardinale (molto ingegnoso e intendente di queste faccende), distesivi buoni panconi d'olmo e di rovere, e fatte a dovere le piatteforme e le troniere, vi condussero celatamente le migliori artiglierie della munizione ducale, che n'avea di bellissime, gittate da' più eccellenti fonditori di quel tempo, massime dagli Alberghetti[82]; e stettervi quieti apparecchiandosi alla fazione della dimane.
VII.
[22 dicembre 1509.]
VII. — Il giorno del ventidue, per tempissimo, stavano le genti e le batterie dagli alleati, sopra e sotto all'armata nemica, coperti dagli argini, coi pezzi studiosamente livellati, e le munizioni pronte: nè i Veneziani sospettavano punto di quanto nella notte si era apparecchiato contro di loro, quando a un cenno del Duca, smascherate le trombe delle cannoniere, si aprì il fuoco. Piombò l'attacco tanto improvviso, e con tal vigore crebbe via via, che (quantunque i Veneziani subitamente riscossi non cessassero di rispondere) in men d'un'ora l'armata nemica fu rotta. Alcuni legni in fiamme, altri in fondo, il Trevisano sur un palischermo in fuga, la capitana tutta forata in deriva e indi a tre miglia sommersa; il presidio dei ridotti in precipitosa ritirata, il ponte distrutto; quindici galèe, tre navi grosse, e molte minori sottomesse; duemila morti, tremila prigioni: perdita di soli quaranta collegati[83].
Così terminossi in una giornata d'inverno la guerra di Ferrara per battaglia anfibia in terra e in acqua, fluviale e marina; donde Giulio seppe cavare gran frutto a beneficio degli stessi Veneziani, e riuscì finalmente a diffinire la intricata e strana questione della libertà del mare. Per questo mi sono fermato sul Po, e mi ci trattengo ancora infino a compiuto racconto, spettatore del marzial trionfo dei Ferraresi e del Duca. Di che Lodovico Ariosto, quantunque assente in quel giorno correndo per le poste ambasciatore straordinario del Duca a chiedere i soccorsi di Roma, ci ha lasciato ricordo nel classico poema, dove canta le glorie della sua patria innanzi all'istesso sovrano, cui dirige il discorso[84]. Procedevano a remo sul fiume otto galèe, prescelte tra le meno guaste, colle armi in mostra, e le bandiere nemiche in forma di trofeo: seguivano appresso i barconi del ponte disfatto, tutti pieni di prigionieri disarmati, e attorno fuste e brigantini di guardia colle milizie vittoriose. Il duca Alfonso vestito di tutt'arme, e sopravi lo strascico della clamide sovrana, sfoggiava dalla poppa della galèa dei Marcelli; e il cardinale Ippolito modestamente sopra una barchetta ordinaria, senza intromettersi negli onori della vittoria, dimostrava coi fatti di cederla tutta al fratello. Le trombe squillavano marziali armonie, e l'artiglieria rinforzava il concerto della pubblica esultanza vivamente espressa dalle altissime acclamazioni dei popoli accalcati sulle due ripe, o concorrenti appresso ai vincitori sopra burchi, scafe, gondole, battelli, lancioni, caicchi, sandali, schifi, in somma sopra palischermi d'ogni maniera.
Ritorno volontieri alla voce Palischermo, perchè mi credo onorato di parlare e di scrivere la lingua di Dante e di Colombo, anzichè accattare stranezze dalla Senna e dall'Ebro. I documenti del secolo decimoterzo, i classici, i giurisperiti, i viaggiatori, l'Ariosto, il Pulci, il Botta, il Carena, tutti ripetono Palischermo: tanto che se v'ha nella lingua d'Italia tecnico vocabolo di marineria da ogni uomo ricevuto, gli è proprio desso. Bel termine e vivo nella nostra lingua soltanto; la quale ci conserva, specialmente nelle cose del mare, le originali tradizioni dei Pelasghi. Secondo le radici arcaiche esprime la pluralità degli scalmi (πολύς σχαλμός); e secondo le italiche esprime pala e scalmo, cioè remo e caviglia. In somma risponde al supremo concetto di genere universale, tanto necessario nel discorso ordinato e diffinitivo: e comprende con una sola voce ogni maniera di piccoli legni assegnati principalmente a camminare coi remi, e a non dilungarsi troppo dal lido o dai navili grandi, pel servigio dei quali sono fatti e condotti. Sotto questo supremo genere entrano i subalterni, come dire palischermi marini, lacustri, e fluviali; e le diverse specie da caccia, da pesca, da lavori idraulici; e le diverse qualità di lusso, di salvamento, di milizia, con tutti i loro nomi particolari e distinti, come altrove ho notato, perchè si vegga la ricchezza e proprietà della marinaresca nomenclatura italiana, onde siam francati dalla miseria e dalla vergogna di accattare altrove[85]. Mi hanno risposto dicendo, che oggidì i marinari non costumano più la voce Palischermo; e in vece usano dire Imbarcazione. Grammercè di tali novelle, Signore, chiunque tu sii ostinato a stravolgere le voci con manifesto neologismo, e servile imitazione straniera, in senso non mai conosciuto dai nostri scrittori accreditati. Fa senno, vieni alla prova, rimetti in onore i termini nostrani; e presto presto vedrai i marinari averli più cari e ripeterli meglio che non le stranezze puntellate dall'abuso. Tutti sanno facilmente acconciarsi al bene, anche nel parlare: e gli stessi marinari ne forniscono luminosa prova, dismessa alla buon'ora tutta una congerie di vociacce, come tutti sappiamo. Essi han lasciato in specie il barbaro Canotto; tu in genere di' altrettanto della stravolta Imbarcazione, e vivi contento[86].
VIII.
[20 febbrajo 1510.]
VIII. — Per la giornata di Ferrara (nella quale di poco o di nulla s'intromise) crebbe tanto la riputazione di Giulio, che i Veneziani deliberarono volersi a ogni patto e subito pacificare con lui. Egli altresì da sua parte, chè in fondo non amava l'intramessa degli stranieri nelle cose d'Italia, e non voleva il totale abbassamento di quei Signori, volentieri dètte orecchio alle proposte; le quali immantinente tennero occupati i negoziatori dell'una e dell'altra parte: tanto che un mese dopo la battaglia tutto era fatto. Il Pontefice riceveva nella sua grazia i Veneziani, questi restituivano le città di Romagna, e insieme pubblicavano i capitoli della loro concordia. Ne' quali capitoli Giulio, tenendo conto di ciò che doveva aver promesso agli Anconitani, cavava fuori solenne dichiarazione, sommamente importante alla storia marinaresca, onde a gran trionfo della giustizia, anche per mutuo consenso delle parti, finalmente era riconosciuta la libertà del mare. Questo accordo, come troncò il corso a tante miserie e a tante guerre, così sia di compimento al largo discorso che ne ho fatto nella mia storia del Medio èvo; e venga qui volgarizzato alla lettera, dall'originale latino. Nojoso documento nella forma, nel contesto e nelle continue minutissime riprese, impugnazioni e riserve: dalle quali tuttavia ciascuno può meglio comprendere le cavillazioni con che tale libertà era impugnata a discapito pubblico, specialmente delle città marittime della Marca e della Romagna. Eccone il tenore[87]:
«Capitolo decimo. Similmente gli Oratori veneti a nome del Doge e del Senato, come sopra, hanno promesso e si sono obbligati per tutto il tempo futuro in perpetuo di non impedire mai più nè frastornare direttamente o indirettamente, sotto qualunque pretesto o ragione, i sudditi tutti e singoli immediatamente soggetti della santa romana Chiesa, o vero delle città, castella, terre e luoghi di ogni denominazione della stessa romana Chiesa, insieme coi loro cittadini, abitatori, e popoli: similmente dicono di non impedire i sudditi mediatamente soggetti alla medesima Chiesa che tengono città, castella e luoghi d'ogni maniera in feudo o in vicariato, insieme coi loro vassalli, cittadini, contadini, abitatori e popoli delle già dette città, terre, castelli e luoghi, tanto della Marca d'Ancona, che della Romagna, compresa eziandio la città di Ferrara col suo territorio e distretto, così che le persone di tutti i predetti luoghi, e i navigli d'ogni maniera, e le merci d'ogni specie possano navigare liberamente, speditamente, e senza niuna gabella, pedaggio, imposizione, spesa, estorsione, esigenza, o pagamento; ma in quella vece al tutto franchi possano andare per acqua in qualsivoglia parte così dell'Adriatico, come di ogni altro mare, e per le acque dolci. Anzi più gli Oratori veneti, come sopra, hanno promesso di lasciar sempre a tutti i predetti la navigazione libera, senza mai mettere impedimento alle persone, alle merci, alle sostanze in niun modo nè sotto alcun colore o causa, nè anche sotto il pretesto della guardia e custodia del mare, alla quale (in quanto si oppone alle predette promesse) hanno specialmente ed espressamente rinunciato; nè pure sotto pretesto di visitare le merci, o di rivedere i registri e le scritture in qualunque modo esistenti nei predetti navigli o presso gli stessi naviganti, ancorchè si allegasse il sospetto che le merci, le sostanze e ogni altra cosa espressa avanti potesse appartenere in tutto o in parte ad altre persone che non fossero soggette al Pontefice romano.»
Tante parole per togliere gli abusi, per troncare le dispute, e per stabilire il gran teorema della libertà del mare[88]!
IX.
[Maggio 1510.]
IX. — In quella che papa Giulio si pacificava coi Veneziani, rompevasi coi Francesi e co' Tedeschi; non essendosi costoro collegati con lui, come ho detto, se non per togliere alla Repubblica ogni possedimento di terraferma, e per allargare ciascuno le sue fimbrie in Italia: quindi nè gli uni nè gli altri potevano adesso patire di vedere in qualche modo assicurato il dominio veneto all'ombra e sotto la protezione della possanza papale. I quali umori, ingrossati da altre non meno torbide sorgenti, quest'anno medesimo ruppero in aperte ostilità, volsero a rovescio lo scacchiero, e presto furono veduti gli alleati di Giulio pigliare l'armi contro di lui.
In questo secondo periodo della guerra si rialzò la fortuna di Venezia: i popoli di terraferma, stanchi dell'insolenza straniera, richiamarono san Marco; e le milizie papali, condotte dal celebre Francesco Maria della Rovere duca d'Urbino e nipote di Giulio, insieme con Marcantonio Colonna, antenato del Trionfatore, congiuntesi alle milizie veneziane capitanate dal notissimo Lorenzo Orsini, detto comunemente dai soldati, per ragione del feudo, Renzo da Ceri, affrontarono le schiere di Francia guidate da Carlo d'Amboisa e da Giangiacopo Trivulzio. I Papalini espugnarono per ingegno di Bramante la Mirandola, i Veneziani toccarono sul Po qualche altro rovescio, e più cose notevoli successero, secondo la grandezza dei prodi capitani che ho qui avanti nominati. Ma tutto questo, come negozio dal mio divisamento troppo lontano, metto da parte; dovendomi rivolgere al mare insieme coll'armata verso Genova.
Era la città di Genova da lungo tempo in gran turbamento per civili discordie, ora commosse dai popolani contro i nobili, ora dagli stessi nobili tra loro divisi; i quali tutti per sostenersi gli uni contro gli altri avean perduto insieme la libertà, chiamando padroni di fuori. Prima si eran posti all'obbedienza del duca di Milano, poi del re di Francia: ed avendo Lodovico XII per questi tempi in dominio anche il maggior ducato di Lombardia, si trovavano i Genovesi aggiogati insieme all'istesso carro di Parigi e di Milano. Ora sembrando dalla parte di terra troppo ristrette le ostilità contro i Francesi, Giulio papa ligure divisò portar loro la guerra anche sul mare; non solo per diversione, ma più colla speranza di prosciogliere la sua patria dal giogo straniero. Laonde spinse dalla Macra alla Spezia Marcantonio Colonna con grosso nervo di fanti e di cavalli; e chiamò da Varese un corpo di quasi diecimila Svizzeri, perchè urtando alle spalle i Francesi dalla parte di Milano, corressero difilati a congiungersi al Colonna sotto Genova.
X.
[Luglio 1510.]
X. — Principalissimo fondamento per ottenere il fine aveva ad essere l'armata navale dal capitan da Biassa allestita nel porto di Civitavecchia, intorno alla quale si raccoglievano le migliori milizie di Roma, e quasi tutti i fuorusciti genovesi con Ottaviano e Giano Fregosi, con Girolamo e Niccolò Doria, ed altrettali uomini di quella potenza e seguito che tutti sanno. Costoro montavano tutti insieme sopra le sei galèe di papa Giulio; e appresso ne traevano undici di Venezia sotto il governo di Girolamo Contarini, sopracchiamato il Grillo[89]. Qui adesso mi si offrono diversi successi, e belli esempi di tattica navale, tutti del caso nostro, che narrerò con quei particolari che ci han conservato le scritture dei contemporanei.
Il Biassa a prima giunta occupò Chiavari, Rapallo, e Sestri che sono le migliori città e terre della Liguria orientale; poi condusse l'armata innanzi al porto di Genova, promettendosi che i partigiani di dentro farebbero rumore, secondo la consueta lusinga dei fuorusciti. Ma in quella vece cupo silenzio nell'interno della città, e gente desta alle difese e alle batterie intorno alle mura era a vedere; perchè al primo annunzio degli armamenti di Civitavecchia, i Francesi ed i loro partigiani (come poi si seppe) avevano introdotte molte milizie, ed altre continuamente ne chiamavano di Lombardia, e gran gente dalla riviera occidentale. Oltracciò era entrato nel porto Piergianni, cavalier di Rodi e capitano del re con sei galèe, e sei di quelle grosse navi che, per lo più usate nel traffico, prima dai Genovesi, poi dagli Spagnoli e Portoghesi, chiamavansi Caracche[90]. La voce deriva dal Càrabo dei Pelasghi: e rimenata dai nostri cronisti antichi, trapassa nel diminutivo a Caravella[91]. Con questi presidî, imbrigliata la città contro ogni movimento interno, non restava agli assalitori altro partito se non bloccarla dalla parte del mare ed affamarla: chè essendo in luogo sterile, e difficile a ricevere altronde che dal mare le vittuaglie, contavano trenta giorni di blocco per costringere la piazza alla resa.
Perciò il Biassa, praticissimo di quella riviera, persuase al Grillo di mettersi seco alla guardia presso il porto dal lato orientale in un senetto, chiamato allora la Fossa di Villamarina, dove era buon sorgitore, riparato dalle tempeste e dai nemici per un lungo ed ampio scanno di bassi quasi a fior d'acqua, innanzi al quale dovevano necessariamente frangere le onde, e dovevano arrestarsi i navigli vegnenti dal largo. Dunque le sei galèe di Roma e le undici di Venezia entrarono in quella insenata dalla banda di levante, dieron fondo, posero le vedette sui monti, e si tennero presti a uscir fuori per ghermire qualunque naviglio si fosse voluto avvicinare al porto. Questa stallìa non saprei dire con qual nome sia oggidì espressa dai Genovesi; nè posso dalla mia memoria, nè dalle relazioni degli amici dedurre la permanenza del seno e del banco[92]: ma rispetto al fatto che narro non è possibile nè a me ne ad altri il dubitare, perchè espressamente descritto da quel gran capitano e sommo tattico del suo tempo, nipote di papa Giulio, che aveva mano in queste faccende e ne sapeva tutto il filo e tutti i punti; dico di Francesco Maria della Rovere duca d'Urbino, dal quale ricavo le qualità e i nomi dei luoghi, come stavano allora[93].
XI.
XI. — Se non che il capitano Piergianni coi Genovesi del suo partito, non volendo perdere la città, nè lasciarsi bloccare, uscì fuori alla testa delle sei galèe e delle sei caracche, risoluto di sloggiare il Biassa dalla formidabile posizione e levare sè stesso di angustia. E sapendo egli pure dello scanno e degli ostacoli al suo procedimento, tenne questo modo. Innanzi alle caracche pose le galèe per rimburchio, e innanzi alle galèe mandò le sei barche maggiori per attacco; ciascuna barca con un pezzo da trenta sulla prua: caracche, galèe, e barche a sei righe, in tre file, tutte legate tra loro con lunghissimi gherlini intugliati, tanto che ogni legno potesse condurre, ed essere a un bisogno condotto dagli altri[94]. Ciò fatto Liguri e Francesi sulle barche con buon remeggio e il piombino alla mano, si accostarono fin quasi sullo scanno, e aprirono il fuoco co' sei pezzi da trenta contro il gruppo delle galèe ormeggiate, facendo loro gran danno, specialmente nei posticci e nel palamento.
Non mica che il Grillo e il Biassa e quegli altri caporioni stessero colle mani alla cintola, che anzi rispondevano a cannonate furiosamente. Ma presto si avvidero che per essere le barche piccoli legni, e sempre in moto sul mare, difficilmente si poteva offenderli. Provaronsi allora ad uscir fuori per fianco: ma le caracche a cavaliere sul callone dell'acqua piena, tempestando con lunghe colubrine e con doppi cannoni da cento libbre di palla, vittoriosamente difendevano le barche: nè a petto di quella grossa artiglieria potevano contrastare le galere nostre uscendo ad una ad una coi corsieri comuni da cinquanta[95]. In somma il Grillo e il Biassa dovettero filare costa costa per tirarsi fuori dal pozzo; e dovettero tornare indietro senza conchiudere nulla, anzi afflitti da molti danni. Il capitano di Francia assai rispettosamente seguilli alla coda. Toccaron gli uni e gli altri all'Elba: il Biassa a Lungone, Piergianni al Ferrajo. Poi dalla punta diforana dell'Argentaro questi rese il bordo verso Genova, e gli altri continuando la bordata ripararono nel porto di Civitavecchia[96].
Quando udirai contar maraviglie dell'arte moderna, mettiti in guardia: e senza misconoscere i miglioramenti che a grado a grado si svolgono, ripensa al passato, cercane le notizie, e troverai sempre più che comunemente non pensano i prosuntuosi del tempo presente. Le Piramidi, il Colossèo, il Partenone, il Panteon non si fanno più; e le opere d'arte degli Etruschi e dei Greci si studiano ancora. Ma senza andar tanto lungi, eccoti nel principio del cinquecento dalla parte di Piergianni e de' Genovesi tali palischermi che efficacemente entravano in lizza con pezzi da trenta, cioè di quell'istesso calibro, del quale si compone l'armamento ordinario nelle batterie dei vascelli a tre ponti che ancora restano negli arsenali d'Inghilterra e di Francia. Pensa altresì la grandezza e forza delle caracche che issavano a bordo que' cotali palischermi, e metteanli in coverta presso a cannoni doppi da cento libbre di palla in ferro, di che dirò a parte qui appresso. Intanto vedi artifizio nella distribuzione delle forze sopra tre linee, secondo la pescagione dei legni, per accostarli sicuramente al bersaglio; e vedi teoria di convergenza e di unione per mezzo di quei cánapi che tenevano diciotto navigli di specie diversa in un sol corpo atto a offendere alla testa e alla coda; ed a resistere compatto da sè; e a portar soccorso in ogni membro quantunque lontano, secondo gli eventi. Vedi pur quei gherlini distesi tra le file a grande distanza, i quali impedivano ancora al nemico l'entrar di mezzo e il tagliar fuori una partita dall'altra: sistema di legami che in alcuna circostanza potrebbe tornare con molto vantaggio anche adesso.
Dalla parte del Grillo e del Biassa possiamo notare la scelta di eccellente posizione pel blocco: vicino alla città, rimpetto alla bocca del porto, dietro allo scanno, al riparo delle tempeste del mare e degli insulti dei grossi navigli. Ciò non pertanto tornarono colla peggio, e ciò per due precipui difetti. Primo, perchè nella insenata falliva loro il maggiore requisito di stazione militare, ciò è dire lo spazio sufficiente da uscir fuori in ordine di battaglia. Secondo, perchè accettarono il combattimento fermi sull'àncora, non curando i vantaggi che naturalmente secondano l'impeto dell'assalitore, e gli mettono quasi la metà della vittoria nelle mani. Dovevano uscir subito al largo, e non fidare troppo nei ripari, e nella inerzia della massa immobile. Chi sta sciolto e libero può andare dove e quando vuole, e da quella parte e in quel modo che più gli talenta confondere l'avversario accoccolato e poltro.
XII.
XII. — Ora non posso passarmi dei progressi dell'artiglieria, per quel che ne dice a proposito di questi fatti marinareschi il nostro autore. Parlando del Biassa, del Grillo e di Piergianni egli distingue cannoni da trenta, da cinquanta, e da cento; e indica il calibro ragguagliato al peso della palla di ferro. Dunque non più bombarde o bombardelle, secondo ciò che ho detto nel Medioèvo. Veniamo al cannone.
In principio il cannone era la parte posteriore della bombarda, dove si metteva la polvere e il coccone: poscia allungato diveniva artiglieria compiuta, e manteneva il nome di Pezzo. Se ne facevano dei grandi e dei piccoli d'ogni maniera, e li chiamavano basilischi, aspidi, dragoni, sagri, falconi: nomi spaventevoli di uccelli rapaci, di bestie imaginarie, di mostri favolosi. In somma più che trenta tra specie e varietà che ricordo qui in ordine di grandezza: basilisco, dragone, possavolante, serpentino, colubrina, cacciacornacchi, aspido, girifalco, sagro, pernice, pellicano, sagretto, falcone, falconetto, smeriglio, ribadocchino, cerbottana, saltamartino: oltracciò le artiglierie di canna corta; cioè bastardi, rebuffi, crepanti, veratti, aquile, mojane, cortane, vugleri, tarabusti; e le molte varietà denominate dagli uffici speciali, onde dicevansi spacciafossi, spazzacampagne, traditori, trabucchi, redèni, forlini, e più altri nomi che uscivano dall'arbitrio dei fonditori, e dei capitani, come ne dice per questi tempi l'Ariosto[97].
Arrogi il composto di ciascuna di queste forme coll'altra; e più le artiglierie di molte canne unite insieme, che chiamavano organi: pezzi fusi con due o tre anime, o con più camere giranti attorno a una tromba sola per moltiplicare i colpi, e si dicevano cannoni composti o compagni; di che abbiamo i disegni nel Valturio di Rimini, e nelle cartelle di Leonardo all'Ambrosiana; e abbiamo i campioni nei musei di Europa. Tra i quali niuno ch'io sappia novera un vecchio cannone da ventiquattro che ho veduto all'arsenale di Tophanè in Costantinopoli, di tromba aperta ad entrambe le estremità, e alla culatta una gran ruota massiccia e girante dietro la tromba, in guisa da presentarle successivamente dodici incamerature cavate nell'istesso massiccio della gran ruota, capaci di altrettante cariche, e però di dodici colpi in punto.
Intanto le arti belle, già risorte, piaceansi adornare di nobili disegni le terribili bocche da fuoco: fiori, fogliami, festoni, corone, delfini, figure d'uomini e di animali, stemmi e imprese di squisito lavoro si spiegano e s'intrecciano sulle maniglie, sulle gioje, sulle fascie, e sui bottoni de' pezzi; tanto da renderli preziosi anche come monumenti delle arti del disegno, e degni di stare nei musei allato alle statue e alle sculture.
Appresso il criterio filosofico si applica, a toglier via la confusione, i ghiribizzi, e l'arbitrio; e forma ordinatamente sopra norme stabili i generi e le specie. Primo genere il cannon prototipo, lungo venti bocche a palla di ferro da libbre cinquanta; e gli si dà l'aggiunto di Cannone intiero, ordinario, comune: tutti gli altri a un bel circa multipli o summultipli del primo. Onde cannon doppio da cento, mezzocannone da ventiquattro, quarto cannone da dodici, ottavo cannone da sei. Neglette le piccole differenze, come si usa delle frazioni.
Secondo genere i cannoni di canna lunga, che pigliano nome di Colubrine: e tra queste l'ordinaria o comune di trentadue bocche, traente palla da libbre trentadue. Indi coi multipli la doppia da sessantaquattro, la mezza da sedici, la terza da dieci, e la quarta da otto; senza contare le straordinarie di bocche quaranta, e le bastarde di ventisei.
Terzo genere i cannoni di canna corta, da due a otto bocche, che pigliano nome di mortaj e di petrieri per scaraventare palle cariche, carcasse, scaglie, ferracci, e catene.
Le specie subalterne e le varietà traevano dalle forme e condizioni accessorie, e le esprimevano con aggiunti diversi: onde cannoni colubrinati o serpentini dicevano i più lunghi di canna al di sopra delle venti bocche in calibro di misura. Gli altri dicevano bastardi, sottili, rinforzati, poveri o ricchi di metallo, reali, seguenti, incamerati, lisci o rigati. Davano altresì aggiunti diversi secondo l'ufficio: e nomavano cannoni da campo che ora diciamo da campagna; cannoni da batteria, che ora diciamo da breccia; e cannoni da muro, che ora diciamo da piazza e costa.
Questo valga per chiarire tutta insieme la nuova nomenclatura che mano mano ci verrà innanzi nella storia e nei documenti, secondo il metodo fin qui tenuto. Penso di spiegare da me le ragioni del mio racconto, e di scusare le altrui postille. Penso a Tito Livio (mi si perdoni l'altezza del paragone) che se avesse creduti necessarî i discorsi degli altri sopra le sue Deche, egli avrebbe fatti da se i commentarî; e certamente meglio, rispetto alle sue intenzioni.
XIII.
[Agosto 1510.]
XIII. — Intanto il capitano di Roma e quel di Venezia, rimenando indietro Marcantonio Colonna, i due Fregosi, i due Doria e gli altri, venivano in Roma con lieta faccia accolti da Giulio, il quale volle averli tutti insieme alla mensa, e farli partecipi de' suoi disegni; dimostrando loro come senza perdersi d'animo fermato aveva di ripigliar subito subito e con maggior gagliardìa quella impresa medesima. Imperocchè niente avvilito, anzi più ardente e sdegnoso per la repulsa, armava anche esso in Civitavecchia cinque caracche e una galeazza da contrapporre alle nemiche di alto bordo; e faceva racconciare le galèe, e scriveva soldati per opera di Francesco Ghiberti, allora chierico di Camera e commissario dell'armata. In somma a mezzo agosto chiamò tutti alla mostra sulla foce del Tevere, dove esso stesso montato sul suo bucintoro volle personalmente rassegnar le caracche ad una ad una, e poi la galeazza, e appresso nove galere del Biassa, e diciassette di Venezia. Indi per dimostrazione di contentezza fece distribuire alle genti in donativo straordinario sedici botti di vino, trentadue buoi, settantaquattro montoni, e pan fresco in buon dato. Finalmente imbarcatosi sulla capitana del Biassa al centro di tutto lo squadrone romano e veneziano, colle navi grosse appresso, navigò sino all'altura di Civitavecchia[98]. Di là licenziò l'armata con molti augurii all'impresa di Genova, verso la quale al tempo stesso scendevano dall'Appennino le fanterie del Sassatelli, spintevi in fretta da Bologna: ed esso, venuto in terra, montava a cavallo dirigendosi verso Viterbo, ed oltre per Bologna e pel campo, dove si combatteva ugualmente contro i Francesi, e si preparava l'espugnazione della Mirandola[99].
[Sett. 1510.]
Altresì i ministri di Francia, consapevoli dei movimenti che da terra che da mare facevano i Papalini e i Veneziani, non lasciavano cosa alcuna opportuna alla difesa per mare e per terra. E già Piergianni colle sue caracche e colle galèe de' Genovesi era uscito al confine incontro ai vegnenti, aspettandoli nelle acque di Portovenere. Le due armate si incontrarono sotto vela con venti maneggevoli, e presero subito a combattere da lungi con grande strepito di cannonate: ma sempre da lungi, perchè si temevano a vicenda, nè l'uno ardiva investire l'altro. Anzi il Biassa e il Grillo avevano fermo di non avventurarsi a battaglia di esito incerto, per non perdere il frutto che speravano più facilmente conseguire dalle pratiche dentro alla città. Perciò continuarono la rotta sempre innanzi, e sempre sparando dalla destra contro Piergianni che seguiva costeggiando verso terra, e continuamente rispondeva dalla banda sinistra, tanto, che giunsero insieme alla vista di Genova. Colà il Biassa principalmente voleva dimostrare la costanza nella impresa, e far sentire a quel popolo lo strepito delle artiglierie, e riscuoterlo, e dargli a vedere qualche tratto di bravura. A un suo cenno Giano Fregosi, il più caldo dei fuorusciti, con una saettìa di gran remeggio e piena di gente scorse due volte innanzi alla città, fecesi sempre più presso al porto, e col suo ardire costrinse i nemici a crescergli la fiducia di entrarvi dentro. E in sul fatto cacciovvisi di mezzo, correndo lunghesso il molo e tentando a gran voce gli animi dei Genovesi; finchè preso di mira dai castelli tra un nembo di fuoco e di ferro, assicurato nondimeno dalla velocità del suo legno, potè ritirarsi senza danno. Allora soltanto il Biassa virò di bordo, e volse verso Civitavecchia senza che il nemico osasse più molestarlo[100].
[Ottobre 1510.]
Piegando oramai la stagione al verno, i Veneziani presero congedo, e ne andarono afflitti dalle tempeste per l'Adriatico, dopo perdute cinque galèe nello stretto di Messina. Ma Giulio e il Biassa restarono tanto minacciosi, e dieron sì lungamente da fare ai Francesi, e tanta parte del loro fuoco posero in petto ai partigiani, che finalmente ai venti di giugno del 1512 i Genovesi levato il rumore, e cacciato il presidio straniero, ripigliarono le forme consuete del loro governo, e chiamarono Giano Fregosi doge della patria.
XIV.
[15 settembre 1511.]
XIV. — Ora ripigliando l'argomento principale e la difesa della spiaggia romana contro i pirati, passiamo a considerare i fatti di papa Giulio anche intorno a questa necessità sempre crescente nel suo tempo. Tutto inteso a mantenere l'alleanza dei Veneziani, e la fiducia dei Genovesi, non licenziò le galèe già costruite in Ancona, nè le altre trovate in Civitavecchia; anzi aggiunsevi più due galèe e due brigantini in isquadra specialmente deputata alla guardia del Tirreno con certi capitoli che gli rendevano facile la duplicazione del numero e lieve la spesa. I quattro legni dovevano formare squadra permanente in arme per la guardia delle marine, senza escludere i legni maggiori, tenuti di riserva al bisogno straordinario, come si usa anche adesso. Pei meriti del capitan Baldassarre chiamò a questo speciale servigio Giovanni suo figlio, il quale, tuttochè giovane, godeva riputazione di esperto e valoroso marino. Il tenore delle convenzioni risulta dall'istrumento della condotta, che ora pubblico nel nostro volgare col testo originale a fronte, come fo sempre che mi si offrono documenti importanti ed inediti[101].
«Capitoli del Capitano delle galèe. In nome di Dio, così sia. — Anno mille cinquecento undici, indizione decimaquarta, giorno quindici di settembre, e del pontificato del santissimo in Cristo padre e signor nostro Giulio per divina provvidenza papa secondo, anno ottavo. A tutti sia manifesto e palese pel presente istrumento pubblico che gl'infrascritti sono patti, convenzioni e capitoli, fatti, fermati, contratti e stabiliti, tra il reverendo padre e signore Lorenzo Fieschi, vescovo Ascolano, vicecamerlengo, nella reverenda Camera apostolica luogotenente del reverendissimo signor cardinale di san Giorgio, Raffaele vescovo Ostiense, camerlengo; coll'intervento presenza e volontà dei reverendi padri P. Orlandi, vescovo eletto di Mazara e tesorier generale di nostro Signore; e più Ferdinando Ponzetti, decano dei seguenti chierici di Camera, cioè dire Filippo di Siena protonotario, Lorenzo Pinzi datario, Francesco Armellini, e Giovanni Botonti da Viterbo, insieme nel luogo dell'udienza congregati, e sugli interessi della Camera consultanti e deliberanti in nome e vece del prefato santissimo Padre e della sua Camera, per ordine speciale dell'istesso nostro Signore, espresso coll'oracolo della viva voce intorno a questo contratto: stando essi tutti i predetti da una parte, ed il signor Giovanni da Biassa dall'altra parte, ciascuno per sè stesso agente stipulante e capitolante intorno e sopra la guardia del mare e della spiaggia romana e per solenne contratto convenuti nei singoli capitoli che seguono, cioè:
«1. Il predetto reverendo Signore, vicecamerlengo e luogotenente, per volontà consenso e nome, come sopra, ha condotto il prefato signor Giovanni da Biassa alla guardia di tutta la spiaggia romana, da Terracina a monte Argentaro, con due galèe ciascuna di venticinque banchi, e due brigantini ciascuno di quindici banchi, con che in cadauna galèa abbiano a essere almeno cinquanta, e in ogni brigantino almeno trenta uomini liberi, atti a naval combattimento, oltre ai marinari ed oltre alla ciurma necessaria: e questa condotta avrà a durare due anni prossimi futuri, e poscia a beneplacito di nostro Signore, da cominciare il giorno della mostra alla foce d'Ostia, o dove ordinerà la Santità sua: il qual beneplacito non si intenderà rinnovato altrimenti che per quattro mesi, se prima le parti non avranno manifestato la volontà di recedere dal contratto.
»2. Similmente il predetto reverendo Signore, vicecamerlengo e luogotenente, nel nome come sopra, ha promesso all'istesso Giovanni per lo stipendio suo e della sua gente dare e consegnare tutti gli emolumenti del Dritto, cioè la riscossione del due per cento imposto già per la medesima guardia nel modo che al presente sempre si riscuote, e secondo gli ordinamenti fatti dalla Camera sopra questa materia, il qual Diritto fin da ora ha rassegnato al medesimo, perchè decorra in suo favore dal dì che farà la mostra, tanto che possa riscuoterlo a suo piacimento: oltre al quale stipendio non potrà mai chiedere altra mercede.
»3. Similmente il predetto reverendo Signore vicecamerlengo e luogotenente, per volontà e nome come sopra, ha concesso all'istesso Giovanni, qualora egli possa avere nelle mani alcun frodatore che trae grano dai luoghi o porti soggetti mediate ed immediatamente alla Chiesa senza la bolletta e senza la permissione del doganiero sopra le tratte, o del suo legittimo sostituto, così che apparisca non avere egli pagato la tratta medesima secondo le leggi della dogana, in tal caso sia lecito all'istesso Prefetto toglier via il detto grano e l'una metà ritenerla per sè, l'altra fedelmente consegnare alla Camera: e questo valga similmente per ogni altra cosa, sostanza o merce che mai troverà trafugata di contrabbando.
»4. Similmente ha promesso e conceduto al nominato Prefetto in sua balìa tutti e singoli pirati, ladroni e infestatori del mare, con tutti i loro navigli, beni e sostanze dovunque li potrà trovare, assalire, sottomettere, e tenere. E se per avventura alcun di loro inseguito dall'istesso Prefetto verrà a rifugiarsi nei porti o luoghi dello Stato, dovranno gli ufficiali ed uomini di quei luoghi pigliarli e rimettergli al Prefetto, sì che gli abbia in sua potestà ed arbitrio.
»5. Similmente il predetto r. Sig., come sopra, ha offerto e promesso al Prefetto ogni conveniente soccorso e favore per tutte le terre e per tutti i luoghi soggetti alla santa romana Chiesa contro chiunque ardisse molestare lui e la sua gente: ordinando fino da ora a tutti e singoli ufficiali e persone dei detti luoghi che ad ogni richiesta del Prefetto medesimo debbano assisterlo coi favori e soccorsi convenienti.
»6. Similmente il nominato reverendo Signore vicecamerlengo e locotenente come sopra, ha concesso allo stesso Prefetto che se egli darà la caccia ad alcun pirata, ladrone o infestatore, e se costoro fuggendo troveranno ricetto in alcun porto o luogo fuori dello Stato, così che egli non possa avergli in mano, anzi gli sia fatta resistenza dalla gente di quel luogo, allora sia lecito a lui mettersi alle rappresaglie, che fin d'ora gli sono concesse tanto che sia fatta la restituzione compensativa ai naviganti lesi dagli stessi pirati e infestatori. Nondimeno dovrà prima dare le prove del ricetto concesso a coloro, e dell'impedimento opposto al suo procedere; e non potrà in effetto esercitare le rappresaglie se non gliene venga dalla Camera apostolica concessa la facoltà pel caso speciale. In ogni modo tutto quello che il Prefetto in forza di rappresaglia avrà toccato o sarà venuto in sue mani, che in mare che in terra, dovrà fedelmente rassegnare alla Camera per rifarne i danni a chi li ha patiti.
»7. Dall'altra parte il nominato signor Giovanni prefetto ha promesso custodire, difendere e guarentire la detta spiaggia romana dalla detta città di Terracina fino al detto monte Argentaro con due galere e due brigantini di sua proprietà, ben armati come sopra, contro tutti e singoli pirati, ladroni, invasori e malviventi; e difendere insieme le persone tutte e singole coi loro navigli, legni, beni, roba, e merci, nell'accesso e nel recesso, sia dell'alma città di Roma, sia di ogni altro luogo mediate o immediate a lei soggetto.
»8. Similmente ha promesso lo stesso Prefetto pagare del suo ogni danno o ruberia che potrà succedere mai in qualunque parte del predetto mare, eziandio che esso non fosse presente in quel luogo, posto che sia nei termini e confini prefissi da qualunque lato: qualora però i pirati e ladroni non abbiano maggior numero di galere, di brigantini e di gente, così che a punto per la inferiorità sua non possa il Prefetto prudentemente assaltarli, combatterli e perseguitarli. In somma circa la riparazione dei danni egli non potrà presumere altra scusa, meno quella della forza maggiore; la quale eccezione tuttavia dovrà essere provata innanzi alla Camera, al cui giudizio sarà lasciata la deliberazione e decisione sopra la verità del caso eccezionale.
»9. Similmente il prenominato Prefetto ha promesso a questo effetto mantenere due galèe ciascuna di venticinque banchi, e due brigantini ciascuno di quindici banchi, tutto di sua proprietà, pognamo da lui costruiti o comprati; nelle quali galèe, oltre alla ciurma necessaria hanno a essere cinquanta uomini, e in ciascun brigantino trenta uomini bene armati ad uso di mare, con cannoni, balestre, partigiane, ronconi, spuntoni, ramponi, rotelle, targoni, ed ogni altro armamento, arme e munizione necessaria ed opportuna ad offesa e a difesa: ed il numero dei detti uomini almeno sempre pieno, e le persone ben armate, ed atte, sperimentate e pratiche del mestiero.
»10. Similmente ha promesso e si è obbligato a dare la mostra dei legni e delle genti in ogni luogo e quantunque volte sia richiesto da sua Santità o dalla Camera.
»11. Similmente ha promesso mettere in terra cinquanta uomini o più ad ogni richiesta di nostro Signore o della Camera.
»12. Similmente egli ha promesso e si è obbligato che se alcuno dei naviganti nel predetto mare resterà mai per mala sorte preso o depredato dai pirati corsali o malviventi, o dai medesimi in qualunque modo offeso, depredato o impedito, sia nella persona o nelle sostanze o nei bastimenti, esso Prefetto piglierà con ogni diligenza il carico di perseguitare i nemici, e sarà suo debito strappar loro dalle mani la preda, ricuperare le cose perdute, renderle ai padroni, e scortarli a luogo sicuro, senza pretensione di prezzo o di mercede. Altrimenti se così non facesse, salvo il legittimo impedimento, ha promesso e si è solennemente obbligato a favore di chiunque abbia patito danno dai predetti pirati o da altri invasori, di rilevarli senza danno di suo danaro, e di soddisfarli fino ad intiera compensazione delle perdite sofferte. Perciò la Camera apostolica resterà immune e onninamente libera dal detto peso, eccettuato il caso della forza maggiore, come negli altri capitoli addietro si contiene, e della quale si deve dare la prova innanzi alla congregazione Camerale.
»13. Similmente il Prefetto si è obbligato sotto pena di due mila ducati, durante la condotta, di non far traffico colle galere nè co' brigantini; e di non trasportare derrate o mercanzie di qualunque specie e da qualunque luogo a qualsivoglia parte; e di non pattuire mai dei predetti legni alcun nolo.
»14. Similmente ha promesso e si è obbligato, tanto di estate che d'inverno, avere per sua stazione il porto di Civitavecchia, o le foci del Tevere, o gli altri porti e luoghi dello Stato nel mare predetto, cioè intra Terracina e l'Argentaro, perchè sempre più pronto abbia a trovarsi, dovendo resistere agli invasori dei detti luoghi, e difendere chiunque concorre all'alma città di Roma, o da quella e dagli altri luoghi predetti si parte.
»15. Similmente sarà tenuto il detto Capitano ad ogni richiesta di nostro Signore, o della Camera, mostrare le sue galere e brigantini presso alle foci del Tevere, dove indicherà sua Beatitudine, così armati e corredati come li ebbe, sotto pena di ducati diecimila, alla quale saranno obbligati espressamente anche i suoi mallevadori.
»16. Similmente ha promesso e si è obbligato di non togliere cosa alcuna ai naviganti, nè esso, nè alcuno della sua gente e brigata, quantunque offerta in dono, altrimenti sia punito ad arbitrio della Camera.
»17. Similmente ha promesso e si è obbligato di tenere gli amici di sua Santità e della santa romana Chiesa per amici suoi, ed i nemici per inimici di qualunque stato, grado e preminenza essi siano.
»18. Similmente sua Santità ha promesso al Prefetto di fargli consegnare gli uomini condannati a morte dai tribunali dello Stato ecclesiastico; e la scelta nel modo che ordinerà nostro Signore. Costoro presi e consegnati saranno messi al remo per un anno soltanto nelle predette galèe, se pure non fosse altrimenti prescritto dalla volontà di nostro Signore.
»19. Similmente il predetto Capitano o sia Prefetto, nel caso che a lui fossero prestate le galèe e i brigantini dalla santità di nostro Signore o dalla Camera predetta, ha promesso e si è obbligato di doverli restituire ogni volta che gli verranno richiesti da sua Santità o dalla Camera, sì veramente che li renda integri ed illesi nello stato medesimo che esso li avrà ricevuti per la detta guardia in prestanza. Ciò non pertanto, se nel tempo della restituzione, come sopra, durerà tuttavia la sua condotta, si è obbligato ed ha promesso sostituire subito due altre galèe e due brigantini di sua proprietà, comprati o costruiti da lui, atti sempre, armati, e corredati come sopra è detto.
»20. Similmente il predetto Capitano ha promesso e si è obbligato di dare sufficiente malleveria sopra banchieri per la somma di mille cinquecento ducati d'oro; e quelli esauriti, dovrà rinnovare e ripetere la malleveria a giudizio della Camera per la stessa somma, che resterà sempre in deposito per l'osservanza degli obblighi suoi, e pel rifacimento dei danni a chi ne ha patiti, secondo la sentenza della Camera in forma spedita e stragiudiziale.
»21. Similmente se durante la condotta avverrà mai che il Prefetto sopraddetto sia spedito con ordini della santità di nostro Signore in altra parte fuori dei confini della spiaggia romana, allora egli non sarà tenuto a risarcire danni di niuno, ancorchè succedessero per causa della assenza del medesimo Prefetto o Capitano e della missione straordinaria: purchè il Capitano chiaramente dimostri alla Camera il mandato della predetta destinazione.
»22. Similmente i nominati signori, Vicecamerlengo e Chierici presidenti, per compiere l'armamento di una delle due galèe, fiacca di palamento, hanno promesso al lodato Capitano centoquaranta ducati d'oro di Camera per lo stipendio di un sol mese a settanta marinari o rematori da essere uniti cogli altri ottanta ch'egli ha già pronti; e ciò infino a che sia fatta la permutazione del sostituire ai medesimi i condannati a morte, o vero infino a che egli abbia preso pirati come sopra da metterli al remo; i quali come saranno sottentrati dovrà cessare lo stipendio a proporzione del numero delle persone riformate.
»Che.... eccetera. — Fatto in Roma nella casa del reverendo padre e signore Ferdinando Ponzetti, decano della predetta Camera, nell'anno, mese, giorno, indizione, e pontificato come sopra. Presenti i venerabili uomini signori Giovanni Falèt e Giovanni Emerich, chierici della diocesi di Albi e Tolosa, testimonî.
»Melchior di Campagna, notajo rogato.
»Giovanni da Biassa, nobile genovese, prefetto e capitano generale dell'armata di galèe e brigantini della S. R. C. per la guardia della spiaggia romana.
»Sicurtà per ducati cinquecento, Bart. Doria.
»Per altri cinquecento, Sebastiano Sauli, genovese.
»Per altri cinquecento, Agostino Chigi di Siena.»
XV.
[1512.]
XV. — Il primo strumento di questo genere, stipulato alla fine del secolo decimoquinto, sotto Alessandro VI, dai capitani Mosca e Mutino, ho già pubblicato nella mia storia del Medio èvo; e sopra vi ho fatto tal commentario quale allora occorreva per la qualità di quei tempi e del mio lavoro. Ora devo continuarmi nello stesso metodo: e lasciando da parte la descrizione delle galèe e dei brigantini, largamente già svolta in altri libri; e similmente passando oltre su quei capitoli che nell'uno e nell'altro strumento tornano identici, voglio considerare le mutazioni introdotte in un secolo di avanzata civiltà, e dopo dodici anni di esperienza; perchè meglio si veda lo svolgimento tecnico e amministrativo, insieme cogli usi e colle costumanze marinaresche.
Vengano dunque per ordine i capitoli, spicchino tra l'altre ove sono le notizie utili alla storia, e vadano i confronti infino al secolo precedente. Nel principio si determina la forza materiale dei navigli, dicendo galèe di venticinque banchi: dove sta la parte pel tutto, secondo l'uso del tempo; perché dai venticinque banchi (come dal pentecòntoro primitivo) uscivano per le due bande cinquanta remi lunghi, onde si calcolava la forza e la grandezza d'una galèa, come oggidì si valuta quella dei piròscafi pel numero dei così detti cavalli. Gli uomini da combattere tornano fissi nel numero di cinquanta, che coi marinari, colle maestranze, e cogli ufficiali, formano un cencinquanta, ed altrettanti rematori; in somma trecento persone per ogni galèa. Ma i brigantini, legni minori di soli quindici banchi, dovevano essere forniti di trenta remi tra le due bande, di trenta rematori, di trenta soldati, e insieme cogli ufficiali e coi marinari avere in circa novanta persone. I quali per loro bravura si credevano tanto sufficienti ad ogni prova contro pirati malviventi e frodatori, che a numero pari non dubitavano punto di riuscire superiori a qualunque nimico: obbligati in caso contrario a far le spese di ogni danno proprio ed altrui.
Il documento presente determina soltanto i numeri, senza entrare nella qualità e negli uffici di ciascuno; e senza stabilire le competenze del soldo, vestito e vitto: segno che rispetto a ciò le parti si rimettono alle mutue convenzioni degli arrolati col capitano, o alla consuetudine vigente. Di che se alcuno volesse sapere, e talvolta potrebbe anche averlo necessario per ragioni di confronto e di costumi, noterò in breve ciò che risulta dai documenti del tempo vicino se non simultaneo al Biassa. Di vestiario ognuno faceva da sè con certa uniformità relativa, perchè semplice[102]: berrette e cappelli piumati, farsetti e giubboni di velluto, bandoliere e cinturini di cuojo, cappotti e cappucci a becchetto. In caso di combattimento o di mostra tanto i soldati che i marinari allacciavansi la corazzina e il morione[103]. La guardia facevano colla spada e colla picca, e traevano le armi d'asta, gli archibugi, le fiaschette e le forcine dall'armeria del naviglio. Dalla càneva del penése pigliavano la giornaliera razione. Questa Razione si mantiene da tre secoli sempre viva, si legge nei documenti toscani del cinquecento, nei bandi granducali per le milizie, nei contratti e inventarî romani, ed è registrata dal Falcone, perchè necessaria, non essendo lo stesso vitto e razione. Quello esprime provvisione necessaria al vivere, nutrimento, cibo; ma razione aggiugne di più il modo ragionevole del distribuirlo, secondo la proporzione dei gradi, perchè non si dava uguale a tutti; ma a chi parte scempia, a chi parte avvantaggiata, a chi doppia, a chi quadrupla. La distribuzione ordinaria pel sostentamento di un uomo libero chiamavasi Parte, si valutava a due scudi mensuali, e si componeva quotidianamente di una pinta di vino, due libbre di biscotto, tre once di minestra, una libbra di carne fresca, o mezza di salata, o di pesce o di cacio; più aceto, olio e sale: tutt'insieme due scudi, come in alcun luogo dimostrerò. Ai fanti, ai provieri, ai semplici marinari una sola razione; e costoro dicevansi di parte scempia: ai marinari avvantaggiati o di prima classe, metà più; e dicevansi di parte e mezza: alle maestranze e agli ufficiali parte doppia; e così di seguito, sempre alla ragione di scudi due per parte: salvo a ciascuno il diritto di toccarla in derrata o in danaro al predetto ragguaglio. Antichissimo costume: mi ricorda Vegezio nella primitiva milizia romana chiamare Duplari, quelli che toccavano a doppio la vittuaglia[104]. I soldi rispondevano al pregio alto della moneta in quei tempi, e al basso delle opere e delle derrate; e correvano dai due ai quindici scudi per mese, secondo lo specchietto che inserisco qui appresso, perché si vegga a un batter d'occhio il numero delle persone, i titoli degli ufficî, e la spesa particolare e collettiva di ogni mese per ciascuna galèa semplice: salvo sempre il crescere di gente e di soldi nella capitana, e il crescere similmente nelle sensili per le occorrenze di rinforzo straordinario. Salvo pure il diminuire di gente, di soldi e di razioni nel tempo del riposo invernale: riposo, per la stessa indole della lingua comune (donde a ragione uscì la voce Sciopero) chiamato per la bocca dei marinari Scioverno. Agli esempî sopperiscono i documenti toscani, gli statuti cavallereschi di santo Stefano, e l'uso di tutti gli altri porti d'Italia, dove dicesi Sciovernare e Scioverno, in senso di riposare e di riposo disarmato nella darsena durante il verno. Metto gli ufficiali in ordine di dignità secondo il costume romano, e mi tengo al minimo dei numeri, riducendo ogni cosa alla più chiara e semplice espressione che per me si possa derivare dai complicatissimi documenti che cito.
SPECCHIO
dei Soldi e delle Razioni agli Ufficiali, Gente di capo, Marinari, e Soldati in una galèa del Secolo XVI.
Numero TITOLO. SOLDO mensuale RAZIONE cotidiana
Singol. Collett. Singol. Collett.
Scudi Scudi Parti Parti
1 Capitano 15 15 4 4
3 Nobili di poppa 4 12 2 6
1 Padrone 6 6 2 2
1 Comito 5 5 2 2
1 Piloto 4 4 2 2
1 Cappellano 4 4 2 2
2 Bombardieri 3 6 2 4
2 Sottocomiti 3 6 2 4
2 Consiglieri pilotini 3 6 2 4
1 Scrivano 3 3 2 2
14 Marinari di parte e mezza 3 42 1,5 21
14 Marinari di parte scempia 2 28 1 14
8 Compagni timonieri 3 24 1,5 12
1 Aguzzino 5 5 2 2
1 Maestro d'ascia 3 3 2 2
1 Calafato 3 3 2 2
1 Barilajo 3 3 2 2
1 Barbiere cerusico 3 3 2 2
6 Fanti di maestri 2 12 1 6
8 Provieri 1 8 1 8
2 Mozzi » » 0,5 1
1 Sergente 5 5 2 2
4 Caporali 4 16 1,5 6
10 Soldati vantaggiati 3 30 1,5 15
35 Soldati comuni 2 70 1 35
123 322 164
Per queste ragioni si consegnava al padron della galèa buona scorta di danaro; e nei depositi metteansi le provvigioni in buon dato da sopperire al bisogno, secondo la qualità del viaggio: specialmente biscotto, farine, vino, olio, aceto, carnesecca, animali da macello, polli, uova, cacio, tonnina, sardelle, riso, pasta, fave, legumi e sale, che in tutte le note di quei tempi ritornano[105].
XVI.
XVI. — Nel secondo capitolo si conferma il diritto del due per cento sulle merci: il qual diritto (al pari di ogni altra imposizione temporanea) impiantato una volta per ragioni eccezionali sotto Innocenzo VIII, si vede non cader più: anzi crescere col commercio e colla sicurezza del navigare, tanto che, riconosciuta la sufficienza dello stesso provento, si toglie al Capitano ogni speranza di toccare altronde stipendio maggiore. L'incremento della rendita medesima risulta dal fatto: che in principio bastava solo per mantenere una galèa, poi per due brigantini e una fusta, ed ora per due galere e due brigantini.
Possiamo raccogliere dal testo del secondo, e di più altri capitoli, la squadra di Giovanni rispondere all'ordine di triplice servigio, contro nemici, frodatori e malviventi; ciò è dire alle fazioni di guerra, di dogana e di polizia; conforme all'uso di ogni paese per quel tempo. Uso che dura tuttavia, dovunque sia minuta la forza della guardia, e ristretto il territorio da guardare.
La giunta al capitolo sesto intorno alle rappresaglie manifesta l'avanzamento della civiltà: imperciocché non si permette più al Capitano di correre sbrigliato a suo talento, ma gli si aggiugne il freno. Resta accesa la minaccia generica delle rappresaglie, come si usava nel medio èvo, e ciò per ritegno maggiore ai fautori dei ladroni; ma si toglie al Capitano l'arbitrio di procedere all'atto esecutivo, senza prima ottenere la permissione della Camera pel caso particolare. E non anderebbe lontano dal vero chi pensasse a qualche disordine precedente in materia tanto delicata, ed a qualche molestia sofferta dalla Camera, quante volte le rappresaglie siano cadute sopra innocenti, o vero sopra cotali, cui non mettesse conto di offendere.
I capitoli settimo, nono e diciannovesimo, messi insieme, ci disvelano artifizio sottile. Le galèe e i brigantini hanno a essere o proprietà del Capitano, o prestanza della Camera. In quest'ultimo caso (a punto il concreto di papa Giulio) si obbliga il Capitano di restituire ogni cosa non solamente alla fine della condotta, ma tutte le volte che ne sia richiesto. Ora al tempo stesso, non essendo congedato, deve esso subitamente del suo rifarne altrettanto; cioè aver in punto altre due galèe ed altri due brigantini. Dunque per questo semplicissimo ripiego può Giulio al bisogno duplicare le forze navali in tempo di guerra, senza portarne il peso in tempo di pace. Basta chiedere la restituzione di quattro legni per averne otto.
Appresso dal decimo capitolo si fa manifesto che i naviganti, danneggiati dai pirati e dagl'infestatori del mare, dovevano essersi rivolti al tribunale della Camera, pel risarcimento dei danni; allegando (come si può pensare) le obbligazioni del Capitano a loro favore; e forse anche il diritto acquisito col pagamento del due per cento sulle merci, titolo equivalente all'assicurazione marittima. Quindi la Camera, riconoscendo (almeno implicitamente) la giustizia della domanda, e volendo alleviarsi di questo peso, lo carica tutto sulla capitanìa della guardia. Il deposito, la sicurtà, i millecinquecento, tutto a carico del Capitano pel risarcimento altrui.
Il rimedio contenuto nel capitolo decimoterzo disvela una taccherella precedente, vale a dire che i signori Capitani della guardia per maggior lucro attendevano talvolta ai trasporti ed al traffico. La tentazione doveva esser forte, perchè in quei tempi i mercadanti difficilmente confidavano ad altri il carico delle merci preziose, massime delle seterie, se non a bastimenti militari; e ciò pel pericolo gravissimo dei pirati. L'uso era già comune tra regnicoli, siciliani e genovesi. Ma in Roma papa Giulio non ne volle udir verbo, e proibì ogni maniera di noleggio sotto la pena di duemila ducati: e ciò con molta ragione. Imperciocché, messo che siasi ai noli, il Capitano non può liberamente tenersi in crociera, ma deve andare diritto or qua or là per togliere e portare le merci verso i luoghi assegnati: di che facilmente potendo venir saputo ai nemici, si lascia loro il campo libero di gettarsi nella parte indifesa per rubare, frodare, o manomettere a man salva. Ed anche supposto lo scontro, il Capitano di traffico non può combattere speditamente, come si richiede; sia per la distrazione dei pensieri, sia per l'ingombro del carico. Questo capitolo, nuovo di pianta, spiega meglio a parer mio la perdita e la fuga delle due galere, e la disgrazia del capitano Baldassarre nell'estate del nove, come ho detto. Or qui tra Baldassarre e Giovanni vuolsi notare che al figlio si dà soltanto il titolo di Prefetto, per non menomare l'autorità del padre: e quando pur negli ultimi capitoli il notajo lascia correre la voce di Capitano, subito la spiega e restringe, appiccandole allato l'interpretazione limitativa alla sola prefettura della guardia permanente. Giovanni istesso nella firma prima segna assolutamente nobile genovese, poi circoscrive il capitanato alla prefettura, e il generalato alla guardia della spiaggia.
Sotto pena anche maggiore, e meglio diremmo massima, di ducati diecimila, si obbliga Giovanni pel capitolo decimoquinto a tenersi sempre bene armato, e col pieno della gente, e pronto a dar la mostra in ogni luogo e tempo che verrà richiesto, perchè non abbia mai a prendere fidanza di poter nascondere la sua diffalta.
Pel caso di guerra viva, papa Giulio tempera nel suo capitolo decimosettimo il tenore assoluto del decimoquinto di papa Alessandro. Si ripete nell'uno e nell'altro l'obbligo del Capitano di tenere per amici e per nemici gli amici ed inimici di sua Santità; ma Giulio ci aggiugne il nome della santa romana Chiesa. Con ciò fa manifesto di volere amicizie ed ostilità giustificate da ragioni di ordine superiore alla personalità privata.
L'uso antichissimo del condannare i malfattori alla pena del remo viene espresso nel capitolo decimottavo, con una giunta straordinaria. Si tratta di mettere a remigare per un anno anche i condannati a morte; ai quali senza ingiuria pensavano di poter concedere un anno di vita, perchè alla società oltraggiata dai loro misfatti venisse compenso con qualche servigio di pubblica utilità. Trapela eziandio dal capitolo medesimo alcun disegno non totalmente maturo del legislatore intorno a questa materia: e si potrebbe forse pensare alla commutazione della pena; sì veramente che gli sciagurati nell'annata dessero qualche segno di resipiscenza, e qualche speranza di miglior costrutto. Il numero totale della ciurma in ciascuna galèa risulta dal capitolo vigesimosecondo pei numeri settanta più ottanta, che fanno cencinquanta rèmigi: dunque a tre per remo, ciò è dire tre persone per ogni remo lungo, armato a terzeruolo. Misera la condizione dei rematori nella galèa: notte e giorno in catena, e costretti col nerbo a gravissime fatiche. Loro alloggiamento tra i banchi, unico riparo dalle intemperie la tenda, quando pur poteasi fare: niun soldo, vestito simile ai bonavoglia, come dirò altrove; e per vitto giornaliero tre libbre di biscotto e una minestra di fava all'olio. Dicevano bene que' signori dell'istrumento che altrettanto valeva la pena di morte.
Finalmente gli ultimi capitoli mostrano chiaro come ogni stato presso alla riva del mare, grande o piccolo che sia, ha bisogno continuo di forze navali; non solo per la difesa delle persone e per la tutela delle leggi, ma anche per quei molteplici servigi, che nello strumento si comprendono sotto la generica denominazione di missioni straordinarie.
XVII.
[3 Maggio 1512.]
XVII. — Fra le quali spedizioni sarebbe stata sommamente importante e desiderabile la mossa del Capitano e de' bastimenti di Roma, cogli altri delle potenze cristiane, contro i temerarî di Costantinopoli per arrestarne l'invasioni; o almeno contro i pirati dell'Arcipelago dello Jonio e dell'Africa per ricuperare i legni perduti e per disciogliere le catene alle migliaja dei Cristiani miseramente gementi nella schiavitù. Di là voci arrochite nel pianto, e lettere vergate da livide mani chiedevano soccorso; di qua ogni cuor generoso rincalzava le stesse risposte: ed i padri del concilio convocato da papa Giulio al Laterano, fin dalla prima sessione, tenuta a tre di maggio, proponevano l'alleanza dei fedeli contro gl'insulti perpetui, spietati e insopportabili del nemico comune. Uno dei vescovi, interprete degli altrui desiderî, e costretto dal proprio dovere, alla presenza del Pontefice e di tutto il solenne consesso, così favellava in quel giorno[106]: «Certamente senza sospiri, senza lacrime e senza il massimo cordoglio non posso rammentare io, non che esprimere, l'oltracotanza, l'immanità e la rabbia dei Turchi.... Non entro nel pelago dei mali da noi patiti pei tempi passati, dico soltanto di ciò che adesso soffriamo.... Frequenti gl'insulti di guerre ingiuste, continue le scorrerie di ladronecci disumani: i figli strappati dalle braccia dei genitori, i bambini dal seno delle madri, le spose violate al cospetto degli uomini, le vergini tratte a barbariche libidini, i vecchi come inutile ingombro sgozzati in mezzo alla famiglia, la gioventù come giumenti condannata alla gleba. Queste nequizie non ho letto io nelle carte, nè mi sono state raccontate da altri. Io stesso, io continuamente le vedo. Io dalle mura di Spalato, mia sede arcivescovile, osservo i ladroni a torme saccheggiare i borghi, e mettere a soqquadro le campagne col ferro e col fuoco, e menar cattivi in gran numero i figli miei dell'uno e dell'altro sesso, che son pur figli vostri, o Padre beatissimo. Le stesse scelleratezze nei loro distretti provano i miei dodici suffraganei. E se volete altri testimoni, maggiori di ogni eccezione, eccovi qui dinanzi i vescovi dell'Ungheria, e l'amplissimo primate di quel regno infelice; essi vi dicono altrettanto.... Spesso spesso siamo costretti, ed io misero altresì, sospendere a mezzo gli ufficî divini, uscir dalla chiesa, deporre la cappa, vestire di piastra e di maglia, e correre alle porte per confortare il popolo afflitto, per fargli cuore, e per condurlo contro i nemici assetati del nostro sangue.»
[21 febbrajo 1513.]
A questi sentimenti espressi dalla bocca dei padri rispondevano i popoli, plaudivano i Romani, massime quelli che ricordavano la impresa di Santamaura o per fatto proprio o per domestica tradizione. La grande alleanza e la mossa generale contro i tiranni di Costantinopoli, e contro i pirati di Barberia, nel cuore e sulle labbra di tutti, parevano imminenti: e Giulio istesso se ne mostrava ed erane al pari di ogni altro fervidamente desideroso[107]. Ma io son costretto a troncare il discorso e a tacermi, sì come improvvisamente si tacque papa Giulio la mattina del ventuno di febbrajo, itone il magnanimo spirito in luogo più conforme alla sua grandezza. Rotte le pratiche, sospeso il concilio, aperto il conclave, finito il capitanato di Baldassarre. Nel congedarmi da lui, secondo le convenienze, vorrei almeno di volo toccare i fatti successivi della sua vita privata e pubblica nella sua patria: ma ogni ricerca essendomi tornata vana, mi bisogna senz'altro star contento a ricordare la stima da lui goduta nella corte di Roma, finchè visse il suo protettore e concittadino. Ma di Giovanni suo figlio, e di Antonio suo congiunto, i quali nella squadra permanente e nella riserva continuarono a militare tra noi anche dopo l'elezione del nuovo Pontefice, farò menzione, come verranno, sotto il supremo comando dell'altro Capitano che darà il nome al terzo libro.
LIBRO TERZO. Capitano Paolo Vettori,
marchese della Gorgona.
[1513-1526.]
SOMMARIO DEI CAPITOLI.
I. — Il secolo di Leon decimo. — La casa Vettori, e il capitano Paolo. — Notizie e ritratto (15 marzo 1513).
II. — La darsena di Civitavecchia. — Proposta di cavarla a certa profondità. — Documento. — La marèa. — Lavori di Bramante, e scandagli del Sangallo (dicembre 1513).
III. — Le squadre del Vettori, del Biassa e del Bonarelli (1514). — Bombardieri e castellani. — La rôcca d'Ostia concessa al cardinal Riario (aprile 1515).
IV. — La dieta per fortificare Civitavecchia. — Disegni autografi di Antonio da Sangallo per la prima volta dichiarati. — Lavori al porto e alla darsena (ottobre 1515).
V. — Scorrerie del pirata Curtògoli. — Armamento della spiaggia. — Lettere di Leone. — Pratiche di alleanza contro i pirati (aprile 1516).
VI. — Spedizione in Africa. — Galèe romane, liguri e francesi sotto Federigo Fregosi, e bandiera papale. — Assalto a Biserta — Presa di una galèa nello stagno di Tunisi. — Corsa infino alle Gerbe. — Liberazione di Cristiani, e acquisto di piccoli legni (agosto 1516). Rivaggio e Paraggio.
VII. — Conseguenze della spedizione. — Lettera del re di Tunisi. — Disegni del pirata Curtògoli contro Cristiani e Musulmani. — Comincia il dominio de' pirati nell'Affrica. — Viaggetti di Papa Leone presso alle marine. — La Magliana. — Ritorno di Curtògoli, e agguato contro papa Leone (ottobre 1516).
VIII. — Epidemia in Civitavecchia pei fanghi della darsena. — Morte del giovane Pier Vettori (1517) — La nostra capitana presa dal pirata Gaddalì con dodici fuste (settembre 1518).
IX. — Prigionia e riscatto di Paolo Vettori (dicembre 1518). — La nostra galèa diviene capitana di Gaddalì. — Combattimento del Doria alla Pianosa. — Riscossa la galèa, e imprigionato Gaddalì (22 aprile 1519).
X. — Francesco, Carlo, e Solimano. — Disegni dei Turchi contro Rodi. — I galeoni col Vettori in soccorso di Rodi. — Crociera per quei mari, e acciacco di pirati. — Documento (1520).
XI. — Leone e Carlo contro Francesco. — Armata in Civitavecchia per isbalzare i Francesi da Genova. — Fazioni di mare. — Sbarco di milizie. — Acquisti di Lombardia. — Feste alla Magliana. — Morte di Leone (1 dicembre 1521).
XII. — Adriano VI (9 gennajo 1522). — Il Vettori colle galèe in Spagna per condurlo a Roma. — Navigazione da Tortosa a Barcellona. — Rotta e dirotta. — La scia e la prora fluida. — Diffidenze degli Spagnuoli. — La notte e l'astronomia nautica. — Il Doria a Monaco (13 agosto 1522).
XIII. — In alto mare. — Fuga dei pirati, liberazione di una nave. — A Genova, a Livorno, a Portercole (26 agosto 1522).
XIV. — La notte sull'àncora. — Ingresso in Civitavecchia (27 agosto 1522). — Fisonomia di Adriano. — Visita alle fortificazioni. — Ricordo delle Celle navali. — Partenza per Ostia. — Arrivo a Roma. — Richieste per Rodi (28 agosto 1522).
XV. — Le fortificazioni di Rodi. — Basilio da Vicenza, e le tre scuole degl'ingegneri militari. — Lavori di Basilio in Rodi. — Le altre difese di quella piazza (1520-1522).
XVI. — Mossa dei Turchi contro Rodi. — Armata ottomana, e squadre dei pirati. — Disegni del Bartolucci contro di loro. — I Cavalieri alle poste. — Novero dei difensori (26 giugno 1522).
XVII. — Il Martinengo e i suoi allievi in Rodi. — Batterie convergenti e radenti. — Ripari, e lavori di terra. — Fuochi lavorati e polverificio. — Contrammine preventive e occasionali. — Ferito il Martinengo di chirioboarda (luglio-novembre 1522).
XVIII. — Artiglieria turchesca. — Bombarde e basilischi. — Palle di pietra, di ferro e di bronzo. — Il rimbalzo e i portelli a ribalta. — Mortaj e bombe. — Mine dei nemici. — Cavalieri di campo. — Uccellamento alle cime. — Assalti, mortalità, capitolazione (20 dicembre 1522).
XIX. — La partenza da Rodi e l'ultimo squillo della tromba (1 gennajo 1523). — I Cavalieri verso Roma. — Il Vettori incontro. — Il Grammaestro in Civitavecchia (agosto 1523). — Convento, spedale, marineria. — Morte d'Adriano, elezione di Clemente, e trattati dei cavalieri (settembre-novembre 1523).
XX. — Paolo Vettori confermato da Clemente VII. — Capitoli della condotta (12 dicembre 1523).
XXI. — Confronto tra questo ed altri simili documenti. — Il numero dei combattenti. — Castellania e capitanato. — Servizio di guerra, dogana e polizia. — Prede, risarcimenti, e memorie perdute. — Rappresaglie annullate. — Articolo del contaggio (1524).
XXII. — Molestie del pirata Giudèo. — La squadra nostra e la gerosolimitana contro di lui. — Presigli due bastimenti, e affrancati gli schiavi (giugno 1524).
XXIII. — Le due squadre in Spagna col Grammaestro e col Legato (25 giugno 1525). — Prigionia e liberazione del re Francesco (gennajo 1526). — Lega contro l'Imperatore (22 maggio 1526). — Missione di Paolo Vettori e sua morte (26 maggio 1526).
LIBRO TERZO. CAPITANO PAOLO VETTORI, MARCHESE DELLA GORGONA.[1513-1526.]
I.
[15 marzo 1513.]
I. — Quanto vi avea di grande nelle scienze, nelle lettere e nelle arti per tutta l'Italia, in un'epoca straordinariamente feconda di belli ingegni, quasi tutto al principio del secolo decimosesto erasi raccolto in Roma: però papa Leone, eletto ai quindici di marzo del 1513, non ebbe a durare gran fatica per mettere a festa la sua corte col primo fiore delle dotte e virtuose persone del tempo. Suoi secretarî il Bembo e il Sadoleto, suoi teologi il Silvestro ed il Gaetano, suoi pittori Raffaello e Giulio, suoi architetti il Sangallo e Michelangelo; e suo capitano sul mare, mi sia presto concesso questo passaggio, il nobile Paolo Vettori, pari a chiunque nella grandezza dell'animo, nella gagliardia del braccio e nella perizia dell'arte nautica[108].
La famiglia dei Vettori, ammessa a tutti gli onori della repubblica fiorentina, prima che si tramutasse in Roma col titolo del marchesato, fioriva in questi tempi per uomini eminenti nelle lettere e nelle armi, tutti apertamente seguaci della fortuna trionfante di casa Medici: Piero il giovane, sommo filologo del suo tempo[109]; Piero il vecchio, celebrato per senno politico e per la molta perizia nelle lettere latine e greche; il nome di Francesco ritorna ad ogni pagina delle storie patrie, dalla cacciata di Pier Soderini, fino all'elezione del duca Cosimo; e il nome di Paolo, secondogenito di Piero il vecchio e fratello di Francesco, spicca a gran rilievo nelle vicende di Roma durante il pontificato di Leone, d'Adriano, e di Clemente. Sollevato dai favori e dagli encomî singolarissimi della casa e dei partigiani de' Medici; ed altrettanto depresso dal biasimo degli avversarî, può essere chiamato ad esempio della sorte comune di chiunque entra troppo nei partiti, e con questo corre diversamente accagionato nei giudizî degli uomini e delle storie. Due sole cose di lui tuttafiata amici e nemici a vicenda confermano: l'eccellenza di marino, e l'intrinsichezza di confidente appo il cardinal Giovanni dei Medici. Il quale, divenuto Papa, anche nella sublimità del nuovo grado, continuò a comunicare con lui i suoi pensamenti: e sapendo quanto poteva ripromettersi dal valore di un uomo non solo da discorrere, ma da operare fortemente, datogli subito il capitanato delle galèe, lo mandò con questo titolo a Torino, compagno di Giuliano suo fratello per le nozze con Filiberta di Savoja.
Paolo era nei trentasei anni: sottile e rubizzo della persona, fronte sporgente, ricca e crespa capigliatura all'occipite, rada alla sommità, naso affilato e non breve, piccoli mustacchi, poca barba, alto il ciglio, e lo sguardo acutissimo e penetrante come di succhiello. Restaci il suo ritratto inciso in gran foglio tra le immagini degli uomini illustri della Toscana, vestito di ricca armadura, il bastone del generalato sotto al braccio, bussole, rombi, compassi, e carte marine sur un trespolo, ed egli presso il verone fisso cogli occhi al mare, alle galèe ed agli stendardi dalle chiavi incrociate. Sotto vi è scritto[110]: «Paolo Vettori, capitan generale delle galèe della Chiesa nel pontificato di Leone X, Adriano VI, e Clemente VII; dalla corte di Roma e dalla repubblica fiorentina spedito al campo imperiale di Lombardia. Nato nel 1477, morto nel 1526.»
Più altre notizie di lui ci fornirà la storia scritta dal fratello, recentemente pubblicata con molte annotazioni nell'Archivio storico di Firenze[111]: e ricchissima mèsse avremmo potuto raccogliere dall'archivio privato dei marchesi Vettori di Roma, se i moderni discendenti ed eredi avessero saputo custodire quel tesoro di lettere e di corrispondenze originali, che ora non si sa dove sia perduto[112].
II.
[Dicembre 1513.]
II. — La pronta nomina dell'eccellente capitano, e l'immediato possesso di lui in Civitavecchia, affrettarono la risoluzione dei risarcimenti alla darsena, per meglio raccogliervi e ordinarvi le forze marittime dello Stato. La darsena non è altrimenti una prigione, come alcuni pensano, ma la parte più sicura e più comoda di un porto, dove il naviglio militare sverna, si racconcia e si arma. L'equivoco è venuto nei tempi moderni dall'esservi restati in abbandono i bastimenti da remo, e con essi le ciurme di catena, o ristrette sulle pulmonarie galleggianti, o stivate nei prossimi magazzini. Salvo il caso recente, resta per ogni altro tempo il primo e proprio significato di porto minore presso un porto maggiore, fornito di scali e di edificî per servigio dei navigli militari, difeso con buone fortificazioni e ripari dalle tempeste del mare e dagli insulti dei nemici. Antichissimo fatto: alla romana dicevasi Angiporto, alla greca Epistio, all'italica Porticciuolo; e poi, con voce derivata dall'arabo, Darsena[113].
Presso al porto di Civitavecchia una ve n'ha, che può essere annoverata tra le più belle del Mediterraneo: venticinque migliaja di metri quadri in superficie, sei metri di uniforme profondità, grandiosi magazzini all'intorno, e talmente coperta da una cinta bastionata, che niuno la vede se non siavi dentro. Un documento di questo tempo ci mostra che si voleva nettarla e ridurla a maggiore profondità. E quantunque la scritta non porti data, nondimeno deve necessariamente ridursi alla fine del tredici. Non prima, perchè intestata a papa Leone, eletto nel mese di marzo dell'anno medesimo; non dopo, perchè agli undici di marzo dell'anno seguente moriva Bramante, al cui giudizio è rimessa l'approvazione dei lavori[114]. Ecco il documento[115]:
«Patti e conditioni fatte da Giulio de Maximi, che promette a Leon X di cavare a certa profondità e tempo il porto piccolo di Civitavecchia. — Io Julio de Maximi sono contento e prometto a lo santissimo padre nostro papa Leone X di cavare il porto piccolo di Civitavecchia, incominciando dalla bocca, e seguitare dentro per tutto, per infino alle mura che circuiscono il detto porto, con le infrascripte conditioni et capituli:
«1. Di prima che la santità di nostro Signore debba darmi al presente ducati quattro mila d'oro in oro per prezzo e mercede di tutta l'opera che havrò a fare in detto porto: et per me pagarli di contanti a Mario de li Cavalieri, nobile cittadino romano.
«2. Il detto Mario havrà a promettere et obbligarsi a nostro Signore, in caso che io non osservi di cavare il detto porto, secondo di sotto prometto, di restituire tutti li danari havrà ricevuti; o vero far cavare esso il porto, secondo la mia promessa, con quel più breve tempo si potrà.
«3. Che io sia obbligato cavare il porto con miei ingegni ed arti, in modo che la bocca stia sempre aperta et patente, come sta ora, per comodo de' naviganti.
«4. Voglio, cominciando dalle acque comuni, che è il mezzo tra l'altezza diurna et bassezza delle acque per lo flusso, nel quale mezzo si vede certa verdura come una linea retta nelli muri et scogli del porto; et diuturnamente et ordinariamente crescono le acque uno palmo vel circa sopra quel segno, et viceversa decrescono; et per le grandi altezze et bassezze extraordinariamente eccedono da ogni banda assai: et da quel segno in giù voglio cavar tanto che habbia palmi nove di fondo di canna romana. Eccetto che, se trovassi scoglio o muro, non voglio essere obbligato a cavare più oltre che esso muro o scoglio.
«5. Da poi che saranno disborsati li danari, et chiarito il giusto segno delle acque, a comune judicio di marinari venetiani et genovesi, o vero a judicio di frate Bramante (al quale del tutto me ne rimetto), voglio aver tempo due mesi a mettermi in ordine per cominciare l'opera: et di poi alli duo mesi voglio haver tempo mesi diciotto ad haverlo finito di cavare.
«6. Che mi sia lecito gittare il fango in quel luogo che mi farà più comodo.
«7. Che mi sia lecito far tagliare il legname che mi bisognerà in tutte le selve vicine, in terra di Chiesa, senza alcun prezzo di selvatico o di altra impositione.
«8. Che io sia accomodato di tutte quelle stanze che mi bisognerà, tanto in rôcca vecchia quanto in rôcca nuova, e dove la Camera havrà modo di accomodarmi, senza alcun pagamento.
«9. Che tutte le cose che adoprerò per me, per l'opera, e per i miei uomini habbiano a essere franche da ogni gabella, così se da Roma, come se da ogni altro luogo soggetto alla Chiesa, mi bisognerà mandare roba a Civitavecchia, siano franche da ogni gabella; e similmente quella roba e artiglieria havrò adoperata alla detta opera, volendola ridurre in Roma, sieno franche da ogni gabella o datio.
«10. Che tutte le galere et altri legni che sono annegati nel detto porto, et ogni altra cosa, sia libera mia.
«11. Che andando li miei uomini per macinar grano alli mulini vicini, li mulinari sieno obbligati posporre ogni altra persona et expedire li miei, sotto quella pena parerà a Nostro Signore, eccetera.»
I documenti, siano pure intorno a materie di piccola importanza, portano più lume e certezza alla storia di qualunque discorso, a chi li sappia intendere. Ecco qui, rispetto alla darsena di Civitavecchia, la bozza di un contratto per cavarla a certa profondità; ed eccovi insieme la certezza della sua esistenza anteriore all'opinione de' moderni che l'attribuiscono a papa Pio IV, senza attendere alle memorie perpetue del medio èvo, come ho detto altrove, e senza sapere della descrizione fattane nel quattrocento da Flavio Biondo. Anzi il presente documento ce la mostra già tanto antica nel pontificato di Leone, e mezzo secolo prima del detto Pio, che pei rottami di navigli sommersivi da tempo immemorabile e per la invetrata poltiglia, sarebbesi resa inutile se non si dava mano a rinettarla. Di più eccovi la speranza di trovarvi anticaglie e oggetti preziosi, come di fatto si è visto infino ai nostri giorni, essendosi ripescato colà tra le molte medaglie, bolli, musaici, ed altri oggetti antichi, quel superbo braccio di bronzo di che si abbellisce ora il musèo etrusco del Vaticano. Ecco nella eccellentissima casa dei Massimi, nota agli eruditi per le edizioni romane del primo secolo, continuarsi lo slancio verso le imprese ingegnose. Eccovi il teorema della marèa diurna, notissimo anche in quel tempo; e la maniera di valutarne con pratiche induzioni anche nel nostro mare gli estremi, tuttochè di poca levata nelle circostanze ordinarie. Ecco la popolare nomenclatura che allora distingueva la rôcca vecchia dalla nuova; e questa, che oggidì chiamiamo la Fortezza, già tanto avanzata nella costruzione, da potervisi alloggiare la brigata e gli operaj di messer Giulio. Ed ecco finalmente ogni cosa rimessa al giudizio di un grande artista, come dire di Bramante; il cui nome, introdotto con tanta sicurezza nel documento, per sè indica la notorietà e frequenza di lui in quel luogo; dove non poteva essere per altro che per l'opera maggiore che allora vi si faceva, ciò è dire per la fabbrica della predetta Fortezza, tutta di suo stile, come altrove più largamente esporrò. Si noti eziandio l'appellativo di Frate, dato a Bramante; perchè risponde a capello coi fatti e colla storia; e ricorda la promozione di lui all'ufficio del Piombo: ricco, geloso e nobile ufficio di suggellare col metallo dolce le bolle pontificie, secondo che usavano i frati laici dell'ordine Cisterciense; a similitudine dei quali gli altri piombatori, cavati dal ceto degli artisti, vestivano in certe occasioni l'abito consueto dei frati precessori, e si chiamavano Frati del piombo, camuffati di tonaca e di cappuccio, come si vedono pure ritratti nelle antiche rappresentanze, quantunque non facessero niuna professione di vita monastica[116].
Non voglio lasciare questo documento senza venire alla conclusione. La cavatura in vece di giungere solamente alla profondità uniforme di palmi nove per tutto il bacino, passò la minima di palmi quindici, e toccò la massima di palmi venti, come risulta dalla pianta di detta darsena delineata poco dopo da Antonio il giovane da Sangallo, e coperta con una rete di scandagli, il cui originale ho trovato io stesso tra i cartoni di lui alla Galleria di Firenze, e ne ho il facsimile presso di me per la squisita cortesia del cavalier Carlo Pini, direttore e conservatore delle stampe[117].
III.
[1514.]
III. — Adesso mi continuo a tirar fuori dai registri le notizie, secondo i tempi. Trovo nel quattordici tre squadre in navigazione: quella della guardia consueta sotto il Vettori, composta di tre galere e di due brigantini[118]; l'altra di due galere con Giovanni da Biassa, il quale, quantunque licenziato da Giulio II dopo la battaglia di Ravenna, ora nondimeno milita con papa Leone, e per lui quest'anno rimena in Francia il signore di Rochefort, ambasciatore del re presso la santa Sede; ed al ritorno, passando di Genova, da Giovanni Vespucci oratore papale in quella città riceve l'ordine di venirsene sollecitamente colle galèe in Civitavecchia per congiungersi col Vettori, e assicurare viemeglio le difese della spiaggia, e i servigi che si prevedono pel viaggio del Papa[119]. La terza muove da Ancona col cavalier Bonarelli verso Venezia per imbarcare certe artiglierie, richieste da papa Leone al doge Loredano[120], secondo la nota compilata da Leonardo di Firenze, nuovo capo dei bombardieri in castello Santangelo, succeduto di fresco al defunto Matteo Galli bombardiero romano[121].
[Aprile 1515.]
Questi apparecchi tendevano evidentemente alla spedizione generale contro i nemici comuni della società cristiana, ma non approdavano. Tutti piativano per finirla coi Turchi di là, non così però che prima non volessero di qua aver assettato le faccende loro a proprio talento. Quindi ciascuno proseguiva i suoi litigi intestini: le divisioni tra i principi maggiori del mondo cristiano crescevano, e vicino ci bolliva aspro conflitto con Urbino, con Ferrara e con Milano, oltre alla congiura contro la vita di papa Leone, che poi scoppiò nel diciassette. Il cardinal Petrucci strangolato in Castello, tre altri afflitti di gravissime pene, e il cardinale Adriano di Corneto fuggito via[122].
Il primo passo dierono i congiurati in quest'anno al diciannove d'aprile, quando il cardinale ostiense Raffaello Riario, per sicurezza della sua persona e dei complici, richiese la rôcca di Ostia, dal cardinal Giulio dei Medici e dal castellano Gianfrancesco de Noris fiorentino. La prese a titolo di affitto, con grossa malleveria sul banco dei Balducci, e colla promessa di tenerla e goderla a uso delle oneste persone con tutte le munizioni, artiglierie e corredo; secondo legale inventario[123].
IV.
[Ottobre 1515.]
IV. — Non conscio dell'iniqua trama, papa Leone il primo di ottobre partivasi da Roma verso l'Etruria marittima, e finalmente riducevasi colla corte in Civitavecchia, dove pel cavamento della darsena e pei fondali guadagnati, venuto in maggiori speranze, faceva assegnamento di nuove fortificazioni. Aveva perciò intimato colà una dieta di soldati e d'ingegneri principalissimi, coi quali alla vista del luogo intendeva deliberare il modo e la forma della nuova cinta. Convennero quegli stessi capitani ed architetti, che poscia nel dicembre seguirono papa Leone verso Bologna incontro a Francesco re di Francia, secondo il partito preso quivi stesso in Civitavecchia sulla fine d'ottobre al primo annunzio del pericolo, come narra Paride de Grassi[124]. Necessaria avvertenza cronologica per istabilire con certezza il fatto e il tempo.
Ragionandosi dunque colà di fortificare detto luogo (come ben dice il Vasari), cioè la città intiera, non un pezzo della rôcca vecchia o della nuova (come altri confondono al solito), tra quei signori ed architetti, e tra i diversi pareri, Antonio il giovane da Sangallo, afferrata la bella occasione di mostrare alla corte, ai mecenati e a ogni altro il valor suo, e quanto degnamente fosse stato eletto tre mesi prima all'eminente ufficio di architetto di san Pietro, spiegò i suoi cartoni, e mostrò il disegno compiuto di tutta l'opera, che fu approvato dal Papa e dagli altri, come di tutti il migliore per giudizio, per arte, per eleganza, e per fortezza[125]. Dunque non ciance o ciarpe vecchie, salmisìa, ma progressi importanti dell'arte nuova.
Antonio, iniziato ai principî dell'architettura militare dagli zii, e poi seguace di Bramante non solo nel corridojo di Castel Santangelo, ma anche nella rôcca nuova di Civitavecchia, come dimostrerò coi suoi autografi, già conosceva il terreno, e già aveva in pronto il risultamento dei suoi studî: una cinta bastionata alla moderna, con sette baluardi reali da circondare la darsena e la città da un mare all'altro, appoggiando gli estremi alle due rôcche. Quali si mostrano i quattro disegni originali di sua mano che si conservano alla Galleria di Firenze, e gli altri tre che vi ho trovato io stesso, tali i lavori eseguiti in Civitavecchia nell'istesso secolo e tuttavia esistenti, conformi ai medesimi disegni; tale la pianta identica degli originali e della esecuzione intagliata sopra quattro medaglie del secolo decimosesto. Dunque rivelazioni importantissime per la storia dell'arte, che oramai ci viene sicura, dimostrata, e più antica che altri non avesse pensato o scritto. Falso il primato dei Sammicheli, secondario il magisterio del Martini. Il primo baluardo esiste ancora in Ostia dal 1483 per opera di Giuliano da Sangallo, il primo pentagono bastionato esiste ancora in Civitacastellana dal 1496 per opera di Antonio suo fratello, la prima fortezza quadrata con quattro baluardi a musone esiste ancora dal 1501 per opera dello stesso; e la prima cinta reale di piazza d'arme, coll'ordine rinforzato a fianchi doppi, esiste ancora in Civitavecchia dal 1515, per opera del nipote. Non avremo più a perderci in dubbii e in congetture appresso ad altri misagiati ricordi di fortificazioni, posteriori di data, e da lunga pezza distrutte[126]: ma verrà la storia nuova sopra Monumenti primitivi, di epoca certa, tuttavia esistenti, e conformi ai disegni originali dei classici, conservati infino a oggi. La somma di queste cose io scrivevo del 1858 nel giornale delle Strade ferrate[127], quando niuno dei miei maestri (anche dopo compiuta l'edizione del Vasari pel Le Monnier) nè in Roma, nè in Italia, nè fuori pensava punto a queste nuove dimostrazioni, colle quali e con altre simili tratterò io la storia dell'architettura militare senza allontanarmi dalla spiaggia romana, come si vedrà nel mio libro della fortificazione. Non intendo a pretensioni, ma alla verità che torna onorevole a tutti.
Antonio allora aggiunse agli ufficî suoi di Roma la direzione dei lavori di Civitavecchia, andandovi spesso e tornandone, secondo il bisogno. E quantunque egli cominciasse l'opera di terra e fascine, riservando a miglior tempo l'incamiciatura; nondimeno murò quattro porte, due dalla parte della campagna e due alla marina, sulle quali esso stesso pose lo stemma delle sei palle di papa Leone[128]; e questo fu addì quindici giugno del diciannove. Il mese seguente addì ventisette luglio dello stesso anno Antonio fece incastrare attorno alla darsena le teste di bronzo che ancora si vedono, e sono chiamate dai civitavecchiesi i Mascheroni: cioè una diecina di teschi a ceffo leonino, disegnati da mano maestra di vivissima bizzarria, e gittati in metallo colle zanne sporgenti e le labbra accartocciate per sostenere fermamente e penzoloni gli anelli massicci pur di bronzo, dove i bastimenti danno volta ai cavi di posta in alto, tanto da poter camminare per le banchine senza inciampare a ogni passo tra i cánapi. Gli anelli ritraggono le forme consuete del cinquecento colla gemma piramidale a quattro faccie nel castone: in somma l'anello mediceo. Il getto si dice fatto da Giacopo dell'Opera, cui si pagano cento ducati a buon conto[129]. Col nome dell'Opera abbiamo notissimo tra gli artisti un Giovanni, detto pur delle Corniole, discendente di tessitori di drappi a opera, donde il soprannome della famiglia. Giovanni, morto in Firenze nel 1516, lasciò eredi i nipoti, figli di Francesco suo fratello; uno dei quali avrebbe a essere il nostro Jacopo[130].
Dunque Antonio costruiva la cinta bastionata, murava le porte, metteva gli stemmi, incastrava cogli arpesi i mascheroni, piombinava nella darsena, ristaurava il porto, la bocca e il molo grande[131]: e tanto era attaccato a quel luogo, che dopo cinque lustri continuavasi a solennizzare colà le care memorie della sua prima comparsa, scrivendo di suo pugno[132]: «Colubrina di mastro Andrea. Questa Colubrina ò fatto la prova a Civitavecchia, addì dieci ottobre 1538.»
V.
[26 Aprile 1516.]
V. — Intanto che le nostre marine contro ai pirati fortificavansi, Curtògoli crescendo di ardimento e di potenza teneva in continuo fastidio le campagne littorane, e sul mare moltiplicava i danni. Costui turco d'origine ( Kurdogli ) gran maestro della grande pirateria, d'intesa coll'imperatore di Costantinopoli, erasi stabilito in Biserta del regno di Tunisi, più tosto principe che ospite, con trenta bastimenti da corso e quasi seimila ladroni al suo comando; coi quali intendeva nuocere a ogni altro cristiano o islamita, tanto sol che giovasse agli interessi della crescente razza piratica. Però non ostante il trattato di commercio e di amicizia tra il re di Tunisi e i Genovesi, aveva menato prede dalla Liguria, e sottomessa a tradimento una galera della guardia. Quest'anno del sedici alla primavera contava già presi diciotto bastimenti siciliani con tutto il carico di frumenti; e lo sciame crescente dei ladroni venivagli appresso con molti bastimenti da remo, ronzando sulle spiagge dell'Etruria marittima. Papa Leone con pressa grande scriveva alle città e ai rettori littorani di mettersi in guardia contro nemici possenti e vicini; ed al preside della provincia, Francesco Pitta, ordinava di non mancare a niuna parte dell'ufficio suo per salvezza dei popoli. Le lettere papali, colla data del ventisei di aprile di quest'anno, sono pubbliche tra le opere del Bembo che le dettava: e qualcuna ne resta ancora originale negli archivî delle città medesime. Traduco la più breve, diretta ai Falisci, e valga per saggio[133]: «Abbiamo notizia certa di una armata non piccola di ladroni e pirati africani che han preso a scorrere pel nostro mare, ed ora si volgono contro Civitavecchia e contro le spiaggie del vostro distretto. Dunque vi ordiniamo di ubbidire senza replica a Francesco Pitta vicelegato della provincia in tutte le cose che vi comanderà, non altrimenti che se vi fossero comandate da Noi stessi in persona. Sono provvisioni urgenti che riguardano l'incolumità vostra nella vita e nelle sostanze. Dato a Roma li ventisei di aprile 1516 del nostro pontificato anno quarto.»
Può ciascuno da sè quasi direi vedere gli effetti di lettere tanto incalzanti e stringate: accorrere dalle provincie interne le milizie assoldate, armarsi la gente del contado a piedi e a cavallo, uscire all'aperto, occupare i ponti e le strade, battere le spiagge, mandare e ricevere corrispondenze celeri da luogo a luogo, di giorno e di notte, e mettere in opera tutti i provvedimenti che a cessare simili pericoli per quei tempi si costumavano. Il solo sospetto, e molto più le prossime minacce, bastavano a tenere in travaglio le intiere province, e a dare altrettanto di fastidio che la stessa invasione. I pacifici abitatori nell'ambascia, la città di Roma in sospetto, preghiere pubbliche per le chiese, e il Pontefice istesso a processione per conciliare il favore di Dio e degli uomini alla difesa del paese[134].
Però senza misconoscere i vantaggi della pietà, papa Leone attendeva al resto, come colui che parlando dei turchi e dei pirati soleva dire[135]: «Grande stoltezza di alcuni il pensare di poterli conquidere solamente colle orazioni: dobbiamo metterci alle armi, e combattere da senno, se vogliamo liberarci dalla loro oppressione.» A questo fine apparecchiava la sua squadra navale, congiungeva le galere del Biassa a quelle del Vettori, tregua tra i principi proponeva, cardinali di fiducia e di autorità per le corti spediva, e tutte quelle pratiche ripigliava che gli scrittori sacri e profani di quel tempo ricordano[136]. Pratiche continue per quattro anni in tutta l'Europa, ed altrettanto allora ferventi nei pensieri e nei discorsi dei contemporanei, quanto oggidì fredde nella memoria e nelle pagine della storia. Valgami per esempio quel grande ingegno di Girolamo Vida, che, quasi ringiovanito nella speranza di vedere effetti stupendi di generale spedizione, studiate e robuste parole scriveva all'istesso Pontefice promotore dell'impresa, dicendo[137]: «Orsù dunque chiama alle armi i marini di Italia ed i regi di Europa: concedimi a gran contento di vedere una volta l'ampiezza del pelago ricoperta dai navigli della cristianità, come desiderano tutti i vicini e i lontani. Di questa speranza brillano gli animi dei popoli, la gioventù animosa si apparecchia alle battaglie; ed io, quasi dimentico dell'estro febèo, nulla più ardentemente ormai desidero che intrecciare colle frondi del serto poetico gli allori di Marte.» Alle parole del Vida di fresco ha fatto eco, gran dire! il Guerrazzi sull'istesso proposito di papa Leone, scrivendogli[138]: «Adesso il Papa e i Principi cristiani volsero la mente a tal fatto, che avrebbe dovuto restarsi sempre in cima dei loro pensieri, e questo era la pirateria, con la quale i Turchi, condottisi ad abitare le coste dell'Africa, avevano reso il Mediterraneo infame, peggio che non è una selva infestata da assassini.... impresero la guerra dei pirati, e ne commisero il comando a Federigo Fregoso, arcivescovo di Palermo e fratello del Doge.»
VI.
[5 Maggio 1516.]
VI. — L'occasione di giusto sfogo all'impeto di tanto universale commozione venne da sè; e papa Leone la colse in quest'anno alla comparsa di Curtògoli, sommamente odiato dai Genovesi per gl'insulti ricevuti, e dal re di Francia per consenso simpatico verso la sospirata Liguria. Di che consapevole papa Leone, non dubitando punto di essere ascoltato, scrisse la seguente importantissima lettera[139]: «Ad Ottaviano Fregosi prefetto, ed ai decurioni di Genova. — Tutti sanno essere comparsa attorno alle isole d'Italia, e presso alle vostre riviere l'armata dei pirati tunisini; e da più parti arrivano dolorosi avvisi di rapine e di desolazioni. Io voglio cacciar via cotesti ladroni dai nostri mari, e, se sarà possibile, al tutto sterminarli. Con somma celerità apparecchio il mio naviglio: e sperando fare cosa onorevole a tutti gl'Italiani, ed a voi salutare per la comunanza degli stessi pericoli, vi chiedo in prestito quelle quattro galèe che avete pronte nel porto, e vi prego di armarne altre quattro colla massima sollecitudine. Io pago la quota che mi tocca. Ma presto, presto, mandatemi i legni vostri, uniteli co' miei, leviamoci dal viso la vergogna, facciamo di respingere gl'insulti del nemico, e di conquiderlo. Ripeto diligenza, premura e somma prestezza. Dato in Roma addì 5 di Maggio 1516».
Le istruzioni verbali del messaggero portavano di più la nomina di Federigo Fregosi genovese, arcivescovo di Salerno (non di Palermo, come stampa il Guerrazzi), fratello del doge Ottaviano, col titolo di Legato al comando dell'armata collettizia, secondo la proposta; e quindi l'obbligo a tutti di seguirne il supremo stendardo in conformità alle antiche costumanze. Il Breve della legazione si legge al disteso tra le opere del Bembo[140].
I Genovesi maggiormente per questi avvisi messi in assillo contro Curtògoli, si restrinsero a consiglio, e deliberarono subito di corrispondere alla chiamata, accettandone le condizioni utili ed onorevoli a ciascuno. Perocchè con questo ben si argomentavano di provvedere al decoro della romana Sede, ed alla convenienza dei proprî interessi: comandante genovese, e di fiducia nella città; stendardo papale, e di valida copertura in Tunisi: in somma buon giuoco per dare in sulla testa al pirata Curtògoli, senza rompersi del tutto con Abdallà re della terra, e salvo il proposito di ripigliare appresso meglio di prima con lui i commerci dell'Africa.
Il Piergianni di nostra conoscenza, trovandosi lieto in quei giorni con sei galere e tre galeoni nel porto di Genova, da buon cavaliero rodiano, offrì il suo concorso a papa Leone; e proposegli il quesito d'impiccare per la gola alle antenne tutti i prigionieri che mai si potessero avere nelle mani, tanto che agli altri servisse di terribile esempio. Leone rispose accettando l'offerta, sì veramente che volesse stare all'obbedienza del Legato e seguirne lo stendardo; rimettendosi del supplizio dei pirati, e di ogni altro provvedimento al Legato medesimo, che per essere uomo di senno e di prudenza singolare, pieno di nobiltà e di grazia, sarebbe per fare ogni cosa conveniente, e col dovuto rispetto terrebbe conto delle opinioni e dei suggerimenti del capitano Piergianni[141]. Eccovi eziandio qualcuno di parte francese, che, dicendo corsari, intende ladroni da forca.
[4 agosto 1516.]
Dunque ai primi di agosto abbiamo insieme sette legni papali, cioè i due brigantini della guardia e le tre galere di Paolo Vettori, di che si è detto nei capitoli precedenti e nelle lettere di papa Leone[142]; più altre due galèe pontificie sotto il capitano Antonio da Biassa, per questo solo ricordato dal Giustiniani, perchè nativo della Spezia, e perciò attenente al titolo dei suoi annali, dove non entrava il Vettori. Abbiamo quattro galere della repubblica condotte da Andrea Doria, capitano del porto; ed altre quattro di privati genovesi messe su a richiesta e soldo di papa Leone. Finalmente le sei galere e i tre galeoni del Piergianni francese; che tutti insieme tornano a capello nel numero indicato dal Giustiniani, diciannove galere, tre galeoni, due brigantini, e ventiquattro vele[143].
Degli altri principi nostri parla la lettera del cardinale Giulio dei Medici al vescovo di Tricarico nunzio in Francia, colla data di Roma sei maggio, così[144]: «E' si scoperse a Civitavecchia, circa dodici giorni fa, ventisette vele di Turchi, cioè ventitrè fuste et quattro galere, et subito se ritrassero. Et dipoi sono state intorno a Zanuti et l'Elba. Il che dètte a Nostro Signore gran dispiacere.... Et pensando a' remedi Sua Santità judicò che fussi necessario si unissi insieme le galere et galeoni del Cristianissimo et di Genova con quelle delli Spagnuoli che si trovano a Napoli.... Sua Santità, oltre al concorrere colli legni sui, contribuirebbe anche alla spesa di quattro galere che di nuovo si armassino a Genova». Dunque anche l'invito agli Spagnuoli dominanti in Napoli, come tutti sanno; e niuna omissione della parte di Roma. Ma perché dal Regno non corrisposero, fia bene ricordare la sentenza con che papa Leone per mezzo de' suoi ministri scrivendo al vescovo d'Isernia Massimo Corvino, nuncio in Napoli, se ne doleva infino a due anni dopo con queste parole[145]: «Nostro Signore dal canto suo non ha mancato di ogni possibile offitio con tutti i principi cristiani, et precipue col re Cattolico: et per anchora non li pare (parlando con vostra Signoria come la intendiamo) che questi Spagnuoli si risentino, et considerino il periculo. Et però V. S. userà lo ingegno et virtù sua in fare qualche opera a beneficio della repubblica cristiana principalmente per queste cose del Turco.»
Usciti al largo i migliori sotto lo stendardo della Chiesa, e tra essi il Fregosi, il Vettori, il Doria, il Piergianni, il Biassa, ed altrettali capitani di gran conto, girarono attorno per incontrare Curtògoli: all'Elba, alla Capraja, alla Corsica, alla Sardegna, sempre indarno, perchè costui insieme con tutti gli altri ladroni, il cui fine precipuo non istava nel combattere, ma nel rubare, avevano preso da ogni parte la fuga. Non è mai mancata, nè sarà mai per mancare la lingua agli stolti, agli schiavi, ai rinnegati, e ai traditori. Però navigazione languida, mare quieto, venti di stagione, notti serene, giornate lunghe, e niuna scoperta. Bisogna dunque cercare Curtògoli nel suo nido, e passare in Africa.
Intanto che si naviga di buon braccio coi Ponenti consueti dal golfo di Cagliari sul rombo di Ostroscirocco, verso Biserta, ci accade di considerare le condizioni del paese. Regnava di questi tempi per tutta l'ampiezza della Bizacena, dal confine di Algeri a quello di Tripoli, Abu-Abd-Allah-Mohammed della dinastia degli Hafsiti, islamita di razza bèrbera, e totalmente indipendente dall'imperio ottomano. Costui per antica tradizione di famiglia teneasi affezionato ai Genovesi, firmava trattati con loro di amistà e di commercio, e ne favoriva il traffico, la pesca, i coralli, i fondachi; perchè gli fruttavano molto tesoro, e provvedevano ai mercati con soddisfazione grande de' suoi popoli. Venuto poscia Curtògoli co' soldati turchi e con lo squadrone piratico a chiedergli ospitalità, lo accolse pur volentieri; tanto perchè musulmano, quanto perchè favorito dalla plebe amante degli avventurosi guadagni: e lo tenne molto più caro ai suoi privati interessi, posciachè il pirata (secondo la legge del Corano) faceagli toccar netta la quinta parte di tutte le prede che veniva facendo sopra i Cristiani. Però aveva assegnato a Curtògoli il porto e la città di Biserta (l'antica Hippo-Zarythus, tra gli Arabi Benzert) nel punto più sporgente della costa; proprio rimpetto allo sbocco del Tirreno; donde colla destra poteva ferire Trapani di Sicilia, colla sinistra Cagliari di Sardegna, e di faccia il Tevere, Roma, Napoli, la Toscana, e la Liguria. Là stanziava Curtògoli, di là traeva viveri e gente. Ricco, armato, favorito: già principe di fatto in Africa.
Dunque Abdallà voleva nel suo stato la pace con tutti, e la prosperità dei suoi interessi. Amici i mercadanti coi loro commerci, amici i pirati colle loro prede. Fermi tutti alla legge: stessero contenti i primi a pagar le gabelle, e stessero pur contenti gli altri a rassegnare le quinte; chè Abdallà, amico comune, contava continuarsi sempre in pace con loro. Fuori dei suoi porti si accapigliassero pure insieme i mercadanti e i pirati; non per questo doveva esso rompersi la testa: anzi aspettarli sempre lieto al ritorno, o colle gabelle, o colle quinte. Stolto a non capire l'immoralità dell'avara connivenza! Stolto a non prevedere la propria ruina pei pirati! Essi ricchi, essi armati, essi forti nelle viscere del dominio, favoriti dalla plebe, e sostenuti dall'imperadore ottomano, dovevano tra poco cacciare tutta la sua discendenza dal paese, e farsi padroni del regno.
I Genovesi, consapevoli del tranello di Abdallà, e volendo levarne del pari, entrarono nella stessa simulazione, coprironsi sotto bandiera di papa Leone che non aveva tanti rispetti, e deliberarono assaltare Curtògoli nel suo ricovero, facendo pur le viste di non offendere il Re. Fermatisi pertanto la notte dietro l'isoletta della Galitta, la mattina improvvisamente entrarono nella insenata che serve di porto a Biserta. Là per evidenza di fatto accertarono il giudizio della ritirata generale dei ladroni, vedendo tutti i legni dello stesso Curtògoli, galèe, fuste e brigantini, una trentina di bastimenti, tutti disarmati dentro terra alla fiumara, nel mese d'agosto, come se fosse scioverno. Subito i pochi Turchi di guardia presero a fuggire, ed i molti Cristiani prigionieri a scuotere le catene, chiedendo ad alta voce la libertà. Soldati e marinari saltarono in terra, di presente sciolsero gli oppressi, e proruppero nel saccheggio dei legni, dei magazzini, dei casali, infino ai borghi di Biserta. Mossa repentina, cominciata cogli stimoli della pietà, e guasta dalla cupidigia delle genti tumultuarie venute colle ultime galere, come si può di leggieri intendere pensando le intrinseche ragioni, la disciplina militare, e il silenzio dei parziali. Facilmente si sarebbero potuti portar via, o almeno bruciare nel primo attacco, tutti i bastimenti piratici: ma il disordine, il tristo esempio, gl'indugi, ed i fardelli crebbero fiducia ai musulmani della città e del contado di concorrere a cavallo sulla riva; dove agli alleati non restò altro ripiego, se non serrar le file, mettere in mezzo i riscattati e le prede, e rimontare sui navigli, senza speranza di miglior sorte in quel luogo, anzi perdendovi due palischermi.
Incalzati dal vento, continuaronsi verso levante sopra i rivaggi della Goletta, coll'intendimento di cavar fuori dallo stagno la galèa della guardia genovese, predata l'anno avanti da Curtògoli nei paraggi di capo Côrso. Quei gentili e colti signori che più volte si sono degnati onorare le povere cose mie dei loro benevoli suffragi, abbiansi pur da me pubblica testimonianza di leale gratitudine per l'amore che mostrano alla bellissima nostra lingua, ed alle sue voci marinaresche. Di che provocatamente prendo occasione, quando mi occorre, per fare qualche avvertenza intorno alla ricchezza ed alla proprietà nello scolpire nettamente i concetti e le differenze delle cose, come qui mi accade tra i due termini Rivaggio e Paraggio. Ambedue tecnici, usati dai classici, e registrati alla Crusca, esprimono in genere un Tratto di mare: ma l'uno lo determina diversamente dall'altro. Chè il primo lo appressa al sensibile della riva e delle terre vicine; e il secondo lo solleva al razionale dei paragoni lontani sul mare o sui circoli della sfera.
Venuto adunque il Fregosi sui rivaggi della Goletta, die' fondo ai ferri, e subitamente spinse tre barche armate nello stagno: le quali, nonostante il fuoco della massiccia torre (unica difesa del passo in quel tempo), entrarono nel canale, presero a rimburchio la galera, e se la menarono appresso. Bella ed onorata fazione.
Indi costeggiata l'Africa giù giù dalle Conigliere, alle Cherchene ed alle Gerbe, bruciando legni nemici, menando preda, e traendosi in trionfo tre brigantini, tornarono sullo scorcio dello stesso mese ai porti d'Italia[146]. Ho seguito nel racconto la guida di autorevoli scrittori, e particolarmente del Giustiniani contemporaneo; la cui autorità, già grande tra i Genovesi, cresce ogni dì, trovandosi le sue parole sempre conformi ai documenti che di tempo in tempo tornano alla luce. In somma la spedizione ebbe plauso, tornò utile, e papa Leone lodossi de' suoi marini, scrivendo al condottiero[147]: «Ho saputo tutti i successi della navigazione, e tutti i fatti dell'armata da te condotta in mio nome contro i pirati. E perchè ogni cosa è stata eseguita con animo e costanza grande, con molta fatica, e secondo la dignità della romana Sede, di ciò sommamente lieto, ti lodo e con tutta l'effusione dell'animo ti benedico.»
VII.
[Settembre 1516.]
VII. — Ora veniamo alle conseguenze tra i Genovesi ed Abdallà, e poi tra Curtògoli e i Romani. I primi, ripresa la galera e data l'acerba lezione a Biserta, fecero per mezzo de' mercadanti nazionali stabiliti in Africa, noti ed accetti al Tunisino, rappresentargli a tempo le lagnanze del ricetto accordato ai pirati e alle prede; e chiesero se Abdallà volesse o no rimettersi in pace, secondo i trattati, come per l'avanti. Abdallà rispose ad Ottaviano Fregosi e ai governanti di Genova una lettera importantissima in lingua araba; che, per essere inedita ed unica, fu recentemente volgarizzata e stampata dal chiaro professor Michele Amari, dalla cui squisita cortesia ne ebbi in dono un esemplare[148]. Non bisogna fermarsi alle apparenze, nè alla congerie orientale delle proteste, scuse e ricriminazioni: ma entrar dentro nelle intime intenzioni, che evidentemente tornano a tre capi. Primo, Abdallà non vuole inimicarsi affatto coi Genovesi, nè scapitare sulle gabelle, nè perdere il mercato; e scrive aperto[149]: «Non ci tocca il duro tratto, col quale ci mortificate, nè il rimprovero che ci sentiam fare da voi con aspri e pungenti detti (la somma dei quali è) che abbiamo cercato con gravissime offese di romperla con voi. Mai no: noi non abbiamo cessato mai di tener presente l'amistà e il buonvolere che un tempo voi avevate per questo stato; perciò abbiamo sopportato dei grandi rammarichi, dicendo sempre: Via speriamo che Iddio acconci ogni cosa e che rinasca la buona armonia. Or noi speriamo che si rinnovi la pace, come voi proponete.»
Nel secondo piglia gran faccenda, volendo persuadere agli altri, come a sè stesso scusava, la necessità del ricettare i pirati. Per questo non fa mai motto di Curtògoli e delle sue ruberìe, e molto meno tocca della galèa genovese custodita non dai pirati, ma da' suoi stessi ministri nel canale della Goletta: il tristo ingozza l'ingiuria della riscossa per non rammentare il torto del sequestro. Anzi mostra chiaro il desiderio di condurre i Genovesi alla stessa tolleranza ed obblivione delle cose passate. Quindi la somma delle discolpe torna a un sol punto: esso dice di ricettare i Turchi non come pirati, ma come musulmani[150]. «Se noi lasciamo a costoro (libertà di) sbarcare nei nostri paesi e vendere e comprare, questo non è cosa che debba movere l'animo vostro contro di noi. Come oseremmo di cacciare dal nostro territorio i correligionarii nostri? Come vietare la venuta di gente benevola ed amica? Sarebbe giusta l'ira vostra se noi li aiutassimo colle nostre forze, se uscissimo in corso con essoloro sopra di voi, se loro fornissimo alcun soccorso spontaneamente per (effetto di) lega, sì come voi usate con coloro che fanno imprese ai nostri danni. Ma voi sapete di certa scienza che siamo scevri di coteste colpe, anzi lontani da quelle più che niun'altra gente al mondo.»
Finalmente dopo le scuse della connivenza, e dopo le dichiarazioni dell'amistà, conchiude di aggiungere al trattato vecchio un capitolo nuovo, come dire di non più permettere ai pirati turchi di stazione in Tunisi il molestare i Genovesi, dicendo[151]: «Ci obbligheremo verso di voi a impedire che i Turchi vi arrechino danno di qualsivoglia maniera; ed a fare che chiunque noccia ad una nave dei Genovesi non abbia a lagnarsi che di sè medesimo, sia nella fossa di Tunisi o sia sulle costiere (del reame).... Rallegratevi adunque quanti voi siete, e datene annunzio per tutti i vostri paesi e città.... Noi vi giureremo la pace.... dopo che avremo imposto a tutti i Turchi vegnenti nei nostri dominii il patto che qual di loro offenda alcuna nave de' Genovesi, o faccia prigioni sopra essi, o rechi ad essi qualsivoglia molestia o pregiudizio, non possa in alcun modo sbarcare in alcun luogo del nostro dominio; e se sbarchi, sarà lecito a chiunque di por mano nel suo sangue ed avere: oltrechè noi manderemo gente a combatterlo e a fargli guerra.»
Dunque ai Genovesi scuse, pace, e privilegio: ed ai Romani il solito guadagno di restarsi più di prima esposti alle insidie. Di fatto Curtògoli, che conosceva gli umori di Abdallà e prevedeva l'esito e il divieto che vennegli appresso sul conto dei Genovesi, pensò solo di vendicare lo scorno e i danni sulla spiaggia romana, divisando avere nelle mani niente meno che la persona istessa di papa Leone. Doveva il ribaldo avere di qua secrete intelligenze con qualche traditore; cosa da non maravigliare chi sappia come allora le più ardenti passioni tra Francia e Spagna, tra libertà e servaggio, tra grandi e popoli, tra Siena e Firenze, e via via, tutto s'intrecciava intorno alla fatal casa dei Medici. Con questa intenzione Curtògoli presto riarmò le sue fuste, concorrendovi a gara la gioventù musulmana, avida di vendette e di rapine: e per meglio coprire il proposito principale nell'istesso settembre fece vela verso levante; e poi quatto quatto nell'ottobre si accostò alle spiagge latine[152].
Giovane ancora, e figlio del magnifico Lorenzo, soleva papa Leone nella stagione dell'autunno uscir di Roma con pochi amici e famigliari, e dar tregua ai gravi pensieri, e riposo all'animo stanco, scorrendo le campagne e le riviere a sollazzo di caccia e di pesca[153]. Per questo avea caro il castello della Magliana a cinque miglia da Roma sulle ripe del Tevere e verso il mare, donde è la data di molte sue lettere. Oggidì vedete squallido e deserto tugurio, ricinto da muraglie cadenti tra le felci sotto la stretta dell'edera parassita: un tristo e lungo fienile agli approcci, un pantano innanzi alla porta senza imposte, una fontana ridotta a beveratojo, qualche giumento a capo basso nella corte, e una misera osteria postavi a disperazione dei passeggieri. Ma ai giorni di papa Leone il sontuoso edificio, come ho veduto io nei disegni del Sangallo[154], e tutti possono leggere nei documenti di quel tempo[155]; e riconoscere anche adesso nella parte bassa del palazzo, e nelle magnifiche finestre del primo piano, tuttochè ridotte a quartiero; allora, dico, sul ponte levatojo splendevano ai raggi del cielo latino le armi e le piume dei cavalieri e dei cortigiani; e intorno marmi, stemmi, metalli, ricchezza. Di là papa Leone cavalcava privatamente a Porto, ad Ostia, ad Ardea, a Laurento; scendeva alla marina, saliva sugli schifi dei pescatori; ed ora per mare colle reti e coll'amo; ora per le campagne coi cani e co' falconi spaziava. Esso stesso ne parla nelle lettere a Carlo re di Spagna, rendendogli grazie delle quattordici aquile da presa, avute in dono da lui[156].
[28 ottobre 1516.]
In quest'anno usciva di Roma a' diciotto di settembre, e stava fuori quasi due mesi, visitando le città di maremma, e tenendo in più luoghi la posta della caccia e della pesca[157]. Da Toscanella il dieci di ottobre scriveva al medico Guglielmo Gallo, dandogli la facoltà di scavare in un campo presso Civitavecchia (dove costui pensava ritrovare certo tesoro), sì veramente che non avesse a cavare più d'un mese, e sempre presenti sul taglio due decurioni del municipio[158]. Avrebbe a essere qui parola di quell'altipiano che volge a levante due miglia dalla città, e che tuttavia si chiama Campodelloro, famoso nelle locali tradizioni di statue, di ombre, di maggio, e di altre baje, sempre provate leggiere e fallaci a dispetto delle avide lusinghe.
Leone istesso, proseguendo il suo viaggio, passava di là, senza dubbio ridendo del Gallo: indi veniva a Palo, poi alle marine del Tevere, e alle città suburbane fino alla spiaggia laurentina sotto Civita Lavinia, dove finalmente lo aspettava Curtògoli con diciotto fuste, e la sua gente parte a bordo, parte in terra per metterlo in mezzo[159]. Qualcuno a gran ventura n'ebbe sentore, e tutta la brigata volse le briglie a tempo, galoppando di gran fretta verso Roma, dove entrarono a salvamento li ventotto di ottobre. Paride de Grassi, il quale sapeva tutto, quantunque non fosse della partita, non fa motto esplicito dell'avventura. Ma qui soltanto scrive pesca, caccia, e ritorno improvviso: dunque ebbe a essere agguato pauroso ed indegno[160]. Tale ce lo mostrano le testimonianze di alcuni storici, e la congiura sei mesi dopo scoperta. Lascio ad altri il carico di analizzare questi fatti, e di risolvere il problema delle conseguenze che potevano venire dalla prigionìa di un Papa nelle mani dei Barbareschi: a me basta che il lettore pensi soltanto alla possibilità di tale successo, perchè si persuada della necessità della guardia del mare in un paese che vi confina. Sul paese sfogò sue vendette Curtògoli.
VIII.
[1517.]
VIII. — Dunque tristi tempi volgevano anche nel secolo d'oro, come sogliamo chiamare quello di Leone X: e alla marina in quest'anno si aggiugneva la pestilenza pel putrido fango cavato dal fondo della darsena, e gittato a caso, secondo il comodo dell'appaltatore[161]. E dire che altri vorrebbe adesso ritentar la prova nel Tevere, o in simili grandi e antichi corsi d'acqua, dove sboccano fogne e cloache! Grande la morìa tra le genti di capo e di remo, pieni gli spedali, piene le fosse; e per lutto maggiore vi cadeva un giovane ufficiale di anni diciassette, amato e riverito da tutti, ed unico figlio del capitano. Piero Vettori da fanciullo erasi messo sul mare: prima mozzo, poi pilotino che allora dicevano consigliere, e appresso ufficialetto col titolo consueto di nobile di poppa[162], cresceva di grande aspettazione, pensandosi ciascuno vederlo un giorno pareggiare ed anche superare il valore e la maestria del padre. Primo tra tutti nelle ardite manovre navali, primo nei rischiosi combattimenti, primo nel soccorso dei languenti, cadde come fiore reciso innanzi al mattino, e gettato per ornamento sulla coltre della bara. Ebbe i supremi onori da' suoi compagni d'arme, ed una iscrizione a conservarne la memoria con queste parole[163]: «A Piero Vettori, figliuolo di Paolo capitano dell'armata navale di papa Leone decimo, giovanetto di bella indole, di costumi onorati, e di vita integerrima, cui morte immatura e acerbo lutto tolsero la grandezza dalla pubblica espettazione presagita. Visse anni diciassette, e giorni diciassette. Morì addì quindici novembre dell'anno 1517.»
[1518.]
Nella seguente primavera ripigliava Paolo la navigazione di corso, tanto per mitigare il proprio cordoglio, quanto per dare aria e movimento alle genti costernate ed affrante dalle recenti sventure. E sebbene la sua guardia principale fosse dal Circèo all'Argentaro, pur non dismetteva le difese dei naviganti anche per la riviera calabra, e specialmente per le maremme toscane; tanto più che dai Fiorentini in premio dei fatti egregi a loro vantaggio era stato investito dell'isola Gorgona, e della rôcca che la protegge. L'estate di quest'anno andò tutta in caccia contro il famoso pirata Gaddalì, il quale fuggiva sempre che Paolo appressavasi, portando altrove e ben lontano, ora nella Sardegna, ora nella Corsica, e poi sulle marine della Liguria e della Spagna la desolazione.
[Settembre 1518.]
Finalmente a mezzo settembre, avendo inteso Paolo che alcune fuste dello stesso Gaddalì erano state vedute nel canal di Piombino, corse a quella volta, e ne scoprì due, le quali subito virarono di bordo, e secondo il solito presero a fuggire. E Paolo più che mai appresso per raggiugnerle senza aspettare le conserve, colla speranza di riuscir solo nella vittoria. Sforzò di vela e di remi, e tenne dietro ai nimici, tanto che gli ebbe investiti. Se non che la fuga di costoro, ed il lasciarsi raggiugnere, non era stato altro che inganno per trarre Paolo a trabocco: perchè, le due fuste, piene di gente da fazione, presero a combattere risolutamente; intanto che altre dieci, infino a lì nascoste, uscivano dal canale e lo circondavano da ogni parte. Le conserve, languide ed afflitte dalle precedenti infermità, vedendo dodici legni nemici in un gruppo addosso a Paolo, giudicarono non doversi cacciare nel conflitto: disperato ormai per chi giugneva troppo tardi, e inutile per chi non aveva più rimedio. Laonde, la nostra capitana, quantunque già impadronitasi di una fusta nemica, nondimeno assalita dalle altre, dopo lotta disperata, morti quasi tutti i difensori, e l'istesso Paolo ferito, dovette cadere nelle mani dei pirati[164]. Pensate baccano quando fu menata cattiva in Tunisi col generale in catena e gli altri al remo! Pensate che alcun tempo passò, senza che in Roma si sapesse nulla di loro, nè se fosser vivi o morti. Soltanto sette marinari, scampati collo schifo, raccontavano di aver veduto il Capitano combattere e cadere.
Io non loderò Paolo dell'essersi a quel modo cacciato avanti da solo, senza dar tempo agli altri di sostentarlo; perchè sì fatto ardire sempre riesce nocivo, scemando le forze proprie, e crescendo animo ai nemici. L'esperienza degli antichi tempi e dei moderni ha confermato i tristi effetti della temerità, massime nel non curare l'unione, l'ordinanza e la convergenza delle forze, quando si possono in un dato punto adoperare. Valga per tutti l'esempio di don Rodrigo Portondo, generale delle galèe di Spagna, il quale dopo avere con sette legni nell'anno 1529 condotto a Genova Carlo V, passando al ritorno presso le Baleari, per aver voluto andar solo ad assaltare il Cacciadiavoli, famoso pirata, spregiando lui e tutta la sua squadra di fuste e di brigantini, pagò la temerità colla vita e colla perdita di tutte le galere, che dopo lagrimevole massacro di gente restarono predate[165].
IX.
[Marzo 1519.]
IX. — Nondimeno ebbe Paolo miglior fortuna: sopravvisse alla pugna e alle ferite, e condotto prigioniero in Tunisi trovò per sorte alcuni mercadanti veneziani che, persuasi dalle sue ragioni, si offerirono di riscattarlo, pagando per lui l'enorme taglia di sei mila ducati d'oro[166]. Poscia sopravvenuto colà Pietro Michieli, capitano delle galèe della repubblica, quei mercadanti glielo consegnarono perchè il menasse a Venezia, e sotto specie d'onore, e per la sicurezza del danaro. Di che il detto Paolo, dal primo porto d'Italia, spacciando un uomo a Roma, diè avviso al Papa nell'autunno per lettere di suo pugno, dicendo come era vivo e ne andava a Venezia; dove sperava che sua Santità sarebbe contenta di mandargli l'occorrente a poter fare il dover suo coi creditori[167]. Delle quali lettere Leone prese sommo piacere, essendochè faceva di lui gran conto; e da un anno senza nessuna nuova tenevalo per morto. Viemeglio adunque dalla disgrazia si parve l'amor grande che gli portava: imperciocchè papa Leone di presente approvò il riscatto; e quantunque pesasse di tante migliaja, volle che fosse sborsato dal suo privato cassetto, senza verun disagio della casa Vettori. Anzi si disse che Leone non fu veduto mai cavar danaro con maggior contentezza; conoscendo o dicendo a chiunque come per poco prezzo ricuperava un uomo che per la fede e per la virtù era atto ad eseguire i suoi pensieri, quanto alcun altro che avesse attorno. Conferma egli stesso colle sue parole l'altrui sentenza, scrivendo di Roma il ventisei dicembre 1519 al doge Loredano, così[168]: «Tornato dall'Africa Paolo Vettori, capitano della nostra armata navale, testè prigioniero dei pirati tunisini, ho raccolto dal suo racconto con quanta amorevolezza e liberalità Pietro Michieli similmente capitano delle galèe di cotesta repubblica naviganti in quelle parti, lo abbia riscattato, non dubitando metter fuori per lui, tutto chè uomo estraneo, una grossa somma di moneta. Godo assai di questo successo, ammiro la prontezza, lodo la magnificenza, e vi assicuro che niuna cosa poteva accadermi più lieta di tale riscatto.» In questo modo Paolo tornossene al suo governo, rifece la capitana, e si tenne per quelle fazioni che appresso diremo, come verranno.
Ora volgiamoci a Gaddalì, che lieto dei seimila, lietissimo del grande e forte naviglio di guerra conquistato, ed uso (come egli era) di circoncidere a forza i giovanetti cristiani per fargli turchi, non poteva omettere di falsare il bastimento romano per renderlo piratico. Però coi maggiori della sua brigata, e numeroso equipaggio, e molte bandiere rosse, e stelle, e lune e scimitarre, vi montò sopra, e lo dichiarò ammiraglio delle sue dodici fuste, colle quali alla buona stagione dell'anno seguente riprese il corso, pensando che la fortuna propizia avrebbe a crescergli nuovi e più splendidi guadagni. Or qui gli avvenne il rovescio de' suoi pensamenti: e ciò per la bravura di un tale, che appresso abbiamo a vedere successore di Paolo nel governo della marineria romana. Fatto per più ragioni del passato e del futuro, da non doversi preterire.
[22 aprile 1519.]
Andrea Doria in quest'anno continuava a servire la repubblica di Genova col modesto titolo di capitano del porto, come a dire comandante di quelle quattro galèe che i Genovesi solevano tenersi armate da presso per la difesa del loro commercio. Le galèe erano delle sforzate, cioè fornite di gran numero di rematori condannati all'opera pubblica: e sapendo che Gaddalì veniva baldanzoso colla capitana contraffatta, minacciando gran cose contro tutti i naviganti, propose ed ottenne da quei signori di poterne armare in fretta altre due di bonavoglia, cioè con rematori condotti a prezzo e a tempo fisso, come altrove dirò. Così prese il mare e corse tanto che la mattina del ventidue d'aprile, vigilia di san Giorgio protettore dei Genovesi, essendo sopra alla Pianosa, videsi venire incontro la squadra di Gaddalì col vento freschissimo da Scirocco. E pensando Andrea che non avrebbe combattuto bene colà contro all'audace nemico, avvantaggiato dal numero e dal vento, fece le viste di fuggire, seguitato sempre dai pirati fino al capo di sant'Andrea, che è la estrema punta occidentale dell'Elba. Ivi egli divisava girare a levante per quella risvolta, ben da lui conosciuta, e così guadagnare il vento, e compensare la disparità del numero, dei legni e della gente. Presso al capo, il Doria orzò a raso; e Gaddalì comprese, quantunque tardi, la manovra; e come la navigazione di lui non era per fuggire, ma per tirarselo appresso infino a tal parte dove potesse facilmente voltar faccia, e con maggior vantaggio assalirlo. Laonde il pirata guardossi bene dal doppiare il capo: anzi venutagli meno la speranza nella supposta fuga di Andrea, cominciò esso stesso daddovero a fuggire, mettendosi a remo contro vento; perché la più parte de' suoi legni eran sottili, di gagliardo palamento, e capaci di tenere la rotta per ogni rombo.
Allora il Doria mainò tutto: e mostrando alla sua gente il nemico in fuga ordinò similmente voga arrancata contro di lui, dicendo aperto essere persuaso che la giornata gli darebbe vittoria. E perchè le ultime due galèe armate di fresco si vedevano al remeggio più tarde delle altre, aggiustò loro il rimburchio di due galèe sforzate, mettendole tutte quattro agli ordini del conte Filippino Doria, suo luogotenente, ed uomo, di cui poteva essere certo certissimo che non lo avrebbe mai in nessun caso abbandonato. Esso intanto colla capitana e la padrona scorse avanti: non già alla maniera del Portondo e degli altri per combattere da solo; ma per provocare il nemico, per traccheggiarlo col cannone, e per trattenerlo infino a tanto che le sue conserve potessero essere vive sul posto. Nondimeno contro sua volontà fu costretto a difendersi un quindici minuti da cinque legni che gli si erano gittati addosso, e la padrona similmente a difendersi da tre, prima che Filippino, scioltosi dai rimburchi, potesse mettere in battaglia altre due galèe, e finalmente le ultime due. Le quali non di meno con gente fresca, libera e arrabbiata, più risoluta di menar le mani che i remi, tanto volonterosamente dettero dentro, che dopo un'altra mezz'ora di ferocissima mischia, dove caddero moltissimi dei Genovesi e cinquecento dei pirati, ebbesi piena vittoria. Presi, da tre fuste in fuori che si dierono alla fuga, tutti i legni nemici: molti pirati prigionieri, molti cristiani riscattati, e riscossa dopo sette mesi la capitana di Roma. Vittoria veramente segnalata, e conseguìta per arte marinaresca e per bravura militare: vittoria che, oltre all'onore, fruttò il grandissimo beneficio di togliere di mezzo quel terribile Gaddalì, di frenare l'oltracotanza dei pirati, e di mettere un po' di sicurezza tra i naviganti[169]. Qualche scrittore moderno ha errato di anticipazione, mettendo questo fatto all'anno diciassette[170], perché successe precisamente li ventidue d'aprile del diciannove, come dice il Giustiniani, contemporaneo e accuratissimo scrittore; e come risulta dalla riscossa della capitana di Roma, e dalle lettere del Bembo citate avanti, che portano data certa.
X.
[Gennaio 1520.]
X. — Ora uno sguardo all'Europa, e ai tre monarchi maggiori che stanno per metterla sossopra: dovremo poscia lungamente con loro travagliarci. Francesco re di Francia, presuntuoso, cavalleresco, fantastico, freme di sdegno, perchè disgradato da Carlo e dagli elettori dell'imperio: Carlo imperatore e re di Spagna, cupo, despota, battagliero, minaccia di conquidere il rivale, perchè non resti più che un solo possente in Europa: e Solimano, detto dai Turchi il magnifico, altiero, fanatico e conquistatore, vagheggia tra le altrui discordie l'ingrandimento della casa sua. Terribile triumvirato, che riepiloga in sè tutti i pregi e tutti i difetti di tre nazioni.
Facendo principio da Solimano, succeduto in quest'anno a Selim, eccolo per ragion di stato tutto rivolto all'amicizia e alla esaltazione dei pirati, divisando per opera loro dilatare le conquiste in Europa contro i Cristiani, e in Africa contro i Musulmani: eccolo con tutto lo sforzo apprestare formidabile spedizione, principalmente inculcatagli dal padre, contro i cavalieri di Rodi. Dall'altra parte vediamo il principe Fabrizio del Carretto, grammaestro dei Gerosolimitani, oltre al crescere le forze sue ed oltre all'ordinare lavori di fortificazione, come meglio si parrà nell'assedio, continuamente sollecitare e chiedere dai principi di ponente gli ajuti necessarî a potersi difendere. Di che papa Leone più che mai desideroso, volendo per debito del suo ufficio contentarlo, ordina a Paolo Vettori l'armamento di tre galeoni, e l'immediato trasporto di validi soccorsi nell'isola. Antichissimo è in Italia il nome e l'uso dei galeoni: ne parla il Caffaro con altri cronisti più rimoti[171]. Pensate sorta di bastimento misto, e quasi intermedio tra nave e galèa; a similitudine di questa avrete il taglio allungato, ed a similitudine dell'altra il corpo di alto bordo: in somma nave lunga e galèa grossa. Ponevano i costruttori principalmente la mira alla solidità dello scafo, ed alla velocità del corso: massiccia l'ossatura, lunga la chiglia, stretto il piano, e due castelli di gran rilievo a poppa e a prua, che davangli figura arcuata, simile al quartieron della luna. Quattro alberi verticali; due quadri a proravia, e due latini a poppavia: le vele di civada e di contraccivada sotto al bompresso; e sopravi alcuni flocchi, che chiamavano quarnali e quarnaletti, perchè issati con paranchi a quattr'occhi. Dunque albero maestro e trinchetto colle gabbie e gabbiette quadre; arbori e antenne latine colle due mezzane: capacità di due o tremila tonnellate. Durante il secolo decimosesto venivano crescendo di numero i galeoni, e si facevano di maggiore importanza per la navigazione delle Indie, dove gli Spagnoli e i Portoghesi usavano mandargli non così solamente pel traffico, che non fossero al tempo stesso capaci di stare in battaglia e difendersi da soli e in convoglio, con cinquanta e più pezzi di artiglieria grossa distribuita nel primo e nel secondo ponte e nei castelli, oltre alla minuta della tolda e delle gabbie[172]. Sul tipo dei galeoni, verso la fine del cinquecento, sursero le prime costruzioni dei moderni vascelli.
[Giugno 1520.]
Con tre bastimenti di questa specie sciolse le vele da Civitavecchia il capitano Paolo Vettori, menando seco per luogotenente il cavaliere Battista Nibbia, numeroso equipaggio, munizioni, artiglierie, e tre compagnie di ducencinquanta fanti l'una, gente sceltissima, e accolta con gran festa dai Cavalieri, e perchè mandata dal Papa, e perchè davano mostra di utile soccorso[173]. Poco dopo sopravvennero quattro brigantini, quattro barche, e nove galèe di Francia, sotto il capitano Bertrando Dorvesan signore di san Blancars; il quale insieme coi Romani si trattenne in Rodi per tutta l'estate, e sempre al corso per le marine dell'Asia contro quei bastimenti piratici che erano stati licenziati da Solimano a tentare i primi colpi e le prime scoperte contro l'isola. Molti gli scontri avventurosi: e specialmente lodata l'arte e la bravura degli ausiliarî nell'attaccare e distruggere tutta l'armata di un principalissimo pirata turco, come ne scrive al cardinal de' Medici il Grammaestro di Rodi.
Tra la ricchezza di questi fatti accennati a pena per le generali, languisco di stento come fanno i cronisti, senza poter colorire il mio racconto di quelle composizioni prospettiche, che a modello ci hanno lasciato gli storici classici. Mancano i particolari: però non mi è dato svolgere nè teoremi nautici, nè principî strategici, nè applicazioni tattiche; nè rilevare il discorso per le circostanze necessarie, per le cause intrinseche, e per gli effetti naturali. Perdonino i gentili e discreti lettori, cui mi studio fare intendere i pensamenti miei senza tediarli, se non posso altrimenti soddisfare al loro desiderio ed al mio: ed in vece si contentino della seguente lettera del Grammaestro, il cui originale latino, che non ripeto perchè pubblicato altrove per le stampe, così parla[174]:
[25 agosto 1520.]
«Al reverendissimo padre e signore, signor Giulio della santa romana Chiesa, e del titolo di san Lorenzo in Damaso prete cardinale de' Medici, vicecancelliero, e protettor nostro, signore osservandissimo. — Reverendissimo ecc., premesse le raccomandazioni nostre umilissime. Sì come abbiamo già scritto a vostra Signoria reverendissima, è venuto qui in Rodi il magnifico signor Paolo Vettori, capitano della marittima squadra di nostro Signore, con tre galeoni per darci soccorso nel caso che avessimo dovuto essere assediati, come a ragione si temeva. Il prelodato Capitano si è trattenuto con noi, sempre desto nel cercare le occasioni di renderci i maggiori servigî; ed è riuscito felicemente (dappoichè niuno è venuto ad assediarci) nell'impresa di combattere e distruggere i navigli di un principalissimo pirata turco, secondo la richiesta e gli indizî che noi gli avevamo dati. Egli è uomo prode, generoso, e tutto inteso a fare cose degne del nome cristiano ed onorevoli a nostro Signore. Sentiamo perciò l'obbligo della gratitudine alla Signoria vostra che ci ha procurato il predetto soccorso, e inviatoci tale egregio Capitano che ha fatto in ogni cosa il nostro piacimento, così che nulla potevamo desiderare che egli di presente non facesse a lunga pezza più in là di ogni nostro desiderio. Se fosse stato nostro confratello, e cavaliero dell'Ordine, non avrebbe potuto far di più. Laonde ci protestiamo obbligati a lui, e ne rendiamo grazie a vostra Signoria reverendissima che ad un tratto ci ha conferiti tanti favori. La supplichiamo ancora a volersi degnare di continuarci il suo valevole patrocinio; del quale, se non avrà da noi corrispondente guiderdone, chè siamo impotenti a tante grazie debitamente compensare, ne avrà dall'altissimo Iddio, di ogni opera buona largo compensatore, in questo e negli altri secoli la dovuta mercede. Esso intanto felicemente conservi la vostra Signoria reverendissima. Dato in Rodi, addì venticinque d'agosto 1520. — Umile servitore il Maestro di Rodi fra Fabrizio.»
[Sett. ott. 1520.]
Venuto l'autunno, e cessato ogni sospetto d'assedio per quella stagione, anche per essersi Solimano rivolto contro Belgrado in Ungheria, Fabrizio diè congedo a Paolo; e in segno di gratitudine gli pose sul petto una collana d'oro di mille scudi da portare nelle solenni comparse per amor suo: agli altri ufficiali fece altresì ricchi presenti, secondo il grado di ciascuno, distribuendo anelli e vasellami d'oro e d'argento, con che onoratamente se ne tornarono[175].
XI.
[8 maggio 1521.]
XI. — Torneremo ancor noi a Rodi tra poco: ma intanto dobbiamo volgerci a Carlo e a Francesco, e con essi alle nostre guerre intestine d'Italia, divenute oramai perpetue: guerre che ci tolgono ogni lieta prospettiva, e ci rendono le vittorie e le sconfitte egualmente pesanti. Francesco, trovandosi troppo esposto alle insidie di Carlo, studiava modo di potersi almen colle armi assicurare: e per converso Carlo, tanto politicamente coperto, quanto l'altro militarmente ardito, aspettava di esser provocato, per mostrare al mondo la sua gran ragione di opprimere a un tratto il rivale. Questi umori già acerbi, e sempre più guasti dal tempo e dai mestatori, scoppiavano finalmente l'anno ventuno in guerra generale; che, cominciata in Navarra, si stendeva mano mano alle Fiandre e all'Italia. I Fiorentini e il Papa (tutt'uno in quel tempo) si dichiararono per Carlo contro Francesco; chè Leon dei Medici, dopo la prigionia di Ravenna, niuna cosa più ardentemente desiderava, quanto cacciare da Genova, da Milano, e da tutta l'Italia i Francesi[176]. Marciavano le fanterie tedesche e le spagnuole contro Milano, ed uscivano insieme da Bologna e da Reggio le milizie papali col famoso Guicciardini, al quale si accostava Prospero Colonna e Federigo Gonzaga con fiorito esercito di fanti italiani, più dieci mila Svizzeri assoldati dal Papa.
Al tempo stesso si preparava in Civitavecchia la consueta armata navale per isbalzarli da Genova, dove tenevano piede fermo, sostenuti dalla fazione dei Fregosi e dei Doria. Per converso gli Adorni, i Fieschi e tutti gli uomini principali del partito contrario convenivano secretamente in Civitavecchia al fine di intendersi e di armarsi in quel porto; donde disegnavano movere improvvisamente contro Genova, sorprendere la città, e mutare lo stato. Dicevano essere gli avversari negligenti, sprovveduti, odiosi al popolo: dicevano che per l'autorità e clientela propria i partigiani, senza contrasto, alla prima comparsa piglierebbero l'armi, e leverebbero il rumore, per introdurli. Tornano sempre le istesse fantasie dei fuorusciti.
Con questi intendimenti, zitti e presti allestivano in Civitavecchia l'armata: quattro galèe e due brigantini del Papa, altrettanti legni di Carlo chiamati da Napoli, e sei dei fuorusciti, diciotto bastimenti in tutto, sotto gli ordini di Paolo Vettori[177]. Ed essendo i collegati padroni di tutti i luoghi e porti vicini, avevano così bene isolata la Liguria, e rotte tutte le comunicazioni per mare e per terra, che non solo non trapelò mai in Genova niuna notizia di ciò che in Civitavecchia si preparava, ma passarono venti giorni senza che entrasse in quel porto nè lettera, nè messaggero a recar novella d'oltre i confini.
La quale straordinaria diligenza, come riempì di maraviglia tutta la città, così in vece di celare i disegni degli aggressori e di addormentare i Francesi, produsse l'effetto contrario di viemeglio riscuoterli. Specialmente fu desto il doge Ottaviano Fregosi, uomo scaltrito, il quale non lasciò di premunirsi contro ogni subitaneo e inopinato movimento: cavò soldati dalle terre circostanti, rinforzò le guardie, armò le fortezze di terra e di mare, vi pose capitani di fiducia, distribuì le armi ai partigiani, fece sorvegliare i contrarî, e si tenne pronto e risoluto a resistere contro chiunque volesse assaltarlo[178].
[3 agosto 1521.]
In quella salpavano da Civitavecchia i collegati, navigando al largo in alto mare per non essere discoperti. Ma la cosa era già chiara, come ho detto: e per soprassello la mattina del tre di agosto all'altura di capo Côrso, avendo dato gran caccia a una saettìa genovese, senza poterla raggiugnere, dierono occasione a costoro di correre per rifugio in Genova, dove subito trombarono il pericolo imminente. Onde la città di presente fu in arme, chiuso il porto, guardato il muro da ogni parte, e la spedizione al tutto vana. Indarno si accostarono: indarno vociarono san Giorgio e popolo. Perduta la speranza principalmente fondata nella sorpresa, si tolsero giù di là, e sbarcarono a Recco le fanterie. Le quali facilmente occupata Chiavari e la Spezia, e valico l'Appennino, andarono a congiungersi in Lombardia con Prospero Colonna. Appresso l'armata navale se ne tornò col Vettori verso Civitavecchia[179].
[16 novembre 1521.]
Ora la diversione sopra Genova, quantunque non producesse subito e direttamente l'effetto voluto dai collegati, nondimeno giovò agl'interessi loro più che non avessero pensato. Imperciocchè le fanterie sbarcate dalle galere sulla riviera di levante giunsero improvvise alle spalle dei Francesi in Lombardia, sgominarono le loro linee, e accrebbero le forze di Prospero Colonna capitano generale degl'Imperiali. Il quale con esse, e con Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara, entrò vittorioso in Milano il sedici di novembre: ed ambedue l'anno seguente di viva forza espugnarono Genova, e portarono a compimento il disegno.
[1 dicembre 1521.]
Intanto le notizie della prima vittoria ottenuta in Milano e l'acquisto di Parma e Piacenza, correvano da ogni parte, e papa Leone ne pigliava incredibile allegrezza[180]. Egli era in villa alla Magliana, quando gliene venne l'annuncio: e là in mezzo ai cavalieri ed ai soldati della sua guardia, che per proprio sollazzo e per secondarne gli umori facevano festa e gazzarra con spari, e suoni, e fuochi notturni, prese quella infreddatura, per la quale, cresciuto lo strapazzo anche in Roma nel rinnovare di giorno e di notte le feste medesime, improvvisamente soffocato dal catarro morissi la notte del primo dicembre, giovane ancor di quarantasei anni[181].
XII.
[9 gennajo 1522.]
XII. — Dunque grandi novità in Roma: e prima d'ogni altra ai nove di gennajo l'elezione di un papa fiammingo, che non aveva mai veduto nè Roma, nè l'Italia. I Cardinali acclamarono il nome, da niuno aspettato, di Adriano vescovo di Tortosa, uomo di piccola nazione nato in Utrecht presso al mare di Fiandra, pe' suoi meriti e per la sua virtù onorato da tutti, e specialmente dall'imperatore Carlo V, che lo aveva avuto a maestro[182]. Il nuovo eletto trovavasi allora in Biscaglia, governatore e visitatore dei regni di Spagna a nome del detto Carlo; dove avendo ricevuto per mezzo del secretario del cardinal Carvajal notizia certa della sua elezione, e deliberato di accettarla per togliere la Chiesa dai pericoli della rinuncia, conservò l'istesso suo nome, e si fece chiamare Adriano VI.
[Aprile 1522.]
Intanto i Cardinali, compiuto il rito dell'elezione, si erano diviso tra loro il reggimento dello Stato, infino a che l'eletto non venisse in persona a pigliarne le redini: ed in questo mezzo avevano confermato Paolo Vettori nel carico delle galèe, dando a lui medesimo la commissione di navigare in Spagna, e di servire papa Adriano nel viaggio che certamente avrebbe fatto dalla parte del mare, non parendo conveniente di metterlo a traverso ai paesi sconvolti dalle guerre delle due nazioni. Quindi Paolo, fornitosi a dovere, sciolse le vele da Civitavecchia, con quattro galèe e un brigantino, menando seco il cardinale Cesarino e il Colonnese, ambasciatori ambedue deputati dal sacro Collegio e dal Popolo romano a presentare solennemente il decreto dell'elezione nelle proprie mani del novello Pontefice, ed a confortarlo alla venuta. Così il naviglio da papa Leone per altro fine apparecchiato tornò utilissimo, quando men si pensava, per condurre a Roma il successore. Tanto meglio che molti opinavano, e taluno ancora apertamente diceva, ogni indugio doversi stimare pericoloso, come principio di sentire la residenza della romana Curia un'altra volta in lontane regioni trasferita[183]. Perciò Paolo navigò di lungo a Barcellona, dove ebbe avviso che Adriano, partitosi di Vittoria, a piccole giornate era venuto in Saragozza coll'intenzione di scendere a Tortosa sull'Ebro, e di là imbarcarsi per l'Italia. La navigazione, descritta giorno per giorno dal canonico don Biagio Ortisio, seguace e familiare del nuovo Pontefice, ci somministra per buona ventura alcune notizie attenenti alle cose del mare: e perchè segna sempre i punti di partenza e di arrivo e di passaggio coi particolari del luogo e del tempo, ci apre la via a talune considerazioni storiche, filologiche e nautiche, le quali non potrebbero altrove appoggiarsi se non sul fondamento dei fatti certi, e sulla stabilità delle cause, degli effetti, e delle circostanze, secondo ragione di storia tecnica[184].
[8 luglio 1522.]
Martedì otto di luglio sull'ora di vespro sorgevano a ruota sur un'áncora di leva nel golfo dell'Ampolla presso Tortosa le quattro galèe e il brigantino papale agli ordini del Vettori, più quattro galèe di Spagna comandate dal capitano Giovanni di Velasco; ai quali bastimenti si unirono nel proseguimento del viaggio altri ed altri, che a gara desideravano fare servigio e rendere onore al Pontefice. Venuto Adriano sul lido, tuonavano le artiglierie della squadra, battevano al vento le bandiere, salivano a riva i marinari, e davano la voce del plauso, secondo gli antichi costumi[185]. In quella il Pontefice montava sulla capitana del Vettori, e in un tratto saliva l'áncora, e sguizzava il legno sotto la sferza del palamento: tutti gli altri per simile manovra appresso, e tutti a remo infino a Tarragona essendo il vento debole e contrario. Or tu nel tragitto sui rivaggi di Catalogna, senza sbigottimento di tempesta nel mese di luglio a ciel sereno, guarda sul mare. Ampia distesa di azzurro pieno e vivo; e dalla parte del sole vedi larga distesa di luce tremolante sull'acqua, come fiume d'oro liquido; e appresso ai legni nove striscie bianchissime, visibili a lunga distanza, dovunque pel movimento progressivo abbiano essi aperto il varco al loro passaggio. Per questa ragione i marinari con voce nostrana, (non celtica) chiamano Rotta il loro cammino; e intendono rompimento, ciò è dire la via che fa il naviglio rompendo l'acqua del mare. Via diversa da ogni altra; e però da esser distintamente espressa con nome speciale: via che non ha nè spazzo nè lastrico, via che non si fa altrimenti se non rompendo e spostando l'acqua colla carena; come non si fa viaggio d'inverno tra le montagne se non rompendo e spostando la neve colla pala; di che pur nelle alpi di Toscana ed altrove si dice far la Rotta. Per questo non peritaronsi il Manuzzi ed il Fanfani di confermare ai marinari, almeno indirettamente, l'uso legittimo di questa voce, registrandone il composto Dirotta e il verbo Dirottare[186]. Ma vuolsi esser cauti nel coglierne il proprio senso, perchè il Dirotto ha sempre nel suo concetto qualcosa di strabocchevole e disordinato; e non si userebbe bene nè Dirotta nè Dirottare (secondo l'esempio medesimo del Sassetti[187] ) se non per viaggio di navigli fuori della rotta assegnata, perdendo le conserve, contro l'intento e l'istruzione del comandante superiore della squadra o del convoglio. Quindi la navigazione ben ordinata sarà sulla rotta, non alla dirotta: e così usano adesso ragionevolmente i marinari.[188]
Torna ora coll'occhio sul solco visibile appresso alla tua rotta, e il piloto ti dirà essere l'effetto della carena che nella sua corsa fende l'acqua del mare, come il vomero tratto da' buoi fende le glebe sul campo; e ti dirà essere continuamente mantenuto dal ritorno laterale delle acque istesse, che dopo passato il legno si gettano del continuo nel cavo aperto da lui per rimettersi a livello, secondo la natura dei fluidi. Ti dirà che il vertice di quel solco è al tagliamare, i filoni sul rilievo dell'acqua attorno ai due fianchi, il vortice dietro alla poppa dove i filoni vanno a riunirsi; e ti mostrerà la traccia che rimane sull'acqua visibilissima anche in tempesta, alla distanza di mille metri, più o meno, secondo la velocità del bastimento e lo stato del mare. Ti dirà che i marinari non dicono solco, ma Scia; perchè non è fossa uguale in tutto a quella dei campi dove la terra resta come l'aratro la lascia; ma al contrario nel mare l'acqua ricade dopo il passaggio del bastimento, cercando sempre come fluido l'equilibrio di livello. Ti dirà che la voce Scia, derivata dai Pelasghi, comune ai Greci e ai Latini,[189] dura sempre tra' marinari italiani nel significato proprio di traccia lasciata sull'acqua dal bastimento in moto progressivo, e che le molteplici varianti dei dialetti[190] viemeglio confermano la ortografica lezione di Scia.[191] Onde Sciare assolutamente, per tornare indietro sulle proprie tracce; Sciare alla banda, per girarsi sul posto; Scione per groppo o nodo di vento contrario rabbiosissimo e subitaneo che ti ricaccia indietro sulla scia, a rischio di fiaccarti l'alberatura e di profondarti nel pelago; e Scionata per colpo del detto scione.
Che se darai segno di intendere e di gradire questi ragionamenti, l'istesso piloto colla cortesia e franchezza propria del marinaro ti scorgerà dall'altra parte alla testa del naviglio, per mostrarti il principio di questo fenomeno in quella che dicono Prora fluida; cioè in quel volume d'acqua che si solleva proprio alla prua del bastimento, e gli si rovescia innanzi quando cammina. Monta sul graticolato, e tra i balaustri del bàtolo vedi volume d'acqua premuto a un tempo di fronte dal bastimento corrente, ed alle spalle dalla circostante massa inerte; volume costretto dalle due forze a sollevarsi nel mezzo davanti al tagliamare ed al petto del naviglio che lo investe. Vedine la figura di grande catino rovescio, col convesso all'insù, e la superficie di regolare emisferio: vedine il colore più e più scuro, ma liscio e lucente come di acciajo brunito: e laddove i labbri del catino ritrovano il livello delle acque circostanti, quivi frangersi, arruffarsi, schiumare, fuggire, e correre pei lati fino a rimescolarsi nel vortice della scia. Tieni pur sempre l'occhio fisso al tagliamare, e quel catino rovescio è sempre lì, e quelle schiume dei lati fuggono sempre di là, e il volume cresce o scema, secondo la velocità del naviglio, tanto che segue il suo cammino. Ma se una volta il bastimento si arresta, allora da sè a un tratto catino, labbri, spuma, filoni, e ogni cosa sparisce alla prua. Osserva i fatti sul gran libro della natura; ed essa ti sarà guida a ragionare e a calcolare più dei maestri. Procedi col metodo di Aristotele e di Galileo, così per ordine: prima l'osservazione, poi il raziocinio, e finalmente il calcolo; non a rovescio, come fanno certi cotali oggidì. Altrimenti la ragione si appoggia sul vuoto, e dal calcolo non caverai un punto più di quanto vi hai messo. Questo io ripeto in genere delle scienze naturali, e specialmente dell'applicazioni loro all'arte nautica; cui, dopo lungo studio e non ignobil pratica, soglio dir mia. Siami concesso lasciar correr questi pensieri filologici e tecnici come gli ho scritti sul mare, ritraendoli del vero nella sostanza e nei particolari, donde soltanto può essere che venga un po' di freschezza e di vita al discorso, trattando argomento difficile, senza menomarne punto di esattezza e di verità. Per certo non fo maggiore assegnamento sugli artifizî oratorî, che sulle dottrine positive: però metto fatti nuovi e antichi, ragionamenti, specchi, e numeri. Lascio ai novellieri tutta la leggerezza della follìa romantica, e ai rètori la licenza di menare le onde in tempesta giù all'imo tartaro, e di sollevarle poscia (gonfiando le trombe) insino alle stelle.
[5 agosto 1522.]
La dimora di Tarragona si prolungò quasi un mese per ispedire gravi e urgenti affari di Spagna, e per raccogliere alcune fanterie che Adriano aveva fatto scrivere a rinforzo della squadra e della guardia. Finalmente la sera del cinque d'agosto, essendo ogni cosa in punto, riprese la via del mare; e con lui sulla capitana il cardinal Cesarini, don Lopez Hurtado vicario imperiale, il duca di Sessa, il conte di Cabras, l'ambasciatore d'Inghilterra, l'orator di Milano, il legato di Ferrara, il vescovo di Feltre, e buon numero d'altri prelati e baroni, che a gran diletto navigando approdarono il dì seguente sull'ora di vespro in Barcellona. Era la bella capitale di Catalogna tutta in festa per rimeritare l'onore inusitato della visita papale. Oltre al concorso di tutte le classi dei cittadini sul porto, oltre alle salve dei castelli ed al rintocco delle campane, avevano ordinato archi trionfali, e molti edifizî magnifici e belli; ed un nobile ponte alla marina, coperto di ricche drapperie. Temendo però non forse avesse a rovinare, carco come era di infinito popolo, non volle Adriano mettervi il piede; ma in quella vece si fece condurre dal palischermo agli scali del molo vecchio, sotto al Mongiuì: indi tra la folla mescolatamente e sempre a piedi si avviò verso la cattedrale di santa Eulalia. Il molo nuovo, che ora forma la parte migliore del porto, non esisteva in quel tempo, perchè gittato alla fine del cinquecento, come ricorda il celebre ingegnere idrografico della marineria papale Bartolommeo Crescentio nel suo Portolano, con queste parole[192]: «A ridosso sotto Mongonìa vi è bonissimo riparo da Ponente e Libeccio; ma oggidì sotto al molo nuovo di Barcellona vi stanno meglio, essendo ben ormeggiate. Le prime galèe che ivi hanno dato fondo, e detto la prima Messa, sono state le galèe pontificie».
Dalla chiesa sarebbesi Adriano incontanente rivolto al porto, se una buriana improvvisa con tuoni, lampi, e gran pioggia non l'avesse costretto a riparare nel palagio del vicerè, dove fu servita la cena. Lasciate ai marinari la voce Buriana, che non può essere sostituita da altre voci, per indicare quelle specie di temporalaccio che in piccolo spazio e per breve durata con certa accozzaglia di nugoloni si scarica in pioggia sopra un luogo determinato, quando lì vicino sarà bellissimo tempo. Succede per lo più di estate, e col vento più sereno del luogo, per esempio tra noi succede colla Tramontana o Borea, donde gli venne il nome[193].
Dunque dopo la buriana, fattosi al solito sereno il cielo e tranquillo il mare, Paolo Vettori sparò il cannone della partenza: segno prescritto a tutti di doversi incontanente rimbarcare. Adriano levossi tra i primi con alquanti famigliari più solleciti; e a lume di fiaccole andò ciascuno al palischermo assegnato per le rispettive galèe. I neghittosi che durante lo spazio di tolleranza dentro un'ora non furono presti al convegno, ebbero a battersi l'anca sul molo di Barcellona, a venire per altra strada, o a tornarsene alle case loro[194]. Intanto il convoglio papale costeggiando la Catalogna, raccoglievasi ogni sera in alcun porto di quelle marine: il giovedì sette di agosto a san Paolo, il venerdì alla Calella, il sabato a san Felice, la domenica alla Rosa, schivando di proposito il porto delle Palme, perchè infetto dalla peste. Finalmente il giorno appresso spuntarono il capo delle Croci, ultimo confine orientale delle coste iberiche[195].
[12 agosto 1522.]
Ecco dinanzi le riviere della Francia, ed ecco attorno le rivalità della Spagna. I consiglieri di Carlo V, stretti a' fianchi dell'augusto viaggiatore, posero e vinsero il partito che niuno del convoglio, nè legno nè persona, dovesse accostarsi o discendere nelle terre del re Francesco: perciò volsero le prore ad alto mare, tirando a golfo lanciato dal capo Creus alle isole di Hyeres, allora disabitate pel continuo infestamento dei pirati musulmani[196]. Francesco aveva preveduto il tiro degli avversarî: e non volendo scapitar di riputazione, nè smentire il nome di gran cavaliere, che tutti gli davano, impegnò parola reale e diè fede pubblica di libero transito per terra e per mare a chiunque avesse voluto seguire il Pontefice; e molti della famiglia ne fecero la prova, passando anche per terra con carri e bagaglie senza molestia, anzi ricevendo in ogni parte da tutti e specialmente dai regî ministri cortesie e favori[197].
Intanto il convoglio traversava di lungo il golfo Lione, navigando tra cielo e mare due giorni e due notti. Secondo il costume militare, la mattina gli ufficiali riconoscevano la presenza e posizione di tutti i legni, issavano le bandiere, mutavan la guardia della diana, pigliavano l'amplitudine del sol nascente, la declinazione della bussola, la rotta corretta: appresso il servigio di lavanda e di nettezza. Sul mezzodì segnavano i rilievi del sole in altezza, e con essi la latitudine precisa e l'ora di bordo. La sera alla preghiera in comune[198]: e dato il nome di riconoscimento per la notte, i viaggiatori metteansi al riposo, ed i piloti vigilanti guidavano pel corso degli astri i navigli al loro destino. In ogni tempo l'altezza del sole e delle stelle, specialmente delle polari, hanno dato ai naviganti la latitudine: e sempre la culminazione della luna, le sue distanze dalle fisse, le effemeridi e gli orologi, han dato più o meno precisa la longitudine; e quindi il punto di bordo corretto, secondo la stima e secondo l'osservazione. Prima del sestante usavano la balestrina e l'astrolabio, prima dei cronometri le ampollette e la clessidra, e prima della bussola il pinace. Con questi argomenti dettero precetti Tolommeo ed Ipparco; senza cronometri e senza sestanti Colombo scoprì l'America; e calcolando sulle stelle Annone, Palinuro, Tifi, e tutti gli antichi navigarono in altura. A questo proposito non posso tacere di un fatto recentissimo, che conferma l'altro antichissimo da me già stampato intorno al Pinace, o bussola pelasga[199]. Un bravo capitano A. Grubissich del Lloyd austriaco, venendo dalle Indie nel 1872, ed essendoglisi impazzate tutte le bussole di bordo, costruì tale uno strumento che ne faceva le veci, tuttochè privo dell'ago calamitato: insomma navigò in altura col Pinace alla maniera dei Pelasghi. Tanto è vero che gli uomini, messi nella medesima necessità, ritornano sempre alle stesse cose! L'ingegnoso ripiego del Grubissich parve così importante alla commissione marittima di Trieste, che ne volle pubblicata la regola per governo dei capitani in caso simile; e il Direttore della Gazzetta ufficiale del regno per la stessa ragione la fece ripetere in Italia[200] Ma che? Forse forse dalle osservazioni astronomiche e dirette ogni giorno non riconosciamo noi le variazioni della bussola magnetica, e le anomalie ordinarie, e le perturbazioni eccezionali, e le irregolarità prodotte dai luoghi, dai tempi, dai metalli circostanti, e da tante altre influenze non altrimenti correggibili se non coll'ajuto degli astri? Dunque il Pinace aggiustato al sole ed alle stelle risponde sempre come bussola astronomica: e la bussola magnetica (certamente di gran comodità per tutti, massime pei rozzi timonieri) non è stata nè sarà mai di assoluta necessità pei grandi marini. Di' lo stesso d'ogni altro strumento novello, e intenderai meglio l'arte nautica degli antichi maestri[201].
XIII.
[13 agosto.]
XIII. — Ridottosi il convoglio all'isola di sant'Onorato, non avrebbero veduto faccia che di monaci e di pescatori, se non fosse comparso con una feluca il vescovo di Grasse a inchinare papa Adriano, portandogli in buon dato frutta, aranci e rinfreschi, graditi ai naviganti nella estiva stagione, come tutti sanno; e come pur ne scrisse l'Ortisio in lode del Vescovo a nome di tutti. Indi dalle deserte isole provenzali si accostarono finalmente alle ridenti riviere d'Italia, e presero terra in Villafranca. Quivi, perchè paese straniero, e fuori del temuto confine, era in punto uno ambasciatore del re Francesco, mandato a complire col Pontefice ed a mettersi nel suo seguito. Passarono oltre insieme, e fecero un po' di sosta innanzi a Monaco, essendo venuto riccamente e con grande onore di compagnia, Luciano Grimaldi, principe della terra, a pregare Adriano di voler discendere nel porto e riposare nella sua casa. Ma pel gran desiderio dei viaggiatori di esser presto in Roma, ne fu ringraziato; niuno volendosi più trattenere, che non fosse necessario per rinnovare le provvigioni e l'acquata.
E perchè meglio ognun veda quanto di questi minuti racconti nautici si può avvantaggiare la storia generale, narrerò il caso singolarissimo di Andrea Doria, di che indarno cerchereste altrove, sia nelle storie comuni, sia nelle particolari biografie di lui, antiche e moderne, dal Cappelloni al Guerrazzi. Certamente avrei desiderato, oltre alle scritture del Canonico spagnuolo, aver per le mani il giornale di navigazione del capitan Vettori e di qualche altro ufficiale del convoglio, e me ne sarei tenuto più ricco di notizie tecniche da farne copia anche ai miei lettori: ma perchè non mette conto il cercare quel che non si può avere, dirò di Andrea coll'Ortisio.
La notte del trenta di maggio di quest'anno Genova era stata presa e saccheggiata dalle milizie di Carlo V, e Andrea capitano di quel porto colle quattro galèe del suo comando aveva dovuto fuggirsi dalla patria, dove insieme cogli imperiali era entrata la fazione contraria degli Adorni. Ridottosi in Monaco, presso i Grimaldi aspettava gli eventi futuri, e viveva in esilio. Ciò non per tanto in quella occasione, vedendo tante feste per quei rivaggi, e concorrere a gara legni e persone intorno alla capitana del romano Pontefice, pensò cavare dal porto le sue quattro galèe, e venire in mezzo per salutare più degnamente cui tutti onoravano. Sciolse gli ormeggi, uscì fuori, schierò le galèe, spalò i remi, posesi in giolito, e prese a fare una bella salva d'artiglierie, e gala di bandiere, e tutti quegli altri rispetti che si usano in mare. Se non che gli Spagnuoli del corteggio, pieni di sospetto contro di lui, tanto notissimo avversario, quanto si era dimostro nel caso di Genova, presero le armi, caricarono a palla, e si apparecchiarono a combatterlo con sì grande circospezione e silenzio, che papa Adriano dalla sua camera nè pure se ne avvide. Ma lo notò bene l'Ortisio, che passeggiava in coverta dalla spalliera alle rembate; e meglio lo capì Andrea che squadrava da lungi, e ben intendeva i segni e gli umori. Perciò, salve, bandiere, voci, trombe: ma sempre alla larga. Poi sciascorre, aggiaccio alla banda, e via nel porto di Monaco[202]. Così mutano le condizioni degli uomini nel corso delle umane vicende, che quello stesso Andrea, il quale era tenuto lontano come pubblico nemico, tanto che nè pure all'ombra del pacifico stendardo papale non era lasciato, nè si ardiva egli medesimo, accostare per rendere onori e saluti, proprio desso aveva tra poco a essere capitan generale della marineria pontificia, e poscia comandante supremo ed arbitro di tutte le armate spagnole ed imperiali nel Mediterraneo; e doveva a un batter di ciglio far tremare quegli stessi che avevano caricato le artiglierie contro di lui. E ben egli sapeva apparecchiarsi all'avventuroso trionfo, superando le difficoltà oppostegli dagli uomini e dalla sorte: chè a dispetto degli avversarî volle cavarsi la voglia di essere a ogni modo innanzi al nuovo Papa, e di vederlo bene cogli occhi suoi. Staccavansi a ogni tratto da quella riviera feluche e navicelli pieni di signori e di popolani colle donne e co' fanciulli per ricevere dappresso la benedizione del Pontefice: tra tanta gente si cacciò mescolatamente anche Andrea in abito dimesso e spalleggiato dai suoi fidi; e così senza altrui sospetto, entrò ed uscì, vide e parlò, come aveva divisato[203].
Appresso, volendo Adriano liberarsi dai nojosi indugi delle visite di tanti sconosciuti, ordinò che il convoglio da quindi innanzi dovesse allargarsi da terra durante la giornata, e la notte soltanto accostarsi a qualche porto o ridosso per riposare quietamente, ed anche per assicurarsi dagli insulti dei pirati, che molti e arditissimi ronzavano intorno, tenendo il capitano Vettori, il Velasco, e gli altri in perpetui sospetti. Tutti i naviganti potevano in quei tempi vedere cogli occhi propri la desolazione delle riviere iberiche, francesi ed italiane per le pertinaci infestazioni dei ladroni: le spiaggie squallide, le isole disabitate, le capanne in cenere, i pescatori in fuga, e le fuste dei barbareschi a zonzo sul mare, sempre fuggenti innanzi ai legni militari, e sempre piombanti dovunque appariva facile la preda. Adriano istesso fremeva vedendosi costoro alla coda pei canali e attorno alle isole: ma non gli conveniva il dar la caccia, nè il crescere gli stenti e gli indugi del viaggio. Ciò non pertanto recossi ad onore il poter liberare dalle mani degli infedeli una grossa nave, già quasi da loro sottomessa; e senza troppo dilungarsi dal cammino, tener dietro a quei furfanti che fuggivano disperatamente dal suo cospetto[204]. Continue le guardie, le esplorazioni, e le cautele, in più luoghi ricordate dall'Ortisio[205]: «Ecco, egli dice, alcune vele alla vista. Bisogna aspettare che siano riconosciute dalle vedette. Ora mettono i pezzi in batteria, e i soldati pigliano l'armi. Avvisano fuste di Turchi. Dove molte isole, ivi cresce il pericolo dei pirati.» Però affrettiamci ancor noi al termine della navigazione, e mettiamo in compendio i giorni, i luoghi e i rilievi maggiori del viaggio.
Quattordici di agosto, vigilia della Assunzione, riposo alla cala di Santostefano presso a capo dell'Arma: Adriano di buon mattino celebra il sacrificio nella chiesa parrocchiale.
Quindici del mese, solennità dell'Assunta, in Portomaurizio: la Messa nella chiesa dei Minori, fuori di città per evitare la folla. Cinque galèe di Genovesi si uniscono al convoglio.
Sedici, stazione al capo di Noli.
Diciassette, ingresso solenne in Savona. Il nipote di papa Giulio accoglie nella sua casa il successore dello zio. Lautissima cena, e lodi dei cortigiani al buon gusto ed alla magnificenza dei signori della Rovere.
Diciotto all'alba, in Genova. La città costernata pel recente saccheggio accoglie il Pontefice con pietosa mestizia. L'Ortisio ricorda molti particolari non indegni, precedenti e seguenti l'espugnazione[206]
Diciannove, a Portofino tempesta e stazione per quattro giorni.
Ventidue a Portovenere. Armamento tumultuario: avvisano la comparsa di alcune fuste piratiche.
Ventitrè, presso Livorno. Incontro di cinque cardinali sur un brigantino: montano tutti sulla capitana ed entrano insieme col Papa nel porto.
Ventisei a levata di sole nelle acque di Piombino, sul mezzodì a Portercole, di mezzanotte all'altura di Civitavecchia.
XIV.
[27 agosto 1522.]
XIV. — E perchè a quell'ora i viaggiatori e il Pontefice riposavano in silenzio, essendo bellissima notte di estate, senza vento, quieto mare e ciel sereno, ordinò Paolo di calumare tacitamente le gomene fuori del porto, riserbando le visite, gli affari e il solenne ingresso alla mattina seguente. Già la sera al tramonto i guardiani del porto avevano scoperto in mare tra il Giglio e l'Argentaro da diciotto a venti vele; e il Governatore, avvisato in tempo, stava cogli altri alla torre del fanale, speculando se quelle fossero del convoglio papale, o di pirati, pronto ad ogni evento. Quando ecco venire avanti leggiadro e snello il brigantino del Vettori, e portar le notizie certe, e insieme gli ordini di avere ognicosa in punto pel solenne ingresso alla dimane[207].
Laonde nella notte i cirimonieri finirono gli apparecchi del ricevimento, con questo che la mattina seguente all'alba andrebbe a bordo l'arcivescovo di Cosenza, e insieme alquanti prelati e personaggi per la prima riverenza, e per invitare l'augusto viaggiatore alla discesa nel porto del suo Stato: poi se a lui piacesse, entrerebbe innanzi a tutti colla capitana presso al ponte coperto di seta e di porpora, per venirne agiatamente alla sponda: colà gli si darebbe a baciare la Croce, e quindi sotto baldacchino, accompagnato dai cardinali, verrebbe alla chiesa di santa Maria.
Così all'ora stabilita, che fu la mattina del mercoledì ventisette del mese d'agosto, tuonando le artiglierie della squadra, e rispondendo dal forte e dalla piazza; sciolte a gloria le campane della terra (che avevano a essere a ruota, di quella forma antica, la cui bellezza ammiravo io stesso da fanciullo), squillando le trombe e rullando i tamburi con grandi voci di plauso e di festa, entrò la capitana e tutte le altre galèe e navi nel porto[208]. Il Pontefice, sbarcato al ponte, e quindi dalla romana curia secondo il rito incontrato, cavalcò sopra la bianca chinèa tra numerosa schiera di personaggi e dignitarî, insieme coi visconti della città, sino alla chiesa principale; donde, ascoltata la Messa, si ridusse al suo palagio nella rôcca[209].
Stavano intenti gli uomini per vedere quale avesse a essere l'aspetto del nuovo Pontefice, e restavano tutti negli occhi e nell'animo ripieni della onorata presenza sua. Un bel volto, grave e verecondo, e molto riguardevole per santa letizia, che gli sfavillava dagli occhi; così che alle cortesie e profferte altrui, ed ai rallegramenti, rispondeva piuttosto tranquillo che giulivo; e con parlare dolce e dilettevole per la brevità e pel senno: di modo che non usando familiarità negli atti e nelle parole, non però fuor di proposito diceva cosa alcuna che fosse rozza o superba. Solo un neo posso rilevare dai contemporanei, ripetendo le istesse loro parole, che pareva ai cardinali ed agli altri avvezzi alle costumanze romane, che il nuovo Papa si portasse con loro poco domesticamente: perchè mangiava solo, e solo quando lo chiamavano a navigare tanto desiderosamente e in fretta scendeva alla marina, che non avvisava nè aspettava alcuno: e una volta i cardinali, che cenavano insieme, dovettero levarsi da tavola e corrergli dietro con poco decoro in gran fretta e confusione. Non dico nulla degli artisti, pittori, scultori e architetti: perchè costoro, già in auge con Leone e con Giulio, all'improvviso tutti messi da parte, non ci fanno maravigliare se ne hanno in più modi straziata la memoria oltre misura.
Egli intanto con alcuni più intimi, e tra essi l'Ortisio, visitava la città, specialmente la fortezza di Bramante non ancora condotta a compimento, visitava le fortificazioni imbastite dal Sangallo, le nuove artiglierie, la darsena, il porto, e presso la spianata della fortezza le antiche celle navali; di che oggi (se ne togli l'incorrotto nome latino della città) quasi non resta più vestigio. Ma allora duravano le forme dei cantieri cellulari, ricordati in questa visita dall'Ortisio, testimonio di veduta[210]; e fatti scolpire da papa Giulio nelle due medaglie commemorative della fortezza, edificata proprio in quel sito. Celle mal ripetute nelle tavole del Litta, del Bonanni, e di altri numismatici e incisori[211]; i quali, non sapendo che fossero quei segni minuti alla estremità della spianata sul lido, li ritrassero in figura di cespugli, di funghi o di scogli. Ma in sostanza, quantunque a piccolissimi punti, esprimono i seni incavati sul lido a rimessa di navigli; e me ne appello agli originali della zecca romana, ed ai campioni del cardinal Tosti che ho avuto per le mani, e più alla medaglia di Giulio III per l'istesse celle col motto[212]: «Porto e rifugio delle nazioni». In quest'ultima i medesimi seni spiccano senza equivoco, perchè a punti maggiori e rispondenti al soggetto principale della medaglia, come dirò largamente in alcun luogo. Basti intanto ricordare le forme, gli scrittori e i prolegomeni delle future dimostrazioni[213].
[28 agosto 1522.]
La sera istessa del ventisette il convoglio scioglieva da Civitavecchia, e la mattina seguente le sole galèe imboccavano la Fiumara con qualche stento: segno d'interrimento progressivo[214]. Le navi di alto bordo restavansi al largo; e papa Adriano con un palischermo procedeva rapidamente sul Tevere, ed entrava nella rôcca d'Ostia, ben accolto dal Carvajal, vescovo e castellano. Tra i grandi personaggi convenuti per incontrare il nuovo Pontefice al termine della navigazione, e per accompagnarlo la sera stessa al monastero di san Paolo, e il dì seguente con solenne cavalcata per entro alla città insino al Vaticano[215], non vuolsi tacere la presenza del cardinale de' Medici, grandemente affezionato all'Ordine gerosolimitano, cavaliero altresì e protettore del medesimo nella curia, il quale insieme col cardinal Cesarino e con molte ragioni dimostrava la necessità di mandare immediatamente gagliardo soccorso a Rodi, strettamente assediata dai Turchi. Ambedue pregavano che tutta quell'armata di navi e di galere, schierate sulla foce del Tevere, dopo aver così bene servito la Santità sua nel tragitto, dovessero essere di presente dirette alla difesa di una piazza tanto importante per la sicurezza del cristianesimo in Oriente[216].
XV.
[1520-22.]
XV. — La gelosia di stato fra Spagnuoli e Francesi, come tutti sanno, impedì la spedizione del soccorso. Checchè sia degli altri, andremo noi a Rodi per vedere da presso i grandi fatti che vi si compiono. Ce ne dà ragione l'importanza del subbietto, l'attenenza della nostra colla marineria gerosolimitana, la partecipazione dei successivi travagli, il soccorso portatovi nel venti, ed il ragionamento fattone or ora dai due Cardinali subito terminata la navigazione di Spagna.
Non fa mestieri ricordare lo struggimento dei Turchi nel desiderio di cacciare i Cavalieri dall'Oriente, e di pigliarsi l'isola di Rodi, per venire avanti sicuri colle conquiste in Germania e in Italia. Gran prova ne aveva fatto Maometto II l'anno avanti di morire; e poscia a quell'esempio Bajazet suo figlio, Selim suo nipote, e finalmente in questi tempi Solimano mostrava aperto l'animo suo di volere illustrare il principio del regno col sospirato acquisto. Dall'altra parte i Cavalieri allestivansi alle difese, e in cima dei loro pensieri tenevano le fortificazioni della capitale e della loro residenza. Sorta la nuova maniera di fortire, e fattasi sempre più certa l'intenzione dei Turchi di mettersi all'assedio, toccò in sorte a un Grammaestro della lingua d'Italia l'introdurre nella piazza l'arte nuova, inventata dai grandi artisti italiani. Il principe Fabrizio del Carretto, di grande casata ligure, uomo solerte e provvido, fondato nell'esperienza e nella ragione, che messe insieme non ingannano mai, prevedeva l'assedio futuro più terribile degli assedî precedenti; e come cominciò a governare, così finchè visse stette saldo nel proposito di fortificare l'isola, e più la città e il porto, con lavori grandiosi e continui dal diciassette al ventuno[217].
Quattro ingegneri sono nominati dai contemporanei per le opere e per le difese di quest'ultimo assedio: Basilio della Scola vicentino, maestro Gioeni siciliano, Girolamo Bartolucci fiorentino, e Gabriele Tadini di Martinengo bergamasco. Comincio dal primo, il cui nome è ricordato dal Fontano, cancelliere dell'Ordine gerosolimitano, presente in Rodi per tutto quel tempo, e scrittore diligentissimo[218]; ed è pur ripetuto più largamente dal Bosio, storico ufficiale dell'Ordine istesso, con queste parole[219]: «Deliberato havendo il gran maestro Fabrizio del Carretto di ridurre la fortificatione della città di Rodi nel più sicuro e miglior stato che ridurre si potesse, fece andare nel seguente anno 1520 in Rodi Basilio della Scuola, ingegnero dell'imperatore Massimiano, il quale era il maggior uomo di quella professione che allora vivesse. E col parer suo, e di molti altri valent'uomini che in Rodi si trovavano, e particolarmente di maestro Giuenio ingegnero della Religione ci fecero molti, utili e buoni ripari».
Dunque trovandomi ora colla data certa nel 1520, cioè nel primo mezzo secolo dell'arte nuova, troppo importante mi sembra per la ragione delle mie storie il rispondere alla domanda che ogni studioso farà intorno alla vita ed alle opere di Basilio; postochè infino a questi ultimi tempi pochi sapevano degli elogi tributatigli dal Fontano e dal Bosio, e niuno più di loro: anzi il suo nome e i fatti erano ormai quasi dimenticati anche in Vicenza sua patria[220]. Se non che prima l'edizione delle lettere di Luigi da Porto pel Bressan, appresso le inedite artistiche pubblicate dal Campori, e finalmente le reminiscenze vicentine del Magrini hanno cominciato a diradare le tenebre, e a darci qualche miglior contezza dell'egregio ingegnero, del quale ora metto insieme le notizie che ho potuto da questa e da ogni altra parte raccogliere.
Basilio della Scuola, o Scola, così scrivevano i migliori, così il Bosio, il da Porto, il Sanudo, il Pagliarino, il Barberano, il Castellini, e ultimamente il Magrini (non della Scala, come altri stampa oggidì a rischio di confonderlo con Giantommaso Scala veneziano e posteriore) nacque in Vicenza circa il 1460, dove la famiglia era noverata tra le nobili, secondo che attesta il Pagliarino nel novero delle medesime, dicendo[221]: «Della Scola, famiglia venuta di Verona. Il primo fu maestro Bonaventura di Tommaso, il quale generò Basilio, padre di Agostino, dal quale sono nati Leone, Alessandro, e Battista della Scola; così detto perchè maestro Bonaventura teneva scuola». Dunque il cognome, qualunque sia stato precedentemente secondo l'origine veronese, divenne certamente della Scola per la professione vicentina; nome che tuttavia si mantiene onoratamente nei discendenti, tra i quali per debito di gratitudine devo ricordare quel fior di cavaliero che è il baron Giovanni Scola, le cui visite e corrispondenze mi sono state di gran giovamento per queste ricerche. I primi rudimenti delle scienze, massime filosofiche e matematiche, Basilio deve aver ricevuto dalla domestica educazione del padre; e non essere escito dalla nativa città che per seguire la milizia nelle guerre di quei tempi. Alla calata dei Francesi in Italia del 1494, egli era già tanto avanti nell'arte e di sì gran fama, che Carlo VIII lo volle al suo soldo sopra l'artiglierie[222]: essendo notissimo e di uso comune nei primi tempi, che l'istesso ingegnere, il quale disegnava le fortificazioni, attaccava e difendeva le piazze, e governava i pezzi, come si fa manifesto per gli esempî dei primi da Sangallo, del Martini, dei fratelli da Majano, del Cecca, di Leonardo, del Martinengo, e di tanti altri. Dopo due anni, cioè nel 1496, e mese di maggio, Basilio era al soldo dei Veneziani, soprantendente alle artiglierie della repubblica, colla commissione di gettare cannoni grossi da batteria cento pezzi; e similmente di incavalcarli sopra carri fatti a disegno speciale per questa bisogna[223]. L'anno 1500 doveva essersi rimesso al soldo di Francia, perché lo troviamo prigioniero degli Aragonesi in Napoli, e liberato ad istanza dei signori Veneziani; pei quali al principio del 1501 faceva un modello di fortezza, secondo le nuove forme: modello da mettere stupore nei riguardanti, soldati, ingegneri, e ambasciatori; e del quale si scrivevano le notizie per le corti, come di cosa singolarissima. Pognamo queste parole al duca di Ferrara[224]: «Hozi son stato a vedere uno modello de rocha, fa fare questa Signoria ( di Venezia ) ad uno Basilio de la Scala da Vicenza, el quale havea tenuto la maestà del Re di Napoli in prigione e a complacentia di questa Signoria l'ha relassato. È venuto qui cum salvoconducto però. Et he una bella opera, e monstra che el serebe questa rocha, o castello che se sia, inexpugnabile: et a disputarla cum luy, allega bone ragione de ogni minima cosa. He facto de legnamo: è piccolo: lì sono di gran ripari di molte offese e difese: torri in triangolo, quadre, tonde e di ogni sorta, e cum bombardiere con mantelletti a merli in triangolo.... a V. E. maestro sopra li maestri.... non dispiacerebbe, per esserli quello bono se fa in Franza de tali cose, quello se fa in Italia, et maxime al presente per la maestà del re di Napoli a Castelnovo, quello se fa in Alemagna ed altrove.» Dunque merli e torri in triangolo, difese a cantoni, puntoni, e tutto il meglio che si usava in ogni parte d'Italia, in Francia, e in Germania. Le notizie qui espresse rispondono pienamente allo stile di Basilio, ed alle opere fatte in Rodi: e più al costume del tempo, quando i grandi artisti del risorgimento, architetti e ingegneri esprimevano i loro concetti non solo colla matita, ma con bellissimi edifici di commesso e di scalpello sul legno; dei quali non pochi sono ricordati dal Vasari, ed alcuni si conservano ancora, come oggetti degni dello studio e dell'ammirazione dei posteri. Valga per tutti il gran modello della basilica Vaticana diretto dal Sangallo ed eseguito da Antonio dell'Abbaco, che tuttavia si conserva qui in Roma.
Avanti che scoppiasse la tempesta contro la repubblica per la furia della famosa lega di Cambrè, al principio del 1508, Basilio era provvisionato con ducento ducati annui dai Veneziani; i quali lo chiamavano[225] Uomo probo, fedelissimo, conosciuto per esperienza, accetto al capitan generale, e necessario alle loro artiglierie. L'anno dopo egli era in giro per le fortezze e città di terraferma a rivedere le difese, le munizioni, le armi, come si costuma in procinto di guerra[226].
Le istorie vicentine oltracciò ricordano un altro modello di Basilio per afforzare maggiormente la loro città; modello approvato in Venezia, ma non eseguito per l'impedimento delle guerre predette; e pur di sì gran pregio, che bastò ad ammansare un principe di Anhalt. Costui coll'esercito imperiale entrando in Vicenza nel 1510, si fece promettere da quei cittadini, se volevano andare esenti dal sacco e dal fuoco, tre cose: pagare cinquanta mila ducati, abbassare tutti gli stemmi dei Veneziani, e costruire a spese loro il castello già modellato da Basilio della Scola[227]. Ma le vicende della guerra tolsero al principe tedesco la soddisfazione di beccarsi il castello, come l'avevano tolta ai Veneziani, e a noi troncano il discorso, venutaci meno da ogni lato l'esecuzione. Ma non per questo andò giù la riputazione di Basilio: anzi, dopo la pace, più che mai famoso e pregiato, ebbe inviti alla corte dell'imperatore Massimiliano, stipendi da Carlo V, e finalmente richieste del parere e dell'opera sua in Rodi, dove erano maestri, principi e cavalieri d'ogni nazione. Dunque uomo eccellente nell'arte sua; fonditore, bombardiero, ingegnere, architetto, a levante ed a ponente, coi Veneziani, coi Francesi, coi Tedeschi e coi Rodiani. In somma il protagonista della scuola mista.
Alcuni, scrivendo dei grandi artisti, sembrano solo intenti a narrare i viaggi, i costumi, i guadagni, le gare, e simili cose comuni a tutti gli uomini; e lasciano indietro, o vero non dicono a bastanza dello stile di ciascuno, del genio, delle opere, e delle strade battute per giugnere a nuove invenzioni. Campo troppo largo, nel quale non posso entrare adesso: ma per mantenere a Basilio il suo posto, devo ricordare le tre Scuole, altrove accennate, che io chiamo Sangallesca, Urbinate e Mista[228]. La prima a parer mio comincia con Giuliano da Sangallo pel baluardo a cantoni del 1483, tuttora esistente nella rôcca d'Ostia; e pel compiuto sistema delle casematte nel grosso del recinto primario della rôcca medesima; continua col pentagono di Antonio in Civitacastellana, e col quadro bastionato a Nettuno; e termina con Antonio Picconi, inventore dell'ordine rinforzato, e grandioso ampliatore delle casematte e delle contrammine nel famoso baluardo di Roma. La scuola Urbinate comincia con Francesco di Giorgio Martini, al soldo del duca Federigo; comparisce coi puntoni dell'Amoroso in Ancona e di Ciro in Puglia, si svolge col fiancheggiamento nelle tavole del caposcuola, risalta colla mina di Napoli nel 1495, e termina col Genga e col Castriotto, ordinatori delle opere esteriori in tante loro fortezze. La terza scuola, cioè la mista, doveva avere alla testa uno che sentisse di tutti; i cui disegni rilevassero puntoni e fianchi, torri triangolari e merloni in punta, difese a cantoni, quadrate, tonde, e d'ogni sorta. Tale comparisce Basilio della Scola: tale per le testimonianze certe degli scrittori contemporanei, e tale per l'opere fatte e tuttora esistenti in Rodi[229]. A fianco di Basilio, e per le stesse ragioni, io metto Leonardo da Vinci; e segno l'ultimo periodo classico della scuola mista col nome di Michelangelo, il quale nel 1529 portava i terrapieni fino alle difese supreme dei parapetti; cosa non mai fatta da niuno nè in Italia nè fuori, prima di lui[230].
Torniamo ora a Rodi, e vediamo sul posto lo stato delle fortificazioni per quest'ultimo assedio, ed i lavori di Basilio. Avremo la scorta del Fontano, cancelliere dell'Ordine, e presente a tutti i successi degli ultimi tempi; e ci daranno ajuto le piante della città, e le memorie che ne ho appuntate io stesso ne' miei viaggi[231]. Sappia intanto il lettore, che ora qui e dovunque io mantengo ai luoghi la perenne nomenclatura italiana, come ci viene dal Fontano, dal Bosio, dai viaggiatori, dai marinari, dai portolani e dagli atlanti del nostro paese; senza smagarmi appresso ai nomi arbitrarî o corrotti per nostra confusione dagli strani singhiozzi e squarcioni degli Inglesi, dei Francesi, e dei Turchi. Ammiro e lodo la perfezione delle moderne carte idrografiche, massime dell'ammiragliato britannico; e ciò per la esattezza dei rombi e degli scandagli, e per l'indizio delle mutazioni naturali e artificiali sui lidi nel tempo moderno: ma per la storia del passato, quando il commercio di Oriente e le colonie asiatiche ed africane, e tutta la navigazione del Mediterraneo era in mano ai marinari italiani, io non cerco sulle carte i nomi stranieri, perchè gli ho tutti domestici. Posso dire Costantinopoli in vece di Stamboul; Alessandria, non Scanderìa; Bicchiere, non Bequier nè Abouckir; Calcedonia, non Makrìkui; Metellino, non Midillùh. Similmente, intorno a Rodi, dirò torre del Trabucco, non Arab-tower; torre dei Molini, non Kandia-point; torre di san Niccolò, non Tower of S t. Elmo; capo Parambolino, non Koumbournou: e perchè scrivo italiano ho detto e dirò sempre Orlacco, non Vourlack; Afrodisio, non Mahadie, e simili. Valgami l'autorità non sospetta dello dotto ammiraglio inglese Guglielmo Enrico Smith, il quale nella sua opera importantissima, intitolata Memorie fisiche, storiche e nautiche del Mediterraneo, ha scritto a bello studio un capitolo per ispiegare agli altri le mutazioni sue intorno alla nomenclatura dei luoghi ed alla loro ortografia; pur confessando che molte voci, quantunque false e stranamente mescolate di vecchio e di nuovo, col franco e col turco; nondimeno sono state incise, e si leggono stampate nelle carte marine di Inghilterra e di Francia. Tutto dire! un ammiraglio britannico mi assolve dal rimprovero di rispettabile amico genovese sul conto dei termini topografici intorno alla descrizione di Smirne, nella mia storia marinaresca del Medio èvo; dove ho voluto secondo il mio costume usare i termini dei nostri piloti; distinguervi il capo Fogliero dalla città delle Foglie vecchie e nuove; porgli dirimpetto il Calaberno in vece del Kara-Bouroun; e poi l'Orlacco e la Cittadella, in vece del Vourlack e del Sanjack-Burnù. L'ammiraglio, dico, mi giustifica con queste precise parole[232]: «Molti errori di nomi locali sono stati introdotti, ed hanno preso posto nelle istesse carte idrografiche del nostro ammiragliato: ne citerò uno solo rispetto a Smirne. Presso alla città sopra una lingua di terra sporgente in mare sventolava la bandiera ottomana ( Sanjack ) inalberata sul mastio della Cittadella. Questo capo, chiamato dai Turchi Sanjak-Burnù, divenne pei Francesi capo St. Jacques, e pei nostri sapientoni divenne capo St. James; nome che si leggeva anche recentemente nelle carte del nostro ammiragliato». Egli continua cercando come togliere sì fatti spropositi. Intanto io vo innanzi: e senza aspettare che gli levino a comodo loro quei signori, me li spazzo da me; e n'ho abbastanza coi nostri storici, marinari, e portolani; pognamo pur coll'Atlante del Luxoro, illustrato dal Desimoni e dal Belgrano. Io sto con loro, e seguo gli stessi principî, anche nella descrizione della piazza di Rodi.
Dalla parte del mare le difese principali della città e del porto in procinto di assedio avevano a essere le catene distese, e le navi affondate sulla bocca, per impedirne l'ingresso ai nemici[233]; e insieme le batterie intorno agli scali per rifrustargli. Di più a guardia della marina tre grandi torrioni, che meglio direbbonsi castelli, nei tre punti principali del porto; cioè la torre rotonda dei Molini sulla punta del braccio destro, la torre quadrata e bizzarra del Trabucco sul gomito sinistro; ed alla punta estrema dell'istesso braccio sinistro (tra il porto grande e il Mandracchio) il torrione maestro di san Niccolò; alto, grosso, valido, a più ordini sporgenti e rientranti, e sommamente riguardevole per le scogliere che lo circondano, pei macigni che lo compongono, per gli stemmi cavallereschi che lo adornano, e per le batterie alte e basse che si affacciano anche adesso in punto ad ogni prova. Imperciocchè oltre al principale torrione rotondo di mezzo, che gli dà nome e comparsa, tu vedi abbasso ampia cinta di castello quadrato, simile al risalto del castello dell'Uovo sulla riviera di Napoli; ma di aspetto più fiero, di colore più scuro, di macigni più grossi, e di più numerose troniere. Durante l'ultimo assedio il torrione di san Niccolò restò quasi intatto, e tutta la fronte del mare poco o punto presa di mira dal nemico, secondo la previsione di Basilio: il quale però dalla parte del porto non riconobbe necessità di opere nuove, ne vi lasciò nulla di suo.
Volgiamo adunque verso terra per la cinta già fortificata all'antica, come si è visto nell'assedio dell'ottanta, e troveremo alta e grossa muraglia di pietra viva, e più ordini di batterie, e attorno profondo ed ampio fossato. Di più troveremo di mezzo, aggiuntivi da Basilio, sette baluardi; cinque grandi e due piccoli. I primi denominati dalle lingue di Alvergna, di Spagna, di Inghilterra, di Provenza e d'Italia; gli altri due distinti col nome del sito e del fondatore; cioè l'uno chiamato Cosquino, perchè rivolto a tale villaggio; e l'altro Carrettano, perchè levato su alle spese del grammaestro Fabrizio del Carretto[234].
La voce Baluardo comparisce tra noi dopo l'invenzione dell'artiglieria da fuoco, e prima dello svolgimento della moderna architettura militare: voce più volte ripetuta nel quattrocento, in significato di riparo interno, munito di batterie, e principalmente ordinato dietro alle brecce delle antiche muraglie contro l'assalto[235]. L'origine della parola è del latino classico e medievale, come già disse il Galilei[236]: e si conferma per le varianti Balláuro, Balluàro, Baloardo, Belvardo, Belloguardo e Belliguardo; voci tutte insieme derivate dalla stessa bèllica radice, però esprimenti Guardia di guerra, cioè guardia e difesa della guerra; perchè nei combattimenti il baluardo è la principale piazza d'arme delle fortezze. Al modo stesso, e dalla istessa radice, deriva l'antico Ballatojo, che era la piazza suprema delle torri, o vero dei castelli navali, non mica per le danze, ma acconcia ai combattimenti, e per ciò latinamente chiamata Bellatorium[237]. Dunque non abbiamo a cercare troppo lontano nè a correre oltre i monti, nè a spremere da ignote favelle le voci dell'architettura militare: le abbiamo da presso e domestiche in casa nostra, dove son nate. E qualunque possa essere l'apparente simiglianza dell'italico Baluardo col nordico Bullwerck, io ho sempre pensato che non si abbiano a dire congiunti di parentela nè ascendente nè collaterale; ma che ciascuno di essi faccia casa e famiglia da sè nel suo paese.
Quando la nuova maniera di fortificare bandì gli angoli morti e pose il teorema della difesa radente, perché ogni punto del perimetro avesse a essere visto e fiancheggiato da un altro, allora la torre antica si abbassò, prese figura pentagonale, volse il sagliente alla campagna, spianò di qua e di là in lungo due facce, e si munì di fianchi, con leggi matematiche e proporzionali nella misura dei lati e degli angoli; leggi fondate sulle ragioni dei poligoni iscritti e circoscritti al cerchio. In somma la piazza pentagona divenne membro principale della fortezza: e fu detta Baluardo, quando era murata di calcina, di mattoni e di pietre; fu detta Bastione, quando era imbastita di pali, di fascine e di terra; e finalmente, fatto il connubio dei due metodi, e messi insieme i muraglioni e i terrapieni, fu detto tanto baluardo che bastione per l'istessa cosa, anche nel linguaggio dei grandi maestri; usandosi tuttavia più spesso quest'ultimo vocabolo che non il primo; perché col bastione abbiamo il verbo Bastionare, e i verbali e i derivati; di che l'altro manca.
Ciò posto, vien chiaro il lavoro e il merito di Basilio in Rodi. Esso non era chiamato a demolire, nè a gittar nuovo di pianta il fondamento di una cinta compiuta di fortificazione regolare: anzi fondatore della scuola mista, anche per sistema proprio, doveva meglio di ogni altro sapersi acconciare alla varietà richiesta dal sito, dagli uomini, dai precedenti e dall'economia. Esso pertanto lasciava in piè, com'erano, tutte le torri che vi trovava, e le convertiva in cavalieri di nuovi baluardi alla maniera sua; cioè irregolari, misti, senza proporzione determinata, e con poco riguardo alla continuità della radente, legando con lunghi allineamenti di barbacani e di contragguardie il vecchio col nuovo perimetro, il quale perciò in più luoghi piglia l'aspetto di cinta doppia. Ma a un batter d'occhio l'osservatore diligente distingue il nuovo dal vecchio: perchè dove l'antiche muraglie cadono a piombo, senza fascia e senza ornamenti, appuntate soltanto di merli all'antica, a coda di rondine semplice o doppia; per lo contrario le muraglie di Basilio scendono tutte a scarpa, tutte col risalto di grosso cordone in pietra al piano delle batterie, e tutte col parapetto difeso da merloni massicci di pianta quadrilunga e di sezione triangolare: proprio come si legge del modello suo nella lettera al duca di Ferrara, ove si parla dei mantelletti e dei merli in triangolo[238]. I quali merloni rettangoli, acconciati a sesto di squadra coi due cateti sui piani della muraglia e del parapetto, volgono l'ipotenusa all'aria, lasciando aperta tra merlone e merlone la strombatura pel pezzo. Vedete nel venti le difese supreme di Basilio ancora di pietra e di muro. Terrapienate le cortine, i fianchi, le faccie vecchie e nuove; ma infino al piano delle batterie, non fino ai parapetti. Degno di speciale menzione fuor della porta che volge alla sinistra del molo di san Niccolò devo ricordare quel puntone solitario e senza fianchi, collegato colle vecchie mura presso a due torri, e rivolto col sagliente al Mandracchio, che evidentemente appartiensi a Basilio, avendo tutti i caratteri distintivi delle opere sue; e richiama al pensiero i lavori simili dell'Amoroso. Il Bosio proprio a questo propugnacolo dà il nome di «Baluardo piccolo, detto san Pietro, che guarda la torre del Trabucco sopra il molo di san Niccolò;» ed il Fontano lo chiama «Baluardo Carrettano»[239].
Di più Basilio cavò maggiormente i fossi, e murò la controscarpa, chiamata da alcuni terza cinta[240]. Niuna opera esteriore, cosa di gran diffalta nell'assedio: chè sarebbero stati utilissimi, a tener più lontano dalla piazza il nemico, alcuni ridotti sulle alture circostanti. Poscia visitò il castello Sampiero in Asia, il forte di Langò, e le difese degli altri luoghi ed isole soggette all'Ordine gerosolimitano. Stette in Rodi sino all'anno seguente, sempre in compagnia del Gioeni: e con lui lavorò di rilievo tutto il modello delle fortificazioni, da essere per saggio mandato al Papa[241]. Finalmente morto il Grammaestro suo protettore, e pressato dai richiami dell'imperatore Carlo V, prese licenza da quei signori, ed ebbela con molti ringraziamenti e regali, più quattrocento ducati pel viaggio, senza che niuno più dica verbo di lui, nè per la vita nè per la morte. Ma le tanto onorevoli testimonianze, ed i lavori lasciati in Rodi basteranno a salvare il suo nome dall'oblio: imperciocchè, all'infuori del raffazzonare i castelli del porto e del risarcire le brecce di terra, i Turchi non hanno aggiunto nè mutato nulla in quella piazza, restandovi ogni cosa come era quando vi sono entrati; compresa l'artiglieria bellissima di bronzo, che ancora si affaccia dalle antiche troniere. Ho veduto io stesso le sentinelle ottomane presso ai pezzi guardare, senza comprendere, sugli orecchioni e sulle maniglie gli stemmi dei cavalieri, le croci a otto punte, e le figure di gran rilievo a imagine dei nostri Santi. Una sola novità puoi aspettarti colà, dalla quale devi esser destro a schermirti, se non vuoi passar la notte all'addiaccio: ciò è dire la chiusura immancabile di tutte le porte, subito che tramonta il sole, infino alla levata del giorno seguente. Tanto per lunga tradizione dura tuttavia l'antica paura nel petto dei moderni guardiani!
XVI.
[26 giugno 1522.]
XVI. — Dunque tutti alle porte di Rodi per l'ultima prova[242]. La morte del grammaestro Fabrizio del Carretto, la novità dell'eletto Filippo Villiers de l'Isle Adam, l'ardimento del pirata Curtògoli contro di lui[243], la lentezza dei Cavalieri nel finire i lavori delle nuove fortificazioni[244], la morte di papa Leone, la lontananza del successore, e le consuete discordie tra gli altri principi della cristianità, conducono l'imperatore Solimano a determinare la immediata spedizione per l'estate dell'anno presente. Comandante supremo Mustafà suo cognato col titolo di seraschiere; Achmet pascià, generale degli ingegneri; Pirì pascià, dai nostri cronisti chiamato Pirro, capo del consiglio, o come oggi direbbesi di stato maggiore: e insieme col navilio imperiale lo sciame dei pirati di levante e di ponente, condotti da Kara-Mahmud, e dal celebre Curtògoli, ambedue ammiragli e piloti generali dell'armata ottomana[245]. Dicono trecento vele in mare, e cento mila uomini da mettere in terra[246].
La mattina del ventisei di giugno a levata di sole tutta l'armata nemica comparve alla vista dell'isola[247]; e sfilando da ostro a borea non molto lungi dal porto, andossene sopra tre miglia alla cala di Parambolino, riparata dal capo di Bove contro i venti regnanti di Ponentemaestro[248]. La grande insenata quasi non bastava alla moltitudine dei legni, che a gara l'uno dell'altro volevano accostarsi a terra per mettersi ciascuno, massime i pirati e i mercadanti, più agiato e sicuro. Veduta la gran ressa di tanti bastimenti, Girolamo Bartolucci fiorentino, eccellente nell'arte militare, e, secondo patria, di scuola Sangallesca, da essere ragionevolmente annoverato tra i valentuomini ed ingegneri della piazza, quantunque non comparisca altrimenti che per strategico, pensò di poterli tutt'insieme conquidere. Il Fontano con svegliate parole esprime le ragioni del grandioso disegno che poteva infin dal primo giorno darci vinta la guerra, e ci mena a ripensare il discorso dell'egregio uomo al Grammaestro e al suo consiglio in questa o simil forma[249]: Voi, signori, vedete la confusione dei legni turcheschi, stivati insieme da non si poter muovere; voi avete barche eccellenti e fuochi artificiati, avete piloti pratici e marinari arditi da cacciarsi sopravvento, da mettere il fuoco in mezzo, e da ritirarsi per poppa co' palischermi, e anche a nuoto, cogli amici al soccorso e i nemici in scompiglio. A voi la scelta del tempo, del vento, della notte, di tutte le comodità. Se bruceranno, la vittoria è nostra: se no, guadagneremo altrimenti pur molto perchè il nemico dovrà sparpagliare e distendere l'armata in lungo cordone e sottile; perderà la coesione, il mutuo sostegno, e la prestezza dell'operare; senza togliere a noi di poterlo, quando che sia, mandare in fiamme volta per volta. Le proposte del fiorentino non fecero presa. Uno tra gli astanti si oppose, altri stettero in ponte, e il Bartolucci pronosticò male della difesa. Tristo chi non coglie nelle grandi operazioni, massime della guerra, i primi vantaggi!
Ciò non pertanto in quel giorno tutti i cavalieri, i soldati, il popolo, latini e greci, erano in arme: cinque mila uomini sotto le bandiere, e seicento cavalieri alle poste, secondo l'ordine delle lingue[250]. Cominciando dalla parte australe, alla porta di Filermo i Francesi, appresso i Tedeschi infino alla porta di san Giorgio, indi le lingue d'Alvergna e di Spagna, dappoi gl'Inglesi, accosto i Provenzali, ultimi di luogo e primi di valore i legionarî italiani, contrapposti alle arti ed alle frodi di Pirro[251]. Trecento soldati e trenta cavalieri distaccati al castello di san Niccolò. E sulla piazza un grosso e brillante squadrone di marinari, sbarcati dalle navi e galèe di Rodi, e dai legni che si trovavano per ventura nel porto: specialmente da un poderoso bastimento siciliano; dalla gran nave veneta del capitan Giannantonio Bonaldi, cui fu data in premio la croce di cavaliero; e dalla caracca genovese del capitan Domenico Fornari, col quale erano cencinquanta marinari eletti, e quindici giovani mercadanti, secondo l'uso delle città marittime, appartenenti alla primaria nobiltà genovese, Andrea Pallavicini, Bastian Doria, Filippo Lomellino, Niccolò Gentili, Pietro de' Marini, Vincenzo Palma ed altrettali.
Più valgono coll'armi in qualunque fazione i marinari che non i soldati: imperciocchè oltre all'agilità delle membra, ed all'uso continuo di slanci ardimentosi in mezzo a ogni maniera di ostacoli, hanno i marinari la stessa disciplina dei soldati, e più il maneggio non solo esclusivo di questa o di quella, ma collettivamente di tutte le armi. Essi al moschetto, essi alle pistole, agli spadoni, ai pugnaletti, alle picche, agli spuntoni; essi ad attaccare e a difendere le piazze, essi al governo e maneggio dell'artiglieria, al trasporto e al mantenimento dei cavalli, essi pronti per pratica e per istinto ad ogni manovra che cerchi arte, destrezza, e genio. Dunque eccellentissima tra tutte le milizie, tanto che non si può discorrer di marinari senza entrare nelle teorie di ogni arma speciale. Laonde ben fece il Fontano di mettere tra i primi nella difesa gli uomini sbarcati da tutti i bastimenti del porto, e condotti dagli stessi loro ufficiali e capitani. Vivi questi prodi non cadeva la piazza[252].
[15 luglio 1522.]
Intanto i Turchi accampati fuori del tiro poneansi all'ordine; e i loro legni andavano e venivano carichi di soldati, presi dalle riviere della Licia e della Caria; e le grosse navi mettevano in terra il parco delle artiglierie, e le munizioni da guerra e da bocca. Procedevano lenti, ma cauti: aspettavansi duro e feroce contrasto. Ed i nostri, per concorde testimonianza dei fuggitivi e delle spie, sapevano che il nemico era fermo nel fare primario assegnamento sui lavori della zappa e delle mine; pei quali lavori avean condotto molte migliaja di picconieri e di minatori[253]. Bisognava un uomo in Rodi, che, anche da questa parte dell'arte nuova, sapesse contrastare agli assalitori, e superare ogni altro del suo tempo.
XVII.
[22 luglio 1522.]
XVII. — Il celebre ingegnere militare Gabriele dei Tadini, nobile bergamasco, nato nel castello di Martinengo, donde prese il soprannome, era in Candia provvisionato dei Veneziani sopra le fortificazioni e le artiglierie del regno[254]. Desideroso di trovarsi presente in un assedio che tutti prevedevano celeberrimo, e stretto dalle chiamate onorevoli dei Cavalieri per una guerra così grossa e vicina, quantunque senza licenza del governatore di Candia, secretamente partissi con alcuni compagni; e guidato dal cavaliere Antonio Bosio, vincendo ogni ostacolo, e passando per mezzo all'armata nemica, entrò la notte del ventidue di luglio nel porto di Rodi. Presero terra con lui diversi amici tutti valentuomini nella fortificazione e nell'artiglieria, come Giorgio di Conversano ricevuto tra i cavalieri, di cui avremo a parlare anche altrove, Benedetto Scaramuccia romano, Giovanni Zambara scozzese, Niccolò di Costo vercellese, Francesco Latese côrso, e Antonio di Montenegro vicentino, il quale doveva saper di Basilio e seguire col Martinengo la scuola mista[255].
[28 agosto 1522.]
A parte le feste e le carezze dei Rodiani intorno a questi prodi, specialmente al Martinengo, cui subitamente offrirono la gran croce, e l'aspettativa alla prima dignità vacante nella lingua d'Italia: dirò quel che ora più monta. A lui il carico delle fortificazioni e dei ripari con ampia facoltà di ordinare e disporre ogni cosa, secondo il parere e giudizio proprio, e di governare a suo talento le artiglierie, essendo egli di ciò sommamente intendente e pratico; ed oltracciò uomo laborioso, molto vigilante e della persona valente ed ardito. Egli mutò in pochi giorni le condizioni dell'assedio, e fece pentire i Turchi di essersi messi a difficile prova. Imperciocchè distinguendo in un batter d'occhio per suo giudizio i punti principali dagli accessorî, e volgendo le artiglierie della piazza alla testa delle trincere e alla discesa delle mine, batteva fiero e duro dovunque il nemico era sul principiare, e però mal riparato: faceva effetti stupendi, sovvertiva le opere, e tanta strage menava tra la gente, che niuno più ardiva accostarsi al lavoro. Indi la rivolta dei guastatori, il dispregio dei capitani, e l'ammutinamento dei soldati. Tutto l'esercito musulmano in scompiglio era sul punto di sbandarsi, e molti colle armi alla mano chiedevano di essere rimbarcati e di tornarsene, quando addì ventotto di agosto al tocco dopo il mezzodì, ecco improvvisamente e di gran pressa arrivare al campo l'imperatore Solimano col rinforzo di quindici mila archibugeri per togliere lo spavento, e per rimettere l'attacco a suo modo[256]. La venuta di costui deve riputarsi come il
Bosio, 660: E: « Solimano arrivò in Rodi a' ventotto di luglio.... » (Deve dire agosto, pel Fontano presente, e pel suo proprio contesto.) più grande elogio del Martinengo e dei difensori nel primo periodo della guerra.
[Settembre-dicembre 1522.]
Non è mio compito trattare di proposito l'assedio; sì bene seguire lo svolgimento dell'arte nuova in un fatto del primitivo tempo, di grande importanza, e dove per le relazioni minute dei testimoni di vista ci è concesso studiare partitamente le opere d'ingegno degli oppugnatori e degli assediati.
Dalla parte della difesa sembrami degna di ricordo l'arte del Martinengo in quattro punti capitali; ciò è dire nelle contrabbatterie, nei fuochi artificiali, nelle ritirate, e nelle contrammine. Fin dal principio egli prese a contrabbattere di ficco i punti cardinali dell'attacco, come ho detto: i suoi fuochi convergenti dominarono quelli del nemico, li ridussero al silenzio, impedirono i lavori, e avrebbero finalmente vinta la prova, se non fosse venuto Solimano in persona con grandi rinforzi a rilevare i suoi dall'abbattimento, e a rimenarli più che mai numerosi e pertinaci agli approcci[257]. Ondechè venuti costoro più e più alle strette, e fattasi ai nostri di giorno in giorno maggiore la necessità di contrabbattere anche per fianco, l'ingegno di Gabriele supplì ai difetti di Basilio. Perchè non avendo questi, o per sistema o per necessità, provveduto al compiuto affilamento della radente, come si è veduto, il Martinengo pose come meglio potè batterie posticce di pezzi minuti per traverso, tanto da trovare la radente davanti alle cortine ed ai fossi, incrociando i fuochi dai punti opposti sulla linea della muraglia minacciata[258]. Perciò quando i nemici cominciarono a tentare gli assalti, dove il Martinengo aspettavali, le batterie posticce e le permanenti da due parti scopavano tra mezzo, menando strage, e imponendo ai sopravviventi la ritirata[259]. Così potè mantenersi alla lunga sulle difese.
Nè punto minori vantaggi si procacciarono i Cavalieri coi fuochi artificiati di guerra serviti largamente nella difesa, massime all'ultimo tempo, quando i combattimenti si furono ridotti sulle brecce da presso, corpo a corpo. Lingue e trombe di fuoco, pignatte e carcasse ardenti, olio incendiario, e misture fumanti e fetide di solfo e di bitume, scendevano incessantemente tra la folta dei nemici: e guai chi ne toccava[260]. Che se non fosse stata la grande disparità numerica tra i combattenti, e se gli avversari non avessero potuto sempre ripienare il vuoto delle loro file, certamente l'esito della tenzone sarebbe stato conforme all'ingegno ed alla eroica costanza dei difensori. Trovavano essi ripiego per tutto, ed eseguivano i trovati con prestezza e regolarità meravigliosa. Per esempio, cominciando a sentir penuria di polvere, si volsero ai molini, posero alle macine i cavalli del Grammaestro, ebbero caldaje, distillatoj, pestelli, fornaci: chi a raccogliere o a purificare il nitro, chi a triturare i solfi, chi a mescere il carbon dolce, chi a governare la pasta, e a disseccarla, e a granirla: uomini liberi, fedeli, ed esperti, difesi da buone guardie; esclusi sempre i servi e gli schiavi da luogo tanto geloso[261]. Così ebbero infino al termine abbondanza di polvere, e n'avanzarono tanta da fornire largamente il naviglio nella ritirata, e da lasciarne un deposito nascosto, pel caso del ritorno, che dopo tre secoli divampò, come ho detto altrove, nel terremoto del sessanta.
Quanto ai lavori di terra fin dal principio eransi raccolti i contadini rodiotti nella città assediata pei cavamenti e pei trasporti: le quali opere salirono dieci doppi tanto, quando le batterie e le mine dei Turchi cominciarono a rovinare il perimetro primario della piazza[262]. Allora altresì crebbe al Martinengo il carico di provvedere ai ripari, e di fare eseguire nuovi lavori. Qua traverse da opporre all'infilata, là tagli per arrestare il progresso dei giannizzari, e ritirate all'indentro delle rovine per sostegno dei difensori: alcune preparate insin dai primi giorni, altre costruite sotto al fuoco dei nemici[263]. Nei quali lavori egli si adoperava non solo colle seste e collo squadro, ma colla spada e col pugnale, sovente a corpo a corpo contro gli avversarî[264], e sempre sostenuto dai suoi ajutanti, specialmente dal Conversano e dallo Scaramuccia. Fra l'altre cose fece una ritirata co' suoi ripari in quadro, così forte e sicura, che dai Turchi era chiamata la Mandra, perché i combattenti vi stavano tanto raccolti a fidanza come il gregge nell'ovile[265]. Per le ragioni dell'arte, e pel valore dei combattenti, massime dei marinari, furono ributtati tanti assalti, e uccisi tanti nemici, e mantenuta la piazza per tutto l'anno, finché durò la speranza del soccorso.
Ultimo, ma di maggiore importanza per la storia della milizia, viene il lavoro delle contrammine, governate colla polvere di guerra, in opposizione alle mine dei Turchi. Si usavano pure negli antichi tempi e nel medio èvo cave e contraccave, cioè militari cunicoli sotterranei per offesa o per difesa delle piazze: cunicoli chiamati colle voci delle miniere metalliche, alla cui similitudine si conducevano. Ma dopo il salto della pignatta (vera o imaginaria) sul fornello dell'alchimista; dopo il rovinìo del palazzo di Lubecca per fortuita accensione delle polveri nel 1360, venuto il primo suggerimento del capitano Domenico di Firenze contro la porta di Pisa nel 1403, e appresso la prova di Belgrado nel 1439, e le teorie del Taccola e del Santini nel 1449, e il cimento di Sarzanello nel 1487, tutti preamboli ricordati dal Promis (ai quali posso aggiungere il suggerimento di Fermo nel 1446, e le prove di Costantinopoli nel 1453), finalmente Francesco di Giorgio Martini, fondatore della scuola Urbinate, scriveva di proposito la teoria delle mine, e ne disegnava le figure, e ne faceva esperimento con pieno successo l'anno 1495 contro Castelnuovo di Napoli[266]. Dopo di lui la fortuna ed il proposito concessero al Martinengo la prima comodità in un grande assedio di svolgere nella pratica tutto l'ingegno delle contrammine. Tanto più che egli non trovò apparecchi preventivi di pianta, come i Sangalleschi usavano murare insieme coi baluardi; non trovò androni a piramide, nè pozzi a campana, nè altri vuoti sotterranei, donde il fluido elastico delle mine nemiche potesse liberamente espandersi, fuggire, e perdere la forza. Nondimeno da sè pensò alle contrammine occasionali e improvvisate: cacciossi risolutamente sotterra appresso alla zappa, dal muro al fosso e allo spalto; e cavando gallerie magistrali sul fronte delle opere più gelose, e guidando cunicoli di scoperta a cercare le mine del nemico, faceva di troncarne il procedimento, di espellere gli operaj, di distruggere i lavori, di accecare o inondare le diramazioni; o almeno di lasciarvi tali squarci, spiragli o sfogatoj, che la furia della polvere accesa non avesse a scuotere le muraglie, ma a trovare la strada aperta per andarsene, senza rovina. Fin dai primi giorni di agosto aveva cavato nel fosso molti pozzi di testa ai lavori seguenti, e di ricetto alle acque stillanti; di là spingevasi coi cunicoli in diverse direzioni. Indi all'ascolta: la trivella di ficco, l'orecchio ai picchi, l'occhio ai lumi, la bacinetta ai sonagli, il tamburo ai sugherelli; e appresso ad ogni minimo sentore di zappa nemica, tanto che si potesse trovarne la direzione, e avvilupparla. Più volte, non dieci nè venti, ma oltre a cinquanta, si incontrò là sotto nel bujo coi Turchi, dove esso stesso di sua mano contro loro allumava i fuochi lavorati ed i barili di polvere nei pertugi di scoperta per cacciarli lontano; e poi appresso a chiudere, e a tenere il passo[267]. Più volte apriva sì fattamente il terreno al disopra dei fornelli già carichi, che riusciva a sventarne lo scoppio; o a mandarne la rovina tutt'altrove[268]. Ai quali lavori continuamente intento, e ognora presente di giorno e di notte, vigilantissimo, intrepido, e presto a correre là dove vedea il bisogno, passando continuamente dai sotterranei ai baluardi, dalla polveriera alle batterie, e specialmente coll'occhio sempre intento a sopravvedere ogni pericolo; finalmente affacciandosi a un pertugio, proprio nell'occhio sinistro toccò un'archibugiata, per la quale ebbe quasi a morire. Vedi se i bersaglieri ottomani uccellavano, o no, di trista ragione anche ai minuti membruzzi, e sappi che non il solo Martinengo restò colpito in quel che guardava: lo stesso al cavalier Giovanni di Homèdés che fu poscia grammaestro, lo stesso successe ai cavalieri Michele d'Argillemont, a Giovacchino de Cluis, ed a molti altri che vi lasciarono la vita. Più avventuroso il Martinengo, non restò inchiodato al muro, come il Cecca, che la palla dall'occhio gli uscì dietro l'orecchio corrispondente, ed egli superata la gravissima infermità, portò a lungo tanto che visse l'onorata cicatrice; sempre ai riguardanti sulla sua fronte mostrando il perpetuo eclisse di nobilissima stella. Or si noti che questo colpo sinistro, chiamato dal Bosio, più recente scrittore, un'archibugiata[269]: ci viene espresso nel più antico testo del Fontano, con termine assai rilevante per la storia dell'artiglieria, dicendosi colpo di Chirioboarda, cioè di manesca arma da fuoco[270]. Dunque il radicale rimbombo nel boato, e la focosa desinenza in arda, dal principio alla fine per tradizione perenne, durano incorrotti, ed esprimono in ogni tempo la artiglieria da fuoco per opposito alle armi da corda. Criterio di gran momento per riconoscere negli antichi scrittori, al di là della comune opinione, la prima origine della polvere e delle armi sue, come altrove ho detto.
XVIII.
XVIII. — Ora veniamo ai Turchi, ed alle opere dirette da Achmet pascià, comandante delle artiglierie e degli ingegneri. Costui ci mostra di prima vista il gran parco delle quaranta bombarde antiche da scaraventare macigni, cioè palle di pietra, grosse nella periferia dai nove agli undici palmi[271]. Inoltre ci mette innanzi dodici di quei più recenti cannoni doppî, che allora chiamavano basilischi; e cacciavano palle di bronzo più grandi della testa ordinaria d'un uomo; che vuol dire palle metalliche di cento libbre in peso. Giuocavano questi pezzi con centro e trenta tiri al giorno senza risquitto[272]: «Ciascun pezzo (dice il Sansovino nel volgarizzamento) trasse tal dì cento e trenta volte, come che paja che sia fuor di modo, nondimeno la cosa fu pur così, essendosi avvertito diligentemente.» Le stesse notizie vengono confermate dal cavalier Giacopo di Borbone, e da altri contemporanei, con minute varietà nel più e nel meno, come sempre suole accadere: ma quanto al numero dei tiri abbiamo altre prove di quei tempi da far maravigliare anche i moderni capitani d'artiglieria. Quando i grossi pezzi e insieme i minuti, che erano infiniti sagri, falconetti, e passavolanti, traevano a general batteria, correva per l'aria un rombo continuo, oscuravasi il sole, e tra la tenebrìa del fumo conglomerato non si vedeva più che lampi, e non si sentiva che tuoni, con quella rovina di muraglie e di case che ognuno può intendere.
Unica eccezione notata dai contemporanei e presenti (il che forte rilieva ai pensamenti miei sopra il rimbalzo), quando ogni muro rovinava sotto i colpi dei Turchi, resistevano soltanto a gran ventura le muraglie delle ritirate, perchè obblique e di grande scarpata. Le palle, dice il Fontano, non attecchivano sui nuovi ripari pel loro pendìo: e ciò fu la nostra salvezza[273]. Potrà qualcuno in terra e in mare tener conto di questi fatti, e venire alla stessa conclusione di salvezza pei medesimi principî di obbliquità. A questo proposito torna acconcio il ricordo dei portelli a ribalta, con che i Turchi coprivano le loro batterie, non le volendo sapere imboccate o scavalcate dai Cavalieri. Avevano costruito cassoni di legno dolce pieni di terra, con un subbio rotondo di traverso nel mezzo: li tenevano innanzi alle trombe dei pezzi, bilicati sì fattamente che con una susta e un cavetto, facendo all'altalena, si poteva scoprire la bocca del cannone, allumarlo, e subitamente nasconderlo. Artifizio utilissimo ai Turchi: e potrebbe molto meglio perfezionato convenire ai Cristiani, massime nelle batterie corazzate, come ho detto altrove[274].
Arrogi la batteria di dodici mortaj, che in arcata traevano pietre di sette palmi circolari sui tetti, sulle case, sulle chiese, e per poco non dissi sulla testa del Grammaestro: e continuavano quel giuoco di notte e di giorno per più di due mesi, cioè più lungamente e con maggior furia che nell'altro assedio dell'ottanta[275]. I mortaj, oltre alle palle di pietra, spesso spesso gittavano globi di rame, carichi di polvere e di fuochi lavorati, dentrovi canne d'archibugetti pur carichi, e fuori acutissime punte di ferro. Le terribili carcasse volavano per aria, menandosi dietro lungo strascico di fumo; e cadendo crepavano a un colpo, scaraventando sui circostanti punte, palle, scaglie e fuoco[276].
Al tempo stesso e senza interruzione i Turchi lavoravano sotterra alle mine, persuasi fin dal principio che la resistenza della piazza tornerebbe vana contro il lavoro pertinace della zappa. Avevano al campo cinquantamila tra guastatori, picconieri e palajuoli, menati
Bourbon cit.: « Coups avec boullets de cuyvre pleins d'artifice de feu. » a forza dalle Provincie danubiane[277]: per opera dei quali il circondario di Rodi sotterra erasi ridotto simile alle catacombe della campagna di Roma. Discese, androni, pozzi, corridoj, gallerie, diramazioni, armature e telaj per sostegno delle volte e delle fiancate, camere e fornelli da essere intasati e carichi, sotto le mura, sotto i baluardi, e in più che trenta punti diversi[278]. Finalmente addì cinque di settembre, caricato il fornello e intasata la camera, posta a segno la salsiccia e la sementella, a un cenno di Achmet pascià, scoppiò la mina principale sotto il baluardo d'Inghilterra. La città non altramente che per grande terremoto tutta si scosse, il baluardo si aprì di cima in fondo: pietre, terra, persone all'aria, e poi giù di ritorno in paurosa pioggia[279]. Amici e nemici attoniti innanzi alla voragine. In quel momento entrava in chiesa il Grammaestro con alquanti de' suoi a confortare lo spirito nell'orazione, e i sacerdoti dal coro, segnandosi in fronte, principiavano le laudi, col versetto del salmo, dicendo: « O signore, affrettati a liberarci[280].» Udito il fragore tragrande, e saputogli subito della mina, il Grammaestro levossi sclamando: Piglio l'augurio, e se Iddio si affretta, anche io con lui. Raduna le riserve, corre sul posto, e trova i difensori del baluardo a corpo a corpo coi Turchi. Empito, armi, ferite, e morte. In somma ributtati i nemici: e la salvezza della città dovuta al valore del presidio, ed alla traversa fattavi la notte precedente dal Martinengo[281]. Anche dei nostri caddero molti in quel giorno: tra loro non devo tacere il nome del venturiero genovese Filippo Lomellino, e del cavalier Pietro Mela di Savona. Nè devo tacere il nome vittorioso dell'eroe principale della giornata, così chiamato da tutti il giovane cavalier Battista Orsino di Roma, cui specialmente chi lo vide in quel frangente attribuisce prodigi di valore[282].
Col baluardo di Inghilterra non cadde adunque la piazza, ma per altri quattro mesi tenne in duro travaglio gl'ingegneri ottomani. La terra, le pietre, e tutto il cavaticcio dei cunicoli ammassavano costoro sul campo attorno ai fossi, e ne facevano alture più e più eminenti, per scoprire e battere anche l'interno della città[283]. Arte familiare e quasi direi propria dei Turchi il colmar valli, e spianar monti, levar colline, e passeggiare sotterra: arte che toccò il sommo della eccellenza nel memorabile assedio di Candia, sostenuto colla zappa per venticinque anni dai Veneziani, e abbandonato in un giorno dai Francesi col frustino. In somma intorno a Rodi volano più e più ripetute le mine: alcune senza danno, perchè sventate dai nostri; altre (come quella accesa sotto alla posta d'Italia) a stramazzo dei nemici, perchè rivolta la sfera d'attività e i raggi d'esplosione contro le loro trincere; una con grandissima rovina della piazza scoppia sotto il baluardo di Spagna[284]. Indi brecce, assalti, insidie, ritorni, tagli, e ritirate, facendosi ogni giorno la città più piccola, ed allargandosi sempre più l'entrata ai nemici[285]. Niun soccorso dall'Europa, che avrebbe potuto in un momento mutare la sorte degli assediati; niun conforto nell'autunno, e disperazione ormai certa per l'inverno imminente. I Latini, ridotti a pochi, gemono; i Greci stanchi mormorano. Non sembrami assedio qualunque, non piazza attaccata da esercito proporzionale: ma presso che non dissi scoglio derelitto in mezzo al mare, sul quale gavazzano inferociti col fuoco, col piccone, e colle mine gli spiriti infernali. Scoglio albeggiante per le tombe di quattromila difensori; azzannato dagli spettri di quaranta mila maomettani morti sotto ai ferri, e brancicato da altrettanti sfiniti dalle infermità e dai disagi[286].
Noi abbiam finito di considerare le particolarità tecniche dell'assedio per parte degli amici e dei nemici. Siam giunti all'estremo. Che più? La piazza parlamenta, dunque si arrende.
[20 dicembre 1522.]
Ecco la somma dei patti: Cessione dell'isola, e di tutte le sue pertinenze, all'imperatore dei Turchi. Mallevería di ostaggi, venticinque cavalieri ed altrettanti cittadini. Libertà ai Cristiani nell'esercizio del loro culto, e nel possesso delle loro chiese. Licenza a chiunque di andarsene, e navigli pel trasporto. Immunità di ogni gravezza agli abitanti per cinque anni. Tempo tre anni a scegliere tra la dimora e la partenza. Tempo dodici giorni al Grammaestro e a tutti i cavalieri del convento, ed a chiunque vorrà andarsene con loro. Permesso di cavare dalla piazza tanto solo di artiglieria e di munizione che basti al necessario armamento consueto delle galèe e delle navi gerosolimitane nel viaggio[287].
[24 dicembre 1522.]
Addì ventiquattro dicembre entrarono trionfalmente i Turchi nella piazza per la porta di Cosquino: entrò insieme sopra un bel cavallo di maneggio l'imperator Solimano con gran pompa, e poca letizia. Pensava ai prodi abbattuti, al principe soggiogato, alla varietà della fortuna, e al pericolo proprio di trovarsi un giorno nelle medesime condizioni. Diceva con voce sommessa, e di perenne ricordo, ai suoi più intimi: Pesami alquanto il venire io oggi a cacciare questo vecchio Cristiano dalla sua casa. I due grandi antagonisti vollero vedersi insieme. Il vecchio Principe attorniato dai cavalieri andò a visitare il giovane Sultano in mezzo ai giannizzeri; l'uno e l'altro, nel guardarsi a vicenda, attonito e maravigliato rimase, senza profferir parola[288]. Il pirata Curtògoli, divenuto principe di Rodi, ruppe il silenzio: e allora cominciarono quei discorsi, e vennero quelle scuse, e quell'incolpar la fortuna, e quelle altre consuete urbanità, che son pur belle tra i nemici.
[1º gennajo 1523.]
Finalmente il primo giorno dell'anno seguente le navi, le galèe, la gran caracca rodiana, i bastimenti di convoglio erano in punto, e tutti presti alla vela: i cavalieri e i soldati a bordo, e con essi le reliquie dei Santi, gli arredi sacri, e cinque migliaja di rodiotti più rassegnati all'esiglio, che alla viltà e alla schiavitù. Ultimo a imbarcarsi il principe fra Filippo Villiers l'Ile Adam: silenzio da ogni parte, e mestizia sul volto di ognuno. In quella l'araldo fedele, che seguiva da presso il suo signore, a un cenno del Grammaestro, imboccò la tromba; e con sentita melodia, più quasi gonfio degli occhi che delle gote, trasse e modulò dolcemente l'aria notissima del saluto e della partenza. Lo squillo della cavalleria cristiana corse per l'ultima volta sulle note marine. E in quell'incontro di luogo, di tempo e di pensieri, parve a ciascuno che appresso al suono rispondesse gemendo l'eco dei monti e delle valli, l'eco delle torri e delle case loro. Il brivido serpeggiò per le vene degli infelici; e l'uno negli occhi dell'altro riguardando poteva leggere i proprî e gli altrui pensieri, e sentire ugualmente accelerato il palpito di tutti i petti. Sublime la sofferenza nel dolore, e nobile la reminiscenza dei giorni acerbi. Quella tromba dell'ultimo squillo, infino al presente gelosamente custodita, riposa ancora intatta sur un guancialetto di velluto cremisi, coperto da un'urna di cristallo, in mezzo alla sala del musèo nel palazzo magistrale di Malta. Sembra muta agli stolti: ma tu che leggi, se hai senno e cuore, se ti appressi e attendi, potrai forse ancor tu vederne fremere la canna, e alitare sotto al padiglione gli stessi o simili ricordi che io qui ne ho scritti, come ho sentito, nel vederla.
XIX.
[Agosto 1523.]
XIX. — Gli esuli volsero le prue all'isola di Candia, dove ricevettero i primi conforti dalla cortesìa dei Veneziani. Ma volendo il Grammaestro in tanta distretta, e tra le crescenti discordie dei principi nostri, sfuggire ai pericoli delle altrui gelosie, e non accostarsi più all'uno che all'altro, quando aveva bisogno di tutti, deliberò di venirsene col pieno convoglio a Civitavecchia, e poi di ridursi a Roma sotto l'ombra del comun Padre; divisando altresì trattar meglio da vicino con lui intorno alla conservazione ed ai futuri destini dell'Ordine gerosolimitano. Laonde mosse col convento da Candia; e dopo molti disagi, e stenti, e pestilenza, e burrasche, costretto qua e là alle quarantine ed alle riparazioni, finalmente nel mese d'agosto si accostò alla spiaggia romana. Papa Adriano, avvisato dal nuncio di Napoli, ordinò al capitan Paolo Vettori di andargli incontro colle galèe della guardia, di servirlo, e di fargli scorta per le note maremme. Paolo si pose in crociera al confine, tenendo il mare tra monte Circèo e l'isola di Ponza sempre coll'occhio alla Trinità di Gaeta: e come ebbe veduto spuntare dal Capo lo stendardo di Rodi, salutò i vegnenti con tutta l'artiglieria, si unì con loro, e li condusse insino all'altura di Civitavecchia. Là dette i piloti, e si tirò in disparte, perchè la capitana magistrale liberamente entrasse innanzi a tutti nel porto: ma Filippo per sua gran modestia e riverenza non volle consentire a ciò; anzi risolutamente si pose appresso alla capitana di Paolo, che batteva stendardo papale, e così vennero dentro con tutto il seguito, salutati da una bella salva della fortezza, e accompagnati dagli ufficiali e dal popolo agli alloggiamenti già preparati nel palazzo della rôcca. Là era il vescovo di Cuenca inviato straordinario del Papa presso la persona del Grammaestro, coll'ordine di riceverlo degnamente, di confortarlo, e insieme di offerirgli la città e il porto in piena giurisdizione, non altrimenti che se fosse di suo dominio: e poscia passati i giorni canicolari, senza pericolo della salute, un altro avviso il chiamerebbe per condurlo ed onorarlo in Roma[289].
Così la città di Civitavecchia, prima di ogni altra, in quel tempo divenne residenza dell'Ordine gerosolimitano, standovi insieme il Grammaestro col suo consiglio, e i cavalieri delle sette lingue, il convento, e lo spedale per curare i feriti e gli infermi, che ne avean moltissimi tra loro; essendovi proposto per ospitaliero quell'istesso commendatore fra Jacopo di Borbone che scrisse importanti ricordi dell'assedio[290]. Di più nella stessa città e porto per sette anni restò stabilmente la sede precipua della marineria dell'Ordine sotto il comando del cavalier piemontese Bernardino d'Airasca, col doppio titolo, di ammiraglio dell'Ordine sul mare, e di luogotenente del magisterio nel governo della terra, come meglio si vedrà qui appresso[291].
[Settembre 1523.]
Dappoi sul principio del mese di settembre, riavutosi il Papa da certa infermità, mandò a chiamare il Grammaestro: ed egli cavalcò verso Roma con gran seguito, incontrato alla porta da tutti gli Ordini della città, signori, popolo, e cortigiani, come si conveniva al valoroso campione. Filippo faceva grandissimo assegnamento sulla intramessa di papa Adriano nelle bisogne dell'Ordine suo, sapendo quanto egli fosse geloso osservatore degli obblighi e custode delle tradizioni, e protettore de' benemeriti, e quanto potente nell'animo dell'imperatore Carlo V, senza del quale non si poteva conchiudere nulla di stabile nè da lungi nè da presso. Gran cose ruminava. Se non che dopo il primo ricevimento avuto dal Papa nel pubblico concistoro, e dopo una udienza privata, finirono tutte le speranze. Adriano ricaduto nella precedente infermità, morissi addì quattordici del mese di settembre.
[19 novembre 1523.]
Indi a due mesi e cinque giorni, cioè ai diciannove di novembre, rinverdirono le speranze dei cavalieri e dei marinari per l'elezione di Clemente VII, quel desso che già cardinale Giulio de Medici, cavaliero di Rodi e protettore dell'Ordine, abbiamo più volte nominato. Di presente il Grammaestro si strinse con lui per averlo favorevole nella scelta e nel conseguimento della nuova residenza. Diverse tra i negoziatori le inclinazioni ed i pareri: chi proponeva il golfo della Suda in Candia, chi Tripoli di Barberìa, chi l'Elba nel Tirreno, e altri Malta, Ponza, Minorca, e simili; sempre mirando a pur volere che la residenza avesse a essere di paese marittimo, più tosto in isola, e di non molta estensione; cioè da potersi con poca fatica fortificare e mantenere, e da offrire comodità alla navigazione ed al corso contro i pirati, professione oramai precipua dall'Ordine medesimo. Tuttavia il maggior numero dei suffragi concorreva per l'isola di Malta, anche perchè era riguardata come antimurale d'Italia, e stazione diritta verso la Terrasanta, e in ogni modo punto strategico di offesa e difesa contro i Turchi. Ondechè il Grammaestro più che altrove pendeva verso la detta isola; e dimostrava a Carlo V per lettere e messaggi l'onore e anche l'utile che a lui medesimo ne verrebbe, se la concedesse, tanto per la conservazione del nobilissimo Ordine, quanto per difendere dai pirati i regni di Napoli e di Sicilia, senza altro suo fastidio o dispendio. Durarono sette anni queste pratiche: nel qual tempo la residenza conventuale andò trasferita in Viterbo, e le forze navali colla carovana dei cavalieri restarono accentrate in Civitavecchia. Nella città di Viterbo non troverai più nè stemmi, nè bandiere, nè altro che a suo tempo diceva il Bosio: sola una lapidetta, sulla facciata, a sinistra di chi entra nella chiesa di san Faustino, postavi stantìa dai canonici l'anno 1644, ricorda che quivi si raunavano conventualmente agli uffici divini i cavalieri di Rodi. Di qua in Civitavecchia non resta altro monumento che l'Ospedale civile e militare presso alla chiesa di san Paolo nella piazza d'arme; che piantato dal cavalier di Borbone, e poi diretto dal collegio dei cappellani delle nostre galèe, ampliato dai cavalieri Magalotti e Bichi, e amministrato dalla confraternita del Gonfalone, passò finalmente nelle mani dei benemeriti religiosi di san Giovanni di Dio, i quali infino al presente degnamente lo conservano.
XX.
[12 dicembre 1523.]
XX. — In questo stante il nuovo Pontefice di gran voglia confermava Paolo Vettori nel capitanato delle galèe; e infin dal principio della sua esaltazione stringeva con lui i patti contenuti nel seguente documento, al quale dobbiamo riportarci per comprendere quanto grande perdita abbia fatta la storia nostra nella dispersione dell'archivio privato della medesima Casa. Produco questo documento, e lo volgarizzo alla distesa, non essendovi capitolo che non abbia varianti sui capitoli anteriori; e con essi i nuovi di pianta ci apriranno la via a riconoscere lo stato delle cose marinaresche, e le mutazioni introdottevi, sì come mi farò appresso a considerare. Ecco i Patti convenuti tra la Camera apostolica e Paolo Vettori per la condotta delle galèe[292]:
«In nome di Dio, così sia. — Per il presente pubblico strumento sia noto a tutti ed evidentemente apparisca come nell'anno del Signore mille cinquecento ventitrè addì dodici del mese di dicembre, e nell'anno primo del pontificato di nostro signore Clemente per divina provvidenza papa settimo; costituiti in Camera alla presenza del reverendissimo in Cristo padre e signore Francesco Armellini del titolo di santa Maria in Trastevere e di san Callisto, prete cardinale di santa romana Chiesa e camerlengo; del reverendissimo padre e signore Bernardo de' Rossi, vescovo di Treviso, vicecamerlengo e dell'alma città governatore, e dei reverendi chierici presidenti della Camera apostolica Giovanni da Viterbo, Antonio Pucci vescovo di Pistoia, Cristoforo Barrozzi, Tommaso Regis, e Niccolò de' Gaddi eletto vescovo di Fermo; ed alla presenza di Girolamo Ghinucci vescovo di Worcester uditore generale delle cause della Camera apostolica, per mandato speciale del predetto santissimo Signor nostro, espresso di viva voce all'istesso Camerlengo, come pure in virtù dell'ufficio suo del camerlengato, spontaneamente e per certa scienza di tutti i predetti, non per errore, ma per volontà libera e spontanea di tutti e singoli, in vece e nome del santissimo Signor nostro e della Camera apostolica, hanno condotto per capitano delle galèe della santa romana Chiesa e del santissimo Signor nostro il nobil uomo Paolo Vettori di Firenze, costituito al cospetto del nominato Camerlengo e dei predetti Chierici, coi patti e convenzioni, capitoli e modificazioni seguenti, cioè:
»1. Primieramente il predetto reverendissimo signor Camerlengo ed i Chierici di Camera per consenso volontà e nome dei predetti, cioè del santissimo Signor nostro e della Camera apostolica, danno la condotta al predetto capitano Paolo di due galèe e di due brigantini della santa romana Chiesa, per la guardia della spiaggia romana da Terracina a monte Argentaro inclusivamente, obbligandolo a tenere in ciascuna galèa almeno venticinque uomini, ed in ciascun brigantino almeno diciotto uomini liberi ed atti a naval combattimento; e la condotta abbia a durare a beneplacito della Camera.
»2. Similmente i predetti signori eccetera, hanno promesso all'istesso Capitano pel salario suo e degli uomini predetti e per lo stipendio dei marinari, e per le spese delle medesime galèe e brigantini dare e consegnare durante la condotta per ogni anno ducati otto mila d'oro in oro, ciascuno di giulî dieci, e in quattro rate trimestrali anticipate.
»3. Similmente i predetti eccetera hanno concesso allo stesso Capitano che quante volte egli possa avere nelle mani alcun frodatore che trasporta grano o altre biade o merci tratte dai porti o dai luoghi soggetti mediatamente o immediatamente alla santa romana Chiesa, senza bolletta o senza licenza di sua Santità, o del Camarlengo, o dei cavalieri di san Pietro, per la parte che tocca loro sul doganiero delle tratte, o del legittimo sostituto, o vero senza licenza di altri che ne abbia autorità, in tutti questi casi, se colui che estrae o trasporta non può provare di aver pagato la debita tassa di tratte e di dogana ai ministri deputati per riceverla, allora sia lecito e possa lo stesso Capitano toglier via il grano e le altre biade dai navigli che ne portano; ed una quarta parte tenersela per sè, e le altre tre quarte fedelmente e subito consegnare alla Camera: e questo similmente valga per tutte e singole le altre sostanze, e mercanzie che mai troverà trafugate in frode contro la proibizione ed il bando.
»4. Similmente hanno promesso e conceduto al nominato Capitano in sua balìa tutti e singoli pirati ladroni e infestatori del mare con tutti i loro navigli, beni e sostanze dovunque li potrà trovare, assalire, sottomettere e tenere. E se per caso alcuno di loro, inseguìto dallo stesso Capitano, andrà per rifugio nei porti, terre e luoghi predetti della santa romana Chiesa, dovranno gli ufficiali ed uomini di quei luoghi pigliarli e rimetterli nelle mani del Capitano, tanto che esso gli abbia in suo arbitrio e potestà. E quando mai i detti pirati saranno presi, la quarta parte di ogni cosa trovata nei navigli medesimi sia propria del Capitano, come è stato sempre osservato fino al presente, posto pur che i detti pirati siano cristiani.
»5. Similmente eccetera, hanno offerto e promesso al predetto Capitano ogni opportuno favore e soccorso per tutte le terre e luoghi soggetti alla santa romana Chiesa contro chiunque ardisse molestare lui o la sua gente, prescrivendo infin da questo momento a tutti gli ufficiali e persone dei detti luoghi che ad ogni richiesta del medesimo Capitano lo assistano e favoriscano come si conviene.
»6. Similmente eccetera hanno concesso al detto Capitano che se egli darà la caccia ad alcun pirata ladrone o infestatore; e se costoro fuggendo troveranno ricetto in alcun porto o luogo fuori dei luoghi e terre della predetta romana Chiesa, tanto che egli non possa pigliarli, anzi gli sia fatta resistenza dalla gente di quel luogo medesimo risoluti a non volerli consegnare, allora sia lecito a lui venire alle rappresaglie che gli sono concesse fin da ora, tanto che ne segua la restituzione compensativa dei danni patiti da naviganti per opera degli stessi pirati. Non pertanto dovrà prima dare le prove del ricetto eseguito e dell'impedimento opposto contro il suo procedere, e non potrà venire all'atto pratico di esercitare in fatto le rappresaglie medesime, se non gliene sia concessa la licenza pel caso speciale dalla stessa Camera apostolica. E sempre dovrà fedelmente rassegnare alla detta Camera apostolica tutto quello che esso Capitano in vigore delle dette rappresaglie avrà toccato che in mare che in terra, per rifacimento dei danni a chi ne ha patiti.
»7. Similmente ha promesso il suddetto Capitano pagare del suo ogni danno e ladroneggio che potrà mai esser fatto in qualunque parte del predetto mare, eziandio che il medesimo Capitano non fosse presente in quel luogo, dato che sia nei termini e confini prefissi da qualunque lato, supposto che i pirati e ladroni non abbiano maggior forza e numero di galèe e di brigantini e di gente armata nei medesimi: così che a punto per la inferiorità sua non possa il Capitano prudentemente assaltarli, combatterli, e perseguitarli, e prenderli: supposto similmente che il detto Capitano nella medesima spiaggia non sia occupato altrove nel combattere e nel fugare altri ladroni, e pirati; o vero intento a spalmare e a dar carena alle sue galèe e brigantini; o pure impedito da notevole infermità o da morbo epidemico delle ciurme e degli uomini imbarcati nelle dette galèe e brigantini: di che il predetto signor Capitano dovrà dare contezza a nostro Signore o vero alla Camera. Insomma circa la riparazione dei danni egli non potrà addurre altra scusa se non quella della forza maggiore dei nemici per aver essi numero più grande di galèe di brigantini e di gente armata in essi; e la scusa degli impedimenti sopra espressi. Le quali eccezioni nondimeno dovranno essere dimostrate innanzi alla Camera, al cui giudizio nel caso concreto dovrà rimettersi il Capitano, perché siano decise e terminate: sempre supposto che tutte le cose predette in favore dei mercatanti danneggiati debbano valere quante volte essi abbiano a tempo e luogo opportuno fatto e pagato il debito loro al Capitano, tanto che egli possa provvedere.
»8. Similmente ha promesso dare la mostra quantunque volte e dovunque sarà richiesto dalla predetta sua Santità e dalla Camera.
»9. Similmente ha promesso sbarcare in terra cinquanta uomini e più ad ogni richiesto di nostro Signore e della predetta Camera.
»10. Similmente ha promesso e si è obbligato che se alcuno dei naviganti o dei navigli nel predetto mare resterà per mala sorte preso o depredato dai pirati corsari e ladroni, o vero dai medesimi in qualunque modo impedito, esso Capitano con ogni diligenza piglierà cura di perseguitare gl'invasori e i pirati per mare e per ogni luogo, e sarà dover suo strappar loro la preda, ricuperare i navigli, i naviganti ed ogni cosa perduta, render tutto ai padroni e proprietarî, e scortare le persone e le cose ricuperate infino a luogo sicuro, senza pretensione di alcun prezzo o mercede; purchè il navigante abbia pagato come sopra il debito al Capitano. Altrimenti se così non facesse, se non ricuperasse e non restituisse effettivamente secondo la possibilità, allora senza altre scuse ha promesso e solennemente si è obbligato a favore di chiunque abbia patito danno da pirati e ladroni nei luoghi predetti, di mantenerli indenni e di pagare di suo danaro ogni perdita fino ad intiera compensazione del danno sofferto. Perciò la Camera apostolica resterà libera dal detto peso; ed il Capitano dovrà mantenerla onninamente immune. Eccettuato il caso della forza maggiore pel numero delle galèe, dei brigantini e delle genti, il caso delle occupazioni del Capitano, o del contagio come sopra. Delle quali eccezioni devesi dare la prova innanzi alla Camera predetta come è scritto espressamente nei precedenti capitoli.
»11. Similmente il Capitano si è obbligato ed ha promesso, sotto pena di duemila ducati, di non trafficare colle galèe nè co' brigantini predetti, durante la condotta, e di non trasportare mercanzie o derrate di qualunque spezie e da qualunque luogo a qualsivoglia parte; e di non pattuire noleggio, se ciò non fosse per mandato espresso di nostro Signore o della Camera, da esser mostrato in scritto.
»12. Similmente ha promesso e si è obbligalo a tenere la stazione così d'inverno come d'estate nel porto di Civitavecchia, o alla foce d'Ostia, o negli altri porti e luoghi della santa romana Chiesa nel mare predetto, cioè da Terracina a monte Argentaro, perchè abbia sempre più pronto a trovarsi vicino contro gli invasori dei detti luoghi, e nella difesa di chiunque viene all'alma città di Roma, da quella o dagli altri predetti luoghi si parte.
»13. Similmente il predetto Capitano sarà tenuto ad ogni richiesta di nostro Signore o della Camera mostrare le galèe e i brigantini presso la foce del Tevere, dovunque vorrà la Santità sua, o il predetto reverendissimo Camerlengo, così corredati, come gli saranno consegnati; e di più restituire la infrascritta fortezza, sotto pena di diecimila ducati, oltre ai danni ed interessi: e perciò dovrà dare mallevadori sufficienti.
»14. Similmente ha promesso e si è obbligato che nè esso nè altri della sua gente e brigata non toglierà mai nulla dai naviganti, se pur non fosse da loro spontaneamente offerto in dono, altrimenti sarà tenuto a risarcire il danno, secondo l'arbitrio della Camera.
»15. Similmente ha promesso avere e tenere gli amici di sua Santità e della santa romana Chiesa per amici, ed i nemici per nemici, di qualunque stato, grado, o preminenza essi siano.
»16. Similmente la santità di nostro Signore ha promesso al medesimo Capitano di fargli consegnare gli uomini che per le terre della Chiesa sono o saranno condannati alla galera; ed esso Capitano potrà ritenere i predetti condannati ne' suoi legni, se altrimenti non sarà ordinato per volontà della stessa Santità e della Camera: sempre però dovrà rendere ragione di quelli al nominato Camerlengo, quando ne sia richiesto.
»17. Similmente il detto Capitano ha promesso e si è obbligato dare la sicurtà sopra banchieri di credito per la residua somma di mille cinquecento ducati d'oro di Camera, e assottigliata che sia la detta somma per compensi di danni, dovrà subito ripetere e rinnovare la stessa malleveria sufficiente a giudizio della Camera medesima per fermezza dell'adempimento dei capitoli, e per compenso dei danni a chi ne ha patiti, secondo che giudicherà la stessa Camera in forma sommaria e stragiudiziale.
»18. Similmente se durante la condotta avverrà che il Capitano per ordine di nostro Signore sia spedito in altra parte fuori dei confini della spiaggia romana, allora pe' casi già contemplati egli non sarà tenuto ad alcun risarcimento di danni che succederanno nella spiaggia, quando egli ne sarà assente per missione del santissimo Signor nostro: purché il detto Capitano dimostri chiaramente alla Camera la destinazione predetta, mostrando le lettere o i brevi del santissimo Signor nostro.
»19. Similmente se avvenisse, come spesso succede, che navigando a loro viaggio per la spiaggia romana alcuni brigantini di mercadanti cristiani, e veduti dagli altri marinari delle barche littorane, costoro entrassero in sospetto pensando i primi essere brigantini di pirati; e per ciò si mettessero in fuga ed anche eleggessero di investire in terra, o di fare altrimenti naufragio; in questo caso il Capitano non sia tenuto a risarcire i danni di alcuno, purchè presenti le sue prove che per la detta ragione coloro da sè stessi siansi gittati a traverso.
»20. Similmente quando il Capitano saprà essere per la spiaggia lo stormo dei pirati, e avviserà i padroni delle barche ammonendoli di non passare oltre; e di non doppiare i promontorî se prima egli non ne dia loro avviso e sicurtà; e ciò non ostante i padroni medesimi delle barche traessero di lungo e poi fossero presi, in cotal caso il detto signor Capitano non dovrà essere tenuto all'ammenda nè al risarcimento dei danni, sempre supposto che i pirati abbiano forza maggiore, tanto che egli non sia sufficiente a convogliare il barchereccio.
»21. E similmente l'istesso santissimo Signor nostro, perchè stiano vie meglio sicure e difese le galèe, i brigantini e l'armata navale di sua Santità e della santa romana Chiesa, concede al predetto capitan Paolo la rôcca nuova di Civitavecchia, perché sia tenuta, usata e goduta da sua Signoria per tutto il tempo che durerà il suo capitanato, coi carichi, salario ed emolumenti consueti, cioè l'assegnamento mensuale di ducati sei da giulî dieci per soldèa, e di ducati dieci da carlini dieci per gli ancoraggi dei bastimenti. Volendo che il predetto Paolo per la malleveria della rôcca possa valersi ancora dello istesso banchiere o mercadante che è mallevadore suo per la restituzione delle galèe e dei brigantini come sopra al santissimo Signor nostro, o al Camerlengo o alla Camera apostolica; e ciò abbia a essere per la medesima somma di ducati diecimila, tanto che per la restituzione sia delle galèe e dei brigantini, sia della rôcca, il detto signor Capitano non abbia obbligo di dare sicurtà per altra somma maggiore.
»22. Similmente il predetto Capitano dovrà tenere un libro, nel quale siano scritti o faccia scrivere nome e cognome di tutte e singole persone condannate alla galera, o che vi saranno mandate di tempo in tempo: scritta la qualità della condanna, se perpetua o a determinato tempo, quando e come gli verrà espresso: e di queste cose essendo richiesto dovrà almeno due volte all'anno mandare esatta relazione alla Camera; e il tenore di detta nota deve essere conforme al libro originale di consegna e trasmissione che si conserva presso la Camera apostolica in Roma.
»23. Similmente ha promesso il detto Capitano, e si è obbligato dentro il termine di giorni venticinque accreditare presso la Camera un suo procuratore e tenerlo residente in Curia, perchè si possa subitamente trattare con lui dei danni e dei risarcimenti: e che non sia lecito procedere contro il detto Capitano se non citato il procuratore e non altrimenti.
»24. Similmente che il capitano possa ricevere i condannati da qualunque tribunale gli vengano trasmessi: sempre però debba scriverli nel suo libro e darne conto alla Camera apostolica come sopra.
»25. Similmente che il detto Capitano non possa appaltare nè impegnare ad alcuna persona, nè a collegio, nè ad università il diritto del due per cento, senza la esplicita licenza della Camera predetta.
»26. Similmente la espressa condotta avrà a durare a beneplacito di nostro Signore; e, lui morto, a beneplacito della Camera apostolica.
»Così eccetera addì 12 dicembre 1523.»
XXI.
[Gennajo 1524.]
XXI. — Per intendere i capitoli presenti, nei quali si contiene tanta parte e così importante delle notizie marinaresche, bisogna ricordare gli altri simili capitoli pubblicati avanti, e le dichiarazioni già messe intorno ai particolari storici e tecnici, che qui non devo ripetere[293]. Basterà seguire l'istesso metodo, e tirar fuori le novità che ora ci vengono innanzi, secondo l'ordine dello strumento.
La squadra permanente resta fissa ai quattro legni, due galèe e due brigantini: salvo il caso di armamento straordinario, che abbiam veduto e più vedremo crescere infino a otto, dodici, e trentasei vele. Ora nel primo capitolo si assottigliano per economia i numeri dei combattenti, riducendoli da cinquanta a venticinque nelle galèe, e da venticinque a diciotto nei brigantini: dobbiamo però intendere di gente fissa al minimo per tutto l'anno d'estate e d'inverno; e di più metterci il rinforzo occasionale di soldati della guarnigione di Civitavecchia, secondo il bisogno. Però al capitano Vettori si concede anche la castellania della rôcca nuova, che ora dicesi la Fortezza, perchè col governo supremo della piazza e delle armi in terra meglio possa esso stesso difendere le galèe ed i brigantini nel porto; e col supplemento delle fanterie meglio armarli quando escono al corso[294]. Questo è il primo esempio dell'unione dei due comandi nel medesimo Capitano: unione poscia continuata, e di grande efficacia indi a quattro anni per salvare la persona istessa di papa Clemente, come vedremo.
Appresso troviamo accresciuti gli emolumenti del Vettori; ciò è dire anzi tutto la rendita consueta del due per cento sulle merci, gravame introdotto a tempo e mantenuto in perpetuo, di che si parla più volte, confermandolo implicitamente col precetto ai naviganti di fare il debito loro verso il Capitano; e a questo di non transigere coi debitori, e di non impegnare altrui la detta rendita[295]. Dunque dovevano sempre i marinari pagare il due per cento, e doveva il Capitano riscuoterlo da sè. Di più gli si aggiungono ducati ottomila all'anno per i quattro legni, e ducati settantadue per la rôcca, e centoventi per gli ancoraggi[296]. Toltogli solamente il guadagno dei noli, da non si poter conciliare in niun modo coll'efficacia del presidio e col decoro della milizia[297].
Pel quarto si conferma il triplice servigio della guardia contro pirati, frodatori e malviventi; ciò è dire fazioni di guerra, di dogana e di polizia, ordinate al combattimento coi pirati, al sequestro coi frodatori, ed al freno coi turbolenti[298]. Questi ultimi a lungo andare finivano nelle stesse galèe col remo in mano, per sentenza dei tribunali, fatta amplissima facoltà al Vettori di riceverne da ogni parte con la sola avvertenza di scriverli al libro[299].
I sequestri sopra i frodatori divideansi in quattro parti; una delle quali a vantaggio del Capitano e della sua gente, vuoi per compenso delle fatiche, vuoi per eccitamento maggiore alla sorveglianza: le altre tre andavano al pubblico erario in pena dei trasgressori, e per rifacimento delle tante altre frodi impunemente compiute. Notando specialmente a questo proposito essere contemplata, a preferenza di ogni altra, la frode delle granaglie, perchè toccano più da vicino il sostentamento del popolo, e perchè sono sempre state il maggior prodotto delle maremme, donde i vicini e i lontani ne traevano in gran copia; tanto che il prezzo estimativo delle tratte stava in cima alle liste degli introiti fiscali; e se ne concedeva una parte ai sovventori dello Stato, pognamo ai cavalieri di san Pietro, perchè potessero rifarsi del danaro dato in prestanza ed a premio[300].
Quanto alla sorte dei pirati, importantissimo sarebbe il predetto capitolo terzo, e insieme il quarto e il decimo se, oltre alle relative cifre proporzionali in terzi e in quarti, contenessero anche le assolute, cioè il numero medio delle prede annuali[301]. Ma dall'obbligo imposto al Capitano di rifare a sue spese tutti i danni che i naviganti pativano (danni certamente continui e gravissimi) possiamo arguire che non dovevano essere minori gli acquisti sui nemici, senza supporre assurdamente tristissimo affare per lui. Dunque vittorie frequenti, e ricche prede sopra i pirati, quantunque non ricordate più che da questi capitoli, e dalla tradizione che si fa ogni dì più languida nei nostri porti, e dalle bandiere che a grado a grado si perdono anche nelle Chiese, dove in gran numero erano state messe per ricordo e per trofeo, come in alcun luogo dirò. Di coteste prede, delle quali il Capitano non toccava più della quarta parte, metteasi pur in forza, e cavava i fondi necessarî a compensare i danni dei naviganti; perchè esse erano di gran valuta. I bastimenti forti e da corso, il corredo, le gomene, le vele, le artiglierie, e gli uomini stessi, giovani e gagliardi, più il comandante e gli ufficiali, portavano guadagni: sia pel riscatto delle loro famiglie, sia per la vendita o pel servigio; valutandosi almeno cinquecento lire per testa. E ciò tanto spesso avveniva che il capitolo quarto non dubita corroborare la teoria legale coll'argomento dell'esperienza e dei fatti, dicendosi bastare al Capitano la quarta delle prede[302], «Come è stato sempre osservato fino al presente.»
Il nome delle rappresaglie ritorna contro i protettori dei pirati nel capitolo sesto, ma la cosa di fatto sparisce: perchè tra tante cautele, eccezioni, permessi, e riguardi pei casi speciali, la formola si riduce a zero; e resta soltanto la minaccia come spauracchio[303]. Non ho mai trovato che siano state concesse in pratica, nè mai eseguite da alcuno nel secolo decimosesto.
Più rilevante ci viene il capitolo settimo, dove si parla della epidemia o della peste a bordo, come impedimento legittimo alle militari fazioni del Capitano, e scusa ragionevole per esonerarlo dal rifacimento dei danni[304]. La quale eccezione, tutta nuova, non può essere stata aggiunta per nulla; ma deve avere la sua ragione nei fatti precedenti. Questo a parer mio ci rimena senz'altro al successo degli ultimi anni, quando Paolo cadde prigioniero e fu menato a Tunisi, perchè si avventurò a combattere colle galèe affrante dalla stessa epidemia, per la quale era morto il figlio, come abbiamo veduto. Insomma poste le cause, bisogna aspettarsi gli effetti, così in ordine, come ora per maggior chiarezza ricordo. Nel quattordici Giulio de' Massimi, cavando la darsena, pattuiva di gettare il fango dove tornasse meglio al suo comodo[305]: dopo tre anni di lavoro scoppiava nel diciassette l'epidemia, della quale espressamente parla il presente documento[306], e di essa tra tanti e tanti moriva l'unico figlio del comandante per essersi trattenuto nel porto, dove l'aria si era fatta pestilenziale, come scrive il biografo contemporaneo di Paolo[307]: «Egli non lasciò figli masti, perchè uno che n'ebbe di molto grande espettazione, e che si credeva che avesse a pareggiare il valore del padre; molto desideroso di farsi grande, stava del continuo esercitandosi sul mare: e trattenutosi una volta qualche giorno in un porto, dove l'aria era pestilente, aspettando di assaltare certi legni barbareschi, fu assaltato, senza potersi difendere, dalla morte.» Appresso fece seguito la perdita della galèa capitana, l'impotenza delle sensili, la prigionia del comandante, e l'enorme taglione[308].
Lascio gli altri capitoli che non hanno bisogno di commento, o l'hanno ricevuto nel precedente discorso, e conchiudo che l'esperienza aveva dimostrato esservi non di rado alcuni padroni di barche, i quali o per eccessiva presunzione, o per estrema vigliaccheria, venivano all'istesso segno di perdersi; e poi di volere che altri avesse a salvarli, e a compensarli dei danni. Nulla doversi a costoro dicono i capitoli[309]. Se i codardi si spaventano delle ombre vane e di qualunque bastimento che passa, se pigliano gli amici per nemici, e se per salvare le persone da un pericolo immaginario mandano a traverso i legni o gittano il carico, non devono pretendere nulla dagli altri; ma da sè stessi ripetere così il male come il rimedio. Per opposito quei folli spregiatori dei consigli e dei pericoli, che, avvisati a non si muovere da luogo sicuro, vogliono mettersi da sè a rischio evidente, se v'incappano, è colpa loro: dunque a sè stessi devono attribuire il danno, e del proprio trovare il compenso. Tanto temuta e così grande era a dispetto di tutti, o temerari o codardi, la potenza dei pirati!
XXII.
[Giugno 1524.]
XXII. — I quali, terminato a loro talento l'assedio di Rodi, e sciolti oramai dall'impegno di servire personalmente a Solimano nella guerra viva, spartiti per tutto il Mediterraneo eransi rivolti alle prede, come i lupi dopo lungo digiuno. Qui sulle nostre marine primo di tutti il Giudèo, israelita rinnegato e famosissimo pirata, faceva capo con trentaquattro tra fuste e galeotte di sua proprietà. Gran fabro d'infingimenti costui, gran maestro di astuzie, gran conoscitore di tutti i nascondigli dell'Argentaro, del Circèo, dell'Elba, di Ponza, e delle altre isole a noi vicine. Sempre presente e sempre celato, piombava all'improvviso sui bastimenti di traffico, fuggiva a suo potere i legni militari, e teneva quasi bloccati i nostri porti. Pel Vettori era il caso pratico della forza maggiore. Nondimeno volendo contrapporsi quanto più poteva ai nemici, e togliere la brutta vergogna al paese, persuase i Cavalieri rodiani di armare le tre galèe che tenevano nella darsena, e di uscire al corso con lui. Il Bosio non esprime apertamente il merito speciale di Paolo, e doveva pel suo scopo passarci sopra; ma dal contesto si fa palese. Sortirono insieme nel mese di giugno, sbrattarono i ladroni, e presso all'isoletta di Gianutri presero di viva forza due galeotte, lasciatevi in guardia dal Giudèo. Le prede ammarinate entrarono con gran festa in Civitavecchia; e con esse ducento avventurosi Cristiani liberati dalla schiavitù, e quasi altrettanti, tra turchi e mori, fatti prigionieri[310]. Niuno penserà che la crociera, così bene incominciata, abbiasi a dir finita nel mese di giugno: ma perché non ne trovo scritto, lascio che altri da sè ne giudichi o ne cerchi altrove; messi da parte i nostri cronisti, dai quali non caverà mai nulla dei fatti marinareschi, non che dei bastimenti del Vettori e dell'Airasco, ma soltanto delle feste di Roma[311].
Anzi tanto era consueto alle due squadre l'andare di conserva, che il Grammaestro medesimo, volendo tenere secreto un suo viaggio marittimo, senza che niuno nè anche dei suoi Cavalieri ne trapelasse il disegno, ordinò al Luogotenente in Civitavecchia di allestire le galèe, sotto colore di volerle mandare insieme colle galèe del Papa in busca di pirati[312]. Ripiego tolto dalle cose consuete, e nullamente fuori dell'ordinario per non eccitare la maraviglia o i sospetti di alcuno; e al tempo stesso ripiego opportuno per fargli trovare in punto le galèe di Roma e di Rodi, quando egli all'improvviso vorrebbe mettersi in viaggio colle due squadre.
XXIII.
[25 febbraio 1525.]
XXIII. — Perocchè grandi cose precipitavano in Italia, ed i politici davansi faccende per acconciare gli affari propri e gli altrui in mezzo allo scompiglio generale. La mattina del venticinque di febbrajo all'alba i capitani di Carlo V avevano vinto la grande battaglia di Pavia; e il re Francesco in mezzo al rotto suo esercito era caduto prigioniero. Carlo, trovato l'emulo ritroso a sottoscrivere i patti impostigli per la riconciliazione, voleva domarlo: per ciò lo faceva tradurre sotto buona scorta da Genova per la via del mare in Catalogna, e poscia nella torre di Madrid.
Niuno dei principi di Europa volle allora restarsi in disparte; anzi tutti a gara, chi per questo chi per quello, si offersero mediatori dei trattati, e delle grazie, e di sè stessi. Pensate il Grammaestro di Rodi nella bella ed onesta occasione di entrar paciero tra l'Imperatore ed il Re, a beneficio di quei principi, e della Cristianità, e dell'Ordine suo per la desiderata cessione di Malta, come si dimenava per essere tra i primi in Madrid: e papa Clemente per le stesse e più gravi ragioni, approvando il divisamento di lui, si risolveva di mandarvi insieme il cardinal Salviati, come legato straordinario; e ciò senza che in pubblico se ne parlasse prima del fatto.
[25 giugno 1525.]
Ondechè un bel giorno, che fu il venticinque di giugno, comparvero in Civitavecchia il Grammaestro e il Cardinale: dove, essendo le galèe delle due squadre già pronte, si imbarcarono; e senza dilazione tutti insieme tirarono a golfo lanciato fino a Marsiglia[313]. Colà ebbero a trattenersi alcuni giorni, dovendo intendersi colla regina Madre, reggente del regno, e insieme aspettare la duchessa d'Alansone sorella del re, che desiderava con loro passare in Spagna per consolare il fratello prigioniero e malato. Indi colla stessa felicità navigarono a Barcellona, donde il Legato, il Grammaestro, la Duchessa e tutto il corteggio mossero alla volta di Madrid, adoperandosi poscia ciascuno secondo le commissioni e i pensieri suoi nei trattati che si terminarono l'anno seguente.
Le due squadre al ritorno non ebbero altra novità che la perdita di un cavaliero di Rodi, morto a bordo di sua infermità; e l'incontro nella riviera di Genova presso Levanto col famoso duca di Borbone, ribello di Francia, il quale avrebbe voluto violentare il Vettori e l'Airasco, e rimenarli verso Barcellona, se non fossero stati destri a liberarsene[314]. Già costui cominciava a mestare nelle cose nostre, e si disponeva a quelle maggiori violenze che gli fruttarono la morte sui prati di Castello presso di Roma.
[Gennajo 1526.]
Intanto si riposavano quei signori di Madrid, essendosi al principiar dell'anno seguente, nel giorno diciassette di gennajo, conclusa la pace tra l'Imperatore ed il Re. Francesco riacquistava la libertà, cedendo alla fortuna di Carlo i suoi diritti sui regni di Napoli e di Sicilia, sui ducati di Milano e di Genova, sui contadi di Fiandra e d'Artoà[315]. Ma come uscì della prigione, e tornossi a Parigi, si fece sciogliere dalle promesse: e confortato dai principi italiani (cui pesava trovarsi alla mercè di Cesare), strinse una lega, chiamata sacra, con papa Clemente, coi Veneziani, coi Fiorentini e col duca di Milano, e ripigliò la guerra contro l'Imperatore[316].
[26 maggio 1526.]
In quella volendo papa Clemente spedire in Francia un uomo di somma fiducia, che, sotto specie di congratularsi col Re della sua liberazione, vedesse secretamente gli affari della lega di Cognac, spacciò il suo fidatissimo Paolo Vettori, generale delle galèe e castellano di Civitavecchia, come era già previsto nei capitoli pel caso di missione straordinaria[317], e più volte aveva praticato al campo di Lombardia ed altrove, senza smettere per questo l'ufficio di capitano del mare. Paolo, avvegnachè corresse le poste in grandissima diligenza, non oltrepassò Firenze, poichè in quella città improvvisamente pose fine ai viaggi di questo mondo, e giunse ai termini dell'altro, lasciando nella massima costernazione gli amici[318].
La nostra squadra si mise a duolo: negre gramaglie, stendardi a mezz'asta, fiamme col velo, e cannonate a lunghi intervalli. Intanto i pensieri di tutti volgeansi alla novità che avrebbe a portare in quei paurosi giorni l'elezione del nuovo Capitano, come vedremo nel libro seguente.
LIBRO QUARTO. Capitano Andrea Doria,
dei Signori di Oneglia.
[1526-1533.]
SOMMARIO DEI CAPITOLI
I. — Chiamata di Andrea Doria. — I miei Critici. — Confondono Andrea con Giannandrea, sempre da me distinti. — Notizie e ritratto fisico e morale (maggio 1526).
II. — Navigli e soldi per la guardia. — Castellania di Civitavecchia. — Primo corso contro Barbarossa, fugato il pirata, e presigli quindici bastimenti (giugno 1526).
III. — La lega di Cognac. — Capitani e ingegneri papali in Lombardia e Romagna. — Il Doria sulle maremme di Siena. — Piglia Talamone e Orbetello: ritiene Portercole (luglio 1526).
IV. — Assedio di Genova per mare e per terra. — Il Doria a Portofino, i Francesi a Savona. — Fazioni diverse (agosto 1526). — Battaglia navale di Codimonte. — Vittoria contro l'armata di Spagna (19 novembre 1526).
V. — Invasione del regno di Napoli. — Andrea sbarca le bande nere in quei rivaggi (febbrajo 1527). — Tregua e disarmo (25 marzo 1527). — Il Borbone contro Roma, e il sacco (6 maggio 1527).
VI. — Condotta e fede di Andrea in Civitavecchia. — Salva il papa dall'ultimo pericolo (agosto 1527). — Piglia licenza (dicembre 1527). — Passa dalla Francia alla Spagna. — Lascia in Civitavecchia Antonio Doria (15 dicembre 1527).
VII. — Antonio continua il capitanato di Andrea con sei galèe e due brigantini (18 gennajo 1528). — Richieste le nostre galèe dai Gerosolimitani per riprendere Rodi (settembre 1528). — Accompagnamento degli ambasciatori a Genova (1529). — Cessione di Malta a' cavalieri (1530).
VIII. — Solimano in Ungheria. — Soccorsi del Papa all'Imperatore. — Armamento navale. — Scritti di Antonio Doria editi ed inediti (1531).
IX. — I Bonavoglia. — Necessità di tale gente, e metodi di averne. — Vitto, vestito e soldo. — Difficoltà di scriverne nello Stato. — Metodo del giuoco. — Le gazzette manoscritte o Avvisi di Roma (1531).
X. — Forze navali dei collegati e dei Turchi in Levante. — Incontro coi Veneziani. — Scorrerie di ricognizioni (agosto 1532).
XI. — La città di Corone assalita. — Batterie di terra e di mare. — Manovra singolare delle galèe nel battere, non intesa dallo Jal. — I rimburchi per poppa. — Scale volanti, e palischermi blindati (agosto 1532).
XII. — Assalto delle fanterie ributtato. — Assalto delle galèe, e presa di Corone. — Chi fu il primo? (21 settembre 1532).
XIII. — Il soccorso dei Turchi sbaragliato. — Buche di lupo. — Resa del castello. — Moderazione dei vincitori (22 settembre 1532).
XIV. — Corone presidiata. — Nuove ricognizioni infino ai Dardanelli, e ricche prede. — Occupazione di Patrasso e della rôcca (2 ottobre 1832).
XV. — Il golfo di Lepanto, e i due castelli. — Espugnazione di Rio per opera dei marinari. — Sedizione dei soldati (15 ottobre 1532).
XVI. — Assedio di Antirio. — Combattimento alla Campagna. — Il nostro quadrato e le maniche di archibugeri. — Batteria nella notte. — Assalto, uccisione, mina (20 ottobre 1532). — Ritorno ed effetti della campagna. — Cacciato Solimano da Vienna. — Antonio se ne torna in Genova (1533).
LIBRO QUARTO. CAPITANO ANDREA DORIA, DEI SIGNORI DI ONEGLIA.[1526-1533.]
I.
[Maggio 1526.]
I. — A ridosso di uno scoglio nella Liguria occidentale stavasi quasi nascosto per questi tempi un capitano eccellente, che aveva a divenire il più grande e fortunato marino della età moderna, quando papa Clemente trovandosi in grandi maneggi, nel maggior bisogno, senza capitano di mare per la improvvisa morte del suo Vettori, volgeva lo sguardo proprio a quello scoglio che copre il piccol porto di Mentone, e ne cavava Andrea Doria per metterlo al comando della sua armata navale. Questi sono fatti e servigi intimi di un Gentiluomo genovese a un Pontefice romano, di un Doria a un Medici, non c'entra predominio nè di Francia nè di Spagna, e si tratta bene o male della pubblica salute: però fatti e servigi al solito dalla comune degli scrittori, anche in Italia, o non conosciuti o disgradati. Dirò dunque io di Andrea per questi tempi, che offeso già prima dai ministri cesarei pel sacco di Genova, e poi dai ministri francesi per conto di onori e di paghe in Provenza, erasi ricondotto colle sue galere presso il principe di Monaco, dove una volta l'abbiamo incontrato[319]: e dirò che venendogli da Roma l'onorevole chiamata, volentieri coglieva l'occasione di rimettersi al largo. Occasione che, presa di volo, quantunque per breve tempo, doveva far meglio conoscere al mondo quest'uomo, e menar lui e la sua casa alla suprema altezza, dove ai privati sia dato giugnere senza diventar sovrani.
Fin dal principio pregherò i miei critici di non venirmi a confondere questo notissimo Andrea Doria con nessun altro dei tanti Andrea, suoi antenati e successori; e specialmente di non confonderlo con quel Giovanni Andrea figliuolo di Giannettino, cui noi per proprietà e vezzo della nostra lingua diciamo con sola una parola Giannandrea. Confusione incredibile! dove nondimeno sono caduti non pochi dottoroni, e specialmente in Germania lo scrittore di una rassegna intorno alla mia storia della battaglia di Lepanto; articolo inserito nel notissimo giornale storico che si pubblica dal Sybel in Monaco di Baviera[320]. Il Signore della critica avrebbe voluto da me intorno ai campioni della battaglia di Lepanto maggiori notizie cavate dalla vita di Andrea Doria, scritta da Lorenzo Cappelloni, e da Carlo Sigonio. Dalla vita di Andrea, morto undici anni prima di quella battaglia? dal Cappelloni che stampava la vita sei anni prima del combattimento? Dovrem noi dunque abbattuti in terra, e sfatati pur delle cose nostre, menar sempre buono il parere di chiunque presume insegnarci la confusione dei libri, dei tempi e delle persone? Tanto basti per saggio. Tu però con questo, savio lettore, potrai far ragione anche di altri censori, che senza studio e senza cortesia, pigliando l'aria di professori veterani, tanto si manifestano da sè giudici immaturi e incompetenti (massime nelle cose tecniche), a distinguere il vecchio dal nuovo, la cronaca dalla storia, e simili, quanto altri a distinguere il nipote dallo zio.
Volendo più che siami possibile togliere ogni pretesto di sconci equivoci dalla mente di chicchessia, io metto qui a piè l'alberetto genealogico[321]; ed insieme ripeto trovarsi spesso, e ritornare sovente nella casa Doria il nome di Andrea, ora solitario, ora in composizione di altri nomi, per individui diversi: e specialmente altra essere la persona di Andrea capitano di Clemente VII e di Carlo V; altra la persona di Giannandrea capitano di Filippo II, e nipote in quarto grado laterale dell'altro. Del secondo non abbiamo niuna biografia, come ho scritto[322]; del primo parlano tutti i dizionarî storici in ogni lingua e le vite speciali per lui singolarmente composte, dal Cappelloni contemporaneo suo, infino al Guerrazzi contemporaneo nostro. Dunque adesso, che siamo nel 1526, e Andrea è vivo nella storia (non pel 1571, che egli era morto) dobbiamo parlare dei fatti suoi; adesso qui, e non altrove, gli è tempo di ricercare per certi critici il Cappelloni[323].
Andrea Doria, allievo della scuola romana, come colui che qui in Roma sotto Niccolò Doria suo zio, nella guardia papale al tempo di Innocenzo VIII genovese, aveva fatto la prima milizia, era passato poscia a Napoli in servigio degli Aragonesi; poi la seconda volta in Roma col prefetto Giovanni della Rovere; appresso coi suoi genovesi in Corsica; e finalmente, disgustato nella patria degli ostinati disordini tra le fazioni di Francia e di Spagna, porse di buon grado l'orecchio alla terza chiamata della prima città. Aveva allora sessant'anni, essendo nato nel 1466 la notte di sant'Andrea in Oneglia signoria della sua casa; ma vegeto e robusto dimostravasi uomo capace negli altri trentaquattro anni della vita di fare cose grandi. Un bello e nobile aspetto di quella pienezza e gravità che gli antichi hanno espresso nella immagine di Platone: complesso ed alto della persona, un grande ovato di volto, fibroso il collo, ampia la fronte, corta la capigliatura, lunga e distesa la barba, strette e sottili le labbra, l'occhio intento e alquanto fiero, e il muscolo delle ciglia infino al mezzo abitualmente corrugato. Fermo nei propositi, sobrio nei piaceri, parco nelle spese, magnifico nelle utili circostanze, e sempre assegnato del suo e dell'altrui. Tale ce lo mostrano i fatti, e gli scrittori della sua vita, e il suo stesso testamento: e tale ancor si rivela a chi considera l'espressione del suo volto, inciso nelle medaglie, scolpito nei marmi, e dipinto nelle tele, specialmente nel classico ritratto che si conserva nella galleria romana de' suoi discendenti, colorito per mano di Sebastian Luciani, detto dal Piombo, pittore della scuola veneziana di quel valore che tutti sanno, e massime pei ritratti ai suoi giorni ed anche oggi riputato eccellentissimo[324].
II.
[Giugno 1526.]
II. — Ai primi di giugno Andrea era già investito del nuovo ufficio, come capitano della navale armata di Roma, e castellano della fortezza di Civitavecchia, secondo gli stessi capitoli del Vettori. A lui il comando delle due galere e de' due brigantini permanenti; a lui la condotta di altre sei galere di rinforzo, quattro proprie, e due di Antonio suo congiunto. Il nome di questo Antonio deve essere fin dal principio avvertito bene dai lettori e ricordato, perchè entra ora luogotenente, e poscia resterà successore di Andrea; e ci darà materia alla continuazione del libro quarto, come ce l'hanno data pel secondo i due da Biassa. Cresciuti i legni, infino a dieci, anche i soldi del nuovo capitano ebbero a salire da otto a trentacinque mila ducati per anno, facendosene in gran parte il ritratto da nuove gravezze imposte sui macelli: di che malcontenti i beccaj tumultuarono in Roma, e fecero sciopero; dandoci a vedere che niente è nuovo nel mondo[325].
Abbiamo adunque in punto dieci bastimenti, sotto eccellente capitano; e dobbiamo aspettarci degni fatti contro i pirati, se pur non verranno i negoziatori di Cognac a trascinarci altrove. Nel vero, come Andrea ebbe udito il Barbarossa, per allora giovane pirata, esser comparso sulle maremme di Toscana, in quel primo fervore uscì subito fuori del porto coi dieci legni, e più le tre galere di Rodi, avendo coll'autorità del Papa, e coll'esempio del Vettori, persuaso quei signori a seguirlo[326]. La spedizione ben ordinata e presta si coronò di splendido serto, certamente prima che ai nemici fosse arrivata la notizia dell'apprestamento dei nostri marini. Barbarossa aveva già messo a soqquadro le maremme di Toscana, senza trovare niuno che potesse resistergli, o dargli novelle di ciò che fosse di qua dal monte: per ciò usciva baldanzoso dal canale di Piombino, e coi Ponenti della stagione volgeva verso la spiaggia romana. Tutto inteso col guardo sull'orizzonte, cercava la preda, quando gli stessi Libecciuoli che il portavano a Scirocco col carro alla destra, gli posero dinanzi una dozzina di legni militari, coperti di cotone col carro a sinistra, e schierati in battaglia, e tutti abbrivati contro di lui. Si potrebbe dire che quasi agli occhi suoi non avrebbe creduto, se non si fossero mostrate sulle bandiere le chiavi di Roma, e le croci di Rodi; e poi, come non riconoscere all'attrezzatura, alla ordinanza, al brio, i legni militari? Sorpreso all'improvviso, e persuaso di non potere resistere, dette il segno di pronta ritirata, e gittò pel primo la sua galeotta velocissima a remo contro vento. Ma gli altri, tutti in un branco, brigantini, fuste e galeotte, quindici legni, vennero a un tratto nelle mani dei vincitori. I quali con gran festa rientrarono nel porto di Civitavecchia; esultando i popoli vicini e lontani nel vedere distrutta la terribile masnada, imprigionati in gran numero i Turchi, e sciolte le catene a più centinaja di Cristiani, alcuni dei quali allora allora avevano cominciato a remigare. La memoria di questo fatto importante sarebbe perita, come tante altre delle nostre, se l'intramessa delle tre galere di Rodi non avesse dato ragione al Bosio di registrarla ne' suoi annali[327]. Dunque al testo dell'Ariosto possiamo ora aggiugnere più largo commentario, confermandone la sentenza in ogni parte, anche nella zona della spiaggia romana, dove ai nostri tempi si sarebbe meno pensato[328].
III.
[Luglio 1526.]
III. — Intanto pubblicavasi la Lega di Cognac, e gli alleati scopertamente si apprestavano alla guerra contro l'Imperatore. Cacciarlo dalla Lombardia, mutargli lo stato di Siena e di Genova, torgli il regno di Napoli, pareva loro altrettanto facile nell'esecuzione, quanto lo sentivano nel desiderio[329]. Io non voglio allontanarmi dal mare: perciò lascio da parte la Lombardia, dove pestava il conte Guido Rangoni, il famoso Giovanni dei Medici, e Francesco Guicciardini; e dove già erano andati per commissione di papa Clemente a rivedere le fortezze di Romagna e di Piacenza Antonio da Sangallo, Michele Sammicheli, Battista il Gobbo, Antonio dell'Abbaco, e Giulian Leno[330]. Lascio dentro terra questi capitani ed ingegneri, e mi accosto alle maremme di Siena, dove il Doria si avvicina per sostenere gli eserciti campeggianti in Toscana.
Voleva Clemente metter giù il reggimento popolare dei Senesi favorevole agl'Imperiali, e rialzare contro di loro il partito dei Petrucci, a capo dei quali era Fabio, congiunto per matrimonio colla casa dei Medici. Perciò dal confine di Viterbo e d'Orvieto aveva spinto dieci mila tra fanti e cavalli contro Siena; e da Civitavecchia aveva fatto uscire Andrea colle galèe e mille fanti di sopraccollo per sostenerli. I dieci mila romani, fiorentini e forusciti, coi commissari Antonio Ricasoli e Roberto Pucci, al primo scontro in campagna furono rotti dai Senesi, colla perdita di tutta l'artiglieria, e di quasi tutto il bagaglio. Restò a compensare i danni minaccioso il Doria dalla parte del mare. Egli prese quante vettovaglie di là venivano ai Senesi, impedì i soccorsi, assaltò i porti, ebbe Talamone ed Orbetello, e presidiò stabilmente Portercole[331]. Quest'ultima piazza ritenne per quattro anni, arrabattandosi indarno i priori di Siena tra le ritortole della Curia e di Andrea, finchè il capitan Cencio Corso con improvvisa battaglia di mano non l'ebbe ricuperata ai Senesi nel mese di febbrajo del 1530.
IV.
[Agosto 1526.]
IV. — Maggior travaglio aveva a portare la mossa verso Genova; dove governava Antoniotto Adorno, sostenuto dal partito imperiale. Pensate Genova, città da rendere buon conto a chicchessia coll'armi in mano; pensate Antoniotto, bene assettato nel palazzo ducale, e risoluto insieme cogli aderenti suoi di non volerne uscire; pensate i capitani di Carlo V, attaccati coi denti a quella piazza importantissima tra tutte in Italia, ed anello necessario per carrucolare verso la Spagna, Napoli e Milano; essendo chiusa ogni altra linea, specialmente dai Francesi, e sapendo che perduta Genova, nè uomo più, nè soldo, nè altro qualunque soccorso sarebbe potuto passare. Dunque qui il nodo principalissimo, e qui il contrasto maggiore.
Ne fu scritto al Doria, il quale rispose non esservi altro mezzo che stringere Genova dalla parte del mare; mettersi con due armate nelle due riviere, e tenersi pronti di qua e di là a combattere unitamente contro l'armata di Spagna, che nel mezzo verrebbe per certo a portarle i soccorsi. Disegno strategico. Se fosse stato eseguito a tempo, niun dubbio che avrebbe dovuto Genova aprir le porte, Antoniotto fuggire, e i Cesariani cadersi in pessimo termine. Ma la bisogna delle leghe va sempre a un modo; ciò è dire con poca corrispondenza reciproca. Andrea si accostò presso alla riviera di levante, ma i Francesi tardarono dall'altra di ponente, i Veneziani non comparvero in tempo, e gli Spagnuoli ebbero tutta la comodità di provvedere. Entrarono alla spicciolata, genti, vettovaglie, danaro; venne di Spagna fresco fresco il duca di Borbone, col grado di capitan generale dell'esercito cesareo in Italia.
Finalmente a mezzo agosto l'armata di Francia col conte Pietro Navarro prese Savona, favorito dagli abitanti, nemici dei Genovesi; intanto che dall'altra parte Andrea Doria colle galèe del Papa e dei Veneziani faceva testa a Portofino, mettendovisi di forza per mare e per terra. Aveva seco i dieci legni della squadra papale, ed una quindicina della veneziana, venuti alla fine in questi mari, secondo i patti della lega, sotto il governo di Luigi Armero[332]. Così stettero tre mesi stringendo il blocco da levante e da ponente: a niuno più concesso nè l'entrare nè l'uscire, cresceva dentro maggiormente la penuria, e fuori vie meglio l'abbondanza per le molte e continue prede che le due armate facevano sul mare[333]. E in quel mezzo Filippino Fieschi, governatore delle armi a Portofino, col rinforzo di ottocento marinari buttatigli in terra da Andrea, dava la mala paga ai Cesariani che si erano arditi di trasalire il monte, pensandosi vanamente di poter riscuotere quel posto, e di allargare alquanto il blocco dalla parte di terra[334].
[19 novembre 1526.]
Finalmente il grosso dell'armata spagnuola salpava da Cartagena per rifornire la piazza di Genova: venti galèe di scorta, ventidue navi da carico, grandi provvigioni, molti cavalli, quattromila fanti veterani, Ferrante Gonzaga, Ferdinando Alarcone, e don Antonio Lannoy vicerè di Napoli, venivano di lungo verso il golfo: ma costretti da grossa tempesta di scirocco, riparavano a san Fiorenzo sulla estremità boreale della Corsica, aspettando l'opportunità di movere tutti uniti al soccorso di Genova[335]. Per opposito i confederati si mettevano in punto con deliberazione di tenere il passo, e in gran fretta da Portovenere chiamavano quelle galèe veneziane che vi si erano raccolte a spalmare. Assembrati distesero l'ordinanza, mettendo in battaglia quarantaquattro legni di linea così[336]: sedici galèe e quattro galeoni di Francia, tredici galèe di Venezia, e undici del Papa: al centro Pietro Navarro, alla destra Andrea Doria, alla sinistra Luigi Armero, i galeoni alla fronte.
Disposta in tal modo l'ordinanza, e mandate a ciascuno le istruzioni precise per governarsi nello scontro imminente, si volgevano di faccia al vento, persuasi che il nemico con tante navi quadre non potrebbe venire altrimenti che sotto vela, di buon braccio, e secondo il rombo della giornata, come e dove essi aspettavano. Nè ebbero ad indugiarsi gran fatto, chè a diciannove di novembre ecco l'armata di Spagna dalla parte di Sestri orientale; e incontanente i confederati all'incontro dal ridosso di Portofino, navigando quelli a vela e questi a remo risolutamente gli uni contro gli altri. S'incontrano dinanzi a quella lingua di terra che i Genovesi chiamano Codimonte[337]. Pietro Navarro intima la battaglia con un tiro di corsia, colpisce giusto, e mette abbasso l'asta e la bandiera dell'almirante spagnuolo: grida di lieto augurio tra i confederati, e di confusione tra i nemici. Il Doria e l'Armero volano innanzi arrancati, e gli altri a gara contro i vegnenti, traendo a furia di tutte le artiglierie. In breve le due armate di qua e di là si avvicinano, sparisce il campo del mare interposto, si mescolano, si urtano, si afferrano; e rimane una selva intricata d'alberi e d'antenne, scossa dal fuoco, dal ferro, e dal cozzo. Una nuvola di fumo corre sull'orizzonte: bassa e bianca a prima uscita; ma crescendo i tiri si condensa colle fumate seguenti, si leva in vorticose spire, torreggia, si oscura, intercetta la luce da ponente, e nasconde il sole prima del tramonto. Tra quel tenebrìo, quanto tu mai intesamente riguardi, non vedi che lampi contro lampi; e non odi che il rombo del tuono tutto intorno, e lo scroscio delle murate, e il precipizio degli attrazzi, interrotto soltanto dal fremito dei combattenti. Il mare intorno si fa livido, copresi di rottami, ribolle. E dopo quattro ore di combattimento, quantunque cresca la notte, puoi vedere l'armata spagnola rotta dalla testa alla coda, alcune navi sommerse, altre prese, e la maggior parte in fuga per l'alto mare, e malconce, correre per ricetto inverso Napoli. Il vento e la notte levano gli avanzi delle loro navi dinanzi alle nostre galere[338]. Dunque gli alleati mantengono il blocco, e lo stringono maggiormente: ma non per questo Genova apre le porte; anzi ostinata nella difesa fino agli ultimi di agosto dell'anno seguente, aspetta di aprire le porte al Doria, al Trivulzio, e alla girata del re Francesco.
V.
[Gennajo-febbrajo 1527.]
V. — Or qui la materia sempre più mi si arruffa: ed io nè voglio allungar le fila, nè posso troncarle. Sento dentro di me la stessa ambascia, già provata da Jacopo Sadoleto, vescovo allora e consigliero di papa Clemente, e poscia amplissimo cardinale, quando inutilmente studiavasi a dissuadere coteste guerre intestine[339]. La stessa ambascia dico, e forse maggiore: perché a lui fu concesso allontanarsi, ed a me non è dato potermi tirare da parte. Metterò dunque in compendio quanto per necessità delle seguenti sciagure mi tocca.
Il Lannoy, novello vicerè, sbarcato a Napoli dopo la rotta di Codimonte, piglia il comando dell'esercito imperiale, passa i confini, occupa Frosinone; e i Colonnesi in favor suo levano rumore nella Campagna. Renzo da Cere e Alessandro Vitelli ricacciano indietro il Lannoy, e costringono i Colonnesi alla fuga. Clemente allora chiama il conte di Valdimonte, ultimo rampollo della casa Angioina per metterlo colle armi sul trono di Napoli[340].
Andrea Doria, richiamato a Civitavecchia, imbarca le terribili bande nere, capitanate da Orazio Baglioni per la morte di Giovanni de' Medici, ucciso poco anzi da una archibugiata nel Mantovano[341]: imbarca alla Fiumara del Tevere il nuovo Re di Napoli, che procedendo come luogotenente del Papa, e sostenuto dalle forze di Venezia e di Francia, occupa Ponza addì ventitrè di febbrajo; e di là coi proclami e colle armi piglia Mola di Gaeta, Torre del Greco, Castellamare, Sorrento e Salerno[342].
Al tempo stesso Renzo da Cere, Alessandro Vitelli, Orazio Baglioni, Battista Savelli, Pietro Biraghi ed altrettali condottieri del Papa s'impadroniscono di Tagliacozzo, di Sora, dell'Aquila, e già già si appressano alle mura di Napoli, secondo i disegni preparati dai tattici maggiori della lega. Tutto a seconda dei loro desiderî nell'Italia meridionale, e continuati successi delle armi per terra e per mare[343].
[25 marzo 1527.]
I Cesariani dall'altra parte, palpitanti all'imminente e finale rovescio, pigliano l'unico partito che resta ai disperati in questa fatta guerre. Mandano oratori al Papa, si gittano in ginocchio, e fanno ogni sforzo di spaventi e di tranelli per distaccarlo dalla lega. Ora essi pensano al pianto dei popoli, al sangue degli innocenti, al trionfo del turco, ai progressi dell'eresia: in somma non chiedono altro che tregua. E i ministri di Roma con Cesare Fieramosca, inviato dal Lannoy, addì venticinque di marzo in fretta e in furia, con poca participazione degli alleati, sottoscrivono la tregua di otto mesi. Il Lannoy sgombra dagli strali della Chiesa; e Clemente richiama indietro da ogni campo le milizie e i capitani, dando il congedo a tutti per levarsi dalle spese[344]. Pensate sorpresa e rabbia di Francesi, di Veneziani e di Fiorentini: pensate scorno e rovina di Curia e di Romani. Ecco il punto: restiamo soli, e disarmati.
[5 maggio 1527.]
Il duca di Borbone venuto poc'anzi di Spagna a Genova e a Milano, con suprema autorità, come ho detto; già indettatosi con Carlo, e conscio più che altri delle segrete intenzioni di lui per ogni caso di questa guerra[345]; non vuole udir verbo nè di pace, nè di tregua, nè di Lannoy; dicendo non avere esso sottoscritto nulla, nè esser tenuto a nulla dalla firma degli altri: anzi a reciso protesta di volersi continuare nella marciata verso Firenze e verso Roma. Francesco Maria della Rovere, duca d'Urbino e generale dei Veneziani, richiamato dai suoi signori per questi casi oltrepò, consapevole dell'animo dei Medici sul conto dei Rovereschi, e dei fatti di Lorenzo già duca d'Urbino, chiude gli occhi, e lascia fare. Dunque il Borbone si avanza dalla Lombardia verso Roma senza ostacolo; e con lui il famoso Frandesberg degli strozzini, e trentamila uomini d'ogni nazione, tedeschi, svizzeri, spagnuoli, fiamminghi, luterani e ribaldi. Costoro sicuri per lo scioglimento dell'esercito papale, e tratti all'esca dell'ingordo bottino, danno l'assalto a Roma addì cinque del mese di maggio 1527.
[6 maggio 1527.]
E quantunque il traditore di Francia, e corifèo di Spagna miseramente lasci la vita nei prati di Castello, nondimeno l'opera scellerata si compie pei seguaci del suo nome: i quali nel dì sei di maggio uccidono quanti vogliono per le strade di Roma, dicono quattromila cittadini; e saccheggiano la città, le chiese, i monasteri con tanto sfogo d'avarizia, di libidine e di crudeltà, quanto mai nè prima nè dopo, nè dalle barbare genti nè dalle incivilite, non si era veduto nella afflitta città[346].
VI.
[Giugno-luglio 1527.]
VI. — Ora non mi talenta il seguire lo svolgimento dei trattati intorno alla persona del Papa, nè il discorrere della sua ritirata e dimora in castello Santangelo, nè della fuga in Orvieto, nè del Governo che fecero l'Imperatore e i Confederati di questo intricatissimo negozio. Lascio cui spetta il riconciliamento di Clemente e di Carlo, la coronazione di Bologna, e l'assedio di Firenze, dove niuna parte ebbe, nè bella nè brutta, la mia marina. In quella vece invito il lettore a venir meco dove ci aspetta Andrea Doria: il quale sorpreso dagli inaspettati avvenimenti, senza istruzioni, senza paghe, e senza partito, nondimeno meglio di ogni altro coll'ingegno e colla fede giovò alla causa ed alla incolumità del Pontefice. Imperciocchè avendo ripigliato personalmente la castellania della fortezza, e il comando della piazza in Civitavecchia, coi marinari e co' soldati delle galèe e coll'ajuto dei terrazzani, trovandosi in luogo forte per natura e per arte, non volle mai consegnare la città agli Imperiali; ma vi si tenne sempre fermo e in buon ordine, tanto che coloro non si ardirono di assalirlo: per opposito presero a carezzarlo, pregandolo con molte lusinghe ed impromesse, che volesse accettare la condotta ed unirsi con Cesare[347]. Ma egli, fermo nel proponimento e nella fede, non si lasciò mai abbindolare. Anzi più per messi secreti scrisse al medesimo Papa le proposizioni degl'imperiali: e da lui privatamente fu consigliato di non dover prestare orecchio alle loro ricerche; ma di starsene fermo in Civitavecchia, e di guardarne il porto, altrimenti sarebbe cagione di farlo condurre prigioniero in qualche fortezza di Spagna, come era successo nel caso simile al re Francesco per la via del porto di Genova. Conchiudeva consigliandolo di non si muovere, finchè egli non fosse fuori del pericolo; e poscia di accostarsi più tosto ai Francesi, che agli Spagnuoli, quando ne verrebbe il tempo[348]. Di questi fatti non meno importanti alla storia universale, che alla marina, gli storici nostri municipali non fanno motto.
[Agosto 1527.]
Andrea eseguì di punto in punto i consigli privati: si tenne costante alla guardia del mare, e il primo dei suoi sigilli, pubblicato dall'Olivieri[349], si trova ancora attaccato ad una lettera che esso scriveva da Civitavecchia nel mese d'agosto di quest'anno, raccomandando ai protettori del banco di san Giorgio in Genova l'abate Imperial Doria, eletto vescovo di Sagona in Corsica, del quale avrà a tornare il discorso. Finalmente quando ebbe veduto alquanto di quiete, e l'animo di papa Clemente già volto agli accordi, condusse le quattro galèe di sua proprietà in Savona[350]; lasciando nondimeno con altre sei galèe e due brigantini alla guardia di Civitavecchia Antonio Doria, suo luogotenente; il quale fu poscia confermato dal Papa nello stesso carico di capitano[351]. Antonio ci darà materia alla continuazione di questo libro, intestato col nome della casa Doria.
[Dicembre 1527.]
Così terminò sullo scorcio dell'anno ventisette il capitanato di Andrea. Itosene appresso al soldo di Francia, ebbe il grado di generale, e l'Ordine di san Michele: ma non tardò guari a nuovamente disgustarsi del re Francesco. Dopo la pacificazione di Roma, addì trenta giugno dell'anno ventotto fuggì di Provenza, e si condusse a servire Carlo V, dal quale non si distaccò mai più. Capitan generale del mare, e di tutte le armate di Spagna, principe di Melfi, cavaliere del Tosone, grande di prima classe, oppresso da molti fardelli, e legato a straniera fortuna, sempre ugualmente bravo, ma non sempre altrettanto sincero, divenne tra le mani di Carlo strumento necessario della pubblica servitù, mascherata con grande artifizio in diverse maniere, e indarno voluta scuotere coi maneggi e colle armi dai principi, dai popoli, e dai Papi quanti furono tra Clemente VII e Paolo IV. Non dico di più: il suo nome e i suoi fatti torneranno sovente infino alle ultime pagine di questo e dell'altro volume.
VII.
[1528.]
VII. — Continuandomi nel mio subbietto, so di entrare nei pensamenti dei nostri marini, che, scossi dagli strani ed infelici successi di Roma, argomentano il termine della loro intramessa nelle guerre intestine, tanto stranamente governate; e sospirano la levata delle armi a più degne imprese contro il nemico comune. Dopo la partenza di Andrea, trovo sei galèe e due brigantini armati e pronti ad ogni fazione nel porto di Civitavecchia; trovo al governo il capitano Antonio Doria, già luogotenente del cugino; e vedo intorno a quei legni principi, ambasciatori, soldati e venturieri fare assegnamento[352]. Vedo altresì in quel porto i Cavalieri gerosolimitani riarmare la loro squadra, e costruire galèe di nuovo, come quelli che, tenutisi da parte con savio consiglio durante il sacco di Roma, meno di ogni altro avean sentito il peso delle recenti sciagure[353]. Entrati poscia nelle smanie di fare qualche cosa, e molto più ristucchi della precaria dimora in casa altrui, fantasticavano sopra Rodi, sperando di potervi ritornare, se pur riuscisse di ritogliere per forza, per sorpresa e per secrete intelligenze l'isola dalle mani dei Turchi. Il Grammaestro e i suoi davansi di ciò gran faccenda: e vedevasi continuo andirivieni di cavalieri e di emissarî, da levante e da ponente, senza che altri potesse penetrarne la cagione. Ma ben sapevane papa Clemente, il quale aveva promesso al balì Salviati, suo nipote, di ajutare l'impresa con tutte, o con una parte delle sue galere[354].
[29 giugno 1529.]
Se non che la prima mossa di quei legni non poteva non rispondere alle mutate condizioni della curia, ed al rivolgimento di Clemente verso la fortuna prepotente di Carlo. Dimentico delle atrocissime ingiurie, l'istesso Papa sottoscriveva addì ventinove di giugno il famoso trattato, pel quale l'eletto Carlo doveva venire in Italia, ricevere la corona dell'imperio, dare la Margherita d'Austria ad Alessandro dei Medici, rimettere in maggiore grandezza questa Casa, e consentire a tante altre cose, che non mi torna il ripetere[355]. Però nè le galere gerosolimitane si volsero a Rodi contro i Turchi, nè le pontificie ad accompagnarle; ma tutti insieme corsero verso Genova incontro a Cesare, che aveva a venire per la via del mare di Spagna.
[12 agosto 1529.]
Tra i grandi e dei primi entrò nel porto con tutta la squadra papale di galèe e di brigantini Alessandro dei Medici, futuro duca di Firenze, accompagnato dal cardinale Ippolito suo cugino e da solenne ambascerìa per complire con Cesare a nome di papa Clemente, e per confermarlo nella opinione della benevolenza sua[356]. Poscia comparvero baroni, prelati, e ambasciatori di ogni parte di Spagna, di Germania e d'Italia; e finalmente ai dodici di agosto sull'ora di vespro ecco Carlo d'Austria, ecco la capitana di Andrea Doria, e trentasei galere in ordinanza, e settanta vele quadre tra caracche e navi grosse, ed altri ventiquattro legni sottili, come brigantini, fuste, trafurelle[357], e fregate; in tutto all'incirca centotrenta bastimenti: più dodicimila soldati di sbarco, e dumila cinquecento cavalli di guerra[358]. Dunque bellissime feste in Genova liberata.
Appresso quei signori, con Cesare, e fanti, e cavalli, e bisogni, andarono verso Bologna, dove nell'ottobre sopravvenne papa Clemente, il quale di sua mano coronò Carlo re ed imperatore nel mese di febbrajo dell'anno seguente.
[24 marzo 1530.]
Colà in Bologna, coll'autorità e favore del Papa, il Grammaestro ed i Cavalieri gerosolimitani ebbero da Carlo V la donazione della città di Tripoli in Barberia, e per loro residenza l'isola di Malta, donde presero il nome, col quale anche noi da qui innanzi comincieremo a chiamarli[359].
VIII.
[1531.]
VIII. — Intanto Solimano imperatore dei Turchi non erasi tenuto neghittoso: ma delle guerre intestine tra i Cristiani lietissimo, dopo aver percorso l'Ungheria e saggiato la strada fin sotto alle mura di Vienna, accennava di voler ripigliare la campagna con potentissimo esercito per venire dalla valle del Danubio nel centro di Europa[360]. Carlo imperatore, e il fratello suo Ferdinando re dei Romani, chiedevano istantemente gli ajuti del Papa[361]: il quale l'anno seguente mandò in Germania il cardinal dei Medici suo nipote con buona scorta di veterane milizie, e capitani famosi, e cavalli di guerra, ai quali fu dato con gran dimostrazione di valore, e grandissima strage d'infedeli, sciogliere l'assedio e liberare la fortezza di Clissa in Ungheria. Il fiore dei capitani e gentiluomini italiani si trovò raccolto in quei campi, dove erano Marzio e Pirro Colonna, Battista Castaldo, Alfonso del Vasto, Piermaria de' Rossi, Filippo Tornielli, Ottone di Montaùto, Guido Rangoni, e Sforza Baglioni, uniti col grande ingegnere militare Gabriele Tadini di Martinengo, e col celebre condottiere Ferrante Gonzaga[362].
Questo sia detto delle cose di terra per anticipazione e in iscorcio, dovendo io a preferenza occuparmi della marina, dove al tempo istesso Cesare e Clemente con ottimo consiglio preparavano sforzo di grossa guerra. Assalire Solimano alle spalle, minacciare la reggia di Costantinopoli, e togliergli il più che si potesse della Grecia divisavano, volendo così distaccarlo per forza dall'Ungheria. Sapevano bene che la principale difesa consiste nell'offesa; e che non si libera in altro modo più facilmente il proprio territorio, quanto invadendo il territorio nemico. L'esempio di Scipione valeva allora e varrà sempre per tutti.
A tal fine papa Clemente ordinava ad Antonio Doria di crescere la squadra fino a dodici galèe, e di tenersi pronto alla primavera prossima per seguire in Oriente l'armata imperiale[363]. Antonio medesimo tutto aperto, parlando pur brevemente di sè, come era uso, ed in persona terza, ne fa ricordo nelle succinte pagine di quel Compendio storico che dopo quarant'anni licenziò alle stampe, facendo pensiero di magnificare soltanto le glorie di Carlo d'Austria e dei successori, coi quali si era intimamente legato[364]. Però spese l'annata nel costruire e nel mettere in buon assetto le dodici galere, e nel far gente per armarle. Cosa facile nel trentuno: abbondava il danaro, e similmente numerosi vivevano senza partito i soldati e i marinari congedati a cagione della pace rimessa e delle guerre finite in ogni parte d'Italia. A lui la scelta dei migliori uomini di mare nei paesi littorani; a lui la chiamata dei più valenti delle bande nere e di quegli altri che avevano combattuto in terra di Roma e di Toscana.
Aveva Antonio intorno agli armamenti i suoi pensieri particolari; di che ha pur lasciato memoria negli inediti suoi Discorsi sulle cose turchesche per la via di mare, dei quali viene in concio dare breve sunto per chiarire gli apprestamenti suoi di quest'anno colle sue stesse parole[365]. Dice non potersi fare armata di mare colle navi a vela, ma soltanto colle galere, le quali pel remeggio possono andare dove vogliono: e ne adduce tutte quelle ragioni che si potrebbero oggidì mettere assieme per dimostrare che non si può chiamare naviglio di linea quello, il quale non abbia la macchina a vapore. Quanto alle navi quadre di alto bordo, che vanno a vela, dice ricisamente impossibile farle navigare insieme colle galèe; e quindi non essere bastimenti da mettere in linea di battaglia; perchè la diversità della forza motrice, e le svariate condizioni del vento e del mare le costringeranno cento volte a separarsi, e daranno al capitano nemico tutto l'agio di schivare, o di cercare, o di differire il combattimento a suo talento; e di attaccare o quelle o queste a ritaglio. Dunque mette le galèe in battaglia, e le navi in convoglio appresso e distaccate per trasportare munizioni, macchine, cavalli, e artiglierie, all'occasione dello sbarco. Ad ogni galèa assegna ottanta soldati archibugeri e picchieri, coll'obbligo di adoperare l'arme in asta o l'arme da fuoco, secondo il bisogno e secondo l'incontro da vicino o da lontano. A ciascuno la difesa di corazzina e di celata, contro le frecce, sempre in uso tra i Turchi. Il vitto e il soldo di soldato e di marinaro limitato a quattro ducati in ogni mese, «Come si è sempre fatto, e si fa tuttavia, per li ministri di dette armate.» Vorrebbe che si lasciasse il carico degli ufficî principali ai medesimi uomini del paese dove si armano le galèe; e dai luoghi istessi vorrebbe cavare per ciascuna sessanta marinari ordinarî, oltre le ciurme di cento cinquanta persone per galèa, e quanta più si possa gente di Bonavoglia. Conchiudendo colla somma complessiva di cinquecento ducati d'oro al mese per ciascuna galèa. La stessa cifra segna il Bosio, ed ambedue (sottratto lo scioverno) ritornano alle conclusioni dei nostri documenti a suo luogo prodotti[366].
IX.
IX. — La scrittura altresì del nostro Capitano parla qui avanti dei rematori di Bonavoglia, e sorge spontanea la domanda del lettore, che cerca chi fossero costoro, i quali sotto il grazioso titolo coprivano la più disperata condizione della vita; e similmente qual colpa o sventura li menasse al tristo mestiero, e qual legge o costumanza della società ne reggesse la sorte. Alcuni tra i moderni vorrebbero far le viste di intenderla questa materia; ma la toccano appena, nè valgono per ogni caso le loro spiegazioni. E perchè non si può lasciar correre senza chiarirla una costumanza marinaresca, che ritorna nei classici, negli storici e nei documenti, ne dirò narrando fatti, e così meglio si intenderanno le risposte in materia di fatto.
Un giovane robusto e sano, stretto dal bisogno, o dai debiti, o dal giuoco, o da qualunque (anche onesta) ragione, pognamo di soccorrere i genitori o di dotare una sorella; in somma chiunque voleva danaro per quei tempi, purchè fosse robusto e giovane, egli poteva trovare banco aperto di sicura e pronta riscossione in qualunque città marittima, ove stanziavano galèe. Andare al provveditore, chiedere, per esempio, cento monete, era tutt'uno che toccarle; dato che il postulante scrivesse subito di sua mano coi testimoni l'obbligo di scontarle di buona voglia col remo in galèa. Dopo di ciò il candidato, messo ai ruoli, vestito della assisa comune dei rematori, e rasato di ogni pelo, meno i mustacchi, era condotto a bordo, e messo in catena al suo posto, perchè la persona sua stesse a mallevaria delle monete[367].
Colà egli aveva il vitto al pari dei marinari: pan fresco o biscotto due libbre ogni dì, una pinta di vino, tre once di minestra, una libbra di carne fresca, o mezza di salata; e nei giorni di astinenza sei once di cacio o di pesce; che tutt'insieme per quei tempi si valutava due scudi per mese, o scudi ventiquattro per anno, che venivangli pagati a titolo di razione[368]. Or sopra questi ventiquattro il novello bonavoglia non poteva fare assegnamento niuno per iscontare il debito dei cento, bisognandogli consumarli alla giornata per vivere. Quindi non gli restava che il misero soldo di altri due scudi per mese, cioè di ventiquattro scudi per anno, coi quali doveva livellare il danaro ricevuto. Nondimeno bisogna aggiugnergli dispendio coll'obbligo di vestirsi del suo, e di rinnovare nella primavera d'ogni anno il proprio corredo, mettendoci all'incirca sei scudi; e precisamente scudi sei, soldi trentotto, e cinquantotto centesimi di soldo, secondo la valuta del danaro e dei drappi in quel tempo[369]. Ondechè per saldare col residuo delle mercedi il debito di cento monete egli era in obbligo di remigare per cinque anni, sei mesi, e quattro giorni. Supponiamo sempre regolare il rilascio del soldo: chè se in quella vece ne toccava parte, o vero se richiedeva ulteriori prestanze (posto che al provveditore fosse parso continuargliene), allora proporzionalmente, come sopra, avevano a crescere gli anni dello sconto, e la durata del servigio.
Nello Stato romano era legge il mettere in ogni galèa da venticinque a trenta di bonavoglia, cioè dire almeno uno per banco. La ragione è chiara ugualmente dal fatto: chè non essendo costoro nè infedeli come i turchi, nè disperati come i galeotti a vita, non potevano avere comune con esso loro l'animo e l'interesse di ribellarsi e di fuggire: ma in quella vece, stando sempre di mezzo agli altri, dovevano più di chi che fosse avvertire se alcun trattato di sollevamento si ordisse; e dovevano dar mano a sventarlo. Certamente avrebbe voluto il turco impadronirsi della galèa e menarsela coi cristiani legati in Barberia; di che giorno e notte ciascun di loro farneticava: probabilmente il forzato a vita si sarebbe, e talvolta si è, unito co' turchi nella speranza di miglior fortuna. Non mai si è visto che vi consentisse un bonavoglia, essendo moralmente impossibile che questi entrasse nel rischio della rivolta, dove aveva tutto a perdere e nulla a guadagnare. Da ciò possiamo intendere altresì come la interna sicurezza della galèa in gran parte si posava sulla fede dei bonavoglia. Essi in quella mescolanza di pirati, di malfattori e d'infedeli, essi erano a frenare gli schiavi, essi a contenere i forzati, a regolare la voga, a riveder le catene, a guardare le spalle dei marinari, a scoprire i complotti; ed essi, in caso di combattimento dubbioso, erano pronti a pigliar l'armi, come più volte è successo, ed a far traboccare la bilancia in nostro favore. In tal caso ogni conto saldato subito al ritorno nel porto.
Perciò i governi che solevano tenere armate di galèe davano a destri uomini il carico di arruolarne in buon dato: e costoro entrando per le bettole, pei ritrovi degli oziosi, e principalmente per le case di giuoco, prestavano danari a chi ne voleva, col patto che, non restituendo a tempo, si avesse a scontare in galera[370]. Laonde allora tutti i giocatori guadagnavano qualcosa: e chi danari, e chi remi. Questo metodo si osservava in Napoli, questo in Malta[371], in Messina, e specialmente in Venezia; dove si armavano talvolta le galèe a centinaja, per le quali non bastando a quei signori la gente che si poteva scrivere nella città e nel dominio di terraferma, mandavano uomini loro a cavarne di Dalmazia, dalle isole Jonie, e sopra tutto dalle due Sicilie, dove abbondavano i disperati[372]. Colà è ancor vivo tra la plebe il motto, comunemente anche adesso ripetuto, avvegnachè da pochissimi ben compreso, col quale sogliono rimbeccare chiunque richieda dispendio difficoltoso, dicendogli: Vuoi tu dunque che io abbia a vendermi al Veneziano? Vedete in quali pieghe si nasconde la tradizione sempre durevole dei fatti strani.
La maggior difficoltà, che sempre incontravasi in Roma, volendo armar galèe, era la penuria dei rematori. Se squillava la tromba, o se batteva il tamburo per le strade, facendo la chiamata di soldati, come allora si costumava, tu vedevi piene in un giorno le compagnie di bella e fiorita gente; e la gioventù dell'Umbria, del Lazio, della Sabina, delle Marche e della Romagna seguire a migliaja le bandiere degli Orsini, dei Colonnesi, dei Savelli, dei Baglioni, dei Pepoli, dei Malvezzi, dei Farnesi e di altrettali, nelle Fiandre, in Germania, nell'Ungheria, in Levante: ma sul punto dei remi alla catena, niuno voleva saperne. Tra poco c'incontreremo col patriarca Grimani alla Prevesa, che per mancanza di rematori sarà costretto disarmare quattro delle nostre galèe, e colla gente di quelle rinforzare le altre trenta. Similmente al tempo di Sisto V, dovendosi armare in Civitavecchia dieci galèe nuove, e non bastando per far ciurma il vuotare le carceri dello Stato, nè il far venire centotrenta schiavi da Malta[373], bisognò acconciarsi al metodo della bisca.
Era allora vivissima e generale la passione pei giuochi d'azzardo: e il danaro in via dei Banchi per niuna cosa tanto correva, quanto per le scommesse[374]. Si metteva la posta su tutto: sulla vita e sulla morte delle persone, sui matrimonî, sulle promozioni, sulle guerre, sulle paci, sulle cose future, anche illecite. E perchè l'interesse e il puntiglio volevano vinta la scommessa, non di raro co' tranelli si faceva di produrre o d'impedire questo o quello, perchè l'esito rispondesse alla predizione. Basta leggere le istorie particolari di quel tempo, e più di tutto le leggi, i bandi, e gli editti della potestà civile e della ecclesiastica nel corso del secolo decimosesto, per restarne pienamente convinti[375]. Ciò supposto gli arrolatori aprirono tre giuochi d'azzardo, uno in Trastevere, uno alla Regola, ed uno ai Monti: con questo però che chiunque perdeva, e non pagava, andar dovesse a scontare il debito di bonavoglia in galèa. Pensate concorso di giuocatori! In quelle nottate di primavera una turma di servitori, di cavalcanti, di stallieri, e di cuochi partivano imbrancati per Civitavecchia, le galèe ben fornite scioglievano i canapi, e le dame e i cavalieri e i grandi signori si levavano la mattina senza domestici[376].
Tiro fuori dagli Avvisi di Roma queste notizie importanti per la storia dei costumi e della marineria del secolo decimosesto: ed ora avendone il destro, e dovendo quinci innanzi qualche volta citarli, metto giù alcune notizie poco comuni intorno ai detti Avvisi, perchè il lettore sappia donde traggo talora le testimonianze, e come egli possa ordinare i riscontri.
La prima gazzetta pubblicata colle stampe in Roma è il Diario per le guerre dei Turchi in Ungheria, che comincia addì cinque di agosto del 1716, e se ne conserva tutta la serie (rarissima collezione) alla nostra Casanatense. Prima di quello in Roma non si stampavano gazzette. Ma essendo gli uomini prima e dopo egualmente desiderosi di sapere ciò che alla giornata succedeva dentro e fuori della città, e non avendone allora copia a stampa, supplivano colle gazzette manoscritte, che chiamavano Avvisi. Per essi correvano notizie pronte a chi pagava, e lucro stabile a chi scriveva. Raccogliere e accertare i particolari dei fatti interni, e talvolta anche le dicerie della città; tenere corrispondenza coi paesi lontani, stendere i racconti, cavarne le copie e distribuirle, era ufficio di quei giornalisti a penna, come dei moderni a stampa. Anzi più: che non facendosi la distribuzione se non a personaggi di alto affare, per intramessa e secondo gli interessi di taluno tra loro, cascavano talvolta nelle pagine degli Avvisi notizie arcane e importantissime, che difficilmente adesso si cercherebbero altrove. Quindi le gelosie fiscali e non di raro i sequestri e le sospensioni degli Avvisi. Certamente ricordo io stesso di avervi letto del bargello, delle perquisizioni e della prigionia del giornalista in Tor di Nona; tutto narrato da lui medesimo per iscolparsi al solito cogli associati sul ritardo di qualche settimana. Non v'ha biblioteca o archivio importante di Roma che non conservi qualche parte di cotesti Avvisi: la Casanatense ne ha dieci volumi, altri la Barberiniana, e via via. Ma la più ampia collezione è nella biblioteca del Vaticano, dove, oltre alla serie della associazione pontificia, sono colate le altre di Urbino e degli Ottoboni; più che ducento volumi dall'anno 1554 in poi, cioè sovente un volume per anno, e alcuni duplicati. L'Avviso usciva almeno due volte la settimana in quaderni di dodici, sedici e più pagine: comprendeva sotto la rubrica di Roma le notizie di tutta l'Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Levante; e sotto la data di Anversa le notizie di tutta la Germania, Polonia, Ungheria e Settentrione. Ricca miniera per chi abbia criterio, e sappia lavorare al crogiuolo, sfiorata a pena dal Mai, verso la quale da più che trent'anni ho cominciato io col discorso, e poi colle stampe a condurre gli studiosi, che in Roma istessa non la conoscevano[377]. Valga l'esempio del primo giornale istorico di Roma, pubblicato nella stessa città l'anno 1845, dove sono inseriti alcuni brani di questi Avvisi, cavati dai codici dell'archivio Gaetani. E non sono mica secrete corrispondenze e private di Gianfrancesco Peranda secretario col suo padrone cardinal Enrico, come quivi stesso congetturano i Saggiatori[378]: ma veri frammenti delle semipubbliche gazzette a penna di quel tempo, come potrà accertare chicchessia, confrontando le parole, i fogli, lo stile, e le date dei codici Gaetani colle date, e stile, e fogli Vaticani, e Urbinati, Ottoboniani, Casanatensi, e simili; perchè troverà essere tutte copie identiche dello stesso originale. Copie che sono state conservate presso coloro, i quali non avevano bisogno di distruggerle. Torniamo all'armata.
X.
[1532.]
X. — Nel corso dell'anno trentuno il nostro Capitano aveva apparecchiato secondo i suoi pensamenti le dodici galèe convenute tra i ministri del Papa e di Cesare per attaccare gli Ottomani in Levante. Alla buona stagione del trentadue salpava dalle nostre spiaggie ben fornito d'armi, di gente e di danaro, e si riduceva nel porto di Messina: luogo destinato pel ritrovo di tutta l'armata cristiana, che sotto gli ordini supremi di Andrea Doria doveva operare contro i Turchi. In Messina si raccolsero insieme più che cento vele: cioè dodici galèe di Roma condotte da Antonio Doria, quattro di Malta col cavalier Bernardo Salviati, trentotto imperiali cavate in numero pressochè uguale da Genova, da Napoli, dalla Sicilia e dalle Spagne; si raccolsero trentacinque navi, compresa la caracca di Malta, pel trasporto delle munizioni e degli attrezzi: navi armate in guerra, piene di buoni soldati, e di grosse artiglierie, e più una ventina di legni minori, fuste e brigantini, pei servigî minuti[379]. La Caracca di Malta, chiamata Sant'Anna, fatta costruire dai cavalieri sulle coste di Nizza, merita di essere specialmente ricordata nelle storie marittime, per intendere la forma, costruzione, velatura, corazza, forza e armamento dei grandi vascelli da convoglio nel secolo decimosesto, secondo i minuti ragguagli lasciatici dai contemporanei. Quanto a grandezza di scafo, ripeterò le parole del Bosio che la chiama gran macchina, grandissima nave, e superbissimo vascello da guerra[380]. Sei ponti coperti: due sott'acqua, uno a livello, e tre al di sopra, compresovi il cassero e i suoi ripiani di poppa, alti più di venticinque metri dall'acqua, tanto che il calcese d'una galèa messasi sotto nol raggiugneva. Attorno logge, gallerie, giardinetti, e vasi d'aranci e di fiori. Lo scafo per tutta l'opera viva foderato di lastroni di piombo colla chiovagione di bronzo per manco consumo; e la metallica corazza molle, secondo la natura del piombo, per difesa dei colpi e degli squarci in virtù di ammorzamento[381]. La sua capacità si valutava a diciotto mila salme grosse di Sicilia, cioè tremila tonnellate di carico, oltre il suo corredo ordinario di artiglierie, armi, e provvigioni per sei mesi. Tre alberi verticali con tre gabbie sovrapposte, e grandi pennoni di vele quadre, trevi, parrocchetti, e pappafichi. Due mezzane alla latina. Gli alberi maggiori imbottati, il cui piede in coverta misurava dieci metri di circonferenza. Cinquanta cannoni grossi e colubrine in batteria, altrettanti petrieri, sagri, e falconetti sul cassero e sulle gabbie, trecento marinari, quattrocento tra soldati e cavalieri: saloni, camerini, corridoj, cappella, e armeria con tutto il fornimento di armi offensive e difensive per cinquecento persone. Gran dire per un vascello che non entrava nella linea, ma soltanto nei convogli!
[Agosto 1532.]
Dopo gli indugi consueti nel mettere insieme tante cose e tante persone, finalmente usciva dal porto di Messina l'armata cristiana: Antonio Doria e le galèe romane di vanguardia, Andrea nel corpo di battaglia con trentotto galèe, al retroguardo il Salviati colle quattro galèe di Malta, appresso tutto il convoglio a vela. Navigavano secondo i rilievi dei promontorî maggiori, dal capo dell'Arme allo Spartivento, al Rizzuto, alla Leuca, e finalmente allo Schinario del Zante.
Dall'altra parte Omer-Aly (notate il nome[382] ) con ottanta galere rasentava le marine della Grecia per tenere quei popoli in rispetto, e l'Italia in apprensione. Ed i Veneziani, allora in pace col Turco, non facevano lamento; ma sotto il comando di Vincenzo Cappello dal Zante con sessanta galèe ben armate codiavano i movimenti degli Ottomani, senza molestarli. Venezia, tuttochè sola, e per semplice cautela, aveva sul mare un'armata più potente che non tutto il resto della Spagna, dell'Imperio, e dell'Italia in guerra viva. Avvicinandosi i nostri al Zante, uscivano incontro i Veneziani per fare i saluti: tre divisioni di venti galèe l'una in ordine di fronte, tutte a remo, e pavesate a festa. Le nostre galèe appressavansi in tre colonne di tre righe e sei file per ciascuna: di vanguardia Antonio, nella battaglia il Principe, al retroguardo il Salviati: le navi alla coda sotto vela a scacchiere. Venuti a giusta distanza, le colonne passavano tantosto all'ordine di fronte, così: l'antiguardo di fianco poggiando alla destra stendevasi in ala da quel lato; la battaglia sottentrava sur una linea nel mezzo, e il retroguardo arrancando a sinistra quasi a un tratto apriva l'altra ala, e compiva l'ordinanza di battaglia[383]. Appresso una ventina di palate per farsi più vicini e meglio e ordinati tutti insieme; e allora spala remi, affrenella, issa pavesi, fiato alle trombe, e fuoco ai pezzi. I Veneziani al modo stesso in ordinanza, spalati, affrenellati, e pavesati, salutavano; e offrivano quanto lor fosse lecito pei trattati: porti, vettuaglia e ricovero.
Tale il primo incontro di Andrea Doria, divenuto principe e capitano generale del Mediterraneo per Carlo V, coll'armata navale dei Signori veneziani al Zante: incontro amichevole e cortese dall'una e dall'altra parte. Alcuni storici gli mettono in bocca oltracciò una bella parlata, invitando quei Signori a unirsi seco contro il nemico comune; e un'altra orazione non meno bella appiccano a Girolamo da Canale, capitano del golfo e luogotenente del Cappello, per iscusarsene. Baje coteste: niuno meglio di Andrea doveva sapere non esser lecito, nè onesto, per arbitrio di private suggestioni tentare la fede dei capitani contro gli ordini del loro governo in materia così grave come la guerra; niuno conoscere meglio di lui doversi in tal caso le belle parole portare in senato a Venezia, non in galèa al Zante.
Dunque passò oltre verso la Grecia, deliberato di cercare e di combattere l'armata nemica, e di sbrattare il campo di operazione. Ora per renderci sicuri della viltà dei Turchi sul mare in questo tempo, basti dire che Omer-Aly, grande ammiraglio, con ottanta galere, non ebbe ardimento di aspettare le nostre cinquantaquattro: anzi uscito dal golfo dell'Arta, prima che i nostri si accostassero al Zante, filava rasente i lidi della Morèa, fuggendo verso Costantinopoli[384]. Andrea seguivalo lentamente fino a Modone, rimburchiandosi appresso le navi; non senza mandargli dietro a bello studio sette galere delle migliori, cioè sei di Roma e una di Malta, tutte sotto il comando del nostro Antonio, perchè diligentemente osservassero e riferissero del cammino che fatto avrebbero i fuggitivi; e potendo anche li trattenessero[385]. Ed essendo arrivato Antonio fino a capo Malèo, e di là all'altura di Nauplia, ed avendo saputo dai Greci e dai marinari incontrati per via, che Omer-Aly se n'era passato a Negroponte, e tuttavia più oltre accennava verso i Dardanelli; tornò a darne contezza al Principe, surto ai ridossi di Sfragia, che ora diciamo l'isola della Sapienza.
XI.
[Settembre 1532.]
XI. — Vedendo pertanto gli alleati non esserci modo di venire a naval battaglia, e già certi della propria superiorità per la ritirata del nemico, volsero l'animo ad alcuna impresa di terra. E chi un luogo, e chi un altro proponendo, finalmente la maggioranza deliberò seguire il parere di Antonio Doria generale di Roma, anzi che del Salviati generale di Malta, il quale per onore della sua bandiera avrebbe voluto tornare a Modone, inutilmente da lui preso e perduto l'anno avanti. I voti adunque furono per espugnare la fortezza e città di Corone nella Messenia, presso alle rive del Pamiso. La città sorge sulla pendice estrema del monte Termazio, che fa punta avanzata dentro il mare a scirocco, ed è in due parti distinta: la bassa alla riva, chiamata Isola, ma non è tale; e l'alta verso il monte detta Castello, perchè afforzata da una rôcca: divise tra loro da una muraglia intermedia; ed ambedue recinte di antiche cortine, ma forti; fiancheggiate da torrioni rotondi, grossi ed alti. Dista quindici miglia da Modone, seguendo la via spedita di terra; e più del doppio dista per mare, dovendosi tutta circuire la sporgenza che da quella parte fa il capo Gallo. Le due insenate al piè della città offrono due buoni ancoraggi, che l'uno ha per traverso i Libecci, e l'altro i Grecali; tanto che passando dall'uno all'altro ogni naviglio facilmente si mette a ridosso; e di più in quest'ultima parte, che è alla sinistra della piazza, restano ancora gli avanzi di un vecchio molo e di sponde murate con fondale e capacità sufficiente per otto o dieci galèe[386]. La profondità del mare è sempre direttamente proporzionale all'altura del terreno e dei monti circostanti[387].
I nostri capitani che ben conoscevano ed avevano rivedute le condizioni della piazza, le qualità del terreno, e gli scandagli delle rive circostanti (notizie di prima levata per questa specie imprese) ordinarono l'attacco da ogni parte, cioè dalla terra e dal mare, con tutte le forze. Lo sbarco a destra e a sinistra: di qua gl'Italiani, sotto Girolamo Tuttavilla conte di Sarno; di là gli Spagnuoli, sotto don Girolamo di Mendoza: gli uni e gli altri di notte ad aprire le trincere ed a piantare le batterie contro la piazza.
Dalla parte del mare, volendo io descrivere la manovra dell'armata, mi bisognerà mettere insieme il racconto dei contemporanei, le teorie dell'antica tattica navale, e il dipinto dell'attacco, opera di Lazzaro Calvi sopra certe grandiose tele che una volta stavano nel guardaroba del palazzo Doria a Fassuolo, ed ora incorniciate adornano la galleria del palazzo di Pegli[388]. Il chiaro archeologo della marina francese A. Jal, che le ebbe vedute in Genova assai prima del trasporto, e molto meno danneggiate, descrive la rappresentanza dell'attacco, dipinto nella più antica tra le predette tele, e dice così[389]: «Si vedono le navi sotto vela battere le fortificazioni alla destra di Corone, ed alla sinistra combattere le galere. Una squadretta di sei galere si avanza di fronte, e un'altra squadretta di sei vedesi appresso, attaccate ambedue di rovescio da poppa a poppa con due gomene. Non intendo questa ordinanza, e la mia sagacità non arriva a comprenderne la ragione.... Ma cose simili non si inventano, massime quando si dipinge in casa Doria.» Mi fido io di mettere adesso all'evidenza tutta intiera la spiegazione del dipinto e della manovra, come altrove ho promesso[390]. E quantunque già n'abbia dato indizio sufficiente, comparirà ora meglio il merito dei pittori genovesi e dei principi Doria: per opera dei quali, artisti e mecenati, noi vedremo che non solo in quella casa e sotto gli occhi di tali padroni non si dipingevano assurdità nautiche, ma che di proposito si voleva conservare il ricordo dell'arte antica, perchè avesse a tornare utile agli studiosi del tempo futuro, come è stata più volte posta in opera con felice successo nei tempi passati.
Dunque se vuoi comprendere gli ordini che si preparano per battere la città dalla parte del mare, guarda prima le navi che di verso libeccio, scorrendo e ronzando sotto vela, dovranno aprire il fuoco, come sempre si costuma. Poi vedi i barconi maggiori dell'armata, coperti da doppio tavolato a pendìo per difesa della gente e dei rematori, che dovranno a tempo opportuno cacciarsi sotto alle scarpate della piazza, e gittare i ferri tra gli scogli, perchè le galèe dell'assalto vi si possano facilmente tonneggiare[391]. Appresso considera i ponti volanti preparati sulle stesse galèe colle antenne loro medesime appajate, e sostenute, e condotte qua e là dalle medesime loro manovre rinforzate, cioè dagli amanti, dalle oste, e dai bracotti di orza e di poggia[392]. Finalmente osserva le galèe scelte per la batteria, colle antenne abbassate, secondo il sistema dei nostri maggiori, i quali usavano mainare tutto ed anche disalberare, quando navigavano celatamente a remo, o battevano fortezze; e ciò per rendere più difficile la scoperta, e per ricevere danni minori nell'attrezzatura[393].
Attendi meglio al punto capitale, dove incontri assortite per battere trentasei galèe divise in tre gruppi di dodici l'uno, ed ogni gruppo in due sezioni di sei galèe addossate a rovescio da poppa a poppa; e vedi due gomene distese tra ogni coppia: e intenderai che tutte le galèe di batteria, sempre pronte ad ajutarsi vicendevolmente di rimburchio, avranno a moversi del continuo per non restarsi a punto fermo come bersaglio sotto al fuoco del nemico. La prima sezione di sei andrà contro la piazza di prua per battere, e la seconda starà di poppa per tirar fuori la prima; e quindi per voltarsi, sempre a contrasto chi dalla destra chi dalla sinistra, a riguardo di tenersi sempre appoppati e di non impigliar mai il palamento tra i calumi laschi delle gomene; ma di poter liberamente sottentrar di prua, e ribattere, e ritirarsi, e poscia ritornare; movendosi sempre in giro, caricando, e sparando alternamente or l'una or l'altra sezione; e aiutandosi a vicenda, ora col remeggio proprio, ora col rimburchio altrui: e ciò specialmente nel caso di avaria. Partiti ingegnosi dei nostri marini del tempo andato, che non hanno bisogno di troppa sagacità per essere intesi, come ci vengono dalle teorie tecniche, dagli storici contemporanei e dai dipinti[394]. Partiti che vedremo ripetuti più volte, specialmente alla Goletta di Tunisi e al Castelnovo di Dalmazia. Partiti, che si pigliavano quando si avevano molte galèe, e piccola fronte da battere; non volendo fare troppo lungo raggio nè troppo lontano il cerchio della batteria; nè mettere troppo da presso e fermo il navilio alle percosse dei nemici. In somma tutto questo è l'apparecchio precisamente per Corone, dove vogliamo entrare.
XII.
[21 settembre 1532.]
XII. — Disposta, come abbiam detto[395], ogni cosa, e favoriti in tutto dai Greci[396] finalmente la mattina del ventuno di settembre le fanterie italiane e le spagnuole sbarcano dalle opposte parti, e ciascuna nazione pianta la sua batteria di sette pezzi. Il Tuttavilla a sinistra dal lato di greco, e il Mendoza a destra da quel di libeccio[397]. Le navi in gran cerchio circondano la punta Lividia, pronte ad aprire il fuoco con tutto il loro cannone, non solo dai fianchi, ma dalle gabbie altresì della Grimalda e della Rodiana, dove sono stati allogati due sagri e due falconi[398]. Le galere in tre gruppi di due sezioni, messe a rovescio, come ho detto, si accostano dalla parte del molo. Tra quelle sezioni e quei gruppi Antonio Doria alla testa e le galere romane sulla destra[399]. Gli altri legni maggiori e minori in attenzione all'intorno, di riserva, di soccorso, e di assalto.
Al cenno del Principe tutti i pezzi tuonano da terra e da mare, con sì gran furia e tanto effetto, che in poco tempo cadono le difese, e il presidio resta muto. In quella il conte di Sarno, pensando aver breccia sufficiente, conduce i fanti italiani alla prova. Grande animo dimostrano e maggior costanza: tre volte rimettonsi al cimento e tre volte ne sono risospinti. Alto di troppo il muro, corte le scale, ostinati i Turchi. Suonano a raccolta, e le fanterie si ritirano, morti trecento giovani, e più del doppio feriti: caduto tra i principali Teodoro Boschite, già famoso condottiero di stradiotti nelle guerre d'Italia, caduto il capitan Francesco Carnao di Napoli, ed il capitan Giacomo da Capua; e per una archibugiata venutagli dall'alto pesto un occhio e strappata la lingua all'alfiero Capani. Il Mendoza dall'altra parte, non avendo apertura, o trovandola malagevole, con accorto consiglio non si mette all'azzardo.
Se non che in questa maniera d'imprese la fortuna sempre risponde ai voti dei marinari; e così nel presente cimento loro riserba la vittoria. Finito il riddone delle trentasei galèe appoppate, avanzano le diciotto dell'assalto presso alla sponda, dove fa punta il torrione maestro della piazza, che ancora vi sta col piede in acqua profonda[400]; mandano i ferri colle barche imbarbottate, e tirandosi cogli argani sempre più sotto alla scarpata del torrione, issano le antenne, fanno indietro il carro, volgono avanti la penna, e lasciano andare l'abete sui parapetti nemici. La scala pei marinari è fatta, e il passo aperto. Montano dal calcese alla penna, avanzano cavalcioni coll'armi tra i denti: saette, archibugiate, e grida di chi cade e di chi salta. In breve agguantano e si raggavignano ai muri e mettonsi sulla piazza. Primo di tutti colla bandiera in mano un giovanetto genovese, mozzo della nave Grimalda[401]; appresso un soldato del galeone d'Otranto, indi Lamba Doria, e via via ogni altro a gara colle armi e colle bandiere si spandono per le muraglie dell'Isola, e costringono i Turchi a fuggirsi nel Castello.
Non mi maraviglio punto che il commendator Jacopo Bosio mandi sulle mura di Corone prima di ogni altro i suoi cavalieri di Malta[402]: sì bene maravigliomi del Guerrazzi, tanto democratico, che mi tiene addietro quel povero mozzo di oscuro nascimento, ma di chiarissimo valore, per mandargli innanzi il patrizio Lamba Doria[403]. Vorrei io potere incidere il nome di quel giovane sulla corona murale che egli si meritò, se qualche pietosa penna prima di me l'avesse scritto. Ma nobile o plebèo, noto o innominato, genovese o romano, scevro d'ogni parteggiamento, non fia mai che tolga cui si deve l'onore e il merito; nè che attribuisca ai miei più che non trovi fermo per la testimonianza dei contemporanei, esaminata a fil di critica. E quantunque Antonio Doria ed altri diano il primato a quei delle galere del Papa[404] non mi lascio pigliare alla imbeccata; perchè il primo non può essere nel numero del più, perchè lo slancio compete a' giovani, e perchè un Giovio, un Bizarro, ed altrettali non possono esser sospetti di falsità quando mettono un mozzo innanzi a un Lamba.
XIII.
[22 settembre 1532.]
XIII. — Pel rumore di tanta guerra i Turchi delle città e castella circonvicine trombarono a stormo, e levaronsi in arme per soccorrere Corone, divisando sfondare il quartiere del Tuttavilla, entrare nel Castello, sciogliere l'assedio, e ricuperare la città bassa che s'era perduta. Buono pel Conte che nella notte, facendo diligentissima guardia, potè cogliere al varco una spia, e cavargli di dosso le lettere, dove si diceva tutto per filo l'ordine che nel dì seguente i nemici avrebber tenuto per sorprenderlo. Il Tuttavilla pensò cavar partito dall'avviso: fece lavorare tutta la notte alle barriere del campo, e condusse la zappa ai traghetti, e grandi tagliate aprì sul terreno a mo' di quei trabocchetti che gl'ingegneri militari chiamano Buche di lupi; poi coprì ogni cosa di pertiche sottili, di canne, e di sarmenti; e si tenne in punto per ricevere i Turchi come si conveniva, e per finire nello stesso giorno l'espugnazione.
Alla prima luce del seguente giorno ventidue di settembre, ecco un capitano rinnegato di nome Tòdaro sopracchiamato Tredita, perchè tante e non più gliene rimanevano nella destra (quantunque a larga mano compensato dai nostri scrittori colle solite varianti Tudàr, Tadare, Zadare, Tridigito, Trigidito, Tridito, Tradito ); eccolo, dico, con settecento cavalli venirsene di buon trotto verso Corone; ed ecco i nostri a menarselo di qua e di là per la campagna, infino ai traghetti preparati. Prima le galèe a cannonate lo cacciano dalla strada della marina, poi il capitano Spinola gli sbarra la via del Borgo, e lo gitta a monte dall'altra parte, e in ultimo Pietro Frangipani, barone della Tolfa e conte di san Valentino, con trecento archibugeri gli si lancia dietro per farlo correre più presto. Tòdaro trovato contrasto dalle altre parti, e vedendo sguernita la via maestra di verso il Castello, che nei suoi divisamenti teneva per ultima, sprona di gran galoppo per guadagnare la porta. In quella furia, stando amici e nemici a riguardare, ecco improvvisamente sparire una squadra, come se fosse ingojata dalla voragine; poi sparire una seconda, e una terza, e gli altri appresso accatastarsi rovescioni cavalieri e cavalli nelle fosse. Ecco d'ogni intorno uscire i nostri soldati a far prigioni quanti ancora sopravvivono all'acciacco e allo scorno. E Tòdaro restarsi tutto pesto nel fondo[405].
Pensate le speranze del presidio dove fuggirono a quella vista! Lo spavento e la penuria delle munizioni produssero l'effetto. Uscì la bandiera bianca, uscì la guarnigione a buoni patti, e la città tutta intiera venne quello stesso giorno in poter dei Cristiani.
Il Principe e tutti gli altri di terra e di mare nelle varie fazioni dell'assedio mostrarono senno e bravura da eguagliare ciò che si legge degli antichi, e da non aver pari altrove nella marineria di quel tempo. Arrogi la moderazione dei capitani in tutta la condotta di questa campagna, e specialmente la rigorosa osservanza dei patti, rispetto all'onore, alla roba e alle donne, anche dei Turchi; gastigando severamente in pubblico qualunque soldato o marinaro si fosse ardito mancare alla disciplina e violare le convenzioni. In somma si voleva mantenere incorrotta appo tutti, amici e nemici, la fama di giustizia e di fede: perchè gli stessi Turchi, tanto differenti di religione, di costumi e d'ingegno, conoscessero chiaramente alla prova come i Cristiani, oltre alla valentia nell'armi, avessero anche umanità, fede e temperanza nella vittoria.
XIV.
[23 settembre 1532.]
XIV. — La mattina seguente, come surse il sole dal mare rimpetto al torrione del primo ingresso, la salva dei cannoni salutò la levata dei tre nuovi stendardi sulle mura della piazza. Le chiavi di Roma, la croce di Malta e l'aquilone dell'Imperio ondeggiarono insieme per dimostrazione pubblica di possesso[406]. Imperciocchè di unanime consentimento i capitani in consiglio avendo deliberato mantenere la piazza a beneficio del cristianesimo ed a base di future operazioni, incontanente il Principe fece risarcire le mura, crescere l'artiglieria, deporre nei magazzini abbondanti provvigioni da guerra e da bocca, presidio spagnuolo di mille fanti, e governatore delle armi don Girolamo di Mendoza. Al quale, perchè ci si adattava di mala voglia, il Principe in fede di cavaliero cristiano promise soccorso in qualunque estremo bisogno, anche a private sue spese, se mai fosse assalito dai Turchi.
[1 ottobre 1532.]
Intanto spediva otto galere scelte nell'arcipelago, perchè scorrendo quei mari pigliassero informazioni più fresche dell'armata nemica, non forse avesse a disturbare improvvisamente tornando le altre imprese che si divisavano. Andarono col cavalier Salviati le tre galere di Malta, una di Genova, e quattro di Roma; che molto volentieri, come nipote di sua Santità, lo seguirono[407]. Il resto dell'armata sciolse da Corone, fece l'acquata a Navarino, e si presentò a Patrasso, città dell'Etolia, allora squallida come tutte le altre invase dai Turchi, e ai nostri giorni rifiorita, al pari dei tempi antichi, ricca di commercio, frequentata dai navigli, ed abbellita da trentamila Ellèni che ancora ti mostrano i classici profili del tempo di Pericle, resi più e più cospicui dal pittoresco vestimento nazionale. L'albergo delle tre potenze mi ricordava il risorgimento della Grecia, e l'altro di costa la vicinanza dell'Italia.
[12 ottobre 1532.]
Sulla riva della gran rada si attelò l'armata nostra, e sull'atto pose in terra cinque mila uomini in arme. Ma i Turchi avevano prestamente sgombrato la città bassa, e colle loro donne e fanciulli eransi ridotti all'acropoli, allogando alla rinfusa la turba imbelle in una grande opera esteriore, che a guisa di falsabraca circondava il castello con un muro ed un fosso. Dunque avanti colle trincere: avanti, che snuda la spada il conte di Sarno. Mille archibugeri a levar di posto i difensori, cento bombardieri ad aprire la breccia, le ciurme in giornèa alla fascina per la colmata. Presto vien giù la vecchia muraglia esteriore, presto si livella il passaggio nel fosso. Primo vi salta Giovanni Cavaniglia, giovane cavalier napoletano, secondo il conte di Sarno con tre alfieri e tre bandiere, appresso le compagnie in colonna. I Turchi abbandonano il ridotto esterno, come già avevano lasciato la città. Gran cosa la prestezza e l'ardimento nelle fazioni di guerra, gran forza l'esempio dei fatti precedenti, gran peso il precipizio di chi comincia a cadere.
Resterebbeci ora la difficile espugnazione del castello sulla rocciosa cima del monte; se i Turchi, alla vista miserabile delle femmine e de' bambini in strida e in pianti, e senza provvigioni da sostentarsi lungamente, non venissero a sollevarci, offerendosi pronti di capitolare. Sono dunque ricevuti liberi, salvo l'onore delle donne, i panni di dosso a ciascuno, e il passaggio assicurato a tutti pel golfo di Lepanto. Patti gelosamente mantenuti, e sanzionati col capestro al collo di tre o quattro sciaurati che eransi arditi di mettere le mani su certe donnette, e di rapirne gli ornamenti[408].
XV.
[15 ottobre 1532.]
XV. — L'istesso giorno tornarono dall'arcipelago le otto galèe degli esploratori, riportando liete notizie: Omer-Aly essersi ritirato a scioverno in Costantinopoli, niuna armata inimica sul mare, averlo essi corso da padroni infino ai Dardanelli, fatto sbarchi, preso prigioni, e menatasi appresso una grossa nave carica di vittuaglie e di munizioni, tolta al sostentamento della fortezza di Modone. L'istesso Salviati, venuto in terra, prendeva la vanguardia della scorta intorno ai prigionieri, quasi tre mila persone, che scendevano dal Castello alla marina; il Principe seguiva il convoglio alla coda, con imperioso contegno e severo, mostrando dalle ciglia aggrottate la ferma deliberazione di punire qualunque violasse punto della capitolazione.
Da Patrasso alle bocche di Lepanto sono cinque miglia marine, nel corso delle quali avrai sempre dinanzi luoghi e prospetti di alta rinomanza nella storia antica e nella moderna. Sul piano alla sinistra biancheggia Missolungi presso alle rive dell'Ellade, dove Marco Botzaris brilla ancora nella disperata difesa. Più oltre di fronte sfuma di lontano il promontorio Azziaco, dove Agrippa affermò il trono di Augusto. Appresso trovi le memorie di Pirro e di Pompèo. Nel mezzo il campo, dove fu combattuta la famosa battaglia di Lepanto. Vedi quegli irti scogli alti e spessi sorgere a picco dal mare? Sembrano piramidi di rilievo sui piani del deserto, o seguenza di grandi capanne attelate lungo i pascoli della campagna romana. Sono desse, le Echinadi degli antichi, le Curzolari del tempo più vicino, le testimonianze delle nostre vittorie. Dai due lati a squadra vanno ad incontrarsi nello stretto le coste dell'Epiro e del Peloponneso, e di là si entra nel golfo nascosto che corre lungo e sottile da Lepanto infino a Corinto, circondato da alti monti e chiuso in fondo dalle pendici dell'Elicona e del Parnasso. Alla bocca del golfo erano da tempo antichissimo due torri di guardia; e queste, prima da Bajazetto e poi da Solimano, accresciute e rinforzate, hanno preso la forma di giuste fortezze. La prima che incontri sull'estremità del Peloponneso, oggi Morèa e provincia di Etolia, chiamasi Rio, l'altra Antirio, che gli sta di rimpetto sul margine dell'Epiro, oggi Rumelìa, e provincia di Acarnania. I due castelli, arroncigliati al piede de' due promontori sull'estrema lacinia dalle alte e precipitose montagne, sporgono dentro nell'acqua, come per azzannare insieme il passo del golfo. Puoi vedere, nell'uno e nell'altro, bizzarra miscela di militare architettura vecchia e nuova; torri rotonde e quadrate, baluardi sfiancati e di punta, muraglie di macigno e di ciottoli, merlature antiche e troniere nuove; e specialmente dabbasso la lunga filiera delle batterie casamattate, colle strombature ad archetti, le quali sono di fatto la miglior difesa della bocca, e potrebbero in quel breve tratto non solo ridurre a pezzi qualunque bastimento si ardisse tentare il passo, ma potrebbero quasi i due Castelli distruggersi l'un l'altro, se avvenisse mai che avessero a contrabbattere tra loro. Alcuni li chiamano Dardanelli: chi legge sia cauto, quando si parla delle bocche e castelli di Morèa, a non confonderli con quei della Troade, nè con altri simili[409].
Verso il primo di questi castelli sciolse il Principe con tutta l'armata: ed alle fanterie sbarcate già in Patrasso ordinò di venirsene allo stesso segno per la via di terra: brevissima marciata, come ho detto. Sperava per la presente fortuna aprire il golfo alla navigazione dei Cristiani e schiudere nuova strada da entrar più dentro nelle viscere della Grecia. Preceduto dalla fama di Corone e di Patrasso, vi giunse per la via di mare prima dei fanti; e trovò i Turchi di Rio pieni di sgomento, e i Greci tra mezzo a dar loro buoni consigli, perchè se ne andassero in pace. Quindi per accordo, tanto prestamente uscì fuori il presidio turchesco, che i marinari poterono abbottinare il misero avanzo delle private masserizie lasciatevi dai nemici nella fretta, prima che le fanterie arrivassero a parteciparne. Però costoro punti dall'invidia e dall'avarizia si ammutinarono; e gittaronsi pazzamente alla campagna, rubando a tutti, così a' Turchi, come a' Greci.
Pericoloso e tristo episodio, che poteva produrre funeste conseguenze, se il conte di Sarno colle buone, e il principe Doria colle brusche, non avessero ridotto i sediziosi a sommissione. I quali prestamente sgannati della speranza del bottino, anzi consumate le proprie vittuaglie, e meglio riconosciuta la colpa, si arresero alla mercè. Minacciò il Principe la decimazione alla maniera romana: nondimeno, per quei rispetti che ciascuno intende, rimise l'effetto ad altro tempo, dicendo che intanto passassero tutti nell'Etolia all'acquisto del secondo Castello; e là si vedrebbe chi fosse da vero pentito, e chi volesse colle susseguenti opre migliori cancellare la vergogna del misfatto precedente.
XVI.
[20 ottobre 1532.]
XVI. — Già il conte di Sarno aveva passato lo stretto per investire Antirio, e più volte si era affrontato coi nemici di dentro, e coi cavalli venutigli addosso da Lepanto: ma pel tumulto di Rio e per l'ammutinamento dei soldati, aveva dovuto tornare indietro a rimettere la disciplina tra quelle genti, che particolarmente nella sua bontà e valore confidavano. Quindi tutti insieme tornarono nell'Etolia, e si fecero lungo la riva due miglia più in su a sbarcare le artiglierie grosse, per essere ogni altra parte del circondario scoperta e battuta dal Castello. Qui li aspettava più duro contrasto. Giannizzeri veterani ed ufficiali risoluti volevano smentire la viltà dei presidiarî delle altre fortezze.
Cristoforo Doria, uomo di quella fortuna e ardimento che avremo specialmente ad ammirare poi ad un anno, pigliava il carico di sbarcare l'artiglieria grossa dalle navi di alto bordo per l'espugnazione. Vedilo ordire doppi paranchi, di sotto alle gabbie e di punta alle verghe maggiori, sollevare i pezzi, condurgli dalla perpendicolare interna all'esterna, riceverli nei barconi, remigarli fino al lido, metterli sulle palanche e sui curri, incavalcarli su grossi carri, e menargli a braccia fino al campo già disegnato dal conte di Sarno. Trajano Cavaniglia, mastro di campo, con trecento sceltissimi archibugeri attorno di scorta.
[25 ottobre 1532.]
Mentre i nostri apparecchiavansi, i Turchi uscirono da Lepanto in gran numero di fanti e cavalli: nè però il Conte spaventato punto di tanta moltitudine venne meno al dover suo; anzi uscì fuori anche esso menando alla campagna da quattromila fanti, senza sguernire il campo; e ordinatili in battaglia quadrata colle risvolte agli angoli per cavar fuori e metter dentro al bisogno le maniche degli archibugeri, andò a trovare i nemici, coprendo sempre alle spalle l'accampamento suo; e ordinando dalle trincere buona guardia colle artiglierie volte agli assediati, specialmente alla porta e alla spianata del Castello, sì che niuno potesse entrare nè uscire. Ma perchè i Turchi del soccorso non si arrischiavano contro l'ordinanza del Conte, nè mettevano in fazione la fanteria, ma attendevano solamente a volteggiare co' cavalli, ed a scorrere in qua e in là badaluccando, cominciò il Conte a ritirarsi lentamente, tenendo però addietro il nemico cogli archibugeri, che uscivano, spiegavansi in cordone, sparavano, e ritiravansi nel centro del quadrato. Essendo così durata infino a notte la scaramuccia, i Turchi, affranti dal continuo caracollare della giornata, andarono a riposarsi in Lepanto; ed i nostri, rinfrancatisi di cibo per turno, stettero tutta la notte a battere furiosamente l'Antirio da terra e da mare, non volendo al nuovo giorno essere trattenuti da alcuno, ma aver finito ogni cosa.
Ondechè rovesciata una parte della muraglia, e uccisi molti di dentro, quantunque si vedesse il presidio ostinato e valoroso, non si peritarono, essendo ancor bujo, di spingere due piccole colonne all'assalto. Marinari e soldati entrarono dentro di primo slancio: nè per questo i giannizzeri vollero posare l'armi nè arrendersi; ma disperatamente continuarono a contrastare e a combattere per la piazza e per gli androni, facendo testa a ogni traghetto, finchè non caddero fuor di combattimento più di trecento. Allora i pochi superstiti, ricoveratisi nel mastio, per rendere anche colla morte loro funesta ai Cristiani la vittoria, e inutile l'acquisto del Castello, appiccarono il fuoco alla munizione della polvere e volarono all'aria. Estrema risoluzione, per la quale molti pur dei nostri rimasero infranti al di sotto, e molte avarie patirono le galèe pei rottami scaraventati da ogni parte col fuoco.
[Novembre 1532.]
Finalmente vedendo che i tempi cominciavano a rompere, e la stagione a farsi ogni di più trista, l'armata sciolse dalle riviere della Grecia; e il Principe, dopo aver visitato un'altra volta Corone, rinforzata la piazza, e rinnovate le promesse di soccorso in caso di bisogno per l'anno futuro, rimandò ciascuno al riposo invernale nei suoi porti.
Il nostro Capitano ricondusse in Civitavecchia genti vittoriose, ricche spoglie, e liete novelle, ricevendo anche da Roma larghe dimostrazioni di gradimento per le egregie opere fatte nel corso della campagna. Dispersa dal Mediterraneo l'armata nemica, espugnate quattro fortezze, presa una nave carica di munizioni, e conseguito pienamente il fine primario della spedizione, cioè la cacciata di Solimano e degli eserciti suoi da Vienna e dall'Ungheria[410]. Imperciocchè l'attacco dei nostri marini alle sue spalle portò di fatto nell'esercito ottomano quello sgomento e quella solennissima sconfitta che sollevò in quest'anno l'Europa dall'imminente pericolo della barbarica occupazione. Già più volte nei secoli precedenti al modo istesso e per simile concorso delle nostre genti dalla parte del mare erano stati vinti e cacciati i Turchi dai paesi cristiani, e specialmente da Belgrado[411].
Le quali vittorie, per terra e per mare splendidamente conseguite, vie più a papa Clemente amicarono Carlo imperatore, il quale riconosceva averne ricevuto nel maggior bisogno validissimo soccorso. Perciò Carlo nell'invernata dell'anno medesimo tornò un'altra volta a Bologna per trattare con lui direttamente, e senza altri mediatori degl'interessi comuni, e delle provvisioni da fare nell'anno seguente, volendo continuare la guerra contro il Turco: suprema necessità civile e religiosa del tempo.
[Gennajo 1533.]
E perchè il principe Doria, accrescendo gli armamenti marittimi, insisteva e richiamava Antonio per suo luogotenente in Genova, il Papa non potè a meno di dargliene licenza, e in suo luogo per capitano generale della squadra, e per castellano di Civitavecchia, pose il cavalier Bernardo Salviati, come vedremo nell'altro libro. E vedremo altresì per lunghi anni nei fatti di mare del tempo seguente comparire Antonio Doria sempre più avanti nelle grazie della corte di Spagna: marchese di santo Stefano di Aveto in Liguria, marchese di Ginnosa nel Regno, consigliero di don Giovanni a Lepanto, e gran privato del re Filippo in Italia, il quale a fondo e di lunga mano conoscevalo, e sapeva come e dove impiegarlo[412].
LIBRO QUINTO. Capitano Bernardo Salviati,
cavaliere di Malta e priore di Roma.
[1533-1534.]
SOMMARIO DEI CAPITOLI.
I. — Bernardo Salviati e suoi fatti. — La rissa dei Cavalieri in Malta (15 marzo 1533). — Bernardo capitano delle galèe e castellano di Civitavecchia (18 aprile 1533). — Consigli pel soccorso di Corone (maggio 1533).
II. — La partenza delle sedici galèe da Civitavecchia (4 giugno 1533). — Partenza da Messina (2 agosto). — Ordinanza dell'armata pel soccorso. — L'ammiraglio turco rifiuta la battaglia. — Tafferuglio intorno a due navi, e fuga dei nemici. — Ardimento del Salviati. — Sciolto l'assedio (7 agosto 1533).
III. — Mutato il presidio di Corone. — Dispersione dell'armata nemica. — Viltà dei Turchi in mare. — Perplessità e politica consueta della corte di Spagna. — Perdita di tre galèe del Doria (settembre 1533). — Perdita di Corone.
IV. — Ritorno del Salviati. — Viaggio del Papa a Marsiglia. — Ordinanza del convoglio (5 ottobre 1533). — Il Codice dei saluti.
V. — Incontro e ingresso solenne nel porto di Marsiglia. — La reale di Francia. — Il bargio per lo sbarco (11 ottobre 1533).
VI. — Le nostre galèe visitate dal Re e dalla Corte. — Menano il Re a diporto per le isole vicine. — Elogi (15 ottobre 1533). — Lo scarroccio.
VII. — Ritorno del Papa sulle galèe di Francia, e poi sulle sue (12 novembre). — Arrivo in Civitavecchia (7 dicembre). — Dimora in questa città, e Brevi colla data della medesima (10 dicembre 1533). — Paolo Giustiniani.
VIII. — Brevetto al Salviati. — Comandante e castellano.
IX. — Inventario delle galèe. — I termini del mestiere. — Attrezzi, vele, alberi, corredo, remi, artiglieria. — Documento (16 aprile 1534).
X. — Ancora del Bucintoro. — Il titolo di Generale. — I Cannoni serpentini, e le artiglierie sui fianchi delle galere (20 aprile 1534). — L'Archivio Camerale.
XI. — Crociera del Salviati coll'Usodimare. — Presi tre bastimenti di pirati (12 giugno 1534). — Il ritorno dei vincitori, secondo le nostre tradizioni (20 giugno 1534). — Le bandiere nelle chiese.
XII. — Arte di Solimano per conquistare in Africa. — Il pirata Barbarossa re d'Algeri ed ammiraglio dell'imperio. — I maggiori pirati del tempo, il Moro, il Giudèo, Cacciadiavoli e Barbarossa. — Pensieri di costui intorno alla marineria (luglio 1534).
XIII. — Disegno doppio di Barbarossa contro Cristiani e Maomettani. — Dare sull'Italia, e pigliar Tunisi. — Ruine in Calabria. — Arsione di tre galèe del Papa sul cantiere. — Incendio di Terracina. — Fuga della Giulia Gonzaga. — Spavento in Napoli. — Barbarossa alla foce del Tevere (20 agosto 1534).
XIV. — Barbarossa piglia Tunisi. — Indignazione di Spagna e d'Italia. — Apprestamenti di guerra. — Il Salviati e Paolo Giustiniani. — Muore Clemente VII, e il Salviati si ritira (25 settembre 1534). — Ultime notizie del Salviati.
LIBRO QUINTO. CAPITANO BERNARDO SALVIATI, CAVALIERE DI MALTA E PRIORE DI ROMA.[1533-1534.]
I.
[15 marzo 1533.]
I. — Bernardo Salviati, figliuolo di Giacopo e della Lucrezia de' Medici, nipote de' due pontefici Leone e Clemente, e scritto alla primaria nobiltà fiorentina e romana, aveva da giovanetto preso l'abito dei cavalieri di san Giovanni; e pei suoi meriti, e pei rispetti della famiglia, era prestamente salito ai primi onori dell'Ordine suo: balì della gran croce, priore di Roma, e capitano generale delle galere, come lo abbiam veduto l'anno passato all'impresa di Corone[413]. Prode, ricco e splendido, viveva alla grande: casa aperta in Malta e in Roma, numerosa famiglia, e intorno alla persona sua in terra e in mare da sessanta gentiluomini principali e capitani riformati che lo seguivano in ogni fazione, secondo lo stile dei maggiori comandanti di quel tempo[414]. Di simili esempî per Marcantonio Colonna e per Carlo Sforza altrove ho detto e dirò[415].
Tornato però Bernardo di Corone a svernare in Malta, ebbe suo malgrado a trovarsi involto in una sanguinosa baruffa, della quale non posso passarmi, perchè entra come causa prossima della sua chiamata in Roma; e perchè mi dà ragione degli uomini, dei tempi e dei fatti che ho a trattare. Ai primi di marzo in Malta, un gentiluomo fiorentino, seguace del Salviati, aveva steso morto in duello un giovane cavaliere della lingua di Provenza, con grandissima alterazione degli zii e degli altri parenti ed amici; che molti e prosuntuosi ne aveva l'ucciso nell'isola. Costoro accecati dalle furie della vendetta, tutti in frotta assaltarono a tradimento per la strada il Fiorentino: il quale quantunque con alcuni compagni valorosamente si difendesse, nondimeno toccò la peggio, e a pena potè ritirarsi grondante di sangue. Qui non finisce: hanno a esser cinque i ripicchi, e assai peggiori gli altri tre successivi de' due precedenti. Tutti quei signori a biasimare le superchierie e le uccisioni; e ciascuno da sua parte inteso a ripetere uccisioni e superchierie: cioè a commettere i medesimi falli biasimati in altrui. Tanto è folle la superbia, e tanto è cieca la passione disordinata! I familiari del Salviati e gli amici del Fiorentino tornarono in piazza, gridando e bravando contro i Provenzali: e lì una terza puntaglia, spargendosi dall'una parte e dall'altra di molto sangue. Pareva nella notte seguente quietato il tumulto: e già il Grammaestro dava corso alla giustizia contro i religiosi dell'abito, e il Salviati da parte sua metteva in catena una diecina di gentiluomini, quando i Francesi fatta secretamente tra loro una conventicola in casa del commendator d'Orleano, entravano la mattina seguente sotto falsi pretesti a bordo della capitana, dove spietatamente uccidevano a ghiado quattro di quegli incatenati. E avrebbero a uno a uno agghiadato anche gli altri, se al primo rumore non fossero accorsi i soldati, i marinari, e l'istesso Salviati in persona per frenare quei traditori, e per cacciarli via senza altro dal bastimento. Ma che? venuto poco dopo in terra, il medesimo Salviati a richiamarsi col Grammaestro di così grande eccesso, non era a pena entrato in casa sua, ed ecco l'assembraglia di tutti i cavalieri francesi, provenzali e alvergnasci a bandiere spiegate venirlo ad investire: ecco tutta la lingua d'Italia venirlo a soccorrere, e dagli altri alberghi delle lingue diverse uscir fuori i cavalieri in arme, e accostarsi chi di qua chi di là per ajutare questi o quelli[416]. Parrebbero sogni, se non fossero fatti realmente successi! E dico fatti in plurale, perchè se ne hanno parecchi simili nelle storie di costoro; ed io, tuttochè per incidenza, ne avrò a ricordare un altro nel settimo libro. Non prenda maraviglia il lettore: anzi per l'esempio dell'altrui nequizia guardisi meglio dal disordine delle passioni, ed alta sopra la ferina mantenga la dignità dell'umana natura. Altrimenti nel furore trapassano ogni segno e grondano sangue gli artigli delle belve, gli unghioni dei cavalli, le spade dei cavalieri.
[Aprile 1533.]
In somma dopo una giornata di orribile confusione ebbero a lavorare i tribunali e il carnefice: cavalieri strozzati, sommersi nel canale, degradati, cacciati dall'isola. E il priore Salviati, moderatamente tenutosi sulle difese senza uscir di casa durante il tumulto, la mattina seguente se ne tornava a bordo: e per levarsi da ogni trista occasione, scioglieva i canapi e con tutta la squadra se ne veniva prestamente in Civitavecchia. Allora papa Clemente lo nominò capitano delle galèe romane, col triplice intendimento di compensarlo in qualche modo delle ingiurie sofferte in Malta; di dargli giusta ragione a non ritornarvi, finchè gli umori ardenti dei nemici non fossero freddati; e di riunire in un sol corpo, sotto lo stendardo papale, sedici galèe; cioè le dodici di Roma, e le quattro di Malta, per mandarle unitamente contro i Turchi, secondo i concerti presi col Grammaestro e coll'Imperatore.
[Maggio 1533.]
Così il Salviati, venuto al possesso delle galèe e della castellanìa di Civitavecchia, pose gli ordini dell'armamento: e poi corse in Roma, ove era richiesto del suo parere intorno alle cose di Corone[417]. E molto cadde in concio che al tempo stesso venissero al Papa lettere recentissime di don Girolamo di Mendoza, governatore delle armi in quella piazza, il quale diceva trovarsi già strettamente assediato per terra e per mare, le provvigioni di bocca e le munizioni di guerra cominciargli a mancare; ricordasse il Doria la fede datagli del soccorso, e pensassero gli altri principi della cristianità a non lasciar perdere quella piazza, nè a confondere la fiducia dei Greci, già tanto esaltati, con che facilmente potrebbesi e in poco tempo ricuperare tutta la Morèa.
Il Capitano novello confermava pienamente i giudizî del Mendoza; e per la perizia sua nelle cose di guerra e di mare, e per la cognizione speciale di quei luoghi, dove aveva due anni combattuto, insisteva sulla necessità del soccorso con tutta l'armata, altrimenti anderebbe al certo perduta ogni cosa. Di che facendo gran ressa il Salviati, e con lui i ministri di Roma, e al tempo stesso anche il Doria da Genova, finalmente venne dall'Imperatore l'ordine che si dovesse soccorrere Corone con tutta l'armata; anzi più aggiungervi quelle altre dodici galèe nuove, che don Alvaro di Bazan aveva fatto costruire nei porti di Spagna.
II.
[4 giugno 1533.]
II. — Quindi il nostro squadrone, bene in ordine e fornito di tutto punto, salpò da Civitavecchia alli quattro di giugno, e fu così presto in Napoli, come Andrea Doria col resto dell'armata. Ma il Principe in confusione, non potendo imbarcare le fanterie spagnole assegnate a questo viaggio, perchè si erano apertamente ribellate sotto il pretesto delle paghe, e per compenso avevano saccheggiato la città di Aversa, e fatto di grandi malvagità in tutta la provincia[418]. Pazienza, tempo. Federigo di Toledo, il marchese del Vasto, e danari sonanti ammansarono la stizza di quei feroci, che si lasciarono condurre a Messina, dove il Principe aveva ancora a provvedersi di vittuaglia, di munizioni, e di molte altre cose occorrenti al soccorso della assediata città. Al cui presidio intanto, volendo accrescere le speranze, mandò con una scelta galèa velocissima Cristoforo Pallavicini, adottato in casa Doria, perchè portasse l'avviso del soccorso vicino. Cristoforo, arditissimo manovriero, di pieno giorno e alla vista dei nemici passò per prua dinanzi alle galèe dei Turchi, ed entrò a salvamento nel porto piccolo di Corone. Colà pose in terra alcuni rinfreschi, dette il danaro, rimise le lettere: e senza attendere altrimenti alle difficoltà ed agli sconforti, coll'istesso coraggio e fortuna volle tornarsene per recare personalmente al Principe piena contezza dello stato della piazza, e come il presidio si teneva saldo nella speranza della sua venuta[419].
[Luglio 1533.]
Oltracciò ebbe il Principe pienissima informazione di molte altre cose necessarie a sapere per suo governo, e che non si volevano manifestare a tutti, specialmente intorno alle condizioni dell'armata nemica, condotta dal vecchio Lufty-bey. Cristoforo aveva contato novanta legni; sessanta galèe grosse, e il resto fuste e brigantini: aveva veduti i gagliardetti dei pirati di Ponente, e del Moro d'Alessandria: e di più tutto il naviglio sugli ormeggi in quattro, coi capi di posta a poppa, segno di poca disposizione per levarsi di là, dove stavano ammassati nella cala di capo Gallo, a ostro della piazza e fuori del tiro. Di che Andrea prese animo: e quantunque il nemico lo avanzasse nel numero, e non si fossero vedute mai le dodici galèe promesse di Spagna, deliberò nondimeno seguire ad ogni modo il suo viaggio, ed entrare in Corone, facendo assegnamento sopra i Ponenti freschi, che sogliono spirare di estate dopo il mezzodì. Avanti, senza mettersi a niun rischio di battaglia: chè sarebbe stata imprudente col nemico o sui ferri o alla vela ogni altra fazione atta a ritardare o ad impedire lo scopo principale del soccorrere la piazza, e di sciogliere l'assedio.
[2 agosto 1533.]
Dunque ordina che tutti sian pronti al primo cenno: due galeoni di gran corpo, pieni di gente e di grossa artiglieria, vadano innanzi; segua la reale con ventisette galèe nel corpo di battaglia, alla destra si metta il Salviati colle sedici galèe di Roma e di Malta; alla stanca Antonio Doria con altrettante di Napoli e di Sicilia; alla coda colle salmerie le trenta navi; queste, schifando ogni riscontro di nemici, tirino di lungo, e corrano difilate verso la fortezza per mettersi sotto alla difesa del suo stendardo, e del suo cannone. Così ordinati escono di Messina ai due di agosto, gittansi a golfo lanciato sulla Morèa, spuntano capo Gallo, si coprono di cotone, e via col vento fresco di buonbraccio verso la piazza. Passa il convoglio, passano le navi, e appresso passano le galèe: e i Turchi all'áncora nella bella cala di ponente guardano per prua il passaggio de' nostri, senza dar segno nè di battaglia nè di mossa, se non quando di lontano traggono colpi d'artiglieria, ricambiati del pari, con poco danno delle due parti. In somma dal lato del mare l'assedio è sciolto, e l'armata vincitrice ammaina sotto le mura della piazza.
[7 agosto 1533.]
Qui un'altra volta mi è dato osservare, col Salviati e coi contemporanei, l'imperizia dei Turchi nella tattica navale. Considerazione di gran momento per intendere come e quando costoro divennero poscia per fatto proprio e per altrui opinione eccellenti marini a nostro danno. Avrebbe dovuto Lufty da capo Gallo, subito subito passate le navi a vela, tagliar le gomene o filarle per occhio, e gittarsi a furia sullo squadrone seguente delle galèe; e ne avrebbe facilmente ottenuta vittoria, trovandosi superiore del doppio nel numero, e padrone di tagliare fuori l'armata sottile dalla grossa. Imperocchè le navi di alto bordo, una volta passate col vento fresco di Ponente, potevano ben continuare la rotta a levante, ed anche potevano fermarsi sull'ancora sottovento: ma del tornare indietro per ricongiungersi o per soccorrere le galere sarebbe stato impossibile. Nondimeno Lufty, attonito e irresoluto, non seppe conoscere nè cogliere il grandissimo vantaggio che gli si offriva; e lasciò senza contrasto compiere ai nostri il divisato soccorso[420].
Se non che la fortuna sempre variabile ci richiama nel mezzo del mare, e ci mette in procinto di battaglia. Due grosse navi delle nostre a mezza strada si abbordano tra loro, e impigliansi a vicenda per le verghe e per le sartie: navi cariche di munizioni e piene di infanteria spagnuola da sbarco. La speranza di facile preda stimola Lufty, il quale finalmente distacca alquante galèe per ghermir le due navi restìe: ed ecco le galèe nostre volgere indietro a remo per liberarle. In poco tempo una nave è già perduta, l'altra è agli estremi, e si sostiene a pena per la bravura del capitano Hermosilla. Il Doria e il Salviati avvampano di sdegno, Lufty palpita di spavento, il Moro freme di rabbia. All'appressarsi delle poche galèe cristiane, i Turchi si ritirano, le due navi restano libere, e sulla ricuperata troviamo prigionieri ducento giannizzeri derelitti dai compagni, dopo esserci stati messi per marinarla. Non basta, chè il Salviati si caccia appresso al nemico fuggitivo, tormentandolo alle spalle con spessi tiri, e già è presso ad investire una galèa sdrucita e azzoppata dal suo cannone. Ma il Principe lo divieta con un tiro senza palla, e giù la bandiera a mezz'asta, perché torni addietro. Dove tutti lodano la intrepidezza e la manovra del Salviati; e lodano altresì il senno del Principe. Prima in questo caso compiere il disegno stabilito di soccorrere la piazza, poi l'altro di combattere coll'armata nemica[421].
Al ritorno del Salviati i maggiori capitani scesero in terra; e il Mendoza, squadronate sulla piazza le fanterie sopraggiunte colle prime navi nel porto, fece dalla sua parte gagliardissima sortita: cacciò i Turchi dalle trincere, prese il campo, demolì i ridotti, tolse i cannoni; Lufty-bey al tempo stesso prueggiò verso Modone: e così in un giorno per terra e per mare fu sciolto l'assedio[422].
III.
[31 agosto 1533.]
III. — Liberati dal presente pericolo, i collegati rivolsero l'animo a premunirsi contro gli assalimenti futuri: sbarcare le vettovaglie e le munizioni, risarcire le mura, scambiare il presidio, opere di prestissima esecuzione[423]. Il Mendoza col suo terzo riprese il mare, secondo il patto; ed alla guardia di Corone sottentrò il maestro di campo Maccicào con tre mila di quei fanti che si erano ammutinati in Aversa, perché scontassero la pena della sedizione. Indi l'armata nostra si rivolse di nuovo contro Lufty, che si teneva tra la Sapienza e Modone. Indarno lo sfidarono a battaglia: esso portò in pace tutte le cannonate e tutte le vergogne che gli toccarono; e ognora più stringendosi al sicuro sotto le batterie di quella fortezza, e sempre governandosi timidamente, come aveva fatto dal principio, rifiutò la sfida, e cedette ai nostri la padronanza del mare. Vero è che Solimano aveagli strettamente ordinato di fuggire il cimento, ma esso eseguiva l'ordine con soverchia timidezza: e tutto ciò evidentemente più e più dimostra che infino a questi tempi i Turchi nè riputavansi da sè, nè dagli altri erano riputati invincibili in mare. Non però di meno tra poco vedremo cambiarsi tutto al rovescio l'opinione; e poiché siamo presso al termine tra l'uno e l'altro avviso, ne fo ricordo, perchè il lettore non abbia a trovarcisi improvvisamente sorpreso.
Che se noi vorremo imparzialmente esaminare anche i fatti della presente campagna ne caveremo tristi pronostici, e risulterà gran differenza anche nelle cose nostre tra il passato, il presente e il futuro. Nel trentadue assedii, battaglie, conquiste, città, fortezze, castelli: ed ora tutto si riduce a cambiare un presidio ed a rifornire una piazza. Niuna impresa di terra, niun combattimento sul mare. Perchè non dar dentro in Modone? Perchè non distruggervi le galèe di Solimano, le fuste del Moro, e il navilio degli altri pirati? Perchè non mettersi almeno alla Sapienza e bloccarli tanto che vi si avessero a consumar di stento? Perchè non venir mai le dodici galèe nuove di Spagna? Perchè tornare indietro e licenziare gli ausiliari nel mese d'agosto? Il Giovio, e tanti altri scrittori nostrani e stranieri, favorevoli e imparziali, tutti dicono essere il Doria andato con pochi, il Bazano rimasto a Messina, Cesare più che mai sicuro in Spagna, le forze navali tolte dal pericolo di una battaglia in Levante, ed i Francesi presi a sospetto in Ponente[424]. Insomma già si vede Carlo tentennare, e volgere l'animo a quei ripieghi con che prima e dopo usarono governarsi i politici della sua corte. Battere il Turco, ma non abbatterlo; osteggiarlo per zelo di religione, e mantenerlo per freno dei rivali; librarsi tra le due col pretesto di salvare l'armata, e scusare ogni magagna col sospetto dei Francesi. Nella sostanza prevalevano le ragioni di stato contro i Veneziani, i quali sarebbero divenuti troppo spigliati in Italia, se altri avesseli ajutati a scuotersi di dosso il peso dei Turchi. Carlo aspettava Milano da Francesco Sforza: e con tanti maneggi di armi nelle Sicilie, col sacco di Roma, coll'assedio di Firenze, e colla lega di quasi tutti i grandi e i piccoli stati italiani, compresivi pure i Lucchesi, proprio in quest'anno, agognava a prepotenza, e temeva soltanto di Venezia[425]. Dunque grande energia sul mare nella guerra turchesca del trentadue, perchè trattavasi della salute di Vienna; ed altrettanta tiepidezza nel trentatrè, perchè non si voleva dar ansa di troppo rilievo ai Veneziani. Politica doppia, e sempre mantenuta dalla corte di Spagna, per la quale perderemo molto capitale, e dappoi i frutti di Lepanto, e adesso presto presto perdiamo Corone, come ora dico per compiere, poichè ci sono, questo racconto.
Lufty-bey aspettò tanto in Modone, che ne fosse partito il Doria; e allora, avendo intatta l'armata, riprese il blocco e l'assedio peggio di prima. Il Maccicào si difese valorosamente: ma chicchessia alla lunga si stracca, e col tempo ogni cosa si muta, e succede or lieta or trista. Pensate lui proprio il Maccicào in una sortita cadere negli agguati ed esser fatto a pezzi con molti de' suoi; pensate gli altri del presidio senza capo, e di quella natura turbolenta che abbiam veduta; e non avrete a maravigliare che nel mese d'aprile del trentaquattro siano tornati i castelli in mano ai Turchi, gli Spagnoli in Italia, e i Greci al giogo per altri tre secoli.
[12 settembre 1533.]
Primi dunque a provare i tristi effetti della mezza campagna ebbero a essere gli autori delle mezze misure. Carlo ci rimise di riputazione, di danaro e di gente, offese i Greci, e perse la piazza: Andrea, perchè non dette dentro, toccò dai pirati di Corone la peggio. Imperocchè essendosi ricondotto a Genova, e avendo lasciate sole in Messina tre delle sue proprie galere per caricare certe seterìe di quei mercadanti, quando esse vollero col ricco carico rimettersi in mare, in vece di tornare a Genova, furono condotte in Barberia dal Giudèo, che se le prese a salvamano[426].
IV.
[15 settembre 1533.]
IV. — Per opposito il nostro capitano navigando sicuro pei porti di Sicilia, trovò al suo indirizzo lettere pressanti di Roma, che lo avvisavano del matrimonio conchiuso tra Enrico d'Orleano, secondogenito del re Francesco di Francia, e la Caterina de' Medici, figliuola di Lorenzo il giovane, e nipote di papa Clemente. Di più le lettere medesime portavano che, avendo sua Santità accettato l'invito del Re di abboccarsi con lui in Marsiglia e di trovarsi insieme con tutto il parentado alle nozze, non si aspettava altro per cominciare la navigazione, se non il ritorno delle galèe di Levante. Laonde il Salviati, ottenuta dal Grammaestro la licenza di condurre seco colle dodici galèe di Roma eziandio le quattro di Malta, venne difilato nel porto di Civitavecchia, dove imbarcò molte masserizie e arredi, e molta gente della famiglia, co' quali si volse prestamente verso Livorno, a fine di raggiungervi il Papa: il quale partitosi già di Roma il martedì nove di settembre, per Montepulciano, la Valdelsa, e il Valdarno di sotto, era entrato in Pisa e finalmente in Livorno, senza toccare Firenze per quei rispetti che facilmente ciascuno può intendere. Come fu in quel porto la squadra del Salviati, papa Clemente discese alla marina e montò sulla capitana di Francia addì cinque ottobre, giorno di domenica, sull'ora di vespro, intanto che le galèe di Provenza, di Malta e di Roma facevano salva reale per tre volte con tutta la loro artiglieria e moschetteria[427].
[5 ottobre 1533.]
Indi pigliavano il largo, e procedevano così: alla vanguardia alcune galèe più veloci e bene armate col carico di cercare intorno, di scoprire gli agguati e di tracciare il cammino: e queste sotto il governo di ufficiali, cui chiamavano Cercamare, e Re di galèa[428]. Seguiva una trireme di gran rispetto per nome la Duchessa; e quivi i cerimonieri e i chierici della cappella papale, intenti per turno a salmeggiare presso il tabernacolo, ove tra doppieri ardenti si custodiva la santa Eucaristia: primo dei sacerdoti il prefetto delle cirimonie, Pierpaolo Gualtieri di Arezzo, dal cui giornale raccolgo alcune notizie e tutte le date di questo viaggio[429]. Appresso si attelava lo squadrone delle galèe con al centro la Reale di Francia, condotta dal duca d'Albania, ove risiedeva papa Clemente; e nelle altre a destra e a sinistra sedici cardinali, molti prelati, e il resto della curia e dei familiari: finalmente venivano quattro navi di trasporto colle lettighe, le mute dei cavalli, e tutti quegli arnesi e corredi e fornimenti di chiesa, di corte e di città, che il Papa, i Cardinali, e gli altri nelle funzioni e concistori usar dovevano in Francia.
Lo splendido viaggio di un romano Pontefice con sedici Cardinali, all'incontro di un Re di Francia con tutta la sua corte, durante la traversata, teneva gli ufficiali novelli e i veterani della marina in continue conferenze tra loro sull'ordinamento dei saluti. Punto di sommo rilievo nel secolo decimosesto. Quei signori non lasciavano occasione niuna di mostrare altrui cortesia secondo il debito, e di esigere dagli altri uguale corrispondenza. Il codice dei saluti tanto necessario stimavasi a bordo, quanto la carta da navigare. Aveanvi regole generali e particolari, ed eccezioni per ogni capo: lo sparo dei cannoni, la battuta dei tamburi, lo squillo delle trombe, le voci dei marinari, la parata dei soldati, tutto scritto nei tempi e nei numeri, secondo la dignità delle corone, dei personaggi, dei comandanti, dei navigli, delle città, delle fortezze, e simili; a chi il cominciare, a chi il rispondere, o come a un tempo darsi e rendersi i saluti vicendevolmente. Come trattare i supremi generali, o i luogotenenti, o i capisquadra; sulle reali, sulle capitane, sulle padrone; a mare aperto, in porto o in darsena; armati o disarmati, di arrivo o di partenza. Quando uscire incontro ai maggiori, quanto procedere, quale distanza tenere. Come prendere la posta, o libera o colta da altri. Come ricevere le visite, e restituirle: quando issare, mainare, scuotere, o ribattere per saluto la bandiera. Come navigare sottovento, dove mettere lo sperone, come tenersi alla scaletta del più degno, o attelarsi alla pari colle conserve. Quando abbattere la tenda, o stringere le vele, spalare o palpare i remi. E che fare alla presenza di Re, Imperatori, Papi, Principi, e via via: con tante clausole eccezionali, che il codice veniva in pratica difficilissimo, e dava continuo rappiglio di querele ai puntigliosi, e di dispute sentenziose agli interpreti. Però l'istesso codice prescriveva il contegno da tenere contro i mancatori nel caso, che chiamavano, di onore dinegato[430]. Son piene le storie delle controversie perpetue in questa materia dei Genovesi co' Toscani, e dei Cavalieri di Malta con tuttaddue.
Così, sempre salutando, toccarono il Finale e Villafranca, senza entrare nel porto di Nizza per certi puntigli del duca di Savoia; e di là con felicissima navigazione la mattina dell'undici ottobre, sull'ora di terza, comparvero alla vista di Marsiglia, segnalati subito dalle vedette al monte della Guardia.
V.
[11 ottobre 1533.]
V. — All'incontro per tre miglia dentro mare venne il cardinale Legato d'Avignone, e con lui altri tre Cardinali francesi, cioè il Borbonio, il Lorenese ed il Grammonte; i quali, fatta la riverenza al Pontefice, si unirono colla loro galèa al corteggio, ripiegandosi in bell'ordine di contrammarcia appresso della Reale, perchè le fosse libera la via di entrare agiatamente prima di ogni altra nel porto. La Reale di Francia chiamava sopra di sè da ogni parte lo sguardo degli innumerevoli spettatori, così per la personale dignità dell'augusto viaggiatore, come per la bellezza delle sue forme. Superbo naviglio costruito a sommo studio di grande comparsa. La camera maggiore dall'albero di maestra infino alla timoniera, coperta di ricchissimi damaschi cremisini, seminati di gigli d'oro, a lungo strascico, profusamente insino al mare. Intorno alla poppa scolture di rilievo messe a oro sul fondo nero; donde maggior risalto di ricchezza e di armonia, e insieme sicurtà di navigazione, e sfoggio di appariscenza[431]. Sulla freccia dorata un forbito fanale di metallo, lucido a specchio, che nel giorno e più anche nella notte gittava sprazzi di vivissima luce. Il coronamento del dorso rilevato in arco, e sostenuto da statue gigantesche ai lati dello stemma papale e reale tra ricchi festoni di alto rilievo e di finissimo intaglio: ed alle bande, sotto lo sporto dei listelli e dei fregi, gruppi in figura di tritoni e di sirene che, danzando intorno al naviglio, facevano come di sorreggerne il corpo e di seguirne l'andare. Le tende tutte di porpora a ricamo: le camere parate di teletta d'oro e di seta. Gli spallieri incatenati al banco con catene d'argento; e la ciurma di trecento robusti rematori tutti vestiti di raso damascato rosso e giallo, ai colori del Re[432].
Appresso alla Reale venivano le due Capitane di Roma e di Malta[433], e le altre galèe del convoglio insieme colle quattro provenzali[434] tutte splendide e ricche di ornamenti, tutte pavesate a festa con bandiere bellissime, i marinari e i soldati alle poste e alle rembate in grande assisa, e salutando da ogni parte con tiri d'artiglieria la città, le fortezze, le navi, e da quelle corrisposte colpo per colpo, con tanto strepito di salve e di cannonate, che più non si potrebbe dire. Gittata l'àncora nel mezzo al porto, ecco il real bargio alla scaletta destrale di fuoribanda per ricevere il Pontefice, e per menarlo alla sponda: palischermo grandioso, ponte coperto, ricco padiglione, sfarzoso cortinaggio, porpora, frange e nappini d'oro: in somma comodo e magnificenza, rapidità di corso, e sicurezza d'accosto ad ogni banchina. Entratovi Clemente, e postosi sur un seggiolone di velluto, col seguito di tutti gli altri palischermi e dei personaggi più ragguardevoli, discese in terra presso alla chiesa di sant'Agostino, nella quale rese all'Altissimo le dovute grazie; e poi se ne andò ad un bel luogo del Re, chiamato il Giardino, ove riposò quella notte, dovendo fare il dì seguente l'entrata solenne nella città[435].
VI.
[15 ottobre 1533.]
VI. — I marinari sanno ormai per lunga esperienza che io non sono uso abbandonarli, e sanno che non amo cacciarmi tra la folla dentro terra appresso alle feste cortigianesche; però possono prevedere ch'io mi passerò delle nozze del duca d'Orleano con madama Caterina, la quale doveva essere, come dicevano, giovane, savia e bella. Ciascuno potrà leggerne altrove gli elogi e le feste, ed anche imaginarsele da sè, pensando grandi cose per la presenza del Pontefice, dei Cardinali, e della Curia romana; per la magnificenza del re Francesco con tre suoi figliuoli, e della Regina sorella dell'Imperatore, e di tanti principi, baroni e prelati di Francia e d'Italia concorsivi a gara. Ma non lascerò di ricordare la riverenza e l'ammirazione con che quei signori, venendo al porto, riguardavano i nostri bastimenti, non potendosi saziare di vederli e di rivederli. Chi lodava la lindura dei navigli, chi il marzial piglio degli equipaggi, massime dei romani e dei maltesi, tornati allora allora di Levante, dove avevano combattuto e vinto il Turco, e durante la campagna di due anni avevano preso la fortezza di Patrasso ed i castelli di Lepanto, espugnato Corone, e scioltone l'assedio, con tanta gloria del nome cristiano. Gli ufficiali di marina festeggiati da tutti, e continue le visite a bordo.
Di che entrata pur la voglia nell'animo del re Francesco, si condusse il dì quindici di ottobre a visitare le nostre galèe; e per maggior diletto con molti elogi volle che il Salviati uscisse dal porto e seco lo menasse pel mare attorno alle Pomeghe ed oltre a dieci miglia più in fuori, giostrandogli ed armeggiandogli ai lati tutte le altre galèe dello squadrone romano e maltese, con grandissima letizia del Re e de' suoi cavalieri[436]. Possiamo in cotesta occasione pensare ogni sorta di manovre: ora a vela di buonbraccio, e in poppa, e all'orza, correndo e volteggiando; ora a remo di voga larga, o di corso arrancato, o di riposo, o in giolito, o a quartieri; dando e pigliando caccia, e traendo colpi d'artiglieria; tra le voci degli ufficiali di comando, e le esclamazioni consuete e notorie del capitano Salviati. Il quale compiacendosi con quei signori, e lodandosi della sua gente, secondo i tratti di destrezza e secondo le osservazioni dell'arte nautica, non aveva tanto a potersi tenere, che una volta o l'altra non esclamasse[437]: Al corpo di santa gallina! vedi prontezza di girata, vedi efficacia di timone, vedi prueggio sull'occhio del vento, e vedi falcato sulla scia l'arco dello scarroccio.
Era il tempo del magisterio dei nostri marini: fresca la memoria e vivi gli allievi del Colombo, del Vespucci, del Cabotto e del Pigafetta; tempo che Genovesi e Napolitani, Doria e Caraccioli, Spinoli e Centurioni guidavano le armate di Spagna; fiorentini e romani, Strozzi e Orsini, Sforza e Farnesi attendevano in posti eminenti alle armate di Francia; tempo che il Salviati prior di Roma poteva parlare di Scarroccio anche alla presenza del re Francesco, come ho scritto avanti, per farmi largo a dichiarare questa voce nostrana, tecnica, necessaria, da non confondere colla Deriva.
Tace la Crusca dello Scarroccio: perciò lezioni, varianti, e dubbiezze senza fine. Ma il termine è antico, e sempre vivo tra i marinari: termine derivato al tempo e al modo stesso del notissimo Carroccio, cioè dal carro. Perocchè le antenne latine (principale attrezzatura dei bastimenti di linea nei secoli passati) erano composte di due verghe trincate insieme; che si chiamavano, e tuttavia si chiamano, Carro e Penna. Questa così detta, perchè alta e sottile si solleva e fa punta; l'altro, perchè grosso e basso porta su e giù tutto il fardello delle vele maggiori e minori inferite e governate sull'antenna. Pel rovescio del carro viene lo Scarroccio: conciossiachè nel navigare alla latina sempre il carro si porta al vento; e se il vento sarà obbliquo alla rotta, si metterà il carro obbliquo al vento, e la vela obbliqua alla chiglia. La risultante di queste forze obblique spinge il naviglio innanzi pel rombo assegnato: ma al tempo stesso quel che soverchia di forza laterale (non potendo per la ragione dell'obbliquità concorrere tutta nella direzione voluta) premendo pur lateralmente vela, corpo, fianco e attrezzi del bastimento medesimo, non può non gittarlo alquanto sottovento, mentre pur segue col fil della prora il cammino prescritto. Dunque i marinari dicono propriamente Scarroccio[438]: Quel trasporto involontario che patisce il naviglio col vento obbliquo a rovescio del carro, fuori della via assegnata, sulla quale governa. Trasporto proporzionale alle qualità nautiche del bastimento, al suo taglio, stivamento, velatura, velocità propria, forza del vento, obbliquità di spinta, e stato del mare. Trasporto anomalo che compete in origine ai bastimenti latini sotto vela: ma che per la stessa similitudine si dice di ogni legno a vela, a remo, a vapore, quando sia gittato sotto via dalla spinta del vento laterale, come succede del legno latino a rovescio del carro. Trasporto che si riconosce a un batter d'occhio sulla scia o solco impresso dalla rotta sul mare; il quale solco comparisce curvo, perchè prodotto da due forze angolari che operano in ogni minimo istante di tempo, l'una nella direzione della chiglia, l'altra nella direzione del vento, sotto un angolo che può essere misurato col grafometro, e indicare colla sua maggiore o minore apertura la quantità della anomalia. Trasporto finalmente che può esser corretto e mitigato cogli aloni distesi al fianco del naviglio, dal lato di sottovento, perchè contrastino nell'acqua contro la spinta laterale, e diminuiscano lo scarrocciare; cosa che tornerebbe inutile non solo, ma dannosa, nel caso di corrente e di deriva.
Da ciò resta vie meglio chiarita la necessità delle due voci Scarroccio e Deriva, che non si vogliono confondere per sinonime, nè rifiutare per forestiere, come alcuni pretendono. Esse rispondono a diversi concetti: chè si può scarrocciare senza derivare, e viceversa: anzi al tempo stesso si può derivare in un verso e scarrocciare in un altro, secondo l'andamento uguale od opposto della corrente, del vento e della rotta; e talora la deriva corregge lo scarroccio, pognamoci nel caso di stringere il vento colla marèa.
Intanto ragionando insieme di arte e di mare quei signori se ne ritornano lietissimi verso il porto di Marsiglia, innanzi al quale ho voluto ricordare gli onori e i teoremi della nostra marineria, perchè si veda quanto giustamente ella fosse encomiata dagli stessi Francesi e dal Re, il cui giudizio ognuno riputerà di gran peso e valore. Pel secolo decimosesto valgono le notizie conservateci e pubblicate dal signore di Godeffroy, scrittore ufficiale della corte di Francia: e pei due secoli seguenti varranno le scritture del notissimo Labat, brioso viaggiatore francese, il quale più volte ripete, e costringe anche me a ripigliare le sue parole[439]. «Le galèe semplici del Papa sono di primaria grandezza, uguali alle capitane di Francia e degli altri principi.... La capitana poi ha sempre la poppa ornata di scolture e dorature. Ne fa varata una, l'anno 1714, dove spiccava intagliata a rilievo tutta la solenne cirimonia della canonizzazione di san Pio; lavoro di valente scalpello, e adorno di dorature per tutto dove si poteva metterne. Difficile immaginare cosa più magnifica! La poppa sembrava un monte d'oro ombreggiato da ricco padiglione di damasco rosso colle frange e i nappini d'oro. Tutte altresì ben armate, palamento numeroso ed esperto; e difese da buoni soldati, tratti dalle compagnie di Roma e dalla guarnigione di Civitavecchia.... Bisogna confessare che non si vedono sul Mediterraneo galèe più grandi, meglio armate e più ricche di quelle del Papa.... La regina di Polonia s'imbarcò a Civitavecchia sulla capitana di Roma, comandata dal priore Ferretti.... Nel porto di Marsiglia le galere pontificie fecero salva con tutta l'artiglieria.... La capitana salutò la reale di Francia con quattro tiri di cannone ed ebbe risposta colpo per colpo. Ciascuno potrà pensare, senza altro dirne, che vi fu calca per venirla a vedere. Essa lo meritava certamente: perchè, a confessione degli stessi Francesi, era la più magnifica capitana che fosse stata veduta a Marsiglia.» Togliete quanto volete: ce ne resterà sempre a bastanza per quelli che non ha guari metteanci allo zero. Avrete il resto tra poco dalla penna di un classico francese.
VII.
[12 novembre 1533.]
VII. — Posto finalmente un termine alle feste ed ai congressi tra il Papa e il Re (donde tanti sospetti e tante speranze in Europa), creati quattro cardinali francesi, tenuti diversi concistori, dopo trentaquattro giorni di conviti e tornei, Clemente VII prese congedo: e addì dodici del mese di novembre si rimbarcò in Marsiglia per tornare alla sua sede. Toccarono Santropè, Villafranca e Portovenere, senza altra novità che di tempeste invernali, specialmente nelle acque di Savona: dove al dire del Belcaire, gravissimo storico francese[440], papa Clemente non volle più navigare sulle galere di Francia per la poca perizia dei nocchieri, quantunque i legni fossero eccellenti; ma tramutossi di bordo passando sulla capitana di Roma, già governata dal Doria (come abbiamo veduto), ed ora condotta dal Salviati. Il quale, pienamente rispondendo alla fiducia di lui, rimiselo sicuro e lieto nel porto di Civitavecchia[441].
[7 dicembre 1533.]
Stanco della lunga navigazione, prima di ripigliare il viaggio di Roma per la via di terra, volle altresì papa Clemente riposarsi tre giorni in Civitavecchia, con grande onore e splendidezza alloggiato e festeggiato nel palagio della Rôcca: e volle similmente far posare le sue genti di mare, riconoscendo ciascuno secondo i meriti. Agli ufficiali le collane d'oro, alle genti di capo i fiorini, ed alle genti di remo la pasciona. Di qua nei tre giorni della dimora spedì lettere e brevi in diverse parti; due dei quali al mio proposito da essere specialmente ricordati. Il primo al principe Doria in Genova, colla data di Civitavecchia del giorno sette dicembre, lodandosi dell'incontro a Portovenere e della compagnia seguente di alcune sue galere condotte da Marcantonio del Carretto, figlio di Alfonso marchese di Finale, e della Peretta Usodimare, passata in seconde nozze collo stesso Andrea[442]. Nel secondo breve al Grammaestro di Malta, sotto la data del giorno otto e della stessa città[443], maggiormente a lui si loda dei marinari, degli ufficiali e del Salviati priore di Roma pel doppio servigio, e nella guerra contro i Turchi, e nel viaggio dei tre mesi tra l'andata, la dimora e il ritorno, appresso alla persona sua: coglie questa occasione per ricordare in modo solenne e durevole la fede, la bravura e la perizia nautica delle due squadre, e del prode comandante: rimettendosi a lui medesimo per le minute informazioni che gli darà in scritto delle cose più notevoli occorse nel viaggio marittimo, massime da Savona in qua: finalmente prega il Grammaestro a contentarsi di lasciarglielo in Civitavecchia, per capitano della guardia permanente; e di proscioglierlo dall'obbligo di ritornare nell'isola colle galèe della Religione gerosolimitana per quei rispetti che egli doveva benissimo intendere senza altro discorso.
[10 dicembre 1533.]
La mattina del dieci dicembre papa Clemente per le poste corse verso Roma, e vi giunse il giorno istesso alle due pomeridiane. La sera fecero vela le galèe di Malta verso l'isola, condotte dal luogotenente del Salviati; e verso Genova si rivolse Marcantonio del Carretto in compagnia del capitano Paolo Giustiniani, che vi rimenava alcune galèe assoldate già prima alle spese della Camera apostolica.
VIII.
[15 dicembre 1533.]
VIII. — Il capitan Salviati restossi nel porto di Civitavecchia con tre galèe e un brigantino: comandante della marina, governatore della piazza e castellano della rôcca. La nomina verbale agli ultimi due ufficî valeagli fin dal principio, ma il brevetto non fu segnato che al primo di settembre, quando egli era nei viaggi di Corone e di Marsiglia, e però il possesso deve ridursi in questi giorni del suo ritorno e della sua dimora. Produco il documento nella integrità, perchè inedito[444]:
«Al diletto figlio Bernardo dei Salviati, priore di Roma, e prefetto delle nostre galèe. Clemente papa VII. — Figliuolo diletto, salute, eccetera. Confidando nella tua virtù, fede, sollecitudine e prudenza, per autorità apostolica e per tenore delle lettere presenti, noi ti deputiamo castellano della fortezza e commissario della nostra terra di Civitavecchia, con tutti gli onori, giurisdizioni, paghe, salarî ed emolumenti consueti; e ciò da durare a nostro beneplacito, e da principiare subito che sarai approdato nel detto porto. Ordiniamo nel tempo stesso al presente castellano della detta fortezza, che la consegni a te medesimo, o a chi tu manderai in tua vece, eccetera. — Dato in Roma, presso san Pietro, sotto l'anello del Pescatore, addì primo di settembre 1533, del nostro pontificato anno decimo. — Blosio». Non occorre commento.
IX.
[16 aprile 1534.]
IX. — Più e più importante alla storia della marineria segue l'inventario proprio di quest'anno addì sedici di aprile, per la consegna delle galèe al nuovo comandante: inventario non potuto compilare prima pei continui suoi viaggi di Levante e di Francia. Lo pubblico, perchè si veda la continuazione delle voci del mestiero: voci che il Berisio, notajo romano, scriveva negli atti, come gli venivano dall'ufficiale della marina deputato a questo servigio. Non altra mutazione farò che dell'ortografia, correggendo gli idiotismi manifesti dello scrittore, tanto che ne venga corretta la lezione. Dirò Bande, dove è scritto Banne; Dodici, non Dudichi; Timoni, non Temoni, e simili; perchè non voglio col pregio dei documenti crescere la confusione del linguaggio marinaresco, ma in quella vece rilevare la legittimità tradizionale dei vocaboli, purgati che sieno dalle mende dei dialetti e della plebe. Ecco la traduzione del preambolo latino, e poi come segue il testo volgare[445]:
«Addì sedici d'aprile, anno 1534, il reverendo signore fra Bernardo Salviati, priore del priorato di Roma dell'ordine di san Giovanni gerosolimitano, e capitan generale delle galèe del santissimo Signor nostro, assegnate alla guardia del mar Tirreno, spontaneamente eccetera, da sè eccetera, disse e dichiarò ed apertamente in pubblico confessò nelle tre galèe e nel brigantino del suo governo e capitanato, come sopra, essere e trovarsi tutte e singole le munizioni e fornimenti contenuti e notati nella infrascritta Cedola, firmata e sottoscritta di sua propria mano. Le quali cose, insieme colle predette galèe e brigantino, il lodato signor capitano Bernardo ha promesso restituire a suo tempo, secondo la forma espressa nei capitoli della sua condotta, e tolta di mezzo ogni eccezione. Per le quali cose eccetera, si obbligò eccetera. Fatto in Roma nel palazzo di casa Medici presso la piazza Navona, che il medesimo signor Bernardo ha per suo abitare.
»Tenore della Cedola:
» Lo inventario di una galèa[446].
»Il corpo della galèa[447] fornita, con suoi banchi, pedagne, balestriere e battagliole[448].
»Item dodici catene di ferro per fornimento della sartia[449].
»Item due timoni forniti con loro aggiacci, aguglie e feminelle[450].
»Item uno schifo con sua catena, e tre paja di remi.
»Item un fanale dorato.
»Item l'albero della galèa et antenna, fornito di sartia e taglie; e bronzi per imbronzare il calcese e le taglie, come si usa.
»Item altre taglie, pasteche di schifo, e da arborare, et alcune di rispetto.
»Item remi pel fornimento di una galèa et di rispetto, in tutto centosettanta[451].
»Item piombo per impiombare il palamento et altre cose necessarie alla galèa, cantari nove e un terzo.
»Item catene pei forzati interziate[452], coi loro perni e chiavette, quarantanove.
»Item manette, perni, traverse per la munizione della galèa, quarantadue.
»Item pali di ferro tre.
»Item accette[453] tredici per la provvisione della galèa.
»Item per la cucina della galèa, una caldaja grande, una mezzana, una terza, ed otto calderotti piccoli.
»Item padelle tre, et spiedi quattro.
»Item due ronzoni[454] di ferro per sorgere.
»Item barili da acqua cennovantasei.
»Item vernicali[455] centocinquanta.
»Item una manica di corame per empir la stipa[456].
»Item pavesi ducento[457].
»Item rotelle quaranta.
»Item botti per la stipa tredici.
»Item archibusi co' loro fornimenti cinquanta.
»Item celate trentatrè.
»Item lancioni quindici.
»Item partigianoni dodici.
»Item alabarde trentatrè.
»Item picche cento.
»Item spade quaranta.
»Item l'albero e antenna del trinchetto fornito di sua sartia, come si usa.
» Il velame.
»Un artimone[458] guernito co' suoi mattaffioni e cordini[459].
»Un bastardo guernito, come sopra.
»Una borda guernita, come di sopra.
»La vela del trinchetto guernita, come si usa.
»Una vela di trevo[460]
» Le tende.
»Una tenda di albagio.
»Una tenda di canavaccio.
»Un tendale di albagio.
»Un tendale di cotonina.
»Due bussole da navigare.
»Quattro ampollette per la guardia.
»E più due caldaje grandi e due piccole, e quattro cucchiaj, che sono per cuocere la pece da calafatare, e serviranno per le tre galèe.
» Sartiame.
»Cinque gomene.
»Due gomenette.
»Un prodàno, et una vetta di prodàno[461].
»Le vette[462] da ghindare[463].
»Le oste della galera[464].
»Le orze a poppa, e l'orza novella[465].
»Un pajo di amanti.
»Due scotte.
»Due palmare[466].
»Una grippia da collo[467].
»Una vetta da arborare.
»Una barbetta per lo schifo[468].
»Un provese.
»Una quarnaletta.
»Gli stroppi con che voga il palamento.
» L'artiglieria.
»Un cannone serpentino per la prua della galèa col suo ceppo ferrato[469].
»Due mezzi cannoni serpentini per la prua, coi loro ceppi ferrati[470].
»Due quarti cannoni[471] per le bande coi loro ceppi ferrati.
»Due smerigli grandi per le bitte, et quattro piccoli per le bande[472]. Et più le carcature per la predetta artiglieria[473].
»Lo inventario di sopra scritto è tutto della galèa capitana, e così delle altre due galèe, riservato il fanale, et le caldaje di pece.
»Et più il bucio[474] del brigantino co' suoi banchi.
»Item albero et antenna guernito di sartia e taglie.
»Item remi trentadue.
»Item una vela guernita.
»Item un ferro per sorgere.
»Item un cavetto e due provesi.
»Fra Bernardo Salviati priore di Roma.»
X.
[20 aprile 1534.]
X. — Non posso lasciar correre la lindura e la brevità del documento ora prodotto senza la compagnia di alcuni commenti. Il capitano Salviati, parlando del fusto di un brigantino, non si perita chiamarlo il Bucio. Dunque la radicale ormai notissima del famoso Bucintoro durava pel comune uso tradizionale anche nel secolo decimosesto, e sotto la penna di un marinaro che sentiva a un tempo di Firenze, di Malta e di Roma. Potrei citare altri esempî[475]. Ma più di tutto stimo il suggerimento dell'Archivio Veneto, e l'opinione anteriore di Angelo Zon, da me non avvertita prima, la quale ora corrobora la mia diversamente cavata, e tronca ogni altra disputa con un argomento di fatto[476]. Il cerimoniale della basilica di san Marco, codice del secolo decimoterzo, parlando della festa solenne dell'Ascensione, e della comparsa del Bucintoro alla marina di Venezia, dice tutto aperto[477]: «I Canonici devono accompagnare il Doge quando navigherà sul Bucio.»
Nel nostro documento esce adesso per la prima volta il titolo di capitano Generale[478]. Bisogna avvertire che, venuto al governo della squadra romana, il Salviati già teneva al suo carico la squadra maltese; e per questo comandava sedici galèe, con due capitane. Indi a maggiore autorità fece seguito più grandioso titolo. Lo stesso innalzamento dopo venti anni successe in Malta a proposito di Leone Strozzi, di cui si legge così[479]: «Al primo di giugno 1553 Leone Strozzi, priore di Capua, prese possesso delle galere che erano sette: cioè le quattro ordinarie della Religione, e le tre del medesimo Priore, che stavano al soldo del comun tesoro. E perchè egli aveva avuto così gran carichi, et allora comandava due capitane, per questo fu egli da tutti chiamato comunemente il Generale. E questa fu la prima volta che il capitano con tal titolo chiamato fosse.» Similitudine di cause, di effetti e di avvertenze tra Malta e Roma.
Vuolsi ancora notare nell'inventario il costume romano sul conto delle artiglierie. In ogni galèa undici pezzi, e i tre maggiori serpentini. Intendi cannoni colubrinati, di lunga canna, almeno di ventisei bocche, per più lontana gittata; e non troppo ricchi di metallo per maggior leggerezza. Il corsiero da cinquanta, i laterali da ventiquattro, gli estremi da dodici; due smerigli alle bitte, e quattro alla mezzanìa. Sistema espressamente ricordato dal Pantera con queste parole[480]: «Oltre al pezzo di corsìa, sogliono le galere portare un sagro dall'una e dall'altra parte, e appresso ai sagri si mette un cannone petriero da quindici: e più si suole accomodare verso le posticce uno smeriglio dall'una e dall'altra banda della galèa. Questi pezzetti, caricandosi con i mascoli et maneggiandosi facilmente, sono comodissimi. Alla poppa portano un simile pezzetto da ogni parte alla spalla, o un petriero piccolo, acciocchè aggravino meno. Et quest'ordine si tiene nell'armare di artiglieria le galere ponentine.» Ne vedremo l'importanza e l'applicazione.
Più largamente pel tempo successivo entrano in questi particolari i codici più recenti dell'Archivio camerale, cominciato per ordine di Alessandro VII, e continuato infino agli ultimi tempi[481]. Centinaja di volumi, attenenti alle cose del mare, che forse io solo (dopo messi ai palchetti) ho studiato ad uno ad uno per amplissima concessione del cavaliere Angelo Galli, ministro allora delle Finanze in Roma, e coll'assistenza di Pietro Benucci, archivista del ministerio: ambedue ricordati per debito di gratitudine. Ne darò gli estratti secondo il corso dei tempi seguenti: ma perchè questi ci rimandano agli anteriori, valgano per sempre i cenni presenti di fatto mio proprio, che tutti quei codici ho veduto nel palazzo Salviati (fabbricato dal medesimo nostro capitano Generale), donde sono passati al moderno Archivio di Stato, come mi dice il Corvisieri.
XI.
[12 giugno 1534.]
XI. — Ma poichè si avanza la buona stagione per navigare, e già da più parti sul Tirreno scorrono gli amici ed i nemici nostri, gli è tempo di uscir dagli archivi di stato e dei notaj, e di rivolgerci al mare, dove al marzial brio possiamo anche da lungi riconoscere la squadra del Salviati. Sono sei galèe: tre della guardia consueta, ed altrettante armate alle spese dello splendido capitano, desideroso di farsi merito, e sicuro di trovarne compenso. Gran cose deve aver fatto in quest'anno, quantunque non se ne trovi sillaba negli scrittori romani. Ma l'eco della fama allora ne portò infino a Genova le notizie, e di là me le rimena per la penna del Bonfadio; il quale non tanto strettamente narra le cose sue, che non se ne possano talora avvantaggiare le nostre. Il capitano Marco Usodimare (come dice esso Bonfadio e tutti sanno) nobile e prode genovese, facendo gran conto del Salviati e della sua gente, venne quest'anno con cinque galèe a trovarlo, richiedendolo di conserva contro una grossa banda di fuste e di galeotte piratiche, che rapinavano a talento sulle maremme di Toscana. Navigarono le undici galèe intorno a quelle isole, dalla Pianosa all'Elba, ed al canal di Piombino; e finalmente vennero a sapere che il grosso dei pirati, fuggiti da ogni altra parte, si tenea celato all'aspetto sulle ancore nella cala di Montecristo, isoletta allora disabitata dirimpetto all'Argentaro, e ben visibile col tempo alquanto sereno a chi riguarda da Civitavecchia inverso ponente. Dunque antenne in battaglia, serpentini e smerigli in batteria, soldati e marinari alle poste, e voga arrancata verso la cala. Se non che dalle alture dell'isola avendo le guardie dei nemici discoperto le nostre galere, imbrancaronsi in fuga precipitosa; risoluti a loro costume di schivare lo scontro dei navigli militari. Nondimeno due galeotte, meno delle altre preste a fuggire, sopraggiunte e investite, vennero in potere di Bernardo e di Marco; ed una terza, pertinacemente inseguita con lunga caccia, mainò la bandiera e s'arrese all'altura di capo Côrso. Ducento Cristiani liberati dalla catena, cento e più ladroni messi al remo, tre legni presi a rimburchio, e buona preda divisa tra Genova e Roma[482].
Pensate feste al ritorno dei vincitori: feste sovente negli scorsi secoli, e infino al principio del presente ripetute nelle nostre città marittime per celebrare il trionfo dei prodi contro i barbari: feste pur accennate qua e là da parecchi con qualche generica declamazione, ma da niuno divisate colle particolari costumanze tradizionali, che si usavano quasi all'istesso modo in Nizza, in Genova, in Livorno, in Civitavecchia, e in tutti i porti d'Italia. Di che facendosi ogni giorno più languida la memoria per le mutate condizioni dei tempi, andrebbe ogni traccia finalmente a perdersi, se qualcuno non se ne facesse espositore. L'indole di questa storia tanto stringe più che altri me stesso, quanto ognun vede, a pigliarne il carico: però non mi perito di soddisfarvi, come colui che nella mia patria infino dalla prima età, tra il secondo e il terzo decennale di questo secolo, ho potuto raccogliere gli ultimi ricordi dei nostri veterani, attori e testimonî del secolo anteriore; e ne conservo tuttavia vivissima la memoria. Avrò io adesso a tessere il catalogo delle antiche conoscenze, e a nominare tutti i campioni, dal comandante Andrea Zara, infino al marinaro bombardiere Carlo Viola? Per non divagar tanto lontano col discorso di altri e di me, e senza togliere punto di fede al racconto, basterà che dica di quest'ultimo più che ottuagenario, ma vegeto e rubizzo vecchio, cui noi fanciulli col maestro facevamo corona nelle ore del passeggio vespertino sul molo del Bicchiere per udirne i racconti. Ed egli con bel garbo seduto sul calastrello di riposo d'un pezzo da quarantotto, quivi stesso in batteria sul molo, dicendo e rispondendo alle nostre domande, consolava la mestizia del suo verno, e la giocondità della nostra primavera, discorrendo dei primi suoi combattimenti contro i Turchi, e dei suoi ritorni vittoriosi: e divisava ogni cosa così bene per punto e per segno, e colle circostanze delle persone, dei tempi e dei luoghi che era delizia l'udirlo non solo a noi, ma a chiunque s'incontrasse a passare.
Da lui adunque, e da altri ancora di maggior calibro, abbiamo per tradizione perenne infino al termine, che i vincitori dei barbareschi, nel tornare verso il porto colle prede ammarinate, davano avviso da lungi del felice avvenimento e della festosa venuta: gala di bandiere, e nove spari di cannone con tre rapidi colpi per tre lunghi intervalli. A quel segno i cittadini, messa da parte ogni altra cura, concorrevano al porto; i guardiani approntavano le cautele del lazzeretto, la guarnigione schieravasi sulla calata, le campane di santa Maria sonavano a gloria, e la fortezza, spiegati gli stendardi maggiori, salutava i vegnenti con tiri ventuno, la piazza salutava con sei. Le prime notizie ad alta voce davansi e riceveansi dal fortino del Bicchiere, presso la bocca di Levante; e di là partiva il primo scoppio di plauso ai reduci valorosi, e l'ultimo vale di congedo agli estinti benemeriti. I legni entravano nel porto traendosi dietro le prede colle bandiere rovesciate, e lo strascico in mare: pigliavano la posta al molo del lazzaretto; e sbarcavano spartitamente, tra le voci e i saluti del popolo, prima i Cristiani affrancati, e poi i Turchi prigionieri, perchè sotto custodia purgassero la contumacia. Ciò fatto squillavano le trombe di bordo, e salutavano santa Fermina protettrice dei naviganti: poi volgendosi rispondevano ai saluti della fortezza e della piazza colpo per colpo: e subito, senza pigliar pratica, uscivano dal porto per consumare al largo in crociera di guardia la quarantina: pronti ogni giorno a rinnovare le medesime feste e cautele, se la fortuna li avesse rimenati a novelli cimenti. Finalmente cessato ogni pericolo di contagio (per quei tempi anche la peste entrava tra i favori consueti dei Barbareschi), tutto l'armamento, soldati e marinari sotto le armi, scendevano in terra coi loro ufficiali alla testa, e appresso scalzi in lunga fila i Cristiani affrancati venivano a processione nella chiesa di santa Maria, dove rendevano le dovute grazie a Dio e ai Santi: e per memoria del beneficio lasciavano la bandiera maggiore dei legni nemici.
Ricordo io in Civitavecchia, e ogni altro meco del mio tempo può ricordare, come infino a venti anni fa sul cornicione della stessa chiesa duravano ancora ritti agli stipiti di ciascuna finestra i gruppi di queste bandiere: aste di quasi tre metri, e stamigne di color rosso vergate di bianco con più maniere di stelle, di scimitarre e di rosoni. Quei trofei delle nostre istorie tolti dal posto, e messi in pezzi al focolare sotto la caldaja, caddero in un giorno tutti in cenere; tanto che nè a me nè ad altri maggiori (quando il puzzo ne venne in Roma) non fu più dato di poterne ricuperare briciola; e ciò pel fatto stupido di chi ebbe mano negli ultimi ristauri di quel luogo. Al modo stesso pur quivi ne avevano manomessi parecchi anche prima, e continuamente se ne disertano altrove. Colpa di moderne fantasie, e di vecchie ignoranze. Valgano queste parole per avviso, anzi che per biasimo: e servano di compenso ai pubblici monumenti recentemente perduti. Parole scritte da chi ricorda la riverenza con che gli anziani li additavano, e l'ammirazione che i giovani ne sentivano: parole di chi ora, richiamando le prime e care impressioni dell'adolescenza, ripensa come dalle bandiere della Chiesa e dai racconti del Molo siansi forse derivati nella sua mente ancor tenera i primi semi di questi volumi.
XII.
[1 luglio 1534.]
XII. — Ma perchè voglio conchiudere, torno a Solimano, intorno al quale oramai scopertamente si raccoglie e cresce per ragion di stato la grande pirateria. Dopo i rovesci di Corone, caduto in disgrazia prima Omèr-Aly, e appresso Lufty-Bey, sottentra al governo dell'armata ottomana, come supremo ammiraglio, il terribile Barbarossa: e l'innalzamento di cotesto pubblico ladrone ad ufficio e dignità tanto principale nella monarchia mi conduce a considerare più largamente le condizioni di lui, dei suoi pari, e la nuova alleanza al culmine, per questi tempi, tra i pirati e la casa ottomana.
Solimano teneva l'animo alle conquiste; non pure a danno dei Cristiani, ma anche a scapito dei Musulmani. L'Africa settentrionale maggiormente solleticava i suoi appetiti, e non è a stupire che anche verso quelle parti distendesse i capi della sua rete. Vedeavi largamente diffusa per opera dei Turchi, sudditi suoi, la minuta e la grande pirateria; e arguiva il vantaggio che pe' suoi divisamenti avrebbe potuto cavarne. I pirati, datisi alle rapine contro il commercio di levante e di ponente dalle marine di Rodi e di Cipro, infino alle riviere d'Italia, di Francia e di Spagna, per necessità avevano dovuto cercar rifugio, ricetto e protezione nei porti vicini dell'Egitto e di Barberìa; ed i sovrani indipendenti delle antiche dinastie arabe e berbere non eransi ricusati di accogliere lietamente i venturieri per dimostrazione di fratellanza mussulmana, e per ingordigia di guadagni castrensi. Gli stolti chiamandosi in casa gente strania e ladra, e vedendola ogni giorno crescere di potenza, di clientela e di prestigio, non prevedevano doversi attendere a essere una volta o l'altra cacciati. L'occasione alla lunga non poteva fallire, nè potevano i pirati mancare di un punto all'occasione. Venne il destro a senno di Solimano: la strada aperta, i popoli volubili, i ladroni potenti. Egli prese tutti i pirati sotto la sua protezione, e con un sol tiro seppe rivolgere ogni cosa a suo pro; crescere tormento ai Cristiani, rimettere a nuovo la sua armata navale, cacciare i vecchi padroni di Barberìa, e sottoporre l'Africa al suo dominio. Sapeva bene il tristo, come pei fatti si comprovò, che non avrebbero potuto da sè soli i pirati occupare tanto paese, e molto meno mantenerselo lungamente contro i caduti, senza l'ajuto di Costantinopoli, e senza riconoscere, come egli voleva, l'alta sovranità del Sultano. Siamo or dunque al compiuto svolgimento di queste tresche per opera dei maggiori pirati, ed ora fa mestieri chiamarli a rassegna, secondo l'ordine e i meriti di ciascuno.
A quattro a quattro ci compariscono nei tre periodi della nostra storia i principali archimandriti della pirateria, traendosi appresso alla loro fortuna tutto il codazzo dei minori satelliti. I corifei della prima quadriglia, venutici innanzi, sono già passati fra le ombre. Camalì, principe di Santamaura, impiccato al suo posto[483]. Gaddalì, gran capitano di Tunisi, messo in catena alla Pianosa, e non più riscosso[484]. Curtògoli signore di Biserta, ammiraglio di Solimano, e principe di Rodi, caduto e decrepito nell'isola[485]. E il quarto, Carrà Maometto, viceammiraglio ottomano contro i Gerosolimitani, sbranato da una palla di cannone, durante l'assedio[486].
Sottentra la seconda quadriglia di maggior comparsa: e ci stanno ora innanzi, tutti allievi della prima scuola in aria di superare i maestri, il Moro, il Giudèo, Cacciadiavoli e Barbarossa. Verranno appresso quei della terza: e nomineremo a suo tempo Moràt, Dragùt, Scirocco e Lucciali. Ora diciamo dei presenti.
Il Moro, vero africano di schiatta, di colore e di pelo, faceva da padrone in Alessandria. Di là con molti legni egiziani infestava l'Arcipelago, quando non era ai soldi di Solimano; nell'armata del quale lo abbiamo già veduto presso Corone. Costui ebbe il tracollo nell'anno presente sulle coste di Candia; dove scontratosi con una squadretta di galèe veneziane, che navigavano in Soria sotto la fede de' trattati, volle provarsi a rubarle, facendo le viste di non credere alla bandiera di san Marco. Era o no pirata? Se non che Girolamo da Canale, comandante della squadretta, avvedutosi del furbo, prese anche esso a fingere di non riconoscere gli stendardi del Moro: e di buon senno gli corrispose con tal furia di cannonate, e l'ebbe talmente concio, che mandatigli a fondo quattro bastimenti, ferì lui stesso, e l'afflisse d'irreparabil danno, così che d'indi in poi non se ne dice più nulla. Solimano imperatore non si ardì fare richiamo di ciò, saputo avendo che il Moro era stato il primo a provocare: anzi mostrò di contentarsi delle scuse mandategli subito dal Senato veneziano; e laudò il Canale per valoroso ed accorto capitano. Pensate se a difesa di sfregiato ribaldo voleva accattar briga coi Veneziani, quando gli cresceva grossa sulle braccia la guerra per terra e per mare con Carlo imperatore[487].
Il Giudèo, come indica il nome, isdraelita rinnegato di Smirne, a furia di ruberie aveva acquistato grandi ricchezze, e insieme il dominio delle Gerbe. Da quell'isola navigava con trentaquattro bastimenti da remo a ruina della Sicilia, di Napoli e della Spiaggia romana. Egli era cieco d'un occhio: gli Arabi lo chiamavano Sinàm, i Turchi Ciefùt, e noi col nome comune di Giudèo l'abbiamo più volte ricordato, specialmente quando gli togliemmo due bastimenti a Gianutri; e ne diremo più cose appresso infino al caso rarissimo che gli portò la morte, mostrandolo quale egli era valoroso al pari di ogni altro pirata; e men di ogni altro pazzo e crudele[488].
Aidino (etiope, come scrive il Bosio; o smirnèo, secondo l'opinione del Varchi; o caramano a detto comune), per essere arrisicato e furioso pirata, non altrimenti nominavasi tra i nostri e tra i suoi conoscenti, che col terribile titolo di Cacciadiavoli. Costui divenuto famosissimo nel ventinove, dopo l'uccisione del general Portondo, la strage degli Spagnoli, e la presa di tutta la squadra che aveva lasciato a Genova l'Imperatore, non aveva più chi ardisse misurarsi con lui. Di nome e di fatto spaventoso a tutte le madri e a tutte le spose dei marinari della Cristianità, sarebbe salito ad altissimo segno tra i novelli signori dell'Africa, se per un caso di arsura dopo la guerra di Tunisi non fosse caduto, come tra poco vedremo[489].
I fatti di Barbarossa si legano più strettamente alla nostra istoria, però voglionsi con maggior larghezza trattare. Un greco rinnegato dell'isola di Metellino, chiamato Giacopo, e dai Turchi (tra i quali era assoldato come spahì) detto Jacùb, lasciò morendo due figliuoli, all'uno dei quali aveva posto nome Urudge, e all'altro Chaireddin, sopracchiamati dai nostri storici Oruccio e Ariadeno, e quest'ultimo pel colore del pelame più comunemente Barbarossa[490]. I due fratelli (degli altri qui non cale) poverissimi essendo, si gittarono insieme a vivere di rapina corseggiando con una piccola fusta, armata a spese altrui; ed avendo seguito la squadra di Camali-raìs, guadagnarono tanto con lui, che vennero pian piano ad infrancarsi la fusta, poi ad armarne due, e via via salendo giunsero a tante ricchezze e a sì gran pratica del mestiero, che senza contrasto furono riconosciuti primi campioni della grande pirateria nel Mediterraneo[491]. Vero è che non sempre la fortuna andava a versi di costoro; e non di rado toccavano le busse, come ho detto particolarmente di Barbarossa; quando gli togliemmo in un giorno quindici bastimenti[492]: ma si rifacevano presto, e tornavano più arrabbiati e più destri di prima. Il tristo mestiere aveva profonde radici: la gioventù concorreva numerosa a cercar ventura, la plebe inciurmavasi per fanatismo, i grandi favorivano per ostentazione, e i principi agognavano servirsene per ragione di stato. Scoppiata in Algeri la guerra di successione tra Mesud e Abdallah della famiglia dei Beni-Hafss, avvenne che l'uno dei pretendenti chiamò Oruccio in ajuto, per opera del quale cacciò l'altro, e si fece padrone del regno[493]. Ma non corse gran tempo, come spesso tra simil gente suole avvenire, ed Oruccio ammazzò il cliente e prese per sè il regno di Algeri, assicurandone il possesso coll'investitura dell'imperator Solimano. Così Barbarossa primamente divenne fratello del Re; e, dopo che questi fu morto combattendo sotto le mura di Orano, divenne Re esso stesso, più ardito e più crudele del primo. Di pelame rossiccio, di barba folta, di mediocre statura, di forza erculea, era specialmente sguardevole per un gran labbro spenzolato all'ingiù, che lo faceva alquanto bleso nel favellare, e davagli l'aria di vero pirata. Superbo, vendicativo, spietato, traditore; sapeva nondimeno pigliare le maniere graziose ed affabili, massime nel sorridere col volto composto a dolcezza. Parlava molte lingue, a preferenza la spagnola. Coraggioso, circospetto, amico dei suoi subalterni. Aveva intorno a sè raccolte tutte le schiume: Assan-agà, rinnegato sardo, per suo luogotenente; Haidino delle Smirne, soprannomato Cacciadiavoli, per caposquadra; il Giudèo per capo di stato maggiore; Tabàch, Salech, e Mamì-raìs per ajutanti. Tra i figli di costoro e degli altri marinari sceglieva a preferenza gli ufficiali novelli, dicendo che i lioncini diventano leoni. Studiava continuo intorno alla costruzione navale: da pesante e tarda rendevala leggiera e veloce, e ripeteva alle maestranze che per raggiugnere i cervi più valgono i levrieri che i mastini: questi buoni a guardare la casa, quelli a scorrere per la campagna ed a ghermire la preda. In vece delle grosse artiglierie rinforzate di metallo, che tormentavano i bastimenti proprî quasi più degli altrui, faceva imbarcare colubrine di minor peso e di maggior passata; spiegando ai bombardieri il pensier suo coll'esempio del braccio che, per cogliere e attrappare chi fugge, giova averlo più tosto lungo che grosso. Tale era il re dei pirati, che, avendo fatto scellerate cose contro i Cristiani per le marine dell'Arcipelago, di Sicilia, di Napoli, di Genova e di Spagna, in quest'anno mille cinquecento trentaquattro pigliava il comando supremo della navale armata dell'imperio ottomano. Gli è questo o no il trionfo della pirateria? Abbiamo o no la guerra coi pirati? Udite i fatti di costui nell'anno presente.
XIII.
[20 agosto 1534.]
XIII. — Il possesso dell'ammiragliato ha a essere famoso per inganni e ruine a doppio contro Cristiani e contro Musulmani, presi insieme all'istesso tranello con un tiro il più solenne di quanti mai ne possano balenare alla mente d'un ribaldo. Eccone il filo. Era il regno di Tunisi altresì lacerato dalla rivalità di due fratelli, Rossetto e Muleasse, dell'antica dinastia berbera degli Hafsiti già ricordati, e indipendenti dai Turchi[494]. Il maggiore dei pretendenti, discacciato dall'altro, avendo fatto ricorso a Barbarossa, quale stupido pecorone al lupo rapace, dettegli l'occasione sommamente desiderata di divorarli ambedue, e di menare a un tempo il randello in Italia. Barbarossa fece grossa armata più che ottanta vele; e perchè Muleasse non avesse a pigliar sospetto, nè a mettersi sulle difese, sparse voce di voler tentare imprese nel regno di Napoli per vendicare gli oltraggi ricevuti poc'anzi a Corone. E non volendo che niuno avesse a tacciarlo di bugiardo, nè Maleasse mai a dubitare delle sue parole; anzi perchè si rendesse ciascuno più sicuro dei fatti suoi, venne realmente a Messina con tutta l'armata, passò lo stretto, e tirando su marina marina, come turbine menato da procelloso vento, disperse, disfece, incenerì bastimenti, castella, città. In Calabria saccheggiò Sanlucido, e ne trasse tutto il popolo in schiavitù. Scórse di là al Cetraro, ove trovò la terra abbandonata, e vi fece appiccare il fuoco, bruciandovi insieme alcuni corpi di galere, tra i quali erano tre già finiti per conto di papa Clemente. Per tale incidente veniamo a sapere quanti modi teneansi a crescere la forza materiale della nostra marineria, e come da ogni parte i pirati eranle infesti[495].
Barbarossa venne avanti, sbarcò in Procida, pose lo spavento in Napoli, bruciò bastimenti nel golfo, prese prigioni e roba da ogni parte: bombardò Gaeta, distrusse Sperlonga, e per tradimento ebbe Fondi, fuggendone a stento la celebre Giulia Gonzaga, vedova di Vespasiano Colonna, duca di Trajetto, e riputata la più bella donna d'Italia[496]. Dicono che Barbarossa sarebbe riuscito nell'intento di presentare beltà tanto rara in dono a Solimano, se la giovane Contessa non fosse stata tra i primi a riscuotersi dal sonno, ed a fuggire seminuda dalle branche del ladrone. Il quale nondimeno vendicossi saccheggiando la terra, battendo e bruciando Terracina. Finalmente comparve alli venti d'agosto sulle marine di Roma presso alla foce del Tevere; con tale sbigottimento dei popoli, che gli scrittori contemporanei comunemente asseriscono, che Barbarossa avrebbe preso di certo Roma e Napoli, se ne avesse fatto la prova[497].
XIV.
[Settembre 1534.]
XIV. — Ma colui non intendeva a questo: anzi fermo nel doppio disegno, riuscitagli a talento la prima parte, non voleva indugiarsi a compiere la seconda. Quindi all'improvviso, rinfrescata nel Tevere la provvisione dell'acqua, e fatta la legna nei boschi vicini, pigliava la volta; e pel rombo di Ostrolibeccio tra la Sicilia e la Sardegna gittavasi a golfo lanciato sopra Tunisi. Muleasse era in festa nella reggia, non attendeva visite, non sospettava di Barbarossa: anzi da buon musulmano, lodava ai suoi tunisini i meriti di lui in così belle fazioni, la cui fama ad arte si era fatta correre in Africa, e per tutto altrove. Pensate se non lo chiamò esso pure pirata e traditore, quando una bella mattina se lo vide accigliato venirgli improvvisamente davanti, entrare nella reggia, e cacciarlo di casa!
Fattosi adunque Barbarossa, per le ladre invasioni sul nostro e sull'altrui, sommamente odioso a tutti i popoli, non altro era a udire in Europa che il grido della pubblica indignazione contro di lui: tutti richiedevano dai Principi, dall'Imperatore e dal Papa che si dovesse subito subito fiaccargli l'orgoglio.
[23 settembre 1534.]
Era allora nell'ultima infermità papa Clemente: nondimeno i ministri ordinarono la leva in massa dentro Roma, il rinforzo delle guardie pel littorale, l'armamento della fortezza di Civitavecchia, l'apparecchio della squadra navale, e la compra di altre sette galèe commisero al capitano Paolo Giustiniani luogotenente del Salviati. Ma essendo poco dopo, addì venticinque di settembre, mancato di vita l'istesso Pontefice, restarono le maggiori provvisioni riservate al successore, come vedremo nell'altro libro[498].
[Ottobre 1534.]
Il Salviati intanto, afflitto e pensieroso per la morte dello zio, rassegnava al nuovo Pontefice i ricchi e nobili ufficî che aveva dal precessore ricevuti, e tra essi la castellanìa di Civitavecchia e il generalato delle galèe, perchè ne disponesse a suo piacimento. Accettata la dimissione, restavasi in Roma col titolo di ambasciatore ordinario e di procurator generale del suo Ordine gerosolimitano presso la santa Sede. Dopo qualche tempo, legato come era dai voti solenni della professione religiosa, e adulto negli anni, lasciò la spada, prese gli ordini sacri, e si ridusse in Parigi presso la cugina, dalla quale fu nominato elemosiniero di Francia, e vescovo di Chiaramonte. Finalmente ebbe il cardinalato da Pio IV, e morì in Roma addì sei di maggio del 1568. Le sue benemerenze si ricordano ancora dai Romani per quel suntoso palazzo che tuttavia mantiene il nome dei principi Salviati suoi successori ed eredi, sulla riva destra del Tevere di fronte al porto Leonino, architettato da Nanni di Baccio Bigio[499]. Palazzo da Bernardo Salviati con grandissimo dispendio fabbricato in Roma a imitazione di Andrea Doria in Genova, per onorarvi, se il caso ne venisse, con splendida accoglienza il Re e i Reali di Francia, come l'altro vi menava in trionfo l'Imperatore e gl'Infanti di Spagna.
LIBRO SESTO. Capitano Gentil Virginio Orsini,
conte dell'Anguillara.
[1534-1548.]
PARTE PRIMA. DAL 34 AL 37.
SOMMARIO DEI CAPITOLI.
I. — Paolo III e il conte dell'Anguillara. — Nomina di capitano, e brevetto (20 novembre 1534).
II. — Capitoli e strumento della condotta (2 dicembre 1534). — Paolo Giustiniani luogotenente, ed altri ufficiali. — Disegni contro Barbarossa (febbrajo 1535).
III. — Dodici galèe alla vela (2 marzo 1535). — Partenza e documento. — Raunanza di navigli in Civitavecchia, e arrivo del Papa (20 aprile). — Pregi del porto.
IV. — La benedizione e la medaglia di papa Paolo (23 aprile). — Sua dimora in Civitavecchia. — Compimento della fortezza e mastio ottagono primitivo.
V. — L'armata in Cagliari. — Carlo V sulla imperiale col Doria. — Prevalenza delle galèe sulle navi. — Le Poliremi.
VI. — Ordinanza e bandiere. — In Africa. — Incaglio della Imperiale. — Detto e fatto di Andrea. — Golfo di Tunisi (25 giugno 1535).
VII. — La Goletta. — Le fortificazioni vecchie e nuove. — L'armata dei pirati nello stagno. — Errore di Barbarossa. — Sue forze e seguaci (luglio 1535). — L'assedio e le trincere. — Combattimenti e sortite. — Mortalità dei nostri.
VIII. — Batteria generale di terra e di mare. — Manovra speciale delle galere. — Distruzione delle difese. — Assalto alla Goletta, vittoria e conseguenze (14 luglio 1535).
IX. — Fieri propositi di Barbarossa contro i suoi. — Risposta del Giudèo. — I consiglieri di Carlo V. — L'Orsino propone l'espugnazione di Tunisi. — Marcia dell'esercito cristiano. — Campo di Barbarossa e sua ritirata (19 luglio 1535).
X. — Gli schiavi cristiani in Tunisi minacciati di esterminio. — Parere del Giudèo. — Condizione dei rinnegati, e degli schiavi. — Accordo tra loro. — Sollevazione interna e vittoria dell'esercito cristiano. — Fuga di Barbarossa e del Giudèo, morte di Cacciadiavoli (21 luglio 1535).
XI. — Carlo in Tunisi. — Patti col nuovo Re. — L'Orsino porta in Roma i serrami di Tunisi. — Lapida al Vaticano senza il suo nome! (agosto e dicembre 1535).
XII. — Carlo in Roma e querele contro Francesco per Milano (5 aprile 1536). — Chiamata dei Turchi. — Armamenti di Solimano, e provvidenze del Papa (1536).
XIII. — Paolo III in Civitavecchia per gli armamenti (aprile 1537). — I Turchi pigliano Castro nella Puglia (8 luglio 1537). L'Orsino con sei galèe unito all'armata del Doria. — Cacciata dei convogli nemici (10 luglio 1537).
XIV. — Presi ed arsi quattordici schirazzi (13 luglio). — Due galere e una galeotta gittate a traverso. — Il Bey, prigioniero dei Cimmeriotti, incolpa i Veneziani. — Solimano dichiara guerra a Venezia, e richiama i suoi dalla Puglia (20 luglio 1537).
XV. — Crociera per proteggere i Veneziani. — Combattimento di quaranta contro dodici. — Valore fa numero. — Vittoria stentata dei nostri. — I pezzi di mezzania sulle galèe conchiudono (23 luglio).
XVI. — Risarcimenti al Pacso. — Divisione della preda. — Ritorno a Messina. — Feste dei Siciliani. — Difesa dei Veneti. — Ritirata di Solimano (settembre 1537).
XVII. — Venuta dei Francesi in Italia e loro rovesci. — Spedizione per richiamare Solimano. — Fazioni dell'armata. — Ritorno di tutti ai loro porti (ottobre 1537).
LIBRO SESTO. CAPITANO GENTIL VIRGINIO ORSINI, CONTE DELL'ANGUILLARA.[1534-1548.]
PARTE PRIMA. DAL 34 AL 37.
I.
[12 ottobre 1534.]
I. — Esultarono i Romani la notte del dodici d'ottobre, quando alla suprema dignità col nome di Paolo III salì il cardinale Alessandro Farnese, strettamente congiunto con quasi tutte le grandi famiglie della città, tra le quali niuno più da un secolo, dopo Martino V, aveva tenuto le somme chiavi: e il nuovo Eletto fin dal principio, alle amorevolezze della sua patria corrispondendo, non dissimulò il proposito di rilevarne la sorte, affidando ai concittadini suoi secondo il merito le cariche vacanti, massime della milizia e della marineria. L'inclita progenie degli Orsini[500], pari a qualunque delle maggiori di Roma e di fuori, e tanto conosciuta, quanto basta per iscusare ogni altro discorso intorno agli altissimi pregi di antichità e di grandezza, cui non potrà mai nulla aggiugnere l'adulazione nè togliere la malignità, tra le prime provò gli effetti dei nuovi favori diffusi sul patriziato romano: ed il supremo comando del mare venne affidato a Gentil Virginio Orsini, conte dell'Anguillara, uomo per arte e per valore da essere annoverato tra i primi marini del suo tempo, che pur n'ebbe di molti e di eccellentissimi. Prospettando il pelago dai littorani castelli dei suoi maggiori[501], aveva posto il Conte fin dalla prima età amore e studio grandissimo alle cose del mare; e coi propri navigli militando prima e dopo, anche in Francia, giunse a meritarsi, quantunque straniero, la rarità dell'ordine di san Michele, e il grado di luogotenente generale nelle marittime armate del re Francesco. Stringomi ora alle cose romane, e incomincio coll'inedito documento della sua nomina[502]:
[20 novembre 1534.]
«Paolo papa III al diletto figliuolo Gentil Virginio degli Orsini, conte dell'Anguillara, e capitano generale delle nostre galèe. — Figlio diletto, salute ed apostolica benedizione. — La nobiltà del sangue e dell'animo tuo, la singolar fede e devozione che sempre hai dimostrato verso di Noi e verso l'apostolica Sede, della quale tu sei nobil suddito, giustamente ci fanno volgere il pensiero a te per chiederti il fedele servigio della tua spada e del tuo senno a beneficio nostro e della Sede predetta. Nella fiducia dunque di vederti degnamente corrispondere alla grandezza della inclita casa tua ed alle nostre fondate speranze in tutto quello che ti verrà commesso, noi per autorità apostolica e pel tenore del brevetto presente a nostro beneplacito facciamo, costituiamo e deputiamo te stesso (che anche secondo le ragioni del sangue sei nostro parente) per Capitan generale delle galèe nostre tanto esistenti quanto da essere costruite di nuovo, e di più per commissario nostro nel porto e nella terra di Civitavecchia, con tutti gli onori, pesi, giurisdizioni, facoltà ed emolumenti, secondo le leggi e le usanze appartenenti ai capitani generali delle galèe ed ai commissarî nostri nei predetti porto e terra. Quanto agli stipendî, noi fin d'ora confermiamo e vogliamo osservati i capitoli della tua condotta, intavolati tra te e il diletto figlio Agostino (Spinola), del titolo di santo Apollinare prete cardinale, nostro e della santa romana Chiesa camerlengo, come se qui fossero integralmente inseriti. Noi pertanto in virtù di santa obedienza comandiamo a tutti e singoli gli uomini della predetta terra, porto e galèe; ed a quelli di tutto lo Stato e dominio della santa Chiesa romana, specialmente dei luoghi littorani, tanto del Tirreno quanto dell'Adriatico, e similmente a tutte le comunità, popoli e particolari persone, ed ai loro governatori comandiamo che ti riconoscano per Capitano generale delle galèe e per commissario nostro, e ti obbediscano come si deve e si suole, e ti diano sempre e dovunque favore ed assistenza. Altresì comandiamo a coloro cui spetta di somministrarti ciò che ti devono secondo le leggi e le consuetudini, non ostante qualunque cosa in contrario. Vogliamo tuttavia che, prima di prender possesso del detto ufficio, tu debba essere tenuto a prestare il consueto giuramento nelle mani dell'istesso Camerlengo, ed a promettere e mantenere le altre convenzioni, secondo il tenore dei predetti capitoli.»
«Dato in Roma, addì venti del mese di novembre, 1534. Anno primo del pontificato. — Blosio. — Agostino cardinal camerlengo.»
II.
[7 dicembre 1534.]
II. — Appresso a questo Breve, potranno gli archivisti, che ora rimettono a sesto le carte, registrare l'istrumento della condotta di Gentil Virginio alla guardia del mare, secondo l'indicazione che qui ne do senza volerlo ripetere io, perchè simile agli altri due già pubblicati e commentati pel Biassa e pel Vettori. Al mio proposito può senz'altro bastare il preambolo per stabilire brevemente, e con documenti inediti, la certezza dei fatti, dei luoghi, delle persone e delle date[503].
«Giorno di lunedì, sette del mese di dicembre, anno 1534. — Il reverendissimo in Cristo padre e signore Agostino Spinola del titolo di santo Apollinare prete cardinale Perugino, e della santa romana Chiesa camerlengo, asserendo ed affermando di avere nelle mani certi capitoli, convenzioni e patti da essere stipulati, contrattati e celebrati coll'illustrissimo signor Gentile Virginio Orsini conte dell'Anguillara, sopra la condotta del predetto signor conte Gentile per capitano generale deputato alla custodia del mar Tirreno e della Spiaggia romana, capitoli già conosciuti da sua Santità, e firmati e stabiliti, secondo l'infrascritto tenore; e volendo come si deve obedire al comando sovrano, e provvedere altresì alla sicura navigazione del detto mare ed alla comodità di chiunque vada o venga alla romana Curia, però il predetto reverendissimo signor cardinale Camerlengo coll'intervento, assistenza e consenso dei reverendi in Cristo padri, signor Ascanio vescovo di Rimini e tesorier generale di nostro Signore, e di Giovanni de Gaddi, e di Uberto di Gambara vescovo di Tortona, chierici della Camera apostolica, insieme congregati a questo effetto, e rappresentanti tutta la Camera apostolica, per comandamento di nostro Signore da una parte, ed il predetto illustrissimo signor Gentile Virginio Orsini conte e presente dall'altra parte, intorno alla condotta del predetto Conte per capitan generale sopra la guardia del detto mare e spiaggia, gli uni e l'altro stabilirono, contrassero, e celebrarono i seguenti capitoli, patti e convenzioni, nel modo infrascritto.... eccetera.
«Fatto in Roma, nel borgo di san Pietro e nel palazzo di residenza del predetto reverendissimo signor cardinale Camarlengo, giorno, mese ed anno come sopra.»
Dunque Paolo III procedeva intorno alle faccende del mare con molta speditezza e sollecitudine: esso in men di due mesi di già aveva in pronto brevi, strumenti, capitano e squadra. Dodici galèe apparecchiavansi pel Conte: le tre della guardia, permanente in Civitavecchia, e le altre di nuova costruzione acquistate in Genova da Paolo Giustiniani, luogotenente della squadra romana[504]. Paolo, nobile veneto, ed eccellente marino[505], mostrava tra noi l'istessa bravura e diligenza che tutti in lui avean lodato per l'assedio di Rodi[506]. Il Conte altresì faceva prodigi: arrolava in pochi giorni millecinquecento fanti, quasi tutti veterani delle bande di Renzo e degli altri della sua casa, cresceva le genti di capo, chiamava marinari e maestranze dalle province, raccoglieva vittuaglie e munizioni, metteasi in punto per essere dei primi ad ogni fazione.
E ciò con molta ragione, perchè nell'invernata tutti sparlavano di Barbarossa, e dicevano che dopo il fatto di Tunisi bisognava aspettarsi da quello impigliatore colle forze navali sue proprie, e coll'armata del Sultano, e colle squadre degli altri pirati, di vedere nella prossima primavera soggiogata la Sicilia; o almeno colpite di tal guasto le marine d'Italia, che si dovesse a petto della seconda stimare per nulla la desolazione fattavi nella prima passata. Perciò concorrendo la giustizia della causa, e la necessità della difesa, ed i clamori dei popoli, facilmente si accordarono insieme Carlo imperatore, e papa Paolo, di prevenire i danni proprî, anzi di portare la guerra nel paese nemico, per troncare l'oltracotanza della pirateria, dandole sul capo, e appunto colà nel regno di Tunisi, dove era men fermo, perchè più nuovo e più violento, il suo dominio. A tal fine il Papa rilasciava all'Imperatore le decime del clero; e doppie decime imponeva per tutta l'Italia[507]; per questo la sollecitudine e i rinforzi dell'armamento prescritti all'Orsino; e con impulso straordinario l'apprestamento di navigli, di munizioni e di genti in tutti i porti d'Italia e di Spagna. Il marchese del Vasto metteva assieme dodicimila fanti italiani, bellissima gioventù, sotto tre colonnelli; Girolamo Tuttavilla, conte di Sarno, già celebre pei fatti di Corone; Federigo del Carretto, marchese di Finale, alleato del principe Doria; Agostino Spinola, di quella casata che ha dato in ogni tempo eccellenti capitani ed ammiragli. Ottomila fanti tedeschi si raccoglievano sotto le bandiere del conte Massimiliano di Herbestein, ed altrettanti spagnuoli col famoso don Fernando d'Alarcone. Il principe Doria attendeva all'armata navale ed ai vascelli di trasporto per le munizioni, pei cavalli e per le artiglierie di assedio e da campo; avendogli l'Imperatore fatto intendere secretamente di volersi trovare in persona alla condotta di questa impresa. Per timore di Barbarossa e dei pirati in quest'anno medesimo papa Paolo cominciava a pensare alla fortificazione di Roma col Sangallo, al compimento della fortezza di Civitavecchia con Michelangelo, ed ai ristauri della rôcca d'Ostia col Cansacchi.
III.
[2 marzo 1535.]
III. — La notte seguente al due di marzo il conte dell'Anguillara salpava colle dodici galere da Civitavecchia verso Napoli, ove intendeva congiungersi a don Pietro di Toledo, figliuolo del vicerè e capitano delle galèe del Regno. Ecco un altro documento da intestare nell'archivio domestico al nome del conte Gentile, della cui persona e navigli onorevolmente si parla. Breve e nitida letterina del capitano Giustiniani a Paolo III; scritta in volgare, meno le formole consuete in quel tempo della introduzione e della chiusura che sono in latino[508]: «Beatissimo Padre. Dopo l'umile raccomandazione di me stesso, e dopo baciati i Santi piedi; vengo a dire come credo che Vostra Santità per lettere dell'eccellenza del Conte intenderà che, essendo buon tempo, coll'aiuto di Dio questa notte ci partiremo per Napoli, e di là poi anderemo col resto dell'armata a trovare l'eccellenza del signor principe Doria. Le galere di Vostra Santità sono così bene armate, come ogni altra galera che sia per mare. Spero coll'aiuto di Dio, che il Conte mio padrone farà onore a Vostra Santità ed a sè medesimo, ed utilità alla religione cristiana. Io quanto più genuflesso mi raccomando alla Santità Vostra e bacio i santi piedi, pregandola si contenti avere per raccomandati i poveri miei figliuoli, e commettere al reverendo signor Datario che il memoriale dato a Vostra Santità abbia effetto. Bacio i santi piedi, pregando il signore Iddio che sana e felice conservi Vostra Santità. — Di Civitavecchia a dì 2 marzo 1535. — Umile servitore e schiavo, Paolo Giustiniani.»
[18 aprile 1535.]
Tre porti erano stati principalmente assegnati in Italia come centro della spedizione contro Tunisi: Napoli, Genova e Cagliari. Di qua le forze italiche, di là le oltramontane, nel mezzo la convergenza degli uni e degli altri, per procedere unitamente al punto obbiettivo. Il Toledo e l'Orsino, colle ventisei galere dello Stato e del Regno, erano fin dal mese di marzo in Napoli, ed aspettavano Antonio Doria, di nostra conoscenza, che doveva venire con altre ventidue galere scortando le quaranta navi grosse del marchese del Vasto colle fanterie italiane prese a Portovenere. Se non che, pesando ai due primi la tardanza del terzo, uscirongli incontro per congiungersi più presto con lui, che veniva lentamente di porto in porto, pigliando vittuaglia, artiglierie e gente, secondo che ne trovava apparecchiate: e così gli uni e gli altri capitarono a mezza via nel porto di Civitavecchia, dove altresì dovevansi imbarcare alcune fanterie nostrane scritte per l'Imperatore nella provincia della Marca[509].
[20 aprile 1535.]
Or mentre tanti bastimenti e così gran numero di soldati e di marinari incontravansi in Civitavecchia, venne il desiderio al Papa di vederli; e similmente alla gente raunata sul mare, il desiderio di riceverne la benedizione: cosa facile, e prestamente messa ad effetto. Perciò chiamarono a palazzo Biagio Martinelli da Cesena, prefetto delle cirimonie, e imposergli di allestire ogni cosa secondo il rito già usato da Sisto IV nel licenziare l'armata sua alla riscossa di Otranto contro i Turchi, come altrove ho narrato[510]. Biagio istesso, scrivendone il ricordo nei suoi diarî, dice essergli tornata vana ogni ricerca negli archivi, tanto fra le scritture del Burcardo, che del Volterrano, e di Paride (sia detto a nostro sollievo quando sovente ci troviamo in simile distretta): però conchiude di aver composto del suo una formola conveniente coll'approvazione del Papa, e spedito ai cardinali e a ogni altro della cappella l'invito di trovarsi tutti insieme nella sala del concistoro in Civitavecchia la mattina del ventitrè di aprile feria sesta, sull'ora di terza, per ricevere i capitani, consegnare lo stendardo, e dare la solenne benedizione all'armata. Aggiugne don Biagio che per certa sua infermità non si mosse di Roma; e in vece mandò a dirigere l'esecuzione Gianfrancesco Fermano, secondo cerimoniere e suo collega[511].
Aveavi nel porto dodici galèe del Conte, quattordici del Toledo, ventidue del Doria, in tutto quarantotto galèe; quaranta navi di alto bordo, il marchese del Vasto, il principe di Salerno, quel di Bisignano, lo Spinelli, il Caraffa, i due Sanseverini, il conte di Sarno, il marchese del Finale, lo Spinola e tanti altri capitani delle fanterie, e delle navi, e delle galere, con sopravi tra soldati, marinari e rematori, più di trenta mila uomini[512].
Questi sono fatti da tutti saputi o visti nel secolo decimosesto; ed altri simili saputi e visti seguiranno nei tempi posteriori, infino alla spedizione di Egitto.[513] Per l'occupazione di Roma ai nostri giorni io stesso ho veduto più volte andare e venire di Francia in flotta con armi, bagaglie, artiglierie e cavalli, dieci e venti mila uomini; e agiatamente nel porto di Civitavecchia compiere le operazioni di imbarco e di sbarco con celerità e sicurezza. Non all'amore di patria, nè alle passioni nostrane o straniere, nè ai capitani di inverno o di estate m'appello io: sì bene ai fatti, cui niuno può misconoscere, quantunque altri voglia fare le viste di obliarli. Al modo stesso, sostenuto dai fatti, ripeto che infino a cinque anni fa, quando io scrivevo e stampavo la mia Marina, e quando non correvano ancora i treni delle strade ferrate per la Liguria, nè per le province di Roma, nè pei trafori del Cenisio, allora il porto di Civitavecchia contava per uno dei centri della navigazione a vapore di tutti i paesi; non essendovi linea periodica di levante di ponente, che da Marsiglia e da Messina non facesse punta di andata e di ritorno nel porto medesimo; dove trovavano come altrove la comodità, e più che nei porti vicini la sicurezza. E quantunque d'inverno e col tempo cattivo si stia male da per tutto, nondimeno l'artificiosa struttura ed unica del nostro porto offriva ed offre ai legni combattuti dalle tempeste comodo ricetto e sicura stallìa; tanto che può dirsi arcirarissimo il caso di naufragio nel porto medesimo, come non di raro succede altrove. Lascio da parte Giovanni Villani, che, parlando di tempesta in Napoli, dice: «Quante galèe e legni avea in quel porto, tutti li ruppe e gittò in terra.» Lascio quel che tutti sanno di Livorno che non vi finisce burrasca che non lasci qualche bastimento in secco sotto al Marzocco. Lascio gli odiosi paragoni, i registri pubblici e le cifre arruffate. Basta ricordare il fatto dei giorni presenti, registrato nell'ufficiale Rivista marittima per raccogliere con certezza, come tra un centinajo di naufragî in men di due mesi, pei porti di destra e di sinistra, non se ne conti nè pur uno pel nostro; il cui movimento annuo, segnato dalla stessa Rivista ufficiale, risulta di tremila duecento otto bastimenti tra entrati e usciti, con cinquecentomila tonnellate, e trentamila persone di equipaggio, per l'anno 1872, che è il primo della decadenza. Si potrà nel tempo futuro ridurre ogni cosa al nulla, potremo cadere come Pisa e come Amalfi: ma non sarà giammai possibile annichilire i fatti del tempo precedente, nè censurare la verità delle proposizioni che li ricordano[514].
IV.
[23 aprile 1535.]
IV. — Torniamo a quei signori che aspettano in Civitavecchia, se pur gli abbiam lasciati, in procinto di salire nella sala maggiore della rôcca; dove il Pontefice, contornato dai cardinali e dai prelati della curia, vuole riceverli a pubblico concistoro. Entrano in frotta e in bellissime assise, odono dal supremo Gerarca parole di conforto, e vedono il tradizionale vessillo della Croce, da lui benedetto, passare nelle mani del conte Gentile per essere consegnato all'Imperatore. Appresso al Conte e al vessillo tornano i militari a bordo: e papa Paolo coi ministri salito in cima alla torre della stessa rôcca, quasi nel centro del porto, dove ora è l'orologio dei quattro prospetti, levando la voce e le mani al cielo, spande la papal benedizione sulla moltitudine genuflessa, pregando dall'onnipotente Iddio a loro favore e a difesa del popolo cristiano quella felicità di vittoria, che poco dopo di fatto conseguirono. Silenzio profondo, quando non volevasi altro udire che la voce del Pontefice; e scoppio di plauso, e suon di trombe e di campane, e salva generale di artiglierie, quando tutti si furono levati in piedi[515].
Parve tanto importante lo spettacolo della giornata, che papa Paolo, giusto estimatore delle cose grandi, volle conservarne la memoria ai tempi futuri con una medaglia storica. Io ne ho avuto alle mani nitidissimo esemplare e fresco di zecca per favore del cardinale Antonio Tosti, altre volte lodato; e ciascuno facilmente potrà trovarne l'incisione nelle opere dei noti illustratori della numismatica papale[516]. Nella medaglia voi vedete sotto ricco baldacchino nella sommità del campo, coperto il capo di tiara e gli omeri del grandioso ammanto, il pontefice Paolo III, tra suoi cardinali e ministri, distendere la mano in atto di benedire; e quasi direi in atto di pronunciare quelle parole che sembrano suonargli sul labbro, e che certamente rimpetto alla sua bocca si leggono scolpite nell'epigrafe: «LA . BENEDIZIONE . DEL . SIGNORE . DISCENDA . SOPRA . DI . VOI.» Attorno ai gradini del trono vedete i visconti e i decurioni della terra sorreggere le aste del baldacchino; appresso le mura merlate, sulle quali sovreggia la torre, dove si compie il sacro rito; e abbasso vedete nel porto la moltitudine dei navigli accalcati in scorcio gli uni sugli altri, supponendosi il maggior numero nascosto dal cerchiolino del campo, e dalla projezione prospettica della torre. Intorno spicca ritratto l'orizzonte del luogo verso il mare, sì come nel vero si presenta a chi riguardi da quella torre medesima inverso ponente la ampia insenata della valle dell'Alga, le colline di Tarquinia, e da lungi la chiusura dei monti che fan capo all'Argentaro.
Nel dritto della medaglia avete la figura ritratta a immagine di « Paolo.iii.pontefice.massimo », come quivi stesso si legge: ed egli vi si mostra scoperto il capo, calva la fronte, ricca la barba, e rabescato il manto. Fatto memorabile: e però spesso ricordato dai Farnesi, anche nelle pitture classiche dei loro palazzi, e nel celeberrimo di Caprarola[517].
[24 aprile 1535.]
Il giorno seguente, come per continuazione di tanta allegrezza, col vento favorevole di terra, tutto il naviglio sciolse le vele, coprì d'ogni intorno l'orizzonte, e a gruppi paralleli sulla perpendicolare del lido si rivolsero inverso la Sardegna, dove avevasi a fare la massa. Papa Paolo restossi per altri cinque giorni in Civitavecchia, infino al ventotto del mese, che tornò in Roma. Nel qual tempo le storie e i documenti municipali segnano il termine dei lavori della rôcca nuova, oggi detta la Fortezza, e ne attribuiscono il compimento a Michelangelo: sentenza confermata dalla perenne tradizione.[518] Non mica che il Buonarroti abbia disegnato di pianta e tirato su dalle fondamenta il mastio ottagono, perchè tale era già nel primitivo disegno di Bramante, cioè simile agli ottagoni anteriori di Civitacastellana, e di castello Santangelo; e tale pur disegnato vent'anni prima comparisce negli originali di Antonio Picconi[519]: anzi più fino a un certo segno di altezza doveva già esser murato nel chiudere il circuito della fortezza. Voglionsi però attribuire a Michelangelo, oltre al finimento, le decorazioni, che sono tutte di suo stile; belle, nobili e fiere, come si conveniva all'opera e all'autore. Certamente in questi tempi Michelangelo era tra noi, e in gran favore presso il Papa, famigliare ed architetto di palazzo[520]: certamente suo è lo stemma di casa Farnese, a gran rilievo sullo spigolo del sagliente con nobili e fieri svolazzi di travertino bugnato e rustico: similmente sua la cornice bellissima, che sostenuta da mensoloni coi gigli frapposti ti mostra il primo tipo di quel che egli stesso ebbe a fare dappoi nel cornicione notissimo dei palazzo Farnese in Roma.
V.
[Maggio-giugno 1535.]
V. — Il mese di maggio, con buona parte del mese seguente, passò nel raunare l'armata, il convoglio e le genti, andando e tornando pel golfo di Cagliari questi e quelli da parti diverse a compiere il fornimento ed a mettersi in pronto per l'imminente fazione. Nello stesso tempo si raccoglievano le cifre, espresse dappoi colle consuete varianti da diversi scrittori. Noi possiamo ridurle come segue: dodici galèe del Papa, quattro di Malta, dieci di Sicilia, quattordici di Napoli, sedici di Spagna e ventidue del Doria, comprese le tre di Genova; in tutto settantotto galèe. Un galeone e dodici caravelle di Portogallo sotto l'infante don Luigi, fratello del re e dell'imperatrice. Più una trentina di legni minori tra fuste, galeotte e brigantini. La moltitudine delle navi a vela conteremo insino al dugento, per non crescerle oltre al bisogno che abbiamo di trasportare le munizioni, le vittuaglie, e li trentamila soldati tra italiani, spagnoli e tedeschi[521]. Alla testa di tutti la reale di Spagna, fatta costruire dal Doria in Genova, per la persona dell'imperator Carlo V: galèa di trenta banchi, e di sessanta remi a scaloccio, tutti in un piano, maneggiati da trecento rematori a cinque per remo: galèa per le misure di lungo e di largo maggiore di ogni altra, e similmente per forza e bellezza. Oro in ogni parte, profusione alla poppa, sculture, intagli, metalli, tappeti, seta, porpora. Soldati, marinari e gentiluomini in bellissime assise: gli stessi rematori vestiti di nuovo con drappi di raso e catene d'argento agli spallieri[522].
Qui mi bisogna avvertire che non solo i papi e i cardinali viaggiando per gli affari loro, ma anche gl'imperatori e i grandi ammiragli e i capitani del secolo decimosesto, per le spedizioni militari mettevano in non cale i vascelli di alto bordo, e pigliavano lor posto fermo sulle galèe. Esse duravano ancora come legni di linea per eccellenza, secondo quelle tattiche ragioni del movimento libero, che altrove ho largamente trattate, e qui coi fatti e cogli esempî tutte le volte confermo. V'avea tante navi all'armata, e tanti vascelli, e cocche e caracche comodissime e grandissime: ma Carlo imperatore, e il Doria generale, e ogni altro intendevano per uso proprio preferire il bastimento sopra tutto militare, cioè la galèa di vigoroso remeggio. Dunque i famosi vascelli dei tre ponti per mezzo al secolo decimosesto non ancora mettevano conto nella tattica navale. E quando dico bastimento, galèa, nave, vascello, e simili, io parlo nel proprio e tecnico significato di queste voci generiche e particolari, secondo la lingua nostra, non piacendomi l'equivoca miscela dei retori cinquecentisti, che scrivendo (particolarmente in latino) per seguire le eleganze classiche dei termini antichi confondono il significato tecnico dei moderni. Costoro chiamano monoremo la feluca e la fregata, chiamano bireme la fusta e la galeotta, dicono trireme per galèa, quadrireme per capitana, cinquereme per reale, sereme per imperatoria, eccetera; come se il remo fosse l'unità di misura esprimente coi multipli la maggior grandezza e dignità del bastimento. Peggio quando non sono costanti e coerenti con sè stessi o cogli altri nell'uso e significato della stessa voce; e quando con un solo vocabolo vogliono significare più specie; e sempre quando ingenerano falso concetto, trasportando i nomi particolari dalle prime polière ai posteriori bastimenti da remo, troppo diversi da quelle. Nelle polière salivano giustamente i numeri, come gli ordini dei rematori e dei remi sovrapposti; ma nelle galèe posteriori i numeri medesimi portano a falso concetto, dove remi e rematori tenean le caviglie all'istesso livello sur un piano solo. Fuste, galeotte, brigantini, feluche, galèe, capitane, reali, e tutti i legni di questo genere sempre tra noi, pel tempo di che parliamo, col remeggio in un sol piano. Valga l'esempio della famosa galèa di Vittor Fausto, costruita a Venezia nel 1529, e lodata in verso e in prosa da cento scrittori, come quella che più d'ogni altra, a parer loro, rispondeva all'antico. Ebbene? chi la chiama cinquereme, chi quadrireme, chi di cinque ordini per fianco, chi di cinque remi per banco, chi di cinque uomini per remo. Avrebbero fatto meglio, invece di cento elogi, lasciarci una sola descrizione tecnica, o un solo disegno geometrico. Allora si sarebbe veduto chiaro, che ell'era sottosopra una galèa come le altre, senza palchi sovrapposti, con più remi a sensile, maneggiati da più persone in ciascun banco, e sulla stessa coverta. Di fatto, dopo la prima comparsa, fu messa in conserva nell'arsenale, d'onde non uscì più per quarant'anni, finchè nello straordinario armamento della guerra di Cipro non venne a pigliarsela Marcantonio Colonna, il quale in pochi giorni l'armò a scaloccio di palamento simile a ogni altra galèa, secondo il costume del cinquecento[523].
Insisto su questi particolari, perchè mi è avviso che dalla confusione dei termini nasce la confusione delle menti; e sono di pensare che gran parte della presente incertezza nella scienza delle antichità navali procede dall'abuso dei vocaboli per fatto dei retori ignari dell'arte. Del resto come io intenda la costruzione delle antiche polière, e la interna disposizione dei remi in più ordini sovrapposti, ho detto altrove: tutto si riduce a spiegare le triremi, che erano il maggior numero, e i veri legni di linea, e avevano il nome proprio ternario degli ordini, talamo, zigo e trano; e dalle persone talamiti, zigiti e traniti. Le setteremi eran poche nell'antichità, come poche altresì le galeazze dei tempi successivi: e le altre polière che talvolta si leggono di venti e più ordini, erano mostri, che non uscivano dai porti, nè mai entravano in battaglia; ma poltrivano in porto per pompa di boriosi uomini, pognamo di Gerone, di Demetrio e di Tolomeo. Dei tre, cinque e sette ordini ho dato spiegazione tecnica, tanto da poterne chiunque fare il modello e la costruzione; e ne ho presso di me i disegni geometrici col piano orizzontale, d'innalzamento e di projezione; pei quali menando il compasso e la riga posso rispondere a tutte le esigenze, e risolvere tutte le difficoltà[524]. Ciò basta per ora: e quei benevoli, che me ne chiedono un trattato speciale, aspettino, come fo io, un monumento di soda e aperta ragione (perchè infino a oggi non ne abbiamo niuno), che mostri la interna disposizione dei remi e dei rematori; e ci sia fondamento per trapassare dal detto al fatto con sicurezza. Sostenuto da un monumento, potrò dire del navilio a remo, come ho scritto del navilio a vela, così militare, come da traffici, illustrando i classici monumenti dell'antichità.
VI.
[24 giugno 1535.]
VI. — Gentil Virginio all'arrivo montò sulla galèa dell'Imperatore presso al capo della Polla nel golfo di Cagliari, portandogli lo stendardo e gli augurî del santo Padre: indi si pose colla capitana di Roma nel primo posto alla destra di lui, la capitana di Malta sulla sinistra, e per compimento la capitana di Genova. Davano i quattro stendardi bellissima mostra, piena di pio e lieto presagio, per essere nel mezzo dell'ordinanza appaciati gli emblemi del sacerdozio e dell'imperio, spada e scettro, croce e chiavi, tra due quartieri di uguali colori in diversa divisa[525].
Tutta l'armata uscì dal golfo di Cagliari addì ventiquattro di giugno. Innanzi l'augusto Carlo, salutato dal plauso dei marinari, dei soldati e dei popoli; appresso l'Orsino, e secondo l'ordine le capitane, le squadre e il convoglio delle navi. La mattina seguente, condotti dal Maestrale, assicuravano i navigli presso Utica, che oggi diciamo Portofarina, dove tre secoli prima erasi sbarcato Luigi IX di Francia per la crociata. Nell'ultimo recesso, che gli antichi chiamavano palude Tritonide, dove l'acqua è più bassa, ma sufficente, entrarono le galèe: e quivi nella fretta del pigliare la posta, volgendo le prue al largo e le poppe a terra, una sola corse pericolo: proprio dessa, la grossa dell'Imperatore. Perchè come maggiore di ogni altra cercava più il fondo; e nel distendere la gomena, scorrendo indietro (non di banda, come alcuni dicono, ma di chiglia), diè nel secco col calcagnolo di poppa. Rifiutava spiccarsi: ed agli sforzi dei rematori non altrimenti rispondeva che dimenandosi sulle anche con certi sbalzi da mettere alla prova la maestria del pie' marino. In quella tutti gli occhi smarriti cercavano il vecchio Andrea: ed esso a tutti i presenti, ed anche alle future generazioni rispondendo, dimostrava quanto era e pratico marinaro e destro cortigiano. Notate il fatto improvviso, e segnate il carattere. Andrea senza scomporsi trae un gran fischio, e grida[526]: Silenzio, e pronti! Poi distesa la mano in avanti, comanda risoluto: Tutti a prua! e corre egli stesso menandosi insieme verso la estremità anteriore della galèa qualche centinajo di persone. Per quel contrappeso in avanti, a tanta distanza dal centro, la galèa abbassa il becco, solleva la coda, e sguizzando dolce dolce si ritorna a galla; prestamente richiamata dai marinari sulla gomena più presso all'àncora, e raccolti a corto i calumi. Ciò fatto, Andrea ritorna: e festosamente salutando l'Imperatore con quel suo storico berrettone a gronda, celebra i prodigî della terra africana, la quale subito ha dato segno manifesto di volersi ridurre e fermare sotto ai piedi di Sua Maestà[527]. Non esce in ciance!
[28 giugno 1535.]
Intanto i pensieri di ogni altro corrono verso Tunisi, città edificata dieci miglia a levante dalle ruine dell'antica Cartagine, e però anche essa dalla riva dell'Africa direttamente contrapposta, quasi sull'istesso meridiano, alla foce del Tevere e alle marine di Roma. Or per comprendere le operazioni di Barbarossa, ed i fatti seguenti dei nostri campioni, vieni meco, lettore, sulla prima feluca di scoperta innanzi alla baja di Tunisi, ed appunta sulla carta i rilievi[528]. Fermi in giolito all'altura di capo Cartagine, senza appressarci di troppo ai rivaggi nemici, quanto il guardo scuopre, vediamo innanzi una grande insenata per venticinque miglia di giro infino al capo Zafferano: insenata aperta da greco e chiusa da ogni altra parte. Ecco per la quarta di Libeccio ad Ostro, distante cinque miglia, una gola o angusto passaggio, pel quale entra l'acqua del mare in uno stagno di poca profondità, ma di molta estensione; ed ecco, pel rombo di Ponentelibeccio all'estremità dello stagno, grande città, avvolta nei vapori consueti dei centri popolosi. Sulla bocca tra il mare e lo stagno, ov'è il lembo estremo del terreno boreale, segna la fortezza della Goletta, e la ragione del nome ne vedi sulla figura di strettissima gola aperta tra lo stagno e il mare. Segna sulla città il nome di Tunisi, così come la vedi distesa per la pendice di un colle, e coronata in vetta dalla cittadella, ordinaria residenza del principe. Per questi rilievi tu hai dinanzi la pianta e il prospetto di tutto il circondario, nè altro ti resterebbe a segnare, se non avesse Barbarossa pensato di mettere nello stagno tutta l'armata sua; ottanta bastimenti d'ogni maniera. Perciò tu vedi là in mezzo una selva di alberi e di antenne alla rinfusa in lunga fila per quell'angusto canale che va dalla Goletta verso Tunisi; canale poco più profondo dello stagno, e tanto ingombro di navigli piratici da non restarvi nè spazio nè passaggio. Dunque dall'altura di capo Cartagine tu vedi traguardando per Maestro tutta l'armata cristiana a Portofarina, per Libeccio quarta di Ostro la Goletta; e per Ponentelibeccio il canale di mezzo allo stagno, i bastimenti piratici, e in fondo a sette miglia la città di Tunisi.
Ciò posto sarà chiaro il disegno dei nostri campioni: bloccare per mare lo stagno, assalire la Goletta per terra, pigliare tutti i bastimenti dei pirati, e finalmente cacciar via Barbarossa dalla capitale. Perciò le galèe condotte dal Doria e dall'Orsino passano alla guardia dinanzi al golfo; e il marchese del Vasto, generale supremo delle fanterie, con venticinque mila uomini da Portofarina scende lungo il lido per attaccare la Goletta da terra.
VII.
[6 luglio 1535.]
VII. — La fortificazione della Goletta, infino ai primi decennali del secolo decimosesto, non era più che una sola torre quadrata, ma grande di trenta metri per ogni lato, grossa di sette metri nella sezione, e munita di batterie alte e basse in tutto il giro: in somma un antico tipo delle moderne torri massimiliane[529]. Ma ciò non bastando a calmare le inquiete apprensioni, Barbarossa vi aveva aggiunto intorno un pentagono regolare, fortificato con bastioni, fianchi e cortine, lasciandovi nel mezzo la torre a guisa di mastio o cavaliere; presso a poco in quel modo che prima era stato disegnato, e poi fu ridotto il castello di Roma. Ciò non pertanto le opere nuove non erano compiute; ma in tanta brevità di tempo solamente imbastite di terra bagnata e battuta tra salsiccioni di ulivi e di palme ben stretti e incatenati di dentro e di fuori con travi, pali e remi di galere; divisando poi Barbarossa di poter rivestire tutta l'opera con buona incamiciatura di muraglia, ancorchè giudicasse che già da sè, come era, farebbe in ogni caso lunga resistenza. Per questo si mise in cuore di volerla difendere a tutto suo potere: molto più che di necessità doveva proibire ai nostri l'entrata dello stagno, se voleva salvare gli ottanta bastimenti; i quali oramai non potevano più uscirne, ma in ogni modo salvarsi o perdersi tutti insieme colla Goletta. Errore capitale, di che il celebre pirata portò, finchè visse, acerba ricordanza e pentimento; scusandosi soltanto col dire che niuno avrebbe potuto mai prevedere la venuta dell'imperatore dei Cristiani con tanto sforzo in Africa. Veramente quando dai prigionieri e da qualche fuggitivo venne accertato che Carlo V conduceva da sè la spedizione, si turbò tutto, e capì subito la gravità del caso e l'importanza della Goletta. Fece il possibile: cavò artiglierie dalle navi e dalle galere; e ne guarnì non pure i fianchi e la fronte dei baluardi, ma le cortine, e infino ai fossi, con tanta copia che più non ve ne capiva; e posevi di presidio seimila turchi sceltissimi, sotto il comando del Giudèo, e per luogotenente Cacciadiavoli. Pose di più un grosso nervo di gente in Tunisi sotto Assàn-Agà, trentamila mori a cavallo per la campagna; ed egli si tenne pronto a riconoscere le difese, e a dirigere i soccorsi, massime della Goletta; dove per maggior comodità aveva fatto gittare un ponte di legno a cavallo del canale, tanto da tenere aperte le comunicazioni con Tunisi per la riva meridionale, essendo l'altra occupata dai nostri.
[8 luglio 1535.]
Intanto il marchese del Vasto, venuto a campo sotto la piazza, stringeva l'assedio, compiva le trincere, e mediante le strade coperte e le vie ritorte andavasi appressando ai baluardi. Lavori lenti, terreno sabbioso, clima insolito, stagione caldissima, e pertinace resistenza degli assediati, sempre intesi nel contrabbattere e nel sortire, tutte le volte che loro si offeriva una occasione. In quei combattimenti perdette la vita molta gente: anche per qualche ruggine di rivalità che nudrivano tra loro i soldati delle diverse nazioni. Devo però ricordare la morte di quel Girolamo Tuttavilla conte di Sarno, già tanto chiaro all'impresa di Corone; il quale, abbandonato dagli altri, cadde per una archibugiata in testa, alla fronte delle compagnie italiane, mentre caricava arditamente e ricacciava una sortita del presidio. Perdita gravissima di valoroso giovane, che altrimenti sarebbe divenuto il gran capitano dell'età sua. Cadde Girolamo Spinola per un colpo di zagaglia nel fianco; e allato al marchese del Vasto cadde Fabrizio del Carretto. Noverate pur tra i morti Cesare Benimbene e Luca Savelli romani; Cesare Berlinghieri, Costanzo di Costanzo, Baldassarre Caracciolo napolitani; Luca e Antonio Sicardi piemontesi; Ottavio Monaci, due colonnelli e molti principali delle milizie italiane[530]. Dunque dalla parte di terra si menavano ferocemente le mani: ma io mi devo stringere alla marina.
VIII.
[14 luglio 1535.]
VIII. — Ecco addì quattordici del mese di luglio, terminati i lavori di assedio, e aperto da tre parti il fuoco di breccia, ecco a sollecita espugnazione venire le galèe dalla parte del mare, secondo il disegno stabilito nel consiglio di guerra, coll'intervento dei due capitani di Roma e di Malta[531]. Le navi grosse addietro, e le galèe in prima linea, disalberate, divise in tre squadre, e ciascuna squadra in due sezioni a coppia colle gomene da poppa a poppa, per andare, levarsi, tornare e battere alternatamente, in quel medesimo modo che erasi osservato, ed ho descritto per l'espugnazione di Corone[532]. Remigavano a quartieri, or queste or quelle, col palamento proprio per venire avanti, e col palamento altrui per dare indietro, massime in caso di avaria: e giuocando l'artiglieria, e volgendosi in distanza, e ritornando all'attacco per turno, ora la prima, ora la seconda sezione, l'una caricando i pezzi nella ritirata, e l'altra scaricandoli a furia nell'attacco, con un girar continuo da terra al largo, e viceversa, come farebbero le fanterie ordinate in colonna per fuochi di drappelli[533]. Questa manovra, eseguita con rara precisione dai marinari, ammirata da Cesare e dagli altri osservatori, riduceva a disperazione i Turchi: i quali non potevano accertare la punteria, nè vedere l'effetto d'un sol colpo sopra quei legni giranti che senza risquitto li tormentavano.
Di più merita essere ricordata, perchè conforme agli stessi principî, la bella manovra di Giorgio da Conversano, già ajutante del Martinengo in Rodi, il quale sur una grossa barcaccia con una quindicina di serventi volle mettersi in batteria. Aveva sulla poppa appostato un cannone da ventiquattro, e sulla prua due sagri da otto; e girandosi sopra due ancorotti con due destre presentava or poppa or prua, facendo fuoco continuo da una parte e dall'altra, caricando di là mentre di qua sparava. In questo modo, senza mai ricevere danno, conciava a punto fermo i bombardieri nemici e toglievali dalle difese[534].
In somma dopo otto ore continue di fuoco vivissimo dalle batterie di terra, e dopo il simultaneo ronzare delle galèe, come si è detto dall'alba al mezzodì dalla parte del mare, dove tra i primi sovrastava l'Orsino[535]; fattasi densissima la caligine, non altro più vedendosi che lampi e fumo, e il sole non più lucente di una languida pittura tinta di rosso, cessano da una parte e dall'altra le scariche; e tutti intenti affrettano il momento di venirsi a riconoscere. Il Ponente a grado a grado dissipa l'atro nuvolone, e quando finalmente si può coll'occhio correre sull'orizzonte, eccoti dinanzi la Goletta presso che rasata; abbasso il mastio, sossopra i baluardi, rotta qua e là la cinta.
A quella vista i soldati e i marinari chiedono di presente l'assalto: i sacerdoti distendono l'assoluzione generale, squillano le trombe, e le colonne gittansi concitate all'ultima prova. Corrono dal campo i soldati tra i solchi del sabbione; guazzano alla riva i marinari coll'acqua alla cintura. Non grido, non colpo, non parola vanitosa o superba: profondo silenzio fino al piè delle brecce. Ma giunti a quel segno tutti insieme levano il grido di guerra: ripetono le nazionali invocazioni a Santiago, a san Giovanni, a san Pietro, a san Giorgio: irrompono, e con tanta prestezza e con tanto impeto, che il Giudèo, il Cacciadiavoli, e quanti erano pirati di nome e di fatto infernali, trovano a pena la strada e il tempo di fuggirsi verso Tunisi pel ponte di legno, quando gli assalitori vi entrano da ogni altra parte, e vi piantano le loro bandiere[536].
Non si potrebbero noverare facilmente tutti i vantaggi della vittoria: acquisto della principal fortezza e chiave del regno, riputazione cresciuta alle armi cristiane, avvilimento dei nemici, disordine portato dai fuggitivi dentro Tunisi; e sopra ogni altra cosa, cattura di tutti i bastimenti barbareschi, senza perderne pur uno. In somma conseguìto in un giorno il fine prossimo della spedizione, e annichilate sul mare le forze navali dei maggiori pirati.
IX.
[15 luglio 1535.]
IX. — Quando i fuggitivi entrarono in Tunisi, Barbarossa con fiero cipiglio guardò soldati e capitani; e aggiungendo acerbe parole, rinfacciò loro la perdita della fortezza e dell'armata. Costoro altresì, arrovellati di vergogna e di rabbia pei danni privati di ciascuno, fremevano. Era in Tunisi a vedere quel che sempre e dovunque succede tra i compagni di sventura, che l'uno all'altro ne rimanda la colpa; e niuno dall'altro ne vuol sentire rimbrotto. E sarebbero quei furfanti, secondo lor natura, venuti alle mani tra loro, come già erano a male parole, se il Giudèo meno avventato degli altri non si fosse volto a Barbarossa quietamente per tutti rispondendo. Avere essi fatto opera e difesa degna di uomini valorosi; e tenuto testa, finchè erasi potuto, alle forze soperchianti dell'Imperator dei Cristiani e dei suoi marinari; dalle mani dei quali esso stesso il Re di Tunisi, quantunque soldato e marinaro valentissimo, riputerebbe gran ventura e decoro in simile circostanza esserne potuto uscir vivo.
Dall'altra parte i cortigiani di Carlo V già si lasciavano intendere di voler dare l'impresa per finita, senza mettersi altrimenti intorno alla capitale; allegando la difficoltà di espugnarla, la moltitudine degli Arabi intorno a difenderla, la disperazione dei pirati, il calore della stagione, la penuria delle vittuaglie, e la insalubrità del clima per uno esercito già stanco e solito a vivere in paesi migliori. Nè si vergognavano costoro di ripetere tale filatessa nel consiglio di guerra alla presenza di tutti i maggiori capitani e dello stesso Imperatore[537]. I retori insegnano che non mancano mai argomenti a chi ne cerca da quelle sedici sorgenti, o luoghi comuni, come essi gli chiamano, onde gli oratori possono trarre argomenti alle scettiche proposizioni in pro e in contro. Guai agli uomini, se il buon senso naturale non vincesse l'arte sofistica! Nell'istesso consiglio l'Orsino di Roma, informato ai principî di più alta sapienza, e secondo le istruzioni di Roma[538]; il Bottigella di Malta, e quanti erano quivi generosi e savi risposero: Doversi l'esercito e l'Imperatore quietare nelle imprese compiute, non nelle smozzate a metà; via Barbarossa da Tunisi, dicevano, altrimenti impossibile la sicurezza del Mediterraneo e dell'Italia: facile con genti vittoriose schiacciare in quel nido la testa del superbo, già confuso da tante perdite, e conturbato dalla discordia de' suoi.
Vinse il partito migliore, e la sera dello stesso giorno l'esercito Cristiano, tenendo sempre la base e i magazzini in Portofarina, marciava da quella banda rasentando lo stagno per la strada diretta verso Tunisi. Gli Italiani a sinistra, appoggiati al margine del lago, e condotti dal principe di Salerno, succeduto all'infelice Tuttavilla, gli Spagnuoli a destra condotti dal solito Alarcone, nel centro i Tedeschi comandati dall'Heberstein, appresso le ciurme trainando a braccia i carri dell'artiglieria, le provvigioni e le bagaglie; e il famoso duca d'Alba, allora semplice volontario, con quattro o cinquecento cavalli faceva retroguardo e assicurava le spalle. Il marchese del Vasto, come capitan generale scorreva da ogni parte e riferiva all'Imperatore, che se ne veniva inforcando un piccolo barbero di mezzo alle bandiere.
[16 luglio 1535.]
In tale ordinanza la mattina seguente giugnevano a tre miglia da Tunisi presso a certe colline, dove Barbarossa si era accampato con esercito tumultuario di Arabi, di Mori e di Beduini, la maggior parte a cavallo, che alcuni fanno ascendere infino a centomila; tutti diretti dai veterani della pirateria, e difesi sulla fronte e sui fianchi da moltissimi cannoni minuti, con ordine che, quando vedessero il bello, sparassero. Volevano prima metterci in confusione e poscia a macello, sbrigliando a tempo la cavalleria barbarica.
Il marchese del Vasto ed i nostri capitani non per questo sbigottirono: anzi già erano sul menare avanti i pezzi di campagna, quando veduta per una parte la difficoltà del traino, perchè le ruote profondavansi nel sabbione; e per l'altra visto in tutto l'esercito ardente il desiderio di venire prestamente alle mani, preludio di certissima vittoria, non parve loro tempo da indugiare. Però ottenuto il consenso dell'Imperatore, e fattolo ritirare a suo luogo tra le bandiere, fecero subito dar nelle trombe; e l'esercito con furore grandissimo caricò sul nemico.
Non voleva Barbarossa giuocar tutto il suo in quella giornata, nè mettere capitale, stato, gente, e ogni cosa in un punto a pericolo. Non essendogli riuscito, secondo i suoi pensieri, il disegno di spaventare i Cristiani colla mostra di tante forze e di tanta gente, volse l'animo a temporeggiare, come ogni altro avrebbe fatto nel caso suo. Laonde seguendo l'orme del Giudèo e di quegli altri che aveva prima rampognati, voltò le spalle, raccolse le milizie regolari alla difesa di Tunisi, e lasciò fuori alla campagna la cavalleria leggiera, e le migliaja di Mori e di Beduini, a molestare da ogni parte il campo cristiano e le sue comunicazioni col mare.
X.
[20 luglio 1535.]
X. — I nostri investirono la piazza: e cominciarono i lavori con quelle vicende, che sempre ritornano in simili operazioni. Ma la vittoria compiuta aveva a venire in modo totalmente diverso, e fuori di ogni previsione. Erano dentro Tunisi, servi dei pirati nell'estrema miseria, quasi dieci mila anime battezzate; spagnoli, francesi, tedeschi, e più di tutti italiani; e tra essi mercadanti, soldati, cavalieri, marinari, sacerdoti, gente d'ogni età e d'ogni sesso, i quali, fino dal primo comparire dell'armata nostra, avevano dovuto lasciarsi rinchiudere strettamente in certe fosse cavate per custodire i frumenti, secondo l'usanza del paese, e quivi chiamate Gune. E ciò nè anche bastando, il Tiranno, che forte dubitava di loro, si apparecchiava a farli massacrare, o vero a lasciarli tutti insieme morire di fame sotterra. Ed avrebbe senza fallo eseguito l'atroce disegno, se non fosse stato distolto dagli stessi capitani suoi, che amavano gli schiavi pei loro interessi, come ai nostri tempi i separatisti della Carolina. Più di tutti si oppose il Giudèo per quei principi di umanità che non potevano essere totalmente cancellati dall'animo suo: egli dissuadeva Barbarossa dal proposito; e in chiari termini dicevagli che lo strepito della strage farebbe manifesta a tutto il mondo la paura e la impotente disperazione sua; cose ambedue nocevoli a chi guerreggia: e appresso gli avrebbe tirato la vendetta di tutti, e anche di Solimano, odiatore dei fatti spietati contro gli inermi, e non uso a comportarli in alcuno. Quindi Barbarossa scese alle mezze misure: come dire, agli schiavi lasciar la vita, ed alle Gune sostituire le catene nei fondi della fortezza[539].
Le minacce, come è noto, non tolgono la forza all'avversario; anzi lo rendono più cauto e maggiormente studioso di ricatto. Perciò gl'infelici, cui non fuggivano i disegni del barbaro, nulla più intentamente cercavano, quanto di uscire come che fosse dal gravissimo pericolo. Apprensioni non punto minori tormentavano in quei giorni la coscienza dei rinnegati, ai quali la vittoria dei Cesariani presagiva il capestro. Non erano nè pochi nè impotenti costoro: e mezzo turchi per l'attuale professione, e mezzo cristiani per le precedenti abitudini, dell'una e dell'altra legge partecipando, entravano facilmente nei disegni degli uni e degli altri. Disonesta confusione, e dannosa conseguenza della pirateria, perchè da un assurdo ne vengono mille.
Or dunque per diverse ragioni correvano manifestamente gravissimo pericolo gli schiavi incatenati e i rinnegati carcerieri. Nella comunanza delle sofferenze facilmente questi e quelli si intesero insieme, promettendosi a vicenda protezione nel rischio, colle dolci parole della patria favella: incanto irresistibile nella mestizia della terra straniera. Anzi pure alcuni rinnegati cominciarono a disciogliere le catene di certi amici; dappoi questi sferrarono diversi compagni, e gli uni agli altri dando mano con proporzione rapidamente crescente, in poco di tempo furono tutti disciolti. In quella, traendo ardimento dalla disperazione a qualunque più ardua prova, anche per la fiducia del vicino soccorso, assaltarono in massa le guardie turchesche nelle viscere della stessa fortezza. Colle armi del furore, coll'unghie, co' denti, e poi co' pali, e finalmente colle spade tolte ai nemici, se ne impadronirono; e dall'alto con voci e segni chiamarono l'esercito cristiano alla vittoria. I nostri di fuori corsero dentro; e Barbarossa, maledicendo a Maometto, al Giudèo, ed a tutte le furie del suo destino, quasi fuggiasco e dagli stessi soldati suoi abbandonato, uscì di Tunisi[540].
Io non lo seguirò nè pur da lontano, quantunque sappia che alla fine potrà trovare certi legni che lo condurranno a Minorca, e poi a Costantinopoli; unico punto di suo ristoro. Il Giudèo fuggì alle Gerbe, ma non vi stette gran tempo, perchè nominato ammiraglio del mar Rosso, passò di là ad allestire in Suez un'armata contro i Portoghesi, i cui progressi nelle Indie mettevano in sospetto Solimano. Del Cacciadiavoli basta fin qui. Egli volse le calcagna come gli altri, camminò meno, e giunse più lungi di tutti. Bogliente di rabbia, ed arso dal sole e dalla sete, per quelle lande scoprì l'acqua in una cisterna, e tanto ingordamente ne bevve, che quivi presso crepò[541].
Il Mediterraneo nettato a un tratto, ed agli allori di Corone aggiunte le palme di Tunisi, siamo al massimo dei nostri vantaggi nel periodo di sessanta anni. Ma non per questo possiamo quietare. Torneranno i pirati più terribili di prima: risorse non mancano al tristo mestiero, nè gelosie mancheranno, nè guerre tra i principi cristiani, nè errori degli uni e degli altri. Compiuta nobile impresa, distrutto il nido principale della pirateria, cacciato Barbarossa, rimessa in seggio l'antica dinastia, liberati dalla schiavitù diecimila cristiani nella capitale, e il triplo nelle provincie, niuno per questi giorni avrebbe potuto tra i principi eguagliare la gloria di Carlo, se i suoi più intimi non lo avessero condotto a concedere il sacco[542].
XI.
[21 luglio 1535.]
XI. — Il vigesimo primo del mese di luglio l'Imperatore con alla destra l'Orsino, pel cui senno e costanza era giunto a tanta altezza, entrava trionfalmente nella città di Tunisi, seguito dall'esercito vincitore. E senza distendermi in lungo sul governo di Carlo, brevemente dirò che rimise sul trono il re Muleasse già discacciato da Barbarossa; e ciò tanto per non aizzare maggiormente gli Africani, quanto per avere tra loro un sostegno, e per liberarsi dalle spese e dalle molestie. Poi trattando con lui, imposegli annuo tributo di omaggio, perpetuo divieto di pirateria, libertà ai Cristiani nella pesca del corallo, cessione della Goletta, e vettovaglie al presidio spagnuolo. Però gl'ingegneri imperiali subitamente presero a rimettere in difesa lo sbocco della Goletta: risarcirono la torre maestra, e attorno menarono un quadrato con quattro baluardi acuti, e però biasimati dal celebre capitano de' Marchi, il quale implicitamente dava la preferenza al pentagono precedente[543]. Venne poscia con spazio molto maggiore, ed a cavallo sul canale, una fortificazione sui lati dell'esagono: si conservò per quarant'anni, e fu perduta alli ventitrè di agosto nel settantaquattro da don Giovanni d'Austria, come a suo tempo diremo. Finalmente oggidì, mutate le condizioni, cresciuto il commercio, le case e i magazzini attorno al canale, non se ne vede più nulla.
[Agosto 1535.]
L'armata vittoriosa sciolse dai lidi africani, menando migliaja di cristiani riscattati a libertà, e appresso ammarinati i bastimenti dei nemici. L'imperatore prese terra a Trapani: e die' licenza all'Orsino, partecipe delle fatiche e della gloria, di ricondurre le galèe a Civitavecchia. Tornò menomato non solo dei tanti che dato avevano la vita per la pubblica salute, ma con molti soldati e marinari monchi, feriti e poveri più di ogni altro. Imperocchè, secondo il solito, essi non toccarono guadagni nè di artiglierie, nè di navigli, nè di ricchezze[544]. Ebbero soltanto in dono dalle istesse mani dell'Imperatore un catenaccio, insieme col chiavistello e la stanga della porta di Tunisi, perchè l'avessero a mostrare nella basilica di san Pietro in Roma a perpetua consolazione della anima loro.
Restarono quei rugginosi ferri per qualche anno nel portico della chiesa, dappoi nella sacrestia, e finalmente oggidì si trovano (come io scrittore ho veduto e riveduto le tante volte) nell'atrio esterno dell'archivio canonicale, e vicino alle catene del porto di Satalia, delle quali altrove ho fatto menzione. Quivi sporge dal muro una vecchia lapida, che dice così[545]: «Carlo V imperatore, espugnata la città di Tunisi, mandò questa stanga e questo serrame al tempio del beato Pietro apostolo, per ricordare ai posteri la segnalata vittoria.»
Qual maraviglia che i minuti particolari e i fatti egregi dei nostri marini non suonino più che tanto nella storia, quando dello stesso nobilissimo condottiero e prode romano, stato sempre a' fianchi di Carlo, per suo rispetto, si tace anche il nome nelle iscrizioni monumentali di Roma?
XII.
[5 aprile 1536.]
XII. — Mentre da un capo all'altro d'Italia dovunque passava l'augusto Carlo si facevano feste straordinarie con archi, trionfi, statue e pitture, lavorandovi tutti gli artisti del tempo buoni e cattivi, come dice il Vasari[546]; e mentre si ripetevano con infinita esultanza dei popoli le lodi sue, per avere condotto felicemente a termine la guerra piratica; già agli occhi dei savî per certi segni apparivano nuove sventure, e gli scoppi imminenti di altre guerre intestine. Imperciocchè essendo morto improvvisamente e senza prole, addì ventiquattro d'ottobre, Francesco Sforza duca di Milano, non poteva nè il re di Francia nè quel di Spagna lasciare il retaggio al rivale senza discapito, nè ritenerlo per sè senza battaglia. Di fatto Carlo, venuto da Napoli in Roma il cinque d'aprile, alla presenza del Pontefice, e dei cardinali, e degli ambasciatori, e di tutta la corte, in pubblico concistoro, disfogava acerbamente le sue querele contro Francesco; l'Ambasciatore parigino rispondeva a Cesare: e dopo le ingiurie tra loro venivano i danni sopra noi[547].
[Maggio-dicembre 1536.]
Suonarono adunque di malauguroso squillo le trombe in Italia, campo di battaglia a tutti i rivali. Non si parlò più del Concilio: ed i principi nostri in poco tempo furono veduti tutti pieni di gelosie e di guerre. Il Piemonte calpestato, Genova assalita, Venezia sospettosa, Milano straziato, e gli Svizzeri da ogni pretendente subillati, offrirono spettacolo da potersene rallegrare tutti i pirati, e Barbarossa e Solimano. Quest'ultimo principalmente, conoscendo l'altrui tramestìo opportuno ai casi suoi, stimò bene di smettere la guerra che faceva già da più anni al Sofi di Persia, e di assaltare in vece l'Italia: tanto più che i pirati lo incitavano a entrare in questo campo di sicure vendette e di maggiori guadagni. Si diceva anche pubblicamente allora, ciò che gli scrittori e i fatti hanno dappoi largamente confermato, essersi inteso il re Francesco coll'imperatore Solimano, per mezzo dell'ambasciatore La Foresta, di mettersi insieme contro Carlo in Italia; e che venendo il Re coll'esercito dalla parte di terra sul Po, verrebbe Solimano coll'armata dalla parte del mare sopra la Puglia[548].
Lo svolgimento di questa semenza, come ognun vede, troppo lussureggiava per maturare a un tratto: ma forbivano i ferri, si apriva la campagna in Provenza, in Piemonte, in Lombardia, e intanto il re Francesco allestivasi a passare oltralpe in persona collo sforzo di Francia, e Solimano a spedire nello Jonio l'armata di mare per ajutarlo. Barbarossa, alla testa degli arsenali e dei navigli, dava voce di voler passare in Egitto, e di là pel mar Rosso ai mercati delle Indie contro i Portoghesi, i quali avevano nella guerra precedente favorito i Persiani, ed ora tentavano chiudere le porte del commercio ai Turchi. Ma quantunque sì fatte voci fossero artificiosamente divulgate, non potevano non essere sospette alle persone pratiche degli affari; e il Papa apertamente diceva che il turbine turchesco sarebbe certamente piombato in Italia. Per questo spedì nunci straordinarî alle corti, propose ai principi eque condizioni di pace o di tregua, ed all'Orsino prescrisse di tenere le forze marittime pronte ad ogni evento. Esso stesso per dar calore agli armamenti e alle difese della Maremma andò in persona a rivedere le rôcche, a confortare i popoli, a dar animo ai capitani e alle milizie. In ventisette giorni, movendo da Roma, visitò Nepi, Viterbo, Montefiascone, Orvieto, Gradoli, Capodimonte, Acquapendente, Toscanella, Corneto, Civitavecchia e Cere: e lasciando in ogni parte ordini e provvisioni, pel compimento dei restauri e delle opere nuove, si volse poi con tutto l'animo alle mura di Roma[549]. Notate il tempo e tutte le circostanze, e vi sarà manifesto come non per Clemente, nè pel Borbone, nè pel sacco; ma contro Barbarossa, e contro i Turchi ebbero principio le moderne fortificazioni di Roma, e le opere del Sangallo e del Castriotto attorno alla città, al Borgo e al Vaticano.
XIII.
[29 aprile 1537.]
XIII. — Ma perchè sempre più montavano i sinistri presagi, e dal mare si vedevano crescere le punte della luna tra nubi procellose, tornava papa Paolo in Civitavecchia per rivedere l'armamento delle galèe e della fortezza, e per aggiungere nuovi stimoli a Gentil Virginio ed a Michelangelo che vi si adoperavano[550]. E non andò molto che avveraronsi le sue previsioni. Solimano nel mese di maggio, lasciata da banda la Persia, l'Egitto e i Portoghesi, fece uscir dai Dardanelli contro l'Italia l'armata sua di quattrocento vele agli ordini di Barbarossa, con gran convoglio di fanterie e di cavalli.
[8 luglio 1537.]
Costoro dall'Epiro si appressarono alla Puglia, cercando luogo opportuno di sbarco insieme e di fermata: e veduta ben munita la città di Brindisi, non meno che la piazza di Otranto, gittaronsi più abbasso otto miglia; e parte per sorpresa, parte per inganno di Troilo Pignattelli, ebbero dal cavalier Mercurino Gattinara la terra di Castro, dove subito subito principiarono a fortificarsi, non senza scorrere le provincie vicine disertando e predando roba e persone[551]. In questo modo un'altra volta si posò fermamente la bandiera dei Turchi sulle torri d'Italia.
Non può a parole esprimersi quale fosse la scossa di tutti i vicini e dei lontani, e l'ardore dei popoli e dei principi per togliersi d'attorno quella peste. Il vicerè di Napoli spediva nella Puglia fanti e cavalli, il principe Doria raccoglieva in Messina navi e galere, il Grammaestro mandava da Malta cavalieri e capitani, e il Papa da Roma spediva incontanente marinari e soldati[552]. L'Orsino, tenendosi in punto, e già imbarcati i rinforzi straordinarî, e la fiorita compagnia di gentiluomini romani seguaci della sua casa, al primo rumore salpò da Civitavecchia, menando seco sei galere; cioè le tre di sua proprietà privata, e le altre della Camera, secondo i capitoli della condotta. La prima, che faceva da capitana ed era navigata dal Conte, per ragion di famiglia, chiamavasi l'Orsina; la seconda, messa a padrona, per felicità di augurio nomavasi la Vittoria; la terza, per le tradizioni di Ostia e di più altri luoghi della spiaggia romana, sant'Agostino: le altre tre, per le ragioni che ognun vede, eran chiamate san Pietro, san Paolo e san Giovanni: alle quali non guari dopo il Conte aggiungeva la settima che teneva sul cantiere in costruzione, e chiamavala per riverenza del Pontefice suo congiunto ugualmente san Paolo; distinguendosi le due omonime coll'aggiunta del Papa o del Conte[553].
L'Orsino prestamente si congiunse in Napoli colle sette galere del Regno, e in Messina colle tre di Sicilia, e colle ventidue del Doria, formandosi uno squadrone di trentotto galere: non certamente valido a disfare l'armata nemica, ma sufficiente a molestarla. Con questo disegno dal capo Spartivento si tirarono al Zante, mettendosi alla coda, e pigliando a rovescio l'armata nemica, e scorrendo per le marine dell'Epiro attesero a proibire il passaggio dei convogli, delle vittuaglie, delle munizioni e della gente nuova, con tanto successo e sì grande ardimento che i Turchi alla spicciolata ebbero a restare quasi sempre conquisi. Alla loro virtù, e più presto che non si sarebbe potuto sperare, dobbiamo noi, come espressamente i contemporanei giudicarono, attribuire la cacciata dei Turchi dalla Puglia. Passeremci delle minute avvisaglie, per venire drittamente ai due fatti più importanti della crociera.
XIV.
[13 luglio 1537.]
XIV. — Stando i nostri alla guardia nelle riviere dell'Albania tra la Rilla e la Parga, addì tredici di luglio, scoprirono da lungi molti navigli di quella specie che i Levantini chiamano schirazzi (bastimenti da carico di gran corpo, alberi a pioppo, e vele quadre), i quali, come poi si seppe, venivano da Alessandria mandati dal Giudèo con munizioni ed attrezzi militari per l'esercito di Puglia. I marinari degli schirazzi scoprirono altresì le nostre galere: ma non pensando mai che potessero i Cristiani in arme per quei giorni navigare tanto lontano dai porti loro, e così da presso ai rivaggi altrui; anzi per molte apparenze persuasi che le galere nostre fossero barbaresche, proseguirono sbadati la loro navigazione per gittarsi poscia dal capo Bianco di Corfù al capo d'Otranto in Italia. Venuti da presso, scoprirono l'errore, ma non furono più in tempo a ripararlo: tentarono la fuga, si coprirono di cotone; tutto inutile. Da ogni parte circondati e investiti si arresero, senza che ne fuggisse pur uno. I Turchi messi al remo, le munizioni ripartite, ed i quattordici navigli con un po' di paglia e di stipa sotto coverta bruciati in mezzo al mare[554].
[18 luglio 1537.]
Dopo cinque giorni, facendosi diligentemente alla penna la scoperta sul tramonto e sulla levata del sole, ebbero un altro incontro di sommo rilievo per le conseguenze. Tanto nelle fazioni di guerra giova la vigilanza! Alla prima mattina del diciotto di luglio furono alla vista nel canale di Corfù due galere ed una galeotta di nemici, e si ordinò incontanente la caccia. Coloro, vedendosi inseguiti da forze maggiori, presero a fuggire, investirono in terra, abbandonarono i legni, e si imbrancarono verso i monti dei Cimmeriotti, gente cruda e bestiale, dai quali furono fatti a pezzi senza pietà, eccetto alquanti maggiorenti, cui salvarono la vita più tosto per ingordigia di grosso riscatto, che per altri rispetti. Tra i vivi ricorderò un dragomanno turco, chiamato Jonus-Bey, o, come dice il De Hammer, Junis-beg, uomo notissimo nella storia ottomana di questi tempi, favorito dell'Imperatore, e da lui mandato a Girolamo Pesaro, generale dei Veneziani in Corfù, per richiamarsi di certe baruffe occorse poc'anzi tra alcune galere delle due parti, a cagione di saluti. Or costui col capo pieno di Veneziani, di risentimenti e di tafferugli, caduto nelle mani dei Cimmeriotti, e tutto spavento, non capì mai che altri, se non i Veneziani medesimi, gli avessero fatto il brutto tiro di dargli la caccia, e di gettarlo in quelle strette; perchè quanto al Doria ed all'Orsino non pensava nè meno che avessero potuto tanto presto, e in così piccol numero, comparire per quelle marine. Però scrisse lettere furiose a Solimano: e incaponito come era in questo che la Repubblica abusasse perfidamente della pace per abbassare la casa Ottomana, ora sotto pretesto di saluti dinegati, ora di bandiere non conosciute, ora di dragomanni presi a sospetto, aggiunse nelle medesime lettere orribili cose contro di loro; e con questo si fece strada a chiedergli il riscatto[555].
Tanto bastò per liberare la Puglia. Solimano già inquieto, nell'udire sul fatto le querele dell'ambasciatore, si accese di grande ira: e, subillato da Barbarossa, di presente giurò precipitosamente di non volere più attendere a niuna impresa, se prima non si fosse vendicato dei Veneziani. Dichiarò guerra alla repubblica, stabilì di andare in persona all'assedio di Corfù, e tantosto richiamò le genti e l'armata da Castro. Ecco dunque per la prontezza e valore di quelle poche galèe liberata un'altra volta l'Italia dai Turchi; ed ecco a nostro vantaggio di prospetto l'alleanza dei Veneziani.
XV.
[22 luglio 1537.]
XV. — In un momento per tutto l'Adriatico corse il rumore degli apprestamenti ordinati alla Vallona per assaltare Corfù e gli altri possedimenti della repubblica, standovi l'istesso Solimano in persona a sollecitare e a dirigere l'armamento; e là raccogliendo gli avanzi delle forze materiali e personali che avevano campeggiato nella Puglia. Però levati a maggiori speranze, e certi ormai di avere in ajuto contro i Turchi la numerosa e bellissima armata di Venezia (infino allora tenutasi neutrale), continuavansi più che mai diligentemente i nostri a solcare di giorno e di notte quei mari, pigliando lingua da ogni parte, specialmente dagli Albanesi. Tanto meglio, che erano testè venute di rinforzo le quattro galere di Malta condotte da Lione Strozzi, colle quali l'armata nostra saliva al numero di quarantadue galere, montate da gente numerosa, prode, esperta e capace di fare buoni effetti, massime per lo sbandamento dei nemici. Da indi a quattro giorni, parlamentando con una barca levantina, seppero di certe galèe nemiche, capitanate da Aly-Zelif, uomo di molta autorità tra gli Ottomani, che dovevano passare pel canale di Corfù conducendo i migliori uomini di cavalleria della guardia imperiale, chiamati di gran fretta alla Vallona attorno alla persona di Solimano, con ordine di lasciare ad altri la cura dei cavalli, perchè a mano agiatamente gli conducessero per la via di terra.
Laonde i nostri di notte e celatamente andarono a mettersi sul passo agli agguati presso le Merliere, che sono quattro isolette, chiamate dagli antichi Ericusa, Elafusa, Marate e Multace; dove spartitamente e con buone guardie aspettando, scoprirono di fatto la sera del ventidue le dodici galere, che facevano la strada predetta. Levaronsi per incontrarle, e durante la notte essendo già plenilunio e chiarissima luce, non dubitarono punto di investirle e di combatterle. I Turchi, quantunque meno apparecchiati, valorosi tuttavia e dilicati sul punto d'onore, vennero subito ai ferri, e non ismentirono la riputazione del corpo, sostenendo l'arrembaggio a corpo a corpo con tanta costanza che, dopo tre ore, non ostante il gran numero dei morti e dei feriti, il combattimento durava come era cominciato. Quando poscia la cieca mischia, cominciatasi nella notte, comparve meglio a grado a grado rischiarata dal sol nascente, allora i nostri capitani conobbero il gran rischio, nel quale si trovavano per le avarie dei legni proprî, e per la grande rovina della gente; non vedendosi altro nelle corsie e sui castelli che corpi morti, mutilati e feriti; e le acque del mare intorno piene di rottami e di cadaveri, torbide e tinte di sangue.
[23 luglio 1537.]
Ripetuto l'assalto generale con maggior vigore e gagliardissimo slancio, senza poter rimettere pur uno dei legni nemici: tenendosi fermi al posto quei Turchi, che pel valore e pel numero non lasciavano far progresso a nessuno, ma trucidavan sulle rembate, sulla palmetta, al piè dell'albero, o ricacciavano indietro mal concio chiunque si presentava: nè anche più potendosi maneggiare l'artiglieria di prua, per essere i legni di amici e nemici tutti confusi gli uni sugli altri, e i Turchi in mezzo prolungati a contrabbordo: in somma ridottosi il combattimento all'uccellare di archibuso o di spuntone per abbattere o infilzare dovunque si vedesse la minima particella di un corpo fuor dei pavesi, fosse di turco o di cristiano; finalmente si parve il vantaggio di chi studia nei libri, anche intorno alle cose di milizia e di marina: il vantaggio di chi sull'esempio degli antichi non lascia di tenere da ogni parte del suo bastimento, anche a tergo e sui fianchi, macchine e strumenti di offesa e difesa. Le galèe nostre, secondo gli inventarî ufficiali, portavano cannoni alle bande: due pezzi da dodici sui fianchi; e similmente quattro smerigli alla mezzanìa, ciò era altri quattro pezzi da sei laterali[556]. Al modo istesso le galèe di Malta, come dice espressamente il Bosio, solevano portare un mezzo cannone dall'una e dall'altra parte della mezzanìa sul posticcio; pezzi acconci sulla conveniente piattaforma al di sopra dei banchi[557]. I quali mezzi e quarti cannoni e smerigli facilmente si potevano mettere in batteria, o ritirare nella stiva, secondo le occorrenze del navigare e del combattere, per mezzo dello affusto a scalone, che per sua snodatura faceva piano inclinato, attissimo a rimaneggiare il pezzo, come altrove si è detto[558]. Le palle laterali, devo ora io dire, provaronsi di buon peso la mattina del ventitrè per decidere la sorte dell'ostinato combattimento: ed il fuoco dei Romani e dei Maltesi fece traboccare a favor dei Cristiani la bilancia. Come si cominciò dai fianchi a giuocar coi tiri di ficco, tantosto parve ai Turchi disperata la difesa. Anzi più, veduta una delle loro galere per quei colpi sfondata e sommersa, tutti abbiosciarono. Posero giù le bandiere, gittarono al mare le scimitarre, che avevano bellissime di acciajo damaschino; e salutando inermi colla mano alla bocca, alla fronte ed al petto, conforme l'uso nazionale, si arresero. Undici galèe guadagnate, una sommersa, duemila cinquecento morti, ottocento prigionieri, sessanta cannoni. Vittoria pagata a caro prezzo, restandovi i vincitori presso che disarmati per la moltitudine dei morti e dei feriti, messi insieme infino a mille cinquecento persone.
Quei che considerano la ragione dei fatti possono per molti esempi intendere, quanto talvolta in mare, più del numero dei navigli, valga la bravura e il numero dei combattenti[559]: che certamente nel caso presente dodici legni furono a un pelo per vincerne quarantadue. Anzi comunemente si disse che le cose sarebbero andate a rovescio per noi se nell'azzuffamento di quella notte fossero sopraggiunti sol quattro o cinque legni in ajuto dei nemici, e se i nostri non avessero potuto giuocare a tempo coi pezzi di traverso[560].
XVI.
[Agosto 1537.]
XVI. — Lo stesso giorno dopo il mezzodì l'armata volse le prore inverso il Pacso, ed ivi sostenne quanto portava una prima cura ai feriti, un po' di rattoppamento ai navigli e alle manovre, e la ripartizione della preda meno danneggiata in parti proporzionali a ciascuna squadra. Toccò all'Orsino la migliore delle galèe, con tutte le artiglierie, e grossa mano di prigionieri per remigarla[561]. Poscia sapendo che Barbarossa veniva a cercar vendetta, fecero vela a ponente verso Messina. Il principe Doria, il conte dell'Anguillara, il priore Strozzi, e gli altri capitani incontrarono ricevimento trionfale, e feste solenni nella città; e non rifinivano le lodi dei Siciliani per gli ottimi effetti cavati dalla gloriosa campagna con forze tanto limitate contro nemici così possenti. Vedete prestezza, fede, valore e successi, quando il dèmone della gelosia di stato non trova appicco tra i collegati!
[Settembre 1537.]
Però a Solimano da ogni parte giungevano sinistre novelle: abbandonata la Puglia, disfatto l'esercito, perduti gli schirazzi, le galèe, la gente, gli ambasciatori; e ciò per opera soltanto di una quarantina di bastimenti. Lo sdegno suo cercava vendette: e sospettando che non avrebbe sortito tanti successi l'armata nostra in quella campagna senza secreta intelligenza coi Veneziani, gittavasi perdutamente ai danni della Repubblica, facendone assalire per terra e per mare tutti i confini, massime i possedimenti della Dalmazia e della Grecia; ed egli in persona col maggior nervo dei suoi metteasi all'attacco di Corfù. Ma in queste imprese sparpagliate, non altro gli successe se non desolare le campagne, bruciare le ville, e ridurre in schiavitù alquante migliaja di contadini; avendo le fortezze, e prima di ogni altra la piazza di Corfù, fatto buona prova contro gli assalimenti suoi. In Dalmazia Camillo Orsini e il conte Giulio da Montevecchio colle fiorite legioni della Marca e di Roma non solo difesero le piazze forti, ma tolsero ai Turchi diversi castelli; tra i quali Ostrovizza, importantissima per la posizione tra Zara e Traù[562].
In somma caduto d'animo per tante perdite, non compensato dagli incendî, e posto anche in pericolo della vita per una congiura di Cimmeriotti, che avevano risoluto di sbranarlo nel suo stesso padiglione; vedendo di più avvicinarsi l'avversa stagione, e temendo molestie dall'armata veneziana e dalla nostra se più tardasse la ritirata, si levò Solimano a mezzo settembre dall'assedio di Corfù, ed a Costantinopoli si ridusse, non senza gran vergogna per tanti disegni tornatigli vani nel primo cominciare. All'incontro le premure di papa Paolo sortirono felici effetti a vantaggio dell'Italia e della cristianità in tanti modi afflitta. Egli stesso, che intendevane l'importanza, e pigliava animo dalla cacciata di Solimano a sperare cose maggiori, segnavane il ricordo in una medaglia simbolica rappresentante il Delfino vincitore del Coccodrillo[563]. Basta accennarla, perchè ciascuno ne intenda il concetto, senza spendervi altre parole, non vi si trovando cosa che tocchi direttamente all'armata navale.
XVII.
[Ottobre 1537.]
XVII. — Buon per noi che la ritirata di Solimano avvenisse in tempo, e secondo il bisogno; perchè a un punto, quando colui se ne andava da una parte a Costantinopoli, sboccavano dall'altra in Italia più numerose le genti del re Francesco: che quando si fossero incontrati insieme, certamente avrebbero ridotto a mal partito più i popoli che l'Imperatore. Nondimeno peggiori guerre si ripigliavano ai nostri danni in Piemonte e in Lombardia: il marchese del Vasto cozzava col signore delle Humières, questi cadeva di male in peggio, il Re spedivagli il figlio con molto rinforzo, poi presentavasi esso stesso in persona sul campo. Ma venendo sempre meno la fortuna di Francia, e vedutosi il Re agli estremi, non dubitò di mandare a Costantinopoli il signore di Rincon con dieci galere provenzali per richiamare in Italia Solimano e Barbarossa ad ajutarlo.
Intanto l'armata cristiana in Messina, rifattasi delle avarie e rifornita di gente, e cresciuta colle galere di Spagna, e con molte navi, fino al numero di cento legni, salpava, e rimetteasi nelle acque dello Jonio a tenerne lontano i Barbareschi, ed a pizzicare la coda degli Ottomani nella ritirata. Durante questa ultima parte della campagna non occorse fatto di rilievo. Barbarossa fuggiva di lungo, e i nostri appresso senza potergli altro dare se non fretta maggiore, nè togliergli che pochi bastimenti da carico da lui licenziati per Barberìa; facendovi però molti prigionieri, de' quali la squadra romana ebbe la parte che le veniva[564].
Finalmente il Doria, avendo saputo del passaggio che far doveva il signor di Rincon, nuovo ambasciatore di Francia (per la morte del La Foresta avvenuta alla Vallona nel mese di luglio), virò di bordo, volendo andare ad incontrarlo sull'altura di capo Passero; e per manco disagio, menarlo a riposo nel castello di Mattagrifone in Messina. Ma in questa caccia nè Romani nè Maltesi il seguirono, avendo gli uni e gli altri espresso comandamento di non mescolarsi nelle contese private dei principi cristiani, sotto qualunque colore. Per ciò lo Strozzi fece vela verso Malta, e l'Orsino verso Civitavecchia, ambedue risoluti di svernare. E il principe Doria dopo alquanti giorni, avendo inutilmente cercato pei mari l'ambasciatore di Francia, seguì l'esempio altrui, volgendosi al riposo di Genova, come disse qui in Civitavecchia in casa dell'Orsino, cui volle personalmente riverire e ringraziare[565].
I grandiosi fatti del trentasette da una parte, e dall'altra le mene dei turchi e dei pirati, le minacce contro l'Italia, l'invasione della Puglia, la guerra ai Veneziani, l'assedio di Corfù, e tutti i patimenti del cristianesimo[566], aprirono a papa Paolo la strada per condurre a termine la tanto sospirata alleanza dei principi cristiani contro il nemico comune, secondo l'esempio dei tempi anteriori, ed a modello dei seguenti. La trattazione più larga della lega conclusa nel trentotto tra Paolo III, Carlo V e i Veneziani; e gli infelici successi non meno importanti che negletti della medesima, mi costringono (insieme col Tipografo) a dividere in due parti il libro sesto. Grandi cose abbiamo veduto nella prima parte, e maggiori ne vedremo nella seconda. Ma tristo paragone tra i fatti precedenti di fede manifesta, ed i successivi di coperta gelosia; come meglio che altrove apparirà qui nel volume secondo.
FINE DEL VOLUME PRIMO.
NOTE:
1. Leo Pp. X, Duci et decurionibus Genuen. ext. ap. Bembo, Oper. omn., IV, 104: «Appulisse ad Italiæ insulas et littora vobis vicina punicam piratarum classem nunciatum est.... diripere, depopulari, etc.»
Item, ibid. 110: «Morte mulctandos piratas si capiantur.» et p. 142: «Piratæ pœni captivum fecerunt Paulum Victorium.»
Isthuanfius, De rebus hungaricis, lib. XI: «Hariadenus princeps piratarum, ac mauri turcique prædones littora Hispaniæ atque Italiæ excursionibus atque rapinis reddunt infesta.»
Prudencio Sandoval, Vida y hechos del emperador Carlos V, in-fol. Pamplona, 1634, t. II, p. 143, A, in fin.: «Dragut no estava en las treguas; y era un pubblico ladron que andava a toda ropa.»
Malipiero Domenico, Annali Veneti, nell' Arch. Stor. Ital., VII, II, 648: «È sta fatto più volte querela a Costantinopoli dei danni che fa' i corsari alle cose nostre.... de può tutti quelli che sono andati a portar presenti al signor Turco, tutti ha habù provision, et è stà fatti so' capitani.»
2. Alexander Papa VI, De expeditione contra Turcas, anno MD. Mss. Casanat., D, IV, 22, p. 227.
Raynaldus, Ann. Eccl., 1501, n. 2: « Magna classis parabatur a Pontifice, Francorum Hispanorumque regibus, Venetis et Rhodiis, summo imperatore Petro Aubussonio, Apostolicæ sedis Legato. »
3. Paris de Grassis, Diaria cæremonialia. Mss. Casanat., XX, III, 5.
Raynaldus, Ann. Eccl., 1500, n. 10.
4. Scipione Ammirato, Storie fiorentine, in-fol. 1641, vol. II, p. 266: « Il Papa.... con tre galèe, tre fuste, tre brigantini, due galeoni e una baloniera. »
5. Teodoro Amayden, o Amideno, Le famiglie romane nobili. Mss. autografo alla Bibl. Casanatense, segnato E, III, 11, n. 175.
Pier Luigi Galletti, Inscriptiones romanæ infimi ævi Romæ extantes, in-4, 1760, II, class. x, n. 10.
6. Ubertus Folietta, Clarorum Ligurum elogia, in-fol. Roma, 1577, et ap. Burman in Thesaur., I, parte I, p. 815: Leonis ep.
« Amborum virtute olim tua littora, Tybris,
Intacta a Mauris tuta fuere diu.
Quin Mauros Turcasque trahis per flumina Victor,
Dum properant fortes in fera bella duces.
Nunc Mutinorum servas tu grata nepotes,
Roma memor: decorant hi nova sæcla viri. »
7. Alexandri Pp. VI, Instrumentorum Cameræ, lib. XV, p. 5. — Bibl. Vaticana, cod. 8046. — Schede Borgiane nel Museo di Propaganda in Roma: « Die XI januarii, MDI. Cum sit quod SSmus. D. N. mandaverit solvi Domino Ludovico Mosca, et Mutino de Monilla præfectis custodiæ splagiæ romanæ, seu maris romani, ducatos mille auri in auro de Camera pro incipienda fabricatione certarum triremium pro classe S. R. E. contra Turcas, prout per mandatum S. D. N. registratum in Camera Apostolica, libri Diversorum, fol. 196; iccirco præfati Ludovicus et Mutinus personaliter constituti etc. in C. A. præsentes, sponte etc. promiserunt præfato S. D. N. et dictæ Cameræ, ac mihi Notario etc. dictos ducatos mille exponere in dictam operam bene et diligenter, ac de illis totiens quotiens opus fuerit et requirentur, bonum et fidele computum reddere, et alia facere quæ in dicto mandato continentur, sub pœnis et in forma Cameræ juraverunt etc. rogantes etc. Præsentibus in dicta Camera Petro Coma et Bernardo.... S. D. N. Forerio et Cursoribus testibus. — Gen. Fulginas. »
8. Burcardus, Diaria cæremonialia, edita ab Ecchardo Joan. Georg. Corpus hist. medii evi, in-fol. Lipsia, 1723, II, 2137: «Fuerunt pro eo paratæ sex galeae.» Item, ex mss. Casanat., XX, III, 2.
9. Burcardus cit., ap. Ecchard. II, 2138: « Sabato XXVIII maji MDII. Post horam Vesperorum conducta fuit de Ripa per campum Floræ, ad castrum Sancti Angeli artilleria olim Federici regis neopolitani quam habuit in Hischia, et eam Papa emerat ab ipso Rege pro ducatis tresdecim millibus, existimabatur autem esse valoris quinquaginta millium ducatorum. Fuerunt carruccæ octuaginta, quarum singulæ trahebantur quædam per unum equum, quædam per duos bufalos, aliæ per tres, aliæ per sex bufalos. In prima et undecima carretta sclopeta pro barchis, et etiam materiales: in sequentibus in qualibet tres vel quatuor aut sex bombardellæ. Successive in aliis singulis carrettis, usque ad vigesimam tertiam carrettam fuerunt una simul duæ bombardæ. Et successive in singulis usque ad trigesimam quintam carrettam fuerunt una bombarda magna. Et plurimæ ex eis fuerunt pulcherrimæ et fortis compositionis. Sequebantur pedestres duo millia vel circa ordinate, et septem in quolibet membro incedentes cum lanceis, alabardis et sclopetis. Et post illos trigintaseptem carrucæ pallottis ferreis oneratæ; deinde tres cum barilibus pulveris, tandem quinque aliæ cum salnitro, telis et palloctis mixtim. Quæ omnia Papa, stans in castro sancti Angeli, vidit conduci. »
10. P. A. Guglielmotti, Storia della Marina pont. nel Medio èvo. Le Monnier, 1871, II, 185.
11. F.-D. Guerrazzi, Vita di Andrea Doria, in-8. Milano, 1864, I, 27: « I cartocci pieni di palle pigliarono nome di Mitraglia, del qual nome l'etimologia da noi s'ignora. »
12. A. Jal, Glossaire polyglotte nautique, in-4. Parigi, 1848, p. 1010: « Mitraille, fr. s. f. (? De mittere, envoyer. )» e p. 1002: Nous pensons que Mittere, envoyer, est le mot latin dont on a fait Mitraille. »
13. Angelo Angelucci, direttore del Museo di artiglieria a Torino, Documenti inediti per la Storia delle armi da fuoco italiane, in-8. Torino, 1870, vol. I, p. 211.
14. Agostino Giustiniani, Annali di Genova, in-fol. 1537, p. 256, D.
Bosio Jacopo, Storia della sacra religione et illustrissima milizia di San Giovanni Gerosolimitano, in-fol. Roma, 1594-1602, II, 543, C, 548, B.
15. Jovius Paulus, Vitæ illustrium virorum, in-fol. Basilea, 1578, Vita Gonsalvi a Corduba.
Idem, di Consalvo Fernando da Cordova, tradotta da Lodovico Domenichi, Firenze, 1550.
16. Petri Bembi, Rerum venetarum historiæ, lib. V, in-4. Venezia, 1718, p. 174.
Geronimo Zurita, Historia del rey don Fernando el catholico, in-4. Saragozza, 1610, lib. IV, cap. XXV, p. 194.
17. Raynaldus, Ann. eccl., 1500, n. 10: « Decretum in Turcas sacrum bellum, quam male confectum fuerit, turpe est referre. »
18. Scipione Ammirato, Storie fiorentine, in-fol. Firenze, 1641, part. II, 264, E.
19. Raynaldus, Ann. eccl. in indice: « Cæsar Borgia filius nothus Alex. VI.... Signifer rom. Eccl.... Barbaricam immanitatem exercet.... cæsis hominum millibus, fœminisque pollutis.... Thesaurum ecclesiasticum expilat, etc. »
Bembus Cardinalis, S. R. E. cit., 216: « Borgiæ perfidia et crudelitas.»
Muratori, Ann., 1502 in princ.: « Si rivolse l'iniquo Borgia ai tradimenti,... l'iniquissimo Cesare Borgia. »
Catalani Giuseppe, Prefazioni critiche al Muratori, (ufficiale censore dell'edizione romana) in-8. Roma, 1788, t. X, part. I, n. 5: « Del resto quanto dice il Muratori in questo e nei due anni seguenti contro Cesare Borgia, tutti glielo accordiamo. » Dunque impossibile lodarne i fautori. — V. app. nota 26.
20. P. A. G. cit., II, 501: « Promisit habere et tenere amicos Sanctitatis suæ præfatæ pro amicis et inimicos pro inimicis, cuiuscumque status, gradus aut præminentiæ fuerint. »
21. Raynaldus, Ann., 1501, n. 15, 20, 81: « Alexander etiam, privatis ductus comodis, in bellis italicis exercuit arma.... Plumbinum ad deditionem compulit.... Inanes de classe pontificia in Oriente spes: duas naves majoris alvei notho filio ad appugnandum Plumbinum concessæ. »
Biagio Bonaccorsi, Diarî, in-fol. Venezia, 1568, — e Mss. alla Corsiniana di Roma, cod. 320, 321.
Vedi appresso la Lapida, nota 34.
22. Simone del Pollaiolo, detto il Cronaca, Lettere tre inedite, pubblicate da Jodoco del Badia, in-8. Firenze, 1869.
23. Raphael Volaterranus, Comment. Urban., in-fol. Basilea, 1530, p. 261.
Ammirato cit., II, 264.
Filippo Nerli, Comment., in-fol. Augusta, 1728, lib. V. princ.
Gio. Cambi, Stor. (pubbl. da Idelf. s. Luigi), 168.
Guicciardini, lib. V, post. init.
Anonimo, Vita di Rodrigo Borgia, Mss. Casanat., E, IV, 22.
24. Vasari, Le Vite, ecc. Le Monnier, VII, 218: « Antonio contrasse servitù col Papa, che gli mise grandissimo amore.... e l'opera di castello Sant'Angelo gli die' credito grande appresso il Papa e col duca Valentino suo figliuolo.... finchè quel pontefice visse, egli di continuo attese a fabbricare. »
25. Vasari cit., VII, 58, Commentario: « Abbiamo nel 1502 la patente del Valentino che nomina Leonardo da Vinci architetto e suo ingegnero generale. »
Amoretti, Memorie storiche di Leonardo da Vinci. Milano, 1804, p. 95.
Milanesi e Pini, La scrittura degli artisti in fotografia. Firenze, 1869. — Di Leonardo: « Passando il duca Valentino di Toscana per andare a Piombino.... ebbe a' suoi stipendi Leonardo. »
26. Raynaldus, Ann. Eccles., 1502, n. 10; « Serviebat imprimis Alexander Pont. ambitioni Cæsaris Borgiæ filii sui, magno apostolicæ majestatis dedecore. »
Ferd. Ughelli, Bovio, Ciacconio, Bollandisti.
Civiltà Cattolica, 15 marzo 1873, p. 726, 732.
E qui le note 19, 21.
27. Burcardus cit., ap. Ecchardvm, II, 2137; «Sanctissimus Dominus noster exivit Urbem, iturus Cerveterem, Cornetum, et per mare Plombinum. Erant paratæ pro eo sex galeæ, pro quarum usu missi fuerant quasi omnes carcerati Urbis,... et multi capti per plateas et tabernas.... prout fieri potuit.»
Ammirato cit., 265: «Il Papa arrivato a Piombino a' ventisei di febrajo con tre galere, tre fuste, tre brigantini, due galeoni, e un baloniere.»
28. Cronache e Statuti di Viterbo, tra i Documenti pubblicati dalla Società di Storia Patria per Toscana, Umbria e Marche, in-4. Firenze, 1872, p. 171. Ricordi del cap. Pier Gian Paolo Sacchi giuniore: «1438. Io stei in Corneto fino ad otto di febraro del 1439 dove per commissione di sua Signoria reverendissima di esso mio signore patriarca Gio. Vitelleschi feci finire il palazzo suo in Corneto.... dalli fondamenti che io ne ebbi particolar cura.»
29. Alexander PP. VI, Tuscaniensibus, Datum Corneti die XIX februarii MDII, pont. an. x, pubblicata nell'originale latino da Secondiano Campanari. Tuscania e i suoi Monumenti, in-8. Montefiascone, tip. del Seminario, 1856, t. II, p. 280, doc. 85.
30. Marino Sanudo, Diarî Veneziani, mss. alla Marciana, IV, 81: «Si have da Roma che il Papa è andato per mare a Piombino acquistato per suo figliuolo.... In Roma dicevano questa fosse una fuga per non aspettare il re di Francia, dubitando essere deposto dal papato.»
Sebastiano Branca de' Tellini, Diario romano dal 1497 al 1517. Mss. — Cod. Vatic., 6388. — Cod. Capitol. cred. XIV, 7. — Cod. Barber. XXVIII, 22, n. 1103. — Breve scrittura, tuttavia inedita, notizie di Roma, e certezza di date.
31. Burcardus cit.: «Die vigesima quinta februarii, feria sexta SSmus D. N. et dux Valentinus intravit galeam quæ transfretavit ad insulam Elbæ ubi mansit usque sabatum ad diem 26, quo die sero rediit Plumbinum.»
32. Burcardus. Mss. Casanat. cit., XX, III, 2: «Anno Christi MDII, feria quarta, die prima martii usque sabatum.... Voluerunt solatium et supervenit tempus contrarium, sive tempestas ingens, ex quo non potuerunt secure navigare, neque voluerunt redire Plumbinum.... Die quinta galeæ persequutæ sunt iter suum versus Cornetum, ad cujus conspectum applicuerunt. Dux majus periculum timens descendit de galea ad barchettam, e qua venit in terram. Papa vero cum galea sua non potuit attingere portum, ex quo omnes commoti hinc et inde in galea sunt prostrati, solo Papa dempto, qui in sede sua in puppi firmiter et intrepide sedens prospexit omnia: et cum mare versus galeam fortiter irrueret, Papa dicebat Jesus, et signo Crucis se signabat.... Nautæ propter maris et venti turbationem nec cibum nec ignem facere posse se excusabant... In sero venit in portum Herculis.»
33. Burcardus cit.: «Feria sexta, die undecima martii MDII, SSmus intravit palatium suum cum familia, demptis illis qui obierunt per viam... infirmi manserunt per viam.... Nemo venit obviam eis.»
Muratori, Ann., 1502.
Raynaldus, Ann. Eccl., MDII.
34. Burchardus cit., Sab. die 30 martii 1502.
Sebastiano Branca dei Tellini, Diario romano dall'anno 1497 al 1517, citato sopra.
35. Teodoro Amayden, volgarmente L'Amideno, Le famiglie romane nobili, in-fol. parvo. mss. autografo alla Casanatense, E, III, 11. — N. 175, Famiglia Mosca o dei Maroni.
Petrus Aloysius Galletti, Inscriptiones Romanæ infimi ævi Romæ extantes, in-4. Roma, 1760, class. X, n. 10:
D . O . M . LUDOVICO . MUSCÆ . ÆQUITI . ROMANO PONTIFICIÆ . CLASSIS . PRÆFECTO QUI . CUM . A . LITTERIS . PŒNITENTIARIÆ . APOST. QUÆSTURAQ . ROM . ÆRARII . EGREGIAM . OPERAM . PONT . NAVASSET VIGOREMQ . PRISTINUM . ROM . SANGUINIS . PRÆSEFERRET AB . ALEX . VI . P . M . DURIS . ILLIS . TEMPORIBUS CUM . OMNIA . LATE . MARI . TERRAQ . ARMIS . FREMERENT MARI . OMNI . QUAQUE . PONTIFICIA . DITIO . PATERET . PRÆPOSITUS POPULINO . ILVAQ . QUO . ET . PONTIFICEM . IPSUM . VEXERAT . EXPUGNATIS AC . MAXIMA . SPE . OMNIUM . PRÆSERTIM . POPULI . ROM. AC . RERUM . ADPARATU . FLORERET ADVERSO . INTERCEPTUS OBIIT . ANNO . SALUT . MDII . DIE . XXIX . MENSIS . MARTII VIXIT . ANN . XXXVI . MENS . X . D . V EVANGELISTA . ET . FRANCISCA . INFŒLICISSIMI FILIO . DULCISSIMO . AC . BENEMER. POSS.
36. Ughellus, Italia sacra, inter Tiburtin., I, 1312.
P. A. G., Marina del Medio èvo, II, 397, 403.
37. Marino Sanudo, giuniore, Diarî, mss. alla Marciana, t. IV, p. 87, 88: «Aprile 1502: El Papa vuole armar quatordici galìe.... più vuole haver in campagna ottocento uomini d'arme.... vuole armar vinti galìe, cinque in Venezia, l'altre in Ancona.»
Raynaldus, Ann., 1502, n. 20: «Pontificia classis.... Jacobo episcopo paphensi præfecto, tresdecim tantum navium (cum viginti Alexander esset pollicitus per apostolicas litteras) Venetis se conjunxit.»
Bosio cit., II, 559, e; 543, e; 544, ult.
38. A. Jal, Abraham Duquesne et la marine de son temps. Parigi, in-8. 1873, Henry Plon., I, 61: «Pour commander les armées du Roy.... Gabriel de Beauveau de Rivarenne, évêque élu de Nantes....» p. 64: «M. Henry d'Esconbleau de Sourdis archevêque de Bordeaux, pour commander l'armée navale.» p. 101: «Le cardinal de la Vallette, bon soldat, avait bien servi à la direction du corps d'armée.» p. 129: «Galère ducale.... dont le cardinal était capitaine.» p. 594: «Monseigneur de Sourdis archevêque de Bordeaux a une esquadre, et va à Fontarabia.» ec.
39. Vasari, ediz. Le Monnier, XIII, 26: «Tiziano.... nella chiesa dei frati Minori.... alla cappella di quelli ca da' Pesari, fece in una tavola la Madonna col figliuolo in braccio, un san Piero e un san Giorgio, ed attorno i padroni ginocchioni ritratti di naturale; infra i quali è il vescovo di Baffo ed il fratello, tornati allora dalla vittoria che ebbe detto vescovo contro i Turchi. »
A. Emmanuele Cicogna, Le iscrizioni veneziane, in-4. 1830, III,269:
JACOBUS . PISAURUS PAPHI . EPISCOPUS QUI . TURCAS . BELLO . SEIPSUM . PACE . VINCEBAT EX . NOBILI . INTER . VENETOS . AD . NOBILIOREM . INTER . ANGELOS FAMILIAM . DELATUS NOBILISSIMAM . IN . ILLA . DIE . CORONAM JUSTO . JUDICE . REDDENTE HIC . SITUS . EXPECTAT VIXIT . ANNOS . PLATONICOS OBIIT . IX . KAL . APRILIS MDXLVII
40. Raynaldus, Ann. Eccl., 1502, n. 19.
41. Anselme Guibours, Histoire généalogique de France, in-fol. Parigi, 1726-33, VII, 923.
Leon Guerin, Histoire maritime de France, in-8. Parigi, 1843, II, 405.
V. appresso la nota 49.
42. Gratioso Benincasa, Portulario, 1435. Codice dell'Archivio di Ancona, segnato n. LXVI, di carte novantacinque, alte m. 0,28; larghe m. 0,20. — Ne parla il Ciavarini, nella Collezione dei documenti marchigiani, I, LIX; il Pardessus, Lois maritimes alterandone il nome in Benincosa; W. E. Smith, The mediterranean, in-8. Londra, 1854, e ricorda l'esemplare conservato nel Museo britannico; C. Desimoni, Lettere e note.
Bartholomæus de Bonis Hominibus anconitanus faciebat Anconæ 1570. Bellissima carta marina in pergamena, larga m. 0,93; alta m. 0,54, nobilmente miniata e conservata nell'Archivio Colonna in Roma. Grazie all'arch. Pressutti.
Atlante idrografico del Medio èvo, posseduto dal prof. Tammar Luxoro, pubblicato a facsimile ed annotato egregiamente da C. Desimoni, e L. T. Belgrano, in-8. Genova, 1867.
43. Jacomo Bosio, Storia dei Cavalieri gerosolimitani, in-fol. Roma, 1602, II, 560. Seconda edizione riveduta ed ampliata.
Francesco Ferretti, La pietra di paragone della vera nobiltà, in-4. Ancona, 1685, p. 135.
Giuliano Saracini, Notizie storiche della città di Ancona, in-fol. Roma, 1675, p. 506.
44. P. Vincenzo Coronelli, cosmografo della repubblica di Venezia, Atlante Veneto, in-fol. magn., 1690, II, 27. «Isola e fortezza di Santamaura, dedicata al N. U. Matteo Sanudo, procur. di san Marco.»
Idem, Città, fortezze, isole e porti principali d'Europa, in-fol. Venezia, 1689, tav. 155: «Fortezze della Prevesa e Santamaura.» — T. II, 238: «Forte di Santamaura», e tav. 260, «Santamaura.»
Tommaso Porcacchi, Le isole famose del mondo descritte, in-4. figur., Venezia, 1604, p. 75.
Anonimo, Isole, fortezze e terre famose, in-8. bislungo figurato. Venezia, senza l'anno. Bibl. Casanat., Oa, XIII, 3, p. 33, 34, 36.
Nicholas Bellin, Atlas maritime, in-4. figur. Parigi, 1764, IV, 116.
Cap. W. H. Smith, Jonian Sea, Santamaura Surveyed, an. 1825. — Carte dell'ammiragliato britannico: «The strong castle of Santamaura.»
Bassorilievo in Venezia, Chiesa di santa Maria gloriosa dei Frari; sulla base del monumento, scolpito da Lorenzo Bregno e da Baccio di Montelupo alla memoria del generale Benedetto Cappello, vedesi il prospetto della fortezza di Santamaura.
45. Raynaldus cit., 1502, n. 21.
Petri Bembi, Rerum venetarum historiæ, lib. VI, in-4. Venezia, 1718, p. 212.
Guicciardini, Storia d'Italia, in-fol. Venezia, 1738, p. 404.
Bosio cit., II, 561.
De Hammer, Storia dell'impero osmano, versione ital., in-16. Venezia, Antonelli, 1828, VII, 135: «La flotta papale di venti galere, e la veneziana assediarono e conquistarono S. Maura.... Gli storici osmani passano perfino sotto silenzio la detta conquista.» Però anche il De Hammer procede confuso colle persone, coi luoghi e co' tempi, cose d'altronde chiarissime pei documenti che qui si citano.
46. Sanudo, Diarî citati, mss. alla Marciana, IV, p. 108,109: «Li Janissari si arresero, ma i Asapi non vollero; e per questo tutti fece tagliar a pezzi, e apichar.»
Anonymo, Histoire de Pierre d'Aubusson grand Maître des chevaliers de Rhodes, mss. Casanat., X, VIII, 30, p. 463, 465.
Petrus Justinianus, Historia Venet., lib. X, in-fol. Argentina, 1611, p. 211.
Gabrielis Mauri, Oratio in funere Benedicti Pisauri ad Ducem senatumque Reipub. Venetæ, ext. ap. Lunig, Orationes procerum Europæ, in-12. Lipsia, 1713, p. 182.
Cicogna, Iscrizioni Veneziane, in-4. 1830, III, 269. Sulla tomba di Benedetto Pesaro: «Leucade . Expugnata . Aichio . Sævissimo . Pirata . Interfecto.»
De Hammer cit., X, 444.
47. Malipiero, Annali Veneti cit., VII, ii, 624.
Pardessus, Collection des Lois maritimes de tous les peuples, V, 70, 72, etc.
P. A. G., Marcantonio Colonna, p. 197.
48. Giacopo Pesaro, commissario sull'armata del Sommo Pontefice, al Rev.mo signor cardinale di sant'Adriano legato dell'armata cristiana in Oriente contro i Turchi. — Lettera data dall'isola di Santamaura nella galera capitana del Sommo Pontefice ai 15 settembre 1502. — Bosio cit., II, 561.
49. Questi è il Prejeant de Bidoux, del quale si è detto alla nota 41, e vedi l'Indice pel resto: chè nei fatti di Santamaura non fece altro che una breve comparsa.
50. Qui dal contesto si intende pirati, come torna alla p. 49.
51. Piante, incisioni e sculture, come alla nota 44.
52. Marin Sanudo, Annali Veneti, Mss. alla Marciana, I, 70, b.
Bart. Cartari, Lettera al duca di Ferrara. — Campori, Letter. Art., p. 1.
Luigi da Porto, Lettere storiche, 1.
53. Carlo Promis, Architettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini con dissertazioni e note, in-4. Torino, 1841, II, 344, e segg.: «A Francesco di Giorgio autori gravissimi rivendicarono le mine di Napoli del 1503.... Vannoccio Biringuccio.... Francesco de Marchi meglio istrutto nelle rettificazioni.... Girolamo Cardano.... il Folard. — E veramente in quell'anno 1503, benchè non esista alcun documento che lo indichi in Napoli, pure nessuno ve n'è che lo dica soggiornante altrove: rimane però la difficoltà che si fosse per allora allontanato da Siena, egli che contava ottant'anni di vita.»
54. Cav. Gaetano Milanesi, direttore dell'Archivio Mediceo in Firenze, Documenti per la Storia dell'arte Sanese, in-8. Siena, tip. Porri, 1854, II, 466, produce documenti del dì 9 febbrajo e del 5 marzo 1502, nei quali i giudici e notaj di Siena parlano della vedova e dei pupilli «Magistri Francisci Georgii.... olim magistri Francisci Georgii pictoris et magistri ingegneris de Senis.»
Carlo Pini, La Scrittura degli artisti italiani riprodotta con la fotografia, in-4. Firenze, 1870. Dispensa quinta. Autografo di Francesco di Giorgio e notizie della sua vita: «Nato in Siena addì 23 settembre 1439.... morto nel mese di gennaio 1502.» Dunque di anni sessantadue, e non ottanta di vita.
55. Silvestro Guarino, Diario napoletano, ex. ap. Pelliccia, Raccolte di Cronache e Diari napol., I, 223: « A dì 27 novembre 1495, de venerdì, ad ore 23 la cittadella del Castello fo pigliata, perchè ce erano state fatte chiù tagliate nella fabrica e fosso, con fascine e polvere de bombarde, in modo che tutta cascao insieme. »
56. M. Antonio Spannocchi, Lettera data da Roma addì 7 dicembre 1495, accennata nelle note del Vasari, ediz. Le Monnier, IV, 206, e pubblicata dall' Angelucci, Ricordi e documenti di Uomini e trovati italiani, in-8. Torino, 1866, p. 14: « D'intorno al Castello è il nostro M. Francesco di Giorgio, et con cave ed altre materie non attende che a stregnerlo di modo che in brevissimi giorni, o per amore o per forza, si existima sarà del Re, chè sotto con cave, et di fuora le bombarde, assai l'hanno offeso. »
57. Vannoccio Biringucci, La Pirotecnia. Venezia, 1540, lib. X, cap. IV: « Fu il primo inventore (delle mine) Francesco di Giorgio.... ancorchè tal gloria si desse e dia da chi non lo sa (come io) al capitan Pietro Navarra.... advenendo in questo, come sempre adviene, che la fama delle cose grandi è data alli più degni. Ma l'inventor vero, come v'ho detto, ne fu il sopradetto Francesco, il quale con grande stipendio per le sue virtù stava in Napoli in quelli tempi che il re di Spagna lo tolse dalle mani del re di Francia.... Fece tre di queste mine et con polvere; a un tratto, quando tempo li parve, offese sotto la cappella della chiesa del Castello. » Intendi Nuovo, del quale parla, non dell'Uovo.
58. Paulus Jovius, Historiar., lib. III, 92.
59. Bembo cit., lib. VIII. — Pietro Giustiniani cit., lib. X. — Guicciardini cit., lib. VI.
De Hammer cit., VII, 138: « La principal condizione della pace era la restituzione di S. Maura, ritenendo in cambio i Veneziani Cefalonia. » e p. 264: « Aloisio Segundino, segretario di Venezia, mandato alla Porta per la pace, con istruzioni del 20 luglio 1503. »
60. Ubertus Folietta, Clarorum Ligurum elogia, ap. Burmann in Thesaur. I, i, 816: « Balthassar de Biassia complures annos, magna cum rerum gestarum gloria, sub Julio II meruit, summæ navalium rerum præfectus; quem Ioannes filius, duarum triremium dominus, æmulatus est. »
Guicciardini, Stor., lib. X, ediz. di Ginevra, in-4. 1645, p. 594: « Papa Giulio aveva fatto venire da Civitavecchia il Biascia, capitano delle sue galere. »
Federici, Abecedario delle famiglie nobili di Genova. Mss. consultato per favore dal ch. cav. Cornelio Desimoni.
Diversorum, Codice dell'Arch. Genovese. Nominato: « Pellegrino da Blasia custode della darsena circa il 1432. »
61. Barthol. Senarega, De reb. genuen., S. R. I, XXIV, 602, c: « Triremis pontificia, cui Joannes Blaxia, præerat. »
Documento qui appresso, cap. XIV: « Johannes de Blaxia, nobilis januensis, præfectus et capitaneus generalis classis, S. R. E. »
Agostino Giustiniani, Annali di Genova, in-4, 1537, p. 266, M: « Et una galera del Papa, capitano Giovanni di Biassia. »
62. Giustiniani cit., p. 272, Q: « Et due gallere del Papa, le quali comandava Antonio de Biassia della Spezza. »
63. Julii II, Introitus et Exitus Camer. Aplcæ. ann. 1507-8. — Arch. Secr. Vat., codice segnato C, 1664, p. 214: « Die trigesimo primo augusti ducatos sexcentum auri de Camera magnifico domino Laurentio de Ægidiis, capitaneo triremium ad stipendia S. D. N., pro sua provisione duorum mensium. »
Item, C. 1666, p. 146: « Die secundo decembris magnifico Laurentio de Ægidiis, capitaneo triremium, ducatos 900, pro ejus provisione trium mensium. »
Archivio Municipale di Civitavecchia. V. Indice, voce Egidi.
64. Julii Pp. II, brevia Anconitanis, V. appresso nota 15, e 18.
65. Julii Pp. II, Introitus et Exitus cit, Codice segnato C, 1666, p. 166: « Prima die Martii Laurentio Mutino, cap. triremium SSmi D. N. pro ejus provisione duorum mensium ducatos 600. »
Catasto ad Sancta Sanctorum. Mss. p. 203, anno 1510: « Hyeronimus Mutinus capitaneus trium remium, pro quo solvit Hyeronymus de Picchis florenos quinquaginta pro anniversario animæ ejus, sepultus in Ecclesia S. Augustini. »
Galletti, Inscript. Rom., Class. X, n. 7: « Laurentio Mutino.... in eamdem triremium præfecturam ab Julio II suffecto. »
66. Bembus, Histor. cit., 261: « Julius tranquillo mari navicula exhilaratus, qua una ille re magnopere delectabatur. »
67. Paris de Grassis, Diar. Cærem., Mss. Bibliot. Casanat., XX, III, 3, 4, 5. Tom. primo, ad diem XVIII octobris, MDV: « SSmus D. N. ivit.... ad Civitatem veterem et Ostiam, tandem hodie decimaoctava octobris, quæ est dies sancti Lucæ, rediit ad Urbem per flumen Tyberis usque ad s. Paulum, ubi discendens ex navi obviaverunt ei duo reverendissimi domini Cardinales. »
Idem, Mense augusti et novembris MDVII.
Idem, Mense decembris, die XVII, MDVIII.
68. Paris de Grassis, Diaria cærem., Mss. Itinerarium, S. D. N., Julii, Pp. II, anno. MDVI. — Bibl. Casanat., XX, III, 4: « De positione primarii lapidis in arce bononien. per Legatum, Papa præsente. Die XX februarii MDVII, sabati, mane; hora XVI, Papa æquitavit ad locum Arcis fiendæ.... Cardinalis sancti Vitalis legatus cum magna populi turba, viso horologio solari.... Lapidem primum benedixit et posuit. »
Archivio Secr. Vat., Memorie di artisti, estratte da Alberto Zahn, e inserite nell' Arch. St. It., ann. 1867, VI, i, 180: « Die XXIX decembris, Magistro Bramanti architectori, S. D. N. pro expensis per eum cum suis sociis factis et faciendis Bononiæ et in reditu ad Urbem. »
Vasari, ed. Le Monnier, VII, 133: « Andò Bramante ne' servizi di Giulio II a Bologna, quando ella tornò alla Chiesa.... Fece molti disegni di piante e di edifizi.... » 139: « Lasciò suo domestico ed amico Giulian Leno, che molto valse nelle fabbriche de' suoi tempi. »
69. Vasari, ed. Le Monnier, Vita di Giuliano ed Antonio da Sangallo, VII, 219; X, 15.
70. P. A. G., Medio èvo, II, 467, 473.
71. Paris de Grassis, Diaria cærem., ad diem xiv decembris MDVIII: « Ad Centumcellas pro lapide angulari Arcis novæ. » — Et XVII dicti: « Heri sero Papa ex Civitate veteri per mare reversus est in Urbem. »
72. Bembo cit., 261: « Cum Julio Centumcellas petente Georgius Pisanus in comitatu fuit.... Ibi cum Julium tranquillo mari navicula exhilaratum videret, qua una ille re magnopere delectabatur, Pisanus de eo ipso reipublicæ in Flaminia negotio alloqueretur, Quin tu (inquit Julius) non cum Senatu tuo agis ut is aliquem ex suis civibus mihi proponat cui ego dem Ariminum Faventianaque romanæ reipublicæ nomine obtinenda?... Ita et habebitis re vos a me oppida illa, et ego ad speciem non amisero. »
73. Lünig Joannes Christianus, Codex Italiæ diplomaticus, in-fol. Lipsia, 1725-35, t. I, p. 134; t. II, p. 1995; t. IV, 1827.
Du Mont, Corps universel diplomatique du droit des gens, contenant un recueil des traités d'alliance, de paix, de trève, de neutralité, de commerce, etc. in-fol. Amsterdam, IV, i, 113. — La Lega fu sottoscritta in Cambray tra Cesare, Spagna e Francia a' 10 dicembre 1508.
74. Julivs Pp. II, classem adversus Turcas paraturus, Anconitanis mandat ut sumptibus Sedis Apostolicæ sex triremes construant. Arch. Mun. Ancon. — Cod. Vaticano, n. 8046. — Schede Borgiane in Propaganda. — Saracini, Storie di Ancona, lo accenna senza pubblicarlo, 301.
« Dilectis filiis antianis et consiliariis civitatis nostræ Anconæ. — Julius II, Dilecti filii salutem, etc. — Quando id quod semper optavimus et quæsivimus Dei benignitate est factum ut Reges et Principes christiani, sublato omnis discordiæ fomite, in mutuam pacem concordiamque convenirent, spesque major quam antheac unquam affluxerit valida expeditione contra perfidos Turchos et alios christiani nominis hostes arma sumendi, nosque ad tam sanctum et necessarium opus, opere et exemplo reliquos anteire velimus, et propterea statuerimus validam classem parare, sciamusque civitatem nostram istam peculiarem et dilectissimam opportunissimam esse triremibus fabricandis; idcirco sex triremes apud vos fieri volumus, quarum curam vos suscipere debeatis. Et trium ex sex triremium hujusmodi gubernationem et patronatum dilectis filiis Gabrieli de Bonarellis equiti, et Galeatio de Fanellis, el Melchiori Aquerio, oratoribus apud nos vestris, nam ii nobis peridonei visi sunt, motu proprio demandavimus. Hortamur igitur vos charitate paterna ut fabricandis hujusmodi triremibus exactissimam curam et diligentiam adhibeatis. Nos enim pro fabrica dictarum triremium vobis satisfieri curabimus; et insuper ut triremes ipsæ celeriter confici possint, pro incisione lignorum pro dicta fabrica facienda per dilectum filium Nicolaum Calcaneum istius provinciæ nostræ thesaurarium summam quingentorum ducatorum auri ad præsens vobis persolvendam volumus et mandamus. Dilectisque filiis, comunitatibus et hominibus Montis sancti, Sancti Elpidii, Civitenovæ, et castri Ficardi, terrarum nostrarum, expresse præcipiendo mandamus quatenus vobis et commissariis vestris in earum territoriis et districtu ligna, quæ fabricandis hujusmodi triremibus necessaria fuerint, cedere et inde asportare benigne permittant, omni excusatione et contradictione cessante. »
« Datum Romæ apud S. Petrum sub anulo Piscatoris, die XV januarii, MDIX. Pont. Nost. Ann. VI. — Sigismondus. »
75. Questi è il celebre Sigismondo de' Conti da Foligno, segretario di Giulio II, ritratto da Raffaello nel notissimo dipinto della Madonna di detta città, e autore dei Commentari storici del suo tempo, come ho notato nella mia Storia del Medio èvo, II, 426.
76. Archivio di Stato in Firenze cit., Medio èvo, I, 403: « Fabbricasi la galea, se vi si attende con diligenza.... in giorni sessanta, havendo però tutto il legname pronto.... benchè dichino che il principe Doria ne fece fare una in ventisette giorni. »
77. Archivio ut sup.: « Dilectis filiis etc. Intelleximus non solum a dilecto filio Galeatio Fanello, concive et oratore vestro, quem pluries et vidimus et audivimus libenter, sed etiam a ven. fratre Antonio archiepo Sipontino, Cameræ Aplcæ generali auditore, qui proximis diebus isthic fuit, quo in statu esset fabrica iam murorum istius nostræ civitatis, quam triremium quæ apud vos jussu nostro construuntur: fuerunt nobis gratissima omnia quæ illi retulerunt, et vestram in omnibus diligentiam et studium probamus atque laudamus. Verum quia parum esset rem aliquam strenue cœpisse, nisi illa pari diligentia perficeretur et perduceretur ad optatum exitum, de eadem diligentia et sedulitate vestra confisi committimus vobis ut dictas triremes de oportunis omnibus remis, ancoris, velis, antennis, arboribus, armamentis, et aliis rebus necessariis ad navigandum ea qua fieri poterit majori celeritate, et quo minori potest sumptu provideatis; ita ut cum necesse fuerit nihil obstet quo minus illis uti possimus. Nos providebimus de pecuniis ad id necessariis; et interim ut ea comodius exequi possitis scripsimus dilecto filio istius provinciæ nostræ Thesaurario ut solvat statim vobis ducatorum auri de Camera mille pro parte sumptus dictarum triremium, successiveque benigne præbebimus reliqua necessaria. »
« Datum Romæ apud S. Petrum, sub anulo Piscatoris die IV decembris, MDIX. Pont. Nri. Anno VII. — Sigismundus. »
78. Petrus Bizarus, Historia genuensis, in-fol. Anversa, 1579, p. 425: « Anno 1508 aliqui turcici myoparones sinum Lugusticum mirifice inquietarunt, et descensione in continentem facta, justa Dianum oppidum, duobus mille pass. a mari distans, haud pænitendam prædam abegerant.... Sed indigenarum viribus, male mulctatis hostibus, ut reprimerentur factum fuit. »
Raynaldus, an. 1508, n. 27.
79. Senarega, De rebus genuens. S. R. I., XXIV, 600: « Anno 1509 Mauri hac æstate admixti Turcis littus Romanum et mare Tuscum infestarunt: duæque biremes maurorum unam Pontificis triremem cæperunt, altera in fugam versa. »
Bizarus cit., 426: « Non procul ab Ostia iidem Piratæ alteram triremem pontificiam facili negotio intercepere.... alteram vero in fugam conjecerunt. »
Giustiniani cit., 265, F.: « Mori e Turchi rovinarono in quest'anno 1509 la navigazione et in spiaggia romana pigliarono una delle due galere dalla guardia del Papa, l'altra se ne fuggitte. »
Raynaldus, Anno 1508, n. 27 (per errore di anticipazione come avverte il Manzi): « Id in anni sequentis æstatem 1509 referendum esse: »
80. Andreas Mocenigus, Bellum cameracense, in-12. Venezia, 1525, p. 44: « Dux Ferrariæ rhodiginum Pollesinem cœperat, et amplius terra marique infestus erat. »
81. Mocenigus cit., 46: « Interea Ferrarienses, aucti gallicis pontificiisque auxiliaribus... castellum summa ope oppugnare aggressi sunt. »
82. Cap. Angelo Angelucci, Documenti inediti per servire alla storia delle armi da fuoco italiane, in-8. Torino, 1869, p. 278.
83. Cœlius Calcagninus, Comment. de venetæ classis expugnatione, in-fol. Basilea, 1544, p. 484.
Belcairus, Comment., lib. XI, in-fol. Lione, 1625, p. 332.
Bembus cit., lib. IX, prop. fin.
Guicciardini cit., lib. VIII.
Paolo Giovio, Vita di Alfonso da Este, in-12. Venezia, 1597, p. 25.
84. Lodovico Ariosto, Orlando furioso, XL, 2:
« Ebbe lungo spettacolo il fedele
Vostro popol la notte e il dì che stette,
Come in teatro, le inimiche vele
Mirando in Po tra ferro e fuoco astrette:
Che gridi udir si possono e querele,
Ch'onde veder di umano sangue infette,
Per quanti modi in tal pugna si mora
Vedeste, e a molti dimostraste allora.
« Nol vidi io già, ch'ero sei giorni innanti,
Mutando ogni ora altre vetture, corso
Con molta fretta e molta ai piedi santi
Del gran Pastore a domandar soccorso.
Poi nè cavalli bisognâr nè fanti,
Ch'in tanto al leon d'or l'artiglio e il morso
Fu da voi rotto, sì che più molesto
Non l'ho sentito da quel giorno a questo.
« Ma Alfonsin Trotti, il qual si trovò al fatto,
Annibale e Pier Moro, e Ascanio, e Alberto,
E tre Arïosti, e il Bagno, e il Zerbinatto,
Tanto me ne contâr ch'io ne fui certo.
Me ne chiarîr poi le bandiere affatto,
Vistone al tempio in gran numero offerto;
E quindici galèe che a queste rive
Con mille legni star vidi captive. »
85. P.A.G., Medio èvo, II, 347.
86. Ariosto, I cinque canti che seguono il Furioso, IV, 18:
« Gittar fa in acqua i palischermi; e gente
A salutar lo manda umanamente. »
87. Julii Pp. II, Capitula et conventiones cum illustri dominio Venetorum sub die XX februarii MDX. in-4. Roma, 1510. — Foglio volante alla Biblioteca Casanat. Miscell. in-4, volume 216.
Julii Pp. II, Capitula et conventiones in tractatu inscripto. Copia capitulorum factorum de anno MDX inter S. D. N. Julium secundum et Dominium Venetorum. — Mss. Casanat., X, IV, 47, p. 160.
Raynaldus, Ann., 1510, n. 2 et segg.
Senarega, S. R. I., XXIV, 601, e.
Belcairus cit., 329.
Guicciardini cit., 567.
88. P. A. G., La marina del medio èvo. Le Monnier, 1871, I, 446, 451, 453, 458, 462, 463; II, 398.
89. Bizarus cit., lib. XVIII, p. 428.
Bembus cit., lib. X, p. 376.
Guicciardini cit., lib. IX, p. 590.
Belcairus cit., lib. XII, p. 343.
90. Ariosto, Orlando furioso, XVIII, 35:
« E quivi una Caracca ritrovâro,
Che per Ponente mercanzie raguna:
Per loro e pe' cavalli s'accordâro
Con un vecchio padron ch'era da Luna. »
91. Caffaro, La Cronichetta di Gerusalemme, p. 37 e più volte negli Annali, ediz. del Pertz; ed indice del medesimo che scrive talvolta Gorabus. — Noto il passaggio della Bi in Vu.
Isidorus, XIX, i, fin. citato dal Forcellino; Carabus, i, m. e i Greci Κάραβος, ου, ό: « Navigii genus. »
Bartolommeo Crescentio, La nautica mediterranea, in-4. Roma, 1602, p. 526: « I Greci di oggi chiamano alla nave Caravi. » Dunque dal Pelasgo, comune ai Greci e ai Latini, Carabo; indi Caracca, e il diminutivo Caravella, senza bisogno di aspettare col chiarissimo Amari gli Arabi in Sicilia, I, 302, che singhiozzando ci dicano Karra-ka per nave incendiaria, fuor di proposito.
Bosio cit., III, 7, 22, 25, 88, 99, 108. Parla della nuova e della vecchia Caracca di Rodi, la prima delle quali costruita a Nizza.
92. Carta di Genova e suoi contorni. Superba incisione in-fol. massimo alla Bibl. Casanat. Q. I, 4, in CC. (Niuno indizio di questa posizione).
Carta idrografica della Liguria per gli ufficiali e piloti della marina sotto la direzione del viceammiraglio cav. Giuseppe Albini. Incisa nello stabilimento di Niccolò Armanno, gran fol. Genova, 1854. — (Mette un seno dietro lo scoglio della Campana, ma non al caso nostro, perchè troppo vicino e soggetto alla piazza, e di poco o niun fondo. I Genovesi da me interrogati non conoscono questo seno, nè il nome di Villamarina.)
93. Francesco Maria della Rovere, Discorsi militari, in-12. Ferrara, 1583, p. 30: « Come fece Piergianni francese poco lontano da Genova verso levante ad un luogo chiamato la Fossa di Villamarino con misier Hieronimo Contarino detto Grillo, il quale haveva diciassette galèe, undici venetiane et sei di Papa Giulio, il quale era stato in spiaggia aperta, con uno scagno però dinanzi coperto d acqua che lo faceva sicuro dalle barze, et voleva assediar Genova. »
94. Della Rovere cit., 30, b: « Le barche haveano una corda che giungeva fino alle caracche; et quando havevano tirato, quelli delle caracche tiravano a sè la barca, et havea tempo di cargar il pezzo. »
95. Della Rovere cit., 30: «Piergianni andò a trovar Grillo.... et armò le barze delle caracche, et poseli sopra sei cannoni da trenta l'uno.... et li cannoni di cinquanta delle galere non tiravano quanto le colobrine et cannoni da cento delle caracche.»
96. Bembo cit., 394.
Mocenigo cit., 63.
Giustiniani cit., 266, 267.
Senarega, S. R. I., XXIV, 602, 605.
97. Lodovico Ariosto, Orlando furioso, XI, 24:
« E qual bombarda e qual nomina scoppio,
Qual semplice cannon, qual cannon doppio.
« Qual sagro, qual falcon, qual colubrina
Sento nomar, come al suo autor più aggrada,
Che il ferro spezza e i marmi apre e ruina
E ovunqe passa si fa dar la strada. »
98. Folietta cit., ap. Burmann, I, 1, 707.
Bizarus cit, lib. XVIII, 427, 430.
Belcairus cit., lib. XII, 343.
Guicciardini cit., lib. IX, 598.
P. A. G., Medio èvo, II, 467.
99. Paris de Grassis cit.: «Die XVIII octobris in festa s. Lucæ, MDX. Ad meas sacras cæremonias numquam pertinere videtur bellorum hostilium apparatus.... verum affectus patriæ.... me cogit ut aliquid de iis tantum quæ ad rem Pontificis faciunt dicam.... Die prima mensis septembris SSmus D. N. cum apud Faliscos ageret, ex causis novis animum ejus moventibus.... Statuit versus Bononiam proficisci, et eadem die incœpit iter suum.... Die jovis nona januarii MDXI SSmus ex Bononia recessit profecturus ad exercitum militiæ suæ,intellecturus causam quare.... non procederent contra Gallos, et ad expugnationem Mirandulæ et Ferrariæ.... et licet ab omnibus et universis tam Patribus et Prælatis de Curia, quam etiam Bononiensibus, profectio ipsa damnaretur.... Tamen ipse, omnibus prædictis non obstantibus.... statuit proficisci.»
100. Folietta cit., 816, e gli altri delle note precedenti.
101. Julii Pp. II, Capitulor., anno 1503-1512. — Arch. Secr. Vat., t. LXII, p. 252. — Schede Borgiane. — Cod. Vaticano, segnato n. 8046:
«Capitula Capitanei triremium. — In nomine Domini, amen. Anno millesimo quingentesimo undecimo, indictione XIV, die vero decimoquinto mensis septembris pontificatus, S Sm i in X t o patris et domini nostri, domini Julii divina providentia papæ secundi anno octavo. Cunctis pateat evidenter et sit notum per hoc præsens publicum instrumentum, quod infrascripta sunt pacta conventiones et capitula, inita facta firmata et stabilita inter r ev. in X t o patrem et dominum Laurentium de Flisco e pu m Escalon. vicecamerarium, et in Camera ap li ca r em i in X t o patris ad dn i Raphaelis e pi Ostien. car. s. Georgii dn i Papæ camerarii locumtenentem, cum præsentia consensu et voluntate re vm. patrum P. Orlandi electi Mazaren. præfati S. D. N. thesaurarii generalis, Ferdinandi Ponzetti decani, Philippi de Senis prothonotarii, Laurentii Pintii ejusdem S. D. N. datarii, Francisci Armellini, et Johanis de Viterbio, Cameræ ap li cæ clericorum præsidentium, simul in uno loco audientiæ congregatorum et super rebus Cameræ ap li cæ consultantium, et deliberantium, vice et nomine præfati S. D. N. et Cameræ ap li cæ, speciali mandato ipsis a S. D. N. vivæ vocis oraculo super hoc facto, inter eos ex una, ac dominum Joannem de Blasia partibus ex altera, pro seipsis agentes stipulantes et capitulantes de et super custodia maris et splagiæ romanæ, solemni stipulatione interveniente per singula capitula repetita, videlicet.
»I. In primis quia præfatus r ev. Dominus vicecamerarius et locumtenens de consensu et voluntate ac nomine supradictis conduxit præfatum dominum Joannem de Blasia custodiæ prcedictæ, scilicet a Terracina ad montem Argentarium, totam splagiam romanam includentibus et comprehendentibus, cum duabus galeis, qualibet vigintinque banchorum, et cum duobus brigantinis quolibet quindecim banchorum, in quibus sint homines ad minus quinquaginta pro qualibet galea, et triginta pro qualibet brigantino, liberi et expediti ad bellum navale, una cum nautis et ciurma ad id necessariis: et hoc pro duobus annis proxime futuris et deinde ad beneplacitum S. D. N. inchoandis a die qua faciet monstram in faucibus Ostiæ, seu ubi prefata Sanctitas sua voluerit, quod beneplacitum renovatum non censeatur nisi per quatuor menses posteaquam aliqua pars prædictarum a prædicta conducta discedere velle declarverit.
»II. Item prefatus D n us vicecamerarius et locumtenens, quo supra nomine, promisit eidem Joanni pro ejus et prædictorum hominum et nautarum stipendio dare et consignare, durante dicta conducta, omnia emolumenta et introitus Directi, videlicet duorum pro centenario, quod impositum fuit et colligitur pro hujusmodi custodia, juxta consuetudinem et ordinationem desuper factam per Cameram ap li cam, et ex nunc dictum Directum assignavit ei, currendum a die monstræ per eum faciendæ, quod possit exigere ad ejus voluntatem et petitionem, ultra quod pro dicto stipendio nihil aliud petere possit.
»III. Item præfatus R. D. vicecamerarius et locumtenens, de voluntate et nomine quibus supra, concessit eidem Joanni quod quandocumque contingat ipsum comprehendere aliquem conducentem granum extractum ex portubus et locis S. R. E. mediate vel immediate subjectis sine bulletta et licentia dohanerii tractarum aut ejus legitimi substituti per quam non indicaverit solvisse dohanerio vel substituto prædictis jura dohanæ, eo caso ipse Præfectus possit et sibi liceat levare et auferre dictum granum, et illius medietatem retinere pro se, et aliam medietatem fideliter consignare Cameræ apostolicæ et similiter et omnibus et singulis rebus bonis et mercantiis, quos in fraudem et contra prohibitionem ac contra bandum asportari deprehenderit.
»IV. Item promisit et concessit præfato Præfecto in predam omnes et singulos piratas, turbatores et alios mare ipsum infestantes cum eorum navigiis rebus et bonis ubicumque illos reperire invadere capere et habere poterit. Et si forte aliqui ex ipsis piratis et turbatoribus ad portus terras et loca prædicta S. R. E., ipso Præfecto eos persequente, et fugati ab eo, diffugerent, officiales et homines locorum eos capere et consignare debeant et teneantur in manibus ipsius Præfecti, et ad ejus arbitrium et potestatem.
»V. Item præfatus R. D. vicecamerarius et locumtenens, de volontate et nomine quibus supra, obtulit et promisit ei omne oportunum auxilium et favorem per quascumque terras et loca S. R. E. subjecta contra quoscumque ei et ejus genti adversantes; mandans ex nunc omnibus et singulis officialibus et personis dictorum locorum ut ad omnem ipsius Præfecti requisitionem oportunis sibi favoribus et auxiliis assistant.
»VI. Item præfatus R. D. vicecam. et locumt. ut supra concessit dicto Præfecto, quod si ipse insequeretur aliquem piratam, perturbatorem, et infestatorem predictum, qui receptarentur in aliquo portu seu loco extra terras et loca præfatæ S. R. E. ita quod eos capere non posset, et incolæ portus et loci illius ei consignare nollent, liceat ei exercere contra eos represalias, quas ex nunc eidem Præfecto concedit, donec illis qui a dictis piratis et infestatoribus damnum passi fuerint prius fuerit satisfactum, et de receptione et impedimento hujusmodi constare fecerit. Sed ipsas represalias exequi non possit, nisi prius ab eadem Camera apostolica concessum fuerit. Et quidquid ipse Præfectus vigore dictarum represaliarum cœperit et ad ejus manus pervenerit tam per mare quam per terram fideliter assignet in Camera apostolica pro satisfactione eorum qui damnum passi fuerint.
»VII. Et e converso supradictus dominus Johannes præfectus promisit cum duabus galeis et brigantinis duobus ad eum pertinentibus, ut præfertur bene armatis, custodire, tueri et defendere dictam splagiam, a prædicta civitate Terracinæ usque ad dictum montem Argentarium, ab omnibus et singulis piratis, latronibus, invasoribus et perturbatoribus, omnesque et singulos tam ad almam Urbem quam ad alia loca S. R. E. mediate vel immediate subjecta venientes, indeque recedentes cum eorum navigiis lignis bonis rebus et mercibus.
»VIII. Item promisit idem Præfectus solvere de suo omne damnum et robariam quæ in aliquo loco maris præfati quomodocumque evenerit, etiamsi ipse Præfectus in eo loco non adesset, dummodo locus ipse in terminis et finibus prædictis ex quacumque parte comprehensis existat; si piratæ et prædatores hujusmodi majorem numerum galearum et brigantinorum et armatorum in eis existentium non habuerint, ita quod ipse Præfectus propter majores vires ipsorum piratarum et depredatorum majorem numerum galearum et brigantinorum habentium eos invadere et aggredi rationabiliter non valuerit, ut cum illis congrediatur eo usque confligendo aut cum effectu insequendo: ita quod super hujusmodi damnorum refectione nullam aliam habeat excusationem nisi quod damna ipsa habentes majorem numerum galearum et brigantinorum perpetraverint, de quo constare debeat in præfata Camera, cujus judicio præmissa in eventu decidentur et determinentur.
»IX. Item promisit prænominatus Præfectus ad præmissum effectum retinere duas galeas, quamlibet vigintiquinque banchorum; et duos brigantinos quemlibet quindecim banchorum ad se pertinentes et de suo emptos sive fabricatos, in quibus, absque ciurma necessaria, sint ad minus quinquaginta homines in qualibet galea, et triginta, in quolibet brigantino, bene armati ad usum classis, videlicet cum bombardis, balistis, partesanis, ronchonibus, lanceis longis, ramponibus, rotellis, targonibus, cœterisque armis et armamentis ac munitionibus necessariis et opportunis tam ad defendendum quam ad offendendum, ac numerum dictorum hominum ad minus, qui sint et bene armati et in hujusmodi expeditione assueti, apti, et practici.
»X. Item promisit et se obligavit facere monstram toties quoties per præfatam Sanctitatem suam seu per Cameram apostolicam, et ubicumque requisitus fuerit.
»XI. Item promisit ponere in terram quinquaginta vel plures homines ad omnem requisitionem S Sm i D. N. et Cameræ apostolicæ.
»XII. Item promisit et se obbligavit quod si contingat aliquem per prædictum mare navigantem, aut ejus navigia, a piratis cursariis et turbatoribus prædictis capi aut depredari aut impediri, ipse Præfectus omni diligentia curabit invasores et piratas hujusmodi per mare et loca quæcumque persequi, et prædam eripere, et ab eis prædam sic ereptam ac navigantes et nautas cum ea captos detinere et recuperare, illamque fideliter propriis dominis et patronis restituere, ipsosque captos et recuperatos hujusmodi ad locum tutum reducere, sine mercedis aut prætii alicujus receptione. Alias si recuperationem et restitutionem prædictas cum effectu non fecerit, omni excusatione cessante, sicut promisit et solemniter se obligavit, omnia damna illis qui in prædictis locis a piratis et aliis invasoribus, ut præmittitur, passi fuerint, de suo efficaciter reficere, ita ut damnum passis integre satisfaciat; et Camera apostolica a prædicto onere omnino sit libera, et ipsam a prædictis indemnem penitus præservare sit obligatus, nisi ipsi piratæ et invasores majorem numerum galearum et brigantinorum et armatorum in eisdem existentium habuerint, de quo constare debeat, ut in aliis primis capitulis expressum fuit in Camera prædicta.
»XIII. Item ipse Præfectus promisit, sub pœna duorum millium ducatorum, durante conducta prædicta, dictis galeis sive brigantinis pro vectura aliqua sive mercium sive rerum ad quemcumque locum devehendarum, aut pro aliquo naulo, non uti.
»XIV. Item promisit et se obligavit quod tam in æstate quam in hyeme statio sua erit apud portum Civitevetulæ, vel ad fauces Ostiæ, seu in aliis portubus et locis S. R. E. in mari prædicto, scilicet inter Terracinam et montem Argentarium, ad hoc ut promptius invadentibus prædicta loca obsistere, et ad almam Urbem venientes sive ab ea et ab alis locis prænominatis discendentes defendere possit.
»XV. Item teneatur dictus Capitaneus repræsentare dictas galeas et brigantinos suos ad omnem requisitionem S Sm i D. N. vel Cameræ ad fauces Tyberiis vel ubi Sanctitas sua mandaverit, ita fulcitas sicut recepit sub pœna decem millium ducatorum, ad quam fidejussores expresse teneantur.
»XVI. Item promisit et se obligavit quod nec ipse neque alius de ejus comitiva et gentibus aliquid capiet a navigantibus, etiamsi dono offeratur, alioquin puniatur arbitrio Cameræ.
»XVII. Item promisit habere et tenere amicos Sanctitatis suæ et S. R. E. pro amicis, et inimicos pro inimicis, cujuscumque status, gradus, et præminentiæ fuerint.
»XVIII. Item sanctitas D. N. promisit eidem Præfecto consignari facere homines in terris Ecclesiæ damnatos ad mortem naturalem, prout Sanctitas sua eligi mandabit, qui sic electi et consignati solum per annum retineri possint in dictis galeis, nisi aliter de voluntate ejusdem Sanctitatis suæ fuerit decretum.
»XIX. Item prædictus Capitaneus sive Præfectus promisit et se obligavit quod si ei per sanctitatem D. N. vel per Cameram præfatam comodatæ fuerint galeæ prædictæ et brigantini, quas et quos retenturus est ad prædictam custodiam, illas et illos ad omnem requisitionem Sanctitatis suæ et Cameræ prædictæ illesas et integras, et prout erant tempore factæ accomodationis prædictæ restituere. Et nihilominus si tempore restitutionis prædictæ adhuc conducta sua duraverit, promisit et se obligavit habere duas galeas et duos brigantinos de suo fabricatos et ad prædictam custodiam bene instructos et armatos ut supra dictum est.
»XX. Item prædictus Capitaneus promisit et se obligavit dare sufficentem cautionem banchorum pro summa mille quingentorum ducatorum auri, qua emanata, reiterare et renovare ipsam cautionem pro refectione damnorum, et statim ad judicium ipsius Cameræ, pro observatione præmissorum et refectione damnorum illis qui ea passi fuerint, prout præfata Camera summarie et extrajudicialiter iudicaverit.
»XXI. Item si contingeret durante conducta præfatum Præfectum mitti per sanctitatem D. N. ad aliqua loca extra dictam splagiam, quod in prædicto eventu, eo non præsente in dicta splagia, non teneatur ad refectionem aliquorum damnorum quæ in dicta splagia fierent durante absentia dicti Præfecti sive Capitanei ex causa missionis S S mi D. N. dummodo ipse Capitaneus de destinatione præmissa in ipsa Camera clare constare facere teneatur.
»XXII. Item prædicti domini Vicecamerarius et Clerici præsidentes pro complemento armaturæ unius galeæ promiserunt præfato Capitaneo ducatos centum quadraginta auri de Camera pro stipendio singuli mensis septuaginta nautarum sive remigantium, una cum illis octuaginta quos habet paratos, donec commutati fuerint pro eis homines damnati ad mortem, vel ipse aliquos piratas capiat ut supra, quibus consignatis, dictum stipendium per Cameram solvendum cessare debeat pro rata cujuslibet consignati.
» Pro quibus, etc.
» Actum Romæ in domo habitationis r. p. d. Ferdinandi Ponzetti decani prælibati Cameræ apostolicæ sub anno, indictione, die, mense et pontificatu, quibus supra: præsentibus ibidem venerabilibus viris et dominis Johanne Phaleto et Johanne Emerici, clericis Alben. et Tolosan. diœcesis testibus.
» Melchior de Campania, Notarius rogatus.
» Joannes de Blaxia, nobilis januensis, Præfectus et Capitaneus generalis classis triremnium et brigantinorum S. R. E. pro custodia maris ejusd. S. R. E.
» Pro cautione ducatorum quingentorum, Barth. de Auria.
» Pro aliis quingentis, Sebastianus Sauli, januensis.
» Pro aliis quingentis, Augustinus Chisius, de Senis. »
102. Archivio Colonna, Armata navale, I, 201; III, 43. — Istruzioni di M. A. C. ai capitani: «Procurerà che li soldati abbiano calzoni di velluto, per quanto sia possibile, o di panno.... et con giubboni che siano buoni.»
103. Documenti colonnesi cit., I, p. 186, 231: «Celate, Rotelle, Corazzine, Morioni.»
104. Vegetius, De re milit., II, 7: «Duplares qui binas annonas consequuntur.»
105. Archivio camerale di Roma, del quale dirò appresso, lib. VI, nota 10.
Archivio di stato in Firenze, sezione Medicea, doc. inedit. Fabbrica e costo delle galèe, scrittura del principe di Piombino don Alfonso d'Appiano, al granduca Francesco, con data da Cavinana, 2 luglio 1574, etc. p. 130 e segg.
Biblioteca barberiniana in Roma, Mss. inedito, segnato LVIII, 19, e intitolato: « Nota di quanto costa una galea, ecc.» p. 12.
Item, cod. LV, 23: «Stipendî che al presente si danno agli ufficiali ed altra gente delle galere di Nostro Signore.»
Item, ibid.: «Provvisioni che si devono dare agli infrascritti delle galere di Nostro Signore. Data del 6 aprile 1622, firmato cap. Camillo Nardi, m. propr.»
106. Acta Concilii Lateranensis quinti generalis novissimi sub Julio II et Leone X celebrati; in Collect. Concilior., edit. a Labbeo et Cossartio, in-fol. Venezia, 1732, XIX, 700: «Sessio prima, die III maji MDXII. — «Bernardi Zane archiepiscopi Spalatensis oratio habita in prima sessione, præsente Julio II P. M.»
107. Paolo Giovio, vescovo di Nocera, Consiglio intorno al modo di fare l'impresa contro infedeli, secondo la consulta fatta dal Papa, in-4. Venezia, 1608. Traduzione di M. Lodovico Domenichi, in fine alle Storie.
108. Pompeo Litta, Le famiglie celebri d'Italia. — Dei Vettori, tav. II. — Quivi l'ordine genealogico, le brevi notizie di ciascuno, e lo stemma tagliato di due pezze di ferro e d'argento, e sul taglio la banda d'oro caricata di tre gigli.
Giorgio Viviano Marchese, La galeria dell'onore, in-4. Forlì, 1735, I, 438.
Giovanni Cambi, Le istorie, ap. P. Idelfonso di San Luigi, Delizie degli eruditi toscani, in-8. Siena, 1786, XXII, 142.
Guicciardini, Segni, Nardi, Varchi, Ammirato.
109. Angelus M. Bendinius, Petri Victorii vita et clarorum Italorum et Germanorum epistolæ ad eundem, in-4. Firenze, 1758.
110. Serie di ritratti degli uomini illustri toscani, con gli elogi storici dei medesimi, in-fol. magno, Firenze, 1768, t. II, quasi nel mezzo del volume non impaginato. « Da un quadro di casa Vettori. »
Bibl. Casant. M. II. 10, in CC.
111. Francesco Vettori, Sommario della Storia d'Italia dal 1511 al 1527; e Notizie delle azioni di Francesco e di Paolo Vettori, pubblicate per cura di Alfredo Reumont. — Arch. Stor. Ital., 1848, in-8. Firenze, app. n. 22, VI, 270.
112. L'Archivio privato di casa Vettori in Roma, citato dal Moreni nella Bibliografia toscana, dal Litta nelle Famiglie celebri, dal Ranke nelle Vite dei pontefici del cinquecento, e da altri, aveva fino al principio di questo secolo, come da uno schizzo d'inventario presso di me:
« Due volumi di lettere a Paolo Vettori, capitan generale delle galèe del Papa; »
« Due altri volumi di lettere della Repubblica fiorentina a Francesco Vettori, nell'anno 1513; »
«Tre altri volumi della stessa al medesimo dall'anno 1514 al 1524;»
« Un volume di lettere di personaggi illustri ai Vettori dal 1513 al 1519. »
113. Rutilius, Itinerar., vers. 242.
Varro, De L. L., IV, 31.
Vitruvius, Arch., lib. IV.
Crescentio, Nautica, 537, 539, 542.
114. Vasari, ediz. Le Monnier, VII, 138.
Gaye, Carteggio di artisti, in-8. Firenze, 1839-41, II, 135: Lettera di Baldassarre Turini a Lorenzo de' Medici, scritta da Roma il 12 marzo 1514, «Maestro Bramante morì hiermattina.»
115. Archivio Secreto Vatic. Armadio XIII, caps. XIV, n. 26.
Schede Borgiane, cit., Musèo di propaganda.
Codice Vaticano, n. 8046.
Ant. Coppi, Schede ms., alla Casanatense.
116. Vasari, cit., ediz. Le Monnier, X, 129, 130. « Sebastiano Viniziano chiese l'ufficio del Piombo.... Il Papa ordinò che esso Bastiano avesse l'ufficio.... Laonde Sebastiano prese l'abito del frate. »
Item, VII, 133. « Per il che Bramante meritò dal detto Papa Giulio, che sommamente l'amava per le sue qualità, di esser fatto degno dell'ufficio del Piombo. »
Item, XII, 233. « Michelangiolo messe innanzi e favorì volentieri Guglielmo della Porta.... e gli fece dare l'ufficio del Piombo.... il cardinal Farnese ordinò fare una gran sepoltura per le mani di esso Fra Guglielmo. »
117. Antonio Picconi da Sangallo alla Galleria di Firenze, tra i suoi originali, non numerati, se non con un 270 attraversato da una linea di cancellatura. Vi si leggono tre scritture di sua mano: al margine « Porticello, » all'ingresso sulla piazzetta « Giardino, » alla mancina, « Li muri del paramento, » e sulla rete degli scandagli i numeri, «15, 17, 18, 20,» ecc.
118. Giovanni Cambi, cit., XXII, 142.
Scipione Ammirato, cit., II, 335
119. Guicciardini, ediz. del 1645 cit., p. 594.
Petrus Bembus, Epistolæ Leonis X, Pont. Max. nomine conscriptæ, inter Opera omnia, in-fol., Venezia, 1729, IV, 74, 85: « Johanni Blassiæ, classis prefecto, sub die xxx sept. MDXIV.... Eidem triremium prefecto, sub. die xxx maji MDXV. »
120. Bembus ut. sup., IV, 87: « Leo X, Leonardum Lauretanum Venetorum Ducem rogat, ut tormenta bellica commodet parandis navibus Anconæ constructis adversus Turcas.... Statui triremes aliquot, que Anconæ fabricatæ sunt deducere et ornare.... Peto ut tormenta bellica mihi commodes etc... » (5 luglio 1515).
121. Archivio Secr. Vat. — Leonis Pp. X. Diversor. — « Die I dec. MDXIIII Leonardus de Florentia fuit librator tormentorum in arce Sancti Angeli, loco defuncti magistri Matthæi Galli. » — Arch. St. It., an. 1866, I parte, p. 219.
122. Paris de Grassis, Diaria cærem. mss. cit., sub. die XIX maji MDXVII, et segg.
Rainaldus, Ann. Eccl. 1517 n. 92, 96.
123. Archivio Secr. Vat. Leonis Pp. X, Diversor. sub die XIX aprilis, MDXV: « Deputatio Julii cardinalis de Medicis ad custodiam arcis Ostiæ, et arrendamentum dictæ arcis cardinali Ostiensi.... qui promisit uti et frui arbitrio boni viri, et illam tenere nomine Francisci Antonii de Noris.... Una cum omnibus et singulis munitionibus, artiglieriis, et aliis rebus per inventarium consignatis. »
124. Paris de Grassis, cit.: « Die prima mensis octobris MDXV Papa discessit ab Urbe versus Viterbium, Montem Faliscorum, Tuscanellam et Centumcellas seu Civitatem Veterem. Ubi cum esset nunciatum est, regem Francorum, qui nuper Mediolanum in potestatem suam redegerat, velle ad Papam personaliter cum exercitu suo venire. Unde Papa veritus ne quid novitatis in transitu machinaretur operatus est ut ipse ad Bononiam cum omni curia transcenderet. »
Ammirato, cit., 317: « Non era il Pontefice senza sospetto, che il Re vittorioso non si volgesse contro Toscana e contro Roma. »
Rainaldus, Ann. Eccl. 1515, n. 20 e segg.
125. Vasari, cit., ed. Le Monnier, X, 6: « Andando poi il Papa a Civitavecchia per fortificarla, e in compagnia di esso infiniti signori, e fra gli altri Giovan Paulo Baglioni, e il signor Vitello, e similmente di persone ingegnose Pietro Navarra, ed Antonio Marchisio.... e ragionandosi di fortificar detto luogo, infinite e varie circa ciò furono le opinioni; e chi un disegno chi un altro facendo, Antonio fra tanti ne spiegò loro uno, il quale fu confermato dal Papa e da quei signori ed architetti, come di tutti migliore per bellezza e fortezza, e bellissime ed utili considerazioni: onde Antonio ne venne in grandissimo credito appresso la Corte. »
126. Carlo Promis, Gli ingegneri militari che operarono e scrissero in Piemonte dal 1300 al 1650, in-8. Torino, 1871, p. 22, novera tra le primitive Nizza del 1517, Piacenza del 1518, Bari del 1520, Firenze del 1523; e non fa motto di Civitavecchia del 1515 anteriore a tutte le sue primitive, e più delle altre conservata.
127. Le Strade Ferrate, giornale romano ebdomadario, diretto dal cav. Luigi Manzi. Anno secondo, numeri 22 e 23, colla data della loro pubblicazione nel venti e ventisette novembre 1858. — Richiamato nel giornale Arcadico di Roma immediatamente per la rivista seguente tra le varietà, e ripetuto nel primo paragrafo della mia scrittura sui bastioni di Civitavecchia colla data del 28 aprile 1860.
128. Archivio Stor. Ital., Notizie artistiche, cavate dall' Archivio secreto Vaticano e pubblicate da Alberto Zahn, in-8. Firenze, 1867, VI, I, 184: « Magistro Antonio da Santo Gallo, ducati quaranta, addì 15 giugno 1519, quali sono per pagare quattro pezzi di marmi a magistro Pietro Stella, per quattro arme che vanno a Civitavecchia. »
Item dal periodico di Roma, intitolato al Buonarroti, anno 1871. Agosto, p. 246.
129. Archivio e Buonarroti, cit., ut sup. «Addì 27 luglio 1519 Magistro Jacopo dell'Opera a buon conto sopra le teste di bronzo vanno a Civitavecchia, duc. 100. »
130. Milanesi e Pini, Corrispondenza di artisti. La vita e l'autografo di Gio. dell'Opera.
131. Archivio, ut sup. citato pur nel Buonarroti, p. 246: « A 20 novembre 1519 a maestro Ant. da Santo Gallo per acconciar la bocca del porto di Civitavecchia, et pagare li maestri del molo grande, duc. 500. »
« 3 Ottobre 1520. A messer Filippo Argenti per conto del molo grande di Civitavecchia, et fundamento del Palazzo, a conto, duc. 500. »
132. Antonio Picconi da Sangallo, Mss. alla Galleria di Firenze, citati nelle note e commentarii del Vasari, ediz. Le Monnier, cit., X, 83.
133. Leo Pp. X, Faliscis, Viterbiensibus, Graviscanis, et Francisco Pittae, Hetruriae prolegato. Dat. Rom. sexto kal. majas an. IV. (26 aprile 1516). inter. Opera omn. P. Bembi, cit., IV, 103, et segg.
Leo Pp. X, Prioribus et comunitati civitatis nostræ Tuscanellæ. Dat. ex villa nostra Manliana die XXVI aprilis MDXVI. — Nella Storia di Toscanella, di Secondiano Campanari in-8. Montefiascone, 1856, p. 283.
134. Giulio de Medici card., Lettere al vescovo di Pola, nuncio in Venezia del 30 ottobre e 4 nov. 1517, nei Mss. Torrigiani, Arch. Stor. It., 1874, ultim. disp., 406, 407; e del 16 marzo 1518 al vescovo di Sebenico nuncio in Francia, disp. seconda dell'anno seguente, p. 233: « Venerdì XII del corr. andò per questo conto (del Turco), una solenne processione con tucto el clero et altri religiosi et officiali et tucto el populo con le sante Reliquie. Sabato ne andò un altra più solenne da S. Lorenzo in Damaso a S. Maria del populo. Domenica, che fummo a XIIII, una solennissima da S. Pietro a la Minerva, dove andò N. S. con tutto il collegio a piedi, che non si ricorda mai a Roma una cirimonia tanto devota, et di tanta consolatione spirituale. »
135. Paolo Giovio, Vita di Leon X, lib. IV.
Angelus Fabronius, Vita Leonis X, in-4. Pisa, 1797, p. 73.
Roscöe, Vita di Leon X, pel Bossi, Milano 1817, VIII, 11.
136. Raynaldus. Ann. Eccl. 1517, nº 33-54.
Labbeus, Collect. concil., in-fol. Venezia, 1732, vol. XIX, p. 984: « De lateranensi Concilio et expeditione contra Turcas. »
Jacobi Sadoleti, Oratio in promulgatione induciarum, ibid. et int. op. ejusdem.
Andrea Navagero, Dedicatoria a papa Leone, premessa all'edizione di M. Tullio.
Guicciardini, Stor., lib. XIII.
Gio. Sagredo, Memorie dei monarchi ottomani, in-4. Venezia, 1573.
Registro cit., dei Mss. Torrigiani. — Lettere del 5 e 14 novembre 1517. — Arch. Stor. Ital., 1875, disp. seconda, p. 189-193.
137. Hieronymus Vida, oper. omn., in-4. Padova, 1731, II, 137:
« Leoni Papae X.
Ergo age, arrectam Ausoniam et paratos
Publica Europæ voca ad arma reges,
Jamque spumosum videam latere
Classibus aequor.
Hoc avent omnes Itali exterique,
Gestiunt cunctis animi, paratur
Martis ad præclara opera et labores
Pulchra juventus.
Ipse ego, quamvis alia nitere
Mens erat lauro, ardeo nunc amore
Martis armorumque: tui relinquunt
Phoebe calores. »
138. F.D. Guerrazzi, Vita di Andrea Doria; in-16. Milano, 1864, I, 85.
139. Leo Pp. X, Octaviano Fregosio, prefecto et decurionibus genuen. Dat. Romæ III nonas majas MDXVI (5 maggio). — Ap. Bembo cit., IV, 104: « Appulisse ad Italiæ oras et littora vobis vicina punicam piratarum classem.... diripere, depopulari.... Ad eam repellendam vel si fieri poterit conterendam a vobis peto ut ad hanc rem quam paro, Italis quidem omnibus honorificam, vobis certe propter periculi societatem etiam salutarem, quatuor vestras triremas commodetis, alias totidem quam celerrime imperetis, quibus navibus cum nostra Classe consociatis, hostes turpiter nobis insultantes aggredi atque opprimere possimus.... Partem stipis ad vos mittam.... Oportet studium, diligentiam, tum maxime celeritatem adhibere. »
140. Leo Pp. X, Federigo Fregosio, archiepiscopo Salernitano et classis præfecto. — Ap. Bembo cit., IV, 103. — Il Breve della legazione.
141. Leo Pp. X, Petro Joanni (Pregeant de Bidoux). Dat. Romæ VII kal. quintiles, MDXVI (25 di giugno 1516). Ap. Bembo cit., IV, 110: « Federigo arch. Salern. quem classi nostræ legavi praesto sis, eique in omnibus pareas.... quod attinet ad morte mulctandos piratas si capiantur, ut magis cœteri a locorum nostrorum vastatione absterreantur, ejus rei deliberationem, quemadmodum reliqua omnia, ipsi Legato remisi quem scio tuis consiliis multum semper tributurum. »
142. Leo Pp. X, come alla nota 32: « Cum nostra classe consociatis. »
Docum. cit. sopra, nota 11, e qui appresso nota 37: « Sua Santità oltre al concorrere coi legni suoi. »
143. Giustiniani cit., Annali di Genova, 272, Q.: « Fu fatto capitano dell'armata l'arcivescovo Federigo, et levò la bandiera di papa Leone, et ebbe diciannove galèe, tre gallioni et doi brigantini.... due gallere del Papa, le quali comandava Antonio del Biassia della Spezza. »
144. Registro di lettere scritte a nome del card. Giulio de' Medici, tra i Mss. Torrigiani donati all'Arch. di Stato in Firenze e pubblicati da Cesare Guasti nell' Arch. St. It. in-8. Firenze, 1874, Disp. 4. p. 47. — Ep. Tricaricen. di Roma, 6 maggio 1516.
145. Registro cit., disp. seconda del 1875, p. 217. Episcopo Esernien., di Roma, 8 febbrajo 1518.
146. Bizarus cit., 447: « Federigus Fulgosius.... cum aliqua præda, triumque hostium navigiorum incremento classem incolumem reduxit.»
Giustiniani cit., 272.
Giovio, Bembo, Registri cit.
Ariosto, Furios. XLII, 20, 21, 22.
147. Leo Pp. X, Federigo arch. Salern. Dat. Romæ decimo Kal. oct., MDXVI, (22 sett.) — ap. Bembo cit., IV, 113: « De rebus gestis ea classe, cui meo nomine præfuisti cognovi.... quæ quidem omnia quoniam magno constantique animo, multoque tuo labore, ex nostra dignitate sunt confecta, te de his vehementer collaudo meoque nomine tibi benedictionem plurimis optimisque verbis impartior. »
148. Prof. Michele Amari, Nuovi ricordi arabici su la Storia di Genova, in-8. figur. 1873. — Dagli Atti della Società Ligure di Storia patria, V, 75.
149. Abdallà, lettera ad Ottaviano Fregosi, volgarizzata dall' Amari, come sopra, p. 79.
150. Abdallà, lettera cit., 78.
151. Abdallà, lettera cit., 79, 82.
152. Bizzarus, cit., 447: « Cœterum Curtogolus, ubi summa celeritate sua navigia refecisset, nulla mora interposita in partes orientales adnavigavit. »
Giustiniani cit., 272, R: « Et Cortogoli con gran prestezza riparò et rifece l'armata sua, et navigò verso levante. »
153. Paris de Grassis, Diaria Cærem. Mss. Casanat. XX, III, 6.
« Mense januario MDXIV, Papa ivit ad Civitatem Veterem.
» Mense octobris die prima MDXV, post prandium Papa ab urbe discessit, versus Viterbium, Tuscanellam, et Centumcellas, seu Civitatem Veterem.
» Mense novembris, ante dominicam primam Adventus MDXIX, Papa ivit ad Manlianam, et inde ad ulteriora oppida per mensem....
» Mense novembris die septima MDXX. Hoc tempore Papa ivit spaciatum ad suburbana.
» Mense novembris die vigesima quarta MDXXI. Papa Leo ex Manliano, ubi erat solatii causa, accessit ad urbem....
« Mense aprilis die vigesima sesta MDXVI. Datum ex villa nostra Manliana....» v. sopra nota 26.
154. Giuliano da Sangallo, Disegni autografi già di casa Gaddi, ora presso il conte Bernardino di Campello. Volume grande di 74 fogli, ai numeri 3 e 4, pianta della Magliana, e di suo pugno: « Capela, sagrestia, corte, logia, sala per la guardia, entrata maestra, sala, camera e anticamera per il capitano della guardia, camera per li cuochi, cucina, entrata dell'orto, camere, etc. »
155. Arch. Camerale, Vacchette due, scritte dal Serapica maestro di casa di Leon X per le spese private, pubblicati gli estratti nel Buonarroti, Giornale romano, Agosto 1871, p. 246:
« Addì sette maggio 1519 a mastro Gio. Francesco de Santo Gallo per finire la Gabarra della Magliana, ducati 200.
« 20 nov. 1519. Al med. Gio. Francesco da San Gallo per certi strumenti da misurare di architettura ducati due. »
156. Leonis Pp. X, Epistola Carolo Hispaniarum regi. Dat. Romæ, III id. januar MDXVII, ap. Bembum cit., 117: « Ego tantummodo cum autumni romanum cælum fugio valetudinis causa interdum venatione et aucupio me oblecto, vel potius eos qui mecum sunt ut jucundior per agros vagatio et delectabilior nos in labore viæ teneat. »
157. De Grassis cit.: « Die decima octava septembris MDXVI, Papa solatii causa recessit ab Urbe.... per duos menses absens fuit in vicinis locis venando et piscando. Tandem die vigesima octava octobris redivit. »
158. Leonis Pp. X, Epist. Guglielmo Gallo medico. Dat. Tuscanellæ, VI id. oct. MDXVI, ap. Bembum cit., 114: « Agnosco credulitatem inanemque spem tuam, et quam hæc lævia et fallacia sint.... tamen fodiendi ubi voles in eo agro tibi facultas esto edicto meo, quod valere per mensem integrum volo, tecumque dum fodies Centumcellarum decuriones bini sunto. »
159. Anonimo Padovano, Storia del suo tempo, Mss. è citata sovente dal Muratori, massime per questo fatto.
Muratori, Annali, 1516, fin.
Roscoe cit., V, 160.
160. Paris de Grassis, Diaria Cærem.: « Die decimaoctava septembris MDXVI, Papa solatii causa recessit ab Urbe, diebus istis per duos menses absens fuit in vicinis locis, venando et piscando; tandem die lunæ vigesimaoctava octobris redivit. »
161. Documento cit., 56, p. 130; e appresso, cap. XX, 57.
162. Pantera, Armata navale, 115.
Crescentio, Nautica Mediter., 85, 94.
Docum. Toscan. cit., 95, 130, 132.
Docum. Rom. cit., per tot., — e qui allo specchio, p. 112.
Labat, Voyage. Parigi, 1730, IV, 294: « Le Gentilhomme de poupe a huit écus. On appelle ainsi celui qui sert de lieutenant au capitaine, qui porte ses ordres, fait ses commissions d'honneur, et qui l'accompagne quand il sort.... La Capitane du Pape a plus que les autres galères le double des gentils-hommes de poupe. »
163. Lapida posta in Roma sulla tomba, perduta nei ristauri della Chiesa, conservata nell'archivio di famiglia, prodotta nell' Arch. St. It. in-8. Firenze, 1843, app. n. 22, VI, 272, 280; e dall' ANONIMO nella Serie di ritratti d'illustri Toscani, in-fol. Firenze, 1768, in med.
D. O. M. PETRO . VICTORIO . PAULI . LEONIS . X . PONT . MAX. CLASSIS . PRÆFECTI . FILIO INDOLIS . OPTIMÆ . ADOLESCENTI . MORUM . PROBATISS. VITÆQUE . INTEGERRIMÆ QUAM . CUM . MAXIMA . OMNIUM . EXPECTAT . INTER . MORTALES . DUCERET HEU ABSTULIT . ATRA . DIES . ET . FUNERE . MERSIT . ACERBO VIXIT . ANN . XVII . ET . DIES . XVII OBIIT . ANNO . SALUTIS . M . D . XVII XVI . KAL . DECEMBRIS
164. Ammirato cit., II, 335: « Pagolo Vettori generale delle galèe del Pontefice, mentre colla sua sola galèa volontarioso si spinge innanzi per far preda di due fuste di Mori in sul mar di Piombino, accerchiato da otto altre, che erano in agguato, senza poter dalle sue galèe ricevere soccorso, restò.... fatto prigione. »
Giustiniani cit., 273, D.
E tutti gli altri citati nelle cinque note prime di questo libro.
165. Bizarus cit., 485: «Portundus suæ prætoriæ cursum intendit ut reliquas triremes quæ remigio minus valebant anteiret.... dicens se vel sua tantum prætoria trireme, cuncta ea barbarorum leviora navigia esse demersurum.... Portundum Barbari, capta prætoria, cum suis omnibus defensoribus trucidant.... et cæteras triremes capiunt.... insigni parta Victoria.»
Bosio cit., III, 79, B: « Portondo Rodrigo, capitano delle galere di Spagna.... dal rais Cacciadiavoli era stato ucciso con perdita delle sette galèe che comandava. »
Giovio Paolo, Storia tradotta dal Domenichi, in-4. Venezia, 1608, II, 123.
Varchi, in-8. Firenze, 1842, II, 24: « Rodrigo Portondo.... nel ritornarsene in Spagna.... rotto e morto con otto galèe da Aidino delle Smirne, nominato tra gli altri corsali Cacciadiavoli. »
166. Roscoe cit., V, 200.
Archivio di Famiglia citato nella Serie de' Ritratti, nota 3.
Archivio Storico Italiano cit., VI, 270 e segg.
167. Cesare Campana, Vita di Filippo, II, 87, B, princ.: « Il riscatto degli schiavi x ni fu accordato col pagare per ciascun gentiluomo trecento scudi, e cento per ciascun altro. » Dunque gravissima taglia; e doppia di quella pagata da Dragut.
168. Leonis Pp. X, Epistola Leonardo Lauretano Venetiarum principi. Dat. Romæ VII Kal. januarii MDXIX, ap. Bembum cit., 142: « De Paullo Victorio nostræ classii præfecto, quem piratæ poæni captivum fecerant, ex Aphrica redeunte, cognovi quam amanter quamque eum liberaliter Petrus Michael istius reipublicæ longarum navium ad ea loca comparatarum item præfectus magno pretio redemerit.... Quæ sane omnia grata mihi et jucunda ceciderunt.... in alieno homine recuperando tantum pecuniæ tamque celeriter erogarint.... Nil mihi accidere gratius ea liberatione potuisset. » (26 decembre 1519).
169. Giustiniani cit., 273, E, all'anno 1519.
Pantero Pantera, Armata navale, p. 321, e anno 1519.
170. F. D. Guerrazzi, Vita d'Andrea Doria, in-16. Milano, 1864, I, 87, anno 1517.
171. Caffarus et Cont., Annales genuen., S. R. I., VI, 580, 591: « Armatæ sunt per Pisanos galeæ duæ et unus galeonus.... Armati pro comuni Januæ duo galeoni velocissimi.... Fuit unus galeonus cursarium Pisanorum. »
172. Marco Guazzo, Storie, in-8. Venezia, Giolito, 1549, p. 237: « Sui galeoni arbori, antenne, trinchetti delle gabbie, gabbiette, manti, ghindazzi, tolda, cassero, ballatojo, trombe da seccare, cartocci e scaglie di sassi, colle loro lanterne. »
Crescentio, La Nautica Mediterranea, in-4. Roma, 1607, p. 71: « Non vi è altra differenza tra il galeone e la nave, che il galeone per la velocità del corso deve essere più lungo di colomba, et alquanto più stretto di piano: et per più pompa gli mettono due mezzane, oltre il maestro et trinchetto. »
173. Bosio cit., II, 621, E: « Vennero tre galeoni del Papa molto bene armati, e ben provveduti di soldati, di munizioni, di vettovaglie, e di tutte le cose necessarie. »
Vertot, Histoire des chevaliers de Saint Jean de Jérusalem, etc. in-8. Parigi, 1737, III, 249: « A la prière de ce vigilant grandmaître le Pape envoya au secours de la religion trois gallions bien arméz. »
Dal Pozzo, Ruolo generale dei Cavalieri geros. della lingua d'Italia, in-fol. Messina, 1689, p. 20.
174. Serie di Ritratti d'illustri Toscani, in-fol. Firenze, 1768, quasi nel mezzo, non impaginato, e quivi l'originale cavato dall'Archivio domestico dei Vettori in Roma, dove era conservato l'originale nell'Armadio B, n. 142, p. 99.
175. Bosio, II, 624.
176. Capitula novæ confederationis inter Sanctissimum D. N. Leonem Pp. X, serenissimum Cæsarem Carolum Romanorum regem electum. Romæ die viii maji MDXXI. — Pubblicato dall'originale dell'Archivio di castel Sant'Angelo da monsignore Giusto Fontanini nella Storia del dominio sopra Parma e Piacenza, in-4. Roma, 1720, p. 328:
« Cap. V. Quam celerrime et occultissime.... exercitus Franciscum Sfortiam Mediolanum versus, et classis Adurnos Genuam deducat; ut utra manus celerius commissionem suam peregerit cum altera statim conjungatur ad opus celerius perficiendum, Gallosque extra Italiam penitus submovendos. »
177. Ammirato cit., 338: « Papa Leone deliberò.... di cacciare i francesi d'Italia.... et di rimettere al ducato di Milano Francesco Sforza.... Per mezzo dei forusciti e con le sue galèe, sotto Pagolo Vettori havendo tentato di rivolgere quegli stati. »
178. Raynaldus, Ann. eccl., 1521, n. 106.
Bizarus cit., Hist. Genuen., p. 450.
Belcairus cit., Rer. Gallic., 490.
Ferron, De Reb. Gallor., lib. V.
Freherus, S. R. G., III, 356.
Giustiniani, Ann. Gen., 274.
Folietta, ap. Burm., I, i, 722.
179. Bizarus cit., 450; « Statutum est ut eodem tempore, repentino impetu, et exulum insidiis, Genua et Mediolanum oppugnarentur.... Cæsaris triremes quæ tunc Neapoli stationem habebant, et pontificiæ quæ duce Paulo Victorio Centumcellis erant.... una cum Hieronymo Adurnio.... repente se in urbis portu ostenderent.... Cum nullam seditionem in Urbe oriri perciperent.... classe subducta enavigarunt versus Spediam.... Clavarum nullo præsidio firmatum occuparunt. »
180. Raynaldus, Ann. Eccl., 1521, n. 108: « Ex victoriæ nuncio Leonem pontificem ingenti diffusum lætitia referunt, in qua.... decessit inopina morte. »
181. Paris de Grassis cit.: « Die vigesima quarta novembris MDXXI, hora quasi prima noctis, audivimus bombardas in signum lætitiæ ex castro s. Angeli ob Mediolanum captum a nostris militibus.... Tantum lætabatur Leo, ut numquam plus lætatus fuerit intrinsecus vel extrinsecus, ita et taliter ut ex Manliana, ubi erat profectus solatii causa, per plures et plures nuncios festivitatis signa fieri mandaret: quæ signa per triduum continuum perdurarunt diebus et noctibus.... Die dominica, quæ fuit prima mensis decembris, mortuus est papa Leo decimus ex catharro superfluo, concepto in villa Manliana. »
182. Anonimo, Storia de' Conclavi. Mss. Casanat., XX, IV, 49, p. 502.
Raynaldus, Ann., 1522, n. 5, 16 e segg.
Paolo Giovio, Vita di Adriano VI, tradotta dal Domenichi, in-4. Firenze, 1549, p. 406.
N.B. Gli Atti ufficiali della Curia romana infino al presente gli assegnano il cognome di Florent; altri aggiungono Dedel Van Trusen.
183. Raynaldus, Ann., 1521, n. 15: « Putarunt Romani Hadrianum, audita sœvientis Romæ epidemiæ fama, italicum iter intermissurum.... expetebatur ob varios tristes casus ejus in Urbe præsentia.... » et 1522, n. 5: « Non defuere qui timerent, ne in Hispanias Sedes apostolica transferenda esset. »
184. Blasius Ortisius, ( Ortiz ) Itinerarium Hadriani Sexti, ap. Balutium, Miscell. in-8. Parigi, 1680, III, 351 a 470.
185. Ortiz cit., 361, 376: « Obtulerunt Pontifici quatuor triremes imperatoris nomine, quarum capitaneus erat dominus Joannes a Velasco.... SSmus triremes ascendit numero odo cum scapha, vulgo vergatin.... festive cum suis tormentis ignivomis ut moris est. »
186. Manuzzi, Vocab. della Crusca, voce Dirotta.
Fanfani, Vocab. della lingua italiana, voce Dirotta.
187. Filippo Sassetti, Lettere, in-8. Firenze, 1855, p. 267: « Andammo navigando di conserva, l'una nave a vista dell'altra, quattro giorni; e avanti che noi scoprissimo l'isola della Madera, già aveva preso ciascuno la sua dirotta, e perdutici di vista tutti, nonostante gli ordini e le istruzioni e i comandamenti. »
188. Stratico, Vocab. di marina in tre lingue, voce Rotta.
Civiltà Cattolica, 1º luglio 1858, p. 133: « Ecco il battello pigliare celerissimo verso l'alto la rotta. »
189. Henricus Stephanus, Leopold, aliiq. Lexicon: «Σχιὰ, ᾶς, ὴ. Umbra, adumbratio.»
Vitruvius, Archit., I, 2: « Sciagraphia, frontis et laterum adumbratio. »
190. Manuzzi, Vocab. coll'esempio del Pulci « Assia, e Assiare. »
Roffia col Pantera, Vocab. « Sia e Siare. »
Crescentio, Nautica, 142, coi Napolitani « Zia, e Ziare. »
191. Carlo Botta, Viaggio. Continuamente: « Scia e Sciare. »
Fanfani, Vocab. « Sciare. » Non registra Scia.
Carena, Veicoli, 96: « Scia, quella traccia, o solco, o striscia che lascia sull'acqua dietro di sè la nave che cammina. »
L. Fincati (cap. di vascello). Dizionario di marina, in-16. Genova, 1870: « Scia, traccia lasciata dalla nave nel fendere il mare nel suo moto progressivo. Sciare, vogare in dietro in modo da far progredire colla poppa. Sciavoga, avanti da un lato, e indietro dall'altro per girare. »
192. Bartolommeo Crescentio, Portolano della maggior parte de' luoghi da stanziare navi e galèe in tutto il Mediterraneo, in-4. Roma, tipog. del Bonfadino, 1598, e 1602, p. 5.
193. Stratico, Vocab. di marina.
Fanfani, Vocab. dell'uso.
194. Ortiz cit., 381: « Intempestæ noctis conticinio, ecce tonitrua bombardarum quibus.... omnes vocabantur ad triremes.... illud signum omnibus comune.... multos remansisse suspicor.... quorum aliqui postea evecti sunt.... alii vero ad sua redierunt. »
195. Ortiz cit., 381: « In portu sancti Pauli, (Sampau) ventum est ad portum qui dicitur La Cala de Calella.... in portum cagnominatum Sancti Felicis (Sanfiliù) et de Rosas.... promontorium nuncupatum Cap. de Creus.... Palamox intactum reliquimus quia peste laborabat. »
196. Ortiz cit., 383: « Nostra classis, ne se committeret Francigenis, transivit.... ad insulas Errojas, inabitatas formidine piratarum. »
197. Ortiz cit., 383: « Fides pubblica data a Rege Franciæ.... Multi ex familia cum jumentis tum sarcinariis tum vectoriis.... per Gallias illæsi et incolumes transierunt. »
198. Ortiz cit., 383: « Ante noctis crepusculum magno tubarum clangore.... cantores Papæ Salveregina solemniter decantabant, quorum concentus suavissime resonabat. »
Cesare Magalotti, La legazione del cardinal Barberino nell'anno 1625. Mss. Casanat., XX, IV, 9, sotto il dì 22 marzo 1625, p. 31: « Al tocco dell'Avemmaria in ciascuna galera si cantavano le Litanie della Madonna insieme con altre preci. Di poi si domandava il nome alla Capitana, sì come si suol fare ne' luoghi pericolosi, acciocchè in caso di burrasca le galere possano essere unite ed ajutarsi l'una l'altra. Dal Comito reale, d'ordine di sua Eminenza fu dato il nome di san Giovan Battista. » — Sono certo di rinvendicare al cav. Cesare Magalotti giuniore l'opera predetta, quantunque anonima alla Barberiniana ed altrove; e da alcuni, col signor Lumbroso ( Cassiano dal Pozzo, in-8. Torino, 1875, p. 15), attribuita per errore al predetto Cassiano. L'Autore, a p. 25, nominando Cesare Magalotti seniore, aggiugne Mio zio; ed a p. 353, afferma la sua ambasceria ai signori Lucchesi pel giorno 13 dicembre 1625. Ora nell'Archivio di Stato in Lucca, codice intitolato Libro visite di principi, Serie B, armadio 50, numero 13 pel detto giorno, mese ed anno, si riscontra Ambasciatore precisamente lo stesso cav. Cesare Magalotti: dunque il libro è suo. Così io alla Casanatense (quando ero bibliotecario) ho scritto sulla copertina del detto codice.
199. P. A. G., Marina del Medio èvo. Firenze, Le Monnier, 1871, vol. I, p. 420. — Le bussole primitive, e le seguenti.
200. Gazzetta Ufficiale del Regno, sabato 30 marzo 1872, n. 90, p. 2, col. 1.
201. C. Valerius Flaccus, Setinus, Argonaut., lib. I, vers. 481:
« Pervigil Arcadico Tiphys pendebat ab astro
Hagniades; felix stellis qui segnibus usum
Et dedit æquoreos, cælo duce, tendere cursus. »
202. Ortiz cit., 386: « Andreas de Oria, exul a die expugnationis Genuæ.... cum quatuor triremibus.... parum a portu Monæci descendens, huc et illuc navigando nostram classem versus, fœdera pacis igneis tonitruis demonstravit.... Inscio Pontifice, jussu centurionum, omnia nostra navigia parabantur ad arma.... Eo fortasse Andreas tam cito in suam stationem se recepit. »
203. Ortiz cit., 386: « Cum multi nobiles cum suis scaphis ad recipiendam benedictionem Pontificis advenissent, eumdem Andream de Oria inter eos adventasse ferebatur. »
204. Ortiz cit., 387: « Conspeximus quamdam navem non procul a piratis captam.... qui nostram classem prospicientes sicut nebulæ repente evanuerunt. »
205. Ortiz cit., 381: « Nunciatum fuit quædam navigia prope adesse.... oportuit subsistere, quousque per exploratores patesceret... » 396: « Parantur bellica tormenta et milites ad arma, nuncius asserit Turcarum fustas adesse.... » 399: « Multæ insulæ circa Plumbin, et crebra pericula piratarum. »
206. Ortiz cit., 391 a 394.
Gregorio Cortese, Del sacco di Genova nel 1522, recato dal latino in italiano da G. B. Queirolo, in-8. Genova, 1845.
Giustiniani cit., 276
Bizarus cit., 454.
207. Blasius de Cœsena, Diaria cæremonialia sub Hadriano VI. Mss. alla Barberiniana, segnato 1102: « Die XXVI augusti MDXXII et segg.: In Civiate Veteri, hora prima noctis, venerunt custodes deputati dicentes se vidisse qualiter velæ numero XVIII aut XX erant in mare ad vistam.... tota nocte stetimus speculando an essent illæ galeæ Papæ, vel infidelium. Supervenit brigantinus et nunciavit de adventu Papæ et Curiæ, et quod omnes illa hora quiescerent. Ea nocte fuit ordinatum ut in aurora archiepiscopus Cosentinus et magistri cæremoniarum irent primo diluculo ad visitandum Papam in navi, et ad faciendam primam reverentiam. Deinde prope Arcem, in fine pontis erecti ibi, porrigeretur Papæ Crux osculanda; et sub baldachino associaretur usque ad ecclesiam a cardinalibus Legatis. »
208. Idem: « Die xxvii augusti summo mane, Papa descendit de navi, et super mulam intravit Civitatemveterem cum cardinalibus. »
209. Ortiz cit., 399: « Ibique ad Centumcellas aderant aliquot Cardinales et nonnulli nobiles romani.... ibique familia pontificis in palatio ipso Tinellum, ut ita loquar, romanum agnoscere cœpit quo se familiares vescendi causa conferebant. »
210. Ortiz cit., 399: « Iterea visimus Urbem et Castrum nondum consummatum, et Cellas centum ut fama erat, et nomen vetus civitatis adhuc continet. Castrum munitum instrumentis ferreis necnon aquosa fovea, quod quidem postquam fuerit perfectum inexpugnabile fore creditur. »
211. Litta, Famiglie celebri. Della Rovere, e le Tavole delle medaglie di Giulio II.
Bonanni, Numismata Rom. Pont., in-fol. Roma, 1699, I, 157: « Portus Centumcellæ — Julius Ligur Papa Secundus. » — « Julius Secundus Arcis Fundator. — Civitavecchia. »
Venuti, Numism., p. 51.
212. « Julius III Pont. Max. — Portus et Refugium Nationum. » Medaglia in oro prodotta dal Bonanni, p. 243, fig. XVI; e rispondente alle lapidi di quel tempo e di quel Pontefice in Civitavecchia, pubblicate dal Torraca, 50; e dall' Annovazzi, 271.
213. Diodoro Siculo, Hist., lib. XIV: « Ædificavit multas domos navium in ambitu novi portus centum sexaginta, quarum quæque duas naves capiebat. »
P. A. G., La Storia del Medio èvo, I, 6, 13, 58, 60.
214. Ortiz cit., 400: « Ostium Tyberis obstitit. Aditus enim nequaquam profundus, sed prope vadosus est. »
215. Francesco Cancellieri, I possessi dei romani Pontefici, in-4. Roma, 1802, p. 84.
216. Raynaldus, Ann., 1522, 22: « Julius Medices cardinalis ac plures alii Pontificem ursere precibus, mox atque pervenit, ut classem egregie instructam Rhodum ad ferendas obsessis equitibus suppetias mitteret. »
Bosio cit., III, 40: « Il cardinal de' Medici et il Cesarino.... pregavano papa Adriano di voler mandare da Civitavecchia le galere et vasselli insieme colle genti che di Spagna condotto l'avevano.... a soccorrere Rodi.... Ma in Roma.... pel duca di Sessa, et per don Carlo di Lannoi, si mutò di parere. »
Giovio cit., Vita di Adriano, 417.
Belcairus cit., lib. XVII, n. 21.
217. Sebastiano Paoli, Codice diplomatico gerosolimitano, II, 182. — Breve di papa Leone nel gennajo del 1517 per le fortificazioni di Rodi.
218. Jacobus Fontanus, De bello Rhodio, edit. a Clausero, in-fol. Basilea, 1556, p. 451: « Propugnaculum a Basilio, architecto Cæsaris Caroli quinti, magistratu Fabricii Carrectani modulatum.... » 445: « Norunt qui mecum in parte laboris et periculi fuerunt. » (Cito sempre la suddetta edizione.)
219. Jacomo Bosio, Storia della sacra religione et illustrissima milizia di san Giovanni Gerosolimitano, in-fol. t. II, 621, A (cito sempre la seconda edizione fatta in Roma dall'Autore l'anno 1602, lasciando la prima imperfetta del 1594.)
220. Carlo Promis, Gli Ingegneri militari che operarono o scrissero in Piemonte, in-8. Torino, 1871, p. 92: « Un insigne maestro (sconosciuto pur esso agli Italiani ed ai conterranei suoi) Basilio della Scala, vicentino, uno degli ignorati e primi fondatori di questa scienza, e del quale dirò qui brevemente. »
221. Battista Pagliarino, Cronache di Vicenza, in-4. 1663, p. 319: « Famiglie nobili vicentine. »
222. Marin Sanudo, Annali veneti. Mss. alla Marciana, t. I, p. 70, B: « Basilio de la Scola vicentino, che era stato col re di Francia sopra le artiglierie. »
223. Sanudo cit., Mss.: « Addì 13 maggio 1496 fo principiato di fare alcune artiglierie da bombardare, come fanno le bombarde grosse, le quali viene menate sui carretti al costume dei Franzesi. Basilio della Scola vicentino che era stato col re di Francia sopra le artiglierie, incominciò a gettarne cento pezzi in Canareggio; et mandato detto Basilio per le terre nostre a torre legnami per far fare li carri. »
224. Bartolommeo Cartari, oratore di Ferrara in Venezia, lettera al duca Ercole I, data del 7 febbrajo 1501, pubblicata dal marchese Campori, Lettere artistiche inedite, in-8. Modena, 1866, p. 1. (La stampa moderna dice Scala.)
225. Archivio dei Frari in Venezia. Deliberazioni del Senato. T. R. 16, dal 1508 al 1509: « A dì 17 febraio 1509 (in stile veneto 1508) A Basilio de la Scola, probo e fedelissimo nostro, che s'altrova a servigi nostri, persona molto necessaria al bisogno delle artiglierie nostre, così per experientia avuta di lui, come per relatione dell'illustrissimo capitano et gubernatore nostro gienerale, annui ducati dusento. » (Ricevuto dal baron Gio. Scola con sua lettera del 24 marzo 1871, presso di me.)
226. Luigi da Porto, Lettere storiche, scritte dall'anno 1509 al 1528, ora per la prima volta raccolte interamente e ridotte a corretta lezione, e annotate da Bartolommeo Bressan. Firenze, Le Monnier, 1857. — Lettere del 2 e 7 marzo 1509, p. 1: « Già si è fatta la lega palese.... I Veneziani hanno mandato Basilio della Scola, nostro vicentino, a rivedere tutte le artiglierie che sono nelle loro città e fortezze di terra ferma, come uomo che essi tengono provvisionato sopra le munizioni e terre loro. »
227. Castellini, Storie vicentine, in-4, tip. Parise, 1822, t. XIII, lib. xvi: « Che la città sia in debito di fare edificare un castello fortissimo, secondo il disegno di Basilio della Scola vicentino. » — (La stampa dice Scala: ma nell'originale, mi avvisano, è scritto Scola.)
Il Padre Barbarano, Annali di Vicenza, Mss. in quella città. (Narra l'istesso fatto del principe di Anhalt, riporta le medesime condizioni, e scrive Basilio della Scola.)
Ab. Antonio Magrini, Reminiscenze vicentine, in-8. Vicenza, tipografia di Gius. Staider, 1869, p. 47: « La caduta di Rodi mi porge il destro di rischiarare una reminiscenza vicentina nella persona di un architetto.... che è ancora quasi sconosciuto in patria.... È questi Basilio della Scola.... » — (Esso pure Scola.)
Idem, Discorso dell'architettura in Vicenza, in-8. Padova, tip. del Seminario, 1845, p. 36: « Basilio della Scola che l'imp. Massimiliano presceglieva ad innalzare in Vicenza una cittadella. »
228. P. A. G., Storia della marina nel Medio èvo, II, 415.
229. Docum. cit., alla nota 117, e segg., e 127 e segg.
230. Benedetto Varchi, Storia Fiorentina, edizione dell'Arbib, in-8. Firenze, 1843, II, 213: « È adunque da sapere che Michelangelo, avendo preso cura delle fortificazioni di Firenze, e principalmente del monte di San Miniato.... fece bastioni.... la corteccia di fuori era di mattoni crudi fatti di terra pesta mescolati col capecchio trito, il di dentro era di terra e stipa molto bene stretta e pigiata insieme. »
Vasari, ediz. cit., Michelangelo, XII, 206, 365, e segg.
Giulio Savognano. Mss. di fortificazione in Firenze alla Palatina, in appendice ai Mss. del Galilei.
231. Carte Marine dell'ammiragliato britannico: « Town and ports of Rhodes, surveyed by com. Thomas Grave, R. N. and M. S., Beacon, years 1841, 1871.» Due grandi carte, e la pianta della città capitale colle sue fortificazioni. Si vende in Londra dall'agente dell'ammiragliato J. D. Potter. — Presso di me.
Coronelli, Cosmografo di Venezia. L'Isola di Rodi, con piante e figure, in-8. Venezia, 1688. — Bibl. Corsini.
Idem, Piante di città e fortezze, due volumi in fol. Pianta di Rodi, I, 41. — Presso di me.
J. Baudoin, et Naberat, Histoire des chevaliers de Rhodes, in-fol. Parigi, 1659. — Pianta di Rodi, III, 53. — Casanatense.
O. Dapper, Les îles de l'Archipel, in-fol. Amsterdam, figur. 1703. — Città e porto di Rodi, cinque tavole, p. 89. — Item.
Sebastiano Paoli, Codice diplomatico dei Gerosolimitani, in-fol. Lucca, 1737. — Pianta di Rodi, II, 491. — Item.
Joannes Meursius, Opera omnia ex recentione J. Lami, in-fol. Firenze, 1744. — Pianta di Rodi, III, 685. — Item.
Joseph von Hammer, Topographische Ansichten gesammelt auf einer Reise in die Levante, in-8. Vienna, 1811. — Pianta di Rodi, p. 73. — Pel favore del baron C. Testa di Costantinopoli.
Bernard Rottiers, Monuments de Rhodes; dédié au Roi des Pays-Bas, in-8. Brusselles, 1828, p. 111, e le tavole dell'Atlante che ho innanzi per favore del chiariss. comm. Cialdi. — L'Autore, colonnello del genio, ha neglettato la pianta.
Victor Guerin, Voyage dans l'isle de Rhodes, in-8. Parigi, Durand, 1856.
Eugène Flandin, Histoire des chev. de Rhodes et description de ses monuments. Tours, chez Marne, 1867.
232. William Henry Smith, rear-admiral, R. N., The Mediterranean, a memoir physical, historical, and nautical, in-8. Londra, 1854, p. 406: « On the orthography and nomenclature adopted.... These names are a strange mixture, and corruption of Hellenic, Romaic, Latin, Frank, and Turckish.... many of the misnomer retains their places in our charts and maps.... » 415: « There are many of these blounders, but one may be cited. At Smirna on a post the thurkish Sanjak or banner was hoisted on a projecting head-land. This cape therefore, named Sanjak-Burnù, became in french Pointe of. S t. Iacques, to which our savants duly translated Point of S t. James: the name under which it appeared till very lately, in our admiralty charts. »
233. Fontanus Jacobus, De Bello Rodio, editus a Clausero, in-fol. parv. Basilea, 1556, p. 457: « Naves saburra saxoque gravatas paululum a muro altiore mari depressit.... Portus septus valida ferreaque cathena transversum ante fauces projecta, trabibus etiam que supra undas natabant, validisque anchorariis funibus. »
234. Fontanus cit., 445: « Magnam urbis partem Basilius novo validoque murorum ambitu cinxit. »
Et 458: «Fossa, vallo, muro, mœnibus, turribus, propugnaculis.»
Et 468: « Muro et promuro validissimo septum.... tresdecim turribus.... quinque maximis propugnaculis. »
Et 475: « Propugnaculi Cosquinensis, et Carrectani. »
Bosio, II, 293, E: « Baluardo d'Alvergna.... bastione d'Inghilterra.... bastion di Provenza.... baluardo d'Italia alla porta del molo.... baluardo di Castiglia.... piccolo baluardo di Cosquino.... piccolo detto san Pietro, che guarda la torre del Trabucco verso il molo di san Niccolò,» (cioè il Carrettano.)
Vertot cit., III, 290: « Rhodes étoit entourée d'une double, d'autres disent d'une triple enceinte de murailles, fortifiées par treize tours antiques dont il y en avoit cinq renfermées dans une espèce de ravelin ou de bastion, que les historiens du temps appellent des boulevarts. »
235. P. A. G., Medio èvo, I, 404; II, 418, 424, 428.
236. Galileo Galilei, Trattato della fortificazione, cap. V, tra le opere pubblicate dall' Alberi in Firenze, 1854, in-8, t. XI, p. 146: « Si domanda Bellovardo, quasi che Belliguardo: cioè guardia e difesa della guerra. »
237. Lünig. Contract. Regis Franc. cum Venetis, anno 1268: « Naves habeant.... bellatorium de retro puppis. »
Ariosto, Furioso, XIX, 44:
« Castello e ballador spezza e fracassa
L'onda nemica, e il vento ognor più fiero. »
238. Docum. cit., alla nota 117.
239. Bosio cit., II, 294, lin. 46.
Fontanus cit., 475, lin. 32.
P. A. G. Medio èvo, II, 417.
240. Vertot, cit. alla nota 127.
241. Bosio cit., 624, B: « Fu mandato al Papa un bellissimo e diligentissimo modello in rilievo di tutta la città di Rodi, che il gran maestro fra Fabrizio del Carretto haveva fatto fare da maestro Zuenio, per mostrare al Papa il termine, nel quale la fortificazione di detta città ridotta haveva. »
242. Fontanus cit., 480, lin. 31, nomina tre scrittori di quest'assedio, che alla Casanatense e in Roma non si trovano, cioè: « Fr. Macedonius eques et antiquarius, fr. Georgius Fancellus eques lugdunensis, et Robertus Perusinus. » Il primo deve essere il cav. Alessandro Macedonio della lingua d'Italia nominato più volte dal Bosio. Del terzo conosco un'Orazione in Roma alla presenza del Papa, sopra i fatti di Rodi durante l'assedio.
243. Fontanus cit., 446, 46; « Curtogolus archipirata in statione ad Maleæ promontorium expectabat adventum Magni Magistri.... Curtogolus elusus, fremens frendensque.... in fretum Rhodium erupit. » — Bosio, e Vertot, pel fatto medesimo.
244. Dapper cit., 107, fin: « Avertissoit alors Solyman que les Rhodiens avoient démoli un gran cartier de murailles pour le rebâtir avec plus de régularité suivant les règles modernes de l'architecture militaire. »
245. Fontanus cit., 464, 28: « His piraticis navigiis jungenda est classis.... Archipirata Carrà. » 457, 47: « Cum caeteris piratis Curtogolus. » 466, 23: « Ad trecentum et amplius naves. »
Bosio, 653, E: « Curtogoli piloto e conduttore dell'armata. »
246. Bosio cit., 652, E: « Ascese la detta armata a quattrocento vele intorno.... Al campo uomini dugentomila.... »
De Hammer Giuseppe, Storia dell'imperio osmano, volgarizzata dal tedesco, e approvata dall'autore, in-12. Venezia 1828 e segg. IX, 33: « Flotta di trecento vele, diecimila soldati e guastatori, e centomila per terra. »
Le noble chevalier frère Jacques bastard De Bourbon, La grande et merveilleuse et très-cruelle oppugnation de la noble cité de Rhodes, imprimè l'an. 1526: esso conta così:
Galere sottili 103
Galere grosse 35
Maone 15
Trafurelle 20
Schirazzi 72
250
Più altri navigli venuti dalla Sorìa, e conclude: « durant le siège furent la plus part du temps au nombre de quatre cens voiles ou environ. »
Tiepolo, Relazione di Costantinopoli tra i Mss. del Sanuto, t. XXXIII: « Partì da Costantinopoli li 18 giugno 99 galìe sutil, 70 grosse, 40 palandarie, 50 fuste, brigantini et altri navigli fin in numero di 300 vele. »
247. Fontanus cit., 466: « Sexto calendas julias, mane diei, nunciatum e specula.... classem venire. »
Bosio cit., 651, C: « Nella mattina delli ventisei del detto mese di giugno l'armata alla volta di Rodi fu scoperta dalla sentinella. »
248. Graves cit.: « Koum Bournou, but generally called by the Pilots Molino Point. » ( Bosio, II, 652, D. — Fontano, 466, 43. — E tutti i nostri, dicono cala di Parambolino, e capo di Bove.)
249. Fontanus cit., 466: « Audivi propositam esse a Hieronymo Bartolutio florentino, in rebus bellicis non inexercitato, rationem exurendæ classis. »
250. Fontanus cit., 453: « Recensa hominum qui arma ferre possent quinque millia.... Æquites sexcenti, Cretenses sagittarii quingenti.... rustici fodiendo ferendoque terram. »
251. Fontanus cit., 468: « Ad portam qua itur ad montem Filermum, Franci.... Ad portam S. Georgii, robur Germanorum.... Arverni finitimi Hispanis, ambo quod ibi fossatum minori profunditate.... Phalanx Brittannica.... Postea Galli narbonenses.... ultima statione, sed prima virtute, legio italica, urbem adversus Pyrri vim fraudesque defendebat. »
Bosio cit., 644. Nomi e cognomi di tutti i cavalieri, venturieri, capitani e marinari che si trovarono all'assedio.
252. Fontanus, 453, 25: « Cæteri qui pugnæ diligenter fideliterque vacarunt, fuere nautæ, remiges, classarii, quorum virtutem juverunt duces ipsi maritimique excursores.... Joannes Antonius Bonaldius venetus.... Dominicus Fornarius ligur.... et Siculus quidam. » 497, 26. « Flos nautarum nostrorum in bello periit. »
253. Bosio, 652, E: « Nel campo turchesco erano da sessantamila, espressamente condotti per far mine. »
Fontanus, 469, 13: « Quinquaginta millibus agrestium hominum.... excisæ sunt rupes durissimi silicis, campi montibus æquati, et complanata montium juga. »
254. Achilles Mutius, Theatrum quo domorum, rerum, virorum, bergomatum monumenta referuntur, in-4, 1596.
Fr. Celestino da Bergamo (Colleoni). Storia di Bergamo. in-4. 1617, p. 512.
Donato Calvi, Campidoglio dei guerrieri ed altri illustri personaggi di Bergamo, in-4. Milano, 1668, p. 160.
Promis, II, 76. — Gabriele nato a Martinengo nel 1480, morto in Roma, 1544.
255. Bosio cit., II, 657; III, 19, D; 148, B.
Fontanus cit., 467.
256. Fontanus 470: « Quinto calendas septembris hora postmeridiana Tyramnus in castra venit.... Vocavit ad concionem inermes.... circumdedit eos armato peditatu quindecim millium chirioboardericorum.... et suggestum ascendit, omnia offendens, quæcumque dici aut fingi queunt ignaviæ et pavoris exempla in illo exercitu, nihil instituto disciplinaque militum, nihil imperio ducum. »
257. Fontanus cit., 469: « Tormenta per turres et muros præparata in medias hostium phalanges cuneosque confertissimos.... tumultus, secessionem, conjurationem et fugam meditati.... bombardæ rhodienses penetrabant omnia. » 470, 3.
258. Fontanus, 479, 38: « Bombardæ locatæ per transversa opera in summitate murorum latus hostium discerpebant. » 486, 6: « Minutorum tormentorum utroque latere positorum, conglobatis ictibus, muri faciem tuerentur. » 476, 14: « Jussu et consilio Martinenghi, tormentis levibus oppositis in fronte, læevo latere propugnaculi novi, item dextero ex opere militari. » 486, 40: « Utilissimum fuit quod.... tormenta dextera levaque muri recenter extructi barbarorum latera confringebant. »
259. Fontanus, 475, 33: « Bombardarii.... stragem ediderunt, latus oppugnantium petendo. »
260. Fontanus, 478, 37: « Ignes, sulphur, oleum incendiarium, imber ignium.... ubi fervens materia artus hostium apprehenderat, nulla vi excuti poterat, et quidquid attigerat pervadebat. ».... 483, 41: « Pice, oleo, materia incendiaria. »
Bosio, 685, D.
261. Fontanus, 472, 16: « Rhodii inopiam pulveris tormentarii senserunt, quem molarum rotatu per dies noctesque quinque mensium bis septem equi magni Magisitri atterebant.... homines liberi triginta sex.... non servi.... ne qua fraus. »
Bosio, 637, A; 663, E.
262. Fontanus, 453: « Rustici fodiendo, ferendoque terram. »
263. Fontanus, 486, 45: « E tabulatis atque ibi erectis operibus.... e parte muri recenter instructi in speciem quadratam.... murum illum oppositum.... et alterum opponendum.... et vallum ligneum objecimus. »
264. Bosio, 669, C: « Senza il riparo e traversa.... fatta dal Martinengo nella notte precedente.... il baluardo e la città perduta si sarebbe.... quivi a spada a spada, e l'istesso Martinengo.... in quel giorno fece prodezze mirabili. »
265. Bosio, 485, E: « Il Martinengo diede ordine che si facesse uno steccato et un riparo.... detto dai Turchi la Mandra.... ripari e traverse cominciate dal Martinengo.... fecero finire da Preianni con Giorgio di Conversalo e Benedetto Scaramoso. » (Scaramuccia e Conversano.) — Fontanus, 467, 15: « Prejannes Rhodum intravit. »
266. Carlo Promis, Mem. cit., II, 329-39. (Erra nel 1503.)
Niccolò della Tuccia, Cronaca di Viterbo, ext. tra i Docum. pubblicati dalla Società di Storia patria per Toscana, Umbria, e Marche, in-4. Firenze, 1872, V, 202. (Suggerimento di una mina nel 1446 contro la città di Fermo.)
Laonicus Chalcondyla, De rebus turcic. edit a Clausero in-fol. Basilea, 1556, p. 121. (Per Costantinopoli.)
Leonardus Justinianus (Chiensis), De jactura Constant., editus a Lonicero, II. 86, 87. (Item.)
P. A. G., Medio èvo, voce Mina. — Qui p. 52 e segg. (Tutto il filo, fino alle ultime dimostrazioni, condotto da ingegneri italiani.)
267. Fontanus, 467, 33: « Martinengus, mirabilis inventor et artifex operum bellicorum, quinquaginta quinque fuisse dicuntur, perlevi negotio ludificabatur actis contra cuniculis et specubus introrsum.... » 473, 1: « Immani specu sub terram, transversis cuniculis, hostium cuniculos trigintaduos excipiebat.... » 476, 9: « Super terram bombardis et subter cuniculis ludificatus est hostem. »
268. Fontanus, 476, 38: « Vis cuniculi pleni materiæ inflammatilis evanuit in venas subterraneas et contra actos cuniculos. »
Bosio, 668, C: « La maggior parte delle mine però non ebbe effetto per cagione delle contrammine dell'industrioso e vigilantissimo Martinengo.... stando continuamente ad ascoltare.... Si mettevano bacini da barbiero con sonagli dentro, e tamburi.... Molte trovate ne furono.... abbruciati e soffocati i Turchi con barili di polvere che il Martinengo stesso collocò nel pertugio. »
269. Bosio cit., 686, B: « Il Martinengo per vedere se una traversa era ben fatta, mettendo l'occhio ad un pertugio.... venne una archibugiata che gli schiacciò e passò l'occhio. »
270. Fontanus cit., 484, 9: « Martinengus.... ictu chirioboardæ oculo privatus. » — 470, 39: « Armato peditatu quindecim millium boardericorum. » — 482, 27: « Efferacior vis tormentorum continuit boatus suos. » — 483, 35: « Chirioboarderici intra aggeres latitantes stabant tormentis paratis. » — 484, 14: « Quantum eæ chirioboardæ nobis nocebant. » — 486, 43: « Chirioboarderiis pluvia obstitit.... nam pulvis madefactus incendi non potuit. »
P. A. G., Medio èvo, II, da 35, a 51.
271. Fontanus, 471, 40: « Vis quadraginta bombardarum, quæ jactu saxorum rotunditatis palmorum novem, aliquando undecim.... urbem vexabant. » Item, 471, 20: 474, 49.
272. Fontanus, 471, 45: « Duodecim æneæ machinæ globos æneos majores justo capite evomebant.... nomen a serpentibus Basiliscis.... Ante ora omnium centum et triginta missilia.... quod licet supra naturam videatur, tamen ita rem esse compertum est. »
Francesco Sansovino, Volgarizzamento della guerra di Rodi. in-12. Venezia, 1548, p. 32.
Jacques de Bourbon, Le Siège de Rhodes, publié par Naberat.
Bosio cit., 657, A.
P. A. G., Medio èvo, II, 185, 186, 411.
273. Fontanus cit., 485,28: « Multas domos prosternebant.... interiorem autem murum, recenter oppositum, raro attingebant propter suam declivitatem: quæ res nobis magnæ salutis. »
P. A. G., Medio èvo. V, Indice voce Rimbalzo.
274. Fontanus, 472,3: « Apposuerunt tabulas attignatione contigua.... quarum medium axis transversus introrsum sustinebat. Hos Turca funibus e superiori capite cum subduxisset ut capita machinarum delecta apparerent.... igne apposito murum quatiebat. »
Bosio, II, 663, E: « Erano i detti mantelletti di grossi tavoloni.... e pieni di terra... dinanzi ai pezzi, con alcuni ingegni che chiudevano i portelli delle troniere.... gli aprivano, e subito sparato chiudevano. »
P. A. G., Medio èvo, I, 405, 408.
275. Fontanus, 471, 20: « Duodecim æneæ machinæ.... ore in coelum erecto.... dies noctesque, jactu bimestri, projicientes globos saxeos eptapalmares, in tecta, templa, fere in caput Magni Magistri.... plus quam in altera oppugnatione. »
276. Fontanus, 471, 32: « Jecerunt etiam globos cupreos plenos intus bombardis digitalibus, et inter eos exurimenta, bitumen, sulphur, pix liquida.... cui styli ferrei inhærebant.... hi longo igneoque tractu volantes, casu suo crepabant.... fumo, odore, obfuscantes.... styli, bombardulæ necabant. »
277. Fontanus, 469, 12: « Comparatis ad opus cuniculorum quinquaginta millibus agrestium.... » 475, 10: « Ex Moesia et Valachia. » 487, 1: « Decreverunt non justo congressu.... sed fossis, incilibus, dolabris, terebrisque murum subrui debere. »
Bosio, II, 653, E: « La principale speranza dei Turchi era per via di mine.... avevano sessantamila picconieri e guastatori dalla Valacchia e dalla Bosnia. »
278. Bosio, II, 668, C: « Secondo il conto.... cinquantaquattro mine.... alcuni vogliono quarantacinque.... altri trentotto. »
279. Fontanus, 473, 4: « Nonis septembribus.... ad propugnaculum anglicanum.... incenso cuniculo, violentissimo crepitu urbs tota contremuit, non aliter quam terremotu. »
280. Psalmus LXIX, vers. 1: « Deus in adjutorium meum intende; Domine, ad adjuvandum me festina. »
Fontanus cit., 473, 9.
281. Bosio, 669, B: « Se non fosse stato un riparo o traversa di rinfronte fatta nella precedente notte dal Martinengo appunto alla mina.... i Turchi sarebbero entrati, e la città perduta. »
282. Fontanus, 473, 44: « Enituit fortitudo cujusdam equilis itali, quem Baptistam romanum vocant. »
Bosio, II, 670, C: « Segnalaronsi i cavalieri fr. Battista Orsino romano e fr. Francesco Tellez portoghese, che fecero prove mirabili e degne di eterna memoria. »
283. Fontanus, 469, 17: « Excisæ rupes.... campi montibus equati.... complanata montium juga. » 483, 32: « Fossas complanatas.... terra injecta.... eminens altitudo supra modum.... »
284. Fontanus, 475, fin. « Maximam muri partem Hispanorum ignito violentoque distractu in altum aera. »
285. Fontanus, 487, 10: « Minorem in dies urbem faciebant.... Area intra Urbem occupata ab hostibus fere ducentorum passuum. »
286. Bosio, II, 699, C: « Achmet pascià giurò sopra la fede sua al cav. Ant. de Grolèe, detto Passim, che morti v'erano di violenta morte più di quarantaquattro mila, et altri quaranta o cinquanta mila di infermità. »
De Hammer cit., IX, 44: « Immensa la perdita degli assediatori, più che centomila di loro erano morti pel fuoco e per le malattie. »
De Bourbon cit., « Le Bascha jura sur sa foi et assura qu'il en estoit mort de mort violente plus de 64,000, et 40 ou 50 mille de maladie. »
287. Bosio, 698. — Sansovino, Mon. Olt., Venezia, 1574, p. 210.
288. Fontanus, 494: « Ambo, alter alterius intuitu et admiratione mutua attonitus, invicem paulisper sese contemplati sunt. »
Bosio, III, 4, A: « Curtògoli, famoso corsale, Beì, o sia governatore di Rodi e di tutto il dominio che era stato della Religione. »
289. Fontanus, 500, 26: « Lileadamus.... unanimi suorum decreto, petiit Civitatemveterem.... ibique ab episcopo Conquensi, Pontificis summi nomine, mira et ingenti gratulatione exceptus. »
Bosio, III, 18, A: « Il gran maestro seguì la galea che portava lo stendardo del Papa.... salutato da tutta l'artiglieria della città e della ròcca.... ricevuto da tutti gli ufficiali e nobili con grande onore. »
Vertot cit., III, 421: « Le grand-Maitre avec sa colonie arriva à Civitta-Vecchia.... Le saint Père lui fit dire qu'il se reposât. »
290. Bosio cit., III, 49, C: « Il gran maestro.... fece accomodare in Civitavecchia un'infermeria.... della quale diede il carico al commendatore fra Jacomo di Borbone. »
291. Vertot cìt., III, 435: « Le Pape consentit que les vaisseaux el les galères de l'Ordre restassent dans le port de Civitavecchia. »
Bosio cit., III, 19, C; « Il Gran Maestro.... lasciò in Civitavecchia suo luogotenente generale l'ammiraglio fra Bernardino d'Airasca. »
Fontanus cit., 500, 33: « Sacræ militiæ apud Civitatem veterem, summo imperio delegato, nobilissimo æquite fratre Bernardino Araschæ, præfecto maris. »
292. Clementis Pp. VII, Pacta conventa inter Cameram ap li cam ex una et Paulum Vectorium ex altera partibus, pro conductione triremium. — Mss. Cod. Vatic. 7109, p. 228. — Arch. Secr. Vat. t. XVIII, p. 20. — Schede Borgiane in Propaganda. — Arch. Vettori, cit. alla nota 5.
« In nomine Domini, amen. — Per hoc præsens publicum instrumentum cunctis pateat evidenter et sit notum quod anno a nativitate D n i MDXXIII, die vero duodecima decembris, pontificatus S Sm i D. N. D. Clementis divina providentia papæ VII, anno primo, constituti coram R m o in X to P. et D. Francisco Armellini, titulo S. M. in Transtyberim et S. Callisti, presbytero card. S. R. E. et S Sm i D. N. papæ camerario; R m o P. et D. Bernardo Rubeo ep o Tarvisino dicti rm i D n i Camerarii Vicecamerario et almæ Urbis gubernatore ac reverendis DD. Philippo de Senis clericorum decano protonotario a pl ico, Joanne de Viterbio, Antonio Puccio ep o Pistoriensi, Christophoro Barotio, Thoma Regis, et Nicolao de Gaddis electo Firman., clericis Cameræ a pl icæ præsidentibus, ac Hieronymo Ghinutio ep o Vigornien. causarum Cameræ a pl icæ auditore generali, de mandato præfati S Sm i D. N. Papæ vivæ vocis oraculo dicto Camerario facto, ac etiam sui camerariatus officio, sponte ac ex eorum certis scientiis et non per errorem sed cujuslibet eorumdem scientiis et spontaneis voluntatibus, vice et nomine ejusdem S Sm i D. N. et Cameræ a pl icæ, conduxerunt in Capitaneum triremium S. R. E. et S Sm i D. N. nobilem virum Paulum Victorium de Florentia, constitutum coram praefato Camerario et Clericis prædictis, cum pactis et conventionibus, capitulis et modis infrascriptis, videlicet:
»I. Imprimis præfatus r mus D. Camerarius et Clerici præfati de consensu voluntate et nomine supradictorum S Sm i D. N. et Cameræ A. conducunt præfatum Paulum in capitaneum duarum triremium et duorum brigantinorum S. R. E. pro custodia Splagiæ rom. videlicet a Terracina ad montem Argentarium inclusive et comprehensive in quibus tenere debeat ad minus homines viginti quinque pro qualibet triremi, et decem octo homines pro quolibet bergantino, liberos et aptos ad bellum navale: et hoc ad beneplacitum præfatæ Cameræ.
»II. Item præfati etc. promiserunt eidem Capitaneo pro ejus salario et præfatorum hominum et nautarum stipendio dare et consignare, durante dicta conducta, singulo anno pro expensis triremium et brigantinorum prædictorum ducatos octomilia auri in auro, de juliis decem pro ducato, videlicet singulo trimestri quartam partem, cum anticipatione primæ pagæ.
»III. Item præfati etc. concesserunt eidem Capitaneo quod quandocumque contingat ipsum deprehendere aliquem conducentem granum aut aliquod bladum vel merces extractas ex portubus et locis S. R. E. mediate vel immediate subjectis sine bullecta et licentia S Sm i D. N. aut Cameræ, aut militum sancti Petri pro rata rerum dohaneris tractarum, aut ejus legitimi substituti, seu alterius ad id potestatem habentis, et talis extraneus et conductor non docuerit solvisse debitam tractam et dohanam deputatis ad illa recipienda, eo casu ipse præfatus Capitaneus possit et sibi liceat levare et auferre dictum granum et alia blada ex navigiis illa portantibus, et illius quartam partem retinere pro se, et alias tres quartas partes fideliter statim consignare Cameræ apostolicæ: et similiter de omnibus et singulis bonis et mercantiis, quas in fraude et contra prohibitionem et contra bandum asportari deprehenderit.
»IV. Item promiserunt et concesserunt præfato Capitaneo in predam omnes et singulos piratas, turbatores et alios mare ipsum infestantes, cum eorum navigiis rebus et bonis, ubicumque illos reperire invadere capere et habere potuerit: et si forte aliquis ex ipsis piratis et turbatoribus ad portus terras et loca prædicta S. R. E., ipso Capitaneo eos persequente et fugati ab eo diffugerent, ipsi officiales et homines locorum ipsos capere et consignare debeant et teneantur in manibus ipsius Capitanei ad ejus arbitrium et potestatem. Et si contingat tales piratas capere, quarta pars rerum inventarum in ipsis navigiis sit ipsius Capitanei, prout hactenus semper fuit observatum, etiamsi ipsi piratæ essent christiani.
»V. Item etc. obtulerunt et promiserunt præfato Capitaneo omne oportunum auxilium et favorem per quascumque terras et loca S. R. E., subjecta contra quoscumque ei et ejus genti adversantes: mandantes ex nunc omnibus officialibus et personis dictorum locorum ut ad omnem ipsius Capitanei requisitionem oportunis favoribus sibi assistant.
»VI. Item etc. concesserunt dicto Capitaneo quod si insequeretur aliquem piratarum perturbatorum infestatorum qui receptarentur in aliquo portu seu aliquo alio loco extra terras et loca præfatæ S. R. E., ita ut eos capere non possit, et incolæ portus et loci illius consignare nollent, liceat sibi exercere contra eos represalias, quas ex nunc eidem Capitaneo concedunt, donec illis qui a dictis piratis et infestatoribus damnum passi fuerint prius fuerit satisfactum, et de receptatione et impedimento hujusmodi constare fecerit: sed ipsas represalias exequi non possit nisi prius ab eadem Camera apostolica concessum fuerit. Et quidquid dictus Capitaneus vigore dictarum represaliarum ceperit, aut ad ejus manus pervenerit tam per mare quam per terram, fideliter assignet in Camera apostolica pro satisfaciendo damnum eorum qui passi sunt.
»VII. Item promisit dictus Capitaneus solvere de suo omne damnum et robariam quæ in aliquo loco maris prædicti quomodocumque, etiamsi ipse Capitaneus in eo loco non adesset, dummodo locus ipse in terminis et finibus prædictis ex quacumque parte comprehensis existat, si piratæ et prædatores hujusmodi majorem numerum triremium, et brigantinorum et armatorum in eis existentium non habuerint: ita quod ipse Capitaneus propter majores vires ipsorum piratarum et depredatorum majorem numerum triremium et brigantinorum et armatorum in eis existentium habentium eos invadere et aggredi rationabiliter non valuerit ut cum illis congrediatur eo usque confligendo aut cum effecto insequendo: aut quod dictus Capitaneus impediretur in Splagia hujusmodi confligendo aut fugando alios piratas et derubatores, aut in spalimando et dando carenam dictis triremibus et brigantinis occupatus esset, aut aliquo contagio infirmitatis considerabilis, quia epidemiæ morbus in ciurma sive hominibus obrepserit in triremibus et brigantinis residentibus: super quibus dictus dominus Capitaneus S S mum D. N. aut apostolicam Cameram certiorare teneatur: ita quod super hujusmodi damnorum refectione nullam habeat excusationem nisi quod damna ipsa habentes majorem numerum triremium et brigantinorum atque armatorum in eis existentium perpetraverint; aut, ut supra occupatus esset: de quo constare præfatus Capitaneus facere debeat in præfata Camera, cujus judicio præmissa in eventu decidantur et terminentur: et hoc dummodo mercatores rerum deperditarum eidem Capitaneo congruis loco et tempore satisfecerint adeo quod providere possit.
»VIII. Item promisit facere mostram toties quoties per præfatam Sanctitatem et Cameram et ubicumque requisitus fuerit.
»IX. Item promisit ponere in terram quinquaginta vel plures homines ad omnem requisitionem S S mi. D. N. et Cameræ prædictæ.
»X. Item promisit et se obligavit quod si contingat aliquem per predictum mare navigantem aut ejus navigia a piratis cursariis et perturbatoribus præfatis capi et deprehendi aut impediri, ipse Capitaneus omni diligentia curabit invasores et piratas hujusmodi per mare et loca quæcumque persequi, et ab eis prædam sic captam et navigia et nautas cum eis captos retinere et recuperare, illamque propriis dominis et patronis restituere, ipsosque captos et recuperatos hujusmodi ad locum tutum reducere, sine mercedis aut prætii alicujus receptione, dummodo per ipsum navigantem ipsi Capitaneo ut supra satisfactum fuerit. Alias si recuperationem cum effectu, si fieri potuerit, non fecerit, omni excusatione cessante promisit et solemniter se obligavit omnia damna illis qui in præmissis locis a piratis et aliis invasoribus ut præmittitur passi fuerint, de suo efficaciter reficere, ita ut damnum passis integre satisfiat, et Camera apostolica a præfato onere omnino sit libera, et ipsam a præmissis indemnem penitus præservare sit obligatus, nisi piratæ ipsi et invasores majorem numerum triremium et brigantinorum et armatorum in eis existentium habuerint; aut Capitaneus ut supra occupatus esset, aut contagio et infirmitate ut etiam supra laboraret. De quo constare debeat, ut in aliis primis capitulis expressum fuit in Camera præfata.
»XI. Item ipse Capitaneus promisit sub pœna duorum millium ducatorum, durante conducta prædicta, dictis triremibus ac brigantinis pro vectura aliquarum mercium sive rerum ad quemcumque locum devehendarum, sive undecumque advehendarum aut pro aliquo nauto, non uti, nisi de expresso mandato S S mi. D. N. aut Cameræ de quo constare debeat in scriptis.
»XII. Item promisit et se obligavit quod tam in æstate quam in hyeme statio sua erit apud portum Civitevetulæ aut ad fauces Ostiæ seu in aliis portubus et locis S. R. E. in mari prædicto scilicet inter Terracinam et montem Argentarium, ad hoc ut promptius invadentibus prædicta loca obsistere, et ad almam Urbem venientes seu ab ea et aliis locis prænominatis discedentes defendere possit.
»XIII. Item teneatur dictus Capitaneus repræsentare dictas triremes et brigantinos ad omnem requisitionem S Sm i. D. N. vel Cameræ prædictæ ad fauces Tyberis, vel ubi Sanctitas sua, vel dictus r em us Camerarius mandaverint, ita fulcitas sicuti ipsi Capitaneo consignabunt; necnon restituere infrascriptam arcem sub pœna decem millium ducatorum ac damnorum et interesse, ad quod fidejussores dare teneatur.
»XIV. Item promisit et se obligavit quod nec ipse nec alius de ejus comitiva et gentibus aliquid capiet a navigantibus, nisi tantum quantum eorum sponte sibi donabitur etiamsi dono offeretur, alioquin teneatur ad damnum arbitrio Cameræ.
»XV. Item promisit habere et tenere amicos Sanctitatis suæ et S. R. E. pro amicis, et inimicos pro inimicis, cujuscumque status gradus aut præeminentiæ fuerint.
»XVI. Item Sanctitas D. N. promisit eidem Capitaneo consignare facere homines in terris Ecclesiæ qui sunt condemnati vel condemnabuntur ad triremes, quos consignatos retinere possit in dictis triremibus nisi aliter de voluntate ejusdem Sanctitatis et Cameræ fuerit decretum, de quibus teneatur reddere rationem eidem Camerario quoties ab eo requisitus fuerit.
»XVII. Item dictus Capitaneus promisit et se obligavit dare sufficientem banchum pro residuo mille quingentorum ducatorum auri de Camera, qua summa evacuata pro refactione damnorum, reiterare et renovare ipsam cautionem teneatur idoneam statim ad judicium ipsius Cameræ pro observatione præmissorum et refactione damnorum illis qui illa passi fuerint, prout prædicta Camera summarie et extrajudicialiter judicaverit.
»XVIII. Item si contingeret, durante dicta conducta, præfatum Capitaneum mitti per S Sm um. D. N. ad aliqua loca extra prædictam Splagiam, quod in prædictos eventus, eo non præsente in dicta Splagia, non teneatur ad refactionem aliquorum damnorum qui in dicta Splagia fierent durante absentia dicti Capitanei ex causa missionis S Sm i. D N., dummodo dictus Capitaneus de destinatione præmissa in ipsa Camera clare constare faciat per litteras vel brevia S Sm i. D. N.
»XIX. Item si contingeret, ut sæpius evenire solet, quod aliqui brigantini christianorum transirent per Splagiam romanam, et nautæ habentes barchas existimarent illos esse brigantinos piratarum eligerent ire ad terras versus, vel alias naufragari, quod in hujusmodi casu dictus Capitaneus ad restitutionem aliquorum damnorum non teneatur, facta legitima fide quod per dictam causam irent transversum.
»XX. Et similiter quando Capitaneus, sciens piratas esse in Splagia romana, significaret conducentes barchas quod non transirent Montem quousque aliud avvisaret, et hoc non obstante nautæ conducentes barchas transirent et caperentur, quod in hoc tali casu dictus dominus Capitaneus ad emendam sive restitutionem damnorum non teneatur, constito quod piratæ haberent majores vires quam ipse, ita ut non esset sufficiens traducere barcareccium.
»XXI. Et similiter idem S Sm us D. N. pro majori conservatione et tuitione triremium et brigantinorum et armatæ maritimæ suæ Sanctitatis et S. R. E. concedit dicto Paulo capitaneo arcem novam Civitevetulæ per dictum dominum Paulum, quousque ejus officium capitaneatus durabit, tenendam utendam et fruendam cum oneribus salario et emolumento consuetis, videlicet sex ducatos de juliis decem pro ducatu mense quolibet, et ducatos decem de carolenis de anchoragiis navigiorum. Volens quod dictus Paulus pro cautione per eum ipsum danda occasione arcis, possit dare eumdem bancherium sive mercatorem qui pro eo cavebit de restituendis dictis triremibus et brigantinis ut supra S Sm o D. N. vel Camerario aut Cameræ apostolicæ ex et pro eadem summa decem millium ducatorum, ita quod tam pro restitutione triremium et brigantinorum præfatorum quam dictæ arcis dictus dominus Capitaneus pro majori summa cavere non teneatur.
»XXII. Item quod prædictus Capitaneus teneatur et obligatus sit tenere unum librum in quo describantur et describi faciat omnia nomina et cognomina omnium et singularum personarum condemnatarum ad triremes quæ pro tempore ad illas mittentur; et si erunt condemnatæ in perpetuum vel ad tempus quando hoc sibi dicatur, et de his teneatur saltem bis in anno requisitus reddere certiorem Cameram apostolicam et nota in dicto libro fienda sit conformis mandato et libro consignantium, et Romæ in Camera apostolica consignato.
»XXIII. Item promisit dictus Capitaneus et se obligavit intra vigintiquinque dies constituere in Camera unum procuratorem, et illum tenere residentem in Curia ad effectum quod damna data illi notificari possint, et quod illo citato et non aliter contra eum procedi possit.
»XXIV. Item quod Capitaneus possit recipere quoscumque captivos sibi trasmissos de mandato quorumcumque judicum, de quo teneatur tenere et reddere computum Cameræ apostolicæ ut supra.
»XXV. Item quod dictus Capitaneus non possit locare seu pignorare alicui personæ collegio vel universitati directum duorum pro centenario, absque expressa licentia præfatæ Cameræ.
»XXVI. Item dicta conducta durare debeat ad beneplacitum S Sm i D. N. et illo defuncto, ad beneplacitum Cameræ apostolicæ.
» Ita etc. die XII decembris MDXXIII. »
293. P. A. G., Marina del medio èvo, II, 481, 498, e in questo volume p. 95.
294. Docum., § 13, 21.
295. Docum., § 7, 10, 25.
296. Docum., § 2, 7, 10, 21.
297. Docum., § 11. — Vedi sopra p. 115.
298. Docum., § 4, 6.
299. Docum., § 16, 22, 24.
300. Docum., § 3.
301. Docum., § 3, 4, 10.
302. Docum., § 4: « Prout hactenus semper fuit observatum. »
303. Docum., § 6.
304. Docum., §7: « Si aliquo contagio infirmitatis considerabilis impediretur, quia epidemiæ morbus in ciurma sive hominibus obrepserit. »
305. Docum. cit., p. 130, § 6 (correggi la nota 54, p. 159, dove per errore tipografico è scritto 56.)
306. Docum. cit., p. 248, § 7; (correggi come sopra, dove dice 57 in vece di §7)
307. Azioni di Paolo Vettori. Arch. St. It. in-8. Firenze, 1848, Append. n. 22, p. 272.
308. Ammirato, Bembo, e gli altri al lib. III, cap. VIII
309. Docum., §19, 20.
310. Bosio cit., III, 29, A.
311. Cola Coleine, Diario romano dal 1521 al 1561, inedito. — Codice Chigiano, n. 1020; N. II, 32. — Codice Barberin., XXVIII, 22, n. 1103. — Codice Vaticano, 6389. (Breve scrittura di ricordi, per lo più di promozioni, feste, giostre, carnevali e conviti, e non si allontana dalle mura di Roma. Non mi ha dato nulla per la marina, e lo ricordo co' simili una volta per sempre).
312. Bosio cit., III, 36, D: « Fu di parere che.... in compagnia colle galèe di Sua Santità e della Religione andassero.... si dovesse tenere secreta l'andata.... il Gran Maestro scrisse che le galere della Religione si dovessero porre in ordine per accompagnare il generale del Papa dovunque andar voluto avesse.... in busca di corsali. »
313. Bosio cit., III, 36, E: « Il Grammaestro da Roma.... in compagnia del Legato se ne andò in Civitavecchia, dove a 25 di giugno fece dare le vele ai venti... » 37, A: « Navigando alla volta di Francia con le galere della Religione unitamente con quelle del Sommo Pontefice. »
314. Bosio, 40, C: « Nel detto viaggio di ritorno.... trovarono il duca di Borbone nel porto di Levanto, che voleva essere accompagnato a Barcellona. »
315. Du Mont, Corps diplomatique, t. IV, part. i, p. 399.
Gregorio Rosso, Storia delle cose di Napoli dal 1526 al 1537 scritta per modo di giornale, in-4. Napoli, 1635, p. 2.
Bizarus cit., 471.
316. Joannes Christianus Lunig, Codex Italiæ diplomatic., in-fol. Lipsia, 1725-35, t. I, p. 175: « Liga sancta inita inter Clementem VII P. M. Franciscum I Gallicæ regem, respublicas Venetam et Florentinam, nec non Franciscum Sfortiam mediolanensem, adversus Carolum V, electum rom. imp. Actum Cognaci, die XXII maji MDXXVI. »
317. Docum., § 18.
318. Archivio Storico, in-8. Firenze, 1848, t. VI, p. 270, 280, 335, 354.
319. Ortisius cit., p. 386. (V. sopra p. 190, 12 agosto 1522.)
320. Sybel, Giornale storico, in-8. Monaco, libreria di T. G. Cotta, t. VIII, quaderno IV, anno 1862, p. 550. — A mia richiesta la Direzione rettificò l'equivoco, e mi spedì in foglietto volante un esemplare dell'ammenda pubblicata l'anno seguente 1863, p. 149, che conservo presso di me. Ciò ricordo ad onore della Direzione.
321. Genealogia dei principi Doria compilata sopra i documenti genovesi da Agostino Olivieri, Monete, medaglie e sigilli dei principi Doria, in-8. Genova, 1859, p. 30. — E da L. T. Belgrano, Il palazzo dei principi D'Oria a Fassuolo coll'atlante di undici tavole. Genova, 1874, p. xiv, tav. prima:
Alberetto Genealogico dei Doria.
FRANCESCO, qu. CEVA Consignore di Oneglia m. Caterina Grimaldi, qu. Giovanni dei Signori di Antibo
Giovanni m. Luigia Doria, qu. Tedisio. Ceva m. Carocosa Doria, qu. Enrichetto Signore di Dolceacqua.
Tommaso m. Maria Grillo, qu. Lorenzo Signore di Lerma. Andrea n. 30 novembre 1466 creato principe di Melfi nel 1531 † 25 novembre 1560.
Giannettino m. Ginetta Centurioni-Oltramarino di Adamo, Marchese di Stepa.
Giannandrea n. 1539. Secondo principe di Melfi.
322. P. A. G., Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto, Firenze, Le Monnier, 1862, p. 47, dove si descrive l'età, la fisonomia e il carattere di Giannandrea: e alle pagine 41, 45, 125, ec., dove parlando di Andrea (tuttochè incidentemente) si aggiunge sempre Il vecchio, o Lo zio, per calcar meglio la diversità delle due persone. E perchè del primo trattano tutti i biografi, ho detto del secondo: « Niuna biografia, a mia notizia, parla di Giannandrea, men che quella di Brantôme. » (Così ripeto anche oggi 15 luglio 1875. — Dirò a luogo e tempo della sua autobiografia perduta.)
323. Lorenzo Cappelloni (alla genovese Capellone ). La vita e gesti di Andrea Doria, in-8. Venezia, Gabriel Giolito dei Ferrari, 1565. ( Notate l'anno! )
Caroli Sigonii, De Vita Andreæ Doriæ, libri duo. ext. int. op. omn. III, in-fol. Milano, 1733. — Genova, 1586.
Pompeo Arnolfini, Vita e fatti di Andrea Doria, tradotti dal latino di Carlo Sigonio, in-8. Genova, 1598. (Cito la traduzione.)
F. D. Guerrazzi, Vita di Andrea Doria, due volumi in-16. Milano, Guigoni, 1864.
Moreri, Ladvocat, Feller, De Chesnel, Biografia universale di Venezia, Dizionario degli uomini illustri ed. in Padova, e ogni altro Manuale storico e Dizionario di erudizione, tutti insomma parlano di Andrea, e fin qui niuno di Giannandrea. (Come ho detto così ripeto a' miei Critici.)
324. Giuseppe Melghiorri, Guida di Roma. Galleria del Palazzo Doria, in-8. Roma, 1835.
Agostino Olivieri, Monete, medaglie e sigilli dei principi Doria, in-8. Genova. tav. 1 e 2, e il suo testamento e codicilli, a p. 86.
Pini e Milanesi, Scrittura di artisti in fotografia, in-4. Firenze, 1870. — Sebastiano del Piombo.
Vasari, ed. Le Monnier, X, 12: « Bastiano ritrasse ancora Andrea Doria, che era nel medesimo modo mirabile. » XIII, 161: « Il Bronzino poco dopo a monsignor Giovio amico suo fece il ritratto di Andrea Doria. » XII, 29, 30, più IX, 10: « La statua di Andrea Doria fatta dal Montorsoli e da Alfonso Lombardi. »
Avv. Gaetano Avignone, Medaglie dei Liguri e della Liguria, in-8. Genova, 1872, pag. 84: « Andrea Doria. »
325. Scipione Ammirato cit., 359, 19: « In Roma i macellaj si sono sollevati per alcuni dazj messi dal Papa per sostentar la condotta di Andrea Doria, cui aveva dato il generalato delle sue galee. »
326. Bosio cit., III, 45, B: « Andrea Doria, fatto generale delle galere del Papa, non così presto n'ebbe preso il possesso, che coll'autorità del Papa ebbe in conserva le tre galere della Religione. »
327. Bosio cit., 45, C: « Andrea Doria contro Barbarossa famosissimo prese nei mari di Civitavecchia quindici vaselli da remo.... liberato un numero grandissimo di poveri Cristiani schiavi. »
328. Ariosto, Furioso, XV, 30:
« Questo è quel Doria che fa dai pirati
Sicuro il vostro mar da tutti i lati. »
329. Folietta, Hist. genuen. Ann., 1525, in fin., ap. Burman in Thesaur., I, 728, D.
Giovanni Cambi, Storie; tra le Delizie degli eruditi toscani, XXII, 282.
Gian Matteo Ghiberti, Lettera a don Michele de Sylva. Lett. dei principi, in-4. Venezia, 1575, II, 154.
Guicciardini, lib. XVII, ed. cit., p. 1169.
Varchi Benedetto, Storie fiorentine, lib. II.
Ammirato cit., II, 363.
330. Vasari cit., Le Monnier, X, 10. — XI, 110, n. 111.
Promis cit., II, 74, 300.
331. Anonymi Senensis, Bellum Julianum anno MDXXVI gestum. Arch. St. It., 1850, app. VIII, p. 312.
Luciano Banchi, I porti della maremma sanese durante la repubblica, narrazione storica con documenti inediti. Arch. Stor. It., in-8. Firenze, 1870, t. XII, parte II, disp. 4, p. 62, e docum. segg.
Guicciardini cit., 1190.
Ammirato cit., II, 359.
Sigonio cit., 54.
Cappelloni cit., 27.
332. Sigonio cit., 56: « Le galere del Doria se ne passarono da Civitavecchia a Portofino, e quelle dei Francesi vennero da Marsiglia a Savona. »
Cappelloni cit., 27: « Il capitano Andrea con otto galere, con lo stendardo del Pontefice, andò a Portofino.... et sedici galere vinitiane. »
Giustiniani cit., 278: « Venne l'armata di Francia et ripigliò Savona.... si congiunsero quattordici galere dei Veneziani con sei del Papa.... in tutto trentasette galere. »
333. Bizarus cit., 462, fin.: « Multis navibus frumento onustis, quæ Genuam petebant, captis. »
334. Giustiniani, loc. cit., 278.
Guicciardini cit., 1220.
335. Giustiniani, 278: « L'armata di Spagna erano vintidue velle quadre. »
336. Bizarus, 432, 35: « Classis in qua quatuor galeones, sexdecim triremes regiæ, tresdecim Venetorum, et undecim pontificiæ. »
337. Atlante Luxoro, p. 52, n. 65: « Codemonte (nota) Capodimonte, oggi capo della Chiappa, a ponente di san Fruttuoso. »
Carta idrografica del littorale della Liguria, scandagliata dagli ufficiali e piloti della regia marina sotto la direzione del vice ammiraglio c. G. Albini, gran-fol. Genova, 1834: « Promontorio di Portofino, punta della Chiappa. »
338. Sigonio cit., 56.
Cappelloni cit., 28.
Giustiniani cit., 278, Y.
Verdizzotti cit., II, 488.
Belcairus, Rer. Gallic., in-fol. Lione, 1625, p. 580.
Muratori, Ann., 1526, prop. fin.
339. Raynaldus, Ann. eccl., 1526, n. 10: « Jacobus Sadoletus episcopus Carpectoractensis, postea cardinalis, qui Pontifici a consiliis erat, extitit semper belli dissuasor. »
340. Gregorio Rosso, Giornali cit., p. 4.
Giustinianus, Rer. Venet., in-fol. Argentorati, 1611, p. 259.
Belcairus, Rer. Gallic., in-fol. Lione, 1625, p. 582.
Verdizzotti cit., II, 478.
341. Ammirato cit., II, 363.
342. Gio. Matteo Ghiberti, Lettera a messer Andrea Doria, tra le « Lettere dei principi. » Venezia, 1575, II, 165.
Idem, Corrispondenza segreta col cardinale Agostino Trivulzio, decifrata e pubblicata dal marchese Filippo Gualtieri, in-8. Torino, 1845.
Cappelloni cit., 28: « Il Pontefice.... chiamò Andrea a Civitavecchia, il quale imbarcò.... alcune genti di guerra.... sotto il carico di Orazio Baglione.... e alla Fiumara di Roma monsignor di Valdimonte. » (Vaudemont.)
343. Belcairus cit., 590.
Guicciardini cit., 1242.
Muratori, Ann., 1527.
344. Clementis, Pp. VII. Epistolæ et acta diversa. Mss. Casanat., X, IV, 47.
Raynaldus, Ann. eccl., 1527, n. 11.
345. Giustiniani cit., 278, X: « Il duca di Borbone, quale era andato in Spagna a parlare con Cesare, ritornò a Genoa con quattro gallere, et passò in Lombardia, et restò capitan generale. »
346. Marcello Alberini (romano e testimonio di veduta), Discorso sopra il sacco di Roma. Ms. nell'Archivio Capitolino, Credenz. XIV, cod. vii, da 51 a 88.
Anonimo, Relazione del sacco di Roma, dato li sei di maggio 1527, e cavata da alcuni manoscritti di persone trovatesi presenti. Mss. Casanat., D, VI, 33.
Jacopo Bonaparte, Ragguaglio storico di tutto l'occorso giorno per giorno nel sacco di Roma, dove si trovò presente, in-4. Colonia, 1756.
Francesco Guicciardini, Il sacco di Roma, in-8. Colonia, 1758. — Ed Opere inedite, vol. IX.
Patrizio de Rossi, Memorie storiche dei principali avvenimenti politici d'Italia, durante il pontificato di Clemente VII, in-12. Roma, 1837.
Cæsar Glorierius, Historia expugnatæ et direptæ urbis Romæ, in-4. Parigi, 1538.
Adam Reisnerus, Comment. de vita et rebus gestis Georgii et Gasparis Frundsbergiorum, in-fol. Francoforte, 1568.
Anonymo, Dialogos de Mercurio y Caron.... en que se tratan las cosas acaecidas en Roma l'año 1527, in-4. perv. Sine nota loci et anni. Biblioteca Casanat Z, XIII, 31.
Documenti pub. dal Corvisieri, Roma, 1873.
Carlo Milanesi, Il sacco di Roma. Firenze, 1867.
Scipione Volpicella, Narrazione del Santoro, ec.
Enrico Narducci, Il poemetto del Celebrino. Roma, 1872.
347. Guicciardini, Stor., lib. XIII, in-4. 1645, senza nota di luogo, p. 452: « I fanti spagnuoli e tedeschi entrarono in castello Santangelo, ma non furono colla medesima facilità consegnate le altre fortezze e terre; perchè quella di Civitavecchia ricusò consegnare Andrea Doria, benchè ne avesse comandamento dal Pontefice. »
Muratori, Annali, 1527, post. med.: « I capitani imperiali fecero accordo con obbligarsi il Papa a pagare.... e consegnare Castel Santangelo, e le rocche d'Ostia, di Civitacastellana, e di Civitavecchia.... Andrea Doria ricusò di consegnare Civitavecchia. »
348. Cappelloni cit., 28, 29: « Andrea da Napoli fece ritorno in Civitavecchia.... in questo repentino et inaspettato accidente della presa di Roma.... si trovava Andrea in Civitavecchia.... pregato dal Papa a non prestare orecchio agli imperiali.... perchè se si accordava con loro sarebbe stato cagione di farlo condurre prigione in Spagna o a Napoli. »
Sigonio cit., 57: « Il Papa non potendo in questo tempo servirsi del Doria.... et saputo che gli erano offerti grandi partiti, perchè passasse al servizio dell'Imperatore.... lo sollecitò per secreti messi ad appoggiarsi di nuovo al re di Francia. »
349. Agostino Olivieri, Monete, medaglie e sigilli dei principi Doria, in-8. figur. Genova, 1859, p. 42 e tav. I: « I sigilli dei principi Doria che mi vennero alle mani sono pochi. Il primo spetta ad Andrea I; è su carta bianca, attaccato ad una lettera che quel Principe (non ancor tale) scriveva ai Protettori di San Giorgio l'agosto 1527 da Civitavecchia. Rappresenta l'aquila distesa sulla croce di Sant'Andrea. »
350. Cappelloni, 30: « Et passando da Civitavecchia a Savona, andò a congiungersi con le altre galèe francesi. »
351. Bosio cit., III, 69, C: « Nell'anno 1528.... il Pontefice aveva dato intenzione di mandare anche egli all'impresa di Rodi due delle sue cinque galere. » V. appresso le note segg.
352. Bosio cit., II, 71, E: « Il Pontefice.... non poteva concedere alcuna delle sue sei galere per unirle coll'armata della Religione. »
Giovio, Rainaldo, Doria, e appresso alle note 45, e 46.
353. Bosio cit., 48, E: « Due galere nuove, oltre un'altra che già in Civitavecchia s'era quasi del tutto finita. »
354. Bosio cit., 69, G: « Il Salviati priore di Roma.... dovesse destramente procurare di averle tutte, e che almeno le due galere promesse da Sua Santità in modo alcuno non mancassero. »
355. Du Mont, Corps diplomatique, IV, II, 5 a 53.
Varchi, ediz. fiorent., 1843, I, 590.
356. Raynaldus, Ann. Eccl., 1529, n. 70: « Clemens Pp. VII, dilecto filio Carolo etc... tres legatos, S. R. E. cardinales ad eamdem serenitatem tuam duximus destinandos. »
Varchi, Storie, ediz. fiorent., 1843, II, 50.
357. Benedetto Varchi, Storie fiorentine, in-fol. Colonia, 1721, p. 227. — Ed. in-8. Firenze, 1843, II, 24, 28: « Cesare agli dodici di Agosto in giovedì sera a Genova.... fanteria novemila quattrocento.... dumila bisogni.... cavalli di guerra dumila cinquecento.... trentasei galere del Doria e del Portondo.... settanta vele quadre.... ed il restante trafurelle e brigantini circa cento trenta legni. » (L'editore avverte nella nota di avere invano cercato Trafurella nei Vocabolari. Se avesse avuto il mio, sarebbegli venuto così: Trafurella, s. f. ( Bosio, II, 652. Varchi, Colonia, p. 227): Specie di galeotta sottile e agilissima a vela e a remo, così detta dalla attitudine al trafugarsi e al passare di soppiatto in ogni parte. Si usava per avviso, per la polizia dei porti, e anche per combattimenti di sorpresa e di agguato.)
358. Bizarus cit., 479.
Filippo dei Nerli, Comment., in-fol. Augusta, 1728, p. 191.
Bernardo Segni, Storie, in-fol. Augusta, 1723, p. 76.
359. Sebastiano Paoli, Codice diplomatico dell'Ordine Gerosolimitano, in-fol. Lucca, 1737, II, p. 194. — Diploma esteso, per Malta, Gozo e Tripoli di Barberia.
Bosio cit.. III, 80, C: « Tenore del privilegio della donazione di Malta, del Gozo e di Tripoli, donati alla Religione da Carlo V, tradotto dal latino nel volgar nostro idioma eccetera. Dato da Castelfranco presso Bologna addì 24 Marzo MDXXX, indizione terza, duodecimo dell'imperio. »
De Vertot cit., III, 509: « Le traité concernant les Chevaliers fut signé le 24 de Mars à Castelfranco, petite ville du Bolonois. L'Empereur y déclaroit.... qu'il avoit cedé et donne à perpetuité.... à la dite religion de S t Jean, comme fief noble, libre, et franc les châteaux, places, et isles de Tripoli, Malthe, et Goze. »
360. Francesco Sansovino, Annali turcheschi e Vite dei principi Ottomani, in-4. Venezia, 1573, p. 242: « Solimano andò avanti alla volta di Buda. »
361. Luigi Gonzaga (detto Rodomonte), Stanze a M. Lodovico Ariosto, stampate in appendice al Furioso, di questi successi nel 1531 parla così:
« Poichè la fiera spada d'Oriente
È quasi giunta a le Tedesche porte;
E volto il tergo al già vinto Occidente
Il mio signor post'ha suo petto forte
Per farne scudo: e chiama all'alta impresa
Italia, Francia, e la romana Chiesa. »
362. Teodoro Spandugino Cantacuzeno, Commentari dell'origine e costumi dei Turchi, in-8. Firenze, 1551, p. 58, 59.
363. Raynaldus, Ann., 1532, n. 20: « Præter hæc vero subsidia, etiam duodecim triremes classi conjunxit. »
Paolo Giovio, Historie del suo tempo, tradotte da Lodovico Domenichi, in-4. Venezia, 1608, p. 271: « Le galèe del Papa col signor Antonio Doria, loro generale. »
364. Antonio Doria, Compendio delle cose di sua notizia et memoria occorse al mondo nel tempo dell'imperator Carlo Quinto. Genova, fol. parv., coi tipi di Antonio Bellone, 1571, p. 48: « L'anno 1532 ordinò l'Imperatore che Andrea Doria andasse contro l'armata di Solimano.... con la sua, e dieci galere del Papa, delle quali Antonio Doria era generale, e quattro della Religione di Rodi sotto il capitano Salviati prior di Roma, che tutte insieme erano trentotto, con altre trenta navi. » (Libro rarissimo: esemplare procuratomi dai miei amici di Genova.)
365. Antonio Doria, Discorso delle cose turchesche per via di mare.
Mss. Casanatense, segnato XX, IX, 8. Inedito.
Carta e caratteri del secolo decimosesto, senza data, ma certamente composto prima del 1548, perchè vi si parla di Barbarossa vivente. Sono quattordici pagine di scrittura piena, e comincia: « Havendo il Turco, come è manifesto a ciascuno, grandissime forze di danari, di gente, e di galere.... (finisce) Sborsi molta quantità di danari. »
366. Bosio cit., III, 103, A, anno 1531: « Due galere ben armate di ciurma, con sessanta huomini di capo per galèa, a ragione di dodicimila ducati d'oro l'anno; cioè cinquecento al mese per galèa. »
Vedi sopra i docum. e lo specchio a p. 112.
367. Pantera, L'armata navale, in-4. Roma, 1614, p. 132: « I buonavoglia si distinguono dagli altri per i mustacchi non rasi che portano per segno, essendo nel resto rasi, come gli altri.... gli schiavi turchi portano una ciocca di capelli sulla sommità della testa.... i forzati tutti rasi. »
368. Archivio camerale di Roma, di che vedi all'Indice.
Archivio di Stato in Firenze, come alla p. 113.
Codice Barberiniano cit., ivi:
Nota di quanto importa la razione di marinaro o di bonavoglia in un mese:
1. Pan fresco o biscotto libbre due al giorno, che in un mese sono libbre 60 a soldi 12 la decina scudi 0,72.
2. Una pinta di vino (sottosopra un litro), che a soldo uno e un terzo fa per mese 0,40.
3. Minestra once tre, che per mese sono libbre otto, a un soldo la libbra 0,08.
4. Libbra una di carne fresca, o mezza di salata, o di pesce, o di cacio 0,72.
5. Olio e sale 0,08.
scudi 2,00.
369. Archivi e Codici come alla nota precedente.
Nota delle spese di vestiario per ogni forzato o schiavo o bonavoglia, all'anno.
1. Giubba di stametto rosso palmi undici, a scudo uno la canna di palmi otto scudi 1, 37.50
2. Canavaccio per fodera palmi sei, a soldi quindici la canna 0, 11.25
3. Tela per due pantaloni, palmi diciotto, a soldi quindici la canna 0, 37.75
4. Tela per due camicie, palmi ventidue a soldi diciassette la canna 0, 46.75
5. Berretto rosso di panno 0, 08.—
6. Cappotto di albaggio in palmi ventuno, a scudi uno e soldi venti due e mezzo la canna 3, 21.33
7. Calzettoni di albaggio palmi tre, all'istesso prezzo di sc. 1.22 ½ la canna 0, 27.20
8. Un pajo di scarpe 0, 50.—
9. Spago per cucire il cappotto 0, 00.80
10. Filo per cucire ogni altra cosa, oncia una avvantaggiata 0, 02
scudi 6, 38.58
370. Pantero Pantera (capº. della galea santa Lucia di N. Signore, p. 125 e 230), L'armata navale, in-4. Roma, 1614, p. 140: « Potrà anche il principe aprire un giuoco pubblico per avere remieri di buona voglia.... il qual modo è mirabile per far galeotti.... e sebbene pare che abbia apparenza d'illecito.... nondimeno questo modo si tollera, e forse giova ai giovani, perchè si domano, ed escono più corretti e più cauti. »
371. Bosio cit., III, 368, A: « Il Gran Maestro.... tolse a punta d'onore il riarmare le tre galere.... superando il mancamento delle ciurme, che era il maggiore ostacolo.... con danari tanti vogadori maltesi furono accordati, che col rimanente degli schiavi.... furono bastevoli. »
372. Bartolommeo Crescentio (romano ed ingegnere idrografo dell'armata pont. come dalla dedica e dal Portolano, ed alle p. 128, 397, 408) La nautica mediterranea, in-4. Roma, 1607, p. 95: « Bonevoglie sono gente vagabonda a chi la fame o il giuoco forzò a vendersi in galèa. I meglio sono gli Spagnoli et i Napolitani, sì come ancora sono i più. »
373. Bartolommeo dal Pozzo, Storia dei cavalieri di Malta, dal 1570 al 1688, in-4. Verona, 1703, I, 309.
Avvisi di Roma, Cod. Urbin. sotto la data 2 marzo 1588.
374. Il Saggiatore, Giornale romano di storia, belle arti, e letteratura, diretto da Achille Gennarelli e Paolo Mazio, in-8. Roma, 1845, IV, 104, e 108: « Giornale di casa Gaetani delle cose di Roma. — Cominciano di nuovo a farsi in Banchi altre scommesse sulla promozione dei cardinali, da farsi a questa Pentecoste: chi dice di sì, chi dice di no. E quelli che stanno sulla negativa danno il sessanta per cento. »
Benedetto Varchi, Storie fiorentine, lib. II, in-8. Firenze, 1843, I, 72: « Piero Orlandini, come s'usa comunemente nella sede vacante.... aveva scommesso che il card. de Medici non sarebbe papa, e Giovammaria Benintendi di sì. »
375. Collezione di bolle, bandi, editti e leggi anche in fogli volanti, dal principio della stampa sino al presente. — Bibl. Casanatense nel camerino a sinistra, circa sessanta volumi.
376. Avvisi di Roma, Codice Urbinate alla Vaticana, sotto la data del 25 maggio 1588. — (Narra ciò come cosa di fatto, e notissima a tutti in Roma.)
377. P. A. G., Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto. Firenze, Le Monnier, 1862, p. 157. (Queste cose medesime in poche parole.)
378. Il Saggiatore, Giornale romano cit., 1845, t. IV, da p. 65 a 75.
379. Prese le cifre e le varianti dagli storici che cito continuamente, Giovio, Sigonio, Cappelloni, Bosio, Bizzarro, Foglietta, ed altri, si può formare il seguente
SPECCHIO dell'armata navale e della sua forza nell'anno 1532.
Colonne:
S: Soldati — M: Marinari — R: Rematori — G: Galere — N: Navi — L: Legni min. — Cav: Cavalli — Can: Cannoni.
Contingente di PERSONALE MATERIALE
S M R G N L Cav Can
1. Roma 1200 720 1800 12 » 2 » 60
2. Genova 3600 1440 1800 12 12 5 100 348
3. Napoli 3000 1200 1500 10 10 6 100 290
4. Sicilia 1800 700 1200 6 5 3 100 160
5. Malta 800 240 450 4 1 1 » 65
6. Spagna 2400 1020 1500 10 7 4 100 218
Totale 12800 5320 8250 54 35 21 400 1141
Uomini 26,370
Legni 110
Cannoni 1141
Cavalli 400
380. Bosio cit., III, 150. — (Di Caracca, vedi indietro a p. 84.)
381. P. A. G., Medio èvo, alla voce Corazza. — E Navi romane, terza ediz., p. 7.
382. Bosio, III, 114, B: « Generale dell'armata turchesca Imer Ali. » I cronisti, e i latinisti in vece di Omer-Aly scrivono Omerale, Umerale, e simili.
De Hammer cit., IX, 211, lo chiama Ahmed-beg.
383. Bizarus cit., 491: « Acierum ordo explicatur.... Antonius Auria, qui primo præerat agmini, in dexteram sensim deflectit.... Andreas introrsum.... Salviatus ad lævam concitavit remiges.... Æquata omnium triremium fronte. »
Giovio cit., 269.
384. Antonio Doria cit., 48: « Non havendo.... l'armata di Solimano di ottanta galere.... osato aspettare quella dell'Imperatore, se ne fuggì verso Costantinopoli. »
385. Giovio cit. 269: « Gli mandò dietro il signor Antonio Doria con sette buone galere che lo perseguitasse. »
Bosio cit., 114, C: « Spedì appresso Antonio Doria con sette galere spalverate, fra le quali andò la galera della Religione chiamata il Gallo. »
Bizarus, 492: « Antonium Auriam cum delectis septem triremibus, qui persequeretur, misit. »
386. Coronelli, Piante di città e fortezze, in-fol. Venezia, 1869, t. I, tav. 161 e t. II, 232, 252. — (Bellissime piante e prospetti di Corone.)
Teatro delle guerre contro il Turco, dove sono le piante e le vedute delle principali città e fortezze di Morèa, ecc., in-fol. Roma, Giangiacopo de Rossi alla Pace, 1687, tav. 77, 78. — Bibl. Casanat., Y. I. 13.
Captain A. I. Mansell, R. N. West coast of Morea Koron's Anchorage, gran-fol. Londra, 1865, pubblicato dall'ufficio idrografico dell'Ammiragliato, e venduto da I. D. Potter, agente di detto ufficio, n. 31, Poultry, e n. 14, King Street, Tower Hill.
387. Valerius Flaccus, Argonaut., I., v. 580:
« Quot in ætera surgit
Molibus, infernas toties demissa sub undas. »
388. Antonio Merli, e L. T. Belgrano, Il palazzo del principe Doria a Fassuolo, in-8. con magnifiche tavole. Genova, 1874, p. 54.
389. A. Jal, Archéologie navale, in-8. Parigi, 1840, I, 438: « J'ai trouvé dans les peintures du garde-meubles de la casa d'Oria à Gênes une représentation très-curieuse de l'attaque de Coron en 1533 (leggi 1532) par la flotte combinée espagnole, génoise, papale et malthaise.... On y voit les naves combattant sous voiles la partie droite des fortifications, pendant que les galères combattent la gauche.... un rang de six galères, derrière lequel est un second rang de six autres galères attachées poupe à poupe par deux gomènes.... Arrangement dont la cause échappe à ma sagacité.... On n'invente pas des choses pareilles.... surtout quand on peint dans le palais d'Oria. »
Idem, I, 13. Parla del dipinto esprimente il fatto di Corone.
390. P. A. G., Le due navi romane del bassorilievo portuense nelle tre edizioni, e specialmente nell'ultima, a p. 99, 100.
391. Bizarus, 493: « Naves circumductæ in amplissimam coronam.... Scaphæ pluteis et asseribus protectæ, ancoras provehi et in littus ad scopulos collocari jubebat. »
Sigonio, 148.
Giovio cit., 270.
392. Bizarus, 493: « Pontes paribus antennis impositi, tabulisque constrati a fronte prominebant ita ut summitati mœnium æquarentur. » — Cappelloni cit., p. 50.
393. Crescentio, Nautica cit., 120: « Come si fa per disarborare la maestra e quando. »
Pantera, L'Armata navale cit., 310: « Facendo ammainare le vele e disarborare l'albero della maestra, e andar le galèe l'una dietro l'altra. »
Marco Guazzo, Storie, in-8. Venezia, 1549, p. 153: « Doria.... tolte seco sei galere del Papa.... che punto non parevano per essere dette galere disalberate.... et dipoi fece disalberare trenta altre galere. »
394. Bosio cit., III, 147, A: « L'ordine nel battere Corone.... le galere in tre squadre.... disarborate.... accordandosi a schiera a schiera.... andavano sotto, sparavano.... e poi ritirandosi davano luogo alle altre per ritornare di nuovo, secondo l'ordine. »
Jovius, Hist. in-fol. Basilea, 1578, p. 285: « Triremes rostratæ per acies tripartito agmine succederent, displosisque tormentis, sequentibus locum darent. »
Raynaldus, Ann., 1535, n. 50: « Auria disposuit ut rostratæ sibi per vices tripartitæ succederent, displosisque tormentis, cederent locum sequentibus. »
Marco Guazzo cit., 247: « Le galèe a quattro a quattro dovevano battere, e poi voltarsi a dar luogo alle altre, e così di mano in mano. »
395. Indice in fine, alle voci Castelnuovo, e Goletta.
396. Bizarus, 493: « Hortantibus maxime Græcis, qui ad nostros cupidissime transierant. »
397. Bizarus, 493: « Tuttavilla duceret italicas cohortes, et læva parte supra molum quateret septem tormentis.... Mendocius cum Hispanis a dextera.... totidem tormentis aggrederetur. »
398. Bizarus, 493: « In summis carchesiis duarum navium maximarum, Grimaldiæ scilicet et Rhodiæ, sacri falconesque bini constituti. »
399. Bizarus, 493: « Pontificiæ triremes.... Antonio Auria deposcente, dexterum cornu tenuere. »
Giovio cit., 271: « Ma le galèe del Papa al dirimpetto, richiedendo ciò Antonio Doria, tennero il corno destro. »
400. W. H. Smith, Mediterranean, Londra, 1854, p. 59: « The City of Koròn.... the shores are exceedingly bold-to, there being a dept of 120 fathoms at a short distance from the shore. »
401. Bizarus, 494: « Primus vexillum defixit imberbis juvenis Ligur, genere humilis, sed eo saltu clarus.... proximus miles ex hydruntino galeone, ac demum Lamba. »
Giovio cit., 272: « Fu il primo un giovane sbarbato genovese della nave Grimalda.... il quale piantò lo stendardo su la muraglia dei nemici.... appresso un soldato del galeone d'Otranto e Lamba genovesi ambedue. »
402. Bosio cit., III, 115, C: « I cavalieri di san Giovanni furono i primi a montare sopra le mura di Corone.... a forza di mani e di braccia fu necessario che vi rampecassero (sic.)»
403. F. D. Guerrazzi cit., Vita di Andrea Doria, I, 277: « Macchine che prolungandosi si andarono a posare a modo di ponti sul parapetto delle opposte muraglie.... Sopra cotesto aereo calle primo si avventurava, e primo attinse le opposte mura Lamba Doria » (e buci!).
404. Antonio Doria, Compendio cit., 48: « A Corone il giorno di San Matteo del trentadue, dandosi l'assalto in un medesimo tempo da tutte le parti, entrarono prima quei delle galèe del Papa, dalla parte che si chiama Isola. »
De Hammer cit., IX, 210: « Trecento soldati italiani perirono dalla parte di terra, più di mille furono feriti: ma più felici furono i soldati delle galere papali che, dalla così detta Isola, penetrarono nella città. »
405. Giovio, 272: « Avendo tagliato la via maestra, vi avevano tirato una fossa a traverso.... Mandato il signor Pietro della Tolfa con trecento archibugeri.... i Turchi spingendo i cavalli.... cadevano nella fossa. »
406. Bosio cit., 116, A: « S'arborarono sulla porta medesima tre bandiere, cioè del Papa, dell'Imperatore, e della Religione di San Giovanni. »
407. Bosio, 116, B: « Spedito havendo il prior di Roma Salviati con quattro galere della Religione, ed altre quattro del Papa. »
408. Bizarus cit., 495.
Bosio cit., 116, C.
409. Villiam H. Smith rear-admiral. The Mediterranean, in-8. Londra, 1854, p. 51: « The entrance of the gulf defended by two castles of projecting form, which are distant a mile and a half from each other, and are known as the Dardanelles of Lepanto ( Rhium, and Antirrhium. )»
Coronelli, Piante di città e fortezze, tav. 52, 122, 134, 169: « Bocca del golfo di Lepanto, Dardanello di Grecia da Mezzogiorno. Dardanello Molicrèo. Golfo di Patrasso. Dardanelli di Lepanto. Dardanello di Rio. » — P. A. G., Giornali di viaggio, Mss.
410. Brantome cit., II, 51: « Quand Solyman vint devant Vienne la première fois.... une armée navale attaqua l'Admiral-Bassa.... qui se retira bien qu'il fust le plus fort. Sur quoi le gran Seigneur, en ayant pris l'alarme, desmordit de Vienne, et tira vers Constantinople. »
Raynaldus, Ann., 1532, n. 39, 46, 51.
Antonio Doria, Compendio cit., 48: « Fu presa la città di Patrasso e le Castella, che guardavano quel golfo, del qual danno parve che il Turco si sbigottissi molto. »
411. P. A. G., Medio èvo, II, 170, 269.
412. Docum. di Simancas, pubblicati e ordinati da Massimiliano Spinola, L. T. Belgrano, e Francesco Podestà. Atti di Stor. Patr., t. VIII, p. 356. Lettera di Filippo di Spagna a Carlo V, data da Voghera, 16 dic. 1548: « Discuriose particularmente en la persona de Antonio Doria, y en lo que el pretende que V. M. le dé autoridad a el y a los otros criados y servientes que V. M. en aquella ciudad tiene, y que no la tuviesse toda Andrea Doria, y otras cosas a este proposito: por donde paresciò que seria mejor que el dicho Antonio Doria se fuesse a Napoles, como dice que lo quiere hazer, que no estuviesse allì; porque, aunque para servir no es tanta parte, como el se haze; para un tumulto seria mucho. »
413. Eugenio Gamurrini, Delle famiglie Toscane ed Umbre, in-4. Firenze, 1679, t. IV, p. 176. — Nato in Firenze 1492, morto in Roma 1568.
414. Bosio cit., III, 122, B: « Bernardo Salviati priore di Roma tratteneva ordinariamente da sessanta gentiluomini principali et valorosi capitani appo la persona sua. »
415. P. A. G., Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto, Le Monnier, 1862, p. 19. Documento coi nomi e cognomi di settantasette gentiluomini che formavano la casa militare del Capitan generale; e appresso al libro settimo tornerà lo stesso col capitano Carlo Sforza.
Paolo de Mochis, gentiluomo romano, in una lettera a Pier Luigi Farnese duca di Parma, narra come testimonio di veduta la fedeltà dei trenta gentiluomini poveri, provvisionati da Cesare Borgia duca Valentino, che soli gli restarono fedeli, e lo salvarono dalla furia del popolo romano dopo la morte del Papa. — Lettera pubblicata dal Ronchini nel giornale perugino del 1872, intitolato: Erudizione Artistica.
416. Bosio cit., III, 122.
Vertot cit., IV, 244.
417. Bosio, 125, A: « Il prior Salviati colle quattro galere della Religione in Civitavecchia.... da lui intese le relazioni di Corone.... » 126: « Sua Santità lo mandò in Civitavecchia.... dandogli il carico delle galere della Chiesa.... il corno destro dell'ordinanza al Salviati colla squadra delle galere ecclesiastiche colle quattro della Religione. »
418. Mambrino Roseo, Continuazione delle Storie del Mondo di Giovanni Tarcagnota, in-4. Venezia, Giunti, 1598, III, 153.
Paolo Giovio cit.
Collenuccio, Roseo, e Pacca, Storia di Napoli, in-4. Venezia, 1613, II, 113: « Occorse di giugno che i soldati vecchi spagnuoli abbottinatisi per conto delle paghe havevano occupato Aversa, et saccheggiatala; et fatto di gran danni ad altri luoghi in Terra di Lavoro. »
419. Cappelloni cit., 52.
Sigonio cit., 160.
420. Antonio Doria, Compendio cit., 52.
421. Bosio cit., III, 127, B: « Il prior di Roma più di tutti avanzato.... stava già per investire alcune galere turchesche.... fu proibito dal Principe. »
422. Clemens Pp. VII, Ferdinando rom. regi. sub die XXI augusti MDXXXIII, ap. Raynal.: « Per hos dies præsidium Coronis, quod a Turcis obsidebatur, cesareæ et nostræ classis virtute, obsidione liberatum. »
423. Nicolaus Isthuanfivs, De reb. Hungar., lib. XI.
Jovius cit., lib. XXXI.
Bizarus cit., lib. XX.
Bonfadius, lib. II.
Andreas Maurocenus, lib. IV.
424. Paulus Jovius, Histor., lib. XXXI, in-fol. Basilea, 1578, p. 222: « Fuere qui existimarent Turcas universa classe exui ea die facile potuisse, si Auria bazanianas triremes expectare maluisset; quam infirmis viribus a Messana festinare. Sed alii graviore rectioreque Consilio in freto Siciliæ opportune eos substitisse dicebant, ne Italiæ littora penitus omni navali præsidio nudarentur. Neque enim universas triremes in unius pugnæ periculum devocari Cæsar volebat, utpote qui nequaquam exploratam haberet Gallorum voluntatem. »
Raynaldus, Ann. Eccles., 1533, n. 93.
425. Mambrino Roseo, Storia di Napoli cit., II, 114: « Si confermò la lega fra l'Imperatore, il Papa, il Duca di Milano, il Duca di Ferrara, Fiorentini, Genovesi, Senesi et Lucchesi contro i perturbatori della pace d'Italia, costituendo Antonio de Leiva capo e generale sopra la guerra, il quale dovesse stare in Milano. »
426. Bosio cit., III, 127, E: « Il Doria lasciò in Messina tre galere a carico dell'Adorno per caricare le sete et altre mercantie per Genova.... le quali diedero negli agguati del Giudèo, che a salvamento le prese. »
427. Jovius cit., lib. XXXI.
Belcairus cit., lib. XX.
Guicciardini cit., lib. XX.
Varchi cit., lib. XIV.
Raynaldus, Ann., 1533, n. 78.
428. Bosio, III, 65, E: « Gli antiani atti agli uffici di Re, e di Cercamari. Comanda il Re le guardie, et le altre fationi di Cavalieri, et a lui appartiene il riconoscere e procurare che siano bene armati. Et il Cercamare comanda le artiglierie, et le munitioni per l'archibuseria. »
429. Petrus Paulus Gualterius, Diaria cæremonialia sub Clemente VII. Mss. Bibl. Barberiniana, 1105, p. 187: « Anno MDXXXIII, die martis, nona septembris prælibatus Clemens cum curia sua discessit ex Urbe Roma.... Die dominica, quinta octobris, post meridiem, Papa ingressus est galeam suam, et omnes alii cardinales et curiales, secundum loca sibi designata. Societas nostra, scilicet Corporis Christi, habuit galeam nuncupatam Ducissam.... Navigatum est nocte dieque.... Die sabati, hora decimasesta, intravimus portum Massiliæ.... Die dominica, duodecima octobris, processerunt ad ecclesiam cathedralem. »
430. Regole agli ufficiali pei saluti e segni diversi di onoranza sul mare, jurisditioni di tutte le galere dei cristiani, incontri, tiri, salve, saluti, risposte et cortesie. Mss. alla Barberiniana, segnato LV, 57 (e copia presso di me).
Regole per le guardie, armamenti, saluti, e competenze delle galere e navi di Nostro Signore. — Codicetto in-fol. par. presso di me.
431. M. Arnoul, Lettres. Mss. Bibl. Nat.; pubblicate da A. Jal nell'opera Abraham Duquesne et la Marine de son temps, in-8. Parigi, 1873, t. I, p. 542: « Car, comme ces Réales ne sont jamais que noir et or, je voudrois l'armer toute de Mores avec des coliers et poignets d'argent, non plus que les chaînes de deux premiers bancs qui sont d'argent à celles d'Espagne.... Ma pensée, et c'est l'ordre de toutes les Réales, noires et or, ou tout or. »
432. Brantome, Cap. étrang., II, 222: « Couverture de rouge et jaune mi parties, car ils portoient la livrée du Roy, qui est jaune et rouge, comme je ai veu la reyne Marguerite daujourd'huy sa petite fille la porter long-temps par ses pages et laquais. »
433. Bosio cit., III, 127, D: « Salviati avvisato del matrimonio.... e dell'invito di Sua Santità a Marsiglia.... avuto particolare ordine dal G. Maestro con le galere Apostoliche e con quelle della Religione si incaminò. »
434. Auguste Laforet, Étude sur la marine des galères, in-8. figur. Parigi e Marsiglia, 1861, p. 4: « Dix-huit galères parées de leurs plus riches ornements, amènent le pape Clement VII dans les murs de Marseille, où se trouvaient déjà François I et sa cour. »
Idem, p. 26.
435. Teodore Godeffroy, Le ceremonial françois, in-fol. Parigi, 1649, t. I, p. 816: « La triomphante et somptueuse entrée de nostre saint Pére le Pape, fait en la ville de Marseille l'an. 1533. »
Idem, p. 820: « Autre relation manuscrite des mismes entrées que dessus. »
Antoine de Ruffi, Histoire de Marseille, in-fol. 1642, p. 215.
Sebastiano Fantoni Castrucci, Istoria della città d'Avignone e del contado Venesino, in-4. Venezia, 1678.
436. Godeffroy, Ceremonial françois cit., 819, 823: « Le mercredi ensuivant quinzième jour du dit mois d'Octobre ne fut fait aucune chose de memoire, sinon que le Roy prit après disner toutes les galères qui estoient dedans le port, et s'en alla en la haute mer environ deux ou trois lieues; et entra en une isle pour passer le temps et soy esbattre.... Le Pape n'a bougé de son logis.... Le Roy a esté quelque temps avec le Pape: il s'en est allé aux galères qu'il a emmenées en esbat sur la mer, et ont tiré force artillerie, ce qui il faisoit bon voir et ouyr. »
437. Benedetto Varchi, Storie Fiorentine, ediz. di Firenze, 1844, in-8. t. III, p. 109: « Bernardo Salviati.... priore di Roma.... passò per Ferrara, e ragionando con Giovambatista Busini di quel che gli era avvenuto in Firenze, disse: Al corpo di santa gallina! (che così usava giurare) se io non ero accorto il Bandini mi faceva mal capitare. »
438. Pantera cit., Armata navale, e voc. in fine. « Scarroccio è il diffalco che si dà al cammino fattosi, quando si va a vela delle oste. » (Ciò è dire col vento obliquo, orzando col carro, e caricata la penna coll'osta di sopravvento.)
439. Père Jean Baptiste Labat, Voyage en Espagne et en Italie, in-8. Parigi, 1730, t. IV, p. 190: « Les galères ordinaires du Pape sont de la première grandeur.... aussi grandes que les comandantes de France et des autres princes. La réale a toujours sa poupe enrichie de scolptures et dorures. On en mil une neuve à l'eau en 1714, où la cérémonie de la canonisation de saint Pie était en bas-reliefs très-finis: elle étoit dorée par tout où elle pouvoit l'étre; rien n'étoit plus magnifique. Sa poupe paraissait una montagne d'or sous un pavillon de damas rouge, avec des franges et des crépines d'or. Elles sont aussi très-bien armées, pourvues d'une bonne chiourme, nombreuse et bien exercée, on y mette de bons soldats qu'on prend dans les compagnies de Rome et de la garnison de Civita-Vecchia. » p. 299: « Il faut convenir qu'il n'y a point de galères sur la Mediterranée plus grandes, mieux armées, plus richement ornées que celles du Pape. » VII, 66: « La royne de Pologne s'embarqua sur la galère capitane du Pape commandé par le grand prieur Ferretti.... A Marseille les galères du Pape saluèrent de tous leurs canons.... La capitane salua la réale de France de quatre coups de canon, que la réale lui rendit coup pour coup.... On peut croire,sans que je le dise, qui'l y avoit presse à la venir voir. Elle le meritoit bien; car de l'aveu méme des François c'étoit la plus magnifique qu'on eùt encore vûe. »
440. Franciscus Belcairus, Rerum Gallicarum, lib. XX, in-fol. Lione, 1625, p. 641: « Clemens septimus Massilia solvens, et gravi tempestate jactatus, Savonam transmisit: ubi gallicis triremibus non satis fidens, propter navarchorum imperitiam, aurianas ascendit, et Centumcellas petiit. »
441. Gualterius cit., in Diariis Mss. « Die mercurii, duoduecima novembris, recessimus ex Massilia, et venimus ad locum Salitæ.... die jovis ad locum Tropæi, die veneris ad Villamfrancam.... Die septima decembris Pontifex applicuit ad Civitatem Veterem.... die decima dicti ingressus est Urbem hora vigesima prima. »
442. Clemens Pp. VII, Andreæ de Auria. Datum Civitæ Vetulæ die septimo decembris MDXXXIII: apud Raynaldum ann. 1533, n. 88: « Revertitur ad nobilitatem tuam dilectus filius nobilis vir Marcus Antonius de Auria, natus tuus, cum tuis triremibus.... gratias tuæ nobilitati.... etc. »
443. Clemens Pp. VII, Magistro domus hospitalis S. Joannis. Datum Civitævetulæ, die octava decembris MDXXXIII. — apud Sebastianum Paoli, Codice diplomatico, in-fol. Lucca, 1737, t. II, p. 205: « Notum esse voluimus et dilecto filio, et secundum carnem nepoti nostro, priori Urbis Bernardo de Salviatis, cæterisque vestris testimonium apud te redderemus.... Geminato fructu quem ex illis cæpimus, tum in subventione Coronis, tum in hac comitatione nostra.... gratias agimus, etc. »
444. Clemens Pp. VII, Bernardum de Salviatis triremium præfectum, castellanum quoque arcis et commissarium terræ Civitævetulæ constituit. — Dall'Archivio di Civitavecchia, e dalle Schede Borgiane in Propaganda.
« Dilecto filio Bernardo de Salviatis priori Urbis, et nostrarum triremium præfecto, Clemens papa VII. Dilecte fili, salutem etc. De tua virtute, fide, diligentia, et prudentia confidentes, te castellanum arcis et commissarium terrae Civitævetulæ cum honoribus et omnibus jurisdictionibus, paghis, salariis, et emolumentis consuetis ad beneplacitum nostrum, cum primum illuc appuleris incohandum, auctoritate apostolica, tenore præsentium deputamus. Mandantes moderno castellano dictæ arcis ut tibi, vel missis a te, arcem etc. consignet. — Datum Romæ apud sanctum Petrum, sub anulo Piscatoris, die prima septembris MDXXXIII. Pont. N or i anno decimo. — Blosius. »
445. Protocollo del notajo Berisio, nell'Archivio dei Notari e Cancellieri di Camera a Montecitorio in Roma. Volume intestato Contract. ann. 1534, cart. 152, vers.
« Die XVI aprilis MDXXXIV. R. D. frater Bernardus de Salviatis prior prioratus almæ Urbis, Ordinis sancti Joannis hierosolymitani, et triremium S Sm i D. N. Papæ ad custodiam maris Thirreni dispositarum Generalis capitaneus, sua sponte etc. per se etc. dixit et declaravit, et palam publice confessus fuit in tribus triremibus et brigantino, quorum ut præfertur capitaneus existit esse omnes et singulas munitiones et furnimenta infrascripta Cedula inferius registrata, et ejus manu et subscriptione munita, contenta et annotata. Quæ omnia una cum prædictis galeis et brigantino præfatus D. Bernardus capitaneus restituere et consignare promisit, juxta formam capitulorum dictæ conductæ omni exceptione remota. Pro quibus etc. se obligavit etc. — Actum Romæ in palatio familiæ de Medicis, prope Agonem, nunc habitationis ipsius D. Bernardi etc. — Tenor dictæ Cedulæ.: »
446. Inventario, qui segue il testo in volgare, salvo l'ammenda ortografica: e si noti che non è per la restituzione immediata, ma per la consegna, coll'obbligo di restituire quando ne sarà richiesto dalla Camera.
447. Galèa, dalla clausola in fine si deduce che si parla della Capitana, essendo le altre due ugualmente fornite, meno il Fanale, proprio della prima, e alcuni attrezzi comuni a tutte tre.
448. Pedagna, queste voci ho già dichiarate nella storia del Medio èvo, I, 187: ho detto come i rematori salendo dalla pedagna alla banchina e al banco « facevano descrivere al braccio del remo spazio circolare doppio più che non era la distanza da banco a banco, gittandosi colle spalle addietro, e traendosi il remo al petto sino alla proda del banco seguente.» Questo metodo era notissimo, come pur qui si vede, due secoli prima di Giambattista Baliani, il quale nei suoi Opuscoli fisico-matematici ritorna sul medesimo, come se fosse nuovo. Parrebbe che al suo tempo (secolo decimosettimo inoltrato) fosse stato da altri dismesso e da lui riprodotto; per quanto ora si può argomentare dall'oscuro latino suo, e senza figure.
449. Catene, oggi nei quadri diconsi Landre.
450. Aguglia, ciascun pernio grande su cui gira il timone, il dim. Agugliotto. — Feminella, l'occhio mastiettato con le sue bandelle, nel quale entra l'aguglia. — L' Aggiaccio è la barra per governarlo.
451. Remi per vogare a terzeruolo, cioè con tre remi per banco: indi banchi ventisette, remi 162, e otto di rispetto.
452. Catene interziate, torna il medesimo tre rematori per banco.
453. Accette, per legnare nei boschi.
454. Ronzoni, àncore a quattro marre senza ceppo.
455. Vernicale, torna la voce per scodella grande, come è detto fin dal 1268. (I, 352.)
456. Stipa, ramaglia da brusca usata nel calafatare: per traslato le botti che sopra vi posano.
457. Pavesi, scudi da far pavesata.
458. Artimone, qui vela latina, minore del bastardo.
459. Mattaffioni, funi matte, cioè cavetti che per lo più non si annodano, ma pendono dalle verghe o vele, ed oscillano al vento, e servono a diverse legature quando occorre sulle vele e verghe medesime. — Cordino per raccogliere la vela nel mezzo.
460. Trevo, vela quadra e bassa; cioè vela di fortuna per la galèa.
461. Prodàno, in genere canapo di proda o di prua, talvolta ormeggio, e talvolta straglio di prua: e specialmente cavo piano di primo tiglio per lavori di forza.
462. Vetta dal lat. Vitta, ae, f. a vinciendo, Capo di manovra minore sopra un'altra manovra maggiore. Tirante, o Menale.
463. Ghindare già dichiarato (I, 200, 220.)
464. Osta, cavo che mette e tiene l'antenna al vento, ed osta che non si sposti.
465. Orza qui manovra e cavo da orientare il carro; e la novella di riserva in caso che l'ordinaria si rompa.
466. Palmare, da palo e mare: canapo manesco da essere portato per acqua da un uomo a nuoto, e legato a un palo in terra. Indi le voci Palombaro, Paróma e simili.
467. Grippia da aggrappare, Cavo legato all'àncora e al gavitello che ne segna il posto: da collo, dicesi quella più forte che ajuta a salpare.
468. Barbetta, cavetto per legare lo schifo a rimburchio.
469. Serpentino, cannone da cinquanta e di lunga volata, e lunga canna, sino alle ventisei bocche, ma leggiero di metallo.
470. Mezzi cannoni, da ventiquattro e di lunga canna.
471. Quarti cannoni, cioè da dodici per le bande, da appostare sui fianchi, come si vedrà qui appresso.
472. Smerigli, tornano altri quattro pezzi sui fianchi, come sopra. Smerigli piccoli da quattro libbre di palla, che traevano a scaglia posti sui ceppi.
473. Carcatura, polvere, palle, metraglia, e tutta la munizione degli undici pezzi.
474. Bucio: ecco una prova di più, oltre a quel che è detto del Bucintoro nel Medio èvo (II, 469): la voce durava nel secolo XVI.
475. Bosio, III, 136, C: « Barbarossa fece appiccare il fuoco bruciando alcuni Buchi di galere già fabbricati per conto di Clemente VII. »
Item, p. 173, D: « I Veneziani accomodassero il Pontefice dei Buchi che ricercati avesse per fare il numero di galere. »
Item, p. 849, E: « S. Santità havuti in prestito dodici buchi di galere dai Venetiani, armare gli fece alle sue spese. »
476. Archivio Veneto in-8. 1874, t. VII, parte prima, Giuriato.
477. Cronaca da Canale, Arch. Stor. It., in-8. Firenze, 1845, alla nota 146: « Canonici debent sociare dominum Ducem quando iverit in Buzo. » — (Senza vele, senza alberi: Bucio.)
478. Docum. cit. preambolo: « Bernardus de Salviatis, triremium S Sm i domini nostri Papæ capitaneus Generalis. »
479. Bosio cit., III, 337, B.
Vedi sopra p. 43.
480. Pantera, Armata navale, in-4. Roma, 1614, p. 87.
481. Inventario di tutte le posizioni, istrumenti, tabelle, chirografi, contratti, carteggi, eccetera, risguardanti le materie camerali, divise coll'ordine relativo al nuovo metodo, con cui si ritengono nella computisteria generale della R. C. A. e nell'archivio generale del Ministero di Finanza, situato nel palazzo già Salviati, ora Camerale alla Lungara:
« Pagina 220: Civitavecchia, navi e galere pontificie, cui sono, state poi surrogate le Barche guardacoste.
» Tomi dodici delle materie attinenti alle galere e navi dal 1652 al 1789.
» Altri tre come sopra, di seguito.
» Altri due di relazione storica dei fatti concernenti l'assento delle galere, navi, e fregate, cui sono succedute le guardacoste, scritta dall'ab. Sperandini allora sostituto commissario.
» Altro volume di materie risguardanti la costruzione delle antiche guardacoste.
» Armamento di due galeotte corsare per guardare la spiaggia dell'Adriatico dal 1737 al 1754.
» Scritture per la causa agitata avanti la congregazione dei conti fra la R. C. A. e l'impresario della costruzione delle nuove guardacoste, sulla pretensione del Bonifico delle spese oltre al convenuto, e suo rescritto in fine.
» Altri tomi risguardanti le navi di alto bordo e le fregate san Pietro, san Paolo, san Clemente e san Carlo.
» Strumenti, cause, promozioni, processi, assentisti, arsenali, torri, navigazioni, Tevere, passonate, tiro, ec. ec., sino ai volumi segnati 775, 797. »
482. Jacobus Bonfadius, Annales Genuen., lib. II, apud. — Grævium in Thesaur. I, 1360, A: « Marcus Ususmarius.... cum sex triremibus pontificis maximi sibi conjunctis, cum intellexisset prædonum manum ad insulam quæ Mons-Christi appellatur consedisse, eo celeriter contendit, et primo statim adventu duas eorum biremes, et paulo post ad caput Corsum tertiam expugnavit. Prædones ad centum comprehensi atque in servitutem adducti; ducenti vero Christiani a servitute soluti. »
483. Sanudo e Docum. cit., alla p. 42 e segg. ( Kamâlì, o Kamàl-Rays.)
De Hammer cit., X, 444.
484. Giustiniani, Bembo, Pantera, e gli altri citati alla p. 167 e segg. ( Gad-Aly. )
485. Bosio, Amari, ed i citati a p. 144, 216, 237.
De Hammer cit., IX, 32. ( Kurdôgli. )
486. Fontanus cit., 466, 28: « Archypirata Carrà Mahumethes, tormento ab arce Telèa accuratius emisso, Orco traditus. » Vedi sopra, p. 216. ( Karrà-Mahmùd. )
487. Bosio cit., III, 128, B. « Il Moro di Alessandria combattuto e rotto da Girolamo Canale nelle acque di Candia. »
Mambrino Roseo, Storie del Mondo, in-4. Venezia, 1598, parte III, p. 154.
488. Brantôme, Capit. étrang. cit., II, 82: « Sinàm surnommé le Juif, tres-renommé corsaire, et pour ce le sultan Solyman l'envoya pour son admiral en la mer Rouge. »
De Hammer, X, 466: « Sinàm rinegato ebrèo, difensore della Goletta. » — Vedi p. 262; e l'Indice. ( Synàm, Ciefút. )
489. Varchi, Storie, ed. 1843, II, 24: « Aidino delle Smirne, nominato tra gli altri corsali Cacciadiavoli. »
Bizarus cit., 485.
Bosio, III, 79, B; e gli altri a p. 162.
Calvetus Stella, De Afrodisio Capto, ed. a Clausero, De rebus turc., in-fol. Basilea, 1556, p. 629: « Cum nominis christiani hoste atrocissimo Cahìs, cognomine Diabolus. »
De Hammer cit., X, 460: « Un altro chiamato dagli storici europei Cacciademonio, dagli italiani Cacciadiavoli, dai francesi Chassediable, dagli olandesi Knuppeldiewel, e da Eutrobio Cassiadiabolus. Probabilmente Cassia e Caccia sono Kasim o Quâsim. »
490. Così scrivevano i nostri cinquecentisti; il primo sarebbe stato tra i Musulmani Oürudge; e l'altro Kair-ed-Din. Le varianti al solito; tanto che taluno di Oruccio ha fatto Orazio, e quasi tutti di Kair-ed-Din han fatto Ariadeno.
491. Paolo Giovio, Le vite brevemente descritte degli uomini illustri di guerra antichi e moderni, tradotte da Lodovico Domenichi, in-4. Firenze, 1554. Barbarossa; et Histor., lib. XXX.
Adrien Richer, Vie de Barberousse, in-12. Parigi, 1781.
Brantôme, in-16. Leida, 1666. Capit. étrang. II, 79.
Cornelius Scepperus, Collect. rer. turc., in-4. Anversa, 1554.
Schardius, Collect. rer. german.
De Hammer cit., X, 444. — Barbarossa nella sua autobiografia tace, come convenivagli, la primitiva religione di suo padre, asserita nondimeno da tutti i contemporanei: e nomina gli altri due fratelli Isacco ed Elia.
492. Vedi sopra, p. 277.
493. De Hammer cit., X, 448.
Giovio, Richer, aliiq. Nota 79.
494. Marco Guazzo cit., 116: « Del mese di febbraio 1534 morì Muleì-Mausèt re di Tunisi, lasciando due figliuoli: Muleì-Roscit, e Muleì-Hasèm. » — (V. sopra, p. 149, e seg.)
495. Bosio cit., III, 136, C: « Barbarossa al Cetraro fece appiccare il fuoco, abbruciando alcuni Buchi di galere che quivi si facevano, tra i quali tre già pronti a vararsi per conto di Clemente VII. »
Raynaldus, Ann., 1534, n. 60: « Barbarossa Citrarium incendit, et septem triremes adhuc imperfectas cremavit. »
Antonio Doria, Compendio cit., 53: « Barbarossa bruggiò al Cetrano sei corpi di galèe. »
Hammer cit., X, 452: « Barbarossa assalì San Lucido, prese 800 prigionieri, e lo bruciò. Egual sorte ebbe il Cetraro insieme con diciotto galere. »
496. Vasari cit., ed. Le Monnier, nella vita di Sebastiano Veneziano detto del Piombo, ricorda il famoso ritratto di questa Signora, X, 131.
Annibal Caro, Lettere famigliari, in-8. Padova, 1742. I, 47, 58, 315, 338. Parla della stessa.
Ariosto, Orlando Furioso, XLVI, 8:
« Giulia Gonzaga, che dovunque il piede
Volge, e dovunque i sereni occhi gira,
Non pure ogni altra di beltà le cede,
Ma come scesa dal ciel dèa l'ammira. »
497. Jovius cit., lib. XXXIII.
Raynaldus, Ann., 1534, n. 60.
Roseo, III, 165.
Contatore, Storia di Terracina, 146.
De Hammer cit., X, 453.
498. Gualterius cit., Mss.: « Die vigesima quinta septembris hora decima-octava et media Clemens VII obiit Romae, et die vigesima sexta sepelitur in Ecclesia sancti Petri. » (Donde fu poi trasportato al nobil tumulo che tuttavia si mantiene nel coro della Minerva, rimpetto a Leon X.)
Raynaldus, Ann., 1534, n. 68.
499. Vasari, ed. Le Monnier, XIII, 125, 2.
500. Pompeo Litta, Le famiglie celebri d'Italia, in-fol. magno, figur. Milano, 1838. — Casa Orsini di Roma, tav. XXVII, Gentil Virginio. — (Voglionsi in esso correggere gli errori delle date, conforme ai documenti certi che verrò producendo in questo libro.)
Sansovino, L'istoria di casa Orsina e degli uomini illustri della medesima, in-fol. 1565, II, 25.
Gamurrini, Genealogia delle famiglie toscane ed umbre, in-4. Firenze, 1671, II, 22.
Imhoff, Genealogia viginti illustrium in Italia familiarum, in-fol. Amsterdam, 1710, p. 332.
501. Cardinale Orsini, Lettera all'abate Giustiniani sopra le antichità di Palo e delle località vicine. (Feudi degli Orsini in maremma a ponente di Roma.) Tra le memorabili del medesimo Giustiniani, t. I. — Bib. Casanat., VV, IX, 4.
502. Paulus Pp. III, Gentilem Virginium de Ursinis capitaneum generalem triremium et commissarium portus et oppidi Civitævetulæ constituit. — Arc. Secr. Vat., Lib. Brev. Ann., 1534, mense nov. n. 3, p. 45; e schede Borgiane nel Musèo di Propaganda; e dall'Arch. di Civitavecchia.
« Paulus papa III, dilecto filio Gentili Virginio de Ursinis, Anguillariæ comiti, nostrarum triremium capitaneo generali. — Dilecte fili, salutem etc. — Nobilitas generis et animi tui, singularisque fides et devotio tua ergo Nos et sanctam apostolicam Sedem, cuius nobilis es subditus, merito nos inducunt ut tua opera fidelitate ac diligentia in nostris et dictæ Sedis servitiis libenter utamur. Itaque sperantes quod in rebus tibi commissis tuo inclyto generi et nostræ in te fiduciæ respondebis, te, qui etiam consanguineus secundum carnem noster existis, nostrarum triremium tam præsentium quam fabricandarum generalem Capitaneum, nec non in portu et oppido Civitævetulæ nostris commissarium nostrum, cum omnibus et singulis honoribus, oneribus, jurisdictionibus, facultatibus, et emolumentis ad generales triremium Capitaneos ac dictorum oppidi et portus Commissarios pertinere solitis et consuetis; salario vero in capitulis inter dilectum filium Augustinum, tituli sancti Apollinaris presbyterum cardinalem nostrum et S. R. E. Camerarium, quæ nos confirmamus et observari debere decernimus, a te initis specificando, auctoritate apostolica ad nostrum beneplacitum, facimus, constituimus et deputamus per presentes. Quapropter tam dictorum oppidi et portus ac triremium hominibus, quam totius Status et ditionis S. R. E. præsertim littoralium locorum Tyrrheni et Hadriatici maris communitatibus, populis et particularibus personis, eorumque gubernatoribus in virtute sanctæ obedientiæ præcipimus ut tibi tamquam Capitaneo generali triremium et commissario nostro, prout consueverunt et tenentur, obediant, foveant et assistant, et ad quos spectat de consuetis et debitis respondeant. Contrariis non obstantibus quibuscumque. Volumus autem quod antequam officium hujusmodi ineas juramentum et alia, juxta tenorem capitulorum præedictorum a te adimplenda, in manibus prædicti Camerarii præstare, promittere et adimplere tenearis. »
« Datum Romæ, die vigesima novembris, MDXXXIV, anno primo: — Blosius. — A. card. Camerarius. »
503. Archivio dei notaj e cancellieri di camera cit., Volume intitolalo Contract. ab. ann. 1531, ad 1539. Ch. 34. rect. Berisius Not. — « Die Lunæ vij decembris MDXXXIV. — R mu s in X to P. D. Augustinus Spinula, tit. S. Apollinaris presb. card. Perus. S. R. E. Camerarius, asserens et affirmans habere in manibus a S Sm o D. N. D. Paulo div. prov. Pp. III quædam capitula, conventiones et pacta ut cum Il mo D. Gentile Virginio Ursino de Anguillaria comite, super conducta d. D. Gentilis comitis in capitaneum generalem ad custodiam maris Tyrrheni et Splagiæ romanæ ineat, contrahat et celebret sibi tradita et de S. S. scitu firmata et stabilita juxta tenorem infrascriptum, volens ut par est mandatis apostolicis obsequi, et securæ navigationi d. maris pro romana Curia et ad eam venientium et ab ea recedentium commoditate providere, hinc est quod praef. R m us D. card. Camerarius assistentibus, intervenientibus et consentientibus R. in X to pa b us d. Ascanio ep o Arimin. S S mi. d. n. p. thesaurario generali, el Joanne de Gaddis, et Uberto de Gambara, e p o Terdonen. Cameræ ap l æ clericis insimul congregatis ad hunc effectum et totam Cameram ap l cam representantibus de præf. S Sm i D. N. Pp. mandato ex una, et præfatus Il lm us D. Gentiles Virginius Ursinus comes prædictus presens partibus ex altera, super conducta prædicti Comitis in Capitaneum generalem ad custodiam dicti maris el Splagiæ capitula pacta et conventiones infrascripta inierunt contraxerunt, in hunc qui sequitur modum....
» Actum Romæ in burgo S. Petri, in palatio residentiæ præfati Card. Camerari die, mense, et anno, ut supra. »
504. Bosio, III, 140, E: « Il Papa ajutava l'imperatore con dodici galere, che a sue spese aveva fatto armare in Genova et in Civitavecchia a carico di Virginio Orsino. »
Archivio conventuale dei Domenicani in Civitavecchia, codici intitolati Ricordanze tre volumi in-fol. parv. segnati A. B. C., e codice intitolato Campione, in-fol. e l'altro intitolato Memorie, p. 50: « Paolo terzo fece fare nove galere in Genova, alle quali aggiunse le tre galere che erano solite di guardare la spiaggia, e delle dodici galere fece generale il sig. Virginio Orsini. »
Colecion de documentos ineditos para la historia de España. ed. Navarrete, in-8. Madrid, 1843. III, 545: « Carta de Carlos V a la imperadriz, del Caller 12 junio 1535: »Vinieron las tres galeras de Su Santidad con otras nueve que armò en Jenua. »
Alfonso Ulloa, Vita di Carlo V. in-4. Venezia, 1566, p. 137: « Il papa fece armare nove galere oltre alle tre che aveva prima, dandovi per capo Virginio Orsino. »
505. Raynaldus, Ann., 1534, n. 43: « Pontifex novem triremes in portu Genuensi comparavit, quibus tres alias quæ jam instructæ in portu Centumcellarum erant conjunxit, Virginium Ursinum præfecit.... Adjuncto Paulo Justiniano veneto, navali peritia insigni. »
506. Bosio cit., III, 140, E: « Dando al conte Orsino per luogotenente quel Paolo Giustiniani, gentiluomo veneziano, del quale sopra facemmo menzione che di Candia aiutata aveva la Religione, mentre in Rodi si trovava. »
Idem, p. 3, A; et p. 6, E; etc.
507. Pauli Pp. III, Bulla impositionis duarum decimarum super fructibus ecclesiasticis in tota Italia. — Bibl. Casanat. Collezione grande di Bolle, editti, bandi, etc. dal principio della stampa fino al presente in più che settanta grossi volumi in-fol. t. I, n. 46.
508. Paolo Giustiniani, Lettera alla S. di N. S. data da Civitavecchia, 2 marzo 1535 — Pubblicata dallo storico giornale romano, intitolato Il Saggiatore cit., I, 279, in-8. Roma 1844. — « Beatissime Pater, Post humilem recommendationem et pedum oscula beatorum. » — (Il Conte, del quale si parla senza altri aggiunti, è Gentil Virginio, come risulta dal contesto).
509. Mambrino Roseo cit., III, 169: « L'imperatore fece in Italia assoldare gente, oltre quella che gliene assoldò il Papa. »
Girolamo Fantini, I successi di Roma e di tutta l'Italia, coll'apparecchio dell'armata contro Barbarossa, in-4. Roma, 1535.
Antonio Doria, Compendio cit., 56; « Il marchese del Vasto s'haveva da imbarcare con Antonio Doria, con ordine di raccorre l'armata d'Italia e condurla sino a capo di Polla di Sardegna, dove s'haveva a congiungere con la di Spagna. E così raccolte sei galèe di Papa Paolo Terzo sotto il governo di Gentil Virginio Orsino, tre della Signoria di Genova, et alcun'altre armate di nuovo nel regno di Napoli, et altre di Sicilia.... con molti nobili, e soldati, con le munizioni et vittuaglie. »
Gonzalo Illescas, Jornada de Carlos V a Tunes: « Papa Paulo offreciose de ayudar a Su Majesdad con doce galeras.... los señores y republicas de Italia todos acudieron. »
510. P. A. G., La Marina del medio èvo, II, 435.
511. Blasius Martinelli de Cæsena Diaria Cæremonalia, Mss. Bibl. Barb., cod. 1102.
Joannes Franciscus Firmanus, Socius præfecti. in Diariis ut sup. Bibl. Casanat. XX, III, 17. « Mense aprili MDXXXV. Pontifex Centumcellis triremes benedixit, et quarto calendas majas Romam reversus est. »
512. Gonzalo Illescas, La Jornada de Carlos V a Tunes: « El marquès del Vasto con todas las compagnias de gente española, italianos, y tuduscos, escribieronse cinco mil italianos mas del los ordenarios; Maximiliano Eberstenio trajo hasta ocho mil tudescos, y con la demas gente partiò el marquès de Genua con otras galeras y treinta navios de carga. Tomò puerto en Cività-Vieja, adonde el Papa estava esperando para ver la gente y echarles à todos la benedicion. »
Mambrino Roseo cit., III, 169: « Queste genti imbarcate in Genova e distribuite sopra quaranta navi grosse.... Antonio Doria fece la scorta con 22 galèe.... Questa armata capitò in Civitavecchia, dove era il Papa.... Che la benedì tutta, et diede lo stendardo a Virginio Orsini capitano delle sue galere. »
Raynaldus, Ann. Eccl., 1535, 43, 44.
Archivio de' Domenicani cit., (alla nota 5.) Volume intitolato Memorie, p. 50: « Paolo III con il clero dei sacerdoti benedisse l'armata in effetto da un'alta Torre, quale è la torre di Roccha. »
Prudencio Sandoval, Historia de Carlos V, in-fol. parvo. Pamplona, 1634, II, 112.
Marco Guazzo, Storie, in-8. Venezia, 1549, p. 151.
Giovio cit., 356.
513. Antonio Coppi, Annali d'Italia in continuazione del Muratori. Anno 1798, n. 2.
Cav. Pietro Manzi, Stato antico ed attuale del porto, città e provincia di Civitavecchia, in-8. Prato, 1837, p. 46: « Il naviglio pontificio, composto ed equipaggiato dai nostri, fu tratto alla spedizione di Egitto, e recò colà quel celebrato generale Desaix, che io conobbi personalmente, perchè in quella circostanza alloggiò nella mia casa paterna. »
Baron Parrilli, Le più celebri battaglie navali, in-8, figur. Napoli, 1871, p. 25: « Cinque convogli riuniti nei porti di Marsiglia, Tolone, Genova, Civitavecchia ed Aiaccio, sommanti in uno a dugentotrentadue vele.... ventiquattro mila fanti, quattromila cavalli, tremila cannonieri, sessanta artiglierie da campo; » e p. 27: « Bonaparte costeggiò per riunirsi ai convogli di Ajaccio e di Civitavecchia. »
Antonio Lissoni, Storia militare italiana, in-8. Torino, 1844, p. 22.
514. Rivista marittima, in-8, Roma, 1873, al Ministero della Marina, anno VI, fascicolo 1, p. 178: « Indicazioni sui naufragi ed altri sinistri marittimi, avvenuti a navi mercantili dal 20 ottobre al 15 dicembre 1872.... Nelle acque dello Stato.... Compartimenti di Napoli.... Granatello.... Torre del Greco.... Nisida.... Pozzuoli.... Castellamare.... Compartimenti di Livorno, Isola dell'Elba.... ec. »
Item. Anno VI, fascicolo 2, feb. 1873, p. 345: « Naufragi di bastimenti mercantili nazionali: a Vado.... a Catania.... alla Follonica.... ad Anzio.... a Terranova.... ec. »
Item. Anno VI, fasc. V, giugno 1873, p. 489.
Item. Giugno 1873: « Tre bastimenti rotti gli ormeggi e calati a fondo nel porto di Oneglia; due naufragati al Marzocco del porto di Livorno; otto naufragati a Sestri di Levante; tre naufragati a Lerici; uno a Porto Empedocle; uno presso Sanremo; uno alla Torre di Fogliano; uno sul Molo san Vincenzo di Napoli, ec. »
515. Lapida nel palazzo municipale di Civitavecchia, prodotta dal Torraca, 49; e dall'Annovazzi, 257:
PAULUS . III . ROM . CAROLI . V . IMPERATORIS . CLASSEM AD . TUNETUM . OCCUPANDUM . PARATAM EXPIAVIT . AB . EXCELSA . TURRI . CIVITATIS . CENTUMCELLARUM UBI . VIRGINIUM . URSINUM GENERALEM . ECCLESIÆ SACRO . FOEDERIS . VEXILLO . INSIGNIVIT ARCEMQ . A . JULIO . II . INCHOATAM . ABSOLVIT AN . MDXXXV .
516. Alphonsus Ciacconius, Vitæ Pontificum Rom. in-fol. figur. cura notis Oldoini, Roma, 1677, III, 558.
Bonanni Philippus, Numismata Rom. Pont. a Martino V, etc. in-fol. figur. Roma, 1699, ad Paulum III, in tabula, n. 32.
Rodulphinus Venuti, Numismata Pont., in-4, figur. Roma, 1744, p. 84:
(Nel diritto) PAULUS . III . PONT . MAX .
(Nel rovescio) BENEDICTIO . DOMINI . SUPER . VOS
517. Vasari, ediz. Le Monnier, Vita di Taddeo Zucchero, XII, 139: « Seguitano quattro storie sopra la cornice, cioè sopra ogni faccia la sua. Nella prima il Papa benedice le galèe a Civitavecchia per mandarle a Tunisi di Barberia l'anno 1535. »
518. Lapida monumentale cit., alla nota 16:
«ARCEMQUE A JULIO II INCOHATAM ABSOLVIT.»
Manzi cit., 46: « Opera di Michelangelo però può asserirsi che sia il maschio.... che fu fatto edificare posteriormente da Paolo III. »
Annovazzi, p. 265.
Condivi, Vita di M. A. in-fol. Roma, 1553; Firenze, 1746, p. 39: « Paolo III se ne venne a trovare Michelangelo a casa.... lo prese al suo servigio.... gli fece fare infinite cose, che da me dette non sono. »
519. Antonio Picconi da Sangallo, Schizzi del 1515 per le fortificazioni di Civitavecchia, originali alla Galleria di Firenze, e facsimile presso di me. — (Antonio di sua mano disegna sul terreno le nuove linee, appoggiandole ai punti noti e preesistenti, tra i quali la fortezza e il suo mastio, disegnato in ottagono, e scrittovi sopra: « Torrone della Rocha, di mezzo, a faccie. »)
520. Vasari cit., ed. Le Monnier, XII, 219, e nel prospetto cronologico della vita, 384.
521. Aloysius Armerius, De Gulleta et Tuneto expugnatis, ap. Clauserum de reb. Turcic., in-fol. Basilea, 1556. ( Bibl. Casanat. N. IX, 27.) p. 534: « Septuaginta scilicet triremes, triginta intra biremes, celoces.... oneraria navigia trecenta. »
Alfonso Ulloa, Vita di Carlo V, in-4. Venezia, 1566, p. 137: « Novantuna galera.... ducento e due navi grosse.... in tutto trecento e settantuna vela. »
Antonio Doria, Compendio cit., 56, 57: « Tre galèe della Signoria di Genova. » (Niuno nomina il Capitano.)
522. Bizarus cit., 502: « Et unam quadriremem, quæ Cæsaris prætoria erat, instructam fuisse.... Remigibus serica tunica.... epibatis exornatis. »
Arnoul cit., (p. 351): « Armer de Mores avec de colliers et poignets d'argent, non plus que les chaînes de deux premieres bancs qui sont d'argent à celles d'Espagne. »
523. P. A. G., Marcantonio Colonna a Lepanto, 25, 107, e Docum. ivi citati.
524. P. A. G., Medio èvo, I, 121, 181.
525. Bosio cit., III, 142, D: « L'aquilone dell'Imperatore nel mezzo.... a dritta sei gigli d'oro in campo azzurro di Paolo III.... a sinistra lo stendardo gerosolimitano, Croce bianca in campo rosso.... e di Genova, Croce rossa in campo bianco. » (Così non altrimenti nel mio Medio evo, II, 180.)
526. Jovius cit., 279: « Ad imperium canentis fistulæ dimidiam partem vectorum et remigum in adversam spondam declinare jussit.... quadriremis uti pondere sublevata incolumis evasit. »
527. Bosio cit., III, 143, A: « Doria disse che il terreno africano haveva dato segno di volersi presto e volentieri accostare e fermarsi sotto il dominio di S. M. »
Sigonio cit., 174: « Si rallegrarono della buona fortuna di Cesare. »
Cappelloni cit., 60. (Non dice verbo di ciò.)
Raynaldus, Ann., 1535, n. 49.
528. Coronelli, Atlante Veneto, in gran fol. Venezia, 1697. — Tavole e carte di Barberia.
Nicholas Du Bellin, Atlas maritime, in-4. Parigi, 1774, III, 71: « Côtes de Barberie; 81, Golphes de Tunis; 82, Plan de la ville de Tunis; 83 Plan du fort et canal de la Goulette. »
Thomas A. Hull, R. N., Bay of Tunis, in-fol. Published at the Admiralty, June, 1 st 1867, Sold by J. D. Potter Agent of Admiralty charts, 31, Poultry et 11, King Street, Tower Hill.
William, H. Smith, Mediteranean, 92.
529. Joannes Etrobius, De Tuneto et Gulleta expugnatis, ap. Clauserum de Reb. Turc., in-fol. Basilea, 1556, p. 567: « Est autem Turris quadrata admirandæ crassitudinis, altitudinis duarum contignationum ambitu interiori, complectens passus quadraginta, exteriori vero circiter quinquaginta.... tormenta circiter quadringenta. »
Bosio, 143, D: « Era la Goletta, quando Barbarossa la prese, una sola, ma buona e grossa torre ritonda ed alta.... Barbarossa l'aveva fatta circondare di bastioni e di fianchi.... La torre in mezzo a guisa di gran cavaliere.... numero grandissimo di pezzi d'artiglieria. »
530. Il Giovio, Lettera al duca di Mantova, data da Roma li 14 luglio 1535. Nomina tutti i predetti. (Tra le Lettere dei principi, in-4. Venezia, 1577, presso Giordano Ziletti, III, 147.)
531. Bosio cit., III, 144, B: « Il signor Virginio Orsini generale del Papa haveva il voto prima, et dopo haveva il secondo voto il priore Bottigella generale delle galere della Religione. »
532. Bosio, 147, B: « Innanzi le galere, in tre squadre.... disarborate.... a schiera a schiera.... andavano sotto.... sparavano e poi ritraendosi davano luogo alle altre per ritornare di nuovo secondo l'ordine.... col quartiero di poppa soltanto vogavano.... pareva scaramuccia et era di piacere in rimirarla da lontano. »
Marco Guazzo, Storie, in-8. Venezia, 1519, p. 153: « Doria.... tolte seco sei galere del Papa.... che punto non parevano per essere dette galèe disalborate.... e da poi fece disalborare trenta altre galere. »
Antonio Doria, Compendio cit., 60: « Acciocchè ricevessero minor danno.... le galèe avevano disarborato. »
V. sopra p. 316.
533. Jovius cit., 285: « Rostratæ per vices tripartito succederent, displosisque tormentis, sequentibus locum darent. »
Raynaldus, Ann., 1535, n. 50: « Auria disposuit ut rostratæ naves sibi per vices tripartitæ succederent, displosisque tormentis, cedendo sequentibus locum darent. »
534. Bosio, 148, C.
535. Prudencio Sandoval, Vida y echos des emperador Carlos Quinto, in-fol. Pamplona, 1635, part. II, p. 135: « El conde de Anguilara, cavalero romano, con sus galeras y con las de Malta, y otros.... se habia podido acercar. La bateria fue terrible. »
Joannes Etrobius cit., 553: « Naves longæ, eæque ingentes, omnibus rebus ad bellum accomodis instructissime munitæ, a beatissimo patre summo Pontifice missæe, quibus preærat, genere clarus tum factis strenuus, Virginius Ursinus Anguillariæ comes. »
536. Ulloa Alfonso, Vita di Carlo V, in-4. Venezia, 1866, p. 138.
Bizarus cit., lib. XXI.
Jovius cit., lib. XXXIV.
537. Aloysius Armerius cit., 539: « Variæ principum sententiæ. Nam alii satis negotii gestum existimabant.... Gollettam captam, classem pene totam in manibus.... Exercitus hostium non spernendus.... æstivo tempore, ingenti æstu.... in Affrica.... Difficile sine incomodo militum.... cibaria.... sine aquatione.... conabantur Cæsari persuadere ut Africam relinqueret atque in Hispaniam navigaret.... »
Joannes Etrobius cit., 568: « Convocato concilio.... sententiis variatum est.... aliis suadentibus, ut quasi re perfecta in Hispaniam redeat, aliis e contra reclamantibus etc. »
Antonio Doria, Compendio cit., 60: « Alcuno dei principali del Consiglio mostrava all'Imperatore assai difficoltà e manifesti pericoli.... di combattere Tunigi. »
538. Paulus Pp. III, Imperatori, sub die xxviii julii MDXXXV, ap. Raynald. Ann., 1535, n. 52: « Hodie orator tuus nobis nunciavit captam a te Gulettam.... adjciens te postero die...., ad Tunetum ipsum expugnandum cum toto exercitu contendisse.... Agimus Deo maximas gratias.... ut fessa tot malis christianitas conquiescat. »
539. De Hammer cit., X, 459: « Chaireddin voleva fare uccidere per sua sicurezza i settemila schiavi cristiani; ma lo ritennero gli abitanti della città. » — Bosio, Giovio, cæteriq.
540. Antonio Doria, Compendio cit., 61: « Aveva Barbarossa fatto condurre nel Castello tutti i vogadori, fra quali erano circa ottomila Cristiani schiavi.... accadè che alcuni rinegati, vedendo la rotta dei Turchi, apersero la porta della prigione, animando i Christiani alla libertà, il che eseguirono facilmente, e pigliate quelle armi che poterono nel Castello, se ne impadronirono. »
541. Bosio, 153, E: « Affrettando la fuga fu cagione che Aidin, sopranominato Cacciadiavoli, arso dal sole e dalla sete, bevendo crepasse. »
542. De Hammer cit., X, 461: « Tre ore aveva durato il consiglio per decidere se fosse da concedersi all'esercito il saccheggio. Ma la rapacità degli Ispani preponderò.... trentamila abitanti perirono e diecimila furono tratti in schiavitù.... sfrenata in particolare la rabbia dei soldati spagnuoli: cercavano avidamente l'oro, distruggevano moschèe, scuole, statue, libri.... tutto alla rinfusa come polve. »
Bosio cit., III, 153, C: « Tunisi saccheggiato.... non perdonando a sesso nè ad età. »
543. Cap. Francesco de Marchi, Architettura militare, in-fol. figur. Brescia, 1599, p. 227, tav. 136.
Bartolommeo Sereno, Commentari, in-8. Montecassino, 1845, p. 341.
544. P. A. G., Medio èvo, I, 30, 341; II, 457. — Marcantonio Colonna, 245.
545. Lapida nella sacrestia della basilica Vaticana, atrio esterno dell'Archivio canonicale:
CAROLUS . V . IMPERATOR TUNETO . EXPUGNATO VECTEM . ET . SERAM . HANC BEATO . PETRO OB . INSIGNEM . VICTORIAM TRANSMISIT.
546. Vasari, Vite degli artisti, ed. cit., VI, 135.
547. Sforza Pallavicino, Istoria del Concilio di Trento, in-fol. Roma, 1666, p. 83: « Cesare in Concistoro fece un ragionamento per lo spazio d'un'ora.... passò ad un'agra doglianza del re Francesco.... l'ambasciatore di Francia lesse una risposta.... senza altro frutto per l'una e per l'altra parte, che di sfogare, o più tosto di scoprire, la soverchia passione. »
548. Raynaldus, Ann. Eccl., 1536, n. 21: « Franciscus rex impio fædere cum Solymano percusso, illum proximo anno ad Neapolitanum regnum invadendum pellexit. »
Sandoval cit., II, 215: « El rey de Francia despacho sus ambaxadores al Turco.... a pedir a Solyman que embiase contra el Emperador su armata. »
Jovius cit., lib. XXXVI, princ.
Belcairus cit., in-fol. Lione, 1625, p. 686.
Mambrino Roseo cit., III, 190.
549. Petrus Paulus Gualterius, Aretin. præfect. cœrem. Diaria, Mss. cit., sub die quarta octobris MDXXXVI: « Itinerarium domini Papæ.... die undecima septembris mane diluculo discessit ab Urbe.... die duodecima Nepete.... die decimaquarta ad Caprarolam.... die decimasesta Viterbii.... die decimanona ad Montem Faliscum.... die vigesimaprima Urbeveteri.... die vigesimaquinta ad Acquampendentem.... die vigesimaseptima ad Gradulum.... die vigesimanona in Capitamontis.... dia secunda octobris ad Tuscanellam.... die tertia ad Cornetum.... die quarta ad Civitatemvetulam.... die sexta in Cære Veteri.... die septima reversus ad Urbem. »
550. Blasius Martinelli, De Cœsena, in Diariis, Mss. cit., sub die vigesimanona aprilis MDXXXVII: « Papa recessit ab Vrbe versus Civitatemveterem, ut videret triremes et provideret contra piratas marittimos. »
551. Zuccagni Orlandini, Corografia di tutta l'Italia, in-8. figur. 1843. — Regno di Napoli, Terra d'Otranto.
Baudrand, Lexicon geographicum, in-fol. Parigi, 1670, p. 173: « Castrum Minervæ nunc Castro, urbs fuit Salentinorum in provincia Hydruntina in ora littorali maris Jonii, alias male habita a Turcis, nunc utcumque reparata et munita. »
552. Scipione Miccio, Vita di don Pietro di Toledo vicerè di Napoli, pubblicata nell' Arch. Stor. It., prima serie, t. IX, p. 31 e 34: « Et non molto dopo arrivò il principe Doria con venticinque galere et doi galeoni: e appresso entraro cinque galere di Papa Paolo III. »
Bosio cit., 170, B: « Sollecitato il Doria dal Papa e dal Vicerè a mettere insieme l'armata.... mandandogli il Pontefice a quell'effetto sei galere sue, benissimo armate. »
553. Documenti, inventarî e testimonianze seguenti alle prime note della parte seconda.
554. Jovius cit., 331: « Ejus generis navigia, quæ a Turcis schiratia vocantur, capta.... Turcis ad transtra triremium traductis, translata præda, navigia incensa. »
Mambrino Roseo cit., 192: « Il Doria incontrò molti schirazzi che da Alessandria all'armata di Solimano.... Questi pensavano che le galere del Doria fossero di Barbarossa.... presi tutti, messi al remo, la preda sull'armata, bruciati i vascelli. »
Bosio, 170, D: « Il Doria s'incontrò in quattordici schirazzi, caricati di munizioni e d'armi al soccorso dell'armata turchesca.... tutti si rendettero, presero le robe più pretiose, tutti i vascelli abbruciati. »
Antonio Doria, Compendio cit., 70; « Andrea Doria.... presso a Corfù prese tredici schirazzi con circa ottocento Turchi e deliberò abbruciare i legni. »
555. Sabellici Continuat., in-fol. Basilea, 1560, lib. XXI, vol. III, p. 468.
Jovius cit., 331.
Mambrino Roseo cit.. III, 192.
Andreas Maurocenus, Hist. Ven.
Pietro Giustiniani, Storia Veneziana.
De Hammer, Storia cit., IX, 215: « Junis-beg. »
556. Documenti, inventari e autorità cit. a p. 368, e 370: « Inventario delle galere di Nostro Signore, etc. fatto in Roma addì 26 aprile 1534. — Artiglieria.... due quarti cannoni per le bande.... quattro smerigli per le bande. »
557. Bosio cit., III, 171, D: « Il mezzocannone che le galere della Religione sogliono portare dall'una e dall'altra banda a mezzania, nella posticcia. »
558. P. A. G., Medio èvo, I, 203; II, 230; e qui appresso più volte, come all'Indice, voce Scalone. — (Lo scalone delle galèe è il primo tipo del moderno affusto Moncrieff.)
559. P. A. G., Medio èvo, II, 26.
560. Jovius cit., 331. — Cappelloni cit., 76. — Sigonio cit., 188.
Antonio Doria, Compendio cit., 71: « Andrea trovò la sera vicino a Terraferma all'incontro dell'isola del Paxso et aspettatole dietro il capo, essendo la luna in quintadecima, che rendeva la notte chiarissima, le investì le dodici galere.... combattute dalle due ore di notte, fino a più d'una di sole: et al fine superate restarono prese.... morirono di loro e furono feriti 2500, e di Christiani trecento morti, e mille dugento feriti. »
De Hammer cit., X, 471, 474, 546: « Comandante delle dodici galere Ali Celebi, Kiajà di Gallipoli. »
561. Jovius cit., 332: « Abductis aliquot hostium triremibus captivis, quæ erant integræ. »
Bosio cit., 172, A: « Il principe Doria, havendo partito il bottino colle galere del Papa e della Religione, se ne andò al Pacsù. »
562. Jovius cit., 340, 31: « Conscriptis Anconæ cohortibus et opportuno tormentorum instrumento, atque item commeatu, Pontifex liberaliter adjuvit Crosiccium in Dalmatia.... Lucas Anconitanus pontificiis præerat auxiliis.... Misso Camillo Ursino, Ostrovizzam expugnarunt. »
Mambrino Roseo cit., III, 194: « I Veneziani mandarono al presidio di Zara Camillo Orsini col conte Giulio di Montevecchio, che frenarono il grande ardire dei Turchi.... Camillo assaltò con gran vigore e prese Ostrovizza, luogo forte dei Turchi. »
563. Philippus Bonanni, Numismata Rom. Pont., in-fol. figur. Romæ, 1699, I, 199, tav. II, n. 35:
Paulus . Tertius . Pont . Max.
564. Bosio cit., 172, B: « Doria prese una germa di Turchi e buon numero di schiavi.... de' quali partecipò la porzione. »
565. Petrus Paulus Gualterius, Aretinus præfect. Cærem. in Diariis cit., sub die 28 septembris 1537.
566. Joannes Crispus, Ægæi maris dux, Ad Christianos Principes, ex Naxo cal. decemb. MDXXXVII, ap. Clauserum de reb. Turc., in-fol. Basilea, 1556, p. 590, 594: « Extimulat infinitus numerus Christianorum captivorum compedibus ferreis cathenisque vinctus qui mahometano Tyramno durissime ac dolentissime servit. »
Nota del Trascrittore
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