IL RE BELLO
ALDO PALAZZESCHI
IL RE BELLO
VALLECCHI EDITORE FIRENZE
PROPRIETÀ LETTERARIA
Firenze, 1921 — Stabilimenti Grafici Attilio Vallecchi — Via Ricasoli, 8
INDICE
IL RE BELLO
— Sua Maestà la Regina attende.
Il conte Ercole Pagano Silf, gran Maresciallo di Birònia, dette queste parole rimase fermo nel mezzo della sala, sotto l'immensa scintillante lumiera veneziana, considerando la persona del Re.
Ludovico XII, Re di Birònia, alzatosi in piedi incominciò a camminare assalito da una palese agitazione, da un tremito nervoso. Andava e veniva davanti alla specchiera della consolle, acciuffandosi gli enormi baffi orizzontali, neri e ferrigni, fulminando sè stesso coi terribili occhi rotondi dilatati, inarcando le spalle, spingendo in avanti il petto robustissimo, aggiustandosi dipoi la giubba azzurra gallonata d'oro. — Come a vent'anni — pensava Ludovico XII — peggio assai che a vent'anni, io mi sento oggi più impaziente e imbarazzato di allora.
— Tutto è pronto? — chiese il Re.
— Tutto, Maestà.
— Fu pensato a tutto?
— A tutto.
Voleva Ludovico XII domandare se già la preghiera nella cappella Reale fosse incominciata ma non osava, non intendeva palesare di ammettere soverchia importanza a quel fatto soprannaturale, e non avrebbe voluto dopo rimproverarsene il torto. Era convinto che Dio, lo avrebbe meglio esaudito direttamente che per mezzo del prelato di corte, ma siccome altra volta ciò non era accaduto voleva che la formalità fosse adempiuta.
E il conte Ercole Pagano Silf, al quale nulla sfuggiva del pensiero del Sovrano, comprese.
— Monsignore vicario già da mezz'ora è genuflesso dinanzi all'altare acceso, dall'alba di stamane le Orsoline alzano al cielo la loro invocazione, Monsignora Superiora delle Clarisse fece eseguire il digiuno di preparazione, e nella cattedrale fu adempiuto il triduo solenne, al grido di tutte le vergini e le madri di Birònia.
— Andiamo — disse il Re interrompendolo bruscamente.
Il gran Maresciallo aprì la porta e, passato il Sovrano, lo seguì a capo basso per il lungo e deserto corridoio della Reggia.
Giunti ad una porta si fermò il Re, il gran Maresciallo l'aprì, entrò, e fattosi a un passo dalla soglia annunziò:
— Sua Maestà il Re.
Nel mezzo di quella camera tappezzata di seta azzurra a gigli d'argento, cadente di ampi ricchissimi cortinaggi, cordoni e galloni, sopra una chese longue, sorretta da innumerevoli cuscini la Regina Sofia Clementina di Birònia era distesa, cerea, quasi dormente. All'annunzio aprì gli occhi con quel terrore rassegnato ch'hanno i moribondi davanti al sacerdote che porge loro gli ultimi conforti per l'ignoto viaggio, e li richiuse quasi subito stancamente sopita.
Il conte Ercole Pagano Silf si ritirò, chiuse cautamente la porta, restò un momento a capo basso, si dette a girellare su e giù per il corridoio, e fermandosi davanti ad una finestra e levando in alto la testa e le braccia parve volesse dire: — Signore, esaudiscilo!
* * *
Ludovico XII Re di Birònia, Re assoluto, tipo straordinariamente forte di soldato, aveva da poco varcati i quarant'anni, e regnava da dodici sul trono di Birònia. Era adorato dal suo popolo che vedeva in lui degnamente e fedelmente rispecchiata secondo quella tradizione la grandezza, simbolica ormai, di Ludovico il Grande di Birònia che quattrocento anni prima aveva riunito il Regno, dichiaratane l'indipendenza, fissatane la costituzione.
Quando Ludovico XII passava fra le turbe riverenti e si volgeva da destra a sinistra coi tremendi baffi orizzontali e gli occhi sgranati, terribile, lanciando sguardi da sgherro d'operetta, le folle protese a capo chino e scoperto se ne sentivano invase beatamente e possedute tutte.
— Come gli è grande!
— Come Lui — ognuno diceva e pensava. — I baffi, gli occhi, la persona tutta!
— Come gli è Re!
— Che garbo da Sovrano!
— Quanta maestà!
Sarebbero stati tutti ben volentieri ventiquattro ore digiuni per offrire a lui un pranzo di gala, e si sarebbero sentiti tutti pieni, e se taluno avesse toccato un filo d'erba solo in Birònia non un cittadino sarebbe rimasto indietro d'un passo al suo Re per difenderlo.
Era il Regno della Birònia come una patriarcale famiglia.
Vicino alla figura fortissima del Re eravi quella della Regina, pallida e sofferente da varii anni per una nevrosi cardiaca che le si andava aggravando ogni dì, e la faceva rimanere sempre colla bocca aperta come i pesci.
Raramente essa poteva mostrarsi al popolo così malata com'era, ma quando nelle grandi solennità dello Stato vi era costretta e gli compariva boccheggiando e dolorosamente sopita, ognuno guardandola in espressione desolata e amorosa pareva supplicare: — Signore! Perchè, perchè non l'hai esaudita? Perchè l'hai voluta sì infelice?
* * *
S'era poco a poco addensata una nube sul limpido cielo di quel Regno, una nube che pareva oscurare dalla fronte del Re quella dell'ultimo cittadino.
E quando il Sovrano assorto nel pensiero divenuto fisso, dava un enorme pugno sulla tavola, quello che si chiamava in Birònia il pugno di Ludovico, e venivano a quel modo prese le decisioni supreme dello Stato, e il giudizio inappellabile del Re era pronunziato, non si poteva più dire ch'esso fosse divinamente puro, che un riflesso di quella nube ne turbava la serenità.
Il conte Ercole Pagano Silf, gran Maresciallo di Birònia, era il regolatore di quel pugno, e faceva colla sua parola, collo sguardo, coi suoi mezzi tutti a che il braccio del Monarca si movesse il più possibile in tempo, ed era riuscito, l'eminente uomo di Stato, a farglielo tenere su alzato per tre quarti d'ora interi e a fargli dare il pugno proprio nel momento giusto.
Quando Ludovico XII, allora Principe ereditario di Birònia, sposò la principessa Sofia Clementina Spifz Mai de Burgo Manèro, nove mesi in punto da quel giorno benedetto vide la luce la bella principessa Eufrasia ora diciottenne. Esultò il popolo all'avvento, e non molto tardò a nuovamente esultare quel popolo sapendo che un nuovo dono regale attendeva dall'augusta coppia e fu la principessa Angelica, alla quale seguì a breve distanza, quello delle principesse Giovanna Francesca, e Maria Carolina. E siccome era tradizione dei Ludovichi avere numerosa e fiera prole seguirono dipoi gli avventi delle principesse Olimpia, Zelinda, Zaira, Colomba.
E fin qui nulla avrebbe turbato la pace del nostro Sovrano e del Regno tutto della Birònia se a tale punto, per la fatica dei parti troppo frequenti non ne fosse uscita turbata la salute della Regina Sofia Clementina, che venne assalita da una ancor lieve affezione di cuore per la quale i medici del regno e quelli chiamati dai regni limitrofi, si pronunziarono per un certo periodo di riposo dai doveri coniugali, e sopratutto a che Sua Maestà non avesse dovuto subire a breve scadenza le fatiche di una nuova gestazione e di un parto conseguente, per non dover gravemente risentirsene in salute.
Attese fiducioso il Re di Birònia, e non appena l'augusta consorte parve guarita andò a lei con tutto il suo poderoso slancio e la più ardente speranza sicuro che quella sarebbe stata la sua ultima fatica e insieme il coronamento di tutte le altre.
Non mentì il sangue Ludovico, la graziosa signora potè in breve fare annunziare a tutto il popolo suo che l'avvento troppo lungamente anelato era prossimo.
Tutto fu alla Corte preparato colla sicurezza nel cuore, e primo il Re, dopo quasi due anni di tregua, dopo la malattia della Regina, certo sarebbe giunto quello ch'era aspettato in Birònia come il messia, l'erede, colui che doveva essere Ludovico XIII.
Giunse il parto assai scabroso per la debolezza della Sovrana che fu dovuta sostenere con farmachi, e quando il Gran Maresciallo si presentò a darne annunzio al Re, che aspettava trepidante, comprese il Re da quello sguardo.
— No! No! — gridò Sua Maestà — Vai via sai, brutto pagliaccio che non sei altro, via!
E questa nuova principessa fu chiamata Geltrude.
* * *
Da quel giorno si oscurò la pace del felice Stato.
— Sangue Ludovico! — urlava ora spaventosamente il Monarca come un'invocazione una minaccia e una bestemmia.
Le nove principesse erano state segregate all'ultimo piano della Reggia, e venivano condotte a prendere aria per i giardini nelle ore che il Re dava udienze, acciò egli, attratto a carezzarle per quel dolce istinto paterno che è in tutti gli uomini, non venisse assalito dal pensiero orribile, che lo turbava dì e notte, proprio nel momento che le piccole teste gli erano fra le mani e non si sentisse lanciato a stritolarne una senza potersi rendere responsabile del suo operato.
Cadeva il Regno nelle mani dei Ludovichi Giulii, ramo bastardo dei Ludovichi, e che viveva fuori Regno. Senza dubbio essi avrebbero stretto alleanza cogli Sgòrpi, dominatori di quattro secoli prima, vinti e cacciati da Ludovico il grande con soli settantasette uomini. E sulla piazza dei Settantasette era il monumento equestre di Ludovico il Grande. La Birònia sarebbe divenuta un lacchè della Sgorpìa. Tutto finiva, la tradizione eroica, tutto cadeva, era la fine dei Ludovichi!
E tutto perchè una donna, una pallida donna dannata non riusciva a dare alla luce che delle miserabili principesse. Quale gastigo! Era dunque maledetta? Che aveva in corpo costei? E quella che aveva adorata e stretta nelle estasi pure della giovinezza prese a odiare come il peggiore nemico. Per la sua mano, per la sventura che l'aveva segnata tutto cadeva, Birònia, dinastìa, Ludovichi, la pace, tutto! E sapeva che il popolo con lui ne soffriva quanto lui.
Il conte Ercole Pagano Silf, aveva tentato di condurre il sovrano a riflettere, si sarebbe potuta ritoccare la costituzione ed ammettere la donna al regno. La bella principessa Eufrasia sarebbe stata una regina meravigliosa.
— Mai! — urlava il Re. — Mai!
Sotto il regno dei Ludovichi la femmina era stata amata solamente come tale, ma non le era stato concesso da nessuno dei dodici Re l'ombra di accesso nelle cure dello Stato. Furono le donne dei Ludovichi sagge ed ottime spose, e migliori madri; giunse taluna ad occuparsi colle proprie mani della cucina della Reggia, non più in là. Che direbbero gli occhi di Ludovico il Grande dalla Piazza dei Settantasette nel vedere un giorno una gonnella ai suoi piedi, sul suo trono, per la festa della costituzione?
— Mai!
Il buono e saggio Maresciallo aveva anche consigliato qualche strattagemma per salvare la situazione e il Regno dalla rovina, avrebbe potuto il Re segretamente giacersi con altra donna, fingere una nuova gestazione della Regina, operare sapientemente il baratto, come in mille altri casi del genere erasi usato.
— Mai!
E su questa faccenda il conte Ercole Pagano Silf non era mai riuscito ad attaccare un filo solo al braccio del Monarca e il pugno Ludovico era sempre caduto disperatamente senza pietà e fuori di tempo.
Non c'era che una via, sottoporre la Regina ad un'ultima estrema prova e fu fatto. I medici, dopo avere preparata l'augusta donna al cimento, e avere cercato prima ogni mezzo per sollevarla e rinforzarla, si espressero che pure essendo assai pericoloso il farlo si poteva tentare, e fu l'avvento, il decimo, della principessa Genovieffa.
E siccome Sua Maestà aveva resistito, pure soffrendo orribilmente, Ludovico XII con tutta la furia della sua disperazione la costrinse brutalmente ad un undicesimo fatto del genere che fu l'avvento della principessa Penelope, durante il quale la Regina fu dichiarata perduta.
Nè si sa come riuscì dipoi a tenersi in vita, ma rimase in condizioni tali da non potersi più sollevare, e colla bocca sempre aperta come i pesci.
* * *
Era avvenuto da due anni il parto tragico della principessa Penelope.
Il Re compariva ora solo, come un vedovo, nelle grandi solennità dello Stato, guardava torvo, minaccioso, il popolo suo, ultimamente aveva firmato una sentenza di morte colla più grande naturalezza di questo mondo, cosa mai avvenuta in Birònia. Tutto il Regno ne era turbato, sconvolto.
Consultati ancora una volta e chirurghi e ostetrici e specialisti e fattone venire uno apposta dall'America, dopo due anni sua Maestà si era ridotto a questo ultimo inumano tentativo pure nella certezza che la Regina vi sarebbe rimasta definitivamente uccisa.
Ma che voleva dire ormai? S'ella avesse dato alla luce l'anelato erede? L'eroe! S'ella moriva, moriva sì eroicamente per la sua patria! E il conte Ercole Pagano Silf, e tutti i dignitari e medici della corte, e lo stesso monsignore Vicario, e Monsignora Superiora delle Clarisse, e Monsignora Generalissima delle Rocchettine ve l'avevano persuasa.
E allorchè il Grande Maresciallo di Birònia fu ad annunziare che Sua Maestà la Regina lo attendeva nella camera dell'appartamento ufficiale dove la prima volta l'aveva stretta fra le sue braccia possenti, folle di amore e di desiderio, vergine, forte e bella, si sentì invaso da un tremito convulso, egli andava per l'ultima volta da lei quasi morente, ella si era rassegnata a soggiacere ancora una volta, poteva darsi che gli rimanesse cadavere fra le braccia, pareva che l'odio gli si placasse in cuore e vi rinascesse l'amore, per quella donna che poco a poco aveva dovuto odiare, ma che tutto il suo istinto avrebbe portato all'adorazione. Certo, prima di darle quella suprema stretta le sarebbe caduto ai ginocchi ed avrebbe pianto con lei come un fanciullo in una più viva commozione di quando soli a vent'anni si dettero il primo bacio, ora che la sorte dopo tanto amore li aveva rabbiosamente divisi.
Due ore dopo la porta della camera regale fu aperta ne uscì il Re, e vi entrarono con premura il medico e il chirurgo della Corte e le infermiere e cameriere, e di lì a poco il Vicario. Il Gran Maresciallo che aveva vegliato e forse sperato e pregato, seguì in silenzio Sua Maestà che rientrò senza dir motto nelle sue stanze.
* * *
Il sangue Ludovico che mai non mentì ebbe ragione anche questa volta e pochi giorni dopo il popolo di Birònia seppe quello che doveva aspettare.
— Santa creatura!
— Angelo sulla terra! — Gridava ogni cittadino.
— Ella muore per noi!
— Per salvare la sua patria diletta!
La Regina fu dovuta assistere durante la pericolosissima gestazione quotidianamente con farmachi, caffeina, morfina e cocaina e strofanto. Il Re rimase torvo, cupo, levando ora la testa al cielo in atto che voleva essere di preghiera ma che pareva di atroce minaccia e di bestemmia, ora l'abbassava alla terra quasi volesse schiacciarla tutta come un rettile sotto il tallone, ora fissando paurosamente gli occhi sbarrati sul povero Maresciallo che sembrava divenuto la causa di tutta la sventura.
Quando il conte Ercole Pagano Silf comparve tremante ad annunziare al Sovrano che Sua Maestà la Regina era stata assalita dal tremito del parto questi gli fu addosso e afferratolo per la nuca lo schiacciò a terra: «Odi, brutto pagliaccio che non sei altro, vai, annunzia al popolo l'erede del trono o sei morto».
Sette ore dopo, fra gli squilli altissimi delle trombe e delle campane, e sventolare di bandiere e di fazzoletti e cenci tutti della Birònia, il conte Ercole Pagano Silf, Gran Maresciallo, apparve al balcone della Reggia dove la porpora era distesa ed annunziò che Ludovico XIII era nato vivo e vitale!
Solo allorquando l'urlo della gioia più selvaggia, ch'era sprigionato così naturale dal seno di quella folla, fu potuto un pochino acquetare, con gesto lento, con voce spenta, dolorosamente il buon maresciallo annunziò che Sua Maestà la Regina Sofia Clementina era agonizzante.
* * *
Lontano dagli occhi di tutti cresceva il giovine principe. Si sapeva che mai non usciva dalle mani del suo istitutore, e mai non doveva uscirne, uomo straordinariamente dotto e rigidissimo appositamente fatto venire da Tatillon.
Pure anelava il popolo di potere anche fuggevolmente vederlo, il suo giovine Re, ma non gli veniva concesso che assai di rado nelle più eccezionali solennità dello Stato, quando vi compariva alla sinistra del Monarca. Oh! Come ne gongolava tutto in quei giorni, in quei brevissimi istanti che gli era concesso goderlo.
— Quali fattezze!
— Che pelle vellutata!
— Quali sguardi di fuoco!
— La magnificenza dei capelli!
— Come le ali dei corvi!
— Le labbra coralline!
— La bianchezza dei denti!
— Tu ci hai fatto languire ad aspettarti perchè eri tanto bello!
Si sapeva già di certi gesti imperiosi del Principe, di sguardi sdegnati che avevano abbruciato interi personaggi nella Corte.
— Oh! s'egli era giustamente superbo d'essere tanto bello e tanto grande!
Di tutti i Ludovichi questo, il più agognato, era il più bello e il più sovrano, nella sua eccezionale figura.
La povera Regina s'era spenta nel dare alla luce un simile prodigio, era rimasta ancora per quattro anni colla bocca spalancata in agonia, prima d'esalare la sua anima purissima a Dio.
Ma che voleva dire? Ella si era tutta sacrificata per la patria adorata, il sacrificio era stato a pieno coronato, s'era trasfusa intera in lui, e in lui più grande risplendeva, e la si venerava già come una martire santa.
Lo stesso Ludovico XII, dopo la nascita dell'erede si era placato, offuscato, si sentiva più poco la sua presenza in ogni cosa, e infine il suo pugno di ferro s'era fatto mansueto, e il conte Ercole Pagano Silf poteva oramai manovrarlo come un manico qualsiasi attaccato alla spalla del Re.
Un giorno, il bellissimo principe sarebbe stato incoronato! Con quale grandezza avrebbe salito il trono, e cinta la corona e vestito l'ermellino! Gli sarebbe stata scelta una sposa degna di lui, e tutto ritornava a sorridere lietamente in Birònia dopo il dramma delle undici principesse, e della infelice Regina Sofia Clementina.
D'anno in anno le principesse crescevano e andavano spose alle più lontane e vicine corti, e venivano per loro mezzo strette nuove e salde amicizie, in tutto era tornata la pace e la felicità.
* * *
Compiva il ventesimo anno il giovine Principe, e Ludovico XII Re di Birònia, moriva.
Si sa che negli ultimi istanti della sua vita volle al suo capezzale solo il figlio, e che proprio prima di chinarvi sopra la testa definitivamente fece chiamare ancora una volta il conte Ercole Pagano Silf, che rimase fino all'ultimo presso il morente Sovrano, e a fianco di quello che sorgeva.
E per primissima cosa terminati i funerali imponentissimi di Ludovico XII ed il lutto brevissimo, se pure angoscioso e sincero, fu deciso di dare una sposa a Ludovico XIII.
Il popolo reclamava il giusto atto, reclamava una Regina, della quale da tanto si sentiva privo, degna di tanto Re.
E fu precisamente alla corte di Caudiria che una delle più pure e soavi principesse della terra gli venne destinata.
I giorni che precederono le fauste nozze tutto il popolo andò sottosopra per l'avvenimento, ognuno coltivò fiori nel campo e nel giardino, nell'orto, sopra il balcone, e in un testo, nell'angolo del più umile davanzale fiorì una rosa per quel giorno e fu la Birònia un solo giardino.
Il Re di Caudiria conduceva di sua mano la graziosa principessa fino alla soglia della Reggia di Ludovico XIII dove l'altare era inalzato, ai piedi del quale ei l'avrebbe impalmata dinanzi al popolo.
Come egli fu bello quella mattina benedetta dal più smagliante azzurro del cielo, dal sole più fulgido, si sarebbe lasciato uccidere ogni cittadino per un suo bacio.
Escono maestosamente dalla porta della reggia le guardie reali, e dipoi i componenti il corpo diplomatico e corpi religiosi, i grandi dignitari della Corte, le dame, i cavalieri, gli ufficiali, squillano alto nel cielo le trombe d'argento e il tutto s'apre in due bande, appare alla soglia il Re coronato, fermo, alto, superbo, lanciando con divina semplicità tali sguardi fieri sulle plebi in ginocchio ammonticchiate, nella polvere.... tali sguardi che ognuno implora dal cielo gli sia messo quel piede sopra le spalle per sentirsene schiacciato e posseduto.
Altre trombe d'argento rispondono come coro di angeli dal fondo del viale, una berlina come cigno d'oro si muove e al volo s'avanza. Il Re di Caudiria conduce di sua mano la sposa, e appena la berlina giunge e si ferma ne discende essa e il padre l'accompagna ai piedi dell'altare dove Ludovico XIII con un sorriso sovrumano, alzando il braccio verso di lei, intreccia la sua in quella mano, e insieme sul broccato d'argento s'inginocchiano.
Nel silenzio della piazza e degli attigui viali, scoppiano e sussultano i singhiozzi di tutto un popolo, nessuno ha saputo contenere il pianto.
E quante volte volle poi quel popolo che i graziosi sovrani venissero al balcone della Reggia, mai dissetandosi di quella religiosa ammirazione, nessuno poteva mai sentirsene satollo. E quel popolo che aveva trascorsa la notte intera sul piazzale, che nemmeno la fame sarebbe stata capace di allontanare, avendoci portate le provvigioni, incominciò i bivacchi, furono accesi i fuochi dell'accampamento, in attesa del dì seguente, per l'incoronazione del Sovrano e della sua sposa.
* * *
Congedati i grandi dignitari della Corte, quelli delle cariche, i gentiluomini, i cavalieri, le dame, gli ufficiali, tutto quanto il corpo diplomatico e corpi religiosi, i giovani sposi vennero alfine lasciati soli. Ultimo a congedarsi fu il vecchio conte Ercole Pagano Silf, che, fattosi presso al Sovrano, balbettò qualche parola sommessamente, guardingo, in aria sospetta, alla quale il Sovrano rispose con una mossa della più brusca e completa seccatura.
Aveva proprio bisogno di essere lasciato solo Ludovico XIII, anelava un'ora di tranquillità e di riposo dopo la scena snervante del suo matrimonio, il ricevimento ufficiale.... e il resto, non ne poteva più.
Ora andava di finestra in finestra per il salone che era quello delle conversazioni e precedeva le stanze private del Re e della Regina. Guardava assorto i bei colli della Birònia seminati di ville e di villaggi, alzava di tanto in tanto la testa al cielo come per trarre un più lungo respiro, torcendosi un po' nei regali indumenti quasi vi si fosse sentito troppo stretto, ed avesse una grande voglia di sciogliersi.
Nemmeno degnando di uno sguardo la tenera sposa che rimasta ferma presso un tavolo gelido di musaici, colla mano appoggiatavi appena come sul ghiaccio, tremante quale colomba attendeva senza il coraggio di alzare il capo d'oro, un po' stopposo, sul suo Re, sullo sposo suo, sul giovane bellissimo dal quale attendeva vacillante e ignara una prima stretta.
Fece ancora alcuni passi dall'una all'altra finestra, Ludovico XIII, e poi, come avesse dato corso ad ogni suo pensiero, e si sentisse stanco e seccato si lasciò andare sopra una di quelle ampissime poltrone ad occhi semichiusi.
Fu dopo alcuni minuti di questa posizione, che scossosi e riaperti gli occhi, come sovvenendosi che un'altra persona era lì con lui nella stanza, e che forse aspettava proprio una sua parola, un gesto, qualche cosa da lui, la sua sposa, ancora in piedi, colla fronte a terra, avvolta ancora nei veli candidi....
— Uhm.... — Sorrise Ludovico XIII scorgendola in quella posizione. — Uhm.... siediti cara, siediti pure, sciogliti, mettiti pure in libertà, fai il tuo comodo sai, anche te poverina devi essere stanca e stonata quanto me, levati, levati pure, io sono addirittura smembrato, mi sento la testa come un tamburo. Dio mio, che corvè! Uhm.... — la considerò bruscamente, immobile — che faccia da stupida che c'hai — pensava. — Oh! ma non ne hai mica colpa te, te l'hanno fatta così.
Si alzò, andò ancora verso una finestra, ma il suo pensiero era ora vicino, lì in quella sala dalle grandi cornici che si attorcevano dappertutto come serpenti d'oro, dove lui era colla giovine donna quasi rattrappita dal suo contegno stranamente indifferente.
— Già.... — prese poi a dire come chi non sappia incominciare un discorso difficile — già.... eh!... povera piccina.... Eh! sei venuta qua.... anzi, ti hanno portata qua, te ci sei venuta.... come un salame, non è vero? Povera creaturina! Sposa al più bel Re del più beato regno della terra....
Andò ancora per la sala, imbarazzato dalla difficoltà delle proprie parole, e per nulla aiutato dal contegno passivo di lei, ma poi, avvicinandosi dolorosamente, accigliato: — che dici, che pensi di me, che da un'ora sono qui e non ti abbraccio, non corro a ricuoprirti di baci e di carezze, ora che sei mia, e non ci avvinghiamo insieme immemori di tutto colla forza dei venti anni nostri?... Povera piccola mia, sai? — e più le si avvicinava pietosamente carezzevole, con una grande amarezza nelle parole; ella non sapeva più dove nascondere lo sguardo per la soggezione, la gola le si era serrata, gli occhi le si velavano, credendo che il momento ignoto fosse giunto, tremava sentendosi così vicina la bella persona profumata, ancora stretta nell'uniforme sfolgorante. — Un orribile inganno pesa su te, su me, un orribile inganno, un destino perverso ci tiene nel suo pugno e ghigna e ride in quest'istante della nostra sciagura. Guardami, guardami, alza la faccia, alza la faccia sopra di me, guardami, ma guardami per Dio! — Alzò la testa spaventata la Regina, e parve che gli occhi arginassero un rivo di pianto che fosse per isgorgarvi, guardami cara, la mia pelle, la mia bocca, il mio sguardo, i capelli, le mani, ma guardami per Dio, non ti accorgi, di nulla ti accorgi? Non senti?... Che senti vicino a me?... — Due grosse lacrime riuscirono a sgorgare ed irrigarono le guance rosee della fanciulla che guardava il Re senza nulla vedere, nulla comprendere, colla confusione di un bambino che si senta rimproverare da una persona della quale abbia la più grande soggezione. — Guardami.... ti sembra davvero che io sia il tuo Re? Lo sposo tuo? Che senti vicino a me? Non ti agghiaccia un poco — le prese la mano fra le sue — la stretta della mia mano troppo morbida, e troppo bianca? Ti pare, dimmi, che con questi occhi possa io impossessarmi della tua piccola anima intera, di te? Povera piccina mia, sai, non sono un Re, non sono il tuo Re, il tuo sposo, trascino da venti anni sopra la terra la più ridicola menzogna, ed ho giurato a mio padre, al suo letto di morte di trascinarla sempre, sono dannato a questa pena, questo solo tu dividerai meco, questa ridicola e infame menzogna, questo solo ci unisce. Sei stata trascinata con me in un gorgo infernale, questo solo ci unirà. — Vagò ancora per la stanza scuotendo dolorosamente la testa, guardando coi grandi occhi perduti nel vuoto dinanzi. — Sei venuta sposa.... al più bel Re del più beato regno della terra — rise ghignando amaramente scandendo una ad una le parole — bello come quello delle favole, non è vero? — Rise ancora torcendo la bella bocca. — Non sono il tuo Re mia cara, no, no, eccoci qui, siamo due regine.... — spalancò le braccia — proprio così — e le lasciò andare giù morte lungo la persona.
Andò ancora Ludovico XIII verso la finestra che guardava i colli verdeggianti della Birònia inondati dal sole.
— Oh! Ma non è per te sì crudele la sorte, tu, rifatta dallo stupore, abituata a rivestire l'inganno atroce che ci avvince e nel quale siamo insieme rinchiusi come in una botte di ferro, potrai ugualmente essere felice, non disperare. — Si volse a guardarla ancora nella primitiva posizione piangendo silenziosamente pure senza capire, piangendo per il disagio di quel momento senza scorgere più in là, senza rendersi ragione nemmeno un poco di quelle parole, di quel contegno così inaspettato, sentendo che qualche cosa di ignoto e di orribile era su lei.
— Vieni, vieni, guarda, disse ora il Re nella persuasione ch'ella avesse seguito e compreso il suo discorso, le andò ancora vicino e la prese per la mano dolcemente come si fa con un fanciullo al quale si voglia ristagnare il pianto conducendolo finalmente alla cosa desiderata, una chicca o un balocco, la portò presso la finestra e le cinse il collo affettuosamente e se la strinse al petto — guarda guarda cara, là, in fondo allo scalone, vedi quello lì, la guardia, la guardia, vedi? Guarda come è bello nell'uniforme di gala, come è fiero, alta la testa, avrà.... poco più di vent'anni, come noi, è uno dei giovani più belli del Regno, dei più forti, è perfetto come un cavallo di sangue, sono le nostre guardie d'onore quelle, le tue, guardie fedeli come i cani, dove tu sei vigilano su te, sul tuo respiro, guarda come i calzoni gli serrano bene le gambe robuste, guarda, su, alla coscia, guarda, sembrano nude, lo vedi? e le mani forti stringono la sciabola, con quanta vigoria, e quanta grazia! Oh! s'egli potesse imaginare che in questo istante noi lo guardiamo avvinti dalla sua bellezza! Pensa quale languore deve dare la sua stretta, pensa, nell'oscurità della notte sentirlo arrivare clandestino dentro la tua stanza furente di desiderio, pazzo di voglia, prenderti e stringerti, possederti tutta, e abbandonarti svenuta fra le sue braccia dopo di averlo atteso, atteso, ed ogni istante esser sembrato un anno! Pensa! Guardalo, com'è bello! Appena ha ombrato il labbro superiore; guarda la sua bocca fieramente chiusa eppure dolce, pensa immergere le tue in quelle labbra, perdertici dentro, ah! che morsi deve dare quel boia! Guardalo, ce ne sono tanti sai alla corte, ci sono i bruni, come lui, hanno degli occhi che ti spogliano se ti guardano e ti frugano e ti arrivano fino in fondo dove più non è vergogna e ragione, non è pudore, hanno delle grandi sopracciglia folte, e ci sono i biondi, belli quanto gli altri, e sono cose tue, tu, spiando dalla finestra, puoi scegliere quello che il tuo capriccio il tuo desiderio vorranno, e con un solo cenno, senza parola, la donna che ti è stata destinata te lo farà la notte giungere fra le braccia, anche stanotte istessa se vorrai, e potrai chiamarlo ancora e sempre, quando vorrai, ed essere felice, e se ne vorrai un altro, potrai averlo, e un altro ancora, tutto potrai, tu sei la Regina, padrona di lui, puoi farlo uccidere se vuoi.... e puoi essere la sua schiava. Tu.... tu sei felice.... ma io.... io.... — lasciando la spalla rattrappita della donna Ludovico XIII si portò una mano alla testa arruffandone i magnifici capelli in atto di disperazione — io.... no! Nulla è per me, il deserto è nel mio cuore, la tortura più infame è nei miei sensi, io sono il Re, intendi? — A questa frase ch'egli pronunziò imperiosamente alzando terribile l'indice al cielo e lo sguardo fisso, dilatato, la giovane Regina alzò la testa e lo guardò con tale faccia trasognata e rasciugata, spalancando gli occhi, scostandosi poco a poco da lui, indietreggiando cauta inorridita, assalita da un tremito di paura orrenda. Era un pazzo dunque quello che le si era destinato per marito, un folle orribile, questo solo comprese finalmente, nulla avendo potuto afferrare del resto. Era la follìa, e tentava ora istintivamente di fuggire a quelle unghie atroci che già si sentiva affondare nel collo.
Rise, rise, Ludovico XIII comprendendo il suo terrore. — Ma che! ma che! grulla! ah! che grulla! ma che! stupida! Non ci credi? Vedrai, vedrai, poi, ti farò vedere. Ora quando ci spogliamo, vedrai, vedi, se mi tolgo questa corazza che mi serra sono come te, ce l'ho anch'io il seno, guarda, come il tuo, tutto come te, sì, le poppe, come te, più belle delle tue, vedrai, grulla!
Ma ella sempre più rattrappita rientrava in se stessa colla gola serrata indietreggiava verso la porta chiusa nella certezza di non potere più sfuggire alle grinfie orrende del mentecatto, come avesse voluto scomparire sotto il pavimento. E Ludovico XIII lasciandosi tutto andare sopra una di quelle ampissime e morbide poltrone rideva, rideva. — Ah! Ah! Ah! Ah!
* * *
E nell'ora dell'incoronazione la mattina seguente, e al pranzo di Corte poi, fu Ludovico XIII di una grazia e di una gaiezza divine. Pareva sprigionargli dagli occhi una felicità non più terrena.
La Regina gli sedeva accanto colla faccia cerea, un poco contratta e sofferente di chi non abbia potuto dormire per una notte intera. Ma di lui solo s'occupavano tutti, affascinati dalla sua prodigiosa e pur delicata figura che tutto illuminava e riscaldava.
— Come gli è bello!
— E come è felice accanto alla sua sposa che pare una tortorella spaventata.
— Dopo tanto trambusto di emozioni....
— Il viaggio....
— E la notte?
— Dove la mettete la notte?
— Come deve averla conciata!
— Poverina!
— Tutti così i Re di Birònia, tutti così!
E intanto che la cerimonia lentamente si svolgeva Ludovico XIII che tutto cercò di illuminare intorno col suo sguardo e il suo sorriso, sopra la piazza dei Settantasette non volle lasciare all'oscuro alcuna delle magnifiche guardie reali che ai piedi del baldacchino impettite e immobili per quattro ore rimasero come statue.
— Guarda, guarda — balbettò ad un certo punto impercettibilmente alla sua sposa. — Guardalo come è bello eh? È quello di ieri. Sì quello di ieri, ti ricordi? Alla finestra? Bello eh? Ti piace?
Videsi il collo della Regina ingollare un singhiozzo e gli occhi due lacrime, e un «no» amarissimo parvero rientrare quelle labbra tremanti.
— A me sì. Come ti guarda! E guarda anche me, figlio d'un cane. Sapessi un po' te che ci sta sotto!
E allorquando infine si avanzarono i paggi seguìti dal Gran Maresciallo di Birònia Conte Ercole Pagano Silf, e da tutti i dignitari della Corte e dalle altissime cariche dello Stato, e dal corpo diplomatico e corpi religiosi, e i cavalieri tutti della Rosa di Birònia, e dame e ufficiali, e furono i paggi inginocchiati ai piedi del trono reggendo alto il cuscino di porpora, e le voci bianche, accompagnate da cento violini intonarono l'inno a Dio, s'alzò Ludovico XIII, erano le plebi nella polvere protese, e presa la corona di diamanti dal cuscino se la pose lentamente sulla bella testa, con tale gesto sì solenne e grazioso ad un tempo, come Re di nessun popolo di nessun tempo potè avere mai. E fu un vero miracolo se ognuno di quei cittadini non ne ritornò, per la gioia, pazzo alla propria casa.
* * *
Circa tre mesi dopo questi memorabili avvenimenti, una mattina il vecchio Maresciallo conte Ercole Pagano Silf veniva di premura chiamato in udienza privata dal Re.
Ludovico XIII era ad attenderlo seduto al suo banco di lavoro con la consueta aria seccata e distratta colla quale sbrigava con lui le faccende più gravi dello Stato, accettando sempre con sorridente ironica naturalezza, ogni consiglio dell'ormai infallibile uomo di governo.
E non appena questi fu entrato e la porta fu bene richiusa dietro a lui, gli fece cenno, il Sovrano, con l'indice della sinistra di avvicinarsi più del consueto.
— Maresciallo, voi dite sempre: «poche parole» non è vero?
— Così è Maestà.
— Poche parole dunque: sono gravido.
— Oh! Sua Maestà!
— Il Re, proprio lui.
— Oh! che sciagura!
— Che sciagura d'Egitto? E non si sa che le donne fanno i figlioli, che è una cosa nuova?
— Sì, sì, ma voi....
— Io io io.... io. Così doveva finire.
— E come fu?
— Fu.... fu una cosa molto semplice, semplicissima, non dovevano venir di sopra quei giovinotti, i dragoni, per la Regina, la notte?
— Sì.... ma....
— Non siete voi che avete combinato il trucco?
— Oh!
— Già, e siccome la Regina poveretta è la più citrulla creatura che sia sopra la terra, non ne ha voluto sapere, perchè crede sempre che io sia il Re, e badate, non c'è da dire che non glie l'abbia fatto vedere che cosa sono io, ma lei è tanto grullerella che non se ne persuaderà mai, non gli c'entra, è inutile. Ho tentato di mostrarle.... tutto quanto, si cuopre la faccia e scappa inorridita con la stessa vergogna come se si trovasse davanti a un uomo davvero. D'altronde, non può farsene una ragione e non ha poi tutti i torti, via.... convenitene, è un bel trucco, ma bello davvero.
Il vecchio Maresciallo chinava la testa sotto il peso della nuova arruffatura nell'intrigo reale del quale un giorno la disperazione l'aveva reso autore.
— Allora.... allora — riprese Ludovico XIII con molta disinvoltura — non avendone voluto saper lei, l'ho pregata, anzi, sarò sincero, ce l'ho quasi costretta, a farmene sapere qualche coserellina a me, non ne potevo proprio più sapete, scoppiavo.... ed ho preso il suo posto. Del resto nemmeno questo è bastato a convincerla, sì, ci vuol altro....
— Oh!
— Che ragazzi, Maresciallo! Con quelli là non si estinguono i popoli, vivete pure tranquillo.
— E voi, Maestà, ne avete conosciuto.... più d'uno?
— Quanti sono?
— La guardia reale si compone ora di... trentasei uomini.
— Eh.... allora....
— Che? Tutti?
— Ho paura di sì.
— Oh! Maestà! Maestà!
— Tanto, uno più o uno meno, a voi che vi fa?
— Bisogna allontanarli tutti dal regno, bisogna far cambiare la guardia.
— Basta che me ne lasciate almeno tre o quattro eh? Se volete che le cose camminino, se no faccio baracca! Ve lo giuro io! — Poi rabbonendosi, quasi supplichevole — almeno.... almeno.... uno guardate, sono discreto, mi contento di uno, via siate buono maresciallino, uno solo, uno.... del quale forse.... sono così. E che da tante sere sempre ritorna, e vuole ritornare, sempre lui, il furfante, che animale Maresciallo!
— E conoscete il suo nome?
— Si chiama.... si chiama.... Gastone. È bruno, con delle enormi sopracciglia nere e i grandi occhi fieri e dolci, dove arriva quel ragazzo con quegli occhi.... e la faccia oblunga, e i denti bianchissimi, quando ride è bello come il sole. In queste ultime notti egli sempre volle ritornare ed io volli lui solo, e attende palpitante l'ora del segnale, e di giorno mi beo, insospettato a guardarlo, a fissarlo, quando è giù nel cortile a far la guardia, in fondo allo scalone....
— Ma egli nulla sa?
— Nulla, nulla povero bamboccione mio, nulla, e come potrebbe? Nulla ha compreso di chi abbia conosciuto. E guardate — alzò il capo fieramente il Re, aggrottando imperioso la fronte — guardate che se gli torcerete un capello solamente voi finite nel forno! Per il resto — continuò abbassando di tono. — Per il resto.... farò quello che voi vorrete.
Taceva il vecchio Maresciallo colla testa stretta fra le mani, incapace di trovare sul momento una via d'uscita dal groviglio.
— Mio caro Maresciallo, ne avete combinati tanti dei pasticci nella vostra lunga carriera, e io ne sono un bell'esempio, mi pare, coraggio, pensateci un pochino e ne troverete un altro senza dubbio che ci caverà tutti dall'impiccio.
— Ma poi.... ma poi.... — balbettava smarrito il conte Ercole Pagano Silf — Gennaio, Febbraio, Marzo.... — e calcava i mesi puntando leggermente il polpastrello della destra sul banco del Sovrano — Luglio, Agosto!
— Agosto, già, saremo lì, verso la metà del mese.
— Dio! Dio! È il centenario della costituzione! Il quarto centenario, il quindicesimo giorno di Agosto.
— E cosa volete che ci faccia?
— Tutto, tutto in contrario.
— Rimandate le feste.
— Rimandare.... è una parola.
— Non mi farete mica venir fuori con quella pancia, o, peggio ancora, appena sgravato, o partoriente? Bisogna rimandare le feste a Settembre, a Ottobre, meglio, è più fresco.
— Ma voi Maestà, non conoscete il vostro popolo!
— E cosa me ne importa a me del popolo? Se sapeste un po' dove ce l'ho io, il popolo, non sareste nemmeno capace di figurarvelo, signor Maresciallo!
— Ah! Quale jattura!
— Insomma, fate come volete, basta che non secchiate me, c'intendiamo? perchè io, non ne posso più.
* * *
Ora accadde che Ludovico XIII venne assalito da certe febbri intermittenti che poco a poco lo costrinsero a non uscire più dalla Reggia.
Negli ultimi tempi si era presentato al popolo tutto ravvolto in un'ampissimo mantello bianco. Era stato notato con muto lacerante dolore il tremito delle sue labbra, e tutta una leggera deformazione del bel volto purissimo come s'esso si maturasse, ingrossasse e colorisse soverchiamente.
Anche nelle udienze di Corte si stringeva sempre addosso freddolosamente quel solito mantello bianco così ampio come a nessun re era stato veduto mai. Infine nessuno lo potè più vedere, eccetto il Gran Maresciallo per gli affari urgenti del governo, e si recava nella camera dalla quale il Sovrano più non usciva.
Il vecchio Maresciallo di Birònia gli era a fianco quasi costantemente per confortarlo e incoraggiarlo, oltre che per le decisioni supreme dello Stato.
— Coraggio, coraggio Maestà — esortava l'abile uomo politico divenuto ricurvo sotto il peso degli anni e del governo aspro e difficile, coraggio.
— Ah! Maresciallo mio, che frittata! Sono veramente una creatura da far compassione ai sassi. E quella povera Regina anche è compassionevole, disgraziata anche lei, in che ginepraio è venuta a ritrovarsi. Non è più che un'ombra, io ingrosso tutti i giorni e lei sempre scema, è tanto grullerella poverina. Eppoi? E dopo?... Dove andremo a finire? Si può durarla in una situazione di questo genere? Ah! Padre mio! Padre mio, che facesti mai! E anche voi c'entrate per la vostra parte. — Il vecchio Maresciallo di Birònia chinava il capo dinanzi al Sovrano tutto avvolto nell'ampissimo mantello. — Potevo essere felice.... e sono la più miserabile creatura dell'universo, tutto per i vostri pasticci, vecchio intrigante che non siete altro. Io.... non sono nulla.... non lo so nemmeno io che cosa sono, sento salirmi al cuore qualche cosa a inondarlo di dolcezza, e subito un pensiero lo riavvelena, ah! Maresciallo, che dolcezza sentirsi madre! E quando mi guardo con questi calzoni addosso.... e questa panciona grossa grossa.... — faceva atto di aprirsi l'immenso mantello davanti Ludovico XIII — mi viene da piangere....
— Coraggio, coraggio Maestà, foste sì forte, sì superbamente forte in ogni istante della vostra vita, vero sangue Ludovico è il vostro, sangue d'eroi!
— Ah! questo è certo.
— Coraggio, ricordate il giuramento a vostro padre, egli vede e benedice la vostra meravigliosa fermezza dal cielo.
— Benedice.... benedice.... e che cosa me ne importa a me se benedice, e io sono così? Che colpa ne ho io? Che feci mai? All'ultima delle dodici sorelle dovevano capitare tutte queste sciagure. Le mie sorelle sono felici, sparse per tutte le corti del mondo, vivono e godono, amano e sono riamate, possono partorire finchè vogliono circondate di carezze e di affetto, io.... eccomi qui, non sono nè maschio nè femmina, non lo so più neppure io che cosa sono....
— Coraggio, coraggio Maestà, ricordate la promessa a vostro padre, i suoi occhi come vi fissarono in quell'istante supremo.
* * *
Era la festa dello Stato. Il quattrocentesimo anniversario della costituzione del regno di Birònia. Per quanto i festeggiamenti, che avrebbero dovuto avvenire strepitosi, fossero stati rimandati per la malattia del Re, i cittadini tutti fino dai grigiori dell'alba si aggiravano cupamente sopra la piazza dei Settantasette che avrebbe dovuto essere una giostra di colori, un vulcano di gioia e di felicità, ed era invece grigia e muta in quell'alba, non uno spiraglio di finestra vi era aperto in segno di lutto, cupamente si aggiravano i cittadini dinanzi alla Reggia, sull'ampio piazzale, nei parchi adiacenti, per i viali, a capo chino e scoperto.
La festa rimaneva serrata dentro i cuori, gelosamente custodita e il gaudio vi si raccoglieva in un'invocazione al Signore perchè presto facesse risanare il Sovrano adorato.
E in quell'alba istessa, il conte Ercole Pagano Silf Gran Maresciallo di Birònia, veniva d'urgenza chiamato al letto del Re sofferente.
— Ohi! Ohi! Maresciallo, ci siamo, lo fo! Proprio oggi, sembra fatto apposta.
Corse il vecchio Maresciallo a chiamare il chirurgo di Corte che di lì a poco giunse con un'infermiera, e insieme si chiusero nella camera regale.
In poco tutto fu preparato e il conte Ercole Pagano Silf andava e veniva per la stanza in una trepidazione incontenibile. All'uomo che aveva atteso i dodici parti desolati della Regina Sofia Clementina, pareva che una speranza fosse rimasta accesa sotto le ceneri in fondo all'anima e giungesse ora ad irradiarne la pupilla.
— Ohi! Ohi! — gridava il Re tenendo la bella testa bruna scomposta sui cuscini — Ohi! Ohi! — mordendo il fazzoletto che spremeva nella mano bianca, mentre il chirurgo e l'infermiera gli sottoponevano aromi alle narici affannosamente spalancate, e ne bagnavano con farmachi ristoratori le tempie che pulsavano forte — Ohi! Ohi! Dio mio, che male! Ohi! Ohi! questi non sono dolori da Re caro Maresciallo, vorrei un po' sapere come ve la caverete ora! Ohi! Ohi! Uhm.... che male atroce! Finchè era qui dentro.... Ohi! Ohi! era un'altra faccenda, c'era il mantello che cuopriva ogni cosa.... Ohi! Ohi! Ohi! Ah! Che tortura.... Uhm!... vorrei sapere come farete a ricuoprire ora, ci vuole altro che mantello! Ohi! Ohi! Ohi!... Cosa pensate di farne di questa mia povera creaturina?...
Neppure badava il Maresciallo alle parole del Sovrano spasimante, ma continuava a passeggiare nervoso stirando le gambe, le braccia, torturandosi l'una l'altra le dita.
— Almeno se ero nato maschio davvero! Mi sono toccate tutte le sciagure delle donne, tutte quelle degli uomini senza un benefizio di nessuno. Ohi! Ohi! Povera mamma mia, come devi aver patito a farci tutte e dodici, scalcinata come eri povera donna! Questi uomini sono proprio delle bestie irragionevoli, irragionevoli! Ohi! Ohi! Povero piccino mio, tu non ne hai colpa ma mi fai soffrire troppo così. Chi sa suo padre a quest'ora come se la gode, che ne sa lui, se ne frega, il maiale! Ohi! Ohi! Ohi! Ah! Mi sento strappare i reni! Mi par d'averci dentro un battaglione di soldati. Ohi! Ohi! Ohi! Maresciallino mio che male.
Passeggiava nervosamente il vecchio Maresciallo invaso dal suo pensiero che gli bruciava in seno e gli dava la febbre per tutte le membra.
Un urlo lacerante uscì dal petto del Re, alzò presto le coltri il chirurgo e ne scuoprì il corpo candido, il parto era aperto. Tele cerate e topponi e ovatte gli furono destramente posti di sotto, e facendosi uno da un lato uno dall'altro il chirurgo e l'infermiera presero le gambe d'avorio che si spalancarono, mentre un mugghio atroce gli sussultava dal petto e gli moriva nella gola.
Il Gran Maresciallo di Birònia dietro, in mezzo ai due assistenti spiava mandando da destra a sinistra la testa scheletrita fra le fessure che i due lasciavano operando, e si vide ad un tratto il suo collo lungo, fermo, rigido, uscito fuori dal busto come quello di un pollo automatico che si sia guastato e più non lo possa rientrare, e gli occhi anche parevano usciti dalla testa, senonchè dopo esser rimasto a lungo in quella tensione orribile ne uscì dando un guizzo ed un grido rauco secco che parve essergli, come la corda dell'arco, schiantato il cuore in petto, ma invece delle grandi lagrime ristoratrici gli inondavano le fosse delle guance incartapecorite e gli scendevano giù giù sull'abito gallonato come quelle di un fanciullo.
Il vecchio, freddo e indurito uomo di governo, per la prima volta piangeva così in vita sua, senza potersi più contenere, e come assalito da follìa si gettò sui cuscini e stretta la bella testa del Sovrano si dette a baciarne la fronte.
Ma Ludovico XIII ancora mezzo sopito sui cuscini si ritorceva spasimando, mentre il chirurgo lo assisteva e l'infermiera che aveva preso il neonato ne immergeva le fragili membra nel latte caldo, e ne frizionava e profumava le tenere carni delicatamente.
— Presto! Via! Presto! Le girava attorno palpitante il conte Ercole Pagano Silf scoppiando d'impazienza. — Presto! Via! Via! — ansava il vecchio pestando i piedi come un fanciullo, non potendo più contenersi, — mentre la donna curava ancora il corpicino. — Presto! Via! — E quando fu bene mondo e ravvolto in flanelle e ricoperto in un broccato d'oro, il Gran Maresciallo afferratolo nelle braccia fuggì dalla camera.
Come per incanto fu spalancato il balcone della Reggia e la porpora cadde, suonarono le campane, squillò alto l'allarme per la nascita del Re. La guardia reale sorpresa fuggì fuori senza il tempo di disporsi, precipitosamente si gettò sul piazzale, ignara di quello che accadeva, ignara della parte che pure in quello che accadeva rappresentava, si schierò al completo in fretta e senza sapere che facesse presentò le armi al Re.
Esce sul balcone della Reggia ad un tratto il conte Ercole Pagano Silf Gran Maresciallo di Birònia coll'involucro d'oro alto nelle braccia e grida: Eccolo! È lui! È lui! il Re!
Il popolo che dalle prime ore della mattina s'aggirava torvo dolorosamente assorto nei pressi della reggia, s'adunò sotto al balcone al richiamo inaspettato colla faccia tutta spalancata in su senza potersi rendere in nessun modo ragione di quello che accadeva, senza nulla comprendere di quella scena.
— È lui! È lui! Urlava il maresciallo a squarciagola tra il frastuono delle campane delle trombe e del movimento delle folle accorrenti. — È lui! Il Re! Popolo di Birònia! Il tuo Re!
Ma come? Ma che? Ma chi? Chi l'ha fatto? Pareva interrogare ogni faccia. Che cosa era quello che succedeva? Nessuno potendo capire.
— Il tuo Re! Sì! No! — gridava il Gran Maresciallo cercando di superare colla sua voce la marea montante della folla! Il tuo Re! — E si udiva ancora qualche sua parola a intervalli — Ester! — Sì! No! Che? Chi? — Giuditta! — Dove? Come? Quando? — Giovanna d'Arco!
Mentre il sole di mezzogiorno irradiando l'involucro d'oro lo faceva risplendere come un astro.
— Vedi, vedi popolo! — Urlava senza più fiato il Maresciallo, e aperto il broccato e lasciate cadere le flanelle che l'avvolgevano, scoperto il corpicino e apertene le coscine morbide indicando nel mezzo il segno impercettibile, come il pistillo del fiore, quel piccolo segno che aveva amareggiato tutta la sua vita di governatore superando tutti i rumori:-è Ludovico! — urlò.
Ma dalle vetrate della loggia lo si chiama affannosamente, al che il Maresciallo non risponde, una mano si sporge recando un altro involucro d'oro uguale al primo, egli accorre, un'altra creatura uguale gli viene porta, mentre egli credendo di avere smarrita la ragione si sente vacillare.
— Sì, maschio, anche questo, gli si grida di dentro. Sua Maestà! Or ora! Senza capire più, agendo come in sogno il Grande Maresciallo afferrò l'altra creatura nell'altra mano e fattosi al balcone urlò:
— Due! Due Re! Popolo di Birònia! Due Re!
Guardava in sul principio ognuno smarrito verso l'alto senza potere capire in alcun modo che accadesse, in quell'immane frastuono senza farsi una possibile ragione di ciò che accadeva.
— Due Re? Chi erano? Chi li aveva fatti? Chi li doveva fare? A chi appartenevano?
Ma afferrato poi da quel delirio che dal balcone scendeva e invasolo tutto — Evviva! Evviva! — si pose a gridare intero il popolo, come vivesse un sogno. — Evviva! Evviva! — Tra gli squilli delle trombe i doppî delle campane le note dell'organo gli scoppi dei mortaretti — Evviva! — Quasi aspettandone un terzo uguale ai primi due — Evviva! — E alle facce che giungevano interrogando: di dove sono venuti? — Il Gran Maresciallo alzati i due corpi nudi nelle mani e alte le braccia verso il cielo urlò ancora. Di lassù! — E l'urlo di tutto un popolo s'alzò allora verso il cielo.
* * *
Per quanto la situazione venisse poco alla volta chiarita essa rimase sempre in un'atmosfera di leggenda e di mistero.
Il Re Ludovico XIII fu dichiarato creatura fuori del sesso, e al disopra di ogni umanità, venuto sopra la terra solo per salvare un paese giusto dalla rovina. Esso si dileguò dopo il miracolo, nessuno n'ebbe più nuova, e certamente salì al cielo.
Il suo regno fu chiamato «il Regno Santo» o anche «il Regno della Vergine» e ancora: «il Regno del Miracolo». Ne seguì il regno dei Gemelli che si chiamarono Ludovico XIV, e Ludovico XIV e Mezzo, per il qual modo la costituzione non venne toccata d'una virgola sola. I Gemelli regnarono in maniera tanto mai esemplare, e furono così fratelli come un solo uomo, col vantaggio che l'uno temendo e rispettando il giudizio dell'altro ognuno si mostrò sempre tanto cauto e pieno di riserbo che il più grande equilibrio ne risultò dall'unione.
E fu per questa giustizia detto il regno della bilancia, e con una bilancia appunto si usò simbolizzarlo.
Essi ebbero poi due spose belle, forti, che si sedettero maestosamente e piene di grazia al loro fianco sulla piazza dei Settantasette dove solamente il baldacchino fu dovuto ingrandire un poco, senza ledere per questo un pelo soltanto la grandezza e l'autorità di Ludovico il Grande che sì fieramente dall'alto del suo cavallo il tutto vigilava. Ebbero insieme ventisette figliuoli, diciotto dei quali maschi e fu assicurato così per un millennio il regno alla dinastia dei Ludovichi. Per le lontane e più luminose capitali d'Europa visse e vagò una certa contessa Marina Del Pioppo, che tenne vita simpaticamente libera, e un poco licenziosa dicono i peggiori critici sociali, la bellissima donna suscitò profonde e folli passioni in molte anime e febbri in molti corpi, alla bellezza essa accoppiava una maniera così aristocratica da doversi dubitare qualche volta, pure ignorando sempre quali fossero i suoi precisi natali, ch'ella discendesse da qualche gran sangue, pure nessuno avrebbe mai osato pensare o intravedere in quella bellissima donna, una spodestata Regina, nè, tanto meno, un Re assoluto.
Si sa infine, che una notte, anzi, nelle primissime ore del mattino circa un mese dopo il Miracolo dei Gemelli, ad una stazione di frontiera in Birònia, erano discese da una misteriosa vettura due figure aristocratiche. Le persone di servizio non tardarono a riconoscere nel vecchio signore il Conte Ercole Pagano Silf Gran Maresciallo di Birònia, seppure in incognito e vestito in borghese e a capo scoperto, gli si inchinarono dinanzi. Nessuno potè però fare accertamenti a carico della signora, bellissima di figura, ma alla quale un velo troppo fitto cuopriva interamente la faccia. I due aspettando il passaggio del treno, parlavano assai intimamente e con affetto e al momento di salutarsi volarono per l'aria delle parole presso a poco come queste: — Eh! ci volevo proprio io, Maresciallo, per salvare la Patria, e un poco anche voi, sì, vecchia trappola. — Alzato quindi il velo fin sopra la bocca la bella signora posò la sua faccia fresca su quella rugosa e dura di lui, e lo baciò come si bacia il vecchio e caro padre.
L'ANIMA
— È come un grosso lupino d'oro con la sua campanellina che lo tiene infilato alla catena.
— Ma sei proprio sicuro che non l'avesse portato addosso altra volta?
— Sono sicurissimo di non averglielo mai veduto. Io so tutto di lei, essa non mi ha nascosto mai nulla, non c'è cosa ch'io non conosca, che non abbia veduto, della quale non sappia a puntino la ragione, il perchè, la provenienza. Ecco il primo segreto.
In questo giorno di disperazione, l'ultimo che ella è con me sotto il nostro tetto di sposi felici per trenta anni, ecco la prima nube. Ed io sono costretto a mescolare i miei singhiozzi più sinceri, il mio lacerante dolore, a questo.... che non è un dubbio, non è un dubbio sapete, perchè io sono sicuro di lei, della sua fedeltà, del suo amore; non è un dubbio, è una cosa che non capisco; e siccome ho sempre capito tutto della sua vita, mi sembra di profanare il nostro amore, il mio dolore, parlandone solamente.
— Ed era nascosto dentro l'abito?
— Sì. Ella diceva spesso ridendo: «se muoio quello è l'abito che voglio indossare». Me lo ha detto fino da quando aveva vent'anni, capite, e allora la facevo tacere stringendomela al petto e cuoprendomela di baci. In questi ultimi sei anni poi, dopo la morte di sua madre, diceva: «quando muoio, l'abito deve essere quello che feci per il lutto della povera mamma». E lo aveva messo là, in un angolo del suo armadio. Io, stamane, sono andato per compiere di mia mano ogni atto pietoso attorno alla sua adorata persona; dentro il giacchetto, attaccata con uno spillo, ho trovato una busta; ho aperto, ed eccoti questa catenina d'oro con questo medaglioncino, e nel foglio: «È la mia ultima volontà: che mi sia messa attorno al collo questa piccola catena....».
— E sei proprio sicuro di non avergliela mai veduta, ch'ella non te ne avesse mai parlato....
— Mai. Quando sei anni or sono morì sua madre, essa portò in casa diversi gioielli e molti piccoli oggetti del genere, ma io vidi ogni cosa, so tutto, aprendo i suoi cassetti non trovo una sola cosa che mi sia sconosciuta. Dunque: «Che mi sia messa attorno al collo questa piccola catena. Il medaglione non racchiude nulla: è la mia anima.» La sua anima! Ma che cos'è l'anima? È.... tutto ciò che al momento della morte finisce in noi, si distacca dal nostro corpo.... per andare.... diciamo pure, nel cielo, e la sua benedetta e pura ci sarà già a quest'ora. Che cosa vuol dire dunque? La sua anima staccandosi dal corpo sarebbe venuta qui dentro? Ma sembra l'ultima affermazione di una mente bizzarra, squilibrata, ed io so invece quanto essa fosse equilibrata, semplice.... serena, saggia....
— Mio caro non fantasticare più, tu soffri terribilmente pover'uomo, senza che nessuno se ne fosse mai accorto, quella creatura semplice, serena, aveva dei pensieri suoi, una sua filosofia.
— Ma che filosofia, per carità, ma che filosofia, chi può conoscerla meglio di me? Era intelligente.... sì, colta, tutto quello che volete, ma incapace assolutamente di poter pensare a cose di questo genere.
Di una cosa soltanto non mi saprò mai dar pace: ella è qui nella stanza vicina, morta, dopo trent'anni di amore, di fiducia, di idolatria, dopo il dolore che m'ha lacerato il cuore, fra pochi istanti me la porteranno via per sempre, per me è finito tutto, felicità, esistenza, tutto, non mi resta nulla al mondo, e sono qui a discutere.... a.... baloccarmi fra le dita questa catena.... e questo ninnolo d'oro....
E sono sicuro della sua intera, luminosa fedeltà. Sono sicuro, capite, perchè ho avuto, insieme con lei, vent'anni, e sono stato geloso, sospettoso, l'ho provata.... sorpresa, la più limpida, la più amorosa, la più pura anima di donna! Sono sicuro.... eppure.... non vorrei metterle addosso questa cosa che vedo oggi per la prima volta. Vorrei che questo giorno chiudesse la nostra felicità con un ultimo raggio di quella luce di candore che illuminò sempre il nostro cammino.
— È come un grosso lupino d'oro, con la sua campanellina che lo tiene infilato alla catena. Non si vede da nessuna parte la traccia di un suggello; deve essere pieno, o quasi.
— Vuole portare con sè sotto terra la sua anima, e che male c'è?
— Nessuno, nessuno, avete ragione. Se io avessi un figlio, vedete, una figlia, io le direi: va', ponile tu questo che è stato l'ultimo suo desiderio. Avete ragione, è il dolore che mi fa sembrare grande una cosa piccola. Io stamane la vestii, ed io debbo completare la mia opera, portatemi, portatemi da lei.
Io rispetto il tuo ultimo desiderio.... sicuro, convinto, che esso non lede un solo istante del nostro amore. Ti bacio.... per l'ultima volta.... col mio povero cuore spezzato.... In trent'anni di amore, non un solo punto nero macchiò la nostra felicità, eppure.... questo bottone d'oro sopra il tuo seno, mi sembra così nero.... così grande.... come se tu.... non fossi stata mai mia.... no.... no.... no.... no....
* * *
Volete sapere che cosa c'era dentro a quel bottone? Lo volete proprio sapere? Ebbene, io so quello che c'era, una cosa molto semplice, sentite.
Quella donna era stata davvero la più fedele, la più amorosa, la più pura e saggia di tutte le mogli. Aveva quarant'anni e non aveva amato che suo marito, non solo, ma non aveva tradito il suo amore nemmeno con un pensiero o con uno sguardo.
Aveva quarant'anni e la sua fedeltà pareva oramai più che assicurata. Non lasciava la casa che per recarsi col marito, o, se sola, per recarsi da sua madre dove il marito andava, di solito, a riprenderla.
Sua madre abitava poco distante da lei, al primo piano di un elegante grandissimo casamento. Ella aveva incontrate per quelle scale tante svariate persone, ed aveva veduto tanti inquilini cambiarsi. Tutti sapevano prima o poi chi ella fosse, e che cosa andasse a fare là. Tanti uomini per quelle scale, e altrove, si erano soffermati lanciandole gli sguardi più evidenti a sottolineare la sua squisita finissima bellezza.
A quarant'anni era ancora giovane, fragrante di semplicità e di un fascino infantile, contornata di un'eleganza severa e aristocratica, aveva due occhi celesti scuri, grandi e buoni.
Un giorno incontrò, salendo dalla mamma, un nuovo inquilino del mezzanino, un giovane tenente di cavalleria, bello alto, bruno, roseo, elegantissimo: egli si appiccicò al muro per lasciarla passare, ed ella sentì salendo, due occhi neri, vivi, che la seguivano, e le bussavano a chi sa quale porta imperiosamente.
Perchè lo aveva notato? Perchè se ne ricordava? Pensò a lui per tutto il tempo che stette dalla mamma, e scendendo temè di incontrarlo ancora. La sera lo pensò. E quando fu vicina a suo marito sentì fulminarsi addosso un brivido forte, come se quello fosse il primo peccato.
Per le scale lo incontrò ancora tante volte.
Sembrava che lui l'aspettasse, e lei intanto si sentiva trascinata più spesso dalla mamma, e a quelle ore solite.... Dio! Dio! Dio! Ma veniva dunque così tardi per lei la perdizione?
Ora che si sentiva sicura, tanto lontana, e non pensava nemmen più.... Al tramonto della sua giovinezza, quel giovine che poteva avere poco più di vent'anni....
Per quelle scale si incominciò con un saluto, un saluto più espressivo, più lungo, più vicino, più insistente da parte di lui, con un abbassare della testa da parte di lei assalita da un capogiro.... poi occhiate.... strette tremende di mano, strette,... strette, poi.... poi un giorno la mamma non c'era su, e lei andò.... ad aspettarla giù, al mezzanino.
* * *
Il loro amore durava da tre anni, nel quale tempo la vecchia madre si era ammalata; e allora le visite erano divenute più frequenti, e a qualunque ora, e senza una regola più. I due poterono amarsi liberamente, perdutamente, senza che un solo lontanissimo sospetto balenasse agli occhi di nessuno. Erano riusciti a nascondere.
Lei uscendo cercava con spasimo di non trascinarsi dietro nessun tramite di contagio.
Il giovine buono, generoso, innamorato di quell'amore spontaneo e fresco proprio della migliore più ignara giovinezza, che gode di concedersi all'amore che sa, pure inconsciamente, assaporando il frutto ormai giunto al pieno della sua maturazione che fra quelle mani al contatto di quella freschezza più si spreme e in pieno disperatamente esala le sue fragranze, l'aveva sempre aiutata, senza forzarla una volta, solo attendendo quello ch'ella poteva dargli. E gli dava un'anima, un corpo, tutto un amore, tutta un'angoscia, un dolore, tutta una purità. Era l'inaspettato tramonto di fiamme dopo una giornata limpida, adamantina.
La vecchia madre morì, ma ella potè tornare ancora nella casa, il quartiere rimase suo per alcuni mesi; poi non fu più suo, vennero i nuovi inquilini, lei non andò più là, poi.... ecco il baratro. Bisognava sapere spezzare la propria vita! Doveva salvare quarant'anni di virtù, doveva sapersi ritirare a tempo dalla rovina, tutto le diceva: basta. E il suo cuore era di quelli che si lasciano abbrancare da una mano spietata, e la sua mano fu la più spietata nell'abbrancarlo per soffocarlo, per nasconderlo giù giù nell'imbottito, perchè nessuno lo potesse più vedere, perchè nessuno potesse udire le sue grida.
Finito tutto, il giovine non accampò un diritto, non disse una sola parola, si guardò attorno deserto, e cercò altrove amore, compagnia, oblìo. Decise il suo matrimonio.
Pochi giorni prima che egli si sposasse ella gli ritornò per l'ultima volta.
Nulla era fra loro nessun legame, non un biglietto, non un vecchio fiore, non un sospetto nulla nulla nulla.
Il marito non aveva potuto accorgersi di niente, i tristi giorni della separazione erano venuti con quelli della morte della mamma. Ella pianse, passò giornate orribili; ma ne aveva ben ragione poveretta, era così evidente.... E il buon marito fece di tutto per consolarla e fu convinto infine di esservi riuscito.
La mattina delle nozze, ella, chiusa nella sua stanza, soffocata fra due cuscini, pianse, urlò. Era tutto finito! Si guardò nello specchio, era vecchia, vecchia, vecchia.
La sua vita serena aveva avuto quel tramonto di fuoco ed ora ne sentiva il gelo nella notte.
* * *
Gli sposi andarono, naturalmente, in viaggio di nozze.
Una sera, là, sulla riva di un lago, in un crepuscolo, mentre egli era presso alla sua dolce e mite compagna, pensava alla donna che lo aveva amato per quattro anni, che gli aveva donato un tesoro di amore e di dolore, che aveva spasimato e sofferto, gioito con lui, laggiù, nel vecchio nascondiglio. Pensò a quell'ultima volta, quando ella gli ritornò, a quell'ultimo istante di lacerazione, pensò alla mattina delle sue nozze, e la vide chiusa in una stanza, e ne sentì i singhiozzi. Lasciata per un istante la giovane sposa, andò ad uno scrittoio, prese un foglietto, vi scrisse una riga sola, e la mandò a lei.
Quando essa la ricevè cambiò fulmineamente, come per incanto, non pianse più, il suo dolore si calmò, la fronte si rifece serena, la faccia giovanile come quattro anni prima. Bruciò la busta, tagliò con cura la sola riga che il foglietto conteneva, ne fece un rotolino fra il pollice e l'indice. Era quello che le restava del suo amore. Si vestì con un lungo mantello nero, un cappello che le nascondeva mezza la faccia, si cuoprì con due ben fitte velette, e così invisibile andò da un orafo, vi scelse una catenina, un piccolo medaglione, il più semplice, vi pose dentro il suo rotolino di carta, passò nel lavoratorio perchè la saldatura ermetica fosse operata sotto i suoi stessi occhi.
Quella riga diceva: «nessun corpo avrà mai la tua anima».
* * *
Ora io la vedo quella donna, perdonatemi, la vedo sotto terra, ma non ora, fra tanti tanti anni; ella non è più una donna, quello non è più un corpo, non c'è più il vestito, nulla, solamente uno scheletro candido, a cui vien giù sulla gabbia del petto, una catenina d'oro, e in uno spazio, fra due costole, scende, quasi altalenandosi un bottone....
L'INGEGNERE
Sono le otto della mattina. Ammettiamo di esserci levati così presto e di essere già fuori. È una bella mattina a fine di Giugno, dunque niente di così straordinario e possiamo ammetterlo quasi comodamente.
Noi girelliamo per uno di quei preferiti quartieri di vie secondarie, aggruppamenti di piccole vie, viette, viuzze, smilze, tortuose, che si rimescolano l'una nell'altra. Questi quartieri, situati nel centro di una grande città, vi rimangono incorniciati dalle grandi arterie, e in essi, venette venuzze, circola, rumina laboriosissima la vita in sottana, quella stessa vita che per le grandi vene circolerà poi rivestita. Da quelle vi traversa, se deve, frettolosa, vi sfugge se può; mentre soltanto poche ore dopo, vi passerà tranquillamente, beatamente in pompa magna.
Mi viene in mente una cosa: la più carina, la più affascinante delle vostre amiche, vorreste vederla nel suo elegante salotto passeggiare in gonnellino? Troverebbe ella le stesse pose, avrebbe gli stessi movimenti morbidi e felini, del giorno, quando vi riceve alle cinque per il thè? Mentre invece che essa passeggerà naturalissima col suo sottanino nella camera da letto o da bagno, nel suo spogliatoio.
Perdonatemi la divagazione e ritorniamo nei nostri quartieri e per le nostre vie. Esse hanno il loro odore particolare, che non è quello delle grandi vie; i negozi di generi alimentari che vi sono fittissimi, espandono i loro profumi, calcano la loro nota nell'aria, e specialmente nelle belle mattine estive quando tutte le porte sono spalancate e le mercanzie in parte esposte all'esterno, e dappertutto circolano barrocci e panieri colmi di frutte e di verdure.
Noi girelliamo fra le servette rubiconde, e non rubiconde, fra le grasse comari, e comari secche, in giro per le provvigioni della giornata, vecchie beghine che fanno anch'esse qualche spesicciola dopo avere ascoltata tre o quattro volte almeno la santa Messa, o che si avvicinano alla candida latteria, linda come le loro anime di fresco nettate, dopo le devozioni divenute poco alla volta necessità quotidiana della loro esistenza scarnita. Potreste voi indovinare che quelle figurine più o meno sbilenche che vi passano vicino, brune e untuose, sono invece di dentro di sì lucente candore?
È fresco. Questi quartieri secondari della città, così imbottiti nel centro, sono freschissimi anche d'estate. Le case molto alte, le vie strette e irregolari, le loro tettoie quasi si ritoccano, talune sembrano volersi baciare altre tenersi il broncio, e appena vi lasciano scorrere un ruscello azzurro; il sole non vi può dare che una sbirciatina sul mezzo del giorno, non più.
Però si presenta una giornata caldissima, l'aria è assolutamente ferma.
Noi girelliamo così per abitudine, scrutando sempre con più o meno interesse la vecchia umanità e avendo tutta l'aria di fare un vecchio mestiere.
Eccoci ad una piazzetta asimmetrica, piccolo largo fatto dinanzi alla parrocchia. Saliamo tre scalini, e per la porta sgangherata e polverosa entriamo. Noi entriamo anche lì naturalmente, è nostra abitudine di non arrestarci davanti a nessuna porta. Una capanna meticolosamente guernita di polverosissime cianfrusaglie. Sulle due file di panche alcune vecchie qua e là biascicano con disappetenza le loro orazioni. Un colpo di tosse, unico rumore. Ma ai piedi dell'altare maggiore, dove si celebra la santa Messa, subito ci colpisce un gruppetto di persone. Andiamo avanti; il gruppo è la sola cosa che possa interessarci qua dentro, e non tardiamo a identificare il fatto: si tratta di un matrimonio. Uno di quei matrimonî che debbono passare inosservati, per un pelo non eravamo usciti di chiesa senza avvedercene; fra persone perbene, che hanno tutte le buone ragioni per fare quel passo senza solennità alcuna, senza il più lieve profumo di cerimonia.
Si potrebbe scommettere che le persone di quel gruppo vennero in chiesa alla spicciolata e a piedi; infatti fuori, sulla piazzetta, nessuna vettura attende.
Arriviamo fino alla balaustrata dell'altare maggiore per vedere le nostre figure almeno di profilo. Sembra che non si accorgano affatto di noi intente come sono a guardare l'altare dove il prete sta officiando. Eppure i nostri passi hanno percosso come un martello di legno il silenzio. Il gestante marito ad un certo punto volge cautamente la testa per vedere chi osserva, ma si ricompone ben presto.
E giacchè ce li abbiamo sorpresi caldi caldi perchè non dobbiamo cercare, se ci riesce, di ficcare un po' il naso nei fatti loro? Tanto siamo a bighellonare per le strade, possiamo trattenerci qui un poco, nessuno ci chiederà conto del tempo che avremo sciupato, non siamo noi sfaccendati di mestiere?
Gli sposi sono in mezzo, in ginocchio; ai lati dell'inginocchiatoio due signori in piedi; dietro, esse pure in piedi, due signore.
Anche le due signore si volgono quasi contemporaneamente dalla parte nostra, ma non sembra che la nostra presenza dia loro troppo fastidio e si ricompongono con molta naturalezza. I due signori ai lati sono più duri, non si volgono affatto e non hanno punto l'aria di averne voglia.
C'è però nell'atmosfera rarefatta e stranamente profumata di questo luogo, qualcosa che attrae sempre più la nostra indomabile curiosità.
All'entrare nella chiesa il gruppo sembrava di quattro persone e non di sei, gli sposi, inginocchiati nel mezzo, non apparivano, e l'assieme così stretto non saltava dapprima tanto agli occhi; se noi non avessimo notato la loro attitudine estatica potevamo averli scambiati per uno di quei famosi gruppetti di forestieri perduti dinanzi alle bellezze dell'arte; è vero però che qui, di bellezze, sfido anche gli americani di buona volontà a trovarne, ma non c'è mai da stupirsi, quella gente è eminentemente prodiga di ammirazione artistica, e gira il mondo per questo.
L'ora, pur non essendo fuori di regola, le otto della mattina.... ma più il fatto di non avere attirata l'attenzione di nessuno entrando nella chiesa. Si sa bene oramai che quando gli uomini fanno uno di cotesti passi sul loro cammino, li circonda lo stupore di moltissima gente, tanto che i poveretti, dispostissimi a fare con la massima naturalezza il loro passo, vedendosi tanto osservati hanno tutta l'illusione di mettere il piede in fallo e dare in un maledetto ciampicone. Com'è possibile che nessuno segua il corteo di un battesimo, e più, quello di un matrimonio al suo entrare nella casa di Dio? Quello di un funerale? Quest'ultimo in special modo provoca lo stupore; e considerando l'individuo avere fatti a quel certo momento tutti i suoi passi, lo si va a salutare nè più nè meno come uno che arriva alla stazione.
E il dover constatare che nessuno all'infuori di noi sia qua dentro ad appagare una così lecita curiosità mi fa supporre che questa gente non sia neanche passata per la porta. Sapete una cosa? Sono passati per la sagrestia o per la casa del parroco.
La messa è quasi alla fine. Un fatto molto evidente che per primo ci salta agli occhi è questo: la diversa età degli sposi. La fanciulla, vestita di un semplice abito di panno grigio chiaro, cappello grande di grossa paglia grigia con ali bianche, e velo rabescato dal quale appena si intravede un visino pallido, oblungo, non può avere più di vent'anni. L'uomo, forte, maturo, dalla faccia sanguigna, abbastanza grossolano, capelli neri ancora per due terzi, vestito con semplice abito blu, non può averne meno di quaranta.
A sinistra e a destra, evidentemente, i testimoni, non è facile sbagliare. E curiosa che anche qui, benchè sia un fenomeno abbastanza secondario, dobbiamo notare un nuovo squilibrio di età. Ma che cosa stiamo dicendo, i testimoni sono belli di tutte le età, non debbono mica sposarsi loro. Uno alto secco, di circa trenta anni, biondiccio, con faccia lunga giallastra, inespressiva, miope, i capelli duri, dritti come le setole di una spazzola, le lenti in oro che gli annebbiano due occhi verde-grigio stagnati.
L'altro, un vecchietto rotondo, luminosamente calvo, accuratissimo, saturo della sua posizione, con uno di quei tait neri che rasentano la cerimonia.
Le due signore dietro, una vicina ai quarantanni, figurina esile, abbastanza signorile, ancora carina, vestita di un elegante abitino di panno blu, cappello blu, ali rosse. L'altra, di circa sessanta, vestita accuratamente in nero, cappello nero, ali nere.
L'effetto complessivo che ne riceviamo è questo: gente perbene. Infatti noi non abbiamo sbagliato, e nei varî passi che siamo per citare ci proponiamo di sostenerlo a spada tratta nel caso che taluno si prendesse la bega di contraddirci.
Oh! se queste brave persone, sicure di essere sfuggite alla morbosa curiosità del prossimo loro, sapessero che l'appunto noi ci siamo a caso imbattuti nei loro interessi!
Ma chi sono? Chi sono? Ora che questa benedetta curiosità è lecita e naturale accingiamoci ad un lavoro di identificazione. Anzi procederemo con uno di semplificazione o di epurazione che dir vogliate, ci libereremo del superfluo ringraziando i bravi testimonî del loro buon servizio perchè noi non sappiamo più che farcene. Altrimenti dovremmo occuparci del prete e del chierico, e delle beghine, e anche di quello che tossì.
E rimaniamo allora con due sposi e due signore, o meglio, un maschio e tre femmine.
Un maschio di quarant'anni circa, e tre femmine, una di venti, una di quaranta e l'altra di sessanta. E anche questo sempre approssimativamente giacchè per ora lavoriamo alla facciata.
Il maschio, ditemi un poco, volete sapere che cosa fa? Fa l'ingegnere. È la sua professione. È lui l'ingegnere. È vero, chi poteva essere di quelle quattro persone dacchè le altre sono tutte femmine? Un momento, e chi vi assicurava che una di quelle tre signore non potesse essere lei, proprio lei, l'ingegnere? Non è punto impossibile, si potrebbe scommettere che in America, o anche solamente a Parigi, l'ingegnere sarebbe stato lei, precisamente, un'ingegneressa. A noi non suona ancora bene però, ci siamo abituati alla dottoressa, professoressa, avvocatessa; ingegneressa non ci suona bene, architettessa.... perchè l'ingegnere deve essere anche architetto.
Ma le nostre tre donne sono ancora da considerarsi come.... «attendenti a casa». Così cantano gli atti dello stato civile.
Abbiamo già detto che il nostro eroe può avere circa quarant'anni, ebbene, ora siamo in grado di affermare che ne ha giusti giusti quarantacinque. Non per questa piccola differenza ci sentiremo imbarazzati ad intraprendere con una certa rapidità il racconto della sua vita, o meglio, a fissarne certi punti. Abbiamo detto ingegnere, ingegnere sia, laureiamolo subito! Venticinque anni. Siamo più che a metà delle nostre fatiche! E pensare, quanti sudori, quante lunghe ore di tavolino, notti insonni, lotte di volontà, gli sarà costato quel piccolo foglio di laurea; che noi gli diamo così.... su due piedi.... con tanta leggerezza! D'altra parte, nella vita di un ingegnere non possiamo dare eccessiva importanza al tempo in cui esso costruiva i suoi palazzi colla sabbia sulla spiaggia del mare, o colla mota, o tanto meno al giorno in cui detto professionista spuntò il primo dente. Noi dobbiamo considerare il suo esame di laurea come il suo primo dente.
Appena laureato, a Pisa, il nostro giovinotto venne qui in questa città vittorioso di un concorso che lo chiamava ingegnere municipale.
Il mio maliziosetto lettore sta per tirare ironiche somme; la storia è alla fine, e il vostro eroe è bello e che sepolto. Non è mica vero che facendo l'ingegnere comunale non si possano costruire bellissime cose, come noi vedremo, un po' di pazienza, e bando all'ironia mio scaltro amico.
Figlio di due onesti campagnoli, i campagnoli sono quasi sempre onesti, che avevano fatto l'impossibile per far giungere a tanto il loro unico figlio dotato da madre natura di spiccatissime spaventose qualità numerarie, fu, dopo tanto prodigio, il prodigio finale della vittoria di quel concorso, l'affermazione suprema: la gloria.
E d'altronde, giungere per la prima volta in una città, impiantarvi uno studio, svelarsi, imporsi, costruirsi una clientela, costruzione difficile anche per gli ingegneri, è cosa che fa sorridere anche te cittadino autentico. Non era nemmeno il caso di pensare ad imprese di questo genere. I buoni ed onesti genitori lo avevano mantenuto facendo ogni sforzo, spremendosi fino all'ultima stilla, anzi, dovendo attingere qualche gocciolina in prestito.
Ma il ragazzo, aveva corrisposto in una maniera inverosimile; alla fine del mese i soldi gli erano sempre avanzati. Udite, studenti di tutti i paesi e di tutte le facoltà, c'era una volta uno, tra voi, vi fu, al quale i soldi del mensile avanzarono sempre, e per il quale l'anno divenne, alle tasche del povero ma fortunato padre, di undici invece che di dodici mesi; o voi, che non chiedereste di meglio ad un novello Giulio Cesare, o a Numa Pompilio che ve lo rifacessero di ventiquattro!
Di questi giovani campagnoli che partono per l'università ve ne sono che si gettano di sfascio, con tutta la forza della loro verginità, in braccio all'ozio e ai vizi, e allora l'università, il tempio, diviene l'ultima spelonca dei loro pensieri. Ma ve ne sono, pochi invero, che appena voltisi attorno, fiutata la via, si isolano paurosamente, diffidenti di ogni cosa, di ogni persona, seguono le lezioni come cronometri, e se ne vanno a casa ratti, a testa bassa, per sfuggire al sorriso dei burloni vagabondi. Saranno spesso dei poveri esseri mediocri, questi, dei rustici, degli sgobboni; la loro volontà, la loro forza d'animo, li faranno alla fine mirare assai più vicino al proprio naso di che non possa guardare attraverso il fumo della propria sigaretta l'ultimo dei fannulloni; ma quante lacrime essi risparmiano agli occhi della loro madre lontana, quanti dolori al cuore del loro padre che si va di giorno in giorno disperatamente sfiduciando sul conto del proprio figliolo, e le più dolci e rosee illusioni, si vede cadere da dosso desolatamente e si sente rimanere solo e ignudo ai rigori del prossimo inverno.
Ma che cosa vado contando? Non sono le lacrime in apposite sacche dentro i nostri occhi, che cosa ci stanno a fare? E il freddo non è la salute dell'uomo? Gli accresce l'appetito e gli rassoda le carni, e pare uccida anche un'infinità di bacilli, non escluso il bacillo virgola.
Il nostro ingegnere, a dire la santa verità, era proprio nato ingegnere, ma il padre, al solito, ne aveva sognato un avvocato. Uno di quegli avvocati che vengono fatti cavalieri, commendatori, deputati.... del loro paese.... che quando arrivano le autorità vanno a salutarli fino al treno, a prenderli colla banda, che si trattengono brevemente, al più un giorno, nel quale debbono sbrigare migliaia di faccende, udire migliaia di persone, pronunziare almeno tre o quattro discorsi. Poi gli applausi.... lo stupore universale.... il banchetto, la banda, le autorità e un'altra volta al treno! Cose da pazzi! Sogni che facevano girare la testa a quel galantuomo, e i quali tanti sacrifizi aveva fatti sotto forma di risparmio. Ma di fronte alle attitudini indiscutibili del figlio.... Non era poi tipo da far l'avvocato.... parlava poco.... male.... timido.... onesto, con una fila di scrupoli, arrossiva per nulla.... Notate bene, non vi sembra che quel campagnolo lo volesse direttamente assassinare? Ma fu abbastanza ragionevole e lo prese ingegnere. Non che ingegnere non sia una bella, bellissima cosa, magnifica, mah!... Oh Dio.... sono sempre su per i ponti.... sulle fabbriche.... fra i muratori, gli sterratori, gl'imbianchini, colle scarpe impolverate, le mani anche.... C'è in tutto questo ancora troppa terra per formare l'ideale d'un campagnolo ambizioso; egli non spiccava il volo così alto sui poveri ignorantoni dei paesani che lasciava. Il padre avrebbe voluto un mestiere per il quale tutti avessero dovuto inginocchiarsi davanti al suo figliolo.
* * *
A venticinque anni, risultato idoneo all'esame, entrò ingegnere civile nel nostro municipio con uno stipendio di lire duecentocinquanta mensili e che avrebbero potuto giungere alla fine della carriera fino a cinquecento. Cifra molto rispettabile specialmente presso il suo paese dove con cinquecento lire si pagavano tutti gl'impiegati del comune messi insieme.
Per prima cosa bisognava trovarsi un alloggio, una camera in luogo quieto pulito, presso una buona famiglia. L'ingegnere girovagò prima, poi pensò meglio di rivolgersi ad un commissionario, di quelli che lustrano anche le scarpe, e al quale spiegò come e in quali pressi intendeva sistemarsi. Quel commissionario assicurato sul conto del suo tipo, gli seppe fornire un indirizzo davvero eccellente. Una signora con la figlia, vedova di un impiegato governativo, persone distinte, che davano via una stanza per ricavare parte della pigione troppo gravosa per le novanta lire mensili di pensione colle quali dovevano vivere.
Il signor ingegnere fu ricevuto con tutto il rispetto, la vedova capì subito che era una brava e buona creatura e gli prodigò le più cordiali accoglienze. La casa, per la sua ristrettezza, esigeva la massima familiarità fra quelle persone: tre stanze e la cucina. La stanza d'ingresso, discretamente arredata, e tenuta con proprietà, serviva da stanza da pranzo, da lavoro, da ricevimento. In fondo era la porta del dozzinante, a sinistra quella della camera delle due signore, quella della cucina, e un'altra porticina più piccina accanto, avete capito? Questa era la casa.
Quando l'ingegnere, dopo essere stato per la prima volta in un caffè pieno di luci e di splendori, la sera, alle dieci si ritirò, nella stanza d'ingresso, attorno alla tavola erano tre persone. La giovine seduta vicino ad un giovanotto bruno di ventiquattro o venticinque anni; la madre in fronte eseguiva un lavoro d'ago.
Superate le prime incertezze furono fatti i convenevoli, e il dozzinante venne dalla padrona di casa presentato con deferenza al futuro sposo di sua figlia Margherita.
Il nostro giovine però si trovò imbarazzato, non era punto avvezzo alla società, la stanza, la famiglia, tutto andava bene, ma dover passare per quel salotto dove quelle signore stavano tutto il santo giorno, e per di più la sera con quel terzo incomodo.... Quando glie l'avevano fatta vedere, la camera, non glie l'avevano mica detto che quella stanza d'ingresso lì, rappresentava un'infinità di altre stanze....
La sera dopo provò a rincasare più tardi, alle dieci e mezza. Quando fu sotto guardò prima, inutile, il salotto era illuminato, bisognava affrontare il saluto. Salì preparandosi ai convenevoli, cercò di aprire l'uscio ed entrare con disinvoltura: le tre persone erano lì come non si fossero mosse dalla sera avanti. Figlia, fidanzato, madre, tutti allo stesso posto. Sotto la luce verdastra nobilitata dalla gonnella d'un modesto lume a petrolio, se ne stavano in silenzio come spettri. Si alzarono tutti, salutarono, si risederono.
L'ingegnere rimase desto, potè constatare che il fidanzato non se ne andava che alle undici e mezza. Non c'era niente da fare, bisognava abituar la faccia a quel saluto, o cercarsi un'altra camera. Salutare tutte le sere, e anche tutti i giorni, insomma tutte le volte che fosse venuto a casa. — E se una sera dovessi andare un momento di là? — Pensava. Siccome però c'era in lui la stoffa dell'uomo che si abitua, c'era a pezze intere, a magazzini pieni, ci si abituò, e si abituò anche a fare ogni sera quattro chiacchiere, le solite, il tempo.... il comune... le sue fatiche.... le preghiere della vedova per qualunque cosa potesse occorrergli, che non facesse un complimento al mondo, che non si riguardasse di nulla e facesse conto d'essere in casa sua.
— Ma si accomodi....
— Grazie.
— Un momento.
— Grazie. — Il fidanzamento, a quando le nozze, i lavori che le signore avevano per mano, che erano naturalmente del corredo della figlia.
— Un momento soltanto.
— Grazie. — E non si accomodava mai.
E spogliandosi per andare a letto, sorridente e rubicondo, sodisfatto della sua giornata, sodisfatto di sentirsi oramai lì come in casa sua, sodisfatto dei suoi progressi di uomo di società, ripensava al terzetto. — Gente perbene, molto perbene! Che fortuna avere incontrato così subito, in una città grande, dove è tanto difficile imbattersi in brava gente. Anche quel facchino, che galantuomo! Rimaner vedova così giovane.... Poveretta.... Abituata bene.... ritrovarsi in strettezze.... E come sanno mascherare bene il loro piccolo, con che dignità! Chi sa quali sacrifizi dovranno fare.... Chi sa come mangiano poco per potersi vestire con decoro... Anche il fidanzato sembra tanto perbene, Antonio, bel nome.... bravo giovane.... Impiegato ferroviario.... Oh! farà strada! La ragazza è molto carina, un po' pallida.... La madre invece no, è bene in carne è una bella donna, e non è punto vecchia.... che potrà avere? Trentasei o trentasette anni? Li porta bene per Dio! È ancora una bella donna! Gentile, distinta.... ha dei begli occhi neri.... mi voleva dare anche l'acqua calda!... Davvero che se avessi la disgrazia di ammalarmi qui non mi troverei in pensiero, mi sembrerebbe d'essere in casa mia, son sicuro che non mi lascerebbero un momento solo, che mi assisterebbero come fossi un loro parente. E già in camicia, — si guardava nello specchio. Oh! Non c'erano di quei pericoli per il momento! Poteva campar tranquillo, aveva una faccia da crepar di salute.
* * *
Una sera finalmente, dopo due mesi, l'ingegnere si accomodò. E si accomodò poi tutte le sere. E i quattro incominciarono ad impegnare vivaci e allegre conversazioni; e invece che alle dieci incominciò a ritornare alle nove e mezza eppoi alle nove. Arrivava quasi sempre contemporaneamente al fidanzato, spesso s'incontravano alla porta di casa. Avevano messo su un accanito quartetto di scopone. La signorina col suo futuro sposo, la vedova coll'ingegnere. E questi incominciò con una bottiglia di Marsala, poi dei dolci.... Sul principio portava cose di un ordine un po' scadente, ma senza che lui se ne fosse accorto, lo avevano poco alla volta stradato nelle migliori ditte di quei generi, e passando sopra al prezzo, si chiamava felice di farsene onore e di riscuotere i complimenti della figlia e della madre.
Le serate passavano gaiamente, tutti e quattro allegri e contenti giuocavano, ciarlavano, mangiavano e bevevano, giungendo fino a toccare la mezzanotte. La casa pareva rianimata. Erano ormai tutta una famiglia, quattro persone che si volevano bene, che si erano simpatiche, che formavano un tutto invidiabilissimo.
Quando, un anno da questi tempi, la figlia, anzi, Margherita, si fu sposata e partì per un paese della Calabria dove il suo Antonio era stato destinato per far carriera, all'ingegnere balenò per la buona, dolcissima anima, l'idea d'impalmare quella vedova, perchè non avesse più a portare il luttuoso nome, e perchè in fondo, questo bravo giovanotto amava le situazioni chiare come la luce del sole. Il matrimonio dei giovani lo aveva messo in ottime disposizioni, ma la donna che pure ne sarebbe stata felice, non aveva osato sperarlo.
Poi calcolò freddamente. Perchè questo eccesso di zelo? Le faccende non erano chiare ugualmente? Incominciava a divenir cittadino davvero. I quattordici anni di differenza.... tutto compreso, e tenuto conto che nulla sarebbe cambiato ed avrebbe conservata tutta la sua libertà tirò avanti, e lasciò ogni cosa al suo posto, nella casetta dove ora i due vivevano lieti.
La donna fece il possibile per indurlo a mangiare in casa, con lei, gli avrebbe preparato la mensa secondo i suoi gusti, ogni suo desiderio sarebbe stato scrupolosamente sodisfatto. Perchè ostinarsi ad andare alla trattoria dove tutto è falso e malsano, quando si poteva mangiare così bene e così igienicamente in casa propria? Ecco perchè: per due ragioni la brava vedova non potè giungere al suo scopo: prima, perchè sembrava all'ingegnere che una volta accettata la vita in comune ci volesse ad ogni costo quel benedetto pezzo di carta bollata, seconda, perchè come noi sappiamo già, era uomo talmente abitudinario da sentirsi una stretta al cuore a dover fare un bel giorno un'altra strada per andare a mangiare.
* * *
Mentre qui le cose andavano così benino, tutto camminava in santa pace e beatitudine, laggiù nelle irsute Calabrie, tutto andava a rifascio. Antonio, quel caro, quel bravo, il buono, il timido Antonio, era divenuto ad un tratto un mascalzone; così, come due e due fanno quattro. Faceva soffrire pene d'inferno alla povera Margherita, glie ne faceva di tutti i colori e viveva maledicendo il momento di averla sposata, imprecando contro di lei, contro la madre, contro la Calabria, contro sua figlia, la piccola Vera, perchè bisogna sapere che dopo nove mesi di matrimonio la Margherita aveva puntualmente dato alla luce una bella bambina.
Era diventato un altro uomo, scriveva la Margherita, irriconoscibile, la lasciava di notte e di giorno, giuocava, si ubriacava, la picchiava anche nel tempo che aveva la creatura al petto.
Erano trascorsi appena due anni, quando la Margherita, pallida, magra, sofferente, ritornò nelle braccia di sua madre avendo lei nelle sue la piccola Vera. Il bello, il bravo, il timido Antonio aveva piantato baracca e burattini, se n'era andato per conto suo, chi sa come chi sa dove.
L'infelice sposina fu ricevuta nella sua casa con grande pietà ed amore, sia dalla madre come dall'ingegnere. La faccia serena di quest'uomo non si alterò, fece tutto quello che gli era possibile per alleviare le pene delle due donne, e vi riuscì. Le conduceva a spasso, a teatro, portava loro dolci, fiori, doni alla piccola Vera. Aveva sborsato, a titolo d'imprestito, tutto ciò che possedeva dei suoi risparmi. Si era comportato insomma più che da galantuomo da angelo custode. Siccome però la piccina non sempre si poteva condurla, e sola non si poteva lasciare, la nonna chinò la testa e incominciò il suo sacrifizio, se ne rimaneva tranquilla e rassegnata colla sua bella nipotina.
L'ingegnere e Margherita andavano oramai sempre insieme, per svagarsi, per distrarsi, per dimenticare. Infatti la sposina infelice incominciò veramente a dimenticare i due orribili anni della sua vita, l'orribile delusione, la tragica fine del suo amore.
Al calore di tanto affetto vero che la circondava, incominciò a riprendere, si rifaceva carina, ingrassava, si coloriva, ritornava gaia, tanto tanto carina, nella sua buona casa colla sua amata creatura. Solamente che quando pronunziava la parola Calabria le sue labbra avevano ancora un fremito febbrile.
* * *
Fu per virtù della Margherita che un giorno, il tanto atteso e non più sperato familiare miracolo si operò fra quelle mura domestiche alle ore dodici e un quarto.
La tavola fu circondata da quattro persone. L'ingegnere sedeva fra il seggiolotto della piccola Vera e la Margherita, la nonna gli era seduta di fronte.
Si pensò subito di cambiar casa per liberarsi da quelle strettezze e se ne trovò una di cinque belle stanze e la cucina. Sala da pranzo e salotto da ricevere; la camera dell'ingegnere, accanto c'era quella della Margherita, che davano tutte e due sulla strada, la nonna e la Verina dormivano insieme in un'altra che dava sul giardino.
* * *
Quante volte l'ingegnere pensò di fare della Margherita la sua cara e legittima sposa! Ma dove pescare quel demonio di marito? E come imbastire un divorzio? Si sarebbe prestato il mascalzone? Dove era? Lo si credeva in America, ma chi sa? È un'abitudine inveterata di pensare a quel benedetto paese tutte le volte che un farabutto se ne va. Che cattiva nube fra i due buoni esseri!
E il tempo passava e questa spina si conficcava sempre più nel cuore dell'uomo ora maturo. Egli voleva avere una moglie, una moglie da far vedere a tutti, ai suoi colleghi, agli amici, una donna che portasse il suo nome, un essere adorato che potesse vivere con lui senza dover mai mentire in nessuna ora e con nessuno.
E invece il tempo, incalzando, rendeva la menzogna sempre più grande, sempre più indispensabile. La Vera, la piccina cresceva, era una giovinetta ora, e minacciava di farsi un amore di ragazza.
Uscendo con queste due donne sentiva il bisogno di gridarlo per le vie, a tutti, a chi non lo voleva sapere, che se quella non era la sua legittima moglie la colpa non era sua, che lui non avrebbe domandato di più e di meglio al creatore del cielo e della terra, che fosse sua, sua proprio, a voce e per iscritto; e che per la fanciulla non sarebbe stato no, un patrigno, ma il più tenero, il più amoroso padre che fanciulla abbia mai avuto sotto la cappa del cielo.
E il tempo passava e l'uomo sereno si oscurò, la sua posizione sociale gli era divenuta una fissazione. Il semplice e buon campagnolo non poteva rassegnarsi a dover tanto amare per tutta la vita senza poter contare una moglie al suo attivo, e una buona raccolta di figlioli.
Faceva lunghe passeggiate con la Vera la domenica, e sfogava con la giovinetta il suo malumore, la sua malinconia indefinita, senza ch'ella potesse imaginare la vera causa che l'alimentava.
Quel pezzo di diavolo grasso e rosso così triste, così sconfortato la faceva di sovente dare in lacrime, e allora le lacrime di lui andavano ad unirsi alle sue e fondevano insieme la loro tristezza. La fanciulla era di natura malinconica sentimentale, egli lo era transitoriamente, e le forniva un appoggio un ricovero sicuro, e a lui si stringeva sempre di più. Lo chiamava signor ingegnere come lo aveva sempre udito chiamare in casa, dalla nonna e dalla madre, ma provava per lui un abbandono dolce, un benessere nel socchiudere gli occhi su quelle solide spalle e su quel ben costrutto torace.
Egli osava talora fissare i suoi occhi in quelli della fanciulla e si sentiva tremare le gambe mentre le guance di lei si cuoprivano di un candido rossore. Incominciava a dubitare di sè, si sentiva tutto agitato, come smarrisse la ragione, la rettitudine, non sapeva più se fuggirla o stringersela disperatamente quella pallida e dolce creatura. Ma oltre questa adunazione di nuvolaglia, oltre questa fuggente tempesta, c'era il sereno per tutti e due, e malgrado i brontolii cupi di tutti i tuoni, e le minacce metalliche più acuminate di tutte le folgori, essi guardavano tranquilli un punto luminoso.
* * *
È una cosa tanto logica e semplice! Eppure, agli occhi di chi non abbia come noi veduto chiaro qua dentro, può sembrare complicata e illogicissima. Ma dopo aver chiarito, tutto è chiaro! Non è vero? E non era già chiaro di suo? Vi stupite forse di vedere lì, inginocchiati dinanzi a quell'altare l'ingegnere e la bella e malinconica Vera? Con dietro, composte e indifferenti, la Margherita e sua madre? E con ai lati quei due signori che senza dubbio debbono essere le persone più specchiate, più rette che possa vantare il nostro municipio?
Eppure, se bene ti ricordi, mio difficile lettore, l'ingegnere avrebbe sposata, e a occhi chiusi, la Margherita, senza pensarci sopra un minuto, con tutto lo slancio della sua anima buona e generosa. Che colpa ne ha avuta se proprio non l'ha potuto fare? Se fra le loro due bontà c'era di mezzo il male sotto forma di marito che li ha irreparabilmente separati? Non solo, ma non gli era balenata per la testa l'idea di sposare anche la madre, la nonna? Sissignori, quando fu sposa la Margherita, se quella donna avesse voluto, lui l'avrebbe fatto, con tutto il cuore e con tutta l'anima.
Noi dunque, nella nostra conclusione, non possiamo che, tutt'al più, permetterci questa domanda, guardando il gruppetto ai piedi di quell'altare, nella chiesuccia dove per caso capitammo stamattina: che cosa penserà in questo momento la signora di sessantanni vestita accuratamente di nero, cappello nero, ali nere? E quella di quaranta, in elegante abitino di panno blu, cappello blu, ali rosse? E cosa infine la tenera colomba di venti in grigio perla, cappello di grossa paglia grigia, ali bianche? Ecco dove con tutta la nostra capacità nemmeno noi possiamo arrivare.
A proposito, e l'ingegnere? L'ingegnere.... noi lo abbiamo visto finalmente costruire qualche cosa: una solida barriera per la quarta generazione.
L'ANGELO
Oh!... oh!... mie.... Angelo! — In una vestaglia bianca di lino, specie di lunga camicia, l'americana piagnucolava a scatti certi suoi singhiozzini gutturali: — Oh!... Oh!... — e diceva di tanto in tanto frasi sconnesse, con un'intonazione alta in testa, sgradevolissima. I suoi quattro capelli grigi, tirati fin sulla punta della testa peracea, e stretti fanciullescamente con un nastrino, si ritorcevano in giù a fontanina. Gli occhi bianchi, inespressivi, erano quasi completamente fuori delle orbite. Aveva in una mano un fazzoletto, nell'altra uno specchio ovale da toilette. Per la camera si espandeva palpitante la luce delle candele di due candelabri posti ai lati del letto; attorno ad esso erano, colla vecchia zittella, tre delle sue donne, mute, gelide, incapaci di un gesto, di un sorriso consolatore, attendevano pietrificate nella notte fatale.
Sopra il letto giaceva.... come una piccola foca di cioccolata acquattata sui cuscini, inerte, dall'aspetto floscio, gonfio.
L'americana continuava i suoi vaneggiamenti. — È foenita! Ah!... È foenita!... Mie angelo! Mie vita! — Passò due o tre volte il fazzoletto sopra lo specchio, e cogli occhi che sembravano definitivamente vomitati dalle orbite lo sottopose alla bocca della bestia e attese, nel freddo sepolcrale dell'istante, in una tensione folle. Il cristallo appena appena si velò, la coda irrigidita della bestia subì un'oscillazione impercettibile; l'americana emise a fila tre o quattro di quei suoi singhiozzini sospiro, poi tacque.
La porta della camera fu aperta, un'altra donna entrò ed introdusse con grande cautela un vecchio prete: egli ansava, e si sforzava di tacere il suo ansito che nel silenzio di quella stanza si sentiva troppo. La chiamata notturna dell'americana lo aveva messo tutto sottosopra, infin Drusilla, la serva, che contro le chiamate di notte nutriva un odio feroce, implacabile, quando sentì trattarsi di Miss Globe, cambiò subito tono, corse difilato a fare alzare il prete, e quel torrente di parole non seppe versare che a fiotti un monosillabo: — su.... su... su.... su.... — intanto che lo aiutava ad infilarsi le brache.
Miss Globe era stata negli ultimi tempi la sola ed ultima benefattrice della sganasciatissima parrocchia di quel povero villaggio, senza di lei parroco e serva sarebbero andati qualche volta a letto senza cena. Miss Globe aveva fornito il denaro per raccomodare il tetto della chiesa e della casa del prete quando una famosa bufera li aveva scoperchiati, lei aveva fatte riverniciare le panche ridotte in uno stato compassionevole, e quattro ne aveva donate nuove, bastava insomma ricorrere a lei per avere soccorso. Quando Don Pasquale andava per la benedizione annua della villa la vecchia zittella lasciava affondare di sua mano nella secchia dell'acqua santa un grosso pesce giallo, un pezzo d'oro da cento lire, e accompagnava il gesto con monosillabi e sorrisi di altezzosa noncuranza. Perchè poi quel bel pesciolino giallo lucente non si trovasse a disagio o si dovesse insudiciare fra gli oscuri compagni, Don Pasquale appena fuori dal cancello lo ripescava bravamente con due dita e strofinatoselo alla tonaca se lo metteva in tasca. Ecco perchè Drusilla non inveì contro i notturni disturbatori. «Ci dovete pensare prima di buio quando avete qualcuno che deve morire, non si aspetta all'ultimo momento! Ignorantoni! Il prete è troppo vecchio, eppoi non meritate nulla!» Ecco perchè Don Pasquale arrivò col fiatone, aveva fatta la salita a passo di corsa, gli sembrava d'esser diventato un bersagliere. Ora era anch'egli ai piedi di quel letto e non capiva nulla; Miss Globe non sembrava essersi accorta della sua presenza, le quattro donne fissavano il bassotto morente con occhi e lagrime vetrificati.... — Ma che cosa vogliono dunque? — Pensava il parroco — Perchè mi hanno chiamato? Chi ha bisogno di me?... — A questo punto gli balenò il sospetto — Non sarà mica.... per quello? — e i suoi occhi rimasero affondati nella schiena gonfia e lucida del cane.
Iere stava bene. Mie.... Tony! Ah!... Deciotto anne! Signor Preore!... — Don Pasquale si riscosse, ella si accorta della sua presenza. — È foenita! Signor Preore! Ah!... Onne domeneca mie Tony.... ascoltare sua messa.... Signor Preore.... ah!... tutto el tempo engenocchiato.... Pregare.... pregare per mie.... angelo! Benedire!... Benedire!... È foenita!... — Il vecchio parroco strizzò forte le palpebre per accertarsi di essere desto. Dove era? Era proprio sicuro di non sognare? — Benedire! — Gridò l'americana volgendosi finalmente verso di lui e mirandolo coi due occhi che sembravano partire come proiettili. Le cinque donne caddero inginocchiate d'un colpo, il vecchio prete non sapendo più come cavarsela, istupidito dal caso, alzò la destra tremolante, segnò in aria una.... serpolina.... qualche cosa che potesse rassomigliare ad una croce ma che non lo fosse, per amor di Dio! Che non lo fosse!
* * *
Don Pasquale rientrando in casa a notte tarda usò ogni cautela per non destare Drusilla, ma non vi riuscì, appena a caposcala la serva lo chiamò, lo richiamò, domandò insistè: — ssss.... — fece due o tre volte il prete, e spazientito andò difilato nella sua camera. — Che cosa doveva raccontare? Di dove doveva incominciare? Quella donna era capace di far nascere un putiferio — Non era però ancora entrato nel letto che un'ombra bianca si fece alla sua porta: Drusilla in camicia. Ce ne volle per rimandarla senza spiegazioni, e se ne andò con tale nodo di rabbia alla gola che per tutta la notte borbottò ad altissima voce.
* * *
All'alba fu lasciato alla parrocchia un biglietto urgentissimo da parte di Miss Globe. Don Pasquale lo lesse, lo malmenò, girò su e giù per la stanza, poi risoluto uscì gesticolando. Rincasò che erano suonate le otto, e alle sette doveva dire la messa, era cupo inquieto. Drusilla, muta, sibillina, seguiva ogni passo ogni gesto con piglio di minaccia, come un Dio offeso terribile nella sua vendetta. Era la prima volta che la fede aveva un mistero per lei.
* * *
Alle undici la serva apparve con un nuovo biglietto. Il parroco seduto al tavolo, fisso pensava, la donna entrò come caricata, quando fu nel mezzo della stanza gettò la busta al prete con tale violenza che questa andò a battergli sul nicchio e ruzzolò dipoi sotto la tavola. Girando quindi sui tacchi, come un automa, Drusilla era per uscire.
— Drusilla! Drusilla! Gridò alla fine il prete serrandosi la testa fra le mani — Drusilla!
— Ma che c'è? Si può sapere? Che c'è, vecchio scimunito?
— Senti però, senti, se parli t'ammazzo! Drusilla, t'ammazzo! T'affogo nel pozzo!
— Ma parli giuraddio!
— Drusilla.... senti, ieri sera.... lassù....
— Sì.
— Lassù.... dall'americana...
— Sì! Sì!
— Dall'americana....
— Sì! Ho capito!
— Mi hanno chiamato....
— Lo so che l'hanno chiamato, dica!
— Sai per chi mi hanno chiamato?
— Per chi?
— Se ciarli t'affogo però....
— Uh! Mamma mia!
— M'hanno chiamato....
— Per pinco!
— Per il cane!
— Eh?... Il cane?
— Quel canaccio color tabacco, colle gambe rotte, è morto.
— La salamandra?
— E volevano che facessi con lui come coi cristiani, gli voglion fare il funerale capisci? Portarlo in chiesa.
— La salamandra?
— Sì!
— Ma lei cosa gli ha risposto?
— Che non sono matto come loro, che non lo faccio, nemmeno se mi ricuoprissero d'oro; hai capito Drusilla? E dire che l'ho mezzo benedetto! È matta! È matta!... — Il vecchio tacque sprofondato nel suo rammarico. Drusilla, che alla parola oro aveva dato uno scossone istintivo, rimase un po' pensosa, poi andò a cercare la busta sotto la tavola, inforcò gli occhiali, e con grandi movimenti delle labbra lesse il biglietto dell'americana la quale si serviva di chiave americana per forzare la serratura. « Se fare funerale dare voi subito lire diecimila. Jennet Globe ». Drusilla compitò prima la cifra poi gridò: — diecimila lire? — Alzò in aria un grugno porcino come per acclimatarsi in quell'atmosfera aurea, e siccome il prete taceva — Ohe! È sordo? Diecimila lire!
— E che vuol dire?
— Diecimila lire: — ripetè la serva ninnolando le sillabe come fossero monete — Se glie ne chiedessimo ventimila — pensava....
— Ma Drusilla! — Gridò il vecchio, non comprendendo il suo giro d'idee — Drusilla?... Che pensi?... Drusilla! Un cane!
— Diecimila lire? — Ripeteva la donna ancora così estranea a quel suolo.
— Un cane! — gridò il parroco.
— Un cane! — Gridò la serva.
— Ma se si scopre?
— Avremo diecimila lire, ce le faremo dare avanti.
— Ma il vescovo!
— Per diecimila lire lo porterebbe anche il vescovo!
— Zitta! Zitta! È il demonio questo!
— È la provvidenza divina! Ma non lo vede vecchio balordo che si muore di fame? Non s'ha olio nè per il sacro nè pel profano, se ci guastiamo con quest'americana siamo belli e buggerati! Ci lascian crepare di fame, e ci ridon dietro! Non ne vuol più sapere nessuno del prete, non l'ha capita lei? E questa matta ci può far ricchi — chiediamogliene ventimila — pensava, ma non osò. — Vado io dall'americana!
— Drusilla t'ammazzo!
— Questo cane è la provvidenza! È il cielo che ce lo manda, è il nostro Signore che viene a sollevarci da questa po' po' di miseria! E lei lo vuol calciare? Povero baggiano starà fresco! — La serva ora quasi piangeva pel dolore di non poter convincere.
— Ma Drusilla, Drusilla, diceva il prete dolcemente per pacificarla, Drusilla tu mi fai paura, pensa, un cane....
— Nossignore non è un cane non può essere.
— Ma ti pare che ci possa entrare il cielo con un cane? Tu sei ispirata dal demonio in questo momento.
— Io non mi meraviglierei che venisse in forma di scarpione!
— Ma si scopre capisci, si scopre, sono sicuro, e ci capiterà di peggio, ci manderanno via come cani rognosi.
— Ma avremo diecimila lire! Eppoi.... eppoi l'americana ch'ha fatta far la buggerata, lei ci penserà! Quella matta ci può far ricchi, legheremo il collare al fico! Vado io dall'americana!
— Fermati sai, brutta stregaccia!
— E allora vada lei, tincone!
— Senti Drusilla.... senti, dice che quella bestiola veniva alla mia messa tutte le domeniche....
— Sicuro, ce l'ho vista le mille volte.
— Sì.... senti.... e dice che stava tutto il tempo della messa.... inginocchiato.
— Ha capito? Ha capito? Vada! Vada, giuraddio, vada!
* * *
All'Ave Maria, quella sera, suonarono lungamente le campane a morto — Un angelo! Un angelo! — correva su tutte le bocche — Un bimbo venuto dall'America morto ad un tratto nella villa di Miss Globe — I funerali, indetti per la sera dopo, sarebbero stati magnifici, come si conveniva a un gran signore di quella specie. Cose mai viste. In poco il villaggio fu pieno di questa notizia. Nella circostanza l'americana gettava oro a palate, come il granoturco, tutti dovevano beccare. Le regalìe furono stabilite in un'interminabile seduta che Miss Globe ebbe con Don Pasquale.
Lire 500 alla banda paesana per il suo concorso, Lire 100 a ciascun parroco che dai paesi vicini fosse intervenuto. Lire 100 a ciascuna delle quattro fanciulle che a spalla avrebbero portata la baricella coll'angelo. Lire 50 al crocifero e 25 ciascuno ai due portalanterna. (Impubblicata rimase sempre la ricompensa per Don Pasquale). Ai fanciulli sotto i sette anni che fossero intervenuti vestiti da angelo Lire 10, Lire 5 finalmente a chiunque altro avesse seguito il funerale.
Avanti l'alba del gran giorno Don Pasquale partì, con una diligenza, per la città, fece acquisti di parati, di torce torcetti candele candelieri, infine una campana che nel campanile da più di dieci anni mancava per fare il doppio. Miss Globe pagava. Drusilla era per le furie. Come dovevano essere le ali degli angioli, come dovevano andar vestite le vecchie, le spose, le giovani.... ma sopratutto le ali degli angioli — Sotto i sette anni! — Gridava la serva con l'indice in aria quasi fosse un articolo della legge — Sotto i sette anni! — Le ali, le ali, domandavano tutti: — Figli di cani quanti ce n'avete di questi angioli?
* * *
Bdbun.... Bdbun.... Bdbun bun bun.... Bdbun.... Bdbun.... Bdbun bun bun....
Dopo la banda paesana, a quattro o cinque passi di distanza incominciava il funerale. Don Pasquale, primo, camminava un po' a stento, il vecchio parroco era forse stanco dalle tante fatiche della giornata. Dietro di lui salmodiavano sei preti venuti dai paesi vicini. (Relativamente vicini perchè uno di essi aveva fatto a piedi trenta chilometri di scorciatoie per intervenire). Poi la piccola bara dorata dove in un prezioso cofano d'argento era stato deposto l'angelo, veniva portata a spalla da quattro fanciulle vestite e velate di bianco, e dietro uno sciame d'angeli di tutte le qualità, di tutte le misure, di tutti i colori, in velo celeste, bianco, rosso, con cintura ali e corona di carta dorata come piccoli diavoli e diavolesse, in giallo, in verde, con un semplice grembiale, alla marinara, ma sempre angioli colle ali, angioletti angiolini.... angioloni. Se ne vedevano di quindici o sedici anni con due alette dietro e via. Cacione, un brindellone di venticinque anni arrancava dietro idiotescamente con due alucce di foglio, una in forma di cuore, l'altra di pera. Madri che portavano l'angelo in collo, e lo tenevano voltato dalla parte delle ali, ad uno appena nato le ali erano state messe davanti e gli ciondolavano dal collo. Seguivano i fanciulli e le fanciulle della prima comunione, quei pochi che non erano stati inclusi nella categoria angeli. Le figlie di Maria cantavano.... stonavano per conto loro. Poi le spose, le vecchie, e ultimi gli uomini. C'erano dei ciechi menati per la mano, e due donne che portavano sopra una sedia un vecchio paralitico. In ultimo, due grandi vetture nere a due cavalli: nella prima Miss Globe sola, estatica nel suo dolore, nella seconda le sue quattro donne.
E questo funerale percorreva la via deserta del villaggio, non uno era sulla strada a vederlo passare, tutto quel popolo era diventato funerale. Chiuse le botteghe le case le finestre, non uno era rimasto; una sola persona non si era mossa: Drusilla. Vegliava sugli eventi, ferma al suo posto, pronta a tutto, a chiunque si fosse presentato, preparava frasi per averle sulla punta della lingua al momento del bisogno, e girando su e giù per l'andito fra la chiesa e la sagrestia, borbottava, gestiva, si fermava, si puntava, si lanciava. — Quel buon uomo è stato ingannato! È un povero baggiano, non ha colpa! Quell'americana è matta da legare! L'hanno gabbato, siamo innocenti! — Eppoi cambiando tono — Meglio un cane cristiano che un cristiano cane! Porci! Porci! — Ma mentre per la bianca via provinciale si dilungava nel bel tramonto d'autunno l'allegro funerale, la serva in fondo in fondo carezzava un vecchio sogno. Le diecimila lire dell'americana sarebbero bastate al suo progetto nel peggiore dei casi. E si vedeva già in una piccola fiaschetteria della città, fra persone civili, i soliti frequentatori.... essere chiamata.... padrona.... signora.... fare un po' di buona cucina, come la sapeva far lei quando non le mancava il necessario, guadagnare, vivere agiatamente.... essere ritenuta donna piena di quattrini.... E vedeva già il vecchio, non più prete, tutto il giorno a fare la sua partita nel retrobottega coi migliori assidui.... oh! egli non doveva pensare ad altro, lei avrebbe saputo da sola far prosperare l'esercizio....
De profundis clamavi, ad te, Domine: Domine, exaudi vocem meam.
Requiem aeternam dona ei, Domine.
Et lux perpetua luceat ei.
Pater noster.
Don Pasquale sudava, sudava.... gli scendevano giù dei goccioloni freddi, e sentiva un liquido gelido colargli nella midolla spinale; le spalle gli pesavano come se piedi giganteschi vi premessero per acquattarlo e schiacciarlo al suolo nell'ora suprema del sacrilegio.
Dies illa, dies irae....
Aveva fatto il lungo percorso senza capire, senza vedere, ora nella chiesa, dinanzi al suo altare diceva senza udirsi più. Al letto del moribondo aveva segnato una croce che non era una croce, ma ora diceva, doveva realmente dire le parole dei salmi, era in faccia a tutto il suo popolo.
Requiem aeternam dona ei, Domine.
Et lux perpetua luceat ei.
A porta inferi
Erue, domine, animam ejus.
Requiescat in pace.
Amen.
Domine exaudi orationem meam.
Et clamor meus ad te veniat.
Affranto, con mano tremante, senza vedere più, senza sentire più, incensò benedisse. Le centinaia di lumi che irradiavano così insolitamente in quell'ora la piccola e povera chiesa balzavano nella nebbia come le lingue del rogo infernale sul quale si era gettato.
* * *
Miss Globe comprò dal Municipio, tutto per sè, mezzo camposanto, e per l'anniversario della morte del suo Tony vi fu inaugurato il monumento opera di un illustre scultore fiorentino. Sopra una splendida base marmorea, con quattro faci di bronzo agli angoli, un immane cane bassotto, pure in bronzo, venti volte almeno il naturale, con due immense ali d'aquila spiegate verso il cielo. In basso, alla base, scritto: Tony and Jennet Globe. Fu creduto dai buoni paesani un drago americano, anche uno stemma, quello dei Globe, altri disse che quello era il leone di Venezia, ma nessuno seppe mai precisamente. Il funerale rimase negli annali di quel popolo il fatto più celebre. Vi furono famiglie che riscossero pel loro intervento settanta e ottanta lire. Drusilla lo considerò sempre il colpo della provvidenza scesa in soccorso del povero parroco; ella custodiva intatte le diecimila lire nascoste dentro la materassa del suo letto — dovranno passare sopra il mio corpo! — Aveva anche un gruzzoletto di certe astute economie fatte il gran giorno dell'aurea grandinata, lei aveva pagato tutti e aveva imposta qua e là qualche tara, specie di tacci, specialmente a quei famosi angeli.
Don Pasquale rimase per molto tempo indisposto, taciturno, pauroso, ogni rumore lo riscuoteva, non mangiava quasi più, quando officiava si sentiva male, due o tre volte si abbasì durante la messa, nella chiesa specialmente si sentiva triste.... Poi, poco alla volta si riebbe, ricominciò a mangiare, Drusilla gli preparava tutte le sue passioncelle con gran cura e senza economia.
Miss Globe divenne definitivamente l'amica della chiesa, ogni settimana mandava doni, e forse almanaccava già pel suo immenso funerale.
Fu accomodato l'organo e questo servì a richiamare in chiesa qualcuno di più, e Don Pasquale incominciò a riaversi, e andava ripetendosi che non aveva officiato coll'anima quella volta, che infin dei conti quel funerale non aveva nessun valore. E si ritranquillò, riprese, si riebbe, tornò a sorridere, e la sua coscienza entrò pian piano in una nuova fase: cominciò a pensare che quella bestiola fosse andata davvero in paradiso, e nelle allucinazioni del suo benessere se ne era fatto una convinzione. Il cagnolino non era stato proprio accolto in paradiso, per le vie celesti fra i cori degli angeli, ma San Pietro lo aveva trattenuto nella sua... specie di portineria, e se lo teneva, gli s'era affezionato, gli faceva compagnia.... e gli faceva comodo, gli serviva da guardia. Anzi, si domandava Don Pasquale, come mai nessuno prima di lui avesse pensato a mandargliene uno, ad un posto come quello ci voleva, era indispensabile. E la bestiola correva quando qualcuno bussava alla porta, annusava, abbaiava qualche volta.... forse quando avrebbe bussato lui chi sa che non lo avesse riconosciuto.... e gli fosse saltato addosso a fargli festa... non era sempre andato alle sue messe? E non era stato per tutto il tempo engenocchiato?
TRE DIVERSI AMICI E TRE LIQUIDI DIVERSI
Tolgo dalla prima lettera listata a nero che un amico mi scriveva dopo la morte di suo padre: «Per quanto verso mio padre io non nutrissi sentimenti di figlio affettuoso come mi avrebbe dettato, e come avrebbe voluto il mio cuore, e, lasciamelo dire, la mia bontà pure, la sua fine mi ha molto rattristato, ed ho sentito una grande voglia di piangere; ho resistito fino all'ultimo, mi sono fatto forza, non ho voluto cedere; ma sentivo quanto il mio cuore volesse il suo sfogo».
Leggendo questa lettera io pensavo: perchè ha rattenuto il pianto? Perchè non ha pianto? Perchè?
Passeggiavo sulla cima di un bel monte con un amico che ero andato a trovare lassù per qualche giorno.
— L'hai vista?
— Sì.
— È una bella donna, vero?
— Sì.
— Nel suo genere ben inteso.... una bella montanara....
— Sì.
— Ha un bel seno! Turgido! Eppoi, fresca....
— Sì.
— Hai visto come mi ride?
— Sì.
— Oh! figurati.... ha il marito in America.... Non è mica vero però che quassù siamo fuori da tutte le tentazioni.... già.... vorrei saper dove.... Tutte queste donne debbono stare senza il marito per mesi e mesi, figurati un po' che voglia ne hanno, talune per anni.... e sono giovani.... Che potrà avere?... Neanche trent'anni.
— Eh.... sì.
— Quasi quasi si finisce per essere più distratti in luoghi dove se ne vedono delle migliaia, non ti pare? Non si ha il tempo di posar l'occhio sopra una, che un'altra ti è davanti.... questa solitudine finisce per....
— Già. Basta una. Eppoi.... può bastare anche di meno.
— Ma io non ci penso. Sono venuto quassù apposta per non pensarci. Non è mica vero sai che sia una necessità per noi.... balle!
— Già.
— Non ne sei persuaso?
— No.
— Perchè?
— Perchè ci pensi.
— Sfido io, cosa vuoi, si vedono.... si guardano. Ti fanno capire che ci starebbero....
— E dunque?
— Dunque che?
— Dunque....
— Ah! No! Ho detto di non pensarci, sono venuto quassù apposta, figurati un poco, voglio rimanerci due mesi interi, non un'ora di meno, e ci starò.
Mentre il mio amico parlava io pensavo: ma perchè? Perchè? Perchè?
Uscivamo dalla casa di una gentile ospite presso la quale avevamo pranzato. Mezzanotte, la via era deserta. Vedo il mio amico appena fuori dal portone dare in smanie, sbuffare, torcersi, dimenarsi, correre verso il muro come se volesse buttarcisi dentro, e darsi con quella po' po' d'agitazione a sodisfare un piccolo bisognino, piccolo piccolo, il più semplice ed innocente di questo mondo.
— Beh! Sei impazzato?
— Oh! Uhf! Ehu! Ohi!
— Insomma!
— Sono da quattro ore in agonia! Ho sofferto le pene dell'inferno! Ma non mi hai visto che non potevo più star fermo sulla sedia? Non hai visto la mia faccia? E tu seguitavi a parlare della Divina Commedia, del paradiso.... ti avrei sgozzato! In certi momenti ti ho odiato! Non mi ero mai accorto quanto sei ridicolo e insulso quando parli.... che gnola!.... Fai proprio voglia di vomitare! Oh! Mi par d'esser rinato! Credevo proprio di scoppiare! Ma non m'hai visto quando ti facevo segno d'andarcene?
— No.
— Sono arrivato che erano le sette e mezza passate, sono salito di corsa.... non ho pensato.... Ho incominciato a soffrire dal principio del pranzo, figurati un poco.... Quattro ore, capisci, quattro ore!
— Perchè?
— Come perchè?
— Sì.
— E come dovevo fare?
— Di fronte ad un bisogno così urgente....
— Non m'è capitata mai l'occasione.... lei non si è assentata un minuto; eravamo lì, tre soli, tutta la sera come tre pioli....
— Appunto....
— Sì... la seconda volta che vai in una casa.... hai un bel dire.... Beh! oramai è andata così e non ne parliamo più.
Mentre il mio amico si torceva, si dimenava, sbuffava, si giustificava, io pensavo: ma perchè? Perchè? Perchè?
Io mi domando perchè oggi mi vengono insieme alla memoria questi tre diversi amici, e i loro tre liquidi diversi.... E mi domando ancora: perchè? Essi avevano nelle loro persone queste tre sostanze fluide, perchè si ostinavano a non lasciarle liberamente fluire? Perchè?
PICCOLO GIOIELLO SENTIMENTALE
«Come a quella povera piccina piacevano i fiori! Una cosa straordinaria!». Ma non poteva averne che pochi e ben di rado. Che infelicità! — I fiori sono delle spese inutili — le diceva la grossa madre. — Una famiglia non può permettersi di gettar denaro in certe buggerate. — Ella sarebbe andata volentieri a letto senza cena per due belle rose.
Morì la piccola sentimentale.
Ora la madre le porta in cimitero, almeno due volte ogni settimana, i più bei fiori che si possano trovare. «I suoi fiori!» dice la grossa donna sbuffando lunghi sospiri: «come a quella povera piccina piacevano i fiori! Una cosa straordinaria!».
PER UNA BELLA DONNA (COMMEMORAZIONE)
Esco in questo momento dalla visita di una salma.
Ho fatto la strada assorto nei più rosei pensieri, e rientrando in albergo penso ancora serenamente alla mia visita.
È morta una signora che conoscevo da molto tempo e che amavo fraternamente. Ella è stata precocemente strappata alla vita, voi penserete; no, noi eravamo amici stante l'enorme differenza di età che ci separava. Io ho ora giusti ventiquattro anni, essa ne aveva certamente settantaquattro, cinquanta di più. E stante ciò è assolutamente necessario ch'io subito vi dichiari che i nostri rapporti furono solamente quelli di una simpatica fraterna amicizia, e del più schietto cameratismo.
È per una stranissima combinazione che ho potuto rivederla. Tutti e due ci trovavamo contemporaneamente di passaggio in questa città senza saperlo. Ella vi è morta, io, avutane stamani per caso la notizia, sono corso a visitarla un'ultima volta prima che divenisse possesso del becchino.
Sono andato. Il segretario dell'albergo mi ha fatto accompagnare nella camera ch'ella occupava, trasformata in cappella ardente. Il letto, coperto da una ricca coltre di velluto rosso, era circondato da altissimi candelabri dorati a moltissime candele elettriche tutte accese, e sul letto la mia povera amica era distesa. Nella stanza cinque o sei tipi di estranei, nessuno che la mia memoria potesse ricordare. Solamente Fanny, la sua cameriera, le stava vicino senza piangere, ma intenta a vegliare il cadavere scrutandolo da capo a piedi, come s'ella dasse quella rappresentazione, di mostrarlo alle facce indifferenti che si trovavano nella camera. Quando sono stato ai piedi del letto Fanny mi ha riconosciuto e mi ha rivolto un mesto sorriso.
La mia povera amica non mi ha mai lasciato così sodisfatto di lei come dopo quest'ultima visita. Mai, altra volta, partendomi da lei, le ho rivolto così intero il mio pensiero, mai mi è piaciuta tanto come quest'ultima volta.
Non un fiore intorno, la camera non portava nessun segno eccezionale, nessun indizio di disordine riparato in fretta, non recipienti che non fossero quelli dell'uso quotidiano, non bottiglie di farmachi rimaste qua e là, nulla; tutto in bell'assetto come in ogni altro pomeriggio quand'ella stava bene. Per tutto un odore fresco di rose.
Di dove è entrata la morte qua dentro? Io mi domandavo guardandomi attorno.
La mia povera amica dunque giaceva supina, col busto rialzato, in attitudine molto disinvolta, vestiva una tunica attillata, semplicissima, di panno nero, senza alcuna guernizione, formata davanti come a scapolare. Questa tunica, scollata un po' in forma di rettangolo, lasciava scoperto tutto il collo e la sommità del seno che apparivano di alabastro invece che di carne. Delle calze nere finissime trasparenti, e dei meravigliosi scarpini di velluto rosso cupo con ricche fibbie in oro e strasse. Le maniche, che finivano al gomito, lasciavano venir fuori le braccia perfette e candide, e due manine accuratissime, che sembravano di cera, riposavano ai lati del corpo leggermente, con semplicità.
La testa era un capolavoro di eleganza. L'acconciatura dei suoi magnifici capelli d'oro con grande cascata di anelli e ricci, sorretti da un cerchio d'oro lucido, riusciva d'un effetto sorprendente; e la faccia era preparata con tale insuperabile squisita finezza come per un ricevimento o un ballo. Sfumate morbidamente le guance di un roseo caldo, vellutato; le narici, le labbra, toccate di minio con inarrivabile maestria; e alle orecchie, infiammate, due grosse perle ai lobuli, tenute a vite. Sul seno, dalla parte del cuore, un gruppo di rose, rosso cupo, del colore preciso degli stivalini.
Mi sono avvicinato fisso sulle rose, domandandomi se il delizioso odore che invadeva tutta la stanza fosse emanato da esse, e quando sono stato per chinarmi ad esaminarle, Fanny, con un gesto molto naturale, mi ha fatto capire che erano finte.
Ella ha sorriso e ha fatto presso a poco il gesto che avrebbe fatto la sua padrona se avesse potuto scorgere la mia curiosità.
M'ha assalito un desiderio pazzo di darle un bacio, ma un po' per la vergogna di quegl'intrusi, un po' anche al pensiero di scomporre quel volto perfetto, Fanny stessa certo me lo avrebbe impedito, mi sono detto di non farlo. Ho guardato coloro che erano per la stanza. Ma chi erano? Fanny non mostrava di curarsene, ella non si occupava che della sua signora. Ad un tratto ha aggrottato le ciglia in un istante di ansia, fissando strenuamente la piccola bocca vermiglia della padrona, poi ha emesso un grande respiro sollevandosi. Di che aveva paura Fanny? Che cosa poteva ormai succedere più di quello che era successo già?
Ho lasciato quella stanza squadrando in modo diffidente quei tipi, sorridendo mestamente a Fanny. Ella m'ha sorriso astraendo per due secondi la sua attenzione dal cadavere, e sono sceso, quasi quasi preso da una.... da una volontà di fischiettare.... di ballettare.... Ho inchinato il segretario al bureau, ho fatto un profondo ringraziamento al portiere che m'ha aperta la vetrata con premura, sono rimasto un istante incerto sulla porta, poi mi sono deciso da quale parte dovevo dirigermi e sono venuto qui, in albergo, a riposarmi un poco e a pensare alla mia povera amica.
Se ella avesse potuto imaginare che per l'appunto io, di tutti i suoi amici, doveva vederla oggi! Quale combinazione mi ha riserbato la sorte! Ella è qui di passaggio, ci si ammala rapidamente, vi muore, senza che nessuno ne abbia notizia; nello stesso tempo io mi trovo in questa stessa città, a caso so stamani della sua morte, e giungo proprio in tempo per rivederla poche ore prima della sua definitiva scomparsa.... Io sono affondato in questa poltrona e non posso distogliere il mio pensiero da lei, e forse per molti giorni questa impressione mi seguirà.
Ma quella gente estranea.... Che fossero delle comparse? Delle persone messe lì per chi potesse casualmente venire? Nessuno di quelli aveva un aspetto troppo elevato per esserle amico.... eppoi la loro espressione era precisamente quella di gente che sta lì pagata, a ore. Si tenevano tutti indietro, senza nessuna intimità col cadavere.... Ma non era dunque che una rappresentazione quella alla quale ho assistito? Io ho avuto questa fortuna di goderla e il ricordo mi seguirà sempre. Ma com'è che Fanny non è stata più espressiva con me?
Povera amica mia! Se lì mi avessero chiesto di comporre due parole per la sua sepoltura avrei scritto così: Qui fu sepolta una bella donna. Mi sembra che queste poche parole comprendessero tutto. Nella strana circostanza della sua morte invece non posso far nulla per lei. Se io fossi ammalato di necrofilia potrei recarmi qualche volta a farle lunghe visite al cimitero, intravedendola ancora, traverso la pesante pietra che la ricuoprirà, tale e quale ella era la mia povera amica, e illudendomi di andare ancora da lei. Se io credessi nell'altra vita come ce la descrivono i nostri buoni parroci potrei almeno ora imaginarla fra le turbe degli angioli del paradiso... ed ella dovrebbe stare così bene vestita da angelo.... Una tunica leggera e volubile come una nube, rosea, coi suoi bei capelli d'oro fermati dal cerchio d'oro lucido.... e il fascio di rose sanguigne sul seno, dalla parte del cuore... e gli stivalini.... Un angelo un po' troppo allegro, se vogliamo, un po' turbolento, ma che rialzerebbe dimolto il morale di tutta quella gente così monotona e sbiadita lassù.... Invece io non posso far nulla; se non penso al suo passato non la vedo più e mi sento cadere nel vuoto con lei. Chi mi dà la forza di vederla ancora se non con quella tunica nera, coi ricci d'oro, e il cerchio, e gli stivalini, e il fascio delle rose?... Io non riesco neppure a separarla da Fanny che pure vive.
Io non sono che un povero scrittore e non posso che servirmi di questa mia qualità per renderle un ultimo omaggio: commemorarla. Si fanno tante commemorazioni per degli orribili uomini che seminarono la terra della loro bruttezza, si può permettere ad un bravo giovinotto come me di scrivere qualche parola per una bella donna.
* * *
Nacque.... ma già, che cosa c'importa di sapere dove nacque una bella donna? L'importante si è ch'ella nacque. La chiamarono Michelina; un nome veramente che la rimpiccioliva un poco, ma secondo la pessima abitudine glie lo avevano esotizzato, e la chiamavano tutti Micheline. Noi per questa volta soltanto sopporteremo lo storpiamento esotico, visto che nel caso nostro serve almeno a nascondere la deficenza del brutto nome imposto ad una bella donna.
Tratteremo rapidamente, con molta semplicità, la sua vita, soffermandoci, senza eccessiva importanza, nei punti più salienti.
Non ebbe una natura precoce, anzi, ebbe la caratteristica assolutamente opposta. Questo dato è essenziale, noi dobbiamo ricordarlo come cardine nella descrizione di questa vita. E allora sorvoliamo pure sulla sua infanzia; ci assicurano che non fu una bella fanciulla ma un tipo abbastanza comune. E sorvoliamo pure sulla sua adolescenza. A vent'anni la dettero sposa ad un conte campagnolo piuttosto maturo, e rimase con lui nella ricca sepoltura di una villa sontuosa per altri venti. Ella aveva quarantanni quando questo marito morì, e noi dobbiamo raggiungerla precisamente a questo punto. Come si fa presto non è vero a scrivere la vita di una bella donna? Eppure credetemi è una cosa simpaticissima, io la provo per la prima volta e ne sono tutto entusiasta.
Voi potreste ragionevolmente imaginare che la mia fatica sia pressochè al termine e mi guardate già con certa aria diffidente. Sento che state per farmi una domanda molto naturale: era bella allora? Ecco.... non era certo brutta.... ma non si poteva ancora dire ch'ella fosse già una vera bella donna. In campagna aveva tenuto una vita più salubre che elegante, aveva sempre vestito con semplicità eccessiva, quasi con trascuratezza, non si era mai saputa, dicono, vestire, pettinare; i suoi capelli erano belli sì, ma di un colore castano scuro poco appariscente.... la sua bocca poco colorita non risaltava sul pallore del viso, e gli occhi non vi si aprivano come due baratri infiniti. La sua figura alta, forse un po' secca, un po' dura.... Da tutti i dati da me scrupolosamente raccolti risulta insomma ch'ella fosse una bella donna sì, ma non di quella quasi eccezionale bellezza ch'ella fu poi. Voi osserverete senza dubbio, come posso io spiegare questo fenomeno e parlare di albori di bellezza in un individuo all'età di quarant'anni? Ma ve lo posso spiegare io questo? Sono io addentro nei segreti della natura? Questo fiore che potevamo considerare già appassito, prossimo alla seccagione, dobbiamo invece considerarlo un compattissimo bocciuolo, e assistere meravigliati al suo smagliante sbocciare. Io credo che tanto la bellezza femminile come la virile possano eccezionalmente rimanere latenti in un individuo, per svariatissime ragioni in attesa del loro naturale sviluppo. O natura forse, questa madre tanto bizzarra, non segnò sul suo libro quel tempo che certi beniamini sciuparono sulla cattiva strada? In ogni modo non prenderemo il nostro caso come la regola ma come l'eccezione di essa. Aggiungerò infine per documento comprovante la fedeltà delle mie parole che, quelli che la conobbero, assicurano essere rimasta questa donna quasi invariata dal giorno del suo matrimonio a quello della morte del marito avvenuta giusti giusti vent'anni dopo.
Non ebbe figli.
Micheline rimasta sola, abbandonò la campagna, venne ad abitare un bell'appartamento di città. Ah! Giova dire che durante il lungo periodo del matrimonio, essa fu la moglie più esemplare, la sposa più fedele, e badate che il marito era tutt'altro che un magnifico signore, e tutt'altro che una simpatica creatura: un uomo assai brutto, e molto rozzo.
Micheline diveniva bella bella bella. Qui incomincia il prodigio. Metteva fuori la sua bellezza giorno per giorno, ogni giorno, nel suo cammino sereno, sicuro, per andarsi a posare tranquillamente sulla cima più alta della bellezza femminile. Sembrava che questa donna avesse avuta la vita non simile ad una corsa tutta in lungo come le altre misere mortali di questa terra, ma come un viaggio di andata e ritorno, e che giunta ai quarant'anni dovesse poi contarne trentanove invece di quarantuno, per uscire nel nulla dalla parte opposta.
I suoi capelli divennero biondi, morbidi, lucenti, ondulati, voluttuosi; i suoi occhi s'ingrandirono, le narici si colorirono, e le labbra, e i denti e il sorriso, divennero incanti di fascino e la persona tutta si arrotondò, incominciò ad agitarsi in movimenti di bellezza e di seduzione, come se una coscienza, un'anima, si fossero poco a poco risvegliate dentro di lei. E tutto questo con una grande infinita semplicità, con un'infantilità innata; diveniva bella allegramente sempre più gaia, sempre più buona.
I suoi compagni furono i giovani, i giovanissimi, quasi i fanciulli, amò.... le teste ricciute, immergere le sue dita bianche nei capelli folti di un bel ragazzo, le labbra appena appena ombreggiate, e gli occhi vivi, bramosi e inesperti. Fuggì l'uomo fatto, odiò Don Giovanni, i trucchi, la politica, gli accidenti in amore, i piani fatti, gli irresistibili.... niente niente di tutto questo. Cercava quello che c'era di più fresco e di più buono, gioendo di tutte le inesperienze, di tutte le follìe, ridendone fraternamente. Il piacere non era per lei che l'ultima fase di un bel giuoco da bimbi che precedeva un sonno tranquillo.
Ne amò di questi fanciulli? Forse più d'uno. Le ciarle, ahimè non mancarono: ve lo figurate un po' questo lurido mondo davanti allo spettacolo di così semplice e sana follìa? Le puntate? Le trovate di spirito?... Ma non la toccarono mai, il male non aderiva alla pelle di questa creatura privilegiata. Era un'anima divina. Nessuno come lei può mai avere compreso ed amato tanto la giovinezza, lei, miracolo di eterna giovinezza.
Ed eccoci al meglio. Noi dobbiamo ora discutere insieme quello che chiameremo il capolavoro di questa esistenza, il momento più bello. E siccome si tratta di un capolavoro sentimentale voi mi potete osservare che l'età del protagonista deve essere pericolosamente avvantaggiata, ma questo credetemi, non vuol dir nulla, non vedemmo noi artisti d'ogni genere produrre la loro opera massima a venti a trent'anni, come a sessanta o settanta? E non vi infusero i secondi come i primi la stessa vita? Gli stessi tesori di forza di sentimento di giovinezza come s'essi avessero generato la loro opera fuori del tempo? Micheline ha, è vero, cinquant'anni, ma il più acuto osservatore, il giudice più severo non può scuoprirgliene che trenta. Ella scherza, ride, ride rumorosamente, lunghe, limpide risate zampillanti di giovinezza fra la giovinezza, ma non ha mai amato davvero, o almeno non ha mai sofferto. Ha amato tutto e tutti, la vita ecco.
Dalla gaia combriccola che la circonda, dalle proporzioni perfette di questo quadro, qualche cosa esorbita dinanzi ai nostri occhi, qualche cosa che richiama più insistentemente, che si illumina di più, troppo; facendo piano piano oscurare il resto guastandone il divino organismo, l'armonia.
Micheline voi la vedete ora indugiarsi in lunghi colloqui, quelli che si chiamano colloqui ma che non sono altro che lunghi silenzi nei quali le parole smorzano di quando in quando l'ansia del tacere spasimoso, come riposi del troppo che si dice tacendo. Il suo bel volto si vela.... e si appanna la sua gaiezza.... Maurizio.... un bel bruno di venti anni che le si avvince per quella forza di facili sentimenti giovanili ancora informi mescolati fra loro. Vanità, desiderio, e ignoto, ignoto sopra tutto. Ma Micheline lo ama, lo ama davvero, si sente oramai lontana da tutti e vicina solamente a lui. Lo ama colla freschezza dei vent'anni ma con la forza dei suoi cinquanta. Ella ha cinquant'anni perchè li deve avere, se andasse dove nessuno la conobbe mai potrebbe avere la sua vera età. Ma tutti lo sanno attorno a lei, il tempo è inesorabile, e ne aspettano anelanti il dissolvimento giorno per giorno, la decadenza. Troppo ha pesato il suo avvallo sulla perfidia degli altri. Che vuol dire, se in una lotta miracolosa ella aveva vinto la sua stessa materia?
Una sera, questa strana fanciulla diceva:
— Maurizio, sono ancora bella?
— Tanto — ripeteva il fanciullo — tanto bella.
— Ma sono vecchia. Si vede, dimmi, dimmi profondamente sincero, sono vecchia?
— No. Te lo giuro. — E il giovane fissava coi suoi grandi occhi il viso di lei come per cercarvi in fondo quegli anni che non riusciva a scuoprire.
— E allora perchè lo sono?
— Non lo sei.
— Di', mi potresti amare se fossi vecchia, se fossi brutta?
— No, non ti potrei amare.
— Puoi pensare che io lo sarò domani forse?
— Non ci posso pensare.
— Neanche io sai potrei sopportare il disfacimento, no, sarò bella per te, per te soltanto, e finchè vorrai te, poi.., poi... più.
— Quanto credi Maurizio ch'io possa rimanere così?
— Sempre.
— No, Maurizio, parla sul serio, quanto credi?
— Molto, molto ancora.
— Ma quanto? Di' senza paura.
Il fanciullo voleva pensare ora a quello che diceva, sentiva senza comprenderlo che la sua risposta in quel momento era la firma sopra una cambiale; ma gli occhi di lei che ormai naufragavano nei suoi lo decisero, e disse meno di quello che pensava ma più di quello che voleva.
— Dieci anni.
E si sentì prodigo e avaro ad un tempo, generoso e pitocco. Micheline con semplice risolutezza scrisse una data.
* * *
Diremo subito per acquietare la curiosità del lettore che gli anni furono veramente dieci, e che questo fu un vero e grande amore. Vero perchè Micheline innamorata sapeva essere la più ingenua la più tenera colomba; grande perchè esso viveva la sua vita soprannaturale nella maniera più naturale di questo mondo.
Poco a noi importa dell'uomo, è la vita della donna che ci piace sottolineare ed esso ci interessa solo di riflesso.
Maurizio, nel suo amore, che non riusciva ad essere abbastanza sincero per essere vero, si sentiva teso in un disagio al quale credeva potersi sottrarre col ragionamento. Quella donna non era vecchia ma lo doveva essere. Essendo esso il più comune essere di questa terra non sapeva rimanere sereno di fronte al miracolo ed era necessariamente portato a turbare l'incanto dei suoi occhi profanando il suo amore, rendendosi indegno di quello che gli veniva concesso. Nei momenti dolorosi la fissava tutta affannosamente, come per frugare nel suo corpo dove nascondesse quei venti anni che le mancavano. Ma non era forse un errore dello stato civile? A intervalli era riassalito dall'amore, e dinanzi a lui s'ingigantiva serenamente la bellezza soprannaturale della donna e della compagna. Eppoi ancora il dubbio si riaffacciava a torturarlo. Egli dava in faccia a tutti la sua giovinezza ad una vecchia, portava questo giogo immondo, senza un vincolo vero; per una fanciullaggine, per un istante romanzesco che ora si doveva calpestare per salvare la propria dignità, per sottrarsi alla vergogna, ora che si sentiva di divenire un uomo. Questo era l'uomo.
Nulla sfuggiva a Micheline, tutto capiva, sicura di sè andava avanti con una serenità divina, come quei sublimi artisti, consci del loro valore, seguono il loro cammino fra l'indifferenza e le ostilità, certi non di una pur lontana giustizia, ma certi e paghi solo di sè stessi. Non m'accusate di lirismo o di esagerazione amici, non mi accusate di volere ad ogni costo fare un simbolo di bellezza con un povero pezzo di carne. Lettore, io ti supplico, aiutami a dir bene di questa donna, la mia penna non arriva più dove ormai è la mia anima.
Passarono gli anni, cinque, sei, sette, otto....
L'unione era rimasta invariata, ma l'uomo era ora incatenato dalla soluzione. Ella doveva uccidersi per lui, per il suo amore, lo aveva giurato, lo aveva scritto quella sera. Egli aveva mantenuto nobilmente la sua parola, i dieci anni, ella doveva mantenere la sua. Ma si uccideva per lui? O piuttosto per non assistere al dissolvimento della sua bellezza? Non era invece una pazzìa dettata dall'orgoglio folle di quella donna? Ma intanto egli se ne liberava. Che ne avrebbe dovuto far più? Essa si avvicinava alla decrepitezza! Dio! Dio! Come aveva potuto amarla? Micheline che si alzava così presto la mattina, non si faceva vedere che tardi, mai prima delle dieci, si capiva tanto bene che non ne poteva più, era finita, si reggeva per virtù di ripieghi, con interminabili sedute di toilette, forse soffriva terribilmente e nascondeva la sua sofferenza. Come poteva avere ancora voglia di vivere e di amare a quell'età? Ella manteneva il suo contratto per onore alla firma ma certo agognava la fine.
E la fine si appressava e Maurizio si sentiva sempre più ostile nei suoi pensieri, nel suo dubbio. Sì, doveva morire, solamente colla morte poteva ripagarlo di quello che così impudentemente gli aveva usurpato: i suoi dieci anni di giovinezza.
Era la fine. Pochi giorni mancavano alla data.
Micheline non aveva cambiato dal primo giorno, era rimasta paurosamente uguale, il miracolo dava la vertigine del vuoto quando l'essere comune che vi era dinanzi poteva guardarlo serenamente. Per quanto la passione fosse morta in Maurizio, sull'ultimo si riaccese. L'avvicinarsi di quel giorno metteva una certa paura addosso al giovane, gli faceva sentire una sensazione di freddo. Eppure si doveva ammazzare, quale orribile canzonatura per lui altrimenti? S'ella fosse venuta ad implorare?... Se avesse chiesto tempo ancora?... Dio! Dio! Quella donna gli faceva ribrezzo!
Ma fra loro nulla era apparentemente cambiato e non si parlò mai della data.
La notte che precedeva il giorno fissato si presentò come ogni altra notte del tempo vissuto assieme.
L'agitazione di quelle due anime invece di erompere e rivelarsi doveva quella sera ricevere l'ultimo suggello, e mentre l'uomo non era riuscito a leggere una sola parola in quella della donna, la donna quella sera non aveva più una parola da leggere in quella di lui. E dinanzi a questa grande superiorità come non dobbiamo noi sentirci ammirati e commossi?
A Maurizio, che non aveva avuto la forza di credere, la notte portò ore terribili. Si alzava dal letto, gli era impossibile di dormirvi, guardava dietro la finestra e la persiana la via deserta, silenziosa, la luce scialba che l'illuminava lo rabbrividiva come si fosse sentito nudo nella nebbia, orecchiava con terrore, il tremito lo assaliva, tornava a coricarsi a seppellirsi sotto le coltri, poi si rialzava ancora, e ancora si ricoricava. Eppure non credeva, quella donna, secondo lui, non era capace d'uccidersi, ne sbagliava il perchè, ma lo sentiva, lo sapeva, non si sarebbe uccisa, non credeva ma aveva paura, come quegli uomini vissuti tutta la vita senza una fede all'ultimo istante domandano i segni della loro religione. È la paura di un grido, di un tonfo, di un colpo, è una vile immonda paura questa!
La mattina egli sarebbe andato là.... nella sua stanza.... I brividi lo riassalivano, si tappava le orecchie colle mani, quasi stesse per udire un colpo. Attese. Come si sarebbe uccisa? Non sarebbe venuta a morire alla sua porta? Gli sembrò di udire in basso, all'uscio, raspare. Dio! No! Ebbe paura ad aprire, ebbe paura a tacere, il silenzio lo faceva delirare, si stropicciava forte le orecchie colle mani, non voleva più sentire, più vivere. Forse era lì, già morta! Come? Avvelenata forse? Si fece forza, tacque, nulla. Si sarebbe forse gettata dalla finestra? Avrebbe ad un tratto sentito uno schianto nella via.... Gli parve udire il cigolare di una persiana, una finestra che fosse aperta con cautela. I suoi occhi, naufraghi per la stanza, incontrarono finalmente la loro tavola di salvezza: il ritratto di Micheline, e in quelli che li guardavano con dolcezza si affidarono immemori un'ultima volta. Maurizio rimase così fisso. Riposò e si sentì sollevato. Ora sarebbe andato, no, non doveva uccidersi povera donna no no! Ma dopo? Che ne avrebbe fatto? Avrebbero pattuito, si sarebbero separati da buoni amici. Si incominciò a vestire, tremava, tremava, nell'alba tragica.... che cosa lo aspettava? Andando nel suo appartamento come l'avrebbe trovata? Morta? Morta come? Come aveva potuto indugiare? Voleva correre mentre continuava a vestirsi lentamente. Perchè non glie ne aveva parlato la sera avanti? Essa lo aveva lasciato come ogni altra sera.... che invece ella dormisse immemore il più pacifico sonno? Che non ricordasse più la data? Che si fosse sbagliata? Dieci anni erano passati da quella sera quando fu scritta, chi ne aveva parlato più da allora? Non poteva star fermo, girava su e giù per la stanza, tutto gli palpitava dentro, il suo cuore era per scoppiare.
Erano le sette, era appena il primo chiarore dell'alba, la luce grigia penetrava a suoli dalle gelosie delle persiane chiuse per la stanza. E Micheline che non apriva la sua porta prima delle dieci! Attese, attese, poi, trovato l'estremo coraggio uscì. Non seppe dirigersi risolutamente, entrò nella sala da pranzo ancora tepida e profumata dalla sera avanti. Sulla tavola erano sparsi avvizziti i petali di una rosa ch'ella aveva sfogliato ninnolandosi; i mozziconi delle sigarette erano nel piattino di porcellana insieme colla cenere e i fiammiferi estinti; e il loro profumo vagava ancora prigioniero; e il profumo di lei, il suo profumo lieve e fresco come quello delle rose.... Si diresse alla porta tante volte, ritornò alla tavola, voleva sedersi, voleva aprire, non voleva.... ma che cosa c'era dentro la sua anima, la più grande tragedia o la più ridicola farsa?
La porta dello spogliatoio era aperta, il suo cuore si fermò ma ebbe la forza di entrare, la porta della camera aperta.... entrò.... nulla.... nessuno.... il letto era rifatto, girò, cercò, nulla, più nulla, non uno scritto, non ebbe fiato di chiamare ma le sue labbra pareva gridassero: Micheline! Micheline!
* * *
Un bel pomeriggio d'inverno, quasi dieci anni dopo da questo fatto, Maurizio passeggiava sotto il bel sole napoletano della riviera di Chiaia. Era divenuto un uomo posato, le sue arie frivole erano scomparse, aveva quarant'anni oramai e li dimostrava perfettamente. Non più così accurato ed elegante nell'abito, si era deciso a divenire uno degli infiniti esseri di questa terra. Gli erano cresciuti smisuratamente i baffi e gli davano un'aria anche più matura. Gironzava sotto il delizioso tepore, lungo il mare, quando vide venire avanti lungo la riva una bella signora alta, bionda, elegante, accompagnata da un giovinetto men che ventenne, più basso di lei, pure elegantissimo, tutti e due marciavano di buon passo allegramente. Potevano sembrare la madre di quaranta col figlio di venti.
— Che bella donna — Pensò istintivamente Maurizio mentre la coppia si avvicinava.
— Maurizio?
— Micheline?
— Tu qui?
— .... sì.... — Maurizio balbettava.
— Come mai?
— Da tre giorni, di passaggio.
— Anche noi! — La signora era franca per quanto commossa. — Anche noi, sì, partiremo fra due giorni per Palermo, siamo in quattro, una carovana. Ah! scusa.... il signor.... tal dei tali, Maurizio, del quale abbiamo tante volte parlato — I due si strinsero la mano — Bene, io spero di poterti rivedere, noi siamo alloggiati qui, all'Hotel Santa Lucia, vuoi venire a colazione da noi domattina? Maurizio annuì senza capire quello che facesse — Allora.... a domani — La signora gli strinse forte la mano, con un sorriso buono e caldo che somigliava quello del vecchio sole. I due uomini si strinsero la mano con più espressione stavolta.
Maurizio rimasto a guardar dietro la coppia che si allontanava.... quella bella donna dritta.... con quella magnifica figura.... quella faccia.... quei capelli.... E quel giovinetto così educato.... pensava: — Ma quanti anni ha? — Tutto disorientato — Ma quant'anni ho io?... E quel tipo che c'ha insieme?... Hotel Santa Lucia....
* * *
Ah! Nella presentazione che Micheline fece dei due signori, io mi sono servito della vecchia e poco simpatica formula: tal dei tali, per il giovine che l'accompagnava, ma mi era assolutamente impossibile fare altrimenti; eppoi era anche inutile farlo perchè certo avevate già capito da voi di chi si trattava.... ecco, bravi.
LA BOMBA
— Bum!
Primi a vederla furono due pensionati gottosi.
— Bum! Ah! Eh!
— Una bazzecola!
— E può bastare il calore del sole! M'intende? Un contatto!
— Vede l'asta a quel terrazzo? Un consolato.
— Austria?
— Paraguai, credo.
— E allora?
— Lo stesso.
Giunse una servuccia con una bambina per la mano.
— Bum! Eh! Eh!
— Mamma mia!
— Bomba.... bomba.... Potrebbe essere anche una bomba.
— E quella di Madrid?
Giunse un garzone di macelleria col panierone sotto il braccio.
— Bum! Eh! Eh!
— Per carità! Non si avvicini!
— Benedetta imprudenza!
— I giovani....
— Già.
— Alto là. — Fu gridato ad una vettura.
— Che cosa essere questo?
— Bum!
— Nooooo....
— E le guardie? Le guardie....
— Già.
— La città corre un serio pericolo! I cittadini....
— Sono scarse di numero.
— E di zelo.
Passò un cittadino scettico senza voltarsi neanche.
— Eh! Eh!
— Involtata in un cencio di balla....
— Al solito.
— E Parigi?
Giunse un cittadino di dodici anni.
— In un cencio di balla....
Il cittadino di dodici anni fece atto di raccogliere un sasso.
— Misericordia!
— Accidenti ai ragazzi!
— Ih!
Il giovane di macelleria gli misurò il panierone sulla testa.
I due pensionati gottosi ripresero fiato, la servuccia si riebbe, tutti si riavvicinarono.
— Bum! Eh! Eh!
— E Porto Arthur?
— I giapponesi?
— Già.
— E i Dardanelli?
— Una bazzecola!
— Mi capisce? Non si sa mai.... la forma è strana.
— È una pentola.
— Bum!
— Come quella di Madrid.
Si aggiunsero un barrocciaio, un frate, due ragazzucce anemiche.
Un altro cittadino scettico non si voltò nemmeno.
— Eh! Eh!
— Dopo mezz'ora non si vede il becco di una guardia!
— Sono tutte nel centro della città.
— E sul luogo del pericolo?
— Centro e non centro...
Il cittadino di dodici anni era tenuto d'occhio.
— Bum!
— E se non fosse?
— Eh! Eh!
— Caspita!
S'aggiunse un cittadino senza professione.
Fu guardato con sospetto. Egli considerava attentamente l'involucro. Gli altri in cerchio consideravano lui attentamente, pure non perdendo d'occhio nessuno, in special modo il cittadino di dodici anni.
Il cittadino senza professione guardava sempre più l'oscuro involucro nel mezzo del viale. D'un tratto sembrò scattargli dentro una molla e vi si buttò sopra.
— Bum!
Fu fatto il largo che avrebbe fatto la bomba esplodendo. I due pensionati, benchè gottosi, seppero far lanci da cavallette. La servuccia, le ragazzucce, fuggirono guaendo, il barrocciaio bestemmiando, il frate tanto si rialzò la tonaca da mostrare due mutandoni bianchi che gli scendevano fino a mezzo i polpacci.
Il cittadino senza professione rimasto solo, chinatosi, aveva rovesciato l'oggetto, scucito la stoffa che lo ricuopriva....
I fuggiaschi a grande distanza ora guardavano la sua manovra.
Giunsero due guardie.
— Che cos'è?
— Un cestino di fichi secchi.
— Chi ve l'ha dato?
— Era qui.
— Date qua a noi.
— Ma io l'ho trovato.
— Per questo bisogna portarlo al Municipio, scaduta la prescrizione sarà vostro. L'avrà perduto qualche barrocciaio.
— Ma io....
— Ma io.... ma io.... date qua, eppoi sappiamo il vostro nome, non occorre spiegarsi troppo.
— Ma io ho rischiato la vita!
— Ah! Ah! Ah! Ah!
Tutti a poco a poco si erano riavvicinati.
— Sicuro ho rischiato la vita!
— Ah! Ah! Ah! Ah!
— Voi vi siete avvicinati quando avete visto che erano fichi secchi, ma io l'ho preso quando era una bomba!
— Si allontanino signori.
— Fichi secchi! Fichi secchi!
— Phue!
— Ha rischiato la vita!
— Ah! Ah! Ah! Ah!
— Figlio d'un cane!
— Ma che razza di gente!
— Un lazzarone!
— Bell'originale!
— Pregiudicati.... c'intendiamo?
— Eh! Eh!
IL BORSAIOLO
Sorprese Guido il mio gesto rapido di nascondere, e mi fu addosso incuriosito, nè io so perchè mi venne fatto così naturale di nascondere quell'oggetto che a caso m'era capitato fra mano, forse per risparmiarmi questa spiegazione, che, del resto, neppure so spiegare perchè, a niun'altro avevo dato mai.
— Fammi vedere, va' là, sei buono.
— Ma nulla, nulla, non è nulla.
— Sì, qualcosa hai nascosto, una roba nera, è una calza, di' la verità.
— Ma che calza!
— Una calza d'una tua ex amante.
— Ma che amante!
— Una cosa nera, l'ho vista bene, hai fatto troppo presto a nasconderla — E con tutta la persona riparavo il cassetto mezzo aperto — Deve essere una cosa molto interessante perchè ti preme troppo di non farmela vedere, ne sono incuriosito, sei buono....
— Ebbene via, ti voglio contentare, bracone che non sei altro, guarda.
Una borsa di velluto nero con cerniera e catena di metallo bianco.
— Ha appartenuto a tua madre? — Disse Guido deluso, dopo essere rimasto zitto alcuni secondi.
— No.
— Ad una vecchia signora certamente.
— Eh.... forse, ne ha tutta l'aria, vero?
— Sei stato l'amante di una vecchia, me l'avevano detto una volta al caffè, non volli crederci, ora incomincio a convincermene, sei stato l'amante di qualche vecchia infame, bacchettona, e che tabaccava per giunta, dentro c'è una tabacchiera, ci scommetto.
— Ma che vecchia, che tabacchiera, smetti grullo! Vuoi proprio sapere come è venuta qui questa borsa? Senti: stavo per uscire, un giorno.... cinque anni or sono, ero fermo alla porta, mi infilavo i guanti e davo qualche disposizione alla mia donna, essa teneva la porta mezza aperta. Vennero dalla via a un tratto delle grida confuse, e quasi insieme, ci capitò addosso senza che lo avessimo sentito, uno precipitandosi violentemente dentro la stanza, la donna fuggì spaventata ma io potei subito distinguere che le grida dicevano «al ladro! al ladro!» Compresi, era lui. Chiusi istintivamente la porta, la donna era affacciata cogli occhi fuori della testa, il ladro si era fermato in fondo alla stanza, rasente al muro a capo basso, alzava gli occhi per osservare la mia espressione senza supplicare, e senza avere per nulla aria minacciosa, aspettava quello che io avrei fatto.
E proprio mentre io pure lo osservavo incapace di prendere su due piedi una risoluzione qualunque, suonarono il campanello, feci lesto un cenno al giovane di ritirarsi nella stanza vicina, la donna pure si ritirò, aprii lesto, tutto pronto com'ero per uscire, cappello pastrano guanti bastone.... una guardia municipale, e dietro, alle sue spalle facevano capolino ansanti tre o quattro borghesi, e per le scale si sentiva gente salire e vociferare.
— Scusi, è entrato qui, in questa casa, un ladro, uno che ha strappato una borsetta ad una signora, l'hanno visto entrare in questa casa, ma non ci riesce di trovarlo, non c'è.
— Ma.... non so davvero, io non mi sono accorto di nulla, qui non può essere entrato certamente, io stavo per uscire ero qui, la porta era chiusa, se vuole passi pure, ma è inutile.... è impossibile.... non so....
— Oh! le pare, scusi....
L'intonazione delle mie parole fu tale che non lasciò adito a sospetto.
— Scusi, scusi — Disse due volte la guardia, avranno sbagliato, o sarà scappato per il tetto... chi sa, ora vedremo — E siccome loro salirono presto agli altri piani io richiusi.
Appena mi voltai ecco da una porta apparire la faccia esterrefatta della mia donna gonfia di paura e di dispetto, doveva sentirsi bruciare il pavimento sotto i piedi con quel tipo in casa, irata di fronte alla mia naturalezza, ma incapace di trovare la prima parola per la circostanza.
Sulla soglia dell'altra porta, in fondo, si fece il ladro, era rimasto lì, solamente dietro la portiera, e si ripose come prima nella identica posizione, allo stesso posto. Un ragazzo sui diciassette diciotto anni, vestito non troppo male, come un operaio, un giovine meccanico, teneva il berrettino in mano.
— Bene educato.
— Sì, mi guardava senza dir nulla.
Io andai su e giù per la stanza tre o quattro volte. Per le scale era un saliscendi, alla porta di strada s'era adunato un enorme gruppo di persone che vociferavano, alle finestre tutti erano affacciati; e sbracciavano, sbraitavano «sì sì» «no no» «lì» «là» «su» «giù». Chi l'aveva visto, chi no.... poco a poco tutti uscirono delusi dall'infruttuosa ricerca, e la gente un po' alla volta si squagliò, le finestre si richiusero perchè faceva freddo, il ladro era lì.
Rimanevamo in quella stanza io e lui e la donna che andava e veniva colla testa alla porta, fulminandomi ansiosa cogli occhi, ma nessuno dei tre era capace di dire la prima parola. La donna, si vedeva, aveva più voglia di tutti di dire qualcosa, di sfogarsi, contro di me, contro il mio modo di procedere, pigliarsi i ladri in casa, strapparli dalle mani della giustizia, mettersi a rischio di finire in galera con essi.... cose da dar la testa nel muro, ma non le riusciva di cominciare, io sentivo che bisognava dire qualche cosa, bisognava fargli una paternale, bisognava parlargli fraternamente, toccargli il cuore, dissuaderlo dalla sua decisione, invitarlo a desistere, e spiegare così la propria condotta, giustificare di averlo a quel modo salvato, il mariolo. Ma siccome io lo avevo salvato per istinto senza riflettere un solo istante, tutti i bei discorsi mi morivano sulle labbra.
Lui non aveva in fondo voglia di dir nulla, la sua posizione era chiara netta, si mostrava freddo, ed aspettava in fondo ch'io gli aprissi la porta, non arrivando a comprendere che io avevo incominciato a ragionare, e ragionando dicevo: se lo mando via ora così subito, è troppo presto, c'è ancora qualcuno nella strada che può vederlo e prenderlo o farlo prendere, la strada non può essere ancora del tutto dimentica e distratta dal fatto occorso pochi momenti fa, qualcuno può essersi appostato, gli feci cenno di accomodarsi.
— Si accomodò?
— No, rimase sempre in piedi appoggiato alla parete col suo berrettino in mano, guardando in terra e alzando tratto tratto su me gli occhi calmi, aveva dei capelli neri ricciuti scomposti, una bella testa bruna da adolescente e tutta la faccia pallida sensuale, una figurina snella. E quello che più di tutto mi turbava era la sua naturalezza, pareva ora che fosse sicuro di quello che io sentivo per lui, mi considerava colla freddezza del giuocatore nato che continua la sua partita senza il movimento di un solo muscolo della faccia, quasi sicuro di essere il padrone della situazione, e di dominarmi.
La donna dopo avere spiato un po' la scena, visto che nessuna risoluzione veniva presa sia dall'una che dall'altra parte, si ritirò nella sua stanza, messe il catenaccio con rabbioso furore, e si udì poi il rumore di qualcosa gettato contro l'uscio.
Siccome però incominciava ad imbrunire, pensai che l'unica era di farlo uscire, avrebbe potuto essere uscito benissimo da sè già da molto tempo, io ero rimasto tante volte fermo guardando fuori dalla finestra vagamente, ma non l'aveva fatto, sentiva che quella non era la logica soluzione, si sentiva legato a me come io a lui. E quando fu per scendere la sera mi messi la mano in tasca, estrassi dal mio portafoglio un biglietto da cento lire gli andai vicino glie lo messi nella mano senza dire perchè glie lo davo, e lui lo strinse appena, senza avidità sempre seguitando a guardare in terra. Mi affacciai alla finestra, scrutai bene la via nel grigiore del crepuscolo, andai alla porta, l'aprii cautamente, orecchiai, mi volsi a lui, lui prima fece un atto come per dirmi qualcosa poi alzò una spalla, decidendosi si mosse, sempre col suo berrettino in mano mi strisciò dinanzi guardandomi con disinvoltura senza timore e senza gratitudine strisciò ratto, io richiusi. Aprii la finestra per vederlo uscire, non c'era più, era già sparito.
— Avrà pensato che quelle fossero le tue consuetudini di padrone di casa, vi comportaste entrambi a fil di galateo.
— Chi sa che cosa avrà pensato, io non ho mai potuto capirlo. Dopo andai a chiamare la donna, ce ne volle per farla uscire, si era barricata nella camera, prima non voleva rispondere in nessun modo «Non c'è più, vieni, è andato via, vieni fuori» ce ne volle. Poi borbottando, rimuovendo tutto quello che aveva ammassato dietro la porta uscì indignata.
— Io me ne vado via su due piedi! Sono cose da mentecatti! Mettersi a tali cimenti. Io non intendo di combattere così coi matti.
— È un disgraziato!
— I ladri in casa! Perchè non gli ha dato da bere? Perchè non lo ha invitato a pranzo?
— Cosa vuoi, è un ragazzo, lui non ne ha colpa, chi sa come lo hanno tirato su i suoi, chi sa di chi è....
— Sia chi si voglia io me ne vado....
— Ma no, stai buona — Poi si dette a frugare per tutte le stanze, negli armadi, pei nascondigli, sotto i letti.
— Ma se è andato via, gli ho aperto io, l'ho mandato via io.
— Io non voglio saper tante cose, conosco i miei polli, non voglio mica finire strangolata per lei sa, o al bagno! un corno!
— Ma che strangolata, ma che al bagno! ma che corno! E non seppe mai l'affare delle cento lire che se no mi avrebbe dato il caffè amaro per un anno intero.
— Giusto, e quelle cento lire perchè glie le daste?
— Non lo so. Perchè fosse contento della sua giornata? Non lo so.
— E come c'entra la borsa?
— Aspetta, la donna, dopo avere sbraitato, cercato frugato, messo paletti e catene, la vedo andare nell'ingresso sotto il credenzone, buttarsi tutta distesa in terra a cercarvi sotto, io ridevo credendo che cercasse ancora il ladro — che cerchi? Ma sei pazza? E sbuffando con grande fatica ne trasse fuori questa borsa. Lei aveva visto che entrando il ragazzo aveva gettato qualche cosa sotto il mobile, io non me ne ero per nulla accorto a quel modo come mi era precipitato addosso, e si dette sempre borbottando a cercarvi dentro, eccola: guarda, un fazzoletto bianco di tela il rosario, e questo portamonete, dentro: dieci, cinque uno due, dieci venti trenta trentacinque: diciassette lire e trentacinque centesimi. Mentre la donna frugava nella borsa mi sovvenne che il ragazzo per tutto il tempo aveva guardato là sotto, sotto al mobile dove l'aveva buttata. E io che non lo sapevo, che non me ne ero accorto.
— Peccato perchè tu saresti stato davvero compìto prendendola fuori e consegnandogliela con garbatezza, aver tenuta la borsa per te non va, chi sa come ti avrà giudicato severamente quel bravo giovinotto!
— Ma già, già, sì proprio, voleva la sua borsa.
— Il borsaiolo ora sei te, meno male che non ti ha denunziato, l'hai scampata bella, lo puoi ringraziare.
— Precisamente, certo, e come potevo fare? Ecco perchè prese il mio denaro senza alcuno entusiasmo, voleva il suo, la sua borsa, quello che ci doveva essere lì, anche se era meno di quello, lo avvinceva, non le mie cento lire.
— Gli hai tolto tutto il gusto della sua professione.
— Ecco, bravo.
— Ma potevi pur sempre rintracciarlo, certi personaggi si sa presso a poco dove capitano.
— Ma no, ma no.
— È vero, non si sarebbe fidato.
— Non c'era più ragione oramai. L'ho rivisto tante volte dopo, e sempre in luoghi e in attitudine sospetti, fermo alle stazioni dei tranvai, fuori alle uscite dei teatri dei caffè, per due o tre anni ho continuato a rivederlo.
— Vi siete salutati?
— No, non ne ho mai avuto il coraggio, e il suo incontro mi ha sempre turbato, mentre lui mi guardava sempre con la più grande naturalezza e sicurtà, e bonomia.
— Non ti ha serbato rancore.
— E sulla sua fronte io leggevo bene: «rubo».
— Un bravo giovanotto in fondo, tu non gli hai mai restituita la visita nè la borsa che aveva lasciata in casa tua.
— Poi non lo rividi più, non l'ho più incontrato da anni, chi sa dove è andato a finire, soldato....
— In galera.
— Probabilmente, o sarà emigrato....
— In America.
— Forse.
— Ne senti un po' di nostalgia, di' la verità.
— No, ma conservo sempre questa borsa tale e quale, e qualche volta mi accade di pensare a lui, alla nostra avventura.
ALLA MORTE NON SI SFUGGE
Se una ragazza giunge all'età di vent'anni con una dote abbastanza vistosa essa ha certamente dovuto allontanare da sè qualche pretendente. Nessuno fa ressa dove le tasche sono buie, ma dove c'è qualche cosa che luccica tutti si avvicinano gonfi di curiosità e di speranza. Sperare è lecito, e vale anche la pena di tornarsene con un rifiuto. Il quale rifiuto del resto è sempre discreto: chi è quell'imbecille che va a farsi dire un «no» bello tondo, sul muso? Ci si avvicina pian pianino a spirale, come fanno i mosconi, stringendo sempre più il cerchio, si fiuta, ci si posa magari un istante, magari neanche, ci si allontana pian pianino, a spirale, tranquillamente, con dignità ed eleganza.
La ragazza fa la schizzinosa, è scorbutica; si vede che ancora non è venuto il suo momento, e non accetta la corte di quello, si mostra seccata delle assiduità di quell'altro.... E gli anni passano, venti, ventuno, ventidue.... la madre il padre i nonni gli zii i fratelli.... quella gran cicala che è il mondo incomincia a cantare. Come mai questo? Perchè quest'altro? Bisogna proprio prenderlo questo famoso marito, e la fanciulla piega la testa per il suo «sì» a colui che non ama e non disprezza.
Una buona dote è anche un gran calmante al cuore e ai sensi di una fanciulla; tutti le fanno coda ad occhi bene sgranati ed ella intanto impara a sgranare i suoi, e tutti i ragionamenti che il cervello le permette di fare in simili intervalli sono tante docce gelate sul suo sangue vigoroso e bollente.
Colei che non ha dote invece non può permettersi il lusso di tanto ragionare, il tempo stringe, e la fretta riscalda; attorno a lei i giovani mosconi ronzano meno e con minore soggezione, fiutano, scrutano liberamente pesano bene la loro mercanzia con la più grande calma e pochissimo rispetto, oppure sono pieni, straboccano di amore, di passione di follìe, di romanticismo, di cose poetiche, e mentre dalla bene dotata si pensa per primissima cosa ad un buon pezzo di carta da bollo che ne assicuri il patto matrimoniale, qua il pezzo di carta lo si vede all'orizzonte lontano, piccino piccino, tanto che chi non abbia vista più che buona può non vederlo addirittura.
Nel primo caso è il cancello chiuso pel quale si entra direttamente nel giardino, ammettendo che sia un giardino, nel secondo è la panchina in fondo ad un viale lungo eterno, di tigli e tutto assiepato di rose. In quel giardino una volta dentro succederà quello che succederà; a quella panchina invece non ci si arriva mai è un infinito languore di passo in passo fino alla consumazione. Ed è una fortuna sapete che quella panchina sia tanto lontana. Quando gli sposi finalmente, un tantino sfibrati, vi arrivano si accorgono che è tutta sconquassata.... schiodata.... ci si sta così male.... un Dio ci liberi, e gira e rigira non giungono mai a trovare la posizione, curiosa perchè da lontano pareva tanto carina e tanto fatta bene....
E qui chiudiamo pure le nostre oziose considerazioni e incominciamo la storia di una certa Elena la quale si trovava precisamente nel primo caso suddetto.
Questa ricca fanciulla aveva dovuto decidersi al matrimonio, come un dovere, non essendo conveniente rimanere oltre zitella a ventiquattro anni suonati, dopo avere storta la bocca a qualche dozzina di aspiranti. Scegli scegli, scelse uno dei tanti, per non dare scandali scelse uno ricco come lei che non la sposava per il suo denaro, questo almeno c'era di buono, per il resto vedremo poi.
Il tran tran matrimoniale non andava malaccio, lo sposo buono, gentile, educato, pareva fatto apposta per essere un bravo padre di famiglia; la sposa buona, gentile, educata, pareva fatta apposta per essere una brava madre. L'equilibrio della bilancia sembrava perfetto.
Elena nei primi due anni di matrimonio aveva dato alla luce due bambine: Anna e Agnese. Esse formavano la tranquilla felicità di quel padre e il miglior passatempo per quella madre.
Se tutta questa gente avesse seguitato così, e poteva anche darsi, il nostro racconto minaccerebbe di essere poco interessante davvero.
Ma noi non ci contenteremo di una guardatina superficiale ad un benessere superficiale, e secondo la cattiva abitudine precederemo gli avvenimenti ficcando un po' il naso dentro le anime dei nostri personaggi. E ci accorgiamo senza indugio che mentre uno è ben piantato sul piatto della bilancia, l'altro non vi è che buttato sopra provvisoriamente, e da un istante all'altro vedremo i piatti andare a gambe all'aria e l'equilibrio con essi.
Mentre nell'anima di quell'uomo non era più nulla di esplorabile, nulla da scuoprire, da svolgere, il suo filo era tutto sdipanato; la donna se ne sentiva dentro un gomitolo intatto, stretto, compresso, un globo, e lo sentiva pesare come una pietra dentro l'anima.
Talora le balenava pel cervello: «Se un giorno io troverò il capo di questo gomitolo?» E il capo lo trovò alla fine, e tutti capite bene di che capo si trattava: l'uomo, l'amore, l'abbandono, il piacere.... vivere e non più vegetare, come le diceva il suo cervello malleabile, e, sotto la vernice, il suo brutale istinto.
Da quel giorno la sua faccia non fu più tranquilla, i suoi occhi si svelarono e sprigionarono bagliori di fiamma, la bocca fiorì, divenne sensuale, tutto l'essere subì, in ritardo, la sua maturazione rapidamente, in pochi giorni quella donna cambiò tutta, divenne un'altra.
Spero che voi non penserete che simile prodigio fosse operato per unica consolazione e gioia di quel buon uomo ch'era suo marito; gli è che il gomitolo aveva mostrato il bandolo, l'ora era scoccata, e la donna afferratolo incominciava la sua corsa.
Voi sapete meglio di me quali possano essere gli indizî, per un marito, del suo momento critico. Io non pretendo certo di aggiungere una pagina alla grande Fisiologia del Matrimonio dell'immenso Balzac, egli ha illuminate abbastanza le teste maritali, perch'io pretenda di volerci portare il mio moccolino. D'altra parte nel nostro caso non importava chiedere aiuto al grande scrutatore del matrimonio, questa donna voleva, risolutamente voleva e trovava giusta e logica la sua condotta. Era divenuta intollerante cattiva. Rimaneva fuori di casa, quanto e quando le piaceva, era del suo amore soltanto, non voleva essere che di lui, sfidava tutto e tutti. Che cosa glie ne importava del marito, delle figlie, dei parenti tutti? Amava. Non avevano capito che quando questo istante fosse giunto ella non avrebbe arrestato di un attimo il suo cammino, e sarebbe andata dritta al suo scopo? Non era un'ipocrita, non ammetteva di prostituirsi, non si era data per quello che non era, dovevano averlo capito, colpa loro.
Una sera essa fu, nella sua casa, aspettata lungamente. Un povero uomo colla testa stretta fra le mani, attese colla pazienza del dolore più rassegnato, più atroce: attese: due creature gli erano attorno con occhi che parevano interrogarlo, e ai quali non seppe rispondere, la vecchia zia, in un angolo, addolorata, muta, vegliava come ad una salma.
Elena col suo amante era fuggita, via, lontana felice, felice di aver calpestato tutto, oh! avrebbe voluto gridarglielo a quell'uomo che si era illuso, a quel povero imbecille; quale era l'amore! Che credeva egli? Non aveva sentito, piccolo essere, di avere accanto una cosa, ed era convinto di amare e di essere amato, era convinto che quello fosse l'amore vero, doveva andare a vedere ora quale era! Egli non ne aveva mai neanche intraveduto il tacco di uno stivale! Ora sentiva tutta la forza del suo sangue, della sua vita, la piena del suo cuore da traboccare tutta in quello dell'amato. Poi non pensò più che alla sua felicità e per tanto tempo non si ricordò di avere avuto un marito, di avere partorito delle creature, nulla!
I due amanti vissero fuori, lontani dalla loro città, per tre bellissimi anni. Come nei primi due anni del suo matrimonio Elena aveva dato alla luce due bambine, così dalla nuova unione saltarono fuori due maschietti che furono chiamati Natale e Stefano.
* * *
Trascorsi questi tre anni, il suo amante non potè dispensarsi, per urgenti affari dal tornare nella sua città. Elena naturalmente lo seguì immemore ancora di avere là, in una via di quella città stessa, abbandonato un giorno un altro uomo e due piccine. Vi ritornava con questo che amava ancora come il primo giorno, e coi due maschietti pei quali aveva quelle cure che tutte le madri hanno pei loro figli, senza però avere ancora sentito neppure per essi il grande trasporto materno, istinto per il quale una donna può rendersi capace di tutto, dimenticando sè stessa, rinunziando alla propria vita per quella dei figli. Ella fu soltanto bestia per il suo uomo, una parola doveva renderla madre d'un colpo.
Rientrata nella sua città, Elena, viveva nella nuova falsa famiglia, che secondo lei era la vera, con la più grande naturalezza. Molti dei vecchi amici, anzi i più, non le rivolsero il saluto e la segnarono del loro disprezzo. Essa era fuggita, ma chi sa quali e quanti pettegolezzi avevano seguito la sua fuga! Aveva un'altra famiglia e vi ritornava con quella indifferenza, era il colmo!
Viveva appartata, usciva poco, di rado. Alcune vecchie amiche però furono molto liete di rivederla, e come se nulla fosse accaduto, ghiotte di questo genere di lecconerìe, ficcarono finchè fu loro possibile il naso nelle sue faccende. C'era anche chi la compativa; tutte quelle mogli, ad esempio, che avendo incappato in un marito della più ottima specie potevano permettersi anche il lusso di disprezzarlo; quelle avevano per lei parole di scusa — Essa non aveva potuto amarlo, il bestione, una donna d'impulso, di passione, come poteva rimanere con una marmotta di quella pasta? Troppo aveva pazientato. — Di più, quelle che si trovavano in posizioni simili alla sua corsero tutte, divise, divorziate, rimaritate, raccerottate con altri uomini che non combinavano perfettamente nel loro nome con quello che è scritto allo stato civile per legittimo compagno, tutte quelle picce insomma non di primo getto.
Un giorno, una di queste amiche che le davano di solito uno schiaffo sopra una guancia affrettandosi poi a carezzarle la guancia opposta, o viceversa, una di queste dunque le diceva: «Sapete mia cara Elena che quel vostro marito è veramente un imbecille? Voi non potete mai indovinare che cosa sia andato ad inventare alle vostre creature! Che voi siete morta». — Morta! — Essa esclamò dando un balzo. Quella fu la parola che barattò un cuore di amante in quello di madre. Elena sentì bene il baratto dentro il suo seno — Morta! Vigliacco! — Ella pensò — «Sicuro mia cara, e le piccole infelici pregano per voi, hanno fatto presso al loro letto un altare al quale offrono fiori lacrime e preghiere ogni sera e ogni mattina. Volevano in tutti i modi il vostro ritratto, non gli è stato concesso, capirete mia buona Elena i vostri ritratti sono tutti banditi da quella casa, eppoi per quel mezzo le piccine potrebbero un qualche giorno giungere a riconoscervi; gli hanno invece dato per il loro altare una fotografia della Vergine Santissima, che esse dicono la loro madre».
— Morta! — Ella pensava fra sè questa parola come volesse dire: — smemorata! E Anna? E Agnese? Io le aveva dimenticate. Come saranno? Forse io le ho incontrate per via senza riconoscerle.... chi sa come saranno cresciute.... Anna ha ora.... sette anni... e sei Agnese, le mie bambine....
In quel momento dimenticò il suo amante, non solo, ma Natale e Stefano.
— Morta! Vigliacco! Si è vendicato! Forse.... avrà sofferto, l'infelice, ed ora si vendica, mi ha uccisa nel cuore delle mie bambine, che sono mie, perchè le ho fatte io, perchè ho sofferto nel darle alla luce, ho gridato, è carne strappata dal mio corpo.... vigliacco! — Ella pensava — Vigliacco.... chi sa come avrà sofferto.... forse.... esse domandarono di me.... e lui non seppe che rispondere.... La zia Gilda forse ha detto senza pensare a quello che diceva.... senza capire di far male.... di far tanto male.... ha fatto molto male quella vecchia, bisogna riparare! Le mie bambine.... chi sa come saranno belle.... Anna.... Agnese.... erano rosee.... perchè le ho abbandonate?
Il giorno seguente, là in una via eccentrica, solitaria, una via fabbricata di piccole case signorili, una signora elegante, velata, con visibile impazienza percorreva su e giù da un capo all'altro la strada. Ecco sbucare ad un tratto trotterellando due bambine con una cuffina nera, e dietro di un passo una vecchia signora: la zia Gilda; le due bambine belle, fresche, sembravano una pariglia di cavallini neri che trascinassero il pesante convoglio della vecchia. La zia riconobbe subito la signora velata, le bimbe non capirono nulla; la signora venne avanti, rimase a lungo ferma dinanzi alla porta dove esse salterellando e ridendo erano entrate. La vecchia arrivò su senza fiato. La sera parlò col nipote dell'apparizione, e piansero insieme. Quella donna era capace di tutto, di qualunque bassezza, ed erano quasi in diritto di dubitarlo, di qualunque vendetta, si sarebbe vendicata. La zia raccontò di averla vista in attitudine imperiosa, crudele, spavalda, di belva spietata quale era, ed aveva sentite le sue ginocchia piegarsi per le piccole creature che nulla avevano compreso.
Ora quella signora quasi ogni giorno passava per la via, quando aveva vedute le bimbe si dileguava. Talvolta era dentro una vettura chiusa, ferma a pochi passi dalla porta, voleva sentire la loro voce.
Il marito, in preda a crudele agitazione, non usciva più di casa nella tema d'incontrarsi con lei; la vecchia zia uscendo si raccomandava al Signore perchè quella donna non giuocasse un brutto tiro alle piccine. Esse le passavano talora daccanto senza badare, un giorno si fermò a guardarle dietro, e Anna si voltò insieme con lei ma senza capire nulla.... che cosa doveva capire povera bimba? Pensava la sua buona mammina tanto lontana, e non le bastava il fiuto per sentirla invece tanto vicina. La sera rimanevano lungamente in ginocchio dinanzi all'altare della mamma «Dove sarai povera mammina nostra? In paradiso da Gesù». E forse a quell'ora una donna misteriosa alitava attorno alla casa.
Non si sa come mai alle due fanciulle venne questa idea: «La mamma è morta, dunque bisogna andare a trovarla al camposanto». E non si stancarono di chiedere e domandare.
Il povero padre pensava: — queste fanciulle crescono, incominciano a capire, che sarà di noi? Come si può continuare? Quella donna sarà spietata, io mi sono vendicato su lei; essa si vendicherà ferocemente sulle sue creature.
Si dovè trovare un estremo espediente, comperare un posto nel cimitero, uno di quei posti che si comprano in vita per la morte, porre una lapide, e scrivere sopra il nome di quella donna. Avrebbe avuto il coraggio di rovinare questo incanto per le innocenti? Forse si sarebbe sentita avvilita, vinta, definitivamente, avrebbe ceduto, abbandonata la preda. E l'uomo, pur lavorando per le sue creature, ebbe un ultimo rancore di marito calpesto, rialzò la fronte: — sì, bisogna seppellirla.
Il posto fu comprato e sulla lapide fu scritto: Elena Fascia Tarantini.
La zia ripeteva: «siete troppo piccine per andare al camposanto»; ma loro tanto insistettero che un giorno bisognò condurvele. Cariche di rose, le belle faccine salirono sulla vettura che le doveva portare dalla mamma. Mentre la carrozza si muoveva la solita figura apparve proprio in quel momento.
— Dove vanno? — Essa pensò — Portano i fiori alla maestra, o alla Madonna, perchè voglia bene la loro mamma.... belle!.... Sembrano anch'esse due rose.... invece Natale e Stefano sono così pallidi.... anemici.... Oh! Era naturale, quelle creature concepite negli spasimi della voluttà, dovevano essere così, essi portavano in fronte la macchia del piacere illecito, del vizio; le due bimbe invece no, non furono concepite per il piacere dell'uomo, erano cresciute sane.... belle.... erano state concepite nella purità... Oh! avesse potuto prenderseli tutti e quattro i suoi piccini e fuggire via con loro! Ma l'avrebbero amata? Non avrebbero, un giorno, conosciuta la verità, incominciato a odiarla.... a disprezzarla.... Dio! Che povera donna infelice era lei! E in fondo che aveva fatto? Aveva amato un uomo, se quello fosse stato il marito, se non l'avessero spinta al matrimonio troppo presto, ora sarebbe stata felice, tranquilla.... Ma quei due uomini perchè non si odiavano? Perchè non si mettevano l'uno di fronte all'altro con una pistola in mano? Oh! Ella avrebbe voluto vederli scomparire, e rimanere sola coi suoi bambini, uno non lo aveva amato mai, l'altro non lo amava più. Amava i suoi figli, e specialmente le sue bambine che la credevano morta. Morta! Che vigliaccheria! Bisognava vendicarsi ma senza toccare le piccole, oh! i loro visetti rosei non dovevano impallidire.
Un giorno, alcune delle solite amiche, le vennero a dire «Mia cara Elena noi veniamo qui, a casa vostra, e vi troviamo bella e fresca come un fiore, e quando andiamo in cimitero a pregare per i nostri poveri defunti ci sentiamo prese dalla voglia di recitare anche per voi qualche orazione. Le vostre piccine sono lì quasi ogni giorno a spargere fiori sopra la vostra tomba».
— Oh! Porco! Anche questo! L'aveva seppellita! Non c'era più speranza, non le rimaneva che farsi mettere viva in quella tomba per amore delle sue creature! Era troppo! Era troppo! Ecco dove portavano le rose!
Andò al cimitero trovò la sua tomba colla lapide e attorno tante rose, tanti fiori accomodati da quelle quattro manine....
Quel giorno essa aspettò ma le piccole non vennero. Si recavano là il giovedì e la domenica, i giorni di vacanza. Ella tornò ancora e ve le incontrò. Erano inginocchiate.... cogli occhioni belli, pensosi....
— Che succederà — pensò la vecchia zia tremando.
I primi giorni Anna e Agnese avevano domandate centomila cose, un diluvio di osservazioni che nella loro ingenuità saltavano fuori così profonde che la vecchia dovè radunare tutta la sua esperienza per rispondervi senza sbagliare.
Perchè la lapide della mamma non era tutta scritta come quella degli altri morti? La zia aveva risposto che quando il dolore è vero e grande non si possono trovare tante parole. — E allora? — Avevano esclamato le bimbe — tutte quest'altre? — E alla loro tenerissima età avevano guardato quasi come un vecchio scettico le lunghe filastrocche, ed erano contente che la mamma fosse così tutta bianca, si riconosceva bene da lontano, si distingueva dalle altre con quelle tre parole sole in mezzo.
Quando scelsero la cappina per l'inverno, la vollero nera ad ogni costo. — La nostra passeggiata è sempre al camposanto, e al camposanto ci si va vestiti di nero. — Là incontravano tante persone vestite di nero cogli occhi rossi di pianto....
S'inginocchiavano una accanto all'altra, dicevano una preghiera tutta loro, una di quelle preghiere vere, che dovrebbero andare di volo dalle anime all'anima di chi porgesse orecchio ad ascoltarle. È facile pregare macchinalmente, con vecchie parole, e i monaci possono rimanere ore e ore ogni giorno biascicando le consuete frasi, ma se essi dovessero pregare colle parole loro, oh! non durerebbero che pochi minuti.
La preghiera di queste due bambine era una di quelle piccole cose fatte apposta per far versare fiumi di lacrime ai cuori teneri; ma che noi abbrevieremo per raccoglierne minor mèsse che ci sia possibile. Esse dicevano presso a poco così: «Piccolo Gesù, la signora maestra ci ha insegnato che tu risuscitasti dopo che eri morto, tu che sei tanto buono insegna alla nostra mammina che è qui sotto, come hai fatto, e allora lei ritornerà colle sue bambine». La vecchia zia dietro piangeva e guardava all'orizzonte sempre temendo di veder comparire la solita figura.
La signora vi si recava, e da lontano osservava la scena.
— Come sono punita! Quale cuore è più straziato del mio? Le mie creature sono lì, e piangono e pregano sulla mia tomba, ed io a pochi passi da loro non posso correre a rialzarle, abbracciarle e farle felici. E sento che la forza che mi tiene mi abbandonerà, che io non resisterò e non posso e non debbo andare!... Dio! come sono punita! Nessun cuore può essere più lacerato di quello colpito nell'amore dei suoi figli!
Ebbe un impeto di sdegno contro l'uomo che l'aveva sepolta.
— Ah! Tu mi hai uccisa e sepolta! Va bene! Sono morta, ma ancora in tempo per risuscitare!
La domenica, quando le fanciulle furono allo svolto che recava alla tomba della mamma, diedero insieme un grido, uno scatto, e una corsa. Sulla lapide, in piedi, immobile, c'era una bella signora vestita di nero, pallidissima, tutta coperta da un lungo velo nero.
— La mamma! La mamma! — gridavano — Gesù! Gesù! Le si avvinghiarono ed ella inginocchiata, se le stringeva, e piangeva e singhiozzava....
La vecchia ebbe un primo impeto sdegnato, e gridò:
— No! No! — Ma poi chinò la testa. E le piccole gridavano che Gesù aveva fatto come gli avevano detto loro, glie lo avevano detto loro a Gesù, e appena smessero di gridare le raccontarono.
Intanto due uomini erano giunti, e con due grossi pali di ferro avevano sollevata la lapide dinanzi alle bambine. La tomba era vuota, bianca, nuova, pulita. Come era bella la tomba dove era stata la mamma! Non faceva punta punta paura! La mamma era risuscitata! La fecero salire nella vettura, essa non voleva, ve la obbligarono, non fu possibile resistere, la spinsero su tirandosela in mezzo.
Il padre era immerso nei suoi pensieri quando udì le grida e vide l'apparizione. Rimase fermo senza poter capire.
— Risuscitata! — Gridavano insieme le fanciulle come la cosa più naturale di questo mondo — Risuscitata! Non ci crede! Non è la mamma?
— Sì. Sì — Disse l'uomo con voce spenta, incapace ancora di raccapezzarsi.
— E allora?
I due si avvicinarono, si strinsero piegando il capo ad un giogo che le due creature imponevano colla freschezza di una corona di rose.
— Risuscitata!
* * *
Ma.... alla morte non si sfugge, mia cara signora, nemmeno quando si ha la fortuna di poter risuscitare: Lazzaro non è più fra noi.
In quella stessa ora, in un'altra casa di quella stessa città, un uomo passeggia nervosamente avanti e indietro per una stanza; due fanciulli pallidi che sembrano gigli sbatacchiati dalla tempesta: — la mamma? la mamma? — domandano con un filo di voce.
L'uomo si morde il labbro inferiore aggrottando le ciglia, poi con una mossa rabbiosa, pestando un piede, trita fra i denti una parola secca: «morta!»
LE DUE FAMIGLIE
Quando la vedova del colonnello usciva per condurre a fare del moto la sua famiglia, intraprendeva invero una faccenda che a qualunque altra donna sarebbe riuscita molto difficile per non dire assolutamente impossibile. Ma questa donna avrebbe saputa sbrigare a dovere quella e ben altre faccende. Di mastodontica corporatura, bella ancora nella sua eccessiva robustezza, figlia della forte Romagna, nascondeva sotto il suo rigoglioso e virile aspetto, sotto la sua apparenza di burbera e intollerante, un immenso dolcissimo cuore, una grande anima aperta leale e generosa.
— Miei cari — soleva ripetere ai suoi amici — io vi vorrei vedere un po' al mio posto, uscire con cinque ragazze di questa specie! Traversare il centro di una città, passare sotto migliaia di occhi indiscreti, dinanzi a tutti gl'imbecilli che vi si parano sul cammino. Se fosse vivo quel brav'uomo del colonnello potremmo almeno dividerci la razione! E le ragazze hanno bisogno del moto come del pane quotidiano, hanno bisogno di luce, di aria, questi diavoli! Provate a tenere fermo il vostro ferro; esso vi farà la ruggine, volete ch'io lasci arrugginire una stirpe di tale specie?
Non sembra dunque ch'io conduca le puledre sul mercato? Non vi faccio questo effetto? Mi sembra. Può darsi ch'io equivochi. Pensate ch'io non posso neppure servirmi di una vettura pubblica, nossignore, per condurle fuori, via, all'aria aperta, a scavallare un po' queste bestiole; possono farsi strascicare per le strade sei donne a questo modo tutte sopra una vettura? Possono, dite voi? Per divenire la favola della città? Un carro simile? Per le strade della bella Firenze una biroccia carica di grazia di Dio come questa? Migliaia di imbecilli ci sventolerebbero i loro fazzoletti; non potendo più farci udire i loro ridicoli commenti. Fino a poco fa, vedete, la faccenda non era poi così complicata, ve ne erano delle bambine, ma ora sissignore, Valentina non ha che dodici anni e mi dà pensiero come le altre, s'ella non mi sembra già la più provocante di tutte nella sua fanciullezza. Noi marciamo due per due, sissignore, come le educande di Santa Dorotea.
Questa esuberante donna, facile ad esagerare anche nell'esprimersi, pure, quando parlava così non si può dire che esagerasse molto. Aveva cinque figlie la maggiore delle quali, Federica, non aveva ancora vent'anni; la seconda, Guglielma, diciannove; la terza Guida, diciassette; la quarta, Pietra, quindici; e l'ultima, Valentina, dodici.
Le prime quattro si rassomigliavano come gocce d'acqua, quattro belle creature bionde, rigogliose, dalle figure alte, morbide, slanciate, dai grandi occhi celesti, e con pronti e franchi sorrisi sulle labbra, anime aperte, allegre, sincere. L'ultima, Valentina, aveva invece dei bellissimi capelli neri, e grandi occhi azzurri pensosi, carni brune, ed era, nella sua candida espressione, un pochino triste, strano contrasto coll'eterna giovialità delle sorelle.
— S'io non fossi la donna che sono si direbbe che questa bella creatura non fosse di quel galantuomo. Si è mai visto gatte bianche partorire gatti neri? Suo padre voleva convincermi ch'essa è il ritratto della madre sua. Come due animali rossi hanno potuto mettere assieme questa creatura così nera? Sapreste voi dirmelo?
Questa vedova era stata, si vedeva ancora benchè prossima alla cinquantina, una magnifica donna, di quelle monumentali, dai lineamenti regali, dalla superba figura. Un felice impasto di popolo e di reggia. Il povero colonnello l'aveva conosciuta oramai vicina ai trent'anni e risoluta a non maritarsi più. In possesso di una grossa fortuna i pretendenti non le erano mancati; ma per il suo impetuoso carattere aveva sempre mandato sottosopra ogni cosa. Una volta fu chiesta da un giovine aristocratico, un po' melenso e timidiccio; mentre ella gli andava incontro a mano tesa e il giovine brancolava per portarsela alla bocca e baciargliela, la ragazza sentendo in quel cincischiare la sua mano prossima alla faccia dell'individuo gli assestò un così solenne ceffone, tanto istintivo, ch'ella si chiese poi come fosse partito dalle mani. Alle sue strette bisognava essere prevenuti; voi provavate, prima, il netto distaccamento del braccio dalla spalla, dipoi, sentivate come migliaia di formicole circolare al posto del braccio che non sentivate più. Anche le sue risate erano favolose, altri le chiamerebbe addirittura sconvenienti, superavano qualunque frastuono, ed uscivano limpide, metalliche, che rivelavano la sua contentezza, la serenità del suo cuore.
Col povero colonnello, morto di un colpo apoplettico quando Valentina aveva appena quattro anni, nei momenti della massima comunione, dopo avere più o meno amorosamente discusso o parlato, o altercato, di faccende o di opinioni, finivano con una stretta di mano, ugualmente mortale da ambo le parti, ma che dimostrava la reciproca stima dei due focosi esseri. Cosa molto rara fra marito e moglie.
Quando ella, risoluta a non maritarsi più, s'imbattè in quella buon'anima, allora capitano d'artiglieria, alle prime parole avute con lui — ecco il mio uomo — disse, si scambiarono la prima di quelle strette, s'intesero, si amarono.
— Tutti pretendevano un'unione piena di baruffe e senza prole, sissignori, io e quel valentuomo c'intendevamo come il pane col formaggio e per la prole eccovi, quale sorta di creature siamo stati capaci di mettere alla luce del sole! La gente di questo mondo non apre la bocca che per dire delle bestialità. Il pover'uomo era un santo! Che anima! Che sangue! Per tutti i diavoli, era un uomo, non s'incontrano più che degli scarabocchi! Bisogna ricorrere ai tempi antichi! Pure è morto senza avere la sua sodisfazione. Dio non è giusto, ogni volta ch'io era per partorire, egli, preparava segretamente un bel nome per un fanciullo, sissignore, che per cinque volte ha dovuto assestarlo a delle piscione come queste, oh, egli non si prendeva la bega di cercarne un altro, in ultimo capì, il baggiano, che c'erano anche le donne al mondo, per sua disgrazia, che bisognava trovare dei nomi a doppio uso. Queste ragazze portano dei nomi come i maschi! Oh! povero galantuomo, ti dò la mia parola, ti avrei dato un novello Garibaldi! L'infelice mi cadde addosso come un cencio mentre disputavamo da buoni amici, mi cadde nelle braccia fulminato, era nato per questo, si vedeva bene, la sua faccia era un vulcano, il sangue gli invadeva la testa di continuo.
* * *
Quando la vedova del colonnello ancora giovane e bella, rimase sola, molti le furono attorno a consigliarle un novello matrimonio. La sua situazione, per quanto ricchissima, era delle più scabrose, con tante figlie.
— Volete ch'io ricominci il mio lavoro? E dove troverei ancora una vena di quel sangue? Credete ch'io potessi vivere con una marmotta chicchessia? Mi credete incapace a trarmi d'impaccio con queste piscione? Vedremo se io sono una donna!
Si era levata d'impaccio a meraviglia, l'unico esercizio che le pesava era quello di condurle a spasso; ella lanciava occhiate furibonde a chi sottolineava il passaggio o con sguardi troppo indiscreti o con parole troppo lusinghiere.
— Ti sembrano bocconi per i tuoi denti, pezzo d'imbecille che non sei altro? — Aveva qualche volta alzato l'ombrello da sole, e da acqua, sulla testa di qualcuno.
— Io spero che le mie fanciulle non cadranno nelle mani di questi piccoli fiorentinucci.
* * *
I bei frutti si maturavano rapidamente e i primi di essi, nella loro esuberante freschezza nei loro smaglianti colori parevano proprio dire: «coglieteci, non ci lasciate cadere». E la colonnella era il ricco ceppo ambulante che li sosteneva.
Era un po' difficile rompere il ghiaccio, non per quelle care e belle creature, ma per la bollente madre, essa godeva, fra chi non la conosceva bene, una fama del tutto sbagliata, la si considerava come una donna terribile, e, qualche volta, un tantino volgare; bastava conoscerla per convincersi che di terribile in lei non c'erano che le parole, e che tutto il suo essere si sintetizzava in una sola parola: salute. Era molto difficile meritare le sue strette ecco, e i suoi scappellotti, che noi dobbiamo considerare come le carezze di un affetto impetuoso e sincero.
Due tenenti di artiglieria, forti e bravi giovinotti, fraternamente e saldamente uniti, impossessatisi a volo dei cuori di Federica e di Guglielma, tentarono da eroi l'assalto alla fortezza; essa rispose al primo attacco con mitraglia, ma al bell'aspetto florido e gaio dei due tipi, e tenuto conto di un debole speciale per quell'arma, la fortezza si arrese.
— Quest'artiglieria deve essere il Rubicone della mia famiglia! Da bravi giovinotti! — E picchiando sopra le spalle dei saldi artiglieri colpi da camerata la colonnella decise la sorte delle sue due figlie maggiori.
— La mia non è più una casa, è un arsenale! Venite pure a vedere! Queste bestie di artiglieri mi fanno il finimondo! — Eppoi con un sorriso pieno di gioia — È pur sempre simpatico il rumore degli speroni! Gran bella cosa! E questa masnada di donne non poteva durare di più, io mi sarei data la testa nel muro! Venite a vedere, le mie piscione si maritano!
Una volta in casa, i fidanzati, messero un ameno scompiglio. Guida e Pietra si fecero un po' serie, un po' crucciate, sentivano di rimaner sole e si appartavano malinconiche. Il loro sangue vivace dava loro una naturale irrequietezza.
— Eccole, tutte in amore le mie gatte! A che cosa pensereste mai, voi, signore piscione che avete ancora il latte sulle labbra?
Si respirava però un'aria già di matrimonio generale.
— Chi può fare tali proposte onoratamente? Volete ch'io metta le mie creature nelle mani di un satiro? A quindici anni si debbono maritare le ragazze? Ma in che mondo viviamo?
Quando Federica e Guglielma furono spose e partirono felici dietro i loro compagni, non passarono molti mesi che un certo avvocato si presentò di punto in bianco dalla colonnella e chiese risolutamente la mano di Guida. La madre ne rimase di sasso, ma la figlia sembrava prevenuta ed era raggiante nella sicurezza ch'essa non l'avrebbe ostacolata. Questo avvocato era un bel giovinotto bruno, ricco possidente palermitano.
— Palermo? Che discorsi mi fate? Andresti dunque fino a Palermo pure di attaccarti ad un idiota di uomo? E che cosa sono mai questi avvocati colle loro chiacchiere? Non è certo colle chiacchiere che si viene a far mercato da me.
— Ma Palermo è una magnifica città, mammina.
— Andare fin laggiù, in quella orribile Sicilia!
— Mammina, ma la Sicilia è un incanto, il paradiso terrestre.
— Cosa ne sai tu che ne senti parlare per la prima volta dal tuo avvocato?
— Eppoi verremo sempre a Firenze, spesso spesso, a trovarti, e tu verrai da noi, laggiù, vedrai com'è bello....
— Tu sei esaltata, questo tuo avvocato ti ha confusa la testa colla sua parlantina. Si capisce, è un incanto, è il paradiso della terra, naturalmente, si può benissimo andare fino al Messico per correr dietro a due calzoni! Scellerate! Voi non somigliate vostra madre! Nè a quella buon'anima del colonnello! Il vostro aspetto si smaschera non appena siate influenzate da un imbecille chicchessia. Sembrate delle monache frustate e non avete poi vergogna a mostrarvi furibonde per il primo idiota coi calzoni.
Ma anche l'avvocato siciliano, che era un bravo e simpatico giovinotto, ebbe i suoi buoni colpi sulla spalla dalla colonnella e Guida, poco più che diciottenne, partì beatamente per la sua Sicilia.
Un po' di riposo eppoi doveva essere la volta di Pietra; (che nome povera piccina, mi pare che almeno questa volta il bravo colonnello poteva darsi la pena di assestargliene un altro). La madre la teneva ancora vestita da marinaio come una bimba, ed essa ne era mortificata. Malgrado i suoi diciassette anni sentiva il gran momento assai più vicino di quanto non lo pretendesse la madre.
— Ma che cos'hanno nel sangue queste infelici? Sono come delle bestie in caldo!
Un compagno d'infanzia di Pietra e delle altre, ma che aveva sempre avuta una particolare tenerezza per lei, benchè avesse quattro anni di più, aveva or ora finito il suo corso di scienze sociali, e si preparava a partire per un'ambasciata. La vedova del colonnello annusava già la fine di questa infantile amicizia e si preparava a scattare furibonda sopra il giovine che aveva conosciuto dalla nascita.
Una sera, dopo un pranzo dato ad alcuni amici, e al quale era stato invitato anche il futuro diplomatico, la colonnella li sorprese, lui e Pietra, in sentimentale colloquio dietro una tenda, nel vano di una finestra. I colpevoli vennero in faccia a tutti smascherati e minacciati della frusta.
— Che cosa sono queste tresche? Che cos'è la mia casa, il bordello universale? Avete tutti congiurato contro di me? Furfanti! Mi lascerete sola come un cane! Queste creature io le ho dovute precipitare, assassinare tutte, le ho dovute mettere nelle mani dei primi venuti, dei loro carnefici; prima che avessero terminato il loro sviluppo naturale! Dovranno pentirsene! Io allora farò loro l'uscio sul muso! Credete ch'io voglia essere la rovina delle mie povere creature? Cosa pretendi tu colle tue ambasciate, di trascinarmi questa vitella al macello? Nel centro dell'Africa? Fuori della civiltà? Fuori della mia casa? Io sono furibonda! Non conosco più ragioni! Questa orribile schiatta di animali mi ha fatto dar di volta al cervello! Rimango sola come una bestia! Queste rinnegate, una volta via, non scrivono più, non sanno pensare che ai loro despoti; la mia Federica ha già partorito il secondo figlio! Ma che diventerà mai questa casa! L'arca di Noè in persona! Questi insensati si riproducono come i conigli, che sanno? Non sanno nulla, che sia la vita! Ai miei tempi era ben diverso, ora tutto diviene caro in una maniera indegna! Si può pensare a maritarsi con tanta leggerezza? Eppoi gente di questa specie? Che posizione è mai questa della tua ambasciata? E questa creaturina dovrebbe venirti dietro alle ambasciate? Mai! Volete farmi venire un colpo apoplettico, come al colonnello? S'egli fosse vissuto, voi non avreste fatto di vostra testa, le mie sgualdrinelle, avrei ben saputo farlo rispettare io, quel povero baggiano! La mia opinione non conta più di una vecchia ciabatta qua dentro, queste spudorate hanno fatto tutte di loro capriccio, si sono lasciate tirar nel precipizio a occhi chiusi, io mi troverò sul lastrico per loro! Che bailamme è divenuto mai questo, con tutti questi mariti? Così sono fatte le belle ragazzine dei nostri giorni, a dieci anni non arrossiscono più, agiscono come donne qualunque, fanno cose da fare arrossire i carabinieri! E i genitori le trovano nascoste dietro le tende! Questa non è la fiera, fuori, fuori di casa mia!
Una di esse è a Torino, seguita a partorire figli come una gatta, e non pensa più a sua madre. Una è a Belluno, capite? a Belluno! Che cos'è mai questo paese di Zulù? Si può pensare che una delle mie creature vive a Belluno? Ho io ragione di darmi la testa nel muro? L'altra è a Palermo, in quell'orribile isola dei cataclismi, di tutti gli accidenti della terra! Zeppa di briganti! Questa vuoi tu condurmela in capo al mondo? Dove dunque? Dove? Fra i selvaggi? Io vi ripudio tutte! Io non ho più famiglia, ho partorito stirpe di serpenti, e ne pago caro il fio! Prendetevi dunque, andate all'inferno, ch'io non vi veda mai più, ch'io non senta mai più parlare di voi, assassini che non siete altro!
E così le quattro sirene bionde avevano lasciata la casa ed erano partite felici cogli amati compagni, accompagnate da molti scappellotti e grida della colonnella, che ormai era abituata così a carezzare le persone che amava.
Avvenne però che questa donna così esuberante ed espansiva, che sentiva bisogno di agitarsi di continuo per vivere, e di mettere a soqquadro tutto il suo mondo senza interruzione, era rimasta sola con Valentina che aveva ora giusti sedici anni. Questa ultima figlia, nel suo magnifico sviluppo era divenuta la più bella di tutte, ma aveva un carattere tranquillo taciturno a differenza delle altre, sentiva certo quanto e più di loro, ma non era così vivace ed espansiva quanto loro, non amava il chiasso e si mostrava affettuosamente rassegnata a quello, molto, che la madre le faceva dattorno. E la colonnella sbuffava, incapace di attaccare con questa creatura e di prendere i suoi sfoghi naturali indispensabili come il pane per la sua esistenza.
— Il mio sangue è tutto partito! È sparso per il mondo! Questa ragazza non ha il mio sangue nelle vene, io sono un pesce fuor d'acqua con lei! Dove sono le mie povere creature? Non si può fare un discorso in regola, che cos'è questa sorniona? È un libro chiuso! È una disperazione! Le altre erano aperte, si leggeva loro in fondo al cuore a guardarle! Come ha potuto venir fuori quest'animale dalle mie viscere? Si direbbe ch'io fossi stata conciata nel sonno. Questa fanciulla non ha sensi, è un marmo! Chi si può già fidare di certi tipi? Sono i peggiori! La mia signorina, sembra che voi non ne vogliate, io non mi fiderei per questo di voi, e mi aspetto sempre che ne facciate una delle belle!
Tutti questi quotidiani borbottamenti non approdavano a nulla, il terreno era sfavorevole e il seme del fracasso vi rimaneva sterile, la bella creatura rispondeva con gentili e buoni sorrisi, con monosillabi rispettosi e niente più.
Un giorno la colonnella, vicina a sentirsi crepare per mancanza di sfogo, uscì colla faccia congestionata, borbottando, sbuffando, gestendo; ne ritornò di lì a poche ore con una bella cagnolina in braccio, una piccola graziosissima fox-terrier.
— Ecco la mia creatura! Io potrò almeno sfogarmi un po' con essa! Si può continuare a vivere con una sorta di persone come quella? Questa bastarda è la mia disperazione, mi vedrà schiantare e non darà un grido, non farà un gesto, la sua freddezza mi assassina!
La robusta vedova si sfogava ora colla bella cagnolina che si chiamava Burrasca, ed era di una vivacità scandalosa, sembrava avesse il mercurio nelle vene, proprio quello che ci voleva per lei; e le teneva discorsi, rimproveri, si abbaruffava con la bestiola, erano insomma due burrasche che andavano benissimo me per fare un temporale solo.
— Io non ho più che una figlia, la mia burrascuccia, l'anima mia, s'ella è carina quel demonio! Che avrà in corpo che non si ferma un minuto? Le mie figlie mi hanno rigettato o mi detestano, queste sono le nostre vere creature, queste care gioie ci amano davvero; e il loro amore è assai più disinteressato di quello della gentaccia di questo mondo! Ella mi salta addosso per darmi la sua anima, non pensa ad abbandonarmi, mi seguirebbe s'io me ne andassi al diavolo!
Un tenente di artiglieria chiese la mano di Valentina e gli fu concessa immantinente senza punto sbraitare stavolta.
— È la mia stella, ve l'avevo detto! Venite a sentire; il rumore degli speroni sulle mie scale! Mi pareva di vivere in un convento, questa bambinuccia poteva far la monaca senza sentirne sacrifizio.
Per il matrimonio di Valentina erano presenti tutte le sorelle coi rispettivi mariti e figli.
Rimasta sola la vedova del colonnello, sapete che fece? dispose per prima cosa di alzare di un piano la sua bella palazzina.
— Come si può alloggiare una tribù di questo genere? — Per le nozze di Valentina c'era chi aveva dormito per terra e sopra i sofà.
— La mia casa può da un momento all'altro essere ridotta in un ghetto autentico! Pensate s'essi mi capitano tutti in una volta per un accidente qualsiasi, dove posso io alloggiare quella banda? Vedete se quello che mi succede è di nuovo genere! Ora che mi hanno lasciata sola come un cane debbo alzare di un piano la mia casa.
Poi, rivolta alla sua burraschina che le si lanciava addosso come un bolide ogni due secondi, osservò che si poteva ben dare un cencio di marito anche a lei poverina. — Non hanno le bestie lo stesso istinto nostro? Non ha anche lei questo diritto poverina? E le mie figliole che sembravano delle sante Caterine unte non si sono nemmeno vergognate a farsi vedere fuori di sè come tante cialtrone. Oh! Io non sarò certo il tuo carceriere piccola anima!
E fu introdotto in casa uno sceltissimo campione della razza che si chiamò Libeccio; e la burraschina di lì a sei mesi partorì due graziose creaturine.
Spesso spesso la Colonnella si metteva in viaggio, una volta per l'alta Italia dove erano due delle sue figliole, e si tratteneva qualche giorno da ognuna. Scappavano fuori dei marmocchi da tutte le parti! Maschi, femmine! — Che stirpe! — Gridava — Che sangue! Quella buon'anima del colonnello! — Un'altra volta per la bassa Italia dove ne aveva altre due, una a Palermo, l'altra a Napoli. I nipoti, erano bruni come zulù, o biondi, dalle carni di oliva o dalle carni di rosa, di tutti i colori!
Pietra era andata col suo attaché a Parigi, ma la Colonnella non aveva ancora saputo decidersi ad andare fin là. — Verranno essi da me, alla mia età non è più possibile acconciarsi in una città di donne sudice come quella.
Quando ritornava a Firenze non si poteva dire che ella fosse più sola. Un'altra famiglia l'attendeva, ed aveva sostituito quella che poco per volta si era dispersa. E come avrebbe potuto vivere senza un po' di fracasso d'intorno quel flagello di donna?
La Burraschina e Libeccio avevano avuto due figli: Grandine e Bufera, questi poi ne avevano avuti a loro volta tra loro fratelli.... e dalla Burraschina stessa, la qual cosa era stata così straordinaria per la vedova del colonnello che aveva ricoperta di vituperî la povera ed innocente Burraschina. E pian pianino di questo passo la famiglia a Firenze era giunta al numero di ventiquattro componenti. Ventiquattro esseri che sembravano di gomma elastica e che tutti saltavano con molta elasticità addosso alla loro amata signora. Dunque: Burrasca, Libeccio, Grandine, Bufera, Tramontano, Briscola, Scamuzza, Menelich, Lampo, Balilla, Culinsù, Schizzo, Folletto, Buzzetto, Belzebù, Trottola, Saetta, Musolino, Monachina, Pandemonio, Bizza, Frizzo, Vituperio, Terremoto.
— La mia famiglia se l'è portata via il vento, questa è la mia famiglia! Partorite delle figlie eppoi vedrete. Esse vi abbandoneranno come un cane rognoso; quando vi rivedono appena vi guardano, vi considerano quanto uno strofinaccio, e vi accarezzano se occorrono loro dei denari. Se direte loro una parola torta vi chiameranno carnefice, si daranno arie da vittime. Per queste invece siete Iddio, siete tutto! Potete batterle, credete che vi fuggiranno, nossignori, vi ameranno più che mai!
Due volte all'anno, per il Natale e la Pasqua, la colonnella riunisce per alcuni giorni, sotto il proprio tetto, al completo, le sue due famiglie. Verso la metà di dicembre e dopo la metà di quaresima incominciano a giungere le figlie, coi mariti figli balie bambinaie cameriere. I nipoti non si contano più, quasi come quelli dei cani!
— La mia Federica già quattro me ne ha scodellati di questi vituperî, vuol dare le paghe alla sua vecchia! Valentina è al suo primo ma non le mancherà il tempo.
Solo Pietra e il suo attaché non hanno ancora fruttificato.
— Che cos'è di voi due? Cosa sono queste arie da quaresima che vi date? Che fate mai in quella maledetta Parigi? È l'aria che vi ha reso sterili? Che cos'è mai quel pandemonio di città? Tutta rimescolata questa gente, le grida i salti le risa, un uragano, il finimondo! Credete che la vedova del colonnello si trovi imbarazzata in mezzo a tale cataclisma? Ella dispensa sculaccioni, scappellotti, strette di mano, colpi di spalla, riparando a tutto ed a tutti, presiedendo con un'energia spaventosa una riunione delle più movimentate. I generi le figlie i nipoti i cani le saltano addosso da ogni parte; e quando una delle famiglie, la regolare, è più o meno regolarmente seduta a mensa, l'altra, l'irregolare, circola irregolarissimamente sotto la tavola, fra le sedie, le gambe, salta sopra le ginocchia, si rimescola nel frastuono generale, e sulle onde di quell'oceano in burrasca di tanto in tanto si fa largo sopra tutti i rumori il varo di una di quelle belle risate sane e felici della colonnella.
IL MENDICANTE
Nel via vai del mezzogiorno appariva all'angolo della strada il nuovo mendicante.
In quell'ora frettolosa non fu molto notato le prime volte.
Ma la sua giovinezza faceva pensare.
Non poteva avere più di venticinque anni. Vestiva di un abito nero fuori di moda, vecchio ma non logoro, portava un cappello grigio di feltro ancora in buono stato, e le sue scarpe pure non erano rotte.
Dall'abito non poteva ispirare alcuna pietà; ma la sua giovinezza faceva pensare.
La faccia era pallidissima, e se un naso adunco vi grinfava sopra, due occhi oblunghi, vissuti, semispenti vi naufragavano.
Faceva pensare ad un aquilotto malato.
Rimaneva immobile, muto, per circa un'ora su quella cantonata, dipoi si allontanava camminando come un qualunque fornito cittadino di questo mondo.
La sua mano restava, per tutta quell'ora, in atto supplichevole, non di insistente richiesta.
Buoni padri di famiglia, ottime madri, depositavano monete nella mano del giovine infelice. Ma questi, non serrando le dita per sostenerle le lasciava giù rotolare nel mezzo della strada dalla mano immobile come quella di una statua.
Questo strano contegno fu accolto assai diversamente dai più o meno benefici cittadini.
Taluno credè ben fatto alzare ancora di un grado la temperatura della sua pietà: raccolse pazientemente la moneta e gliela pose in tasca; guardando quindi stupito il nuovo genere di accattone.
Altri si allontanò furibondo, nauseato.
Un'ostinata vecchia beneficatrice che seguiva la scena dalla finestra, mandò cento messaggi di cuoco e cameriere e maestro di casa ad offrire al giovine povero, cibo, alloggio, vestimenta, protezione. Invano. La pietosa dama, perduto il lume degli occhi, gli sbattè così forte la finestra sul muso che due vetri ne caddero fracassati sulla strada.
Una cicciuta vedova credè indovinare il bisogno del pallido mendico; e dal suo balcone, gli fece intravedere a spiragli paradisi spalancati.
Il delegato di pubblica sicurezza gli piantò in faccia la sua, gonfia di potere.
— Che cosa cercate dunque voi su questa cantonata?
Il giovane alzò il volto bianco su quello pregno di sussiego che lo scrutava, e con semplicità rispose:
— Delle opinioni.
— Delle opinioni? Cospetto! Eh! Una bagattella! Uhm!...
Quando gli passò dinanzi il deputato del collegio, non sdegnò fermarglisi vicino in attitudine paterna.
— Venite, mio caro, io sarò il vostro benefattore, — diceva il dotto uomo. — Voi domandate delle opinioni, è una cosa troppo giusta, dovete averne. Non potete continuare a vivere senza, affatto. Io.... sono dispostissimo a darvi delle mie.
Siccome il mendicante non accennava neppure un qualunque «Dio ve ne renda merito» l'onorevole soggiunse:
— Ringraziate almeno la sorte che vi ha fatto capitare così bene. Come potreste seguitare a vivere in una simile condizione? Che diavolo! Vi capisco tanto bene.... Avete mille ragioni.... non si può vivere senza.... E dacchè dovete prenderne, meglio è che prendiate addirittura delle mie.
Il mendicante non rispondeva.
— Scusate, non è meglio prendiate le mie che quelle di un altro? Non vi pare?
— Sì. — Disse il giovine senza nessuna convinzione.
Del resto.... — incalzò l'onorevole sorridendo in tono di superiorità — del resto.... come volete. Preferite le mie?
— Sì.
— Oppure vi fanno lo stesso quelle di un'altro?
— Sì.
— Quali preferite insomma?
— Lo stesso.
IL GOBBO
Quando natura manda fuori dalle sue fucine un gobbo, voi credete certamente ch'ella si dia una grattatina di testa la quale altro non vorrebbe dire che questo: «guardate un poco che cosa ho fatto, quello che mi è successo!» E credete forse che rivolta alla sua creatura essa esclami presso a poco così: «perdona, piccolo essere infelice, mi è accaduto senza che io me ne accorgessi, ti domando scusa sai poverino...». Niente di tutto ciò.
È, il gobbo, un argomento allegro, allegro per sè per gli altri e per la natura stessa che dopo averlo creato sorride rapidamente dell'opera sua. E quel sorriso, intendiamoci bene, non è rivolto al suo figlio gobbo, ma ai suoi figlioli diritti; questo vuol dire quel suo risolino: «Ah! voi credete ora di ridervi di lui? Vedremo».
Natura, infaticabile equilibrista, dopo averlo creato, il gobbo, se lo prende amorosamente sulle ginocchia, lo esamina, lo palpa, l'accarezza, intinge quindi la punta delle dita in un suo misterioso vasettino; e ne spruzza di un qualcosa che sembra sale il corpiciattolo deforme. Ed è a questo punto precisamente ch'ella permette quel suo rapido sorriso: «Ah! voi vi eravate preparati a ridervi alle sue spalle? Ecco mio caro: spriffete e spruffete ».
Il gobbo, è un bel dire, si ride delle persone diritte assai assai più ch'esse non si ridano di lui. È il suo compenso.
Avrà, il cieco, per questo senso di meno, più fini ed elaborati gli altri sensi, e s'egli non può vedere le cose, vede nei fatti, intravede nelle vicende, non soltanto, ma potrà per questa sua mancanza, vedere il mondo molto più bello che non lo vedano coloro provvisti di due buoni occhi. Il sordo sentirà cogli occhi.... amerà i colori, ne penetrerà la vita, le sinfonie, come chi ci sente ama e penetra i suoni e le lori orchestre.... e così via di seguito. Non accusiamo la nostra grande madre di essere stata parziale con noi e di averci riserbata una speciale sventura anche se siamo gobbi; essa ci scodella la vita a tutti ugualmente come una identica minestra.
Se natura paga la vita in un solo pezzo dà a colui che lo dovrà spendere tutta la necessaria avvedutezza per spenderlo nel momento migliore. Se glie la paga in tanti centesimini spiccioli fornisce quell'essere di tutta la pazienza che occorre per spenderla uno alla volta. Quelli che si uccisero ebbero, è vero, una vita di scarto, ma glie la dette come una cambiale in bianco, ed ebbero facoltà di firmarne la scadenza quando più loro piacque. Coloro che vennero uccisi non avevano avuta una vita ma erano gli aggregati di una vita. Allorchè natura crea, ad esempio, un imperatore, aggrega alla sua vita migliaia e migliaia di altre vite, ma non come vite ben inteso, come cose indispensabili a quella vita.
Questo per dimostrarvi che essendo la vita uguale per tutti, non dovete considerare un gobbo un uomo infelice perchè è gobbo, un essere triste e avvilito, ma un essere come tutti gli altri, e anzi, dei più lieti. — Giacomo Leopardi! — Io vi sento esclamare. Ebbene, amici miei, quel dabbenuomo, assicuratevi, non fu così infelice per la gobba che portava sopra la schiena, ma per quella più grossa assai che portava dentro la sua grande anima di poeta. Che s'egli avesse avuta una gobba sola sulla schiena, ve lo sareste visto pirular puntuto davanti e arzillo, pieno di astuzia, con un tagliente risolino ironico fra le labbra, e poco vi sareste azzardati a ridervi di lui e della sua gobba, nè ad appressarvici troppo per trarne fortuna, nè ora il mondo si occuperebbe più tanto di essa.
Un gobbo dunque si ride della gente diritta più che questa non si rida di lui, della gente diritta intendiamoci bene, perchè un gobbo non ride mai d'un altro gobbo.
Ecco il problema: quando due di questi esseri si trovano uno di fronte all'altro. Conservano essi il loro umore faceto e pungente? No. Una famiglia che fosse in possesso di due gobbi dovrebbe risolvere il difficile compito del quieto vivere. Voi non invitereste certo a pranzo due gobbi in una volta nè li porreste l'uno in faccia all'altro nè a lato. E non avrete mai veduto per le vie due gobbi andarsene amichevolmente a diporto.
Vantare un gobbo assiduo del proprio salotto è cosa veramente deliziosa e di buon gusto; in ogni tempo, lo fu. Papi, Imperatori, e grandi dame se ne tennero uno carissimo per tutta la vita. Un gobbo in una comitiva è il sorriso, la gioia, il buon augurio, la felicità. E tutti se lo accarezzano, non colle mani ben inteso, se lo rubano, se lo giuocano, mah!... è un giuoco d'azzardo, che v'impone di misurare bene ogni mossa. Ve ne furono, di queste piccole creature, dotate di tale scaltrezza da comprendere, parlando, che il loro interlocutore era tutto preoccupato od assorto nella loro gobba pure senza guardarla, anzi, facendo ogni sforzo per distrarne lo sguardo. E fecero impallidire o arrossire più d'un povero di spirito. Il gobbo è una persona di spirito.
Ed ora, finite queste considerazioni, diciamo così, di razza, occupiamoci del nostro gobbo.
Viveva in una piccola città della Toscana, si chiamava Mecheri, «il gobbo Mecheri» o soltanto «il Mecheri». Era l'uomo più noto di quella provincia. Le sue gesta correvano su tutte le bocche e si posavano qua e là a colmare propriamente le molte ore d'ozio che sono la prerogativa delle città provinciali.
Pare che con questo Mecheri natura, forse sbadatamente, avesse un po' abbondato di quella presa che sembra sale, e ch'egli avesse avuto compenso ad usura della sua disgrazia. Quando egli rideva, rideva tutto, e la sua altissima gobba palpitava gioiosamente alla serenità del suo riso. Alto un metro giusto, non era reale, ma bene dritto davanti, snello, e dietro, dalla vita in su, gli s'inarcava una gobba così alta e così puntita che guardandolo bisognava domandarsi come spina dorsale avesse potuto seguire una curva così acuta senza rompersi. Una faccettina rotonda, rossa, sbarbata, rosso di capello e ricciuto, sempre con una bombetta nera in testa, e vestito con un tait verdognolo la cui falda gli scendeva giù a venti buoni centimetri distante dalla persona. Era sua indispensabile compagna una giannetta fine, che completava meravigliosamente la sua figura nel camminare agile ballettato. Non poteva pesare più di una ventina di chilogrammi: un gioiello insomma, la perfezione della specie. Celibe, viveva di una piccola rendita lasciatagli da una zia. Questo stato di agiatezza gli permetteva di esercitare comodamente ed esclusivamente il suo mestiere di gobbo. Girare tutto il santo giorno pei luoghi meno deserti della città, fermarsi ad ogni passo, sedere al caffè ore ore ore, ridere e far ridere.
Tutti avevano finito per scrollare; prima o dopo, le spalle dinanzi a lui, nessuno era stato capace di serbargli profondamente rancore, nemmeno quando lo scaltro faceto avea passato la pelle colle sue punture. Ed era in questo modo rubato da tutti: nei negozi se lo tiravano dentro, dal farmacista, dal tabaccaio, dal parrucchiere, avvenivano ovunque interminabili sedute: ognuno che entrava rimaneva un po' a dissetarsi a quella limpida sorgente di giocondità. Era uno dei rari uomini amati sinceramente, non invidiati da nessuno e cercati sempre. Ogni giorno saltava fuori con nuove storielle, facezie, qualche sortita spontanea, le donne erano la sua più grande palestra, esse scrollavano più o meno bonariamente le spalle e si prendevano tutto in santissima pace.
C'era però una classe di persone, esigua, che lo odiava di un odio felino, tenace. Per l'uomo che aveva saputo ridere di tutto e di tutti, c'era una cosa al mondo che lo faceva ridere in una maniera particolare, con un'intensità inarrivabile: la vista di un altro gobbo. Allora guardandolo voi non vedevate più l'uomo ma il riso.
In quella piccola città i gobbi erano cinque, egli aveva quattro compagni, quattro nemici.
Questi poveri esseri se ne stavano celati, lo temevano, erano rimasti talvolta passivi di scenate sulle pubbliche vie, quando la combinazione li aveva portati dinanzi a lui, erano divenuti lividi, viperini, pur non essendo capaci di articolare una sillaba di fronte alla terribile e serena canzonatura. Lo scansavano con ogni mezzo, ma come si fa, finisce per diventare l'incubo di un povero essere, in una città di ventimila abitanti appena, dove gira e rigira siamo sempre lì, e ci si deve vedere tutti almeno un paio di volte nella giornata, e col Mecheri poi che era a zonzo tutto il santissimo giorno. Dovevano serrarsi in casa per sempre? Non uscirne più mai come i detenuti? Come degli assassini? Chiudersi vivi nella tomba?
Uno di essi era giovine di studio d'un avvocato, gobbo reale, ma brutto però, colla faccia verdastra rugosa. Egli, dovendo indispensabilmente percorrere le vie in forza della sua professione, era il più rassegnato, alle risate indegne del Mecheri aveva risposto come aveva potuto, e non era poco, con grida, lazzi osceni, ma era accaduto di peggio, meglio era lasciarlo ridere quell'immondo. E gli altri, i diritti, come dovevano non ridere quando era un gobbo che primo rideva di un altro gobbo? Come potevano i gobbi essere rispettati in un simile paese? Come trattati con quella speciale delicatezza che s'impone alla loro specialissima condizione? Essi dovevano per forza rimanere il ludibrio di tutti.
Il secondo era custode in una villa storica adibita a museo, alla periferia della città; si vedeva di rado, nelle sue parti il Mecheri non capitava, ed era quello che se la passava meglio, in centro cercava di venirci il meno possibile.
Il terzo, un calzolaio che aveva avuto un tempo negozio in una delle vie principali. Il buon uomo si era ritirato a lavorare in casa con gravi perdite di interessi. Il Mecheri passando dinanzi al suo negozio soleva fermarsi, affacciarsi a ridere, una volta si era introdotto insieme ad altri con la scusa di farsi prendere le misure per le scarpe. Ne era seguita una scena epica fra i due gobbi, il cervello del calzolaio ne era uscito sconvolto.
Il quarto infine, un benestante, con moglie e due figlie, niente affatto gobbe e quasi da marito; uomo grave, nel suo genere, a cui sarebbe piaciuto molto uscir fuori liberamente a tutte l'ore, starsene in caffè a discutere, e fare anche lui tranquillamente il gobbo altolocato come lo comportava la sua natura. Dei quattro era i più invelenito, nella sua apparenza dignitosa di cittadino benestante a cui, pur essendo gobbo, era stata concessa in moglie una signorina di ottima famiglia provvista di dote, e dalla quale aveva avute due belle figlie niente affatto gobbe, covava il suo odio, calcolava, studiava la sua vendetta. Doveva egli, uomo di riguardo, scendere sulla pubblica via con un mascalzone? Perchè poi la scena avesse servito da carnevale a tutto il paese? Egli in fondo, che non si considerava completamente gobbo, in confronto col Mecheri poteva dirsi uomo normale, glie lo avevan ripetuto centomila volte la moglie e le figlie, aveva talvolta ricorso a viaggetti ch'erano durati fino a due e tre mesi era stato fuori colla famiglia per respirare in aure libere. Doveva abbandonare per sempre i proprî interessi? Ogni suo bene?
Questi quattro gobbi erano veramente quattro infelici, gl'infelici della città. E perchè? Perchè un gobbo, un loro compagno, un loro fratello, gobbo più di loro, il più gobbo di tutti, si rideva spudoratamente della loro sventura. Oh! lo scherno di una persona diritta non li inaspriva tanto, non lo temevano ma quello di un gobbo era intollerabile.
* * *
Si dice che una notte furono veduti giungere alla casa del gobbo benestante, uno alla volta, tre gobbi, essi si sarebbero trattenuti lungamente, e soltanto poco prima dell'alba ne sarebbero ripartiti. Si sarebbero separati alla porta della casa andando ognuno per diversa direzione.
Si aggiunge che nel separarsi, i tre gobbi, si fossero guardati amorosamente, e dipoi serrati al seno l'uno dell'altro.
La voce circolò e circolando fu man mano sformata e da tutti creduta una nuova burletta del gobbo Mecheri.
Era il venti settembre, la città tutta imbandierata e intrecciata da festoni di lauri, di quercia, di allori, tutte le finestre pendevano come frutti i lampioncini veneziani tricolori pronti già per la luminaria della sera. La banda cittadina eppoi la militare dovevano suonare tutto il pomeriggio nei giardini pubblici, tre bande venute dalle vicinanze avrebbero suonato in altre ore in punti varî della città.
Una magnifica giornata di fine estate, tutti erano fuori in grande uniforme a far bella mostra di sè. Per le vie lunghe fila di banchi coi dolci delle fiere, giocattoli, chincaglierie, stoffe, cappelli, frutta, ovunque la gente si accalcava. I contadini dei dintorni cogli occhi imbambolati dal movimento, intontiti dai rumori, ciondolavano distratti fra il pulviscolo della festa.
Il nostro Mecheri dalle otto della mattina percorreva le vie principali in lungo e in largo, tutti si fermavano con lui, lo salutavano, lo interrogavano, come fosse stato un'autorità. Indossava il tait buono che ancora non aveva cominciato a buttare il verde, la bombetta nuova, una bella catenona d'oro all'orologio, col corno di corallo, che sembrava, perchè addosso a lui, mastodontica, e un'ampia cravatta di raso bianco coi fiorellini verdi e rossi.
La gente si rimescolava sempre con crescente difficoltà per le vie e le piazze che si gremivano a dismisura. Era un pomeriggio limpido, fresco, e tutti ora si dirigevano verso i giardini pubblici dove le bande dovevano eseguire il loro concerto.
La Marcia Reale fu salutata al suo termine da un enorme scroscio d'applausi. Fu poi intonato l'inno di Garibaldi accolto pure freneticamente da quel popolo; quindi ebbe principio il concerto con un pezzo dell'opera «Norma». Il bravo Mecheri in un gruppetto di cittadini parlava concitatamente, teneva cattedra di musica antica e moderna, narrava di rappresentazioni celebri, di grandi cantanti, ballerine, e fatti riguardanti il teatro.
Era il primo intervallo. Ecco giungere dal viale di mezzo e dirigersi proprio verso il gruppo dove si trovava il Mecheri, a passettini precipitosi un omettino alto non molto più di un metro, vestito con certa presunzione, di un tait nero e un cappellino di paglia dal nastro marrone. Già da lontano, non era facile sbagliare, si capiva trattarsi di un gobbo e di che gobbo! Come il Mecheri, con una sola gobba dietro, ma così acuta che la punta gli giungeva all'altezza degli orecchi. Un Mecheri venti centimetri più alto.
Un gobbo nuovo? Venuto di fuori? Per la festa? — È il famoso gobbo pisano — pensò subito Mecheri mentre l'uomo si avvicinava. — Sicuro, il gobbo pisano che veniva a fare una gita, ne aveva sentito parlare mille volte, era proprio così, era lui, bisognava rimandarlo a Pisa a raccontare qualche cosa della sua visita.
Il gobbetto, con la sua aria estremamente presuntuosa e spavalda era proprio venuto a dividere il nostro gruppo, senza mostrare affatto di accorgersi che vi era in esso alcuno che molto gli rassomigliava, ma non vi fu appena in mezzo che le risate scoppiarono, squillarono per l'aria come un esplosione di fuochi d'artifizio. Mecheri rideva rideva, rideva additando il gobbo a tutto il mondo presente: oh! come rideva questa volta, egli non aveva mai riso così; il riso si propagava rapidamente scoppiettante, acuto, urlante, volante, e il gobbo sembrava doversi liquefare tutto nel calore della sua gioia. Il gobbo sconosciuto era passato senza punto curarsi del lazzo che lasciava dietro di sè, ma non appena venti metri distante dalla gaia combriccola, si fermò, corse rapido con la mano alla sua gobba sotto il tait, ne trasse prestamente un grosso fardello di stracci che dopo avere agitati in aria con grande abilità gittò lungi da sè in un'aiuola, voltosi quindi al suo canzonatore e fattogli un profondo inchino, con gesto elegante della mano parve invitarlo a fare altrettanto. Dando quindi sui tacchi se ne andò tutto impettito, omarino sì, ma diritto come un fuso.
La gioia a bollore del gobbo Mecheri ebbe come una congelazione fulminea, egli tentò di ridere ancora, ma il colpo era stato visibile a tutti. Quattro grandi risate gracchiarono nell'aria, e Mecheri volgendosi scòrse quattro gobbi che lo circondavano in quadrato. Il nemico era chiuso, prigioniero. I quattro gobbi ridevano velenosamente, vomitando l'amaro livore ingoiato per tanti anni. Mecheri nel mezzo, fra tutta la gente che lo circondava, tentò di ridere ancora, di riattaccare la vena del suo magnifico riso, ma non vi riuscì, si sforzò, ma tremava, barcollava, assalito da un tremito convulso. Qualcosa si era fermato, schiantato dentro di lui: la molla della gioia nel congegno della sua anima.
La burla corse in men d'un'ora su tutte le bocche, e fece poi le spese delle molte ore d'ozio della città provinciale.
Tutti attendevano ansiosamente ciò che avrebbe fatto il Mecheri, come si sarebbe rifatto, come si sarebbe comportato dopo che la guerra era stata dichiarata tra i gobbi.
Il Mecheri tentò di sostenersi, di riprendersi, non vi riuscì, era divenuto torvo, guardingo, e non fu più buono, per quanti sforzi facesse, a ridere come una volta.
Non si sentiva più tranquillo che nella sua casa, chiuso, cominciò a non uscire più tanto spesso, poi a non uscire più di giorno.
Invece per le vie si vedeva circolare indisturbato il gobbo benestante, con aria assai grave andava e veniva per i fatti suoi. E si diceva già con certezza che il gobbo calzolaio avrebbe aperta al più presto una grande bottega sul Corso. Il gobbo custode ogni sera veniva in centro a prendere il tabacco e vi si intratteneva tranquillo a fare una buona pipata. Il giovane di studio era divenuto assiduo del caffè per la partita dello scopone. Chi non si vedeva più era il Mecheri. Tutti si domandavano come mai, che cosa gli era successo, come fosse avvenuto questo cataclisma nella stirpe dei gobbi, come un uomo di quello spirito avesse potuto impermalirsi di una burla, e cercavano altrove la ragione del suo allontanamento. Mecheri usciva di notte, strisciando i muri come una talpa, bagnando con amare lacrime di dolore quel terreno che aveva un tempo inondato di gioia. Teneva gli occhi socchiusi perchè temeva di scorgere nell'ombra la sua gobba mostruosa che ogni giorno cresceva cresceva sulle sue spalle fino a toccare le vette del firmamento. Poi non uscì più, non fu più visto da nessuno, e si seppe ch'era partito per sempre, senza sapere per dove, senza un perchè che gli altri capissero, ma che solamente un altro gobbo avrebbe potuto capire.
* * *
Una mattina, prima dell'alba, in una delle nostre massime città, gli spazzini che spazzavano le vie, alla luce dei primi grigi bagliori, scòrsero in un angolo del marciapiede un fardello di cenci. Uno d'essi si avvicinò, sembrava che sotto ai cenci, al suolo, vi fossero come dei tentacoli umani aderenti al lastricato, qualcosa che pareva una gigantesca chiocciola vestita, chiusa e attaccata alla terra con la sua grande casa sopra la schiena.
— Toh! È un gobbo!
— Un gobbo?
— Sì, venite a vedere!
— Guarda guarda, davvero!
— È un gobbo.
— Un gobbo!
LA VEGLIA
Alla soglia del salottino debolmente rischiarato dal trepidante lume di una candela, apparve Rosina, con in mano la scodella del brodo nel quale aveva sbattuto un rosso d'uovo.
Sembrava ch'ella si fosse fermata nella tema di venire respinta.
Poi, guardando con aria supplichevole la sua padrona, le si avvicinò, e venne a posare sul tavolino, davanti a lei, con mano incerta, la scodella.
Le due donne si guardarono negli occhi e dettero insieme in uno scroscio di pianto. La signora Costanza singhiozzava e il voluminoso petto le ansimava pesantemente, affranto. Le lacrime di Rosina sgorgavano come da una polla, copiose e grandi; era il bel pianto del bimbo il suo, erano perle che il tesoro della sua anima candida generosamente elargiva, a dovizia. Che cosa avrebbe voluto dire alla sua amata padrona! Ma non riusciva che a piangere; non riusciva che ad esprimere così il suo dolore, e il suo amore.
La signora Costanza era una donna di quarant'anni, grossa, di media statura, non bella, ma con una facciona sanguigna di donna franca e sincera che subito le conciliava la simpatia. Aveva occhi grandi, neri, vivaci, e capelli neri ancora completamente.
Rosina era secca, lunga, senza nessun garbo femminile nella persona, un po' ricurva dalla vita alle spalle; con una faccia stretta, rettangolare, dei lunghissimi denti da cavalla, e degli occhi gialli inespressivi. Cogli scarsi capelli, di nessun colore, tirati sopra la testa e alle tempie che le formavano dietro un miserabile tortellino.
A vederla così, di primo colpo, con l'ampia sottana di percalle a gala in fondo, un giacchetto fuori di moda, con una lunga fila di bottoni davanti, le si potevano dare fino a cinquant'anni ma non ne aveva che trenta. Uno di quei poveri esseri che non furono mai giovani, uno di quei corpi che passarono inosservati dinanzi a tutti, come se natura li avesse abilmente fatti per celarvi il tesoro di un'anima splendente di divina bellezza.
Quel nome di Rosina era così poco adatto a lei, le sue carni terrastre, cosparse di lentiggini, come potevano ricordare le morbide voluttuose sfumature di quel fiore? E nella figura non c'è davvero fiore al mondo che le potesse rassomigliare; essa poteva tutt'al più somigliare ad un asparagio.
Tremava dinanzi alla sua povera padrona, avrebbe voluto dire tante cose, oh! il suo cuore era colmo di tenerezza, ma non sapeva che piangere. — Un po' di brodo — Voleva dire — Sono due giorni che non ha mangiato, che non ha voluto prendere nulla.... Anzi, si poteva dire che i giorni fossero otto addirittura. — Si era tante volte provata ad esortarla, questa volta aveva portato direttamente il brodo, sperando, senza parlare, ch'ella avrebbe accettato di buttarlo giù.
Dalla scodella, posata sulla punta del tavolinetto da lavoro, le spire calde salivano su su, e Rosina le guardava attraverso le belle lacrime trasparenti. Ma la signora Costanza continuava i suoi singhiozzi senza nulla vedere nulla guardare.
Poche ore prima le avevano portato via per sempre il suo Anselmo; bravo, caro uomo, esemplare marito, a soli quarantasei anni, per una violenta infiammazione di petto, in otto giorni era già al cimitero.
La signora Costanza, dopo la perdita di chi era tutto per la sua vita, rimaneva desolatamente sola, e da uno stato di agiatezza piombava in serissimi imbarazzi finanziarî.
Il signor Anselmo morendo non lasciava che un sincero rimpianto dietro di sè, un disperato dolore, ma nessun diritto, per la vedova, del suo buon impiego governativo che solamente da diciotto anni esercitava.
Erano stati sposi diciotto anni prima, erano venuti in quella casa felici, vi avevano vissuto nel più perfetto accordo una vita serena e tranquilla. Dopo tre anni la signora Costanza aveva preso seco Rosina, una bambinetta di quindici anni, di Calamecca, su, sulle montagne del Pistoiese; l'aveva scovata un anno che era andata lassù a passare un mese dell'estate col marito. E come aveva saputo indovinare nella scelta; fosse intuizione di quella brava donna, o fosse il fortunato caso, ella aveva inciampato in un tesoro ma aveva saputo gelosamente custodirlo. La piccola montanara, dalla sua alpestre miseria, si era assuefatta al nuovo stato che le era sembrato fin dal principio di signora addirittura. Tutto le era sempre parso troppo, e i due coniugi l'amavano come la terza persona della loro famiglia. Raramente la lasciavano in casa sola, se la portavano quasi sempre con loro, a fare scampagnate, e qualche volta, in carnevale, anche al teatro.
Sradicata così tenera pianticella, Rosina, era cresciuta nell'adorazione per i suoi padroni buoni, aveva imparato a cucinare, stirare, a far tutte le faccende con tanto amore, quanto non ne avrebbe potuto sentire per la sua stessa casa, era una donna impagabile, non si fermava mai, trovava sempre qualche cosa da fare nel lindo appartamento che fra donna e padrona tenevano lucido come uno specchio.
Quando la piccola domestica venne da Calamecca, con la sola camicia di dosso, un abito di finta flanella, e un paio di scarpe coi chiodi, la signora le cucì subito ella stessa, la biancheria, lavorarono insieme ai vestiti, grembiuli, calze, tutto. Rosina nulla aveva dimenticato. Il suo salario, prima di sei lire al mese, era giunto fino a dodici, le quali venivano per tre buoni quarti risparmiate dalla sobria donna.
E ora? Una ventata malefica capovolgeva una felicità, bisognava sopportarne il rovescio.
* * *
Passato il primo stordimento del dolore la vedova incominciò a guardarsi attorno: era d'uopo pensare, e senza indugio, al da farsi; non un parente, non un amico intimo al quale domandare appoggio e consiglio, rimaneva con le diecimila lire portate in dote, e le cinque che il buon padre le aveva lasciato morendo. Il vecchio giudice negli ultimi anni della sua vita aveva economizzato il centesimo per lasciare qualcosa alla sua unica ed amata figliuola.
Ora la padrona, seduta al suo tavolinetto da lavoro, nel bel salottino arredato con ricercatezza e tenuto con scrupolosa cura, in quella stanzetta che aveva albergato per diciotto anni la sua felicità, fissava dentro gli occhi Rosina, incerta, passiva di fronte alla sciagura; si guardava dipoi attorno come avesse voluto dire: — La mia bella casa, la mia roba, che ho tanto amata, che abbiamo messa assieme poco alla volta, che ho curato religiosamente, pulita.... ecco.... bisogna dire addio a tutto, vendere tutto, dar di bacchio a ogni cosa, e andarsi a rifugiare in una sola e povera stanza.... Con quindicimila lire di capitale! Che rendevano, al quattro per cento, seicento lire all'anno. Lavorare. Non c'era altra via, bisognava lavorare. E come? Che? Cucire, era l'unico lavoro adatto; cucire biancheria, chè era assai buona cucitrice. Andare a cercare il lavoro, andarlo a riportare, ascoltare pazientemente i rimproveri, specialmente finchè non fosse divenuta esperta lavorante.
Questi propositi sconvolgevano addirittura il cervello di Rosina, la sua signora era così in alto nel suo intelletto, ch'ella non vedeva nemmeno una relazione fra il dire e il fare cose di questo genere, come se uno ci venisse a dire che la Regina d'Italia domani anderà a spazzare le strade di Roma.
— Finire il capitale? Eppoi? Gettarsi nell'Arno. — Ma la signora Costanza non era donna da far questo, era troppo sana, troppo equilibrata; si sentiva forte anche di fronte alla sventura. — Mettere le quindicimila lire in un'industria, aprire un piccolo commercio? Ma non c'era tutto il pericolo di finirle e rimanere sul lastrico addirittura?
In tutti questi pensieri che le turbinavano per il cervello, uno scendeva a straziarle il cuore: bisognava abbandonare Rosina. Lei non era buona che a fare le faccende di casa, sapeva cucire malamente, venuta dalla montagna dove non aveva fatto che la guardiana di pecore. Bisognava lasciarla, trovarle una casa degna di lei, e depositare il tesoro. La povera donna lo capiva, se ne stava dinanzi alla padrona fissa, coi suoi occhi giallastri, pronta a tutto! Oh! se non fosse stata così timida, così povera di spirito, sarebbe andata a mangiare il fuoco sulla piazza della Signoria per portare i soldi da campare lei e la sua signora. E un'altra cosa le dava uno scoramento grandissimo, l'abbatteva, l'avviliva: bisognava anche lasciare la casa, quelle stanzette testimoni della sua felicità, che glie ne avrebbero giorno per giorno suggerito i ricordi più cari, più belli, alle quali avrebbe confidata la sua sventura ricevendone conforto, come da chi la conobbe sotto la buona stella, dove tutto le parlava di lui, del suo adorato sposo, dove lo aveva amato la prima volta; la camera dove gli aveva chiuso gli occhi per sempre, dove, dopo una vita serena e tranquilla, le era sembrato di dover morire insieme.
Ed ora, uno già morto, ancora giovane, l'altra sbatacchiata nel turbine della vita e per chi sa quanto ancora!
Questa agitazione durò vari giorni; finalmente, una mattina, la vedova alzandosi si avvicinò a Rosina con fare risoluto; la donna le stava davanti senza trarre il respiro, i suoi occhi esprimevano il terrore; certo, la signora le avrebbe data la sentenza: bisognava separarsi per sempre.
— Rosina — le disse con voce tremante, commossa — io non ho più che te, ti voglio bene come ad una sorella, come ad una figliola, io non posso pensare nemmeno di abbandonarti, so che tu mi vuoi lo stesso bene, lo so, mia cara, mia amata Rosina. — La donna, che aveva contenuto le lacrime fino a quell'istante, non ne potò più, le traboccarono. Dai suoi occhi scendevano rotoloni fino in terra, come avessero dovuto rotolare anche sul pavimento. — Lo so, Rosina mia, lo so, tu sei un angelo, noi non saremo d'ora in avanti che due sorelle, niente altro, trovata la via d'uscita, forse ho trovato il mezzo di rimediare senza dover rinunziare a quello che mi è più caro: a te e alla mia casa. Amalia Polidori! — E disse questo nome e cognome come una rivelazione, come s'esso avesse virtù, per il solo fatto di essere pronunziato, di salvare la situazione.
— Tu la conosci?
— Sì — rispose netto la donna come chi giura, non arrivando a capire, ma pronta ad accettare ad occhi chiusi qualunque proposta.
— È ragazza.
— Sì.
— Lei, come vive? Sai che non ha che trenta lire al mese di pensione che le lasciò il padre, niente altro, trenta lire capisci, che miseria! Nel suo quartierino di quattro stanze colla cucina ha due dozzinanti, con essi ricava la pigione di casa e le rimane qualche cosa da aggiungere al suo franco al giorno. Ha ormai vicino a cinquantanni ed è da vent'anni che vive così, le camere rendono bene. Amalia paga trecento lire all'anno di pigione e ne ricava forse più di quattrocento, e tira avanti, è una donna che con un uovo campa un giorno, ma io sono in condizioni migliori, ho di più, eppoi siamo in due. Non abbiamo bisogno di nulla, la casa è questa, noi ci mettiamo ad affittare.
— Sì.
— Dimmi Rosina, tu sei disposta a dividere con me il bene e il male di questa vita?
— Sì. — La donna diceva il suo «sì» quando la padrona diceva la penultima sillaba della sua frase, e lo diceva alzando la testa, chiudendo gli occhi, come ricevesse l'ostia santa, o come ingoiasse un ignoto boccone disposta a trangugiarlo per la salvezza del mondo, a qualunque costo, fosse anche una presa di stricnina.
— Noi.... dobbiamo andare incontro a tutto! Può darsi che qualche giorno dobbiamo contentarci di un magro desinare....
— Sì.
— E se un mese.... io non avessi da darti le tue dodici lire?...
— Sì — rispose anche stavolta Rosina.
— Oh! — Aggiunse poi — io non le voglio più, mi parrebbe di rubarle.
— Ma vedrai, vedrai.... — continuò la vedova sollevandosi alla speranza — vedrai che il buon Dio ci aiuterà.
Ed ora incominciamo a stabilire qualche cosa. Bisogna, naturalmente, che io rinunzi alla mia camera, eh! questo è un sacrificio indispensabile; è la stanza più bella di tutto il quartiere, eppoi... a me basta di vederla, di andare a farci la pulizia, di avere sempre i suoi mobili; qualcuno me ne terrò, il letto forse. Quanto credi che in una città come Firenze si possa pretendere di una camera così grande, con due finestre, e così bene ammobiliata?
— Non lo so.
— Mettiamo trenta lire al mese, e mettiamone anche venticinque, sono già trecento lire all'anno. Del salotto buono? È più piccolo, ma arioso, quando ne abbiamo fatta una camerina vien sempre una bella stanza, mettiamo di affittarlo a venti, a quindici, sono centottanta lire anche di questo; e, naturalmente, bisogna ridurre a camera da letto anche il salotto da pranzo; mettiamo altre duecento lire, si va sulle settecento lire all'anno, ne paghiamo seicento.... Eppoi chi ci dice che non affittiamo meglio? Abbiamo calcolato dei prezzi minimi. A noi rimane il salottino da lavoro, che diventerà camera mia, la tua camera, e la cucina. Seicento lire mie, più cento sono settecento che sarebbero.... aspetta.... sarebbero circa due lire al giorno.... Eh! Certo, bisognerebbe fare di più per andare avanti bene, almeno due lire e mezzo.... Cercheremo di tenere alti i prezzi. Ma se poi ci rimangono sfitte?
— Signora — esclamò Rosina già rinfrancata all'idea luminosa della padrona — perchè non affitta anche il salottino da lavoro?
— E io dove vado a dormire?
— Nella mia camera, è bella, grande, c'è aria, luce.... Ci porta un po' della sua mobilia buona....
— E tu?
— O non c'è lo stanzino?
— Ma ti pare!
— Un letto c'entra benissimo, quando ci sta il letto e la mia cassina io sono contenta.... c'è il finestrino, è comodo anzi per me, accanto alla cucina, gli attrezzi li mettiamo sul palco morto.
— Questo vedremo, insomma la via è trovata, domani vado dal padrone. Una sola cosa mi spaventa: chi metteremo in casa? Pensa come bisogna stare attenti! Amalia Polidori una volta mi raccontò un certo fatto che se accadesse a me, ne morirei dal dolore e dalla vergogna. Ma lei è sola capirai, deve forzatamente assentarsi, affitta a chi le capita, purchè paghino, poveretta! Noi siamo in due non lasceremo la casa nemmeno un minuto, sapremo fare il fatto nostro.... Eppoi.... il Signore ci aiuterà, non sono donna da farmi canzonare molto facilmente. I dozzinanti avranno tutto il rispetto, tutte le cure da parte nostra, ma dovranno fare altrettanto da parte loro, se no, fuori! Pensa Rosina, moglie di un alto impiegato del governo, un pezzo grosso dei Sali e Tabacchi, figlia di un giudice, dover dar via delle camere! Il destino! Intanto noi non affitteremo che a uomini, questo s'intende.
— Uomini! — Ribattè Rosina impugnando risolutamente questa bandiera per la prossima campagna.
* * *
Erano trent'anni che la signora Costanza affittava le camere. La sua casa venne frequentata fino dal principio da persone della migliore specie, alti impiegati, studenti di scienze sociali o di medicina, professionisti.
Essa era una padrona un po' dispotica, ma i dozzinanti vi si trovavano bene, come nella loro famiglia. Le camere erano tenute con tale meticolosa proprietà, con tale nettezza, che nulla avevano di comune coi soliti dubbî letti di dozzina. Era scrupolosa fino all'eccesso, esigeva il massimo riguardo per la mobilia, la biancheria, le tappezzerie, e sopratutto bisognava tenere un contegno da gentiluomini perfetti. La sua camera, quella di Rosina, perchè questo angelo in veste di serva era voluta andare per forza nello stanzino accanto alla cucina, era proprio davanti alla porta d'ingresso, e sentiva tutti ritornare la sera, il suo uscio rimaneva socchiuso, e quando un dozzinante era novizio, ella dava due buoni colpetti di tosse le prime sere, perchè capisse bene che non era possibile non rispettare la legge, e di passarla liscia in caso contrario. Da quando era entrato il primo ospite, la casa non era stata lasciata un solo minuto; il portinaio, il padrone, gl'inquilini, tutti avevano rispetto e lode per la loro inquilina, si sapeva per tutto il vicinato che il suo quartiere era un santuario, che con quei principî si potevano affittare quante camere si voleva e rimanere vere signore da doversi fare tanto di cappello. Tutti le mostravano una grande deferenza; questa simpatica donna piena di energia, onesta fino all'esagerazione, che aveva saputo risolvere un così difficile problema con tanta dignità, meritava veramente il plauso e la simpatia ch'ella riscuoteva da tutti.
Le sue camere furono ricercatissime. Il comm. Tabacchini, consigliere di corte d'Appello, vecchio scapolo, vi morì dopo 17 anni che vi abitava, era divenuto come persona della famiglia, la signora Costanza lo aveva assistito fino all'ultimo momento proprio in quella camera dove aveva assistito un tempo il suo indimenticato Anselmo. E anche questo vecchio spirò nelle sue braccia benedicendo la sua assistenza cristiana di vera sorella, e le lasciò in ricordo oggetti di molto valore.
Sempre tutto affittato, anche il salottino da lavoro che era riuscito un gioiello di camerina; e gl'introiti erano via via aumentati, e per quanto il padrone di casa avesse poco alla volta portata la pigione fino a ottocento lire, la signora Costanza col suo lavoro era riuscita negli ultimi anni più che a raddoppiarla. Rosina fu l'angelo custode. Non si stancava mai di lavorare, pulire, lustrare, curare la biancheria, gli abiti, le scarpe dei dozzinanti, ella amava tutto ciò che era lì dentro, tutto le era caro quando si trovava fra quelle mura; le sue dodici lire ci furono sempre, le portava di sei in sei mesi alla Cassa di Risparmio felice di accumulare dei soldi che potevano un giorno venire a bisogno alla sua signora. Oh! come sarebbe stata felice di fare quel sacrifizio, e rendere tutto quello che le era stato dato. Ma non c'erano di questi bisogni, la barca andava a vele gonfie, le due donne vivevano comodamente pure lavorando dalla mattina alla sera e non uscendo che per le spese e le faccende indispensabili e la domenica, una alla volta, per la messa. La mattina c'era da preparare la colazione per tutti, il caffè nero, o caffè e latte, a seconda, e anche quelli erano piccoli guadagni per la padrona, e Rosina a fine mese riscuoteva le sue mance, che giungevano qualche volta a otto e a dieci lire, e andavano ad accrescere il suo patrimonio.
Insomma la tranquillità si era poco alla volta ristabilita in quella casa dopo una bufera di quel genere.
La signora Costanza era divenuta intima di Amalia Polidori, la benedetta ispiratrice della salvezza; le aveva talvolta mandato dei buoni inquilini serî, sicuri, di quelli che aveva imparato a conoscere lei, ma non si sarebbe certo riguardata dal riderle sul muso se l'amica avesse osato proporgliene uno dei suoi. Amalia Polidori, veniva, da trenta anni, immancabilmente la domenica nel pomeriggio, e, con Rosina, parlavano delle loro faccende, sopratutto dei loro ospiti. Qualche volta si fermava anche l'uno o l'altro di essi a far due chiacchiere. Nella sua cameretta alla cui parete centrale in una grande cornice dorata pendeva l'ingrandimento fotografico del suo Anselmo, e sotto, su di una mensola in un vaso era perennemente qualche fiore, la signora Costanza presiedeva la conversazione non perdendo mai l'occasione di ribattere i suoi ottimi sistemi di ospitalità, specialmente con inquilini nuovi, studenti, ch'erano quelli che sorvegliava di più, e in faccia alla Polidori specialmente ch'ella riteneva troppo corriva: — Lei se ne viene qua poveretta, e là chi sa che diavolo le combinano i suoi studenti! Che disgrazia rimaner soli a questo mondo! — E così dicendo guardava Rosina che le rendeva uno sguardo pieno d'amore. — Sicuro, io che ho gente mille volte più seria della sua non lascerei la casa mezzo minuto secondo.... mah! questione d'idee! E anche star sempre sola come un cane? Eppoi chi le compra quel boccone da mangiare? Ha ragione, è in condizioni peggiori delle mie, la compatisco, ma io voglio dire che una vera signora può dar via alcune stanze della propria casa rimanendo sempre una vera signora. Nessuno le potrà mai dare dell'affittacamere! — Ecco la parola che le stava sopra la testa come il nembo, oh! se mai uno al mondo glie l'avesse detta! Sarebbe divenuta feroce! Avrebbe fatta una pazzìa; povera donna, era il suo prestigio, la sua giusta dignità la respingeva, era con tutta la forza della sua vita che aveva lottato per tenerla lontana da sè quella rovente parola, per esserne immune! E immune se ne sentiva, pure vivendo in sospetto, come chi in tempo di epidemia si guarda per il corpo spasmodicamente col terrore di vederne comparire il primo segnale.
— Vi sono persone che non affittano e le loro case non sono per questo delle case perbene. Questione di persone.
E talora narrava la sua storia, i suoi begli anni felici, la sua giovinezza, l'amore del vecchio giudice per lei, e levando la testa al quadro come al cielo, l'amore del caro sposo, il rovescio di fortuna, la sua disperazione, e si penetrava nel racconto, riviveva tutta la sua vita, l'uditore doveva forzatamente dare segni di gioia prima, di cordoglio poi, e di plauso infine. Rosina ad un lato della tavola, ascoltava in silenzio, curva sul suo lavoro di calza o di rammendo, e quando la signora raccontava nei minimi particolari la sua sciagura, due grosse lacrime solcavano le guance della vecchia fedele compagna.
* * *
Invecchiando però la signora Costanza, bisogna dirlo, era divenuta un po' brontolona, anche coi dozzinanti più provati, troppo sofistica, troppo spedita nell'osservare, nel riprendere. Rosina se ne accorgeva, ma non avrebbe certo osato trovare un torto addosso alla sua padrona, cercava di essere ancora più buona e premurosa, raddoppiava lei in dolcezza cogli inquilini. Specialmente aveva preso un po' la fissazione di vantare la specchiabilità della sua casa, i suoi sistemi di rigore, severi, espliciti; quando i dozzinanti rientravano la sera, forse per l'insonnia senile, faceva sempre a tutti quei colpettini di tosse che erano divenuti un po' ironici ormai, pareva quasi ci si divertisse. Lo avevano capito a sazietà che lì non si scherzava, che non era possibile ritornarsene in nessuna compagnia, non importava continuasse a logorarsi i polmoni di più. L'uscio era socchiuso, poteva ascoltare in silenzio. Quella tossettina pareva proprio dire: — Voi non me la fate, sono io che la faccio a voi! — Inoltre, ultimamente, era stata poco cortese con qualche amico venuto a visitare uno dei suoi ospiti. Che pure avendola riverita com'era d'obbligo e d'uso, era stato ricevuto bruscamente. Si seccava ad aprire troppo di sovente la porta. Pretendeva sapere vita morte miracoli dei visitatori, pretendeva sentire quello che dicevano, quando se ne andavano dovevano passare sotto il suo sguardo investigatore e diffidente.
— Questa è diventata la casa di Nazareth! Io non faccio il portiere! Questi cialtroni non si puliscono mai le scarpe, vengono su dalla strada ricoperti di pillacchere e mi portano il fango in casa; mi sporcano tutto! Questo ha una faccia poco rassicurante! Quello non si degna nemmen di salutare! Cosa sono io, la sua serva? L'altro ha sgocciolato l'ombrello nell'ingresso! — Si sa, era la vecchiaia, aveva ormai varcata la settantina, e le persone più care e più buone a quell'epoca prendono dei difetti anche se non li ebbero mai.
* * *
Amalia Polidori, che aveva varcata la settantina da assai più tempo della signora Costanza, un bel giorno sentì una voce che la chiamava a sè e le pareva di seguirla come in un sogno. — Tu hai finito di fare l'affittacamere povera creatura, ora dormirai senza dover rifare più il tuo letto e quello degli altri.
Un inquilino della Polidori, una mattina venne ad avvisare la signora Costanza che la sua padrona stava male, e la buona amica corse ad assisterla, le prodigò cure e medicine, le fu vicina di notte e di giorno, e quando rimaneva a casa per riposarsi, andava Rosina presso l'inferma, anch'essa aveva fatte parecchie nottate. E dopo quindici giorni, pare che la buona vecchia cedesse all'insistenza dell'invito, e cedesse il suo vergine corpo alla terra, e la sua bell'anima (perchè no?) al cielo.
E siccome morì che Rosina in persona era a farle la nottata, all'alba spirò nelle candide braccia di quest'altra vergine ch'io non indugerei a chiamare santa.
La signora Costanza andò ad eseguire di sua mano ogni pietoso atto intorno alla salma dell'amica, e per la notte decise di fare lei la veglia funebre. Senonchè tornata a casa per mangiare un boccone espresse a Rosina un certo suo invincibile timore. Stare là sola, tutta la notte con la morta.... in quella casa dove non c'era nessuno.... non sapeva come mai.... le metteva un certo sgomento — Ci fossero almeno i dozzinanti. — Ma appena la padrona si era ammalata uno aveva battuto il trentuno, l'altro, uno studente, era andato a casa in vacanze. Rosina insistè per fare lei da sola la veglia, — ma le pare, ma le pare! — e l'avrebbe fatta con tutto il cuore e senza che la disturbasse nessun triste pensiero, ma la padrona dopo averci un po' pensato pronunziò l'ultima parola: — Andiamo tutte e due. — E la casa? — gridò Rosina ad una notizia così strabiliante. Quella casa che per trent'anni non era stata abbandonata un secondo, il cui onore era stato mantenuto alto nella luce del sole con questo mezzo infallibile, ora la si abbandonava per un'intiera notte.
— Stai sicura mia cara Rosina, la casa noi potremmo lasciarla d'ora in avanti tutte le sere. Quando si semina virtù non si raccoglie vizio. Eppoi non è che per una notte non c'è da dubitare. In trent'anni io ho saputo insegnare alla gente come ci si comporta quando non siamo in casa propria, e specialmente presso una signora a cui si deve tutto il rispetto.
E sicura del fatto suo, orgogliosa, gonfia di raccogliere il frutto di tanto virtuoso lavoro, decise di fare insieme con Rosina la veglia.
* * *
Erano nella sua casa, in quel tempo, queste persone.
Un maggiore a riposo, gentiluomo verso i settanta, uomo spaventosamente metodico, molto galante, e molto ciarliero pure parlando con una lentezza ed una solennità imponentissime. Usava esso ogni riguardo alla padrona, per la quale aveva complimenti severi, e colla quale rimaneva, nei giorni di pioggia, in lunghi conversarî; facendo che, molto a fiotti, la sua non breve esistenza sgorgasse dalle labbra, e non sdegnando ascoltare con tutta gravità quella che torrenzialmente ruzzolava fuori per quelle della vedova.
Poi c'era un dottore, assistente all'Ospedale di S. Maria Nuova, giovine simpatico educato che non rimaneva in casa che per dormirci.
Vi era quindi uno studente di recitazione, romagnolo, tipo allegro, si tirava su per brillante; la signora Costanza era stata molto dura nell'accettarlo, il direttore della scuola di recitazione aveva scritto di suo pugno una lettera raccomandandoglielo, ma non era troppo nel suo calendario, e fu talvolta eccessivamente rustica con lui, egli osò alzare la voce, lei lo rimesse al posto di santa ragione. Non che fosse un cattivo ragazzo, tutt'altro, ma uno sciatto di prima riga, uno spensieratone incurabile, lasciava la stanza in condizioni da far pietà, ci voleva la serena anima di Rosina a non andar su tutte le furie, a non sentirsi montare il sangue alla testa ad entrarci la mattina per rifarla. Scarpe, cappelli, biancheria, parrucche, libri tutto una minestra, il giorno del giudizio! E non c'era verso di ottener nulla da quel satanasso.
La quarta ed ultima persona era un poeta, astemio, poco più che ventenne, bruno, una figurina esile squisitissima. Era il cucco della vedova, di questo giovine prudente e delicato si sarebbe fidata a lasciargli la casa una settimana intera. Lui le portava in dono giornali, riviste, qualche volta della cioccolata e talora dei fiori, che finivano, si sa, davanti al quadro del defunto marito. Ella n'era commossa, conquisa, le ridevano i bulbi dei capelli quando il compito giovine le strisciava i suoi inchini, faceva tre passettini di corsa per stringerle la mano, salutarla, riverirla, e le snocciolava un «signora» con una lunghissima «o» come si conviene ad una vera dama. Non metteva punto in disordine la stanza, si scusava sempre e di tutto, anche se non ce n'era bisogno, un inquilino d'oro, da tenerselo come la rosa al naso.
Siccome gli altri erano fuori, la signora Costanza bussò alla porta delle muse, che le vennero incontro domandando ansiosamente notizie della signora Polidori. All'annunzio della morte il giovine poeta ne fu così costernato, così affranto, che la vedova ne rimase incantata. — Che angelica creatura — pensava, e quasi gli stava per porgere coraggio.
— Senta, io le faccio una raccomandazione.
— Ma faccia, ma dica....
— Voglio fare la veglia alla povera Amalia, e siccome a star là sola tutta la notte mi fa un certo effetto, cosa vuole, anch'io sono vecchia, se ci fossero stati i dozzinanti....
— S'immagini!
— Ho deciso di far venire anche Rosina.
— Ma certo.... lei deve bene aver qualcuno, le pare, star là sola tutta una notte....
— Già. Rosina viene dopo, a buio, quando ha finito di far le faccende. Quella povera diavola è sola come un cane.
— Ah! Poveretta!
— È giusta che finisca così, senza che nessuno pensi al suo cadavere, nulla, una santa creatura come quella?
— Ancora giovane!
— Oh per questo, felice lei, ha finito di tribolare!
— Oh! Ma lei ha ragione. Ma signora, signora, com'è buona, com'è caritatevole, — e strascicava quell'«o» il poeta. — Avrei potuto accompagnarla io, tenerle compagnia, avremmo vegliato assieme.
— Troppo, troppo buono, mi raccomando la casa, la prego, so che non c'è pericolo, conosco con chi ho da fare, in ogni modo mi raccomando. Alle otto tornerà anche il signor maggiore, glie lo dica lei che siamo andate via, lui lo sa già che è morta. Domattina saremo qui presto, Rosina lascia tutto preparato.
Verso le sette, tutta vestita di nero, con una sciarpa nera in testa anche Rosina lasciò la casa.
— Signorino mi raccomando, io vado via. — Il poeta si fece alla porta. — Domattina vengo per la colazione e per i panni, è per non farla star là sola tutta la notte poverina, ha capito? io volevo che mandasse me, non ha voluto. Si è strapazzata tanto in questi giorni. Arrivederlo signorino.
* * *
Nella stanzuccia bislunga e disadorna come un pezzetto di andito, miseramente arredata, sul suo lettino di ferro, la povera Amalia Polidori giaceva vestita di nero. Le mani composte al petto stringevano il crocifisso.
Sul comodino erano accese due candele in due candelieri di vetro, sul cassettone altre due in due candelieri d'ottone.
Il lettino era rasente al muro, all'altro muro, sedute l'una accanto all'altra, la signora Costanza e Rosina pregavano. Col rosario fra le dita passavano le orazioni lentamente; erano avvolte, l'una in un grosso scialle, la signora in un'ampia mantella pellicciata, ed aveva il cappello in capo perchè faceva molto freddo. A momenti la padrona quasi si appisolava, allora Rosina le sorreggeva lo scaldino sulle ginocchia per paura che le si rovesciasse addosso, ma poi sussultando riprendeva le preghiere, il suo animo però non era tranquillo, il gelido spettacolo della morte la turbava, si faceva forza per ritrovare la padronanza di sè, e considerare serenamente l'amica morta.
Rosina invece no, serena dinanzi a quel fatto naturale, guardava con occhio calmo quel corpo esanime, e su quella fronte bianca pareva vi leggesse la parola: pace. Non aveva nemmeno sonno, ed era la seconda notte che vegliava.
A certi momenti dicevano il rosario assieme, poi la padrona si fermava assorta nei suoi pensieri; e la donna continuava sola sottovoce. — Certo, di me non sarà questo squallore, Rosina farà le cose come si deve, oh! ne sono più che sicura. — Ella da tanti anni aveva fatto il suo testamento in favore di Rosina, e pareva pregustare la immensa meraviglia che ne avrebbe provato quell'angelo, e la sua eterna gratitudine. — Il maggiore, o chi al suo posto, era fissato, avrebbe dovuto cedere la stanza, quella dove aveva amato la prima volta, dove era morto il suo Anselmo, e da dove doveva essere presa per venire trasportata al suo posto laggiù, vicino a lui, dove l'attendeva da trent'anni! Eppoi.... i suoi dozzinanti non sarebbero certo fuggiti, le pareva di vederli, attorno al suo letto, sarebbero venuti anche dei loro amici, quelli che anche lei conosceva bene, sarebbero andati tutti dietro alla sua bara come dei parenti, avrebbe avuto senza dubbio due belle ghirlande: una di Rosina, una degli inquilini. Che differenza!
Eppure era stata anche lei una diseredata, come Amalia Polidori, la differenza consisteva nell'aver saputo fare, tenere una donna, essersela affezionata più di una figliola, più di una sorella, questione di saper fare a questo mondo! Questa povera diavola, sola come un cane, cambiando inquilini ogni sei mesi, ecco come è andata a finire! Se non avesse avuto me sarebbe stata fresca! —
Tali pensieri la rincuoravano e riprendeva la preghiera con fervore, incoraggiata. Ma quando furono le cinque la testa non le stava più su, era stanca, finita. Rosina che non aveva avuto un sopore in tutta la notte le diceva: — si appoggi, si appoggi qui a me. — Ma non voleva, aveva paura di addormentarsi in quel luogo, aveva paura di doversi risvegliare lì, non voleva dormire, e non ne poteva più. — Senti Rosina — disse infine — non ne posso proprio più, mi sono strapazzata troppo in questi giorni, facciamo così: io fra poco vado a casa, a momenti farà giorno, scaldo il caffè per tutti e mi butto un po' sul letto, tu m'aspetti qui, verso le dieci ritorno e vai via te, ma ora ho proprio bisogno di sdraiarmi nel mio letto, mi bastano due o tre ore, faccio colazione e vengo via, voglio rimanere fino all'ultimo oramai, alle quattro e mezzo vengono a prenderla, il Signore vedrà che abbiamo fatto il nostro dovere.
Rosina strinse bene la mantella addosso alla sua padrona, le girò due volte attorno al collo una sciarpa di lana. — Si copra bene per carità — le ripetè mentre le faceva lume per la scala, e se ne ritornò sola e tranquilla presso la donna morta a pregare.
* * *
Era l'alba, un'alba cupa, erano ancora accesi i lampioni, ma per le vie circolavano già i barrocci colle derrate alimentari che andavano al mercato di S. Ambrogio. I lattai, col biroccino a cofano sotto al quale il lampioncino acceso tremulava come una gocciola. Gli operai attraversavano la città per recarsi al lavoro. Era quel primo movimento frettoloso dell'alba invernale.
Quando la signora Costanza pigiò la chiave dentro la serratura le parve di cascare addosso alla porta che si apriva, tanto aveva sonno, tanto era stanca, tanto le sue vecchie ossa erano intirizzite. Anelava il momento di potersi sdraiare sul suo buon letto.
Aprendo intravide della luce venir fuori dalla camera del poeta presso la sua, un lume vi era acceso, la porta spalancata. Si udiva l'orchestra di vicine e lontane respirazioni pesanti nel sonno. Fece un passo, urtò in una sedia rovesciata, presso alla quale raccolse una giacca da uomo, inciampò ancora in qualcosa che rotolò: una bottiglia.
Dall'orchestra di quelle respirazioni si alzò uno sbadiglio acuto, poi alcune parole:
— C'è gente! Ehi! L'avevo detto io! Ci siamo addormentati! Ehi! Fufi! Fufi! Sei morto? È giorno! Ah! Ah! Ah! La vecchia!
Battè forte gli occhi, fu desta d'un colpo. Una donna seminuda, con la sola camicia e la sottana le fu davanti sulla soglia, nella penombra, pareva sorridesse, dalla faccia trasognata, sembrò intravedere un uomo rovesciato che dormiva attraverso un letto. Dalla porta vicina fuggì come uno spettro un'ombra bianca ed entrò nell'uscio di fronte. Un'altra ombra si fece alla porta ma non ne apparvero che due grandi occhi ebeti esterrefatti.
Ombre, ombre, non più figure; grida sconnesse non più parole, singulti, non più oscurità e grigio dinanzi agli occhi, ma tutti i colori dello spettro ballanti una ridda spaventosa, penetrando nelle pupille lame colorate acutissime accecatrici, raggi fusori nelle molecole del cervello....
La vecchia corse due volte su e giù sobbalzando pesantemente per il corridoio, afferrò la maniglia di una porta, sbatacchiandola, sussultoriamente, entrò ballonzolando sulle gambe irrigidite come su dei trampoli. Fu nel mezzo della camera, nell'aria calda e pregna di fumo, dinanzi ad una poltrona dove un vecchio era sconciamente disteso, seminudo, ravvolto in uno scialle, addormentato profondamente. Ella pareva fare un gesto disperato per svegliarlo, pareva volesse emettere un grido, ma le sue mani, come grinfie spiegate in alto, parevano arranfare il cielo, e la sua bocca rimaneva aperta paurosamente spalancata vuota e nera. Sobbalzò ancora tutta la persona in un tremito sussultorio, orribile tarantella di morte, mentre alla soglia apparivano e sparivano, si stringevano e si dilatavano occhi grandi spauriti trasognati. I suoi immensi occhi neri come due altre bocche parevano volere inghiottire quel vecchio che continuava il suo sonno. Dalla gola le salì uno strappo come la corda di un violino troppo tesa che si schianta, e cadde giù pesantemente nel mezzo della stanza producendo un cupo rimbombo per tutta la casa.
La prima edizione del più pettegolo dei giornali portava questo stelloncino di cronaca:
« Stamani alle ore sette nella Via*** N.*** l'affittacamere Costanza Chiodaroli veniva colpita da apoplessia rimanendo all'istante cadavere. Essa veniva prontamente soccorsa dai suoi numerosi inquilini, e da alcune.... signorine certa Nella B*** certa Olghina le quali, non si sa come, si trovavano precisamente nella sua casa. Dette signorine per lo spavento provato si sono date a gridare dalle finestre e per le scale, mettendo sottosopra tutto il vicinato, e facendo accorrere gente anche dalla via. La scena era delle più interessanti. Le brave ragazze appena riavutesi dallo spavento subito si sono date, nel loro costume ridotto ai minimi termini, a vegliare religiosamente la salma della povera e compiacente padrona di casa. Non occorre aggiungere trattarsi di una casa.... da thè. Il bello poi è questo, che il contado raccapricciato dallo scandalo è indignatissimo contro la defunta che si era fatta abilmente ritenere da tutti come una donna delle più scrupolose e costumate. Nel suo genere ben inteso ».
INDUSTRIA
— Ma che bel bambino! Bello bello bello! Ce ne sono molti ve' di belli quassù, ma questo è il più bello di tutti. — La giovine madre che teneva in collo il fanciullo sorrideva. — Ventotto mesi! Sembra di quattro anni! Davvero! Ma che bei ricci!... Ma gli occhi!... Gli occhi.... Vuoi venire con me?
— Vuoi andare con questa signora? Il bel ricciuto rise stringendo forte con tutte due le braccia il collo della madre. Le sue braccine grasse grasse facevano una profonda risega alla fine del polso, e le manine, fino alle dita, sembravano due guancialini. — Mah!... — La signora guardò suo marito presso a lei — Andiamo Narciso? — Il marito annuì col capo e un poco colla persona — Mah.... Addio bello!... Addio.... Buonasera.
— Buonasera signora.
Anche il marito salutò toccandosi con due dita la tesa del cappello.
Da un paio di mesi questa scenetta accadeva quasi ogni sera. I due signori, coniugi senza figli, il marito muoveva appena i primi passi nella cinquantina la moglie tirava via a far gli ultimi della quarantina, passavano da molti anni l'estate lassù a Vincignano, il delizioso paesello della Toscana verso il confine Umbro; affittavano sempre la stessa villetta, e la sera puntualmente al calare del sole salivano fino alla piazza del villaggio, si sedevano allo stesso tavolino del Caffè Nazionale, prendevano entrambi un bitter al seltz, e dopo mezz'ora se ne ritornavano a casa prima che fosse proprio buio. La giovine col fanciullo era la moglie di un contadino che abitava sulla via maestra a pochi passi dal paese. Quest'anno i coniugi facevano in più la fermatina per salutare il piccino; a quell'ora la donna era di solito sul cancello, quando non c'era aspettavano un po', guardavano dentro, e se ne andavano molto a malincuore se non era stato loro possibile di vederlo. E lì: — Che bel bambino! Che begli occhi! Come questo non ce n'è! Non è vero Narciso? Ma che ricci.... Vuoi venire con me?... — E dall'altra parte: — Nossignora, sissignora.... ecc....
Ecco il primo germe di questa industria.
Una sera la signora disse scherzando: — Volete vendermi questo bambino? Voi potete farne subito uno più bello, io invece.... — La giovine madre sorrise. La sera dopo la frase fu ripetuta con minore accento scherzoso, la madre sorrise appena, la sera dopo ancora: — Ci avete pensato? — E la donna fu seccata di questo stupido discorso.
Parlando col marito disse dell'ammirazione che i due avevano per il piccino e disse che quella signora ripeteva ogni sera di volerlo comprare. — Sono cose che non si dicono neppure per ischerzo — concluse.
* * *
Era la fine di settembre, i coniugi lasciavano la campagna per tornarsene a Roma dove abitavano; quel giorno nella loro casa si concludeva solennemente un importantissimo affare: la proprietà di un certo Beppino di mesi ventinove passava a loro. Essi lo comperavano. Al tempo stesso firmavano in suo favore il loro testamento, lasciandolo erede di ogni loro bene. Pretendevano solamente, i nuovi genitori, che al nome di Beppino fosse anteposto quello di Cesare, nome troppo adorato e che custodivano intatto da quasi trent'anni.
I genitori di Beppino ebbero in compenso lire cinquemila. Fu sulle prime la moglie a volerle sborsare tutte lei, quasi riconoscesse, in quell'istante di felicità, tutto suo il torto nella infruttuosa unione e intendesse così pagarne la pena; e allora saltò fuori il marito che le voleva pagare tutte lui come convenendo allo stesso modo di essere lui solo il colpevole. Infine, dopo in lungo colloquio, decisero di mettere ognuno lire duemilacinquecento. Dovevano essere unite le due parti. — Così si fa, così debbono fare tutti, anche quelli che fanno i figli davvero.
* * *
Beppi.... pardon, Cesare, fu portato a Roma e non tardò a familiarizzarsi ed affezionarsi ai nuovi genitori. Chi sa mai quello che sarà passato per la sua testolina ma le condizioni del baratto erano così favorevoli ch'egli si trovò magnificamente nella capitale d'Italia dove lo avevano chiamato a regnare.
E quei coniugi, quella gente misurata e metodica, era diventata altra gente, gente nuova; avevano mandate al diavolo le abitudini ed erano tornati fanciulli. Non si occupavano più che di giuochi, di piccoli indumenti, di belle passeggiate al sole, corse sui prati.... tutta una vita rimasta in loro latente, ora si sviluppava, così tardi.
Si passavano l'oracolo dall'uno all'altro, ridevano, gridavano, correvano, gioivano.... spudoratamente; e quando la sera il piccolo chinava la testina dopo aver bevuto tutto il suo latte, se lo portavano a letto, e uno da un lato, uno dall'altro cooperavano a spogliarlo così addormentato e a metterlo presto sotto le coperte, eppoi lo baciavano, zeffirandogli appena le guance perchè non si destasse, assaporando il suo alito candido di latte. E lo guardavano ancora, e si guardavano incontrandosi in una frase lampante sebbene non espressa: — Quelle gioie potevamo averle provate da quasi trent'anni! Di chi la colpa? — Passava velocemente quest'ultima nuberella fra i due — Però.... però.... — diceva un ultimo sguardo pacificatore: chi sa se loro sarebbero riusciti ad averne uno tanto bello.
* * *
Prima che la vita di questi pseudo genitori fosse così totalmente cambiata, essi avevano a Roma due buoni, due cari amici, un'altra coppia di coniugi sulla cinquantina, come loro, come loro senza figli, non perchè gli fossero morti, ma perchè non erano mai riusciti ad averne, come loro: Pippo e Lavinia Tuzzo. I quattro si trovavano al pomeriggio per la passeggiata, alla sera per il caffè o il teatro, e in ogni luogo dove ci fosse da andare andavano insieme. Pagavano a metà la vettura, a metà il palchetto, pagavano a metà anche al caffè perchè le signore prendevano tutte e due il cappuccino, gli uomini tutti e due il caffè. Si facevano buona compagnia, si comprendevano a meraviglia, avevano le stesse abitudini, gli stessi gusti, i medesimi rimpianti. Andavano di sovente in quei giardini dove i bambini giuocano, e le mogli emettevano i medesimi sospiri, si lasciavano andare le stesse confidenze, le stesse piccole amarezze. I mariti dietro dietro, più severamente, facevano eco alle mogli. Quando si trovavano dinanzi ad una madre di numerosa prole, e magari orribilmente gonfia di un nuovo essere, le due donne guardavano la povera giovenca con grande ammirazione, la seguivano attonite. — In fondo era una donna in tutto e per tutto come loro, perchè doveva essere così beneficata? Che cosa aveva ella? Che cosa non avevano loro? — E quando i due mariti erano di fronte ad un mesto, preoccupatissimo padre di molti marmocchi, lo squadravano dalla cima dei capelli alle suola delle scarpe, quasi avessero voluto dire: — Che bel ragazzo! — Perchè ognuno di quei quattro riconosceva nel coniuge la colpa maggiore, ma in fondo erano tutti colpiti da quello del proprio sesso che si era così potentemente affermato. E questo sfregacciamento fra le due coppie serviva un po' a riscaldare la gelida tana delle loro unioni infruttuose.
Quando Lavinia e Pippo Tuzzo andarono alla stazione a salutare i loro amici di ritorno dalla campagna, non si potè dire che la sorpresa che gli avevano preparata li mettesse di buon umore. Credettero prima ad uno scherzo, poi, vedendo che quelli non avevano punto aria di scherzare e si portavano a casa con grande premura il fanciullo, rimasero fra loro pensierosi.
Una barriera insormontabile veniva a dividere i vecchi amici, il tran tran della stessa vita non era assolutamente possibile riprenderlo. Le antiche abitudini se ne andarono tutte a capo fitto. I due non uscivano più la sera perchè non avrebbero mai eppoi mai affidato il piccino nelle mani della donna di servizio, uscivano invece presto la mattina, perchè Cesare abituato alla campagna doveva rimaner fuori più che fosse possibile: andavano per i viali, per le ville, col piccolo che si trascinava dietro un carretto, o un treno, un cavallo, dei palloni variopinti, si camminava secondo il volere di Cesare, si andava dove e come piaceva a lui, tutto era cambiato dalle fondamenta, non c'era più che una parola che valesse al mondo, un'idea, un nome: Cesare.
Lavinia e Pippo Tuzzo si mischiarono in principio a questa gioia, ma gli altri in fondo non ne godevano, non sapevano più che farsene, si capiva bene; rimanevano impacciati davanti a loro, non potevano godere più così spudoratamente come quando erano soli. — Siamo i nonni.... — dicevano: — Siamo.... come nonni.... — Ma lo dicevano male, si sentiva, per paura di essere corbellati, perchè loro non si sentivano nonni un corno, ma si sentivano il padre e la madre di quel fanciullo e niente altro.
Poi, il bimbo che diveniva sempre più festoso, sempre più sorridente, dispensava anche agli intrusi le sue grazie, e loro non volevano assolutamente essere così generosi da lasciargliele andare. — Eppoi.... eppoi infine.... — questo bambino è stato.... come trapiantato, avendo già cambiato i genitori una volta, se non ha sofferto nel mutamento è un vero miracolo, non è bene farlo accostare a troppa gente, se si vuole acclimatarlo bene al nuovo terreno.
— Certo certo — interloquiva il marito — naturalmente.
Le due amiche divennero fredde, e anche un poco insidiose, gli uomini, molto più sereni, riconobbero nella loro flemma che non era più possibile vivere insieme come prima.
Le visite furono diradate.
I coniugi senza figlio trovarono sul principio immensamente ridicola la condotta dei loro amici. — Per aver comperato un fanciullo erano divenuti due perfetti imbecilli. Alla loro età era anche molto pericoloso lasciarsi scorgere in pasto a simili debolezze. — Ma.... soli.... divennero malinconici, incominciarono fra loro i piccoli malumori.... piccoli malintesi.... dissensi fino allora sconosciuti.... per la prima volta si guardarono in cagnesco rimproverando l'uno all'altro la propria sventura. E un giorno poi scoppiò fra i due la vera guerra, due parole s'incontrarono come due micidiali siluri. Il marito lanciò dalla sua parte, con tutta la violenza di cui poteva disporre, questa parola: Sterile! — La moglie quest'altra: — Allentato! — E i due rimasero lungamente senza guardarsi.
Lavinia Tuzzo corse dalla vecchia amica e senza un ritegno più parlò della sua situazione, della solitudine, del dissidio col marito. — Mia cara, voi dovete fare precisamente quello che abbiamo fatto noi: prenderne uno, noi siamo felici! Pensate alla gioia di avere una di queste creaturine per la casa, sentirsi chiamare mamma, e avere una persona tanto carina alla quale volere tutto il nostro bene, alla quale dare tutto, tutto il nostro pensiero, lasciare quello che abbiamo. Volete anche voi lasciare il vostro denaro a dei lontani parenti che vi riderebbero dietro? Mia cara, io ti giuro che non v'è nulla di meglio al mondo che vedersi saltare sulla ginocchia uno di questi piccoli esseri. Queste creature prese così piccine sono come nostre, non v'è differenza alcuna, noi le educhiamo, le tiriamo su come vogliamo noi.... come un fiore. Voi dovete fare subito come noi: prenderne uno, scriverò io a Vincignano per informazioni, subito, non dubitate, dovete prenderne uno anche voi, di genitori sani, robusti, ben inteso, conosciuti, come abbiamo fatto noi, scriverò subito alla madre di Cesare io stessa....
La madre di Cesare non tardò la sua risposta. Ella era incinta già da quattro mesi, ma non avrebbe acconsentito mai a ripetere il suo fallo. Dopo la cessione di Beppino era stata molto male, si era sentita tanto sola che non vedeva il momento di avere messo alla luce un altro Beppino.
Fu replicato, ribattuto, i Tuzzo stavano per andare in persona a Vincignano quando giunse questa lettera:
« Illustrissima signora,
« Il mio uomo mi forza anche questa volta a fare lo sbaglio che io non vorrei fare, cioè di fare quello che feci con Beppino, io non volevo a tutti i modi ma lui ha voluto, se no dice che io sono una madre snaturata, dice che il Signore ci benedirà perchè leviamo i poveri alla miseria e mettiamo al mondo dei signori invece che dei tristi. Sia fatta la volontà di Dio e del mio uomo anche per questa volta. Dunque rimane fissato che appena io mi sono sgravata gli faccio il telegramma perchè loro vengono colla balia, perchè sento lo vogliano allattare da sè. Per il fissato del prezzo dice Nando non meno di diecimila perchè se no sarebbe troppo sagrifizio. Dice il mio uomo non credino che lui se li voglia mangiare questi soldi ma li asserba per una figliola quando verrà per farci la dote perchè anche lei sia una signora come i suoi fratelli e non una trista perchè se no ci potrebbe un giorno maledire. Dia per me un bacio a Beppino che sono tanto contenta che stia bene, e mi firmo sua umilissima serva Filumena e con più la saluto tanto anche da parte di Nando e saluti anche quegli altri signori e il suo consorte ».
Quattro mesi dopo arrivò questo telegramma:
« Filomena sgravata felicemente di una bella bambina vengano pure colla balia. Nando ».
Fu un disastro, un disastro! Una giornata orribile! I Tuzzo volevano il maschio e nasceva una bambina! Che cosa dovevano fare? Dovevano prenderla? I genitori, di solito, si rimettono nelle mani della sorte per questa faccenda, ma non era la stessa cosa; eppoi gli amici avevano avuto il maschio.... Infine loro erano genitori in condizioni tutt'affatto speciali, e potevano anche permettersi il lusso della scelta, avevano, è vero, impegnato il figlio, ma sicuri che fosse stato un maschio. Chi poteva pensare?... Saltò fuori una loro amica, vedova benestante, sola, quasi cinquantenne, decisa a non riprendere marito; ella avrebbe tanto volentieri rilevata una bambina per sua compagnia, purchè di buoni genitori, sani, e di indole mansueta. Fu stabilito di andare tutti assieme, la vedova e i Tuzzo, a Vincignano, e andarono.
La vedova pattuì per la bambina dietro compenso di lire quattromila non appena avesse compiuto l'anno e fosse slattata, e i due coniugi, ormai in fregola, e oramai a Vincignano, comprarono da due forti e bei genitori un magnifico maschio di tre anni giusti.
Non era compiuto l'anno dunque che a Vincignano erano stati venduti questi tre fanciulli.
Sembra che la voce circolasse rapidamente, per Roma e fuori di Roma; tutti parlavano di questi fanciulli. — I fanciulli di Vincignano! I fanciulli di Vincignano! — I fanciulli di Vincignano divennero celebri, argomento di tutte le conversazioni di quei coniugi senza figli. Molti andarono in persona e vi trovarono veramente una magnifica razza, e una gran quantità di genitori dispostissimi a cedere rampolli dietro compenso e alle condizioni suddette: che fosse fatta loro donazione di beni in vita o in morte, e che venisse loro assicurata una buona posizione.
L'anno seguente ne furono venduti nove, il terzo anno, ventidue, il quarto, sessantasette, il quinto, questo, ha avuto luogo in Vincignano, il primo mercato. Quei paesani, decisi a non vendere più la loro mercanzia alla spicciolata, stabilirono di tenerne una volta l'anno, in epoca da destinarsi, sulla piazza di Vincignano, un regolare mercato.
* * *
Una bella mattina di giugno il sole aveva riserbato nelle sue tasche per i colli toscani una speciale riserva d'oro, il piccolo gruppo di case sulla cima palpitava alla vivacità della luce e del calore. Vincignano, uno degli ultimi villaggi delle catene toscane verso l'Umbria, guardava giù i pendii verdi, arati di vigne, inargentati dai morbidi manti degli oliveti, cosparsi di cipressi, questi obelischi vivi della natura messi qua e là come puntelli nel divino paesaggio toscano, perchè tutto non si confonda in una divinità di luci e di colori davanti agli occhi dell'umile osservatore.
Dalle primissime ore del mattino il paese era tutto in movimento.
I fanciulli dovevano venire anche dalle vicinanze, purchè fossero venduti lì, a Vincignano, su quella piazza, dovevano avere questa marca di fabbrica «Vincignano».
Si erano installate lassù, già da vari giorni, coppie attempate, zitelle, zitelli, vedovi, facce più o meno arcigne che venivano incontro ad un torrente di gioia. I piccoli alberghi, le case, rigurgitavano. Un americano giungeva dall'America espressamente per comperare dodici fanciulli da portare in dono alla sua sterile sposa. Egli diceva di assicurare ai piccini un milione per ciascheduno. Due coniugi francesi dal muso d'uccello, volevano due maschietti colle gambe secche e dritte da introdurre come innesto per tentare la ripopolazione della Francia. Da ogni parte si domandavano informazioni e spiegazioni.
— I genitori! I genitori! — Bisognava vederli, farli visitare dal medico e accuratamente, bisognava essere certi della razza, al momento del mercato il medico avrebbe dato il responso.
— Io mi accontento del collo del padre. A me basta — diceva una secchina arricciando naso e bocca. — E i denti? I denti? — Incalzava un'altra colla faccia d'arancia e due occhi come grani di pepe — dove li mettete? Phue! — Il seno della madre! — Soffiava un grassone dalla faccia paonazza — È importante!
— I capelli! I capelli! I capelli! Non li contate voi? Non guarda ai capelli lei? È tutto. — Lasciava precipitare uno alto quasi due metri, secco secco, con un tubino grigio sotto al quale, nella cute bianca, nasceva una ghirlandina di lunghe setole giallicce.
Vincignano si popolava si popolava, si riempiva. Da tutti gli sbocchi apparivano sulla piazza donne che conducevano fanciulli, piccoli in fasce più grandicelli, se ne vedevano fino agli otto e ai dieci anni. Ce n'erano dall'espressione triste, malinconici o che piagnucolavano, altri in piena allegria e floridezza andavano incontro spensieratamente al loro destino. Alcuni, bambine in specie, parevano fiutare sottilmente una nuova vita di agi e di ricchezze. Erano tutti ben messi, i più piccini seminudi mostravano braccia e gambe paffute. Una madre ne teneva uno a gambe all'insù mostrandolo sotto come una meraviglia, infatti il piccolo agitandosi esponeva carni meravigliose di freschezza e di colore. Altre erano intente a ravviare capelli, soffiare per l'ultima volta un naso. Poi facevano passeggiare in bella mostra il loro prodotto mettendolo più in evidenza che fosse possibile. Un giovanotto ne prendeva uno e se lo portava sopra la testa, e il bimbo brillava e rideva al giuoco. Chi ne trascinava uno a forza come al macello.... chi ammoniva con promesse esorbitanti, chi ne ricuopriva uno d'improperî, chi gli stringeva forte le dita per farlo star su, dritto, o perchè sorridesse ai signori che circolavano, e l'innocente faceva sempre più la faccia d'uggia. Intorno, sulle panchine della piazza, si vedevano madri che davano il latte alla loro creatura sfoggiando ai passanti una mammella portentosa.
E fra tutta questa gente circolavano i concorrenti. Le signore coi loro occhialetti giravano, cercavano, si chiamavano, accarezzavano, domandavano, tutti si rimescolavano oramai sulla piazza. Ve ne erano anche venuti in gita, per pura curiosità, e ridevano, e facevano mille meraviglie per la novità del caso. — Il Condotto! Il Condotto! — Fu gridato da una parte. Il medico corse all'appello e fu rinserrato da un aggruppamento istantaneo di persone.
Il mercato era aperto. Fu venduta per lire quattromila una bambina di quattro anni, bruna, la quale per il grande trambusto e per la soggezione del momento si diede a piangere dirottamente. Portata subito nel vicino caffè le furono presentati vasi di confetti e drops dinanzi ai quali la piccina ristagnò le lacrime, e accennava timidamente quali di quei dolci le convenivano di più.
Il mercato era aperto.
Si correva da destra a sinistra e tutti via via s'aggruppavano dove un affare si concludeva.
— Uh! Bellino!
— Che spalle!
— È vaccinato?
— Che occhi!
— Fategli aprir la bocca!
— Che dentini!
— Perle!
— Com'è tondo!
— Un tordo!
— Grasso! Grasso!
— Guardi qui!
— Qua! Su! Giù!
— Sciu! Scia! — Uno sculaccione e la vendita era fatta.
Chi portava via un fanciullo in collo di tutta corsa, coppie che ne tenevano uno in mezzo e camminavano chinati per guardarlo bene, non ancora capaci di stringerselo e di baciarlo. I due si guardavano in viso ancora una volta: — Avremo combinato bene? Sarà sano? Sarà buono? Mah! Speriamo! — Dissensi che saltavano fuori all'ultimo momento fra coniugi che si guardavano velenosamente prossimi ad acciuffarsi. I poveri fanciulli erano ormai intontiti, si portavano loro dolci, giuochi, si tiravano, si alzavano, si spogliavano, si rivestivano, si stringevano in quel fracasso d'inferno.
L'americano ne aveva già comperati quattro per un complessivo di lire venticinquemila — Cento! Cento! — Gridava correndo in cerca di nuovi soggetti, sodisfattissimo della razza.
I due francesi se ne tiravano uno per la mano in cerca disperata dell'altro da portare come innesto per la ripopolazione della Francia. I ragazzi andavano a ruba. Alle undici non ce n'era più uno disponibile. Alcuni genitori si decisero sul momento a venderne uno, vista l'affluenza sul mercato.
Si gridò a più riprese: — C'è più nessun fanciullo in vendita? Nessuno, il mercato era finito, la piazza si spopolava; tutti correvano a fare i passi necessari per l'acquisto della proprietà, interrogavano i genitori sulle abitudini sui gusti. Il Condotto era strappato da tutte le parti, tutti se lo contendevano.
Nella piazza tornata in calma, la gente sedeva sulle panchine commentando, discutendo delle vendite, pro e contro la nuova industria.
Una piccola zitella di una cinquantina d'anni girellava delusa. Era venuta anche lei per comprare ma non si era fatta avanti, troppa confusione, eppoi i prezzi enormi.... non ne erano stati venduti a meno di tremila lire. Lei infine non poteva promettere che una posizione modesta, aveva da vivere appena comodamente. Si fermò vicino ad una panca, vi sedeva una donna grassa di mezza età, al suo fianco, quasi nascosto, nel cavo della sua vita, un piccolo essere, un bambino secco, gracile, vestito con calzoncini e giacchetta di grossa roba di lana, un lungo mento e un berretto da marinaio che gli calzava fino sugli occhi.
— Questo? — disse la zitella soffermandosi — è vostro?
— Sì — rispose la donna.
— Non lo volevate vendere?
— L'ho portato solamente per provare. Più degli altri avrebbe avuto bisogno di essere venduto ma.... io non ho voluto esporlo, avrebbero forse riso, lo avrebbero schernito poverino, è un infelice. — E alzandolo su lo mostrò in piedi. — Era gobbo, mostruosamente gobbo. — È nato così. Oh! Avrebbe bisogno lui di trovare protezione, noi siamo dei poveri contadini, e in casa c'è pane solo per chi può lavorare, lui forse non potrà....
La donna parlava profondamente amareggiata, aveva vedute vendere tante belle teste ricciute, andare incontro agli agi, alle ricchezze, aveva veduti i loro genitori riscuotere sacchetti d'oro.... — Qui vengono solo a cercare i belli e i sani.... —
La zitella accarezzava il fanciullo teneramente. La madre la guardò in maniera espressiva, le due donne si capirono.
— Mah!... — disse la zitella — poverino.... io cercavo una bambina....
— Ma glie lo darei per poco, è buono sa, tanto buono, si affeziona, e non si staccherebbe mai da una persona quando gli vuol vene.
— Ma io cercavo una bambina.... — Intanto qualcosa di fossilizzato a quel calore si disfaceva in lei e le veniva dolcemente agli occhi, alla bocca alle mani al cuore.... ad inondarla tutta: la sua maternità. L'amore per l'essere infelice, la cura per il meschino, la dedizione pietosa.... tutto un poema di tenerezza e di amore ella intravedeva. Oh! essere madre di belle e sane creature non era così grande come essere madre di un infelice.
— Glie lo darei anche per cinquecento lire — incalzò la donna.
La zitella sentì di doverselo stringere al seno; lo prese, lo circondò, lo baciò, lo strinse. La creatura dalla bazza puntuta la baciò nella bocca viscidamente, un bacio malato, ma dal quale si travasavano gocce della sua povera anima molle.
A questo punto viene su dal fondo della piazza un nuvolo di persone. È l'americano che sbraita inseguito da gente che ride sorride sghignazza....
— Empossibole! Empossibole!
Non era riuscito che a comperare otto fanciulli, e non avrebbe lasciata l'Italia senza i dodici da portare alla consorte. Ne cercava ora da comperare di seconda mano, a qualunque prezzo, a qualunque condizione. Giunto alla cima della piazza, scorta la zitella che abbracciava il piccolo infelice si avvicinò.
— Questo? Questo?
— È infelice signore — disse la madre.
— Non emporta.
— È gobbo.
— Non emporta.
— Questa signora lo prenderebbe....
— Quanto dare?
— Cinquecento lire — balbettò timidamente la zitella lasciando il fanciullo.
— Mille — disse l'americano.
La zitella còlta da uno scatto di rabbia per la spavalderia di quel tipo disse secco secco:
— Millecinquanta.
— Millecinquecento!
— Milleseicento — ritossì la zitella.
— Duemila.
La piccola zitella tremava di rabbia, era divenuta livida, guardava la madre saettandola, facendole gesti, segni cogli occhi, ma essa non guardava più che l'americano, esterrefatta per il sopraggiungere così inatteso della fortuna.
Un bell'umore del gruppo gettò un grido:
— Cinquemila lire!
— Diecimila! — Gridò l'americano.
— Ventimila! — Venne ancora fuori dal gruppo aizzato al giuoco.
— Un gobbo! Un gobbo! — Dicevano tutti — Mamma mia! — E ridevano e gridavano....
— Trentamila! — Urlò l'americano senza neppure voltarsi.
— Ma un gobbo!
— Gesù mio!
— Porta fortuna!
— È la fortuna! — Fu gridato in vari punti della piazza.
— Porta fortuna!
— Quarantamila!
— Cinquantamila!
La madre divenuta pazza, furente, assalita da un fremito febbrile, salita sulla panca col povero infelice in braccio, e mentre la piazza rumoreggiava ancora una volta affollata, mentre tutti gridavano, ridevano sconciamente, incominciò a togliere le vesti di dosso al fanciullo e a lanciarle via alzandolo nudo sopra là sua testa, gridando da forsennata:
— Guardatelo! È vero! È vero! È reale! — pazza, lanciando il figlio nudo verso il sole! Le due curve mostruose di quel povero torace rilucevano ai raggi.
— Centomila! — tuonò l'americano sorpassando ogni rumore, girandosi paonazzo verso la folla in atto di sfida.
La piazza rimase muta d'un colpo.
* * *
Non è vero che questa industria è straordinaria? Ma il più straordinario è questo: che il nostro buon Giolitti non abbia ancora pensato di farne un monopolio dello Stato.
INDICE
Il Re bello Pag. 5
L'anima 47
L'ingegnere 59
L'angelo 85
Tre diversi amici e tre liquidi diversi 103
Piccolo gioiello sentimentale 109
Per una bella donna 113
La bomba 135
Il borsaiolo 143
Alla morte non si sfugge 155
Le due famiglie 173
Il mendicante 193
Il gobbo 199
La veglia 215
Industria 245
Opere di ALDO PALAZZESCHI
(Edizioni Vallecchi)
- Il Codice di Perelà. Romanzo, 2.ª edizione. L. 6
- Il Re bello. Novelle. L. 6
- Due imperi.... mancati. Romanzo. L. 6
PROSSIMAMENTE:
- L'Incendiario , Liriche, 1905-1909. 3.ª edizione definitiva.
- Poesia , Liriche, 1910-1914.