FUOCHI DI BIVACCO
ALFREDO ORIANI
FUOCHI DI BIVACCO
BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI 1913
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti
OTTOBRE MCMXIII — 36188
INDICE
DIANA
Per me non suonerà più sulle alture; nè lo vorrei.
Adesso scrivo sotto una pioggia, che batte ai vetri della finestra e finisce di sterminare sulle viti gli ultimi grappoli. Questo autunno è lacrimoso: una tristezza è colata con le nebbie dai monti oscurando le valli, i canti della vendemmia non hanno potuto salire sino ai castagneti rispondendo agli stornelli dei montanari, che abbacchiano i marroni: il fango sgocciola dai campi alti sulle strade, che le sonagliere dei cavalli battono malinconicamente.
Quassù la terra e la gente si preparano alla solitudine dell'inverno.
Il vino freme nelle botti, il lavoro si allenta nelle ultime giornate, cacciatori e trovatori di tartufi corrono egualmente i colli dietro l'orme di un cane magro e di una speranza più magra ancora. Poi la neve cadrà, lenta, bianca, assidua: un candore uguaglierà le fisonomie della valle coprendone le miserie, mentre i passeri affamati pigoleranno intorno alle case, e sul paese quasi sepolto si aggreveranno lungamente giorni torbidi e notti scure.
Diana del mattino, fanfara della primavera, quando suonerete ancora?
Perchè ho messo questo nome dinanzi a questo libro composto di articoli scritti come sopra un tamburo, in una vigilia di battaglia, senza che la guerra, che urge da ogni lato, abbia avuto ancora sonorità di epopea e fulgori sanguigni di tragedia? Non lo so: forse è stata una di quelle parole, che improvvisamente deste ci echeggiano nel fondo della nostra memoria: forse un baleno d'immagine bianca e pura come una statua antica; forse una nota inaspettata, quasi di appello lontano nei cieli dell'idea, dai quali ci giungono tratto tratto i richiami paurosi del mistero.
La diana del mattino non muta: lo squillo della sua tromba, dorata dai primi raggi del sole, ha sempre le stesse vibrazioni, che ridestano l'anima delle cose; la sua bandiera trema rigata di porpora, o grigia dentro un velo di nubi ondula appena all'orizzonte tra pallori di perla, ma vivido o torbido il giorno ricomincia egualmente al suo squillo e al suo palpito.
Diana del mattino, fanfara della primavera, vi ho sentito anche stamane dopo una notte insonne battere ai vetri della mia finestra. La campagna invecchiata rapidamente nelle ultime fecondità dell'autunno aveva uno squallore più cupo: qualche foglia si abbassava dai gelsi con volo spossato sul pantano della strada, due passeri ciarlavano ancora sulla punta più alta della siepe presso l'olmo della Madonnina, poi si sono separati frettolosamente quasi in un grido.
Ho visto passare un vecchio prete curvo sotto un ombrello bucato, dal quale l'acqua gli sgocciolava sulla falda rossigna del soprabito, mentre la campana di Valsenio suonava quasi lietamente a morto.
Questa volta era per un ricco contadino, pel quale gli eredi pagano le messe tre franchi, e don Giovanni ha quattro nipoti da mantenere. Povero vecchio! guai se il Vangelo si sarà ingannato assicurando ai poveri il regno di Dio.
Il suo pensiero è semplice come la sua vita, la sua fede così sicura, che ignora persino i dubbi degli altri: per lui gli increduli non sono che dei viziosi, i quali hanno bisogno d'ingannare sè stessi e gli altri: quindi dicono di non credere.
Non legge giornali.
— A che pro? Nessuno dice la verità, e il mondo non cambia. Quid est veritas? — mi domandò un giorno. — Forse quella che i giornali non dicono e nessuno di noi saprebbe dire. Lei è un grande scrittore: e poi? potrebbe dire in un giornale ciò che pensa, ciò che vuole?
— No!
Il vecchio prete lo sapeva anche lui.
Il morto secolo decimonono è entrato nella storia come un gran signore annunziato da molti titoli: e lo chiameranno dalle scienze, dalle nazionalità, dalle ferrovie, dai giornali: quest'ultimo sarà forse il più espressivo. Prima non v'era che il libro, monumento cui la gente guardava da lungi senza intenderlo, ma al quale pochi sapevano accostarsi: il libro come il monumento essendo l'opera di un uomo esprimeva dalla sua personalità quella più profonda ed inconsapevole del popolo: c'era quasi voluta una vita intera a produrlo nel sogno tragico della immortalità. Invece il giornale è di tutti, per tutti: come un'orchestra, della quale spesso il direttore non saprebbe suonare alcun istrumento, accoglie suonatori di ogni grado e di ogni classe: i solisti del grande articolo e gli anonimi battitori delle notizie: la sua vita è uno sforzo prodigioso di ogni giorno, la sua forza cresce dalla continuità della ripetizione: è impersonale e partigiano, anonimo e sfolgorante di grandi nomi, difende idee e serve ad interessi, ha una morale pubblica, che gli consente ogni bassezza della vita privata, è diventato un bisogno di tutti, anche di coloro che non lo leggono ma vogliono poter dire: il giornale c'è. Nell'arte, nella scienza, nell'industria, nella filosofia, nella politica, il giornale circola: è come la ferrovia delle idee e delle passioni; non si arriva quasi mai alla potenza che passandogli attraverso; è un crogiuolo che affina e un vaso che corrompe.
Nessun grande scrittore potè negli ultimi cinquant'anni sottrarsi al giornale; tutti coloro, invece, che non lo sono e si fanno della chiacchiera un mestiere, della parola un'arma e vendono sè stessi per comprare cose anche di più infimo valore, e servono il pubblico come gli antichi schiavi servivano gli antichi despoti, vi lavorano a vivere, a manipolare menzogne e verità, a segnalare tutto ciò che sorge, a nascondere spesso ciò che brilla, ad essere indispensabili come l'aria e come il vizio, ad ingannare tutti nella necessità della guerra di tutti contro tutti.
Oggi il giornale è un grande affare: occorrono capitali enormi a fondarlo, e nessun apostolato potrebbe o vorrebbe fornirli. Una stamperia capace d'improvvisare centinaia di migliaia di copie in poche ore deve servirlo, giacchè la potenza della sua notizia è soltanto nella sua freschezza: arrivare in piazza cinque minuti dopo significa non arrivarvi. Ma le notizie costano: bisogna andarle a cercare e saperle trasmettere: il giornale adesso non vive che di notizie: su cento lettori cinque appena ricercheranno l'articolo, ma la forza di un giornale è tutta nella sua diffusione, e in Italia il prezzo è immutabilmente fissato a un soldo.
Bisogna quindi salire oltre le centomila copie perchè un giornale costoso di notizie non sia passivo.
Se il suo direttore ha davvero l'orecchio alla piazza e il naso al vento, e i capitali o le rendite gli permetteranno la spesa grande delle notizie; se la sua redazione è tenuta in freno e i suoi scrittori non alzano troppo la voce, il giornale si diffonde, diventa un'abitudine del pubblico, il pensiero di chi non pensa, la convinzione di quanti hanno bisogno di vedersela innanzi formulata; è falange e rocca per il partito, pulpito a qualche scrittore, carro ciarlatanesco alle mascherate commerciali, che attirano la svogliatezza della folla, una strada che conduce a tutte le mete, una selva che ha i pericoli di tutti gli agguati e l'insondabile profondità del mistero.
Nel giornale tutto è doppio; la sua opinione esposta al pubblico non è quella dei redattori, che ne dissentono quasi sempre; ogni campagna aperta per un'idea o contro un uomo vi muore per un motivo inconfessabile; il danaro, questo signore supremo delle industrie, è per il giornale e il giornalista più che una ragione. Entrambi sono scettici, perchè sanno troppe cose e non ne sanno abbastanza; veggono tutti i retroscena, posseggono tutti i segreti, tranne quelli del genio e dell'eroismo; il giornalista d'ingegno è quasi sempre un ingegno fallito per la debolezza del carattere; serve ed è ribelle, striscia e morde, cincischia quanto non può spezzare, si offende della fortuna in chi sale e della virtù in chi sdegna salire.
Quasi sempre il giornalista è ancora più temuto che spregiato: egli ha in pugno la fortuna dell'individuo nella credulità del pubblico. Dal cantante al deputato, dall'industriale al maestro di scuola, dall'affarista al retore, dal grande autore allo scrittorello, che vuole essere stampato almeno una volta nella propria città, tutti hanno bisogno di lui e del giornale: quindi il giornalista si vendica della propria caduta sugli altri, fa pagare la decima all'affare, alla reputazione, al vizio, alla virtù; soltanto il limite della sua forza è dentro il limite del giornale stesso. I suoi fondatori lo fusero come arme per un loro interesse: questo dunque anzitutto, e al disopra di esso solamente la decenza morale; un giornale deve sembrare onesto per essere influente; il grande giornalista non ne ha bisogno. Egli vive quasi sempre alla ventura, lanzichenecco o condottiero secondo i casi, ma deve avere l'ingegno più fecondo, trovare ogni giorno l'idea o la parola fascinatrice: sa che la maggior parte degli autori illustri sul libro o sul teatro non lo valgono, che nove su dieci deputati non saprebbero trovare nemmeno il titolo dei suoi articoli, e invece li serve. Ecco la sua espiazione, il suo potere e la sua rovina, giacchè i giornalisti finiscono quasi sempre male.
Prodighi dell'ingegno e della vita improvvisamente appaiono esauriti e precipitano nella oscurità della miseria: spesso vi agonizzano lungamente appoggiandosi ad un vizio laido o grottesco; la gente guarda, non capisce e ride.
Eppure per tanti anni non ha sentito, pensato, parlato, che per la bocca di quell'uomo; la sua penna gettava baleni come la spada di un eroe, il suo giudizio era un oracolo. Nessun autore può diventare celebre se il giornale non lo dice.
Prima, il libro stampato in silenzio faceva in silenzio la propria strada; non v'erano giornali, ci voleva un libro per combattere un libro, e i lettori, dilettanti o autori essi medesimi, componevano un pubblico piccolo, fine, esigente: adesso che il giornale è l'eco di tutte le voci, il pubblico non crede all'esistenza se non di ciò che il giornale segnala. Un libro di cui non si parla è un libro non stampato. Perchè il giornale non ne parlerebbe, se il libro valesse davvero?
Ecco l'opinione della massa.
Quindi il pensiero non fu mai più schiavo e la celebrità più falsa di ora.
Nel tempo eroico del nostro Risorgimento a fondare un giornale bastavano cinquanta lire: ogni stampatore era sufficiente: nè vapore nè telegrafo: le diligenze lo portavano dieci miglia fuori della città: dopo quindici giorni qualche numero aveva percorso cento miglia. Si voleva l'articolo e una firma: oggi l'articolo deve essere prima accettabile dall'interesse segreto del giornale, altrimenti nemmeno il nome di Cavour o di Mazzini basterebbe ad ottenergli l'onore della pubblicazione.
— Pubblicatelo altrove — dicono gli ingenui.
Dove? in un giornale piccino che il pubblico non legge? E allora tant'è non pubblicarlo.
— Che importa se i giornali non parlano di un libro? Il libro serba intero il proprio valore e finirà coll'essere scovato — ripetono ancora gli ingenui.
Forse. Ma per appellarsi all'immortalità bisogna essere ben forti, poi si vive una volta soltanto e si muore inconsolabili di non essere stati riconosciuti.
Ebbene, sia: bisogna scrivere al di fuori, al di sopra del giornale: il suo silenzio è per l'ingegno la più ineffabile delle torture, quindi la più utile. Nella lotta suprema con l'invincibile soltanto il genio sprigiona tutta la propria forza; solamente nel martirio più insopportabile, senza onore di compianto, senza nemmeno la speranza che il suo esempio possa giovare ad altri, l'anima esprime la sua ultima verità.
Quanti ingegni illustri e dolorosi ne sono morti! Quante false celebrità del giornale sono già dimenticate!
Balzac, che con Dante e con Shakespeare compone la suprema triade dell'arte, fu nel secolo decimonono la vittima più illustre del giornale: lo negarono sempre, dappertutto; gli opposero mediocri e piccini, da George Sand a Bernard, morì povero, vinto. Wagner vinse vecchio con le opere, nelle quali il suo ingegno precipitava già per la parabola del tramonto dall'artificiale scogliera del suo sistema estetico; Bizet non potè vedere Carmen sul teatro. Galli a Roma è morto di fame dipingendo quadri senza neppure i colori, e vendendoli ad artisti arricchiti da tele credute buone come i cerotti, e che gli pagavano con una elemosina.
Ma senza il giornale la nostra modernità non sarebbe nemmeno concepibile.
La diffusione delle scuole elementari non conta: i fanciulli ne escono conoscendo l'alfabeto e dopo pochi anni non lo riconoscono più: nelle campagne il libro non c'è e il giornale non è ancora entrato. Ecco la differenza fra l'operaio di città e di villa. Passano più idee per una strada in un giorno che non ne escano in un anno da una università; un solo giornale, piccolo, informe, deforme, ne propaga più di una biblioteca. Quanti villaggi ne hanno una e la gente non lo sa!
Il giornale è il pensiero, e cerca tutte le persone, entra in tutte le case: si fa piccolo coi piccoli, parla una lingua indefinibile, ma intelligibile; l'autorità sul volgo gli viene dall'essere stampato: è un'arena nella quale tutti possono entrare, torrente che devasta, canale che irriga, cloaca che raccoglie tutte le immondizie e con la stessa facilità le trasforma in veleni o in concimi: è un'eco dell'arte, una sillaba della scienza, una parola della politica.
Sopprimete il giornale e sarà come se aveste soppresso i viveri alla gente: domandatele il suo giudizio sui giornali e vi risponderà con la parola più insultante.
Eppure fra la gente che legge non vi è chi non ne abbia uno: non una famiglia nella quale il primo articolo del figlio non sia come un battesimo di gloria, non un uomo fra i più superbi che non tema la guerra del giornale.
Questo capolavoro quotidiano di verità e di menzogna è un bene od un male? Perchè chiederlo, se da un secolo è già necessario? Il giornale può dire la verità? Non ancora.
Adesso attraversa la fase industriale: nella sua impresa, che impiega grandi capitali, l'abilità suprema è nel sedurre il pubblico maneggiando il maggior numero di elettori in politica e d'ingenui nel resto. Aspettate ancora che il giornale cresca sino ad arrivare davvero nel gran pubblico, la massa vera che non è d'alcun partito, di alcun interesse e cerca per istinto nella verità il proprio tornaconto: allora potrà dirla. Nel grandissimo commercio la frode del prodotto è impossibile, giacchè il segreto del suo trionfo sta appunto nella perfezione e nella costanza del tipo: s'inganna il piccolo cliente, che si può sostituire, non il grande che è immutabile.
Quando verrà quel giorno? Verrà, e basta.
Giornale e giornalista oggi sono quello che sono, utili sino all'indispensabile, potenti così che nessun dinamometro potrebbe misurare la loro forza; nel giornale si stampano spesso articoli che valgono un libro, notizie che nemmeno i governi sanno procurarsi, si dànno battaglie tragiche come quelle degli eserciti; nel giornale s'incontrano avventurieri come Cecil Rhodes, viaggiatori come Stanley, poeti come Hugo, romanzieri come Tolstoi, storici come Taine, scienziati come Darwin, filosofi come Spencer, sofisti come Marx, musicisti come Berlioz, scultori come Rodin, statisti come Cavour, apostoli come Mazzini, tribuni come Gambetta, condottieri come Garibaldi. E la canaglia vi pullula viscida, a mille colori, a centomila forme, una canaglia che disonorerebbe un bagno, con tutta la multipla, spaventosa bellezza dell'anima criminale: i meno pericolosi fra essi sono i più scoperti, i più ammirabili quelli che taglieggiano tutto, dal teatro alla politica, per gettare il danaro sopra un tavolo da giuoco o nel grembo di una cortigiana, capaci di scrivere il discorso di un ministro e di vendere un segreto di stato, mentendo con sì nobile bellezza di stile da finire col credere essi medesimi alla propria menzogna.
Nella mia prima conversazione con Quintino Sella in casa di Marco Minghetti, l'illustre geologo, diventato già il più coraggioso finanziere e il migliore statista d'Italia dopo Cavour, mi chiese sorridendo:
— Avete ancora scritto nei giornali?
Non avevo allora trent'anni.
— No — risposi fieramente, — e non vi scriverò mai.
— Vi scriverete.
Ricordo adesso il sorriso freddo d'ironia nei suoi occhi di contadino intelligente.
Quello scettico, nel quale l'anima aveva una grazia socratica, e la parola gittava così spesso lampi e stridori di cristallo, indovinò anche allora.
Ho resistito sino ai quarantasei anni, indarno.
È questo un libro?
Forse: se i suoi articoli non sono soltanto articoli.
Casola Valsenio, 11 ottobre 1904.
I OMBRE SACRE
CORONA MURALE
Una volta era premio al soldato, che dinanzi all'esercito urlante nell'assalto arrivava primo fra tutti a porre il piede sulle mura nemiche; oggi le vecchie città, che la vita moderna assedia dentro e fuori, lottano melanconicamente per conservare la loro corona di mura come una gloria di memore poesia.
E tutti coloro, nè sono pochi, che il passato riattira in un sogno consolatore, levano la mano o la voce ogni qualvolta una nuova minaccia s'aggrava sopra alcuno dei monumenti, rimasti quasi ingombro nel mezzo di una via, come a protestare per la continuità della storia, la quale ha bisogno appunto del passato per indovinare l'avvenire. Nel nostro bel paese la battaglia cominciò all'indomani della rivoluzione, quando nell'ardore precipite del rinnovamento troppi spiriti ancora più mercantili che rivoluzionari si gettavano innanzi ad acquistare, nelle avventure del guasto necessario, una facile nomea di modernità o un più facile guadagno da appalti e da vizi. Molto fu cancellato e rifatto senza altra cura che di far presto; l'esaltazione del presente rendeva ingrati verso le vecchie cose e le vecchie idee; pareva potenza il dimenticare e superiorità il non capire.
Quindi si videro ingegneri sbucati dalle università come da caserme avventarsi ovunque e tagliare nell'antico corpo delle città nuove strade come nel vuoto o sulla carta, la quale, per antica abitudine, sopportò e sopporterà sempre tutti i segni della ragione e della follia umana; dove il tempo aveva più addensate le case, piazze improvvise si allargarono, tutti i nomi si mutarono, non si rispettò alcuna architettura, e un'altra non ne sorse in tanto fervore di novità. Gli affari si moltiplicarono, rivoli di danaro passarono per i vani dove la prima volta entravano i raggi del sole, e una lindura quasi di bucato mutava la fisonomia delle strade, mentre i loro storici lineamenti si dileguavano, e molte, troppe delle grandi opere, nelle quali il genio del passato aveva pur significato una gloria immortale, sparivano fra un turbine di polvere e di parole.
Ma poi la febbre decrebbe.
La conquista dei venturieri, rimasti acquattati dentro le proprie case nei giorni sanguigni della guerra, e poi così ardenti nella battaglia delle aste governative e comunali, provocò una reazione: la politica del rinnovamento non bastò a giustificarne tutti gli eccessi, molte cose divennero note appunto perchè scomparse, e siccome il nuovo era bello raramente e aveva costato troppo alla ricchezza e alla onestà pubblica, quanto rimaneva ancora del passato nelle chiese, nei monumenti, nei palazzi, riapparve quasi in una subita rivelazione. I poeti suonarono la diana sulle alture, storici ed eruditi uscirono dalla dotta solitudine per schierarsi in coorte davanti alle superstiti bellezze, la folla stessa si compiacque di avere un passato ed applaudì vivamente coloro che glielo mostrarono rinnovellato da un qualche sapiente restauro.
Adesso l'equilibrio fra coloro che, fisi all'avvenire, dimenticano persino il presente, e gli altri che, perduti nell'incanto delle poetiche lontananze, non si accorgono come tutto muti continuamente loro dintorno, è quasi ristabilito: la nostra coscienza nazionale, sicura nella rivoluzione compita, non odia più i vecchi ostacoli, contro i quali dovette esercitare sè stessa; la modernità risente acuto l'assillo della bellezza, questa eterna necessità della vita di comporsi a quadro e di chiudersi entro una cornice, la quale invece d'imprigionarlo ne sia come la continuazione.
E se la prodigalità del genio antico nella incomparabile durata della nostra storia ci lasciò troppi monumenti, se attraverso la barbarie della miseria e della ignoranza troppo furono deformati, così che non basterebbe oggi tutta la nostra giovane ricchezza al riparo, una passione nuovamente giovane ci persuade ad amarli, e, come tutte le passioni, ci rivela tratto tratto i loro segreti più geniali.
Milano non si gloria ora del proprio castello sforzesco ancora più che della Galleria? I nuovi scavi del Foro romano, che disseppelliscono al pensiero una Roma più antica di quella apparsa a' suoi primi storici, non sono forse una superbia del nostro tempo, e non riconducono verso di noi un'altra volta i più sapienti pellegrini dell'antichità, gli insaziabili innamorati di quell'impero e di quella civiltà, che prima unificò il mondo?
E altrove, ovunque, nei borghi e nelle città lontanamente capitali del nostro medio evo, alveari dolci e sonanti d'insuperate originalità, qualcuno e qualche cosa si è desto: un amore, un orgoglio, cercano e rivelano i segni antichi; si studia e si scopre, e spesso per scoprire non importa che guardare.
Il grande secolo decimonono, rinnovando così profondamente lo spirito umano, allargò forse le proprie conquiste più nel passato che nell'avvenire, poichè ci bisognava prima sapere chi eravamo e donde venivamo per scegliere sicuramente la strada della mèta.
E l'Italia deve soprattutto essere bella per diventare ricca.
La nostra arte, la nostra gloria ci mantengono una ricchezza più sicura che quella dei nostri campi: le nostre città hanno ancora ed avranno lungamente sugli stranieri una seduzione irresistibile nella loro antica fisonomia; il nostro genio deve superare l'ultima prova di crescere un'altra bellezza armonizzandola con quelle non pur superate della nostra vera infanzia nazionale.
Il trecento e il quattrocento italiano furono pel mondo delle forme quanto i migliori secoli della repubblica e dell'impero romano pel mondo della politica: qualunque borgo abbia un castello lo serbi; e qualunque città porti corona non la gitti.
Quale regina depose mai il diadema per il timore di comprimere la capigliatura?
Sarà più bella Bologna senza le mura, anche se la nuova cinta aumenti il reddito del suo dazio?
Poche città in Italia hanno un carattere più profondo e insieme più vario della illustre metropoli, alla quale noi da tutte le terre di Romagna, dal lido dell'Adriatico e dalla cresta dell'Appennino, guardiamo con orgoglio come alla capitale del nostro spirito, al potente mercato del nostro lavoro. La sua dottrina fu per noi ancora più calore che luce: nel suo centro ferroviario anche adesso ci sentiamo più vicini di ogni altro al cuore nazionale, se, come la scienza vuole, il cuore non è più che il massimo motore negli alti organismi; alla bellezza de' suoi palazzi, che i secoli moltiplicarono ben più variamente che in ogni altra città, tutta Italia guarda come alla più ricca raccolta di modelli, e dalle sue torri e dalle sue mura intatte ricordi e sogni si levano cantando alle menti che sanno, e alle fantasie che ignorano.
Perchè dunque precipitare, seppellita nei fossati, la sua larga, storica corona murale?
Aprite altre porte, se dalle vecchie strade un rigurgito di vita sbatta negli antichi muraglioni e lasciateli diritti nella superbia del loro passato: invece di essere una difesa adesso non sono più che un ornamento, ma pensate che abbattendoli per una inutile e frettolosa ubbidienza a qualche piano regolatore scoprireste sui lombi della magnifica denudata una cintura di ulceri fra una miseria di casette e di catapecchie troppo putride perchè il sole possa bastare a disinfettarle.
Verrà per le mura, che i secoli XIII e XIV levarono munite di corridoi interni, presidiate a ritmici intervalli da battifredi, servite da dodici porte e da quattro pustierle, il giorno dell'estrema prostrazione, e piegheranno purtroppo sotto lo sforzo vittorioso dei fianchi gonfi di nuova vita; però sino a quel giorno siano ancora il cinto dell'antica regina, alla quale la bellezza sovente giovò meglio delle armi.
Oggi intorno alle ultime torri non rotano più stridendo che i falchi solitari, e sulle mura girano a braccetto gli amanti popolani, quasi a cercarvi così vicina una solitudine sicura: non importa; salite più alto dei falchi sui colli, abbiate nell'anima la verità degli innamorati, e guardando giù nella valle la bella città, sentirete che le sue mura sono forse la più vera fra le sue tante bellezze.
5 febbraio 1902.
LA FINE DELLA FINE
Ecco oramai il voto fervido e segreto del pubblico, dopo tante parole scritte ed urlate sul cadavere del gran campanile. Non era ancora caduto, riempiendo a mezzo la magnifica piazza delle proprie rovine, che gli echi della stampa se ne rimandavano oltre i monti ed oltre il mare il tonfo pauroso raddoppiandolo nelle frasi, alzandolo nel pensiero, sino a fingere la tragedia di un dolore mondiale per l'ultimo disastro della gloria e della bellezza italiana. E nel coro di questa tragedia tutte le voci si mescolavano da lungi e da presso, dall'alto e dal basso, dai fastigi più superbi della politica e dalle più umili pianure della vita, perchè la vecchia torre di Venezia, già scolta vigile ed armata nei primi giorni della sua infanzia, era franata improvvisamente, irrimediabilmente, dinanzi a San Marco, sulla piazza rimasta il più bello dei scenari, immobile ed immutato, dopo che il lungo dramma della repubblica lagunare si era per sempre interrotto fra la disattenzione del mondo. Era stato un crollo, che aveva tutto scosso, la piazza e la laguna, la basilica e il palazzo dogale, le grandi memorie del passato e le piccole vanità del presente: i colombi spaventati erano fuggiti a stormi recando lungi l'annunzio ferale: l'angelo che vegliava sulla cima della torre guardando indarno sul mare se mai una nave tornasse a Venezia con una bandiera di vittoria, era precipitato fra la polvere dei mattoni sgretolati: della amabile loggetta a piedi del campanile, appena appariva qualche angolo, qualche punta, come nei giorni dell'antico carnevale di sotto ad un ammasso di seta, di fra le giunture della maschera, la gente vedeva una qualche bellezza di un viso e credeva di riconoscere la dama: una campana fra le cinque giaceva sul fianco lacerato, in cima alla rovina, e taceva in un lugubre silenzio di eroe ferito.
Quindi tutti si credettero il debito di una profonda commozione, e quello più alto di difendere la bellezza del passato egualmente minacciata dalla trascuratezza e dalla vigilanza moderna dei nostri instituti governativi ed estetici.
Gli articoli annebbiarono nuovamente l'aria come un secondo polverone peggiore del primo, telegrammi arrivavano e partivano a branchi, proposte e proteste grandinavano turbinando; poi accuse di giudici improvvisati e difese di colpevoli che nessuno voleva ascoltare, rivincite di profeti arrochiti nel lungo annuncio dell'inevitabile calamità e orgogli di retori che si alzavano pallidi della pubblica sventura a sognare pubblicamente qualche scena o qualche figura del passato. Ma sul sussurro e sul ciaramellìo non passò potente alcuna voce di poeta; appena coloro, che in questi casi hanno più vigile l'orecchio, intesero qualche remeggio di ali, ed erano rade strofe che passavano basso, col volo lento e pesante dei pavoni, quando a sera s'allontanano dalla casa padronale per appollaiarsi su qualche albero ai confini del podere. Un giornale uscì listato a lutto, un altro squillò fieramente a battaglia, perchè il solito generale, stendendo pel re il telegramma di condoglianza da Pietroburgo, non aveva trovato nè il più alto pensiero nè la parola più pura dell'anima italiana nel cospetto dell'inconsolabile, immane rovina; altri deputati della politica e dell'arte piansero e mostrarono al pubblico le proprie lagrime come perle; patrioti frementi di sdegno apparirono fra gli intercolonnii delle gazzette a minacciare che soltanto con danaro italiano si doveva riadergere il glorioso campanile.
Il ministro dell'istruzione, accorso ansiosamente da Roma, chiamò a Venezia Giacomo Boni, il grande disseppellitore del passato, colui che trovò una Roma più antica di tutte le leggende nelle profondità ancora inesplorate del Foro. E a lui commise i funerali del campanile. Come a quelli degli imperatori i soldati fecero da becchini, perchè la mano dei muratori soliti non doveva toccare la polvere della sacra rovina, anche pel sospetto legittimo che qualche cosa potesse restare attaccato a quelle mani impure. Vi erano dunque tesori in quelle macerie, se gli operai di tutti gli altri scavi, manovali e muratori, potevano comprometterne il passato e l'avvenire?
Chi lo sa? Anzi nessuno lo sa.
Il campanile non era bello, la piazza sarebbe stata più bella senza quel campanile; ma era difficile immaginarla in tal modo dopo tanti secoli. Tutti sappiamo, anche senza saperne dare la spiegazione, che cosa significhino nell'arte cristiana, che è ancora e resterà lungamente la nostra, il campanile e le campane, questo stelo marmoreo, che s'innalza dai monti e dai piani al cielo, e ha sulla vetta un fiore, simile ad una coppa rovesciata, che grida e canta.
Chiesa e campanile non sono separabili: nella chiesa la preghiera è un murmure, che il tetto soffoca ancora; sul campanile la preghiera è un urlo di trionfo e insieme un grido di soccorso, che arriva al cielo e si spande sulla terra. San Marco non aveva altro campanile che quella torre, più antica di lui almeno nell'ufficio, e la trasformò: di sentinella lagunare ne fece una scolta del tempio, le cangiò l'armatura, la voce, l'arme, e sul casco le pose un angelo. Ma sentinella e scolta non furono mai belle.
L'Italia ha dozzine di torri e di campanili, che le singole città non avrebbero consentito a barattare con quello di Venezia, ma nessuna città ebbe mai una piazza così ineffabilmente originale. E allora anche il campanile vi parve quello che non era, una bellezza nella bellezza, un accordo nella sinfonia, e non vi metteva invece, per gli occhi abituati ai segreti della grazia, che una dissonanza.
La loggetta, che secondo il devoto costume medioevale, il Sansovino eresse alla sua base, era una eleganza del Rinascimento, più pagana che cristiana, severa ed amabile, abbastanza pura nelle linee, ma confusa nel pensiero e incerta nella destinazione; era bella senza dubbio, ma non di quella bellezza che supera la vita e sparendo ci lascia nell'anima un vuoto inconsolabile di morte.
Chi non conosce il valore del Sansovino? chi non gli serba riconoscenza? Ma chi oserebbe proclamarlo fra i primi dei pochissimi architetti italiani, che ignorando ancora l'arte nordica e non sapendo quasi più l'arte antica di Grecia e di Roma ne inventarono un'altra, e videro nella propria anima una nuova bellezza?
Ebbene, rifaranno la torre e la loggetta: non si oserà dire che senza di entrambe la piazza sarebbe più bella: non si oserà affermare che un campanile è pur necessario a San Marco, e affrontare il problema di crearne uno al tempo stesso antico e moderno, bello sopra tutto e su tutti. La rettorica dell'antichità straripa ancora, perchè la sua poesia appunto è così poco sentita: come pei poeti e gli altri letterati antichi si ammira senza comprendere, si adora senza amare. A che vegliare e vagliare i rottami del campanile? Era in mattoni, lo rifaranno con mattoni, e i nuovi non avranno più significato dei vecchi.
Il peso della cimasa, chiamiamola così, aggiunta troppo tardi vinse la resistenza dei mattoni e li polverizzò: ecco la ragione della caduta. A che rifare la cimasa? D'altronde come si poteva salvare il campanile? Per impedirgli di cascare sarebbe stato necessario abbatterlo: ma i retori che cosa avrebbero urlato allora?
Invece nell'antico bel paese, così illustre e così tragico, rovinano a centinaia monumenti ben più significativi e preziosi che non la torre di San Marco sulla piazza di Venezia, e non una voce si leva, non una voce levandosi è ascoltata colà dove si potrebbe e si dovrebbe.
Perchè?
Non chiedetelo a coloro che hanno pianto sulla polvere del campanile di San Marco.
E per ora almeno non se ne parli più.
Il campanile si rialzerà nella propria veste rossastra di mattoni: nuovamente l'angelo dalla sua vetta veglierà sul mare e guarderà indarno al cielo, perchè la poesia di Venezia non risusciterà nella gente col suo campanile.
Essa vive soltanto in poche anime, che non se ne servono nel pubblico come di una maschera, l'ultima del suo carnevale tramontato da gran tempo.
La poesia è immortale: e adesso lasciamo i morti seppellire il morto, secondo la parola del Vangelo.
26 luglio 1902.
IL TEMPIO
Anch'esso è risorto.
Dal giorno antico della sua fondazione, quando un manipolo di muratori tornanti da Assisi posero le prime pietre, una lunga storia di poesia e di sventura posò sulla sua bellezza sino a disonorarne i lineamenti e a cancellarne le vestigia. La grande epoca religiosa di San Francesco fu breve: forse egli era salito troppo alto nell'esempio della virtù, la sua passione d'amore inintelligibile nella politica bufera, che sulle rovine di un mondo vecchio seguitava a distruggere tutte le forme neonate della modernità, dovette lentamente abbassarsi e soggiacere al trionfo carnale del Rinascimento.
Il redentore di Assisi era stato un asceta quasi anarchico.
Eroi della miseria, i suoi frati protestavano con la moltitudine cenciosa contro la recente borghesia consolare, denunciando le vanità della politica e le ingiustizie della ricchezza; ma inesausti all'opera consolavano gli stessi dolori esacerbati dalla loro rivolta ideale, assolvevano tutti i peccati in una più intensa rivelazione del loro male; nomadi e liberi dai consoli e dai vescovi, cittadini di una democrazia senza patria e democratici di una eguaglianza senza autorità.
Eroi del dogma, invece, i domenicani organizzavano contro la loro poetica libertà l'inquisizione come un governo tanto superiore ad ogni altro quanto il dogma è più alto di ogni verità umana, e dando ai supplizi l'apparenza di una festa capace di fanatizzare la folla, bruciavano case, disertavano campagne, spaventavano re, curvavano papi, imperavano col pensiero contro il pensiero, che non di meno sfuggiva a tutte le strette, denunciava tutti i tranelli, brillava vittorioso sui roghi contrapponendo fede a fede, conquista a conquista sino a trovare nello spasimo della propria tragedia le voci più profonde dell'anima e le forze più necessarie alla emancipazione finale.
Ma prima di questa l'onda della vita travolse francescani e domenicani; gli eroi del dolore e gli eroi del dogma si smarrirono insieme dentro la facilità gaudiosa dei nuovi tempi, e davanti all'improvviso ascetismo della Riforma non seppero opporre un'altra virtù d'intelletto e di cuore. Quindi i loro tempii ne soffersero come le loro anime.
Poi l'avvento gesuitico parve superare tutto e tutti: la sofistica annullò quasi ogni fisonomia dei dogmi e ogni carattere di virtù, mentre il lusso falsava nelle chiese qualunque poesia di fede e di arte.
Il bel tempio francescano di Bologna non si salvò.
Forse i suoi frati troppo addentro nella città presero il contagio dei suoi morbi; forse anco dovettero espiare contro la rivalità di altri ordini religiosi la gloria passata sino a dimenticare l'anima dell'incomparabile fondatore e la propria. L'illustre cimitero, che fioriva intorno di grandi nomi e di belle tombe, non bastò nemmeno a ritardare l'assalto vario e quotidiano, interno ed esterno: i glossatori del diritto romano, che avevano dato a Bologna la prima gloria moderna, ebbero violati i sepolcri come tutti gli altri morti anonimi; dai fianchi, dall'abside, dal pronao, dalla facciata, fino alla cornice e più alto fino alle torri, quasi i mattoni germinassero, orribili e frequenti escrescenze crebbero a deformare la modestia elegante delle prime linee. Ed erano cappelle nuove di una nuova bigotteria, senz'arte e senza fede, che una ostinata perversità di ogni senso poetico e religioso ripeteva ed ingrandiva: poi nella chiesa stessa, dentro le navate si fabbricò struggendo, falsando, violando tutto, anche le finestre, le policromie, gli altari, le arche, le parole ed i versetti, la lingua e la musica.
Mai forse tempio sopportò più ignobile e tragica persecuzione.
Ma non era l'eterna guerra della natura all'opera umana, quell'assedio e quell'assalto così vivamente imaginato e significato dallo Zola nella Faute de l'Abbè Mouret, contro la povera chiesetta, sulla quale le piante s'inerpicano penetrando nelle fessure, sfaldando le pietre, coprendo del proprio manto ogni ferita, giungendo al tetto e sfondandolo per alzarvi come vessillo di vittoria un alberello sottile, ondeggiante.
Era invece una guerra cittadina e fratricida di plebee forme bigotte contro la pura forma dell'idea francescana, una rivolta del clero ignavo e schiavo contro l'asceta liberamente povero e sublime di Assisi, una arroganza patrizia e villana contro la bellezza della nudità e della povertà, che il tempio doveva opporre alla vicenda di tutte le corruzioni nei secoli.
Chi pensava allora a San Francesco, mentre Roma, a difendersi dal protestantesimo, non credeva necessarii che i nuovi pretoriani disciplinati da Sant'Ignazio, ed a consolidare il proprio stato, uscito anch'esso dall'ultima crisi delle signorie, si esauriva in una politica monarchica di brevi espedienti e di miseri compromessi?
Ma il tempio è risorto.
Bisognò anche a lui attendere il soffio della rivoluzione nazionale e che nella calma succeduta alcuni, i più eletti fra gli spiriti, si voltassero a guardare indietro per rendere giustizia al passato. E questa fu vivace se non intera, mentre in questo ultimo ventennio quasi una febbre di restauri si apprese a tutti gli eruditi, e centinaia di monumenti risorsero cittadini del nostro tempo moderno.
A Bologna si parlò persino di compiere San Petronio, una fra le chiese più belle della cristianità e deturpata anch'essa da troppe insopportabili violazioni, poi la passione si rivolse a San Francesco. Si vide allora un poeta vibrante di fede levarsi a promettere la resurrezione del tempio e gli increduli, ricchi e poveri, colti ed ignari, accendersi d'entusiasmo pagando della propria borsa per aiutare l'opera contro i grevi ostacoli della burocrazia, la sorda indifferenza del clero e la diffidente rivalità dei devoti.
Ma il poeta votato alla grande impresa non era, fortunatamente, di coloro che scrivono versi e s'adagiano sopra un letto di rime come vincitori nella stanchezza del trionfo; era solo e credeva, non aveva scelto a sè medesimo alcuna arte e sentiva profondamente l'unità di tutte; era passato attraverso i vecchi secoli e le vecchie carte ricostruendo nella propria fantasia la visione del tempio come nei primi giorni di gloria.
In lui riviveva l'anima di quegli architetti e di quegli scultori sacri, che obliavano di incidere il proprio nome sui monumenti alzati verso Dio; era solo, volle e vinse perchè primo aveva veduto e creduto.
Intorno a lui si strinse quindi un manipolo di artisti, nuovi volontari in questa campagna, che ricreando nella sua più pura verità un tempio antico dichiarava guerra ai dogmi e alle tradizioni delle accademie; forse non tutti erano credenti come lui, ma l'arte è anche essa una religione e le religioni sono sorelle.
Oggi il tempio è ormai compiuto; le tombe dei glossatori splendono intorno nella bianchezza dei marmi, l'abside è riapparsa, sugli alti fianchi le finestre lasciano passare il sole dentro le navate libere e nude nella prima bellezza: l'incantevole pala dell'altar maggiore leva sotto l'abside i suoi ordini di vescovi e di martiri quasi sorridenti nella gioia della riacquistata santità: sei cappelle dietro di loro si profondano in un'ombra mistica sotto le vetriate dipinte, e dalle pareti, dalle volte, dagli altari, dalle lampade ripetono le orazioni francescane aspettando nuove anime e voci oranti.
Solo in alto le due torri guardano malinconiche e mute, perchè le offese alla loro bellezza non furono ancora riparate e si veggono più da lungi.
Ma presto il coro delle campanelle regalate da Carlo V canterà anche lassù, e tutto il tempio esulterà cinto da un bosco di querce, lambito dall'alito di nuovi fiori; e allora Alfonso Rubbiani, il poeta credente, che resuscitandolo dalle rovine diede all'Italia e alla fede uno dei più puri monumenti, sorriderà ai compagni fedeli dell'opera nei giorni lunghi e faticosi, poi abbassando la testa si sentirà ancora solo come adesso, come sempre.
Non importa: io vi conosco, poeta credente, anonimo maestro, che vi nascondete nell'opera degli scolari, vi conosco, e vi ringrazio a nome di tutti, specialmente degli increduli, che cercano anch'essi come voi, fra i segreti del passato e nella bellezza dell'arte, un motivo alla vita.
14 febbraio 1902.
IL POEMA
Perchè dunque si dice ancora che i poemi sono morti così lontanamente nel nostro spirito, che la loro anima non torna più nemmeno a scomporre il compiacimento rettorico dei letterati nel leggere le meravigliose contraffazioni dell'epopea nell' Eneide e nella Gerusalemme Liberata?
Certo l'epopea, momento unico nella vita di un popolo e al quale pochi popoli poterono assurgere, è passata da un pezzo, ma poichè la poesia muta soltanto di forme, i poemi sopravvivono ancora nella pittura e nella letteratura aspettando dal tempo quella consacrazione, che impone silenzio alla critica e dà all'ammirazione un senso di mistica religiosità. Non è un poema il gran libro di Tolstoi, Guerra e Pace, che, in una scena più vasta della Russia stessa, ci rivelò a migliaia gli umili e i grandi, gli eroi e i villani, le anime ignare, liriche, tragiche dell'immensa guerra napoleonica, contro la quale il popolo slavo sorse innumerevole, tenace, paziente, e combattè e vinse ravvolgendo il nemico in una bufera d'incendi, di neve, di odio, di morte?
Quando Tolstoi sarà antico nella storia delle letterature, i letterati paragonandolo ad Omero, vanteranno la superiorità del poema russo, benchè senza quella grazia formale del verso, rimasta in noi abitudine piuttosto che vero motivo di poesia.
Il poema è ovunque e sempre la vita appaia nella profonda molteplicità de' suoi aspetti e riveli dalla fisonomia delle cose e degli uomini la segreta, ineffabile unità di una razza e di un tempo in qualche dramma.
Così ogni cattedrale è un poema, nel quale e del quale vissero intere generazioni, architetti, scultori, pittori, poeti, coloro che nella chiesa sentivano soltanto la casa di Dio e quelli, forse in maggior numero, che vi lavoravano come alla prima e più duratura casa del popolo: sono poemi il tempio di Assisi, di San Marco a Venezia, di Sant'Antonio a Padova.
Questa cattedrale, la seconda sorta dalla vivida trionfale passione francescana, non è opera di un uomo ma di una gente, non di un santo ma di una fede, che si dilata e non muta, si arricchisce e sale, combina le forme e gli stili più antagonisti in una bellezza fantastica e profonda, di poema e di romanzo, di leggenda e di mito, nella quale l'unità rimane misteriosa come il segreto stesso della sua creazione.
Nata fra orti e giardini la cattedrale è anch'essa una enorme pianta sorta dallo spirito, che nelle proprie costruzioni impiega linee e materie diverse da quelle della natura: si può ammirare piuttosto che discutere: bisogna sentirla tutta per intendere il significato delle parti. Certamente il modello di San Marco era negli occhi e nelle immaginazioni di coloro che l'alzarono, così che sarebbe oggi difficile trovare nella basilica padovana quell'ideale corrispondenza col tipo del suo santo, come nel tempio di Assisi e in quello di Bologna.
Padova era troppo vicina a Venezia, dalla quale tutto l'oriente entrava folgorando come un sole di altri mondi e di altre civiltà.
Quindi la pittura paesana, perchè Padova pure aveva una scuola cresciuta dalla imitazione di Giotto, si provò a rivaleggiare nella decorazione col genio architettonico, benchè i suoi migliori artisti non fossero davvero, come il loro grande maestro già antico, abbastanza poeti per rivelare su quella immensa superficie di lati e di cupole il segreto delle pietre riunite dall'anima del Santo.
Indarno più innanzi Squarcione strinse intorno a sè una nuova scuola, mentre, magnifico, unico pittore di Padova, il Mantegna era ancora bambino, e si provò all'opera deducendovi fra la combinazione di molte maniere italiane e tedesche il sontuoso desiderio orientale pei colori fiammanti e le ricche architetture, i marmi, i tappeti, le lampade tra un folgorio di raggi, una gloria purpurea di tramonti e di aurore. Indarno ancora più tardi, nel 1727, un architetto veneziano, preludendo da lungi alla moderna passione del restauro, che intende a ricollegare l'epoche fra loro, presentò e fece accettare un disegno per rinnovare le antiche pitture e compierle correggendo, magari falsando, perchè una istintiva preveggenza del guasto interruppe l'opera nella cattedrale, che rimase come nuda all'interno malgrado l'affastellamento intorno alla tomba del Santo.
E fu bene.
Per restaurare un monumento bisogna prima sorprenderne l'anima, quale i secoli la produssero e visse nella propria età; per compierlo, invece, non basta nemmeno l'intendere quell'anima, ma è necessaria la più minuta ed esatta conoscenza storica del tempo, una conoscenza ed una scienza impossibile quasi sempre ai poeti, che volano attraverso le epoche sulle cime più alte come le aquile, o scendono come gli usignuoli a nascondersi nell'ombra tentatrice dei boschi.
Ecco perchè la fabbriceria della cattedrale padovana, mentre in tutta Italia riferve la nobile passione dell'antichità e l'anima nazionale torna all'orgoglio dei propri monumenti, indisse non è molto un concorso per decorare degnamente il gran tempio, mèta ancora oggi di tante anime pellegrine ed afflitte; ed ecco perchè il gruppo bolognese rappresentato dai tre maggiori artisti, Alfonso Rubbiani, Edoardo Collamarini e Achille Casanova, i restauratori del bel tempio francescano vinsero sopra tutti, offrendo di rappresentare nei piani e su per le volte delle cupole il romanzo, o, meglio ancora, il poema del Santo.
Concetto vasto e temerario, che per magnifica spira sale dal giorno della sua morte, quando il popolo del sobborgo di Capo di Ponte, si levava in armi a difendere il corpo del Santo contro il popolo di Padova irrompente a fiumi dalle porte per reclamarlo come il genio e il talismano della città, insino a quell'altro giorno immortale, bianco e folgorante nella gloria del Paradiso cristiano e dantesco.
Noi italiani siamo così: tutta la nostra arte, ogni qualvolta si volga a guardare indietro, incontra il sacro poema, che le sbarra l'orizzonte come una giogaia di nuvole fiammeggianti nell'altezza senza misura del cielo: da Dante solamente comincia la nostra coscienza e il nostro pensiero nazionale, perchè l'arte greca è di un mondo a noi lontanamente straniero, e l'arte latina fu appena un mirabile artificio, un intermezzo forse troppo lungo tra le due più profonde originalità della storia, quella greca e quella italiana.
Col poema sacro nella mano la nuova scuola bolognese ha dunque vinto la sua seconda battaglia, e compirà l'opera secolare della cattedrale padovana dipingendo il poema del Santo, che, scolaro di San Francesco, potè nella gloriosa semplicità della propria natura e nella limpidezza dell'ingegno apparire originale.
Ma la devozione francescana rifiorirà? Purtroppo è permesso dubitarne.
Chi intende oggi San Francesco fra le anime oranti, se i devoti non amano che le chiese sontuose, nelle quali un'arte goffa, un gusto villano, una prodigalità prepotente sembrano cantare le lodi della ricchezza?
La perversità del gusto gesuitico si allarga sempre negli spiriti religiosi: guardate le chiese di Lourdes, esaminate la nuova agiografia a quali fisonomie riduce i volti più austeri e più tragici, leggete i libri di devozione e confrontate le preghiere dei primi anonimi poeti cristiani con quelle che oggi scrivono letterati cattolici egualmente anonimi: ricordatevi i santi preferiti, le feste predilette: cercate il titolo degli altari consacrati da voti, e leggete le loro scritte.
Come tutto è morto, senza fede, senza poesia, senza passione, nel culto moderno!
Certamente la poesia e la fede sono immortali, ma bisogna essere un artista ben perspicace o un pensatore ben acuto, per rinvenirle sotto il triste ciarpame che le avviluppa, o per sentire il loro soffio nella rettorica, che discende lenta come un fumo grasso dai pergami.
Il cristianesimo, uscito quasi intatto dalle ultime battaglie colla scienza e colla filosofia, soccombe adesso ad un marasma, che gli impedisce ogni espressione geniale e l'intendimento di quelle antiche, anche se la poesia e la critica rinnovellata dell'arte lo soccorrono nello sforzo.
I templi risorgono, ma piuttosto per l'ammirazione degli increduli che per la passione dei fedeli: la Chiesa arma un nuovo partito politico, che ridiscende alla conquista della storia.
Auguriamoci dunque imminenti battaglie, perchè solo dall'angoscia dei conflitti e dal sangue, necessario a tutte le vittorie, può risorgere il fiore della vita nella luce trionfale di un altro mattino.
16 febbraio 1902.
LA GROTTA
Perchè dire qui il nome della città, mentre questa si prepara a festeggiare la sua consacrazione sotto l'incendio del sole e fra le canzoni, che salgono dai campi col fruscio degli strami falciati?
Straniero nella città, più straniero alla festa, la mia parola suonerebbe stridula agli orecchi della moltitudine, che un'eco della antica poesia religiosa risolleva, senza che la pietà delle anime risenta davvero la tragedia del dolore, per la quale lo spirito del Santo diventò così grande e così puro. Il convento è poco lungi dalle mura, fra orti e campi pieni di murmuri e di ombre: è un convento di cappuccini senza antichità di tradizione, nè gloria di arte, nè virtù di miracoli: piccolo, povero, lindo, tacito, si nasconde quasi in un abbassamento del terreno, con un portico dinanzi alla chiesa, un canale davanti al portico, pel quale passa lentamente un'acqua muta e torbida fra due orli di erba polverosa. Nel pomeriggio e di notte gli amanti errano lungo lo stretto viale, che mena al convento, ascoltando tratto tratto le sillabe misteriose del canale, mentre s'increspa nello sforzo di passare sotto i ponti bassi e frequenti: al mattino, sotto il sorriso vivido o nubiloso dell'alba, le donne devote si affrettano pel medesimo viale al convento per ricominciare la vita di ogni giorno con una preghiera più meritoria, perchè qualche cosa è rimasto di divino in quella piccola chiesa, nel suo silenzio. nella sua povertà, che una nuova lindura non potè ancora falsare. Dalle pareti, statue mezzane di santi cappuccini pregano, colla faccia estatica, immobili in un gran gesto di passione: e la vernice ha loro rifatta quasi la tonaca, e sono calvi, lucidi, ingenui, puliti: ma l'ombra della chiesa ridà loro una incertezza di poesia come in un mistero di lontananza. Il convento ha un cortile ed un pozzo di acqua celebre, derivata soltanto dal canale e filtrata: l'orto non si vede, ma deve sorridere di fiori, perchè un profumo vaga nell'aria e dal muro di cinta ondeggiano rami verdi, accennanti nel vento.
La rivoluzione chiuse il convento nel 1866, poi qualcuno, qualche cosa lo riaperse ad una prosperità guardinga, dandogli come un'apparenza di parrocchia suburbana, con una decenza borghese negli intonachi, con una festosità misurata nei giorni sacri.
Adesso il padre guardiano, bella testa grigia, forte e pensosa, sotto il portico, nell'angolo destro, ha fatto costrurre una grotta per Sant'Antonio, il soave eremita, che dopo San Francesco è la gloria più popolare dell'ordine.
Ahimè! La grotta pare un'opera di giardinaggio e meriterebbe una delle solite ninfe, che la poesia dei droghieri arricchiti suscita nei giardini per castigare la bellezza dei fiori così tristamente prigionieri nelle aiuole segnate di tegoli rossi e turchini: è più piccola di una stanza, ha dinanzi una cancellata, dentro una tappezzeria di sassi, un pavimento di sabbia, un santo che sembra un efebo, un Gesù bambino tagliato nello zucchero. Perchè?
È difficile trovare la risposta. Da gran tempo l'agiografia femminizzò tutti i santi, togliendo loro col carattere sacro anche quello umano per tutta la varietà dei tipi scolpiti già nella vita e nell'arte dalla passione del divino.
Nessuno si è salvato, neppure quelli che la crudezza della penitenza aveva quasi resi selvatici, o la luminosa grandiosità del pensiero mutati in astri spirituali. Un languore giovanile, una morbidezza malata passò nella agiografia, che, più a contatto col popolo, avrebbe dovuto, per parlargli, serbare più viva la verità dell'accento e più sicura la sincerità della forma: non vi furono più santi poveri o vecchi, colle stigmate della miseria, col marchio dei morbi. Il loro abito parve tagliato da mani femminili con irresistibili ed inconsapevoli intenzioni di civetteria; la loro capellatura, anche se rada, si arricciò sotto il ferro di un barbiere misterioso; il loro volto si arrotondò in una grazia di mela colle guance brinate, la bocca piccola chiusa come un bocciolo; le dita si affusolarono, l'occhio non ebbe più lagrime o le ebbe soltanto come le orecchie delle donne hanno le perle: un lusso di cattivo gusto. Scomparvero le epoche e con esse i costumi della agiografia; tutti i santi furono contemporanei e coetanei; da San Giuseppe a Sant'Antonio la paternità spirituale non fu più espressa che dai quindici anni: un giovinetto che tiene in braccio un bambino, e quasi sempre la faccia del bambino è più virile che quella del giovinetto. Ma questo ripetendo attraverso i secoli la bellezza dell'efebo greco, non ne ebbe nemmeno la sincerità intenzionale, nella stessa incertezza del tipo: e invece parve voler essere soltanto donna senza la purità davvero superiore della vergine e la forza dolce della madre.
Così l'agiografia inventò un terzo sesso nei santi, che affidava all'anima popolare come un nuovo germe d'ideale per la vita e per l'arte, prima che qualcuno potesse arrestarla sulla falsa via o intenderne almeno il perchè. Invece il popolo accettò. E adesso nelle carte, sugli altari, nelle vetrine, nelle cornici, ovunque la pietà ha bisogno di inginocchiarsi e il dolore di chiedere, non appaiono che figure giovanili, rosee, lucenti, tese o curve sopra un bambino appetitoso quanto un candito, nudo come in una provocazione, dentro un nimbo di luce falsa, tra fiori stilizzati, al centro d'una grotta preparata come un gabinetto, nella quale i sassi sono una decorazione e la miseria un motivo di eleganza.
Sant'Antonio fu un poeta della parola e della solitudine: visse poco, pensò, agì, sofferse in sè e per gli altri, mescolato alla politica, guardando dall'alto e scendendo eroicamente a tutte le profondità della miseria e del dolore. Il popolo, che ha l'istinto infallibile, lo amò, lo divinizzò, e a Padova scoppiò in una ribellione per avere il suo cadavere, perchè sentiva di avergli appartenuto nell'anima. Che importava se il Santo era spagnuolo e doveva comporre con San Domenico e con Sant'Ignazio forse la triade più originale della storia? Il vincitore degli Albigesi aveva l'impeto dei torrenti, che devastano per fecondare; il fondatore dei gesuiti fece della parola l'arma più sottile ed armò il silenzio di pensiero. Sant'Antonio, invece, era l'oratore delle piazze e dei campi, che parlava collo stesso accento alle donne e alle rondini, che amava la bellezza nella natura e il dolore nello spirito, perchè il dolore è la sola luce rivelatrice della vita. Era semplice, rude, povero, un artista che ignorava l'arte, un santo che non sapeva d'esserlo, un grand'uomo, che si faceva piccolo appunto perchè apparteneva a tutti. San Francesco è l'ode, Sant'Antonio la canzonetta: quegli trova il motivo, questi lo diffonde: l'uno crea, l'altro propaga. Per il popolo San Francesco è forse troppo alto, mentre Sant'Antonio è un confidente, al quale si può tutto raccomandare, dai bovi ai bambini, e tutto chiedere, dalla pioggia che risana i campi, al vino che ristora i corpi.
La sua immagine protegge le stalle, vigila i boschi, è al crocicchio delle strade, pende sul letto dei poveri, che non lo riconosceranno più in quel giovinetto così grassoccio, senza una riga di pensiero sulla fronte, una ruga di spasimo nel sorriso, con quella tonaca troppo lucida, con quelle mani da ozioso, affusolate, rosee, vanitose.
Ma le donne invece colla morbosità di una devozione fatta di raffinatezze, s'inteneriranno a vederlo così ben pettinato e così simile ai fanciulli, che esse addobbano per il lusso della loro maternità, perchè la devozione moderna è un lusso di delicatezze esteriori, un piacere di riti eleganti, un'abitudine di speranze, che continuano i piaceri della vita invece di contraddirla.
L'arte religiosa tace da gran tempo.
Non si sanno più costrurre nuove chiese e, costruendole, si storpiano gli antichi modelli: si decora, non si crea, si restaura e non s'innova. Leone XIII bandì un concorso per una Sacra Famiglia, che nessuno vinse; un altro, aperto a Torino per una testa di Gesù, parve un convegno di ritratti, nel quale invano si sarebbe cercato un originale davvero umano: e Gesù è tutto l'uomo.
Invece anche a lui, nelle immagini del Sacro Cuore, toccò la sorte degli altri santi: non fu più nè Dio nè uomo, nè maschio nè femmina: la capellatura bipartita sulla fronte gli scese femminilmente sulle spalle; la barbetta bipartita sul mento gli si aperse per mostrare la soavità adonica del collo; la sua fronte rimase senza pensiero, la sua bocca senza parola, i suoi occhi senza rivelazione, mentre nel mezzo della tonaca turchina il suo cuore non più suo, impennacchiato di fiamme, incoronato di spine, immobile, non batteva più.
Perchè?
Potrei tentare di spiegarlo: molti lo sanno, qualcuno lo dirà.
Qui affermo soltanto che l'arte religiosa non è morta.
23 luglio 1903.
IL PROBLEMA DEL NATALE
Non ricordo più l'anno, ma è lontano come la mia giovinezza. La giornata era triste: una nebbia saliva diafana e leggera il colle seminudo e pareva un velario, dietro il quale Bologna taceva. Guardavo dall'alta vetriata rigata di grosse gocce tiepide, perchè la grande stufa vampeggiava quasi accanto a me agitando sul pavimento di legno lucido un riverbero cristallino.
Marco Minghetti si scosse sulla sedia:
— Ma concedetemi almeno, amico mio, che il suo Natale è bello!...
— Bello! come? — rispose dolcemente De Meis.
Mi volsi a tempo per cogliere la grazia fuggevole del suo sorriso: ma egli non aveva mutato atteggiamento: teneva un gomito sul tavolino e la fronte appoggiata sulla mano destra bruna e sottile quasi come una mano di donna.
Siccome mi avvicinavo, Minghetti con quella sua amabilità diplomatica disse:
— Non venite fin qui: vi unireste al professore per darmi torto: voi non credete a Manzoni e a nessun altro poeta vivente.
— Datemi dunque un poeta, che metta nel verso tanta poesia quanta Mazzini e Garibaldi ne hanno messa nella loro vita. Manzoni è un romantico.
— Come voi, ragazzo mio; ma il più rivoluzionario e il meno squilibrato dei romantici. Ha creato un'ode, una tragedia, un romanzo; nella nostra miseria letteraria basta.
Minghetti mi guardò contento, ma seguitò:
— Perchè dunque non trovate bello il Natale?
Camillo De Meis parve raccogliersi:
— Non conosco un solo inno degno del Natale. Il tema cristiano è bello: dunque vero. Lo spavento di una persecuzione ha fatto fuggire Maria, perchè Erode decretò la morte di tutti i bambini; i fuggiaschi riparano a notte in una stalla, e la Vergine vi diventa nelle tenebre madre di Dio. Quella stalla non è di alcuno: lei sola e il vecchio marito sono nel mistero; fuori il vento freme, la notte gela. Perchè Dio ha voluto nascere da noi? L'angelo annunziandolo a Maria non disse abbastanza, ella resistè un attimo quasi difendendo la propria verginità, e piegò sotto il mistero.
Il filosofo s'interruppe: la sua fronte non molto alta si era fatta lievemente rosea, e la voce gli aveva tremato.
Aspettammo: egli lo sentì.
— Il Natale di Manzoni, — proseguì, — non sale, non vola: le sue strofe strette e lunghe sfilano dinanzi al poeta, che tenta lanciarne qualcuna nell'alto. No, no, egli non ha sentito il problema del Natale. Per quanti secoli di secoli la natura si era ripetuta nella nascita seminando il cielo di astri e i prati di fiori, riempiendo di viventi invisibili l'aria e l'acqua, le tenebre e la luce? Ma il suo dramma non diventa intelligibile che nell'uomo; egli sa che la nascita è una prima opposizione del vivente colla vita, dell'individuo, dentro il quale passa l'eterno ed è creato soltanto nel tempo. Dalla morte solamente egli apprenderà la vita, perchè la morte è il limite ultimo della figura anch'essa formata di limiti. Che altro è infatti la linea del suo disegno?
— Parlate, parlate.
— Per quanti secoli il dolore e l'amore umano avevano gridato davanti a Dio, per deciderlo a discendere nella nostra nascita? L'appello della gioia fu più eloquente che il gemito dello spasimo? Per quale pietà si decise Gesù? per quella dei buoni, o dei cattivi? E chi, che cosa davvero redense in noi? Egli volle passare solo, senza padre, senza moglie, senza figli; non volle essere di alcun tempo, di alcun luogo: non ebbe patria, non credette ad alcuna legge e non ne fissò alcuna. Parlò. La sua parola aveva l'aroma dei fiori, la sonorità del mare, il lampo della folgore: svegliava le anime, purificava i corpi: la vita si apriva davanti a lui come già il seno di Maria, la morte gli si inginocchiava davanti come un cavallo pronto a portarlo nella vittoria. Tutto il pensiero umano è nella sua parola, che come una musica si dilata inesauribilmente; tutta la esperienza umana è in lui, straniero che passa soltanto: tutto il dolore che crea, tutto l'amore che distrugge, sono nella sua parola di uomo, di donna e di Dio. Nessun segno esteriore lo distingue, nessun'opera lo segnala, ma la sua volgarità è pura, e la sua semplicità disciolse tutte le grandezze. Gesù!...
E questo nome suonò come una invocazione.
— Voi pregate, maestro.
— No, sono come te, ragazzo mio: tu spasimi nella incredulità e maledici ancora la vita: io non penso più, guardo ancora qualche volta così, e non parlo.
Io m'era appoggiato senza accorgermene alla spalliera della sedia, dalla quale Minghetti si era piegato ascoltando. Nessuno di noi due osò interrompere quel silenzio del vecchio filosofo, che l'Italia non conosceva e che nemmeno la morte ha poi rivelato.
Egli era un santo del pensiero.
L'ombra malinconica, che gli avvolgeva il viso, si fece quasi più densa e a poco a poco più limpida la fissità del suo sguardo.
— Oriani, — mi si rivolse, — che cosa offriremo noi tre a Gesù bambino? Abbiamo qualche cosa nell'anima che possa essere un dono? Possiamo noi almeno comprendere il Natale?
Imprudentemente Minghetti chiese:
— Perchè?
— Voi non siete padre, — rispose dolcemente De Meis: — io non lo sono, Oriani afferma con dolorosa superbia di non volere esserlo mai. È il figlio invece che crea il padre, secondo la grande parola di Hegel: è il figlio che del cuore del padre si fa la culla e lo muta per sempre. Coloro che piegandosi sopra una culla non hanno sentito la propria anima inabissarsi nella voragine della vita; che dinanzi alla nuova creatura non hanno dovuto dirsi: «sono io, io solo che l'ho evocata dall'inconoscibile a questa tragica e labile coscienza, e le ho dato il mistero per martirio e l'inafferrabile per mèta»: coloro che non hanno tremato della propria creazione riconoscendo nella creatura una vittima ed un giudice: coloro che non si seppero immortali in lei e non ne piansero di gioia o di dolore, e stringendo una culla non si tesero nello sforzo di gettarvi dentro l'universo; che cosa sanno essi del Natale? Noi tre siamo stranieri: Gesù non è nato per noi. Io non ho che dei morti: voi chi avete nella vita?
— Mia moglie soltanto.
— Avete sposato una madre, e non siete padre...
Ma la risposta gli parve forse così dura che si alzò.
Al solito egli non avrebbe parlato più per qualche tempo. Era stanchezza spirituale? Era inutilità del pensiero e della parola?
Dentro la serenità del gran vecchio, io, così violentemente pessimista, sentivo come un deserto lucido, freddo, muto: una solitudine polare con un cielo senza sole e senza notte, con un silenzio ignaro d'ogni voce.
Egli era solo, non aveva neppure la gloria, questo sole d'inverno che illumina, ma non riscalda. Minghetti gli si accostò, e gli prese affettuosamente una mano. L'illustre ministro era alto, roseo, colla fronte sfuggente sotto i capelli già bianchi, la bocca lievemente aperta ad arco e che il sorriso non animava mai. Minghetti non poteva sorridere: la sua bocca era così.
Ma appariva contento.
— Donna Laura è andata a Roma. Restate con me, amico mio: e voi, Oriani, tornate a casa per le feste di questo Natale?
— No.
— Ebbene, facciamo insieme la vigilia.
— Non posso: la solitudine mi pesa, ho bisogno di sentirmela pesare sull'anima.
L'accento di De Meis fu così doloroso che istintivamente guardai Minghetti.
Questi disse quasi misteriosamente:
— Lo so.
— Che cosa?
— Lo so: donna Laura vi ha indovinato.
Un turbamento scosse il filosofo: l'altro trattenne cortesemente uno scherzo, vedendolo soffrire.
In quel momento all'uscio apparve Giuseppe, il vecchio cameriere, ed annunciò col suo accento bolognese:
— Il professor Panzacchi.
Il poeta, allora giovane, alto, grosso, bronzeo, con due piccoli occhi neri nella faccia quasi sonnambula, si avanzò sorridendo verso lo statista: erano rivali d'eloquenza e avversari nella politica.
— Benissimo! — esclamò Minghetti — come ne sono contento. — E per sollevare De Meis prosegui mutando voce: — Aiutatemi dunque a difendere Manzoni contro di lui, voi che siete un poeta.
Una ironia sottile come un fruscìo serico stridè in questa ultima parola.
— Ditemi, Panzacchi: è davvero così poco bello l'inno al Natale di Manzoni?
Il poeta si volse, sorridendo del suo sorriso incantatore, a De Meis:
— Stamane, prima di uscire di casa, sono andato a vedere il mio Fifo: stava per svegliarsi. Mi sono sentito salire alle labbra i versi di Manzoni:
Dormi, fanciul, non piangere,
dormi, fanciul celeste...
Sono così dolci!
— Mai voi siete padre! Potete capire il Natale...
Questa parola ci soverchiò tutti.
Credo che l'illustre filosofo pigliasse moglie l'anno dopo.
25 decembre 1905.
II ECHI
IL CAVALIERE
L'ho visto l'altra sera a Lugo, la piccola città romagnola ancora affollata e sonora dell'antica fiera, che prolunga con felice anacronismo il proprio costume nei tempi nuovi.
E nel teatro ardente come un calidario, quando dal fondo della scena sopra un cielo violentemente turchino è apparso il mitico cigno dalla docile testa, ricurva sotto il peso delle redini fiorite, un fremito è corso per la densa platea sollevando un murmure di passione. Il cavaliere splendeva come dentro un nimbo d'argento, immobile in una posa di sogno. Sotto il casco bianco, simile ad una calotta appena orlata, i suoi capelli d'oro fluivano in lunghe anella insino alla barba breve: e tutto in lui era bianco, il mantello e la veste, la maglia ed il guanto.
Malgrado la luce troppo calda e rossastra della ribalta, la sua pareva come sempre una apparizione lunare, meravigliosa di un lucido pallore, più stupefacente ancora nella lentezza solenne dell'arrivo.
Dopo tanti anni anche la mia anima ha ripalpitato come la prima volta che il bianco cavaliere discese sulla scena del massimo teatro bolognese fra un'aspettazione così intensa, che mai forse eroe vero, irrompente nella battaglia aveva sentito intorno a sè, fra urla di riscossa e di spavento.
Che cosa non si era detto e scritto allora del Lohengrin? Qual pregiudizio di scuola e di razza, qual paradosso d'estetica, qual vanto di novità, qual classico disdegno era stato risparmiato?
La grande musica, che aveva abbellito di tanta gloria universale il faticoso andare della nostra rivoluzione, sembrava esausta anch'essa nel medesimo trionfo: l'Italia era libera, Roma italiana, e Verdi, ultimo dei quattro magni maestri, discendeva per la parabola lunga dell'ingegno negli ipogei egiziani a cercarvi indarno il sublime orrore di una tragedia ieratica. Anch'egli era sorpreso, sorpassato dalla rivoluzione, che aprendo un tempo novello esigeva altre forme per una più moderna coscienza. Comunque il magnifico e avventurato maestro ornasse di nuove opere la propria vecchiezza, non saprebbe più guadagnarvi un'altezza pari a quella del Rigoletto, uno dei drammi più lucidi e terribili della musica in questo secolo, la più bella vittoria di un ingegno italiano sul massimo genio francese, perchè, bisogna ripeterlo ancora con superba esultanza, Verdi vinse Hugo, la musica del Rigoletto sorpassò la poesia del Roi s'amuse.
Wagner fu allora un liberatore appunto perchè oggi appare già un tiranno.
La sua estetica, più assurda di quella posteriore dello Zola, sedusse quanto l'originalità vera del suo ingegno: egli critico ebbe sudditi più devoti che a lui artista, la sua intransigenza teutonica provocò in Italia ogni più ingiusta negazione del genio nazionale.
Doveva essere così. Qualunque rivoluzione è costretta a condannare il centuplo di quanto può realmente mutare: non vi è religione senza idolo, non fede senza dogma, non dogma senza fanatismo.
Noi che adesso decliniamo al tramonto, passammo allora per un lungo periodo di ossessione; vi fu un terrorismo wagneriano come poco dopo un terrorismo zoliano: nessuna novità, nessuna bellezza era più possibile contro o al di là dei due illustri maestri. Wagner aveva imposto il proprio sogno di un teatro mitico, la propria illusione di una musica capace di esprimere le tragedie del pensiero e le epoche più misteriose della storia; Zola in nome di un naturalismo, che scemava la natura, pretendeva derivare nel romanzo il metodo sperimentale e ridurre la creazione della figura ad un plagio fotografico. Ma poichè l'inconsapevole spontaneità dell'ingegno vinceva nei due maestri spesso la falsità dei loro canoni artistici, grandi opere uscirono dalle loro mani, mentre gli imitatori, immiserendo tristamente nella caparbietà di quella estetica, ne affrettavano il tramonto anche dentro l'anima ignara del pubblico.
Dopo trent'anni Lohengrin, il bianco cavaliere, ricomincia un viaggio di gloria per le nostre province.
Le grandi discussioni di un tempo sono già dimenticate: Wagner regna nella storia splendendo ancora nella vita per l'immortale giovinezza di alcune figure e l'incanto inesauribile di melodie, non molte forse, ma scaturite dalle più intime profondità dell'animo umano. Fra tutti i suoi simboli certe figure soltanto raggiano di vita ed accendono i cuori: del suo teatro invece non resta che la grandiosa superbia del concetto e l'incomparabile abilità della sceneggiatura. Nessuno, nemmeno il Sardou, può essere a lui paragonato per la scaltrezza dell'inganno scenico; nessuno, nemmeno Beethoven, seppe come lui piegare l'orchestra a tutte le necessità del dialogo e mettere nelle sue voci più accento umano.
Ma Beethoven supera Wagner di quanto Omero vince Virgilio: quelli ebbero il genio vero della creazione, i suggerimenti sinceri ed ingenui della natura; questi, cresciuti nella scuola, ne sfondarono forse l'orbita, ma nella loro opera memoria e riflessione, calcolo e volontà, furono troppo preponderanti. Dante e Shakespeare non scrissero libri di critica, non inventarono estetiche, non costrussero sistemi: Tolstoi, un altro genio, l'ultimo cadetto della piccola famiglia, non fece che polemiche morali e tardi, fortunatamente per lui. L'artista era già morto, l'apostolo non poteva più guastarlo.
Ma qual fiamma, qual passione, domandavo a me stesso in quell'angusto teatro di Lugo, così gremito di un popolo così attento ed intento, qual fiamma e qual passione di bianco cavaliere s'accende ancora nell'anima della folla, adesso che le orecchie ascoltano altre voci e le fantasie seguono il volo di altre parole?
Questo bel cavaliere d'argento, che un Olimpo sconosciuto, immerso in un candore eterno di neve, manda in terra a difendere una principessa tragicamente accusata da parenti assassini, e che vi arriva guidato da un cigno sopra una conca di madreperla; questo cavaliere, che s'innamora della fanciulla forse perchè l'argentea armatura non gli bastò contro le tentazioni terrene, ma imponendole soltanto di non domandargli il proprio divino segreto, quale idea, quale passione lusinga più nell'anima popolare lontana per molti secoli da quel mondo di cavalieri e di dame, di angeli e di demoni?
Eppure no.
L'anima umana non muta: dentro ogni re, ogni principessa, ogni cavaliere, vi è sempre lo stesso uomo e la stessa donna: cangiano gli attori, non la tragedia, le canzoni, non il canto, le parole, non il fatto. Lohengrin, il bianco cavaliere, è dietro a tutti i sogni giovani e, più lungi, dietro tutti i sogni vecchi: è l'amante ideale, che la donna invoca e non può comprendere: egli non le impone che di rispettare il proprio mistero, di non pretendere ad un segreto per lei inaccessibile, e la donna promette, ma nella prima ora, prima del primo bacio, preferisce già la gioia della curiosità vincitrice, viola la data fede, uccide il cavaliere nell'uomo e l'amore nel matrimonio.
Lohengrin è un simbolo di questo fatto umano, e la sua meravigliosa forza di seduzione gli deriva appunto dalla bellezza religiosa. È la necessità del sacrificio nell'amore, è la ribellione al sacrificio, che formano il fondo del dramma lohengriniano, nel quale, come sempre, l'uomo è sacrificato dalla donna. La seduttrice non sa resistere a sè stessa e soccombe.
Guai se non fosse così.
L'amore non è forse una preparazione, della quale il bambino è lo scopo?
La donna forte non può essere che la madre: la donna amante ingannerà, mentirà sempre a sè stessa prima che agli altri, da Eva ad Elsa, da Adamo a Lohengrin: quegli perdette il paradiso, questi vi riportò la nostalgia della terra, e la loro tragedia continua nell'aneddoto quotidiano.
Però hanno torto coloro che pensano esauriti nell'anima popolare i profondi motivi della lirica e del dramma: presentate al popolo qualche altro cavaliere come Lohengrin, e lo vedrete tremare di emozione, lo vedrete applaudire più vivacemente che a una qualche concione politica.
29 settembre 1900.
TRISTANO E ISOTTA
Li ho riveduti a Ravenna, nella vecchia illustre città, apparire sopra una folla devota e muta come nell'orrore sacro della loro tragedia. Nel teatro troppo povero d'architettura e troppo ricco d'oro, un'ombra improvvisa rendeva più trepido il silenzio, dentro il quale nemmeno batteva un'ala di ventaglio.
E mentre nel preludio il primo singhiozzo represso della passione saliva come dal murmure del mare consapevole dell'amore fiorito sul nero vascello, ripensavo a questo dramma così antico nella leggenda, dalla quale Wagner credette di ritrarlo per farne la grande tragedia dello spirituale amore moderno.
Perchè nel suo cuore di eroe ferito ed errante quasi come un mendico fra le miserie e le ingratitudini della vita, egli sentì di essere un più grande Tristano, che nessuna Isotta poteva fedelmente accompagnare fino alla morte; e tutto l'orgoglio del genio costretto a servire, e tutta la sete di un'anima sempre orfana nel deserto della folla, esalarono come da un altare nel nuovo lungo dialogo fra i due amanti ebri del solito filtro, che il dolore propina all'amore.
Anche allora, malgrado che il monumento della sua arte si levasse già alto nel cospetto degli spiriti meno disattenti, egli era uno sconosciuto, al quale la protettrice amicizia di pochi era stata forse più dolorosa che la invincibile indifferenza di tutti: sapeva di essere un grande, e l'offesa alla propria grandezza lo innalzava sino all'orgoglio di voler essere unico: sentiva quasi come una malattia la propria originalità, e soffrendone volle farsene un'arma contro i rivali e il pubblico stesso, imponendogli di tutto accettare o di tutto respingere nel dono magnifico e ancora misterioso di un'arte nuova.
Era veramente nuova quest'arte, che per cercare il dramma moderno indietreggiava sino al mito, e risuscitava tutti i fantasmi romantici, mentre il romanticismo, superato da Balzac, agonizzava nella lirica di Hugo, e un'altra modernità discendeva sull'Europa dal profondo, lontano mistero della gente slava?
Wagner pensò che la musica, essendo l'estrema fra le espressioni dell'anima, potesse diventare la suprema voce del dramma: ma forse lo volle più che non lo pensasse.
Mancava a lui la prima caratteristica del genio, quella inconsapevolezza della creazione, senza la quale l'arte non può davvero rinnovare i miracoli della natura. Temperamento gladiatorio, ingegno polemico, pensatore critico, Wagner non aveva d'ingenuo che il proprio gran cuore: la povertà gli acuì la superbia, e un'ambizione imperiale gli scoprì nei rivali un'inferiorità di condottieri soggetti al pubblico e venduti alla sua finanza. Tutti gli parvero falsi intorno e prima; il teatro solo poteva, come il tempio antico annunciare una nuova religione, la musica soltanto compiere un'altra rivelazione; e poichè la vita non arriva a significare sè stessa nel dramma, la musica doveva dirne il segreto impossibile alla parola.
Ed ecco l'errore del pensatore, che moltiplicherà poi i sofismi del polemista fra le violenze del critico e i colpi del gladiatore.
Se la musica è l'espressione ultima dello spirito, che in essa effonde tutto quanto non potè esprimere colla linea, col contorno, col colore, colla prosa, colla poesia, il dramma invece producendosi dalla inconciliabile originalità degli individui, che vi si debbono appunto spezzare per tale impossibilità di fondersi, non può venire espresso dalla musica, supremo linguaggio dell'indeterminato e dell'indefinibile. Il dramma s'attenua già nella poesia e svapora nella musica, che non sa precisare i caratteri e deve chiedere alla pittura quello degli ambienti: essa è un vapore, o un profumo, che s'innalza dalle parole come da incensieri rotti nella frenesia di un dialogo: sale, solleva, inebria, rapisce lungi, lievemente le anime, e le voci sono come veli che le sostengono, e il pensiero sogna soltanto, non ricorda, non sa più.
Il dramma, infatti, perde nella musica ogni grandezza di orrore e qualunque fisonomia d'individui: gli antichi lo sapevano, costruivano la solita favola, vi gettavano sopra un vario drappeggio, e poi cantavano aggiungendo il canto alla parola, perchè il canto senza parola è appunto la musica, che continua la lirica e la dissolve. Finchè la parola è possibile, vale più del suono: la parola significa l'idea, il suono non esprime che il sentimento, onnipotente anch'esso nella sua incertezza, ma inferiore al pensiero che sulla incertezza può elevarsi dominatore.
Il melodramma non fu, non è, non sarà mai il dramma, ma l'espressione di ciò, che l'azione e la parola del dramma non arrivano a dire, e che la coscienza soffrirebbe troppo a non dire. Perchè dunque pretendere, come Wagner, che nella sua scena melodrammica la frase musicale ripeta individualmente e raddoppii il valore della frase letteraria, mentre questa invece di esprimere un'emozione significa forse un'idea, e la musica non può andare al di là dell'emozione? E come intendere nemmeno il commento della parola fonetica alla parola sillabica, se nessun cantante potrà mai, cantando, pronunciare schiettamente un periodo?
Wagner, invece, volle che il suo melodramma fosse un dramma, nel quale la musica avrebbe tradotto in sè stessa il valore di ogni idea e di ogni parola: era impossibile, e ne uscì un canto dialogato, lungo, fitto di spunti melodici, con intenzioni troppo brevi e frammentarie per essere sempre intelligibili; e anche quando nell'ascendere della passione il canto doveva librarsi lieve, lucente, abbacinante come una fiamma, Wagner lo mantenne sottomesso alla parola, pretese che significasse tutta la logica dell'azione e avesse il valore dichiarativo di un'immagine. E quasi tale errore non fosse sufficiente ad alterare la natura fatalmente tenue e convenzionale del melodramma, dalla scena precipitò questo nell'orchestra, riducendo il cantante a non esservi più che un istrumento umano tra tanti istrumenti meccanici: così la musica, che con Wagner si era vantata di spingere il dramma alla rivelazione dell'ultima verità, ne smarrì le persone dentro un poema sinfonico, e il solo vero trionfale personaggio del teatro nuovo fu l'orchestra.
Il mondo resistè, quindi parve cedere, delirò per l'arte nuova e innalzò Wagner sino alle adorazioni di un Messia: adesso, invece, comincia a vederlo quale fu, un grandissimo ingegno, del quale la creazione non potè attingere la suprema verità appunto per le deformazioni imposte da un sistema critico è da troppe esagerazioni della volontà.
Egli non fu Balzac e nemmeno Tolstoi; somigliò a Zola per la caparbietà lottatrice, pur superandolo nella nobiltà delle intenzioni e dei risultati: sarebbe stato più originale, se la pretesa di aprire un'epoca nella storia musicale non avesse diminuita la sua stessa originalità dentro l'errore di vecchie forme, che a lui parvero nuove: negò tutti, amici e rivali, per rimanere solo, e solo rimase perchè i suoi credenti non poterono continuare la sua opera. Egli soltanto, vincendo in sè stesso coll'artista il critico e colla ingenuità dell'ispirazione le protervie sistematiche della propria estetica, si costruì nella storia un posto a parte: il suo dramma era impossibile, il suo melodramma è più falso di ogni altro, ma la potenza della sua lirica e della sua musica lo fecero grande, e tale lo conserveranno. Forse nel proprio secolo egli non fu il più ricco melodicamente, ma nessuno lo superò nell'eroismo della volontà e nella dedizione di tutto sè stesso alla propria opera.
La quale per durare sul teatro dovrà sopportare molte scapezzature fra le grida orrifiche dei credenti, oggi diventati già dei bigotti.
Per essi, infatti, Tristano e Isotta sono la vetta dalla quale Wagner comincia la grande ascensione attraverso la Tetralogia e il Parsifal: per la critica e per il pubblico, invece, è il punto, donde deviò perdendosi entro il teatro verso un tempio invisibile: Tristano e Isotta avrebbero dovuto attingere la tragedia e invece si consumano nella elegia e muoiono nel lamento. Wagner non era veramente tragico. Ricordate il finale della Norma, paragonatelo a quello del Tristano e Isotta, e sentirete la tragica superiorità melodica di quello su tutta la prodigiosa fattura di questo: la frase della Norma nel proprio sviluppo sale inesauribile, è onda, fiamma, parola, anima; è limpida, afferrabile, indimenticabile: il mondo la saprà sempre. Wagner capovolge la progressione di Bellini, ne fa un fiume, un torrente che straripa, strugge, soffoca, s'interrompe.
Calata la tela, acquetata l'orchestra, io pensavo ancora con orgoglio italiano a Bellini.
19 maggio 1902.
SAFFO
Dall'eroide di Ovidio al canto di Leopardi quale onda lunga di poesia trasporta questo nome attraverso la memoria dei secoli, e lo risolleva nel sole eterno della passione quando i cuori vibrano e le anime si cercano per scambiare il bacio della vita!
Ancora il fantasma dolente della donna, che come Otello amò troppo e saggia non seppe amare, domina sul tragico sasso di Leucade, dal quale in una notte serena sparve volando sotto le acque: forse il mare ascoltò allora i suoi ultimi versi e li ridisse sulle spiagge agli amanti, che vi erravano attratti dal fascino segreto dell'immensa solitudine solcata da candide vele, sorvolata da invisibili sogni. E il sogno della morte s'innalzerà sempre dall'amore come il profumo sale dai fiori e la canzone dai nidi a primavera, o meglio, forse, come guardando dall'alto di un monte una densa e vasta foresta, si vede un'ombra lieve levarsi sulla cima degli alberi.
Lungamente l'erudizione letteraria indugiò intorno alla greca poetessa, cercando la verità storica nella leggenda e quella umana nel mito: si discusse, si negò, si vagliarono i pochi versi a lei attribuiti e nei quali la passione stride ancora come un ferro rovente nell'acqua: si trovarono due poetesse invece di una, due amori antagonisti persino nel sesso invece di un antagonismo tragico in un amore unico: la nostra anima cristiana rabbrividì al contatto di quell'anima ellenica, il nostro spiritualismo così astratto tentò invano di penetrare la spiritualità così materiata di tutta la natura in quell'arte antica ed immortale; poi la disputa si perdè per gli aridi deserti della scuola, e Saffo rimase come prima nella memoria dei cuori una tragica figura di amore tradito per la sua stessa superiorità.
Saffo era la poetessa col volto riarso e scomposto dalla passione: i suoi occhi avevano l'ardore insopportabile dei meriggi sulle scogliere, nella sua voce suonavano tutti gli accenti del mare, fra i suoi capelli neri si addensavano tutte le ombre della notte: era la donna armata indarno contro l'uomo di ogni arma dell'uomo, della volontà e dell'ingegno, del pensiero e del canto, della potenza e della gloria; ma non era bella.
E questo bastò alla sua sconfitta.
Faone, il bel ragazzo, non vide in lei tutto quanto la prodigalità dei cieli aveva accumulato per farne una poetessa, e sentì soltanto quello che le mancava: la bellezza.
Fu infedele, ma greco anche in questa infedeltà, perchè nella donna nessuna grandezza spirituale può compensare il difetto della bellezza concessa alla vita come una promessa di altri mondi e un conforto ai mali di questo.
Nella notte serena, sulla strada battuta da un violento acquazzone del meriggio, vedevo ancora il piccolo sasso di Leucade dipinto sulla piccola scena del piccolo teatro, che Brisighella ha riaperto orgogliosamente in questi giorni all'opera bella e oramai dimenticata del Pacini.
La notte era così calma e l'ombra così diafana che tutta la valle si apriva allo sguardo: non una bava di vento, non un canto o una voce. Le ruote della bicicletta fuggivano mute per la discesa, che dalla piazza del paesello cala larga e pigra al ponte: ero solo, senza fanale, e fuggivo nella notte. Come mai si era potuto scegliere per la stagione delle acque e dei bagni a Brisighella questa opera del Pacini, che naturalmente non esprime la tragedia di Saffo, e invece getta come fiori all'aria in ogni scena frasi e canti pieni di gorgheggi, mentre l'azione s'imbroglia nella solita favola di tutti i melodrammi fra coristi vestiti di bianco, nell'atrio di un tempio vegliato da un gran sacerdote coperto d'oro, come generalmente lo furono in tutti i tempi i grandi sacerdoti?
Non lo so e nemmeno vorrei saperlo, perchè forse nemmeno lo sanno coloro, che vollero così; ma quest'opera data in un villaggio montanaro esumando dall'oblio un illustre troppo presto e troppo ingiustamente cadutovi, era improvvisamente risorta fra le lontane memorie della mia giovinezza.
Perchè non rivederla, riudirla forse, fra i commenti di un pubblico non ancora guasto da polemiche musicali, fra le ingenue difficoltà di un teatro troppo piccolo, obliandosi come in un ritorno degli anni primaverili senza chiedere più nulla alla primavera, senza esigere nè dalla musica nè dai cantanti ciò che non possono dare, la potenza ferale della tragedia e l'ineffabile delizia di una espressione, che, superando pensiero e parola, si perde nelle vaghe lontananze dello spirito insino all'ultimo lido misterioso? Io non sono di coloro, che pretendono il dramma nella musica e vorrebbero persino imporle di significare le formule, dalle quali esce il dramma stesso: da lungo tempo ho acquistata l'indulgenza stanca ed ironica per tutte le forme pubbliche dell'arte, per gli architetti e pei tenori moderni, pei teatri e per ciò che vi si compie senza che la grandezza della città o della spesa influisca mai davvero sulla bellezza dello spettacolo. Quasi sempre un'opera data in un villaggio non è peggiore di quella rappresentata in una capitale, adesso che non vi sono più grandi cantanti nè grandi scrittori di musica: bisogna quindi scegliere fra due difetti, la falsificazione della grande arte e la sua infantile imitazione.
Ebbene, questa vale quella.
E poi quali teatri sono aperti nell'estate?
Che cosa cercare in un teatro, quando non si può esservi più un attore nella platea o nei palchi, perchè i vostri occhi veggono e le vostre orecchie odono troppo bene, e cogliete troppo presto i difetti in tutte le bellezze e le stonature in tutte le note? Il solo divertimento è quindi di sentirsi immerso, sommerso, fra una gente che si diverte ancora e non domanda nemmeno a Faone di essere un tenore, a Saffo di avere i capelli attorcigliati sulla sommità della nuca, a Pacini di avere scritto un dramma greco, al sasso di Leucade di essere abbastanza alto perchè Saffo possa ammazzarsi cadendone.
Il teatro piccino ha un delizioso orgoglio di signorilità nell'architettura e nella decorazione: è composto di un solo ordine di colonne, ma si congiunge per due cerchi di palchi al palco scenico: sul cornicione di questo si legge una scritta, che i miei occhi non decifrano più, sebbene in giro fiammeggino le lampadine elettriche improvvisate come una ghirlanda intorno al gran nome e al fantasma anche più grande di Saffo. Il fantasma, infatti, ha i capelli e gli occhi neri: quelli lunghi, questi profondi: sui capelli gira il solito frontile d'oro, dagli occhi, che non debbono avere più di venti anni, tratto tratto saettano fiamme, quando il canto della passione sale tempestando e dalla platea sale il murmure dell'ammirazione.
Mi si dice che la cantante si arrischia per la prima volta sulla scena, affrontando così il gran salto di Leucade colla confidente sicurezza della gioventù. La sua voce non ne trema, la sua figura alta diventa a volte superba nel dolore di certi atteggiamenti. Forse all'ultimo atto sembrerà più grande dello scoglio stesso, ma non importa: il motivo melodico del finale avrà elettrizzato il pubblico troppo contento del proprio teatro e dell'opera per avvertire questa dissonanza fra la statura del sasso e quella della donna. E il pubblico avrà ragione, come ai tempi di Shakespeare, come sempre.
Il bel colle, il bel sasso è fuori, al di sopra del teatro.
Brisighella gittata come dalla mano capricciosa ed onnipotente di un gigante sotto la sua cima, vi ha raggruppato alla meglio le proprie case componendo una nuova bellezza nel paesaggio. A mezza costa da un masso dirupato s'innalza la torretta dell'orologio, che vorrebbe essere vezzosa ed arriva a parere amabilmente goffa; più in alto domina, bello, severo, elegante, quasi intatto un torrione, avanzo di una rocca, che fu forse una meraviglia e dalla quale forse uscirono alcune di quelle bande del Rinascimento a rendere per tutta Italia glorioso il nome dei fanti di val Lamone: poco più in alto ancora una chiesa, un eremo, che non ebbe mai eremiti, e adesso ne ha due che girano questuando, almeno mi si dice, e lassù custodiscono una madonna cara a tutti i dolori e a tutti i sogni della povera gente. Intorno, mattina e sera, le cantano gruppi di ulivi, agitando nell'aria pura le piccole foglie impolverate d'argento: poi il monte digrada a cinghioni corsi da file di viti intensamente verdi, e altre viti si distendono per ogni china, dentro ogni seno, si arrampicano sugli alberi, serpeggiano, sospendono dovunque i grappoli, mormorando sotto il sole i canti della vicina vendemmia.
Lungi i contrafforti si ricongiungono all'Appennino, il fiume passa largo, quasi silenzioso, sotto Brisighella, che adesso ha una stazione, uno stabilimento — si dice così? non lo so — di acque, un teatro d'opera, un tumulto insolito di forestieri, una lindura cittadina sulla propria bellezza di montanaretta dal sangue ardente come il suo vino, dagli occhi pieni di fiamme come le schegge vitree de' suoi gessi.
Di notte lassù, più alto del torrione, il colle pare diruparsi come lo scoglio di Leucade, e non v'è nemmeno bisogno di essere poeta per vedervi qualche fantasma: sotto, il vento canta fra le viti e gli ulivi come sul mare; la stagione è ardente; le passioni, e l'amore più di ogni altra, possono infiammarsi, cantare e sognare.
Perchè no? Quante fanciulle salgono forse la notte lassù ad esalare il loro canto d'amore, col cuore tempestoso, e abbassando lo sguardo sentono il fascino dell'abisso, e adesso ripetono il nome di Saffo, che ieri non sapevano!
Nome pericoloso forse più del salto, al quale deve la propria gloria e che nessuno ritenterà di lassù agli appelli susurranti dell'ombra, perchè invece di sprofondarsi nel mare cadrebbe nel teatro rovesciandone lo scoglio dipinto e interrompendo il canto di Saffo non più poetessa, nè greca, e probabilmente nemmeno innamorata di Faone dopo averlo riudito come me, a tanta distanza di secoli, e tuttavia così da vicino.
Non importa; chi vuole ritornare meco a Brisighella?
11 agosto 1902.
L'ARCIERO
L'esile e sbilenco pescatore aveva appena finito di stonare la malinconica romanza dalla barca nera, che dietro lui apparve l'arciero vestito come un gentiluomo fantastico, col berretto ornato di piume e l'arco infisso entro una cassa da fucile.
Al solito, nell'angusto teatro della vasta signorile metropoli romagnola s'alzò un applauso vibrante all'eroe, che, sbandito dalla storia e dalla leggenda, sopravvive immortale nella musica e ancora gitta dall'alto dei monti il grido della libertà alle moltitudini sempre impazienti di nuove riscosse. Ma il popolo della scena non era bello: nello sfondo, sui picchi più acuti, invece della neve sembrava essere caduta della calce; il ponte dipinto in mattoni era di una novità, che sentiva ancora il collaudo; le montanine sedute agli arcolai li nascosero tosto non so dove, e la madre comparì con Jem, l'unico figlio, una donnina piccoletta e più rotonda forse del pomo, che al terzo atto il padre doveva meravigliosamente con una freccia levarle di sopra alla parrucca bionda, spiovente in riccioli intorno al suo viso di mela rosa.
Il teatro era pieno di ciclisti venuti da ogni parte d'Italia al convegno di Forlì per la grande sfilata domenicale dell'indomani; e per tutto il pomeriggio le strade larghe e silenziose avevano suonato di trombette gutturali, mentre qualche grido festoso salutava le squadre polverose degli ospiti drappellati dietro una bandierina e un capitano senza galloni.
Ma le decorazioni non mancavano: ne ho visto su tutti i petti, vecchi e giovani, nei più varii colori di una simbolica minuscola ed intricata; abbondavano le aquile e le ruote a smalto su targhe e medaglie: alcuni, i neofiti forse, le portavano in giro sui berretti come Luigi XI di Francia, il cupo re, usava colle madonnine benedette; tutti recavano sulla manica un bracciale collo stemma della loro città. Il giglio rosso di Firenze spiccava sopra un fondo di argento e pareva un vivo fiore di sangue. Bel fiore e bel sangue di poesia e di gloria, che si riaccendevano nelle fantasie, e sembravano mettere nell'elegante gaiezza di quei pochi fiorentini un orgoglio di superiorità senza offesa, una amabile condiscendenza di ospiti, che sanno di venire di lontano, dalla città degli incanti e dei capolavori.
E Forlì aveva preparato loro, col Guglielmo Tell un altro incanto antico di visioni e di suoni nel capolavoro di Rossini, un romagnolo, che non volle mai esserlo, e al quale la Romagna, così povera di figli illustri, si ostina ancora con irritata vanità a volere essere madre.
Certamente nella sua natura e nella sua opera di maestro non sono visibili le tracce dello spirito romagnolo, nè per le buone qualità nè pei grandi difetti: e se nacque a Lugo e invece nel testamento elesse Pesaro ad erede, probabilmente non vi fu ingratitudine nel primo caso e gratitudine nel secondo, giacchè egli, malgrado gli argomenti e i titoli dei melodrammi, non aveva mai sentito lo spasimo delle passioni patriottiche, che purificavano l'anima nazionale nell'alba del secolo scorso. Rossini era di quegli artisti, nei quali la testa è tutto il corpo e tutta l'anima, e si fanno ammirare anzi che amare, compiono forse una rivoluzione ma non ne attingono il fondo, determinano più una moda che una scuola, sapendo troppo bene la scienza del mondo per compromettere contro di esso i trionfi del presente nel sogno di una più eccelsa immortalità. La sua vena melodica era ricca, ma non gli vietava di assimilarsi, magari col furto, le gemme più belle di altri scrittori; la costruzione scenica gli riusciva facile e la sbarazzò di molti vecchiumi senza liberarla abbastanza dalle inutili convenzioni; sapeva che la voce umana sarà sempre il migliore di tutti gl'istrumenti orchestrali e invece, togliendole la propria umanità, le impose troppo spesso nei gorgheggi e nei trilli le esasperanti abilità degli istrumenti; avrebbe potuto maneggiare l'orchestra al pari che Napoleone, cui fu paragonato, un esercito, e non ne abusò, come più tardi i suoi successori e nemici, sepellendovi dentro quasi tutto il dramma; adorava la musica, non aveva per sè stesso altro linguaggio, ma non delirò dietro di essa fantasticando di potervi esprimere i segreti del pensiero e precisare davvero le antitesi della tragedia.
Dopo di lui il melodramma pretese di essere un dramma, nè oggi ancora questa pretesa è caduta dalla moda teatrale e dalla credulità del pubblico.
Rossini somigliò a Goethe nell'olimpica indifferenza verso il mondo e nella padronanza sugli argomenti prescelti: e se naturalmente questo è troppo maggiore di quello e la musica per essere senza pensiero non può veramente rivaleggiare colla poesia, in entrambi la rivoluzione artistica si compiè senza spasimi, e i loro capolavori non ebbero abbastanza passione per commuovere ancora le generazioni seguenti.
Consacrati dalla gloria, adesso sono letti più per studio che per piacere, insegnano l'arte meglio che non rivelino l'anima, hanno l'equilibrio sapiente delle misure, non sono e non saranno forse mai vecchi, perchè non espressero tutta la vita del loro tempo, non furono come dei roghi, nei quali i cuori venissero a gettarsi per ardere e le menti per illuminare.
Tutta la passione di Goethe bruciò nel Werther, tutto lo scetticismo di Rossini scintillò nel Barbiere di Siviglia, ma nei drammi eroici dell'uno e dell'altro nel Goetz di Berlichingen e nel Guglielmo Tell, nel Tasso e nell' Otello, nella Ifigenia e nel Mosè, nel Conte di Egmont e nella Semiramide, la passione eroica non attinse nè le cime antiche nè le moderne, la scena fu più ampia che profonda, la coscienza non vi lacerò i propri veli come in Shakespeare, non fu rivelazione umana e divina come in Dante.
Così cerchereste indarno, fra i motivi melodici di Rossini, il dolore di Bellini, la melanconia di Donizetti, lo spasimo convulso di Verdi: più di essi è forse sicuro nel dominio della frase, più fertile nel suo sviluppo, originale negli spunti e nelle conclusioni; ma i suoi personaggi amano e odiano con minore intensità, i loro gridi non tagliano come spade, la loro morte non lascia in noi, colla simpatia della pietà, lo stesso terrore del mistero. Quindi nel meriggio della virilità e sulla vetta della gloria tacque per quarant'anni in un sapiente silenzio interrotto soltanto dai lazzi della conversazione, mentre sentiva forse con amara tristezza superata l'opera propria. Che se potè ridere alle deviazioni dei nuovi avversari, i quali domandavano alla musica ciò che la musica non può dare, la grande passione poetica e musicale del secolo decimonono dovette indubbiamente passare attraverso il suo tramonto come un uragano sanguigno e rutilante, che scomponeva tutti i paesaggi mutandone persino le voci.
Allora il suo egoismo di uomo e di artista egualmente esauriti tremò sotto la maschera scettica, e il vecchio maestro cadde troppo tardi per rialzarsi chiedendo alla passione le supreme rivelazioni della vita. Bellini, Donizetti, Chopin, Schumann, invece, ne erano morti; Wagner errava ancora come un bandito, Berlioz delirava nell'abbandono, Verdi restava solitario e triste nel trionfo, e Bizet, l'ultimo originale ingegno del teatro francese, si preparava a morire sotto la sconoscenza del pubblico.
Eppure nel Guglielmo Tell Rossini raggiunse quasi il capolavoro, e tale sembrerebbe ancora oggi, attraverso tanto mutamento di mode teatrali, se nella sua musica la passione fosse più viva. Viva parve allora alla folla e agii eletti, che amavano la patria assai più di una donna, mentre l'eroico amore era punito atrocemente da tirannidi indigene e straniere; viva la dissero i poeti e la temettero coloro, pei quali la risurrezione dell'Italia avrebbe fatalmente segnata l'ora della morte. Oggi, invece, il melodramma nella sua compostezza classica appare freddo, pur riattirando col fascino di una novità le orecchie e le anime affaticate dai garbugli sinfonici e drammatici, che occupano ancora la scena moderna e pretendono di fare nella musica una rivoluzione superiore alla musica stessa. Ma essa non sarà mai che il linguaggio del sentimento, al di là della parola, quando lo spirito vibra d'indicibili emozioni negli spasimi di un dramma vero o immaginario: sarà la lingua universale, che accorda i cuori accomunando gioie e dolori, ritmi e canti sul teatro, nell'illusione di una favola che non può superare nei propri personaggi il pretesto del cantare stesso. Quindi il loro canto consolerà tutti nella folla, appunto perchè ognuno potrà appropriarselo come un motivo impersonale.
Rossini, che lo sapeva, si vantava di poter musicare anche la lista della lavandaia, mentre oggi pubblico e critici, quando la musica di un'opera è fallita, accusano il libretto.
Il grande scettico non musicò poi quella lista, ma avrebbe potuto farlo con un motivo bello, perfettamente estraneo alle parole come nel suo famoso Stabat Mater. Che importa se la tragica e originale ode della nuova poesia latina non vi è espressa?
Anzitutto la musica non avrebbe potuto significare la tragedia del Golgota: poi quel motivo è bello, e il pubblico ascoltandolo pensa a tutto fuorchè al dolore della Madonna, si commuove, applaude ed ha ragione.
Tanto peggio per chi non lo crede.
27 settembre 1902.
LA VOCE
Ancora mi canta nell'anima come un'eco della giovinezza dileguata, quando da ogni fiore delle siepi ci giungeva sulla strada un saluto, e via pel cielo, tra il volo traballante delle libellule, fuggivano agitando i diafani veli misteriose ed inafferrabili visioni.
Ricordate nella Massimilla Doni di Balzac, il vecchio romanzo, quel patrizio anche più vecchio, che nella inconsolabile malinconia del tramonto veneziano senza gloria nè di arte nè d'impero si era rifugiato dentro la musica, e anche lì, inseguito da tutte le vanità e le insufficienze della vita, non amava, non chiedeva più che l'accordo di due note, la fusione di due voci? Mai forse il grande romanziere trovò simbolo più semplice e profondo della miseria spirituale, e la significò in un più originale fantasma. Tutto passa, e le ombre dileguano come le figure: tutto stanca, anche la bellezza che ci accendeva le pupille, anche l'amore che ci sollevava nella speranza della felicità, anche la gloria che ci prometteva la tirannia del comando nella solitudine della ammirazione.
Ogni vino più puro lascia una goccia fecciosa nel fondo del bicchiere: ogni illusione ci domanda il proprio prezzo in un disinganno; la donna che pareva il fiore della nostra vita, non può diventarne il frutto; la ricchezza, che era un frutto, maturando si guasta, e guasta quasi sempre anche la nostra anima.
E allora come un pellegrino, che la strada ha ingannato ed esaurito, l'anima cerca tra le ombre cadenti della sera, mentre il pianto della rugiada inumidisce già le ciglia dei fiori e gli uccelli si gittano spauriti gli ultimi saluti dalle frondi, qualche cosa o qualche figura, alla quale domandare un conforto di compagnia nella notte imminente. Accade per tutti così: siamo tutti dei naufraghi, che perdemmo la riva e la nave: siamo tutti degli esuli dalla giovinezza, che ci trattò come Firenze fece con Dante: siamo tutti dei vinti, che la sconfitta dimenticò sul campo di battaglia.
Come quel vecchio patrizio veneziano, ritrovato da Balzac dentro la propria fantasia di creatore, e che, stanco dell'antico palazzo troppo pieno di memorie, si era rifugiato in un bugigattolo, e gittando alle più fresche ed illustri cantatrici il proprio danaro non trovava l'ultima consolatrice sensazione che nell'accordo di due violoncelli, tutta la gente, che dura e non può anco rivivere, cerca in un'unica sensazione un riparo e una stazione alla vita. Gli altri le chiamano manie, e sono invece avanzi di abitudini, frammenti di una qualche speranza o di una fede, o di un vizio o di una virtù. Perchè bevono così i vecchi bevitori? Domandatelo a Baudelaire. Perchè le etère invecchiate riparano in chiesa? Perchè le bigotte si nascondono quasi in una sola e solitaria devozione?
Naufraghi e naufragi: bisogna illudersi ancora e sempre, sino all'ultimo momento, e anche dopo, giacchè questa necessità di speranza e di fede varca il limite pauroso e s'avanza per cieli ignoti, dietro fantasmi inconoscibili, all'accenno di un raggio arcano, all'eco di una voce anche più misteriosa. Qualunque sia l'essenza e il segreto della musica, questa arte suprema dello spirito, che parla ultima in un linguaggio intraducibile; comunque i suoi ultimi grandi tiranni abbiano potuto fantasticare ed errare chiedendole la rivelazione del dramma ed imponendole le necessità pittoresche della descrizione, questo almeno rimane ben certo che nel nostro tempo nessuna arte è così universale come la musica e in essa niente e nessuno più invocato ed amato di un cantante.
Quando Wagner, ingannando ed ingannandosi, per trasportare il dramma nell'orchestra riduceva il cantante a non esserne più che un istrumento, il mondo applaudiva Wagner e decuplicava le paghe ai più illustri tenori, pagando in perle e in diamanti i soprani, ai quali popoli e re s'inchinavano; i teatri soltanto erano convegni davvero pubblici, mentre accademie ed esposizioni apparivano, quali erano, avanzi di scuole e preparazioni di mercati. Nel secolo decimonono la Patti ha regnato meglio di qualunque imperatrice, e Masini passò nella luce abbacinante di un lungo trionfo, dietro al quale, oggi ancora, palpitano le più intense memorie, risorgono le illusioni dei cuori invecchiati e delle fantasie deserte.
Soltanto la voce umana ha questo potere misterioso di darci al tempo stesso l'oblio ed il sogno; nessun istrumento dal petto di legno o dalla gola di metallo, solitario o sostenuto da altri, può, come la voce umana, rivelare le ineffabili emozioni della nostra anima, sollevandoci nel mistero superiore alla nostra vita, o tuffandoci negli abissi, dai quali il pensiero si ritrae o risale muto. Oggi ancora che le paghe dei cantanti gloriosi sono così diminuite, nessuna assemblea orchestrale è pagata come un tenore: perchè? Voi ascoltate attentamente un'orchestra, e sognate invece dietro la voce di un tenore. E non il suo talento di attore, quasi sempre fin troppo scarso, non la perfezione tecnica della sua gola, agiscono sul vostro spirito destandone i sogni, che s'involano lungi tra ombre e trasparenze, tra fantasmi e simboli, tra brividi di stelle e di lagrime, ma è la sua voce soltanto, che desta echi misteriosi nel nostro cuore; è il suo accento che ci scuote coi brividi dell'inesprimibile; è la sfumatura di una sua sillaba, forse di una vocale, che ci avvolge e ci rapisce, dentro un velo di luce o di ombra, lungi dalla vita che opera, nella vita che sogna, lontano e in alto, dove le stelle ascoltano guardando e le preghiere salgono più lievi che l'aroma dei fiori.
E voi avete sognato. Chi era quel tenore? Che importa saperlo, se egli stesso non sa il proprio potere e probabilmente lo suppone in qualche abilità acquisita collo studio? Chi era il personaggio del quale portava i panni ed il nome nella falsità inutile ed inconsolabile di un melodramma? A che pro chiederlo? La musica non può avere drammi, perchè è soltanto la lirica della lirica, la voce, il canto impersonale ed universale dello spirito.
Adesso il pubblico sembra tornare verso l'arte antica, dopo tanto bizantineggiare di teoriche musicali, attratto dalla nostalgia del canto, e il pubblico ha ragione.
Morire, dormire... sognare, forse, dice Amleto: sognare, sognare soprattutto, ecco la misericordia della musica verso di noi: ecco la gloria del cantante, che colla sua voce aduna i sogni e li solleva dall'anima della gente.
E anch'io ho sognato ieri sera nel piccolo teatro della mia città, ascoltando Masini forse per l'ultima volta.
Era un sogno soltanto? Ebbene, sarà stato breve, incerto come tutti i sogni. Quella voce talvolta non pare più la stessa, giacchè qualche cosa si ruppe recentemente nell'anima dell'artista e il suo cuore si lacerò: adesso egli è più solo nella vita. Ma canta sempre. La sua dizione, il suo accento, la sua voce ripetono l'antico incanto: le nostre memorie risuscitano, ci sentiamo nel passato, superbi, vibranti; egli è ancora l'incantatore delle anime, preso anch'esso come noi nell'incantesimo, e non sa più sè stesso.
Può quindi bastare un tremito a dissipare il bel sogno, un velo che gli ondeggi sul cuore, una lagrima che sia rimasta sopra una parola; e qualche cosa ci trema dentro come in un brivido d'incertezza, in un dubbio breve di noi e di lui, quasi nell'angoscia di un risveglio: ma una sillaba squilla improvvisamente superba, un gruppo di note si effonde trionfale in una invocazione, e il sogno prosegue nell'incanto dietro l'incantatore.
L'arte è così, niente altro che un sogno.
Insino a qual giorno canterà Masini?
Non lo so, ma quando i giornali annunzieranno il suo ritrarsi dall'arte, un silenzio cadrà sulle anime: poi da tutte, involontariamente, come da un coro, risalirà il saluto di Lohengrin, scendente al sacrificio terreno, saluto dolcissimo e mesto:
Mercè, mercè, cigno canor...
20 giugno 1902.
III AD LIMINA MORTIS
SOGGEZIONE
Non è un poeta.
Indarno Gabriele D'Annunzio in una sua fulgente visione ha creduto di mostrarcelo avvolto fra le pieghe misteriose di una vecchia profezia: Moriturus cithara tradit. Il bianco vegliardo mandando a Teodoro Dubois, maestro francese, un'ultima ode perchè la rivesta di note e tutto un coro di voci femminili, malgrado l'antico divieto rituale, la canti nel magnifico duomo di Reims, non ha deposto finalmente la cetra vinto dalla suprema stanchezza della vita. Ancora, se la morte non suggelli le sue labbra pallide, scandirà in versi latini le preghiere abituali senza che un soffio di poesia le sollevi trepidamente verso quel Dio, così alto e così umano, che egli può credere di rappresentare sulla terra. Avviene di lui come di altri, che la longevità sembra ingrandire in una mirabile prospettiva sempre più profonda ad ogni anno, mentre nel continuo occaso della vita le più radiose figure si oscurano ogni giorno e tramontano dimenticate quasi prima che vanite. E poeti come Gabriele D'Annunzio sognano di lui davanti alla immensa mole dei palazzi apostolici, sotto i fastigi maestosi di questa città ideale, così affollata di tutte le bellezze morte, alla cui porta vigilano ancora gli svizzeri del cinquecento: una città costrutta dal papato, adesso cinta da un assedio invisibile, silenziosa ed operosa nel segreto di una rinnovazione come un sepolcro. Quel vecchio papa, che sembra tuttavia da essa imperare al mondo delle coscienze, quasi disseccato dalla vecchiezza, ma col pensiero sempre acceso come una lampada sacra, adorato dai credenti, riverito dagli increduli, dirigendo ancora la secolare marcia convergente del cattolicismo attraverso tutte le nazioni, e interrompendo tratto tratto gli ordini brevi per levare un inno alla Vergine, è una figura simbolica, troppo prestigiosa nella sua unicità, perchè la fantasia delle genti e dei poeti non ne sia scossa. E nessun'altra potrebbe essere più ideale, se dentro al suo simbolo fossero l'uomo e il poeta.
Invece, dell'uomo nessuna grandezza di pensiero appari dalla sua vita di oramai un secolo, quando prete, vescovo e poi cardinale, poteva appunto nella minore importanza degli uffici meglio significare la propria originalità fra tante battaglie di idee religiose e scientifiche e la lunga agonia del papato, assalito da tutte le nuove forze democratiche, abbandonato da ogni più antica autorità. Mai come in questo secolo, dentro e fuori del cristianesimo, la tragedia dello spirito religioso trovò più solenni atteggiamenti, proruppe in parole più penetranti. Mentre la storia, con una delle solite ironie, sembrava aver voluto mettere nell'ultima ora del papato una comica bonarietà colla figura di Pio IX, sempre sorridente fra le catastrofi e, nella propria incapacità di comprenderle, così pronto a dissolverle in una barzelletta, qualcuno poteva di mezzo all'episcopato significare il nuovo spirito cattolico per opporlo alla trionfale grandezza dell'idea democratica. Il papato, cessando di essere un piccolo regno, doveva rinnovare il proprio immenso impero: un'altra interpretazione, nuovi modi di guerra, campi sconosciuti di battaglie, armi e difese originali si imponevano giorno per giorno: il papa prigioniero nel Vaticano doveva al mondo la formula di un'altra libertà; in lui inerme l'istinto delle moltitudini cercava l'interprete di una nuova pace, alla quale le ultime inevitabili guerre avrebbero servito di prologo.
Ma Leone XIII non sentì di aprire un'èra nella storia papale; prete e professore, il suo pensiero non era uscito dall'angustia del vecchio seminario; vescovo, di fronte alla rivoluzione italiana che cancellava e rinnovava, indietreggiò nella senile reazione di tutto l'episcopato; pontefice, pur dovendo serbare l'affermazione del proprio regno distrutto, non seppe levarsi più alto di tutte le contese politiche diventando la voce della giustizia divina, mentre le plebi, nell'angoscia della loro nuova coscienza cittadina, disertavano la chiesa e si addensavano sotto i vessilli di un'altra giustizia atea a reclamare minacciose il loro diritto sovrano alla interezza della vita. Eppure un soffio, un moto investivano papa e papato sollevandoli; nazioni avverse lo chiamavano arbitro ad impedire nuove guerre, moltitudini di anime, gelate dall'orrore di un disgregamento sociale, gli ridomandavano il verbo della fede, la certezza della speranza. Gl'Irlandesi sanguinanti nello sforzo indarno eroico di rivolta contro l'Inghilterra, lo invocarono, ed egli stette per l'impero anglicano contro l'autonomia cattolica: gli Armeni furono trucidati a centinaia di migliaia dalle selvagge soldatesche turche, ed egli non si ricordò che altri pontefici, minori di lui nell'impero e più pericolanti nel regno, avevano bandito le crociate.
Dinanzi ai nuovi eserciti socialisti non riordinò alcuna milizia degli ordini monastici, così varii ancora e così forti: volle forse la recente calata dei clericali italiani, e non ne scrisse nemmeno il proclama e non anco consegnò le bandiere.
Ma gli anni, disseccando giorno per giorno la sua vita, le diedero un'austera apparenza di santità; la viridezza delle forze permettendogli ancora di presentarsi ai pellegrini e di compiere i riti in tutta la loro pompa più magnifica, preparò nell'ammirazione di questo caso fisico e nel rispetto istintivo dell'altissimo grado, il prestigio di un miracolo, che le profonde illuminazioni dell'idea religiosa rendono sempre più efficace. Adesso una soggezione inchina a lui le anime, gli si suppone grande il pensiero, invitto il cuore, splendente la fantasia. Si finge di non sapere che egli è appena un'insegna bianca da altri sollevata tratto tratto agli occhi del mondo, che i suoi ordini hanno solamente la sua firma, che tutti i vecchi vissuti sempre nella segregazione dal mondo sono presso a poco così santi, e che il suo pontificato resterà senza carattere nella storia come la sua poesia è senza accento nella vita. Gregorio XVI è ancora l'ultimo papa, nel quale il pensiero abbia brillato e l'opera reazionaria serbata l'impronta di persona viva: di lui resta un libro e la memoria che papa e re non ebbe un dubbio, e combattè tutta la modernità, senza patteggiare, rigido come una statua, altero, intrattabile, non vinto.
Oggi ad un grande papa abbisognano grandi iniziative; il cattolicismo nella sua guerra dovrà assimilarsi tutta la democrazia, o sarà vinto senza combattere colla più umiliante preterizione.
Se nella profezia, esumata da Gabriele D'Annunzio, il successore di Leone XIII alta ascendet, numine sacro afflatus, carminibus rincet, non sarà il papa apollineo, un suonatore di cetra, come si compiace di sognarlo il simbolico poeta; ma una mente così alta ed originale da levarsi rapida e sicura alle vette più combattute del nostro pensiero, una guida così audace da trovare una strada fra l'intrico dei sentieri, che ormai imprigionano come in un labirinto la coscienza del mondo; i poeti lo canteranno forse coll'entusiasmo di trovatori, riempiendo la sua via e incoronando di rime la sua vittoria, senza che alcuno tra essi riprenda la cetra di Leone XIII.
Questi non è un poeta. Solamente la soggezione a tutte le figure d'impero anche rovesciate o morte, che nei nostri spiriti rivela soprattutto il difetto di alta ingenuità, può oggi farlo credere tale, perchè ancora scandisce distici in un'età, nella quale la lingua per solito è già morta dietro le labbra aride.
Verdi è stato creduto un genio dopo l' Otello ed il Falstaff, così men belli del Rigoletto, solamente perchè seguitava a scrivere quando i pochi, che lo avevano sempre superato, erano già morti: Carducci conquistò l'unanimità dell'ammirazione nazionale colle ultime liriche della sua evoluzione monarchica, che saranno dimenticate.
Ricordo ancora il compiacimento di Marco Minghetti, l'ultima volta che lo vidi nella sua villa di Mezzarata, nel dirmi che il grande poeta, allora sospetto tuttavia di iracondia ghibellina, aveva dimesso il pensiero di scrivere un articolo sui carmi di Leone XIII. Avevo fatto colazione con lui, solo, nella modesta saletta; fuori una nebbia gocciolava sugli alberi, e dai vetri chiusi della finestra si sentiva il freddo umido dell'aria. L'illustre vecchio era già vinto dalla malattia, che doveva ucciderlo pochi mesi dopo. Mi aveva parlato trepidando dei pericoli, che lo scatenarsi delle nuove idee socialiste poteva far correre al governo rinnovando le ostilità repubblicane, ed era contento che Carducci, l'ultimo e il massimo dei convertiti alla monarchia, sentisse la necessità del rispetto anche alle poesie di Leone XIII.
Ma poichè non era egli stesso senza un fine senso letterario, vedendomi sorridere, soggiunse con quell'accoramento dei vecchi, i quali non sanno oramai a che rattenersi:
— Lo so, lo so che Leone XIII non è un poeta.
10 gennaio 1899.
IL PAPATO
Mentre le preghiere salgono ancora da milioni di cuori per l'anima del morto pontefice, come un ultimo spirituale incenso della sua vita così pura, e nel segreto del Vaticano si armano le mute rivalità dei nuovi pretendenti, il pensiero si rivolge a guardare lungi nei secoli la lunga, tempestosa, trionfale storia del papato.
Comunque possa la posterità giudicare di papa Leone XIII e le presenti generazioni sperare o temere dal suo successore, il papato da gran tempo è tale che nessuna virtù o insufficienza di uomo può sviare la sua corrente o mutare soltanto il grado di trasparenza nelle sue acque. Il suo primo giorno è antico ed incerto come tutte le origini delle idee e delle cose destinate a vincere i millennii: e se Gesù non lasciò nulla scritto e i più precoci evangeli datano da sessant'anni dopo la sua morte, il papato cominciò certamente all'indomani della crocifissione, per un'intima necessità di dottrina e di battaglia, nella nuova setta. Ogni conquista presuppone un conquistatore, ogni impero una dinastia per superare l'avventura della conquista, che nel primo momento sembra quasi sempre significare la personalità di un uomo, anzichè la verità di un'idea.
E poichè la forza del cristianesimo discendeva dalla sua rivelazione divina, l'unità di questo nella storia poteva essere perfezionata soltanto da una direzione una, infallibile, permanente, che avesse la tangibile autorità di un uomo e la più pura impersonalità dell'ufficio. Il papa continuava quindi il Messia e doveva, per l'inevitabile legge di rappresentazione che domina tutte le idee, precisare i dogmi contenuti nella parola poetica di questo, organizzarli a sistema, fissare i limiti come quelli di un'accampamento, entro al quale l'intera umanità potesse riparare e bivaccare per secoli.
Così il miracolo cominciò subito e dura ancora. Il cristianesimo, come tutte le idee veramente universali, ha potuto frazionarsi in molte sètte, ma il suo nocciolo rimase infrangibile, e il grande esercito cattolico, stretto intorno al supremo condottiero, non fu mai rotto.
Nella guerra contro Roma pagana i papi discesero nelle catacombe e minarono i fori superstiti della repubblica e i palazzi dei Cesari: indarno i barbari poco dopo passarono come ondate di fiamme, distruggendo ciò che i nuovi tempi non avrebbero saputo mutare, e opponendo alla giovane religione la loro idolatria preistorica; indarno dalle rovine dell'immensa civiltà greco-romana vampeggiarono tutti i gas putridi delle morte filosofie e delle religioni sepolte ancora vive; indarno il medio evo parve una tempesta di nuvole entro un tramonto funereo, mentre i lineamenti del nuovo uomo e della nuova società rigavano la sua tenebra come una sottile rete luminosa; indarno Roma, diventata papale per mantenere l'antico primato sul mondo, rovesciò nel papato tutti i vizii e tutte le colpe del suo lungo impero, mentre il cristianesimo dilatava ogni giorno la propria conquista e il suo governo cattolico stringeva le maglie dell'armatura sino a renderla imperforabile.
Il cristianesimo era democratico, ma nemmeno la sua democrazia avrebbe potuto conquistare davvero il mondo senza contraddirsi nella forma monarchica. Dalla Tartaria alla China, dall'India alla Persia, da Cesare a Napoleone questa necessità è così continua ed evidente che nessuna obiezione le resiste: nella scienza l'idea diventa legge, nell'arte stile, nella religione dogma, nella politica impero, e la sua forma è sempre monarchica, assoluta, tirannica, finchè un'altra idea non la limiti o la distrugga. Il cristianesimo, abbandonato alla tradizione orale di Gesù, sarebbe svanito nell'eco di racconti e di miti orientali; raunato nelle assemblee democratiche della Grecia o nel senato aristocratico di Roma, sarebbe perito nel conflitto delle scuole, dentro l'angustia di un confine: l'unità imperiale del papa e del papato poteva soltanto mantenergli l'unità della dottrina e della conquista. Democratico nella parità dei credenti, il cattolicismo è repubblicano nella gerarchia del clero, imperiale nel comando del papa, ma questi non può nulla nè contro la chiesa nè contro il suo regno. Egli è il servo dei servi, secondo una grande parola, il rappresentante di Gesù, colui che unifica in sè stesso la dottrina e la tradizione, la storia e la vita, l'affermazione del divino nell'incertezza dell'umano.
Chiunque egli sia, simbolo ed ufficio lo tengono così alto sopra una linea così dritta, che tutta la sua miseria di uomo non può mutare un giorno nella Chiesa: la sua autorità è di giudice che firma soltanto la sentenza, ma la sua firma basta a troncare per sempre ogni discussione; il suo pensiero non è più individuale, la sua parola è un'eco del passato che si perde nel futuro, la sua opera ha soltanto l'impronta cattolica. Può essere un genio, un eroe, un delinquente, un mediocre, e la storia della sua Chiesa e quella del mondo se ne accorgeranno appena: il papato solo è grande, così grande che i papi vi si smarriscono.
Nulla può essergli paragonato. Per duemila anni ha accompagnata la marcia ascendente dell'umanità, spesso capitanandola: sovrastò e sovrasta ancora a tutte le forme politiche, poichè egli solo può davvero vantarsi universale: è vissuto con tutti i barbari, sotto tutti i climi, in tutte le epoche: egli solo non è discusso, è stato un regno, e adesso è soltanto un grado, ieri pareva vicino a soccombere, oggi risale come un faro.
Perchè le nostre monarchie e le nostre repubbliche sono tutte egualmente effimere davanti a lui, e passeranno, cancellando forse anche le proprie orme in una uniformità sommessa ed inerte, mentre il papato, fuso col cattolicismo, durerà quanto esso, ed emergerà dall'orizzonte della storia come una vetta nivea ed azzurra, perduta nell'infinito del cielo.
Bisogna rovesciare il cristianesimo per abbattere il cattolicismo, e frangere il cattolicismo per trionfare del papato. Ma il cattolicismo, invece, nel secolo decimonono ha oramai ripreso al protestantesimo tutte le proprie province, mentre la Chiesa russa davanti alla romana rivela la propria debolezza religiosa nel proprio papa secolare, lo Czar. Che questi, raggiunto dalla modernità, cada o si muti, e l'ortodossia russa, abbandonata ai dissensi delle proprie differenze, non potrà resistere alla unità del papato romano.
Adesso il papato è nella fatica di un'èra nuova.
Pio IX chiuse la lunga epoca del regno, Leone XIII apri questa, della quale nemmeno i più temerari ed acuti pensatori possono sicuramente segnare adesso l'indirizzo. Certamente il cattolicismo è in aumento sulle altre sètte cristiane, ma la fede al cristianesimo è diminuita. Se, come religione, questo rimane ancora il più grande capolavoro dell'umanità, che da secoli sembra aver perduta la fecondità religiosa, la folla e i suoi primati, l'una nella indifferenza, gli altri nella ricerca, ne sono usciti da gran tempo, senza poter ricoverarsi in una più alta fede. Potrà il cattolicismo compiere nel cristianesimo un grande atto di epurazione e di elevazione? Il papato avrà egli la gloria di questo tentativo, o dovrà opporvisi fatalmente, come gridano i suoi avversari?
È difficile valutare la potenzialità di una religione e la forza di rinnovamento in una istituzione antica come il papato: certo però qualche cosa muta in lui e si prepara. Leone XIII parve a più riprese sentire questa oscura, enorme necessità: compose differenze rituali colla Scozia, arrischiò una conciliazione colla Chiesa greca, arginò il liberalismo americano, tentò di restringere in più serrata falange la Somma di San Tommaso, di rinnovare la iconografia, di ridestare il classicismo, d'inventare una politica capace di rattenere l'espansione dell'imperialismo germanico e le irruzioni del repubblicanismo francese. Qualche cosa muta, qualche cosa si rimescola nella paglia, come cantava ghignando Heine.
Leone XIII origliava.
Parlò di socialismo affrontando il problema della nuova miseria operaia, così poco miseria in confronto dell'antica, e tuttavia così infelice ed impaziente di sè e degli altri.
La democrazia operaia soltanto può vantarsi universale come il papato, cancellando in una impossibile astrazione tutte le necessarie fisonomie della vita storica; e la democrazia operaia è forse la sola che, nell'istinto, possa ancora guardare al papato, sognare un papa.
Non è già un dogma per molti che nell'avvenire vi saranno soltanto due partiti, il socialista ed il clericale? Certamente sono i più vasti nell'orbita, ma il papato è ancora il più alto, giacchè egli solo ha una risposta a tutte le domande della vita.
Che importa se la risposta è falsa o insufficiente?
La necessità suprema è di rispondere, e solamente chi risponda regnerà sulle anime, componendo loro quel mondo visibile ed invisibile, dietro il quale l'umanità sogna da secoli, coi piedi nel fango e gli occhi fisi oltre l'azzurro del cielo.
Secondo Malachia, Leone XIII sarebbe stato un lume apparente tra due crepuscoli, all'ultimo orizzonte: ma lo fu davvero?
Secondo Malachia ancora, a quel lume succederà una fiamma: cerchiamo quindi di crederlo per mantenere almeno fede al progresso della storia.
25 luglio 1903.
IL VINTO
Lo hanno già dimenticato.
Gli osanna salgono ancora, e lungamente dureranno a salire stormendo come un volo di colombe intorno alla fronte del vincitore, ieri soltanto rivelato da una improvvisa elezione alla devota riverenza del mondo. Il vincitore era quasi un ignoto, malgrado il suo grado di patriarca a Venezia, la capitale dei sogni, ancorata nella laguna come una nave fantastica, pronta forse a salpare dietro l'appello di un poeta; il vinto è un illustre, che per venti anni regnò sul mondo dall'ultimo gradino del soglio più alto fra tutti, così alto che le anime affisandovisi aprono inconsciamente le ali al volo. Egli era un principe della propria casa e della Chiesa: gagliardo nel corpo, severo nel volto, austero nella vita, gran signore nel gesto, diplomatico nella parola, uomo di stato nel pensiero. Per venti anni era stato la mente segreta e il segretario palese di Leone XIII, il pontefice quasi divinizzato dalla longevità, e che appariva come un fantasma bianco ai credenti, pei quali un fantasma di Dio è indispensabile forse quanto Dio stesso. Il pontefice non era prima stato un cardinale illustre: anch'egli era conte, ma l'aristocrazia provinciale della sua casa non era bastata a dargli l'altera elettezza di coloro nati al comando: poi la tormenta della rivoluzione italiana l'aveva sorpreso a Perugia, e l'inferiorità dello spirito aveva abbassato il cardinale ad una reazione infelice nell'opera, più infelice nella intenzione. Pio IX parve lungamente dispettarlo, ma alla morte di questo, come spesso accade, il partito di opposizione alzò Pecci al pontificato. Il passo era grande, non l'uomo.
Nullameno il papa superò il cardinale. La sua funzione essenzialmente decorativa si compiè attraverso una lunga fortuna di atti politici e religiosi: con lui e per lui il papato, libero dalla zavorra del potere temporale, si innalzò sulle acque, e come sotto un soffio dall'alto riprese il proprio corso trionfale sull'oceano della storia. Il papa rimaneva prigioniero di sè stesso nell'immensa, caotica reggia del Vaticano, ma gli altri sovrani, diversi e talvolta nemici a lui per religione, s'inchinavano riverenti alla sua sovranità, la sola davvero indipendente dall'assenso delle moltitudini, e lo invocavano arbitro delle proprie contese.
Egli accettava, giudicava, ma il pensiero forse non era suo.
Certamente non è facile, neanche adesso, supporre in quel mediocre (e l'aggettivo è forse ancora indulgente) traduttore di Orazio e cantore di santi, senza che mai un verso bello gli sfuggisse sotto la penna, un ingegno di artista e uno spirito di pensatore. In alcuni scritti volgarmente scolastici, si era affrontato col Gioberti, ma in questo magnifico tribuno della filosofia non aveva indovinato nè la bella originalità degli errori politici, nè la tumultuosa grandezza delle improvvisazioni teoriche: Gioberti non era forse un filosofo, in un secolo che si apriva con Kant e doveva chiudersi con Spencer, ma il cardinale Pecci non poteva nemmeno capire di lui la contagiosa eloquenza e quella affascinante mobilità, per la quale, in una vita così breve e gloriosa, era passato per tutte le antitesi del trionfo e della sconfitta.
Papa Pecci invece trionfò sempre nel proprio pontificato.
Era un mediocre, e soltanto di questi è il trionfo senza tempeste, la gloria senza battaglie: poi l'isolamento in una immaginaria prigionia, la vecchiezza e la purità della vita, l'apparente santità dell'ufficio, l'incomparabile altezza del grado, il prodigio lungo della vittoria sugli anni, che non scolpivano nemmeno più la sua maschera, già consacrata dalla adorazione, compierono il miracolo, nel quale parve quasi più che un uomo. Indarno tratto tratto il genio ironico della vita sembrava compiacersi a scoprire una volgarità su lui o dentro di lui, qualche cosa di avaro nella sua parsimonia, di pedante nella sua parola, di vacuo nel suo pensiero, d'insufficiente nel suo carattere; invano il cumulo crescente dei problemi, che la modernità gitta sulla religione e sul papato, rendeva ogni giorno più piccola la sua figura; indarno al grido angoscioso dell'Irlanda, agli urli mortali dell'Armenia egli tacque, e il suo fu un silenzio di deserto: il mondo ammirava e adorava.
Il papa doveva essere grande, perchè nulla è più grande del papato: Pecci era ieri un mediocre, Sarto è oggi un piccolo, ma il papato, sicuro dell'indomani, è piuttosto abituato a dare la grandezza che a riceverla. Nel secolo passato nessun papa fu grande: forse Gregorio XVI solo, nell'aspra fierezza del carattere e nella guerriera audacia dell'ingegno, avrebbe potuto, se aiutato dai tempi, apparirvi originale. Originale invece la gloria dei nuovi dogmi e delle ultime catastrofi rese Pio IX, amabile temperamento teatrale, incaricato di esaurire il più magnifico repertorio senza intendere mai il valore del dramma o il motivo della scena.
Dopo lui, Pecci inizia un'epoca nuova: il papato non ha più regno e deve risalire all'impero spirituale raddoppiandolo: tutte le monarchie oscillano, tutti i re non lo sono più che per decreto o tolleranza di popolo: il papato solo rappresenta ancora la sovranità ideale, inaccessibile alla marea dei partiti, non oscurabile da nebbie di opinioni, la più antica nella tradizione, Tunica che parlando a nome di Dio possa identificarsi con lui, cadere soltanto s'egli cada dalla sommità delle anime.
La missione era grande.
Saprà il nuovo papa adempirla?
Di lui adesso troppi parlano e troppo. Come per gli eletti improvvisi della fortuna, si fatica già a fabbricargli un passato: si cerca e si suda a mettere una poesia nell'ordinaria povertà della sua infanzia; si accattano le sue più lontane parole, e si forbiscono e si urtano l'una contro l'altra per trarne una sonorità.
Ma il suo passato resiste al presente: niente di quello poteva far presagire questo: il piccolo chierico di Riese, il seminarista, il parroco, il vescovo, il patriarca sono sempre in lui lo stesso uomo e lo stesso prete, coll'animo buono senza impeti eroici e senza squisitezze poetiche: buono come lo è il fieno fra i bicchieri per impedire che si rompano; buono, ma al disotto di ogni originalità nel dolore, al di fuori di ogni modernità nell'opera.
Di lui non una parola prima fu nunziatrice di un pensiero di guerra o di pace; non una idea trasparì dal suo silenzio come un lampo di calura nel fondo delle notti estive, una fiamma improvvisa sul fianco lacerato di un vulcano.
La sua più preziosa qualità è di essere rimasto quale nacque: un contadino di villaggio, docile ed ostinato, capace di imparare il comando nell'obbedienza a qualunque superiore, senza averne il segreto in sè stesso; semplice e furbo, colto soltanto sino alla decenza, spontaneamente onesto, inetto alle grandi ambizioni per la povertà dell'ingegno e la mediocrità del cuore.
Ma in lui, per lui, con lui trionfano i piccoli e gli umili: è Riese che domina Roma, è un contadino che si alza sui re, un ignaro che sovrasterà ai sapienti, un galantuomo che sarà diventato imperatore senza averlo nemmeno desiderato.
Basterebbe questo alla gloria del papa e del papato.
E io penso al vinto, al cardinale Rampolla principe di Tindaro, entrato quasi papa nel conclave e uscitone meno che cardinale.
Egli aveva voluto la tiara, con lunga, muta, tragica passione: il suo volto ne portava già le tracce, e adesso non ne perderà più le stigmate. Per venti anni egli si era quasi annullato dietro Leone XIII, al quale prestava tutto, dal pensiero all'accento: aveva regnato e governato fra una lotta senza requie e senza pietà, preparando nell'ascensione del papato la propria elezione a pontefice.
La sua misura era apparsa ammirabile ai più diversi politici e ai più rudi avversarii: chiuso nella propria idea come in una rocca, vi teneva prigioniera la propria ambizione e vi accumulava tutte le armi: odiato sapeva odiare senza colpire, eleggere un amico in un cliente, accettare nell'alleato il nemico.
Egli era un forte, dei pochissimi, nei quali l'ambizione diventa castità anche nel pensiero.
Dopo Waldek-Rousseau, il più temibile parlamentare d'Europa, sopportò Combes e la violenza aggressiva, stonata, tonante della sua persecuzione, senza che una parola o un atto tradissero in lui il rancore del prete, o l'impazienza dell'avversario. Non voleva perdere la Francia nel conclave, e non la perdette. Invece perdette il papato.
E sarà stata tragicamente bella questa suprema battaglia fra il novizio e il veterano, il contadino e il principe, l'aristocratico dell'ingegno e il democratico nel carattere, fra Rampolla e Sarto: un candidato, che non poteva vincere perchè troppo temuto prima, un elettore che doveva essere eletto appunto perchè era soltanto un elettore.
Ma i giornali, che hanno inventato a quest'ora tante parole dialettali per comporre i lineamenti psicologici del nuovo papa, non poterono, nè prima nè poi, sfondare il silenzio del cardinale non più segretario. Quel silenzio, come il suo volto, aveva la cupa impenetrabilità del bronzo.
Ed egli tace ancora.
Domani forse, se muoia quel nonagenario arcivescovo di Palermo, che nemmeno per l'infermità degli anni potè recarsi al conclave, lo manderanno là per non vedere la sua ombra, per non sentire il suo silenzio.
Altri occuperà quel seggio, che egli tenne con tacito onore venti anni: non importa: i vinti debbono tacere. E adesso è solo.
Ma fossi pure unico in Italia, io m'inchino da lungi, in una solitudine forse più deserta, davanti alla grandezza della sua sconfitta, alla superbia del suo silenzio.
12 agosto 1903.
SCAGNOZZI E CAGNOTTI
Nell'atrio del tempio, per la grande festa pasquale, Gesù brandì in un impeto di collera divina la corda a cacciare i mercanti.
Pio X leva adesso la scopa, con gesto iroso, sugli scagnozzi che sporcano le vie di Roma colle ombre della loro miseria. E minaccia l'espulsione dalla città sacra, sulla quale il gran tempio cattolico alza la cupola enorme e al disopra di essa la piccola croce, simbolo di redenzione a tutti i poveri, agli abbandonati della vita, ai naufraghi del dubbio, ai superstiti della tragedia, agli erranti convenuti da presso e da lungi, stranieri di lingua e di razza ma fratelli nella mendicità dell'anima e del corpo, che si ostinano a credere e a sperare.
Nessuna povertà pari alla loro, nessun abbandono più lugubre. Questi scagnozzi, pei quali la satira popolare inventò il nome, sono preti senza chiesa: avevano già per essa abbandonata la propria casa, e la chiesa dovette rigettarli sulla strada, vagabondi senza meta, condannati senza giudizio, perduti per tutti, anche per sè stessi, perchè il prete senza cura è peggio del medico senza ammalati. Debbono vivere soltanto della messa, questo magnifico poema anonimo, ma la sua celebrazione non basta colla poca elemosina a nutrirli. I paramenti sacri, coi quali montano all'altare, diventano un abito di maschera, la rappresentazione divina del sacrificio un espediente per la colazione sotto le volte di una cappella spesso dorata, con dietro gli scherni di un chierico, il quale sotto i ricami della pianeta vede le toppe della veste, come Aristippo vedeva la superbia di Antistene attraverso i buchi del suo mantello da cinico.
I devoti frenano a stento i sorrisi, gli altri preti lo tengono con un altro sorriso a distanza e nemmeno i migliori osano con esso la parità di trattamento, perchè lo scagnozzo è sempre un po' colpevole. Vinto dalla miseria, che non ha saputo accettare facendosene una virtù, ne ha addosso le stigmate ripugnanti: disceso al mestiere ne porta seco il lezzo e non sa più mondarsi: doveva essere il consolatore dei poveri, ed è un povero che fa concorrenza a tutti gli altri, inguaribilmente altero del proprio grado, che lo isola fra gli uomini, disilluso sulla carità del sacerdozio, accattone divenuto incredulo nella disperazione e costretto a parlare di fede dalla speranza di una impossibile elemosina.
A Roma lo scagnozzo è come immerso nella gloria e nella potenza del clero: la religione, che lungi era una dote dell'anima, a Roma è un fatto politico: le file della gerarchia vi sono così serrate, che chi non può entrarvi non vi appartiene: le virtù del cuore non contano, quelle dell'ingegno rientrano sotto la legge del valore commerciale, e lo scagnozzo non è l'operaio a spasso, ma il professionista senza clienti, peggio ancora, il solo professionista che non possa mutare professione.
Quindi tutto in essa si ritorce contro di lui: i superiori lo guardano troppo dall'alto e lo trattano come un disertore; gli uguali lo scansano per non compromettersi; gli inferiori, se pure ve ne sono, si vendicano su lui di tutto ciò che li offende nelle sfere dominanti; egli è il paria, che avendo rinunciato al mondo degli uomini per quello di Dio, è rimasto alla porta di entrambi e deve annusare da lungi colla stessa malinconica avidità gli odori degli incensieri e delle casseruole. La sua fame è un motivo di satira, e la sua umiltà di sospetto: non si può concedergli nulla, perchè ha bisogno di troppo: non compatirlo, perchè si dovrebbe accettarlo: non accettarlo perchè la sua domanda è instancabile dopo qualunque risposta. Così lo scagnozzo, non avendo casa, non ha chiesa: non si sa come viva, nè, malgrado i certificati, donde venga davvero e perchè sia venuto. Un dramma segreto è in ognuno di essi: qualche sventura che colpì, qualche passione che scoppiò: il loro racconto è pieno di favole e di menzogne come quello di tutti gli erranti, ma il loro rancore sale da più oscure profondità. Sentono che la propria miseria disonora la ricchezza e la dignità del clero, il quale, invece, ne rimane impassibile; sentono di essere inferiori al proprio grado, inferiori alla comune dignità degli uomini, senza altra uscita che in alto, ma nessuna luce discende verso di loro. Eppure non sanno più andarsene: dove andrebbero infatti? Il prete è un soldato, al quale è necessario, come a tutti, un reggimento e una caserma: sbandati, gli scagnozzi non possono riunirsi a bande: sognavano a Roma una rivincita, e non vi trovarono nemmeno la battaglia: non hanno più bandiera e debbono conservare l'assisa.
A che riusciranno le minacce del papa? Cacciare gli scagnozzi non vuol dire sopprimerli, giacchè cacciati tornerebbero. È il flusso della vita che li gitta a Roma, come quello del mare gitta gli avanzi alla sponda, se di ogni naufragio qualche cosa resta, che torna alla terra indarno.
Questi rifiuti indefinibili nella forma e nel colore sono i più difficili alle investigazioni della scienza e dell'arte; se ne veggono in tutte le classi e in tutte le strade, non commuovono quasi mai la pietà. La gente passa oltre. Dove, come finiscono i vecchi soldati, i vecchi comici, tutti coloro che non ebbero nè casa, nè famiglia, e non poterono uscire mai dal loro mestiere?
Dove vanno tutti gli erranti?
Certamente questo degli scagnozzi è un tema, che a Roma tutti veggono e forse nessuno conosce bene: nei tempi andati Roma era la grande città sacra e parassita: il clero ne dominava tutta la vita, nel clero quindi tutte le forme di vita erano possibili. Oggi, invece, non più. Ma nuova guerra, cui la milizia sacerdotale si prepara, impone altre necessità di sostanza e di apparenza: la clientela povera, ignorante, oziosa, famelica degli scagnozzi impaccia e disonora: il motteggio degli increduli vi troverebbe troppi eccellenti motivi, la critica istintiva delle masse troppe dolorose ragioni.
Pio X lo sentì e tentò provvedere con un atto insufficiente di polizia: invece gli scagnozzi resteranno per la forza stessa dello scandalo temuto. Il loro carattere indelebile di sacerdoti li pone invincibili anche dinanzi al papa: la loro miseria, magari troppo spesso meritata, rivela nella Chiesa altre piaghe. Se domani si compia intera la riconciliazione politica del clero collo stato, il lusso e la pompa esteriore dei grandi gerarchi renderà più visibile la grottesca povertà di questi paria senza donne e senza figli, i due dolori che forse rendono sopportabili tutti gli altri.
E si dovrà provvedere.
Come?
I rigori disciplinari non bastano contro chi non è più oramai nelle file e non si può espellere dal grembo della Chiesa: bisogna piuttosto che la carità intervenga, raccogliendo e consolando al solito tutti e tutto ciò che la vita respinge. La carità è la più bella fra le virtù cristiane: ma è davvero la più attiva virtù del clero?
12 ottobre 1905.
IV TRAGEDIA REGALE
IL TRIONFO DELLA MORTE
Ancora dura nell'anima d'Italia, e durerà lungamente misteriosa, l'angoscia pel suo primo re assassinato.
Mai tragedia si compose e si esaurì più rapidamente, inaspettata e solenne, fra una festa di popolo acclamante come in una olimpiade la bellezza dei suoi più giovani campioni, mentre il re, canuto non vecchio, premiava colla sua parola cavallerescamente gentile vincitori e vinti.
Perchè egli era ancora un re.
In questa fine di secolo, dopo tanto straripare di correnti democratiche e tempeste di rivoluzioni e avvento di genti nuove, egli era riuscito a questo originale capolavoro di apparire ancora un re. In lui nessun fasto di corte o gloria di guerra; non quell'orgoglio di stirpe antica, nel quale prosegue purtroppo la durezza di un impero e di una servitù già tramontate nella storia; non la capricciosa vanità di comando cresciuta nella simultanea decadenza del regno e del popolo e che diminuì tanto tristamente nel costume il carattere regale; non quell'abbandono della avita nobiltà, nel quale troppi dinasti cercarono una consolazione del privilegio perduto e una seduzione per riconquistarlo corteggiando l'anonima sovranità della folla. Egli era vero perchè semplice, e resterà bello perchè originale.
Cresciuto nella rivoluzione d'Italia, figlio di un re che vi rinnovò sè stesso, dovette presto sentire il soffio della nuova creazione. Come pel popolo era suprema necessità dimenticare tutte le tradizioni comunali e regionali per assurgere alla gloria di una nuova individualità, così il re di Piemonte per crescere a re d'Italia doveva trovare le ragioni del proprio ufficio in un rinnovamento della idea regale.
Se una volta, nella gelosa uguaglianza della nobiltà barbarica il re era primo fra i pari, il re moderno doveva essere primo nel popolo, significando nella lucidezza del proprio simbolo la sua coscienza storica, mentre nel governo idee e uomini si sarebbero combattuti per l'inevitabile selezione della vita.
Umberto fu così.
Egli comprese che un re, specialmente latino, non avrebbe potuto pretendere al comando degli antichi re separando il suo pensiero da quello della nazione o cercando l'impero nel trionfo del proprio arbitrio sulla volontà popolare. Quindi realizzò una formula, che sembrava assurda forse a coloro stessi che la bandirono come una magnifica novità del pensiero: «il re regna e non governa»; e regnò vent'anni alto sulle menti e sui cuori.
Mai forse le idee e gli interessi di una nazione retta a monarchia ebbero più libero arringo e più incorrotto patrono, mentre il re guardava ed ascoltava, triste sovente di quanto vedeva ed udiva, ma frenando in sè stesso ogni istinto di iniziativa per non offendere la malata suscettività della recente ragione democratica.
Dinanzi al severo giudizio della storia questa nuova virtù del re moderno fu sempre utile alla nazione? Il popolo ha davvero, in sè stesso e nei propri eletti, la forza per risolvere i problemi profondamente segreti o contraddittoriamente palesi della propria vita?
Non oggi, qui, si può rispondere, ma Umberto re elesse primo fra tutti i doveri questo muto rispetto di ogni decisione popolare espressa dal governo, sacrificandovi persino quella gloria dell'armi, senza la quale i re sembrano anche più piccoli dei popoli. Egli, così giovanilmente temerario a Custoza, sopportò il trattato di pace tanto frettolosamente concluso con un re barbaro d'Africa dopo la più desolante delle sconfitte italiane; e dovette poi consentire la povertà dell'esercito e dell'armata fra lo strepito di tutte le nazioni, che levavano alte nelle minacce le parole e le spade.
Il re ubbidiva allora, ma il popolo non sapeva ancora comandare; oggi il re è morto, e il popolo si domanda spaurito: perchè?
Perchè fu ucciso questo re, il quale non era che un cittadino fra i cittadini, il primo solamente per l'antichità della sua famiglia, nella tradizione della quale aveva potuto salvarsi il segreto principio della terza Italia?
Ovunque e sempre che il popolo soffrisse il re era presente: o province intere sparissero sotto l'onda limacciosa dei fiumi, o città si rovesciassero distrutte da un crollo sotterraneo, o il colera levasse sulle proprie orme d'invisibile pellegrino grida lunghe di dolore e di morte, il re accorreva primo a stringere la mano ai morenti, ad incuorare i feriti, a raddoppiare in tutti il coraggio vitale. Era aspettato ed era pronto, era conosciuto ed amato. Nessuna colpa della politica aveva mai oscurato il suo carattere o diminuita l'efficacia del suo nome nella folla; nessuna calunnia era bastata a scemare intorno a lui il consenso della pubblica opinione. Nei giorni tristi della umiliazione si capiva e si diceva da tutti che il re soffriva più in alto, perchè la corona diventa un peso intollerabile alla fronte, che non può alzarsi alteramente; nei giorni nuovi della speranza, quando si varava un vascello, si forava un'alpe, o si drizzava nel bronzo sopra una piazza la figura di un qualche grande, il re riappariva come l'araldo più sicuro dell'unanimità degli augurii. Egli recava seco il pensiero della propria gente e lo appuntava nell'avvenire; era il re. Non comandava, ma regnava; anzichè sul trono, al disopra della folla, era nel suo mezzo, dove il cuore batte, fra le mani che si tendono e le voci che si fondono nel grido rivelatore.
La moltitudine, che si prostrava una volta ai re, oggi non può amarli che sentendoli in sè stessa vivere di una vita uguale, e seguendoli come un simbolo abbastanza puro e vicino per riflettere quanto in essa si agita di migliore. Dopo Garibaldi nessun re italiano avrebbe potuto somigliare a Napoleone; dopo Vittorio Emanuele, che fuse l'Italia e suggellò il millenario periodo delle guerre per la conquista della sua unità, Umberto I non poteva attraversare il periodo stagnante di questi ultimi venti anni che regnando così, primo fra i cittadini, quasi impersonale nel superstizioso rispetto alla costituzione, e cercando nell'anima della nazione gli accordi fra la tradizione militare dell'antico impero italiano e le iniziative erompenti dal rinnovarsi dello spirito popolare nella democrazia del pensiero.
Eppure fu assassinato.
L'omicida, che strinse in un epilogo così breve così vasta tragedia, non può certamente rivelarne il segreto. Se confessò, come dicesi, di aver voluto uccidere non l'uomo, ma il re, mai complimento ad un uomo fu più meritato, e mai elogio di re sarà più profondo ed originale nell'avvenire.
Un re, che non può essere odiato nemmeno dal proprio assassino, deve aver compito la difficile opera propria con una nobiltà sovrana anche sulle anime meno sensibili alla bellezza ideale. Ma questo oscuro messo di una idea anche più oscura, se volle davvero colpire il re nell'uomo, per dissipare il simbolo della moderna regalità, non seppe nè pensare, nè colpire: non misurò l'uomo, non riconobbe il re, non comprese il simbolo.
La regalità, come Umberto I potè significarla, è una figurazione della democrazia, che non somiglia nemmeno nella forma alle antiche monarchie, delle quali il popolo porta ancora le stigmate nella coscienza. Nessun re è oggi un tiranno, perchè nessun popolo saprebbe, nemmeno volendo, ridiventare schiavo.
Umberto I era in Europa il più antico per stirpe e il più moderno per spirito fra tutti i re; e se qualcuno fra questi poteva superarlo d'impero, nessuno avrà come lui rappresentata, sulla scena di un popolo nuovo, la nuova figura del re.
Così l'omicida, che assassinando non arrischiava nemmeno di morire, come avrebbe dunque potuto intendere la profondità di questo simbolo regale e chiederne alla morte il segreto?
Invece di uccidere il simbolo egli ha reso immortale il re nel cuore d'Italia.
3 agosto 1900.
LA VEDOVA
Chiamiamola così.
Poichè nel telegramma all'arcivescovo dì Napoli Ella non volle firmare che: «Margherita povera donna», non guastiamo con la pompa volgare dei nomi l'epica semplicità del suo dolore e della sua rassegnazione.
Era la prima signora d'Italia, come già il grande poeta, ora condannato al silenzio, l'aveva salutata in un'ode fulgida come un'aurora. Attraverso i veli della classicità, in mezzo ai fantasmi conservati nella incorruttibile bellezza dell'arte alla memoria delle genti, egli aveva creduto di riconoscerla come una figura d'altri tempi cantata da altri poeti. Allora il popolo si addensava intorno a lei nella festa di un nuovo regno.
Il re che aveva potuto compiere il miracolo della terza epoca italiana, era morto in una cameretta del Quirinale, il palazzo estivo dei papi, chiuso dentro la giacca del cacciatore, nella quale il popolo lo aveva forse più amato che sotto il manto di ermellino; era morto quasi improvvisamente, e l'Italia aveva sentito che con lui moriva il più mirabile fra i tanti periodi della propria storia.
Ma Vittorio Emanuele era vissuto solo fra i figli e in mezzo al popolo; il suo trono negli anni della lunga e difficile prova era quasi vanito alla fantasia della gente. Egli, il re di Piemonte, non lo considerava che come un gradino del futuro trono d'Italia, al quale si poteva salire solamente colla vittoria; quindi volle essere soldato e generale italiano prima ancora che la rivoluzione così l'acclamasse.
E quando la fortuna premiò in lui la virtù di tutto il popolo, ponendo nella sua mano il pensiero di Mazzini e la spada di Garibaldi, il suo trono sembrò ancora un altare, sul quale, come nei tempi primitivi, tutta una nazione avesse deposta l'offerta votiva dei propri migliori tesori.
Ma il re nel trionfo rimaneva solo, nessuna donna era vicina a lui, vedovo dai primi giorni, quando, raccogliendo la corona insanguinata sui campi di Novara, aveva affermato dinanzi alla solenne minaccia del vincitore che il Piemonte serberebbe fede all'avvenire d'Italia.
L'Italia amò il proprio re, ma in questo amore mancava la tenerezza, la luce e il profumo che sono l'incanto vero dell'amore, la sua forza misteriosa di consolazione.
Il re era vedovo; e vedovo pure era Garibaldi, che aveva perduto Anita, e più vedovo Mazzini, che non aveva potuto trovare una donna nella propria vita di creatore, esule dalla propria creazione.
Il poeta salutò in Margherita la prima regina d'Italia. Nella sua fantasia troppo affollata di fantasmi classici, nel suo orecchio troppo memore delle musiche antiche, si compose intorno alla nuova eletta un corteo e una corte di accademia; il ritmo di Orazio si congiunse alla strofa petrarchesca e le Cariti pagane e le Madonne cristiane discesero dai loro cieli come all'incontro di una nuova bellezza.
Era magnifico, ma non vero; il poeta aveva sognato invece di vedere, levando il proprio canto sul colle sacrato da secoli alle Muse, anzichè dal mezzo della piazza gremita di popolo festante ed acclamante nell'orgoglio d'una visione moderna.
V'era finalmente una donna, che poteva significare l'Italia; sulla nuova scena della nostra storia una figura era apparsa, bionda e gentile, con tutta la grazia della dama, quale tanti secoli di privilegio avevano potuto comporla, e nell'incanto sincero della signora, come l'anima nostra la pretende e l'adora.
Se il re era il primo cittadino e avrebbe regnato per questa mirabile superiorità, vincendo gli ostacoli di ogni tradizione e di ogni opposizione, la regina, che non aveva modelli nel passato italiano ai quali chiedere ispirazioni, doveva trovare in sè stessa, nella originalità del proprio spirito, una ideale bellezza, che le desse sulla folla e sugli spiriti eletti il medesimo impero.
Così non somigliò a nessuna delle regine e delle imperatrici più riverite in Europa. Ella comprese subito che la sovranità della regina non può essere che quella stessa della donna, in una eccellenza della natura e della vita, senza pretendere di forzarne i confini; quindi nessun vanto in lei del grado o dell'ingegno, nessuna affettazione della coltura e della grazia, nessuna rigidezza di nobiltà antica o di orgoglio moderno. Mentre in tutte le donne, anche le più umili per nascita o per spirito, una vanità sale a scomporre il carattere femminile suscitandovi una male definibile rivalità coll'uomo, nella quale soccombe ogni bellezza e virtù muliebre, la regina d'Italia creò in sè stessa il modello della donna e della signora, che intende ed inspira, regna e governa, ma serbando sempre al proprio pensiero la stessa malìa del proprio volto, e alla propria opera l'irresistibile segreta efficacia di una suggestione.
Quindi tutti ne sentirono la poesia come nei primi giorni di primavera si sente nell'aria il profumo dei fiori non nati, e per l'azzurro dei cieli e sulla distesa del mare trema un palpito nuovo: il nostro occhio lo coglie, il nostro sangue ne freme, e la nostra anima risale così alla speranza. E la profonda poesia della natura, la profonda poesia della donna, dalla quale siamo nati, per la quale dobbiamo creare e morire.
La donna, che non sa questa sua onnipotenza, non sarà mai regina; ma la regina, che potè significarla per vent'anni a tutto un popolo, fu davvero la donna, alla quale dopo tanta rovina d'ideali lo spirito si leva pregando come ad un simbolo di salvazione.
E adesso Ella ha gridato come una povera donna sperduta in una notte di tenebre e di morte, ha gridato a Dio e all'Italia. Le hanno ucciso il marito, le hanno ucciso il re; non è più sposa, non è più regina, e tremerebbe forse di essere madre, se questa paura, un diritto di tutte le madri, le fosse consentita.
Perchè Ella non ha che un figlio.
Eppure non una parola ha diminuito in lei la magnifica grandezza della sventura; per qualche giorno, nello smarrimento di tutti, Ella è stata il re, ha pensato, ha regnato, ha trovato l'accento dell'impero e della tragedia. Se il suo capo ancora biondo si è piegato sotto le parole del sacerdote, e la sua anima ha singhiozzato nell'immensa nuova solitudine, la regina è rimasta ritta dinanzi alla morte nella fede di Dio e dell'Italia. Ella crede nel mistero della giustizia, e sa che tutto è miseria davanti ad essa, perchè l'innocenza medesima deve essere immolata; ma sa pure che il dolore e la morte sono le due prove più necessarie alle grandi verità.
Oggi popolo e clero mescolano preghiere intorno al cadavere di Umberto I; non vi sono partiti in quest'ora, tutta Italia si fonde in una nuova, più salda unità.
La regina vedova, che amò e credette, rimarrà per sempre inconsolabile nel proprio lutto, trovandovi l'ultima ideale bellezza, e più lungi, più alto, regnerà ancora sull'Italia, già non più vedova oggi dopo il suo giuramento a Vittorio Emanuele III.
Ave, regina: i morti della tua casa ti salutano come la custode del nuovo regno, mentre l'Italia si leva a te silenziosamente ammirando.
8 agosto 1900.
I MESSAGGERI DELLA MORTE
Un vento di gloria e di gioia solleva l'anima d'Italia. Il duca degli Abruzzi è ritornato dal polo dopo un lungo viaggio attraverso l'ultima regione dell'inconoscibile, lungi dagli sguardi e dalla memoria del mondo. Quando partì un fremito corse nei cuori, ma la pubblica opinione, distratta dalla miseria delle vicende parlamentari governate dal ministero Pelloux, parve non sentire la magnifica poesia di tale impresa, per la prima volta guidata da un principe. Eppure il motivo lirico non poteva essere più nobilmente originale. Al polo andavano e sparivano da secoli centinaia di poeti, i più mirabili, perchè cercavano la poesia nell'opera anzichè nell'immagine: partivano da ogni paese, sopra navi di ogni forma e di ogni forza, spiegando al vento bandiere di ogni colore e di ogni stemma, alteri, gravi, silenziosi, nell'eroica sfida al doppio mistero della scoperta e della morte. Nessuna tentazione di guadagno nel loro proposito, nessuna vanità di regno nella conquista dell'impero sconosciuto, lassù, lontano, dove il mare si rapprende in un deserto di cristallo, il giorno e la notte si dividono l'anno a mezzo, e la notte è senza tenebra e il giorno senza luce. La vita vegetale non ha potuto penetrarvi, perchè la terra vi è coperta di una armatura di ghiaccio: appena nell'estate, perchè anche lassù v'è un estate, qualche fiore spunta, sorride e muore.
I fiori sono dunque più irrequieti degli alberi, hanno meno paura del gelo, meno bisogno della terra?
Forse.
Non somigliano essi alla speranza, non sono il desiderio trionfante sempre e dappertutto, dove il sole e il ghiaccio bruciano egualmente nell'ombra sotterranea, che ignora tutto sulla cima impervia che sarà eternamente ignorata?
Ma pochi di quei poeti tornavano.
Il loro viaggio era lungo come un poema e doloroso come una tragedia, che gli eroi recitavano con orgoglio sublime sopra un teatro vitreo, senz'altro spettatore che Dio, senz'altro suggeritore che il proprio cuore.
E un principe d'Italia, mentre in quasi tutte le nazioni la regalità pare così poveramente diminuita e dinastie cadute e dinastie cadenti gareggiano nell'oblio dell'antica eccellenza, aveva pensato che l'Italia risorta così miracolosamente nella storia doveva correrne tutti i campi, tendere a tutte le mete, imprimere un'orma su tutte le vie, cercare, pretendere, ottenere una conquista alla propria bandiera. Questa era caduta nell'Africa fra i morti di Adua, per colpa di generali, del ministero, del parlamento, del paese, di tutti: era caduta, perchè mancava nelle menti il pensiero di Cavour, e nei cuori la virtù di Garibaldi.
Dopo la sconfitta, per concludere troppo presto la pace, si era perduto più che la guerra: la nostra preparazione nazionale dopo Roma aveva fallito, la nostra vita diventava una sosta nella nostra storia, la nostra coscienza un enigma per noi stessi. Gli epigoni della rivoluzione, veterani e reclute di tutte le sinistre, predicavano al popolo la viltà della rassegnazione e il senno della fuga; retori del parlamento e di piazza, mendicavano l'applauso della folla con gli insulti a tutti i sogni di una patria grande: false madri schiodavano le rotaie presso la stazione di Pavia per vietare ad un treno di partire con un manipolo di soldati pronti alla riscossa. Fu un'ora lunga di viltà e di dolore.
Forse in quell'ora stessa il giovane duca degli Abruzzi, sentendosi riardere dentro la fiamma di un antico orgoglio, pensò ad una vittoria ideale della scienza sulla natura, alla conquista di un impero vuoto nel più terribile fra tutti i misteri della geografia, con una impresa superiore ad ogni vanto di attore e di pubblico.
Così fu sempre nella nostra storia millenaria.
Scipione difese Roma in Africa; Cavour la conquistò all'Italia in Crimea: e quando la vostra Casa, quasi ignota alla vita italiana nel medio evo, stava per apparirle come l'asilo di tutto il suo futuro, e l'Italia esausta dalla fecondità di tanti secoli sostava finalmente dietro più giovani ed iniziatrici nazioni europee; anche allora nell'esaurimento di ogni azione politica e sotto il peso di una nuova servitù, lanciava Colombo alla conquista d'America e Galileo a quella del cielo.
Le solitarie vittorie dei pochi valgono qualunque trionfo del popolo: anzi dalla stanchezza e dallo smarrimento di questo, più audaci e più belli si slanciano gli eroi dell'avventura per chiedere alla morte quell'ideale di verità, che la vita non ci potrebbe più dare.
Che importa se l'impresa non possa o non debba riuscire?
Ogni estate non ebbe forse innanzi una primavera, e il frutto è forse più bello del fiore?
Nessuno potè ancora avvicinarsi così al polo da indovinare, attraverso il suo crepuscolo, qual mare, quale terra, quale forma di vita passata, presente, futura vi si nasconda. Ma il mistero sarà vinto.
Adesso la bandiera d'Italia, colla bianca croce di Savoia, simbolo di martirio e di conquista, sventola solitaria nella solitudine del polo a 86°, 33′; nessuna bandiera aveva ancora potuto salire così alto, nessun'altra forse la sorpasserà presto, perchè sugli applausi al giovane duca e al suo eroico compagno è già squillata una parola superba di promessa, quasi una nuova sfida all'artica sfinge.
L'Italia si risolleva dal lutto regale, così recente e ancora così inaccettabilmente incompreso, nella fede di un altro principe che cercò la prova della propria sovranità dove la vita stessa non aveva osato inoltrare, preparandovisi forse alla necessità di più storica impresa.
La poesia è un'infanzia: ma i fanciulli poeti diventano gli uomini eroi.
Egli ritornava vittorioso di tutti i rivali morti e vivi, ma vinto lui stesso dal mistero: il suo capitano, come Diomede nell'Iliade era uscito indarno dall'attendamento e per cento giorni aveva camminato nella solitudine superando ogni ostacolo, finchè la fame, più terribile del freddo e della morte, lo aveva costretto ad indietreggiare.
Lo aspettavano. Il temerario avrebbe voluto ricominciare, ma la piccola nave dal nome augurale, Stella polare, soffocata dal ghiaccio riposava ancora sullo stesso fianco ferito.
Bisognava ritornare, e pur troppo qualcuno si era perduto lassù, che mancherebbe nel giorno della partenza.
La sfinge polare aveva voluto un sacrificio. La partenza fu triste; i nuovi argonauti si sentivano dietro le spalle garrire la bandiera italiana, e dentro il cuore l'ultimo saluto dei compagni perduti, sepolti, incorruttibili nel ghiaccio eterno.
Ma un'altra novella di morte veniva loro incontro.
Due gentiluomini milanesi, i signori Silvestri e Carsis erano partiti d'Italia, mentre più oscuro era il lutto di tutti gli spiriti intorno al cadavere del re assassinato, per recare al duca degli Abruzzi la prima dolorosa parola della sua patria.
Ma dove l'avrebbero incontrato? Non lo sapevano.
Messaggeri della morte, si erano avviati non visti dalla folla, senza chiedere un salmo, senza pretendere un premio. Come i cavalieri di una leggenda andavano al principe attraverso il mistero, per devozione di sudditi, per virtù di compagni, e lo incontrarono nei paraggi di Hammerfest, nel punto estremo della Norvegia.
Compirono il messaggio, la bandiera della Stella polare si abbassò a mezz'asta salutando mestamente da lontano. Il re era morto, ma l'Italia gli aveva giurato nuovamente fede come ad un vincitore sotto la volta del Pantheon.
L'amore rinasce dalla morte, ogni gloria vera sale da una tragedia.
Adesso l'Italia plaude al duca degli Abruzzi, la folla inonda stazioni, stipa le vie, gonfia le piazze sulle quali appare: intorno a lui è una ressa di mani che si tendono, una esultanza di cuori che cantano: a lui e ai suoi eroici compagni l'applauso monta collo scroscio dei torrenti e l'impeto delle tempeste.
Però i messaggeri sono scomparsi: nessuno li ha più veduti, appena qualcuno ricorda il loro nome.
Tanto meglio!
Vi sono dunque ancora dei gentiluomini in Italia abbastanza nobili per concepire un'impresa di poesia, ed alteri per compirla in silenzio. Tanto meglio per loro e per noi, che la vita quotidiana costringe a soffrire ogni più misera vanità di parole e di opere, di prepotenza plebea e di ipocrisia patrizia, di lusso, di mandati, di ciondoli.
Adesso i più tristi cortigiani girano per la piazza; la plebe ha buffoni come una volta i re.
Ma poichè la plebe non riconosce più i cavalieri sotto l'eguale assisa moderna, o credendo ravvisarli, impone loro la propria goffaggine pretensiosa, così che debbono nascondersi come i poeti, sia almeno ad essi consentito di barattare da lungi un cenno rapido ed affettuoso.
Nel nome di quanti in Italia compresero la magnanimità dell'impresa tentata al polo dal duca degli Abruzzi, e la gentilezza del vostro atto, o messaggeri discreti della morte, io vi saluto!
15 agosto 1900.
V IDEE E FIGURE
L'IMPERO IDEALE
Il convegno è a Ravenna, nella città antica e nel nome del più grande fra tutti i poeti.
Qualche cosa ricomincia, dalla gloria della città e del poeta, per la coscienza d'Italia, ancora oscura nel lutto di una tragedia regale.
Quel re sognato da Dante nella lunga angoscia dell'esilio, attraverso la bufera delle guerre municipali, fu assassinato a Monza fra una festa di popolo dal messo enigmatico di una idea più antica di ogni governo, ma essenzialmente moderna nel processo della sua passione e de' suoi atti. L'Italia sentì tremare il proprio cuore, e nondimeno levandosi in un magnifico slancio d'orgoglio riaffermò quella fede all'impero ideale sulla storia, che anche nelle epoche più basse della decadenza era bastata a salvarle l'opera ed il nome, il privilegio del primato e la speranza dell'unità nazionale.
Perchè l'Italia compì due volte l'unità del mondo prima che la propria, strinse in Roma il cattolicismo pagano e quello cristiano, dilatando ai più remoti confini l'impero ideale, mentre fra l'Alpe e i due mari i suoi popoli, ancora stranieri e discordi, proseguivano instancabili nelle ribellioni della loro originalità. E nel medio evo, quando l'impero romano non era più che un pensiero incancellabile nella memoria del mondo, e l'impero del papato pareva appena il riflesso di un altro impero celeste, l'Italia rinnovò un'altra volta la storia colla meravigliosa sovranità dei propri comuni, capaci di lottare soli contro tutti i regni e di preparare in sè stessi tutta la moderna civiltà.
Dante è l'eroico poeta del comune italiano, ma ribelle alla sua indomabile autonomia per sottometterla ad un nuovo impero italiano, che riunisca Cesari e pontefici nel dominio del mondo.
Così egli supera la propria epoca e la fraintende; vuole ricongiungere passato e avvenire in una formula eterna, imponendola alla originalità del comune, che invece significa nel genio del poeta l'immortale giovinezza dello spirito e la inesauribile superiorità del genio italiano.
Il poeta è troppo grande per comprendere sè stesso; le sue passioni sono multiple come le guerre e le tragedie municipali, la sua idea italiana associa tutte le idee della Roma cesarea e della Roma papale, mentre le sue collere devastano e fecondano come gli uragani.
Il suo verso ripete l'incanto di tutte le bellezze, quelle rimaste incorruttibili nella tradizione dell'arte e quelle salienti dall'inconscia spontaneità della vita nuova; ha l'impeto pauroso dei torrenti e i murmuri dei rivoli argentei per le valli affollate di case e di fiori, tutte le voci dell'aurora e della notte; come il cielo e come il mare assume ogni forma e colore, come il mare e come il cielo lascia passare qualunque fantasma; improvvisa nella lontananza tutti gli orizzonti, è tempestoso e sereno, suona come una parola e come un'eco; è una musica, un verbo, una rivelazione.
Ma che cosa ne sanno quei cittadini, i quali lo dannarono all'esilio, e quei concittadini, che a volta a volta lo accolgono e lo respingono, congiurano, combattono, vivono e muoiono in una tempesta politica, apparentemente senza legge, perchè prepara quella di un altro mondo?
In ogni città, in qualsivoglia castello, il poeta rimane ugualmente straniero; il suo genio romano e italiano lo costringe al sogno dell'impero ideale, mentre il suo cuore lo conduce su tutte le orme della vita, dietro le figure più effimere; nella insaziabile avidità del poeta, egli si getta con pari impeto su tutte le gioie e tutti i dolori, si avvelena alla coppa di tutte le false ospitalità, si ubriaca al sorriso di tutte le speranze, finchè con un gesto titanico avventa capovolto nell'inferno tutto il proprio tempo, per lanciarsi poco dopo a volo dietro il fantasma di una fanciulla, intravista appena da fanciullo, superando i cieli di Tolomeo con San Paolo, e ridiscendendone ancora per narrare nel poema trionfante oltre i limiti del genio stesso, la vita divina dei beati e l'ultimo segreto di Dio.
Dante appare quindi l'imperatore ideale d'Italia, il poeta della sua anima, il profeta della sua risurrezione.
Il Poema fu per noi tutti come il libro della vita, e il nome del Poeta come la parola di riconoscimento attraverso i secoli per i grandi spiriti condottieri della nostra storia.
Nella lunga umiliazione della servitù nazionale egli era sempre il vittorioso, che i vincitori non potevano abbassare: nelle prime ore della nuova speranza fu la fede, e quando l'Italia si levò finalmente al grido di Mazzini, alla parola di Vittorio Emanuele, al lampo della spada di Garibaldi, affidandosi alla mano di Cavour, era ancora il pensiero di Dante, il suo sogno di un'Italia grande sul mondo, che riappariva nelle menti di tutti e trionfava nel sacrificio degli eroi.
Così dall'ombra luttuosa delle nostre ultime vicende politiche la sua figura si leva superba e severa a proteggere la nostra debolezza.
Non mai si eressero a lui tanti monumenti come in questo scorcio di secolo, perchè in nessun altro forse sembrò più miracolosamente moderno; sulla piazza di Trento, nella quale Garibaldi non potè entrare, egli vigila già coll'occhio fiso a Roma: domani chiamerà. Risponderemo.
Ma prima apparirà forse sopra una piazza di Trieste a respingere colla parola italiana gli oscuri barbari dialetti, che cingono d'assedio e battono minacciosi le mura dell'illustre città marinara.
La parola non è forse il verbo della vita? non cominciò sempre in essa ogni vittoria? Coloro che non credono alla forza della parola, ignorano anche quella del pensiero, che solamente per essa si fa opera. La parola è il più vero confine della patria, se il confine debba essere una fisonomia. Ogni pensiero non è nazionale che per la parola, nella quale si esprime atteggiando di sè medesimo la vita: ecco perchè la scienza non sarà mai nazionale, mentre nella sua parola astratta la vita spira.
Ma finchè il cuore batta, e nelle nostre pupille si specchi il cielo d'Italia, e i nostri orecchi odano la voce dei nostri fiumi, e la nostra memoria ricordi le sillabe dell'infanzia e rispondiamo con esse ai nostri bambini; finchè il nostro pensiero sia pieno della nostra storia e la nostra anima capace di avvenire, dovremo difendere la nostra parola sul confine di ogni altra e dentro noi stessi, per salvare nella sua pura bellezza la speranza di sopravvivere al nostro breve compito d'individui.
Oggi Ravenna, la città del secondo impero e la prima che contese a Roma la gloria di capitale cattolica, accoglie nell'ampio giro della propria idea i rappresentanti di tutta Italia per una più solenne affermazione del pensiero e della parola italiana.
Qui, dove Dante compì il divino poema e s'arrestò l'ultima volta nel suo tragico pellegrinaggio di profeta, si rinnoverà il giuramento del nostro patto nazionale; bisogna qui, davanti alla sua ombra d'imperatore, ripetere il grido dell'impero.
Dante esule da Firenze, diventò veramente italiano a Ravenna; la sua città era troppo piccola pel suo sepolcro; solamente Ravenna, estrema stazione dell'impero romano, poteva in Italia bastare per la tomba di Dante.
L'imperatore volle chinare il gran capo sull'ultimo origliere dell'impero, ma egli aveva già trionfato della morte nella parola del poema.
Nessuno può immaginare quali pensieri apparissero ancora all'anima di Dante, mentre l'ombra senza nome gli saliva d'intorno e la fiamma de' suoi occhi, rimasti aperti dentro l'abbacinante candore della luce divina nell'ultimo canto del Paradiso, si spegneva come quella di un astro per le lontananze infinite del cielo; ma se la nostra anima vive ancora del suo spirito, se la sua parola fiammeggia al di là dei nostri orizzonti, se ci resta una missione nel mondo e una qualche potenza sovra di esso, Dante esule, straniero, perduto nell'ultima tenebra, vide ancora lungi per i secoli il trionfo dell'impero italiano.
Levate alta la bandiera d'Italia al saluto di tutte le sue città; levatela più superba e più alta, perchè oltre i monti ed i mari, ovunque suona una parola italiana, si alzi un grido di fede e una promessa di avvenire.
La tomba di Dante è l'arca santa d'Italia.
29 settembre 1900.
A STAGLIENO
Giuseppe Mazzini. — Null'altro sul frontone egiziano, che grava i due pilastri, scanellati come doriche colonne, della sua tomba: e pare una porta chiusa sulla caverna di un monte, ma il monte è lontano, e a fingerlo l'architetto coronò di sassi il frontone. Perchè?
Dinanzi alla porta nera un salice piange sulla tomba bianca della madre, che attese per venti anni il figlio esule dall'Italia, per lui solo redenta nell'idealità di una nuova vita: esule e orfano come tutti i geni creatori condannati a nutrirsi colla ingratitudine e a dominare dal deserto. Intorno la valle è squallida, i monti nudi, e il piccolo torrente senz'acqua: nel cimitero la folla delle croci pare densa come quella della gente in un giorno di festa per le strade; quell'altra dei monumenti, allineati sotto i portici, è così fitta, che la loro volgarità, ricca e fastosa, diventa quasi sopportabile; ma troppe tombe stringono quella del grande in una intimità, che la morte non basta a giustificare.
Egli doveva essere solo, lontano dalla moltitudine, che amò colla inesauribile passione dei redentori, e dalla quale non potè essere nè amato, nè compreso, perchè ogni messia deve essere vittima, e il dolore soltanto può rinnovare la fede, la morte solamente compiere nella vita un'altra rivelazione.
Hanno detto che egli medesimo desiderò di essere sepolto a Staglieno presso alla madre: perchè dunque fu lasciata dinanzi alla porta come una straniera, che la morte stessa ricusava di riconoscere? La tragica donna silenziosa aveva ben guadagnato, in tanti anni di angoscia solitaria, il diritto di riunirsi al grande figlio nell'ombra e nel silenzio, dietro quella porta, alla quale si arrestavano finalmente l'ingratitudine dei redenti e la persecuzione dei loro nuovi maestri. Adesso invece la tomba del sublime poeta non è che un anacronismo architettonico fra i troppi, che deturpano il cimitero: una cornice dorica per la più moderna delle figure, una porta dietro la quale vi è un vuoto, e sulla quale uno scenografo infelice credette di significare una montagna rocciosa con pochi sassi ferrigni.
Non così, non così doveva essere sepolto colui che evocò tutti i morti e soffiò l'alito della giovinezza in tutti i malvivi d'Italia, quando l'ombra della servitù secolare era così fitta, che i volti e le anime non potevano più riconoscersi; non così doveva essere sepolto colui, che dette un esercito a Garibaldi e un regno a Vittorio Emanuele soltanto colla forza di una parola luminosa come il sole, eloquente come il mare, irresistibile come l'uragano.
Se non osò nelle estreme malinconie della vecchiezza punire la patria morendo a Londra, ignoto fra la moltitudine della oceanica metropoli e colla umiltà di un imperatore troppo grande per ogni impero, chiese al re della sua Italia il permesso di potervi rientrare sconosciuto per morire a Pisa, dove Leopardi, il suo minore fratello, aveva indarno cercato la salute; poesia e storia, passione di gloria e di amore vietavano egualmente di seppellirlo a Staglieno dentro una falsa tomba classica, fra un volgo di cadaveri, ai quali nessuna rettorica di epigrafi o di sculture potrà mai dare diritto di vita nell'immortalità della storia.
Non so, ma errando per quel cimitero il mio spirito si faceva sempre più triste, mentre dalla giovinezza ormai troppo lontana mi tornavano in lenta processione, come di pellegrini mendichi, le memorie dei giorni, nei quali gli echi d'Italia ripetevano ancora le ultime parole di Mazzini e qualche cosa singhiozzava nell'anima nazionale ad ogni viltà della sua ingiusta fortuna.
Poi egli morì, e i giovani lo dimenticarono.
Altre brame, altre speranze pullulavano e urlavano su per le piazze: un'altra incredulità si opponeva alla sua fede, un'altra superbia, troppo facile, di conquiste immediate, al suo tragico orgoglio di purità e di sacrificio. La sua dottrina non aveva potuto essere una religione, ed era senza veri credenti: la sua politica aveva avuto l'onnipotenza dell'ideale, e oltrepassando la realtà, nella quale dovette compiersi e degradarsi, non era più che un sogno; la sua parola evocatrice di eroi, di martiri, passava troppo in alto, e atterriva quasi invece di consolare.
Dopo di lui vi furono, vi sono ancora mazziniani; ma li riconoscerebbe egli?
E io mi lagno ancora che non lo abbiano sepolto sotto lo scoglio di Quarto, dal quale il suo pensiero portò sulle acque il naviglio dei Mille. Non so, ma parmi che là soltanto, sul mare, sotto il sole, alle bufere mediterranee, egli sarebbe contento: come Cristoforo Colombo, il suo grande antenato, guarderebbe oltre l'orizzonte marino il profilo di altre terre, di altri mondi: con lui aspetterebbe dal vento i messaggi dei popoli sconosciuti. Che importa più l'Italia a Mazzini? Egli la dimenticò nel suo ultimo sogno di una alleanza repubblicana universale. Che importa se l'Italia è monarchica, e la sua monarchia ha il nome di Savoia?
Il continente scoperto da Colombo non porta forse il nome di un mercante fiorentino?
I grandi morti non hanno più bisogno della nostra gloria fatta di vittorie, nelle quali la gioia sale al vincitore dal pianto dei vinti; i nostri cimiteri sono troppo piccoli per coloro, che la nostra vita non potè contenere nell'augusta opera di una generazione. Garibaldi vigila, cavaliere che la morte non potè addormentare, su Roma dal Gianicolo: Mazzini doveva vegliare sul mare, che recò il pensiero creatore d'Italia a tutti i lidi, e ne aspetta ancora le grandi risposte nei tempi futuri.
A Staglieno gli altri morti non debbono averlo riconosciuto.
Infatti le loro tombe sono troppo ricche, troppo brutte, troppo affollate di statue perchè abbiano ancora potuto vedere quella porta nera sotto quel frontone dorico. A lettere di bronzo vi è inciso soltanto: Giuseppe Mazzini.
Chi era?
La più grande anima d'italiano dopo Dante.
2 dicembre 1900.
GALLIA VICTA
Balzac sarà scacciato dalla casa della sua gloria.
Alcuni ammiratori l'avevano acquistata a Parigi, affittandola, riunendovi poche memorie, qualche ritratto, il calamaio dal quale trasse i suoi diecimila personaggi, la caffettiera che nelle notti lunghe della creazione dolorosa calmava la sete della sua fatica, un suo busto in bronzo, mediocre contraffazione, al solito, di una grande figura, pochi medaglioni di David d'Augers.
L'usciere, come già nella vita del grande poeta, ha tutto sequestrato e porrà tutto all'asta: la casa era affittata per tremila e seicento lire, la società costituitasi per la memoria del maggior genio francese e pel decoro della Francia, aveva per presidente Paolo Bourget, per vice-presidenti Maurizio Barrès e Giovanni Richepin, e intorno a questi tre mediocri, indarno immortalati dal voto compiacente dell'Accademia, pareva si fossero stretti in falange le anime più nobili, i nomi più illustri di Francia.
Era vero e fu indarno.
Adesso l'usciere per un debito di settemila lire gitta sul lastrico all'avarizia e alla curiosità stanca del pubblico i poveri avanzi della casa postuma di Balzac. Ad evitare lo scandalo disonorante per la patria sarebbe bastata a Parigi la conferenza di un qualche glorioso della piazza o dei giornali, uno scettico sempre prono dinanzi al volgo democratico, come Anatole France, la recita di un'attrice grottescamente grande come Sarah Bernhardt, la romanza di un tenore in un concerto, una qualunque proposta di un ministro alla Camera. Come si chiama adesso quello della pubblica istruzione? Clemenceau, questo vecchio attore, che ha scritto persino dei drammi, sa che la Francia ebbe Onorato Balzac di fronte a Victor Hugo, e che con Balzac la Francia riscattava l'inferiorità di Molière dinanzi a Shakespeare?
L'ignoro.
Meglio così.
La gloria è il sole dei morti, che quasi sempre i vivi, affaccendati nelle miserie e nelle piccolezze dell'oggi, non sentono, perchè il suo raggio è senza calore e la sua luce ha la purezza di un altro mondo. Meglio così: i piccoli letterati della Francia non si sanno solidali col suo unico gigante, colui che solo può guardare in faccia a Dante, e stringendo la mano a Shakespeare dirgli col largo sorriso della sua faccia piena: «Il mio mondo è maggiore del tuo, le tue donne sono poco più che larve davanti alle mie, i miei personaggi sono più interi, le mie virtù più composite, i miei vizi più profondi, i miei ideali più alti, i miei quadri storici più veri, le mie varietà più ricche, i miei individui più precisi, il mio teatro più vasto, il mio genio più umano. Senza di te io non sarei stato: tu fosti tutto il Rinascimento, prolungasti nella rivelazione il medio evo, ti allontanasti ignaro e indovino nell'antichità sfondandone il mistero rimasto chiuso agli storici e troppo alto per i poeti; tu primo rappresentasti l'uomo e la donna, ma la tua fantasia troppo accesa li mutava troppo spesso in fantasmi, la scena ti limitava, il pubblico t'impediva, dovesti sommare più che analizzare, quasi sempre accennare soltanto; vincesti i greci, e rimanesti invincibile sino a me. Io sono la modernità, che ha compìto l'unità mondiale della storia e sa l'America e l'Australia, l'Africa e l'Asia; sono l'Europa dopo la rivoluzione e dopo Napoleone; sono la Francia, nella quale suonano gli echi di tutto il mondo, il popolo novatore, il genio d'avanguardia nella vita».
Balzac fu così.
La vita non seppe nascondergli un segreto, la filosofia un mistero, la scienza un enigma: chiuso nella sua stanza giorno e notte, vedeva come attraverso una allucinazione; corpi e anime si svelavano davanti a lui, che simile ad un dio creatore aveva la passione della vita, la simpatia di tutti i suoi vizi e di tutte le sue virtù, dei santi nei quali sale come un incenso trasparente, dei mostri nei quali si condensa come una forza ancora indomata. Le vergini gli dissero le parole più pure, e le cortigiane quelle più dolorose: l'avarizia gli sfilò davanti in parata con tutta la eterogeneità dei propri cannibali, il giornalismo gli chiassò intorno con tutti i campioni del proprio esercito, venturieri ed eroi, ladri e saccomanni, cavalieri sperduti e fantaccini in cerca di una bandiera. Le province ignote sino allora all'arte e alla storia si apersero al suo sguardo come sotto la magia di un invito: costumi secolari, anime antiche, intelletti sopravvissuti, avanzi di bellezza e di nobiltà, inesauribili caratteri della resistenza popolare e plebea, deformazioni superstiti della morta feudalità, improvvisazioni originali della rivoluzione e dell'impero; e poi la lenta, millenaria opera della Chiesa e della monarchia sulla coscienza francese, l'architettura dei suoi castelli e delle sue cattedrali, la rustica fisonomia delle sue terre, i monti coi loro segreti, il mare co' suoi misteri, i villaggi sempre immobili nell'ingenuità primitiva, le città chiuse nelle muraglie medioevali come in una armatura; e poi ancora la Francia del passato e del presente, aristocrazia, borghesia, popolo, plebe, tutti i delinquenti, tutti gli eroi, tutti i martiri, tutti i santi, tutti i grandi, che la vita adopera e spezza, e che nemmeno la morte può rivelare.
Balzac era così.
Non lo videro, non lo capirono, non lo vollero.
Hugo geloso, perchè più piccolo, tacque sempre di lui; George Sand l'offuscò colla propria celebrità di donna scandalosa nella vita e nell'ingegno, entrambi minori; Michelet l'insultò, i critici lo negarono unanimi, i poeti non lo indovinarono, i governi non seppero, il popolo non capì: egli era tutto, il pensiero e la passione, la tradizione e la novità, il genio che niente sorprende, il cuore sempre aperto, l'orecchio che nessuna voce inganna, l'occhio che nessuna apparenza illude.
Appartenendo a tutti, non era d'alcuno: non poteva avere un partito, fondare una scuola, formarsi una clientela, diventare un personaggio nel pubblico, una moda nel costume, un modello alla mediocrità.
La grandezza lo condannava all'isolamento, la superiorità ad uno di quegli imperi, che soltanto i secoli possono costituire. La sua povertà fu un martirio senza tregua: dovette creare nell'allucinazione, facendosi un sole della propria lampada, abbacinando sè stesso di speranze infantili.
Le donne aliavano intorno al titano come farfalle sopra una quercia; gli uomini, che ammiravano ancora Napoleone e avevano imparato il nome di Hegel, non sapevano quello di Balzac, che compiva nell'arte la loro doppia rivoluzione creando l'individuo nell'immortalità di una nuova rivelazione. L'ultima donna, che egli credette di amare, la russa signora Hauska, lo ingannò e lo torturò come un carnefice orientale nell'agonia, e così chiuse l'immensa tragedia.
Come tutti i più grandi, Balzac doveva essere vinto nell'opera propria: Napoleone, l'onnipotente degli eserciti, finisce a Sant'Elena sotto un colonnello aguzzino; Giulio Cesare, il più umano dei romani, è ucciso dal proprio figlio, il più onesto dei repubblicani; Gesù sale il Golgota abbandonato dai discepoli; Kant, il pensatore, finisce esaurito nella contemplazione di un tetto opposto alla sua finestra; Garibaldi perde Nizza e non può entrare nella vita dell'Italia; Mazzini spira come un vagabondo ignoto a Pisa; Cristoforo Colombo come un povero vestito del saio per un ultimo pellegrinaggio a Gerusalemme; Balzac, il rivelatore della donna, morì vittima di un inganno femminile.
Meglio così.
L'amore nel grido supremo invoca la morte; la gloria non è che immortalità nella memoria dello spirito.
Adesso la Francia democratica ignora ancora di avere Balzac. La sua aristocrazia, la sua borghesia, il suo popolo, la sua repubblica non contano nè sull'Europa, nè in Europa: è ricca indarno, più indarno moderna: le sue bandiere non sanno più il vento delle battaglie e il suono delle vittorie; i suoi ministri patteggiano il proprio scanno con tutti i forti all'estero come all'interno; le sue arti hanno perduto il segreto dell'originalità, la sua filosofia è discesa nella letteratura, la sua scienza trionfa nell'imitazione. Qualcuno qua e là resiste ancora nobilmente, ma la Francia non lo sa; la sua vita sale dalla piazza e dipende dalla piazza; i suoi uomini più illustri, i nomi più celebri crescono e crebbero nella sua servilità.
Balzac sarà sfrattato morto dall'ultima casa.
Rodin non scolpì già un maiale dentro una tonaca da frate per effigiarlo? E non dicono Rodin il Michelangelo francese? La Francia plebea e la Francia officiale non delirarono anche recentemente per Zola, trasportando le sue ceneri al Pantheon? Chi era Zola di fronte a Balzac? Un verro davanti ad un leone.
Che cosa è adesso la Francia davanti a Balzac?
8 maggio 1909.
TRILOGIA POSTUMA
Mentre Jaurès dalla tribuna rievoca lo spettro di Dreyfus dinanzi agli occhi del parlamento e del popolo francese, quasi adempiendo l'ultima volontà di Zola consegnata nell'ultimo romanzo, altri indagano sull'opera incompiuta del grande romanziere, e prodigano rivelazioni sui fantasmi così improvvisamente con lui seppelliti. E pare che dopo Le tre Città e I quattro Evangeli un'altra trilogia gli urgesse il pensiero creatore, un triplo romanzo di tre eroi egualmente tragici nell'immensa differenza della loro vita: Zola padre, l'ingegnere, il costruttore, in lotta colla materia vivente per aprire nella terra un canale, che fosse una nuova arteria nel magnifico corpo della Francia; Bernard, il fisiologo solitario, selvatico, quasi misantropo, perduto nella ricerca del supremo segreto, torturando e uccidendo i piccoli viventi per strappare alla morte la sillaba rivelatrice della vita, egli stesso torturato ed ucciso dalla propria famiglia incapace di amarlo perchè incapace d'intenderlo; e Napoleone, pallido, enorme, chiuso in una bufera di guerra, che sconvolge il mondo e lo rinnova, rigido nella volontà di un sogno falso e irresistibile, senza pietà per gli uomini, che lo adorano e che egli gitta alla morte come un pulviscolo fecondatore.
Sarebbe Zola riuscito in questa estrema impresa?
Certamente l'ingegno suo era grande, e dopo Balzac, in Francia, nessun romanziere segnò orma più profonda ed originale; ma a lui troppo inferiore nella vastità del pensiero e nell'onnipotenza dell'intuizione, non seppe comprendere le antitesi della vita, il sublime e l'ignobile, l'ingenuità primitiva e la raffinatezza decadente, i santi e la canaglia, le idealità dell'anima e le ferocie della carne, gli eroi dello spirito e i falsari della parola o dell'azione. Egli era un pessimista, che odiava e soffriva: quindi nella sua analisi del male si sente un rancore inconsolabile, che si accanisce contro i propri fantasmi, e si vendica enumerando pazientemente tutti i difetti, scoprendo le piaghe, insultando ed urlando. I suoi personaggi non sono materiati che di carne, non pensano, non sentono, non operano che per essa: l'anima, se ne hanno una, è anche essa carnale e ignora il mondo delle astrazioni, le sfere della bellezza, le contraddizioni del pentimento, i martirii del dubbio, le espiazioni del dolore, che discende dalle alture spirituali come una fiamma purificatrice sopra un altare lordo di fango e di sangue.
Una nemesi si agita nel suo ingegno e lo strazia. La sua giovinezza era stata povera, abbandonata a tutte le miserie e a tutte le umiliazioni: aveva studiato solo, a sbalzi, quando poteva, come qualcuno che cerchi piuttosto delle armi che delle verità, perchè la verità egli credeva di averla dentro di sè, nella onestà del proprio cuore ferito dai contatti della realtà, nauseato dallo spettacolo della decadenza imperiale. Così pensò di rivelarne la storia segreta in una serie di romanzi, che avrebbero dovuto essere anche un'opera di scienza, colla precisione di un metodo sperimentale e la gloria di una nuova originalità nell'arte.
Invece furono una requisitoria meravigliosa, che dai bassi fondi sociali saliva ai fastigi dell'impero, cacciandosi innanzi come per una larga via inondata di sole un branco di lupi e di porci; ma nell'ascendere la vista acuta del romanziere s'intorbidava e la sua intuizione diventava incerta, mentre la sua analisi rimaneva superficiale, e la materia più ancora dello stile gli si guastava nello sforzo di esprimere le forme di una vita non conosciuta o non compresa. Aveva voluto essere uno scienziato, e la scienza non poteva aiutarlo nell'arte; si era chiuso in un sistema, e la vita eterna, infinita, ondeggiava al di fuori moltiplicando come sempre i mostri e i capolavori nel bene come nel male; era un plebeo, e non intendeva la signorilità nè nel vizio nè nella virtù; era un poeta, e violava la propria poesia in un preconcetto prosastico di positivismo; era un moralista, che detestava il male e ne odiava le proprie incarnazioni, senza la facoltà divina di Shakespeare e di Dante, di Balzac e di Tolstoi per esprimere le pure consolatrici figure della vita mescolate alla folla, o raggianti sovra di essa nel tenue chiarore delle stelle.
Poi la sua vita e la sua arte furono una polemica e una battaglia.
Aveva inventata una estetica più assurda ancora di quella di Wagner perchè basata sulla scienza, e avrebbe voluto tutto ricondurvi, mentre invece ne trionfava tratto tratto obliandola nel volo dell'istinto dietro qualche segreto della modernità, o indovinando nel panteismo della propria poesia, così simile a quella di Hugo, da lui tanto odiato, un motivo della natura sulle orme del romanticismo già morto.
Hugo aveva investito l'impero colla tempesta delle proprie odi e odiato l'imperatore come un nemico personale, che gli avesse ucciso la repubblica: Zola gettò sul cadavere dell'impero, a palate, la gente che lo aveva vissuto, trista gente di danaro e di lussuria, senza fede e senza originalità, volgare nel carattere e nella intelligenza, che si ubbriacava non avendo nulla da dimenticare nel vino, e si prosternava ad una cortigiana senza nemmeno intenderne la bellezza fisica.
Ma v'era quella gente soltanto nell'impero?
E l'impero come avrebbe potuto così sovrastare per vent'anni alla Francia e all'Europa? Balzac, ricostruendo la prima epoca napoleonica e la Ristorazione, aveva compreso tutto e tutti: non amava e non odiava; era disceso in tutte le fogne e salito su tutte le vette, creatore di un mondo vivo e che per lui resterà immortale. Zola era un ateo, e Balzac credeva a tutte le fedi; Zola non conosceva bene che la classe operaia, e Balzac passò egualmente rivelatore attraverso ogni altra, e per lui non vi furono misteri, nè in alto nè in basso, nell'ombra dei santi e dei delinquenti, nei silenzi della solitudine e nei tumulti delle folle.
Però Zola maneggiò queste meglio di lui, rinnovando nel romanzo quasi il coro della tragedia greca in una individuazione meravigliosamente varia e precisa, densa quasi come le folle e impossibile ad essere ricordata dal lettore per la sua stessa inesausta quantità.
Ma compìto l'immenso ciclo dei romanzi imperiali, al culmine della gloria, mentre l'atroce tragedia dreyfusiana della folla stava per attirarlo nella propria tempesta imponendogli un esempio di eroismo cittadino, come tutti i veramente grandi egli aveva sentiti i limiti e le insufficienze della propria opera. Il trionfatore si credette quasi un vinto, e con sublime ardimento tentò la suprema battaglia.
Era tardi, e fu indarno.
Le tre Città e I quattro Evangeli non riconfermarono, nella prova stessa dell'esaurimento, che l'unilateralità del suo ingegno, e l'inguaribile mestizia del suo pessimismo: quindi incredulo egli non vide a Lourdes che una idolatria e una illusione; moderno, non sentì in Roma nemmeno la modernità spuntata come un fiore originale fra le immani, millenarie rovine; parigino, tentò stringere Parigi in un abbraccio creatore, e l'immensa metropoli non se ne accorse nemmeno.
I suoi evangeli, che avrebbero dovuto ritmicamente essere quattro, se la morte non l'avesse impedito, non ebbero di sè stessi che il nome; il romanzo non vi raggiunse la divina trasparenza delle parabole; per esser sacro fu ottimista, e per diventare ottimista non si compose più che di figure dipinte sul cartone, desolantemente monotone, ancora più false nella virtù che quelle dei penultimi quadri del vizio.
Il grande romanziere era già morto prima, e l'inconsumabile marmo della sua tomba era nei libri plebei, che primo e solo era riuscito a scrivere contro il secondo impero.
Là può riposare sicuro, attendendo il giudizio della storia.
La postuma trilogia, della quale parlano adesso i giornali, non avrebbe rianimato lo splendore della sua face morente. È quasi impossibile scrivere un capolavoro facendo l'apologia del proprio padre contro un partito che lo insulta; Claude Bernard era un eroe ed un martire, che soltanto un poeta a lui simile poteva indovinare; Napoleone è un mondo in un uomo, e l'uomo in lui è una sfinge, alla quale non fu ancora strappato il segreto.
Le storie hanno già dato quello del suo tempo, e i poeti tentato l'altro della sua anima; ma il segreto non sarà rivelato che da un genio come Dante, o come Shakespeare.
Balzac non osò, forse; Tolstoi gli era nemico, e non sarebbe egualmente bastato.
Zola non era un genio.
20 maggio 1903.
IL GIGANTE PLEBEO
La Francia lo festeggia dopo un secolo.
Era figlio di un bottaio, crebbe quasi solo, ignoto nella superiorità dello spirito, fra le braccia nude della miseria, che imprimono la propria stretta nelle carni e nell'anima.
Il suo aspetto pareva dolce; aveva gli occhi chiari, di un azzurro come lontano lassù dove il cielo sembra confondersi chino sopra un'altra riva invisibile. Adesso il suo nome pare scomparso, e la folla dice soltanto: — Proudhon! — e basta.
Il suo motto di battaglia era un'eco della Bibbia: destruam et aedificabo; ma non distrusse nè edificò: non aveva sofferto come Gian Giacomo Rousseau e non odiava come lui, ma pure nel pensiero e nel sentimento soffriva come una ineffabile melanconia il dolore umano dei poveri, dei piccoli, che sono come il materiale, che nemmeno l'arte ha saputo ancora personificare. Doveva essere e fu un nemico della società, che allora raccoglieva con una boria e con una fortuna improvvisa la ricchezza e l'opera della rivoluzione e del primo impero.
Pareva un idillio e invece non era che un affare.
Dopo la Ristorazione la monarchia di Luigi Filippo aperse l'èra non ancora chiusa delle viltà costituzionali: il periodo si svolgeva industrialmente, parola e creazione dovevano uscire dal danaro; la democrazia, trionfatrice sulle ultime insignificanti rovine del patriziato, che non sapeva più sè stesso, esprimeva nella economia politica la propria religione e la propria scienza, l'una più falsa dell'altra, giacchè credeva soltanto per interesse e dalle forme del proprio avvento traeva le leggi della intera società. Così l'economia politica, che non fa, non è, e non sarà mai una scienza, mise una verità assoluta nell'olocausto, che la giovane onnipotenza del capitale democratico imponeva all'innumere plebe dei lavoratori; credette di potere dall'astrazione di pochi fenomeni estrarre le leggi della ricchezza e della vita, ed invece non arrivò davvero all'impersonalità nè del capitale nè del lavoro.
La legge era là: micidiale, tragica, impassibile.
L'economia politica mentiva giustificando tutto nei padroni, che riducevano il lavoratore ad un numero nell'officina come il galeotto nella galera; mentiva sottraendo la ricchezza al dominio della morale, sbertando nella pratica ogni legge e ogni diritto costituzionale, dissolvendo la storia nella abilità solitaria del commercio, annullando la vita nella conquista dei mezzi materiali a mantenerla.
Proudhon si levò solo, incompreso, incomprensibile fra gli utopisti che sognavano nel popolo e pel popolo, non volle seguaci e non ne ebbe, respinse democrazia e monarchia, il suffragio universale e il diritto delle nazionalità, la religione col Dio dei padroni e la pietà coll'ipocrisia delle sue consolazioni ai vinti. Più alto di tutti, meglio di tutti, sapeva l'economia che negava: il suo autore era Giambattista Say, una delle più lucide menti e delle coscienze più oneste della Francia nel secolo decimonono: Say riassumeva la scienza comune, l'altro la spezzò.
In un capolavoro provò irresistibilmente che alla scienza economica e al diritto democratico il problema della miseria era insolubile: ogni principio conduceva dritto alla stessa contraddizione; un abisso di dietro, un abisso dinanzi. La scienza non poteva nè colmarlo, nè gittarvi sopra un ponte: le costituzioni borghesi e le utopistiche costituzioni dell'estrema democrazia potevano anche meno. Incredulo alla storia e credente della negazione, egli aveva già assalito la proprietà, dichiarandola un furto dell'ozio sul lavoro, in due memorie oggi ancora ammirabili, e che dovevano poi servire al suo nemico Carlo Marx per la costruzione del suo gigantesco sofisma; ma la chiaroveggenza del suo spirito si stancò nella luce torbida di quel sogno: la proprietà non bastava a spiegare il problema della miseria umana: sopprimendo la proprietà, in una concezione impossibile, la miseria resterebbe.
Egli non era un demagogo: plebeo, il suo spirito saliva involontariamente nell'aristocrazia; eroicamente onesto, repugnava alla viltà e alla falsità del popolo: amava il suo dolore e soffriva doppiamente vedendo il popolo sopportarlo così bene nella brutalità e lenirlo colle risorse dell'infamia. Sapeva di tutto, avrebbe voluto tutto sapere; era un venturiero della idea, un navigatore della storia, un inventore e un artista: poeta, detestava i letterati, e fra tutti Hugo, il più enorme e il più falso: odiava la religione, e tutto diventava religioso nella sua anima, anche le cose negate, anche le più triviali.
Per non offendere la sposa accettò il matrimonio religioso: morente respinse il prete e domandò alla moglie il perdono della propria eroica vita: fu sempre povero, si stampò i libri da sè, imparò non si sa come, combattè dappresso e da lungi la falsità che vedeva dappertutto, e finì come tutti i grandi, che si affrontano colla sfinge della vita, vinto, disdicendosi, riammettendo la proprietà, segretamente innamorato di Napoleone, sognando la forza e dietro la forza, che il popolo non ha e che la democrazia non può avere.
Quindi la sua opera politica parve e fu scarsa sino all'inutilità: la sua apparizione nel parlamento, la breve prigionia, il più breve esilio, la lunga, immutata, nobilissima miseria e la vasta, multiforme produzione nei giornali e negli opuscoli, nei libri e nelle lettere, non ebbero immediatamente più valore di una tra le tante sue stravaganze intellettuali.
Per combattere davvero è necessario un esercito, e per vincere più necessario ancora un consenso di popolo.
Il popolo non poteva capir Proudhon, i suoi capi lo dispettavano.
Pochi amici seppero di lui veramente. Carlo Marx, minore nell'ingegno e più forte nella fibra, lo odiò invidamente, Mazzini non lo comprese, Hugo credè di poterlo compatire, Louis Blanc ne fu geloso, Béranger non lo fiutò; Balzac non lo vide; i preti non sentirono un'anima religiosa in questo ateo, i padroni non indovinarono l'aristocratico in questo ribelle, il popolo, al solito, non s'accorse dell'eroe nel popolano.
Vivo, solamente Giuseppe Ferrari, di lui maggiore, gli fu amico e lo penetrò e lo circoscrisse col proprio pensiero: morto, Sainte-Beuve, il grande critico, che aveva fallato davanti a quasi tutti i novatori dell'arte, dettò una sua breve biografia penetrante e commossa, degna di entrambi, quantunque insufficiente.
Ma dopo Proudhon l'utopia non potè più sognare davvero, nè l'economia politica affermare ancora: egli aveva nel Sistema delle contraddizioni distrutta la loro fede e segnati i limiti della loro potenza. Se il Capitale di Carlo Marx parve subitamente ed irresistibilmente trionfare, la materialità del suo trionfo era dovuta agli organismi dati dalla grande industria alle masse operaie: l'officina era già una caserma, e la sua folla un esercito: bastava un cencio per montura, un cencio per bandiera, una qualunque parola per ordine.
Ma il grosso e vasto edificio del Capitale di Marx non valeva l'opera di Proudhon, spesso frammentaria, contraddittoria, ingenua: quello era un capolavoro della dialettica e una miseria della logica, questa era tutta un'anima e un periodo: aveva più veramente combattuto e vinto, prostrandosi finalmente nella sconfitta.
Quale fu davvero l'influenza di Marx sull'economia politica? Forse qualche economista potrà dirvelo: Marx le rimase estraneo: come Attila egli si era fatto un campo trincerato e non s'insediava nella città. Proudhon invece è penetrato dappertutto: nessuna questione economica o politica gli rimase incognita: egli era l'anima plebea senza i vizi, le passioni, le bassezze, le servilità della plebe. Leggendo Marx si sente che in lui l'uomo è falso ancora più del sistema, e poichè il sistema è, nell'angustia dell'unilateralità, uno, perfetto, ci domandiamo: come mai il suo intelletto poteva credere così a ciò che il suo spirito superava?
Psicologicamente il problema è difficile, non raro: quanti artisti hanno per verità una forma falsa di arte, che la loro coscienza e la loro vita di uomini smente!
Proudhon oggi rimonta.
La Francia, così bassamente e dolorosamente discesa per le gemonie della democrazia, ripensa il gigante plebeo e gl'innalza un monumento: troppo poco per entrambi.
Proudhon vivo sarebbe oggi il più terribile avversario di questa democrazia che adora, sciegliendola, la plebe nel popolo e unifica nel salario il lavoro e nel danaro il merito; che getta il peso tragico della famiglia e si umilia al giogo sucido del libero amore; che non ha e non vuole più avere nè storia, nè patria, nè esercito, nè politica mondiale, nè Francia, nè Europa, nè la superiorità della razza, nè dell'individuo.
Chi, nella Francia, somiglia oggi a Proudhon?
Forse un pochino Sorel: ma quale differenza fra la nobiltà dell'uno e la decenza dell'altro!
30 aprile 1909.
LA VERGINE ROSSA
La chiamavano così.
La sua malattia, almeno pare tristamente, è di quelle che non perdonano, ed ella le somiglia, giacchè in trent'anni di lotta, accanita, sanguinante, senza requie nè di corpo nè di anima, ella non ha mai perdonato alla società, contro la quale si era in uno dei primi giorni giovanili levata in armi colla tragica ira di una vergine ignota all'amore.
Adesso è vecchia, morente, forse morta all' Hôtel Terminus di Tolone senza udire nella stanza freddamente decorosa il murmure del mare, che sotto il sole di primavera si marezza e s'incendia di lampi.
Luisa Michel era nata nella vecchia provincia di Sciampagna, una terra sacra ai riti giocondi del Bacco francese, il più spiritoso, forse il più spirituale fra gli iddii della terra, che non ne sentono l'eterno dolore, o lo consolano con un riso fatto di spume e di aromi, aromi più mordenti ed inebrianti dei baci, spume crepitanti e lievi come una fiamma. Mentre il romanticismo agonizzava vinto, deforme, negli ultimi romanzi di Hugo e sotto le violente maledizioni di Zola, ella era e rimaneva romantica, fissa ad un ideale di guerra, che doveva essere una redenzione senza nuovo messia, febbricitante in una passione di odio, che era amore di tutti i miseri, vendetta di tutti gli oppressi, convegno di tutti gli abbandonati. Adorava i colori fiammanti, i ritmi sonori, le frasi incendiarie, i gesti profetici, le parole che sono un'arma, i silenzi che sono una minaccia, i sorrisi che esprimono l'indicibile del dolore. Povera, culta, altera, solitaria come Rousseau, il suo grande antenato, fu istitutrice, e ingoiò tutte le amarezze della domesticità intellettuale nelle case borghesi, ove i bambini si allevano nella vanità del danaro: non amava e non era amata, odiava quel pane che la nutriva, quel danaro che la pagava, quei signori che non potevano intenderla, piegandosi forse a certe ore sulle teste bionde dei fanciulli, non vista, improvvisamente, per nascondere nei loro capelli biondi le lagrime che dal cuore le montavano irresistibili agli occhi e le cadevano sulle guance come gocce roventi.
Era repubblicana, socialista, anarchica? Anche adesso non è facile saperlo; forse ella medesima, non lo seppe mai bene. Era una ribelle, che soffriva e odiava ancora più per gli altri che per sè medesima: aveva maggiore bisogno di giustizia che di amore, aspettava una rivolta come i fiori aspettano la primavera, sperava nella distruzione e dalla distruzione, come fra le tenebre di una notte tempestosa si spera nel sole, quasi la gloria trionfale della sua luce potesse cangiare sulla terra la condizione dei viventi, ai quali la vita è inutilmente spasimo e lavoro.
Quando la Comune scoppiò, incendio rosso e fumigante dalle rovine del secondo impero napoleonico, dinanzi ai fuochi dei bivacchi prussiani, ella si gettò nell'incendio e vi combattè più innanzi alle fiamme, a tutte le barricate come uomo, vestita da uomo, nell'esaltazione della morte, inebriandosi al profumo del sangue, all'urlo dei combattenti, al gemito dei feriti, colla fede della vittoria e l'invincibile eroismo del martirio. Forse ella ancora non capì tutta la profonda originalità della Comune, oggi pure incompresa dopo tanta tempesta di controversie e partigiana intensità di studi. La Comune nella sacrilega rivolta al governo, che difendeva la Francia dall'invasione straniera, esprimeva nella propria tragica inconsapevolezza la passione di un dolore e di un'idea umana, più antica e più grande di ogni patria, incapace di più credere alle piccole compromissioni del progresso quotidiano, disperata del presente, abbacinata nella fissazione del futuro e sicura del proprio diritto, perchè non imponeva alla propria vita di un giorno che il dovere della morte.
Chiunque fossero i suoi combattenti, eroi ingenui come Rossel, scienziati sonnambuli come Flourens, pensatori insufficienti come Malon, avventurieri come Deleschize, garibaldini come Cipriani, puritani implacabili o cialtroni mascherati da apostoli, poeti putrefatti dalla vanità, operai impazziti nella sete di un qualunque comando, la Comune li superava tutti e si serviva di tutti per atteggiare soltanto sè stessa.
Nessun poeta ha saputo ancora cantarla, ma oggi i poeti fanno soltanto dei versi: i socialisti stessi la ricordano appena in qualche commemorazione, ma la Comune di Parigi segna un'epoca nella storia d'Europa. Soltanto bisogna essere uno storico e un pensatore molto alto per coglierne esattamente il significato e fissarne la fisonomia nell'immenso tumulto di tutti i fatti e di tutte le idee antagoniste.
Luisa Michel combattè come un'antica Valchiria, e d'allora non sognò più che di battaglie: quando il suo battaglione rientrò decimato a Parigi, ella si unì ad altri per combattere ancora: imparando che la madre è prigioniera, corre a costituirsi per ottenerle con questo sacrificio la libertà: dinanzi al supremo tribunale di guerra risponde insultando e minacciando; deportata alla Nuova Caledonia, vi si muta pei compagni di pena in una suora di carità, consola e non vuole essere consolata, perchè gl'inconsolabili soltanto possono consolare. E dopo, daccapo in Francia, sotto la vigilanza della polizia, le minacce dell'esilio, nella effervescente confusione dei nuovi partiti non capisce più e non è capita: il suo odio intrattabile è diventato ragionevole negli altri, il suo sogno di guerra sanguinante e fiammeggiante non è più che una realtà parlamentare fra comizi e scioperi: non si predica più la morte ma la vita; la virtù non si esprime più immolando sè stessi, ma mortificandosi in una piccola e continua disciplina per conquistare un palmo di terreno, un'ora di riposo, una mezza lira di aumento nel salario. La vergine rossa approva, ma soffre: ciò è troppo poco, troppo facile; ancora una volta afferra la propria bandiera nera, simbolo di dolore e di morte, e alla testa di una turba sulla spianata degli Invalidi riappare sognatrice di un sogno. E la condannano a sei anni di reclusione: graziata poco dopo, ricusa la grazia, così che bisogna cacciarla dal carcere colla forza: poco dopo ancora l'arrestano e le minacciano il manicomio.
Così la sua passione era finita.
Ma qual poeta rivelerà la sua anima?
Madama Akermann, l'illustre poetessa, fu una santa dell'ateismo: i suoi versi contro Dio sono belli, perché la rivolta del suo amore umano è puro ed eroico: si freme e si trema leggendoli. Luisa Michel era una sorella spirituale di madama Akermann: questa non amò che il marito, quella non amò forse alcuno.
Ma se la sua verginità seppe attraversare immacolata la vita senza nemmeno chiedere di essere compresa, questa virtù depose contro le sue idee, e, come sempre in tutte le anime, la virtù ebbe ragione. Per amare l'umanità e spingersi e spingere gli altri al sacrificio, forse non bisogna chiudersi nell'amore di alcuno; ogni olocausto ha d'uopo di altare: tutte le santità sono sorelle, l'odio si congiunge all'amore sulla stessa cima, la ribellione e la tradizione si fondono nell'antitesi del medesimo sforzo.
Povera vergine rossa, se vecchia, sola, abbandonata, tremò di essersi ingannata nel lungo sacrificio e rimpianse di non aver amato come intorno a lei tutte le altre donne! Povera vergine rossa, se nelle ultime ore, dalla imperscrutabile tenebra della morte, dal mistero anche più imperscrutabile della vita qualche guizzo di una voce o di un suono la sferzò sul viso e sul cuore come una ironia!
Eppure ella visse bene, perchè visse solamente per gli altri.
9 aprile 1904.
IL PRIGIONIERO
Mentre le vampe della rettorica democratica si abbassano fumigando intorno ai fantastici palazzi del Gran Sultano, che la promessa costituzione sembra avere avvolto di una impenetrabile nube, altre lingueggiano e stridono nella grossa metropoli lombarda intorno al monumento dell'imperatore prigioniero. Egli è là, nel cortile di una vecchia casa, sul canale vinciano, immobile nel solenne e cortese saluto; forse egli ricorda ancora troppo bene la lunga, piccola, fortunosa ed inutile tragedia del proprio impero, per sentirsi impaziente di riapparire, nell'artistica bellezza regalatagli dal grande scultore, agli occhi disattenti della folla.
Ho detto grande, perchè il monumento, nella sua superba semplicità, è forse il più bello, che l'Italia vanti dopo quello di Garibaldi sul Gianicolo, e lo scultore dovette morire nell'ineffabile dolore di una negazione, che uccideva l'opera della sua arte nell'ultimo rissoso carnevale di una politica senza verità nella storia, senza poesia nella vita.
Allora, quasi all'indomani della nuova proclamata repubblica francese, gli avanzi del partito mazziniano si accanivano sul morto imperatore; proclamavano sfregio alla repubblica di Parigi l'effigie di Napoleone III salutante in una piazza di Milano la risurrezione italiana dell'antica capitale lombarda; evocavano le ombre di Aspromonte e di Mentana, tornavano agl'improperii sul primo goffo tradimento del '31, che nemmeno tradimento fu. Sul vento della grande bufera vittorhughiana, che rapiva nella propria frenesia anche le piccole strofe carduccesche, così classicamente composte nel volo, l'esultavano di collera eroica sulla morte della repubblica romana, che Cavaignac aveva ucciso soltanto per preparare il secondo impero napoleonico; e tutti nel piccolo sonoro partito, ingrossando la voce e le parole, sembravano crescere nell'Italia, già dimentica della propria tragedia rivoluzionaria e febbrilmente ansante nella preparazione della propria conquista industriale, una severa, eroica passione di patria.
Sciaguratamente non era vero. Qualche superstite, come il colonnello Missori, omerica figura di soldato oggi ancora immutato nell'odio all'imperatore, poteva e doveva essere creduto; ma tutta la rettorica di Cavallotti e di Bovio, affannati a salire trionfalmente sul cadavere imperiale per farsene uno sgabello di piazza, era troppo falsa nel tono e povera nel pensiero e fredda nel sentimento, per accendere nelle anime nuove una qualche passione. Nullameno vinse.
I moderati di allora, capitanati da Negri, un sindaco ed un filosofo recentemente levato all'onore del monumento ancora conteso a Napoleone, indietreggiarono e tacquero.
Forse fu bene.
Oggi non il problema, bensì il pubblico è mutato.
La monarchia è così morta in Francia, che i suoi ultimi sognatori non vi arrivano alla decenza del sogno; la repubblica, così sicura, che ha potuto rinunciare al lusso della gloria militare e all'orgoglio di un primato europeo: il secondo impero, già lontano nei ricordi dell'ultima generazione, senza poesia di leggenda, senza superstiti forme di grandezza nella nazione, è diventato da tempo motivo di storia. Ollivier, il suo ultimo ministro, invecchiato nel silenzio dell'abbandono, colla mano tremante e la fronte già fredda dell'ombra sepolcrale, scrive e sogna di essere il suo grande storico.
Il secondo impero fu la conseguenza del primo: questo il poema, quello l'avventura: il primo imperatore era il genio dell'impero, che nella caduta e nella condanna di tutte le monarchie proclamata dalla grande rivoluzione francese, doveva tentare la loro resurrezione in un'ultima unità imperiale, e invece non s'accorgeva di essere il messo misterioso della rivoluzione, incaricato soltanto di provare ai popoli la nullità dei loro re: quindi andò, vinse, rovesciò dinastie e monarchie, cancellò, ricompose, sognò, disparve e si destò solo, più grande, prigioniero, morente a Sant'Elena.
Il secondo impero e il secondo imperatore capitarono ultimi di un'altra serie, estremo esempio e prova che nel grande paese della rivoluzione la monarchia aveva finalmente cessato. Infatti, dopo la prigionia del primo Napoleone tutti i re si tastano la corona sul capo e sorridono di sentirsela ancora: il cattivo sogno è dileguato, la rivoluzione vinta, i popoli si levano osannando ai propri sovrani. I Borboni tornano: Chateaubriand, l'incantatore cristiano, preso anch'egli nella forza del proprio incantesimo, declama il nuovo presagio: «Signori, niente è accaduto, soltanto oggi in Francia vi è un francese di più». Questo francese era Luigi XVIII. E l'esperimento incomincia. La rivoluzione sopravvive nella nuova costituzione largita dalla carta: il primo re pare un sonnambulo, ignora la rivoluzione, non ha capito l'impero, non crede alla carta, sorride sarcasticamente della aristocrazia alla quale cura le piaghe, ha un'amante, l'inganna e ne è ingannato, passa e soccombe in un prologo. Suo fratello Carlo X vuole essere re, e un soffio di piazza lo gitta un'altra volta sulle vie dell'esilio: quindi l'esperimento costituzionale prosegue con Luigi Filippo, un usurpatore, al quale può benissimo convenire la formula repubblicana: il re regna e non governa.
Invece vuol regnare, governa troppo e troppo male, non ha tradizione, non può trarre dal presente un avvenire, e una rivoluzione incruenta lo rovescia. Questa volta non è più un re che cade, ma un borghese, che rientra nella borghesia. Ma la repubblica, improvvisata in piazza, è ancora troppo precoce: dovrebbe essere di popolo, e invece deve vivere della borghesia, che non la vuole ancora per diffidenza della plebe, per orgoglio del proprio privilegio, e soprattutto perchè l'estremo esperimento monarchico non è ancora esaurito. Ecco l'impero del terzo Napoleone: nato di una reazione, servo del clero, costretto all'avventura militare, a sognare la gloria, a stordire la Francia con un primato artificiale ed effimero, a sedurre il popolo con un vago profumo socialista, condannato ad essere sempre in guerra senza poter profittare di nessuna vittoria, incapace di fondare una dinastia, di affermare una idea, di farsi di un qualunque interesse un baluardo.
L'imperatore è anche più contraddittorio.
Troppo piccolo per meritare l'oceanico assalto di Victor Hugo, non trova nemmeno una imperatrice per moglie; ha un esercito ed appartiene ai generali, tutti i ministri lo superano; la tradizione del grande impero e del grande imperatore lo spingono contro la monarchia: arresta lo zar Niccolò sulla via di Costantinopoli, ma, ritentando l'impresa d'Italia, dovrà arrestarsi davanti all'Austria e davanti al papa. Imperatore rivoluzionario, la rivoluzione l'oltrepassa e lo nega: così, dopo aver aiutato l'Italia vorrà contraddire la Prussia, e cadrà senza onore nè d'impero nè di guerra. Ma prima il suo sogno d'impero universale avrà condotto alla fucilazione sui piani di Queretaro un altro imperatore.
Che cosa restava dopo alla Francia? Tutte le prove monarchiche non erano esaurite?
Ma senza Napoleone e senza il secondo impero la terza Italia non è nemmeno concepibile. L'eroismo di Mazzini e di Garibaldi, il genio mercantile di Cavour non bastano: manca la passione nella massa, manca un esercito sufficiente contro l'Austria e i tiranni interni. Purtroppo la vittoria del '59 è francese: Cavour non avrebbe proclamata la guerra senza l'alleanza francese, senza questa l'Europa non ci avrebbe consentiti i risultati della vittoria. Purtroppo ancora Napoleone III, non Vittorio Emanuele II, entra solennemente vincitore a Milano, e l'Italia ancora serva di tirannelli inani ed inermi non esplode cacciandoli.
Solferino nella storia italiana è una data come Legnano. Che importa il segreto pensiero dell'imperatore, se il suo era davvero un pensiero, mentre la storia lo ricusò? che importano le contraddizioni del suo impero egualmente vittima della rivoluzione e della reazione? Mentana non cancella Solferino e non potè salvare nemmeno il papato.
La storia è impersonale nel proprio trionfo: annulla tutti gli attori, e quando si rivela con essi non è tutta in essi.
Napoleone III, che entra a Milano, è la Francia rivoluzionaria ed imperiale, che doveva compiere la resurrezione d'Italia: lasciate che il suo bel monumento si levi sopra una piazza salutando la folla che saluterà. Napoleone e l'impero sono morti; ma nella memoria d'Italia il loro fantasma durerà, immortale: il loro monumento prigioniero in un cortile significherebbe soltanto che l'Italia non ha ancora acquistata la coscienza della propria storia.
Invece un altro secolo è già cominciato, che le impone di superarla.
31 ottobre 1908.
L'ORRORE DEL VUOTO
Pochi giornali inglesi urlano allo scandalo, tutti gli altri tacciono in un silenzio meditato.
L'altro ieri nel pomeriggio si compirono i funerali di Herbert Spencer, semplici, inavvertiti: nè rappresentanti del governo nè della scienza; appena qualche amico o discepolo, ma il più illustre, colui che doveva colla propria eloquenza di poeta dare l'estremo saluto al grande morto e da questo medesimo prescelto al solenne ufficio, era assente. La salma fu cremata nel forno di Golden Green Duck, e l'urna delle ceneri portata al cimitero di Highgate per essere chiusa entro un volgare sarcofago, sul quale, per volontà espressa dal filosofo, non verrà incisa alcuna iscrizione, almeno per un anno.
Perchè tale riserva in tale tempo? È difficile immaginarne il motivo.
Vissuto sempre nella più oscura mediocrità, anche al culmine della gloria, quando da tutte le lontananze del mondo salivano al suo nome urli di battaglia e grida di trionfo, egli non parve mai accorgersi della propria sovranità ideale. La pensione, nella quale si era quasi rifugiato, non accoglieva che piccola gente, sbandati della vita che passano soltanto o restano per non sapere dove andare; ed egli non appariva loro che come un altro estraneo senza distinzione signorile, quasi povero, silenzioso, con una fronte troppo alta, così alta che a molti doveva parere ridicola. Ma così le montagne, quelle fronti che dominano gli orizzonti, hanno altezze e candori inverosimili, silenzi che agghiacciano e rombi che spaventano più da lontano che da vicino; eppure la gente che vive alle loro falde se ne accorge appena, e guarda meravigliata se un qualche straniero davanti ad esse si accenda d'entusiasmo.
Il vecchio filosofo lo era abbastanza per sorridere bonariamente anche in questo caso.
Egli non amò la gloria come Hegel, pur avendone conseguita una tanto più vasta di quella che avvolgeva come in una nube sacra l'immenso genio tedesco; non si nascose al mondo come Spinoza, l'ultimo genio ebraico, che si fece un deserto entro una piccola bottega da occhialaio e visse e mori incognito sulle cime della propria metafisica, arida ed irta come una roccia di granito; ma inglese nel corpo e nell'anima, filosofo dell'industrialismo moderno, ne accettò tutte le volgarità anche nella propria vita dalla compagnia promiscua di tutti i giorni in una locanda anodina e quasi anonima: passò lungo le scuole senza entrarvi nè professore nè scolaro, lasciò regnare le proprie formule senza chiedere loro nè uno scettro, nè un mantello d'ermellino.
Così, senza accorgersene, rappresentava il proprio tempo meglio ancora che non ne riassumesse davvero nella vastissima opera il sentimento ed il pensiero. Filosofo d'Inghilterra, che ne ha avuto uno solo nell'ora più densa della lunga notte medioevale, egli fu, come tutti gli altri, i più illustri, un condensatore dell'intelletto comune, evitando egualmente le cime e le profondità; la sua filosofia non è che una geografia vasta quanto il mondo, ma non più profonda della sua crosta; la sua originalità non è che nell'ampiezza, la sua forza nella semplicità dell'argomentazione, la sua dignità nella coscienza dei limiti, la sua espansione nella facile sicurezza dei fatti. È quasi tutto vero quanto egli afferma, ma la spiegazione diventa sempre insufficiente alla seconda domanda: la sua ragione si contrae per rimanere esatta e s'impicciolisce nel fenomeno che esamina; il suo cuore non ha echi di altri mondi, il suo pensiero bagliori di altri cieli, la sua memoria ricordi di altra vita, la sua fantasia necessità di altre forme. La filosofia del buon senso, che guadagnò con Bacone la prima vittoria, ottenne con Spencer il supremo trionfo mondiale. Sciaguratamente il buon senso, per quanto migliore del senso comune, non basta nè alle basi della scienza nè alle altezze della filosofia: indispensabile come l'aria e la luce ad ogni quadro, non può dichiararne il significato e rivelarne l'anima; è la guarentigia più sicura della vita e la sua insufficienza più dolorosa.
Vi è il vuoto dentro di esso, al di sopra e al di sotto.
Ecco forse il perchè dell'indifferenza, peggio anzi, dell'ingratitudine della folla, grandi e piccini, ricchi e poveri, nobili e plebei, governanti dello stato e delle scuole, davanti alla salma dell'illustre filosofo, il più inglese che l'Inghilterra abbia avuto. Vivo, egli era quasi impersonale nella insignificanza della propria vita: la sua enciclopedia, si può ben chiamare così, era come l'enorme libro mastro della ricchezza intellettuale moderna, ma della ricchezza soltanto commerciabile, alla quale tutti possono sperare di giungere, facile al desiderio, non difficile al possesso. Morto, il suo libro mastro resta ed il problema della morte non può entrarvi.
Indarno sul forno crematorio, che arse la sua salma, è incisa l'iscrizione: Mors janua vitae; giacchè queste bibliche parole sono più profonde di tutta la filosofia spenceriana, e invece di una spiegazione diventano un enigma sulla fronte del forno. Ma Spencer ne avrebbe sorriso ironicamente come di una stonatura letteraria.
L'Inghilterra, così pronta alla vanagloria delle proprie superiorità, si è chiusa dunque nella quotidiana indifferenza prosaica dinanzi alla bara del grande filosofo, di colui che regnò per trent'anni sul mondo come il suo commercio e la sua industria.
Forse la bigotteria religiosa odiava in Spencer la calma dell'incredulità, quella aristocratica la forza degradatrice del suo pensiero borghese, l'altra democratica la supremazia del suo individualismo su tutte le tumultuarie pretese della moltitudine.
Ma un istinto fors'anco ha riunito come in una paura incosciente tutte le anime, che la vita distrae nella propria operosità, e la morte scrolla ad ogni richiamo: esse hanno tremato dinanzi alla bara del pensatore, che aveva dichiarato l'inutilità dell'inconoscibile ed era morto senza chiedere soccorso ad alcuno. Nella sua bara non vi era una speranza: percotendola in turbamento devoto, nessuna voce e nessuna eco avrebbe risposto.
L'anima e la natura hanno egualmente orrore del vuoto.
Che cosa poteva dire la morte di Spencer al cuore dell'Inghilterra?
Perchè non ha egli trovato la parola da scrivere sulla propria tomba? Eppure era quella che tutta l'Inghilterra e tutto il mondo aspettavano da lui: la parola suprema, che si lancia nel mistero perchè dal mistero discesa, che ha sonorità interminabili e bagliori inestinguibili; la parola, che la ragione non può dire e il cuore reclama, grido di fede, urlo di speranza, invocazione all'inconoscibile, dentro il quale la nostra conoscenza è come la perla nell'oceano e l'astro nel cielo; la parola di tutti, senza la quale la vita finisce alla morte.
Mors janua vitae: gl'industriali del forno crematorio avevano pur trovato nella Bibbia queste belle parole per inciderle sopra la sua bocca: una stonatura: qualche cosa come un frontile di perle sopra un cappello a cilindro.
Ma la poesia vigila a tutte le porte e reclama i propri diritti di pedaggio: chi passa oltre senza pagare non passa che inavvertito.
Spencer è passato così.
21 dicembre 1903.
CIECO CONTRO CIECO
L'Inghilterra è pronta a sollevarsi ancora una volta alla voce del suo più grande filosofo, Herbert Spencer, morto quasi fra la pubblica indifferenza.
Egli riappare intero, vivo e vibrante, in una autobiografia, possentemente intravata come il suo sistema, al tempo stesso cornice e ritratto, colla minuta esattezza nei fatti e la più scrupolosa verità nel racconto. Ma questa autobiografia, da lui medesimo chiamata storia naturale di un filosofo, non sarà che la storia del suo pensiero e del suo lavoro, perchè Spencer pensò e lavorò soltanto, spettatore della vita, alla quale in cinquant'anni chiese ostinatamente il segreto per confessare, vecchio e morente, nelle ultime pagine dell'ultimo libro, che il fanciullo eterno si risveglia sempre nell'uomo e che l'uomo non può rispondere alle domande del fanciullo. È dunque questi che ha ragione? Il filosofo non risponde se non rimpiangendo le credenze religiose degli ignari, piccolo, aereo ponte gittato dalla loro fantasia sul mare dell'inconoscibile, capanna aperta a tutti i venti, ma inghirlandata di fiori sempre freschi in mezzo al tumultuoso e rovente deserto della vita.
Spencer è un filosofo, ma soltanto un filosofo inglese. La sua fantasia appare povera, il suo sentimento arido: la stessa morale, che aveva deviato Carlyle nei giudizi dell'arte, restringe e impoverisce Spencer: la sua teoria della musica è appena una teoria dei suoni, e il suo gusto nella pittura sempre volgare, malgrado l'indipendenza della originalità; ignora la letteratura, e quasi sempre tratta la vita come un botanico che per sentire un fiore ha bisogno di essiccarlo.
Il suo primo odio fu Omero: la traduzione di Pope è celebre come quella di Monti, ma inspirata allo stesso classicismo, senza nè intendimento di epopea nè divinazione dell'antico: e forse Spencer vide il rude gigante greco attraverso l'omiciattolo inglese, il letterato più letterato dell'Inghilterra.
Quindi dichiarò che avrebbe pagato una grossa somma, egli povero, piuttosto che seguitare ancora oltre il sesto canto.
Antipatia ed obbiezioni erano soprattutto morali. E si ricordava ancora dei propri primi saggi contro l'insegnamento classico, che prosegue inutile ed esuberante nelle nostre scuole moderne; e di tutta quell'altra critica, in lui metà istintiva e metà logica, sullo scopo dell'arte e della scienza, che debbono migliorare la vita e perfezionare i dati della morale, rimasti poi così slegati ed inconsistenti, quando più tardi egli tentò di dar loro una base in un libro.
Ma egli non poteva sentire Omero.
Platone stesso, un filosofo, o forse meglio un poeta della filosofia, aveva assai prima di lui condannato il gran cieco senza dubitare come noi della sua esistenza, perchè l'antichità non dubitò mai di Omero. Vico, un altro filosofo, molto dopo scompose ed annullò il poema per trarne materiali ad un fantastico edificio di storia, il quale invece era anch'esso una poesia, un sogno, che pretendeva indarno di chiamarsi Scienza Nuova; poi la critica tedesca, ripetendo le temerità della vecchia critica alessandrina, spezzò il poema e ne gittò all'aria i canti, che ricadendo sul cuore della gente si ricongiunsero nell'immutata, insuperabile figurazione di bellezza.
Certamente non tutto Omero era bello come pretendevano i letterati della scuola; certamente qualche altro aveva cantato vicino a lui con voce meno solenne sopra un'arpa meno armoniosa, e voci e canto si erano confusi: forse il poema, tal quale fu ricomposto da Pisistrato, era già monco; forse se l'Odissea fu l'opera dello stesso uomo, l'Iliade non finiva come per noi colla morte e il supplizio di Ettore.
Ma il poema è uno e ben greco nell'umanità bassa, spesso volgare de' suoi iddii, non molto antico nella forma e nel sentimento dell'eroismo, molto vero nella precisione delle battaglie, che Napoleone primo ammirò spingendo questo entusiasmo sino al disprezzo di Virgilio. Infatti come Spencer davanti ad Omero, Napoleone di fronte a Virgilio, il più ammirabile poeta di gabinetto, doveva prima sorridere poi sdegnarsi: gli eroi dell'Eneide non sono epici, i soldati non sono barbari: poi Virgilio non sa la guerra come Omero, non l'ha vista, e l'avrebbe probabilmente vista indarno.
È un artista della poesia, un orefice del verso, un musico della parola. Le epopee non possono nascere nei secoli classici: bisogna essere un eroe per crearne un'altra; il tempo di Augusto ebbe Virgilio, da quello di Leone X uscì il Tasso, dall'altro di Luigi XIV Voltaire.
E si resta tristi, pensosi, davanti a questa cecità di Spencer, che intendendo a ricostruire ancora una volta la storia dell'anima umana non sente l'epopea, non indovina Omero. Capiva egli Shakespeare? L'immenso trageda inglese nemmeno nelle sue scene più belle supera la potenza tragica di certi episodii in Omero, ed Eschilo stesso non li raggiunse, poichè nell'epopea la tragedia dell'individuo essendo soltanto episodica subisce ed esprime una concentrazione, che dopo il teatro non produrrà più.
Nel teatro l'uomo è come al centro della vita, che sembra illuminare, atteggiare di sè stesso; nell'epopea invece egli è come un'onda dentro una tempesta, e la sua voce non può dominare il rombo di tutte le altre se non spezzandosi improvvisamente con più profonda rovina.
L'epopea esprime quindi meglio della tragedia la nostra sudditanza nella vita: possiamo appena compiere un atto, gittare un grido, trovare una parola: non altro. Gli eroi di Omero sono immortali così; e lo sono più di tutti gli altri apparsi poi sul teatro e nei libri.
Alessandro sognava d'Achille: il secolo decimonono ha tutto sognato di Napoleone, ma Omero e l'epopea non erano più possibili.
Cieco contro cieco; Spencer contro Omero. In Italia non sarebbe nè possibile nè intelligibile il fermento, che si leverà nelle classi colte dell'Inghilterra contro il filosofo, che osò con tanta mirabile sincerità confessare la propria insufficienza.
Il teorico dell'evoluzione, il massimo compositore del positivismo, non poteva avere le divinazioni del sentimento, che sono una fede, appunto per aver egli troppo creduto alla ragione, sino a credere nella sua credulità.
La ragione logica riesce sempre impari al mistero della vita; quella dialettica ricostruisce sempre lo stesso edificio a travi per chiudervi dentro il mondo. Hegel potè molto intendere di Dante; Spencer non doveva sentire Omero, che nemmeno l'Inghilterra sente, giacchè lo legge nei versi di Pope, come noi in quelli di Monti.
Non oso giudicare il verseggiatore inglese, ma gli endecasillabi romagnoli ed italiani dell'altro, malgrado il consenso oramai lungo degli uditori, sono certamente ritmati sul rullo dei tamburi napoleonici e guarniscono la parola degli eroi con tutta la grazia del teatro e la compostezza della scuola.
Quando si chiedeva a Prassitele quale fra le sue opere gli paresse più bella, rispondeva invariabilmente: — Quelle alle quali Nicia ha egli pure messo mano. — Sainte-Beuve suppose che domandando a Omero quale preferisse fra le ricomposizioni dell'Iliade, avrebbe risposto: — Quella di Aristarco.
Ma se qualcuno gli dicesse oggi: — Fra le tante traduzioni del vostro poema, fra Pope e Monti, chi scegliete? — io suppongo che il gran cieco con un sorriso indulgente d'ironia mormorerebbe: — Nessuna.
E siccome i lettori non mi crederanno, possono benissimo credere che io so poco l'italiano e niente l'inglese.
19 aprile 1904.
VI DELITTI E DELINQUENTI
PROBLEMA CRIMINALE
È orribile e profondo.
Laggiù, fuori di Bari, a Torre Pelosa, in un povero villino, tre sorelle hanno assassinato il padre. Il processo si discute ora alle assise di Lucera, e può essere finito prima che questo articolo appaia. Non importa: sotto l'atroce tragedia vi è un problema, che da tempo riagita molte idee e molte teorie, le quali pretendono alla modernità come alla migliore delle proprie prove.
La tragedia non è originale: un uomo, un borghese, al solito sposa una donna che non ama, la rende madre tre volte, la desola colla propria condotta, le avvelena l'anima, la giovinezza, la vita e impunemente la costringe a morire. È un delitto, ma di quelli che la legge non può punire e nemmeno classificare.
Appena morta la moglie, egli porta a casa l'amante, una donna che gli somiglia, grossolana, robusta, senza moralità, senza intelletto, la solita amante carnale di certi carnivori, la femmina del bruto, la complice dell'assassino, la schiava-padrona del tiranno domestico. Le figlie, orfane, crescono sotto di lei, contro di lei: la loro vita è una guerra e una sconfitta quotidiana: un altro figlio nasce nella casa del peccato e appunto per questo amato, accarezzato come un'arma contro di esse: il disordine precipita casa e famiglia nella rovina, la miseria vi esaspera gli odii, vi degrada il dolore, mette una fiamma in ogni piaga, la violenza di una sfida in ogni atto, la fatalità della morte nell'ipotesi di qualunque finale. L'uomo, il padre, non può sottrarsi più all'amante: questa sottomette alla superiorità del proprio figlio le figlie della morta, e queste ancora abbandonano la casa non avendo e non sapendo ove andare. Poi difendendo sè stesse, ostinandosi nella lotta disperata, difendono la morta, il suo diritto di sposa e di madre, la sua dote distrutta, il suo grado, il suo nome.
Ma quell'uomo, che la rovina scatena contro gli altri e sè stesso, viola la maggiore delle figlie; essa ha un amante, al quale egli la ricusa per non doverle dare qualche avanzo patrimoniale e per una spaventevole compiacenza della propria carne: il padre ha vinto una volta nello stordimento di un orrore, che aveva accecata la fanciulla, forse non lasciandole dopo nemmeno la forza di parlare, e quindi la tentazione gli riaccende il sangue, la volontà gli si leva dal senso mostruosamente laida, vuole ancora, e la figlia l'uccide nel letto a colpi di rivoltella.
È un parricidio?
No. Comunque i giurati sentenzino, ascoltando l'infallibile voce dell'istinto o perdendosi nell'intrico della dialettica giuridica, fra il barbaglio delle frasi e le lustre delle prove, questa morte non è un parricidio. Il padre era già morto prima, o forse non era mai esistito.
Perchè il padre è soltanto una figura spirituale. Coloro che oggi sostengono la ricerca della paternità, oltre i due classici casi dello stupro e del ratto, sembrano averlo dimenticato, ma le prove che essi tentano di esibire potranno tutto al più, in certi casi, accertare l'amante: il padre non mai.
La paternità è l'inevitabile ipotesi legale di un fatto che la natura ha voluto nascosto nel più invincibile dei misteri. Dato il matrimonio, il padre doveva essere lo sposo: la maternità aveva per prova il parto, la paternità era e non poteva essere che un atto della legge e un atto di fede.
Qui stava forse l'argomento migliore della sua primazia e della sovranità dell'uomo nella famiglia. Egli credeva al figlio perchè aveva creduto alla madre, e l'amore soltanto giustificava in lui questa fede: poteva essere ingannato, lo era quasi sempre, ma l'inganno, invece di scemare la sua funzione, l'alzava nobilmente, tragicamente, e il figlio, se non più quello del suo corpo, era quello della sua anima, una creatura del suo spirito, una mente nella quale egli aveva deposta tutta la dottrina e i dolori della propria esperienza, un cuore nel quale poteva rifugiarsi per sentire ricominciare la propria vita nella natura e nella storia.
La donna non fa che il bambino, l'uomo solo può creare l'uomo.
Una grande parola ha traversato i secoli: non si è uomo finchè non si diventa padre. Gesù potè dire alla Samaritana: — Salomè, Salomè, mangia tutto, ma non l'erba amara — un'erba che le donne di Samaria mangiavano per restare incinte, e mai la sua parola ebbe più divina e disperata negazione della vita; ma Gesù espresse coi discepoli e coi fanciulli, ovunque e sempre, il tipo più ideale della paternità.
Perchè un parricidio si compia, bisogna che il figlio abbia nella coscienza la figura spirituale del proprio padre, da questo medesimo in lui creata collo sforzo lungo, pertinace, doloroso dell'amore. E se questo figlio, sentendosi opera di lui, ricordando che tutta la propria vita crebbe soltanto per la sua protezione, che i suoi sacrifizi gli ottennero i piaceri, i suoi esempi gli insegnarono la strada, il suo spirito gli aprì la mente, il suo cuore gli svegliò la coscienza; se, malgrado questo, per una passione, per un vizio, per un difetto qualsiasi, egli si leverà contro di lui, e lo ucciderà: ebbene, questo delitto, che i romani non avevano nemmeno supposto possibile nelle loro prime leggi, sarà così vero ed intero che la nostra anima vi si sentirà smarrita e la nostra scienza criminale sorpassata nella capacità di analizzare e di punire.
E questo delitto sarà ben raro.
Invece pur troppo non lo è. Ma quasi sempre il padre prima uccide sè stesso nell'anima del figlio, dentro la quale o una lenta accumulazione, come sostengono i credenti nelle leggi dell'atavismo, aveva preparato l'ambiente stesso della figura, o piuttosto, secondo l'antica fede nelle innate categorie spirituali, la figura preesisteva, aspettando solamente l'impronta della sua opera e della sua fisonomia.
Quindi il parricida non colpisce più che un uomo, quasi sempre un nemico, col quale la lotta durava miserabile, reciprocamente infame, vile, instancabile da anni.
La legge, il processo, non possono quasi mai entrare abbastanza profondamente in tale esame: il padre deve essere sempre colui che ci diede il proprio nome sopra un qualunque registro legale, ma la coscienza, accettando la necessità di questo giudizio, lo corregge nel proprio segreto.
È una parricida quella fanciulla, che per uccidere il carnefice della propria madre, il bruto della propria casa, il violatore del proprio corpo e della propria anima, si consultò prima colle sorelle, delle quali una era idiota, poi si avvicinò colla rivoltella al letto, e, invece di profanarlo coll'incesto, lo mutò in un patibolo e in un altare?
Nessuno saprà mai, perchè ella stessa volendo non saprebbe dirlo, che cosa pensasse la sua mente e soffrisse il suo cuore in quel momento, da quali profondità spirituali le giungessero l'urlo e il comando della morte: ogni delitto è prima un peccato, e il peccato un segreto fra l'anima e Dio; ma nella nostra scienza e nella nostra coscienza ella non uccise e non poteva uccidere che un uomo.
Adesso, forse, nello spavento e nell'orrore del processo, che la getta nuda sotto la minaccia della legge e la viziosa curiosità del pubblico, quella fanciulla può dubitare, e, dopo la vendetta, rivedere tremando, il padre. La morte è una trasfigurazione: si dubita davanti al cadavere della ragione che ci spinse ad uccidere: è pietà di lui, di noi, della vita, è mistero e tragedia: però la colpa umana e umanamente valutabile deve essere giudicata nel momento supremo della sua azione.
Colui non era un padre, ed è già abbastanza per la sua memoria, se la legge deve ancora considerarlo uomo.
24 marzo 1904.
ROMANZO VIVENTE
Il romanziere si è suicidato a Roma dentro un fiacre con un colpo di rivoltella alla testa.
Ma il suo delitto, prima ancora di essere una colpa della coscienza, era un errore di arte in una fantasia esasperata dai bisogni del vizio, accesa dalle vampe della vanità. Infatti tutti gli ingredienti, gli arnesi, gli artifici di un romanzo d'appendice entrano in questo delitto, al quale la morte del protagonista toglierà forse l'epilogo di un processo: vi è una villa affittata fuori di una grande città, la più intensa forse d'Italia; una villa nella quale non si ammobilia provvisoriamente che il pianterreno, e il mobilio è composto per un agguato, quadri insignificanti da far vedere come opere d'arte, ed una vasca troppo grande anche per affogarvi un uomo. Questo naturalmente è un milionario, poichè nei romanzi di appendice tale personaggio è più indispensabile del tiranno nelle tragedie alfieriane e della vergine nei primi romanzi romantici della scuola francese ed inglese. Il milionario di questo genere è quasi sempre un ingenuo, quando non sia un delinquente: questa volta era un dilettante di sport, allevatore di cani, cacciatore forse di varie selvaggine, ancora giovane, abituato alla facilità delle amicizie e delle avventure. Ucciderlo sarebbe stato facile, ma poco proficuo, se l'uccisore voleva davvero diventare ricco: bisognava invece succedergli, prendere il suo posto nella vita, in mezzo alle sue ricchezze, ai suoi amici e ai suoi cani; diventare milionario nel modo più semplice e più legale, ereditando da lui, fra lo sbalordimento complimentoso di tutti, in una improvvisazione scenica, come il teatro ne ha ancora ed applaude.
Ed ecco i ricordi dei romanzi letti magari a caso, a strappi, fermentare in una testa di piccolo avventuriero e di più piccolo truffatore: un disegno drammatico schiarirsi nella sua fantasia, moltiplicarsi nelle scene, preparare un scenario, i legacci, la vasca, le lettere, le cambiali. La villa è deserta, una dama velata vi è venuta prima ad un appuntamento misterioso, forse a più d'uno; la dama, probabilmente, è una volgare sgualdrina, che diventa così il primo pubblico del dramma ed ubbriaca col primo applauso il drammaturgo. Ma le difficoltà sono molte, troppe per giungere al finale, giacchè un testamento si può facilmente dettare colla rivoltella in pugno ad un ricattato, ma è quasi impossibile, dopo, farlo credere spontaneo e vero. L'omicidio deve quindi sembrare un suicidio: così l'imbroglio si raddoppia, e i personaggi aumentano. Un complice si rende necessario: può essere un fratello e non basterà: il protagonista non ha il coraggio del sangue, perchè la sua forza non oltrepassa la rettorica: poi vuole salvarsi a qualunque costo e un alibi gli è indispensabile.
Generalmente i drammaturgi più sanguinari hanno orrore del sangue, e non potrebbero nemmeno fare i flebotomi, un mestiere oggi tramontato e che domani forse risorgerà, se nella medicina durino i richiami alle teorie di Broupais e di Tommasini. L'antico sicario ritorna dunque in scena come falso servitore e bertone vero: egli affogherà prima nella vasca il milionario, poi a notte ne getterà il cadavere nel canale.
I veri assassini hanno la fantasia più semplice e il cuore quasi sicuro quanto la mano.
Invece questo cavaliere Vecchio, che non sa uccidere, si fida ad un sicario senza averne provato nè la fede nè il coraggio: gli butta cento lire, andandosene col testamento e le cambiali in tasca, senza nemmeno pensare che il ricattato, essendo vivo, sedurrà l'assassino.
Perchè infatti questo gli avrebbe resistito? A che si riduce la sua complicità in questo delitto, dal momento che il signor Berretta non è stato suicidato e che testamento e cambiali rimanevano senza valore nella tasca di quell'altro? Naturalmente il milionario liberato liberaleggerà, riconoscendo in lui il vero liberatore e un buon diavolo tirato forse dentro ad un assassinio, mentre credeva appena di partecipare ad una truffa. Così avvenne, nè poteva altrimenti avvenire.
Il drammaturgo, invece, non ha dubbio sulla eccellenza del dramma, sulla perfezione del romanzo: parte e va a Genova dall'amica, la dama, forse, la sgualdrina certamente. Una festa di baci lo accoglie, due piccole mani lo applaudono e lo accarezzano. La sua fede contagiosa s'apprende all'altra: egli è giunto senza nascondersi e riparte allo scoperto. A Roma scende ad un albergo in piazza Montecitorio, davanti al fabbricone delle leggi e degli inganni politici: la sua fantasia divampa, parla con molti, ferma un giornalista, non cerca nemmeno prima i giornali del mattino. Perchè dubitare? Egli è sicuro del proprio ingegno e del proprio capolavoro. Non è così la fede in sè stesso di tutti gli artisti veri o falsi? non arriva al disprezzo del pubblico, all'oblio del pericolo, allo scherno della catastrofe?
Ma quando questa scoppia, tutto crolla, teatro e scenario, dramma e drammaturgo: improvvisamente, come dentro un bagliore di incendio, la realtà riappare: dal falso romanzo erompe la tragedia vera, mortale, fatale. Il protagonista, che non sapeva uccidere, deve lui suicidarsi, subito, senza una scusa, senza una esitazione. Il dramma è caduto, il pubblico fischia ancora a sipario calato. Egli fugge senza saper dove, colla morte innanzi, tremando di vedersi riconosciuto da ogni viso che gli viene incontro, afferrato da tutte le mani che lo sfiorano, fermato da tutte le voci che gli parlano. Invece del rimorso, poichè nel suo dramma e nel suo romanzo nessuno è morto, la vanità dell'autore lo strazia, il dileggio della ragione gli sferza la fantasia, la paura, quella vera, gli fa battere il cuore come in una corsa disperata, di sogno.
La notte gli allunga corsa ed agonia; al mattino, finalmente, fuggendo sempre, in fiacre nella impossibilità di poterne discendere, si uccide.
Ebbene: in questo delitto l'errore primo, il guasto primitivo, è nella fantasia. Naturalmente l'anima era corrotta e la coscienza buia, ma la spinta è nella vanità intellettuale della concezione, nella superbia crescente della preparazione segreta, nell'allucinazione che un quadro troppo a lungo fissato produce sullo spirito. Questo cavaliere era soprattutto un vanitoso, di quelli che si ammirano e, concependo un dramma, diventano autore, attore, teatro e pubblico, si applaudono, si smarriscono nell'opera. Ciò è frequente nell'arte, più forse nella vita: assassini e ladri veri, invece, hanno un senso profondo della realtà e sanno per istinto come sia difficile andarle contro, giacchè il delitto essendo una concezione falsa, è sempre un po' irreale. La sua complicazione è una prova di debolezza, la credulità nella sua riuscita una misura della forza nel delinquente.
Adesso di questo romanzo d'appendice, finito tragicamente col suicidio del romanziere, rimane la parte comica nella difesa che il milionario liberato fa del suo liberatore davanti all'ironica curiosità dei giudici, pei quali il delitto non è più che un allegro motivo di interrogatorio.
Che titolo gli daranno?
15 dicembre 1903.
ROMANZO E ROMANZIERE
Questo è illustre, quello volgare.
Al solito la stampa parigina ne ha fatto uno scandalo, e l'inquisizione dei giornali ha superato, nella crudele curiosità dei particolari e nella logica acuta dell'analisi, l'altra del magistrato. Poi un duello è seguito, senza gravi conseguenze nè per il romanziere, nè pel fratello dell'amante, che si crede tradita; e adesso, poichè la morte non ha alzato il dramma a tragedia, la sua stessa volgarità di scandalo ne affretta l'oblio. Soltanto coloro, che da anni seguono con vivo affetto di ammirazione Marcel Prevost nella lenta ascensione della sua arte di psicologo e di pittore di anime, s'interesseranno ancora di questo romanzo vissuto si lungamente, in un silenzio cortese, fra condiscendenze di madre e di moglie, in una quiete adultera, che i trionfi dello scrittore illuminavano tratto tratto come fuochi di bengala nella brevità di una festa, fra vanti e bugie reciproche di inspirazione nei due amanti.
Perchè da secoli, dopo la magnifica, immortale menzogna di Dante, che finse di dovere a Bice, una fanciulletta appena conosciuta a nove anni e una donna che poi non conobbe, l'idea e la passione della Divina Commedia, mentre le donne da lui veramente amate furono altre, e nessuna di esse potè atteggiare di sè medesima il poema; dopo Bice, che fu appena un sogno per Dante, e la Fornarina, che passò come una cortigiana e una modella nello studio di Raffaello, è un dogma della rettorica poetica la necessità di una donna per l'inspirazione del capolavoro. Poeti ed artisti sanno benissimo che l'opera loro, se attinse le cime gloriose, dovette nutrirsi di pensiero e di dolore, disciplinarsi nell'eroismo della volontà, spesso riparare nella solitudine e chiedere a qualche breve castità l'ultimo sforzo per l'ultimo volo; sanno e taceranno malinconicamente, che le loro amanti più amate non sapevano quasi della loro opera e l'avrebbero volentieri posposta ai trastulli dei giorni più facili, quando la primavera della giovinezza e un avvento improvviso ed imprevisto dì danaro suggerivano le follie del piacere o i disordini del vizio; sanno che l'inspirazione è il mistero più profondo dell'arte, che ogni capolavoro è sempre lungo nel tempo, magari inconsapevole della preparazione, se per caso potè compiere rapidamente la propria trasformazione di crisalide in farfalla; sanno che l'arte è tutta la vita, e che nella vita il motivo dell'amore fra gli amanti stessi non esprime quasi mai l'originalità intera della loro persona, come non domina la molteplice unità del loro carattere.
Ma vi è ancora una rettorica nell'arte e nella vita, che vuol derivare da un idillio o da un adulterio la forza necessaria alle grandi azioni o la misteriosa armonia indispensabile nel capolavoro: le amanti sorridono a sè stesse di tale loro potenza, servendosene di scusa per la volgarità vera di un intrigo, dove quasi sempre la miseria del danaro raddoppia quella della carne: gli amanti, invece, quando sono o credono di essere artisti, adoperano l'amore come un pretesto per allungare l'ozio o giustificare la lentezza accidiosa nel lavoro, l'insufficienza della sua preparazione, la poca purità del suo metodo, la troppa falsità delle figure e delle conclusioni.
Quasi si trattasse di una razza privilegiata, gli artisti inventano per sè stessi dogmi di un'altra morale e simulano un'andatura di tempesta nelle passioni, scambiano e fanno scambiare agli ingenui la bellezza di una frase per la verità di una azione, dicendo che la bellezza è più vera della virtù e che il capolavoro assolve tutto nell'autore, anche prima di averlo fatto.
Perchè il capolavoro, e purtroppo furono radi e lo sono, è invece semplice, profondo, ingenuo, uno come la vita: può sorridere, ma sotto il sorriso si travede la smorfia dello spasimo; può urlare come l'oceano nella collera più cupa, ma qualche stella splenderà in alto fra le nuvole lacerate, disperse dall'uragano; può aver bisogno di tutta una esistenza soltanto di un'ora, ma non uscirà mai da una deviazione della vita, da un qualche sofisma della volontà, da un falso privilegio nell'artista, che si creda maggiore o almeno diverso dagli altri uomini. Al contrario, il caso sembra compiacersi a prodigare le smentite: agli immensi sogni di conquista e di gloria succede quasi sempre qualche mediocre matrimonio cattivo concubinaggio, si declama e si accatta, si civetta alle piazze e ai saloni, si adora la réclame e il danaro, si sognano cattedre e tribune, e si parla di aristocrazia senza intendere davvero la grandezza di quella che è morta e sentirsene dentro un'altra maggiore.
Vedete nel romanzo di Marcel Prevost come tutto è volgare, meschino, falso nelle rivelazioni e nelle reticenze, nell'attrice che tenta, di uccidere e poi dichiara che intendeva soltanto a colpire un braccio: quale?
Il sinistro, tante volte offerto nelle passeggiate deliziose come un peccato, o noiose quanto il peccato stesso già divenuto un dovere? il destro, col quale l'illustre romanziere ha scritto tante pagine di fine psicologia femminile, smarrendosi quasi sempre nell'intrigo stesso dell'analisi, appunto perchè non era in lui, come in Balzac, il più grande fra tutti i geni moderni, la sicurezza di una morale, cui riportare nel giudizio le differenze dei motivi e dei risultati?
Egli era già ammogliato o quasi quando s'innamorò della signorina Thouret, che gli amici di casa, almeno a quanto dice sua madre, chiamavano col nomignolo di «vestale»; e la vestale lo sapeva, e sapeva certamente quello che noi non sappiamo ancora, chi era questa donna, perchè il romanziere ne aveva fatto la donna della propria vita, se era la madre, se amava ancora, se soffriva, se avrebbe disperato per questo nuovo tradimento. La vestale accettò: offerse forse la propria primizia in cambio della gloria, che l'altro aveva guadagnato col romanzo delle demi-vierges; accettò anche un appartamento in via Copernico, poi un altro in via D'Armaille. Ma non pare che questo idillio adultero si complicasse mai nella maternità, e il romanzo delle demi-vierges è garanzia sufficiente a questa apparenza; però, come accade in quel romanzo e in quasi tutti gli altri, gli amanti dovettero stancarsi, l'uno se ne andò, l'altra viaggiò, poi al ritorno tentò una ripresa, non vi riusci e tentò di uccidere, riuscendovi anche meno. Voleva tirare soltanto al braccio, e soltanto al braccio un signor Thouret, fratello della vestale, fu ferito con un colpo di spada dall'illustre romanziere, seccato certamente d'essere dentro a un così falso e volgare romanzo.
Un sorriso involontario monta alle labbra.
La gente, che davanti a un libro di sottile analisi femminile crede davvero alla superiorità dello scrittore nella vita, deve aver spalancati gli occhi leggendo nei giornali il resoconto dell'attentato contro Marcel Prevost; e alcuni usavano questa lusinghiera, regia parola. Forse la gente crede ancora i romanzieri superiori al romanzo, e capaci di applicare le massime dei propri libri, di realizzarne le più belle ligure: crede perchè ammira, forse anche perchè ama.
La verità è più bassa, più crudele: l'arte è quasi sempre una caccia, nella quale la gloria serve di specchietto al danaro: oggi le fame si fondano come certe banche, funzionano come certe ditte, guadagnano come certe case; oggi non si parla più che di successo, e questa ignobile parola dà la misura del pubblico e degli autori. Si vuol brillare, non illuminare, essere ricchi, non padroni regnando sulle anime nella vastità di un regno potente quanto il pensiero, dall'alto di un trono sacro come un altare. Il pubblico solo è padrone, e un padrone che bisogna sedurre per averne il favore subito, perchè nessuno o pochi pensano che la gloria è immortalità non è gloria, e l'arte un impero, al quale non si può giungere senza essere davvero un imperatore davanti a sè stesso.
Un sorriso sale involontariamente alle labbra; i trionfatori del pubblico, che li acclama, li paga, e sorride egli stesso enigmaticamente, somigliano adesso ai generali, ai re affollati nelle anticamere di Napoleone I: la loro potenza era una concessione di lui, e un moto solo del suo sopracciglio poteva far cadere tutte le loro corone e le loro medaglie; nessuno era originale, e nessuno sentiva veramente l'inanità della propria condizione. Quando Napoleone, entrando nel teatro di Varsavia al braccio di Talma gli disse alto, perchè tutti udissero, colla sua voce fessa e l'accento breve: — Vi ho atteggiato davanti una platea di re —, vi fu alcuno forse nella platea, che si alzasse per andarsene?
Oggi non è un altro Napoleone, che livelli generali e re della fama affollati nelle anticamere dei giornali; ma il pubblico che deve fare le sue veci e non può, sorride già enigmaticamente, e ogni tanto si diverte a svestirne qualcuno. Allora romanzo e romanziere appaiono mediocri, la folla ondeggia in un movimento di curiosità, spera una tragedia, ma non si vede innanzi che uno scandalo.
E dimentica: non si può fare di meglio!
5 aprile 1903.
È PERMESSO?
Così interroga il pagliaccio, cacciando la testa fra la tenda del sipario, alla prima battuta nella piccola opera, la sola fortunata, del maestro Leoncavallo.
Ma il pubblico invece di essere attento come quasi sempre ad ogni prologo, è adesso ancora agitato dalla tempesta dei giudizi, che soffiano e urlano sull'ultimo verdetto dei giurati milanesi. Le ingiurie s'inseguono nell'aria e squillano fra gli intercolunnii dei giornali accordandosi nell'aspra dissonanza a chiedere la condanna della giurìa, un'istituto, pel quale il genio della libertà lottò e sofferse lunghi secoli, mentre la rettorica della nuova scienza ora lo dispetta nel nome di sè stessa, proclamando la necessità di sostituirlo con un altro di professionisti di psichiatria, un nome che non dice nulla, con teorica che pretende derivare il giudizio sull'anima da quello del corpo e spiegare il male nello spirito colle malattie dei vari organi vitali.
Vale la pena di rispondere? È una scienza davvero la psichiatria e una filosofia il materialismo?
Il giurato, nell'originale, incontestabile superiorità del proprio tipo giuridico, rappresenta la sovranità popolare, che, delegata, non può scendere a professione, cristallizzarsi in una classe o in una categoria, quando si tratta di sentenziare sulla vita o sulla morte di un uomo.
I magistrati giudicano di contese materiali, patrimoniali, titolari; non possono, non hanno diritto a pesare, a sopprimere un uomo come loro, in nome di un ufficio salariato, in base a qualche teorica effimera ed oscillante nelle scuole. Il genio della libertà conquistò quindi la giurìa, il giudizio istintivo, collegiale, dell'anima pubblica sopra un'anima singola, al di fuori di ogni scuola, al di sopra di ogni procedura, nell'irresponsabilità dell'assoluto, nell'identità fra giudice ed accusato.
Quello, il privato, poteva e doveva andare dritto al fatto per le vie misteriose della coscienza: aveva diritto di giudicare e di condannare perchè uomo e non perchè impiegato in una università o in un tribunale: s'ingegnava con tutte le risorse di un'inchiesta fatta dalla pubblica curiosità, sentiva tutti i contraccolpi della pubblica coscienza, libero da ogni dogma scolastico, più libero per la momentaneità della propria funzione, assoluto sovrano nella propria anima, impersonale nel sì e nel no della propria sentenza.
Adesso i novatori, non osando ritornare ai vecchi magistrati, invocano un areopago di psichiatri, di medici: la sovranità del giudizio delegata a professionisti pagabili e pagati, vendibili, forse venduti: la sovranità sottomessa a una teorica regnante per una generazione in una scuola con tutte le sue rabbie polemiche, le sue insufficienze sistematiche, le sue falsità logiche. Il professore diventato re, il commerciante di scienza mutato in giudice sovrano, il medico che nega l'anima e la giudica tentando una diagnosi sul corpo, colui che nega il libero arbitrio e parla ancora di responsabilità, l'altro che non ammette la morale non potendo trovarle materialisticamente una base, e che deve decidere sulla bontà o sulla reità di una azione. Vedete: oggi il genio è una malattia, soltanto perchè nel genio proseguono come altrove tutte le malattie umane; la santità è una malattia, perchè la media della gente non sente e non opera come i santi: la creazione è opera della demenza, perchè nel suo sforzo l'equilibrio normale si frange: il delitto invece è delitto solamente perchè nuoce e il delinquente un delinquente perchè la sua mascella disegna il tale angolo, o le sue orecchie imbruttiscono nella tale curva.
Non vi dovrebbero quindi essere più galere ma manicomi: medici dunque, dappertutto e sempre: medici, professionisti di una scienza, che trema ancora sopra poche ipotesi di giorno in giorno sostituite; professionisti che lavorano nelle scuole alla conquista di un diploma per fare con esso del danaro, che nella vita hanno, e se ne vantano, tutta la fraudolenta duttilità del commercio; professionisti che non sono nemmeno scienziati, perchè la scienza vera, la grande, la rara, dubita di sè stessa, arrischia un'esperienza e teme di emettere un giudizio, sa quasi sempre di non sapere, e si contenta malinconicamente, secondo la divina parola di Platone, di attingere l'ignoranza alla fonte più alta.
Ma il verdetto di Milano, che assolve l'Olivo uccisore della moglie e poi squartatore del suo cadavere, è davvero così ingiusto od assurdo? Ebbene, per me no; e chiedo scusa ed ospitalità alla cortesia del Resto del Carlino: non è ingiusto, non è assurdo. Pigliate il dramma all'inizio, seguitelo sino alla catastrofe. Un uomo abbastanza colto, incivilito, sposa una serva scivolata dalla prostituzione nel sifilicomio: questa è l'antica tentazione del vizio sulla carne, il vecchio sogno della redenzione della donna caduta. La tentazione prosegue, il sogno dilegua: la donna rialzata diventa peggiore, sciupa il corpo, l'anima, il danaro, il nome del marito: lo tradisce con qualcuno, con molti, a caso: lo sa innamorato e lo dileggia, perchè così la passione sanguina e le passioni si nutrono del proprio sangue. Egli tace, si lamenta, sopporta, reagisce, domanda perdono, perdona, vinto sempre, sempre ingannato: la sua vita è un inferno, dal quale non può uscire, perchè non ha la forza di cacciarne lei: nei loro dibattiti, nelle loro contese, nelle lotte, nulla è più sacro: la moglie prostituita si finge al solito gelosa, insulta rivali fantastiche, oltraggia lui, vilipende i suoi morti più santi; continuamente, senza pietà, senza requie, gl'insanguina i fianchi e il cuore; ammalato lo deride, lo costringe a fuggire di casa, gli ruba il sonno, gli falsa la parola e il pensiero.
Ed egli non sa decidersi a nulla, nè a scappare nè a cacciarla, nè a morire nè ad ucciderla: ma un nonnulla potrà decidere ciò, a cui non bastano nè la sua volontà nè la sua ragione. Infatti una sera imprevedibilmente per entrambi, irresistibilmente, una parola provoca la catastrofe, il coltello taglia il nodo gordiano.
Chi ha torto? Tutti e due: non si deve, non si può uccidere: non si può togliere ciò che non si può dare.
È l'antico motto di Diogene ad Alessandro; e in questo motto è la radice del diritto.
Era pazzo l'Olivo? No. Era un delinquente? Nemmeno: ma tutto in lui è crollato in un istante allo scoppio di una di quelle mine morali, che nessuna epilessia può nè produrre, nè spiegare.
Ciò che gli avvenne dopo, e ha tanto impressionato il pubblico, lo squartamento del cadavere, derivò in lui dal solito piccino, infelice e ridicolo egoismo di evitare il processo: e non fu efferatezza, ma paura, una paura forse, che nemmeno egli saprebbe esprimere.
Ricordate Raskolnikoff di Dostojewski? E nemmeno allora l'Olivo impazzì.
Dovevano i giurati condannare in lui un mostro, che ammazzava bestialmente la moglie e ne spezzettava il cadavere? Invece hanno capito, o indovinato, la pietà di questa tragedia umana, dell'uomo assassinato dalla donna nella propria passione, nella propria coscienza, in tutto quanto ha di più alto e di più sicuro nella vita: questa tragedia che batte a quasi tutte le case, a quasi tutti i cuori, uccidendo senza sangue, mutilando senza amputazioni, degradando, avvelenando. Ebbene, questa tragedia li ha vinti.
Errore? Forse, ma umano, meno brutto dell'altro errore scolastico che gli contrappongono: ma anche questa volta il giurato ha sbagliato meno del giudice, perchè la sua assoluzione dice questo soltanto: che vi sono tragedie così profonde, catastrofi così inevitabili, davanti alle quali, uomo contro uomo, non si osa più nè giudicare, nè condannare.
Non temete, questo uccisore della propria moglie per debolezza e squartatore del cadavere per paura, porta dentro di sè la propria pena: condannarlo non si poteva, ed assolverlo era un errore.
Quindi lo hanno assolto: l'errore è meno dannoso dell'ingiustizia.
16 giugno 1904.
VECCHIO ERRORE
Mentre nel grande pubblico, dopo la sentenza di Torino, cresce l'oppressione tragica, ecco un altro dramma che penetra sanguinosamente nella coscienza e nella fantasia della folla elegante, dispersa sui monti e sulle spiaggie, in alto dove l'aria rutila, in basso dove il mare con grazia pigra sembra carezzare il lido e adagiarsi.
E il nuovo dramma è ancora aristocratico, se questo grande aggettivo possa più applicarsi a qualche cosa o qualcuno nella vita moderna; un dramma d'arte e di amore, d'adulterio e di gelosia, scoppiato in un albergo pieno di ricchezza e di allegria, fra marito e moglie, uno scultore celebre e una divetta di caffè, che non si arrestò abbastanza fra i suoi tavolini e sul suo minuscolo palcoscenico per diventarlo, e che adesso ottiene dalla colpa della morte quella celebrità negata alle impazienze impure della sua giovinezza.
Egli era un artista vero, non originale, non grande: aveva cominciato come quasi tutti in basso, salendo colla fatica e col dolore alla conquista della pubblica attenzione. Le sue statue erano dei ritratti anche quando non avrebbero nè voluto nè dovuto esserlo: le figure non esprimevano che il corpo, la composizione non sviluppava che degli atteggiamenti: la loro verità era fatta soltanto di precisione: parevano dei calchi, e n'erano accusate: avevano una strana potenza d'illusione, la quale arrestava piuttosto gli occhi che le menti, una vita volgare ed insieme teatrale: superavano il mestiere, non bastavano all'arte.
Lo scultore somigliava alla statua: mirava alla celebrità non alla gloria: aveva fretta e non badava che ad accorciarsi la strada, non aveva un ideale e si vantava già di aver un pubblico, diceva di sacrificare la bellezza alla verità, e la sua bellezza si fermava alla formosità, e il suo vero, il suo reale non formavano che una maschera. Ricordate Cristo e la Maddalena? Ricordate Sfinge?
Quei due tipi, così divini nel poema cristiano, sotto il suo scalpello non erano più che prosaici; quella sfinge non aveva mistero nè per sè stessa, nè per gli altri. Adesso dicono che fu una inspirazione di sua moglie, e forse non è che una ironia della maldicenza.
Ma che cosa aveva egli sognato nella donna che sposò? Sentì davvero la tragedia delle antitesi spirituali, nella quale discendeva sulla china di un matrimonio lubrico come un'avventura, equivoco come un affare, frettoloso più di un capriccio e improvvisato come uno stornello? Nella vita e nell'arte tale matrimonio e tale dramma sono antichi: l'artista che s'innamora fisicamente del modello, l'uomo che cede all'artista, la donna che inganna tutti e due. Ma questo dramma può ancora avere una grande dolorosa sincerità: si ama e non si stima, si sa di commettere un errore, il quale ne genererà altri, si disprezza sè stesso, si vive nell'attesa del tradimento e nella umiliazione della propria caduta.
E questo è il caso più comune.
Artista e uomo sanno di avere torto, soccombono all'amore come al vino, e lo espiano nella salute dell'anima e del corpo.
Altri invece entra nel dramma dalla porta maestra, nella superba illusione di alzare la donna, quasi sempre soltanto una femmina, insino a sè medesimo; ed ebbro d'arte e di sacrificio sfida il mondo e la natura, ha gli orgogli di un eroe e la devozione di un martire, il linguaggio di un ribelle e l'albagia di un conquistatore.
Ma il modello resiste troppo spesso allo scultore, la moglie al marito; ella non mira che ad un affare, e dopo non le pare buono abbastanza: non comprende il sacrificio di lui e, comprendendolo, se ne offenderebbe nella propria vanità; il mondo legale non le dà tutte le compiacenze sperate; l'arte è troppo alta per lei, che tende invece ad abbassarla e del marito vuole fare un mestierante perchè guadagni di più.
Nella moglie s'irrita la nostalgia del fango, nel marito sospira la nostalgia dell'ideale; l'uno si pente segretamente del matrimonio come di una caduta, l'altra non se ne contenta poichè non voleva che un guadagno, e incapace di mutarsi davvero in una moglie, tenta egualmente indarno di diventare una signora.
Quindi l'amore fisico, che saldò le nozze, si logora: il possesso lo smaga, l'inevitabile esperienza della realtà lo martirizza: della moglie, nella intimità della casa, non resta che la cortigiana senza il brio della parata e l'orpello della decorazione; del marito bello di sforzo, di dolore, di vittoria o di sconfitta nello studio, non ritorna a casa che un lavoratore stracco, uggito, uggioso, impaziente ed insopportabile.
Forse fu così di Cifariello. Per quella donna sposata in un delirio rosso dei sensi, collo scetticismo volgare della mondanità, con un segreto rancore contro sè stesso e contro di lei, lottò, discese, decadde, si rialzò, sofferse tutte le umiliazioni dell'amante, dell'artista, del marito. Vinto dal bisogno sempre crescente in lei del danaro, abbandonò l'arte e l'Italia per rifugiarsi in una fabbrica di ceramiche e guadagnarvi il lusso delle sue eleganze femminili, e la donna lo punì innamorandosi del direttore della fabbrica come di un pagliaccio da palcoscenico. Tornò in Italia, ma le asprezze della lotta crescevano nella immutata condizione del matrimonio: nessun figlio era sopraggiunto a provocare nell'anima di uno almeno dei coniugi una ascensione morale; lo scultore valeva adesso la divetta e il mestiere li aveva livellati, perchè nel sacrificio dell'arte era mancata la nobiltà del motivo. Poi l'orgoglio dell'inconfessabile sconfitta avrà enfiato forse tutte le piaghe: è impossibile perdonare ad un altro la propria rovina, è difficile ritirarsi primo da una situazione, della quale si può accusare l'altro.
Per lui la moglie era stata la palla del galeotto al piede sulla via della gloria: per lei il marito era l'ostacolo all'allegria della vita, a tornare nel teatro fra le Menadi e i Coribanti moderni, così corretti nell'apparenza e signorili nella volgarità. Come proseguire? Come fermarsi? Come uscirne?
L'amore svaporando lascia nel fondo del bicchiere la goccia amara dell'odio; e l'odio è più doloroso quando deve disprezzare. Che cosa può essere per uno scultore una moglie, se rimase soltanto modella con tutte le bassezze del mestiere? Ma che cosa può essere ancora per una divetta, per una cortigiana, l'artista che, sposandola, non seppe poi compiere in lei il miracolo della trasfigurazione? L'odio è inevitabile, e qualche cosa, se non qualcuno, deve essere ucciso fra due anime che si odiano.
Ella voleva separarsi per tornare libera, egli già tradito le negava questa libertà, come una prova troppo palese ed allegra per tutti del primo errore matrimoniale. Ella era fuggita, egli l'inseguì, la cercò, la trovò, pianse, minacciò, ed ottenne che ritornasse in un albergo fra una gioconda folla di bagnanti, di spensierati, di gaudenti, di amanti. Quanti?
I giornali hanno raccontato che egli, febbricitante di collera, di paura, di spasimo, gliene rinfacciò sei: e la donna altera, insolente, ebbra di sè stessa, rispose: — Ebbene, tu sei il settimo!
Forse le sue labbra ebbero un sorriso simile ad una fiamma livida; ella teneva sul tavolo una rivoltella, comprata poco prima per minaccia: era seminuda... entro una camicia rosea, spumeggiante di merletti, non temeva, non vinta ancora, invincibile; e un'altra fiamma guizzò su la bocca di un'altra rivoltella, e la donna cadde subitamente vinta.
Voleva egli uccidere? Aveva nemmeno più la forza di volerlo?
In questi tristi drammi quasi tutto è mistero; il fango non ha bisogno di essere profondo per essere opaco: è difficile indovinare quanto l'attore non è sincero nemmeno con sè stesso. Certi amori sono fatti di odio e di lussuria; in certi assassinii la vittima vera è colui che uccise; in quasi tutti i delitti della passione il più innocente è colui che più vi sofferse e più nobilmente.
Adesso il dramma dello scultore aiuterà sui monti e sul mare, nelle ville, nelle stazioni dell'ozio e dell'eleganza, le ultime conversazioni estive, mentre egli, solo, davvero solo forse per la prima volta, nel silenzio del carcere, davanti a sè stesso vedrà finalmente la verità della propria tragedia.
Ma che importa, se nemmeno egli potrà rivelarla?
17 agosto 1905.
L'ULTIMO BRIGANTE
Così lo ha definito da Napoli uno degli ingegni più illustri e più vividi del giornalismo italiano.
Eppure in questo delinquente, che appassionò per anni tutte le fantasie come in un lungo duetto col governo, mentre le popolazioni dell'Aspromonte parteggiavano in tale caccia e i giornali di tutto il mondo ne raccontavano gli incidenti, non sembrano visibili i segni del brigantaggio, questa volontaria antica milizia delle ribellioni rurali.
La recente scuola penalista improvvisò al solito sopra di lui la diagnosi della degenerazione, ripetendo ancora il vecchio motivo del proprio sistema, senza che il pubblico si degnasse nemmeno di ascoltare e coloro già oppositori del nuovo paradosso sentissero il bisogno di ribattere il giudizio mandato dal clinico torinese di tutta la criminalità mondiale su questo bandito, a lui ignoto almeno quanto i principii della vera psicologia.
Musolino catturato aveva già involontariamente smentito la leggenda del brigante, salito dal misterioso orrore della foresta come un fantasma nella immaginazione della gente, e sempre armato, col profilo tagliente, il moschetto infallibile, il cuore freddo e duro come una roccia, l'occhio aperto come quello di un gufo nell'oscurità della notte, l'orecchio attento anche nel sonno entro le grotte delle selve, che cullavano col loro murmure di oceano i suoi torbidi sogni di assassino.
Egli era fuggito come il più timido dei ladruncoli campestri all'improvvisa apparizione di due carabinieri, che non pensavano certo al caso mirabile dell'incontro; fuggito colla prontezza di un fanciullo e l'angoscia di una donna, senza sapere, senza vedere, ignorando campi e sentieri, incespicando nei ferri delle viti ed arrendendosi senza nemmeno trarre nè il coltello nè il revolver, che portava nelle tasche come un viatico.
Il terribile bandito era un vile: questo ultimo erede dei Porporato, di Fra Diavolo, di Ninco Nanco, nei quali tratto tratto rivivevano le feroci potenze degli antichi condottieri, non aveva mai avuto una idea, non sentiva la passione del brigantaggio, non era riuscito a comporsi una banda, a pensare cosa potesse essere nel mondo moderno la vita e la lotta di un bandito contro tutta la società.
Figlio di un oste, non aveva nelle vene che un sangue di contadino; nessuna bellezza e nessuna forza nel corpo, non un orgoglio nello spirito, non una luce nel cuore. S'innamora violento ed improvviso, ma non sa innamorare la fanciulla; chiede la sua mano ed è respinto, ed allora come uno stupido monello percuote più volte, vilmente, all'imprevista, colle mani, con un bastone, persino col manico di una scure la vecchia, che non vuole essere sua suocera.
Poi si trova a caso dentro una rissa, vi è ferito leggermente, mentre urla al compagno: Difendimi, spara! — Perchè quella rissa? Chi aveva ragione? Chi vi apparve più forte? Certamente non Musolino; ma l'indomani alcune fucilate sono tirate contro quei suoi nemici ed egli è accusato, condannato a ventun anni di galera, benchè quei colpi non avessero ucciso alcuno.
Evidentemente la condanna era eccessiva, assurda, e Musolino si proclamò innocente: forse lo era, almeno io lo credo, perchè soltanto tale innocenza e tale condanna possono in un animo debole come il suo, senza alcuna intellettuale perversità di furto, o vorace sensualità di sangue, o fantastica superbia di comando, o selvaggia passione di ribelle nella primitiva libertà dei boschi, spiegare l'improvvisa non più mutata manìa di vendetta.
Egli vi soccombe pel primo: tutto il suo spirito e il suo corpo ne ammalano, non pensa, non vede, non sente altro: colpire coloro, che hanno determinato la sua condanna alla galera; ma evaso dal carcere con due compagni, che presto ricadono nelle mani della giustizia, non sa nel perseguimento di questa vendetta essere nè logico nè terribile, nè implacabile nè rapido, quindi uccide come a caso, graduando i colpi dalla fucilata «di chiarenza» a quella mortale, sparando quasi sempre da lontano, spesso sbagliando il colpo e ingannandosi sulla vittima, e non mai un rischio rileva il suo coraggio, o un agguato scopre il suo ingegno, o un'altra passione attraversa questo suo dramma montanaro, fosco e limaccioso come un padule.
Talora rispetta i parenti della vittima, specialmente se fanciulli: tal'altra uccide e nega poi l'uccisione e se ne pente: una volta, scombussolato dall'orrore di un inutile delitto, dà il proprio fucile al ferito e gli grida: Uccidimi!, poi fugge e daccapo assassina senza vera passione di amore e di odio. Perchè in lui tutto è vanità: di quel suo primo amore non si ricorda quasi più, e nessuna altra donna entra nella sua grigia e fredda vita a soffiarvi dentro una fiamma: dapprima voleva uccidere coloro che avevano deposto falsamente contro di lui, ma è incerto anche contro di essi nella graduazione dell'odio e della morte; aspetta per riscaldarsi che la loro ostilità si rinfocoli, poi la necessità lo trae a punire qualche spia, a difendersi dai soldati, ed ecco il dramma vero di tutta una contrada nel quale egli diviene involontariamente, immeritamente protagonista.
Il paese è montano e boscoso, la gente ancora rozza ed ingenua, nelle fantasie durano ricordi e visioni dell'ultimo brigantaggio politico alla caduta dei Borboni, e il governo è ancora odiato come uno straniero, del quale soltanto una classe, quella che vive di politica, ha saputo farsi un appoggio.
Laggiù i beneficii della libertà si mutarono in nuovi soprusi di nuovi prepotenti, la miseria crebbe, l'ignoranza non scemò, la religione fu ancora una idolatria bambinesca, la diffidenza contro il governo e l'incredulità ad ogni giustizia un'abitudine invincibile e pur troppo giustificata dall'esperienza quotidiana. Nel paese, per tutti i piccoli, i poveri, coloro che debbono concepire la propria vita come una servitù addolorata da tirannidi di ogni specie, Musolino era l'innocente condannato, il prigioniero fuggito miracolosamente dal carcere, il ribelle capace di vendicarsi da solo gittandosi al monte e al bosco per punire di morte la menzogna codarda, forse venduta, dei testimoni nel primo processo.
Così, soltanto così è possibile intendere l'accordo fra bandito e paese.
Musolino laggiù non è un ladro, poichè non ama nemmeno il danaro; non è un assassino, poichè non ama il sangue: se uccide, ne ha il diritto secondo la logica istintiva del popolo (morte per morte), ma uccide senza infierire, da lungi, magari ingannandosi, e allora piange, si dispera. Musolino non è un brigante, non si compone una banda, la quale avrebbe necessariamente molti bisogni di vitto e di danaro incomodi al paese: non si mette al servizio di alcun prepotente, non vende nè la minaccia nè la esecuzione, non odia nemmeno i carabinieri, e spara contro di essi solamente per difendersi.
Tutti quindi lo aiutano.
Il governo al solito s'ingannò e fu ingannato.
Mentre una polizia, anche volgarmente abile, avrebbe saputo presto comprare da qualcuno il bandito, intorno all'Aspromonte invece si rinnovarono sottoprefetti, sindaci, ispettori, marescialli; e però tutti entrarono in questa caccia meno per la paura del brigante che per il piacere di sbertare il governo. Infatti Musolino chi spaventava, chi ledeva? Le spie, che tentavano tradirlo per buscarsi la taglia, erano nell'animo della gente, e non a torto, peggiori di lui: egli era l'innocente condannato che può finalmente farsi giustizia da sè, ecco tutto; e tutto ciò non esprime nè un alto grado di delinquenza, nè un grado molto basso di moralità nell'anima di un paese.
La rivolta della barbarie val meglio che la peste della corruzione.
Ma Musolino non era un forte nè del cuore nè della testa. Quando s'accorse di non poter più durare nella lotta, non seppe nemmeno andarsene per mare e scioccamente pensò di attraversare l'Italia a piedi, pronto a scappare appena un gendarme lo fissasse nel viso.
Se adesso ancora si vanta innocente della prima accusa, e crede di essere stato nel proprio diritto punendo i propri nemici, vi è forse molta verità in quello e molta bugia in questo: egli non può credere a questo diritto di uccidere, di giustiziare, dopo averne abusato così lungamente e stupidamente; ma è il suo vanto, l'atteggiamento, il gesto di attore. Il paese natio gli diede il teatro, il governo gli costrusse il dramma.
Ricordate dopo il suo arresto le misure per trasportarlo alle carceri? La vanità di Musolino finì per impazzirne. Adesso non vuole comparire alle assise che in abito borghese: esigenza di attore che rispetta il pubblico in sè stesso, e nella solitudine della prigione si ubbriaca quotidianamente recitando la propria parte davanti ad uno specchio assente.
Non vi è più brigantaggio; Musolino non è un brigante.
Nè intelligente, nè coraggioso, nè feroce, nè cupido, senza amore, quasi senza odio, egli era, giacchè d'ora innanzi non conta più, uno sciocco presuntuoso con poca moralità e scarso giudizio; una condanna lo esasperò, una lotta parve ingrandirlo, ma vinto e solo colla propria vanità, adesso la sua ultima passione è per il suo ultimo vestito.
A che parlarne ancora?
15 aprile 1902.
AMNISTIA
La vecchia questione è tornata sui giornali prima ancora che il principe, augurato nel lieto accordo di tutte le speranze, abbia, nascendo, risolto il problema del proprio titolo.
Ma questo è davvero un problema? Coloro che pensano così s'accorgeranno presto, se il legittimo orgoglio della nazione sia frustrato, che l'istinto di patria è la guida più sicura in politica, e che male s'industria l'ingegno a divertirlo in espedienti abili soltanto di parola. E di parole scientifiche fanno oggi pompa tutti coloro, che risottomettono l'idea dell'amnistia all'esame teorico della scuola per discuterne il diritto e le forme, nell'intenzione palese di cancellare quello e queste.
Come sempre, si finge di non sapere o di non ricordare che cosa sia sino dalle più remote origini tale idea di grazia e di pace, che l'umanità con ritmo continuo sentì salire dalla propria anima ad ogni evento che la scaldasse di gioia, mentre l'odio, indispensabile nella lotta per la vita, si quietava improvvisamente e un'onda di sorriso ammolliva tutte le fisonomie.
Fu sempre così e così durerà forse sempre.
La vita è troppo aspra, il diritto troppo formale, la giustizia troppo incerta nelle prove, insufficiente nei giudizi e tragica nei risultati, perchè ogni tanto gli spiriti non provino il bisogno di gettarla come un pesante fardello, che li curva dolorosamente verso terra: tutti soffrono del diritto stesso che li protegge, tutti soccombono alla giustizia che invocano. La verità, che sentiamo in noi stessi e negli altri, non possiamo esprimerla esteriormente nella sua interezza: qualche cosa di lei resta sempre sepolto nel cuore, qualche altra cosa le si agglutina al di fuori, strisciando sul fango degl'interessi, tra le immondizie delle passioni, nel rischio delle procedure, dentro i prunai delle teoriche: la gente lo sa, ne soffre, e sa pur troppo che la giustizia non potrà mai librarsi più alto, nella sfera pura delle idee, nel cielo trasparente dell'ideale.
E allora ripara nel sogno.
L'amnistia è un sogno di grazia; e la grazia ha questo di sublime, che alleggerisce del pari la coscienza del giudice e del condannato, dell'offensore e dell'offeso: essa è una rinuncia alla inevitabile verità convenzionale di tutte le leggi che rappresentano il nostro armamentario sociale, una negazione effimera e superba del nostro diritto e della nostra vendetta. È come un raggio di sole estivo, che sbuca fra le nebbie e le nubi autunnali della nostra vita quotidiana; un ritorno alla smemoratezza dell'infanzia, quando si battaglia, si ferisce, si è feriti e si dimentica; una gioia subitanea di affratellamento quasi in un ritorno da un lungo, faticoso pellegrinaggio; un impeto di poesia mette una parola musicale su tutte le labbra, una luce soccorrevole di faro in tutti gli occhi.
L'amnistia era quindi un capriccio della gioia, una bontà della tirannide nei sovrani delle vecchie storie: non aveva altre leggi che l'impulso del momento, il fervore della festa, l'indulgenza e la prodigalità del padrone.
Era un bene nei risultati? Come giudicarne? Forse la sua prova migliore è nella sua durata, poichè l'amnistia è giunta sino a noi, il che garantisce la profondità spirituale del suo bisogno.
L'amnistia ha abitato tutti i luoghi e traversato tutti i tempi: è salita da tutte le piazze tumultuanti, è discesa da tutti i troni anche i più inaccessibili: popoli e re, dispotismi di rivoluzioni e di monarchie ne hanno usato ed abusato; nelle capanne e nelle regge, sulle navi erranti per l'oceano e negli accampamenti vigilati dalla morte o aperti dalla vittoria, essa ha sorriso e trincato spezzando le catene dei prigionieri, rovesciando i patiboli pei condannati, aprendo carceri e postriboli, tempii ed aule.
Un grande poeta inglese nella inguaribile amarezza del proprio genio gridò un giorno al mondo questa parola anche più amara: poichè l'uomo è ragionevole, si ubbriachi dunque!
E l'uomo amnistia forse per la stessa ragione: sa di non poter essere giusto, e ogni tanto grazia; sa che nella vita torto e ragione sono così strettamente avvinti che nessuna analisi di giudizio riesce a scinderli, quindi assolve senza giudizio; sa che la pena è fatalmente sproporzionata alla colpa, e cancella colpa e pena.
La scienza se ne lagna.
Nè il lamento è moderno.
È altrettanto facile che inutile applicare alla amnistia i criterii e le norme della legislazione ordinaria: fatelo, e l'amnistia risulterà assurda, ma diventerete più assurdi voi stessi tentando di renderla ragionevole. Comunque vi muoviate guardinghi, quali si siano i vostri intendimenti e i vostri principii giuridici, discendendo coll'amnistia nell'intrico dei casi resterete nei lacci dell'ingiustizia. Chi scegliere? Chi escludere? valutando il peso della colpa, la qualità del reato, la quantità del danno sociale avvenuto o possibile, l'offesa allo stato o all'individuo?
Scegliete liberamente, ed avrete scelto male: l'amnistia è un istinto capriccioso, col quale lo spirito integra e corregge la propria ragione: l'amnistia è irresponsabile, indefinibile come la grazia: pare una nemica della giustizia e ne è invece la poesia; si esprime come una prepotenza della forza, e la tempera di bontà; somiglia all'amore che scende su tutti, improvviso, irresistibile, e come il raggio del sole non si sporca toccando il fango più laido, penetrando nella stamberga più lurida.
La scienza non vorrebbe l'amnistia: ed è giusto: la scienza ha bisogno di credere alla propria perfezione, all'assoluto dei propri principii, e invece non la verità è dentro la scienza, ma la scienza è dentro la verità.
La scienza è una parentesi aperta nel mistero, e la verità è nel mistero: la legge è una parentesi, nella quale la ragione tenta di imprigionare la vita, ma la vita ha un'orbita infinita, nessuna sonda tocca le sue profondità, nessun occhio la segue per le altezze dei cieli.
Se il neonato sarà un principe e prenderà il titolo da Roma, lasciate scendere dall'alto l'amnistia sui cacciati dalla vita, nelle carceri dove le anime si abbuiano e i cuori si gelano: il principe segnerà nascendo una grande data nella storia, darà il volo ad una grande speranza, significherà la vittoria del nostro più antico diritto.
La gioia è contagiosa: il suo alito, la sua vibrazione vanno e debbono andare lontano: quale più grande lontananza dalla vita che l'esserne escluso, e pensarla, sentirla al di là di un muro, di una condanna, che diminuì nell'uomo la sua umana verità?
Ed io non penso al come regoleranno anche questa volta l'amnistia; soltanto mi dorrebbe profondamente se il principe augurato non assumesse nella storia il titolo da Roma, rinunciando così alla unica, magnifica originalità del proprio grado, giacchè in questo caso il più amnistiato di tutti sarebbe il papa.
Ebbene, no.
15 settembre 1904.
NEL FUOCO
È una voce di pietà, che sale nuovamente e grida al soccorso per i fanciulli italiani abbruciati nelle vetrerie francesi.
Ve ne sono almeno cinquecento a Rive-de-Gier, quattrocento a Givors, quattrocento fra Saint Romain-le-Puy, e Saint Galmier, ottocento fra la Mulalière, la Mouche, Venissieux, Oullins, nei sobborghi di Leine. E altrove? La rivista romana, che denuncia il fatto, lo studiò soltanto nei dipartimenti del Rodano, della Loira e del Puy-de-Dome, e basta: il suo redattore avvocato e console, ha voluto vedere, sentire il martirio di questi innocenti prima di parlare, forse anche di credere. Perchè la nostra fantasia ha un limite più breve della nostra umana malvagità: noi crediamo troppo poco a quei mali, che si appiattano nell'ombra secolare della miseria, a quei delitti che si compiono con la condiscendenza di tutti, ed uccidono senza che il magistrato possa nemmeno sapere il nome della vittima, dell'assassino, dell'arma.
Quelle migliaia di fanciulli abbruciati nelle vetrerie francesi dei dipartimenti meridionali, vengono quasi tutti incettati per la terra dolorosa dell'antico regno napoletano. Laggiù vi è una miseria morale più antica e profonda della povertà economica; laggiù il cuore delle madri si restringe dopo il parto, come il loro ventre, e il figlio è venduto al primo funebre mercante di fanciulli, che promette cento franchi per anno, e per tre anni, come prezzo del suo lavoro futuro e della sua morte quasi certa. E i cento franchi promessi non sono mai pagati.
Alla fine del primo anno i genitori ricevono una lettera del padrone della vetreria, nella quale si avvisa seccamente che il fanciullo non potè lavorare e, ammalatosi, divorò egli medesimo le cento lire dovute loro dal mercante: negli altri anni altre lettere ripetono lo stesso avviso, e figli e genitori vengono pareggiati nel trattamento.
Il patto tristo fu mantenuto tristamente; della carne umana venduta tutto il prezzo e l'infamia rimangono ai compratori.
Talvolta qualche genitore reclama alla nostra ambasciata, e dopo lunghe pratiche riceve laggiù il figlio spedito pel tramite dell'autorità poliziesca: il fanciullo non è più riconoscibile: non era amato prima, ed è peggio accetto dopo; nella vetreria la fiamma del forno gli ha bruciato il sangue, a casa un freddo più doloroso gli gelerà l'anima. Se osasse parlare, si lagnerebbe forse che non lo si sia lasciato morire fra gli altri fanciulli nella casa dell'aguzzino.
La vetreria era il suo inferno.
Egli doveva restare otto ore legali, ma spessissimo sedici ore vere, dinanzi alla bocca del forno, nel quale il vetro bolle a 1400 gradi: l'operaio sta più discosto e prende dalla canna il vetro, che gli porge il fanciullo; l'operaio non lavora mai più di otto ore, il fanciullo quasi sempre sedici; l'operaio ha una paga quasi ricca, il fanciullo non ha niente, perchè i suoi quarantacinque franchi al mese vengono ritirati dal suo mercante. Questo vive sull'armento: quindici o venti fanciulli dai dieci ai tredici anni, ai quali dà soltanto una zuppa nera e che non nutre, un pagliariccio per ogni gruppo di cinque o sei, una camera per tutti, e per tutti lo stesso bastone.
Se si ammalano, il trattamento peggiora, perchè la malattia può mutarsi in denuncia per mezzo del medico o di altri: il fanciullo infebbrato non ha intorno a sè che la timida pietà dei piccoli compagni, che lo guardano tremanti di essere domani come lui. La morte diventa allora la sola buona soluzione, e il fanciullo e il mercante l'invocano forse con pari impazienza.
Di chi la colpa?
La legge? C'è, ma non basta e non può bastare: finchè vi saranno genitori disposti a vendere i figli anche senza intascarne il prezzo, troveranno sempre degli incettatori, che li comprano per rivenderli davvero. L'ipocrisia di un contratto basta a paralizzare la volontà della legge: questa non può impedire ad un genitore di consegnare il proprio figlio a qualcuno per fargli apprendere un mestiere, magari lungi sopra una terra migliore. Niente più facile che falsare il documento dell'età per il fanciullo: basta domandare al municipio l'atto di nascita di un altro: chi riconoscerà il baratto dei nomi in Francia? Chi denuncierà la frode? Per varcare la frontiera si fa accompagnare ogni fanciullo dal padre ad una stazione di confine; lì si compone la squadra, e invece di chiuderla come un branco di pecorelle in un vagone di quarta classe, la si caccia su per la montagna, e si passa il confine dove la sorveglianza è minore.
Un governo più attivo, una legge più rigorosa potrebbero impedire questo delitto, che si compie su migliaia di vittime? Sarebbe ingenuo sperarlo.
Di tutte le leggi, quella criminale presenta appunto le maggiori difficoltà nell'applicazione: un codice non può colpire il delitto che in date condizioni, e deve classificarlo assegnandogli una forma precisa, perchè le prove siano accettabili e il magistrato, condannando, non abbia l'aria di commettere un arbitrio.
Quando l'uccisione si compie colla tubercolosi, in un epilogo di lunghi esaurimenti, martirii senza nome, e la vittima non ha più la forza di parlare, ogni processo diventa impossibile.
Come sperare che l'autorità francese possa o voglia salvare dal fuoco delle vetrerie i fanciulli italiani?
Anche là abbondano leggi e regolamenti, e contro di entrambi prevalgono le stesse frodi.
Il problema è doloroso quanto vecchio.
Filosofi e poeti, economisti e romanzieri, diplomatici e sociologi ne discussero altamente e colla sincerità della dottrina, collo splendore della parola costrinsero l'indifferenza del pubblico a pensarlo: qualche volta un brivido parve scuotere davvero la coscienza popolare, ma come tutti i brividi passò senza che la coscienza mutasse. Eppure il problema riappare e domanda una soluzione. Indarno qualcuno crede trincerarsi dietro l'impotenza della legge, quasichè la legge scritta fosse tutta la legge spirituale e l'attività dell'anima possa restringersi entro le sillabe di un articolo: più indarno ancora altri, quasi allegro di questa miseria legale, accusa tutta la società e domanda a una rivoluzione totale la soluzione di questo problema antico quanto il mondo.
Non è la miseria economica che determina i genitori alla vendita del figlio, ma la loro inferiorità morale; ed è anche meno vero che la miseria produca sempre tale inferiorità.
Questa truce vendita dei piccoli vetrai non si ripete forse con altre forme per tutta la gamma sociale, ovunque un vizio supera l'amore spirituale nella famiglia? Il paradosso di spiegare tutta la vita e tutta la storia soltanto col fattore economico, oramai è troppo logoro perchè meriti nemmeno l'indugio di una risposta.
Ma dinanzi a questa tragedia di fanciulli venduti, imbrancati, condotti lungi per terre straniere, gittati al fuoco delle vetrerie, alle avventure dell'accattonaggio, alle complicità del ladroneccio, alle ferite della prostituzione; dinanzi alla insufficienza della natura, che non sa mettere un cuore in tutti i padri e in tutte le madri; dinanzi alla impotenza della legge, che non può colpire il delitto fuori delle proprie categorie e colla pesante lentezza di ogni ordine poliziesco; per la tutela della legge e della vita, bisogna pure trovare un pensiero, dire una parola, che scongiuri la fatalità del male e rianimi la fede nelle coscienze, che guardano con nuova passione il secolo appena nato.
È possibile proteggere, strappare i fanciulli dal fuoco delle vetrerie?
Forse.
Ma non bisogna domandare questo miracolo nè ad una legge, nè ai suoi esecutori.
Soltanto il vecchio e il nuovo cattolicismo, quello di Gesù o quello di Marx, possono, se in essi ferve davvero una fede e una carità, salvare i piccoli condannati al fuoco dei forni, perchè solamente con una organizzazione di classe e di partito internazionale è possibile compiere la sorveglianza ed applicare la sanzione della legge protettrice dei fanciulli e delle donne.
Che gli operai impongano di non accettare fanciulli nei forni, e i padroni cederanno subito per l'impossibilità di esprimere il motivo della resistenza; che gli operai denuncino i mercanti di fanciulli e depongano contro di essi in tribunale, e la legge colpirà rapida, efficace; che gli operai, così fieri della propria modernità, proclamino fieramente il rispetto al fanciullo, dando primi l'esempio di questa magnifica paternità spirituale e sociale: essi soli lo possono, perchè essi soli davvero sanno tutti i segreti del problema; essi soli lo debbono, anche nel proprio interesse di lavoratori.
Ecco la prova per la sincerità del nuovo e del vecchio cattolicismo.
Credenti del vangelo cristiano e marxista, egualmente superbi nel vanto della stessa conquista mondiale, serrati in falangi, accantonati dovunque, la loro prima storica prova deve essere appunto sui problemi insolubili del vecchio mondo. Se la fraternità del lavoro è vera, perchè i più poveri, i più infelici, i più piccoli non sono amati e salvati per i primi? Perchè i facchini del porto di Marsiglia sarebbero solidali coi facchini del porto di Genova in un incidente politico come la soppressione di una Camera di lavoro, e i vetrai francesi, forse i meglio pagati fra tutti gli operai, parteciperebbero all'eccidio dei fanciulli italiani, che genitori, mercanti, padroni, egualmente snaturati, rinnovano ogni ora, ogni giorno, ogni anno?
La contraddizione è troppo stridula, e il problema troppo doloroso: a quando la risposta?
IL DUELLO
Corti o cortili?
La domanda è lecita nell'ironia dell'equivoco.
Presto la Camera dovrà discutere il nuovo progetto di legge sulle corti d'onore ideato dal ministro Orlando per sopprimere almeno virtualmente il duello. Inutile chiedersi se il progetto sarà approvato, più inutile ancora studiarlo nelle sue disposizioni, mentre l'idea, se pure può chiamarsi così, appare falsa al solo annunzio. Perchè questa nuova legge? A quale bisogno della coscienza moderna risponde realmente? I duelli sono negli ultimi tempi cresciuti così di numero che la loro strage faccia gridare d'orrore l'anima nazionale?
Come di tutte le costumanze, negli ultimi secoli si è abusato anche del duello, e la sua estrema degradazione avvenne nella stampa e per la stampa, quando i giornali, più piccoli e peggiori di quelli di adesso, esercitati da venturieri di tutte le classi, colpivano assassinando in alto ed in basso fra il terrore del pubblico, che l'enorme ed improvvisa dilatazione dello scandalo abbacinava, e le tragedie degli individui, trascinati così alla gogna e che sulla porta di ogni giornale trovavano sempre uno spadaccino del mestiere pronto ad assumersi la responsabilità dell'articolo. Poche classi furono allora spregiate come quella dei giornalisti, ma poichè il giornale era il più vario ed il più rapido veicolo delle idee, un focolare ed un faro mobile per illuminare e riscaldare l'ombra della troppo lunga notte popolare, crebbe, si dilatò, mutò, salì, talvolta raggiunse il valore del libro, rarissimamente lo superò; diede battaglie alle idee e agli uomini, puntellò e rovesciò governi e dinastie, torrente che feconda e cloaca che ammorba, manipolo di eroi all'avanguardia o di banditi coperti di tutte le assise, armati di tutte le armi, vangelo di apostoli senza chiesa, cattedra di maestri senza scuola, libello per lordare le coscienze e grimaldello per forzare le casse: rivelazione locale ed universale, pei piccoli e pei grandi, più falso del commercio e più vivo dell'arte, necessario alla menzogna, più necessario alla verità.
Il duello giornalistico degradò l'antico duello dei gentiluomini: in questi era rimasto come uso di guerra, costumanza di galanteria e di corte, facile eroismo di giovinezza e d'irresponsabilità, malgrado le pene che tratto tratto sembravano volerlo colpire. In quelli era quasi sempre una maschera nobilmente guerriera sopra una fisonomia ignobilmente mercantile: lo si accettava e lo si eseguiva come un rischio del mestiere, così che il vecchio bravo riviveva nel giovane giornalista. Necessariamente l'abuso e la falsità suggerirono tentativi di rimedi: bisognava evitare il ricatto, riparare l'agguato: il duello nobilitava col pericolo, purificava col sangue, e vennero i codici così detti cavallereschi, dettati da giuristi anonimi, prescrivendo norme, elencando obbiezioni, aprendo ai padrini una casuistica da avvocati, aggiungendo così alla improbità delle armi guerriere la viltà delle armi curiali.
E il duello decadde lentamente ma sicuramente nella pubblica estimazione; oggi è poco praticato, appena avvertito dai giornali, se il morto non sia un illustre; non ha più fascino per le donne, presa sui giovani, obbiezioni serie nella coscienza di tutti. Si sa, e nessuno può non saperlo, che la commedia e il dramma della vita sono così profondi e dispari che nessuna legge può contenerli, nessuna procedura disciplinarli: quindi il duello è spesso la migliore stroncatura di una questione, alla quale si cercherebbe indarno una soluzione: lo si accetta e lo si pratica così, come una rissa inevitabile ma attenuata dalla presenza dei padrini, e se per caso vi è un morto, il pubblico si stringe bonariamente nelle spalle, perchè non vi sono corse senza cadute e senza guai, e non feste senza malattie e malati all'indomani.
Ma v'è un altro duello di tragedia.
Qualche volta fra due uomini l'offesa rende impossibile la vita: la morte è già passata in mezzo a loro, e il duello esaurisce soltanto l'epilogo. Se voi avete violata mia figlia, disonorata mia madre; se alla donna che amo voi spezzate il cuore, e può a questo bastare una parola; se avete compìto la rovina di mio figlio, gettato mio fratello nel disonore, preparato a me stesso una di quelle insidie nelle quali l'anima soccombe: probabilmente, molto probabilmente io non potrò citarvi ad alcun tribunale. Tutte le mie prove sono morali, di una evidenza assoluta, ma la vostra colpa non ha i contorni giuridici del delitto; i giudici non potrebbero afferrarla e vi assolverebbero. Peggio, nell'equivoco inevitabile della discussione, fra le maglie duttili degli articoli, colle ambagi delle parole, dietro l'impunità dell'avvocato, voi potete raddoppiare lo scandalo, cacciare le dita nelle mie piaghe e stracciarle, coprirmi di ingiurie magari coi complimenti, far ridere mentre io non posso nemmeno piangere, mutare in un carnevale pubblico la mia tragedia privata, essere il mio carnefice e il mio buffone, come quel piccolo buffone di Poe, che ammazzò il re e si arrampicò fuggendo pel lampadario della sala.
Allora nella mia anima scoppia il problema: o battermi o assassinare: perdonare non so. Certo la più vera, la più alta soluzione è il perdono: così, solamente così, si supera l'offensore; ma la soluzione è troppo vera per essere accettabile, troppo alta perchè le piccole anime possano attingerla. Io non so più vivere di fronte al trionfo di quell'uomo, e non saprei assassinarlo; e la legge non mi aiuta, e il mondo nella scettica ironia della sua millenaria esperienza sorride e sberta; gli amici distillano il veleno a gocce nelle conversazioni ad ogni incontro, la mia casa è squallida, più squallida la mia anima e la mia volontà. Tutta la mia fede sociale è crollata: la legge non può giovarmi e non è colpa della legge se la vita la soverchia.
Ecco il duello tragico, eterno: il duello fra l'assassinio istintivo, impetuoso, logico del popolo, e l'impotenza giuridica del codice nella tutela del diritto individuale. Meglio dunque il duello che l'assassinio, meglio il duello che la quiete vile sotto l'offesa. Davanti all'offeso mortalmente che sa perdonare, bisogna inchinarsi come dinanzi al più puro degli eroismi umani; ma di fronte all'offeso che, dopo avere indietreggiato per la paura legittima del maggior scandalo in tribunale, indietreggia per lo spavento dell'offensore, e sopporta il suo ghigno, il pianto della figlia, l'agonia pallida e muta della madre, bisogna alzare sprezzantemente le spalle e voltarle subito, per non cedere alla tentazione di alzare su lui una mano.
A che dunque le corti di onore? Per i piccoli diverbi e per i più piccoli duelli sono troppo, per i duelli tragici, nei quali la morte è l'estrema necessità della vita, sono troppo poco.
Poi l'onore è un sentimento, che non discute e non si discute: è inutile, ridicolo dargli torto. Nell'Inghilterra un marito che la moglie tradisce, caccia la moglie e cita l'amante per i danni, e si fa pagare così l'ultima corona nuziale: in Italia, nel nostro popolo, specialmente nelle campagne dove è più puro, il marito davanti al tradimento si leva, colpisce, carnefice e vittima nel medesimo tempo. Siete ben sicuri che in questo caso l'anima inglese sia superiore all'anima italiana? Che un marito riscuotendo giudiziariamente il prezzo dell'adulterio diventi migliore del marito, al quale il tradimento della moglie spezza la vita di uomo e di padre?
Ebbene no: gentiluomo di piccola ma vecchia razza, oramai divenuto un contadino dopo tanti anni di solitudine rusticana, io eviterò di salutare quello e stringerò cordialmente la mano a questo.
Non è vero che la onestà, specialmente la grande, sia tutta nella legge e nella passiva obbedienza alle sue disposizioni: la legge fu e sarà sempre una necessità ed insieme una insufficienza, alla quale il costume ripara e deve riparare: bisogna talvolta violare la legge scritta, più spesso prescindere da essa, perchè la verità della vita è una legge anch'essa, la prima e l'ultima.
Le corti d'onore del ministro Orlando non risolveranno nemmeno virtualmente il problema del duello, che è insolubile: aggiungeranno indarno tribunali a tribunali, procedura a procedura, cabala a cabala, e l'anima umana come sempre ne balzerà fuori sanguinando.
Il duello fa ed è ancora una necessità del costume: il costume solo può purificarlo: la legge si contenti quindi di constatarlo e non si degradi nel sofisma di volervi vedere un assassinio.
Adesso i socialisti hanno fra loro proclamata l'abolizione del duello come di un avanzo di barbarie, e questo grido giovanile nella sua sincerità poteva e doveva esercitare un grande fascino sulla pubblica opinione. Il bel giorno si vede all'alba: la verità bella sorride e parla dalla bocca dei giovani.
Sciaguratamente il contegno della stampa e delle assemblee socialiste ha tolto a quel grido tutta la sua efficacia: le offese fioccano, grandinano fra loro, contro gli avversari, si avventano dall'alto e dal basso, villane, turpi, micidiali: capi e gregari, uomini e donne, ne sono contusi quotidianamente: l'offesa è diventata più facile, quindi più vile nella irresponsabilità e nell'impunità dell'offensore.
E allora è lecito chiedere: l'abolizione del duello ha davvero giovato all'educazione delle masse? La coscienza plebea si è nobilitata? L'offeso, che non si batte, può essere un eroe, ma l'offensore che ricusa di battersi non sarà che un miserabile.
È triste il doverlo confessare, ma in questa nuova campagna contro il duello par di sentire negli apostoli una più viva paura della morte e una idolatria più bassa della vita: vivere, non più che vivere, e per vivere null'altro che durare.
Sarebbero mai soltanto igienisti della pelle?
9 giugno 1909.
VII PUNTE SECCHE
I DEICIDI
Mentre per la vasta Russia, nelle città e nelle steppe, attraverso immense distanze di luogo e di civiltà, latra il mostro della guerra spaventando anche coloro che più pensano, giacchè il problema orientale è ugualmente profondo per tutti, un altro rumore più sinistro ricomincia nei paesi, che videro ieri le ultime stragi degli ebrei.
La vendetta caduta nella stanchezza e nell'ebrietà del sangue, sembra risollevarsi quasi all'eco degli appelli guerreschi, sferzando la nativa ferocia dei contadini e dei più bassi operai, pei quali l'ebreo rappresenta il nemico della vita, colui che crocifisse Gesù e ancora inchioda sopra una croce invisibile tutti i più miseri.
L'ebreo è nel popolo russo un fantasma di odio e di dolore: a lui, più infelice di coloro che lo perseguitano, sale da tutte le anime la maledizione che dispera e urla nello spasimo della propria impotenza. Tutto quanto colpisce e ferisce la vita è opera del l'ebreo venuto non si sa donde, anche se da oltre un secolo la sua gente si sia fermata su quella terra; perchè l'ebreo non è agricoltore, e la sua piccola industria non crea, il suo commercio è un mistero, la sua moneta un'arma, il suo aiuto una morte. Il contadino, senza danaro anche nell'agiatezza, non ne trova che presso gli ebrei: non vi sono banche sufficienti, e quelle aperte non hanno numerario pari al bisogno; poi la banca è in mano ai signori, al governo, ai forti, dei quali il popolo diffida, perchè non amano il popolo e temono magari la sua ascensione. L'ebreo solo è la banca della gente minuta, e osa prestare rifacendosi dei rischi sui frutti: con lui, per lui tutto è pegno: la sua usura insaziabile è condiscendente: egli presta come ad un nemico, che si offre prigioniero, ma il prigioniero, lasciandosi mettere il laccio al collo, serba libere le mani. Che una parola incendii un discorso, una bugia inventi un delitto, una tragedia si riveli improvvisa nella miseria di tutti, e tutte le mani si alzeranno a maledire e a percuotere questo nemico anche di Dio, escluso da tutti gli uffici e non difeso da alcuna legge: egli è solo ovunque fuorchè nella propria casa, non ha parenti, un partito, un'idea, una parola per difendersi. Sarà accusato di tutto, forse appunto per la sua vita da tutti divisa: si dirà che uccise lo czar Alessandro II, che portò il colera dall'oriente, avvelenò l'acqua dei pozzi, propagò le malattie col malocchio, violò i morti e invocò sulla Russia tutte le maledizioni della natura, immolando un bambino in un rito fantasticamente segreto e mostruoso.
Ad ogni tumulto contro gli ebrei la folla si avventa, arde e saccheggia botteghe, case, l'opificio, la villa: il governo lascia fare, il clero guarda muto, e il suo silenzio è un'assoluzione: la borghesia gitta ai carnefici un sorriso che li incita e una frase che li diverte, la farsa degrada la tragedia, il delitto si diluisce nella massa, lo stesso anonimo confonde vittime ed assassini.
Non sono che ebrei, e basta! Infatti, che cosa è l'ebreo nella Russia, la quale ha una civiltà di gabinetto e una barbarie di paese? Vi è una legislazione contro di lui condensata nei quindici volumi dello Svod Zakanof, che si può riassumere così: tutti sono liberi di fare tutto, meno quanto proibisce la legge; l'ebreo invece può fare soltanto ciò che la legge gli permette esplicitamente; quindi non abitare, non viaggiare dove voglia. È relegato in alcune province, ed anche dentro queste soltanto in luoghi determinati; non può essere ufficiale, impiegato nelle ferrovie, farmacista; gli sono quasi vietate le università, testimone non è creduto, accusato non trova quasi mai testimoni; la politica lo respinge, le professioni lo isolano, lo si crede ricco anche se povero, e ricco è battuto, spremuto, talvolta anche temuto.
Perchè il danaro è la più terribile dell'armi, e l'ebreo sa adoperarla. Costretto a chiudersi in sè medesimo e a restringersi coi propri fratelli, la sua religione e la sua vita è di setta; odiato ha imparato a distillare l'odio per farne il più mortale dei veleni; trovando chiuse le scuole, ne ha aperte altre nelle sinagoghe, e l'amara, squallida, invincibile passione del Talmud ha risoffiato sull'anime: escluso dalla politica vi è entrato per lo spiraglio delle congiure, portando fra i nichilisti la potenza della astrazione che dissolve, il fascino di una dialettica che soffoca; circuito, taglieggiato dai funzionari, li compra e trionfa della legge e s'infiltra dovunque, fino al sinodo, fino alla corte.
Il danaro, questo eterno libero, secondo la grande parola di un filosofo, diventa per lui una libertà e una sovranità; è impossibile colpire il danaro, sequestrarlo tutto; esso va a chi lo adora, si nasconde con lui, si muta in lui, è passione, idea, conquista, trionfo. Così l'ebreo vinto prepara la vittoria: non emigra, rimane dove la sua famiglia fu percossa, arsa la sua casa: sa che i suoi fratelli non lo abbandoneranno mai del tutto, e ricomincia la sua opera colla pazienza instancabile dell'avarizia, colla muta umiltà dell'odio. Vi è sempre una rivincita per i forti: basta aspettare.
L'ebreo è il popolo dell'aspettazione.
Non attendono forse ancora il Messia? Non sognano di ricostruire il regno di Sionne?
Infrangibili come l'atomo primo della storia, hanno attraversato tutti i tempi e tutti i luoghi senza mutare: erano così, come adesso nella Russia, a Babilonia, a Ninive, nelle loro lunghe cattività: non si sono fusi mai con alcun popolo, nessun clima li ha mutati: nomadi, stranieri, pronti a servire, abili al comando, senza politica, senza arte, senza storia dal giorno supremo della caduta del Tempio. Li hanno battuti, e la loro anima si temprò meglio dell'acciaio; li hanno isolati, e la vita non potè più assorbirli: tutte le religioni li hanno egualmente colpiti d'anatema, e il loro Dio, la sola loro creazione, domina tutte le religioni: senza aristocrazia ne rappresentano la più antica; senza patria inventarono il cosmopolitismo; nemici di tutti hanno imparato tutti i mestieri, sanno assimilarsi tutte le opere, arrivare per tutte le vie, credere, sperare, operare, sempre, dovunque.
Ma non possono creare.
La loro originalità morì in Palestina: dopo Gesù, gli ebrei non hanno più davvero creato: nella filosofia, nella scienza, nell'arte, nella politica, possono tutto sapere, tutto adoperare: creare no. La creazione è inconsapevole: scaturisce dalla essenza di un popolo destinato ad atteggiare un quadro nella umanità: bisogna che questo popolo viva tutta la vita per esprimere in un dato momento un'idea o una formola essenziale.
Il danaro non crea.
Questa arme, che li ha difesi sempre, salvati spesso, tolse loro la potenza degli altri strumenti: adesso, nell'attuale periodo di civiltà e di libertà industriale, gli ebrei guadagnarono già e giustamente tutte le cime, coprono tutti gli uffici, e subiscono senza accorgersene la prova suprema.
Resisteranno o si trasformeranno?
Le estreme persecuzioni russe sono meno pericolose della nostra buona condiscendenza per la loro razza e la loro fisonomia. In Italia, per esempio, non vi è antisemitismo, e ciò basterebbe a far pensare bene del nostro tempo; eppure nella nostra recente rivoluzione gli ebrei non seppero tagliarsi una parte, esprimere un eroismo, significare una poesia.
Vennero dopo: e che restino!
Il nostro popolo, che non li ha mai odiati davvero, adesso stenterebbe forse a riconoscerli nella uniformità della folla, se un istinto segreto, indefinibile, più sottile di un profumo, più indeterminato di un ricordo non lo avvertisse.
Vi è una separazione di razza, una differenza di anime, che tolgono ancora la perfetta fusione: forse l'antica morte di Gesù?
Pei credenti; ma per gli altri?
La risposta non sarebbe difficile, ma una domanda mi sovviene, udita da gran tempo in un crocchio di giovani artisti: parlavano di ebrei; improvvisamente un poeta, lo chiamavano così, proruppe:
— Potete voi immaginare Mazzini e Garibaldi ebrei?
31 gennaio 1904.
L'EROE
La sua figura sale meravigliosamente dallo sfondo lontano dell'Africa come una di quelle fiamme, che i popoli antichi accendevano sui monti nunziatrici di vittoria.
Chi è? Chi era?
Un ignoto, un uomo cresciuto come quasi tutti i suoi soldati fra i campi, in una casa rustica, in una famiglia forse più rustica ancora; probabilmente non aveva mai pensato di fare la guerra e di dovervi comandare generale, rivelandosi nella più semplice ed originale bravura di un eroe. Adesso il suo nome, De Wet, rapido e breve quanto gli ordini del suo pensiero e le continue imprevedibili battaglie, suona terribile a tutte le orecchie inglesi, supera l'odio di guerra, e s'impone collo stupore d'incessanti catastrofi all'imperiale orgoglio britannico, forse il più vasto e alto dacchè il mondo dimenticò quello di Roma. De Wet è il solo nemico nelle fantasie inglesi esasperate da una guerra cominciata imprudentemente come un giuoco, proseguita con inevitabile ostinazione, non finita ancora per una incredibile virtù di popolo sorpreso in un immenso territorio da una prepotenza troppo sicura di sè, e mutatosi come dentro una improvvisazione teatrale in un esercito senza nome, senza assisa, senza tradizione, senza disciplina, con armi d'accatto, con generali estemporanei, con bande mobili come il vento, effimere e sempre presenti come i miraggi nel deserto.
Joubert ha potuto morire, Kruger esulare, Cronye essere vinto e trasportato a Sant'Elena, quasi a significarvi, per l'istinto drammatico della storia, la più plastica delle antitesi con Napoleone I; le piccole legioni straniere, accorse per impeto di poesia e di avventura al Transwaal, si disciolsero, l'Europa parve stancarsi persino nell'ammirazione di tale guerra inverosimile in ambo i combattenti; ma la guerra proseguì, si allargò minuta, continua, rinnovando ogni giorno un capolavoro d'improvvisazione, risolvendo il proprio problema soltanto coll'insistervi.
E De Wet, sempre De Wet: egli è il boero della realtà e della immaginazione: la sua strategia e la sua tattica non somigliano ad alcun'altra: appare, urta, dilegua; vincitore o vinto è sempre egualmente inafferrabile, i generali inglesi davanti a lui sembrano bufali pesanti che caccino una tigre, o, peggio ancora, accademici vecchi dietro la pista di un poeta per sorprendere il suo segreto e sopraffare la sua ispirazione.
Indarno.
I grandi giornali inglesi, che insultavano i boeri, adesso si lasciano sfuggire le più inconsapevoli frasi d'ammirazione; pensano e scrivono tristamente che il loro esercito, maggiore di numero che non tutta la superstite popolazione nemica, da due anni offre al mondo il più attristante e grottesco spettacolo di impotenza crudele e di superbia umiliata.
Si mutarono generali e marescialli, ma non mutarono le sconfitte; dopo lord Roberts, Kitchener, il vincitore del Mahdy, il profanatore della sua tomba, il leone africano che doveva rinnovare la virtù feroce e il trionfo di lord Napier; e indarno ancora.
De Wet entra nella colonia del Capo, sberta l'esercito preponderante del generale Knox, annichila un grosso distaccamento di quello quasi personale di Kitchener, e ricompare improvviso come un ciclone nel Doornberg.
Knox e Bruce Hamilton l'inseguono in una caccia disperata ed inverosimile, ma De Wet sfugge senza fuggire, si batte, valica monti, guada fiumi, esaurisce immense pianure, lieve e tremendo come un sogno, finchè piomba sul colonnello Crewe e lo sbaraglia, lo cattura con tutta la sua colonna. Intanto i giornali inglesi aspettavano impazienti il dispaccio di Kitchener, che annunziasse De Wet prigioniero, e l'Europa ascoltava nuovamente stupita le risposte unanimi di tutti i generali boeri alla domanda di Kruger, s'egli dovesse finalmente trattare di pace: no. La guerra ancora, sempre la guerra, sino alla libertà o almeno alla morte di tutta la nazione.
I boeri rimandarono liberi i prigionieri, essendo troppo poveri per poterli mantenere, e seppellivano i morti nemici cantando salmi biblici sulle fosse: e gli inglesi invece addensano come armenti le inermi popolazioni, vecchi, fanciulli, donne, in campi trincerati, perchè la fame e la peste li decimi.
Così sperano isterilire l'eroica vegetazione; strappano virgulti e radici, fiori e frutti, colla crudeltà inutilmente dotta del loro liberalismo, colla logica spietata del mercante che accetta tutto fuorchè di perdere la propria ricchezza.
Ma l'immenso impero è ferito al cuore.
Gl'imperialisti non compresero che, a distanza di un secolo, l'insurrezione boera riproduceva quella degli Stati Uniti: ancora un mondo che nasceva, e l'infanzia di un mondo non potè mai essere soffocata. L'Inghilterra non ha rivelato in questa ormai lunga crisi nè un generale nè uno statista: Roberts, Kitchener, Rhodes, Chamberlain sono figure secondarie di un dramma, nel quale l'Inghilterra è lo sfondo e il Transwaal occupa tutta la scena: le figure eroiche, originali, sono tutte boere. Contro di esse non contano nè il numero dei reggimenti, nè quello dei generali, nè i miliardi, nè il complice abbandono dell'Europa, nè il ridicolo silenzio del nuovo tribunale istituito all'Aia, nè la fedeltà di tutte le colonie imperiali disseminate nel mondo.
I boeri sono la prima nazione europea nell'Africa.
Per il loro territorio, non molto più piccolo dell'Europa, le locomotive correvano già fischiando alla solitudine e al futuro; le loro rade città, emergendo come isole sopra un immenso mare, erano stazioni di una civiltà simile alla nostra; nessuna invasione era possibile contro di essi, perchè ogni vittoria non avrebbe lasciato all'invasore che il campo di battaglia.
Così fu, i cavalli puro sangue, tanto vantati nelle corse, non seppero su quelle terre e sotto quel sole inseguire i rozzi cavalli boeri; poi l'esercito inglese era ricco ed aveva bisogno di troppe provviste, di troppe salmerie, di troppi impedimenti, secondo la classica parola di Cesare. Mentre la fanteria inglese sparava ciecamente per masse, i boeri, primi fra tutti i tiratori del mondo, tiravano sempre e prima agli ufficiali, disorganizzando così la disciplina dei reggimenti, che senza capi cadevano dall'ordinanza automatica nel disordine dello sbandamento.
Adesso la nostra lunga preparazione militare nelle caserme non è più una superiorità sicura, e Tolstoi, il veggente russo, deve aver sorriso vedendo laggiù, nel fondo dell'Africa, confermato il suo unico ed ironico aforisma militare: nella battaglia vince soltanto il soldato che più tarda a scappare.
Gli inglesi evidentemente non tardavano abbastanza.
Noi credemmo troppo finora alla divisione del lavoro, alla supremazia del progresso ottenuto colla diffrazione atomistica delle specialità: storia e scienza invece si rinnovano quasi sempre per sintesi, creando forze nuove solamente col raggruppare le antiche.
Garibaldi non era un generale per tutti gli altri cresciuti nelle caserme, e compì imprese, che ad essi e al mondo parevano ragionevolmente un sogno; De Wet non è generale per i marescialli inglesi, che non sanno vincerlo, e la sua figura domina l'Europa apparendovi dentro una luce di poema.
Ieri trecento tedeschi, tutti come lui battezzati col nome di Cristiano, ordinarono ad uno scultore il busto dell'eroe sopra un'erma in atto di ricevere da un dottore germanico l'omaggio dell'ammirazione europea; l'idea non è molto bella, e nemmeno forse lo sarà l'opera d'arte, ma il suo significato dovrebbe essere evidente per l'Inghilterra.
Quale de' suoi maggiori uomini politici potrebbe essa proporre all'ammirazione del mondo?
Chamberlain forse?
A noi italiani basterebbe ricordarci di Catilina per trovare in un bandito parlamentare una figura ancora più terribile nella cinica impassibilità di una falsa politica mercantile.
E quando un popolo in una guerra è senza eroi, la sua storia può proseguire ancora, ma non sale più.
1 dicembre 1902.
IL VINCITORE
Lo è davvero?
Intorno a lui suonano gli applausi lunghi di tutto un popolo, come ad uno di quegli eroi, che nei tempi antichi riassumevano nella propria vita una epopea e, balzando improvvisamente dalla catastrofe, apparivano quasi nella gloria d'una rivelazione.
Perchè con Chamberlain, presso di lui, sotto di lui, ha lungamente trepidato nell'angoscia di un dissolvimento l'anima dell'impero inglese; un impero vasto come un sogno, vario come un mondo, unificato da una piccola isola lontana, dominato da mercanti, illuminato da innumerevoli fari di civiltà, a distanze immense, intorno ai quali rincominciano le originalità di nuovi popoli. Chamberlain fu l'eroe borghese della guerra ai boeri, preparata come un affare, eseguita come una conquista, colla soppressione di una piccola gente così stupefacente nella semplicità primitiva del proprio valore, che oggi ancora la nostra dotta esperienza della storia non sa trovarle un paragone.
Il problema era massimo nell'Africa, e due razze colonizzatrici vi lottavano, Olandesi e Inglesi; e la vittoria doveva assegnare col primato la dominazione futura, nello sviluppo della civiltà europea, per l'enorme vastità australe del continente nero.
Quindi parve e pare ancora a quasi tutti che l'Inghilterra abbia vinto.
Certamente la guerra era inevitabile per l'impero e qualunque atto remissivo sarebbe sembrato un segno di debolezza, provocando nuovi istinti di ribellione in altre colonie oramai mature ad una vita autonoma. Bisognava profondere il sangue e il danaro, e questo avrebbe pagato quello: nessuna generosità di sentimento o di pensiero era possibile in questa guerra, nella quale l'idealità imperiale spariva dietro al tumulto feroce di interessi immediati: la finanza dominava la politica, ma una finanza volgare ancora più che quella di Roma nei tempi ultimi della repubblica, e palese nelle sue combinazioni più profonde, imprudente nelle sue contraddizioni più infami.
Ma la vittoria, come sempre, fu una rivelazione.
Il popolo inglese non aveva più le antiche virtù militari: il suo esercito mercenario sembrò composto d'impiegati, nei quali il crescere delle paghe diminuiva naturalmente la tragica passione delle battaglie: nessun generale seppe strappare una vittoria o trarre una qualunque gloria da una sconfitta: a Londra, nelle massime città, i bollettini della morte gittavano a ondate ineffabili paure, e quelli falsi dei trionfi suscitavano gli entusiastici deliri, le affannanti acclamazioni della gente, che non sa più essere severa con sè stessa, nè davanti alla vita, nè davanti alla morte.
E dopo Gladstone e Disraeli, il fondatore e il rifornitore dell'impero, Chamberlain ne fu il campione aspro, rigido, ironico, col pensiero lucido come un calcolo, la parola tagliente come una spada: mercante dominatore di mercanti, azionista fra i finanzieri della guerra, insensibile alle accuse e sicuro di vincere gittando tutta la ricchezza inglese sopra un piatto della bilancia, mentre sull'altra il piccolo popolo boero non poteva mettere eroicamente che la propria vita e la propria morte.
Ma non si muore forse alla storia quando si sa andare così incontro alla catastrofe: nessuna arra è migliore per l'avvenire che l'abdicarvi superbamente piuttosto che venir meno a sè stessi.
I boeri infatti non cedettero che esausti, quando le loro bande non erano più che ombre erranti per deserti, e le loro città silenti come i cimiteri.
Oggi trattano ancora mercantilmente col vincitore ministro, che comprò da lungi la vittoria e vorrebbe comprare le loro anime: i retori ghignano scetticamente come all'ultima disfatta dell'ultima virtù umana; i poeti invece, se ve ne sono, attendono pensosi, giacchè fra i libri di ogni epopea vi furono sempre pagine di commedie simili a un velario calato sopra scene incompiute o appena incominciate.
La storia è paziente, perché la vita è inesauribile.
I boeri hanno ancora un gruppo di prigionieri, che si ricusa all'umiltà dell'amnistia, mentre l'Inghilterra dovette già dimenticare i propri falsi vincitori di ieri e si dibatte, così ricca e così poco guerriera, nella necessità di formare un esercito per difendere nell'infinita lontananza le sue frontiere dai centomila nomi. E intanto la sua finanza, disperatamente trionfatrice in Africa, le dissolve all'interno ciò che ancora le rimaneva di superiore nella politica, quella tradizionale aristocrazia, così simile a quella di Roma antica nella sapienza del comando e nell'orgoglio della vita. Essa solamente per tre secoli rappresentò l'idealità e l'unità dell'impero liberale contro la monarchia e sul popolo, ricca e superiore al danaro, chiusa nei blasoni come dentro a una fortezza inaccessibile guardando lontano, fin dove il genio marinaro della razza sapeva aprire le vie delle avventure e quelle del ritorno alla ricchezza.
Adesso i nomi più alti dell'aristocrazia cadono quotidianamente nel pantano dei più infimi processi, o vengono staccati dagli uscieri dei tribunali come false tabelle e più false insegne dai portoni delle più illustri banche mutate in bische di affari. La febbre del danaro è salita ai più alti cuori, mutando la fisonomia e il costume della classe eletta: una rivalità coi principi improvvisati della finanza abbassa anche i principi del sangue agli agguati bancari, e li perde nei meandri più oscuri delle borse, ove le truffe si nascondono a preparare gli affari senza idea, ai quali un gran nome soltanto può dare una garanzia di apparenza.
Nell'alterna vicenda della storia, popoli e classi salgono e discendono per l'idea che l'informa: l'aristocrazia francese, composta di tante minime dinastie accantonate nei castelli, si condensò intorno al re e cadde con lui sotto la mannaia della grande rivoluzione; quella spagnuola finì colle guerre di Spagna, senza fede al re e per troppa fede al clero, povera di idee, di sangue, di azione; l'Italia non ne ebbe una che nei comuni, la quale tramontò inosservata lentamente nelle corti indigene e straniere, servile sempre, decorazione inartistica nel paese di tutte le arti; quella inglese si disfà nel danaro, che adesso unifica da solo l'impero, livellando differenze storiche ed etniche, deputati e soldati, e riduce la monarchia ad un rito di increduli, l'aristocrazia ad una superiorità decorativa, la virtù militare ad una compera della vittoria, e quella civile, come in Chamberlain, ad essere il campione cointeressato di una finanza, la quale nella guerra d'Africa vedeva soltanto una speculazione di miniere.
Il gran sogno imperiale di Disraeli si oscura e non è più intelligibile in Inghilterra; il liberalismo di Gladstone vi parrebbe adesso più antiquato di quello di Fox; l'arte inglese decade se Kipling è il massimo poeta, e la vasta, superficiale sintesi di Spencer si sfascia come l'impero. Esso non ha più originalità nemmeno nelle industrie vinte dalla concorrenza americana e germanica; le sue migliori colonie sono già stati, che patteggiano da pari a pari colla vecchia madre dal grembo esausto; tedeschi e italiani la superano nella espansione degli individui capaci di rivivere altrove colla propria fisonomia di razza; la Russia le sovrasta in Asia, l'America e il Giappone le sovrastano nei mari lontani.
Ma Chamberlain trionfa nondimeno fra le ovazioni della City, che svegliano gli echi di Birmingham: trionfa aspro, rigido, ironico: egli ha vinto l'affare, nessuno chiede di più. Adesso bisogna salvare la corte nell'ultimo scandalo bancario, e Chamberlain sarà di nuovo vincitore.
Ma chi avrà perduto?
18 marzo 1903.
IL TESTAMENTO DI CECIL RHODES
L'eroe dell'impero, così lo chiamerebbe indubbiamente Carlyle, è morto, e non ancora Rudyard Kipling, il prepotente poeta, lo ha cantato in un'ode dal volo disordinato e sonoro. Lentamente intorno al cadavere s'acqueta la ressa delle calunnie e degli encomi, che la morte improvvisa suscitò come un vento di procella sul mare, mentre la guerra accesa dal suo pensiero pare allentarsi in una stanca speranza di pace. Fino a ieri egli sovrastava alla politica dell'impero come un fantasma balzato dalla torbida immaginazione dei grandi tragedi nell'epoca della regina Elisabetta, quando il dramma moderno, salendo dall'inglese vita rivoluzionaria, apparve finalmente sul palco di un piccolo teatro dinanzi ad un pubblico vibrante di irrefrenabili passioni.
Indarno Chamberlain, passando scettico e cinico attraverso la politica liberale di Gladstone, si era rinnovato nell'orgoglio della nuova idea imperiale; indarno Rosebery usciva dall'ozio pomposo dell'immenso castello scozzese per mettersi alla testa di un medio e mediocre partito fra l'antica libertà e il recente impero; invano Baunermann seguitava ad arrochirsi nelle rettoriche proteste contro la guerra transwaaliana senza destare alcuna eco della storica eloquenza parlamentare e senza accendere una sola fiamma d'entusiasmo nella folla; giacchè l'eroe britannico superbo, istintivo, ignaro, al disopra della morale o al di fuori dei partiti, intrattabile nella fede della propria idea e sicuro nella grandezza del suo risultato, rimaneva pur sempre Cecil Rhodes, il figlio d'un povero pastore, il ragazzo fuggito di casa quasi morente di tisi a quindici anni e a trenta già padrone di tutte le miniere nell'Africa australe, capitano trionfante e indiscusso di tutti i più ricchi e provetti finanzieri inglesi.
Egli aveva l'anima di un condottiero italiano nella magnifica epoca delle signorie.
Come Attendolo Sforza e Niccolò Piccinino, Braccio di Montone e Carmagnola, un istinto di avventura e una visione di gloria lo signoreggiavano: era un lottatore della politica e un sognatore nella vita: uno di quei rarissimi forti, ai quali le donne sorridono trasalendo, poichè sanno di non poterli arrestare, uno di quei superbi enigmatici, che conquistano la ricchezza senza amarla e sembrano serbare nel disprezzo verso gli altri un segreto rancore contro sè medesimi.
Cecil Rhodes volle essere ricco subito, immensamente, senza scrupoli e senza misura: volle e vinse superando, rovesciando amici, rivali, nemici, adoperando gli uomini come strumenti per foggiarsi nel danaro un'arma più tremenda che le più micidiali inventate dal moderno genio militare.
Mentre nella nostra epoca i più illustri finanzieri rimangono chiusi nell'orbita del danaro, quasi primi prigionieri della propria vittoria, e per sottrarsi a tale oppressione debbono quindi chiedere alle bizzarrie del lusso una visibile superiorità sul volgo invidioso, Cecil Rhodes in mezzo alla dovizia più stupefacente mantenne la rude ineleganza, lo sdegno austeramente superbo dell'uomo, che vuole imporre la propria figura e vi ricusa ogni cornice. La ricchezza, questa necessità e questa gloria della grazia femminile, avrebbe falsato la fisonomia del condottiero.
Se nel tramonto del medio evo e nell'alba del Rinascimento i condottieri italiani subirono tutte le leggi della finanza allora regolatrici dei comuni e delle signorie, sino ad annullare nelle loro invincibili esigenze tutto il proprio genio militare dileguando per una serie spaventevole di tragedie, in Cecil Rhodes il condottiero moderno, invece di cominciare colla guerra e di armarsi anzitutto di un esercito, s'iniziò alle temerità delle speculazioni mercantili, imparandone la tattica degli espedienti e la mondiale larghezza della strategia. Il suo sogno (egli è nato dalla nazione più commerciale fra tutte) era di fondare nell'Africa un impero pari a quello delle Indie; la sua ambizione sanguinava dietro ai ricordi e alle visioni della grande Compagnia, che sostituendosi al parlamento nazionale e sconfiggendo gli ultimi decadenti re francesi, stabiliva nella terra sacra al più antico genio dell'epopea e della religione, della metafisica e dell'arte, una conquista maggiore che quella di Alessandro Magno; la sua volontà si tendeva nel delirio di uno sforzo senza nome a stringere nelle immense regioni dell'Africa australe tutte le forme più antiche e moderne, più barbare e più civili di vita in un fascio imperiale, che assicurasse al suo nome la gloria indistruttibile dei fondatori d'imperi.
Questo mercante sapeva che ogni secolo ha un'arma propria irresistibile per chi l'adoperi primo, e credette nel nostro quest'arma fosse il danaro. Mentre prima di lui Bismarck aveva detto: Avere delle idee e servirle col potere, o non averne; egli si stimò più vero e moderno del grande cancelliere tedesco rispondendo a Gordon, il mistico generale: Avere del danaro e servirsene per le proprie idee.
La sua ambizione troppo personale non gli aveva permesso di scendere sino a diventare deputato al parlamento nazionale, giacchè voleva agire nella storia inglese, ma a parte, libero, sigillando colla propria figura l'opera propria, conquistando e regalando poi la conquista alla patria. Quindi poeta, mercante, condottiero in lui s'ingannarono simultaneamente; se dandole il proprio nome si compose nella Rhodesia un territorio vasto cinque o sei volte l'Inghilterra, esclamando troppo presto trionfalmente: Il territorio è tutto; se col proprio prestigio incantò i selvaggi Matabeles come prima aveva abbacinato tutti i finanzieri delle varie compagnie africane, non si avvide che nella Colonia del Capo, nell'Orange, nel Transwaal erano già i germi e le figure di una civiltà avvenire non mutabile nè coercibile da alcuna potenza di uomo.
Quindi la sua incursione con Jameson, donde originò la guerra attuale, fu peggio che ridicola, e in tutta la guerra stessa il suo indiscutibile genio di avventuriero e di mercante non seppe trovare nè un'idea, nè un mezzo per contrastare alla improvvisa ed eroica originalità dei boeri.
Egli, inglese, non potè superare l'idea di patria, e questa sua unica virtù scoprì tutta la debolezza del suo sogno: volle sopprimere i boeri per dare all'Inghilterra un immenso territorio, un immenso quadro vuoto da riempire di sè stessa, mentre l'impero inglese, come già quello di Roma, soccombe lentamente al peso della propria vastità. Bisognava rinnegare la patria, ribellare la Colonia del Capo, fonderla coll'Orange e col Transwaal, raddoppiarla colla Rhodesia, e l'impero nuovo invincibile dell'Africa Australe sarebbe balzato dalla sua fantasia nella storia.
Ma Cecil Rhodes non era un soldato come Francesco Sforza, e nemmeno un ribelle come Catilina, perchè la poesia del suo sogno, separandolo dal volgo dei finanzieri, potesse innalzarlo sino al gruppo non grande dei conquistatori; credeva abbastanza nella superiorità delle idee sugli interessi, e non sapeva che un'idea per diventare storica deve anzitutto non essere personale.
Così nell'Africa volle fondare un impero senza nazione, regnare senza un popolo: inglese, rimase separato nell'opera dal governo, africano, non si fuse in una patria futura; fu un eroe di romanzo e non di epopea, l'estremo forse fra i grandi sognatori del secolo decimonono, e sparve dalla scena come un personaggio di Victor Hugo, sproporzionato nella grandezza e assurdo nell'impotenza.
Il suo testamento, aperto ieri, rivela il suo carattere; in esso chiama eredi gli anglo-sassoni, gli americani e i tedeschi, e fonda scuole, istituti, premi e borse; munificenza di miliardario vinto nella privata e nella pubblica vita dal proprio danaro.
Ma questo patriottismo purificherà la sua memoria in Inghilterra, imponendo silenzio a qualcuno dei troppi nemici implacabili e volgari, retori e tribuni di plebe, che negano la ricchezza vilipendendone l'origine nell'impurità del guadagno. Forse alcuno fra essi penserà finalmente che nulla è più sciocco del giudicare un uomo dal patrimonio e che il danaro, se non può diventare da solo materia sufficiente ad un impero, si muta nelle forti anime in un materiale di poesia talvolta profonda ed originale quanto nei maggiori poemi.
12 aprile 1902.
ZANARDELLI
Fu presidente una sola volta e troppo tardi, quando in lui stesso la libra si allentava stanca della lunga tensione, e altre passioni, nuovi interessi, altra gente e altre idee si cacciavano tumultuando nel parlamento.
Ed egli non era che un parlamentare.
Benchè entrato assai giovane nella politica ed eletto deputato nella prima legislatura italiana, appena la Lombardia potè congiungersi al Piemonte, dopo tanti anni e tanta vicenda di casi e di uomini il suo ingegno non potè crescere all'autorità e alla dominazione dello statista. Avvocato e giurista mediocre, non regnò mai nè dalla cattedra nè sul foro: sdegnò quella e praticò questo, aumentando col l'importanza del grado politico il valore della propria opera professionale; ma avvocato fu poco più di un dilettante, giurista non scrisse ohe un libro sull'avvocatura caldo e sonoro di rettorica, fra eleganze letterarie, pulite prima dal gusto aristocratico di Ferdinando Martini. La sua cultura era classica, il suo ingegno di retore, il suo carattere di parlamentare, la sua ambizione di ministro: aveva la volontà tenace, il pensiero agile, la parola pronta; sapeva sedurre più che conquistare, battersi più che vincere, farsi ascoltare più che persuadere o, persuadendo, rapire le menti ed incatenare le anime. Nel parlamento nessuno, meno il Depretis e adesso Giolitti, lo valse nell'abilità d'incettare i voti e di preparare gli scontri; ma quegli e questi lo superarono di troppo nella potenza di capitani, riuscendo sempre a tener stretto un qualche gruppo anche nella lunga stagione delle rotte, quando la vittoria del nemico o un mutamento nella politica fuori del parlamento, sembrava allontanarli perdutamente dal potere.
Zanardelli era con loro, ma sotto di loro.
Nel più lungo periodo di attività egli fu sempre subalterno, senza che la vistosa apparenza della sua parola gli valesse l'odio degli avversari e la confidenza degli amici. Nella sinistra dopo il Rattazzi seguì il Depretis, ultimo il Crispi, e in questo tempo fortunoso, così facile alla rivelazione degl'ingegni e dei caratteri, Zanardelli rimase il retore della libertà, cresciuto piuttosto nell'ammirazione dei parlamentari francesi che inglesi: meglio girondino che giacobino, quantunque gli mancasse la poesia degli uni e degli altri: incapace di afferrare le grandi occasioni, di assumere le pericolose responsabilità, d'imporre un pensiero, di estrarre da un avvenimento la formula, di gettare al paese un grido come un'arma. E la storia fu allora faticosa, triste e grande: le miracolose imprese di Garibaldi nel mezzogiorno, la sparizione dei ducati e dei regni, l'Italia male ricomposta, poi Torino e Roma sacrificate ipocritamente a Firenze, Custoza che ci prostrava all'Austria, Mentana che ci degradava alla Francia, e finalmente Roma presa sospingendo corte e governo nella facilità del disastro napoleonico, fra l'indifferenza di tutti.
Zanardelli rimase quasi ignorato.
Egli non era di coloro che creano e nemmeno che costruiscono. La sua parola aveva come paura delle cose e cercava soltanto le parole; la sua eloquenza si ascoltava al di dentro e aspettava di essere ascoltata al di fuori; la sua passione per la libertà era platonica, senza l'energia dei veri sacrifici, l'impazienza delle prove supreme.
Bisognò che tutto in Italia fosse compiuto in quel grande periodo, perchè Zanardelli apparisse dall'oscurità improvvisamente ministro col Depretis, l'uomo di neve come lo chiamava Cavour, il più duttile fra tutti e il più incredulo, venuto ultimo per determinare l'assetto interno sulle rovine ancora fumanti dei partiti caduti fra la loro stessa opera. Depretis fu quindi l'anima di questo tempo breve e non bello; governò, disciolse, ricompose le idee e gli interessi: nella sua mano scarna e scaltra tutti i parlamentari amici e nemici si sentirono egualmente stretti, uno solo eccettuato. Zanardelli, da lui assunto come un retore indispensabile alla scena, non potè diventare contro di lui un poeta nel nome stesso della libertà, che aveva creduto di servire, e pentarca nella pentarchia, allora improvvisata, non fu daccapo che elemento decorativo come Benedetto Cairoli, col quale doveva poi comporre il più inane dei ministeri.
Invece l'avvento della sinistra iniziato dal Depretis doveva chiudersi col Crispi: l'uno uomo di governo, l'altro uomo di stato, entrambi ancora vibranti dell'energie, dalle quali era cresciuta l'Italia.
La prima grande prova politica a Roma fu l'impresa d'Africa, imposta dalla storia, subita da tutti i ministeri senza intenderne la fatalità, osteggiata quasi ugualmente da tutti i partiti senza impedirne il tragico andare: quindi vi furono ore luminose e giorni tetri, scaramucce in parlamento e battaglie nel deserto, angosce di nazione e di corte, responsabilità di ministeri e di partiti, errori di tutti, e non grandezza di qualcuno. Depretis e Crispi vi perirono, Zanardelli non ne sofferse, troppo piccolo sempre nella necessità delle ore grandi, all'opposizione al ministero, per soffiare loro la vita o morire della loro morte.
Perchè egli non fu mai che un elemento decorativo, indispensabile per motivi di parlamento o di ministero, rappresentando fra l'incertezza delle idee e il mutevole esperimento dei metodi quasi il principio della libertà e la tradizione del liberalismo, nell'eco di una promessa della monarchia alla democrazia.
Così a poco a poco crebbe, e nell'esaurimento dei vecchi partiti, nel disparire dei vecchi uomini, potò finalmente arrivare egli stesso dalla presidenza della camera a quella del ministero, vincitore senza vittorie, presidente senza portafogli, parendo un protettore della corte e della piazza, troppo vecchio per i tempi nuovi, senza altre idee che di ricordi e altra autorità che d'insegna.
Ma l'insegna era gloriosa.
Se la storia non potrà sapere la sua opera di ministro, giacchè come tale fu sempre un satellite; se quella di riformatore giuridico non è ben sua, quantunque porti il suo nome, e non esprima alcuna vera originalità; alla costanza del suo lavoro, alla immortalità dei suoi principii, alla fatica della sua vita fu premio meritato l'ultima presidenza, e ricompensa anche più bella la breve gloria di ultimo campione liberale.
Forse egli non avrebbe saputo difendere la libertà dagli attacchi popolari, come già dalle prepotenze aristocratiche o monarchiche: forse l'urgenza di tale nuovo pencolo gettò un'ombra sull'ombre de' suoi giorni estremi, fra le solitudini del lago prediletto, nella lenta aspettazione della morte, e tremò per la libertà e per l'Italia, perchè entrambe furono la sua passione vera, così vera che il suo carattere e il suo spirito di retore ne trassero lampi di eloquenza e nobilità di atteggiamenti.
Infatti con lui è morta una magnifica forma di eloquenza parlamentare, letteraria insieme e giuridica, a pieghe accademiche, col ritmo classico, col gesto che è ancora la parola, colla parola che è una musica.
Egli si ascoltava parlando; adesso dopo di lui, al suo posto chi saprà farsi ascoltare?
10 gennaio 1904.
IL MINISTRO
È rude, forte, alto, non grande.
Ieri, prima della battaglia, pareva un vinto, oggi è ancora vincitore senza aver trionfato di alcuno, perchè nel nostro parlamento non vi sono più partiti ma gruppi, non programmi ma tendenze, qualche istinto e poche idee, parecchi capitani, ma tutti senza esercito.
Egli stesso non ne ebbe mai uno.
Cresciuto come un impiegato, imparò la pratica del governo metà nell'ufficio e metà nella camera, essendo di quelli che si fanno della pazienza una forza e non sì stancano sulla propria via, fisi a una mèta che li attira come una promozione. Il pensiero politico non gli discendeva dalle alture della storia della scienza, ma gli entrava per gli orecchi e per gli occhi dallo spettacolo delle lotte politiche quotidiane: plebeo, aveva istinti democratici, impiegato, sentiva la necessità immediata della legge, deputato, voleva arrivare al ministero non importa con chi o con che, pronto a scegliere anche arrischiando nelle combinazioni, studiando il terreno e la gente per profittare delle sinuosità d'entrambi, credendo vigorosamente in sè stesso appunto perchè nessuno oramai credeva più a nulla.
In un passato poco lontano si era fatto una forza paesana col mettersi al servizio del danaro piemontese, frutto dei primi risparmi accumulati nella prima trasformazione industriale di Torino, e lo gettò nella voragine edilizia di Roma, preso anch'egli dalla febbre dell'improvvisazione, che ardeva la nuova capitale: un altro vi sarebbe perito intero, egli non vi perdette nemmeno la fiducia del proprio gruppo, forse perchè la sua vita privata aveva una rara, originale onestà.
E questa potenza lo sorregge ancora.
Elastico quanto Depretis, quantunque meno agile ne' movimenti e fecondo nel pensiero e pronto nella parola, egli tratta la combinazione di un ministero come quella di un affare, fa ogni offerta e l'accetta, se paia convenire al momento; crede poco alle idee o ai partiti e meno agli uomini: non è un dominatore ma un direttore, sa le debolezze di tutti, e nessuno lo ha ancora toccato col ferro nella sua. Adesso è presidente dei ministri per la seconda volta.
Prima gli conveniva lasciar passare l'epilogo di Zanardelli, ultimo retore girondino o giacobino, come meglio piaccia, invecchiato subalternamente nella camera e nei ministeri, quando per governare bene o male bisognava avere una personalità inconfondibile; e Giolitti entrò dietro di lui per dominarlo dal disotto, lasciandogli il compiacimento di cantare le ultime romanze fra le ammirazioni ingenue della sinistra e i ringhii rattenuti della destra: ma egli solo governava, promettendo tutta la libertà ai ribelli così accomodanti della montagna e gittando tratto tratto un gran gesto protettore ad un'altra vetta più alta.
Perchè tutta la sua politica, e lo disse, era opera di salvataggio dai pericoli del '98, nei quali la paura e l'inesperienza di tutti avevano creduto di vedere attraverso, per la vacuità stessa della insurrezione, un baratro. Pelloux, non uso come generale alle vittorie cruente, come ministro si compose una sconfitta assurda ed insanguinata; Sonnino, che compagno di Crispi aveva avuto il torto di scemargli l'energia nell'impresa di Africa, negandogli, ministro delle finanze, il danaro della battaglia prima e della rivincita poi, gli era succeduto invano nel comando della maggioranza, e, incapace anche questa volta di assumere la responsabilità della repressione, tentò servirsi di Pelloux come di un paravento, che la bufera parlamentare spazzò subito scoppiando più furiosa sopra di lui.
Ma siccome una rivoluzione non vi era stata, e la rivolta stessa nemmeno meritava questo piccolo nome, la reazione parve quello che era, senza idea, senza forza, senza persona: quindi una riscossa metà ironica e metà sentimentale riportò in alto la sinistra.
Zanardelli vi figurava come il personaggio storico, se per lui tale aggettivo non paresse troppo grande; Giolitti ne era l'uomo più vivo.
La monarchia usciva allora insanguinata da una tragedia regale, che aveva profondamente addolorato la nazione, e un re nuovo, giovane, fidente entrava nell'arringo, superbo di gridare una nuova parola, di credere al popolo e di essere da lui creduto.
Il tema era bello e avrebbe potuto essere grande per un uomo di stato.
Sciaguratamente per tutti nè Zanardelli nè Giolitti lo erano: quegli proseguì nella vecchia rettorica legislativa, questi esagerò il pericolo della passata reazione e l'urgenza delle nuove necessità sociali per apparire a destra come un salvatore e a sinistra quasi un compare.
Il giuoco nè facile, nè utile, nè bello, fu però condotto con sufficiente abilità: l'eccessiva condiscendenza trasse a rivolte soffocate presto nel sangue, ma l'importanza accordata alla estrema sinistra parve compenso adeguato; il paese aveva lavorato accanitamente, silenziosamente negli ultimi vent'anni, arricchendosi d'esperienza e di danaro; quindi la sua improvvisa rivelazione a sè stesso e all'Europa fu proclamata un vanto dell'ultimo ministero: Zanardelli logoro soccombeva al peso della fortuna e Giolitti per affrettare la sua caduta lo abbandonò subitamente.
L'ultimo epilogo della sinistra storica era così finito; ma il presente ministero è veramente il prologo di una nuova politica, la protasi del grande, invocato poema moderno?
Certamente l'onorevole Giolitti è oggi nel parlamento il maggiore e più forte uomo di governo, se a questa parola non si lasci che il valore dei successi giornalieri: ha esautorato tutti i capitani della montagna offrendo loro la scelta dei portafogli e spingendo, dopo il tardo rifiuto, l'ironia sino ad invitare i più anonimi gregari; ha scomposto la falange sonniniana, paralizzato Rudini, dispersa la destra, disorientata la sinistra, persuaso quasi tutti, in alto e in basso, che per governare è oggi indispensabile, più che l'assenso del popolo, il consenso dei partiti radicali.
E potrebbe anche essere vero.
Ma se la giovane monarchia, entrando in un nuovo periodo, dovrà guidare l'Italia, così improvvisamente cresciuta di forze e di fortuna, alla conquista di un qualche primato, tale piccina abilità politica è ancora più insufficiente che indispensabile.
Egli invece non ne ha altra.
Manca a lui la severità nel pensiero, l'orgoglio nel carattere, la potenza nel sangue: può girare un ostacolo, non rovesciarlo, discendere a tutte le compromissioni per vivere un giorno di più senza diventare prigioniero dei propri alleati, ma probabilmente non li dominerà mai abbastanza per servirsene come di strumenti. La sua parola abile, breve, spesso precisa, non ha l'accento che esalta, il giro che allaccia, la sonorità che soggioga; nessuno gli crede, benchè tutti lo accettino: è un furbo, e i soltanto furbi sono piccoli; governa, e oggi i grandi ministri regnano: ricordate Waldek-Rousseau e Chamberlain: vedete Bülow. Crispi è ancora odiato; Giolitti non lo sarà mai: tanto peggio per lui.
Non si stringe nel pugno tutto un popolo senza farlo gridare, e spesso nella politica, come fra amanti, il grido dell'odio non è che uno spasimo d'amore.
17 gennaio 1904.
I CATTOLICI ALLA CAMERA
Pochi forse concorderanno in questo mio giudizio storico.
Appena la camera si riaperse nella novità della vittoria popolare, che sembrava avere mirabilmente aumentata la forza e il numero della falange democratica, una collera ardente fra ringhii ed urla investi il manipolo cattolico, tentando di imporgli l'anatema del libero pensiero e la suprema condanna della patria oramai sicura di sè medesima sopra Roma capitale d'Italia. I modi violenti dell'estrema sinistra non erano più da gran tempo una novità parlamentare nè in Italia, nè all'estero: il suo programma, la sua origine, la dottrina plebea, l'inevitabile sofisma di credersi e di doversi credere unica rappresentante del popolo come classe la più numerosa e la più vera, la volgarità nativa e spirituale della maggior parte dei suoi membri, e sopra tutto il bisogno inconfessabile ma evidente di parlare alla camera per provocare lontani echi di piazza, spiegavano fin troppo questo primo scontro.
Il manipolo resistette, qualcuno ribattè l'ingiuria colla ingiuria, uno solo si levò alteramente ed affermò fra lo stupore contenuto di tutti, che i cattolici accettavano anch'essi Roma capitale d'Italia.
La risposta era decisiva e superava come un razzo luminoso il chiasso e l'ombra ondeggiante nella sala; si tentarono ancora dai più clamorosi fra i nemici repliche e smentite personali: i ricordi remoti della nostra bella rivoluzione, così bassamente ed invano combattuta su tutti i punti dal clero, aiutavano; i superstiti del primo giacobismo nella vecchia destra sentivano ancora qualche ripugnanza; la maggior parte dei liberali, quasi sorpresa nell'importanza del fatto nuovo, accettava diffidando; il ministero taceva.
L'indomani il giornale officiale o officioso della curia smentiva il deputato Cameroni, gettando sulla sua imprudenza di gregario senza comando e senza mandato la responsabilità di una affermazione così politicamente dommatica, mentre dall'alto nessuna voce veramente autorevole aveva ancora parlato.
E al solito il paese parve dimenticare.
Ma qualcuno si ricordò un'altra smentita dello stesso giornale all'indomani dei funerali di Umberto I, il re assassinato e seppellito al Pantheon con tutti gli onori ecclesiastici: il cardinale di Genova aveva accompagnato la salma insino a Roma, e ciò poteva ancora spiegarsi coll'abile casuistica della Chiesa, perchè Genova apparteneva da un secolo al Piemonte e non aveva mai appartenuto al papa. Ma il parroco del Quirinale (già palazzo estivo del pontefice poi consacrato a reggia d'Italia) era andato alla stazione per ricevere il cadavere del suo parrocchiano, l'usurpatore, che occupava la residenza pontificale. Evidentemente quel piccolo curato non poteva avere agito di testa propria: aveva invece chiesto ordini e si era devotamente affrettato nell'ubbidienza. Leone XIII dunque consacrava la vittima regale nel Pantheon mutato in sepolcro dei nuovi re d'Italia: ogni smentita era inutile, il fatto al solito sopraffaceva la parola.
E così ieri.
Comunque si sia svolto l'equivoco furbesco dell' expedit o del non expedit, forma e sostanza non mutavano nel gioco: elettori ed eletti operavano col supremo assenso del papa, i deputati avrebbero giurato fedeltà al re, e il re era l'Italia, e l'Italia era Roma libera, sovrana, così grande da contenere senza pericolo il proprio re e il proprio pontefice dentro la modernità di un diritto che li supera entrambi, nella cornice di una gloria più antica di loro e che durerà oltre il loro nome. Ma la politica e la diplomazia vaticana operò sempre così: accettò i fatti nuovi, vittoriosi, ma senza disdirsi, lasciando cadere lentamente nell'oblio le proprie formule: non rinunciò mai formalmente ad alcun diritto, non abdicò ad alcuna potestà. Era inevitabile, e quindi fu vero: un istituto divino, e quindi apparentemente immobile, nel mareggiare instancabile della vita non può avere il linguaggio e l'andatura di ogni altro governo: ad intenderne lo spirito e a penetrarne la storia è mestieri di un metodo e di un principio superiori.
I pontefici hanno da tempo e sinceramente nella propria politica rinunciato al sogno di riconquistare Roma. La magnifica urbe non somiglia più a quella di Pio IX, che io studente conobbi: una città di preti e di monaci, albergo di forestieri nell'inverno, con una aristocrazia soltanto mondana, una borghesia professionale e quindi legata alla curia, un popolo bello, ozioso, parassita di tutto e di tutti, senza passione, senza patria, con una poesia di superstizione, dimentico di ogni guerra, incapace di ogni responsabilità, felice, ebbro di vivere, in questa gioia della vita dissolvendo passato, presente, futuro.
Alla sua polizia bastavano pochi gendarmi prepotenti ed insieme indifferenti nell'arbitrio: il resto dell'esercito era una comparsa teatrale necessaria a simulare la difesa per denunciare l'attacco all'Europa monarchica e darle tempo d'intervenire.
Quando la caduta del secondo impero ci permise di conquistare comodamente Roma, la minima città leonina fu lasciata al pontefice; ma il cardinale Antonelli, che conosceva bene l'urbe, n'ebbe paura, e si affrettò a restituire il dono pericoloso, chiedendo al governo invasore garanzie di vigilanza militare.
Quella fu la vera, grande rinunzia, inavvertita.
D'allora il problema non ha mutato ingrossando. Roma supera già il mezzo milione d'abitanti e supererà il milione a mezzo il secolo: la sua popolazione è italiana, vive di politica, di traffico, d'idee, di carattere italiano: ha un governo, un municipio, tutti gli organi della modernità: la vita vi è libera, l'orgoglio della vita sale tutti i giorni.
Se per uno scherzo cattivo voi cedeste improvvisamente Roma al papa, questi non potrebbe accettarla. Come accetterebbe? Come soffocherebbe tutte le forme e le coscienze nuove nell'inerzia e nel silenzio antico? Una rivoluzione di piazza scoppierebbe subito, violenta, irresistibile, trionfante: con quali armati, con quali armi resisterebbe il papa? A chi chiederle? Alla Spagna, che non ne ha, alla Francia che perseguita la religione cattolica, all'Austria domani vacillante forse nella vacanza del trono, e che non potrebbe più, fra le gelosie europee, ritentare una conquista o soltanto un primato in Italia?
Il papa lo sa: non abdica, ma non pretende; a piccole distanze attenua la vecchia affermazione e la smentisce quotidianamente nei fatti.
Ha permesso, ha voluto che i cattolici votino accettando Roma e la monarchia, perchè nella bufera delle incredulità che sale mugghiando dal basso, nell'oscillare e nell'esaurirsi del principio e della forma monarchica, sente di rimanere la più antica, la più alta, forse la sola autorità. I re regnano per mandato popolare, egli sovrastava al popolo per mandato divino: contro la sua potestà rimbalzavano i colpi scagliati sulle monarchie, contro la tradizione divina si accaniva la rivolta alla tradizione regia o soltanto statale, contro la tragedia cristiana vociavano le speranze del nuovo paradiso terrestre. Non Roma egli voleva più capitale del minimo inane regno temporale, ma una riconquista ideale della nuova società, un'altra azione sui popoli, un'altra influenza sui governi, un altro impero nella storia.
E i cattolici votarono, e nella camera penetrò il manipolo dei loro deputati.
Fu bene?
Credo.
Il vecchio glorioso partito liberale, che compose l'Italia rivoluzionandola, si era esaurito nell'opera: davanti all'allargamento del suffragio politico si sentì sprovveduto, non sapeva i modi e non li aveva forse per sedurre le nuove masse, alle quali tribuni e demagoghi, nella facile ubbriachezza dell'immediata sovranità, prodigavano la illusione di tutti i poteri e la viltà di tutte le seduzioni. Lentamente il vecchio, glorioso partito liberale indietreggiò, diminuì, non rimase più che un'accademia: partito composto soltanto di uno stato maggiore, destinato egualmente al comando dalla superiorità del proprio personale e oramai nell'impossibilità dì avere un esercito.
Allora lentamente, inavvertitamente il partito cattolico scese nell'arena: si volse al popolo, fondò società di mutuo soccorso, banche, sodalizi, instituti: si disciplinava, si preparava. Pochi avvertivano la novità, quasi tutti la spregiavano. Si credeva che fossero antichi clericali, sempre nemici della patria, che ripretendessero Roma, che richiamassero a grandi strida lo straniero. Poi una sottile vena democratica vi si infiltrò: il popolo specialmente delle campagne ascoltava e accettava; si conquistarono i primi municipii rurali, le mediocri città; il partito improvvisava una stampa, conferenze e conferenzieri, si preoccupava del lavoro e dell'emigrazione, aveva un'avanguardia d'impazienti, una dottrina, un programma.
Dalle elezioni municipali salì a quelle politiche. Nella piazza allora l'odio amico rifiammeggiò; democratici plebei e giacobini borghesi si coalizzarono contro l'avvento cattolico, ma presto una verità insospettata rifulse: senza i voti dei nuovi cattolici pochi liberali, anche fra i più illustri, avrebbero potuto conservare il proprio seggio nel municipio e nel parlamento.
Poteva essere umiliante, ma era così: la storia non è mai in difetto. Con chi, con che avrebbe essa resistito allo straripare delle nuove correnti plebee?
La tradizione solamente poteva arginare la ribellione, rendendo così feconde le acque e permettendo al disopra del loro tumulto fangoso la visione della verità ideale. L'accusa ai liberali di tradire la gloria del passato e le necessità del presente nell'alleanza coi cattolici, che pure accettavano, malgrado ogni effimero equivoco della parola superiore, la rivoluzione nelle sue conseguenze storiche, meritava appena l'onore di una risposta. I superstiti repubblicani di Mazzini non entravano per passione elettorale nel fascio dei marxisti, dimenticando tutta la vita e la dottrina del maestro? I radicali, che si affermavano e sono monarchici, non chiedevano spesso il voto ai socialisti e più spesso non lo davano loro?
La bandiera unificatrice dell'anticlericalismo aveva troppi colori e troppi emblemi per essere intelligibile e quindi vera: poteva essere indispensabile nelle dimostrazioni di piazza, non diverrebbe mai stendardo di guerra nazionale e ideale.
La storia, al solito, aveva provveduto equilibrando idee e fatti, abbinando le correnti, sostituendo e creando, e la storia è infallibile come la vita.
Roma non può essere più conquistata da alcun nemico, nè italiano nè straniero, e la libertà, più eterna di Roma, non teme i nuovi cattolici.
— Entrate, signori — diremo loro noi vecchi liberali — e tirate pei primi.
I gentiluomini francesi non gridarono così ai soldati inglesi prima della battaglia, a Fontenoy?
18 aprile 1909.
FINALMENTE
Il principe di Bülow è caduto, e nel parlamento, negli alti consigli, a corte, nei grandi palazzi, nei grandi giornali, nei grandi partiti una gioia di liberazione sembrò sollevare i cuori e gli spiriti. Improvvisamente il dominatore apparve solo nel mezzo di una rivolta sempre incerta della propria vittoria, ostinata nelle difese quanto guardinga negli attacchi, e dispari nei motivi di interessi e di idee.
Il pretesto è stato di finanza, l'ultimo disegno d'imposta presentato dal gran cancelliere per sopperire al disavanzo creato dall'enorme aumento delle spese militari, e il disegno colpiva l'alta classe conservatrice, sulla quale aveva dovuto appoggiarsi sino a ieri, producendo sovra di essa piuttosto lo spavento di un pericolo, che lo sdegno di un danno. La tassa di successione, voluta dal cancelliere, conteneva la novità di un principio ostile: la ricchezza territoriale, che nella storia vecchia fu sempre la base di ogni politica nazionale e la forza sicura di tutti gli stati, veniva colpita con una moderna intenzione: a questa ricchezza, quasi vivesse di un falso privilegio, si chiedeva improvvisamente un olocausto: essa solamente doveva per la massima parte sostenere il nuovo peso della difesa nazionale, espiando così un ozio troppo lungo ed una immeritata fortuna.
Questa mossa del cancelliere diventava più pesante sulla coscienza del partito conservatore, perchè i ministri di Francia e d'Inghilterra con più aperto radicalismo l'avevano già cominciata come un prodromo di rivoluzione finanziaria: nelle loro parole, ancora più che nei loro atti, l'attacco alla proprietà antica sembrava aver rinunciato a tutte le prudenze e a tutte le riserve: si voleva che l'industria e il commercio dovessero meno della terra al bilancio dello stato, e che il salario degli operai non dovesse quasi nulla. I due bilanci di Caillaux e di Lloyd George erano un assalto di partigiani anzichè un disegno di governo: mancava in quelli ogni apparenza d'impersonalità: la classe dei proprietari non vi pareva più di cittadini, ma di nemici secolari, sui quali la giustizia con lungo sforzo potesse finalmente prendere una rivincita: la difesa dello stato e della patria, supremo diritto e supremo dovere di tutti i cittadini nella gamma della loro potenzialità economica, senza ingiuriosa eccezione per nessuno, diventava l'onere di una sola categoria, quasi a punirla di avere nei secoli pur mantenuto questo stato e questa patria.
Ma evidentemente nel disegno di Bülow la misura era quasi salva e il sacrifizio chiesto con garbo di amicizia.
Invece egli solo dei tre ministri è caduto.
Non è qui il caso di esaminare il suo disegno di legge: difficilissimo il poterlo fare da lungi, impossibile sempre in tema di finanza giudicare davvero sulla giustizia dispositiva dei pesi. Vi sono epoche per tutte le nazioni (e l'Italia non dovrebbe aver dimenticato l'eroismo violento, quasi feroce, col quale Quintino Sella volle salvarla dal fallimento stringendo tutto e tutti nelle morse di tasse arbitrarie e micidiali), vi sono epoche, più spesso momenti, nei quali un ministro delle finanze gitta disperatamente una tassa come un guanto di sfida, preme e spreme dove può, sa di essere ingiusto per un più alto dovere di giustizia storica: per salvare la patria deve colpirla nelle parti magari più nobili o più dolenti, ma meno pericolose momentaneamente. E non è questo il caso di Caillaux e di Lloyd George: la loro è una finanza a sottinteso socialista, fuori della tradizione e della scienza, un odio la sospinge, una segreta utopia la giustifica contro tutte le evidenze della realtà.
In Francia la battaglia non è ancora scoppiata, nè forse scoppierà per la fiacchezza dei liberali scempiamente ancora divisi in frazioni monarchiche e unanimi solo nell'odio alla repubblica, mentre dovrebbero amarla come la sola forma di governo possibile, e amarla intensamente per ritoglierla alle strette della più falsa demagogia. Nell'Inghilterra invece tutta la stampa si è sollevata come un'onda spumeggiante e mugghiante: i vecchi liberali di ogni partito si alleano contro il piccolo radicalismo del nuovo ministro: non si vuole da una legge di finanza spezzata l'unità spirituale dell'impero, mentre urgono appunto enormi sacrifici per la sua difesa lungo tutti gli immensi confini. Persino Kipling, il poeta barbarico del nuovo imperialismo, così saturo di gin e di sangue, ha lanciato un'ode contro l'esposizione finanziaria del ministro; ma il poeta, che tremò e fuggì davanti ai boeri rifugiandosi a Capetown, da molti anni non ha più saputo trovare gli accenti dell'orgoglio e della morte: il bardo illustre è rimasto come un pifferaro colla vescica sgonfia sulla schiena e il piffero stonato nelle mani.
Adesso intorno al principe di Bülow gli odii si acquetano rapidamente e fremono tutte le curiosità. Chi sarà il successore? Questa unanime incertezza esprime il più alto complimento per il caduto; nessuno lo ha dunque vinto, nella lotta suprema nessun avversario è sembrato degno di lui e della vittoria. Ma l'imperatore dovrà chiamare qualcuno, e questo estraneo sarà il successore: tanto meglio per lui. La verginità nella politica è spesso una forza suprema.
Qualcuno ha voluto vedere in Guglielmo II il nemico di Bülow, dopo la schiacciante vittoria del principe sull'imperatore per le ultime indiscrezioni diplomatiche; e si è detto che Guglielmo non ha voluto imperialmente chiedere al centro conservatore e liberale quest'estremo sacrifizio per potere così sacrificare il ministro accettandone le dimissioni. È vero? Anche lo fosse, non lo sarebbe egualmente, giacchè questo alto e piccino motivo personale non poteva bastare alla caduta di Bülow, se egli stesso non si fosse prima logorato o troppo arrischiato nell'opera.
L'imperatore non è abbastanza grande davanti al ministero per dominarlo: Bülow invece conosceva troppo bene l'imperatore per non aver calcolato nel rischio dell'ultimo giuoco.
Egli, giungendo terzo, fu il solo successore di Bismarck; il gigante era stato cacciato apparentemente dall'altezzoso capriccio del giovane imperatore, in realtà dalla nuova Germania industriale, commerciale, ricca, già necessariamente dimentica degli sforzi titanici e degli eroismi epici dei padri, che avevano costituito l'impero. Bismarck non poteva, per legge storica, essere l'uomo e il condottiero del secondo periodo, che doveva fare della politica un crogiolo per fondere tutte le differenze e unificare la patria da lui stesso coagulata stringendola nelle lunghe braccia sino a soffocarla in un impeto di amore e di difesa. Egli era l'eroe antico come Barbarossa: il suo abito non mutò mai e fu di soldato, e così i suoi modi, il suo pensiero, la sua parola: voleva l'impero contro tutti, anche contro l'imperatore; voleva la Prussia sopra tutto con un impero quale la Germania non ebbe veramente mai, fra la Francia che sarebbe decaduta nella democrazia, e la Russia che avrebbe forse fallito nel problema di oriente e per molte generazioni dovrebbe consumare le proprie forze imperiali nell'antitesi di darsi e di svolgere una costituzione moderna. Voleva la Prussia, allora quasi ignota sui mari, signora del mare; voleva il popolo grande e forte ma servo dell'impero: la sua idea era assoluta come quella di Hegel, univa imprigionando, livellava e schiacciava, domava, colla stessa frase secca come un ordine, tagliente come una spada, sonora come un'armatura, corte e parlamento. La sua poesia era la famiglia, la sua idolatria la patria, la sua religione la forza, il suo diritto nella vittoria, la sua fede in Dio.
Credeva come un antico, come tutti coloro che operano, e sanno l'opera alla mercè di un'oscura ma immanente potenza.
Ed era agile ma come gli elefanti, contro l'ignara leggenda del volgo che non lo crede; violento sino all'ingiurie e alle lagrime: era un brutale che amava la musica di Chopin, un ministro solitario, un parlamentare senza maschera, un diplomatico che ingannò quasi sempre dicendo la verità.
Quando cadde, tutti lo insultarono: si chiuse in campagna, ma non seppe essere ancora abbastanza grande per serbare il silenzio.
Bülow gli successe: a che parlare di Caprivi e di Hohenlohe? Egli era l'uomo del nuovo periodo: il guanto di velluto dopo quello di ferro, l'agilità suprema del pensiero, l'equilibrio della parola, inafferrabile come un serpente, vago come un artista. Bisognava dirigere consentendo e trascinare seducendo: così visse nel parlamento e pel parlamento: era un cancelliere dell'imperatore e parve quasi sempre un presidente ministeriale: seguì il programma del gigante, sviluppandolo nella pace, trionfando nell'improvvisazione della ricchezza, battendo simultaneamente Francia ed Inghilterra. Ma dietro questa pace, erano sempre la leggenda della forza, e la forza.
Contro di lui si appuntarono in uno sforzo unanime tutte le diplomazie di tutti i governi, e tutte dovettero indietreggiare davanti all'abilità delle sue parate, all'imprevedibile prontezza degli attacchi e alla amabilità del suo sorriso italiano.
Ho detto volontariamente italiano.
Perchè è in lui molto dei nostri grandi politici nei grandi tempi dei piccoli principati e delle più piccole signorie: egli ha pensato, sentito, forse amato l'Italia: qui si perfezionò ad arme la grazia del suo spirito, qui si temprò nella passione del comando e dell'idea il suo scetticismo. A Berlino, nel parlamento, a corte, apparve subito nella superiorità di un'esotica seduzione: Bismarck schiacciava, egli passava attraverso tutte le difficoltà, e chiunque gli restava dietro era un vinto. Sembrava senza odio e senza amore, pronto sempre a cedere, lieve sino a parere inconsistente, arrendevole sino a simulare la docilità, pronto a legarsi con tutti, ad immedesimarsi con tutti, e tutti hanno sognato così di possederlo, e non lo poterono, e dovettero combatterlo sempre e finire per odiarlo, sommandosi per abbatterlo.
È davvero caduto?
Chi dunque l'ha vinto? La sua opera è finita.
Tornerà al potere? Ne dubito.
Tornate piuttosto a Roma, principe: dallo scoglio così incantevole della vostra villa cittadina le rose vi chiamano accennando da lungi e gettando sul vento il messaggio dei loro profumi; forse a Roma vi sentirete ancora in patria.
9 luglio 1909.
VIII SOTTO IL FUOCO
I FALSARI DELLA VOLONTÀ
La loro schiera cresce e crescerà lungamente finchè una più alta inspirazione nell'arte non disperda con un soffio di vento fecondo i loro pensieri e le loro opere così penosamente vane e raffinate.
Oggi è un romanziere francese, Remy de Gourmont, che nel Sogno di una donna, ci offre una idea nietzschiana, una donna che pretende dominare la vita, nel concetto e nel fine, superando le barriere della morale, i confini della propria epoca, per solennizzare in sè stessa il trionfo di una volontà inutilmente insaziabile.
Amare non è più che godere, e vivere è solamente volere al disopra di tutti, come se tutti non formassero che lo sfondo di una sola vita, la cornice di una sola figura.
Questa teorica superba usci quasi inavvertita con Max Stirner dalla sinistra hegeliana, che il pubblico tedesco di allora credeva smarrita per sempre nei paradossi atei e rivoluzionari di Feuerback.
Il fondatore dell'anarchia intellettuale era un giovane cupo e solitario, quasi senza amici, assorto nell'idolatria del proprio orgoglio, con un ingegno lucido e tagliente quanto il vetro, che invece di riflettere la vita, vi ardeva nel mezzo fra le fiamme fredde dei propri riverberi.
Della sua opera capitale, L'unico e la sua proprietà, nessuno si accorse; in un altro scritto più breve. La mia potenza, bandì un vangelo stupefacente e negatore di tutta l'umanità nella sua essenza e nella storia per deificare l'individuo solitario e perfetto come un atomo, senza forza di attrazione su altri, senza virtù di condensare la vita e la forma di un corpo.
Most, il nemico di Marx, fu il successore politico di Stirner e il fondatore a Londra del partito anarchico, che doveva a lunga distanza di anni trovare in tre italiani un sognatore, un sonnambulo e un maniaco: Angiolillo, Caserio, Lucheni, tre omicidi, tre vendicatori, enigmatici nell'opera, paurosi al pensiero.
Nietzsche fu il poeta di Stirner, ma, come Chateaubriand, un poeta della prosa. Profondo ed oscuro, nuvoloso e lampeggiante, egli apparve per rispondere alla nuova tirannide del socialismo, che annulla l'individuo nella massa e non gli lascia altra speranza di felicità che la partecipazione ad un materiale benessere mediocre e collettivo: un refettorio e un dormitorio, un lavoro anonimo e comune, la libertà sacrificata all'eguaglianza, la personalità dispersa nel numero.
Allora nell'ingegno di Nietzsche tornarono giganti le più micidiali figure di eroi, che per compiere la propria missione erano passati sull'umanità come un elefante sopra un formicaio; ma egli dimenticava quella missione per non amare che la loro mortifera sovranità. Carlyle era sopraffatto e svisato dal suo continuatore: la teorica degli eroi continuatori della storia diventava la lirica apologetica dei tiranni, che la violano nei loro capricci.
Ma pochi artisti in questo secolo furono più ammaliatori ed originali di Nietzsche. Attraverso le inevitabili e spesso disgustose falsificazioni del suo spirito una meravigliante visione della realtà esplodeva, come le improvvise illuminazioni boreali, che poi sorpresero Nansen nell'eroico viaggio polare: un incendio lucido e colorato, quasi di fiamme diluite, di gemme evaporanti. Nietzsche ha criticato frammentariamente ma insuperabilmente tutti i vizi e le manchevolezze della nostra epoca: ha dissipato per sempre il fantasma della verità popolare, schernite e distrutte le misere velleità delle mezze ribellioni e delle mezze autorità liberali.
Il suo sogno del superuomo è il suo sogno di malato, l'invettiva finale che esagera e falsa il ragionamento, un ritorno della forza pagana su la molle decadenza cristiana, la suprema vanità di comando in una aristocrazia rimasta fuori della vita e che tenta indarno innalzarsi arrampicandosi sulla propria vanità.
Gabriele d'Annunzio tradusse il sogno di Nietzsche in qualche figura, sforzandosi a darle sembianza di vita coll'imitazione di antichi disegni, intendendo a rovescio Leonardo da Vinci, ingannandosi ed ingannando colla malia di una bellezza letteraria formata cogli echi e coi riflessi di ogni bellezza passata. La figura abbagliò il pubblico, una torma di scolari applaudì, delirando, il maestro, che valeva meglio dell'opera e si avviava nel teatro verso la più rude e salutare smentita.
Adesso Remy de Gourmont, minore nell'ingegno, più destro nella maniera, ritenta la prova.
Il suo Sogno di una donna non vorrebbe essere che la confessione ingenua e convincente di una superdonna, la quale ha concepito la propria esistenza nell'illimitato impero della volontà e nella conquista del piacere. Così ella trionfai per aver saputo volere; e si sente felice perchè limita ogni attività del corpo e dello spirito al piacere. Sciaguratamente tutto si riduce a un fantasma di donna, a una forma polemica, a un mostro elegante ed impossibile, che l'abilità dell'artista trasse dalla ganga di una tesi filosofica. Ella non vive davvero, perchè la vita imprigiona tutti gl'individui nelle proprie maglie e non consente ad alcuno di romperle salvandosi in una libertà estranea alla morale, superiore al pensiero. Il dramma si svolge invece dentro questo sforzo, quindi la tragedia si compie uguagliando vincitori e vinti.
Che cosa è il piacere nell'amore?
L'agguato teso, secondo Schopenhauer, a noi dalla natura per suaderci la perpetuazione della razza, o, secondo l'idea cristiana, il primo pietoso compenso messo da Dio nella nostra dura vita di sacrificio e di ascensione?
Comunque lo si intenda, nè il piacere è l'amore, nè la voluttà sessuale il suo massimo piacere. L'amore ha bisogno di idealità e di olocausto nella sua prima ora fra gli amanti, come nella sua lunga giornata coi figli: si comincia dall'amare come tali, poi l'amore degl'innamorati preannunzia la devozione dei genitori. È questa la legge, la verità e la vita. Non è permesso, non è possibile isolare la propria esistenza circoscrivendola entro i giorni felici ed inconsci dell'amore primaverile: è falso che l'amore galante, composto di sensualità bruta e di grazia artificiosa, possa dare il trionfo sulla vita, l'impero sopra sè stessi e su le folle. Superuomini e superdonne non sono che superfetazioni, alle quali l'ingegno può aggiungere qualunque più ricca decorazione, ma non inspirare il soffio della vita.
E l'arte è creazione.
Potete leggere questo Sogno di una donna: vi parrà più vero dei sogni d'annunziani perchè più prosaico, forse meglio composto come romanzo, meno esotico come stile, più moderno come parola. Ma non riconoscerete nella sua eroina il carattere di altra donna da voi conosciuta, mentre nella turba dei personaggi, che la circondano per darle modo di svolgersi, vi sentirete a disagio come fra maschere fuori della stagione carnevalesca.
Non vi è che un modo per essere un superuomo e diventare un grand'uomo: pensare, amare, soffrire, creare per tutti coloro, che la vita umilia fatalmente nelle feconde bassure del lavoro anonimo e quotidiano.
22 dicembre 1899.
LA BATTAGLIA RELIGIOSA
Così pare mutarsi quella che il ministero Waldek-Rousseau aveva cominciato contro le congregazioni.
Mentre nella camera francese gli oratori succedevano agli oratori d'ambo i lati allungando magnificamente la serie dei discorsi come un torneo letterario, nel quale i campioni giostravano con tutte le armi vecchie e nuove, improvvisamente un gruppo di destra mosse incontro alla grossa falange socialista e urtò il ministero con una votazione formidabile e nonpertanto inefficace.
Il ministero, per larvare l'illiberale insidia del proprio disegno, voleva che quasi tutte le associazioni per costituirsi e per mantenersi dovessero chiederne il permesso allo stato: si capiva fin troppo bene che nella pratica del governo i circoli socialisti non avrebbero avuto nulla a temere da una simile disposizione, ma l'istinto della logica e della passione, che non può quasi mai sottomettersi alle effimere necessità della schermaglia parlamentare, esplose nella discussione, e i socialisti proposero che solamente le congregazioni religiose dovessero umiliare così il diritto della propria vita.
Quindi la legge mutava indole: dalla difesa della repubblica passava rapidamente, violentemente, alla persecuzione religiosa, rinnovando odii sopiti da secoli, solleticando rancori recenti ed ingiustificabili, dividendo nuovamente i cittadini per ordine di sentimenti e di idee ultramondane.
E la destra, per compromettere il governo, votò coi socialisti questo editto di proscrizione.
Certamente il governo della repubblica aveva bisogno di alzare qualche valido baluardo contro gli approcci sempre più minacciosi e le mine sotterranee, che molte congregazioni religiose scavavano con passionata perseveranza sotto le sue fondamenta. Non mai forse nella lunga storia civile di Francia l'opera dei conventi fu con più largo proposito e con maggiore efficacia di mezzi diretta a rovesciare un governo; e la guerra era cominciata all'indomani di Sédan, mentre i campi della Sciampagna fumavano ancora di strage guerriera e per le vie di Parigi le fiamme del petrolio asciugavano le pozzanghere del sangue.
Il clero, che aveva regnato con tanta preponderanza sul secondo impero napoleonico, sentì nel proprio istinto che dalla nuova repubblica non avrebbe potuto pretendere simile privilegio, e sapendo la Francia monarchica nelle abitudini mentali e sentimentali, malgrado tutte le effervescenze repubblicane, intese al riparo.
La repubblica infatti avrebbe dovuto lottare lungamente per fondersi, giacchè mancava ad essa una tradizione conciliante e gloriosa. La Convenzione atterriva ancora le anime coi ricordi tragici del suo avvento simile ad una bufera di sangue e di fango, che aveva tutto rovesciato struggendo e fecondando, contrapponendo la Francia a sè medesima e al mondo, in un miracolo pauroso e sublime, inintelligibile e breve, dal quale era uscito un impero militare più alto e violento dell'antica monarchia.
Certamente la Convenzione era una gloria francese, ma aveva troppo somigliato ad un cataclisma perchè da essa una tradizione repubblicana potesse formarsi. E l'esperimento del '48, simile ad un intermezzo di operetta, finiva alle giornate di Cavaignac, nelle quali ricominciava già un altro impero napoleonico.
Le congregazioni religiose di Francia non credettero alla vitalità della terza repubblica.
Quindi colla paziente tenacia dello spirito conventuale si accinsero a filarle il capestro, perchè mancava come sempre a questo spirito quel senso segreto e così poco definibile della progressione storica. Chiuso nei propri dogmi, superbo di una tradizione conquistatrice non mai arrestata, rotto a tutte le difficoltà della propaganda, pratico dei costumi, al centro degli interessi, padrone delle coscienze, non credette alla marcia fatale dell'idea democratica.
Mentre il clero regolare inchinava lentamente verso la repubblica, i conventi si mutarono in rocche o in accampamenti muniti contro di essa: e sospinsero gli attacchi.
Nel mondo moderno ogni battaglia si compie col danaro, ed essi arricchirono tosto, inverosimilmente: la democrazia bandiva al popolo la necessità di rinnovare in una nuova coltura la propria coscienza, ed essi moltiplicarono scuole, collegi, educandati, arrolarono professori, irreggimentarono scolari; l'esercito doveva essere il grande presidio, l'espressione armata del suffragio universale, ed essi penetrarono nell'esercito, vi riassunsero la tradizione monarchica, vi riaccesero gli orgogli aristocratici e l'ingenua fede regia.
Poi, diventati più audaci nella lotta, soffiarono nell'antisemitismo, tentando di organizzare una finanza cattolica contro la finanza israelita: si impadronirono della stampa, signoreggiarono le elezioni e, giovandosi dello spauracchio socialista, chiamarono a raccolta tutte le coscienze timorate e timorose, conservatrici e reazionarie.
Ma questa opera, certamente meravigliosa nella sua rapida molteplicità, aveva lo stesso difetto alla base e al vertice: in quella mancava la monarchia, su questo il monarca: le congregazioni non avevano potuto nel proprio impeto trascinare tutto l'altro clero, e la repubblica rimaneva invincibile nella Francia, perchè la monarchia vi era morta e nessuna figura regale vi appariva vivente.
Allora la guerra peggiorò: la tragedia Dreyfus impose a tutti i partiti di gettare la maschera, bisognò essere francamente per la repubblica o contro di essa; i conventi si proclamarono superbamente nemici, e Leone XIII si pose pacificatore fra essi e il governo.
Come sempre, la tradizione cattolica di Roma si rivelava più profonda e sicura di ogni altra.
Era impossibile che il governo repubblicano, uscendo vittorioso da questa lotta, non tentasse contro le congregazioni religiose una qualche rappresaglia, e Waldek-Rousseau, dopo Casimir Perier il miglior parlamentare di Francia, era forse l'uomo più adatto a non sbagliarne la portata e il momento. Infatti, isolando abilmente le congregazioni dall'altro clero e coprendo l'incameramento dei loro beni col magnifico disegno di una cassa nazionale per gli invalidi del lavoro, egli aveva posto la questione sopra un buon terreno colla legittima lusinga di non offendere troppo la coscienza cattolica francese.
Ma la logica della passione e dell'istinto supera sempre ogni dialettica, ed ecco la posizione del governo invertita: una legge di difesa si muta in una legge di proscrizione, la minaccia socialista richiama alla memoria le paure della prima grande rivoluzione, i conventi sono condannati, qualunque associazione religiosa diviene sospetta e perde il diritto nella legge.
La destra, unendosi ai socialisti nella violenza, volle certamente spingere il governo nell'assurdo per meglio ridurlo all'impotenza, ma la coscienza pubblica non intenderà facilmente il beneficio di una simile manovra.
Così molti anni or sono i conservatori d'Italia, per impedire l'allargamento proposto da Depretis nell'elettorato politico, arrivarono sino ad invocare il suffragio universale, sperando ingannevolmente di dominarlo.
Ma i conservatori francesi si troveranno invece, come la repubblica, in opposizione coll'idea liberale e colla tradizione religiosa; la persecuzione gioverà ai conventi anche per gli infrenabili eccessi che i socialisti commetteranno al sicuro nella nuova legge.
Già in molte città sindaci socialisti proibiscono ai sacerdoti di vestire la tonaca, il municipio di Parigi toglieva non ha guari dai manuali di scuola il nome dì Dio, e una propaganda atea, furiosa e villana, inetta e dissolvente, si vanta di arrestare ogni sviluppo, di cancellare ogni traccia religiosa sulla terra francese.
In Francia, come in Italia, il partito conservatore ha ripetuto gli stessi errori: là non volle essere repubblicano, qua francamente liberale per resistere all'onda impura, che i demagoghi sollevano dalla democrazia: in ambo i paesi, egualmente costretti ad accattare la vita in parlamento e fuori del parlamento, i governi non sanno più avere la sicurezza di un programma e di un partito; vivono d'espedienti, sminuzzano le idee, frantumano i caratteri, tradiscono sè stessi prima ancora della patria.
Eppure non mancano esempi stupendamente superbi: in quale epoca, presso quale popolo si vide mai più bella, ascendente continuità che nell'impero prussiano da Bismarck a Bülow?
Anche nell'infelice guerra contro i boeri l'Inghilterra non appare ancora come fusa nel bronzo della propria politica imperiale?
E l'Italia?
11 febbraio 1901.
I RIBELLI DELLA FEDE
Sono essi veramente tali?
Da circa un mese il telegrafo segnala ogni giorno piccole vampe e fumacchi d'insurrezioni per tutte le terre di Francia. Un dolore solleva le anime, un odio nuovo esaspera le coscienze offese nelle più oscure profondità, ove la vita comincia e finisce dentro lo stesso mistero. E come nei secoli lontani, quando l'idea religiosa conteneva ancora tutto l'intelletto civile, si veggono i più ingenui e i più timidi, i contadini e le donne levarsi armati di querele e di armi domestiche a minacciare i nuovi nemici della loro fede e a difenderne gli inermi difensori.
Perchè?
Quale pericolo nuovo, non ancora visto dalla mente dei più acuti pensatori, minacciava la vita della terza repubblica francese, che sorta dalla catastrofe di Sédan aveva potuto in trent'anni riparare i guasti dell'ultima sconfitta napoleonica, rifare esercito ed armata, dilatare l'orbita del proprio dominio coloniale, raddoppiare ogni valore di terre e d'industrie, logorando con una politica abile e tenace tutti i residui delle forme monarchiche sopravvissuti al disastro delle singole dinastie?
Da Thiers a Waldek-Rousseau, forse la Francia non vide mai alla sommità del proprio governo più ricca fioritura di uomini illustri e più presto mietuti nelle battaglie parlamentari; ma uno stesso programma si compiva, malgrado ogni rovina personale, risollevando la nazione nel concetto del mondo e mantenendole il nobile e così difficile primato di antesignana nella marcia della democrazia e nell'avvento della libertà.
Invano gli avanzi monarchici tentarono in una estrema coalizione l'ultimo sforzo: mancava ad essi la continuità della tradizione, che mantiene nei cuori coll'entusiasmo della fede l'abitudine della credulità, e la gloria di una bandiera nelle mani di un uomo nato alla vittoria; non un principe, fra i pretendenti, aveva mai visto una battaglia, non un generale, fra quelli disposti a vendere la spada, possedeva nemmeno l'anima di un reggimento per gittare all'aria il primo grido di rivolta. Boulanger fu un giullare della reazione, Deroulède un buffone da caserme, nelle quali le sue canzonette militari avevano potuto introdursi fra tutte quelle altre di piazza: entrambi insidiando la repubblica, non poterono contrapporle francamente la monarchia, e decaddero nella estimazione della folla prima ancora che l'impresa avesse arrischiato un uomo ed alzato un labaro.
La monarchia non poteva ancora risorgere in Francia; come dunque la repubblica sarebbe stata in pericolo? Ogni esperimento monarchico era stato esercitato nella patria francese dopo la sua grande rivoluzione, che interrompe come una immensa giogaia la storia regia d'Europa: la prima ristorazione legittima era finita all'esilio di Carlo X, ultimo re borbonico nel quale il popolo aveva ancora potuto vedere la nobiltà maestosa di un trono e di un diritto secolare: Luigi Filippo non fu che una transazione e una transizione fra l'abitudine della servilità plebea e l'orgoglio della nuova sovranità popolare, ma il suo diritto non potè mai essere chiarito e il suo potere, costretto a vivere di espedienti, si logorò in un'opera senza virtù di elevazione storica.
Così cadde alle prime impazienze repubblicane senza che la repubblica avesse ancora compita la propria assisa, e l'estrema forma cesarea si produsse quindi nell'arringo con Napoleone III. La prova lunga non fu senza qualche gloria, mentre la bandiera francese entrava trionfatrice a Milano fra gli osanna di un popolo liberato e respingeva quella russa dalle mura vinte di Sebastopoli, ma un impero di avventure come quello del primo Napoleone non poteva essere rinnovato fuori della propria bufera, che aveva sconvolto e fecondato tutta l'Europa.
Il nipote somigliava allo zio come un'armatura ad un guerriero: il secondo impero dopo il primo pareva quello che era: un fodero senza lama, una corona senza testa, uno scenario romantico per una tragedia classica, nella quale l'attore principale pretendeva di essere anche il poeta.
Il poeta era invece a Guernesey e soffiava contro il teatro e contro gli attori i propri versi pieni di tutta la collera del mare, lampeggianti e sonanti come le bufere.
Chi avrebbe dunque potuto rovesciare la terza repubblica?
Se le bande dell'impero e i banditi della Comune, aiutati dall'immensa invasione prussiana, non erano riusciti ad impedire questo avvento, era facile credere che dopo sarebbe stato loro anche più difficile rovesciare il nuovo governo. E così fu: dalla commedia di Boulanger al dramma di Dreyfus sino alla farsa di Deroulède, ogni tentativo fini egualmente nel ridicolo: i pretendenti apparivano anche minori dei propri partigiani, e in questi la passione dell'avventura non bastava più ad improvvisare il coraggio della ribellione e la fede della propaganda. Erano dei critici, ai quali gli errori dei governanti potevano dare impunemente ragione, giacchè per ottenere dal popolo il permesso di rovesciare il suo governo bisogna avergli prima inspirato la fede e la speranza in un altro.
Invano dunque il recente ministero Combes, per giustificare la nuova persecuzione al clero insegnante, proclama di aver salvato la vita alla repubblica nelle ultime elezioni, per le quali si vide l'estremo sforzo di tutti i residui monarchici. Il vanto è falso, ed è fortuna per la Francia che sia tale: chè se davvero la monarchia fosse stata ieri così forte da rimettere in giuoco l'esistenza della repubblica, nè Waldeck Rousseau, il più illustre continuatore di Gambetta, si sarebbe dimesso con tanta indifferenza per il potere, nè Loubet avrebbe chiamato il signor Combes a succedergli.
La repubblica francese è invincibile all'interno soltanto perchè i suoi nemici non hanno nè tradizione, nè uomo, nè bandiere: sono larve di un grande passato vagolanti senza direzione nel presente.
La nuova guerra, o meglio forse la nuova battaglia, esprime ancora l'antico odio volterriano e giacobino contro la fede cristiana e lo spirito cattolico da un lato, e dall'altro l'inguaribile antipatia nelle anime rimaste fedeli alla tradizione patria contro lo scetticismo delle coscienze e delle opere, la negazione di ogni idealità religiosa e l'apoteosi della ricchezza e della felicità materiale, pur troppo così caratteristica nelle idee e nei costumi. I conservatori odiano la repubblica ed hanno torto, dacchè la monarchia è morta senza speranza di resurrezione: i repubblicani odiano la religione ed hanno torto egualmente, perchè essa non è nemica alla repubblica e apparve sempre, in ogni tempo e in ogni luogo, una necessità della vita spirituale.
Ma la persecuzione del signor Combes non ha nemmeno la grandezza feroce di quelle antiche: è piccola nel pensiero, meschina nella parola, bassa nell'opera, senza le fiammeggianti passioni dell'odio, senza le austere virtù della necessità.
Egli ha assalito il pensiero, e il pensiero lo vincerà: vuole chiudere le scuole delle congregazioni e chiuderà invece alla repubblica e alla democrazia le anime cristiane; espelle gli educatori della vecchia fede, per la quale la Francia potè diventare finalmente la Francia, e dovrà permettere l'educazione di ogni nuova ed antica incredulità, da quella che nega la proprietà, all'altra che nega la patria; teme che il Vaticano possa rovesciare la repubblica e deve accettare per difensori di essa i discepoli della Comune; sfratta le suore votate nella purezza del loro sacrifizio alla cura di tutte le più dolenti ed abbandonate infermità, e subisce le imposizioni di coloro che vantano la perfezione del libero amore e proclamano la scuola proprietà del governo.
Ieri un colonnello a Pontivry nel Morbihan ricusò di eseguire gli ordini del proprio generale contro una casa di suore, affermandosi cristiano, e tutti gli spiriti francesi, amici e nemici, furono percossi da questa parola come da un grido di libertà. La parola esprimeva un sentimento giusto ed un'idea falsa: un soldato non discute gli ordini che riceve, un cristiano non si ricusa all'obbedienza contro un altro cristiano e sa che il cristianesimo non dipende da un capriccio di un signor Combes.
Ma è triste e bello insieme che il grido della libertà sorga dalle file dei conservatori; è brutto e triste invece che al principio del secolo ventesimo si debba ricominciare la difesa per la libertà del pensiero contro il governo della repubblica prima in Europa. Ma il pensiero vive di libertà, meglio ancora che di aria e di luce ogni altro vivente; ma non vi è più famiglia se i genitori non hanno più diritto di trasmettere ai propri figli la propria fede; non vi è più giustizia se un'opinione del signor Combes basta a sospendere la libertà d'insegnare e di apprendere, la più antica e la più necessaria di tutte le libertà.
Faranno il processo a quel colonnello e dovranno giustamente condannarlo: però dalla sua uscirà una ben maggiore condanna per coloro, che nella sicurezza della repubblica, per povertà di pensiero, per miseria di setta, per malattia di coscienza vollero sollevarle contro le anime del popolo più devoto alla riverenza tradizionale di ogni governo.
Quel colonnello è troppo piccolo forse per diventare un martire, ma il signor Combes certamente non è abbastanza grande per riapparire, nella millenaria guerra fra il pensiero religioso e il pensiero filosofico, come un pensatore armato a distruggere i templi e le rocche della fede.
Sutor, non ultra crepidam; pedone, al passo.
18 agosto 1902.
HONOR ONUS
La vecchia Legione d'onore (chiamiamola così, perchè un secolo di gloria è già passato sopra di essa) radiò dai propri quadri il comandante Renancour accusato e convinto quale autore delle tabelle delatrici contro gli ufficiali. L'atto nobile avrà forse gravi conseguenze politiche.
Che cosa è ancora, in tanta tormenta di ragione e di follia democratica, che sommuove l'assisa di ogni classe e ne confonde i costumi urtandone gli ideali e togliendo la precisione dell'antico significato a quasi tutte le parole, questa invisibile legione non mai allineata in alcun giorno, e composta di soldati che s'ignorano l'un l'altro, senza generale veramente degno di tal grado, senza gloria di battaglie, giacchè ogni sua vittoria grida il nome di un solo vincitore? E nemmeno sono tutti francesi coloro che portano all'occhiello l'emblema della sua croce. Da gran tempo il suo reclutamento varcò i confini della patria, quasi cedendo all'impulso degli ultimi impeti napoleonici, che straripavano da tutti gli argini e sorvolavano ogni barriera montana.
Honor era la sua divisa, una sola parola, che esprimeva lo sforzo della battaglia e la gloria del trionfo: ma un onore, al quale ogni uomo comunque nato, per qualunque strada procedesse, poteva giungere armato od inerme, nella conquista dell'ingegno nell'affermazione del carattere, soldato di un'idea o milite di un reggimento, eroe di una passione martire di un dovere.
E naturalmente anche questa legione, vivendo, assorbì dalla vita i veleni che guastano il sangue, le malattie che deformano il corpo: il suo numero crebbe e il suo valore diminuì: rimasta sola depositaria dell'aristocrazia cavalleresca non fu abbastanza aristocratica per accettare tutte le belle originalità della crescente democrazia, respingendo le false grandezze del patriziato decadente: i soldati vi si mantennero in maggioranza senza sufficienti giustificazioni di vittorie, i borghesi ne forzarono spesso le porte col danaro, questa suprema forza moderna, alla quale si attaccano tutti gli inferiori, che può simulare tutte le grandezze, meno quelle del genio e della santità.
E oggi coloro, che a Parigi hanno la nobile e pericolosa responsabilità di questa legione, nella quale Napoleone con lucida intuizione d'imperatore voleva adunare tutte le forze creatrici dello spirito dentro l'ordine di un nuovo patriziato perennemente sicuro, hanno sentito che una minaccia, quale non mai era stata tentata da altra insidia, comprometteva la vita e l'onore di questa estrema cavalleria nazionale. Dietro un ordine, che soltanto l'esagerazione di una collera politica può politicamente spiegare, si voleva, nell'esercito, soldato contro soldato, ufficiale contro ufficiale, uno spionaggio continuo, minuto, irresponsabile nel segreto delle denunzie, vile nella facilità dei mezzi, decente nel nome della repubblica, falso perchè ordinato da un ministero, che nella vita della repubblica non può esprimere più di un momento significando l'effimera presenza? di un partito; si voleva rotta la fede della bandiera, l'ordine della gerarchia, la nobiltà del carattere, che per affrontare la morte sul campo di battaglia ha bisogno di sentire nel compagno vicino un fratello d'armi pronto a morire per ogni altro fratello prima ancora che per la patria.
Perchè tale spionaggio? La scusa era quella eterna di tutti coloro che governano e identificano sè stessi col governo e questo colla patria. Qualunque sia il giudizio che la storia darà un giorno del ministro e del ministero Combes, questo è almeno certo fin d'oggi: che nella difesa della repubblica, così poco minacciata che non un atto di ribellione scoppiò da una città o da una campagna, una politica unilaterale, vigorosa ma violenta, sicura ma soltanto di una rigidezza personale, oltrepassò i confini di ogni libertà, determinando la coalizione di tutti coloro che per ragioni residuali di vita e di storia non avevano ancora accettato sinceramente il regime repubblicano.
Eppure sarebbe stato facile pensare e sentire come nel paese di Francia, saturo ancora di tradizioni regie, malgrado i due enormi sommovimenti della rivoluzione e dell'impero, che scoprirono al sole con nuovi incolmabili solchi più vecchi strati di terreno, non era questo nè il tempo, nè il modo per conciliare animi e interessi diffidenti alla repubblica. L'esercito francese, ancora sotto la vergogna dell'ultima sconfitta tedesca, mentre il suo avversario grandeggiava, aveva bisogno di rifarsi una fede e di preparare una gloria: la Francia e la bandiera bastavano a tutti i cuori: nessuno pensava a pronunciamenti: non v'erano eredi regali, non pretendenti venturieri.
Monarchia e impero, morti nel disonore, non potevano più risorgere, e soltanto la cecità dell'odio politico era capace di sognare così stupefacente miracolo.
Invece si volle che la repubblica fosse il ministero Combes e chiunque per sentimenti o convinzione dissentisse dalla politica attuale, malgrado gli errori e le insufficienze di ogni politica ministeriale, fosse nemico della patria, pronto ad insorgere per gittarla vinta, disonorata, legata ai piedi di un re. Quale? Ma se i monarchici stessi non lo sanno! Dalle rovine dell'impero la figura sola di Napoleone I sale e sbarra l'orizzonte: egli è là da un secolo, solitario come uno scoglio, sotto il quale si rompono indarno le ondate della nostra democrazia: solitario, pallido, enorme, muto.
Gli storici non hanno ancora decifrato il suo enigma, i popoli lo guardano e lo guarderanno lungamente con un senso involontario di ammirazione e di sommissione.
E dall'altre rovine monarchiche? Sono rovine? Appena un fumo grasso, sottile evapora, a provare che la terra non ha ancora digerito tutto il concime del loro piccolo cumulo: non una linea di architettura vi rimane ad accennare una bellezza, non un frammento di statua a testimoniare, se non di un re, almeno di un uomo.
Honor, onus; la vecchia Legione francese ha sentito nel proprio onore il peso di quell'altro, l'onore dell'esercito, l'onore della Francia. Un soldato non può fare la spia che in avanscoperta contro il nemico, arrischiando la propria vita per strappargli il segreto della imminente battaglia: politicamente lo spionaggio è necessario come la menzogna e magari il tradimento, ma nessuna politica difettò mai di spie, nessuna ancora, per l'onore della storia, ne cercò nell'esercito.
Vi è una poesia indispensabile alla vita, una nobiltà senza la quale nessuna democrazia può crescere.
Se domandate ad un soldato: dimmi quali sono i sogni politici del tuo compagno, dimmi la sua opinione segreta sopra i superiori, affinchè possa cacciarlo dalle file; e quel soldato risponde; ebbene, egli primo deve uscire, egli certamente è indegno di appartenere all'esercito, non ha carattere repubblicano, non ha pensiero politico.
Ricordate Turenna? Il vecchio maresciallo, uscito dalla tenda, si era sdraiato entro un fosso in una radura del campo. Era d'estate, una notte serena, senza luna, nè stelle: un gruppo di giovani ufficiali sopravvenne ciarlando, dicendo al solito malissimo del maresciallo e degli altri generali. La conversazione s'accalorava, s'inveleniva.
Allora il vecchio si levò:
— Andate più lungi, miei signori, il maresciallo potrebbe udirvi.
Turenna non era che un eroe: i grandi politici invece sanno interrogare il silenzio e hanno poco bisogno di spie.
17 gennaio 1905.
UNA VISITA
Barrès è candidato alla Accademia francese.
Riuscirà dove Balzac e Zola fallirono, l'uno avendo pur conquistato alla Francia la sovranità dell'arte moderna sul mondo, l'altro avendo regnato nell'arte del proprio tempo come un tiranno plebeo e massiccio, duro ed onesto, violento sino allo scandalo e novatore più nella volontà che nel pensiero? Ovunque e sempre le accademie non furono un indice sicuro nè del valore negli eletti, nè del giudizio fatto su loro dal pubblico.
Maurizio Barrès è oggi in Francia forse l'ingegno più individuale: vi è qualche cosa del suo nome nella sua anima, una sbarra di acciaio, luminosa e sonora. Non saprebbe piegarsi senza rompersi: nulla ha potuto appannare la sua brunitura: è sottile e penetrante, un'arma e un ostacolo: come tutte le armi ha la frenesia di uccidere, come tutti gli ostacoli la superbia di essere infrangibile.
Egli è un solitario, sdegnato, insolente, che domanda sempre alla propria superiorità la giustificazione della propria opera: campione dell'individualismo, adora in sè medesimo il più compiuto degli individui: sogna nel passato e ne getta i sogni all'avvenire come una rivelazione.
Per lui il mondo non vale la Francia, anche quando nella febbre malarica delle polemiche insulta come un figlio la madre: per lui la salvezza di oggi e di domani è nell'energia della coscienza individuale contro l'incoscienza democratica delle masse, alle quali l'elettorato rimise il comando della politica, prima che la tradizione ne avesse loro appreso la profonda, sovrana abilità.
Come molti, troppi forse, Barrès è un ribelle alla piazza: detesta le sue elezioni, i suoi capi, i suoi programmi immediati e voraci, la volgarità delle sue conquiste, la brutalità delle sue negazioni. La sua fede anzi è una negazione del volgo, sul quale vorrebbe regnare come un imperatore e non sa; e vorrebbe forse trattarlo, come già fecero Giulio Cesare e Napoleone, gettandolo all'aria quale un pulviscolo fecondatore, gittandolo nelle fauci della morte quasi un'offa, per guadagnare il passo supremo nella tragedia di un'idea e di un'epoca.
Egli è nazionalista e patriota: un vizio e una virtù.
Nazionalista, odia la repubblica e non ha una monarchia, perchè la monarchia è così morta da gran tempo nella Francia, che non vi si veggono neppure più i resti del suo cadavere. Patriota, la sua patria è l'individualità della Francia alta sopra sè stessa e contro il mondo: una Francia vibrante di originalità e di creazione, vivente di applausi e d'incensi, rossa di lavoro e di passioni, insaziabilmente capricciosa, e così dama da non volere, non accettare se non ciò che è signorilmente bello nell'idea e nella forma.
Dio stesso non poteva passare attraverso l'anima e le pagine di Barrès che come il più alto degli individui: pensiero diventato volontà nella creazione, giustizia di giustiziere nella storia, provvidenza di primogeniture e di elezioni nella vita. Quindi egli ha pensato, scritto, ma non mai operato, in un sogno di grandezza che talvolta arrivava all'empietà: ha vantato tutto, i fantasmi della potenza, imperatori e gesuiti, i santi e gli eroi; sentinella di confine sempre colla spada nel pugno e la lanterna accesa la notte, cavaliere di torneo coi colori della Francia nella fascia e la frenesia della vittoria negli occhi; poeta nella prosa come pochissimo nel verso; originale non nell'idea ma nel sentimento, vivo ancora più nell'accento che nella parola.
I suoi libri hanno lo squillo della diana: sferzano i desti e i dormienti, gridano la battaglia e vantano la morte per passione di vita.
L'accetteranno all'Accademia?
Ne dubito.
Egli non è un grande, ma un vivo: Rostand, invece, non vi è nemmeno un morto, poichè non visse mai in nessuna delle proprie figure e i suoi versi stanno alla poesia come il tamarindo al vino.
Ma Barrès ha dato la vita a qualche fantasma: ricordate i paesaggi di Aigues-mortes, i Deracinés, quella pagina rovente, lugubre, spaventevole contro Dreyfus, quando condannato gli strapparono i galloni dinanzi ad una compagnia di soldati pallidi di collera e di silenzio: una pagina che è un capolavoro e basta sola all'immortalità di uno scrittore? Quanti in Italia ne hanno scritto una simile? E non parlo dei letterati gloriosi e glorificanti la scuola, ma degli artisti, dei poeti, degli scrittori veri, saliti nella vita e per la vita, rinnovando, creando quello che in Italia non c'era, la lingua, lo stile, la figura, la parola vivente.
Adesso i giornali francesi attaccano Barrès: il Matin gli rinfacciava ieri quel magnifico opuscolo. Una visita sopra un campo di battaglia: ed è giusto: nello scorcio di quel libretto vi è tutto Barrès. Egli vanta la guerra, la strage dei soldati morti per difendere la Francia contro la razza tedesca: l'odore della polvere e del sangue lo ubbriaca, le ferite sanguinano eloquentemente, i feriti hanno una maestà che domina la vita e la morte, i morti composti nella eterna bellezza di un quadro trionfano immoti.
Eppure Barrès non sa o non vuol sapere che il suo individualismo, così intrattabile ed imperatorio, è cliente di un tedesco ben più altero, e poeta e filosofo originale, Federico Nietzsche. Questi è l'avversario di Carlo Marx; egli solo ha saputo rispondere alla esagerazione del sistema socialista con un'altra esagerazione, che involgeva e sollevava tutta l'anima umana in una religione e in una idolatria dell'individuo in mezzo a tutte le bufere della vita, fra i più vasti orizzonti della storia, fin sulle cime più inaccesse del pensiero.
Tale risposta era inevitabile, poichè la legge del binomio domina vita e storia.
E dopo Nietzsche pullularono ribelli ed individualisti, la moda vi si mescolò, la ribellione alla piazza fu un nuovo vanto aristocratico, l'originalità di chi non ne aveva un'altra, la volgarità degli ultimi falsi eletti contro il volgo, che saliva scomposto, deforme, informe forse, ma saliva e giustificava colla forza incontrastabile della ascensione il proprio diritto.
Non vi è originalità nè verità contro la massa e il ritmo de' suoi periodi: il genio supera la folla e non la nega, l'eroe serve il popolo e non lo schiaccia, l'individuo per diventare grande deve esprimere non sè stesso ma una gente.
Che cosa resterà dei libri pur così belli di Barrès?
Che cosa resta degli incendi?
21 novembre 1905.
INUTILITÀ
L'altro ieri si è chiuso a Roma il congresso dei liberi pensatori, e adesso ancora molti, fra i pochi che pensano, si domandano curiosamente perchè mai si sia aperto. Certo la libertà del pensiero è la stessa libertà della vita, come questa invincibile attraverso le fasi di tutti i tempi e le tragedie di tutti i popoli, più profonda di ogni legge e più forte di ogni volontà.
Il pensiero non può essere imprigionato, nè mutilato: dal suo mondo invisibile esso impera sui mondi, che la sua forza ha realizzato nelle formole della più ortodossa metafisica, o che esso soltanto può intendere gradualmente secondo le filosofie materialistiche: ma sempre e per tutti il pensiero è l'essenza sovrana della vita, l'unica superiorità dell'uomo sopra i suoi simili.
Ma il pensiero ha per rivale il pensiero, ed ecco la storia de' suoi conflitti sui campi di battaglia e nelle scuole, nei templi e nelle aule, sulle alture della poesia, dalle quali i poeti si scagliano le frecce avvelenate dei versi, e sui culmini della scienza, dalla quale i filosofi precipitano colla frenesia imperiale dei sistemi, per i deserti luminosi dei cieli che Dei e sacerdoti incendiano di lampi o scrollano coi tuoni, perchè sulla terra i terrori si aggruppino alle speranze, e la fede si rinfiammi nella purità della propria luce.
A Roma il congresso ha chiacchierato di molti temi, ma non ha parlato che contro il Vaticano, come il papa, che adesso vi abita e non vi regna più, potesse ancora interdire al pensiero il volo verso certi orizzonti, o proibire nelle sue varie e multiple espressioni alcune parole o qualche forma.
Gli oratori, e alcuni erano illustri davvero nelle scienze, si davano il cambio alla tribuna, le voci mutavano, ma quel rimprovero al passato di Roma papale cresceva sempre di tono, si acuiva quasi in uno spasimo di vendetta, quando dalle lontananze medioevali della storia gli echi rimandavano ancora i gemiti dei primi martiri dell'incredulità, e la fiamma, che arse Bruno, pareva riavvampare nel sole sulle vetriate del Collegio Romano. I rappresentanti francesi, al solito i più eloquenti, vibravano della passione patriottica aizzata dalla guerra, che il presidente Combes ha scatenato contro tutte le congregazioni, ree di avere pazzamente sognato per l'ultima volta di rovesciare la repubblica nel nome di una monarchia già da troppo tempo tramontata nella storia, per un fantasma di re, al quale non hanno saputo ancora dare nè un nome nè una bandiera. E nel tumulto della eloquenza, colla ingenuità caratteristica di tutte le folle adunate da una qualche idea, fra applausi che scrosciavano quasi chiome d'alberi al vento, si è affermato che Giordano Bruno, un errabondo dilettante di filosofia e un artista insignificante, fu il martire più illustre della libertà intellettuale e il pensatore più efficacemente decisivo nell'opera della modernità: si disse che la breccia di porta Pia fu la suprema vittoria del pensiero laico contro il pensiero religioso, mentre quello aveva già ovunque superato tutti gli ostacoli di questo e per la piccola breccia, una fessura che il sangue di pochi soldati arrossò appena, non salì che la nuova monarchia nazionale d'Italia, non a spegnere in Vaticano l'idea cattolica, ma ad occupare soltanto il palazzo estivo dei papi, proclamando finalmente dal Campidoglio la trionfante unità della nostra storia.
La guerra fra il pensiero che crede e il pensiero, che solamente sa, non ebbe in Roma peggiori rappresentanti che altrove, e oggi non ne ha più alcuno di temibile: il papa non regna sull'Italia, e forse ne è contento in silenzio, considerando l'impossibilità materiale e morale di riconquistare il minimo regno; non abdica perchè le religioni non lo possono; riafferma tratto tratto nell'ambiguità di qualche vecchia frase il vecchio diritto, e mira soltanto a difendersi, a vincere col nuovo, che la nostra libertà gli ha largito.
Il pensiero davvero libero consente tutti i pensieri, accetta tutte le religioni, permette tutte le scienze, indulge a tutte le politiche, sorride a tutte le arti, si giova di tutti i mestieri; lascia liberi e vivi tutti, perchè la vita solamente è giudice della forza e della verità in un'idea o in una forma. È inutile ed assurdo proibire l'insegnamento religioso, bisogna invece vincerlo coll'insegnamento laico, lasciando alle coscienze libertà d'istinto e di riflessione, di scegliere o di ricusare; è assurdo proclamare che la repubblica sola può dare l'integrazione finale del pensiero, giacchè la repubblica ne è soltanto un momento e una ganga; è vano minacciare ancora il cadavere del papato così ben morto, che dopo una vita lunga e gloriosa non ha ancora trovato un grande poeta per cantargli le esequie e un grande scultore per scolpirgli un sarcofago. Il papato temporale, ucciso da Mazzini colla classica scure della repubblica romana, sostituito per volontà di plebiscito dalla monarchia di Savoia, è ormai così lontano nella storia e nella prospettiva della nostra coscienza, che quanti ne parlano tuttavia non l'intendono più.
Se per un impossibile miracolo potesse risorgere, i primi a dolersene sarebbero forse i preti e i clericali, già abituati anch'essi alla larghezza delle nostre libertà politiche.
Invece l'idea cristiana e quella cattolica sono più vive di prima, così vive che giorno per giorno allargano la propria conquista e la propria unità: il cattolicismo ha oramai ripreso al protestantesimo il maggior numero di province, e gli insidia le capitali: il cristianesimo è ancora la sola religione che si diffonda e cresca nel mondo. Contro di essa le negazioni della scienza non bastano, gli attacchi dell'anticlericalismo non giovano; il mondo della fede non è quello della natura; tutto quanto la scienza sa non basta a quanto l'anima chiede dalla religione: un Dio non soccombe che ad un altro Dio; l'ateismo non sarà mai popolare, perchè l'egoismo e la miseria umana hanno tutto da guadagnare nel sogno di un paradiso.
Bisogna contrapporre scienza a scienza, fede a fede: e soprattutto credere nella libertà, che consacra l'indipendenza di tutte le idee e di tutte le coscienze.
Renan, l'indimenticabile incantatore della parola, e che nel secolo decimonono forse fu il più libero fra tutti i pensatori, trovò per sè e per gli altri questa formola di indulgenza e di libertà: «Discutendo io sono della opinione del mio avversario».
Perchè?
Perchè avversario avrebbe potuto nascere lui medesimo, e avrebbe voluto che gli altri gli dessero ragione.
27 settembre 1904.
IX ULTIMA CARICA
FIT VIA VI
Ricordate il magnifico emistichio di Virgilio nel racconto di Enea, quando alla fantasia dell'eroe si parava ancora dinanzi, nell'orrore notturno, il quadro di Troia presa ed incendiata, fra l'urlo dei combattenti, nei delirio supremo della forza?
Adesso, laggiù, nell'estremo Oriente, la oscura forza della storia ha scatenato alla più meravigliosa ed originale delle guerre il massimo impero del mondo, così vasto che la luna non lo supera in estensione, e la più nuova fra tutte le nazioni, quell'impero del Sole Levante, che da pochi anni raggia sull'orizzonte della nostra civiltà. Il problema della guerra, intorno al quale ogni pensiero oggi si affatica, è forse il più profondo del nostro tempo, giacchè prelude a quello di tutta l'Asia, desta oramai dal sonno millenario.
Che la Russia distendendosi per la Manciuria ubbidisca alla legge della propria gravitazione, e giunta ai due porti di Arthur e di Vladivostok intenda girare a ponente la Cina per chiuderla entro il proprio immenso monile; che il Giappone, trasformatosi in stato europeo, debba mirare alla penisola della Corea come al più vicino e facile approdo sul continente asiatico: questi non sono che i dati esteriori e militari del problema. Nei due avversari, attraverso le differenze della propria natura politica e dell'immenso spazio interposto, la forza è quasi pari e il valore indiscusso: se la Russia invincibile nella propria massa, e in lontana ma terrestre comunicazione col teatro della guerra, può inesaustamente alimentarla, gettando nelle sue fauci mostruose a centinaia di migliaia vittime e soldati, il Giappone, egualmente sicuro dell'Inghilterra nel proprio impero insulare, gettò pel primo il guanto di sfida coll'orgoglio certo dei vantaggi, che la situazione geografica e politica gli consentono. Così la guerra, anzichè decidere della loro esistenza, non basterà nemmeno a stabilire, per un prossimo futuro, quale dei due avrà davvero il primato dell'influenza nel rinnovamento asiatico. Troppo lunga nei secoli fu la sua incubazione e troppi attori dovranno concorrervi.
Comunque la storia abbia potuto davvero incominciare, questo almeno è ben certo, per noi, che essa partiva dall'unità ideale dell'uomo per giungere all'ideale unità delle genti. L'Asia fu la sua matrice e tutto ne uscì: la sua civiltà primigenia produsse i germi di tutte le forme, di tutte le vite, che poi riempirono il caleidoscopio della storia: l'uniformità atomistica della Cina, la differenziazione panteistica dell'India, il dualismo della Persia, il monoteismo della Palestina contennero già ogni religione e ogni politica; sul Mediterraneo, che vide la prima unità storica, si addensò il pensiero dell'Asia passando per l'Egitto e per la Grecia, e Roma potè così diventare il centro del mondo; poi il Cristianesimo ruppe l'orbita romana, e al primo centro del Mediterraneo s'aggiunse il Baltico, e da tutte le coste europee raggiarono gli istinti, le avventure, le creazioni di una civiltà, che per primo bisogno aveva quello di essere universale. Nel secolo decimosesto l'America entrò nell'orbita europea, in quello decimonono l'Europa, con sforzo sanguinoso e concorde, puntò sull'Africa e ne sfondò il negro mistero.
Adesso questo sforzo si ripete sull'Asia. Ma poichè essa sola supera per densità la popolazione d'Europa ed America riunite, nessuna potenza bastava solitaria al problema del suo rinnovamento. Bisognò aspettare che l'America fosse in grado di concorrervi, che l'Australia improvvisata ripetesse non lungi dall'India una nuova Europa, che vapore e telegrafo annullassero quasi le distanze, che tutti i popoli civili avessero raggiunto un inverosimile sviluppo industriale e commerciale, coprendo i mari di navi, le coste di stazioni, forzando i confini colla ricchezza, dopo averli violati coi missionari della scienza e delle religioni, unanimi tutti, nella divergenza degli interessi, in questa suprema necessità di aprire alla loro vita il continente giallo.
Due o tre anni or sono la prima crociata bianca penetrò a Pekino: il motivo della guerra parve religioso, e la guerra soltanto di saccheggio e di strage; ma invece era il primo accordo e il primo convegno d'Europa nell'immenso problema. L'impero dei draghi fu squarciato e rimase aperto per sempre: nessuna muraglia potrà più chiuderlo, nessuna sua forza antica difenderlo contro la violenza rigeneratrice delle forze nuove. Perchè la Cina può risorgere, e la prova era nel suo nemico più vicino, il Giappone.
Adesso la contesa fra questo e la Russia è appena un preludio.
L'impero russo, irresistibile nella progressione del proprio peso, non ha forza assimilatrice di civiltà nella razza. Già le popolazioni vi sono scarse alla terra e le città alle campagne; la sua emigrazione ancora per secoli sarà all'interno; la Siberia che contiene le varietà di un mondo, è quasi un deserto; la potenza industriale e commerciale russa, malgrado la recente, magnifica improvvisazione, è ancora europeamente troppo inferiore. Il suo ufficio in Asia fu dunque soltanto militare, aprire i confini, frangere le barriere interne, disciplinare momentaneamente colla forza, dissipare l'incantesimo millenario dell'onnipotenza asiatica fatta di numero e di estensione.
Mentre la Russia discendeva per la Siberia biforcandosi verso la Persia, l'Inghilterra, vittoriosamente sostituitasi ai portoghesi, agli olandesi, ai francesi nell'oceano Indiano, tentava per il Tibet di giungere al cuore della Cina. La Francia penetrava sino a Pekino con una marcia coreografica, iniziava un impero nell'Indocina; il Giappone mirava alla Corea, d'onde uscì la sua prima civiltà; l'America, ultima, gittava miliardi alla propria avanguardia in una conquista parcellaria del Celeste Impero.
Un immenso moto superficiale e latente affatica il continente asiatico: l'ora della sua rinascita è vicina, e, poichè sarà un mondo che nasce, sposterà (chi sa come e sino a quali limiti?) la vita della nostra presente civiltà.
Tutte le nostre religioni si troveranno così di fronte al vero problema del primato e dell'universalità, e la battaglia fra Buddhismo e Cristianesimo sarà la più grande di tutte le storie; nel lavoro della terra, della industria e del commercio la nostra razza bianca subirà il confronto colla gialla, e poichè il capitale è impersonale, la lotta per l'esistenza nel lavoro prepara ai nostri operai forse più di una tragica sorpresa; tutti i mercati si sposteranno, e le correnti delle ricchezze e quelle delle strade, e i porti e le stazioni oscilleranno come scossi da lungo terremoto.
La storia dovrà ricominciare il proprio lavoro: quella che noi chiamavamo storia universale, non era fatta che di echi mondiali nel Mediterraneo: tutte le nostre storie fin qui furono parziali, e quindi false: in una storia davvero universale, ogni nazione potrà soltanto e finalmente scoprire il proprio segreto.
Intanto, ecco un primo immenso problema: fino a ieri noi credevamo che alla nostra attuale coscienza non si poteva giungere che per i gradi della storia bianca. E sapientemente disegnammo il formarsi del nostro spirito su per la scalea delle nazioni, guadagnando un'idea, un carattere ad ogni scalino, e affermammo che il cristianesimo dei due primi apostoli fallì nell'Asia per mancanza della ideale preparazione greco-romana. Ebbene, il Giappone dal 1834 ad oggi ci avrebbe già raggiunto con una improvvisazione ancora più inverosimile che rapida?
Se le sue forme politiche, pari alle nostre, contengono davvero il nostro stesso diritto, e se in questo la sua coscienza ci uguaglia, a che si riducono le serie e le categorie millenarie del nostro pensiero e della nostra storia?
Punto e a capo, dunque.
6 marzo 1904.
SOLE LEVANTE
Mai come adesso l'impero giapponese ha meritato il proprio titolo radioso.
A ogni giorno, a ogni ora, da lungi sul vento arrivano grida ed echi di vittoria: la guerra ha battaglie che durano settimane, carneficine che smentono l'adagio moderno, già accettato con tanta unanime lietezza dagli apostoli della pace e dai credenti nell'eterna fatalità della guerra, che la mortalità diminuisce in rapporto sicuro della perfezione nelle armi: eroismi di eserciti e di razza, ai quali il moderno e volgare quietismo industriale non sapeva più credere. E non pare nemmeno si tratti del solito patriottismo, quale nell'esperienza delle storie e nei libri dei poeti eravamo abituati a sentire e ad ammirare: una improvvisa convulsa effervescenza di amore patrio, quando la esistenza di nazione era minacciata all'interno o alle frontiere, una gloria di olocausto, che si alzava nell'anima di qualcuno lanciandolo alla morte nella tragica persuasione di giovare così alla salvezza della propria gente.
Pel soldato russo questa guerra all'ultimo confine dell'Asia contro un popolo lontano, piccolo, giallo, sconosciuto ed inconoscibile, non può avere alcuna idea esplicativa: le profonde, tremende ragioni di storia intercontinentale, che la preparavano da mezzo secolo e ne determinarono la sùbita esplosione coll'attacco violento ed imprevisto dei giapponesi, non sono accessibili a coscienze plebee e rusticane: questo duello fra il solo moderno cavaliere orientale e il colossale campione europeo per la supremazia d'influenza nel rinnovamento dell'Asia, un duello che dovrà durare fatalmente più di un secolo senza che nessuno dei duellatori cada prostrato, non può apparire nella sua epica solennità che all'occhio di un poeta o di un pensatore.
Ad aprire nell'Asia un'epoca nuova, riattirandola nell'orbita della nostra storia bianca, nemmeno tutta Europa bastava: bisognò quindi attendere, dopo le scoperte e le conquiste portoghesi, francesi, inglesi e russe, che gli Stati Uniti di America diventassero una seconda Europa più ricca forse ed attiva, mentre con una rapidità fulminea, inintelligibile, l'Australia s'improvvisava quasi nel futuro, esperimentando in sè medesima le teoriche politiche del socialismo. E l'Asia fu aperta, corsa, insanguinata, fecondata dal riverso di tutti i monti, da tutte le spiagge, oltre tutte le barriere, su tutti i fiumi; i suoi imperi più vasti, come la Cina, con un ritmo funebre in pochi anni subirono invasioni russe, francesi, giapponesi, e tutta una crociata bianca, in una guerra che parve una parata e lo era: ma la Cina era ancora come morta, e il suo enorme cadavere, troppo enorme, non poteva essere diviso: i regni dell'Afganistan, del Siam, della Persia, sbattuti da rivoluzioni indigene sollevate dall'invisibile pulviscolo fermentatore della nostra civiltà, si dibattevano nelle strette della nostra diplomazia per salvare ancora qualche apparenza di regalità, e non erano più che uno scenario, sul quale attori muti, bizzarramente vestiti, facevano tratto tratto un gesto stanco, incomprensibile: larve di un passato millenario, fantasmi di una vita morta anche negli inconsumabili monumenti della sua antica grandezza.
E sulle alture della sua mitica e mistica rocca, il gran Lama, il sacro fantoccio del buddhismo, questa immensa, profonda religione, che potrà sola resistere alla marcia invaditrice e trionfale del cristianesimo, era recentemente sloggiato da un solo colonnello inglese, fra lo stupore orrifico e sacro dei credenti, in mezzo a un popolo di sacerdoti, fra villaggi formati soltanto di monasteri, dentro un silenzio nel quale da secoli e secoli la vecchia anima asiatica si assopiva obliando la tragedia inconsolabile ed inutile della vita.
Adesso non vi è più popolo, non cantone dell'Asia, nel quale il soffio abbruciante dello spirito bianco non sia giunto: i missionari della religione e del commercio, gli avventurieri della scienza e dell'arte, le avanguardie delle industrie e delle diplomazie sono penetrati dovunque: il mercato è immenso, la conquista impossibile, la lotta fra gli invasori inevitabile e senza tregua.
Ma che l'Asia possa e debba risorgere è oramai certo nella vittoria del suo cavaliere giapponese: egli reclama il primo posto a questa opera di rinnovamento, e sicuro della propria improvvisata modernità si leva minaccioso e trionfante contro la Russia, sulla Russia, a respingere la sua secolare alluvione, a negarle la primazia del protettorato asiatico.
In Europa la Russia soltanto poteva sentire ed arrischiare la stupefacente grandezza di tale opera, calando dall'invasa e già fecondata Siberia sulla Cina a romperle il sonno e l'impero per darle la servitù e la vita. Dall'India la conquista commerciale dell'Inghilterra non poteva risalire; e l'Inghilterra, piccola di territorio, esigua di numero, non può essere che un'impresa commerciale, assorbe ancora più che non fecondi e non saprebbe suscitare la vita per inferiorità aritmetica nei propri viventi. La Russia soltanto aveva ed avrà una emigrazione all'interno, un popolo ancora vergine ed agricolo, capace di riversarsi su nuove terre e rinnovarle: essa soltanto ha ancora l'unità di governo, di fede, di sacrificio, d'ignoranza, di genio necessaria alle grandi fondazioni.
Ecco forse il motivo oscuro, inconscio del coraggio del soldato russo attraverso tante sconfitte e delusioni di generali e naufragi di ammiragli e morti su tutti i campi, sterminio, in furia d'uragano, in una lontananza di mistero, nella suprema indifferenza del fato. I nihilisti, i nemici dello czarismo uccidono qualche ministro, ma nemmeno fra tanto dolore e tanta rivolta di anime contro l'insufficienza del governo osano il rischio di una rivoluzione anche meno che parziale: la guerra d'Oriente è un'epoca russa, una fatalità della sua storia, il motivo epico più vero della sua superiorità in Europa.
Altre sconfitte seguiranno a questa, ma la Russia starà, poichè l'Europa è tutta dentro la sua azione, e le gelosie di governo, le rivalità industriali, gli antagonismi di nazione non contano, non bastano a contraddire, ad arrestare per un minuto soltanto l'impresa.
La guerra attuale non ha e non può avere soluzione: l'eroismo è pari nei combattenti e pari la ragione: qualcuno, qualche cosa interromperà la guerra per il riposo indispensabile a riprenderla. Quando?
Adesso non siamo che al prologo, le battaglie ne sono le battute; la vittoria giapponese prova la risurrezione asiatica, l'impossibilità di scacciare la Russia dall'Asia il diritto al suo immenso carato d'influenza nell'opera del rinnovamento.
E i morti? La storia non li conta: alla poesia, se vi sono ancora poeti, il trovare per essi un canto, che uguagli quello di Omero.
20 ottobre 1904.
SATIRA EPICA
Il telegrafo annunciò che il Mikado, ordinando la liberazione dell'ammiraglio russo Nebogatoff, lo ha incaricato di portare allo Czar il rapporto dell'ultima battaglia navale combattuta allo stretto di Tsu-shima.
Era difficile mostrarsi più tremendamente cavalleresco dopo una vittoria, insperata forse così grande, e che resterà nella storia mondiale come una data luminosa, a lunga distanza di secoli, dopo Salamina. L'impero russo non ha più flotta sui mari, la sua bandiera affondò con le sue navi, la guerra è perduta, la sua gloria di campione bianco nell'estremo Oriente si è miseramente oscurata come un fanale solitario nella notte, quando la tempesta rugge e non vi sono più pellegrini per le strade.
Perchè? Sarà davvero finita l'azione russa in Asia? Non avrà più futuro nella storia mondiale questa magnifica razza slava, l'ultima nel tempo europeo, la sola che non vi abbia ancora significata l'importanza e la originalità della propria opera? Certamente è permesso dubitarne, giacchè nel problema del rinnovamento asiatico l'intervento d'Europa è, e resterà lungamente indispensabile, ma nella prima prova, affidata necessariamente alla Russia, questa tradì sè medesima e il mondo.
Mai governo si lasciò cogliere più bassamente impreparato dinanzi a più colossale impresa; mai così enorme responsabilità ricadde su menti e sovra spalle più deboli. La diplomazia russa, residente al Giappone, non aveva nulla veduto, nulla indovinato, nella preparazione nemica, della virtù unanime, caparbia, miracolosa di quel piccolo popolo giallo, che compiva pure sotto i suoi occhi il più stupefacente dei prodigi mutando la propria millenaria barbarie feudale in una modernità di avanguardia ancora più celere nei movimenti che sicura nelle assimilazioni, fatta di echi egualmente sonori nel passato e nel futuro, materiata di virtù eroicamente antiche e di una nobiltà squisitamente contemporanea.
Nel Giappone l'odio era così ardente dopo il sopruso sofferto a Porto Arthur per opera della Russia, che mai passione di dolore patriottico fu più intensa; il fervore degli armamenti così febbrile, che il silenzio stesso della loro prudenza ne vibrava come una vela al vento e il mare ai primi soffi della tempesta e la terra al primo risveglio del terremoto.
La diplomazia non vide, non capì.
Poi la guerra precipitò: le vittorie giapponesi scoppiavano come tuoni, ardevano come lampi: flotte, eserciti, fortezze, province, tutto vi spariva quasi in un uragano d'incendio, e i vincitori, tra il sangue e il fumo delle carneficine, riapparivano calmi, cortesi, così sicuri di sè medesimi che ne sorridevano appena, senza un rimpianto pei morti, nè un vanto pei vivi, nè un insulto pei vinti.
Ed era giusto quanto bello. Perchè i russi immolati dalla incapacità del proprio governo, sacrificati dalle rivalità dei generali, abbandonati in un deserto troppo lungi dalla patria, si battevano sempre raddoppiando di valore ad ogni sconfitta, diminuendo la vittoria del nemico sino ad una semplice alea di guerra, ad un esponente della superiorità burocratica giapponese sulla russa. Quindi il mondo ammirava. La resistenza nella sconfitta, in ogni tempo e in ogni luogo, provò meglio della vittoria il valore di un popolo: questa può giovarsi di molti estranei aiuti, quella cresce soltanto dall'anima di una gente profondamente radicata nella storia, immutabilmente sicura dell'avvenire. Che sapevano i soldati russi di questa guerra, se i loro governanti stessi ne ignoravano la fatalità? Pei giapponesi tutto vi era cosciente, pei russi tutto oscuro; e gli uni e gli altri si esaltavano nella lotta sollevati da un istinto misterioso, che ardeva le loro vite come una sacra offerta sopra un altare non ancora conquistato alla patria.
Per la Russia, ad ogni sanguinante notizia di sconfitta, cresceva un fermento ribelle nell'oblio del supremo dovere, che il pericolo impone dinanzi alle vittorie del nemico: drammi di officine, tragedie principesche, insubordinazioni nazionaliste, delirii anarchici scoppiavano nelle parole e nei fatti, uccidendo idee e persone, sconvolgendo coscienze e fantasie, senza che la grande anima russa si distogliesse veramente dalla fatale fissazione d'Oriente, o piegasse vinta sotto il dolore e la rovina della morte.
Si sperava, si voleva. Quando il vinto sa morire come il vincitore, questo non è ancora tale; il giuoco della guerra può mutare, e la fortuna, dalle grandi ali rosse, più mobile d'una piuma, aliare da un campo all'altro. Poi la Russia è un mondo, le sue risorse sono inesauribili, il suo genio giovane, la sua fibra vergine, la sua fede pari alla sua pazienza, che ha stancato i secoli nella aspettazione del proprio tempo. Bastava che il governo, correggendosi sotto le lezioni delle catastrofi, facesse il proprio dovere: e non lo ha fatto.
Lo Czar non è che un simbolo, d'onnipotenza ieri, di miseria oggi: non parliamo di lui; perchè il mondo ne parlasse, dovrebbe essere davvero il successore di Rurik o di Pietro il Grande. Ma intorno a lui l'aristocrazia russa soccombe ignobilmente alla prova: essa non ha prodotto un uomo capace di dominare la sventura, non si è votata in massa alla patria gittandole la propria anima come una bandiera ed un'arme. La borghesia, scatenata da De Witte negli affari, non ha veduto altro in questa guerra; ingrassa nel sangue, e stride invocando una costituzione.
Nella ultima flotta così lungamente preparata tutto era falso, l'equipaggio e le navi, le munizioni e le intenzioni: l'ufficialità composta quasi tutta di neofiti non passati o mal passati agli esami, le ciurme raccolte senza fede, addestrate senza speranza, guidate senza autorità. Quindi la battaglia nello stretto di Corea, fu una resa, alla quale l'impeto del nemico tolse la stessa volontaria facilità; quelli che si battevano, non ne sapevano più il perchè, e il loro sforzo era indarno; gli altri, che fuggivano, ignoravano anch'essi il dove, e fuggivano nell'inutilità del terrore, ancora meno dal nemico che dalla patria, per la quale non sentivano più che bisognava morire; gli ultimi, i più sinceramente vili, issavano subito nella intera squadra di Nebogatoff bandiera bianca e ricevevano a bordo il commissario giapponese, allineati come per la rivista di un loro ammiraglio in un qualche anniversario di vittoria.
La flotta russa non è più: affondò nella viltà, il mare la sommerse: le navi catturate diventarono giapponesi mutando anima e fortuna: i marinai prigionieri rimarranno nelle isole nipponiche sorvegliati come dei discoli soltanto. Si può forse temere che fuggano per combattere ancora?
La sconfitta nel canale di Corea segna la fine di questa prima guerra? La Russia ha perduto, la miseria spirituale del suo governo, discendendo come un umore purulento, arrivò sino ai cuori dei marinai e delle navi. Ma sulle steppe della Manciuria l'esercito resiste ancora, e salverà forse l'onore. Non è composto di contadini l'esercito, mentre la flotta era racimolata un po' dappertutto sulle coste e per le città? Tolstoi ha ragione: la Russia è il mugik, che sente invece di pensare e ha la fede invece della scienza, e rimase e rimarrà fedele ai grandi destini della Russia.
L'ammiraglio Nebogatoff rechi dunque allo Czar il rapporto della sconfitta, e lo Czar, rispondendo degnamente all'epica ironia del Mikado, non lo punisca; la viltà della sua resa è al disotto di qualunque pena. Egli non è più nè giapponese nè russo: cosmopolita della paura potrà vivere egualmente bene dappertutto.
Mancò mai il fango ai lombrichi?
8 giugno 1905.
LEX IMPERORUM
Come all'eco della tremenda battaglia, che sommerse l'ultima flotta russa nelle acque di Tsu-shima, una voce si è levata da Washington invocando la pace.
Già Fortis, il nuovo presidente, non ancora capitato ad una vera battaglia parlamentare contro il proprio ministero, un po' simile all'estrema armata russa, poichè imbarazzato di vecchi ministri male acconci per una rapida andatura e mal sicuri contro un attacco improvviso, aveva nel banchetto solenne pel nuovo mondiale istituto della agricoltura brindato alla pace nel nome dell'antichissima arte rurale.
E di pace parlano da tempo tutti i giornali, quasi sgomenti dell'immane macello, nel quale la Russia, degradata dalla propria burocrazia, gitta lontanamente i più vividi fiori della propria giovinezza. Pare che un vento di paura sia calato dalla bassa barriera degli Urali soffiando sulle immense terre nere, che adesso maturano il miglior grano d'Europa: le sconfitte hanno isolato il governo, che resiste indarno fieramente a tutti i reclami costituzionali frustando ed imprigionando, ritraendosi sul culmine dell'autocrazia come nell'imprendibile rocca nazionale. Una stanchezza ha prostrato tutti: non vi è più un capitano che possa gettare un grido d'appello alle moltitudini, sferzarne l'anima col lampo della propria spada; non vi è ancora un politico, che ergendosi sulle rovine di tante catastrofi, abbia trovato un pensiero, significato una volontà salvatrice.
Tutto è incerto, molti fuggono. I più timidi fra i ricchi hanno aperto l'esodo: i treni discendono alle frontiere carichi di viaggiatori migranti sotto il soffio della tempesta, come stormi di uccelli che anticipino in disordine il passo: alle borse di Pietroburgo e di Mosca fioccano ordini russi per comprare cartelle dei nuovi prestiti giapponesi di guerra, perchè il danaro, come sempre, è senza patria, ancora più del lavoro.
Tutti sanno, e lo dicono, che in questo immenso prologo guerresco la Russia ha irremissibilmente perduta la prima campagna: una rivincita immediata, che almeno salvasse l'onore dell'armi e alleggerisse l'umiliazione dei plenipotenziari, che dovranno trattare la pace, è anche essa troppo difficile; il mare è libero al Giappone, i suoi eserciti in Manciuria sono già cinque, e superano di numero quello russo. Questa guerra imperiale, non evitabile storicamente, per essere vinta aveva d'uopo di un più conscio governo e di una più profonda preparazione; e allora, nella luce dì una qualche prima vittoria, avrebbe potuto diventare patriottica, sollevando l'anima nazionale nell'orgoglio di un primato umano.
La Russia, vincitrice in Asia, vi avrebbe affermato la supremazia dell'Europa, l'impero della razza bianca come sull'America e sull'Asia: tre secoli di espansione l'avevano portata a questo cimento supremo: la Russia vincitrice di Napoleone I, e quindi liberatrice d'Europa dal suo ultimo sogno imperiale, che violava tutte le nazionalità, in Asia sarebbe stata la grande colonizzatrice, l'immenso contatto della nostra razza bianca colla gialla l'ultima originalità della nostra storia gittata sul più vasto continente a ridestare la vita, ad attirarla nella luce e nella fiamma della modernità.
Invece la sconfitta isola Czar e governo: la guerra e le sue rotte non sono più che l'opera di un loro capriccio, il delitto forse di un loro enorme affare. Tutte le impazienze nazionaliste dell'impero ne profittano: i rivoluzionari soffiano sulla paura, versano tutti gli acidi dell'odio sulle piaghe, denunciano tutte le colpe della burocrazia, aizzano tutti i rancori, rinnegano la nazione per salvare la patria, e domandano, pregano il popolo di non amare che sè stesso.
È possibile la pace?
Per coloro che giudicano ogni atto della storia opera della volontà nei governanti, e negando il valore dei re credono a quello dei parlamenti, la risposta è fin troppo facile: si poteva non fare la guerra, si può quindi fare la pace. Basterà che lo Czar ascolti la voce di Rooswelt, e creda alla sincerità politica della sua offerta, e non domandi e non si domandi perchè tutta Europa e l'America lo abbiano lasciato solo in questo primo scontro col Giappone, mentre la guerra era di razza e di continenti: accetti e firmi.
Il suo piccolo nome a piedi di una piccola pagina non devierà la corrente della storia, non ne sospenderà il fatale andare. L'azione dell'Europa sull'Asia sarà come un tempo sull'America, come nel secolo scorso sull'Africa: l'enorme continente verrà aperto, sventrato, sollevato sino alla sfera, preso nel ritmo onnipotente della storia bianca. Forse domani coloro che inneggiano al Giappone, pur così ammirabile in questa guerra, si sentiranno la strofa troncata sulle labbra da un improvviso gelido pensiero: forse il Giappone, respinta la Russia, non soffrirà altri concorrenti europei in Asia, e la Francia alleata dello Czar dovrà guardare con occhio più attento alla Cocincina o al Tonchino, e l'Olanda si preoccuperà dei propri arcipelaghi, e l'Inghilterra stessa origlierà più intensamente al cuore dell'Indie.
La nostra razza tutta non può disinteressarsi del problema asiatico.
Ma vi è una legge degli imperi.
La loro mastodontica struttura, talvolta il rapido crescere, la continuità delle guerre, le coagulazioni di popoli alle loro frontiere, l'unità dinastica e religiosa burocratica dei lori governi esprimono un segreto, compiono una volontà della storia.
Era ed è il caso della Russia: l'impero è disteso fra i due continenti, la sua missione è di congiungerli; la sua unità formale è infrangibile, il suo limite europeo formato da nazioni di esso più vecchie ed insieme più avanzate nella modernità.
Soltanto la forma imperiale poteva affrettare agli immensi problemi il ritmo doppio della pace e della guerra, soltanto l'impersonalità della sua burocrazia equilibrare le antitesi delle differenze nazionaliste; soltanto l'unità del suo Czar, del suo Sinodo, del suo esercito, del suo genio, del suo fato, compire tale opera, la maggiore di tutti i tempi. Non si viola la legge dell'impero: togliete ad esso l'immane significato della sua missione, e tutto vi si diffrange; rompete la sua unità, e domani sarà compromessa la sua unione; gettategli nel mezzo il fermento democratico, e la sua crosta, la corazza, screpolerà. La Russia parlamentare non sarà più l'impero russo, giacché non potrà avere nemmeno l'unità commerciale dell'Inghilterra; l'impero russo dovrà vivere di espansione, di guerra, di vittoria. È la legge degli imperi: Alessandro e Cesare, Carlo Magno e Carlo V, Napoleone e il Mikado la hanno egualmente sentita; gli Stati Uniti in America affettano di cominciare ora a sentirla, la Francia l'ha dimenticata; i nostri ricordi, invece, sono così lontani che non ci appartengono più.
La legge degli imperi può tutto consentire, meno la degradazione: l'impero è ancora più nella corona che nell'imperatore, nel simbolo che nel fatto; la sua idea è la sua fortuna, e dall'opera, qualunque essa sia, sale sempre l'assoluzione.
Adesso la pace decapita la grande aquila russa: una pace senza nemmeno una vittoria, senza una sconfitta, che non sia un disastro, senza aver prodotto un uomo, senza aver trovato una parola; una pace per la misericordia degli Stati Uniti, fra i sogghigni dell'Inghilterra, le mute ironie della Germania, le bramosie impazienti dell'Austria e i dubbi finanziari della Francia, che prestò soltanto il danaro.
E forse, senza forse anzi, la faranno.
Il piccolo Czar, questo povero sognatore di pace, che all'Aja si era creduto un arbitro ed un poeta messianico, imparerà che la vita ha momenti più amari della morte, e la pace angosce più profonde della guerra.
Che cosa è egli più dinanzi al Mikado?
Dove, in chi, resta l'anima dell'impero russo?
Tolstoi non potrebbe rispondere: vicino alla pace della tomba, da troppo tempo egli la chiama sul mondo.
Siamo alle ultime battute del grande prologo: Nippon banzai!
Il Giappone ha vinto; salutiamo cortesemente pensando: a domani.
17 giugno 1905.
JANUA MORTIS
Ancora, ancora!
Alla negra porta ombre scettrate e ombre illustri arrivano da gran tempo con un segno speciale, e passano come da un mistero ad un altro più profondo, mentre un clamore lungo e sinistro si diffonde per l'impero percosso da una bufera di tenebre e di lampi. E nessuno, forse, da Alessandro II al granduca Sergio, seppe bene il perchè della propria morte, quantunque la tragedia rivoluzionaria la urlasse a tutti i venti in uno spasimo superbo di dolore e di vittoria. Quei morti erano davvero colpevoli? Avrebbero potuto concedere, traendolo dalla propria volontà come da uno scrigno, quanto il pensiero impaziente dei ribelli chiedeva come un diritto già inteso, e quindi violato da qualunque ritardo di riconoscimento?
Purtroppo è facile rispondere: no.
Una rivoluzione, quale si agita nella coscienza della avanguardia liberale russa, formata da un volontariato di gente culta per influenza di studi o di commerci, e quale fiammeggia negli impeti solitari di morte, dovrebbe, per trionfare, non essere soltanto una verità di antiguardo, ma salire dall'anima della massa ed esprimere l'accordo del suo vecchio costume con una nuova idea, avere in sè medesima quella irresistibile forza di persuasione, che non permette neppure più di discutere, ma si afferma realizzandosi ed inebria gli avversari col suo stesso entusiasmo.
Invece non è così.
Operai e contadini non s'intendono ancora. Fra il patriarcale socialismo del mir e il socialismo occidentale, penetrato nelle nuove officine russe, l'antagonismo è forse ancora più profondo e forte che fra la borghesia liberale e l'autocrazia. Quella non ha radici nè assensi vasti e sinceri nelle due masse proletarie: la concezione della vita e della sua storia non è ancora, dentro l'anima russa, salita al disopra dell'idea ortodossa e imperiale; lo Czar è pontefice e imperatore, simbolo di unità umana e divina, irresponsabile nella propria impersonalità, perchè non è un uomo, ma la Russia, quale i secoli la costrussero, quale il mondo stesso la considera ancora.
Il lungo duello fra autocrazia e rivoluzione non è ancora diventato intelligibile alla massa: gli operai insorgono e marciano con dinanzi l'imagine sacra dello Czar, la nobiltà si sente ancora alta sul popolo e divisa da questo per superiorità di vizii e di virtù, la borghesia non anela che alla conquista della burocrazia per passione di interessi e a quella del potere per passione di vanità. La burocrazia, invece, sente di essere il sangue vivo dell'impero, sangue avvelenato forse, ma che nessun sistema di trasfusione potrebbe istantaneamente e utilmente sostituire. Le nazionalità conquistate e prigioniere nell'impero scrollano le catene e attendono da ogni concessione imperiale, da ogni moderna idea, un motivo e una giustificazione di rivolta.
Per la Russia il motivo primordiale, essenziale, non ha invece mutato, e per un tempo ancora lungo non muterà: consolidare l'impero in Europa e dilagarlo nell'Asia, imperare colla novità e colla originalità della propria massa sui due continenti, sovrastare all'Asia come massima potenza europea, dominare l'Europa come ultima potenza dell'ultima razza, che può ancora contenere il segreto di una terza civiltà.
Tutto in Russia è profondamente, inconciliabilmente originale: lo spirito latino e l'anglo-sassone poco o male lo intendono; la rivoluzione, che vorrebbe svilupparsi trapiantando forme occidentali di parlamentarismo e di ribellione, fuorvia sè stessa, e diventa inintelligibile al popolo.
La libertà, la democrazia, la rivoluzione russa, non possono essere dilucidate sui modelli e sugli statuti di New-York o di Parigi: l'astrazione delle teorie, la similarità scolastica degli assiomi, così contagiosa negli spiriti latini, è ancora quasi senza presa sulla grande anima slava: essa soffre, crede, spera, combatte e vincerà per motivi e con armi per noi quasi incomprensibili come gli eroi de' suoi romanzi, l'eroismo de' suoi soldati, il fondo meraviglioso della sua storia e della sua poesia.
Ma il duello fra rivoluzione e autocrazia proseguirà ancora. È impossibile alla rivoluzione fermarsi, e siccome non può e non sa accendere nella moltitudine una vera ribellione, che arda città e campagne, sollevando bande contro bande, eserciti contro eserciti, in una vera ed immensa guerra civile, la necessità di operare, per non sparire davanti ai propri occhi e a quelli degli altri, la costringono nella forma tragica del duello, attore contro attore, sconosciuti l'uno all'altro, incapaci di comprendersi, condannati ad uccidersi senza che l'immane problema, che li urta e li sfracella, si riveli al loro pensiero.
Per l'eroe o pel martire rivoluzionario la tirannide autocratica s'incarna in un funzionario, in un principe, nello Czar o nel procuratore del santo Sinodo: in questi simboli è la virtù della resistenza imperiale ortodossa, la responsabilità della morte e delle morti, che insanguinano e gelano la vita della povera gente!
Pel funzionario e pel principe le reclute della rivoluzione sono gli oppositori della coscienza e della tradizione russa, che poterono colle proprie forze e colle proprie forme costituire il più grande impero del mondo e vi rappresentano ancora la più magnifica promessa di originalità: sono pochi, spiritualmente stranieri, separati dalle necessità della politica nazionale, e vogliono un liberalismo che il popolo non chiede, un mutamento che sarebbe una rinnegazione della personalità russa, e adoperano soltanto le armi dell'assassinio.
E la tragedia, col ritmo di Eschilo, coll'accento di Shakespeare, sospinge, urta gli attori: le scene cangiano, il sangue macchia le decorazioni, mentre il coro della moltitudine, a rovescio del coro greco, non spiega il motivo dei personaggi, ma guarda, trema e non si muove.
Che importa, infatti, il numero dei morti in così vasta e lunga tragedia? La diversità delle loro parole e dei loro atti, esprimendo l'originalità del loro antagonismo, non è che una gloria della morte: appena un attore è caduto, altri si urtano per sostituirlo: d'ambo i lati l'ostinazione è fatale, irresponsabile, finchè una rivoluzione veramente popolare e veramente russa interrompa la tragedia per alzarla a poema.
L'ultima scena fu magnifica d'orrore.
La moglie della vittima, accorsa allo scoppio, nel profetico spasimo della paura, non trovò quasi più nulla: una poltiglia di sangue, di membra, di cenci: lungi i cavalli fuggivano spaventati, irrefrenati, alle porte del Kremlino; e la folla taceva. Alcuni, pallidi di una gioia segreta, si bagnavano le mani nel sangue imperiale, mentre tutti guardavano muti quella donna di principi e di re, vedova da un minuto del marito, vedova del suo cadavere, che non poteva piangere e pregava Dio. Per chi?
Forse la pia pregava per tutti.
Come Antigone, come Cordelia, essa non comprende e non è compresa: eroina del dolore e dell'amore, è amata dal popolo, che soffre più di lei, ma più forte di lei può attendere dall'ignoto la vittoria.
La porta della morte non fu sempre quella stessa della vita?
21 febbraio 1905.
SULLA CHINA
Un «ukase» imperiale annunciava ieri al popolo russo, trepidamente sospeso nella aspettazione della pace, una nuova costituzione politica.
Il suo disegno, proposto da un alto funzionario e passato come un infermo attraverso molte sale di consigli clinici e per troppe mani di medici, non ha più nè fisonomia, nè nome: dovrebbe esprimere l'accordo di due sovranità, quella del popolo e quella dello Czar, ed invece ne significa meglio il conflitto; era reclamato come un diritto da tutte le avanguardie intellettuali dell'impero, ed è gittato alla moltitudine ancora indifferente come una grazia; dovrebbe preparare, in questa ora angosciosa di sconfitta, la pace degli spiriti per la preparazione di una nuova, vera, grande epoca russa, e già dentro l'imbroglio de' suoi arti coli più essenziali tumultua la gelosia implacabile dei due poteri: il popolo non vi sarà davvero rappresentato, perchè tale elettorato di classe e di accademia non contiene una sostanza di diritto e non può dare agli eletti una sicura coscienza della propria funzione; lo Czar vi apparirà diminuito, giacchè il suo piccolo pensiero individuale, per superare il pensiero collegiale della Duma, dovrebbe avere in sè stesso la sanzione del genio, e nessuna volontà, anche se ostinata eroicamente, può dargliela: non è quindi uno statuto come noi occidentali l'intendiamo, non è una rivoluzione come ne sognano plebi e poeti, non un organo politico, essendo senza personalità, non una concessione, se la paura della guerra ne decise il momento e le diffidenze della tradizione ne violarono la sincerità.
Eppure in questo periodo storico, e nella crisi tragica della guerra, non era possibile fare meglio e soltanto di più. Bisogna conoscere la storia e la fisonomia della Russia ed imporre silenzio alla superiorità e alle abitudini del nostro spirito occidentale per giudicare, anche soltanto grossolanamente, questo ultimo «ukase» dell'impero. L'aristocrazia, associata dello Czar nella politica, non è una classe che abbia una forza e un carattere particolare: può mostrare individui superiori, ma da quando gli Czar costituirono colla potenza propria la Russia, decadde nella loro corte e non si rialzò abbastanza nella burocrazia. Mancava ad essi l'assenso del popolo, pel quale non volle e non seppe mai nè operare nè pensare. La sua coltura crebbe e si raffinò; i suoi modelli furono inglesi o francesi, il suo vanto un assenteismo di saloni o di libri; la sua ricchezza era di latifondi, il suo valore d'individui, i suoi vizii di classe, la sua incapacità fatta di scetticismo morale e di precocità intellettiva. Sotto di essa il popolo si sperdeva nella immensa campagna, organizzato in un socialismo patriarcale, povero e rustico, gagliardo di fibra e sentimentale di cuore, inconscio del proprio genio, ignaro del presente, incapace di prevedere un altro domani: adorava Dio e lo Czar, accettava la miseria come la guerra, offrendo la stessa forza di resistenza alla vita e alla morte: poeta anonimo e meraviglioso, che esprimeva la propria poesia nelle sètte religiose; moltitudine agricola ancora fremente nel vagabondaggio dell'orda; materia e materiale bruto della più immensa fra le miniere, troppo vasto e troppo vario per la unità di una qualunque legislazione, troppo forte per poter essere davvero oppresso, troppo attardato per tentarlo proficuamente colle novità moderne; profondo, misterioso, vergine, destinato a creare la terza epoca europea, ad essere il più formidabile agente della futura mondiale unità storica. E fra esso e l'aristocrazia s'appuntava come un cuneo la classe borghese: ed era il commercio, l'industria, la ricchezza, la cultura: esercito d'avanguardia, mobile, indisciplinato, fervido d'ingegni, fremente di passioni: detestava l'aristocrazia sino ad amare il popolo, al quale per la propria superiorità era più straniera della stessa aristocrazia; negava tutti i limiti nella nostalgia di tutte le libertà; guardava ad occidente non ad oriente; voleva essere più europea che russa, più moderna che nazionale. La coscienza del proprio valore la rendeva intrattabile, credeva soltanto in sè stessa, e in politica bisogna, invece, essere credenti; era capace di tutto, estrema in tutto, negli affari e nei libri, nelle idee e negli atti; non era niente e voleva subito essere tutto, pretendeva di contenere la Russia, l'impero, il presente, e non era invece, che la sua modernità.
La Russia era l'impero, lo Czar, il popolo fusi nel più enorme ed eterogeneo conglomerato: l'impero dominava e domina ancora l'uno e l'altro colle proprie necessità; l'uno e l'altro quasi sempre egualmente inconsci, si urtano, si percuotono e non possono nè scindersi nè soverchiarsi: un fato superiore li sospinge nella pace e nella guerra, possono perdere invano cento battaglie, perchè nessun nemico li frangerà; hanno avuto tutte le pazienze, superate tutte le antitesi, dilatando sempre i confini dell'impero, assorbendo popoli di tutti i climi e di tutte le razze: lo Czar non è che un simbolo e il popolo è soltanto la Russia, che vuole essere sè stessa, trarre dal proprio fondo, imporre all'avvenire l'impero della propria originalità.
Adesso nella Russia i partiti non sono davvero che due, il nazionale e l'europeo: quello sacrifica la libertà alla grandezza della patria, questo immolerebbe tale grandezza alla libertà: l'uno più russo che europeo, l'altro più europeo che russo. Il vecchio partito conservatore, creato da Nicolò I, sopravvissuto alla crisi liberale di Alessandro III, non è quasi più: i suoi uomini maggiori, i Mascerski, i Lovaiski, sono già degli spedati; i nazionalisti, eredi del panslavismo, sono forse la voce che sale dal profondo silenzio del popolo e adesso accettano, colla ingenua fede di tutti i fanatici, la nuova costituzione, questa collaborazione del popolo e dello Czar sulla larga strada della tradizione, nell'orgoglio della propria fisonomia russa e nella superbia di un avvenire che vantano già superiore ai grandi passati di Grecia e di Roma, alle attuali grandezze della Inghilterra e degli Stati Uniti. Essi sentono che un parlamentarismo imperiale è impossibile e niente e nessuno potrebbe adesso sostituire l'impero: quindi lo accettano, lo vogliono grande, e sperano dal suo stesso arbitrio più pronta l'azione del progresso, più rapida l'andatura stessa delle riforme.
Hanno torto? Secondo la storia no, ma nemmeno questo è argomento bastevole in tale disputa. Uno dei loro maggiori scrittori, lo Schromiatnikoff, in un libro recente e celebre proclamava l'autocrazia, il più prezioso dono fatto dall'Oriente alla Russia; e lo Schromiatnikoff è un liberale ed un moderno. Ma quanti liberali moderni d'Occidente possono intenderlo?
Il partito rivoluzionario, denso di poeti, di eroi, di martiri, di sognatori, di delinquenti, accoglierà la nuova costituzione con un riso stridulo di spasimo: esso pensa e soffre troppo al disopra della realtà per avere soltanto la forza paziente di leggere l'«ukase» imperiale: quasi tutta la sua avanguardia è adesso prigioniera nelle carceri, e dai deserti della Siberia, per le notti lunari, manda le legioni dei propri sogni a tormentare le insonnie degli oppressori e degli oppressi.
E comunque si compia questo novello esperimento, il partito rivoluzionario non disarmerà.
Ma la Duma, semplice organo consultivo, assurda realizzazione di un più assurdo contratto fra autocrazia e parlamentarismo, produrrà nello spirito e nel costume russo una rivoluzione: gli ingegni e i caratteri si tempreranno nella nuova palestra; la parola libera avrà così una tribuna, e nulla resiste alla parola; sorgeranno oratori, tribuni, coi quali bisognerà contare; dietro ad essi si formeranno e riformeranno partiti; nessuna procedura potrà inceppare e soffocare tale primaticcia azione consultiva; dietro la Duma nascerà un piccolo parlamento, che lo Czar dovrà pur battezzare; vi sarà uno sfogo alle idee, un controllo a certe spese, un veicolo a taluni interessi; da quella sala tratto tratto certe parole apriranno le grandi ali di fiamma e si involeranno sino ai confini dell'impero, messaggere di resurrezione: lo Czar sarà ancora, il popolo comincerà ad essere.
Non è molto, eppure è quasi tutto.
22 agosto 1905.
L'ULTIMO CZAR
Forse la storia lo chiamerà così.
Egli è l'estremo di una lunga serie imperiale, che regnò largamente e profondamente sopra un trono inaccessibile come una vetta, e quindi percosso dalle bufere, solcato dai fulmini. Il suo impero era vasto come un desiderio, vario come un mondo, pericoloso come un mistero; tutte le terre, tutti i climi, tutte le genti vi erano mescolate nella più meravigliosa originalità; le epoche vi si sovrapponevano senza confondersi, la preistoria vi durava nei nomadi, la modernità vi improvvisava, ad immense distanze, fra steppe taciturne, sulla sponda di fiumi larghi quanto un mare, città belle come un'oasi, luminose e roventi di vita.
Lo Czar solo regnava. Egli era l'imperatore e il pontefice, la figura che unifica e consacra, l'idea vivente nell'uomo, l'uomo intero nel simbolo del popolo. Il suo carattere d'individuo non contava; la sua volontà onnipossente nell'astrazione si diffondeva e vaniva in tutte le lontananze coi venti, che ne ripetevano l'eco, nella voce dei messi che ne falsavano il comando. Il suo pensiero veniva dall'impero e dominava l'imperatore, costringendo il pontefice alla ubbidienza dello stato: l'impero solo era grande, solamente la Russia era santa.
E quando tutte le monarchie d'Europa crollarono improvvisamente all'urto del sogno napoleonico, dentro il quale strideva la grande rivoluzione francese, l'impero russo resistette; e i suoi generali non osavano più battersi, e il suo imperatore delirava nella preghiera, e il suo popolo si raccozzava a bande sulla neve come i lupi correndo sulle orme degli invasori, divorando uomini e cavalli, i morti e i feriti.
Adesso quasi tutti dissero che la Russia aveva salvata l'Europa. Ma il sogno napoleonico vi si sarebbe invece dissipato ugualmente senza altra traccia che di un uragano, perchè nulla era vivo, imperialmente, in quel sogno e la sua funzione arcana era di dissipare i vecchi fantasmi monarchici scrollando nell'ultima dormiveglia tutti i popoli per ridestarli ad un nuovo mattino. La Russia, raddoppiando subitamente di potenza e scoprendo quasi in una improvvisa rivelazione la propria massiccia ed antica architettura, parve rinnovare nel secolo decimonono un prodigio e un enigma: l'assolutismo più puro nello stato, l'unico socialismo mondiale in un popolo agricolo, che non pensava, non sentiva, non voleva che per lo Czar e nello Czar.
La sua razza, dopo l'esaurimento della greco-latina e il doppio trionfo anglo-teutonico, era la sola ancora vergine, che potesse contenere e produrre una terza civiltà; l'impero copriva quasi mezza Europa e mezza Asia, nessuno bastava ad invaderlo a limitarlo; la sua forza cresceva inesauribile, la sua originalità si rivelava nei segni più contradittorii, in una pari inconsapevolezza dell'antico e del nuovo, nell'istinto delle masse e nel genio dei poeti, nella assimilazione, che accettava tutto, nell'immobilità, che tutto il mondo non bastava a scuotere.
La democrazia urlava ai confini e vampeggiava dentro, nelle coscienze, che le rivoluzioni europee destavano alla vita della sovranità individuale: attraverso l'enormi distanze russe le capitali s'accendevano come fari e le idee rimontavano i fiumi, sibilavano dalle locomotive, agitavano bandiere fumiganti sulle caminiere delle officine, parlavano nei giornali, pesavano sulle meditazioni coi libri, vincevano le leggi nelle scienze, seducevano i magistrati colle arti.
Ma l'impero resisteva sempre, troppo profondo perchè le mine toccassero soltanto le sue fondamenta, troppo vasto alla rarità dei ribelli, troppo vivo nella fatalità della propria missione per esserne distratto impedito dalle impazienze ideali della sua piccola avanguardia democratica. Il suo immenso problema era nell'Asia, la sua suprema verità nella gloria di rinnovarla, dominando come ultimo e massimo campione d'Europa, giacchè tutte le altre nazioni vi operavano indarno da secoli; un moto lo sospingeva, un'ascensione di poema sembrava illuminare la sua ieratica rigidità. E invece la più grande delle sconfitte che la storia abbia ancora segnato, arrestò impero ed imperatore, Russia ed Europa nella marcia secolare.
Un'epoca è conchiusa, l'impero russo resta, lo Czar non è più.
Il suo ultimo rescritto, nel quale balbetta come un prigioniero che abbia il ferro alla gola, annunzia piuttosto una abdicazione che una costituzione, giacchè riconosce nei sudditi il diritto di cittadini senza determinarne il valore e delinearne la funzione; la sua parola trema nell'umiltà della resa, è oscura come gli spaventi notturni, non ha accento imperiale, pare quasi di soliloquio in una torpidezza di malattia.
La costituzione (e dovranno pur chiamarla così) non sarà davvero una copia dei nostri statuti occidentali, ma basterà a fasciare la mummia dello czarismo, che vi durerà dentro ancora lungamente: la vita russa ne subirà la più profonda fra le crisi della sua storia e dovrà faticare e soffrire per sostituire alla unità czarista una unità nazionale, che mantenga compatto l'impero: molte nazionalità vi tumultueranno in un improvviso delirio di ricordi patriottici, tutti i fermenti della democrazia gonfieranno le vaste e oramai vuote forme imperiali, facendone screpolare la crosta e rompendone le linee architettoniche. Lo Czar è morto e adesso per tutte le città russe la gente grida: Viva lo Czar!
Che cosa penserà questo Augustolo, che la vita aveva ironicamente gittato sull'ultimo trono dell'ultimo impero negandogli l'anima d'imperatore?
La sua testa, che non si curvò mai sotto il peso di un grande pensiero, era troppo piccola per una così larga corona: il suo cuore di fanciullo, che domandava all'Aja la pace come un giocattolo, non poteva resistere alla guerra, e non capirà adesso questa suprema vittoria della rivoluzione, ultima eco dell'epiche vittorie giapponesi sulla Russia. All'annunzio di ogni sconfitta egli pregava e piangeva, nè Czar nè pontefice: ad ogni istanza di popolo ricusava parlando o tacendo: a migliaia e migliaia sono morti per lui, contro di lui, ed egli, chiuso nell'immenso palazzo, non ha mai saputo uscirne per mostrarsi al popolo come il simbolo vivente della sua storia. È sottile, pallido, gracile: la sua mano, che non sguainò mai la spada, ha lasciato cadere lo scettro, ma nessuno lo raccoglierà per farsene un'arma contro di lui, sopra di lui.
L'impero dura, quindi l'imperatore resta.
L'Europa applaude, e da lungi il Giappone sorride. Adesso il mondo non ha più che un imperatore vero, il Mikado.
Lo Czar è vuoto come un'armatura: toccatelo e ne uscirà un suono fesso come quello del suo ultimo rescritto.
Alla Russia dunque la risposta degna della antica gloria e della nuova libertà.
4 novembre 1905.
LA TERZA PROVA
Questa forse riuscirà, quantunque arte e dottrina di storia non consentano presagi.
Da qualche giorno i giornali russi si esauriscono nelle analisi della terza Duma, che chiamano conservatrice: parola di lode o di biasimo secondo il discorde traguardo del partito, ma indubbiamente parola di speranza per tutti, anche per coloro più disperatamente ostinati nella negazione. L'immenso impero, appena uscito dalla tragica prova della guerra giapponese, nella quale una imprevedibile miseria di anima e di corpo gli contese la rivincita di una sola scaramuccia, parve precipitare nel baratro di una dissoluzione. Tutto era perduto, persino l'onore: lo Czar errava come un'ombra nei palazzi imperiali, troppo piccolo per mostrarsi al popolo in così grande sciagura: gli eserciti erano distrutti, i generali non avevano più nome, i reggimenti tornavano senza bandiera, le flotte non tornavano più.
L'egemonia bianca sull'Oriente aveva ricevuto un colpo mortale dal piccolo eroico campione giallo, che si era alzato dal frammentario impero del Sole Levante, nel nome di una razza inerte da secoli in un esaurimento spirituale, gittando un superbo appello di sfida a tutta la storica gloria di Occidente. Se l'Inghilterra, arrestatasi anch'essa da gran tempo nelle Indie come nella ricchezza di una enorme fattoria, era il campione secolare della industria e del commercio europeo, la Russia rappresentava in Asia il campionato territoriale, colla razza più attardata nella nostra civiltà, più numerosa e feconda, vergine nella potenza di una originalità, che promette ancora un terzo periodo civile dopo quelli della gente latina e teutonica.
E la vittoria giapponese sconvolse tutte le previsioni della politica e gli aforismi della filosofia della storia.
Quindi, nell'improvviso fallimento della burocrazia imperiale, per tutte le città della Russia vampeggiarono le speranze rivoluzionarie: la dinastia rimaneva senza gloria, il governo senza base, entrambi senza una idea. Al solito, si gettò sulla miseria dei vinti la colpa di tutti; non si comprese, e in quell'ora non sarebbe stato possibile, la nuova fase del problema orientale, che riempirà di sè stesso tutto il secolo ventesimo; non si cercò nemmeno donde venisse al Giappone, dopo trecento anni di pace, una così meravigliosa forza di eroismo nei soldati e nei cittadini, unanimi nel disprezzo della morte e nell'epica concezione della vita.
L'aristocrazia, oscillante tra vanità moderne e albagie antiche, accusò anch'essa per sottrarsi alle accuse, mentendo nelle critiche al governo e nelle lusinghe al popolo; la borghesia, febbricitante d'idee occidentali, senza base e senza contatti col popolo delle campagne, immensa maggioranza che nessuno sguardo e nessuna sonda potevano misurare, credette giunto il proprio avvento, e delirò nelle accademie e nelle assemblee, per i clubs e su per i giornali, vantando la propria superiorità nell'astrazione delle idee, e provando la propria inettitudine nella gara vanitosa delle proposte rivoluzionarie. Nelle città, e più specialmente nelle metropoli, la plebe operaia, irreggimentata dalle enormi ed improvvisate officine dell'industria moderna, che De Witte aveva artificialmente sviluppato con una coltura di serra, s'infiammò alle fiaccole dei vecchi nihilisti e discese nelle vie a rinnovare davanti alla fedele e barbarica foga dei cosacchi la viltà degli eserciti fuggenti sulle pianure gelate dinanzi al furioso eroismo dei giapponesi. E le campagne tacquero, malgrado l'esplosione dei saccheggi ai castelli abbandonati dai grandi signori.
L'anarchia soverchiava, e tuttavia non una idea, non una forma si scopriva ancora nell'impero a sostituirvi il governo secolare degli Czar, imperatori pontefici, simboli di una unità caotica ed infrangibile, sempre insufficienti come individui, sempre insuperabili come padroni.
Poi un «ukase» annunziò la costituzione. L'Europa trasali, la Russia si sconvolse: non sarebbe stato possibile, nella febbre di quella concessione, nè al governo nè al popolo fissare davvero le linee di uno statuto capace di contenere come una cornice il nuovo quadro: nessuna classe vi era preparata; nessun ordine, nessuna categoria aveva aspetto e limiti abbastanza precisi; i bisogni salivano da secolari dolori, sopravvissuti a tutti i martirii e a tutte le disillusioni; le idee sprizzavano da tutti i cozzi, squillavano dalle incudini, chiassavano nei mercati, prorompevano dalle università, sbucavano dalle botteghe, poi, addensandosi nei giornali, vi si incendiavano come fieni estivi, mentre dal fondo oscuro, anonimo della plebe soffiava come un vento gelido e fetido, che sembrava gittare in alto dei singhiozzi di agonia e delle sillabe di morte.
Nell'Europa occidentale la rettorica politica si sbizzarriva nelle critiche e nei consigli, non si sapeva, o meglio, non si voleva sapere che la Russia, come non ebbe il nostro passato, così non ha ancora il nostro presente politico quale democrazia parlamentare e cittadina; che fra città e campagne nell'impero moscovita la differenza spirituale è ancora di secoli; che fra operai e contadini l'antagonismo è di due mondi; che differenze di clima, di razza, di natura e di storia trovarono nello czarismo la sola possibile unità e questa unità vi assicura ancora nell'arbitrio il modo più rapido, per quanto tragico di progresso. Lo czarismo soltanto ha coscienza imperiale, e può adesso mantenere la Russia. Ogni altra questione, tutti i più urgenti problemi soccombono a questa pregiudiziale; le forme e i diritti politici d'individuo e di classe diventano secondari davanti alla necessità, per la Russia, di mantenere il proprio primato imperiale sull'Europa e sull'Asia, preparando ad entrambe un nuovo originale periodo di civiltà.
Una democrazia parlamentai re a Pietroburgo, simile a quella di Parigi o di New York, dissolverebbe l'impero, e le sue province, così disgregate, anzichè riformarsi nell'originalità della autonomia, ripiomberebbero nell'anodino e nell'anonimo.
È presto ancora: la civiltà matura nelle lagrime e nel sangue; la libertà è la suprema perfezione di un popolo.
La Russia aspetterà ancora lungo tempo.
Le due prime Dume convocate e disciolte dal governo imperiale oltrepassarono nel ridicolo la memoria dei parlamenti quarantottisti di Roma e di Francoforte, di Parigi e di Berlino, le idee vi gridavano come fanciulli, le parole vi smarrivano ogni significato: i deputati, attori improvvisati di un teatro posticcio, declamavano coll'occhio fisso alle ultime lontananze dell'orizzonte politico, e coll'orecchio teso agli echi della piazza più vicina. Nessun partito vi era organico: liberali, rivoluzionari, reazionari, patrioti unitari e patrioti separatisti, nessuno rappresentava davvero una coscienza della Russia e dell'impero: banditori di idee, residui di libri, avanzi di congiure, campioni di sètte, delegati di gruppi non sapevano che domandare, perchè volevano tutto o ricusavano tutto, non sapendo scegliere nè fra il vecchio nè fra il nuovo.
Un parlamento si prepara prima nei comuni, nelle province; ha bisogno di una coscienza nazionale equilibrata sull'antagonismo dei partiti e delle regioni, deve avere un governo, sovrastare al popolo, dominare il sovrano.
La nuova terza Duma riuscirà?
«In principio erat verbum».
Aspettiamo dunque la sua parola.
15 novembre 1907.
L'ULTIMO
Così forse lo chiameranno negli annali dell'Islam.
Il lungo, immenso, glorioso impero ottomano finisce in lui, ed egli è piccolo, basso, ignobile, senza la virtù della vita e senza il coraggio della morte: nè sultano, nè califfo, incapace nella dottrina e nell'armi, miserabile nel pensiero e nel sentimento, non più abbastanza giovane per l'eroismo della guerra, non abbastanza vecchio per la consacrazione della tragedia.
Abdul-Hamid è stato deposto.
Negli annali islamitici la fine dei sultani fu spesso espiatoria per congiure e per condanne di palazzo: la loro onnipotenza, al solito, non era che formale, se dentro non vi folgorava una qualche virtù di grand'uomo; nessuna originalità, dunque, in questa deposizione dell'ultimo sultano, che vita e morte respingono nel medesimo disprezzo.
Egli non aveva mai sentito l'enorme responsabilità del proprio grado: forse ignorava la meravigliosa storia antica dell'impero, che si espanse come un incendio improvviso ed irresistibile sull'Oriente e sull'Occidente, minacciando simultaneamente Buddha e Gesù, soverchiando nella più irresistibile delle marce conquistatrici tutti gli ostacoli accumulati o dimenticati dalla storia, assimilando, struggendo, religione di guerrieri prima, poesia di arte dopo, supremo sforzo del deismo ebraico contro il trionfo della trinità cristiana.
Forse il mondo non ebbe visione più abbacinante di guerra: la conquista di Alessandro pare una parata teatrale davanti a quella di Maometto, che va dall'India alla Spagna, minaccia la Francia, sfonda la Cina, schiaccia la Persia, sommerge l'Egitto, soffoca a Bisanzio l'agonia dell'impero romano: e tutti i deserti sono attraversati, e tutti i mari si coprono di navi, e la vittoria vola su tutti i monti, inonda i piani, rovescia le città. Tre continenti piegano sotto il suo sforzo immane: l'Africa diventa quasi tutta maomettana, l'Asia resiste nell'immensità e per la immensità, ma tutti i suoi popoli sono feriti dalla nuova parola, tutte le sue religioni compromesse dalla forza solitaria di Allah. L'Europa piccola sopporta la massima pena: Gerusalemme, la città santa di Gesù, cade nella servitù musulmana, e le crociate tentano invano per secoli di liberarla; a un dato momento Parigi è minacciata come Vienna, il Mediterraneo diventa un mare turco, sul quale le nostre repubbliche marinare sembrano esercitare la pirateria della libertà; tutto trema, tutto vacilla sotto l'impeto musulmano.
Oggi ancora la storia si domanda come si chiamava la forza invisibile, che salvò l'Europa e il cristianesimo dalla barbarie militare e deistica del maomettanismo. Questo era un esercito sempre e ovunque: soldati che sapevano morire, uomini riassunti in un dogma, chiusi in un'idea, circoscritti nella propria razza, solitari nella frenesia del comando, più solitari ancora nell'amore multiplo dell' harem.
Ma la loro civiltà, se pure tale può chiamarsi, non poteva prevalere a quella cristiana: rappresentava forse un progresso in Oriente, ma non era che reazione contro la cultura greco-romana unificata nel cristianesimo: la sua vittoria effimera non esprimeva quindi una superiorità e doveva servire ad altri fini della storia: la sua strapotenza militare portava seco la espiazione nella incapacità creatrice di tutte le opere veramente feconde della pace. L'arte araba potè coprire questa miseria, non vincerla: filosofia e scienza, morale e diritto, la coscienza umana della storia e la coscienza individuale del cittadino repugnavano egualmente all'unità maomettana, infrangibile ma inutile come un monolito.
Poi l'immensa mareggiata si acquetò: l'oceano divenne stagno, lo stagno palude dalle acque verdi come la bandiera già vittoriosa, piene di una vegetazione morta o mal viva, seduttrici ancora in un incantesimo di voluttà o di morte egualmente misterioso.
L'impero si era formato a Bisanzio e si chiamava la Sublime Porta, ma da essa non uscivano più ordini nè per l'Oriente nè per l'Occidente: sultano e califfo regnavano sul deserto e sul silenzio: l'Europa non temeva più e progrediva trasfigurandosi a ogni anno; l'Oriente aveva digerito il maomettanismo come ogni altra tirannia e non lo sentiva più che come una decorazione e una superstizione. L'agonia dell'impero turco coincise con quella d'Italia, sua piccola, miracolosa rivale; poi la rivoluzione francese e Napoleone I gli si fermarono dinanzi come ad un cadavere troppo grande per essere rimosso senza pericolo; poi ancora tutto il secolo decimonono si tormentò in questo problema, dentro al quale si risvegliavano tutti quelli antichi dell'Oriente e tutti gli ultimi della giovane Europa tempestavano furiosamente.
L'impero era morto: a una a una le sue remote province se ne andavano nella ribellione; non aveva più finanze, esercito, armata, governo; l'unità era il Corano pei credenti, l'inerzia povera pei non credenti: devastava, non amministrava, era una tradizione non un'idea, durava senza vivere, aveva funzione d'ostacolo, non d'istrumento nella storia. E a poco a poco la civiltà occidentale, che lo teneva dritto sulle stampelle per le necessità dei propri ultimi egoismi nazionali, gli penetrò nelle carni e nello spirito dissolvendo: le sue idee, i suoi costumi, le sue ricchezze, le scienze, le arti, le industrie, i commerci, tutto fu deleterio nell'impero musulmano: esso non sapeva nè resistere nè mutarsi. Brontolava e accettava, prepotente e vile, vanaglorioso nella parola e umile nei fatti: la sua politica si condensava immobile nella ripetizione verbale; la diplomazia non sapeva che procrastinare, la sua architettura era morta, la sua poesia muta, le sue armi troppo antiche, le sue navi appena un simbolo. Ma qualche nuova cosa cominciava ad agitarsi dentro le sue vecchie membra raddoppiando la paralisi: non era un'anima e nemmeno uno spirito, ma un moto che si prolungava per contatti dall'Occidente, una voglia d'imitazioni lontane, un'eco di parole scientifiche e inintelligibili, un minimo dramma in alcuni educati occidentalmente e tornati nell'Islam, dramma triste e povero di coscienze, incapaci di essere moderne o di rientrare nell'antichità.
I Giovani Turchi non sono altro, e se altro fossero sarebbero anche meno. La loro perfezione occidentale li rende stranieri in patria, e la imperfezione momentaneamente più dannosi che utili. Il torto e la debolezza della rivoluzione turca è tutto nel plagio della nostra ultima civiltà: questa si crea, non si copia: si elabora, non s'improvvisa.
La coscienza maomettana non può riconoscere i nostri assiomi: accettandoli, li deforma sul proprio vecchio stampo: la sua religione non è passata ancora come la nostra per la prova dell'incredulità scientifica e filosofica, ma invece è una, immutata ancora, immutabile. Il cittadino non si venne formando fra stato, governo e comune, in una lotta di aristocrazia, di borghesia e di popolo, quindi la costituzione lo chiama indarno all'opera; il parlamento non rappresenta davvero nè classi nè partiti, nè idee nè interessi personificati; nell'esercito il soldato non ha più il vecchio fanatismo religioso e non può avere ancora la nuova coscienza civile: non capisce la rivoluzione, non ha armi, sarebbe forse reazionario e non ha capi, nè passione di odio, nè visione del presente.
Anche l'adorazione pel sultano si logorò.
Egli avrebbe potuto essere rivoluzionario o reazionario, difendere l'antica gloria dell'impero o superarla in una rinascita anche più meravigliosa; ma a questo erano necessarie in lui qualità di statista o di guerriero, l'idea che illumina, la volontà che aduna, il senno che equilibra. Invece nulla.
Diede già una costituzione, poi la ritirò: assistette per quasi trent'anni agli immensi drammi d'Occidente e d'Oriente, senza vedere, senza capire, cieco nel pensiero, sordo nella coscienza, muto nella bocca. L'impero imputridiva nella paralisi; l'Europa lo sorreggeva schiaffeggiandolo, prestava danaro, maestri d'armi, ammiragli, domandava, imponeva, cancellava, firmava per l'impero e per il sultano. Che pensava, che faceva egli? Nelle province le stragi si ripetevano, vaste, inintelligibili, inutili: i soldati erano senza paga, i generali senza autorità, i visir senza idee, il sultano senza anima. Si sarebbe detto che non amava più se non la vita nella solitudine dell' harem fra centinaia di donne stanche del proprio ozio con quel vecchio, fra eunuchi rimasti forse i soli a pensare nella solitudine anche più spaventevole della loro vita; e il sultano cedeva sempre a tutto e a tutti, destreggiandosi fra le diplomazie come un cane penetrato a caso fra la gente in una moschea, vendicandosi di tutto e di tutti colla ferocia e la impunità di supplizi prodigati ad amici e nemici.
Egli sapeva che il partito liberale non valeva più del suo, che i Giovani Turchi non rappresentavano la vera Turchia meglio di lui, che una rivoluzione era impossibile e impossibile del pari l'andare innanzi così.
Quindi sorpreso, accettò quanto gli imposero, non fu nè sultano nè califfo, mantenne una reticenza nel giuramento alla costituzione e lasciò regnare il comitato dei Giovani Turchi.
Fu in lui intenzione di abilità? Aspettava un impeto di collera su dal vasto, selvaggio paese, poichè quel comitato era soltanto una setta, che s'ingrossava quotidianamente di tutti i residui dello stesso governo sultanico, e il parlamento si componeva come di un coro per le discussioni e di un ordine muto di mimi per le votazioni?
E la reazione scoppiò, senza capo, senza bandiera, senza danaro, senza armi, senza idee: bastò al comitato l'apparenza di un esercito per vincerla: il sultano era un fantasma, l'impero non era più.
E adesso?
Dicono che il nuovo sultano si chiami Maometto V e che si sia definito spontaneamente primo sultano della libertà: il motto non vale molto, l'uomo invece dovrebbe valere moltissimo per sollevare la Turchia dalla presente dissoluzione anarchica in una qualunque composizione di governo.
Forse anche nell'Europa più occidentalmente civile i retori della democrazia cominciano a dubitare sulla potenza meravigliosa delle loro formule; tutte le riviste giapponesi segnalano già un indebolimento nell'eroica coscienza del popolo dopo un ventennio di esercizio costituzionale; la Persia tratta la propria costituzione come un cencio di rivolta pel governo e contro il governo; la Russia non può ancora assidersi nella Duma per contare le proprie lunghe, sanguinanti ferite; la Turchia è passata dalla tirannide stanca del vecchio impero alla violenza nevrotica dei Giovani Turchi: non sa copiare l'Europa e ha dimenticato sè stessa.
Aspettiamo dunque.
3 maggio 1909.
X VERITÀ NAZIONALE
VERITÀ NAZIONALE
Ancora una volta ha trionfato a Trieste.
Le ultime elezioni vi si sono svolte colla foga e collo stento di una battaglia, nella quale la passione si accendeva politicamente di un motivo inconfessabile. Da un canto i patrioti stretti dietro una bandiera invisibile, coll'occhio fiso oltre le mura, al di là del mare, a Roma, la capitale lontana ed eterna d'Italia, la metropoli della gloria, che domina ancora colla fronte superba il passato e il presente d'Europa; dall'altro slavi e sloveni, un popolo piccolo straniero, quasi barbaro, che cinge e batte le mura di Trieste come un'onda pigra e limacciosa di palude, e parla un'altra lingua, agogna una preda, non ha vanti perchè senza passato, non ha sogni perchè senza avvenire.
Essi sono una turba nella moltitudine di un impero, che ha per unità una dinastia soltanto, per governo una burocrazia, e che un tempo fu baluardo all'Europa contro l'invasione turca, ma indarno volle poi chiamarsi in una vanità di parola sacro romano impero, e cadde per sempre sotto il piede di Napoleone, ultimo imperatore del sogno latino, per sparire idealmente dietro il nuovo impero germanico, al quale Hegel aveva dato la corona de' pensiero e Bismarck quella della potenza.
Trieste bella e solitaria sul lido, come la piccola sirena nella divina favola di Andersen, il poeta danese, aspetta ancora l'amante: guarda l'Adriatico, ascolta nel murmure delle sue onde, gittando il grido dell'invocazione sulle ali delle sue tempeste, e piange cogli occhi e col cuore, mentre l'Italia si leva ad una nuova speranza di gloria nel ricordo del suo primo epico cinquantenario; piange, perchè sola ella non ha ancora nulla da ricordare, e la sua speranza sempre ferita non sa quando potrà levarsi a volo.
Prigioniera dell'Austria, libera soltanto come un condannato nella cella, s'ingegna e si estenua nell'esprimere dentro l'angusto sistema amministrativo la propria anima nazionale; il suo territorio è appena una cintura sfibbiata sul mare, ella non ha altra arme che un piccolo voto, deve fare della parola una armatura al proprio pensiero, nascondere l'odio e l'amore nella comodità sin troppo facile di una ricchezza accumulata dal mare e trasmessa per il suo porto al vasto eterogeneo impero.
Ma Trieste è italiana, e nulla potè mai mutarla, e nulla lo potrà mai.
Il segreto d'Italia, rimasto impenetrabile anche alla storia, la protegge: l'Italia, povera, deserta, anche ridotta a sei milioni di abitanti, senza più Roma per capitale, corsa da tutti i barbari, distrutta nell'impero, spogliata di ogni civiltà, divisa come gli anelli di una grande corona d'oro tra feudatari stranieri, non diventò mai preda di un solo. Nessuno potè conquistarla: il suo papato, i suoi comuni, i principati, le signorie, le repubbliche, tutto s'improvvisava e si rinnovava nella resistenza: una originalità spuntava come fiore da ogni zolla, un motivo inesauribile manteneva la guerra di tutti contro tutti, un genio più profondo che nella Roma latina e più vario che nella Grecia creatrice animava le cose e gli uomini, moltiplicava i capolavori del pensiero e dell'opera, piegando i vincitori ai vinti, seducendoli colla bellezza, ingannandoli colla diplomazia, distruggendoli coll'eroismo improvviso delle battaglie, dimenticandoli colla sicurezza della primavera, che volta le spalle all'inverno e trionfa nella festa irrefrenabile della vita.
Come l'immenso impero colla moltitudine così dispari delle sue orde accantonate in cento territori e tutte unanimi nell'odio della solinga città italiana, non bastò a sopraffarla seppellendola sotto una invasione, assorbendola nel vastissimo alvo della propria moltitudine? Trieste è ancora intatta, inviolata, inconfondibile. Slavi e sloveni dentro le sue mura non sanno sentirsi cittadini: qualche cosa li respinge e li supera: vi è un segreto nel quale s'infrangono, una verità contro la quale nessun'arma è sufficiente, nemmeno quella del parricidio.
E nell'ultima lotta ne fu pur troppo compita la prova.
I socialisti si allearono agli sloveni dentro Trieste, contro Trieste italiana. Come si chiamano i loro capi?
Il nostro pubblico non lo sa e non cura saperlo. Il nome di Giuda non basta forse da duemila anni a tutti i traditori? Come si chiamavano quei piccoli sergenti socialisti, che dall'Italia mossero a Trieste, bene accolti dalla polizia, ad aiutarvi la negazione della patria? La polizia austriaca non lo dimenticherà, e ciò deve bastare al loro orgoglio. Invece Trieste italiana ha vinto, perchè all'ultima ora gli stessi gregari socialisti hanno disobbedito ai loro capi votando per l'Italia e per gl'italiani contro gli stranieri. La verità nazionale si accese fiammeggiando improvvisamente nelle loro anime come un faro: la loro ingenuità popolana si è rivoltata come una vergine sotto la mano impura di un violatore e ha urlato di collera superba, e subito dopo ha sorriso nella gioia della vittoria.
Perchè a Trieste questa volta la vittoria è stata un trionfo del cuore, una apoteosi della fantasia. Troppo recenti, troppo sanguinanti ancora erano le ultime ingiurie dell'impero al nostro regno; troppo superbe suonavano da Vienna le minacce e troppo stridule continuavano le ironie, perchè la coscienza della nobile città non si sentisse questa volta come antesignana d'Italia. Nel nostro parlamento tutti i toni erano rimasti bassi: una prudenza piccina sembrava diminuire tutto e tutti, la negazione della patria, così empiamente brutale a Trieste, qui s'insinuava nell'equivoco delle teorie più lontane ed astratte. Si parlava dimenticando le necessità immanenti della storia, non si volevano più confini fra popolo e popolo, si negavano i danari all'esercito e all'armata, si vantava il progresso soltanto nel benessere materiale delle ultime plebi, si proclamava suprema verità della vita una uguaglianza negativa di tutti gli uomini fuori di ogni tempo e di ogni spazio. Appena un deputato triestino si alzò sulla miseria spirituale dei più estremi partiti, e, repubblicano, sentì il dovere di votare per l'esercito d'Italia. Mazzini e Garibaldi non avevano sempre fatto così? Nel sogno del quarantotto non invocarono, non accettarono persino Pio IX, e dopo, nell'epica aurora del risorgimento, non convennero col re e non predicarono, operarono gittandosi innanzi colla piccola bandiera dei Savoia?
Tutta la storia moderna non ha oggi due più grandi figure, due eroi più italiani e nullameno più mondiali. Che cosa sentono, che cosa pensano davvero questi epigoni, che si rinchiudono nel loro minimo partito come un ragno in un buco, mentre nel cielo ancora limpido fruscia già, invisibile, l'ala del pericolo, e da tutte le città italiane, da tutti i villaggi, da tutti i campi, i morti del cinquantanove si levano silenziosi e mesti a guardarci e stentano a riconoscerci?
Il socialismo, come tutti gli errori di cui la storia si serve per creare una più alta ed originale verità, non può essere forte che a patto di essere bello: gli bisognano una poesia di pensiero e di opera, una virtù più ingenua e più austera che non alla borghesia; le necessità economiche indimenticabili non debbono essere prime sempre ed ovunque; la propaganda contro il duello esprime soltanto la paura della morte nella affermazione santa della vita, che poi si nega nella violenza subdola e bestiale degli scioperi; la ripugnanza della guerra, immutabile ed inevitabile sacrificio, diventa il trionfo della viltà individuale, che dalla storia accetta il beneficio ricusando di pagarne il prezzo, e sogna un miserabile Eden di cucina e di postribolo con un lavoro senza ideale, una lotta senza tragedia, una vittoria senza vinti, e dei vinti senza la morte.
Oggi tutta Italia risponde con un sorriso di gioia alla gioia di Trieste, che in un'ora difficile ed oscura tenne fede all'antica madre non ancora invecchiata dai secoli, ma non risponde con più che un sorriso. L'avvenire deciderà dei nostro diritto, ed al solito la decisione propizia sarà per coloro che lo avevano meglio difeso.
Bisogna alzare con uno sforzo continuo, doloroso, violento, l'anima del popolo, perchè nel momento della prova non sia poi così bassa da non poterne nemmeno attingere il campo: bisogna ad essere tribuno generale la stessa potenza di poesia, che solleva e aduna le anime davanti al pericolo del sacrifizio; gli accattoni del voto, i giullari della piazza, i causidici del parlamento sempre pensosi soltanto di sè stessi, e che credono di guidare il carro della politica come quella mosca di Pindaro che si era posata sul riccio del timone e se ne alzò proclamando col battito dell'ale la propria vittoria sull'auriga, non furono, non sono e non saranno mai che una miseria del popolo, ma non lo guideranno nè alla vittoria nè alla perdizione.
La vittoria è donna e non ama che i forti: è dunque una forza l'umiltà di non sapersi più battere?
20 giugno 1909.
L'APPELLO
Bisognerebbe gettarlo sull'ali di una strofa o tacere.
Ma dov'è dunque il poeta nazionale? Qualcuno da tempo insidia l'epopea garibaldina, estremo miracolo della modernità europea e la degrada in piccole rapsodie di una prosaicità accorante, nelle quali il canto somiglia al volo dei tacchini, che radono pesantemente il suolo colle negre ali senza soffio di tempesta. Altri indietreggiando nei secoli sino al magnifico crepuscolo medioevale, così pieno di strofe e di torri, di cattedrali e di castelli, tenta la lira e il liuto sotto le finestre di un re prigioniero o dietro il Carroccio imbandierato per una festa di battaglia, ma il breve verso indarno sapiente non ha il clangore delle trombe, e l'anima non lo sente, e il tremito della morte eroica non passa fra gli squilli delle campane, che chiamano a raccolta, mentre le piazze ondeggiano nel tumulto della folla evocata tragicamente dalla storia alla originalità di una guerra creatrice.
Più forte e più alto, nell'orgoglio inutile dell'ingegno e di una incomparabile scienza verbale, colui che parve e poteva forse essere il nuovo poeta, si esaurisce dentro la monotonia lussuosa di una rettorica abbacinante nella ricchezza dei colori e dei ricami, piena di armonie come un'orchestra, e di fantasmi come un museo, ma solitaria nell'ammirazione di sè stessa, fra scoppi di una continua voluttà primaverile e di una vanità, che tutte le acclamazioni ingenue o false della moltitudine non possono mutare in superbia.
Il poeta nazionale, che la storia, nella impassibile severità del proprio giudizio, dovrà diminuire nel Carducci, così al disotto di Mazzini e di Garibaldi, manca ancora in questo nuovo trionfo della terza Italia, che l'Europa deve già accettare come una nazione grande fra le più grandi, tutta fremente di una improvvisa ricchezza, coi campi solcati ovunque da strade novelle, i porti aperti all'espansione della vita, le città sonanti e fumanti d'officine, un altro popolo industre, libero, sovrano, che non teme più gli stranieri e getta sull'America come un pulviscolo fecondatore gli estremi avanzi dell'antica miseria e le avanguardie romantiche della sua recente avventura commerciale: un popolo unico nella storia, antico in una gloria di tremila anni, che dominò, unificandola, l'antichità colla repubblica e coll'impero di Roma; e quando l'impero crollava come uno scenario sotto lo sforzo dei barbari a tutte le frontiere, oppose loro un'altra, più profonda originalità nel cristianesimo, che rimutò il mondo in una libertà spirituale con un crocefisso per imperatore e un papa per console, senza più differenza fra padrone e schiavo, fra povero e ricco, in una poesia di espiazione, di resurrezione, nella quale il male era soltanto la prova eroica della volontà e la morte un sacrifizio di salvazione.
Ma Roma invasa, saccheggiata, arsa, sommersa nella polvere e nei rottami di una incessante distruzione, sulla quale tutte le forze di una misteriosa vendetta sembravano accanirsi colla frenesia di una passione funebre, rimaneva sempre la capitale dello spirito umano, il centro rivelatore del pensiero, il trono inaccessibile a tutti i nemici, barbari della decadenza della infanzia storica, luminoso come un faro in una notte lunga di bufera, puro come una di quelle nivee vette alpine, sulle quali il sole si affaccia all'alba o indugia al tramonto colla eletta compiacenza di un poeta.
Roma e l'Italia sono ancora l'unità e l'originalità del medioevo. La loro forza militare e politica pare esausta: l'impero esula a Bisanzio e a Ravenna, là per fronteggiare con un inutile sforzo l'eterna inimicizia dell'Oriente, che prepara già, con misteriosa fermentazione, la suprema rivincita di Maometto contro Gesù: qua, sopra un lido senza significato, sul fianco di una pineta nè misteriosa nè grande, con un porto angusto come un canale, dentro una piccola città anonima, alla quale solamente i barbari schiacciando l'impero daranno una gloria immortale. Ma Roma resta.
Le sue rovine raddoppiano il significato dei suoi monumenti, l'abbandono dell'impero dà al suo papato una più alta, incoercibile sovranità; i barbari, incapaci di mutarsi in italiani, si fanno cristiani, la loro anima assetata d'ideale, il loro pensiero affamato di vita, domandano a Roma il doppio segreto: sono chiusi nel ferro, e il loro cuore si apre a tutte le ferite della nuova parola, schiacciano tutte le vecchie autorità e s'inginocchiano davanti a quella del sacerdote; gli ordini monastici peregrinano e fondano, attraverso ogni distanza, le nuove colonie spirituali, i municipii sopravvissuti preparano nel comune la futura, perfetta sovranità del cittadino contro il feudatario creato dalla conquista e costretto a vivere di rapina, come espressione di una forza soltanto negativa e germe vergine e robusto di un'altra razza, che si chiamerà italiana, la più mista, la più ricca, più resistente che la romana, più originale che la greca, speranza e modello a tutta l'Europa futura.
E questa, pur nello sforzo instancabile di tanti secoli, non potrà conquistarla, fonderla entro alcun altro de' suoi popoli. L'Italia resiste a tutti gli invasori, stanca tutte le tirannidi, svia tutte le correnti, trasforma tutti i padroni, seduce, crea in una originalità inesausta: dentro la religione, che consola affermando, suscita la scienza, che rinnova colla tragedia del dubbio, e già municipale marinara, ha una giurisprudenza, un'arte, una politica, una diplomazia, corti in ogni castello, un parlamento in ogni borgo, un capitano in ogni venturiero, un re nel cittadino. E incredula e credente, serve il proprio clero e lo domina, si libera del misticismo colla bellezza dell'arte, ha tutti i vizii e tutte le passioni, tutte le abilità dell'esperienza e le infallibili intuizioni dell'ingenuità.
Senza l'Italia il medioevo europeo invece di un'aurora sarebbe stato una notte.
Poi nel millecinquecento, che gli storici di scuola credono ancora l'apogeo della nostra storia, mentre invece segna il supremo esaurimento della nostra lunga supremazia, l'Italia s'arresta o quasi. Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, si mettono successivamente all'avanguardia; l'Italia pare un'ancella, un'anticamera di altre corti, un oscuro magazzino di lontani padroni, e non è vero. Nel seicento è ancorala scienza italiana che domina, nel settecento la musica: generali, architetti, pittori, scultori, formano le sue nuove ambascerie e affermano ancora la sua potenza: è serva, e i padroni vi paiono poco più che ospiti, i suoi ultimi principi scemano giorno per giorno. Il suo papato è un mediocre principato interno, abile nel destreggiarsi colle grandi corti straniere, la sua aristocrazia non ha più che partigiani, la sua incomparabile borghesia comunale è appena una clientela, il suo popolo un groviglio di corruzione e di barbarie.
Non importa: anche così l'Italia non può essere di nessuno: unica al mondo, nè la gloria del trionfo, nè la servitù della miseria possono esaurirla.
La rivoluzione francese passerà sovra di essa come una bufera, rifecondandola. Napoleone sarà italiano e improvviserà il primo regno di Roma per suo figlio, minimo fantasma nell'ultimo grande poema, povero, esile fanciullo, nel quale finirà come nella miseria di un giocattolo l'arte creatrice di impero.
Dopo mezzo secolo: ecco Cavour e Vittorio Emanuele, Mazzini e Garibaldi, che creano la terza Italia in una rivoluzione, alla quale la massa sembra quasi assistere soltanto, ma così profonda, originale, che tutte le altre d'Europa e d'America non vi possono essere paragonate: e dopo un altro mezzo secolo, ecco ancora l'Italia più libera e più ricca che ai tempi di Augusto, e che l'Europa rivolle perchè dalla sua originalità attende qualche forma nuova di bellezza, qualche più feconda cooperazione ai problemi intercontinentali, che adesso preparano la vera unità della storia mondiale.
Il problema più vero, più tragico ed insieme più pratico è adesso per l'Italia quello di apparire e di essere la grande nazione latina. Che cosa è la Spagna da gran tempo? Che cosa è più la Francia colla sua repubblica cresciuta come un fungo dalle putride radici del secondo impero, e che una serie degradante di parlamenti e di ministeri demagogici ha ridotto senza più una politica mondiale, come nei secoli delle sue monarchie, senza un esercito e una armata capace di guerra, con un governo prigioniero dei propri impiegati, con una ricchezza che si putrefa per mancanza d'ideale, con un'arte che oramai esprime soltanto la corruzione di un mestiere, con una religione che perseguitata non sa soffrire, con una sovranità plebea che non sa comandare a sè stessa e sogna i vecchi re, deride gli ultimi tribuni, paga i deputati e li sberta come i giullari degli schiavi cresciuti negli ergastoli sindacalisti? Eppure molto sopravvive nella Francia e molto rivivrà.
Per l'Italia, per noi, più giovani, più nuovi, ancora frementi della nostra rivoluzione creatrice, e che demmo al mondo lo spettacolo più mirabile di rinnovamento materiale e morale negli ultimi trentanni, miracolo al quale nemmeno possono paragonarsi i prodigi della ricchezza e del progresso americano, ancora così vuoti di significato, il problema è unico: affermarsi come il maggiore e migliore dei nuovi popoli d'Europa, o arrestarsi e decadere, consumando nell'inutilità di una effimera festa l'ultima energia rivoluzionaria dei nostri padri.
Avanti dunque nel senno di Cavour e nell'eroismo di Garibaldi: avanti col pensiero e coll'opera, sui mari che attendono le nostre navi, sulle frontiere che aspettano la nostra vittoria!
Ma non bisogna promettere: il trionfo fu sempre di coloro che seppero prepararsi nel silenzio.
25 aprile 1909.
INDICE
Diana pag. 5
I — Ombre sacre :
Corona murale 19
La fine della fine 25
Il tempio 31
Il poema 37
La grotta 43
Il problema del Natale 49
II — Echi :
Il cavaliere 57
Tristano e Isotta 63
Saffo 69
L'arciero 76
La voce 82
III — Ad limina mortis :
Soggezione 89
Il papato 95
Il vinto 101
Scagnozzi e cagnotti 107
IV — Tragedia regale :
Il trionfo della morte 115
La vedova 120
I messaggeri della morte 125
V — Idee e figure :
L'impero ideale 133
A Staglieno 139
Gallia victa 143
Trilogia postuma 149
Il gigante plebeo 155
La vergine rossa 161
Il prigioniero 166
L'orrore del vuoto 172
Cieco contro cieco 177
VI — Delitti e delinquenti :
Problema criminale 185
Romanzo vivente 190
Romanzo e romanziere 195
È permesso? 201
Vecchio errore 206
L'ultimo brigante 211
Amnistia 217
Nel fuoco 222
Il duello 228
VII — Punte secche :
I deicidi 237
L'eroe 242
Il vincitore 247
Il Testamento di Cecil Rhodes 252
Zanardelli 257
Il ministro 262
I cattolici alla camera 267
Finalmente 274
VIII — Sotto il fuoco :
I falsari della volontà 283
La battaglia religiosa 288
I ribelli della fede 294
Honor onus 300
Una visita 305
Inutilità 309
IX — Ultima carica :
Fit via vi 315
Sole levante 320
Satira epica 325
Lex imperorum 330
Janua mortis 336
Sulla china 341
L'ultimo Czar 346
La terza prova 351
L'ultimo 356
X — Verità nazionale :
Verità nazionale 365
L'appello 371