1889
[Occhiello]
FINO A DOGALI
[Frontespizio]
OTTONE DI BANZOLE
(ALFREDO ORIANI)
FINO A DOGALI
MILANO LIBRERIA EDITRICE GALLI DI CHIESA & GUINDANI
LIPSIA e VIENNA. F. A. Brockhaus—BERLINO. A. Asher e C. PARIGI, Veuve Boyveau—NAPOLI. Ernesto Anfossi
1889
[Verso]
PROPRIETÀ LETTERARIA
Milano—Stabilimento Tip. E. Trevisini—Roma
DON GIOVANNI VERITÀ
Casolavalsenio, 25 dicembre 1885.
I.
Sono caduto il giorno tre di questo mese nel pomeriggio. La giornata era fosca. Grosse nuvole oscillavano nel cielo sotto la pressione di un vento troppo alto per essere sentito. L'aria, ancora più calda che umida, bagnava tutte le piante come di un sudore malato.
Nella caduta non ero solo, ma fortunatamente fui solo ad azzoppirmi.
Ed ecco come avvenne.
Non so bene se raccontando questo ubbidisca alla ridicola ed inesorabile vanità, che ci spinge a farci centro del mondo e a trovare nella compassione o magari nel disprezzo della gente un sollievo ai nostri dolori. Soffrire non è nulla, e sarebbe forse invidiato, se tutti dovessero accorgersi delle nostre sofferenze e stimarci più di prima, e sopratutto più di sè stessi. La nostra personalità afflitta nel corpo cerca compensi nell'anima e, poichè questa vale più di quello, tira a credere e a far credere che gli spasimi fisici abbiano, per chi patisce e per chi vede patire, valore morale.
Invece non hanno significato che per la patologia.
Avvenne così.
La sera al caffè piccolo e fumoso, pieno di braccianti, dove vengo a passare la prima parte della notte quando villeggio a Casola, alcuni gruppi di giovinotti, vantando mandati di Società Operaie, erano venuti a scongiurarmi di rappresentare Casola ai funerali di Don Giovanni Verità. Il Municipio, dominato da tutte le bigotterie e le imbecillità proprie dei contadi, non osava andare a Modigliana. L'arciprete, il priore, i grossi elettori montanari sempre padroni, avrebbero urlato d'indignazione se Casola fosse stata ufficialmente rappresentata alle esequie di un prete, che aveva avuto il torto di salvare la vita a Garibaldi. Giù nella folla, invece, alcuni vecchi garibaldini e molti giovani socialisti strepitavano incolleriti da una inerzia che avrebbe reso Casola ridicola presso tutti i comuni della provincia. Infatti i paesi di val di Senio, val di Lamone e val di Santerno avevano aderito o si preparavano a mandare rappresentanti e bande musicali ai funerali dell'ultimo prete rivoluzionario. Nel caffè il puzzo del carbone, il fumo delle pipe, il sito degli abiti, il fiato del vino bevuto, la veemenza delle parole e dei gesti mozzavano il respiro. La marea dello sdegno saliva.
Tutti i piccoli e fanatici odii municipali soffiavano in questa questione, della quale nessuno capiva la vera importanza. In fondo a tutti gli elogi prodigati al vecchio prete si sentiva ancora una diffidenza, quasi un disprezzo che non osava analizzare sè stesso, ma che vibrava ad ogni ironia lanciata alla sua memoria da qualche scettico o avvinazzato. Don Giovanni era morto affermandosi prete, ma ricusando di smentire la propria vita politica per ricevere i sacramenti. I giornali della sera erano tutti pieni di commenti alla sua dichiarazione.
Io stavo leggendola. Non era gran cosa e non palesava nè un gran carattere nè una grande mente. Analizzandola attentamente molti sospetti ne venivano alla riflessione. Al capezzale di quel povero e semplice prete una fiera battaglia doveva essere scoppiata fra coloro, che mandati dal vescovado avrebbero voluto dal cappellano garibaldino una abiura di tutta la sua vita, e gli altri, rappresentanti officiali o officiosi del partito radicale, che dopo essersi serviti di Don Giovanni come di una catapulta per battere i molti bastioni del clericalismo paesano, avrebbero forse preteso da lui una dichiarazione d'incredulità.
Avevo finito di leggere i giornali e ascoltavo distrattamente i discorsi. In essi nè commozione nè sentimento vero. Molti vantavano il coraggio e l'abnegazione di Don Giovanni, nessuno lo stimava buon prete.
—Se ti fossi trovato in punto di morte, chiesi al custode del camposanto, tremulo per le sbornie di gioventù smesse un po' troppo tardi e ora vecchio bonario agitato tratto tratto da impeti liberaleschi: avresti chiamato Don Giovanni?
Egli si fermò di soprassalto. La gente non ci aveva udito, ma la mia domanda lo aveva percosso nel petto come una piattonata di sciabola.
Agitò la testina calva e rossa, troppo rossa ai pomelli, gittando intorno un'occhiata diffidente.
—Filomena! gridai alla caffettiera: porta un bicchiere di acquavite a Venanzio.
Questa cortesia lo decise. Abbassò il volto, si strinse nelle spalle e coll'aria di chi confessa un secreto, che tutti sanno ed approvano ma niuno osa rivelare:
—Uhm! Io ho già deciso da un pezzo di chiamare il canonico.
E alludeva all'arciprete diventato canonico in Imola, già annunziato per vescovo, prete signorile e fanatico precisamente all'opposto di Don Giovanni.
Io sorrisi rivolgendomi per rispondere a un gruppo di giovani, che mi avevano già circondato.
Volevano andare a Modigliana collo stendardo della società operaia, poichè il Municipio rifiutava la propria bandiera, ma sempre per l'onore del paese avrebbero preteso un oratore. Io, convinto di molti libri stampati e di parecchie orazioni politiche, solo letterato del villaggio, dovevo prestarmi al loro bisogno. Ricusai. Non avevo e non dissi buone ragioni a ciò: ringraziavo dei complimenti. Essi insistevano esagerandoli; a Modigliana sarebbero convenuti d'ogni parte d'Italia rappresentanti, e quella era bene una circostanza propizia per me e per Casola. Un certo orgoglio paesano vibrava nelle loro frasi; la bontà delle loro intenzioni rendeva simpatica una insistenza già cortese di per sè stessa, e nulla meno una secreta inesplicabile ripugnanza m'impediva di acconsentire. Un non so quale terrore, un presentimento di sventura m'involgeva la coscienza.
Lo compresi più tardi.
Dovetti accondiscendere. Allora avrebbero voluto che prendessi meco in biroccino lo stendardo della società operaia per non portarlo essi sulle spalle faticando pei monti. Feci loro riflettere che la bandiera lunga come una partigiana, dal fodero vivace, sul mio biroccino rosso e piccolo tirato da una rozza veemente e semistorpia, avrebbe reso ridicolo in me il rappresentante, al quale tenevano tanto; mentre a una svolta di strada la punta della lancia avrebbe potuto cavare un occhio a qualche cittadino. Sorrisero e ne convennero.
Io sarei partito l'indomani, essi nella notte in drappello a traverso i monti.
E i discorsi proseguirono. Un vecchio garibaldino d'umore faceto e poetico, che aveva conosciuto Don Giovanni in una campagna con Garibaldi, si pose a raccontare degli aneddoti. In uno di essi, il più piccante, generale e cappellano avevano amato in comune una monaca della carità, gran signora francese, che avrebbe così trovato modo di sfogare con loro il proprio entusiasmo eroico e il proprio sentimento religioso. Il garibaldino leggermente avvinazzato narrava, inventando, i particolari più scabrosi dell'avventura; il pubblico credeva e commentava, dimenticando il riserbo di poco prima e giudicando finalmente Don Giovanni per uomo di coraggio, fortunato nell'essersi fatto un nome col salvare Garibaldi, ma di nessun ingegno e pessimo prete.
Non uno solo nel caffè che lo ammirasse e lo amasse.
Un altro lo paragonò a un prete del paese morto non era guari di apoplessia e vissuto sempre ubbriaco. Il paragone parve esatto. Nullameno qualcuno dei giovani socialisti protestò più per dovere che per sentimento; secondo lui Don Giovanni non era stato un vero prete, ne conveniva, ma tutti gli altri preti non erano veri uomini.
E la discussione deviò.
Sulle dieci tornai a casa. Un amico insisteva ancora per accompagnarmi a Modigliana; avevo acconsentito.
Quando fui solo seguitai a pensare a Don Giovanni. Avevo inteso il suo nome fin da ragazzo nei racconti di famiglia, lo avevo poi letto sovente nei giornali, udito sulle bocche del popolo ad ogni circostanza della epopea garibaldina, ma non avevo visto Don Giovanni che una sola volta.
Ed era stato a Faenza in un Comizio per la morte del Generale.
Il Comizio si teneva nel teatro Comunale. La sua sala piccola ma elegante malgrado alcuni capitali difetti di architettura, male illuminata da poche finestre aperte nei fianchi del palcoscenico, aveva in quel pomeriggio un'aria malinconica e quasi solenne. Una folla bruna e fremente, a volta a volta chiassosa, lo riempiva, lo stipava oscillando, vibrando, sollevandosi, abbassandosi in movimenti ritmici che la facevano assomigliare ad un'inondazione. Tutti i palchi ceduti buono o malgrado dai proprietari erano zeppi di uomini e di ragazzi, che si ammucchiavano sui parapetti, s'ammonticchiavano dietro sui sedili, avvolti nell'ombra cupa della tappezzeria mostrando talvolta la faccia biancastra per un raggio che cadeva di sbieco. Una ondulazione li faceva ogni tanto curvare la testa verso la platea per rialzarla poco dopo verso il loggione con atto curioso ed insieme pauroso. Gli abiti a festa erano generalmente scuri, i cappelli a cencio. Le fisonomie in tale luce non si coglievano, ma si sentiva come una fisonomia generale, un fondo di lineamenti, che rimaneva fermo in quella mezza tenebria e faceva che tutti si rassomigliassero: e, doloroso a confessarsi, l'aspetto del popolo non era bello. Tutte quelle faccie chine, strette, che sembravano toccarsi nella luce scialba filtrante dagli invisibili finestroni laterali del palcoscenico, avevano perduto il rilievo della propria individualità per non parere più che un allineamento di chiazze, nelle quali un giallore di carta pecora sembrava mettere un'ultima verità di malattia. I visi così spiattellati non conservavano che gli occhi, i capelli e le barbe: qualche sorriso o qualche urlo in un angolo aprendo una bocca lasciava brillare fugacemente una bianchezza di denti entro una oscurità più piccola e più densa; molte cravatte rosse mettevano sulle vesti certe righe di sangue che il balenìo bianco delle fibbie di acciaio sui cappelli, simile a un balenìo d'armi, avrebbe potuto a una fantasia troppo eccitabile spiegare sinistramente. La folla strepitava scherzando con tale veemenza che sembrava di minaccia. E non vi erano o non si vedevano signori. L'impressione era di una immensa plebe, sciaguratamente vestita a festa e quindi anche più brutta, che aveva tutto inondato con un senso feroce di conquista. La gente cacciatasi nei palchi non vi si poteva calmare, inebbriata di quella specie di sfregio fatto intenzionalmente ai padroni assenti, troppo timidi per difendere i propri palchi, mentre il Municipio, vile al solito in faccia alla folla, aveva persino ceduto i palchi non suoi.
Le vanterie dell'assalto rimbalzavano da palco a palco ora che tutti erano rivoluzionalmente occupati. Molte mani gesticolavano per aria in segno di trionfo o agitavano cappelli: parole oscene scoppiavano, affermazioni superbe di monelli che gremiti nel palco della Prefettura e della Giunta municipale vi assumevano con grazia scimmiesca atteggiamenti gravi di magistrati, ma per lanciare subito altre urla di gazzarra, ricomponendosi a un rimbrotto inaspettato, accendendo tutti i razzi di un riso inconscio e strepitoso, pel quale l'aspettazione di quanto deve succedere vale più di quanto succederà. Poi le figure accigliate e le pose impettite dei ribelli importanti sempre in agguato per cogliere una circostanza nella quale mostrarsi e che disseminati nei palchi col piccolo cappello floscio sull'occhio sogguardavano con occhiate brevi di padroni, assorti in un raccoglimento di oratori che si dispongano ad improvvisare, o vigili in una curiosità d'impresarii che temano per il proprio spettacolo. Fra di essi brillavano a forza di medaglie le vanità legittime, ma appunto per questo meno simpatiche, dei veterani garibaldini col cappello sormontato da penne, affettanti nell'orgasmo di tutti una boria che la grandezza dei fatti compiuti poteva certamente giustificare, ma che la semplicità eroica del loro modo non consentiva; e questi fra la nuova folla dei giovani rivoluzionari, ai quali Garibaldi non piace più, sembravano dispersi, talvolta incoraggiati da sorrisi, tal'altra rattenuti dal sarcasmo di una occhiata o di una parola.
A mano a mano che il teatro si stipava, cresceva il rumore. Il primo ordine dei palchi, quantunque gli usci ne fossero aperti, era stato invaso dai parapetti; la gente arrampicatasi sul basamento vi si era lanciata strepitando, cadendo a grappoli sui sedili, brancicando le tendine, strappando e ridendo. Pareva una festa. Agli altri ordini, i primi arrivati s'erano chiusi nei palchi e ricusavano d'aprire agli ultimi. Pochi o nessuno fra i proprietari invece aveva però osato far questo o, facendolo, aveva ceduto il posto d'onore a qualcuno della plebe come a un parafulmine che dovesse difenderlo in caso d'uragano nella platea o nel loggione. Quindi rintronavano pugni negli usci, urla di minaccia e di scherno. I conquistatori già calmi nel diritto fondamentale della proprietà, l'occupazione, sentendo percuotere sulle porte si voltavano dai parapetti con sorrisi di sprezzo o guardavano per le griglie e, se per caso era un proprietario diventato coraggioso per curiosità, si consultavano sul caso e finivano quasi sempre per aprire. Ma il proprietario doveva restare nel fondo del palchetto. Tra il frastuono della gente che strepitava per strepitare, così ingannando il tempo dell'attesa, si coglieva l'insistenza di certe voci, ed erano di compagni che dispersi nell'impeto dell'ingresso in teatro tentavano invano di riunirsi, giacchè abbandonando il proprio posto si era bensì sicuro di perderlo, ma non già di riguadagnarne un altro.
Molti invece si drizzavano gettando un grido, tentando un gesto nello spasimo di attirare l'attenzione della folla, e vinti dalla penombra che spesso non li lasciava più nemmeno riconoscere, dalla agitazione di tutti che non badava ancora ad alcuno, ripiombavano sopra sè stessi con certi atti di scoraggiamento, nei quali osservando da vicino si sarebbe forse notato del rancore.
Al quarto ordine ammirabile per disegno, uno dei più belli dell'architettura italiana, coi vani dei palchi quasi in quadro, i parapetti bassi bassi, i tramezzi nascosti da statue di eccellente stile decorativo, la folla si era stipata a piramidi, gli uni sulla schiena degli altri, di maniera che i primi appoggiati col petto sul davanzale sembravano dover soffocare, ed invece ciarlavano. Altri sporgevano temerariamente col busto e avevano gesti da nuotatori guardando in basso, o aggrappati agli stipiti accennavano di passare da palco a palco sullo spessore dei cornicioni, o afferrati ad una statua vi facevano un'oscena macchia nera. Un'immensa allegria saliva dalla fitta platea, s'insinuava nei palchi, scorreva per le corsie, gorgogliava, ricadeva straripando dal loggione. La moltitudine disoccupata e sovrana di sè, non avendo nulla a fare e niuno cui obbedire, sentiva istintivamente la comicità della propria situazione; cominciavano già le ironie al comizio eccitate dai significati che la varietà dei palchi attribuiva agli invasori. In quello del Prefetto, un gruppo di ragazzi, più numeroso e compatto del Consiglio Comunale, rappresentava, momentaneamente il Governo: nell'altro della Giunta un'orda di beceri sghignazzava intorno ad un piccolo borghese ingenuamente repubblicano, capitato al comizio come in duomo e che spaventato dal baccano aveva presa la più mortificata delle fisonomie. La platea se ne era accorta, e rideva. Nel palco della deputazione teatrale due lavandaie, le sole donne che si vedessero al comizio, ne rappresentavano apparentemente anche la sola pulizia.
—Sei brutto! tuonò improvvisamente un vocione, e si vide un gesto indicare un ometto calvo, dalla faccia ignobile e cadaverica, che occupava in un palchetto del secondo ordine il posto della più bella signora del paese.
Tutti capirono a volo l'allusione del confronto, ed applaudirono.
Egli comprese, arrossì, avrebbe voluto fuggire, ma i compagni lo rattennero fischiando.
—Viva Garibaldi!
—Viva Mazzini!
—No, viva la comune!
—Viva Garibaldi e la rivoluzione sociale!
—Viva Garibaldi!
E questo nome dominava, riuniva tutti gli evviva. Una frase, nella quale si distinse solo la parola carabina, suonò e si perdette nel frastuono del loggione. Poi si intesero fuori lontano degli squilli di fanfara e un fremito corse in tutte le persone, che si voltarono istintivamente alla porta. Il corteo, che avrebbe dovuto formare il vero comizio, si avvicinava e il teatro era già pieno.
E dalla porta tutti gli sguardi si riportarono sul palcoscenico. Una scena calata in fondo lo lasciava in tutta l'ampiezza del suo vano. A sinistra una luce filtrante da un vicolo per gli aperti finestroni lo illuminava melanconicamente. La tela, che lo chiudeva in fondo, rappresentava una parete di camera aristocratica colla porta tutta ornata di goffi rabeschi: due ritratti degli antenati comuni a tutte le commedie, un cavaliere del secolo passato in cappellaccio piumato e bavarina bianca, e una dama scollacciata, in abito rosso orlato di merletti bianchi, lo fiancheggiavano; e al di sopra della porta un piccolo quadro chiuso in una povera cornice dorata rappresentava Garibaldi. Il Generale era dipinto colla berretta in capo, avvoltolato nell'immenso mantello cilestro. La sua testa rimasta bella attraverso le falsificazioni di tutti i ritratti si distingueva male, e nullameno tutti la riconoscevano e a tutti quella nobile e semplice fisonomia faceva la stessa impressione. Non uno degli schiamazzatori che, voltandosi al palcoscenico ed incontrando quello sguardo immaginario, non smettesse di vociare colto da un senso affettuoso e pauroso di rispetto. Sotto al ritratto del Generale, più innanzi verso la ribalta, una lunga tavola coperta di un vecchio tappeto mezzo lacero, prestato dalla generosità del Municipio, aspettava il Comitato del comizio: una poltrona interrompeva a mezzo la fila delle sedie imbottite promettendo nel Comitato un personaggio, che nessuno ancora conosceva. La poltrona era di un rosso sbiadito e bisunto.
Chi mai l'avrebbe occupata?
Questa domanda, che mi rivolgevo mentalmente, la sentii ripetere più volte intorno a me.
Sulla tavola quattro candelabri d'argento a tre branche cariche di candele steariche, che sgocciolavano sotto il vento delle finestre imitando la fiamma delle torcie, non accrescevano per nulla la luce al palcoscenico. Pochi individui vi passavano ancora, forse incaricati della polizia del comizio, faccendieri vestiti anch'essi a festa e tutti superbi di occupare momentaneamente la scena destinata agli oratori e ai principi del Comitato.
Gli squilli della fanfara si avvicinavano sempre; la moltitudine si era calmata improvvisamente.
Dal mio palchetto di secondo ordine, già abituato alla poca luce della sala, non perdevo una fisonomia della moltitudine. Il grosso e bel lampadario solito ad illuminare il teatro era scomparso dietro il zodiaco della vôlta lasciando libera in giro la vista dei palchi. L'aria era calda, la gente già in sudore si asciugava le fronti.
—Viva Garibaldi!
—Viva l'Eroe! s'intese dal loggione.
In quel momento le fanfare entravano nell'atrio del teatro, e una colonna compatta, irresistibile sfondando la folla accalcata sulla porta della platea, si dilatava dentro la sala in torrente. Il corteo era arrivato. Quasi contemporaneamente dalle quinte a destra del palcoscenico irruppe un'onda di bandiere. La musica era cessata forse per la impossibilità di mantenere le bande allineate nelle corsie, ma le ultime note dell'inno garibaldino vibravano ancora nell'aria. Un immenso fremito corse nel teatro. Tutti quegli stendardi dalle lancie dorate, dai colori vivaci ondeggianti, che sfilavano e s'accalcavano sotto il ritratto del Generale, benchè appartenenti a pacifiche società operaie, parvero parlare a tutti di battaglie; e i sibili della seta, i riverberi delle frangie, l'addossarsi dei gruppi che per la esiguità dello spazio si scomponevano entrando l'uno nell'altro mentre i vessilli oscillavano, le trombe finalmente arrivate lanciavano gli ultimi trilli e la luce intercettata da tutto quel tumulto si velava, sembrarono comunicarlo alla folla. Le bandiere erano così alte e folte che il loro panneggiamento copriva tutto lo sfondo intorno al Generale. Le fantasie s'infiammarono, i cuori batterono. A tutti sembrò che quel ritratto si animasse. Le memorie delle cento battaglie vinte, degli eroismi prodigati, ripalpitarono in fondo a tutte le coscienze, mentre una bontà di commozione dolorosa e superba, riavvicinandole, traeva un urrah irresistibile da tutti i petti.
La figura di Garibaldi saliva fra le bandiere in una luce tragica di crepuscolo.
Tutte le miserie e le ridicolaggini inseparabili da un comizio popolare erano scomparse: egli solo restava, e la dolcezza del suo occhio azzurro che nessuno vedeva e tutti sentivano, la semplicità epica del suo abbigliamento così simile alla sua vita e alla sua morte, sollevarono da tutti i cuori come un immenso peso.
Ma improvvisamente si fece un gran silenzio.
Garibaldi era morto, quelli erano i suoi funerali!
Forse fu illusione, ma mi parve che tutti fossero impalliditi; certo tutti istintivamente si erano levato il cappello.
Nessuna voce, nessun evviva osava rompere la solennità di quel rispetto.
Intanto mutamente, compostamente, il Comitato del comizio si disponeva intorno alla tavola.
Quindi al rilassarsi di quella tensione troppo forte s'intese nel teatro il sommesso rumorio della gente che si accomodava quanto meglio poteva per assistere a una lunga ed interessante rappresentazione. Tutta la platea, poichè ne erano state levate le panche, stava in piedi così densa che nemmeno un grano di miglio cadendovi, secondo il vecchio proverbio, avrebbe toccato l'assito; nei palchi la ressa s'era acquetata subitamente: appena qualche moto provocato dalla positura insostenibile di uno spettatore vi si coglieva e cessava. Volsi un'occhiata in giro. Tutto il teatro rigurgitava. La folla, impossibile a credersi e a descriversi, era raddoppiata: al quarto ordine molti individui si reggevano alle statue. Ercole aveva un cappello nero sulla testa, Nettuno ne teneva un altro sul tridente.
Si aspettava.
A fianco della gran tavola un'altra più piccola era occupata dalla stampa: intorno al Comitato seduti, stretti, incredibilmente stretti, tutti gl'invitati e i rappresentanti delle società romagnole democratiche stipavano il palcoscenico. Molte teste espressive spiccavano, molte medaglie lucevano sui petti. Cercai cogli occhi Giuseppe Cesare Abba, eroica e gentile figura di troviero diventato poi lo storico della spedizione di Marsala, la sua prima campagna di giovinetto: ma non lo vidi. L'anno dopo egli solo parlò del Generale, alla commemorazione della sua morte, in un discorso che fu un canto di allodola interrotto da strida di aquila.
I rettori del comizio sembravano agitati. Alcuni erano calvi, altri canuti, nessuno aveva sembianza di soldato, tranne l'ultimo a sinistra, un fornaio, bella figura di littore romano, tozzo ed energico, che non potendo restar seduto era venuto a postarsi presso l'ultima bandiera e gladiatoriamente atteggiato pareva quasi pronto a brandirla al primo impeto di rivolta. Vicino alla poltrona centrale occupata da un signore ventruto, il sindaco giallo, sottile come una distinzione scolastica, floscio si accasciava sul tavolo cercando fra alcune carte che erano forse telegrammi. Alla sua sinistra la testina viva, oramai bianca ai capelli e tutta rossa al viso di un medico toscano, vecchio democratico dalla frase violenta e dall'accento gentile, si torceva vivacemente parlando con chi le stava dietro.
Degli altri le fisonomie svanivano nella penombra.
E il comizio cominciò colle solite agghiaccianti formalità.
Ma quando uno degli oratori si trasse leggermente in disparte e col braccio spinse innanzi una figura nera, recalcitrante, e con enfasi di voce gridò:
—Ecco Don Giovanni Verità, il salvatore di Garibaldi!
La scossa nel pubblico fu così violenta che produsse come un tuono.
Primo il Comitato si era levato, e dietro lui tutti gli invitati avevano fatto altrettanto. Le bandiere salite più alto del ritratto del Generale squassavano guerrescamente e tutti dalla platea, dai palchi, dal loggione, protesi coi cappelli in mano gesticolando, urlavano con un impeto, uno scroscio irrefrenabile ed onnipotente. La violenza dell'urrah era tale che quasi vi si sarebbe sospettata della collera. Cresceva sempre, saliva di tonalità arrivando allo spasimo dell'impotenza, mentre le voci meno robuste strozzate dallo sforzo rantolavano o guaivano e nei gesti cominciava come un tremito di disperazione. Ma l'urrah aumentava ancora, come un vento che sollevava tutti i cappelli, investiva le bandiere, agitava le fiamme dei candelabri, ruggiva nella penombra dei palchi, s'ingolfava nelle corsie, urtava nella vôlta e, riabbassandosi, strisciava su tutti i palchi, e tutti vi sorgevano per lanciarsi nella sala, di cui la folla sollevata da un conato incomprensibile si premeva contro il parapetto del palcoscenico e stava per soverchiarlo.
In quell'urlo nessuna parola era possibile, nessun gesto intelligibile.
Poi tutte le bandiere, alte dinanzi al ritratto del Generale, quasi sventolanti al vento di quell'ululo oceanico, si abbassarono contemporaneamente come per istinto colle lancie verso la testa del prete, scoprendo il ritratto del morto Generale.
Erano gli stendardi di cento vittorie, che si chinavano a toccare la veste del prete che aveva salvato il vincitore. Non si videro più che la testa del Generale olimpicamente sorridente e la testa del prete curva come le bandiere, quasi nel dolore di averlo invano salvato, poichè alla fine il Generale era morto.
Perchè dunque applaudire? Garibaldi era morto!
Le bandiere sempre più chinate parevano cadere, il volto del prete piegato sul petto si era coperto di un pallore cadaverico.
Era la festa della morte.
Garibaldi era morto, Don Giovanni non tarderebbe molto a morire.
Lo osservai.
Benchè tutti fossero ritti intorno alla tavola, la sua figura spiccava singolarmente. Non era nè molto alto nè molto grosso, ma si sentiva ancora in lui una vigoria senile, che rendeva facilmente credibili tutte le avventure eroiche della sua gioventù. Il suo soprabito nero da prete non differiva quasi più dagli abiti degli altri signori del Comitato, ora che la testa china tristamente sul busto gli nascondeva il collare.
Capelli grigi e duri la coprivano così che la chierica vi si distingueva appena. Una profonda commozione lo sopraffaceva. La bufera dell'applauso passando sopra la sua testa, pareva piegarla senza scuoterla, mentre le bandiere curve al pari di lui sotto lo sguardo del Generale in una tragica stanchezza ubbidivano forse al medesimo irresistibile senso di morte, che l'entusiasmo soldatesco di quella ovazione non vinceva più.
Io lo osservavo.
Le sue mani ossute, brune dal sole di tutta una vita di caccia, e più scure in quella penombra, tremavano sul cappello da prete posato ingenuamente sul tavolo: lo sforzo come di un singhiozzo represso gli sollevava a volta a volta le spalle. Improvvisamente con atto affaticato, disperato di naufrago, sollevò la testa.
Era un bel volto nero di contadino dai lineamenti angolosi, livido in quel momento e nullameno impresso d'una grande aria di bontà. La fronte naturalmente bassa erasi alquanto alzata in un principio di calvizie, che pel colore più bianco della pelle la cingeva come di una benda; l'arco dei sopraccigli vigoroso e sporgente ombrava senza nasconderlo il suo sguardo scintillante di cacciatore. Tutto il volto raso e rugoso tremava di una commozione, che metteva come un sorriso in tutti i suoi lineamenti modellati robustamente sulle ossa. Gli zigomi erano sporgenti, il mento quasi quadro come negli uomini capaci di forti azioni, gli occhi rotondi, il loro colore non si distingueva, acuti e vibranti come quelli di un falco. Ma la sua bocca colle labbra di un rosso cupo di mattone lasciava vedere i denti ancora bianchi a traverso un sorriso timido, che i fremiti di quel trionfo scomponevano ad ogni istante.
Stava piegato, ma era naturalmente un poco curvo.
Le sue spalle larghe e quadre si erano leggermente incurvate col peso degli anni; nullameno ognuno di quel popolo osannante avrebbe potuto ancora salirvi senza piegarle maggiormente. Garibaldi vi era montato per guadare un fiume rigonfio e lo avevano portato asciutto ed incolume all'altra riva. Era stato in una fosca notte di temporale scelta abilmente dall'eroico prete.
Se ne ricordava egli in quel momento, mentre tutta Faenza applaudiva e tutta l'Italia fremente e l'Europa stupita ripetevano il suo nome raccontando l'epico aneddoto di quella notte? Quando nel buio di quella tempesta notturna, al mattino della quale era così facile essere sorpresi e fucilati, giunti in riva al torrente aveva imposto a Garibaldi, l'intrepido marinaio invano recalcitrante, di salirgli sulle spalle colle semplici e superbe parole:
—Generale, voi conoscete il mare, ma io conosco il mio fiume! e si era lanciato nell'ombra entro l'acqua furiante: aveva egli pensato che verrebbe un giorno, nel quale tutto il mondo lo ringrazierebbe, e che la storia scriverebbe il suo nome sulla pagina breve e luminosa degli eroi di questo secolo?
Lo guardavo attentamente: ebbene, giurerei che anche allora egli era semplice ed ingenuo come in quell'istante nel quale rischiando la propria vita si era appena accorto del pericolo. Nessun orgoglio, nessuna spavalderia gli venivano da quel trionfo, nel quale tutti ingrossavano forse la voce per la speranza di farsi notare. La teatralità di quella scena antipatica malgrado la sincerità della commozione generale gli sfuggiva interamente; il suo volto restava tranquillo, le sue mani non facevano un gesto, mentre il suo orecchio sembrava non udire alcuno dei mille complimenti che i più vicini gli susurravano.
Tutti gli invitati del palcoscenico si erano stretti intorno a lui: nessuno osava toccarlo con una mano, ma le spalle e i volti si premevano sul suo. L'umiltà della sua posa umiliava quella gente tanto a lui inferiore e così superba del proprio strepito. Se tutti non volevano essere ringraziati, tutti avrebbero almeno preteso che egli sentisse per un minuto la sincera grandezza di quel trionfo meritato da tutta la sua vita.
Una profonda emozione s'era impadronita del mio animo.
Era dunque vero che tutti gli eroi fossero semplici e tutte le feste volgari? Nessun popolo per quanto buono o ingenuamente commosso, stringendosi colle lagrime della riconoscenza o col singhiozzo dell'entusiasmo intorno ad un eroe, non giungerebbe dunque mai a toccare la sua anima, poichè nella meraviglia universale per la propria azione questi sentirebbe la bassezza della umanità e l'insufficienza di ogni grandezza individuale?
L'umanità è dunque ben piccola se gli eroi sono così grandi!
Ma Don Giovanni alzò finalmente il capo. Il semicerchio delle bandiere si era stretto in quel tumulto intorno ai capi della tavola, cosicchè una arrivava quasi a toccarlo colla lancia dorata. Egli la vide, corse collo sguardo su tutte le altre, che gli si appuntavano quasi al petto, cercando ansiosamente il Generale.
Garibaldi era là, vestito come nelle battaglie, sorridendo come da vivo in faccia alla morte, come un immortale per cui le follie della gratitudine o della sconoscenza non hanno più valore, buono ma altero, ora che il genio della sua vita, compiuta l'opera, era salito nella storia.
—Viva Garibaldi! tuonò la moltitudine, che comprese per istinto quello sguardo di Don Giovanni.
Don Giovanni si volse, aperse la bocca, fece un gesto vivace, urlando forse un viva Garibaldi che non s'intese e ricadde seduto, quasi intendendo così di scomparire nella gloria del generale che aveva salvato, dell'amico che aveva perduto.
Il comizio proseguì.
Molti oratori parlarono commentando la vita di Garibaldi, ma il popolo restava freddo, malgrado la voglia che tutti avevano di commuoversi e di applaudire. I discorsi male concepiti, peggio pronunciati, fors'anco poco intesi passavano nel silenzio del pubblico come un mormorio insignificante. Le bandiere ritte intorno al ritratto del Generale non squassavano più, l'inno dell'epopea garibaldina era cessato da un pezzo. I suonatori borghesemente vestiti non si discernevano nella folla.
Al banco della stampa i giornalisti scrivevano con atteggiamenti e velocità di copisti.
E appena un oratore finiva ne sorgeva un altro: parevano una nidiata di pulcini uscenti dal pollaio per pigolare intorno al cadavere di un'aquila.
Che ne sapevano essi di quest'aquila, che aveva visitato tutte le terre, valicato tutti gli oceani, gridato vittoria sull'albero di cento navi, sulle torri di cento fortezze, sulla cima di cento bastioni, sulle Alpi e sulle Cordigliere, sul Campidoglio e sull'Etna, aspettata e conosciuta da tutti i popoli? Che ne sapevano essi di quest'aquila così tremenda e così mite, così indomabile e così mansueta, che figlia delle aquile romane e napoleoniche aveva lacerato l'aquila bicipite d'Asburgo fra gl'inni di tutti i poeti e gli anatemi di tutti i papi, mentre al suo strido i falchi della plebe rispondevano esultando dai tetti e i gallinacci della borghesia fuggivano chiocciando per i cortili a riparare nelle stalle?
Che ne sapevano essi?
Quale dei molti garibaldini accalcati nel teatro aveva una coscienza chiara ed intera della epopea cui aveva preso parte? Chi aveva capito il significato delle sue battaglie così piccole militarmente e delle sue vittorie moralmente così grandi?
In questo secolo che comincia con Napoleone e si chiude con de Moltke, perchè Garibaldi un soldato quasi di ventura che comandò sempre pochi battaglioni, un ignaro che dalle scuole non apprese nulla e alle scuole non lascia nulla, che veniva non si sa donde e andava dove pochi, oggi egli morto, sanno ancora: che predicava la pace in mezzo alle battaglie, creava una nazione con una piccola orda di armati, fondava una monarchia affermando una repubblica, regalava libertà ai popoli e reami ai re, conquistava una patria agl'italiani e perdeva la propria, rovinava il papato in faccia al mondo e assicurava la repubblica francese contro l'Impero germanico, moriva a Caprera nudo e povero come lo scoglio al quale nudo e povero aveva approdato: perchè Garibaldi che i centurioni degli eserciti stanziali deridevano, che i ministri spregiavano, che i popoli stessi sembravano abbandonare, perchè morendo diventava così incredibilmente grande e soverchiava Napoleone e Moltke, e tutti dall'America adolescente all'Asia decrepita, dall'Europa ancora centro della civiltà all'Africa ancora teatro della preistoria, dall'Australia che essendo una terra non è ancora potuto diventare un paese; perchè tutti dalle steppe della Russia dove un vero dispotismo schiaccia alle officine d'Inghilterra dove una falsa libertà assassina, dalle foreste germaniche ancora dominate da castelli feudali ai monti spagnuoli ancora ammalati di conventi cattolici, dalle isole che il mare fece libere e altere alle immense valli continentali tuttavia ombrate da millenarie monarchie; perchè da tutti i poveri, da tutti gl'infelici, da tutti i poeti, da tutti i prodi, da tutti i lavoratori, da tutti i pensatori, da tutti i giovani che anelano alla vita non conoscendola, da tutti i vecchi pronti ad abbandonarla avendola troppo conosciuta, scoppiava il medesimo sentimento, erompeva il medesimo urlo: Garibaldi non può essere morto, non deve essere morto, non è morto: evviva Garibaldi!
Forse appunto perchè era morto allora allora, nessuno poteva anco riconoscerlo bene.
Pochi sono gli occhi capaci di abbracciare tutto un paesaggio trascorrendolo, meno ancora gl'ingegni così larghi da comprendere tutto un fatto nel quale abbiano vissuto ed agito.
Come ogni vero grand'uomo, Garibaldi è un immenso viluppo di contraddizioni, che la sua anima unificava, ma nel quale gli altri si perdono analizzando.
Gli oratori del comizio non vi si smarrivano nemmeno perchè non vi arrivavano.
Nessuno di loro si chiedeva il significato della nostra risurrezione, il perchè l'Italia e la Grecia dopo diecine di secoli riapparissero nel mondo col nome di nazione, mentre nella storia come nella vita non vi sono e non vi possono essere risorti. Quali idee riapportavano dunque la nuova Italia e la nuova Grecia? Come dalle sue generazioni decrepite, per replicate infusioni di sangue barbaro e di idee civili, era sorta un'altra gente? Quale secreto veniva essa a rivelare? Dov'erano i segni della sua nuova vita, i testimoni della sua legittimità? Nell'attuale civiltà, che mischiando tutti i popoli ha fusi tutti i caratteri, certo è ben più difficile il distinguere le nazionalità spirituali che non nella storia antica ancora senza unità apparente e tutta occupata dall'antagonismo delle razze onde era composta: ma poichè la storia è una tragedia, nella quale ogni popolo è un personaggio che deve avere qualche cosa a dire o a fare, bisogna pure riconoscerli tutti sotto pena di non comprenderne alcuno.
L'Italia moderna deve avere quindi alcuni uomini grandi diversi da quelli che formarono l'Italia antica, perchè nella storia non vi sono duplicati e ogni grande vi è fatalmente originale. Quali erano dunque le figure veramente nuove dell'ultima Italia? Da quali caratteri derivava la loro originalità? La nostra rivoluzione figlia del 89 perchè aveva tardato mezzo secolo a prodursi e che cosa aggiungeva ai principii che l'avevano creata, al disegno storico nel quale entrava? Conchiusa entro la monarchia costituzionale dei Savoia, la più vecchia, la più abile se non sempre la più illustre e generosa delle case dinastiche d'Italia, non aveva certamente avuto origine monarchica, mentre tutti gli eroismi di pensiero e di azione, coi quali aveva trionfato, sembravano aspirare a una forma più alta e più pura di governo: e nullameno una piccola monarchia montanara, della quale le ultime tradizioni erano meno che gloriose, l'aveva costretta nel proprio àmbito, coordinando il suo impeto e profittando delle sue vittorie, logorando il suo entusiasmo e organizzando i suoi bisogni, uccidendo il suo ideale e rianimando i suoi interessi.
Se la forma monarchica aveva vinto sulla repubblicana, la vittoria era legittima, poichè nella storia i deboli e quindi i falsi non vincono mai; non pertanto questa vittoria poteva bene non aver creato la forma definitiva della rivoluzione, se alla morte di Garibaldi, il vinto volontario, i vincitori non osavano fiatare e tutto il popolo si levava altero in faccia alla monarchia, che aveva seppellito nella volgarità di un immenso trionfo artificiale il proprio re.
Vittorio Emmanuele dormiva sotto la vôlta del Panteon, deformato a tempio cristiano, in un silenzio di abbandono che i passi della guardia d'onore rompevano soli; ma Garibaldi vigilava ancora sullo scoglio di Caprera e Mazzini intendeva dai colli di Staglieno, mentre Cavour che li aveva entrambi avversati e battuti, riposava quasi dimenticato nel santuario di Superga.
Questi, forse il più destro e profondo politico di questo secolo, afferrando subitamente l'antitesi di una temporanea necessità monarchica nel moto repubblicano, vi aveva soverchiato le due massime figure, senza riuscire vincendo a mettere nel proprio governo un'anima schiettamente rivoluzionaria e moderna. Tutti, aderenti e ripugnanti, avevano sentito nella fatalità di questo processo che la repubblica era immatura, ma che la monarchia non poteva essere longeva. Quindi gl'interessi sopraffecero i sentimenti, Garibaldi riparò a Caprera e Mazzini rimase nell'esilio. Ma in essi solo era la vitalità e la legittimità della nuova Italia.
Italiani come l'Italia non ne aveva più avuto dopo Dante e Michelangelo essi furono mondiali: nel piccolo moto nazionale riassunsero tutti i principii dell'evo moderno, vincendo in Italia le loro vittorie appartennero a tutto il mondo. La rivoluzione del 89, che dopo l'Impero napoleonico la Francia non aveva potuto continuare fuori di sè stessa, ridivenne per opera loro universale. Se l'Italia non avesse prodotto Mazzini e Garibaldi non sarebbe risorta: essi furono i rappresentanti della sua terza giovinezza che ricominciava un'era nuova pel mondo. Quindi tutti i popoli se li appropriarono. Ogni moto liberale della prima metà di questo secolo si fece nel loro nome, per tutte le sconfitte ci fu del loro sangue, in tutte le vittorie ci fu del loro genio. La razza latina che aveva fatto la rivoluzione in Francia con Danton e distrutta l'Europa feudale con Napoleone, creava l'Europa liberale con Garibaldi e con Mazzini; mentre il suo antico genio dell'impero insegnava a tutti con Cavour la disciplina necessaria alla rivoluzione per riuscire feconda nelle inevitabili transazioni storiche. Ma Cavour ebbe molti rivali in questo secolo, benchè nessuno di loro potesse poi forse vantare risultati simili ai suoi, e Gladstone in Inghilterra, Bismark in Prussia, Frère Orban nel Belgio, Gambetta in Francia mostrarono nelle combinazioni parlamentari e diplomatiche un ingegno e una scienza certo non inferiore alla sua.
La rivoluzione italiana però rimase e rimarrà eternamente incarnata in Garibaldi e in Mazzini: Ercole e Prometeo, tanto maggiori oggi di quanto il mondo antico greco è inferiore al mondo moderno.
E il comizio finì freddamente.
Me ne ricordo: il pubblico era accigliato, quasi triste.
Aveva veduto il volto di Garibaldi in un ritratto, non aveva sentito l'anima di Garibaldi in nessuno di quei discorsi che avevano durato quasi due ore.
Don Giovanni era dileguato fra la folla.
Non lo vidi più.
Quella notte dopo la sua morte, ritornando dal caffè, pensai lungamente a Don Giovanni. La sua villica e schietta figura mi si presentava al pensiero in tutti i racconti della sua vita. Lo vedevo cinto di contrabbandieri trafugare ai confini della Toscana i rivoluzionari romagnoli, vestito di una piccola giacca col fucile sulle spalle: lo vedevo prete al letto dei malati, al banco degli sposi, agli altari delle chiese: lo ritrovavo cacciatore sui monti col gabbione sulle spalle, a sera innanzi la piccola casa curando gli uccelli nelle gabbie assistito dagli stessi monelli che lo aiutavano nel paretaio; lo seguivo nelle caccie alla lepre. Era un semplice e un forte. Alla mattina dissi che sarei partito per Modigliana.
L'amico che doveva accompagnarmi era un giovane signorile, fanaticamente liberale, che mi aveva spesso aiutato a ricopiare i libri che do alle stampe.
La giornata brumosa e fosca accennava a piovere. Nullameno, attaccammo il ronzino e partimmo. I monti in quella melanconia dell'autunno parevano più belli: i campi erano già seminati e i boschi cominciavano a perdere le foglie. Discendemmo a Riolo, dove molti che si disponevano a partire per Modigliana ci salutarono; erano tutti giovani eccitati che parlavano entusiasticamente di Don Giovanni. A poche miglia da Riolo calando verso Castel Bolognese ci trovammo davanti una lunga fila di biroccie cariche di legna: i birocciai, che al solito camminavano loro innanzi un cinquanta passi, si rivolsero al tintinnío delle nostre sonagliere, ma invece di ritornare ai loro cavalli per darci il passo seguitarono ciarlando. La strada non molto larga era quasi chiusa dalle biroccie. A sinistra le loro ruote rasentavano i mucchi della ghiaia preparata per l'inverno, a destra lasciavano un piccolo vano; misi il cavallo al passo, e riconoscendo inutile ogni appello ai carrettieri tentai di passare. Lo stretto era minimo ma sufficiente: però quando il mio cavallo arrivò colla testa alla groppa del cavallo da bilanciere della prima biroccia, questo si torse come per sferrargli un calcio. Il mio indietreggiò, una ruota scivolò dal ciglio della strada. Il cavallo, sentendosi tirare al petto dal peso del biroccino, si ritrasse di un altro passo; feci per saltare, era troppo tardi e rotolammo giù nel burrone. Non era molto profondo ed era il solo lungo la strada da Riolo a Castel Bolognese. Nel fondo alcune acacie vi ombreggiano una fontana che serve ai contadini dei dintorni, ma tagliate il giorno innanzi presentavano come tante cuspidi sui cespi. Cadendo dall'altezza di cinque o sei metri andai a battere col ginocchio destro, rattrappito, sopra una di quelle punte. La percossa fu così forte che quasi non la sentii, ma quando volli alzarmi, prevedendo che il cavallo rimasto a mezza costa nel primo sforzo per drizzarsi mi sarebbe rotolato addosso col biroccino, m'accorsi che la gamba non veniva.
—Mi son rotta una gamba, urlai al compagno che già stava in piedi incolume e sorridente.
—Che!
Il cavallo non si mosse. I birocciai avevano proseguito senza nemmeno voltarsi.
Quindi accorsero contadini dai prossimi campi.
Abbreviamo questo racconto che non può interessare alcuno. Per non svenire dallo spasimo mentre mi portavano di peso su per il pendio della strada, misi il labbro inferiore fra i denti e lo perforai senza accorgermene: fui trasportato nella casa più vicina. Il medico di Riolo, un amico, accorse prontamente e non constatò che una forte contusione al ginocchio, che parve impressionarlo: il mio compagno, prevedendo che il racconto della caduta sarebbe giunto a Casola spaventando sinistramente i nostri genitori, mi consigliò di ritornare alla villa invece di discendere a Faenza. Acconsentii. Il medico del villaggio giudicando la cosa leggiera non volle mettere nè ghiaccio nè sanguisughe sul ginocchio: al mattino una sinovite enorme era già determinata.
I dolori infierivano.
Feci telegrafare a Modigliana l'accaduto e attesi fra gli spasimi che ritornasse qualcuno a raccontarmi dei funerali.
Allora io stesso non credevo la cosa molto grave.
La notte seguente non dormii. L'indomani verso sera venne a trovarmi un gruppo dei giovani che dovevo rappresentare.
I funerali erano stati imponenti per concorso di popolo, ma scarsi di oratori e quel che è peggio infelici. Il sindaco di Ravenna, del quale è inutile ricordare qui il nome, goffa figura di zoccolante diventato poi deputato, aveva quasi asfissiato il pubblico con un discorso dei più lunghi e dei più grevi. La gente, mi raccontavano quei giovani, aveva ascoltato strabiliando le sue frasi mezzo pretine pronunciate a voce chioccia.
Nullameno i funerali erano stati belli, gli oratori non avevano potuto guastarli.
Quei giovani se ne andarono e rimasi solo.
II.
Colla morte di Don Giovanni Verità un gran problema religioso si presentava alla riflessione. Garibaldi condannato dal papa era stato salvato da un prete, cui non si era osato scomunicare. Perchè? Questo prete morendo ricusava di abiurare il carattere di tutta la sua vita e il clero dopo avergli amministrato i sacramenti abbandonava il suo cadavere al popolo, che lo portava in trionfo. Tutto il suo piccolo paese, tutta la provincia, tutta l'Italia era piena del nome dell'eroico sacerdote: le persone più disparate per opinione e per nascita, per educazione e per indole convenivano commossi intorno alla sua bara, dalla donnina usa a scongiurare col rosario i terrori dell'inferno al vecchio garibaldino cresciuto nell'odio della religione che aveva per lunghi secoli assassinato la patria, dal magistrato pedantescamente devoto al governo, al giovane ribelle fremente nell'entusiasmo delle prime negazioni. E ognuno riconosceva un prete in Don Giovanni. Certo le interpretazioni di tale parola oscillavano e nelle frequenti clamorose discussioni pochi riuscivano ad intendersi; ma da tutte il suo carattere sacerdotale usciva radiante in una luce di trionfo. Grosse questioni vi tempestavano attorno: le coscienze n'erano agitate.
Perchè tutti coloro che si vantavano di non credere nei dogmi cattolici ammiravano entusiasticamente in un prete un fatto che centinaia di soldati garibaldini avevano talvolta compiuto in circostanze più difficili? Perchè gli altri non meno numerosi, che si confessavano cattolici, s'intenerivano all'eroismo di un sacerdote che salvando Garibaldi aveva disobbedito al papa ed era morto appellandosi a Dio dalla sua autorità? Su quale sentimento idee così discordi convenivano e in quale idea concordavano sentimenti così opposti?
Questa sintesi, che nessuno sapeva formulare, Don Giovanni l'aveva realizzata nella propria vita.
Non so come fosse nato e credo inutile saperlo. Della sua infanzia, della sua adolescenza, della sua prima educazione in seminario nessuno si è mai occupato: nella sua vita vera, che cominciò più tardi, questi antecedenti sono quasi senza valore. Don Giovanni non fu nè un apostata nè un convertito. Nessuno di quei terribili drammi religiosi, che Renan ormai vecchio si compiace a rivelare, scoppiò nella sua anima. Era nato di popolo e popolo rimase, visse e morì.
Era forse un ignorante, senza dubbio un ignaro.
Nè poetici entusiasmi nè mistiche elevazioni lo trassero al sacerdozio.
Nelle povere famiglie plebee come nelle minime famiglie borghesi l'allevamento di un prete rappresenta ancora la più facile e la meno dispendiosa delle speculazioni.
I seminarii accettano e educano i giovinetti per tre o quattrocento lire all'anno: le parrocchie, incredibilmente numerose in Italia, consumano un numero stragrande di preti, poi vi sono tutti gli altri uffici sacerdotali più o meno lucrosi. Il ragazzo diventato prete esce generalmente di casa portando seco metà della famiglia; la sua parrocchia è una specie d'eredità capitata nella casa.
Quanto al sentimento e al carattere sacerdotale nè una parola nè un dubbio; si diventa preti come avvocato. Certo i due mestieri diversi esigono diverse attitudini, ma nell'economia domestica e nel concetto sono pari. Se un prete ammalato d'idealismo religioso pretendesse vivere come i primi cristiani, distribuendo ai poveri le proprie rendite, la sua famiglia griderebbe al furto e tutto il paese allo scandalo.
La poesia del sacerdozio è morta da un pezzo: negli stessi conventi, ove da ultimo fu ospitata, è talmente sconosciuta che persino nei libri che vi si scrivono non ne appaiono più traccie.
Don Giovanni sarà cresciuto come gli altri suoi compagni, indisciplinato e villano, ignorante e coraggioso perchè così la natura lo aveva fatto. Non so se fosse mai parroco, parmi che sì, certo servì nelle parrocchie. Il suo era temperamento di soldato, ma nullameno potè rimanere sempre prete senza soffrire e far soffrire. Era un semplice. Della meschina filosofia del seminario non aveva appreso nulla, della sua teologia fine, oscillante, piena di agguati pel ragionamento, tutta sparsa di casi somiglianti a trappole, aperta qua e là in prospettive metafisiche di una profondità perigliosa, illuminata da raggi mistici abbaglianti ed improvvisi, egli sapeva ancora meno.
Solo la morale evangelica, dura e semplice, lo aveva colpito.
L'aveva seguita senza discuterla e senza discuterla l'applicava. La tragedia così profondamente filosofica del cristianesimo per lui non era che un caso di sacrificio, tanto anormale nella grandezza che Dio solo aveva potuto compierla: non vi trovava altri significati. Accettava tutto il rito, tutti i Santi, le pene e i premi, le rivelazioni parziali dopo la massima di Gesù Cristo, le tradizioni, le autorità, i vizi commerciali insinuatisi nel culto, le deformità idolatriche, gran parte delle pretese politiche, perchè la sua natura fatta d'istinto ripugnava alla indagine e debole per troppa ignoranza soggiaceva all'immane peso di un sistema che abbracciava tutto il mondo da circa duemila anni.
Viveva. Avrebbe potuto agire sotto l'impulso di certi sentimenti, ma sopratutto lasciava vivere. Il pensiero era troppo alto per lui, l'azione non ancora matura. Ed era un prete come gli altri. Nato non ricco, non pensò mai ad ammassare. Aveva le abitudini di un contadino coi gusti di un cacciatore, nei quali fermentavano forse le sue forti attitudini guerresche. Incapace di sentire tanto l'idealità della Madonna quanto la tragica delicatezza di S. Francesco d'Assisi, la sua pelle e la sua anima si eccitavano nelle albe frizzanti sui monti, quando il sole sembra prorompere improvvisamente da un'onda rutilante di colori e la terra palpita e tutti gli animali esultano. Amava l'abito corto di cacciatore, le ore snervanti del meriggio nelle stoppie, i ritorni lenti a sera accompagnandosi coi braccianti che discendono dai monti, le stanchezze così sane e così buone che la caccia lascia nei muscoli e nello spirito, quando appena suonata l'avemaria si ha bisogno di dormire.
Quali erano le sue divozioni, poichè un contadino come lui deve averne avuto?
Non ho potuto saperlo, e questo sarebbe il dato più interessante della sua vita. Se in psicologia fosse permesso indovinare invece di dovere sempre osservare, affermerei che il suo santo prediletto fu S. Paolo, il suo evangelio preferito quello di S. Matteo. Il vigore, la precisione romana nei ragionamenti del primo, la sua fulminea conversione, l'indomato orgoglio soldatesco esplodente nelle concioni d'apostolo, la tendenza così moralistica del suo insegnamento, la bruscheria delle sue frasi ancora frementi di passioni mal dome, la sua effigie rimasta in tutti i secoli e in tutte le chiese colla spada in mano, quasi minacciando anche dopo la vittoria, dovevano piacere al suo spirito meglio capace d'intendere la religione nelle battaglie storiche che nelle origini metafisiche. Mentre il racconto austero e quasi fanciullesco di S. Matteo dipingente un Cristo tutto cuore, come un ideale diventato poi divino a forza di essere umano, blandiva certamente la parte più tenera della sua rozzezza, quel fondo di soavità malata e appunto per questo così facile ad inacidirsi, che la mancanza della donna, suicidio parziale del sesso, lascia in tutti i preti.
Don Giovanni potè forse amare Santo Stefano che in una piazza di Gerusalemme dopo la morte di Cristo moriva primo nel suo nome, araldo eroico e gentile di un esercito di martiri che dopo duemila anni passa ancora per la storia; e la sua figura bella di gioventù immacolata, incuorante con coraggio senza acrimonia i lapidatori a finirlo, gli avrà forse da fanciullo strappato urla d'indignazione. Ma la clorotica ed evanescente gracilità di S. Luigi Gonzaga, chiusa nell'invincibile egoismo del santo che si isola dal mondo e vive, pensa, opera, si consuma e muore entro al proprio sentimento, gli avrà senza dubbio ripugnato.
Nella sua natura la poesia non arrivava fino alla musica: la sua bontà poteva forse simpatizzare colla colpa, non ammirare una virtù chiusa nel fondo del cuore e vaporante solo del pensiero i proprii effluvi vivificatori.
I tempi politici della sua giovinezza ingrossavano.
La Romagna, terra di ribellioni, era tutta agitata da idee liberali ancora torbide ed incerte. Il governo papale discendendo la propria parabola millenaria era arrivato al di sotto del ridicolo nell'impotenza, oltre la nausea nella corruzione; la sua stessa religione, così robusta storicamente per guerre durate e battaglie vinte, sembrava ed era profondamente malata. Il clero romagnolo, numeroso come le cavallette, non aveva nè coraggio nè capacità politica, nè valore intellettuale. Dominava tutte le attività della vita pubblica e una invincibile anemia lo esauriva: senza idee e senza passioni, gli erano rimaste le abitudini delle une e i vizi delle altre. Oppugnando l'immenso sviluppo della civiltà moderna, non ne sapeva nulla: vantava il proprio passato, e lo ignorava; a corto di ragioni, non sentiva più la poesia; accattone di aiuti assassini da tutti gli stranieri, non sapeva e non poteva esercitare sui popoli una autorità che non trovava in se stesso.
Questo periodo di storia religiosa e civile oggi conchiusa non fu ancora abbastanza studiato.
Don Giovanni lo visse.
Persecuzioni minute e ridicole inferocivano. Si imprigionava senza processo, ma non si osava uccidere nemmeno condannando a morte: nei pochi casi di esecuzione capitale il governo si rivolgeva all'Austria, della quale stipendiava le truppe, e l'Austria fucilava colla ipocrita ragione di una ribellione militare. L'epoca dei grandi inquisitori era passata. Quel governo moribondo, incapace di saper morire, non sapeva nemmeno ammazzare. Ma in fondo è la medesima cosa ed esige le stesse facoltà.
Don Giovanni, uomo fra un clero che di virile non gli era rimasto che il sesso, era troppo avveduto per dividerne gli ultimi morbosi capricci. La forza della sua natura mantenuta dalla rozzezza della razza e da una vita incessantemente rimescolata fra persecutori e perseguitati, fra una gente che anelava alla libertà come alla prima delle virtù, e una casta che pretendeva ancora la servitù verso sè medesima come primo dovere verso Dio, lo fecero istintivamente tenere per un dì coloro, che volevano essere uomini ed italiani contro gli altri, suoi compagni o superiori, che non essendo nè l'uno nè l'altro pretendevano imporre la propria incapacità come un divino ideale.
Ma prete campagnolo e cacciatore, optando per il popolo contro il governo, non vide sciolto alcuno dei grandi problemi, che prima di lui avevano perduto tanti illustri sacerdoti e dovevano seguitare a perderne altri ancora.
La modestia delle sue brame e delle sue idee gli aveva sempre impedito di comprendere le necessità avviluppate e profonde del potere temporale. Non avendo nè a salire nè a discendere per restar prete, il suo buon senso di villano gli suggeriva fatalmente una equazione fra sè stesso e il papa. Perchè questi non potrebbe restare papa senza regno, se egli poteva rimanere parroco senza i poderi della parrocchia? Dio era buono e l'umanità infelice; Cristo l'aveva redenta, lasciandola nel dolore come in un aroma che le impedisce di putrefarsi. Tutto il resto era rito, culto, bisogno di rappresentazione e di traduzione per la povera gente: il cristianesimo non era che il sacrificio di Dio per tutti e che ognuno doveva ripetere per sè e per gli altri.
Come il cristianesimo erasi sviluppato nel mondo vincendolo? Per lui il problema era facile: il cristianesimo era vero. Perchè dal pontificato era sorto il papato? Necessità di tempi e di disciplina. Perchè il cristianesimo lacerato sempre dalle eresie aveva finito per scindersi in cattolicismo e in protestantesimo? Egli l'ignorava. Secondo lui il cattolicismo avendo ragione ne aveva abusato, il protestantesimo poteva aver torto, ma il suo errore non provava nè malvagità di mente nè corruzione di cuore. E non ci pensava oltre.
Il vangelo bastava a tutti e a tutto.
Le condizioni presenti della religione, nella quale doveva agire come prete, gli erano sconosciute. I curati, i canonici, i vescovi che aveva conosciuto ne sapevano quanto lui. Le loro interpretazioni dei vangeli, ormai vecchie quanto i vangeli stessi, avevano perduto nella monotonia di una troppo lunga ripetizione ogni significato. Il sacerdote le sviluppava straccamente dall'altare al popolo ascoltante nella invincibile indifferenza di chi non può aspettarsi più nulla da una spiegazione. Nessuna virtù, nessun ideale luceva più. La Chiesa che aveva tanto canonizzato nel passato, aveva perduto il profumo e il senso della santità: il clero non era più che un'immensa amministrazione religiosa, nella quale i conventi rappresentavano ad un tempo i magazzeni e le caserme.
Un vasto e freddo disprezzo li avvolgeva.
Nella campagna e nelle piccole città italiane, sprovviste di cultura, rito e culto testimoniavano soli della religione. Le anime quetatesi dopo la tormenta del rinascimento in una inerzia appena sollecitata dai minuti bisogni quotidiani della vita, non aveva più nè aspirazioni nè ricordi, nè ideali politici, nè sogni religiosi. Si viveva chiusi entro la cerchia del paese grande quanto tutto il resto del mondo ignorato. L'educazione dei seminarî e dei conventi troppo prolungata aveva portato i proprii frutti uccidendo tutte le arti colla rettorica e tutte le scienze colla teologia.
Se qualche intelletto spinto da una irresistibile forza intima sorgeva, le fiacche curiosità paesane lo circondavano; ma rimaneva a loro in mezzo applaudito ed incompreso, triste e solitario.
Tutte le classi erano disgiunte, mentre il clero più unito per uniformità di tendenze e d'interessi, che compatto, bastava a dominarle.
Ogni piccolo Stato italiano isolandosi per istintiva diffinanza inceppava le comunicazioni. I suoi soldati incapaci di guerra non erano che sbirraglia, la sua politica interna una tutela di convento quando la prigionia e la pena di morte vi si praticavano ancora, la sua politica estera una laida servitù verso l'Austria ultimo impero feudale cinto di feudatari più grossi degli antichi e più abbietti dei cortigiani moderni. Fra essi il Pontefice, immemore della grande epoca papale, vantava ancora nei molteplici brevi un impero universale, tremando pel rifiuto di un reggimento di croati. Nelle Università le vecchie lampade non rifornite mandavano più fumo che luce: il commercio viveva del piccolo contrabbando alle innumerevoli frontiere interne.
L'Italia desta dai cannoni di Napoleone I, poi rialzata da uno strettone della sua mano terribile, sembrava rimorta con lui.
Il suo ultimo poeta aveva conchiuso nel 5 Maggio l'inno a Napoleone colle supreme parole dei funerali.
Nullameno l'Italia viveva ancora e intorno a lei l'Europa grandeggiava.
Nella tempesta di mille questioni poste dalla rivoluzione francese il problema religioso soverchiava. La rivoluzione avendo l'aria di sopprimerlo colle feste della Dea Ragione lo aveva invece rianimato. Il cristianesimo attaccato teoreticamente dagli enciclopedisti, lacerato dai frizzi di Voltaire, aperto dalle potenti invettive di Rousseau, soffocato dalle prime scoperte della nuova scienza, impicciolito dalla recente sicura conoscenza di tutto il mondo fisico, quasi soppresso dalla rivoluzione alla quale si era opposto come vecchio alleato della feudalità, aveva trovato come sempre la propria salvezza nella persecuzione. La rivoluzione per ricacciarlo dal campo della politica entro i suoi confini naturali l'aveva seguito oltre ai medesimi nel campo chiuso delle coscienze. Allora il cristianesimo fuggente si era rivoltato resistendo. Moltissimi de' suoi preti seppero morire; i suoi credenti trovarono con lui nel fondo della propria anima l'energia di tutti i dolori e di tutte le speranze. Parvero ritornati i primi tempi dell'apostolato.
Invece delle catacombe la religione abitò nei boschi. Le case ebbero altari; all'eroiche superbie dell'ateismo si contrapposero le miti ma inflessibili resistenze della fede.
Poi Napoleone, disciplinando la rivoluzione nell'impero per portarla in tutto il mondo, sospese la persecuzione religiosa. Al rombo dei suoi cannoni vittoriosi le campane risposero con squilli di trionfo e le chiese si aprirono al culto, mentre tutta l'Europa vinta da una apparente conquista si schiudeva alla libertà. Chateaubriand, che avendo invano cercato giovinetto il passaggio del polo era tornato esule della rivoluzione a Londra per seguir poi tutta la vita il fantasma della regalità, scioglieva nel Genio del Cristanesimo, libro futile e meraviglioso, l'inno della nuova religione pacificata colla nuova libertà.
Le coscienze respirarono. La religione si rialzò avendo perduto nella breve persecuzione gran parte dei falsi ornamenti procacciati nei lunghi secoli della sua tirannide. Roma oscillando sotto la protezione violenta di Napoleone, fra una repubblica fugace e una fuga del Pontefice, trovò alcuni accenti tragici de' suoi primi secoli: la libertà rivoluzionaria alleandosi istintivamente alla libertà religiosa nel nome della libertà di pensiero resistette al nuovo impero. Si potè essere orgogliosamente cattolici come dianzi si era stati superbamente giacobini. Dio confessato da Robespierre all'ultima ora, quasi nel presentimento della morte, sfolgorò nelle chiese fra i Tedeum della vittoria: Cristo prima odiato come tiranno ritornò a capo dei nuovi martiri, martire più antico e più bello di loro. Un vasto sentimento patetico prodotto dai massacri della rivoluzione, alimentato dalle carneficine dell'impero, poetizzato dai sacrifici di quanti erano morti e morivano ancora su rovine fumanti, sostenuto dalle energie della nuova vita creò nella politica, nell'arte, nella religione un mondo nuovo di figure e di realtà.
La religione, ritornando di moda nei costumi, imperò nei libri.
Un moto di reazione la sospinse così in alto amplificandola che un'altra reazione scoppiò, e la scienza, prima complice, poi vergognosa degli eccessi della rivoluzione, e quindi ritiratasi in faccia alla nuova ovazione cristiana, si ripresentò austera per contraddirla.
Da Chateaubriand a Victor Hugo rimasto cristiano attraverso le meravigliose metempsicosi della sua poesia, tutta una legione di scrittori e di artisti agitò il problema religioso: l'ateismo cedette al pessimismo, che fu ancora una contropprova della religione. Le imprecazioni di Lord Byron, le maledizioni di Leopardi espressero il dolore di non potere più credere pur conoscendo le bellezze della fede, mentre l'ateismo vero del secolo antecedente, vissuto nella calma della propria sicurezza, non aveva nè bestemmiato nè sofferto. Lamartine e Manzoni rinnovando la lirica della Chiesa superarono forse gl'inni più belli dei suoi primi tempi: De Maistre e De Bonald sentendo la necessità del nuovo impero religioso vollero mantenerlo colle ragioni dell'antico, e quegli reclamò il dispotismo del papa, questi l'assolutismo del re; Ballanche conservò nel nuovo ardore religioso la vecchia placidezza platonica, mentre madama Staël, fondando con Chateaubriand il romanticismo francese, preparava la più grossa falange di scrittori cristiani apparsa nella storia. Le nuove generazioni arrivavano tumultuando, raggiando.
La Germania quasi sconosciuta nel commercio letterario compiva nella calma di una fecondazione così enorme che oggi appena, dopo cinquant'anni, si è potuto calcolarne le opere e i risultati, la rinnovazione della filosofia e della scienza, dell'arte e della politica. Se la Francia aveva agito, la Germania aveva pensato: pensiero ed azione parvero combattersi un momento nella forma conquistatrice della rivoluzione francese, ma stavano già per fare la pace. Il soffio religioso seguitava a purificare l'aria dalle impurità rivoluzionarie sconvolgendo molte teste. Alessandro di Russia ne ammalò a Pietroburgo; il pontefice ammalò in Roma del vecchio morbo vaticano. Roma che avrebbe potuto conquistare il mondo col nuovo sentimento religioso largo e puro, pretese riprenderlo colle vecchie armi del governo papale. L'avarizia del potere temporale e l'affetazione della tradizione divina la fecero contraddire al recente moto, e poeti, apostoli, scrittori, credenti, tutti furono violentemente assoggettati alla interpretazione vaticana.
Ma generati dalle persecuzioni e nati nella libertà, la loro maggioranza resistette. Roma, che doveva rappresentare la verità della libertà eterna contro la tirannia della libertà rivoluzionaria, divenne l'ultima cittadella del dispotismo, piena più di preti che di soldati, immensa officina di idoli e di catene governative. Per conservare le proprie provincie avversò ogni fortuna d'Italia, costretta ad invocare soccorso da cattolici e da eretici benedisse tutte le violenze e anatemizzò tutti gli eroismi; più vile che nella decadenza dell'impero romano smarrì il senso della sua eterna universalità per non conservare nella coscienza decrepita che il dolore delle ultime ferite e il terrore delle nuove libertà.
Allora, nell'urto del sentimento religioso colla religione, scoppiò la guerra fra il cristanesimo e il vaticanismo.
Da un lato una grande sincerità di idee, tratto tratto turbata da passioni individuali, e una istintiva sicurezza nella equazione della religione colla civiltà; dall'altro la forza di una organizzazione sviluppata in tutto il mondo, mantenuta dalla certezza della tradizione, stabilita sulla verità dei dogmi, raddoppiata dalla potenza della gerarchia, ma il tutto guasto dalla politica di un regno che avarizia e vanità tentarono sempre d'insinuare dogma fra i dogmi, paralizzato dalle antitesi fra il dato umano e il divino favorevoli alla corruzione dei costumi e alla confusione dei precetti. La nuova guerra religiosa arse pressochè in tutti i paesi.
Ma Roma, depositaria dell'unità e quindi inflessibile con ogni nemico, era sempre stata meno dura con coloro che uscivano dalla sua orbita, che contro quei ribelli i quali volessero mantenervisi. Nullameno, vincitori e vinti, nessuno aveva davvero avuto la nozione di un mondo più vasto che contenesse il cristianesimo. Il paganesimo al sorgere di questo era già una realtà dissolventesi nella putrefazione: quindi la nuova fede impossessandosi di tutto potè vantarsi di essere tutto, poichè i cristiani nelle loro più fiere battaglie non miravano che ad imporsi vicendevolmente ideali ed interpretazioni cristiane. Appena qualche setta filosofica rimasta prigioniera entro la conquista cristiana tentava rompere il confine e vi dispariva dispersa o trucidata.
Dopo circa duemila anni le condizioni erano mutate.
Il cristianesimo invece di contenere la civiltà vi era contenuto. Il mondo si stendeva immenso oltre i limiti segnati dalla croce, la storia rivelatasi alla critica aveva mostrato le sorgenti di questa religione che si vantava al pari d'ogni altra discesa dal cielo. La sua teogonia, la sua teodicea, la sua cosmogonia, la favola della creazione, il romanzo di Eva, la tragedia di Adamo, l'odissea, dei suoi primi figli, il peccato e la redenzione, Mosè e Cristo, tutto era capito o almeno analizzato. Un altro sentimento religioso si librava sull'opera cristiana.
Il cristianesimo, che si era annunciato nel mondo combattendo la decadenza pagana, adesso era in lotta col progresso spirituale da lui medesimo preparato.
Se Voltaire aveva deriso invano i suoi difetti, Hegel lo uccideva trasportandolo nell'etere del più puro ideale mediante una simbolica, nella quale svanivano tutti i dati precisi della sua divinità.
Il cristianesimo aveva oramai preso il posto del paganesimo. Mentre le scoperte della scienza umiliavano i suoi miracoli e le altezze della nuova metafisica superavano le cime nebulose de' suoi misteri, un'altra poesia trovava voci più delicate e poderose di quelle echeggianti nelle prime catacombe, e gli ultimi eroismi dei rivoluzionari superavano gli eroismi dei martiri negli anfiteatri romani.
Il clero, una volta alla testa dei credenti, si trovava ora alla loro coda: la religione considerata per tanti secoli come la sintesi della civiltà ne ridiventava un frammento.
Bisognava risalire, rifare una poesia, ricomprendere tutte le scienze, raggiungere l'idealismo germanico, supremo sforzo del pensiero umano nella storia.
Roma ricusò affermandosi maggiore del mondo. Essa, che aveva tanto mutato e camminato, non volle più nè rinnovarsi nè muoversi, e dando alla propria estrema interpretazione cristiana la divina inflessibilità del testo, pretese nelle forme monarchiche della propria gerarchia tutta la verità della sua instituzione religiosa. Allora la battaglia si riaccese. Mentre gli ultimi increduli, scienziati e filosofi, accusavano il cristianesimo di decrepitezza, gli ultimi eretici gli ridonavano nell'entusiasmo di una fede piena di dottrina e di poesia un'altra gioventù.
Questo secolo, del quale si dice ancora tanto male e che il volgo addottrinato vanta come quello delle scienze, sarà forse annoverato nella storia fra i più fecondi per la religione. Tutte le letterature e le filosofie ne sono impregnate: mai tante voci, discordi di accento e di tono, si accordarono in maggiore eloquenza d'invocazioni tormentando i fantasmi divini per giungere all'orecchio di Dio. Preghiera e bestemmia lottando d'energia si fusero nel medesimo singhiozzo.
Vaticanismo e positivismo parvero assistere sdegnosamente immobili a questa nuova patetica demenza del sentimento religioso: l'uno nella certezza della fede, l'altro nella calma della incredulità. Il Vaticano era sicuro di Dio, il positivismo più che certo della natura.
Fra questi due estremi la vita proseguiva.
Il dissidio cattolico, cominciato nei credenti colle espressioni vaghe dell'istinto, ingrossò disciplinandosi per opera di grandi sacerdoti. Dalla Francia, dalla Germania, dall'Italia, da tutte le parti del mondo giungevano a Roma ammonizioni e minaccie, odi squillanti come fanfare di guerra, apostrofi fievoli come gemiti, superbe proposte di nuove conquiste, temerarie ingiunzioni di nuova povertà; e la poesia e la storia cristiana investigate sprigionavano ogni giorno nuovi profumi e nuovi raggi quasi ad annunziare l'avvento di un'altra idea religiosa.
I prelati splendenti nella vanità della porpora vigilavano intorno al pontefice come pretoriani diffidenti dell'imperatore ancora in debito dell'impero; il clero minuto disseminato nelle campagne viveva delle terre distribuitegli come gli antichi legionari romani mutati in coloni, ma non conservando dell'antica vita di legione che la servilità della disciplina.
Don Giovanni avrebbe dovuto essere uno di questi legionari.
Nella sua gioventù due illustri sacerdoti riempivano l'Italia del loro nome, Gioberti e Rosmini: entrambi eminenti filosofi, l'uno più eloquente, l'altro più dotto. Gioberti doveva poi tuffarsi nella politica per uscirne più grande tra l'urlo feroce di partiti nemici momentaneamente d'accordo nel maledirlo: Rosmini, compita l'opera enorme, isolato dalla diffidenza del clero, colpito dalla riprovazione di Roma, si spense più tardi nel silenzio tranquillo di un lago. Sulle prime furono i due massimi campioni del cattolicismo contro le nuove coorti scientifiche minaccianti da ogni parte d'Europa, ma trascinati troppo oltre dall'ardore della difesa vennero percossi dall'anatema.
Senonchè tutti i cuori e le menti religiose stettero o s'aggiunsero a loro. Mamiani e Manzoni, Grossi e d'Azeglio, Cantù e Balbo, Duprè e Capponi, poeti, storici, letterati, artisti, tutti seguendo le loro traccie finirono per incorrere nella loro condanna: qualcuno arretrò a tempo, ma se uno spavento improvviso gl'impedì di varcare il confine, la direzione del suo pensiero rimase nullameno palese. Tutti erano sospinti e sospingevano per una rinnovazione religiosa. Il vaticanismo rimaneva con un esercito senza generali, con molti combattenti senza eroi. Non pertanto resisteva superbo. Tutta l'energia degli assalti si fiaccava contro la sua inerzia. Lammenais stesso, impetuoso come Demostene, ampio come Cicerone, vi urtò ribellandosi, e fu vinto. La sua collera non bastò a scuotere il colosso. Ma coll'abbandono di Lammenais le defezioni aumentarono; Lacordaire, meno forte ma non meno facondo, sollevato dal soffio rivoluzionario andò a sedere fra la montagna nell'assemblea del quarantotto, e se la repubblica avesse durato il suo zelo papale si sarebbe forse esaurito; Gratry violentato fuggì, il padre Giacinto si rifugiò volgare fra il volgo, mentre la condanna che aveva sempre minacciato Chateaubriand colpiva Montalembert, e Renan giovinetto, destinato ad oscurare le loro due glorie di scrittori, emigrava dal seminario, pallido della grande tragedia di Cristo, che doveva più tardi raccontare nel più bello fra i romanzi di questo secolo. Il padre Curci scelto a prototipo del Gesuita moderno dal Gioberti nella sua astiosa e troppo spesso volgare polemica, dopo la diserzione del Passaglia e la riprovazione del Ventura parve rimasto solo come Ettore a difendere il Vaticano; ma più infelice dell'eroe troiano fu poi costretto a rifugiarsi nel campo dei nuovi greci per riparare ancora entro le mura abbandonate, raccogliendo l'infamia di due tradimenti, rivelando nell'incertezza della propria condotta, sempre inconseguente e sempre sincera, le terribili oscillazioni del nuovo spirito religioso che si agitava nel cattolicismo. E tutti i giorni recavano notizie di apostasie religiose, ed erano piccoli curati, oscuri canonici, predicatori esorbitanti dal pulpito, vescovi e porporati, che volendo trattare coi ribelli ne pigliavano il contagio. La maggior parte di essi rientrava nel campo al primo appello, ma il campo restava nullameno aperto a fughe e invasioni d'ogni sorta.
Libri e discorsi fumavano di sentimento religioso: il romanticismo, originalità e morbo della nuova letteratura, non viveva più che di religione, e se talvolta ne sformava le immagini o ne ricusava il culto, riconosceva tuttavia da lei ogni filosofia e ogni arte. Appena qualche pagano classico protestava solitario. Foscolo non piaceva più; Niccolini si faceva a stento perdonare il giacobinismo politico collo splendore di una lirica, che diventava a volta a volta drammatica per passione di patria; Guerrazzi non volendo essere cristiano aveva dovuto diventare biblico; la satira di Giusti mordendo il clero rispettava i dogmi; Mazzini stesso rovesciava la Chiesa per fondare una nuova religione; Cattaneo, positivista incompiuto, non osava tutte le massime del proprio sistema.
Lo scrittore preferito era Manzoni, non perchè artisticamente il migliore, ma come il più temperato fra tanto tumulto di religione e di bigotteria, di tradizione e di rivoluzione. Non commovendo alcuno e piacendo a tutti, al di sotto della passione e lontano dal vizio egli rappresentava meglio di ogni altro la vita del momento, calma ancora di un'inerzia secolare, ma riscaldata già dallo spirito che doveva poi sconvolgerla per rinnovarla. Non pertanto era l'ingegno più nuovo d'Italia, che vi portava la prima rivoluzione. Forse egli stesso non lo seppe, giacchè oggi solo si comincia ad intendere la sua vera originalità, cui l'armonia del suo temperamento artistico o la fiacchezza del suo temperamento umano tolsero di essere novatrice come quella di Hugo in Francia.
Persecutori e perseguitati, preti e rivoluzionari, governanti e ribelli, tutti parlavano il medesimo linguaggio vantando gli stessi ideali. La religione era una gloria e un ornamento cui niuno si ricusava, ma il clero esercitandola non era più fuso con lei come in passato. La padroneggiava senza possederla, presso a poco come l'Austria faceva coll'Italia.
Se i grandi spiriti religiosi coglievano nel cattolicismo i difetti derivati dalla sua organizzazione e dalla supremazia vaticana, il popolo sentiva vivamente nel clero la mancanza di religiosità; quindi credulo e beffardo accettava i dogmi e rideva dei precetti, si lasciava ammaestrare e spogliare, ricordandosi delle spoglie e dimenticando gl'insegnamenti.
I preti, mutata l'antica parola, infedeli, nella nuova di giacobini, minacciavano senz'ira e senza paura dagli altari sempre parati a festa: parlavano di rivoluzionari credendovi poco e non comprendendoli affatto. In fondo si tenevano sicuri e ridevano dei frequenti moti di ribellione come di un malcontento prodotto dalla inguaribile corruzione di tutti i tempi; pronti nullameno a combatterla col ferro e col fuoco. Ma se la teorica e il sistema inquisitoriale duravano, gli uomini erano mutati. Ai terribili asceti della tirannide, che avevano curvato con una mano il mondo dei fedeli alle proprie ginocchia respingendo coll'altra le ultime invasioni degli infedeli, erano succeduti preti nè credenti nè increduli nè scettici: ubbidienti al papa perchè i suoi ordini non imponevano sacrifici, simpatizzanti senza gratitudine cogli stranieri che guarentivano loro i beneficî delle antiche posizioni.
Le ultime grandi anime religiose, i veri discendenti dei grandi inquisitori erano i sacerdoti condannati, i nuovi apostoli ribelli. Èvvi davvero molta differenza fra lo spirito di Torquemada e quello di Lammenais?
Don Giovanni, solo, nel piccolo paese di Modigliana, poco occupato nelle funzioni ecclesiastiche e sempre distratto dalla caccia, non sapeva nulla dell'immenso moto religioso che sollevava l'Europa, o intendendone qualche motto bizzarro a un pranzo di parroci ove capitassero professori di seminario, alzava le spalle. Tutte le eresie dovevano secondo lui finire a un modo. Perchè discutere tanto stiracchiando le parole? Sentire ed agire, ecco la verità: il sentimento viene da Dio e non falla, l'azione viene dal sentimento e lo realizza.
Allora i giornali erano pochi e i libri si fermavano quasi tutti nelle città.
Pochi leggevano, Don Giovanni non leggeva affatto.
Nella sua camera, dopo morto, entro una scansia tarlata e sverniciata non si sono trovati che cinque o sei libri, forse i medesimi che gli avevano servito in seminario. Per credere nella grandezza d'Italia e desiderarne appassionatamente la risurrezione non aveva certo avuto bisogno di leggere il Primato del Gioberti: le prove storiche della grandezza italiana l'avrebbero imbarazzato senza accrescere il suo orgoglio patriottico, mentre la sua conoscenza del clero gli avrebbe tolto di cedere alla illusione che dal papato potesse venire una vera rivoluzione nazionale.
Egli sentiva che il papa non poteva differire dal vescovo di Modigliana, pel quale il paese non era che un vescovado.
Il cattolicismo, composto a quel modo, per diventare rivoluzionario avrebbe prima dovuto rinnovare sè stesso; ma don Giovanni ignorante pieno di buon senso ricusava d'inoltrarsi per così vasta e difficile questione.
Troppe cose per questo avrebbe potuto intendere e sapere. Roma non ostante i suoi abbominii in tutti i secoli, non aveva ancora mancato a sè medesima: pagani e barbari dopo averla inutilmente oppugnata erano caduti ginocchioni sotto le sue mura: le eresie lacerandola non erano riuscite a scinderla, l'antagonismo dei pontefici cogli imperatori o dei papi fra loro non l'avevano abbattuta; ad ogni disastro, ad ogni abbandono, quando tutto sembrava perduto, Roma risorgeva improvvisamente dominatrice più alta di prima.
Il suo clero talvolta tremendo, spesso corrotto, sempre abile, non aveva mai abbandonata la suprema direzione religiosa: irresistibile nelle blandizie e irrefrenabile nelle collere aveva fino al protestantesimo trionfato di pressochè tutti gli scismi. Lutero e Calvino gli avevano soli resistito trionfalmente, e nullameno Roma andava ancora riguadagnando con lenti ed assidui approcci le provincie della insorta Germania. Roma non aveva mai perduto.
Adesso nel suo regno peggiore che ai tempi del Petrarca e di Lutero, nella confusione del sacro col profano, affermava come ultima espressione religiosa la necessità del potere temporale.
Don Giovanni non vi credeva.
Le necessità di una religione secondo lui erano ne' suoi principii e non nelle sue forme: una religione incapace di vivere in ogni secolo, con tutti i governi, attraverso le più impari civiltà non era una religione. Che cosa importava al cattolicismo il potere temporale? Tutto il suo beneficio consisteva nel guarentire l'esercizio libero o magari capriccioso del culto nelle provincie pontificie; per tutto il resto del mondo quel minimo regno non aveva efficacia. Il papa, libero anche nella più crudele persecuzione, avrebbe sempre potuto dirigere tutte le coscienze interpretando i testi divini. Molti papi erano morti di martirio senza che la religione fosse stata ritardata nel suo sviluppo, offesa nel suo organismo. Una religione non deve temere per sè stessa, sotto pena di non essere più una religione: abitando le coscienze vi è inviolabile ed invincibile; nessuna tirannia saprebbe impedire un sentimento o distruggere un'idea. Una religione non può quindi temere che per il suo culto o pe' suoi membri. Terrori umani, interessi umani. Chiudendo i conventi o rovesciando le chiese forse che il cristianesimo perirebbe? Non era esso vissuto senza questi e quelli? Se il clero ritornasse alla povertà del primo apostolato, le sue predicazioni sarebbero forse meno efficaci? Se il papa invece di essere un re e un semidio fosse un prete come gli altri, eletto perchè santo fra i più santi, l'unità divina della religione ne andrebbe rotta?
Don Giovanni si faceva talvolta queste domande e sorrideva bonariamente.
Senza sapere nè come nè quando nel suo spirito si erano venute profondamente differenziando chiesa e religione; questa era l'idea e quella il fatto, l'una veniva da Dio, la seconda era opera degli uomini. Certo Dio non aveva mai permesso che la sua Chiesa snaturasse la sua religione, e infatti dogmi e precetti erano rimasti inviolati, ma la chiesa conservandoli puri aveva troppo spesso bruttata sè medesima. Così per difendersi da giuste accuse aveva voluto imporre silenzio a tutti nel nome di Dio, e per resistere a più giuste critiche aveva preteso difendere in tutta sè medesima la divinità che era solo nel suo principio.
Di questo passo Don Giovanni sarebbe presto arrivato nel protestantesimo colla coscienza libera in faccia al testo della legge, ma il suo spirito inconsciamente disciplinato dal romanismo si arrestava. Poichè Dio aveva istituito la Chiesa per sviluppare la propria religione, solo attraverso di essa dirigeva e parlava. Tutti i mutamenti fatti fuori della Chiesa o contro la Chiesa non avevano durato e non durerebbero.
Inutile quindi ogni rivolta aperta, superba e vana ogni contraddizione. Nessuna grandezza di cuore o d'ingegno poteva essere maggiore di Roma. Bisognava adempiere la religione col cuore, lasciando che la Chiesa per l'intima virtù depostavi da Dio si correggesse.
Ma se la sua coscienza rifuggiva dagl'inutili eroismi della ribellione, ripugnava ancora più alle condiscendenze della servitù. Cristiano e prete, sentiva di non dipendere da altri che da Dio, del quale non era possibile fraintendere la legge senza perfidia della volontà, mentre la cornice lavorata dalla Chiesa per chiudervela non essendo mai stata santa non era nemmeno più bella.
Queste idee torbide gli si rischiaravano a mano a mano nell'azione.
Se domani il papa cessasse di essere re, non uno dei cattolici cesserebbe di essere tale: il re non era dunque necessario.
Gregorio XVI, il re d'allora, era crudele. Don Giovanni troppo ignorante per aver letto il Trionfo della Santa Sede, e stimare in lui il teologo, era troppo buon cittadino per non disapprovare il pessimo sovrano; ma quando per propiziarsi lo czar il papa riprovò i Polacchi morenti con disperato eroismo contro i Russi, Don Giovanni fu quasi per trascendere. Il potere temporale, che teneva schiava l'Italia, minacciava di mutarsi in ragione di schiavitù a tutti i popoli.
Non bastava soffrire, bisognava aiutare. Don Giovanni entrò nella vita politica chiamato dallo stesso strido di dolore, che lo aveva più volte condotto al letto dei moribondi.
Così rimase prete.
Niuno sulle prime se ne accorse. La rivoluzione che si compiva silenziosamente nel suo spirito, somigliava a quella che si veniva maturando in Italia e della quale gli affigliati sapevano poco, i governi nemici quasi nulla. Se Don Giovanni fosse stato un pensatore, si sarebbe gettato con violenza nelle nuove teoriche religiose per rovesciare il papato; essendo invece un uomo di cuore, discese nell'azione aiutando quelli che rischiavano la vita a preparare i combattimenti dell'indomani. Cacciatore sui confini della Toscana e della Romagna, le sue amicizie coi contrabbandieri iniziarono le sue relazioni politiche senza macchiare la sua austera probità, giacchè le leggi doganali dei piccoli governi che separavano allora l'Italia non gli erano mai sembrate vere leggi.
Quali fossero i suoi primi rischi di patriota sapranno forse i pochi vecchi amici superstiti, ma non ne fu ancora scritto. Se prete consentisse ad affigliarsi in una delle tante società secrete che allora riunivano colla loro disciplina i ribelli, lo ignoro; forse l'orgoglio del suo carattere indipendente e il suo abito sacerdotale glielo impedirono. Ma presto fra i congiurati della Romagna si seppe di un prete di Modigliana che aiutava, cimentando tutto sè stesso, a trafugare coloro che audacia di generose impazienze o perversa abilità di spie avevano compromesso. Modigliana, piantata fra i monti nel confine toscano, divenne rifugio e passaggio di congiurati, ed era sempre Don Giovanni che senza nemmeno conoscere il nome dell'uomo pel quale arrischiava la vita; giovandosi delle proprie non sospette abitudini di cacciatore andava di notte, a piedi o in biroccino, ai convegni, per ricondurne a casa propria profughi e proscritti. I contrabbandieri lo aiutavano spesso.
Intanto nelle apparenze della sua vita nulla era mutato malgrado la rivoluzione che gli si allargava nella coscienza.
La sua religione invece di contraddirli si accresceva di quegli atti patriottici.
Ma i tempi ingrossavano. L'eco delle vittorie di Garibaldi nell'America valicando l'oceano veniva a percuotere per tutti i monti d'Italia: le fantasie s'infiammavano, nobili orgogli e speranze anche più nobili s'alzavano nelle anime che la tirannide secolare non era riuscita a protestare. Mazzini esule, ma presente collo spirito in ogni terra, organizzava congiure, dava ordini, scriveva lettere, opuscoli, libri, agitando ogni sorta di questioni e riassumendole tutte in quella della libertà, eloquente come la tempesta, luminoso come un sole. Tutti ascoltavano e guardavano. La sua figura, cui la tragedia della patria dava una tragica espressione accresciuta dal mistero della sua vita privata e dalla ubiquità della sua presenza, sgomentava le anime fanciulle attirandole col fascino del pericolo; la lirica delle sue frasi e la religiosità del suo sentimento seducevano persino coloro, che la sua politica troppo chiara ed insieme tenebrosa minacciava.
I più giovani e i più intrepidi non parlavano più che d'insorgere.
Il disprezzo pei governi ancora più timidi che feroci fomentava il coraggio, mentre le satire del Giusti, i romanzi del Guerrazzi, le canzoni del Berchet infiammavano entusiasmi già esasperati dalle ridicolaggini delle persecuzioni papaline. Nella Romagna, Beozia d'Italia se il suo Monti fosse stato Pindaro, altrettanto scarsa d'ingegni che robusta di temperamenti, scoppiarono i primi moti, ma la nullaggine degli uomini che li dirigevano, impedì si diffondessero guadagnando nome nella storia. Il coraggio che sa insorgere e l'eroismo che sa morire, non bastano alla tragedia: solo l'ingegno, che potrebbe vincere diventa tragico quando gli avvenimenti lo sopraffanno e soccombe. L'ingegno mancò anche questa volta alla Romagna.
Nel settembre del 1845 per moti di Rimini una mano di armati raccolta a Bagnacavallo e a Faenza, scorrendo senza vera direzione le campagne, tentò una sollevazione. La guidavano Pietro Beltrami e Raffaele Pasi, gentiluomini entrambi, ignari ed ignoranti, che la chiarezza della nascita e la distinzione delle maniere aveva naturalmente designati capi. Del primo le cronache non seppero più nulla, del secondo narrarono che soldato aristocratico ed intrepido diventò poi generale e cortigiano. La sollevazione di un giorno dopo di essersi impadronito della dogana delle Balze, sul confine fra Modigliana e Faenza, si disciolse in una pacifica resa alle truppe toscane.
Don Giovanni che vestito da cacciatore aveva primo invaso la dogana, non riconosciuto o protetto dalle simpatie di tutti, non ne subì dopo il fallimento dell'impresa persecuzioni politiche. Oramai con quella insurrezione il carattere della sua vita si era determinato.
Egli voleva essere prete e patriota, giovando senza brillare. La vanità, così comune ai convertiti di ogni fede, non viziò mai la sua anima. Le contraddizioni del cattolicismo colla libertà, che allora s'affannavano a conciliarsi nel cattolicismo liberale, non erano ancora penetrate e non penetrarono mai nella sua coscienza; più cristiano che cattolico non sentì le antitesi, nelle cui soluzioni si smarrirono i più grandi spiriti del tempo.
Fallito quel tumulto, nessun rimorso lo turbò: forse un rammarico gliene rimase della inettitudine colla quale era stato promosso e condotto. Attese. Ma restando prete fra i preti, che colla fatuità degl'impotenti credendo di aver soffocato una terribile insurrezione insultavano al sogno di una Italia liberale, non divenne ipocrita. La rozzezza dei modi e delle abitudini, isolandolo dalle conversazioni inevitabili al suo ufficio sacerdotale, gli facilitarono il nobile riserbo nel quale si chiuse. Forse qualcuno lo sospettò, i più seguitarono a giudicarlo uno spirito bizzarro, un temperamento villico più appassionato di caccie che di processioni.
La maggior parte de' suoi amici insorti, dispersi per la Toscana, corrispondevano ora più sicuri con lui risparmiato dalla persecuzione.
Intanto i moti religiosi e rivoluzionari procedendo verso la libertà, preparavano la rivoluzione del quarantotto. Pio IX, cardinale imolese, eletto pontefice suscitò entusiasmi, dei quali oggi è impossibile rendersi conto. Il sogno del cattolicismo liberale parve avverato fra un immenso soffio lirico che sollevava popoli e pensatori. Tutti coloro, che da anni lavoravano a una rivoluzione guidata dalla religione subendo gli scherni dei veri rivoluzionari e le diffidenze dei veri cattolici, si credettero arrivati al trionfo. Pio IX annunziatosi con una amnistia, che implicava la condanna del suo predecessore, proseguì liberaleggiando: guelfi e ghibellini sospesero le ingiurie per unirsi in un coro di lodi che finì d'ubbriacarlo. Un'ira di guerra si univa al fervore della libertà; si parlò di crociata. Gli entusiasmi cavallereschi del romanticismo scoppiarono, mentre l'energie delle vecchie repubbliche e dei piccoli ducati riapparivano improvvisamente, come evocate dalla forza dei tempi nuovi. Era un tumulto di sentimenti eroici, un fracasso di frasi liriche. Bisognava credere, perchè fra poco si sarebbe dovuto agire. Mazzini ripiegando la bandiera repubblicana prima ancora di sollevarla al sole delle battaglie, scriveva a Carlo Alberto e a Pio IX, sfiduciato d'entrambi, sacrificando con magnanima accortezza politica alla necessaria illusione del momento ogni sincerità di pensatore e superbia di capo: Garibaldi, riempita l'America del nome italiano, attendeva un segnale per rivalicare l'oceano e seguitare in più splendido canto l'epopea delle proprie vittorie. Gli ultimi odii irreligiosi erano sopraffatti dal coro instancabile di speranze che cantava nelle piazze e nelle chiese, nei cuori dei giovani e nelle teste dei vecchi.
Solo qualche classico cresciuto nell'odio del romanticismo o della religione protestava tacendo. Niccolini colla chiaroveggenza del poeta penetrando oltre l'illusione del momento si ricusò ad un'opera, che fallita doveva lasciare discordie peggiori di quanto allora ne conciliava; e feroce fra tanta bontà di accordi si chiuse prigioniero volontario in fondo alla propria accademia per non uscirne che quando la commedia insanguinatasi nel dramma spirerebbe nella più tragica delle disperazioni.
Forse l'acrimonia del carattere e l'angustia dello spirito giacobino gli acuirono la naturale perspicacia dell'ingegno.
Ma i principi d'Italia, malgrado la nuova aria che li sollevava tant'alto, rimasero troppo più bassi che all'opera non fosse necessario.
Il meno tristo di tutti, Carlo Alberto, bizzarra fusione di Don Chisciotte e di Amleto, vano nelle speranze quanto vile nel dubbio, invocato capo concedeva la costituzione e correva a farsela perdonare dal confessore. Ambiva la conquista d'Italia e non osava arrischiare il Piemonte, odiava la libertà e languiva assetato di favore popolare. Nullameno, era il solo che ardisse desiderare se non un'Italia libera almeno una gran parte di essa riunita e compatta. Ma giovinetto, che aveva cominciata la vita col tradimento raddoppiandone l'infamia colla espiazione del Trocadero, doveva chiuderla vecchio con un abbandono che il popolo nella infallibilità dell'istinto chiamò traditore; mentre l'astro da lui aspettato con romantica vanagloria sul suo scudo immaginario di guerriero aveva duopo di altri dieci anni per apparire sull'orizzonte d'Italia e fermarsi chissà per quanto tempo sul tetto del castello savoiardo.
La guerra scoppiò prima che la confederazione dei principi italiani fosse stretta: quasi tutti tradirono. Il pontefice, che aveva promesso e poteva giovare più d'ogni altro perseverando, atterrito dalle altezze cui lo innalzava la rivoluzione, riprecipitò nel fango oramai secolare del proprio passato. Futile e rettorico nella vanità, fu abbietto e pedante nella paura. Così il sogno del cattolicismo liberale svaniva, mentre i sanfedisti ghignavano feroci aspettando dalle prossime disfatte il massacro degli avversari, e gli spiriti veramente rivoluzionari si gettavano alla testa della poca plebe non guasta dalle lautezze dei governi corruttori, per morire disperatamente nel nome d'Italia.
Il risveglio da tanti sogni fu violento. L'energia dell'odio subentrò alla effervescenza dell'amore. Carlo Alberto solo tenne il campo e rimase vinto senza gloria. Cattivo re, soldato nemmeno mediocre, spirito falsamente italiano, il disastro lo rivelò forse contemporaneamente a sè stesso e alla patria. Ridivenuto piemontese nella fuga abbandona Milano, abdica la corona e va a morire sulle sponde dell'oceano, perseguitato dalle maledizioni d'Italia, avvolto nel disprezzo dell'Europa. Allora gli altri spiriti italiani grandeggiarono, Cattaneo a Milano, Manin a Venezia, Guerrazzi a Firenze, Poerio a Napoli, Garibaldi e Mazzini dovunque.
L'epopea si muta in tragedia, tutto fallisce, l'inesperienza dei generali paralizza l'entusiasmo dei volontari, le diffidenze gelose fra i capi disgiungono le forze restanti: poi le antipatie regionali sempre alimentate dai vecchi governi e male sopite nella gioia della prima fusione, infieriscono esasperate da rovesci che la vanità dei vinti accusa di tradimento. Non si pensa più all'unità, si ricalcitra persino all'unione. L'aristocrazia come classe rimane per codardo egoismo aderente ai governi abbattuti; il popolo grosso e minuto senza coscienza vera di libertà, poco uso alle armi e meno ancora ai sacrifici, subisce malgrado ogni fascino delle novità il prestigio delle antiche dinastie, mentre i preti lo riconfermano nel terrore della religione e le vittorie austriache gli riconsigliano la prudenza, colla quale da tanti anni resiste nella schiavitù. Le campagne peggio che indifferenti sono ostili alla rivoluzione; l'avarizia domestica e la bigotteria religiosa e politica v'imperversano al punto che un clero meno vile avrebbe forse potuto suscitarvi una contro-rivoluzione.
Solo la borghesia è rivoluzionaria, ma fiacca per abitudini, non pratica di governo, non facile alle armi, nutrita più di rettorica che di scienza, meglio atta a morire in un impeto di disperazione che a perseverare in una lotta disuguale di forze, incerta di scopi e di processi, si smarrisce. La sua parte più giovane e più numerosa accorre sotto le bandiere, mentre i suoi seniori ammalati di cattolicismo liberale non ardiscono proclamare davvero la rivoluzione. Si parla ancora di confederazione, le forme costituzionali imbrogliano gl'inesperti e favoriscono gl'ipocriti; in fondo si teme pel popolo e si rammemorano i giorni sanguinosi della rivoluzione francese. Manca il sentimento nazionale. Il problema della indipendenza si fraziona per ogni provincia, la parola repubblica confonde e sbigottisce. Si crede ancora che religione e libertà si accordino, che i principi patteggino leali coi popoli e il papato possa concordarsi volontario coll'Italia.
Non si sa nulla e manca tutto. La rivoluzione fallisce, ma spezzato il dramma, le sue energie si condensano nelle scene. Il Piemonte resiste come regno non ignaro d'invasioni, Venezia riassume morendo tutte le virtù della sua lunga vita, Roma assalita da tutta l'Europa riapre la storia immortale delle proprie guerre per scrivervi un'ultima pagina, che ne vale molti libri. A Napoli tradimento e massacro. I Borboni mentono ed assassinano, fedeli alla propria tradizione. A Milano l'insurrezione inerme, dopo aver trionfato d'un esercito per cinque giorni, sfinita più che vinta cede non patteggia: a Bologna i popolani insorgono e abbandonati abbandonano la rivolta; la Romagna freme, ma i suoi audaci sono tutti a Roma e i troppi codardi rimasti a casa seminano diffidenze preparando persecuzioni e condanne.
L'Europa è sossopra. Parigi, Berlino, Vienna tumultuano: la rivoluzione gloriosa e sanguinante è vinta dovunque, ma fra tutte quella d'Italia, allora forse la meno osservata, è la più significativa. Al principio della nazionalità essa congiunge il problema del papato. Per tutta la storia, dal più oscuro medio evo fino a Napoleone primo, nessuno aveva potuto risolverlo. L'Italia vi si accingeva. Il papato colpito da improvvisa quanto inesplicabile demenza aveva concesso una costituzione, che infirmava naturalmente il suo principio; quindi l'aveva tradita per non essere trascinato fuori della propria orbita, e la rivoluzione era scoppiata, uccidendo nel ministro papale l'ultima illusione di un accordo fra l'Italia e il Vaticano.
La repubblica romana doveva morire prontamente, ma bastava ad interrompere la vita millenaria del papato.
Quindi il dissidio religioso invelenì nelle coscienze liberali. I più coraggiosi nauseati dalle attitudini del pontefice, che fuggiva piuttosto che resistere e malediceva invece di compiangere, si gettarono nella rivoluzione oramai troppo male ridotta per trionfare, e bestemmiando cattolicismo e federazione invocarono come suprema necessità della patria gli esterminii del 93. I più arretrarono mascherando di pretesti religiosi la prudenza, che li faceva disertare una causa per la quale la sola onorevole speranza era di morire: i meno sognarono una reazione papale iniziante un governo più largo d'impieghi ai devoti e di stipendi alle spie.
La lunga servitù d'Italia pesava su tutte le coscienze come una fatalità; la rivoluzione sembrava perdere non per colpa degli uomini ma per ragione delle cose. L'Italia non poteva risorgere. Questa acquiescenza al destino o alla provvidenza, come allora si diceva, era favorita dal quietismo religioso e letterario a capo del quale splendeva il Manzoni: la rassegnazione cristiana e il pessimismo ultra mondano, che mette sempre nell'altra vita la soluzione di tutti i problemi, coprivano le viltà depositate nelle coscienze da troppi secoli di servitù, mentre l'educazione cattolica assoggettava coi suoi terribili dilemmi spiriti anche non volgari.
Quindi i pochi eccessi rivoluzionari, che falsavano la nuova libertà, bastarono a molti per abbandonarla, evitando loro di risolverne il problema nella coscienza. I rivoluzionari rimasero pochi ma intrepidi, i cattolici furono troppi ma quasi tutti vili, certo tutti inetti, aspettando dall'Austria più che da Dio la pacificazione d'Italia.
Il clero che negli antecedenti begli anni della letteratura cattolica liberale si era abbandonato a tutti i lirismi del sacrificio, rientrò frettolosamente nel secolare egoismo: nessuno osò scindere le questioni che il Vaticano fondeva in una sola. Pontificato, governo temporale, romanismo, cattolicismo, cristianesimo, tutto si confuse nell'anatema lanciato dal papa alla rivoluzione e rimase identico nella coscienza del clero. I vantaggi della sua posizione storica minacciati dalla rivoluzione gli tolsero la vista delle grandi riforme da lui stesso invocate, mentre l'emancipazione dello Stato dalla Chiesa proclamata altamente dai liberali lo guariva quasi istantaneamente dalla passione della libertà.
Immaturo per la propria riforma, il clero non poteva accondiscendere nella rivoluzione.
I suoi più grandi pensatori, riprovati da Roma, non avevano osato nemmeno nello sdegno della propria condanna precisare la riforma cattolica; imbarazzati fra loro nella parte dogmatica, non riuscirono che a maledirsi scambievolmente ponendo il problema della nuova costituzione ecclesiastica. Quindi le esigenze della libertà e della autorità sviandoli nel pensiero li esasperarono nel sentimento già atterrito dalla insurrezione e dal silenzio del popolo, fra cui predicavano. Invece di una riforma religiosa, questi domandava una rivoluzione politica. Il cattolicismo non era più un bisogno ideale dello spirito popolare: i suoi dogmi, la magnificenza della sua universalità non commovevano più, mentre la violenta interpretazione papale riassumendo tutto nel vaticanismo aveva già prodotto negli spiriti quell'indifferentismo beffardo e desolato, che Lammenais prima di ribellarsi aveva cercato di combattere con un fervore di fede pari allo splendore dell'eloquenza.
E a poco a poco i nuovi eretici trascinati dallo stesso spirito novatore erano saliti dal campo religioso nel filosofico, abbandonando la sicurezza dell'insegnamento cattolico, prono ma sodo, per smarrirsi non visti dal popolo fra la turba dei grandi pensatori, che cercavano già donde verrebbe la nuova religione.
Il problema del rinnovamento cattolico, intuito nella prima metà di questo secolo, non sarà veramente dibattuto che nel secolo seguente e risolto chissà in quale.
Certo prima di esaurirsi il cattolicismo, che sta rincorporandosi tutto il cristianesimo, deve produrre in sè stesso nuove interpretazioni e forme favorevoli alla espansione degli ideali, che oggi ancora contunde nella idolatria o deprava nella politica.
Il clero italiano fu come da moltissimi secoli al di sotto della propria posizione, il più vile di tutto il cattolicismo. La corruzione vaticana scemandogli il carattere religioso gli aveva tolto, e non gli ha ancora restituito, il carattere umano. Mentre l'Italia insorgeva contro l'Austria in una guerra d'indipendenza scevra di questione religiosa, e la rivoluzione assaltava il Vaticano scacciandone il papa per conquistare la libertà religiosa e politica, il clero non osò essere nè italiano nè cattolico combattendo l'Austria o schierandosi col pontefice. La viltà del Vaticano, che oppugnava l'Italia per conservarvi il minimo regno, si ripetè in tutte le parrocchie; i curati trepidanti pei proprii beni lasciarono a Dio l'ufficio di salvare il papa, e non uno di loro tentò di mettersi alla testa dei molti fedeli per difendere, ultimo crociato, la tomba degli apostoli, o salire almeno il pulpito per dire ai contadini che l'Austria tiranneggiando l'Italia aveva il medesimo torto dei settari insignorendosi di Roma.
Invece ripeterono a bassa voce la parola di Gesù altrettanto vera nella filosofia che falsa nella storia: date a Dio quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare; ma il nuovo Cesare stava a Vienna, e quanto a Dio, i suoi beni e i suoi diritti erano quelli medesimi delle parrocchie.
Sullo scorcio del secolo passato il clero francese morendo nella Vandea per il proprio re si era contemporaneamente battuto per la Francia contro gl'invasori, e la rivoluzione aveva dovuto stimarlo, e Napoleone poco dopo l'aveva riconfermato. Il clero italiano, ignobile ed ignaro, non volle morire nè per l'Italia nè per il papa, e visse a sè medesimo.
Ma il papa stesso, moltiplicando per tutta la superiorità del proprio grado l'antico errore di Pompeo, abbandonò Roma al primo scoppio rivoluzionario ricusandosi ad un pericolo di morte altrettanto improbabile che benefico alla religione. La prigionia di Pio VII era bastata a riscaldare gli animi religiosi dopo la rivoluzione francese, l'assassinio o la condanna di Pio IX avrebbero riaccesa in tutti gli spiriti la fiaccola della fede disonorando per sempre la rivoluzione.
Invece riparò nella più solida fortezza del peggior tiranno d'Europa, cingendosi di briganti contro i rivoluzionari. Mentre Garibaldi e Mazzini venivano a morire sulle mura di Roma, disperati di salvarla ma bagnandola del proprio sangue, come di un battesimo che la iniziasse a nuova vita, il pontefice nella feroce umiliazione di re, che non sa nè vincere nè morire, dimenticava il proprio carattere di padre universale per cacciare contro Roma quanti soldati la reazione trionfante in Europa poteva prestargli.
Ma la viltà del papa immortalata da Mazzini in una pagina rovente d'indignazione sparve nella viltà del clero; a tutti sembrò dovere la sua fuga, diritto la sua invocazione agli stranieri perchè lo rimettessero in trono. Senonchè quella fuga e quell'appello oltre le alpi provarono invece che principio e fatto di regno temporale erano esauriti. Quando un principio è incolume e un fatto è intero, coloro che lo incarnano non vi falliscono; l'energia della fede, il vigore della coscienza li sorreggono in ogni frangente; possono perdere non scappare, soccombere non prostrarsi. Il re che abbandonava Roma senza chiamare il popolo alle armi confessava di non esserne che il papa, e il mondo gli credette.
Quindi la sua fuga aperse nelle mura una breccia, che allargata dalla soldataglia cosmopolita del suo ritorno non si potè più sbarrare: vent'anni dopo Vittorio Emanuele, scoprendola, entrò e la chiuse. Questa volta Pio IX non fuggì da Roma perchè non ne era più il re, ed essendone il papa poteva sempre restarvi.
III.
In questo periodo così tumultuante di fatti, e di idee Don Giovanni non si mosse. Molti fra i congiurati, che lo avevano conosciuto nelle opere secrete, aspettavano forse di vederlo insorgere sulla montagna e alla testa di una compagnia fra contrabbandieri e cacciatori correre alla difesa di Roma. La Spagna era tutta piena in questo secolo di curati belligeri, talvolta grandi come generali, più spesso fieri come assassini.
La predicazione patriottica cominciata a Bologna dai padri Gavazza e Ugo Bassi infiammava il popolo alla guerra. Invece che nelle chiese, le prediche si facevano su per le piazze, dall'alto delle scalinate, fra una ressa di popolo piangente di ogni entusiasmo, giacchè l'effervescenza del sentimento patriottico permetteva qualunque eccesso di pensiero e di parola. Si declamava di guerra, di massacri, di trionfi, di perdoni: tutta la vecchia rettorica delle scuole piena di esempi romani e cartaginesi, quella dei seminari, l'altra più recente del romanticismo si mescolavano in una eloquenza ridicola e commovente, deforme e poderosa.
Nell'aria agitata da tante voci passavano a volta a volta i veri soffi della rivoluzione. Il popolo applaudiva strepitando ai due sacerdoti senza capire delle loro frasi che le parole di guerra. Il nemico scoperto era l'Austria, i nemici incerti tutti i principi, il papa e il clero, i nobili e i borghesi che quello schiamazzo atterriva, e i contadini che ascoltandolo lontani ne chiedevano la spiegazione ai parroci.
Il padre Gavazza, energica figura di tribuno ribollente di passioni e fors'anche volgare di vizii, piaceva più dell'altro, gracile poeta, che la letteratura aveva travolto e la rivoluzione doveva stritolare. Ad entrambi la stessa gloria e la medesima vanità prestò le forze ad uscire dagl'ordini; ma nessuno dei due sapeva bene ciò che volesse. Ugo Bassi additato alla reazione austriaca dal clero implacabile si confessò, abiurò e cadde, martire coraggioso e recalcitrante, per vivere nei ricordi del popolo che di lui non ricordò più che la morte; l'altro, più fortunato o più abile, vinta la rivoluzione, riparò all'estero e vi si convertì al protestantesimo, e tornò a predicarlo in Italia agli stipendi della società biblica, non ascoltato dalla borghesia, spregiato dal popolo, che stima poco coloro che mutano e non crede mai alle conversioni fruttanti danaro.
Don Giovanni, sacerdote al pari di essi, non li seguì nella breve e tempestosa predicazione. Differenze di indole e più ancora di testa glielo impedirono, salvandogli l'originalità oggi ancora più sentita che compresa.
Come Don Giovanni giudicò la rivoluzione del 48? Che cosa pensava dei principi e del popolo? Di Carlo Alberto e di Pio IX acclamati primi, di Mazzini e di Garibaldi arrivati ultimi?
Il suo pensiero non è rimasto scritto, ma la sua vita lo ha chiaramente rivelato.
In tutto quel periodo, come prima e come dopo, seguitò la vita di cacciatore ascoltando forse sulle cime dei monti nell'aria trepida il rombo immaginario delle battaglie infelici, che si combattevano per l'Italia. Intorno a lui tutto era calmo. I contadini non s'occupavano che dei ladri infestanti per la mancanza di un qualunque governo, mentre giù nel paese invece la grossissima maggioranza assisteva alla rivoluzione come ad una avventura della quale era già previsto lo scioglimento. Nessuna fede, nessuna idea netta; qualche sentimento generoso fra molti avari, una certa smania di novità frammezzo abitudini che la morte poteva interrompere, non già la vita mutare; paure e ignoranze, viltà di ogni servitù, gelosie di qualunque grado. La rivoluzione non era possibile, il popolo non la sentiva. Invano una piccola minoranza aveva profuso da molti anni e seguitava a profondere eroismi di pensiero e di cuore, prodigava sangue e danaro, dimenticando tutta sè medesima nella passione della patria da redimere; la patria indolenzita e indolente rimaneva accovacciata sotto le sedie dei propri tiranni, guardando con stanco sorriso coloro che tentavano di scuoterla ed arrischiavano in questo la vita.
L'Italia allora non aveva nè un re, nè un generale, nè un politico.
In qual guerra aveva trionfato Carlo Alberto? E non era che re di Piemonte, e non aveva osato dire alteramente all'Italia: sii mia! Quale fra i tanti ministri dei tanti piccoli Stati sarebbe stato così forte da soffocare la voce degli altri per farsi intendere dall'Europa? Il migliore, quello del papa, Pellegrino Rossi, smarriva ogni senno politico nel sogno di un papato costituzionale.
Tutti gli italiani erano stranieri fra loro: piemontesi, napoletani, lombardi, toscani, veneti, umbri, siculi, divisi per storie, per indole, per produzione non avevano in comune che la servitù, e anche questa diversa, cosicchè il dolore e l'odio frazionandosi s'impicciolivano. Mazzini solo era italiano, ma la sua opera e la sua fama male interpretate gl'impedivano d'abbracciare tutto il popolo. La minoranza rivoluzionaria sola gli ubbidiva adorandolo. Garibaldi sbarcato allora dall'America era per la gente volgare uno sconosciuto, per tutti quei soldati invecchiati nelle parate un avventuriero ricondotto in patria da bramosia di saccheggio.
I Governi, invece di confederarsi, patteggiavano contemporaneamente coll'Austria e colla rivolta, conservando verso l'una molte velleità d'indipendenza, verso l'altra tutte le pretese del comando. Solo un forte moto di unità, rovesciando quei piccoli troni e galvanizzando le piazze nel nome della repubblica, armandole, lanciandole sullo straniero, avrebbe potuto trionfare; o un re temerario e abile come Enrico IV, che affermandosi re d'Italia avesse nel suo nome eccitata la rivolta e guidata la guerra contro l'Austria, avrebbe avuta qualche probabilità di riuscita. Mazzini tentò la prima proclamando la repubblica romana, nella quale, se persistente, tutti gli Stati d'Italia sarebbero scomparsi; ma nell'ultima ora quando tutto era perduto, e salvò con eroismo pari all'ingegno l'onore della rivoluzione. Napoli e il Piemonte avrebbero potuto cimentarsi nella seconda impresa, ma i loro re capaci di aspirarvi per vanagloria non ne ebbero l'animo, tradirono o fallirono, poco sinceri nel sentimento, meno italiani nel concetto.
E questa rivoluzione preconizzata da tanto splendore di arte, preparata con lungo studio, assistita da tutte le forze, in un anno appena si logorò e parve svanire. Il popolo in massa non vi aveva che assistito.
Gl'italiani erano vinti. I campi veneti e lombardi fumavano di sangue, in tutti i paesi la reazione del dolore e della paura sopraffaceva l'entusiasmo della rivolta.
A sera la malinconia delle prime ore era più triste, il pianto si mesceva colla rugiada. I volontari ritornavano sbandati maledicendo e ascoltando le maledizioni ai generosi, che avevano predicato la guerra. Si vantavano la pace umiliante, le molli delizie della servitù.
Venezia e Roma resistevano ancora, quasi trovando nel nome antico della repubblica l'eroismo della nuova morte. Il clero esultava. La sua sordida e numerosa clientela liberata dallo spavento della rivoluzione turbava con gioie parricide la tragica solennità di quel momento. Tutti i maggiori uomini d'Italia erano sembrati impari all'azione: i cattolici liberali mascherati da nuovi costituzionali spingevano l'odio della rivoluzione più oltre dei sanfedisti, seminando fra i vinti rancori che nulla poteva più consolare. Le calunnie scoppiettavano ora che il fuoco della moschetteria si faceva più rado e meno omicida; le speranze uccise dai sarcasmi del popolo peggio ancora che dal piombo degli eserciti nemici cadevano come Ferruccio avvolgendosi nelle ultime bandiere.
Don Giovanni assisteva a questa agonia prolungata di giorno in giorno quasi per aumentarne il dolore.
La sua anima era in preda a mille passioni. La viltà del clero tripudiante sulle stragi italiane gli dava a volta a volta degl'impeti disperati, che la sua coscienza di uomo, ribellandosi alla coscienza di prete, portava fino a Dio. La questione del papato avviluppata intorno all'ideale religioso lo aveva reso irreconoscibile, mutando una religione di sacrificio e di amore, talmente pessimista da non considerare il mondo che come un tramite oltre il quale splendeva la verità e si armonizzava la vita, in una feroce idolatria, nella quale le avare ingordigie del tempio e gli ignobili silenzi dell'idolo concordavano alle più ribalde affermazioni. Il pontefice, invece di mostrare ai popoli la croce di Cristo, brandiva la canna dell' Ecce Homo come una mazza, minacciando di spezzare le teste che non si sarebbero curvate.
I tempi parevano dar ragione al papa. Il cattolicismo sorretto dall'ultima reazione della Santa Alleanza si disponeva a riconquistare Roma abbandonata dalla viltà di Pio IX, mentre la libertà proclamata dall'ottantanove a traverso un'immensa carneficina, e quasi soffocata sotto i disastri del primo Napoleone, stava per essere uccisa. I popoli non avevano in cinquant'anni potuto intenderla. I piccoli re d'Italia accodati agli eserciti invasori, come valletti a saccomanni, servivano gli schiavi che venivano a ristabilirli padroni, intanto che il pontefice, re più abbietto di loro, infangando la propria eterna religione nella politica di un'ultima ora di regno, confermava tutte le menzogne assolvendo tutte le stragi.
Garibaldi e Mazzini soli resistevano.
La rivoluzione dell'ottantanove si riassumeva in loro, Garibaldi ne era il soldato, Mazzini l'apostolo; e poichè la rivoluzione era mondiale, la sua ultima battaglia si combatteva naturalmente a Roma. Tutta l'Europa feudale era discesa sotto le sue mura; perfino la Francia, agonizzante nell'agonia di una falsa repubblica che doveva produrre un più falso impero, mandava i proprii soldati a mutare quell'assassinio in fratricidio.
Tutto sembrava perduto.
Se l'Italia fosse insorta nella rivoluzione e sopraffatta dalla reazione monarchica d'Europa avesse soccombuto, non sarebbe stato nemmeno un disastro. La libertà conservata nelle coscienze avrebbe preparato la rivincita, mentre l'unità del pensiero, la concordia del sentimento, l'identità degl'interessi avrebbero consolato una disfatta istantaneamente mutata in vigilia di guerra.
Invece il popolo credulo ai sofismi del clero, che gli mostrava nella ripristinazione del romanismo la verità della religione cristiana, ammirava la forza degli stranieri invasori.
Giammai nella storia vi fu momento più tragico.
Garibaldi, reso feroce dalla disperazione, irrompeva dalle mura di Roma come Ettore chiamando ad alte grida l'Achille de' nuovi greci, ma dal campo nemico nessuna voce d'eroi gli rispondeva, mentre una immensa moltitudine d'armati lo obbligava invano reluttante a riparare nelle mura. I suoi soldati di un giorno non avevano nè armi nè scampo: italiani di ogni provincia, chiamati dalla rivoluzione, erano venuti a morire nella sua tragedia. Non un dubbio, non un lamento. Roma eterna si stendeva accidiosa dietro loro dalle mura. Il suo popolo troppo pieno di cortigiane e di bastardi, rimasuglio di tutte le schiavitù, guardava con suprema indifferenza di servi, che usi a non pagare lo spettacolo non vi portano più e non ne risentono passione. I fastigi dell'impero e del papato dominavano immani quest'ultima battaglia, che stranieri italiani sostenevano contro stranieri d'oltre Alpe.
L'assedio non poteva essere lungo. Ogni giorno scemava il numero e le forze degli assediati. L'Italia vile come Roma non osava nemmeno incitare i combattenti sopraffatta dal dubbio della vittoria. Nulla. In alto, sopra un colle, non uno dei sette immortali della storia antica perchè sovr'esso doveva cominciare la storia moderna, Mazzini pallido e sereno dominava una piccola assemblea, che percossa dal rombo dei cannoni gli si stringeva intorno. L'immensità storica e il silenzio attuale di Roma sbigottivano la Costituente, assemblea di sbandati, senza nè l'energia del senato nè l'impeto dei comizi antichi, in un momento nel quale nè l'uno nè l'altro sarebbero forse bastati.
Campidoglio e Vaticano, ambedue deserti, intendevano dalla sublimità della loro grandezza a Villa Medici, sede del nuovo Parlamento.
Roma taceva.
Il suo silenzio di quel momento fu un silenzio di morte.
La città, che dopo aver soggiogato il mondo coi Cesari l'aveva dominata coi papi, era esaurita; vi sarebbe ancora una nuova Italia, non vi sarebbe più una terza Roma.
E su quel silenzio di due mondi millenari, che il fuoco degli assedianti non bastava a rompere, Mazzini pronunciò la parola della vita nuova proclamando la repubblica moderna. Dopo i cesari i papi, dopo i papi il popolo. Roma assediata dagli ultimi barbari della monarchia liberava nuovamente il mondo; ma era l'anima italiana che parlava in lei. La proclamazione della repubblica, appena udita per le vie della città, echeggiò dovunque. Un'altra êra incominciava bagnata di sangue come tutte.
Ma unico fra i forti italiani d'allora che affermasse l'unità d'Italia, mentre i più intrepidi di spirito non ne sorpassavano la confederazione, anche Mazzini dovette contraddirsi proclamando una repubblica romana. La sua grand'anima resistè allo schianto di questa contraddizione, che annullava l'affermazione di tutta la sua vita in un momento che la morte rendeva libero da ogni menzogna. Senonchè l'unità da lui affermata magnanimamente non era ancora cosciente nell'anima d'Italia, e Genova e Venezia risognavano le proprie repubbliche marinare, e la Toscana si affermava superbamente augusta in sè stessa, e Napoli invidiosa del Piemonte accarezzava contro di lui la stessa vanità di egemonia, e la Lombardia di tradizioni più incerte evitava di risolvere, e nessuno malgrado le molte adesioni al Piemonte sentiva davvero che l'unità sola poteva produrre l'indipendenza e l'unione d'Italia.
Non v'era che un soldato italiano, Garibaldi, nel quale l'amore d'eroe per l'Italia non fosse scemato dalla passione di nessuna delle sue provincie. Mazzini condotto a Roma dalla stessa fatalità che diciannove secoli prima vi attirava S. Pietro, non potè, limitato più dalle singole insurrezioni italiane che dagli stranieri assedianti, proclamare la repubblica italiana: Napoli e Torino, Firenze e Venezia gli avrebbero risposto negando. Si sarebbe accusato il triumvirato di tirannia, le dinastie sabaude e borboniche colpite nell'egoismo di regno avrebbero urlato alla conquista.
L'unità mancava e doveva mancare ancora dieci anni dopo, giacchè il trionfo della forma monarchica sulla repubblicana significa anche adesso che la coscienza italica per comprendere la propria unità politica aveva duopo di vederla prima in una unione esterna ottenuta dalla conquista di un principe italiano sugli altri, e che la soggezione al nuovo regno calmava le paure della maggioranza sugli effimeri disordini inseparabili da una rivoluzione.
Roma proclamerà la repubblica quando l'Italia sentirà davvero nella coscienza la propria unità.
Allora Mazzini non potè affermare che la repubblica romana, sapendo benissimo che uccisa all'indomani profitterebbe colla propria morte all'Italia. La repubblica romana proclamata fra il Campidoglio vuoto e il Vaticano deserto chiudeva per sempre le loro due epoche; durando, avrebbe invece negata l'unità italiana. A Roma, non più centro del mondo ma capitale d'Italia, la repubblica non può essere che italiana.
Don Giovanni dai colli di Modigliana non guardava più che a Roma. Le notizie arrivavano peggio che incerte, contradditorie. Nella piazza del paese l'albero della libertà, piantato dalla canaglia nella prima effervescenza della sollevazione, si essiccava al sole del tramonto, visitato tutto il giorno da ogni classe di persone concordi nella stessa ironia. Nei paesi vicini gli stessi alberi erano già stati rovesciati. Quello di Modigliana resisteva ancora senza speranza.
In quel tempo la vita di Don Giovanni fu esercitata da terribili agitazioni. L'energia della sua natura eroica lo avrebbe spinto a marciare su Roma cinto dei più intrepidi fra i suoi amici contrabbandieri, mentre la sua coscienza di cristiano e di rivoluzionario glielo impediva. La rivoluzione era immatura nel cattolicismo e nell'Italia; clero e popolo non la sentivano. La generosità di una rivolta, che una morte quasi sicura avrebbe bastato ad assolvere in ogni paese, diventava problematica allora che gli spiriti avevano cessato d'intendersi. Nessuno parlava più della libertà d'Italia: Roma e Venezia sembravano due città straniere assediate da stranieri che si difendessero senza speranza; le vittorie austriache ingigantendo nelle fantasie atterrite la potenza dell'Austria rendevano ridicole e criminose le resistenze. Perchè battersi ancora facendo massacrare tanti poveri giovani? E il clero rispondeva insinuando che la rivoluzione non era per l'Italia, ma contro la religione, e il popolo credulo per secolare abitudine malediva ai rivoluzionari, invocando nel papa il santo dei santi. Le minute superstizioni e i miracoli paesani rifiorivano; lo scombussolamento e le morti della rivoluzione che avevano già esasperato le donne e i vecchi, facevano ormai prorompere gli adulti. Si denunciavano all'odio popolare le società secrete, si ricordavano i tempi della schiavitù colla pace delle anime e degli interessi sotto la sacra tutela del papa.
I volontari ritornati dai campi delle varie guerre regionali erano guardati con orrore misto di scherno: avevano voluto distruggere la religione e vinti erano scappati. Malvagi e vili, ingannati o ingannatori.
Il papa sarebbe presto ritornato a Roma e tutto sarebbe finito.
Infatti Roma dovette capitolare. Gl'Italiani che la difendevano, ridotti senz'armi e senza munizioni, si arresero. Roma non si mosse. Molti romani generosi avevano certamente partecipato alla difesa della città santa, ma il suo popolo vi aveva assistito come ad uno spettacolo. Se Roma si fosse difesa come Saragozza, gli eserciti stranieri discordi non l'avrebbero presa; se le popolazioni delle sue provincie fossero insorte, li avrebbero fatti prigionieri. Roma non era più Roma; i Latini, i Sanniti, i Bruzii moderni non somigliavano più ai confederati di una volta, frammezzo ai quali Annibale non aveva osato inoltrarsi. La Costituente si disciolse prosaicamente; Mazzini, ultimo italiano, dovette nuovamente esulare solo.
Appena tacquero i cannoni, squillarono le campane.
La città dei preti e dei servi, usa a vivere della ospitalità degli alberghi, accolse gl'invasori precedenti il pontefice e che tronfi della facile vittoria rattenevano a stento il disprezzo per un popolo senza coscienza di patria in una città, che era stata la coscienza del mondo.
Tutto era perduto. Caduta Roma, Venezia vincitrice non avrebbe giovato nè a sè medesima nè all'Italia.
Un silenzio di morte si stese sulla penisola, rotto dalle chiocce invocazioni del clero osannante nelle chiese al ritorno del pontefice, mentre un gran vuoto si faceva improvvisamente nelle coscienze di tutti. Quella rivoluzione vinta, insultata nell'agonia, morta diventava qualche cosa. Rivoluzionari e reazionari al rumore della caduta di Roma si guardarono in viso allibiti: che cosa significava quella repubblica vissuta un giorno nella gloria tragica di un assedio senza scampo e morta di ferite fratricide senza gettare un grido di paura o di odio?
I suoi soldati, ultimi superstiti di un'epopea che forse un giorno avrà un poeta grande quanto Omero, si dicevano usciti dalle mura, dispersi. Che cosa era avvenuto di Mazzini? Garibaldi era forse prigioniero?
Ognuno se lo domandava, nessuno lo credeva.
Un fascino misterioso circondava quest'uomo rendendolo superiore a tutte le circostanze.
Mazzini esulava, Garibaldi si ritirava, nessuno dei due fuggiva.
Coi rimasugli dell'esercito, forse un quattromila uomini, Garibaldi era uscito al momento della resa da porta S. Giovanni. Il popolo lo aveva visto ritirarsi con un senso di ammirazione paurosa. Come avrebbe egli potuto salvarsi per una campagna tenuta da tre eserciti, ognuno dei quali tanto maggiore del suo? Garibaldi andava innanzi pallido e biondo. La serenità della sua fronte entrando dalla porta nella campagna, era degna di Roma; aveva perduto la battaglia ma la guerra proseguiva. Invece i soldati laceri e sfiniti, senza quella fede incrollabile del generale nella unità d'Italia, cadevano quasi sotto il silenzio di Roma. Non uno sguardo dalle mura dell'immensa città li seguitava per la morta campagna.
La ritirata cominciava senza meta e senza scopo. Perchè salvarsi? Dove salvarsi? La desolazione della campagna, eterna come Roma, avvolgeva la disperazione di quelle ultime ore. Solo Garibaldi alzava la fronte sul deserto e lo dominava colla sicurezza di chi scruta oltre i suoi confini nelle terre che lo attendono. Roma era presa, ma l'Italia poteva sollevarsi ancora. Perchè la ritirata da Roma non sarebbe un ritorno dall'isola d'Elba? Il numero dei soldati non montava, giacchè il popolo è senza numero, e dai monti, dalle valli, dalle pianure che vanno a bagnarsi nelle paludi, dalle città che nessuna milizia occupava, dai villaggi, dai porti, dai litorali deserti, fino dalle vette più inesplorate insorgerebbero italiani al tuono delle nuove battaglie, che inseguito da tutti i nemici egli darebbe a tutti loro per tutte le terre d'Italia. Ora che le singole rivolte erano fallite doveva cominciare la resistenza generale. L'Italia medioevale aveva fatto le ultime prove in questa insurrezione frammentaria, inspirata e sorretta dalle energie delle tradizioni locali, ma un'altra Italia disciplinata da Mazzini nelle società secrete, rappresentata al supremo sacrificio di Roma da' suoi figli più prodi poteva sorgere e vincere.
Traversare l'Italia, sollevarla, spingerla sugl'invasori e mentre essi dispaiono nella battaglia di tutto un popolo contro un esercito, salire sulle Alpi e gridare all'Europa attonita: che la rivoluzione ha vinto e un'altra Italia comincia per tutti una nuova storia di libertà….
Era il sogno di quel momento, l'alba che egli vedeva attraverso il crepuscolo sinistro di quel giorno di sconfitta.
Il pericolo dell'aperta campagna rianima la piccola truppa; Roma si allontana all'orizzonte, mentre il deserto dell'agro romano si distende oltre lo sguardo e le memorie dei più in una desolazione così sublime che rivela loro la grandezza della propria.
L'anabasi incomincia: tre eserciti li cingono e li perseguono. Garibaldi li cansa, scivola fra i loro vani, li delude, li inganna; muta passo e direzione ad ogni ora, aumenta di velocità, dissipa le proprie traccie, è introvabile, invincibile. Agile come un serpente, ha dei balzi e delle ferme di leone che seminano nei persecutori la confusione e la paura: guadagna i monti e vi si perde, sempre inseguito e sempre in salvo, moltiplicando gli stratagemmi e gli eroismi, lasciando ad ogni tappa una gloria e una speranza.
Il popolo non si è mosso e non si muove. I contadini lo guardano passare svelto e superbo pei campi, seguito da soldati che di umano non hanno più che la fatica e il dolore, e abbassano gli occhi colla indifferenza di una ignoranza cui nulla più commuove, di una servitù che da secoli non ha più tentazioni di libertà. Le città e i villaggi, dove giunge, non lo ricevono o almeno non vorrebbero riceverlo, percossi dalla notizia degli eserciti che lo inseguono o meravigliati di vederlo vivo e forte, mentre una voce misteriosa lo annunziava morto ad ogni ora. L'orrore dei sacrilegi immaginari di Roma allontana da quei superstiti ribelli la pietà dei credenti, che il ritorno del papa ha entusiasmato; le amare delusioni rivoluzionarie li colpiscono, il solito disprezzo pei vinti li insulta.
Il piccolo esercito non è più che un manipolo, la stanchezza disperata delle marcie ha di già abbattuto la maggior parte dei soldati avviliti dalla indifferenza ostile del popolo. Solo Garibaldi, che non spera più, non cede ancora. Invece di irritarsi di quella viltà del popolo, la comprende e lo compiange. Tre o quattro secoli di schiavitù non si cancellano in un giorno: il popolo che non ha ancora potuto credere, malgrado ogni dimostrazione scientifica, al giro della terra intorno al sole, perchè crederebbe subito che la storia giri intorno alla libertà? I dolori centenari della sua immobilità sulla gleba fecondata sotto l'occhio avaro del padrone e il sorriso beato del prete erano ben maggiori delle sofferenze di quella ritirata, che la morte poteva ad ogni istante interrompere e consolare: ma il popolo che non muore e non si ritira, non poteva credere ancora alla propria resurrezione, nè all'eroismo di coloro che avevano invano tentato di morire per ottenergliela.
Garibaldi marciava sempre. Amici e nemici, nessuno in Italia sapeva bene dove si trovasse; egli stesso ignorava la propria meta. Un istinto lo guidava. La reazione trionfante in tutta l'Europa si ricordava appena di lui per chiedere sbadatamente se lo avessero fucilato, il popolo l'abbandonava, Mazzini l'astro del suo pensiero era scomparso o si era spento, Roma si stordiva d'incenso e di scampanio, i tedeschi stavano per uccidere Venezia, Genova più infelice era stata riconquistata dai Piemontesi.
Egli solo, inerme capitano di un manipolo d'inermi, restava all'Italia.
La sua coscienza lo sentì. Per una di quelle attrazioni che la poesia è pronta a cogliere ma delle quali il volgo ride, avendo invano traversato l'agro latino, l'Umbria, le Marche verso la Romagna, si diresse a S. Marino per disciogliervi, ultimo difensore della repubblica romana, nella libertà della sua minima ed antica repubblica, le supreme reliquie dell'esercito, col quale aveva sognato di sollevare l'Italia. I tempi non erano maturi: d'altri dolori e di più profondi studi aveva d'uopo l'Italia per risorgere.
Egli riservato a quel giorno doveva restar solo e sparire.
Quindi senza un lamento congeda il drappello degli ultimi che l'avevano seguito. Napoleone aveva singhiozzato a Fontainebleau stringendo la mano al generale della sua vecchia guardia, e sublime egoista le aveva gridato: Scriverò nell'esilio quanto operammo insieme! Garibaldi moralmente più grande si perde nella sventura d'Italia e non ha un solo motto d'orgoglio dopo tanti eroismi. Al momento di sbandarsi generale e soldati, egualmente profughi e cercati a morte, dimenticano ogni gerarchia di merito e di ufficio per stringersi semplicemente la mano, forse per l'ultima volta, e si separano.
Egli volle restar solo.
L'epopea si muta in romanzo. La ritirata è finita, il pellegrinaggio incomincia. Invano gli consigliano di radersi la barba e di mutare abito, giacchè la sua fisonomia e il suo abbigliamento reso popolare dai ritratti è nella coscienza di tutti. Egli nega, non sa dirne la ragione, ma nega. Tale prudente menzogna del viso e delle vesti avrebbe mutato il suo pellegrinaggio in una fuga, e Garibaldi non può fuggire. Sua moglie Annita, meravigliosa fusione di Andromaca e di Clorinda, lo segue incinta e non teme; un amico solo, un capitano, li accompagna. Come ha egli ottenuto questo privilegio? Forse da Annita troppo ammalata malgrado tutto l'eroismo del suo cuore.
Da S. Marino scende al mare, s'imbarca, approda tra le valli di Comacchio, s'interna nella pineta di Ravenna; perchè raccontare tutto questo? Troppo e troppo sconciamente lo dissero poi tutti coloro che lo giovarono di aiuto. La vanità dei salvatori fu questa volta maggiore della grandezza del salvato; egli aveva sempre ricordato nel silenzio della gratitudine, essi si percossero di contumelie dopo la sua morte, litigandosi ognuno il vanto di averlo salvato e confessando così tutti insieme di non averlo conosciuto.
Ma la sventura d'Italia persegue l'ultimo italiano; come l'Italia aveva tutto perduto in quell'ora, a lui non doveva restare nulla, nè un soldato nè un amore. Annita vinta dal travaglio di quella caccia, che non dà requie, s'arresta un momento e spira. Garibaldi, solo, non può nè soccorrerla nè seppellirla. Il suo dolore rugge colla bufera che tormenta la pineta, ma la sua anima non cede tuttavia alla tentazione della morte.
Morta Annita, l'Italia moribonda che aveva con lei diviso il suo cuore, vi rimane sola, sventurata erede di nuova sventura; ma il cuore di Garibaldi non si restringe. E i pericoli si rinnovano, la morte incalza. Adesso tutto il mondo sa che Garibaldi, congedati gli avanzi dell'esercito col quale era sfuggito alla capitolazione di Roma, erra sul littorale di Ravenna in cerca di scampo: spie e pattuglie lo cercano. Appena ravvoltolato nella sabbia il cadavere della povera Annita, che i cani scovrirono e rosicchiarono nella notte, muta ricovero di capanna in capanna, protetto da povera gente, più triste perchè più solo, ma quasi tranquillo. Tutte le speranze d'Italia erano ospitate nel suo cuore: egli lo sentiva e camminava senza affrettarsi e senza nascondersi, seguendo le guide che il destino gli mandava e dicendo a tutti:
—Sono Garibaldi, insegnatemi la strada.
Quale?
E lo guidavano al sicuro.
Fra tanti, cui si scoperse, nessuno dubitò di lui e lo tradì. Un fascino fatale lo proteggeva. Biondo, coi capelli lunghi come la criniera di un leone, coll'occhio azzurro come l'azzurro delle più belle albe italiane, vestito come tutti i soldati d'Europa l'avevano veduto sulle mura di Roma fra le tempeste dell'assedio, nessuno dei tanti drappelli nemici, cui s'imbattè, lo riconobbe. Se gli avessero chiesto il nome, avrebbe risposto:
—Garibaldi.
Non glielo chiesero.
Egli taceva abbandonato al proprio destino, non avvertendo quasi più nulla di quanto accadeva intorno a lui. Una quiete superba si veniva facendo nel suo spirito, come una inesplicabile sicurezza di essere già in salvo per potere più tardi salvare l'Italia, e che raggiandogli da tutta la persona assoggettava istantaneamente quanti gli si accostavano per aiutarlo. Non pareva più un proscritto, ma un incognito fatato e fatale. Comandava e accettava serenamente grato della assistenza e sicuro nel comando.
E alla voce che lo gridava già morto quando nei giorni passati alla testa di quattromila uomini scorreva l'appennino, ora più solo e abbandonato che in alcun tempo della sua vita, ne era succeduta un'altra che lo diceva salvo. Nessuno sapeva nè dove nè come, ma Garibaldi doveva essere salvo.
Dai monti di Modigliana Don Giovanni tendeva l'orecchio a questa voce.
Per lui Garibaldi era ormai tutta l'Italia. La rivoluzione fallita per sola colpa degli Italiani, che l'avevano indebolita disgregandola nelle vanità delle singole provincie, non aveva avuto che due uomini, Garibaldi e Mazzini: tutti gli altri per quanto alti di pensiero e generosi di sentimento non erano arrivati al concetto in una sola Italia. La maggior parte di essi, mascherando le vanità paesane di piccoli studi storici, invocavano una federazione che mancando dell'idea fondamentale dell'unità non avrebbe mai potuto produrre la necessaria unione di tutti gl'interessi divergenti per combattere lo straniero e conquistare la libertà. La confederazione possibile in uno Stato già indipendente o livellato da una servitù uniforme, nell'Italia d'allora non era che una ipocrisia dietro la quale i suoi piccoli Stati tentavano salvarsi dalla rivoluzione; e coloro fra i rivoluzionari che la caldeggiavano, e ve ne furono d'illustri, dimenticavano la vera necessità del momento politico per smarrirsi nella compiacenza di un futuro discentramento amministrativo, il quale giovandosi dei caratteri spesso antagonisti delle nostre razze, e delle incredibili differenze del nostro clima, traesse poi da tutte le nostre forze parallelamente ordinate tutta la varia quantità di risultati che possono dare.
Don Giovanni si era accorto fra i primi dell'errore della confederazione. I moti parziali che avevano preceduto il 48, determinati dalle diverse energie e condizioni delle provincie, erano miserevolmente finiti: gli stessi dolori li avevano eccitati, le medesime vanità li avevano condotti a fallire. Austria e clero tremendamente unitari avevano sempre riso e seguiterebbero a ridere di ogni tentativo rivoluzionario senza unità di mezzi e di scopi. Le monarchie italiane costrette dalle necessità dei tempi a simpatizzare colla rivoluzione, negandola nel proprio secreto per egoismo d'esistenza, parlavano naturalmente di costituzione e di confederazione per indebolire con piccoli fatti liberali e con grandi promesse di libertà l'apostolato di Mazzini, che secondata abilmente l'illusione federale monarchica, era ritornato più forte di prima alla predicazione dell'unità.
Ma i tempi immaturi gli avevano mancato. Austria e clero coalizzati avevano trionfalmente resistito a tutti gli sforzi del suo genio. Caduta Roma, l'Italia rientrava nella infermità delle proprie forme storiche, uscendo dalla rivoluzione come da un brutto sogno.
Il solo torto di Mazzini, secondo Don Giovanni, era di aver troppo insistito sulla necessità di un nuovo cristianesimo più morale che dogmatico, senza tradizioni e senza gerarchie. Certo nessuna rivoluzione può prescindere dall'elemento religioso, sotto pena di non essere rivoluzione intiera, ma quel dissidio filosofico con Roma aveva indebolito, disperdendolo in altri campi, lo sforzo rivoluzionario. La rivoluzione francese più abile e più profonda aveva preferito negare il cattolicismo per giovarsi dei dolori e degli odii da esso prodotti in tanti secoli di tirannia e di corruzione. Mazzini aveva sognato contemporaneamente la resurrezione e la rigenerazione dell'Italia. Era troppo. La lirica delicata e veemente del suo sentimento religioso, invece di sollevare gli animi contro le brutture del cattolicismo, riscalducciava la bigotteria latente in tutte le coscienze rendendo più ascoltati i preti, che affermavano essere nella religione l'unica verità della vita. Troppa era ancora l'ignoranza e la bassezza di cuore perchè il nuovo cristianesimo umanitario di Mazzini fosse compreso.
E piuttosto che una riforma questo pareva ai più una confessione umiliante d'inferiorità in faccia al cattolicismo, mentre la scienza aveva già spezzata da un pezzo l'orbita cristiana.
Invece Garibaldi, cansando il problema della rivoluzione religiosa, aveva urtato impetuoso nell'ignobile tirannia di Roma: quindi coll'infallibile intuizione popolare affermando cattolicismo e romanismo, clero e religione identici nell'attualità storica, aveva capitanato contro di essi l'odio delle plebi, solo rattenendolo negli accessi per magnanimità di natura. Se nessuna forma religiosa era stata rispettata da lui, nessun prete innocente o colpevole aveva patito persecuzioni.
Questa sintesi del suo cuore era stata più larga ed efficace della sintesi intellettuale di Mazzini per la rivoluzione.
Garibaldi solo in quel momento era tutta la rivoluzione: guai se fosse morto!
A questo pensiero, che lo tormentava notte e giorno, Don Giovanni si sentiva letteralmente morire. L'inerzia, nella quale si era per eccesso di chiaroveggenza condannato durante il periodo rivoluzionario, gli aveva prodotto nell'anima una specie di sdegno contro sè medesimo che l'azione solamente avrebbe potuto calmare. L'agonia d'Italia gli diventava rimprovero alla calma della sua vita di cacciatore e di prete. Bisognava pur soffrire e morire in un'ora che Dio aveva concesso alla morte. A Napoli, a Roma, a Venezia, a Milano, dappertutto si moriva: gli ultimi tiranni trucidavano i nuovi martiri; framezzo a un popolo per troppa miseria ignaro ed ignavo drappelli di generosi morivano baldamente, gettandogli per ultimo grido una parola di rivolta e di amore.
Garibaldi errava solo per la foresta di Ravenna; così gli avevano scritto vecchi congiurati. Bisognava quindi salvarlo, adesso che Roma da lui difesa sorrideva agli stranieri invasori e Venezia si arrendeva, e il Piemonte per conservare la larva del proprio statuto sotto le minaccie dell'Austria mutava larva di re; e il triumvirato toscano, ombra del triumvirato romano, spariva nelle tenebre della reazione granducale; e i borboni ritiravano a Napoli la costituzione insanguinandola nelle vie, e la rivoluzione falsata a Parigi dalla repubblica francese, che mandava ad assassinare la repubblica romana, era tradita a Vienna, soffocata a Berlino nel sangue più generoso: salvarlo adesso che generale senza esercito errava fra il popolo incapace di riconoscerlo, ormeggiato da spie, circuito da pattuglie pronte a fucilarlo! Morire ma salvarlo, perchè egli solo poteva un giorno rialzare l'Italia, essendo stato solo a concepirla e a combattere per l'Italia libera ed una! Mentre i più illustri uomini delle varie provincie disonoravano di lamenti e di contumelie reciproche la sventura di quell'ora, Garibaldi già rituffatosi nel popolo e subitamente dimentico della propria gloria di generale, non si difendeva, non si vantava. Come prima di battersi in Italia per l'Italia, comprendendo per lei il bisogno di una nuova gloria militare, era andato a conquistarla in America: sentendo che il torto della rivoluzione fallita era solo dell'Italia, più coraggioso di tutti nascondeva col proprio silenzio quella viltà all'Europa, conscio per prova che il raccoglimento del dolore è sempre più fecondo di tutta l'agitazione delle diatribe. Taceva ed errava. Dov'era in quell'istante? Qual nuovo disastro lo colpiva?
Ma Garibaldi non poteva salvarsi che per la via di Toscana. L'esperienza di Don Giovanni, che aveva trafugato tanti proscritti, lo assicurava di questa necessità. Tutta la legazione di Ravenna era coperta di pattuglie e di spie; impossibile penetrare nel Veneziano o muovere per Bologna verso i ducati.
Ma ad ogni ora il pericolo aumentava: i minuti erano forse contati.
Dov'era Garibaldi?
Sotto il suo mantello di proscritto egli portava allora tutta la fortuna d'Italia.
Bisognava salvarlo a qualunque costo, e che un prete fosse il suo salvatore.
Garibaldi rimasto solo non era più l'eroico avventuriero d'America, che figlio di patria schiava vinceva per la libertà di altre terre; non il generale improvvisato che difendeva Roma contro l'Europa e la repubblica contro l'impero e il papato, ma tutta la rivoluzione. Coll'infallibile istinto del genio, fallita l'impresa di sollevare l'Italia, aveva licenziato i soldati rinunciando a ritardare inutilmente la resa di Venezia. Nessuna resistenza giovava più; bisognava riserbarsi ad altro tempo, forse prossimo, ritemprandosi in migliore preparazione. La nuova rivoluzione avrebbe mutato metodo e processo. La trepidazione vile ed avara, colla quale tutti i piccoli governi della penisola s'affannavano a ritirare dal naufragio quanto meglio potevano, profittando magari delle peggiori condizioni del vicino, significava che della rivoluzione vinta e della rivoluzione futura non avevano la più piccola coscienza. Dopo di essersi battuti per velleità nevrotiche contro lo straniero, si liticavano stiracchiando i confini come i moribondi tirano le lenzuola. Avrebbero ceduta tutta l'Italia per protrarre di un miglio la propria linea doganale.
Roma benediceva e malediva. Per lei tutta la rivoluzione era infame, e l'Austria tiranneggiava l'Italia per diritto divino, e Ferdinando valeva S. Luigi, e Isabella di Spagna Santa Teresa, e la libertà era falsa, la patria solamente in cielo, la storia italiana immutabile col papa re di poche provincie esauste, col napoletano selvaggio nelle campagne o putrido nelle città, col lombardo-veneto soffocato dai croati, coi ducati lacerati da maniaci come Carlo III o da usurai come Francesco V, con governi tutti senza garanzia di rappresentanza nazionale, coi mari senza navi, coi campi senza strade, colle frontiere senza eserciti, colle scuole senza scienze, colle arti senza ideali, colle chiese senza Dio.
Era il programma di Roma.
No.
Non era vero, nè il cristianesimo nè il cattolicismo erano così. La redenzione di Cristo non poteva conchiudere all'oppressione del mondo per opera della sua chiesa. Una difficile e tremenda menzogna agiva dentro la tradizione divina. La storia ecclesiastica, che avrebbe dovuto essere la storia dell'ideale verso cui la storia umana piena di delitti e di catastrofi doveva costantemente sollevarsi, non era più stata, dai primi tempi della persecuzione e dell'assisa dei dogmi, quello che doveva. Il mondo da lei purificato l'aveva corrotta; filtri e lambicchi finiscono sempre così. I papi s'erano scannati fra loro, i cardinali li avevano venduti, gl'imperatori erano spesso riusciti ad assoggettarli; i preti, eredi di martiri, che avrebbero sempre dovuto aspirare al martirio, s'erano abbandonati alle cupidigie di ogni impero, e impotenti perchè il loro carattere sacro derivava da una amputazione del carattere umano, avevano finito col preferire le ricchezze alla gloria. Per conservare un minimo regno ottenuto da una falsa donazione, quasichè i regni potessero donarsi, difeso per secoli contro insurrezioni feudali e municipali, sempre negato dal popolo, non avevano dubitato di turbare la storia di tutte le genti. Possessori di beni immuni d'imposte, esenti da ogni obbligo civile, erano quindi diventati stranieri nel mondo, entro il quale per turbolenza di vizi avevano voluto discendere e sul quale avevano regnato nel nome dell'ideale. No; Roma, sede del papa perchè il cattolicismo è universale, non poteva e non doveva essere un feudo del pontefice prolungando nel mondo moderno l'errore della feudalità, che faceva risiedere la sovranità in un uomo invece che nella legge. Il cristianesimo non era monarchico; il mosaismo stesso non lo era stato che a malincuore e solamente di forma, poichè la legge non v'era fatta dal re. Perchè dunque il papa avrebbe un regno? Per la sua libertà? Ma un papa è sempre libero, perchè la religione è un fatto della coscienza; si può uccidere un papa, non dominarlo. E perchè egli temerebbe di morire per opera di coloro, che incapaci ancora di apprendere le divine verità del cristianesimo rappresentano gli eterni gentili, che il cristianesimo deve convertire? Una religione non deve essere sempre in istato di conquista, e nella conquista il vincitore non muore quasi sempre?
Che cosa era il cattolicismo nel cristianesimo? L'uniformità entro l'unità, mentre il protestantesimo e tutte le altre confessioni ne rappresentavano la varietà. Il cattolicismo era necessario al cristianesimo come la grande strada ai viottoli, che vi si immettono, ma a traverso le sinuosità di ogni curva l'una e gli altri miravano alla medesima meta.
Perchè dunque i papi volevano un regno puramente mondano e i preti cercavano sottrarsi ai pesi che la vita e la storia distribuiscono al resto degli uomini?
Ma a traverso tutte queste domande in lui ancora troppo torbide un'idea si faceva largo e splendeva.
Un prete doveva salvare Garibaldi.
Egli voleva essere quel prete.
Era tempo.
Da molti secoli Roma difendeva cogli anatemi i propri privilegi politici, ma perdonando fatalmente appena fossero del tutto perduti. Esenzioni dalle imposte, decime, immunità, gradi, uffici, tutte le forme politiche del cattolicismo nel medio evo erano state abbandonate da Roma dopo la più accanita difesa senza che coloro stessi, che li oppugnavano, credessero di uscire dal cattolicismo. E Roma non aveva osato ostinarsi nella contraria teorica. Invincibile nelle polemiche, aveva sempre creduto alle resistenze popolari contro i suoi privilegi mondani. Le discussioni filosofiche presto o tardi andavano a percuotere in un dogma incrollabile sfracellandovisi, e Roma allora le designava al mondo con una condanna: l'opposizione muta e sorda del popolo contro le sue esorbitanze di regno o i suoi eccessi di dottrine tendenti a pareggiare nella necessità della salvezza i precetti disciplinari ai dogmi fondamentali, l'avevano sempre costretta a rientrare lentamente in sè medesima.
Bisognava dunque agire invece di discutere, perchè le polemiche irritano e gli esempi confortano. In quel momento Roma papale rinnovava tutti gli errori de' suoi molti secoli di storia. Il papato ricomponendosi il trono sulle rovine della rivoluzione aveva bisogno della morte di Garibaldi; questi vivo, il popolo si ricorderebbe sempre della breve repubblica romana guardandone i triumviri o il generale e li stimerebbe sempre capaci di ricominciare. L'Austria accorsa in aiuto del papa aveva altrettanto bisogno di uccidere in essi l'idea della unità italiana. Gli ultimi casi della guerra si prestavano meravigliosamente a una fucilazione quasi irresponsabile per il governo; una pattuglia l'eseguiva, se ne riprovava magari l'uffiziale, premiandolo secretamente. Le monarchie e i ducati italiani ripristinati, folli di paura e d'egoismo reazionario, applaudirebbero: il popolo mal desto dalla rivoluzione, aggirato dalle calunnie, blandito negli interessi e nelle abitudini lascerebbe compiere il delitto, che una interpretazione vaticana avrebbe subito chiamato espiazione.
Bisognava che un prete scevro d'intenzioni riformiste e rimasto come estraneo alla rivoluzione lo impedisse.
Ciò avrebbe significato che Roma aveva torto e che la dottrina di Cristo non escludeva nessuna libertà. Il cattolicismo distrigandosi così dal romanismo nella coscienza del clero avrebbe affermato che il papa infallibile nella definizione di un dogma era fallace in tutto il resto, e che gli si doveva magari in certi casi resistere.
Erano idee vecchie, ma erano la stessa rivoluzione tentata invano dai magni spiriti ribelli e che avrebbe finalmente trionfato contro la Roma dei papa-re. Salvare Garibaldi non era un votare per la repubblica romana, che aveva dichiarata la fine del potere temporale? Garibaldi riassumeva nella propria figura il principio e la storia della rivoluzione.
Se Don Giovanni avesse potuto salvarlo, Roma non avrebbe osato condannare.
Don Giovanni era sicuro di ciò; avrebbe potuto essere ucciso da una pattuglia non colpito da una sentenza. Roma costretta a contraddirsi dalla religione di Cristo, ecco l'immenso beneficio religioso che sarebbe derivato al mondo dal supremo beneficio politico di aver conservato Garibaldi all'Italia.
Così fu.
Dopo parecchi giorni di giri e rigiri per la pineta colle pattuglie nemiche sempre alle calcagna, Garibaldi si decise per consiglio di coloro che lo proteggevano ad abbandonarla. Siccome l'unica via era quella di Toscana, fu scritto a Don Giovanni. Non gli si poteva indicare il giorno, ma lo si avvertiva di trovarsi dalla sera all'alba presso la dogana delle Balze. Così la rivoluzione finiva dopo un lustro circa dove era scoppiata l'insurrezione. Egli non vi mancò. Tutte le notti andava solo, mutando strada, armato, a questo appuntamento, dal quale dipendevano le sorti dell'Italia. Nessuno ne sapeva nulla: le sue abitudini di cacciatore lo protessero anche questa volta. Erano aspettazioni tremende. Accovacciato sopra la strada dietro un rialzo, dominandola per quanto le sue sinuosità glielo permettevano, tendeva gli occhi e gli orecchi nel buio per distinguere ogni passo. Nella sua fantasia diventata improvvisamente timida si componevano e svanivano mille scene drammatiche: Garibaldi non poteva giungere al confine, lo avevano già arrestato nella pineta, lo inseguivano lungo la strada, lo raggiungevano tempestando; Garibaldi inerme non tentava nemmeno di fuggire…. Era preso!
Più spesso gli sembrava di distinguere nel buio la sua fisonomia in tutti coloro che passavano in biroccino. Quando i doganieri entravano o uscivano dalla dogana per disporre un agguato ai contrabbandieri, gli pareva che guardassero nella tenebra contro di lui e sorridessero. Anch'essi sapevano che aspettava Garibaldi! E allora le sue mani stringevano convulsamente la carabina, mentre tutti i muscoli gli si tendevano per un balzo improvviso. Gli sembrava che Garibaldi sorgesse in quel momento alla svolta della strada…. e allora egli gli saltava incontro gridando:
—Fuggite, basto io a trattenerli.
Se quelle notti fossero state molte, la sua ragione ne avrebbe sofferto. Ma l'appuntamento venne mutato; era stata scelta la strada di Ravenna per la Coccolia e Forlì. La notte del 20 agosto Don Giovanni, avvisato, si recò in cima al monte di Trebbio, che divide Modigliana da Dovadola: pioveva dirottamente. Giunse Garibaldi in carrettino; Don Giovanni uscì dal nascondiglio, il cuore gli batteva da scoppiare. Non aveva riconosciuto il Generale perchè non lo conosceva, ma lo aveva sentito. La strada e la notte erano deserte: nè un baleno, nè una voce.
Garibaldi già disceso aiutava un compagno.
—Sono io, disse Don Giovanni.
—Sono io, rispose Garibaldi.
Tutto era detto.
—Andiamo?
—Il mio compagno è ferito e non può camminare, soggiunse Garibaldi con voce calma.
Don Giovanni, che aveva riacquistato tutta l'energia della propria natura nel pericolo di quel momento, ebbe un impeto che frenò a stento. Che importava del compagno?
La strada era pericolosa, da un istante all'altro si poteva essere sorpresi. Perchè imbarazzarsi di un soldato? Egli, Don Giovanni, andrebbe avanti: al primo incontro ripiegherebbe; se fossero gendarmi direbbe a Garibaldi di fuggire e resterebbe a divertirli facendo fuoco. Perchè un compagno? mormorava nel proprio pensiero.
—Bisogna trovare una vettura.
La voce del generale era dolce ma imperiosa. Don Giovanni ubbidì; proseguirono essi a piedi, il ferito sul carrettino che li aveva condotti. Lungo la strada abitava un altro parroco, amico e congiunto di Don Giovanni; questi batte all'uscio, lo fa alzare, gli domanda cavallo e carrettino. L'altro acconsente. Don Giovanni fa guidare al garzone di casa, tanto per aver qualcuno da ricondurre il cavallo; giungono al Marzeno. Il temporale ha mutato il fiume pacifico in furioso torrente.
Don Giovanni rimanda garzone e cavallo.
La notte era fosca, il fiume ruggiva. Allora Don Giovanni si offerse e impose a Garibaldi e al suo compagno di montargli sulla schiena: egli si sarebbe lanciato a nuoto portandoli così sull'altra riva. Era talmente sicuro di sè che non si spogliò nemmeno. Garibaldi titubava. Marinaio, gli sembrava ridicolo guadare un fiume sulle spalle di un altro uomo. Ma in quel momento Don Giovanni, che avendo deposto il capitano Leggero sull'altra riva ritornava per prendere Garibaldi, gli disse colla voce ferma di chi sa di essere l'arbitro della situazione, presentandogli le spalle:
—Montate; Generale, voi conoscete il mare, ma io conosco il mio fiume.
Garibaldi comprese la semplicità eroica dell'invito e si arrese. Quando toccarono la sponda Don Giovanni trasse un forte respiro, e cercando la mano del Generale gli disse con voce tremante:
—Grazie!
Passato il pericolo l'emozione lo vinceva. Ma fu un attimo; si abbassò, afferrò robustamente il ferito disteso sull'erba, se lo caricò sulle spalle e, accennando a Garibaldi di seguirlo per un sentiero tortuoso e dirupato, guadagnò l'orto della propria casa e furono al sicuro.
La grande azione della sua vita era compiuta, tutto il resto ne discese.
Perchè raccontare la vita degli otto giorni che Garibaldi passò nella sua casa? Quello che dissero e quello che sognarono per l'Italia? Don Giovanni nella forte modestia della propria natura non se ne aperse con alcuno; quello solo che poterono poscia indovinare gli amici fu che Garibaldi temeva per Don Giovanni, e questi per Garibaldi. Perchè il Papa re di Roma, che faceva fucilare a Rovigo l'eroico Ciceruacchio e Ugo Bassi a Bologna, non avrebbe inferocito su Don Giovanni?
Una grande ragione v'era che Garibaldi in quel momento non capiva.
Dopo otto giorni, combinati accordi con altri patrioti, Garibaldi sempre guidato da Don Giovanni, prese l'Appennino, giunse a Palazzuolo, e per Pietramala, le Filigare e Prato potè arrivare a Talamone.
Al momento di partire da Modigliana, il più ricco possidente del paese, certo Papiani, l'unico che Don Giovanni avesse messo nella confidenza di quella perigliosa ospitalità, offerse timidamente a Garibaldi tutto il denaro della propria cassa. Questi gli strinse la mano e rifiutò cortese, ma austero.
L'altro insisteva; Don Giovanni, che sapeva il Generale senza un soldo e che non ne aveva neppure egli per imporglieli col diritto dell'amico, che gli salvava la vita, sorrideva.
Garibaldi mantenne il rifiuto.
Partirono in una notte cupa; sempre pei monti giunsero sopra la Badia di Susinanna, antico feudo del celebre Maghinardo.
Erano sfiniti. Don Giovanni vi conosceva un mulattiere, che abitava presso il mulino, e pensò di svegliarlo per chiedergli i muli. Nascose i due compagni in una fratta e avanzandosi sotto la casa lanciò un sasso alla finestra del mulattiere.
I monti neri nella notte, appena divisi dal fiume, parevano più sinistri in quella gola; l'acqua mormorava sotto il ponte con lamento continuo.
La finestra si aperse.
—Chi va là?
—Sono io, Don Giovanni di Modigliana.
—Oh! che c'è?
—Scendi.
—Che c'è? Vengo subito: come mai lei qui? vengo, ecco!
E si sentiva il mulattiere meravigliato di quella visita parlare ad alta voce nella camera vestendosi.
Poco dopo aperse l'uscio di casa; teneva una lanterna in mano.
Don Giovanni vi soffiò sopra.
—Che c'è?
—Sono io, zitto! Hai i muli a casa, Pio Nono?
Era questo il soprannome del mulattiere, e ricordandoselo Don Giovanni sorrise.
—Ne ho uno solo.
—Basterà: mettigli il basto, debbo andare a Palazzuolo. Ho meco due signori, sono stanchi. Che cosa vuoi?! non conoscono la montagna.
—Già, signori di città… ci vuole altro per i nostri monti. Lei, viene da Modigliana?
—Sì.
—Entri, sarà stanco, mi faccia l'onore… Ecco, veda; ho ancora in casa due fiaschi. Ma perchè mi ha spento il lume? scoppiò improvvisamente a dire.
—Via via, fa presto; non entro. Ho lasciato quei signori, vado a trovarli. Metti il basto al mulo e sali sulla strada: noi vi saremo.
Lo lasciò.
Dopo cinque minuti Pio Nono apparve sulla strada tenendo il mulo per la briglia: la bestia s'arrampicava con passo violento, si sentivano i suoi ferri battere contro i ciottoli.
—Ohè, piano! urlava Pio Nono, rattenendola per la catena.
La bestia era impetuosa, nera e piccola. Pio Nono ansava.
—Ecco! esclamò scorgendo il gruppo dei signori. È un mulo troppo vivo, e lo frenava con visibile sforzo, mentre colla voce sembrava incoraggiarlo, superbo di quella sua vivacità.
I tre parlamentarono; il capitano Leggero dovette inforcare il mulo.
—Io vado innanzi, disse Don Giovanni a Pio Nono traendolo in disparte mentre teneva sempre la catena del capezzone nella mano, e il mulo impaziente scalpitava sbuffando: lasciami cento o centocinquanta passi di scampo; se incontro una pattuglia…
—Ah!—esclamò soffocatamente Pio Nono.
—Hai capito! Io torno addietro, tu caccia il mulo nel bosco, nel campo, nascondilo o, se non è possibile, ripara i due. Io fischierò, in una stretta faccio fuoco.
—Oh!
—Non hai paura tu?
Pio Nono non rispose.
—Siamo intesi?
—Ma chi sono?
—Umh! E Don Giovanni si mise l'indice sulla bocca; si trasse il fucile dalla spalla, l'armò.
—Vado innanzi, siamo intesi.
Don Giovanni si perdette alla prima svolta del sentiero.
Pio Nono era rimasto pensieroso. Amico di Don Giovanni e conoscendone le azioni, pensò tosto che quei due signori fossero due banditi, come si diceva nel linguaggio del popolo, ma importanti. V'era dunque un pericolo serio ad accompagnarli.
Ma Pio Nono era naturalmente coraggioso. I due tacevano; quello a piedi camminava alla testa del mulo. Pio Nono colla catena del capezzone nelle due mani stava indietro il più possibile e si faceva quasi trascinare per moderare l'andatura della bestia. Pensava fra sè inquieto:
—Piano, Garibaldi! gridò improvvisamente.
I due si voltarono.
—Garibaldi! ripetè Pio Nono dando uno strappone al mulo.
Garibaldi gli si avvicinò.
—Che cosa c'è? Mi avete chiamato?
—Chiamato? Che! È il mulo che non vuole andar piano. Don Giovanni mi ha pure detto di andare adagio. È il mulo, sa; ha quattr'anni, è troppo ardente. L'ho comprato due anni fa a Scaricalasino. Era grande come un porco, ma bello veh! Me lo sono fatto io. Gli ho messo sul groppone sino a due balle da quattrocento libbre l'una; pare una bugia a dirlo. E sa come me lo hanno battezzato? Indovini? ma già, ha sentito come lo chiamo; gli dicono Garibaldi.
—Ah! Garibaldi sorrise voltandosi al capitano Leggero.
—Da quanto tempo, questi domandò, chiamate così il vostro mulo?
—Oh! non è molto, da quando è incominciata la rivoluzione. Garibaldi è il migliore soldato, e il mio mulo è il miglior di tutti: non è vero tu, Garibaldi?
Si voltò alla bestia, scuotendo la catena. Il mulo s'impennò quasi.
—Piano, piano: vuoi proprio fare il Garibaldi? E dopo una pausa: Anche lui chi sa dov'è, poveraccio!
L'accento di quest'ultima frase era così buono che Garibaldi commosso gli tese la mano.
—Che cosa vuole? rispose Pio Nono imbarazzato da quel gesto.
—Garibaldi sono io: vi stringo la mano, non posso ringraziarvi altrimenti.
E la voce e l'attitudine del Generale furono così epicamente semplici, che l'altro comprese di botto: e abbacinato, più incerto ancora dopo aver compreso, tremante di un sentimento inesplicabile allora e che neppure in seguito è mai riuscito a spiegarsi, lasciò sfuggirsi la catena.
—Eh via! Pio Nono, seguitò allegramente il Generale: non c'è da ridere piuttosto?
In quel momento riapparve Don Giovanni.
—Niente? gli domandò il capitano Leggero.
—Che c'è?
—Don Giovanni! esclamò ancora attonito il mulattiere: è lui Garibaldi, non il mio mulo.
Don Giovanni comprese che Garibaldi si era nuovamente scoperto e voltandoglisi bruscamente:
—Ma Generale…
—Oh! questo Pio Nono non è come quell'altro, non tradirà.
Vent'anni dopo Pio Nono mi raccontava in una bettola di Palazzuolo il grande aneddoto della sua vita.
—E il mulo? gli chiesi.
—Di quelli non ne ho avuti più.
—Come Garibaldi.
—Con tutto il rispetto di lei e di lui, già!
Ora Pio Nono dev'essere molto vecchio, ma siccome fa ancora il carbonaio e la fuliggine dei sacchi gli tinge barba e capelli, è impossibile indovinare quanti anni abbia.
IV.
Appena salvato Garibaldi, l'opera di Don Giovanni fu conosciuta da tutti: non ch'egli la dicesse, ma coloro che avevano preso parte all'ultima fuga da Modigliana per l'Appennino, di confidenza in confidenza la propalarono. Il vescovado ne venne istrutto e ne scrisse alla Curia fiorentina: di là il quesito andò a Roma, e non vi si risolse. Perchè? Le ragioni furono molte, ma non ne fu detta alcuna; accennarle sarebbe stato un accettare pubblicamente il problema posto dai fatti, impegnandosi a sentenziare.
Il Papa appena di ritorno da Gaeta aveva stabilito una commissione di tre Cardinali colle maggiori attribuzioni politiche. Una reazione più minacciosa che tremenda incominciò quindi per tutte le provincie papaline ancora esercitate dalle ultime convulsioni rivoluzionarie. S'imprigionava per denuncia di adepti senza vagliare nè discutere: scarse le condanne, ma insoffribili le vessazioni; tutto e tutti erano minacciati. I preti gongolanti dalla gioia dopo gli spaventi della rivoluzione infierivano; le superstizioni compresse scoppiavano quasi collo stesso impeto della rivolta liberale, mentre le lotte fratricide dei partiti sembravano preparare un'altra guerra civile fra il lutto delle famiglie orbate dalla guerra e lo sgomento del popolo incapace di capire cosa alcuna attraverso affermazioni egualmente assolute di libertà e di dispotismo. Roma, fatta proclive alla satira dallo stesso scetticismo che la prostrava, chiamò la commissione dei Cardinali triunvirato rosso della porpora, che nullameno si bagnò di sangue.
Il papato si riaffermava come regno. Nulla della rivoluzione, che lo aveva rovesciato prima per sopprimerlo poi con un decreto di popolo unico nella storia, doveva durare; la rivoluzione ispirata da Satana come idea si era politicamente esplicata nella più ignobile e ladra delle anarchie. Così almeno dicevano i diarii cattolici di allora. Ma coll'istinto del popolo, che aveva veduto la rivoluzione riassunta nella testa di Mazzini e nel cuore di Garibaldi, il papato concentrava i propri attacchi nelle loro due figure, mentre tutti i suoi predicatori tuonavano dal pulpito e il Padre Bresciani, estremo dei gesuiti letterati, preparava nell'ombra le serie dei propri libelli romantici, destinati all'infamia di una celebrità pari alla ribalderia delle intenzioni e alla goffaggine dell'arte.
La reazione europea secondava la reazione papale fra la guerra fratricida dei rivoluzionari, che rendeva quasi credibili se non accette le violente affermazioni dell'autorità regia e papale.
Una corrente di odio alimentata dagl'interessi lesi durante la rivoluzione, e rinvigorita dalla nuova persecuzione, sollevava le masse inconscie contro la borghesia liberale; l'aristocrazia minacciata dai principii più che dalle leggi rivoluzionarie s'appoggiava alla plebe, e il clero proteggendo i privilegi dell'una e l'ozio dell'altra, solleticava tutte le passioni per servirsene contro l'entusiasmo generoso, che la tragedia della sconfitta sembrava aver accresciuto nella miglior parte del popolo.
Ma troppo logico e spietato per perdonare nemmeno sè stesso, il clero aveva fatto fucilare a Bologna Ugo Bassi, usando colla solita ipocrisia di regno una pattuglia di tedeschi.
Ugo Bassi, debole e nervosa anima di poeta, aveva predicato prima della rivoluzione e si era quindi battuto eroicamente in molte delle sue battaglie, ma frate e suddito pontificio doveva essere doppiamente inviolabile pei tedeschi alleati del papa. Nullameno, lo si volle da loro fucilato.
Era dunque una rappresaglia contro la rivoluzione già morta, una nuova fase di guerra a esterminio.
Ma poichè il numero di un popolo è sempre superiore a ogni smania omicida di tirannia, e nella presente civiltà non è nemmeno più permessa la decimazione di un villaggio, la persecuzione si accaniva contro i capi più illustri per grado o per ingegno, comprando contro di essi accuse di tradimento verso la rivoluzione, e cercando contemporaneamente di coglierli prigioni. Senonchè la maggior parte di essi avevano esulato o esulavano protetti dal popolo, che diffidente degli stessi governi cui sosteneva, simpatizzava con loro banditi e proscritti. Questo sentimento ostile del popolo alla legge, e che oggi dopo tanta libertà di costumi e di ordini non accenna a scemare, basta di per sè a qualificare i governi che lo hanno prodotto nella sua coscienza.
L'odio più vivo del papato era naturalmente a Garibaldi, maggiore di Mazzini nella coscienza popolare dopo il terribile dramma della ritirata da Roma. Vinto ed ucciso, la riprovazione religiosa, che colpiva la repubblica romana nella coscienza dei più lo avrebbe pareggiato a tutti gli eroi di quell'assedio; non vinto e vivo e in salvo grandeggiava sul disastro di Roma e pareva promettere al mondo una rivincita. Nessun delitto era quindi peggiore dell'averlo salvato. Garibaldi era la negazione di Roma papale.
Colpirlo nell'idea che incarnava, mostrandosi onniveggente ed implacabile contro coloro che l'avevano in lui aiutata, doveva essere necessariamente il programma di Roma. Gli uomini d'arme che avevano accompagnato Garibaldi dall'America, i politicanti che lo seguivano ora nell'esilio, non erano per lei colpevoli che a mezzo, giacchè negando tutte le religioni, la loro negazione di Roma perdeva ogni valore nella falsità del loro ateismo. Forse, anzi senza forse, Roma guadagnava alla loro guerra.
I nemici veri, quelli che occorreva ad ogni modo distruggere, erano i nuovi cattolici o i vecchi cristiani che dichiarando incompatibile colla religione di Cristo l'attuale costituzione pontificia, intendevano a rimutarla nella teorica e nella pratica: Roma papale non poteva perire che per opera loro.
La fucilazione di Ugo Bassi era quindi stata una dichiarazione di guerra.
Ma Don Giovanni aveva nuociuto al Papa bene altrimenti del barnabita.
Bisognava quindi arrestarlo e condannarlo. Difficoltà non se ne sarebbero incontrate. Il governo del Granduca, che aveva consegnato Renzi e cercato di consegnare Gavazzi al principio della rivoluzione, questa prostrata, e sostenuto dagli Austriaci, acconsentirebbe di buon grado ad abbandonare in Don Giovanni un suddito altrettanto nocivo nel passato che pericoloso per l'avvenire. Lo stesso abito sacerdotale della vittima avrebbe reso più facile il sacrificio. Pio IX avrebbe potuto come Papa chiamarlo a Roma e trattenervelo come Re. Nessuno avrebbe protestato.
Ma anzitutto premeva impedirgli ogni esercizio del culto. Il popolo, che lo sapeva salvatore di Garibaldi, doveva riconoscerlo quanto prima per uno scomunicato da Roma sotto pena di credere che Don Giovanni avesse fatto bene a salvare Garibaldi e che questi avesse ragione togliendo al Pontefice ogni diritto politico. Nulla è più sicuro ed inflessibile del buon senso popolare. Se il Papa non condannava coloro che avevano aiutato Garibaldi a cacciarlo da Roma e a dichiararlo decaduto dal trono, abdicava alla propria sovranità: se un semplice prete poteva contraddirla, tenendo per la rivoluzione contro il Papa senza venir meno ai propri principii o alterare il proprio carattere, non era vero che la rivoluzione, opera del diavolo, fosse nata e vissuta nell'errore.
Il clero lo aveva troppo affermato per riparare adesso dietro una distinzione scolastica o una riflessione politica. L'anima popolare violentata da troppi dubbi esigeva una soluzione netta; forse ai più era indifferente che Don Giovanni rimanesse libero o finisse come Ugo Bassi, ma qualunque incertezza da parte del Pontefice, allora sostenuto da tutte le nazioni europee, sarebbe sembrata una confessione di torto.
Le fucilazioni di Ugo Bassi e di Ciceruacchio eseguite dai tedeschi potevano ipocritamente spiegarsi come ultimi fatti di guerra dolorosi, ma impossibili a impedirsi dal Pontefice nel trambusto di un ritorno angustiato da troppe occupazioni straniere. Se la sua regia autorità ne restava compromessa, il suo carattere di alleato all'Austria attenuava l'impressione di un'ingiuria solamente formale.
Con Don Giovanni non era così.
Egli non aveva predicato, non prese le armi, giacchè l'impresa delle Balze era passata inosservata, non capitanato insurrezioni di piazza, non scritto, non affermato eresie. La sua condotta era esemplare, la sua opera patriottica da tutti conosciuta ed apprezzata. Non un grido era sfuggito alla sua coscienza di cattolico contro il Pontefice come capo supremo della Chiesa, ma non una preghiera era salita dalle sue labbra per il Papa re di Roma. Non si ostentava, non si nascondeva. Tutto il suo passato parlava per lui, i suoi sentimenti rivelavano le sue idee, le sue parole erano calme come la sua coscienza, limpide come la sua vita.
Appena salvato Garibaldi ne aveva ringraziato Dio con una Messa: la sua benedizione di quel giorno ai pochi popolani che vi assistevano, aveva raggiunto il grande fuggiasco forse in atto di salpare da Talamone.
Che i venti e le acque ti sieno propizie!
Da Roma, da tutte le altre chiese invece salivano invocazioni a Dio per il trionfo del Pontefice e l'esterminio dei suoi nemici.
Il popolo era perplesso.
Don Giovanni aveva conciliato in sè medesimo con un processo lento ed inconscio quanto si contraddiceva tempestando nell'anima del popolo. La formula cercata indarno dai grandi filosofi cristiani per accordare la libertà del pensiero coll'assolutismo della religione, e la tradizione di Roma colla universalità della storia, egli l'aveva trovata nella semplicità della propria coscienza tutta piena di una idea morale, che riuniva dominandole l'idea metafisica e l'idea storica. Senza saperlo, Don Giovanni riduceva tutta la religione a una moralità illuminata dalla rivelazione e sorvegliata da Dio; le forme esistenti della religione non lo disturbavano e non lo esaltavano; potevano durare o cessare, nate pel costume e nel costume viventi: Dio e la religione non erano lì, ma potevano anche esservi, perchè nessuna forma era loro necessaria o nociva.
Il popolo, che voleva credere sicuro e sentendo le forme della propria religione ormai vuote si ricusava nullameno a mutarle, era tutto riassunto in questa coscienza di prete, che accordava la fede più salda in Dio alla indifferenza più abitudinaria e indulgente del culto, l'amore di ogni tradizione religiosa colla passione di tutti i nuovi ideali politici.
Salvando Garibaldi legittimo difensore della repubblica romana contro tutta l'Europa, non aveva rinunciato a salvare Pio IX, se la rivoluzione invece di sopprimere in lui il re avesse voluto degradare il pontefice.
E il popolo, che sentiva confusamente tutto questo, guardava a Don Giovanni aspettando in lui la soluzione del proprio problema.
Che cosa direbbe Roma?
Roma tacque.
Certo in Vaticano il problema fu lungamente discusso; i più feroci ultramontani avrebbero voluto l'imprigionamento e la condanna di Don Giovanni, ma la maggioranza dei consiglieri più profonda e più abile vi si ricusò.
Don Giovanni non si poteva accusare. Nella sua come nella coscienza del popolo l'aver salvato Garibaldi implicava negazione del potere temporale, e nullameno era impossibile formulare l'accusa sopra questo fatto, che morale e religione assolvevano. Garibaldi vinto diventava sacro come nemico, e quel prete abbastanza grande di cuore per capirlo avrebbe avuto Cristo a difenderlo contro tutti coloro che volessero rimproverarglielo. Roma, che aveva fatto decretare nel Concilio di Trento l'anatema a tutti coloro che non credessero alla necessità del potere temporale per la Chiesa, si trovava nella impossibilità di applicare la condanna: la contraddizione fra l'idea cristiana e lo spirito del papato l'impediva. La morte di Garibaldi, legittima nel concetto politico di Roma, diventava colpevole nella morale del Vangelo, secondo la quale il nemico deve essere più diletto del fratello; assurda, quando impedita dall'opera di un qualunque salvatore, si volesse astrattamente ottenerla nella condanna di questo.
Si poteva chiedere a Don Giovanni, se proteggendo la fuga di Garibaldi distruggitore del papato avesse inteso di approvarlo, ma Don Giovanni avrebbe risposto di sì, e allora il problema si complicava. O Roma gli permetteva questo dissenso, e Garibaldi aveva ragione; o glielo negava e la morte invocata contro di lui, inflitta a Ciceruacchio e a Ugo Bassi, doveva colpire Don Giovanni. Se il potere temporale è necessario alla Chiesa, questa deve conservarlo a qualunque costo, perchè nulla per una religione vale quanto sè medesima.
Ma il supplizio di un prete, docile a tutti gl'insegnamenti cristiani e mondo d'eresie, diventava pericoloso. Tutto il popolo, che non aveva potuto seguire i filosofi riformatori del cattolicismo, sarebbe stato con lui; bisognava anatemizzare la maggior parte dei cattolici e tener duro e ricusar loro l'ingresso nelle chiese, dannarli nell'agonia se non mutavano opinione. Era impossibile. Il potere temporale, forma storica del cristianesimo, non poteva prevalere sui dogmi essenziali; nessuna coscienza cristiana accetterebbe di non essere più tale solo per non credere alla sovranità politica del Pontefice. Già Roma aveva più volte tentato simili esperimenti e v'era sempre fallita. A ogni privilegio mondano annullato dai governi, aveva protestato scomunicandoli, ma il privilegio non era risorto e Roma aveva ritirato le scomuniche. Così era accaduto per le immunità, per le investiture, per le decime e ultimamente nell'impero napoleonico per la vendita dei beni ecclesiastici; i compratori erano stati maledetti, ma il congresso di Vienna aveva mantenuto le vendite e Roma aveva cassato le maledizioni.
L'idea cristiana era più forte del papato.
Adesso toccava al potere temporale. Uno dei due termini del dilemma presso a risolversi doveva rompersi: i vangeli sarebbero stati più forti delle costituzioni ecclesiastiche. Roma lo sentì, e non osò affrontare Don Giovanni e non potè circuirlo. L'ignoranza del prete montanaro giovò più dell'eloquenza del Lammenais e della filosofia del Gioberti.
Poichè le religioni sono un pensiero del cuore, uomini semplici le fondarono e le salvarono nelle mutazioni della storia, mentre i grandi filosofi non riuscirono mai nè a stabilirle nè ad abbatterle. Il popolo solo, che le produce in sè stesso, è infallibile decidendo sovra qualche loro punto, ma il popolo aveva da un pezzo abbandonato il papa nella sua querela di re. La stessa fuga di Pio IX da Roma al primo pericolo di guerra era stata una abdicazione, giacchè i re non possono fuggire se prima i sudditi non li abbiano disertati. Egli medesimo non credeva quindi al potere temporale appellandosi agli stranieri piuttosto che al popolo e violando un'altra volta la storia italiana.
Il papa e il re di Roma non erano la stessa persona: una delle due solamente rappresentava Cristo. I re non rappresentano la nazione che quando essa lo consenta loro.
La coscienza popolare era così sicura in questa idea, per quanto si venisse talvolta contraddicendo nell'esprimerla, che processare Don Giovanni sarebbe stato uno snebbiargliela, provocando in tutti gli spiriti una vera rivoluzione. Roma si sentì vinta.
Quest'immenso fatto, alla cui preparazione si erano consumati tanti secoli, si compieva per opera di un prete semplice ed ignaro. Era il grano di sabbia della leggenda biblica, pel quale ribaltava il terribile carro dell'invasore che aveva superato tutti i monti, guadato tutti i fiumi, corse tutte le pianure, rovesciate le porte di tutte le città, sfondate le postierle di tutte le fortezze, prostrate le masse di tutti gli eserciti. Da Arnaldo da Brescia a Cola di Rienzi, da Marsiglio da Padova a Lorenzo Valla, da Stefano Porcari a Carnesecchi, da Macchiavelli a Giordano Bruno, da tutti gl'italiani che avevano combattuto il papato senza pretendere a una vera riforma religiosa, a tutti gli stranieri che l'avevano prodotta per sottrarvisi, le grandi anime si erano sempre stremate in questa lotta senza conseguire la vittoria nemmeno nel trionfo della ribellione. Il papato restava sempre più alto e più vasto dell'opera de' suoi nemici. Come l'impero romano, che i barbari non sarebbero mai riusciti ad abbattere e che il cristianesimo disciolse, perchè solo un'idea può sostituire un'idea, il papato aveva resistito a tutti gli assalti esteriori e a tutti gli schianti interni; la sua unità gerarchica sostenuta dalla unità ideale del cattolicismo vi pareva fusa; nessuna guerra lo aveva prostrato, nessun re o popolo aveva potuto soverchiarlo. Imperatori magnanimi e feroci, repubbliche inflessibili ed inespugnabili, corruzioni di clero e depravazioni di costumi, effervescenze ideali e ricomposizioni storiche, splendidi eroismi d'eresie e irradiazioni universali della scienza, invettive politiche e assedî filosofici, divisioni di genti o fusioni di razze, nulla aveva potuto prevalere contro un regno piccolo come un feudo, che Costantino era accusato di aver concesso e Carlomagno confermato, e che i sudditi stessi avevano mille volte sommosso uccidendo i papi. Pareva un decreto di Dio e non era che una legge della storia. Il pontificato sorreggeva il papato; il primo forte come il cattolicismo, che solo una religione più ideale potrà abbattere, giacchè nella storia il vincitore deve essere sempre maggiore del vinto; il secondo forte della sua somiglianza col primo, che al mondo pareva una identità.
Solo uno schietto sentimento cristiano scevro di ogni secondo fine e inconscio come tutti i sentimenti, che hanno formato e formeranno sempre la storia, poteva operare nel cattolicismo questa grande rivoluzione, denunciando la falsità dell'equazione fra pontificato e papato. Filosofia, scienza, politica, arte, nessuna di queste immense forze della civiltà, essenzialmente diverse dalla religione che sola può correggere sè stessa, avrebbe mai ottenuto simile risultato.
La morte del papato non poteva avvenire che nella forma di un suicidio, dal quale il pontificato si levasse più sublime sul cattolicismo.
Questo accadde per opera di Don Giovanni Verità.
Inconsapevole della grandezza che un movimento secolare in lui accentrava, dopo l'ultima fuga con Garibaldi era ritornato alle abitudini di prima, cacciatore e contadino. La gente lo guardava con occhiate di stupefazione senza che egli se ne accorgesse. Non immaginando nemmeno i pericoli che lo minacciavano, non pensò mai nè a fuggire nè a schermirsi con qualcuna delle sue più illustri amicizie. Allora venne crescendo uno strano confuso affetto per questo prete, che gli altri preti anche disapprovandolo riverivano e che il popolo delle campagne sentiva pari a sè nella semplicità della fede, quello delle città superiore a sè nell'entusiasmo generoso della rivoluzione. I bambini lo amavano per gli uccelli che gli vedevano tutte le mattine sospendere nelle gabbie ai chiodi della piccola e grottesca facciata della sua casa; le donne per la sua forte ingenuità che sentiva il loro sesso senza turbamento, gli uomini per la prodigalità, colla quale offriva sempre quanto aveva, compresa la vita. Egli non si vantava nemmeno nel più fugace degli atteggiamenti, non raccontava; avrebbe potuto chiedere tutto a tutti, tanta era la sua influenza, e invece sembrava sempre aspettare che gli fosse domandato qualche cosa.
Dal cinquanta al cinquantanove le congiure seguitarono nelle Romagne sempre occupate dai tedeschi per conto del papa, ma la persecuzione cessò di essere feroce. Pena maggiore divennero la prigionia e l'esilio. La prima quasi sempre evitabile col secondo. L'oppressione del governo era tutta morale, e forse per questo più dolorosa. Pio IX, temperamento femmineo troppo diverso dal fiero ingegno e dal carattere superbo di Gregorio XVI, non infellonì che qualche rara volta per suggestione di consiglieri.
Intanto Don Giovanni seguitò a prestare la propria opera a tutti i proscritti traducendoli in Toscana, dove il governo granducale, ignobile ma corrivo, li lasciava vivere o li espelleva senz'ira. E furono anni febbrili di aspettazione. Il Piemonte messosi a capo del movimento italiano, quantunque costretto troppo spesso a contraddirlo perseguitando e calunniando i più illustri rivoluzionari, infiammava tutte quelle speranze che aveva tradito nel quarant'otto; mentre il conte di Cavour succeduto al Gioberti, di lui meno vasto e profondo, ma più pratico di negozii politici e più pronto all'azione molteplice di un momento, nel quale si dovevano concordare parlamenti, diplomazia e insurrezioni, persuadeva al mondo che l'Italia aveva finalmente un uomo di Stato. Torino era diventata il rifugio dei maggiori emigrati italiani.
La rivoluzione scoppiò colla guerra. Cavour destreggiandosi abilmente coi bisogni dinastici di Napoleone III, che doveva stordire di vittorie la Francia per toglierle di pensare alle origini infami e alla vita anche più bassa del secondo impero, lo trasse in Lombardia contro l'Austria. La Francia generosa ed eroica ripetè dopo settant'anni le glorie del novantasei contro lo stesso nemico; ma anche questa volta parve che i Bonaparte non potessero compire l'Italia. E fu bene, giacchè riconquistata e rimessa a nuovo dall'epica cortesia di un popolo straniero per quanto fratello, non avrebbe potuto riprendere la coscienza di sè medesima; mentre abbandonata a mezzo il cammino, dopo essersi con puerile sgomento lagnata dell'abbandono, si rivolse a Garibaldi guerreggiante ai piedi delle Alpi, e Garibaldi corse a Genova, ne salpò, discese in Sicilia, rivalicò lo stretto, traversò la Calabria verso Napoli sollevando popoli e sgominando eserciti, cinto da pochi soldati, raggiante di gloria, sereno come un arcangelo cristiano, terribile come un eroe di Omero.
Ma Roma e Venezia, la più grande città e la più marinara repubblica del mondo, mancarono ancora all'Italia.
La guerra sostò.
Don Giovanni cappellano negli eserciti del re d'Italia ritornò quindi ai propri monti, affermando nell'orgoglio trionfante della sua vecchia fede italiana, che prima di morire avrebbe veduta Roma capitale d'Italia. I nuovi moderati, fanatici ammiratori di Cavour e di Vittorio Emanuele, ne sorrisero, giacchè il bigottismo appiattato in fondo ai loro cuori li faceva perfino dubitare del senno di Cavour, il quale non osando assalire Roma la faceva nullameno dichiarare dal Parlamento, accolto in Torino, capitale d'Italia.
Chiusa l'epoca delle congiure e posate le armi, Don Giovanni non lasciò più l'aria serena dei proprii monti che per recarsi a Torino, dietro invito del Ricasoli, ad impedire che il dissidio fra Garibaldi e Cavour degenerasse in guerra aperta. La situazione, già molto grave di per sè, poteva risolversi funestamente. Garibaldi esasperato dalla cessione della propria patria alla Francia, punzecchiato da tutte le invidie dei giornali monarchici inveleniti di una gloria che stentavano a comprendere, offeso quotidianamente dalle fatali viltà di una politica parlamentare, che mirava a sminuire la grandezza della sua opera per ingrandirne la monarchia di Savoia così stretta fra l'aiuto dei rivoluzionari e dei francesi da soffocarvi quasi, ebbe uno scoppio formidabile d'indignazione. I suoi garibaldini, che avevano operato per la patria più di quanto la monarchia di Savoia avesse fatto per sè medesima accettando l'Italia dalla rivoluzione, erano dal nuovo governo peggio che obliati, percossi. Allora egli che, ceduta Napoli a Vittorio Emanuele, era ritornato a Caprera non trasportando sulla piccola barca, frutto di tanta conquista, che un sacco di fagiuoli, rientrò in Parlamento per ripetere con accento più formidabile di Napoleone I il 18 brumaio, a Cavour fatto sicuro dalla sgomenta inesperienza del Parlamento: Che cosa avete fatto delle mie legioni?!
Quel giorno la nuova monarchia tremò: il lampo dello sguardo di Garibaldi coperse l'aurea luce della recente corona posta dalla servile compiacenza dei popoli ancora immaturi alla libertà sulla fronte di Vittorio Emanuele. La coscienza italiana sentì uno strappo improvviso e si trovò bagnata di sangue prima ancora di aver gettato un urlo per rispondere al grido di Garibaldi.
Allora Cavour, che nel pericolo acuiva la naturale astuzia dell'ingegno, si ricordò di Don Giovanni Verità e a mezzo di Ricasoli potè condurlo a Torino per pacificare il Generale.
Don Giovanni andò, ebbe con Cavour un colloquio, nel quale la rude franchezza del montanaro umiliò più di una volta la subdola abilità del diplomatico, ma comprese tosto che la fortuna d'Italia esigeva da Garibaldi, come supremo sacrificio, l'olocausto de' suoi soldati ai codardi rancori, alle insaziate cupidigie delle genti nuove necessarie a sorreggere il governo in quell'ora, e ricusando con nobile orgoglio le offerte del ministro promise non già l'opera propria, ma in nome stesso di Garibaldi, che il Generale si sarebbe un'altra volta sacrificato sull'altare della patria. Così fu, Don Giovanni raccontò a Garibaldi il suo abboccamento con Cavour; forse sospirarono assieme sulla viltà di quell'ora, e l'eroe abbandonò al re la sorte dei soldati che gli avevano conquistato più che la metà del regno.
Ma Don Giovanni, incapace per indole e per studi di comprendere i viluppi del problema nel quale era stato chiamato, conservò sempre del Cavour una spiacevole impressione. La viltà parlamentare e l'egoismo monarchico gli si erano soli mostrati nel grande statista, che pure aveva pianto di rabbia all'annuncio del trattato di Villafranca.
Quindi nel 1866 l'Italia monarchica fu vinta miseramente sugli stessi piani, che diciotto anni prima avevano veduto la sconfitta del Piemonte. La tradizione di Emanuele Filiberto era cessata per sempre nella casa di Savoia, ma l'astro aspettato vanitosamente da Carlo Alberto sul suo ultimo e fantastico scudo di re medioevale brillava sulle alture del Tirolo espugnate da Garibaldi.
Dio e l'Italia erano con lui, vecchio che guidava in carrozza i volontari della nuova generazione.
La monarchia battuta a Custoza e a Lissa impose tremando al solo vincitore d'Italia, che retrocedesse; e il vincitore superò le viltà dell'ordine colla sublime concisione della risposta: Obbedisco!
Quando Don Giovanni potè leggerla nei giornali pianse.
Garibaldi, come Cesare, aveva vinto sè stesso.
Ma fedele alla propria missione, Garibaldi ritentava nell'autunno susseguente l'impresa di Aspromonte, a ciò incuorato e impedito secretamente dal Rattazzi, che nell'audace profondità di una politica allora maledetta, e oggi ancora incompresa superava continuandole le più difficili e gloriose combinazioni del Cavour. Aspromonte era stata l'ode, Mentana fu il dramma. Papato ed impero francese vi perirono, mentre la monarchia italiana ne uscì moralmente diminuita. Garibaldi sconfitto per l'ultima volta vi si trasfigurò in eroe mondiale eccedendo nella sua lotta col papato le proporzioni di una battaglia italiana. Napoleone ripetè imperatore l'errore, al quale aveva troppo cooperato come membro della repubblica, rivelando nell'agonia dell'impero il secreto delle sue origini ed affrettandone la catastrofe fra l'odio della coscienza francese e il disprezzo della coscienza europea; il papato assalito ancora una volta da Garibaldi non osò chiamare il proprio popolo alle armi e invocò dalla Francia un aiuto ai mercenari, confessando così che il suo regno era una soperchieria senza diritto e senza avvenire. Garibaldi ritirandosi dai campi sanguinosi di Mentana traversò l'Italia di Vittorio Emanuele silenziosa ma fremente di sdegno contro il governo. Rattazzi, che con audacia di genio aveva voluto un attacco contro Roma dalla rivoluzione, risoluto ad impedirne il trionfo finale che sarebbe stato la morte della monarchia, calcolando che l'impero francese con questa suprema difesa del papato libererebbe per sempre l'Italia dal debito del 59, cadde dal ministero, percosso da tutte le ire, magnanimamente silenzioso e superbo.
Quella fu la più grande giornata del Parlamento italiano.
Don Giovanni, che nella sua fede in Garibaldi aveva profetato fra gli amici la presa di Roma colla fine del potere temporale, ne rimase sconcertato. Egli non capiva, e non capì forse nemmeno più tardi, che se Garibaldi avesse preso Roma, l'Italia avrebbe dovuto proclamare subito la repubblica, essendovi tuttavia immatura per difetto di scienza e di coscienza.
Garibaldi a Mentana aveva tagliato il nodo del papato e dell'impero, lasciando alla monarchia costituzionale d'Italia, larva incerta di repubblica, di strapparne i capi tre anni dopo.
Roma e Parigi si liberarono quasi contemporaneamente del papa e dell'imperatore.
Fu in una notte tiepida e serena che a Modigliano giunse il telegramma della presa di Roma. Da qualche giorno la campagna era cominciata, e quantunque il nemico fosse più che spregevole, il popolo non era senza inquietudine. La tradizione dei disastri monarchici, quando la monarchia si era battuta colle sole sue forze, pesava su questa spedizione, che non meritava nemmeno il nome di guerra. Si raccontavano aneddoti di La Charette generale dei zuavi, che fedele alla memoria del proprio nome infestava la campagna romana deludendo e superando i bersaglieri di Lamarmora, e allora l'anima del popolo si voltava a Garibaldi. Ma questi, che sapeva di aver ucciso il papato a Mentana, ne abbandonava le spoglie alla monarchia di Savoia incaricata dalla storia di saldare l'una all'altra tutte le membra d'Italia. Un'altra più grande idea occupava il suo spirito. Francia, Italia e Spagna, tutto il vecchio mondo latino doveva riunirsi per rattenere entro i limiti della nazionalità l'espansione del mondo tedesco, contrabilanciando in Europa il dispotismo ancora chissà per quanti anni necessario al mondo russo per sorgere alla propria unità. Francia e Italia, congiunte a Solferino, divise a Mentana, dovevano provare a sè medesime che le loro effimere differenze dipendevano dagli inevitabili egoismi dei loro governi, non già dal loro storico ideale. Garibaldi, che aveva perduto per opera della Francia contro il papato, vinse per lei contro la Germania a Digione; mentre l'Italia dichiarando al mondo la fine del papato salutava con Garibaldi una nuova Francia fra le rovine dell'impero napoleonico e il trionfo momentaneo dell'impero tedesco, fondatrice della repubblica moderna.
Solferino aveva congiunto le due nazioni, Digione fuse i due popoli.
Era la notte del 20 settembre.
Siccome le notizie arrivavano tardi e contradditorie, tutto il giorno si era discusso vivamente; si bestemmiava, si scherniva l'esercito monarchico, che per colpa del suo vizioso organismo a cento passi dal confine era già rimasto senza viveri. Cadorna il generale era già condannato, Bixio furioso e furiante bruciava gli ultimi razzi garibaldini cercando di affrontarsi con La Charette e minacciando di bombardare il Vaticano. Il popolo, che sollevatosi unanime aveva spinto il governo su Roma, si agitava ancora nel medesimo oscuro senso della propria epopea moribonda. L'ultima onda del canto s'innalzava per frangersi in un supremo scroscio di battaglia, mentre la monarchia, chiusa nella secolare prudenza che le aveva permesso di profittare delle virtù e dei vizii di tutta l'Italia, sembrava restringersi nella irresponsabilità del proprio alto ufficio, lasciando ai ministri la cura dell'impresa. E fu errore. Vittorio Emanuele cavalcante sotto le mura di Roma e penetrante primo dalla breccia di porta Pia avrebbe giovato nell'anima del popolo alla propria dinastia più che la stessa conquista di Roma.
Così la monarchia avrebbe sciolto il problema del papato; invece il millenario problema si disciolse in essa. Il papa morente e sicuro di risorgere maggiore come pontefice potè guardare ironicamente il re, che non avrebbe profittato a lungo della sua morte e non sarebbe certo risorto come presidente di repubblica. Infatti la morte del papato se produsse per la conquista di Roma un grande vantaggio alla dinastia, rimase e rimarrà gloria della sola democrazia; la monarchia, come principio, invece di avvantaggiarsene ne ammalò per non guarirne forse mai più, giacchè oggi stesso il Pontefice sovrasta a tutti i troni d'Europa e colla sicurezza di chi non ha più niente da perdere offre loro, minacciando, come ultima difesa le proprie armi spirituali.
Era la notte del 20 settembre; l'ultima gente stava per rincasare.
Improvvisamente giunse la notizia della resa di Roma. Fu uno scoppio, una vampa. Tutti corsero a casa per comunicare la buona novella; usci e finestre si aprivano, i dormienti destati di soprassalto si affacciavano alle vie, bianchi nelle camicie come fantasmi: si scambiavano parole, erompevano grida.
—Le campane, le campane! urlò una voce; e tosto un gruppo di giovani si divise per arrivare contemporaneamente alle tre o quattro chiese della cittaduzza. Molti già usciti formavano capannelli sulle porte.
—Roma è presa!
—Ah!
—Bene…
—Viva Roma capitale d'Italia!
—Viva!
L'applauso scoppiava da tutti i petti, mentre la gente si stringeva la mano come rammemorando i giorni angosciosi delle congiure quando tutto era pericolo, e promettendosi per l'avvenire una vita più alta e felice. A un tratto da vari punti squillarono le campane, da una finestra spuntò una bandiera: la notte era serena, la luna splendeva, un vento tiepido alitava.
Quella bandiera infiammò le fantasie, che le campane scrollavano coll'impeto disordinato dei loro rintocchi.
Don Giovanni, che rincasato da poco aveva il sonno leggiero dei cacciatori e dei vecchi, ne fu desto. Discese dal letto, udì rumore alla propria porta, si gettò addosso i primi abiti che potè afferrare e corse ad aprire.
—Che c'è? esclamò spalancando l'uscio.
—Don Giovanni! Roma presa…
—Ah!
—Roma presa! urlarono quei giovani.
—Ah…
E il vecchio prete non potè rispondere altro. Le campane suonavano a distesa come impazzite dalla gioia, tutte le finestre si schiudevano, la gente si affacciava interrogando, ed era sempre quella risposta che saliva di tono mutando voce ed accento, ripercuotendosi su tutte le coscienze, cangiandosi in grido, scoppiando in urrah, affermandosi violentemente quasi fosse troppo grande per essere creduta, e tutti si guardavano in faccia commossi da una gioia che non trovava parole, perchè non abbastanza limpida negli spiriti. Qualche grande cosa era crollata, qualche grande cosa incominciava. Le donne sbigottite dal rumore si mostravano appena alle finestre, più bianche nella maggiore ampiezza dei corsetti, e ascoltavano non sapendo quasi nulla, indifferenti alla enormità del caso, ma guadagnate a mano a mano dalla emozione generale, impallidendo e sorridendo. Qualche fanciullo cacciava una nota acuta nel frastuono crescente della strada, voltandosi verso le campane che seguitavano a rispondersi di campanile in campanile, mentre le chiese restavano tristamente mute al di sotto e il soffio blando del vento, lambendo le finestre aperte e gremite, sembrava lenire la violenta caldezza di quella emozione, che nessuno poteva dominare e alla quale nessuno il giorno dopo avrebbe saputo trovare una spiegazione.
Don Giovanni aveva rinchiuso quasi automaticamente l'uscio ed era caduto ginocchioni colle mani giunte ringraziando.
—Roma, Roma!…
La sua preghiera di quel momento era il riassunto di tutta la sua vita.
V.
Dopo quella notte, nella quale si era avverato l'ideale di tutta la sua vita, D. Giovanni si chiuse nella calma silenziosa degli uomini forti che si sentono finiti. Quanto accadeva intorno a lui nella nuova Italia non lo interessava più. L'attitudine incerta della monarchia combattuta da troppe correnti interne ed esterne, l'agonia del vecchio partito repubblicano, che nella morte di Mazzini perdeva l'ultima ragione col solo uomo dal quale ripeteva la vita, l'infanzia oscura e plebeamente bassa del socialismo, al quale nessun uomo di vero ingegno aveva ancora aderito, e che gittava ogni tanto per le piazze grida incomposte e bestemmie pazze, gli erano peggio che indifferenti, sconosciute. Il suo doppio sogno era stato la risurrezione dell'Italia e la morte del papato politico; al di là di esso per lui doveva cominciare il sonno eterno.
La generazione, colla quale aveva sofferto combattendo, oramai dispersa nelle tombe, non era più rappresentata nella vita che da pochi sbandati, solitari nella politica del momento, costretti ad occuparsi di quesiti amministrativi o contristati dagl'insulti della nuova generazione sopraggiunta come un'orda di saccomanni sui campi di battaglia.
Malgrado le seduzioni dei repubblicani, cui la defezione dei migliori personaggi assottigliando ogni giorno la vita consigliava di presentare al popolo in ogni circostanza le poche glorie rimaste, non volle mai uscire dalla propria oscurità. Cacciatore negli ultimi autunni della vecchiezza come nei primi della gioventù, parve anzi sfuggire con senso pauroso di modestia alla celebrità che lo veniva cercando pei colli di Modigliana.
Poi Garibaldi morì.
Questa volta Don Giovanni non pianse, perchè se lo aspettava.
La morte, non mai temuta, gli sembrava ora la più ineffabile delle grazie serbate all'uomo da Dio; d'altronde, anche per lui la vita fisica dell'individuo, quando la sua missione storica è compita, perdeva ogni senso e valore.
Solo la raccomandazione suprema dell'eroe, che un minuto prima di spirare confidava all'amore della famiglia le due capinere da lui educate nei dolorosi ozii della lunga malattia e che sentendolo morire gli mandavano dalla finestra, già abbandonata dal sole, il più dolce saluto della vita, gli trasse sugl'occhi una lagrima.
Tutta la grande anima di Garibaldi si rivelava in quell'estremo pensiero.
Solo gl'invitti possono essere così sublimemente delicati!
Quando lo invitarono al comizio di Faenza per la morte del Generale accettò e discese.
Lo vidi allora per la prima ed ultima volta.
Egli non parlò, non si accorse quasi della generosa emozione destata dalla sua presenza; morto Garibaldi si sentiva già moribondo e camminava a testa bassa, quasi contando i passi che lo avvicinavano al sepolcro. Ritornò frettolosamente ai proprii colli; di lui si seppe solo qualche anno dopo che era morente.
Ma la sua morte fu come la sua vita.
Il clero che lo aveva sempre dispettato, vendicando sopra di lui la viltà di non avere osato condannarlo salvatore di Garibaldi, stimò di poterlo sopraffare nell'agonia; e siccome Don Giovanni era sempre rimasto prete, molti fra i suoi stessi amici credettero che avrebbe abiurato le opinioni di tutta la propria vita per morire sicuramente nella religione cattolica. Così poco era stato compreso il suo carattere, e per gl'increduli romanismo e cattolicismo sono ancora la stessa cosa!
Il vescovado fu sossopra. Tutti i giornali d'Italia recavano i bollettini della salute dell'infermo, il paese era agitato.
Don Giovanni, calmo anche negli ultimi istanti, chiese i sacramenti e si confessò; ma quando il confessore per concedergli l'assoluzione gli domandò un'abiura di ciò, ch'egli chiamava le sue eresie e che, lui sano, la Chiesa non aveva mai condannato interdicendogli l'esercizio sacerdotale, il suo volto s'illuminò d'un sorriso.
Forse, anzi senza forse, si aspettava a questo.
Ricusò, umile e fermo.
Gli amici repubblicani, che soppravennero, lo complimentarono colle solite frasi della incredulità sulla sua fermezza, e Don Giovanni sorrise ancora. Il suo spirito limpido coglieva meravigliosamente il doppio egoismo dei due partiti, che si disputavano la sua morte per farsene argomento di battaglia. Nullameno sereno ed austero non mise un lamento, non differenziò le due assistenze, che si contendevano il suo letto.
Senza dubbio vi furono incidenti dolorosamente comici fra gli addetti dei due partiti egualmente ammessi nella camera del moribondo, ma li ignoro, e coloro che vi assistettero non li confesseranno. Il vescovo rimase inflessibile e ricusò l'assoluzione; gli altri desideravano una morte da libero pensatore.
Prete e cattolico, Don Giovanni che voleva morire come aveva vissuto, sentendosi veramente vicino al gran passo, benchè avesse sempre taciuto operando in vita, comprese il dovere di parlare. La sua morte come la sua vita dovevano esprimere il medesimo principio: dettò questa dichiarazione.
Modigliana, addì 19 novembre 1885.
«Sono nato nella religione di Cristo e in essa desidero e intendo morire.
«Ho professato le sue massime, come quelle che furono fonte principale di tanta civiltà. Credo nella vera religione di Cristo, non in quella che è stata deturpata dal mondo e da' suoi ministri, che causa delle conseguenze derivate dalla loro ambizione, prepotenza e crudeltà, hanno fatto versare tanto sangue al mondo e specialmente alla patria nostra, e Dio nol voglia che per essi si sparga altro sangue e non ne venga l'estrema rovina all'Italia.
«Non sarebbe accaduto così, se i ministri della Chiesa e il loro capo avessero ricordato quei detti di Cristo:—Il mio regno non è di questa terra: date a Cesare ciò che è di Cesare.
«Non posso aggiungere altro perchè mi vengono meno le forze.
«DON GIOVANNI VERITÀ.
Era sfinito.
Allora accadde una gran cosa: il prete mandato dal vescovado per ottenere dal moribondo l'abiura, tocco di quella modesta e serena fermezza, diede senz'altro l'assoluzione. Don Giovanni si comunicò. La novella si sparse subito nel paese, cosicchè il confessore appena uscito dalla casa fu attorniato, complimentato. Il dramma era finito. Al vescovado invece scoppiavano molte collere, ma poichè non si era osato processare Don Giovanni all'indomani del salvamento di Garibaldi, e solo più tardi con meschini pretesti gli si era tolta la Messa, per ridargliela poco dopo senza alcun accenno alla grande opera della sua vita, anche il suo confessore non fu scomunicato. Qualche giorno dopo Don Giovanni moriva e il clero ricusava alla sua salma gli uffici pietosi della religione. Non si era osato nulla contro il vivo, si osava troppo contro il morto.
Naturalmente, il partito liberale s'impossessò del cadavere per farsene argomento di trionfo. Tutta Italia ne fu commossa, i funerali per concorso di gente e per sincerità di commozione riescirono quali nessuno, nemmeno fra i più vecchi, ne ricordava nelle Romagne; il popolo vi fu ammirabile, gli oratori, secondo il solito, rimasero troppo al di sotto dell'idea e del fatto che dovevano esprimere.
Quindi si fece silenzio.
I giornali non si occuparono più oltre dell'oscuro prete romagnuolo, che aveva avuto tanta parte nel risorgimento italiano: nessuna rivista, nessun libro, ch'io sappia, ha ancora studiato i problemi posti e risolti da Don Giovanni nella sua vita. La semplicità, che è l'ultima forma della verità, è anche troppo spesso l'ultima ad essere compresa.
Un amico, al quale l'ho richiesta, mi ha portato l'originale della dichiarazione di Don Giovanni. Molti spiriti forti di quella mezza coltura che fa disprezzare tutto permettendo di parlare su tutto, avranno sorriso leggendola; infatti la sua forma letteraria è meno che meschina, il suo contenuto filosofico piuttosto volgare. Io stesso al primo tempo non sono riuscito a difendermi da un sottile senso di scherno che si è poi mutato in ammirazione studiando e ricostruendo tutta l'eroica e semplice vita di Don Giovanni.
Queste pagine che, ammalato per causa sua, scrivo di lui, a letto, senza dormire e senza muovermi da una positura che mi toglie spesso di seguitare a scrivere, sono ben lungi dall'essere uno studio storico e psicologico; appena appena vi ho fissato le idee principali senza nemmeno coordinarle in un disegno, che riveli la loro natura intima e i loro più necessari rapporti. Divagazioni di malato, che cerca nell'attività del pensiero l'oblio di dolori fisici, avranno forse un giorno più alto valore biografico per chi voglia occuparsi dello scrittore che non siano oggi una biografia di Don Giovanni.
Divaghiamo, divaghiamo!
In quel dubbio supremo della sua dichiarazione «che il papa possa ancora riuscire fatale all'Italia insanguinandola in una guerra forse più civile che straniera» Don Giovanni ha egli inteso di alludere ai tentativi di conciliazione col Vaticano, che incominciati colla stessa rivoluzione l'hanno sempre accompagnata di tappa in tappa, insidiandone la sincerità dell'opera quando non riuscirono a infirmarne il movimento?
Per coloro, che conoscono tutta la sua vita, il dubbio non è nemmeno possibile, ma senza dubbio egli non ebbe un'idea molto chiara del terribile problema accennato dalle sue ultime parole.
La rivoluzione italiana, conseguenza della grande rivoluzione francese e sintomo di una maggior rivoluzione futura, ha avuto contro sè stessa il cattolicismo disciplinato e riassunto da Roma papale; il popolo che la seguì inconscio come sempre, era ed è ancora dominato nella coscienza da tutte le idee cattoliche, che non giunge e non giungerà per lungo tempo a sceverare dalle idee politiche del Vaticano. L'odio ai preti e il disprezzo della religione non sono ancora che molto superficiali: nel sentimento delle masse il matrimonio vero è quello ecclesiastico, unica religione il cattolicismo; si battezzano pressochè tutti i bambini, si affidano al clero per la prima educazione, s'iniziano in tutti i gradi della religione. Si diffida dei collegi laici, si amano tuttavia i conventi mutati in educandati; tutte le Madonne e i Santi miracolosi sono più che mai vivi nella illusione del popolo, un sottinteso scinde tutte le coscienze: si vuole la libertà della vita pubblica e si crede ancora nella servitù della vita spirituale. La scienza, incerta nei metodi, dubbia nei risultati, contradditoria nelle affermazioni, rimane in alto, retaggio e culto di pochi: la filosofia è quasi sconosciuta, la letteratura disertata dai campi dell'ideale per una irreflessiva passione scientifica non è più che pittura di superficie. La rivoluzione nata e vissuta d'istinto non si è ancora mutata in riflessione. La maggior parte di coloro che l'hanno sostenuta, morendo la sconfessano, onde i preti se ne vantano affermando che la sua verità non resiste in faccia alla morte.
Il sogno esposto da pochi, accarezzato da quasi tutti è di una conciliazione, che accordando la coscienza religiosa colla coscienza politica induca quella calma, che altri secoli hanno conosciuto.
L'ideale ultramondano, troppo spesso negato dalla rivoluzione, invincibile in fondo a tutte le coscienze offusca e sminuisce gl'ideali politici già intorbidati da interessi non sempre nè grandi nè puri: l'uomo non vuole e non vorrà mai rinunciare alla immortalità religiosa del proprio individuo per nessuna felicità storica ottenuta da spostamento di classi o migliore assisa di ordini. Uno scetticismo doloroso costringe quindi le coscienze a diffidare di tutte le forme della vita. La religione cattolica più antica degli istituti politici che la combattono, incrollabilmente superba nell'affermazione della propria immortalità, sovrasta a popoli e a governi, scemando loro colle condanne e colle ironie la fede già scarsa che hanno in sè stessi.
La rivoluzione non è nemmeno arrivata alla conquista della propria forma necessaria. Solo la Francia, che l'iniziò prima in Europa, dopo quasi un secolo di tragiche prove, attraverso sanguinose ecatombi e rovine economiche è giunta finalmente a costituirsi in repubblica, ma con così debole maggioranza di voti e fiacca compagine di sentimenti, che i residui monarchici possono ancora atterrirla minacciando o rallentarle la vita con opposizioni parlamentari, mentre gl'informi detriti rivoluzionari, che non hanno in essa potuto organizzarsi, l'osteggiano avvelenando le idee delle quali vive.
In Italia invece la rivoluzione, determinata nelle migliori coscienze da tutta una lunga serie di sviluppi storici, s'internò nel problema dell'indipendenza nascondendovi per qualche tempo indole e principii. Mazzini solo non la smarrì mai di vista e badò a spiegarla, poco inteso da coloro stessi che lo seguivano, frainteso dai più che non arrivavano a sbrogliare in sè stessi la contraddizione delle necessità religiose e politiche, malinteso ipocritamente da molti, che l'egoismo degl'interessi tendeva a raggruppare intorno alla forma monarchica parassita della idea rivoluzionaria. La rivoluzione per sciogliere il proprio problema fondamentale dovette contraddire al proprio sviluppo sottomettendosi alla monarchia; Mazzini stesso, che nell'entusiasmo del primo giorno di battaglia aveva ordinato ai propri fedeli di combattere col Re, riconobbe vecchio che la monarchia di Savoia entrando in Roma e compiendo così l'unità d'Italia, vi si assicurava un regno di qualche generazione. Questa suprema e dolorosa confessione del grande apostolo rivoluzionario fu raccolta servilmente da tutti i valletti della monarchia.
Nullameno, la monarchia non potè diventarne più forte. Anzitutto la mancanza di principio nella sua forma le toglieva di potersi davvero impadronire di una qualunque corrente di vita. Uccisa come principio dalla grande rivoluzione francese colla proclamazione della sovranità popolare, non è rimasta dopo nei paesi, i quali accolsero l'elettorato politico sulla base del diritto individuale, che un fatto storico giustificato dallo squilibrio di coltura e di sentimento nelle classi dello Stato. Le più colte si mostrarono in gran parte favorevoli alla monarchia, nella quale potevano più facilmente imperare e difendere i privilegi sopravvissuti al naufragio della grande rivoluzione: le più incolte, dominate dall'antica servilità ed esasperate nel nuovo orgoglio sovrano quotidianamente deluso dalla loro stessa incapacità, soggiacquero alla monarchia accarezzando in sè stesse piuttosto la sua negazione, come sfrenamento da ogni legge che l'avvento di una vera democrazia, nella quale la legge pura di ogni influenza di ordini fosse espressione della più astratta giustizia.
Ma nella monarchia costretta a scimiottare persino le forme più basse della democrazia, sopravvivevano i ricordi e gli orgogli del vero tempo monarchico, quando il re solo era la legge e intorno a lui e con lui i feudatarii mutati in cortigiani spadroneggiavano. Il clero più alto di principii e più largo di sistema era allora servo e signore, manipolando, urgendo, sfruttando monarchia, feudalismo e popolo. Papato ed impero avevano potuto ferirsi vicendevolmente, ma lo stesso principio faceva la loro vita e doveva riunirli, quando un altro sorgendo a combattere minacciasse di relegarli dalla storia.
Carlo Alberto il primo re, che attraverso troppe miserabili contraddizioni parlava di un'Italia sognandone la conquista, pieno ancora la fantasia delle forme medioevali e più savoiardo che italiano, si componeva, come un cavaliero della leggenda, un nuovo scudo e vi scriveva in francese— J'attends mon bel astre.
Dei tempi nuovi, della nuova coscienza creata dal diritto elettorale, neppure il più lontano sospetto: lo statuto largito come generosa concessione di monarca, invece che stabilito come diritto fondamentale; terrore e odio verso i rivoluzionari, che parlavano solo dell'Italia; pregiudizi religiosi, inflessibili vanità aristocratiche, superbie intrattabili di chi si crede nato d'altro sangue che il comune e si stima eroe acconsentendo nella rivoluzione, la quale invece è un dovere.
Ma la monarchia, che s'accorgeva di essere senza principio, non poteva non diffidare della rivoluzione, accarezzandola per giovarsi delle sue forze.
Il clero, riuscito fino allora ad inimicare democrazia e principato, vedendoli riuniti momentaneamente sotto la pressione del doppio problema dell'indipendenza e della unità italiana, si chiarì nemico per difendere il proprio minimo Stato di Roma, mentre la nuova monarchia invece seguitava con lui l'abitudine degli antichi sorrisi.
La guerra coll'Austria scoppiò. L'Italia si riunì con processo fortunato, sebbene troppo spesso umiliante, e al clero vennero ritolti la maggior parte dei possessi e dei privilegi. Roma stessa, abbandonata da Napoleone III nella caduta del secondo impero, si mutò da capitale cattolica in capitale italiana. Quindi colla legge delle Guarentigie, che il Parlamento dovette votare, appena insediato a Roma, per calmare le apprensioni del mondo cattolico sulla libertà del papa, e che fu la legge forse più abile e profonda del periodo legislativo oggi ancora in corso, ricominciarono i tentativi di conciliazione non più fra Chiesa e Stato, ma fra Papato e Monarchia. Pio IX, spirito meschino immiserito dalla vecchiaia e dai disastri, li accolse coll'acrimonia del vinto, cui uno sbaglio del vincitore presenta il destro di un rimbecco: ma Pio IX e Vittorio Emanuele morirono e Umberto I e Leone XIII si trovarono di faccia.
Se Vittorio Emanuele entrando in Roma nel 1870 aveva, nella sua fiacca coscienza di cattolico, sentito il bisogno di scrivere una lettera quasi di scusa al Papa, rincarando sulla vilezza dei ministri che si confessavano spinti su Roma dal popolo, scambiando così per finezza diplomatica la loro insufficenza in uno dei più grandi momenti della storia universale, Umberto I nell'assumere il regno, riaffermò contro il papa Roma intangibile degli Italiani. Questa salda sicurezza di contegno gli valse subito le simpatie della nazione.
Ma le encicliche del papa, i discorsi ministeriali, certe proposte di legge respinte e molte leggi interpretate a rovescio; opuscoli, libri, doni alle chiese, cortesie al pontefice, ingegno preclaro di politico quanto minuto e falso letterato: una prudente risurrezione del vecchio guelfismo, tutto accennò ad una conciliazione non ben definita sulle idee ma troppo chiara nei sentimenti. Il principato invocava dal papato le sue armi spirituali a guarrentigia dell'ordine contro le ignobili anarchie della piazza.
E, bisogna pur confessarlo, la maggior parte del pubblico vi era favorevole. Ruggero Bonghi ne scrisse molti articoli sulla Nuova Antologia che furono poco letti e meno compresi. Ora la conciliazione, apparentemente in preda ad una crisi, occupa tutti i giornali e nello stesso Parlamento ne fu discusso, e un deputato, guelfo fanatico, si è dimesso dopo la risposta confusa ma ferma del Ministero.
Nullameno il problema della conciliazione rimane forse il maggiore della politica interna conservandosi grave nella politica estera.
Esso è doppio. In tutti gli Stati parlamentari, dove il cattolicismo è religione preponderante, la Chiesa difendendosi ostinatamente nei privilegi storici perduti è partito di opposizione, troppo spesso alleato cogli ultimi radicali per odio implacabile alla libertà e offrendo nel medesimo tempo ai governi la propria alleanza per conservare quanto le è rimasto della propria posizione privilegiata. La conciliazione è allora fra Chiesa e Stato, entrambi basati sopra un principio assoluto: la Chiesa, che arbitra della vita ultramondana vuole signoreggiare la presente per indirizzarvela: lo Stato, che prima e ultima sintesi della vita umana, pretende contenerne e rattenerne tutte le forme, sottomettendole al suo diritto universale entro cui ogni singolo diritto può raggiungere tutti gli sviluppi. Ma questo dissidio per quanto filosoficamente profondo non è politicamente molto grave, poichè Chiesa e Stato sotto la minaccia del medesimo disordine rivoluzionario, possono sempre momentaneamente accordarsi.
Nell'Italia la guerra fra la Chiesa e lo Stato si complica delle diuturne battaglie fra monarchia e papato. Se il pontefice del cattolicismo stendendo la propria influenza sopra 'tutto' il mondo a certe epoche vi pretese una suprema sovranità sui popoli e sui re, politicamente il suo regno era nullameno circoscritto a poche provincie intorno a Roma. Il pontefice era universale, il papa romano. Le necessità di tale piccolo regno dominarono sempre la politica dei pontefici, costringendoli nelle più bizzarre e tragiche contraddizioni.
La loro storia fu scritta in un immenso capolavoro dal Ranke, ma l'antagonismo religioso e politico del pontificato col papato non fu nettamente analizzato in nessun libro, che io conosca. Se il papato nel medio evo aveva sottomesso l'Europa aiutandovi la civiltà malgrado gli eccessi di ogni genere che gli macchiarono la vita, doveva ultimamente soccombere per opera della rivoluzione italiana, la quale svolgendosi monarchicamente gli oppose il Principato. Il papato ucciso dalla repubblica romana del quarantotto fu seppellito nel settanta dalla monarchia di Savoia. Sul principio i due alleati, divenuti avversari, ne rimasero come trasognati; quindi il papato, più antico e più forte, mutando in carcere la reggia conservata e in catene le guarantigie concessegli, si affermò prigioniero. Pronto a patteggiare con tutti i governi, non ebbe che una vera inimicizia: la monarchia italiana.
La sua vecchia abilità di governo gli scoperse subito le parti deboli del nemico. La monarchia italiana conteneva la rivoluzione come una coccia o una cuna; ogni giorno che cresceva al bambino, scemava alla culla, che questi doveva rompere per saggiare le proprie forze prima di abbandonarla. Tutte le monarchie assorbite da quella dei Savoia, le avevano legato col regno una pericolosa eredità di odii e di difetti, mentre la rivoluzione, conquistandole mezza Italia, le aveva troppo scemata la gloria delle battaglie e la legittimità dei trionfi. Il popolo italiano nella sua massa più inerte era meglio cattolico che monarchico, nella sua minoranza più attiva rivoluzionario anzichè liberale; le classi, conservatrici per egoismo di censo e di nome, che avevano abbandonati i vecchi signori pel nuovo solamente per paura della rivoluzione, non resisterebbero intorno al re di Piemonte mutato in re d'Italia, quando quella, acquistata la coscienza di sè medesima e imparate nella opposizione le arti del governo, piglierebbe la rivincita del cinquantanove.
Queste le analisi e le speranze del Vaticano. I suoi giornali ripresero quindi la guerra recandovi una superbia d'ironia, alla quale i conservatori non seppero opporre un'uguale superbia di regno. La codardia delle frasi diplomatiche usate dal Ministero andando a Roma dopo Sedan, la lettera umile ed umiliante di Vittorio Emanuele al papa, che rigettava sulla rivoluzione la conquista di Roma, diedero ragione al Vaticano. Il suo nemico aveva coscienza della propria debolezza; temere d'essere vinto è sempre stata la meta di ogni sconfitta.
Intanto il pontefice, libero dalle angustie del piccolo regno perduto, cresceva nella estimazione dell'Europa: l'Inghilterra l'invocava contro gl'Irlandesi e Leone XIII, ripetendo l'infamia di Gregorio XVI contro i polacchi, colpiva i ribelli cattolici che ricusavano di morire di fame sotto la tirannia degli inglesi protestanti; Bismark circuito in Parlamento dai dissidenti cattolici cessava la persecuzione del Culturkampf accettando il papa arbitro nella questione delle Caroline, e spaventato dalla nuova floridezza francese ricomprava da lui un voto del proprio Parlamento per la ricostituzione dell'esercito vincitore a Sedan: lo Czar, tremante sotto l'eroismo dei nichilisti morenti a migliaia come i primi cristiani, si rivolgeva a Roma come al più vecchio focolare di autorità: la Spagna, scaduta a una vedova di re, riconfermata regina da un Parlamento che non ha ancora acquistata la coscienza di sè medesimo, si rifugiava sotto la protezione del papa ancora arbitro delle coscienze cattoliche ovunque istintivamente ostili alla rivoluzione.
La monarchia italiana si volse quindi al Vaticano affettando l'orgoglio rivoluzionario, che in fondo non ebbe mai e fu spesso costretta a simulare. I suoi più ardenti partigiani accumularono proposte su proposte negli scritti per saggiare il terreno prima di presentarle in Parlamento; Ruggero Bonghi al solito fu il più forte campione del nuovo compromesso, ma il suo ingegno sempre più largo che vasto, e troppo spesso uso a scambiare la bassezza per la profondità, fallì anche questa volta. Il fondo delle sue, come di tutte le altre proposte, era di rendere al pontefice qualche cosa dell'antico papato, ricostituendolo parzialmente in modo da permettere alla Santa Sede di uscire dalla sua ostilità verso la monarchia.
La conciliazione fra Chiesa e Stato, cioè l'accordo della libertà politica colla autorità religiosa, la composizione dell'ideale storico coll'ideale divino potrà essere più o meno difficile o lontana, ma l'aspirarvi e il tentarla è sentimento di ogni alta coscienza; la conciliazione fra il papato e la monarchia, fra un morente ed un morto per combattere la vita, rappresenterebbe la più profonda negazione d'ogni coscienza civile. La monarchia deve attingere la legittimità del proprio tempo nei servigi continui resi alla nazione e che una forma repubblicana più alta e quindi corrispondente a uno stadio più avanzato di civiltà o non potrebbe rendere, o peggio ancora renderebbe impossibili. Alleandosi invece al suo eterno nemico nella speranza che le induca nel vecchio organismo quella immortalità del proprio principio religioso che egli stesso non potè assimilarsi, commetterebbe la maggiore e la più ignobile delle colpe.
Le monarchie plebiscitarie e rivoluzionarie come l'italiana debbono saper vivere e morire della propria rivoluzione; forme incomplete della repubblica, la loro gloria più vera e la possibilità di maggiore durata stanno nel rendere la repubblica meno necessaria col più generoso e regolare servizio di ogni libertà.
I cortigiani della monarchia savoiarda non hanno ancora ben compreso questa necessità, che re Umberto ha pur mostrato di sentire in parecchie circostanze della sua ancor giovane vita politica.
Ma se la monarchia si volse istintivamente al Vaticano, questi addolcendo i termini dell'antico linguaggio tentò con suprema abilità di adescarla; il suo disegno era semplice quanto tremendo. Se la monarchia consentiva ad un accordo, che restituisse al pontificato qualche forma politica del papato distrutto, e giovandosi della sua influenza sul Parlamento riusciva a farla passare in una legge dello Stato, la monarchia separandosi dall'anima nazionale si contrapponeva alla rivoluzione. In questo caso era subitamente, irreparabilmente perduta. Se il pontificato, come organo magno del cattolicismo proseguendo la conquista religiosa del mondo è più o meno in collisione con tutti i governi; il papato sopravvissuto nel suo spirito non ha più che un ideale, la distruzione della monarchia, che lo ha sostituito.
Ma intanto il pontificato, sicuro di non perire che colla propria religione, si dispone a riordinarla per prepararsi alla grande battaglia, che la democrazia gli darà nel giorno stesso del proprio trionfo. Allora il pensiero storico e il pensiero divino, urtandosi, creeranno la più bella epopea del pensiero umano.
Leone XIII forte della nuova unità monarchica cementata dall'ultimo dogma della infallibilità, che gli permette un più rapido e sicuro maneggio di tutte le forze, ha gettato il primo grido di guerra per riconquistare storia e filosofia: e gli bisogna riorganizzare le scuole rifondendone gli statuti, reintegrandone i programmi. Gli ordini monastici necessari a tutte le religioni non funzionano quasi più. Il monachismo ha due principii. L'uno passivo, e crea ospedali per tutti i vinti della vita che vogliono fuggirla senza perderla, per tutti i malati che inetti a vivere nella storia si rifugiano nell'astrazione divina e non comunicano più coll'umanità che mediante la preghiera; talvolta questi ammalati si mutano in infermieri e guariscono ritornando all'azione colla carità. L'altro principio è attivo e crea caserme, nelle quali vengono ad arruolarsi e ad armarsi le legioni necessarie alla conquista del mondo. Naturalmente, questi due tipi fondamentali del monachismo si sminuzzano in molte fisonomie, ma in ognuna di esse l'asceta e l'apostolo sono sempre riconoscibili. Oggi il cattolicismo ha un immenso esercito di preti e di frati diviso come i moderni in due grandi classi, la milizia stabile e la milizia mobile; i preti accantonati nelle parrocchie si battono troppo poco, i frati distaccati nei conventi si battono male, e perfino le armi dotte dei collegi e dei seminari smentiscono l'antica fama e si coprono di ridicolo sostenendo qualche attacco contro lo stato maggiore del laicato.
Leone XIII ha sentita ed espressa con vera eloquenza questa miseria intellettuale della sua milizia.
L'Italia, che rinnovandosi nella rivoluzione trovò i preti ostili ma impreparati, e quindi impotenti, deve attendersi a nuova e più difficile guerra, dalla quale se non uscirà più sana e più grande, sarà inevitabilmente fiaccata. Nella guerra del pensiero i vinti hanno sempre torto e pèrdono il diritto alla vita.
Ma la guerra complicandosi appunto delle ultime rappresaglie monarchiche colle impazienti esplosioni rivoluzionarie non sarà forse senza molto sangue, e forse a questo pensava Don Giovanni moribondo riassumendo la propria nobile vita di patriota in un'ultima angoscia di carità italiana.
Ebbene, che importa? La guerra è una forma inevitabile della lotta per la vita, e il sangue sarà sempre la migliore delle rugiade per le grandi idee.
Alla guerra…! e guai al vinto, perchè la verità è invincibile.
L'avvenire dell'Italia è tutto in una guerra, che rendendole i confini naturali cementi all'interno colla tragedia di pericoli mortali l'unità del sentimento nazionale. Troppe sono ancora le differenze di storia e d'interessi che ci separano, e troppo profondamente radicate negli animi, perchè gli sforzi della vita ordinaria possano sperare di svellerle. Se gli adepti delle antiche piccole corti soppresse sono quasi scomparsi, quelli fra loro che per tradizione aristocratica di famiglia o pregiudizi di educazione ricusano ancora la libera unità della patria riparano fra le coorti del clero, che mutato capitano e riordinato con migliore disciplina, si prepara a ritentare la battaglia, appena una guerra dello straniero impegni tutte le forze d'Italia alla frontiera.
Bisogna vigilare nello studio e rinvigorirsi nella passione superba dell'avvenire.
Ai troppo prudenti cortigiani, che lusingano l'egoismo dinastico consigliandogli alleanze con imperi, i quali diversi da noi per indole di popoli e di periodi storici osteggiano ora tutte le libertà, bisogna ricordare che la monarchia italiana fuse l'antica gloria di Emanuele Filiberto colla maggiore odierna gloria di Giuseppe Garibaldi, e che il conte di Cavour profondamente pratico come Guicciardini, talvolta largo e generoso quanto Macchiavelli, si mescolò nell'opera a Mazzini; ai clericali invece, che ebbri della sfida temeraria lanciata da Leone XIII alla critica storica rivantano i beneficii del papato all'Italia, e simulando passione di patria mirano a mescersi nei pubblici negozi per rallentare il progresso, nel quale non possono consentire, basta opporre Don Giovanni Verità, salvatore di Garibaldi, rimasto prete dopo la sua negazione del papato, morto prete, e contro il quale non si osò inveire che morto. Don Giovanni più che tutte le altre grandi vittime del papato ne rivelò le debolezze e smascherò le ipocrisie.
La sincerità della sua vita resterà nella coscienza italiana. Già il municipio di Roma con solenne consiglio gli ha votato un busto sul Pincio, nuovo Panteon delle glorie italiane. Io non so fra quali grandi uomini sarà posto; forse egli vivo ignorava il nome de' suoi futuri vicini, come non sospettava la gloria che la riconoscenza della nazione gli ha tributato. Ma ai visitatori del colle fiorito, d'onde si scorge tutta Roma e dirimpetto al quale la massa enorme di San Pietro s'erge nella maestà del proprio orgoglio, e quando il sole tramonta pare illuminarsi per le vetriate di un incendio di gloria, parrà che la modesta e rustica figura del prete montanaro sia come erroneamente capitata fra le grandi fronti marmoree delle migliori teste italiane. Forse egli stesso, se nell'altra vita come piacque a tutte le religioni infantili supporre e come le nostre religioni decrepite affermano ancora, si conserva il carattere che fu l'essenza di questa, sarà stato sorpreso da un senso quasi di modestia trovandosi in così alta compagnia.
No, no, povero prete! Le grandezze del cuore valgono quelle dell'ingegno, perchè la vita e la storia hanno egualmente bisogno di tutti gli eroismi di sentimento e di pensiero. Se la tua fronte è più bassa di quelle che ti circondano, il cuore che palpitava sotto la tua tunica di prete era più largo di quello di tutti i tuoi vicini; se essi giovarono alle scienze, tu assicurasti la risurrezione d'Italia salvandone il redentore. Fra l'eroe di Nazaret e l'eroe di Nizza tu prete non sentisti differenza, e fosti solo a non sentirla. Sii tranquillo, la tua gloria è meritata; i grandi teco allineati sono superbi della tua grandezza, che colma forse l'unico vuoto nelle loro file. Ma verrà un giorno che l'Italia veramente una di mente e di cuore, comprendendo finalmente tutte le epoche della propria vita, riunirà nella propria riconoscenza a gruppi i figli migliori incoronandoli delle idee per le quali vissero e morirono; e allora un grande monumento verrà alzato, ben diverso dai troppi che gli si ergono oggi, a Giuseppe Garibaldi, come al grande iniziatore del terzo periodo italiano; e tu prete, che lo salvasti, gli sarai accanto, emblema entrambi dell'accordo già conseguito fra la poesia ideale della religione e la poesia reale della vita.
[Blank page]
VI. [La via Emilia]
In tutta la mia vita di trentaquattr'anni non ero mai rimasto a letto un giorno solo; adesso sono già tre mesi che non me ne alzo, e il medico non osa rispondermi allorchè lo interrogo febbrilmente:
—E così, quando mi fai uscire?
Il peggio della cura è superato: ho sopportato venti giorni e venti notti un chilogramma di ghiaccio sul ginocchio, stando immobile come un cadavere. Il freddo che si produceva sotto le lenzuola era così intenso che la pelle mi è rimasta accaponata per tutti quei venti giorni. Mangiare non era possibile, per riscaldarsi o stordirsi il bere non bastava. Non ho potuto nè leggere nè scrivere. Gli amici venivano e ritornavano nelle varie ore del giorno; la mia vecchia cameriera mi si affannava talmente intorno non sapendo più che cosa fare per lenirmi la esasperazione del dolore, che mi toccava sgridarla quando piangeva.
Povera Lucia!
L'ho intesa più volte lagnarsi che la disgrazia non sia toccata a lei.
—Io sono donna; noi donne possiamo restare in casa o a letto quanto ci pare.
In questo slancio di bontà vi era una profonda osservazione filosofica, giacchè sento che l'inazione, alla quale sono costretto, mi pesa assai più del ghiaccio che allora m'intormentiva il ginocchio. Sopra tutto mi dispera il dubbio di rimanere a letto chissà ancora quanti mesi, e zoppo per tutta la vita. Ah! trovare un ostacolo ad ogni passo, sentire ad ogni moto la propria deformità, non poter discendere una scala, accompagnare un uomo, raggiungere una donna, afferrare un cavallo; impotente, smezzato, contemplando da una sedia la campagna come un prigioniero dalla inferriata… ma il prigioniero può sperare di segarla e fuggire….
Gli amici che mi confortano sembrano poco persuasi delle loro frasi.
Solo la Lucia è sicura che guarirò perfettamente, ma non ha altra ragione a questo che un'affezione di trent'anni; sono quasi suo figlio. Se restassi zoppo, ella sosterrebbe con tutti che non è vero.
Quando mi vide arrivare nel cortile, solo, colle gruccie sul carrettino, guidando lo stesso cavallo che mi aveva rovesciato, gettò un urlo. Aveva saputo della disgrazia, ma non la temeva così grave.
Avevo voluto discendere solo dalla villa, arrischiando così impotente ad ogni moto di pericolare lungo la strada, non so bene il perchè. Era una reazione della vanità offesa dalla caduta che si cimentava contro l'oscura possibilità di altri pericoli, o il bisogno di fermarmi solo a contemplare il luogo del mio disastro? Infatti, mi vi arrestai.
La giornata era nebbiosa, il vento aveva già disciolta la prima neve caduta. Mancavano due giorni al Natale. La strada gremita di biroccie era quasi impraticabile per la ghiaia distesavi di fresco; i passeri volavano sulle siepi davanti al mio cavallo, o sfiancando improvvisamente si cacciavano in un pagliaio o sotto un fascio di viti abbandonate ai piedi degli alberi. Qualche pettirosso balzava dal fossato sopra un paracarro guardandomi venire con due occhietti umidi e brillanti, mentre la bavarina aranciata arruffandoglisi faceva sembrare le sue zampine quasi troppo sottili. Ma d'un tratto schizzava via, e posandosi sopra uno stecco salutava e spariva.
A mezza strada un impeto forsennato di collera mi fece frustare il cavallo, che si slanciò alla carriera; perdetti quasi una gruccia.
Giunsi alla via Emilia!
Cominciava il tramonto. Lontano sulle ultime vette una muraglia di nuvole nere si perdeva nel cielo frastagliandosi, quasi confine e baluardo di sconosciute tempeste. Una tristezza umida si aggravava nell'aria. Gli alberi dei campi già sfogliati dai contadini avevano la desolata nudità del grande inverno, mentre le quercie rimaste sui limiti fra podere e podere lasciavano cadere le ultime foglie ingiallite. La via Emilia in quell'ora e in quel giorno non votato ai mercati dei paesi vicini, era quasi deserta: il suo largo piano, diritto e stupendamente conservato, allora senza ghiaia, aveva un'aria di pulitezza e di abbandono che impensieriva. Ero trascorso oltre Castel Bolognese e proseguivo al passo verso Faenza. I passanti erano pochi, scarse e fievoli le voci che arrivavano dai campi. Riparati per dormire nei cipressi e nelle edere sempre verdi delle ville abbandonate, i passeri non si mostravano più; solo qualche pettirosso s'affacciava ancora fra le siepi nella eleganza signorile dei propri colori e con moti di delicatezza raffinata fino alla civetteria. La sera si appressava velando sui campi il grano sorto da poco; qualche lume appariva già alle finestre, molte scintille sfuggivano dai camini.
La maggior parte dei lavoratori cominciava già a ritornare nelle case, che si disponevano a riceverli colla letizia del fuoco e della cena.
Involontariamente abbassai la testa e rattenni il cavallo.
Il paesaggio era solenne, l'ora severa.
In quel momento nessuno passava per la strada.
Un tumulto di memorie, di pensieri, di sentimenti mi sopraffece. La via Emilia immensa e vuota mi si allungava davanti: non un rumore passava nella sera, non una forma saliva dai campi. Il cielo plumbeo sembrava aver perduto persino il ricordo degli astri, sulla terra bruna erano cessati tutti i colori ed i moti della vita. Una inerzia crepuscolare copriva la natura arrestandone l'infinita instancabile varietà; e la via Emilia aperta per essa da una storia di quasi tre mill'anni, altrettanto nuda e deserta, pareva annunciare che anche la storia era finita. Una stessa sera conchiudeva le date dello spirito e i giorni della materia, le epoche della terra e i secoli della civiltà.
Ero solo, ero l'ultimo.
Quanti popoli, quanti individui, quante vicende erano passate per quella strada! Quanti mutamenti di natura intorno ad essa e nullameno quanta immutabilità nel paesaggio, dacchè il primo sguardo lo consegnò alla prima memoria! I colli erano sempre gli stessi: la natura vi si era destata nella primavera ai medesimi venti, ornandosi dei medesimi fiori; vi aveva soffocato nell'estate fra i raggi del sole e le vampe più cocenti di una fecondazione maturante ad ogni minuto, vi si era assopita nelle malinconie lagrimose degli autunni, aveva simulato di morirvi sotto il bianco lenzuolo di tutti gl'inverni. Dietro ai primi colli rugati da minimi ruscelli se ne alzavano altri più uniformi di colore, e dietro altri ancora violacei e trasparenti a certe ore, in altre rigidi ed acuti sul cielo grigio ed unito. E le stesse vette da tremill'anni attiravano lo sguardo di tutti i viandanti, mentre la stessa voluttà nelle curve, la stessa improvvisa arguzia nei distacchi, la stessa soavità d'inclinazioni producevano le medesime sensazioni e le medesime idee. Le esclamazioni dei passeggieri si erano alternate in una rapida e tumultuosa vicenda di lingue, ma significando sempre la stessa cosa: tutti trascorrendo sul facile piano della strada avevano guardato quei colli, sui quali le case sole mutavano in mezzo alla eterna bellezza della natura.
Non erano romani, ma galli, i primi che da quei colli videro la pianura rigarsi di una larga striscia bianca. Era la nuova strada Emilia, che staccandosi dalla via Flaminia alla sua estrema punta di Rimini, la più antica colonia romana, proseguiva verso le più recenti per Bologna sino a Piacenza. Allora la pianura, che dai colli discendeva verso il mare, era ben più stretta di ora e si arrestava al labbro della immensa palude Padusa entro la quale Ravenna, antico villaggio lacustre, aspettava nella calma della ignoranza di succedere a Roma come capitale dell'occidente. I più floridi paesi della romagna non esistevano ancora; un'acqua torbida ed inerte, tratto tratto percossa da innumeri tuffi di uccelli vallivi, evaporava lentamente al sole avvelenando nell'aria ogni alito di vita; il mare lontano, cerulo sotto l'argento delle sue spume, la chiudeva come in un immenso monile niellato. La palude serpeggiava avanzandosi verso i colli o indietreggiando verso il mare a seconda dell'impeto dei fiumi che vi si cacciavano, sempre più intricata da vegetazioni acquatiche, nelle quali s'impigliavano i remi dei piccoli canotti. Oggi nel medesimo luogo i mietitori ripetono negli stornelli le canzoni di quei primi pescatori, che la storia non conobbe o invitò pei campi, trasformandoli sino d'allora in agricoltori o in mercanti.
Allora la strada era un margine alto sui campi e sulla palude, pel quale Roma mandava le proprie legioni a frenare i popoli vinti o non ancora fusi dalla sua civiltà. Alcuni fra essi, come i galli Senoni, furono distrutti o cacciati; la maggior parte degli altri rimasero, e quella lunga linea bianca, che li univa a Roma, li persuase ad altra vita; l'agricoltura successe alla pastorizia, il commercio raddoppiò l'agricoltura, dietro le legioni passarono i cittadini di Roma, i barbari li seguirono, e Roma crebbe trasformandosi da città vincitrice in capitale d'Italia, da capitale d'Italia in centro del mondo.
La strada costrutta nell'anno 567 dal console M. Emilio Lepido quindici anni dopo la battaglia di Zama, nella quale la mediocrità vanitosa di Scipione sopraffece il più gran genio militare apparso nella storia, era destinata ad allacciare la naturale frontiera del Po a Roma, vertice del grande triangolo della via Flaminia e Aretina riunite a Bologna per la via Cassia. Al di qua del Po prevaleva la costituzione civile degli Italioti, al di là la costituzione cantonale dei Celti.
D'allora quanti popoli, quanti individui, quante vicende sono passate per la via Emilia!
Sollevazioni di popoli soggetti, invasioni di popoli stranieri, eserciti fuggenti nelle sconfitte, legioni taciturne nelle marcie forzate di una riscossa o chiassose nel ritorno di un trionfo, legionari mutati in coloni e pellegrini verso le terre loro assegnate dal Senato, carovane di mercanti e di pastori; Galli ed Etruschi, Celti e Veneti, Liguri ed Allobrogi, Insubri e Germani montati su cavalli addestrati nelle guerre o selvaggi ancora della vita libera delle foreste, sopra traini rotolanti su cilindri o carri falcati di battaglia o bighe leggiere o plaustri dipinti trasportanti merci o masserizie, famiglie e tribù, armati ed inermi, uomini e donne; cacciati tutti dall'istinto inconscio della storia, forti, deboli, morenti e morti, tutto è passato per questa strada verso Roma e da Roma verso tutta l'Europa superiore. L'orma forcuta degli armenti vi si è calcata sull'orma di tutte le cavallerie, il passo unito delle falangi vi ha coperto le pedate disordinate dei viandanti, il solco delle rotaie ha subíto il taglio di tutte le ruote e non ne ha conservato alcuno. A ogni vento a ogni pioggia a ogni raggio di sole, tutto era cancellato; il sandalo si sovrapponeva al coturno, i piedi scalzi più larghi e più numerosi appianavano ogni rilievo pestando colla stessa indifferenza la traccia lasciata nella polvere dal manto del trionfatore o dal fieno spiovente sui carri, da una zampa di elefante o da una coda di lucertola.
Per quanto cupa la notte e il sole cocente il passaggio non si è mai arrestato sulla strada. I campi a certe ore sono deserti, ma la strada non lo è mai, giacchè i mutamenti più terribili e subitanei della natura vi sono senza efficacia e ogni temporale è sempre sicuro di trovarvi qualche infelice su cui aggravarsi. Gli acquazzoni sono rari, il fiotto umano incessante. Nulla può fermarlo. La cavalleria degli eserciti intoppa lungo la strada nell'asinello del contadino o nei porci del mandriano: mentre i soldati pensano alla battaglia imminente, le fanciulle che ritornano dai villaggi li guardano tra curiose e sbigottite e appena passati ripigliano il filo dei cicalecci domestici; sulla stessa pietra miliare si sono sedute tutte le umane varietà dal mendicante all'imperatore, dal fanciullo folleggiante al vecchio estenuato, e tutti hanno consultata la sua cifra interpretandola d'infiniti significati.
I campi che circondano la strada mutano padrone e coltura, ma la strada non cangia e non sente: tutto passa per lei sempre egualmente larga e piana a tutti. Gli uomini possono sognare tra sè stessi ogni differenza, ma sulla strada non ne manterranno alcuna; nessuno potrà farla più breve o più lunga, scemarvi la polvere o il fango, o lasciarvi la propria traccia indelebile. La strada è come la storia, nella quale nessuno può fermarsi. Non una parola o un'idea vi è rimasta delle infinite che si dissero o si pensarono lungo i suoi margini. I monumenti, che l'individuo s'innalza per sfuggire alla morte, sono altrove: tutte le città ne spesseggiano, ma la vita della città risulta appunto dalla sosta di tutte le vite individuali che vi si addensano. La strada è il fiume che corre sempre, la città è la palude che si agita talvolta ma non corre mai. E l'uomo ha sentito di non poter lasciare la propria traccia che dove tutti gli altri si arrestano; nella sosta di tutti il più forte poteva pretendere di fissare per sempre la propria immagine, mutandosi così per quelli che giungerebbero in nuova ragione di fermata.
Nella strada come nella natura uomini e viventi sono eguali. Nessuna feroce e demente fantasia di tiranno ha mai pensato ad interdire la strada a qualcuno, alzandola a privilegio di classe. Il cavallo più veloce e il pellegrino più lesto possono raggiungere e sorpassarvi chiunque vada più lento; a tutti gli stanchi i margini offrono lo stesso erboso sedile, ma non vi sono posti privilegiati per nessuno; non vi è regola pel passo, norma alla fermata, obbligo di ore nel viaggio. Tutti sono egualmente liberi di proseguire o di arrestarsi, di tacere o di cantare.
All'ombra dello stesso albero, forse nel medesimo giorno si saranno fermati un grande poeta e un accattone scemo; dal medesimo parapetto di ponte avrà abbassato lo sguardo Giulio Cesare e la bimba reduce dalla più vicina bottega coll'ampolla dell'olio nelle mani. Mentre Caio Mario sarà passato ruminando il gran disegno di distruggere i Cimbri, dietro lui un vecchio mendicante, incantatosi nello spettacolo delle legioni, avrà sorriso lungamente calcolando il guadagno del concime raccattato entro un cesto, estremo capitale di tutta la sua vita di lavoro. E quando il terribile guerriero sarà ripassato vittorioso, non avrà riconosciuto quel medesimo vecchio intento a spiarlo dal medesimo posto, e non avrà certo pensato che per lui il suo passaggio nella strada era eguale a quello di ogni altro per quanto il suo arrivo a Roma potesse essere diverso, giacchè quel vecchio non avrebbe poi distinto nella piccola fossa del concime lo sterco del cavallo di Caio Mario da quello di tutti gli altri cavalli. Quel vecchio che restava e resta ancora sulla strada, giacchè la razza di quelli che vi raccolgono il concime è indistruttibile, dietro ogni viandante aspettando ciò che qualunque più povero è pur costretto ad aver di superfluo, somiglia singolarmente al tempo, quale la fantasia dei pittori ha sempre voluto dipingerlo: invece della falce un mozzicone di badile e un cesto per giunta. Ma se ciò che vi depone è tutto quanto resta di ogni viaggio umano, la sola differenza che sulla strada distingua il passaggio dell'uomo da quello dell'animale, la sola ricchezza che si possa raccogliere dove tutte passano, l'opera di quel vecchio e il suo risultato sono la più vera definizione della vita umana, che nessun filosofo ha ancora avuto l'ingegno o il coraggio di formulare.
E nella strada, per la quale tutti sono costretti a passare più o meno spesso, alcuni sembrano abitare, e sono mendicanti, carrettieri di ogni sorta, pellegrini che nessuna città può rattenere, vaganti pel mondo quasi per provare a coloro che vivono e muoiono nel paese ove nacquero, che quello è sempre stato uno anche quando la sua unità non era ancora passata dalla vita nella storia. Questi nomadi, pei quali la curiosità della vita altrui è la suprema ragione della propria, rappresentano il principio della eterna mutabilità. La loro patria è il mondo, il loro Dio un ignoto, la loro famiglia imitata su quella degli uccelli, che fanno il nido dovunque e costruendo il secondo non ricordano più il primo; la loro intrepidezza è al di sopra di tutti i bisogni, la loro costanza lunga quanto la loro vita.
Poeti del viaggio, cantano non scrivono: filosofi della umanità, prima che questa idea fosse concepita e fusa questa parola, passano artisticamente curiosi e cinicamente indifferenti attraverso tutti i popoli, pensando quando capiscono, sorridendo quando non comprendono; liberi nella schiavitù universale della storia che sottomette i sudditi ai re e i re a sè medesima, ricompendia o in sè stessi la poesia dei mari e dei monti, dei campi e delle paludi, delle città e dei deserti, ma non amano che la strada nella quale sentono di essere primi. I loro mestieri mutano ad ogni stazione; la loro esperienza che ha visto tutto vince la diffidenza istintiva dei volghi, che li accolgono e li attorniano interrogando; ma inflessibili quanto la strada che passa oltre ogni difficoltà di terreno, attraversano ogni zona di civiltà e di natura, raccogliendo omaggi e disprezzi come tutti coloro che vivono diversamente degli altri.
Per essi una rivoluzione è poco più di un tumulto di mercato, se vi arrivano nell'ora dello scoppio: una catastrofe di governo non ha l'importanza della caduta di un ponte: ogni finale di dramma ne sia Cristo o Socrate, Caio Gracco o Cola da Rienzi, Cicerone o Savonarola il protagonista, diventa uno spettacolo pagato largamente dalla fatica di un viaggio interminabile. Essi vanno, ma non arrivano e non ritornano mai. Non aspettano alcuno e nessuno li attende: non migrano perchè non intendono fermarsi, non viaggiano perchè non hanno scopo, non lavorano perchè ogni lavoro suppone un ambiente, ma guardano e girano. L'abbandono di ogni ricchezza, il dispregio di ogni posizione li rende superbi, ma la coscienza della inanità di tutti gl'impieghi umani li persuade all'umiltà, e accattano. Che importa il pensiero o la parola di quelli che donano? Essi ricevono e dimenticano anche più prontamente di loro. Tutta la civiltà e la natura è per essi un teatro, giacchè dalla strada si vede e si sente tutto: come la strada rimane bianca a traverso ogni luogo e malgrado ogni passaggio, essi restano impassibili a traverso le sensazioni di tutti.
E così somigliano ai grandi individui della storia, incogniti tra l'egoismo ignorante della piccola gente che non distingue quasi mai il personaggio decorativo dal personaggio storico, mentre la natura anche più indifferente si varia pei campi, e tutti i suoi viventi non hanno per la strada la più vaga delle attenzioni. Che Giulio Cesare discenda la via Emilia verso il Rubicone, o una compagnia di gladiatori la rimonti verso il circo di Verona, per gli uccelli che cantano e pel ramarro che fischia la cosa è ben indifferente. Invano gli uomini sopraffatti da tragico senso scrutarono spesso nel volo degli uccelli o nelle viscere dei buoi il secreto delle imprese nelle quali si sentivano mortalmente attirati. Le cornacchie migranti a sera sui campi per andare a dormire lungi lungi non mutarono mai il battito delle ali perchè uno sguardo ansioso di aruspice lo studiava dalla strada; ma se nel loro piccolo cervello di volatili avessero potuto supporre che gli uomini, soli pensatori nella natura, cercavano nel moto delle loro ali un indizio per la sorte delle imminenti battaglie, avrebbero certamente sorriso se il becco l'avesse loro permesso.
Che importa all'usignuolo nascosto nel fogliame dell'albero più denso presso il parapetto del ponte, se il viandante arrestatosi ad ascoltarlo sia Catullo che si reca in villa a Sermione, o Tasso che si allontana mendicando? Che importa al passero garrente sulle siepi nei pigri mattini dell'autunno, se il primo frate che si ferma ad ammirarlo e gli sorride come per un conforto ricevuto a una nuova giornata di lotta, sia Lutero che ritorna da Roma meditando la terribile rivoluzione onde incendierà tutta l'Europa, o S. Francesco d'Assisi che s'affretta verso l'abituro di un povero per compiervi un altro miracolo di amore? Che importa al falco roteante nell'aria colle ali dorate dal sole del meriggio, se lo sguardo umano che lo ammira dalla strada sia quello di Corradino di Svevia, fanciullo cacciatore di corona, o quello di un vecchio uccellatore al quale la sua vista ricorda molti drammi minuti di zimbelli ciuffati da altri falchi sulle verdi platee dei paretai? Forse che i falchi d'oggi rammentano come i falchi medio-evali cacciassero nei cieli per l'uomo, riportandogli la preda appena li richiamava col logoro, o forse che anche allora i falchi liberi sapevano qualche cosa della vita dei falchi schiavi?
La natura non muta allo sguardo dell'uomo, ma bensì nel suo sguardo.
Quando Michelangelo e Tiziano sono passati per la via Emilia, guardandone i paesaggi e ritraendone colori pei quadri futuri, i colli non hanno accresciuta per vanità la propria bellezza, come sotto lo sguardo imbecille di tutti i loro abitatori per migliaia di anni non l'avevano scemata. Nessun grand'uomo ha mai resistito senza dolore al disconoscimento della propria grandezza, ma la natura che non pensa, o della quale il pensiero cosmico è ben superiore al pensiero umano, non sussultò ancora di dispetto sotto l'occhiata stupida di uno solo fra i suoi ospiti.
Eterna, e quindi insensibile, il dramma umano che le passa attraverso non la commove. Quanti drammi sono passati nella via Emilia per conchiudersi altrove o vi si sono compiti? La storia che conta solo i massimi, nei quali l'individuo lotta pei molti, ne ha registrati troppi perchè la memoria possa conservarne la cifra e la serie. La tragedia è una, ma le sue scene sono molteplici, i personaggi innumerevoli, e nullameno la vita è anche più ricca della storia. I suoi piccoli drammi circoscritti negl'individui che vi periscono senza traccia e senz'eco, sono come l'atmosfera, nella quale si compie il grande dramma storico assorbendo le forze più elastiche della passione e gli elementi più puri dell'ideale.
In quanti condannati a morte, volgari delinquenti o volgari ammalati si saranno incontrati Arnaldo da Brescia o Aonio Paleario passando per la via Emilia già consci della morte che li attendeva? In quanti contadini migranti colle ultime masserizie verso le città, colla fronte bassa per nascondere le lagrime, vi si sarà imbattuto Dante esule da Firenze, fervido d'ira e di poesia? Quante risa idilliache vi hanno stormito all'orecchio di Properzio o di Petrarca? Per quante combinazioni di calcoli domestici e mercantili vi passarono Macchiavelli e Galileo, combinando nel forte pensiero cifre storiche o astronomiche, dati di algebra fisica o sociale? Quante fronti giovanilmente superbe alla vigilia del trionfo e della morte vi si sono alzate da Pico della Mirandola a Gastone di Foix, da Keats a Bellini? Quanti storici da Tito Livio a Gibbon, da Guicciardini a Duruy vi hanno involontariamente cercate le orme dei popoli, dei quali ricostruivano nel vasto ingegno la storia? Giano della Bella e Catilina, Andrea Doria e Nerone, San Luigi Gonzaga e Goethe, Heine e Caterina da Siena, Napoleone I e Farinello, Caio Gracco e Cosimo De' Medici, Bianca Capello e Annita Garibaldi, Alessandro VI e Mazzini, Attila e Raffaello, Ignazio di Lojola e Catone, Boezio e il connestabile di Borbone, poeti come Virgilio, ballerine come Arbuscula, dame come Stefania, imperatori come Barbarossa, generali come Consalvo, conquistatori come Carlo d'Angiò, pittori come Leonardo, architetti come Brunelleschi, attori come Salvini; torme di saltimbanchi e di gladiatori, carri pieni di statue e di leoni, processioni di santi e di prigionieri, labari e stendardi, aquile e gonfaloni, reliquie di santi e di governi, macchine di guerra e d'industria, cortei di giustiziati e di giubilei, anfore e cannoni, scialli e corrazze, ogni varietà di uomini e di cose soavi e nauseanti, ignobili e sublimi, tutto è passato per questa strada che fu lunghi secoli la più frequentata del mondo.
Se i grandi uomini che l'hanno percorsa vi si riunissero in un'ora, forse la riempirebbero così da impedirne il passaggio ai piccoli che la corrono quotidianamente.
Byron vi ha galoppato furioso e furiante dietro un'immagine o una donna; Goldsmith vi ha camminato lentamente suonando l'organetto, col quale si guadagnava le spese del viaggio; Leopardi vi ha pianto senza dubbio; Monti vi ha sparato le proprie rime inesauribili come un fuoco di moschetteria allegro e superbo. Il duca Valentino impadronendosi delle Romagne vi sognò la conquista d'Italia, Vittorio Emanuele la percorse quattro secoli dopo, luminoso nell'apoteosi di quel torbido sogno. Shelley e Guerrazzi vi pensarono entrambi alla stessa Beatrice Cenci; Augusto Lepido e Marcantonio vi si incontrarono per dividersi il mondo; Francesca da Rimini e Galla Placidia vi hanno lasciato colla loro leggenda il canto più bello e il più fino mosaico di ogni tempo; Tasso ed Ariosto vi hanno meditato peregrinando la propria rivalità; Lombardini e Paleocapa studiando i mutamenti del suo territorio vi hanno cercato i primi profili della geologia storica: Pio VII e Garibaldi vi sono passati egualmente espulsi da Roma, Teodorico e Odoacre vi si sono contesi l'impero d'Occidente; Astolfo coi Longobardi, Pipino coi Franchi v'iniziarono la lotta per il potere temporale dei Papi.
Gli avvenimenti vi si susseguono agli avvenimenti; la via Emilia, uno fra i più grandi fiumi della storia, corre sempre.
Le sue piene sono invasioni, i suoi straripamenti assumono nomi di battaglie; presso i ponti de' suoi fiumi sorgono città e villaggi. Dopo i Romani passano i Barbari, dopo i Barbari i Crociati, dopo i Crociati gli eserciti di tutta l'Europa, che vengono a battersi in Italia ancora centro della civiltà mondiale. Talvolta il suo piano echeggia sotto il galoppo leggero dei Numidi alleati dei Romani, cavalieri impetuosi come il vento dei loro deserti e altrettanto mutevoli; tal'altra risuona sotto il cupo ritmo dei cavalieri Normanni tremendamente gravi di ferro. I primi emblemi guerreschi che vi guidarono soldati furono le aquile d'argento date da Caio Mario alle legioni nella sua riforma militare, l'ultimo che vi passa oggi è la croce rossa di Savoia in campo bianco nell'iride dei colori nazionali.
Quando il medio-evo ebbe mutato tutto il mondo romano, e la croce si sostituì lungo i margini della strada agli Dei Termini, i colli della via Emilia si coronarono di castella e di torrioni. I ladri, che l'avevano naturalmente infestata a ogni tempo, si mutarono in bande di masnadieri guidate dal signore, e le scaramuccie e i saccheggi per secoli la macchiarono di sangue; ma anche allora seguitò ad essere bianca ed illare sotto la gente che vi passava frettolosa obliando una storia millenaria per gli affari d'un mattino.
Dove avvennero dunque le più grandi battaglie lungo la sua linea? A quale svolta, da qual vicolo, su qual ciglio di campo si distesero gli eserciti? Dove furono massacrati i feriti e seppelliti i morti? La storia lo racconta, ma chi rammenta tutta la storia e può dirsi passando per la strada: qui Giovanni Medici arringò le Bande Nere, o Alberigo da Barbiano insegnò le prime manovre a' suoi fanti? A qual punto della strada furono commessi quei tremendi delitti, oggi dimenticati, che hanno fatto inorridire tante generazioni? A quale altro tanta gente per noi sconosciuta vi provò la maggior felicità della propria vita?
Tutti sono passati, e secondo il proverbio di Salomone non vi hanno lasciato più traccia del fumo nell'aria, del serpente sulla pietra, della nave sul mare, dell'uomo sulla donna.
Nulla nulla nulla, ecco tutto!
Ogni rumore finisce fatalmente nel silenzio; quando finirà il rumore della storia? Sarà in una sera che copra colla pietà delle sue ombre la sconcia agonia degli ultimi pellegrini, o in un meriggio che insulti col suo fulgore al tramonto del pensiero umano? La natura, nella quale creammo il regno dello spirito e alla quale imponemmo talvolta colle scienze le nostre volontà di un minuto, sentirà in sè stessa la nostra morte, o già preoccupata della nuova vita più alta che dovrà succederci, avvertirà appena la nostra ultima caduta come negli autunni quella delle ultime foglie?
Il piano della via Emilia e di tutta la sua pianura si abbassa: ai calcoli più recenti il progressivo dislivellarsi del suolo rispetto al pelo del mare sarebbe dai dodici ai diciotto centimetri per secolo. Il pavimento del sepolcro di Galla Placidia è sotto la comune alta marea circa un metro. Invano la terra rapita ai monti dai ruscelli e portata al mare dai fiumi allunga il litorale e sembra alzarsi sul mare; il mare indietreggia, ma si drizza minacciando. La scienza sospesa non osa ancora decidere, quantunque il pericolo cresca ogni giorno, dacchè gl'ingegneri della Serenissima lo segnalarono primi nel secolo XV. È il suolo che si abbassa sotto il peso della vita che porta, o il mare che si eleva secondo l'ipotesi meteorica del Mayer, mentre la luna accelera secolarmente il proprio viaggio nei silenzi del cielo?
I pesci dell'Adriatico passeranno un giorno sulla via Emilia come vi passarono le legioni di Cesare e di Napoleone?
La strada si rifiuta forse a conservare ogni orma di viandante, perchè destinata a discendere per sempre sotto il mare, le orme umane non apprenderebbero nulla ai viventi di laggiù?
Forse!
[Blank page]
VII. [Niccolò Macchiavelli]
—Che cosa pensi tu dunque del Macchiavelli? Mi ha chiesto improvvisamente Berti, volgendomisi dal caminetto con le molle in mano e guardandomi con quella sua aria intelligente e curiosa. Quindi senza darmi tempo di cominciare una qualsiasi frase di risposta, si è alzato e prendendo di sul tavolo da notte uno dei tre volumi del Villari, ha soggiunto:
—Li ho letti anch'io: è un lavoro largo e minuto. Tutta la critica moderna lo ha encomiato; Macchiavelli vi è seguíto giorno per giorno, passo per passo. La sua vita vi è esplorata collo scandaglio, commentata colla finezza di un avvocato e qualche volta colla penetrazione di un romanziere: il disegno dei tempi, nei quali passa ed opera, è sicuro. Pare che tutto vi sia detto; un volume descrive l'ambiente nel quale Macchiavelli sta per entrare, due altri quello che vi pensa e fa.
E arrestandosi improvvisamente, colpito da una idea più concisa per esprimere il tumulto di tutte le altre che il richiamo di quei libri gli aveva destato:
—Sai che cosa mi è risultato dalla lettura attenta dell'opera del Villari? Mi pare di aver sempre vissuto con Macchiavelli e di non averlo capito.
—Ah! ho esclamato.
—Che te ne sembra?
—La stessa impressione che ne ho ricevuto io. L'opera del Villari ha tutti i pregi e i difetti della scuola positivista alla quale appartiene. La vita dell'uomo non può mai spiegare interamente la vita del pensatore e dell'artista, come il quadro del tempo non rivela mai tutto il mistero dell'individuo. Il Taine, ben più potente del Villari, nella storia della letteratura inglese, servendosi dello stesso metodo, ha fallito in faccia a Shakespeare tentando di ricostruirlo. Ricostruire, ecco il motto della scuola positivista; Michelet invece aveva detto: la storia è una resurrezione. Hai letto lo Shakespeare di Victor Hugo? No, non importa. Victor Hugo falsa Shakespeare col proprio riflesso, ma penetra nella sua anima. Taine riunisce con dotta e sicura analisi tutte le sue opere, come un anatomico riunirebbe saldandole con fili di ottone le sue ossa, per dirvi: questo è Shakespeare.
—E non sarebbe che il suo cadavere.
Un gruppo di amici è sopravvenuto deviando la nostra conversazione.
—Studii? mi ha chiesto Fossa.
—No.
—Scrivi?
—Nemmeno.
—Non lo credo: è un pretesto per non dirci a che cosa lavori o per non mostrarcelo. Macchiavelli! ha soggiunto pigliando dal tavolo lo stesso volume preso da Berti. Sentiamo, sentite, si è rivolto con scherzosa ironia agli amici: che cosa pensi tu del Macchiavelli?
—O del Villari? ho risposto barattando un'occhiata col Berti.
—Che m'importa del Villari! Il giudizio di un giudizio è come il racconto di un racconto, il secondo è sempre peggiore del primo; non vi è che il terzo che essendo addirittura insopportabile ci possa consolare dell'averli ascoltati tutte due. Dimmi tu, piuttosto, che cosa pensi del Macchiavelli. Io non l'ho mai letto, ma l'ho visto nel mio viaggio a Firenze, in Santa Croce: mi è parso una vecchia testina di monello intelligente. Intelligente e monello lo era di certo, ma forse qualcos'altro ancora. Che cosa pensi tu del Macchiavelli?
L'insistenza di questa domanda cominciava a turbarmi.
—Napoleone avrebbe già risposto, ha replicato Fossa sorridendo al sorriso degli amici, coi quali a ogni proposito cita sempre Napoleone I.
—E Napoleone I avrebbe risposto in due parole? ha interrotto Berti.
—Già! e una sarebbe di più se ogni fatto non è che un'idea.
—Ohè! filosofo….
—E Napoleone avrebbe detto giusto?
—Già.
—T'inganni, mio caro: nel Memoriale Sant'Elena Napoleone ha giudicato Macchiavelli, in un periodo di molto imperfettamente.
—Io non l'ho letto e non lo leggerò mai; non ammetto Napoleone che scrive.
—E così che cosa pensi tu del Macchiavelli?
—Troppo per potertelo dire qui.
—Allora sei nel mio caso, che non ne penso nulla e non ne posso parlare affatto: parliamo dunque di Napoleone I.
Un urrah di sdegno allegro ha coperto quest'ultima minaccia di Fossa, che sedendo si è messo invece a parlare dei propri cavalli. Fuori nevicava. Malgrado che le fiamme brillino da tre mesi nel caminetto, la camera non è molto calda e gli amici debbono a ogni visita far crocchio intorno al fuoco. Io seguiva coll'avidità di un infermo, da quasi quattro mesi segregato dalla società, il loro cicaleccio che raccontava forse per la centesima volta una storiella del teatro.
Poi se ne sono andati tutti insieme, ma Fossa rimasto ultimo colla maniglia dell'uscio in mano, mi si è rivolto e:
—Che cosa pensi tu del Macchiavelli? Mi ha ripetuto burlescamente. Bada che al mio ritorno mi dovrai una risposta; ti concedo di restare a letto tutti questi giorni per scriverla se ciò te la renda più facile.
Ed è fuggito ridendo.
Che cosa penso io dunque del Macchiavelli, di questa sfinge intorno alla quale si affatica da tanto tempo il pensiero dei dotti, e che mutata in simbolo sinistro esprime pei volghi quanto di più profondamente perfido e serenamente cinico possa essere la natura umana? Che cosa vi è di vero nella parola macchiavellismo per Macchiavelli? Quale fu il suo pensiero nel pensiero del suo secolo, nello spirito della storia? Ha egli meritato l'iscrizione ampollosamente semplice che in Santa Croce lo dice superiore ai due più grandi uomini dell'Italia, Dante e Michelangelo— Tanto nomini nullum par elogium?—La sua azione nel mondo fu uguale alla loro, e le sue scoperte ne mutarono il concetto come quelle di Galileo, che gli è modestamente accanto nel medesimo tempio?
Certo che di lui possa chiedersi questo è già tale complimento che vale poco meno dell'epitaffio fattogli dal Ferroni, oggi ancora citato fra i più belli della letteratura lapidaria.
Le vicende della vita e della fama del Macchiavelli si rassomigliano molto. Entrambe furono contrastate dal tempo, aspreggiate dalla miseria, quasi soffocate nell'oblio. Le sue opere maggiori stampate, lui morto, non ottennero subito troppa stima; il pensiero non ne fu giudicato grande, la forma perfetta. Solo il Principe colpì lo spirito del pubblico, e mantenendovisi come nello spasimo di un problema, parve salvare da una probabile dimenticanza il nome di Macchiavelli. I pochi contemporanei amici del Macchiavelli che l'avevano letto, non gli dettero, quantunque apprezzandolo, un briciolo dell'importanza che doveva poi acquistare: l'autore stesso non lo stimò mai tanto e non avrebbe osato ripromettersene la celebrità fino ad oggi triste ma universale.
La battaglia, che contro questo libro incominciarono primi i gesuiti, mutata presto in guerra, ne ebbe ogni vicenda gloriosa ed infame. Tutti vi entrarono, grandi e piccoli; uomini lo spirito dei quali doveva morire con essi, e uomini dei quali l'anima è rimasta nella storia mondiale. Poichè la politica è il motore e l'involucro della vita sociale, ognuno sentì il bisogno di decidersi in faccia al problema del Principe. Ma il suo concetto era vero nella politica umana? Il governo dell'uomo non essendo che l'azione del suo spirito collettivo sul suo spirito individuale, che debbono essere uguali sotto pena di essere inconciliabili, gli aforismi della politica possono davvero non essere che aforismi di psicologia?
La battaglia che il Principe ha sostenuto e sostiene ancora contro tutti, decideva dell'onore dell'umanità: il Principe la dichiarava naturalmente cattiva, essa si affermava naturalmente buona.
La durata della guerra è in favore del Principe, benchè la vittoria debba restare fatalmente all'umanità.
Il Macchiavelli nacque nel secolo forse più ricco d'ingegni per Firenze. I tempi erano grossi politicamente, la repubblica in continuo pericolo: la forma politica del Comune stava per tramontare in quella più larga e più alta degli Stati nazionali. La Spagna aveva già compito la propria unificazione, l'opera di Luigi XI in Francia era già sicura, Lutero preparava colla Riforma la grande costituzione dell'Alemagna. In Italia l'equilibrio studiato e ottenuto da Lorenzo il Magnifico, altrettanto fino politico che poeta, era cessato: i Francesi l'avevano invasa e non se n'erano andati che per ritornare.
Pisa ribelle a Firenze si avvicinava ad un'agonia senza gloria, profetando nella propria fine quella di tutti i municipii ancora liberi nei vecchi ordini, o indipendenti per le armi di qualche signorotto isolato nella disgregazione del sistema feudale. Genova era in preda alle ultime fazioni famigliali osteggiantisi per la supremazia: Venezia erede della universalità e del governo romano era cosmopolita nel commercio e aristocratica nel patriziato, palladio e tiranno della sua vita più ampia che nei regni recentemente riuniti, più florida che nei comuni meglio dotati, più duratura che nelle stesse monarchie destinate a prendere il posto delle repubbliche. La Romagna, la Marca e l'Umbria lacerate dagli ultimi feudatari conniventi o contrastanti coi papi vivevano nella miseria e nei massacri. Milano dopo il dramma astuto e infelice del Moro si accorgeva di non avere ormai più signore indigeno, e si preparava alla gloria umiliante di un vicereame conservando nella nuova tendenza alla servitù la cupidigia conquistatrice, che l'aveva resa nemica di Venezia e per un momento quasi arbitra d'Italia. Al di sopra dell'Italia oltre le Alpi si alzava l'ombra del sacro romano impero, autorità mistica e brutale, che pesava ancora sulla coscienza italica come un dogma, e discendeva tratto tratto su tutti i governi della penisola come una rapina.
La Francia più piccola ma più unitaria della Germania, nella quale la putrefazione della feudalità e il disgregamento dei Comuni impediva quasi ogni coesione di Stato, ricordava contro di essa le pretensioni imperiali di Carlo Magno, studiando intenta l'Italia come futuro campo delle battaglie che dovevano decidere quale sarebbe il primo popolo d'Europa. La Spagna sbarcata a Napoli sconfiggendovi gli ultimi Angioini e sovrapponendo la propria dominazione alla loro, vi aveva fondato una monarchia, la quale malgrado l'ostacolo di Roma immobile e invincibile nel mezzo d'Italia, non rinunciava alla brama di allargarsi in reame italiano. Al nord di Genova tra le Alpi, alla testa di montanari indomiti quanto astuti, poveri e capaci di tutto per arricchire, la casa di Savoia piccola, poco pregiata, male conosciuta, chiamata per disprezzo portinaia d'Italia, spiava notte e giorno colla passione instancabile del cacciatore l'occasione d'impossessarsi di qualche stanza nel palazzo che era pronta ad aprire a tutti gli stranieri.
Non vi era nazionalità, non stato, non governo, non politica italiana. Il papato solo poteva tratto tratto sollevarsi e parlare d'Italia o di giustizia, ma oltrecchè essendo universale per istinto non avrebbe potuto costringersi nella storia italiana senza annullarsi, i suoi istinti e le sue necessità di regno lo costringevano a maggiori contraddizioni e a più inintelligibili mostruosità. Talvolta il pontefice non era che il re di Roma, usufruttuario di un regno per lui intangibile come un fidecommesso; tal'altra un dinasta, che non potendo trasmetterlo alla propria dinastia tentava d'ingrandirlo per cederne così le accessioni. Poi il papa era pontefice capo della cristianità minacciata ora dal solo scisma che dovesse restare davvero importante nella sua storia.
Intanto il cinquecento si avanzava brillando. Tutte le arti rinate con Dante, il più grande artista dell'umanità, divenute adulte, si riunivano a Michelangelo quasi per finire come avevano cominciato; l'erudizione aveva disseppellito pressochè tutto il mondo classico e cominciava ad intenderlo; Colombo scopriva l'America, Copernico dava il moto alla terra, Lutero la libertà alla coscienza, Raffaello l'ultima bellezza alla forma, Ariosto l'ultimo poema alla poesia; Giulio II era l'ultimo guerriero del papato, Firenze doveva essere l'ultimo Comune italiano.
La coscienza italiana era vuota e torbida al tempo stesso; nessuna dignità di popolo o tradizione o ideale. Roma antica, straniera all'intelletto e al cuore, non viveva più che nelle memorie e nelle immaginazioni dei letterati e del volgo; la religione, divenuta superstizione in basso, traffico ed impero in alto, mescolata di magia, ignorante e scostumata, nata di una tragedia sul Golgota, sembrava finire in un carnevale che era un'altra tragedia per l'Italia e per la coscienza umana. La filosofia ospitata dalla religione nella bufera del medio evo n'era tuttavia la serva: San Tomaso guidato da Aristotile la signoreggiava; la scienza, senza vero passato, non accennava ancora a un sicuro avvenire. Però Copernico, Guttemberg, Colombo, sconosciuti l'uno all'altro, si erano misteriosamente intesi per guarantirla: la storia si dibatteva invano fra le fascie della cronaca, la lirica morta nei giardini di Lorenzo il Magnifico era già dimenticata, l'ultima epopea della cavalleria era più che mezza satira, la prima tragedia e la prima commedia non sarebbero state vitali.
Il rinascimento è un soldato, ha detto poeticamente il Michelet: il rinascimento è un assassino, non ha osato dire il Ferrari pur lasciandolo intendere, ma quando il Macchiavelli entrò nella vita, gli assassinii erano ancora frequenti e i grandi condottieri usciti dalla scuola braccesca e forzesca quasi finiti. I venturieri esteri avevano già preso il sopravvento. Nessuna figura di principe folgorava nelle armi, nessun generale proseguiva la gloria di Niccolò Piccinino; l'ultimo soldato d'Italia e il suo ultimo eroe, Giovanni Dei Medici e Francesco Ferruccio erano ancora sconosciuti.
Ma l'Italia era nullameno l'unico paese nel quale brillassero la civiltà e la ricchezza. Oltre le Alpi molte fiaccole s'andavano accendendo per la tenebra medioevale senza che il loro chiarore potesse vincerne la notte: al di qua delle Alpi invece il sole dell'antica Grecia illuminava capolavori che avrebbero fatto dubitare di sè stessa la coscienza greca. I fieri feudatari mutati ora in pomposi signori riunivano la ferocia della barbarie alla crudeltà della decadenza, mentre il popolo, piuttosto cliente che vassallo, parteggiava per loro meglio che non li servisse, e le classi sociali distinte come nel resto d'Europa erano ravvicinate dal commercio più vivo che altrove, dall'industria più progredita, dall'arte passione di tutti, dalla religione complice delle passioni di ognuno.
La lingua, l'arte, il papato, l'antichità romana, il progresso presente, la stessa mancanza di stato in tutti i governi della penisola e la condanna che pesava sopra ognuno di essi di non potere unificare l'Italia nè fondersi con altre nazioni; Dante, Michelangelo e Colombo, ecco le glorie e le ragioni della ideale unità della vita italiana, mentre la storia delle altre grandi nazioni europee aveva già raggiunto o stava per raggiungere l'unità politica.
Dante aveva conchiuso il medio-evo, Michelangelo riassumeva il risorgimento, Colombo apriva l'avvenire: tutto il mondo si accodava a questi tre italiani. L'Italia, palestra dell'Europa, non doveva chiudersi in nazione per non negarle la propria civiltà.
Macchiavelli, è stato detto, fu la coscienza italiana che nelle proprie contraddizioni meglio riflettè ed espresse le antitesi di tale posizione storica.
Niccolò Macchiavelli nacque, come si direbbe oggi, di buona famiglia: la casa non era ricca, il padre morì presto. Non si hanno del giovine le solite notizie profetanti un grande avvenire; fu educato assai bene come usavasi allora che la coltura era al tempo stesso distinzione e passione di classe. Michelangelo a ventinove anni aveva già compito parecchi capolavori, Macchiavelli invece, non distintosi in Firenze tutta piena d'ingegni, che fra un cerchio abbastanza ristretto d'amici, ottenne a stento fra quattro concorrenti l'ufficio di segretario col titolo di cancelliere della seconda cancelleria del comune. Il posto era meno che grande, il grado non illustre, ed egli l'illustrò. Marcello Virgilio Adriani, umanista importante, allora segretario di Stato, lo predilesse: era gonfaloniere Piero Soderini, onesta mediocrità che posta fra due tragedie, la cacciata e il ritorno dei Medici, finì per sembrare comica a tutti.
La politica minuta, abile e feroce, di tutti i piccoli Stati italiani era allora nella massima attività. Ogni avvenimento non preveduto o mal calcolato poteva decidere dell'esistenza dello Stato. Firenze divisa fra le parti pallesca e piagnone viveva di ringhii; i nobili quasi tutti nemici della repubblica o nemici dei Medici solo per rivalità; la plebe delle piccole arti ancora memore delle lautezze medicee ne agognava il ritorno; le grosse arti rappresentate dalla borghesia propendevano a libertà che per loro era naturalmente impero nel comune.
Nessuna milizia, molte ricchezze, commercio incredibile, arte quale i secoli posteriori più non videro e forse non vedranno; poi Massimiliano imperatore di Alemagna, signore titolare del comune, sempre pronto alla minaccia e a quietarsi per danaro, Ferrara preda agognata da tutti e quindi pomo di discordia, Pisa ribelle e guerreggiata, Alessandro Borgia a Roma, Francia sulle mosse per calare in Italia, la Romagna contrastata fra i Veneziani e il Papa, i Medici espulsi che mestavano in ogni imbroglio diplomatico e in ogni diverbio cittadino.
Questa la condizione delle cose.
Il Macchiavelli giovane, agile nell'ingegno e nei modi, senza orgoglio di classe o di carattere, libero da preoccupazioni di studi o di gloria, assetato di azione per abbondanza di vita, fu presto adoperato. Era adatto a tutto, nulla gli ripugnava. Non si mostrò ambizioso nel profondo senso della parola, e non lo era: non parve a nessuno uomo vero di parte, si accontentava di essere usato osservando intorno a sè le cose e gli uomini. Non aveva che una passione, la politica. Letterato non era e non fu mai, come intendevasi allora; non aveva imparato il greco, passione di tutti gli eruditi del tempo, sapeva il latino come ogni persona colta, ma i forti latinisti d'allora avrebbero potuto sostenere che lo sapeva male.
In Firenze tutta piena di artisti, tra un popolo di statue e un sorgere quasi per incanto di palazzi e di chiese, era forse quegli che se ne occupava meno; in tutte le sue opere non si trova un periodo per le arti figurative, che costituivano allora la pompa e dovevano restar la più alta gloria, la vera originalità del secolo già decadente. I negozi politici attiravano tutta la sua attenzione snodandogli lo spirito; ma per sè stesso non faceva nulla. Eccellente impiegato, arguto nella conversazione e sagace nelle pratiche, era senza passioni: non si prescelse un partito, non aspirava a comando. Preparare un disegno, scoprirne un altro, calcolare le eventualità cittadine e italiane; comprendere e dell'aver compreso una volta servirsi per comprendere ancora estraendone regole, astraendo dal fatto e dalle persone per stabilire una massima, avendo messo nello studio dell'una e dell'altra la maggiore esattezza e il più vivo piacere: ecco il Macchiavelli dei primi tempi.
Amava l'azione o per dir meglio l'esercizio, ma non era uomo d'azione nel significato che si dà oggi a questa parola. Se fosse stato altrimenti, nato non in alto, corto a danari quanto proclive allo spendere e senza forti parentadi, avrebbe presto dovuto comprendere che per salire davvero bisognava attaccarsi a qualcuno che fosse al potere o stesse per giungervi, servendolo da complice per diventare poi suo padrone. Non solo Firenze, ma tutta l'Italia era allora piena di cotesti ambiziosi, che tramavano pel principato, e osavano tutto per conquistarlo o conservarlo.
Guicciardini, di lui più giovane e meglio nato, rinunciò non ancora trentenne a una dote relativamente grossa per imparentarsi coi Salviati, famiglia potente, creandosi aderenze. Ma Guicciardini era aristocratico e Macchiavelli democratico, l'uno sentiva come un gentiluomo, l'altro si lasciava spesso andare a modi e vizii plebei: entrambi osservatori eccellenti. Nel primo il calcolo personale vegliava sempre, e una equazione involontaria del proprio interesse con ogni avvenimento o disegno si formava in tutti i giudizi; nel secondo il calcolo personale non sorpassava mai lo stipendio e non si destava che a qualche maggiore ristrettezza economica, mentre il suo pensiero si alzava sulle osservazioni per ordinarle in serie e formarne un codice.
Quest'uomo, che quasi tutta l'umanità doveva condannare come il teorico della immoralità, è un moralista: non inculca il bene ma studia il male, pessimista come tutti i moralisti veri. La sua passione suprema è l'analisi, il suo trionfo la formula: un caso per lui non è bello se non perchè è un problema, non è utile se non perchè sciolto può preparare la soluzione di un altro. Un disinteresse d'artista e di scienziato lo distingue da tutti coloro che operano e studiano con lui. Egli s'oblia nella osservazione.
Del resto ha i costumi del suo tempo; non è ateo ma irreligioso, prende le donne come un balocco; solo gli affari gli paiono importanti, perchè allora gli affari decidevano spesso della vita. Nella politica del secolo la frode e l'assassinio erano mezzi talmente comuni, che la coscienza pubblica riconoscendoli malvagi, non vi trovava più nulla di anormale, e Macchiavelli li accetta. Il mondo andava così. Ma il cinquecento era, e si vide bene nelle arti, una reazione del realismo sul misticismo, nella quale la realtà diventava la sola verità. Politicamente l'unico ideale possibile era la gloria del proprio Comune, e Macchiavelli fonde con essa la propria passione politica, alzandola così da poter scrivere per essa le più belle pagine della letteratura nazionale, slargandola fino a fantasticare un'Italia intera, servendosene come di una soluzione morale alle osservazioni che le cose e gli uomini gl'imponevano fatalmente all'ingegno.
Poichè la realtà della vita era così e non si poteva cangiarla, il miglior modo di purificarla stava nel renderla utile alla patria, entro la quale solamente gl'individui per natura malvagi possono mutare sè stessi fondendo il proprio nel suo interesse generale. Ma in lui questa conclusione derivava piuttosto da un accordo spontaneo d'istinti, che da un processo tragico della sua anima respinta duramente dalla realtà e costretta a conciliarla in sè medesima per vivervi.
Allora Macchiavelli non meditava ancora sè stesso, come più tardi nella disgrazia del ritorno mediceo, quando scrisse per commissione del cardinale Clemente le storie; e s'abbandonava alla spontaneità della propria natura con tutta la foga di una gioventù, che vizii e passioni non avevano ancora domato.
Le sue legazioni incominciate presto non gli dettero mai vero carattere di legato. La piccolezza della sua condizione che lo impediva allora, non crebbe mai abbastanza per la stima che il pubblico facesse del suo ingegno, da meritargli grado di ambasciatore di Firenze.
La prima fu a Forlì presso Caterina Sforza, la seconda presso il duca Valentino ad Imola. La forte e astuta donna, della quale riveggo ora nella memoria lo stupendo ritratto del Palmezzani conservato a Forlì nella biblioteca, battè il giovane e forse presuntuoso diplomatico, che in una lettera dovette confessare, e questa è una prova di forza, di essere stato tenuto a bada per otto giorni senza nulla indovinare o sorprendere. Il duca Valentino l'affascinò e diede la propria forma agl'incerti fantasmi che si agitavano nel suo ingegno di pittore della politica. Perchè Macchiavelli non fu mai veramente altro.
Forse questa affermazione sconcerterà il volgo delle persone colte e farà sorridere più di un dotto; nullameno, dall'attento esame delle opere del Macchiavelli interpretate colla sua vita, tale verità esce raggiante.
Non so se il duca Valentino fosse allora bello come lo dipinse Raffaello al ritorno di Francia in costume di gentiluomo francese, e quale nel divino ritratto posseduto dal principe Borghese a Roma è tuttora. Oggi dopo quasi vent'anni risento ancora la prima impressione del suo incontro, giacchè nel ritratto è vivo e vi guarda e pensa. Ero solo in una delle immense sale della pinacoteca Borghese: l'aria era umida e la luce si velava. Una figura pallida attirò il mio sguardo da una parete. Sembrava staccarsene ed inoltrare. Avevo in mano la tabella dei nomi dei quadri e l'occhio mi cadde proprio sul numero di quel ritratto; il duca Valentino. Diedi un balzo. Avevo letto il volgare romanzo del D'Azeglio, e la brutta figura fisica e morale che egli vi fa del Valentino m'era rimasta nell'animo; ero ancora un ragazzo. Raffaello m'illuminò.
Quello era il ritratto di un grand'uomo: non ho più veduto fisonomia così nobile, romantica e grande. Il ritratto è a mezza figura colla faccia di tre quarti, un berretto rotondo gli copre il capo: ha il giustacuore a righe, le maniche e i calzoncini a piccoli sbuffi, ma si notano appena. Il suo viso affascina. Un pallore che forse il tempo ha dato al quadro gl'imbianca tutto il volto immobile in un pensiero che rende più grande l'abituale superbia dei lineamenti: la fronte s'aggronda sugli occhi ma liscia e impenetrabile quanto il marmo, il naso leggermente arcuato fa pensare a quello di Napoleone I, le labbra strette, più rosse, sembrerebbero una cicatrice: il mento è quadro. I suoi occhi grandi hanno l'immobilità dell'occhio degli uccelli rapaci, ma quella immobilità è un effetto dell'anima. Tutta la sua fisonomia esprime la volontà appena dissimulata dalla bellezza, resa simpatica dall'ingegno.
Il duca Valentino ebbe comune coll'Aretino il fascino dell'ascendente, e la metà delle sue imprese e della vita d'entrambi rimane inesplicabile; ma sopra tutto fu il personaggio più complesso del suo secolo. Suo padre, Alessandro VI, era uomo di molto ingegno e politico non volgare, per quanto i vizii della vita fra le necessità della famiglia e nell'indole dei tempi gli facessero mutare troppo spesso i disegni e impiegarvi mezzi eccessivamente ribaldi.
Il duca Valentino avrebbe potuto menare la vita più pomposa ed epicurea del secolo, ma invece era dissoluto come Catilina, bruciato dall'ambizione come Cesare. La sua natura aveva impeti di tigre e lentezze di serpente, esigeva il comando, aspirava alla gloria. Gentiluomo perfetto, fu l'ammirazione della Corte francese; comprendeva le arti, viveva nella politica. Giovane capì subito i vizii di quella del padre e si affrettò a giovarsi del suo pontificato per costituirsi un regno. Essendogli fallito il matrimonio di Milano colla principessa Carlotta, il suo occhio di uomo di Stato non lo rese dubbio nella scelta: la Romagna sola, sempre agognata dai papi, poteva essere conquistata; ma per questo bisognava diventar capitano, destreggiarsi fra Firenze e Venezia raggirando i migliori diplomatici del tempo, giovarsi della Francia, tener l'occhio a Ferrara, non fallare un'occasione, mutar disegno ad ogni evento, calcolare l'impreveduto e fronteggiare l'imprevedibile.
Il cinquecento riassumeva, disfacendolo, il medioevo. Dal Municipio alla Signoria e al Regno tutte le combinazioni della libertà popolare di fronte ai nobili e al re si amalgamavano contrastando nell'Italia: gl'istinti e le vicende della nobiltà contro il popolo e la regalità si agitavano ancora; la mancanza di unità politica nella nazione deformava ogni ordine politico: il frazionamento degl'interessi che il commercio divideva meglio che non unisse, rendeva instabili tutte le relazioni; la tirannia straniera poteva aprir l'adito a tutti i disegni preparando con eguale facilità l'apoteosi e la decapitazione. L'Italia era inerme. Per la troppo frequente sovrapposizione dei domimii barbari e la loro fugacità e la mistura che ne era risultata, il popolo sempre servo da secoli non era stato armato: la forma della feudalità italiana, per essere l'impero lontano e il papato suo nemico presente, non aveva potuto prodursi veramente militare come al nord dell'Europa; poi l'Italia, agone sempre aperto di guerre che oltrepassavano i suoi destini, non v'era intervenuta che parzialmente, seguendo sempre il più forte e costituendosi in varie provincie che di vittorie non proprie approfittavano per ampliarsi. Così fra le battaglie di una guerra sempre diversa di nome e di guerrieri e pur sempre la stessa, l'Italia era rimasta perennemente ingombra di soldataglie, le quali disciplinandosi in bande avevano cangiato la guerra in mestiere.
Era una nuova forma di oppressione per il popolo agricolo ed industre, che non volle e non potè reagire. Il comune e la feudalità dovettero quindi usare l'uno contro l'altra queste bande, giacchè il nuovo armamento e la maniera del combattere rendeva il popolo nullo in una guerra, nella quale cento uomini d'arme bastavano a prendere una città. Allora sorse il condottiero, che fu il tipo più originale e complesso nel medio evo. La supremazia militare sopra un popolo inerme gli permise di far tutto e di arrivare a tutto; egli solo aveva il monopolio del coraggio e della forza, e riunendo tutti i problemi della diffidenza universale poteva ad ogni istante essere l'arbitro di tutti. Principi che non volevano armare nè il popolo nè la nobiltà, repubbliche sempre in sospetto di una dittatura militare, aristocrazie gelose della popolarità di un loro vincitore, tutti reciprocamente disarmati avevano dovuto reciprocamente accettare il condottiero. Allora sulla volontaria umiliazione di tutti, questi si eresse gigante. La scure che troncò il capo al Carmagnola non potè impedire a Francesco Sforza di farsi signore di Milano: poco dopo Lodovico il Moro era tradito da' suoi mercenari, e Firenze condannava invano Paolo Vitelli, per finire tradita dal Malatesta. La politica informandosi dal condottiero divenne vile, mentre principi e diplomatici, lontani dal campo di battaglia, dovendo anzi tutto assicurarsi di chi vinceva o perdeva per loro, finivano fatalmente per correre più volontieri i rischii delle congiure che quelli della guerra.
Il Valentino, mettendosi principe fra i condottieri, volle diventarlo per conto proprio. Il suo problema a distanza di secoli impicciolito nelle proporzioni storiche dell'Italia d'allora, ricordò quello di Annibale: costituirsi un esercito per impadronirsi dell'Italia. Se la famosa frase del carciofo non fu vera, basta alla gloria, del Valentino che gli sia attribuita. Ma incalcolabilmente superiore ai condottieri del tempo, che dagli splendori di Francesco Sforza e di Niccolò Piccinino precipitavano all'ultima decadenza, egli fu un politico profondo come i migliori veneziani, efferato come tutti i tirannelli di allora. Non bisogna dimenticare che gli Aragonesi, gli Estensi, i Riario, i Bentivoglio, gli Sforza, i Comuni, i Pontefici, le Repubbliche, tutti erano egualmente subdoli e feroci. Il pugnale e il veleno erano in fondo a tutti gli amori e a tutte le diplomazie.
Il Macchiavelli mandato dalla Signoria al Valentino nella più difficile crisi della sua conquista in Romagna potè studiarlo. Tutti i condottieri gli si erano ribellati; egli temporeggiò, li ingannò, li uccise tutti: era fatale, era morte per morte. L'impresa della Romagna lo esigeva, l'Italia politica approvò, Macchiavelli ammirò il coraggio e la destrezza di quel processo. Il duca Valentino gli si ingigantì nel pensiero. Infatti, quel figlio di papa gittato nella tormenta della politica d'allora senz'altro appoggio che quello precario del pontefice, e nullameno così forte da pretendere a un regno; parato ad ogni fine, capace d'ogni mezzo, gran signore, impenetrabile, romantico al punto da mescolare imprese galanti a tragedie di guerra, non obbliandosi mai: sobrio e dissoluto, spezzando impassibile i proprii migliori strumenti come Don Ramiro appena gli si appesantissero nella mano, era bene la più gagliarda figura italiana del secolo. L'orrore che adesso in noi desta il solo suo nome era allora quasi tolto dai costumi del tempo; solo la sua idea e la tragica costanza nel seguirla restavano grandi. Involontariamente il Machiavelli lo paragonò a parecchi eroi dell'antichità e il Valentino uscì trionfante dal paragone: Agatocle non era certo nè maggiore nè migliore di lui.
La relazione mandata dal Machiavelli alla Signoria sulla strage di Sinigallia pare scritta sul marmo, tanto freddo ne spira; mentre il suo disprezzo per Vitellozzo e Oliverotto, che non sanno coraggiosamente morire, rivela più che ogni altra frase, l'ammirazione inspiratagli dal Valentino impassibile nella buona come nell'avversa fortuna.
La figura del duca dominò quindi tutta la vita del Machiavelli, che la pratica della politica veniva riconfermando nella necessità dei mezzi da lui adoperati. Lo studio di Roma antica colla sua virtù puramente politica e la gloria universale lo attirava invece nel sogno di una nuova Italia libera e grande.
Ritornato a Firenze, la titubanza della Signoria e la timida insufficienza del Soderini dovettero ancora fargli sentire più vivamente quello che avrebbe potuto diventare il Valentino signore di Firenze. Quindi ebbe altre cariche; provvide all'ordinanza della milizia e vi accudì al punto di fanatizzarsene e farne la base di tutto un sogno politico, la ricostituzione dell'Italia mediante la costituzione di una milizia nazionale. Poi fu mandato a Siena incontro al Cardinale di Santa Croce legato del papa all'imperatore Massimiliano, che minacciava di scendere in Italia a cíngere la corona imperiale. L'incarico del Machiavelli era d'indovinare possibilmente dal legato quale potesse essere l'animo dell'imperatore. Allora la Francia colla sanguinosa repressione di Genova risorgeva in potenza, e Massimiliano naturalmente suo rivale era una testa così bizzarra da pretendere qualche volta di farsi persino papa; ma la Dieta, lesinandogli uomini e danari, gli impediva anche quelle imprese che sembrava consentirgli.
Massimiliano aveva chiesto a Firenze in nome dell'impero 500,000 fiorini. I Fiorentini che non potevano pagare così grossa somma, temevano di negarla, e non avrebbero osato concederla per non perdere l'amicizia francese.
Si pensò a mandare ambasciatori a Massimiliano, ma parve finezza farli precedere da qualcuno che saggiasse il terreno. Il Soderini nominò Machiavelli; ma questi era un subalterno. L'orgoglio fiorentino protestò; fu mandato il Vettori. Il Macchiavelli non era dunque arrivato, dopo parecchi anni di ufficio, questi che doveva passare ai posteri per il più furbo dei politici, a conquistare in Firenze nemmeno l'importanza di un Vettori, volgare letterato e politicante, che solo la sua amicizia con lui ha salvato dall'oblio.
Finalmente dopo molto armeggio il Soderini, che lo proteggeva, riuscì a mandarlo al Vettori come corriere apportatore di uno schema di accordo coll'imperatore, che il Vettori solamente doveva giudicare se presentabile o meno. Dalle lettere del Macchiavelli risulta che quel tenere a bada l'imperatore dilazionando il pagamento, gli pareva altrettanto inutile che pericoloso; ma i fatti gli diedero torto, poichè la tregua concordata nel Giugno 1508 fra Massimiliano e Venezia salvò i Fiorentini dal pagamento.
Il Machiavelli scrisse su questo viaggio nella Svizzera ai confini di Alemagna un rapporto, nel quale si è voluto vedere una grande profondità politica, I Tedeschi ne sono andati lieti per i complimenti alla Germania, gl'Italiani come di una scoperta fatta da uno dei loro. Fra i primi il Gervinus, solito ad ingannarsi sui letterati italiani, come nei giudizi sul Foscolo e sull'Alfieri, giudicò, cedendo al fascino del patriottismo, questo rapporto del Macchiavelli come un capolavoro di analisi sul governo tedesco e sull'imperatore; mentre il Mundt con più fine accorgimento vi notò l'influenza della Germania di Tacito; fra i secondi il Villari facile ad ammirare il Macchiavelli, deve pur confessare che le relazioni dell'ambasciatore veneto Quirini sono anche più acute, e che il Guicciardini a parità di caso è sempre più sicuro. La meraviglia davvero singolare di questo rapporto è invece l'oblio della rivoluzione religiosa e politica che agitava allora la Germania. Il Macchiavelli non sembra nemmeno sospettare che la Germania sia in preda a una delle più grandi rivoluzioni del mondo.
Le sue osservazioni sulle costituzioni svizzere e tedesche non oltrepassano le forme militari e politiche apparenti: raccoglie dati statistici, s'impressiona alla differenza del costume nordico, robusto perchè feroce, coll'italiano corrotto per troppa coltura, e ne fa un idillio di virtù nazionale che la Germania era ben lungi dall'avere in quel tempo. I libri stessi di Lutero, e lo studio fatto ora della grande riforma lo hanno largamente confermato. In questo primo rapporto si scopre già l'errore scientifico che informerà tutta l'opera del Macchiavelli, il barattare sempre il Governo per lo Stato, isolando le forme politiche dalle grandi ragioni sociali. La questione religiosa d'allora, che conteneva tutta l'odierna civiltà, gli sfugge quanto il cinquecento italiano collo immenso movimento artistico, nel quale viveva. In quel rapporto da lui parecchie volte rimaneggiato non fa alcun accenno alla storia tedesca; senza dubbio l'ignora, ma trascurandola del tutto sembra giudicarla inutile alla conoscenza del presente. Tutte le sue osservazioni sono sulla superficie; della coscienza del popolo, delle idee che compongono la sua civiltà, de' suoi bisogni spirituali, de' suoi ideali nessuna preoccupazione. Vessel e Huss non gli richiamano al pensiero Savonarola. Il Cantone svizzero non gli ispira alcun vero confronto col Comune italiano, la feudalità teutonica e italica per essere egualmente ostili al comune non hanno per lui essenziali differenze. Se gli Svizzeri e i Tedeschi sono militarmente superiori agli Italiani, egli spiega volgarmente tale inferiorità nazionale colla corruzione del popolo e l'insipienza dei governanti, senza sospettare che una causa più profonda, debba produrre questi effetti che gli paiono cause.
Così nei Ritratti delle cose di Francia non avverte il moto religioso che già vi fermentava e non analizza l'opera compita da Luigi XI: nota il Parlamento ma non l'esamina, coglie a volo la devozione e l'accentramento prodotto dall'eccessiva unità di comando, contentandosi di ripetere sul carattere francese le osservazioni di Giulio Cesare.
In questo torno il Machiavelli nominato commissario al campo di Pisa intese quasi esclusivamente all'ordinanza della milizia, confermandosi nelle idee che doveva poi esporre nei Dialoghi dell'Arte della guerra; e siccome finalmente Pisa gli si arrese, potè per la prima volta dopo molti anni di pratiche politiche, sfruttando l'opera dell'illustre e sfortunato Giacomini, acquistare in Firenze una certa importanza, la quale nè durò nè crebbe. A traverso tutte le conflagrazioni italiche d'allora il governo repubblicano del Soderini si approssimava fatalmente alla morte. Infatti, dopo la battaglia di Ravenna il cardinale Giovanni de' Medici, che doveva poi diventare Leone X, l'assalì: il Macchiavelli si illuse sulla vitalità del governo e sulla stabilità della propria ordinanza, che a Prato fu ridevolmente sbaragliata dal primo assalto degli Spagnuoli. I Medici rientrarono in Firenze, e il Macchiavelli, impiegato subalterno ma fedele del governo vinto, fu licenziato.
Questo, che fu il maggiore avvenimento della sua vita, rivela il suo carattere e il suo ingegno politico.
Democratico per istinto, Macchiavelli non aveva certo tempra repubblicana; pittore della politica, non era politico vero, giacchè a nessuno, anche minore di lui nell'ingegno, poteva o doveva sfuggire l'inanità del governo del Soderini e la forza crescente del partito dei Medici. Il Macchiavelli che disprezzava il Soderini, e morto lo colpì col migliore dei proprii epigrammi, lo sostenne sino all'ultimo per rivolgersi, appena lui caduto, ai Medici chiamandoli bassamente padroni. Voleva così ottenere da loro la riconferma nell'impiego, che invece gli fu tolto in quelle prime ore della diffidenza. La sua condotta non fu quindi nè abile nè forte: impiegato ligio al governo e senza fede ne' suoi uomini si limitò, egli che poco dopo doveva scrivere il Principe per consigliare ad un Medici l'arte d'imporsi con qualsiasi mezzo, a conservare in quel trambusto che decideva della fortuna e della vita di molti, il posto povero e inferiore di segretario; e ne fallì persino il modo. La fedeltà nel suo caso non poteva essere che eroica o volgare: politico del cinquecento, doveva tradire la repubblica condannata irremissibilmente a morte e cacciarsi nelle file dei Medici nuovamente arbitri dell'Italia; repubblicano, doveva cadere colla repubblica rinunciando all'impiego per esulare o congiurare. Invece sorpreso come Soderini dagli avvenimenti, non si mostrò che impiegato devoto a ogni padrone e preoccupato anzitutto dello stipendio.
Ma per Macchiavelli, come per la maggior parte degli artisti, scienza, religione, politica e filosofia, tutti hanno i proprii, la fibra del carattere non corrisponde sempre all'ingegno, mentre il suo ingegno stesso per essere speculativo si smarrisce nel tumulto dell'azione, alla quale poi ripensando rifà così facilmente il processo. Che cosa avrebbe detto il duca Valentino del diplomatico, che doveva diventare il suo storico, vedendolo in così triste arnese e con sì magra figura in mezzo ad avvenimenti tanto facili a prevedersi e a sfruttarsi? Macchiavelli decaduto dall'impiego rimase povero e sospettato. Il suo ingegno si offuscò, la sua abilità venne meno. Incapace di trovare adito ai nuovi padroni, dei quali non aveva saputo attirarsi l'attenzione nè col tradimento nè colla resistenza, ripiombava nell'oscurità e nella miseria con tutta la famiglia. Ma la sua era meno l'amarezza di una grande ambizione delusa che l'umiliazione di un gran disastro borghese. Le necessità della vita quotidiana sopratutto lo esasperavano, togliendogli di meditare un qualunque espediente per uscire di quella povertà, ora che il cardinale Giovanni diventato Leone X spiegava un fasto, che doveva poi restar celebre nella storia. Tutti correvano a Roma, venturieri, letterati, artisti, intriganti di ogni risma e capacità. Il nuovo papa, politicante come tutti i Medici quantunque troppo inferiore a Giulio II, tramestava moltissimi disegni. Una folla di segretari lo circondava; i letterati arrivavano a sciami. Il Macchiavelli che sentiva di non esserlo non osò muoversi, giacchè in Vaticano fra il Bembo e il Sadoleto sarebbe parso un ignorante. Si limitò quindi ad insistere presso il Vettori, legato a Roma, perchè gli ottenesse la grazia di un qualsiasi impiego dai Medici.
Ma a ciò faceva ostacolo sopratutto l'ultima congiura del Boscoli e del Capponi, infelicemente troppo simile a quella dell'Olgiati in Milano e nella quale il Macchiavelli era stato compromesso. Non già che egli avesse congiurato; il suo animo non era da tanto, ma come fautore del Governo caduto, il suo nome da quei giovani eroicamente sventati era stato scritto sopra una lista di persone che speravano aderenti. Il Capponi e il Boscoli morirono stoicamente; il Macchiavelli ricevette quattro o sei tratti di corda, e riconosciuto innocente fu rilasciato.
Su questo imprigionamento e sulla tortura patita le fantasie patriottiche, specialmente italiane della prima metà di questo secolo, hanno tessuto tutta una storia di martirio, facendo del Macchiavelli non solo un rivoluzionario moderno nato per eccessiva precocità nel quattrocento, ma un eroe. Il vero è che quasi all'indomani, poichè la lettera è del 13 Marzo e le prime carcerazioni dei congiurati erano avvenute il 18 Febbraio, il Macchiavelli scriveva al Vettori lagnandosi del tristo accidente e scongiurandolo ancora di ottenergli qualche impiego dai Medici; il vero si è, e molto brutto questa volta, che in prigione compose tre sonetti indirizzati a Giuliano de' Medici, in uno dei quali descrivendo il supplizio de' suoi compagni di corda e la tragica attesa dei condannati a morte, egli già sicuro di esserne fuori, usciva in questi versi pochissimo belli anche letterariamente:
Quel che mi fè più guerra Fu che dormendo presso l'aurora Cantando sentii dire: per voi s'òra
Or vadano in malora, Purchè vostra pietà ver me si voglia, Buon padre, e questi rei lacciuol ne scioglia
Il cinico egoismo di questa suprema imprecazione ai condannati repubblicani che l'avevano compromesso, e l'umile preghiera al buon padre Giuliano onde lo sciolga dai lacci, rivelano nel Macchiavelli l'uomo incapace di forti azioni e di eroici sentimenti, che piombato dalla nuova miseria in una impreveduta tragedia insultava e pregava, calcolando magari che l'insulto ai compagni sarebbe presso il tiranno più efficace della preghiera.
Ma qui finisce la vita politica del Macchiavelli e incomincia la letteraria. Nella prima non fu certo un politico, e i Signori che l'adoperarono e i contemporanei che lo conobbero, gli concessero ben poca importanza: non previde e non diresse avvenimenti, non fu di nessun partito e non se ne creò uno, cadde travolto nello sfacelo del governo come tutti i servitori che non sanno nè prevedere nè dividere nè profittare della ruina del padrone. L'attività politica non poteva avergli insegnato molto, giacchè non era mai riuscito ad applicare idee proprie, e non s'impara davvero che governando: aveva molto viaggiato, osservato, conversato, poco letto. Nella seconda elaborò quanto aveva raccolto e vi aggiunse quanto di latente si agitava nel suo spirito.
VIII.
Si è affermato, e il Villari è uno degli ultimi e più autorevoli in tale opinione, che con Macchiavelli comincia davvero la scienza politica, tanto meravigliosamente cresciuta in questo secolo. Se ciò fosse vero la gloria del Macchiavelli varrebbe quella del Galileo, giacchè le leggi della storia sono più difficili e non meno importanti di quelle dell'astronomia; ma se il Macchiavelli fu un osservatore solamente secondo al Guicciardini nello studio dei fatti politici e diverso in ciò da lui tentò ordinarli nel Principe entro una specie di sistema, non solo non ebbe nè coscienza nè potenza di una vera costruzione scientifica, ma le sue stesse osservazioni più spesso psicologiche che sociali gli riuscirono monche e insufficienti all'argomento.
Il medio-evo aveva avuto due scuole politiche: l'una guelfa e l'altra ghibellina. San Tomaso ed Egidio Colonna dominarono nella prima, Dante Alighieri e Marsilio da Padova brillarono nella seconda. Per San Tomaso la Chiesa era la sola vera unità della vita che cominciata sulla terra si compieva in cielo: il Papa riassumeva nella propria autorità questa unità e doveva dirigere la storia verso il fine che la trascendeva. Per Dante il fondamento della società è nel diritto, che divino anch'esso, essendo la giustizia voluta da Dio, à nullameno indipendente dalla religione e costituisce la base dell'impero. L'Imperatore sintetizza in sè l'Impero come il Papa la Chiesa: debbono armonizzarsi non sovverchiarsi; entrambi universali ed indiscutibili, non dipendono che da Dio, del quale hanno in deposito sacro l'autorità e la verità. Malgrado parecchie buone osservazioni storiche sul mondo romano e le inconscie ma innegabili tendenze alla emancipazione della società laica dalla ecclesiastica, Dante non ebbe e non avrebbe voluto avere il concetto dello stato laico, che molti apologisti si ostinano ancora ad attribuirgli. Il suo dissidio con San Tomaso rimane entro la cerchia incantata della scolastica, e il suo impero è piuttosto un riflesso che un avversario della Chiesa.
Con Marsilio da Padova, che la Germania sembra aver scoperto all'Italia, appare invece e sfolgoreggia il concetto dello stato moderno. Nel suo Defensor Pacis, il libro più meraviglioso del medio-evo, la polemica lo porta così alto da volere addirittura sottomessa la Chiesa allo Stato; quindi esamina i vari ordini dell'attività umana, determina molte funzioni sociali, separa il potere esecutivo dal legislativo emancipandosi primo dall'autorità tirannica di Aristotile. La monarchia di Marsilio è quasi una repubblica rappresentativa colla sovranità assoluta del popolo: la Chiesa risiedente nella universalità dei credenti e nelle Sacre Scritture non ha alcun potere coercitivo nemmeno sugli eretici. Se Dante nella sua Monarchia secondo la bella frase di James Bryce dettò l'epitaffio dell'impero, Marsilio nel Defensor Pacis scrisse la prefazione della riforma evocando dal futuro lo stato moderno. Certo egli non poteva dir tutto, nè tutto bene come il Villari vorrebbe, ma nessuno, il Macchiavelli compreso e venuto tanto tempo dopo, disse di più. Dopo questa grande vittoria di Marsilio sulla Scolastica, ottenuta con uno sforzo allora incompreso e oggi ancora quasi incomprensibile, non vi furono altri grandi tentativi. Fra l'Impero e la Chiesa non più così compatti avversari, avendo involontariamente colle loro discordie cooperato alla trasformazione dei Comuni in piccoli Stati entro i quali l'equilibrio degli sforzi e la moltitudine delle minime differenze favorivano in fatto la libertà, il grande dissidio teoretico parve sopito. Quindi l'erudizione dissuggellò il mondo classico traendone concetti e ragioni politiche prima ignote o trascurate. L'antico Stato pagano, già rievocato da Dante, abbacinò tutte le menti nel confronto involontario coi piccoli Stati del tempo; la sua virtù politica signoreggiò come ideale di grandezza storica la virtù cristiana.
Ma i molti eruditi, che scrissero allora trattati politici, fecero misture di massime cristiane e pagane piuttosto per esercitazione rettorica e con intendimenti di sermone che con vero scopo di battaglia politica o intenzioni di scienza. La quale doveva tardare ancora troppi secoli a nascere. In quella lotta di minimi Stati, che inermi e padroneggiati dai condottieri preferivano naturalmente la guerra degli imbrogli a quella delle armi, era sorta intanto una diplomazia ribalda ed astuta, nella quale lo studio degli uomini e il conflitto degli interessi menavano inconsciamente all'esame delle realtà storiche. Ma poichè mancava lo Stato italiano e la coltura intellettuale non si appoggiava sulla base solida di una coscienza nazionale, non era possibile trovare le vere leggi sociali e la media dei singoli interessi, o dalla morale puramente precettiva delta religione risalire al diritto per determinare di qualche guisa i rapporti dell'individuo collo Stato. Poi la storia avviluppata in quella molteplice tragedia di tutte le forme medioevali dissolventisi non mostrava indirizzo; il Comune era moribondo, lo Stato non nato, la Federazione impossibile, l'unità inconcepibile, l'indipendenza dallo straniero un desiderio mutevole negli interessi d'ognuno, la libertà libera, secondo la bella frase di Macchiavelli sugli Svizzeri, un mistero che solo l'unità dello Stato e l'eguaglianza politica degl'individui potevano rivelare.
Macchiavelli e Guicciardini capitarono in questo mondo e lo scrutarono.
Se San Tomaso ed Egidio Colonna avevano formulato nella loro teorica il concetto dell'universale politico del medio-evo, Macchiavelli e Guicciardini esposero in vari scritti le idee del particolarismo che era la caratteristica del loro secolo. Nessuno di loro due fu filosofo, ma cresciuti piuttosto nel disprezzo della filosofia che il neo-platonismo del Ficino aveva finito di screditare presso gli spiriti pratici, tendevano alla giurisprudenza senza raggiungerla, come alla migliore scienza del particolare e alla vivente tradizione di quella Roma nella quale tutti più o meno cercavano un modello.
E da Roma s'inspirò la maggior opera politica del Macchiavelli.
Ritiratosi, per evitare forse nuovi sospetti, nell'anno 1513 alla sua piccola villa in Percussina e disperato dell'aspettarvi sempre un ufficio non mai promessogli, si pose con più ardore allo studio. La politica che aveva amato come una donna, e dalla quale era stato respinto, lo perseguitava ancora con fantasmi e problemi. Non essendo mai stato abbastanza forte per dominarla imponendole le proprie idee, gli si acuiva ora naturalmente il desiderio di penetrare il segreto delle sue, scoprendo i reconditi motori delle sue così strane mutazioni e come si sviluppassero le sue forme; perchè si vincessero l'una l'altra con perpetua vicenda, in qual modo gli uomini cangiassero entro di esse e sopratutto come vi si potessero mantenere. Era come una rivincita della sua passione, l'estremo sforzo di un amante che cacciato dalla bella la decompone analizzandola e si rialza vittorioso dell'averla finalmente capita. Comprendere non è forse più che volere? Il pensiero non è sempre maggiore dell'azione?
Il fondo artistico della sua natura fermentava. Tutte le osservazioni e le esperienze di quei quindici anni d'esercizio politico gli si risvegliarono tumultuando nel pensiero. Era una ressa nella quale nessun fatto andava perduto, nessuna idea restava nascosta. Una luce bianca e fredda gli rischiarava la memoria, come il sole fa a certi giorni limpidi d'inverno quando la terra è tutta coperta di neve. Pensiero, anima, tutto gli si assorbiva nella memoria. Firenze col suo interessante esperimento del nuovo governo mediceo, e l'Italia stessa con tutta la sua tragedia di dolori e di pericoli, non esistevano più; in lui la curiosità del grande problema politico soffocava persino lo spasimo della sconfitta. Non gl'importava più nulla di essere un vinto. Voleva scoprire e sapere. Non era un filosofo e non si alzava troppo smarrendosi nell'astrazione, come più tardi doveva fare Vico cercando le massime leggi della storia; la sua era l'astrazione artistica che non oltrepassa la psicologia e non dissecca mai i fatti che analizza e non dissolve mai le forme che scruta.
Studiava la stessa politica, che aveva vissuto, fatta solamente di passioni, di bisogni, di idee individuali. Tutto quanto trascendeva l'individuo rimaneva inutile all'individuo stesso ed al problema. La vita era una realtà. Lo Stato non essendo composto che di individui, questi dovevano fatalmente contenere il secreto della sua vita, giacchè ogni società è basata sulla natura dell'uomo che pensa, sente, opera unicamente per sè. I più forti s'impongono, i più deboli subiscono. Ma come possono i forti imporsi? Studiando come e perchè i deboli subiscano.
Così la storia diventa un immenso dramma di cui la sola unità è nelle scene. Le parti non essendovi prestabilite, ogni attore può impossessarsi di quella che più gli talenta, salvo ad averne la forza. Una fantasmagoria sanguinosa si apre dinanzi al pensiero, ma così incessante ed immensa che il cuore non può sopportarla se non concentrandosi in qualcuno de' suoi quadri, mentre l'intelletto, cercando il nodo che stringe scena a scena, spia già quella che finisce per indovinare la fine di un'altra che incomincia.
È come un'altra visione ariostea trasportata dal sogno della cavalleria medioevale alla storia del mondo. I vari gruppi delle scene e dei personaggi vi rappresentano gl'imperi e le repubbliche dell'antichità. Le decorazioni contigue rimangono nullameno distinte, formando ciascuna un mondo a parte. Ma in questo caleidoscopio, che pare così vario e nullameno è così uniforme, ancora un'altra somiglianza con quello dell'Ariosto, giacchè la scena che vi si eseguisce è sempre politica ed è sempre un uomo che vuol comandare ad un altro che non vuol obbedire, solo l'eroismo di chi vince o di chi perde, tanto più bello se di un capitano che si sacrifichi per il proprio esercito o di un re che muoia per il proprio popolo, può apprendere all'intelletto qualche entusiasmo. L'eroismo allora sale oltre la virtù, la morte si complica di un olocausto che esaltando l'esercito o il popolo pel quale è compito gli assicura nuove vittorie. Ecco lo stato creato dall'eroismo del tiranno e mantenuto dalla sua grand'anima.
Ma veniamo ai Discorsi e al Principe.
Alcuni critici hanno voluto crederle due opere senza relazione, ma l'esame più superficiale di esse persuade subito che i Discorsi furono la preparazione, dalla quale si formò il Principe, per quanto premuto da un esterno bisogno, questo uscisse prima di quelli. I Discorsi non sono un trattato e non hanno costruzione scientifica: di essa il Macchiavelli non ha la più piccola preoccupazione. Dovevano essere nel suo pensiero un commento a Tito Livio, ma non gli riuscirono che divagazioni sparse di riflessioni, interrotte da raffronti, da quadri storici, da mezze biografie. Nessuna critica presiede al commento; Macchiavelli accetta il racconto di Tito Livio come verità accertata e indiscutibile. Sono divisi in tre libri, il primo dei quali discute come si fondino e si ordinino gli Stati, il secondo come s'ingrandiscano e si conquistino, il terzo come crescano e decadino. La distribuzione della materia è confusa, il richiamo da un libro all'altro, e l'inversione dello sviluppo quasi continua.
Il futuro storico fiorentino nel grande storico romano, attraverso la pompa magnifica dello stile, non cerca il critico o il filosofo, ma l'espositore: tutto è uguale per lui, il racconto di una magia e quello di una battaglia. La favola della fondazione di Roma non lo mette in sospetto, la simbolica delle prime forme giuridiche e politiche non nasconde nulla per lui quasi contemporaneo del Sigonio, che stava per aprire all'erudizione la grande via della critica. Macchiavelli non è nè un erudito nè un giurista. Il segreto della storia romana starà per lui nella vicenda delle guerre, nel gioco meccanico del governo. Dedicando questi Discorsi al Buondelmonti, dice di mettersi per una via non battuta da alcuno; ma questa originalità consiste per lui nell'insegnare l'imitazione degli antichi anche nella politica, mentre era già usata nella giurisprudenza, nella medicina e nell'arte. Per progredire retrocede, anzi il progresso per lui non esiste. La sua base essendo la psicologia nella quale l'uomo risulta sempre uguale a sè stesso, il progresso è impossibile. Non esamina la civiltà delle varie epoche, non ne interroga le religioni, le arti, il diritto, l'economia: per lui la storia è già perfetta come si trova in Tito Livio e gli basterà per risolvere i problemi che si propone o gli vengono a mano a mano suggeriti dalla lettura e dai ricordi.
Così l'origine, lo sviluppo, la morte d'uno Stato non può essere che quella d'un Governo, nel quale i mutamenti riusciranno inesplicabili separati dalla ragione della vita sociale. Per Macchiavelli l'anima di un popolo non esiste, nel Governo solo che lo regge sta il segreto della sua vitalità: se il Governo non decadesse, il popolo sarebbe immortale.
Il concetto scientifico informatore di questi Discorsi, così evidente per il Villari che nullameno ha dimenticato di dichiararlo, non si vede. Se il Macchiavelli avesse avuto un vero temperamento di scienziato, si sarebbe anzitutto preoccupato della forma e del metodo del suo libro: se il suo ingegno avesse posseduto un'idea originale, avrebbe intorno ad esso raggruppati tutti i fatti e li avrebbe con essa interpretati. Ora l'idea originale gli manca come storico, critico e politico. Dopo l'immenso monumento della Politica di Aristotile, nella quale lo Stato è concepito ed esaminato nella molteplice unità delle sue funzioni, il concetto angusto del Macchiavelli che lo scambia pel Governo, non è una originalità ma un errore.
L'uomo concepito dal Macchiavelli, indifferente ad ogni attività che non sia politica o militare, pensa solo a difendersi o ad aumentare la propria forza, cosicchè la difesa, mezzo alla vita, ne diventa lo scopo e la formula finale. Macchiavelli non imita Aristotile, lo ignora o non lo comprende. Questi, fondando il metodo induttivo nelle scienze naturali e il metodo storico nelle politiche, aveva affermato che i fenomeni della natura e i fatti della storia andavano egualmente trattati. Macchiavelli sembra non conoscere questo metodo che Leonardo da Vinci aveva già usato e Galileo doveva fra poco perfezionare; la sua induzione e la sua deduzione operano in un cerchio così stretto che i fatti debbono snaturarsi per capirvi. Il Villari trova ancora un'immensa differenza tra Macchiavelli e Aristotile, e quindi un merito di originalità nel primo, perchè mentre Aristotile già in possesso dell'idea concreta dello Stato mette a scopo della sua Politica la ricerca del migliore fra i governi, il Macchiavelli dichiara inutile questa ricerca e vuole invece indagare quali essi sieno o possano essere; ma per questo gli occorrerebbe l'idea dello Stato, e non avendola nemmeno quale la possedeva Aristotile, non solo tale indagine gli rimane impossibile, ma lo condurrà a maggiori errori. Aristotile trovò lo Stato greco quasi immedesimato colla religione e l'emancipò, esaminandolo, come un fatto naturale e dichiarando l'uomo un essere essenzialmente politico; il Macchiavelli prescinde anch'egli dalla religione, ma invece di svincolare lo Stato lo isola, lo amputa, ne fa un meccanismo governativo, che muove sè stesso senza ricevere e quindi senza poter comunicare ad altri il proprio moto.
La Politica di Aristotile è una delle tappe più gloriose nella storia del pensiero umano, forse il monumento più grande delle scienze storiche; i Discorsi del Macchiavelli non furono e non saranno mai che discorsi di un grande ingegno vagante nella storia colla penetrazione dell'arte politica e di una varia esperienza personale.
I Discorsi cominciando dal ragionare delle origini delle varie forme di governo s'appropriano, traducendolo, tutto un brano del settimo libro delle Storie di Polibio: le applicazioni che il Macchiavelli ne fa alla storia romana concludono a questo, che Romolo avrebbe potuto fondare diversamente Roma e diversamente informarne la storia, ma che i Romani risultarono così da lui costituiti e così durarono per gli scopi che dovevano realizzare. Secondo Macchiavelli la religione fu causa precipua della grandezza dei Romani, non per il suo contenuto, ma per avere conservato buono il costume; così la corruzione della religione cristiana organizzando la Chiesa a Stato diventò invece la vera cagione per la quale l'Italia non si potè mai riunire in nazione. E questo è un doppio errore del Macchiavelli, poichè i Romani furono un popolo pochissimo religioso e l'Italia non fu mai nazione nemmeno sotto di loro, durante la repubblica perchè non ancora unificata, nella monarchia perchè spezzata poi in provincie.
Quindi Macchiavelli arriva presto alla sua teorica prediletta, che suggeritagli dalla politica vissuta e verificata secondo lui dai racconti di tutte le storie, finisce non solo per sembrargli giusta, ma decisiva.—Ove si deliberi della salute della patria non vi è più nè giusto nè ingiusto.—L'uomo di Stato è al di sopra della morale. Ma questa verità essenziale nello Stato, che retto dalle leggi storiche non può soggiacere alla moralità delle leggi private, egli l'applica ai governi e ai tiranni senza accorgersi di scemarne il valore e di mutarne i risultati nell'applicazione. Poscia le tendenze democratiche gli si intromettono nel ragionamento guastandolo ancora: fra Catilina e Cesare per lui la differenza è solamente nel successo. La grandezza di Cesare gli sfugge perchè uccisore di una repubblica.
Strana contraddizione nell'autore del Principe che ammirava il Valentino!
Prosegue quindi ad esaminare la condotta dell'uomo di Stato, quando governi un popolo universalmente corrotto e intenda mutare la forma del governo passando dalla tirannia alla libertà o viceversa; e i suoi consigli e le sue osservazioni sono sempre della stessa maniera: atterrire o corrompere. Il governo dello Stato si muta in governo delle passioni o dei vizi dei governati. Talvolta le sue frasi sono terse ed acute come un pugnale, ma l'argomentazione non gli si consolida; la causa della mancanza di nazionalità dell'Italia è sempre per lui la corruzione, alla quale non vede altra speranza o rimedio che la tirannia di un grand'uomo. Coglie a volo il guasto prodotto dalla putrefazione del feudalismo nella vita italiana e scorgendone immune Venezia crede che ciò dipenda solo dalla diversa forma della sua aristocrazia.
Quando si tratti di fondare un Regno, secondo lui bisogna disfare e rifare tutto, abbattere città e fabbricarne, tramutare da provincia a provincia i popoli come praticava Filippo di Macedonia: mai vie di mezzo. Per governare una città sottomessa vi sono tre soli modi: ammazzare i capi dei tumulti, rimuoverli, far fare loro la pace: l'ultimo è il più pericoloso, il primo il più sicuro. Questa è la sua scienza politica buona in tutti i secoli e con tutti i popoli. Quando la forza non basti, bisogna aiutarla colla frode, che da sola può vincere spesso mentre la forza da sola non vince mai; ma qui pare lo colga qualche scrupolo e cerca di spiegare il significato di questa frode, diminuendo il valore di quanto aveva prima affermato. Il capitolo delle congiure è uno dei più belli perchè schiettamente psicologico: quindi ritorna al problema della fondazione o dell'ampliamento dello Stato, affermando pessimo quello tenuto dalle repubbliche del medioevo che imponevano una servitù peggiore di quella stessa delle monarchie. Ma questa profonda osservazione, già fatta dal Guicciardini, non gli si slarga e non gli rivela la necessità che condannava tutte le repubbliche di allora, alle quali invece propone tre vie d'ampliare lo Stato: imitare gli Svizzeri e gli Etruschi, i Romani, gli Spartani e gli Ateniesi. Ottimo dei tre il modo romano.
Al principio del terzo libro si ferma per dire che i governi e le istituzioni per vivere lungamente debbano essere ordinati così da poterli spesso richiamare ai loro principî; frase mal capita e peggio combattuta da Gino Capponi, e di poco valore giacchè è ancora un accenno all'ipotesi iniziale del grand'uomo che fonda profeticamente lo Stato per la storia avvenire, e peggio ancora perchè misconosce una volta di più l'azione fatale della vita dello Stato sul governo. Ma il richiamo al principio informatore dello Stato il Macchiavelli lo afferma più facile sul popolo che sopra un principe, facendo così contro tutti e con accento e entusiasmo democratico l'apoteosi del popolo, nel quale solo riconosce la capacità di mantenere le leggi, che il principe è più atto a dettare. In varî altri capitoli sparsi per l'opera si occupa già della milizia stabilendo le idee, che svilupperà poi nell'Arte della Guerra, e condannando anzitutto le compagnie di ventura, peste e rovina d'Italia; ma non si propone e non si spiega il problema della loro esistenza. Ha una fede illimitata nella costituzione e nella bontà delle milizie cittadine malgrado le crudeli e quotidiane smentite dei fatti, che provavano l'impossibilità di costituirle e la loro nullaggine in faccia alle bande di ventura: disprezza assolutamente le armi da fuoco e le fortezze che dovevano di lì a poco creare la nuova tattica e la nuova strategìa.
Da questa preparazione uscì il Principe: questi fu la figura, i Discorsi rimasero il fondo del quadro.
Evidentemente la cosa non poteva andare diversa nello spirito del Macchiavelli. Quelle scorrerie attraverso la storia di Tito Livio prodotte dalla sua passione per la politica del tempo nella quale era stato battuto, dovevano conchiudere a un'impresa. La sua critica senza metodo scientifico non era che una riflessione circoscritta nei fatti storici e animata dai loro sentimenti. Macchiavelli osservatore artistico della politica e da essa trascinato a diventarvi attore subalterno aveva dovuto naturalmente prendere la propria facoltà di osservare per la potenza di agire, e battuto duramente nella lotta invece di ricredersi rientrando in sè stesso, alzare piuttosto la propria singolare capacità di analisi fino alle pretese di farne una scienza. Ma di questa non aveva nè il temperamento nè la conoscenza dei limiti nè la coscienza del metodo.
Quei Discorsi così slegati, soliloquio più atto a persuadere sè stesso che a convincere gli altri, non potevano bastare all'energia del suo spirito: bisognava condensarli in un sistema o in una figura. Macchiavelli era artista e scrisse il Principe. Un personaggio fra i molti conosciuti nella pratica del suo ufficio gli si era imposto tiranneggiandolo e lo tiranneggiava ancora—il duca Valentino, eroe e genio di quella politica, della quale egli credendo di essere il maestro doveva restare il letterato. Il duca Valentino era l'uomo più complesso del suo secolo, e teneva alla Chiesa e al Principato, alla milizia e alla aristocrazia, alla politica e alle battaglie. Ultimo nella storia dei piccoli principi medioevali, slargava l'ambizione fino al sogno d'un Regno italico, riflesso dei grandi Stati nazionali che si costituivano allora in Europa, sulla coscienza italiana. Il Valentino aveva sentito il bisogno di schiacciare e di dissolvere le ultime forme feudali attaccando Principati e Comuni, disciplinando colla propria forza, che diventava quasi virtù, tutte le loro forze disgregate.
La sua figura ritta dinanzi allo spirito del Macchiavelli illuminava le sue osservazioni, coordinando le riflessioni confuse che gli si sarebbero forse imbrogliate nella meditazione. Il Valentino aveva la chiarezza dell'azione; era il sistema fatto uomo, il secolo individualizzato.
La fantasia del Macchiavelli, così facile ad accendersi pel fuoco dell'interna passione, s'infiammò: in poco tempo come sotto gli occhi del duca interruppe i Discorsi e scrisse il Principe. Nemmeno questo è un trattato, ma una biografia di lui, spesso sottintesa, frequentemente raccontata a brani, richiamata con esempi, narrata e costrutta con osservazioni e massime riassunte dalla sua opera e dalla sua vita. Lo stile di una trasparenza di cristallo è squillante e tagliente. I due sogni di Macchiavelli, il grand'uomo e il grande Stato si fondono nel Principe, ma egli vi coopera, ne è la mente che spiega l'opera fatale del temperamento. Il duca Valentino è l'inconscio, Macchiavelli la coscienza. Nessun dubbio lo turba, è sicuro di sè stesso: agisce nella realtà; il cinquecento era così. Ma egli e il duca sono sulla soglia di un mondo futuro, alla vigilia di costituire l'Italia: il duca Valentino ne sarà il nuovo Cesare, più fortunato dell'antico costretto ad uccidere la repubblica romana; quanto a Macchiavelli non vi è nome cui paragonarlo nella storia e resterà Macchiavelli. La gloria splende di già.
Nei Discorsi il suo ingegno non sempre sicuro divagava richiamato ogni istante alla realtà della storia presente; nel Principe la realtà lo fortifica fino a renderlo invincibile e a fargli quasi dimenticare la storia antica. Guicciardini aveva potuto contestargli trionfalmente le sue osservazioni sui romani e sui greci, ma nell'analisi di quel mondo moderno, nelle affermazioni tratte dalla vita del duca Valentino e di tutti coloro che gli avevano somigliato, nessuno lo contraddirà. Il suo Principe è il duca Valentino ingigantito, trasfigurato da tutti i principi italiani vissuti nella politica, della quale questi era stato la maggiore figura.
L'arte non ha moralità propria, poichè deve entro sè stessa lasciar libera la manifestazione di quella dei fatti raffigurati; così il Principe non ha morale. Macchiavelli inconscio e sereno come tutti i grandi artisti muove la propria figura nelle massime e colle massime dell'ambiente nel quale gli si è presentata.
Il libro è piccino e compatto come un getto. Originale sino a non essere paragonabile a nessun altro anteriore e posteriore, ha tutto il fuoco e l'improvvisazione inconsapevole di un capolavoro. Il Principe è un ritratto in cui ogni massima è un lineamento: il cinquecento politico posa davanti al suo pittore. Macchiavelli senza saperlo lotta con Leonardo, con Raffaello e con Tiziano, i tre grandi ritrattisti d'allora, e il realismo della sua ideale figura è più sicuro che non nei ritratti del duca di Ferrara, della Gioconda e di Leone X. L'entusiasmo di una idealità trascendente sostiene il nuovo pittore e gli comunica nell'opera quella magica poesia, che tutti i grandi pittori di quel tempo avevano. La figura del suo Principe terribilmente sinistra, impassibile e serena, ha sulla fronte i vapori luminosi di un sogno—costituire uno Stato nazionale, rifare l'Italia.—
Questo desiderio vago di tutte le coscienze d'allora, acuito dalle sofferenze della politica interna e dal risveglio della coltura classica, diventa in Macchiavelli passione. Artista della politica, porta la propria anima in una politica che fatalmente non poteva avere coscienza: pare la fusione dell'assurdo e invece è la fusione della vita. Il suo libro che dovrà essere tanto discusso non è discutibile perchè i ritratti non si discutono; prendetelo per un trattato e non varrà che ben poco e non sarà più intelligibile.
Così fu preso.
Certo il Macchiavelli intendeva di fare un trattato o di riunire un codice, e qui sta la grande contraddizione della sua natura, l'inconscio della sua arte. Petrarca disprezzava i propri sonetti e si stimava un epico: Macchiavelli si crede prima un politico, poi uno scienziato della politica e non ne è che l'artista. L'ammirabile chiaroveggenza, la sicurezza d'analisi sugli uomini non gli hanno giovato nella pratica. L'arte invece è una seconda vista: può fallare un individuo, ma coglie il tipo e ricostruendolo nella idealità di un ritratto sorpassa coloro che meglio avevano conosciuto e trattato l'uomo reale. Balzac il più grande psicologo dei tempi moderni, il più fino pittore di tutte le furfanterie sociali, fu sempre vittima di tutti i furfanti. Quella insufficienza del Macchiavelli nell'azione che gli faceva spesso sbagliare gli uomini e le cose così ben maneggiate dal Guicciardini, è adesso abbondantemente compensata dall'inimitabile rilievo, col quale disegna i caratteri del suo secolo e trascendendolo nelle tendenze e nei sogni lo inizia al futuro.
La prosa non esisteva ancora e Macchiavelli la crea e la perfeziona nel medesimo tempo; ma il miracolo è così grande che passa inosservato. La coscienza nazionale mancava ed egli nel Principe le offre il quadro di sè stessa insinuandole nelle più intime latebre il ferro rovente della nazionalità. È un sogno! non importa: il sogno è la prima forma dei fatti storici e ne rimane l'ultima.
Il Principe non si può analizzarlo, bisogna leggerlo; per decomporlo come molti hanno fatto, bisogna crederlo un trattato secondo l'illusione del Macchiavelli, e allora non è più che una congerie di massime monche, tronche, superficiali ed immorali! Come trattato, benchè più serrato nelle parti e solido nella struttura, ha tutti i difetti dei Discorsi; come opera scientifica è senza metodo. Siamo ancora alla confusione fra Governo e Stato, all'oblìo di tutte le attività sociali, al concetto del popolo senz'anima collettiva: nessuna vera intuizione dei tempi moderni, nessun profondo esame dello stato d'Italia, non un accenno alla Riforma tedesca, alla scoperta d'America, a quella di Copernico, della stampa, della polvere. Col formulario del Principe non solo non si fonda uno Stato italiano, ma non si governa nessuno Stato; colla pretesa di massime capaci per tutti i casi non se ne risolve alcuno. Nel Principe il processo è sempre quello di un piccolo tiranno esercitato da congiure di trivio o di palazzo, intento a conquistare qualche terra vicina, pronto ad ogni efferatezza per vincere e per vivere. Il fondo di esso è la barbarie feudale, il suo ambiente il feudalismo in dissoluzione fra i Comuni, Roma e l'Impero.
La scienza della politica non ha molto da imparare nel Principe di Macchiavelli, la storia del cinquecento non può farne a meno: il libro rivela il secolo nel quale vi è posto per ogni meraviglia. Macchiavelli e Ariosto vi si ignorano, Michelangelo e Raffaello non vi si comprendono: l'uno è l'ultima grand'anima italiana e assomiglia a Dante, l'altro non somiglia a nessuno, è ingenuo, fa tutto, imita e trasforma tutti, trova la varietà e la perfezione della bellezza in un secolo che non sente e non crede più nulla. De' suoi letterati nessuno vivrà tranne i due che lo sono meno, Macchiavelli e Guicciardini nella prosa: nella poesia i due meno applauditi, Ariosto e Tasso. Nessuno s'accorge ancora della rivoluzione già incominciata, Lutero fa sorridere, Venezia non teme dell'America, Roma di Copernico, i letterati abbominano la stampa, i soldati non credono alla polvere. Giulio II grida: fuori i barbari, Massimiliano vuole farsi papa, San Pietro è costrutto colle indulgenze, le statue antiche valgono più dei santi, il progresso della coscienza storica deriva dal guardare indietro al mondo romano, le Corti sono accademie di letterati e antri di assassini, il Vaticano è un teatro di buffoni, la filosofia una rugumazione di Aristotile divenuto indigeribile, la letteratura una imitazione che solo il lazzo della satira e la lezia della pedanteria animano. Il Principe di Macchiavelli, apoteosi del tiranno, codice dell'assassinio, finisce colla più generosa apostrofe alla libertà rimasta nella letteratura nazionale e con quattro versi della più eroica fra le canzoni del Petrarca.
Ma appena finita l'opera quel mirabile accordo della fusione dei contrarii nello spirito dell'artista finisce, e riappare l'uomo che credendosi sempre un maestro della politica si muta in subalterno. Quindi Macchiavelli pensa di dedicare il libro a Giuliano dei Medici, pel quale Leone X stava intrigando un principato. A questo modo Macchiavelli sperava di poter diventare il Mentore del nuovo Telemaco. Ma procrastina tanto che Giuliano muore. Allora risolvendo di dedicarlo a Lorenzo vi antepone una lettera e forse non manda mai nè l'uno nè l'altro, giacchè non si è mai saputo se Lorenzo accettasse la dedicatoria o prendesse conoscenza della scrittura.
L'uomo nel Macchiavelli è sempre al di sotto dello scrittore.
Sebbene il Macchiavelli avesse nel Principe la più trasparente chiarezza, il libro, appena stampato lui morto, diede luogo alle più disparate e direi quasi alle più disperate interpretazioni. Il Mohl ne ha compiuto il migliore elenco fino al 1858, il Villari lo ha proseguito sino ai nostri giorni, ma finchè visse il Macchiavelli, le poche copie che girarono manoscritte del libro non destarono scandalo: le opinioni e le massime del Principe erano quelle medesime del tempo. Il secolo non aveva una coscienza morale che potesse offendersene, mentre la sua coscienza storica vi si vedeva mirabilmente ritratta. Guicciardini, che aveva combattuti i Discorsi non protestò contro il Principe, Leone X consultò poco dopo Macchiavelli sulla politica generale e sulle condizioni di Firenze; Clemente VII più tardi gli commise le storie. Nifo di Sessa, volgare filosofo, tradusse in latino il Principe, alterandolo per dedicarlo come scrittura propria a Carlo V, finchè il Blado nel 1531, cum gratia et privilegio, di Clemente VII e d'altri principi, stampò Discorsi e Principe.
Ma quando Firenze cadde, dopo l'eroica resistenza, per l'ultima volta sotto i Medici, lo spirito politico cominciò ad osteggiare il Principe, prendendolo per un codice vero della tirannide, e l'evidente intenzione consigliatrice e scientifica del Macchiavelli parve infame. Il secolo cominciava a mutare: la morte politica aveva messo nell'anima di Firenze qualche reazione di vita morale. Del resto la pretesa del libro di essere un trattato, la sua stessa forma, la contraddizione che nello spirito del Macchiavelli l'aveva prodotto, dovevano essere un problema insolubile fino a quando la critica moderna ricostruendo il cinquecento e comprendendone il carattere per mezzo della prospettiva e del raffronto cogli altri secoli, potesse assegnare all'arte ciò che vi si oppugnava come scienza, spiegando nel Macchiavelli le antitesi della sua natura amalgamate colle contraddizioni del suo tempo. Certo per la gente volgare, che divide gli spiriti in categorie, riuscirà piuttosto difficile non riconoscere nel Macchiavelli che un grande ed incompiuto artista, mentre il titolo e la materia delle sue opere sembrano tanti argomenti per negarlo; ma la storia è tutta piena di quest'ingegni che congiungono le più disparate attitudini, di queste indoli meravigliose che agiscono nelle zone più opposte del pensiero. E poichè lo spirito è uno e la divisione fra scienza, arte, filosofia, religione è in gran parte formale, ognuna di esse ha uomini insigni che nella forma dell'una inconsciamente lavorano la materia dell'altra. Di tutte le classificazioni degli uomini la migliore resterà sempre quella del temperamento spirituale, che aiutato dalla interpretazione della loro vita spiegherà meglio di ogn'altra le loro opere.
Ora il Macchiavelli nella sua vita fin qui analizzata non fu nè un politico nè uno scienziato: nel resto che doveva vivere vedremo che non si mutò. Discorsi e Principe non sono produzioni di un vero spirito scientifico, giacchè in tal caso l'intenzione e la tessitura mostrerebbero il tentativo logico per stabilire veri principii generali, le angoscie del metodo, l'impersonalità voluta se non raggiunta dell'opera. Discorsi e Principe hanno invece caratteri essenzialmente opposti. La materia loro certo è scientifica, ma la materia non è l'opera, nè la scienza nè lo scienziato.
Che il Macchiavelli avesse vere attitudini di scienziato sarebbe insensatezza negarlo e furono appunto quelle che gl'impedirono di svilupparsi grande artista, ma aveva troppe attitudini artistiche che gli contrastavano l'equilibrio e l'astrazione necessaria alla scienza. Fra una legazione e l'altra scriveva i Decennali, cronaca sua e degli avvenimenti in versi mediocri; in ogni ritaglio di tempo tentava un Capitolo, in prigione nella peggior crisi della sua vita scriveva sonetti, nell'esilio alla campagna, dalla quale dovevano uscire le sue due opere maggiori, s'abbandonava a una corrispondenza la più artistica del secolo per la forma dei racconti e delle cose. Le sue qualità politiche essendo le più duramente negate dai fatti e dalla poca stima dei contemporanei, egli vi condensa tutto lo sforzo dell'ingegno; crea uno stile, una lingua, ammonticchia ritratti, osservazioni, formule, apostrofi, ironie, eloquenze; sa essere breve come Tacito, largo come Livio, mentre l'istinto realista della sua natura e la sua poca educazione classica in quella necessità di vivere nella vita politica lo rendono il letterato più vivo e moderno del tempo. Ma appunto perchè troppo fuso col proprio secolo, che i secoli immediatamente posteriori non comprenderanno animati di un'altra coscienza, Macchiavelli e il Principe vengono mal giudicati. La ribalderia di questo diventa ribalderia di quello; il problema morale che per Macchiavelli nell'opera non esisteva, ne rimane il solo, gl'altri essendo tutti dileguati coll'ambiente che li aveva prodotti.
Se Macchiavelli avesse veramente fatto opera di scienza, il problema morale nel Principe avrebbe esistito anche per lui; egli doveva distinguere la moralità pubblica dalla privata, quella della storia da quella della vita, e poichè quest'ultima non può farne a meno e la politica è parte di essa, cercare quale potesse essere la sua morale. Il Principe in un vero trattato scientifico non avrebbe potuto avere la personalità assorbente che ha nell'opera del Macchiavelli, quella unità che in lui fa sparire potere legislativo ed esecutivo, polizia e diplomazia, diritto, guerra, tutto. Nel fuoco della sua creazione artistica il Macchiavelli era così poco scienziato che non se ne accorse nemmeno. Domandargli se il Principe dovesse essere morale sarebbe stato come domandare a Cellini se le sue modelle erano oneste. Infatti allora nessuno glielo domandò fra i tanti amici che lo lessero. Mutati i tempi gl'esuli fiorentini non gli perdonarono nè i favori nè i consigli dei Medici; i nuovi cortigiani si adontarono de' suoi sentimenti democratici, i protestanti gli rinfacciarono l'irreligione, il cattolicismo si offese de' suoi attacchi alla chiesa.
Ma la battaglia durata intorno al Principe, inutile per l'arte e per la scienza, giovò alla morale. A traverso le infinite stravaganze delle interpretazioni e le bizzarrie delle accuse e delle difese tutti riconobbero che nella politica vi è fatalmente una morale. Quale?
Primi all'attacco furono i gesuiti che fecero bruciare in effigie il Macchiavelli ad Ingolstadt e ottennero da Paolo V di mettere le sue opere all'indice: Carlo V e Caterina de' Medici lessero il Principe, Enrico III e Enrico IV si disse lo avessero indosso quando furono uccisi; Richielieu lo meditò, Sisto V ne fece di sua mano un sunto. Quindi entrarono in lizza i protestanti, pei quali Macchiavelli, che non s'era mai occupato della Riforma e non aveva nemmeno presentito il problema della libertà di coscienza, era diventato l'oracolo del dispotismo. Al Gentillet troppo superficiale nel criticarlo succede il Bodino quasi profondo, ma Bacone da Verulamio e Giusto Lipsio lo difendono; il Campanella, bizzarra mistura di misticismo e di realismo, stravagante sino ai confini del genio ed eroico fino all'olocausto, lo maledice. Cristina di Svezia, stramba e violenta figlia di un eroe del quale aveva in parte ereditato l'ingegno, annota di propria mano il Principe; Federico II di Prussia gli contrappone l' Antimacchiavello facendo il ritratto del vero e virtuoso sovrano, senz'avere per questo compreso il ritratto del Macchiavelli; Napoleone I che si trova personalmente nella condizione del duca Valentino, se si moltiplichi la Romagna per l'Europa, invece lo ammira pur sentendone l'angustia. Prima di Rousseau che nel Principe vede un tiro giuocato dal Macchiavelli ai tiranni esponendo i principii fatali della loro condotta, Alberico Gentile aveva già trovata questa interpretazione, che Foscolo appoggiato sull'Alfieri doveva cantare in versi immortali: e questa interpretazione, una delle più false, dilaga quando il patriottismo italiano s'impossessa della figura del Macchiavelli. Poi in Germania col Bollmann comincia una critica più seria: il Raumer e lo Schlegel credono di trovare la sorgente degli errori di Macchiavelli nel concetto pagano che egli aveva dello Stato, ma il Principe così spiegato non è meno impossibile nel paganesimo che nel cristianesimo.
Ranke, il grande storico, è il primo a comprendere che il Principe, ispirato dai tempi, senza di essi diventa inintelligibile: s'accorge che non è un trattato e che il modello ne fu Cesare Borgia, ma finisce col credere che il Macchiavelli scrivendolo davvero per Lorenzo dei Medici, nella disperazione di rianimare l'Italia osasse così propinarle il veleno. E non è vero che il libro fosse scritto per Lorenzo dei Medici, nè che il Macchiavelli perfettamente conscio e quindi in disaccordo colle massime del Principe, si buttasse a questo eroismo. Due anni dopo il Leo notò benissimo che il Principe era più che altro una pittura storica dei tempi, e limitando a più giuste proporzioni il patriottismo del Macchiavelli il quale non poteva davvero credere alla immediata costituzione di uno Stato nazionale, stimò falsamente che il libro, invece di sorgere spontaneamente dal suo spirito, gli venisse suggerito dal calcolo basso di ottenere un impiego giustificando i Medici.
Il primo saggio compiuto sul Macchiavelli fu quello del Macaulay, che pubblicato nella Rivista di Edimburgo suscitò entusiasmi. Scrittore splendido e fine il Macaulay era nullameno troppo poco filosofo per l'argomento: buon giudice letterario esagerò affermando la Mandragola un capolavoro shakspeariano e giudicò invece assai bene la superiorità dello stile del Macchiavelli su quello del Montesquieu; descrisse il carattere italiano, come usavano e usano ancora gli stranieri, per conchiudere che la corruzione del popolo italiano e del Macchiavelli era la chiave dell'enigma del Principe. Secondo il Macaulay le massime generali sono senza valore e il solo merito di quelle del Macchiavelli sta nell'essere più applicabili delle altre; ma via di questo passo non si accorse di annullare l'opera che intendeva spiegare e con essa tutta l'importanza delle scienze morali. Il Gervinus in largo e minuto studio storico anatomizzò invece tutte le opere del Macchiavelli, per ripetere nella spiegazione del Principe quello già detto dal Ranke, illustrando col proprio patriottismo germanico il supposto eroico patriottismo del Macchiavelli. Lo Zambelli nelle sue Considerazioni del Principe sembra riprendere con maggiore sicurezza la tesi del Macaulay, provando contro di lui la corruzione europea pari se non maggiore di quella dell'Italia, ma poi tira a scemare l'odiosità del Valentino colla solita necessità pratica e collo scopo patriottico, spiegando come il Macchiavelli, morto il Valentino, disperato del proprio sogno tornasse a fantasticare la repubblica. E repubblicano lo dipinse il Guerrazzi nell'Asino e nel primo capitolo dell'Assedio di Firenze mettendogli in bocca un discorso che il Macchiavelli per primo non avrebbe compreso. Il Desanctis critico più famoso che forte, nella sua storia della letteratura italiana girò per un lungo capitolo intorno al Macchiavelli e al Guicciardini senza intendere nè la natura artistica del primo nè quella politica del secondo, divagando in inutili teoremi morali e in confuse riflessioni storiche. Con ben altro ingegno il conte di Cavour alla prima lettura delle opere postume del Guicciardini lo giudicò sicuramente per vero politico contro e al disopra del Macchiavelli, del quale però non ha lasciato verun giudizio scritto.
Solo fra tutti Giuseppe Ferrari in un ammirabile opuscolo che il Villari non si è nemmeno degnato di citare nel suo lungo catalogo sui giudizi dati del Macchiavelli, quantunque valga per lo meno i tre volumi da lui consacrati al Segretario fiorentino, coglie con stupenda ed irresistibile critica tutti gli errori del Macchiavelli come legislatore storico politico e l'influenza su lui del secolo; ma trascurando il lato artistico della sua natura, è costretto a scemargli troppo l'ingegno nelle molte insufficienze storiche e legislative; mentre, spaventato quasi dal risultato della propria critica e seguendo la trascendenza del proprio pensiero filosofico, cerca poi di provare come da quegli errori derivassero tutte le verità della scienza politica moderna, ricostruendo in una visione profetica il Macchiavelli distrutto da una analisi troppo chiaroveggente.
Ma fra tutte queste più o meno illustri opinioni inconciliabili, la figura del Macchiavelli resterà sempre un enigma finchè si voglia crederlo un filosofo che fonda un sistema: le sue innegabili qualità di scienziato disperse, impedite dal suo temperamento artistico non potranno mai in lui riunirsi per giustificare la sua stessa pretesa alla scienza. La sua opera esprime la contraddizione della sua vita, entrambe quella dei tempi. Così all'indomani dell'aver voluto consigliare Lorenzo dei Medici col Principe senza nemmeno conoscerlo o se fosse almeno uomo da comprendere il consiglio, interrogato sul governo di Firenze da Leone X, seguendo la propria natura democratica gli suggeriva di ristabilire la repubblica: consiglio ridicolo dato a Leone X che l'aveva uccisa, assurdo ed impraticabile nella condizione dei tempi. Il Guicciardini invece consigliò ai Medici gli espedienti e i modi che convenivano al loro problema.
Ma questa contraddizione nel Macchiavelli non è disperato patriottismo, bensì urto di facoltà spirituali e di tendenze che in lui non arrivavano ad armonizzarsi. Così nella vita fu volgarmente buono e non commise ribalderie: natura piuttosto arida, scarsa di sentimenti e quindi ironica, non si macchiò nè di danaro nè di sangue: ammiratore del Valentino e consigliere a tutti delle sue maniere non avrebbe poi avuto il coraggio di servirlo. Dimandare dunque se Macchiavelli fu onesto o disonesto, è supporlo un filosofo che stabilisce un sistema: invece artista, colpito dalla fatalità assassina della politica di allora, vi ragionò sopra descrivendola senza oltrepassarla.
Il vero problema della morale nella politica Macchiavelli nè vide nè poteva vedere mancandogli la visione sintetica di tutte le forme dello Stato; sentì solamente che la piccola morale privata non era quella della storia di nessun tempo, e non scorgendone altra in essa non pensò a cercarla. La storia gli parve ripetizione dei medesimi fatti prodotti dalle medesime passioni. La filosofia della storia rappresentata nella Bibbia colla elezione del popolo ebreo, quella schizzata da Zenone o da Sant'Agostino nella Città di Dio non potevano piacere a lui irreligioso e realista, incapace di sollevarsi tanto sopra ai fatti da vederli sparire in una idea; il cristianesimo che pure metteva un disegno nella vita, egli cinquecentista non l'intendeva, la critica non era ancora formata, l'erudizione non aveva che cominciato il proprio lavoro. Il quadro era angusto ma il suo sguardo non riuscì a sfondarlo, quindi osservazioni e conclusioni tutto gli riuscì falso.
Ma l'arte vera più confacente alla sua natura lo riprese. Quindi lo vedremo dopo un libro sull'arte della guerra, ultima illusione della sua capacità di Governo, scrivere molte commedie, un romanzo politico, una storia, una novella, una satira, un dialogo sulla lingua, molti capitoli, alcuni canti carnascialeschi; ritornare un momento sulla scena politica per prendervi qualche abbaglio e morire.
IX.
Il libro dell'Arte della Guerra deriva come il Principe dai Discorsi e in certo modo ne è il complemento; il Principe impersonava il sogno di uno Stato nazionale, il libro sulla milizia era lo studio del miglior mezzo per conquistarlo. Ma questo sogno non prese mai nella mente del Macchiavelli i contorni più o meno precisi di un disegno; il Guicciardini, che lo aveva egualmente accarezzato, in una ammirabile pagina ne dimostrò a sè stesso tutte le impossibilità politiche e storiche. Così rimase sogno che dopo aver inspirato al Macchiavelli le pagine più belle andò a morire in un troppo vantato sonetto del Filicaia per risorgere nei Carmi del Foscolo.
Macchiavelli ammesso nella brigata dotta ed aristocratica degli Orti Oricellarii, rimasta poi celebre nella storia, vi contrasse illustri amicizie che gli permisero di arrivare fino a casa Medici. In quel circolo, nel quale capitavano uomini di guerra, concepì la forma del suo libro che è un lungo dialogo immaginato tra Cosimo Rucellai, Zanobi Buondelmonte, Battista della Palla e Luigi Alamanni nel 1516, quando il Colonna ritornò a Firenze dalla guerra finita di Lombardia. La forma artistica del libro rivela l'indole dello scrittore: le sue idee sono quelle medesime dei Discorsi e del Principe, le sue illusioni e le sue pretese quelle stesse contratte occupandosi dell'Ordinanza nell'Assedio di Pisa. Soldato non era, guerre non aveva mai vedute giacchè l'assedio di Pisa e la rotta di Prato non meritano tal nome.
Comincia deplorando l'errore funestissimo che in Italia separando la vita civile dalla militare aveva creato le compagnie di ventura, ma di questo errore così pieno di problemi storici invece di cercare la spiegazione, enumera piuttosto le conseguenze; compito facile ed inutile allora per l'infelice esperienza di tutti.
Vorrebbe una milizia nazionale nella quale non si facesse il soldato per mestiere, e con uno dei soliti paragoni riunisce i tempi di Attendolo Sforza e di Braccio da Montone a quelli di Cesare e Pompeo: ma entrando presto in materia imita o traduce addirittura il famoso libro del Vegezio. Non ammette altro modo di guerra che il romano, ma cercando di rifarne gl'ordini mescola la legione col battaglione svizzero, riproduzione della falange greca, e le scema così quella mobilità e capacità ad atteggiarsi prontamente sopra ogni terreno, che rappresentava tutto il progresso dei romani sui greci. In quel mondo del cinquecento con altri costumi e diversa coscienza propone il servizio militare per tutti e l'educazione della gioventù alla romana. A questo punto, siccome uno degli interlocutori domanda perchè gli antichi ebbero maggiori virtù politiche e libertà dei moderni, Macchiavelli risponde: perchè erano repubblicani e pagani. Per lui il cristianesimo è ragione assoluta di decadenza politica; la differenza della individualità pagana e cristiana gli sfugge ancora. La sua poca stima della cavalleria e la grande importanza della fanteria sono idee romane: così pure la battaglia che dispone teoreticamente al terzo libro, nel quale si ride delle artiglierie. Nel quarto nel quinto e nel sesto ragionando dei movimenti dell'esercito e del suo alloggiamento, il Macchiavelli che di guerre non ne aveva vista alcuna, segue sempre l'esempio romano. A proposito delle pene militari, egli politico che pure avrebbe dovuto conoscere gl'italiani di allora, propone che a modo dei romani e degli svizzeri siano date popolarmente: consiglio che parrebbe ridicolo in bocca di ogni altro e che nella sua riesce addirittura inesplicabile. Finalmente nel settimo libro parla delle fortificazioni, ma nella sua niuna fede alle artiglierie e nella sua ignoranza della ingegneria, non arriva nemmeno al punto che la scienza d'allora aveva toccato: quindi mette in bocca al Colonna il ritratto del capitano ideale componendoglielo al solito con esempi di storia; e chiude colla inevitabile invocazione al principe liberatore.
L'opera scientificamente non ha dunque nè originalità nè valore; è un ritorno agli ordini antichi piuttosto ispirato da un sistema di idee letterarie e storiche che da vera conoscenza della materia. Così Macchiavelli studiando il modo e la difficoltà di comporre un esercito invece di guardare intorno a sè per vedere che differenza presenterebbero la Romagna, la Toscana, il Reame o Venezia si contenta di tradurre un brano di Vegezio sul soldato ideale: trattando della educazione guerriera, secondo la sua teoria l'uomo è sempre uguale e un cittadino del foro romano e un borghese del mercato fiorentino hanno le stesse attitudini; il cristianesimo, che aveva dieci secoli di guerre non interrotte, è per lui antimilitare e nullameno non cerca come controbilanciarne l'influenza; l'Italia non ha coscienza nazionale e tuttavia egli crede possibile riunirla in un esercito; vi sono armi nuove da fuoco, imperfette che non pertanto hanno già mutato parte della tattica, e non ne tien conto; non vi erano più generali italiani di gran nome, le bande stavano per finire, gli stranieri occupavano più che mezzo il paese, i Comuni più che inermi erano inetti alle armi, ed egli astrae da tutto. Risuscitare i romani ecco ancora il suo sogno d'artista; essi avevano coi loro ordini militari conquistato il mondo, e coi loro ordini militari l'Italia del cinquecento avrebbe riconquistata sè stessa.
Ma se gl'ordini militari romani avevano prevalso nel mondo antico era dipeso dalla inferiorità dei sistemi militari degl'altri popoli incapaci di ordinarsi come i romani per troppe ragioni d'indole e di civiltà, ragioni che l'Europa del cinquecento non avrebbe più avuto contro l'Italia. Il ritorno dell'ordine romano imitato naturalmente da tutti i popoli, lasciando intatte le loro differenze avrebbe conservato in faccia ad essi l'inferiorità militare dell'Italia.
L'argomento del Macchiavelli, che gl'italiani nei combattimenti isolati riuscivano spesso superiori agli stranieri, non provava la maggiore attitudine della nazione d'allora alle armi, ma piuttosto un effetto delle guerre continue e delle compagnie non mai congedate, nelle quali i migliori individui potevano raggiungere la perfezione degli antichi gladiatori romani.
E coll'Arte della Guerra e colla vita di Castruccio Castracane si chiude il ciclo politico-letterario del Macchiavelli.
In cotesta vita, che molti credettero una vera biografia e fu poi chiamata un romanzo, il Macchiavelli andato a Lucca per affari di certi mercanti fiorentini, sempre signoreggiato dalle idee e dalla figura del Principe, ripensando ai casi di Castruccio, il miglior generale del medio evo, ne compose un racconto come quelli di Diogene Laerzio e di Diodoro Siculo, mescolando il vero all'immaginario, amalgamandovi in un ammirabile getto le gesta di Agatocle. Nel racconto breve ma letterariamente perfetto la figura del duca Valentino è sempre dietro a quella di Castruccio, il quale si muove nullameno con personalità tanto viva da far credere quel romanzo una vera storia. Gli amici degl'Orti Oricellarii ammirati del nuovo stile consigliarono il Macchiavelli a scrivere storie e gli ottennero dallo Studio, cui era capo allora come vescovo pro tempore il cardinale Medici, la commissione di scrivere quella di Firenze in due anni con cento fiorini all'anno.
Macchiavelli si accinse subito agli studi preparatorii, ricusando l'offerta fattagli dal suo antico padrone Pietro Soderini di andare segretario presso Prospero Colonna con duecento ducati d'oro di provvisione e le spese. Era questo uno spiraglio che gli si apriva finalmente sulla politica, nella quale l'illustre capitano era attore importante; ma il Macchiavelli ancora atterrito dalla congiura del Boscoli, e sapendo che i Soderini congiuravano coi francesi per cacciare i Medici, rimase a Firenze nel codazzo del cardinale Giulio, al quale ripropose il disegno offerto a Leone per il ripristinamento della repubblica. E nemmeno s'accorse che quegli ben più fino politico di questi, domandando tali disegni a tutti intendeva di saggiare la pubblica opinione, niente disposto a largheggiare di libertà con Firenze; chè anzi i più giovani ed ingenui frequentatori degl'Orti Oricellarii, ai quali le declamazioni del Macchiavelli avevano scaldato il sangue, avendo congiurato contro il Governo, il cardinale fu prontissimo a reprimere la rivolta, decapitandone senza pietà due fra essi. Il Macchiavelli, nel quale il cardinale Giulio aveva fiutato la natura puramente letteraria incapace d'azione malgrado i grandi discorsi, non ne fu nemmeno disturbato, mentre dal canto suo non si mosse a favore degli amici proscritti.
Il suo patriottismo che doveva essere tanto decantato si scoperse anche questa volta di puro intelletto senza cuore e senza carattere. L'antico segretario di Pietro Soderini contro i Medici non volle seguirlo nella congiura da lui e dal fratello cardinale tramata a favore di Firenze, per non perdere coll'incipiente protezione dei Medici la provvisione delle Storie e la calma necessaria alla sua vita di letterato. Impiegato e cliente subalterno, la fede della quale si vanta così spesso nelle lettere, non è che troppo spesso docilità e poltroneria. Forse la viltà dei tempi lo scusa, quantunque anche allora vi fosse chi sentiva altamente e sapeva arrischiare la vita per idee, nelle quali Macchiavelli con artistica sincerità non realizzava che la bellezza incomparabile del proprio stile.
Quando il Macchiavelli si pose alle Storie, dice benissimo il Villari, v'erano in Firenze due scuole di storici, quella del Villani nella quale proseguivano annalisti e diaristi, e l'altra degli eruditi con alla testa Leonardo Aretino e Poggio Bracciolini non molti anni addietro segretari entrambi della Repubblica. Spregiatori della cronaca, pur nella forma rispettandone la divisione per anni, costoro avevano mirato alla dignità classica solamente trasformando ogni minima scaramuccia in battaglia e vestendo tutti i personaggi alla romana. Quindi in essi non critica degli avvenimenti, non ritratti, non aneddoti che mostrino il carattere dei tempi: l'aggruppamento dei fatti, determinato sempre da ragioni letterarie e decorative, finisce quasi ad annullarli. Nullameno questo esercizio rettorico della storia aveva inconsciamente condotto gli eruditi nel dilatarsi del campo storico verso la critica filosofica e filologica.
Flavio Biondo infatti v'era già entrato stampandovi un'orma di leone, ma scrivendo egli pure in latino per dispregio della lingua volgare. V'erano quindi storie di materia italiana piuttostochè storie italiane.
Al tempo del Macchiavelli, però, col nobilitarsi della lingua italiana e lo studio profondo che della politica aveva necessariamente iniziato la diplomazia di tutti i Governi, era cresciuto in tutti il desiderio di una storia che dettata nella lingua corrente e basata sulla realtà dei fatti ne fosse insieme specchio e spiegazione. Il Guicciardini giovanissimo, che del proprio secolo era senza forse colui che meglio doveva esprimerne il carattere e comprenderne i bisogni, aveva già scritto una Storia Fiorentina, rimasta inedita sino quasi ai nostri giorni, nella quale preludendo maestrevolmente alla sua futura grande Storia d'Italia, forzava primo il passaggio dalla cronaca alla storia. Chiaro, più elegante nello stile che non dovesse poi esserlo in seguito, con un giudizio già maturo in tutti i fatti e un'esperienza precoce di tutti gli uomini, sebbene non avesse allora che ventisett'anni e non fosse per anco entrato nelle pubbliche pratiche, analizzava già l'avvicendarsi dei partiti, metteva a nudo i caratteri, determinava le passioni degli avvenimenti. Imparziale coi Medici ammirava Savonarola, ricercava i documenti originali, esponeva le leggi, citava persino le frasi testuali delle ambascerie. Certo a lui pure sfuggiva la parte impersonale degli avvenimenti, troppo violentemente tirato dalle forti qualità della sua natura realista e politica; ma questo difetto in lui comune col Macchiavelli e col secolo, non era come nel suo rivale peggiorato dalle licenze di una fantasia teorizzante sui fatti e contro i fatti. Guicciardini aristocratico potè in seguito lasciarsi cogliere dalla passione della forma che era allora l'aristocrazia della letteratura, e mal sicuro nel gusto falsare il proprio giovane stile nell'imitazione ciceroniana; ma politico e storico nato non si curò mai di poesia, non scrisse come il Macchiavelli Commedie e Decennali fra quella ressa di tragedie che componevano allora la politica, non divagò dietro pretensiose e false teorie come nei Discorsi, non ebbe mai il sogno fantasmagorico del Principe, non si atteggiò a capitano precettore di guerra, non eccitò a libertà per poi abbandonarla timidamente in faccia al pericolo, non mendicò impieghi, non predicò la necessità della furberia; ma profondamente furbo, privo di coscienza come il suo secolo, coperse eminenti cariche, si rivelò uomo di gran Governo e non fu veramente vinto che vecchio da Cosimo II, politico ben altrimenti terribile del cardinale Giulio che aveva potuto così facilmente giocare il Macchiavelli colla proposta delle Riforme, accettando poi da lui con scettica indifferenza la dedica delle Storie piene di odio contro il papato e di riserbo cortigiano per Casa Medici.
Nel Proemio alle Storie il Macchiavelli annuncia subito il pensiero che lo dirige e sul quale baserà il proprio edificio: se l'Aretino e il Poggio «duoi eccellentissimi storici» non avevano parlato che di guerre esterne, tacendo delle civili discordie, delle intrinseche inimicizie, e dei loro effetti, egli intendeva riparare all'errore «perchè nessuna lezione è utile a coloro che governano quanto quella che dimostra le cagioni degli odii e delle divisioni, massime in una città come Firenze, in cui le divisioni furono per nome infinite; portarono esigli, morti, devastazioni e pur non poterono impedire la prosperità della Repubblica; anzi pareva che l'aumentassero.»
Il principio e l'intenzione delle Storie è dunque quello medesimo dei Discorsi, del Principe e dell'Arte della Guerra: una lezione di politica data agli uomini di Stato, una verificazione delle teoriche che Macchiavelli ha stabilito nelle opere precedenti. Guai ai fatti che le contraddiranno! L'artista politico non è mutato ma sta per ingrandirsi: il campo che gli si apre davanti è così vasto che il suo ingegno vi si può dare carriera, l'innegabile originalità del suo proposito storico nel quale Guicciardini lo ha preceduto senza che egli lo sappia, non gli viene da una meditazione filosofica della storia, ma dalle tendenze del suo spirito e di tutta la sua vita. I grandissimi modelli antichi, Tacito e Livio, non sono più presenti al suo pensiero e non gli compariranno che ad intervalli per suggerirgli qualche forma di stile o disegno di orazione: fiorentino, i suoi autori sono i cronisti che l'hanno preceduto. L'Introduzione generale che premette alle Storie, falsa nelle proporzioni architettoniche come vestibolo enorme di piccolissima casa, non sarà che un esercizio artistico, un ritardo volontario intorno a qualche massima o a qualche personaggio, una imitazione ed un plagio di Flavio Biondo e di Leonardo Aretino.
Il Villari costretto a notarvi la poca o nessuna originalità così nella erudizione come nell'ordinamento dei fatti, vi si ripiega giustamente sul merito letterario. Una figura però vi campeggia troppo simile al duca Valentino nel Principe e come questi salvatore d'Italia, Teodorico re degli Ostrogoti. La solita esaltazione riprende il Macchiavelli che, pur copiando dal Biondo, per idealizzare il proprio ritratto tralascia quanto gli nuoce e svisa addirittura fatti importanti, come l'espulsione di ogni italiano o romano dall'esercito decretata da Teodorico.
Ma presto il Macchiavelli arriva all'altro concetto determinante le sue Storie, la facilità colla quale l'Italia avrebbe potuto riunirsi in nazione se i papi non l'avessero invincibilmente mantenuta divisa per rabbia di regno. E qui è il Villari che si riscalda ammirando il coraggio di questa affermazione in un libro ordinato dal papa, e la sincerità dell'uomo che poi tutto il mondo doveva ostinatamente negare: ma poco dopo confessa egli medesimo che eroismo non vi fu mentre Clemente VII non mostrò nemmeno meravigliarsi della cosa, così i tempi erano scettici e scarso il sentimento religioso nel Vaticano. Senonchè il concetto del Macchiavelli per essere diventato popolare quando il patriottismo dovette per riunire l'Italia osteggiare il papato, non è storicamente meno falso. L'Italia non fu mai nazione. I Romani la conquistarono senza fonderla con sè medesimi nella repubblica; durante la monarchia fu pareggiata alle altre provincie conservando in sè stessa tutte le differenze che l'animavano. La civiltà romana divenuta troppo presto universale coll'assorbimento della civiltà greca, non potè attendere la fioritura italiana e non ebbe quindi nè arte nè scienza nè filosofia nè religione veramente originale; la sua grandezza derivò dalla giurisprudenza e dalla politica. Poi nel franare dell'impero i barbari ruinando sull'Italia vi portarono e vi produssero altre differenze. Rotta l'unità romana, l'unità cristiana anche più universale ed astratta non poteva riunire l'Italia. La lotta ricominciò fra la Chiesa e l'Impero: quella malgrado tutte le proprie contraddizioni era per la libertà, l'Impero per la tirannia; l'infallibile istinto storico fece guelfo il popolo e ghibellina l'aristocrazia feudale. Il Macchiavelli lo nota ma non arriva a comprendere neppure confusamente la vera posizione e l'azione storica del papato nel medio evo. Il suo pregiudizio irreligioso lo trascina, la sua inettitudine alla filosofia e alla critica lo paralizza. Egli che considerava il popolo senz'anima come cera in mano al Principe legislatore, non poteva nemmeno sospettare che la nazionalità derivasse dalla unità delle coscienze individuali. Così gli sfuggono tutti gli elementi spirituali del cristianesimo, del quale si ostina a non vedere che gli eccessi penitenziari e le mostruosità rituali. Per lui le crociate, il più gran fatto del medio evo, che iniziava tutto l'avvenire, è opera di Urbano II, il quale odiato a Roma ripara in Francia e vi predica contro gl'infedeli: le sole conseguenze di esso sono la fondazione dei due ordini di cavalieri, Templari e Gerosolimitani, e poche conquiste in Oriente. Nella grande contesa fra papato ed impero non vede Gregorio VII, figura gigantesca di cui l'ombra potè per un momento coprire tutto l'impero, mentre in ogni avvenimento scorge poi sempre una causa personale. Considera la religione solamente nella forma della Chiesa, la civiltà nell'azione di un Governo, l'uno e l'altra più volentieri ancora riassunte in personaggi politici. Sfiora la lotta dei Comuni col Barbarossa, tace dell'immenso sviluppo dato da Federico II alla civiltà del mezzogiorno, nomina appena i Vespri Siciliani, le discordie dei Guelfi e dei Ghibellini, le vicende del Reame di Napoli per non perseguitare che i pontefici e i capitani di ventura, fermandosi solo ai fatti che aiutano le sue teorie dei Discorsi e del Principe.
Questa l'Introduzione generale tanto vantata dai suoi apologisti; la quale se si prescinda dal merito letterario troppo in essa ancora disuguale quantunque a certi punti singolarissimo, non contiene nessun'idea, non inizia nessun metodo che possa attribuire al Macchiavelli un grande posto fra gli storici.
Il secondo, terzo e quarto libro abbracciano la storia di Firenze dalla sua fondazione sino al trionfo dei Medici, ma dell'origine del Comune dice appena poche parole per saltare subito alla tragedia di Buondelmonte nel 1215, dalla quale crede erroneamente derivare la divisione della città in Guelfi e Ghibellini. Il Villani da cui copia condensando con ammirabile potenza letteraria, e Ricordano Malaspina avevano pur narrato prima del triste caso una serie di guerre fra il Comune fiorentino e i baroni del contado, che vinti e costretti a vivere nella città vi avevano portato colla ferocia dei costumi la crudeltà di un odio di razza. Il Macchiavelli, tratto dal suo bisogno di mettere sempre una causa drammaticamente personale ad ogni avvenimento politico, muove dal caso del Buondelmonti, ma più acuto del Villani che andava smarrendo il filo della grande contesa, s'accorge subito che dietro i Guelfi e i Ghibellini non stanno solo l'Impero e la Chiesa, bensì la feudalità e il popolo: l'una rappresentante la razza dei vincitori sovrappostasi alle genti latine nell'invasione, l'altro ancora in gran parte latino malgrado la mistura del sangue e nemico inconciliabile della feudalità per la tradizione del suo passato e la necessità del suo futuro. Ma anche qui il Macchiavelli non arriva ad abbracciare tutto il problema, giacchè non cerca nemmeno di cogliere i veri rapporti della feudalità italiana coll'Impero e le sue affinità colla vita italiana, e fuorviato dall'odio alla Chiesa travisa l'opera del papato, del quale l'alleanza col popolo diventa un assurdo inesplicabile.
Inesatto nelle date, poco scrupoloso dei fatti, sospinto dalla passione politica verso le epoche che maggiormente si presteranno alle considerazioni e alle teoriche che lo signoreggiano, analizza distrattamente la Costituzione del Primo Popolo, oblia la Costituzione precedente dei Consoli e la Costituzione del Potestà: quindi narra rapidamente il ritorno dei Ghibellini, l'ingrossare continuo dei Guelfi, il mal ripiego della politica ghibellina per ottenere il favore del popolo aiutando la costituzione delle arti Maggiori e Minori, il magistrato dei Priori che affretta la rovina dei nobili, gli Ordinamenti di Giano della Bella che la compiono. Così prostrati i Ghibellini, sorgono i Guelfi che si dividono in Bianchi e Neri per suddividersi ancora vinti i Bianchi in Grandi e Popolani; la contesa fra l'aristocrazia e la democrazia muta nome e terreno conchiudendosi egualmente colla vittoria del popolo.
Ma se il Macchiavelli vede un certo nesso logico in queste discordie, non ne afferra bene l'idea e non ne sbroglia gli aggruppamenti che per lui hanno sempre come causa prima una scena drammatica. Poscia narrato dì Corso Donati e delle guerre con Uguccione della Faggiola e Castruccio Castracani come di avvenimenti casuali, entra nell'episodio del Duca d'Atene con sì calda eloquenza che dimenticando ogni proporzione nel quadro aggiunge episodi, inventa discorsi, s'allunga in considerazioni, drammatizza ogni circostanza per conchiudere alla terribilità dell'eccidio con una descrizione non meno terribile. In questo secondo libro, come nota egregiamente il Villari, sta il secreto della storia di Firenze; però se il Macchiavelli lo avverte a quando a quando e qualche piccola parte ne scopre, non è men vero che in lui come nei cronisti dai quali copia, le passioni, il valore e la fortuna sono sempre la ragione unica degli avvenimenti: l'idea dei quali risulta nel suo racconto piuttosto dal modo col quale il suo istinto artistico signoreggiato dalla loro seria logica li coordina, che non sorga in lui da vera coscienza filosofica di storico.
La letteratura storica è già nata preparando in sè stessa la storia; alla prima è bastato il letterato, alla seconda occorrerà l'uomo.
Col terzo libro, che va dal 1353 al 1414 e al quale il Macchiavelli premette, e seguitò poi nel costume, una specie d'introduzione filosofica richiamando una teoria dei Discorsi, comincia lo studio della decadenza della repubblica e il conseguente sorgere dei Medici. Gli autori prediletti sono questa volta Marchionne di Coppo Stefani e Gino Capponi, ma su questo nuovo terreno meglio adatto all'indole sua il Macchiavelli procede più cauto e forte. Il paragone fra Roma e Firenze, che apre il libro, è al solito così forzato che il Villari stesso ne conviene, mentre dalla profondità delle susseguenti osservazioni nelle quali molti si sono perduti ammirando non sfolgora nessuna idea. Il racconto si costringe tutto nella contesa fra gli Albizzi ed i Medici. La posizione dei primi vi è assai bene studiata, ma non appena entra in scena Salvestro dei Medici favorendo le arti Minori contro le Maggiori e sollevando destramente il tumulto dei Ciompi, per profittare poi solo della rovina degli Albizzi nella reazione succeduta naturalmente al tumulto col simultaneo abbassamento delle arti Maggiori e della plebe, si direbbe che un'inconscia antipatia scoppi tra il fine politico borghese e il terribile politico del Principe. La presenza del Valentino turba ancora lo spirito del Macchiavelli al punto di fargli idealizzare la mediocre figura di Michele di Lando, docile strumento in mano di Salvestro, e di non lasciargli comprendere tutto il merito della politica di quest'ultimo così abile e paziente e sicura che nelle Storie Fiorentine non se ne era ancora e forse non se ne vide più l'esempio. Gl'istinti democratici trassero il Macchiavelli a trasfigurare Michele di Lando, come la politica di semplice intrigo, senz'armi e senza gloria troppo diversa da quella conquistatrice del Valentino, gli dispiacquero in Salvestro. Oramai nel Macchiavelli la teorica politica e la forma drammatica si erano talmente fuse che a lui stesso non riusciva più di separarle. D'altronde la sua avversione ai Medici, dai quali colla cacciata dalla Signoria e le conseguenti miserie aveva pur ricevuto quattro o sei tratti di corda, malgrado i riguardi dovuti per quell'ultima commissione di scrivere le Storie, traspare dal libro. Così nel quarto pel quale si giova moltissimo delle Storie Fiorentine di Giovanni Cavalcanti altrettanto false nella forma che vere nei fatti, riprendendo l'analisi della contesa fra gli Albizzi e i Medici sembra non volersi accorgere della politica di Giovanni Medici, non meno fina di quella di Salvestro e velata anche da maggior bonomia. Quindi alla sua morte gli fa tenere ai figli Cosimo e Lorenzo un discorso privo di senso per dissuaderli in nome della virtù dall'aspirare al principato; e morto, gli fa un insolito e volgare elogio di uomo caritatevole quanto prudente. Discorso ed elogio sono presi dal Cavalcanti. Se non che l'averli solo corretti nella forma e il ricusarsi a studiare veramente la politica di Casa Medici, mentre nella Introduzione generale si era fermato troppo a lungo per le proporzioni del libro ad esaminare quella analoga di Matteo Visconti contro i Della Torre, mostra fin troppo che la paura dei nuovi padroni gli toglie il coraggio della sincerità storica.
Quell'eroismo che al Villari era sembrato di vedere nel Macchiavelli fieramente avverso alla Chiesa scrivendo per commissione di un papa, scompare trattandosi di narrare come Casa Medici rovinasse la repubblica impadronendosene con mirabile costanza di buone e pessime maniere. Il lirismo repubblicano del Macchiavelli ammutolisce: la sua fierezza di pensatore e di scrittore si ammansa, e ritorna l'uomo della congiura del Boscoli, il letterato di Clemente VII che non osava più parteggiare contro di lui pei Soderini in favore della repubblica. Nè con questo intendo rimbrottare aspramente il Macchiavelli di non essere stato un eroe, ma solamente di ribattere quegli apologisti che tirano a mostrarlo troppo maggiore nell'ingegno e nel carattere che veramente non fosse. Nel racconto della lotta suprema fra Rinaldo degli Albizzi e Cosimo de' Medici si scoprono nel giudizio del Macchiavelli una falsità e una costrizione insolita; fa di Cosimo il ritratto più umano, non vuole affermare la sua mira costante al principato, vede nell'ipocrisia della sua condotta una virtù piuttosto che un mezzo per raggiungerlo, s'intenerisce quasi per la sua prigionia all'Alberghettino e pel suo confino in Padova, non ha una frase per la repubblica morente, non ammira nemmeno l'altera risposta dell'Albizzi, nella quale sono pure, ed egli stesso forse ve le mise, parecchie delle sue frasi favorite.
Il periodo di Casa Medici così importante nella storia fiorentina è dunque in certo modo evitato dal Macchiavelli che non solo scansa di giudicarlo, ma vi si rattiene da quelle considerazioni che false storicamente la più parte, rivelano l'animo suo e qualche volta accennano a veri tentativi di critica filosofica.
Nei libri seguenti che costituiscono l'ultima parte delle Storie, il disordine della composizione e il cortigiano riserbo in faccia all'opera dei Medici degenerano in menzogna. Dopo aver accennato col solito disprezzo alle due scuole braccesca e sforzesca, che allora dividevano le guerre italiane sotto gli ordini dei due più grandi capitani del secolo, Francesco Sforza e Niccolò Piccinino, ed avere assai malamente raccontate le loro imprese nello Stato della chiesa, viene al ritorno trionfale di Cosimo e vi si imbroglia descrivendone le circostanze. Il suo odio democratico trapela dalla sua prudenza di letterato cortigiano, mentre la passione dell'analisi politica gli viene soffocata dalla paura di uomo povero alla mercede dell'ultimo papa dei Medici. Poi divaga in altre guerre italiane. Valendosi dei Commentari di Neri Capponi, descrive il gran torneo militare fra Niccolò Piccinino al soldo del duca di Milano e Francesco Sforza generale della Lega, e neppure qui l'odio ai capitani di ventura abbandona il romanziere di Castruccio Castracani, che non s'accorge d'avere davanti due soldati, ai quali solo i migliori dell'antichità sono paragonabili. Almeno Francesco Sforza nel mutarsi di venturiero in capitano sembrerebbe a prima vista dovesse sedurre la sua immaginazione; senonchè il Machiavelli dimentica a questo punto tutta la sua ammirazione pel Valentino, politicamente un imitatore dello Sforza, per abbandonarsi ai propri istinti democratici, denigrando in questi l'uccisore della repubblica ambrosiana. Eppure Francesco Sforza accarezzava nel forte pensiero il sogno di farsi re d'Italia, che altri forti prima di lui avevano ripetuto. Nel 1240 è Ezzelino da Romano che si vanta di voler fare in Italia più che Carlo Magno, e muore prigioniero; Mastino II della Scala ottant'anni dopo conquista tutte le terre di Ezzelino collo stesso proposito, e fallisce. Castruccio Castracani militarmente maggiore d'entrambi soccombe del pari, poi Ladislao re di Napoli, poi i Visconti i Medici i Borgia, ogni condottiero, ogni trionfatore, re e papi, tutti sono tormentati dal sogno di un regno italico infrangendo il patto medioevale fra papato ed impero, e nessuno vi riesce.
L'acciecamento del Macchiavelli contro i capitani di ventura è tale che dopo aver messo in ridicolo le loro battaglie affermando che nessuno vi morisse, nega perfino l'ingegno politico dello Sforza. Ritornando nel VII Libro a Cosimo dei Medici, il quale aveva pur condotto Firenze con meno valore al medesimo punto che lo Sforza Milano, muta ancora linguaggio: attenua i mali del nuovo governo o li attribuisce a malvagità di partigiani che Cosimo vecchio non riesce a frenare; e quando Cosimo muore si ferma a fargli l'elogio. Non una parola di biasimo, non un accento di dolore per la morta libertà di Firenze: accennando alla protezione da lui concessa alle lettere e alle arti, non trova nè modo nè tempo di analizzare quell'epoca unica nella storia del mondo. Poi le sue contraddizioni aumentano ancora. Dopo avere attribuito arbitrariamente l'assassinio di Niccolò Piccinino ad un complotto tra Francesco Sforza e Ferrante d'Aragona, raccontando della congiura tramata contro Piero dei Medici, uomo meno che mediocre, ne travisa romanzescamente le circostanze per fare di lui un grande personaggio. Il medesimo ripete nell'altra congiura del Nardi e del Nerone a Prato contro Lorenzo e Giuliano, inventando l'episodio della voluta impiccagione del Potestà alla finestra del Palazzo e il suo discorso per liberarsene e la seguíta liberazione colla sconfitta dei ribelli. È strano l'oblìo non solo di ogni verità storica ma persino di ogni possibilità drammatica nei discorsi, che il Macchiavelli inventa tratto tratto secondo le bizzarrie dell'immaginazione per ì personaggi delle sue Storie. La congiura scoppiata contro Galeazzo Visconti duca di Milano è invece narrata con molta efficacia, quasi preparazione a quella dei Pazzi contro Lorenzo e Giuliano, che occupa buona parte del Libro VIII, ed è forse letterariamente il miglior brano delle Storie. Le quali si chiudono colla morte e l'elogio di Lorenzo, di cui non osa riconoscere la tirannìa e non comprende intera nè la grandezza artistica nè quella politica. Il Guicciardini invece nella Storia Fiorentina scritta a ventisette anni lo giudica tiranno amabile nei modi, inferiore a Cosimo nella politica, governante col sospetto e premuovendo la corruzione. Tutto questo è da lui scritto colla massima calma, senza amore alla libertà o rispetto pei Medici.
I due grandi storici del secolo s'incontrano l'ultima volta per dissentire come quasi sempre. Il confronto dei loro ingegni e delle loro opere è così facile che nessuno ha potuto evitarlo e nullameno fino a ieri nessuno ha saputo ben precisare le loro vere nature. Macchiavelli parve grande e diventò popolare per la profondità dell'ingegno politico: il suo cognome si mutò in nome a significare con terribile complessità tutto quanto la scienza, l'arte, la natura, la società possano in un uomo solo condensare di valore politico. Guicciardini nelle scuole e nella coltura comune non era che un letterato cinquecentista, dalla frase italiana entro un periodo ciceroniano, e quindi un classico. Macchiavelli era il pensatore e Guicciardini lo scrittore, l'uno il filosofo l'altro l'artista, quegli l'uomo di stato questi il letterato; la verità invece è nel contrario.
Le ultime opere inedite del Guicciardini e i migliori recenti studi sul Macchiavelli cominciarono ad invertire i giudizii. Il grande politico, il grande storico è Guicciardini, l'artista il letterato lo scrittore è Macchiavelli. Le sue Storie Fiorentine non s'alzano troppo come metodo e concetto sulle cronache donde sono tratte, non iniziano critica, non hanno principio filosofico, non intendimenti elevati. Tutti i difetti e i pregi artistici del Macchiavelli vi si accoppiano con troppo maggiore prevalenza dei primi. La materia vi è mal distribuita, non sicuri i fatti, non sinceri i giudizii, non ben tratte le conseguenze. Il loro disegno è così angusto che nulla vi cape: la vita vi si compone di battaglie consciamente falsate la più parte e di congiure drammaticamente e spesso falsamente narrate. Il periodo dei Medici vi è condotto in modo da non capirvi nulla. Un urto continuo d'istinti democratici, di teoriche tiranniche, di pregiudizi militari, di romanzesche invenzioni, di concioni e di scene vi disordina gli avvenimenti che riassunti sempre nelle persone e nella forma politica vi diventano incomprensibili. Il vanto di correggere l'Aretino ed il Poggio coll'analizzare le cagioni intime e cittadine dei mutamenti nei governi non è certo realizzato; che se qualche volta lo sembri è piuttosto fortuito incontro o fuggevole accenno che proposito di sistema.
Invano i suoi ammiratori per resistere al paragone col Guicciardini hanno voluto sostenere che l'ampiezza del campo è nel Macchiavelli tanto maggiore, questi arrivando dalla decadenza dell'impero romano fino a Lorenzo il Magnifico e quegli da Lorenzo sino alla morte di Clemente VII; mentre nell'uno la lunghezza del periodo storico è piuttosto nel tempo che nelle Storie composte di pochi brani arbitrariamente staccati e tra loro cuciti con scarsi avvenimenti allineati e narrati a capriccio; e nella Storia d'Italia dell'altro se più breve il periodo è ben più vasto il campo. Gli avvenimenti sono simultanei, il loro aggruppamento più difficile, più complessa la loro logica, più molteplici le conseguenze. Mentre il Macchiavelli può sbrigliare e sbriglia la propria fantasia in episodii immaginarii o si attarda sui fatti che gli piacciono, s'abbandona a teoriche, cede ad antipatie, tace per riserbo, chiude gl'occhi per paura; il Guicciardini coll'impassibilità, che l'altro consigliò sempre e non ebbe mai, ripensa la propria vita nella propria epoca e ne vede l'ordine, lo riproduce, lo analizza. Diplomatico di prima forza, intimo dei più grandi personaggi, per lui non ci sono secreti: senza opinioni morali e senza sogni patriottici vede subito nei fatti il loro significato immediato; conosce l'Europa quanto l'Italia; non ama nessuno, non ammira che sè stesso. Di questo difetto, rimproveratogli accortamente dal Ranke, trionfa però facilmente. Il proposito politico che nel Macchiavelli risulta da troppo eterogenea congerie di qualità filosofiche, scientifiche e artistiche è in lui espressione di una natura non d'altro capace e di null'altro occupata. Politico prima che storico non scrisse che quando non potè più agire. Ma nell'azione era riuscito altrettanto bene che male il Macchiavelli. La sua superiorità nella politica si ripete nello studio della medesima. Se le Storie del Macchiavelli non avessero l'insuperabile pregio dello stile e non fossero tutte piene di bellezze letterarie non sarebbero così lette, e come hanno giovato meno delle cronache alla ricostruzione delle epoche narratevi e non molto più di esse alla scoperta dell'idea e del metodo storico, così non avrebbero avuto maggiore fortuna. La Storia del Guicciardini malgrado la pesantezza dello stile e la falsità del gusto letterario è rimasta il più gran passo fatto nelle scienze storiche dopo i romani. Nessuno dei maggiori storici antichi avrebbe potuto seguire con sì infallibile penetrazione e con tanta profonda sagacia la politica di quel tempo unico nella storia del mondo, che aveva tutte le corruzioni di una decadenza nelle fermentazioni di un rinascimento.
Solo un italiano in Europa poteva esserne capace e fra tanti italiani egualmente culti nessuno era meglio adatto di un fiorentino. I Veneziani non ebbero che uomini di governo e ambasciatori: la loro repubblica compatta e sicura disciplinava troppo presto e troppo fortemente gl'ingegni per lasciar loro la libertà necessaria allo storico; Firenze teatro ai maggiori mutamenti, primissima sede della gran contesa guelfa e ghibellina, centro dei migliori ingegni, e che condannata ad esaurire la vita di comune prima delle sue grandi rivali aveva anche minore coscienza politica, era meglio atta a produrre lo storico italiano. Ma città dell'arte accanto allo storico mise l'artista della storia: il critico ne nasceva già a Modena, il filosofo ne nascerebbe fra non molto a Napoli; Sarpi doveva esserne il primo combattente, Giannone il primo martire.
Ma il momento del Macchiavelli e del Guicciardini rappresentanti nella Politica e nella Storia la mancanza di coscienza passò presto. E quando colla Riforma cominciò a formarsi l'uomo morale e il cattolicismo si riformò e le scienze mutarono il concetto della natura e il mondo non fu più l'Europa e la stampa centuplicò le idee e alle tragedie cinquecentiste della passione successero i drammi del pensiero ricostituendo la spiritualità e l'intimità della vita, il Davila e il Bentivoglio assistenti colla impassibilità del Machiavelli alle stragi di Fiandra, o giudicanti colla neutralità del Guicciardini le infamie dei re francesi o spagnuoli, parvero abbominevoli e lo furono. La Politica era già costretta ad avere una coscienza come il popolo e la Storia a riunirle in sè stessa.
Ma fra tutti questi lavori di letteratura storico-politica il Macchiavelli non perdè la passione dell'arte vera. In ogni ritaglio di tempo andò riprovandosi in varii generi, dalla commedia alla satira, dai canti carnascialeschi alla novella. In nessuno riuscì a sorpassare la mediocrità, se si eccettui la Mandragola, commedia intorno la quale si urtarono in ogni tempo i più disparati giudizii e per la quale oggi i giornali iniziano un'impresa di esumazione.
La contesa sul teatro italiano è ormai troppo vecchia e sciaguratamente troppo risoluta contro di esso perchè convenga ancora risuscitarla: l'Italia non ebbe e non avrà quindi teatro nazionale. Le ragioni di questo difetto bisogna cercarle nella storia dalla quale si rileva la sua natura. Nella civiltà romana non vi fu arte veramente originale e nazionale. Popolo destinato nel disegno della storia del mondo a stringervi la prima unità, i romani non vi recano quindi che le qualità militari e politiche necessarie allo scopo: nessuna poesia ha cullato di canti la loro infanzia e non hanno epopea; la loro religione e i loro Dei sono l'espressione del più volgare antropomorfismo: la loro anima è arida, ma il loro senno è sicuro quanto il loro coraggio. Hanno la casa e il governo. Siccome la fatalità li spinge sul mondo vi marciano e lo conquistano. La loro originalità è la politica e creano lo Stato: la loro filosofia è la giurisprudenza e stabiliscono la giustizia, la loro astrazione è la personalità dell'individuo e dello Stato. A contatto coi greci dei quali debbono assimilarsi e spandere le idee, la grandezza intellettuale di questi li soggioga di buon'ora; prima ancora che possano fiorire i loro scarsi germi naturali l'imitazione li schiaccia o li inaridisce. Poi la loro vita nel lungo periodo della conquista è troppo piena d'azione, troppo riassunta nella sola azione politica, perchè vi sia posto per le arti; gl'Italioti sottomessi da loro perdono la libertà, la prosperità, la coscienza necessarie alle arti. Essi invece incapaci di sentirne la spiritualità le ammirano come lusso o decorazione di vittorie colla cupidigia rozza del soldato. Come cittadini invece le spregiano considerandole appannaggio di popoli deboli e corrotti.
Le feste e i divertimenti romani erano militari: il teatro che vi cominciò tardi fu di gusto plebeo, quasi degradante, autore e attore erano schiavi dei meno apprezzati. Solo coll'invasione della coltura greca, il teatro crebbe d'importanza perdendo ogni speranza di originalità. Poichè ogni arte ha d'uopo di libertà individuale e d'una certa compiacenza della vita, quando la civiltà romana vi sostituì invece la coscienza del proprio ferreo dovere politico, l'arte s'arrestò. Nel migliore e più vero periodo repubblicano mancò quindi la letteratura. Solamente allo sparire della civiltà nazionale sotto le molteplici tendenze ellenico-cosmopolite, la letteratura comparve a Roma manifestandosi grecamente in opposizione collo spirito nazionale; ma le esigenze della scuola vi sopraffecero gl'impulsi della natura, mentre l'imitazione anticipando sulla creazione atteggiava scuole e teatro antiromanamente e rivoluzionariamente. I primi autori romani sono greci come Livio Andronico, greche anch'esse di soggetto e di forma le prime produzioni, commedie non tragedie. Il teatro era quindi null'altro che un divertimento popolare, nel quale mancavano la coscienza e lo spirito. E poichè il teatro greco era in decadenza, l'imitazione romana fu la corruzione di una corruzione, con questo di aggravante che la grossolanità romana doveva gualcire quanto la decadenza greca aveva avvizzito.
Filemone di Soli e Menandro posano da modelli; Nevio, Plauto, Terenzio per non citare che i migliori sono i copisti. Nevio è il più originale, Plauto ha maggior vena, Terenzio miglior sentimento nella forma. Dopo di loro la commedia decade ancora: nè il sentimento nazionale, nè il costume politico, nè il carattere romano, nè l'epoca storica la consentivano. La scuola che generò e educò tutte le arti romane produsse più tardi la tragedia sullo stampo di Euripide, poeta decadente, dal quale gl'imitatori latini nullameno rimasero infinitamente lontani.
Dai romani bisogna venire al rinascimento per trovare ancora la commedia. Sopravvissuta nel popolo fra le atellane, mummificata nella tradizione letteraria ricomparve nelle sacre rappresentazioni per uscire poi dalle chiese e, ricoprendosi colle maschere che sintetizzavano la giovialità e il carattere speciale del popolo, riprendere il corso delle proprie rappresentazioni col nome di commedie dell'arte. Una coscienza nazionale e popolare che avesse bisogno di essa per rappresentare a sè medesima le proprie passioni, una società che volesse riprodursi col doppio senso della critica e dell'arte non v'era; l'individualità italiana forse troppo mista, senz'altra tradizione che il cosmopolitismo, scarsa nella fede religiosa, scema nella coscienza politica, colla vita troppo concentrata e contrastata da non potervisi mai affermare in una forma precisa, non potè ottenere in sè medesima la libertà e la condensazione necessaria alla commedia. Rappresentarsi significa ripensare, risentire sè medesimo nella individualità singola e collettiva con tanta forza e con tale chiarezza di visione da diventare sdoppiandosi in certo modo il creatore di sè stesso. L'individualità italiana non ebbe questa forza. Il teatro moderno doveva sorgere in Inghilterra, dalla nazione nella quale l'individualismo era il carattere più spiccato della vita e della storia, riassumendo tutte le sue potenze spirituali. Cosi l'Inghilterra non ebbe epica e non avrà mai nè filosofia nè musica. La potenza della sua obiettività così necessaria al teatro la rende inferiore nelle facoltà più alte come la filosofia, che è l'astrazione del pensiero, e la musica suprema impersonalità del sentimento.
La formazione del teatro italiano ebbe dunque due massimi ostacoli; il popolo era troppo basso nella vita, i letterati troppo fuori di essa. Quindi gli eruditi preferirono Terenzio miglior letterato a Plauto maggior artista. Si cominciò a tradurre e a rappresentare, le accademie pullularono. A Ferrara dove il romanzo cavalleresco amalgamandosi coll'erudizione classica trovò la sua vera forma, dalla mistura di Plauto e Terenzio con pochi elementi nazionali nacque la commedia italiana. D'entrambi fu padre il maggior poeta del secolo Lodovico Ariosto.
Ma se nel Bibbiena, nel Lasca, nel Berni il Decamerone riverberava una certa vita licenziosa e buffonesca da potere qualche volta simulare la vita comica, nelle commedie dell'Ariosto vissuto sempre fuori di tale ambiente in un mondo tutto pieno di erudizione, l'imitazione classica soffoca ogni spontaneità esaurendo l'azione in un puro gioco meccanico. Basti per esempio paragonare il suo Negromante col prete di Varlungo o col frate Cipolla del Boccaccio. La sua Cassaria che fece urlare al miracolo e i Suppositi sono rifazioni di Terenzio e di Plauto; migliore assai la Scolastica di contenuto e più agile nella forma, e nullameno pittura di superficie, rappresentazione incosciente di gente senza coscienza.
La Calandria che oscurò la fama dell'Ariosto, ricopiata dai Menecmi di Plauto non vi aggiunse di proprio che l'oscenità negli equivoci entro una forma esteriormente nuova, con un dialogo abbastanza vivo di frase per quanto strascicato nella forma. La sua maggiore originalità nella storia è rimasta la qualità e il grado del suo autore, prima segretario di Leone X poi cardinale di Bibbiena. Dopo di essa la Mandragola del Macchiavelli doveva restare il tipo vero, l'ultimo e unico progresso di quel teatro.
Intorno a questa commedia oggi ancora fioccano critiche acerbe ed elogi passionati. Alcuni sostenendola come sola gloria del teatro nazionale portano nella sua difesa tutto l'accanimento di un patriottismo agli estremi, altri la denunciano come opera immorale che basterebbe da sola a disonorare l'epoca nella quale fu prodotta e applaudita. Infatti recitata, come tutti sanno, al Vaticano fra un pubblico di cardinali e di dame vi ottenne le più festose accoglienze. Ma tutto ciò non è critica.
Il Macchiavelli s'era già provato prima della Mandragola, che doveva restare la sua migliore opera d'arte, in altra commedia, le Maschere, andata poscia perduta, imitandovi da lungi le Nuvole del gran padre Aristofane.
L'azione della Mandragola che par suggerita da un fatto avvenuto a Firenze, ha luogo nel 1504 ma fu scritta nel 1512 ai giorni meno lieti del Macchiavelli: questa circostanza rivela sempre più l'animo dell'autore, che poteva consolarsi di un insuccesso politico con una commedia. Infatti così accenna nel prologo.
Il fatto si racconta in due parole.
Callimaco giovane fiorentino, vissuto vent'anni a Parigi, sentendovi celebrare la bellezza e la virtù di Lucrezia moglie di Nicia Calfucci è ritornato a Firenze per vederla, e si è innamorato. Non può avvicinare Lucrezia, la sa onesta. Il marito vecchio scemo si danna di non averne figliuoli. Mezzano di questo amore entra un tal Ligurio, scroccone ammesso in casa Calfucci, al quale Callimaco promette danari se riesca a procurargli l'amore di Lucrezia. Il mezzo è questo. Callimaco si finge medico possessore di una ricetta, bevendo la quale Lucrezia resterà incinta, ma l'uomo che l'avvicinerà la prima volta ne morrà. Bisogna dunque persuadere a Lucrezia la pozione e al dottor Nicia di agguantare il primo gaglioffo che passi per strada a notte presso la casa, di bendarlo, d'introdurlo nel letto maritale al buio, e prima che spunti il giorno, sempre bendato, portarlo fuori di casa che non possa mai sapere dove abbia passata la notte e con quale donna.
Si capisce naturalmente che quel gaglioffo vorrà essere lo stesso Callimaco. Nicia acconsente presto, le difficoltà vengono dalla Lucrezia. Allora si mettono in gioco la mamma e il confessore che la persuadono. Si dispone lo stratagemma il quale riesce, gli amanti s'intendono, Nicia non intende, e tutti insieme vanno in chiesa a farsi benedire da frate Tìmoteo che ha procurato l'adulterio.
Questo l'ordito. L'intenzione e veramente più satirica che comica, la satira ancora più caricatura che satira. L'amore o meglio l'appetito che Callimaco sente di quella donna non è vero, la stessa esagerazione di venire da Parigi a quei tempi per vederla e la prontezza dell'incendio al primo incontro, la fraseologia che Callimaco usa col mezzano, descrivendogli la propria passione e nella quale non trova né gli accenti del cuore nè le parole del vizio, lo dimostrano. Callimaco, mal disegnato, non è nè un innamorato nè un libertino: parla, si muove, si agita, sembra appassionato e non lo è; l'espediente al quale ricorre, non urta la sua coscienza d'innamorato e non sorride alla sua depravazione di dissoluto. Egli è vuoto sotto tutto quell'apparato di azione, freddo con tutto quel calore di frasi. L'amore è più contradditorio quando domina una coscienza, il vizio vi è più calmo. Callimaco è un manichino per Macchiavelli che concepisce la propria commedia come una burla, nella quale il vero e solo personaggio è il burlato. La Mandragola non deriva da Plauto o da Terenzio ma dal Boccaccio: è la sceneggiatura di una novella.
Nicia è un imbecille, parente, discendente di Calandrino: Macchiavelli ha presente allo spirito i migliori tipi boccacceschi, qualche cosa dell'antica ed eterna gaiezza fiorentina gli scoppietta nell'anima. Il suo Nicia non è un uomo, ma una caricatura, che egli si diverte a caricare di ridicolo: lo fa ricco perchè possa essere frodato, dottore per farlo asino, marito per farlo cornuto, quasi impotente per farlo padre; ma accarezzando troppo questa figura del Nicia la mano gli si aggreva. Macchiavelli non è Boccaccio, il critico e il dialettico non sono in lui rattenuti dalla mano dell'artista. Nicia troppo imbecille arriva all'incoscienza e perde ogni interesse: egli, che non saprà mai la burla e non sarà mai al caso di scoprirla, le toglie ogni sapore; viene così a mancare il pericolo che non riesca, il pregio quando sia riuscita. La commedia non rivela nulla dell'intimità fra Nicia e la moglie, che possa fare vivo contrasto colle intenzioni di Callimaco: se Nicia è una caricatura, la quale non ha altra vita se non quella che la burla di cui è oggetto gli comunica, Lucrezia, che vi fa da scopo, non è che un'ombra. Nella sua posizione di donna giovane, bella, ricca, maritata a un vecchio scemo che non può nemmeno renderla madre e la deve tremendamente annoiare coll'assidua presenza e la senile gelosia, a rovescio di Callimaco che è tutto azione, ella non si muove, non parla, non sente, non pensa. È come un fantasma: arriva, si ferma, se ne va dalla scena senza lasciarvi orma e senza avervi fatto nulla. È più che la passività, siamo all'inanità.
Macchiavelli avrebbe potuto scegliere fra i molti caratteri femminili per Lucrezia, ma per torsi d'imbarazzo non gliene ha dato alcuno; persino la femmina è morta in lei è non risorgerà che in un gesto impaziente all'ultimo atto. La resistenza che ella oppone alla madre, incaricata nel complotto di persuaderle la pozione, non erompe nè dalla coscienza nè dal temperamento: è un'altra forma della passività colla quale Macchiavelli l'ha composta, e Lucrezia resiste meno ancora per scrupolo che per insegnamento religioso. Ella non ha nè cuore, nè sensi, nè testa.
La madre, che nella commedia è del medesimo stampo e della medesima pasta, riesce anche meno disegnata, senz'altro rilievo che quello attribuitole dalla parte. Non sospetta della burla, non s'offende dell'espediente come non si era afflitta della posizione creata alla propria figlia con Nicia. Lucrezia è quindi condotta da lei al confessore per sottoporgli il caso e accettare la di lui decisione.
Qui riappare il solito Macchiavelli. Il mediocre imitatore del Boccaccio scompare, la burla s'interrompe e una figura s'inoltra nella commedia riempiendola. Se Nicia era la preoccupazione artistica del Macchiavelli, Frà Timoteo ne è il proposito critico. Il terzo atto, che si apre con un monologo magistrale, ha subito una scena breve e stupenda. Frà Timoteo cicaleggia con una fante; il dialogo non potrebbe essere più vero, le due figure più vive. Macchiavelli deve averle colte nella vita o sorpreso quel dialogo che ripete. La scena rapida è piena di rivelazioni: i costumi, i tempi, tutto vi è espresso; quella fante è uno schizzo che farebbe meraviglia ed invidia al Boccaccio, Frà Timoteo una figura disegnata colla verità dei migliori quattrocentisti.
Ma la fante se ne va portando seco la maggiore verità della commedia. Timoteo resta e si muta. Nicia e Ligurio, che arrivano, lo persuadono tosto: il frate non oppone loro nè gli scrupoli della coscienza, nè i riserbi della furberia. Alla prima parola di denaro si abbandona; non è uomo, non è frate: pel primo il mercato sarebbe infame, pel secondo un sacrilegio, per entrambi quella posizione di manutengolo susciterebbe difficoltà di testa se non di cuore, di avarizia se non di paura. La prontezza, la schiettezza ribalda del frate, così ben disegnato nell'apertura dell'atto, non sono umane; non ha un dubbio sulla secretezza dei due compiici, non ha uno scrupolo sull'obbrobrio dell'azione, non un'incertezza riguardo alla docilità delle due donne, non una vera passione di avaro che tremi di commozione in faccia all'oro o qualche altro vizio cui quell'oro sia necessario. Non mercanteggia, non si accanisce sulla somma, non sdrucciola sulla lubricità della scena, non si diverte della scempiaggine di Nicia; è cinico senza l'acredine e la sensualità del cinismo. Perchè acconsente egli? Pel danaro: e perchè vuole il denaro? Non si capisce. Non ha la passione del proprio convento, non confessa di avere altri vizi. L'ironia troppo viva delle frasi, colle quali persuade Lucrezia, è piuttosto del Macchiavelli che sua. Frà Timoteo in quel lenocinio non si scalda il sangue. Rimasto solo, filosofeggia secondo il costume del Macchiavelli, ma senza rivelare altri lati del proprio carattere.
Anche qui il filosofo e il critico dei Discorsi e del Principe hanno appesantito la mano dell'artista. Frà Timoteo, per farlo troppo privo di senso morale, è rimasto del tutto senza coscienza, caricatura non ritratto di frate. L'odioso in lui toglie il vero. Come frate corrotto ha poca ipocrisia, come uomo ipocrita non abbastanza corruzione, giacchè le sue azioni non hanno scopo e non conducono lui a un risultato. Il denaro guadagnato in quell'impresa per lui non soddisfa alcun bisogno preciso; la gratuità del male ne scema la credibilità e l'importanza.
Macchiavelli ha sfogato in Frà Timoteo il suo odio e il suo disprezzo per il clero, guastando la migliore figura della sua migliore commedia.
Se Nicia gli si sciupa nella esagerazione di una imitazione dal Boccaccio, Frà Timoteo gli si àltera sotto la penna per le considerazioni che dai Discorsi e dal Principe gli ritornano alla memoria; invece di compiacersi in lui come ogni artista si compiace creando, egli si diverte a odiarlo, a renderlo più brutto, facendolo diventare impossibile. Il critico insiste dove l'artista doveva appena sfiorare. Per colpire l'istituzione del monachismo sfonda l'uomo nel quale la raffigura.
Il complotto immaginato da Ligurio, vacua figura evidentemente staccata dal teatro romano, trionfa: in una scena abbastanza viva, ma eccessivamente giocosa, Callimaco vestito da gaglioffo e fingendosi mezzo ubbriaco, si fa sorprendere da Nicia, da Ligurio e da Frà Timoteo che lo bendano, lo aggirano, lo trascinano sino al letto di Lucrezia.
La burla è riuscita, ma non produce alcuna impressione; era troppo facile. Callimaco è un falso innamorato, Nicia un'imbecille incredibile, Lucrezia un fantasma, la madre un'ombra, Frà Timoteo una caricatura, Ligurio una maschera: non un uomo o una donna sono vivi nella commedia, la quale rimane una novella. Come tale, coi gusti e coi costumi del tempo, sarebbe divertente in una brigata di artisti e di signori, di gentildonne e di monsignori che non domandano di credere ma di ridere, non vogliono la verità ma la baia; l'esagerazione e l'inverosimiglianza in questo caso sono redente dalla arguzia di un motto, dalla scabrosità di una situazione, dall'arditezza di una proposta. La novella si ode e non si vede. Per essere ricordata le basta un razzo finale in una risposta, l'oscenità o la delicatezza di una qualunque soluzione. In una novella non tutti i personaggi hanno obbligo di essere vivi basta che essa sia tale come racconto per il divertimento che dà ascoltandola, per l'impressione che lascia ascoltata. Nella commedia, troppo più alta, non è così. La vita ha da esservi intera e l'azione, svolgendovisi, deve mostrare il fondo dei caratteri che vi agiscono.
Macchiavelli non lo sospetta nemmeno. Poichè l'arguzia boccacciesca del suo carattere e l'acredine satirica del suo spirito avevano bisogno di uno sfogo, scrisse la Mandragola sui modelli d'allora, transigendo fra le novelle del trecento e le commedie romane, mirando solamente a divertirsi e a divertire. Non volle e non fece pittura di società. Solo Frà Timoteo lo trasse più lungi che non avrebbe dovuto andare, irritando tutta la sua irreligione di politico e di uomo; invece di colpire il frate colla invettiva, Macchiavelli lo deformò colla caricatura. Lo scopo per lui era egualmente raggiunto.
Ma l'elegante e briosa agilità dello spirito del Macchiavelli apparisce nel monologo che, trascinato Callimaco in casa di Nicia e quindi interrotta l'azione contro i vecchi precetti rettorici, Frà Timoteo pronuncia raccontando argutamente a sè stesso che cosa faranno quella notte tutti i personaggi di quell'imbroglio. Era impossibile vincere più bellamente una difficoltà allora invincibile, dicendo con più graziosa mordacità cose più indicibili.
Al mattino per tempissimo Callimaco è cacciato dalla casa di Lucrezia, che si alza assolutamente diversa da come vi si è coricata. Il fantasma, la donna, la femmina che non pensava, non sentiva, ha mutato di colore e di accento: i suoi occhi scintillano forse perchè è anche più pallida, le sue maniere sono brusche, è ancora un po' nervosa. Nicia, che le si accosta tutto ilare, è respinto da un gesto violento di disprezzo che quasi lo rovescia. Qui Macchiavelli è davvero grande artista. La ribellione, l'odio al vecchio rispettato sino allora, che scoppiano improvvisamente, inconsciamente, nel cuore di Lucrezia e si condensano per l'impossibilità di qualunque altra espressione in un accento più stridulo delle solite parole, nell'irritazione irrefrenabile di un gesto, sono uno di quei tratti comici che bastano a stabilire la natura di un ingegno. In Macchiavelli v'era del grande artista malgrado che nessuna delle sue opere sia artisticamente grande.
Finalmente arriva Callimaco, accolto con festa da tutta la famiglia, e si va in chiesa a ringraziare Dio.
Di questa commedia, che Macaulay nel suo Saggio su Macchiavelli è stato può dirsi il primo a circondare di gloria mettendola al di sopra di quelle di Goldoni e uguale quasi alle migliori di Molière, si dissero le cose più strane. Siccome Macchiavelli aveva scritto i Discorsi e le Storie, opere gravi, vi si vollero vedere grandi intenzioni politiche e si affermò che la Mandragola era la commedia di una società della quale il Principe era la tragedia. Bella frase, null'altro che frase. La Mandragola non è una commedia nel vero significato di questa parola giacchè vi manca il primissimo elemento dei caratteri, che la sceneggiatura e il dialogo vivissimo non possono sostituire. Nata da una novella, rimane novella, malgrado l'abilità della scena: concepita a burla, arriva alla caricatura senza passare per la satira. Perchè satira fosse, le occorrerebbe quella coscienza che manca nell'autore e negli attori. Recentemente Ruggero Bonghi volle vedervi la condizione e il concetto che allora si aveva della famiglia; ma la società del cinquecento, priva di coscienza politica e licenziosa di costumi, non arrivava a questa empietà morale, o almeno le classi medie cui apparteneva il Macchiavelli e che avrebbe inteso dipingere nella commedia, non erano così. Certamente non vi sono nella Mandragola intenzioni morali malgrado alcune critiche alte e minutissime nel personaggio di Frà Timoteo, ma nessun severo o amaro proposito presiedette alla sua concezione. Essa non è la riflessione d'un grande spirito o l'opera inconscia del genio che scolpisce sè stesso e il proprio tempo in un'opera d'arte, bensì uno spasso artistico, di una natura artistica tutta piena di qualità contradditorie, la quale non trova nulla, non inventa nulla, nè figure, nè idee, nè forma, ma combina e maneggia con maggiore sicurezza quelle che tutti usano: Una sola cosa è miracolosa nella Mandragola, il dialogo. Giammai commedia o racconto nella letteratura italiana lo ebbero tale; Macchiavelli creatore della prosa ne esaurisce tutti i generi, in tutti egualmente perfetto. Fu la verità del dialogo che fece sembrar viva la commedia, la vivacità delle parole che animò i personaggi. Macchiavelli che scriveva come pensava, senza falsarsi attraverso modelli classici, fece nella propria commedia parlare gli attori come nella vita; ecco il solo miracolo, e non è dei più piccoli.
Ma l'Italia non poteva e non doveva avere teatro. Se la Mandragola fosse stata una vera opera d'arte, la sua vita si sarebbe ripetuta e comunicata ad altre opere; invece rimase sola. I capolavori solitari sono impossibili e inconcepibili. Così quando Machiavelli ritentò la prova nella Clizia abbandonando l'ispirazione del Boccaccio per l'imitazione di Plauto, secondo la tendenza degli eruditi non riuscì che a peggiorare il proprio modello: nell'Andria si limitò a tradurre assai bene Terenzio, ma poco forte nel latino, non l'intese sempre sicuramente.
Delle altre opere minori del Macchiavelli scritte in quegli stessi anni non è il caso di parlare molto. Nell' Asino d'Oro, inspirato da Apuleio, l'intenzione di satireggiare Firenze s'impaluda nelle solite considerazioni politiche senza trovare un accento di vera satira: la forma è inelegante, il verso slombato. Nei Capitoli il migliore è quello dell'Occasione, il peggiore quello dell'Ambizione, tutti egualmente inquinati di ragionamenti teoretici; invece i suoi Canti Carnascialeschi richiamano involontariamente alla memoria quelli di Lorenzo il Magnifico, per far poi nel confronto ben magra figura. La novella di Belfegor arcidiavolo, nella quale la solita critica volle vedere una satira di Macchiavelli ai tormenti ricevuti dalla moglie, buonissima donna che egli amò sempre, è invece presa dal libro turco dei Quaranta Visiri derivato da fonte araba e questa da indiana, del quale il Macchiavelli ebbe forse conoscenza, almeno oralmente, per mezzo dei mercanti fiorentini allora in gran commercio con Costantinopoli. Macchiavelli stesso aveva colà un nipote; ma la novella non ha che un valore letterario.
Singolare per acume di buon senso è il Dialogo sulla lingua, che se non profetizza tutta la scienza filologica come vorrebbe il Villari, è nullameno la più notevole scrittura di tale argomento per allora.
X.
La battaglia di Pavia richiamò sulla scena politica Macchiavelli.
Clemente VII, che gli aveva commesso le Storie, era succeduto ad Adriano VI sul trono di Leone X, del quale era stato segretario così accorto e stimato che pareva, secondo il giudizio del Guicciardini, piuttosto guidare il papa che servirlo. La politica era allora intricatissima per opera del papato, che mirando alla propria ricostituzione si mutava di guelfo in ghibellino, tenendo dalla Francia e dall'imperatore, imbrogliando sè medesimo colle pretese dinastiche dei varii papi, ma in fondo seguendo la politica che la sua Storia e il suo istinto gl'imponevano.
Macchiavelli in quel giuoco non aveva compreso nulla. Pieno di tutti gli istinti del risorgimento, che tendeva alla costituzione delle nazionalità esaurendo le forme feudali colla unità delle monarchie e dell'impero, fuorviato dal sogno di un'Italia libera, non intese la posizione che le faceva la grande contesa della Francia coll'impero e del papato con ambedue. Nè guelfo nè ghibellino non penetrò entro la logica di nessuno dei due partiti. Il movimento del Savonarola, insurrezione guelfa contro il pontefice aiutata dai sentimenti repubblicani del Comune e dal nuovo spirito religioso latente in tutti gli spiriti non gl'inspira che una lettera mezzo satirica, nella quale Savonarola è un furbo impostore che tira a comandare. La seconda calata francese di Luigi XII, che annulla per sempre tutte le speranze del risorgimento italiano mutando Milano e Napoli in una parentesi di forze straniere che soffocano l'Italia, non gl'ispira un lamento, non gli svela il secreto della politica italiana: più tardi nel 1502 a Rouen parlando col cardinale d'Amboise, primo ministro di Luigi XII, per impegnarlo ad estendersi in Italia combattendo il papa, consiglia di piantarvi colonie in Lombardia tramutandone gli abitanti: consiglio di storia antica e di odiosa impossibilità politica. Anche questa volta non s'avvede che il movimento guelfo è favorevole alla Francia, la quale deve secondarlo per poter conquistare. Col permesso di Luigi XII i Borgia opprimono i feudatari della Chiesa per costituirsi uno stato; Machiavelli inviato da Firenze presso il Valentino, lo vede all'opera, s'entusiasma d'ammirazione, dimentica l'impossibilità della sua impresa che alla morte di Alessandro VI doveva urtare nella politica impersonale del papato, inverte la propria posizione di legato fiorentino per proporre alla Signoria di aiutare il Valentino in una conquista che già la minaccia. E quando Giulio II detronizza, imprigiona Cesare Borgia, Macchiavelli non comprendendo che la Chiesa trionfa sola fra gli Stati italiani del risorgimento attribuisce la catastrofe del duca alla fortuna.
Giulio II prosegue la politica del papato e dei Borgia risuscitando tutti i vecchi diritti della Chiesa; e Macchiavelli non vede in lui che un prete prepotente ed armato, che ogni principe italiano potrebbe rattenere e che il signor Baglioni ha fatto male a non pugnalare immortalandosi. Giulio II stringe la lega di Cambray e prostra Venezia per strapparle l'esarcato di Ravenna; avutolo, si volta con Venezia contro la Francia per conquistare Ferrara, Parma e Piacenza: mutatosi in ghibellino favorisce i Medici contro i guelfi a Firenze, gli Sforza contro i guelfi a Milano e ingannando tutti, forse sè stesso, urla: fuori i barbari!
Macchiavelli non prevede il ritorno dei Medici come non aveva previsto il trionfo di Giulio II in quella politica prettamente papale. Salito al pontificato Leone X, il primo consiglio ch'egli dà in una lettera al Vettori è di richiamare Luigi XII alla conquista di Milano, ricadendo così fra le due occupazioni spagnuola a Napoli e francese a Milano distruggendo tutta l'opera di Giulio II; e questo per premunirsi contro il pericolo immaginario di una conquista svizzera. Non suppone nemmeno che Leone X debba seguire la politica del suo antecessore complicandola colle aspirazioni regali della propria casa.
Perfino il tentativo del concilio di Pisa contro Giulio II, che in quell'epoca fra Savonarola e Lutero poteva pure ad un pensatore politico ispirare qualche riflessione, non ne suggerisce alcuna degna di un grande ingegno al Macchiavelli; il quale rituffato dalla sua buona sorte nella vita privata, potè scrivendo i Discorsi, il Principe, le Storie, la Mandragola acquistare nella letteratura quella gloria che la politica gli contendeva giustamente. Nessuno ha colto con maggiore profondità e finezza di Giuseppe Ferrari tutti questi errori politici del Macchiavelli.
La battaglia di Pavia dando a Carlo V una supremazia incontestata su tutta l'Europa gli subordinava pure la politica del papato.
Perciò Clemente VII alleatosi per abbassare la Spagna con Francesco I, dopo la prigionia di questo, rimase solo contro il vincitore irritato. La posizione era terribile; se i pericoli della Riforma non avessero costretto papato ed impero ad allearsi, tutta l'opera di Giulio II andava forse perduta. Il problema politico si avviluppò allora così stranamente che Guicciardini, la miglior testa del secolo, vi si sgomentò. Per resistere all'imperatore si pensò ad una Lega italica contro di lui, aiutata dalla Francia. Clemente VII ne pareva invasato, tutti aderivano, la Francia prometteva; ma l'uno non si fidava dell'altro, nessuno aveva fede in nessuno, tutti trattando fra loro della Lega, per tenersi aperta una porta, ne avvisarono Carlo V. Quindi ebbe luogo la congiura rimasta nella storia col nome del Moroni, che ne fu il mestatore e che consisteva nell'offrire al Marchese di Pescara la corona di Napoli e il grado di generalissimo della Lega. Il Moroni, finissimo diplomatico meglio che grande politico, non ne conchiuse altro che perdervi provvisoriamente la libertà per opera dello stesso Marchese di Pescara, che glie la ridonò morendo. Congiura e lega concepiti come espedienti finirono naturalmente in un aborto.
Il Guicciardini allora Presidente della Romagna coll'incarico di pacificarla, fra le cure del nuovo difficilissimo governo, nel quale mostrò le più eminenti qualità politiche, non solo non perdeva di vista gli avvenimenti, ma preveduto mirabilmente l'esito della battaglia di Pavia, ne aveva anticipatamente dedotte tutte le conseguenze con tanta singolare nettezza di visione da far prendere i proprii giudizi per profezie.
A lui venne mandato dal papa il Macchiavelli, che recatosi a Roma per ottenere qualche altro sussidio alle storie s'era fatto riprendere dalla smania di azione politica e dalla vecchia utopia della Ordinanza. Sognava già di sollevare il popolo e di lanciarlo armato ed invincibile contro gli eserciti di Carlo V. Il Guicciardini naturalmente ne sorrise: opporre Giovanni dalle Bande Nere con un esercito raccogliticcio, e come raccoglierlo? a Carlo V; un condottiero al padrone della Spagna, dell'Impero, delle Fiandre, di Milano, di Napoli, dell'America, vincitore esasperato della Francia, ecco quanto seppe concepire l'ingegno politico del Macchiavelli. Così discutendo col Guicciardini sulla prigionia di Francesco I, egli sostenne che Carlo V o non l'avrebbe liberato mai, o che Francesco I, sarebbe poi stato fedele alla propria parola e avrebbe rinunziato al ducato di Milano: Guicciardini affermava precisamente il contrario, e la storia gli dette prontamente ragione.
Macchiavelli partì desolato da Faenza, giacchè l'assicurazione datagli dal Guicciardini, che la Romagna, guerriera d'istinti, era meno che atta per le proprie divisioni di guelfi e ghibellini a dare un esercito, recideva l'ultima ala al suo ultimo sogno. A Firenze si distrasse ancora occupandosi della rappresentazione delle proprie commedie, tenne corrispondenza col Guicciardini, e tanto fece che fallito il disegno dell'Ordinanza e l'altro su Giovanni dalle Bande Nere, ottenne di essere cancelliere e procuratore della commissione nominata dal Consiglio dei Cento per la fortificazione delle mura. Ma anche questa volta, sebbene l'aiutasse Pietro Navarro, il primo ingegnere militare d'allora, la sua febbrile attività non potè vincere il disaccordo degl'ingegneri, nè ottenere danari all'opera. Era destinato che Firenze non riuscirebbe a difendersi se non nell'entusiasmo della libertà e sotto lo scudiscio della disperazione, e che un ingegnere ben altrimenti grande del Macchiavelli, Michelangelo Buonarotti, fortificherebbe le sue mura.
I tempi ingrossavano, Carlo V per impadronirsi dell'Italia doveva inoltrarsi coll'esercito, ma difettava di danaro: Francesco I uscito di prigione contro le supposizioni del Macchiavelli armava; il cardinale Colonna, nimicissimo di Clemente VII, alla testa di 800 cavalieri e di 3000 fanti irrompeva nella città eterna per imprigionarvi il papa, che potè a stento riparare in Castel S. Angelo, e furioso della fallita impresa saccheggiava chiese e palazzi cardinalizi. Il papa scese a patti, il cardinale abbandonato da Carlo V si ritirò a Grotta Ferrata, chiamandosi tradito. Intanto i soldati di Clemente fuggivano sotto Siena, Frundesberg nel Tirolo alla testa dei lanzichenecchi giurava di venire a Roma per impiccarvi il papa, e il Guicciardini luogotenente generale pontificio non riusciva a persuadere il duca d'Urbino, generale di Clemente VII, a più risoluta azione in tanto frangente. Il papa irresoluto non si decideva nè alla pace nè alla guerra.
Macchiavelli andò due volte al campo della Lega per conto della Signoria, e ne tornò sconfortato: tutto andava a rifascio. Firenze esposta ai primi colpi poteva essere da un giorno all'altro presa e saccheggiata. Intanto gli imperiali comandati dal Borbone, congiuntisi ai lanzichenecchi avanzavano su Bologna: il duca di Ferrara, il grande artigliere d'allora, sempre minacciato dalla politica assorbente del papato li spalleggiava. Firenze abbandonata dal papa, che trattava coll'imperatore, mandava di nuovo Macchiavelli al Guicciardini; il quale non riuscendo a smovere il duca d'Urbino dal proposito timido o traditore di non attaccare gl'imperiali, promise di accorrere al primo pericolo della patria colle genti del papa, anche malgrado la volontà del duca generale. Ma gl'imperiali presero tumultuando la via di Roma. Allora il papa concluse una tregua col Lannoy, vicerè di Napoli, impegnandosi a reintegrare i Colonna e a ritirare le armi dal Napoletano, lasciando il reame a Carlo V, Milano allo Sforza e pagando 60000 ducati al Borbone, il quale si sarebbe ritirato. Il popolo romano indignato si ribellò: il Borbone, che aveva ordini secreti di procedere, dichiarò insufficienti per il suo esercito i 60000 ducati, e passò il Reno presso Bologna.
Nessuno ci capiva più nulla. Il povero Macchiavelli, vecchio e ammalato, ritornò a Firenze, nella quale il terrore di un assalto e lo sdegno contro il cardinale Passerini, reggente pel papa, erano al colmo. Bastò l'occasione di un tumulto provocato da un soldato perchè tutti si levassero al grido di popolo e libertà. Si dichiararono decaduti i Medici e ripristinata la repubblica. Ma il cardinale Passerini accorse alla riscossa con pochi archibugieri e colle guardie medicee assediando il palazzo; si temeva una strage e non ne fu nulla: tutto parve finito con una promessa di perdono generale e l'elezione di nuova Signoria. Poco dopo arrivò la notizia del sacco di Roma e del papa prigioniero in Castello: allora il tumulto mutandosi in vera rivolta, il cardinale dovette andarsene coi due pupilli, Ippolito e Alessandro dei Medici, mentre si proclamava la repubblica.
Questa fu per Macchiavelli l'ultima e la maggiore disgrazia. Già repubblicano col Soderini, quindi piaggiatore dei Medici cui dedicava il Principe e le Storie, loro servo fino allora senza prevedere la nuova e suprema rivoluzione repubblicana, fu sospetto a tutti; la sua vita, il suo carattere, la mutabilità delle sue opinioni, tutto lo accusava. Invano oggi il Villari e molti altri vorrebbero difenderlo ripiegandosi sul patriottismo delle sue vaghe aspirazioni a uno stato nazionale, e sulla fatalità che lo aveva costretto a servire casa Medici; il patriottismo necessario d'allora non poteva essere compensato da un patriottismo immaginoso e immaginario come quello del Macchiavelli, che non fece mai nulla nemmeno per esso e lo disdisse troppe volte e non arrivò a dargli mai i contorni di una vera utopia. Firenze non era e non poteva essere l'Italia; l'infedeltà alla repubblica fiorentina non era scusabile con un'aspirazione a una repubblica o a una monarchia italiana. Poi nulla giustificava la servilità del Macchiavelli verso i Medici così nelle Storie, come nel Principe; solo l'egoismo e i bisogni domestici di un letterato di molto ingegno e di poca coscienza potevano spiegarla. E a quei tempi, nei quali fazioni e partiti si combattevano e si esiliavano ancora a vicenda, la fede alla propria parte era tuttavia abbastanza sentita in tutti. Macchiavelli servì fedelmente tutti i padroni, ma non serbò fede a nessun principio. La mollezza del suo carattere e lo scetticismo del suo spirito come gli scemarono il valore politico nell'azione, così gli tolsero quello morale nella vita. I repubblicani di quest'ultima repubblica, nata in tanto difficile ora per morire tragicamente, dovettero guardare con disprezzo questa figura di vecchio impiegato e letterato, che credendosi un gran politico aveva sempre dato a tutti consigli non mai seguiti da alcuno e che nelle crisi dolorose della patria aveva sempre separato il proprio dal suo interesse. La congiura del Boscoli, nella quale egli aveva fatto così magra figura, non poteva essere dimenticata: il rifiuto opposto alla congiura Soderini doveva essere noto.
I duecento fiorini delle Storie a lui commesse dal Medici e nelle quali i Medici erano falsati ed elogiati, saranno sembrati a più d'uno di coloro, che si disponevano a morire per Firenze repubblicana, come il prezzo di un tradimento, il danaro di Giuda.
E la coscienza del proprio torto oppresse il Macchiavelli. Scartato dalla nuova commissione per la difesa delle mura, dimenticato nella nomina del nuovo segretario dei Dieci della Guerra e che fu certo Tarugi, un ignoto rimasto ignoto, mentre egli si era illustrato nel medesimo ufficio, non protestò. Egli, lo scrittore più eloquente del secolo, il letterato che avrebbe bastato alla sua gloria, non scrisse su ciò una sola pagina, grido sublime di dolore e di amore di patria. Il suo patriottismo soccombette. Era quello il grande momento per una grande anima. La tragedia che minaccia ogni uomo nella vita lo aveva finalmente colto: la patria risorta per morire diffidava di lui, non voleva morire con lui. Nessun'offesa, nessun maggior dolore per una coscienza di cittadino e di poeta. Respinto dalle cariche, isolato dalla diffidenza, colpito dai dispregi, vecchio, povero, solo con se stesso, col suo ingegno, col suo cuore, colla sua anima, Macchiavelli avrebbe potuto, sentendosi grande e calunniato, scrivere il proprio testamento politico e dettare così l'epitaffio per la tomba che aspettava la repubblica fiorentina.
Non lo fece, non lo poteva fare. Egli era una piccola anima in un grande ingegno.
Quando, morta la repubblica, Buonarotti si trovò costretto a servire i Medici, si nascose per lungo tempo a tutti nella loro cappella e scolpì sulle loro tombe le più tragiche figure, che vanti ancora la storia dell'arte: così sfogò il proprio dolore, e interrogato lo spiegò in una quartina, che Dante invidierebbe e vale sola tutta l'opera letteraria del Macchiavelli.
Ma Buonarotti era un genio, e il genio deve avere l'intelletto pari al cuore.
Dopo quest'ultimo sfregio, sciaguratamente meritato, Macchiavelli ammalò e morì con tutti i conforti della religione. Fu suprema ipocrisia, suprema indifferenza, che consente nel costume universale, o una vera conversione? Forse un po' di tutto, perchè le opinioni del suo ingegno non bastarono forse alla debolezza del suo carattere nell'ora estrema.
Sepolto in Santa Croce nella sua cappella gentilizia, non ebbe pompa di funerali nè rimpianto di popolo. La sua famiglia si estinse presto; la cappella, passata in altre mani, cadde in tale abbandono che non si potè più indicare il luogo preciso della sua sepoltura. Quasi tre secoli dopo per opera di lord Cowper, auspice Leopoldo, si fece la prima grande edizione delle sue opere, e gli si eresse nella stessa cappella un piccolo monumento, sul quale il dottor Ferroni pose l'ampollosa iscrizione:
TANTO NOMINI NULLUM PAR ELOGIUM.
E Dante e Buonarotti e Galileo, che gli dormono accanto, dottor Ferroni?!
Poichè di ogni uomo, per quanto grande, una parte muore, quale è dunque nell'opera del Macchiavelli quella che rimane? I suoi Discorsi hanno davvero fondato la scienza storica, il suo Principe stabilito la scienza politica, le sue Storie iniziato il metodo storico? Lo si è affermato molte volte, ma nessuno de' suoi più ferventi ammiratori è riuscito a provarlo.
Come reazione al medioevale concetto mistico della vita i suoi Discorsi non sono che una negazione; all'ipotesi della legge divina Macchiavelli sostituisce come verità suprema la realtà effimera del fenomeno. La sua teoria è quindi più angusta e più falsa della precedente. La sua storia non ha perciò altra legge che la gravità di un fatto, il quale ne sposta o ne schiaccia un altro. La sua legislazione prescinde dal diritto, il suo Principe è la soppressione di ogni governo nella unificazione personale di tutti i poteri. La sola idea che in esso valga è la negazione della moralità privata nell'azione storica ma negazione impotente che non si converte in affermazione trovando quale possa essere la moralità della storia. Macchiavelli non sente che l'umanità non può essere diversa dall'uomo; se l'individuo ha una morale, l'umanità deve averne un'altra, e ambedue sono egualmente vere. Il loro antagonismo apparente nella vita dovrà conciliarsi nella storia.
Macchiavelli sacrificò egli le proprie teorie all'ideale della patria? La sua utopia, se pure può chiamarsi così, fu in lui coscienza di filosofo o di uomo? Come coscienza filosofica sarebbe stata sistematica, come coscienza umana sarebbe stata operosa; Macchiavelli la contradisse in tutte le opere e la dimenticò sempre nell'azione. Una utopia e un disegno, la sua fu un'aspirazione. Desiderare uno stato nazionale non è concepirlo; concepirlo allora sarebbe stato trovare una combinazione inattuabile ma organica, nella quale tutti gli Stati di allora o si fondessero o si confederassero in un corpo, mettendo in questo corpo una coscienza, tracciando una legislazione, coordinando le varietà nell'unità, le differenze nelle funzioni, le funzioni nei poteri. Macchiavelli espresse l'aspirazione che era in tutti gli spiriti colti di allora, potè appassionarvisi meditando o fantasticando, ma non passò mai dal sogno al disegno, dal disegno allo studio dei mezzi.
Le sue Storie non afferrarono nè il concetto del medio-evo nè quello del rinascimento. Il medio-evo per raccontarlo bisognava intenderlo, e Macchiavelli lo sopprime. Il medio-evo è il mondo delle invasioni sul mondo romano, col cristianesimo sul paganesimo, colla scolastica sopra Aristotile, col papato sopra la chiesa, coll'impero sopra la feudalità, colla nuova individualità sopra l'antica, con un'altra unità nella storia, un altro principio e un altro fine in entrambe. Il mondo antico ebbe la città, il mondo nuovo ha il comune: il mondo antico si basava sulla servitù, il mondo nuovo sulla libertà; in questo l'uguaglianza spirituale preparava tutte le altre, in quello le differenze storiche distrussero tutte le forme nelle quali si erano realizzate. Il mondo barbaro si riunisce nelle invasioni, il mondo cristiano nelle crociate. Macchiavelli, che cita una volta sola Dante, non sospettò il medio-evo. Le sue Storie sono una successione di drammi, nei quali la politica è al tempo stesso anima e decorazione.
Il risorgimento è un fiore che spunta sopra un albero che muore.
Il mondo di S. Tommaso e di Dante, di Gregorio VII e di Barbarossa, delle crociate e delle invasioni, della fede e delle barbarie, dei santi e dei vassalli, dei signori e dei comuni, dell'imperatore e del papa scompare; l'uomo moderno libero nella coscienza, nella vita e nella storia s'inoltra. Tutto rovina intorno a lui; Copernico gli dà il cielo, Colombo l'America, Lutero la libertà, Guttemberg la cultura universale colla stampa, Cesalpino il moto nel sangue, frate Bacone l'uguaglianza militare colla polvere, gli artisti il senso della vita, gli eruditi i secreti della tradizione, gli scienziati la padronanza della natura, i filosofi la sovranità del pensiero. Nel risorgimento la prima tendenza politica è la nazionalità, conseguenza della individualità: si costituiscono i regni sulla base delle razze, nell'orbita del possesso storico. Per arrivare all'unità bisogna quindi passare per l'unificazione, che avrà un processo dispotico. Ecco la necessità che uccide i comuni. Il dispotismo per sopprimere tutti gli antagonismi deve divorare tutte le Signorie: la sua livellazione produrrà l'eguaglianza, e la sua pressione fortificherà la coscienza. L'Italia, che ha troppe e troppo antiche differenze, non potrà costituirsi in uno Stato solo: le piccole Signorie si fonderanno in reami e ducati; lo straniero è necessario a quest'opera. La contesa fra papato ed impero è esaurita, il papato dovrà battersi colla Riforma, più tardi unito ad essa contro la scienza.
L'Italia nel risorgimento non è conquistata come credette il Macchiavelli; non è lo straniero che la soggioga, ma italiani che combattono contro italiani. I minimi governi scompaiono, e siamo allo stato col sovrano e col suddito.
L'Italia allora non era guerriera ma artistica, commerciale, industriale, erudita; la sua coscienza era fiorentina, veneziana, milanese, genovese, napoletana, non italiana; il suo ideale non poteva essere diverso. Solo nell'orbita di un maggiore Stato, nell'uguaglianza sotto un re potevano fondersi queste diverse coscienze in una sola. Le ultime passioni d'allora erano medioevali, libertà di comune, odio di fazione. L'Italia, i cui eserciti si battevano così male, aveva dei partigiani che si battevano fin troppo bene; tutta piena di eccellenti capitani, aveva dei venturieri e non una milizia.
Il risorgimento sfuggì al Macchiavelli. Predilesse la repubblica quando diventava impossibile, credè al Valentino che era l'ultima espressione del principe fuso col condottiero, sognò la milizia quando cessava la patria, lo Stato mentre mancava ancora la nazione, offrì ai Governi futuri la politica dei Governi passati, non s'accorse che la religione stava per rinnovarsi, il diritto per prodursi, la libertà per regnare. E il suo regno dovendo essere nella coscienza, la libertà religiosa era la prima.
Come i suoi Discorsi sono senza l'idea del progresso, così il suo Principe è senza quella della morale, e le sue Storie senza l'altra del diritto, e la sua arte senza passione.
Macchiavelli nel proprio secolo è uno straniero; se ne ha i vizi, non ne ha le idee e non ne sente le passioni. Ha l'istinto del nuovo, ma non lo afferra e si avviluppa in contraddizioni insolubili; chiarissimo nella visione dei fatti, l'intorbida appena ne cerca la ragione: realista, è un sognatore. Non comprende e nessuno lo comprende, vuole agire e non può, insegnare e non gli si bada; consiglia il dispotismo ed è un democratico, adora il proprio comune e vorrebbe una patria italiana, odia Roma e non si volge verso Lutero: è un artista e non parla mai d'arte, è un indipendente sempre in cerca d'un padrone, un libero che ignora la libertà.
Così diventa a sè stesso e agli altri inesplicabile, ma la sua spiegazione sta nel suo secolo, nel quale muore tutto il medioevo e nasce il mondo moderno. Egli vi è il vertice di tutte le contraddizioni, la vittima di tutti gli antagonismi. La sua coscienza era solo nell'intelletto, la sua infallibilità nell'istinto; vuole l'impossibile e l'impossibile diventa la verità del futuro; si stima un politico e rimane un letterato. A Boccaccio, a Petrarca non era succeduto altrimenti; divennero celebri per le opere cui davano meno importanza, il Canzoniere e il Decamerone. Del resto questa incoscienza è la caratteristica del tempo. Uno solo, il più grande fra i grandi d'allora, sente il vuoto e la morte intorno a sè: la sua anima è tragica, Michelangelo Buonarotti. La diversità delle sue attitudini e la varietà delle sue opere non lo distraggono come Leonardo, la bellezza non lo appaga come Raffaello, la ricchezza non lo soddisfa, la gloria non lo consola. In un secolo dissoluto è casto, in un'epoca irreligiosa sente sopratutto la religione; ha tutte le fierezze di un cittadino nella dignità dell'uomo. Rimane scapolo, non lascia figli.
Come Dante, il suo grande antecessore, sovrasta al medio-evo, Michelangelo domina il risorgimento; entrambi tragici ma sereni, riassumendo il loro tempo, sono universali.
Il cinquecento, che pare tutto corruzione, ha pure una grande sanità nel popolo, che Michelangelo rappresenta: ecco l'avvenire.
La generazione che sta per sorgere avrà tutta la coscienza che manca a quella che tramonta; Campanella, Telesio, Bruno, Tasso, Sarpi, Galileo, filosofi, scienziati, storici, poeti, tutti diventeranno martiri nella coscienza e per la coscienza. Tragedia e carnevale sono finiti, comincia il dramma. La vita diventa una conquista del mondo interiore ed esteriore. La Mandragola e il Principe non si capiscono più; alla delicatezza della forma è succeduta quella del sentimento.
L'indagine si sostituisce alla ipotesi, la prova alla autorità; il papato, che aveva accettato la dedica dei libri di Copernico e di Macchiavelli, processa Galileo, pugnala Sarpi, imprigiona Campanella, brucia Bruno. Le corti respingono Tasso, il grande poeta che muta l'eroe classico e il cavaliere romanzesco nel gentiluomo moderno.
Ma nessuno di questi grandi scrittori, nemmeno il Galileo, supera il Macchiavelli nella prosa. Quasi sempre più fluido, spesso più limpido del Macchiavelli non ne ha l'eloquenza, il rilievo, la sicurezza dei moti bruschi ed improvvisi. La prosa del segretario fiorentino considerata nel suo tempo è un miracolo di potenza e di originalità. Non vi si sentono influssi latini nè contorsioni scolastiche, tutto vi è vero, tutto vi è fuso; ha la bellezza greca alla quale non occorre la grazia e che ignora gli ornamenti. Pensiero e parola, frase e periodo, tutto è colato in un solo getto: l'argomento, che vi si svolge, l'avviluppa, la conduce seco, l'anima e n'è animato. Il colore viene alle parole dalle cose, la sonorità vi è ritmata sul sentimento senza che una volontà straniera o un gusto posteriore l'àlteri per abbellirla.
Macchiavelli, che non era un letterato nel senso attribuito allora a questa parola, e che credendosi un politico non scriveva per scrivere ma per esprimere il proprio pensiero reso lucido dall'evidenza della percezione artistica e dalla sicurezza di una dialettica che nessun dubbio filosofico inceppava, trova senza cercarla, come doveva fatalmente accadere, la prosa italiana. Se fosse stato più artista, forse non avrebbe saputo sottrarsi al gusto dell'epoca; se fosse stato un filosofo o un vero politico, le difficoltà della materia gli avrebbero disturbata l'armonia della forma. L'entusiasmo col quale si obliava nelle proprie teorie e la passione che metteva nei fatti loro favorevoli, erano la sua coscienza e la sua verità di scrittore, giacchè senza l'una e senza l'altra non si può esserlo.
Macchiavelli si è contradetto spesso, ma non ha mentito mai a sè medesimo; nessuno fu meno macchiavellico di lui.
La sua prosa è uno specchio, il quale riflette tutto il suo pensiero con tale nettezza che a nessuno può venir in testa di credere che fra quella e questo l'ipocrisia abbia calato i proprii veli.
Che se questa gloria di aver fondato e perfezionato nel medesimo tempo la prosa italiana paresse troppo scarsa agli ammiratori del Macchiavelli, la gloria di Dante fondatore della poesia non dovrebbe sembrar loro molto maggiore, giacchè fra prosa e poesia la differenza non è poi grande quanto il volgo immagina, essendo entrambe egualmente necessarie alla vita del pensiero nazionale. E alla prosa solo Macchiavelli deve la popolarità delle sue sentenze, che luoghi comuni al suo tempo la coscienza non potè poi ratificare e nullameno lette una volta non uscirono più dalla memoria nemmeno di coloro che le respingevano dall'intelletto. Questa immortalità della bellezza se non vale quella della verità, non è seconda a nessun'altra, e Macchiavelli smentito dalla storia, abbattuto dalla scienza, misurato dalla critica, non più temuto o vagheggiato dalla coscienza moderna, può rimaner calmo nella sicurezza dalla propria gloria, poichè fino a quando in Italia si pensi e si scriva la mente di tutti ricorrerà involontariamente alle sue opere, invidiandone quella bellezza d'espressione, nella quale sola il pensiero trova la coscienza di sè medesimo e l'immortalità.
XI. [La Tragedia]
Pare strano a me stesso: in questo libro incominciato come sfogo agli orribili spasimi della mia malattia, non riesco a parlare di me. Un orgoglio intrattabile mi vieta di gettare in pascolo al pubblico dolori che hanno talvolta vinta la mia volontà e fiaccato il mio carattere, giacchè mi sembrerebbe in tal modo di elemosinare coi lenocinii della frase quella compassione, che gli accattoni di mestiere tentano coi lenocinii della voce.
Ho scritto cento pagine sul Macchiavelli in venti giorni, ma d'allora non ho più toccato la penna.
La primavera è tornata, sono ancora a letto. Mi hanno seppellito per tre volte la gamba entro una parete di gesso e mi hanno detto di restare calmo.
Quando potrò alzarmi la debolezza sarà tale che dovrò per qualche mese usare le gruccie.
Così rientrerò nella vita.
Vi sono dei giorni che sento sollevarsi dal fondo dell'anima dei turbini di collera, che fischiano e ruggono come il Simoun può fare nel deserto. Tutta l'energia della mia volontà non può nulla su la mia gamba ferita: per muoverla debbo chiamare la povera Lucia, che me la solleva come un tronco. E tutto questo perchè? Se avessi ricevuto nel ginocchio una palla di falconetto come Giovanni dalle Bande Nere, alla buon'ora! ferita e morte avrebbero un significato; invece sono caduto come l'ultimo degli imbecilli, e quanto soffro e tutto il tempo necessario a guarire è dolore e tempo perduto.
L'inutilità della sofferenza, ecco il dolore del dolore!
Alzate dunque un patibolo davanti ad ogni morente, giacchè val meglio essere ucciso che morire; nel primo caso è una lotta, nel secondo un esaurimento; la tragedia è un diritto dell'uomo, la morte è una fine da animale.
Quante volte mi sono inteso chiedere che cosa sia la tragedia e quanti libri si sono scritti per spiegarla! Ma domanda e risposta egualmente malinconiche confondevano tragedia e morte. No, non è vero. La tragedia non è la morte, ma la morte umana, nella quale lo spirito discende colla coscienza della propria immortalità. Sapendo di morire l'uomo è il solo che non muoia nella natura. L'animale si esaurisce: esso non sa nè come nè quando sia nato, ignora le leggi della vita, non si domanda se il paesaggio nel quale passa abbia un passato, e che cosa sia venuto a rappresentarvi. L'uomo invece interroga, apprende; tutto passa nella natura, ma ciò che è passaggio in essa diventa serie nel suo pensiero; la serie gli dà la legge, la legge gli rivela il secreto. Appena lo spirito pensa sè medesimo, ripensa il mondo nell'antichità della sua geologia e nell'eternità della sua durata. Solo l'eterno può pensare l'eternità.
Ma lo spirito è nell'uomo e non è l'uomo: colui che pensa non è pari al proprio pensiero; il pensiero si realizza in lui e non è lui. L'uomo morrà e il suo pensiero sarà immortale, ecco la tragedia. La morte accade dunque dentro di noi e sotto di noi. Il nostro spirito può contare i passi coi quali si avvicina, studiare il riflesso della sua ombra sulla nostra fisonomia, analizzare le impressioni del suo freddo nel nostro organismo. I sentimenti che nel nostro spirito soffrono e gridano non sono della sua natura, ma saliti dal fondo della nostra animalità si sciolgono come vapori nella impassibilità adamantina del suo cielo.
Che cosa importa al sole delle esalazioni, che incapaci di salire fino a lui ricadono in pioggia a fecondare i campi, che il sudore di tutte le generazioni umane non basterebbe ad inumidire?
La prima tragedia si svolse sulla terra col primo uomo. Era egli un animale perfezionato o una statua animata dal soffio di Dio? In ambo i casi la tragedia fu uguale, giacchè animale era diventato uomo col pensiero, statua riteneva il pensiero che l'aveva vivificata. Ma nella sua coscienza di primo sentì egli tutto ciò che sarebbe accaduto nella sua posterità? In questo mondo, che forse lo guardava colla stessa meraviglia onde era da lui spiato, vide egli l'immensità del teatro che doveva accogliere le tragedie di tutti i suoi nascituri? Quando il sole tramontò la prima volta a' suoi occhi, pensò egli che la morte doveva essere come l'ombra? E quando la luna sorse a diradarla, comprese egli che l'ombra e la morte non erano che apparenze come tutte le negazioni?
Lo stormire delle foreste e il murmure del mare gli parvero voci come la sua, nelle quali più grandi parole esprimessero un più grande pensiero?
In questo secolo si è potuto rifare la preistoria, ma chi ci darà la psicologia del selvaggio? Chi analizzerà i sentimenti che la sua lingua non può tradurre e hanno impresso sulla sua faccia quella terribile immobilità contemplativa, davanti alla quale la temerità della nostra analisi, che ha decomposto Dio, si arresta interdetta?
Poi la tragedia divenne storia appena l'uomo invece di battersi colla natura si battè con sè medesimo. Alla terribile seduzione dell'ignoto, colla quale la natura attirava il selvaggio negl'antri delle selve e nelle voragini del mare, la storia sostituì l'attrazione delle idee, e gl'individui si avventarono verso di esse, generazioni intere si slanciarono, popoli innumerevoli si precipitarono, e muoiono ancora gli uni sugli altri per estrarle dagli abissi dello spirito, donde fiammeggiano cerulamente come le stelle nelle alte notti sull'oceano. Tutto passa e non ne resta nella scienza e nella coscienza che un'idea: ideale per le genti che volevano conquistarla, ricordo per le genti che l'hanno ereditata.
Il popolo più grande nella storia è il più tragico, l'ebreo, che si immola al conquisto di Dio: l'uomo più grande è Cristo, che si lascia uccidere per diventare Dio, e lo diventa.
Tutto è tragedia. Se il popolo vi è inconscio e nel giubilo delle proprie forze vi agisce obbliando la fine, la tragedia diviene epopea, e allora il suo canto ha la sonorità delle onde, l'impeto del venti, la trasparenza del cielo. Ovunque l'epopea è uguale a sè stessa. L'uomo vi si muove in una superba giocondità, che lo rappatuma colla natura da lui chiamata a parte del suo trionfo sulla idea nella quale si trasfigura: ma l'epopea è breve e non si rinnova mai più. Pochi popoli vi arrivarono, nessuno vi è ritornato. E non appena il canto epico finisce, comincia il coro tragico. La grande idea, nella quale l'anima del popolo sperava di quietare, diventa un promontorio da cui si scorgono più radianti lontananze, una stella dal lembo estremo della quale si vedono carovane di stelle migrare per l'infinito.
E la tragedia riappare nella severità del proprio pensiero, mentre il suo ritmo è spezzato dai singhiozzi dei morenti sotto lo spasimo della nuova disillusione. Ma se nell'epopea il popolo si era sollevato in massa, slanciandosi collo sforzo di un sentimento comune verso il prossimo ideale che lo inondava di luce e di calore, nella tragedia vera il popolo guarda aggrondato in cupo silenzio i suoi più intrepidi eroi ripetere soli quel conato, che tutti avevano fatto e che a tutti per un momento era sembrato trionfare.
È l'era dei grandi individui. Qualunque sia l'idea alla quale s'immolano o il fatto nel quale soccombono, la loro tragedia non muta: mentre tutto il popolo guarda nell'immobilità della stanchezza o nel terrore della disperazione, essi soli osano levarsi. Che la loro fronte sia coperta da un elmo o da un'infula, la loro mano armata di spada o di compasso, si avanzano verso la morte. Il progresso umano esige in quell'ora il sacrificio dei migliori, perchè solamente la loro morte può rendere intelligibile a tutti il secreto della legge che la storia sta per rivelare.
Ma al momento culminante della tragedia il popolo, che non capisce quasi mai, maledice l'eroe morente per lui. È questa la suprema differenza della tragedia colla epopea. Nell'una l'eroe è acclamato prima della battaglia, sostenuto in essa da tutti i voti, pianto dopo di essa da tutti gli occhi: nell'altra l'eroismo è come un insulto alla impotenza del popolo, che spia quindi arcigno la lotta cercando nella catastrofe una ragione alla propria inerzia.
Eppure di tutti i destini individuali il più degno d'invidia è il più tragico.
Se nell'epopea l'eroe rappresenta il popolo, nella tragedia lo riassume, giacchè vi compie la vita della propria generazione iniziandola in quella della generazione non nata. L'epopea è un meriggio, la tragedia un'aurora, nella quale la esultanza della luce erompe dalla lacerazione delle tenebre.
La tragedia antica, la massima rimasta nell'arte, ha per tema un Dio, non in quanto è tipo religioso ma per quanto si mescola nella vita umana e vi opera. Amore ed eroismo vi sono quindi espressi con un'altezza di sentimento e di linguaggio quali l'arte posteriore non seppe nemmeno più comprendere. Le prime battaglie significate nelle prime tragedie esprimono o la lotta che l'individuo spirituale impegna colla natura, e vi brilla il raggio giocondo dell'epopea; o quelle che impegna con sè medesimo, e sono la vera tragedia nella quale la vittoria o la morte diventano egualmente impossibili. Ercole può acquetarsi nell'amore o morirvi: Prometeo è immortale, e non può nè vincere, nè morire, nè essere liberato. La battaglia che il suo spirito ha cominciato coll'infinito ricomincerà a ogni ora, in ogni uomo, in ogni popolo. Tutti vi saranno uguali. Nell'epopea la gerarchia sembra costituire o almeno risultare dall'eroismo; nella tragedia il grande pensatore e il selvaggio, l'austero e il dissoluto, il mistico che crede a tutto e lo scettico che dubita di tutto, saranno egualmente trattati. Se la loro ragione cercherà di evitarla, il loro istinto la troverà nelle proprie profondità; la tragedia è nel pensiero umano, che limitato dalla propria umanità sente l'infinito e l'eterno non potendo nella propria forma momentanea essere nè l'uno nè l'altro.
E mentre la prima tragedia si ripete nella immobilità dei proprii dati a traverso tutte le generazioni, scoppiano fra di esse i drammi storici composti di tragedia e di epopea. In essi l'urto non è più fra il pensiero umano e il pensiero cosmico, ma fra il pensiero storico di una generazione e quello della serie alla quale essa appartiene. Il ritmo dei periodi e delle forme storiche regola i mutamenti della scena e delle parti; i maggiori individui dì ogni generazione non recitano che nei prologhi e nei finali, giacchè il loro ufficio è doppio e debbono significare in sè stessi la morte e la risurrezione. La loro vita si diffrange in questo sforzo per ricomporsi nella idealità del tipo storico.
Nessuna generazione di popolo è quindi senza tragedie. La loro sceneggiatura potrà variare dall'olocausto all'assassinio: i personaggi avranno o crederanno di avere in sè stessi scopi ben più piccoli di quelli pei quali muoiono, e daranno della loro inevitabile sconfitta finale meschine ragioni di più meschini errori commessi; ma la fatalità delle idee, che per tragica spira discendono dall'infinito spirituale nella realtà storica, saranno le vere cause delle loro catastrofi.
A distanza di secoli le grandi vittime si rimandano il medesimo grido di dolore e di orgoglio; a distanza di continenti e di mari le cime tragiche si veggono l'una l'altra, e Cristo morente si volge verso il Caucaso, e Napoleone da Sant'Elena guarda verso il Golgota.
I più grandi uomini, che conchiusero o iniziarono le più grandi epoche, soccombettero nelle più disperate tragedie, Mosè morì sul Tabor, Cesare sotto il pugnale di Bruto, Alessandro nelle acque del Cidno: Colombo, che scopre l'America, ne ritorna carico di catene, il rogo brucia quasi tutti coloro che agitano nelle tenebre la fiaccola del pensiero, il trionfo è negato a tutti quelli che vincono nel campo dell'idea. La tragedia del pensiero umano col pensiero cosmico ricompare nei drammi storici, nei quali il grand'uomo non può interamente assorbire nè la generazione che spinge nel futuro, nè indovinare quella che ne evoca; e allora tutto quanto rimane fuori di lui, o dietro alle sue spalle nella storia del suo popolo, o davanti alla sua fronte oltre i raggi de' suoi occhi nel destino del popolo che sta per sorgere, si congiunge sul suo capo come un'immensa vôlta che si abbassa e lo schiaccia.
Una più tragica necessità aggiunge ancora la commedia alla tragedia. Quindi tutte le generazioni innumerevoli dei piccoli si addossano feroci al grand'uomo per rattenerlo lungo la via, o insinuare almeno nell'eroico dolore della sua meditazione lo spasimo della loro mordacità animalesca; e lo odiano come non possono odiarsi fra sè medesimi, e lo perseguono col coraggio che la coscienza del numero dà agli insetti e l'inconscio dell'istinto ai bruti. Dietro al tallone di ogni Achille vi è sempre un Tersite, a fianco di ogni Sigfried vi è un Hagen.
La commedia ride delle ferite che prodiga senza accorgersene, e ha ragione; ma ride anche di quelle di cui s'accorge, e ha torto. Nullameno, le sue bassezze sono necessarie all'altezza della tragedia per attirare l'attenzione di coloro, che migrano nella storia e guardano continuamente indietro per rinvigorirsi il coraggio di andare avanti.
Mentre la tragedia segna il passaggio di un periodo ad un altro, e quindi ha per ragione di dolore e di grandezza la differenza fra la totalità di quanto una generazione morente consegna a quella che nasce e la piccola originalità che vi aggiunge, differenza e contraddizione che spiegano il disprezzo delle generazioni pei proprii grandi troppo preoccupati del futuro; la commedia invece è tutta circoscritta nella vita storica della generazione che la produce. E come non può abbracciare tutta la sua vita, giacchè cogliendone l'agonia si muterebbe in tragedia, così in quella stessa dell'individuo non può cogliere che un momento, il quale isolato diventa falso. La commedia non esprimerà mai tutto l'uomo, non potendo farlo morire: ma se non può farlo morire, non può nemmeno farlo vivere. La vita comica nell'arte e nella natura non sarà mai che un frammento ingannevole della vita reale.
Se la commedia tripudia nella gioia del proprio istante, presto si cangia in farsa; se pensa nel proprio tripudio e sale fino alla satira, tramonta tosto nella tragedia. Essa non è dunque che un sorriso su due labbra fatte per parlare o in due occhi aperti per vedere.
L'efficacia delle rappresentazioni comiche e tragiche è quindi profondamente diversa: il riso suscitato dalle prime inclina l'anima verso il piacere irreflessivo del sentimento, l'angoscia eccitata dalle seconde l'innalza sulla cima più alta del pensiero, scoprendole il destino del quale vive e del quale deve morire.
Nessun grand'uomo è passato senza tragedia nella storia. Quando la catastrofe non potè livellare la sua testa alle altre colla mannaia, la sua vita sopportò tutta la contraddizione che parve mancare alla sua morte. Il presente fu per tutti i grandi uomini una carcere, donde spingevano il pensiero nel passato e nel futuro: il loro linguaggio non era quello dei discorsi loro indirizzati, la loro parola suonava come un'eco che rispondesse ad echi lontani. Sulla loro fronte, che di rado il diadema segnò del proprio peso, le rughe s'impressero ben presto; i loro occhi avevano e comunicavano l'abbarbaglio d'invisibili visioni. Invano talora i piccoli impietositi offersero loro con ingenua vanità il conforto della propria ammirazione: una superba malinconia isolava quegl'inconsolabili e metteva sulle loro labbra un triste sorriso perfino nel tumulto dei maggiori trionfi.
No, non compiangete, non adorate! Lasciate Cristo morire sulla croce: tutta la vostra riconoscenza non vi farà penetrare nel secreto della sua bontà; lasciate Socrate bere la cicuta: il perchè del suo eroismo resterà sempre un mistero per voi che non l'avreste fatto; lasciate Dante errare nell'esilio: cacciato da Firenze discenderà nell'altro mondo; lasciate Colombo ritornare dall'America carico di catene: egli che l'emancipa, ne riporta le catene all'Europa che deve spezzarle; lasciate Napoleone morire a Sant'Elena: egli che ha liberato l'Europa dal dispotismo, ultimo despota deve finire prigioniero; lasciate Garibaldi esulare a Caprera: egli ha fatto l'Italia; che cosa potreste voi fare per lui?
Che cosa v'importa se Galileo diventa cieco e Beethowen sordo? Non sono già gli occhi che scoprono i segreti della natura, o le orecchie che ne sorprendono le armonie. Che cosa v'importa se Camoëns muore all'ospedale e Giannone in carcere? I loro poemi e le loro storie non saranno per questo meno liberi, poichè la fortuna della vita non ha mai influito sulle opere dei grandi. Essi vivono soli: anche quando il mondo li acclama si sottraggono per un invincibile orgoglio alle ovazioni. Vittor Hugo si rifugia a Guernesey, Carlyle si chiude nel proprio studio come in una cella, Wagner erra per tutte le campagne come un bandito.
Lasciate passare la tragedia del pensiero e andate piuttosto a criticare quella dell'azione. Ieri è morto Gambetta, fondatore della terza repubblica francese, giovane, nell'apoteosi della vittoria: Bismark, il suo gigantesco rivale, ha taciuto e forse per ciò tutti gli altri hanno parlato sul destino di un uomo, che diventerà un'epoca nella storia del proprio popolo. Cavour morì come Gambetta; Mazzini, che era già stato vinto prima, venne a spirare in Italia come le rondini vecchie tornano, potendo, a morire sotto il tetto della casa nella quale nacquero. Che cosa hanno pensato tutti questi grandi all'ultima ora, mentre i piccoli ciarlavano sapientemente della loro opera e cercavano fra sè stessi il loro successore? Vela, scolpendo la testa di Napoleone I morente, è forse riuscito ad esprimerne il supremo pensiero in un dolore che i muscoli non sentono più e in un'idea che la morte non può colpire: ma il tragico capolavoro rimane per sempre un mistero, perchè una maschera non è un viso, nè una espressione della sua fisonomia tutto il suo pensiero.
La tragedia artistica non può contenere tutta la tragedia spirituale nella propria azione.
Se Cristo non avesse predicato ed agito, forse che non sarebbe stato Cristo egualmente? O forse che Cristo non pensò oltre quello che disse e non volle oltre quello che operò? La sua tragedia nella storia non è dunque che una scena di quella che in lui si svolse, e forse la sola accessibile al mondo e quindi la più bassa. Il Cristo vero è quello che non conosciamo, ma indoviniamo confusamente attraverso le sue opere e le sue parole.
La tragedia artistica ha per limite e quindi per negazione l'azione. Eschilo ebbe d'uopo d'una favola per scrivere il Prometeo, che gli riuscì grande oltre i confini della medesima.
La tragedia del pensiero balenò allo sguardo di Shakespeare quando scrisse l' Amleto, poichè l'infelicità del suo principe danese non deriva già dall'assassìnio del padre o dall'incesto della madre, ma dalla contraddizione di una coscienza eroica col mondo, nel quale anche fuori della propria famiglia avrebbe trovato gli stessi dolori e gli stessi delitti. Amleto non è un malato, padre di tutti i futuri romantici come si è preteso; allora non sarebbe tragico, perchè nella tragedia occorrono due forze egualmente libere. Ma è l'uomo che si libra col pensiero al di sopra della propria condizione, oltrepassando i confini del proprio tempo, sfondando le convenzioni della morale e della religione per affacciarsi fra le loro rovine all'infinito. Il suo dolore è profondo ma sano, come sicura la sua opera e puro il suo amore.
Ma neanche a Shakespeare fu concesso di rappresentare la tragedia del pensiero: il suo abbozzo rimasto nella storia dell'arte accanto al Prometeo di Eschilo non è che ombra ed eco.
Se l'arte potesse giungere nelle proprie rappresentazioni alla tragedia del pensiero, i suoi tipi, troppo più alti di Prometeo e di Amleto, si chiamerebbero Satana e Cristo: ma Dante si è esaurito nella caricatura del primo e tutto il cristianesimo si è estenuato nella spiegazione del secondo.
E vi è nella vita e nella storia una posizione più tragica di tutte quelle trovate dall'istinto artistico, nella quale periscono i grandi uomini indarno preparati dalla natura ai grandi avvenimenti. Non è vero, non è possibile nemmeno come ipotesi che i massimi genii sieno soli e un tegolo caduto per caso sulla testa di un ragazzo, che si chiamava Cesare o Napoleone, potesse arrestare o deviare la storia del mondo. Bisogna che nel disegno della storia molti individui fossero capaci di quella stessa funzione, nella quale uno solo appare per ragione di unità. Nessuno ha mai saputo o saprà mai in qual luogo o in quale circostanza la storia avesse dato la posta a questi grandi sconosciuti e per quale accidente, uguali nelle forze e nella coscienza delle intenzioni, arrivassero a tali distanze di tempo che il primo diventò l'unico, e l'ultimo non fu sospettato da alcuno. Forse il fatto che li rattenne fu frivolo e l'ostacolo leggero, perchè la storia non avendo più specialmente bisogno di alcuno fra essi era indifferente ai loro nomi. La loro giovinezza ebbe le medesime ansie e i medesimi sogni; la loro vita era scissa: saranno sembrati stravaganti se non pazzi ai mediocri ragionevoli che li circondavano. Ma quando venne l'elezione e l'eletto si chiamò Cesare, tutti gli altri innominati sentirono il coperchio del sepolcro racchiudersi sopra la loro anima.
Perchè si parla dunque ancora della Maschera di ferro, di questo povero gemello di Luigi XIV, che morì alla Bastiglia senza aver mai potuto mostrare il volto? Non è dunque una maschera il viso di ogni uomo grande, al quale gli avvenimenti non consentono di mostrarsi? Che cosa è più il pugnale di Bruto o lo scoglio di Sant'Elena, che conchiudono una vita gloriosa nella quale l'individuo assorbì tutto un mondo, dinanzi a questa prigionia nell'ombra e nel silenzio sofferta dai rivali, cui fu contesa l'espressione del pensiero e l'azione della volontà?
Dov'è il poeta che scenda in questo abisso e sappia poi descriverlo? Da chi sarà compreso questo poeta degl'incomprensibili? Perchè Michelangelo e Kant, vecchi, a distanza di secoli pronunciano la stessa parola: sono stanco?!
Immaginate Cristo muto e paralitico, e ditemi se l'impotenza ad agire non sarebbe stata per lui più straziante di tutti gli strazii che la fantasia de' suoi credenti ha poi accumulato nella sua passione?
Ah! non turbiamo con questa tragica curiosità la tragedia di coloro, che portarono nella eternità il rimpianto di avere inutilmente vissuto!
Una strana leggenda circola nei giornali sopra Emilio de Girardin,
Da quando giovinetto ebbe i primi sogni di gloria egli non chiuse più la porta del proprio appartamento. Una notte un amico va a trovarlo per un bisogno improvviso. Suona, il portinaio della casa gli apre, infila correndo le scale, arriva all'uscio di Girardin: è socchiuso. Un sospetto lo turba, ma non si ferma, entra. La camera è buia, Girardin dorme. Al rumore si sveglia.
—Ah!
—Come mai, esclama l'amico che aveva già acceso un fiammifero, il tuo uscio è socchiuso?
—Lo lascio sempre così.
—Perchè?
Un lampo passò negl'occhi di Girardin:
—Se fosse chiuso, il solo ritardo necessario ad aprirlo potrebbe farmi perdere l'occasione suprema della mia vita.
L'altro, che non comprese, alzò le spalle.
Un giorno a Girardin vecchio fu chiesto col sardonico sorriso della gente seria, se adesso chiudeva l'uscio.
—Ieri per la prima volta: ho compiuto i settant'anni. Troppo tardi!
Troppo tardi, l'ultima parola di tutti i destini falliti.
XII. [Dogali]
Pur troppo è vero!
Il 26 Gennaio Ras Alula ha sorpreso la colonna De Cristoforis, spiccata da Monkullo per soccorrere il maggiore Boretti assediato in Saati, e l'ha distrutta sulle alture di Dogali. Tutti i giornali sono frementi della truce novella: la Camera ha tumultuato, il popolo si è scosso per le piazze all'odore del sangue. È parso come un vento infocato del deserto che passi per la frigida e grigia atmosfera del nostro inverno, sulle nostre coscienze, che dopo le vampe luminose della epopea garibaldina si erano adagiate nel crepuscolo secolare della nostra vita di servitù.
L'impresa d'Africa, se pur merita questo nome, nacque secretamente fra le file diradate del partito, che Cavour aveva con temerità pari alla destrezza condotto alla doppia vittoria sull'Austria e sulla rivoluzione. L'audace statista, che aveva arrischiato la spedizione di Crimea, non sospettò forse, morendo, che i suoi epigoni sarebbero costretti a ritentarne la caricatura sulle coste africane memori ancora del nome romano. Nessuno in paese e alla Camera dubitò sulle prime della cosa: si parlava di una striscia di lido comprata sul Mar Rosso, di una specie di rada, nella quale le future navi del nostro futuro commercio coll'Oriente avrebbero potuto riparare. Di sbarco, di guerra, di conquista neppure una parola; quella sabbia se valeva poco costava anche meno.
Poche capanne vi formavano un villaggio: selvaggi mendichi respinti da guerre interne, o indefinibili mercanti, o avventurieri abbandonati dalle navi di tutto il mondo, vi formavano una popolazione senza fisonomia e senza passato.
Quando si seppe che il Governo vi aveva spedito una brigata di carabinieri, fu per tutto uno scoppio di lazzi; le caricature fioccarono nei giornali, si rideva allegramente di una meschinità che avrebbe dovuto impensierire. Poi vi furono compromessi coll'Egitto, fortilizi abbandonati dalle sue truppe alle nostre: quindi Massaua di villaggio si mutò improvvisamente in capitale senza contrada nè popolo; si discusse di una diga che ne allacciasse l'isoletta al continente, di fortificazioni che dovevano proteggerla da nemici allora insupponibili.
E la gente rideva ancora.
Poscia si aperse l'Esposizione di Torino, mercato delle poche ricchezze dell'arte italiana, nella quale un villaggio medioevale costrutto colle leggi prospettiche di un scenario, col suo castello medioevale in fondo, improvvisato, falso, più meschino di un balocco, più ridicolo ancora dell'idea d'onde era nato, più labile forse dello stesso scopo cui era destinato, fu la sovrana meraviglia e il vanto più orgoglioso. Gli affreschi vi erano dipinti sulla tela, ma i camerieri vi portavano le assise degli antichi servi. Il castello, invece di sorgere sui monti armonizzando con essi la propria architettura, era nascosto nel fondo di una pianura oltre il Po; le case che vi conducevano non avevano che la facciata, ma in compenso nelle loro botteghe imitatamente vetuste artieri moderni abbigliati all'antica vi facevano per la curiosità dei passanti, addottrinati da appositi ciceroni, le stoviglie di un tempo. Era una mascherata nella quale arte e scienza, storia e patria facevano la più umiliante delle figure.
E parve alla stampa che giammai il genio italiano avesse avuto più nobile e meravigliosa fantasia.
A quel castello, nel quale alcuni illustri sedotti da tutte le amabilità della lode, dovevano tenere conferenze sulla vita spirituale e storica del quattrocento, capitarono non meno vilmente e ipocritamente mascherati alcuni indigeni di Massaua, una specie di regina con un paio di guerrieri. Era il Ministero, che imitando per profondi concetti politici la profondità concettosa del Comitato della Esposizione, il quale fabbricava in fondo ad un vicolo di Torino un castello alpigiano nelle proporzioni di un ninnolo per iniziare i borghesi del nostro secolo ai segreti del quattrocento, mandava in giro per le grosse città italiane tutta la dinastia e tutto il popolo della sua nuova compra massauina vestiti come i pagliacci che girano per le fiere nei carrettoni; ma dinastia e popolo non erano ancora abbastanza numerosi per riempirne uno solo.
Allora la gente non rise più, si compiacque. Si cominciò a credere che la costa comprata fosse più che una costa; nelle fantasie si accrebbe il numero degli armati speditivi dal Governo: l'antico orgoglio delle conquiste sopravissuto nella rettorica di tutti i nostri secoli, si levò nuovamente per affermare che il Ministero, malgrado le meschine apparenze da lui date all'impresa d'Africa, fosse composto di grandi uomini intorno ad una grande idea.
Intanto l'Africa aumentava di anno in anno il proprio fascino sulla coscienza italiana. Le sue notizie correvano attraverso quelle del resto del mondo, respingendole, per entrare prime nello spirito di tutti. L'ultimo dei Napoleonidi, fanciullo infelice ed imbecille, era andato a morire, coscritto inglese, all'estremo capo dell'Africa contro una popolazione superba e feroce che l'aveva trucidato. L'immensa epopea del primo impero, depravata in lurido dramma dal secondo imperatore, finiva in un meschino e sanguinoso aneddoto entro un lago d'erba nell'interno dell'Africa. Il primo Napoleone era morto alto sull'Oceano nel cospetto del mondo; l'ultimo soccombeva sotto le zagaglie di pochi selvaggi, perchè cavallerizzo timido ed inesperto non era riuscito ad inforcare la sella del proprio cavallo fuggente.
Poi Gambetta, il Dittatore che colla gloria delle proprie sconfitte aveva riparata l'infamia della resa di Sèdan, ritentava l'esperimento delle armi francesi contro i Crumiri oltre i confini dell'Algeria: la Spagna vegliava sul Marocco, l'Inghilterra stava fisa all'Egitto colla mano fremente sulla corda dei propri cannoni. L'Olanda minacciava di voler risottomettere i suoi Boeri, la Francia risaliva il Senegal, il Belgio con abilità di mercante e sapienza di scienziato si preparava alla conquista del Congo, accodando il proprio re al più intrepido dei viaggiatori del secolo, l'americano Stanley.
Mentre il Governo italiano comprava qualche chilometro di arene lungo il Mar Rosso e menava per le piazze le mascherate de' suoi nuovi cinque sudditi, ogni mattina i giornali italiani levavano l'inno augurale a giovani viaggiatori che partivano per l'Africa. Nessuno prima li conosceva e in un attimo diventavano celebri. Una gloria improvvisa e malinconica circondava il loro nome, un interesse tragico rendeva prontamente noti tutti i particolari della loro spedizione. Nessuno sapeva bene a che cosa intendessero, arrischiando così le loro floride vite, ma ognuno si sentiva lusingato dalla intrepidezza dei loro propositi, sperando non so che da questi viaggi senza ritorno nel cuore dell'Africa rimasto sempre chiuso a tutti gli sforzi della civiltà mondiale. E nullameno non erano nuovi nè l'idea nè il fatto di tali spedizioni. Anche trascurando quelle continue dei missionarii, che hanno tanto arricchito in questo secolo le scienze archeologiche, vi furono audaci in ogni tempo, che malati della nostalgia dell'ignoto esularono verso tutte le contrade inesplorate e vi soccombettero o ne ritornarono senza destare nell'anima della nazione la profonda emozione appresavi dall'addio dei nuovi viaggiatori.
Qualche cosa era dunque avvenuto fra l'anima europea e africana che, riavvicinandole, le predisponeva ad innamorarsi l'una dell'altra. La separazione storica dei continenti già vinta dalle religioni, dai commerci, dalle immigrazioni, dalla scienza aveva dunque cessato coll'apertura del canale di Suez. L'Africa, diventando un'isola, si riuniva all'Europa, giacchè dalle sponde del nuovo canale l'espansione europea si sarebbe allargata, oltre i suoi immensi deserti, fin sopra i suoi favolosi altipiani. Dopo aver tagliato il suo istmo l'Europa risalirebbe i suoi fiumi, e forse fra non molto congiungendo con un altro canale le fonti non troppo discoste dello Zambese e del Congo la spezzerebbe in due grandi isole per irradiarla della propria civiltà da tutto il littorale e dal centro. Un immenso progetto allaga già il deserto di Sahara e convertendolo in mare vi crea sulle sponde fecondate una cintura di città pari a quella del Mediterraneo; le ferrovie cingono fin d'ora tutte le coste africane con un monile di ferro, entro il quale l'Africa prigioniera della civiltà non può ricusarne più i beneficii.
Ma l'Africa antica, quale appariva alla sbigottita fantasia europea di pochi secoli fa, non è ancora tutta vinta. Il suo clima è una vampa, il suo deserto un infinito, la sua aridità una maledizione: oltre i suoi deserti un baluardo d'inaccesse montagne, sulle quali echeggia il ruggito del leoni, ne fende il centro, che la vecchia geografia chiamava Nigrizia. Che cosa vi era dunque in questo centro? Le fantasie dell'arte e della scienza vi si sbizzarrirono nelle più orribili ipotesi, nei sogni più spaventevoli. La civiltà dell'Egitto non era stata africana ma mediterranea, fecondata dall'acqua, solcata dal Nilo e aperta sul mare: la Nigrizia, aggravandovisi, aveva sinistramente atteggiato la sua così spirituale religione. Ora si sa che oltre quei monti vi sono territorii incantevoli, sui quali vive la più feroce razza che forse il sole abbia annerito. Una feudalità selvaggia vi sminuzza l'impero in minime tirannie, una sanguinaria incoscienza vi fa della guerra l'unica industria e della strage il supremo divertimento: i suoi monumenti sono ancora di teschi, le sue vie segnate da ossa. L'antica favola delle Amazzoni vi è ancora una verità nell'impero del Bahomey, che ha il proprio esercito composto di donne: i sacrifici di Moloch, nausea e spavento dell'antico mondo, vi si celebrano ancora ai funerali dei re, nei quali si trucidano migliaia di mogli e di servi.
L'Africa, che ha avuto una civiltà propria sulle coste oggi ancora efficace nella civiltà mondiale, giacchè senza Tebe ed Alessandria la storia è impossibile; che da molti secoli ospita l'Europa sui proprii lidi ripetendovi in molte città la gloria solitaria di Cartagine; che si è lasciata penetrare dai due massimi sforzi religiosi, cristianesimo e maomettanismo; difesa nel centro da monti e deserti egualmente inaccessibili, vive ancora nella più atroce preistoria. Per essa tutto quanto avvenne nella storia del mondo non è avvenuto: i nomi dei più vasti imperi, degli eroi più sublimi, tutte le glorie di tutti i popoli, tutte le creazioni di tutti i pensieri è come se non siano state. La sua vita è ancora nel suo sole che brucia il sangue e dissecca nell'anima tutti i sentimenti; il suo popolo vive nudo come i suoi deserti e con una coscienza arida del pari. Nascere, uccidere, morire, ecco tutta la sua vita. Cielo e terra non hanno poesia di misteri per lei: Dio è il sole, la terra eterna, che divora quanto produce, la sua religione. La forza è il diritto, il fatto la sola verità. Quanti miliardi di vittime in quante migliaia di anni ha consumato la preistoria africana, che immobile nelle proprie idee rudimentarie si ripete colla disperata monotonia di un vagito e di un rantolo, di un bambino che nasce e di un uomo che è ucciso?
Finchè la storia ignorava la preistoria, questa poteva durare fra le bellezze della natura e l'incendio del sole come uno dei tanti alberi mostruosi del suo clima o delle troppe fiere della sua fauna; ma quando la storia dilatandosi irresistibilmente verrebbe a battere colle proprie onde al suo confine, la preistoria incapace di aprirsi volontariamente, doveva essere sfondata e allagata. Storia e preistoria si batterono ovunque, sempre colla vittoria della prima. Le armi della storia erano infinite; quelle dell'altra solamente due, la freccia che vola e la mazza che schiaccia. La storia è un esercito e la preistoria una massa immobile e tempestosa nel medesimo tempo, senz'altra forza che il suo peso e il suo urto. Mentre quella si avanza per esploratori, poeti della redenzione che si inoltrano alla scoperta dei bruti umani, questi alla repentina presenza dei loro scopritori o li adorano o li scannano: ma dietro al missionario, che sperava convertirli, arrivano l'industria ed il commercio che li sopprimono. Il frate in cerca di anime pel cielo diventa così il segugio del colono, che ha bisogno di uccidere il selvaggio per fecondarne il terreno colla propria civiltà.
L'Europa, che quattro secoli or sono discendeva dalla vecchia caravella di Cristoforo Colombo all'America per costringerla ad entrare nell'orbita storica, decisa a distruggervi quanto il suo contatto non vi potrebbe rinnovare, assedia oggi l'Africa per tutte le coste, sulle quali ha già improvvisato miracolosamente molte città. Ma se una volta all'avanguardia del suo esercito non v'erano che missionarii anelanti a piantare la croce del loro Dio su tutte le terre, oggi la sua conoscenza storica più adulta manda viaggiatori egualmente intrepidi a scoprire nuovi paesi per le storie future.
L'attrazione è universale ed irresistibile. Tutto l'istinto poetico delle nuove generazioni si volge verso nuovi mondi. Mentre la scienza e l'arte ricostruiscono quello antico, la vita aspira ad un mondo futuro: l'Europa centro della storia è piccola agli europei. I popoli, che vi si sono costituiti e vi si stanno esaurendo nei loro periodi, sono spinti a cercare una rinnovazione sopra terre vergini; la preistoria deve cedere alla storia tutte le contrade, nelle quali la natura consenta a ricevere il quadro storico.
Oggi, che sono tracciati tutti i suoi confini e ritratte tutte le sue fisonomie, il mondo è troppo angusto perchè la preistoria possa ancora occuparne tanta parte: rispettarvela, suppunendola uguale alla storia, sarebbe un negare la legittimità dell'origine e dello sviluppo di questa.
L'Italia fu la prima ad esercitare una grande influenza sull'Africa. L'antichissima civiltà egiziana non aveva avuto scopo africano, ma cresciuta sul Mediterraneo e sul Mar Rosso era una stazione, dalla quale l'oriente per immensa curva saliva verso l'Europa. Dopo l'Egitto venne la Palestina, poi la Grecia, poi Roma. Roma fu il centro del mondo; l'Egitto vi aveva mirato come l'India, come la Persia, come la Grecia. Roma ritornò dappertutto restituendo nella unità del proprio pensiero il concetto frammentario a lei venuto da ogni parte. Infatti il Cristianesimo vi si fermò suggellandovi l'universalità per tutta la durata della storia.
Roma distrasse Cartagine, ma fecondò Alessandria; ridusse l'Egitto a provincia romana attirando l'Africa nella storia universale. D'allora, l'azione italica sull'Africa fu continua: tutto il commercio africano fu coll'Italia, il Cristianesimo vi ebbe Santi Padri e concilii, vi mandò crociate, vi si battè coll'Islamismo, e unito con lui penetrò nei deserti. L'Africa ebbe quindi due centri fuori di sè stessa, Roma e la Mecca; il suo Egitto risorse meno africano dell'antico; i suoi imperi litoranei fiorirono guardando oltre il mare all'Europa.
Dopo le antiche barche fenicie le prime flotte che cinsero l'Africa furono italiane: i pennoni di Amalfi e di Pisa, di Genova e di Venezia, di Roma e di Firenze si gonfiarono superbamente ai venti dei deserti. Primi i Veneziani nel secolo XV offersero ad un sultano di tagliare l'istmo di Suez, miracolo di audacia allora, miracolo di scienza oggi e che senza forse si sarebbe avverato anche allora. Mentre Colombo e Vespucci scendono in America, Cadamosto, veneto, penetra nel Senegal e nella Gambia: la conquista saracena respinta dall'Europa è proseguita in Africa. Ma se l'Islamismo vi si immobilizza, il Cristianesimo vi si inoltra; la civiltà sorpassa il primo, urge il secondo, gli centuplica le forze, gli slarga il programma, gli concretizza l'ideale.
Poi il movimento italico s'arresta, mentre l'Europa prosegue. Inglesi, portoghesi, francesi passano pel solco segnato dagl'italiani; gli ultimi barbareschi sono distrutti, la tratta degli schiavi negata: il segreto del Nilo è rivelato, i viaggiatori s'incrociano nei deserti e si salutano con un grido di trionfo; prima di morire, l'uno affida all'altro le proprie scoperte. L'Africa è vinta, l'Europa ne ha la carta. Conoscere il campo del nemico non è già averlo preso? Napoleone, l'ultimo Cesare dell'Europa, all'indomani della grande rivoluzione francese che dilata la rivoluzione cristiana, discende in Egitto, mostra ai proprii soldati le Piramidi di Sesostri, e alla loro ombra sconfigge gli ultimi soldati dell'Islamismo, che incapace di più espandersi voleva mutarsi in barriera. L'Egitto passa dalla Turchia, ultima forma dell'oriente, all'occidente: l'Asia, che l'aveva difesa per migliaia d'anni, abbandona per sempre l'Africa all'Europa.
Una dinastia macedonica s'improvvisa un trono in Egitto con barbarica imitazione della monarchia napoleonica, ma non vi dura se non il tempo necessario all'Europa per la soluzione del grande problema dell'istmo, tagliato il quale soccombe nella più ignobile delle sconfitte.
Intanto l'Italia, che sta per sorgere, prosegue coll'Egitto l'antico commercio e le sapienti relazioni: Rosellini ne disegna forse le tavole migliori, Belzoni e Caviglia penetrano nelle Piramidi e scoprono le tombe degli antichi re: Servolini, un mio compatriota, succede a Champollion e tenta superarlo nella interpretazione dei geroglifici. Passalaqua riporta a Torino la prima mummia: ieri un altro italiano, l'illustre Maspero, disseppelliva quella del grande Sesostri, il conquistatore centenario, e ne leggeva nelle fascie l'iscrizione al mondo meravigliato. Ad Alessandria e al Cairo la colonia italiana se non la più numerosa è la più importante: oltre l'Egitto altri italiani s'inoltrano. Piaggia, Antinori, Gessi risalgono il Nilo e origliano e stringono le ciglia verso il centro dell'Africa. Ma la gloria di traversarla sarà divisa fra Stanley e Pellegrino Matteucci, il mio eroico e mite compagno di scuola.
Stanley ha raccontato con epica e superba sobrietà il proprio viaggio; Matteucci invece ne è morto a Londra, mentre si disponeva a ritornare trionfante in Italia, forse per scriverlo. Solo con un compagno, quasi senza aiuti, egli, intraprese questa spedizione, per la quale il suo avversario americano non aveva nulla risparmiato. Matteucci non aveva ancora trent'anni. Era stato prima verso la terra dei Gallas e il sole gli aveva annerito il viso, accendendogli così l'anima che in Europa si sentiva straniero.
Il deserto lo attirava, immenso, mobile, biondo, pieno di abbarbagli come il mare, ma senza la sua trasparenza che è un inganno e la sua schiuma che pare una malattia. Il silenzio del mare è un tumulto paragonato a quello del deserto. Mentre il cielo sotto le vampe del sole s'arroventa come il metallo e diviene quasi bianco, il deserto assume tutti i toni dell'oro, liquido e vaporante dove il vento agita lieve le sabbie lontane, unito e caldo nelle distese inerti, opaco nei seni delle ondulazioni, vecchio addirittura entro l'orma stampata dall'ambio del camello o dai salti del leone. Essere solo nel deserto, del quale non si conosce la carta e pel quale forse nessuno è ancora passato, neppure dai selvaggi che errano a' suoi confini! Essere il primo uomo per gli animali, che vi scorrazzano e che ignorano l'uomo come i selvaggi ignorano la civiltà!
Appena si entra nel deserto tutto il mondo della nostra memoria e del nostro sentimento dilegua. In alto mare il vascello, sul quale si naviga, è ancora quel mondo che abbiamo abbandonato: tutte le sue gerarchie, le sue scienze, le sue industrie, le sue miserie, le sue glorie vi si trovano condensate, e quindi più vive e vibranti. Per essere veramente soli in mare bisogna naufragarvi, altrimenti la barca è un compagno. Solamente nel deserto si è soli. Là bisogna camminare, vincere, esaurire l'immensità di quello spazio: si ritorna come al primo giorno della creazione, si procede inermi ed intrepidi: tutto è luce e fiamma, e il pensiero brilla e fiammeggia.
Matteucci, che aveva visto il deserto nel primo viaggio, n'era rimasto fatalmente innamorato.
Ripartì superbo e malinconico.
Qualche cosa forse lo avvertiva che quello era il viaggio della morte. Ne' suoi occhi, che all'abbarbaglio del sole africano avevano acquistato una vivezza per noi strana, passavano dei lampi; la sua fronte era minacciosa, il suo gesto aveva talvolta delle ampiezze, che a noi le nostre città e le nostre campagne egualmente rasserrate non consentono. Ci disse addio con uno squillo nella voce che a me parve un appello. Matteucci era un cristiano dei primi tempi, che aveva potuto traversare con noi l'università senza che la sua fede trepidasse un momento. Forse s'era innamorato del deserto perchè nella sua sfolgorante immensità sentiva meglio Dio.
Il deserto lo ha ucciso.
Un anno intero è durata la lotta del viaggiatore col deserto, dell'atomo coll'infinito. Non sappiamo nulla di questa epopea e non la sapremo mai, nè possiamo colla temeraria fantasia riprodurcela. Che cosa è un giorno nel deserto con quell'arena, con quel sole, con quel cielo, quando nessuno ci vede e nessuno ci ascolta, quando si può ridivenire vili senza avvilirsi ad alcun occhio; quando si può piangere ed è inutile, o si può essere ancora impassibili e quest'eroismo pel quale la gloria non esiste può rimanere sopraffatto istantaneamente dal primo leone che passa o dal primo insetto che vola? E la notte col terribile freddo della evaporazione quando le sabbie nelle quali si è coricato si assiderano e non si ha che lo stesso mantello che al meriggio ci riparava dal sole, e le stelle si affacciano nel cielo diventato di un sereno vitreo, e il deserto è ancora biondo ma percosso da urli di animali vaganti per la notte in caccia? Dove sarà l'Oasis? Dove ci coglieranno le febbri, giacchè la febbre sale il giorno dalle sabbie fra i baleni e vi ridiscende la notte colla rugiada!?
Un anno durò quella marcia, e il deserto si esaurì e le sue Oasis si perdettero in lontananza e apparvero fiumi, territori fertili, valli di paradiso. Tutta la preistoria fu attraversata e il deserto ricomparve, i monti si drizzarono vergini ed inaccessibili, i laghi si distesero immensi come mari non ancora solcati dall'uomo, tutte le fiere passavano fuggendo dinanzi agli occhi del viaggiatore. Uccelli strani dai colori incredibili e dalle immense ali si libravano attoniti sulla sua testa, le nuvole degli insetti urtavano nel suo volto, le serpi scivolavano sotto ai suoi piedi. E avanti avanti: la febbre entrata nel sangue dell'intrepido viaggiatore glielo bruciava la notte e glielo gelava il giorno. Ma la marcia proseguiva sempre. Le centinaia e le migliaia di chilometri restavano dietro a lui; il centro era oltrepassato, un'altra spiaggia e un altro oceano lo attendevano. L'Africa era vinta, la gloria conquistata, L'Italia aveva scoperto un nuovo mondo. Il viaggiatore, che si sentiva morire, voleva vivere; l'anima gli raddoppiava le forze. Le ultime tappe furono senza dubbio sublimi di eroismo. Lacero, sfinito, marciava sempre; adesso contava i giorni, e la distanza scemando sembrava aumentare alla sua impazienza. Morire allora sarebbe stata una indegnità da parte di Dio, ma il credente era sicuro e Dio non lo abbandonò.
Toccò la spiaggia, una nave francese raccolse lo sconosciuto e lo sbarcò a Londra. Quando il mondo seppe della sua traversata si alzò un urlo di ammirazione: l'indomani ne scoppiava un altro di dolore. Pellegrino Matteucci era morto delle febbri prese nel deserto.
L'Italia si scosse e fece un glorioso funerale alle spoglie del Pellegrino; ma Pellegrino Matteucci aveva avuto compagno nella traversata il tenente Massari, che l'Italia dimenticò presto avendolo prima scarsamente applaudito. Adesso il nome di Matteucci è scritto sopra una linea rossa che traversa il continente africano e si chiama via di Pellegrino Matteucci; tutta la sua gloria e la sua opera è in questa riga rossa, che i ragazzi guarderanno indifferenti nei loro atlanti, ma che resterà sull'Africa come la cintura onde è avvinta alla storia.
La morte di Pellegrino Matteucci non fu sola nè inutile. Altri si slanciarono sulle sue orme e quasi tutti perirono; Chiarini Giulietti, Bianchi, Porro furono trucidati. Cecchi più fortunato mutò l'epopea in romanzo cavalleresco e rimase cinque anni prigioniero amato dalla regina di Ghera, preparando pei poeti dell'avvenire uno di quegli ammirabili temi che ebbero nell'antichità i poeti della Persia e della Grecia.
Ma intanto che gli eroi morivano, il Parlamento e il Governo come inconsapevoli di questa tragica e storica attrazione dell'Africa sull'Italia sembravano persino dimentichi della loro compra massanina, o interpellati da qualche generoso negavano ogni solidarietà colla morte di quei precursori.
Quindi la nazione sembrò sollevarsi così sdegnosa che il Governo credette di passare dalla compra alla conquista.
La vendetta della strage di Bianchi ne fu il pretesto: non si ebbe, non si volle, non si osò avere alcuna idea. Eppure il momento era storicamente solenne. Dopo secoli e secoli la bandiera italiana tornava minacciando sui mari che sembravano averla dimenticata, e non era la bandiera di Venezia o di Genova che aveva scoperta l'America e salite le mura di Costantinopoli, non la bandiera di Roma papale che aveva annichiliti i Turchi a Lepanto, ma la bandiera d'Italia che sventolando sull'asta delle antiche aquile romane riprendeva la loro via. Dacchè le aquile romane erano state uccise dallo stormo degli sparvieri nordici, il mondo non ne aveva viste altre, e nullameno eternamente memore del loro volo le aveva eternamente cercate sulla cima di tutti i pennoni e di tutti i vessilli, che lo percorrevano trionfando. Il nuovo stendardo italiano portava nell'iride dei più espressivi colori il simbolo redentore della croce.
Tutti gli sforzi millenari dell'Italia per costituirsi in nazione, il sangue de' suoi eroismi e le tragedie del suo genio non miravano che a questo giorno nel quale rientrando, attrice immortale, nella storia dopo essersi circoscritta nei confini del proprio diritto, veleggerebbe un'altra volta sui mari portatrice di nuova civiltà.
Il popolo sentì, senza dubbio, la grande ora quando fremente d'inesprimibile emozione si accalcò sul porto salutando con epico orgoglio i soldati che tornavano in Africa. Sì, tornavano in Africa, perchè da tremill'anni durava la lotta fra l'Africa e l'Italia, e l'Italia vi aveva già vinto Annibale, imprigionato Giugurta, sottomessi i Tolomei, vinti i Saraceni, dissipati i Barbareschi; perchè l'Italia, altra volta sintetizzando tutta l'Europa e profetandone l'avvenire, vi si era battuta contro tutto lo sforzo dell'Oriente e aveva vinto. La guerra ricominciava. Poichè l'Europa stava per aprire tutta l'Africa, l'Italia risorta non poteva, non doveva mancare all'impresa. I suoi soldati avrebbero ancora ritrovato su quelle arene le orme degli antichi padri: l'Africa destinata alla civiltà era quindi votata alla sconfitta.
Ma Parlamento e Governo, l'uno più meschino dell'altro, non compresero nulla dell'immenso significato dell'impresa: il Governo intese a sminuirla dandole aspetto di rappresaglia contro pochi ladroni; l'opposizione non vi scorse che uno sperpero di pochi milioni, e guaì le solite doglianze sulle miserie del popolo. L'ingresso trionfante dell'Italia nella storia mondiale contemporanea si mutò in una entrata di soppiatto, senza coscienza di sè medesima e con troppa coscienza de' suoi più grossi vicini che la spiavano.
Il momento della gloria si cangiò in un momento di vergogna.
Garibaldi, Mazzini e tutte le coscienze eroiche della rivoluzione erano morti; una volgare democrazia snaturava la grandezza del loro genio e del loro carattere nelle più miserevoli interpretazioni; non si voleva nessuna guerra coll'Africa riconoscendole lo stesso diritto nazionale dell'Italia; si confondevano storia e preistoria, si pareggiavano le loro diverse epoche e le loro contradditorie personalità. Si dimenticava che se i più civili non avessero sempre conquistato i più barbari, la civiltà non sarebbe mai cresciuta: che se Alessandro non avesse invaso l'Asia, la fusione fra Oriente e Occidente non sarebbe avvenuta: che se Roma non avesse assoggettato tutto il mondo, lo spirito greco non l'avrebbe penetrato e la sua unità non si sarebbe costituita: che se il Cristianesimo non avesse debellato tutte le idolatrie, non si sarebbe stabilito: che se i barbari non avessero invaso l'impero romano, il medioevo non si sarebbe avverato: che se le crociate non avessero assalito l'Islamismo, l'Europa feudale vi sarebbe soggiaciuta: che se la Spagna e l'Inghilterra avessero rispettata la nazionalità degli indigeni americani, adesso l'America non sarebbe quasi pari all'Europa e la scoperta di Colombo non le avrebbe giovato più che l'essere già stata tanti secoli prima scoperta dai groenlandesi, dai giapponesi e dagl'indiani. Nutrita del principio di eguaglianza morale e politica, la democrazia non comprendeva che tale alta verità diventava falsa applicata fuori del proprio periodo storico a popoli barbari: che il loro contatto cogli inciviliti, reso oggi inevitabile, doveva costringerli alla guerra come a un saggio della loro potenzialità. O resisterebbero all'urto, difendendo la loro nazionalità coll'assimilarsi rapidamente le nostre industrie e le nostre scienze, o perirebbero. La storia, anzichè consacrare l'intangibilità di nessun popolo, ha sempre distrutti tutti quelli, che non potevano entrare nel suo disegno.
La redenzione dell'Africa non è già quella degli africani attuali, ma la sostituzione di una più alta vita alla loro: che se essi non possono raggiungerla hanno vissuto fin troppo vivendo inutilmente.
Per penetrare nel centro dell'Africa bisogna quindi conquistare tutti i suoi imperi litoranei; l'Europa e più particolarmente le sue nazioni adagiate sul Mediterraneo non hanno altra missione. L'Europa, che non lo fu mai, non può essere oggi scopo a sè stessa. Se la terribilità di questo processo storico iniziantesi fatalmente colla guerra e colla distruzione irrita l'ammalata sensibilità di quei recenti cultori del diritto, che sognano la diffusione della civiltà con mezzi esclusivamente pacifici, giudicando popoli circoscritti da migliaia di anni nell'inferiorità della propria razza siccome capaci d'intenderli e di mutarvisi così da poter servire nei periodi storici che succederanno al nostro; questa terribilità è antica e fatale quanto la storia stessa. L'Europa che per tre secoli si è rovesciata sull'America creandola, ora preme sull'Africa e punta sull'Asia per aprirle. La razza bianca disputa il terreno alle razze inferiori chiamandole alla propria civiltà: quelle che non rispondono sono condannate, quelle che resistono saranno distrutte.
L'Italia, stata due volte il centro del mondo e risorta oggi nazione, non può sottrarsi a quest'opera d'incivilimento universale, di cui le tragedie per essere inevitabili diventano incolpevoli. La storia segue la stessa morale e lo stesso diritto della natura nel trionfo della forma più perfetta e dell'idea più alta: e poichè vincitori e vinti saranno pareggiati dalla stessa morte, la disparità del loro trattamento scompare nella idealità conquistata.
L'odierna democrazia, che negando ogni impresa come quella d'Africa, vorrebbe che Francia, Inghilterra e Russia abbandonassero a sè medesimi i popoli conquistati, lasciandoli ricadere nella immobilità del loro stato storico, invece di ritenerli forzatamente nella mobile orbita della storia mondiale e costringendo quelli incapaci di mutarsi o troppo numerosi per essere prontamente distrutti a contribuire colle loro ricchezze allo sviluppo della civiltà europea, non si è certo chiesto il perchè della terza resurrezione italica. Evidentemente la storia non può averla consentita nel solo interesse degli Italiani dopo averla negata a tanti altri popoli che come noi soccombettero in altre epoche. Se l'Italia è ridivenuta nazione, il secreto di questo fenomeno storico sta nella necessità che la storia mondiale può avere della sua opera e nella facoltà del nostro popolo a prestarla.
Ma se la democrazia abbandonata dal grande spirito rivoluzionario non capì l'impresa d'Africa, impigliandosi nelle contraddizioni del diritto politico col diritto storico, non meno inetti si mostrarono coloro che accettandola le imposero i brevi calcoli dell'interesse industriale e, facendo pompa di scienza nell'analisi de' suoi possibili vantaggi, conclusero a rigettarla perchè nel nuovo libro mastro l'entrata non sarebbe stata pari all'uscita. E rifecero quindi la critica delle colonie provando come tutte costassero più di quanto rendessero, ma dimenticando di chiedersi come mai tutte le nazioni fossero potute tanto facilmente cadere in un errore di semplice aritmetica. Nessuno di loro sospettò nemmeno che l'interesse industriale e commerciale fosse una illusione necessaria nella storia per produrre il fatto delle colonie, le quali, come modo di propagazione civile avevano per iscopo non già lo sviluppo di una nazione ma la creazione di un'altra. Le colonie piantate ad immense distanze non furono mai e non sono ancora che stazioni e fari facilitanti alla storia la sua marcia pel mondo. Nemmeno i recenti luminosi esempi moderni parvero bastare. Quindi si affermò che le colonie non andavano fondate perchè appena grandi si emancipavano, come oramai ha fatto tutta l'America, quasi che la trasformazione trionfante di questa in popolo originale non fosse lo scopo recondito e il premio supremo delle sue prime colonie. Non si sa ancora abbastanza che la storia di ogni paese è non solo coordinata, ma soggetta alla storia universale, e che ogni impresa vi oltrepassa sempre l'interesse di chi la compie, lasciandogli per sola grandezza quella di adempierla bene.
L'impresa d'Africa per l'Italia era la prima conseguenza del suo risorgimento. Potenza storicamente e geograficamente mediterranea, uscendo di sè stessa non poteva agire che in Africa; alla politica de' suoi uomini di Stato scegliere il momento più opportuno, il lido più adatto a discendervi colla più sapiente preparazione.
Ma l'Italia, scivolata dopo la morte di Cavour nelle mani di uomini meschinamente parlamentari, dovette eseguire il proprio ingresso in Africa con Agostino Depretis, volgare rivoluzionario costituzionale, che aveva contrastato accanitamente nella Camera Subalpina la spedizione di Crimea al grande statista. Giammai il corso storico esercitò sopra un individuo più crudele ironia: colui che aveva negato al Piemonte di diventare Italia, associandosi colle maggiori nazioni nella guerra contro la Russia, dovette vecchio spingere l'Italia in Africa associandola alle grandi potenze mondiali.
La sua vita politica tutta circoscritta nel Parlamento aveva limitato fatalmente il suo ingegno, rendendogli più malleabile il carattere e instancabile il temperamento. Fra i capitani di Alessandro, come Giuseppe Ferrari chiamò con sdegnosa ironia i successori politici del conte di Cavour, egli non ebbe dapprima importanza. Il giacobinismo, che rimase sempre la parte più nobile del suo spirito, lo rendeva sospetto e inadatto in quei momenti tanto difficili per la monarchia, nei quali bisognava esautorare la rivoluzione attirando con ogni favore nell'orbita costituzionale la grossa maggioranza retriva del paese. Il Cavour, che aveva iniziata l'opera con meravigliosa destrezza, era morto troppo presto, ma i suoi migliori scolari la perseguirono credendola meno un espediente necessario alla consolidazione del fatto rivoluzionario che una vera legittimità del principio monarchico più alto della rivoluzione medesima.
La tradizione politica e moderata, nella quale il Cavour aveva agito slargandola, era ancora viva nel nuovo partito costituzionale, che considerava come nemici i rivoluzionari. Depretis rimase dunque sospettato e subalterno: la sua indiscutibile abilità parlamentare non gli permise di stare a paro con Minghetti e con Ricasoli, il miglior borghese e il miglior aristocratico del nuovo governo, nè di abbinarsi col Rattazzi, che solo aveva potuto rivaleggiare col Cavour e in alcune qualità forse lo superava.
Ministro a più riprese, possibile in tutti i gabinetti di mezzo carattere, capace di disimpegnare qualunque funzione come a reggere ogni portafoglio, insinuante, indifferente sui mezzi politici e privatamente onesto, avido di attività più che di azione, ambizioso di potenza meglio che di gloria, si destreggiò per quindici anni fra i successori del Cavour, abili partigiani, che istintivamente retrivi avrebbero voluto immobilizzare la rivoluzione nei propri sentimenti. Ministro della Marina nel 1866 per una di quelle fantasie della nostra infanzia costituzionale, che prendendo i portafogli per balocchi se li distribuiva al di fuori di ogni tecnica capacità, subì se non preparò colla propria imperizia il disastro di Lissa; prima sconfitta che una flotta veramente italiana patisse dopo migliaia di anni. Inattivo durante la intrepida e profonda combinazione di Mentana tentata dal Rattazzi, arrivò a Roma lasciando a Quintino Sella, ultimo giunto nella fazione moderata e migliore di quanti v'erano rimasti, la gloria di spingere il Ministero reluttante su per la breccia di porta Pia. A Roma il partito costituzionale, che con Cavour aveva assunto di disciplinare la rivoluzione entro le forme parlamentari, italianizzando la monarchia piemontese coll'insediarla in Firenze e nazionalizzandola col sollevarla sino al Campidoglio, doveva esaurirsi.
La sua transazione storica, iniziata nel Parlamento piemontese e proseguita in quello nazionale, aveva raggiunto il proprio scopo logorando ogni varietà di uomini e d'ingegni. Del vecchio mondo italico nelle nuove generazioni non restava più nemmeno il ricordo; tutte quelle necessità di accomodamento e di concessioni, spesso trascorse oltre il ridicolo o discese troppo spesso fino sotto la viltà, erano non solo cessate, ma diventate inintelligibili alla nuova critica non giustificavano più nè la bassezza di certi metodi nè l'ignominia di parecchi risultati. La monarchia accettata dalla maggioranza come una forma ancora idonea alla vita nazionale, non era più venerata per tradizioni domestiche o considerata per pregiudizi di educazione come unico rifugio contro le ferocie ribalde della rivoluzione. Il nuovo re doveva conquistare personalmente l'adesione dei propri sudditi per regnare, o accontentarsi altrimenti di essere tollerato come una forma poco nociva per la nazione sino al momento opportuno per sostituirla.
Con Roma capitale l'Italia era organicamente e storicamente perfetta. Se qualche lembo de' suoi confini stava ancora fra le mani dell'Austria, secolare nemica, alla prima bufera che ne minacciasse l'impero eteroclito, l'Italia saprebbe abilmente e valorosamente riconquistarlo.
La lotta dello Stato colla Chiesa passava colla conquista di Roma dalla politica alla scienza, giacchè il diritto nazionale, ormai invincibile sul Campidoglio, avrebbe rispettato e imposto rispetto al diritto religioso.
La politica del Governo entrando in Roma doveva dunque murarsi, poichè la stessa rivoluzione dalla forma filosofica di Mazzini e epica di Garibaldi scendeva ad un'altra più precisamente politica ad impararvi i metodi parlamentari e a ricorreggervisi con studio più calmo nelle scienze. Tutti i rappresentanti del vecchio partito moderato erano caduti lungo la via, o caddero toccando Roma. La loro fine fu triste. Malgrado gli eminenti servigi resi e la gloria del tempo nel quale avevano operato, il paese li dimenticò vivi, non li curò moribondi, non li compianse morti. Il difetto della loro opera, maggiore nelle intenzioni che nei risultati, giustificò l'indifferenza della nazione; la quale sentiva come tutti quegl'illustri avessero meno lavorato per lei che per la monarchia, mentre lo spirito dell'avvenire stava ancora nella rivoluzione lasciatasi generosamente immolare alla gloria e all'utilità della monarchia. La morte di Garibaldi e di Mazzini lacerò tutte le coscienze, quella prematura di Cavour le aveva sbigottite: la morte de' suoi successori così varii di ingegno, alcuni così egregi di carattere, tutti così benemeriti di lavoro, non destò nè paure nè rimpianti. La nazione sicura di sè medesima non poteva turbarsi per la morte di uomini, che non avevano voluto fondersi con lei. Mentre la piazza rimaneva calma, forse la corte diventava pensosa.
Agostino Depretis, superstite di tutti quei morti, fu il loro erede universale.
Ma nel troppo lungo arringo parlamentare, il giacobinismo del suo spirito e della sua prima educazione si era logorato. L'immensa eredità della politica monarchica avviluppò il suo ingegno e schiacciò il suo carattere. Così iniziando la sua ultima carriera di statista con largo programma di riforme, alle quali venne gradatamente fallendo, non vi pose dentro alcun nuovo concetto, e non comprese quanto la monarchia di re Umberto fosse diversa da quella di Vittorio Emanuele. Eppure a nessuno dei successori di Cavour era toccata la fortuna di aprire un nuovo periodo nella storia italiana. La terza Roma entrava nel mondo con Agostino Depretis. L'epopea e la tragedia del risorgimento erano conchiuse, tutte le contraddizioni conciliate, tutte le differenze etnografiche e storiche fuse: un'altra Italia con nuova coscienza, con diverso aspetto, alzandosi sulle Alpi guardava l'Europa.
Mentre la Francia trascinata dall'ultima forma del cesarismo napoleonico a combattere l'unificazione della Germania per un falso ricordo della politica di Richelieu e di Luigi XIV, sostenendo il papato e rinnegando nella propria tradizione lo spirito rivoluzionario, era stata schiacciata dal maggiore dei disastri, e dibattendosi convulsamente fra le insidie degli ultimi legittimisti e le violenze dei recenti anarchici abbandonava la direzione della politica europea per costituire la propria repubblica; mentre la Germania, avendo d'uopo ancora per unificarsi della più arcaica forma imperiale, doveva tergiversare a ogni ora in ogni questione, smentendo ed usando tutti i principii al coordinamento politico del proprio fatto; mentre l'Austria minata dal germanesimo e dal panslavismo, povera, eterogenea, battuta, non aveva conservato altra unità che la dinastica e altra forza che la tradizione: mentre la Russia si educava nell'immenso duello fra nichilismo e assolutismo, e l'Inghilterra rientrata nella propria isola scemava la propria azione europea per accrescerne la propria attività cosmopolita; era il momento per l'Italia, giovane, forte, figlia ed erede della rivoluzione francese, di entrare in Europa capitanando i diritti e le aspirazioni dei popoli. Ella sola, non vincolata da tradizioni, con una storia più lunga e gloriosa di ogni altra, poteva mettersi al centro della rivoluzione francese maturandola in Europa.
L'Italia, necessaria per ragioni d'equilibrio, era invincibile: nessuno avrebbe potuto attaccarla senza suscitare una guerra europea. Appoggiata sulla Francia, colla Spagna di dietro, banditrice della rivoluzione, avrebbe avuto tutti i popoli con sè; la sua influenza, la sua potenza sarebbero miracolosamente cresciute. Bismark preso fra la Francia e la Russia, poco aiutato dall'Austria, non sarebbe più stato onnipotente; la sua immensa opera germanica, ancora poco compatta e troppo combattuta fra la tradizione imperiale e lo spirito rivoluzionario, fra il particolarismo dell'antica feudalità e l'antagonismo delle religioni cristiane, gli avrebbe impedito di occuparsi tanto dell'Europa.
Era il grande momento dell'Italia! Cavour lo avrebbe compreso, Rattazzi l'avrebbe osato; Depretis non comprese e non osò.
La sua politica estera, ammalata di monarchismo, osteggiò la Francia perchè repubblicana, appoggiandosi a Bismark, mentre questi aveva bisogno d'appoggi; trascinò il re a Vienna per ottenergli lo sfregio di una visita non restituita. E questo insulto dovremo pur vendicarlo! Al congresso di Berlino si presentò come subalterno e mendico, e fu accettato per tale. All'interno tutta la sua politica mirò alla disorganizzazione suprema dei partiti, i quali naturalmente disorganizzati dal nuovo momento storico, nel quale avevano a ricomporsi mutando base e metodo, si disciolsero. Fu il regno della confusione e dell'atomismo. Maggioranze e minoranze si addensarono e si rarefecero non lasciando nuclei; le migliori tradizioni rivoluzionarie, i più alti sentimenti politici s'infransero: abilità suprema fu il trionfo nelle votazioni, ultimo scopo la durata del Ministero. E in esso, con triste novità d'esempio, passò e ripassò una folla di uomini mediocri che venivano ad annullarvisi, mentre Depretis solo durava, Proteo indefinibile ed inafferrabile, che tutti condannavano e nessuno poteva colpire; politicante monarchico, che comprometteva la monarchia opponendola alla rivoluzione e sacrificandole le glorie e gl'interessi della patria.
Nullameno l'Italia doveva agire. Questa necessità, facendosi a mano a mano più intensa, forzò la politica di Depretis: Bianchi era stato trucidato, la spedizione d'Africa fu risoluta. Ma se la Francia, insignorendosi di Tunisi, era stata rapida e sicura; l'Inghilterra, conquistando l'Egitto, violenta e superba: l'Italia fu depressa e timida. Non si osò parlare, si temette di provveder troppo, si lesinarono i denari più necessari, si negarono le truppe, si economizzarono i bastimenti. Non era l'Italia, non una grande nazione che agiva: parve si aspettassero permessi, si cercasse di non essere avvertiti, non si volesse essere giudicati.
A dirigere l'impresa Depretis con servile cinismo aveva chiamato il conte di Robilant, soldato mutilato e diplomatico peggio che impotente, il quale, ambasciatore a Vienna, aveva procurato al Re lo sfregio di visitare come un vassallo, al quale non si rendono le visite, l'imperatore d'Austria. Mentre occorreva un uomo di Stato forte ed abile, l'Italia non ebbe che un parlamentare logoro e un diplomatico monco.
Un immenso palpito di passione e di orgoglio sollevò tutti i cuori italiani, quando salparono i primi bastimenti. Il mare era bello, il cielo sereno; Napoli sublime, distesa sovra i suoi colli, salutava augurando i vascelli che s'allontanavano, fisa al fumo delle vaporiere come al fumo d'imminenti vittorie. Finalmente! L'Italia, che dopo le umilianti sconfitte di Custoza e di Lissa si era con immensi sforzi d'economia e d'ingegno ricostituita una marina e un esercito, li avventava sull'Africa.
Urràh! marinaio, tu porti la fortuna d'Italia! Urràh, marinaio! Le navi sparirono all'orizzonte e tutto ricadde nel silenzio.
Solo di quando in quando si avevano notizie di minimi fortilizi costrutti, di brevi acquedotti scavati, di capanne nelle quali i soldati basivano dal caldo. Erano pochi, stavano inerti. Il Governo, per sapiente economia, non aveva nemmeno allacciato il teatro della guerra con un cavo sottomarino a qualcuno delle grandi stazioni telegrafiche.
Intanto la democrazia riprendendo il cicaleccio femminile s'impietosiva sulla sorte dei soldati, o spropositava sul diritto dei selvaggi; il Governo inoperoso dimenticava l'impresa pel quotidiano dibattito parlamentare. Bande nomadi, racimolate dal più feroce e dal più abile dei generali abissini, scorazzavano minacciose sui confini del nostro campo, marcato da fortilizi sprovveduti, mal difeso da truppe così scarse, che non potevano nemmeno comunicare fra loro senza pericolo.
Invece di vendicare l'eccidio di Bianchi, il nostro piccolo esercito assisteva inerte alla nuova strage della spedizione del Porro, che il Ministero non osò considerare italiana, e alla cattura dell'ultima missione Piano e Salimbeni, mandata secretamente dal Governo stesso. Una immensa malinconia di una viltà nè voluta nè meritata si aggravava sulla nazione: le antiche diffidenze lasciate dai disastri di Custoza e di Lissa risorgevano nella coscienza popolare; si dubitava dell'esercito regio, s'invocava il nome di Garibaldi morto, ma più vivo e grande che mai nello spirito di tutti. Dov'erano adesso i suoi garibaldini di Montevideo e di S. Pancrazio, di Marsala e di Digione? Dov'era morto Nino Bixio, tigre fra i leoni, così violento che solo Garibaldi poteva frenarlo, e così intrepido che egli stesso lo guardava ammirando? Dov'era Alfonso Lamarmora, ultimo cavaliere del Conte Rosso, che con diecimila Piemontesi aveva resistito a ottantamila Russi, strappando eroici applausi ai primi soldati del mondo, i Francesi che avevano sempre vinto, e gl'Inglesi che non avevano mai perduto?
Depretis in quello stesso momento strangolava con pessimo contratto le ferrovie italiane, e Robilant mandava le navi dell'Italia risorta a minacciare la Grecia, che aveva dato un balzo sotto il calcagno del Sultano.
Poi, ieri, improvvisa come una bufera calda di sangue e di sole, arrivava la truce novella: la nazione agitata da funesti presentimenti, che la scipita e bugiarda parola del conte di Robilant aveva avvelenato tentando quetarli, si drizzò convulsamente come ferita al cuore, il Parlamento parve destarsi; il Ministero allibì. Un telegramma di sconfitta, che i giornali inglesi avevano già avuto, era giunto finalmente a Roma.
Depretis, pallido, lo lesse balbettando alla Camera.
Massaua, 23 Gennaio 1887. Perin, 31 Gennaio 1887.
Il 24 Ras Alula lasciò Ghinda accampandosi a Sud-Est di Saati, che attaccò il 25, ma fu respinto dopo tre ore di combattimento. Nostre perdite, quattro feriti e cinque morti. Le perdite degli abissini sono sconosciute.
Il 26 tre compagnie e cinquanta irregolari partiti da Monkullo per vettovagliare Saati, furono attaccate a mezza via. Dopo parecchie ore di combattimento, la colonna fu distrutta. Novanta feriti sono già ricoverati all'ospedale di Massaua. Mi riserbo spedire particolari esatti circa le perdite e i feriti.
Causa l'eccessiva estensione della nostra linea, ho richiamato i posti di Saati, Wuà e Arafali. Ras Alula sembra essere rientrato a Ghinda, causa le gravi perdite e i numerosi feriti, e probabilmente anche per attendere l'arrivo del Negus, che si dice essere in marcia.
Il Maggior Generale GENÈ
Una battaglia era dunque scoppiata, nella quale tutti gli italiani erano periti. Un nugolo di abissini, impetuoso come il vento dei loro deserti, aveva sorvolato le aride montagne del nostro confine militare, travolgendo, rovesciando una delle nostre colonne, spiccata da Monkullo a difesa di Saati, avamposto assalito il giorno prima da Ras Alula.
La guidava il tenente colonnello De-Cristoforis, e si componeva di tre compagnie distaccate da varii reggimenti; in tutto forse un cinquecento uomini. Non avendo potuto trovare i cammelli necessarii al trasporto delle munizioni chieste dal comandante di Saati, non era potuta partire che alle 5 antimeridiane. Per unica artiglieria scortava due mitragliere. La marcia era rapida.
I soldati, consapevoli dell'attacco di Saati, camminavano fieri e guardinghi; erano tutti giovani di venti anni, usciti ieri dalle case paterne, che non avevano mai provato il fuoco. Il silenzio solenne del pericolo, la prima emozione dell'eroismo stringevano le loro coscienze. Avevano lasciato Monkullo; sarebbero giunti a Saati?
Le due compagnie rimaste a Monkullo attendevano: un eguale pericolo le minacciava. Ras Alula dov'era? Dove sarebbe piombato dopo la ritirata di Saati? Le sue forze erano relativamente immense, i suoi soldati feroci. Tutti sapevano che il maggiore generale Genè, da molti mesi chiedeva invano rinforzi al Ministero impigliato entro un ignobile dibattito parlamentare.
Alle 11 antimeridiane il capitano Tanturi riceveva due biglietti dal colonnello De-Cristoforis, il primo, datato ore 8,30, diceva: che giunto presso Dogali aveva cominciato il fuoco contro il nemico immensamente superiore di numero, e che le mitragliatrici si erano spezzate; il secondo, datato ore 9,30, dichiarava: che senza un aiuto di uomini e di cannoni non poteva più muoversi.
Dalle nove alle undici la tragedia doveva essersi compita.
Il capitano prese una mitragliatrice, una compagnia, e partì. A che scopo? Con quale idea? Se Ras Alula aveva attaccato la colonna De-Cristoforis, a quell'ora doveva già averla distrutta. Una compagnia e una mitragliatrice non potevano certo ristorare le sorti della battaglia. Partì: Mohamed Nur, che doveva seguirlo coi basci-buzuc, vi si ricusò naturalmente; otto soli fra essi s'accompagnarono coll'interprete Raduc.
Era una marcia verso la morte.
Lasciamola raccontare a lui.
«….. Poco dopo le tombe di Dogali vidi una cassa di mitraglia senza polvere e spolette, e quasi nel medesimo tempo i basci-buzuc, che erano in esplorazione, segnalavano la presenza del nemico. L'interprete, interrogati due indigeni, mi disse che tutti i nostri erano stati massacrati, e che gli abissini erano ancora numerosissimi ed in posizione.
«Ciò mi sembrò esagerato, come di fatto (essendo l'interprete poco dopo fuggito pieno di paura), e proseguii la marcia. Giunto là dove la valle si allarga di un poco, gli esploratori tornarono di corsa avvisandomi che si avanzavano cavalieri abissini. Presi immediatamente posizione facendo staccare la mitragliera e formando la compagnia in quadrato. Nello stesso tempo mandai tre soldati nella direzione ove era stato segnalato il nemico. In questo mentre l'interprete e parte dei basci-buzuc scomparvero. I soldati tornarono presto dicendomi che non avevano visto altro che tre o quattro cavalieri abissini correre velocemente verso Saati. Per essere più sicuro mandai il tenente Sartoro con una piccola pattuglia sulla mia destra, e questi ritornò riferendomi che non vi erano nemici, ma che aveva visto basti da cammello, un cammello morto, casse di cartuccie vuote, scatolette di carne, ecc. Nello stesso tempo feci arrestare un pastore Saortino che si trovava ivi presso nascosto.
«Questi, interrogato, alla meglio mi fece capire che gli abissini avevano attaccato i nostri, indicandomi anche la posizione da questi occupata. Immediatamente feci riattaccare la mitragliera e mi diressi a quella volta. Nessun segno lungo il cammino oltre quelli citati di uno scontro: solo cinque o sei tombe scavate di fresco indicatemi dal Saortino come quelle di abissini morti poche ore innanzi. Sul primo monticello, prima posizione occupata dai nostri, vidi un soldato ferito che mi disse trovarsi i nostri poco più su e tutti morti. Non credei alla funesta notizia e corsi con la compagnia sul sito indicatomi. Dietro la cresta del monticello superiore vidi l'immensa catastrofe. Tutti giacevano in ordine come fossero allineati!»
Capitano, questa frase resterà immortale come la battaglia.
Tutti giacevano in ordine, allineati, morti sulla grigia altura, dalla quale avevano resistito tre ore senza volgersi indietro. Erano vestiti di bianco, insanguinati. Il sole alto sull'angusta vallata dardeggiava impassibile infiammando i loro cadaveri col calore e col colore della vita, ma nessuna voce turbava il superbo silenzio della loro morte. La storia Italiana doveva trovarli là, allineati sulla soglia dell'Africa, nell'eroismo di un atteggiamento che il nemico stesso non aveva osato scomporre fuggendo dopo la strage; e così resteranno eternamente nella gloria della poesia! Il primo capitolo della nuova storia mondiale d'Italia doveva essere un canto epico.
L'Africa è vinta. La Persia invadendo la Grecia trovò alle Termopili Leonida coi trecento Spartani, li schiacciò, ma fu respinta: il coraggio è di tutti i popoli, ma l'eroismo è solo di quelli che debbono vincere; l'eroismo di De-Cristoforis assicura la vittoria all'Italia, Non si muore così, quando non si è che un soldato e la bandiera, intorno alla quale si è raccolti, può indietreggiare o essere strappata senza lacerare la coscienza nazionale. L'eroismo è una rivelazione improvvisa, che illumina le anime nell'ora della morte e ne toglie ogni paura, ogni desiderio mondano.
Urrah, colonnello! Lo ha raccontato qualcuno dei feriti, che voi, ultimo a cadere, credeste già morto. La battaglia, nella quale Dio solo vi guardava, è già passata nella storia: tutto è noto; la vostra estrema parola, il vostro saluto prima di morire ai fratelli morti è stato raccolto da tutto il mondo.
Fu un agguato imprevedibile, inevitabile. La vallata era angusta; vi ritraeste sul colle. Gli abissini sorgevano da ogni banda, volanti su cavalli sfrenati. Le loro urla sembravano venire dai deserti; erano confusi come il turbine. Un abbarbaglio di fiamme bianche vampeggiava sulle pelli dei loro scudi e sul ferro delle loro armi. Non era possibile contarli; erano troppi per essere battuti, troppi ancora per non sopraffarvi. Erano l'Africa selvaggia, nuda e nera nel sole, che sitibonda di sangue uccide quando perde, uccide quando trionfa, perchè la morte è il suo solo pensiero e la sua unica sensazione. Il suo ruggito, circondandovi, era come quello de' suoi leoni, quando sentendosi sicuri della preda drizzano la bruna criniera coll'occhio metallico scintillante al raggio del sole.
Bisognava morire! La battaglia era impossibile, altrimenti la vittoria sarebbe stata sicura.
Alto sul colle, col vostro drappello allineato come i gladiatori sotto il palco del Cesare romano e salutanti prima di trucidarsi, voi guardaste oltre il nemico, attraverso l'Africa, al di là delle sue montagne e de' suoi deserti, che i viaggiatori italiani avevano bagnato di sangue, ma pei quali un giorno passeranno fischiando le vaporiere.
L'Africa, prigioniera delle proprie coste, si difendeva invano assalendovi.
I soldati sono pallidi, l'ombra della morte è passata sotto quel sole che da molti mesi non conosce le nubi e ha scolorato i loro volti.
Nessun testimonio, nessuna speranza. La morte sola, orribile come l'aspetto di quella moltitudine turbitante, che si solleva da ogni parte e armata di pochi fucili rapiti in altre carneficine avventa già le prime palle. Sul drappello bianco il silenzio si stende come una tenebra.
Morire! L'Italia lontana non sa nulla di questo momento, l'Africa presente non lo comprende: solo la storia, che lo ha voluto, dovrà raccoglierlo; ma essa pure, divina memoria della vita, non potrà narrarne lo schianto del supremo ed improvviso dolore, mentre nessuno sopravviverà per confessarlo. Quel colle, arido e grigio, non è che un immenso altare, sul quale il sole africano chi sa da quanti secoli aspettava immobile ì vapori dell'imminente olocausto. Una reminiscenza indistinta dei più grandi sacrifici della storia si alza da tutte le coscienze, vacillando come le ombre di un crepuscolo oltre il quale fiammeggia la luce insolita di un altro giorno; uno spasimo di minime ed irresistibili contrazioni stringe i cuori che stanno per perdere tutti gli affetti e le memorie della vita.
Urrah! colonnello, fuoco!
Il drappello alto, allineato tuona: non è una battaglia, ma una tragedia. Gli eroi sono pallidi, bianchi come le statue e fermi del pari; il fumo della moschetteria che li avvolge sventola sulle loro teste come un'immensa bandiera, attraverso la quale il sole accende capricciosamente le iridi di tutti i vessilli del mondo. I loro movimenti sono ritmici, giacchè nella loro impassibilità l'orgoglio è succeduto alla speranza. Siccome non possono arrendersi, resistono con quel forte sentimento della morte che scoppia in ogni uomo, quando sente che la sua vita è già conchiusa e non difende più che la propria personalità.
E il fiotto nero dell'Africa si addensa, discende da tutti i colli, ondeggia e rugge. I cavalli vi nuotano furiosamente nitrendo, o vi scorrazzano invasati dinanzi come sulla ripa di un torrente che dilaghi. Un orribile tumulto vi copre il gemito supremo dei morenti e le strida dei feriti. Infatti, da tutti i suoi lembi si veggono uomini fuggire con altri uomini morti o moribondi sulle spalle, come naufraghi strappati ai suoi vortici, entro i quali terribili figure di donne infuriano confusamente tra il lampeggiamento delle armi e lo scintillio dei colori sventolanti su tutto quel nero. Non vi si distingue nè ordine nè forma: non è un esercito, non è un'orda, ma una moltitudine in una caccia, che l'agguato ha preparato e la strage deve compire. Hanno poche armi da fuoco e si avanzano carponi, balzando come le tigri, strisciando come i serpenti dietro ogni asperità del terreno, evitando il fuoco della moschetteria, che cade sovra di essi come una grandine regolare ma sempre più rada. Colla destrezza meravigliosa dei selvaggi, senza guida di capitani hanno largamente circuito quel colle e attendono che l'eroico manipolo abbia finito le cartuccie per slanciarsi all'assalto. Sarà come un soffio del Simoun, uno schianto d'uragano. La sicurezza della vittoria centuplica la ferocia della loro attesa, guardando quel drappello ancora allineato, bianco sul colle grigio, immobile sotto il sole e davanti alla morte.
Ma il fumo della moschetteria, giacchè le mitragliatrici si sono infrante ai primi tiri, non è più che un velo leggero sulla loro fronte rotto qua e là e macchiato di sangue.
Il terribile momento passa entro tutte le anime come un freddo di un altro mondo: sono inermi. I pochi che bruciano ancora le ultime cartuccie, sembrano con esse gettare un appello disperato ai compagni abbandonati come essi nei radi fortilizi di quel confine, o inerti a Massaua spiando sul mare il sorriso di una vela o di una bandiera italiana. Ma l'Italia è troppo lontana, oltre due mari, nell'incanto della sua eterna bellezza che le fa dimenticare persino i soldati morenti per lei sul primo lembo del deserto africano.
—Italia, Italia! è la loro suprema invocazione fu il grido supremo di sfida, col quale risposero all'immenso ruggito abissinio.
E disparvero.
Quel turbine nero li urtò aggravandosi sopra di loro come una nuvola, entro la quale non si distinse più nulla, ma nella quale l'ultimo gruppo che difendeva il colonnello, udì ancora il suo ultimo comando di salutare quelli che erano già morti:
—Presentate le armi!
Le presentarono e caddero con esse intorno a lui, che aveva trovato per tutti una di quelle parole, che traversano i secoli come una meteora lasciandovi una traccia inestinguibile.
Quando quella nuvola si dileguò, tutti giacevano in ordine come fossero allineati.
Era tempo.
L'Italia, troppo facilmente schiacciata nei moti del 21 e del 31, battuta per tutte le sue città e le sue campagne nel 48, scarsa vincitrice nel 59 a lato della Francia che la risollevava nel cospetto della storia, sconfitta miserevolmente nel 66 sulla fatale pianura di Custoza e nelle acque di Lissa; l'Italia, alla quale Garibaldi non aveva potuto infondere li cuore, Mazzini il genio, Cavour il senno; che entrata nel 70 a Roma di sorpresa mentre l'Europa preoccupata dell'immane duello franco-germanico non le badava e l'impero napoleonico, protettore del papato, ruinava nella ignominia di Sedan, da sedici anni stava china davanti a tutte le potenze, quasi vergognosa di aver compito la propria unità stracciando un trattato che la coscienza di nazione avrebbe dovuto vietarle di firmare; l'Italia trascinata a Vienna come damigella dell'impero austriaco, accettata a Berlino come una riserva dell'impero germanico, irrisa dal papato, mal rappresentata dal Parlamento, peggio governata dai Ministeri, aveva d'uopo di un eroismo nazionale che risollevandole la fronte le riassicurasse la coscienza. Vissuta, prima di risorgere nazione, nella servitù di ogni forte e nella gloria di un passato al quale nessun presente o futuro di popolo potrà mai somigliare; cresciuta accattando aiuti e dispregi e tremando della propria rivoluzione, perfino sotto la corazza degli ultimi re di Savoia ai quali si sottometteva per incorreggibile abitudine di servitù; discesa ipocritamente da Torino a Firenze per salire trepidamente a Roma; sospinta dalla legge storica dell'Europa all'impresa africana senza comprenderne nè il carattere nè volerne la grandezza, aveva d'uopo che un drappello de' suoi soldati trasformandosi in eroi le provasse che nelle vene del suo popolo ferveva ancora il sangue latino e che la rivoluzione, per la quale era rinata e dalla quale aveva rifuggito, proseguiva nell'impresa d'Africa sospingendola col proprio soffio.
Quei cinquecento soldati, che prigionieri di un'immensa moltitudine non avevano nemmeno rivolto il capo per cercare istintivamente il lido lontano di Massaua, erano l'Italia nuova. Parlamento, Ministero, Monarchia, tutto disparve in loro, davanti a quest'Africa selvaggia che voleva respingerli, e sorpresi si disponeva a trucidarli. Indietreggiare era sottomettere la loro coscienza all'istinto di quei selvaggi, che si battevano per non diventare uomini.
Non bastava morire, poichè la morte era inevitabile, ma bisognava morire colla impassibilità di un orgoglio nel quale la morte non è più una sconfitta, con un valore che provasse ai nemici quanti africani valesse un solo soldato d'Italia.
L'Africa antica incatenava le proprie legioni per impedire loro di fuggire: l'Africa moderna, ancora uguale all'antica, vedrebbe un manipolo più compatto che se stretto di catene resisterle tre ore e cadere simultaneamente conservando nella morte l'allineamento della battaglia, simbolo dell'ordine superiore della loro vita. Questo eroismo non aveva uguale e non poteva averlo come inizio di epoca nuova. Leonida difendendo le Termopili non ebbe che l'eroismo della passione; i Maccabei non superarono Leonida, i Fabii non sorpassarono i Maccabei. In tutti gli eroismi immortalati dalle cronache o consacrati dai poemi la passione è l'anima quando la disperazione non è tutta la forza; nei cinquecento di Dogali l'immobilità della battaglia e della morte provano una coscienza sollevata al di sopra della vita da una di quelle rivelazioni improvvise, che la storia fa nell'anima di un popolo.
Si sentirono grandi, e lo furono.
Il loro colonnello, crivellato di ferite, ravvolto nell'immenso turbine africano, riassunse morendo tutto il loro orgoglio per gettar loro un saluto, che nè Rama nè Achille, nè Sigfried nè Orlando avrebbero compreso.
—Presentate le armi!
e gl'ultimi feriti, forse poveri contadini degli Abruzzi o della Sicilia, lo compresero e presentarono le armi ai loro morti, offrendosi inermi agli ultimi colpi dei sacrificatori.
La poesia immortale ha protetto la vita di uno di quegli oscuri eroi per salvare dall'oblio quella parola che nessuno de' suoi più grandi poeti, da Valmiki a Firdusi, da Omero a Dante, da Shakespeare a Hugo nelle più fervide ispirazioni del genio avevano saputo trovare, e che l'eroico colonnello pronunciò davanti ai proprii morti nell'oblio del mondo, per la civiltà del quale moriva.
E nell'Italia, istupidita nelle viltà privilegiate della sua borghesia costituzionale, vi fu chi non credendo a questa parola l'analizzò per giudicarla inventata. Da chi? Dal povero soldato che avrebbe mentito per la gloria del proprio colonnello morto. Ebbene: dite a Carducci che ceda a quel ferito il proprio posto di primo poeta d'Italia, perchè se quel soldato ha mentito è molto maggior poeta di lui. Andate a Caprera e ripetetela sulla tomba di Garibaldi: egli la crederà e perdonerà forse all'Italia che, lui morto, ha ancora dei De-Cristoforis, di aver negato per riguardi cortigiani e vaticani il rogo al suo cadavere.
Ma la tragica solennità di Dogali non ha potuto sollevare la nazione dal fango della sua vita politica. Mentre i superstiti, sui quali la ferocia degli abissini si abbandonò alla più selvaggia demenza di sangue, erano trasportati a Massaua, tagliuzzati evirati, deformati, il Parlamento s'imbrogliava nella procedura contro il Governo non osando cacciarlo. Depretis è ancora presidente del Consiglio, il conte di Robilant dimissionario è adulato perchè non se ne vada, Ricotti ministro della guerra, politicante insidioso quanto inetto generale, più d'ogni altro colpevole della catastrofe di Dogali, rimane ancora alla testa dell'esercito, che avrebbe costretto al disonore d'una sconfitta se l'eroismo della morte non l'avesse trasformata in gloria immortale.
Il generale Genè da lui costretto ad allargare la linea militare del confine, assottigliandone fino all'assurdo la difesa, ha richiamato gli avamposti e si trincera in Massaua. Dopo aver romanamente risposto a Ras Alula minacciante con barbara iattanza di trucidare la spedizione Salimbeni catturata prima della battaglia, se tutta l'Africa non fosse immediatamente sgombra d'italiani: che considerava morti i prigionieri e s'affretterebbe a vendicarli; dietro ordini del Ministero, adesso impaurito da un probabile scoppio di ira popolare all'annunzio di altre vittime, ha dovuto mancare alla propria parola e mercanteggiare col barbaro e consegnargli un migliaio di fucili sequestrati ad un suo mercante e cedergli cinque capi di tribù assaortine a lui nemici e riparati nel nostro campo sotto la protezione dell'onore italiano.
E Ras Alula li ha fatti immediatamente massacrare, e dei nostri tre prigionieri riscattati con tanto sacrificio d'infamia, non ne ha liberato che due.
Ora i giornali annunziano che Depretis accoglie nel ministero Francesco Crispi, l'audace rivoluzionario che preparò la spedizione di Marsala, e senza dimettersi, giacchè morente di troppo lunga malattia, gli consegna la direzione del potere. La sua implacabile vanità di parlamentare non gli permette dunque di morire semplice cittadino come Lamarmora che vinse alla Cernaia, Garibaldi che trionfò dappertutto, Lanza che entrò sulla breccia di Porta Pia. E così morrà. I funerali splendidi di tutti gli onori dovuti al presidente dei ministri saranno la sua ultima compiacenza di moribondo: tutte le rappresentanze della Camera, del Senato e della Corte accerchieranno la sua bara, ma la nazione severamente impassibile non avrà un palpito per l'ultimo e il peggiore dei politici, cui in difficili momenti dovette affidare le proprie sorti, mentre i reggimenti allineati lungo la via al comando:
—Presentate le armi,
crederanno di udire la voce del colonnello De-Cristoforis morto sulle alture di Dogali, e imitando il suo eroismo le presenteranno.
XIII. [Ex Imo]
Sono passati quattordici mesi dalla caduta.
Mi sono alzato, ho zoppicato, sono stato due volte nell'estate ad Abano. È un paese squallido: gli stabilimenti immensi e deserti aspettavano invano i soliti forestieri, che la paura del cholera scorrazzante per la provincia ha dispersi. Vi ho fatto novanta fanghi in quarantacinque giorni, conquistando l'ammirazione di tutti gl'inservienti, che non ricordavano d'alcun altro tale follia.
E come tutte le follie è stata inutile.
Ora sono di nuovo a letto per un mese, ma il mio amico Loreta, l'illustre clinico bolognese, mi ha giurato sul suo onore di gentiluomo che fra non molto guarirò perfettamente.
E sia.
Intanto i vescicatorii applicati sul ginocchio mi costringono da quindici giorni alla più dolorosa immobilità.
Nelle Assemblee del sabato Boguet narra di una contadina, che recandosi ad una di quelle tragiche veglie, nelle quali tutto il popolo raccolto intorno ad una congrega di streghe invocava da Satana la consolazione della vita invano redenta da Cristo, si fermò a lungo considerando una pietra solitaria. Era di notte; la luna alta nel cielo inondava di melanconico splendore la campagna. I boschi tacevano. Per la distesa dei prati un silenzio d'ineffabile stanchezza si dilatava fino alle più remote lontananze, che sembravano naufragare in una tenebria trasparente.
Era il secolo XV. La lunga tragedia medioevale aveva esaurito perfino il dolore nella coscienza popolare. Tutto aveva pesato sul popolo, le invasioni, le crociate, le feudalità, l'impero, la chiesa: ogni miseria aveva avuto il proprio sopravvento ed era stata soprafatta da un'altra: tutte le speranze erano morte nelle anime cristiane. I campi abbandonati non producevano più le messi necessarie alla esistenza umana: le case non riparavano più gli abitanti, sui quali il signore poteva sempre stendere la mano per strappare loro il primo fiore o l'ultimo frutto della vita.
L'antica passione pagana, che alla decadenza di Atene e di Roma aveva spinto il popolo alle feste dionisiache, restava sola negli spiriti cristiani: Satana, l'eterno nemico sconfitto da Cristo sul Golgota, si drizzava dal fondo di tutti i cuori con un sorriso di dolorosa simpatia. No, non era vero che egli fosse il malvagio. Il paradiso terrestre non aveva mai esistito, perchè Dio non aveva mai amato l'uomo condannato da tutta l'eternità a lavorare per vivere, a far soffrire la propria madre per nascere. Dio che puniva i bambini delle colpe dei padri era stato in ogni tempo coi potenti, coi crudeli che spremevano dai dolori del popolo i piaceri della ricchezza e del comando; e s'era fatto fabbricare chiese dorate, mentre il popolo non aveva nemmeno capanne, voleva le gemme per gli altari, la seta per gli addobbi, le decime per i preti, la servitù verso i signori. Dio era il nemico, che nessun dolore aveva mai impietosito, nessuna preghiera commosso, nemmeno quella di suo figlio morente sulla croce per espiare la condanna dei popoli che dovevano ancora nascere.
E Satana, il grande ribelle precipitato dal cielo perchè non aveva voluto adorarvi il tiranno, diventava l'amico del popolo, il suo eroe più antico, non fiaccato nemmeno dalla onnipotenza di Dio. Egli solo poteva ancora offrire qualche consolazione agli infelici, liberandoli da tutti gli scrupoli del peccato che toglievano loro perfino l'uso delle proprie carni; egli solo, che non s'era curvato al Signore del cielo, poteva rialzare la fronte del popolo troppo piegata davanti ai padroni della terra.
La passione di Cristo non era nulla in faccia a quella di Satana condannato al fuoco eterno: la passione di Cristo non aveva consolato nessun dolore, tolta nessuna miseria.
Il mondo era sempre così, i poveri sempre poveri.
E allora tutti i cuori si volgevano al più antico infelice, che non aveva mai ricevuto conforto, che aveva sorriso sdegnosamente della redenzione di Cristo e lo invocavano, lui il dannato che li aspettava nell'inferno, chiedendogli un atomo di felicità, un atomo di gioia.
Anche la terra era ammalata di dolore: d'inverno soffriva il freddo come i poveri, aveva tutte le loro malattie e tutta la loro fame. Adesso non produceva più. La grandine e il fulmine non cadevano sopra di essa che dal cielo.
Dio lontano, in alto, superbo ed insensibile, non domandava che incensi, non esigeva che ringraziamenti.
La demenza tragica delle antiche orgie dionisiache scoppiava in tutti gli spiriti travolgendovi misteri e riti cristiani; si chiamava Satana, si volevano i suoi miracoli, la sua incarnazione di un momento nella strega, l'emancipazione di tutta la vita e di tutta la natura dalle leggi di Dio. Era la rivolta della debolezza costretta a sfogarsi nella empietà.
Le feste si facevano di notte perchè il sole era di Dio. La luna abbandonata e fredda poteva sola comprendere l'abbandono della terra. Era come il delirio doloroso di tutti quei lavoratori che per generazioni di generazioni si erano estenuati a fecondarla e vedendola estenuata com'essi volevano consolarla. Sentivano i suoi lamenti nei boschi, il suo silenzio disperato nei prati, il suo pianto lento nelle rugiade.
La terra piangeva, la terra soffriva. Il suo destino era come quello del lavoratore: i signori le calpestavano nelle guerre e nelle sue caccie le poche messi, le abbattevano le quercie per i loro castelli, le uccidevano i più miti animali per allevare i più infesti.
La terra pativa immobile, chissà da quanti secoli.
E quella contadina sorpresa da una angoscia di pietà guardava la pietra solitaria, che il sole e il ghiaccio avevano tanto bruciata: quante grandini, quante pioggie l'avevano sferzata! La pietra non poteva muoversi. La sua faccia pallida in quel lume di luna era tutta corrosa, bucherata come quella dei poveri vaiuolosi, con una lebbra arida che solo il vento di quando in quando spazzava.
Quella pietra era lì abbandonata senza speranza, senza consolazione.
Ella si chinò.
—Che cosa fai?
—La volto.
L'altra contadina, che era con lei, ebbe un tristo sorriso.
—Povera pietra! come dev'essere stanca di stare sempre sul medesimo lato.
Come sono stanco io pure di stare sempre immobile!
* * *
Stamane è venuto il mio editore per chiedermi un libro nuovo; gli ho mostrato il manoscritto sul tavolo da notte.
—Già finito?
—Libri come questi lo sono sempre.
Lo ha preso e se n'è andato sorridendo:
—Appena il libro sarà stampato ella sarà guarito.
—Accetto l'augurio e possa fare il libro migliore strada della mia.
FINE.
INDICE
Don Giovanni Verità Pag. 1
La via Emilia » 189
Niccolò Macchiavelli » 213
Tragedia » 355
Dogali » 374
Ex Imo » 429
PRESSO GLI STESSI EDITORI
=Al mare! Al mare!= o la difesa navale delle coste . L. 1 —
=La disciplina militare,= bozzetti, di G. C. Cassio. » — 50
=La milizia in Italia,= pochi pensieri di un sottotenente in fanteria » — 50
=Delle riforme e delle discipline nell'esercito,= di A. Bignami » 1 —
=La difesa dello Stato,= considerata relativamente all'oro-idrografia del paese ed indole delle guerre odierne » 2 —
=L'esercito Federale della Germania del Nord,= cenni sulla sua organizzazione » 1 —
=Il fatto di San Salvario,= colla biografia del capitano Vittorio Ferrero » 1 —
=Ricordi dell'Alsazia,= di B. Prina » 1 —
=I Volontari dell'anno 1886,= di A. Ghislanzoni » 1 50
=Spedizione dei monti Parioli= (23 Ottobree 1867) di G. Cairoli » 2 50
=Le tre giornate d'Italia,= di F. Dall'Ongaro: 21 giugno: S. Martino e Solferino | 20 Settembre: Roma. } » — 50 25 dicembre: il Moncenisio. |
=Le scuole militari di canto,= di B. E. Maineri » — 50
=Corrispondemza di Giuseppe Mazzini con X= » 2 —
=Ricordo di Massaua.= Elegante Album di 33 fototipie ed una carta geografica (legato) » 2 —
=Le forze terrestri e marittime d'Italia= esposte e giudicate da un ufficiale tedesco. Studio pubblicato dal signor Wachs » 1 —