LIBRO SESTO. Capitano Gentil Virginio Orsini,

Conte dell'Anguillara.

[1534-1548.]

PARTE SECONDA. DAL 37 AL 48.

SOMMARIO DEI CAPITOLI.

I. — Cresce l'armamento. — Il Conte lascia e ripiglia il capitanato. — Ritiene le galèe di sua proprietà. — Breve confidenziale di Paolo III (5 nov. 1537).

II. — La consegna e l'inventario delle galèe. — Documenti. — Perizia dei pratici, e del capitano Ermolai. — Prima occultazione dell'Orsino, riflessioni e conseguenze (12 novembre 1537).

III. — Trattato della lega. — Difficoltà politiche. — Capitoli stabiliti in Roma (8 febbrajo 1538). — Analogia tra la lega di Paolo III nel 1538 e l'altra di Pio V nel 1571. — Mia protesta perpetua.

IV. — Il patriarca Grimani, legato e prefetto. — Armata papale di trentasei galèe. — Gente e fornimento, Girolamo Grossi e il vescovo di Sinigaglia. — Difficoltà dei rematori. — Giovanni Ricci e i suoi Mss. — (10 febbrajo 1538).

V. — Rassegna dell'armata in Ancona. — Nota delle galèe e dei capitani (11 giugno 1538). — Fanterie romane pei Veneti. — Religiosità degli equipaggi. — Congiunzione a Corfù.

VI. — Viaggio intermedio di Paolo III a Nizza. — Conferenze tra Francesco e Carlo. — Tregua di dieci anni. — Il Doria in Provenza per tutto luglio.

VII. — Querele dei Veneziani in attesa (1 agosto). — Ferrante Gonzaga tiene a bada. — L'armata di Roma esce sola da Corfù per attaccare la Prèvesa (14 agosto).

VIII. — Il golfo dell'Arta e la piazza della Prèvesa. — Sbarco, batterie, assalto, morti e feriti. — Si ritira il Patriarca dalla Prèvesa e fa ritirare Barbarossa dalla Canèa. — Lettera inedita del Patriarca (19 agosto 1538).

IX. — Arrivo del Doria a Corfù (8 settembre 1538). — Specchio dell'armata. — Consigli e raggiri (10 settembre). Pretensioni spagnuole e rifiuti veneziani. — Sempre le stesse cose. — Equipaggio più o meno numeroso, secondo i paesi.

X. — Arte d'Andrea e di Barbarossa. — Amendue per evitare la battaglia. — Scaramucce alla bocca dell'Arta. — Andrea si ritira (26 settembre).

XI. — Barbarossa segue appresso. — Ordinanza bellissima dei nemici e dei nostri. — Lunghi e inutili consigli. — Il Condulmiero attacca la battaglia. — Il Doria si trattiene. — Barbarossa l'imita. — Ardore dell'armata cristiana e mormorazioni contro il Doria. — I generali alleati lo esortano ad investire, tutti chiedono battaglia. — Andrea piglia la fuga (27 settembre 1538).

XII. — Confusione di ogni altro per la fuga del Doria. — Perplessità di Barbarossa. — Finalmente i Turchi danno la caccia ai fuggitivi. — Perdite e vergogne. — I Turchi montano al più alto segno di arroganza.

XIII. — Esame di amici, di nemici e d'imparziali. — Giudizio della storia sincera. — Sempre l'istessa politica di Ferdinando alla Cefalonia, di Carlo alla Prèvesa, di Filippo a Lepanto.

XIV. — Miniato Ricci al tesoriere Parisani. — Notizie della giornata. — Documento inedito (30 settembre 1538).

XV. — Lettere del Doge al Doria. — I Veneziani si piegano a ricevere i venticinque. — Insulti di Barbarossa a Corfù (7 ottobre 1538).

XVI. — Attacco alla fortezza di Castelnovo. — Manovra delle galere. — I marinari espugnano la piazza. — Valore dei Veneziani (27 ottobre).

XVII. — Il Doria contro la fede dei capitoli piglia possesso della piazza. — La presidia con quattromila Spagnuoli. — I Veneziani traditi fanno tregua. — Le parole e i fatti. — Gli Spagnuoli perdono Castelnovo, e i Veneziani salvano Cattaro (1539).

XVIII. — Ritorna l'Orsino al comando. — Il pirata Dragut e le cinque squadre contro di lui. — Preso prigione dai nostri. — Ricuperata la galèa del Bibbiena, perduta alla Prèvesa (giugno 1540).

XIX. — Detti e fatti di Dragut in catena. — Biasimo comune dei contemporanei per la liberazione di Dragut (ottobre 1540).

XX. — Vendette dei pirati. — Gli Spagnuoli chiedono Algeri. — Carlo ottiene le nostre galere. — Ottavio Farnese e sua brigata. — La galèa imperiale. — L'armata nelle acque di Algeri (24 ottobre 1541). — Sbarco e prime fazioni (26 ottobre). — La pioggia, la stella e il tramonto (27 ottobre).

XXI. — La tempesta della notte cresce nel giorno seguente (28 ottobre 1541). — Naufragare, sferrare, rompere, investire in terra. — Saldezza e disciplina delle galèe dell'Orsino. — Condizioni dell'esercito, e ritirata (30 ottobre). — Ritorno del Conte in Civitavecchia.

XXII. — Armamento maggiore. — Il Conte rimettesi in crociera pel Tirreno. — Documento. — Piglia la squadra del pirata Scirocco (1542).

XXIII. — Altre guerre tra Carlo e Francesco. — Questi richiama i Turchi, e quegli i Protestanti. — Il Conte si ritira (marzo 1543).

XXIV. — Il capitano Bartolommeo da Talamone conduce in salvo le nostre galere a Malta. — Passaggio e rovine di Barbarossa (luglio 1543). — Feste in Marsiglia ai Turchi. — Il capitano Bartolommeo scorre per l'Arcipelago e brucia i giardini di Barbarossa. — Suo ritorno e morte (dicembre 1543). — Gli succede per compera Orazio Farnese.

XXV. — Barbarossa sverna in Provenza. — Di là ritorna verso il Tirreno. — Taglie a Genova. — Il figlio del Giudèo all'Elba. — Fuoco a Talamone. — Minacce a Civitavecchia. — Ruine nel golfo di Napoli e in Calabria. — Due Domenicani mettono la pace tra Carlo e Francesco (4 agosto 1544). — Intimazione del Concilio di Trento.

XXVI. — Litigi privati appresso ai pubblici. — Questioni del Doria coi Camerali di Roma. — Cattura delle quattro galere di Civitavecchia (15 agosto 1544). — Clamori dei Farnesi, e restituzione.

XXVII. — La nostra squadra col capitano de Nobili in Barberìa (1545). — Vendita delle quattro galèe dei Farnesi a Gianluigi del Fiesco. — Il conte Girolamo in Civitavecchia con tre galere; ed il conte Gianluigi colla quarta (la Caterinetta) fuor di linea (1546). — La congiura, e tutte le galèe del Doria prese dalla Caterinetta. — Fine della congiura (3 gennajo 1547).

XXVIII. — Tornano le galèe all'Orsino. — Il conte Gentile ripiglia la condotta (marzo 1548). — Sua morte, e ricordo delle più belle giornate (agosto 1548).

LIBRO SESTO. CAPITANO GENTIL VIRGINIO ORSINI, CONTE DELL'ANGUILLARA.[1534-1548.]

PARTE SECONDA. DAL 37 AL 48.

I.

[5 novembre 1537.]

I. — Solenne alleanza dei principi cristiani, dugento navigli di linea, cinquanta mila fanti, quattromila cavalli, guerra in ogni parte di Oriente, assedî ed espugnazioni di fortezze, scontri sul mare con tutta l'assembraglia turchesca e piratica, in somma per le mani mi cresce la materia, ma non l'autorità del conte Gentile, protagonista del libro sesto: anzi per la stessa ragione dell'armamento straordinario esso tirasi indietro, e cede rispettosamente la mano ed il passo ad un dignitario ecclesiastico, chiamato dal Pontefice al primo posto d'onore e di autorità col titolo di Legato apostolico sull'armata navale[1]. Vediamo or dunque discendere il Conte alla seconda linea, e appresso lo vedremo risalire alla prima; e poi ritirarsi e ritornare, non lasciando mai per altri dieci anni, cioè infino all'estremo giorno della sua vita, di mostrarsi principal condottiero alla nostra marina. Però senza rompere il filo, penso di continuare la seconda parte del sesto libro sotto gli stessi auspicî dello splendido suo nome, perchè egli solo tra noi per dieci anni resta fermo, quando gli altri vengono e vanno.

Nel fervore delle pratiche, trattandosi la lega, e dovendosi mettere in sesto dalla parte di Roma il primo fondamento alla futura squadra marittima del Legato infino a trentasei galere, i Ministri camerali deliberarono riprendere dall'Orsino le tre della condotta: e trovandosi egli in Civitavecchia, mandarongli colà il vescovo di Pavia con un brevetto papale del tenore seguente[2]: «Al diletto figliuolo, nobil uomo Gentil Virginio Orsini conte dell'Anguillara. — Figlio diletto, salute ed apostolica benedizione. — Mandiamo costà in Civitavecchia il venerabile fratello Giovanni de Rossi, vescovo di Pavia, per rivedere e riconoscere l'amministrazione delle nostre galere. Ed esso da parte nostra ti avrà altresì a dire certe cose. Però tu presterai piena credenza alle parole di lui, come presteresti a Noi medesimo. — Dato a Roma, presso san Pietro, addì cinque novembre 1537, del nostro pontificato anno quarto. — Fabio Vigile.»

Parrebbemi villanìa entrare in camera dove parlano da solo a solo il Vescovo e il Conte, coll'intenzione di riferire altrui i loro discorsi. Detesto l'origliare di certuni al bucolino, molto più sotto le speciose apparenze di rendere servigi. Ma se ad alcuno verrà vaghezza di sapere i trattati dei due personaggi, secondo il brevetto, aspetti che quei signori escano in pubblico, e vadano al notajo, e allora con tutta dicevolezza saprà che il Conte pel buon andamento della lega, e per la maggior quiete dei contraenti, riconosce la convenienza di mettere il Legato sull'armata: quindi lascia (per poi riprenderlo a suo tempo) il titolo di capitan generale e di commissario in Civitavecchia, scrive l'inventario e la perizia delle tre galèe papali, le consegna ad un altro capitano, e se ne resta colle quattro galèe sue proprie, come venturiero capitano assoldato nella armata papale sotto gli ordini e lo stendardo del Legato per la prossima spedizione generale contro il Turco[3].

II.

[11 novembre 1537.]

II. — Ecco il tenore dell'istrumento[4]: «Giorno di domenica, undici di novembre 1537. — Civitavecchia, nel palazzo camerale. — Perchè il reverendissimo in Cristo padre e signore Giovanni de Rossi, vescovo di Pavia, presidente e chierico della Camera apostolica, e commissario delegato da nostro Signore nella terra di Civitavecchia; ed insieme con lui il reverendo don Guido Pacelli commissario della Camera predetta, ed Alessandro Benci computista, intendono ritirare dall'illustrissimo ed eccellentissimo signore Gentil Virginio Orsini, conte dell'Anguillara, le tre galèe di nostro Signore, con tutti i loro armamenti e corredi ed altre cose appartenenti alle medesime, e appresso intendono consegnare le istesse tre galere al nobile signore Giacopo Ermolai, cameriere secreto di sua Santità, eletto capitano delle dette galere, secondo che la Santità sua verbalmente ha espresso al predetto reverendissimo Signore vescovo e chierico; il quale similmente ha ricevuto la istessa commissione verbale dal reverendissimo signor vescovo riminese, Tesoriere generale di nostro Signore e della Camera apostolica, e nondimeno essi non vogliono accettare la consegna delle predette tre galere senza il lodo di alcuni periti e pratici marinari, e senza la visita del predetto signor Ermolai con altri due marinari di sua fiducia e da lui nominati, i quali concordemente attestino che le dette galere sono atte a navigare e pronte a qualsivoglia combattimento marittimo, non avendo i predetti Vescovo, Commissario, e Computista niuna esperienza di queste cose; per ciò fecero chiamare alla loro presenza il signor Paolo Giustiniani di Venezia, Giovanni da Milano padrone della galèa sant'Agostino e Giorgetto Camilli comito della galèa medesima, i quali dinanzi agli stessi signori Vescovo, Commissario e Computista affermarono aver visitato le stesse galere di sua Santità, ora ormeggiate nel porto di Civitavecchia, e chiamata, l'una san Pietro, l'altra san Paolo, e la terza san Giovanni, ed essere veramente atte alla navigazione e pronte al combattimento, secondo l'uso di mare, posto che siano fornite di ciurma e di panatica: e così dissero doversi le stesse galere tenere e giudicare, come essi tengono e giudicano.

«Questi Atti furono compiti in Civitavecchia nel palazzo camerale, giorno ed anno come sopra.»

[12 novembre 1537.]

«L'altro dì seguente venne il predetto signor Giacopo Ermolai, e disse ed affermò di avere già da quattro giorni veduto bene ed accuratamente le tre galere designate negli atti presenti, e di aver visitato tutti gli armamenti, corredi ed altre cose attenenti alle dette galere, sempre accompagnato da due marinari pratici e sperimentati, fedeli ed amici suoi, per nome Bartolommeo di Gallipoli padrone della capitana di nostro Signore, e Domenico da Genova padrone della galèa san Paolo, ambedue chiamati dal medesimo signor Giacopo e insieme con lui revisori e giudici; ed ora afferma di aver riconosciuto e giudicato le dette tre galere per buone, atte a navigare, pronte a qualunque fazione ed esercizio marittimo, ed anche a battaglia navale.»

Dopo il preambolo delle testimonianze e dei giudizî, segue in lingua volgare l'inventario delle tre galèe[5]. Non lo ripeto, perchè niuno ci troverebbe cosa che non fosse già prodotta e dichiarata nei documenti precedenti, specialmente trattandosi del capitan Salviati nel quinto libro[6]. Comincia l'inventario sulla galèa san Giovanni, capitana della squadra papale, continua sulla galèa di san Paolo, poi sul san Pietro; termina colla quietanza a favore del conte dell'Anguillara, e colla consegna delle tre al capitano Giacopo Ermolai.

Dunque il Conte al suo ritorno, dopo navigazione piena di combattimenti e di vicende, còlto all'improvviso, rende buona ragione del materiale affidato alle sue cure; e si piega volentieri a tutte le esigenze del governo pel miglior servigio della cristianità nella guerra contro il Turco. Le galèe sono giudicate perfette anche per la battaglia navale, conforme al parere di un capitano e due ufficiali dalla parte del Conte; Giustiniani, Giovanni e Giorgetto: di un capitano e due ufficiali dalla parte della Camera; Ermolai, Bartolommeo e Domenico. Testimoni intelligenti, perchè del mestiero; e imparziali, perchè scelti a disegno da province lontane. Patisce eccezione la panatica, perchè si prende quando bisogna, e nei porti si compra alla giornata: resta la difficoltà perpetua tra noi di trovare gente da remo.

Il capitano Ermolai, qui sopra nominato, non fa gran comparsa nella guerra viva; ma primeggia negli apprestamenti e nella amministrazione, provveditore solertissimo, o come oggi direbbesi ufficiale generale di intendenza e di commissariato navale. Egli durante l'annata di guerra erasi con somma lode adoperato nelle provincie della Marca e della Romagna all'imbarco delle milizie papali per la Dalmazia; e più all'abbondanza del biscotto e delle vittuaglie per rifornire l'armata del Doria e dell'Orsino nello Jonio. Giacopo sovrastava ai magazzini e ai forni impiantati in Ancona ed in Fano, e facevane trasportare ogni bene dai legni di traffico delle città medesime, secondo le istruzioni ricevute direttamente dal Papa. Inoltre le sue commissioni si estendevano a mantenere la sicurezza delle provincie littorane sull'Adriatico contro qualunque scorreria vi potessero fare i Turchi in tanto sobbollimento di guerre vicine dalla Puglia, dalla Dalmazia, e dalle Isole Jonie[7].

Finalmente il vescovo di Pavia per delegazione straordinaria commissario nel porto e piazza di Civitavecchia aveva a fare ufficio di mediatore tra l'Orsino e l'Ermolai; e dar mano agli apprestamenti dell'armata per l'anno seguente, prevedendosi vicina la conclusione della lega. Il perchè si ponga ben mente al novero delle prime sette galèe che si allestiscono in Civitavecchia, colle quali dovranno poscia congiungersi le otto armate in Ancona, e le quindici prese a Venezia. Teniamo segnata la capitana, la padrona e la sensile della Camera, coi nomi di san Giovanni, san Paolo, e san Pietro: teniamo l'Orsina la Vittoria, il sant'Agostino, e il san Paolo del Conte; che tutte insieme tra poco saranno in Levante coll'Orsino che rassegna le galèe camerali, coll'Ermolai che le piglia, col Giustiniani che le rivede, con Giorgetto, Giovanni, Bartolommeo e Domenico che le giudicano, e con tutti quegli altri che appresso dirò[8].

III.

[Gennajo 1538.]

III. — L'invernata del trentasette rapidamente scorreva tra gli apprestamenti dalla parte dei Cristiani e dei Turchi, volendo gli uni e gli altri tornare più che mai gagliardi ai ferri nella buona stagione del trentotto. Al tempo stesso papa Paolo trattava l'argomento della lega, sempre desiderata, e non potuta mai fermamente stabilire tra i principi cristiani. Lettere, brevi, messaggeri, viaggi, maneggi, nunci per tutta l'Europa; e specialmente grandiose trattazioni in Roma tra il pontefice Paolo III, e i ministri di Carlo V, e del doge di Venezia al fine di conchiudere una lega stabile contro il Turco. Cosa facile in apparenza, perchè Paolo e Carlo già erano di fatto collegati contro Solimano; e i Signori veneziani pur di fatto già combattevano contro lo stesso nemico: quindi non si poteva dubitare che non avessero a volere la compagnia e i soccorsi di gente, di navigli e di danaro dal Papa e dall'Imperatore. Ma per venire con patti determinati alla conclusione dell'alleanza solenne bisognava superare non poche difficoltà tra i Veneziani e Cesare: gelosi i primi di conservare il loro dominio e la loro indipendenza, cupido il secondo di accrescere i suoi confini, e di avere tutti in Italia deboli e soggetti. Questi intendimenti rimaneggiati per ragione di stato, coperti sotto il manto dell'urbanità, e pienamente conosciuti dalle due parti, non potevano non portare diffidenza tra loro. Per vincere la quale il Pontefice adoperava tutto il suo gran senno, non perdonando nè a fatiche nè a dispendio. Spingeva i Veneziani, frenava Carlo, chiedeva fiducia e la mostrava, voleva spedizione gagliarda, e si offeriva pronto ad armamenti maggiori: ma non poteva togliere le conseguenze necessarie di funesti principî.

Carlo V già da un anno erasi impadronito del ducato di Milano, pretendeva altresì vecchi diritti sopra parecchie città del dominio veneto, perchè al tempo degli antichi erano appartenute allo stesso ducato. Carlo dominava direttamente nei regni di Napoli, di Sicilia e di Sardegna, indirettamente in Toscana, in Genova e in Piemonte. Nè a ciò contento, voleva anche di più: e sapeva che la soverchiante intramessa sua faceva afa a molti, specialmente ai Papi e ai Veneziani. Presso i primi si era sdebitato in gran parte col sacco di Roma, e il resto serbavasi alla guerra di Campagna. Il freno ai Veneziani lo ponevano i Turchi. Per ciò indirettamente la potenza di Solimano sosteneva quella di Carlo in Italia, tenendo abbasso la Venezia e la Sicilia, e dando pascolo ai Genovesi. Dunque il Turco per lui si aveva a comprimere, non a distruggere. Intendono meglio di me questa spezie di politica coloro che la praticano: coloro che assettano ogni cosa del mondo coll'equilibrio. Santa parola, e bellissima teoria, l'equilibrio sulle braccia della giustizia: ma sotto alle leve dell'interesse è stata e sarà sempre scellerata impostura. I Veneziani, maestri a chicchessia nell'arte del governo, conoscevano a fondo questi umori; e sapevano non doversi aspettare grandi soccorsi dall'amorevolezza di Carlo. Se non che assaliti con tutto lo sforzo da Solimano, e messi al rischio di perder tutto dalla parte di là; e di qua invitati dai ministri cesarei, sotto la mediazione del romano Pontefice, vollero provarsi a vedere cosa succederebbe, sostituendo alle teorie interessate dell'equilibrio la giustizia e la fede dei trattati. Parve miracolo che, dopo poche sedute, in due settimane gli ambasciatori di Madrid e di Venezia coi ministri del Papa in Roma dessero la lega tra loro per conclusa.

[8 febbrajo 1538.]

Produco qui i capitoli dell'alleanza senza preamboli e in compendio, perchè sono notissimi e da altri pubblicati. Chi li vuole per intiero, se li accatti dove facilmente si trovano, che io non do nè piglio noje inutilmente a talento di qualche arrogante[9]:

«Roma, otto febbrajo 1538.

»1. Le spese comuni della guerra contro il Turco in Levante saranno divise in sei parti: una a carico del Papa, due dei Veneziani, tre dell'Imperatore.

»2. La guerra dovrà cominciare in quest'anno 1538 con galèe ducento, navi cento, fanti cinquanta mila, cavalli quattromila.

»3. Il Papa armerà trentasei galere, e se non potrà averle tutte del suo, gli saranno dati dai Veneziani gli scafi, da essere armati a sue spese e di sua gente.

»4. L'imperatore metterà galèe ottantadue, ed altrettante i Veneziani, perchè, insieme colle trentasei del Papa, abbia a venire il numero pieno di dugento.

»5. Le cento navi saranno tutte allestite dall'Imperatore, e gli altri collegati ne faranno le spese, a ragione delle seste parti convenute.

»6. Fanti e cavalli metterà ciascuno in punto nella proporzione medesima delle seste.

»7. Le contribuzioni degli altri principi italiani saranno tassate a giudizio del Papa, e anderanno a beneficio comune dei collegati.

»8. Il Re dei Romani manterrà viva la guerra con poderoso esercito in Ungheria.

»9. Il Papa solleciterà gli altri principi e popoli, specialmente i Polacchi, a venire in ajuto dei collegati.

»10. Si riserva posto onorevole al Re di Francia, se gli piacerà di entrare nella lega.

»11. I confederati saranno pronti colle forze di terra e di mare non più tardi del mese di marzo dell'anno presente.

»12. Il capitano generale di tutte le forze di terra sarà Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino; e di tutta l'armata navale capitan generale Andrea Doria, principe di Melfi.

»13. Le vittuaglie potrà ciascuno comprare a giusto prezzo nel paese dell'altro, dove ne sia abbondanza; ma prima sarà tenuto tirare le provvigioni più che può di casa sua.

»14. Qualunque differenza potrà nascere tra i collegati, sia rimessa all'arbitramento del Papa.»

Questi capitoli addì otto di febbrajo, letti ed approvati in Roma nel pubblico concistoro, alla presenza dei ministri e ambasciatori pontificî, veneziani, e spagnuoli, ebbero prestamente l'approvazione delle corti di Madrid e di Venezia; le quali colla stessa solennità vi aggiunsero alcuni articoli accessorî per regolare tra loro gl'interessi particolari pel caso delle conquiste future. Pattuirono che qualunque fortezza, provincia o città dovesse tornare a colui che le aveva altre volte possedute: pognamo esplicitamente l'isola di Rodi ai Cavalieri, le province dell'Africa a Cesare, ed ai Veneziani gli antichi possedimenti di Levante, più la Vallona e Castelnuovo di Dalmazia[10].

Or qui ricisamente chiedo l'attenzione del lettore intorno al procedimento della lega ed alla osservanza dei capitoli: perchè ci viene innanzi il modello, sul quale dopo trent'anni si riprodurrà quella lega tanto notissima per la vittoria di Lepanto, quanto infelicissima pei dissidî precedenti e successivi. Attenda il lettor savio e imparziale alla politica di Carlo V nel trentotto, e vedrà quella di Filippo II nel settantuno, conforme agli stessi interessi, alle medesime tradizioni, ed alla seguenza dei consiglieri; specialmente del famoso Granuela che dal fianco del primo passò poscia nel gabinetto del secondo. Qui si ha a vedere Filippo simile a Carlo, come figlio al padre; i ministri dell'uno simili a quelli dell'altro, come discepoli a maestri; Giannandrea simile ad Andrea, come erede e testatore; e Granuela simile a sè stesso come identico soggetto. Qui alle prove certissime, che ho dato altrove, si aggiugnerà da sè la controprova, ciò è dire l'ultimo e supremo apice dell'evidenza. Gli è attributo proprio soltanto della verità l'andar sicura attorno per ogni parte in armonia con sè stessa, in tutto e per sempre: al contrario dell'errore, che tosto o tardi incontra l'inciampo e il trabocco nella contraddizione. Tutti gl'intelligenti troveranno i fatti e le ragioni delle due leghe avvolte nei medesimi tranelli della stessa politica: vedranno sempre i medesimi disordini provenire al modo istesso e costantemente dalla stessa parte. Dunque la causa era e sarà sempre di là. Perciò io di qua ripeto e mantengo altamente tutto ciò che ho scritto altrove ad onore e difesa di Pio V, de' suoi ministri, e del nostro paese contro i nemici e detrattori stranieri: e insieme ripeto e mantengo che non ho mai confuso nè confondo le nazioni colle corti, nè i cortigiani coi popoli, nè gli innocenti coi rei. Veniamo ai fatti.

IV.

[10 febbrajo 1538.]

IV. — I Veneziani, secondo il capitolo quarto, fin dal mese di febbrajo facevano massa di gente, di navigli e d'armi in Corfù; e il Pontefice con sollecitudine non punto minore spingeva l'armamento in tre centri, Civitavecchia, Ancona e Venezia. Nel primo adoperavasi il vescovo di Pavia col capitano Ermolai, come si è detto[11]. Nel secondo il vescovo di Sinigaglia con Girolamo Grossi romano, familiare di sua Santità e collaterale della milizia, scriveva soldati e marinari, e cercava rematori[12]. Cosa difficilissima quest'ultima, altrettanto che necessaria, perchè niun marchigiano nè romagnolo voleva mettersi alla viltà del remo, e gli stessi condannati usavano ogni artifizio per sottrarsene coi pretesti o colla fuga. In quella vece di marinari non era difetto, e di soldati tanta abbondanza da sopperire ad ogni richiesta degli arrolatori pontificî e veneziani. Al vescovo di Sinigaglia era commesso il fornimento dei magazzini in Ancona e in Fano, specialmente che non mancassero le farine, i biscotti, e ogni altra vittuaglia pel sostentamento dell'armata; prevedendosi che le fazioni ed i maggiori bisogni sarebbero stati nei paraggi dell'Adriatico[13]. In Venezia più di ogni altro davasi faccenda monsignor Giovanni Ricci tesoriere dell'armata, che poi fu nuncio in Portogallo e cardinale. Esso ci ha lasciato memorie e documenti in quei preziosi volumi che si conservano nell'archivio della nobile sua casa in Roma; e che ho potuto io a bell'agio nella mia camera consultare per la squisita cortesia e pel senno veramente romano dell'eccellentissimo signor marchese Giovanni Ricci, cui la storia e Roma, non io soltanto, debbono essere grati[14].

Finalmente in Roma per beneficio comune dei collegati, e per dare solennità maggiore all'impresa, volendo contentare i cesarei, che non amavano l'Orsino, e cattivarsi i Veneziani colla promozione d'un loro patrizio, si promulgava solennemente la nomina di Marco Grimani patriarca d'Aquileja a prefetto dell'armata romana coll'autorità di Legato a latere[15]. Marco, fratello del cardinal Domenico, di principalissima nobiltà veneziana, ed uomo nelle cose del mare e del governo (come tutti della sua casa) sperimentato, prendeva in Roma addì dieci di febbrajo dalle mani stesse di papa Paolo nella basilica Vaticana lo stendardo della lega; e apparecchiavasi senza indugio alla partenza[16].

[3 marzo 1538.]

La mattina del tre di marzo il Legato partivasi da Roma col suo seguito verso Civitavecchia, prendeva in quel porto le sette galèe, e speditamente navigava, toccando Napoli e Messina, verso Ancona, dove si avevano a raunare le altre della sua commissione, cioè otto già armate in quel porto dal Grossi collaterale, ed una ventina armate in Venezia per cura di monsignor Ricci. Le distanze dei luoghi, le provviste delle munizioni da guerra e da bocca, l'imbarco delle genti, e tutte le difficoltà consuete di armamento in gran parte nuovo e fuor dell'usato non lo tennero tanto in ritardo, che agli undici di giugno coll'armata sua non fosse tutto in punto per far vela nel porto d'Ancona.

V.

[11 giugno 1538.]

V. — Prima della partenza il Legato schierò in battaglia i suoi bastimenti, e passò la rassegna. Della quale essendo mio debito dare tutte le notizie che ho potuto raccogliere, scriverò il risultamento, registrando i nomi dei legni e dei capitani, secondo le testimonianze sommarie dei documenti e degli storici, specialmente dell'archivio di casa Ricci, non trovandosi in niuno la nota compiuta. Dove bisogna avvertire che rispetto alle minuzie dei nomi e dei numeri, così per punto e per segno, non si trovano mai due testi concordi: ma sempre qualche piccola differenza. Non tutti hanno avute le stesse notizie, nè tutti le hanno curate, nè sempre parlano del medesimo tempo. Gli è chiaro che in questa materia da un giorno all'altro succede mutazione: si arma, si disarma, si perde, si riacquista, si manda, non ritorna, e simili, come sanno gli esperti. Nondimeno, riducendo la mostra al giorno undici di giugno, quando il Legato ebbe tutta l'armata in Ancona, mi pare sulle predette autorità, e sugli autori che continuamente cito, massime sui registri di casa Ricci, potersi formare la seguente[17]:

NOTA

DEI LEGNI E DEI CAPITANI DELL'ARMATA PAPALE PER LA LEGA DEL 1538.

Galèe armate in Civitavecchia.

  • 1. La Capitana, san Giovanni — Patriarca Grimani.
  • 2. La Padrona, san Paolo del Papa — cap. Giustiniani.
  • 3. Sensile, san Pietro — cap. Mario Pontani, romano.
  • 4. Fanale, l'Orsina — Conte dell'Anguillara.
  • 5. Sensile, la Vittoria — cap. Francesco de Nobili.
  • 6. Sensile, sant'Agostino — cap. Franc.º Quintili, rom.
  • 7. Sensile, san Paolo del Conte — cap. Bart.º Peretti.

Galèe armate in Ancona.

  • 8. Fanale — cap. Giammaria Straticopulo, cav. di Malta.
  • 9. Sensile — cap. Belisario Ralli, di Orte.
  • 10. Sensile — cap. Bastiano Bonaldi, di Ancona.
  • 11. Sensile — cap. Gioacchino degli Agli, di Ancona.
  • 12. Sensile — cap. Vinc.º Sampieri (l'ab.), di Bologna.
  • 13. Sensile — cap. Battista Dovizi (l'ab.), di Bibbiena.
  • 14. Sensile — cap. Almerigo Almerighi, di Bologna.
  • 15. Sensile — cap. Marco Feletti, di Comacchio.

Galèe armate in Venezia.

  • 16. Fanale — Vittorio Soranzo, caposquadra, e prov. e
  • 17. Sensile — cap. Tommaso da Rovigo.
  • 18. Sensile — cap. Giacomo Priuli.
  • 19. Sensile — cap. Gianfrancesco Benedetti.
  • 20. Sensile — cap. Giov. Battista del Mangano.
  • 21. Sensile — cap. Stefano del Cuore.
  • 22. Fanale — cap. Giovanni Gritti.
  • 23. Sensile — cap. Marco da Zara.
  • 24. Sensile — cap. Luigi Giustiniani.
  • 25. Sensile — cap. Bernardino da Londano.
  • 26. Sensile — cap. Alessandro Rois.
  • 27. Fanale — cap. Pietro Daltelli.
  • 28. Sensile — cap. Vittorio Peterlin.
  • 29. Sensile — cap. Cristoforo Canali.
  • 30. Sensile — cap. Luigi Rosa.
  • 31. Sensile — cap. Agostino da Terni.
  • 32. Brigantino — Domenico Squarciafichi.
  • 33. Fregata — Niccolò da Cipro.
  • 34. Fregata — Antonio da Napoli.
  • 35. Fregata — Luca d'Antivari.
  • 36. Fregata — Domenico da Scutari.

Alle fanterie presiedevano capitani eccellentissimi: primo col grado di mastro di campo generale quel prode Alessandro Tomassoni da Terni, notissimo nella storia militare di questi tempi, che fu poscia governatore delle armi in Piacenza[18]. Con lui Camillo da Fabriano, Niccolò da Santogemini, Giosìa da Fermo, Orlando da Salò, Cesare da Fermo, Giangiulio da Terni, Giambattista da Tolentino, Pierfrancesco Corboli da Urbino, Silvio da Parma, Luigi Raimondi di Roma, con molti nobili e venturieri ascritti alla famiglia del Legato e del conte dell'Anguillara, tra i quali nominerò specialmente il venturiere Miniato Ricci, gentiluomo del Legato, Alessandro Marchesini scrivano, Andrea della Bella mastro di casa, Girolamo Ludovisi gentiluomo romano, Bernardino Bianchi e Marino Fiori segretarî, ambedue pel nome e pel cognome di Civitavecchia[19]. Le compagnie piene di robusta e scelta gioventù, essendosi preso il fiore della Sabina, del Lazio, della Campagna, e delle provincie di Romagna e della Marca, miniera inesausta di valenti soldati, per tutte le guerre d'Europa e di Asia in quei tempi. I Veneziani più d'ogni altro di là ne traevano con buona licenza del Papa, quasi in compenso dei fusti di galèe che davano; e in questa stessa occasione con una sola levata ne presero cinquemila[20].

[15 giugno 1538.]

La brava gente, volenterosa ed intrepida ad ogni rischio di guerra e di mare, fece principio coll'ajuto di Dio e colla protezione della Vergine santissima per una passeggiata militare da Ancona al santuario di Loreto. Il Patriarca e gli ufficiali alla testa, e appresso soldati e marinari, e buon numero anche di rematori. Onesta e pietosa comparsa, secondo il patrio costume e l'esempio dei maggiori: di che, non meno degli ascetici, hanno fatto i nostri classici in ogni tempo ricordo ed encomio[21]. Addì quindici di giugno participarono quasi tutti ai divini misteri, anche gli altri rimasti in Ancona: e il diciassette tutta l'armata spiegò le vele per Corfù, dove si congiunsero con Vincenzo Cappello capitan generale dei Veneziani.

[20 giugno 1538.]

Io qui non parlo delle nobili e liete accoglienze dei nostri alleati: non potevano volersi maggiori. Domando però or che siamo a mezzo giugno, dove è l'armata dell'imperador Carlo V? Domando io, e domandano tutti colà, quando verrà il Doria, capitan generale di tutta la lega pel mese di marzo, conforme ai capitoli? Ma perchè niuno risponde alla chiamata, e dobbiamo attenderlo ancora inutilmente infino agli otto di settembre, per toglierci col pensiero dall'angoscioso aspettare (anzi che morire di stento, secondo il proverbio), parleremo d'altro.

VI.

[Marzo e luglio 1538.]

VI. — Papa Paolo con pio intendimento non lasciava, come ho detto, niuna pratica intentata per ridurre in pace tra loro i principi cristiani, senza di che non si potevano sperare effetti vantaggiosi dalla lega contro i Turchi, nè l'apertura del Concilio generale, da lui e da ogni altro ardentemente desiderato. E avendo per questi giorni saputo il re di Francia trovarsi in Provenza, e Carlo imperatore esser venuto vicino in Catalogna, deliberò mettersi di mezzo; e farsi paciere tra i due maggiori sovrani che tenevano diviso il mondo. Mosse pertanto da Roma il dì ventitrè di marzo per la via della Marca e Romagna, entrò in Parma, quindi scese da Alessandria a Savona, e per la via del mare con alcune galèe dirette a Barcellona navigò infino a Nizza, avendo prima spedito, secondo principe fedele ai trattati, il suo naviglio verso Levante[22]. Ma ai diciassette di maggio, come fu presso Nizza, maggiormente sentì la difficoltà del pacificare gli emuli pertinaci; ed ebbe a darci l'esempio di un congresso altrettanto arduo, quanto singolarissimo. Imperciocchè avendo il duca di Savoja fatto intendere non potere per certi rispetti consentire a ricevere nella sua città di Nizza nè i Francesi nè gli Spagnuoli nè altri; il Papa, dissimulando l'offesa, se ne andò in campagna a un convento di frati Minori. Colà sopraggiunse Francesco a trattare seco, ma non volle mai abboccarsi con Carlo; il quale fece altrettanto rispetto a lui. L'uno si posò a ponente, l'altro a levante; e Paolo di mezzo tra Nizza, Villanova e Villafranca, or coll'uno or coll'altro negoziando, scorreva alle opposte bande tra l'Imperatore ed il Re. Ottenne però, che i due sovrani (senza vedersi) firmassero una tregua di dieci anni, e intanto ciascuno tenesse quel che aveva, e il Concilio generale si celebrasse[23]. Con queste conclusioni prese congedo, e accompagnato da sei galèe del Re e da altrettante dell'Imperatore, venne senza novità a sbarcare nel porto di Civitavecchia, e tornossene in Roma[24].

Allora quei principi di levante e di ponente (cosa strana!) non soltanto si visitarono mutuamente e parlarono insieme, ma se ne andarono con tutta la corte di questo e di quello a solennissime feste in un luogo detto l'Acquamorta di Provenza. E il principe Doria, capitano generale dell'armata cristiana, in vece di essere secondo i patti non più tardi del mese di marzo in Levante pronto alla guerra contro i Turchi, si tratteneva lietissimo fino al mese di agosto in Provenza a far gazzarra sotto gli occhi di Carlo V. Insisto sul fatto della tardanza, perchè tocca al massimo dei disordini nelle faccende militari; e nondimeno ci torna sempre costante, sempre riprodotto, e apertamente voluto dalla corte di Spagna; non solo adesso, ma infino a trent'anni dopo: chè i comandanti al servigio di Madrid comparivano sempre in ritardo, lasciando perdere il tempo migliore, e tenendo i Romani e i Veneziani afflitti ad aspettare, e i Turchi sbrigliati a distruggere. Tutti dicevano necessaria la presenza del Capitan generale e dei suoi rinforzi; i trattati stabilivano il termine alla congiunzione, e i marinari appellavansi specialmente ai mesi estivi per imprese grandiose. Il Doria meglio di ogni altro doveva saperne: egli medesimo che a chiunque chiedevagli il nome del miglior porto di mare soleva rispondere non essere nè più nè meno di tre i migliori porti del Mediterraneo; e chiamarsi giugno, luglio, e agosto. Ciò non pertanto i tre mesi preziosi lasciavansi perdere; e Carlo approvava la tardanza dell'Acquamorta, per Andrea, come Filippo la tardanza e i disordini di Cipro per Giannandrea[25]. Io non dico che sieno criminose le feste di Provenza, nè gl'interessi di Tizio e di Sempronio; nè mi oppongo se altri gli chiama padroni di dare o no soccorso a chi ne chiede: potranno esserci diverse opinioni. Ma quando si fa lega con trattati e promesse, entra il dovere: nè sarà mai lecito ad alcuno, nè anche ai barbari, volere, lodare e assentire alla rottura della fede.

VII.

[10 agosto 1538.]

VII. — Può altri fare ragione del gravissimo cruccio con che doveva sostenersi il Grimani in Corfù, costretto a perdere il tempo migliore nell'aspettare chi non voleva venire; e oppresso dalle continue querele dei Veneziani e dalla loro desolazione. Imperciocchè proprio di quei giorni, favorito dalla buona stagione e da niuno frenato, Barbarossa coll'armata ottomana e colle squadre dei barbareschi disertava l'isola di Candia, e gli altri possedimenti della repubblica. Quando ecco in vece dell'armata imperiale ai primi di agosto giungnere in Corfù, e mettersi sopra tutti, don Ferrante Gonzaga. Costui povero di forze e ricco di buone parole, gran privato di Spagna e vicerè di Sicilia, veniva per ordine dell'Imperatore col titolo di capitan generale di terra in luogo del duca d'Urbino, gravemente infermo di quel lento veleno, pel quale non guari dopo addì venti d'ottobre morissi[26]. Egli doveva largamente pascere di speranze future i Veneziani, perchè continuassero ad aspettare pazientemente, senza nè guerra nè pace. Indarno adunque i capitani di Roma e di Venezia si volsero a lui facendogli pressa, dopo essere stati tanto tempo senza far nulla con cento galere e trenta mila uomini. Don Ferrante, imbarazzo più che sostegno degli alleati, non consentiva. Anzi tutto aperto diceva non essere cosa nè ai soci sicura nè a Cesare onorevole il cominciare la guerra sul mare senza il naviglio del Doria. Perchè dunque ne manca questo ente necessario? come la gloria dell'Imperatore e il bene degli alleati potrà consistere nell'aspettare Andrea inutilmente? Dunque si hanno tutti a patire i tristi effetti dell'abbandono, il dispetto, l'ozio, la mortalità, la perdita del proprio paese, e il trionfo dei nemici? Tristi principî, resi più tormentosi dalle relazioni correnti alla giornata: dicevano bruciati ottanta villaggi, e stretta di assedio la Canèa, piazza principalissima dell'isola di Candia, alla quale indarno il generale Cappello chiedeva che si portasse soccorso[27].

Nè si lagnavano soltanto i Veneziani della tardanza (alla quale mi bisogna continuamente in questi giorni ritornare), non soltanto coloro, pe' quali il pubblico bene incontravasi insieme col privato interesse; ma i Romani, tuttochè imparziali, non potevano patirla. Perciò il Patriarca, sazio alla nausea dei pubblici lamenti, uscì dal porto, sotto colore di esercitare le sue genti, e prese a fare la guerra solo da sè contro ai Turchi, senza voler più oltre aspettare niuno. E perchè non poteva con una trentina di legni soccorrere la Canèa, tanto lontana, e assediata da cento e trenta, volle operare a favor dei Candiotti per diversione, pigliando a battere una delle fortezze nemiche. Andò con gran secretezza nel porto di san Niccolò presso Corfù, e di notte più che poteva celatamente navigando, giunse quasi improvviso agli undici di agosto sull'ora di vespro innanzi alla Prèvesa[28].

VIII.

[11 agosto 1538.]

VIII. — La Prèvesa, detta altrimenti Nicopoli, è punto di momento per chiunque guerreggia in Levante. La fabbricò Augusto dopo la celebre battaglia d'Azzio, nel luogo medesimo dove aveva posto l'alloggiamento in terra prima del combattimento, e donde erasi imbarcato per acquistare il dominio del mondo. Oggidì per quelle acque passa la linea di confine che divide la Turchia dal nuovo regno di Grecia. Un golfo di circa ottanta miglia, detto dagli antichi seno Ambracio, e dai moderni golfo dell'Arta, si apre a cerchio tra le terre; e a guisa di tanaglia sboccata lascia alla riva tra due promontorî un tortuoso ed angusto canale, dove non passano più che due o tre bastimenti per volta. Il promontorio boreale è l'Azziaco; e nella sua risvolta dentro il golfo sopra rupe è la Prèvesa: città piccola, ma secondo quei tempi fortificata in figura di quadrilatero con otto torrioni rotondi, tre per ogni fronte, piazze alte e basse di artiglieria, muraglie grosse, e fosso profondo. Sarebbe stata ancor più sicura se non avesse avuto un prolungamento di case discendenti verso la marina a guisa di borgo, aperto da ogni parte[29].

Il Grimani, prima di avventurarsi all'entrata dell'angusto canale, pensò di mettere in terra un corpo di fanteria; e dopo investita la piazza, e divisa l'attenzione del nemico, spingervi a fidanza l'armata. Il qual divisamento sortì felice esito: chè essendo saltato in terra il mastro di campo Tomassone con quattro compagnie di dugento uomini ciascuna, ed avendo di primo impeto preso il borgo e postovi l'alloggiamento, non fu difficile a Paolo Giustiniani sforzare l'ingresso e aprire il varco a tutte le altre galèe; tanto che al tramonto del sole già l'armata dominava nel golfo, e il piccolo esercito nel borgo[30].

[12 agosto 1538.]

Venuta la notte, perchè più agevolmente potessero le milizie di terra attendere ai lavori di zappa ed accostarsi copertamente alla muraglia, i marinari presero a battere con vivissimo fuoco la piazza: i Turchi al modo stesso rispondevano. Di qua e di là a vicenda molti e gravi danni. Tra i nostri in quella notte colò a fondo un palischermo pieno di gente, squassato da cannonata grossa; il capitan Bernardino Londano, che nella galèa da sè puntava il corsiero, colpito da una palla nel ventre ebbe il corpo dal mezzo in su gittato fuor di bordo; il comito del cavalier Sampieri fu morto, e similmente il padrone di un'altra galèa, con parecchi altri di minor conto[31]. Ne parla il Grimani in una lettera. Non la produco, tuttochè inedita, perchè non voglio menare il discorso troppo alla lunga: e in vece ne darò tra poco un'altra più piena di notizie.

Maggior contrasto ebbero a sostenere le milizie di terra, e dal numeroso presidio, e dallo stormo dei vicini. Costretti a combattere non tanto per espugnar la fortezza, quanto per mantenersi nelle posizioni, duravano intrepidi tutta la notte e la giornata seguente, e sempre in gran travaglio coll'armi in mano, senza potersi aspettare lo scambio pel cibo e pel riposo. Un sorso di vino, e un'archibugiata: un mozzicon di pane, e un colpo di cannone. Poscia il Patriarca, avendo fatto disbarrare tre grossi pezzi da breccia, aggiunse il sopraccollo ai soldati, che si trovavano dalla fronte e dalle spalle assaliti e scossi da gagliarde sortite, e tenuti alla difesa di sè stessi, delle poste e dell'artiglieria. Non però di meno, rinfrancati dall'esempio e dalla voce del loro mastro di campo, sostenevano egregiamente la fazione, e si facevano sempre più presso alla porta della marina.

[13 agosto 1538.]

Il dì seguente, avendo rotta in parte la muraglia, dettero due assalti alla terra: e tuttochè ributtati, tornarono la terza volta infino a piantare tutte e quattro le bandiere sulla cresta dei muri. Ma pel piccol numero, non superando ottocento fanti, e dovendone quasi la metà restare a guardia delle trincere e dell'artiglieria, non furono sufficienti a maggior progresso. Fece allora il Patriarca sonare a raccolta. E vedendo crescere il numero dei nemici alla campagna, e diminuire la sua gente, deliberò di ritirarsi. Caddero in questa fazione quasi cento e venti uomini tra morti e feriti: tra i primi il prode capitan Camillo da Fabriano, compianto ed ammirato da tutti; tra i feriti il mastro di campo, e Luigi Raimondi.

[14 agosto 1538.]

Allora i nemici, che quasi dodici mila si erano raunati dai luoghi vicini, nulla più aspettando che la ritirata dei Romani, con terribilissimo impeto assaltavano alla coda ed ai fianchi la nostra colonna, che sempre combattendo marciava verso la marina, conducendo però in mezzo l'artiglieria, le bagaglie, ed i feriti. Alla spiaggia erano attelate a scaglioni su due punti le galèe, colle prue verso terra per incrociare i fuochi e tenere i Turchi lungi dal punto intermedio della riva, dove avevasi a eseguire l'imbarco, per lo spazio interno del triangolo difeso e intercetto dai fuochi convergenti. Dopo di che l'armata nostra si tirò fuori del golfo, e die' volta per racconciarsi a Corfù.

[15 agosto 1538.]

La impresa del Patriarca, come si legge in tutti gli storici di quel tempo, così la troviamo commendata da ciascuno, massime dai Veneziani: perchè ebbe conseguenze importantissime, che superarono di lunga mano qualunque guadagno fosse potuto venire dall'acquisto di quel luogo. L'esempio dei Romani tra gli amici rilevò le speranze già quasi morte; e tra i nemici costrinse Barbarossa, per paura di perdere la Prèvesa, a levarsi in sul punto dell'assedio della Canèa, liberando all'improvviso (come poi si seppe) dalla terribile ambascia i Candiotti. Però il ribaldo se ne venne proprio nel golfo dell'Arta con tutta l'armata sua a cercare la nostra; e fu costretto restarsi impotente; perchè così vicino non eragli dato più imprender nulla senza esporsi a pericolo[32].

Di questi fatti parla il medesimo patriarca Grimani in una lettera del diciannove di agosto, diretta al Ricci, tesoriero dell'armata romana in Venezia, il quale l'ha conservata nei suoi registri, ed io qui la pubblico come documento importante ed inedito[33]:

«19 agosto 1538, di Corphù.

»Reverendo monsignor Giovanni. — Si ebbero le notizie vostre per il schirazzo[34] che giunse quivi; come l'havrà inteso per lettere di Bernardino[35], et similmente la nave Malipiera con le munizioni accusate: al che non accaderà dire altro.

«Credo che havrete inteso, pur per lettera di Bernardino, del nostro andare all'impresa della Prèvice. Hora vi dirò succintamente che, desideroso di fare servitio et cosa di honor a Sua Santità, a questi giorni passati mi deliberai di far qualche effetto, et di non perder più tempo[36]. Di modo che essendomi detto da molti che l'impresa di essa Prèvice sarebbe molto facile, et ritrovandomi io alla Parga[37], quivi discosta quaranta miglia, deliberai tentarla. Et così il dominica che fu alli undici feci dismontar la gente, che potevano essere da ottocento fanti: et la notte, posta in terra l'artiglieria per batterla, fatte le trincere et difese al meglio che si potè, cominciammo la mattina seguente a batterla per terra et per mare. Però io con tutta l'armata entrai da l'altra banda sotto la fortezza per il golfo senza danno alcuno, ancorchè provassero le galere infinite cannonate di nemici. Battemmo tutto il lune, il marte, et il mercole, sino al giobbia mattino[38], che ci levammo: et non si cessò mai giorno et notte. Talchè havendo tirato più di novecento cannonate[39], senza gli altri pezzi piccoli, ci cominciò a mancare la munizione. La quale fu potissima causa di non ci lasciar tentare l'ultima fortuna. Il marte vi furono dati doi assalti, et furonvi tutte piantate le bandiere sopra i muri: ma furono ributtati per non essere soccorsi dagli altri che stavano dentro gli alloggiamenti in guardia dell'artiglieria. I quali non si moverno, quasi spaventati dal primiero assalto et dalla vista di nemici che si trovavano alla campagna, et tuttavia andaveno crescendo, a piedi et a cavallo.

»Per la qual cosa vedendo il mercore che multiplicava il soccorso a' nostri danni, deliberai porre l'artiglieria in galera: et così sugli occhi dei nemici, che ci vennero assaltare sin dentro gli alloggiamenti, levatala con bonissimo ordine, la calcammo sopra esse galere, senza lasciar dietro cosa alcuna, et sempre scaramucciando con Turchi, sin che si ebbero condotte le artiglierie et le altre cose ad salvamento.

»Poi il giobbia mattina, havendo colle galere tutta la notte tormentato, et vedendone mancar le munitioni, et crescere il nemico di continuo alle spalle, havendo poca gente da poterli resistere, deliberammo lasciar l'impresa. Et cusì venimmo fuori del golfo, salutati però tutti con buone cannonate. Et alla mia galera ne toccorono cinque, però senza morte di alcuno per grazia di Dio. Ultimamente uscimmo tutti ad salvamento, con qualche danno però de' nostri. Et abbiamo lasciato quella fortezza di modo ruinata, et dal canto nostro con tutto quell'animo che s'ha potuto operatosi, che mi reputo haverne riportato la vittoria. Et forse Iddio per qualche mio peccato non mi ha voluto far degno di vederne un fine. Nondimeno io spero che un giorno Sua Santità conoscerà che la vita mia è per sacrificarsi nel servitio di Sua Beatitudine. Havendone scritto largamente al signor Nunzio di costì, et volendo questo Generale spacciare in pressa non se gli puote dir tutto il particolare: però Vostra Signoria ne potrà essere ragguagliata da Sua Signoria reverendissima.

»Di nuovo ci è che Barbarossa ha spalmato a Scio, et che andava alla volta di Negroponte coll'armata, et di più che haveva mandato quaranta galeotte alla volta di Modone: et appresso questo clarissimo Generale vi è qualche sentore et dubitanza che egli se ne venghi sotto Napoli di Romania. Et di tanto più si dubita, quanto che le sei galere, che furono mandate l'altro giorno per soccorrerla, per timore di non incapparsi nei piedi di essa armata, sono andate et ancor sono alla Cania[40].

»Io vi scrissi per l'ultima il bisogno grande del danaro e dei frumenti. Hora torno a recordarvelo, che per l'amor di Dio operiate che se ne facci quella provvisione che vedete necessaria. Et di questo, di grazia, siate ricordevole; perchè potete comprendere il bisogno mio.

»In oltre sapete come io sto di remigi. Et la causa che mi ha mosso a tentare la impresa è stata principalmente per usare ogni via, acciò mi potessi interzare[41]. Nè havendomene Dio fatto la gracia, anzi havendo ricevuto qualche danno di uomini in questa impresa, resto più che mai disperato. Et ancor che l'animo mio fosse di non disarmare alcuna di queste galere che ho meco (non piacendo ancora a Sua Santità), nondimeno questo clarissimo Generale mi ha esortato ad disarmarne tanto che possa interzarmi intieramente; et dettene le ragioni, per le quali non vedo nè via nè modo di potergli contradire: et massime che la necessità dei tempi che hora cominceranno non comporta che si possa fare altrimenti[42]. Però mi sono risoluto disarmarne quattro di quelle che mi parranno a me manco profittevoli et interzarmi col resto ad compimento; acciò possa comparire cogli altri et fare honor a Sua Santità. La quale quando havrà compreso che tutto si conviene per evidente necessità, son certo rimarrà soddisfatta di questo, conoscendo che di manco non si puote fare.

»Messer Miniato io più et più volte l'ho persuaso ad venirsene. Et hora più che mai parmi che non voglia sentirne parola, dicendomi che, se io non voglio che stia meco, egli si acconcerà sopra l'armata del Doria. Di modo che non so più che fare, se non ogni giorno predicarcelo nella testa. Et quando se disponga de venire io lo manderò molto volentieri per soddisfarvi[43]. Ben vi dico che in questa impresa della Prèvice si ha fatto honor; che sempre ha voluto trovarsi anche egli armato nelle fattioni con gli altri soldati, et portatosi coraggiosamente.

»Altro per hora non le dico, se non ricordarle di nuovo il bisogno mio et della armata: et a V. S. de cuor me offero et raccomando.

»Da Corphù il 19 d'agosto 1538.

»Marco Grimano, Legato apostolico.»

IX.

[8 settembre 1538.]

IX. — Se taluno dopo tanto tempo non avesse più alla memoria il fatto della lega, oggi che siamo agli otto di settembre, si riscuota; che finalmente si avvicina il giorno della salute, ed alla vista di Corfù comparisce il glorioso Messia. Così, dopo averlo tanto aspettato all'armata, si usava comunemente chiamare il principe Doria[44]. Egli seco conduce una trentina di navi piene di infanteria spagnuola, quasi dieci mila uomini, cavati dai presidî del Regno; e in vece delle ottantadue galere pattuite, ne mena la metà, cioè quarantuna galea, tra le sue e quelle di Napoli e di Sicilia e dei particolari assoldati dalla maestà di Carlo. Niuna galera dei regni di Spagna[45]. Dopo le visite e i complimenti, cominciano al solito le mostre e i consigli.

Prima di udire i pareri di quei signori scendiamo al porto sotto la fortezza di Corfù, e vediamo ciò che si può consigliare e imprendere in quest'anno coll'armata della lega così oramai raccolta come si trova; e appunteremo sulla carta in breve compendio il novero dei legni, delle artiglierie e delle genti, perchè a un batter d'occhio ciascuno possa riconoscerne la forza. Nei numeri io mi tengo al minimo, e sempre sulla testimonianza degli autori e dei documenti che per tutto questo libro vengo citando. Per esempio, al patriarca Grimani non darò più di ventisette galere, dovendo supporre che di fatto ne abbia disarmate quattro, come egli scriveva di voler fare per interzarsi: similmente escludo dal novero i legni minori, cioè le fregate e i brigantini nostri e d'ogni altro; ma sempre ritengo le quattro galèe del conte dell'Anguillara, che alcuni mettono in disparte. Ai Veneziani assegno il minimo, dicendo galèe settantadue; perchè il compimento delle altre dieci, e un numero anche maggiore essi tenevano altrove in distaccamenti diversi per la guardia e scoperta nel golfo e nelle isole; e assegno loro venti navi, compreso il famoso galeone, non potendosi ammettere numero minore senza impedire il servigio e l'approvvigionamento delle galèe. Una nave sola e grossa, chiamata la Cornara, assegno al Grimani[46]; quantunque egli nelle sue lettere parli di più navette e schirazzi, e della nave Malipiera al servigio dell'armata papale. Al Doria assegno le trenta navi, che bastavano al trasporto delle infanterie; e quarantuna galea, come trovo distinte a parte a parte le sue proprie e le seguaci. Ho voluto altresì tener conto della maniera diversa di questi e di quelli nel noverare le artiglierie; dandone dieci o undici pezzi a coloro che tanti ne solevano portare; e dandone sette o cinque solamente agli altri che stavano contenti al numero minore. Nelle navi metto sottosopra trenta pezzi per ciascuna, quantunque compresavi l'artiglieria minuta ne portassero di più. Rematori interzati calcolo almeno cencinquanta per galèa; soldati settantacinque pei Veneziani, e cento per ogni altro; marinari cinquanta per ciascuna nave o galèa. Con queste regole, che possono essere provate e riprovate da chiunque, compongo la tavola generale che metto nella nota[47].

[10 settembre 1538.]

Ci troviamo adunque dinanzi bella e fiorita armata: centoquaranta galèe di battaglia, cinquanta navi grosse, trentasette mila tra soldati e marinari, dumila e cinquecento cannoni, e capitani eccellentissimi come il Doria, il Cappello, il Gonzaga, l'Orsino, il Simeoni, il Giustiniani e tanti altri. Entriamo con essi in Consiglio; e chiunque abbia fior di senno, un po' di pratica, e qualche lettura, giudichi ciò che possiamo aspettarci. Primo di tutti il General veneziano, senza niuna querimonia dei disordini precedenti, saluta il Doria: e, levando le mani, ringrazia Iddio di poter vedere unita l'armata cristiana, per numero e per forza capace di qualunque impresa. Indi richiede che si debba uscire, cercare l'armata nemica, e conquiderla. Don Ferrante Gonzaga volge il discorso assegnatamente alla Prèvesa, non solo per guadagnare quella importante fortezza, ma anche per chiudere dentro al golfo l'armata nemica, nella speranza di pigliarsela tutta a salvamano, come pochi anni avanti erasi fatto nello stagno di Tunisi. Il patriarca Grimani non chiede altro favore che di esser messo alla vanguardia: e per le recenti prove fatte in quei rivaggi, promette condurre gli alleati a sicura e segnalata vittoria. Gli altri a una voce ripetono battaglia e vittoria.

Il solo Andrea Doria si contrappose a tutti, e non comparve più quegli che infino allora era stato. Uomo eccellente, gran marino, di alto senno, e di cuor magnanimo, fedele a chiunque lo aveva assoldato senza offenderlo, benemerito di papa Clemente, vittorioso a Corone, degno di somma lode per tutto il quarto dei miei libri intitolato al suo nome; in somma lo abbiamo messo e tenuto in grande onore, secondo il merito suo e il dover nostro. Ma ora la fede dei trattati, la salute di tutti gli stati d'Italia, e la suprema necessità civile e religiosa del cristianesimo nel secolo decimosesto, mi costringono a compiangere la sua e la nostra sventura, ripensando mestamente quanto miglior comparsa avrebbe fatta quest'anno in Levante sotto miglior padrone. Il Doria veniva fresco fresco dall'Acquamorta, bene indettato coll'astutissimo Carlo e co' suoi consiglieri, donde traeva soldi ed onori col patto di tenere a segno i Veneziani ed ogni altro. Perciò nel consiglio del dieci di settembre, in vece di mettere animo, fecesi con grande sfoggio di teoriche marinaresche a sciorinare le infinite difficoltà delle battaglie navali, aggiungendovi i sinistri delle traversìe, delle correnti, dei venti e delle tempeste equinoziali. In fine coll'inesorabile rigore della logica prese a svolgere tutte le conseguenze che aveansi a cavare dalla sua tardanza. Proclamò la necessità di tenersi sempre vicino a qualche gran porto di rifugio, escluse il punto principale della Prèvesa proposto dagli altri; e per mostrare che i disegni suoi miravano a più alto vantaggio, propose nulla meno della conquista di tutta la Morèa, cominciando da Patrasso e da Lepanto; allegandone molte ragioni, e specialmente il comodo dei ricoveri che in ogni fortuna di mare avrebbero quivi incontrato[48]. Tristo preambolo! la ricerca del rifugio, e non del nemico!

Niuno degli astanti si ardì replicare all'oracolo diffinitivo per non rompersi fin dal principio. Ma perchè a voler andare da Corfù a Patrasso e a Lepanto, secondo il disegno di Andrea, doveva l'armata della lega necessariamente passare innanzi alla Prèvesa, dove era Barbarossa coll'armata nemica, gli altri capitani di Venezia e di Roma mostrarono di contentarsene, sotto espressa condizione che, traversando di là, e prima di procedere avanti, si dovesse presentare la battaglia al nemico. Pensavano certamente che Barbarossa, almeno per riputazione, non avrebbe mancato di accettarla, nè a sè stessi sarebbe fallita l'occasione di vincerla. Intendevano tutti che il primo assunto di campagna navale deve essere la distruzione o l'avvilimento dell'armata nemica; senza di che ogni altra fantasia di castelli, di isole, di porti, non può tornare che vana. Andrea medesimo erane più d'ogni altro persuaso, e così aveva fatto esso stesso a Corone: però costretto dall'evidenza, e dalla maggioranza, accettava il partito, come colui che altresì ben conosceva le diverse maniere di presentare la battaglia, volendo o non volendo combattere.

[11 settembre 1538.]

Intanto il primo attacco non mira a Barbarossa, ma ferisce di punta i Veneziani. Conciossiachè Andrea per tenerseli soggetti tanto che mai non potessero fare diversamente dalle sue macchinazioni, preso pretesto dalle galèe della repubblica non provviste a sufficienza di fanterie, richiese solennemente al generale Vincenzo Cappello di lasciar montare in ciascuna delle sue galèe venticinque fanti spagnuoli di rinforzo[49]. Vincenzo turbossi tutto alla insolente proposta: ma si contenne, e rispose scusandosi di non poterlo fare senza espresso comandamento del Senato. Si offrì nondimeno pronto a rinforzarsi al bisogno, togliendo gente dai presidi di Corfù e del Zante, e specialmente dalle due grosse brigate di riserva sotto Pasotto Pasio di Bologna e sotto Giacopo da Nocera. Di più domandò, anche senza altri rinforzi, di esser collocato in parte ove fosse maggiore il pericolo e più difficile la ritirata, in tutto a giudizio e a piacimento del Principe. Il genovese ed il veneziano, ambedue scaltriti, dissimularono: quegli contento della superiorità assunta, e dei partiti che trar si proponeva tanto dal consenso, quanto dal rifiuto, per governare le cose a suo talento; questi offeso dal sospetto ingiurioso e dall'attentato di servitù volutagli imporre.

Notate adesso come (quantunque per equivoco) il nome di Giannandrea, nipote ed erede di Andrea Doria, esce fuori per la prima volta dalla penna del gravissimo storico e cavaliero Giacopo Bosio proprio al proposito delle pretensioni di mettere soldati spagnoli nelle galere veneziane[50]; quasi che niun altro nome meglio del suo potesse legarsi a questi tranelli, da lui poscia ripetuti a rischio di condurre gli alleati sul punto di rompere in guerra mutua quattro giorni prima della battaglia di Lepanto. Tanto erano radicati certi artifizi nei consigli di Carlo e di Filippo, e dei ministri e degli eredi!

Ben so che i Veneziani non usavano empire di gente a ribocco le loro galèe, come empivale Andrea, senza spesa, coi soldati di Carlo; ed anche so che lasciando altrui il vantaggio dei numeri non però di meno correvano in valore i Veneziani alla pari con tutti, e talvolta anche di più. Ogni nazione ha il suo modo tradizionale di equipaggiare: gl'Inglesi, per esempio, fino a questi ultimi tempi hanno usato tenere il settecento dove i Francesi mettevano il mille; e così diversamente i Portoghesi, gli Americani e gli Olandesi. Che però? Valevano forse meno per questo gli uni degli altri? O vero qualcun di loro ha mai preteso, sotto colore dell'alleanza, di mettersi di filo in casa altrui a venticinque per volta?

X.

[25 settembre 1538.]

X. — Non farei troppo conto degli intrighi minori, se non fossero maglie di rete maggiore, nella quale trovo avviluppati gli uomini, i fatti e i costumi che mi studio fedelmente ritrarre dal principio alla fine col pensiero e col discorso, perchè più facile e piena conoscenza ne piglino i lettori. Chè se amano fuggir fastidio, passino innanzi: e dal venticinque dei Bisogni vengano al venticinque del settembre. Passate altre tre settimane tra gli stenti dei consigli e delle astuzie! Ecco tutta l'armata cristiana fuor del canale di Corfù scorrere a vela verso la Prèvesa, secondo le mezze misure fermate in consiglio. Alla vanguardia le galèe papali guidate dal Patriarca, nel corpo di battaglia le galèe del Principe colle antenne tinte di nero per segno di speciale ricognizione, alla coda i Veneziani, dolenti di essere al termine della stagione, consunti dalla tardanza, avuti a sospetto e minacciati di servitù. Le navi d'alto bordo, tutte sulla destra, più larghe a mare, e in due squadroni; l'uno condotto da Franco Doria genovese, l'altro da Alessandro Condulmiero veneziano. Con questa ordinanza l'armata cristiana si presenta alle fauci dell'Arta, si attela, dà fondo, e passa quivi la notte sull'àncora. Gli esploratori vanno e vengono, portando le relazioni dell'armata nemica racchiusa nel golfo; e diconla minore della nostra, vuota di gente, e piena di paura. Nella notte Ariadeno ed Andrea mulinano disegni, e già ciascuno ha preso il suo partito: anzi meglio, ambedue sono venuti nell'istesso divisamento. L'uno e l'altro si propone di sfuggir la battaglia, e insieme di far le viste di cercarla. Le ragioni loro totalmente diverse, le arti uguali, l'onestà e il vantaggio al Pirata. Venga, chi vuole apprendere arti pellegrine: venga e veda come possono mostrarsi grandi battaglieri due ammiragli che non vogliono battersi.

[26 settembre 1538.]

Fermo nei suoi ripieghi, e senza dare un minimo fastidio a chicchessia, Andrea la mattina seguente distacca il suo Giannettino con quattro galere, e lo manda verso il golfo a sfidar Barbarossa: e questi, provocato in quel modo, risponde alla presenza di tutti essere egli capace di uscir fuori, di restar dentro, di accettare e di rifiutare, tutto in un tempo. Eccolo: sguinzaglia sei galèe disalberate; che, costeggiando a mano manca, dànno segno di voler trascorrere alle spalle dei provocatori. Ed ecco Giannettino a sua volta che si gitta rasente la spiaggia per tagliare la strada ai nemici, o per ricacciarli a cannonate nel golfo. Un'ora dopo escono di là altre sei galèe di barbareschi: e di qua per segnali di Andrea muovono quattro di Malta e due di Roma, provocandoli a combattere in numero pari. Sembra che accettino, levano remi, sparano cannonate: e i nostri arrancano per guadagnare la bocca del golfo, e per costringerli al combattimento. Ma che? I barbareschi si ritirano; e gli altri danno loro il buon viaggio con una salva di palle nei fianchi. Appresso fan capolino altri quattro; e il Grimani con pari numero corre allo schermugio. In somma durando alla lunga lo strattagemma, e uscendo più volte le quattro e le sei galere senza profitto, finalmente tutti intendono l'astuzia del Pirata, che tenta deludere e stancare i Cristiani, dappoichè combattere apertamente non ardisce. E tutti eziandio intendono l'arte del Principe, che parimente non vuole combattere, nè mettere gente in terra, nè assaltare la Prèvesa, nè chiudere il golfo, nè ripetere le bravure della Goletta[51]. Fatte adunque le viste di aver compìto al debito suo, secondo le deliberazioni del precedente consiglio, e levatosi un po' di Grecale dal golfo, Andrea spara il segno della partenza per tutta l'armata, e fa vela verso Santamaura. Non calza qui forse bene il proverbio, che le cose passano tra corsaro e pirata?

XI.

[27 settembre 1538. All'alba, Grecolevante maneggevole.]

XI. — Giorno per sempre memorabile, e fin dal primo albore, il ventisette di settembre, quando l'armata cristiana, filate una trentina di miglia con venti variabili e mare grosso nella notte, e fermatasi attorno alla Sèssola, isoletta a ponente di Santamaura, essendosi la mattina messi i venti di Grecolevante, coi quali non si sarebbe potuto doppiare capo Ducato per andare a Lepanto, giunse l'avviso che Barbarossa moveva appresso con tutti i suoi. Le guardie del calcese, poco dopo sclamavano maravigliate, dicendo vedere l'armata dei Turchi in bellissima ordinanza. E tutti montando ad alto ripetevano: bellissima. Imperciocchè essa veniva a vele gonfie, antenne parallele, carro a sinistra, vento di Grecolevante maneggevole; e presentava da lungi la figura di una grande aquila bianca, come se col corpo e colle ali distese sorvolando lieve lieve, radesse l'azzurro campo del mare. Faceangli testa venti galèe rostrate di antiguardo, tutte pomposamente in armi, e coperte di bandiere variopinte: indi sfilavano sul collo in più righe le fuste cangianti del pirata Dragut. Ingrossavano il corpo ventisei galèe di Ariadèno, affusolate in rombo, colla capitana nel centro ed il ricco stendardo vermiglio dell'impero. Salech-rais con ventiquattro galèe spiccava al volo l'ala destra, e Tabach-rais con altrettante distendeva l'ala sinistra. E la coda a pennoncelli spiumacciati aprivasi con più filaretti di brigantini e di fuste condotte dai pirati barbareschi[52]. In somma l'armata nemica contava novantaquattro galèe, e sessantasei legnetti: dunque di forza e di numero valeva a pena la metà della nostra.

Ora seguiamo con attenzione gli ordini del Doria e le manovre dell'armata cristiana per continuarci sicuri nel giudizio, secondo la ragione dei fatti e delle condizioni speciali del vento e del mare, e delle mosse nelle ore diverse della stessa giornata: cose a bastanza distinte dai contemporanei, tuttochè artificiosamente da taluno volute confondere per pescare le scuse nel torbido. Penso per la loro importanza trattarle a parte a parte, come segue:

[27 settembre 1538. Levata di sole, all'àncora presso la Sèssola, vento Grecolevante maneggevole.]

Alla comparsa dell'armata ottomana da ogni altro riguardata con ammirazione e diletto, impensierisce il principe Doria, perchè vede ormai vicino il momento decisivo, tenuto infino allora con tanto studio lontano. Però a pigliar tempo senza suo carico adopera il notissimo ripiego dei consigli, sbrigliando le lingue a lunghi e diversi discorsi. Chiama a sè i maggiori: e come se non avessero già pochi giorni prima deliberato di combattere, rimette ogni cosa in dubbio, e ricomincia: Ecco, dice (come se gli altri lo ignorassero), ecco sloggiato il nemico; eccolo in aperto mare alle nostre spalle. Non può fuggire, nè ascondersi, sta a noi combatterlo, come vogliamo. Ma bisogna pensarci bene, prima di metterci al rischio, perchè sarebbe inutile il pentirsi dappoi. La salute della cristianità, e la riputazione dei nostri principi dipende da questa armata, perduta la quale non abbiamo altro per difendere le nostre marine. Più di tutti pensi il general veneziano, che insieme alla ruina dell'armata sua ne andrebbe per la repubblica la perdita dello stato e della libertà[53]. Non parvi di sentire i medesimi propositi che dopo trenta anni correvano per la bocca dei ministri spagnoli continuamente alla presenza di don Giovanni, e la mattina stessa della battaglia di Lepanto?

Il generale Veneziano risponde non volersi perdere nè punto nè poco in sinistri presagi. Sapere che i suoi Signori di Venezia hanno già preveduto ogni cosa, e comandatogli solamente di combattere senza paura. Lo metta il Principe alla vanguardia, ai maggiori pericoli, dove a lui piace, andrà risoluto, per la fede, per la patria: e trovandosi bene in ordine, con sì bella armata, superiore di numero e di forza al nemico, nel giorno tanto lungamente desiderato, non altro poter pensare che battaglia e vittoria[54]. Il patriarca Grimani, per non dar subito contro il Principe, discute un poco se sia meglio per combattere il muovere o l'aspettare: poi volgendosi alle proposte generose del Veneziano, aggiugne che se i principi collegati avessero voluto soltanto pensare a conservarsi l'armata non l'avrebbero fatta uscire dai porti, nè mandatala in Levante a sfidare i nemici: conchiude che alla vista dei Turchi e di Barbarossa non si può pigliare altro partito che di combatterli e vincerli, per liberare una volta la cristianità dai pericoli e dagli insulti[55]. Gli altri insieme ripetono battaglia e vittoria, tanto più che, durante il consiglio, il vento è saltato a Levantescirocco, vantaggioso all'armata cristiana per piombare con tutta la forza delle galere e delle navi contro il nemico. Onde il Principe, col voto di tutti, termina dicendo: Dunque così sia: e favorisca Iddio il nostro ardimento. Nondimeno la consulta ha fatto perdere tre ore, senza di che saremmo già alle mani.

[27 settembre 1538. 9º m. Levantescirocco fresco.]

La deliberazione della battaglia si propaga in un baleno tra le genti con segni di manifesta universal contentezza. Presti a salpare, a far vela, ed armi in coverta. Le navi divise in due corpi sulle punte delle ali: metà sulla destra al comando di Alessandro Condulmiero, capitano di un galeone veneziano; metà sulla sinistra con Francesco Doria. Le galèe in tre corpi, distanti due gomene tra loro, e scaglionati da sinistra a destra. Il Principe di vanguardia e più largo a mare, appresso i Veneziani nel corpo di battaglia, e il Patriarca ultimo al retroguardo, più vicino all'isola di Santamaura[56]. Le galèe di ciascun corpo tutte sopra una linea distanti, l'una dall'altra per la metà della loro lunghezza: e tanto bene vanno per la via assegnata e descritta nella carta consueta dell'ordinanza, che meglio non andrebbe sulla piazza un drappello di lanzi veterani.

Barbarossa da sua parte, vedendo a vele gonfie e con sì bell'ordine tutta l'armata cristiana farglisi incontro, palpita più d'Andrea: prevede vicino non solo il combattimento, ma più anche la sua intiera disfatta[57]. Nondimeno acconciandosi alla necessità, scompone l'aquila, e distende la curva in figura di mezza luna, studiandosi a remi di accostarsi alla terra per guadagnare sopravvento. Dunque i due padroni del Mediterraneo ci danno nella mattinata buon saggio della loro abilità, e in modo diverso: chè il Pirata, inteso dirittamente al suo scopo, si copre di figure bizzarre; e il Cortigiano conduce linee rette, inteso pur col pensiero e co' fatti al rovescio. Non già che l'arte del navigare e del combattere consista nelle comparse degli aquiloni, delle lunate e dei rettilinei: ma e' son segni evidenti della sicurezza e intelligenza dei capitani; come pur dell'arte e obedienza dei marinari, e della agilità e maneggio dei legni. Segni di eccellenza nei soprastanti e nelle masse: non essendo dubbio che gran cose saprà fare a un bisogno e per necessità, chi sa farne a soprabbondanza per diletto.

[27 settembre 1538. Mezzodì, bonaccia.]

Intanto le due armate si appressano, già sono vicine a un miglio, quando sul mezzodì il vento che infino a là tanto bene ha portato l'armata cristiana tutta unita, navi e galèe, cade del tutto e si fa malaccia con qualche rifolo dall'istesso quartiere. Tutti richiamano le tre ore perdute nella consulta. La piccola distanza di un miglio si potrebbe superare coi remi in dieci minuti: ma le navi resterebbero indietro, e le galèe andrebbero sole. Perciò il Principe mettesi in giolito: tanto assegnatamente, che alcune navi più destre e veliere, fatti i coltellacci e scopammari, e raccolta ogni bava minima di vento, pur gli passano avanti.

Primo di tutti il galeone del Condulmiero, coperto di cotone da cima a fondo, tira alla punta dell'ala di Tabach, e lo provoca in modo, che costui si risolve di farlo assalire da una falange di galere, perchè lo caccino a picco. Comincia pertanto la detta falange a trarre contro il galeone; e il Condulmiero nullamente risponde, aspettando di mettersela tutta vicina. E come si trova tanto da presso da avere ogni colpo per sicuro, lancia la prima fiancata a cartocci di scaglia, e scopa via d'attorno quanti Turchi si mostrano; sì che ai pochi rimasti in vita pare un'ora ogni istante che tardano a fuggire[58]. Animato da questo successo, il Condulmiero si prepara a conciare per simigliante maniera tutta l'ala di Tabach; e già il galeone di Franco Doria si mette in punto di fare altrettanto sull'ala di Salèch; e tutta l'armata cristiana, soldati, marinari, spagnuoli ed italiani (se ne togli alcuni silenziosi politiconi), tutti chiedono che si debba non solo arrancando, ma volando, se fia possibile, investire l'armata nemica: tutti vedono di aver cinquanta galèe di vantaggio, alcune navi già innanzi, e le altre vicine[59]. All'incontro Andrea, mantenendo le riserve assunte dal principio, fa dare qualche palata, e tra la maraviglia di tutti colle sue galèe piglia un giro di lungo circuito dalla sinistra attorno alle navi verso il largo del mare[60]. Forse che Giannandrea coll'istessa arte non allargossi a Lepanto?

[27 settembre 1538. 3º s. bonaccia.]

Barbarossa intende benissimo quella lentezza e quegli aggiramenti lontani, e ne piglia conforto. Spera che i Cristiani se ne andranno senza far nulla. E non volendoli provocare, anzi parendogli già troppo di essere stato le tre ore a fronte di armata tanto superiore, comincia a dare lento lento alcune palate indietro, tirandosi verso terra. In quel punto lo sdegno divampa dai petti generosi, in ogni brigata si mormora del Doria, e i due generali di Venezia e di Roma con velocissimi palischermi corrono a trovarlo, pregandolo e scongiurandolo che dia il segno della battaglia, levi in alto il grande stendardo, e non perda occasione tanto propizia e desiderata[61]. Andrea in gran sussiego risponde buone parole più all'uno che all'altro: e gli esorta ambedue di ritornarsene a bordo, e di osservare attentamente di là a mano a mano i segnali.

[27 settembre 1538. 5º s. Scirocco fresco.]

Un ora prima del tramonto ridonda a un tratto il vento favorevole da Scirocco: beneficio solenne per tutta l'armata cristiana[62]. Già le navi in massa ripigliano l'abbrivo, già si avanzano per investire i nemici; e le galèe anche senza l'uso delle vele e dei remi, per sola spinta del vento ne' corpi agilissimi, da sè son venute tanto vicino, che i marinari possono distinguer bene i colori, le vestimenta, e i paurosi sembianti dei Turchi[63]. I Cristiani di ogni nazione e di ogni parte ripetono: battaglia, battaglia. E vedendosi con tanti vantaggi di numero, di forza, di navi e di vento; all'incontro il nemico avvilito, fuggiasco, presso a terra, accertano con pronto conflitto di sbaragliarlo. Ma che? In quel procinto Andrea, senza dir motto ad alcuno, e senza far segni, contro ogni ragione di milizia, e fuori della espettazione di amici e nemici, scioglie le vele, piglia il vento, mette il timone alla banda, si allarga alquanto a ponente, e poi con tutte le sue galere, e vento in poppa se ne fugge a Corfù[64].

XII.

[27 settembre 1538. Il tramonto. Scirocco fresco.]

XII. — Alla vista di tale ontosa e inaspettata fuga, l'armata, navi e galèe, Veneti, Spagnuoli e Romani, caddero nella confusione, abbandonati senza governo; infino a che questi e quelli, e poi tutti furono di avviso di dover seguire lo stendardo del grande Capitano[65]. Ma nel far vela, e nel poggiare al largo, i navigli si investirono e intricarono tra loro, che se Barbarossa gli avesse caricati, come doveva, cadevano tutti irreparabilmente nelle sue mani. Ma al Pirata non sembrava possibile nè tanto errore, nè così solenne perfidia: sospeso però dell'animo in molti pensieri, temendo strattagemmi, e non volendo arrischiare battaglia, dette tempo ai nostri di allargarsi e di rannodarsi alquanto. Ma poscia reso sicuro del fatto, e orgoglioso dell'inaspettato trionfo, ordinò la caccia, traendo a furia grida di vergogna e colpi di cannone dietro alle spalle dei fuggenti. E non avendo mai la reale del Principe osato voltar faccia, nè contrabbattere, niuno si ardì sparare un sol pezzo per sua difesa. Indi cresciuto tra i Cristiani il disordine ed entrato il timor panico, si dierono a correre a chi più poteva verso Corfù, e quasi venti galere fino in Puglia: e quanti vi ebbero navigli tardi alla vela, o sbandati, tanti furono assaliti e presi dai Turchi.

Qui devo sostenere alquanto per sovvenire, almeno colla voce, alla tredicesima delle nostre galèe, armata in Ancona, e condotta dal cavalier Giambattista Dovizî, detto l'abate di Bibbiena. Il legno, tanto forte per la bravura e pel numero dei combattenti, quanto fiacco di rematori, ebbe danno dai compagni nel procinto della ritirata, e rimase addietro. Assalito da due galeotte, le ributtò tuttaddue; e sarebbe scampato pel valore del capitano e delle genti, se non fosse venuto Dragut con altri quattro contro lui solo. Il Bibbiena si difese da disperato, le ciurme istesse presero l'armi coi soldati, e combatterono alla vista di tutti più di mezz'ora. Finalmente al tramonto del sole la galèa fu presa, quando non vi ebbe quasi più alcuno in vita a difenderla. Sotto gli occhi di Andrea i Turchi abbatterono lo stendardo del Papa, ne incatenarono il capitano, tolsero ogni cosa[66]. La riscossa verrà coll'armi dal nostro conte Gentile, come in alcun luogo diremo.

In somma sul far della sera i Turchi avevano in poter loro una galèa di Venezia, una di Roma, e cinque navi di Spagna, non ostante l'eroica difesa de' loro fortissimi capitani e soldati lasciati in abbandono[67]. Ardevano in mezzo al mare le navi da carico, e il famoso galeone del Condulmiero, che aveva sul mezzodì così bene incominciata la battaglia, abbandonato da tutti e traforato da molte palle, si credeva comunemente perduto, infino a tanto che tutto lacero e sanguinoso dopo tre giorni non fu ricondotto dall'intrepido capitano in Corfù.

[27 settembre 1538. La notte. Scirocco fresco.]

Finalmente venuta la notte dopo l'infelicissima giornata, che ci portò tutti i danni della sconfitta senza niuna prova di battaglia, il principe Doria volle che non si accendessero i fanali, ma celatamente si navigasse di ritorno a Corfù, dove si aveva a decifrare la sua conquista di tutta la Morèa con Patrasso e Castelli. Tutto ciò crebbe animo ai barbari, e dette loro occasione di insolentire maggiormente, dicendo con amaro sarcasmo essere stati nascosti i lumi per coprir meglio tra le tenebre la fuga e la paura[68]. Derisi adunque dai barbari, e fuggendo al bujo tutta la notte, confusi e taciturni volgeano loro malgrado lo sguardo alle cornute punte della luna ottomana, e vedeanla sopraccapo crescere minacciosa e terribile[69]. Imperciocchè i Turchi infino a quel punto timidi e quasi disperati sul mare, non pensando mai di attribuire ad altrui difetto così grande successo, ma ascrivendolo soltanto alla propria bravura, si levarono indi in poi a tragrande superbia, e divennero quanto mai petulanti, arrogantissimi, e solenni dispregiatori del nome cristiano[70].

Quella notte Andrea corruppe il sentimento morale della marineria per tutta la cristianità, togliendole la fiducia e la coscienza della propria virtù. Quella notte certi politiconi dell'equilibrio musulmano (i quali per interesse faceano grande assegnamento sul braccio del Turco come sopra leva sufficiente a contrappesare questo e quello) cominciarono a dar voce che i Turchi erano invincibili per mare. Tenetelo a memoria: e ne vedrete le conseguenze tra i cortigiani della Porta e di Spagna per altri trent'anni e più, fino alle acque di Lepanto; dove Giannandrea avrebbe ripetuto in sesto minore la medesima manovra dello zio, se avesse avuto l'istessa autorità. Andrea previde le conseguenze e gli fu forza di piangere. Ma quelle lacrime non tolsero i disastri, nè discolparono la sua condotta, nè estinsero il fuoco della discordia continuamente rattizzato dai suoi parziali per volerlo difendere a scapito dei Veneziani, come se questi per esser presti alla fuga, in vece dei mattaffioni e delle garzette avessero serrate coi giunchi le vele. Il metodo si usava da tutti, e si usa ancora per buoni effetti, non per fuggire[71]. La causa è vinta, quando l'avversario non ha altro argomento che sospetti assurdi, e ridicole recriminazioni, come queste.

XIII.

[29 settembre 1538.]

XIII. — Le infauste notizie dell'armata corsero rapidissime da Ancona e da Brindisi a Venezia ed a Roma, e le due città presero aspetto di tale costernazione, quale si vede nei giorni più acerbi di pubblico infortunio. Da una parte l'insolenza cresciuta ai barbari e ai pirati, dall'altro l'avvilimento delle armi proprie, il discapito della società e della religione, tutti vedevano; e insieme l'onore delle armi, il sangue dei cittadini, il pubblico danaro, le navi, le milizie gettate in una voragine di guerra e di spesa inutile, anzi vituperosa e per gli indugi e per la fuga del principal condottiero. Tutti cercavano la causa del disastro, pochi la capivano, niuno ardiva scriverla[72]. Ma un fatto tanto grave, con tanta cura preparato, e costantemente seguìto anche dai successori per tanto tempo, deve avere una ragione stabile, arcana, alta, che non mette a pericolo i mancatori, anzi gli assicura e li rende più cari ai padroni e più potenti tra i cortigiani: dunque la ragion di stato. Con lungo studio ho cercato io di spiegare a me stesso questo fatto: ed ora per debito di storico, dovendo ragionevolmente stabilire le cause e gli effetti dei grandi successi, ad esempio dei posteri, ed a giusta retribuzione di lode e di biasimo, cui spetta, grande o piccolo, nostrano o straniero; massime trattandosi di personaggio per tanti titoli commendevole, al quale la pubblica opinione non attribuisce altro che bravure, e da me stesso tante volte lodato, presento ai lettori la sostanza di ciò che han detto in questo caso i suoi difensori, i suoi nemici e gl'imparziali. Si vedrà che tutti, volendo o non volendo, menano alla medesima conclusione, come il lettore dalla precedente esposizione dei fatti deve prevedere.

L'ira e le accuse dei contemporanei contro Andrea non ricorderò io colle parole della plebe rabbiosa, ma colle scritture notissime ed assennate di Scipione Ammirato e di Paolo Paruta, ambedue lodati dal Tiraboschi; e più il Paruta dal Pallavicino, come «Storico egregio tra gli italiani, non meno per candore di sincerità che di stile, e per limpidezza di pietà che di prudenza». Il primo parlando della pubblica indignazione, che veniva crescendo come si moltiplicavano le lettere private, nelle quali minutamente si narravano i fatti e biasimavasi Andrea, dice[73]: «Non vi fu accusa, non vi fu detrazione contro il Doria, che avventata non gli fosse. La sovranità del comando conservavalo in rispetto, altrimenti gli sarebbero corsi in faccia gli sputi universali: tanto era grande la rabbia.... Il mancar di fede è colpa da non rimettersi, nè da gastigarsi mai abbastanza.» Il senator Paruta scende ai particolari, ed enumera ad una ad una le accuse comuni e le voci che allora correvano[74]. La privata amicizia di Andrea con Barbarossa, la venuta di una galeotta piratica al suo bordo presso la Prèvesa, gli interessi suoi nel mantenimento della pirateria, l'avversione contro i Veneziani, la tinta di nero data alle antenne per arcano segno di secrete intelligenze, l'ambizione della propria grandezza, il timore di mettere a rischio la sua persona, l'avarizia delle sue sostanze e galèe, dalle quali dipendeva tutto l'esser suo pel bisogno che aveva l'Imperatore del suo servizio. Indi soggiugne cosa di gran momento e inaspettata, scrivendo: «Nè più degli altri astenevansi da queste accuse gli Spagnuoli: anzi il marchese d'Agialar, ambasciatore di Cesare in Roma, pubblicamente detestava le operazioni del Doria; mostrandosi in ciò forse più ardente per levare quel carico, che da tale successo potesse nascere, all'Imperatore; quando fosse nato sospetto essere ciò eseguito di ordine e di commissione di lui.» Dunque per quanto sia grande il susurro popolare, la destrezza dei ministri e la cautela degli scrittori, una cosa in fondo si rivela dalle parole dei contrari: cioè corso libero a tutte le accuse, salvo al sospetto di infedeltà combinata tra Carlo ed Andrea.

Tra gli imparziali metto il fiore dei dotti e religiosi uomini, e primo il cardinal Pallavicino, con queste parole[75]: «Della Lega seguirono successi inferiori alle speranze, bastando ad Andrea Doria mandare a vuoto gli sforzi dell'inimico senza combattere, eziandio che la vittoria apparisse molto più verosimile della sconfitta: poichè dall'una si prometteva egli leggier vantaggio del suo principe, e dall'altra gli prevedeva grandissimo detrimento. Il qual consiglio gli partorì l'odio appresso i collegati e l'infamia appresso la moltitudine.» Dunque non si procede conforme alle esigenze della cristianità e del comune vantaggio dei collegati, ma a seconda dei privati interessi di Cesare. Ciò conferma con poche e circospette parole il cavalier Giacopo Bosio nella storia dell'Ordine suo, dicendo[76]: «Avvegnachè il principe Doria in quella giornata nell'opinione di molti dall'acquistata riputazione sua non poco cadesse, ne assegnò egli nondimeno all'Imperatore ragioni tali, che per sicurezza degli stati suoi di lui soddisfattissimo rimase.» Con maggiore intrepidezza, e per zelo di religione, leva la voce Odorigo Rainaldo dell'Oratorio, continuatore del cardinal Baronio, e storico ufficiale di Roma, negli Annali ecclesiastici, scrivendo[77]: «In verità io mi vergogno di raccontare nell'anno presente i fatti dell'armata cristiana.... Mancò al dover suo Andrea Doria, anche nel momento di combattere, quando si vedeva più certa la speranza di vincere; quantunque sollecitato a battaglia dai generali di Venezia e di Roma. Esso al contrario, facendo sul mare inutili giravolte e più vana ostentazione di arte marinaresca, prese finalmente il turpe partito della fuga, e se ne andò deriso dai barbari, che gli ciuffarono sette bastimenti tra navi e galèe, e ne fecero falò in mezzo al mare.... Furono sparse voci sinistre intorno alla sua condotta; ma dicono che Andrea non ne facesse niun conto: perchè egli riduceva la somma delle cose al comodo di Cesare. Il quale, avendo accapigliato i Turchi contro i Veneziani, non aspettava altro che vedere quest'ultimi stremati di forza e di sostanza, per gittarsi sopra di loro, e spogliarli del dominio di terraferma.» In questo modo gli imparziali rincalzano l'argomento: e dalle basse regioni delle ingiurie personali montano alle sublimi ragioni di stato, dove assicurano l'assunto della infedeltà fuor di controversia. Ma perchè sarebbe ingiustizia condannare chicchessia senza udirne le difese, volgiamoci ai due che hanno scritto di proposito in favore di Andrea.

Udiamo il Sigonio discolparlo così[78]: «Noi non cerchiamo di investigare le cose occulte, gli ordini dati in secreto, gli intimi pensamenti dei principi, e le oscure volontà degli uomini.... Per voler di Dio il Doria non fu favorito dalla fortuna, perchè tutti confessano che il vento mancò.» A mezzodì pel desinare, signor Carlo, mancò il vento; non all'asciolvere, nè alla merenda, quando Andrea lo sciupò prima in consigli inutili, e poi in fuga vergognosa. Col vento fresco di Scirocco in poppa sciolse le vele, fece orecchie di lepre alla marinaresca, si allargò dai Turchi, fuggì verso Corfù e piantò i Cristiani in confusione. Menollo il vento. E voi ravvolgetevi quanto che sia per quella notte senza lumi, abbarcate cose occulte, secrete, intime e oscure quantunque vi pare, che noi vediamo i fatti più chiari delle parole; anzi per la medesima filatessa di scuse non ricerche vediamo più che altro manifesta l'accusa. E quanto alla temerità di interpretare a rovescio la volontà di Dio... Passiamo all'altro, commensale di Andrea e segretario dell'Altissimo, il quale al modo istesso non trovando nè per mare nè per terra scuse sufficienti alla difesa; e non sapendo dove che siamo noi piantar chiovello da carrucolare il convincimento nostro, si volge al cielo dove ci ha lasciati il collega suo, ed esclama[79]: «Il grande Iddio, che vide la strage che si faceva quel giorno di sangue umano, se due sì potenti armate combattevano alla Prèvesa, levò di animo.... che si combattesse.... Di maniera che qualunque esaminerà quel successo (dirittamente giudicando) confesserà che fosse permissione divina che quelle due armate non si azzuffassero insieme.» Caschi adunque il diritto di guerra e pace, esultino i codardi, tremino i prodi, si rompano i giuramenti, si tradiscano le alleanze. Chi potrà trovarci biasimo? Sono permissioni divine! Vedi il sistema delle discolpe personali come mena alla negazione dei principî eterni della giustizia, e quindi quanto importi alla storia di mettergli il freno. Non sono mai mancati, nè mai saranno per mancare nè sofismi, nè bestemmie, nè ciurmerie al fine d'imporre alla moltitudine e di mettere gli stolti in confusione. Ma quei che hanno l'intelletto sano non possono non vedere che, quando i difensori per scusare i falli di un uomo intorbidano le massime supreme della morale, della difesa e delle battaglie; e di più mettono in compromesso a favore dei Turchi la provvidenza divina, secondo gli umori del loro cervello; in somma quando spiegano dall'alto al basso coperchioni tanto fatti, e' deve esserci sotto gran magagna da nascondere.

Ora esaurite le testimonianze imparziali, e pesate le accuse e le difese, non sarò io giudice singolare a proferire la sentenza: ma volentieri seguirò la formola del magistrato e legislatore supremo Carlo V imperatore, alla quale senza appello tutti devono colla debita riverenza sottomettersi. Pensate in quel primo fervore quanta gente intorno a Carlo per dire, per sapere, per consigliare: gli ambasciatori dei principi, l'oratore di Venezia, il nunzio del Papa, i grandi di Spagna, i ministri, gli ammiragli, cento ronzoni pel gabinetto: ed egli, non volendo mettersi in contradizione con alcuno, aveva pronta per tutti una sola risposta, che ci ha conservata nei precisi termini il Cappelloni segretario del Principe. Diceva Carlo, semprechè alcuno parlava dei successi della Prèvesa[80]: «Per mia fede, Sua Santità in quell'impresa ha mancato. Io ho mancato, et i Vinitiani mancarono; et niuno ha fatto il debito suo, se non il principe Doria.» Dunque erano d'accordo: e Andrea ha obedito agli ordini di Carlo. Ecco tutto.

Che maraviglia dunque se Andrea diviene sempre più grande, più accetto al padrone, più potente alla corte? Carlo non naviga se non lo porta Andrea, non entra in Genova senza alloggiare in casa d'Andrea, non move foglia, nè fa alleanza, senza metterci alla testa Andrea. Soltanto il Doria conosce e soddisfa al debito suo. Lo stento dell'arrivo, la metà del contingente, la molestia del rinforzo, l'infingimento dei consigli, il rifiuto di combattere, la fuga innanzi al nemico, l'abbandono degli alleati, il trionfo degli infedeli sono tutti doveri di Andrea; tutti servizi resi all'Imperatore. Carlo è soddisfattissimo per comodo suo: così può tenere abbasso Venezia per mezzo del Turco, abbasso Milano per l'impotenza dei Veneziani, basse le Sicilie per la paura dei pirati, bassa Roma pel bisogno del soccorso, basso il Turco per la minaccia della lega; ed alto solamente Carlo e la sua corte. In somma gli Austriaci di Spagna volevano che il Turco ci fosse per contrappeso ai Veneziani, i Borboni di Francia che ci fosse per contrappeso agli Austriaci, altri che ci sia per contrappeso ai Moscoviti. In ogni tempo la stessa politica dell'equilibrio, ordinato soltanto al proprio interesse ed alla altrui depressione, ha tenuto Maometto in Europa. Carlo, Filippo, Francesco e Sempronio han sempre fatto e faranno la medesima cosa, e per le stesse ragioni. Dunque stian cheti gli eccentrici difensori dell'Escuriale (non dico del muro, ma delle persone in quella cerchia appostate) a proposito di queste faccende dei Turchi. Filippo ha seguìto la politica tradizionale della sua casa, incominciata dal bisavolo alla Cefalonia, e continuata dal padre alla Prèvesa. Ciò risulta dalla catena dei fatti, dal raziocinio, dai documenti: e quanto più se ne pubblicano, tanto meglio si conferma questa verità, che è l'unica chiave per entrare nel laberinto di cotali maneggi, senza di che non si capirebbe più nulla.

XIV.

[30 settembre 1538.]

XIV. — Qui cade in concio di contrapporre agli studiati artifizî delle ingordigie politiche una lettera scritta proprio di quei giorni da un giovane venturiero dell'armata romana: il quale avvegnachè non potesse entrare tanto addentro nei fatti e nei giudizî di quella giornata, e qualche volta anticipi e posticipi come gli viene alla penna l'ordine dei fatti, nondimeno con schiettissima semplicità, non disgiunta da qualche arguta ironìa di sale romanesco, ripete i parlari di tutti, e mostra pur di sapere da sè alcuno arcano e pauroso secreto da non potersi confidare nè allo scritto, nè alla cifra: ma da essere riservato a bocca quando che sia. Ecco la lettera inedita, che pubblico colle stesse scorrezioni, delle quali chiede scusa per più ragioni esso stesso lo scrittore, Miniato Ricci da Corfù addì 30 settembre[81]:

«A monsignor Parisani, tesoriero di N. S.

»Non ho scripto a Vostra Signoria Reverendissima più tempo fa, pensando de voler tornare costà più presto che non è stato. Et il mio tardare l'ha causato la venuta del signor principe Doria, et il mio desiderio di vedere l'armata turchesca, e di che modo si combatte in mare: essendo che in terra havevo veduto per l'ultima alla Prèvesa. Et così spettando, venne quello glorioso Messìa[82], che fu alli otto del presente. Che per honor della Christianità fusse piaciuto a Dio che non se fusse per quest'anno partito da Genova: che haveria riportato molto più honore in quelle bande de Ponente, che credo fora de queste di Levante, per quest'anno. La causa bisogna la dica abbreviata per non far volume. Et haveria dire a bocca[83]; sendo che la vergognia me fa restare de qua.

»Vostra Signoria Reverendissima ha da saper come alli 25 del presente partissimo dal canale de Corfù in tre battaglie, come il signor principe haveva ordinato. Cento quarantuna galèra, et sessanta o più navi[84], fra le quali erano tre galeoni che portavano più di quattrocento cinquanta bocche d'artiglieria di bronzo, nel qual numero sono più di cento cannoni[85]. Et andassimo quel dì sopra il canal della Prèvesa, largo tre miglia. Et surgessimo tutti, con vento tutta la notte assai fresco. Et perchè nel canale ovvero golfo della Prèvesa era l'armata turchesca, non possette riuscire il disegno di far smontare le genti, come s'era disegnato. Perchè per gente che andarono la notte a riconoscere fu giudicato esser di troppo gran pericolo per più rispetti, che non accade il contarli.

»La mattina del ventisei partissimo di lì, dipoi di haver alquanto scaramucciato et tratte molte cannonate coll'armata turchesca, cioè con venticinque galere, quali intravano et uscivano dal golfo[86]: et pigliammo la volta di capo Ducato per andare in golfo di Lepanto. E così camminassimo tra il giorno e la notte fino a trenta miglia, perchè bisognò remurchiar le navi per carestia de vento. La mattina de' ventisette, a ore dieci in circha[87], sorgessimo molte galere sotto l'isola di Santamaura per spettar che tutta l'armata se drizzasse verso capo Ducato, quale andava vagando per certo vento che ne dava in faccia. Et stando noi surti così dove stava il signor Principe, et il nostro et il veneto Generale, et molti altri signori, fu scoperta l'armata del Turco, quale era uscita dalla Prèvesa. Perchè causa non lo so, ancorchè li judicii siano varii: perchè molti dicono che Barbarossa voleva andare in Barberia, molti che ne veniva a disturbare l'andare a Lepanto, e molti judicii. Dove per questi signori fu determinato, de poi molte discussioni[88], se dovesse tornare alla volta dei nemici. Et benchè l'opinione del reverendissimo Patriarca non fusse de tornarci, tuttavolta per obbedire ce tornò; con ordine del signor Principe che sua Signoria reverendissima fosse retroguardia, Veneziani battaglia, et lui antiguardia. Et così dessimo alquanto de spazio alle navi, quali avevano un poco de vento[89], acciò potessero intrare in prima. Et così dui delli sopraddetti tre legni, molto agili di vele, andarono alla volta dell'armata: la quale poichè l'ebbe veduti tornare indietro, ancora lei si fece innanzi. Et come piacque al vento, li sopraddetti dui legni andorono tanto innanzi che cominciorono a tirare alli nemici, et li nimici a loro. Dove tutta l'armata stava di tanto buona volontà et de tanto grande animo de combattere, che non pareva che cento quaranta legni che haveva Barbarossa fossero stati se non tante fregate. E spettando tuttavia che se desse segnio de dar dentro. Abbenchè in questo mezzo, per ordine di sua Excellentia, eravamo usciti del primo ordine, et andati tutti in una battaglia. Et dipoi per il medesimo ordine mettessimo tutte le navi sopra del vento.

»Et stando così con questa speranza tuttavia andassimo largandoci verso li nimici, et loro stringendosi verso la terra. Di sorte che (per li nostri buoni ordini!) ne guadagnarono il vento: et se messero d'una tanto bella ordinanza verso di noi per spettarci, che se fossero stati lanzichinecchi saria stato troppo; non tanto esser galere. Et così ne tirorno molti e molti pezzi d'artiglieria alle nostre galere et alle navi, quali erano tutte arrivate, e restate a lor dispetto in bonaccia[90]. Et stando così loro verso terra, e girando noi in mare veleggiando, se drizzorno ad alcuni navigli che erano restati indietro, fra li quali furono de veduta mia tre navi grosse; ancorchè molti dichino quattro o sei. E combattendo l'una più di quindici galere, avendole dato assai botte, nè mai havendo possuto salir sopra, havendole buttato l'albero colle vele a terra, per volerla prendere ce buttarono fuoco: et questo perchè cinquecento Spagnuoli che ce stavano sopra se portorno tanto bene che non se può dir più. E certo se gli archibusi ammazzan loro, come li loro han fatto de li nostri, si judica che molti più siano morti di loro in quel combattimento.

»In mezzo a questo le altre galere combatterono dui altre navi, quali al medesimo feceno grandissima difesa; pure all'ultimo furono prese: perchè uno contro trenta è impossibile a durar, chè tutti non sono galioni. Presso queste tre navi se trovano dui galere: una del Papa assai male in gambe per fuggire, rispetto alli homini che non sono nè pratichi nè atti a questo offitio o per dir meglio exercitio[91]: et l'altra de' Venetiani, più atta a fuggire della nostra: ma al combattere la nostra meglio di quella, come per l'experientia si è visto. Perchè essendo la nostra prima assalita da dui galiotte, le rebbuttò. Et saria scampata, se altre quattro galere non l'havessero sopraggiunta. Dove combattè mezz'ora o più gagliardamente: et all'ultimo restò pregiona la galera, et tutti li homini morti. Questo se sa per vista delle navi che erano più presso; et per uno scampato a nuoto sotto una galèa turchesca, quale tornando poi verso le navi, quello si dispiccò, e intanto con voti eccetera se salvò in una nave. L'altra de' Venetiani, per quello se vedde, se judica siano più prigioni che morti: perchè non fece troppa difesa.

»In questo tempo tutti pensavamo che se dovesse dar dentro alli nemici: perchè pensavamo il Principe havesse lassato sbattere li Turchi con le navi, et che poi con le galere se dovesse investire. La qual cosa non fu fatta. Et forse la causò un nembo di tempesta che venne, che ne fece un gran disturbo[92].

»Per la qual cosa, per venire alla conclusione, essendo ventiquattro hore[93]; et essendo insieme cento trentanove galere et tutte le navi, honoratissimamente ce ne demmo a fuggire! lassando dui galere, tre navi, et forse più, et molti altri vascelli in man di Turchi. Et che è più, lassammo tutte le navi a seccho, che non havevano vento. Et vedemmo bruciar dui navi. Et la fuga fu tanto honorata, senza che li nemici ci venissero direto, che fino a quest'hora mancano molte galere, quali s'intende sono andate in Puglia, che sarà stata una fuga di ottanta miglia: et in questa fuga sono intervenute una delle nostre, sei o otto del Principe, et altrettante o più de Venetiani. E questo, come ho detto, senza che li nemici ne seguitassero un passo: ma la tanto gran paura che era intrata addosso alli uomini[94]. Tutti dicono essere stati li ultimi a fuggire, et che avevano li nemici alle spalle, et che sono stati seguìti quindici miglia. Oltre che alcuni dipoi d'haver corso per dette ottanta miglia più che di passo hanno dato in terra per sospetto d'altre galere che vedevano pur delle nostre. Alcuni hanno tratto d'artiglieria a scogli, pensando fussero galere[95]. Alcuni lungata la via trenta o quaranta miglia discostandosi uno dall'altro, ogniuno per sospetto. Et come è piaciuto a Dio, semo tutti in Corfù. Et dalle dui galere in poi, nessuna ha havuto male nissuno, salva una di Rodi, che una botta mazzò otto homini. Sicchè vostra Signoria reverendissima ha inteso come ce troviamo. Basta che a judizio de tutta l'armata, la quale se sa che semo più de settanta mila homini, è stato ed è molto inculpato e biasimato quello, il quale ha avuto il carico di questa impresa[96]. Et certo ha perso in un punto quello che non ha acquistato in molti anni.

»Et io non saprei dire quale fusse la causa che non se sia fatta questa giornata: se non forse che quelli che stanno in cielo et all'inferno hanno havuto paura di tanta gente, quanta in quel dì justamente doveva sopraggiungere sopra l'una et l'altra porta in un tratto, non li togliesse il dominio[97]. Che certamente ogniuno judica che campandone di cinque due, fusse assai: stante che essendo tra l'uno e l'altro più di cento trenta mila, saria stata pur troppo grossa la mortalità. Et io non judico che sia stata altra la causa: perchè avendo la fortuna mostrato una tanta immortalità d'un Principe, et una tanta grandissima vittoria di Cristiani, come ne mostrava; et non havendo saputo pigliarla, non saperia dire altrimenti da quel che ho detto.

»Certifico bene Vostra Signoria Reverendissima che mai li Christiani ebbero tal ventura, nè haveranno, de esser tanto vicini a una armata di nemici, come sono stati, et haver più certa vittoria, che havevano[98].

(Seguono alcune righe in cifra, senza chiave, e niun deciframento nell'Archivio.)

»Io tra il disagio che se patisce a scrivere, et haver hanco prescia, non sarò più lungo. Et la prego che, se dell'altre sarà più scorrettamente scritta, oltrechè per l'ordinario è mio costume, adesso è forza sia molto più, rispetto al luogo: et per questo mi perdoni più dell'ordinario. Et alla sua bona gratia humilmente me raccomando, insieme col signor Cavaliero[99], quale anchora lui non havendo possuto mostrare il desiderio che tiene di far honore alli padroni, sta desperato.

»Et perchè so che Vostra Signoria Reverendissima ama messer Giovanni[100], la supplico voglia fare opera che non venga in queste parti: chè me pare intendere che egli debba venire. Et certo finirà la vita sua, se egli viene. Io saria tornato: ma per vergogna son risoluto vedere il fine, o vero la partita del Principe, quale a mio judicio penso sarà presto.

»Da Corfù a dì ultimo de settembre 1538, mezzanotte.

»Di V. S. R m a.

»Umilissimo Servitore »Miniato Ricci.»

XV.

[7 ottobre 1538.]

XV. — La partenza del Doria non andò così presta, come il Ricci desiderava. Dopo tanta vergogna bisognavagli pur qualche prova di rilevarsi, di riprendere la perduta riputazione, e di rimettere su la speranza, perchè gli alleati durassero volontieri alla lunga senza guerra e senza pace. Di che saviamente giudicando il Senato veneziano, ed uso a reprimere i movimenti inconsiderati delle passioni per servire al bene pubblico, facendo anche ragione di non doversi dare appiglio ad Andrea di farsi più nocivo, quando tuttavia riteneva nelle mani il supremo comando di tutta l'armata, gli scrissero lettere consolatorie: e tacendo con prudente trapasso ciò che allora non doveva esser detto, lo chiamarono capitano avveduto, ed eccellente marino, dal quale alla fine tutti aspettavansi alcuna segnalata rivincita, prima che la stagione lo chiamasse al riposo.

Arrivarono queste lettere alle mani di Andrea quando Barbarossa, superbo di averci superato senza combattere, per maggior segno di disprezzo eraci venuto innanzi alla rada di Corfù, sbravazzando e sparando più tosto per mostra che per disfida. Sapeva bene il tristo che non avrebbero gli alleati così presto, nè tanto facilmente combinato tra loro di condurre fuori l'armata, senza che esso non si fosse potuto prima a suo talento ritirare. La qual cosa andò a punto pel verso da lui preveduto: perchè quantunque i maggiori capitani altatamente parlassero pieni d'indignazione, dicendo che non si poteva più oltre lasciare impunita tanta baldanza, nè tollerare tanto oltraggio; con tutto ciò prima che si congregasse il consiglio e si discutessero le solite difficoltà; prima che si imbarcassero le fanterie, e prima che i Veneziani in ciascuna galèa ricevessero i venticinque, imposti a ogni modo da Andrea, andò tanto tempo, che Barbarossa fatte le viste di aver troppo e inutilmente aspettato, erasi già tolto dal canale, ed aveva ripreso il viaggio verso il fatal suo covo dell'Arta[101]. Non devo lasciar passare il settimo giorno d'ottobre di quest'anno senza affrettarne coi voti un altro che ne cancelli la trista memoria: non senza trarre un gemito sull'avvilimento del nome cristiano, e un applauso alla pazienza dei Veneziani. I quali, accettando nelle predette circostanze il supplemento dei venticinque, dimostrarono con suprema evidenza al mondo e per tutti i tempi futuri la loro sommissione ad ogni privata molestia, tanto solo che potessero procacciare pubblico vantaggio alla cristianità ed alla patria[102].

XVI.

[27 ottobre 1538.]

XVI. — Tutto inutile: Barbarossa ai sette d'ottobre si era allontanato, e l'armata cristiana batteva inutilmente le acque intorno alle isole vicine. Non le restava altro partito che ricominciar da capo sulle fauci dell'Arta, o espugnar la Prèvesa, o entrare nell'Arcipelago, come proponevano coloro che desideravano ardentemente levarsi dal viso la vergogna. Si adunò più volte il consiglio: e finalmente esclusi coll'arte solita i disegni più nobili e generosi, convennero di imprendere cose minori; volgere le spalle, lasciare il pensiero dell'armata nemica, rimettersi per le acque dell'Adriatico, ed attaccare la fortezza di Castelnuovo, tenuta allora dai Turchi, dentro al primo cerchio delle bocche di Cattaro, a sinistra di chi entrando la cerca, luogo assai conosciuto in Dalmazia, sporgente tra le terre dei Veneti e dei Ragusei, e per ciò stesso preso e ripreso più volte dai Cristiani e dai Turchi. Ogni nuova occasione giova a mostrarci vie meglio il valore dell'armata cristiana, e le offese perpetue contro i capitoli della lega per parte dei ministri di Spagna.

Venuta l'armata nell'interno del golfo, e sbarcate senza contrasto le genti e l'artiglieria, mentre i soldati intendevano ai lavori d'assedio, i marinari molestavano la piazza dalla parte del mare, volendo dividere l'attenzione e le forze del presidio. Ma per essere troppo angusto quel luogo, e ingombro di scogli veglianti alla riva, nè convenendosi tenere poche galèe ferme là sotto all'insulto del cannone turchesco, disposero i capitani nostri di mandarle a quattro a quattro: così che, la prima quadriglia, dopo battuto il castello con tutta l'artiglieria, dovesse dar volta, e aprire il passo alla quadriglia seguente per fare altrettanto; e in questo modo di mano in mano mantener vivo il fuoco, e continuo il movimento[103]. Manovra (se vi ricorda) di felicissimi effetti a Corone e alla Goletta: manovra che qui in Castelnovo, subito cominciata, ci darà finita la fazione.

La mattina del ventisette d'ottobre le galèe assegnate al tornèo, messe a scaglioni secondo le distanze, aspettano impazientemente il segno per correre all'arringo. Squilla la tromba, e voga innanzi a tutti la squadretta veneta, e appresso la romana. Giunta la prima a brevissima distanza, sprizzano venti lampi e volano altrettante palle di ferro, tra nugoli di fumo e tuoni risonanti tra le montagne ed il mare. Ma in quella che il primo stuolo provasi a sciare ed a volgere, ecco sopravvenire abbrivata il secondo con tanta prestezza, che, non potendo gli uni comodamente retrocedere, nè volendo lasciarsi investire dagli altri, continuansi ambedue a correre avanti. Arrancano i Veneti, ed appresso i Romani, tanto che insieme a gara percotono degli speroni nelle muraglie del Castello. Eccoti in un punto unite otto galere al piede d'un solo baluardo. I marinari ne pigliano buon augurio e senza altrimenti consultare, saltano in terra, l'uno all'altro prestando ajuto e sostegno di pertiche, di funi, di ramponi e di scale. Beato colui che prima degli altri può mettersi alla prova! In somma di soprassalto con prestissima battaglia di mano, in mezzo a infinite archibugiate di nemici e di amici, tramezzate da qualche colpo di cannone, la piazza non così tosto è tentata che presa[104]. Il giorno seguente, secondo il corso della stessa fortuna, si rende a patti la rôcca del monte. Splendido fatto d'arme compiuto dai soli marinari, quasi a conferma di quanto in alcun luogo ho detto intorno all'eccellenza di questa sopra tutte le altre milizie. Grande là sotto la mortalità dei nostri per la vicinanza e l'ostinazione del conflitto voluto vincere ad ogni costo; morto il terzo dei capitani di Roma, Cesare Giosia da Fermo[105]: essendo gli altri due capitani, il Londano ed il Raimondi, caduti onoratamente alla Prèvesa.

XVII.

[28 ottobre 1538.]

XVII. — Doveva la piazza di Castelnovo, secondo i capitoli della lega, restare nel dominio dei Veneziani; e il general Cappello, lieto di poter dare alla patria sua qualche compenso delle fatiche e del dispendio, col trattato alla mano ne faceva al principe Doria formale richiesta[106]. Al contrario l'egregio e fidato ministro di Carlo V, che non falliva mai al debito suo verso il padrone, ne pigliava possesso al nome di Spagna, metteva alla porta le milizie di san Marco, e se ne tornava contentissimo in Sicilia, lasciando al governo delle armi nella piazza il mastro di campo don Francisco Sarmiento con quattromila fanti Spagnoli, di quei famosi veterani che in gran parte si erano trovati al sacco di Roma, e tutti recentemente avevano fatto ribellione e crudeltà inaudite in Milano[107]. Notate il passaggio: dai venticinque ai quattromila, e dai bastimenti di guerra alle piazze d'armi. Non negavano mica la ragione dei Veneziani: tutto al contrario! Ma stessero quieti, e la piazza sarebbe consegnata loro in futuro[108]. Lo scherno per arrota al tradimento.

[Novembre-dicembre 1538.]

Partitosi il Doria, anche il patriarca Grimani prese congedo dal general Cappello con dimostrazione di benevolenza tanto grande, quanto era stata la soddisfazione mutua dal principio alla fine, e perenne la concordia tra loro, senza pur un'ombra di offensione. Il Patriarca disarmò in Ancona le galèe prese a prestanza; e venne per la via di terra in Roma, dove le sue parole, più che da altri, ebbero la conferma dal conte dell'Anguillara. Il quale, tenutosi sempre da parte nelle querele levantine e con grande riserva, rimenate avendo le galèe a Civitavecchia, sosteneva al Vaticano i diritti conculcati della sacra alleanza: biasimatore acerrimo dei falli commessi durante la campagna. E' vedeva da una parte crescere la superchieria turchesca e l'oltracotanza piratica, e dall'altra vedeva la rovina dei popoli e della religione. Perduta ogni speranza di buoni effetti colle armi congiunte della cristianità.

[Aprile 1539.]

Quale sorta di amicizia fosse cotesta dei ministri spagnuoli inverso gli alleati, giudichi chiunque ne ha patito di simile, non chi ne ha goduto. Basti che il lettore si renda sicuro per l'evidenza del fatto di Castelnovo essere stati violati i capitoli, e rotta la lega, tradito il cristianesimo dai ministri cesarei.

Ondechè i Veneziani, senza mai disarmare durante l'invernata, aspettarono il mese di marzo dell'anno seguente: e poi che ebber veduto chiaro e disteso sempre l'istesso inganno dalla parte medesima, e i Cesariani al solito menare in lungo le provvisioni dell'armamento, pensarono di provvedere ai casi loro, e volsero l'animo a quella pace che aver potevano meno dannosa e meno vergognosa della guerra. Prima per intramessa di Luigi Gritti fecero tregua di tre mesi colla Porta: poi la prolungarono ad ogni scadenza[109]. Durissime le condizioni, tenaci i rifiuti, due anni di prove, e finalmente un trattato gravoso a' venti di ottobre 1540.

Intanto i falsi amici correvano a processione in Venezia, sconsigliavano la pace, parlavano di onore, di giustizia e di cristianità; e spargevano tra i popoli le notizie dei loro consigli e delle loro premure. Francesco di Francia (l'alleato dei Turchi) voleva comparire zelante anche esso agli occhi della gente semplice! Più di tutti zelante Carlo d'Austria mandava a Venezia il marchese del Vasto a scusarsi e scolparsi, promettendo di voler mettere pei Veneziani la vita e gli stati suoi, eserciti e armate, e soccorsi inauditi: tutto pel tempo a venire[110]. Erano parole troppo diverse dai fatti. Qui cade in concio un proverbio che mi ricorda aver letto la prima volta in una grammatica per imparare la lingua spagnuola[111], e potrebbesi volgere così: Buone parole e tristi fatti gabban tutti, e savî e matti. Nel vero costoro intendevano giuntare senza lor carico, con sottile artificio, in ogni parte i Romani, i Veneti, i Maltesi, il Cristianesimo e tutti, contrapponendo alle promesse lusinghiere le opere sleali. Mi si conceda raccoglierne la somma, e mostrare in conclusione l'antitesi con che sostituivano alle parole di soccorso il fatto dell'abbandono, alla prontezza di marzo le lungaggini di settembre, all'unione in Levante le gazzarre in Provenza, alle galèe ottantadue il numero quarantuno, alla bravura dei Veneziani la soperchieria dei venticinque, all'abbattimento dei Turchi la consunzione dei Cristiani, alla guerra viva le misere scaramucce, alle grandi battaglie la fuga vergognosa, alla consegna di Castelnovo l'occupazione violenta di quattromila Spagnoli, alle conquiste in Levante le minacce in Terraferma, all'amicizia la servitù. Sia pur che il numero infinito degli stolti si lasci pigliare dall'apparenza delle belle parole; non per questo dovranno i savî tenergli bordone, anzi maggiormente intendere alla sostanza della verità, schifare gl'inganni e conoscere gli uomini (secondo i dettami della sapienza) dalle opere loro. Io ho messo qui insieme i detti ed i fatti, perchè ormai ciascuno pigli da sè il posto che gli compete; e da sè giudichi le vicende del mondo, senza accezione di persone, sian grandi e piccoli d'ogni paese: cosa non potuta sempre fare libera e apertamente dai trapassati, quando i mancatori erano possenti e temuti; nè sempre voluta fare dai moderni per vani puntigli di onor nazionale inteso a rovescio, o per riverenza in tutto a chi non fu lodevole in tutto. Prima gli eterni principî della morale colla loro verità e giustizia, e poi il resto delle persone coi loro difetti e colle loro malizie[112].

[Giugno 1539.]

Ora, per finire questa materia, devo ricordare gli ultimi due atti della guerra nel trentanove, prima che fosse conchiusa la pace tra i Veneti e Solimano. Torniamo a Castelnovo, dove sulla fine di giugno si presenta Barbarossa con tutte le forze dell'imperio turchesco, per ricuperare al suo signore la piazza perduta. I quattromila fecero egregia e valorosissima difesa: ma voluti tenere contro legge e contro natura in Levante, dove il padrone da lontano non li poteva soccorrere, alla fine caddero il dì sette d'agosto nelle mani dei Turchi: i quali senza pietà gli tagliarono quasi tutti a pezzi, e i pochi superstiti posero al remo nelle galere, come testimonî della final conclusione della strana alleanza[113].

Poscia l'istesso Barbarossa col medesimo esercito e colla medesima armata, vie più animoso per la recente vittoria, andò quivi presso a volersi pigliare la città di Cattaro tenuta dai Veneziani, e vi pose assedio pari e più duro che non a Castelnovo. Ma era riserbato al governatore di quella piazza Matteo Bembo, ed a quei spregiati marinari coi loro soldati, romagnoli, marchiani e dalmatini, senza bisogno degli altri venticinque, il dare a Barbarossa tale percossa, che il barbaro lacero e sanguinoso dovette esser contento di andarsene lungi dalla città e dal golfo, senza ardirsi mai più di ritentare quella prova[114]. Perduto adunque Castelnovo dagli Spagnoli, e salvato Cattaro dai Veneziani, finisce l'epopèa della prima grande alleanza nel secolo sestodecimo contro i Turchi. Per la seconda ci rivedremo agli scogli di Lepanto. Ma per la terza del secolo seguente sarà meglio comprovato come a pubblico beneficio della società e della religione tra Roma, Vienna, Venezia e Varsavia allora soltanto poteva durare intemerata la lega per sedici anni fino al trattato di Carlowitz, quando non entravano di mezzo i mestatori dell'Escuriale.

XVIII.

[1540.]

XVIII. — Rimettiamoci attorno ai nostri porti e alla difesa delle spiagge, dove ci si ripresenta, come prima, alla testa delle sette galèe il conte Gentil Virginio Orsini con ordini pressantissimi di Paolo III contro le infestazioni del pirata Dragut. Costui, degno allievo prediletto di Barbarossa, ci è venuto due volte innanzi nel nostro cammino, prima fra la Prèvesa e Santamaura, comandante la vanguardia dell'Aquilone, e poscia rapitore della galèa del Bibbiena. Ora, scioltosi di ogni legame dell'armata ottomana, mena guerra piratica per conto proprio con venticinque o trenta bastimenti da remo, a rovina dei commerci e delle riviere di Spagna e d'Italia. Conseguenza dell'orgoglio cresciuto ai Turchi per gli inutili sforzi della lega dei Cristiani. La navigazione per tutto l'anno trentanove era stata interrotta nel Mediterraneo, con tanta crudeltà e arsioni di terre, e prede di navigli, e schiavitù di gente, che le doglianze dei popoli mossero l'Imperatore a ordinare lo schianto di costui. Indi lettere al Papa e al Grammaestro per ottenere il rinforzo delle galèe di Roma e di Malta; e commissione al principe Doria di non attendere ad altro se non a perseguitare Dragut, e ad estirpare gli altri pirati dal Mediterraneo.

[Aprile 1540.]

Per questo Andrea, non più aggirato nè aggiratore tra la diversità delle parole e dei fatti, non più tra capitoli espressi ed ordini secreti, ricomparisce quel valentuomo ch'egli era; e piglia l'assunto da senno, e in guisa da condurlo a buon termine[115]. Pronto fin dal mese di aprile in Messina, aggiugneva alle galèe sue quelle di Napoli e di Sicilia e di Spagna, e le quattro di Malta e le sette di Roma, ottantuna in tutto; e ne faceva cinque squadre per diversi paraggi, da stringere in mezzo Dragut, secondo l'esempio di Pompèo nella guerra famosa contro i pirati della Cilicia[116]. Erasmo Doria con dieci galèe alla guardia delle Baleari; Giannettin Doria e il conte dell'Anguillara in Corsica e Sardegna con ventuna galea[117], don Federigo di Toledo con undici innanzi alle isole del golfo napolitano, il conte di Requesens con diciassette e i Maltesi a ponente della Sicilia, e il principe colle ventidue consuete per la costa di Barberia. Tutti gli squadroni fecero degna prova, ed ebbero segnalati vantaggi: ma l'onor supremo e il maggior guadagno della gran caccia toccò alla squadra di Giannettino e del Conte, ciascuno colla sua bandiera e le sue galere, che erano quattordici genovesi col primo, e sette romane col secondo[118].

[2 giugno 1540.]

Visitarono insieme le coste di Sardegna, e finalmente ebbero avviso che Dragut, dopo aver dato il guasto alle riviere della Corsica, era stato veduto con undici vele trapassare le bocche di Bonifacio, e dirigersi alla Capraja, isoletta dei Genovesi, allora quasi disabitata[119]. Lo seguirono in quella parte, e udirono le cannonate che egli tirava contra la torre di tramontana. Per questo stando più vigilanti, con buone guardie, e pigliando lingua da quei che fuggivano con piccoli legnetti, e dai pescatori, vennero a sapere che i pirati eransi levati di là, e rivolti alle alture di capo Corso; e finalmente alla deserta cala della Girolata, che è sulle coste occidentali dell'isola presso alla Cinarca e quasi nel mezzo, dove facevano baccano, gavazzando e dividendo a ciascuno la parte che gli veniva di preda e di schiavi. Costume perpetuo dei barbareschi il mettersi subito alla partizione delle prede, tanto per quietare gli ingordi appetiti, quanto perchè meglio ciascuno pigliasse nel viaggio la particolar cura delle cose sue. Costume eziandio perpetuo lo scegliere per tale bisogna gli ascosi recessi di qualche isola deserta, dove non avessero a temere nè concorso di bastimenti da guerra, nè stormo improvviso di abitatori.

Lietissimi i nostri girarono l'isola, e addì due di giugno 1540 di buon mattino posero gli agguati a ponente per assicurarsi il beneficio dei venti consueti nella stagione dal secondo e dal terzo quadrante. Oltracciò Giannettino mandò innanzi verso la cala il solo Giorgio Doria con sei galere ed una fregatina, perchè fattosi scoprire allettasse il nemico alla caccia, e lo traesse dove le altre quindici galèe stavano soppiatto ad aspettarlo. Veduti i pochi di Giorgio, il Pirata temerario chiamò all'armi; e lasciando due soli bastimenti alla guardia del bottino, si spinse contro di lui, che a maraviglia infingevasi di fuggire, tirandosi appresso i pirati verso l'agguato. Corsero qualche tempo i legni barbareschi, in numero di nove, contro i sei di Giorgio, infino a che questi con un tiro diè il segno, e comparvero agli occhi stupefatti di Dragut le altre quindici galèe di Giannettino e del Conte, che venivangli risolutamente incontro col vantaggio del vento. Virò costui subito subito di bordo, e prese a fuggire: ma i nostri avendolo sottovento, e forzando di vela, non potevano mancare di investirlo per poppa. E già il Pirata, sentendosi alle calcagna più e più da presso i cacciatori, si teneva perduto, quando disperatamente pensò volgere la faccia, e provare se colle armi potesse meglio provvedere allo scampo. Eccolo dunque dare alla banda, venire al vento, mainare le vele, e mettersi a remo: eccolo a suon di trombe approntarsi ferocemente al conflitto. Ma non gli fu dato nè anche il tempo di cominciare: conciossiachè a pena voltato, Giannettino col cannon di corsia gli assettò tale un colpo, che incontratosi di imbroccare nella ruota di prua, gliela strappò quasi dal calcagnolo, sfondandogli la galera. In quel punto di confusione, ed egli che scendeva nello schifo, e gli altri legni che perdevano la speranza, circondati nell'impeto dell'abbrivo, restarono tutti uncinati e presi, da due infuori che prima degli altri avean preso la fuga.

Intanto che Giannettino incatenava Dragut e rimetteva i sei legni predati, il conte dell'Anguillara seguiva innanzi verso la cala, dove si vedevano le due galere dei barbareschi di guardia al bottino; e pigliavasele ambedue senza colpo ferire, essendosi Mamì capitano di quella guardia gittato in terra con tutti i suoi, abbandonata ogni cosa alla riva, colla speranza di salvarsi nei boschi vicini[120]. Ma poco gli valse la fuga; perchè inseguito dai vincitori, e cacciato dalla fame nel termine di due settimane con tutta la sua brigata venne in potere dei vincitori. Splendido successo senza niuna perdita dei nostri: mila ducento Cristiani liberati dalla schiavitù, altrettanti Turchi fatti prigioni, cattivato il terribile Dragut, in catena l'ajutante Mamì, presi nove bastimenti nemici. Tra quelli due lasciati alla cala l'Orsino riconobbe e ricuperò intatta la galèa del Bibbiena, che avevamo perduta due anni prima nello scontro del ventisette settembre alla Prèvesa, come si è detto[121].

Non trovo che il conte dell'Anguillara abbia toccato parte dei guadagni; nè punto me ne dolgo o maraviglio, tale essendo la condizione perpetua della marineria romana, combattere per debito, non per mestiero, per onore, non per guadagno. Soltanto mi meraviglio e dolgomi che niuno degli scrittori ligi ad Andrea l'abbia voluto nominare a questo proposito[122]. Il silenzio di costoro, contro la testimonianza di tutti gli altri, prova soltanto quella parzialità, che mi auguro abbia a essere emendata da qualcuno de' dotti e virtuosi scrittori genovesi, i quali per loro gentilezza fan conto delle cose mie, e non lasciano cadere a vuoto i miei desiderî. Dunque il conte Gentile se ne tornò con molto onore a Civitavecchia, e fece feste in Roma, come se ne facevano in ogni parte dai popoli cristiani con fuochi, spari e dimostrazioni di pubblica esultanza per vedersi liberati da potente e capitale nemico.

XIX.

[22 giugno 1540.]

XIX. — Dall'altra parte Giannettino ai ventidue di giugno entrava trionfalmente nel porto di Genova con una schiera di legni acquistati, una lunga infunata di prigionieri, e Dragut alla catena[123]. Il quale, come trasognato, non credeva a sè stesso di avere in un tempo solo perduta la roba, la libertà e la riputazione. Caduto in tanta bassezza, consumavasi di rabbia, nè ammetteva consolazione che dare gli volessero gli altri compagni: anzi dolendosi con loro non potè tanto tenersi che non gli uscissero parole ingiuriose contro Giannettino, dicendo sua pena principale essere la viltà d'un imberbe ed ignoto vincitore. Le quali parole riferite, come succede, a Giannettino, che non si teneva nè per fanciullo nè per oscuro, il fecero montar sulle furie, tanto che gli pose il piè sul mustaccio, e ordinò al comito di legarlo al remo, e di farlo vogare alla pari con tutti gli altri galeotti. Più mansueto trattò con lui il cavalier Giovanni Parisotto della Valletta, che doveva poi divenire celebre grammaestro di Malta. Il quale, chiamandolo per nome, secco secco alla soldatesca gli disse: Capitan Dragut, usanza di guerra. E l'altro, riconosciutolo subito per professo di Malta, sul medesimo tono: Signor cavaliere, mutazion di fortuna.

[Ottobre 1540.]

E così successe, come ebbe detto il pirata. Perciocchè l'anno seguente il cavalier della Valletta cadde prigione del Zoppo di Candia alle seccagne di Barberia: e colà egli schiavo si incontrò un'altra volta con Dragut rimesso in libertà e in grandezza, e divenuto principe più di prima. Di che dobbiamo esser tenuti alla generosità di Andrea Doria, e della Principessa sua moglie, e dell'imperator Carlo V; i quali tutti insieme accordarono il riscatto del ribaldo per tremila cinquecento ducati[124]. E costui divenuto più niquitoso per le ingiurie, più cauto pei disastri, e più sitibondo di sangue e di vendetta, tornò peggio che peggio a spremer lacrime da chiunque aveva riso nel vederlo prigioniero. Crebbe per molti anni in ribalderia, si fece beffe del vecchio Andrea, gli dette i brividi sul letto di morte, sconfisse Giannandrea alla prima comparsa sul mare, e impresse il suo nome come simbolo di rovina per tutti i lidi del Mediterraneo infino alla punta di Malta, che tuttavia lo ricorda. Ne avremo lungamente a parlare.

Tutti i contemporanei, senza eccezione, biasimarono di tal fatto Andrea. Tra i moderni non pochi si ostinano a rinfacciargli l'avarizia, come se tremila ducati di più o di meno disformassero il cassetto d'un principe suo pari. Altri vorrebbe spiegare la cosa pel desiderio di volgere coll'esempio generoso i Turchi agli usi e costumanze di buona guerra: follìa, che non poteva capire nella testa di Andrea, conoscitore solennissimo delle differenze che passano tra milizia e pirateria. Io penso tra me che egli abbia voluto provvedere al contraccambio in caso simile, al quale i giovanetti suoi nipoti ed esso stesso erano continuamente esposti: e penso questo argomento più di ogni altro e con tutte le possibili conseguenze essere stato destramente maneggiato dall'istesso Dragut, e fatto sentire alla Principessa, massime nell'udienza con tanto studio richiesta ed ottenuta da lui in Genova per averla favorevole, come l'ebbe, alla sua liberazione.

XX.

[Marzo 1541.]

XX. — Tre mesi dopo Dragut ripigliava il mare da padrone: e il vicerè di Napoli, spaventato dai continui rubamenti e disastri che si udivano per opera sua, chiamava all'armi le galere del Regno, e volgeva l'occhio a quelle di Roma, implorandone l'assistenza[125]. Altrettanto di clamore usciva dalle province marittime di Spagna, infestate dai seguaci di Barbarossa per modo così pertinace, che i popoli oppressi arrivarono al segno di tassare sè stessi di somme enormi per fare le spese di un'altra spedizione contro i pirati di Algeri, come si era fatto contro quelli di Tunisi. Ed avendo Carlo V promesso agli Spagnuoli di pigliare quella briga, licenziata la dieta di Ratisbona, dove si era indarno adoperato per comporre insieme i cattolici coi protestanti, si dispose a venire in Italia per sorvegliare da presso gli armamenti che i suoi ministri di Milano, di Sardegna, di Sicilia e di Napoli facevano, ammassando da ogni parte danaro, gente, munizioni, vittuaglie e navigli per la guerra d'Africa. Se Carlo coi Veneziani di vero senno avesse abbattuto il Turco alla Prèvesa, non avrebbe avuto il flagello dei pirati in Spagna, nè le ruine dei giannizzeri in Ungheria. La mala propagine fin dalla radice aveasi a cavar di Costantinopoli, anzichè perdere l'opera e il tempo a cimarne qua e là le foglie per le riviere della Libia.

[Giugno 1541.]

Al Papa scrisse Carlo di suo pugno mostrandogli il desiderio di avere in compagnia le galèe romane, e di abboccarsi seco quando passerebbe da Lucca per andare a imbarcarsi nel golfo della Spezia. Perciò il conte dell'Anguillara con grandissima sollecitudine allestiva in Civitavecchia le tre galere della guardia, e le quattro sue proprie, sapendo che avrebbe avuto di camerata Ottavio Farnese, nipote di sua Santità e duca di Camerino, con eletta schiera di gentiluomini romani grandemente desiderosi di trovarsi coll'Imperatore e col Duca alla grande impresa[126]. Nominerò tra questi il conte Francesco di Bagno, il capitan Lucidi di Subiaco, Tito Cansacchi d'Amelia, Arrigo Orsini di Roma, Marcantonio della Porretta, il capitan Aurelio da Sutri, con altri molti veterani che avevano combattuto nella guerra del sale contro i Baglioni nell'Umbria, e contro i Colonnesi in Campagna di Roma: aggiungendovi il capitan Giulio Podiani, i Paluzzi, i Delfini, i Naro, i Massimi, gli Altieri, gli Albertoni, i Capizucchi, i Savelli, i Boccapaduli, i Cesarini, i Particappa, i Maddaleni, i Capodiferro, i Mochi, i Frangipani, i Gabrielli, i Berardi, i Pagani, i Cavalieri, ed altrettali, che valevano al pari di chicchefosse per quei tempi nel maneggio della spada[127].

[Agosto e settembre 1541.]

Sciolsero questi signori all'entrante di agosto da Civitavecchia e fecero capo alla Spezia: di là il duca Ottavio passò a Milano incontro al suocero che veniva da Trento, e stette con lui tra le feste dei cortigiani, e seguillo dalla Lombardia a Genova e a Lucca. In questa città agli otto di settembre per la via di terra era venuto papa Paolo, a dispetto dei medici, i quali a lui vecchio sconsigliavano il viaggio pei calori della stagione. Poco dopo con sessanta galere sbarcava alla spiaggia di Viareggio l'Imperatore: ed alli dodici nella cattedrale di Lucca incontravansi insieme Paolo e Carlo. In somma le feste di Milano, i negozî di Genova, e il colloquio di Lucca, menarono le cose tanto in lungo che il principe Doria sperava non si dovesse più per quest'anno pensare ad Algeri. Lo stesso diceva papa Paolo, e tutti gli uomini assennati, massime per le infelici notizie che venivano fresche delle guerre di Ungheria, per le quali di là si richiedeva la presenza e l'ajuto dell'Imperatore. Ma Carlo, tenacissimo de' propositi e soverchiamente fiducioso nella sua fortuna, non volle ascoltar consigli di niuno, e prese congedo per Algeri.

[18 ottobre 1541.]

Presso la Spezia a' diciotto di ottobre Carlo montò sulla ricchissima galèa imperiale di trenta banchi che il Doria teneva per lui. La quale, perchè era remigata da cinque uomini ad ogni remo, alcuni usavano chiamare con isfoggio di classicismo Cinquereme: ma devo ripetere, che dalla ricchezza, dalla grandezza e dai cinque rematori infuori, non aveva nulla di essenziale diversità dalle altre galere, secondo le consuete forme di costruzione altrove descritte. Presso la reale a mano destra sorgeva la capitana di Roma, col conte dell'Anguillara, Ottavio Farnese e quegli altri signori che ho nominati[128]; a sinistra la capitana di Malta, indi per ordine le altre capitane di Genova, di Napoli e di Sicilia, meno quella di Spagna, che aspettava colle sue conserve alle Baleari. L'istesso giorno di martedì diciotto del mese di ottobre salparono dalla Spezia: indi si ripararono dal fortunale di Ponentelibeccio a capo Corso. Discesero a Bonifazio, e per quelle bocche ad Alghero: di là a porto Maone, e finalmente addì ventiquattro d'ottobre tutta l'armata dètte stupenda e terribil vista innanzi alla città d'Algeri.

[24 ottobre 1541.]

Erano insieme attelate nella linea principale di fronte settanta galèe, cioè diciotto di Spagna, venti del Doria, dodici di Napoli, dieci di Sicilia, sette di Roma e quattro di Malta, con al centro l'Imperatore e le altre capitane imbandierate e in armi: a tergo trecento navi da carico, piene di soldati, di munizioni e di artiglieria; e appresso altrettante navette minori di sussidio e di complemento per trentamila uomini da sbarco delle tre nazioni. Colonnelli delle fanterie italiane, Camillo Colonna di Roma e Agostino Spinola di Genova: capitan generale il marchese del Vasto[129].

Non prenderò a descrivere la inospita costa d'Algeri, dove tante mutazioni sono avvenute del tempo nostro, molto più che non avrò a fermarmi lungamente alla sua vista. L'attacco di Algeri per Carlo V può dirsi tragedia di un atto solo. Quindi basterà accennare che l'armata sorgeva distesa nel golfo, a piccola distanza dalla città, tra il capo di Mattaffusso da levante e il capo di Cassino da ponente, sopra fondo di fango nero e tenace. Ferma sugli ormeggi passava senza alcuna novità due giorni, ordinati al riposo delle fanterie, in gran parte deboli e mareggiate dalla fastidiosa navigazione, prima di esporle in terra a fronte dei nemici: molto più vedendosi attorno il mare tuttavia grosso e frangente sul lido, quantunque il vento si fosse calmato.

Dentro alla piazza non era gran presidio: quasi tutti i pirati, memori del successo di Tunisi, avevano coi loro legni già preso la fuga. Restavano solamente ottocento turchi veterani, e cinque mila mori assoldati, oltre la numerosa cavalleria dei Beduini per la campagna. Il governatore supremo dell'armi Assan-agà, rinnegato sardo, allievo ed amico intimo di Barbarossa, disegnava menare in lungo più che si potesse la fazione; confidando nell'entusiasmo di quei popoli, nell'esempio di altre simili invasioni sfallite agli Spagnuoli, e principalmente nei rovesci della stagione che si potevano facilmente prevedere. Con questo Assano si faceva beffe dell'araldo, che gli portava l'intimazione della resa a nome di Cesare.

[26 ottobre 1541.]

All'alba del ventisei incominciava lo sbarco dell'esercito a levante della piazza, così: le galèe entravano sotto alle grosse navi, riceveano alla scala le fanterie colle sole armi manesche, poscia i soldati medesimi cogli schifi delle galere e sotto la protezione del loro cannone, saltavano in terra, ordinandosi sul lido, mano mano che arrivavano, per mantenere il terreno occupato. Sul mezzodì, ingrossatisi già gli squadroni fino a ventimila uomini, l'Imperatore istesso poneva piede in terra e montava a cavallo, e disponeva l'accampamento e le prime operazioni contro la piazza; seguendolo appresso i capitani e gentiluomini della sua casa militare a poco a poco che venivano in terra i destrieri e le barde. Il barchereccio da carico doveva convogliare appresso le bagaglie, i viveri, le munizioni, le artiglierie. Operazioni condotte sempre combattendo contro gli Arabi; i quali di galoppo a briglia sciolta con badalucchi continui ed assalimenti repentini molestavanci dovunque paresse loro di poterci offendere. Opportunamente però, e qui lo ricordo per la storia dell'artiglieria, si era provveduto al modo di contenere gli insulti dei cavalli nemici, assegnando a ciascun corpo delle nazioni diverse tre pezzetti da campagna; i quali maneggiati a dovere producevano effetti stupendi. Nulla meglio del cannone, al quale non erano assueti, faceva imbizzarrire e fuggir via le mandre dei Beduini[130]. Con quest'ordine occuparono le alture, e passarono la prima notte all'addiaccio. Trista notte per le privazioni, per la pioggia continua e pel freddo.

[27 ottobre 1541.]

Compivasi lo sbarco delle fanterie la mattina del ventisette, e già metteansi dentro terra al lungo trasporto delle salmerie e delle provvisioni, intanto che l'esercito marciava arditamente per investire la piazza. Continue le avvisaglie, gli agguati, i combattimenti con molta bravura e poco frutto. Le masse a stento si difendevano. La pioggia avea disteso un guazzo di fanghiglione tenace per la campagna, dove i picchieri non potevano agiatamente maneggiare l'armi d'asta, nè i cavalli caricare; e gli archibugi, allora tutti a miccio, stavano come inutile ingombro nelle mani dei soldati: guasta la polvere, bagnate le corde, spenti i fuochi[131]. Si noti il fatto non certamente di piccolo momento per la diffusione del fucile a ruota, come appresso dirò. Nondimeno si ebbero ad ammirare diversi tratti di singolar bravura per parte dei nostri. Un cavaliero ardì avanzarsi infino alla porta di Algeri, e lasciarvi confitto per segno il pugnale: un altro di grande statura e di forze gagliarde afferrò un turco per un braccio, e, trattolo giù da cavallo, l'uccise in terra a colpi di stocco: il capitan Lucidi della squadra romana, tuttochè ferito, non si peritò di farsi incontro ed assalire a corpo a corpo colla spada il più terribile e grande combattitore nemico e distenderlo morto ai suoi piedi[132]. Così passò la giornata del ventisette.

XXI.

XXI. — Più calzante al nostro proposito viene il discorso che abbiamo a fare intorno alla marina, tutta turbata l'istessa sera del ventisette. Il sole tramonta sotto il velo di densa caligine. Non colori brillanti di crepuscolo, non azzurro ranciato di cielo, nè chiarezza lucente di mare: ma tinte fosche, aria umida, acqua torbida, e dal lato boreale una lontana parata di nugoloni oscuri, pesanti, immobili in prima sera; e poscia mano mano sorgenti e torreggianti più e più in alto, senza altra luce che qualche guizzo di baleno. Il piloto impensierito pronostica da quella parte il vento furioso di Tramontana, traversia funesta del rivaggio; e ansiosamente cerca tra nube e nube il punto ortivo della temuta stella, già nota ai miei lettori[133]. Osservato diligentemente e con segni sinistri il tramonto del sole e la levata della stella, sibila e risquittisce il fischietto del comito e del nocchiero: e tutti i marinari dalla tolda a riva son pronti per la manovra di mal tempo alla sicurezza delle navi e delle galèe. Vedete da ogni parte ammainare le antenne e i pennoni, sghindare di gabbia, arridare gli stragli e le sartie; e giù in coverta chiudere le boccaporte, parare i portelli, trincare le artiglierie, mettere le tende a pendio; ed altri in mezzo colle barche assicurare gli ormeggi, filare i calumi, attrezzare i pennelli: crescere di fuori nel mare gomene, ferri, gherlini; e di dentro bozze, paglietti e trinche sulle bitte. Intanto avanza la notte, e insieme la furia del vento, la gonfiezza del mare e l'oscurità del cielo: cadono rovesci di pioggia obliqua tra lampi paurosi, e scrosci di folgori, e scoppî di tuoni, ripercossi da tutti i monti nel bujo. Le onde corrono infuriate verso la costa, gittansi rapidissime sugli scogli, saltano alle creste, e ricadono come torrenti spumosi. Odi ronfìo profondo di mare, e fischio rabbioso di vento, e vedi quanto v'ha di più terribile nella confusa battaglia degli elementi. Là in mezzo apprende il marino a vincere il sentimento del terrore, e a pigliar pratica del suo mestiero.

[28 ottobre 1541.]

Fattosi giorno, chi si trova accampato tra i pantani, stretto di vittuaglia, e privo di ogni comunicazione coll'armata, alla incerta apprensione della oscura notte vede succedere la trista realtà di spaventoso sguardo. Lunghi cordoni di onde accavallate biancheggiano intorno al lido, valli e colline alla rinfusa sul mare; orizzonte ristretto dalle nubi, e la volta del cielo simile alla tinta livida dell'acqua. In piccolo spazio settecento navigli di ogni grandezza, tutti umili e dimessi: tutte le alberature ridotte a metà, tutti i fianchi paralleli, tutte le poppe opposte al vento, tutte le teste legate agli ormeggi: gusci oscuri, circondati da liste bianche di spuma, mosse e mutate in ogni senso. Ma al tempo stesso quei legni, chi più chi meno, dall'una o dall'altra banda a perpetuo contrasto si scuotono: talvolta li vedi sbandati fin quasi a trabocco; e improvvisamente sollevati di poppa fino a mostrarti la chiglia; e poi, arrizzati davanti, tutta presentarti la coverta, inondata d'acqua e di spume correnti giù dagli ombrinali. Fissa oltracciò lo sguardo, e vedi continuato contrasto di ciascun legno cogli ormeggi suoi, secondo le diverse forze spinte, e chiamate dell'onde, del vento e delle gomene. Eccoli barcolloni più volte alle bande; e poi bruscamente dare indietro, traendo fuori d'acqua tutta tesata la lunghezza dei canapi: eccoli all'improvviso farsi avanti verso il ferro, mollando i calumi; e poi barcollando e rifuggendo tesarli un'altra volta: sempre con durissime tentennate. Chi ha pratica, ed ha visto di simile, egli soltanto può distinguere il discorso tecnico dal romantico.

Dopo quindici ore di rabbiosa procella col vento sferratore di Tramontana, tra le continue strappate delle gomene, e il consentimento sforzato dei legni, cominciano le falle, e il gettito, e le grosse avarie. Sartie e manovre a pezzi, cime fileggianti in bando tutte da una parte a seconda del vento; alberi scavezzi a precipizio, palischermi infranti, murate e fianchi sdruciti, rottami sparti e trabalzati sulle onde. Chi si trova debole di corbame, o fiacco d'ormeggio, entra in distretta: a questo il canapo stremato si strappa; a quello le bitte e le coste gli vanno appresso. L'uno piomba nel fondo con tutta la gente; l'altro, miserabile spettacolo, irreparabilmente sferra, ed è gittato dai flutti a perdizione sulla costa. Lo sferrare in bocca dei marinari è maledizione assolutamente intransitiva, alla quale attivamente non si opera come nel salpare, ma si è soggetti come nel morire; e vale perdere i ferri, e la ritenuta delle gomene, e la conserva dei compagni; Esser portato a precipizio dalla violenza del vento e del mare. Via dunque di qua il maniscalco arcigno che sferra attivamente le bestie al travaglio; via il ringhioso pedante che sferra a rovescio la penna sulla carta; via le sferre di ogni altro prosuntuoso mestatore. Sferrano altrimenti i miseri marinari; e in men che si dice, il grosso mare e il vento rabbioso nelle secche e sugli scogli li percuote a certissimo naufragio. Vengono abbrivati, urtano nei bassi, cadono gli alberi, e lo scafo sbattuto dai marosi sul duro letto si apre, e va in pezzi. Della gente in quel momento, chi piomba nell'abisso per non uscirne mai più, chi resta maciullato dalle onde sugli scogli, e chi cade trafitto dalla scimitarra degli Arabi. Costoro guardano il lido avidi di strage, e non danno quartiere.

Ciò non pertanto la capitale sventura pareva rifugio ai miseri, stanchi dei travagli del mare. Tanto era grande lo spavento e la perturbazione! Scaduta la disciplina, molti volevano volontariamente investire in terra, mettendosi nelle stesse condizioni che altri per violenza pativa. La smania di levarsi dal pelago, la corrosione progressiva delle gomene, la difficoltà di sgottar la sentina, la disperazione di non potersi lungamente sostenere, massime alla cieca nella notte ormai vicina, condusse non pochi al tristissimo partito di tagliar le gomene, messo in non cale il divieto dei capitani[134]. Tanto che sull'ora di vespro più di cencinquanta bastimenti di ogni maniera e quindici galere erano sul lido miserabilmente infranti, non essendo più altro a vedere in quella parte, che rottami, alberi, bariglioni, tavole, corde, cenci, attrezzi, corredi, e uomini che di mezzo sorgevano per iscampare, e invece trovavano più pronta la morte, o tra i gorghi del mare, o tra gli acciacchi degli scogli, o sotto alle spade dei nemici[135].

In quella Andrea Doria non ismentì la fama di esperto ed intrepido marino: avrebbe potuto facilmente salvare sè stesso e l'armata nel porto vicino di Bugia; ma non volle mai abbandonare l'Imperatore e l'esercito, quantunque gli pesasse gravissima la perdita di quasi tutte le sue galere pel sollevamento della gente e pel taglio delle gomene, essendosi dovuto piegare al tristo espediente l'istesso Giannettino[136]. L'incauto giovane insieme con tanti altri sarebbevi restato morto, se l'Imperatore, vedendolo naufragato alla riva, e chiedere coi segnali il soccorso, non avesse mandato di gran fretta don Antonio d'Aragona con tre compagnie di Italiani a cavarlo fuori dalla rabbia degli Arabi e del mare[137]. Grazia singolarissima, usata a lui solo per riguardo dello zio: chè gli altri si lasciavano alla loro ventura, non forse altrimenti tutta l'armata si avesse a gittare in terra, e tutti i bastimenti a rovina, senza speranza di ritorno a nessuno.

Grandiosa tra tanto schianto comparisce alla vista di tutti la figura dell'Orsino, l'arte e la virtù dei Romani, la saldezza dei petti e dei legni, la bravura dei soldati e dei marinari. Essi fermi, intrepidi, intatti; essi riguardati con maraviglia, essi citati ad esempio[138]. La squadra di Malta, per colpa dei marinari, già era in procinto di naufragio: e i forsennati a colpi di scure avrebbero senza dubbio eseguito il tristo proposito di tagliare le gomene e di dare in terra, se il comandante di quella capitana, mostrando da una parte la disciplina dei Romani, e dall'altro la punta della spada sguainata, non si fosse opposto; minacciando risolutamente la morte al primo che di ciò si fosse ardito[139]. Pei fatti di Algeri, e per le lodi da tutti ripetute alla squadra romana, Ottavio Farnese, genero dell'Imperatore, formò primamente il disegno di appoggiare nella sua casa, come poi seguì, la compra di esse galere.

[29 ottobre 1541.]

L'Imperatore e gli altri accampati miseramente tra fossi e dirupi, abbattuti nell'animo alla vista continua di tante sciagure; perduta nel mare l'artiglieria d'assedio insieme coi barconi di rimburchio, dove l'avevano il giorno avanti discesa; corrotte o assorbite dal pelago le munizioni e le vittovaglie, si trovavano a mal partito. Carpire le radici salvatiche, macellare i cavalli, e pel fuoco raccogliere in giornèa le tavole dei bastimenti naufragati, bastava nel giorno seguente a nutricare di insolito pasto trenta mila uomini: ma non poteva durar lungamente. In quella veniva a Carlo una lettera di Andrea, portatagli a nuoto da intrepido marangone, assicurato anche meglio da un fodero di sugheri. Andrea scongiurava l'Imperatore a levarsi di là, se non voleva vedere tutti sommersi o massacrati; esortavalo a venirsene verso il capo Mattaffuso, dove sperava poterlo raccogliere, e rimenare in Europa. Carlo, perduta ogni speranza di conquista, accettò le conclusioni del Doria: dètte i segnali, e imprese la ritirata a piccole tappe in tre giorni, sempre combattendo cogli Arabi sul destro fianco ed alla coda.

[30 ottobre.]

La sera del ventinove essendosi calmato il vento, e potendo salpare i ferri verso il largo (ma non approdare al lido, dove l'onde infuriate tuttavia orribilmente frangevano), il Doria sparò il tiro dell'avviso, perchè nella notte ciascuno si riattrezzasse a dovere e si mettesse in punto di far vela al primo segno. La mattina del trenta prese il vento colle poche galere che gli restavano: e, sempre sostenuto dalla squadra romana, condusse il convoglio delle navi all'àncora nella cala del Mattaffuso, dove è sicura stallìa per tutti i venti, salvochè da Ponentemaestro. Le galere di Malta sotto colore di necessità si allontanarono[140]. Al contrario le nostre continuaronsi nell'assistenza degli afflitti, levarono le genti dalla spiaggia, servironle all'imbarco, le scortarono al porto di Bugia, tenuto allora dagli Spagnoli, quantunque sempre perseguitate dalla pertinacia delle tempeste, e dal sentimento delle altrui avarie. Solo disastro per noi un colpo di mare, che nelle acque di Bugia scoprì la poppa della Capitana nostra, e ne strappò l'immagine del Santo protettore[141]. Del resto fino all'ultimo, coll'arte e col magisterio dei marinari e degli ufficiali governandosi, evitarono le disgrazie più e più funeste nella ritirata di quell'armata: servirono l'Imperatore, assicurarono l'esercito. Indi per Biserta, la Favignana e le Eolie, se ne tornarono dolenti, altrettanto che onorati e salvi, al porto di Civitavecchia.

XXII.

[25 aprile 1542.]

XXII. — Dopo l'aspro rovescio, papa Paolo maggiormente si strinse col Conte, prevedendo dai nemici molestie maggiori, e dagli amici maggiori richieste. Però a tenore dei capitoli lo avvisò di duplicare la forza dell'armamento, e di tenere al soldo nell'estate seguente sei galèe, lasciandogliene una fuor di linea a suo privato comodo: essendo che egli sempre continuava a tenerne quattro di sua proprietà, oltre alle tre consuete della Camera. Le ragioni e le spese di tale rinforzo sono espresse nella seguente costituzione, che volgarizzo col testo a fronte, perchè importante ed inedita[142].

«Paolo papa terzo a tutti i singoli, cui le lettere presenti saranno mostrate, salute ec. — Chiamati senza nostro merito per superna disposizione al regime dell'ovile del Signore, volontieri attendiamo secondo il dover nostro a provvedere tutto ciò che riguarda il buono stato e conservazione del medesimo, e a mettere efficacemente in opera i mezzi che occorrono, perchè la nostra greggia non vada a strazio tra gli artigli dei lupi rapaci. Certamente a tutti deve esser noto come il ferocissimo tiranno dei Turchi, venuto l'anno passato nel regno d'Ungheria alla testa di numeroso esercito, dopo lacrimevole strage di soldati cristiani, sotto le mura di Buda ha rotto il campo del carissimo in Cristo figliuolo nostro Ferdinando illustre re dei Romani e di Ungheria, che intendeva a ricuperare coll'armi quella piazza; e in vece il Turco vi si è maggiormente assodato: nè contento a ciò, appresta ora altri eserciti di terra ed altre armate di mare per entrare più avanti, e sottomettere il resto di quel regno, e forse anche la Germania e l'Italia. Vedendo dunque imminente il gravissimo pericolo di tutta la cristianità per le costui invasioni, e per la discordia dei nostri principi, tra i molti rimedî da noi pensati, abbiamo risoluto di aggiugnere tre galèe alle altre tre che sempre tiene la Sede apostolica, e fornirle secondo si conviene di gente, vettuaglie, e di armamenti necessari alla guerra, perchè formato in tal modo il nucleo di giusta squadra o possano da sè difendere la Spiaggia romana, o presentandosi l'occasione anche più lontano possano perseguitare e cacciare il nemico. La salute della maggior parte di questi nostri paesi principalmente dipende dalla esecuzione di tale divisamento. E perchè non possiamo noi sostenerne la spesa, nè col danaro dell'erario esausto, nè colle gabelle ordinarie assegnate ad altre spese, bisogna che da coloro caviamo il sussidio, alla cui salute provvediamo. Sperando adunque che tutti i sudditi nostri, persuasi del manifesto bisogno, sosterranno volentieri questo peso, noi per moto proprio, certa scienza e pienezza della apostolica potestà, per tenore delle presenti vogliamo e comandiamo che le città, terre e luoghi soggetti mediate o immediate alla sede apostolica, per sei mesi soltanto prossimi futuri, debbano mantenere e pagare ciascuno la sua quota, secondo la tabella che pubblicherà il diletto figlio Guidascanio Sforza diacono cardinale di sant'Eustachio e camerlengo, e tutti ugualmente debbano versare il danaro assegnato nelle casse e nei termini indicati dall'istesso Camerlengo. Nè alcun vi sia che presuma andare esente dal mettere la sua porzione sotto pretesto di qualsivoglia privilegio o immunità, ma tutti indistintamente siano tenuti a contribuire, decretando che in questo modo e non altrimenti si abbia a giudicare e a diffinire da qualunque giudice e commissario di qualsivoglia autorità rivestito, fosse pur cardinale della santa romana Chiesa, eccetera.

»Dato in Roma addì venticinque di aprile 1542, del nostro pontificato anno ottavo.»

In queste lettere si parla della discordia dei principi maggiori, si prevede la guerra tra loro, si dubita di ulteriori progressi del Turco, si accenna a qualche lontana spedizione, e si afferma la necessità di fare da sè, senza aspettarsi il soccorso altrui. Tutte sentenze, dalla prima all'ultima, confermate pei fatti. Il Conte colla squadra rinforzata, e la consueta compagnia dei gentiluomini della sua casa prese a difendere la Spiaggia. Ebbe per camerata e per allievo Giulio Podiani, patrizio reatino dei signori di Piediluco e di Poggiobustone, che poi vedremo crescere di autorità sul mare coi Farnesi e coi Fieschi[143]. Sbrattò da ogni parte i nemici, prese parecchi bastimenti piratici, e fece prigione quel giovane ladrone chiamato Scirocco; cui poi divenuto famoso ammiraglio, governatore di Alessandria, e gran faccendiero all'assedio di Malta, vedremo comandante a Lepanto dell'ala destra nell'armata dell'imperatore Selim[144]. In somma la Spiaggia romana nel quarantadue era da tutti i naviganti osservata, come sicura più di ogni altra tra le marine d'Italia sul Tirreno; e vi convenivano assai legni a comprare frumenti, di che era tutt'altrove gran caro[145]. Al tempo stesso papa Paolo, istantemente richiesto dal re Ferdinando, mandava in soccorso degli Ungari Alessandro Vitelli da Castello con tremila fanti romani, al cui valore i nostri scrittori e gli stranieri attribuirono gran parte della onorata difesa di Pest[146].

Francesco di Francia altresì e Carlo di Spagna ripigliarono la guerra tra loro. Dovevano i due emuli passar la vita consumandosi insieme a danno dei popoli, specialmente d'Italia, in continui contrasti, tramezzati da brevi e false amicizie. Per qualche tempo Francesco aveva lasciato di molestare il rivale, tenuto in rispetto dalla tregua stabilita per dieci anni all'Acquamorta nel trentotto, come è detto: ma dopo l'infelice spedizione d'Algeri, veduto il sinistro delle forze spagnuole, e tolto il pretesto dall'uccisione di Antonio Rincone e di Cesare Fregoso, suoi ambasciatori (che, passando di Lombardia verso Venezia, andavano a secreti maneggi in Constantinopoli), dichiarava rotta la tregua; e fin dalla primavera di quest'anno moveva guerra a Carlo in quattro punti lontani da noi, Fiandra, Piccardia, Rossiglione e Brabante: di che non dobbiamo occuparci.

XXIII.

[1543.]

XXIII. — Più da vicino ci tocca la lega scoperta al principio di quest'anno tra Francesco e Solimano ai danni di Carlo; o per dir meglio a rovina del cristianesimo e di tutti noi, ed a perpetua infamia di lui Francesco e dei suoi complici, non di tutta la nazione francese, come sempre ho detto e ripetuto imparzialmente dei nostrani e degli stranieri, quando ho dovuto biasimare gli oltraggi alla fede, e al pubblico bene della civiltà e della religione. Tanto nell'odio contro Carlo era accecato colui, che per vendicarsene chiamava Barbarossa a molestare gli stati del rivale in Italia: e Carlo il cattolico, per non essere da meno di Francesco il cristianissimo, faceva lega con Arrigo d'Inghilterra, famoso pel ripudio della sorella di sua madre, e per le rivolture religiose[147]. Così vie meglio agli occhi di ciascuno deve rilevare il non far troppo conto delle belle parole, ma di tenersi ai fatti.

[Marzo 1543.]

Per queste ragioni di guerra tra casa di Francia e casa d'Austria, coi Turchi di mezzo sulle nostre marine, avvenne un'altra occultazione del conte dell'Anguillara. Tutta la casa Orsina correva a parte francese, e tutta la Colonnese a parte spagnola: questi gelosi di quelli, ambedue dei Doria, e così via via. Catena di miserie domestiche per le altrui comodità. Quindi non potendo più il Conte combattere i Turchi senza offendere i Francesi uniti con loro, prese congedo; e menandosi appresso le quattro galere di sua proprietà, se ne andò a Marsiglia, dove quel Re lo accolse con molte carezze, e gli dètte l'Ordine di san Michele, e lo fece luogotenente generale di tutte le sue armate di mare[148]. A questi tempi, e durante il congedo, voglionsi ridurre i doni fatti e ricambiati tra l'Orsino e Barbarossa, di che tutti i biografi parlano; e specialmente le dieci tavolette liscie coi veri ritratti dei dieci sultani in miniatura: cose da non esser noverate tra le più felici della sua vita. E bene se n'ebbe esso stesso a pentire (come molti altri andativi prima e dopo), disgustato dei sospetti del re Francesco e della gelosia dei cortigiani. Anzi non potendo mai tanto parer musulmano, quanto costoro avrebbero voluto, patì prigionia, ed ebbe a gran ventura il ritornarsene.

XXIV.

[Aprile 1543.]

XXIV. — Intanto il Pontefice, restato con tre sole galèe, e tutta l'armata turchesca vicina, chiamò a sè il capitan Bartolommeo Peretti da Talamone, che era stato luogotenente del Conte[149]. Nominatolo comandante della squadretta, gli ordinò di andarsene subitamente a Malta, e di tenersi là al sicuro colle tre galèe, infino a che Barbarossa non fosse passato; sapendosi per certo che tra poco doveva venire nel mar Tirreno, diretto a Marsiglia, e aspettato dal re Francesco. Il capitano Peretti, uomo di gran valore, scritto alla nobiltà di Siena, accasato con una dei Migliorati di Pisa; pel cognome, per lo stemma, e per le relazioni dei posteri ci fa pensare alla sua consanguinità coi Peretti portati in Roma da Sisto V: comunemente dicendosi da uno stesso ceppo illirico essersi derivati quelli della Marca, di Toscana e di Corsica, per la emigrazione notissima degli Albanesi, che dopo la morte di Scanderbeg fuggivano a torme dal dominio dei Turchi[150]. Il valoroso discendente degli ultimi campioni della Macedonia ci si mostra prima comandante di fanti pei Senesi, poi nel trentasei venturiero sul mare con una galèa, nel trentotto capitano coll'Orsino, nel quaranta suo luogotenente, e finalmente in quest'anno successore: però quasi sempre nei servigi della marina romana, ai quali erasi dato di preferenza, avvegnachè talvolta negli intervalli di scioverno o di congedo abbia fatto da sè o con altri per mare e per terra[151].

[Maggio 1543.]

Il capitan Peretti non ebbe gran che da indugiare per mettersi in salvo, essendo Barbarossa uscito di Costantinopoli nel mese d'aprile coll'armata ottomana e piratica: settanta galere, cinquanta legni minori, cento navi grosse, e quattordici mila turchi di sbarco, accompagnati da Antonio Polino, ambasciatore del re di Francia, e direttore della tregenda. Costoro alla fine di giugno per lo stretto di Messina fecero capo a Reggio di Calabria, donde tutto il popolo spaventato erasi fuggito ai monti. Di là gl'infelici vedevano nel giorno il sacco, e nella notte l'incendio della patria. Altri ed altri appresso videro nello stesso modo ruine, saccheggi e fuoco per le riviere della Calabria e della Campania, e infinita gente di ogni sesso e condizione imbrancata sulle galere turchesche a perpetua schiavitù[152]. La temerità di Barbarossa nella passata trionfale giunse in fino alle rive del Tevere, donde bravando e minacciando sarebbe voluto venire a veder Roma e il Papa, se non fosse stato ritenuto a stento dal Francese. Piena la città di costernazione per più giorni, e i popoli delle campagne e delle terre vicine tutti in fuga, cercando ricovero nelle fortezze e nei luoghi sicuri. Fatta l'acquata nel Tevere, i Turchi passarono a Nizza, ebbero a patti la città, bombardarono il castello, saccheggiarono il contado: e finalmente si ritirarono a svernare nei porti di Marsiglia e di Tolone[153]. Colà a maggior confusione dei miseri Cristiani fatti schiavi, ed ammassati come vili giumenti sopra i legni infedeli, si facevano bellissime feste in onore di Barbarossa e dei Turchi. Scellerati!

[Settembre 1543.]

Intanto il capitan Bartolommeo, tornato da Malta a Civitavecchia alla larga appresso all'armata ottomana, e avute nuove istruzioni da Roma, prestamente ne ripartiva coll'ardito disegno di entrare nell'Arcipelago e di dare il guasto alle marine dei nemici, lasciate in abbandono da Barbarossa. Voleasi fargli danno e vergogna, ed anche indurlo a levarsi presto dai nostri mari. Tornò dunque a Malta colle tre galere, vi giunse addì ventotto di settembre, nel qual giorno presentò al Grammaestro e al consiglio due brevi del Papa per avere seco di conserva le galere dei Cavalieri a difesa comune[154]. Ma non sembrando a quei signori conveniente l'invito, per la confusione dei Turchi coi Francesi; e non volendo, come dicevano, mettersi al pericolo di combattere gli uni in vece degli altri, o vero tirarsi addosso il risentimento simultaneo di tutti e due, lasciarono i Romani senza conserva.

[Ottobre e dicembre 1543.]

Andò dunque solo il capitan Bartolommeo: e solo in quest'anno tra tutti i Cristiani ardì scorrere in arme i mari di Levante contro i pirati e contro le orde turchesche. Nella qual crociera fece cose degnissime di memoria, per questa sola ragione ite in dimenticanza, perchè niuno tra noi ha trattato di proposito la storia della milizia navale. Che se appresso vorrà qualcuno metterci la mano, sappia di non dover pigliare a opera i libri stampati: perché quanto mai si poteva cavare di là, l'ho fatto io. Sì bene gli prometto gran frutto se cercherà negli archivi, tanto da avvantaggiarne il capitale che io lascio. Dalle lettere, dai giornali, dagli strumenti potranno derivarsi in maggior copia i particolari: ma la sostanza dei fatti, l'ordine dei tempi, ed i caratteri dei personaggi staranno sempre dove e come io gli ho posti. Valga l'esempio del capitan Bartolommeo, del quale ora parliamo: certamente egli fece quest'anno strepitose prodezze, ma i ragguagli ci mancano, meno quei pochi che si sono potuti raggranellare dagli archivi sanesi e fiorentini[155]. Eseguì l'ardimentoso disegno, scorse per l'Arcipelago, si fece vedere alla bocca di Dardanelli, scese nel ritorno a Metellino, dette il guasto alla villa di Barbarossa, e sulla fine dell'anno rimenò in Civitavecchia le tre galèe cariche di preda, e piene di prigionieri[156]. Non sopravvisse lungamente al suo trionfo: fuggitosi di Roma per certi sospetti (forse potrebbono essere questioni coi Camerali pei quarti delle prede), se ne andò in Siena malato; e quivi, quantunque giovane di quarant'anni, morissi addì sei di febbrajo dell'anno seguente.

[6 febbraio 1544.]

La morte del capitano Bartolommeo, come cosa di rilievo, fu scritta al duca Cosimo di Toscana dal Duretti residente ducale in Siena, così[157]: «Il capitan Bartolommeo da Talamone, che già era capitano delle galèe del Papa, quale per timore si fuggì da Roma, se ne venne qui in Siena ammalato di mal di pietra, la quale si fece cavare sei giorni sono; et o per difetto di chi la cavò, o per quel che si sia, si è morto; che ha arrecato universalmente malagevolezza e danno a tutta questa repubblica et a le sue terre di mare; per ciò che egli, oltre essere molto valente della persona, era ancor di molto credito. Hanno fatto questi signori onore alla sua sepoltura, et in somma è molto doluto, et è stato grandissimo danno.» L'Ugurgeri ci ha conservato la memoria della lapida onoraria, che si leggeva a suo tempo nella chiesa di san Francesco, in questi termini[158]: «A Bartolommeo Peretti da Talamone, già capitano di fanti al servizio di questa repubblica: il quale, messosi dappoi sul mare con una galèa, divenne celebre navigatore e capitano della navale armata pontificia, che egli felicemente governò per quattro anni. Ultimamente navigando tutte quasi le marine dell'Asia contro i Turchi, carco di preda e di prigioni tornò, e morissi in mezzo al corso degli onori. Ottavio al fortissimo ed ottimo padre. Visse anni quaranta, spirò addì sei di febbrajo 1544.»

Non parlo del suo testamento, perchè rimonta a tempo anteriore di quasi otto anni prima della morte. Forse quando egli cominciò a correre di lungo il mare in compagnia del conte dell'Anguillara scrisse per ogni evento le disposizioni della sua ultima volontà[159]. Sì bene posso aggiugnere, per cortesia del chiaro signor Luciano Banchi direttore dell'archivio di Stato in Siena, conservarsi in quei registri il ricordo dei pagamenti fatti per due epitaffi in marmo alla memoria di esso capitano, da metterne uno in Siena a san Francesco, e l'altro non si dice dove: quantunque ciascuno possa pensare alla chiesa di Talamone, insieme col corpo, o coi precordî dell'illustre defunto, che da quel luogo aveva preso il nome[160]. Ma che? Il fuoco incalzava anche per le chiese, anche sotto ai marmi, anche nelle ossa il capitan Peretti. La lapida postagli dal figlio in san Francesco andò perduta nell'incendio di quella chiesa l'anno 1655; e dell'altra in quest'anno medesimo si narra per opera di Barbarossa quel trattamento che tra poco vedremo.

[Marzo 1544.]

Morto adunque il Peretti, e ritrattosi già prima l'Orsino, le galèe camerali restarono per poco sotto il governo del capitan Francesco de' Nobili, infino a tanto che non le comperò dalla Camera la casa Farnese a nome di Orazio terzogenito di Pierluigi, il quale le prese cogli stessi patti e capitoli dell'Orsino[161]. Segno che la crociera del Peretti aveva eccitato l'emulazione dei grandi, e che all'Orsino era riservato il ritorno.

XXV.

[Maggio 1544.]

XXV. — Nè per tutto questo Barbarossa si levò mai dai porti di Francia. Sentì nel vivo l'ingiuria fattagli dal Capitano di Roma; quando tanti altri, che parevano maggiori, l'onoravano in Francia: pensò alla vendetta pel corso della primavera, e svernò in Tolone e nei porti vicini con quella pubblica corruzione, anche dei provenzali, che ciascuno può intendere. Alla buona stagione riprese il mare per rimenare il ferro a contrappelo in Italia. Primamente si posò a Vado presso Savona, e avrebbe distrutto il borgo felice per la sua magnifica rada, se dalla repubblica di Genova con grosse somme non fosse stato prestamente redento quel luogo e tutto il resto del dominio. Poscia diè fondo all'Elba, minacciando sangue e fuoco se non gli veniva subito subito restituito un garzonetto, figlio del famoso Giudèo.

[22 giugno 1544.]

Del qual vecchio pirata, avendo promesso in alcun luogo dire la fine, ora ricordo che egli per questi tempi dimorava in Suez presso il mar Rosso, come ammiraglio di Solimano alla difesa di quei commerci e navigazioni contro i Portoghesi delle Indie. Sazio di onori, di ricchezze e di poteri, l'ammiraglio del mar Rosso piangeva sempre nel cuore, richiamando il prediletto suo figlio, perduto con tutti i suoi bastimenti a Tunisi nel trentacinque. Il fanciullo, allora decenne e mozzo sull'armata, preso prigione dal principe di Piombino, erasi cresciuto e nobilmente allevato come proprio figliuolo nella casa di lui; dove, battezzatosi di spontanea volontà, viveva onorato e benvoluto da tutti. Alle richieste, di Barbarossa, rispondeva assennato: esser pronto di ritornare liberamente a rivedere il padre, perchè cosa giusta; e richiedere per onor di lui che le terre e le isole dei suoi benefattori non patissero danno. Andò dunque in Egitto: dove il padre, imbevuto dei principî della legge mosaica, dalla quale tanto di perfezione ridonda alla natural legge della paternità, ardentemente lo desiderava. Ma quando un giorno all'improvviso, tra splendida compagnia di servi e di ministri ordinatigli intorno da Barbarossa, rivide il figlio, dopo dieci anni già grande, bello e costumato, il Giudèo ne prese tanta allegrezza, e con sì grande espansione d'affetto abbracciollo, che sollevatoglisi il cuore, in poco d'ora cadde morto[162]. Pietoso e rarissimo caso, cui tra tutti i terribili compagni del tristo mestiere niuno forse più di lui poteva trovarsi soggetto.

[25 giugno 1544.]

Ora a noi, chè Barbarossa si accosta alle nostre marine: e prima occupa per sorpresa Talamone, fa schiavi quanti incontra, trae dalla chiesa le memorie del capitan Bartolommeo, scuote le tombe, brucia le ossa, sparge le ceneri al vento[163]. Nella maremma di Siena arde Monterano, e piglia Portercole dopo breve resistenza. Orbetello si salva soltanto per la sua posizione, e pei rinforzi mandativi dal duca Cosimo. Non così il Giglio: donde Barbarossa cava gran preda di bestiame e di schiavi, e lasciavi ogni cosa cenere. Poi si accinge a disfogare la sua rabbia contro chi lo ha messo in ripicco; e viene deliberato di bruciare in Civitavecchia le galere, i marinari, ogni cosa. Che se il terribile pirata l'indomita ira ritenne a non venire all'effetto, ciò vuolsi attribuire alla fortezza del luogo, ben munito da Bramante e dal Sangallo, e meglio difeso dal capitan de' Nobili e dai nostri marinari; anzi che al rispetto del re di Francia, o de' suoi ministri, o delle terre del Papa[164]. Gli storici nostri municipali al solito non ne sanno nulla.

[1 luglio 1544.]

Quindi la tempesta dei musulmani, menata da Barbarossa nel Regno, si scaricò sull'isola d'Ischia, feudo del marchese del Vasto, nemicissimo della congrega turco-gallica. I ladroni scesero in terra di notte, presero schiavi quasi tutti gli abitatori della campagna, bruciarono i grossi villaggi, specialmente Forìo; e non potuto avere il castello principale per essere ben difeso e inaccessibile sopra rupe nel mare, andarono nella baja di Pozzuolo, fecero bottino a Procida, presero Lipari con settemila prigionieri, arsero Cariati, empirono di strage e ruine la Calabria, e finalmente carichi di preda volsero a Costantinopoli, traendosi appresso in catena infiniti Cristiani, cui non potendo convenientemente nutricare, lasciavanli in gran parte di fame, di sete, di stenti morire; e gittavanli, come inutile e funesto ingombro, nel mare[165]. Gli altri squallidi, impietriti nel dolore, e privi d'ogni umano conforto, navigavano maledicendo la crudeltà delle furie musulmane, e l'ambizione dei principi cristiani, che a loro comodo funestavano l'Italia di tanto crudeli ribalderie. Orrori sul mare pei Turchi, e guerra accanita per Francesco e per Carlo in Piemonte, in Lombardia, e nelle viscere della Francia con gravissima infamia di chi la maneggiava. E quando da ogni parte i popoli disperati chiedevano tregua a tanti mali, senza vederne la fine; allora, contro la comune opinione, a due frati spagnoli dell'abito di san Domenico era riservata la grazia di poter ammansire i feroci animi di coloro, pe' cui rancori a ferro e a fuoco andavano quasi tutti i popoli della Cristianità. Fra Pietro di Soto, consigliere dell'Imperatore, e fra Gabriello di Gusman direttore della regina di Francia, araldi di pace, s'interposero tra le spade dei combattenti; e riuscirono dopo molti stenti sull'entrante di agosto a quei preliminari, che poscia fermarono il diciotto di settembre la pace detta dal luogo di Crespy[166]. Cessate le guerre, finalmente fu tempo di aprire nell'anno seguente il tanto sospirato Concilio generale di Trento.

XXVI.

[10 agosto 1544.]

XXVI. — Chiunque studia le storie del mondo, e s'incontra nei perpetui litigi degli uomini, deve più d'ogni altro intendere la infinita sapienza della legge di mutua carità; senza di che le creature ragionevoli si fanno simili alle belve feroci. Non vi è altra formola per la pace, nè si possono altrimenti finire i dissidî privati e pubblici: se no, questi succedono a quelli, e quelli a questi con tortuosa, ma infrangibile catena. Così ora per punto nella nostra storia, cessate le guerre de' principi maggiori, ma non deposti i rancori dei partigiani, succedono per conseguenza i dissidî privati ai pubblici con tanta perturbazione e sì gran disordine, che niuno potrebbe imaginarne non che prevederne la enormezza, se non vi fosse condotto dai fatti medesimi e dalle loro ragioni. Ne dirò brevemente, perchè non posso ancora separarmi dall'Orsino: il quale avvegnachè non entri nello scompiglio che ora ci stringe, nondimeno sta sempre lì dietro le quinte per ripigliare, come di fatto ripiglierà per conseguenza, il comando. Non ancora avevano i negoziatori di Crespy firmato i capitoli della pace tra le grandi potenze, ed ecco i partigiani attaccarsi tra loro con quelle astiosità, che poi toccarono il sommo nella congiura dei Fieschi in Genova, dove cadde Giannettino; e nella congiura dell'Anguisciola in Piacenza, dove seguillo Pierluigi; e tutto ciò strettamente connesso coi fatti della nostra marina, avvegnachè da niuno fin qui osservata, secondo la sua importanza. Eccone il filo.

[15 agosto 1544.]

Era passato di vita quel monsignor Imperial Doria, vescovo di Sagona in Corsica, del quale per incidente abbiam fatto parola nel quarto libro; e memore dei beneficî e della parentela, aveva lasciato erede di certe sue rendite nel regno di Napoli (ingrandite, come è solito, dalla fama) lo stesso principe Andrea Doria, perchè ne avesse a sollevare dalla miseria alcuni poverissimi della stessa loro famiglia. Se non che volendo Andrea entrare al possesso dell'eredità, trovò l'ostacolo dei Camerali romani, che avevano già fatto giudizio di tirare i beni del vescovo defunto alla camera degli spogli. Vero è che incominciata la lite e venuti i protesti, il cardinal Farnese aveva fatto proporre ad Andrea di transigere con lui nella metà dei beni, ed anche nel tutto, purchè lo ricevesse come dono: ma l'altro, consigliato dai suoi avvocati, e riputandosi maggiormente offeso dalla liberalità, che parevagli oltraggiosa, deliberò con pericoloso e corsaresco consiglio di smaccare i Farnesi, avversarî politici, e di ricattarsene da sè. Avvisò Giannettino suo nipote, e s'intese con lui, perchè catturasse e portasse a Genova le quattro galere, proprietà come è detto dei Farnesi, che la Camera apostolica teneva al soldo per la guardia consueta.

Dopo la ritirata di Barbarossa, Giannettino Doria colle galere della sua casa al soldo di Spagna erasi ridotto a Napoli; e colà per dargli mano aveva altresì fatto raunanza la squadra nostra, condotta dal provveditore e luogotenente generale di Orazio Farnese, che era per questi tempi il capitano Francesco de Nobili da Lucca, più volte nominato avanti, e più da nominare in seguito[167]. La mattina del quindici di agosto, intanto che si spedivano alcune faccende di sua commissione in Napoli, Francesco uscì dal porto colla squadra, e fece una passeggiata di esercizio fino a Torre del Greco. Al ritorno fuori del porto trovò Giannettino sul passo con quindici galere: il quale, fattolo chiamare al suo bordo, dissegli volersi servire della squadra romana infino a Genova. Dopo diverse repliche da una parte e dall'altra, Giannettino uscì tutto aperto e tutto ardito nel mostrare di avere la forza in mano, e di esser pronto ad usargli violenza. L'altro protestò contro il tradimento, e non potendo nè volendo combattere con lui, uscì di bordo, e andò a presentare i suoi reclami alla Nunciatura di Napoli[168]. Giannettino al contrario mandò subito a levare dalle nostre galere i soldati, e ogni altro ricalcitrante, e a mettervi gente dei suoi; coi quali, senza punto indugiarsi, l'istesso giorno prese la via di Genova, menandosi appresso catturata la squadra papale[169]. Non però di meno prima di partirsi per tutta sua giustificazione presso il Vicerè, cui lasciava all'improvviso il tristo retaggio dei litigi con Roma, scrisse il seguente biglietto[170]: «Io mi sono assicurato delle galere del Papa: e non l'ho fatto intendere a V. E. innanzi, per non li fare disservitio. Non vengo da Lei per trovarmi in punto di andare a Genova, e comandimi se posso servirla.»

Andarono via l'istessa notte: e il giorno seguente alterossi papa Paolo grandemente, tanto che pose a general sequestro i beni dei Genovesi in tutto lo Stato, e minacciò di voler procedere severamente contro gli usurpatori. Tutta la casa Farnese attorno soffiava sul fuoco, massime Pierluigi, futuro duca di Parma, ed uomo per vecchie rancure nemicissimo della casa Doria. Però Andrea, dopo alquanti giorni, mosso anche dalle rimostranze della sua repubblica, e non volendo interporre l'autorità di Cesare nel privato negozio, di propria volontà liberò dal sequestro le quattro galèe, e le rimise in Civitavecchia; contentandosi di aver mostrato che non gli mancava nè animo, nè forza da far risentimento. Dopo di che Paolo III ebbe per bene di chiamarsi soddisfatto; e la causa dell'eredità, rimessa alla curia di Napoli, fu decisa in favore di Andrea.

Ma il disordine non finì lì; duravano i partiti, celavansi le vendette e gli odî: ed era scritto nei fati di casa Doria che una sola di quelle galèe cavate da Civitavecchia sarebbe bastata a catturarne venti nella darsena di Genova, e a mettere in ponte il dominio di Carlo e di Andrea nella stessa città.

XXVII.

[Giugno 1545.]

XXVII. — Imperciocchè tornata la squadra in Civitavecchia, i ministri del Papa e dei Farnesi si lasciarono intendere di volersene levare il peso, e darne la condotta ad alcuno che le comprasse e tenesse a suo conto, sotto le condizioni consuete di mutuo vantaggio, specialmente per la guardia della Spiaggia romana. La conclusione del negozio tardò un anno, e intanto la squadra nel giugno seguente, sotto l'amministrazione diretta della Camera, e la condotta del capitan Francesco de' Nobili, navigava a Malta; avendo il Grammaestro offerto al Papa alquanti schiavi da rinforzare le ciurme, purchè gli piacesse mandare le galèe a prendergli, ed a fare una corsa coi Cavalieri suoi, e cogli altri concorrenti contro Dragut[171]. Furono insieme colà del mese di giugno diciotto galere: tre di Roma, quattro di Malta, quattro di Sicilia, tre del visconte Cicala, due del principe di Monaco, e due del marchese di Terranova, che ai ventitrè del mese sciolsero di conserva e si posero a lungo corso per le coste di Barberia, alla Galitta, a capo Bono, a Tunisi, alle Conigliere, alle Cherchene e per tutte quelle isole, senza aver mai trovato una vela di nemici, salvo che la prima sera nelle acque di Trapani sei galeotte, le quali si salvarono dalla caccia per l'oscurità della notte; e ne dettero subito conto a Dragut ed agli altri pirati, per quello che ne fu giudicato dappoi. Ai sedici di luglio, scioltasi in Malta la detta raunanza, le nostre galèe ripresero la strada di Civitavecchia, quando finalmente si aveva a concludere la vendita dei legni, e l'appalto del mantenimento, secondo le forme consuete dei precedenti capitoli.

[23 ottobre 1545.]

Il duca Pierluigi di Parma pose più di ogni altro le mani in questa faccenda; e ne trattò con uno dei Sauli di Genova; ne ebbe domanda anche da Piero Strozzi, e da Adamo Centurioni; e finalmente nell'occasione della visita di omaggio che facevagli Gianluigi Fieschi pel feudo di Calestano, strinse con lui il negozio delle galèe, tanto che addì ventitrè di ottobre dell'anno medesimo 1545 concluse col Fiesco in Piacenza l'atto di vendita[172]. Nel contratto si legge quattro galèe, Capitana, Padrona, Vittoria e Caterinetta: prezzo trentaquattro mila scudi d'oro, da pagare in tre rate; la prima subito, e le altre alla fine dei due anni seguenti: garanzia sull'ipoteca del feudo di Calestano. Ora non mi dà l'animo di aggiugnere altro, nè di esaminare il mercato: ne parlerò tra poco con miglior fondamento e opportunità. Intanto posso asserire che dal solo prezzo, senza inventario e senza carati, non si può arguire frode nell'intenzione dei contraenti.

[Maggio 1546.]

Sì bene dai fatti successivi, dai documenti, e dalla concorde testimonianza dei contemporanei risulta che l'animo del Fiesco fin d'allora covava magagna: perchè non si era mai impacciato nè voleva impacciarsi di navigazioni e di galèe; ma intendeva mutare lo stato di Genova, cacciandone gli Spagnoli e la casa Doria. Non facciam repliche di Catilina, nè di Cicerone, nè di altri personaggi o scrittori di classica antichità: gli è il tramestìo di Genova, solito per quei tempi, tra la plebe, i nobili, il cappellaccio e gli stranieri. I Genovesi m'intendono. Qui abbiamo la scossa delle indomite fazioni francese e spagnola, che intendono a scavalcarsi. Ciò che i signori Fregosi avean fatto agli Adorni coll'ajuto dei Rovereschi, e gli Adorni ai Fregosi coll'ajuto dei Medicei, e ciò che Andrea Doria aveva fatto a tuttaddue coll'ajuto degli Austriaci, voleva il Fiesco fare a tutti e tre col consentimento dei Borbonici. Se fosse riuscito nell'intento sarebbe divenuto doge, cappellaccio, e forse più. Ma perchè cadde, restossi vituperato oltre il dovere nella memoria dei posteri. Difficile è stato e sarà sempre, tanto per la politica quanto per la morale, il maneggiare congiure: e similmente è stato e sarà sempre disonesto l'aggravare nel doppio i caduti, e il tenere diverse misure per gli stessi falli.

Venne il Conte in Roma del mese di maggio pel possesso delle galere, e per la firma della condotta[173]: nè è da stupire se nella stessa città i ministri, i cortigiani, e ogni altro a giovane signore e novello capitano facessero liete accoglienze, e parole di cortesia e di felici augurî. Ed egli con molto bel garbo, mostrandosi contento, pigliava possesso in Civitavecchia, sottoscriveva in Roma i capitoli consueti della guardia, cogli annuali vantaggi e pesi consueti; e poneva in sua vece comandante sulle tre galèe assoldate il conte Girolamo suo fratello minore, del quale non ho a dir nulla rispetto alla marina, se non che governavasi col capitano Giulio Podiani[174]. Sì bene devo avvertire che la Caterinetta, perchè non compresa nei soldi camerali tra le altre tre galèe della guardia, restava fuor di linea agli ordini particolari del conte Gianluigi, il quale facevala navigare da Civitavecchia a Genova sotto il governo del padron Giacopo Conti[175], col disegno di acquistar grazia e autorità nel popolo, e di tenersi attorno gente armata per terra e per mare, senza destare troppi sospetti, e senza scoprire il disegno che nel profondo del cuore chiudeva.

[24 dicembre 1546.]

Questa Caterinetta specialmente da Civitavecchia alla fine dell'anno chiamò col padrone Giacopo Conti: e l'ebbe nel porto di Genova la vigilia di Natale, quando si avvicinava il giorno assegnato al compimento dei suoi propositi[176]. Pei quali aveva già dato voce di voler armare quella galea di gran rinforzo, e similmente accrescere gente di spada e di remo nelle altre tre, sotto colore di mandarle al corso: facendo così venire da' suoi feudi uomini di fiducia, alcuni alla scoperta, altri celatamente, parte nelle sue case, e parte sopra questo bastimento, col quale si preparava all'ultima prova della famosa congiura[177]. Tutti parlano di questa galèa, meno l'Olivieri: e tutti, fuorchè lui, come di principalissimo strumento per coprire e terminare il disegno[178].

[2 gennajo 1547.]

La notte di domenica del secondo sopra il terzo giorno dell'anno quarantasette il conte Gianluigi Fieschi chiamò seco a cena Giambattista Verrina principalissimo confidente, molti amici ed uomini armati: propose il partito della congiura, ebbe l'approvazione di molti, e pose gli altri alle strette di consentire con lui. La maggior parte di coloro, attoniti alla novità, e commossi alle parole di libertà, popolo e patria, che ripetutamente echeggiavano, giurarono seguirlo. In quella, stando la città senza sospetto, e quasi disarmata, occuparono facilmente la porta degli Archi a santo Stefano verso il Bisagno, e quella di san Tommaso alla Lanterna; il capitan Borgognino dalla parte di terra scalava la darsena, e la Caterinetta ne occupava la bocca dalla parte del mare[179]. Essa dava col cannone il segno, essa rinchiudeva, e s'impadroniva di tutte le galèe di casa Doria. Allora Giannettino, tratto al rumore, cadeva morto da un'archibugiata di Agostino Bigellotti da Barga; Andrea quasi solo fuggiva a cavallo fino a Sestri, a vela fino a Voltri, e in lettiga fino al castello di Masone. Il Fiesco per un'ora restava padrone della città.

Certamente avrebbe potuto in quella notte menar via da Genova venti galèe, come altri ne avea menate quattro da Civitavecchia: ma il Conte aveva disegni diversi pel capo, e in quel tramestio gli tuffò tutti insieme colla vita nel mare. Fuor di sè pei primi successi, mentre ratto scorreva dall'una all'altra di quelle galèe, mancatagli sotto una palancola di trapasso, cadde nel mare armato come era di tutto punto, e di sopraccollo tre o quattro congiurati, tutti insieme nel fondo sopra di lui. Dove egli non potutosi ajutare di nuoto per la grave armadura, e per la confusione ed oscurità della notte non veduto nè soccorso dai compagni, restossi, come fu ripescato dopo alquanti giorni, morto nella melma.

Per questa perdita, mancato il capo della congiura, invilirono i complici, rilevossi il partito contrario, e cadde l'impresa: ma d'accordo colla Signoria, e col patto della impunità promulgata e sottoscritta da Ambrogio Senarega, cancelliere del Senato. Non guari dopo tornò il vecchio Andrea più possente di prima, tornarono sitibondi di vendetta i padroni di Spagna, e cominciarono a lavorare i giudici ed i carnefici a dispetto dei patti, e secondo l'esigenza delle pubbliche e private discordie. Anzi più, allora allora si affilarono i coltelli, pe' quali addì dieci di settembre dell'anno medesimo il duca Pierluigi Farnese nella sua camera dentro la cittadella di Piacenza fu fatto a pezzi. Sempre e dovunque si vede avvenire l'istessa cosa: e tale mercede ciascuno ricevere, quale ne fa altrui.

La Caterinetta fuggì da Genova: sbarcò a Nizza alcuni prigionieri che aveva a bordo, tra i quali il capitan Lercari, e si riparò in Marsiglia, ricevuta a gran festa dai Francesi[180]. Le altre tre stettero in Civitavecchia: richieste da Carlo V, come beni di suo ribelle; richieste da Scipione Fieschi, come erede del defunto; e più richieste e tenute da Orazio Farnese, come creditore del prezzo non pagato[181].

XXVIII.

[22 marzo 1548.]

XXVIII. — Dopo questi successi tutti in Roma e alla marina richiamavano l'Orsino; e il Papa istesso diceva non esservi altr'uomo che in quelle circostanze potesse rimettere a sesto la squadra, e rilevarne la fortuna. Perciò Orazio Farnese che non aveva ricevuto nè poteva più ricevere dai Fieschi il residuo del danaro alle scadenze pattuite, così consigliato da papa Paolo, le vendette al conte Gentil Virginio Orsini per diciassette mila e cinquecento scudi d'oro in oro, come dall'istrumento rogato in Roma addì ventidue di marzo 1548, per gli atti di Girolamo da Terni, notajo e cancelliere della Camera[182].

Dal documento possiamo arguìre la divisione dei beni liberi lasciati dal duca Pierluigi ai suoi figli; e l'assegnamento delle quattro galere ad Orazio, che già le aveva possedute[183]. E ciò anche per rispetto al suo genio militare, ed alle politiche inclinazioni favorevoli alla Francia: dove poi, sposato alla Diana giovane di Pottieri naturale di Arrigo II, giovanissimo morì combattendo alla difesa della piazza di Hesdin nell'Artoà, da esso stesso fortificata con tanta maestria, che lui vivo non si sarebbe mai potuta espugnare; come disse il celebre generale napolitano Giambattista Castaldo all'Imperatore, quando l'ebbe per suo ordine riveduta[184].

Similmente dallo stesso istrumento abbiamo la continuata presenza del capitan Francesco de' Nobili di Lucca, sempre aderente agli Orsini, ai Farnesi ed agli Sforza nelle cose della marina. Abbiamo i nomi delle tre galèe restateci, Capitana, Padrona e Vittoria; meno la Caterinetta, già pagata nella prima rata dei Fieschi; che sarebbe stata presa in Genova, se non fosse fuggita a Marsiglia. Abbiamo finalmente nell'ultima chiamata dell'Orsino, tutto francese, una prova evidente dei mutati disegni della romana curia verso la corte di Spagna: i cui eccessi, come crescevano fastidio a Paolo III, così dovevano poscia produrre la guerra di Paolo IV.

[Giugno 1548.]

Non guari dopo la compra delle tre galèe, furono pubblicati i capitoli della condotta, precedentemente rifermata dal cardinal Guidascanio Sforza al conte Gentile[185]. Capitoli da non ripetere, perchè simili agli altri già prodotti, riserbando a suo tempo la pubblicazione di quei totalmente nuovi, che saranno concertati tra la Camera e il capitan Francesco Centurioni[186]. Ora fa pressa la fine del libro. Il conte Gentile riprese le redini colla consueta sua diligenza e saviezza: pose sul cantiere una galèa nuova da sostituire alla Caterinetta, e dopo cinque mesi l'ebbe pronta a varare presso all'istesso porto di Civitavecchia; costruita sotto la sua direzione dalle maestranze medesime che teneva nella squadra. Armò le galere, fece alcuni viaggi intorno alle isole vicine. Se non che nel meglio de' suoi apparecchi, venuto infermo qui in Roma del mese d'agosto, pose fine alla vita e al capitanato, ed ora lo pone a questo mio libro.

[Agosto 1548.]

Fu uomo per grandezza d'animo e per antico senno onorato in Italia e fuori; ricercato dalla Francia, e sempre altrettanto osservato dalla Spagna: capitano e marinaro eccellentissimo del suo tempo, salito ai primi gradi nelle armate navali con titoli meno pomposi, ma più autorevoli dei moderni; attore e testimonio romano delle tre famose giornate di Tunisi, della Prèvesa e d'Algeri: vincitore di Dragut, di Mamì e di Scirocco. Edificò nei suoi stati le rôcche di Monterano, di Stigliano, di Cervetri, e dell'Anguillara. Non ebbe discendenza maschile, e la contèa passò a Paologiordano suo cugino. La Maddalena sua figlia, maritata a Giampaolo di Renzo da Cere; e la Caterina secondogenita, maritata a Trajano Spinelli principe di Scalèa, eredi de' beni liberi, vendettero l'istesso anno le tre galere e il fusto di nuova costruzione, ancorchè disarmato, al cavalier Carlo Sforza, novello capitano, del quale avremo a parlare nel libro seguente.

LIBRO SETTIMO. Capitano Carlo Sforza,

dei conti di Santafiora.

[1548-1555.]

SOMMARIO DEI CAPITOLI.

I. — Carlo Sforza, famiglia e notizie. — Generale delle galèe di Malta. — Rissa di Cavalieri. — Salto di Sforza.

II. — Carlo in Roma capitan Generale delle galèe pontificie (3 settembre 1548). — Compra di bastimenti, e contratti.

III. — Valuta delle galèe, e Documenti. — Corpo, corredo, bozzelli, ferramenti, armi, velatura, tende, sartiame, vestiario. — La stima ed i carati.

IV. — Qualità, nomi, peso, calibro, e valuta dell'artiglieria. — Miccio, e munizioni. — Documenti.

V. — Inescatura delle armi da fuoco. — Gli incomodi del miccio in Algeri. — Fucile a ruota inventato nel principio del secolo XVI. — Testimonianze e descrizione.

VI. — Lo Sforza in Malta si riconcilia coi nemici (giugno 1549). — Crociera e prede nell'Arcipelago (ottobre 1549). — Bando sopra gli schiavi in Roma.

VII. — Giulio III conferma il capitanato dello Sforza. — Ordina le difese della marina pel giubilèo (1550). — La terza quadriglia dei pirati. — Dragut acquista Afrodisio, e cresce molestie.

VIII. — Armata cristiana contro Dragut. — Capitani e venturieri in Civitavecchia (1 maggio 1550). — L'incontro di Napoli e la rottura dei remi: Detergere remos (6 maggio 1550).

IX. — L'armata innanzi Afrodisio (20 maggio). — Dragut in fuga. — Corsa a Monastero. — L'acquata, e la provvista di bordo.

X. — Espugnata la terra di Monastero dal Baglioni. — Battuta la rôcca (28 maggio). — Perdita di due galere. — Navigazioni e guardie. — Il Triumvirato (24 giugno).

XI. — Afrodisio, e le sue fortificazioni. — Armi, presidio, e rinforzi (26 giugno).

XII. — Lo sbarco delle genti e delle bagaglie. — Lavori di assedio ordinati dal Ferramolino (30 giugno).

XIII. — Si apre il fuoco (1 luglio 1550). — Difficoltà della breccia. — Assalto ributtato (11 luglio). — Infermi e feriti, spedali, medici, e cappellani.

XIV. — Rinforzi e venturieri: Del Monte e Savelli. — La seconda parallela. — La fucina da campo. — Spedale a Trapani. — Lo Sforza trasporta i feriti. — Viene a Roma. — Dissensioni tra i Capitani (20 luglio).

XV. — In giornèa per fascina. — Giordano Orsini ferito e scavalcato dagli Arabi, liberato dal Baglioni (21 luglio).

XVI. — Scorrerie di Dragut pel Mediterraneo. — Difese dei Sardi. — Dragut torna in Africa, raduna gente, tenta soccorrere Afrodisio (22 luglio).

XVII. — Lo squadrone per la fascina. — Scontro con Dragut. — Maniche di archibugeri. — Combattimento vantaggioso contro il soccorso e contro il presidio. — Dragut fugge alle Gerbe (25 luglio).

XVIII. — Le fuste di Dragut sulla spiaggia romana. — Ributtate a cannonate da Ostia. — Danni a Talamone, a Ponza, a Ventotiene. — Bravura dei Sardi (26-30 luglio).

XIX. — Ritorno dello Sforza in Africa e salvamento di una fregata (31 luglio). — Gli ingegneri al campo: Ferramolino, Arduino, e Prato.

XX. — Mine e gallerie. — Morte del Ferramolino (8 agosto). — Nuova batteria all'angolo di mare, ed effetti stupendi (29 agosto).

XXI. — La sambuca: antichità e forme diverse. — Giuseppe Buono. — La batteria della sambuca (31 agosto).

XXII. — La ronda per mare. — Marco Centurioni e i rinforzi (6 settembre). — Predate due galeotte e una nave nel porto (7 settembre).

XXIII. — Prima mossa della sambuca (8 settembre). — Batteria, incagli, breccia, e riparazioni. — Effetti utilissimi della sambuca. — La piazza agli estremi.

XXIV. — Assalto da terra e da mare. — La colonna dei romani e fiorentini entra nella piazza. — Dà mano agli altri. — La vittoria e la cervia (10 settembre 1550).

XXV. — Ingresso trionfale, e assettamento di governo. — Il Prato disegna le nuove fortificazioni. — Ritorno dell'armata. — Ricchezze in Spagna, e chiavistelli in Roma (ottobre 1550).

XXVI. — Lo Sforza in congedo. — Difende la spiaggia per suo conto colle galere proprie. — Gratitudine dei Maremmani. — Guerra di Parma e di Europa. — Lo Sforza in Francia (1552-53).

XXVII. — I cinque Sforzeschi nel 1554. — Tre spagnoli e due francesi. — Sospetti in Francia contro Carlo. — Perdita di tre galere, e acquisto di altre due. — Fuga di Francia, prigionia in Firenze. — Torna in grazia (1554).

XXVIII. — Paolo IV. — Artifizî degli Sforzeschi per ricuperare le galèe. — Alessandro se ne fa padrone, e caccia l'Alamanni. — Ajuto dei Civitavecchiesi (agosto 1555).

XXIX. — Ordini e contrordini per la partenza. — Le galèe di Sforza a Napoli. — Minacce, sedizioni e tumulti in Roma. — Il Sarrìa a mitigare (agosto 1555).

XXX. — Partito preso in Napoli di restituire le galèe. — Ritorno di Alessandro. — Rimesso l'Alamanni. — Ritiro di Carlo Sforza a vita privata (settembre 1555). — Considerazioni, e fine del libro.

LIBRO SETTIMO. CAPITANO CARLO SFORZA, DEI CONTI DI SANTAFIORA.[1548-1555.]

I.

[Agosto 1548.]

I. — Dal gran mastro di guerra Muzio Attèndoli della Cotignola, cui il conte Alberigo di Barbiano appiccò il nomignolo di Sforza a perpetuo suggello da ricordarne ai posteri la gagliardìa e l'ardimento, si sono generati i duchi di Milano, i signori di Pesaro e i conti di Santafiora; donde derivossi dappoi accrescimento di splendore e di grandezza per eredità e parentela nella nobilissima casata dei Cesarini di Roma. Di quel sangue nacque Carlo, terzogenito del secondo Bosio conte di Santafiora e di Costanza Farnese della stirpe di Paolo III; e parvero in lui rivivere gli spiriti marziali del primo Sforza. L'istessa grandezza della persona, il medesimo dominio sui cavalli, e l'agilità delle membra, e il piglio soldatesco, e la robustezza del braccio e la saldezza del core; aggiuntavi di più la coltura, lo studio, e l'esperienza della milizia navale. Entrato giovanetto nell'Ordine di Malta pigliò volentieri l'occasione di mostrarsi quale era prode e valente per mare e per terra, in Levante ed in Germania: in breve ottenne la grancroce, il priorato di Lombardia, e finalmente il generalato delle galèe dell'Ordine suo[187]. Faceva perciò residenza in Malta molto splendidamente, secondo uomo di alto affare; e appresso menavasi numeroso seguito di capitani e di gentiluomini: fra i quali fin d'ora mi piace ricordare quei due prodi che sempre lo sostennero nelle sue spedizioni; cioè il conte Marcantonio Zane di Bologna, successore di Marcantonio Colonna nella nostra marina dopo sciolta la lega[188]; ed il nobile fulignate Giannantonio Gigli di chiara fama a Lepanto, e prima e dopo[189]. L'anticamera di casa Sforza e similmente i saloni dei suoi pari, che ancora abbiamo negli antichi palagi dei grandi signori (saloni di trenta e cinquanta metri in lungo e in largo), non erano mica per quel vecchio servigiano al banchetto in un cantuccio tra il vuoto e il silenzio perpetuo d'oggidì: ma realmente ci ricordano il numeroso concorso dei letterati, degli artisti, dei gentiluomini con tutto il codazzo dei familiari, raccolti quivi insieme per motteggiare tra loro, per corteggiare l'avventuroso signore, e per seguirlo dovunque secondo il suo grado.

La quale magnificenza spiegata eziandio da Carlo in Malta, quantunque conforme all'uso del tempo, gli fruttò l'invidia dei superbi; e suo malgrado l'avvolse in una sanguinosa e ferocissima rissa, accesasi tra i Cavalieri per la uccisione di un semplice soldato delle sue galere sulla piazza del porto.

La furia delle private vendette levò alta fiamma nell'isola. Prima dalla parte dello Sforza avvampò un famigliare, il quale per rimedio del morto ammazzò a tradimento il cavalier Ribadeneira della lingua di Spagna con un colpo ardente di archibugetto a ruota. Indi ribollirono maggiormente i confratelli nazionali del secondo ucciso, risoluti di vendicare il Cavaliere col sangue del Generale. Torna la nota contradizione degli stolti; i quali, acciecati dalla passione, come giudicano altrui, così condannano sè stessi. I congiurati assaltarono e ferirono in piazza lo Sforza, egli trasse la spada e si difese, altri mossero per levarlo di là, dove certamente sarebbe rimasto freddo, se non pigliava di gran corsa la via del porto. Ma raggiunto alla sponda dalla calca dei furiosi, e non veduto a suo scampo altri che il cavalier Giorgio Adorno genovese quivi presso, e da lungi lo schifo della sua capitana che pel confuso rumore erasi allargato da terra, levossi in aria, spiccò un gran salto (non mi basta l'eleganza della frase, quando devo esprimere tutta la verità e la grandezza del fatto), voglio dire, e forse non basta, squarciò un salto portentoso, e raggiunse diritto e fermo la poppa del suo palischermo. Avanti! Voga, arranca, e via!

Il successo maraviglioso di Carlo, in quel giorno, che fu il sei di giugno 1547, sembrò un prodigio a chi lo vide: gli stessi nemici suoi attoniti e maravigliati abbassarono le spade. Più e più la plebe Maltese presente allo spettacolo ne restò presa: d'indi innanzi ne fece proverbio, paragonando i più solenni tratti di destrezza al Salto di Sforza[190]. Il vecchio Muzio, suo grande avo, non ebbe la stessa ventura l'ultimo giorno della vita al guado della Pescara.

Lascio il seguito della sedizione: lascio il concorso dei cavalieri francesi cogli italiani a difesa di Carlo, e la pertinacia degli spagnuoli a volerlo assalire anche dentro la stessa sua capitana; lascio in procinto di combattere due galèe piene di nemici, contro due altre piene di difensori: e conchiudo che Carlo Sforza, dopo quietato il tumulto, ebbe per bene levarsi dall'isola e venirsene in Roma presso il cardinal Guidascanio suo fratello.

II.

[30 agosto 1548.]

II. — Avvenuta dappoi la morte dell'Orsino, ognun intende che il successore era pronto in palazzo: e veramente non ebbe molto a fare Guidascanio per ottenere al fratello la nomina di capitano Generale cogli stessi patti, capitoli e convenzioni del defunto; molto più che i meriti, l'esperienza e la nascita rendevanlo degnissimo dell'ufficio[191]. Perciò l'istesso Cardinale aveva comprato prima dagli eredi del conte dell'Anguillara le tre galèe insieme col nuovo scafo; e donato ogni cosa nell'istesso giorno tre di settembre al nuovo Capitano, perchè avesse a fare vie più onorata comparsa alla marina. Ecco alcuni estratti degli istrumenti di compra e di donazione[192]:

«Addì trenta del mese d'agosto 1548. — Il signor Gentil Virginio Orsini, durante la vita, conte dell'Anguillara, recentemente defunto, tra gli altri beni della eredità avendo lasciato tre triremi, volgarmente chiamate galèe, da lui stesso comprate nel mese di febbrajo prossimo passato, come proprietà dell'illustrissimo signore Orazio Farnese duca di Castro, al prezzo di diciassette mila e cinquecento ducati d'oro in oro; ed avendo ordinato nell'ultimo suo testamento che le dette galèe s'abbiano a vendere eccetera..., quindi gli esecutori testamentari per lo stesso giure di vendita hanno dato e consegnato al signor Guidascanio cardinale eccetera.... le dette tre galèe e di più il corpo di un'altra galèa che volgarmente dicono un Fusto di nuova costruzione, che è alla spiaggia fuori dei porti di Civitavecchia, già dalla Santità di Nostro Signore donato al medesimo signor Virginio, il tutto per prezzo a nome di prezzo ventimila settecento scudi d'oro, eccetera...»

«Ratificazione della vendita delle galèe, per parte delle signore Maddalena e Caterina, figlie dell'illustrissimo signor Gentil Virginio Orsini di bona memoria, in sua vita conte dell'Anguillara, eccetera...»

«Donazione delle galèe — Addì tre settembre 1548. — Il signor Guidascanio Sforza, del titolo di sant'Eustachio eccetera.... non come persona ecclesiastica, ma come membro della illustrissima casa e famiglia Sforza, ha comprato dalle illustrissime signore Maddalena e Caterina, figlie della bona memoria del conte Gentil Virginio Orsini, tre triremi o sia galere e un fusto nuovo, e spontaneamente ha donato il tutto a Carlo Sforza priore di Lombardia, suo fratello germano, eccetera...»

«Fatto in Roma ecc..., giorno, mese, ed anno, come sopra nella camera del palazzo, residenza consueta del predetto signor cardinal Camerlengo, chiamata la Cancelleria Vecchia[193]

III.

[Ottobre-dicembre 1548.]

III. — Questi documenti limpidi e brevi confermano largamente ciò che si è detto alla fine del libro sesto, ed al principio del presente. Di più ci danno tre volte la compra e la vendita delle stesse galèe a prezzi diversi: prima per scudi d'oro trentaquattromila, indi per diciassettemila cinquecento, e finalmente per ventimila settecento[194]. Avendo già nella storia del Medio èvo descritto la costruzione, la forma e il governo di questi legni militari, sembrami conveniente dirne adesso la valuta; e ciò per chiarire sempre meglio la storia navale dei secoli scorsi, e per continuare anche da questa parte lo svolgimento delle frasi e dei termini marinareschi; come pure per stabilire i criterî da risolvere a un bisogno quei problemi storici, nei quali il prezzo fornisce argomento a provare cause ed effetti di maggior rilievo. Per esempio, e tutto del nostro proposito, il Guerrazzi notissimo scrittore moderno, volendo attribuire a Pierluigi Farnese una parte maggiore nella congiura di Gianluigi Fieschi, si ferma sul prezzo delle quattro galèe vendute dal primo al secondo per trentaquattro mila scudi d'oro: ed elevando il valore di ciascuna galèa a ventimila, in somma per le quattro a ottantamila, conchiude essere la differenza di quarantasei mila la mercede pattuita del tradimento[195]. Io non torno adesso a cercare come e quanto i Farnesi di Parma se la intendessero coi Fieschi di Genova; sì bene a rilevare l'importanza della stima per risolvere talune questioni di ordine più elevato.

E volendo andar sicuro nel giudizio dei prezzi, lascio da parte lo stranio Brantôme che trinciava le cifre a ventimila per volta, e seguo piuttosto Andrea Doria genovese, Lione Strozzi fiorentino, e Gentil Virginio romano e i loro discendenti e consorti, che valutavano diversamente, ed erano per quei tempi maestri e comandanti anche in Francia, anche in Spagna, e per tutto. Con loro mi appoggio ad altre colonne, cioè alle note ufficiali dei governi, ed a quei documenti e autorità che sempre cito, tuttochè a taluno possano sembrare soverchie[196]. Da queste sorgenti potrà derivarsi nella mente dei miei lettori qualche contezza più precisa intorno al modo di determinare la valuta delle galere, distinguendo le parti di costruzione, fornimento, armamento e corredo, così dei legni come delle attenenze, secondo il primo impianto, e secondo i diversi carati rispondenti al tempo ed al consumo.

Perciò scelgo due documenti ufficiali, uno romano e l'altro fiorentino; ambedue composti per norma di governanti, ambedue identici nei vocaboli e nelle frasi del mestiere, che erano comuni in tutta l'Italia, come più volte ho detto: ma il primo assai più breve, più chiaro, più ricco di voci, tanto che il lettore potrà cavarne con manco fastidio maggior copia di notizie. Nè io saprei altrimenti come mettere a stampa, perchè non si perdano, tanti vocaboli degni di essere ricordati, e non possibili a intarsiare nei racconti miei, nè altrui. Dirò appresso del secondo: ora pubblico il primo documento nella sua integrità, come fu compilato sopra le scritture e le tradizioni del tempo anteriore, a richiesta dei principi Barberini, quando tenevano nella mano tutte le fila dell'amministrazione al tempo di Urbano VIII. Già fin d'allora gli economisti, rispetto alle spese, richiamavano i tempi passati, come di miglior mercato, e dolevansi del maggior caro nel presente: perciò la cifra della somma totale potrà essere stata più bassa cinquanta anni prima, non certamente più alta. Udiamone[197]:

Nota di quanto costa una galea privata, armata di quanto fa bisogno acciò sia pronta a navigare. La spesa che ci va incirca:

» Lo scafo fornito nel modo che lo sogliono dare i maestri incirca Scudi ( romani ) 3500. —

» Più si fa il piano della poppa, ed altre cose 50. —

» Albero della maestra 130. —

» Albero del trinchetto 80. —

» Antenna di maestra: cioè due pezzi, carro e penna 100. —

» Antenna di trinchetto simile, carro e penna 50. —

» Spigoni due per la borda e pel marabutto 10. —

» Tagliami diversi [198] , come per la lista a parte numero 1ª 60. —

» Artiglieria e palle [199] — —

» Armi diverse e apparati delle artiglierie, come da lista numero 2ª 500. —

» Ferri quattro, a quattro marre, del peso di cinquanta cantàri genovesi di libbre 138 romane [200] 220. —

» Cinquantasette remi guarniti a scudi tre l'uno [201] 171. —

» Tende, tendali, porte di poppa, porte di prua, e porte delle bande, tutto di albagio di Roma, guarnite di sartia e fodera, come da lista numero 3ª 630. —

» Ferramenti per le maestranze e per la ciurma, come da lista numero 4ª 553.40.

» Vele per la maestra e pel trinchetto, e loro guarnizione di sartia con due mantelletti, come da lista numero 5ª 690. —

» Sartia necessaria all'uso di detta galea, come per lista numero 6ª 900. —

» Dugencinquantacinque barili da acqua di Nizza 202. —

» Botti ed altre cose necessarie alla compagna ed al pagliuolo, come per lista numero 7ª 150. —

» La ciurma si calcola numero ducensessanta uomini, compresi venticinque bonavoglia [202] . Vestiti per detta ciurma, cappotti e camiciuole, come da lista numero 8ª 963.50.

» Vestiti bianchi per detta ciurma, come per lista numero 9ª 543.50.

» Fiamme ed attrezzi della poppa, come per lista numero 10ª 156. —

» Schifo guarnito 30. —

» Cinquantuna vacchetta per li banchi 36. —

» Bronzi diversi per le pulegge, sessanta in circa, libbre centotrenta 36. —

» Concerto di otto trombette 32. —

» Lo spalmare della galèa, libbre settecento di sevo, e la brusca 50. —

» In tutto Scudi ( romani ) 9843.40.

» Lista N. 1ª. — Tagliami.

» Un calcese di maestra.

» Due colleoni di calcese.

» Due taglie da ghindare per maestra.

» Due pulegge di ritorno.

» Due pulegge per la detta.

» Due altre pulegge per la detta.

» Due taglie di anchini da due occhi.

» Due taglie di anchini da un occhio.

» Due taglie di orza davanti, ossia orza novella, da un occhio.

» Calcese pel trinchetto.

» Una puleggia pel detto.

» Due colleoni.

» Due taglie pel fionco [203] da quattr'occhi.

» Due taglie da due occhi.

» Sei pulegge per dette.

» Quattro taglie di anchini da due occhi.

» Due taglie di anchini da un occhio.

» Sei pulegge.

» Otto taglie pei paranchinetti da due occhi.

» Due taglie di orza davanti da due occhi.

» Pulegge per dette.

» Dodici taglie da collatori [204] da due occhi.

» Dodici taglie pei collatori da un occhio.

» Pulegge per detti.

» Sette mazzapreti [205] .

» Pulegge per detti.

» Ventiquattro vertecchi.

» Una pasteca [206] da quarnale.

» Pulegge per detta.

» Due pasteche d'orza a poppa.

» Una pasteca da schifo.

» Una pasteca da quarnale.

» Un mazzaprete per cazzare la tenda.

» Due coccinelli.

» Quattro pulegge per mazzapreti.

» Due taglie di prodano da quattr'occhi.

» La pasteca del cannone.

» Una puleggia per detta.

» Sei pulegge per mascellari [207] .

» Otto taglie da un occhio pei detti mascellari.

» Ventiquattro pulegge pei detti.

» Nove mazzapreti.

» Nove pulegge pei detti.

» Una bigotta da sperone.

» Una puleggia pel detto.

» Due bigotte da cordiniera.

» Tre bigotte di trozza.

» Ventiquattro vertecchi.

» Due taglie da prodano.

» Due dette da due occhi.

» Otto pulegge per dette.

» Due arganelli.

» Pulegge per detti.

» Maschi da schifo per salpare.

» In tutto, come è detto, Sc. Romani 60. —

» Lista N. 2ª. — Armi diverse ed apparati per le artiglierie.

» L'artiglierie non si notano [208] .

» Centoventi moschetti Sc. Rom 360.

» Centoventi forcine 18.

» Sessanta mezze picche 18.

» Dodici rotelle 8.

» Centoventi bandoliere 36.

» Per le artiglierie. — Dodici schiappe da scalone, dieci bigotte, trenta perni, dieci mazze, un gancio, cucchiare, stivatori, rifolatori, lanate, borsa di corame per la polvere, in tutto 35.

» Lo scalone pel cannon di corsia guarnito 25.

» Somma la lista 2ª, c. s. Sc. Rom. 500.

» Lista N. 3ª. — Tende, tendali, e porte.

» Una tenda di albagio di Roma, palmi 2880, spago per cucirla libbre 24. Cavetto di terranina, libbre 20. Tela trina pel mezzanino, palmi 150. Sartia per guarnimento.

» Un tendale di albagio di palmi 420. Spago per cucirlo libbre 6. Canavaccio per fodera, palmi 400.

» Due porte d'albagio attorno alla galea, e porte di poppa e di prua, palmi 1100. Tela parata per fodera di tutto, palmi 1300. Spago per cucirne, libbre 10. In tutto Sc. Rom. 470.

» Una tenda di canavaccio, palmi 2800. Spago per cucirla, libbre 16. Mattaffioni, libbre 120. Guarnimento, libbre 90. Mezzanino, libbre 100. In tutto 125.

» Una incerata di cottonina, palmi 160. Spago per cucirla, libbre 2. Cera, libbre 50. Verderame, libbre 15. Trementina, libbre 10. Pece greca, libbre 8. Sevo, libbre 20 35.

» 3ª lista, in tutto, c. s. Sc. Rom. 630.

» Lista N. 4ª. — Ferramenti.

» Dodici verrugli da calafato Scudi Rom. 2.40.

» Ferro uno per lo schifo 2.50.

» Una gravina, o sia pie' di porco 1.50.

» Un pajo di tanaglie 1.20.

» Incudine 2. —

» Due tagliaferri 0.60.

» Due mazzette 0.50.

» Otto buttafuori 2.20.

» Otto piccozze 4.40.

» Dodici zapponi 7.20.

» Cinquantuna branca di catene a cinque fila per branca, a scudi sette per ciascuna 357. —

» Calzette di ferro, venti fila 28. —

» Ducencinquanta maniglie armate 115. —

» Diversi altri ferramenti minuti 25. —

» Marracci per far la legna, otto 3.40.

» Otto rasoj per rapare la ciurma 0.50.

» 4ª lista, in tutto, c. s. Sc. Rom. 553.40.

» Lista N. 5ª. — Vele di cottonina.

» Una borda, palmi 5000. Canavaccio per mantelletto. Sartia per guarnimento. Spago per cucirla. Sc. Rom. 250.

» Un marabutto, palmi 3600. Canavaccio per mantelletto. Sartia per guarnimento. Spago 140.

» Un marabuttino, palmi 2800. Canavaccio per mantelletto. Sartia per guarnimento. Spago 120.

» Un trinchetto grande, palmi 2640. Canavaccio per mantelletto. Sartia per guarnimento. Spago 115.

» Un trinchetto piccolo, palmi 1450. Canavaccio per mantelletto. Sartia per guarnimento. Spago per cucirlo 65.

» 5ª lista, in tutto, c. s. Sc. Rom. 690.

» Lista N. 6ª. — Sartia a cantari di libbre 250 ciascuno.

» Quattro gomene, collettivamente Cantari 22. —

» Due gomenette 7. —

» Due capi di posta 5. —

» Dodici costiere [209] 3.50.

» Due capi di vette 3.50.

» Un pajo di amanti 1.80.

» Due bracotti di poppa e prua 0.30.

» Due oste di maestra 1. —

» Due orze a poppa 1. —

» Una quarnale 1. —

» Due scotte 2. —

» Orza davanti, ed orza novella 1. —

» Cavo pei collatori 1. —

» Due prodàni per la maestra 3.50.

» Fionco pel trinchetto 1.20.

» Otto sartie pel trinchetto 1. —

» Orza davanti pel trinchetto 0.40.

» Bracotti di poppa e di prua pel trinchetto 0.16.

» Due oste di trinchetto 0.60.

» Quarnaletta e carichetta di trinchetto 0.20.

» Prodàno del trinchetto 1. —

» Barbetta pel cannone e per lo schifo 1.80.

» Paranchinetti pel trinchetto, due 0.20.

» Duo paranchinetti pel timone 0.06.

» Tre mazzi da scandaglio 0.10.

» Due anchini [210] del trinchetto 0.50.

» Anchini per la maestra 0.80.

» Un pajo di amanti pel trinchetto si cavano dalle vette — —

» Cinquantuno stroppo de' remi, e collatori 1. —

» Otto bozze 0.60.

» 6ª lista, in tutto Cantari 63.22.

» Che a circa scudi 15 il cantaro, danno c. s. Sc. Rom. 900.

» Lista N. 7ª. — Bottame ed altro per compagna e pagliuolo.

» Sei botti grosse Sc. Rom. 0. —

» Una manica di corame per imbottare 8. —

» Caldajo per la ciurma 10. —

» Attrezzi di cucina, barbiere, e calafato 12. —

» Cantaro da pesare 8. —

» Ottanta sacchi pel pagliuolo 35. —

» Ventidue stuoje pel pagliuolo, e cose diverse 4. —

» Due bilance piccole 5. —

» Un bilancione 6. —

» Cinque pesi di bronzo da pesare la carne 5. —

» Sei lampioni di corsia 12. —

» Sei lampionetti di cerca 5. —

» Un lampione di burrasca 4. —

» Venti coffe per savorra 3. —

» Dodici sèssole da aggottare 3. —

» 7ª lista, c. s. Sc. Rom. 150. —

» Lista N. 8ª. — Vestiti per la ciurma.

» Cappotti di albagio per ducensessanta uomini: palmi ventuno per cappotto, e filo per cucirli, si calcola giulî ventuno per cappotto 546. —

» Camiciuole di panno cordellato, canavaccio per fodere, e filo per cucirle, ad uomini ducensessanta, da palmi undici l'una, si calcola scudi due per camiciuola 520. —

+ 1066. —

» Se ne diffalca per venticinque bonavoglia, cui si danno a conto loro -    102.50.

» 8ª lista, c. s. Sc. Rom. 963.50.

» Lista N. 9ª. — Vestiti bianchi, scarpe, calze, berretti.

» Camicie, numero 520, due per ciascuno; e calzoni paja 520, due per ciascuno; che sono quattro pezzi di biancheria per uomo. Ve ne va canne cinque. Filo per cucire camicie e calzoni, vagliono [211] circa giulî quindici Sc. Rom. 390. —

» Berretti, numero 260 a bajocchi dieci 26. —

+ 416. —

» Se ne diffalca per venticinque bonavoglia, cui si danno a conto loro -    40. —

Resta    + 376. —

» Scarpe e calze a trenta schiavi, a giulî dieci per uomo, non mettendo i bonavoglia, perchè vanno a conto loro 30. —

» Schiavine che si danno alla ciurma per l'inverno, non compresi i bonavoglia, ai quali si danno a conto loro, si calcola numero centodieci, a giulî dodici e mezzo l'una 137.50.

» 9ª lista, c. s. Sc. Rom. 543.50.

» Lista N. 10ª. — Fiamme ed attrezzi di poppa.

» Le fiamme di tela importano circa Sc. Rom. 50. —

» Un quadro di Nostro Signore e della Madonna, e campanello 2. —

» La chiesuola, due bussole, quattro ampollette 4. —

» Candele e torcie per la Salve il sabato a sera — —

» Una tendale di cotonina, e due parasoli; canne cento in circa 32. —

» Due camerette di panno colle porte, canne trentacinque in circa, e fodera di tela turchina 45. —

» L'incerata per coprire la poppa è già nella 3ª lista — —

» Due buffetti di noce 6. —

» Due sedie a braccialetti 5. —

» Quattro sgabelletti di vacchetta 8. —

» Un tappeto che serve a poppa e a schifo 4. —

» 10ª lista, c. s. Sc. Rom. 156. —

IV.

IV. — Dunque, messo tutto a calcolo sottile, il prezzo totale di una galèa remeggiata da forzati tra la fine del cinquecento e il principio del seicento, veniva a novemila ottocento quarantatrè scudi, e giuli quattro, secondo le conclusioni del documento romano. Alle quali cifre si avvicina altresì il documento fiorentino[212], dopo lunghissima analisi, di pagine censessanta, in continuo stento per rifilare ad ogni capo le spese, secondo il desiderio del novello granduca Francesco di Toscana, conchiudendo[213]: «Monterà dunque la somma dè le somme di tutto quello che si è speso nè le cose predette col calculo di Pisa, fiorini 9520, 6, 19, 3. et tanta spesa andrà a fare una galera et a fornirla di ciò che bisogna.» Egli parla di fiorini pisani e fiorentini, eguali a sette delle antiche lire di Firenze da quindici soldi, e a cinque lire moderne circa d'Italia; tanto che presso a poco si pareggiano i detti fiorini coi nostri scudi, e non si arriva nè con quelli, nè con questi, ai diecimila: somma tuttavia che accetto rotonda, volendo largheggiare al possibile, e fuggire miserie e frazioni.

Facciamo ora di pagare diecimila scudi, e ci troveremo innanzi una galèa con tutti i suoi fornimenti, attrezzi, e corredi nuovi nuovi, e nullamente frustati nè dal tempo, nè dalle burrasche, nè dai combattimenti. Caso da non venirci più di una volta sola per sempre, cioè il primo giorno del primo viaggio. Dopo di che, prescindendo pur dalle avarie straordinarie che si valutavano e si valutano secondo i danni, costumavano i marinari dividere il pregio di una galèa in ventiquattro parti uguali, che chiamavano carati, supponendo la durata del bastimento colle sue attenenze per la media di anni ventiquattro. Quindi nel calcolo della stima, tanto diffalcavano ogni anno della sua primitiva valuta, quanti erano i ventiquattresimi e gli anni; pognamo dopo un dodicennio ogni cosa ridotta a metà, e pel doppio a zero. E ciò senza pregiudizio delle spese occorrenti ad ogni stagione per riparare o mantenere il bastimento in buon assetto; spese che non entravano nullamente nei contratti di compra e vendita, ma negli strumenti di condotta, di assento, e simili; dove o coll'imposizione del due per cento sulle merci, o con altri assegni dell'erario pubblico, pel mantenimento del legno, della gente e del capitano si assicuravano altri cinquecento scudi d'oro per ogni mese e per ciascuna galèa. Però dai carati specialmente vedeasi la diligenza e cura degli ufficiali nel custodire e conservare le cose date loro in consegna. Di che saviamente soggiugne il principe di Piombino nel citato documento[214]: «Et questa regola dei carati serve molto sulle galere: perchè facendosi una consegna di una galera o di altre robe ad un capitano, quale ella è hoggi, se gli consegna ciascuna cosa per tanti carati; et poi, quando la rende, si conosce se egli sia stato poco o molto diligente in conservare la sua consegna che hebbe; et quanto ella hoggi che esso la rende sia peggiorata et caduta dal prezzo suo.»

Ciò posto niuna maraviglia che le stesse galèe siano state prima pagate dal Fiesco trentaquattro mila[215]; e dopo tre anni, tenute da quello sciatto, e con una di meno, pagate dall'Orsino diciassettemila cinquecento; e finalmente aggiuntovi il nuovo fusto pagate dallo Sforza ventimila settecento.

Seguendo queste ragioni, secondo il costume romano, non abbiamo messo in conto le artiglierie, perchè i ministri camerali le somministravano senza prezzo ai capitani delle galèe; e insieme con esse gratuitamente davano polvere, palle e miccio. Fia bene per compimento cavarne i prezzi e la nomenclatura dal documento fiorentino, che dice così[216]:

COSTO DELL'ARTIGLIERIE E LORO APPARTENENZE.

» Un cannone di metallo con suo scalone o cassa, et di cantara quarantacinque, et di palla libbre cinquanta, a fiorini dodici di Genova per cantaro, sono Fior. di Pisa 617. —

» Due sagri finiti, di cantara quindici l'uno, con palla di libbre dieci, in Genova al medesimo prezzo 195. —

» Due mezzi sagri, di cantara sei l'uno, con palla di libbre quattro al prezzo detto 164. —

» Otto moschetti di bronzo, detti smerigli, finiti, cioè con sui mascoli doppi, di cantara tre o quattro l'uno, con palla di libbre quattro o quattro e mezzo al prezzo detto 329. —

» Due mortajetti o vero pietrei di bronzo, di cantara sei l'uno, con libbre dodici di palla di pietra al prezzo detto; che dove siano mezzi sagri non si usano 164. —

» Casse di sagri da per sè, et di mezzi sagri a fiorini tre di moneta l'una, o tre e mezzo: a tre 18. —

» Pasteca del cannone, et con essa va una taglia, la quale si dà nel numero delle altre; et là è scritta con esse ( altrove la valuta ) — —

» Cavo o barbetta per detto cannone, con che si tiri a prua ( scritta altrove ) — —

» Lo scalone o cassa del cannone da per sè varrebbe fiorini otto, cioè lire cinquantasei [217] ; nè se ne trae qui prezzo fuori perchè sendo, come è disopra col cannone, ci sarebbe due volte, et il suo carato sarà lire 2. 6. 8. e con li suoi ferramenti sino in fiorini 12 — —

» Palle da cannone di libbre 50, 55, 60 l'una, numero sessanta a soldi due la libbra de' nostri, lire sei ciascuna: in tutto 51. —

» Palle di sagri di libbre 10 l'una in 12 numero 120, al prezzo medesimo 17. —

» Palle di mezzi sagri di libbre 6 l'una numero 200 a detto prezzo 17. —

» Palle di piombo con dadi di ferro per moschetti ( o smerigli ) numero 400 a soldi 2.1.⅕ l'una 6. —

» Palle di pietrei, numero 40, tutte di pietra di libbre dodici l'una a lire 1 l'una 5. 5.

» Polvere d'artiglieria a fiorini cinque il cantaro, la più fina libbre 2000, che a Genova varrà 5 ½ o 6 di loro moneta 100. —

» Polvere d'archibuso fine a fiorini dieci il cento, libbre seicento 60. —

» Polverino per l'archibuso libbre trenta a soldi dieci la libbra 2. 1.

» Corda o fune bollita per il fuoco de' li archibusi et artiglierie libbre cento a soldi cinque, sei, o sette la libbra; secondo sarà: a soldi sei 4. 2.

» Totale Fior. pis. 1750. 1.

» Alle quali partite unite le precedenti di Sc. Rom. 9843.40.

»Avremo in totale Sc. Rom. 11593.55.

Conchiudo alla prova, compiuto il calcolo, e spillato ogni centellino, dunque non arriviamo a dodicimila scudi per ciascuna galèa remeggiata da condannati, ai quali tra noi non si dava prezzo. Dunque ogni due anni calava la valuta di mille, prescindendo pur da ogni altro danno e sciupìo.

V.

V. — L'ultima partita del documento toscano conferma l'uso del secolo decimosesto di allumare non solo le maggiori artiglierie, ma ancora le manesche per mezzo della corda accesa, cui davano il nome di Miccio: e dico forte e marziale, al mascolino, come usavano dire comunemente i cinquecentisti. Nei primi tempi le artiglierie di ogni maniera, grosse, minute e portatili si accendevano colla bacchetta di ferro arroventata in un braciere; l'uncino della quale al bisogno si portava sul focone dell'arma voluta sparare. Appresso veniva il miccio: corda sottile e pastosa di infimo tiglio, poco torta, lissiviata nella cenere, e bollita per quattr'ore nella soluzione di nitro, colla giunta successiva di poco acetato di piombo. La qual corda, accesa che sia da una estremità, continua sempre a bruciare lentamente con fumo azzurrognolo e senza fiamma, fino a tanto che non sia tutta consumata. Nel maneggio delle artigliere incavalcate s'incastrava il capo acceso di questa corda della forcella d'un'asticciuola, chiamata Buttafuoco: il primo servente di destra, al comando dell'ufficiale, brandivalo sul focone del pezzo, e l'arma tonava. Per le armi manesche ciascuno archibugiere portava parecchie braccia di questa corda in pezzi, appesi alla tracolla; e nelle fazioni un capo sempre acceso nella mano sinistra: venuto il momento spianava l'arma, scoprivane il bacinetto, pigliava il miccio colla destra, scuotevane il ceneraccio, e finalmente il colpo partiva. Poi vennero il draghetto e il serpentino: figurette contorte a imagine dei detti animali, che stringevano la corda accesa tra le mascelle, e al tocco del grilletto la portavano sul focone. Con questo il soldato aveva le mani più spicce, e più sicura la punteria. Ma e' doveva star sempre sopra di sè coll'occhio alla guardia del fuoco: e spesso spesso ridare la corda, e più e più ricacciarne dalla bocca del fantoccino, secondo il consumo. Lunga noja di più secoli: al cui compenso forse introdussero i militari nelle capitolazioni la clausola del miccio acceso, come ultima testimonianza di solerzia e disciplina anche nei vinti. I marinari esposti più di ogni altro ai casi repentini di combattimento, e sempre più che altri guardinghi del fuoco, usavano il micciere, per allumare a un tratto due o tre cento micci. Era una specie di bacino metallico, che si teneva sulla palmetta o sulle rembate; concavo a mo' di clibano, e contornato da qualche centinajo di bischeri a forcella messi in più ordini, donde le cime di altrettante corde facevano capo nella scodella centrale. Bastava gittare nel mezzo un pugnetto di polvere e una scintilla per avere a un tratto tutte le cime accese, tanto che ogni soldato e marinaro potesse di presente pigliare in punto la sua. Ho veduto io di questi arnesi vecchi e rugginosi nel Museo dell'arsenale di Venezia. Ora indarno più cerchereste per le fortezze e per le caserme la corda cotta: solamente potreste trovarne sui bastimenti militari, dove i marinari continuano a tenersela sempre accesa, giorno e notte, dentro un barlotto di metallo per comodo di chiunque voglia allumarvi il sigaro, o la pipa.

Niuna cosa giugne improvvisamente alla perfezione. Dalla bacchetta rovente e dalla corda cotta si venne al draghetto, al serpentino, e poi al fucile a ruota: progresso reso necessario dagli inconvenienti dei primi metodi, i quali nella pratica, come si è veduto in Algeri, rendevano qualche volta difficilissimo il maneggio delle armi da fuoco. Gli ingegni si scossero: e dall'attrito sprizzarono le prime scintille sulle artiglierie di terra e di mare. Tutti sapevano cavar faville percotendo insieme la selce e l'acciajo: non restava se non trovare il modo di portare la percossa sicura e spedita vicino al focone dell'arma. Indi l'acciarino a ruota: gentile macchinetta, composta di un cane che stringe tra le mascelle la pietra focaja, e a volontà la porta di taglio sul bacinetto dell'arma: sotto al taglio della pietra una rotella di acciajo a tamburetto girante alquanto eccentrico tra due colonnini con dentrovi una striscia di molla avvolta sull'asse; molla simile alle consuete degli orologi. Caricata la detta molla con una chiavetta, e frenata a segno con un dente, si faceva poscia scattare al tocco del grilletto; e girando rapidissima la rotella sul taglio della pietra, cacciava sprazzi di scintille sul bacinetto e colpi di fuoco dagli archibusi. Le armi fornite di questo arnese chiamavansi a ruota. Dicevansi pure a fuoco morto; perchè non ardeva sempre, nè si consumava come il miccio: e nondimeno era fuoco sempre pronto al bisogno sotto al braccio di chi voleva usarne. Gran passo di vantaggio: ma pur sempre gran difetto il lungo frullio rotatorio, l'incertezza del momento efficace, e quindi la perplessità nella mira. L'origine di questa invenzione si ha a cercare tra la fine del quattrocento e il principio del cinquecento, segnata dallo spavento dei principi e dei popoli per l'abuso dei traditori nelle private vendette. Alfonso da Este, duca di Ferrara con un bando del diciassette febbrajo 1522, richiamando più altri bandi e gride anteriori, proibiva sotto pene gravissime l'avere e il portare gli archibugetti a ruota[218]: ed io stesso nelle prime pagine di questo libro ho accennata l'uccisione di un cavaliero spagnolo, l'anno 1547, per mezzo dell'archibugio a ruota; donde il tumulto, e la massima indignazione in Malta contro la terribilità dell'arma usata dall'omicida[219].

L'invenzione in principio restava limitata agli usi e agli abusi delle private persone, non essendo stata adottata nè dai soldati, ne da' marinari. Ciò si fa manifesto della spedizione di Algeri del 1541: dove essendo insieme il fiore delle milizie di Europa, specialmente Tedeschi, Spagnuoli e Italiani, e tra loro l'istesso imperatore Carlo V, non si potevano adoperare le armi da fuoco, perchè tutti i micci erano spenti dalla pioggia[220]. Nondimeno due anni dopo, Piero Strozzi fiorentino, che poi fu maresciallo di Francia, armava lo squadrone della sua cavalleria italiana d'archibugetti a ruota[221]; coi quali ajutava la vittoria di Ceresole addì 14 aprile 1544. Tre anni dopo nelle guerre d'Ungheria contro Solimano, dove erano milizie di tutto l'Oriente, i soli cavalieri tedeschi avevano cominciato a portare attaccato all'arcione l'archibugetto a ruota. I Turchi, dice il Giovio[222]: «Osservarono la capitolazione, e niuna cosa fu tolta ai cavalieri tedeschi di loro privata proprietà, tranne gli archibugetti che in forma nuova portavano appesi alla sella. Queste armi smaniosamente i Turchi volevano per sè, maravigliandosi della novità e del sottile artifizio, pel quale a talento, senza bisogno di miccio, per mezzo di piccola rotella girante attorno alla pietra focaja, di presente si accendevano e sparavano.»

Queste cose dovevo io dire con più ragione del Giovio, per chiarire la mia storia tecnica rispetto all'armi ed alla amministrazione: massime in quella parte che per la sua vetustà è oramai entrata nel dominio della storia, e che intanto si svolge intorno alle persone, ai fatti e ai tempi, dove col racconto ci troviamo. Altrove si avrà a parlare delle invenzioni seguenti, specialmente del fucile a martellina, durato infino alla nostra fanciullezza; e poi delle chimiche preparazioni fulminanti, messe nei cappellozzi, nei cannellini, o nelle cartuccie, per accendersi col percussore, colla stratta, o coll'ago.

VI.

[Aprile 1549.]

VI. — Intanto il capitan Carlo Sforza, che tra le nevi e i ghiacci ha passato l'invernata al pari di noi, rivedendo armi e artiglierie, cifre, carati e corredi delle nuove e delle vecchie galèe, ci richiama con un tiro di cannone alla partenza sua e della squadra sui primi di aprile. Egli non solo prode, ma savio e di bell'indole, piglia a sbrattare i mari circostanti dalla schiuma dei ladroni, e a favorire i naviganti, il commercio e l'abbondanza nella capitale e nelle province. Dove vedendo che i pirati non si sarebbero ormai più arditi nella stagione corrente rivolgere la prua, pensò di fare una corsa in Levante, come era già solito; e così farsi rivedere in Malta, e riconciliarsi coi nemici, da cavaliere cristiano. Di più voleva mostrare che nè esso nè altri in Roma avevano prestato ascolto alle voci sparse contro del Grammaestro, imputato da alcuni di occasione o consenso alle violenze commesse contro di lui.

[21 maggio 1549.]

Se ne andò pertanto in Sicilia, e passando da Siracusa si congiunse fortuitamente col balì Giorgio Adorno suo grande amico, e insieme la mattina del ventuno di maggio entrarono nel porto maggiore di Malta, salutando con tutta l'artiglieria la città, il castello Santangelo, e le galèe gerosolimitane quivi presso ormeggiate. Poi recatosi in palagio, baciò le mani al Grammaestro, e si rappaciò in convento con tutti i religiosi, procurando altresì il perdono a quei cavalieri che per cagione della rissa, erano tuttavia sostenuti nelle carceri. E tanto graziosamente uscì d'impegno, che indi in poi coll'affetto e colla stima de' virtuosi confratelli superò l'odio e l'invidia de' pentiti avversarî.

[Giugno e ottobre 1549.]

Pochi giorni appresso prese a bordo alcuni piloti greci di pratica per la navigazione dell'Arcipelago, e sciolse le vele verso Levante a danno de' Turchi; durando in crociera per quei mari tutta l'estate e parte dell'autunno. Se volete sapere di sue prodezze, di gente riscattata, di pirati sottomessi, di combattimenti sostenuti, di vittorie conseguite, di prede riportate, chiedetene agli scrittori domestici, ai municipali, agli archivisti, agli enciclopedici, in somma a quelli che pretendono saper tutto, aver detto tutto, ed essere i primi in tutto: interrogate costoro. E dove essi non sappiano dirvi nulla, proprio nulla, permettete a me, ultimo di tutti, il cavar fuori da estraneo scrittore, che per la natura dell'argomento suo non doveva dir di più, le seguenti parole[223]: «Carlo Sforza giunse in Malta il 21 di maggio 1549; quindi colle galere del Papa navigò in Levante a danno degli infedeli, riportandone poi a Civitavecchia assai ricca et honorata preda.»

Chiunque conosce lo stile cavalleresco del commendator Giacopo Bosio, per la solennità delle brevi e concettose parole intorno a fatti alieni dall'argomento suo, può di leggieri comprendere l'onoratezza delle fazioni, combattute contro forze uguali o superiori; e comprendere la ricchezza degli acquisti di navigli, artiglierie, prigionieri, riscatti, e simili per numero e qualità di gran pregio. Però i Civitavecchiesi dell'armamento, rimunerati largamente da Carlo, si affezionarono a lui e alla sua casa, come non guari dopo a chiare prove gli dimostrarono; ed i Romani altresì per lui ripresero il costume di farsi servire dagli schiavi. Tanti ne condusse in Roma, che n'ebbe chi ne volle: essendosi concessa piena licenza di poterli comprare, ritenere e vendere, non ostante qualunque divieto precedente. Fin dal principio di quest'anno, quando Carlo si apparecchiava a pigliarne, uscì il seguente[224]:

«Bando sopra al tenere de li schiavi et schiave in Roma. — » Avendo la Santità di N. S., signor Paulo per la divina provvidenza papa terzo, per sua benignità et clementia, per pubblico utile et bene de tutte et singule persone habitante et esistente in quest'alma città di Roma, concesso che si possano tenere schiavi et schiave che si comperaranno per lo avenire, come per un motuproprio, diretto alli magnifici signori Conservatori et Popolo romano, per Sua Santità fatto, appare.

»Per tanto per parte et commissione de prefati signori Conservatori se notifica et fassi intendere a tutte et singole persone in detta città habitante et esistente qualmente quelli che haveranno c o prato o compraranno schiavi et schiave, dopo la data del ditto motuproprio, dato sotto il dì ottavo di novembre del xlviii prossimo passato, et sia lecito tenere detti schiavi et schiave, senza essere impediti da persona alcuna; non ostante qualunque concessione fosse fatta o da farsi, alla quale espressamente per il ditto motuproprio se derogano, et per il presente bandimento se intendano derogate et annullate.

»Dat. in palatio praefatorum Dominorum Conservatorum. Die XII januarii MDXLIX.

»De Mandato. — Lucas Mutianus, C. Conservat. scriptor.

»Io Pietro Santo ha fatto lo soprascritto bando per Roma alli XIIII di Gennaro.»

Più volte nei miei libri mi è venuto detto di questa materia[225]: ma un discorso speciale intorno agli schiavi turchi, ed al loro trattamento nello Stato romano, massime nel porto di Civitavecchia, dove sino alla fine del secolo passato duravano numerosi nei pubblici e nei privati servigi, devo rimettere a quel tempo, al quale si riferiscono i documenti che ho raccolto in buon dato.

VII.

[7 febbrajo 1550.]

VII. — La notte seguente al dì sette di febbrajo, compiuta l'elezione, Giulio III successe a Paolo III già mancato ai vivi nel precedente anno ai dieci di novembre: quindi molte novità di cariche e di ufficî nella corte e nelle province. Soltanto alla marina ogni cosa restò nello stato di prima, rifermata la condotta di Carlo Sforza; perchè egli, tanto esperto e chiaro, continuasse a difendere la Spiaggia romana, e desse sicurtà di navigazione ai pellegrini pel giubilèo intermedio del secolo, che quanto prima il nuovo Pontefice voleva felicemente aprire. Bisognavagli però guardare il mare; il cui dominio, almeno per metà, era in mano ai pirati della terza quadriglia, allievi ed eredi della seconda. A costoro ritorna sempre, anche a non volere, il discorso che ora son costretto riassumere. Cadde il Moro nel trentaquattro sotto i colpi dei Veneziani nelle acque di Candia[226]: Cacciadiavoli crepò nel trentacinque alla cisterna di Tunisi[227]: il Giudèo sdilinquì a Suez l'anno quarantaquattro tra le braccia del figlio[228]: Barbarossa il tre di luglio del 1546 da Costantinopoli scese sotterra intorno al Bosforo presso Terapia, dove tra le piante parasite ancora durano gli avanzi e la cupola della sua tomba[229]. Appresso cresceranno appajati Scirocco pascià di Egitto, e Luccialì re d'Algeri, ambedue pirati e comandanti principali a Lepanto dell'ala destra e della sinistra nell'armata di Selim[230]: ed ora s'imbrancano tra i novelli sovrani di Barberia gli altri due famosi Morat e Dragut. Il primo per sua conquista e per l'investitura di Solimano s'intitola re di Tagiora, l'antica Thagura di Vittore Uticense e dell'Itinerario di Antonino[231], a mezza via tra Tunisi e Tripoli; e di là corre schiumando il mare, specialmente ai danni dei Cavalieri gerosolimitani[232]. L'altro, non contento al principato delle Gerbe, volendo crescere nella stima dei Turchi e nella grazia dell'Imperatore, con inganni e per sorpresa si è impadronito della grande e forte città di Afrodisio, da qualche tempo governatasi a popolo[233]. Venuto in tal guisa più vicino alla Sicilia e al Tirreno, e posta in Afrodisio[234] la sua principale residenza, gli arsenali e i magazzini, da quel covo scioglieva per dar la caccia alle galere di Malta, e pigliavane una ricchissima con tutto il carico di danaro raccolto dalle corrisposte del comun tesoro in Francia[235]. Un'altra ne toglieva al visconte Giulio Cicala, sopra capo Passaro; sbarcava al Gozo, ardeva Rapallo, disertava la Liguria, la Corsica, le Baleari, la Catalogna, traendo roba e danari da ogni parte[236]. Più monta la schiavitù d'infiniti Cristiani, ai quali talvolta per violenza faceva pur rinnegare la fede[237].

Non parlo delle riviere di Calabria e di Sicilia, perchè Dragut non aveva più nulla a fare in quei luoghi. Dalle piazze forti in fuori era tutto un deserto. I popoli littorani fuggivano a turme. Quando le dolci aure della primavera mettevano il mare a tranquillità, essi abbandonavano le odorose convalli della marina, e riduceansi sui gioghi delle aspre montagne; donde più non discendevano se non colle sonanti tempeste dell'orrido verno, mescolando coi muggiti del mare i loro lamenti, nella speranza che alcuno avesse finalmente a francarli dalla obbrobriosa oppressione[238].

Carlo d'Austria aveva firmato da poco tempo con Solimano una tregua: non voleva nè doveva romperla. Ma saviamente distinguendo le obbligazioni sue verso un sovrano di fatto, non giudicò doverci comprendere i ladroni ricalcitranti contro qualunque trattato; i quali rubando a tutti, sempre a un modo, così dopo, come prima della tregua, da sè stessi poneansi fuori della legge. Il perchè costretto di soddisfare al pubblico desiderio, ordinò al principe Doria di mettersi sulle tracce del ribaldo, e fare ogni prova per cacciarlo almeno dal covo appostato a ruina della società.

VIII.

[Aprile 1550.]

VIII. — Per questo l'Imperatore richiese al duca di Firenze l'ajuto delle sue galere, e con maggiore istanza ne scrisse al nuovo Pontefice, sapendosi da tutti la perfezione, alla quale coi viaggi e colle esperienze degli anni precedenti aveva condotto Carlo Sforza il suo armamento[239]. Il nome dell'egregio cavaliero gerosolimitano, capitano generale delle galèe romane, scusava ogni elogio[240]: e gli crescevano riputazione attorno i suoi compagni d'arme, Filippo Orsini da Vicovaro, Francesco de' Nobili da Lucca, e Antonio Fani da Bologna capitani delle tre galèe; e i giovani ufficiali di Civitavecchia Francesco Andreotti[241], Filippo Filippetti[242], e Trajano Biancardi[243]; che poi divennero capitani di chiara fama, specialmente il secondo nominato sovente nei documenti Colonnesi a Lepanto, e il terzo che nello scorcio del secolo salì al grado di colonnello. A questi poscia si aggiunse fiorita schiera di giovani perugini, tra i quali ricordo Ruggiero e Grifone degli Oddi, Luca Signorelli, Lodovico Monaldi, il cavalier Ranieri, Camillo Perinelli, Livio Parisani, ed altri molti, sotto la condotta di quel prode rampollo di valorosa famiglia che era Astorre Baglioni, eletto comandante delle fanterie da sbarco; il cui valore aveva a sostenere degnamente in Africa la riputazione della scuola braccesca, ed a crescere poscia sublime nella difesa di Famagosta in Cipro[244].

Il principe Doria, partitosi dalla Spezia con venti galèe, passò di Livorno per congiungersi colle tre dei Fiorentini, che erano a carico di Giordano Orsini di Roma e di Chiappin Vitelli di Castello. Notissimo il Vitelli nelle storie toscane per tutto il regno di Cosimo, e ne avremo a parlare più volte pei tempi seguenti. L'Orsino del ramo di Monterotondo, ancor giovane di venticinque anni, allievo di Gentil Virginio, e della marineria romana, dopo il generalato della fiorentina, militò coi Francesi alla Mirandola e a Siena, tenne per loro la Corsica, e finalmente acconciatosi coi Veneziani, morissi governatore di Brescia, lasciando ai posteri onorevoli memorie del suo valore e del suo ingegno[245]. Con questi signori il Doria se ne venne nel porto di Civitavecchia per unirsi allo Sforza. Felice presagio di lieti successi contro Dragut, come già la venturosa riunione quivi medesimo contro Barbarossa. Ma non avranno questa volta le fazioni dell'armata a procedere tanto spedite e concordi, come quando presedeva in persona l'Imperatore; anzi le vedremo arruffate pel capo di tre maestose figure, non troppo simili tra loro, che sono don Giovanni di Vega, vicerè di Sicilia, e generale dell'impresa; Andrea Doria, principe di Melfi, e generale dell'armata; e don Garzia di Toledo, figlio del vicerè don Pietro, cognato del duca Cosimo, e generale delle fanterie di sbarco. Nojosissimo quest'ultimo a sè stesso ed agli altri: pensava in gran sussiego tanto più rendersi orrevole, quanto meglio potesse senza suo carico mortificare gli ausiliari. Però cattiva cera all'Orsino di Firenze[246]: ed allo Sforza di Roma tale un tratto di perfidia, da disgradare quasi direi il feroce tumulto degli arrabbiati nemici in Malta contro di lui.

[6 maggio 1550.]

L'armata navale dei collegati, alli sei di maggio sull'ora di vespro, entrata nel golfo di Napoli, metteasi a remo in bella ordinanza. Il Doria nel mezzo, a destra lo Sforza coi Romani, a sinistra l'Orsino coi Fiorentini, e di qua e di là gli altri legni. Ecco intanto don Garzia di Toledo uscir fuori del porto tre miglia colle galèe del Regno incontro ai vegnenti. I quali, avendolo oramai vicino, allargano le righe per aprirgli il passo, e spalano i remi per fargli onore. Egli al contrario colla sua capitana, preso l'abrivo, come se volesse girarsi alla destra tra la reale del Principe e la capitana del Papa, svolge una gran curva, e prolungandosi a un tratto addosso allo Sforza, gli fracassa tutti i remi di banda sinistra[247]. Minor vituperio sarebbe se il Cane de' Tartari in carrozza andasse a rompere le gambe d'uno squadrone di cavalleria che stesse a salutarlo in parata. Atroce ingiuria! Ma non chiedetene altra riparazione: anzi rendetevi persuasi che è stata una piccola disgrazia. Così sono rimeritate dai superbi le cortesie e i servigi!

Dunque pazienza, e non si faccia zitto, nè per parte del capitano di Roma, nè dello storico. Il lettore sapiente pensi ad altro, e ciascuno di noi ringrazi la sorte e l'educazione del nostro paese, che ci aprono innocenti e nobili distrazioni coi classici. Qui si fa luogo a postillare la celebre frase marinaresca di Livio e di Cesare: Detergere remos[248]. Intorno al che non pochi si smarriscono per manco di vigoria, non bastando loro la lena di levarsi dal senso proprio al metaforico, quando il contesto lo richiede, secondo la speciale esigenza del subbietto. La citata frase marinaresca, nel senso dei classici, non indica, nè può esprimere l'atto proprio del forbire o dello asciugare i remi: funzioni che non voglionsi attendere dai nemici nel combattimento. Ma quel Tergere ironico ti mena a paragonare il palamento dell'avversario all'imbratto, ed a conchiudere ricisamente di scoparlo via; come di tante altre cose analoghe eziandio nel volgar nostro diciamo. Pertanto Livio e Cesare scrivevano sulle carte il fraseggio poetico dei marinari: i quali di vivace ironia condivano gli stenti della caccia contro il remeggio dell'avversario. E se riuscivano a levargli la forza motrice, a tarpargli le penne, ed a lasciarlo deriso e immobile, diceanlo terso e ridotto al pulito. Bastava a ciò una passata di contrabbordo rapida e vicina: perchè essendo la parte esterna o pala dei remi tanto lunga e sottile, quanto altrove ho ragguagliato; e il braccio interiore o girone più corto, grosso, fermo allo scalmo, e tenuto dai rematori, con piccolo sforzo alla punta le pale andavano in pezzi, come cadrebbe l'erba sotto al colpo della falce, o il pelo sotto alla menata del rasojo: di che ben si direbbe altresì pulita la guancia, e sbrattata l'ajuola.

Non sempre gli antichi bastimenti di guerra schermian di rostro: ma talvolta correvano al palamento, come oggidì si accenna all'elica o alle ruote del nemico per togliergli la forza motrice, per batterlo dalla parte più debole, e per ghermirlo. Similmente i difensori, a divertire il danno, faceano di tener sempre la prua sull'offensore, e coprivano i fianchi, o almeno acconigliavano e nascondevano i remi; che altrimenti non potevano per la loro fragilità non essere spezzati. Infino ai modellini di questi legni (se attendete) quasi sempre fallirà qualche remo scavezzo o franto. Nella cui previsione i maestri hanno usato mettere in forma gentile i remetti di due pezzi, uniti al cartoccio di sottil bandone, perchè all'occorrenza vi si possa alla pala magagnata sostituire la sana, senza il fastidio del rifare tutto il remo di nuovo. E per la stessa ragione amici e nemici, come ora portano fucine e macchinisti per racconciare elici e ruote, tubi e caldaje; così al tempo dei nostri maggiori portavano faggi di rispetto e maestranze speciali per rimettere in buon assetto il palamento. Ogni galèa infino agli ultimi tempi, oltre al calafato e al mastro d'ascia, imbarcava due maestri per lavorare di nuovo o di vecchio sui remi; e si trovano chiamati nei documenti (quantunque le voci manchino nei vocabolari) il maestro Remolaro, e il fante Remolarotto[249].

IX.

[20 maggio 1550.]

IX. — Per opera delle maestranze Carlo Sforza prestamente si rifornì di palamento: e deposto quel po' di broncio, che a un uomo d'onore era impossibile celare nel primo giorno, fece legge a sè stesso di non pensare ad altri nemici che a' Musulmani, e di non vendicare altre offese che le patite dal cristianesimo. Però stette come prima al suo posto, e seguì l'armata contro Dragut in Africa, dove si voleva abbattere a un tratto la pirateria, se venisse mai fatto di cogliere lui, e i suoi navigli, e i seguaci nella nuova residenza. Ma costoro, ammaestrati per le lezioni di Barbarossa, eransi celatamente sottratti con quaranta bastimenti; e già da lungi scorrevano le acque della Sardegna e di Spagna, quando l'armata cristiana addì venti di maggio presentavasi innanzi alla piazza di Afrodisio.

I maggiori capitani andarono a riconoscerla dalla parte del mare, ronzando a piccola distanza dall'una e dall'altra parte intorno alla penisola; e dopo alcuni colpi di cannone ricambiati, con qualche morto e ferito di soldati e di ciurma, si allargarono per consultarsi tra loro. Pareva difficile l'espugnazione, bisognandovi grosse artiglierie da breccia, e fanterie numerose da campo, più che non erano sull'armata. Perciò volendo anche lasciare aperta a Dragut la via del ritorno in quelle parti, dove lo aspettavano; e insieme pensando di chiamare da Napoli, da Palermo, e dalla Goletta maggior nervo d'armi e di armati, deliberarono per suggerimento del Baglioni e dello Sforza di occupare un castello tenuto dalle genti di Dragut poco più di venti miglia lontano inverso maestro, e luogo opportuno a fermare l'uno dei capi della rete che gli si voleva tendere[250]. Questo castello, chiamato Monastero, comparisce da lungi ai naviganti proprio sulla punta sporgente che chiude la baja di Susa dal lato meridionale: un isolotto gli sta presso da tramontana, e le Conigliere per dodici miglia da levante. Alcuni mettono in quel punto l'antica colonia romana di Adrumeto, i Turchi infino al presente lo chiamano Monastir, e i nostri comunemente suppongono essergli venuto tal nome da una badia di Agostiniani, anteriore all'invasione degli Arabi[251].

Si principiò dall'acquata, sapendo essere presso al castello, dal lato di tramontana, ricche sorgenti di acqua dolce, tanto necessaria al sostentamento della gente[252]. Le galèe (come altrove in alcun luogo ho detto, e qui devo ripetere per non rimandare il lettore di qua e di là; oltre che non sarà male rimettere il discorso a nuovo, secondo il bisogno) le galèe per la qualità della loro costruzione non potevano imbarcare vasi di grande capacità; ma bisognava tenerle al barile. E quantunque i piccoli recipienti industriosamente ripartiti a tre e cinque per banco tra l'armatura del posticcio, senza ingombrare nè la coverta nè le camere, sommassero a due o tre cento in ciascuna galèa; nondimeno alla moltitudine della gente nell'arsura delle continue fatiche non sopperivano di bevanda che per quindici o venti giorni. Dopo i quali bisognava di necessità accostarsi a terra, e attignere a ogni modo da qualche fontana o ruscello, e di più combattere nel paese nemico, se venivano a impedire. Oltracciò più lungo tempo nei vasi di legno l'acqua non si sarebbe conservata, sapendosi per esperienza il pronto venirvi della medesima a nausea, a corruzione e a vermi: cause di pericolose dissenterie. Singolarissimo beneficio ha recato ai marinari colui che ha proposto le casse di ferro, dove l'acqua si mantiene lungamente freschissima e sana. Oggi tutti i bastimenti, massime i militari, usano vasi di bandone laminato; e mette letizia di refrigerio il vedere sul ponte la tromba per attignere, e la chiavetta della fontana sotto alla mano di tutti. In mezzo alle armate navali, nei grandi porti e nelle rade, senza che niuno si affatichi per acqua, da sè vengono le cisterne galleggianti condotte dalla macchina a vapore, e si mettono sotto il bordo di chi ne vuole, e gittangli la manica conduttrice. Il motore dimena le trombe, e ciascuno empie le sue casse a talento.

X.

[28 maggio 1550.]

X. — Tutti intesi all'acquata, si accostarono per ordine a terra presso il Castello, fuori del tiro delle artiglierie: empirono il barchereccio di ciurme e di barili: e prevedendo ostacoli dai nemici, distaccarono a sostegno degli acquatori alcune compagnie di archibugeri. Presto si scambiarono i primi colpi, crebbe la scaramuccia, venne in terra don Garzia, concorsero in maggior numero i combattenti. In quella Astor Baglioni alla testa dei Romani caricò gagliardamente le fanterie sortite dalla piazza[253], i Musulmani volsero in fuga, i nostri in gran fretta ad inseguirli: in somma vinti e vincitori entrarono mescolatamente nella terra, e il Baglione la prese di soprassalto il ventotto di maggio[254]

[29 maggio 1550.]

Restava la rôcca, dove la maggior parte dei presidiarî eransi raccolti: però fu presa subitamente a battere dalla parte esterna da don Alvaro de Vega, e di dentro tra le case circostanti da don Fernando suo fratello, figliuoli di don Giovanni de Vega vicerè di Sicilia, alla testa delle milizie veterane che il padre loro aveva mandato in Africa: valorosi giovani, osteggiati ambedue dalle crescenti pretensioni di don Garzia. La stessa notte posero in terra alcuni pezzi da breccia: ai quali, mancando il traino, provvidero don Alvaro de Vega e Giordano Orsino con certi carrettoni di contadini, tanto che la mattina seguente messi al posto meglio degli altri servirono. Al tempo stesso si batteva la rôcca dalla parte del mare, giuocando a maraviglia i grossi corsieri delle galèe sugli affusti a scalone, anche colla punteria di rialzo a gran volata. Sotto le percosse delle galèe cadde in isfacelo il mastio: le trombe chiamarono all'assalto, e la bandiera della Croce comparve sulla rôcca. I pirati fatti a pezzi, gli abitatori prigionieri, le mura del castello demolite. Dei nostri dieci morti, ducento feriti, e due galèe perdute: chè l'una del principe di Monaco colò da sè in fondo, crepatone con gran rovina il cannone, o per mancamento di getto o per acciarpìo di carica: e l'altra del marchese di Terranova, malmenata da simile fracasso, dètte in secco[255]. Intorno a questi fatti più importanti della marineria oltre le testimonianze italiane aggiungo le spagnuole, tuttochè le edizioni a quattro colonne di mastro Mattia, e di mastro Bartolommeo per difetto di torcolieri e di legatori nell'ordinamento delle pagine e dei numeri, pajano fatte a posta per istancare la pazienza di chicchessia[256].

[Giugno 1550.]

Assicurata la comodità dell'acqua alle sorgenti ormai libere di Monastero, l'armata andò a porsi presso le Conigliere, guardando quel tratto di mare, e facendo qualche corsa infino alla Goletta, che dal tempo della spedizione di Tunisi erasi sempre tenuta con grosso presidio dagli Spagnoli. Risiedeva colà per governatore il mastro di campo don Luigi Perez di Vargas, uomo di molto valore, di gran senno, e di lunga pratica nelle guerre e nei costumi africani. Esso approvò l'impresa di Afrodisio, posto che si facessero venire da Napoli artiglierie e fornimenti da breccia, e maggior nervo di fanti: offerì per sua parte tutti i rinforzi che si potevano cavare dalla Goletta, senza mettere a pericolo la difesa della piazza; e assicurò che, per mezzo del re del Caruano[257], suo amicissimo, non mancherebbe mai a giusto prezzo l'abbondanza delle vittuaglie e dei rinfreschi nel campo. Di che rallegrossi più d'ogni altro don Garzia, nella speranza di mettersi per supremo generale alle imprese di terra: e subito propose di correre in persona a Napoli, promettendo cavare dalla bontà di suo padre ogni fatta rinforzi. Nel vero andò e tornò sollecitamente, menando grosse navi piene di soldati, di artiglierie e di munizioni.

Se non che il Perez della Goletta, prima di separarsi, parlando all'orecchio di Andrea Doria, avealo ammonito e pregatolo di chiamare subito al campo il vicerè di Sicilia don Giovanni de Vega; e di affidare a lui, come a gran mastro di guerra, e secondo le leggi della monarchia, il supremo comando dell'assedio, prevedendo altrimenti non lieti successi. Andrea eziandio di ciò persuaso, e pensando ancora che il Vicerè da sua parte accrescerebbe forza alla spedizione colle armi della Sicilia, gli scrisse, lo richiese, e promisegli di fare una corsa a Trapani per imbarcarlo. In somma alla fine del mese tutti erano in punto, secondo questi concerti, salvo il furore di don Garzia. Il quale, trovato all'improvviso il Vicerè sull'armata, cioè un altro in procinto di occupare quel primo posto di onore e di autorità che esso nell'animo aveva fin allora tenuto per suo, tutto stizzito tirossi da parte, dicendo volersene andare colle sole galèe di Napoli ad inseguire Dragut pel Mediterraneo, senza mettersi in terra ad altri stenti[258].

Si ebbe a durare gran fatica per quietarlo alla meglio: e si potè soltanto ritenerlo colla promessa di formare un triumvirato, dove Andrea, Giovanni e Garzia starebbero alla pari; niente si farebbe senza il beneplacito dei tre, e le leggi andrebbero col nome soltanto dell'Imperatore[259].

[24 giugno 1550.]

Stabilite queste convenzioni, l'armata sciolse da Trapani alli ventiquattro di giugno: cinquantadue galere, ventotto navi, quaranta pezzi di batteria, e quattro mila uomini da sbarco; senza sfornire menomamente le galere, che dovevano sempre tenersi in punto per qualunque fazione, se mai comparisse squadra nemica sul mare o con Dragut o con altri. Davano speranza gli Arabi divenuti nemici dei Turchi, e la postura della piazza, che poteva essere con poca gente assediata dalla parte di terra. Il mare istesso ed i venti secondavano le aspirazioni dei marinari e dei soldati, i quali prestamente in due soli giorni navigando si facevano la mattina delli ventisei innanzi alla piazza voluta espugnare.

XI.

[26 giugno 1550.]

XI. — Eccoci dunque un'altra volta dopo cinque secoli coll'armata cristiana a fronte degli islamiti sotto le mura di Afrodisio: le stesse ragioni ci guidano ora nel mezzo del cinquecento contro Dragut, che già ci guidarono nello scorcio dell'undecimo secolo contro Timino[260]. Sovrani ambedue del medesimo stato, e simili tra loro nelle crudeltà, nelle rapine, nell'infestamento dei mari e dei nostri paesi. Identica la città antica e moderna nel medesimo sito: perciò le conservo l'istesso classico nome, comunemente usato dai contemporanei. Nome più dolce, e non soggetto ai sospirosi squarci gutturali nè agli equivoci grossieri, come gli equivalenti arabi e medievali di Mêhdiah e di Africa[261]. Ricordate una rupe circondata dal pelago per ogni parte, meno che dove una lingua di angusto passaggio sporge sull'altipiano dalla terraferma alla città? Mettetela coll'asse maggiore di due chilometri dentro il mare da Ponentelibeccio a Grecolevante, datele un mezzo chilometro di larghezza, coronate il ciglione di torri, e avrete il prospetto della capitale di Timino e di Dragutte, come tuttavia si mantiene colle antiche sue cupole, co' suoi minaretti, e colle altre bizzarrie dell'architettura moresca, conforme agli avanzi tuttavia conservati in Sicilia, nelle Spagne, e più che altrove in Egitto.

Volendo ora rendere chiaro il racconto, mi bisogna dire con precisione lo stato militare della piazza; perchè i fatti dell'attacco sono intimamente connessi coi dati della difesa, ed ambedue colle opere della fortificazione. Gran disdetta, per chi scrive dopo tre secoli, il silenzio e talvolta la confusione dei primi scrittori, i quali o per oscitanza, o per difetto di cognizioni tecniche, non si spiegano a dovere intorno alle condizioni principali di questo genere. Essi mi hanno tenuto più giorni perplesso, e quasi direi sfiduciato di poter spiegare prima a me stesso e poscia agli altri l'andamento dell'assedio. Se dovessi metterci io una cinta di mio genio, avrei pronto il disegno, acconcio alla qualità del sito: chiudere l'istmo, dove è più angusto per trecento metri; mettere due baluardi reali simmetrici e casamattati alle estremità; cinquanta metri alle facce, venticinque ai fianchi, dugento alla cortina; tre cavalieri a scoprire la campagna; fosso, opere esteriori, e batterie per tutta la fronte e di rovescio sulle due ripe del mare. In somma vorrei ripetere per Afrodisio il lavoro fatto per Nepi dal Sangallo: il quale in questo modo ha fortificato l'angusta fronte, donde soltanto si può avere l'accesso alla città, per essere ogni altro lato sopra dorso di rupe isolata tra precipitosi abbissi[262]. Ma nel fatto di Afrodisio non troviamci così: e checchè ne dicano i cinquecentisti di baluardi, di bastioni, di rivellini e di fianchi, non eravi nulla della nuova maniera. I fatti dell'assedio escludono la stretta interpretazione delle parole: e certamente la grandezza della spesa deve aver ritenuto Dragut a contentarsi delle antiche mura in quel luogo, come ritenne i cavalieri di Malta in Tripoli al vecchio sistema[263]. Dopo il conquisto soltanto vedremo i disegni nuovi degli ingegneri per ridurla alla moderna.

Dunque non abbiamo ora a cercare novità di architettura militare, ma soltanto la durata delle antiche difese. Sulla fronte di verso terra da un mare all'altro per lo spazio di sopra a trecento metri una muraglia alta grossa e soda, difesa da sette torri: quattro di pianta rettangolare, due rotonde, ed una di mezzo chiamata il Rivellino. Vuolsi intendere un torrione più grosso, più sporgente, coll'angolo rivolto alla campagna, di faccie e fianchi ugualmente grandi, e di pianta pentagonale[264]. Niuno pigli maraviglia di antica torre pentagona col sagliente alla campagna: poco comune invero, ma non ignota del tutto. Bastami citare in conferma la torre del mastio in Astura, più antica dei Frangipani[265]; le cinque o sei torri egualmente pentagone del tempo di Federigo II alle mura di Viterbo[266]; le due fiancheggianti la porta di Silivria presso Costantinopoli, certamente anteriori a Maometto II; e le tre di Lucera del tempo degli Svevi[267]; senza mettere a conto le molte di Nola, perchè fabricate alla fine del quattrocento, che è epoca pel nostro proposito troppo recente[268]. Continuandomi intorno ad Afrodisio, trovo la grossezza dei muri infino a quindici piedi, equivalenti nella sezione a cinque metri per tutto il ricinto principale; e innanzi al medesimo trovo una seconda cinta di muro esteriore in figura di barbacane, grosso per metà del primo; e tra i due muri il fosso largo e profondo[269]. Sistema da essere ricordato, perchè serve come di preludio ai pensamenti del Machiavello sull'arte della guerra. Una sola porta verso terra, aggirata a più risvolte di androni ciechi tra ponti e trabocchetti, da non potersi passare senza i brividi[270]: e per tutte le altre parti la città difendevasi da sè, stante la sua posizione inaccessibile di precipizî tra il mare e i dirupi, aggiuntovi pure al sommo un giro di muraglione turrito. Restami a dire del porto nascosto in una insenata tra due rupi pel rombo di scirocco sulla linea centrale della città: porto capace di contenere i suoi trenta o quaranta bastimenti da corso a stazione sicura, e ben munita di torri e catene[271]. Arrogi il parco di numerosa e bellissima artiglieria: cannoni di grosso calibro, e colubrine di lunga passata per ogni parte.

Al governo della piazza presiedeva Assan-rays nipote di Dragut, giovane di gran coraggio; e con lui milletrecento veterani tra soldati e marinari, più altri quattrocento venuti di Alessandria in soccorso con due navi, proprio di quei giorni che l'armata nostra (espugnato Monasterio) erasi gittata a Trapani per levarne il Vicerè e le munizioni già dette. Presidio sufficiente alle sortite, e sovrabbondante alle difese: poteano metterne mille alla campagna, e sulla linea di attacco otto per metro.

XII.

[28 giugno 1550.]

XII. — Due giorni stette sulle àncore l'armata cristiana per dare ai soldati il consueto riposo prima di esporli alle fazioni di terra, dopo il travaglio della mareggiata: e intanto consigli di Triumviri, e apparecchi di equipaggi. Tutti vedevano la facilità di bloccare la piazza dalla parte del mare con sì gran numero di bastimenti che stavanle intorno; ed anche capivano la facilità di bloccarla da terra, tanto solo che chiudessero le angustie dell'istmo. Alle spalle gli abitatori dei monti e delle campagne vicine, Arabi, Mori, Beduini, amici del re di Tunisi, amici del Caruano, amici del Perez eransi apertamente dichiarati contro Dragut, contro i Turchi, contro i Pirati. Dunque sicurezza di stazione e di vittuaglia al campo, e bevanda vicina in gran copia di acque dolci da molte fontane. Non restava altra difficoltà che l'espugnazione di viva forza sopra una sola fronte di attacco, chiusa da due fortissime muraglie col fosso in mezzo; e difesa da numeroso presidio concentrato in un punto solo.

Ciò non pertanto, confidando più nei proprî che negli altrui vantaggi, gittavansi risoluti a compiere prestamente il disegno. La mattina del ventotto alla guardia della diana erano all'ordine cencinquanta palischermi, e trenta barconi: questi carichi di ventiquattro pezzi da batteria colle munizioni e coi carri necessarî, quelli abbarbati alle scalette dei maggiori navigli pigliavano ciascuno venticinque soldati in arme[272]. Le tende, le riserve, le provvigioni pronte in coverta per la seconda passata. Si issano le bandiere, squillano le trombe, e il barchereccio in due stuoli corre inverso il lido africano, dove senza contrasto piglia terra sopra due senetti arenosi. Un'ora dopo potevi vedere correre squadronati in ordinanza quattromila cinquecento soldati: la vanguardia con don Garzia occupare la montagnetta rimpetto all'istmo, e gli altri colle artiglierie nel centro, girando fuori del tiro attorno alla piazza, seguirli e sostenerli nella medesima direzione. Potevi vedere i palischermi tornarsene spediti ai navigli, e apparecchiarsi al secondo e al terzo ritorno, perchè nulla avesse a mancare nel campo.

Intanto che ferveva l'opera dei marinari e dei soldati, un uomo di genio, architetto e matematico, condotto di Sicilia dal vicerè Giovanni de Vega, squadrava il terreno: metteva il quartier generale sopra un'altura solitaria in fondo alla gola dell'istmo, cinquecento metri dalla città; disegnava una grande traversa con fianchi e bastioni regolari da contravvallare la piazza, e a tergo un argine ugualmente bastionato per circonvallare il campo e assicurarne le spalle in ogni evento. Tra le due linee i quartieri, le poste dell'artiglieria, i magazzini delle munizioni e delle vettuaglie, e gli sbocchi disegnati sul posto per andare avanti cogli approcci e colle batterie.

Questo egregio uomo, come tutti gli ingegneri militari del suo tempo negli eserciti di ogni nazione, era italiano, nativo di Bergamo, allievo del Martinengo, e di nome Lodovico Ferramolino[273]; quantunque alcuni con isconcio di lingua e di giustizia lo chiamino Hernan Molin[274]. Parlerò appresso di altri due ingegneri fatti venir di Sicilia: e non lascerò di rilevarne le opere principali nell'assedio, tanto per la loro importanza, quanto per la finale risoluzione, che darà la vittoria ai marinari ed alla loro macchina, degna di speciale ricordo. Intanto ciascuno può ripensare da sè il lavoro delle trincere, l'intreccio dei gabbioni, l'ammasso dei terrapieni, lo stabilimento delle piatteforme, le risvolte degli approcci, e tutto quel resto di opere che si usano comunemente in ogni assedio[275].

XIII.

[1 luglio 1550.]

XIII. — Ventisei bocche, tutte di grosso calibro, aprirono il fuoco la mattina del primo giorno del mese di luglio, alla distanza media di quattrocento passi, che a parer mio possono essere altrettanti metri, valutandoli alla pari, secondo il discorso di quel tempo: e ciò senza altre ripetizioni valga per ogni simile ragguaglio in questo libro. Tre pezzi rinforzati alla montagnetta, dieci cannoni grossi e due colubrine sulla fronte del campo, otto cannoni ordinarî alla destra, e tre mortaj da bombe alla sinistra, tonavano insieme[276]. I capitani, intenti a notare le percosse di ogni palla ed a cercarne gli effetti sui muri, presto ebbero a persuadersi della difficoltà di abbatterli: antiche costruzioni, massicce e durissime, che non volevano lasciarsi andar giù: e dove pur qualcosa intronavasi era peggio; perchè i rovinacci e le macerie della prima muraglia pigliando i colpi, riparavano la seconda. Arrogi la diligenza e la prontezza dei difensori nel contrabbattere, nel riparare, ed anche nell'assalire con gagliarde sortite le nostre trincere, e potrai intendere con quanta fatica e mortalità passarono i primi dieci giorni della batteria.

[11 luglio 1550.]

Dopo i quali parve al Ferramolino di poter arrischiare l'assalto: o per impadronirsi del rivellino, o almeno per veder meglio da presso a qual termine fosse ridotta la piazza, e come più giusto si avesse a indirizzare il fuoco e l'attacco nel proseguimento. I capitani si accordarono del modo e del tempo: e la notte seguente al dieci sopra l'undici di luglio lanciarono tre compagnie scelte verso quella parte della prima cinta che sembrava più praticabile, coll'ordine di scavalcare il muro, e per la via di dentro occupare il rivellino, e stabilirvisi. Salirono ardimentosi sulla contragguardia, vi piantarono sette bandiere, trovarono innanzi profondissimo fosso, e di rimpetto la seconda muraglia intatta. Però quando volevano irrompere nella punta del gran rivellino, trovarono i Turchi svegliati e pronti a mietere le teste. I sette alfieri delle bandiere, venti cavalieri di Malta, e sessanta soldati a pezzi: gli altri quatti quatti si ritirarono, portandosi appresso in gran numero i feriti[277].

L'infelice successo di quella notte crebbe le difficoltà e le discordie nel campo: chi voleva levarsi di là, chi mettersi ad altra impresa, chi compier l'opera incominciata continuando la batteria di fronte, e chi la dava per finita battendo di fianco alla marina[278]. Tutti chiedevano munizioni di guerra, polvere e palle: chè, dopo dieci giorni di continuo trarre, cominciava a mancare ogni cosa. Passava il tempo, crescevano attorno le dicerìe, e molti oppressi dallo stento e dal calore di clima disusato languivano. Oltre ai feriti, che ogni giorno crescevano, moltiplicavansi, come sempre in simili casi avviene, le comuni infermità, le dissenterie, le congestioni e le febbri maligne. Vorrei io qui far contenti i medici che leggono: e appresso ad Omero sarebbemi ventura citare i nomi dei Podalirî e dei Macaoni del tempo seguente. Ma le istorie tacciono, ed io non trovo altro nome più antico del dottor Niccolò Ghiberti, medico delle galèe di Nostro Signore, cui sulla fine del cinquecento il Crescentio con molte lodi deputava a lettore amico della celebre sua Nautica[279]. In ogni tempo i medici e i chirurgi hanno seguìto, o volontarî o condotti, gli eserciti di terra e le armate di mare: le storie e i documenti ne parlano solo per le generali. Più spesso in vece ritornano sopra quei praticanti la bassa chirurgia, cui davano il nome di Barbieri e di Barbierotti; titoli che durano ancora nei bagni penali dei paesi marittimi. Ciò non pertanto posso aggiugnere pei tempi più recenti non esservi bastimento militare senza il medico o chirurgo a bordo, i quali hanno grado di ufficiali, ed entrano nei ruoli dello stato maggiore. L'esperienza e la storia dei viaggi negli ultimi due secoli dimostrano la stranezza degli ufficiali sanitarî, e le cattive conseguenze della loro caparbietà. Se chi legge appartiene alla rispettabile classe dei Dottori, tolga l'avviso pel suo e pel comun beneficio: faccia di uniformarsi alla disciplina degli altri ufficiali, e di seguire i suggerimenti del comandante.

Tra i sacerdoti la nostra storia nomina il padre Laynez, celebre Gesuita, cappellano maggiore e presidente dello spedale in Africa, il quale aveva ducenquaranta infermi alla sua carità affidati; e nomina il socio della stessa Compagnia padre Martino da Estella; il fra cappellano di Malta don Matteo; fra Michele da Napoli, e fra Alonso Romero, dei Minori: e quattro Cappuccini, due de' quali vi morirono insieme a tanti altri, e due presso che morti furono rimenati in Sicilia[280]. Sugli afflitti, lungi dalla patria e dai congiunti, scenda propizio il sollievo della religione; e le parole di pace per la bocca de' sacerdoti, partecipi delle stesse sofferenze, confortino l'animo virtuoso di chi non si perita professare pubblicamente la sua fede. Ecco come di questi soldati e marinari in procinto di partenza per la spedizione africana scriveva un diplomatico ad un sovrano[281]: «Tutta la fanteria, capitani, maestro di campo, ed ogni sorta di gente jeri mattina si confessò e comunicò con molta devozione: e credo che avranno fatto bene, per essere questa un'impresa da restarcene assai.... Ogni uomo va risolutissimo di avere a combattere, e di avere a morire.»

XIV.

[15 luglio 1550.]

XIV. — Crescendo il numero dei feriti e degli infermi, quelli di essi che potevano alla meglio sostenere il travaglio della navigazione andavano sui grippi trasferiti agli spedali di Sicilia, con ordine alle galere della scorta di rimenare al ritorno il supplemento di gente e di munizioni, quanto più se ne poteva. La buona stagione, il quieto mare, ed i Ponenti freschi prestamente gli conducevano all'andata ed al ritorno; sempre di buonbraccio sotto vela, senza altro fastidio che di cambiare le mure, o di rovesciare il carro dall'una o dall'altra banda. Coll'occasione dei ritorni, molti venturieri italiani continuamente sopravvenivano in Africa; tra i quali devo ricordare più che trenta gentiluomini romani, accordatisi tra loro di fare onore e spalla a Carlo Sforza nelle dure fazioni dell'assedio[282]. I foglietti volanti stampati in Roma di quel tempo manifestano la pubblica simpatia della città a loro favore[283]. Primo tra questi signori nominerò Giambattista del Monte, nipote del nuovo Pontefice, giovane desideroso di mostrare il suo valore in tanto onorata guerra, offertosi colla scelta compagnia dei suoi provvisionati[284]. Metterò appresso il signor Antimo Savelli[285], alla testa di molti amici e seguaci della principesca sua casa, il quale in questa e in tante altre imprese meritossi elogi universali, che fia ben ripetere coll'enfasi di Benedetto Varchi[286]: «Chi non ha sentito, non dico ricordare, ma portare insino alle stelle il signor Antimo Savelli, il signor Luca, il signor Antonello, il signor Troilo, e mille altri, tutti signori, tutti Savelli, tutti gran maestri di guerra?»

[18 luglio 1550.]

Il Ferramolino intanto, ricevuti i rinforzi dal Regno, e più dalla Goletta due altri cannoni grossi, due lunghe colubrine, ed un serpentino da breccia[287], aprì la seconda parallela, divisando portare le trincera coi loro rami, risvolte, e bisce, e batterie cento metri più avanti[288]. Per tutto questo cresceva la fatica ai soldati: guardia alle armi, al campo, ai pezzi; lavori di terra e di trincera; e la comandata in giornèa al bosco per la fascina. Ogni giorno una grossa brigata in arme andava a legnare in certi oliveti lontano uno a due miglia: la scorta coll'archibuso, i guastatori colla scure, i garzoni e i giumenti colle ritortole. Rimenavano pali e stecconi da trincera, ramaglie e schegge da salsiccioni, cepperelli e trucioli per le cucine, tronconi e mozzi da carbonizzare per le fucine. Conciossiachè sempre ardevano nel campo due grandi fucine, dove si faceva ogni lavorìo di ferro, occorrente alla giornata, massime in servigio dell'artiglieria: piastre, cerchioni, perni, chiavarde ed attrezzi[289]. Non erano bambini, nè aspettavano i maestri di ogni cosa, come alcuni presumono nel nostro secolo. Tutto è antico: la fucina di campo, lo stento dell'assedio e la gelosia dei Triumviri.

[20 luglio 1550.]

La mattina del venti di luglio cinque galèe piene di infermi e feriti, e alcuni grippi coi lettucci per gli aggravati sotto il comando e la scorta di Carlo Sforza salpavano verso gli spedali di Trapani: e di là le galèe corsero a Napoli per levarne gente e munizioni[290]. Vi giunsero la sera del ventidue a due ore di notte: e vedendo Carlo che qualche giorno sarebbe passato a caricare le polveri, i projetti, le provvisioni e i soldati, prese le poste e se ne venne a Roma, volendo dare direttamente al Papa informazione esatta di ciò che passava in Africa, perchè ne avesse a ricevere sicuro ragguaglio l'Imperatore, ed indi venirne il rimedio. Il parere dello Sforza intorno a questo assedio ci è stato conservato da uno di quei tanti diplomatici che il duca Cosimo teneva in ogni parte di Italia; il quale, dando conto allo stesso Duca del lungo discorso fatto col Capitano di Roma, ne ripete le parole in questa forma[291]: «Nell'esercito vi è tanto poco ordine, che non si può veder peggio.... perchè il governo è in mano di giovani e di persone senza nessuna esperienza; e quelli che alla ventura potrebbero sapere, non sono chiamati alli consigli, e se ne stanno da banda, senza ingerirsi in cosa alcuna, lasciando abusarsi a quei giovani intorno alla muraglia. Alla quale circa cinquecento Spagnuoli dettero un assalto da una parte che era andata a terra; e si portarono con tanta viltà, che ducento Turchi che escirono dalla terra gli seguitorono fino alle loro trincere, ammazzandone e ferendone quanti volseno[292]... Il signor Principe non esce di galera, e tutto giorno giuoca a tarocchi, e non manca andar qualche volta in villa con la brigata a piacere... Al priore Sforza ed al signor Giordano Orsino non è stata observata cosa che fussi lor promessa... Ed ogni minimo spagnolo ha avuto ardire di comandare alli Italiani ogni vile azione: i quali non hanno servito ad altro che per guastatori, tirar l'artiglieria, far gabbioni, e simili altre mercenarie opere: et al primo, quando si dette la batteria, andò un bando che i soldati italiani non ce intervenissino... In somma, s'el si tira questa posta, sarà grande: ma pare disperata, considerato il valore di dentro, e il poco ordine e manco experienza di fuori.»

Dunque dissensioni tra i comandanti: lo Sforza, l'Orsino, e anche il Doria in disparte per l'arroganza di don Garzia[293]. Disperato in quel modo l'attacco dalla parte di terra; e la vittoria riservata ad altro metodo di batteria per la parte del mare, con quelli ordini e ingegni che vedremo al ritorno in Africa del nostro Capitano.

XV.

[21 luglio 1550.]

XV. — Intrattanto cannonate continue alle mura, scaramucce perpetue col presidio, e giornèa quotidiana per la fascina. Nel tempo di quest'ultima più umile fazione si aveva spesso spesso a menar le mani, o all'andata o al ritorno, contro certe imboscate di Mori e di Beduini attizzati da Dragut con lettere, promesse e minacce. Fra gli altri erasi reso celebre un Cavaliero africano, che non fu mai veduto uscir fuori di caverna o di bosco o di altro riposto nascondiglio, che non ottenesse alcun segnalato vantaggio. Costui compariva solo or qua or là improvvisamente; e talvolta alla testa di otto cavalli e di circa trenta pedoni, tutto ammantato di bianco, e cavalcando nobile corsiero di bianco mantello, chiazzato di bajo alla criniera e alla coda. Il giorno seguente alla partenza dello Sforza toccò a Giordano Orsino farne la conoscenza, e portarne i ricordi. Imperciocchè Giordano proprio in quel primo giorno, privo della consueta compagnia, pensò distrarsi con Astorre Baglioni e alcuni altri gentiluomini fiorentini e romani, seguendo la carovana dei taglialegna: desideroso pur di osservare meglio la campagna, e di vedere da presso la qualità e i prodotti delle terre africane. Se non che la cavalcata andò più lontano che non si conveniva; tanto che volendo ritornare tutti insieme a cavallo di piccoli, ma briosi barberi, si avvidero essere l'ora già tarda, e i guastatori colla scorta partiti dall'oliveto. Per maggior disdetta vennero veduti all'Orsino certi volatili pellegrini di bei colori tra quelle solitudini posarsi sulla cima degli alberi non molto lontano dalla via: ed egli, che aveva seco sospeso all'arcione l'archibusetto a ruota, col quale era uso fare bellissimi colpi, s'appartò con quello in mano alquanto dai compagni, seguendo copertamente tra le macerie la direzione della preda. Quando ecco uscir fuori improvvisamente il Moro dal bianco mantello, e con tal prestezza investire di zagaglia l'Orsino, che in un subito gli trapassò il braccio sinistro e lo gittò da cavallo, senza dargli tempo di voltare nè faccia nè arme[294]. E già messo piede a terra e sguainata la scimitarra gli avrebbe troncata la testa, se Astorre ratto come suona il suo nome, a briglia sciolta e chiamando ad alta voce i compagni, non si fosse gittato pel primo e risolutamente contro l'offensore, costringendolo a risaltare in sella, e a fuggir via: non tanto però confusamente, che colui non si portasse al guinzaglio il cavallin di Giordano, e non gridasse a più riprese: Cristiani, un'altra volta più attenti! Il Baglione tuttavia e gli altri, desiderosi di dargli la risposta più che di parola, galoppavangli appresso a spron battuto; sì che il Moro per salvarsi fu costretto di rilasciare all'istesso Baglioni, che eragli quasi ai garetti, il cavallino predato; e senza altra novità si sottrasse. La brigata di ritorno pensava alla necessità della vigilanza e circospezione, quando si è in guerra pel paese nemico; e come ogni diletto, ancorchè onesto, può divenir fatale, se distoglie l'uomo dall'attendere alle cose di maggior momento ed alla guardia di sè stesso.

Or noi leviam di terra il mal ferito Orsino, e rimeniamlo a bordo per curarlo: che avrà a fare tra breve più degna prova[295]. E perchè tutti sogliono volgersi alla storia, e da lei aspettare giudizî, e lode, e biasimo, secondo le opere, mi sia concesso di soddisfare al debito mio e al desiderio delle onorate persone, rendendo a nome dell'Orsino e dell'inclita sua casa pubbliche grazie, non vendute nè compre, ad Astorre Baglioni. Le povere parole di romito scrittore faccian ghirlanda al caro capo del gentil Cavaliero perugino; e restino scolpite attorno al suo nome in vece della corona di quercia che da altri avrebbe dovuto ricevere per avere salvato sul campo la vita di un cittadino romano[296].

XVI.

[22 luglio 1550.]

XVI. — Volgiamci adesso al principale avversario contro chi si fa la guerra. Dragut già da tre mesi batte il mare da lontano, facendo il più che può insulto, danno e vergogna ai naviganti ed ai paesi littorani della cristianità, coll'intendimento di strapparne l'armata dall'Africa. Ma non per questo i soldati e marinari nostri rallentavano l'assedio, sapendo che il tristo non potrebbe arrischiarsi sulle coste d'Italia, senza correre pericolo di restarvi avviluppato da forze maggiori; e che sulle coste di Spagna troverebbe in guardia con dodici buone galere don Bernardino di Mendoza a tenerlo in rispetto. Perciò lo strattagemma non produsse effetto favorevole ai disegni suoi: anzi l'espose a parecchi rovesci, tra i quali gravissimo lo scacco toccatogli sulle coste occidentali della Sardegna; dove essendosi arrischiato a sbarcare per far preda e per espugnare una terra, quei terribili isolani si levarono a stormo, e non solo ricacciaronlo alle navi, ma gli ammazzarono circa quattrocento scherani[297].

Dopo cotal fazione più che mai avvilito, e abbandonato dagli Algerini stanchi di lui, si trovò molto basso con soli quindici o venti piccoli bastimenti. Nondimeno rilevando quanto degli antichi spiriti gli restava, e risoluto di spendere per sua salvezza i tesori corseggiando in tanti anni accumulati, tornò celatamente in Barberia, e si diè a correre le maggiori città, picchiando alle porte degli amici suoi: rappresentava a tutti il pericolo, che egli diceva comune; prometteva e donava largamente, intendeva scioglier l'assedio e far gente. Scrisse al re di Tunisi e a quello del Caruano, fu a Sfax, a Tagiora, alle Cherchere, e specialmente alle Gerbe, tanto che raccolse da ogni parte un tremila settecento Mori, ottocento Turchi, e sessanta cavalli. Indi scrisse al Nipote in Afrodisio di tenersi pronto pel venticinque del mese, che egli verrebbe dalla parte di terra a soccorrerlo, ed a congiungersi con lui.

Le lettere di Dragut entrarono nella piazza, come poi si seppe, portate di notte da esperto marangone; il quale durante il giorno, tenutosi nascosto nell'oliveto, e poi tra le tenebre messosi a nuoto, prese la direzione del porto facendosi riconoscere alle guardie per quello che era. L'esercito dei Mori similmente, marciando a gran giornate, giunse al sito convenuto, cinque miglia lungi dalla piazza assediata, e Dragut la stessa notte del ventidue, venuto per mare con alcune sue galeotte, gittossi in terra con ottocento Turchi, per mettersi alla testa della sua gente. In somma grossa tempesta si addensava sul capo degli assedianti, senza che niuno ne avesse sentore: salvo che si udivano aggressioni più del solito frequenti contro i soldati o contro cavalieri sbandati intorno all'oliveto[298].

XVII.

[25 luglio 1550.]

XVII. — La mattina del venticinque tre compagnie di dugencinquanta uomini l'una, spalleggiando ducento guastatori siciliani, condotti in Africa dal Vega, eran sull'incamminarsi agli oliveti per legnare, secondo il consueto, quando il Vicerè informato allora allora di certe dicerie correnti tra i Mori alleati faceva uscire con loro altre tre compagnie, e tutti sotto due sole bandiere, per coprire il numero, e metteavi per mastro di campo don Luigi Perez di Vargas, governatore della Goletta: uomo che, per essere più di ogni altro pratico delle insidie e delle scaramucce moresche, era stato fatto venire a posta, e trattenuto al campo[299]. La colonna marciava in bell'ordine: ottanta file per diciassette righe. I picchieri armati di corsaletti alla vanguardia e alla retroguardia, nella battaglia gli archibugeri, alla coda i guastatori, a destra e a sinistra due catene di moschettieri. Queste genti, appressandosi all'oliveto, vedevano qua e là Mori e Turchi in piccoli drappelli, massime intorno a certe muraglie diroccate pei campi: ed essendosi avvicinate al bosco consueto, scoprirono finalmente il grosso dei nemici, che a primo aspetto fu stimato di quasi tremila fanti. Dragut, la cui presenza era ignota ai nostri, e ignota restò fino al termine della giornata[300], erasi tenuto nascosto perchè la colonna si allontanasse più e più dalle trincere: ma avendola oramai vicina con suo gran vantaggio di numero e di posizione studiosamente scelta, faceva dar nelle trombe, e assaltava il fronte dello squadrone. A quello scontro don Luigi Perez da bravo spagnuolo correndo avanti a cavallo gridava: «Animo, amici, avanti, e dagli alla trista canaglia: Santiago, e dagli!»[301].

Si attacca la scaramuccia alla destra e alla sinistra, cresce la mischia sul fronte, e al rumore tutti si riscuotono dal campo, dalla piazza e dal mare. Tutti vorrebbero esser là: e non potendo altrimenti, ciascuno manda l'ajuto ai suoi e lo sgomento ai nemici con altissime voci e col rombo del cannone. Le galere specialmente, accostatesi di fianco, tengono coi loro corsieri in rispetto i barbari: e non ostante la grande distanza al secondo o al terzo rimbalzo squartano o maciullano fanti e cavalli[302]. Il Vega, veduta l'azione impegnata, lascia don Garzia alla guardia delle trincere, e si avanza colle riserve, opportunamente giugnendo a sostenere la colonna sul terreno, dove non cede un palmo. In quella le maniche dei moschettieri si spiegano con soverchia larghezza, intesi a coprire le spalle dell'ordinanza, sì come i nemici minacciano girarla; e il Vicerè manda Luigi Perez a raccoglierli a segno. Già don Luigi ha rannodato il cordone di sinistra, e già galoppando trapassa alla destra, dove trova maggior difficoltà, e più fiero riscontro: mentre chiede soccorsi per ricongiungere allo squadrone l'altra manica, una palla di schioppo di un beduino appostato sugli alberi lo coglie nel petto, e gli esce dagli arnioni[303]. Sentendosi ferito a morte, volge le briglie per mettersi tra suoi: ma prima di potervi arrivare, cade morto in terra, e il cavallo gli si ferma allato. I Musulmani in furia per avere il cadavere, gli Spagnuoli in furore per ricuperarlo. Si viene alle strette: scimitarre contro spade, lancie contro picche, schioppi contro archibusi, saette contro pugnali. Contuttociò gli Spagnoli raccolgono la salma, rimettonla di traverso sul cavallo, e si rannodano allo squadrone.

Intanto i guastatori, come se nulla fosse intorno, avevano compito il lavoro della fascina, e preso il carico delle legne e delle ramaglie: però il Vega ordina che dalla stessa parte, cioè dalla sinistra, si ritiri al campo la colonna, ed esso stesso mettesi alla coda per sostenere i suoi, e per tirarsi appresso i nemici sotto al fuoco delle trincere[304]. Marciano in ritirata: sempre colla faccia volta al nemico, sempre combattendo, e sempre incontrati da gente fresca di soccorso. Notevole in questa ritirata il ricordo dell'artiglieria di campagna maneggiata sui carretti, per tenere addietro la piena dei barbari[305].

In quel momento Assan-rais che dalle sue torri vede lo squadrone in ritirata, Dragut sulla pesta, e le trincere più che mai sguernite, caccia fuori della piazza il presidio, risoluto a fare l'estrema prova di spianare i lavori, di chiodare le artiglierie, e di dar mano agli amici, secondo le istruzioni da tre giorni ricevute. Se costui fosse riescito nell'intento, la campagna di Afrodisio sarebbe a ricordare funesta quanto quella d'Algeri. Ma don Garzia è sul posto, e quivi di piè fermo sostiene l'assalto di Assano: il Ferramolino dirige i fuochi sulla fronte delle trincere, fiancheggiate per filo radente, e munite di molte artiglierie e di archibusoni da posta. Ambedue scopano d'infilata a metraglia; e il Vicerè, trovandosi oramai vicino, rimanda dentro mano mano maggior rinforzo. Fatte inutili e disperate prove con molta strage de' suoi, Assano si ritira in fretta, e tanto prestamente fa chiudere le porte innanzi al rincalzo dei nostri, che molti dei suoi, per rientrare nella piazza, sono costretti gittarsi a nuoto nel mare[306].

Dragut collo sguardo di pirata aveva seguite tutte le fasi del combattimento. Vedeva intatto lo squadrone, rimessa la fascina, ricacciata la sortita, assicurate le trincere. Tutto al rovescio dei suoi disegni. Nè in principio per sorpresa, nè appresso per forza, nè in fine pel concorso del nipote, non aveva mai potuto venire a capo di nulla. Molto meno confidava di vincere l'accampamento, munito di argini, di fossi e di numerose artiglierie. Pressato dalla volubile accozzaglia della gente raccogliticcia, tirossi indietro. Spese la notte in consulte inutili, e il giorno seguente sciolse le bande dei Mori, e se ne tornò coi Turchi verso le Gerbe. Di là tanto meglio, quanto da luogo più vicino e sicuro, attese a considerare il procedimento dell'assedio: sempre pronto ad ogni occasione che mai potesse la fortuna mettergli avanti.

Così passò la grande giornata del venticinque, nella quale si parve in tutto il suo splendore la bravura e la fermezza delle fanterie spagnuole, che non avevano pari in quel tempo per stabilità sul terreno, secondo gli ordini con che le aveva disciplinate Gonsalvo. Si parve eziandio l'antico metodo delle milizie deputate a combattere alla spicciolata, in branchetti o in cordoni distesi oltre alla fronte di battaglia, come fanno oggidì i bersaglieri. Di più ci ritornano le artiglierie minute da campagna coi loro carretti; e notiamo i bei tiri di rimbalzo delle galere a distanza di più che due miglia. Nè vuolsi tacere la savia direzione di tutti i capitani dal mare, sul campo, alle trincere; e l'intrepidezza dei guastatori nel compiere il loro servigio sotto il fuoco del nemico.

XVIII.

[30 luglio 1550 ]

XVIII. — Dato il primo governo a circa dugento feriti, e resi gli ultimi onori a un'ottantina di morti, specialmente al prode don Luigi Perez, tornò nell'esercito e nell'armata la consueta giovialità, cresciuta dalla speranza di successi migliori. E perchè gl'infermi in cura avessero a essere meglio provveduti, senza crescere fastidio ai combattenti, ordinarono a Marco Centurioni, luogotenente del Doria, di portarli con dieci galere agli spedali di Trapani; e poi esso scorresse infino a Napoli, a Livorno, alla Spezia e a Genova, per raccogliere da quei centri gente e munizioni, secondo l'ordine dell'Imperatore a tutti i suoi ministri in Italia, tanto che l'impresa d'Africa giugnesse a buon termine[307]. Quando salparono le dieci galèe del Centurioni, si aspettavano di ritorno le cinque dello Sforza; e al tempo stesso Dragut sguinzagliava alcune delle sue fuste per codiarne i movimenti, e per non lasciarsi cogliere, come il vecchio maestro, con tutti i legni in un punto solo.

Qui mi vien bene aggiugnere alcuni fatti minuti di costoro presso la spiaggia romana, durante l'anno del giubilèo: fatti narrati da scrittore contemporaneo[308]. Tre ladroni, sciolti dalla brigata di Dragut, eransi messi in società tra loro, e in busca pel Tirreno: chiamavasi l'uno Cametto, l'altro il Bagascia, e l'ultimo il Bollato. Ladri nomi, come ognun sente, e certamente imposti dai nostri e loro amici, conforme ai meriti. Essi venivano con tre legni, due fuste e un brigantino: e insieme di notte al primo abbordo presso Napoli cattivarono una grossa nave carica di vini, che il vicerè don Pietro mandava in Africa a don Garzia suo figlio. Fecero schiavi il capitano e i marinari, e mandarono alla Gerbe marinato il bastimento e il carico. Poi volsero all'isola di Ventotiene per racconciarsi e dividere i guadagni minuti. Dopo cinque giorni alzarono la vela alla volta del Circèo: ma sorpresi da grosso fortunale rifugiaronsi a Ponza, dove stettero dieci giorni a ridosso. Indi ripigliata la via per maestro, presto ebbero l'incontro di una tartana con venti passeggeri, usciti anche essi al buon tempo da Gaeta, e vôlti cheti cheti alla Fiumara di Roma ed alle indulgenze del giubilèo. Pensate rubalderia di Turchi! presero a un tratto pellegrini, marinari e tartana; e consegnarono ogni cosa al Bollato, perchè col suo brigantino di scorta menasse gli schiavi e il naviglio al mercato della Maometta. Le due fuste vennero avanti alla foce del Tevere, cercando se altri volesse entrare od uscire senza spese di rimburchio: ma scoperti dalla torre Bovacciana, allora più propinqua al lido, e salutati di alcune cannonate, tirarono oltre. Non furono guari lontano, che si parò un bastimento di Civitavecchia diretto al Tevere: ed i pirati addosso. Allora il padrone non potendo tornare addietro pel vento di Ponentemaestro, nè volendo allargarsi a mare, animò la sua gente, distese tutto il cotone, aggiunse sei remi, e prese a correre verso la Fiumara, sempre tenendosi dalla parte di terra il più che poteva. Le fuste più leggiere, e fornite di maggior remeggio, dopo strettissima caccia già già erano per investirlo; e allora il padrone, che aveva anche a questo provveduto, mollava la scotte, dava fondo a due ferri, e abbandonava il bastimento, fuggendo collo schifo e con tutti i suoi marinari a salvamento in Ostia. I pirati nondimeno salparono le áncore, menaronsi il bastimento, rubarono ogni cosa, e poi l'abbandonarono quaranta miglia al largo.

Questo fatto pose di mal umore Cametto contro il Bagascia, perchè costui sconsigliato nella caccia aveva troppo stretto il nemico alla spiaggia, in vece di sforzarlo ad allargarsi; e con ciò cresciuto favore alla fuga delle persone. Ebbero tra loro di male parole, e si separarono, dicendo il Bagascia volersene tornare in Barberia per bisogno di panatica. Al contrario se ne andò solo all'Elba, dove scoperto dalle guardie, e assalito da due barconi dell'isola col rinforzo di molti soldati, combattè lunga pezza, dette e toccò le busse: ma in fine gli riusci di smucciar via, tuttochè mal concio; e corse a ripararsi prima in Bona, poi in Algeri, dove fece mercato del bottino e dei prigioni.

Cametto altresì solo restò sulla Spiaggia romana per due giorni, e poi navigò a Talamone. Colà ebbe incontro quattro galeotte di Dragut, appartenenti alla schiuma di un altro stuolo: e tutti insieme quei furfanti fecero gran baldoria per l'allegrezza di essersi incontrati; dandosi a vicenda l'uno l'altro le notizie di quanto avevano lasciato in Africa, e trovato in Italia. Andarono quattro giorni insieme, fino a capo Côrso; poi si divisero, continuando le galeotte a ponente verso la Spagna; e tirandosi Cametto a ostro per la Corsica e per la Sardegna. Nella prima isola prese un povero prete di campagna nella stessa sua pieve, fuggitone a precipizio il vicario più destro e più giovane. In Sardegna ghermì due fanciulli che nuotavano per sollazzo alla riva. E prolungandosi per quelle costiere, ogni notte gittava in terra dieci o dodici uomini a far preda per le campagne, attaccandosi a tutto, posto che si potesse trasportare. Ma essendosi i Sardi riscossi chi a piè chi a cavallo per ricuperare le persone e le cose perdute, indarno Cametto spese altri otto giorni a ronzare intorno a quelle rive: tutto era guardato e difeso. Però volse la vela verso Biserta, rendendo suo malgrado onorata testimonianza alla virtù dei Sardi[309]. Trista condizione della dimora, dei viaggi e dei commerci per le nostre marine.

XIX.

[31 luglio 1550.]

XIX. — In quella Carlo Sforza, speditosi da Roma, e ripresa a Napoli la capitana e le munizioni che ho detto, veniva a golfo lanciato verso l'Africa, non senza cacciarsi dattorno lo sciame dei pirati, dalle cui mani alle Eolie pur riscuoteva una fregata napolitana con tutta la gente[310]. Il suo ritorno all'armata ed al campo, che fu il trentuno dello stesso mese di luglio, ravvivò la speranza di sollecita espugnazione, e più che mai rivolse i pensieri altrui alle batterie di costa verso la marina, sul debole della piazza, secondo che egli aveva sempre proposto. Di questo suo pensamento, con lunghi e stringenti discorsi, durante la traversata, erasi studiato di far capaci i due ingegneri che aveva preso seco a Palermo: coi quali per maggior convincimento, e prima di mettere piede in terra, scórse a bello studio tutta intorno la penisola fortificata, segnando col dito a quei signori i punti che meglio degli altri potevano essere con buon successo battuti; e pigliandone i rilievi dalla poppa del suo schelmo[311]. Seguo in questa parte la perizia di Carlo Botta, che usa la voce Schelmo per sincope di palischermo, quasi a ogni pagina del Viaggio intorno al globo: e per questa stessa ragione mi sembra termine molto acconcio ad esprimere per eccellenza la barca assegnata all'uso personale del comandante: perchè come si distingue per la ricchezza e nobiltà delle forme, così anche vada per la concisione e forza del nome meglio in armonia colla dignità della persona[312].

I due ingegneri, chiamati con gran pressa dalla Sicilia dopo la battaglia dell'Oliveto, e indi menati al campo dalla prima galèa di passaggio per quelle parti, che fu proprio la capitana di Roma[313], passano ambedue presso che ignoti nella storia dell'arte; e però più meritevoli di special ricordo, come abbiam detto del Ferramolino. Il primo, chiamato Andronico Arduini, oriundo di nobile famiglia messinese[314], nato in Rodi, bombardiere di vaglia in quell'assedio, fattosi poscia seguace del Martinengo, divenne eccellente nel maneggio delle artiglierie, negli ingegni delle macchine, e nelle dottrine della nuova fortificazione militare[315]. Dunque di origine e di scuola italiana, quantunque per andare meglio a' versi dei padroni di Spagna si facesse chiamare col nome di capitano Spinosa, sì come ripetono sempre gli scrittori di quella nazione[316].

Dell'altro parlano quasi tutti implicitamente; ma il solo Orazio Nocella da Terni, attore e testimonio dei fatti, nei commentarî stampati in Roma, esplicitamente ricorda il nome, dicendo[317]: «Presa la città di Afrodisio, tra le molte provvisioni del Vicerè vuolsi ricordare la proposta di renderla più forte, e più difendevole, anche con poca gente. Laonde al signor Prato, nobile architetto, di cui si serve continuamente per le sue fabbriche, e per le fortificazioni delle città e d'altri luoghi, die' commissione di farne il disegno, e di mandarne la figura all'Imperatore, lavorata e finita come si costuma per mostrarne l'artificio.... Il modello, prestamente composto, fu presentato a Cesare da Giovanni Ossorio di Quignones, insieme colle notizie della felice espugnazione e conquista.» Dunque anche il Prato era presente al campo, e pigliava parte all'espugnazione, e aveva il carico dei lavori, quantunque non sia espressamente scritto dal Salazar e dagli altri[318]. Il nome del Prato è certamente italiano, come ognun vede, e forse di quella stessa famiglia da Lecce, donde un secolo prima si era generato Leonardo Prato, cavaliere gerosolimitano, cui i sovrani aragonesi avean dato il carico di riparare le fortificazioni di Otranto, dopo la celebre cacciata dei Turchi[319]. Ora che abbiamo fra noi il Ferramolino, l'Arduino, ed il Prato, passiamo a considerarne le opere magistrali.

XX.

[4 agosto 1550.]

XX. — Dei lavori precedenti sul campo non fa bisogno altro commento: gabbioni, fascine, terrapieni, fossi, trincere, e due parallele, secondo il metodo ordinario. Dalla parte della piazza due muraglie, l'una a riparo dell'altra, il fosso in mezzo, la breccia difficile, l'assalto impossibile. Il Ferramolino si volge alle mine: ma non può camminare di lungo sotterra, dove a ogni passo incontra due ostacoli insuperabili; pietra viva, ed acqua morta[320]. Condizioni geologiche necessarie del sito, quando si dice rupe presso al mare sottoposta a monti più alti e vicini. Venuti gli altri ingegneri, deliberano insieme di accostarsi alla piazza e di attaccarle il minatore per mezzo di una galleria di nuova forma, e acconcia quanto più si può alla qualità del terreno. Cavamento fino a trovare il macigno, ripari laterali di terra e fascina, e copertura superiore di travate e panconi da nascondere e difendere i lavoranti e i minatori.

[18 agosto 1550.]

La galleria divisata venne presso che compiuta, non ostante il fuoco continuo della piazza, e l'opposizione dei nemici vigilantissimi ai nostri danni. Se non che la notte seguente, che la travata s'appressava alla scarpa del muraglione, quei Turchi terribili dalle loro feritoje annaffiarono i palchi di catrame, e vi gittarono sopra giunco, ginestra, stipa e fuoco; a spegnere il quale perchè niuno venisse appostarono tutta la loro archibuseria. Pensate il Ferramolino là sotto colle trombe, coll'acqua e colla terra ad affogare ed a vincere l'incendio: pensate quegli altri a replicare catrame, tizzoni e archibugiate. In somma tre volte domate, tre volte riaccese le fiamme: morendovi molti soldati e guastatori chi cotto, chi trafitto: e urlando i Turchi ad ogni bel colpo dalle feritoje basse del torrione. Finalmente toccò una palla in fronte al Ferramolino, che vi restò gelato sul colpo[321]. Prode ed infelice ingegnero! troppo raffidato nell'arte tua, lasciasti le ossa ascose nella terra dei barbari, e il nome presso che obliato nel tuo stesso paese! L'estremo vale dello storico scusi il monumento della tua tomba, e tenga viva la memoria delle tue benemerenze nell'affetto dei posteri, dovunque alligna cortesia.

[28 agosto 1550.]

Sottentrò l'Arduino alla testa degli ingegneri, prese la direzione dell'assedio, e depose il pensiero delle mine. Uomo nuovo, doveva far novità: venuto dal mare collo Sforza, doveva sforzare dal mare. Mutò subito la postura delle batterie. Salvo alcuni pezzi di fronte, presso al centro del campo e del quartier generale, trasportò il resto di grosso calibro all'estrema destra per battere l'ultimo angolo della fronte verso levante; dove il muro, per essere sul pendio della rupe, non montava più grosso di sette palmi, e pareva privo di contrafforti anteriori e di fosso. All'alba del giovedì ventotto di agosto, essendo ogni cosa in punto, l'Arduino aprì il fuoco della nuova batteria, e se ne videro subito effetti stupendi[322]. La debolezza del muro, la grossezza dei calibri, la vicinanza di dugencinquanta metri, e più di tutto la direzione normale dei colpi facevano a pezzo a pezzo cascar giù la muraglia, e con tale prestezza, che quei di dentro non erano in tempo nè a sgombrar le macerie, nè a riparar la rottura. Indarno i Turchi abbarcavano tavole, terra e fardelli di cotone e di lana; indarno Assano in persona conduceva al lavoro gli operaj; indarno tagliate e traverse. La nostra artiglieria scopava ogni cosa da quella parte: e non restava che un po' di torrione a demolire, perchè senza molestia dei fianchi si potesse ordinare a sicurtà l'assalto. Ma quel torrione stava duro, come gli altri della fronte: strigneva il tempo, bisognava far presto, non dare agli assediati la comodità di riparare. In somma era necessario ajutarsi con tiri perpendicolari dalla parte del mare.

E perchè il luogo ristretto, le acque poco fonde, e la suggezione alla numerosa e terribile artiglieria della piazza, non permettevano senza gravissimo pericolo il ronzare delle galere, come si era fatto a Corone, alla Goletta e a Castelnovo, si pensò adoperarvi una macchina navale, cui era riserbato finalmente il vanto principale della vittoria.

XXI.

[31 agosto 1550.]

XXI. — Questa macchina doveva essere in sostanza una grossa batteria galleggiante da accostarsi facilmente per mare al punto voluto sbrecciare: macchina di gran piazza, formata con due navigli incatenati in un sol corpo, fornita da molte e grosse artiglierie, e ben riparata dalle offese nemiche per sicurezza di sè stessa, dei pezzi e dei serventi. Fu pronta in pochi giorni: e tra poco ne vedremo meglio la costruzione e il servigio.

Intanto se alcuno domanderà il nome dell'egregio inventore, deve mettersi meco tra le varietà dei libri e delle sentenze. Chi dice il Ferramolino, per averne lasciato il disegno prima di morire: chi ne dà il merito al Doria, al Vega, o a don Garzia; chi propriamente all'Arduino; chi dice esserselo preso da sè Giulio Cesare Brancaccio; e chi doversi cercare più abbasso un siciliano, un galeotto, uno schiavo, un rinnegato[323]. Dunque possiamo conchiudere che gl'inventori furono tutti: e tanto meglio la diversità delle altrui opinioni confermerà la nostra, quanto è pur vero che gli uomini, stretti dalle medesime necessità, tornano sempre agli stessi ripieghi. Fin dai tempi di Mitridate e di Scipione si sono viste macchine composte con due o più bastimenti incatenati tra loro: ne parla Tito Livio, Appiano Alessandrino, Festo, Vegezio, Vitruvio[324]. E senza andar tanto lontano, per ogni altro tempo si è veduto nei nostri porti spianare in lungo e in largo gran piazza sopra alcuni bastimenti legati insieme, volendosi riunire in mezzo al mare per maggior sollazzo molta gente a danze, a conviti, e simili[325]. Dunque senza pretendere vanto di bell'ingegno poteva facilmente chiunque al modo istesso proporre di piantarvi il giuoco di una batteria di grossi cannoni; come gli antichi sopra due o più bastimenti collegati piantato avevano gli arieti cozzanti, le torri mobili, le scale volanti, e i ponti di assalto e di traghetto. Io stesso nella storia marinaresca del Medio èvo ne ho parlato diverse volte; e più vi ho messo la speciale descrizione di una di queste macchine, vittoriosamente spinta l'anno 1218 ad espugnare la torre del Nilo innanzi a Damiata[326]. Si faceva doppia, o scempia, o tripla, secondo il numero dei bastimenti componenti; e fin dalla rimota antichità pelasga con voce comune ai Latini ed ai Greci si chiamava la Sambuca, per la ragione dei canapi obbliquamente distesi tra la torre, l'ariete e la scala, alla similitudine delle corde tra il corpo e l'arco nello strumento musicale dello stesso nome.

Venuta poscia l'invenzione della polvere di guerra, e smessi gli arieti con tutto il resto, nondimeno la macchina conservò l'istesso nome di Sambuca, perchè ordinata allo stesso fine. Però invece dei vecchi arnesi si fornì dei nuovi cannoni: di che ho pur detto qualcosa nel mio Marcantonio Colonna per l'anno 1572, quando una macchina di questo genere per espugnare Modone fu costruita con pessimo effetto dall'architetto Giuseppe Buono[327]. E qui calco a bello studio il cognome dell'architetto, e dico Buono, perchè così leggo nei Documenti colonnesi e vaticani, così nelle storie dell'Adriani fiorentino e del Sereno romano, e così nelle scritture dei contemporanei[328]; non trovandosi altrove Bonello, che nel Paruta veneziano e posteriore, certamente per errore di stampa o simile. Accade a chicchessia, anche ai più diligenti ed assennati scrittori. Valga per tutti l'esempio del chiarissimo Carlo Promis, altrettanto dotto che accurato, il quale nondimeno, preso in un punto da certa vertigine tra il testo e le note, confonde in poche righe luoghi, tempi, e persone: Buono con Bonello, Afrodisio con Tripoli, e l'ultima campagna della Goletta mette nel 1572, che fu recisamente due anni dopo, ai ventitrè di agosto 1574[329]. Non fo io professione di censore: ma ho l'obbligo di difendere la verità storica, e di mantenere gli assunti miei.

Dunque i nostri capitani volendo battere la piazza dalla parte del mare, facilmente convennero di mettere allo sbaraglio due sole galere: una genovese, chiamata la Brava; ed una siciliana, detta la Califfa. Alle quali, avendo prestamente levato alberi, antenne e ogni altro attrezzo, attraversarono gli alberi stessi e le antenne loro da poppa e da prua, incatenandole insieme tanto strettamente, da formare un ponte solo, non soggetto a barcollare perchè equilibrato sopra due punti stabili, cioè sulle due chiglie. Poi le maestranze spianarono la coverta; e avanti a chiodar panconi, a livellare piatteforme, a condurre parapetti, ad aprire troniere, e a mettervi per riparo gabbioni terrapienati, alti di palmi dodici, profondi di quindici; e ben ristretti con traversoni, puntelli, bracciuoli, legami, chiovagione: fortissimo e portentoso lavoro. Indi il capitan Arduini incavalcò alla banda destra della macchina nove pezzi di artiglieria grossa sui carri da esser maneggiati tanto comodamente quanto sopra qualunque piattaforma murata: e perchè la macchina meglio avesse a sostenere il gran peso, ed a resistere ad ogni percossa dei nemici, la circondò con una ghirlanda di botti vuote, ben chiuse e stagne, ed imbracate a corto per disotto alla carena[330]: Lavoro eseguito presto e bene dalle navali maestranze; e copertamente dietro alle galèe ed alle navi dell'armata, perchè i nemici non ne avessero sentore[331].

XXII.

[6 settembre 1550.]

XXII. — Mentre queste cose si facevano, le batterie di terra non cessavano di trarre ogni giorno: e la notte tre o quattro galere per turno, cominciando dalle romane, spiccavansi dall'armata e andavano di ronda intorno alla piazza, tessendo e raddoppiando da un seno all'altro le acque della penisola; dando e ricevendo alla cieca, come sempre succede, colpi di cannone o d'archibugio, dovunque appariva segno di persona o di cosa in moto. Chiusa agli assediati ogni via di comunicazione.

Finalmente addì sei di settembre tornò in Africa Marco Centurioni, e con lui il Montani e il Rinuccini commissarî, che avevano raccolto da Genova, dalla Spezia, da Viareggio e da Livorno gran quantità di munizioni da guerra, polvere e palle ammassate in quegli scali dai ministri e amici di Cesare e dai Signori lucchesi, per sopperire al consumo; potendosi calcolare a più di trentamila le palle di ferro colato da cinquanta libbre in su, scaraventate sui muri della piazza dal principio dell'assedio. Le due Sicilie in fatto di munizioni da guerra avevano già mandato il più che potevano; ed erano restate in grado di riceverne, anzi che di esitarne. Supplivano tuttavia colle vittuaglie e coi rinfreschi, specialmente coi vini: che le carni e le farine abondantemente si traevano, ed a prezzo discreto, dal paese e dagli alleati africani, i quali ognor più manifestavano il desiderio di scuotersi dalla servitù dei pirati e dei turchi. Oltracciò il Centurioni aveva condotto al campo quattro bandiere di fanteria spagnuola, un migliajo di uomini. Rinforzo sommamente desiderato[332].

[7 settembre 1550.]

Crebbe pertanto nei capitani non pur la speranza, ma la prontezza. Le munizioni, i soldati, la macchina, tutto in punto; altro non restando che scegliere il sito migliore dove affondare le áncore della sambuca, perchè da sè vi si potesse tirare coll'argano e coi tonneggi. Però la notte appresso al sette furono mandate, sotto il colore della ronda consueta, le galere a scandagliare i fondali, ed a stabilire le boghe[333] sulle áncore, a stendere andrivelli e gherlini, e a lasciarvi i segnali coi gavitelli. Eseguirono gli ordini a puntino, sempre rispondendo col cannone al cannon dei nemici: e, per meglio coprire il lavoro presso alla piazza, avevano istruzione di cogliere l'opportunità, e di levar via dal porto quella misera nave alessandrina e quelle due galeotte sdrucite che vi stavano abbandonate da tanto tempo, non forse avessero poscia da servire ai pirati per molestare la sambuca. Così adunque quella notte in una delle tante girate si accostarono destramente alla bocca del porto, e vi spinsero dentro sei palischermi armati. I marinari da diverse parti saltarono a bordo delle tre carcasse, tagliarono gli ormeggi, stabilirono i rimburchi; e arrancando a un fischio tra palischermi e galere tiraronsi appresso i tre legnacci, senza curare nè gli spari della piazza, nè le percosse delle carcasse per le sponde[334]. Abilissima manovra che onorerebbe la tattica d'ogni altro tempo, come onora quella del secolo decimosesto. Perfetto svolgimento di curva difficile in un tratto solo, sopra quattro coordinate all'asse maggiore: la scoperta, lo scandaglio, l'apparecchio, e la preda: e tutto ciò per espugnare una piazza senza dare niun indizio del finale intendimento al nemico.

XXIII.

[8 settembre 1550.]

XXIII. — All'alba del giorno ormai vicino la sambuca, condotta quanto più si poteva presso alla piazza, annaspava i suoi tonneggi all'argano, e lenta lenta se ne veniva al punto stabilito nella insenata di levante, a dugencinquanta metri dal muro: fondo di sabbia e di alga. Nove pezzi in batteria sul fianco destro della macchina: due capi bombardieri, undici serventi a ogni pezzo; due mozzi colla lanata a bagnar sempre le trombe delle troniere per difenderle dalla vampa; dieci calafati ed altrettanti mastri d'ascia, coi loro calafatini e dascini, pronti a riparare ogni avarìa. I capitani ordinarî de' due legni alla spalliera, e con essi i marinari consueti, oltre ai soldati di guardia. Dabbasso sotto coperta chirurghi, barbieri, e cappellani. Quattro catene di prua sulle àncore per tenere, e quattro gomenette di poppa sui ronzoni per abbozzare e addestrare la macchina secondo il bisogno. Sopra tutti l'ingegnere Arduini alla punteria dei pezzi, alla direzione del fuoco, ed al riconoscimento della breccia[335].

Dato il segno dal campo, sfolgorò l'artiglieria da ogni parte contro la piazza, traendo ciascuno a gara dell'altro, dalle trincere, dall'armata e dalla sambuca. I nemici peggio che peggio infuriati rispondevano a tutti, principalmente mirando a subbissare la macchina, che prevedevano più dannosa per loro. I colpi maggiori pareano diretti a quel solo bersaglio: e le palle come gragnuola frullavangli intorno, toccandola a quando a quando nei terrapieni, nelle opere morte, e talvolta anche nel vivo. Si sentivano già cigolare le botti, e vedevasi crescere acqua nella sentina: e la macchina, sparando a furia, e coperta di fumo, oscillava a ritroso sulle anche. In quella una palla di colubrina nemica, entratavi d'infilata, prima rompeva una bozza sulla bitta, appresso portava via ambedue le mani ad un servente, e la testa a quattro soldati[336]. Momento spaventoso pei macchinisti: corse il brivido per le ossa di tutti, si diffuse il panico, e tutti in massa a fuggire dabbasso. Di più spacciarono un palischermo al Doria, supplicandolo che li facesse incontanente levar di là, se non voleva vederli tutti perduti insieme colla sambuca[337]. Il Doria, mosso a compassione pel pauroso rapporto che a nome degli altri doveva aver fatto il più eloquente e il più costernato di tutti, mandò per loro. Ma che? Fosse arte, fosse fortuna, la sambuca stava immobile sull'orma, e non dava indietro un pelo, per quanto vi si adoperassero i marinari. Naturalmente a parer mio, (senza ricorrere ai prodigi del Nocella) aveva a star lì: perchè già menata quanto più si poteva vicino a terra, col sopraccarico di sì gran peso, dopo tante scosse e colpi, doveva essersi accasciata sul fondo, e tenacemente appiastrata tra la sabbia e l'alga: qualità tuttavia propria di quel rivaggio fino ad oggi, come segnano le carte marine dell'ammiragliato britannico[338].

Di che facendo ragione l'Arduini, e vedendo la sua macchina più stabile di prima, l'acqua allo istesso segno e non crescente nel pozzo delle trombe, l'artiglieria senza danno, e il fuoco dei nemici all'incontro rallentato, pensò che la gente di bordo farebbe di necessità virtù. Si pose tra loro con animose parole, fece sgombrare i cadaveri, mandò altrove il moncherino, e chiese un rinforzo di soldati per isgombrare ogni rimasuglio di pànico coll'esempio, e bisognando anche colla forza. Ebbe subito il sergente Pallares con sessanta fanti spagnoli; appresso il capitan Orihuela, che fu costretto a ritirarsi ferito di scheggia alla prima comparsa; e finalmente il capitan Solis colla sua compagnia. La gente tantosto riprese animo, tornò al dovere come prima: tutti a gara intorno ai pezzi per far bei tiri; e così andò il resto della giornata crescendo il fuoco della sambuca sempre con maggior vantaggio, a emulazione delle altre batterie di terra e di mare, che non avevano mai lasciato di trarre.

[9 settembre 1550.]

Nella notte lavorarono le maestranze a risarcire qualche danno della macchina, ed a crescervi quei ripari che l'esperienza e il raziocinio avevano mostrato convenienti. L'equipaggio prese ristoro, dimenticò lo spavento, e la mattina seguente più baldo e sicuro calcava i cartocci, e appuntava i pezzi sui tagli verticali e orizzontali che far si volevano a compiuta apertura del muro. Il dì nove si parve a tutti evidentissima la eccellente posizione di quella macchina, e il maneggio della sua artiglieria, che non solamente smantellava le muraglie della marina, ma i fianchi del così detto rivellino, e la spalla dell'ultimo torrione tra mare e terra sull'istmo; e di più scortinava per di dentro e di rovescio quasi tutta la difesa della fronte. Ondechè al furioso trarre della sambuca ruinò gran parte della cinta: e l'istesso gran rivellino maestro, che percosso in faccia non aveva mai dato un crollo, ora squassato da tergo, cadeva a pezzi. E quantunque i nemici infuriati per tanti danni, che principalmente provenir vedevano dalla terribile macchina, avessero volto tutto l'animo e lo studio a bruciarla, bolzonando colle balestre e col cannone saette ardenti di fuoco artificiato, non per tutto questo smettevano i nostri diligenza: anzi più prontamente giuocavano di cannonate, plaudendo l'uno all'altro ad ogni bel colpo; e spegnendo sempre che bisognasse l'incendio colle copiose acque del mare; eziandio che ciò costasse a parecchi la vita[339].

In somma la sera del martedì, nove di settembre, la piazza era aperta: e tutti avrebber voluto alla fine entrarci dentro. Solo il vicerè di Sicilia don Giovanni de Vega si oppose, e sostenne doversi l'assalto rimettere al giorno seguente, dicendo che per la notte ormai vicina si andrebbe male dentro una piazza sconosciuta, tra nemici disperati, a rischio di esser fatti a pezzi negli interni traghetti, e forse anche costretti a uscirne fuori con molta vergogna. L'esperienza successiva comprovò la saviezza del consiglio antecedente.

XXIV.

[10 settembre 1550].

XXIV. — Nella stessa notte capitani, soldati e marinari approntarono le armi per la imminente giornata: chi assegnato di guardia alle trincere, chi di riserva ai soccorsi, chi ad una delle tre colonne di assalto. Nella prima, s'intende, don Garzia di Toledo contro il rivellino diroccato[340]; nella seconda don Giovanni di Vega contro la muraglia della primitiva prova[341]; nella terza dalla parte della marina mille italiani. Contate trecento romani del naviglio di Sforza, condotti da Astorre Baglioni[342]; altrettanti fiorentini, delle galèe dell'Orsino, sotto Chiappin Vitelli[343]; e quattrocento tra soldati e cavalieri di Malta, col commendatore Claudio della Sengle[344]. Claudio volle unirsi alla colonna italica, sebbene avesse a suo talento la scelta di quella che più gli fosse gradita. Sapeva bene il savio commendatore, e futuro Grammaestro, doversi unire i marini ai marini: massime a quelli, la cui tempra e valore negli ardui cimenti eragli di lunga mano già conta. Imperciocchè quanto allora stava in alto la fama delle fanterie spagnuole per la fermezza dell'ordinanza, altrettanto per gli assalti pregiavansi le milizie italiane: e veramente quel giorno a gara romani, fiorentini, genovesi e napolitani confermarono onorevolmente la comune riputazione[345].

Come fu giorno, tutte le galèe in battaglia si accostarono alla piazza, e la posero come bersaglio centrale a un semicerchio di cannoni. Il Doria al primo posto collo stendardo del Crocifisso all'albero maestro, secondo la consuetudine delle grandi giornate, spiegava da poppa gli aquiloni imperiali in ruote sopra le lunghe filiere dei gagliardetti e delle banderuole[346]: alla destra le galere sue, di Napoli e di Sicilia, che non avevano fanteria da sbarcare; a sinistra le galèe di Roma, di Firenze e di Malta, tutte imbandierate a festa come in giorno solenne; e i mille in arme allestiti per discendere in terra.

Se non che prima di venire all'ultima prova parve conveniente ai Triumviri di stancare nella mattinata i difensori, ripigliando a batterli con tutte le artiglierie dal mare, dalle trincere e dalla sambuca: volevano spianare vie meglio le brecce, e radere ogni riparo che vi potessero avere i nemici imbastito nella notte. Nella qual fazione di soverchio ardore, di prestezza e di fuoco incalzante, ebbe a crepare qualche pezzo; e tra gli altri uno delle galèe romane, senza altro danno, nè delle persone ne del legno[347].

Sul mezzodì le genti deputate all'assalto presero ristoro di cibo e bevanda, in piè colle armi allato, e tutti a un desco capitani, soldati e venturieri. Indi cessarono i fuochi. Quaranta palischermi portarono i soldati al lido sotto l'ultima breccia, dove prestamente guazzando presero terra, e formarono lo squadrone[348]. Al tocco delle tre pomeridiane, alto silenzio: poi di mezzo ai mille squillò la nota carica, sonata dalla tromba della Reale, e rispose dal campo un colpo solitario. Gli occhi di tutti al cielo, il ginocchio a terra, la mano al petto; i sacerdoti compartirono l'assoluzione in compendio: e i guerrieri, gridando: Avanti, Avanti, corsero ai varchi.

Or non mi è possibile narrare insieme l'andamento delle tre colonne: e come ognuno intende, sono costretto dir le cose ad una ad una, quantunque avvenute nello stesso tempo. Comincio dal punto ove siamo, e dove tutti mi vedono, cioè dalla marina: seguirò brevemente le mosse sempre rapidissime degli assalti, e sarò presto al sommo colle altre due valorose colonne di Spagna. Ecco Claudio, il Vitello, il Baglione, il Savello, la nobile compagnia dei venturieri romani e fiorentini, insieme col fior dei prodi nelle assise di Malta, salgono arditamente verso la breccia. La colonna, stretta in massa, assorbe la scarica dei difensori appostati dietro le rovine: cadono tra ufficiali e cavalieri più che venti persone, tutte principali. Ma al tempo stesso gli assalitori si gittano nella piazza, e pigliano a corpo a corpo colle spade e coi pugnali a sgombrare l'interno delle mura di verso l'istmo, per dare la mano ai compagni. Contrasto fiero, disperato, pertinacissimo, fuori e dentro ad ogni passo: difficile tanto il salire, quanto lo scendere dall'uno all'altro muro, anche per didentro; e sempre ostinatamente conteso dai nemici appostati sulle torri, alle finestre, pei tetti. Ciò non pertanto alcuni di salto, ed altri coll'ajuto di palanche trovate a caso trapassano, ed altri ancora più agiatamente dalla estrema destra entrano e si stabiliscono nell'interno della città, e poi mano mano si prolungano verso la sinistra accostandosi alle altre due colonne di verso terra[349].

Più duro intoppo incontrò lo squadrone del centro, dove caddero o morti o malamente feriti i capitani Zumarraga e Belcazar, e i due Ferranti di Toledo e Lupo, l'alfier Sedegno, il cavalier di Ulloa, cinque alfieri, sedici sergenti, e i tre generosi fratelli Moreróla, l'uno dopo l'altro colla bandiera in mano. Ma infine anche i prodi dello squadrone centrale scavalcarono dal primo al secondo recinto, discesero nella città, e si congiunsero agli altri. Tutte queste difficoltà potrebbonsi quasi stimare per nulla in confronto al contrasto incontrato dall'ultima colonna intorno alle ruine del torrione maestro, chiamato il rivellino: quasi tutti i capitani ed ufficiali restarono sulla breccia, e la maggiore mortalità diè prova di più alto valore. Là, al dir dei contemporanei, finalmente cadde Assan-rais governatore della piazza, nipote di Dragut (da non confondere con altri nipoti nello scambio dei prigionieri); e là si potè in conclusione gridar vittoria, che, vivente Assano, non si sarebbe gridata mai, come egli aveva sempre asserito[350]. Allora si congiunsero le tre colonne, corsero la città, disarmarono il presidio, restrinsero diecimila prigionieri, e aprirono le carceri, dove un centinajo di Cristiani, e tra essi cavalieri, sacerdoti, fanciulli e femmine, lasciavano giubilanti le catene[351].

Or quivi con maggiore esultanza capitani e soldati convenivano, rallegrandosi della fortuna dei liberati fratelli: e chi lodava il valore di questo o di quello, chi il senno degli architetti e degli ingegneri; e chi per isgombrare dalla mente quell'aria di tristezza che sempre gravita sur una città presa d'assalto (anche al pensiero dei vittoriosi soldati e degli umani lettori) ricercava la cervia del Vicerè.

Sia concesso anche a me per le stesse ragioni aver modo di dire come don Giovanni di Vega, vicerè di Sicilia, aveva al campo una giovane e bellissima cervia, mandatagli in dono da donna Isabella sua figlia, da lei stessa ridotta mansueta e domestica. Don Giovanni menavasela sovente appresso, la nutriva alla sua mensa, e ritenevala nella scuderia coi cavalli di battaglia. Tutti i soldati del campo la conoscevano e l'accarezzavano. Quando le colonne si aringarono per lanciarsi alla ultima prova, il mansueto animale venne in mezzo a vedere la mostra: e nel momento solenne del primo distacco, come ebbe riconosciuta la voce del padrone, e la sua mano distesa verso la breccia, e i soldati correre a quella volta, e squillare concitate le trombe di mezzo ai tamburi, essa al modo dei generosi destrieri fiutò la guerra, spiccò un salto, e via innanzi a tutti dentro nella città pei rottami. Dove non avendo poscia trovato nè padroni nè servi, ebbe ribrezzo, come possiamo pensare, della strage; e saltando oltre pei dirupi esterni della piazza ripigliò il genio degli aperti campi, perchè non fu potuta più, nè viva nè morta, ritrovare[352].

XXV.

[11 settembre 1550.]

XXV. — Il giorno seguente, volendo celebrare con più solennità la vittoria e rendere all'Altissimo le dovute grazie, ordinarono l'ingresso trionfale dal campo alla città per la porta maestra. Mettiamci sul ponte, e potremo a bell'agio vedere la sfilata: avanti a tutti i picconieri e la musica, appresso un drappello di archibugeri ed uno di picchieri, indi il vecchio Doria col notissimo berrettone di generale del mare; e in ricchi elmetti con lui don Giovanni e don Garzia: dopo in morione e corsaletto i generali delle galere Sforza, Orsini, e Claudio; e tutti arnesati di piastra e maglia i generali delle fanterie Baglioni, Savelli, Vitelli e gli altri. Ecco in gran frotta tra i capitani Filippo Orsini da Vicovaro, Francesco de Nobili da Lucca, Antonio Fani da Bologna, e tra i gentiluomini ed ufficiali l'Andreotti, il Filippetti, e il Biancardi, gli Oddi, il Ranieri, il Parisani, e tanti altri cavalieri e signori spagnuoli, romani, napoletani, genovesi e fiorentini[353]. Pensiamo splendore e bellezza di gente esultante, soldati e marinari delle varie bandiere, ed entriamo con loro per la sospirata porta nella città, infino alla novella chiesa di san Giovanni, ove si canta laude a Dio, per riconoscimento della compiuta vittoria.

[12-30 settembre 1550.]

Tanto bastò a don Giovanni di Vega per disciogliere a un tratto il triumvirato, quantunque grande prevedesse l'alterazione di don Garzia[354]. Terminata la guerra, solennemente fece pubblica la giurisdizione sua per ragione dell'ufficio, come vicerè della Sicilia: si dichiarò unico capitan generale in Africa, scrisse col suo nome i bandi, prese possesso della città, e la pose sotto il civil dominio di Mùlei Achmet re di Tunisi, amico e tributario del re di Spagna, a patto che non mai più quivi sostenesse nè tollerasse pirati; e di più facesse le spese alla guarnigione di mille fanti, che per malleveria dei patti intendeva lasciar nella piazza al modo stesso che si tenevano alla Goletta[355].

[30 settembre 1550.]

Alcuni già parlavano di voler fortificare Afrodisio alla moderna: e il Vicerè più d'ogni altro desiderava assicurare con grandiose opere difensive il possesso di piazza tanto importante, conquistata a gran fatica sotto il suo governo. Però a quel Prato architetto e ingegnere militare di sua fiducia, che abbiamo addietro nominato, diè il carico di studiare sul terreno le linee che meglio potessero convenire a rendere vie più sicuro quel luogo, già per sua natura fortissimo. L'architetto eseguì le commissioni, e non istette contento ai disegni di pianta sulla carta, ma volle farne il modello in rilievo di legname, così perfetto e bello, che il Vicerè si tenne onorato di farlo presentare all'Imperatore per le mani di un gentiluomo, spedito per questo rispetto alla Corte[356]. Intanto l'istesso Prato dava mano ai risarcimenti necessarî intorno alle brecce, ed a spianare le trincere dell'assedio, e ad imbastire qualche principio di nuovi rinforzi[357]. Sarà inutile entrare in altri particolari: come ciascuno facilmente prevede, non se ne fece più nulla, per la consueta difficoltà della spesa. Anzi l'istesso Imperatore dopo tre o quattro anni, pensandosi troppo aggravato di qualche soldo che gli andava per quelle genti, mandò colà don Fernando d'Acugna con buona provvisione di piccozze e di fornelli a smantellare tutte le fortificazioni nuove e vecchie, e a ritirarne il presidio[358].

Nondimeno dalle lettere dei contemporanei possiam noi raccogliere quanto fosse pregiata la vittoria e la conquista d'Afrodisio; e come ci metta bene ripetere la scrittura fattane da Annibal Caro per ordine del cardinale Alessandro Farnese[359]: «Al signor Giovan di Vega. — La vittoria, che Vostra Eccellenza ha riportata dall'impresa d'Africa, è tale che io me ne debbo rallegrar seco; non solamente come amico affezionato suo e desideroso della propagazione dell'imperio di sua Maestà Cesarea, ma come cristiano; poichè ne risulta beneficio universale a tutto il Cristianesimo, così per l'esaltazione della fede, come per la sicurezza delle provincie. Il qual frutto solo è tanto grande, che mi pare superfluo di magnificarla con altre circostanze per molte e grandi che sieno quelle che la possono mostrare grandissima, come la è con effetto; massimamente per essere notissime e considerate da tutto il mondo. Me ne rallegro adunque, come ho detto, desiderando che le sia d'altrettanto merito appresso a Dio, di quanta riputazione l'è stata e sarà sempre appresso degli uomini. Di Roma, il primo di novembre 1550.»

[Ottobre 1550.]

Con questo i nostri appresso al principe Doria venivano di ritorno verso la Sicilia e verso Napoli, e ricevevano in ogni parte dalle città e dalle fortezze ogni maniera di onoranza e di saluti; ed ogni dì meglio sentivano quanto da presso e da lungi le corti e i popoli si rallegrassero delle loro vittorie[360]. Il Papa aveva ordinato solennissimi ringraziamenti a Dio nella chiesa di san Pietro, luminarie per tre notti consecutive, fiaccole al Campidoglio, falò e musica per le piazze principali[361]. Le quali pubbliche dimostrazioni di esultanza, come erano state grandi nel Regno, nello Stato e in Roma, così crebbero maggiori in Toscana, nella Liguria e a doppio nelle Spagne; avendo più d'ogni altro quei popoli goduti i frutti della vittoria. Le ricchezze, le artiglierie, gli schiavi andarono ai padroni: ed in Roma Orazio Nocella da Terni, inviato straordinario del Vicerè, portò una lettera diplomatica per dire che, dopo Dio, il gran beneficio della vittoria doveasi a papa Giulio ed alle sue genti, capitani e marinari[362]. Stessero contenti con Dio: chè dagli uomini altro non toccherebbero se non un chiavistello, alcuni cani, tre cavalli, due leoni e qualche arredo barbarico da far paghi i curiosi per le vie a vederli passare. In corte sbraitava il Nocella, dicendo[363]: «Ecco il chiavistello della orribil carcere, dove stavano rinchiusi gli schiavi cristiani. Ecco la bandiera di Dragut tolta dalla torre maggiore di Afrodisio. Questi sono i cani della Libia, questi i cavalli messi alla maniera dei beduini; questi i leoni domati e questi gli archi di corno. Vedete la grandezza dell'animo devotissimo e non pensate alla povertà del dono.»

Così vociava Nocella in palazzo. Ma in piazza si diceva diversamente: e ce ne resta memoria in un foglietto volante di quattro pagine, stampato nella stessa città di Roma con tutte le consuete approvazioni, e proprio di quei giorni, per dare notizia al pubblico dei fatti correnti[364]. Questo non sia per rimprovero ad alcuno, ma valga soltanto a ribadire il chiovo più volte battuto sull'impronta caratteristica della nostra marineria: sempre pronta ad ogni servizio pel pubblico bene, senza altra speranza di privato vantaggio. Ai nostri marini dovete meritamente apporre l'antica formola del dritto romano, ricordata per final conclusione da Tullio, che dice[365]: «Se ne tornino con lode alle case loro.»

XXVI.

[Dicembre 1550.]

XXVI. — Onoratamente pertanto quei signori che abbiamo scorto in Africa se ne tornarono chi a Roma, chi a Perugia, chi a Bologna; e in Civitavecchia non restò altri che il capitano Carlo Sforza senza condotta. Conciossiachè parendo ai Camerali spenta al tutto la potenza di Dragut e degli altri pirati, pensarono togliersi il peso di mantenere le galèe e facilmente di mutuo consenso sciolsero il contratto, lasciando allo Sforza piena libertà di condurre la squadra ovunque meglio gli fosse tornato[366]. Ed egli consapevole di essere odiato dagli Spagnuoli, e per questo non fidandosi di toccare nè i porti del Regno, nè di Toscana, nè della Liguria, dove i suoi nemici comandavano, se ne restò più di prima attaccato al porto di Civitavecchia, corseggiando contro i pirati per conto suo, e facendo buona guardia intorno alla spiaggia romana: di che i Civitavecchiesi, che erano la parte maggiore del suo armamento, gli restarono grandemente obbligati, e divennero sempre più amorevoli a lui ed alla sua casa[367].

[Marzo 1551.]

Se non che verso la primavera seguente fu costretto partirsi anche di qua per la guerra vicina tra Francia e Spagna, poscia allargata in Italia ed in Europa. La prima scintilla scoccò da Parma, dove quel duca Ottavio, genero dell'Imperatore, per non essere cacciato di casa sua, e per non perdere Parma tra gli artigli del suocero, come aveva perduta Piacenza, erasi gettato in braccio ai Francesi: indi altra guerra tra le nazioni rivali. Carlo unito coi Papalini, Arrigo coi Turchi. Tornò l'armata ottomana sui lidi d'Italia, tornò Dragut più terribile di prima. Bruciata Agosta in Sicilia, arsa la rôcca, offesa Malta, preso il castello del Gozzo e quattromila isolani fatti schiavi, perdute sei galere dal Doria, cacciati i Gerosolimitani dalla città e fortezza di Tripoli. Travolto dal turbine Carlo Sforza si ritirò colle sue galèe a Marsiglia[368]. Seguì la stessa strada che prima di lui avean battuta altri quattro dei nostri capitani; il Doria, il Vettori, il Salviati, e l'Orsino. Tutti a un modo e di primo slancio da Civitavecchia a Marsiglia, ma niuno di loro per lungo tempo contento.

[Maggio 1551.]

Meno di ogni altro ebbe a restarne soddisfatto lo Sforza, i cui strani ed infelici casi devono essere da noi ricordati. Infin dal primo viaggio di Marsiglia, menando seco Orazio Farnese duca di Castro, con Francesco de Nobili, Antonio da Gubbio, Aurelio Fregosi, e altrettali partigiani, naufragarono presso a Viareggio, perdendovi due galere, e mettendo in sospetto i Signori lucchesi, i quali subito ne scrissero a don Ferrante Gonzaga così[369]: «Illustrissimo et Eccellentissimo signore[370]. Havendo questa mattina hauto aviso dal Commissario nostro di Viareggio, che per fortuna erano date a traverso dui galere nella nostra spiaggia, in un luogo vicino alle confini con l'Illustrissimo duca di Fiorenza, inviammo subito a quella volta un nostro Commissario particolare, per intendere il successo, et di chi fussero le galere, inventariare le robe, et farle guardare, il quale all'arrivo suo ritrovò che le galere erano del priore di Lombardia, et che havevano portato il signore Horatio Farnese[371], il signor Aurelio Fregoso[372], il capitano Antonio di Augubio, con tre o quattro altri servitori del signor Horatio[373], li quali tutti insieme con le robbe di già era stati condutti a Pietrasanta, castello ivi vicino, dai sudditi del prefato signor Duca, et lassati alcuni altri, pure da Pietrasanta, alla guardia delle galere, nelle quali non era restato altro che artiglierie, vele, et remi, et parendoci pur caso di consideratione et importanza, c'è parso debito nostro farlo intendere con diligenza a Vostra Eccellenza[374], sì come faremo sempre che occorrerà cosa degna di aviso, et alla buona gratia sua ci offeriamo et raccomandiamo con tutto il cuore, pregandole felicità. — Il dì xv di maggio MDLI ».

Al tempo stesso i Signori lucchesi, tenendosi in equilibrio, scrivevano condoglianze e facevano offerte ad Orazio duca di Castro, come risulta dalla risposta di lui nel giorno seguente e in questi termini: «Molto Magnifici Signori. Io desiderava grandemente fare il camino di Lucca per poterle ringratiare a bocca delle cortesie et offerte che gli è piaciuto farmi, ma per essere stato intertenuto qua in Pietrasanta più che non pensava, mi è parso per spedirmi più tosto del viaggio, pigliare il camino più breve, così hoggi, piagendo a Dio, piglierò il camino per Parma, come da M. Francesco Nobili intenderanno appieno, al quale ho commesso in nome, che li visiti, mi l'offerisca, et le dia conto di quanto occorre, le piacerà dargli tutta quella fede che farieno a me proprio, che sarà il fine della presente con raccomandarmegli, et offerirmegli quanto maggiormente posso, che nostro signore Iddio le concedi ogni felicità. — Di Pietrasanta, alli xvj di maggio MDLI ».

Replicavano nell'istesso tuono quei Signori rispondendogli così: «Illustrissimo et Eccellentissimo Signore. Con la lettera di Vostra Eccellenza da Pietrasanta, et per relatione di M. Francesco Nobili habbiamo inteso il buon animo suo verso di Noi, et la cortezia che s'è degnata di usare in farci partecipi de' suoi felici successi[375]. De' quali sentiamo quel piacere che si possa maggiore, et ne le rendiamo infinite gratie di così corteze offitio, rendendola certa, che c'è dispiaciuto grandemente in questa sua aversità di mare non haverle potuto mostrare quanto siamo obligati alla sua casa Illustrissima, et perchè più appieno potrà essere informata dal detto M. Francesco, rimettendoci a lui non le diremo altro, se non che alla buona gratia di Vostra Eccellenza ci offeriamo et raccomandiamo con tutto il cuore pregandole ogni felicità. — Il dì xix maggio MDLI ».

[1552-53.]

In somma col naufragio di Carlo Sforza e di Orazio Farnese cominciò la guerra di Parma, e l'anno seguente ebbe termine per la mediazione dei Veneziani[376]. Ma fu tregua di breve durata, chè si accese subito la guerra di Siena. Da capo, per terra e per mare, Turchi, Protestanti, Francesi e Spagnuoli in arme: guerra in Toscana, in Piemonte, in Francia, in Germania; desolazioni di Dragut in Sicilia, all'Elba, in Corsica. In mezzo a queste furie brancolava lo Sforza[377]; e finalmente gli succedeva quell'intricato caso, di che, avendosi ora piena contezza per le recenti pubblicazioni dell'Archivio storico, non devo io passarmi. Qui si parranno le costumanze marinaresche del secolo decimosesto, qui le notizie delle città littorane, e gli intrighi delle fazioni, e le astuzie dei partigiani, e qui la causa prossima della famosa guerra di Campagna tra gli Spagnuoli e Paolo IV. Prendo a dirne dal principio.

XXVII.

[1554.]

XXVII. — Si noveravano per questi tempi cinque personaggi, tutti di alto affare, nella casa Sforzesca: ciò è a dire, il conte di Santafiora, capo della famiglia; il cardinal Guidascanio, camerlengo di santa Chiesa; Alessandro, chierico di Camera; e i due minori fratelli, che seguivano la professione delle armi, Mario e Carlo. Stando l'Italia divisa dalle fazioni francese e spagnuola; e non potendo i baroni sperar nulla, e presso che non dissi vivere, senza accostarsi o a questa o a quella, dove con grande insistenza e con ogni maniera di artifizî erano chiamati, anche a costo di rompere la fede ai proprî sovrani e la pace nelle istesse loro famiglie, v'ebbe pur screzio nella casa Sforzesca; i primi tre, Conte, Cardinale e Prelato tenean fermo a parte spagnuola; e gli altri due, Soldato e Marinaro, a parte francese. Ma perchè la maggiore autorità stava coi primi, non rimaneva ai secondi nè gran forza nè gran credito: e per quanto si studiassero di parere franceschi, non potevano mai togliere dal capo a costoro che, essendo eglino fratelli dei nemici loro, non dovessero essere guardati e avuti a sospetto.

Con questi auspicî non lieti Carlo portò le sue galere a Marsiglia; e subito corse per le poste alla corte in Parigi per baciar le mani al re Arrigo II, il quale in quei primi fervori lo accolse con molte dimostrazioni di gradimento. E Carlo prese servigio, unì le sue galèe a quelle del Re, militò in tutte le fazioni combattute per quei tempi nelle acque della Liguria e della Corsica, ebbe sventure, perse quattro galèe, due per combattimenti e due per naufragio; ne costruì due di nuovo a sue spese, sempre in ossequio e servigio di Francia. Ma non avendo per tutto ciò potuto cessare i sospetti che della sua fede avevano preso gl'invidiosi, e accortosi che qualche brutto tiro mulinavasi contro la persona sua, smucciò via secretamente, lasciando le sue galèe nel porto di Marsiglia. Però il Re le fece sequestrare: ne tolse il governo al capitan Filippo Orsini da Vicovaro, uomo del cardinal Guidascanio, e ne dette il carico al capitan Niccolò Alamanni, fuoruscito fiorentino e francese smaccato, per l'avversione sua contro al duca Cosimo amico degli Spagnuoli[378].

Ciò non pertanto Carlo, venuto in Italia, continuò a militare pei Francesi medesimi nella guerra di Siena, entrando da venturiero nelle fazioni che furono combattute qua e là per quello stato, con molto vantaggio dei padroni, per essere nelle parti medesime le castella della sua casa. E tanto animosamente si era cacciato nella infelice campagna, che in uno scontro di cavalli tra il marchese di Marignano e Piero Strozzi, Carlo per liberare Mario suo fratello fatto prigione da Alessandro Palogi gentiluomo romano, troppo arditamente e senza riguardo alcuno cacciatosi innanzi, incontrò la medesima sorte, ed ambedue furono menati prigioni a Firenze[379]. Per questi fatti Carlo rientrò nella grazia del Re, tanto che si ardì scrivergli come e' desiderava rimettersi sulle stesse galèe al modo di prima per servirlo sul mare, dove meglio poteva: e il Re comandò al capitan Niccolò Alamanni, il quale allora si trovava in Corsica colle galere medesime, che dovesse venire in Civitavecchia a levarlo, subito che, pagata la taglia, si fosse riscosso dalla prigionia.

XXVIII.

[23 maggio 1555.]

XXVIII. — Per la morte accaduta in quest'anno di Giulio III e di Marcello II, era addì ventitrè di maggio divenuto papa il cardinal Giampietro Caraffa col nome di Paolo IV; uomo, per quel che ne dice il Pallavicino e con lui ne dicono tanti altri dotti e virtuosi scrittori, di gran zelo per la religione, ma impetuoso verso ciò che sembravagli giusto ed onesto. Certo della rettitudine delle sue intenzioni, non era ugualmente destro nell'ordinare i mezzi al fine: e non cogliendo nelle opere il punto giusto tra gli estremi, dava nel difetto o nell'eccesso, e più in questo che in quello. A tale disposizione dell'animo aggiugneva molta avversione contro la Spagna signoreggiante in Napoli sua patria, e specialmente contro la corte e i ministri di Carlo e di Filippo per ciò che toccava il loro governo civile e religioso[380]. Queste avvertenze sono necessarie: esse sole bastano a spiegare tutti i fatti della sua vita e della sua morte. Perciò fin dal principio della esaltazione i partigiani si empirono di sospetti, e dovunque inciprignirono le nimicizie, i timori e le trame delle grandi fazioni che tenean divisi i popoli.

Non ignoravano gli umori del tempo e le inclinazioni del nuovo Pontefice i maggiorenti di casa Sforza: prevedevano la tempesta, e desideravano trovarsi uniti e forti per dare e per ricevere maggiori vantaggi. Avvisatisi adunque dei successi di Carlo in Francia, e delle sue disgrazie e ritorni, pensarono volgere ogni cosa a seconda dei loro desiderî, tirando anche lui a parte spagnuola. Di che lo confortarono assai, e lo indussero a dissimulare co' suoi Francesi, finchè non avesse ricuperato le proprie galèe: colle quali, essi dicevano, tornerebbe come capitano di potenza e di seguito più e più accetto a Cesare[381]. Con questi concerti aspettarono che l'Alamanni, secondo gli avvisi di Francia, menasse dalla Corsica in Civitavecchia le galèe per imbarcarvi il Priore; il quale, uscito di prigione, alloggiava in Roma coi fratelli.

[9 agosto 1555.]

Giunto finalmente il capitan Alamanni nel porto di Civitavecchia, Carlo non si fece trovare colà: ma restossi in Roma colla solita scusa d'un piede azzoppato dal calcio di un cavallo. In sua vece mandò monsignor Alessandro suo fratello a trattenere le galèe fino alla venuta sua, dandogli scrittura di piena autorità sulle medesime[382]. Alessandro giovine, ardito e prosuntuoso per la parentela farnesiana, per la grandezza di casa sua, e per la protezione imperiale, arrivato con secrete intelligenze in Civitavecchia, salì a bordo della capitana, ricevuto con tutti gli onori e con molta amorevolezza dall'Alamanni. Dopo desinare, come stanco del viaggio per aver cavalcato di notte, scese a riposo nella camera d'abbasso: ove indi a poco lo segui il capitan Niccolò, volendo domandargli più specialmente le nuove del Priore, e la cagione del non esser venuto egli stesso in persona, secondo il concerto. Alessandro ripetè l'impedimento del piede; e in conferma mostrò all'Alamanni l'ordine in scritto. Leggendo quella carta, Niccolò fece tali e tanti atti di maraviglia che mostrò chiara la poca volontà di contentarsene: il perchè Alessandro, il quale era sul letto, rizzatosi in piè, gli domandò risolutamente, essendo due soli in camera, se intendeva di ubbidire o no. Sopra tale domanda fece l'Alamanni qualche osservazione, allegando varie difficoltà, e specialmente gli ordini del re di Francia. Allora Alessandro, preso con una mano il pugnale, che a similitudine degli ufficiali di marina aveasi allacciato alla cintura[383]; e coll'altra mano stretto messer Niccolò nel petto, gli disse: Vuoi tu dunque tenere per forza la roba di casa mia? e lo minacciò di presente se non prometteva ubbidienza. Sgomentossi l'Alamanni, e rispose saper lui bene, cui le galere di buon diritto appartenessero; e perciò esso e gli ufficiali starebbero contenti agli ordini scritti dal Priore. Subito Alessandro lo rinserrò nella camera di sotto, e salito in poppa alla spalliera trovò da cinquanta a sessanta giovani civitavecchiesi, i quali, perchè affezionati alla casa sua, ed avvisati a tempo, erano venuti a bordo come per visitarlo[384].

Possiamo pensare tra questi il capitan Francesco Andreotti, già seguace di Carlo Sforza in Africa[385], il prode giovane Filippo Filippetti, venturiero alla stessa impresa, e poscia capitano a Lepanto e alle altre fazioni di quella lega[386]; l'alfier Trajano Biancardi, che poi vedremo colonnello[387]; e così il capitan Vincenzo Stella, gli Anselmi, i Rossi, i Rocchi, gli Egidî, i Bonifaci, i Fiori, i Tomaini, i Martinelli ed altrettali, i cui nomi si leggono per quel secolo nei primi onori e documenti della loro patria[388]. Rinfrancato da tanti amici, Alessandro prese animo maggiore, licenziò alcuni fedeli dell'Alamanni, e chiamati a sè gli ufficiali e i marinari, parte ne ritenne, e parte ne prosciolse, dando a ciascuno i suoi stipendî. Nell'altra galèa, governata dal capitan Francesco de Nobili, uomo parziale di casa Sforza, non occorse altra novità, limitandosi Alessandro a fargli intendere che vedesse modo di prevenire ogni inconveniente. Finalmente per queste prontissime disposizioni trovandosi da ogni parte assicurato, cavò dal govone dove era racchiuso l'Alamanni, e con bel garbo gli diè licenza di andarsene a suo talento. Così Alessandro si fece padrone dei due bastimenti col disegno di condurli tra le braccia degli Spagnuoli di Napoli, avendoli oramai cavati dalle branche dei Francesi di Marsiglia.

XXIX.

[10 agosto 1555.]

XXIX. — Restava però la difficoltà di tirarli fuori del porto di Civitavecchia, luogo neutrale alle due fazioni, dove pur si faceva diligentissima guardia dopo il successo di Giannettino nel quarantaquattro[389]. Il castellano Pietro di Capua, senza il cui permesso non si poteva uscire, conoscendo le inclinazioni del Papa, e udite le querele del capitan Niccolò, non volendo offendere nè la Spagna, ne la Francia, andò a pregare monsignore Alessandro che non si partisse, infino a che non si fosse dato conto a Roma delle cose successe. Alessandro, non potendo di meno, consentì: ma al tempo stesso, per la importanza del caso, spacciò subito una fregata con avviso al cardinal Guidascanio di ciò che si era fatto, perchè prontamente mandasse la licenza di uscita libera. La fregata con buon vento di Ponente nella stessa notte imboccò la Fiumara, e la mattina seguente avacciando a remi e all'alzaja fu in Roma: dove il Cardinale, udita e pesata ogni cosa, facilmente ottenne da don Giovanni Caraffa, conte di Montorio, nipote del Papa, e novello capitan generale di tutte le milizie nello Stato, una lettera coll'ordine al castellano di Civitavecchia di non impacciarsi in questo negozio, e di lasciar liberamente partire Alessandro colle galèe quando e come a lui piacesse. Perciò, avvisato Alessandro che poteva andar liberamente pe' fatti suoi, questi senza mettere tempo di mezzo, uscì subito colle galèe dal porto, e andò a sorgere sei miglia lontano a ridosso di capo Linaro per aspettarvi il fratello.

[11 agosto 1555.]

Se non che due giorni dopo lentamente, viaggiando a piedi, arrivò in Roma l'uomo del Castellano; e appresso comparve pure il capitano Niccolò, menando scalpore, e facendo altissime querimonie specialmente presso i partigiani, tanto che l'Ambasciatore francese corse dirittamente a palazzo, e rappresentò al Papa il fatto come frodolento ed oltraggioso al re Arrigo, in un porto libero, e con discapito dell'autorità pontificia. Paolo prese fuoco: e subito senza cercar quali ordini su quell'affare avesse dati il Conte suo nipote, fece rispondere al Castellano che si guardasse bene attorno, e non lasciasse fuggire i temerarî.

Costui ricevuta da Roma la seconda risposta contraria alla prima, e ridotto a non potersi più ajutare colla forza, scese alle preghiere. Andò amichevolmente ad Alessandro, narrandogli il suo impaccio, e scongiurandolo insieme per l'amor di Dio e dei Santi a ritornare. Ma l'altro, più che mai risoluto, stette fermo sul niego: congedò Pietro, chiamò gli amici, e dicendo di essere ormai troppo innanzi per tornare indietro, fece volgere le prore verso Napoli: dove a gran festa fu ricevuto dal vicerè don Bernardino di Mendozza, e dal principe Doria capitano generale del mare[390].

Il Papa all'incontro per la sinistra relazione avuta di questo successo, e per le feste fatte in Napoli a suo disdoro, sdegnossi anche di più: e correndo ai risentimenti, fece citare sotto gravissime pene monsignor Alessandro, e intimar al cardinal Guidascanio che dentro tre giorni facesse tornare le galèe, non ammettendo nè scusa nè ragione che egli potesse allegare in sua discolpa.

[24 agosto 1555.]

Questo accidente riscaldò in Roma le passioni ed i partiti. Spagnuoli e Francesi guardavansi in cagnesco, nulla più desideravano quanto venir presto alle mani[391]. I partigiani del Cristianissimo correvano a palazzo, e mantacavano sul fuoco; quelli del Cattolico si riunivano di notte presso l'istesso Camerlengo, e facean catasta. Discorsi e progetti sediziosi bollivano. Intanto, spirato il termine del monitorio, Paolo faceva condurre in Castello il Lottino segretario del Camerlengo[392], poi l'istesso celebre Cardinale, appresso Camillo Colonna[393]. E minacciava di non si fermare; quando il marchese di Sarrìa ambasciatore di Spagna, vedendo il Papa risolutissimo, la fazione francese potente, il palazzo e la città ben guardati, si rivolse a mitigare lo sdegno di Paolo, offerendosi mediatore per rendergli le galèe; sicuro che ad un suo cenno sarebbero state da Napoli rimandate a Civitavecchia. Sperava in questo modo estinguere l'incendio.

Le private corrispondenze dei contemporanei, che in gran copia ancora ci restano edite ed inedite, sono piene dei rumori crescenti intorno al successo ora narrato; e tutte prevedono gli eccessi della guerra. A me basterà un brano scritto dalla penna del Caro da parte del cardinal Farnese al cavalier Tiburzio, agente farnesiano nella corte di Francia; lettera citata pur dal Pallavicino colla data del 24 agosto 1555 di Roma[394]: «Delli tredici di questo scrissi una lettera al Re ( Arrigo II ) dell'accidente seguìto delle sue due galere, che il signor Alessandro Sforza ha levate del porto di Civitavecchia, e condotte agli Imperiali; e del risentimento che Nostro Signore n'ha fatto, e della mala satisfazione, che per questo era cominciata tra Sua Santità e gl'Imperiali. Io non ne scrissi a Voi non avendo tempo, per la fretta che l'Imbasciatore fece di spedire il corriero: ma penso che arete inteso tutto come è passato. Questa sarà per dirvi come le cose sono andate di poi pigliando augmento, ed inasprendo sempre: perchè questi Imperiali, avvezzi con papa Giulio, tengono lor modi soliti; e Sua Santità è molto generosa e di saldissimo proposito, massimamente dove si tratta dell'onore e della dignità sua. Fin ad ora gli hanno dato parole ed intenzione di far ritornare le galere, ed offertele anche sicurtà; ma con effetto non hanno fatto cosa che Sua Santità voglia. E mi pare di vedere che le cose mirino più a rottura, che altrimente: non ci essendo più l'onore di Sua Beatitudine a cedere; tanto si è messo innanzi e con le parole e con le provvisioni: avendo fatto venire i cavalli del Duca d'Urbino, e fatte alcune compagnie per Roma persino a due mille fanti, con altri provvedimenti che tendono tutti a questo fine, o di avere l'obbedienza di questi signori Santafiora, o di farne dimostrazione. Pare però a molti che il partito sia molto pericoloso per il Papa, essendo circondato dalle forze dell'Imperatore, e non avendo noi più forze in Toscana che tante. Per questo non si manca di contentare il Papa nel medesimo proposito; ed i Ministri di Sua Maestà potranno far fede dell'opera mia, senza che io entri in altro. Ma io veggo che la cosa corre da sè stessa al palio.»

XXX.

[15 Settembre 1555.]

XXX. — Per questo non era lontano il vicerè di Napoli dal consentire coll'ambasciator di Roma alla restituzione delle galere: temperamento divenuto ormai necessario pel proposito irremovibile del Papa, e per togliere ai nipoti il pretesto di giustificare col rifiuto la guerra che macchinavano. E quantunque agli Sforzeschi non piacesse il perdere quelle galere, e mal volentieri soffrissero di restarsi sgarati; pure considerando il disordine della famiglia nel tempo presente, e il maggior pericolo che le sovrastava pel futuro, dibattuto il pro e il contra di questa bisogna in Napoli tra il vicerè Mendozza, il principe Doria, il conte di Castro, e quel di Santafiora, conclusero la restituzione e il modo del ritorno. Alessandro rimenò le galere innanzi al porto di Civitavecchia: ed essendone esso solo quivi presso smontato, si rivolse con una fregata verso la Toscana, lasciando ordine al capitano Antonio Fani ed a Francesco de Nobili, che ambedue far dovessero quanto sarebbe loro commesso da parte del Papa[395]. Poco dopo il capitan Alamanni rimettevasi al governo di quelle galere in servigio del re di Francia, che non le rese mai più agli antichi padroni, risoluto di tenere per sè quegli eccellenti bastimenti di guerra, anco a costo di pagarne ad alto prezzo la valuta[396]. Del Fani non mi torna più notizia veruna: del Nobili una sola lettera, scritta dal cardinal Farnese dopo questi successi, parla molto onorevolmente; e ce lo mostra disposto a ritirarsi col titolo di Protonotario in Lucca sua patria[397].

Così ebbe fine il capitanato di Carlo Sforza: il quale in grandi intricamenti per tanto tempo vissuto, senza mai potere nè sè, nè le sue cose avere in assetto, nè in Malta, nè in Africa, nè in Roma, nè in mezzo agli Spagnuoli, nè appresso ai Francesi, finalmente deliberò di non più intromettersi nelle altrui brighe; e quietamente si ridusse a vivere in Parma nella priorale sua casa di Lombardia. Là menò il resto di sua vita tranquilla, servendo al religioso suo Ordine infino alla morte, che fu dopo l'anno settantuno[398]. Gravissimo danno la ritirata degli uomini di senno e di valore dal maneggio dei pubblici affari. Ma vi sono certi tempi che rendono non solo onesta, anzi necessaria la solitudine. Quando nella civil società pel mal governo delle fazioni si ottenebra il criterio illativo e pratico intorno ai dritti e intorno ai fatti; quando gli inganni ed i soprusi aduggiano ogni semenza di virtù, e troncano ogni slancio di generoso operare pel comun servigio; insomma quando l'interesse e lo spirito di parte mena tutto agli eccessi, allora agli onesti, consapevoli del proprio dovere e della propria dignità, non resta altra scelta che tenersi in disparte, come fece il capitano Carlo Sforza.

LIBRO OTTAVO. Capitano Flaminio Orsini,

signore di Stabia.

[1555-1560.]

SOMMARIO DEI CAPITOLI.

I. — Convenienza del considerare i particolari dei nostri capitani. — Pel successo delle galèe levansi in arme i Colonnesi. — Trattati della Francia contro la Spagna. — Paolo IV, Carlo V, e Filippo II nell'ottobre 1555.

II. — Armamenti in Roma. — Altre pratiche (novembre e dicembre 1555). — I Caraffi a Paliano. — Tregua di Vauxelles (5 febbrajo 1556). — Il cardinal Caraffa in Francia. — Atti fiscali in Roma contro la Spagna.

III. — Notizie di Flaminio Orsini, sconosciuto ai genealogisti. — Capitano e castellano in Civitavecchia. — Quindici galèe, e capitani diversi. — Apparecchio di difesa e di fortificazioni in Civitavecchia (6 febbrajo 1556).

IV. — Milizia cittadina in Roma. — Capitani e fuorusciti di Napoli e di Toscana. — Soldati alle poste, alle mura e alle quattro riserve (marzo-agosto 1556). — La guardia nobile di primo impianto.

V. — Il duca d'Alba a Napoli vicario di re Filippo. — Suoi disegni strategici. — Occupa la Campagna di Roma (1 settembre). — Flaminio Orsini sventa la trama di Fernando e di Cosimo, e mantiene Civitavecchia (14 settembre 1556).

VI. — Nettuno e sua importanza. — Riscontro tra Nettuno e Palo dei Colonnesi e degli Orsini. — Le galere private dei Romani. — Orsini, Farnese, Sforza, Colonna e Vaccari.

VII. — Nettuno occupato e perduto. — Munito dal Duca, e tentato inutilmente dai Francesi (ottobre 1556).

VIII. — Ostia, rocca e città, i due rami del Tevere, e l'isola. — Provvisioni fallaci. — Orazio dello Sbirro colla sua compagnia alla difesa (23 ottobre). — Il Duca mette in Ardea e in Porcigliano le farine e i forni (28 ottobre).

IX. — Ponte di barche. — Assalto ad Ostia. — Difesa della città per quattro giorni. — Ritirata nella rôcca (4 novembre 1556). — Accampamento e batterie del Duca. — La cavalleria (8 novembre 1556).

X. — Sbigottimento della plebe romana. — Sortita di Piero Strozzi lungo la riva destra del Tevere. — Scorridori nemici alle porte di Roma. — Il conte Berardi e il cardinal Caraffa per la via di sant'Agnese (12 novembre). — La batteria ad Ostia (16 novembre).

XI. — Assalto inutile di due compagnie d'Italiani (17 novembre). — Condizione della rôcca e della breccia.

XII. — Jattanza d'un soldato. — Necessità del secondo assalto. — Gli Spagnuoli cacciati indietro come gli altri. — Grande mortalità, e difesa valorosa. — Reminiscenze locali.

XIII. — Prostrazione e tristezza del Duca. — Angustia simile di Orazio, che non sapendo dell'altro gli si arrende (18 novembre). — Blocco e sgomenti di Roma. — La tregua dal 19 novembre alla fine del 1556.

XIV. — Levata del re di Francia contro quel di Spagna. — Il Guisa in Italia. — Pietro Strozzi ricupera Ostia, torre Bovacciana, e il forte di terra alla foce (8 gennajo 1557). — Trattato di Cosimo contro Ancona reso vano. — Vicende generali della guerra (gennajo e luglio 1557).

XV. — Perdite dei Francesi in Fiandra (10 agosto) — Richiamo del Guisa e abbandono di Paolo. — Pace di Cave (14 settembre 1557).

XVI. — Inondazione del Tevere, e nuovo letto più lungi da Ostia. — Dimostrazione del tempo, non conosciuto dal Canina. — Ultima comparsa della baronia in arme, da niuno avvertita.

XVII. — Fazioni delle galèe e del capitano Flaminio, durante la guerra. — Il Moretto, ultimo venturiero, simile al Morosino dei primi. — Precedenti del Moretto, bravura, guadagni, e sequestri. — Muta bandiera e partito. Si acconcia cogli Strozzi (1556-57).

XVIII. — Moretto disgustato fugge da Civitavecchia portandosi via una galèa. — Trova protezione in Nizza. — Lettera del Duca in suo favore. — Piglia la bandiera di Savoja (23 dicembre 1556).

XIX. — Trama di Piero Strozzi per ripigliare la galèa e il Moretto. — Il capitano Fouroux a Malta e in Levante. — Artificiosa conserva. — Il Moretto cade nell'inganno, ed è fatto prigione (gennajo 1557).

XX. — Primo litigio tra i Cavalieri e il Fouroux. — Poscia in Malta tra i partigiani. — Attizzamento del Moretto. — Ricorsi di mercadanti contro di lui e contro il Fouroux. — Imprigionato anche l'altro (marzo 1557). — Necessità di dirne. — La filosofia della storia.

XXI. — Savoja e Spagna in favore. — Francia e Roma contro il Moretto. — Confusione dei Maltesi (16 maggio 1557). — Mezza misura pel Fouroux. — Lo stesso pel Moretto (17 settembre 1557). — Fuga di quest'ultimo, litigi, sequestri e transazione cogli eredi.

XXII. — Il capitano Flaminio alla fine della guerra intestina si rimette contro Dragut. — Origine di costui, suoi fatti e detti. — Stratagemmi, fisonomia e medaglia (giugno 1558).

XXIII. — I Turchi richiamati dai Francesi in ajuto. — Rovine in Reggio, Massa e Sorrento. — Ricatti nella Liguria (giugno). — Desolazione di Spagna (settembre 1558). — Morte di Carlo V, e pace di castel Cambrese (aprile 1559). — Apparecchi contro Dragut (agosto 1559).

XXIV. — Flaminio confermato in sede vacante, e con lui Galeazzo Farnese e Filippo Orsini per Tripoli. — Ritorno ai Farnesi e alle loro galèe: documenti.

XXV. — Novero dell'armata in Messina. — La lista. — Le galèe, legni di linea, per tutta l'antichità. — Anche sull'Oceano, e documenti. — Le navi da carico, e pei cavalli: documenti (settembre 1559). — Difficoltà di menare insieme galere e navi.

XXVI. — La città di Tripoli, presa e perduta. — Disegni per ricuperarla, cacciandone i pirati e Dragut. — Strategia difensiva di costui. — Indugi del Medinaceli (novembre 1559).

XXVII. — Flaminio a Malta (decembre 1559). — Descrizione dell'isola per quel tempo. — La città e le fortezze. — Cenni dell'assedio, e Titta Scarpetta.

XXVIII. — Prima comparsa di Giannandrea Doria. — Confuso da alcuni collo Zio. — Niuna biografia di lui meno quella del Brantôme. — Sua autobiografia perduta.

XXIX. — Partenza e viaggio dell'armata, fino alle Gerbe (14 febbrajo 1500). — Le due galeotte di Luccialì. — L'acquata dei nostri e dei Fiorentini. — Il Medina senza notizie e senza partiti (16 febbrajo 1560).

XXX. — Errori continui del Medina. — Fermata alla secca del Palo (17 febbrajo). — Bonaccia perpetua di quel luogo. — Indugi e mortalità. — Gli spedali sui grippi (28 febbrajo 1560). — Conforti religiosi.

XXXI. — Notizie di Dragut venute al Medina. — Consiglio sulla capitana di Roma. — Pareri di Flaminio e degli altri. — Niuna conclusione (1 marzo). — Secondo consiglio sulla reale di Spagna. — Partenza per le Gerbe (2 marzo).

XXXII. — L'isola delle Gerbe. — Il meridiano di Roma e i termini geografici (3 marzo). — Metodo per lo sbarco. — Artiglieria di campagna (7 marzo). — L'esercito all'addiaccio.

XXXIII. — Consulta e pareri diversi dei Gerbini. — Lo Sceicco tenta indurre i nostri alla ritirata. — Marcia in avanti, e insidie dei Gerbini. — Battaglia delle Cisterne. — Sommissione dei Gerbini (8 marzo). — Gli storici musulmani.

XXXIV. — Acciecamento d'un soldato, e pronostico di rovine. — Stranezze del Medina. — E degli altri che danno il nome ai baluardi (15 marzo). — La nuova fortezza descritta secondo la forma e i difetti. — Plinio Tomacelli escluso. — Disegno di Antonio Conti. — L'esecuzione dell'opera e i quattro ajutanti (25 aprile).

XXXV. — Luccialì a Costantinopoli. — Solimano ordina l'armata prima del consueto. — Notizie e avvisi al Medina (1 maggio 1560). — Giannandrea ricade. — Pratiche per la ritirata. — Premure e condiscendenze del Tomacelli (5 maggio 1560).

XXXVI. — Dispacci di Malta, e avvisi certi dell'armata nemica (10 maggio sera). — Consiglio di guerra e parere di Scipione escluso. — Opinione comune aspettare alcuni giorni. — L'Orsino e il Doria chiedono la partenza immediata. — Il secondo si acconcia ad attendere per un altro giorno le promesse del vicerè. — Ciarle e disordini. — Muta il vento (10 maggio notte).

XXXVII. — Comparsa dell'armata nemica (11 maggio all'alba). — Confusione dell'armata cristiana. — Fugge in terra Giannandrea. — Rompono appresso quasi tutte la galere. — Lucciali piglia trentotto navigli. — Pialì e gli altri a menar la falce (11 maggio mattina). — Aspetto del mare dopo lo scontro.

XXXVIII. — Arte di pochi per iscampare. — La nostra Capitana tra le prime. — Rottura dell'antenna. — Risoluzione dell'Orsino alla difesa degli altri. — Sua morte gloriosa. — Il Paggio lo segue (11 maggio, mezzodì). — Giannandrea e la morte dello Zio. — Medina e la morte del Figlio. — Perdita della fortezza e dell'isola. — Distruzione della nostra marineria. — Ultimo trionfo dei pirati e dei turchi.

LIBRO OTTAVO. CAPITANO FLAMINIO ORSINI, SIGNORE DI STABIA.[1555-1560.]

I.

[26 ottobre 1555.]

I. — E' parrà forse a taluno, per gli ultimi capitoli del libro precedente, che io mi sia troppo disteso nei particolari del capitano Carlo Sforza e della squadretta venturiera, messa al puntiglio tra i competitori francesi e spagnuoli. Ma checchè possa altri pensarne, si mi è avviso di non rimanermi nè anche da queste digressioni, quando si connettono coi maggiori successi, e ne disvelano le prime cause, o mi dànno campo a chiarire nel miglior modo la storia della marina e dei capitani. E quantunque non sia mio intendimento nè debito il tener dietro a tutti gli avvenimenti del tempo, nondimeno mi parrebbe mancare all'ufficio mio se non ricordassi i fatti più rilevanti delle persone di mare e delle città littorane: senza che la mia storia sarebbe meno grata, dove pel discorso dei successi medesimi deriva diletto colla varietà, e lume colle considerazioni, che non lascio di fare quando il destro me ne viene, condottovi dalla induzione dei casi particolari. Per esempio, dal precedente racconto ciascuno (riducendosi col pensiero a quei tempi) può ora facilmente vedere l'attitudine dei baroni romani al mestiero del mare, la simpatia dei nostri popoli littorani per chi lo esercitava, l'interesse che ne prendevano le altre nazioni, le strettezze dei camerali coi loro congedi, e il turbamento degli stranieri colle loro fazioni. Ondechè niuno voglia darmi biasimo se io sono sceso, e se scendo anche in questo libro, ai particolari di simile natura; e se per meglio acquistar fede produco talvolta a verbo le testimonianze dei contemporanei, o il sunto dei documenti che li riguardano.

E per tornare al proposito, le galèe furono rimenate in Civitavecchia, ma non per questo finì il rumore dentro Roma. I Colonnesi minacciati ed offesi aveano prese le armi coi loro partigiani, ed i protettori di Napoli ingrossavano ai confini. In Roma congiure, sospetti, prigionie. Ondechè il Cardinal nipote, già certo della rottura, e spinto alla guerra dai ministri francesi, non più per le vie secrete, o per le generali, come prima, ma apertamente e sotto determinate promesse; pressato di più in quei giorni quando si diceva scoperta la trama di certi Calabresi per ammazzare lui stesso e il Papa[399]; e quando insieme venivano di Madrid lettere agre e minacciose, fece entrare lo Zio nell'abortivo disegno di cacciare gli Spagnuoli da tutta l'Italia coll'ajuto volubile dei Francesi. In somma vane speranze in Roma, vanissime in Francia: e nel mese di ottobre di questo anno tre fenomeni di gran rilievo. I Caraffi in Roma sottoscrivono i capitoli contro la Spagna per uscirne colla peggio[400]; Carlo V comincia in Fiandra la rinuncia dei suoi stati per ritirarsi in un chiostro[401]; e Filippo II in Madrid inaugura i principî del suo regno colla guerra contro il Papa per beccarsi la riputazione di santimonia[402].

II.

[Nov. e dic. 1555.]

II. — Dunque grandi maneggi in Francia, in Spagna, in Italia. Annibale Rucellai, nipote del celebre monsignor della Casa, viaggia verso Parigi col carico di esporre al Re le offese pubbliche e le private della corte e dei ministri di Spagna contro il Papa; vengono di Francia confortatori e fiduciarî i due cardinali di Lorena e di Tornone, i Veneziani sconsigliano, il duca d'Urbino marcia, quel di Ferrara nicchia. Armamenti, sospetti, speranze, e fine dell'anno cinquantacinque. Entra di verno il seguente con più lunghe flussioni e freddure: confisca ai Colonnesi del ducato di Paliano, investitura a favore della persona e discendenza di Giovanni Caraffa, conte di Montorio e nipote del Papa, e principio degli atti fiscali in Roma contro la casa di Spagna per dichiararla decaduta dal feudo delle due Sicilie[403].

[5 febbrajo 1556.]

Tra tante stizze all'improvviso si pubblica il trattato di tregua sottoscritto in Vauxelles il cinque febbrajo tra la Spagna e la Francia[404]. Sembra la prima esser giunta a distogliere la seconda dalla lega col Papa; pare debba cadere lo strepito delle armi. Se non che il cardinal Carlo Caraffa, proprio sopra quelle due galèe restate in Civitavecchia dopo il tafferuglio di casa Sforza, piglia il passaggio, e corre in Francia a dimostrare la tregua essere già rotta per colpa degli Spagnuoli, i quali, proteggendo i ribelli di Roma, ne insultano il sovrano[405]. Ai Francesi la vendetta, ad essi la difesa dell'onore e della sicurezza di Paolo IV e della sua casa. In mezzo alle scabrose questioni, che tocco di volo, farò presto a mettere un po' di ordine e di chiarezza, volgendomi alla marina, dove mi tarda ogni momento che non incontro quel prode capitano, il cui nome sta in fronte di questo libro.

III.

[6 febbrajo 1556.]

III. — Flaminio Orsini, signore di Stabia in quel di Nepi, non so per qual destino, sfugge del tutto sconosciuto nella genealogia della sua principesca famiglia romana. Il Sansovino, il Gamurrini, l'Ughelli, l'Albasio, il Ratti, il Bicci, l'Amideno, e tanti altri stampati e manoscritti, che direttamente hanno trattato della casa Orsini, non fanno motto di lui: e il tanto diligentissimo e recente genealogista conte Pompeo Litta o lo ignora, o lo confonde con altri o Fabî o Flamini della stessa casata, ma di rami e di tempi diversi[406]. Per questo, quando me n'è venuto il destro, ho calcato a bello studio il nome di Flaminio; e specialmente nella mia storia di Lepanto, ne ho messa di rilievo l'importanza, per dare addentellato alle ricerche dei nostri archivisti e degli studiosi di storia patria, se per avventura qualche più larga contezza da loro me ne fosse potuta venire: metodo più volte tornatomi utile intorno ad altre ricerche. Rispetto a Flaminio un solo, per quanto mi sappia, si è mostrato inteso della domanda; e dopo due anni a me frate Alberto esso, non monaco nè terziario, ha risposto pubblicamente da Livorno, toccandone alcuni particolari, di che io volentieri me gli professo obbligato come meglio e a suo luogo dirò.

Ciò nonpertanto sopra fondamenti sicuri, secondo il mio costume, mi confido di mettere insieme la storia di questo prode romano, e di rivendicare dall'oblio uno dei più bei nomi del nostro paese. Cominciando dai precedenti, lo trovo del ramo di Bracciano e dell'Anguillara, nato intorno al 1512, e signore di Stabia, antico feudo e notissimo della casa Orsina presso a Civita Castellana[407]. Appresso l'incontro allievo nella scuola di Gentil Virginio suo congiunto, del quale altrove si è detto. Cognato del maresciallo Piero Strozzi, e seguace delle sue imprese; collega sul mare del celebre Lione Strozzi, e successore nel comando di quelle galèe. Lo trovo soldato di Francia, dei Farnesi e degli Estensi, condottiero nella guerra di Siena, governatore di Chiusi, generale delle fanterie romane, e finalmente castellano di Civitavecchia, e capitan generale dell'armata marittima di due Pontefici, oltre al resto che ne vedremo appresso[408]. Ecco gli uomini messi in non cale dai genealogisti ed archivisti nostri.

Sotto gli ordini del nuovo capitano si raccolsero quindici galere, altre prima, altre dopo; e vi stettero quanto durò la guerra, sempre intente a impedire il troppo libero scorrazzamento delle squadre spagnuole, ed a sostener Roma dalla parte del mare in quelle fazioni che or ora si vedranno[409]. Eccone qui sotto la lista[410].

Abbiamo dunque le due già tolte agli Sforzeschi con Niccolò Alamanni, più volte nominato, e Pandolfo Strozzi, che poi si troverà tra i romani alla battaglia di Lepanto. Quattro galèe del maresciallo Piero Strozzi, che non avevano pari sul mare per armamento, disciplina e grandi fatti nel Mediterraneo e nell'Oceano, dove erano state condotte in servizio della Francia contro gl'Inglesi dal celebre Lione fratello del maresciallo, e con esse il capitan Melchiorre di Belmonte, e il capitan Giovanni Moretti da Villafranca, del quale avrò a dire specialmente in alcun capitolo seguente. Scipione Fieschi, fiero nemico del Doria e della Spagna, militava al soldo di Roma sotto l'Orsino con due galere[411]. Due altre seguivano Baccio Martelli, fuoruscito fiorentino. Finalmente cinque eran venute di Francia col barone della Garde, e i capitani Sciarluz, Daramon, Cabazolles, De Carses, e Fouroux; i cui nomi e navigli così per punto sono segnati nelle note del cardinal Caraffa scritte di Roma addì sei del mese di febbrajo al duca di Mommoransì e al cardinale di Lorena; meno il Fouroux, del quale però avremo appresso certissime prove.

A similitudine dei primi capitani della guardia nel cinquecento, Flaminio riteneva colle galere anche il carico di castellano, o com'oggi direbbesi, di comandante della piazza in Civitavecchia: punto molto geloso per la vicinanza del duca Cosimo, e per la strategia del duca d'Alba. Aveva per difesa dalla parte del mare i due torrioni rotondi di opera reticolata, che ancora esistono alla punta dei due moli, uno a destra, uno a sinistra del porto, come furono edificati dallo imperator Trajano; e si chiamano i fortini del Bicchiere e del Lazzeretto: i quali signoreggiano le bocche tanto da non potervisi accostare legno niuno, senza esporsi a essere dal primo o dal secondo, o da tutti due insieme, fatto in pezzi, per le batterie alte e basse messevi a giuoco. Sulla base del porto aveva a destra la rôcca vecchia, ridotta a palazzo sovrano, ma non tanto che, per la sua posizione a cavaliere, e per la piazza interna aperta verso il mare, non potesse allogare una buona batteria, e chiudere il passo della darsena: e aveva sulla sinistra la rôcca nuova di Bramante e di Michelangelo, ammirato modello di architettura militare, secondo lo stile dei grandi maestri che mai non disgiungevano la leggiadria dell'arte dalla fortezza dell'opera[412]. Verso terra in giro dall'una all'altra rôcca aveva una cinta bastionata con sette baluardi reali, disegnati per Leon X dal giovane Antonio da Sangallo, e da lui stesso cominciati a imbastire di terra con qualche principio di muratura, continuata poscia da Giulio III, e ridotta a compimento dal quarto e dal quinto Pio[413]. Attorno a cotesto perimetro erasi adoperato Flaminio con felice successo, mettendo all'opera le ciurme, sui terrapieni e intorno ai carri delle artiglierie per ogni sbocco, e sui fianchi, e sul fronte: così che mandatovi da Roma Piero Strozzi a rivedere il progresso dei lavori ebbe a restarne pienamente soddisfatto[414]. Prospero Boccapaduli, commissario delle armi, comparve nel fornimento della piazza, delle fortezze e delle galere, quale tutti lo riputavano, diligentissimo[415].

IV.

[Marzo-agosto 1556.]

IV. — Maggiori apparecchi faceansi in Roma, dove si erano raccolti tutti gli esuli di Napoli e tutti i fuorusciti di Toscana. Primo di autorità nei consigli Silvestro Aldobrandini, padre di quell'Ippolito che poi fu papa Clemente VIII: primo di comando nelle esecuzioni Piero Strozzi, figlio di quel Filippo, cui toccò l'eccesso di lasciarsi morire anzi che essere straziato dal carnefice di Cosimo. Con questi consentivano tutti i nemici dell'Austria, dei Medici e dei Colonnesi; come dire gli Orsini, Torquato Conti, Ascanio della Cornia prima che mutasse bandiera, Adriano Baglioni, Matteo Stendardo, Baldassarre Rangoni, il conte Brunoro Campeschi da Forlimpopoli, Giulio Vitelli, Giovanni Guasgoni, Tommaso da Camerino, Lorenzo da Perugia, Giulio Cesare Brancaccio da Napoli, il duca di Somma, Alessandro Colonna, il capitan Mario Particappa, Prospero Boccapaduli, il Rucellai, il celebre della Casa, e tanti altri[416].

Fin dal principio il cardinal Caraffa aveva comandato che si descrivessero nei ruoli tutti i Romani atti alle armi, e si ordinassero in compagnie e legioni, assegnata a ciascuno la posta di convegno. Si trovarono alla mostra, sotto gli occhi di Paolo IV, ottomila uomini ben armati: e prima quei del rione di Ponte, più numerosi di ogni altro, in una legione alla guardia del Campidoglio, ed alla riscossa dovunque sarebbe maggiore il bisogno. Degli altri rioni a quattro a quattro si formarono tre legioni: la prima in battaglia sulla piazza di Termini, la seconda sulla piazza del Laterano, la terza al Circo Massimo: tre punti spaziosi e strategici per soccorrere prestamente tutto il perimetro delle mura cistiberine, quando si tentasse invasione da quelle parti, o balenassero i difensori della prima linea. Alle porte e alle muraglie i soldati e i capitani distribuiti così: dal Popolo alle alture del Pincio, monsù di Lanzac con mille Guasgoni; dalla porta Salaria alla Nomentana (non ancora Pia), il duca di Paliano con mille Tedeschi; dalla Tiburtina alla Maggiore ed oltre, Paologiordano Orsini con sei compagnie di Italiani, in tutto millecinquecento uomini; dalla Latina all'Appia il cardinal Carlo Caraffa con mille parimente Italiani; e finalmente all'Ostiense il Montluc con cinquecento Francesi. In tutto per le mura cinquemila soldati, ed ottomila per la città.

Di più distaccati per diverse guarnigioni, altri dumila in Paliano, millecinquecento in Velletri, quattrocento in Tivoli, e un altro migliajo in piccole bande pei luoghi prossimi al confine[417]. Arrogi un corpo di settecento cavalleggeri, divisi in quattro compagnie a carico dei capitani che aveanle formate, così per ordine di nomi, Giulio Vitelli, Baldassarre Rangoni, il conte Brunoro e Matteo Stendardo.

In questa occasione comparve per la prima volta in Roma quella milizia speciale che ha poscia continuato fino ai nostri tempi col nome di Guardia nobile: conciossiachè agli otto di dicembre del cinquantacinque, nella cappella, Paolo IV creò cavalieri cento gentiluomini romani, e a loro commise la guardia della persona sua. Assegnò loro le stanze in palazzo; e stabilì che, ripartiti in dieci decurie sotto altrettanti ufficiali, non si allontanassero mai dall'anticamera, secondo il turno della guardia; e tutti insieme a cavallo dovessero accompagnarlo quando gli convenisse uscire solennemente in pubblico[418].

Le compagnie assoldate e le milizie cittadine che rondavano notte e giorno per le mura vedeansi queste innanzi presso a poco come adesso le vediam noi: cioè alla sinistra del Tevere la cinta Aureliana, più i due famosi baluardi del Sangallo sulla via Appia e sull'Aventino; ed alla destra la cinta bastionata di Borgo imbastita dal Castriotto, e i baluardi di santo Spirito murati dal Sangallo. Al castello Santangelo finalmente la necessità di questi giorni aggiunse il terzo recinto in forma di pentagono bastionato, secondo certi disegni anteriori di mezzo secolo, messi su alla meglio in quindici giorni da Camillo Orsini. Esso col figlio, alla testa degli ingegneri, dirigeva il compimento dei lavori di terra, e dava mano alle tagliate in città, e alla difesa dei ponti sul Tevere per assicurare il possesso di Borgo, dove grossa mano di soldati e di trasteverini stavano di presidio.

V.

[1 settembre 1556.]

V. — Mentre in tanto gran fare erano i Romani occupati, don Fernando Alvarez di Toledo, duca d'Alba, famosissimo nelle storie di questi tempi, era giunto in Napoli mandatovi dal re Filippo col titolo di suo Vicario generale, e con autorità sopra tutti gli altri ministri, capitani e soldati di Spagna in Italia. Figurate nella mente un uomo adusto, duro, lungo, allampanato, tutto d'un pezzo; lunga e stretta la fronte, e più lungo il ciuffotto rittovi in mezzo, lungo il sopracciglio e lontano dall'occhio grifagno e fiero, lungo il naso, strette le labbra, contorti i mustacchi, e un lungo pizzo di barba disteso pel lunghissimo collo infino al petto: vestitene le ossa e i muscoli induriti con maglia e piastra di ferro, e avrete il ritratto del duca d'Alba come fu scolpito dal Lioni, e come fu dipinto da Tiziano[419].

Vuolsi chiamare eccellente (sotto l'aspetto militare) il piano di guerra di cotesto Duca: prevenire, anzi che esser prevenuto; guerreggiare sull'altrui, anzi che sul proprio; attaccare all'improvviso, senza chiedere licenza; dar dentro, prima che giugnessero di maggiori rinforzi; circuir Roma, affamare la plebe, suscitare tumulti nella città, ridurre Paolo in Castello, e quivi alle strette costringerlo a capitolare. Con questo divisamento il primo giorno di settembre passò il confine, guidando dodicimila fanti e quasi dumila cavalli. Occupò di slancio Pontecorvo, Terracina, Frosinone, Anagni; e sottomise la provincia di Campagna, donde prese nome la guerra. Tutto a seconda da quella parte. Non così dalla parte del mare, dove io principalmente riguardo.

[14 settembre 1556.]

Considerata l'importanza del porto di Civitavecchia a volere isolar Roma; e non potendovi il Duca mettere assedio, tanto lontano dalla sua base d'operazione, pensò occuparla per sorpresa. A tal fine s'intese con Cosimo di Toscana: il quale, perchè sudava freddo al nome di Piero Strozzi, di Silvestro Aldobrandini, e di quegli altri che facevano quartier generale in Roma, udì volentieri la richiesta dello Spagnuolo, e mandò tremila fanti toscani a Portercole, apparentemente per guardare il confine, in realtà per dargli mano[420]. Al tempo stesso don Fernando chiamava di Lombardia e di Piemonte altri seimila tra Spagnuoli e Alemanni, ordinando loro di imbarcarsi alla Spezia, di venire a Portercole, e concorrendo insieme da mare e da terra Spagnuoli, Tedeschi e Toscani, dar sopra Civitavecchia e impadronirsene. Se non che la tardanza dei primi, la mala paga dei secondi, la perplessità degli ultimi, e più di tutto la diligenza del capitan Flaminio, fecero cadere la trama. Flaminio in pochi giorni avea già compiuti due viaggi da Marsiglia a Civitavecchia, portando gente in ajuto di Paolo; e si trovava con molti rinforzi di soldati, di marinari, e di provvisioni in punto di combattere, non solo per la difesa della piazza, ma anche per l'offesa de' nemici, se mai si fossero arditi venire da ponente. La sua diligenza tolse loro ogni speranza: e per quanto durò la guerra, tenne sicura da questa parte la capitale[421]. Non fa bisogno ripetere come in tutte le fazioni della guerra a favore degli Spagnuoli gagliardamente si adoperassero colle armi i signori Colonnesi, massime quel giovane Marcantonio, il cui nome doveva poscia divenire celeberrimo. Io non ho mai preso a scrivere per intiero la sua vita, ma solo gli egregi fatti suoi contro i Turchi alla guerra di Cipro e alla battaglia di Lepanto. Quanto ai privati dissidî di famiglia e quanto alle guerre intestine, compiango lui ed ogni altro nei tristi tempi costretti da misero e funesto fato; e lascio che ne dicano con documenti di gran rilievo i moderni guardiani dell'archivio, senza entrare io in questo campo, che del resto non tocca la marina. Bastami ora Flaminio Orsini a sfatare da questa parte le molestie dei nemici.

VI.

[2 ottobre 1556.]

VI. — Non successe lo stesso a Nettuno, donde i Romani ebbero a patire gran travaglio. Nettuno, patria del Segneri, è una grossa terra sulla riva del mare a quaranta miglia da Roma, abitata da bella e brava gente, tenace degli antichi costumi; e tanto nel tratto, nelle vesti, nella figura, e in ogni altra cosa singolare, che alcuni le vorrebbero attribuire l'origine araba[422]. Posta di mezzo tra la punta di Astura e il capo d'Anzio, nel fondo di un golfo arenoso, tornava di grande comodità al rifugio ed al riposo delle piccole barche da traffico e da presa, nell'andare e venire a Roma da Napoli e da Gaeta: tanto più che la città di Anzio da più secoli distrutta, e il porto Neroniano anche prima interrito, non potevano nè render servizio, nè richiamare l'attenzione di nemici o di amici. I Colonnesi possedevano Nettuno in feudo, ma non lo avevano ancora fortificato alla moderna: soltanto il duca Valentino al principio del secolo decimosesto, impadronitosi della terra, erasi pur dato gran cura di aggiungere alla antica cinta di cortine e di torri quella bellissima fortezzina, che, per essere uno dei più insigni monumenti dell'arte primitiva, sarà da me a suo tempo largamente descritta[423]. Insomma tanto amore i Colonnesi portavano a Nettuno, quanto gli Orsini a Palo. Le due grandi casate romane, di qua e di là dalla capitale, quasi ad uguale distanza, si appoggiavano sul mare; dove le due famiglie per diverse strade riducevansi a diporto, e dove i giovani dell'una e dell'altra si addestravano nei rudimenti dell'arte marinaresca. Da quelle rive scoccarono le prime scintille che dovevano accendere il genio di Marcantonio e di Fabrizio Colonna, di Virginio e di Flaminio Orsini, celebri tra i capitani del mare nel secolo decimosesto.

E perchè ho chiamati a rassegna questi signori mi è necessaria una breve fermata con loro per istabilire insieme con certezza alcuni fatti del nostro proposito, che non potrebbero trovare altrove luogo conveniente; e pur vogliono essere presentati ai lettori prima che ci avanziamo per le acque di Lepanto. Nel mezzo al secolo decimosesto cinque famiglie delle romane possedevano e navigavano bastimenti militari di loro privata proprietà: gli Orsini, i Farnesi, gli Sforza, i Colonna e i Vaccari. Dei tre primi ho largamente trattato nei libri precedenti, e mi continuerò infine alla fine di questo volume[424]. Degli altri due vuo' dire adesso come seguirono il costume dei grandi in Italia di correre il mare per conto proprio contro i pirati e contro i turchi; e di mettersi alla condotta dei principi maggiori alle occorrenze delle spedizioni generali. Per questo crebbero di potenza e di ricchezza in Genova i Doria, i Grimaldi, gl'Imperiali, i Centurioni: per questo gli Strozzi e i Martelli in Toscana, i Cicala e i Terranova in Sicilia, gli Spinelli, i Brancacci e gli Staiti in Napoli, ed altri in più parti.

Trovandosi in Roma ai sommi onori il conte Federigo Borromèo, nipote di Pio IV, e volendo il duca Cosimo di Toscana ingraziarsi con lui e cogli altri della famiglia, pensò nell'anno sessantuno donare al Conte due corpi di galere ignudi, come dire due scafi nuovi senza corredo e senza armamento. Di che sapendo il Pontefice quanto bene metterebbegli l'apparecchiarli alla difesa della spiaggia, alla sicurezza di Roma ed ai servigi della curia, con suo chirografo diretto al tesoriere generale M r. Matteo Minali ordinò le provvisioni di compiuto fornimento pei medesimi nel porto di Civitavecchia; e di più la costruzione o la compra di altri otto, da formarne giusta squadra per ogni occorrenza[425]. L'anno appresso con lettera di motoproprio, ricordato pur lodevolmente il dono di Cosimo al conte Federigo, gliene aggiunse altri tre del suo per donazione spontanea, da valere in perpetuo a favore del medesimo e degli eredi. Pel qual titolo (essendo morto proprio nel novembre dell'anno medesimo il giovane Conte) le cinque galere passarono in proprietà del fratello, cioè del venerato cardinal Carlo; cui il Pontefice, con altre lettere specialissime, ne confermò il possesso. Qualche tempo le tenne il Cardinale sotto il governo di Niccolò Lomellino in continui viaggi a Napoli, a Genova, a Barcellona, dovunque meglio tornasse nei servigî di Roma e di Madrid: ma presto tediato dei fastidî che gli davano coteste faccende, prese il partito di venderle a Marcantonio Colonna, rientrato in grazia, rimesso nei feudi, e divenuto alleato della papale famiglia per gli sponsali di don Fabrizio suo primogenito colla contessina donn'Anna Borromèa, sorella del Cardinale[426]. Il trattato di compra e vendita tra le due famiglie, proposto e discusso nel sessantatrè, ebbe compimento il primo di gennajo dell'anno seguente per gli atti di Alessandro Pellegrini secretario e cancelliero della Camera, sì come altrove ne ho detto in compendio[427].

L'istrumento esprime tre galere, nominate la Capitana, la Padrona e la Borromèa, pel prezzo di trentasei mila scudi d'oro, e aggiugne in lingua volgare gli inventarî e le perizie[428]. Appresso l'archivio Colonna in più volumi ricorda le spese, i soldi, i viaggi delle galere medesime e del signor Marcantonio con esse[429]. Il quale al terzo dei suoi bastimenti mutò il nome, disselo la Fenice, posevi per luogotenente Giorgio Grimaldi, e raccolse una squadra di sette galere, aggiugnendo alle tre predette le altre quattro che governava in società coi Lomellini il capitano Vincenzo Vaccari di Roma. Il nome dei Vaccari, le case, l'arco, le lapidi e le parentele coi grandi della città, sono notissime[430].

Quando dalla necessità mi trovo costretto alle digressioni, sempre temo che possano parere inutili o tornare nojose a coloro, cui piace trascorrere avanti senza mai restare: per ciò me ne guardo il più che posso. Ma la speciale condizione dell'argomento mio, non mai trattato da altri, e il gran difetto di storia nel nostro paese, di che tanto pur si doleva il Tiraboschi[431], mi fanno violenza talvolta, e mi conducono ad allargarmi: perchè non avendo nè che supporre già noto, nè a chi rimettere il lettore, mi è pur mestieri far tutto da me; trovare le notizie, dimostrarne la verità, raccogliere gli accessorî, incarnare il racconto e colorirlo. Per esempio, e tutto del caso nostro, a proposito di Marcantonio Colonna, un cotale, che avrebbe pur dovuto per la sua professione insegnarne a me ed agli altri, pieno di dubbî, proponea l'ombroso quesito, chiedendomi come e dove mai avesse potuto quel romano campione tanto apprendere di marineria da vincere gl'invincibili Turchi a Lepanto. La quale paurosa domanda, avvegnachè di ordine secondario, se io lasciassi correre senza risposta, mi troverei nel subbietto principale della mia storia così menomato da non poter sostenere la più bella e gloriosa giornata della nostra marina. Perciò ora a lui ed ai suoi pari, ricordando le costumanze del secolo decimosesto, posso dire presto e bene che Marcantonio Colonna col suo gran senno infin da fanciullo in Nettuno e negli altri feudi marittimi di casa sua apprese il mestiero, e da giovane colle galere sue proprie per l'ampiezza dei mari lo esercitò.

In fatti trattandosi l'anno medesimo dal re di Spagna di ricuperare la importantissima fortezza del Pegnone in Africa, perduta da don Narciso, quando si fece ammazzare dai ciurmadori arabi sui fornelli dell'alchimia, corrispose tra i primi il signor Marcantonio con le sette galere. Esso di persona le condusse a Malaga, dove era intimata la raunanza di tutte le forze marittime: e sarebbe passato al Pegnone, se le altrui gelosie non avessero impedito il carico proporzionato alla sua grandezza[432]. Andarono nondimeno in Africa le sette galere della sua squadra col Grimaldi e col Vaccari[433]: ed ebbero il merito di ricuperare quel baluardo avanzato della cristianità, pel quale tanto salirono le lodi del vincitore, quanto era stato grande il merito dei concorrenti[434]. Grato il re Filippo, ne scrisse la sua soddisfazione al Colonna; e in premio gli concesse la tratta libera dei frumenti dal Regno, pel sostentamento della sua squadra[435]. Ma crescendogli gravose attorno le altrui gelosie, ed alcune differenze pur col Grimaldi, Marcantonio piegossi alle istanze del duca di Firenze che desiderava comprare quegli eccellenti bastimenti per l'Ordine di santo Stefano da lui istituito. Caratate adunque e rivedute dai periti le due che restavano di libera proprietà alla casa Colonna per cura e diligenza del possessore salirono di prezzo infino a venticinque mila fiorini d'oro, e il dì tredici di marzo del 1565 furono consegnate nel porto di Civitavecchia ai ministri del duca di Toscana[436]. Del giovane Federigo Colonna, del cavalier Papirio Bussi, del nobile Lorenzo Castellani, e di altrettali romani, che nei tempi successivi la patria e sè stessi onorarono di belle imprese coi loro navigli, avrò luogo opportuno a discorrere altrove. Ora fermiamci pel mese d'ottobre del cinquantasei a Nettuno.

VII.

[12 ottobre 1556.]

VII. — Quando la casa Colonna fin dai primi rumori di questa guerra si fu dichiarata in favore della Spagna, papa Paolo le tolse il ducato di Paliano, la privò di ogni altro feudo, e fece occupare Nettuno dalle sue genti. Ma non avendo i Caraffeschi messo nel castello più di una ventina di soldati, atti bensì a difenderlo dalle soppiatte insidie di qualche fusta barbaresca, ma non a sostenerlo dagli assalimenti di grosso esercito condotto scopertamente dal duca d'Alba, all'avvicinarsi degli Spagnuoli, i Nettunesi per vedersi poco sicuri con quel misero presidio, ed anche per l'affezione che nudrivano vivissima all'antico Signore, cacciarono via quei pochi soldati, e chiamarono casa Colonna. Di che lietissimo il duca d'Alba si congratulò con quei cittadini, e mandò loro in ajuto di grandissima prestezza con cencinquanta fanti il Moretto Calabrese, capitano sovente ricordato pel suo valore in questi tempi, e diverso dal Moretto Nizzardo che stava al comando di una galèa in Civitavecchia. Il Calabrese per via mise in rotta alcuni soldati di Velletri che marciavano per ricuperare Nettuno, e senza altro contrasto entrò nella terra, e vi si stabilì con tanta fermezza, che il Duca trasportovvi la base secondaria delle operazioni sue, finchè si trattenne campeggiando per quelle spiagge. Là raccolse le barche del contorno, e là fece venire da Gaeta quelle che si erano costruite a disegno per gittare i ponti sul Tevere: barche di solida ossatura aggarbate a un modo simile di poppa e di prua, lunghe di nove metri e larghe di tre[437]. Oltracciò pose in Nettuno il deposito delle provvigioni per sostentamento dell'esercito; e lasciò il Moretto colla sua compagnia a custodire la piazza, i magazzini, i ponti e il castello.

[20 ottobre 1556.]

Per queste stesse ragioni i Caraffeschi vollero provarsi alla riscossa. E senza tener conto dei proprî capitani e navigli, ne dettero il carico al baron della Garde, che era in Civitavecchia con cinque galere di Francia. Costui prosuntuoso al solito, e poco pratico della spiaggia romana, si presentò a Nettuno, fece baldorie, trasse cannonate. Ma il Moretto, i Calabresi e i terrazzani tennero duro, e risposero fieri; tanto che fin dal principio gli tolsero la speranza di pigliare la terra[438]. Provossi appresso di bruciare le barche, e fu lo stesso. I Nettunesi eransele tirale sotto al castello: e avendole rinchiuse dentro uno steccato con certa catena di botti piene di acqua, teneanle sicure dalle galèe nemiche per mancamento di fondo, e dagli schifi per abbondanza di archibugiate. Niuno dice che il Barone abbia messo artiglieria sulla prua de' palischermi suoi, niuno che abbia lanciato nel mandracchio barche di fuoco, niuno che siasi gittato all'assalto per terra o per mare: tutti al contrario ripetono la scusa del tempo cattivo, pel quale non potendosi sostenere alla spiaggia, pensò di ritirarsene, senza aver fatto nulla. Anzi dette occasione al Duca di mandarci artiglierie grosse, che prima non v'erano; e di fortificarsi maggiormente, e di assicurarsene meglio per ogni evento futuro[439].

VIII.

[23 ottobre 1556.]

VIII. — Dopo questi primi procedimenti il Duca, seguendo il filo dei suoi disegni, ordinò la mossa del campo verso Ostia, desideroso di chiudere con quell'acquisto la navigazione del Tevere, e di stringere sempre più da vicino la città di Roma.

Il Tevere tre miglia sopra la foce si divide in due rami: l'uno artificiale alla destra, oggidì navigabile, stava allora inutil corso d'acqua magra, e tutto ingombro di canne palustri e di rottami; l'altro naturale alla sinistra, oggidì abbandonato a sè stesso, serviva allora per la navigazione delle barche dal mare a Roma; e tra i due rami del fiume e la spiaggia marina quella sabbiosa isola nel mezzo, che formata dai continui interrimenti, e ricoperta di cardoni, di porracci e di ginepri, dal tempo di Claudio infino al presente sempre crescendo, mantiene tuttavia l'antico nome di isola Sacra. La città di Ostia (reale, repubblicana, imperiale e papale) sempre avete a cercare fuori dell'isola, ed alla sinistra del maggior tronco del Tevere; il quale seguendo l'antico letto e il primitivo cubito le bagnava le mura dal lato occidentale, ed entrava nei fossi delle sue fortificazioni: luogo scaduto dal pristino splendore, ridotto ad alquante case di povera gente, e chiuso da debole muraglia quadrata dei bassi tempi. Ma quanto fiacca la città, tanto troverete forte la rôcca, edificata da Giuliano di Sangallo nel 1483, come più volte ho detto[440]. Ora basterà ricordarne le principali condizioni. Mettetevi innanzi la figura di triangolo scaleno, la base verso il mare munita di due torrioni rotondi, e il vertice a borea verso terra difeso da un baluardo, che è il primo tra tutti i modelli dell'arte nuova, con due fianchi rettilinei a guardia delle due cortine di ponente e di levante. Muraglia soda di mattoni e calcina, grossa di cinque metri; ampio fossato pieno di acqua, e in comunicazione immediata col Tevere; batterie medie, alte e basse; e un compiuto sistema di casematte, legate da corridoj per tutto il giro del perimetro. Cosa in vero bellissima e degna dei grandi artisti del Risorgimento.

Già prima il cardinal Caraffa aveva mandato lo stesso baron della Garde a rivedere le fortificazioni della spiaggia: e confidando in lui, credeva che Ostia fosse ben provvista di quanto potesse bisognare in ogni evento. Ma si trovò deluso[441]. Imperciocchè quantunque di viveri non difettasse, di corredo al contrario era sfornita tanto da non poter andare oltre alle prime difese: molti pezzi di artiglieria le erano stati tolti per adoperarli altrove, il deposito della polvere quasi vuoto. In somma ogni cosa in confusione, nè il tempo bastò a ripararvi. Soltanto si potè, volgendosi il Duca a quella parte, mettervi dentro centoquattordici fanti romani, sotto il comando di Orazio dello Sbirro, giovane trasteverino di gran cuore, e da voler fare belle prove.[442] Non trovo altri riscontri di questo capitano, il cui cognome (quantunque poco armonico) resta tuttavia impresso in una torre sdrucita dell'isola Sacra, e nella lista dei cavalieri di soccorso all'assedio di Malta[443]. Quanto al numero dei soldati, tra le solite varianti, seguo la cifra del Ruscelli, del Campana, e principalmente del De Andrea, che gli ebbe in fine a contare a uno per uno.

[28 ottobre 1556.]

Il Duca intanto aveva stabilito il modo di farsi avanti con sicurezza, eliminando le due difficoltà che potevano in qualche modo impedirlo: l'una che i Caraffeschi preoccupassero l'Isola rimpetto ad Ostia; e di quivi, quantunque inferiori di numero, trincerati pur dalle ripe e protetti dalla profondità del fiume, stornassero l'assedio, e forse anche il costringessero a ritirarsi: l'altra che gli mancassero le vittuaglie, potendone patire difetto per essere la terra intorno deserta, e il mare per la qualità della stagione e della spiaggia poco praticabile. Per rimediare a questo ultimo inconveniente mandò innanzi Ascanio della Cornia con un corpo di cavalleggeri ad occupare Ardea e Porcigliano, luoghi ambedue vicini, e sulla linea da Nettuno ad Ostia: nel primo dei quali fece il deposito delle farine, che traeva da Gaeta e da Marino; e nell'altro i forni: così che l'esercito, tutto il tempo che là presso si trattenne, trovossi convenientemente provvisto.

IX.

[4 novembre 1556.]

IX. — Acquistati e fermi questi luoghi, e avendo già di sopra in poter suo Tivoli, Palombara e Monterotondo, mosse il Duca al primo di novembre da Grottaferrata; e in due alloggiamenti venne presso il Tevere non lungi da Ostia. Subito fatto gittare un ponte di barche per mezzo di Bernardo Buontalenti, ingegnere fiorentino di chiara fama che lo serviva di macchine e di fortificazioni, occupò di sotto l'Isola: e di sopra per mezzo di Vespasiano Gonzaga investì la città con un semicerchio di soldati in catena dall'una all'altra ripa per la sinistra del fiume. Orazio da sua parte si contrappose a Vespasiano: e volendo animosamente difendere anche la debole muraglia della città, lo costrinse ad allargarsi, gli uccise molta gente, e più ne ferì, anche dei principali condottieri, tra i quali il colonnello d'Abenante e don Mario suo figliuolo. Il dì seguente sottentrarono con impeto maggiore contro di lui a rinfrescar la battaglia Francesco della Tolfa e Gianfrancesco Caraffa: i quali, spintisi infino alla porta Romana, vi appiccarono il fuoco. Ma trovatala di dentro terrapienata, già erano in procinto di far venire le artiglierie, quando Orazio, che non doveva inutilmente perdere quivi la poca sua gente, dopo quattro giorni di bella difesa, abbandonava la città, e passava con tutti i suoi nella rôcca, alzava i ponti, e chiudeva il piccolo rivellino. L'assedio di questa rôcca presso il mare può dirsi il fatto di maggiore importanza nella guerra del primo anno; però merita essere ricordato coi suoi particolari, come abbiam sempre fatto in ogni altro caso simile per le nostre piazze marittime.

[8 novembre 1556.]

Il grosso dell'esercito ducale dalla sua parte attendeva ai lavori del ponte, del campo e delle batterie. Abbasso per trecento metri dalla rôcca, e nella risvolta del fiume, mettevano il ponte con buoni ormeggi in acqua e in terra, e forti ridotti alle teste da tenere aperte e sicure le comunicazioni tra l'isola e il campo. I fanti spagnoli guernivano le trincere dalla testa del ponte fino alle prime case della città dalla parte di levante; e da quelle case fino alla riva del Tevere sopra corrente gli italiani. Le maggiori artiglierie giocavano dall'isola, rimpetto alla fronte occidentale; e battevano cortina, faccia, fianchetto e torre corrispondente: sette cannoni rinforzati da cinquanta, coperti da buoni gabbioni terrapienati, colle bocche sul ciglio dell'argine, e discosti dalla muraglia per la sola larghezza del fiume, che non era in quel luogo più di venticinque canne romane, come dire all'incirca cinquantasei metri[444]. Finalmente la cavalleria in tre divisioni correva battendo le strade d'ogni intorno, fino alle porte di Roma.

X.

[12 novembre 1556.]

X. — Le notizie di queste novità, l'una dopo l'altra rapidamente succedenti, riportate in città, davano da pensare alla corte ed al popolo; massime per la memoria ancor fresca in molti dell'altra guerra cogli Spagnuoli, col Borbone, col sacco, e colle conseguenze: parendo a molti essersi tirata addosso una simile e forse più pericolosa sciagura. Però Piero Strozzi, volendo rinfrancare gli animi sbigottiti, uscì fuori con tremila fanti e trecento cavalli, costeggiando la destra del Tevere e dell'isola, fino alla foce di Fiumicino. Non già che sperasse con quelle deboli forze discacciare il Duca o soccorrere Orazio; ma voleva dare animo a questo e travaglio a quello, mostrandosi vicino e pronto ad abbracciare ogni partito che se gli potesse presentare.

Roma per questo restò quasi senza presidio di milizie regolari, senza nervo di cavalleria, e soltanto guardata dalle milizie cittadine. Indi presero viepiù di baldanza gli stracorridori del Duca, i quali, guidati da uomini arditi e praticissimi di ogni strada e traghetto intorno alla capitale, faceansi vedere per le vigne suburbane, e talvolta anche innanzi ed oltre alle mura infino alla valle dell'Aniene. Di che corse rischio nella persona l'istesso cardinal Caraffa; il quale pur dall'altra parte essendo uscito con alcuni gentiluomini e cortigiani a cavallo, più per ostentazione che per altro, ebbe incontro lungo lo stradone di sant'Agnese il conte Francescantonio Berardi, capo di ronda con una squadra di cavalleggieri. Dove correndogli appresso il Berardi a lancia bassa, e fuggendogli innanzi a tutta briglia il Cardinale, dierono insieme spettacolo insolito agli occhi dei Romani, spettatori ansiosi di quella caccia dalle ville, dai terrazzi e dalle mura. Tra le grida e le esclamazioni di questi e di quelli i due antagonisti, l'uno dopo l'altro, imboccarono il vicolo della Fontanella (notissimo ai cavalieri della città), e sempre galoppando per quelle tortuose viuzze, ebbe fortuna il Cardinale con più freschi e migliori cavalli di guadagnare la porla Salara, tuttochè incalzato quasi alle groppe dall'avversario; il quale non dubitò in quell'estremo di poterlo cogliere sparandogli contro una pistola, presa in fretta dalla fonda dell'arcione[445].

In somma la guerra era ridotta a corpo a corpo intorno a Roma e sulle due ripe del Tevere, dove si aveva a decidere la sorte dello Stato, del Regno e di tutta l'Italia. Sulla destra, da Roma in giù, Piero Strozzi alla guardia; sulla sinistra, dalla foce in su, il duca d'Alba all'attacco; e in mezzo a loro la rôcca d'Ostia presa singolarmente di mira, e Orazio alla difesa.

[16 novembre.]

Dopo quattro giorni di batteria continua con sette pezzi di grosso calibro, e più di mille tiri, il torrione occidentale cominciava ad aprirsi, benchè la breccia fosse erta assai e difficile a superare, essendosi nel battere quasi sempre mirato ad alto, dove aveavi muraglia men grossa. Nondimeno trovandosi il Duca già presso al finire delle munizioni dell'artiglieria, e vedendo che Orazio non si lasciava persuadere nè per le percosse continue dei cannoni, nè per le suggestioni incessanti di Ascanio della Corgnia, pensò che gli bisognasse a ogni modo e subito tentare l'assalto. Ondechè mandato don Alvaro da Costa a riconoscere il passo, e trovata l'acqua del fosso poco profonda e in gran parte ripiena dai rottami della caduta muraglia; e questa con più squarci, tra i quali uno largo a sufficienza da salirvi quattro uomini di fronte, deliberò la fazione per la mattina seguente[446].

XI.

[17 nov. 1556. matt.]

XI. — All'alba del diciassette del mese di novembre, giorno di martedì, Vespasiano Gonzaga con due compagnie di fanti italiani sotto Francesco Frangipani della Tolfa e Domenico de Massimi di Roma, sostenuti ambedue da altre cinque compagnie della stessa nazione, si aringarono in colonna presso la barriera del campo. Avuto il segno dal Duca, si gittarono precipitosamente all'assalto; intanto che le artiglierie dell'isola davano un'ultima rifrustata alla rôcca per cacciarne indietro i difensori. Le due compagnie divorarono la distanza, e i soldati a gara gli uni degli altri furono nel fosso, tra l'acqua, sui rottami, dentro l'apertura. Ed ancorchè non ci arrivasse Vespasiano, essendo stato colpito nel breve tragitto da un'archibugiata che gli rasò le narici e il labbro superiore, ciò non pertanto quella gente fece ogni possibil prova per avere l'impresa finita. Ma trovato più dentro che fuori durissimo il riscontro, bisognò loro tornarsene indietro senza altro effetto[447]. Essi videro e capirono bene da vicino come e dove stesse la difficoltà.

Le casematte dabbasso duravano salde, e integra altresì la troniera inferiore del fianchetto e le risvolte basse dei torrioni, donde i difensori potevano liberamente giuocare colle artiglierie minute e cogli archibusoni da posta; oltre alle pietre ed alle pignatte di fuochi lavorati, che all'occasione sapevano scaraventare dall'alto. Per converso agli assalitori bisognava camminare ad uno ad uno sopra l'angusta cresta della controscarpa, posta tra due acque: di qua il fosso, di là il fiume. Laddove chiunque non era morto dalle archibugiate o tuffato a trabocco, doveva guadare, ed abbriccarsi colle mani e coi piedi sulla breccia troppo più alta che non avrebber voluto. Tutto ciò potrebbesi dir nonnulla in confronto al resto che trovavano a riscontro di dentro. Perocchè la rottura della muraglia rispondeva all'interno in una camera a vôlta di mediocre capacità, in fondo alla quale aveva Orazio con prestezza incredibile fabbricato un altro muro, opposto a quello che si batteva; e lasciatevi molte feritoje cieche, per le quali poteva, senza essere offeso, e nè pure veduto, percuotere a man salva chiunque fossevi entrato. Poteva eziandio dalle basse casematte frustare e rifrustare ogni altro che entrava, o usciva, o attendeva di fuori. Tieni a mente, lettore, queste condizioni della difesa. Esse svelano le ragioni architettoniche della rôcca, ed esse sole possono spiegare perchè tanta gente, e quasi tutti i capitani vi restarono mal conci, come vedremo. Vadano le avvertenze sugli errori di Carlo Theti, nella cui opera si vede incisa a rovescio la pianta della rôcca d'Ostia, ed a rovescio ugualmente depressa la difesa del Romano[448].

Gl'Italiani adunque, accortisi dell'insidia, si ritirarono, dicendo inutile superare di fuori il varco e la difficile salita, quando poi dentro trovavano chiuso il passo dai muri, e aperto tanto fuoco, che l'entrare in quella camera era come mettersi bestialmente in sepoltura. Veduto il signor Vespasiano, loro colonnello, sfigurato nel mustaccio; il capitan Francesco Frangipani sur una gamba sola, uccisi Leone Mazzacane e Marcello Mormile, più altri ufficiali feriti, e gran numero di compagni morti, si rimasero. Non fu possibile in quel giorno che alcuno più gli rimenasse alla prova; se prima, come ragionevolmente chiedevano, non si ripigliava la batteria contro quei muri opposti di dentro[449].

XII.

[17 nov. 1556 mezzodì.]

XII. — In quella eccoti nel mezzo un corpacciuto soldato del Duca andare attorno pel campo, gridando altamente e ripetendo baldanzoso queste parole[450]: Avanti, agli Spagnuoli, corpo di Tale! altrimenti la rôcca non si piglia. Piacendo a don Fernando la jattanza di costui, fece venire don Alvaro da Costa, colonnello di quella nazione, e gli ordinò di cavar fuori trecento veterani della sua gente, e di prepararli al secondo assalto, intanto che si batterebbero alquanto meglio le brecce e le difese. Facile assunto cimare più e più i merloni della rôcca, ed anche allargare i labbri della maggiore apertura: ma dal cordone in giù non si vedeva fessura di un pelo; e la camera interna restava tale e quale, perchè non rivolta verso la batteria, ma ritirata in fondo alla gola del baluardo.

Dunque mossero i trecento all'altra prova, giudicata necessaria dal Duca per la mancanza delle munizioni. Superarono costoro, benchè con morte di molti, la difficoltà del passo e della salita, e cacciaronsi pur nella camera: la quale ad arte, non facendosi di dentro alcun movimento, fu tenuta buja e silenziosa, tanto sol che fosse piena. Allora insieme all'improvviso bagliore dei lampi una grandine di archibugiate sprizzò dai pertugî, senza cadere colpo in fallo per la vicinanza e il pieno di tanta gente; sì che cominciarono quei cotali a pentirsi di essere venuti tanto oltre, ove non potevano nè difendersi nè ritirarsi. Avanti un muro massiccio, in faccia archibugiate sonore, e appresso tanti compagni incalzanti nelle angustie della mortifera caverna, che era impossibile oramai vederne uscire uno vivo. Laonde il Duca, mosso a compassione, e cedendo all'arte ed al valore di Orazio, fece sonare a raccolta, e volle che la seconda colonna si ritirasse, come la prima. Lasciarono centocinquanta cadaveri addietro, tra i quali l'alfiere di Mardonès, con diversi ufficiali; e quel che più dolse a tutti l'istesso colonnello don Alvaro, ferito in una coscia, passò di vita il giorno seguente. Dal principio alla fine di questo assedio, di ferro, di fuoco, di stento, vi ebbero fuori di combattimento in Ostia millecinquecento soldati[451]. Dunque alla prova in quella rôcca aveva disegnato e lavorato a dovere, secondo arte militare, Giuliano da Sangallo.

Le vestigia dell'assedio, impresse tuttavia sul terreno circostante, e più sulle muraglie medesime per tutto il fronte occidentale, io scrittore di questa storia ho vedute e rivedute più volte, prima che andassero in gran parte cancellate dai recentissimi ristauri. Ho riconosciuto i pezzi della cortina rifatti da Pio IV, ho visto il fianchetto cimato, e i crepacci della breccia alla torre angolare in ampio cerchio fin presso alla linea del primo cordone, mal celati dai risarcimenti dello stesso Pio[452]. Ho palpato i forami delle cannonate, e riconosciuto i rovinacci intorno di grandi massi e di primitiva costruzione; sono entrato nella camera fatale, che risponde alla gola del torrione di ponente. Intatta ho veduto la parte bassa dal cordone in giù; intatte le troniere e le batterie casamattate, le porte, gli stipiti e gli spiragli delle strombature basse, che tuttavia conservano i marmi, e le iscrizioni originali scolpitevi dal cardinale Giuliano vescovo d'Ostia, nel tempo di papa Sisto[453].

Ora i maggiori segni dell'assedio sono stati quasi tutti cancellati pei grandiosi ristauri eseguiti a spese dell'erario negli anni cinquantanove e sessanta del presente secolo, quantunque pensati qualche anno prima; ed anche anticipati, secondo il detto pensiero, nella lapide moderna con data anteriore sopra la faccia non battuta nè ristaurata del baluardo verso la città[454]. Al nuovo muro della breccia maggiore sulla torre occidentale hanno similmente affissa una lapidetta con miglior consiglio senza data[455]. Pei riscontri ora non resta che qualche antica incisione, la stampa dell'Orlandini[456], la memoria di chi l'ha visitata nel tempo anteriore ai restauri, come io ne ho scritto[457]; e sopra tutto la bella fotografia rilevata dal notissimo artista bergamasco Giacomo Càneva, nel 1855, prima dei ristauri, di che conservo un esemplare presso di me, e l'ho dinanzi mentre scrivo[458].

XIII.

[18 novembre 1556.]

XIII. — Riuscito il secondo assalto a peggior termine del primo, restarono le genti del Duca insieme spossate e sbalordite: l'istessa cavalleria, tanto valente, sentì l'abbattimento. Consumate le munizioni di guerra, l'inverno vicino, la rôcca in piè, e il maresciallo Strozzi ai fianchi: il quale aveva pur esso gittato sopra due barconi un ponticello sul canale più angusto di Fiumicino, e accennava con frequenti scaramucce di voler molestare sull'isola il campo di Spagna. Se Orazio avesse potuto penetrare col pensiero nelle strettezze dell'avversario, sarebbe stato il signore della prima campagna, e avrebbe ridotto lo Spagnuolo a pessimo partito: ma, chiuso da ogni parte dentro alla piccola cerchia della rôcca, non poteva vedere nè sapere altro più che le private condizioni di sè stesso e de' suoi. Il presidio pieno di coraggio, un solo morto, pochissimi feriti, le vittuaglie a sufficienza: solamente aveva a dolersi della penuria della polvere. Nei quattordici giorni dell'assedio aveane tenuto stretto conto, erasi guardato dal contrabbattere sull'isola, dismessa quasi ogni difesa lontana, e riservate le munizioni al bisogno estremo dell'assalto. In quest'ultimo caso doveva esser largo, e tale si era mostrato, ributtandone vittoriosamente due ferocissimi, e consumando le ultime provviste, che non erano state messe per durar tanto.

Pensando dunque che il nemico non farebbe fine, nè lascerebbe di rimettersi alle batterie ed agli assalti, e non avendo egli con che rispondere, chiamò il dì seguente quell'anfibio di Ascanio della Corgnia; e sperando buon trattamento per aver fatto alla presenza dell'uno e dell'altro esercito onorata difesa, gli si arrese a discrezione[459]. Io l'assolvo: fin dal principio ho detto che egli era giovane.

Così fu perduta la rôcca d'Ostia per solo mancamento di munizioni e per trascuranza di chi amministrava la guerra. Il duca d'Alba, sommamente lieto dell'acquisto non più sperato, uscì d'impacci: piantò la sua bandiera sul mastio, e fece chiudere Orazio con tutti i suoi in fondo di torre, donde non li lasciò uscire altrimenti che consunti dalle infermità e dal digiuno. Agli stessi estremi disegnava colui ridurre la città di Roma, impedita ormai la navigazione del Tevere sopra e sotto corrente; occupato Monterotondo ed Ostia, e stretto il cerchione da ogni altra parte, salvo che da Civitavecchia, dove brillò dal principio alla fine incontaminata la diligenza e la fede del capitan Flaminio Orsino.

[19 novembre 1556.]

Il blocco crebbe lo sgomento nella città. Di che prevalendosi quanti erano imparziali nella corte, signori, prelati e cardinali, presero a suggerire più miti consigli. I Caraffeschi avevano bisogno di riposo, e più di loro il duca d'Alba; il quale, quantunque vincitore, si trovava sparpagliato con poca gente in un semicerchio di sessanta miglia, da Ostia a Marino, ed oltre a Zagarolo, a Tivoli e a Monterotondo. Egli aspettava rinforzi, e voleva stabilirsi meglio nei luoghi occupati: però dètte ascolto volentieri alle proposizioni di tregua, che fu sottoscritta addì diciannove di novembre per dieci giorni, e poscia prorogata sino all'ultimo dell'anno[460].

XIV.

[8 gennaio 1557.]

XIV. — In questo mezzo il re Arrigo di Francia, mosso da grandi speranze, e stretto dai Caraffeschi, aveva dichiarato la guerra al re Filippo di Spagna. Apriva col Duca di Mommoransì le ostilità nella Fiandra; e in Italia col duca di Guisa, futuro re di Napoli, se le armi gli dicessero bene. Spirata dunque la tregua, e giunti alcuni rinforzi di Francia, Piero Strozzi e Giovanni Caraffa uscirono con seimila fanti, ottocento cavalli, e una batteria di campagna verso Ostia, per togliere Roma dalla presente strettezza[461]. Gli Spagnuoli di presidio capitolarono lo stesso giorno, salva la vita, senza nè anche sparare un moschetto[462].

Indi lo Strozzi si volse a scopar via i presidî che il nemico aveva lasciato nel basso Tevere. Imperciocchè il Duca aveva fortificato quel castelluccio, le cui rovine si vedono ancora intorno alla torre Bovacciana, che è un miglio più abbasso della rôcca, tra questa e il mare[463]. E ciò non bastandogli per guardare il passo e la foce del Tevere (tanto fin d'allora erano cresciuti gli interrimenti, e tanto erasi allontanato il mare), aveva fatto di nuovo con lavori di terra in dieci giorni un buon ridotto quadrato all'estremo lembo della sinistra tra il fiume e il mare, disegnato dall'istesso ingegnere ducale Bernardo Buontalenti. Ogni lato di cento metri, gli omologhi paralleli alle due acque: gli angoli muniti di quattro bastioncini, colle loro piattaforme e artiglierie, e difese necessarie. Altezza dell'argine una picca e mezzo, quasi quattro metri, la sezione di sedici palmi, cioè di altrettanti metri. La porta opposta al fiume, e dentro baracche e magazzini di tavole per alloggiamenti e depositi[464]. Quattrocento fanti spagnuoli che vi stavano di presidio nè anche aspettarono l'intimazione: uscirono fuori incontro ai vegnenti, salutarono colle armi, abbassarono le bandiere, e si resero a patti[465].

[Gennajo e luglio 1557.]

Lo Strozzi in due giorni spianò il ridotto, poi trassene le artiglierie a Roma; e ripigliando l'offensiva dall'altra parte contro il Duca, gli tolse in poco tempo Gennazzano, Valmontone, Tivoli, Grottaferrata, Marino e Palestrina. Al tempo stesso Francesco di Guisa faceva acquisti nell'Abbruzzo, dove era penetrato per la via del Tronto; e contro a lui per opposto Cosimo di Toscana manipolava a favore degli Spagnuoli, perchè lo pigliassero alle spalle, e gli troncassero le comunicazioni col Piemonte e colla Francia. Cosimo dei Medici stava ritto in Italia come primo pilastro, e Andrea Doria come secondo, a sostenere di qua e di là il grande arco trionfale del re Filippo, anche a dispetto di papa Paolo[466]. Andrea da Gaeta e dalla Spezia insidiava il porto di Civitavecchia, e Cosimo da Portercole e da Firenze ordiva le fila del tradimento contro il porto d'Ancona. Messer Bartolommeo Concini, segretario particolare dei Medici, e conduttore del maneggio, correndo sopra piccola barca da Pontercole a Gaeta per dare i ragguagli e pigliare i concerti incontrato il vento contrario, e sbattuto dal mare avanti e indietro, venne finalmente a rompere sulla spiaggia di Santasevera; e appresso a lui i guardiani della spiaggia trovarono in secco la bolgetta delle lettere, donde si ebbe in Roma pienissima notizia dell'intrigo, che restò sul nascere scoperto e sventato[467].

Ora io lascio ad altri le variate vicende della guerra combattuta pei monti di qua e di là dai gioghi dell'Appennino: da parte la battaglia di Paliano, l'assedio di Civitella, ed i convivali oltraggi tra il Guisa e il Caraffa. Non v'ebbe cosa in tutto ciò che sentisse di sal marino, tanto da entrare nella mia storia. Vengo alla fine.

XV.

[10 agosto 1557.]

XV. — Quando la fortuna delle armi cominciava a mostrarsi benigna ai voti dei Caraffeschi in Italia, cadeva totalmente prostrata nelle Fiandre, per la gran battaglia di Sanquintino, perduta dal contestabile di Francia Anna di Mommoransì, e vinta dagli Spagnuoli sotto il comando di Emmanuele Filiberto duca di Savoja. Il re Arrigo allibbito, e quasi disperato, trovossi costretto a togliere le sue genti dal Piemonte, a richiamare indietro il duca di Guisa, ed a lasciare Paolo e i nipoti alla mercè degli Spagnuoli.

[8 settembre 1557.]

Non per questo il duca d'Alba abusò della vittoria: anzi accolse e corrispose alle proposizioni di pace che prestamente furono trattate e sottoscritte dal cardinal Caraffa e da lui stesso nella terra delle Cave in Campagna di Roma, addì quattordici del mese di settembre di quest'anno cinquantasette. Può ciascuno leggere la restituzione delle fortezze, delle terre e delle provincie, come sono scritte; la sommissione promessa dal re Filippo, l'imparzialità da papa Paolo, e tutto il resto, per esteso nei codici manoscritti e nei libri stampati che cito[468].

XVI.

[14 settembre 1557.]

XVI. — In vece mi accade ora fermarmi sopra due grandi fatti, strettamente connessi coll'argomento mio e colla memoria del trattato di Cave: l'uno notissimo a tutti, l'altro non avvertito da niuno, per quanto io ne sappia. Come prima nell'istesso giorno di martedì quattordici settembre alle ore quattro pomeridiane tornò in Roma il cardinal Caraffa plenipotenziario papale coi capitoli della pace, sottoscritti alla presenza dei reverendissimi cardinali Santafiora e Vitelli (ambedue testimonî), facendosi intorno ai tre gran festa dalla corte e dal popolo, e mentre volevano la notte i Romani fare le solenni dimostrazioni consuete, con musiche e fuochi per le piazze, non ostante che da due giorni piovesse dirottamente con venti caldi e sciroccali; eccoti il Tevere proprio in quell'ora mettersi per la città; e crescere tanto nella notte, e nel giorno seguente, che fino a oggi restano i segni della terribile alluvione, per la quale andarono in pezzi tre archi del ponte Senatorio, distrutte le nuove fortificazioni di terra intorno al castello Santangelo, rovinate case, campi, fondachi, molini, gualchiere, e le acque dentro la città infino a trenta palmi sopra il livello ordinario. Cosa non mai più veduta dai Romani[469]. Udiamone la relazione a stampa, proprio di quei giorni, scritta da testimonio di veduta, e messa al pubblico in Roma[470]: «Il martedì alli quattordici di settembre 1557 circa le ventidue hore ritornarono a Roma i nostri Reverendissimi[471], ma non con molto fausto, imperò che quasi in quello stesso tempo il Tevere haveva fatto una grossissima piena, ingrossando la notte seguente e il mercoledì circa le hore dodici[472] era l'acqua più alta di un uomo in Agone[473].... E questo crescere di acqua durò tutto quel giorno infino alle quattro o cinque hore di notte, che cominciò a mancare. Ha portato via la metà del ponte di Santa Maria[474], insieme con quella bella cappelletta di Giulio III, che v'era nel mezzo con tanta arte e spesa fabbricata. Ha levato dal suo luogo alcuni pietroni di marmo grossissimi che facevano sponda a castello Santangelo. Ha buttato giù un pezzo di Corridore che va da castello a Palazzo, ec.»

Delle tante ruine la più importante pel regime del Tevere resterebbe ora incerta ed oscura, tra il silenzio dei contemporanei e gli errori dei moderni, se io non venissi apertamente a stabilire come in questi precisi giorni il fiume mutò di letto nell'infimo tronco e sfilò lontano mille metri dalla città di Ostia. Non prima, perchè durante l'assedio l'abbiamo certamente veduto lambirle il piede; non dopo, perchè subito all'entrar di Pio IV la rotta era già fatta. Soltanto adunque nel tempo intermedio per una piena straordinaria come quella del cinquantasette, poteva naturalmente avvenire che la gran massa dell'acqua corrente, movendo impetuosa verso il mare, e cercando la linea più bassa e più breve, scavalcasse e rompesse gli argini a capo Duerami; ed anzi che incanalarsi per l'obliqua giravolta del cubito primitivo infino ad Ostia, si precipitasse per la corda, scavandosi il nuovo letto direttamente dal detto Capo alla torre Bovacciana. Da quel giorno l'alveo antico restossi a secco con pochi acquitrini tra gli argini vuoti, che hanno durato oltre alla metà di questo secolo col nome di Fiumemorto, ed io stesso finalmente l'ho veduto colmare e livellare per opera di quella moderna Società che dal suo intendimento ha preso il titolo delle saline e dei bonificamenti di Ostia. Le belle tavole del Canina mostrano a dito le linee di queste mutazioni[475]; ma le sue parole ci manifestano che egli ed ogni altro con lui comunemente ne ignoravano il tempo e la causa, scrivendo così[476]: «Questa rottura del Fiume si dice essere accaduta verso la metà del secolo passato: ma non si può precisare nè l'epoca, nè il modo come avvenne.»

Se non che prima di lui Giambattista Rasi, unico in questo tra tanti scrittori delle cose tiberine, aveva ben avvertito doversi cercare la risoluzione del problema nelle leggi ripuali, e specialmente nella costituzione di Pio IV, dove se ne contengono gli indizî[477]. Nel vero il tiro delle barche, le tariffe doganali, l'appostamento delle guardie, e tutta la polizia della navigazione doveva essersi risentita del cambiamento successo nel letto tiberino per un tratto notabile, e lungi dalla principale fortezza del passo. Infatti Pio IV, poco stante dopo l'inondazione, premesse le consulte dei mercadanti, dei castellani e dei doganieri, coll'intervento del notissimo Martino d'Ayala console dei marinari, e sotto la presidenza di monsignor Luigi Torres chierico di Camera, e prefetto delle Ripe, finalmente pubblicò alcune leggi colla data del sedici di maggio 1562, dalle quali tiro fuori al nostro proposito gli articoli come sono nello stesso originale espressi in lingua volgare[478]: «Capitolo primo. La barca che arriverà prima al luogo detto Boacciano, dove al presente si è messa la guardia di Ostia, rispetto alla nuova rottura e via che ha fatto il Tevere di qua da Ostia.... sarà tirata prima delle altre, venute dopo.» Continua: «Capitolo quarto. Che li doganieri di Ripa, o vero per loro il castellano d'Ostia, debbano tenere in detto luogo del Boacciano, rincontro alla nuova rottura del Tevere, l'uomo deputato che faccia le bullette.... senza che li marinari sieno tenuti andare a Ostia, e per conto della rottura e della nuova strada non si paghi ad Ostia.» — Capitolo ottavo. «Che li bufali devano tirare le barche fino a Ripa, massime che la nuova rottura del Fiume ha abbreviato la tratta di quello che era prima.»

Dunque non verso la metà del secolo passato, ma nel mezzo al cinquecento la rotta del Tevere già era successa tra il capo Duerami, la rôcca d'Ostia e la torre Bovacciana, come dura infino al presente. Di più il fatto dicevasi nuovo, la strada abbreviata, trasferita la guardia; e così per altri dieci anni, finchè (fabbricato più giù nel basso Tevere il fortino di san Michele) Pio V con un'altra costituzione, ricordando questi fatti medesimi, non ebbevi trasferito la guardia, il tiro e i proventi[479]. Laonde avendo piena certezza degli estremi, perchè nel cinquantasei il Tevere lambiva le mura ed entrava nei fossi della rôcca d'Ostia, come risulta dalla pienezza dei fatti e delle testimonianze dell'assedio; e trovandosi con altrettanta dimostrazione di certezza subito dopo allontanato con tutto il letto per mille metri; sarebbe impossibile supporre nel breve intervallo tanta grande novità nella enorme massa di real fiume altrimenti che per la forza della straordinaria alluvione nell'anno intermedio, e nel giorno preciso che veniva in Roma la certezza della pace conclusa a Cave.

La seconda memoria, e più strettamente connessa col trattato medesimo, da niuno avvertita, è il finale tracollo in Italia della baronia armata. I feudatari corsero l'ultima lancia nella guerra di Campagna, e non risalirono mai più a cavallo, fiaccati e sbalorditi a un tempo, e con un sol colpo, dagli amici e dai nemici. Imperciocchè ai sovrani, desiderosi di concentrare il comando nelle loro mani, secondo l'opinione prevalente appo tutti nel secolo decimosesto, sapendo male della potenza feudale, venne finalmente il destro di opprimerla, e non vollero mancare alla buona ventura. La prima questione, dopo quella del Regno, era stata nella guerra il feudo di Paliano, e le convenienze del duca precedente Marcantonio Colonna, e del duca novello Giovanni Caraffa: questi barone napolitano in guerra contro il Re, quegli barone romano in guerra contro il Papa. Ora dai capitoli di Cave resta esplicitamente escluso proprio questo feudo principale, ed ambedue i pretendenti con pochi riguardi messi da parte; dove in tutti gli altri simili trattati pei tempi anteriori erano stati sempre compresi. Si sa che alcun temperamento doveva essere nelle convenzioni secrete: ma queste non troppo limpide, e lasciate nel profondo del petto ai contraenti. In somma Paolo voleva le mani spiccie per punire quando che fosse i Colonnesi, e per abbattere con loro gli altri baroni: ma decrepito non ebbe il tempo, prevenuto dalla morte nel biennio[480]. Filippo al contrario giovane nel lungo regno, cupamente dissimulando, aspettò il tempo delle sue vendette: e spense nelle grandi casate napolitane ogni vanto di passati armamenti ed ogni ticchio di futuri[481]. Egli con doppio trattato e per ordini secreti ed opposti tra l'ordinario e lo straordinario suo ambasciatore, tuffò tutto insieme il sistema feudale nel sangue di casa Caraffa, del Duca e del Cardinale, che per compenso di questa guerra volle non guari dopo versato sotto la stretta del carnefice[482].

Dunque l'ultima comparsa della baronia in gran frotta di regnicoli, di statisti, e di altre province in più centinaja fra maggiori e minori, armati alla testa dei proprî vassalli, viene nella guerra di Campagna; e il primo trattato di pace che non comprende la grazia dei baroni, sta in quello di Cave. Indi in poi non vedremo più nelle storie nè i grandi difetti, nè le magnanime prodezze dei feudatari. Essi perderanno a poco a poco le fortezze e i cannoni, resteranno contenti di nomi e di titoli, andranno pei giardini e pei teatri, patiranno di splene e di vertigini. Dagli alti spiriti di generoso sangue se ne togli la forza e la sapienza, tu vi metti la follìa. Non tanto le singole parti di una sola giornata, quanto due lunghi secoli in un giorno solo tratteggiò e corresse pel suo tempo il Parini.

XVII.

[1556-57.]

XVII. — Mi sono ben guardato in questo scabroso intervallo della mia storia dal crescere fastidio a me stesso ed ai lettori col seguire passo passo le continue navigazioni del capitan Flaminio e delle sue galèe da Civitavecchia a Marsiglia, e viceversa, menando e rimenando soldati, capitani, ambasciatori, convogli per tutte quelle seguenze di alterne fazioni che vanno sempre simili in questa fatta guerre[483]. Talvolta ancora gli bisognò mostrare i denti, senza però venire alle strette, contro le galere di Napoli, che ad ogni occasione propizia uscivano di Gaeta, e venivano a minacciare sulla nostra spiaggia, ed anche alla vista dei porti[484]. Ora però liberato da ogni altro pensiero, e desideroso di far vie meglio conoscere l'accorgimento di Flaminio e le vicende dei marinari nel secolo decimosesto, devo dire di uno importante avvenimento successo qui tra noi ad una delle nostre galere, durante la guerra. Potremo adesso intendere altresì come nel medesimo tempo e per le stesse ragioni finiscono i baroni in terra ed i venturieri in mare.

Avevamo fin dal principio, come ho detto, una quindicina di galere; e tra esse quattro di Piero Strozzi, già tenute dal celebre Lione Strozzi, suo fratello, con un certo capitan Giovanni Moretti, nativo di Villafranca nel contado di Nizza. Ho pur detto che non si vuol confondere questo nizzardo coll'altro Moretto calabrese, capitano altrettanto noto di cavalleggieri al soldo di Spagna. Ora aggiungo che, a volergli trovare un termine di paragone, più simile nei fatti personali che nei nomi appellativi, bisogna ricordare col presente Moretto il trapassato Morosini, che ebbe la mala paga dai Genovesi in Famagosta, come altrove ho narrato[485]. Pari nell'uno e nell'altro l'ardimento, pari l'arte marinaresca, pari l'avversione ai pirati, e insieme pari in ambedue la cupidigia, e lo stesso desiderio di coprirsi sotto la bandiera papale. Il Morosini entrò nella prima categoria dei capitani di ventura, il Moretto ne chiude l'ultimo periodo. La ruota della fortuna volge nell'istesso verso per mare e per terra; e quando è finito il loro tempo arrovescia insieme i baroni e i venturieri per le campagne e per le marine.

La prima comparsa del capitan Moretto nell'anno del giubileo passa col titolo di corsaro, sotto bandiera di Savoja, accreditato dalle patenti del duca Carlo a correre il mare per suo conto contro Turchi e contro Francesi[486]. Sciolse da Nizza in compagnia di suo fratello, chiamato Melchiorre di Belmonte, e di un prode gentiluomo per nome Pierone Foresta, con una sola galèa di sua proprietà, nuova, forte e bella; fornita di eccellenti artiglierie da ponte e da sbarco, remigata a scaloccio dalla numerosa ciurma di trecento schiavi turchi e prigionieri francesi, e armata con centosessanta uomini da combattere[487]. Costui si pose al gran corso sul mare, e in pochi mesi girò quasi tutte le riviere dei Turchi in Europa e in Africa, traendo da ogni parte prede a suo modo. Eccone un saggio. Va a Bona, spiega bandiera e lingua francese, entra nel porto, invita a desinare una dozzina di Turchi dei principali, e se li porta via col boccone in bocca. A Bugia sottomette una galeotta piratica, e ne libera una quindicina di Cristiani. Alle Seccagne piglia prigioni diversi pescatori di corallo. Presso Tagiora dà la caccia ad alcuni piccoli bastimenti, e si accosta tanto vicino al lido, che a colpi d'archibuso ammazza cavalli e cavalieri concorsi sulla riva contro di lui. Al Cembalo si attacca con una nave di millecinquecento salme[488], armata di dieci cannoni, e difesa da sessanta Turchi: la combatte sempre da lato per tutta la notte, e finalmente se la piglia la mattina, non restatevi più che tre persone vive, due Turchi e un Ebrèo. A capo Matapan piglia all'arrembaggio due vascelli carichi di grano: passa a fil di spada chi resiste, e manda tutto il carico e i legni marinati a Palermo. Indi sottomette uno schirazzo ottomano di ottocento salme.

Andiamo innanzi, chè Moretto non si ferma sempre coi Turchi: ma per certi puntigli di parlamento e di obbedienza attacca pur briga co' Cristiani. Prima nelle acque di Candia sequestra una nave veneziana del capitan Bernardi; e non la rilascia se non dopo aver costretto il medesimo Bernardi a chiedergli scusa, e a dargli notizie precise intorno alle galèe turchesche della guardia di Rodi. Indi vira a ponente verso la Morèa, e sotto la fortezza di Modone blocca una galera algerina diretta a Costantinopoli con un messaggero di quel Re; e intanto si piglia uno schirazzo di gran valuta col carico di panni scarlatti. Alla Cefalonia investe sull'áncora due galeoni che il governatore Mustaffaràn teneva in punto per mandare alle Gerbe carichi di grano in dono a Dragut; ed egli ne fa ricatto verso Nizza. A largo mare per tre giorni e tre notti continue combatte altri due bastimenti, e li fa suoi.

Non lascia a quando a quando di pigliar terra, di fare e ricevere saluti, e di rinnovare le provvigioni, sempre che incontra porti e amici. Nella città di Bugia, tenuta in Africa dagli Spagnuoli, siede invitato a desco dal governatore don Luigi di Peralta: a Tripoli di Barberia, presidiata allora dai Cavalieri gerosolimitani, cena col balì Pietro Nugnez di Herrera: in Malta bacia le mani al Grammaestro: e finalmente di ritorno a Nizza, entra nel porto con pubblica festa, acclamato dal popolo, per avere guadagnato nel corso di un anno, e di parte sua, trentamila ducati tra legni, prigioni, merci e danaro; liberati ottanta Cristiani dalla schiavitù, e portato in trionfo armi, cannoni e bandiere nemiche[489]. Una sola eccezione trovo a tanti favori di grandi personaggi e di cospicue città: il modesto magistrato del porto di Cotrone in Calabria mette in sequestro le prede del capitan Moretto, accusandolo di correre il mare in busca di ogni roba, tanto di amici che di nemici[490]. Della sua bravura mi sento sicuro: non così della delicatezza. Parmi avere innanzi risuscitato il capitan Angelo Morosini da Scio, da Siena, da Venezia, da Roma, e dal ceppo di Famagosta.

Negli anni seguenti deve aver fatto, poco più poco meno, l'istessa vita; ma non trovo io un altro Salazar che me la conti: però mi taccio. Solamente posso asserire che, per la sua bravura entrato in grazia di Leone Strozzi, mutò partito e bandiera[491]: divenne nemico degli Spagnuoli, combattè in favore dei Francesi, e finalmente restò con Piero Strozzi capitano di una delle quattro galèe dal detto Piero portate seco in Civitavecchia, dove lo trovo al soldo di Paolo IV per la guerra di Campagna[492].

XVIII.

[Ottobre 1556.]

XVIII. — Se non che nel mese d'ottobre del cinquantasei il capitan Moretto si trovava affatto malcontento degli Strozzi, e disgustato della sua ventura. Tutti sanno le strettezze dell'erario camerale nel periodo della guerra di Campagna, e ne fa ricordo l'istesso cardinal Pallavicino, citando le parole di quello che chiama suo caro e virtuoso amico, Pietro Nores: parole allora manoscritte negli archivî, ed ora pubblicate per le stampe, e continuamente da me ancora allegate[493]. Però non è da meravigliare nè sul sottile del ritardo alle paghe dei capitani della marina, nè sul grosso del corruccio nel Moretto: uomo da non vivere contento a tasche vuote. Di più egli si diceva creditore di altre somme verso gli Strozzi per ragione dei suoi stipendî decorsi. E mettendo tutto insieme nella disperazione di essere altrimenti pagato, stabilì di impadronirsi della galèa, e di fuggirsene per compenso con quella.

Facilissima l'esecuzione del disegno, come sarebbe gittarsi a precipizio quinci in giù. Egli aveva il comando nelle mani, e quasi tutti gli ufficiali, marinari e soldati di sua scelta, concittadini ed amici. Alla prima occasione di uscir dal porto, prese il vento, e via a golfo lanciato infino al golfo di Villafranca[494]. Là, uomo astutissimo, presentò al conte di Fruzasco, novello governatore di Nizza, le ragioni della sua innocenza e dei suoi diritti. Pentito, diceva, di aver lasciato la bandiera del proprio principe, offeso a bastanza da quel taccagno dello Strozzi, facesse per gran mercè il Fruzasco di rimetterlo nella grazia del Duca suo natural signore, e vedrebbe portenti di fedeltà, vedrebbe fioritura di provincie, scuole di nautica, ricchezza di corso, gloria di nizzardi, e marineria militare: proprio ciò che unicamente mancava alla prosperità del paese, ed all'altezza del Duca.

Il Governatore nuovo di cotesti maneggi, e i terrazzani vecchi amici del Moretto, menarono buone le sue parole, accettarono i servigî, presero le sue parti, e gli resero le patenti e le bandiera. Il duca istesso Emmanuele Filiberto da Brusselle, dove era capitan generale delle armi per Filippo II, scriveva al Fruzasco, sotto la data del ventitrè di dicembre del cinquantasei, in questa sentenza[495]: «Del capitan Moretto, per le persuasioni ed esortazioni vostre, ci contentiamo di perdonargli e di riceverlo in nostra gratia, e di ritirarlo in servitio nostro con quelle conditioni, soldo e stipendio, che Voi e Leyny concerterete seco, a più nostro beneficio, tirandolo a quello manco si potrà[496]. Con questo però che egli si obblighi di stare a ragione pel conto della galera, quando fosse ricercato dal maresciallo Strozzi[497]. E perchè scrivete che è uomo da fare servitii assai, et che ha il modo di farlo, in caso che Leyny non abbia bisogno dell'opera sua nella fabbrica della darsena di Villafranca, lo manderete insin qua da Noi per intendere più cose, massime del modo di armare altre galere: e potrà lasciare il governo di sua galera al prefato Leyny, sotto descritione di inventario. Et per sicurezza sua havemo ottenuto da Sua Maestà che egli possa andare, stare e ritornare con detta galera et genti in tutti i porti, mari e stati di Sua Maestà, la quale per questo effetto manda e scrive al principe Doria, generale del mare[498], che debba fargli il salvacondotto per essere di carico suo; et scrive eziandio all'ambasciator Figueroa di favorirlo ed ajutarlo; sicchè bisognerà per questo indirizzarsi a loro.» Dunque alla fine del cinquantasei il Moretto aveva assettato bene le sue faccende dalla parte di là: rimesso in grazia, preso al soldo, fornito di patente, acconcio di bandiera, e ammesso col salvacondotto in tutti i porti del Re, per la Spagna, l'Italia e l'Africa.

Prevalendosi tantosto di queste concessioni, e prima di gittarsi randagio appresso al Duca per le Fiandre, o di mettersi marangone per le acque a cavargli le darsene, pensò a rimpinzare la borsa: e per questo subito entrato il cinquantasette si volse colla galera e con tutti i suoi alla buona ventura contro i Turchi, secondo il solito pei mari di Levante, facendo in Malta la prima scala, accoltovi con gran dimostrazione di favore e di grazia dai Cavalieri, dal Grammaestro e da tutto il Convento.

XIX.

[Gennajo 1557.]

XIX. — Per questo Piero Strozzi, offeso nell'interesse, nell'autorità e nell'onore, dette nelle furie. E fittosi in capo di voler ricuperare la galèa, ed appiccare il Moretto alla lanterna di Civitavecchia, persuase il Papa, che di questo insulto, se si lasciasse impunito, scapiterebbe nell'onor suo, nella dignità della Sede apostolica, nella sicurezza dei suoi porti: citò gli esempî precedenti contro la temerità dei Doria e degli Sforza, e strinse tutti gli argomenti, secondo l'indole delle persone e dei tempi. In somma ottenne ciò che volle, quanto al fine; e riservossi la scelta dei mezzi per condurre una trama da soddisfare fino all'eccesso ad una incerta giustizia.

Sapeva il maresciallo del viaggio impreso dal Moretto, della sua passata per Malta, e de' suoi disegni in Levante. Perciò fece venire a Roma il capitano Pietro Fouroux provenzale, che comandava un'altra di quelle galere: e dategli a voce le istruzioni occorrenti intorno alla cattura del Moretto e del naviglio, con lettere pressantissime firmate dal Papa, lo mandò a Malta sotto bandiera pontificia, come se dovesse andare al corso contro gl'infedeli. Ed ecco entrare in lizza il Fouroux annoverato ugualmente tra i nostri venturieri. Ma ponete mente ai fatti del capitan Flaminio Orsini, che non si impaccia di cotesti intrighi, e riserba il senno e la spada a più degne imprese. Alla quale saviezza il cardinal Farnese per la penna di Annibal Caro rende onorevole testimonianza, mostrandocelo destro, come era, nello schermirsi dalle confuse brighe[499].

Il Fouroux, ben accolto in Malta da quei Signori, facilmente trovò la compagnia di un'altra galèa appartenente al giovane cavaliere fra Francesco di Lorena, fratello minore del duca di Guisa e gran priore di Francia, comandata da fra Antonio d'Aumale, soprannomato Nancei. Con essi s'intese per andare al corso di conserva. Ma il secreto disegno del Fouroux non era di cercare i Turchi per quei mari, sì bene seguire soltanto le tracce del Moretto; del quale continuamente pei porti e dai naviganti pigliava lingua; e trovava pur sempre sue buone ragioni per condurre i Lorenesi più tosto a questa che ad ogni altra parte che fosse. Tanto meglio che Francesco, per rispetto alla bandiera del Papa, gli si era gentilmente sottoposto, e gli dava la destra, e nel navigare gli si teneva sottovento; quantunque il Fouroux nascondesse ad arte più che poteva lo stendardo delle Chiavi, e in quella vece sfoggiasse di croci bianche e di stendardi rossi, insegne notissime dei Gerosolimitani, dicendo volersi uniformare con quelle, e rendersi più formidabile ai pirati[500]. Lusingava l'amor proprio del compagno; e ne tirava l'effetto consueto degli elogi creduti sinceri.

In somma non andò molto per le riviere levantine in questo modo cercando, ed incontrossi col Moretto. E questi che già prima aveva riconosciuto da lungi agli stendardi e all'andamento i supposti amici, non che mettersi in fuga, si fece volenteroso incontro a loro, desiderando cavarne notizie di ponente, ed anche all'occorrenza buona compagnia. Venuto da presso, strinse le vele, sparò la salva; ed essendogli stato corrisposto, mise in mare lo schifo, e mosse subito verso quella galèa dove era il Fouroux, parendogli al certissimo superiore pel posto di sopravvento che teneva, e pel contegno del saluto. Il Moretto veniva lieto con bel garbo e brioso a cattivarsi la benevolenza del comandante: e il Fouroux stava co' suoi di guardia per pigliarlo al primo abbordo[501]. Detto e fatto: a pena ebbe sgambettata la scala, e come si fu tirato giù il cappello alla spalliera, una diecina di marinari gli saltavano addosso, e Fouroux lo faceva condurre dabbasso in catena. Al tempo stesso (tutto concertato) prolungandosi a contrabbordo sulla galèa Moretta, se ne impadroniva con tanta franchezza, che i Maltesi, i Lorenesi, e quasi gli stessi Nizzardi non se ne erano accorti. Tanto vale la sorpresa sottilmente condotta, quando altri non l'aspetta!

XX.

[2 febbrajo 1557.]

XX. — L'arduo punto adunque è superato, la galèa fuggitiva ripresa, e il rapitore in prigione. Ma non istà tutto qui. La cattura del Moretto ha ad essere tra i principi cristiani quel che si dice nelle favole dell'aureo pomo tra i numi. E la prima questione deve cominciare qui subito in mezzo al mare tra il cavalier Francesco e il capitan Pietro, chiedendo quegli ragione all'altro della fede violata con tanto spregio, senza metterlo a parte de' suoi disegni; anzi servendosi di lui come di zimbello nella caccia, al fine di allettare l'avversario. E già Francesco di Lorena metteasi in punto d'investire Pietro di Provenza per ricattare a libertà il Moretto ben conosciuto da lui e da tutti i Maltesi, e munito di amplissime commendatizie dal Grammaestro. Certo così avrebbe fatto, anche a costo di un combattimento, se il Fouroux non gli si fosse raccomandato, mostrandogli l'ordine esplicito che di ciò aveva dal Papa. Nondimeno Francesco e i suoi vollero solenne promessa dal medesimo Fouroux di tornare incontanente colle tre galèe a Malta; e di rimettersi colà, senza altre frodolenze, alla decisione del Grammaestro e del suo Consiglio.

Con questo le tre galèe volsero a Malta: e alli due di febbrajo del cinquantasette, per volontà del Principe entrarono nel porto grande della città, dove subito subito tutto il Convento fu sossopra. Il priore di Francia e il cavalier d'Aumale non volevano scrupoli sulla coscienza, nè onta all'onore, nè taccia di traditori, nè macchie di sangue pel supplizio d'un uomo preso con inganno all'ombra del loro stendardo al fine di condurlo altrove a morte ignominiosa. Gli altri Cavalieri, secondo i diversi partiti, propugnavano diverse sentenze: chi voleva impiccato il ladro per vendetta dell'oltraggio fatto al Papa, al re Enrico e a Piero Strozzi; chi domandava la libertà di un capitano valoroso, e munito di patenti e commendatizie dal re di Spagna, dal duca di Savoja e dal principe Doria; patenti riconosciute già e accettate per valide in Malta. Il vecchio Grammaestro tentennava: consapevole degli umori boglienti dei suoi Cavalieri, temeva di offendere, e non sapeva chi scegliere tra Francia e Spagna, tra Roma e Savoja: pigliava tempo. E intanto il Moretto, che capiva il grandissimo suo pericolo, e che era stato un po' francese e un po' spagnuolo, parlava le due lingue secondo il genio di ciascuno. Appellava all'onore, chiedeva protezione, scriveva memoriali, non rifiniva di toccare i tasti più delicati, se pur gli venisse fatto di uscirne vivo.

[Marzo 1557.]

Divulgatasi poi la cattura del Moretto e la questione del Fouroux, come se tutto il precedente fosse nulla, crebbero a doppio i fastidî, e sbucarono da ogni parte i creditori contro l'uno e contro l'altro. I Signori veneziani, per conto del capitan Bernardi e di altrettali, chiedevano il compenso dei danni patiti dal Moretto, ed a sicurezza dei crediti il sequestro della galèa, dei beni e della persona. Molti altri al modo stesso ricorrevano contro il Fouroux, protestando angherie, e chiedendo danari, Marin de Luca ragusèo, Niccolò Piccaluga sciotto, Antonio Cassigero siciliano, Pietro e Giovanni Lomellini del Campo, Antonio Giustiniani, ed altri mercadanti genovesi e levantini da lui medesimo danneggiati nelle precedenti scorrerie; tanto che bisognò imprigionare anche il Fouroux, e mettere eziandio il sequestro sull'altra galèa[502]. Cose di piccolo momento sembran queste, ma ove andassero neglette ne patirebbe discapito la storia, la cui integrità deriva dai fatti di ogni maniera, tanto grandiosi, che minuti. In questo modo l'hanno intesa i classici latini e greci e di tutte le nazioni, infino al Bartoli e al Colletta, per non dir più. Senza fatti non v'ha certezza nè ragionamento di cause e di effetti, di conseguenze e di principî: in somma sui fatti e non sulle nuvole poggia la filosofia della storia. Io non mi appello a situazioni, come dicono, fatali; nè seguo la forza ignota del destino, nè mi lascio menare da arcane necessità preesistenti. Vado coll'italica scuola sperimentale, e soffio sulle nebbie del settentrione. Sembrano alte le nubi, pajon sublimi; ma tornano vuote, come ognun sa pel fatto d'Issione. Senza confonderci nei vani amplessi, tutto si spiega lucidamente quando si intende con chiarezza. Mettete insieme la verità dei fatti, la giustizia de' diritti, la legge di natura, il giuoco delle passioni e l'ordine dei tempi, e voi avrete senza tanti stenti i principî e le conseguenze, i motivi e gli ostacoli, le cause e gli effetti: in somma avrete tutto il raziocinio, e compiuta la filosofia della storia. Ora ci vediamo crescere innanzi il potere e l'accentramento dei principî, e cadere tutto in un fascio il sistema dei baroni, dei comuni e dei venturieri per terra e per mare. Sappiamo che la fine deve rispondere all'alterazione del principio: quindi dobbiamo vedere la caduta dei baroni per la grandezza delle soperchierie, la fine dei comuni per la universale corruzione, e similmente la fine dei venturieri per la stranezza delle avventure. Dunque volendo chiarire a me stesso e ai lettori il principio e la fine di costoro, raccolgo gli strani successi dell'ultimo capitano di ventura, come ho fatto pei primi: e scendo a tutti quei particolari che ne hanno a decidere la sorte, e che a niun'altra storia forse meglio che alla mia possono convenire. Qualche schifiltoso parla di fatterelli. Io dico tanto necessaria allo storico la cura dei particolari, quanto al pittore la sottile macinatura dei colori; e quanto al naturalista il minuto conto dei micrometri. Trovo nel Pallavicino l'istesso concetto, quando scrive[503]: «Essere in ciò simigliante la fisica in formare le sue posizioni, e l'istoria le sue narrazioni: che l'una il fa col riscontro di molti effetti, e l'altra di molti detti.» Il Cardinale, come savio, non intende di detti vuoti e vani, ma rispondenti a fatti positivi ed importanti, così grandi come piccoli nella loro specie. Tutto il criterio di chi studia sta nel coglierne il valore, non ostante la piccolezza; e nel trovare il legame dei principî e delle conseguenze. Così pure colle parole e coi fatti ne insegnò quel grande filosofo italiano, cui la caduta d'un sassolino dalla torre, e l'oscillazione d'una lampada nella chiesa (minutissime osservazioni, da niun altro prima curate), dettero argomento per determinare le leggi della gravitazione, e per condurre nuove teorie dalle pietruzze e dalle lampade infino agli astri.

XXI.

[Aprile 1557.]

XXI. — Ora al minuto del caso nostro cresceranno gravità le richieste e le minacce contradittorie dei principi maggiori e minori. Il duca di Savoja scrive al Grammaestro che liberi incontanente il Moretto, rispetti la sua bandiera e le proprietà de' sudditi suoi: altrimenti il sequestro sopra tutti i beni dell'Ordine gerosolimitano negli stati ducali. Il re Filippo di Spagna aggiugne che l'isola di Malta non è stata infeudata ai Cavalieri per favorire i nemici della corona, o per opprimere gli amici: mettano subito in libertà il Moretto, o si aspettino quel che si deve ai ribelli; e intanto abbiano la disdetta sulle tratte dei grani della Sicilia. Il principe Doria rappresenta che la patente del Moretto, spedita dal conte di Fruzasco, porta la conferma e sottoscrizione sua: dunque si rispetti. Altrimenti sequestri, confische e rappresaglie. Son forse tritumi cotesti?

Dall'altra parte il re di Francia ordina e comanda severissima punizione contro il fellone, notoriamente reo di oltraggi e di rapine ai danni della regia armata, del maresciallo Strozzi e della santa Sede: guai se lo lasciano fuggire, guai se non sia restituita la galèa con tutto il corredo! Il Papa più d'ogni altro insiste con messaggi e brevi, dicendo, dovergli essere il reggimento di Malta, come di Ordine religioso, più di ogni altro soggetto: quindi senza replica e senza dilazione il Grammaestro e il consiglio obbediscano. Mandino a Civitavecchia sotto buona scorta il Moretto, il Fouroux, le due galere, e tutte le attenenze, carte e processi. Altrimenti ostilità e censure.

[16 maggio 1557.]

I tribunali lavoravano, i secretarî componevano, gli ambasciatori andavano e venivano, e finalmente ai sedici di maggio Pandolfo Strozzi, monsù de Carses, e Maffeo Boniperto secretario intimo del cardinal Caraffa, partivano con due galere da Civitavecchia per Malta a pigliar la consegna delle persone e delle cose richieste dal Papa[504]. I Cavalieri, posti, come è chiaro e come tutti diciamo, tra l'uscio e il muro, presero la via di mezzo: cioè consegnarono il Fouroux, la sua galera, e tutti gli atti dei tribunali maltesi contro di lui; di che non trovo più traccia. Quanto all'altro, implorarono una breve dilazione a fine di dar parte del successo al re di Spagna. Con questa intelligenza gli inviati del cardinal Caraffa se ne tornarono verso Roma alli quattordici di giugno; e ai diciotto di agosto dell'anno stesso l'infelice Claudio della Sengle, grammaestro di Malta, afflitto al sommo da tante contradizioni, improvvisamente se ne moriva.

[17 settembre 1557.]

Succedutogli il celebre cavalier Giovanni della Valletta, e venendogli di Roma richieste sempre più insistenti, e di Spagna minacce sempre più pressanti, pro e contra, se ne uscì con un'altra misura di mezzo. Scrisse al cardinal Caraffa di non potersi assumere la malleveria del ritorno nel viaggio marittimo del Moretto: però mandasse gente di sua fiducia a pigliare e a scortare quel che voleva. Dall'altra parte fece sapere al prigioniero che si terrebbero chiusi gli occhi sopra i fatti suoi. Costui che non aveva mai lasciato di fare sottilissime pratiche, trovò finalmente una porta aperta alla prigione, e una fregata forestiera alla riva. Fuggì a salvamento in Sicilia[505].

[Maggio 1558.]

Per conclusione veniamo agli ultimi due successi dell'intricatissimo negozio. Nel maggio del cinquantotto il capitan Filippo Orsini da Vicovaro con una galèa di Civitavecchia ritornò a Malta, grandemente onorato da quei signori. Fece un processo informativo intorno alla fuga del Moretto, prese la consegna della galèa controversa, e di tutte le attenenze, prede e scritture, da essere presentate ai tribunali di Roma. La destrezza, la grazia e le concilianti maniere di Filippo, il quale seppe rendersi accetto a tutti i contendenti, calmarono gli sdegni già stanchi[506]. E il Moretto, tornato in Nizza ai servigi del Duca, non lasciò mai più di rimestare nel senato della contèa la lite contro i Cavalieri pel rifacimento dei danni; ascendenti, secondo suoi calcoli, a un tesoro: tanto che per sentenza di quei giudici cadde il sequestro reale sui beni dell'Ordine gerosolimitano negli stati di Emmanuele Filiberto. Così durarono per sette anni, cioè infino alla morte del Moretto, avvenuta nel 1564. Allora soltanto finirono i litigi con uno strumento di transazione, e duemila ducati d'oro pagati in saldo di ogni pretensione dai Cavalieri agli eredi suoi[507]. Chi potrà mai più volersi mettere per allievo in quella scuola, sulle orme del Moretto e del Fouroux? Ecco la conseguenza che io posso trarre, senza punto dilungarmi dalla mia marina. Finisce con loro l'ardito e sciolto mestiero: e chiunque dappoi vorrà tenere galèe armate di sua proprietà, e' sarà più tosto legato al soldo, che non libero alla ventura.

XXII.

[1 giugno 1558.]

XXII. — Felice presagio il non aver trovato di mezzo a queste vicende il rispettabil nome di Flaminio Orsini, protagonista del libro presente: nome giustamente tenuto in serbo per tornare da quinci innanzi onorato nella maggiore e finale impresa contro i pirati.

Durante l'infausta guerra di Campagna, Flaminio erasi limitato strettamente al dover suo: difendere la città marittima, e governar le galèe camerali. Commissioni ambedue fedelmente eseguite. Ora egli co' suoi ufficiali si dispone alle ultime prove in campo più degno contro Dragut, che ci ritorna dinanzi.

Il terribile pirata, del quale più volte abbiamo favellato, ed altresì promesso in alcun luogo di dirne l'origine, ebbe i natali da povero pastore in un paesello della Caria rimpetto a Rodi, chiamato Montisceli: nome di patria, col quale più spesso lo incontriamo nella sua prima ed oscura gioventù. Preso per fante e allevato da un bombardiere ottomano, che di là passava per andare in Egitto, crebbe eccellente nel maneggio delle artiglierie; e come tale entrò nella società dei pirati egiziani raccolti alle Gerbe, luogo molto acconcio ai loro disegni, per la sicurezza della stallia, e per l'abbondanza della panatica. Fece parte col Giudèo per una quarta di un piccolo brigantino, che in pochi viaggi fu tutto suo. Indi armò una galeotta maggiore, divenne amico di Barbarossa, ottenne carichi principali nella armata di Solimano, comparve di vanguardia alla Prèvesa, e levossi tanto alto da mettere insieme venticinque e trenta bastimenti da remo, coi quali scorreva da padrone pel Mediterraneo[508]. La sua storia sarebbe finita alla Girolata, dove fu preso da Giannettino e dall'Orsino, se il principe Doria non lo avesse liberato[509]. Dopo quel tempo divenne più fiero e potente: ed essendo morti il Giudèo e Barbarossa e gli altri della seconda quadriglia, toccò a lui il principato della terza con Morat, Scirocco e Luccialì. Occupò per tradimento la città di Afrodisio, e se ne fece tiranno: venne, per mantenerla, a quelle prove che abbiamo vedute nel settimo libro; e per vendetta delle perdite cacciò da Tripoli i Cavalieri di Malta, padroni già da vent'anni della piazza, ove pose la sua residenza principale. Là per concessione di Solimano alla morte repentina in que' giorni di Morat-Agà, prese il titolo di Sangiacco, come dire in nostra favella gonfaloniere, governatore e principe. Tutti i suoi passaggi suonano spaventosi per fatti crudeli a rovina di Cristiani per terra e per mare. Ai Veneziani, oltre infiniti danni di navigli da carico, predò cinque galere armate, non ostante la tregua solennemente pattuita con Solimano[510]. In Malta sbarcò più volte, e dal Gozzo in una notte prese e menò via quasi tutto il popolo. Non parlo di insulti sulle riviere di Italia, perchè non vi è luogo aperto da Reggio a Sorrento, ed oltre infino a Rapallo, che non sia stato messo da lui a ruba e a fiamme. Prese al vecchio Doria sette galere nelle acque di Ponza; altrettante ne acquistò di Sicilia, uccidendovi il generale; una di Malta predò a Pozzuolo, carica di danari: leggiamo lo stesso e peggio pei lidi di Spagna, e talvolta anche di Francia.

Uomo cupo e di poche parole, non ha lasciato ricordo de' suoi detti, se non pel brevissimo dialogo col cavaliere della Valletta, altrove riferito; e pel colloquio con monsignor Caracciolo vescovo di Catania, cui concesse il riscatto per tremila ducati, sotto giuramento di pagare il doppio se mai gli avvenisse di esser fatto papa.

Dei suoi pensieri e del suo ingegno nelle strategie pronte ed astute, e nei calcoli degli effetti lontani, fanno fede tutte le opere della sua vita. Ma tra i suoi ripieghi sublimissimo e da essere sempre ricordato quello che con piena riuscita eseguì alle Gerbe sul lido della Cantèra, quando nell'estate del cinquantuno, bloccato con forze maggiori dal vecchio Doria, lo lasciò da lungi confuso e beffato alla guardia di una ventina di vecchie tende tanè, incavalcate all'uso marinaresco sulle grabbie, che parevano bastimenti a scioverno; mentre esso carrucolando le sue galeotte usciva libero di là sotto per un canale che aveva con pertinace lavoro cavato di notte tra le sabbie, infino a sboccare in mare dall'altra parte dell'isola, due chilometri lontano[511].

I tratti della sua fisonomia ci restano scolpiti al vivo sul metallo di una medaglia, nella quale Andrea Doria per la mano maestra di Giovannangelo Montorsoli fece ritrarre sè stesso nel diritto, e nel rovescio il suo prigioniero[512]. Andrea comparisce a capo nudo, col nome in giro, il tosone al collo, il serpentello abbasso, e il tridente marino a tergo, senza dimenticare il titolo di Padre della patria. L'aspetto di lui torna simile a quanto ne abbiamo di bellissimo ricordo in bronzo, in marmo e in tela[513]. L'immagine scolpita sul rovescio non porta nè scrittura nè nome: ma l'Olivieri, l'Avignone, e tutti ormai convengono nel riconoscervi il busto di Dragut[514]. Egli ha intorno al campo quattro catene, allacciate da altrettante maniglie, a tergo la galeotta piratica, e sulla spalla la mazzetta ed i ceppi: simboli certamente allusivi a famoso prigioniero barbaresco, che non può essere altri da Dragut infuori. Ed io tanto più me ne persuado, che, avuti in mano i bellissimi esemplari della medaglia, custoditi in Roma negli stipetti di casa Doria; e riguardata attentamente quella bella testa d'uomo in sui trent'anni, non ho visto il rigonfio del tipo africano, nè lo smilzo dell'arabo, nè il paffuto del turco; sì bene le forme gentili del greco asiatico, donde era Dragut: forme che ancor durano nei nativi del paese. Cranio rotondo, chioma folta a crespe naturali, collo carnoso, poca barba, labbra strette, naso perfettissimo, pomelli rilevati, liscia la pelle, e l'occhio fisso; indicio dell'animo facilmente volto dalle cose sensibili ai pensieri trascendenti nell'ordine del suo mestiere.

XXIII.

[13 giugno 1558.]

XXIII. — Quell'occhio per questi tempi tutto affissavasi verso la Francia. Dopo il rovescio del Sanquintino, e per conseguenza della guerra infelice contro la Spagna, di là vagheggiava il richiamo e l'occasione di acquistarsi in Italia altre ricchezze e meriti maggiori[515]. E così fu: chè re Enrico, trovandosi al disotto, non volle mancare di equilibrarsi col consueto contrappeso dei Turchi; ed ebbe in suo ajuto l'armata di Costantinopoli e le squadre di Barberia, agli ordini dal pascià Pialì e dal sangiacco Dragut. Costoro con centoventi galèe, e molti altri legni da carico, pigliarono un'altra volta e bruciarono Reggio. Indi dalle Eolie gittatisi nel golfo di Salerno, ebbero Sorrento e Massa, e disertarono il paese infine alla torre del Greco, menandone maschi e femmine, contadini e signori, a migliaja. Dragut gli spartiva, o donava a questi e a quelli, o li mandava a vendere in Africa[516]. Da Piombino scrissero a Genova, mettendo alla scelta di quei Signori la pace o la guerra. Ciò s'intende alla maniera dei Turchi: come dire pace a prezzo vergognoso, guerra a oltranza barbarica. I Genovesi mandarono danari e vittuaglie; e gli Ottomani passarono oltre in Provenza[517].

[21 settembre 1558.]

Là successe, e al fermo non poteva mancare, lo screzio tra le albagìe francesi e le avarizie musulmane. I barbari disgustati del re Enrico, se ne andarono a menare il randello sui paesi del re Filippo. Gran rovina per le marine di Spagna, e principalmente nell'isola di Minorica, dove stettero a ricovero: e finalmente carichi di preda e di schiavi cristiani se ne tornarono ai loro paesi.

Dragut principalissimo conduttore della tregenda, più che mai tronfio, raccolse in Tripoli lo squadrone de' satelliti; e con essi celebrò feste strepitose in dispregio del nome cristiano. Le quali ingiurie, per le lettere dei prigionieri ripetute e diffuse in Europa, non è a dire quanto incitassero gli animi dei popoli a chiederne giusta vendetta per riscattare i perduti, e per affrancare tutti gli altri dalle minacce e dagli insulti dei ribaldi. Nè andò guari che si cominciò a trattare da senno la pace tra Francia e Spagna. Primo già tra i rivali in pace perpetua si pose quel Carlo, di cui abbiamo tante volte favellato, e dobbiamo ora ricordarne (per accomiatarci da lui) il giorno della morte, avvenuta nel suo ritiro addì ventuno di settembre[518]. Poi Filippo ed Arrigo, tediati e stanchi dei marziali travagli, e più quest'ultimo più volte rotto infino a Gravelinga, si accordarono per una tregua, che alla fine si ridusse a solenne trattato di pace, col nome del castello Cambrese, dove addì tre aprile del cinquantanove fu sottoscritta[519].

[18 agosto 1559.]

Sciolto adunque il re Filippo da ogni altro impaccio, e sollecitato dai clamori dei sudditi, deliberò l'impresa di Tripoli contro Dragut; ed ebbe da papa Paolo conforti e promesse di ajuti per la spedizione ardentemente dall'uno e dall'altro e da tutti desiderata[520]. Ma poi quasi improvvisamente venuto Paolo a morte il diciotto di agosto, pei tumulti susseguenti ogni cosa restò sospesa; ed i più si condolevano pur di questo, temendo non forse lo stendardo papale avesse a restar fuori della grande raunanza che si apparecchiava.

XXIV.

[Settembre 1559.]

XXIV. — Se non che il collegio dei Cardinali nella sede vacante, non volendo mancare agl'impegni del Pontefice defunto, ed alle pressanti richieste del re Filippo, confermò al capitan Flaminio Orsini il governo della squadra; e gli commise di mettersi in punto per essere a Tripoli cogli altri[521]. Flaminio, come tutti i capitani solerti e prodi, aveva bene in assetto i suoi legni; e specialmente leggiadra sopra qualunque altra galèa, di scolture, d'intagli e di dorature adorna e bellissima la Capitana, dove esso risiedeva[522]. Nè meno corredate e forti le due conserve; l'una a carico del prode giovane Galeazzo Farnese, e l'altra del veterano Filippo Orsini da Vicovaro. Di Filippo si è fatta menzione più volte al tempo della guerra di Afrodisio, e nei diversi successi delle galere di Carlo Sforza e di Orazio Farnese[523], insino all'ultimo e recente periodo del capitan Moretto in Malta, dove esso colla grazia e saviezza sua stralciò gli estremi viluppi nell'intrigato affare del Venturiero[524]. I genealogisti per loro solito non dicono sillaba di lui[525]. E ne perderebbe ogni traccia chi non sapesse il costume di quel tempo di chiamare anche i grandi signori col nome del feudo, anzi che con quello della famiglia: dicevano, per esempio, di Vicovaro a Filippo; come di Cere, di Pitigliano, di Nola, e simili, dicevano agli altri Signori della istessa e numerosa famiglia.

Presso a poco mi accade altrettanto parlando dell'altro romano Galeazzo Farnese, quarto discendente in linea retta dal fratello maggiore di Paolo III. Mettete in men d'un secolo quattro generazioni, e presto intenderete che Galeazzo, di Pierbertoldo, di Galeazzo primo, di Pierbertoldo primo, e di Bartolommeo (stipite dei signori di Latera), doveva essere ben giovane di circa vent'anni: e ciò per evidente ragione naturale, corroborata dalla testimonianza concorde degli scrittori contemporanei, a dispetto dei genealogisti seguenti[526]. Ai quali ora per l'appunto mi conviene opporre un'altra recente e non sospetta eccezione, venutami da Livorno per la stampa di Milano, quasi in risposta alle mie ricerche intorno ai più negletti dei nostri capitani, come in alcun luogo qui addietro ho promesso di ricordare colla dovuta gratitudine[527]. Ecco le parole del Guerrazzi per quanto basta al presente proposito, senza precipitare le notizie dei successi futuri[528]. «Sopra la galèa capitana del Papa, governata da Flaminio dell'Anguillara, capitano eccellente e di molto giudizio nelle faccende navali.... si rammenta Galeazzo Farnese, nobile giovanetto, che prode fu, ma non operò atti eroici, mentre la storia, più che altri non crede, e a lei stessa non paia, piaggiatrice, lascia innominato un paggio dell'Anguillara, il cui caso pieno di pietà come mi riusci grato raccogliere, così non mi sarà grave raccontare.» Vedremo il resto, e adesso attendiamo all'Odorici, il quale nei supplementi al Litta, facendo i conti sulle spalle del nonno, ci darebbe il nipote per decrepito nella presente spedizione delle Gerbe[529]. Non così il Salazar che, distinguendo meglio le quattro generazioni, e i due Galeazzi, avo e nipote, parla di quest'ultimo nella forma che segue[530]: «Galeazzo, secondo di questo nome, e diciannovesimo signore di Farnese, nipote del primo Galeazzo, segnalossi grandemente nella milizia; e dopo impiegato alcun tempo nei primi studî dell'arte, servì Filippo secondo[531], l'anno 1560, alla giornata delle Gerbe, nella quale cadde prigioniero, essendo ancora tanto giovane che Mambrino Roseo lo chiama Nobile giovanetto. Ricuperata la libertà continuossi nella gloriosa professione delle armi, donde col suo ingegno e studio cavò tal frutto, che nell'anno 1571 ottenne dai Veneziani il generalato delle loro milizie in Dalmazia. Colà fu maestro a Mario suo minor fratello, e poi in Napoli tolse per moglie la nobilissima Lucrezia Tomacelli, zia di quella principessa che con lo stesso nome portò l'eredità dei Tomacelli in casa Colonna, maritandosi a don Filippo duca di Tagliacozzo.» In somma la prima spedizione del giovane Galeazzo viene segnata alle Gerbe; ed il primo tirocinio della marineria infin dai teneri anni vuolsi ricercare sulle galèe della sua famiglia, e sotto la direzione de' suoi cugini Orazio Farnese e Carlo Sforza, ricordati nei libri precedenti come capitani marittimi, e come possessori di bastimenti militari di loro proprietà.

Di che avendo detto altrove a sufficenza per gli Sforzeschi, ma non egualmente pei Farnesiani, quando mi stringeva il bisogno di avacciare in mezzo alle furie delle congiure e delle vendette, ora qui sembrami migliore partito il compiere con qualche documento che torni al proposito, e comprovi il magisterio domestico del giovane e valoroso Farnese. Ecco in lingua volgare l'atto di vendita delle quattro galere della famiglia: originale documento e raro, che ora mi dice bene a ripieno, intanto che lenta lenta si apparecchia nel Regno la spedizione per l'Africa[532]:

« MDXLV adj XXIII di ottobre.

»Per il magnifico signor Paulo Pietro Guidi, presidente della camera ducale di Piacenza et Parma, et Jo. Batista Liberati thexoriero et maestro dellentrate ducali predette si vendino quattro galere del signor duca di Piacenza et Parma allo illustrissimo signor Gio. Luigi del Fièsco con li capitoli, patti, et conventioni infracripte. Et primo.

»Per sua Eccellenza diano et vendino le dette quattro galere, cioè la Capitana, la Victoria, Santa Catherina[533], et la Padrona, di quella qualità et sorte che sono, et con robbe, fornimenti, schiavi et forzati justa lo inventario, fatto per messer Pietro Ceuli agente di sua Eccellenza e per messer Anton Maria Marano agente del predetto signor Conte, quale inventario sarà inserto qui di questo tenore, cioè[534]:

»Intendendo però che li forzati condemnati a tempo li si danno co la conditione che l'ha sua Eccellenza; et de detto inventario se habbino da diminuire forzati venticinque in circa liberati da Sua Santità dopo fatto detto inventario, et forzati venticinque in circa quali sono delli heredi del quondam capitanio Bartolomeo Pereto da Talamone[535]; et mancando il numero di essi forzati et schiavi, supplirà sua Eccellenza oltre il sopraddetto numero di cinquanta in circa.

»Et più sua Eccellenza farà che Sua Santità condurrà tre de dette galere al stipendio della Camera apostolica per dui anni, et al predetto signor Conte darà il luogho che tenea l'illustrissimo signor Horatio suo figliuolo in dette galere, intendendo che il soldo[536] de dette tre galere incominci in persona del sopraddetto signor Conte dal dì della consegna de dette galere, ancora che non fosse fatto il contratto colla Camera apostolica, et non prima.

»Et il soprascritto signor Conte promette per la compera et prezzo di dette quattro galere pagare a sua Eccellenza, o a chi Lei ordinerà, scudi trentaquattromilia d'oro in oro d'Italia daccordo, da pagarli nelli infrascritti modi et termini, cioè il terzo alla consegnia di esse galere, l'altro terzo alla festa della Natività di Nostro Signor de lanno 1546, et l'altro terzo et ultimo alla 'ltra Natività di Nostro Signor de lanno 1547. Prometendo essi S. al p.º S.[537] de evictione in forma per detta vendita in nome di sua Eccellenza.

»Et il predetto signor Conte in observatione delle predette cose sè et suoi beni presenti et futuri et in particolare per detti due terzi che resterà esso signor Conte, cioè di scudi ventiduemillia seicento sessantasei et dui terzi di scudo, dico scudi 22666-2/3, obbliga et ypoteca in spetie et particolarmente il luogho o vero castello di Calestano di parmegiana con sue jurisditioni, et pertinentie, intrate, et tutte et singole raggioni et actioni, et farà che l'illustrissimo signor Hieronimo suo fratello secondo et padrono desso Castello et luogho ratificarà la presente obbligagione per istrumento in forma amplissima, fra detto termine della consegna da farsi di dette galere, et di più darà idonea cautione oltra detto castello et come di sopra ad ogni simplice requisitione di sua Eccellenza per quella somma et quantità che a sua Eccellenza parerà, dando ex nunc. us.[538] licentia passato detto primo termine e non pagando la detta summa a sú Eccellenza, di pigliarsi la possessione di esso castello et uts. di sua propria autorità, et in quello stare, vendere, alienare, contrahere, et distrahere, come meglio parerà a sua Eccellenza, et innanzi qualunque extimatione et liquidatione da esser fatta. Intendendo che in caso che sua Eccellenza pigliassi detto possesso di detto luogho, et sua Eccellenza ni cavassi li proventi et frutti, che non si possono compensare ni la sorte principale.

»Costituendosi fra tanto detto signor Conte per sè et per suo fratello tenere et possedere detto luogho a nome di sua Eccellenza, et il medesimo s'intenda per gli altri termini, obbligando sè et soi beni in amplissima forma della Camera apostolica, et così giurano le parti le predette cose vere et attenderle et observarle volendo che sestenda al cossiglio di sup. forma amplissima.

»Io Paolo Pietro Guidi, presidente della Camera di sua Eccellentia, affermo quanto è detto di sopra.

»Io Gio. Bap. ta Liberati, thesoriero et mº d'entrata de sua Eccellenza, affermo quanto di sopra se contiene et per fede me so sotto scritto de man propria.

»Io Gioan Luise Fiesco affermo quanto di sopra di man propria. Visa. C. Campellus[539]

Dunque Flaminio, Filippo, Galeazzo, e gli allievi migliori della scuola romana, preso in Civitavecchia il rinforzo di eccellenti marinari, e avuti da Roma quattrocento fanti sperimentati nelle guerre precedenti, sciolsero agli ultimi di agosto, e furono in Messina ai primi del mese seguente.

XXV.

[4 settembre 1559.]

XXV. — Assembravasi lentamente in quel porto la spedizione generale agli ordini del vicerè di Sicilia don Giovanni della Cerda, duca di Medinaceli: uomo non privo di alcune belle qualità, gentil cavaliero, buon padre, leale mallevadore: ma trontìo nel vuoto, ed altrettanto sostenuto dai favori della corte, quanto sfornito delle doti necessarie a condurre imprese di rilievo, sia per mare, sia per terra; quantunque e per terra e per mare dovesse misurarsi con Dragut[540]. A tal fine aveva ordine di mettere insieme armata ed esercito, navigli di linea e di trasporto, e cavare ogni cosa dalle provincie d'Italia, stimate sufficienti al bisogno, senza sguarnire le difese dei porti di Spagna[541]. Si noveravano in prima le tre galèe di Roma, comandate da Flaminio Orsini; quattro di Firenze sotto Niccolò Gentili, cinque di Malta sotto il cavalier de Tessieres, tredici del Doria condotte per la prima volta dal giovinetto Giannandrea, cinque di Napoli sotto don Sancio di Leyva, otto di Sicilia sotto don Berengario Requesens, cinque di Scipione Doria, due del principe di Monaco, due di Stefano de' Mari, due del marchese di Terranova, due del visconte Cicala, due di Bendinello Sauli; in tutto cinquantatrè galèe grosse: più due galeotte del Medinaceli, una di Federigo Staiti, una di Luigi Ossorio, due galeoni, ventotto navi di alto bordo, dodici navette, e più altri legni da trasporto per munizioni da guerra e da bocca, e insieme per quattordicimila fanti da sbarco, tra spagnuoli, italiani e tedeschi: fior di gente, condotta da Quirico Spinola, da Scipione Frangipani della Tolfa, da Ippolito Malaspina, e da Andrea Gonzaga, quattro colonnelli italiani; più Stefano Leopart coi Tedeschi, e don Luigi Ossorio cogli Spagnuoli.

E poichè siamo a navale armamento di spedizione generale cavata solamente dalle provincie italiane, qui mi talenta inserire la lista dei bastimenti di linea, e i loro nomi ad uno ad uno, sì come gli ho raccolti dalle memorie edite ed inedite dei contemporanei; senza tener conto dei legni minori, o di quei bastimenti a vela che allora diceansi Navi, ed oggi si chiamano vascelli: dei quali niuno allora curava i nomi o i padroni, se non per dire che tutti in un fascio obedivano al colonnello Andrea Gonzaga, messo sur una di esse navi chiamata l'Imperiale, come comandante del convoglio[542].

NOTA

DELLE GALÈE ASSEMBRATE IN BATTAGLIA L'ANNO 1559-60, PER L'IMPRESA DI TRIPOLI E DELLE GERBE CONTRO DRAGUT.

  • 1. La Reale, a nome di Andrea Doria, condotta da Giannandrea, luogotenente dello Zio, col consenso del Re.
  • 2. la Capitana di Roma, Flaminio Orsini da Stabia.
  • 3. la Padrona id. Filippo Orsini da Vicovaro.
  • 4. il San Pietro id. Galeazzo Farnese da Latera.
  • 5. la Capitana di Malta, cav. de' Tessieres.
  • 6. la Padrona id. Antonio Maldonato.
  • 7. il San Filippo id. Antonio Bremond.
  • 8. la Santa Fede id. Gil d'Andrada.
  • 9. il San Michele id. Raffaele Salvago.
  • 10. la Capitana di Firenze, cav. Niccolò Gentili.
  • 11. la Padrona id. Piero Machiavelli.
  • 12. l'Elbigina id. Alfonso del Palla.
  • 13. la Toscana id. N. N.
  • 14. la Padrona del Doria.
  • 15. la Nunciata id.
  • 16. la Signora id.
  • 17. l'Aquila di Doria.
  • 18. la Vittoria id.
  • 19. la Presa id.
  • 20. la Divizia id.
  • 21. la Centuriona id.
  • 22. la Fortezza id.
  • 23. la Temperanza id.
  • 24. la Marchesa id.
  • 25. la Contessa id.
  • 26. la Capitana di Napoli, don Sancio di Leyva.
  • 27. la Padrona id.
  • 28. il San Giacomo id.
  • 29. la Leva id.
  • 30. la Mendozza id.
  • 31. la Capitana di Sicilia, don Berlinghiero Requesens.
  • 32. la Padrona id.
  • 33. la Califfa id.
  • 34. la Ventura id.
  • 35. l'Aquila di Sicilia id.
  • 36. la Fortuna id.
  • 37. la Costanza id.
  • 38. la Donzella id.
  • 39. la Capitana di Antonio Doria, Scipione suo figlio.
  • 40. la Padrona id.
  • 41. la Pellegrina id.
  • 42. la Fede id.
  • 43. l'Amicizia id.
  • 44. la Capitana di Monaco.
  • 45. la Padrona id.
  • 46. la Capitana de' Mari, capo Stefano de' Mari.
  • 47. la Padrona id.
  • 48. la Capitana di Terranova, cap. il marchese Ottavio?
  • 49. la Padrona id.
  • 50. la Capitana del Cicala, cap. Visconte Cicala.
  • 51. la Padrona id.
  • 52. la Capitana del Sauli, cap. Bendinello Sauli.
  • 53. la Padrona id.

Delle quattro galeotte.

  • 1. La capitana del Medinaceli.
  • 2. Della Cerda.
  • 3. di Federigo Staiti.
  • 4. di Luigi Ossorio.

Abbiamo già valica la mela del secolo decimosesto, e ci troviamo oramai vicini al termine dell'ultimo libro, e la marineria militare in niuna parte del mondo ancor non ha fatto il gran salto eccezionale dal remo alla vela. Nessuno fin qui conosce i vascelli di linea, come poscia furono chiamati, quando Francesco Drake nello scorcio del medesimo secolo per la prima volta li condusse in battaglia sull'Oceano, aringando l'armata navale coi soli bastimenti di alto bordo ed a vela. Prima di lui, e nel tempo ove ora ci troviamo col discorso, parlando di battaglie, di spedizioni e di viaggi, coi grandi ammiragli e coi maggiori sovrani, non troviamo altri legni di linea che i bastimenti da remo, secondo la perpetua costumanza di tutti i tempi e di tutti i popoli, stante la necessità tattica del movimento libero, tornataci ora gigantesca col vapore. Gli è questo un pensiero in più occasioni espresso e svolto: ma non tanto che basti per la sua importanza, e per l'ostinazione al contrario di molti a rimpiangere e a richiamare dannosamente la tattica militare della vela. Nacque per cause eccezionali, durò poco, e finì per sempre. Anche sull'Oceano, la marineria armata faceva supremo assegnamento sui bastimenti da remo: i Normanni, i Teutoni, i Britanni e gli Scandinavi combattevano a remo coi loro dracarri[543]. Così i Romani, i Bizantini, gli Spagnoli, i Genovesi e i Veneziani colle galèe di Londra e di Fiandra[544]. Al quale proposito altresì merita essere ricordato il capitano Benedetto Zaccaria di Genova, il quale sulla fine del secolo decimoterzo proponeva a Filippo il Bello il modo di costruire e di equipaggiare un'armata per combattere sull'Oceano contro gli Inglesi e per invaderne il regno: armata di galere in battaglia, e di uscieri al trasporto[545]. E similmente sarà bene toccare qui dei fatti più moderni di Leone Strozzi, al cui ardimento sembrò piccolo vanto il passare colle sue galèe oltre allo stretto di Gibilterra, anzi pur volle a remo spingersi avanti, e battersi contro gli Inglesi nel mare di Piccardia per difendere il porto e la piazza di Boulogne da loro assediata; o poi nei mari di Inghilterra e di Scozia, dove colle galèe medesime fece cose mirabili di combattimenti e di espugnazioni[546].

Non mica tanto vanto allora delle galèe, perchè i navigli a vela fossero, come alcuni pensano, piccini piccini; ma per la ragione fondamentale del motore libero, sempre cercato, come sa il lettore, a preferenza della incerta e mutevole forza del vento. Si costruivano cocche, caracche, e navi grandissime, di tre e di cinque coperte, capaci di portare infino a mille cinquecento viaggiatori, agiatamente collocati nei corridoj in più ordini, per i lunghi passaggi di oltremare, colle loro bagaglie e provvigioni; navi di quattromila tonnellate; navi colle scuderie e fornimenti per cento cavalli, da metterli a bordo ad uno squillo di tromba, e da cavarli fuori sellati ed armati per gli usci di poppa sopra ponti volanti che avevano da ciò[547]. Insomma tutti vedevano sul mare navi a vela di sovrana grandezza, secondo il bisogno; non mai per questo come legni di prima linea in battaglia, ma solo come bastimenti di convoglio e di carico, massime pel trasporto dei cavalli nei tempi cavallereschi: materia più studiata dai nostri maggiori, perchè più necessaria ai loro costumi. Fabbricavano uscieri grandissimi con tre ruote e due porte di poppa, capaci di uno squadrone compiuto di cavalleria; e talvolta per non arrischiarlo tutto insieme, anzi per ottenere il medesimo intento con dispendio minore, più presto, e in più parti, usavano costruire molte tartane, capaci ciascuna di trenta cavalli in due file di quindici a destra e di altrettanti a sinistra, sotto coperta: di che abbiamo documenti importantissimi del secolo decimoterzo nel grande archivio di Napoli, pubblicati almeno in parte da quegli Ufficiali a conforto di chiunque desidera conoscere il linguaggio della marineria antica e moderna, che dura sempre lo stesso[548].

Noi abbiamo veduto sul principio del cinquecento al blocco di Genova caracche armate di lunghe colubrine da cento libbre di palla, e palischermi che giocavan di prua con pezzi da trenta; abbiamo veduto navi strepitose, come la caracca corazzata di Malta, navi pei cavalli alla impresa di Algeri, navi per convoglio a Corone, per munizioni alla Prèvesa, ed ora ne troviamo per la impresa di Tripoli; sempre messe alla coda, non mai in prima linea: e abbiam veduto e vedremo la difficoltà di tenerle insieme colle galèe. Valga per tutti la sentenza di Antonfrancesco Cirni, testimonio di veduta, che pei fatti di questa medesima spedizione di Tripoli scriveva così[549]: «Hanno da sapere che il condurre armata di navi, massime di verno, non solo è cosa difficile, ma difficilissima. Il che si è visto sempre in tante imprese che per mare si sono fatte: chè prima bisogna fornirle d'acqua, poi rimorchiarle fuori dei porti, soccorrerle nei tempi fortunevoli, ed ajutarle quando non possono afferrare; di modo che il travaglio dietro a loro non ha mai fine: e con tutto questo arrivano poi dove bisogna, quando piace al vento.»

XXVI.

[7 settembre 1559.]

XXVI. — Dato uno sguardo all'assembraglia delle navi di alto bordo, messe in un canto nel porto di Messina, e fatti i saluti militari alle galèe capitane ed ai loro comandanti, fior di cavalieri delle prime famiglie d'Europa, Flaminio si accostò al Medinaceli per intendere le disposizioni della prossima campagna. Conobbe per le generali il proposito di partirsi quanto prima coll'armata, e di riscuotere Tripoli, come già si era riscossa Afrodisio, volendosi conquidere Dragut nella nuova sede, ed estirpare anche di là le radici della pirateria. Tenesse, dicevagli, la squadra in punto: chè nel settembre sarebbe l'attacco, ed all'entrante di ottobre il ritorno, prima che la stagione rompesse al sinistro.

La città di Tripoli era stimata delle principali sulla costa di Barberia, e di molta importanza nelle cose del mare: grande, ricca, popolosa, buon porto, ampia rada, un castello quadrato alla riva meridionale, e una cinta intorno di muraglie all'antica[550]. Sul principio del secolo decimosesto Ferdinando di Aragona l'aveva fatta occupare dal conte Pietro Navarro per mantenersi tranquillo nei nuovi possedimenti delle Sicilie; e nel terzo decennale Carlo d'Austria erasi liberato dal peso di mantenerla imponendone la difesa ai Cavalieri gerosolimitani in quella che loro concedeva l'isola di Malta. I Cavalieri vi stettero di guardia per anni ventuno, finchè Dragut non li cacciò coll'armata di Solimano nel 1551 per vendetta della perdita di Afrodisio, e restovvi insediato col titolo di Sangiacco, come è detto addietro.

Costui ben provvisto ed avvisato da' suoi spioni conosceva tutti i disegni del Medinaceli, le forze, le condizioni, gli umori. Bisognava aspettarsi da lui nuovi e maravigliosi tratti di guerra difensiva. Taluno sarebbe corso in Tripoli per difendere ostinatamente la piazza, non Dragut, che ne conosceva la debolezza. Altri sarebbesi vòlto a invadere il paese dell'invasore, non Dragut, consapevole di non avere tanta forza. Dunque egli prese diverso partito a suo gran vantaggio: volle impedire la partenza degli avversarî, tirarli a dilungo, ridurli all'inverno, annojarli, ammorbarli, indispettirli, confonderli. A tal fine raunò tutti i suoi legni, e lo sciame dei seguaci, e ottenne da Solimano qualche numero di galèe, tanto che alla testa di una cinquantina di bastimenti da remo spigliati e risoluti si pose nel golfo sotto le fortezze della Vallona, luogo sicurissimo per lui, a cavaliere dell'Adriatico, dello Jonio e del Tirreno; donde ogni tanto minacciava attacchi, e non feriva mai in parte niuna, tenendo tutte le riviere della Puglia, della Calabria e della Sicilia in lunga perplessità. I governatori e i popoli di queste provincie, in vece di dare, chiedevano soccorso; e niuno voleva più rimettere soldati, provvisioni, o danaro in Messina. Il Medinaceli restavasi impotente a sciogliere, gli ausiliarî perduti ad aspettare, i soldati delle diverse nazioni rotti a contendere: disordine, carestia, mortalità. E durando per tutto l'autunno lo stratagemma, tanto andò negli indugi e nelle riprese, che passò l'anno, finì il conclave, venne eletto la vigilia di Natale a nuovo pontefice Pio IV, e la spedizione non era ancor mossa di un punto[551].

XXVII.

[Dicembre 1559.]

XXVII. — Flaminio, che grandemente pativa del ritardo, prevedendone tristissime conseguenze, e non voleva nell'ozio illanguidire, o nelle risse corrompere il valore della sua gente, fece vela, e andò oltre ad aspettare nel porto di Malta; dove il Medinaceli aveva a tutti assegnato il convegno, prima di lanciarsi quando che fosse in Barberia. L'isola di Malta in poche parole vuolsi dire uno scoglio calcare di figura bassa ed ellittica col diametro maggiore di trenta chilometri disteso per lo stesso verso della costa d'Italia, da maestro a scirocco; come pur corrono il Gozzo, il Comino e le minori isolette che l'avvicinano alla Sicilia. La capitale, o Città Vecchia, detta dagli isolani Medina, ed oggidì la Notabile, sorge sul colle più elevato e centrale dell'isola lungi dal mare; e perciò tenuta in minor conto dai Cavalieri, tutti intesi com'erano alla navigazione ed al corso. Da ogni parte avete colà porti naturali, ampî, sicuri, e profondi; specialmente due bellissimi dalla banda di grecale, quasi nel mezzo della sua lunghezza: porti capaci di qualunque armata, e così vicini tra loro che non altro li divide se non il monte Sceberràs, sul quale edificossi dappoi la città Valletta, moderna capitale della colonia. Ma all'arrivo del nostro Flaminio, nel dicembre del cinquantanove, lo Sceberràs era aperto ai pascoli e alla minuta coltura, non essendovi altro edifizio che un castelletto, chiamato Santelmo, alla estrema punta sulla riva del mare; messovi a guardare le bocche vicine dell'uno e dell'altro porto. Ad ostro il Grande, a borea il Marsamuscetto, e di mezzo Santelmo: piccolo fortino a stella di quattro punte, un mastio quadrato nel centro, e un rivellino a puntone innanzi alla porta. Così trovò Flaminio, prima che le ali del rivellino, allungate infino al corpo della piazza, pigliassero sulla fronte del mare la figura del tridente; e prima che, convertite le altre due punte in mezzi bastioni, dessero alla faccia opposta la forma di tanaglia. Sul lato sinistro il porto Grande, formato dalla natura, entra come canale tra le terre, e incontra di traverso cinque penisole, quasi direi simili alle dita della mano aperta verso di lui. Fra le cinque sporgenze trovate altri quattro porti meno estesi, ma più sicuri. Sul colmo del pollice non ancora dominavano i baluardi del forte Ricasoli, nè alla radice dell'indice le grandiose fortificazioni del Maculano; ma per tutta la lunghezza del dito medio stendevasi la città, che ora dicesi Vittoriosa, e allora chiamavasi il Borgo. Quivi la residenza magistrale, il convento dei cavalieri, gli alberghi delle nazioni, le case dei popolani, gli arsenali e i magazzini della marina: quivi il centro del governo, e le maggiori difese alla testa ed alla coda della penisola. Sul mare il medievale forte Santangelo, ancora conservato nelle antiche forme bizzarre, a scaglioni più e più rientranti, come si solleva sul dorso della rupe; e verso la campagna il Sammichele, costruito dai Cavalieri al principio del loro dominio, e protratto infino alla penisola seguente, dove il grammaestro della Sengle aveva cominciato poc'anzi la città del suo nome, ora appellata Cospicua. Tutta la difesa poggiava allora sopra tre punti: sul Santelmo per guardare i porti, e sui due cardini della piazza il Santangelo e il Sammichele[552].

Con questi tre soli sostegni i Cavalieri di san Giovanni stancarono la potenza ottomana, e finalmente soccorsi cacciarono i Turchi dall'isola[553]. Nella quale insigne vittoria, celebrata pur dai trionfi delle belle arti col pennello e col bulino[554], avvegnachè non abbia preso parte la nostra marineria, non per questo di minor merito si hanno a credere quei prodi romani che vi si adoperarono volontarî, cominciando da Pompèo Colonna e venendo giù infino a Titta Scarpetta, soldato nella compagnia del capitano Pompilio Savelli. Il fatto sublime di questo valoroso trasteverino, il cui nome sta ancora segnato sul chiassetto di Piscinula, può senza fallo essere comparato al tanto notissimo del minatore Pietro Micca[555]. Pari in ambedue l'eroismo, e maggiore negli effetti il merito del romano: chè non tra le intestine discordie una sola città, ma dalla barbarica invasione dei Turchi Malta, Roma, l'Italia, e con esse le arti, le scienze, la religione ebbe difeso al prezzo della sua vita, come più d'ogni altro con somme lodi celebra il Bosio[556]. Dopo quel tempo, edificata la nuova capitale, messe le terre a coltura, cresciuto il popolo da dieci a cencinquanta mila, come adesso sono, con tutti i conforti della vita, cresconle delizia il luogo ameno, i bellissimi prospetti del mare, e le ammirabili opere concatenate a difesa dal Laparelli, dal Floriani, dal Maculano e dal Valperga.

XXVIII.

[Gennajo 1560.]

XXVIII. — Intanto tragittavasi tra Malta e Messina andando e venendo un nuovo personaggio, che dovrà spesso comparire nelle marittime faccende del tempo seguente, come erede e successore delle arti e delle grandezze di Andrea Doria. Andrea, oramai decrepito, erasi tenuto nelle sue case di Fassuolo in Genova, ed aveva mandato le galèe consuete al soldo di Spagna sotto il comando di Giovanni Andrea, che noi speditamente diciamo Giannandrea. Il nipote simile allo zio per tradizione di famiglia, e per arte di marineria; ma tanto diverso di persona, quanto un giovane di vent'anni può essere da un vecchio di novantaquattro. Ripeto un'altra volta quanto ho detto altrove[557]; e confermo che nè vita particolare è stata mai pubblicata di lui, nè in alcun dizionario biografico s'incontra articolo intestato al suo nome, salvo la breve memoria del Brantôme[558]. Potrei quasi dire che abbia egli stesso preveduto la sua disdetta; e che non isperando dall'altrui penna la narrazione della sua vita siasi messo a scriverne da sè in un libretto, che fino a trenta anni fa custodivasi a Genova nel palazzo de' suoi discendenti, dove lo vide il dotto archeologo della marina francese, e rispettabile mio amico e collega A. Jal[559]. Ma ora dopo il trasporto dell'archivio da Genova a Roma, non si sa più dove sia ricaduto, come mi ha avvisato di là il cavaliere L. T. Belgrano, secretario di quella società di Storia patria; e più volte mi ha detto di qua il degnissimo archivista Giambattista Carinci, troppo presto rapito agli affetti ed alla stima de' suoi amici. Inutili le pratiche di rispettabili personaggi presso l'egregio Principe possessore: la cui saviezza, nella nobile risposta per altrui intramessa inviatami, così altrove ho registrata, che ora mi scusa l'obbligo di tanto ripeterla, quanto sempre la commendo e rammento[560].

Nondimeno cercando per entro alle storie di questi tempi, e tra le biografie dello zio, e per le memorie della famiglia, possiamo accertare la nascita di Giannandrea, figlio di Giannettino, nel 1539; l'adozione nel 1547, quando restò orfano per la congiura del Fiesco; il primo tirocinio nel 1548, quando navigò da paggio col principe don Filippo di Spagna infino a Genova; e il primo comando in quest'anno per la impresa di Tripoli, sotto la direzione e il consiglio di Plinio Tomacelli bolognese, che era stato maestro e istitutore della sua fanciullezza[561]. Giannandrea adunque sollecitava con tutto il suo potere alla partenza il Medinaceli, ma inutilmente. Lo stratagemma di Dragut produceva effetti inesorabili: confusione, tardanza, carestia. Mancava il danaro, i soldati nuovi fuggivano, i vecchi ricalcitravano, gli ufficiali perdevansi in chiamate e in congedi, secondo che appariva più vicina o più lontana la partenza o la fermata. Tra questi stenti, epidemia e mortalità, come sempre in casi simili. Se erano pronte le galèe, mancavano le navi; se in ordine le fanterie, non correvano i soldi; se imbarcate le artiglierie, non bastavano le munizioni; se ordinavasi la partenza, saltava il vento al contrario[562]. Cinque volte partiti e ritornati, tra Messina, Siracusa, capo Pàssero, il Gozzo e Malta. Finalmente alli dieci di febbrajo l'armata fece rotta per l'Africa: e cogli altri Flaminio al primo posto d'onore sulla destra della Reale; mancando dalla sinistra i Fiorentini, che erano restati indietro per competenza coi Maltesi, e sotto pretesto di fornirsi meglio di ciò che loro bisognava. Stranezza d'impresa, preparata d'agosto, sospesa per tutto l'anno, e mossa l'inverno seguente di febbrajo!

XXIX.

[14 febbraio 1560.]

XXIX. — Toccarono alla Lampedusa e alle Cherchene, e la mattina del quattordici di febbrajo dieron fondo nelle acque delle Gerbe, rimpetto alla cala della Cantèra, a levante dell'isola, cento e trenta miglia lungi da Tripoli pel rombo di scirocco. Durante il viaggio dei cinque giorni, cadde infermo di flusso Giannandrea, e maggiormente di animo il Medinaceli, che soleva con lui solo assettar ogni cosa, non lasciando agli altri niuna autorità. Dunque poco consiglio proprio di quel giorno, dal quale aveva a dipendere la sorte della campagna.

Erano alla vista nel canale della Cantèra, tra la terraferma e l'isola, poche germe di mercadanti, e quel che più monta due galeotte di pirati. Sarebbe stato dovere preciso del Medinaceli subito subito chiudere il passo, pigliarle, cavarne notizie, impedire che non ne portassero altrove. Così per fermo avrebbe saputo che Dragut in persona stava quivi nell'isola, tanto vicino e disperato, che non poteva fuggirgli di mano; perchè chiuso dal mare, sostenuto da pochi Turchi, e odiato da tutti i Mori. Ma colui poco curando lo stare sulle intese, lasciò correre alla ventura, e dètte tempo al padrone delle galeotte di rinforzarsi sulla migliore, e di fuggirsene di volo a Costantinopoli, portandovi il primo grido dell'arme, e la piena notizia di ciò che aveva veduto cogli occhi proprî: il numero e la qualità dei legni, il disordine del governo, la facilità di conquidere a un tratto tutta l'armata cristiana[563]. Crescono i nostri pericoli: alla strategia di Dragut arrogi la solerzia di Luccialì.

Questo Luccialì, che ora per la prima volta ci viene innanzi alle Gerbe, meschino pirata, con due piccole galeotte, al soldo di Dragut, gli è un rinnegato calabrese, scalzo e tignoso, il quale dovrà in breve divenire possente re d'Algeri, e famoso ammiraglio ottomano a Lepanto. Costui nato a Cutro nel golfo di Squillace, col nome di Luca Galeni, frate domenicano e diacono, nel passare agli studî di Napoli preso dai pirati, dopo un poco di pazienza, rinnegò ogni cosa e divenne terribile nella terza quadriglia. Ho letto io le lettere e le promesse con che si argomentava un altro dello stesso ordine, che oggi diciamo san Pio, per ritrarlo dal tristo mestiero. Noti il lettore, e tenga a mente la comparsa di Luccialì nel dì quattordici di febbrajo del sessanta: segni il giorno che e' stette in ponte tra due fortune; o l'infame capestro sulle stanghe del carnefice, come traditore della cristianità; o la real corona per le mani dei Turchi, come benemerito della congrega piratica e della casa ottomana[564].

Maggior disordine occorse tra i soldati nell'abbottinare le germe dei mercadanti, cariche di lino d'indaco, d'olio e di baracani, e vuote di gente fuggitasi in terra al primo rumore. Nè minor contrasto successe ai marinari nel far l'acquata quivi presso alla cala della Rocchetta. Bisognò sbarcare tremila uomini in battaglia contro la furia dei Gerbini levatisi in massa; e dopo lunga scaramuccia di sei ore continue levar l'acqua a costo di sangue, perdendoci la vita quattordici persone, e toccando più del doppio acerbe ferite[565].

[16 febbrajo 1560.]

Due giorni appresso in quello stesso luogo, che, per esser deserto e lontano, a tutti gli assetati pareva il più acconcio, e dove niuno mai per solito aveva trovato resistenza, capitarono per attignere le galèe fiorentine, venute da sezzo. Ma nel ritirarsi degli acquatori, sopravvennero di nuovo i Gerbini, e sbaragliarono le guardie con tanto successo, che, senza contare i feriti e i prigionieri, stesero sull'arena cinque capitani, molti ufficiali e cencinquanta soldati[566]. Chicchefosse, dal Medinaceli in fuori, per l'insolita resistenza di coloro avrebbe almeno sospettato nell'isola la presenza d'un qualche impigliatore della tempra di Dragut. E di fatto desso era lì, e dirigeva in persona la gioventù alle fazioni colle sue ciurmerie, quasi a dispetto dei Mori veterani che l'odiavano[567]. E pensare che il Medinaceli l'aveva dinanzi, racchiuso in piccola isola, privo di scampo; e in vece risolveva di andare a Tripoli per cercarlo[568]. Il primo segno di ruinosa impresa vedrai sempre nella mancanza delle notizie sul conto dei nemici: perchè se tu non sai procacciartene, o se altri ricusa fornirtene, arriverai certamente senza rimedio allo stesso punto; cioè a perdere ogni buona occasione, e ad incontrarne ogni trista.

XXX.

[17 febbrajo 1560.]

XXX. — Costretti a seguire la direzione e gli ordini del Medina, e già costernati dalle continue disdette, non vedendo mai tra tante riprove venirne una a' versi, tutti i capitani presero alli diciassette di febbrajo la rotta per Tripoli, punto obbiettivo della spedizione, secondo il disegno dell'anno passato, come se nulla di nuovo intanto non fosse avvenuto. E sarebbero pur giunti a cavarne qualche effetto, dove il Medina fosse stato più risoluto e più accorto. Andare avanti per la piazza di Tripoli; posto che l'altra, cioè la persona di Dragut, si mettevano dietro alle spalle.

Tripoli non era fortificata altrimenti che con una vecchia cinta, non aveva presidio sufficiente, e poteva esser presa con presta battaglia di mano, e un po' di scale: lasciando pur al Castello qualche altro giorno per rimetterlo colle batterie o colle mine. Così promettevano i cavalieri di Malta, cui era noto a palmo a palmo il forte e il debole di quel luogo, dove per tanti anni avevano tenuto presidio. Al contrario il Medina voleva trattenersi a mezza strada quindici giorni per vedere alla rassegna chi era vivo, chi morto, e chi perduto, con altre miserie sue e contrarietà altrui. Non temeva costui dare il tempo a Dragut di provvedersi meglio in Tripoli: non pensava dare agio a Luccialì di ritornarsene in gran brigata da Costantinopoli.

Ma temperando le nostre considerazioni, stiamo ai fatti suoi, e vedremo che giunto a mezza strada poggia sulla destra, ed ordina a tutta l'armata di dar fondo in un luogo chiamato il Secco del Palo, dove non è porto alcuno, ma bonaccia perpetua per ogni stagione, anche nelle grandi tempeste. Questa seccagna corre quaranta miglia da levante a ponente, e si avanza venti miglia dentro il mare, composta da ampia platèa arenosa, sollevata dal fondo circostante, e circoscritta da alto scaglione quasi verticale. Al difuori della spianata il pelago s'innabissa, e al di dentro l'acqua si assottiglia sopra venti e dieci metri di fondo, digradando di un metro per ogni miglio fino al lido. I marinari riconoscono agevolmente questo luogo alle schiume bianchissime intorno ai lembi, alla chiarezza azzurrina dell'acqua interna, ed alla incomparabil quiete distesavi sopra. La quale perpetua tranquillità è conseguenza necessaria delle leggi naturali con che si propaga l'ondeggiamento del mare; non potendo mai, in quella condizione di fondale, svolgersi altrimenti le grandi onde tempestose, ma soltanto le ondicelle di minima dimensione, e però innocue. Non marosi coi venti di terra, perchè questi gonfiano al di fuori, e mettono quiete o un po' di maricino presso al lido; non coi venti del largo, quantunque si voglia rabbiosi, perchè le onde da essi sollevate non possono propagarsi sul secco, ma devono rompersi le gambe e il corpo, urtando nello scaglione, abbattervi la testa, e lasciar tranquille nell'interno le acque seguenti. All'estremo limite, tra scanno e pelago, l'acqua si rimescola e frange: ma il flutto istesso colla sua correntìa ti porta in salvo sulla dolce spianata, dove trovi acqua sufficiente per ogni bastimento, e fondo incontri buon tenitore di rena grossa. Da lungi verso ostro vedi e non vedi le basse terre dell'Africa, rilevate da qualche capanna e dai gruppi delle palme; ed in ultimo quel monte traverso, che per esser simile nel colmo alla schiena del giumento è chiamato dai marinari Groppa d'Alys, ed anche Groppa dell'Asino. Le notizie speciali di questo mare bonaccioso, e le ragioni del fenomeno non ignote ai nostri antichi marini, anzi esposte almeno in compendio dal Machiavelli, dal Bosio e dal Crescentio[569], vadano per appendice ai lavori del chiaro commendatore Alessandro Cialdi, mio nobile concittadino, da tutti riconosciuto maestro di questi studî[570].

[28 febbrajo 1560.]

Dunque al Secco del Palo, durando le rassegne, gl'indugi, le minuzie e i tempi contrarî (molestie oramai consuete), passarono quindici giorni; e crebbero le malattie, le febbri e la mortalità della gente. Si noverarono in così breve intervallo duemila morti; non solo di marinari, di soldati e di uomini volgari, ma di principalissimi signori e capitani; tra i quali fu sul punto di morire l'istesso Giannandrea, e di fatto in pochi giorni pur di flusso venne a morte il colonnello Quirico Spinola, cui il Doria nel mettersi a letto aveva lasciato il comando delle sue galèe. Cresceva col mal governo la confusione dei governati: e nella medesima tranquillità dell'ancoraggio per forza di venti mai più veduti, e per negligenza di ormeggi non proporzionati al bisogno, alcuni navigli sferrarono a rischio di perdersi. Ripeto sferrare nel senso intransitivo, e talvolta prenominale, qui dove mi vien bene allegarne gli esempî dei marinari, i quali nelle faccende proprie del loro mestiere devono godere autorità altrettale che classica. Ne cito parecchi, il primo del Bosio navigatore e storico, che al nostro proposito ne scrive con queste parole[571]: «I tempi così furiosi si messero che per memoria di alcun marinaro tali in quel Secco mai veduti non si erano. Posciachè se bene ordinariamente è stimato quel Secco come sicuro porto, stante la poca forza che le onde del mare possono avere in quei bassi fondi, alcuni vascelli nondimeno furono costretti a sferrare. E tale fu l'impeto del mare che trovandosi la nave Imperiale, capitana delle altre navi, sorta vicino al galeone della Religione, sforzata dal furore delle onde, con qualche mal governo dei marinari suoi, urtando nel detto galeone, si ruppe e si fracassò; non ricevendo però il galeone quasi danno alcuno, per essere di fabbrica saldissima. Onde parve miracolo che egli non si perdesse, come la detta nave Imperiale si perdette; la quale sì fattamente sdrucita e rotta ne rimase che si affondò. Avvegnachè essendosi poi quietati alquanto i tempi, prima che ella finisse di andare in fondo, fosse dalle galere rimorchiata più verso terra ad incangliarla: dove le genti, le armi e le artiglierie si salvarono; rimanendo però quasi tutte le munizioni e le vettovaglie in preda del mare.» E non fu sola nelle gravezze la nave Imperiale, chè altri ed altri grossi bastimenti patirono avarie, e fecero gettito e sperpero, massime dei corredi di ricambio e degli abeti di rispetto[572]. Sbigottimento di animo, rilassatezza nella disciplina, litigi per frivolezze, investimenti e perdite per negligenza: attorno i rottami, e a quando a quando il tonfo dei cadaveri che si gittavano insaccati nel mare[573].

Supremo rifugio gli afflitti all'estremo di tanta distretta trovarono nel conforto dei sacerdoti, sotto la guida del vescovo Arnedo, eletto di Majorica, e cappellano maggiore dell'armata. Essi agli spedali comuni sui grippi, essi nelle corsìe del galeone di Malta, essi nelle infermerie particolari di ciascun naviglio, al pubblico servigio degli infermi, come già prima in Afrodisio. Da Roma erano venute amplissime facoltà e grazie spirituali per chiunque appartenesse all'armata, e i cappellani ne erano i distributori[574]. Così passarono i quindici giorni dell'indugio, consumandosi l'armata nell'aspettare dalla parte di Sicilia il supplimento della gente e delle provvigioni, e il soffio del vento favorevole per andare a Tripoli.

XXXI.

[1 marzo 1560.]

XXXI. — Finalmente all'entrante di marzo il Medina potè raccattare qualche notizia di Dragut da certi Arabi venutigli intorno con piccole barche a vendere montoni, vegetabili, ed altri rinfreschi utili agli infermi ed ai sani: allora soltanto, e ben tardi, per maggiore sua e nostra confusione, venne a cavarne di più. Seppe adunque come Dragut si era trovato alle Gerbe, quando esso vi approdò la prima volta per l'acquata; e come da lui erano stati sollevati a battaglia i Gerbini: seppe che Dragut medesimo, prevedendo l'attacco di Tripoli, era passato per terra a quella volta, ed aveane rinforzato il presidio con duemila soldati veterani, oltre al fornimento di molte artiglierie, munizioni e vittuaglie per sostenersi alla lunga: seppe per fama pubblica in Africa doversi aspettare tra poco da Costantinopoli la comparsa dell'armata ottomana. Turbato vie peggio dagli avvisi, e sempre più scarso di partiti, volle sentire il parere degli altri. E perchè Giannandrea non erasi ancora levato di letto, intimò la consulta sulla capitana di Roma[575].

Flaminio da gran cavaliero accolse quei signori nella splendida sala di poppa, dove per la magnificenza e leggiadria degli ornati dava nobil saggio delle arti belle sempre fiorenti in Roma; e per la ricchezza delle armi e la tenuta delle genti faceva testimonianza onorevole al marzial genio di casa Orsina. Colà il Vicerè espose le notizie compendiose dei nemici e la condizione presente dell'armata propria: mortalità continua, venti contrarî, Dragut vicino, Tripoli rifornita. Esso in cuor suo disperava di vincere, e voleva non più mettersi a quella prova. Ma per uscir d'impegno senza vergogna, leggeva le note della gente morta, delle navi perdute, delle munizioni scemate; e veniva all'opportunità di occupare le Gerbe per agevolare l'acquisto di Tripoli. Lo secondavano alla scoperta don Alvaro de Sande, parecchi soldati del Re, e più di tutti in questo senso Giannandrea, che aveva mandato il parer suo per mezzo di Plinio Tomacelli gentiluomo bolognese[576]. Plinio in questa occasione parlò di tornare alle Gerbe, e un altro giorno di andarsene via, e poi un'altra volta consentì a fermarsi per ventiquattr'ore[577]. Cose diverse, che non si vogliono confondere insieme, nè legare dal primo di marzo al dieci di maggio tutte in un fascio con una sola ritortola[578].

Contro questo parere modestamente si contrapposero i due capitani di Roma e di Malta, ambedue sostenuti dal pieno dei cavalieri, che avevano per venti anni fatto parte della guarnigione di Tripoli, e ne conoscevano minutamente i muri, le porte, le strade e tutto il debole. Essi dicevano esser venuti là per ricuperare quella piazza, e per togliere baldanza e ricetto a Dragut, secondo le commissioni dei principi e il desiderio dei popoli. Il possesso di Tripoli, città grande, bella, popolosa, di buon porto e di ogni comodità, crescerebbe riputazione e forza alle potenze cristiane, e ne toglierebbe altrettanta ai pirati. Le Gerbe cadrebbero da sè appresso a Tripoli, non all'opposto. Facile l'espugnazione con sì bella armata e con diecimila valorosi che pur restavano in essere. In somma volevano far presto, pigliar Tripoli, guernirla, e via[579]. La giornata passò in ragionamenti e repliche, pro e contra, senza niuna deliberazione. Tanto eransi oramai confuse le menti!

[2 marzo 1560.]

Ma la seguente mattina raunatisi un'altra volta sulla reale di Giannandrea, presente lui stesso sur una seggiola alla meglio involto nel capperone, e riprese le dispute con quelle nuove ragioni che ciascuno aveva meglio ripensate nella notte, tutti deliberarono di levarsi subito da quello stento, e di navigare contro Tripoli. Si era sull'ordinare il viaggio e si allestivano già i segnali e le manovre per quella rotta, quando saltando freschissimo il vento da Levante, si rivolsero ancora gli animi del Medina e del Doria. I quali, sostenuti da don Alvaro de Sande, e da pochi altri, fermatisi sulla prima parte della deliberazione intorno alla partenza immediata, e veduto il vento opposto alla gita di Tripoli, e favorevole al ritorno verso le Gerbe, vinsero violentemente il partito per quest'ultima direzione[580]. Poco dopo tutta l'armata, condotta quasi da occulta forza di fortuna avversa, navigava col vento in poppa, filando dieci nodi per ora, tanto che la sera medesima prima del tramonto dava fondo sulla testa boreale dell'isola rimpetto alla capitale chiamata il Bazar[581]. Non parleremo più di Tripoli: la principale impresa è finita. Veniamo a quest'altra.

XXXII.

[3 marzo 1560.]

XXXII. — I navigatori italiani dal medio èvo infino al presente hanno sempre chiamato delle Gerbe quella isola che gli antichi dicevano Meninge, Lolofagite e Glauconia[582]; sì come gli arabi dicono Girbach; e gli spagnuoli, i francesi e gl'inglesi, secondo l'indole del loro linguaggio, dicono Gelves, Zerbi e Jerbah. Tra tante varietà, dove taluno miseramente si perde[583], in questo solo vengono tutti concordi, che la dimora siane infausta agli stranieri; come apparisce per molti esempî, cominciando dal greco Ulisse, e venendo all'iberico Medinaceli. La sua posizione, presa dalla Torre del Bazar, è sull'altura settentrionale di 33°, 53′, 30″; e la longitudine occidentale dal meridiano di Roma, di 1°, 29′, 2″; quasi nel mezzo del cammino tra Tunisi e Tripoli. Isola bassa, senza montagne, senza fiumi, in gran parte arenosa, lunga da ponente a levante ventidue miglia marine, e quasi lo stesso larga; di figura irregolare, e sottosopra alquanto simile al pesce che noi diciamo Razza Torpedine. E quantunque ella sia tutta dal mare per ogni banda circondata, pur dal lato australe la estremità dell'isola, e specialmente la coda, tanto si avvicina al continente da non lasciarvi interposto più di un sottil braccio di mare, pel cui mezzo con lungo ponte volante talvolta si unisce alla terraferma. La bocca del canale vòlta a greco si chiama Alcàntara, o la Cantèra; e segue dilatandosi più e più nell'interno, infino a formarvi ampio bacino che pel secondo canale giugne a sboccare dall'altra parte verso ponente: canale, non ostante il ponte, navigabile coi bastimenti da remo, ed anche colle galere, essendovi fondali per tutto di due, cinque e otto metri. Aveva in quel tempo una mediocre città, detta il Bazar, quasi nel mezzo del lato boreale, residenza ordinaria del principe, cui davano gli Arabi il titolo di Sceicco[584]. Mettete quattro terre popolose, intorno villaggi e casali: presso al Bazar il maggior castello, la cui torre maestra ancora sgomenta da lungi oscura e tetra i naviganti: ad oriente la torre della Rocchetta, a ponente della Valguarniera, di rincontro le Peschiere, e ad ostro un castelluccio alla guardia del passo e del ponte[585]. Per la campagna viti, ulivi, aranci e granati, selve di palme specialmente a levante, da ogni parte il loto, cui gli Arabi dicono Ghadàr, e noi diciamo Bàgola. La popolazione di contadini e pescatori quasi tutti bèrberi, e nemici dei Turchi[586].

Io mi riporto al meridiano del mio paese, e lo tengo per primo con lo stesso diritto con che altri tiene il suo[587]. Per necessità evidente chiamo i luoghi come li chiamavano i nostri maggiori cartografi, storici e marini, in vece di accattare nomenclatura esotica, arbitraria e moderna, di che largamente ho detto altrove[588]. Dalle bellissime Carte degli idrografi inglesi, delineate con sottilissima diligenza a punti grandi, e per questo ben distinti, raccolgo sulla estensione del mare la posizione dei porti, i rombi dei venti, i gradi dei meridiani, l'altura dei paralleli, le scale delle distanze, le anomalie della bussola, gli scogli, i banchi, gli scandagli, i fanali, e ogni altro soccorso della navigazione[589]: ma non posso punto seguirne la nomenclatura locale, senza mettere sossopra tutte le nostre ragioni. Bastino a piè di pagina, come saggio, alcuni dei nomi stampati nella recentissima Carta dell'Ammiragliato britannico[590].

Rifacendoci ai nostri, troviamo l'armata in semicerchio alla vista del Bazar, e dalla parte opposta già in marcia una grossa brigata di arabi Maamidi, assegnati a guardare la riviera e il castelluccio del ponte, perchè niun soccorso dal continente possa penetrare nell'isola. Intanto la nuova luna di marzo ci rimena i consueti tempi variabili, e per quattro giorni Scirocchi tanto procellosi, che non possiamo a niun altra cosa intendere se non a sostenerci sulle àncore al ridosso della Valguarniera.

[7 marzo 1560.]

Abbonacciatosi il mare, e calmato il vento, si ordina lo sbarco quivi stesso alla cala del medesimo nome, così: ogni nave e galèa metta fuori lo schifo col suo cannone, ogni schifo alla prima passata imbarchi un capitano e venticinque archibugeri, nella corsa vadano del pari sotto lo stendardo dello schifo reale, allo squillo della tromba tutti in un tempo colle prue investano nella spiaggia, le fanterie guazzino alla riva, formino di presente il primo squadronetto, e stiano in buona ordinanza per mantenere il terreno e per ispalleggiare lo sbarco dei seguenti[591]. Con questo la mattina del giovedì sette di marzo alla prima passata di centoventi palischermi vengono in terra quasi tremila uomini: i quali ordinati in battaglia sul lido con due lunghe maniche di stracorridori, come farebbero i bersaglieri del tempo presente, coprono le alture a mezzo miglio dalla marina, e stanno in sugli avvisi per tenere discosto il nemico[592]. Poi di mano in mano gli stessi schifi ritornando levano le altre genti, gli alfieri, le bandiere e quattro pezzetti da campagna[593]. In bell'ordine e in poco tempo eccovi sul lido con tutto il loro fornimento e corredo diecimila uomini: i quali, per esser l'ora già tarda, e per non avere riconosciuto ancora il paese, passano quivi la notte all'addiaccio.

XXXIII.

[8 marzo 1560.]

XXXIII. — Intanto lo Sceicco dell'isola, ed i suoi consiglieri, diversamente tra loro disputando di questo successo, non si accordavano insieme a far nulla. Quanti vi avea pirati di mestiero, giovani d'età, e turchi di origine, volevano battersi ad ogni costo: al contrario i nativi bèrberi e mori, e tutti quelli che odiavano le insolenze e il dispotismo turchesco e piratico, chiedevano gli accordi. Con questi consentiva il popolo minuto, gli agricoltori, e più di ogni altro gli anziani: i quali dimostravano con molte ragioni, e coll'esempio dei tempi passati, l'impotenza di resistere e la necessità di patteggiare. Lo Sceicco, ancorachè ondeggiasse tra le due sentenze, perchè in suo cuore odiava Dragut ed altrettanto la temeva, pure eccitato dai giovani e dagli amici del pirata, e avendo udito che le nostre fanterie erano state vedute infermicce, o come dicevano mezzo morte, volle provarsi a combattere. Avrebbe costui dovuto anche sapere come le genti istupidite e affrante dal mal di mare prestamente ripigliano lena e vigore, subito che possono mettere piede sul fermo, e respirare in terra.

Molto meglio dopo buon pasto e quieto riposo (senza lasciare per turno le guardie e le consuete diligenze) si levarono i nostri la mattina gagliardi e ardimentosi, come se non avessero patito mai lo strazio della mareggiata. Prese le armi, duemila corsero a guardare di rinforzo il passo della Cantèra; e gli altri ottomila marciarono verso la capitale dell'isola al castello dello Sceicco[594]. Silenzio intorno, niuno all'incontro, marcia guardinga, file serrate, tutti intesi nell'ordinanza, quantunque stimolati dalla sete.

La sera innanzi lo Sceicco aveva mandato alcuni uomini a riconoscere il campo, ed a parlamentare col Medina, offerendogli rinfreschi ed amicizia, a patto che se ne andasse subito subito: ma essendogli stato risposto che si voleva prima fargli una visita al Castello per ringraziarlo in persona dei favori, e per trovare la comodità dell'acqua, esso capì che gli bisognava venire alle mani, come volevano gli arrabbiati de' suoi consiglieri. Messosi dunque pienamente nelle mani di costoro, raunò gran gente, e andò a far testa tra i palmeti sul passo di certe cisterne, dove sperava facilmente opprimere i nostri, assetati e riarsi dal sole africano e dalla marcia pe' sabbioni, quando si sarebbero disordinati per bere, come più volte in quel luogo medesimo, e per simile maniera era successo.

Ma agli otto di marzo, dove noi ci troviamo col discorso, le cose andarono tutte a rovescio: niuno sbandossi alle cisterne, le occulte insidie restarono deluse, e la forza aperta superata. Non mica, come dice taluno, che i Gerbini fuggissero via alla prima comparsa delle schiere cristiane, o alla prima prova della loro temperanza: chè anzi stettero intrepidi, e dieron dimostrazione di valore disperato. Non essendo più di ventimila con pochi archibugi e pochissimi cavalli, nondimeno si gittarono sopra ai nostri squadroni, menando scigrignate, punte e rovesci di scimitarre, di zagaglie e di falcini, a corpo a corpo, senza curare ferite o morte, tanto sol che potessero rompere i quadrati. Ma tornata loro vana ogni prova, e cominciando già per fianco a frustargli l'artiglieria di campagna, balenarono a un tratto; e poi via tutti di gran corsa, lasciando sul terreno circa dugento morti, e più del triplo feriti. Fra i nostri caddero venticinque dei primi, e una trentina degli altri; noverandoci un capitano, che morissi il giorno appresso per grande squarcio di zagagliata.

[9 marzo 1560.]

I vincitori trincerati sul campo mandarono intimando la resa al castello, dove le cose dei Gerbini e dello Sceicco pigliavano già tutt'altra piega. Il partito degli anziani pacifici ed esperti rimontava sopra quello dei giovani fuggiaschi e avviliti. Subito essi stessi spedivano oratori, chiedevano parlamento, davano ostaggi, e conchiudevano la pace, sottomettendosi lo Sceicco e tutto il popolo dell'isola al dominio del Medina in nome del re di Spagna, colla promessa del tributo medesimo che prima pagavano a Dragut per conto di Solimano.

Gli storici orientali poco o nulla aggiungono ai nostri intorno a questi successi; chè l'epoca presente scorre tra le più oscure nella storia loro. Il cavaliere Giuseppe de Hammer nel nostro tempo, tanto conoscitore della lingua e letteratura edita ed inedita dei Turchi, come tutti sanno, non aggiugne particolari di rilievo alle notizie degli storici occidentali, che compongono anche per me la base della narrazione; e continuamente sono richiamati con lui e senza di lui nelle note[595]. Dagli Arabi odierni non possiamo sperare nulla di meglio: e dai trapassati abbiamo due soli brandelli, che qui inserisco alla lettera come mi sono stati gentilmente favoriti dal preclarissimo professore Michele Amari, nel quale la ingenita cortesia cresce lustro al sapere. Il primo brano è dello storico Dinar, ben noto agli orientalisti, il quale nell'anno 1681 scrisse molto confusamente dei fatti anteriori; sì come nel caso presente a proposito dell'ultimo principe Hafsita di Tunisi dice così[596]: «Stretta amistà correa tra questi e Dragût pascià. Quando Dragût mosse contro l'isola delle Gerbe, il sultano Ahmed lo fornì di vettovaglia. ( L'isola ) si era ribellata da esso ( Dragût ) per torti ricevuti; onde la occuparono i Cristiani per sei mesi; e fu liberata per mano del pascià Ali, mandatovi da Dragût.» Appresso viene il Bagi non meno conciso nei fatti, e più confuso nelle date, con queste parole[597]. «L'anno 957 ( 20 genn. 1550 all'8 genn. 1551 ) i Napolitani, i Genovesi ed altri irruppero in Mehdiah: presero quanto e quanti erano in essa, la distrussero, e andarono via. Indi alcuni abitanti a poco a poco vi ritornarono, e in certo modo la ripopolarono. Essi ( Napolitani, ec. ) si insignorirono anco delle Gerbe, si empirono le mani del bottino fatto ( in questa isola ), e dimoraronvi sei mesi; a capo dei quali Dragût pascià liberolla, e di lì passò a Tripoli, e presela il 958.» Apparisce evidente la grossezza di costoro, che in quattro righe male arruffano i fatti di molti anni, nè mette conto il cercarne di più.

XXXIV.

[13 marzo 1560.]

XXXIV. — Mercoledì tredici di marzo entrava l'esercito cristiano nel Bazar, la guarnigione europea rilevava la moresca dal castello, le galere facevano salva, e gli stendardi della Spagna salivano sulla gran torre. Riaperti i mercati, tutti contenti; meno alcuni pirati turchi costretti a smucciare, e meno parecchi soldati cristiani impediti dal rapire. Tra questi vuolsi ripetere il fatto di uno spagnuolo, chiamato Ordugnèz; il quale, deluso nella speranza del bottino, giunse a tanto bestiale accecamento (come esso stesso confessò pentito prima di spirare), che, dicendo non essergli possibile sopportare in pace l'amicizia coi Cani, mise mano a un coltellaccio, e dandosi nel petto s'ammazzò[598]. Di tali stranezze, richiamandone ora le impressioni ricevute nel mio animo per molti esempî antichi e per certe osservazioni moderne, dico adesso che quando occorrono in alcun luogo, non restano solitarie; ma naturalmente pronosticano e sono seguìte da altri disordini e da maggiori sventure. A certi estremi non si trapassa, nè anche da un solo, nell'umana società, se non quando gli animi delle masse, riputate degne di tali spettacoli, siano pubblicamente al sommo della perturbazione; e per ciò stesso disposti a fare o a patire appresso di peggio. Vedremo tra poco quanti altri saranno ciechi e violenti contro alla propria e contro alla pubblica salute, al pari e forse più dello sciagurato Ordugnèz.

[15 marzo 1560.]

Cominciamo dal duca di Medina, il quale, invanito degli ultimi vantaggi, alla prima aura di fortuna si perde. Avrebbe facilmente potuto pigliare ostaggi e guide, rifornirsi di vittuaglie, demolire il vecchio cassero, togliere ai Gerbini ogni baldanza in due giorni; e dentro un mese pigliar Tripoli, e tornarsene vittorioso in Sicilia. L'armata ottomana, di che egli sapeva gli apprestamenti, non sarebbesi mossa così presto per impedirgli la conquista; nè poi si sarebbe ardita di riscuoterla, stando di fronte ai Turchi il presidio, e alle spalle l'armata nostra tutta intiera. Costui all'incontro delibera di fermarsi due mesi alle Gerbe per piantarvi nuova di fondo una bella fortezza. La stessa cecità dimostrano gli altri tre, che insieme con lui danno il nome ai quattro baluardi, e ne sostengono i lavori. I quali signori de' nuovi bastioni si chiamano Medina, Doria, Gonzaga e Tessieri[599].

Il nome riverito degli Orsini avrebbe dovuto trovarsi di mezzo agli altri, secondo il suo grado e bandiera, certamente innanzi al Tessieri e innanzi al Gonzaga, se egli avesse voluto attivamente spingere la stranezza dell'opera. Ma col fatto contrario esso stesso ha chiarito la posterità di non averci consentito, pensando per fermo tra sè onori cotali non essere da lui. La quale dilicata temperanza come non reca meraviglia a chi ricorda la sua condotta durante la guerra di Campagna e le brighe del Moretto, così meglio ne conferma la nobiltà del carattere. Vedetelo inteso al dovere, senza offendere le opinioni; soggetto all'autorità, senza eccitarla agli eccessi; e ciò pure a costo del suo privato discapito, e di esser tenuto zotico e strano da quelli che allora riputavan sè stessi avveduti e saggi. La corrente in piena voga seguiva le visioni del Medina: ma a chi penetrava nel secreto dei pensieri era evidente che la fabbrica della fortezza non poteva servire ad altro se non a discolpare gli errori precedenti ed i futuri. Così l'intendeva l'Orsino: e così in quei giorni medesimi, quasi profetizzando, scriveva da Malta il celebre la Valletta; e registrava un bell'ingegno spagnuolo nel sonetto che il Bosio ci ha conservato[600].

[17 marzo 1560.]

La fortezza presa a fabbricare presso alla capitale dell'isola era stata disegnata sopra la peggiore di tutte le figure che si possono descrivere intorno al cerchio, perchè meno di ogni altra adatta al fiancheggiamento ed alla difesa radente. Un recinto di mille metri in giro col vecchio castello nel mezzo per mastio: quattro cortine di dugencinquanta metri per ciascuna; e quattro bastioni coi loro cavalieri negli angoli. Al mastio per onore supremo diedero il real nome di forte Filippo; ed ai quattro baluardi i nomi dei quattro Signori che ne presero il carico. Dunque una fortezza quadrata, sul lido del mare, senza porto, senza acqua, senza terra, senza muri: essendovi le cortine e i bastioni rilevati di rena, pali e fascine; e il fosso cavato pur nella arena cedevole, e tutto l'edificio sulla rena. Nell'interno baracche di tavole per alloggiamenti e magazzini, e specialmente le cisterne vuote, nelle quali bisognava portare acqua da lontane sorgenti. Misera condizione di tanta gente per due mesi nella strana opera.

Qualcuno oggidì leggendo il nome di Plinio Tomacelli, incastrato dal Promis nel novero degli ingegneri militari di Bologna, potrebbe sospettare che egli stesso sia stato l'autore del rovinoso disegno e della nuova fortezza alle Gerbe[601]. Ma ad onor suo possiamo dimostrare non doverglisi colà attribuire altro carico se non di sorvegliare i lavoranti di quel bastione che portava il nome del suo principale, e chiamavasi il Doria. Plinio, gentiluomo bolognese della discendenza collaterale di papa Bonifacio IX, era presente all'armata, godeva di molta riputazione, aveva fatto da maestro a Giannandrea, e continuava per volontà del vecchio zio a dirigerlo come consigliere e moderatore delle sue prime spedizioni[602]. Non per questo fece professione di ingegneria nè di architettura: e quel suo Discorso contro le fortificazioni di Bologna, rimasto inedito nella sua patria, dimostra lo studio da lui posto intorno alla popolare economia politica, non sopra le tecniche dottrine militari.

[19 marzo 1560.]

Tutti i contemporanei attribuiscono il disegno e la suprema direzione della nuova fortezza all'ingegnere Antonio Conti, uno di quei tanti Italiani che allora seguivano gli eserciti di ogni nazione[603]. Udiamone i particolari dal Cirni, che eravi presente[603a]: «Per questo dunque il Generale fece fare il disegno da Antonio Conte ingegneri, e subito fece metter mano a lavorare. Fece trattare collo Scecche se poteva avere una gran quantità di Mori per potergli far travagliare col pagamento; ma non essendoci ordine, si risolse alla fine di farlo fare a' soldati. Fece venire una quantità di cameli, acciocchè portassero la terra rossa per impastare, chè intorno al Castello non vi era se non rena, e bisognava condurla più di due miglia discosto. Eravi assaissima comodità di palme e di olivi: e con quei tronchi delle palme, interi e spaccati, faceva fare le incavicchiature per ogni banda. Eccetto un braccio incirca, sotto terra per tutto è pietra; ma tenera, e sottoposta al piccone. La gente tedesca, per essere più industriosa e travagliante, la misse a fare il fosso a forza di picconi. Il signor Gio. Andrea come quel cavaliere che haveva honoratissimamente risposto in tutte le occorrenze dell'impresa per complire e col valore e colla prudenza in ogni opera possibile per servitio di Sua Maestà, si prese assunto di fare un cavaliere. L'altro il Generale diede a fare al generale della Religione con la sua gente. L'altro a gli Spagnuoli, e l'altro al signor Andrea Gonzaga. Di maniera che venivano a esser quattro, con intenzione di farvene poi col tempo un altro in mare col suo molo verso tramontana. E per ora da quella parte del mare il Castello si accingeva quasi a stella, e volgeva in tutto da mille passi, o braccia ordinarie, come vogliam dire. Così con grandissima sollecitudine e cura si attese al lavoro.»

Alli diciannove di marzo, secondo il modello del Conti, in due giorni preparato alla grossa di cretoni e di legno, il Medina con solennissima pompa gettava al posto la pietra angolare; e appresso metteva alla direzione della gran fabbrica quattro ajutanti, nominati dal Campana e dal Bosio, Bernardo di Aldana, Sancio di Leva, Cesare Visconti e Carlo di Amanze[604]. Lavoro fastidioso di soldati in giornèa; non avendo a niun conto voluto prestare l'opera loro i Gerbini: i quali soltanto per somma grazia permettevano la vettura delle loro bestie. Bisognava rimenare tutto da lungi, pali, fascina, infino a un po' di terra per impastarla colla rena del luogo. Ciò non pertanto ai venticinque di aprile il forte era ridotto in condizione di potersi difendere, e vi entravano di presidio duemila fanti tra spagnuoli, italiani e tedeschi, sotto il mastro di campo don Alvaro de Sande, eletto governatore della piazza e dell'isola. Tutto questo sarebbe la metà del nonnulla rispetto al resto: dobbiamo inoltre disperdere ogni bene, vittuaglie, munizioni, armi, artiglierie, corredi, infino all'acqua; e dobbiamo sguarnire di tutto i navigli, se vogliamo, secondo la ragione di tanta lontananza e il pericolo di lungo assedio, provvedere ai magazzini ed alle cisterne del gran forte, per continuata stranezza piantato di pali sulla rena.

XXXV.

[8 aprile 1560.]

XXXV. — Intrattanto Luccialì colla sua galeotta a golfo lanciato per l'alto mare navigando, e sempre fuggendo dalle Gerbe, era giunto in Costantinopoli: dove consegnate che ebbe le lettere pressanti e i ricchi doni, da parte di Dragut, al Granvisir e agli altri principali ministri della Porta, facilmente otteneva l'udienza dell'Imperatore, e gli dimostrava la bella opportunità di conquidere sulle spiagge di Barberia tutta l'armata dei Maledetti. Egli, testimonio di veduta e sagace, dicevagli il numero e la qualità dei nostri navigli, la stranezza del governo, la stultizia dei procedimenti: dimostravagli la facilità di armare un'ottantina di galere negli arsenali dell'imperio, e di ottenere solenne vittoria da assicurargli per sempre la padronanza del mare. A Solimano non facevano di mestieri nè troppi stimoli, nè tanti argomenti: egli sentiva da sè l'importanza del caso, e nella certezza di cavarne a suo vantaggio stupendi effetti, ordinava con gran secretezza e prima del tempo consueto l'armamento del suo navilio, pur di averlo pronto alla vela sulla fine di aprile. Ma quantunque egli si studiasse di nascondere gli apparecchi, e di coprire i suoi disegni, non potè fare che qualche indizio non ne trapelasse fuori per una città così popolosa e così piena di gente d'ogni paese, come era la sua capitale. Da più parti gli esploratori, i diplomatici e le spie ne mandavano avvisi a Madrid, a Venezia, a Roma, a Malta, e di rimbalzo anche alle Gerbe.

Il grammaestro la Valletta pel primo, sapendo degli armamenti turcheschi, già dagli otto di aprile aveva insieme avvertito il Medina e richiamate le sue galèe per servirsene nelle necessarie provvisioni dell'isola, volendo metterla in punto di fare buona difesa, se mai la sua disgrazia menassegli l'armata ottomana ad attaccarlo[605]. Rispedì in Africa dopo tre settimane soltanto tre galèe a carico del cavalier Maldonado, disarmate le altre due per la grande mortalità di ciurme, e di gente, e di cavalieri, compresovi l'istesso generale de Tessieri, che pochi giorni dopo arrivato in Malta morissi.

Il marchese della Favara, luogotenente di Sicilia, ripeteva gli avvisi, ed alla vista del pericolo mandava alle Gerbe quattro navi e un migliajo di soldati per rinforzo. Il vicerè di Napoli, ripicchiando sulle notizie ormai certe dell'armata nemica, esortava il Medina a star cauto, a ritirarsi, ed a pensare che in vece di conquistare in Africa alla fine era mestieri attendere ad altro, cioè a sostenersi e a difendersi in Italia. In questo modo scrivevano pur da Genova, da Roma, da Venezia[606].

[25 aprile 1560.]

Ciò non pertanto il Medina e i suoi colleghi tiravano innanzi senza nuovi espedienti. Gli animi sentivano dello strano, alcuni non prestavano fede agli avvisi, e molti dicevano impossibile all'armata ottomana uscire dai Dardanelli prima di mezzo maggio. Giannandrea era ricaduto di flusso; le infermità avanzavano più di prima, si empivano gli spedali e le fosse[607]. I savi, costretti alla tolleranza per non crescere confusione, facevano capo al Doria stesso col pretesto di visitarlo: dicevangli non esser più tempo di indugi. Ed esso dal letto mandava e rimandava Plinio Tomacelli non solo sollecitando, ma importunando il Medina alla risoluzione della partenza[608]. Il medesimo Plinio nella sua lettera giustificativa conferma gli altrui fatti e le sue premure[609]. Ma non per questo lo assolveremo noi dell'essersi dappoi piegato lui proprio a restare colà coll'armata ancora per quell'ultimo giorno fatale, che non doveva aver più nè consiglio nè riparo. Vedremo le opere, e leggeremo le attestazioni del capitano Piero Machiavelli, commissario delle galèe fiorentine, nella lettera scritta giusto di quei giorni al duca Cosimo per ragguagliarlo dei successi precisi del venerdì dieci di Maggio alla sera.

[5 maggio 1560.]

Come fu imbastita alla meglio la sciagurata fortezza, il Medina strinse lo Sceicco al giuramento di fedeltà: e costui, per non poterne di meno, finalmente venne al campo cogli anziani dell'isola, e una squadra de' suoi cavalieri. Gittò per terra lo stendardo di Dragut, un vecchio drappo di seta verde, prese dal Medina la bandiera di Spagna, la brandì tre volte, la mostrò ai circostanti, e sottoscrisse l'istrumento di vassallaggio giurandone sul Corano la lealtà. Al quale atto crebbe valore la presenza del re di Caruano, venuto poc'anzi in gran festa a salutare il Medina, per l'odio mortalissimo che nudriva contro Dragut, dal quale con pessima frode eragli stata rapita buona parte del dominio[610]. Intervenne altresì per ragioni equivalenti colui che chiamavano l'Infante di Tunisi, nipote del Muleasse già rimesso sul trono nella spedizione del trentacinque contro Barbarossa. Costoro, e ogni altro nemico dei turchi e dei pirati, mantenevano continue corrispondenze con la corte di Spagna, coi vicerè di Napoli e di Sicilia, col Grammaestro di Malta, e coi supremi comandanti delle armate cristiane[611]. Essi ora corteggiavano il Medinaceli, quantunque ne vedessero già vicina al tramonto la fortuna.

XXXVI.

[10 maggio 1560, ore 5 s.]

XXXVI. — Nel vero il tempo stringe, gli avvenimenti precipitano, e dentro le ventiquattro ore tutte le stranezze saranno al termine. Stava intento il Duca co' suoi più intimi a mettere terra e piote sui parapetti della nuova fortezza, quando la sera istessa del ripetuto giorno dieci di maggio, alle cinque vespertine, giugneva colà tutto trafelato il cavaliere don Ugo Coppons, spedito in gran diligenza sur una fregata da Malta con lettere del Grammaestro allo stesso duca di Medina ed al Doria, per avvisarli ambedue che la sera del sette era stata veduta dall'isola del Gozzo tutta l'armata ottomana, forte di ottanta galèe e di più altri legni, navigare di lungo per Ostrolibeccio verso di loro, dopo aver fatto nella isola medesima acqua e carne.

[10 maggio 1560, al tramonto.]

Avute le lettere e sentite le relazioni dei testimonî di fatto e di vista, avrebbe dovuto il Medina, come dopo segnalato beneficio della provvidenza, ringraziare Iddio, e subito a un fiato imbarcar la gente, lasciare presidio nella fortezza, e ridurre l'armata a salvamento in Sicilia. Sarebbesi levato a cavaliere e avrebbe gittato il nemico tra due fuochi a consumarsi, intra la fortezza delle Gerbe di fronte e l'armata cristiana alle spalle. Ma le stranezze che avevano sempre preceduto e seguìto il corso di questa spedizione, non potevano cessare nel momento supremo: anzi dovevano crescere per la novità ed urgenza del caso. Tutti volevano dirne, tutti diversamente: dunque per la maggior parte a sproposito. E il Medina, come se da vero ci fossero delle dubbiezze a risolvere, faceva raccogliere i capitani maggiori in consiglio presso Giannandrea, surto sopra le Peschiere, davanti al Forte, a due miglia da terra. Perdita di tempo, diversità di sentenze, accrescimento di disordine. Scipione Doria proponeva di abbozzarsi sulle gomene con tutta l'armata, navi e galere ben ristrette, sotto al castello: e voleva quivi aspettando il nemico, riceverlo a cannonate[612]. Ma gli altri di comun consentimento escludevano la vana proposta: e ciò non tanto per la inferiorità del numero e per l'abbattimento della gente, quanto per la penuria dell'acqua e dei viveri; avendo già tolto di bordo quasi ogni cosa, e messo tutto nei magazzini e nelle cisterne della nuova fortezza. In quel modo i Turchi, temporeggiando per poco, avrebber potuto vincere senza combattere; e stringere il progresso della fame coi giannizzeri alla guardia del mare, e coi Gerbini sguinzagliati dalla parte di terra.

Quantunque però quasi tutti, come ho detto, rifiutassero la battaglia per giustissime ragioni; pochi tuttavia sollecitavano l'immediata partenza da quell'infausto arenale, dove non si poteva restare un'ora senza pericolo, nè combattere un minuto senza rovina. La maggior parte pensavano di aver sempre tempo a ritirarsi, perchè l'armata nemica doveva (a parer loro) andare prima a Tripoli, chiamarne Dragut, e intendersi con lui sul piano di battaglia[613]. Laonde concludevano che tra due o tre giorni potrebbero levar la gente a bell'agio, e far l'acquata, e mettersi in salvo.

A questa tristissima opinione, che fu poi causa di infiniti disastri, tuttochè sostenuta dalla maggioranza, due soli voti trovo contrarî: e sono del generale genovese e del romano. Giannandrea minacciava apertamente volersi partire nella notte con tutta l'armata, e pronosticava la comparsa dei Turchi per la mattina seguente[614]. Flaminio senza pretensioni, senza profezie, senza minacce, sostenuto soltanto dalla ragione e dalla esperienza, faceva di convincere l'intelletto dei compagni, persuadendoli della necessità di mettersi al largo allora allora; unico partito per salvare l'armata navale e quanto più di gente si poteva, posciachè il forte era al caso di sostenersi da sè, e di ricevere a un bisogno anche gli ajuti. Egli fece vincere il partito[615]. Quale nel discorso, tale mostrossi Flaminio nelle opere: maestro di guerra, eccellente marino, schivo di lusinghe, inteso al comun bene, fermo al suo posto. E la tempra dell'animo suo meglio pei fatti proprî tra poco rifermerà, che non per gli elogi altrui, sempre scarsi infino al presente intorno ai nostri campioni.

Se non che sopravvenuto in consiglio il duca di Medina non voleva a niun patto consentire alla deliberazione già presa; e chiedeva almeno un giorno di tempo per dare ricapito a quei soldati che (non essendo del presidio) si trovavano in terra pei lavori del forte: innanzi ai quali, prima di allontanarsi, aveva impegnato la sua fede di tornare, di levarli, e di non partirsi senza di loro. Vedi Capitano sapiente a patteggiare sulla disciplina de' suoi soldati, ed a preferire le sue parole alla pubblica salute! Per questi rispetti, credendosi colui a suo senno nell'obbligo della stolta promessa, tanto scongiurò, e disse, e fece, che finalmente Plinio Tomacelli, non volendo disgustarlo in quell'estremo, prese le sue parti, e strinse Giannandrea ad aspettare anche un poco. Col consenso del Doria, il Medina conchiuse di rimettere la partenza al giorno seguente[616]. Non v'ha dubbio. La lettera del commissario Machiavelli al suo Sovrano parla troppo esplicitamente dell'accusa; la risposta del Tomacelli fugge troppo evasiva per abbatterla; e l'analisi del contradittorio resta comprovata e ribadita dal fatto. Differita la partenza.

Sia pur dunque concesso al Medina il trattenersi per la promessa, ed a Giannandrea il consentirgli per la violenza: questo però non toglie nè all'uno nè all'altro in caso simile l'obbligo di provvedere alle emergenze possibili, secondo gli avvisi. Essi avevano la suprema autorità anche sopra i confederati, costretti alla obbedienza dall'ordine dei rispettivi sovrani: essi dovevano almeno aringare l'armata in battaglia con istruzioni concordi e determinate a tutti i capitani per governarsi da savî, per resistere da prodi, per ritirarsi compatti. Ma in vece indugiarono per indugiare, negletto ogni apparecchio: come se il nemico non potesse venire, perchè la maggioranza del consiglio così pensava; o come se avendo escluso il combattimento di elezione, non dovessero tenersi pronti alla difesa di necessità[617]. Anzi con questo il Medina maggiormente confuse gli altrui pensamenti, annunciando al pubblico un pericolo urgente, e senza riparo.

[10 maggio 1560, la notte.]

Esso, uscito di consiglio a notte inoltrata, fece pubblicare ai soldati la decisione della partenza per la giornata del sabato successivo, e però si allestissero. Scoppiò di presente la confusione: questi lodava, quegli biasimava, altri non voleva restare addietro, chi chiamava lo schifo, e chi Michele e chi Martino, e chi a guazzo per imbarcarsi sui palischermi chi a gambe per mettersi al sicuro nella fortezza[618]. Il Duca, desideroso di contentar tutti, confuse pur tutti colle speranze e colle promesse al di sopra del suo potere. Il pánico e il disordine crebbero al sommo durante la notte. Ognuno per sè, infino ai barbari, capirono la folle disperazione: tanto che lo Sceicco dell'isola e il re del Caruano montati a cavallo, fuggirono via, senza pigliar commiato da persona[619]. E come se ciò non bastasse, ecco dopo la seconda guardia turbarsi il mare; e il vento infino a lì disteso da Ostroscirocco e favorevole alla partenza, saltare e fermarsi a Grecotramontana, quasi per prua; cosa invero sinistra, che pronosticava la rovina imminente dell'armata, cui nè anche volendo era più concesso di potersi facilmente allontanare[620].

XXXVII.

[11 maggio 1560, all'alba.]

XXXVII. — Le stranezze, quantunque grandissime nella notte, crebbero a doppio la mattina dell'infelicissimo giorno di sabato undici di maggio. Il Medinaceli aveva gran che a fare su e giù tra la campagna e la marina per condurre seco i soldati, secondo la promessa; Giannandrea rodevasi sulla Reale, aspettando il Vicerè e gli affidati; e gli altri capitani di mare, mandati in terra gli schifi a levare le fanterie e a compiere l'acquata, apparecchiavansi a una corsa intorno per un po' di scoperta, senza niuna prescrizione determinata nè per combattere nè per fuggire[621].

Intanto Pialì, pascià del mare, informato pienamente dagli stessi Gerbini dello stato e confusione dei Cristiani, non volendo dividere la facil gloria nè con Dragut nè con altri, senza volgersi a Tripoli, erasene venuto verso le Peschiere, dove sapea essere l'ancoraggio dell'armata nostra. Tenendosi in giolito e sopravvento, aspettava il giorno chiaro per investire.

Tra quelle nebbie, che quasi sempre nel mattino velano le basse spiagge delle regioni africane, qualcuno cominciò a vedere certi bastimenti: e appresso dando la voce e cominciando a fare strepito e rumore, tutti riconobbero l'armata nemica, e tutti crebbero intricamento e confusione. Scipione Doria, quel desso che voleva abbozzar le gomene, ed era stato messo capofila del largo per la scoperta, fu il primo a fuggir via verso Malta[622]. Giannandrea dall'altra parte fece vela, corse due bordate, volse in senso contrario, poggiò al vento, investì in terra sotto la fortezza, e andò a chiudercisi dentro, abbandonata in secco la Reale[623]. La maggior parte dell'armata, seguendone l'esempio e lo stendardo, chi prima, chi dopo, rovesciarono il bordo per arrenarsi meglio in diverse direzioni, tanto pur di mettersi in terra, e di mandar la gente correndo a rifugio nel forte.

[11 maggio 1560, la mattina.]

Luccialì, capo di vanguardia, veduti tali strani e inconsiderati movimenti, dette dentro con tanta sicurezza, che al primo colpo pigliò e rimise venti galere: quattro del Doria, compresa la Reale, due di Roma, due di Sicilia, due di Firenze, una di Monaco, quattro di diversi, tutte di Napoli, e insieme quattordici navi di alto bordo, e più di cinquemila cristiani tra soldati e marinari[624]. Appresso Pialì e i Barbareschi gittaronsi a falciare di seconda mano qualunque legno là intorno non era stato ancor concio. Dove tutta la bravura in continuati scontri, e per ogni maniera di caccie e di sutterfugi, finiva o colla resa in mare, o coll'arrenamento alla spiaggia[625]. Giannandrea e il Medina dal ballatojo supremo del forte, dove eransi rifugiati, volgendo attorno lo sguardo, potevano vedere nel giro la propria e l'altrui rovina: navi e galere in mano ai Turchi, soldati e capitani cinti di catene, bastimenti grossi e sottili infranti alla riva, tutt'altrove rottami, e del continuo uscir gente dal pelago, a nuoto o sopra tavole, chi avvolto di miseri cenci, chi tutto nudo, e lunghe file di fuggitivi correre a ripararsi nel forte. La guarnigione, fattasi sugli spalti e sui ponti, accoglieva gl'infelici: ma impietriti nel dolore guardavansi in faccia l'un l'altro senza mutarsi nè anche una parola; dimostrando però nell'aspetto somma pietà verso i compagni, e profonda indignazione contro chi era in colpa d'aver condotto le armi cristiane a tanta vergogna e a tanto strazio.

XXXVIII.

[11 maggio 1560, mezzodì.]

XXXVIII. — In mezzo al generale scompiglio, mentre l'armata cristiana per infiniti modi disbarattavasi, vi furono alcuni capitani che, senza smarrire, cercarono nell'arte nautica lo scampo alle poche galèe non ancora assalite dal nemico. Essi non avevano che una sola via di salute, ma pericolosa e difficile. Occorreva spelagare, spuntando apertamente l'estrema destra del nemico, coi bastardi all'orza, fatto il carro al più presso del vento; e poi a remi crescere l'abbrivo, correggere lo scarroccio, sforzare il capo di Sfax, e mettersi pel canale delle Cherchene. Questa precisa manovra, piena di fortuna e di ardimento, che poteva esser tentata soltanto colla vela latina, orzeggiando a poco più di quattro quarte di vento, e facendo forza sui grandi bastardi anche a rischio di scavezzare le antenne; questa manovra, dico, che metteva altresì il nemico nella stessa necessità di prueggiare e nel medesimo rischio di rompere, come ebbe il principio da una galèa di Malta, così la pronta imitazione di una genovese, delle capitane di Roma, e di Firenze, e di parecchie sensili, l'una appresso all'altra, infino al cavaliere Gil d'Andrada che veniva alla coda di tutti. Degna mostra dell'arte sul mare nell'arduo maneggio dei legni! Ecco ritte le antenne maggiori, eccovi distesi cinquecento metri di cotone in un solo triangolo, ecco ciascuna galèa parallela alla conserva, e ciascuna a gara nella corsa. La prua a Maestro quarta di Bora, la spinta da Grecotramontana, il carro al vento, l'orza (per dispetto in questo caso dei pedanti) alla destra, lasca l'osta di sottovento, tesata l'opposta, cazzata la scotta, la barra a richiamo; e il naviglio nel contrasto di tante forze alla banda, sollevandosi e ricadendo, come il cavallo nei salti delle barriere. Ti sembra arrestarsi nella levata, ma di altrettanto lo vedi trascorrere nella ricaduta, e fendere l'acqua a tagliuzzi continuati e progressivi. Il piloto tien l'occhio alla rotta ed al pennello, desideroso che il vento gli ridondi: e il nocchiero affidato alla rigida verga dell'antennale, che gli scusa bolina, stringe il vento; e col fischio e colla voce ripete: Carica! all'orza, alla scotta, all'osta, alla drizza!

Se non che l'arte degli eccellenti marini maggiormente accendeva le voglie e l'emulazione degli imbaldanziti nemici, i quali, trovandosi più vicini, di presente pigliavano la caccia contro i fuggenti, con impeto così grande, e con tanta furia di cannonate, che venuti da presso alla galèa dell'Andrada, già colle nude scimitarre alla mano stavano per investirla ed arrembarla, quando nel medesimo punto il Capitano romano porgeva inaspettato soccorso al Cavaliero spagnuolo.

La capitana di Roma, bellissima di forme e ricchissima di ornati, andava all'orza a raso sotto vela meglio di ogni altra galèa[626]. Condotta da intrepido capitano, e difesa da egregi soldati coi prodi gentiluomini della casa Orsina, sarebbe stata delle prime a salvamento in Sicilia, se all'improvviso non se le fosse rotta in tronco l'antenna maestra alla trinche dell'osta[627]. Caduta a precipizio la penna, squarciata la vela, rotti quasi tutti i remi di sottovento, e impigliatosi lo strascico nel timone, restò immobile di mezzo al pelago. Non si avvilì per questo Flaminio, non mainò la bandiera, non dette la spada, non si fece conoscere personaggio di alto affare e di gran riscatto, non si arrese. Pensò ai compagni. E dappoichè non poteva più sperare di mettere in salvo il suo legno, la sua gente e sè stesso, prese il nobile partito di coprire le reliquie dell'armata cristiana, e di proteggere a suo potere la ritirata degli altri. Aprì il fuoco contro i Turchi: e questi da lui provocati, e mossi pur dalla cupidigia di saccheggiare la bella capitana che dava di sè ricchissima mostra, lasciarono l'Andrada, e l'impeto loro rivolsero tutti contro Flaminio solo[628]. Terribile momento di lotta suprema, di fuoco, di ferro e di sangue: momento degno di memoria, ed unico fatto onorevole della giornata. L'Orsino ed i Romani combattono infino all'estremo, restandovi quasi tutti tagliati a pezzi[629]. Possiamo pensare da ogni parte cresciuti i nemici, oppressi i difensori, ferito, morto, calpestato l'Orsino: e finalmente dai grembi della scomposta vela, tra le scimitarre dei Turchi alla loro usanza, uscir fuori menata pe' capelli la bella e nobil testa di Flaminio, cui pur nell'ultimo palpito battendo le ciglia fia dato minacciare i nemici[630].

L'egregio fatto del prode capitano di grande famiglia, e di più grande città, mi sono studiato tanto meglio rilevare da quel che brevemente ne dicono le storie comuni, quanto manco se n'è tenuto conto nelle memorie domestiche. Il glorioso nome del moderno Curzio, pronto a dar la vita pel pubblico bene, e a suggellare col senno e col valore, vivendo e morendo, le glorie di Roma; il nome, ripeto, non si trova scritto nel catalogo de' suoi, manca ai genealogisti della famiglia, disparve nel pelago insieme colle ossa tra i gorghi africani, senza cippo, senza lapida, senza ricordo[631]. Squilli adunque più alta la tromba della storia, perchè non si abbia a dire anche di lui, come di tanti altri si è detto, che alla fortuna chi ben fa dispiace.

Intanto vada pur lieto il venturoso cavaliero Gil d'Andrada: egli è salvo. E la memoria dell'Orsino romano, suo protettore alle Gerbe, lo renderà amico del romano Colonnese negli intricati successi di Lepanto. Piglino i pirati la capitana di Flaminio, e la serbino dieci anni; chè penserà a tempo Ruggero degli Oddi a riscattarla da prode per forza d'armi nella grande battaglia. Ma senza scorrere da lungi ricercando altre conseguenze che fruttino onore all'estinto campione, basterà guardarci qui intorno nella stessa mattina e pochi minuti dopo la sua morte per abbatterci nel pietoso tratto di quel suo Paggio, donde possiam raccogliere quanto ricco tesoro di onore e di magnanimità aveva saputo Flaminio colle parole e coll'esempio anche nei pargoli della sua casa trasfondere.

Piangeva dirotto il giovanetto afflitto di vedersi schiavo: e sbigottito dalla morte crudele del suo Signore, guardava fisso dai bandini sul mare, dove ne era stata gittata la salma, quando fu scosso dalla nota voce di un malvagio di catena, che a lui rivolto dicevagli esser pur giunto il tempo tanto desiderato di averlo in potere e di farne strazio. Ciò non fia mai, gridò il Paggio, ch'abbia io a cadere nelle mani di sì vile uomo. Il mio Signore mi ha difeso e mi difende, vivo o morto, all'ombra della sua grandezza sarò sicuro. Il fanciullo girò lo sguardo, e non vide dinanzi altro che schiavi o nemici. Non seppe, non pensò nella sua semplicità se non al Signore nel mare. Gittossi capovolto tra i gorghi, e non fu riveduto mai più[632].

[Maggio-luglio 1560.]

Io non dissimulo, pur dinanzi a voi che leggete, la compassione ed il pianto: però datemi tregua, e vi basti nel resto il compendio delle nostre sciagure[633]. Giannandrea di notte sopra piccola barca dal forte fuggì in Sicilia, dando al vecchio Zio l'estrema consolazione di saperlo salvo, e di morire in pace, come dobbiamo ricordare, addì venticinque di novembre, nella sua età di anni novantaquattro[634]. Il Medina similmente di nascosto con un navicello riparossi in Sicilia, procurando celare alla vista del popolo la sua vergogna, e l'immenso cordoglio onde era straziato per le pubbliche e private disgrazie, e per la perdita di un figlio giovanetto, teneramente amato, che gli fu poscia dai Turchi fatto morire[635]. Don Alvaro de Sande si difese per due mesi nella nuova fortezza, quantunque sfiduciato di soccorso: mancatigli tutti gli elementi della vita, vuote di acqua le cisterne alla sete ardente, l'aria corrotta intorno dai cadaveri insepolti, il fuoco spento sul focolare per difetto di combustibile, e la terra soperchiata dalla rena, fuggì, fu preso, e andò schiavo coi compagni per la via di Costantinopoli, dopo aver veduto all'ultimo di luglio dello stesso anno cadere il forte, e sul loro giaciglio gli infermi e i feriti per mano dei Turchi messi al filo della spada[636]. Dura tuttavia, orrendo spettacolo, su quella riva la funerea piramide, murata coi teschi dei nostri soldati e marinari[637]. Il vento aquilonare percuote ancora dopo tre secoli le aride ossa degl'infelici, e fischia tra le vuote occhiaje, a testimonianza perenne della moslemica barbarie nel cospetto dei navigatori di ogni nazione, che quivi ricordano la perdita di diciottomila uomini, di ventisette galere, di trenta bastimenti da carico, e di quattordici vascelli di alto bordo.

Della squadra romana nulla più tornò indietro, essendosi perdute al primo scontro le sensili, e poscia in battaglia la Capitana. Galeazzo Farnese menato a Costantinopoli e poi riscosso, prese servigio coi Veneziani, governò e difese Zara in Dalmazia. Del capitan Filippo e degli altri non più memoria. Ucciso dai nemici il Generale, dispersi gli ufficiali, imprigionate le genti di capo, perdute le ciurme, rotto il magistero e la tradizione, termino doloroso questo periodo della mia storia, lasciando le patrie sponde alla mercè dei pirati, tra i gemiti e le lacrime che le vedovate spose, gli orfani figli e i vecchi derelitti traggono dolorando sulla perdita dei loro congiunti.

Niuno dall'altra parte potrebbe adesso esprimere a parole la baldanza dei pirati e l'orgoglio degli ottomani, divenuti padroni, e riputati ormai invincibili per mare. In questi giorni Solimano e Selim, Luccialì e Dragut aprono il petto a più larghe speranze, disegnano novelle conquiste, e deliberano cominciare da Malta e da Cipro. A noi non resta che preparare gli animi e forbire le armi per le future riscosse, rimettere in sesto le fortificazioni littorane, e difenderci almeno in casa nostra dagli insulti dei barbari. Tempo verrà che la giornata delle Gerbe, vinta dalle orde turchesche e piratiche, e principalissimo fondamento della loro superbia, sarà scritta nei fasti della marina come ultimo termine dei loro trionfi.

FINE.

INDICE ALFABETICO DELLE PERSONE, DEI LUOGHI E DELLE COSE.

NB. Il numero romano indica il volume, e l'arabico indica la pagina, così per il testo, come per le note.

Abbaco (dall') Antonio, arch. a Piacenza, I, 278. — Lavora di modelli in legname, I, 203.

Abbordo dice accòsto, non urto, II, 332.

Abbozzare, v. Gomena.

Abdallà, di Tunisi, I, 149, 152, segg.

Abete di rispetto, II, 378.

Acciarino, v. Archibuso.

Achmet, ing. a Rodi, I, 216.

Accoglienza, v. Saluto.

Acquata, I, 189; II, 187, 372. — Casse di ferro, trombe, e cisterne, II, 188.

Acquieri, fam. ancon., cap. Melchiorre, I, 59, 66.

Adorni, fam. gen., uniti coi Francesi e cacciati dai Fregosi e dai Rovereschi, I, 83, 91, 94. — Uniti coi Medicei cacciano Francesi e Fregosi, I, 173. — Adorni e Fregosi cacciati dal Doria e dagli Austriaci, I, 280, 290.

Giorgio ricordato, II, 149, 173.

Addiaccio e Addiacciare (non Bivacco o Bivaccare ), II, 100, 387.

Adriano VI, elezione, I, 177. — Fisonomia, I, 195. — Navigazione, I, 179, 197. — Tutto di casa d'Austria, I, 185. — Stenta per Rodi, I, 198. — Accoglie i Cavalieri, I, 238. — Muore, I, 240.

Adriatico e sua libertà, I, 80.

Adunanza, v. Raunanza.

Affusto marino a scalone, riprodotto dal Moncrieff, I, 442; II, 159. — Valuta, II, 167.

Africa (terza parte del Mondo), v. Barberia.

Africa (città speciale), v. Afrodisio.

Afrodisio, postura e fortificazione, II, 195. — Assedio, II, 197. — Primo assalto, II, 201. — La Sambuca, II, 227. — Ultimo assalto, II, 239. — Conquista, II, 243. — Abbandono, II, 244.

Agghiaccio, Ghiaccio, Agghiacciare, e deriv. Gelo e Gelare, II, 173.

Agghiado e Agghiadare, uccidere di gladio, II, 412.

Aggiaccio e Giaccio, la barra del timone, I, 365.

Aggiacchio e Giacchio, sorta di rete, (Med. evo, I, 205).

Agli (degli), fam. ancon., cap. Giovacchino, II, 22.

Agostino da Terni, cap., II, 23.

Agugliotti del Timone. I, 365.

Aguzzino, guardiano di ciurma, soldo e razione, I, 112.

Aichio, v. Camalì.

Aidino, v. Cacciadiavoli.

Alabarde, I, 366.

Alamanni, fam. fior., cap. Niccolò, II, 253. — Congedato, II, 257. — Rimesso, II, 265. — Col card. Caraffa in Francia, II, 276. — Nella guerra di Campagna, II, 279.

Alba (il duca di), fisonomia, II, 284. — Volontario in Africa, I, 424. — Vicario in Italia per la guerra, II, 285, segg. — Alla pace di Cave, II, 314.

Albàgio, drappo da tende, di colore tanè, II, 159, 341.

Alberatura ed alberi di galèa, I, 365, 366. — Valuta, II, 155. — Di galeone, I, 168. — Di nave, I, 308. — Di brigantino, I, 368. — Grossi imbottati, I, 308.

Alberetto genealogico dei Doria, I, 273.

Alberghetti, fonditori di artiglieria, I, 75.

Albero, v. Alberatura.

Alessandro VI, pel giubileo, I, 7. — Trattati contro Turchi, I, 8. — Viaggio all'Elba, I, 21. — Costruzione di galere e compra di artiglieria, I, 10, 11. — Spedizione a Santamaura, I, 31. — Muore, I, 54.

Algeri, raccoglie i pirati, I, 382. — Sottoposta ai Turchi, I, 377. — Spedizione e attacco, II, 98. — Tempesta e rovine, II, 102. — Fermezza dei Romani, II, 107.

Aly-Zelif, sua difesa, I, 440.

Almadia, v. Afrodisio.

Almerighi, fam. bol., cap. Almerigo, II, 22.

Amante, la drizza dell'antenna, I, 367. — Peso e prezzo, II, 161.

Amari prof. Michele per gli storici arabi, II, 390. — Pei docum., I, 153; II, 401.

Amelia, v. Cansacchi.

Amici e nemici nei capitoli, I, 116.

Ammarinare e Marinare, I, 374.

Amministrazione, secondo i capitoli, I, 95, 242. — Soldo e razione, I, 112. — Vitto e spesa, I, 299. — Vestito di ciurma, I, 300. — Valuta delle ciurme, I, 163, 260; II, 156. — Valuta di una galèa, II, 155, 164, 168. — Valuta dell'artiglieria, II, 167.

Per le altre attenenze, v. Commissario, Noli, Prede, e simili.

Ammiraglio, titolo non usato nel cinquecento, I, 43, 58. — Dato abusivamente al Vettori, I, 127. — E al Doria, I, 290; II, 329. — In Venezia, valeva primo Nostromo, I, 43. — Il supremo comandante dicevasi Capitan generale, v.

Ammorzamento di terra, sughero, piombo contro l'artiglieria, I, 231, 308.

Ammutinamento di Turchi in Rodi, I, 222. — Di Spagnuoli a Patrasso, I, 327. — E in Aversa, I, 339, 344. — E in Milano, II, 81.

Amoroso Pietro, arch. in Ancona, I, 50, 205, 214.

Ampollette per la guardia, II, 163. — Misura di tempo, I, 367. — Scusavano i cronometri, I, 187.

Anchini, i cavi della trozza, peso e prezzo, II, 157, 161.

Ancona e Anconitani: due galèe per Santamaura, I, 31. — Sei costruite, I, 66. — Tre per la guardia, I, 134. — Otto per la lega, II, 18, 20. — Trentasei alla mostra, II, 22. — I Cartografi anconitani, I, 35. — Le fortificazioni, I, 50, 205, 214. — Maneggio di Cosimo contro Ancona, II, 313.

v. Acquieri, Agli, Amoroso, Benincasa, Bonaldi, Bonarelli, Fanelli, Marchesini, Uffreducci.

Ancora a quattro marre, ronzoni, I, 365. — Prezzo e peso, II, 156. — Abbozzarsi per combattimento, II, 234, 402. — Per tempesta, II, 103. — Sferrare all'àncora, II, 104, 377.

Andrada (cav. Gil di), cap. de' Maltesi, II, 356. — Salvato dall'Orsino, II, 411, 413.

Andreotti, fam. civit., cap. Francesco, II, 180, 243, 258. — Cap. Aless. a Malta ( Bosio, III, 661, lin. 58). — A Lepanto, v.

Andrivello, II, 232.

Andronico, v. Arduini.

Anguillara (il conte dell'), v. Orsini.

Anselmi, fam. civit., II, 258.

Antenna e fornimento, I, 365. — Valuta, II, 155. — Scusa i ponti di assalto, I, 315, 318. — Scusa bolina, II, 411. — All'orza coi grandi bastardi fragile, II, 410, 412.

Antichi, e loro magisterio nautico, I, 87, 187, 441.

Antirio, I, 325, 329.

Antivari (da) Luca, II, 23.

Antonio da Gubbio, cap., II, 249.

Anzio abbandonato, II, 288.

Appiani, signori di Piombino, cacciati dal Borgia, I, 17, 19. — Rendono il figlio del Giudèo, II, 123.

Il principe Alfonso e il suo docum., II, 164.

Arabi, beduini e Berberi, nostri nemici, I, 424; II, 99, 105. — Talvolta alleati, I, 429; II, 198, 231, 401. — Cavaliero celebre, II, 209.

Archibugeri turchi quindicimila in Rodi, I, 222. — Uccellano agli occhi, I, 229. — E alla vita, II, 366. — Nella milizia europea misti coi picchieri, I, 297; II, 101. — Sciolti a maniche, alla maniera dei bersaglieri, I, 328; II, 215, 386.

Archibugio, detto Chirioboarda I, 229. — Lungo di marina, I, 366. — Corto o tromboncino, I, 12. — Archibugetti di cavalleria, II, 171. — A miccio nella pioggia, II, 101. — A ruota, II, 170. — Sulle galere numero e valuta, II, 159.

Architetti e ingegneri militari: le tre scuole italiane e primitive, I, 205. — Mio parere, I, 138.

A Piombino: Leonardo, e il Sangallo vecchio.

Nello Stato: Giuliano, Bramante, Michelangelo, Castriotto.

A Rodi: Basilio, Gioeni, Bartolucci, Martinengo, e gli ajutanti.

Ad Afrodisio: Ferramolino, Arduini, Prato, e il Buono ricordato.

Alle Gerbe: Antonio Conti.

Negli eserciti di tutte le nazioni, II, 199.

Archivio secreto Vaticano, I, 10, 58, 95, 242, ec.

Dei Notaj, I, 363, 395; II, 6, 139, 150, ec.

Camerale di Roma, I, 371.

Dei Colonna, I, 36, 110; II, 291.

Di Stato a Fir., I, 147; II, 164.

Notarili a Gen., I, 153; II, 356.

Di Simancas, II, 134.

Di Viterbo, I, 22.

Di Perugia, com., II, 181.

Dei Doria, II, 27, 343, 368.

Dei Ricci, II, 19 e segg.

Degli Orsini, disor., II, 7, 140.

Dei Vettori, perduto, I, 127.

Di Ancona, I, 35, 66, 69.

Grande di Napoli, II, 360.

De' Frari a Venezia, I, 203.

Capitolare di Rieti, II, 113.

Di Stato a Lucca, II, 249.

Di Stato a Siena, II, 121, 122.

Di Civitavecchia, I, 362, 392, 397; II, 180, 256.

Arda, desinenza sonante e focosa delle prime armi da fuoco, I, 229.

Arduini Andronico, ing. in Africa, II, 222. — Mutazione di batterie, II, 225. — La Sambuca, II, 234.

Arganello, II, 158.

Argano, II, 232.

Argenti Filippo, arch., I, 140.

Ariadeno, v. Barbarossa.

Armamento, materiale e personale diverso, secondo le nazioni, II, 46.

Delle galere, I, 112, 258, 297; II, 40.

Delle navi, I, 307; II, 41.

Armi speciali di marina, Spuntoni, I, 297. — Archibusi lunghi, I, 366. — Tromboncini, I, 12. — Pugnaletti, I, 219; II, 257. — Piccozze, II, 160.

Arma di famiglia, v. Stemma.

Armata navale, e cifre sempre varianti, II, 21, 38, 40.

Alla guardia pel giubileo, I, 7; II, 176. — Soccorso a Rodi, I, 169.

Guerre intestine: a Piombino, I, 19. — A Genova, I, 83, 91, 173, 280. — Toscana e Napoli, I, 279, 284. — Guerra di Campagna, II, 279 e segg.

Contro Turchi: a Santamau., I, 31.

A Biserta, I, 46.

A Corone e Patras. I, 306.

A Tunisi, I, 399.

Nella Puglia, I, 435.

Alla Prèvesa, II, 20, 81.

Contro Dragut, II, 87.

Ad Algeri, II, 98.

Ad Afrodisio, II, 179.

A Tripoli e alle Gerbe, II, 355.

Distruzione, II, 416.

Arta, il golfo, v. Prèvesa.

Artiglieria al principio del cinquecento, I, 11. — Bizzarria di nomi, I, 89. — Calibri enormi, I, 230. — Ordinamento per multipli, in tre generi, I, 90. — La valuta, II, 167. — Sulle navi, I, 89, 169, 308; II, 70. — Sulle gabbie, I, 169, 308, 317. — Sulle galere in prua e sui fianchi, I, 166, 368, 441. — Sui galeoni, I, 169. — Sulle caracche, I, 84, 92, 308. — Sui palischermi, I, 86, 420. — Sessanta cariche a pezzo, II, 167, 35.

Metodo per isbarcarla, I, 328. — Di Campagna, I, 425; II, 100, 216, 389.

Carri al triplo de' pezzi, I, 12.

Fucine da campo, II, 206.

Colpi per giorno, II, 230.

Rimbalzi, II, 214.

Ammorzamento, I, 231, 308.

In mano ai Turchi, I, 215.

A retrocarica ed a più colpi, I, 90.

v. Nomi particolari, Basilisco, Colubrina, Mortajo, ec.

Artiglieri tutti i primi architetti, I, 201.

Artimone, vela di galèa, I, 366.

Ascanio da Civit., v. Fiori.

Ascia, v. Mastro d'ascia, e Dascino.

Assalto, v. Santamaura, I, 42. — A Corone, I, 318. — A Patrasso, I, 324. — Ai Castelli di Lepanto, I, 329. — Alla Goletta, I, 421. — A Castelnovo, II, 79. — A Monastero, II, 186. — Due in Afrodisio, II, 201, 239.

Dei Turchi a Rodi, I, 224, 233.

Degli Spagnuoli ad Ostia, II, 303, 305.

Assan-agà in Tunisi, I, 418. — Difende Algeri, II, 99.

Assan-rais in Afrodisio, II, 197. — Ucciso, II, 241.

Assedio portato al suo termine, v. Assalto.

Sostenuto, v. Difesa.

Assembramento di armate, v. Tattica.

Astronomia nautica, strumenti e metodi degli antichi, I, 187.

Astura e suo mastio pentagono, I, 196.

Atlante nautico, v. Portolano.

Attacco, v. Assalto, Difesa, Battaglia.

Aubusson (di) Pietro, card. Legato, I, 8, 37, 51.

Aurelio, da Sutri, cap. Flacchi, II, 96.

Avvisi necessari sul conto dei nemici, I, 311, 323, 340; II, 373.

Avvisi di Roma, gazzette ms., I, 304.

Azzagaglia, lancia lunga e leggiera degli Arabi, I, 418; II, 389.

Ayala (di) Martino, console dei marinari in Roma, II, 318.

Bacchetta rovente delle artiglierie, II, 168.

Baglioni, fam. perug., Giampaolo col Borgia, I, 19. — Cacciata di Perugia, I, 61. — Co' Medici, I, 136.

Orazio piglia il comando delle bande nere, I, 284.

Sforza in Germania contro i Turchi, I, 295.

Adriano nella guerra di Campagna, II, 282.

Astorre in Africa, II, 180. — Piglia Monastero, II, 189. — Salva Giordano Orsini, II, 210. — Tra i vincitori, II, 239, 242.

Bagno (di) conte Francesco in Algeri, II, 96.

Bajazet, assalito dalla lega, I, 7, 31. — Pace coi Veneziani, I, 54.

Baleniera, ripetuta, I, 8.

Balestriera della galèa, I, 364.

Balestrina nautica, I, 187.

Baliani Giov. Batta e il suo sistema di remeggio, I, 364.

Baluardo, nome ed origine, I, 211. — Primo elemento la torre pentagona, II, 196. — I primi modelli, I, 205, 137. — Descritti a Rodi, I, 214.

Banco di remeggio, I, 364.

Bandiere e fiamme, II, 156, 163. — Di gran giornata col Crocifisso, I, 405; II, 238. — Le quattro maggiori a Cagliari, I, 413. — Gala di bandiere, I, 309; II, 238.

Di tutti i principi in Barberia, I, 72.

Dei Musulmani nelle nostre chiese si perdono, I, 241, 260, 375.

Bandoliere di marina, II, 159.

Barba e barbette di manovra, I, 367. — Valuta e peso, II, 161, 167.

Barbareschi, e Barberia, sotto le dinastie bèrbere, I, 149. — Sommissione ai Turchi per mezzo dei pirati, I, 149, 377. — v. Afrodisio, Algeri, Biserta, la Goletta, Tripoli, Tunisi, ec.

Barbarossa (Keir-ed-Din), pirata e re d'Algeri, nominato, I, 5. — Notizie, I, 380. — Vinto dai nostri, I, 277. — Ammiraglio ottomano, I, 388. — In Algeri, I, 382. — In Tunisi, I, 386. — Diserta l'Italia, I, 384. — Strage de' diecimila, I, 426. — Perde Tunisi, I, 428. — Si fortifica nella Puglia, I, 434. — Cacciato, I, 439. — Scosso dalla Canèa, II, 34. — Traccheggia all'Arta, II, 47. — Bella ordinanza, II, 49. — Insolentisce alla Prèvesa, II, 59. — Ripiglia Castelnovo agli Spagnuoli, II, 85. — Perde Cattaro coi Veneziani, II, 86. — Unito ai Francesi, II, 117. — Contrappelo in Italia, II, 123. — All'Elba e a Talamone, II, 123, 124. — Nel Regno, II, 126. — Muore, II, 177.

Barberotto, fante di Barbiere, II, 202, 185. — Soldo e razione, I, 112.

Barbetta, v. Barba.

Barbiere, il cerusico, II, 185, 202. — Soldo e razione, I, 112.

Barbotta, barca imbarbottata o blindata, I, 318.

Barca, il maggior palischermo della nave, armata con pezzi da trenta, I, 86, 420. — Blindata per assalto, I, 318. — Da ponti, II, 294.

Di fuoco per incendio, II, 296.

Barcellona, e papa Adriano, I, 183.

Bargio sovrano, I, 352.

Barilaro, soldo e razione, I, 112.

Barilarotto, fante del barilaro, II, 185.

Barili d'acqua imbarcati, e numero, I, 365. — Valuta, II, 156.

Baronia armata, cadente nel cinquecento, I, 60. — Ultimo tracollo, II, 320.

Bartolommeo da Gallipoli, padrone, II, 10.

Bartolommeo da Talamone, v. Peretti.

Bartolucci Girolamo, ing. a Rodi, I, 199, 217.

Basilio della Scola, v. Scola.

Basilisco, cannon doppio da cento, I, 89, 230.

Bastardo, la vela maggiore di galera, I, 366. — Misure di cinquemila palmi, maggiore della borda, II, 160. — All'orza fiacca l'antenna, II, 408, 410.

Bastimento, naviglio d'ogni genere e di ogni specie, I, 217.

Bastione prop. di terra, I, 212. — I quattro alle Gerbe, II, 393.

Battaglia navale: all'àncora presso Genova, I, 86. — Sotto vela a Portovenere, I, 93. — Di fronte a Codimonte, I, 282. — Di trapasso a Corone, I, 342. — Di scontrazzo alla Prèvesa, II, 49. — In caccia alle Gerbe, II, 406.

Sul fiume alla Polesella, I, 75.

Campale alle buche di Corone, I, 321. — Alle colline di Tunisi, I, 425. — All'oliveto di Afrodisio, II, 213. — Alle cisterne delle Gerbe, II, 388.

Pei fatti minori, v. Combattimento.

Battagliola, colonnino navale, I, 364.

Battaglioletta, dim.

Batteria sulla prua delle galere, I, 368. — E sui fianchi, I, 368, 441. — Sui fianchi delle navi, I, 88, 307; II, 41. — E sulle gabbie, I, 308, 317. — Batterie dei galeoni, I, 169.

Batteria di breccia dal mare, e metodi di ricordo, I, 314, 419; II, 79. — Colla Sambuca, II, 235.

Batteria dal mare per difesa dei passi, I, 48, 321. — E per difesa di sbarco e di imbarco, II, 33, 214.

Batteria coperta sui fiumi, I, 75.

Batteria di assedio sul campo, I, 313, 418; II, 200, 225.

Piccole da campagna, I, 425; II, 100, 216, 389.

Beduini, v. Arabi.

Bella (della) Andrea, 23.

Belmonte cap. Melchiorre, II, 280, 324.

Benedetti cap. Gianfrancesco, II, 22.

Benedizione di bandiere e navigli, I, 401.

Benincasa, fam. ancon., cap. Cintio, I, 31, 35. — I Cartografi, I, 35.

Bentivoglio, fam. bolog., cacciati, I, 61.

Berardi conte Francescantonio, e il card. Caraffa, II, 302.

Bergamo, v. Ferramolino e Martinengo.

Berretti della ciurma, I, 300; II, 163.

Bersaglieri in branchetti, I, 328; II, 215, 386.

Biancardi, fam. civit., col. Trajano, II, 180, 243, 258.

Bianchi, fam. civit, Bernardino, II, 23.

Ricordati, II, 258.

Biassa (da), fam. genov., Baldassarre, I, 57, 108. — (Maritato alla marchesa Francesca Malaspina, Falconi, Iscrizioni della Spezia, p. 30). — Cap. della squadra, I, 57. — Perde una galèa, I, 72. — All'attacco di Genova, I, 91, 93, 94. — Ritiro, I, 119.

Giovanni, I, 58, 120. — Suoi capitoli per la guardia permanente, I, 95. — Continua col Vettori, I, 133, 134.

Antonio, I, 58, 120, 147.

Bibbiena, v. Divizi.

Bigotta, II, 158.

Biserta assalita, I, 150.

Bitta, colonna di ormeggio, I, 368; II, 104, 234.

Bivacco, v. Addiaccio.

Blocco di Genova, I, 83, 91, 94, 280. — Di Afrodisio, II, 198. — Di Dragut alla Cantera, II, 341.

Boarda e chirioboarda, I, 229.

Boato introdotto nei primi nomi delle artiglierie da fuoco, I, 229.

Boccanera cap. Cesare, da Fermo, II, 23.

Boccapaduli, fam. rom., Prospero com., II, 282.

Boga (Lat. Bojæ, arum.), II, 232.

Bologna, tolta ai Bentivogli, I, 61, v. Almerighi, Fani, Malvezzi, Sampieri, Tomacelli, Zane.

Bomba carica, e mortaj a Rodi, I, 232.

Bombarde da fuoco, ultima comparsa, calibri enormi, I, 10, 12, 230.

Bombardelle di marina, I, 11.

Bombardieri, tutti i primi architetti, I, 201.

Bompresso, I, 168.

Bonaldi, fam. ancon., cap. Bastiano, II, 22.

Bonaldi, fam. venez., cap. Giov. Ant. a Rodi, I, 219.

Bonarelli, fam. ancon., cap. Gabriele, I, 59, 66, 134.

Bonarroti, v. Buonarroti.

Bonavoglia, e notizie, I, 298, segg. — Rifiutano gli Statisti, I, 303.

Bonifazi, fam. civit., II, 258.

Bono, v. Buono.

Bontalenti, v. Buontalenti.

Borda, vela di galea, I, 365. — Misura e prezzo, II, 155, 160

Borgia, fam, papale, v. Alessandro VI. Cesare, I, 16. — All'Elba, I, 18. — Precipita, I, 54.

Borgia, fam. velletr., card. Stefano, sue schede in Propaganda, ripetute dal Galletti alla Vaticana, I, 10, 66, 69, 95, 129, 242, 362, 392; II, 109.

Borromei, fam. papale, e loro galere, II, 289. — v. Pio IV.

Botti a bordo, numero e valuta, I, 365; II, 156, 162.

Botte per tonnellata, II, 359.

Bovacciana, la Torre, caccia i pirati, II, 219. — Fortificata dal duca di Alba e riscossa dallo Strozzi, II, 312. — Centro dopo la rotta del Tevere, II, 318.

Bozza di manovra, peso e valuta, II, 161. — Ricordo, II, 234.

Bracotto di antenna, peso e valuta, II, 161.

Bramante, arch. a Bologna, I, 61. — A Civitavecchia, I, 64, 132. — Alla Mirandola, I, 82. — Ricordato, I, 63.

Brancacci, fam. napol., Giulio Cesare, II, 227, 282.

Branche di catene per ciurma, prezzo e numero, II, 160.

Brigantino (Medio èvo, v. ) per la guardia, I, 8, 18, 97, 224, 276; II, 23. — Equipaggio, I, 109. — Fornimento, I, 368.

Bronzo per le pulegge e pel calcese, II, 157.

Brusca di spalmo, II, 157.

Buca di lupo, trabocchetto militare, I, 320.

Bucintoro e sua etimologia confermata, I, 369. — Papale, I, 59, 63, 64, 66, 92.

Bucio per scafo con altri documenti, I, 369, 384.

Buffetto del credenziere, II, 163.

Buonarroti Michelangelo, arch., chiude la scuola mista, I, 206. — Lavori in Civitavecchia, I, 408, 433.

Buono e Bono Giuseppe arch., confuso dal Promis, II, 229.

Buontalenti Bernardo, arch., II, 300, 312.

Buriana, I, 184.

Bussi, fam. viterb., Papirio ricordato, II, 294.

Bussola degli antichi il Pinace (Medio èvo, v. ). — Ripetuta dal cap. Grubissich, senza saperlo, I, 188, 187. — Declinazione segnata nelle carte anconitane, I, 36. — Nei docum., I, 367; II, 163.

Buttafuoco di artiglieria, II, 169.

Buttafuori di manovra, e valuta, II, 160.

Cabazolles, cap. ricordato, II, 279.

Caccia e pezzi di caccia, I, 370. — I pirati pigliavano caccia contro vento, I, 166, 277.

Cacciata dell'armata nemica dal campo d'operazione, I, 46, 311, 324; II, 44.

Cacciadiavoli, e il suo nome, I, 380. — Ricordato, I, 6. — Ammazza Portondo, I, 162. — Difende la Goletta, I, 418. — Crepa alla cisterna, I, 428.

Cadaveri in mare, II, 126, 378, 412, 414.

Cagliari, centro dell'armata per Tunisi, I, 400, 409, 413.

Calabria e calabresi, disertati dai pirati, I, 384; II, 117, 125. — Fuggono ai monti, II, 178.

Il cap. Moretto calabrese, II, 295.

Luccialì calabrese, II, 371.

Calafatino, il fante del Calafato, II, 185, 233. — Soldo e razione, I, 112.

Calafato, II, 185, 233. — Soldo e razione, I, 112.

Calcese nei docum., II, 157.

Calzette di ferro per la ciurma, II, 160.

Camalì, pirata a Santamaura, I, 37. — Sopracchiamato Aichio, I, 42. — Impiccato al posto, I, 378.

Camerino (da) cap. Tommaso, Varano, II, 282.

Camicie e Camiciuole di ciurma, misure e prezzi, I, 300; II, 162.

Camilli Giorgetto, comito, II, 9.

Camillo da Fabbriano (Gabrielli), II, 23. — Ucciso alla Prèvesa, II, 33.

Campagna di Roma, e guerra combattutavi, II, 274, 285 e seg.

Campagna, navigazione a mare aperto, e tempo che essa dura, v. Armata.

Campagna (da), v. Artiglieria.

Campeschi, fam. forlimp., conte Brunoro, II, 282, 283.

Canali, fam. tern., cap. Cristoforo, II, 22.

Canina Luigi, arch. corretto, II, 318.

Cannone, pezzo della bombarda, cui succede, I, 10, 89. — Nomi bizzarri, i tre generi, e i multipli, I, 90. — Mezzi, quarti, e ottavi, I, 368. — Serpentini e colubrinati, I, 368. — A retrocarica e dodici colpi, I, 90. — Valuta dei cannoni, II, 166. — Cariche sessanta a pezzo, II, 167. — Crepano, II, 189, 239, v. Artiglieria.

Cansacchi, fam. amerin., cap. Stefano, I, 399. — Cap. Tito, II, 96.

Cantàro unità di peso in digrosso, sua valuta, II, 156, 161.

Capitana di Roma, I, 358; II, 380, 411. — Di Francia, I, 351. — Di Spagna, I, 409; II, 97. — Del Fausto, I, 411. — Il fanale, I, 368.

Capitana del Biassa perduta, I, 72. — Del Vettori perduta e riscossa, I, 162, 167. — Del Divizi, item, II, 58, 91. — Di Flaminio, item, II, 412, 414. — Considerazione generale, I, 73.

Capitana di Roma, e suo primo posto, I, 39, 179, 309, 413; II, 41, 97, 183, 355, 369.

Capitano del mare, sua autorità, I, 42, 58, 127, 335.

Cap. (non ammiraglio) il titolo del Doria, I, 290; II, 329. — E del Vettori, I, 127.

Casa militare dei nostri capitani, I, 335; II, 148.

Invidiati ed offesi da Francesi, I, 337. — E da Spagnoli, II, 149.

L'aggiunto di Generale al Salviati, I, 370.

I nostri sempre al primo posto dopo la Reale, I, 39, 179, 309, 413; II, 41, 97, 183, 355, 369.

Capitoli della condotta, v. Documenti.

Capitani di squadra: Lodovico del Mosca, Lorenzo e Girolamo Mutini, Baldassarre, Giovanni e Antonio da Biassa, Paolo Vettori, Andrea e Antonio Doria, Bernardo Salviati, Gentil Virginio Orsini, Marco Grimani, Paolo Giustiniani, Giacopo Ermolai, Bart. Peretti, Orazio Farnese e Francesco de' Nobili, Gianluigi e Girolamo Fieschi, Carlo Sforza, Filippo Orsini, Niccolò Alamanni, Giovanni Moretti, Pandolfo Strozzi, Flaminio Orsini.

Capitani di navigli di linea: Cintio Benincasa, Lorenzo degli Egidi, Gabriele Bonarelli, Galeazzo Fanelli, Melchior Acquieri, Gianbattista Nibbia, Mario Pontani, Francesco Quintili, Marco Feletti, Francesco Bonaldi, Bellisario Ralli, Bastiano Bonaldi, Giovacchino degli Agli, Alessandro Sampieri, Gianbattista Divizi, Almerigo Almerighi, Giovanni Straticopulo, Gianfrancesco Benedetti, Bernardino Londano, Pietro Daltelli, Cristoforo Canali, Luigi Rosa, Antonio Fani, Melchiorre di Belmonte, Pietro Fouroux, Giulio Podiani, Marcantonio Zane, Giannantonio Gigli, Filippo Orsini, Galeazzo Farnese.

Capitani di fanterie imbarcati: Renzo da Cere, Orazio Baglioni, Camillo Gabrielli, Alessandro Tomassoni, Cesare Giosia, Orlando da Salò, Cesare Boccanera, Giangiulio da Terni, Giambattista da Tolentino, Pierfrancesco Corboli, Silvio da Parma, Luigi Raimondi, Miniato Ricci, Girolamo Ludovisi, Giacopo da Nocera, N. Lucidi, Tito Cansacchi, Niccolò da Santogemini, Francesco di Bagno, Marcantonio della Porretta, Aurelio Flacchi, Arrigo Orsini, Astorre Baglioni, Giambattista del Monte, Antimo Savelli, Francesco Andreotti, Ascanio Fiori, Filippo Filippetti, Trajano Biancardi, Luca Signorelli, Ruggero e Grifone degli Oddi, Lodovico Monaldi, N. Ranieri, Camillo Perinelli, Livio Parisani.

Capitolazione di Santamaura, I, 41. — Di Rodi, I, 236. — Di Corone, I, 321. — Di Antirio, I, 327. — Di Tunisi, I, 429. — Di Ostia, II, 310. — Delle Gerbe, II, 401.

Capitoli di condotta, v. Documenti.

Capo di posta, peso e valuta, II, 161.

Cappellani, soldo e razione, I, 142. — Sull'armata e agli Spedali, II, 203, 243, 378.

Cappello Vinc., gen. ven., II, 24. — Chiede batt. alla Prèvesa, II, 51, 55.

Cappelloni pei critici, I, 274.

Cappotto di ciurma, misura, prezzo, I, 300; II, 162.

Cappuccini all'armata, II, 203.

Càrabo dei Pelasghi, I, 84.

Caracca: etimologia, I, 84. — Cinque di papa Giulio, I, 92. — La corazzata di Malta, I, 308.

Caraffa, fam. papale, v. Paolo IV.

Giovanni, duca gen., II, 260, 275.

Carlo, card. per la guerra, II, 275. — Assalito alla Nomentana, II, 302. — Pace di Cave, II, 314. — La tragedia, II, 321.

Carati per la stima dei navigli, II, 165.

Caravella, dim. di Caracca, I, 84.

Carcatura dell'artiglieria, I, 368.

Carica di artiglieria per sessanta tiri a pezzo, II, 167.

Carica, cavo di manovra, e voce di comando, II, 411.

Carichetta, cavetto di manovra, II, 161.

Carlo d'Austria, re di Spagna, eletto imp., I, 167. — Contro Francesi, I, 264. — Contro il Papa e sacco di Roma, I, 287. — Contro i Turchi, per Corone, I, 309. — Per Tunisi, 409. — Per Algeri, II, 97. — Per Afrodisio, II, 179. — Equivoco coi Veneziani alla Prèvesa, II, 17, 68. — Parole e fatti, II, 83. — Rinuncia, II, 275. — Muore, II, 345.

Carrà Maometto, I, 5. — Ucciso a Rodi, I, 378.

Carretto (del), gran maestro a Rodi, fortifica, I, 171.

Marcantonio e suo breve, I, 360.

Federigo col., I, 398. — Muore a Tunisi, I, 418.

Carri di artig., al triplo dei pezzi, I, 12.

Carro dell'antenna, I, 355; II, 155.

Carses (de), cap. a Civ., II, 279. — A Nettuno, II, 295. — A Malta, II, 337.

Carte marine, v. Portolano.

Caruano e suo re, II, 191, 403.

Cassa di artiglieria, v. Affusto e Carro.

Castellammare occupato, I, 285.

Castellani, fam. rom., cap. Lor., II, 294.

Castello Santangelo, rifugio di papa Clemente, I, 288. — Il pentagono disegnato dal Sangallo, ed eseguito da altri, II, 284.

Sannicolò in Rodi, I, 210.

Santelmo, Santangelo, e Sammichele in Malta, II, 364.

Castelnuovo in Dalmazia, preso, II, 78. — Perduto, II, 85.

Castriotto, Giacopo Fusti, arch. ultimo della scuola Urbinate, I, 206.

Castro, di Puglia, preso dai Turchi, I, 434. — Ricuperato, I, 439.

Catena di landre, I, 364.

Di ciurma, I, 365. — Prezzo, II, 160. — D'argento per lusso ai vogavanti, I, 352, 410.

Caterinetta, galèa rom. venduta al Fiesco, II, 132, 134. — Ragione del nome, II, 351. — Scuote tutte le galèe del Doria, II, 138.

Cattaro difeso da' Veneziani, II, 85.

Cavalieri gerosolim., v. Rodi e Malta.

Cavalli imbarcati sulle navi, II, 359. — Sulle tartane, II, 360. — Sbarco e imbarco, I, 403. — Per la lettiga papale, I, 349.

Cavaniglia, fam. napol., Trajano col., I, 328. — cap. Giovanni, 324.

Cave, terra del Lazio, Trattato e conseguenze, II, 314.

Cavetto di posta pel brigantino, I, 368.

Cefalonia, e non mine, I, 14. — Cambiata con Santamaura, I, 54.

Celata, e Morione, I, 110, 297. — Nei docum., I, 366. — Nei ricordi dei contemp., II, 391.

Celle navali, ricordo, I, 196.

Cercamare, uffic., I, 348.

Cerda (della), v. Medinaceli.

Cere (da) Renzo, v. Orsini Lorenzo.

Cerigo, raunanza, I, 35.

Cervantes, com. alla Goletta, II, 206.

Cervia mansueta in Africa, II, 241.

Cesare da Fermo, v. Boccanera e Giosia.

Ceuli Pietro, com., II, 251, 353.

Chiávari occupata, I, 83, 175.

Chiavistello di Tunisi in Roma, I, 430. — E di Afrodisio, II, 246.

Chiesuola per le bussole, II, 163.

Chirioboarda per archibuso, I, 229.

Chirurgo di marina, II, 202.

Cialdi comm. Alessandro, ricordato, I, 27; II, 376.

Cicala, fam. genov. e sicil. Tiene galere del proprio, II, 289. — Cap. Visconte per Tripoli, II, 357.

Ciefut, v. Giudèo.

Cimmeriotti, gente bestiale, I, 438, 444.

Cinquereme nel senso proprio, v. Poliera, I, 410. — Abusivamente per Capitana, I, 409, 412.

Cinquereme del Fausto, I, 411.

Cipro (da) cap Niccolò, II, 23.

Circèo, incontro dei Gerosolim., I, 238. — Pericolo di papa Leone, I, 158.

Ciri Ciro, arch. urbin. detto Scirro, I, 50, 205.

Ciurma da remo: Difficoltà di statisti, I, 24, 303; II, 19.

Forzati, I, 116. — Bonavoglia, I, 298. — Prigionieri, II, 37, 131, 324.

Loro valuta, I, 163, 260; II, 156.

Vitto e vestito, I, 300, 117.

Manette e catene, I, 365; II, 160, 342. — Di argento, I, 352, 410.

A terzarolo, I, 117, 365. — A scaloccio, II, 156.

Civada, vela dismessa, I, 168.

Civitacastellana nel 1496, e sua Rôcca pentagona, I, 51, 62, 205.

Civitavecchia: Suo porto, I, 403. — Costruzione di sei galere, I, 10. — Spedizione all'Elba, I, 16. — Passaggio di papa Alessandro, I, 21. — Spedizione di Levante, I, 42. — Giulio II, la fortezza, I, 63, 408. — Spedizioni contro Francesi in Genova, I, 83, 91, 94. — La darsena, I, 129. — I baluardi, stemmi, e mascheroni, I, 137, 138. — Il tesoro, I, 157. — L'epidemia, I, 159, 261. — Contro Genova, I, 173. — Adriano papa, e le celle, I, 196, 197. — I Gerosolim., I, 239. — Lo Spedale, I, 240, — Di nuovo per Genova, I, 280, 281. — Per Napoli, I, 284. — Resistenza al Borbone, I, 288. — Costruzione di galere, I, 291. — Spedizione di Levante, I, 307. — Soccorso a Corone, I, 339. — Pompe a Marsiglia, I, 347. — Dimora di papa Clemente, I, 359. — Spedizione di Tunisi, I, 402. — Paolo III, I, 433. — Contro Barbarossa, II, 20. — Contro Dragut, II, 87. — Spedizione di Algeri, II, 97. — Cacciata di Barbarossa, II, 117, 125. — Rapina di Giannettino, II, 129. — Vendetta della Caterinetta, II, 135, 137, 351. — Prede in Barberia, II, 173. — Affezione agli Sforzeschi, II, 174, 258. — Spedizione di Afrodisio, II, 186. — Successo delle galere nel porto, II, 258. — Difesa contro Spagnoli, II, 280, 286, 311. — Spedizione di Tripoli, II, 346. — Distruzione alle Gerbe, II, 416.

Feste del ritorno, I, 374.

Le bandiere dei Turchi, I, 375,

I Visconti, I, 157, 159, 407.

Le fortificazioni, I, 64, 138; II, 125, 280.

Le famiglie, v. Andreotti, Anselmi, Biancardi, Bianchi, Bonifazi, Egidi, Filippetti, Fiori, Martinelli, Rocchi, Rossi, Stella, Tomaini, Valtraversa.

Clemente VII, e capitoli col Vettori, I, 242. — Favore al re Francesco, I, 265. — Opposizione all'imperatore Carlo, I, 267. — Soldo al Doria, I, 271. — Guerra a Carlo, I, 279. — Borbone, e sacco di Roma, I, 287. — Difesa dal Doria, I, 288. — Soccorso in Germania, I, 294, 330. — Viaggio a Marsiglia, I, 348, 359. — Comparsa di Barbarossa, I, 385. — Muore, I, 386.

Cleves da Ravestein, I, 14.

Coccinello di manovra, docum., II, 158.

Codimonte, battaglia navale, I, 282.

Coffe da savorra, II, 162.

Collatori delle sartie, II, 157. — Peso e valuta, II, 161.

Colleoni di calcese (traversini), II, 157.

Colonna, fam. rom., suoi feudi alla marina e galere del proprio, II, 288. — Comprate, e vendute, II, 294.

Marcantonio seniore, contro i Francesi, I, 63, 83, 91, 94.

Prospero, Genova, I, 175, 176.

Pirro e Marzio in Germ., I, 296.

Stefano a Portercole, II, 125.

Alessandro con Paolo IV, II, 282.

Pompèo a Malta, II, 366.

M. Antonio il trionfatore, mia riserva, II, 287. — Sue carte marine, I, 36. — Sue galere, II, 288, 294.

Fabrizio, ricordato, II, 294.

Colubrine doppie sulle navi, I, 86.

Comacchio, v. Feletti.

Combattimenti vittoriosi, v. Presa.

Senza costrutto, v. Scaramuccia.

A discapito: di una galea presso Ostia, I, 72. — Della capitana a Piombino, I, 161. — Della capitana alle Gerbe, II, 412. — Della Divizia alla Prèvesa, II, 58.

Comito, primo sottufficiale, soldo e razione, I, 112, v. Camilli.

Commissario, ufficiale di amministrazione, doc., I, 33. — v. Pesaro, Leonini, Ghiberti, Grossi, Ermolai, Vigerio, Ricci, Ceuli e Marano.

Compagna, la Camera del companatico, docum., II, 162.

Compagni, dicevansi i marinari di prima classe, I, 112.

Compagnie, sotto una bandiera di dugentocinquanta teste, II, 213, 231.

Condotta e capitoli dei Capitani, v. Documenti.

Condulmiero cap. Alessandro, sue prodezze col galeone, II, 54. — Lo salva, II, 59.

Congiura del Fiesco, II, 133.

Conserva, e sicurezza, I, 47, 162.

Consigliere, lo stesso che Pilotino, I, 159. — Soldo e razione, I, 112.

Consiglio di guerra a Santamaura, I, 39. — A Codimonte, I, 282. — A Corone, I, 312. — A Tunisi, I, 423. — Il gran consiglio a Corfù, II, 42. — Altri da capo, II, 50, 77. — Alle Secche sulla cap. di Roma, II, 379. — Quivi stesso sulla reale, II, 381. — Ultimo alle Gerbe, II, 405.

Contarini Girolamo ( il Grillo ) al blocco di Genova, I, 83.

Conti, fam. rom., Torquato, II, 282.

Conti Antonio, ing. alle Gerbe, II, 395.

Conti Giacopo, padrone, II, 134, 135.

Contraccivada, I, 168.

Contrammina e teoremi, I, 226. — Pratica in Rodi, I, 226. — Metodi, I, 228.

Contucci Andrea ( il Sansovino ) per papa Giulio, I, 63.

Contumacia, separazione in caso di pèste, I, 375.

Convergenza delle forze, I, 39, 47. — Delle batterie, I, 222.

Conversano Giorgio, ing. col Martinengo, I, 221, 226. — Alla Goletta, I, 420.

Corazzate antiche: le Caracche, I, 308. — Palischermi blindati, I, 314, 318.

Corazzina, I, 110, 297.

Corboli, fam. urbin., cap. Pier Francesco, II, 23.

Corda cotta, v. Miccio.

Cordiniera, I, 366.

Cordino, I, 366.

Corfù, assalita da Solimano, I, 439. — Tutta l'armata in Corfù, II, 41.

Corgnia (della) Ascanio, anfibio, II, 282. — In Ostia, II, 310.

Corneto, e palazzo Vitelleschi, I, 22. — Passata di papa Aless., I, 23, 28.

Corone descritta, I, 312. — Batteria ed assalto, I, 314, 318. — Soccorsa, I, 342. — Perduta, I, 346.

Corrente di deflusso, I, 26. — Correnti ordinarie e straord. portano in deriva, I, 27. — Il flutto sempre corrente, e sempre in deriva, II, 375.

Corsale o Corsaro, non è Pirata, I, 48.

Corsica e Côrsi molestati dai pirati, II, 220. — Prigionia di Dragut, II, 91, v. Latese.

Cortogoli, v. Curtògoli.

Corvèa, v. Giornèa.

Cosimo, duca di Firenze, v. Medici.

Costantinopoli, e la lega, I, 51.

Costiera, per sartia di costa, II, 161.

Costo (di) Niccolò, ing., I, 221.

Costruzione di galèe, esempi di prestezza, I, 68, v. Galèa.

Crespy (di), Pace, II, 126.

Crispi Giovanni, duca dell'Arcipelago, sua lettera, I, 447.

Critiche, v. Storia.

Cuore (del) cap. Stefano, II, 22.

Curtògoli pirata, I, 5. — In Biserta, I, 140. — Assalito, I, 147. — Trama contro papa Leone, I, 158. — E contro il Grammaestro, I, 216. — A Rodi, I, 216. — Fatto principe, I, 237. — Nella prima quadriglia, I, 378.

Curzolari, le isole e il campo della battaglia descritto, I, 325.

Daltelli cap. Pietro, II, 22.

Danaro, v. Amministrazione.

Daramon capitano, II, 279.

Dardanelli di Lepanto, I, 326.

Darsena in Civitavecchia, I, 128. — Documento e scandagli, I, 133. — Epidemia pei fanghi, I, 159.

Dascino, fante del mastro d'Ascia, II, 185, 233. — Soldo e razione, I, 112.

Decadenza, dicevano per Deriva, I, 27.

Declinazione della bussola, e primo segno, I, 36.

Decurioni, v. Visconti.

Deflusso, I, 26.

Deriva, I, 27. — Dicevano Decadenza, Diffalco e Discato. — Diversa da Scarroccio, I, 355.

Deriva, II, 273, lin. 16, leggi: le deriva.

Destre di ormeggio, II, 233.

Detergere remos. Spiegazione, II, 183.

Diario di Roma, I, 305.

Difese in genere, v. Fortificazione.

In specie, di Rodi, I, 217, 258. — Di Corone, I, 310, 346. — Della Canèa, II, 37. — Di Castelnovo, II, 85. — Di Cattaro, II, 86. — Di Civitavecchia dal Borbone, I, 288; e da Barbarossa, II, 117, 123. — E dal duca d'Alba, II, 281, 285. — Di Ostia, II, 300.

Digressioni, v. Storia.

Diritto del due per cento, I, 113, 258.

Dirotta e Dirottare, in disordine e fuori dell'assegno, I, 180.

Disalberare, I, 315, 419; II, 79.

Disciplina: Proibito il traffico, I, 115, 259. — Frenate le rappresaglie, I, 114, 260. — Dogana e polizia, I, 113, 259. — Fede nei patti, I, 324. — Punizione dei caparbi, I, 327, 329, 344; II, 81. — Del resto, v. Religione.

Discordia di collegati, v. Lega.

Diversione, e utilità, I, 330; II, 211, 362.

Divizi cap. Giambattista (ab. di Bibbiena), II, 22. — Cade alla Prèvesa, II, 58. — Ricuperata la galèa, II, 91. — Ma resta in mano al Doria, II, 356, n. 20.

Documenti in genere, v. Archivio.

Ordine di papa Alessandro per costruire sei galere, I, 10. — Dello stesso per vittuaglie, 22. — Lapida del cap. Mosca, 30. — Patente al commiss. Pesaro, 33. — Lapida del medesimo, 33. — Lettera del Pesaro a Rodi, 43. — Pp. Giu. agli Anc. per le galere, 66. — Lo stesso ai med. pel porto, 69. — Capitoli per libertà di mare, 80. — Capitoli del cap. da Biassa, 95. — Specchio dei soldi e razioni, 112. — L'arcivescovo di Spalatro, 118. — Patti per la darsena, 129. — Documenti di lavori, 139. — Papa Leone per la guardia, 141. — Lo stesso per le galere, 144. — Lo stesso pei pirati, 146. — Il car. de' Medici pei pirati, 147. — Lo stesso degli Spagnuoli, 148. — Papa Leone al Fregosi, 152. — Abdallà di Tunisi ai Genov., 153. — Papa Leone al Gallo, 157. — Lapida del Vettori giovane, 159. — Leon decimo al doge ven., 164. — Il Gram. al car. de' Medici, 171. — Medaglie di porto cellulare, 197. — Il Sanudo per Basilio, 202. — Al duca di Ferrara pel med., 202. — Capitoli del cap. Vettori, 242. — Medaglia di Andrea Doria, 265. — Alberetto del med., 273. — Sigillo dello stesso, 289. — Note di vitto e vestito, 299, 300. — Nota dell'armata per Corone, 307. — Brevetto del cap. Salviati, 362. — Inventario delle galere, 363. — Brevetto al cap. Orsini, 393. — Capitoli della condotta, 395. — Lettera di Paolo Giustiniani, 399. — Lapida per l'armata, 406. — Medaglia per la medesima, 406. — Lapida pel chiavistello, 430. — Medaglia per le vittorie, 445. — Breve confid. al cap. Orsini, II, 6. — Perizia delle galere, 7. — Patente al cap. Ermolai, 12. — Capitoli della lega, 15. — Patente al commiss. Grossi, 18. — Patente al com. Vigerio, 19. — Nota dell'armata di Roma, 22. — Lettera ined. dell'Ortiz, 27. — Lettera del Legato al Ricci, 34. — Nota degli alleati a Corfù, 41. — Lettera di Miniato al tes., 69. — Costit. del Pp. per le galere, 110. — Lett. in morte del cap. Peretti, 120. — Lapida del cap. Peretti, 121. — Biglietto di Giannettino, 130. — Somm. tra Farnesi e Fieschi, 132. — Simile tra Farnesi e Orsini, 139. — Altri capitoli coll'Orsini, 140. — Capitoli col cap. Sforza, 150. — Vendita tra Sforza ed Orsini, 151. — Nota sul valore delle galere, 155. — E delle artiglierie, 166. — Bando sopra gli schiavi, 175. — Relaz. del campo di Africa, 207. — Il card. Farnese al Vr. di Sic., 245. — I Lucchesi al Gonzaga, 249. — Orazio Farnese ai Lucchesi, 250. — I Lucchesi ad Orazio, 251. — Il car. Farnese al Tiburzio, 263. — Lapidi Ostien. dell'ass., 307, 308. — Il duca al Fruzasco, 328. — Medaglia di Dragut, 342. — Vendita delle galere farnes., 350. — Nota per Tripoli, 355. — Brani di Stor. arab., 390. — Lett. di Plinio Tomac., 395. — Lett. di Piero Macch., 405.

Domenico da Genova, padrone, II, 10.

Donativo di papa Giulio agli equipaggi, I, 92.

E di papa Clemente, I, 360.

Del Gram. al Benincasa, I, 37.

Ed al Vettori, I, 172.

Doratura, v. Ornati.

Doria, S. E. il Principe ricor., II, 368.

Andrea diverso da Giannandrea, I, 92; II, 366. — Ricupera una galèa romana, I, 165. — Aneddoto con papa Adriano, I, 190. — Chiamato a Roma da papa Clemente, I, 274. — Piglia il comando e vince Barbarossa, I, 277. — Spedito contro Siena, I, 279. — E contro Genova, I, 280. — Alla battaglia di Codimonte, I, 282. — Invasione del Regno, I, 284. — Salva Civitavecchia dal Borbone, I, 288. — Lascia il governo ad Antonio, I, 290. — Si acconcia in Spagna, I, 290. — Spedizione in Grecia, I, 390. — Batte Corone e sua manovra, I, 313. — Ritorna, I, 341. — Perde Corone, I, 346. — E tre galere, I, 347. — A Tunisi, e suo motto, I, 414. — Batte la Goletta colla stessa manovra, I, 419. — Prodezze nell'Adriatico, I, 436. — Lega coi Veneziani, e sua tardanza, II, 25, 39. — Consigli ambigui, II, 42. — Venticinque di rinforzo, II, 44. — Scaramucce inutili, II, 47. — Fuga vergognosa, II, 56. — Accuse, difese e sentenza, II, 62, 67. — Attacco di Castelnovo, e rottura della lega, II, 81. — Liberazione di Dragut, II, 93. — Rovina di Algeri, II, 102. — Ratto delle galere farnesiane, II, 128. — Perdita delle sue, II, 137. — Fatti di Afrodisio, II, 193, 239. — Puntella la Spagna, II, 313. — Beffato da Dragut, II, 341. — Manda il nipote a Tripoli, II, 367. — Muore, 412.

Antonio, cap. pel cugino, I, 276, 296. — Suoi scritti, I, 296. — Comparsa a Genova, I, 292. — Impresa di Grecia, I, 318. — Lascia Roma e volge a Madrid, I, 331.

Giannettino, confuso col figlio, II, 45. — Prima scaramuccia alla Prèvesa, II, 47. — Piglia Dragut, II, 90. — Sferra in Algeri, II, 105. — Ruba le galere farnesiane, II, 129. — Perde le galere e la vita, II, 137.

Giannandrea, confuso col padre e collo zio, I, 272; II, 45. — Prima mostra a Messina, II, 367. — Autobiografia, II, 368. — Infermo, II, 370, 379, 402. — Dà il nome al baluardo, II, 393. — Chiede la partenza, II, 402. — Consente all'ultima fermata, II, 407. — Fugge, e si salva in Sicilia, II, 416. — Suoi disordini di Cipro approvati a Madrid, II. 27.

Cristoforo a Corone, I, 310.

Filippino alla Pianosa, I, 160.

Franco alla Prèvesa, II, 54.

Imperiale, ricordato, I, 289; II, 128.

Lamba a Corone, I, 319.

Marcantonio a Civit., I, 360.

Dovunque, II, 148, lin. 19; leggi: dovunque andasse.

Draghetto dell'archibugio, II, 169.

Dragut, pirata, I, 5, 378. — Caposquadra alla Prèvesa, II, 49. — Diserta l'Italia, II, 87. — Preso alla Girolata, II, 91. — Liberato dal Doria, II, 93. — Fa beffe d'Andrea, II, 341. — Diventa peggiore, II, 94, 178. — Cacciato dai Sardi, II, 210. — Cacciato da Afrodisio, II, 177. — Suoi stratagemmi alla Vallona e alle Gerbe, II, 362, 370. — Suoi dialoghi, II, 92, 341. — Sua fisonomia, II, 342.

Echinadi, v. Curzolari.

Egidi (degli), fam. civit., cap. Lorenzo, I, 58. — Ricordi, II, 258.

Elba, isola, presa dal Mosca, I, 18. — Visitata da papa Alessandro, I, 24. — Le due armate, I, 87. — Minacciata da Barbarossa, II, 123.

Enrico II di Francia chiama i Turchi, II, 249. — Fa lega con Pp. Paolo contro la Spagna, II, 275, 311. — Richiama i Turchi, II, 343.

Epidemia pei fanghi della darsena, I, 159. — Contemplata nei Capitoli, I, 261, v. Mortalità.

Equilibrio, teoria, II, 14. — Applicazione, II, 343.

Equipaggio, v. Armamento.

Ermolai cap. Giacopo, II, 7. — Patente, II, 12.

Esclamazione delle diverse nazioni nell'attaccare, I, 421; II, 214, 239.

Del cap. Salviati, I, 355. — Dello Spagnuolo in Ostia, II, 306.

Espinosa, v. Arduini.

Este (da), il duca Alfonso, e il card. Ippolito alla Polesella, I, 75.

Eucaristia a bordo, I, 348.

Fabriano, v. Gabrielli.

Fame al campo d'Algeri, macellano i cavalli, II, 107.

Fanale, o fanò, segno di comando, I, 368; II, 22.

Fanelli, fam. ancon., cap. Galeazzo, I, 59, 66.

Fani, fam. bolog., cap. Antonio, II, 180, 243, 264.

Fano pei forni delle armate, II, 18, 20.

Fanò, v. Fanale.

Fanteria di marina, v. Milizia.

Farnesi, fam. papale, v. Paolo III.

Pierluigi compra le galere, II, 122. — Gli sono rapite dal Doria, II, 129. — Le vende al Fiesco, II, 132. — Docum., II, 350. — Ucciso, II, 138.

Ottavio co' Rom. in Algeri, II, 95.

Orazio, capitano della squadra col Nobili, II, 128. — Vende le galere, all'Orsino, II, 138. — Naufragio collo Sforza, II, 249. — Sue lettere, e guerra di Parma, II, 250. — Muore in Francia, II, 139.

Galeazzo e sue notizie, II, 348. — Prigione alle Gerbe, II, 410. — Si riscatta coi Veneziani, II, 416.

Fascina pei lavori di campo, I, 324; II, 206, 397.

Fatto elemento primo della storia, II, 335. — Parole e fatti di certuni, II, 83 ( Natura pronta a dir bene e far male. Giustinian., Disp., II, 139).

Fausto Vittorio, e cinquereme, I, 411.

Feletti, fam. comac., cap. Marco, II, 22.

Femminella del timone, I, 365.

Fenomeni del mare, v. Mare.

Ferdinando d'Aragona finge crociata, assalta il nipote, e piglia il Regno, I, 14. — Politica tradiz., II, 68.

Ferdinando d'Austria, imp., II, 275.

Fermo, v. Boccanera e Giosia.

Ferramolino Lodovico da Bergamo, arch. in Africa, II, 199, 206, 224. — Ucciso alle trincere, II, 225. — Per la Sambuca, II, 227.

Ferrara e battaglia fluviale alla Polesella, I, 75, v. Alberghetti, Este.

Ferro dicono i marinari per àncora, I, 369; II, 156.

Festa, v. Saluto.

Fiamma, specie di bandiera lunga e sottile, II, 156, 163.

Fieschi, fam. gen., entrano contro i Fregosi, I, 173.

Gianluigi compra le galere dei Farnesi, II, 132, 350. — Congiura e morte, II, 133.

Girolamo gov. le galere, II, 134.

Scipione con due galere, II, 280.

Filippetti, fam. civit., cap. Filippo, II, 180, 243, 258. — A Lepanto, v.

Filippo II di Spagna comincia contro il Papa, II, 275. — Abbatte la baronia, II, 321. — La tragedia dei Caraffi, II, 321. — Manda in Africa il Medina, II, 354. — Simile al padre rispetto ai Ven., II, 17, 68, 83.

Filosofia della storia, v. Storia.

Fionco, drizza leggiera, II, 157. — Peso e valuta, II, 161.

Fiori, fam. civitav., II, 258. — Marino, II, 23. — Cap. Ascanio a Malta (Bosio, III, 664, lin. 18). — A Lepanto, v.

Fiorino di Firenze, e sua valuta, II, 167.

Firenze, e il duca Alessandro, I, 292. — Il duca Cosimo contro Civitavecchia, II, 286. — E contro Ancona, II, 313. — All'impresa di Afrodisio con Giordano Orsini, II, 179, ec. — Alle Gerbe con Niccolò Gentili, II, 354, v. Appiani, Medici, Strozzi, Vettori.

Fiacchi, fam. sutr., cap. Aurelio, in Algeri, II, 96. — Alla guerra di Parma, II, 249.

Flutto, onda fluente, II, 375.

Focaja, la pietra dell'acciarino, v. Archibuso.

Foligno, v. Gigli.

Forcina da moschetto, prezzo, II, 159.

Foresta cap. Pierone, II, 324.

Fornari, fam. genov., cap. Domenico a Rodi, I, 219.

Fortezze e fortificazioni, novità nel mio trattato, I, 138.

Le tre scuole, I, 205. — Le torri pentagone, II, 196.

Descritta la fortezza di Santamaura, I, 38, 48, 51. — Di Civitavecchia, I, 64, 408; II, 281. — Di Rodi, I, 200. — Di Corone, I, 312. — Dei Dardanelli di Morèa, I, 326. — Della Goletta e Tunisi, I, 416, 429. — Della Prèvesa, II, 30. — Di Afrodisio, II, 195. — Di Ostia, II, 297. — Di Malta, II, 364. — Delle Gerbe, II, 394. — Di Roma, I, 434; II, 284.

Luoghi forti occupati nelle guerre intestine ed esterne, come alle voci seguenti: Afrodisio, Antirio, Biserta, Castellammare, Castelnovo, Chiavari, Corone, l'Elba, Genova, le Gerbe, la Goletta, Lerici, Mola di Gaeta, Monastero, Orbetello, Patrasso, Piombino, Ponza, Portercole, Portofino, Rapallo, Salerno, Sestri, Sorrento, Spezia, Talamone, Tunisi.

Forzati al remo, I, 21, 116, 256. — Vitto e alloggio, I, 117. — Vestito, I, 300.

Fosso interno tra due muri, utilità e sistema, II, 196.

Fouroux cap. Pietro, II, 280. — Vicende e fine del ventur., II, 330, 337.

Francescani, capp. all'armata, II, 203.

Francesco di Giorgio, v. Martini.

Francesco primo re di Francia, emulo di Carlo d'Austria, e sue prime guerre in Italia, I, 167. — Prigione a Pavia, I, 261. — Ripiglia la guerra, I, 266. — Le nozze di Marsiglia, I, 353. — A diletto sulle galere romane, I, 354. — Congresso di Nizza, II, 25. — In lega coi Turchi, I, 432; II, 114. — Muore il 31 marzo 1547.

Francia e Francesi, v. Luigi XII, Francesco I, Enrico II.

Coi Papi, I, 70, 146, 278; II, 280.

Contro i Papi, I, 81, 173.

Contro i Turchi, I, 146.

Coi Turchi, I, 432, 445; II, 114, 126, 178, 248, 251, 343.

Coi Sanesi per la Repub., II, 251.

Coi Farnesi contro Austr., II, 248.

Frangente, il basso dove l'onda si rompe, e l'onda stessa rotta, II, 375.

Frangipani, fam. rom. e bar., della Tolfa.

Francesco perde una gamba ad Ostia, II, 300, 303, 305.

Pietro conte di S. Valentino a Corone, I, 321.

Scipone colon. in Africa, II, 355.

Freducci, v. Uffreducci.

Fregata, piccolo bastim. da remo, I, 293. — Le quattro dell'Armata, II, 23. — Una riscossa dallo Sforza, II, 221.

Fregosi, fam. genov., insieme coi Rovereschi cacciano gli Adorni e i Francesi, I, 83, 91, 94.

Uniti coi Francesi, cacciati dagli Adorni e dai Medici, I, 173.

Fregosi ed Adorni cacciati dai Doria e dagli Austr., I, 280, 290.

Aurelio coi Farnesi contro Spagna, II, 249.

Federigo in Africa, I, 145.

Frodatori a metà, I, 98. — A un quarto, I, 245.

Fumo nelle battaglie di mare e di terra, I, 283, 421.

Fuoco di artiglieria, incrociato e convergente, I, 222. — Lavorato, I, 224. — Fuoco morto, II, 170.

Fusta, piccolo bastim. da remo, I, 293. — Tre per la guardia, I, 8. — Tre di Dragut prese alla Girolata, II, 90. — Altrettante prese a Scirocco, II, 113.

Fusti, v. Castriotto.

Fusto (per scafo di galèa nuovo e disarmato), II, 151, 289.

Gabbia, vela, I, 168, 308. — Alberi e Pennoni, II, 102.

Gabbia (piattaforma, oggidì Coffa). — Artiglierie minute, I, 169, 308, 317.

Gabrielli, fam. fabrian., cap. Camillo, II, 23. — Ucciso alla Prèvesa, II, 33.

Gaddalì, pirata, I, 5, 378. — Piglia il Vettori, I, 161. — Preso dal Doria, I, 167.

Galèa (etimol. e descr, v. Medio èvo). — Diversa dalle antiche poliremi, I, 412; II, 97. Costruzione celere, I, 68.

Valuta, II, 155, 164, 168.

Artiglierie di prua e sui fianchi, I, 166, 368, 441.

Equipaggio, I, 112, 258, 297; II, 40, 46.

Remeggio a scaloccio, II, 156. — E a terzarolo, I, 117, 365.

Ciurma di sforzati o di bonavoglia, I, 165, v. le due voci.

Spesa mensuale, I, 112, 298.

Private di famig. rom., II, 289.

Comprate e vendute, II, 122, 132, 139, 151, 291, 294, 338.

Lodate da stranieri, I, 354 e segg.

Galèe, bastim. di linea, I, 297, 410; II, 357. — Anche sull'Oceano, II, 358.

Sei costruite in Civit., I, 9, 10.

Due in Ancona, I, 31.

Dodici per Santamaura, I, 31.

Sei in Ancona, I, 66.

Una presa dai pirati, I, 72.

Sei perdute, e tre ricuperate, I, 73.

Diciotto prese sul Po, I, 76.

Sei contro i Francesi, I, 83.

Altre nove, I, 91, 94, 173.

Diciannove a Biserta, I, 147.

Una genovese ricuperata, I, 151.

Una presa da Gaddalì, I, 161.

La stessa ricuperata, I, 167.

Quattro per papa Adriano, I, 179.

Dieci in crociera, I, 276.

Alla battag. di Codimonte, I, 283.

Tre costruite in Civitav., I, 291.

Dodici armate per Corone, I, 306.

Sedici pel soccorso, I, 339.

Sedici a Marsiglia, I, 348.

Dodici armate per Tunisi, I, 399.

Tre nuove in Calabria, I, 384.

Sei a battere la Goletta, I, 419.

Sei nella Puglia, I, 435.

Trentasei per la lega, II, 22.

Una presa da Dragut, II, 58.

E ricuperata, II, 91, 356.

Sette contro Dragut, II, 91.

Sei ad Algeri, II, 98, 102.

Tre a Metellino, II, 117, 119.

Quattro dei Farnesi, II, 122.

Quattro rapite da Giann., II, 129.

Tre in Africa, II, 131.

Quattro al Fieschi, II, 132, 350.

Una sopra ventidue, 135, 137.

Tre comprate dall'Orsino, 139.

Una messa sul cantiere, 141.

Quattro dello Sforza, 151.

Tre al gran corso, 173.

Tre al Monastero, 179.

E ad Afrodisio, 192.

Una di scorta ai malati, 207, 221.

Due in Civit. tolte ai Franc., 258.

Due naufragate a Viareggio, 249.

Due in Francia col Caraffa, 270.

Quindici in Civitavecchia, 279.

Cinque dei Borromei, 289.

Sette dei Colonna, 291.

Quattro dei Vaccari, 293.

Una rapita dal Moretto, 327.

Una contro al rapitore, 330.

Due a Malta pei prig., 337, 338.

Tre per Tripoli, 346.

Due perdute alle Gerbe, 410.

L'ultima in combattimento, 412.

Galeazza, accr. di galèa: una armata da papa Giulio, I, 92.

Galeone, legno misto: descrizione, I, 168. — Due di papa Alessandro, I, 8, 18. — Tre di papa Leone, I, 168. — Due a Corone, I, 341. — Uno del Condulmiero alla Prèvesa, II, 54, 70. — Uno di Franco Doria, II, 54. — Uno per ospedale, II, 378.

Galeotta, dim.: Dodici prese a Santamaura, I, 40. — Due a Gianutri, I, 263. — Una al pirata Scirocco, II, 113.

Due di Luccialì alle Gerbe, II, 370.

Gallerie sotterranee per mine e contrammine, I, 226.

Sopra terra per ponti di assalto, II, 224.

Galletti Pierluigi, sue schede alla Vaticana, ripetute dal Borgia in Propaganda, I, 10, 66, 69, 96, 129, 242, 362, 392; II, 109.

Galli Matteo, bombardiere, I, 134.

Garde (de la) attacca Nettuno, II, 295. — Rivede la spiaggia, II, 298.

Gavitello di ormeggio, v. Boga.

Gazzette antiche, v. Avvisi.

Genealogisti, II, 277, 347, 349, v. Storia.

Generale del mare, titolo supremo nel cinquecento, e più che ammiraglio, I, 42, 58, 127, 335. — Così al Doria per la Spagna, al Salviati per Roma, e allo Strozzi per Malta, I, 370; II, 329. — Al Cappello per Venezia, II, 24.

Genga Girolamo, ing. scuola urb., I, 60. — Termina il periodo, I, 206.

Genova e Genovesi. La bandiera, I, 413. — Tenuta degli Adorni, impugnata dai Fregosi e dai Rovereschi, I, 83, 91, 94, 280. — Tenuta dai Fregosi e impugnata dagli Adorni e dai Medicei, I, 173. — Tenuta dal Doria contro ambedue coll'ajuto austriaco, I, 290. — Impugnata dal Fiesco contro tutti e tre, II, 133.

Spedizione di Biserta coi Romani, I, 145. — Accoglienza a papa Adriano, I, 193. — E a Carlo di Austria, I, 293. — Raunanza per Tunisi, I, 400. — Finisce la forza militare della Repubb., v. Doria.

Gentili Niccolò coi Fiorentini in Africa, II, 354.

Gentiluomini al seguito del cap. Salviati, I, 335. — E dello Sforza, II, 148.

Gentiluomini di poppa, v. Nobili.

Geogr. e nomi dei luoghi, v. Portolano.

Gerbe (delle), isola descritta, II, 382. — L'acquata, II, 372. — Battaglia delle Cisterne, II, 388. — La nuova fortezza, II, 394. — Distruzione dell'armata, II, 409. — Piramide di teschi, II, 416.

Germa, navetta da carico tra i Levantini, II, 370.

Germania e Tedeschi, v. Massimiliano, Carlo, e Ferdinando. — Contro Veneziani, I, 70. — Contro papa Giulio, I, 81. — Al sacco di Roma, I, 286. — Soccorso diretto contro i Turchi, I, 295. — E per diversione dal mare, I, 330. — Fanterie in Africa, I, 409; II, 98, 397.

Gerosolimitani, v. Rodi e Malta.

Gesuiti cappellani, all'armata, II, 203.

Gherlino, cánapo di posta e di rimburchio, I, 86; II, 232.

Ghiaccio e Ghiacciare, acqua gelata, II, 173. — Non si confonda (Medio èvo, I, 205), v.

Ghiberti Francesco, commissario, I, 92.

Ghindare, I, 367; II, 157.

Giaccio, lo stesso che Aggiaccio, v.

Giambattista da Tolentino, II, 23.

Gigli Giannantonio da Foligno, II, 148.

Gioeni siciliano, ing. a Rodi, I, 199. — Suo modello, I, 214.

Gionus-bey cacciato in terra di Cimmeriotti, I, 438.

Giornali e giornalisti, v. Avvisi.

Giornèa, sopravveste militare di fatica e la comandata istessa, per fascina, I, 324; II, 209 e segg. — Per fortificazione, II, 397.

Giosia, fam. ferm., cap. Cesare, II, 23. — Ucciso a Castelnuovo, II, 80.

Giovanni da Milano padrone, II, 9.

Girolata in Corsica e prigionia di Dragut, II, 91.

Giubilèo, e guardia del mare ai pellegrini, I, 7; II, 176. — Esteso al campo di Afrodisio, II, 203. — E delle Gerbe, II, 378. — Opere dei pirati durante il giubilèo, II, 218.

Giudèo (Sinàm, Ciefùt pascià), sue notizie, I, 5, 263, 379. — Toltegli due galeotte a Gianutri, I, 263. — Piglia tre galere al Doria, I, 347. — Difende la Goletta, I, 418. — Impedisce la strage in Tunisi, I, 426. — Principe delle Gerbe, I, 428. — Ammiraglio del mar Rosso, muore di gioja, II, 124.

Giulio II, e suo carattere marino, I, 59. — Fortezze a Perugia, a Bologna, e a Civit., I, 61, 63. — Contro la baronìa, I, 60. — Lega di Cambrè, I, 70. — Pace coi Veneziani e libertà del mare, I, 80. — Contro i Francesi di Genova, I, 83, 91, 94. — Capitoli col Biassa, I, 95. — Concilio di Laterano, e discorso dei Turchi, I, 117. — Muore, I, 119.

Giulio III apre il giubilèo, II, 176. — Confer. lo Sforza, II, 177. — Spediz. di Africa, II, 179. — Muore, II, 255.

Giunchi per garzette alle vele, II, 61.

Giuochi d'azzardo nel cinquec., I, 303.

Giustiniani, fam. ven., cap. Paolo, I, 397. — Arma nove galere, I, 399. — Sua lettera, I, 399. — Sua perizia, II, 9. — Alla Prèvesa, II, 22. — Cap. Luigi, II, 22.

Goletta (la), sforzata per ricuperare una galera, I, 151. — Descritta, I, 415. — Assedio e assalto, I, 418, 421. — La nuova fortezza degli Spagnoli, biasimata dal de Marchi, I, 429.

Gòmena negl'inventarî, I, 367. — Peso e prezzo, II, 161. — Abbozzarla per tempesta, II, 103. — E per battaglia, II, 234, 402.

Gomenetta, dim., I, 367; II, 161.

Gonsalvo di Cordova, sua finzione di crociata, I, 14. — Finge, non mina, alla Cefalonia, I, 15. — Piglia il Regno, I, 16. — Disciplina le fanterie spagnuole, II, 217, 238.

Gonzaga, fam. mant., Francesco, I, 63.

La Giulia, I, 4, 385.

Ferrante a Corfù, II, 28. — Corrispond. con Muleasse, II, 403.

Vespasiano ad Ostia, II, 304.

Andrea, col. e comand. il convoglio alle Gerbe, II, 355, 393.

Governativa, v. Marina.

Govone, camera di sotto, II, 259.

Grabbie, i pali a capriolo per distendere la tenda, II, 341.

Granuela serve all'istessa stregua Carlo e Filippo, II, 17.

Gravina o Pie' di porco, II, 160.

Greci, sempre contro Turchi, e favorevoli alle nostre spedizioni, I, 317, 327, 439.

Grido di guerra, v. Esclamazione.

Grillo, v. Contarini.

Grimani patriarca, Legato all'armata, II, 19. — Tenta la Prèvesa, II, 30. — Libera la Canèa, II, 34. — Chiede battaglia, II, 55. — Sua lettera inedita, II, 34. — Si ritira, II, 81.

Grippia semplice e da collo, I, 367.

Grippo, specie di bastim. usato per spedale, II, 204, 207, 378.

Gritti cap. Giovanni, II, 22.

Grossi Girolamo, collaterale, II, 18.

Grubissich cap. A., senza saperlo, ripete la bussola pelasga, I, 188.

Guardia alla Spiaggia per mare, I, 7, 95, 242, ec. — Per terra, I, 141, ec. — Guardia ai passi dal mare, I, 41, 46, 48, 321; II, 33.

Guardia del corpo dei generali, del mare, I, 335; II, 148.

Guardia nobile del Papa, primo impianto, II, 285.

Guardia civica in Roma, II, 283.

Guasgoni, soldati ausiliari venuti di Francia, II, 283, 322.

Guasgoni cap. Giovan Vincenzo, II, 282.

Gubbio (da) cap. Antonio, II, 249.

Guerra di campagna, II, 274, 258, ec.

Guerre di mare, v. Armata.

Grido di guerra, v. Esclamazione.

Haidino Caramano, v. Cacciadiavoli.

Hassan-agà, v. Assano.

Hermosilla, cap. spagnuolo, I, 343.

Homer-Aly, v. Omèr.

Hyères, isole di Provenza, I, 186, 188.

Ial, v. Jal.

Idrografia, v. Portolano.

Imbarcazione, v. Palischermo.

Imbarco sotto il fuoco del nem., II, 33.

Imbronzare, fornir di bronzi il calcese e le taglie, doc., I, 365.

Imparzialità di storico, I, 319.

Incaglio di Carlo, imp. a Portofarina, I, 414.

Incerata, doc., II, 159.

Incontro, v. Saluto.

Ingegnere militare, v. Architetto.

Ingresso violento nei porti nemici, I, 94, 151, 341; II, 232.

Inondazione, v. Tevere.

Interzare, parlando di remeggio, II, 37.

Intugliare, parlando di rimburchi, I, 86.

Inventario di navigli, I, 364; II, 7, 155.

Di artiglierie, I, 11, 368; II, 166.

Ionus bey, v. Gionus.

Isle (L') Adam, v. Lilladamo.

Isola Sacra, v. Tevere.

Isole minori deserte pei pirati, I, 186; II, 88. — In esse costoro dividevano le prede, II, 89.

Italia e Italiani, Mar. pregiati e ricerchi in ogni parte, I, 355; II, 289, 358.

Ingegneri negli eserciti di tutte le nazioni, I, 205; II, 396.

Soldati valenti negli assalti, II, 238, 303.

Per le fazioni di mare, v. Armata.

Pe' nomi de' luoghi, v. Portolano.

Per l'interno, v. le div. città.

Per tutto il resto, v. Francesi, Spagnuoli, Turchi, e Pirati.

Jal Augusto, corretto per la manovra nautica a Corone, I, 313. — Ripetuta alla Goletta, I, 419. — Ed a Castelnovo, II, 79.

Ricordato per l'autobiografia di Giannandrea Doria, II, 368.

Jonus-bey, v. Gionus.

Kaireddin, v. Barbarossa.

Kairewan, v. Caruano.

Kamal-rais, v. Camalì.

Karà-Mahmud, v. Carrà.

Kurdogli, v. Curtògoli.

Labbacco, v. L'Abaco.

Lampionetti di corsia e di cerca, II, 162.

Lampioni di burrasca, II, 162.

Lapida, v. Documenti.

Latese Francesco di Corsica, ajutante del Martinengo, I, 221.

Latina o la Trina, v. Vela.

Laynez p. Giacomo, gesuita, cappellano maggiore in Africa, II, 203.

Lazzaretto, spedale di appestati, I, 376.

Lega contro Turchi e pirati, I, 7, 118. — Solenne di Roma, Venezia, e Madrid, II, 15. — Difficoltà sempre simili, e sempre dall'istessa parte, I, 148, 345; II, 17, 68, 83. — Prova e controprova, II, 17.

Lega di Cambrè, I, 70. — Lega imp., I, 173. — Lega di Cognac, I, 266.

Legato, dignitario ecclesiastico sull'armata, uso comune, I, 32.

Il car. d'Aubusson, I, 8, 33, 37, 51.

Il vescovo Fregosi, I, 145, 152.

Il patriarca Grimani, II, 19, 81.

Leno Giuliano, arch. rom., I, 62, 278.

Leonardo da Firenze, bombard., I, 134.

Leone X, e gli uomini del suo secolo, I, 125. — La darsena, I, 129. — Le fortificazioni, I, 136. — Spedizione di Biserta, I, 144. — Suo rischio alla marina, I, 158. — Riscatta il Vettori, 163. — Tre galeoni a Rodi, I, 168. — Caccia i Francesi dall'Italia, 173. — Muore, I, 176.

Leonini ves. Angelo, commissario, I, 31.

Lepanto, golfo e castelli, I, 326. — Il sito della grande battaglia, I, 325. — Storia dimostrata a prova e controprova, II, 17, 68, 84, 86. — Per le citazioni, v. Indice di quel vol.

Lepre, e fare orecchie di Lepre, dicono per fuggire in poppa colle penne a rovescio, II, 65.

Lerici occupata, I, 175.

Leucade, v. Santamaura.

Libertà del mare pattuita dai Ven., I, 80.

Lilladamo Filippo, gram. a Rodi, I, 216. — Insidiato da Curtògoli, I, 216. — Difende la piazza, I, 219. — Capitola, I, 236. — La partenza, I, 237. — Incontrato al Ciricco, I, 238. — A Malta, I, 293.

Lira e fiorino, valore, II, 167.

Livorno e papa Clem., I, 348. — Per le galere, v. Firenze.

Londano cap. Bernardino, II, 22. — Ucciso alla Prèvesa, II, 32, 80.

Lorenzo da Perugia, II, 282.

Lucca, abboccamento dell'Imp. e del Papa, II, 97. — Somministra munizioni di guerra, II, 231. — Ombre pel naufr. dello Sforza, II, 249.

Luccialì, pirata e rinnegato, I, 5, 378; II, 177, 371. — Prima comparsa alle Gerbe, II, 370. — Maneggi a Costantinopoli, II, 400. — Distrugge l'armata cristiana, II, 408.

Lucidi, fam. rom., cap. N., II, 96. — Bravura, II, 101.

Ludovisi, fam. rom., cap. Girol., II, 23.

Lufty-bey a Corone, I, 340. — In disgrazia, I, 376.

Luigi XII di Francia, sotto colore di Crociata, assalta il Regno, I, 14. — Cacciato dagli Spagnoli, I, 15. — Contro i Veneziani, I, 70. — Contro papa Giulio, I, 83, 91, 94.

Luoghi, e nomi locali, v. Portolano. — Luoghi e piazze attaccate, v. Assedio, Assalto, e Fortezze.

Lupo, e Buche di lupo, I, 320.

Lutto navale pel Mosca, I, 29. — Pel Vettori, I, 267.

Macchina, v. Barca, Sambuca, Scala, Scalone.

Machiavelli, fam fior., cap. Piero, in Africa, II, 356. — Lettera, II, 405.

Maestra, vela, antenna, albero, e pennone, I, 365. — Misura e valuta, II, 155, 160.

Magalotti Cesare, e suo Mss., I, 186.

Magliana, castello di Roma, I, 156, 176.

Mahadia, v. Afrodisio.

Malaspina cav. Ippolito, col. all'impresa di Tripoli, II, 355.

Malta, in feudo ai Cavalieri, I, 293. — Le proposte diverse, I, 241. — Descrizione dell'isola, II, 364. — Ricordi dell'assedio, II, 366.

Risse dei cavalieri: pel Salviati, I, 336; per lo Sforza, II, 149; pel Moretto, II, 333.

Concorso in tutte le fazioni maggiori, v. Armata.

Malvezzi, fam. bol., cap. Lucio, I, 63.

Mamì-rais, ajutante di Barbarossa, I, 382. — Prig. dell'Orsino, II, 91.

Mandracchio, il porto dei piccoli legni, II, 296.

Manette per la ciurma, II, 160. — Disegnate nella Medaglia, II, 342.

Mángano (del) cap. Battista, II, 23.

Maniche (dicevano) per catena di archibugeri a branchetti fuori delia linea come bersag.; I, 328; II, 215, 386.

Maniglia, II, 343, v. Catene e Manette.

Manovra nautica per discagliare un naviglio, I, 414. — Per tempesta sull'áncora, II, 102. — Far vela a un tratto di scotta, II, 61 — Fuggire in poppa a orecchie di lepre, II, 65. — Orzeggiare in caccia, II, 410. — Stringere il vento colla marèa, I, 357.

Per le manovre militari, v. Tattica, e Strategia.

Mantelletti per le vele, doc., II, 160.

Marabuttino, dimin., Misura e valuta, II, 160.

Marabutto, vela, II, 155. — Misura e valuta, II, 160.

Marangone, II, 108, 329.

Marano Anton Maria, com., II, 351, 353.

Marcantonio della Porretta, II, 96,

Marchesini Alessandro, scrivano, II, 23.

Marchi (de) cap. Francesco, biasima l'esagono della Goletta, I, 429. — Disegna l'assedio di Malta, II, 366.

Marchisio Antonio, arch. in Civ., I, 136.

Marco, vesc. di Sinigaglia, v. Vigerio.

Mare e sua libertà, vendicata da papa Giulio, I, 80.

Dominio usurpato dai Turchi alla Prèvesa, II, 60. — E alle Gerbe, II, 417.

Mare e fenomeni studiati dal vero, I, 183; II, 104. — Il deflusso, I, 26. — La deriva, I, 27. — Lo scarroccio, I, 355. — La risacca, I, 26. — La scia, I, 181. — La prora fluida, I, 183. — La tempesta all'ancora, II, 102. — La buriana, I, 184. — La bonaccia, I, 179. — Flutto e frangente, II, 373. — Quiete alle seccagne, II, 374. — Profondità proporz. al terr., I, 313.

Marèa nel Tirreno misurata nel cinquecento, I, 132. — Stringere il vento colla marèa, I, 357.

Maricino, ondeggiamento al lido coi venti di terra, II, 375.

Marina ( add. sostantivato ), il mare e le sue attenenze: v. Armata, Battaglia, Capitani, Costruzione, Fortificazione, Porto, Tattica, ed ogni altra attenenza.

Marina e magisterio degl'Italiani, I, 355; II, 289, 358. — La marina per diversione salva dai Turchi la Germania e l'Ungheria, I, 330. — Salva la Puglia, I, 439.

Marina militare, oltre la vela, vuole il motore libero, I, 297, 410; II, 361.

Marina governativa, I, 16, 60, e per tutto. — Fine della venturiera, II, 323, 335, 339.

Marina romana, per tutto, specialmente il generoso carattere, I, 430; II, 91, 247. — Lodata in Francia, I, 353, 358. — Richiesta in Spagna, I, 295, 330, 398; II, 13, 95, 179, 346. — Bravura suprema in Algeri, II, 106. — Sola in un anno contro i Turchi, II, 119. — Sola in batt. alle Gerbe, II, 412.

Marinare, e Ammarinare, I, 374; II, 325.

Marinari delle varie classi, parte scempia e doppia, I, 111. — Vestito, I, 110. — Soldo e razioni, I, 112, 299. — Numero per ogni naviglio, sulle galèe, I, 112, 258, 297; II, 40, 46. — Sulle navi, I, 307, 308; II, 41, 359. — Primi di ogni milizia, I, 219, 318, 421; II, 80.

Marineria, soltanto l'arte e le persone di mare, v. Capitani, Marinari, e Nautica.

Maroso, Onda massima e propria solo del mare, II, 103.

Marsiglia, feste a papa Clemente, I, 351. — E al pirata Barbarossa, II, 118.

Martelli cap. Baccio, II, 280.

Martinelli, fam. civ., Antonio, II, 238.

Martinengo (da) Gabriele Tadini, ing. a Rodi, I, 221. — Suoi fatti, I, 227. — Colpito in un occhio, I, 229.

Martini Francesco di Giorgio, arch., capo della scuola urbinate, I, 50, 205. — La prima mina, I, 52, v. Promis.

Mascellare, sorta di taglia, II, 158.

Mascheroni di bronzo per ormeggio in Civitavecchia, I, 139.

Maschio da schifo per salpare, II, 158.

Massimi, fam. rom., Giulio, impresario della darsena, I, 129.

Domenico capitano, II, 303, 305.

Massimiliano imp. contro Veneziani, I, 70. — Contro papa Giulio, I, 81.

Mastio della fortezza di Civitav. ottagono fin dal principio, I, 64, 408.

Mastro d'ascia, II, 185. — Soldo e razione, I, 112.

Mattaffioni, doc., I, 366. — Talvolta col giunco, II, 61.

Maura (santa) per isola e fortezza, v. Santamaura.

Maury, ricordato, I, 27.

Mazzacane cap. Leone, ucciso ad Ostia, II, 305.

Mazzaprete, spezie di taglia, II, 158.

Mazzetta, II, 160.

Medaglie, descritte, del Porto cellulare, I, 197. — Di Andrea Doria, I, 275. — Di Paolo III per l'armata, I, 406. — Dello stesso per le vittorie, I, 445. — Il busto di Dragut, II, 342.

Medici, fam. pap., v. Clemente VII, Leone X, e Pio IV.

Gio. delle Bande, ucciso, I, 284.

Aless. a trionfo in Genova, I, 292.

Caterina a nozze in Francia, I, 347.

Cosimo, primo duca, trama contro Civitav., II, 286. — E contro Ancona, II, 313. — Gran partigiano di Spagna, II, 313. — Manda le sue galere in Afrodisio, II, 181. — E alle Gerbe, II, 354. — Dona e compra galere, II, 294.

Medico, dottore di medicina, all'armata, II, 202.

Medinaceli (di) il duca Gio. della Cerda, suo carattere, II, 353. — Stenti alla partenza, II, 363, 369. — Negligenza intorno alle galeotte di Luccialì, II, 370. — Ed agli avvisi di Dragut, II, 379. — Abbandona il disegno di Tripoli, II, 380. — Si perde alle Gerbe, II, 392, 416.

Meridiano di Roma, II, 383.

Merloni in triangolo a Rodi, I, 203, 213. — Merloni di terra, primamente da Michelangelo, I, 206.

Messa al molo di Barcellona, I, 184.

Messina, centro perpetuo di raunanza alle armate, I, 307, 436; II, 87, 361. — Feste dei Messinesi sul mare, II, 227. — E ai reduci vittoriosi, I, 443.

Metellino, assalito in vano dai Francesi, I, 14. — Preso e saccheggiato dai Romani, II, 119. — Rabbia di Barbarossa, II, 124.

Metraglia, etimologia e notizie, I, 13.

Mezzapicca, arma navale e suo prezzo, II, 159.

Micciere descritto, II, 169.

Miccio d'innesco, II, 168. — Quantità e valuta, II, 168. — Uso dei moderni marinari, II, 170.

Milano liberato dai Francesi, I, 173. — Alla morte dell'ultimo Duca, preso dagli Spagnoli, I, 431.

Milizia e fanteria di marina: numero per galèa da cinquanta a dugento, I, 31, 112, 297. — Vestito, I, 110. — Vitto, I, 299. — Soldo, I, 112, 297. — Delle bande borgiane, I, 18, 31, 42. — Delle bande nere, I, 284. — Di Renzo da Cere, I, 178, 397. — Di Prospero Colonna, I, 475. — Dei veterani della guerra di Campagna, II, 353.

Facilità di cavar milizie dallo Stato, I, 303, 444; II, 18, 24.

Corpo scelto attorno ai comandanti, I, 335; II, 148.

Guardia nobile dei Papi, II, 283.

Guardia citt. in Roma, II, 282.

Guardiani della spiaggia contro pirati, I, 141.

Compagnie di dugencinquanta teste, II, 213, 231.

Armeggiamento a mo' di bersaglieri, I, 328; II, 215, 386.

Milizie di sbarco, I, 317; II, 192.

Numeri secondo nazioni, II, 46.

Mille (i) di assalto in Afrodisio, II, 237.

Mine: la prima del Martini a Castelnuovo, I, 52. — Non alla Cefalonia, I, 15; nè all'Uovo, 52. — Le mine di Rodi, I, 232. — E di Afrodisio, II, 224. — E di Antirio, I, 329.

Modello di fortificazioni: Vicenza, I, 202. — Rodi, I, 214. — Afrodisio, II, 244. — Le Gerbe, II, 397.

Molino, v. Mutini.

Monaco (principato), Squadra, II, 131, 190, 357. — Approdo di papa Adriano, e Andrea Doria, I, 190.

Monaldi, fam. per., Lodovico, II, 180.

Monastero, castello in Africa, II, 186.

Moncrièff e il suo affusto, v. Scalone.

Monte (del), fam. papale, v. Giulio III.

Giambatista in Africa, II, 205.

Montenero (di), arch. vicentino, I, 221.

Montevecchio, fam. fan., Giulio, I, 444.

Montisceli, v. Dragut.

Moràt-agà, pirata e re di Tagiora, II, 177. — Notizie, I, 5, 378. — Muore, II, 340.

Moretti Giovanni di Nizza, II, 280. — Suoi fatti, II, 323. — Fuga da Civ. e successi, II, 327, 339.

Moretto Calabrese, v. Trombetti.

Morione usato dai soldati e dai marinai, I, 110, 297.

Mormile cap. Marcello, ucciso, II, 305.

Moro (il) d'Alessandria, pirata, I, 5. — A Corone, I, 340, 343. — Rotto a Candia, I, 379.

Moro (il) d'Afrodisio scavalca l'Orsino, II, 209.

Morosini cap. Angelo, ricordato tra i venturieri, II, 326.

Mortajetto per petriero, II, 166.

Mortajo e bombe car. in Rodi, I, 232.

Mortalità di armate oziose, II, 19, 363, 378. — Di eserciti affaticati, II, 203. — Pei fanghi in Civit., I, 159. — Espressa nei cap., I, 261.

Morte onorata dell'ing. Ferramolino, II, 225. — Del conte di Sarno, I, 418. — Del cap. Mosca, I, 29. — Del cap. Vettori, I, 267. — Di Titta Scarpetta, II, 366. — Di Flaminio Orsini, II, 412.

Mosca (del) cap. Lodovico, cav. rom. Crociera alla Spiaggia, I, 8. — Piglia l'Elba, I, 18. — Vi conduce papa Aless., I, 21. — Costruisce sei galere, I, 9, 10. — Muore, I, 28.

Moschettieri, v. Archibugeri.

Moschetto, per artiglieria minuta da quattro, II, 166. — Per archibuso a forcina, II, 159.

Mostra ord. dei Cap., I, 105, 249.

Motore libero alla marina militare, e non solo il vento, I, 297, 410; II, 358.

Mozzo, giovanetto marinaro, soldo e razione, I, 112. — Il primo all'assalto di Corone, I, 318.

Municipale istoria, v. Storia.

Muleasse, re di Tunisi, cacciato da Barbarossa, I, 386. — Rimesso sul trono, I, 429. — Sue corrispondenze pubblicate, II, 401.

Muley-Achmet, successore, II, 243.

Mura e muraglie, v. Fortezze.

Mustacchi, distintivo di Bonavoglia, I, 299.

Mutini, fam. gen. e rom., cap. Lorenzo, I, 9. — A Santamaura, I, 31. — Continua con papa Giulio, I, 59. (Nominato nei Dispacci del Giustinian, pubbl. dal Villari, alla veneziana, Molino, II, 302, segg.; III, 197.)

Napoli e Napolitani, sottomessi da Francesi e Spagnuoli, I, 14, 15. — Restano alla Spagna, I, 16. — Voluti liberare da papa Clemente, I, 278. — E da papa Paolo, II, 276, a 314. — Infestati dai Pirati e dai Turchi, v. dette voci.

Porto di adunanza, I, 400.

Galere romane rapite innanzi al porto da Giannettino, II, 129.

Capitana di Roma offesa nel golfo da don Garzia, II, 183.

Galere e navi di Napoli in tutte le spedizioni, v. Armata.

Naufragio in Algeri, II, 105. — Di due galere a Viareggio, II, 249.

Nautica, scienza di navigazione presso gli antichi, I, 187.

Navarro conte Pietro, falsità della prima mina, I, 52. — In Civit. per le fortificazioni, I, 136. — Alla battaglia di Codimonte, I, 282.

Nave, in quanto voce generica, v. Bastimento. — Come voce specifica tra i marinari vale legno a vela di alto bordo. Loro grandezza, I, 87, 168; II, 369. — Numeroso equipaggio, I, 307; II, 41, 359. — Grosse artiglierie, anche sulle gabbie, I, 87, 169, 308, 317; II, 70, 88. — Non messe mai in linea, ma per convoglio, I, 297, 410; II, 357. — Difficoltà di menarla colle galere, I, 297; II, 361. — Indi i moderni vascelli, I, 169; II, 357.

Sei navi di Civit. a Gen., I, 9.

Una gen. liber. dai pirati, I, 192.

Una turchesca predata, I, 321.

Settanta di Spagna in Gen., I, 293.

Trentacinque a Corone, I, 309.

Trenta al soccorso, I, 341.

Due impigliate tra loro, I, 342.

Quattro rom. pei cavalli, I, 349.

Quaranta per Tunisi, I, 400.

Cinquantuna della lega, II, 41.

Trecento in Algeri, II, 98.

Cencinquanta naufrag., II, 102.

Ventotto per Afrodisio, II, 192.

Quaranta per Tripoli, II, 354.

Navi di spedale, II, 204,378.

Navetta, dim., II, 98, 354.

Navigazioni militari, v. Armata.

Papa Alessandro all'Elba, I, 21.

Papa Giulio da Ostia, I, 92.

Papa Adriano di Spagna, I, 179.

Papa Clemente in Francia, I, 348.

Il Re in Provenza, I, 354.

Papa Paolo a Nizza, II, 25.

Nemici ed amici, nei cap., I, 116.

Nepi e sue fortificazioni, II, 194.

Nettuno, castello dei Colonnesi alla marina, e bastimenti della famiglia, II, 288. — Fortino del Sangallo, I, 205. — Descritto il luogo, II, 287. — Preso dal Duca d'Alba, II, 294.

Nibbia cav. Battista, I, 169.

Nicolò da Santogemini, capit., II, 23.

Nizza, abboccamento di sovrani, II, 25. — Insulti di Barbarossa, II, 118. — Le galèe messe a Villafranca, v. Savoja. — Il successo del Venturiero, v. Moretti.

Nobile di poppa, ufficiale, I, 112, 159.

Nobili, fam lucc., cap. Francesco, II, 22. — Caposquadra pei Farnesi, II, 122. — Offeso da Giannettino, II, 129. — A Malta, II, 131. — Procuratore nella vendita agli Orsini, II, 139. — In Africa con Sforza, II, 180. — Naufragio, 259. — Ritorna, 257, 264. — Si ritira, 265.

Nocchiero, nell'armata, dicevano Comito, v. — Comando, II, 411.

Nocera (da) cap. Giacopo, II, 45.

Nolo e traffico vietato ai capitani, I, 115, 259.

Nome, v. Vocabolo.

Nores Pietro, storico lodato dal Pallavicino, II, 255, 327.

Nuotatore eccellente, II, 108.

Occhi accecati a Rodi, I, 229.

Oddi, fam. per., Ruggero in Africa, II, 180. — Ricupera la capitana, II, 414. — Grifone in Africa, II, 180.

Omèr-Aly, amm. ott., I, 309. — In disgrazia, I, 376.

Onde e fenomeni attenenti, v. Mare.

Onori navali, v. Saluto.

Opera (dell') Giacopo e suoi lavori, I, 139.

Orbetello occupato, I, 279.

Orecchie di lepre col vento in poppa e le vele latine, II, 65.

Ordinanza navale di fronte, I, 47. — In linea, II, 52. — A disegno figurato, II, 49. — Lunata, II, 53. — Sui ferri, II, 402.

Ordinanza campale in quadrato, I, 329; II, 389. — In colonna, II, 213. — A catena, I, 328; II, 215, 387.

Ormeggi, numero, peso e valuta, I, 367; II, 161.

Ormeggi e destre, II, 234.

Orlando da Salò, cap., II, 23.

Ornati di scoltura e doratura, I, 351, 357, 409; II, 346, 411. — Per gala di bandiere, v. Saluto.

Oròscopo, I, 62.

Orsini, fam. rom., suoi feudi alla marina e bastimenti propri, I, 392, 435; II, 12, 139, 151, 288, 289.

Gentil Virginio, conte dell'Anguillara, I, 391. — Piglia lo stendardo, I, 405. — Coll'Imperatore, I, 413. — Alla Goletta, I, 409. — A Tunisi, 423. — La lapida e il catenaccio, 430. — Combattimenti e prede, 439, 441. — Libera la Puglia, 439. — Cede al Legato, II, 6. — Segue l'armata alla Prèvesa, II, 40, 82. — Ripiglia il comando, II, 86. — Vince Dragut e Mamì, e ricupera due galere, II, 91. — Bravura in Algeri, 95, 106. — Sottomette Scirocco, 113. — Ritiro in Francia, 115. — Richiamato a Roma, 138. — Muore, 141.

Flaminio da Stabia, II, 277. — Difende Civitav., II, 281, 286, 322. — Non si impaccia di Nettuno, II, 295. — Nè del Moretto, II, 330, 339. — Nè dei nuovi bastioni alle Gerbe, II, 393. — Consiglio sulla Capitana, II, 380. — Consiglio per Tripoli, 382. — E per la partenza, 404. — A difesa dei comp. muore combattendo, 412.

Filippo da Vicovaro, II, 180, 243. — Congedato dai Francesi, 253. — Torna a Malta, 338. — In Africa, 346, 416.

Giordano da Bracciano in Africa, II, 181. — Scavalcato dal Moro, e difeso dal Baglioni, 209. — Piglia Afrodisio, 242.

Arrigo in Algeri, II, 96.

Battista a Rodi, I, 234.

Lorenzo da Cere, I, 285, 397.

Cammillo in Dalmazia, I, 444; e in Roma, II, 284.

Ortiz don Diego, agente dei Doria in corte di Spagna, sua lettera a Giannandrea, II, 27. — Del Tomacelli a lui, II, 381, 405.

Oruccio, re d'Algeri, I, 380.

Orza, cavo di manovra, I, 367. — Diverse specie, peso, e valuta, II, 157, 161.

Orza lato del naviglio rivolto al vento, II, 410.

Orzeggiare in caccia, descrizione di manovra, II, 410.

Ospedale, v. Spedale.

Osservazione, v. Astronomia.

Osta, cavo di manovra, I, 367. — Peso e valuta, II, 161.

Ostacoli opposti all'uscita del nemico, II, 362.

Ostia, descritta, II, 297. — Papa Giulio alla mostra, I, 92. — Molestie dei pirati, I, 72; II, 219. — Approdo di papa Adriano, I, 197. — Barbarossa all'acquata, I, 388. — La Rôcca richiesta contro papa Leone, I, 135. — Battuta dagli Spagnuoli, II, 303. — Ricuperata, II, 313. — Rotta del Tevere, II, 318.

Ottomani, v. Turchi.

Padrona, la seconda galèa della squadra, I, 24; II, 22, 355. — Doc., II, 351.

Padrone, primo ufficiale di amministrazione, II, 9, 10. — Soldo e razione, I, 112.

Padroni, Giovanni da Milano, Bartolommeo da Gallipoli, Domenico da Genova, e Giacopo Conti.

Padroni di piccoli legni, II, 23.

Paggio e suo successo alle Gerbe, II, 414. — Ricordo, II, 368.

Pagliuolo ( da Paglia di stuoje ), deposito del biscotto e delle farine, II, 162. — Per estensione il Palco sopra al paramezzale, II, 360.

Pajuolo ( da Pajo ). La secchia, o caldaja, a doppio manico, II, 162.

Palamento, e Remeggio, v. Remo.

Palazzo del Vitelleschi a Corneto, I, 22. — Del Salviati in Roma, I, 387.

Palermo, II, 325, v. Sicilia.

Palischermo, nome generico, I, 77, v. Barca, Bargio, Schelmo, Schifo, ec.

Palla d'artiglieria in pietre enormi, I, 230. — Di ferro da cento libbre, I, 88. — Ordinamento secondo i calibri, I, 90.

Per ciascuna galèa, numero, peso e prezzo, II, 167.

Pallavicino card. Sforza, d. C. d. G. tratteggia papa Paolo, II, 255. — Loda la storia del Nores, II, 255, 327. — Paragona la storia alla fisica, II, 335.

Pallavicino cap. Cristoforo, adottato in casa Doria, v.

Palmara, cánapo manesco di ormeggio, I, 367.

Palo, castello degli Orsini alla marina, e bastimenti della famiglia, I, 392; II, 12, 139, 151, 288.

Palo, il Secco del Palo in Africa, fenomeno e quiete, II, 374.

Paolo III, elezione, I, 391. — Fortifica contro i Turchi, 408, 433, 438. — Provvede all'armata navale, I, 405; II, 22, 95. — Al congresso di Nizza, II, 25. — E di Lucca, II, 97. — Legge per l'armamento, II, 110. — Per gli schiavi, II, 175. — Soccorso in Ungheria, II, 113. — Muore, II, 176.

Paolo IV, carattere, II, 255. — Guerra degli Spagnuoli, II, 261, 295, ec. — La guardia nobile, II, 284. — La urbana, II, 283. — Ordini e contrordini, II, 260. — Armamento della squadra, II, 279. — Brighe pel Moretto, II, 330. — Muore, II, 346.

Papi del tempo, v. Alessandro VI, Giulio II, Leone X, Adriano VI, Clemente VII, Paolo III, Giulio III, Paolo IV, Pio IV.

Tutti contro i pirati, e contro i turchi, v. — Da tutti richiesti di ajuto, I, 143, 295, 398, 435; II, 13, 95, 179, 346.

Paraggio e Rivaggio, voci diverse e ambedue necessarie, I, 151.

Paranchinetto, docum. da due occhi, II, 157, 161.

Paranchino, dim. di Paranco, v.

Paranco, I, 328.

Parapetto di fortificazione coi merloni triangolari e curvi, I, 203, 213.

Parapetto di terra per la prima volta da Michelangelo, I, 206.

Parasole, doc., II, 168.

Parata, sorta di tela, II, 159.

Parisani, fam. per., cap. Livio in Africa, II, 180.

M. tesoriere Parisani, II, 69.

Parma, e la guerra dei Farnesi, II, 248. — Le galere di Sforza danno il segno, 250.

Da Parma cap. Silvio, II, 23.

Parole buone e fatti tristi, v. Fatto, II, 83.

Parrocchetto, I, 308.

Parte scempia, doppia e mezza, nella razione, I, 111.

Partenza da Rodi, I, 237.

Particappa, fam. rom., cap. Mario, II, 282.

Partigianone, doc., I, 366.

Pasio, fam. bol., col. Pasotto, II, 45.

Pasteca, sorte di taglia, I, 365; II, 158, 167.

Patrasso occup., città e fortez., I, 323.

Pavese, scudo quadrilungo da riparo, I, 366.

Pavesata, il riparo di detti scudi, I, 441; e la gala di bandiere pinte a quella simil., I, 309.

Pedagna di remeggio, I, 364.

Penna dell'antenna, I, 355; II, 155. — Rottura, II, 410, 411.

Pentagonali, alcune torri antiche, II, 196.

Peretti, fam. papale. — Il cap. Bartolomeo da Talamone, II, 116. — Alla Prèvesa, II, 22. — Al corso, saccheggia Metellino, II, 119. — Notizie della morte, II, 120. — Insulto di Barbarossa, II, 124. — Ricordato, II, 351.

Cap. Mario a Malta (Bosio, III, 662, lin. 57).

Perez de Vergas cap. Luigi, II, 191. — Sua morte onorata, II, 215.

Perinelli, fam. per., cap. Camil., II, 180.

Perugia occupata da papa Giulio, I, 61. — Fortezza, I, 62.

Famiglie, v. Baglioni, Corgnia, Monaldi, Oddi, Parisani, Perinelli, Ranieri, Signorelli.

Peruzzi Baldass., arch. in Roma, I, 63.

Pesaro il vesc. Giacopo, com. a Santamaura, I, 31. — Sua lettera, I, 43.

Peste, v. Epidemia e Mortalità. — Contumacia la separazione, Lazzaretto il luogo, Quarantina il tempo.

Peterlin cap. Vittorio, II, 22.

Petriero, cannone di terzo genere: calibro e valuta, II, 166.

Piacenza: rivista delle fortezze, I, 278. — Vendita delle galèe farnesiane, II, 132, 350. — Tragedia di Pierluigi, II, 138.

Pialy pascià del mare, rovina l'Italia, II, 344. — Distrugge l'armata cristiana, II, 409.

Pianosa, l'isola, presa dal Mosca, I, 18. — Combattimento in quelle acque, I, 165.

Piazza, v. Fortezza.

Picca, arma in asta di marinari, I, 219, 297. — Prezzo, II, 159.

Picchieri e archibugeri, a vicenda, I, 297. — Anche in terra, II, 101.

Picconi Antonio, arch., v. Sangallo.

Piccozza di marina, e valuta, II, 160.

Pico Ludovico, I, 63.

Pie' di porco, la Gravina, II, 160.

Piergianni di Bidù ( Pregèant de Bidoux ), difendesi in Genova, I, 84. — Combatte a Villamarina, I, 86. — Resiste, e si ritira, I, 94. — Scrive d'impiccare i corsari, e intende i pirati, I, 146. — A Biserta, I, 147. — A Rodi, I, 226.

Pietra focaja, v. Archibuso.

Pietreo, idiot. fiorent., v. Petriero.

Pilotino o Consigliere, I, 159. — Soldo e razione, I, 112.

Piloto, ufficiale marino, ordine, soldo, e razione, I, 112. — Il vento, la rotta, e il punto di bordo, II, 411. — I nomi dei luoghi, secondo le carte italiane, I, 207; II, 193, 385.

Pinace, bussola Pelasga, I, 187. — Rinnovata ai nostri giorni dal Grubissich senza saperlo, I, 188.

Pio IV, e la tragedia dei Caraffi, II, 321. — Le galere dei Borromei, II, 290. — La rotta del Tevere, II, 316. — Spedizione delle Gerbe, II, 363. — Ruina dell'armata, II, 416.

Pio V, ricordato per la cassazione del processo Caraffesco, II, 321. — E per la lega dei Veneziani, II, 17. — E per le ammonizioni a Luccialì, II, 371.

Piombatore o frate del piombo, I, 132.

Piombinatore, marinaro che scandaglia, I, 86; II, 232.

Piombino, v. Scandaglio.

Piombino, città di Toscana, assediata per mare e per terra, I, 19. — Viaggio di papa Alessandro, I, 21, 24.

Principe di Piombino, v. Appiani.

Piombo per impiombare il palamento, I, 365.

Palle di piombo con dadi di ferro, II, 167.

Pirata, diverso dal Corsaro, I, 48. — Anche pei Veneti, I, 45, 49; e pei Francesi, I, 146.

Della grande Pirateria, I, 5. — Sovrani e Ammiragli, I, 378; II, 177. — Cacciano le vecchie dinastie africane, I, 149, 386. — Pigliano delle nostre galere, I, 72. — Ne perdono a dieci doppi, v. Presa. — Al partire i bottini, II, 89, 218. — Nella caccia, I, 148, 373. — Contro vento, I, 166, 277. — Le tre quadriglie, I, 378; II, 177, 340, v. Camalì, Gaddalì, Carrà e Curtògoli. — Il Moro, il Giudeo, Cacciadiavoli e Barbarossa. — Morat, Dragut, Scirocco e Luccialì.

Della piccola Pirateria, I, 191; II, 218; e molestie per tutto; di che, v. Cametto, il Bollato, il Bagascia, e simili.

Pistola nel 1556, ricordata, II, 302.

Pitta (del) Francesco, viceleg., I, 141.

Podiani, e ant. Pojani, fam. reat., cap. Giulio coll'Orsino, II, 112. — Col Fiesco, 134.

Polesella, e la battaglia, I, 75.

Poliremi antiche, e mio parere, I, 412.

Polvere di artiglieria, quantità e prezzo per ogni galèa, II, 167.

Polverificio in Rodi, I, 225.

Polverino per archibusi, II, 168.

Pontani, fam. rom., cap. Mario, II, 22.

Ponte navale d'assalto, I, 315, 318. — Di gallerie coperte, II, 224. — Di barche sul Tevere, II, 295, 300. — Sul Po, I, 74.

Ponza, isola occupata, I, 285.

Porretta (della) cap. Marcantonio in Algeri, II, 96.

Porta riversa in Afrodisio, II, 197.

Porte di albaggio alle galere, II, 156, 159.

Portelli a ribalta, I, 231.

Portercole, occupata, I, 279.

Porto di adunanza per le imprese navali, v. Cagliari, Genova, Messina, Napoli: e specialmente, I, 307, 339, 400; II, 39, 87, 98, 181, 279, 361.

Entrata violenta nei porti, I, 94, 151, 341; II, 232.

Uscita violenta per arte, II, 341.

Portofarina e Carlo imp., I, 414.

Portofino occupato pel blocco di Genova, I, 280, 281.

Portolano, e Carte marine degli Anconitani, I, 35, 36. — Vogliono tavole e figure, I, 35. — Nomenclatura italiana, I, 207; II, 193, 385.

Portondo don Rodrigo, I, 162, 380.

Portovenere e la battaglia, I, 93.

Posta e cavi di posta; numero, peso e valuta, II, 161. — Ricordi, I, 367.

Prato arch. Giambattista, II, 223, 244.

Preda, v. Presa.

Pregèant, v. Piergianni.

Premio, v. Donativo.

Presa di legni nemici, talvolta senza particolari notizie, I, 170, 260; II, 119, 174.

Generosità dei Romani, I, 430; II, 91, 247.

Stabilita nei capitoli, tutta a vantaggio dei capitani, I, 99, 246.

Presa di frodatori a metà, I, 98; e poi a un quarto, I, 245.

Presa di bastimenti: n. 176.

Dodici galeotte a Santam., I, 40.

Quindici galere ven. sul Po, I, 75.

Tre bastimenti in Africa, I, 151.

Una galera ric. alla Goletta, I, 151.

Una nave ric. in Provenza, I, 192.

Due galeotte a Gianutri, I, 263.

Quindici a Piombino, I, 277.

Una nave nell'Arcipel., I, 324.

Tre a Montecristo, I, 373.

Ottanta legni a Tunisi, I, 422.

Quattordici nell'Adriatico, I, 436.

Tre cacciati in terra, I, 438.

Dodici galèe alle Merliere, I, 440.

Una germa ed altri legni, I, 446.

Undici alla Girolata, II, 90.

Tre galeotte nel Tirreno, II, 113.

Parecchi del Peretti, II, 119.

Altri dello Sforza, II, 174.

Due germe alle Gerbe, II, 372.

Prèvesa, città e fortezza nell'Epiro, tentata dai Romani, II, 30.

Prèvesa il golfo, detto dell'Arta, scaramucce, II, 47.

Prèvesa, i paraggi, e lo scontrazzo delle due armate, II, 56.

Priuli cap. Giacopo, II, 22.

Prodáno, cavo di manovra a proda, I, 367. — Peso e valuta, II, 161.

Promis Carlo, corretto per una mina del Martini, I, 52. — Per il cognome di Basilio, I, 200. — Pel Buono col Bonello, II, 229. — E pei fatti del Tomacelli, II, 380, 395.

Prora fluida, I, 182.

Provese, cavo di orm. a prua, I, 368.

Proviere, giovane marinaro di prua, soldo e razione, I, 112.

Puglia e Pugliesi, oppressi dai Turchi, I, 434. — Liberati, I, 439. — Minacciati da Dragut, II, 363.

Pugnale e pugnaletto di marina, I, 219; II, 257.

Puntoni, baluardi senza fianchi, in Rodi, I, 214.

Quadra la vela delle navi di alto bordo, I, 168, 308.

Quadrireme, v. Polireme.

Quarantina, il tempo consueto per purgare il sospetto di peste, I, 375.

Quarnale, cavo a quattro cordoni, o paranco a quattro occhi, I, 168. — Con la pasteca di richiamo, II, 158. — Peso e valuta, II, 161.

Quarnaletta di trinchetto, peso e valuta, II, 161.

Quinquereme, v. Polireme.

Quintili, fam. rom., cap. Franc., II, 22.

Raimondi, fam. rom., cap. Luigi, II, 23. — Ferito alla Prèvesa, II, 33. — Morto poco dopo, II, 80.

Rallì, fam. ort., cap. Bellisario, II, 22.

Rangoni, fam. moden., cap. Baldassarre, II, 282, 283.

Ranieri, fam. per., cap. N. detto il Cavaliere, II, 180.

Rapallo, occupata, I, 83.

Rappresaglie mitigate, I, 114, 264.

Rasoj per rapare la ciurma, II, 160.

Rassegna di navigli, ordinata nei capitoli, I, 105, 249. — Fatta da papa Giulio ad Ostia, I, 92. — Del Medina al Palo, II, 376.

Raunanza dell'armata, v. Porto.

Ravestein Filippo di Clèves, I, 14.

Razione, quantità proporzionale di vittuaglia ragionevolmente assegnata ai diversi, I, 110.

Reale, assol. La prima galèa di un'armata regia, I, 351, 449, ec.

Religione e pratiche di culto osservate in Rodi, I, 233. — Alla Prèvesa II, 24. — In Afrodisio, II, 203. — Alle Gerbe, II, 378.

La Messa al padiglione, I, 184.

La preghiera della sera, I, 186.

L'Eucaristia a bordo, I, 348.

La benedizione papale, I, 401.

Il saluto ai Santi, I, 375.

La visita ai Santuarî, II, 24.

Il giub. all'armata, II, 204, 378.

I cappellani, I, 242; II, 202, 378.

L'assoluz., I, 421; II, 203, 378.

Le invocazioni, I, 421.

Religiosi, v. Cappellani.

Rematori, v. Ciurma.

Remeggio e Palamento, v. Remo.

Remo alla sensile, di tre per banco, I, 365. — A scaloccio, con tre uomini per remo, I, 117; II, 37. — Numero e valore dei remi a scaloccio, II, 156. — Impiombatura, I, 365. — Detergere remos, II, 183. — Maestranze, v. Remolaro.

Remolaro il maestro, nei doc., II, 185. — Soldo e razione, I, 112.

Remolarotto, il fante, II, 185. — Soldo e razione, I, 112.

Renzo da Cere, v. Orsini Lorenzo.

Ricci, fam. rom., S. E. il march. don Giovanni, suoi favori, e il suo Archivio, II, 19.

M. Giovanni Com., II, 19. — Lettere, 32, 34.

Cap. Miniato, II, 23, 38. — Sua lettera al Parisani, II, 69.

Rifolatore per calcatojo, doc., II, 159.

Rimbalzo, e sua efficacia, I, 231.

Portelli di rimbalzo, 231.

Tiri di rimbalzo, II, 214.

Rio, castello di Morea, occupato, I, 327.

Ripetizioni mie, II, 187. (Medio èvo, II, 219.) v. Storia.

Riscatto del cap. Vettori, per seimila, I, 163. — Del vesc. di Catania, per tremila, II, 341. — Di Dragut, per tremila, II, 93. — In genere da cento a trecento ducati, I, 163.

Rissa di cavalieri, I, 336; II, 149, 333.

Ritirata, II, 404, 410.

Ritiro del Sadoleto, I, 284. — Di Gent. Virginio, II, 115. — Dello Sforza, II, 266. — Di Flaminio, II, 330.

Ritorno dei vincitori al porto, I, 375, 443.

Ritratto di Paolo Vettori, I, 127. — Di Adriano papa, I, 195. — Di Andrea Doria, I, 275; II, 342. — Di Barbarossa, I, 382. — Di Carlo Sforza, II, 147. — Del Duca d'Alba, II, 284. — Di Dragut pirata, II, 343.

Rivaggio, I, 151.

Rivellino a puntone, I, 214. — Per torre pentagona, II, 195.

Rocchi, fam. civit., II, 258.

Rodi, descritta, I, 200 e seg. — Soccorso di Roma, I, 168. — Assedio dei Turchi, I, 217 e seg. — Difese, I, 222. — Offese, I, 230. — Capitolazione, I, 236. — Partenza, I, 237. — Trattati di riscossa, I, 291.

Romantici e Rètori, I, 183; II, 104.

Roma e Romani. Il Tiraboschi ne cerca la Storia, II, 292. — Altresì, I, 431; II, 119. — Le galere private dei grandi, II, 289. — Il naviglio governativo, v. Marina, Armata, Navigazione e Capitani. — Carattere generoso, I, 430; II, 91, 247.

La guerra del Borbone e il sacco, I, 286. — La guerra di Campagna e l'inondazione, II, 284 e seg.

Le mura, I, 434; II, 284.

Le famiglie: Di Bagno, Borgia, Colonna, Conti, Doria, Farnese, Frangipani, Leno, Lucidi, Ludovisi, Medici, Monte, Mosca, Mutini, Orsini, Particappa, Pontani, Quintili, Raimondi, Ricci, Rovere, Salviati, Savelli, Sforza, Strozzi, Vaccari, Vettori.

Ronda di galere per mare, II, 232.

Di cavalleggieri per la campagna, II, 302.

Ronzone, áncora a quattro marre, I, 365. — Peso e valuta, II, 156.

Rosa cap. Luigi, II, 23.

Rostro o Sperone, I, 283; II, 184.

Rossetto, fratello di Muleasse ( Roscît ), I, 383.

Rossi, fam. civit., II, 258.

Rotella, specie di scudo navale, I, 366; II, 159.

Rotta, viaggio dei bastimenti rompendo l'acqua, I, 179, 180.

Rovere (della), fam. papale, v. Giulio II.

Francesco Maria, cap. e scrittore, I, 63. — Suoi ricordi, I, 85. — Apre il passo al Borbone, I, 286. — Generale della lega, II, 16. — Muore di veleno, II, 28.

Rovigo (da) cap. Tommaso, II, 22.

Ruota dell'acciarino, v. Archibuso a ruota.

Sacco di Roma, I, 287. — Proibito a Corone, I, 322; e alle Gerbe, II, 391. — Concesso a Tunisi, I, 428.

Sacerdoti, v. Cappellani.

Sacra (isola), v. Tevere.

Sadoleto, vescovo e card., si ritira dalla Corte, I, 284.

Saettia romana sforza l'entrata nel porto di Genova, I, 94.

Saettia genovese sfugge alla caccia dei Romani, I, 175.

Sagro, pezzo da dieci, peso e valuta, II, 166. — Sui fianchi delle galèe, I, 370.

Mezzo sagro, II, 166.

Sala, v. Salone.

Salèc-rais, ajutante di Barbarossa, I, 382. — All'ala destra nello scontrazzo della Prèvesa, II, 49.

Salerno occupata, I, 285.

Salma, unità di misura, II, 324.

Salone negli antichi palazzi, II, 148.

Salò (da) cap. Orlando, II, 23.

Salto di Saffo a Leucade, I, 38. — Salto di Sforza a Malta, II, 149.

Saluto navale: puntigli del tempo passato, I, 349. — Saluti delle armate al Zante, I, 309. — Ai reduci colle prede, I, 374. — Ai vincitori in Messina, I, 443. — E in Napoli, II, 245.

Ai Papi, I, 179, 348, 351, 405.

Ai capitani delle galèe, II, 361.

Alle fortezze, II, 391.

Ai santuari, I, 375.

A lutto, I, 29, 267.

Salva, v. Saluto.

Salveregina sul mare, I, 186; II, 163.

Salviati, fam. fior. e rom., cap. Bernardo, ricordi, I, 309, 323. — Rissa dei Cavalieri, I, 336. — Capitano a Roma, 338. — A Corone, 339. — Suo ardimento, 343. — A Marsiglia col Papa, 347; e col Re, 354. — Suoi inventarî, 368. — Piglia tre galeotte, 373. — Sua esclamazione, 355. — Suo palazzo, 387.

Sambuca, macchina navale descritta, II, 227, 233 e seg.

Sammicheli Michele, arch., I, 137, 278.

Sampieri, fam. bol., cap. Alessandro (non Vincenzo ), II, 23.

Sangallo (da) Giuliano, arch., caposcuola, I, 137, 205; II, 297, 307.

Antonio il vecchio, I, 20, 50, 62, 205; II, 284.

Antonio il giovane, I, 136, 205, 278; II, 194. — Scandagli, I, 133.

Battista il gobbo col frat., I, 278.

Sangiacco, la bandiera ottomana, I, 209; ed altresì titolo tra loro, come dire Gonfaloniere, II, 340.

Sansovino, e da San Savino, v. Contucci.

Santamaura, isola e fortezza descritta, I, 37. — Occupata, 42. — Fortificata, 49. — Ceduta, 54. (Poco ne dicono i Dispacci del Giustinian pubbl. dal Villari in questo anno 1876, quantunque siavi spesso nominata, I, 119, 135, 227, 322.)

Santangelo, v. Castello.

Santasevera, e naufragio del Concini, II, 314.

Santiago e dagli! grido di Spagnuoli, I, 421; II, 214.

Santogemini cap. Niccolò, II, 23.

Sardegna e Sardi terribili coi pirati, II, 211, 212, 220.

Adunanza dell'armata nel golfo di Cagliari, I, 413.

Sarno (il conte di), v. Tuttavilla.

Sartia e Sartiame, nomi e numeri nell'inventario, I, 367. — Peso e valuta di ciascun cavo, II, 161.

Sassatelli, fam. imol., cap. Giov., I, 63.

Sassetta (della), fam. romag., cap. Raniero, I, 63.

Savelli, fam. rom., Battista nel Regno, I, 285.

Antimo in Africa, II, 205, 239. (Lodato dal Varchi, II, 205.)

Pompilio a Malta, II, 366.

Savoja (di) il duca Carlo dà patenti ai corsari contro Francesi, II, 323.

Emanuele Filiberto cava la darsena di Villafranca, II, 328. — Protegge il Moretto, II, 336. — Arma galere col conte di Leyny, II, 329. — A un pelo di cadere prigione di Luccialì, I, 4.

Savorgnani, fam. friul., arch., I, 50. — Giulio ricordato, I, 206.

Sbarco in paese nemico: a Santamaura, I, 40. — A Biserta, I, 150. — A Corone, I, 313. — A Portofarina, I, 413. — Alla Prèvesa, II, 31. — Ad Algeri, II, 99. — Ad Afrodisio, II, 198. — Alle Gerbe, II, 386.

Sbarco di artiglieria, I, 328.

Sbirro (dello), fam. rom., il cap. Orazio difende Ostia, II, 298 e seg.

Cap. Marcello, a Malta, II, 299.

Sbrattamento, v. Cacciata.

Scafo, che dicevano pur Bucio, Guscio, Fusto, II, 155.

Scala di assalto alla marinaresca, I, 315, 318; II, 79.

Scala Giantommaso, diverso da Basilio della Scola, I, 201.

Scaloccio, remo lungo, maneggiato da più persone, I, 364; II, 156.

Scalone, sorta di affusto marino, e tipo del moderno Moncrieff, I, 442. — Prezzo e fornimenti, nei doc. rom. e fior., II, 159, 166, 167.

Scandaglio, numero, peso e valuta, II, 161. Scandagli autografi del Sangallo, I, 133.

Scaramuccia Benedetto, ajutante in Rodi, I, 221, 226.

Scaramucce alla bocca dell'Arta, II, 47.

Scarpetta Titta, trasteverino, suo fatto a salvezza di Malta, II, 366.

Scarroccio, diverso dalla Deriva, I, 27. — Necess. e valore della voce, I, 355.

Sceicco, titolo tra gli Arabi, II, 384.

Schelmo, e valore del vocabolo, II, 221.

Schiavina o cappotto di ciurma, I, 300. — Valuta, II, 163.

Schiavo e schiavitù: di cristiani in Barberia, I, 4, 150, 425, ec. — Sofferenze, II, 126. — Minacciati di strage, I, 426. — Riscatto coll'armi, I, 42, 150, 428; II, 241, ec. — Riscatto a danaro, I, 163.

Schiavi musulmani al remo, I, 437; II, 37, 131. — Si valutavano a cento ducati per testa, I, 163; II, 156. — Riscatto di Dragut, I, 93. — Del figlio del Giudeo, II, 123. — Bando per comprarli e venderli in Roma, II, 175, v. Presa.

Schifo e fornimento, I, 365. — Valuta, II, 156.

Schioppetto di marina, v. Tromboncino.

Schioppo, v. Archibuso.

Schirazzo, bastimento levantino da carico, doc., I, 217; II, 34, 325.

Quattordici presi in Alban., I, 437.

Scia, Sciare, Scionata, Scione, I, 181.

Sciarluz, cap. di due galere in Civitavecchia, II, 279.

Sciopero dei beccaj in Roma per la tassa marittima, I, 276.

Scioverno, e Sciovernare, I, 111.

Scirocco pirata, I, 5, 378; II, 177. — Preso prigione, II, 113.

Scola, fam. vicent., il baron Giovanni, e i suoi favori, I, 201.

Basilio, arch. milit., nominato, I, 50. — Notizie e lavori, I, 200 e seg. — Fortifica Rodi, I, 209. — Modelli, I, 203, 214.

Scoltura, v. Ornati.

Scommessa e giuochi d'azzardo nel Cinquecento, I, 303.

Scontrazzo, combattimento confuso, I, 342; II, 57, 408.

Scoperta, I, 311, 323, 348; II, 232.

Scorta di onore, v. Navigazione.

Di carico, v. Nave di convoglio.

Scotta della vela, I, 367. — Peso e valuta, II, 161.

Scrittori, v. Storia.

Scrivano di bordo, soldo e razione, I, 112, v. Marchesini.

Scudo d'oro, e sua valuta, II, 166.

Scuola triplice di arch. milit., v. Architetti.

Scuola (della) Basilio, v. Scola.

Scutari (da) Domenico, II, 23.

Seccagna, e secco del Palo, fenomeno locale, II, 374.

Sedizione, v. Ammutinamento.

Sehai, I, 238, lin. 6, leggi: se hai.

Selim I, ott., spinge in Africa i pirati, a suo pro, I, 140, 149, 150, 199.

Sensile, lo stesso che semplice, senza grado, II, 22, ec.

Sepoltura, v. Cadaveri.

Serpentino, sust., sorta di macchinetta per l'archibuso, II, 169.

Serpentino, aggiunto di cannone, di lunga volata, I, 89, 368.

Sèssola da aggottare, numero e valuta, II, 162.

Sèssola, isoletta alle coste di Santamaura, II, 49.

Sestri di levante, occupato, I, 83.

Sferrare, v. intr. ass., T. mar., II, 104 — Esempi, II, 377. (Altrimenti i marinari dicono Salpare.)

Sforza, fam. rom., suoi personaggi, II, 252. — Galere della fam., II, 151.

Carlo in Malta, II, 147. — Il salto, II, 149. — Cap. in Roma, 150. — Ricca crociera nell'Arcipelago, 174. — Suoi seguaci, 180. — Offeso nel palamento, 183. — A Monastero, 186. — Discorsi e viaggi, 220. — Conduce l'Arduino a diverso attacco, 221. — Batte Afrodisio, 239. — Entra nella piazza, 243. — A Marsiglia, 248. — Naufragio, 249. — Caso delle sue galere, 258. — Si ritira a vita privata, 266.

Alessandro toglie di Civitavecchia le galere del fratello, II, 257. — Le rimena, 264.

Sicilia e Siciliani in potere di Spagna, I, 148. — Stretti dai pirati, I, 140, 384; II, 178. — Il porto di Messina centro delle armate, v. Messina. — Le galere dell'isola in tutte le fazioni, I, 307, 409; II, 41, 87, 98, 191. — Nominate ad una ad una, II, 386.

Signorelli, fam. perug., cap. Luca, II, 180.

Silvio da Parma, cap., II, 73.

Sinam pascià, v. Giudèo.

Sirocco pirata, v. Scirocco.

Smerigli, cannoncini, I, 89. — Sei sui fianchi delle galere, I, 368, 370, 441; II, 166, 167.

Soccorso alle piazze, I, 341; II, 213. — Impedimento, I, 342.

Soldati, v. Milizia.

Soldo di ufficiali, marin., soldati, I, 112.

Solimano, imp. de' Turchi, I, 167. — Occupa l'Africa, I, 377. — Attacca Rodi, I, 222. — Caccia i Cavalieri, I, 237. — In Ungheria e sotto Vienna, I, 294. — Staccato di là per diversione dell'armata navale, I, 330. — Piglia Castro nella Puglia, I, 434. — Dichiara la guerra ai Veneziani, I, 439. — Alleato dei Francesi, I, 432, 445; II, 114, 126, 178, 248, 251, 343. — Protegge i Pirati, v. questa voce.

Sopraccòmito, il comand. di galèa, I, 43.

Soranzo cap. Vittorio, II, 22.

Sorpresa nell'attacco, I, 174.

Sorrento, occupata, I, 285.

Sortita in battaglia, I, 88; II, 77. — Sortita dal blocco, II, 341.

Sottocòmito, soldo e razione, I, 112.

Spade quaranta, doc., I, 366.

Spagna e Spagnuoli, v. Ferdinando I, Carlo V, Filippo II, coi loro consiglieri, sempre nella medesima tradizione, I, 148, 345; II, 17, 68, 83, 149, 183, 247. — Sotto colore di crociata pigliano Napoli, I, 14. — Saccheggiano Roma, I, 286. — Assediano Firenze, I, 288. — Allacciano Genova, I, 293. — Occupano Milano, I, 431. — Sottomettono Piacenza, II, 138, 248. — Aggiogano Siena, II, 251. — Guerreggiano contro il Papa, II, 285. — Rodono i Veneziani, II, 17, 65, 83. — Contano sui Turchi, I, 148, 345; II, 13, 14, 64; e chiamanli invincibili, I, 344; II, 60.

Marinari in tutte le fazioni, v. Armata e Doria. — Bravura di Hermosilla, II, 59. — Di Perez, II, 190, 215, 217. — Di Gil d'Andrada, II, 410, 413. — Temerità del Portondo, I, 162, 380. — Stizza di don Garzia, II, 183, 191, 243. — Stranezze del Medina, II, 370, 380, 392, 404. — Follia dell'Ordugnèz, II, 391.

Soldati prodi, I, 343; II, 240. — Fermezza, II, 217, 238. — Onore, II, 59, 85. — I venticinque, II, 44, 77. — Ammutinamenti, I, 327, 339, 344; II, 81. — Jattanza, II, 306.

Cappellani e pietà, II, 126, 203.

Spalmare, sevo, brusca e spesa, II, 157.

Specchio sinottico, cifre varianti, e cause, II, 21, 38, 40.

Soldi e razioni, I, 112.

Valute del vestito, I, 300.

Valuta del vitto, I, 299.

Armata a Corone, 1532, I, 307.

Di papa Paolo, II, 22.

L'armata della lega, II, 41.

L'armata per Tripoli, II, 355.

Spedale in Civitavecchia pei marinari, I, 242. — Sulle navi e sui grippi in Africa, II, 204, 207, 378.

Spedizioni di guerra, v. Armata. Di pace, v. Navigazione.

Sperone o Rostro, I, 283; II, 184.

Spezia, occupata, I, 175.

Spigone, asta, allungatrice, e valuta, II, 155.

Spinola, fam. gen., Teodoro, I, 321.

Agostino, I, 398.

Girolamo alla Goletta, I, 418.

Quirico, alle Gerbe, II, 355, 376.

Spinosa, v. Arduini.

Spuntone di marina, I, 219, 297, 441.

Squadra romana per operazioni straordinarie, v. Armata e Navigazione.

Squadra perm., I, 95, 257; II, 111.

Squarciafichi Domenico, II, 23.

Stabia, cast. dell'Orsini, v. Flaminio.

Stato pontificio, dal Tronto al Po, fatto storico, I, 61.

Stella di san Simone, ricordata, II, 102. — Stelle, v. Astronomia naut.

Stella, fam. civ., cap. Vincenzo, II, 258.

Pietro, e suoi stemmi, I, 139.

Stendardo, v. Bandiera.

Stendardo, fam. nap., cap. Matteo, II, 282, 283.

Stipa del calafato, e del pagliuolo, I, 366. — Materia d'incendio, I, 437.

Stivatore, per calcatojo d'artig., II, 159.

Storia, pel colorito, diversa dalla cronaca, I, 170. — Diversa dal romanzo per la verità, I, 183; II, 104. — Lo stile conforme alla materia, I, 7. — Le digressioni al bisogno, II, 273, 291; e le ripetizioni, II, 187. — I fatti grandiosi e i minuti, I, 7; II, 334. — Gli esempi dei classici, II, 334. — La filosofia della storia, II, 335.

Storia della marina negletta tra noi, I, 431; II, 119, 292. — Storia tecnica, I, 183; II, 104. — Novità, I, 138. — Potrà essere cresciuta, non distrutta, II, 119. — Nè commentata, I, 91.

Storia municipale meschina, I, 263, 289; II, 125, 292. — Genealogica, II, 277, 347, 349. — Orientale, II, 390.

Stranezze e pronostici, II, 392.

Strategia, scienza direttrice delle operazioni militari, v. Tattica.

Straticopulo cav. Giammaria, II, 22, 75.

Stroppo del remo, I, 368. — Numero, peso e valore, II, 161.

Strozzi, fam. fior., Piero, maresciallo in Roma, II, 280, 301. — Nelle brighe del Moretto, II, 327, 339.

Leone, gran marino, primo generale in Malta, I, 376. — Suoi fatti, II, 278, 358.

Pandolfo, ricord., II, 280, 337.

Stuoje di pagliuolo, II, 162.

Sughero dei marangoni, II, 108.

Sutri, v. Flacchi.

Tabàc-rais, ajutante di Barbarossa, I, 382. — Alla Prèvesa, II, 49.

Tadini, v. Martinengo.

Taglia da paranco, I, 365. — Numero e valore, II, 157.

Tagliaferro, II, 160.

Tagliame, quantità di taglie, doc., II, 155, 157.

Talamone, bruciato da Barbarossa, II, 124. — Occupato, I, 279, v. Peretti.

Tappeto da poppa e schifo, II, 164.

Tartana pei cavalli, II, 360.

Tasso (dal), intagliatori. (Medio èvo, II, 472.)

Tattica operativa, secondo i principî strategici nei fatti delle armate navali: Motore libero, oltre la vela, I, 297, 410; II, 357. — Anche sull'Ocèano, II, 358. — Difficoltà dei legni a vela, II, 53, 71, 361.

Armamento, I, 296, 397; II, 13, 346. — Secondo costume delle nazioni, II, 46.

Raunanza, I, 307, 339, 400, 409; II, 39, 87, 98, 181, 279, 361.

Conserva, I, 47, 162.

Avvisi, I, 311, 323, 340; II, 373.

Sortita in battaglia, I, 88; II, 77.

Ostacolo al nemico, II, 362.

Cacciata dal campo di operazione, I, 46, 311, 324; II, 44.

Ordinanze diverse, I, 47; II, 49, 52, 53, 402.

Convoglio, I, 309, 341; II, 98.

Scorta, I, 21, 92, 179, 348; II, 25.

Sorpresa, I, 174.

Diversione, I, 330; II, 211, 362.

Scaramuccia, II, 47.

Combattimento, I, 165, 440; II, 89, 412.

Scontrazzo, I, 342; II, 57, 408.

Battaglia, I, 86, 93, 282.

Ritirata, II, 406, 410.

Ingresso violento, I, 94, 151, 341; II, 232.

Uscita artificiosa, II, 341.

Blocco, I, 84, 94, 280; II, 198.

Ronda e scoperta, II, 231, 233.

Guardia a' passi, I, 41, 48, 321; II, 33.

Sbarco, I, 40, 150, 313, 413; II, 31, 99, 198, 386.

Imbarco, II, 33.

Attacco di fortezze, I, 315, 419; II, 79.

Scale, I, 315, 318; II, 79.

Macchine, II, 227, 233.

Socc. alla piazza, I, 341; II, 213.

Proibizione di soccorso, I, 342.

Vittoria, I, 51, 77, 283, 330, 430; II, 91, 243.

Ritorno, I, 77, 373, 431, 443; II, 243.

Tedeschi, v. Germania.

Telamone, v. Talamone.

Tempesta all'Argentaro, I, 25. — Buriana in Catalogna, I, 184. — Rabbiosa procella in Algeri, II, 102.

Tenda, I, 366. — Misura e valore, II, 156, 159.

Il Doria gabbato dalle tende di Dragut, II, 341.

Tendale e tendaletto, I, 366; II, 156, 159.

Termine, v. Vocabolo.

Terni (da) cap. Gian Giulio, II, 23. v. Tommasoni.

Terranina, cavetto di stoppa, II, 159.

Terrapieno, sistema del Buonarroti ai parapetti, I, 206. — Alle basse muraglie, I, 225, 417; II, 396.

Terzeruolo e Terzarolo, il remo sensile a tre per banco, I, 366. — A scaloccio di tre persone per remo, I, 117; II, 37, 156.

Tesoro ricerco, I, 157.

Teste di bronzo, anelli di orm., I, 139.

Tevere: i due tronchi e l'isola sacra, II, 296. — Inondazione, rotta e nuovo letto, II, 316. — Ostia, II, 301, 304. — La Bovacciana, II, 312, 319. — Ridotto alla foce, II, 312. — Navigazione e commercio di Roma, II, 296, 311. — Interrimenti alla foce, I, 197; II, 312.

Timone e fornimento, I, 365. — Paranchinetti pel timone, peso e valuta, II, 161.

Timonieri otto, soldo e razione, I, 112.

Tolda, coverta suprema, I, 169.

Toledo, fam. spag., don Garzia, II, 182. — Offende l'Orsino e lo Sforza, II, 183. — Triumviro in Africa, II, 192. — Nemico del Vega, II, 243.

Don Fernando Alvarez di Toledo, v. Duca d'Alba.

Tolentino (da) cap. Battista, II, 23.

Tolfa, v. Frangipani.

Tolone, stallìa di Barbarossa, II, 118.

Tomacelli, fam. bol., Plinio, tutore di Giannandrea, II, 369, 405. — Incastrato tra gli architetti, II, 395. — Suoi consigli diversi: andare alle Gerbe, II, 380. — Partirne, II, 400. — Fermarcisi l'ultimo giorno, II, 405.

Tomaini, fam. civit., ricor., II, 258.

Tomassoni, fam. tern., col. Alessandro, II, 23. — Fer. alla Prèvesa, II, 33.

Tonnellata e ragguaglio alla salma e alla botte, II, 324, 359.

Tonneggio all'árgano, II, 233.

Torre del Greco, occupata, I, 285.

Torre Bovacciana, v.

Torri di Rodi, I, 210. — Di Afrodisio, II, 194.

Torri pentagonali antiche, II, 196.

Toscani, v. Fiorentini.

Trafurella, I, 293.

Trapani e l'armata di Tunisi, I, 430; e d'Afrodisio, II, 191. — Spedali, II, 207.

Trattato per la libertà del mare, I, 80. — Per Santamaura, I, 54. — Per Tunisi, I, 429. — Per Afrodisio, II, 243. — Di Cave, II, 314. v. Lega.

Tregua di Nizza, II, 26. — Di Cattaro, II, 82. — Di Ostia, II, 311.

Trento e Concilio, II, 126.

Trevisani cap. Ang., rotto sul Po, I, 73.

Trevo, vela bassa e quadra, I, 366.

Trinchetto, vela, albero, pennone ed antenna, I, 366. — Misure e valore, II, 155, 160.

Trionfo, I, 77, 374, 431, 443; II, 243.

Tripoli di Barberia, II, 361. — Feudo dei Maltesi, I, 293. — Perduto, II, 340. — Voluto ricuperare, II, 361. — Fortificato all'antica, II, 374, 381. — Spedizione rivolta alle Gerbe, II, 382.

Triremi antiche, v. Poliremi.

Triumvirato in Africa, II, 192. — Disciolto, II, 243.

Tromba e partenza da Rodi, I, 237.

Trombe, conc., e valuta, II, 157.

Trombetti, cap. calabrese, detto il Moretto, II, 294.

Tromboncini di marina, I, 12.

Tunisi, e antica dinastia Hafsita, I, 149, 152. — Ricetto ai pirati turchi, I, 141. — Occupata da Barbarossa, I, 386. — Descritta, I, 415. — Spedizione contro Biserta, I, 145. — Tunisi sottomessa, I, 425.

Turchi sotto Bajazet, Selim, Solimano, v. detti nomi.

Occupano l'Africa, I, 149, 377. — Assediano Rodi, I, 215, 238. — Vagheggiano l'Italia, I, 4, 143; II, 110. — Mettonsi nella Puglia, I, 434. — Disertano le riviere, I, 140; II, 178. — Passata di Barbarossa, I, 384. — La seconda, II, 117. — La terza, II, 124. — Dragut, II, 178. — La seconda coi Francesi, II, 248. — La terza item, II, 252. — La quarta, II, 343.

Marinari vilissimi, I, 311, 342, 344. — Diventano arrogantissimi, II, 60, 417.

v. Afrodisio, Algeri, Corone, le Gerbe, la Prèvesa, Santamaura, Tripoli, Tunisi.

Tuttavilla Girolamo, conte di Sarno, sue prodezze, I, 320. — Ucciso in Africa, I, 418.

Ufficiale, in genere, v. Capitano, Nobile, Padrone, Sopraccomito, Comito, Piloto, Commissario, Cercamare, Scrivano: in part., I, 112.

Uffreducci, fam. ancon., Ottaviano, e sue Carte idrogr., I, 36.

Ungheria salvata dal mare per div., I, 330.

Urbino, e sua scuola di arch. milit., v. Architetto.

Fam., v. Còrboli.

Usciere, trasporto pei cavalli, II, 360.

Uscita in battaglia, I, 88; II, 77. — Dall'angustie del blocco, II, 341.

Usodimare, fam. gen., cap. Marco, I, 372.

Utica, oggi Portofarina, approdo e incaglio, I, 413.

Vaccari, fam. rom., cap. Vincenzo, e sue galere, II, 291.

Valletta cav. Gio. rimbeccato da Dragut, II, 92. — Suo magistero, e termine del Moretto, II, 337. — La capitale del suo nome, II, 364.

Valtraversa, fam. civit., II, 258.

Varano, fam. camer., cap. Tommaso, II, 282.

Vassello e Vascello, dim. di vaso; e nel senso di grosso naviglio di linea, non si usava nel tempo, però non ne parliamo, v. Nave.

Vega don Gio., triumviro in Africa, II, 192. — Piglia il com., II, 243.

Vela quadra di nave, I, 168, 308. — Vela latina di galèa, novero e nomi, grandi, piccole, e di fortuna, I, 366. — Misure e prezzo, II, 160.

La vela latina porta meglio all'orza, II, 410.

Col vento in poppa fa orecchie di lepre, II, 65.

Vela, motore economico pei mercadanti, accessorio pei militari in tutti i tempi, I, 297, 410; II, 357.

Velame, quantità delle vele, II, 156.

Velatura, effetto e giuoco, v. Vela.

Vendita e compra, v. Galere.

Venezia e Veneziani, possenti sul mare, I, 309; II, 41. — In lega a Santamaura, I, 37. — In guerra per Cambrè, I, 70. — Battuti alla Polesella, I, 75. — Libertà del mare, I, 80. — Contro i Francesi di Genova, I, 83, 91, 94. — E contro gli Spagnuoli, I, 280. — Assaliti da Solimano lo ributtano da Corfù, I, 439; e da Cattaro, II, 85. — In lega con Carlo di Spagna, II, 15. — Così trattati da Carlo come da Filippo, II, 17. — Doppiezze, tardanze, abbandono, minacce, rapina, servitù, II, 83.

Offesi dai pirati, I, 379; II, 341. — Mollano nel titolo; e stringono nel capestro, I, 4, 48.

Vento, motore economico, v. Vela.

Venturieri, e cap. di ventura, ultima fine, II, 323, 335, 339.

Vernicale per Gavetta, doc., I, 366.

Verrucchio da calafato, II, 160.

Verruglio, variante di Verruchio, v.

Vertecchio tra i bozzelli, doc., II, 158.

Vestimento di marinari e soldati, I, 110. — Di ciurma, pezzi, misure e valuta, I, 370; II, 156.

Vetta, cánapo di manovra, I, 367. — Peso e valore, II, 161.

Vettori, fam. fior., cap. Paolo, I, 125. — A Biserta, I, 146. — Prigione, 161. — Riscosso, 163. — A Rodi, 169, 172. — Contro Francesi, 174. — Con papa Adriano in Spagna, 178. — Capitoli della condotta, 245. — Prede, 263. — Muore, 267.

Piero, nobile di poppa, muore, I, 160. — Ricordo, I, 261.

L'archivio perduto, I, 127.

Viaggi marittimi, v. Navigazione.

Viareggio e Carlo imp., II, 97. — Munizioni, II, 231. — Naufr., II, 249.

Vicenza, v. Scola, e Montenero.

Vicovaro, castello degli Orsini, v. Filippo Orsini.

Vigerio Marco giuniore, vescovo di Sinigaglia, com., II, 19.

Villafranca, galere e darsene, v. Savoja.

Villamarina, presso Genova, I, 85. ( Giustinian, Dispacci, II, 116, dal nome dell'Ammiraglio.)

Vinci (da) Leonardo col Borgia, I, 20, 51. — Fond. della scuola mista, I, 206.

Viola Carlo di Civitav., marinaro bombardiere, I, 374.

Visconti, v. Civitavecchia.

Vitelleschi e palazzo in Corneto, I, 22.

Vitelli, fam. tifern., cap. Alessandro, in Civit., I, 136. — Nel Regno, I, 285. — In Germania, II, 113.

Chiappino in Africa, II, 181, 239.

Giulio in Campag., II, 282, 283.

Vitellozzo a Piombino, I, 19.

Viterbo e i cav. di Rodi, I, 211. — Torri pentagone, II, 496.

Fam., v. Bussi.

Vitto giorn. di marinari, parti e valuta, I, 110, 299. — Di ciurma, I, 117.

Vittoria a Santamaura, I, 51. — Alla Polesella, 77. — A Codimonte, 283. — A Corone, 322. — A Patrasso, 324. — Alla Goletta, 421. — A Tunisi, 428. — Alla Girolata, II, 91. — Ad Afrodisio, 243. — Alle Cisterne delle Gerbe, 389.

Vittoria dei Turchi alla Prèvesa, II, 57. — Ad Algeri, II, 104. — Alle Gerbe, II, 409.

Vocaboli marinareschi, antichi e comuni in tutta l'Italia insino al presente, II, 360.

Vocaboli idrografici, nostrani ed antichi, voglionsi preferire agli stranieri e moderni, I, 207; II, 193, 385.

Zaccaria, fam. gen., cap. Benedetto, e suo doc., II, 358.

Zagaglia, v. Azzagaglia.

Zambara Giovanni, ajutante del Martinengo, I, 221.

Zane, fam. bol., cap. Marcantonio, ricordato, II, 148.

Zara (da) cap. Marco, II, 22.

Zara cap. Andrea, ricordato, I, 374.

Zelo disordinato, II, 83.

NB. Qualche errore caduto nella stampa è stato corretto nell'Indice.

NOTE:

1. Raynaldus, Ann. eccl., 1537, n. 54: « Medio septembri Pontifex.... meditabatur sacrum fædus cum Cæsare et Venetis contra Turcum.... quo represso, Concilium quantocyus celebrare. »

P. A. G., Medio èvo, e Guerra dei pirati, Vedi l'Indice alla voce Legato. — Qui sopra, nel vol. primo, p. 32.

2. Paulus Pp. III, Dilecto filio nobili viro G. Virginio Ursino, comiti Anguillariæ. — Dall'Archivio dei Notaj camerali, come alla nota quarta, protocollo di B. Berisio, ch. 381 vers.: « Dilecte fili etc... Mittimus isthuc venerabilem fratrem Joannem e pu m Papien., causa revidendi et recognoscendi computa galearum nostrarum, qui etiam tibi nonnulla nostro nomine referet. Quare ejus relatis, non secus ac Nobis habebis fidem. Datum Romæ apud s. Petrum, die quinto novembris MDXXXVII, pont. n ri. an. quarto. — Fabius Vigil. »

3. L' Archivio principesco degli Orsini, aperto per la somma cortesia dell'eccellentissimo don Filippo alle mie ricerche, forse appresso darà maggior chiarezza ai fatti del conte Gentile, quando saranno fatti gli indici e gli inventarî, recentemente ordinati dalla saviezza del possessore.

Bosio, e gli altri appresso alla nota 8.

4. Archivio dei Notaj e cancellieri di Camera a Montecitorio in Roma. Volume segnato, Contract. ab anno 1534 ad 1539. Not. Berisius, ch. 377: « Die dominica undecima novembris MDXXXVII, Civitævetulæ in palatio Cameræ etc. — R em us in Christo pater et dominus Joannes de Rubeis ep u s Papien. Cameræ a pl icæ præsidens et clericus, et commissarius a S S mo D. N. Papa ad locum Civitævetulæ destinatus, rev. d. Guido Pacellus commissarius et Alexander Bencius computista dictæ Cameræ, qui ex eo quod intendunt tres triremes S S mi D. N. Papæ cum suis armamentis, furnimentis, et rebus eis necessariis sibi ipsis ab i ll mo et e xm o d. Gentile Virginio Ursino, comite Anguillariæ consignandas, postquam sibi consignatæ fuerint, nobili d n o Jacobo Hermolao Sanctitatis suæ camerario secreto, et dictarum triremium capitaneo asserto consignare, prout Sanctitas sua verbo tenus dicto r m o d n o epo et clerico, ut ibidem assertum fuit, commisit; et similiter re m us d. e p us Ariminen. Sanctitatis suæ et Cameræ ap li cæ generalis thesaurarius similem commissionem sibi dedit verbo: tamen easdem triremes recipere nec acceptare intendunt nisi prius per aliquos peritos expertos nautas, et per dictum d. Jacobum cum aliis duobus nautis ab eo nominandis, si navigabiles et paratæ ad exercitium maritimum fuerint, dictum et attestatum fuerit, cum in similibus experientiam aliquam non habeant; et propterea coram ipsis vocare fecerunt d nu m Paulum Justinianum venetum, Joannem de Milano patronum galeræ sancti Augustini et Georgetum Cammillum comitum dictæ galeræ qui demum coram eisdem r m o d. ep o. ac d ni s commis. et computista affirmarunt dictas tres galeras Sanctitatis suæ nunc in portu Civitævetulæ existentes, nuncupatas unam S. Petro, aliam S. Paulo, reliquam S. Joanni, vidisse illasque in rei veritate navigabiles aptasque et paratas ad bellum et usum marittimum, dummodo earum ciurmis et panaticis necessariis furniantur, etc. et pro talibus teneri et adjudicari posse prout ipsi tenent et judicant. Super quibus etc.

» Acta fuerunt hæc. Civitævetulæ in palatio Cameræ etc, die et anno ut supra.

» Successiva vero die præd. d. Jacobus Hermolaus dixit et affirmavit tres galeras in præinsertis designatas cum armamentis furnimentis et aliis rebus dictis galeris necessariis jam a quatuor diebus citra cum aliis duobus practicis et expertis nautis, sibi fidis et amicis, nominatis Bartholomæo de Gallipoli patrono capitanæ, et Dominico de Genua patrono triremis S. Pauli, ab ipso d. Iacobo vocatis; et cum eo revidentibus et judicantibus, bene et fideliter atque accurate vidisse, illasque pro bonis et navigabilibus ac aptis et paratis ad omnem et quamcumque factionem et exercitium marittimum, etiam ad navalem bellum, cognovisse et judicasse. »

5. Archivio cit., nella nota precedente ch. 382: « Inventario de la ghalera Capitana de santo Joanne de Nostro Signore, qual'è al presente nel porto de Civita vecchia, et altre cose consegnate per l'il lm o et e xm o signore il signor conte de Languillara al rm o signor vescovo di Pavia presidente et chierico di Camera a pl ca, come commissario di Sua Santità a dì XII de novembre del MDXXXVII. Velame etc. — Sartiame ecc. L'artiglieria di san Giovanni ecc.... — Inventario della ghalera di san Paulo.... ecc. — Et de sancto Pietro ecc. »

6. P. A. G., nel primo volume, p. 364.

7. Paulus III, Jacobum de Hermolais nuncium et commissarium deputat pro securitate littorum Romandiolæ et Marchicæ, earum comunitatibus præcipiens ut cujuscunque generis victualia, earum naviliis conducenda, justo prætio recepto, subministrent trans mare Christianæ Classi. — Datum Romæ die secunda januari MDXXXVII. — Arch. Secr. Vat. ex tom. minut. brev. die dicta, numero 40, p. 52, e copia presso di me.

8. Bosio cit., III, 177, E: « Tutta l'armata in Corfù.... comprese.... le galere che in Civitavecchia armate s'erano a carico del conte dell'Anguillara, che erano del Papa. » 178, A: « Il conte non portava stendardo alcuno. »

Marco Guazzo, Istorie de' suoi tempi, in-8. Venezia, 1549, p. 234: « Presenti all'armata quattro galèe del conte dell'Anguillara, Capitana, Padrona, santo Agostino, e santo Paolo. »

Docum. cit., nota 4: « Paulum Justinianum, Joannem de Milano, et Georgettum Camillum comitum galeræ sancti Augustini. »

Archivio de' Notari Camerali, alle ultime note di questo libro: « Inventario della galea Vittoria consignata all'i ll mo signor conte de Languillara. »

9. Raynaldus, Ann. eccl., 1538, n. 4: « Die octava februarii. Hæc sunt capitula fœderis et ligæ per S Sm um in Xt o P. et D. N. D. Paulum divina provvidentia Pp. III, ac serenissimum et potentissimum principem D. Carolum V. Rom. Imp. semper augustum, Hispaniarum et utriusque Siciliæ regem Catholicum, tum suo quam serenissimi etiam regis Romanorum ejus fratris nomine, nec non il lm um Ducem Senatum et Dominium Venetorum contra Turcas etc. »

Spondanus, Ann. eccl., 1538.

Du Mont cit., Corps diplomatique, IV, ii.

Lunig cit., Codex Italiæ diplomaticus.

10. Prudencio Sandoval, Vida y echos del emperador Don Carlos quinto, in-fol. Pamplona, 1634, lib. XXIV, n. 6, II, 183.

Andreas Maurocenus, Histor. Venet. lib. V, in-4. Venezia, 1719, p. 492. — Vedi appresso la nota 106, e segg.

11. Documenti cit., alle note 4, 7, 8.

12. Paulus III, Hieronymum Grossum, triremium contra Turcas muniendarum, commissarium constituit, dalle Schede Borgiane, e copia presso di me: « In provinciis nostris Marchiæ et Romandiolæ.... milites, nautas, et remiges conducas et describas.... carceratos et facinorosos et damnatos ad triremes inquiras etc. — Dat. Romæ die octava januarii, MDXXXVIII. Pont. IV. — Fabius Vigil. »

13. Paulus Pp. III, Marcum e pu m Senegalliensem classis maritimæ adversus Turcas jam paratæ commissarium constituit. Dall'arch. di Ancona, Schede Borgiane, e copia presso di me: « Pro majori et celeriori executione.... tibi mandamus ut victualia et alia omnia ad classem necessaria pares.... et remiges in toto Statu ecclesiastico tibi assignari procures. Dat. Manliani die xvi martii. Pont. IV. »

14. Archivio della eccellentis. casa Ricci in Roma, nel suo palazzo a Monserrato. — Scritture originali di monsignor Giovanni Ricci, tesoriere dell'armata navale in tempo di Paolo III. — Sono sette volumi in gran foglio legati alcuni di cordovano, altri di pergamena, e quivi corrispondenze, ordini, lettere, remissioni di danaro, spese e simili. Ne verrò citando, secondo il bisogno, i titoli e i documenti, e con essi potrò correggere errori e varianti di data e di nomi che pur vanno per le stampe.

15. Ferdinandus Ughellus, Italia sacra, in-fol. Venezia, 1720, V, 133.

16. Angelus Massarellus, Diaria, Mss. Concilii tridentini: « Quarto idus Februari.... Dominus Marcus Grimani, patriarca Aquilegiensis, classis pontificie præfectus, sacris in basilica principis Apostolorum peractis, designatus fuit: qui die tertia Martii ex Urbe recedens Corcyram versus cum triremibus pontificiis iter arripuit. »

Raynaldus, Ann. Eccl., 1538, n. 4, et 7.

Jovius cit., 456.

Maurocenus cit., 479, 511.

17. Archivio Ricci cit., Volume intitolato Tesoreria dell'armata contro il Turco: Ordini, conti, ricevute, et altro per servitio di detta armata, segnato di fuori col numero IX da pagina 128 a 174; specialmente la pagina 134, contiene la gran maggioranza della nota seguente.

Morosini cit., 519: « Patriarca Grimanus.... cum classe sua.... cum trigintasex triremibus. »

Marco Guazzo cit., 234, 235.

Bosio cit., III, 177, E. — 173, D.

Ammirato cit., II, 661.

Jovius cit., 560.

Verdizzotti cit., 653.

Mambrino Roseo cit., 226.

Alfonso Ulloa cit., 153.

Prudencio Sandoval, II, 183.

18. Girolamo Ruscelli, Precetti della milizia moderna, in-4. Venezia, 1568, p. 40, B.

Muratori, Annali di Italia, 1547, prop. fin.

19. Leandro Mele, Mss. Genealogia della nobile famiglia Ricci di Roma, nell'Arch. della medesima. Un giusto volume in-4. — Si parla di Miniato e di questa spedizione da p. 165 a 176. — Verrà poscia sovente menzione dello stesso Miniato.

Archivio Ricci cit., vol. IX, p. 134.

Archivio municipale e parrocchiale di Civitavecchia cit.

20. Maurocenus cit., 500: « Capitaneo generali injunctum est ut Anconam proficisceretur ad quinque peditum millia subducenda, que in pontificis et urbinatis ditionibus erant conscripta. »

21. Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra le Deche di Tito Livio, lib. I, cap. XI, e XV: « Quanto importa negli eserciti conservare incorrotte le pratiche della Religione. »

Lodovico Ariosto, Il Furioso, XL, 11:

« Come veri cristiani, Astolfo e Orlando,

Che senza Dio non vanno a rischio alcuno,

Nell'esercito fan pubblico bando,

Che sieno oration fatte e digiuno. »

22. Petrus Paulus Gualterius, Diaria Cærem. Mss. cit., a die XXIII martii, ad VI julii.

Archivio Ricci cit., IX, 181: « Il papa partì da Roma a ventitrè di marzo, e tornò ai primi di luglio. »

23. Niccolò Tiepolo, Relazione dell'abboccamento di Nizza tra Paolo III, Carlo V, e Francesco I, e della tregua seguitane, ap. Du Mont, Corps diplomatique, IV, ii, 172.

Raynaldus, Ann., 1538, n. 8.

Angelo Pendaglia, Lettera narrattiva dell'abboccamento di Nizza, con note del canonico Giuseppe Antonelli, in-4. Ferrara, tip. Bresciani, 1870.

24. Maurocenus cit., 514: « Pontifex octavo calendas julii Genuam pervenit, mox cæsarianas triremes conscendens Centumcellas delatus inde Romam petiit. »

25. Archivio Doria, Lettera di Don Diego Ortiz, data da Madrid, 29 novembre 1570, e diretta al principe Giannandrea Doria in Genova: « Omissis.... Et prior don Antonio me ha dicho esta mañana (haviendolo yo informado primero de que por la corte se dizia que Marco Antonio se quexava de V. S. Il l.ma), que no tema de nada porque el entiende que Su Majestad y el Consejo tienen toda satisfaçion possible de la manera como V. S. Il l.ma ha procedido en toda esta jornada: y pues que hay esto, de todo lo demas se puede V. S. Il l.ma burlar. » Originale, autografo importantissimo e inedito, che vien bene in questo luogo per la sua precisione e brevità a confermare il discorso dal trentotto al settantatrè. Tutti i disordini erano approvati a Madrid.

26. Francesco Maria della Rovere (duca d'Urbino), Discorsi militari, in-12. Ferrara, 1583. — Opera postuma, dove esso stesso parla dei consigli e discorsi fatti in Venezia sopra queste guerre dei Turchi dell'anno 1537 e 1538; specialmente p. 1, 4, 10, 14, 27.

Giambattista Leoni, Vita di Francesco Maria della Rovere. Venezia, 1605, p. 452: « Morì addì 20 ottobre, 1538. »

Card. Farnese, Lettera a monsig. Gio. Ricci in Venezia, data di Roma, 28 ottobre, 1538. — Arch. Ricci, Armata navale, cit., IX, 225.

Muratori, Ann., 1538: prop. fin; « Terminò i suoi giorni nel dì primo d'ottobre, Francesco Maria della Rovere duca d'Urbino,» e cita Alessandro Sardi, Storia mss.

27. Verdizzotti cit., 653: « Scrisse Cesare a Ferrante Gonzaga che dovesse condursi senza indugio a Corfù.... Scorgevano al solito i Senatori di Venezia che queste confidenze venivano misteriosamente sporte.... per nudrire le speranze della repubblica, acciocchè in tanta tardità di cose non ripigliasse i negoziati di pace colla Porta. »

De Hammer cit., X, 514: « Barbarossa portava incendio e ruine sulla costa di Candia. Retimo e Canea seppero resistere alla furia: ma i corsari presero vittovaglie e artiglierie da Milopotamo e da Scittia abbandonate, e incendiarono ottanta villaggi. »

28. Maurocenus cit., 519: « At Grimanus moræ impatiens, generoso animi impetu incitatus.... privato consilio aliquid se conficere posse ratus, Corcyra solvens.... cum triginta sex triremibus.... ad Ambracii sinus fauces delatus est. »

Ulloa cit., 16: « Mentre in Corfù si aspettava.... messer Marco Grimani patriarca d'Aquileggia capitano delle galere del Papa.... per non perder tempo.... determinò di occupare la Prevesa, per esser luogo di mare molto importante. »

29. Coronelli, Atlante veneto, grande in-fol. Venezia, 1690, II, tav. 25.

Idem, Piante di città e fortezze, in-fol. Venezia, 1689, tav. 155.

W. H. Smith, R. N. Jonian Sea, from Purga to Katakolo, and the gulfs of Arta and Patras, in-fol. Londra, 1825. — Admiralty charts.

30. Mambrino Roseo cit., 226.

Marco Guazzo cit., 232.

Sabellici, Contin. cit., 493.

Jovius cit., 476.

Verdizzotti cit., 654.

Justinianus cit., 274.

Segni cit., lib. IX.

31. Archivio Ricci, Lettera del Patriarca a Monsignor Giovanni Ricci, data da Corfù, addì primo settembre 1538, nel volume segnato IX, pag. 172.

32. Bosio cit., III, 178, B: « Sebbene fatto non venne al Patriarca per il gagliardo soccorso che al Castello della Prèvesa dettero i Turchi di Lepanto, fu nondimeno cagione che Barbarossa da Candia si levasse. »

33. Marco Grimani patriarca d'Aquileja e legato apostolico sull'armata di Nostro Signore, Lettera a monsignor Giovanni Ricci, tesoriero dell'armata medesima in Venezia. — Archivio Ricci, volume intitolato: Tesoreria dell'armata, IX, 163.

34. Lo Schirazzo era navetta da carico, usata dai Levantini in quel tempo. — Come sopra a p. 436.

35. Bernardino, cioè Bianchi, segretario del Patriarca, per mezzo del quale si manteneva la corrispondenza ordinaria tra il Legato e il Tesoriere.

36. Non perder più tempo!! Testimonianza imparziale del Legato apostolico, ministro papale. Perder tempo! in quelle circostanze, per mancanza del Doria, nel mese d'agosto!

37. La Parga. Questo è quel castello, di che parla il Berchet nella sua notissima poesia, intitolata Gli esuli di Parga.

38. Lune e giobbia. In dialetto veneto, vale lunedì, martedì, mercoledì, e giovedì: e così Prèvice per Prèvesa, ed altri idiotismi che ciascuno corregge da sè.

39. Cannonate qui intende tiri di cannone intiero e ordinario da cinquanta (senza contare i tiri dei mezzi e dei quarti cannoni, da ventiquattro e da dodici), tanti da consumare la munizione valutata a trenta cariche per ciascun pezzo grosso di ciascuna galèa, disponibili in terra, senza togliere le altre trenta necessarie nel mare, che a sessanta si valutava il complesso, come in alcun luogo dimostrerò. Questo doveva essere messo a memoria dal commissario Ricci, perchè fornisse subito dell'altra munizione.

40. La Canèa. Dunque liberata dall'assedio, come è detto; e pareggiata la partita colla Prèvesa, da una parte e dall'altra. Le notizie correvano rapide per la vicinanza dei luoghi, la qualità della stagione, e la moltitudine dei fuggitivi e degli incrociatori.

41. Interzare, parlando di remeggio in questo caso, significa mettere tre uomini almeno a ogni remo. Chi si trovava con due, era fiacco, e cercava il terzo, pigliandone tra i Turchi prigionieri. Data l'espugnazione della Prèvesa con qualche centinajo di prigionieri, il Patriarca si sarebbe interzato a preferenza di ogni altro.

42. La necessità dei tempi. Dunque i Veneziani capivano da sè la qualità dei tempi vicini all'equinozio, la stagione inoltrata, e il bisogno di armarsi a dovere, senza andare all'altrui scuola, e senza ricevere in casa per violenza gente straniera. Dunque la difficoltà dei nostri armamenti era sempre pei rematori. E più si vede uno dei casi che porta la variante nel numero dei legni di un'armata.

43. Questi è Miniato Ricci, giovane fratello del Tesoriere, imbarcatosi per venturiero sull'armata romana. Siamo chiari che il fratello maggiore, temendo perderlo, usava ogni arte a richiamarlo: ma egli stette saldo, e appresso avremo una sua relazione inedita della gran giornata, alla quale fu presente.

Mele, mss. cit., Genealogia di casa Ricci, in quell'Archivio, da p. 165 a 180.

44. Documento, che verrà per esteso alla nota 81, 82.

45. Prudencio Sandoval, Vida y echos del emperador Carlos V, in-4. Pamplona, 1634, II, 184: « No se pudieron armar las doscientas galeras que prometieron.... las españolas no fueron allà. »

Bonfadius Jacobus, Ann. genuen., in-8. Brescia, 1747, p. 147: « Veneti omne suum belli apparatum Corcyram contulerant. »

46. Marco Guazzo, cit., 235: « La nave grossa Cornara, armata per il Legato. »

M. Grimani, Lettera cit. alla nota 33.

47. Antonio Doria cit., Compendio, p. 74: « Galèe centotrentacinque, navi più di cinquanta, soldati diecimila imbarcati. »

Bosio, III, 178, A: « Centotrentaquattro galere, e settantadue navi. »

Marco Guazzo, 234, 235. — Archivio Ricci cit.

E gli altri che di continuo cito.

SPECCHIO dell'armata cristiana l'anno 1538.

Colonne:

S: Soldati — M: Marinari — R: Rematori — G: Galere — N: Navi — C: Cannoni.

FORZA

Contingente di PERSONALE MATERIALE

S M R G N C

1. Roma 2800 1400 4050 27 1 300

2. Venezia 7400 4600 10800 72 20 960

3. Malta 400 200 800 4 » 44

4. Monaco 200 100 300 2 » 20

5. Napoli 1800 900 750 5 10 350

6. Sicilia 1600 800 600 4 10 320

7. Andrea Doria 2200 1100 3300 22 » 220

8. Antonio Doria 600 300 900 6 » 60

9. Marchese di Terranova 200 100 300 2 » 20

10. Spagnoli sulle navi 10000 500 » » 10 300

Totale 27200 10000 21800 144 51 2594

Uomini 59,000

Legni 195

Cannoni 2,594

48. Bosio cit., III, 178, C: « I generali tennero consiglio.... Non parve al Principe il tener l'armata a quella traversìa.... Stagione e tempi cominciati a rompere.... e per il parer suo andare all'espugnatione di Lepanto e di Patrasso, quindi la conquista della Morèa. »

49. Jovius cit., 375: « Venetis triremibus non plene confisum Auriam disserebant.... quod ab initio presidium hispanorum militum, quod distribui in venetas triremes debebat ut propugnatoribus firmiores evaderent, superbe repudiassent. »

Bosio, 178, C: « Per mettersi al sicuro il principe Doria prese risoluzione di rinforzare le galere veneziane, disegnando di mettervi dentro venticinque soldati per galera, degli spagnoli vecchi.... e questo anche per assicurarsi. »

Mambrino Roseo, cit., 228: « Il Cappello accettasse venticinque archibugeri spagnoli per ciascuna galera.... egli disse che quando gli fosse parso mettere altra gente avrebbe fatto venire altri soldati in supplemento.... Il Principe non disse altro, mostrando restar soddisfatto. »

50. Bosio cit., III, 178, E: « Il generale Cappello non volle in modo alcuno i soldati spagnuoli nelle sue galere.... Con tutto ciò il Principe non lasciò di passare oltre, e mandò innanzi quattro galere a carico di Giovan'Andrea Doria suo nipote. » (Leggi di Giannettino, perchè Giannandrea non era nato nel 1538, ma l'anno seguente.)

51. Jovius cit., 372, 18: « Turcicæ namque triremes quatuor, cum expeditis totidem triremibus egressæ eludendo rursus intra fauces se recepere. »

Bosio cit., III, 178, E: « Uscir si videro sei galere disalborate dalla bocca dell'Aria.... e poco dopo altre sei.... gli andò incontro il Simeone colle quattro galere della Religione e due del Papa.... Dopo ne uscirono altre quattro.... il Patriarca Grimani le fece ritirare. »

Antonio Doria, Compendio cit., 74: « Barbarossa uscito con parte delle sue galere a scaramuzzare.... Andato Andrea con tutta l'armata, et parendoli di non tentare l'entrata, et di star fori inutile, deliberò partirsi. »

52. Jovius cit., in-fol. Basilea, 1578, p. 373: « Navigiorum omnis generis quæ remis aguntur centum quinquaginta.... leviores vero myoparones.... Mediæ aciei cohærebant cornua tanto ordine ut alas extendentis aquilæ speciem præberent.... Mirabundus Auria.... »

Bosio, 179, C: « Andò Barbarossa con sì bella e ben intesa ordinanza che con maraviglia ne fu non poco dall'istesso principe Doria laudato. Tutta l'armata rappresentava la figura d'un'aquila, che le grandi ali spiegasse. »

De Hammer, X, 513: « Ssalih-reis, Tabâch-reis. »

53. Paruta cit., 61: « Si tornò di nuovo a consultare.... all'hora il Doria disse: Bisogna per certo pensarci bene.... perdute queste forze è disperato ogni soccorso. »

Cesare Campana, Vita di Filippo II, in-4. Vicenza, 1605. Parte I, deca II, p. 37, b: « Quivi si ebbe lungo e prudente consiglio di quanto si havesse a fare. »

54. Ulloa Alfonso cit., 157: « Si dice per cosa certa che il Cappello, vedendo gli nimici, desideroso di combattere, disse al Principe.... che egli era presto.... gli desse la vanguardia.... si porrebbe volentieri ai primi pericoli. »

55. Mambrino Roseo cit., 228: « Il patriarca Grimani e il generale dei Veneziani sollecitano il Doria al combattere. »

56. Bosio cit., 180: « Avendo ogni galera il suo luogo in conformità dell'ordine che, in una carta particolarmente descritto, si era mandato a ciascuna galea per ordine del Principe. »

Paruta, 63: « Volle il Doria colle sue galere porsi dinanzi agli altri, tenendo il luogo dalla parte del mare; al Cappello assegnò la battaglia, e nella retroguardia il Grimano. »

57. Antonio Doria, Compendio cit., 76: « Barbarossa, veggendosi andar sopra le navi a vele piene, hebbe terrore. »

58. Ulloa cit., 157, fin.: « Dal galeone furono disserrate tante cannonate che fece ritirare i Turchi non senza gran danno. »

59. Prudencio Sandoval cit., 184, b.: « Los de la liga quieren batalla.... nunca hombres estuvieron con mayor gana de pelear, que los de la liga aquel dia.... pedian batalla Vicente Capello y el Patriarca.... No queria pelear Andrea de Oria sin las naves. »

60. Ulloa, 157: « Il Doria.... facendo un lungo circuito, senza venire alle mani coi nemici, faceva maravigliare ognuno. »

Marco Guazzo cit., 239: « Il Principe un'altra volta addietro e di fuori delle navi ritornossi. »

Verdizzotti cit., 660: « La vera cagione dei ritardi del Doria era quella stata sempre. Non voleva combattere. Nè tardò molto a manifestarlo chiaro. »

Paruta cit., 68: « Il Doria risoluto, come mostrarono tutte le osservazioni sue, di non commettersi al rischio della giornata. »

61. Paruta cit., 67: « Il general Cappello ed il patriarca Grimano gridarono ad alta voce che non si perdesse omai più tempo.... E al Doria disse: Andiamo, signore, ad urtare i nemici che fuggono; il tempo e le voci dei soldati ne invitano, la vittoria è nostra, io sarò il primo ad investire. »

Marco Guazzo, 239: « Il general Cappello andato dal Prence disse: Che facciam noi? Chè non investiamo nei nemici? »

62. Marco Guazzo, 240: « Nell'hora che il sole si preparava per tuffarsi, un nembo con alquanto di vento levossi.... per andare a vela a Corfù. »

Ulloa, 158: « Nembo col vento di Scirocco. »

Paruta, 68.

63. Bosio cit., III, 480, D: « Barbarossa si era già tanto avvicinato, che dalle galere delle Religione si discernevano i colori delle giubbe e dei vestimenti dei Turchi. »

64. Prudencio Sandoval cit., 185: « Andrea de Oria.... sin concierto ni respecto echò le buelta dè Corfù, hacia do corria el viento; haviendo perdido aquel dia la honra y fama que de buen capitan tenìa. »

Bosio cit., 180, D: « Il Principe fece dare il timone alla banda contro l'aspettazione degli amici e dei nemici, declinando dal dritto cammino, allargandosi in mare. »

Mambrino Roseo cit., 229: « Infame fuga dell'armata cristiana.... Il Principe si rivoltò verso Ponente coll'armata dilungandosi ogni ora più dalla drittura.... e se ne andò a Corfù. »

Ulloa, 157: « E così il principe Doria, capitano di tanta esperienza, quel giorno non valse nulla, perdendo l'occasione migliore che mai ebbe di lode e fama con grande accrescimento della cristiana religione.... L'Imperatore non aveva colpa. »

65. Antonio Doria, Compendio cit., 77: « Andrea Doria diede la volta.... Andrea schivò la battaglia la seconda volta.... Barbarossa veduto fuggire le galee cristiane. » (Nel punto della fuga tutti combinano, anche Antonio, parzialissimo di Andrea. Però la sua confusione manifesta nel racconto a salti e pieno di ambagi, tra le quali ne metto una sola per saggio, dove dice: « Restando a ponente più verso la terra di Leucata. » Questo è impossibile, perchè Leucada guarda per traverso ponente, e chi le resta più a ponente sta più verso mare, non più verso terra.)

66. Ammirato cit., 661: « Restaronvi prese due galere; una veneta di Francesco Mocenigo ucciso d'archibugiata, ed una pontificia dell'ab. Gio. Batta Bibiena, che fu fatto schiavo. »

Mambrino Roseo cit., 229: « Furono prese due galere di Cristiani; l'una dall'abate Bibbiena.... e l'altra di Francesco Mocenigo.... le quali combatterono con mirabile difesa. »

67. Ulloa cit., 157, b. med: « Barbarossa prese due galere.... e la nave di Luigi di Figueroa spagnolo, et alcune altre navi da carico, le quali furono abbruciate. »

Sandoval cit., 184: « Los Turcos combatieron tres naos en que iban españoles, y tomaron la del capitan Villegas de Figueroa, natural de Ocaña. »

68. Sandoval cit., 185: « Barbaroxa dixo en español muchas veces, y todas riendo a carcaxadas, O como Andrea de Oria mata a las linternas por no ver por donde huye! »

69. De Hammer cit., X, 517: « Le imprese di Barbarossa.... furono prosperose solo per la inattività del Doria. »

Antonio Doria cit., 52. — V. vol. I, p. 342.

70. Miguel Cervantes, Don Quixote, in-8. Ambères, 1673, I, 451: « A quel dia de Lepanto.... se desengaño el mundo, y todas las naciones del error en que estaban, creyendo que los Turcos eran invencibles por la mar. »

Leopold Ranke, The ottoman and Spanish empire, in-4. Londra, 1843, p. 23: « The Turks ruled the Mediterranean in war and piracy ever since that day of 1538.... They believed that the christians would never venture again to stand before them in open fight. This superiority endured till the year 1571. »

71. Bosio cit., III, 181, E.

Sandoval cit., 185.

Brantôme, Capit. étrang. Leida, 1666, II, 45.

Mambrino Roseo cit., 231.

Lettere de' Principi, Venezia, 1561, p. 132.

72. Civiltà Cattolica, del 4 settembre 1875, p. 515: « Ferdinando d'Aragona aveva nelle sue mani il Consiglio supremo delle Indie; e guai allo scrittore che si fosse osato allora dar lodi al Colombo, in onta alla volontà ed ai risentimenti di cotesto Consiglio! » (Sempre l'istessa prepotenza, tanto nella lode che nel biasimo, secondo la ragione o meglio l'ingordigia di stato.)

73. Scipione Ammirato, Storie fiorentine, in-fol. Firenze, 1641, parte II, 661.

74. Paolo Paruta, Storia di Venezia, in-4. 1717, lib. IX, p. 70.

75. Card. Sforza Pallavicino d. C. d. G. Storia del Concilio di Trento, in-fol. Roma, 1666, lib. IV, n. 30, p. 91.

76. Cav. Jacomo Bosio, Storia della sacra religione et illustrissima milizia di San Giovanni Gerosolimitano, in-fol. Roma, pel Facciotto, 1602, III, 181, D.

77. Odoricus Raynaldus, Congr. Orat. Annales Ecclesiastici post. card. Cæsarem Baronium, in-fol. Roma, Anno 1538, n. 26: « Quid porro a sociali classe gestum sit hoc anno, pudet referre.... Defuit Andreas Auria.... ductis mari variis gyris et navalis peritiæ inani ostentatione, demum turpem fugam, ridente Barbaro, capessivit.... Cumque adversi rumores spargerentur, ferunt.... eos contempsisse, cum omnia revocaret ad commodum Cæsaris, qui turcico bello implicitos Venetos, a præpotente hoste viribus et opibus exhauriendos, terrestris imperii urbibus expoliare posset. »

78. Carlo Sigonio, Vita e fatti di Andrea Doria, tradotti in volgare da Pompeo Arnolfini, in-8. Genova, 1598, p. 210.

79. Cappelloni Lorenzo, Vita e gesti di Andrea Doria, in-8. Genova, 1565, p. 79, 89.

80. Cappelloni cit., p. 79.

81. Archivio Ricci in Roma: Volume intitolato Cardinal Ricci, istrumenti, ordini, bilanci e lettere. t. X, p. 138. — Lettera di messer Miniato Ricci a monsignor Parisani, tesoriere in Roma. Data da Corfù ai 30 settembre 1538.

82. Il glorioso Messia. Ecco lo stentato arrivo, il lungo ritardo, ed il nomignolo di beffa ad Andrea.

83. Dire a bocca! Tanto era il dispotismo possente e temuto! Vedi appresso per la cifra, nota 98 e pel silenzio la prec. 72.

84. Il numero ribatte collo specchio dato alla nota 47, salvo le avvertenze ivi premesse.

85. Cannoni, più che trenta pezzi da cinquanta per galeone, e più che cento di calibro minore.

86. Scaramucciato. Tocca di volo il badalucco alle fauci dell'Arta per disfida languida, come è detto. Cinque o sei schermugi di quattro e sei legni per volta.

87. Ore dieci. Secondo l'orologio italico, equivalgono alle quattro ore dopo la mezzanotte, e il vento in faccia di Grecolevante.

88. Molte discussioni. Ecco le noje del lungo Consiglio che fecero perdere le tre ore e il vento.

89. Un poco di vento. Dopo il Consiglio, anche questo giovanetto ingenuo trova il vento favorevole di Levante scirocco, e porta le navi a contatto dei nemici, con tanto animo che i legni di fila dell'avversario erano stimati per nulla.

90. La bonaccia dal mezzodì alle cinque pomeridiane. Parla della nave del capitan Hermosilla, che valorosamente si difese. L'autore narra per anticipazione alcuni combattimenti avvenuti dopo.

91. Una galèa del Papa. Parla eziandio per anticipazione della galèa del cavalier di Bibbiena: male in gambe, cioè nel palamento, con pochi rematori, come è detto. L'autore non parla per veduta, ma per detto di un marinaro scampato.

92. Un nembo. Qui si mostra nella sua semplicità il novello marino, perchè quel nembo di Scirocco sarebbe stato il gran beneficio e avrebbe condotto navi e galere in massa contro il nemico, disordinato, se da chi lo capiva fosse stato colto al detto fine, e non rivolto alla fuga ed al disturbo degli amici.

93. Ventiquattro ore. Il tramonto e la fine della giornata, come alla nota 62. Scirocco fresco.

94. Paura. Descrive il timor panico propagatosi alla inattesa manovra di Andrea; e la sospensione di Barbarossa nel principio della fuga: chè dopo realmente diè caccia alla coda, dove non era il Ricci.

95. Artiglieria a scogli. Qualche iperbole, secondo il solito, messa fuori da belli ingegni.

96. Quello. Non ardisce nominare il peccatore, sapendo con chi è legato. Ma prevede che non perderà niente nè in un punto, nè in molti anni di là; ma soltanto nella estimazione degli altri di qua.

97. Dominio in cielo et all'inferno. Tratto di spirito, messo in giro fin da quel giorno, e poscia afferrato per inquartarlo a proposito nelle difese di Andrea.

98. Mai tal ventura. Qui mettesi in cifra, e parla sul sodo, ed è importantissimo il suo discorso scritto dopo tre soli giorni dal famoso scontro. Egli medesimo si avvede di entrare addentro nella spinosa materia, perchè continua in scrittura arcana, non mai più intesa da altri. Devono essere sentenze udite all'armata a carico di supremi personaggi.

99. Il Cavaliere. Dal contesto presente e da tante altre lettere, dove espressamente è nominato, dico il cav. Giovanni Maria Straticopulo dell'Ordine di Malta, comandante di fanale sulle galèe del Papa, del quale sovente parla il Varchi nelle Storie fiorentine, ed il Bosio nelle Maltesi, 88, B; 99, B; 107, A.

100. Messer Giovanni. Questi è Monsignor Ricci, fratello dello scrivente, e tesoriero dell'armata papale, che agli ordini del Patriarca provvedeva da Venezia e da Ancona al sostentamento e munizioni dell'armata medesima.

101. Raynaldus, Ann. eccl., 1538, n. 26: « Auria in portu Corcyræ se continuit, frementibus cæteris ducibus nec ferentibus ad tantum dedecus abjici christianam virtutem. Cumque Andreas pudore victus pugnæ tandem assentiretur, tamdiu prolata est consultatio ut Barbarossa, parta contentus gloria, in Ambracium sinum se receperit. »

102. Bosio cit., 182, A: « Avendo accettato nelle galere veneziane venticinque Spagnoli per ciascuna.... e giunti essendo al Paxù a sette d'ottobre, trovarono che Barbarossa si era ritirato all'Arta. »

103. Marco Guazzo cit., 247: « Le galèe a quattro a quattro dovevano battere Castelnuovo, e poi voltarsi e dar luogo alle altre quattro.... ma dopo le prime le altre quattro con tanta valorosità giunsero, che insieme andarono ad urtare nel detto Castello. »

104. Andreas Maurocenus cit., 535.

Marco Guazzo cit., 247.

Mambrino Roseo cit., 230.

Sandoval cit., 184.

105. Mambrino cit., 230: « Vi morì Boccanera.... con Cesare Giosia da Fermo, valorosi soldati ambedue.... »

Morosini cit., 535: « Cæsar Josias firmanus et Buccanigra hispanus, cohortium præfecti, ceciderunt. »

106. Raynaldus, Ann. eccl., 1538, n. 26: « Cum vero Castrum novum ex fæderis legibus Venetis deberetur, tamen Auria veteranas cohortes hispanas præsidiarias, ad quatuor millia, oppido imposuit: quod ægerrime tulit Senatus venetus. »

Sandoval cit., 185: « Andrea de Oria y Fernando Gonzaga metieron Españoles en los castillos, contradiziando Vicente Capelo que los pedia per virtud del concierto. »

Vedi sopra la nota 10.

107. Ulloa cit., 158: « Andrea Doria mise in Castelnovo quattro mila Spagnoli di quelli che si trovarono al sacco di Roma e nelle altre guerre d'Italia. »

Bosio cit., 182, D: « Quattro mila Spagnoli lasciati in Castelnovo in gastigo degli abbottinamenti e delle crudeltà fatte poc'anzi in Milano. »

Mambrino, 200.

Guazzo, 273.

108. Antonio Doria, Compendio cit., 78: « Ancorchè il generale di Vinitiani richiedesse che gli fosse consegnato Castelnovo, secondo le conventioni della lega, nondimeno vi fu lasciato Francesco Sarmiento con tre mila Spagnoli, dicendo Andrea e Ferrante di levargli innanzi alla primavera. »

109. Raynaldus, Ann., 1539, n. 31: « Veneti indignati quod Auria, violato fædere, superiori anno hostis delendi sprevisset occasionem, Solymanum de pace postularunt. »

110. Paruta cit., 115: « Biasimarono molti di comprar la pace così cara.... ma considerato lo stato delle cose, e le più vere ragioni, si rimasero tutti quieti, e fu lodata la prudenza. »

Ulloa, 158, b: « Carlo mandò il marchese del Vasto a Venetia a dolersi con essi loro delle cose successe, significando che egli non n'haveva colpa alcuna.... promettendo di metter per loro la vita e gli stati suoi se bisognassero. »

Muratori, Annali, 1539, princ.: « L'Imperatore e il Re di Francia per comparire zelanti del bene della cristianità verso la gente credula spedirono a Venezia.... facendo sperare possenti soccorsi. »

111. Antoine Fabre, Grammaire pour apprendre la langue espagnole, in-4. parvo, 1627. Venezia, presso Giovanni Guerigli, p. 283, linea ultima: « Buenas palabras y ruynes hechos engañan a sabios y a locos. »

112. Carlo V approva i disordini di Andrea, v. sopra nota 80.

Filippo II approva i disordini di Giannandrea, v. sopra nota 25.

Al modo stesso e nella stessa sentenza consentono i documenti che del continuo vengono alla luce per opera di solerti e diligentissimi collettori dagli archivi di Spagna, d'Italia, di Germania e del Belgio; di che si potrebbe tessere lungo catalogo noverando soltanto i più recenti dal Navarrete al de Leva, e dall'Heine al Gachard.

113. Bizarus cit., 508: « Barbarossa Castronovum terra marique acerrime obsessum.... hispanis omnibus aut trucidatis aut ad transtra triremium relegatis expugnavit. »

Petrus Paulus Gualterius, Mss. cit., sub die decimanona augusti MDXXXIX: « Nunciatum est Romæ Turcos die septima hujus mensis augusti expugnasse Castrumnovum, occiso præsidio quod ibi a Cæsare tenebatur. »

114. Raynaldus, Ann., 1539, n. 31: « Cum Barbarossa Cattaro urbi inhiaret a Matthæo Bembo præfecto, effusa globorum procella, repulsus est. »

Mambrino Roseo, 137, 138.

Matteo Bembo, Lettere al card. Pietro Bembo suo zio, con le risposte del medesimo e del Doge intorno a questa difesa: tra le lettere dei Principi, in-4 Venezia, 1562, da p. 133 a 143.

115. Mambrino Roseo, 251: « Avvenne che il principe Doria in Messina, il secondo dì del mese di maggio in quest'anno 1540, mandò incontro a Dragut Giannettino Doria con ventuna galèe ben armate.... Il Conte dell'Anguillara era con Giannettino. »

Bosio, III, 191, E: « Ordinò l'Imperatore che per quell'anno 1540 il principe Doria ad altro attendere non dovesse che a perseguitare et estirpare i corsali.... Dragutto preso. »

Antonio Doria, Compendio, 84: « In questi tempi Dragutto fu preso con nove de' suoi vascelli, il quale fu poi riscattato con danari. »

116. L. Florus, Histor. Rom., III, VI.

117. Bosio cit., III, 192 (nomina tutte le galèe raunate e spedite alle diverse parti).

118. Marco Guazzo cit., 273: « Il conte dell'Anguillara era con Zannettino colle sue galere. »

Mambrino Roseo cit., 252: « Il conte dell'Anguillara, che era con Giannettino, era trascorso oltre, et haveva con quattro galere assaltato le due di Dragut. »

Bosio cit., 192, D: « Dal conte dell'Anguillara furono prese le due galere che Dragut a guardia della preda lasciate haveva. »

119. Bosio cit., 192, C: « Dragut se n'era andato all'isola della Capraja. »

Alfonso Ulloa, Vita di Carlo V, in-8. Venezia, Valgriso, 1566, p. 160, B, lin. 33: « Giannettin Doria prese Dragut rais, corsale, a l'isola di Capraria de' Genovesi. »

Mambrino Roseo cit., 251: « Dragut dall'isola di Corsica.... era andato all'isola di Capraja. Giannettino seguendolo sempre, senza abbandonarlo di vista lo giunse in una spiaggia di mare, dove aveva tratta la preda in terra. »

120. Marco Guazzo cit., 273: « Il conte dell'Anguillara andò colle sue galere contro quelle che facevano la guardia alla preda. »

Bosio cit., 192: « Furono prese dal Conte dell'Anguillara le due galere.... Mamì rais veduto venirgli sopra il Conte si diede a fuggire pei vicini boschi.... dove poi fu fatto schiavo. »

Mambrino Roseo cit., 252: « Il conte dell'Anguillara.... trascorso oltre, haveva assaltato le due galere di Dragut che erano fermate alla spiaggia.... Mamì-rais abbandonò la preda.... e furono tutti presi.

121. Guazzo cit., 273: « Fra le galèe di Dragut ve n'era due già prese alla Prèvesa, l'una Moceniga, e l'altra Bibbiena. »

Mambrino Roseo, 251: « Dragut aveva lasciato in guardia della preda due galere, che erano quelle che i Cristiani perderono alla Prèvesa. »

122. Cappelloni cit., 90. Tace.

Sigonio, 211. Zitto.

Bonfadio, 155. Mosca!

Antonio Doria, 84. E buci!

123. Cesare Campana, Vita di Filippo II, in-4. Vicenza, 1608, lib. XIV, p. 59: « Giannettino se ne tornò come trionfante in Genova, facendoci molto solenne intrata il giorno di ventidue del mese di giugno. »

124. Ulloa, 160: « Dragut per via della moglie del principe Doria ottenne la libertà, havendo pagato una buona somma di danaro. Nel che si fece grandissimo errore, ec.»

Brantôme, Mémoires des capitaines étrangers de son temps. in-16. Leida, 1666, II, 45: « Fut une grande honte pour ceux qui le laisserent aller.... encore luy Dragut, dis-je, qui avoit fait tant de maux à la chrestienté, et estoit prest et suffisant d'en faire d'avantage. »

Mambrino Roseo, 252: « La Principessa mandò Dragut al marito in Messina.... il Principe lo mandò all'Imperatore.... egli glielo rimandò a dietro.... Il Principe lo liberò con taglia, e fu questa liberazione sì dannosa ai Cristiani, che ne patirono maravigliosa rovina, perchè divenne il più crudele e dispietato corsale. »

Bosio cit., III, 192, D: « Fu la liberazione di Dragut molto biasimata, e riuscì alla cristiana repubblica dannosa. »

125. Documenti sulla storia del regno di Napoli, pubblicati da Francesco Palermo nell' Arch. Stor. It., in-8. Firenze, 1846, IX, 113: « Marzo 1541. Le galere di Sua Santità arrivarono qui tre dì sono, e credo che si andranno a unirse con le altre; ed oggi sono ite a Castellammare per vino. »

126. Luis de Salazar y Castro, Glorias de la casa Farnesa, in-4. Madrid, 1716, p. 74: « Octavio Farnese saliò a recibir Carlos V, su suegro, con una gran comitiva de cavalleros italianos.... y luego accompagnò al Cesar en la infeliz jornada de Argel. »

Mambrino Roseo cit., 264: « L'Imperatore fu incontrato da Ottavio Farnese suo genero, con una gran comitiva di nobili cavalieri italiani. »

Jovius cit., 474, 28: « Imperator.... Octavium Farnesium, miræ indolis adolescentem, cum insigni comitatu obviam habuit.... ad ponendum militiæ rudimentum in Cæsaris soceri sui contubernio. »

Idem, 479, 21.

127. Jovius cit., 484, 24; 485, 14: « Ex his Lucidus romanus.... Franciscus Balneus, Titus item Amerinus, et M. Ant. Porretanus. »

Adriani cit., 118, G: « Il capitan Aurelio da Sutri, soldato e familiare del conte dell'Anguillara, con Arrigo Orsino. »

Antonio Colarieti, Degli uomini più distinti di Rieti per scienze, lettere, ed arti, in-8. Rieti, 1860: « Giulio Podiani da Paolo III posto a capo della spedizione navale contro i corsari. »

I Biografi della casa Farnese, Francesco Sansovino, Salazar y Castro, Bonaventura Angeli, Alfonso Loschi, Flaminio da Latera, il de Lazzari, e il ch. Amadio Ronchini non dicono di più: e quest'ultimo, tanto noto archivista di Stato a Parma, con sua lettera del 23 maggio 1873, scrivevami: « Sono dolente di non aver nulla, propio nulla per soddisfare alle sue domande. »

128. Bosio cit., 203, B: « Avendo l'Imperatore posto alla banda dritta la capitana del Papa, comandata da Virginio Orsino, conte dell'Anguillara. »

Sommario di Storia lucchese, nell' Arch. St. It., in-8. Firenze, 1847, p. 424.

129. Raynaldus, Ann., 1541, n. 64: « Cohortes italicas quibus præerat Camillus Columna et Augustinus Spinula. »

Mambrino Roseo cit., 266.

Bosio cit., III, 202, D; 205, C; 207, C.

130. Mambrino Roseo, 267: « La fanteria divisa in tre schiere sì come era di tre nazioni.... assegnati a ciascuna di esse tre pezzi di artiglieria.... con quest'ordine marciavano. »

Bosio, 205, C: « Haveva ciascun di questi squadroni tre pezzi d'artiglieria da campagna, per ispaventare gli Arabi, i quali continuamente all'usanza loro traccheggiando, or quinci or quindi l'esercito assaltavano. »

131. Nicolaus Villagagnonus, De expeditione ad Argeriam. Inter Selecta Clauseri de rebus Turchicis, in-fol. Basilea, 1556, p. 599, lin. 32: « Nobis imbres sclopetorum usum ademerant. »

Jovius cit., 484, 16: « Jam a pluvia extinctis funiculorum ignibus, lagunculisque sulphurei pulveris madefactis, sclopettorum usus penitus ereptus. »

Mambrino Roseo, 269: « I Mori adoperavano le balestre già dismesse in Italia.... e i fanti italiani non potevano per quella pioggia adoperare gli archibusi. »

Bosio cit., 207, B: « La grande acqua haveva spente le corde degli archibugi, e bagnata e guasta la polvere delle fiasche.... in quel piano, fango viscoso a mezza gamba.... » 208, A: « Il tempo di pioggia rende gli archibusi inutili. »

Antonio Doria, Compendio cit., 87: « Ai soldati per la grossa pioggia s'erano spenti i micci degli archibusi e quasi tutti i fuochi. »

132. Jovius, 484, 24: « Lucidus Romanus præferocem Maurum cominus congressum, quamquam saucius, interfecit. »

133. Bosio, 209, C: « La tempesta ben pronosticata da Andrea Doria con la presupposta e tanto dai marinari temuta stella di san Simone e Giuda. »

Idem, 182, C: « Correndo colla cima di un vento e tempo fortunevole, prodotto dalla tempestosa stella di Tuttisanti. »

Jovius, 491, 29: « Tandem aspirantibus Euris, Cæsar ad Baleares cursum direxit, divæ Catharinæ maligno sydere tranquillam nactus tempestatem. »

P. A. G., Medio èvo, II, 94, 96.

134. Raynaldus, Ann., 1541, n. 64: « Centumquadraginta navigia quadratis velis perierunt.... quindecim etiam triremes allisæ littori.... plures periissent nisi calamitas virtute vieta fuisset. »

Mambrino Roseo, 270: « Si perderono cento quaranta navi grosse, da quindici galere, altri piccoli vascelli, si affogarono infiniti marinari e galeotti. »

Antonio Doria, Compendio cit., 86: « Ponendosi la notte del ventotto d'ottobre una gran fortuna in mare.... fece dare a traverso quattordici galèe, e molte navi: conquassando il resto dell'armata in modo che la rese inutile. »

135. Villagagnon cit., 601, lin. 13: « Numidæ, viso naufragio, ad littus magno numero convenerant, ut quos fortuna in terram transportaret eos transfoderent. Utrum in terram elabi, an submergi præstaret, nescio. »

136. Bosio, 209, C:: « Il Doria poteva salvare le galere a Bugia (essendo le perdute quasi tutte sue), ma da quella spiaggia movere mai non si volle. »

137. Ulloa cit., 162, med. B: « Giannettin Doria fu per perire.... la sua galèa diede nell'arena.... L'imperatore, acciocchè quel valoroso non fosse tagliato a pezzi sotto gli occhi di suo zio, mandò alla riva don Antonio d'Aragona con tre compagnie italiane.... per la venuta dei quali si salvò da tanto pericolo. »

138. Jovius cit., Hist., lib. XL, p. 487, 24: « Pari quoque perseverantia Virginii Ursini Anguillarii triremes, totidemque Rhodiæ (earum æmulatione) cuncta tempestatis incomoda feliciter pertulerunt. »

Villagagnon cit., 603, lin. 8: « Integri relicti ad Argeriam pauci: comitem Anguillarium immunem ibi. »

139. Bosio, 208, D: « Il cav. Francesco de Azevedo, che comandava, minacciò levar la vita al primo che ardito havesse di più ragionare di imitare quelli che volontariamente a perdere si andavano.... con sua gran lode salvò quella galera. »

Giovio cit., nella nota precedente.

140. Bosio cit., 210, D: « La capitana di Malta.... seguendola l'altre tre galere della Religione.... salutata nel passar oltre la galera imperiale, e con alta voce fattole sapere che da inevitabile necessità sforzata si era posta in viaggio per salvarsi. »

141. Villagagnon cit., 603, lin. 9: « Comitem Anguillarium noluit mare immunem esse apud Bugiam.... tanto enim furore in puppim involavit, ut ipsam puppim everterit, et sanctum Andream, qui puppi in signum erat appositus, præcipitem egerit: a cæteris autem, quos ad Argeriam ultus erat, manus continuit. »

142. Paulis Pp. III. Const. qua ad auxilium populi christiani contra Turcas tribus triremibus pontificiis tres novas addit, et subsidium ad sex menses imponit. — Arch. Secr. Vat., t. II. n. 353, ex archetipis brevium. — Copia tra le Schede Borgiane nel Museo di Propaganda, e copia presso di me.

« Universis et singulis præsentes litteras inspecturis, salutem etc. — Paulus Papa III. — Ad curam dominici gregis, meritis licet imparibus divina dispositione vocati, ad ea ut debemus libenter intendimus per quæ cuncta ad ejus felicem statum salubriter dirigantur, et ne luporum rabie opprimatur opem et operam impendimus efficacem. Sane, sicut omnibus notum esse credimus, immanissimus Turcarum tyramnus anno præterito ad regnum Hungariæ cum numeroso exercitu personaliter veniens, exercitum charissimi in Christo filii nostri Ferdinandi Romanorum et Hungariæ regis illustris in obsidione civitatis Budensis, quam pro illa recuperanda tenebat, ingenti christianorum militum strage profligavit, ac ejus ditionem inibi stabilivit: et nunc iis non contentus ad penetrandum ulterius in dictum regnum et quod reliquum est dicti regni, et forsam Germaniam et Italiam occupandum novum terrestrem exercitum maritimamque classem præparat; et cum ex iis, et principum christianorum dissidiis magnum periculum reipublicæ christianæ immineat, decrevimus, præter alia per nos excogitata remedia, tribus triremibus apostolicæ Sedis tres alias addere, illasque prout res postulat militibus ac commeatibus aliisque ad belli usus necessariis munire, ut justæ classis numero expleto, vel per se oram maritimam tueantur, vel si res postulabit longius etiam hostem propulsent atque persequantur. Quod nostrum consilium, in quo maximæ partis harum regionum consistit salus, cum ex pecuniis ærarii nostri quod hoc tempore exhaustum est, nec ex vectigalibus quæ ordinariis impensis ordinata sunt, explicari nequeat, necesse est ut ab iis subsidia exquiramus quorum saluti consulimus. Sperantes igitur quod omnes manifestum periculum hujusmodi recognoscentes onus hoc libenti animo sustinebunt, motu proprio, et ex certa scientia, et de apostolicæ potestatis plenitudine tenore præsentium volumus et ordinamus quod civitates, terræ, et loca Sedi apostolicæ mediate vel immediate subjecta sex triremes hujusmodi, pro sex mensibus proxime futuris tantum, pro rata, juxta taxam per dilectum filium Guidonem Ascanium Sfortiam sancti Eustachii diaconum cardinalem Camerarium nostrum faciendam munire et sustinere, et pecunias ad id necessarias in locis et terminis per dictum Camerarium statuendis, solvere teneantur. Nec aliquis ad evitandam solutionis portionem, eum pro rata subsidii hujusmodi tangentem, vigore cujusvis privilegii vel exemptionis tenore se tueri possit, sed omnes indifferenter contribuere teneantur. Decernentes sic, per quoscumque judices et commissarios, quavis auctoritate fungentes, etiam S.R.E. cardinales judicari et diffiniri etc.

» Datum Romæ die XXV aprilis MDXLII, Pontif. nostri anno VIII. »

143. Memoriæ Rheatinæ, Mss. nell'Archivio Capitolare, p. 87: « Julius Pojanus, Hectoris filius, Jacobi nepos, adolescens undeviginti annorum a Paulo III Pont. Max.... universæ expeditionis navalis et maritimæ generalis dux constitutus erat: quo in munere præclare se gessit, ita ut.... captivum duxit Sirocum, piratam ejus temporis famosum et immanem. »

Antonio Colarieti, Degli uomini più distinti di Rieti per scienze, lettere, ed arti, in-8. Rieti, 1860: « Giulio Podiani da Paolo III posto a capo della spedizione navale contro i corsari, in cui fece prigione Scirocco, uno dei primi pirati di quei tempi. »

144. Bosio cit., III, 577, B: « Sirocco rais, uomo diligente colla galeotta sua a Costantinopoli.... » 634, C: « Tornato Sirocco rais coll'ordine di finire l'impresa di Malta.... »

P. A. G., Lepanto, 212, 224.

145. Adriani cit., 96.

146. Raynaldus, Ann., 1542, n. 36.

Mambrino Roseo, III, 289.

Campana cit., I, 84, B, med.

Antonio Doria, Compendio, 31.

147. Andreas Maurocenus cit., 533, 537.

Marco Guazzo cit., 247.

Sansovino, per tot.

148. Adriani Giambattista, Storia de' suoi tempi, in-fol. Firenze, 1583, p. 106, G: « Gentil Virginio Orsino, conte dell'Anguillara con quattro galere.... se n'era andato a Marsiglia, e dal Re era stato carezzato, e datogli l'Ordine di san Michele.... e fatto luogotenente generale di tutta la sua armata. » 114, E; 118, G, ec.

Antonio Doria, Compendio cit., 113: « Era generale delle galere di Francia Leone Strozzi, fatto dal re Francesco (privato che n'ebbe il conte dell'Anguillara) e fattolo imprigionare per sospetti havuti di lui, dei quali ritrovato innocente fu da Henrico, dopo la morte del padre, liberato. »

149. Ugurgeri, Le pompe Sanesi, in-4. Pistoia, 1649, II, 198: « Bartolomeo Peretti da Talamone.... fu fatto nobile sanese per il suo raro valore.... Paolo III lo dichiarò capitano generale della squadra delle galere, con le quali quattro anni continui scorse tutte le barbare riviere.... riportandone infiniti schiavi e ricchissima preda. »

150. Ugurgeri, I, 58, 152, prova che Sisto quinto papa, e Bartolommeo Peretti vescovo de' Marsi, erano della stessa famiglia coi Peretti di Talamone.

Ughellus, Ital. Sac., I, 915, di Bartolommeo Peretti, vescovo de' Marsi, 14 aprilis 1596. — Obiit Romæ in carcere, 1628.

Casimiro Tempesti, Vita di Sisto V, in-4. Roma, 1754.

Ratti Niccola, Famiglia Sforza, Cesarini, Peretti, in-4. Roma, 1795, II, 348, 356: « I Peretti originari di Schiavonia. »

Hübner, Sixte-Quint, in-8. Parigi, 1870, t. I, p. 218: « La famille, d'origine esclavone, avoit paru en Italie au milieu du siècle precédent, fuyant à l'approche des Turcs. »

151. Lettere a Pietro Aretino, in-16. Bologna, Romagnoli, 1874; p. 196: « A Pietro Aretino Jacobo Giustiniani dal Campidoglio, 17 maggio 1540. — Lione d'Arezzo fu condannato alle galere di Sua Santità, delle quali è capitano Mèo da Talamone côrso. »

152. Martinus Bellajus, lib. X.

Belcairus cit.

Campana cit., 93.

Ulloa cit., 169, B. fin.

153. Goffredo, Storia delle Alpi marittime, etc. int. Monum. hist. patr., in-fol. Torino, 1839, IV, 1455.

154. Bosio cit., 228, A: « Giunsero in Malta due galere et una galeotta del Papa comandate dal capitano Bartolommeo da Talamone. »

Sebastiano Paoli, Codice diplomatico cit., II, 206, n. 185.

Ugurgeri cit., II, 198.

155. Luciano Banchi, I porti della maremma di Siena durante la repubblica, narrazione storica con documenti inediti, pubblicata dall' Arch. Stor. It., in-8. Firenze, 1870, parte II, disp. IV, p. 69. — E notizie da lui gentilmente a me trasmesse per più lettere.

156. Jovius cit., 599: « Bartholomeus Telamonius, pontificiarum triremium præfectus, ad Lesbum insulam, mytilenæum agrum paternasque Barbarossæ possessiones evastavit. »

Bosio cit. 232, D: « Bartolommeo da Telamone.... capitano del Papa.... scorrendo l'Arcipelago fino a Metellino, diede il guasto alle paterne possessioni di esso Barbarossa. »

Mambrino Roseo cit., 334: « Bartolommeo da Telamone, huomo valoroso in mare, essendo con le galere del Papa.... haveva rovinato a Metellino le possessioni di Barbarossa. »

157. Archivio di Stato in Firenze, Carteggio universale di Cosimo I, filza 364 a 694. — Lettera di Bernardino Duretti a Cosimo data di Siena, 9 febbr. 1544. (Per favore del ch. Banchi.)

158. P. Isidoro Ugurgeri Azzolini, Le pompe sanesi, in-4. Pistoia, 1649, vol. II, p. 199:

D. O. M.

BARTHOLOMEO . PERETTO . THELAMONENSI CUM . AB . HAC . REPUBLICA . PEDITUM . COHORTEM . OBTENUISSET ET . MOX . FACTA . UNA . TRIREMI BREVI . INSIGNIS . IN . NAUTICA . EVASISSET UT . MERITO . PONTIFICIÆ . CLASSIS . PRÆFECTUS ILLAM . QUATUOR . ANNIS . FELICITER . REXISSET ET . PRÆTERITO . ANNO OMNES . ASIÆ . ORAS . PRÆTERVECTUS TURCAS . UNDIQUE . INFESTASSET PREDAQ . ET . CAPTIVIS . ONUSTUS . REDISSET IN . MEDIO . HONORUM . CURSU . EXTINCTUS . EST OCTAVIUS . PATRI . FORTISSIMO . ET . OPTIMO VIXIT . ANNOS . QUADRAGINTA . OBIIT . DIE . SEXTA . FEBRUARII MDXLIII.

159. Rogito di ser Ventura Montani all'anno 1536 nei protocolli dei notaj di Siena.

160. Archivio di Stato in Siena, e copia presso di me per favore del ch. Banchi.

161. Flaminio Annibali da Latera, M. O. Notizie Storiche di casa Farnese, in-8. Montefiascone, 1817-18, I, 58: « Orazio il terzo creato duca di Castro col breve: Quia postquam.... datum Romæ, apud S. Petrum pridie nonas nov. MDXLVII, pontif. an. XIV. »

(Nè esso, nè gli altri citati alla fine della nota 126 dicono di più intorno a questa compra delle galèe.)

162. Bosio, 232, D: « Il Giudeo poco dopo haver riveduto il figliuolo per soverchia allegrezza se ne morì. »

Jovius cit., 598.

Mambrino cit., 334.

163. Jovius cit., 599, lin. 24: « Barbarussa in domum Bartholomæi Thalamonii igne desæviit, sepulchrumque ejus paulo ante defuncti violatis ossibus disjecit. »

Adriani cit., 148, E: « Barbarossa prese Telamone e novanta persone. »

Bosio, 132, E: « Barbarossa prese Talamone per vendicarsi del cap. Bartolommeo.... sepolto nella chiesa principale del luogo.... lo fece dissotterrare, e spargere l'ossa e le ceneri per la campagna. »

Belcairus, Comment. Rer. Gall. in-fol. Lione, 1625, libro XXIII, p. 758: « Barbarussa Telamonem, Monteanum, Herculis portum, Igillium, cœpit, diripuit, et magnam omnis sexus ætatisque multitudinem in servitutem abduxit. »

Mambrino Roseo cit., III, 334: « Barbarossa prese Telamone.... fece dissotterrare le ossa del cap. Bartolomeo, e gittarle alla campagna. »

164. Jovius cit., 601, lin. 29: « Barbarossa Centumcellas invadere atque cremare minatus est, ex eadem causa qua Telamonem delevisset. Sed deprecante Leone Strozza ab injuria temperavit. »

Bosio cit., 232, E: « Barbarossa stette per voltarsi contro Civitavecchia, desiderando abbruciare quelle galere, colle quali il capitan Bartolommeo da Telamone la patria sua danneggiato aveva.... distolto dal priore Strozzi. »

Sabellici, Histor. Suppl. in-fol. Basilea, 1560, p. 663.

165. Bosio cit., III, 235: 32: « L'armata turchesca fu a Lipari il primo di luglio. »

166. Du Mont, Corps diplomat., IV, ii, 279.

Raynaldus, Ann. Eccl., 1544, n. 23.

Jovius cit., lib. XLV.

Martinus Bellaius, lib. X.

167. Annibal Caro, Lettere scritte a nome del card. Alessandro Farnese, in tre volumi, Padova, Comino, in-8. 1865, III, 55: « Al vescovo di Lucca.... Vostra signoria deve sapere la fedele ed onorata servitù che messer Francesco de Nobili ha fatto molti anni alla bona memoria del duca Orazio mio fratello, e che ora continua con la casa nostra. Per queste e per le altre qualità sue semo tenuti tutti noi ad amarlo e favorirlo in quel che giustamente possiamo. »

Documenti cit., v, app. nota 181: « Magnificus Dominus Franciscus de Nobilibus de Lucca, procurator e xmi D. D. Horati Farnesi. »

168. Lettere del duca di Ferrara, e di altri, pubblicate nell'Arch. Stor. It. in-8. Firenze, 1848, app. n. 22, p. 189. — Lettera del Vescovo Arcella nuncio in Napoli al cardinal Farnese in Roma, data del 16 agosto 1544 (non la ripeto, perché pubblicata.)

169. Bizarus cit., 520: « Quatuor triremes Andreas, haud veritus Rom. Pont. majestatem, cæperat et Genuam captivas abduxerat. »

Sigonio cit., 246, 247: « Andrea fece pigliare quattro galee del Papa da Giannettino, le quali.... furono condotte a Genova. »

Antonio Doria, Compendio, 105: « Andrea Doria pretendendo alcuni denari delle spoglie del vescovo di Sagona suo nipote fece prendere quattro galèe delle sue (di Papa Paolo) che teneva Pier Luigi Farnese al soldo della Chiesa, benchè assai presto gliele fece restituire. »

Augustinus Thuanus, Historiarum sui temporis, in-fol. Londra, 1733, lib. III, princ.

Adriani cit., 208, 209.

170. Lettera cit., del Vescovo Arcella, ed ivi la copia.

171. Bosio cit., III, 238, D: « Avendo il Gran Maestro scritto anco al Papa.... risultò che nel mese di giugno nel porto di Malta vennero tre galere del Papa.... che furono rinforzate con alquanti buoni schiavi.... perchè solamente deboli di ciurma. »

172. Strumento di vendita ec. fatto in Piacenza addì 23 ottobre 1545. L'originale si conserva nella Biblioteca civica di Piacenza, cui donollo con altri documenti il prof. Luciano Scarabelli, il quale pubblicò per le stampe lo strumento medesimo alla pagina 89 della sua Guida di Piacenza, ivi uscita in luce nel 1841. E fu riprodotto in Genova da Agostino Olivieri tra i documenti e note aggiunte da lui alla ristampa della Congiura di Gianluigi Fiesco dettata dal Cappelloni, edita in Genova, in-8. 1858, p. 48. — Si calcola ivi la ciurma per le quattro galere, così:

Forzati a vita N. 300

Detti a tempo » 185

Schiavi turchi » 188

N. 673

cioè censettanta per galèa. E si ricordano « Gli eredi del quondam capitano Pereto da Talamone. »

173. Cappelloni cit., 144: « Andò il detto conte a Roma al mese di maggio, dopo che haveva fatto la compra delle galere del Duca, a presentare al Pontefice Girolamo suo fratello, che egli haveva destinato al carico delle galèe che stavano allo stipendio della Camera apostolica. »

174. Celesia, La congiura di Gianluigi Fieschi, in-8. Genova, 1862, p. 104: « Gianluigi commetteva il comando (delle galere in Civitavecchia) a Giulio Pojano. »

Idem, p. 135: « Gianluigi si soprattenne in Pontremoli assai lunga stagione indettandosi col conte Galeotto della Mirandola, coi Pusterla, col Cibo, coi marchesi di Valdimagra, coi Bentivoglio, cogli Strozzi, e con quanti avversavano il giogo imperiale, secondato da Cataldo di Rimini, e da quel Giulio Pojano, cui aveva commesso il comando delle galere. »

175. Documenti ispano-genovesi dell'Archivio di Simancas, ordinati e pubblicati da Massimiliano Spinola, L. T. Belgrano, e Francesco Podestà, in-8. Genova, 1868: « Giacobbe Conte, figlio del medico ebreo fatto cristiano, padrone della galèa. »

Celesia, La congiura cit., 140: « Primo intendimento richiamare da Civitavecchia la quarta galea, sotto il comando di Giacobbe Conte. »

176. Doc. di Simancas, Adamo Centurione a Carlo V, cit., 19: « Havendo fatto venire da Civitavecchia una sua galera, la quale dava fama di voler mandare in corso, sotto colore di armarla bene di gente da combattere era andato introducendo da trecento uomini. »

Cappelloni cit., 125: « Giunse la vigilia di Natale in Genova la galera del Conte, che egli haveva chiamata da Civitavecchia. »

Bonfadius cit., 187: « Interim ex Urbe quam Veterem vocant, ex triremibus quatuor.... unam ad se adduci jubet. »

177. Sigonio cit., 254: « Gli bisognava fingere di volere armare e mandare in corso la quarta sua galera, la quale haveva fatto venire in Genova.... della quale non tirava soldo dal Papa. »

178. Jacobus M. Campanacius, Motus a Joanne Aloysio Flisco excitatus, in-4. Bologna, 1588, p. 29, 30.

Ubertus Folietta, Conjuratio Joannis Ludovici Flisci. Ap. Burman in Thesaur., II, 896.

Jacobus Bonfadius, Ann. Genuen. in-8. Brescia, 1797, p. 187.

Bizarus cit., 529.

Adriani cit., 210, H.

Agostino Mascardi, La congiura del conte Luigi Fieschi, in-8. Venezia, 1629, p. 14, 19, 53.

Eduardo Bernabò Brea, Sulla congiura del conte Giovan Luigi Fieschi, Documenti inediti, in-12. Genova, Sambolino, 1863.

Emmanuele Celesia, La congiura del conte Gian Luigi Fieschi, Memorie storiche del secolo XVI, cavate da documenti originali ed inediti, in-8. Genova, 1865.

F. D. Guerrazzi, Vita di Andrea Doria, in-12. Milano, 1864, II.

Luigi Tommaso Belgrano, Analisi di detta Storia nell'Arch. St. It., in-8. Firenze, 1866, IV, t. 1, serie III.

Idem, Nuovi documenti e illustrazioni, e la Relazione di Massimiliano Spinola, dal vol. VIII, fasc. 2º. Atti della Società Ligure di storia patria, 1872.

Agostino Olivieri, La Congiura di Gianluigi Fiesco, dettata dal Cappelloni, con doc. e note, in-8, Genova, 1858. Tace c. s.

179. Bizarus, 529, prop. fin.: « Triremis præfecto imperat ut cum triremi, ad angustas fauces interioris portus, in quo triremes Auriæ erant in hibernis, obsidendas proficiscatur. »

Adriani cit., 210, H: « Mandò il Verina alla sua galera armata, perchè pian piano in sulla bocca della Darsena, dove il Doria teneva le sue galere, andasse; e quivi con un tiro d'artiglieria desse cenno. »

Bonfadius cit., 198: « Dato a trireme signo, in portum irrumpit. Completur militibus locus, triremes occupantur. »

Docum. di Simancas, cit., 13: « Una galera del conde de Fiesco se ha puesto a la boca de la Darsena adonde estan las del Principe ha comencado a tirar. »

180. Documenti ispano-genovesi di Simancas, ordinati e pubblicati da Massimiliano Spinola, L. T. Belgano, e Fr. Podestà. Atti di storia patria, VIII. — Figueroa a Carlo V, p. 27: « La galera del Conde tambien se fue a la vuelta de poniente... » p. 32: « La dicha galera se fue a Marcella.... » Andrea Doria a Cesare, 66: « Questa galera che fu la prima a tentare, andata a Marsella, è stata ben ricevuta e trattata. » 72: « La galera del Conde que huyò de aquï, llegò a Marsella; y segun dicen fue bien recibida. » 107: « Quando giunse la galera di quel ribaldo Conte a Marsella, li furono fatte grandissime carezze dai Francesi. » Ib. 32, 40, 66, 115, ec.

181. Doc. di Simancas cit., 120, 137, 151, 188, 190.

182. Archivio dei Notari e Cancellieri di Camera a Montecitorio di Roma. Volume intitolato: Instrument. Anni 1546 ad 1551. Not. H. De Terano, chart. 131 a 140: « Die XXII martii MDXLVIII. — Magnificus dominus Franciscus de Nobilibus de Lucca, procurator I ll mi et E xc llmi DD. Horatii Farnesii ducis Castrensis, nomine præfati Il lm i Ducis, Vendidit Il lm o DD. Virginio Ursino de Anguillaria tres triremes, cum omnibus et singulis earumdem triremium remigibus seu ciurmis ad numerum tercentorum septuaginta ascendentibus.... etc....

Segue: » Inventario della galera Capitana.... Et della Patrona.... Et di la galera Vettoria....

» Nota de' forzati et schiavi de le galere consignate questo dì ventidoi di marzo 1548 all'Il lm o signor conte de Languillara....

» Acta fuerunt hæc Romæ in Palatio Apostolico, die, mense, et anno ut sup. etc. »

183. Niccola Ratti, Della famiglia Sforza, in-4. Roma, 1794, I, p. 282, col. 2, lin. 4: « Girolamo da Terni, Hieronymum de Terano. »

Raccolta esattissima di tutti i Notari della città di Roma dall'anno 1507 a tutto l'anno 1585 in-4. Roma, a spese di Perego Salvioni, 1755.

184. Flaminio da Latera, cit., p. 59. — Alfonso Loschi, Compendî Storici, cit., 458. — Luis Salazar Y Castro, Indice de las glorias de la casa Farnesa, in-fol., Madrid, 1716, p. 87, 90.

185. Archivio de' notaj cit., ch. 114: « Conductio I ll mi D. Comitis Anguillariæ in capitaneum generalem ad custodiam maris Thirreni. — «Die quinta mensis martii MDXLVIII. — R m us et I ll mus D. Guido Ascanius sancti Eustachii diaconus cardinalis de Sancta Flora camerarius, necnon Bernardinus Helcynus ep u s Anglonensis, thesaurarius apli cu s generalis, Julius Gonzaga, necnon Alexander Bononiensis et Hieronymus Torsellanensis episcopi, et Franciscus Soderinus, Cameræ apli c æ clerici, Romæ in palatio apli co et aula solitæ residentiæ præfati i ll mi dn i Cardinalis camerarii, pro rebus et negotiis præfatæ Cameræ utiliter peragendis de more coadunati et congregati Cameræ nomine ex una, et i ll mus d. Gentilis Virginius Ursinus Anguillariæ comes ex alia, partibus.... coram etc. sponte etc.... omnibus melioribus modis super conducta ipsius I ll mi D n i Gentilis Virginii comitis in Capitaneum generalem ad custodiam maris Thirreni designati, inierunt capitula, pacta, et conditiones quæ sequuntur.... etc. » (L'arch. di famiglia ne ha la copia autentica.)

186. Biblioteca Corsiniana in Roma; Mss. codice segnato col vecchio n. 272, e col moderno Col. 34, D. 11. intitolato Scritture diverse delle galere pontificie pag. 797: « Capitoli dell'assento per mantenere le cinque galere per sessantatre mila scudi. » (Copia presso di me.)

187. Niccola Ratti, Della famiglia Sforza, due volumi in-4, composti sui documenti dell'archivio di famiglia. Roma 1794, t. I, p. 279.

Bosio cit., III, 240, 245, 265, ec.

Bartolommeo dal Pozzo, Ruolo dei cavalieri della veneranda lingua d'Italia, in-fol. Messina; 1689, p. 28: « Fra Carlo Sforza romano, priore di Lombardia nel 1546. »

Pompeo Litta, Famiglie celebri d'Italia, in-fol. figur. Milano. « Famiglia Attendoli di Romagna,» tav. II.

188. Pompeo Dolfi, Famiglie bolog., in-4, 1670, p. 738.

Gamurrini, Famiglie Toscane ed Umbre, in-4. Fir, 1668, vol. I, p. 258.

189. Giorgio Viviano Marchese, Galleria dell'onore, in-4. Forlì, 1735, I.

Coronelli, Biblioteca universale, in-fol. Venezia, 1703, III, 426.

190. Bosio cit., III, 249. C: « Fu tale il salto, che ancor hoggi comunemente per proverbio spesso fra il volgo si ricorda il salto del Priore di Lombardia. »

191. Archivio dei notai e cancellieri cit. H. de Terano, Instrum. Ann. 1546 ad 1551. ch. 263: « Die tertia septembris, MDXLVII. — Conductio. Il lm i et rev. D. Caroli Sfortiæ in capitaneum generalem triremium. — Rev. Pater D nu s Franciscus e pu s Casalensis vicecamerarius et Hieronymus e pu s Barensis decanus etc.... ex una, et Revd. D. Il lm us Carolus Sfortia ex comitibus Sanctae Floræ, prior Lombardiæ, Ordinis sancti Joannis hierosolymitani ex altera, partibus, super conducta Il lm i et rev. D. Caroli Sfortiæ in capitaneum Generalem ad custodiam maris Thyrreni inferius designati, inierunt et contraxerunt capitula et pacta infrascripta, videlicet etc. »

192. Archivio dei Notai e cancellieri cit., ch. 236: « Venditio triremium pro il lm o et rm o DD. Guidone Ascanio Sfortia, sancti Eustachii diacono cardinali de Sancta Flora, et S. R. E. Camerario — Die XXX Augusti MDXLVIII, — D nu s Gentiles Virginius Ursinus dum vixit Anguillariæ comes, nuper defunctus, inter alia bona in hereditate sua cum reliquerit tres triremes, vulgariter nuncupatas galeas, quas ipse de mense februarii proxime præteriti pro prœtio xvii millium quingentorum ducatorum auri iu auro emerat ab il lm o D. Horatio Farnesio duce Castrensi, et in suo ultimo testamento jusserit easdem galeas debere vendi etc... hinc est quod exequutores testamenti ejusdem venditionis jure dederunt et tradiderunt D n o Guidoni Ascanio etc.... dictas tres triremes, et unum corpus, fustum vulgariter nuncupatum, d n o Virginio per S Sm um. D num. Nr um. donatum, existens extra portus Civitæ Vetulæ prætio et nomine prætii viginti millium et septingentorum scutorum auri etc.... »

Ch. 261: « Ratificatio venditionis triremium per dominas Magdalenam et Catharinam filias bo. me. I ll mi D. Gentilis Virginii Ursini, Anquillariæ comitis dum vixit etc.... »

Ch. 267: « Donatio triremium. — Die tertia septembris. D. Guido Ascanius Sfortia, sancti Eustachii etc.... non tamquam persona ecclesiastica, sed tamquam unus ex Il lm a domo et familia Sfortia, emit ab I ll mis Dominabus Magdalena et Catharina bo. me. I ll mi. D. G. V. Ursini tres triremes seu galeras, et fustum vulgariter nuncupatum inerme, et sponte donavit Carolo Sfortiæ, priori Lombardiæ, fratri suo germano dictas tres triremes etc.... »

« Actum Romæ, etc. die ut supra, in Camera Palatii residentiæ dicti R. D. cardinalis Camerarii, la Cancelleria vecchia, nuncupati. »

193. Ratti, cit., Famiglia Sforza, I, 281, nota 2, accenna soltanto questi fatti, cita le carte dell'Archivio Sforza, e aggiunge: « Il papa Paolo III, con sua bolla del tre settembre 1548, confermò la compra e donazione suddetta. »

194. Documenti cit., 4 febbrajo 1544, la Camera vende ad Orazio Farnese, prezzo ignoto (nota 160).

23 ottobre 1545, i Farnesi vendono ai Fieschi per scudi d'oro 34,000 (nota 171).

22 marzo 1548, i Farnesi vendono agli Orsini per 17,500 (nota 181).

30 agosto 1547, gli Orsini vendono a Sforza per 20,700 (nota 6).

195. F. D. Guerrazzi, Vita di Andrea Doria, in-12. Milano, Guigoni, 1864, II, 88.

196. Archivio generale del Ministero delle Finanze al Palazzo Salviati in Roma, del quale ho parlato nel primo volume, p. 371; e ne ho dato cenno nel Medio èvo, II, 8, 280.

197. Nota di quanto costa una galèa. — Mss. alla Barberiniana in Roma, codice cartaceo del principio del secolo XVII, pagine dodici, segnato LVIII, 9. — Item, cod. LV, 23. (V. vol. I, p. 363.)

198. Tagliami nella lista a parte seguono appresso. E quanto alle voci basterà qui registrarle come tecniche e comuni della marineria italiana. La dichiarazione verrà nel mio Vocabolario marino e militare, e qualche cenno nel corso e nell'indice di questa storia.

199. Artiglieria, niuna cifra, perchè in Roma la dava senza pagamento il Governo dalle sue armerie, ed io ne indicherò appresso la valuta secondo il documento toscano, senza turbare adesso le cifre del romano.

200. Il Cantaro genovese generalmente si valutava 150 libbre romane, qui ridotte a 138. Il Cantaro napoletano a libbre 250.

201. Remi, non più a sensile, ma a scaloccio; come dal numero.

202. Docum. Toscano, p. 128: « Si pregiano anche i forzati e gli schiavi di una galera: li schiavi a fiorini 80 d'oro l'uno, li forzati a fiorini 40 in 50. » — Tra noi non si valutavano, perchè gratuitamente consegnati dai tribunali. — Quanto ai Bonavoglia, torna il numero preciso e consueto di venticinque per galèa: uno per banco.

203. Fionco, Drizza leggiera.

204. Collatori, Canapetti da collare le sartie.

205. Mazzapreti, Sorta di taglia a guancie gonfie sporgenti, per difesa del canapo. Talvolta con più pulegge di diversi diametri e centri.

206. Pasteca, Sorta di taglia dove il canapo entra ed esce senza esservi infilato dalle cime.

207. Mascellare, Sorta di taglia a bocca aperta, dove la puleggia è sostenuta dalle sole mascelle.

208. Come e perchè si è detto alla nota 13.

209. Costiere, Sartia di costa.

210. Anchini, I cavetti della trozza.

211. Valuta del vestiario, vedi sopra I, 300.

212. Fabbrica e costo delle galèe. Scrittura del signor Alfonso d'Appiano principe di Piombino diretta al granduca Francesco di Toscana con lettera del 2 di luglio 1574, data da Cavinana. Comincia: « Havendo io servito molti anni.... » termina: « Sia detto per utile di coloro che ne avranno mestiero. » Sono pagine in foglio 160. — Archivio di Stato in Firenze, Sezione Medicea, e copia presso di me autenticata dalla firma del cav. Gaetano Milanesi direttore dell'Archivio.

213. Documento cit. nella nota preced. p. 128.

214. Docum. cit., del principe di Piombino, p. 15.

215. Lo scudo di oro in oro valeva sedici giuli e quindi in scudi comuni di argento da giuli dieci il prezzo fu 54,400: cioè più che giusto, e quindi esclusivo d'ogni patto di congiura.

216. Docum. cit., del principe di Piombino, p. 97.

217. Seguono altre partite già calcolate pur nel documento romano: poi a p. 101 continua per la polvere, e a p. 102 pel miccio. Io sempre segno la sola valuta a fiorini di Firenze e Pisa, da sette lire antiche, e la lira da quindici soldi, come per tutto il contesto del documento, che rende il detto fiorino uguale allo scudo romano. Lascio il ragguaglio di Genova per non crescere difficoltà alla confusa materia delle monete de' tempi passati.

218. Cap. Angelo Angelucci, Documenti inediti per la Storia delle armi da fuoco italiane, in-8. Torino, 1868. (Continuazione a fascicoli non compiuta ancora in quest'anno 1875), p. 307, 308.

219. Bosio cit., 248, E: « Nell'anno 1547, e mese di giugno.... in Malta un gentiluomo del priore di Lombardia affrontò Francesco Ribadenira, cavaliero castigliano.... et appuntato avendogli al petto un archibusetto a ruota, se lo fece cadere morto ai piedi. » E p. 249, B: « Arma tanto insolita e proibita tra gli huomini d'onore, e forse per l'addietro non mai più nella religione usata contro Cristiani. »

V. sopra, p. 149.

220. Villegagnon, e gli altri cit. lib. prec. nota 130, p. 101.

221. Cesare Campana, Vita di Filippo II, e guerre de' suoi tempi, in-4. Vicenza, 1605. Parte 1ª, p. 94: « Piero Strozzi con Lorenzo suo fratello, Fabiano del Monte, Francesco de' Pazzi, ed altri nobili al numero di dugento, et ben montati, et forniti di quanto faceva di mestieri ad una riguardevole cavalleria, cogli archibugetti a ruota. »

Ulloa cit., 170, B.

Mambrino Roseo, 329.

222. Jovius. Histor. cit., in-fol. Basilea, 1578. Lib. XLIII, p. 552, lin. 30: « Anno MDXLVIIII.... nec quidquam nostris ademptum est præter sclopettos parvos, quos novo more hastati æquites germani ab ephippiis, uti mortiferum atque habile telum, suspendunt. Hos maxime concupiebant Barbari, novitate capti, quod ita mirum esset artificium, ut sine succenso funiculo, quum luberet, per machinæ rotulam, percusso pyrite lapide, ignem repente conciperent, et celerrime disploderentur. »

223. Bosio, cit., III, 262, C.

224. Collezione di bolle, editti, bandi, notificazioni, decreti ec. della romana Curia, stampati in fogli volanti, e riuniti insieme dal principio della stampa infino al presente, nella Biblioteca Casanatense, più che cento volumi in foglio nel camerino a sinistra. Al volume primo, dove è questo Bando, segnato a penna col num. 65. Foglietto di stampa volante, carta e caratteri romani, niuna nota di tipografo. In alto due armette incise in legno: a destra la papale, triregno e chiavi incrociate, sei gigli rossi in campo d'oro; a sinistra la municipale, corona ducale, e la nota banda colla sigla notissima S. P. Q. R.

225. P. A. G. Medio èvo, I, 187; II, 379.

Marcantonio, 93, 105, 254, 260, 264, 310.

Guerra de' Pirati, V. all'Indice, voce Schiavi.

226. Vedi sopra, I, 379.

227. Vedi sopra, I, 428.

228. Vedi sopra, II, 124.

229. De Hammer cit., X, 625: «Nella relazione del bailo. I, R. arch. dom. 4 luglio 1546, si legge — Barbarossa è morto questa notte passata alle ore.... fu sepolto al collegio da lui istituito a Beschiktasch alla spiaggia del Bosforo. — Colà anco oggi si erge in modo pittoresco da muschio ed edera circondata la cupola della sua tomba.»

230. P. A. G., Marcantonio Colonna, 212, e seg.

231. Baudrand, Lex. geogr., voce Thagura.

Bosio, III, 108, e segg.

232. Bosio, III; 216, 245, 263, 279, 314.

233. Luis Marmol, L'Afrique, traduite de l'Espagnol par Porrot d'Ablancourt, in-4. Parigi, 1667, II, 499.

234. William H. Prescott, History of the reign of Philip the Second, King of Spain, in-8. Boston, 1856, II, 356 — Londra, 1855, I, 308.

235. Bosio cit., III, 244, D; 251, B; 258, D.

236. Antonius Geuffræus, Aulæ turcicæ descriptio per Guillelmum Godelevæum latine reddita, in-4. Basilea, 1577, p. 533.

237. Sandoval cit., Vida de Carlos imp. II, 122.

238. Documenti sulla Storia del regno di Napoli, raccolti e ordinati con illustrazioni da Francesco Palermo, nell' Arch. Stor. it., in-8. Firenze, 1846, IX, 123: « Omissis aliis.... Dragut rais, ancorchè il signor vicerè dica non aver nuova certa, è stato veduto fuori verso questi porti di Puglia con quaranta vele.... Tutta questa provincia da Napoli al Faro di Messina è in grandissimo terrore; e tutti i populi marittimi si reducono a' luoghi forti o alle montagne. »

(Sono lettere di messer Francesco Babbi, secretario del duca Cosimo, residente in Napoli, del quale parla pur l' Adriani, 183, C; 186, H, ecc.)

Prescott cit., Boston, 1856, II, 353: « The Mediterranean in that day presented a very different spectacle.... long tract of desert territory might then be seen on its borders, with the blackened ruins of many a hamlet proclaming too plainly the recent presence of the corsair.... scarcely a day passed without some conflict between Christians and Moslems. »

239. Horatius Nucula, Coment. de bello Aphrodisiensi, in-12. Roma, 1552, p. 23: « Auria sibi adjunxerat tres triremes Julii tertii pont. max. apud Centumcellensem portum.... ad augendam classem, qua immanis ille archipirata saltem coerceretur.

Adriani cit., 282: « Il Doria passando da Livorno menò seco in compagnia tre galere del duca di Firenze, delle quali Cesare per questa impresa lo aveva ricercato.... tre ne menò anche del Papa, sotto il governo del priore di Lombardia. »

240. Documenti pel Palermo cit., 127: « Le tre galere del Papa stanno assai bene. »

241. Bonaventura Theuli, Apparato minoritico della provincia romana, in-4. Velletri, 1648, p. 84: « Domino Francisco Andreotti, Civitatis vetulæ viro, omni bonitate ornato, militiæque clarissimo, et re bellica singularissimo. »

Annovazzi, Storia di Civitavecchia, in-4. Roma, 1853, p. 286.

242. P. A. G., Marcantonio Colonna, 158, 303, 314, 386, e i documenti ivi citati.

Arch. de' Domenicani in Civitavecchia, cod. Ricordanze, segnato B, p. 303, (V. sopra, I, 397).

243. Archivio dei Domenicani in Civitavecchia, codice intitolato Campione, p. 353, (Come sopra).

244. Anonimo, Vita di Astor Baglioni. Mss. alla Comunale di Perugia, segnato D, 24. — Non impaginato, ma pel mio conto a p. 20, e 21, ricorda la spedizione di Astorre in Africa, nomina i predetti perugini, e dice: « Astorre prese una fregata in Civitavecchia, con molti gentiluomini di pezza che menava in sua compagnia.... e si pose su le galere di Carlo Sforza, prior di Lombardia che in quella impresa militava sotto il nome della Sede apostolica. » — (Vi sono in Perugia altre vite Mss. del medesimo Astorre: tanto era pregiata dai contemporanei la sua virtù. Il Vermiglioli, il Fabretti e l'Angelucci ne fanno autori Bernardino Tomitano e Guido Sensi. Io cito l'Anonimo della Comunale, visibile a tutti, che in sostanza dice le stesse cose degli altri, se pure non sono un'opera sola con qualche variante, e sotto diversi nomi nelle copie. Questo Mss. dell'Anonimo ho pur citato nel M. A. C., p. 196.)

Salazar cit., p. 61, A, I. Lo chiama più volte « Astorvallon.» (Avverto lo Spagnolismo della lezione per togliere equivoci.)

245. Adriani cit., 282.

Archivio St. It. cit., 1848, app. n. 22. — Nato in Roma nel 1525, morto in Brescia 25 settembre 1564. Lasciò gli scritti seguenti:

«1. Relazione alla repubblica di Venezia intorno al modo di stabilire una buona milizia in tempo di pace. Data del 22 nov. 1563. (Pubblicata nell' Archivio cit. da p. 201 a 220.)

»2. Modo di ben formare uno squadrone. » (Mss. all'Ambrosiana.)

246. Documenti per F. Palermo, cit., 130: « Virtù, valore, e consiglio del signor Giordano Orsini.... e il signor don Garzia, al principio che lui venne qui, non gli fece cera, nè in fatti nè in parole. »

247. Documenti cit., pubblicati da F. Palermo, p. 126: « Il signor don Garzia colle sue galere andò ad incontrare il Principe tre miglia.... la sua capitana o per inadvertentia, o a posta, urtò la capitana del Priore, e gli ruppe tutti i remi di una banda.... Il Priore sta in cagnesco, non potendo aver lume donde sia proceduto questo disordine. » (Lettera di messer Francesco Babbi al duca Cosimo di Firenze, data da Napoli, addì 8 maggio 1550.)

248. Livius, XXXVII, 24: « Si qua concurreret rostro cum hostium navi, aut proram lacerabat, aut remos detergebat. »

Cæsar, De bell. civ., I, 58: « Pluribus navibus adoriri singulas contendebant, aut remos transcurrentes detergere. »

249. Docum. toscano cit., (alla nota 25) p. 96: « Un mastro d'ascia con suo garzone, un barbiere, un barbierotto.... Un remolaro, un barilaro. » Item, p. 131, 132, ec.

Docum. roman. cit., (alla nota 11); in tutti gli inventarî, strumenti, ruoli, e scritture, ripetesi sempre il ritornello: « Il barbiere e il barbierotto, remolaro e remolarotto, calafato e calafatino, mastro d'ascia e suo dascino. »

Crescentio, Nautica cit., 64: « Maestranze.... che qua si dice Mastrodascia, Calafatto, Remorario, et Barilaro, de' quali se ne dà uno per galèa. »

Pantera, Armata cit., 129: « Il Remolaro ha cura non solo di fare i remi nuovi, et di racconciare i vecchi, ma di rivederli se sono ben bilanciati, aggiugnere o levare del piombo, e accomodarli che si possano maneggiarli facilmente. »

250. Anonimo cit., Mss. Vita del Baglioni, 22: « Astorre consigliò che almeno si prendesse Monasterio.... Questo consiglio portato al Principe (Doria) dal Priore (Carlo Sforza) come cosa propria di Astorre, fu trovato molto buono da tutti. »

251. Plinius, Hist. nat., V, 4; et Morisot, Orbis marit., 283: « Tapsus, Leptis parva, Rhuspina, Adrumentum, Aphrodisium, Siagul, Neapolis. »

Atlante Luxoro del secolo XIII, pubblicato dal Desimoni e Belgrano in Genova, 1868, III, 266: « Souxa, Monester, Coniere, Affrica, Capullia. »

Luis Marmol, L'Afrique, traduite de l'Espagnol, par Perrot d'Ablancourt, in-4. Parigi, 1667, II, 499.

Dapper, Description de l'Afrique, in-fol. Amsterdam, 1686, p. 197.

M. Bellin, Atlas maritime, recueil de cartes et plans, in-4. Parigi, 1764, III, 71.

W. Smith, R. N., Carte dell'ammiragliato britannico, colle correzioni fino al 1852: « The coasts of Tunis: Monastir. »

G. R. Wilkinson, R. N., Carte dell'Ammiragliato, del 1864: « From Soussa to Mehediah: anchorage of Monastir. »

252. Nucula cit., 54: « Universa classis aqua egere cæpit; cujus petendæ causa, idoneus Monasterii ager visus est, in quo probatissimæ aquæ magnam copiam esse constabat. »

253. Anonimo, Mss. cit., Nella vita, p. 23: « Astorre guidò le genti italiane che erano sulle galere del Papa, ed in breve tempo prese Monasterio. »

254. Joannes Christophorus Calvetus Stella, De expugnato Aphrodisio, ext. inter opusc. De Rebus Turcorum edita a Conrado Clasero, in-fol. Basilea, 1556, p. 631.

Filippo Casoni, Annali di Genova del secolo decimosesto, in-fol. Genova, 1708. — Ann., 1550.

255. Nucula cit., 63: « Jactura duarum triremium, in quibus tormenta, vitio fortasse conflata, vel incuria, magno impetu sonituque effracta. »

Stella cit., 631: « Triremes afflictæ.... primaria Caroli Aragonii, Terrenovæ marchionis, depressa. »

Bosio cit., III, 267, D: « Crepato il cannon di corsia ad una galera del signore di Monaco.... uccisi molti.... si aperse la galera.... »

256. Pedro de Salazar, Historia de la guerra y presa de Africa, con la destruycion de la villa de Monaster, etc. in-4. figur. Napoli, 1552, in casa di Mastro Mattia, p. 22, A. I, med.: « El cañon de cruxia de la galera de sancto Angelo del Marques de Terranova se abriò y la galera por medio. »

Prudencio de Sandoval, Vida y echos del emperador Carlos quinto, rey catholico de España, etc. in-4. Pamplona. En casa de Bartolomeo Paris, 1586.

257. Caruano, altri scrivono Karoano, e l'Amari Kairwan, regno nell'interno dell'Africa, alle spalle di Tripoli e di Tunisi.

De Hammer cit., XI, 219 ( Kairewan ).

258. Bosio cit., 269, A: « Tanto spiacque a don Garzia il vedersi dal Vicerè.... occupare il luogo che nell'animo suo già presupposto si haveva.... che stette per ritornarsene.... dal principe Doria quietato.... Convitò a mangiar quei signori.... e trattò che da tutti tre, come da buoni fratelli si ordinasse l'impresa. »

259. Salazar cit., 33, A, 1: « Et principe Doria.... tractò con el Visorey consintïese en que don Garcia tuviese con el ygual imperio y potestad.... todo eso fue acordado. »

260. P. A. G., Medio èvo, I, 215.

261. Horatius Nucula, De bello Afrodisiensi, in-12. Roma, 1552, p. 10: « Nomina urbium Africæ. Aphrodisium, vulgarmente Africa, città principale dell'Africa menore. »

Stella cit., De expugnato Aphrodisio, p. 619: « Aphrodisium vulgo Africa, Mauri Mahadiam appellant. »

Bizarus cit., 510: « Excepta urbe Lepti quæ Mohomedia a Poenis, a nostris vero Africa, ab antiquis autem Aphrodisium. »

Ammirato cit., II, 486, A: « Africa, terra posta nei liti di Barberia, la quale dagli antichi fu già detta, da un tempio di Venere, Afrodisio. »

Raynaldus, Ann., 1550, n. 25: « Urbs Leptis, alias dicta Aphrodisium, sive Africa, quam Dragutus archipirata insederat. »

Sigonio, Vita di Andrea Doria, trad. dall'Arnolfino, 287: « La terra di Afrodisio era chiamata Africa. »

Bosio cit., III, 271, A: « Fu questa città dai barbari chiamata Mehedia, dai latini Aphrodisium, e dagli italiani Africa. »

262. Vasari, ed. Le Monnier, X, 15: « Seguitò poi Antonio da Sangallo per lo detto duca di Castro la fortezza di Nepi, e la fortificazione di tutta la città che è inespugnabile e bella. »

Ranghiasci, Storia di Nepi, e Pianta della città, in-8. Roma, 1818.

263. Bosio cit., III, 188; 217, 230.

Vedi appresso, e all'Indice voce Tripoli.

264. Campana cit., II, 49, B: « Le mura.... fortificate da cinque torri.... e da un gran rivellino.... che sporgeva in punta molto infuori ben fiancheggiato.... muro antico e sodissimo.... le difese dei fianchi. »

Bosio, III, 273, C: « La fronte sulla lingua di terra passi trecento.... sette torri, e la torre di mezzo più grossa e forte sporgeva tanto in fuori che a guisa d'un gran rivellino fiancheggiava tutta la fronte. »

Stella cit., 628, B: « Aditus ad ducentum passus.... duplici muro et altissima fossa inter utrumque.... murus interior pedum quindecim, qui vero pro fossa quinque patet. »

Sandoval cit., 123: « Fortisimo sitio.... sobre roca dentro et mar.... doscientos pasos de mar a mar.... muro alto y grueso.... seis toreones en el, quatro quadrados, i los dos redondos.... Barbacana y cava. »

Salazar cit., 14, 37, 74, Piante della città e prospetti incisi rozzamente in legno.

G. R. Wilkinson, R. N., From Soussa to Mehediah. — Carte dell'Ammiragliato in gran foglio colla pianta particolare della città, incisa geometricamente in Londra nel 1864.

E tutti gli altri citati alla nota 63.

265. Nibby, Contorni di Roma, 1838, II, 286: « Astura. »

Album, Giornale Romano, 3 agosto 1844, XI, 177: « Prospetto di Astura. »

Pianta e rilievo del castello di Astura, disegnato dagli ufficiali pontificî del genio, e copia presso di me.

266. Feliciano Bussi, Storia di Viterbo, in-fol. Roma, 1742. (Una alla porta della Verità, una alla Sallupara, una al bivio dello stradone della Quercia, due alla porta Salsiccia; la minore delle quali da me misurata ha per ciascuna faccia m. 6.75, e per ciascun fianco fino al muro m. 3.40.)

267. Cap. Angelo Angelucci, Ricerche preistoriche, e scritti varî, in-8. figur. Torino, 1872, p. 43, tav. 3ª.

268. Ambrosius Leonis, Antiquitates et historia urbis Nolæ, lib. I, cap. VIII. ap. Burman in Thesauro colla pianta, IX, IV.

269. Stella cit., 628, B: « Duplici muro, et altissima fossa inter utrumque. »

Sandoval cit., 123: « Tenia la cerca Barbacana y cava. »

270. Stella, 628: « Porta admirabilis.... tot anfractus inextricabiles, tot gyri, tot arcuati flexus, suis quisque æratis portis muniti. »

Nucula cit, 122: « Transitus per septem portas æreas, non recte, sed oblique positas, in Urbem. »

271. Sandoval cit., 139, B: « Puerto por arte con muelle y cadena, y buen surgidor. »

Stella, 628: « Navale alios antecellit.... tutissimo loco.... aditum perangustum. »

Bosio, 271, C: « Faceva anche cavare un piccolo porto, che dal mare entrava nella città. »

272. Sandoval cit., 126, B: « Sabado a veinte y ocho de junio, vispera de san Pedro y san Pablo, ya que queria abrir el alba, toda la gente de la armada en barcos esquifez, bateles, y fragatas, fueron para ir a tomar tierra. »

273. Nucula cit., 181: « Celeberrimus ædificiorum et operum Cæsaris architector et machinator optimus, Ferramolinus nomine, genere italus, Bergomi natus. »

Bosio cit., III, 273, B: « Secondo il disegno dell'ingegnere Ferramolino, condotto dal Vicerè a quell'impresa, si attese a far ripari, trinchèe fiancheggiate, ec. »

274. Sandoval cit., 134, B: « Otro ingeniero que havia en el campo se llamaba Hernan Molin. »

Salazar cit., 68, B: « Tractando sobre los ingenios Andronico de Espinosa y Hernan Molin se acordaron que.... se hiciesse una trinchea desde el campo hasta el muro. »

275. Nucula cit., 177: « Interim in aggeribus jacendis, tectisque cuniculis agendis, et testitudinibus, nil a nostris remissum. »

276. Salazar cit., p. 14, 37, 74. (Con rozze tavole incise in legno rappresenta i pezzi e le batterie nella loro posizione.)

Sandoval cit., 128, A, med.

277. Nucula cit., 137.

Sandoval cit., 129, B.

278. Anonimo, Vita di Astor Baglioni cit., 22: « Li pareri erano molto diversi: perchè altri voleva andare alla Goletta, altri in Sicilia, et altri levarsi di questa et fare altre imprese. »

279. Bartolommeo Crescentio, La Nautica Mediterranea, in-4. figur. Roma, 1602, in princ.: « Al signor dottore Niccolò Ghiberti di Lorena già medico delle galèe di N. S., amico lettore, Bartolomeo Crescentio ingegniero pontificio sanità perpetua. — Se mal non mi ricordo, unico amico, tornato che io fui di Francia in Civitavecchia coll'armata ecclesiastica d'accompagnare la Serenissima Granduchessa, mi fu riferito esser Voi venuto ivi per medico delle galèe.... mi maravigliai che Uomo tale, privandosi di Roma dove da giovane, ancorchè forastiero, due volte del Collegio Protomedico si vide, veniste a navigare e scorrere o inospiti paesi, o barbari lidi.... »

280. Nicolaus Orlandinus, Historia Societatis Jesu, in-fol. Anversa, 1620, p. 238: « Cum classe, cui pontificiæ triremes, florentinæque, ac melitenses adjunctæ erant.... Jacobus Laynius ad instruendum nosocomium.... socius Martinus a Carnoxa.... levamen quatuor Cappuccinorum.... ducenti sæepe et quadraginta jacebant. »

Salazar cit., 35, B, 2: « En visorey.... hizo hospital.... y diò cargo de la cura de ellos a un frayle teatino su confessor y predicador, llamado Laynez, y a otro su cappillan don Matteo de la orden de san Juan. »

Bosio cit., 277, A: « Frate Alonso Romero dell'ordine di san Francesco, confessore e teologo di don Garzia di Toledo, il quale fu poi fatto dal Papa primo vescovo di Africa. »

Sandoval cit., 126, B, 2; 137, A, I. (Con più altre notizie dei due francescani)

281. Documenti pubblicati dal Palermo cit., p. 131. — Lettera di messer Francesco Babbi al duca di Fiorenza, data da Napoli, addì 16 giugno 1550.

282. Salazar cit., 72, B, I: « Elegidos en la orden hasta treynta gentiles hombres romanos. » — Item, 8, B, I.

283. Foglio volante di quattro pagine in-4. stampato in Roma colla data del 24 settembre 1550, e intitolato: « La presa d'Africa con il nome de li colonnelli et capitani, et persone di conditione, con el numero delle persone morti et feriti de l'una parte e l'altra, et tutte le cose successe di mano in mano. » — Bibl. Casanat., Miscell. in-4. vol. 9, n. 14.

284. Documento pubb. dal Palermo cit., 127. — Lettera del Babbi al duca Cosimo, data da Napoli, 7 maggio 1550: « Il signor Gio. Battista Del Monte ha mandato qui un suo uomo.... al principe Doria, perchè gli vuol far compagnia in questo viaggio con due dozzine di gentiluomini. »

Adriani cit., 284, G: « Il signor Giovanbattista Del Monte desiderava nel mestiero delle armi divenir grande et honorato, et havea a provvisione molto buoni et arditi soldati. »

285. Jacobus Augustinus Thuanus, Historiar. sui temporis, in-fol. Londra, 1733, I, 264: « Aderant et Carolus Sfortia, et Jordanus Ursinus, Astor item Balleonus, et Antimus Sabellus.... qui se ad id bellum contulerant. »

Foglio volante cit., 3: « Il signor Antimo Savello.... si difese bravamente. »

286. Benedetto Varchi, Orazione funebre detta in morte del signor Giambattista Savelli, luogotenente generale di tutte le genti di Toscana, detta in san Lorenzo di Firenze l'anno 1551. — Ext. tra le Orazioni di Uomini illustri pel Sansovino, in-4. Lione, 1741, I, 278.

287. Salazar cit., 43, B, I: « Luis Perez escribiò a la Goleta a su lugarteniente, y al contador Cervantes, entregassen dos culebrinas, i dos cañones gruesos, y el reforzado serpentino, y doscientos quintales de polvora, i dos mil pelotas. »

288. Nucula cit., 204: « Aggeribus ad passus ducentos proprius urbem jactis. »

Salazar, 46, B, 2: « Mandaron hacer otra trinchea, cien passos mas adelante. »

Sandoval, 130, A, I.

289. Sandoval cit., 128, B, I, med.: « Traxessen leña para que dos herrerias ardiessen siempre; y se hiziessen en ellas clavos, plancas, y hierros para la artilleria, y otras cosas necessarias en el campo. »

290. Nucula cit., 138: « Saucios milites et male affectos Drepanum ut ibi commodius curarentur misit. »

Salazar cit., 43, B, 2: « Mandaron allà salir al Prior de Lombardia y la capitana del Papa.... todas eran cinco galeras. »

Sandoval cit., 130. A, I: « En Napoles fueron el Prior de Lombardia, y Filipin Doria.... et Visorey les dio une compañia de infanteria.... pelotas, quintales, etc. »

291. Documenti etc. pub. dal Palermo cit., nell' Archiv. Stor. It., IX, 133.

Theiner, Ann. Eccl., I, 481.

292. Parla dell'assalto dato la notte seguente all'undici di luglio.

293. Sigonio, Vita di Andrea Doria cit.,289: « Il Vicerè mal soddisfatto che il Doria gli avesse anteposto don Garzia suo emulo, si alienò da lui. »

Bosio cit., III, 275, D: « I tre capi dell'armata cristiana erano tra loro discordi. »

Nucula cit., 208, 210, 216, 269.

294. Nucula cit., 201: « Afer clarus.... albo equo sed versicolore juba caudaque.... tanta Ursinum celeritate invadit ut prius lancea brachium illi transverberet, præcipitemque ex equo trahat, quam tormentum deflectere possit.... Ursinus graviter vulneratus et equo privatus in castra relatus est. »

Salazar cit., 60, B, 2: « Jordan Ursin deseaba ver bien los campos de Barberia.... anduvo con la escolta, mirando, holgando mucho, ec. »

295. Litta, Famiglie celebri. — Orsini di Roma, ramo di Monterotondo, tav. VIII.

296. Anonimo cit., Mss. nella Vita del Baglioni, p. 27: « Astorre salvò Giordano Orsino, generale del duca di Fiorenza, caduto in mano agli Arabi. »

297. Nucula cit., 132: « Dragutes.... in Sardinia strenuos viros, dum pagum ibi capere tentaret, circiter quadringentos amisit. »

Idem, 171; « Strenuos autem, quos habuerat Dragutes, amiserat in Sardinia. »

298. Nucula cit., 151, 152: « Superioribus diebus nonnullos Afros partem nostrorum palantium aggressos esse, alios vulnerasse, alios morte affecisse, et Alvarum ducem.... pene circumventum fuisse constabat. »

299. Sandoval cit., 131, A, 2: « El Virrey por algunos Alarabes tenia aviso que soccorro venia.... no que Dragut lo traxesse. »

Nucula, 164, 165.

300. Sandoval cit., 131, A, 2: « El Virrey tenia avviso por algunos Alaraves que venia soccorro.... no sabia que Dragut lo traxesse. »

Nucula, 164, 165: « Vega nondum compertum habebat se eo die cum Dragute ad manus venisse. »

301. Salazar cit., 54, B, I: « Perez andava sin parar da un cabo a otro esforzando los soldados, diziendoles: Ea, amigos, muera esta mala canalla enemiga nuestra, Santiago, y à ellos. »

Sandoval cit., 129, A, I: « Diziendo, Santiago, y à ellos. »

Nucula cit., 245, fin.: « Divi Jacobi nomine invocato, ut Hispani milites prœlium ineuntes semper facere consueverunt. »

302. Salazar cit., 54, B, 2: « Otra pieça de una galera, dando primero dos saltos en tierra, al terçero diò a un hombre de cavallo por el cuerpo; y lo hizo pedaços. »

303. Salazar, 55, A, I: « Dieron a Luis Perez un escopetaço por los pechos, que la pelota de et le saliò por los riñones.... bolviò las riendas.... cayò muerto en el llano, y et cavallo se parò. »

304. Salazar, 55, A, 2: « Sabiendo el Visorey que la faxina y rama era echa.... la mandò llevar al campo.... y mandò retirar el esquadron.... retirandose el rostro a los enemigos y peleando. »

305. Bosio cit., III, 274, D: « Conducendo massimamente il Vicerè alcuni pezzetti d'artiglieria da campagna. »

306. Thuanus cit., lib. VII, n. 6.

Nucula cit., 165.

307. Nucula, 175: « Marco Centurioni negotium datur ut cum decem triremibus Genuam... inde Liburnum... impositisque militibus, reverteretur. »

Salazar, 57, 59, 67.

308. Salazar cit., 46, A, I; 63, A, B; 64

309. Salazar cit., 63, 64.

P. A. G., Medio èvo, I, 206, 208, 210.

310. Salazar, 46, A, I: « El Prior con la capitana del Papa.... fue en busca de la fusta.... y topò la fragata que a salvamiento venia. »

311. Sandoval cit., 134, B, 2, med.: « Dixo Espinosa que, quando venia de Sicilia, avia reconocido per el mar ser aquella parte lo mas flaco de la plaza, y que de là seria bien dar le batteria. »

312. Carlo Botta, Viaggio attorno al globo, di Duhaut de Cilly, 1, 7, 39, 129, 130, 136, 216, etc.

Ariosto, Orlando Fur., XXXVI, 7.

313. Salazar cit., 60, A, I: « Despues el dia de Santiago.... escribieron.... a Andronico de Espinosa ingeniero del reino de Sicilia, que fuesse a servir al campo imperial sobre Africa.... de mas de Hernan Molin. »

Idem, 68, A, 2: « Andronico de Spinosa ingeniero, que el Visorrey a Cecilia embiò a llamar con diligencia, se embarcò y fue al campo. »

314. Emmanuele e Gaetani (marchese di Villabianca), La Sicilia nobile, in-4. Palermo, 1757, II, 387: « Arduini famiglia antichissima messinese dei tempi dei Normanni. »

315. Bosio cit., III, 286, A, B: « Merito di Arduino rodiotto, già bombardiere e vassallo della Religione, il quale dopo aver servito il prior Gabrielle Tadino di Martinengo, fattosi molto perito et experto in fabbricar macchine, stava al soldo del Vicerè di Sicilia, e nella milizia spagnola si faceva chiamare il capitan Spinosa. »

316. Salazar cit., 72, B, 1, 2. — Sandoval cit., 134, B, I.

317. Nucula cit., 265, 266: « Quamobrem Prato nobili architecto, cujus opera in ædificiis construendis, urbibusque ac locis muniendis pro rex assidue utitur, negotium dedit.... ut munitior Urbs fieret, et custodiri posset.... et formam exprimeret ad architecturæ leges.... ad Cæsarem mittendam. »

318. Salazar cit., 85, A, I, med.: « El Visorey en Africa.... dexo un ingeniero, para que haziesse reparar. » Questi è il Prato.

319. Antonio de' Ferrari, detto Il Galatèo, Successi dell'armata turchesca in Otranto, tradotti dal Marziano, in-4. Napoli, 1612, p. 85.

320. Sandoval cit., 134, B, I, mod.: « Començose la trinchea: mas hallaron tanta agua.... juntando con el muro para que pudiesen picarle y minarle. »

Adriani cit., 289, B: « Havendo prima tentato cave sotterra.... per andare coperti alle mura per iscalzarle et abbatterle: ma nulla era giovato, chè le mine intoppavano in pietra dura. »

321. Stella cit., 640: « Ferramolinus, architector et machinator excellens, cum cuniculos jam prope pomerium egisset, glande tormentaria secundum frontem ictus est. »

Nucula cit., 182: « Ferramolinus, optimus architector et machinator Cæsaris.... cum tectum cuniculum agi curaret, glandis ictu in caput secundum frontem interiit. »

Salazar cit., 68, B, 2, fin.: « A Hernan Molin dieron un escopetazo por los pechos, de que muriò. »

Sandoval cit., 134, B, 2.

322. Salazar cit., 69, A, 2 princ: « Jueves a la noche veynte y siete de agosto, hizieron plantar pieças gruesas, y al romper del alva de otro dia començaron a jugar.... estaban a doscientos y treynta passos.... cogian mas en lleno.... hizo grande operacion. »

Sandoval, 135, A, I. — Nota che nel 1550 e mese d'agosto il ventisette era mercoledì, dunque il giorno seguente è giovedì ventotto. La notte deve intendersi precedente.

323. Bosio cit., III, 276, B: « Dànno alcuni la intiera lode al bell'ingegno di don Garzia.... altri affermano che fu invenzione di un rinnegato di nazione napoletano.... altri di un forzato, altri di uno schiavo africano.... ma siasi di chiunque.... non devesi defraudare don Garzia e Arduino. »

324. Festus, De verbor. signific., in-4. Amsterdam, 1700: « Sambuca.... Organi genus; et per similitudinem etiam machinam appellant qua urbes expugnant: nam sicut in organo chordæ, sic in machina funes intenduntur. »

Livius, Rom. hist., XXX, 10.

Appianus, De bell. Mitridat.

Vegetius, De re milit., IV, 21.

Vitruvius, De archit., X, ult.

Lipsius, Poliorcet., I, 16.

325. Nucula cit., 135: « Machina in pulcherrimo Messanæ portu, ludicræ navalis pugnæ spectandæ causa, constructa fuerat; atque in ea convivium principibus viris primarisque fœminis celebratum. »

326. P. A. G., Medio èvo, I, 362.

327. P. A. G., M. A. Colonna, 410.

328. Archivi Colonnese e Vaticano prodotti e citati continuamente nella mia Storia: e nei Documenti del Theiner, Ann. Eccl., t. I, p. 484, Lettera di Paolo Giordano Orsini al card. di Como, 28 settembre 1572, dall'armata: « Si è atteso a fabbricare una macchina per consulta di Giuseppe Bono architetto. »

Adriani cit., 922, ult.: « Giuseppe Bono. »

Sereno cit., 308, fin.: « Giuseppe Bono. »

Theiner, Ann. Eccl., app. t. I, p. 484: « Giuseppe Bono. »

329. Carlo Promis, Gli ingegneri militari che operarono o scrissero in Piemonte dal MCCC al MDCL, in-8. Torino, 1871, p. 28.

330. Salazar cit., 70, A, 1, 2: « El Principe mandò la galera llamada la Brava, el Visorey la Califa, quales Espinosa hizo juntar, ligandolas con clavazon y madera.... hizo sus troneras.... cercolas de botas betunadas, puso por costado nueves piezas gruesas de artilleria. »

Sandoval cit., 135, B.

Nucula cit., 186.

331. Nucula cit., 207: « In statione, ubi tota classis erat, fabricata est machina, ut hostes fallerentur. »

Cappelloni cit., 129.

332. Sandoval, 134, A, 2: Marco Centurion.... con los Capitanes Solis, Moreno, Manrique, y otro.... llegaron sobre Africa a seys de setiembre, muy bien recibidos. »

Nucula cit., 202: « Postero die (6 sett.) sub prandii tempus Marcus Centurio rediit.... pulveris, pilarum, commeatus vim, et mille quinquaginta advexit milites. »

Sandoval, 67, B; 68, A.

333. Boga (dal lat. Bojæ, arum. f.) Term. marin. da preferirsi a ogni altro per quel gavitellone ancorato, che serve ai bastimenti di facile ormeggio nelle rade. Esprime il ceppo e il ritegno, non è voce arbitraria, nè straniera, anzi dei Classici nel senso comune. E nel traslato marinaresco non porta equivoci col quadrupede Bove nè col serpente Boa, nè col carnefice Boja, come taluno vorrebbe scrivere, senza ragione.

334. Salazar cit., 70, A, 2: « Domingo en la noche de siete de setiembre.... las galeras sacaron del puerto la nao y galeota.... estando ya reconocido donde se avian de plantar las galeras de la maquina de batir. »

Sandoval cit., 135, B, I: « Domingo en la noche despues.... cogieron los navios y la galeota y los llevaron.... reconocido donde plantar para hazer batteria. »

335. Nucula, 229: « Præerat tormentis machinæ optimus machinator Andronicus Spinosa nomine, cui magna ad rem peragendam. »

336. Sandoval, 135, B, 2, fin.: « Una pelota llevò la maroma, y las manos a uno, y las cabezas a quatro.... huvieron timor. »

337. Nucula, 233: « Miserunt qui suo nomine rogarent Auriam, ut si machinam et qui erant in ea salvos vellet, inde illam amoveri juberet. »

338. Wilkinson, R. N. cit., Anchorages of Mehediah, ancient Africa. 1864. « S. Wd. sand and weed. » (Rena ed Alga.)

339. Sandoval cit., 136.

Nucula cit., 235.

340. Salazar, 71, B. 2.

341. Sandoval, 136, B, I.

342. Anonimo Perugino cit., Ms. 23: « Astorre Baglioni guidò all'assalto le genti italiane, che erano nelle galere del Papa.... i due generali del Papa e di Firenze restarono sulle galere a travagliare la piazza colle artiglierie.... le loro genti andarono all'assalto condotte da Astorre Baglioni. »

343. Nucula, 224: « Victoriam adjuvit Carolus Sfortia, summi pontificis Julii III militibus, hoc idem Jordanus Ursinus cum suis. »

344. Bosio cit., III, 277, A.

345. Salazar cit., 72, B, 1, med.: « Romanos Florentines, y Ginoveses que havian salido de las galeras del Papa y del duque de Florencia, todos muy bien aderezados de guerra. »

Nucula cit., 224: « Astor Ballionius et Antimus Sabellus cæterique Itali nobilitate præstantes.... qui se itala virtute splendoreque dignos prœtiterunt. »

346. Salazar cit., 74, A, 2: « Llevando el Principe en su galera un estendarte tendido con un Crucifixo, y otro con el aguila imperial, con otras muchos banderas y gellardetes por popa y proa: y de la mesma manera todas las otras galeras del Papa y del armada. »

347. Sandoval 136, A, 1, fin: « Baterias muy vivas, y espesas, sin cessar, tanto que se quebrò una pieza de artilleria de las galeras del Papa. »

Salazar, 70, B, 2.

348. Nucula, 249: « Acies aquam audacter ingressa per medios fluctus ad oppidum. »

Sandoval, 136, B, 2: « A las tres de la tarde señal de arrometer. »

Salazar, 74, A B, 2: « Sonò luego la trompeta del Principe en tierra, como estava acordado. »

349. Mambrino Roseo, Storie del mondo, in cont. del Tarcagnota, in-4. Venezia, 1598, III, 405: « Fatta una batteria per mare sopra due galere, e dato l'assalto per quella batteria dai cavalieri di Rodi e dagli Italiani, la città fu presa. »

Tommaso Costo, Storia di Napoli, in-4. Venezia, 1613, II, 265: « Dato l'assalto dagli Italiani e dai Cavalieri, fu presa la città d'Africa. »

Nucula, 249. — Salazar, 72, B. — Bosio, 277.

350. Nucula, 247: « In ea Præfectus mortem occubuit: et quod ipse eventurum prædixerat, urbem scilicet dum ipse viveret non capiendam, evenit. »

Salazar, 79, A, 1.

Ciprian Manente, Historie, in-4. Venezia, 1566, II, 296.

351. Sigonio cit., 289.

Cappelloni cit., 150.

Stella cit., 644.

Campana cit., II, 50.

Natal Conti, 92.

Adriani, 289.

352. Nucula cit., 270.

353. Salazar, 80, B, 1, med.: « Otro dia el principe Doria saltò en tierra con los capitanes de las galeras y gentilhombres romanos, ginovesses y florentines, y otros italianos, y entrò en la ciudad. »

354. Bosio, 278, A: « Volle don Giovanni di Vega essere riconosciuto come solo capitan generale, di che si tenne don Garzia molto offeso.... e mandò fuori alcuni manifesti contro il Vicerè, dai quali mortal odio e perpetua nimistà poi tra loro ne nacque. »

355. Sandoval cit., 139, B, 1.

356. Nucula cit., 266: « Prato nobili architecto, cujus opera in edificiis construendis, ac locis urbibusque muniendis assidue utitur, negotium dedit ut ejus formam exprimeret ad architecturæ leges.... Formam igitur futuræ munitionis ad Cæsarem in Germaniam per Joannem Osorium Quinnonium perferendam curavit. »

357. Salazar, 85, A, 1, med.: « Dexo el Visorey un ingeniero para que hiziesse reparar lo que pareciesse necessario. »

358. Antonio Doria, Compendio cit., 111: « Non volendo l'imperatore mantenere tanta spesa nella costa di Barberia, ordinò che si mancasse d'Africa.... facendo riempire la darsena, e ruinate tutte le mura, fu levato il presidio. »

359. Annibal Caro, Lettere scritte a nome del cardinale Alessandro Farnese, in-8. Milano, tip. de' Classici, 1807, I, 401. La nota dell'editore a p. 208, richiamata da lui medesimo a p. 401, confonde la spedizione di Afrodisio del 1550, con quella di Tripoli del 1559; forse indotto in errore dal nome equivoco di Africa, che mi sono io per questo ben guardato dal ripetere.

360. Salazar, 85, A, 2: « Al puerto de Napoles salva de la capitana del Principe, y de don Garzia, y de los otros capitanos del Papa y de Florencia.... respondidas de Castilnovo, de Santelmo, y Castildelobo. »

361. Raynaldus, Ann., 1550, n. 25, 26.

Thuanus cit., 266.

362. Joannis de Vega, Siciliæ proregis, epistola ad Julium III, pont. max. — Dat. Drepani IX Kal. novemb. MDL. — Ext. ap. Nuculam cit., 333: « Deo primum honorum omnium opifici, deinde tibi, qui nos summopere et classe et exercitu et pontificiæ facultatis donis adjuvisti, victoriam acceptam referri volumus. »

Item, ibid. p. 336, 348.

363. Nucula, 360: « En claustram vectemque tetri carceris quo Christiani claudebantur.... Adsunt cornei turcarum arcus.... hi sunt falcati enses.... Adsunt canes libyci.... et feroces leones feritatis obliti.... Adducimus equos afro more stratos.... Haec qualiacumque, Sanctissime Pater, mittit Prorex.... boni consulas, neve rerum tenuitatem, sed animum tibi deditissimum metiare. »

364. La presa di Africa (cit. sopra alla nota 63): « Gli Italiani, perchè erano pochi, hanno avuto manco preda per la superchiaria che era fatta loro da Spagnoli. »

Tommaso Costo, Storia di Napoli, in-4. Venezia, 1613, II, 265: « Morirono di quei di dentro nel furore dell'assalto a sangue caldo presso a ottocento tra Turchi e Mori, e fu tutto il resto fatto prigione con diecimila anime, i quali tutti quasi furono portati in Sicilia, molti a Napoli, et pochissimi a Roma. »

365. Cicero, De legibus, III, 8: « Domum cum laude redeunto. »

366. Adriani cit., 298, G: « Il priore di Lombardia aveva tenuto quattro galere al soldo della Chiesa nell'impresa d'Africa.... e quella spedita, rincrescendone al Papa la spesa, si era con esse gittato in Francia, avendo nimistà mortale con gli Spagnuoli. »

367. Relazione Mss. Capponiano, (di che vedi appresso nota 192), p. 374: « A. Sforza trovò da cinquanta in sessanta uomini di Civitavecchia, i quali come affezionati di casa Sforza erano iti a visitarlo. »

368. Ratti cit., Casa Sforza, I, 281.

369. Archivio di Stato in Lucca, tre lettere sul proposito del naufragio di due galere del priore di Lombardia alla Spiaggia di Viareggio nel maggio 1551. — Serie degli Anziani al tempo della Libertà Nº 550. — Per cortesia del chiaro archivista Salvator Bongi.

Il Ratti cit., I, 279, ne parla al solito per le generali.

370. D. Ferrante Gonzaga: famoso governatore di Milano per Carlo V, che aveva già occupato Piacenza, e minacciava Parma.

371. Horatio Farnese: fratello minore del duca Ottavio, che veniva per generale della cavalleria francese mandata da Enrico II in Lombardia.

372. Aurelio Fregosi: colonnello al servizio di Francia, spedito nel 1551 in Italia per la guerra di Parma, come ben scrive il Litta dei Fregosi, tav. VI, ed ultima.

373. Servitori: non ardiscono nominare Francesco de Nobili perchè concittadino: ma eravi cogli altri, come appresso essi medesimi scrivono.

374. Caso d'importanza: e per quanto si vede studiosamente procurato da quei Signori per gettarsi in fretta sul Parmigiano.

375. Felici successi: non certo del naufragio; ma deve alludere alla partecipazione delle nozze stabilite colla Diana di Francia, o vero alle speranze di Parma e del re Arrigo II.

376. Annibal Caro, Apologia seconda in favore del Re di Francia, nella quale brevemente e con verità si tratta delle cagioni della guerra che nuovamente è nata fra l'Imperatore e S. M. Cristianissima per Parma e la Mirandola. Pubblicata ed annotata dal chiar. prof. Giuseppe Cugnoni tra le prose inedite del Caro, in-18. Imola, Galeati, 1872. — Molte le scritture, i manifesti e le apologie dalle due parti messe al pubblico piuttosto ad esasperare che a giustificare la loro causa, come ne dice il Pallavicino. Ricordo soltanto questa (che abbiamo volgarizzata dal Caro ad istanza del Cardinale di Tornone) per rispetto al grande scrittore, ed all'egregio annotatore.

377. Adriani cit., 340, H; 436, E.

378. Relazione del Mss. Capponi cit., 373: « Il Re dubitò che quelle galere si conducessero altrove, per essere elle in potere del capitan Filippo, dipendente dal Camerlengo fautore delle cose dell'Imperatore in Roma; per ciò gli levò per propria autorità quel carico, e lo diede al capitano Niccolò Alamanni

Adriani cit., 509, A: « Del priore militavano a soldo del Re di Francia tre galere e stavano a Marsiglia con le altre.... sovra esse al governo il capitan Niccolò Alamanni, al quale il Re le aveva raccomandate. »

Il nome di Niccolò Alamanni si legge sovente nelle lettere del Caro da Roma al Varchi in Padova, come in quella del 22 novembre 1539.

379. Adriani, 436, E.

380. Card. Sforza Pallavicino, Storia del Concilio di Trento, ediz. Romana, in-fol. 1666, II, 52, 128.... « Possiamo affermare che il Caraffa generalmente riuscì tal pontefice quale fu conosciuto cardinale; cioè di sommo zelo, ma non di perfetta prudenza. Solo ingannò col lasciarsi affascinare dal troppo amore de' suoi; e incontrogli tali che fomentarono i suoi difetti, snervarono le sue virtù, e rendettero infausto e inglorioso il suo pontificato.... Ebbe eminenza nelle lettere, e dalla natura eloquenza mirabile; ma con soverchio appetito di vederla ammirata: appetito che non satollo col pasto gli cagionò grande adulazione in presenza, ma non minore irrisione in assenza. Largo estimatore di sè stesso, e stretto degli altri. Segnatamente abborriva la nazione Spagnuola e la casa di Austria, nè si teneva in pubblico di parlarne con titoli sconci et indegni; parendogli che la libertà fosse stata da loro tolta ai popoli in Italia colle armi, alla Chiesa in Spagna colle ordinazioni, e data all'eresia in Germania con le diete. »

Pietro Nores, Guerra degli Spagnuoli contro papa Paolo IV, pubbl. dall' Arc. Stor. It., in-8. Firenze, 1847, XII, p. 9. — Il Nores, allora inedito, lodato e citato dal Pallavicino come caro e virtuoso amico, e non meno apprezzato dal Tiraboschi, dal Fontanini, e da tutti i migliori, scrisse in Roma, servì nella segreteria di Stato a Clemente VIII, e poscia ai cardinali suoi nipoti.

Bernardo Navagero, Relazione della corte di Roma al tempo di Paolo IV. — Citata e lodata dal Pallavicino, come sopra, p. 52; e pubblicata dall'Aubery, Preminences de nos Roys. Parigi 1749; e da altri appresso.

Raynaldus, Ann. Eccl., 1555.

381. Ratti cit., I, 240, nota 19.

382. Relazione della ritenzione delle galere di Carlo Sforza, priore di Lombardia, fatta da monsignore Alessandro Sforza chierico di Camera; e della prigionia e liberazione del cardinale di Santa Fiora l'anno 1555. (Mss. Capponi, cod. 287, p. 413) pubblicata nell' Arch. St. It., in-8. Firenze 1847, vol. XII, p. 372.

383. Pugnale, arma corta da ferire di punta, e facile a essere impugnata. Si usava nei bassi tempi, cinto accanto alla spada; ed usasi tuttavia nei combattimenti da presso, nelle mine, nelle casematte, e più nei ponti coperti dei bastimenti militari, dove torna inutile il maneggio delle armi lunghe. Non v'ha ufficiale di marina senza il pugnale nel suo camerino. Anzi questo, in vece dello spadone, portavano al fianco nelle maggiori comparse, infine al terzo decennale del nostro secolo.

384. Relazione dal Mss. cit., nella nota 192, p. 374: « Alessandro salito in poppa trovò da cinquanta in sessanta uomini di Civitavecchia, i quali, come affezionati di casa Sforza, erano iti a visitarlo. »

385. Theuli, Appar. Prov. Rom. in-4. Velletri, 1648, p. 84. (V. a p. 180, nota 54; e la seguente qui nota 198.)

386. Documenti cit., nel M. A. Colonna, 303, 158, 314, 386. (V. a p. 180, nota 55; e la seguente qui 198.)

387. Archivio Municip., v. a p. 180, nota 56. (E la seguente qui 198.)

388. Archivio Conventuale dei Domenicani in Civitavecchia, Codici intitolati Ricordanze, vol. tre, segnati A, B, C, un volume intitolato Memorie, e un altro intitolato Campione, tutti in foglio ove sono registrati contratti, testamenti, legati, piante, atti giudiziarî, e simili, cominciando dal 1422; e quivi le notizie incidenti delle persone di detti tempi.

Archivio Municipale di Civitavecchia, codici intitolati Registro delle patenti, e similmente Atti delle Estrazioni dei magistrati dal bossolo, ove sono ricordate le famiglie dei Visconti e dei Camerlenghi secondo l'ordine, pel secolo decimosesto; ed alcuni estratti, per favore di amici, presso di me.

389. Lettere, pubb. nell' Arch. St. It. (v. qui sopra, p. 129.)

390. Sandoval cit., II, 202, A, 2.

Mambrino Roseo cit., III, 512.

Natal Conti cit., 241.

Cesare Campana cit., II, 133.

391. Raynaldus, Ann., 1555, n. 72: « Accensæ sunt hoc anno faces infelicis belli quod inter Paulum IV, pont. et Philippum II regem exarsit ex audaci et iniquo facinore Marii et Alexandri Sfortiarum, qui duas triremes gallicas in portu Centumcellarum adducere Neapolim pertentarunt. »

Alexandro de Andrea, De la guerra de Campagna de Roma. in-4. Madrid, 1589, p, 105: « La huyda de las dos galeras del prior de Lombardia, puesque de aqui tomò occasion el Papa.... à la guerra. »

Pietro Nores cit., 12.

392. Girolamo Maggi, Della fortificazione delle città, in-fol. figur. Venezia, 1564, p. 16: « Messer Gianfrancesco Lottino volterrano, uomo di molto giuditio, nel discorso che egli contra il Secretario fiorentino fa in certe sue lettere che mi riferì il virtuosissimo messer Dionigi Atanagi che le lesse, nelle quali mi affermava che si contenevano gagliardissime ragioni. »

393. Raynaldus, Annales Eccles., 1555.

Biagio Aldimari, Historia genealogica della famiglia Carraffa, in-fol. Napoli, 1691, II, 113, 116.

394. Annibal Caro, Lettere scritte a nome del cardinal Farnese, in-8. Milano, tip. de' Classici, 1807, III, 50. — Lettera al cav. Tiburzio agente del cardinale alla corte di Francia, data di Roma, 24 agosto 1555.

395. M. Gio. della Casa, Lettere scritte a nome del card. Caraffa, tra le opere del medesimo, in-4. Napoli, 1733. V, 63: « Al Contestabile di Francia.... Essendo tornate le galere, è parso a N. S. di concedere al sacro Collegio la liberazione di sua Signoria Ill m a il cardinal camerlengo Guidascanio Sforza. Di Roma 20 settembre, 1555. »

Nores, ediz. cit., 26: « Partì il Rucellai il quartodecimo giorno di settembre.... Appena partito lui, seguì la restituzione delle galere, che furono da quelli medesimi che le sforzarono, come desiderava il Papa, ricondotte a Civitavecchia, e consegnate all'Alamanni. Il che eseguito il cardinale Camerlengo, ai prieghi del Sacro Collegio, fu rilasciato il giorno diciannovesimo di settembre, e vigesimo appunto dopo la sua carcerazione. »

Relazione delle galere di Carlo Sforza. Mss. Capponi cit., Arch. St. It., XII, 374: « Alessandro rimenò le galere a Civitavecchia, essendo lui però prima smontato e incamminatosi alla volta di Santa Fiora; con aver lasciato su una galera il capitano Antonio Fani bolognese, e sull'altra il capitano Francesco (de Nobili) da Lucca, con ordine che facessero di tuttedue quanto fosse loro stato commesso da parte del Papa. »

396. Archivio Sforza, Conferma della donazione fatta dal Cardinale Guidascanio al fratello nell'anno 1564, per procura di monsignor Alessandro Sforza. Citata dal Ratti, I, 282, nota 12: « Idem rev. d n us Procurator ulterius exequendo dictum suum procurationis mandatum, sciens triremes in dicta donatione expressas, et ipsi ill m o d n o Priori reservatas, fuisse venditas et alienatas, et prætium earumdem solutum et respective solvi promissum, ec. »

397. Annibal Caro, Lettere scritte a nome del Cardinal Farnese, in-8. Milano, 1807, III, 56: « Al vescovo di Lucca data di Roma alli 29 agosto 1555. »

398. Ratti cit., 281. — Litta, Famiglie cit., tav. 2.

Dal Pozzo, Ruolo cit., p. 28.

399. Pietro Nores, Guerra degli Spagnoli contro Paolo IV, pubblicata nell' Arch. St. It., in-8. Firenze, 1847, XII, 34: « Essendosi scoperto che un certo abate Nani tenesse mano d'ordine dell'Imperatore di avvelenare il cardinal Caraffa, e che Cesare Spinna calabrese fosse stato mandato a Roma per ammazzarlo

Natal Conti, Storie, in-4. Venezia, 1589, p. 244.

Pallavicino, Stor. del Conc., lib. XIII, cap. 15.

400. Raynaldus, Annales Eccles., anno 1555, n. 73: « Confectæ hoc anno fœderis leges. »

Nores cit., 35: « I capitoli.... sottoscritti dal Papa e da monsignor d'Alanzone ai tredici di ottobre 1555, nel palazzo di s. Marco. »

401. Prudencio Sandoval, Vida y echos del imperador Carlos quinto, rey catholico de España, in-4. Pamplona, 1586, p. 205, B, 2: « A veynte y ocho de octubre 1555 Carlos V renunciò a su hijo el rey don Felipe. » 217, A, 2: « A veynte y seis de octubre en 1555 renunciò a los estados de Flandes Naples, Milan y Borgogna.... a diez y seis de henero 1556 renunciò a los reynos de España.... y el diez y siete mismo mes y año renunciò el imperio. »

402. Luis Cabrera de Cordova, La historia de Felipe segundo rey de España. Madrid, in-fol. 1649: Prefacion: « Celebren un Principe con el nombre de Perfeto, como Josias, como David, Ezequias, Assuero, Trayano, Fabio Maximo, Julio Cesar, Costantino, Salomon, y Moysè. »

403. Cesare Campana, la Vita del catholico ed invittissimo don Filippo II d'Austria, re di Spagna, con le guerre de' suoi tempi, divisa in sette deche, in-4. Vicenza, 1605.

Francesco Muscettola, Mss. La guerra di Campagna tra gli Spagnoli e Paolo IV. (Ne parla il Ruscelli nella lettera a Filippo II: ma non fu mai stampato e il manoscritto resta ignoto.)

Card. Santoro, Mss. della stessa guerra. (Ne parlano il Volpicella e il D'Ayala, come di scrittura non mai pubblicata.)

404. Du Mont, Corps diplomatique, à la date du 5 février 1556.

405. Nores cit., 67: « Il cardinale Caraffa partì per Francia intorno al fine di maggio, imbarcandosi in Civitavecchia sulle galere del Re, che lo aspettavano. »

406. Litta, Famiglie Celebri: gli Orsini di Roma, tav. XXVII, in fin.: « Fabio nel 1559 impiegato da Paolo IV sulle galere pontificie, morto nel 1600. » Non è il nostro. Tav. XXIV, lin. 3: « Flaminio Orsini figlio di Roberto, conte di Pacentro. » Molto meno. Tav. XXVIII, lin. 4: « Flaminio Orsini. » Di gran lunga posteriore.

407. Attilio Zuccagni-Orlandini, Corografia di tutta l'Italia, in-8. con tavole figur. Firenze, 1843 e segg., tom. X, suppl. 111: « Stabbia, nel governo di Civitacastellana, delegazione di Viterbo. »

Atlante, tav. 15: Da Borea ad Ostro, sulla stessa linea, « Civitacastellana, Santelia, Stabbia e Calcata. »

408. Adriani, Storie de' suoi tempi cit., 295, C: « Il re di Francia per Flaminio da Stabia Orsino aveva mandato a Ottavio duca di Parma sicurtà e difesa. »

Idem, 365, A: « Il card. di Ferrara mandò in Francia Flaminio da Stabia Orsino a far sicuro il Re, e confortarlo a mantener la guerra. »

Idem, 405, D: « Nella guerra di Siena si adoperarono questi signori Aurelio Fregosi.... Flaminio da Stabia Orsino. »

Idem, 425, C: « Flaminio da Stabia Orsino haveva il Governo di Chiusi. »

Idem, 527, A: « Flaminio da Stabbia Orsino cognato dello Strozzi. »

Sozzini, Guerra di Siena, nell' Arch. St. It., 1812, II, 94, 126, 592: Sempre: « Flaminio della Stabbia. »

Antonio di Montalvo, Relazione della guerra di Siena, tradotta dallo spagnolo da don Garzia suo figlio, e pubblicata dal Riccomanni Grottanelli, etc. in-8. con documenti e prefazioni del Banchi, in-8. Torino, 1863, p. 24: « Inviò il capitano Flaminio dell'Anguillara, soldato vecchio, coll'ordine e modo che doveva tenere Santaccio. »

Così il Bosio, il Cirni, il Nores, il Campana, il Roseo, il Tuano, e più altri che citerò appresso.

409. Nores cit., 70: « Si diede la cura di Civitavecchia e delle galere a Flaminio Orsino da Stabbia, stretto parente di Pietro Strozzi. » Invece di Civitavecchia si legge Città di Castello per errore di copisti, chè non potevano trovarsi galèe sui monti Tifernati.

Bosio cit., 376, E: « Paolo IV guerreggiando col duca d'Alba, aveva dodici galere.... quattro delle quali erano di Pietro Strozzi. »

Idem, 411, C: « Galere della Chiesa a carico del signor Flaminio Orsini. »

Adriani, 534, E: « A Flaminio da Stabbia Orsino il governo di Civitavecchia, et delle galere che avevano. »

410. Documenti raccolti da Scipione Volpicella e pubblicati nell' Appendice alla Storia del Nores, Arch. Stor. It. cit., XII, 385: « Le quali galere si fermino qui nel porto di Civitavecchia.... quelle del maresciallo Strozzi col capitan Moretto, e le altre notate qui appresso.... Monsignor di Sciarluz con due galere, Baccio Martelli con due galere, capitan Cabazolles con una galera, le due di monsignor Daramon, il conte da Fiesco con due galere. » Del Fouroux si vedrà avanti.

M. Gio. della Casa, Lettere a nome del card. Caraffa, tra le Opere del medesimo, in-4. Napoli, 1733, V, 98: « Al cardinal di Lorena: di Roma, 6 febbraio 1556. — Sarebbe bene che S. M. Cristianissima mandasse almeno dodici galere delle sue a Civitavecchia, la qual cosa ci pare molto necessaria; e supplico Vostra Signoria Il lm a. e R m a. che vengano le galere del maresciallo Strozzi, e del capitano Moretto, e le altre che sono scritte nella lista. » Segue la lista come sopra, che può ridursi così:

Galere del capitano Alamanni 2

Galere del maresciallo Strozzi 4

Galere dello Sciarluz 2

Galere di Baccio Martelli 2

Galere del capitano Cabazolles 1

Galere del Daramon 2

Galere del conte da Fiesco 2

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411. Documenti nuovi e illustrazioni sulla Congiura dei Fieschi, pubblicati da L. T. Belgrano, nel volume VIII, fascicolo II, Atti della Società Ligure di storia patria: « La causa di Scipione Fieschi pei feudi paterni. » Molte notizie di esso Scipione per questi tempi.

412. Docum., cit. qui sopra, I, 130, e più 64, 132.

413. Vasari e Docum., cit. qui sopra, I, 136.

414. Adriani cit., 548 A: « Havendo nel lungo spazio Flaminio Orsino molto bene guernita Civitavecchia. »

Idem, 546, F: « Piero Strozzi andò a visitare Civitavecchia, e le fortificazioni che a sicurtà vi aveva fatte Flaminio Orsino. »

Avvisi di Roma. Cod. Urbinate alla Vaticana, 1039, fol. 160: « Di Roma ha mandato N. 5 guastadori a Civitavecchia, a riparare le fortificazioni che già fece Paolo IV. »

415. Marcubaldo Bicci, Notizie della famiglia Boccapaduli, in-4. Roma, 1762, p. 112: « Prospero Boccapaduli, commissario di Castel Santangelo, doveva fornire le galere e fortezze di Civitavecchia. »

416. Nores cit., 43, e 137.

Adriani cit., 545, B.

Marcubaldo Bicci cit., p. 107, not. in fin.: « Mario Particappa. » Famiglia ricordata altresì nel M. A. C.

Aristide Sala, Le lettere di san Carlo Borromeo, in-8. Milano, III, 1861, e Arch. St. It., 1863, p. 108: « Guasgoni. »

417. Nores cit., 137.

418. Nores cit., 43. Quasi colle stesse parole.

419. Vasari, ediz. Le Monnier, XIII, 113: « Ha fatto Lione al duca d'Alva la testa di lui, quella di Carlo V, e quella del re Filippo. » Nota, ivi: « Questi tre busti si vedono tuttavia nel palazzo del duca d'Alba posti sopra piedistalli colle loro iscrizioni. »

Idem, Vita di Tiziano, p. 38.

William H. Prescott, History of the reign of Philip the second, King of Spain, in-8. Boston, 1856, II, 277: « Engraving of the duke of Alva, from the original by Titian in the possession of his excellency the duke of Alva in Madrid. »

420. Adriani, 539, C: « Il duca d'Alva.... mille cinquecento Spagnoli, quattromila Alemanni, e tremila fanti toscani.... chiamava, stimando poter correre alle porte di Roma, e forse da Portercole a Civitavecchia. »

Idem, 544, F: « Le genti di Lombardia, Spagnoli e Tedeschi, imbarcandosi alla Spezia e ponendosi a Portercole pigliassero Corneto e Civitavecchia. »

Idem, 546: « Conoscevano i capi della guerra in Roma il disegno del duca d'Alba.... Tevere, Ostia, e forse combattere Civitavecchia. »

421. Nores, 124: « Nel fervore dei moti.... fu molto opportuno l'arrivo del card. Caraffa, che giunse, in quei giorni con millecinquecento Guasconi, che vi condusse sopra le galere. »

Adriani, 539, B: « Et a Civitavecchia erano un'altra volta tornate le galere con nuova gente. »

422. Alexandro de Andrea (napolitano), De la guerra de Campana en el ponteficado de Paulo IV, tres libros in-4. Madrid, 1589, p. 67: « Neptuno poco años antes poblado de Moros, y oy dia (si no es en la religion) se les parescen hombres y mugeres en el trage, en los adereços de las casas, y en el vivir familiar. »

Tassoni, La secchia rapita, X, 24:

« Le donne di Nettun vedo sul lido

In gonna rossa e col turbante in testa. »

423. Joannes Blaevius, Theatrum civitatum et admirandorum Italiae, ad ævi veteris et præsentis faciem expressum, gr. in-fol. figur. Amsterdam, 1662 (Bibl. Casanat. K., I, 14, in CC), 149: « Neptunum. » Gran tavola.

Piante di Nettuno e del fortino, rilevate dagli ufficiali del genio, e copie presso di me.

424. Documenti intorno alle galèe comprate e vendute dagli Orsini, dai Farnesi e dagli Sforza, qui prodotti, vol. II, pagine 122, 132, 139, 151, 350.

425. Tommaso Costo, Storie napolitane, in-4. Venezia, 1613, II, 401: « Fu questo conte Federigo eletto dal Papa generale delle galere di Santa Chiesa; e volendo giugnere maggior numero a quelle che aveva, diede ordine con volontà del Re che in Napoli per ora se ne facessero quattro. »

426. Arch. della famiglia, e notizie ulteriori per unica cortesia dell'ab. Pressutti archivista moderno.

427. P. A. G., Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto, 1862, p. 12.

428. Instrumentum quo il lm us et r m us d m us Carolus, tituli Sancti Martini in Montibus, cardinalis Borromæus nuncupatus vendidit d n o Marco Antonio Columnæ, baroni romano, Toleacotii duci, etc, etc, tres triremes cum omnibus armis, armamentis, sclavis, etc, etc. — Actum Romæ die primo januarii mdlxiv. — Rog. Alexander Pellegrini, not. A.C.»

429. Archivio Colonna, Armata navale, III, 176, 269, 270, 273.

Item, IV, per tutto.

Item, Codice segnato 150, col titolo: « Libro pertinente al negozio delle galere comprate dal signor don Marcantonio l'anno 1564 del cardinal Borromeo. »

430. Francesco M. Torrigio, La chiesa di Santa Caterina in Borgo, in-4. Roma, 1645, p. 30: « Casa Vaccari romana del rione di Sant'Angelo, ed Arco dei Vaccari alla catena di Piscinula. »

Aloysius Galletti, Inscriptiones romanæ, in-4. Roma, 1769, class. VIII, n. 60: « Duos de domo Vaccaria Urbis Romæ, ubi extat etiam nunc arcus nomine dei Vaccari prope sanctum Angelum in foro piscium. » et alibi: « Domina Matthea Vaccaria, uxor Colutii de Capizucchis. »

431. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, in-4. Roma, 1784, VII, ii, 356: « Le vicende di Roma debbonsi ricercare o nelle storie dei Papi o nelle storie generali d'Italia, poichè quanto è grande il numero degli scrittori che presero a farci la descrizione dei monumenti e delle cose più memorabili che ivi si conservano, altrettanto è scarso il numero degli storici; anzi io non so di alcuno che abbia preso a formare una storia moderna particolare di questa alma città. » Così infino a oggi stiamo di originale storia di Roma nella letteratura italiana.

432. Archivio Colonna, Codice 150 cit.: « Spese e viaggi del signor Marcantonio colle sue galere nel 1564:

  • »16 luglio a Genova .
  • »22 luglio a Villafranca .
  • »27 agosto, domenica, a Malaga

433. Bosio cit., III, 482, fine: « Si trovarono all'armata sette galere di Marcantonio Colonna, comandate da Giorgio Grimaldi, comprese le quattro che stavano a carico di Giorgio (Cencio: che tutti Giorgi?) Vaccari. »

Thuanus, Histor., in-fol. Londra, 1733, lib. 36, n. 32, vol. II, p. 411: « Erant in classe centum quinquaginta naves.... tres Marci Antonii Colomnæ duce Georgio Grimaldio, et quatuor Nicolai et Augustini Lomellinorum, quas ducebat Vincentius Vaccarius. »

Anton Francesco Cirni, Commentarî, nei quali si descrive la guerra ultima e l'impresa del Pignone, in-4. Roma, 1567, p. 15 e 19: « Eravi Pietrantonio Lonato luogotenente delle galere del card. Borromèo (già comprate da M. A. C.) con le quattro dei Lomellini a carico di Vincenzo Vaccari sotto a quello stendardo.... con tre di Marcantonio Colonna, duca di Tagliacozzo et quattro di Niccolò e Agostino Lomellini governate da Vincenzo Vaccari. »

434. Mariana, Historia de Espanna, in-fol. Madrid, 1678, II, 361.

Campana, Vita di Filippo II, all'anno 1564.

435. Archivio Colonn., Armata navale, Lettera del re Filippo, III, 269.

436. Archivio cit.

437. De Andrea cit., 64: « A Neptuno enviò a traer la puente de barcos para echar sobre el rio Tybre. Componese esta puente de muchos barcos, que no tienen diferencia de popa o de proa. Cada barco de largo treintaseis palmos, y de ancho doze. »

438. Blaise de Montluc, maréchal de France, Commentaires, où sont decrits les combats, rencontres, batailles, sièges, et autres faits de guerre signales, où il s'est trouvez, depuis l'an. 1521, jusque au 1572, in-fol. Bordò, 1592, p. 122.

439. Thuanus, 592.

De Andrea, 68.

Adriani, 516.

Nores, 142.

Pallavicino, II, 86.

Campana, II, 146.

Mambrino, III, 529.

440. P. A. G., La marina del Medio èvo, in-8. Firenze, 1871, II, 414, 476.

Idem, La Rocca d'Ostia, dissertaz. letta all'Accademia Arch. in Roma addì 20 giugno 1860, come agli Atti della med., t. XV, p. CXLI, e 43.

441. Nores cit., 146: « Si era il cardinal Caraffa confidato assai nelle relazioni del baron della Garda.... il quale l'aveva assicurato che Ostia e Civitavecchia erano fornite.... per far resistenza in ogni accidente. »

442. De Andrea cit., 73: « Dentro estava Oracio de lo Sbirro con ciento y quatorce soldados. »

Campana cit., II, 146, A, fin: « Era stato inviato con centoventi fanti forbiti un valoroso giovane Romano chiamato Horatio dello Sbirro. »

Natal Conti, 257: « Caraffa vi mandò Oratio dello Sbirro con cento e venti soldati sceltissimi. »

Mambrino Roseo, 530: « Oratio dello Sbirro, valoroso giovane romano con ottanta soldati. »

Nores, 146: « Servì mandarvi cencinquanta fanti scelti sotto Orazio dello Sbirro, romano, giovane ardito, e desideroso di segnalarsi. »

Girolamo Ruscelli, Precetti della milizia moderna tanto per mare quanto per terra, in-4. Venezia, 1568: « Fanti centoquattordici. »

443. Bosio cit., III, 663, col 2ª: « Venturieri del marchese Rangoni:

  • »Il capitano Marcello dello Sbirro,
  • Il capitano Lodovico Santelli romano. »

Cingolani, Topogr.: «L'isola Sacra la Torraccia dello Sbirro. »

444. Adriani, 547, C: « Presentò il Duca l'artiglieria alla rôcca.... sei cannoni.... in mezzo il ramo del Tevere.... sessanta passi lontano. Battè quattro giorni, et li mancarono le palle.... vi fece alquanto di apertura.... Comandò vi dessero l'assalto. »

Nores, 147: « Fatta condurre l'artigliarla nell'isola. »

De Andrea cit., 73: « Ripete le misure del fiume e la posizione della batteria sull'Isola. » — Theti cit., la pianta a p. 132.

445. Nores, 149: « Scorrendo il conte Francescantonio Berardi verso Sant'Agnese, avvertito del cardinal Caraffa da un villano, comandò a' suoi che il seguitassero, e voltato il vicolo della Fontanella corse tanto con la lancia bassa che riuscì alla strada di porta Salara, e trovandosi una pistola alla mano la sparò contro il cardinale. »

De Andrea, 74.

446. Piero Strozzi, Lettera al re di Francia data da Camposalino addì 19 novembre 1556, pubblicata nell' Archiv. Stor. It. cit., XII, 409: « Ostia è stata combattuta quattro giorni intieri.... con sette pezzi, et ci hanno tirato intorno a mille tiri. Il luogo è bello et di importanza, et si potrebbe fortificare facilmente: ma come era, a fatica si giudicava potesse resistere a tanto. »

447. De Andrea, 77: « Los soldados que ivan con Vespasiano mostraron grande animo.... contra ellos lloviendo come granizo piedras y ollas de fuego. »

Nores, 150: « Essendo toccato agli Italiani di Vespasiano di essere i primi, si spinsero intrepidamente. »

448. Carlo Theti, Discorsi delle fortificationi, ove diffusamente si dimostra quali debbano essere i siti delle fortezze, le forme, i recinti, fossi, baloardi, castelli, et altre cose a loro appartenenti, con le figure di esse, ec. La prima edizione in-4. Roma, 1569, io cito la Vicentina, in-fol. figurato, 1617, p. 132.

449. De Andrea, 83. — Adriani, 547. — Nores, 150.

450. De Andrea, 79: « Un soldado español de gran cuerpo y de grandes voces dixo estas palabras: Españoles, cuerpo de Tal, pourque de otra manera la tierra no se tomarà. »

Belcaire, Commentaria rerum Gallicarum, lib. XXVII, in-fol. Lione, 1625, p. 890.

Adriani cit., 547.

Ciprian Manente cit., anno detto.

451. Theti cit., 132: « Il secondo assalto ebbe peggior fine del primo: et in tutti i doi fra morti et feriti furono alla summa di mille et cinquecento. »

452. Lapidi due agli estremi della cortina di ponente, sotto lo stemma di Pio IV, con queste parole:

PARTEM . HANC . MURI SUB . PAULO . IIII TORMENTIS . BELLICIS . DISJECTAM INSTAURAVIT . PIUS . IIII . PONT . MAX. AN . SAL . MDLXI.

453. Lapidi continuamente ripetute sopra marmi antichi, e di caratteri primitivi attorno alle troniere delle casematte basse, così:

JUL . SAON . CARD . OSTIEN. SIX . PP . IIII.

454. Lapide sulla faccia orientale del baluardo a cantoni, fuor di posto, e anticipata di tempo, che ho veduto io già murata, quando i lavori di risarcimento cominciavano:

PIUS . IX . PONT . MAX. ARCEM . HANC. TEMPORUM . HOMINUMQUE . INJURIIS UNDIQUE . FATISCENTEM MURIS . RENOVATIS TECTORUM . CONTIGNATIONIBUS . REFECTIS MUNIFICENTIA . SUA . RESTITUIT ANNO . SACRI . PONTIFICATUS. IX.

455. Lapida sul torrione della breccia, sotto lo stemma pontificio:

PIUS . IX . PONT . MAX.

456. Attilio Zuccagni-Orlandini, Corografia di tutta l'Italia, in-8. Firenze, 1843, t. X, Suppl. p. 172; e nel grande Atlante, in-fol. Firenze, 1845, vol. II, Stato pontificio, monumenti del Medio èvo, tavola 3.

457. P. A. G., La Rôcca di Ostia e le condizioni dell'architettura militare in Italia prima di Carlo VIII. — Dissert. letta addì 20 giugno 1860, inserta negli Atti dell'Accad. archeologica, t. XV, p. 43, con tre tavole in rame. — Bibliot. Casanat.

458. Giacomo Caneva, Le vedute di Roma e dei suoi contorni, in fotografia, pubblicazione fatta l'anno 1855. — Si vendeva pubblicamente in Roma, via del Babbuino, rimpetto alla chiesa dei Greci.

459. Belcairus, Comment. rer. gallicar., lib. XXVII, in-fol. Lione, 1625, p. 890.

Ciprian Manente, Storie del mondo dal 1400 al 1563, in-4. Giolito, Venezia, 1566.

Montluc, Comment., lib. IV.

Adriani, 547, C.

Nores, 150.

De Andrea, 85.

Campana, 148.

Mambrino, 532.

Natal Conti, 258, B.

460. Capitoli della tregua tra N. S., e il re Filippo. Lettere Princ. 1581, III, 183.

Ribier, Lettres et memoires d'Estat, in-fol. Parigi, 1662.

Nores, 152. — Adriani, 548.

461. Ulloa, 332.

462. Natal Conti, 262, B.

Campana, lib. IX, p. 8.

Roseo, 535.

463. Avvisi di Roma, Cod. Urbin. alla Vaticana, n. 1038, fol. 174, data del 10 dicembre 1556: « Il duca d'Alba fa fortificare il forte tra Ostia e il mare; et ve ne fa un altro alla bocca della Fiumara. »

464. Adriani cit., 556, H: « Il Duca aveva fatto un ricetto di terra vicino alla bocca del Tevere, e vi aveva lasciato quattro cento fanti, e munizioni da vivere e da difendersi per molti mesi.... quei del forte o ricetto non aspettarono nè invito nè forza, uscirono.... e in breve disfatto quel forte, dalla parte del mare e del fiume fu liberata Roma. »

De Andrea cit., alla p. 88, ne dà le misure.

465. Natal Conti, 262, B.

Nores, 169: « Il presidio lasciato alla difesa d'Ostia e del forte fabbricatovi accanto, al primo apparire degli ecclesiastici, si rese vilmente. »

466. Antonius Caracciolus, Vita Pauli IV, rom. pont. in-4. Colonia, 1612.

Padre Bartolommeo Carrara (sotto il pseudonimo di Carlo Bromato da Erano), Storia di Paolo IV, in-4. Ravenna, 1753, II, 359.

Francesco Velli, Difesa di Paolo IV, contro il Pallavicino. Mss. alla Corsiniana in Roma, cod. 697, — e stampato a Torino, in-4. 1658.

Bibl. Casanat., Miscell., in-4, vol. 976.

467. Adriani, 561, C: « Messer Bartolommeo Concini nella tempesta gettò la valigia a mare, e diede in terra a Santa Severa.... La valigia, spinta dal mare, venne in terra.... portata a Roma.... chiaramente poterono vedere il trattato di Ancona. »

468. Capitoli della pace di Cave. Mss. Casanat. Codice cartac. segnato X, VI, 23, p. 145.

Nores cit., 215. — Capitoli a stampa per esteso.

Pallavicino cit., II, 103.

Campana cit., lib. IX, p. 22, 23.

Mambrino Roseo, 565.

469. Dionigi Atanasi, Lettera al vescovo d'Urbino data da Roma addì 18 sett. 1557. — Ex. tra le lettere de' Principi, in-4. Venezia, 1562, p. 182. — Bibl. Casan., K, III, 27: « Il Tevere crebbe mercoledì fino alle hore sette di notte, si fermò intorno a due hore, poi cominciò a calare. Stette nondimeno tutto il giovedì per Roma, e il venerdì mattina tornò nel suo letto. Il danno è inestimabile. »

Gomez, De prodigiosis Tiberis inundationibus, in-4. Roma, 1599. (In lati, Comesius stampa egli stesso.)

Bonini Filippo M., Il Tevere incatenato, in-4. figur. Roma, 1663, p. 62.

Andrea Bacci.

Leone Pascoli.

Carlo Fontana.

Cornelio Meyer.

470. Oldradi, Avviso della pace tra la Santità di N. S. papa Paolo IV, e la maestà del re Filippo; e del diluvio che è stato in Roma con altri successi e particolarità, in-4. Roma, tip. di Antonio Blado stampatore camerale, XXIV settembre 1557. (Non impaginato, ma torna alla pag. 5.) Bibl. Casanat. Miscell., in-4. vol. 665, n. 18.

471. Reverendissimi: cioè i cardinali Caraffa, Santafiora e Vitelli, reduci da Cave col trattato conchiuso. Non ancora si dava il titolo di Eminentissimi.

472. Hore dodici: nel mese di settembre rispondono alle sei del mattino.

473. Agone: la piazza agonale, oggi detta Navona.

474. Ponte di Santa Maria: cioè della Egiziaca, la cui chiesa è sulla testa del ponte Emilio, Palatino, Senatorio, oggi Rotto, e compiuto a sospensione di ferro.

475. Luigi Canina, Del Tevere, Ostia e Porto, negli Atti dell'Accademia archeologica con cinque tavole e quivi la tavola 1ª, ove è geometricamente descritto il corso del Tevere, e le tracce del letto verso Ostia, prima della rotta, scrittovi sopra: « Antico corso del Tevere, Fiumemorto. » Atti cit., VIII, 259, tav. 1ª.

Ameti e Cingolani, Carte topografiche del Tevere.

476. Canina cit., p. 63, lin. 2.

477. Gio. Battista Rasi, Del Porto romano, in-8. Roma, 1826, p. 39.

Item, I due rami Tiberini, in-8. Roma, 1830, p. 69.

478. Capitula edita a R. C. A. Sub die decima sesta maji mdlxii, et a Pio papa IV confirmato pro felici et celeri mercium per Tyberim subvectione: denuo edita et confirmata ab Urbano papa VIII. — Bullar. Rom. edit. a Mainardo, in-fol. Urbani VIII pars secunda, t. VI, p. 179.

479. Constitutio Pii Pp. V. de edificandis turribus in oris maritimis Urbis pro securitate navigantium, et de ædificanda Turre in ore Tyberis, ac emolumentis eidem Turri ejusque fabricæ applicatis. 3 maggio 1567: « Stante ruptura dicti fluminis. » ap. De Vechi, De Bono Regimine, in-fol. Roma, 1732, I, 286.

480. Nores cit., 215: « La principale difficoltà che s'incontrava nel trattato era intorno la persona del signor Marc'Antonio, il quale per modo alcuno il Papa non voleva che si comprendesse nelle capitolazioni; nè condiscendere a restituirgli Paliano: laonde stabilite le altre condizioni, restarono il Cardinale e il Duca di questo punto di trattare a parte: e benchè ancor di questo il Papa fosse consapevole, nondimeno non volle mai che apparisse nè si sapesse essersi stabilito di saputa e consenso suo. »

481. Campana, lib. XI, p. 70, B, med.: « Nella pace del 3 aprile 1559 in Cambrais.... il re Catolico escluse tutti i ribelli del regno di Napoli, di Sicilia, e del ducato di Milano.... »

482. Pallavicino, Storia del concilio di Trento, in-fol. Roma, 1657, lib. I, in Roma XIV, cap. 15, vol. II, p. 160: « E ben sui primi giorni che arrivò in Roma il nuovo Ambasciatore spagnuolo, i più sagaci odorarono qualche pratica infausta contro i Caraffi.... Il progresso della causa fu che il Duca, condotto alle carceri di Tordinona, quivi fu decapitato insieme col cognato conte d'Aliffe, e con Leonardo di Cardine.... il Cardinale fu strangolato in Castello.... Nel seguente pontificato di Pio quinto, introdotta l'appellazione, il Pontefice nel concistoro pronunciò la sentenza, e decise che il Cardinale ingiustamente ed iniquamente fu condannato, e parimente il Governatore di Roma dichiarò mal condannato il Duca. »

Lettere, scritture, processi, e documenti intorno alla tragedia dei Caraffi. Mss. Casanat., X, V, 41.

Item alla Vaticana, Cod. Urbin., 1666.

483. Avvisi di Roma. Cod. Urbin. alla Vaticana, anno 1556, cod. 1038, fol. 154, data del 15 agosto: « Sono arrivati a Civitavecchia novecento Guasgoni.... et le galere sono partite subito per traghettarne altri.... » fol. 167: « Sono andate dieci galere da Civitavecchia per voler abbruciare quei ponti,.... Le galere sono ritornate. »

484. Mambrino Roseo cit., 562, prop. fin.: « Le galere di Napoli travagliavano anche elle in questa guerra che, spesso scorrendo da Gaeta a Civitavecchia, facevano stare in arme quei luoghi marittimi. »

485. P. A. G., La marina nel Medio èvo, II, 231, 234.

486. Pedro Salazar, Historia de la guerra y presa de Africa, in-4. Napoli, 1552, p. 64, B, 1, fin.: « Juan Moreto con su hermano llamado Melchior de Belmont.... » et p. 67, A, 1, fin.: « Moreto mandò a un gentilhombre Saboyano, mancebo esforzado y animoso llamado Piron Fioresta. »

487. Salazar cit., 64, B, 1: « Galera bien armada de franceses i turcos forzados, y de artilleria, y con ciento y sessenta hombres de pelèa. »

488. La Salma, che in genere vale Soma o Peso, nel linguaggio di mare del tempo passato valeva tecnicamente (come registra il Casaregio nel Consolato) Misura di capacità per gli aridi, applicata a determinare la portata dei bastimenti. Questa unità di misura variava in diversi modi, e dicevasi grossa o sottile, ordinaria o vantaggiata: variava pure in diversi paesi, e negli stessi paesi per diversi tempi. Confusione comune a tutte le antiche misure, pesi e valute. Si può pareggiare adesso ad un sesto della moderna tonnellata metrica: e così la nave di millecinquecento salme sarebbe di dugencinquanta tonnellate.

489. Salazar cit., 67, A, 2, med.: « Ganancia de treynta mil ducados.... y cien turchos esclavos, y otros tantos que matò, y ochenta Christianos que puso en libertad. Y con esta riqueza volviò a Niza su tierra natal, llevando banderas y gallardetes turquescos, rastrando la mar y fue de todos muy bien recibido. »

490. Salazar cit., 67, A, 2, princ.: « Moreto llegado al puerto de Cotron la justicia le embargò el navio, diziendo andava a toda ropa assi contra Christianos, como contro Turchos i Moros. »

491. Leone Strozzi, priore di Capua, Lettera ai suoi fratelli, data dalle Sanguinare (Corsica) 18 settembre 1551 tra le Lettere dei Principi, in-4. Venezia, 1562, I, 64, B; « Io meno meco il capitano Moretto: et l'animo mio è di far guerra contro infedeli in servigio della mia religione. »

492. Monsignor Gio. della Casa, Lettere a nome del card. Caraffa al card. di Lorena, di Roma, 6 febrajo 1556. Tra le opere del medesimo, in-4. Napoli, 1733. V, 98: « Sarebbe bene che Sua Maestà Cristianissima mandasse almeno dodici galere delle sue a Civitavecchia, la qual cosa ci pare molto necessaria; e supplico vostra Signoria Illustrissima che vengano le galere del maresciallo Strozzi, e del capitan Moretto, e le altre che sono scritte nella lista. »

Vedi sopra la nota 11 e il novero delle galere nel documento citato.

493. Pietro Nores cit., 124: « Mancando a tante spese il danaro, imposero per Roma e per lo Stato estraordinarie gravezze. »

Pallavicino, Stor. Concil. cit., II, 52 (lib. XIII, cap, xi, n. 12): « Abbiamo preso da due scritture.... la prima di Bernardo Navagero ambasciatore veneziano e di poi cardinale.... L'altra è una accuratissima storia a penna.... scritta da un nostro caro e virtuoso amico, figliuolo del celebre Giasone Nores, per nome Pietro. »

494. Bosio cit., III, 377, A.

495. Emmanuele Filiberto, duca di Savoja, al conte di Fruzasco governatore di Nizza. Di Brusselles, 23 dicembre 1556, pubblicata da Pietro Gioffredo, Storia delle alpi marittime, Inter. Script. et Monument. histor. patriæ, in-fol. Torino, 1839, vol. IV, collect. Script. II, p. 1478, col. 2ª.

496. Tirandolo! Vedi smania di averlo, e timore di perderlo!

497. Pel conto della galera: dunque non era assolutamente sua, ma doveva stare in qualche modo a ragione collo Strozzi.

498. Generale del mare: si noti bene il titolo ufficiale di Andrea Doria. Adesso dicono Ammiraglio, ma allora soltanto Generale del mare; e così in tutti i documenti contemporanei.

499. Annibal Caro, Lettere scritte a nome del cardinal Farnese, in-8. Milano, 1807, III, 166: « All'Ardinghello. — Per questo effetto medesimo disegnano di mandare un Prelato alla corte di Francia; ed è stato proposto il Bozzulo o Pola, quando non li mandi uno dei Nipoti, a che il Papa non inclina: e voleva che venisse il signor Flaminio, il quale se n'è scusato garbatamente. »

500. Bosio, 377, C: « Arborati i gagliardetti e le bandiere di san Giovanni per farsi con esse (come il Fouroux astutamente diceva) agli infedeli più formidabili. »

501. Pantero Pantera, Armata navale, in-4. Roma, 1614, e Vocabolario nautico in fine: « Abbordare è quando due vascelli si accostano tanto l'uno all'altro, che si può passare dall'uno nell'altro senza ponte o altro mezzo. » Dunque non si vuol confondere l'abbordo coll'arrembo, nè l'abbordare coll'investire.

502. Bosio cit., 378, A, 379, B (con questi precisi nomi e circostanze).

503. Card. Sforza Pallavicini, Stor. del Conc., in-4. Roma, tip. di Propaganda, 1833, III, 80, lib. XIII, cap. XI, in fine.

504. Bosio cit., III, 381, B; 382, A.

505. Bosio, 394, A.

506. Bosio, 396, D: « Fu il capitano Filippo da Vicovaro.... strumento e mezzo.... che l'ira e lo sdegno si quietassero,... Partì da Malta a' ventitrè di maggio 1558, incamminandosi colla galera sopradetta alla volta di Civitavecchia. »

507. Gioffredo cit., 1481, D; 1533, C.

508. Brantôme (Pierre de Bourdeille), Memoires concernans les vies des hommes illustres et grands capitaines estrangers de son temps, in-16. Leyde, chez Jean Sambrix à la Sphère, 1666, II, 58: « Dragut corsaire. »

William H. Prescott, History of the reign of Philip the second, in-8. Boston, 1856, II, 356: « Among the african corsairs was one by the name of Dragut, distinguished for his daring spirits and pestilent activity. »

De Hammer cit., XI, 214: « Thorghûd. »

509. Marco Guazzo, Mambrino Roseo, Giacopo Bosio, e gli altri qui sopra cit., II, 91.

510. Bosio, 185, A: « Dragut incontratosi in cinque galere veneziane, condotte da Luigi Gritti, non ostante la tregua e i trattati di pace, lasciar non volle di investirle e di combatterle e dopo averne messe in fondo due, prese le altre a salva mano. »

511. De Hammer cit., XI, 221: « Torghûd imitò l'esempio antico.... cioè il trasporto delle navi per terra. »

Antonio Doria, Compendio cit., 110: « Andrea Doria alli Gierbi trovò Dragut in quel canale con diciassette tra galee e fuste che spalmava, dalla parte di Greco dove era l'intrata.... Dragut fece cavare dai suoi schiavi in quel canale, e alleggerì i vasselli, tanto che potè traghettarli dall'altra parte dell'isola; e se ne uscì prima che Andrea se ne fosse avveduto. »

Calvetus Stella, De Aphrod. Basilea, 1556, p. 644.

Marmol, L'Africa, in-fol. Granata, 1573, II, 295.

512. Medaglia onoraria di Andrea Doria, conservata nel Museo privato del Principe in Roma, e in altre raccolte coll'iscrizione seguente, da un lato solo:

ANDREAS . DORIA . P . P.

513. V. sopra I, 275.

514. Agostino Olivieri, Monete, Medaglie e Sigilli dei principi Doria, in-8. figur. Genova, 1859, tav. II, fig. 1, et al testo, p. 29: « L'imagine di uno schiavo, allusiva al celebre Dragut, fatto prigione dalle galere del Doria. »

Gaetano Avignone, Medaglie dei Liguri e della Liguria descritte, in-8. Genova, 1872, p. 85: « Nel rovescio il ritratto di Dragut contorniato di catene.... Medaglia di bronzo. Dritto testa di Dragut contorniata dalle catene, come al numero precedente. Rovescio la galera, come ad altri numeri.... Medaglia formata di due rovesci. »

515. Bosio, 396, E: « Dopo la partenza del capitan Filippo da Vicovaro, crescendo in Malta gli avvisi dell'armata turchesca... si fecero diversi preparamenti. »

516. Campana cit., 46, B.

Adriani cit., 599, D.

517. Copia delle lettere di Pialì bascià capitan generale dell'armata turchesca, mandate al principe Doria ed alla magnifica Signoria di Genova con volontà del gran Turco. Et li ragguagli dell'accordi fatti tra loro, et il successo di tutto quello, il quale è occorso dopo l'uscita da Costantinopoli. Con tutte le fationi fatte da essa armata nel regno di Napoli, et ne le riviere di Spagna con la presa di Minorica et altri luoghi, et la cagione della sua partita d'Italia, con il numero delle galèe et altri legni, con molti altri bei particulari. — Con licentia et grazia.

Senza nota di luogo, ma certamente di Roma e di quest'anno 1558, quattro pagine di corsivo minutissimo in foglietto volante. Bibl. Casanat., Miscell., in-4, vol. 665, n. 21.

518. Ulloa cit., 335, B: « Piacque a Dio chiamare a se il cristianissimo imperatore Carlo quinto, mettendo fine alla sua vita a xxi di settembre, giorno di san Matteo, di questo presente anno MDLVIII. »

519. Dumont, Corps diplomatique, in-fol. Amsterdam, 1728, V, 31.

520. Bosio, 411, B: « Papa Paolo quarto.... haveva promesso ajutare a tutto poter suo l'impresa di Tripoli. »

521. Antonfrancesco Cirni, I successi dell'armata di sua Maestà cattolica, destinata all'impresa di Tripoli di Barberia, in-16. Firenze, 1560, p. 34: « I cardinali mandarono colle tre galere della Chiesa Flaminio Orsini, cavaliere molto pratico e discreto. »

Natal Conti, Historie de' suoi tempi, tradotte dal Saraceni, in-4. Venezia, 1589, I, 336, B: « I cardinali di Roma innanzi la creazione di Pio IV.... aggiunsero tre galere sotto il governo del capitan Flaminio Anguillara. » (Parente ed allievo del conte dell'Anguillara, e signore di Stabia.)

Campana Cesare, Vita di Filippo II, in-4. Venezia, 1608, II, 83, B: « Tre galere della Chiesa, delle quali fu dato il governo a Flaminio dell'Anguillara. » (Come sopra alla nota 9 di questo libro, e pag. 278.)

522. Bosio cit., III, 432, B: « La capitana del Papa.... bella capitana, tutta dorata. » Docum. cit., Medio èvo, II, 472.

523. Relatione della ritentione delle galere di Carlo Sforza, priore di Lombardia, fatta da Alessandro Sforza chierico di Camera, e della prigionia e liberazione del cardinale di Santa Fiora, l'anno 1555. — Mss. Capponi, cod. 287, p. 413, pubblicato nell' Arch. St. It. in-8. Firenze, 1847, vol. XII, p. 372: « Il re di Francia tolse il governo al capitan Filippo da Vicovaro, e lo dette a Niccolò Alemanni. »

Docum. e citazioni qui sopra, II, 180, 243, 253, e segg.

524. Bosio cit., III, 396, B: « Giunse in Malta il capitano Filippo da Vicovaro, mandato dal Papa per condurre in Civitavecchia la galera e il Moretto.... Fu il cap. Filippo da Vicovaro ricevuto con molto onore, et accarezzato dal Gran Maestro.... Prese le informazioni, fu poi grande istrumento et mezzo perchè il Papa e il card. Caraffa si quietassero. »

525. Litta, Famiglia Orsini. — Non vi ho trovato nulla di Filippo da Vicovaro, nè pur il nome.

Francesco Sansovino, Casa Orsina, in-fol. Venezia, 1565. — In tutto l'Indice, che sono trentasei colonne di infiniti nomi, non vi è scritto niun Filippo.

526. Adriani cit., 651, A: « Galeazzo Farnese, figliuolo di Bertoldo, combattè alle Gerbe.... portato stiavo a Costantinopoli. »

Mambrino Roseo, Storie del Mondo, in-4. Venezia, 1598, parte III, vol. II, p. 16: « I Turchi ferirono Flaminio Orsino, generale delle galere del Papa, con due colpi mortali nella testa e nel collo.... quasi tutti morti, alcuni presi con Galeazzo Farnese, nobile giovanetto. »

Francesco Zazzera, Nobiltà d'Italia, in-fol. Napoli, 1615, I, 162: « Della famiglia Tomacella, Lucrezia fu prima moglie di Galeazzo Farnese, col quale fece molti figliuoli. »

Sereno Paruta, e gli altri delle guerre veneziane ne parlano pel tempo seguente, che Galeazzo servì la Repubblica in Cipro e in Dalmazia nel 1571.

527. Vedi sopra, lib. VIII, cap. II, p. 277.

528. F. D. Guerrazzi, Vita di Andrea Doria, in-16. Milano, 1864, II, 354.

529. Litta, Famiglie celebri d'Italia, con la continuazione di Federigo Odorici e di altri. Casa Farnese, tav. VIII: « Il Salazar fa supporre che Galeazzo Farnese fosse allora adolescente: osserverò che del 1560, a conti fatti, non avrebbe potuto quel ragazzo aver meno di cinquant'anni. »

530. Don Luis de Salazar y Castro, Glorias de la casa Farnese in-fol. Madrid, 1716, p. 31. E nella tavola genealogica, p. 395. — E nel catalogo dei maritaggi, p. 344: « Galeazo II del nombre, XIX Señor de Farnese, y nieto de Galeazo I, fuè muy señalado en la milicia; y despues de aver gastado en ella algun tiempo, sirviò a Felipe II en la jornada de los Gelves año 1560. Donde quedò cautivo, siendo tan mozo.... Recuperada la libertad continuò aquella profession gloriosa en varias guerras.... el año 1571 le diò la repubblica de Venecia al generalato de sus armas en Alvania.... casò con Lucrezia Tomacelli, tia de la princesa, que con el mismo nombre llevò los bienes de la casa Tomacelli a la Colonna, casando con don Felipe Colona, duque de Tallacoz. »

531. Servì Filippo: Cioè militò sulle galere romane, mandate ausiliarie all'armata del re Filippo. Come lo Spagnuolo pensa alla Spagna, così deve ogni altro pensare al suo paese, secondo giustizia.

532. Atto originale della vendita delle galere dei Farnesi ai Fieschi. — Pubblicato da Luciano Scarabelli, Guida di Piacenza, in-32, 1841, p. 89. — Io ne distendo le abbreviature evidenti.

533. La Santa Catherina: Nome impostole sul cantiere da Gentil Virginio Orsini, secondo l'onomastico della Caterina, ultima delle sue figlie. Detta nel vezzeggiativo la Caterinetta, sostenne poi la parte principale sul mare nell'esecuzione della congiura.

534. L'Inventario: È scritto a parte, e trovasi depositato dallo Scarabelli nell'Archivio di Piacenza. Nell'originale non si vede altro che il vuoto di una riga, come egli nota.

535. Cap. Pereto da Talamone: Chiaro è che le stesse galere erano state prima degli Orsini e dei Peretti, passate poscia ai Farnesi, vendute ai Fieschi e tenute al soldo della Camera.

536. Il soldo: Non entra (come alcuni aggravano) per dispendio oltre il prezzo, anzi aggiugne maggior vantaggio all'acquirente.

537. Essi S. al p.º S.: Esso Signore al predetto Signore, cioè l'uno all'altro di essi.

538. Et uts. Come sopra. Ut supra.

539. La consegna compiuta in Civitavecchia dal Ceuli al Marano nel maggio 1546.

540. Adriani cit., 643, A: « L'impresa sopra Tripoli di Barberia mal consigliata, e peggio condotta. »

Prescott cit., II, 357: « Medinaceli seems to have possessed none of the qualities requisite in a commander, whether by land or sea.... A worse choise could not have been made. »

541. Cirni cit., 29: « Secondo il volere di sua Maestà l'impresa si poteva fare con le galèe d'Italia.... così il Mendoza con le galèe di Spagna se ne andò. » Idem, 23, fin.

Sigonio, 325: « Non si potè ottenere dal Mendoza la squadra delle galèe di Spagna. »

Tomacelli, Lettera cit., 234: « Stimava il Re che per questa impresa basteriano le sue galere d'Italia, con quelle de' suoi confederati. »

542. Avvisi di Roma, Cod. Urbin. alla Bibl. Vatic. 1039, fol. 161: « Lista delle galere »

Bosio cit., 409, D.

Campana, 83, B.

Cirni, 32, e liste in fine.

543. A. Jal, Archéologie navale, in-8 figur. Parigi, 1841, I, 130.

Idem, Glossaire, 601: « Drake, Drakar. »

544. Cæsar, De bell. Gall., lib. IV.

Leone imperatore, detto il Tattico, tradotto dal greco per Filippo Pigafetta. Venezia, 1605.

Alfonso, detto il Savio, e le sue tavole nautiche, chiamate Alfonsine: Cælestium motuum tabulæ, necnon fixarum longitudines et latitudines, in-4. Venezia, 1483.

Annales Gaudenses, ap. Pertz, R. G. S., XVI, 581.

Gio. Villani, VIII, 77; IX, 224.

545. Benoît Zacharie, amiral, Memoire à Philippe le Bel sur le moyen d'equiper galées et ussiers, et de se procurer une armée navale pour faire une descente en Angleterre pour l'an 1295. Pubblicata nell'opera intitolata: Notices et extraits des Mss. de la Bibliothèque Imp. de Paris, t. XX, part. II, p. 112 a 118, e copia presso di me per favore del ch. L. T. Belgrano.

546. Cesare Campana, Vita di Filippo II, in-4. Vicenza, 1808, part. II, p. 42, A.

Adriani, Storia de' suoi tempi, in-fol. Firenze, 1583, 234, D.

547. Guillelmus Tyrien, Hist. ad ann. 1182, lib. XXII, cap. 14, ap. Bongers, II, 1025: « Navis quædam mille quingentos peregrinos deferens apud Damiatam.... fluctibus confracta. »

Olivierus Scholasticus, Hist., ap. Ecchardum, II, 1384: « Navis quæ mille quingentos peregrinos deferebat a Saladino confiscata. »

Statuta Gen.: « In qualibet navi seu cocha portatæ canthariorum viginti millium. »

Statuta Ven.: « Navi di quattro mila botti. »

Malipiero, Arch. St. It., VII, 622: « È stà conduta in porto una nave de portada de quatromila bote. »

Documenti delle Crociate, ap. Belgrano, 235: « Quælibet navis debet esse parata et furnita de stabulariis ad sufficientiam pro portandis centum equis. »

548. Archivio Grande di Napoli, Docum. Angioini, Carlo I, colla data di Roma, 27 marzo 1276, indizione quarta. Ordine per la costruzione delle Taride da portar cavalli. Pubbl. dagli Ufficiali dell'Archivio medesimo in un opuscolo col titolo di Analisi e giudizi delle cose pubblicate da Giuseppe del Giudice, in-8. Napoli, tip. del Genio artistico, 1871, p. 56: « Quælibet tarida erit longitudinis cannarum decem et octo.... altitudinis a paliolo ubi equi debent tenere pedes palmorum septem et medii.... de cinta in cintam palmorum quindecim et medio.... alta in prora palmorum tredecim.... porta una in puppi pro introitu et exitu hominum et equorum, quæ porta palmorum octo et medii altitudinis, quinque et medii amplitudinis.... ad hoc ut equus possit intrare et exire insellatus et armatus.... porta debet claudi duabus januis fortissimis, et habeat bonam et fortem battiportam. »

549. Cirni cit., 77.

550. Tomacelli cit., 234: « Dragut trovavasi molti luoghi deboli da guardare, tra i quali era Tripoli, che fino allora non aveva avuto tempo di fortificare, del qual luogo con ogni poco d'armata se ne poteva sperare facile et sicura vittoria. »

Captain W. H. Smith, R. N., february 1861: « Tripoli. »

Captain I. Spratt, 1863: « Harbour of Tripoli. »

« Latitud. N. 32°, 54′, 22″.

« Longit. E. 13°, 11′, 15″, from. Greenwich. »

Dal meridiano di Roma alla Colonna del Lazzaretto di Tripoli: Longitudine Orientale, 0°, 44′, 3″.

551. Cirni cit., 37: « Mentre stemmo in Messina successero di molte questioni.... tra particolari di una natione e l'altra. La città per abbondante che fosse, divenne in qualche carestia. »

552. Coronelli, Piante di città e fortezze, in-fol. Venezia, 1688, tav. 173: « Città e fortezza di Malta colle nuove e proposte fortificazioni, dedicate al nobile Francesco Corner. »

Gerard Van Keulen, Afteekening van de eylanden van Gozo en Melite of Malta, in-fol. Amsterdam, 1645.

Broktorff, Malta and its dependencies improved. Plan of Valletta and its harbours, in-fol. 1840.

Whithworth Porter, History of the fortress of Malta, in-8. Malta, 1858.

Anselmo Pajoli, Descrizione dell'isola di Malta nel 1654. Mss. ined. alla Bibl. com. di Palermo. — Effemeridi siciliane, ottob. 1875. Vol. II, fasc. 5.

553. Pier Gentile di Vandome, Successi dell'assedio di Malta, in-8. Roma, 1565.

Vincentius Castellanus, Historia de bello Melitensi, in-8. Pesaro, 1566.

Antonfrancesco Cirni, Commentarî dell'assedio di Malta, in-4. Roma, 1567.

Jo. Ant. Visperanus, De bello melitensi, in-4. Perugia, 1567.

Francisco Balbi, Verdadera relacion del sitio de Malta, in-4. Barcellona, 1568.

Coelius Calcagninus, De bello melitensi, ap. Burman, XV, 10.

554. Disegni della guerra, assedio, e assalti dell'armata turchesca all'isola di Malta, l'anno 1565, dipinti nella gran sala del palazzo di Malta da Matteo Perez d'Aleccio, intagliati da Antonfrancesco Lucini, in-fol. Bologna, 1631. — Ne ho veduto un bellissimo esemplare alla Civica Bibl. di Malta, e qui in Roma alla Chigiana, segnato L, b, I, 10.

Cap. Francesco de Marchi, Architettura militare, in-fol. Brescia, 1599: « Pianta e prospetto dell'assedio di Malta. » Tav. 78, p. 127, 129.

Baudouin, et Naberat, Histoire du cheval., in-fol. Parigi, 1659. — Piante e disegni annessi ai ritratti dei Grammaestri di Malta. Bibl. Casanat, Z, IV, 31.

555. Carlo Botta, Storia d'Italia in continuazione del Guicciardini, in-8. Capolago, 1833, lib. 35, vol. IX, p. 80.

556. Bosio cit., III, 618, E; 620, A: « Piacque a Dio che le barbare insidie si scoprissero.... Un soldato romano, chiamato Titta Scarpetta, quivi in sentinella, veduto dell'istesso luogo uscire la punta di un baston rosso, fu tanto animoso che dalla sommità del Cavaliero saltò abbasso nel piano del rivellino. Però nello scoprirsi fu incontanente dall'archibusaria turchesca ucciso, stando i nemici alla mira attentissimi.... Manifesto e più che evidente miracolo della divina provvidenza di liberare Malta dalle occulte e sottilissime insidie e strattagemmi di Mustafà.... chiara cosa è che se tardato si fosse mezz'ora a scoprirsi il disegno degli infedeli, l'isola di Malta sarebbe caduta in poter loro. »

557. P. A. G., Lepanto, p. 46, 47.

Vedi sopra, I, 272 e segg.

Cappelloni, prop. fin.

Sigonio, in fin.

558. Pierre de Bourdeille, seigneur de Brantôme, Mémoires contenans les vies des hommes illustres et grands capitains estrangers de son temps, in-16. Leyda, 1666, II, 54: « Il est très brave, très vaillant, et brusque. »

559. A. Jal, Archéologie navale, in-8. Parigi, 1840, Arthus Bertrand, I, 13: « Dans cet admirable palais du grand André Doria.... je fouillai dans les archives, restées malheureusement sans ordre.... Je trouvai un cahier de 161 pages, grand in-4, d'une écriture fine, jolie et très-facile à lire, caractères de la main de Jean-André Doria.... C'est le commencement d'une biographie pleine d'intérêt, que Jean-André n'acheva pas, et qui est restée tout-à-fait inconnue jusqu'à ce jour. »

Idem, Abraham du Quesne, et la marine de son temps, in-8. Plon a Parigi, 1873, p. IX, nota 1.

560. P. A. G., Lepanto, p. 233, nota 117, fine.

561. Plinio Tomacelli, Lettera cit., 234, B. med: « L'armata sotto il governo del signor Gio. Andrea, luogotenente generale del Principe Doria, col consenso del re Filippo. »

Cappelloni, Vita di Andrea cit., p. 153.

Sigonio, Vita di Andrea cit., p. 284.

Sansovino, Litta, Battilana, Famiglia Doria.

Adrianni, Tuano, Campana e tanti altri, che cito, istorici di questi tempi.

562. Cirni cit., 43: « Ammalaronsi più di mille soldati, quasi tutti italiani.... molti se ne fuggirono.... le navi ci restavano addietro.... il tempo s'era volto contrario. »

Tomacelli cit., 236, princ.: « Trattenuti dai tempi cattivi in Siracusa un mese, e in Malta molto più: la gente cominciò ammalare, e il male si fece contagioso. I due terzi della gente era inferma. »

563. Cirni, 68, 69: « Erano nel canale presso alla Cantèra due galeotte. Il generale era di animo che si facessero abbruciare.... Non se ne fece altro. Queste diedero la nuova al Gran Turco dell'armata nostra.... e però fu tanto presto a mandar la sua. »

Natal Conti, 342, A, med.: « Ma gli Spagnoli, troppo solleciti a trar fuori l'artiglieria dalle navi, si scordarono di quei due maledetti vascelli conquistare. »

Bosio, III, 418, A: « Dieron comodità ad Uccialì di rinforzare la migliore delle due galeotte.... e di portare avviso volando a Costantinopoli.... Dal che i mali successi che appresso derivarono. »

564. Brantôme cit, 76: « Ucchialy corsaire calabrois.... il estoit moine, ce dit on; et s'en allant à Naples pour estoudier, il fut pris, et depuis se renia: et de peu à peu se faisant corsaire, il s'advança, comme on l'a veu. Je croy qu'il prit le turban pour plus cacher sa tigne, qu'on dit l'avoir gardee toute sa vie, sans s'en defaire, que pour autre chose. »

Mariano d'Ayala, Dell'arte militare in Italia dopo il risorgimento, in-8. Firenze, 1851, p. 63: « Quel famoso calabrese Galeni, nativo di Cutro nel golfo di Squillace, il quale fattosi frate, e preso da' Turchi nell'andare a studio in Napoli, rinnegò; e sotto il nome di Occhialì diventò terribile. »

De Hammer cit., XI, 215: « Uluge-Aly. »

P. A. G., Lepanto, da p. 334 e da 228 alla fine, per tutto.

565. Mambrino Roseo cit., III, ii, 5: « La scaramuccia durò presso cinque ore, tanto durando il far dell'acqua. »

Cirni, 68: « Ne restarono morti da XIIII, e feriti da XXV

566. Bosio, 418, E: « Dei Toscani intorno a cento cinquanta ne uccisero, e tra essi cinque capitani, due alfieri, tre sergenti e parecchi gentiluomini. »

Cirni, 70, 71: « Quei di Firenze a discendere in terra senza capo, senza guida, senza ordine nessuno, come il fine che fecero lo dimostra. »

567. Cirni, 67: « Alle Gerbe coi Mori si trovava Dragut con più di ottocento Turchi. »

Natal Conti, 342: « Dragut non campava di certo dalle mani dei nostri, se havesse il Duca di Medina saputo trovarsi presente nell'isola. »

Bosio, 419, A: « Dubitando Dragut di essere dall'armata cristiana rinchiuso nell'isola delle Gerbe era andato molto ritenuto.... perchè non potessero i Cristiani avere avviso che quivi personalmente si trovasse.... Dragut non dètte avviso di sè.... Dispiacque al Vicerè non haverlo saputo, perchè dalle mani o vivo o morto scappare non gli poteva. »

568. Natal Conti, 312: B, princ.: « Troppo segnalato errore commise il duca di Medina.... che non si curò punto... di conoscere i consigli e le forze dei nemici. »

569. Capitan Piero Machiavelli, Lettera al signor Duca di Fiorenze, di galèa alla vela tra Palermo e Trapani addì XV di maggio 1560 (tra le lettere dei Principi, in-4. Venezia, 1562, t. I, p. 199, B, med.). (Bibl. Casanat. K, III, 27): « Andare a salvarsi ai seccagni del Palo.... che sono nel mezzo del viaggio che è da Tripoli alle Gerbe. Al qual secco.... si va sicuri di poterlo trovare, et si conosce al fondo et alla bonaccia, senza che l'uomo abbia vista del terreno, con ogni fortuna di mare a salvarsi. »

Bosio cit., III, 419, D: « È stimato quel secco come sicuro porto, stante la poca forza che l'onde del mare possono avere in quei bassi fondi. »

Crescentio, Portolano, aggiunto in fine alla Nautica, in-4. Roma, 1602, p. 21, lin. 1: « Dalla Rocchetta delle Gerbe tirando per Scirocco miglia venti, s'entra nelle secche del Palo, dove è bonissima stanza per navi e galèe per ogni tempo. Trovasi a Maestro Tramontana, qual non è da temere, trovandoci bene ormeggiati. »

570. Comm. Alessandro Cialdi, Del moto ondoso del mare, e delle correnti di esso, in-8. Roma, 1866, p. 170 e segg., dove parla di casi simili; e specialmente del Secco del Beito per un altro fatto narrato pur dal Bosio, III, 218, D.

571. Giacopo Bosio (cav. di Malta), Storia del suo Ordine, III, 419, E.

Cirni cit., 80: « Cose stranissime, contrarî venti, continue malattie, e disferramenti di vascelli. »

Giannandrea Doria, Manifesto secondo, dato da Candia il dì cinque di ottobre 1570, pubblicato nel Saggiatore, in-8. Roma, 1845, II, 362: « Per la furia della tempesta nel tragitto mi sferrarono tre galere di Napoli, ed una dei Negroni. »

Pantera, Armata navale, in-4. Roma, 1614, Vocab. in fin.: « Sferrarsi significa che l'àncora non è bene attaccata al fondo, onde il vascello va dove è portato dal vento.... ed anche quando dal vento è sforzato a separarsi dalle conserve dove è spinto dalla fortuna. »

Stratico, Vocab. in tre lingue di Marina, in-4. Milano, 1813; « Sferrarsi un vascello si dice quando l'àncora non è bene attaccata al fondo, ed il vascello va dove è portato dalla corrente, o dal vento, o a separarsi dalle conserve. »

Parrilli, Vocabolario di Marineria, in-4. Napoli: « Sferrarsi vale perdere la tenuta dei ferri per impeto di vento.... Sferratore dicesi il vento impetuosissimo, capace di fare arare. »

Fincati, cap. di Vascello, Dizionario di Marina, in-16. Genova, 1870: « Sferrare è venir meno delle àncore, quando cessano di far presa nel fondo per impeto di vento. »

572. Crescentio, Nautica cit., 7: « Materia di legname, abeto. » I marinari col nome di Abete intendono fusti lunghi, grossi, rimondi e levigati, da farne alberi, antenne, verghe, pennoni, picchi, rande, spigoni, aste, buttavanti e simili, perchè ordinariamente sogliono essere di tal qualità di legname; e ne portano di riserva e di ricambio per ogni rispetto. L'Abete riunito in fascio piglia il nome di Dromo e di Dara.

573. Cirni, 73: « Compassione grande.... tanta gente che moriva vederla buttare in mare. »

Idem, 81: « Infino al primo di marzo, che ci eravamo fermati quivi, poco meno di duemila uomini furono pasto dei pesci. »

574. Campana, 83, B, med.: « L'eletto di Majorica ebbe in governo l'hospedale, che fu provveduto abbondantemente di tutte le cose necessarie. »

Natal Conti, 136, B, med.

Bosio, 420, B: « Presero.... di far servire il galeone come di spedale.... il Vicerè al primo di marzo si fece portare il numero dei morti.... passarono duemila. »

Idem, 426, A: « Piantando l'ospedale dell'eletto di Majorica e della Religione. »

Cirni, 98: « Il giubileo di Sua Santità assolveva benignamente ognuno.... però coi debiti mezzi.... e la maggior parte si confessarono e comunicarono con gran devozione. »

575. Bosio, 420, C, B: « Il primo di marzo.... il Vicerè raunò il Consiglio suo nella poppa della galera capitana del Papa. »

576. Cirni, 81, 83: « Il Vicerè propose di andare alle Gerbe.... Al parere del Vicerè fu conforme il signor Gio. Andrea, don Alvaro, et alcuni altri cavalieri. »

Alfonso Ulloa, La istoria della impresa di Tripoli di Barberia, tradotta da G. D. Tebaldi. Venezia, Rampazzetto, 1566, fol. 10: « Giovanni Andrea nondimeno mandò a dire il suo parere un Plinio Tomacello bolognese, persona di molto valore et giudizio, e di chi si faceva grande stima. »

577. Plinio Tomacelli, Lettera a don Diego Ortiz sopra il vero successo delle Gerbe. Di Bologna, 20 maggio, 1564, tra le Lettere dei Principi, in-4. Venezia, 1581, III, 236: « Non fu mai possibile di andare a Tripoli.... si risolse di andare alle Gerbe. »

578. Carlo Promis, Ingegneri milit. bolognesi, 95, 97.

579. Bosio cit., III, 420, D: « Dopo il generale delle galere del Papa.... toccò parlare al commendator de Tessieres, generale della Religione.... di marciare alla volta di Tripoli. »

580. Cirni, 83: « La mattina seguente, a due del detto marzo, perchè il vento era favorevole per le Gerbe ci mettemmo alla vela.... e il medesimo giorno arrivammo là a ventidue ore. »

581. Campana, 99, B., prin.: « L'armata tornò alle Gerbe, ove diede fondo ai due di marzo. »

582. G. Plinii Secundi, Historia naturalis, lib. V, cap. vii, in-fol. Lione, 1587, p. 93, lin. 21: « Insulas non ita multas hæc maria complectuntur. Clarissima est Meninx, longitudine XXXV m. passuum, latitudine XXV; ab Eratosthene Lotophagitis appellata. »

Sex. Aurel. Victor., De Vita et moribus imp. roman. a Cesare Aug. ad Theodosium imp., cap. XXIX. Script. rom. coll. I, 631, 2, E: « Gallus et Volusianus creati in insula Meninge, quæ nunc Girba dicitur. »

583. Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia, giovedì 12 agosto 1875, p. 5608, col. prima, lin. 22 e segg.: « Gerba. »

584. Prof. Michele Amari, Nuovi studî arabici sulla storia di Genova, in-8, 1872, p. 77, scrive: « Sceikh. »

585. Crescentio, Portolano cit., 20: « Dalla testa del Bieto, volendo andare all'isola de' Gerbi alla Rocchetta, tira alla quarta di mezzogiorno verso Libeccio, et vi troverete sopra detta Rocchetta. »

Luis Marmol, Description general de Affrica, in-fol. figur. Granata, 1573, II, 289 e segg.: « Gelves, la Roqueta a levante, la boca del canal de Alcantara.... la torre del canal de Alcantara, boca del canal hazia levante.... a poniente del Castillo dos leguas una torre que se dice Valguarnera, y en Arabico Gigri, el Bazar al Norte. » 295, B, I, med.: « Boca del canal de Alcantara entre isla y tierra firma, hazia levante. »

Dapper, Africa, in-fol. Amsterdam, 1676, p. 201.

De la Croix, Relation universelle de l'Afrique ancienne et moderne, in-12. figur. Lione, 1688, II, 244.

Bellin, Altas maritime, in-fol. Parigi, 1764, III, tav. 71: « Zerbi, Malguarnero, la Forteresse, Bourg el Bazar, Zaduca, El Kantar. »

586. P. Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, in-8. Firenze, Le Monnier, 1854-72, III, 400: « Le Gerbe fertilissima isola del Golfo di Kâbes.... coltivata in ogni tempo.... ricca d'industrie.... abitatori Bèrberi, seguaci di due sette musulmane, molto invise all'universale. » E più altre notizie dell'isola medesima, in diverse parti dell'opera, come dall'indice copioso ed accurato. Ne tocca altresì nel Vespro Siciliano a proposito dell'impresa del Loria nel 1284; e nella pubblicazione della Corrispondenza di Ferrante Gonzaga con Mulèy-Hassen, fatta insieme coll' Odorici, Atti di Storia patria per le Provincie modenesi e parmensi, anno 1865, vol. III, p. 141.

587. Andrea Conti, e Giacomo Ricchebach, professori di astronomia nel Collegio romano. Posizione geografica dei principali luoghi di Roma, e de' suoi contorni, in-4. Roma, tip. de Romanis, 1821, p. 4: « I risultati potranno essere de' buoni materiali per la costruzione di una carta di questa gran città, e per verificare quelle che esistono. »

Effemeridi astronomiche e Nautiche: Connaissance des temps. Per la riduzione delle carte idrografiche inglesi e francesi al meridiano di Roma valga il seguente rapporto:

  • Greenwich. occ. in arco    12°, 27′, 12″. = in tempo 0h, 49', 49"
  • Parigi osser. occ. in arco   40°,   7′,   3″. = in tempo 0h, 40', 28"

588. V. sopra, I, 207 e segg.

589. W. H. Smith, Chart of the gulph of Khabs, Londra, 1861, tra le carte dell'Ammiragliato britannico.

Idem, The Mediterraneaen, etc., p. 90.

590. Wilkinson, Chart from Mehediah to ras Makhabez, gran folio, 1865, carte dell'Ammiragliato: « Jerbah, Boukal castle, Boukal channel, Fort Ajir (la Rocchetta), Zoug (il Bazar), Fishery (le Peschiere), Castle, Fort Jelis (la Valguarniera), Melitah, Sidi Smour, Schour, Sasouk, Agim, Kalela, Potteries, Tabilla, Ackrab castle (il Castelluccio del ponte, ec.)»

591. Cirni, 65: « In che modo aveva da dismontar la gente.... nelle prime schifate andassero i capitani con venticinque archibugeri.... (85) Dunque ai sette di giovedì mattina si dismontò. »

Bosio, 422, A: « Giovedì settimo di marzo l'esercito fu posto in terra.... (418, B) Schifi, capitani, sergenti, ventiquattro soldati. »

592. Cirni, 88: « Squadroni per antiguardia e retroguardia.... con due gran maniche di archibugeri, a guisa di un corpo umano disteso con le braccia innanzi. »

593. Cirni, 35: « Pezzi di artiglieria grossi, et altri da campagna. » (86). « Aveva il Generale fatto disimbarcare quattro pezzi d'artiglieria da campagna. » (94): « Salutarono i Mori con quei pezzi di campagna che facevano bei colpi. »

Campana, 83, B: « Artiglieria così da campagna come da batteria. » (99, B, princ.): « Don Alvaro guidò le genti in terra con qualche pezzo da campagna. »

594. Cirni, 86: « La mattina che fu venerdì agli otto.... fece mettere la gente in battaglia per marciare.... ottomila fanti, la più bella gente.... poco se le conosceva il patire che aveva fatto. »

595. Giuseppe de Hammer, Storia dell'imperio osmano, estratta la maggior parte da manoscritti ed archivi da nessuno per lo innanzi usati, opera originale tedesca, recata la prima volta in italiano. in-16. Antonelli, Venezia, 1830, vol. XI, p. 236, e segg.

596. Ibn-abi-Dinar, sopracchiamato el-Kairewani, Libro dilettevole sugli avvenimenti dell'Africa e di Tunisi. Alla pagina 161 del testo arabico, capitolo del regno di Abu-el-'Abbas-Ahmed. Volto in francese dai Pellisier et Rèmusat, Exploration scientifique de l'Algérie, sciences historiques et géographiques, in-4. Parigi, 1845. — Il testo arabico dura inedito.

597. Bagi, Compendio della Storia tunisina infino all'anno comune 1837. Stampato a Tunisi, 1283 (1866), p. 87, e seguente del testo arabo.

598. Cirni, 98: « Subito si sparse la voce tra soldati che si era concluso l'accordo, il che diede non poco dispiacere alla maggior parte, et alquanti per dispetto buttavano le celate per terra. Ma uno, che si chiama Ordugnes spagniuolo, dicendo che non era possibile che potesse sopportare pace con cani, mise mano a un coltello e dandosi nel petto s'ammazzò: benchè innanzi che spirasse si convertì, dicendo che il diavolo l'haveva accecato. »

Bosio, 425, D: « Dispiacque l'accordo. Si era pubblicato per l'esercito che il Vicerè voleva spianare il castello, e saccheggiare, e dare il guasto all'isola. E fu tale il dispiacere che se ne prese un soldato spagnuolo chiamato Ordognez, che sè stesso uccise. »

Natal Conti, 346: « Veggendosi tolta di bocca la preda, uno Spagnuolo per soverchio dolore con un pugnale da un canto all'altro si trafisse. Morte a sì infame avarizia e disperata pazzia conveniente. »

599. Don Luys del Marmol Caravajal, L'Africa, in-fol. Granata, 1573, II, 298, A, 2, fin.: « Juan Andrea con la gente de sus galeras tomo a cargo de hazer un cavallero: et Duque con los españoles otro: Andrea de Gonzaga con les italianes otro: y los cavalleros de san Juan otro. »

Bosio cit., 425, E: « Fu posto mano a fabbricare il forte con quattro baluardi reali, il primo chiamato della Cerda.... il secondo fu nominato Doria.... il terzo ebbe nome san Giovanni perchè toccò farlo al gran commendatore (de Tessiers) con le genti della Religione.... il quarto detto Gonzaga. Il vecchio castello fu chiamato Filippalcazar. »

Cirni, 101: « Venivano a essere quattro cavalieri.... dalla parte del mare si accingeva quasi a stella, e volgeva in tutto da mille passi. »

600. Bosio cit., III, 426, C: « Profetia del gran maestro Valletta, il quale predisse che l'armata cattolica sarebbe sopraggiunta e rotta dalla turchesca.... e sonetto, nel quale si scuopre l'intenzione, per la quale fu fabbricato il forte, e fu chiarissima et infallibile preditione del fine che poi ebbe:

» Qual fue el intento para tal hazerte?

Disculpar otros yerros començados.

Quederà alguno en ti? Los desdichados.

A que fin? A esperar prision o muerte. »

601. Carlo Promis, Gli ingegneri e gli scrittori militari bolognesi del secolo XV e XVI, in-8. Torino, 1863, p. 95, 97.

602. Plinio Tomacelli, Lettera al signor Diego Ortiz. Tra quelle dei Principi, in-8. Venezia, appresso Francesco Ziletti, 1581, III, 237, princ.: « Il Vicerè attendeva però sempre a provvedere il suo forte di vettovaglia, munitioni ed acqua.... le galere empivano le cisterne con cento barili d'acqua ogni giorno.... Ella ben sa che per consiglio mio non si potesse reggere l'armata, non servendo io in cose di mare. »

Idem, Discorso sopra la fortificazione di Bologna, fatto l'anno 1865. Mss. alla bibl. dell'Istituto bologn., Miscell. di storia patria.

603. Campana, 100, B, med.: « Formava il disegno del forte Antonio Conti ingegnero.... due giorni dipoi fu cominciato a lavorarsi coll'assistenza di Bernardo Aldana e Sancio di Leiva. »

Natal Conti, 346, B, princ: « Il Duca assegnò lo spazio ad Antonio Conti valente ingegnero, ordinandogli che ne facesse un disegno: e vedutone il modello, lo prepose alla cura del lavoro. »

603a. Cirni, 100.

604. Bosio, 424, C: « La cura degli alloggiamenti campali fu data ai cav. Cesare Visconti e Carlo d'Amanze, e con essi all'ingegnero Antonio Conti.... » (425, D): « Il nuovo forte fu disegnato dagli ingegneri di sopra nominati. » 426, B: « Et a diecinove del medesimo mese fu con solennità dato principio alla fabbrica dal nuovo forte sopradetto. » — Campana, nota preced.

605. Cirni cit., 103: « Già si havevano havuti avvisi che l'armata turchesca era per venire, et in grosso numero. Per il che il Gran Maestro della Religione mandò a domandare le sue galere, perchè essendo restata l'isola di Malta sprovvista voleva anticipare il tempo a provedersi. Così il Generale (Medina) ce le mandò con tutta la sua gente, e partirono agli otto di aprile. »

Tomacelli cit., 236: « Il Gran Maestro scrisse a Gio. Andrea che si apparecchiava l'armata del Turco.... Voleva il sig. Gio. Andrea andarle incontro nell'Arcipelago.... Ma il Vicerè non si rimosse dal proponimento, e sempre attese alla cominciata fortificazione. »

606. Costo, Storia di Napoli cit., 391, princ.

Mambrino Roseo cit., III, II, 13, med.

Raynaldus, Ann. Eccl., 1560.

607. Cirni, 107: « Il signor Gio. Andrea guarì, e poi ben tosto ricadde. » (111): « Il signor Gio. Andrea combatteva colla morte, essendo ricaduto quattro volte. »

608. Cirni, 109: « Plinio Tomacelli, persona di molta scientia, pratica e intelligentia, amato al sommo dal signor Gio. Andrea.... Sollecitava la partenza.... eravamo già ai cinque di maggio.... » (111): « Ogni giorno Plinio innanzi e indietro per dare effetto alla partita. »

Bosio, 428, C: « Giovanni Andrea.... per mezzo di Plinio Tomacelli faceva sollecitare l'imbarcamento. »

609. Plinio Tomacelli, Lettera cit., 236, B, med.: « Il signor Giovanni Andrea mi mandò a fare istanza al Vicerè che dovesse partire.... mi rimandò di nuovo a fare istanza del partire. »

Ulloa cit., Impresa di Tripoli, p. 10: « Plinio Tomacelli bolognese, persona di molto valore et judicio, di chi si faceva grande stima. »

610. Cirni cit., 105, 106, 109.

Tomacelli cit., 234, med.

611. Lettere di Muley-Hassen re di Tunisi a don Ferrante Gonzaga vicerè di Sicilia: pubblicate da Federigo Odorici con una lettera del prof. Michele Amari negli Atti della Deputazione di Storia patria per le Provincie modenesi e parmensi, in-4, 1865, III, da p. 115 a 192. — L'unico esemplare disponibile comprato in Modena per mio conto. Ricordo le dette lettere, quantunque non vi sia cosa di rilievo storico al mio proposito.

612. Bosio, 429, E: « Scipion Doria consigliava combattere serrandosi insieme le galèe coi galeoni e colle navi. »

613. Natal Conti, 349, A, fin.: « Ma i Cristiani si trattennero, stimando l'armata turchesca non così tosto dovere in quei mari presentarsi. »

Bosio, 430, A: « La maggior parte dei capitani erano di opinione che l'armata turchesca quivi la mattina arrivar non potesse. »

Cirni, 113: « La maggior parte erano di oppenione che l'armata turchesca non potesse esser quivi la mattina: chè prima aveva da andare a Tripoli, e sapere da Dragutte quel che bisognava fare. »

614. Cirni, 114: « Gio. Andrea disse che in ogni modo era da partire; chè la mattina si troverebbero sopra l'armata nemica. »

615. Cirni, 114: « Flaminio dell'Anguillara parimente persuase la partita. Doveva essere allora poco più di due hore, e così si risolse che si havesse a partir la notte in ogni modo. »

616. Pietro Machiavelli, Lettera al duca di Fiorenza, 15 maggio 1560, sotto vela da Trapani a Palermo. Tra le lettere dei Principi, in-8. Venezia, Ziletti, 1562, vol. I, p. 199, B, med.: « Negando Giovann'Andrea di voler restare, Plinio, stato suo maestro di grammatica, col consiglio del quale si reggeva quest'armata.... lo cominciò a pregare che havendo fatto fino a quel dì tanto in servitio di sua Maestà non volesse per un sol giorno guastarsi. Onde Giovann'Andrea per compiacere al Vicerè si contentò di restare ancora quivi per un giorno coll'armata.... I nemici c'erano vicini a settanta miglia. »

Tomacelli cit., 240, fin.: « Io non fui mai maestro di Grammatica come dice l'autore della Lettera.... e come poteva egli sapere ch'io avessi pregato il signor Giovanni Andrea che non volesse per un sol giorno guastarsi? » — Non dice di che altro mai fosse maestro: e in vece di negare il fallo proprio, nega la scienza dell'avversario.

617. Tomacelli cit., 238, princ.: « Non parlò il signor Giovanni Andrea di combattere, nè altri vi fu in consiglio che ne parlasse, perchè l'opinione universale fu che si havesse tempo. » — Equivoca e magra scusa!

618. Modesto Lafuente, Historia general de España, in-8. Madrid, 1854, XIII, 88: « Engañose en esto don Alvaro de Sande, como el de Medinaceli; y ambos se llenaron de costernacion, cuando supieron que l'armada del Sultan se approximaba a los Gelbes. Todo fue entonces confusion y desorden. »

Ferreras, Hist. d'España, vol. IX, 415.

Herrera, Hist. Gen., lib. VI, cap. XVIII.

Cabrera, Felipe II, lib. V, cap. VIII.

619. Cirni, 135: « Il Scecche promise assai e non attese niente, che insieme col re del Caruano e l'infante di Tunisi per paura dei Turchi se ne fuggì in terraferma. »

620. Cirni, 120: « Il tempo fino allora era stato buono, ma subito di Scilocchi e Mezzigiorni si cambiò in Tramontane e Grechi, a punto per prua, cosa in vero crudelissima. »

Bosio, 430, B: « Però i venti, che fino allora erano stati favorevoli, si volsero contrari. »

621. Bosio cit., 430: « L'armata cattolica alle Gerbe non seppe nè combattere nè fuggire. »

622. Bosio, 430, E: « Scipione Doria con quella guardia sua non fece altro servigio, che di salvare sè stesso, dopo che veduto ebbe il pericolo, colla sola galera sua, portando avviso a Malta che tutta l'armata cattolica era perduta e disfatta. »

623. Sagredo, Monarchi Ottomani, in-4. Venezia, 1673, p. 466: « Giannandrea si accostò a terra e arrenò; sbarcato sopra un palischermo, salvossi nel forte. »

Cap. Machiavelli cit., 200, B, lin. 7: « In un tratto la Reale, con pessimo e doloroso consiglio, poggiò per andare a investire in terra. »

Tomacelli, 239, B, med.: « La Reale teneva la prua per Ponente, e andava ad investire nel golfo del Capsi.... vedendosi adunque il vento contrario il signor Giannandrea, conoscendo il pericolo certo, havendo già voltato più di dodici galèe verso il Forte, si risolse egli ancora di pigliare la medesima volta. »

624. Bosio 431, G: « Prese dai Turchi quattro galèe di Giovann'Andrea, compresa la Reale, due del Papa, cinque di Napoli.... venti galere in tutto, e quattordici navi. »

625. Adriani, 645, A, B: « Al ritorno venticinque navi furono combattute e vinte dai Turchi... e con tutti i soldati rimasero prigione.... Delle quaranta galèe e quattro galeotte, salve solamente diciassette. »

Cirni, pag. ult.: « Perdita totale diciotto mila anime, venti otto galere, una galeotta, e quattordici navi

626. Cirni, 128: « Massime la Capitana di Flaminio dell'Anguillara scampava senza fallo, perchè quella galera andava alla vela quasi più di nessun'altra. »

627. Bosio, 432, B: « Si ruppe l'antenna alla capitana del Papa. »

Cirni, 128: « Alla capitana di Flaminio si ruppe l'antenna per bel mezzo, che parse tagliata con una accetta, la quale cascando gli ruppe tutti i remi. »

628. Bosio, 432, B: « I Turchi, mentre attesero a pigliare e saccheggiare quella bella Capitana del Papa, lasciarono andare a suo cammino la galera del capitan fra Gil d'Andrada. »

629. Mambrino Roseo cit., p. 16, lin. 6: « Volendo troppo tirare le antenne se gli ruppero in quella fuga, onde sopraggiunte, furono le genti in gran parte tagliate a pezzi. »

F. D. Guerrazzi, Vita di Andrea Doria, in-16. Milano, 1864, II, 354: « Sulla capitana del Papa governata da Flaminio dell'Anguillara, capitano eccellente e di molto giudizio nelle faccende navali, mentre la ciurma invasa dal fernetico tira con supremo sforzo il sartiame, rompe l'albero e l'antenna.... Sopraggiunta dai nemici, i quali saltativi su colle coltella in mano, la più parte misero in pezzi, e fra i primi il misero Flaminio.... pochi serbarono in vita. »

630. Mambrino Roseo, part. III, voi. II, p. 16: « Flaminio dell'Anguillara, capitano valoroso e di gran giudizio nelle guerre navali.... se gli ruppe l'antenna, spezzò i remi.... i nemici ferironlo di due colpi mortali in testa e nel collo.... senza conoscerlo, fu calpestato e morto. »

Bosio, 432, B: « Rimanendovi il capitan Flaminio preso et ucciso. »

Thuanus cit., II, 64: « Flaminius Anguillarius, pontificiarum triremium præfectus, rupta antenna, sclopeti ictu inter pugnandum accepto, mortuus est. »

Campana cit., 102, A, fin.: « Danno gravissimo di uomini principali uccisi.... e tra quelli Flaminio dell'Anguillara, generale delle galere del Papa. »

Adriani, 645, A: « La medesima fortuna fu di Flaminio da Stabbia Orsino.... che caduta l'antenna fu soprappreso e morto. »

Costo, Stor. di Nap., 391: « Vi morì di una archibugiata Flaminio dell'Anguillara, capitano famoso, mandato a questa impresa dai Cardinali dopo la morte di Paolo quarto. »

Cirni, fin.: « Morto di ferro Flaminio dell'Anguillara. »

631. Litta, Sansovino, e gli altri non ne parlano, come è detto sopra alla nota 7.

632. Mambrino Roseo cit., Storie del Mondo, vol. II della terza parte, in-4. Venezia, Giunti, 1598, p. 16: « Si racconta un atto da esser notato di un Paggio dell'Anguillara che minacciato da un forzato che l'odiava.... lanciandosi in mare, vi restò in un istante affogato. »

F. D. Guerrazzi, Vita di Andrea Doria, II, 354.

633. Avvisi di Roma. Codice Urbinate 1039, fol. 160, e di seguito. — La prima notizia del disastro giunse in Roma lunedì, venti di maggio; ed alli venticinque del mese già il semipubblico Giornale ne dava ragguaglio agli associati con molta precisione rispetto ai fatti dei primi fuggiti; e con sufficienti congetture rispetto agli altri lasciati addietro.

634. Cappelloni cit., 185. — Sigonio cit., 335.

635. Augerii Gislenii Busbequii, Legationis turcicæ epistolae quatuor, in-18. Parigi, 1595, p. 120: « Sublato e vivorum numero Gastone, an peste, ut quidam credunt, an quod verisimilius est, ipsius Phialii opera, qui eum occultaverat, ut proprie saluti consuleret. »

636. Cirni, 157: « Così all'ultimo di luglio 1560 i soldati che erano restati nel forte restarono tutti prigioni. Gli ammalati e i feriti furono tagliati a pezzi. »

M. Amari, Lettere cit., p. 144, lin. 6, leggi 1560.

637. W. H. Smith, The Mediterranean, a memoir physical, historical, and nautical, in-8. Londra, 1854, p. 187: « Passing Jerbah.... the Burj-er-Rus, a pyramid of human skulls, just outside the castle of Jerbah.... dreadfull disaster, which befell under Lacerda and Doria. »

N. O.

F. G. Pellegrinetti.

F. G. Marchi.

Imp.

F. G. M. Sanvito.