TORRE BURLA
È proprio nel mezzo alla valle,
non alta, rotonda, nerissima,
à piatta la cima:
nè porta nè foro vi luce.
La valle, grandissima valle,
abonda di fango,
i fiori, pochissimi,
vi nascono grassi e sbiaditi,
le ortiche vi crescono alte.
Nel mezzo, non alta, rotonda,
come ombra, padrona superba del piano
la Torre rimane.
La sera, ogni sera, al tramonto,
ognuno s'appressa e n'ascolta il romore,
romore che tutti ormai sanno:
voltare di foglio,
voltare leggero di foglio.
Ognuno ne ascolta,
la sera, il romore e si guarda.
— Si legge là dentro!
— Si legge una pagina al giorno!
— Chi legge?
— Qual libro?
— È un vecchio che legge,
un vecchio con barba bianchissima!
Il libro racconta una storia....
— La storia dev'essere lunga,
da tanto è il voltare di foglio!
— È un giovine invece che legge,
un bimbo coll'ali dorate!
La storia è assai breve,
ma è scritta una sola parola ogni foglio!
— Il Sole vi legge!
È il libro del Sole!
La sera al tramonto è il voltare di foglio!
La sera col lieve spirare dell'ultimo raggio!
E invece lo scritto è piccino e fittissimo,
neppure le lenti potenti lo fanno capire! —
Oh! È lunga la storia, assai lunga!
Ognuno ne ascolta la sera il voltare di foglio.
TEMPIO SERRATO
Dai vetri scurissimi
traspare leggera di nebbia viola
finissima luce,
baciata dagli angioli grandi
dai santi dai manti splendenti
di cupi colori.
Non s'ode di fuori romore di vita,
non s'ode lamento,
nè s'odon ne l'eco morenti
le note de l'organo lento,
soltanto leggera di nebbia viola
la luce traspare.
Il Tempio è serrato,
serrato fin tanto che raggio
di fuori si veda.
La gente à la chiave del Tempio,
la gente che è fuori aspettando,
rivolta impaziente a la luce
che ancora leggera traspare.
Nel mezzo, nel vuoto del Tempio,
sul gelido marmo, prostrato
dinanzi a l'altare maggiore
ov'ardono i ceri del segno,
vi prega, dominio d'orrore, il Kinik.
Strappato àn di mano l'impero al Kinik,
l'àn chiuso nel Tempio.
I ceri massicci
vi furono accesi a l'altare maggiore
siccome per festa,
fu chiusa la porta ferrata.
Soltanto il terrore l'invade là dentro,
aspetta dei ceri la fine tremando
ravvolto nel serico manto
più giallo dell'odio
che a terra nel cupo del Tempio risplende.
La gente di fuori in silenzio,
rivolta a le grandi vetrate
la luce ne sugge con occhio impaziente,
lo vede, il Kinik, prostrato
nel mezzo sul gelido marmo
dinanzi a l'altare maggiore,
lo vede, qual macchia che l'acqua non lava.
Ne sugge la luce anelante la gente
e in mano tremante la chiave
del Tempio prepara.
Prostrato sul gelido marmo,
dinanzi a l'altare maggiore
ov'ardono i ceri del segno,
tremante d'orrore vi prega il Kinik.
Soltanto stridore tremendo di chiavi
gli ronza a le orecchie e a la mente atterrita,
s'avvolge, si serra nel serico manto
che giallo nel cupo del Tempio risplende
qual macchia che l'acqua non lava.
IL PASSO DE LE NAZARENE
A Clodio Bellenghi.
Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s'incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s'incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
gli unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s'incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s'aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s'incontran,
s'inchinan le bianche e le nere,
si recan l'un l'altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo nel mezzo s'incontran,
s'inchinan le file, una bianca e una nera,
le suore s'incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
COMARE COLETTA
— Saltella e balletta comare Coletta!
Saltella e balletta! —
Smagrita ricurva la piccola vecchia
girando le strade saltella e balletta.
Si ferma la gente a guardarla,
di rado taluno le getta denaro,
saltella più lesta la vecchia al tintinno,
ringrazia provandosi ancora
di reggere a la piruetta.
Talvolta ella cade fra il lazzo e le risa,
nessuno le porge la mano,
nessuno a soccorrerla viene.
— Saltella e balletta comare Coletta!
Saltella e balletta!
— La tua perucchina, comare Coletta,
ne perde il capecchio!
— E il bel mazzolino, comare Coletta!
Di fiori assai freschi!
Ancora non ànno lasciato cadere
il vivo scarlatto!
— Ricordan quei fiori, comare Coletta,
gli antichi splendori?
— Danzavi nel mezzo ai ripalchi
n'è vero, comare Coletta?
Danzavi vestita di luci, cosparsa di gemme,
coperta soltanto dai guardi malefici, vero?
— Ricordi le luci, le gemme,
le vesti smaglianti?
— Ricordi il tuo sozzo peccato?
— Tu sei maledetta, comare Coletta!
Vecchiaccia d'inferno!
— Saltella e balletta comare Coletta!
Saltella e balletta! —
Ricurva, sciancata, provandosi ancora
di reggere a la piruetta,
s'aggira per fame la vecchia rugosa,
trascina la logora veste pendente a brandelli,
le cade a pennecchi di capo il capecchio
fra il lazzo e le risa,
la rabbia le serra la bocca di rughe ormai fossa,
soltanto il mazzetto di fiori scarlatti
ancora le ride nel mezzo del petto.
— Saltella e balletta comare Coletta!
Saltella e balletta!
A PALAZZO ORO ROR
Nel mezzo a la notte, ogni notte,
la veglia incomincia a Palazzo Oro Ror.
In riva a lo stagno s'innalza il Palazzo,
soltanto lo stagno lo guarda perenne e lo specchia.
Già lenta l'orchestra incomincia la danza,
la notte è profonda.
Comincian le dame che giungon da lungi,
discendon silenti dai cocchi dorati:
Dei ricchi broccati ricuopron le dame,
ricuopron le vesti cosparse di gemme i ricchi broccati,
finissime gemme,
topazi ametisti.
Finestra non s'apre a Palazzo Oro Ror,
soltanto la porta a la sera
pel passo a le dame.
In fila infinita si seguono i cocchi dorati,
discendon le dame silenti ravvolte nei ricchi broccati.
Soltanto lo stagno ne specchia l'entrata
e l'oro dei cocchi risplende ne l'acqua estasiata.
L'orchestra soltanto si sente,
si perde il lentissimo suono
confuso fra muover di serici manti.
La veglia ora è piena,
di fuori più nulla si vede.
Silenzio.
Un cocchio lucente che ancora in lontano risplende,
s'appressa più ratto del vento
e rapida scende la dama tardante,
se n'ode soltanto leggero frusciare del serico manto.
Il cocchio ora lento ne l'ombra si perde.
VELA LONTANA
La Vela s'aggira nel largo,
lontana in un cerchio di mare uguale,
non cenna di giunger la terra.
La gente a le rive ne segue il cammino,
si ferma a spiarne l'andare.
La Vela s'aggira nel largo,
lontana in un cerchio di mare uguale.
In piedi a la prua de la barca
si stanno i tre giovani Principi:
Martillo, Corano, Ginnello.
S'aggiran pel grande silenzio
con occhio rivolto a la terra lontana,
ravvolti nel nero mantello.
La gente a le rive ne segue il cammino,
si ferma a spiarne l'andare.
La Vela s'aggira nel largo,
lontana in un cerchio di mare uguale.
FESTA GRIGIA
A Marino Moretti.
Iersera la festa dei vivi colori,
la danza di risa e di lazzi iersera!...
La festa del grigio è stamane,
del grigio di piombo.
S'è fatta la luce assai tardi;
la strada è ravvolta nel grigio silenzio,
non s'ode che l'eco di sonno,
di sonno di piombo.
La nebbia leggera purifica l'aria
siccome i vapori d'incenso,
ricuopre di grigio lo specchio macchiato
che ancora ne l'ombra riflette
gli sprazzi scarlatti di risa,
di risa e di lazzi.
Riposano ai piedi dei letti di sonno profondo
gualciti gli stracci dai vivi colori.
La festa del grigio è stamane!
Rasentan le mura
coperte di brune mantiglie,
beghine ricurve,
rasentan le mura silenti.
Insiste argentino l'invito a la Messa:
la Prima.
Leggere vi corron le piccole figlie.
La strada è ravvolta nel grigio silenzio.
L'invito argentino si tace.
Più nulla. La Messa incomincia.
Più ratte rasentan le mura
le brune mantiglie,
più rade si fanno ed il passo ne cessa.
Soltanto la nebbia leggera
tranquilla rimane al suo giorno di festa:
la festa del grigio è stamane!
PALAZZO MIRENA
Palazzo Mirena è distrutto,
distrutto dal fuoco.
In sera di festa, la veglia era piena,
le fiamme terribili avvolsero
il grande palazzo.
Più bello dei belli
s'ergeva nel mezzo al giardino,
superbo fra gli alberi grandi.
Le fiamme arrivarono al cielo
per tutta la notte,
la notte che ognuno ricorda, e si segna.
L'aurora lo vide terribile mucchio
di bragi roventi.
Ognuno ricorda la notte del fuoco.
Il cielo che s'ebbe di fiamme
terribile omaggio per tutta una notte,
rimase chiazzato di rosso
per giorni e per giorni.
E ancora ai tramonti vi sostano sopra
vapori rossastri,
vi sostan siccome a saluto,
messaggi di fiamme lontane
venuti da nuovi flagelli.
E il vento per anco solleva
le ceneri ultime.
In sera di festa, la veglia era piena,
smagliante di luci e di gemme,
fiorita da petali rossi e scarlatti
di dolci sorrisi lunghissimi,
fra muover di passi leggeri,
di piccoli passi dorati;
strisciare d'inchini profondi, lentissimi,
frusciare di serici manti,
di manti vermigli, violetti,
di manti bianchissimi,
coperti di gemme fulgenti,
cosparsi di perle finissime,
goccianti di vivi diamanti,
fluenti di trecce biondissime,
nel mezzo a la notte
le fiamme terribili avvolsero
il grande palazzo.
Moltissime dame perirono,
alcune rimasero folli,
le meno ne furono salve.
Madama Mirena,
la bionda Contessa dal guardo di Sole,
rimase al suo posto.
Si videro dame gettarsi dall'alto
ravvolte di fiamme,
fuggire seguite dal fuoco appiccato a le vesti,
fuggire fuggire pel grande giardino
siccome le torce terribili al vento
strapparsi le trecce infuocate,
le vesti coperte di fiamme,
gettarsi furenti a le vasche
nel mezzo al giardino.
Colonna tremenda di fiamme
al cielo s'alzava Palazzo Mirena,
giravan d'intorno furenti,
cadevan dall'alto
fardelli di fiamme roventi,
le dame ormai folli.
Pochissime furono salve.
Nessuno più vide Madama Mirena:
padrona, rimase al suo posto
strisciando a le fiamme l'inchino infinito.
Gli avanzi rimangono intatti,
nessuno vi pose la mano,
soltanto una croce
fu posta nel mezzo fra i neri carboni
che a l'ombra degli alberi grandi
rimangon ricordo.
Talora fra il nero si scorgon
dei raggi lucenti,
fulgore di gemme rimaste,
«son gli occhi di Dama Mirena!»
Di sotto ai carboni
si dice che ancora Ella guardi.
IL PRINCIPE BIANCO
Immobili e mute le dame già aspettano:
aspettano intorno a la vasca dei latti.
Bellissime dame coperte da un manto bianchissimo,
un manto di fino damasco.
Adornan di perle le trecce
le dame bianchissime,
le trecce più bianche del latte
cosparse di perle finissime.
Corona le fanno passandole intorno lentissimi
con ala spiegata paoni bianchissimi;
e ai manti, che a terra riposan
la coda infinita,
bianchissimi gatti sonnecchiano.
Immobili e mute le dame già aspettano
intorno a la vasca dei latti;
aspettan l'istante.
La vasca dei latti circonda
la casa del Principe Bianco,
la piccola cella di candido marmo
che s'alza leggera nel mezzo del latte.
In fila infinita vi nuotano intorno
leggeri dei cigni bianchissimi.
È giunto l'istante.
Leggera nel mezzo la cella si scuopre
n'appare sul dorso d'un cigno grandissimo
il Principe Bianco.
Immobili e mute le dame d'intorno,
arrestano i cigni la corsa leggera,
si ferman vicino a ogni dama
con ala spiegata i paoni,
si levano i gatti dal sonno
e restano immobili a lato dei manti.
Il Principe Bianco con guardo sicuro
si volge a l'intorno,
accenna una dama,
e rapido il cigno nuotando leggero sui latti
lo reca a la dama prescelta,
lo sosta un istante;
s'inchina la dama
e il Principe il petto ne sfiora
con labro bianchissimo,
non perla ne sugge,
un bacio soltanto vi pone.
La dama prostrata rimane,
e il cigno girando leggero
col Principe Bianco
nel mezzo a la vasca ritorna.
La cella si cuopre.
Più ratti del vento si aggirano i cigni d'intorno,
le dame si muovon lentissime
sul candido seno agitando
ventagli di piume bianchissime.
Inchinan passando la dama prostrata.
Più lesti le girano attorno
con ala spiegata i paoni,
e i gatti ne seguono lento il cammino
a lato del manto bianchissimo.
Soltanto la dama prescelta rimane prostrata.
ROSARIO
Pallante, regina.
Vorrei che nel mezzo a la notte sorgesse
un raggio di sole soltanto per me,
che sol la mia chioma dorata nel buio brillasse.
Corilla, beghina.
Per Cristo
subisco
gioisco e finisco.
Callina, centenario.
S'andavan, la notte serena, tre barche per mare,
tre musici v'erano dentro a ciascuna, s'andavano
al cielo stellato e a la luna le note dolcissime offrire.
Erak, stregone.
Non vale
per male uguale
salire con ale.
Una Paolotta.
S'ammassan su i ceri spenti
grondanti le lagrime pallide, morte, e non cadono,
siccome le gocce spremute stagnate su cuori pendenti.
Cucù, pappagallo.
Chi vuole Cucù?
Cucù non
c'è
più!
Cucurucucù.
Eletta, pellegrina.
Diomede Prassede!
Per l'erto Carmelo dei Santi
chi cede con fede, concede.
Manca, contessa.
La casa vorrei ne lo stagno del pianto,
le mura di lagrime, il tetto di dolo,
udire sol l'eco d'un lungo lamento.
Kerek, astronomo.
Io guardo vagare
lontano pianeta
vivente al bagliore di sola cometa.
Cerinne, pescatore.
A vela che indora rivolgo la prora,
il bacio n'aspetto del vento
su vela d'argento.
Una Dama di Nazaret.
Amara lagrima pungente dolore,
diventa un bel fiore
dinanzi all'altare Maggiore.
Violante, regina.
Un cuore guizzante vorrei per trastullo,
trapungerlo tutto con un fino spillo,
fiorire di gocce un broccato giallo.
Marzio, paggio.
Vorrei con un bacio rovente strappare
un fiore superbo di sangue su labro vermiglio,
il vuoto dei petali tolti per sempre lasciare.
Concetta, pellegrina.
Pregate salendo, velate,
per l'erte ed a terra lo sguardo volgete,
salite, velate, erte consacrate.
Stanca, contessa.
Dormire nel lento romore grondante
di piccola fonte
vorrei, di lentissima fonte costante.
Giuditta, filatrice.
Avvolto, rattorto
su fuso di torto
ogni filo è corto.
Benedetta, rocchettina.
Sia il lungo sentier spinosissimo
sia il triste cammin pungentissimo
per Cibo squisito soavissimo.
Faante, regina.
Vorrei cavalcare nel mare la notte,
con sola compagna la luna,
cavalli più bianchi del latte.
Rerè, pappagallo.
Rerè mio Rerè!
Più bello chi è?
Rerè mio Rerè!
Matilla, beghina.
Perdono
concesso,
mi confesso e mi riconfesso.
Stefanello, scaccino.
Cero che si porta, chiave d'una porta,
cero che s'accende, gioia che s'attende,
per cero che arda, occhio che ti guarda.
GIOCO PROIBITO
Rasentano piano gli specchi invisibili,
avvolti di nebbia
non lasciano traccia ne l'ombra,
gli specchi non ànno riflessi,
non cade su loro de l'ombra una macchia,
neppure la macchia dell'oro.
Un raggio vien fuori dal mezzo di luce giallastra:
sul raggio soltanto rimangono lievi impalpabili
impronte sfumate di luci, di nebbie: Riflessi.
Dispaiono appaiono lenti
si fanno ora vivi ora smorti
appaiono spaiono lenti.
Dei volti talora vi appaiono,
dei volti bianchissimi,
appena il pallore la luce ne scuopre.
Talvolta vi passan leggeri dei manti fioriti;
vi passano lenti cangianti splendenti.
S'arrestano i volti talora,
s'arrestan, più chiari si fanno,
vi splende d'un tratto uno sguardo:
due occhi che corron cercando pungenti,
o in fondo confusi v'appaion languenti morenti.
Vi passa pian piano la nebbia e ricuopre,
confonde gli sguardi con luce di gemme.
In basso continua si segue
la ridda dei piccoli punti
di dadi danzanti.
Due dadi grandissimi in fondo rimangono fermi;
ne splendono i punti nerissimi intenti.
Vi passan leggere davanti
le impronte sfumate di luci, di nebbie: Riflessi.
Dispaiono appaiono lenti
si fanno ora vivi ora smorti
appaiono spaiono lenti.
PARCO UMIDO
Il parco è serrato serrato serrato,
serrato da un muro ch'è lungo
le miglia le miglia le miglia,
da un muro coperto di muffe,
coperto di verdi licheni,
grondante di dense fanghiglie.
Nè un varco soltanto nel parco traspare
nè un foro vi luce,
soltanto si posson le muffe cadenti
vedere, soltanto
le dense fanghiglie grondanti.
Altissimi i cedri ne passano il muro,
i pini dal fusto robusto ne sporgon l'ombrello
s'innalzan cipressi, rossastre magnolie,
e salici, e salici tanti
piangenti di pianti lontani,
che mischian sul muro cadenti
le lagrime ai verdi licheni,
a
grige
fanghiglie grondanti.
Di fuori ecco il parco serrato,
serrato da un muro
ch'è lungo le miglia e le miglia.
Fra l'ombre, fra l'ombre potenti
nel folto degli alberi grandi
soltanto tre donne s'aggirano lento,
bellissime donne: Regine Parenti.
S'aggirano lento in silenzio
ne l'ombre del parco serrato,
pesante trascinano il manto di lutto, le Donne,
coperte da un velo
che appena il pallore del volto ne scopre.
LA VEGLIA DE LE TRISTI
Nel mezzo a la sala degli ori massicci,
s'uniscon Le Tristi a la veglia.
La sala rotonda dai cento splendori!
Nel mezzo la lampada a spirito innalza
di nebbia leggera la fiamma viola
che incerta riflette nel giallo degli ori splendenti.
Le fanno corona le sette poltrone massicce
coperte di gialli broccati.
Pendenti dai travi dorati
le lampade d'oro discendono.
Colonne s'innalzan reggenti
dei cofani d'oro cosparsi di gialli topazi.
S'ammassan nei canti
dei gialli broccati abondanti.
La lampada in mezzo è già accesa,
fra poco Le Tristi verranno a la veglia.
Intorno, segrete,
le piccole porte conducono
ad una poltrona ciascuna.
La fiamma s'innalza di nebbia leggera
fra il giallo smagliante dell'oro.
Silenti come ombre,
ravvolte nel manto viola,
ricchissimo manto di fino damasco,
Le Tristi compaion ciascuna a la piccola porta.
Son sette:
Ginnasia Contessa di Borgo Silenzio,
Meriga Contessa di Casa Lontana,
Corrada Contessa di Valle Pallingo,
Venanzia Contessa di Vasta Palude,
Romilda Contessa di Lago d'Argento,
Piccarda Contessa di Piccolo Dolo,
Marraia Contessa di Dolo Maggiore.
Si strisciano muto l'inchino profondo,
la piccola porta si chiude ed ognuna
con muovere lento s'appressa a la propria poltrona.
Si seggon con occhio rivolto a la fiamma.
Non parlan, Le Tristi,
nessuna conosce la voce dell'altra,
non volgono il guardo fra loro.
In cerchio d'intorno a la fiamma
ne seguono il lieve bagliore.
I manti viola riposano a terra la coda infinita,
s'ammassan fra l'oro massiccio
siccome le fiamme pesanti
venienti da lampade d'oro.
Rimangon Le Tristi a la veglia.
Immobili e mute con occhio rivolto a la fiamma.
Insieme si levano
dirette ciascuna a la piccola porta,
si sostan voltandosi,
si strisciano muto l'inchino profondo,
scompaiono.
La fiamma nel mezzo pian piano si spegne.
La sala degli ori massicci
soltanto il suo giallo pesante ne l'ombra risplende.
LA STORIA DI FRATE PUCCIO
Frate Puccio.
Col viso fiorito d'un gaio sorriso,
con occhi ridenti,
il vecchio s'andava e veniva leggero
pel grande convento dei Bianchi.
Il piccolo frate con braccio robusto
portava le brocche.
S'andava e veniva ridente, giulivo,
talvolta sostava un istante a la cella,
posando le brocche a la soglia,
sostava un istante ed usciva col gaio sorriso,
più lesto s'andava, più snelle
le braccia reggevan le brocche.
La Storia.
Compunti i fratelli incontrandolo,
guardavan con occhio di dubbio
spiccare in quel luogo un sì fresco sorriso,
qual fiore scarlatto nel mazzo bianchissimo;
guardavan da tempo la sosta a la cella.
Là dentro era il pozzo del dolce sorriso,
non quello nel mezzo al cortile del chiostro.
Da tanto fiorito sul labro del frate,
s'andava ogni giorno
facendo più fresco e più vivo:
soverchio sorriso.
Le brocche posavano un giorno a la soglia,
la porta lasciava uno spiro di luce:
fu visto, con occhio d'orrore,
che il frate vi aveva nascosto un peccato!
Quel fresco sorriso girava impudente
per gli anditi sacri
vestendo un peccato!
La cella fu aperta, frugata, vuotata.
Nascosto fra i libri, fra i libri dei Salmi,
fu visto un fantoccio coperto di logori stracci,
di stracci dai vivi colori,
figura profana di femmina!
Soltanto una bocca che aveva baciato il peccato
poteva sorrider là dentro!
Coperte le immagini sacre di tele violette,
l'oggetto profano fu tolto e portato al giudizio
dal frate Maggiore, dal Padre.
«Sia aperto il convento,
«si lasci passare ogni gente,
«si chiamin lontani fratelli!
«Nel mezzo al cortile del chiostro
«sia fatto un gran fuoco,
«il frate peccante
«vi posi l'oggetto del grande peccato,
«rimanga tre giorni
«nel mezzo al cortile prostrato!»
A l'alba del giorno fissato,
in file infinite lasciarono i propri conventi
fratelli e sorelle lontani:
saliron silenti quel colle le file.
Nazarene bianche, Nazarene nere,
i Valpassiti, le Rocchettine, i Nazareni,
i Domiziani, le Valeriane, le Suore Vesse.
Lontani romiti salirono,
e gente di popolo anche:
infine beghine.
Schierati d'intorno al cortile del chiostro,
attesero in basso pregare i fratelli,
pregare sommesso,
spirare leggero d'un soffio di pace.
All'ora fissata,
in fila, per coppie,
entraron con testa chinata
i Bianchi del grande convento
diretti a la grande fascina
nel mezzo al cortile ammassata.
Con testa reclina a la terra,
con occhi socchiusi e languenti,
in ultimo Puccio indietro di un passo.
Il vecchio avanzava con muovere affranto;
le braccia incrociate sul petto
stringevan l'oggetto del grande peccato,
gli stracci scarlatti
spiccavan nel manto bianchissimo
siccome una macchia di sangue,
siccome una grande ferita
dischiusa nel petto del frate.
Le file dei Bianchi s'aprirono,
ognuno nel grande cortile d'intorno
prostrato, in ginocchio, pregando sommesso.
Il fuoco fu acceso.
Chinaronsi i Bianchi in due file
formando un viale di marmi.
Sol l'ultimo, Puccio, in piedi rimase.
Cricchiaron le grosse fascine
nel fondo del bianco viale,
le fiamme s'alzarono presto.
Cadente, tremante, ricurvo,
il piccolo frate si mosse.
Fra i Bianchi prostrati a la terra,
giungendo sfinito a la fiamma,
con mano stecchita,
la bambola pose nel mezzo a l'ardente fascina;
un ultimo sguardo le diede con occhio sbarrato,
e cadde, siccome fardello di cenci,
nel mezzo al cortile, vicino a la fiamma prostrato.
S'alzarono in piedi i fratelli,
rimasero infine che il fuoco fu spento.
In file infinite silenti,
con testa reclina a la terra
tornarono ai propri conventi.
Frate Puccio.
Con viso emaciato, la bocca serrata,
con occhio languente,
pel grande convento dei Bianchi
il vecchio si mena stentando.
Il piccolo frate ricurvo
con braccio stecchito trascina le brocche.
Nemmeno un istante si sosta,
con muovere stanco, sfinito,
trascina le brocche pesanti.
LA GAVOTTA DI KIRÒ
Kirò.
La sala già posa nel buio scurissimo,
leggera vi serpe l'ondata
di lievi respiri rattratti.
Già zeppa di gente è la sala,
di gente che attende impaziente.
Nel mezzo s'innalza il ripalco,
un raggio viola dall'alto leggero vi scende.
S'attende con ansia silente Kirò,
il musico grande.
Stasera Egli suona una Danza.
Ognuno il respiro rattiene,
soltanto il silenzio s'aggira nel buio.
D'un tratto, come ombra,
dal raggio viola traspare Kirò,
traspare salendo leggero al ripalco,
snellissimo, stretto ne l'abito nero,
s'innalza e nel mezzo si ferma.
Lo sguardo a la luce rivolge
facendo brillare i begli occhi di mare
sul pallido volto;
e intanto la nebbia leggera viola
si mischia frugando nell'oro
dei ricci capelli biondissimi.
Con rapido gesto dell'arco incomincia.
La Gavotta.
Cominciano intorno alitando leggeri
dei piccoli passi,
leggeri, lentissimi,
picchiettano il grande silenzio.
Passare pian piano s'avverte
frusciare di sete,
tintinno minuto di gemme pendenti.
S'accresce s'accresce s'accresce.
S'affollano i piccoli passi d'intorno,
si mischiano lesti e cinguettano,
un gemito fioco di piccolo topo ferito
ne manda un velluto calpesto,
s'avverte passare volante,
attorcersi avvolgersi a spire
di veli lunghissimi.
Un'onda più lenta si posa,
si segue un inchino profondo.
La Danza s'accresce e s'appresta.
Si fanno ai portoni scarlatti
baleni di perle bianchissimi,
vi giocano presto apparire e sparire,
vi sostan taluni, vi restano a lungo.
Un presto cadere di sguardi,
un mesto incontrarsi,
un lieve incrociarsi di dita,
un lesto rattrarsi,
un lampo leggero di riso
risplende nel lento piegare
di teste fluenti.
S'accresce
s'accresce
s'accresce.
Serpeggia più ratta del fulmine,
fra tante bianchissime mani una stretta,
s'incontran d'un tratto
tanti occhi fulgenti, pungenti,
s'abbassan socchiusi,
scompaiono presto i baleni bianchissimi,
le porte scarlatte si chiudono.
D'un tratto uno strappo repente,
terribile strappo!
Di seta o damasco, di ricco broccato?
Ne cade una goccia!
Non veste strappata, non manto!
A un guardo è avvenuto lo strappo?
La goccia è vermiglia!
Più lento, più lungo, più piano
diviene il frammisto romore,
più radi si mischiano i piccoli passi,
più cheto il frusciare,
frusciare silente,
passare di veli che cadono a poco a la terra.
Si perde, si perde confuso ne l'ombra il romore,
la danza pian piano svanisce, si perde.
Kirò.
La Danza è finita.
La folla le braccia protende
lanciando dei gridi di gioia a Kirò.
Immobile e muto nel mezzo al ripalco
soltanto un istante egli attende,
gli brillano intorno i begli occhi di mare.
Ognuno le braccia protende
lanciando dei gridi di gioia!
Ei piano nel raggio viola dispare,
dispare leggero snellissimo,
il giovine bianco biondissimo,
il musico grande: Kirò.