Il Nemico

ALFREDO ORIANI

Il Nemico

Per non perdere l'intelletto in certe cose bisogna non averlo.

Lessing.

QUARTO MIGLIAJO

1894 L. OMODEI ZORINI, EDITORE Portici Settentrionali, 23 MILANO

PROPRIETÀ LETTERARIA

Milano, 1894 — Tip. Wilmant di L. Rusconi.

PARTE SECONDA

I.

Quando giunsero al castello di Ourikow, a cent'ottanta verste da Mosca, era circa mezzogiorno.

Per la vasta campagna la neve si stendeva alta e bianca, senza che una sola ondulazione del terreno potesse un istante arrestare lo sguardo. Avevano viaggiato tre giorni su quel bianco, sotto un cielo plumbeo, tormentati da un vento leggero, che sferzava loro la faccia congelandovi l'alito. I cavalli, colla coda e la criniera sonanti di diacciuoli, sembravano avanzare fra una nuvola di fumo vaporante dal loro lungo pelo, sul quale si sarebbe mutata in brina al primo allentare del trotto. Alti pali, a enormi distanze, segnavano la direzione della strada; passavano poche vetture. La campanella ondulante sul dorso del cavallo di mezzo, gettando il proprio appello monotono nell'abbandono gelido del paesaggio, vi destava una invincibile malinconia. Loris guidava con mano sicura i tre cavalli e non parlava col principe, sepolto dentro la pelliccia e sotto l'enorme berrettone, se non per chiedergli qualche indicazione sulla strada; davanti ad essi nessun punto, che potesse somigliare ad una meta. La neve, abbacinando i loro sguardi, raddoppiava col proprio candore l'immensità di quel silenzio non paragonabile nemmeno a quello del mare, ove le acque si muovono, e l'occhio va lontano sopra una mobile gamma di colori sino all'altro lido del cielo.

I villaggi si distinguevano solo entrandovi, perchè gli occhi, stanchi di quella bianchezza, non potevano cogliere da lungi il rialzo dei loro tetti. Le loro isbe circolari, a distanza l'una dall'altra, cinte da un alto stecconato nereggiante fra la neve, lasciavano sfuggire qualche pennacchio leggero di fumo, e tacevano. Gli abitanti vi dormicchiavano intorno alla stufa nel caldo; tutte le immondizie s'accumulavano diacciate e nauseanti agli usci per putrefarsi, quando i primi venti della primavera scioglierebbero la neve, ma ora testimoniavano sole della presenza degli uomini. In quell'inverno e per quelle steppe nessuna idea era possibile. Come radunare il popolo in quella stagione? Come deciderlo a uscire dalle isbe, mettendogli in cuore una passione, che il gelo e il bianco dell'aria aperta non facessero vanire?

Sopra ogni villaggio torreggiavano la chiesa e il castello; la cupola colorata dell'una, e le mura dell'altro dominavano nella pianura, mentre le isbe si acquattavano loro sotto in una quiete di tane. Solo il castello e la chiesa scrollavano talora colle campane quel silenzio, che nessun'altra voce sarebbe bastata a rompere oltre il breve raggio dello sguardo abbarbagliato. Il solco delle slitte e delle ruote tracciava la strada, i fiumi gelati e scomparsi sotto la neve s'indovinavano appena in un avvallamento del terreno, mentre alcune foreste lunghe, ma di bassissimo fusto, troppo cariche di neve per disegnare abbastanza visibilmente la loro intricata barriera, parevano poco più di un rialzo bucherellato, dietro il quale il pensiero non sapeva che cosa immaginare.

Viaggiarono tre giorni, fermandosi nei più grossi villaggi per riposare i cavalli. Gli alberghi ove scendevano, erano poco più di un'isba, e ne avevano la forma. Pochi mugiks e mercanti vi bevevano intorno alla stufa, aggravando il proprio torpore iemale di tutto il peso di una sbornia, sotto la quale sensazioni e sentimenti affondavano; ma, riconoscendo nei due viaggiatori la razza dei padroni, si levavano per fare loro grandi inchini sino a terra. Qualcuno fra i più spregiudicati, radunando tutto il proprio coraggio di servo emancipato da ieri e non ancora libero, perchè forse in mora col pagamento della terra ricevuta, arrivava sino a chiedere loro da bere, poi se ne vantava collo sguardo verso gli altri, se la scroccheria riusciva. E quando i signori ripartivano freddi e compassati, tutto il crocchio di quella gente si affollava entro lo steccato della stalla, augurando il buon viaggio a capo scoperto, umili nell'ammirazione del ricco equipaggio.

Il secondo giorno, essendo discesi ad un traktir pieno di mugiks, che vi tenevano, come al solito, una delle loro assemblee per discutere un affare del mir, il principe si volse a Loris:

— Provate dunque a parlare con loro.

Egli sentì tutta l'ironia di quell'allusione all'invincibile diffidenza dei mugiks pei signori, e non rispose.

Allorchè giunsero in vista del castello, il principe si scosse. Il villaggio vi sorgeva davanti a non molta distanza; sull'ingresso del villaggio la piccola chiesa arrotondava la propria cupola verde bizzarramente incappellata dalla neve. La giornata era fosca. Un vento, levatosi da poco, faceva stridere sommessamente i grandi alberi a fianco del castello, staccando dalle loro cime, che si rialzavano di un crollo, qualche groppo di neve. Si udì il latrato di un cane. Il castello non era nè grande nè ricco, ma costrutto in muratura, a due piani, dominava tutte le isbe dall'altezza delle proprie finestre.

Traversando il villaggio, la campanella attrasse sugli usci alcuni mugiks, che s'inchinarono sino a terra. Quindi la notizia dell'arrivo si sparse così rapidamente, che la maggior parte degli abitanti erano già usciti nel mezzo dell'unica strada, prima che la droiska avesse oltrepassato la grossa cancellata di ferro, che interrompeva il muro di cinta dinanzi alla porta del castello. Molti servi si affrettarono intorno al padrone. Nel vestibolo, l'alta temperatura dei caloriferi diede ai due viaggiatori come il senso di una soffocazione; il principe aveva già chiesto a Tikone, il vecchio intendente, notizie della signora.

— Sua Alta Nobiltà sta benissimo, aveva risposto questi guardando negli occhi del padrone.

— È inutile avvertirla subito del nostro arrivo. Venite, Loris, gli si rivolse, ora siete in casa vostra.

L'intendente li precedeva sullo scalone in legno, coperto di un modesto tappeto; molti vasi di piante verdi erano disposti sui pianerottoli.

Traversarono un'anticamera, due sale, un salone, sino ad un gabinetto arredato senza pretesa. La temperatura, sempre così alta, scioglieva loro in acqua sul viso i diacciuoli dei capelli e dei baffi. Si sentivano stanchi, tutte le membra intorpidite; il principe sembrava anche più ammalato, colle spalle più curve. Tratto tratto qualche colpo di tosse gli scuoteva il petto. Loris aveva perduto la bella freschezza del volto; gli occhi gli si erano appannati, aveva la bocca amara.

Dall'ampia finestra a doppia vetriata si vedeva, attraverso l'opacità dei cristalli, sui quali il ghiaccio aveva ricamato i propri fiori fantastici, un bianco torbido. Dalla parete opposta il ritratto di un maresciallo del secolo passato attirò l'attenzione di Loris.

Poco dopo, entrò l'intendente con due domestici recanti il samovar, e chiese gli ordini.

Loris aveva acceso confidenzialmente uno sigaro e, non potendo star seduto per la irritazione del lungo viaggio, camminava davanti alla finestra. Il principe preparava il the.

Quando ebbero bevuta la prima tazza, questi gli disse:

— Vi presenterò a mia moglie.

Loris gli si volse osservandolo.

— La giudicherete. Il suo carattere è dei più difficili, forse anco per la malattia, che la tormenta. Questo inverno ha detto di volerlo passare in campagna, fuori del mondo; non ha nemmeno una dama di compagnia per ammazzare il tempo. Ma Loris lo interruppe:

— Quando ricevete i giornali qui?

— Due volte la settimana, talvolta anche più tardi, secondo il tempo.

— A questa ora forse tutto è già scoperto; io non posso restare in casa vostra.

Il principe ebbe un gesto, ma l'altro seguitò:

— Non si tratta di compromettersi inutilmente: scoperti, saremmo entrambi ridicoli. La nostra traccia forse ora è perduta, ma la vostra uscita dal teatro può essere stata notata.

Quindi improvvisamente;

— E gli altri due che cosa avranno fatto? Vedete bene che il mio luogo non è qui.

— Aspettate, arriveranno i giornali. Posso mandare alla stazione di Waila un telegramma. E se nulla fosse ancora scoperto?

— Impossibile....

Ma il principe tornò sul discorso della moglie.

— Tatiana è intelligentissima, potrebbe indovinarvi.

L'altro alzò villanamente le spalle.

Allora, mentre si ammaniva la colazione, il principe accompagnò Loris nelle due stanze, che intendeva assegnargli, un salottino ed una camera da letto. L'arredo vi era più ricco, ma siccome Loris, fuggendo, aveva lasciato tutto a Mosca, il principe dovette offrirgli la propria biancheria e una veste da camera.

Il salotto era così pieno di ritratti e di gingilli, che evidentemente doveva aver servito ad una signora. Una ricca paniera in filigrana d'argento vi conservava ancora tutti i piccoli arnesi da ricamo; due aquerelli alle pareti, alcune rose e un lupo colla bocca sanguinolenta, vagante sulla neve, sembravano disegni da educanda all'ingenua pedanteria del tocco e del colore. Un'altra moltitudine di fotografie copriva i tavolini, fra molti vasi di porcellana, e statuette di Sassonia di un lusso minuscolo e raffinato. L'altra camera invece aveva un grande letto di quercia intagliata, sullo stile di Luigi XIV. Un padiglione di damasco a fiorami leggermente sbiaditi ne copriva la testiera; la coperta era di un rosso appannato, colla frangia a ghiande e a cordonetto, non senza qualche sfilacciatura, mentre sul tavolino da notte una bottiglia e un bicchiere di cristallo antico, presso un candelliere d'argento, luccicavano vivamente. Gironzando per la camera Loris trovò in un angolo, sopra uno sgabello ricamato, una vecchia blonda di Malines.

Siccome il principe aveva detto, che lo attenderebbe nel salone, Loris vi tornò appena compita una rapida toeletta.

Il salone, nel mezzo del castello, non era molto più vasto di una sala; dalle stanze di Loris bisognava giungervi attraverso un corridoio quasi buio, perchè il principe gliele aveva appunto assegnate in fondo all'ala sinistra, per lasciarlo più libero.

Entrando nel salone Loris si senti commosso senza sapere di che; lo aveva già intravvisto passandovi, ma ora gli sembrava più ricco e severo. Alcuni mobili erano dorati, altri di quercia; notò subito un immenso lampadario di bronzo, mostruoso capolavoro cinese, poi in un angolo un grande piano-forte nero, intarsiato di avorio, sulla cassa del quale biancheggiava una piccola copia del centauro greco. Le tende scure cadevano pesantemente sul tappeto azzurro-cupo, la vôlta era a cassettoni intagliati, ma l'ombra ne velava il disegno.

Poco lungi dal piano-forte uno sgabello, formato con corna di renna, di una rusticità polare, e una poltroncina di un cilestro soavissimo, squisitamente parigina, si toccavano ancora chi sa dopo quale conversazione. Loris attratto dalla loro antitesi si avvicinò. Gli parve che la poltrona esalasse un tenue profumo, e che la sua imbottitura fosse pesta.

Quindi molte voci gli giunsero dal di fuori. Un gruppo di mugiks aspettava alla porta del castello, col capo scoperto, di essere introdotto per salutare il padrone.

Questa abitudine servile, rimasta anche dopo l'emancipazione, gli trasse sulle labbra un amaro sorriso; ma la porta a vetri stridè, e tutti i mugiks s'inchinarono, alcuni sino a toccare colla fronte la neve. Il principe si era presentato sulla soglia a ringraziarli, preferendo evidentemente di non riceverli per non ammorbare la casa col puzzo delle loro pelli. Quella scena durò a lungo. Forse i mugiks avevano qualche cosa da chiedere all'antico padrone, e v'insistevano colla loro tradizionale tenacità, seguitando ad inchinarsi dopo ogni parola, come in chiesa, durante la messa. Colle figure tozze, coperte di pelliccie di montone, la chapka in mano, i lunghi capelli sulle spalle e le barbe anche più lunghe, piantati sulle scarpe larghe di vimini, fra l'abbacinante candore della neve formavano un quadro di un vigore straordinario. Stavano ordinati su tre file, ma non parlavano che quelli davanti.

Loris si ricordò il quadro di Gerôme « Ave, Cæsar, morituri te salutant.» Quindi indietreggiarono, curvandosi ancora di più, parlando tutti in una volta, e la porta tornò a stridere sui cardini.

Allora Loris vide una signora vestita di bianco, sotto il lampadario, nel mezzo del salone, che lo guardava. Da quanto tempo? Così nell'ombra non potè discernere la sua fisonomia; egli pure volgendo le spalle alla finestra restava colla faccia al buio, ma indovinando in lei la moglie del principe abbassò lievemente la testa ad un inchino.

La signora era alta, bionda, coi capelli rialzati sulla fronte; la vesta amplissima le cadeva intorno a pieghe grosse e rigide, quasi ieratiche.

Loris seguitò ad inoltrarsi, ma nel passare dinnanzi alla finestra la sua fisonomia s'illuminò.

La signora gettò un grido, rinculando con un gesto di spavento:

— Voi! esclamò con voce strozzata.

Non intesero un passo nell'anticamera.

La signora lo guardava fiso, colla bocca convulsa, arretrando lentamente; ne' suoi occhi sbarrati brillava una luce insopportabile. Loris la riconobbe; era lei, sempre così bella, diventata più alta e più magra. Le trovò subito quell'impercettibile neo all'angolo sinistro della bocca, ma egli stesso era sconvolto, si sentiva sommergere.

Ella indietreggiava verso il piano-forte, strisciando sul tappeto, con una mano protesa e la testa gettata indietro attirandolo.

Poi si volse all'uscio, di cui la maniglia aveva girato, e cadde svenuta.

Il principe si slanciò per sostenerla.

Loris era rimasto al proprio posto.

Il principe sollevò la signora con una forza che, a vederlo così emaciato, non gli si sarebbe supposta; la distese sopra un divano, le mise un cuscino sotto la testa, le ravviò la veste sui piedi, che penzolavano ancora sul tappeto, e curvo su lei, più smorto di lei, la contemplava. La signora aveva rimasto gli occhi aperti, i denti le tremavano.

— Non le avete parlato? chiese a Loris.

— Mi sono voltato dalla finestra udendola passare; l'ho vista cadere nel momento, che siete entrato.

— Una delle sue crisi! rispose il principe, che si era già rivoltato: questa volta non sarà forte. V'intendete di medicina?

— Ne ho letto qualche libro.

— La principessa è nevropatica; ma si torse ancora, studiandola colla acutezza di un medico; vedete: sono sicuro che c'intende, ma non può muoversi.

Loris rimase impassibile. Il principe aveva preso il polso dell'ammalata, e lo stringeva fra le proprie mani. Ella pareva una statua; i suoi occhi appannati erano divenuti come due turchesi.

Il principe s'irritò; quel riserbo di Loris gli parve affettato.

— Vorreste avere la bontà, gli disse con un certo stridore nella voce, di scendere ad avvisare il primo servo che incontrerete, di mandare qui Sonia, la vecchia cameriera della principessa?

Loris, s'inchinò senza gettare uno sguardo alla signora.

Loris era figlio di un pope.

Come tutte le famiglie sacerdotali della Russia, quella di suo padre e di sua madre si perdevano nella stessa antichità dell'altare che servivano, in un esilio dal mondo senza speranza di potervi rientrare. Nessun pope infatti poteva, sino al 1864, uscire dalla propria casta che degradato da una condanna in Siberia, o nell'esercito; a nessun pope, perchè ammogliato, era permesso di salire nell'alta gerarchia della chiesa, riserbata al clero nero dei monaci.

Il padre di Loris, figlio di un povero curato di Kourlak, nel governo di Voronege, era cresciuto nella triste infanzia di tutti i suoi pari; la parrocchia, vasta quanto una diocesi italiana, non aveva che pochi villaggi composti di alcune isbe, abbandonati a grandi distanze, e rendeva assai poco. Il vecchio pope, magnifico esemplare dell'antico stampo tutt'ora comunissimo in Russia, buono ed ignorante, s'ingegnava a munger danaro ai contadini disimpegnando le proprie funzioni, come un qualunque altro impiegato, colla massima negligenza e con tutta la corruzione possibile; ma, contento di vivere, lasciava vivere gli altri alla meglio. Se pregava poco e non pensava affatto, beveva quasi più del possibile, e per unico orgoglio aveva la magnifica voce da basso del proprio diacono. Sua moglie invece, troppo cagionevole di salute, non poteva nemmeno partecipare alle loro lautezze brutali ed intermittenti. Quando venne l'unico figlio, dopo tre figlie morte successivamente a poca distanza dalla nascita, egli lo chiamò per devozione Nicola, mettendolo così sotto la protezione del massimo santo ortodosso, di quello che, secondo la leggenda russa, deve ereditare da Dio, divenuto finalmente troppo vecchio, l'impero del cielo.

Ma il bambino si sviluppava così malaticcio da inspirare continui timori di morte. Il padre, robusto e colossale, non poteva persuadersi di tale mingherlina struttura, prodotta forse dai proprii eccessi alcoolici. Poi Nicola cominciò a mostrare molto ingegno, e il padre se ne compiaceva, come di un elemento amabile di conversazione, senza un sospetto dei pericoli, che tale superiorità potesse attirare sopra un pope, legato all'altare come un servo alla gleba, nel più orribile degli isolamenti.

A sedici anni Nicola, avendo compiuto il corso del seminario diocesano, entrò nell'accademia di Kief, una delle quattro maggiori, e vi si fece tosto notare sfavorevolmente per la energia indomabile dello spirito. In quella vita tumultuosa di collegio egli fu uno dei più calmi e, nel medesimo tempo, dei più insubordinati; invece di abbandonarsi, come tutti i suoi compagni, a quegli scandali col vino e colle donne, divenuti popolari in Russia dopo le novelle di Pomialovsky, un figlio di pope morto a trent'anni di miseria e di stravizî, egli divenne il precettore della loro incredulità e il capitano delle loro rivolte. Tale iattanza di indisciplina, troppo frequente nei seminari russi per mettere pensiero ai superiori, perchè tutti quei chierici mal'educati andrebbero poi ad esaurirsi nella solitudine delle parrocchie senza poterne alterare la vita tradizionale, assunse allora per opera di Nicola proporzioni più gravi. Si dovettero adoperare più spesso le verghe, benchè da poco tempo abolite; Nicola stesso vi passò più di una volta. Naturalmente il supplizio, da lui sopportato con stoicismo feroce, mutò il suo disprezzo per la religione in odio, e la sua miscredenza in pessimismo. Di ribelle crebbe a nemico. Quindi raddoppiò di ardore negli studi, leggendo di straforo tutte le opere di esegesi ecclesiastica, distruggitrici della verità cristiana, che allora uscivano dalle grandi università tedesche. Poi a scuola le sue obbiezioni, presentate sempre colla più sottile ironia, impacciavano spesso il professore, sino ad impedirgli la risposta fra lo scherno della scolaresca, mentre la sua empietà, più profonda degli stessi misteri cristiani, trovava sempre un dubbio dopo qualunque prova, o inventava una avvilente interpretazione umana pei dogmi più divini.

A poco a poco s'impose ai professori.

Era piccolo, magro, con una fisionomia quasi di donna, che avrebbe potuto essere bella, se un avvizzimento precoce non l'avesse sciupata. Aveva la fronte alta e ripida del combattente, la bocca un po' storta, quasi dolorosa, specialmente dopo aver parlato, e allora i suoi occhi stranamente neri lanciavano spesso occhiate, che parevano bestemmie. Nè al seminario, nè all'accademia aveva contratto vere amicizie; i suoi compagni più invidiosi lo dicevano senza cuore, ma allorchè un vecchio maestro di storia ecclesiastica, ammirato del suo ingegno, gli consigliò di entrare nei monaci per avere così l'adito ai più alti gradi della chiesa, egli rispose freddamente che non poteva abbandonare i genitori.

— Non desideri piuttosto di prender moglie?

— Credete la fornicazione dei monaci meno voluttuosa del matrimonio? ribattè Nicola.

Infatti, accettando la propria condizione, sposò per essere ordinato pope la figlia di un curato vicino, e tornò nella propria parrocchia a sostituirvi il padre, reso impotente dalla continua ubbriachezza. Ma in questa decisione l'amore di famiglia era entrato ben poco; era stato piuttosto uno scoramento disperato a rigettarlo entro l'orbita infrangibile della chiesuola paterna, mentre la religione non gli parerà che una volgare commedia, doppiamente necessaria all'ignoranza dei mugiks e all'autocrazia dello Stato. Egli avrebbe dovuto egualmente servire dovunque; anzi, salendo nella gerarchia, la necessità di mentire sarebbe cresciuta ad ogni scalino, consolata solamente dalla crudele comodità di poter tiranneggiare qualche povero curato.

Non ne valeva la pena.

Allora ogni rivoluzione era impossibile. Non restava che vivere da sè stesso, scorazzando come un cosacco a cavallo pei campi della fede, divertendosi a saltare gli ostacoli, davanti ai quali tutti s'inginocchiavano. Nessuno ne avrebbe mai sospettato, ma che importavano gli altri? Sapere per sapere era la divisa del suo giovane orgoglio. Laonde organizzò la propria piccola vita. Era povero; sua moglie, Maria Alexewna, non gli aveva portato che trecento rubli di dote; la chiesa non possedeva che dodici desiatine in terreno, poco più che dodici ettari, ma la metà solo era devoluta al pope. Tre desiatine andavano al diacono, il resto si divideva in parti eguali fra il cantore e il sagrestano. Poi le terre erano tutt'altro che di prima qualità. Con sì magre risorse la famiglia stentava dolorosamente la vita. I contadini, che avrebbero dovuto lavorare gratuitamente i campi della chiesa, gettandosi l'un l'altro la soma, finivano spesso coll'evitare quest'obbligo e lasciare il curato nella più crudele perplessità, giacchè al tempo dei lavori la scarsezza delle braccia rendeva difficile il trovarne, quand'anche, e il caso era piuttosto raro, egli ne avesse avuto il danaro sufficiente. Negli ultimi anni, il vecchio pope era stato costretto più di una volta a condurre da sè il proprio aratro.

La miglior rendita era sempre il casuale; ma anche di questa una grossa parte era riserbata alle case della diocesi e del Santo Sinodo, così che al pope non rimaneva che l'incasso dei battesimi, dei matrimoni, delle confessioni, dei funerali, perchè in Russia tutti i sacramenti si pagano, e tre o quattro giri annui pei campi, benedicendo le messi o maledicendo agli insetti, che le guastavano. Ma anche quest'ultimo ricolto bisognava contenderlo agli stregoni, spesso più creduti dei pope dai contadini.

Il noviziato fu duro.

Per quanto figlio di pope ed allevato in una famiglia, ove l'abitudine secolare aveva tolto ogni ripugnanza a tali mercati rendendone come incosciente l'ipocrisia necessaria, Nicola, nella propria nuova superbia di libero pensatore, ne soffriva. Il suo profondo disprezzo per la ortodossia diventava passione, quando doveva servirsene fatalmente per carpire a quei poveri mugiks tanto da vivere; quindi ogni discussione sul prezzo di un sacramento con loro, usi a difendere sino agli estremi i propri scarsi kopeks, lo esasperava oltre ogni prudenza. Avrebbe voluto cacciarli di casa a pedate, gridando loro che la religione era la più stupida delle truffe, e Dio il più malvagio dei fantasmi; ma le strettezze della famiglia glielo vietavano. I suoi vecchi genitori erano ammalati, il diacono, il cantore e il sagrestano instavano per la riscossione di questi piccoli emolumenti, sui quali era loro devoluta una quota, e venivano a parlare con lui delle funzioni necessarie, abbandonandosi a tutti i calcoli del mestiere coll'ingenuo impudore di una ignoranza non priva di fede. Egli solo, ateo, s'irritava talora alla poca meraviglia, che essi facevano del suo ateismo; nemmeno sua moglie Maria Alexewna se ne commuoveva.

Ella pareva non occuparsi apparentemente di nulla. Era una bella donna dalla fisonomia calma, con una meravigliosa capigliatura bionda, che le si ammassava sulla testa come un cimiero. Il suo volto ovale si appesantiva leggermente nella parte inferiore, mentre le guancie le sfumavano nel collo, tondo e grasso, di un bianco quasi troppo puro. Camminava lentamente, cogli occhi grandi intontiti, e un'aria di stanchezza, che la faceva sembrare più bella, irritando gli stessi desideri, che ispirava. Aveva gli occhi cilestri, le mani paffute e affusolate, i piedi piatti, le orecchie piuttosto grosse; ma la sua bocca larga, senza essere sensuale, mostrava i denti grandi, di una bianchezza lucente dietro il rosso umido delle labbra. Cantava con voce di soprano, gelida e pura.

Il marito la trattava bene senza amarla; Maria Alexewna invece lo adorava.

Da principio le era appena piaciuto. Poi quell'uomo, sempre in orgasmo, violento ed infelice, che parlava a scatti, nel quale il pensiero aveva dei riflessi di incendio e la parola dei murmuri di tempesta, l'aveva affascinata. Ella aveva subìto la sua prima foga maschile in uno stordimento, dal quale non era ancora del tutto rinvenuta, e nel quale s'immergeva volta per volta come in un bagno di vapore. Presso a lui si sentiva fiorire, ma non glielo diceva, non sapendo nemmeno come mostrarglielo, mentre egli la credeva fredda e di una intelligenza meno che mediocre. Talvolta quella calma lo esasperava: ella invece lo involgeva nel proprio sguardo limpido, dominandolo colla sicurezza di un amore sano e tranquillo.

Perfino le sue continue bestemmie non la turbavano. Ella considerava la religione come un mestiere di famiglia, non troppo buono, perchè tutte le sue memorie e i discorsi intesi dalla gente della sua casta erano di lagnanze; però in fondo alla religione v'era un'altra cosa, che tutti i pope ammettevano, per la quale talora officiando sembravano trasfigurarsi. Quando Nicola, avventandosi contro l'idea di Dio, ricadeva sopra sè stesso, nello spasimo inconsolabile di sentirsi prete e di non potere essere altro, ella non vi dava più importanza che ai tanti sfoghi, spesso consimili, uditi nella propria famiglia.

— Tu credi in Dio, tu!? egli le gridò una volta.

— Non lo vuoi?

— E che m'importa?

— Farò come desideri.

Questa sublime semplicità lo scosse.

Ma invece di rassegnarsi a quella vita, egli se ne crucciava ogni giorno più. Poi gli morirono il padre e la madre; dovette prendere un altro diacono, mutare il sagrestano. Quando tutti questi cangiamenti furono compiti, egli avvallò nella più desolata misantropia. Aveva esaurito ogni eventualità della vita; d'ora innanzi che cosa potrebbe più accadergli in quell'esilio dal mondo? La morte della moglie? I canoni gli impedirebbero allora di prenderne un'altra; solamente per una benigna e recente interpretazione gli si permetterebbe di seguitare nell'esercizio della parrocchia. Ma egli se ne andrebbe piuttosto, non sapeva dove, ma fuori della Russia, a morire almeno non prete, libero come tutti gli altri uomini.

Col nuovo diacono si vedevano il meno possibile. E siccome in Russia il sacerdozio è interdetto ai diaconi come il vescovado ai pope, quegli era al solito un chierico non passato agli esami, e condannato quindi tutta la vita al servizio subalterno dell'altare. Era di piccola statura e di poca voce, coi capelli crespi e la faccia terrea; si chiamava Popiel. Nicola fiutando in lui un nemico, n'ebbe quasi piacere, per battagliare almeno con qualcuno, ma l'altro si mostrò quasi servile, e rimase scapolo.

Nicola viveva nella piccola casa, rifabbricata dal padre coi propri danari, a fianco della chiesa. La casa in legno aveva una stalla per la vacca, della quale il latte era un gran sollievo per la famiglia; ma, segno di vera miseria, Nicola non teneva cavallo. Quindi, allontanandosi dalla chiesa, doveva chiederne uno a qualche contadino.

Quanto al padrone del villaggio, assente da molti anni, Nicola si ricordava di averlo visto solo due volte da fanciullo; era un signore, il principe Khovanski, discendente di Guidemino, dell'antica casa di Lituania nota in Europa sotto il nome dei Iagelloni, nobiltà di primo ordine, la sola capace di lottare con quella dei discendenti di Rurik. Era celibe e ricchissimo. Possedeva nel paese quarantamila ettari, così, che per ispezionare tutte le proprie terre, doveva più volte mutare di cavalli; ma non vi aveva soggiornato che a grandi intervalli. Il vecchio pope si era sempre lagnato de' suoi modi soldatescamente aristocratici. Giammai era stato ricevuto al castello, nemmeno per pasqua, quando faceva il giro di tutte le case benedicendo; non gli si lasciava oltrepassare il vestibolo, ove i servitori sguaiati gli offrivano la vodka, gettandogli nel paniere l'elemosina.

Nullameno il vecchio pope non aveva mai smesso quella pratica, e perchè l'elemosina del principe era la più abbondante, e per non attirarsi con un atto di ribellione la sua inimicizia. Nicola invece, profittando dell'assenza del padrone, si era contentato di mandare solamente il diacono a benedire il castello, sebbene se ne fosse mormorato nel villaggio; ma l'intendente non glie ne aveva detto parola.

Nell'immenso fermento ideale suscitato in Russia dalle dottrine di Hegel, questi sembrava esservisi sostituito a Napoleone, spostandola nuovamente dalla sua base storica. Un inconsolabile dolore occupava allora l'anima russa. Dopo che Napoleone aveva sommosso colle proprie legioni tutta la terra russa, Hegel ne aveva, col proprio pensiero, mutato il cielo. Nei circoli intellettuali non si poteva più essere russi che negando ogni valore al passato per scagliarsi attraverso l'Europa, ad un avvenire ancora troppo lontano per l'Europa stessa.

Nicola si era slanciato sull'hegelianismo come un areonauta, che abbandonando la terra vi getta appena uno sguardo per misurare tutta la distanza già percorsa; ma se nel fervore del primo entusiasmo aveva creduto alla nuova dottrina colla fede di un neofita, presto il freddo di tutte quelle astrazioni lo sorprese. Il suo pensiero russo soccombeva al giuoco di quella dialettica, insopportabile a forza di essere invincibile, e che dissolveva ogni realtà della vita in una serie di controposizioni teoriche. Siccome per Hegel il dolore era un'ombra, attraverso la quale l'anima doveva passare per essere più bianca, Nicola sentiva così degradati tutti i propri patimenti. Perchè soffriva egli dunque tanto, se ogni punto della vita non era che un passaggio, e la verità e la felicità erano solo nella coscienza intellettuale di tutti questi trapassi? Egli si ribellò. Come un areonauta assalito nell'etere più puro dalla nostalgia della terra, lacerò il proprio pallone per ricadervi almeno cadavere.

Quindi da Hegel precipitò su Schopenhauer, concependo il mondo come una demenza della volontà divina, che il pensiero poteva interrompere colla propria morte. Questo nuovo sistema, allora nella massima voga, lo ubbriacò di dolore e di vanità. La sua prima ribellione al cristianesimo, dietro le critiche di Feuerbach e di Strauss, non gli parve più che ben piccola; altre rivolte gli si accesero in cuore, altri odi lo sollevarono terribilmente in alto contro tutte le autorità della terra. Se la vita era naturalmente infelice, tanto peggio per essa; ma perchè era anche socialmente sventurato? Perchè alcuni profittavano di tutti i suoi pochi beni, spingendo la miseria degli altri fino alla morte? Quantunque segregato dal mondo, col quale comunicava mediante libri e giornali, e gli uni e gli altri gli erano prestati da un condiscepolo d'Accademia, divenutovi professore, egli sentì la nuova tormenta. Qualche gran cosa si preparava nella storia. Mentre il volgo innumerevole dei mugiks seguitava a vivere nella stessa brutalità millenaria, quanti in Russia pensavano erano in preda agli spasimi della concezione. L'incredulità, già secolare nell'aristocrazia, era discesa nella classe dei mercanti; nessuno credeva più a nulla. Il governo era appena un'amministrazione, nella quale si entrava per la paga, l'ortodossia non serviva più che alla superstizione delle plebi rusticane, la filosofia stessa si sgretolava sotto i colpi della scienza. Darwin, alla testa di tutti i grandi naturalisti, dissipava i vecchi sistemi ideali; bisognava vivere nella natura, profittando di ogni sua risorsa, cancellando nella sua eguaglianza tutte le differenze sociali. I poeti cantavano già dinanzi alla rivoluzione, come gli alcioni prima della tempesta: Ogareff e Negrassof gettavano sospiri ed imprecazioni, Lermontoff era morto tragicamente, Hertzen da Londra col suo Kolokol, la campana, suonava i vespri della vecchia società; Tcherniscevskj, maggiore di tutti, povero figlio di pope, riunendo la scienza di Proudhon all'eloquenza di Lassalle, scrollava i cardini dell'impero e di tutta la vecchia economia. Il suo romanzo « Che fare? » in risposta a quello di Hertzen « Di chi la colpa? » era diventato il vangelo della nuova generazione. E Tcherniscevskj era stato deportato in Siberia: tanto meglio! I martiri abituano i timidi alla morte.

In preda al delirio di una rivincita, della quale gli sfuggiva la formula, egli declamava seco stesso dal fondo del proprio villaggio, paragonandosi a Tcherniscevskj. Ah! era tempo di rovesciare questo barocco edificio cristiano, e di riaprire il tribunale della coscienza umana per citarvi tutte le istituzioni sociali. Spesso il giudice s'addormenta e la ghigliottina s'irrugginisce, mentre quanto è falso trionfa nell'orgoglio dell'impunità: ma basta un colpo, talvolta lieve come un alïare di farfalla, per destare il giudice, e una terribile giustizia ricomincia. Allora nessuna pietà a quelli che non ne ebbero, perchè ogni misericordia ricondurrebbe il passato; o giustiziare e procedere, o graziare e cadere a mezzo il cammino.

In questo tempo gli nacque Loris.

Erano gli anni dell'emancipazione dei servi: Loris nacque nel 1862, d'estate, quando tutta la natura era in festa. Il padre ne delirò. Quella nuova vita, che rampollava dalla sua, fu per lui una riconciliazione.

Profittando di un'assenza del diacono, non battezzò il bambino, e disse poi di averlo fatto, perchè non crescesse col peccato originale della religione. La moglie non lo seppe mai; d'altronde Loris figurava sul registro della parrocchia. Ma la miseria in casa era cresciuta da tutte quelle idee ribelli. Da molto tempo egli non domandava più ai mugiks il prezzo dei sacramenti, e questi, invece di essergliene grati, ne lo disistimavano maggiormente. Quando soppresse l'uso di dare loro un bicchiere di vino caldo, subito dopo la comunione, ricevendone il prezzo come un'elemosina sopra un bacile, il malumore crebbe spaventosamente; però una circolare del Santo Sinodo venne per caso a sostenere questa sua arbitraria riforma. Poi nella confessione non faceva più ai penitenti la domanda sacramentale: hai tu peccato? Ma li assolveva gratuitamente prima che avessero parlato. Non potendo abolire le feste dei santi, vi attese con negligenza, nel dire la messa alle domeniche talora parve più che distratto. Però una volta gliene incolse male durante una siccità. Avendo sulle prime ricusato di far le solite preghiere, e poi benedetti i campi invocandovi indarno la pioggia, i contadini, già sospettosi della sua fede e sobillati dal diacono, lo afferrarono e lo tuffarono nel fiume per ottenere così la pioggia con questo nuovo battesimo inflitto al curato.

Egli ne ammalò.

Il suo odio ai mugiks crebbe per la ingratitudine, che opponevano a tutti i sacrifici delle sue riforme, e per la cocciutaggine, colla quale passavano agli stregoni il danaro loro risparmiato nei sacramenti. Eppure egli tollerava anche gli stregoni, dicendo che non valevano meno di lui.

Un'altra volta fu redarguito severamente dal protopope, ispettore del clero; ma fu prudente, e tacque pensando a Loris.

Il fanciullo cresceva bello ed intelligente; aveva il volto del padre e il corpo della mamma. Era biondo, agile e robusto come un lupetto. Il padre guardandolo si sentiva spinto verso lui da impeti di ammirazione; la madre invece, Maria Alexena, non pareva sorpassare l'affetto ordinario delle donne pei bambini. Tutta la sua passione era per il marito, del quale subiva ogni più stravagante volontà, come quelle riforme che si risolvevano in tanti disastri domestici.

Nicola si era fatto l'istitutore di Loris per educarlo, come James Mill aveva fatto col proprio figlio Stuart, divenuto poi il più illustre economista dell'Inghilterra. Quindi, invece di insegnargli il russo, gli parlava greco leggendogli Omero in luogo della bibbia. I primi libri, che gli pose in mano, furono di scienze naturali, poi gli raccontò la storia come una trama di delitti commessi dai potenti sugli umili, attraverso la frode di tutte le religioni ingannanti i miseri con una speranza ultramondana. Egli, che detestava i mugiks, s'inteneriva talvolta, parlando con Loris, della loro condizione; ma i nemici erano i ricchi, coloro che governavano a Pietroburgo, i nobili, i funzionari, i soldati, tutti. A ogni strettezza economica, quando in cucina mancava il pane, o Loris aveva freddo, ed egli faceva dalla moglie disfare uno dei proprii abiti per riadattarlo al fanciullo, la sua passione scoppiava in un delirio di parole.

— Tientelo a mente, figlio mio!

Una volta, il giorno prima della festa di S. Elia, lo condusse in chiesa; il ragazzo aveva già passati i dieci anni.

Tutto era pronto. La chiesa piccola, in quell'ora e in quella luce, sembrava più solenne; dinanzi all'iconostase bruciavano alcuni ceri. Loris, che per la propria età era fin troppo sviluppato, e in quella violenta educazione aveva perduto la gaiezza primaverile, s'accorse dal viso del padre che stava per dirgli qualche cosa d'importante. Infatti questi gli aperse le porte dell'iconostase, che solamente lo Czar può varcare il giorno dell'incoronazione, mostrandogli il tavolo, sul quale durante la messa, invisibile agli occhi dei fedeli, avveniva la consacrazione. Poi gli spiegò nuovamente tutti i santi, le loro immagini comprate sui mercati, incoronate da diamanti finti, rilevate sopra un fondo di oro falso; gli ridisse con poche frasi tutta la propria vita, l'umiliazione di quel mestiere di pope, la miseria di quell'esistenza priva di scampo, assicurandolo che lo avrebbe allevato per tutt'altra carriera. Egli lo lascierebbe libero nella scelta, ma doveva essere una carriera di rivincita; quando Loris sarebbe uomo, o la rivoluzione sarebbe già scoppiata, o starebbe per scoppiare.

— Io sarò vecchio allora, se pure sarò vivo, perchè mi uccido per te. Non importa, ma dovrai vendicarmi. Guarda, questa è la chiesa. Gli uomini l'hanno costrutta per alloggiarvi Dio, come si fabbrica una stalla per la vacca; davanti a questi muri vengono a pregar Dio, che non c'è, e che dovrebbero odiare, se ci fosse. Nullameno, e la voce gli tremava, questo è il luogo che gli uomini credono più sacro sulla terra; se non è il tempio di Dio, è il cimitero di tutte le loro speranze. Tu sei ora in stato di comprendere: devi giurarmi di vendicare un giorno tutto ciò, che il mondo ci avrà fatto soffrire.

Il ragazzo aveva impallidito.

Il padre lo lasciò un istante per andare dietro l'iconostase, e ne ritornò con una pisside.

— Ecco il Dio degli uomini! Essi credono di nutrire le loro anime con queste ostie, mentre non hanno spesso abbastanza della medesima farina per satollare il loro stomaco.

Loris sollevò in faccia al padre i begli occhi verdi.

— Perchè ti sei fatto pope? esclamò cacciando fanciullescamente la mano dentro il vaso, e traendone alcune ostie, che si sgretolarono.

— Dovessi tu essere stritolato del pari, giurami che combatterai.

— Sì, babbo, rispose il ragazzo, lanciando in aria tutte le briciole sacre, che ricaddero lentamente come tante farfalle bianche.

Quando uscirono dalla chiesa, il padre gli disse a bassa voce:

— Non dirai niente alla mamma.

Quella scena, della quale Loris conservò uno indelebile ricordo, agì potentemente sulla sua immaginazione. Il giorno stesso il padre aveva ricevuto dal vescovo una lettera di avviso, che la sua parrocchia non sarebbe compresa nell'elenco di quelle soccorse dal bilancio dei culti; quindi sospettò di cattivi rapporti mandati sul conto suo al vescovado. Il diacono Popiel, recandogli la lettera, pareva infatti più ilare. Questi, avendo fatto una piccola eredità e conoscendo le orribili condizioni del pope, sperava di poterlo dominare, se la miseria gli crescesse ancora; ma in fondo covava una lubrica passione per Maria Alexewna, alla quale non aveva mai osato rivolgere la più piccola parola di confidenza. Ora tutto cospirava in suo favore; i contadini non avevano lavorato le terre della chiesa, e avevano giurato di non farlo per punire il pope della sua irreligione. Nicola, troppo altero per raccomandarsi, aveva messo il colmo alla loro esasperazione, mandando solamente il diacono a benedire le case nel giro di pasqua. Poi gli era morta la vacca; e di debito in debito aveva dovuto scendere a contrarne uno col maggiore degli stregoni, che abitava nel villaggio vicino. Questi se ne era vantato, moltiplicando lo scandalo.

Nicola vi opponeva il più nervoso disprezzo, ma la posizione della famiglia l'angosciava. Come vivere? Come educare Loris? A chiedere per lui una borsa in un seminario, espediente cui ricorrevano quasi tutti i pope, magari col proposito di sottrarre poi i figli al sacerdozio, Nicola non ci pensava nemmeno. Nel suo concetto Loris doveva crescere mondo di quella scabbia, che a lui aveva per sempre guastata la vita. Egli si sentiva abbastanza dotto per proseguire la sua educazione, ma capiva che a Loris occorreva sopratutto la vita del mondo, fra gli uomini, che avrebbe un giorno dovuto dominare, perchè l'ingegno del ragazzo si rivelava ogni giorno maggiormente. La sua serietà precoce, il suo coraggio, l'alterezza che gli faceva già ripudiare la mamma, e non piegava più che dinanzi alla dottrina del padre, lo rendevano stranamente singolare. Popiel lo temeva; i mugiks invece si erano innamorati della sua bellezza e del suo contegno signorile.

Ma il ragazzo, affettando una indifferenza spartana per ogni genere di pasto, provava già nell'anima un dolore spasmodico per la miseria dei propri abiti.

Quel giorno, essendo a caso entrato nella camera del padre, lo vide abbandonato sullo scrittoio piangendo; poi sopravvenne la mamma, che pianse anche lei.

— Quest'inverno non ci sarà più nulla in casa.

— Ci faremo cosacchi, disse Loris; prenderemo i due cavalli a Ivano Serguevich (era questi il più ricco contadino) uno fra i mangiatori del mir, e ci metteremo in campagna ad assaltare i ricchi.

Maria Alexewna si mise le mani nei capelli con un gesto di orrore, ma il ragazzo, che si attendeva un bravo dal padre, vedendolo tacere, uscì indispettito. Poi la miseria crebbe ancora. Tornò l'inverno e la neve ricoperse tutta la steppa. I mugiks, sepolti dentro le isbe, non ne uscivano più che alla domenica per venire alla parrocchia; essi conoscevano la miseria del curato, così dolorosa che a certi giorni gli mancava la legna per la stufa e non aveva da mangiare; ma che importava loro? Era la pena della sua empietà. Perchè qualcuno del clero non soffrirebbe, almeno una volta, la loro miseria? Diacono, cantore e sagrestano non andavano più da lui che per ragioni di ufficio, aumentando colle insinuazioni il suo discredito nel popolo. Egli taceva con loro, ma si sfogava in casa colla moglie e con Loris. Da un viaggio a piedi sino a Voronege, per domandare soccorsi ad un antico compagno di scuola, non n'era tornato che con pochi rubli ed alcuni libri per Loris. Quindi, per disperazione, si diede alla caccia nella foresta dipendente dal castello, lontana dalla chiesa dieci verste, tirando su tutto, anche sui lupi, che portava a casa a pezzi, scuoiati, per ingannare la moglie e il ragazzo. Loris studiava i libri, che già conosceva; dopo il greco aveva imparato il latino, poi il tedesco, sapeva i classici; era passato attraverso la bibbia, e la sera il padre lo istruiva nella teologia, rivoltandone tutto il significato. Ma Loris non parlava quasi mai colla mamma. Finalmente un giorno volle accompagnare il padre a caccia, armandosi di una accetta, perchè in casa v'era un solo fucile.

Quella nuova vita nella foresta, piena di caverne abbandonate, ove si riposavano per cuocere sulle bracie la carne degli animali uccisi, gli fece bene. Partivano la mattina e non tornavano che a notte; un mugik settario del Raskol, Andrea Arsenief, col quale Nicola era sempre stato cortese iscrivendolo senza compensi sul libro di coloro, che frequentavano la chiesa, regalò a Loris un grosso veltro capace di affrontare il lupo. L'intendente del principe Kovanski gli diede una cagna da caccia, piccola ed intelligente. Allora Loris fu felice quando la sera, offrendo alla mamma un pezzo di carne, gli sembrava di presentarle un trofeo; ella accettava con un sorriso, ma ne mangiava di rado.

Vi erano nullameno i giorni tristi, nei quali era impossibile sorprendere alcun animale. Allora per la foresta il freddo cresceva, e li coglieva la paura d'incontrare una banda di lupi. Infatti una volta, che dovettero battersi contro cinque o sei di essi, la cagnina rimase sul terreno. Loris era stato meraviglioso di coraggio. Invece di mettersi dietro al padre, come questi gli ordinava, si era slanciato contro quelle piccole ma terribili belve, roteando la scure per difendere Aiace, l'altro grosso cane. Nicola, non osando far fuoco pel timore di colpire il ragazzo, si era precipitato col fucile brandito a mazza. Tre lupi erano rimasti morti, gli altri erano fuggiti.

Loris aveva ricevuto un morso in una gamba, ad Aiace penzolava un orecchio, ma armato di un grosso collare di ferro a punte, si era difeso eroicamente. L'indomani Nicola volle proibire a Loris d'accompagnarlo.

— Perchè hai tu paura per me, se mi dici sempre che non dovrò aver paura di alcuno?

Il padre lo abbracciò.

Ma il guaio peggiore era la mancanza di legna. A casa la povera Maria Alexewna non aveva come scaldarsi, mentre il termometro segnava venticinque gradi sotto lo zero, e quindi stava la maggior parte del tempo a letto. Cucina in casa non se ne faceva. Una sera Loris tenne tanto a bada il padre nella foresta, che questi si impazientì; ma allora il ragazzo, invece di rispondere, si mise coll'accetta a tagliare della legna e ne fece due fasci, che portarono a casa trafelando, meno ancora per la fatica che per la paura di essere visti. Nullameno la mamma si ammalò gravemente. La disperazione li sorprese; nella parrocchia non c'erano medici, nemmeno un felschéry, uno di quei flebotomi, che li sostituiscono. Per far venire un dottore da Voronege sarebbe occorsa una somma impossibile a raggranellare, anche vendendo le poche ultime masserizie. In quei giorni padre e figlio non si parlarono più. Vegliavano insieme l'inferma, che non mangiava e non beveva passando da una dormiveglia ad un coma profondo. I denti le erano diventati neri e gli occhi vitrei. Alcuni mugiks portarono un po' di vodka con un paio d'oche per fare il brodo; dopo due settimane l'intendente mandò una mezza bottiglia di cognac. Non vi furono altri soccorsi. Loris si era offerto di andare a piedi sino a Voronege per cercare un medico, che venisse gratuitamente, ma il padre a questa sua generosa inesperienza rispose con un sorriso straziante. Nullameno egli doveva soffrire un più insopportabile tormento, quando fra la messa della domenica era costretto a cantare coi mugiks una preghiera a Dio per la guarigione di lei.

Finalmente dovette ricorrere per danaro a Popiel, che lo desiderava da lungo tempo. Nicola lo odiava come la propria spia; ma egli solo poteva in quel momento soccorrerlo. Infatti gli diede venti rubli, mostrando molto desiderio di vedere l'ammalata. Nella camera di Maria Alexewna sempre chiusa per la paura del freddo, il fetore si era fatto così acuto, che il diacono entrandovi si senti come respingere dalla soglia. Loris, pallido e disfatto, stava al capezzale, asciugando il sudore dell'ammalata con un fazzoletto sudicio; ella pareva già morta. Popiel uscì, ancora più nauseato che atterrito, rimpiangendo i propri venti rubli.

La malattia durò quattro mesi; poi coll'inverno la miseria crebbe ancora. La convalescente avrebbe avuto bisogno di cibi cari e sostanziosi, mentre in casa non si mangiava che pane di segala, e qualche volta un po' di pesce salato. Ella pareva intontita, li riconosceva appena. L'appetito le tornava lentamente fra mezzo a nausee e a inappetenze nervose. Un giorno Loris le presentò un pezzo di merluzzo fresco, che imponendo silenzio al proprio orgoglio, era andato a chiedere ad Andrea Arsenief, il settario del Raskol; ella lo respinse con un gesto di disgusto.

Loris si morse le labbra a sangue per frenare una imprecazione.

Ma ella non guarì più. Rimase sempre così magra, di un bianco giallognolo, con una piccola tosse, che ogni tanto le scuoteva il petto. La miseria l'uccideva. Finalmente anche Nicola ammalò, quantunque non volesse porsi a letto. Che cosa sarebbe stato di Loris in questo caso?

Il ragazzo, oramai di quattordici anni, ne mostrava molti di più; il suo volto era di uomo, sul quale la vita ha già impresso le proprie stimmate dolorose. Adesso Nicola avrebbe voluto farsi pagare i sacramenti dai mugiks, ma questi, abituati a riceverli gratis, gli promettevano furbescamente il danaro senza darglielo. Allora minacciò che all'Epifania non avrebbe mandato nemmeno il diacono a benedire le loro isbe; ma Popiel si ribellò, dicendo che avviserebbe il vescovo, o farebbe magari di propria iniziativa il giro delle benedizioni. Ne nacque una scena.

Un mese dopo il vescovo di Voronege, Dmitri Telivanof, venne in visita al villaggio con una vettura a quattro cavalli, un arciprete e due chierici. Nicola, che avrebbe dovuto andargli incontro oltre il villaggio ed ospitarlo nella propria casa, trattandolo lautamente per deferenza al grado e per decoro proprio, invece lo attese nella camera della moglie, che in quei giorni stava peggio.

Il vescovo già male prevenuto, si mostrò più severo. Nicola, che si era imposto la massima prudenza, tacque a tutte le sue critiche, ma quando con villana ironia Dmitri Telivanof alluse a quel ricevimento troppo magro, invitandosi da sè stesso in casa di Popiel, scoppiò:

— Sono undici mesi che io, mia moglie e mio figlio soffriamo la fame.

Il vescovo gli offerse allora un biglietto da venticinque rubli.

— La mia parrocchia aveva il diritto di essere inscritta sul bilancio dei culti, io non ho il dovere di ricevere la vostra elemosina.

L'altro divorò l'ingiuria, partendo subito accompagnato umilmente sino alla carrozza da Popiel, dal cantore e dal sagrestano. Nicola finse di non poter abbandonare nemmeno per un momento la moglie, ma da quel giorno si senti perduto. Nullameno ebbe ancora una soddisfazione. Il vescovo, nell'andarsene, si era fermato al castello, ma il principe Kovanski, ritornatovi da poche settimane, anzichè riceverlo, sapendo della fiera risposta toccatagli alla parrocchia, aveva mandato al pope un paniere di bottiglie e molta selvaggina.

Questa volta Nicola aveva accettato.

Ma quella lotta insensata contro la propria condizione lo esauriva; sua moglie decadeva ogni giorno più, egli stesso si sentiva morire senza che nessuna delle sue idee avesse avuto nemmeno l'onore di una vera battaglia. Che cosa sarebbe di Loris, quando la parrocchia toccherebbe ad un altro pope? Egli non possedeva che quella casetta, insufficiente per pagare i debiti più vergognosi; Loris, fanciullo senza parenti, senza amici, senza educazione, senza danaro, come e dove vivrebbe? Ora si pentiva amaramente di essere padre. I tremendi sillogismi di Schopenhauer contro la vita gli tornavano nella memoria. Perchè essere padre, quando non si può nemmeno assicurare il sostentamento al proprio figlio? A certi momenti guardava Loris con umiltà.

— Forse l'anno venturo sarai solo, gli disse con voce spenta, stringendogli la mano.

Il ragazzo trasalì.

— Non dubitate; ho sofferto abbastanza.

Nicola scosse il capo.

— Sarai solo! ripetè, e il suo sguardo malinconico sembrava perdersi nell'avvenire del figlio, come quello del pellegrino sulla steppa, quando annotta.

Malgrado tutte quelle minaccie ai mugiks, Nicola si decise per l'Epifania a fare benedicendo il giro delle isbe per raccogliere dalle offerte di che sostentare sè stesso e la famiglia per qualche settimana. Loris, indovinando quel supremo sacrificio, partì per la foresta; Maria Alexewna si rimise a letto. Nicola, costretto a bere la vodka in tutte le isbe, cadde svenuto a mezzo il giro così che i mugiks lo riportarono a casa in branco, sghignazzando e cantando il solito proverbio: « La croce è di legno e il pope è ubbriaco ». Siccome in casa non c'erano domestici, e il diacono col cantore e il sagrestano avevano seguitato il giro. Maria Alexewna dovette alzarsi per mettere il marito a letto. Nicola rinvenne, dopo due ore, sotto l'azione della febbre.

Alla sera Popiel mandò il raccolto delle offerte, che non era mai stato così magro. Evidentemente diacono, cantore e sagrestano lo avevano decimato, ma, siccome il principe non era al castello, mancava l'elemosina principale. L'indomani Nicola era già in piedi; non voleva ammalarsi. Anche Maria Alexewna parve rimettersi, però Loris s'accorgeva che i due genitori s'ingannavano reciprocamente sulla loro tristissima condizione. In quei giorni Nicola ricevette gli ultimi scritti di Bakounine, l'implacabile monomane della rivolta, e li passò a Loris senza leggerli.

La propaganda nichilista, allora nella prima fase, stava per chiudersi coll'enorme processo detto dei 193, iniziando quel periodo di terrorismo, che costò poi la vita ad Alessandro II. Ma se nelle città se ne parlava con molto fermento, nelle campagne se ne sapeva ben poco, e nel villaggio di Kourlak la notizia della prima rivolta produsse la più stupida meraviglia. Solo Nicola v'indovinò, tremando, un segno dei tempi. Temeva che Loris, ancora fanciullo, gettandosi nel partito rivoluzionario, vi soccombesse subito miseramente. Qualche volta lo assalivano persino rimorsi di averlo educato così.

Poi, un venerdì, ricevette dal vladika Dmitri Telivanof una circolare, che gli imponeva di tenere qualche sermone ai mugiks nelle domeniche, per inculcare la devozione all'ortodossia e allo Czar, presi di mira dall'empietà rivoluzionaria. Quest'ordine lo esasperò; una conversazione con Popiel, che affettava il più religioso orrore per le idee nichiliste, qualificando di assassini tutti i ribelli, finì di perderlo. Alla prima domenica, durante la messa, al momento di spiegare un passo del vangelo arringò i mugiks; era pallido, si sentiva la febbre, ma dinanzi a quella piccola folla tutta in piedi, e che seguitava a ripetere i soliti interminabili inchini all'altare, gli parve di crescere gigante. Finalmente era venuto il tempo di parlare. Le sue parole, prima rade e fioche, s'affrettarono a grado a grado, salendo di tono e di pensiero; invece d'invocare Dio, evocò tutti i dolori della storia, riassunse la tragedia della vita, si commosse piangendo sul popolo, ed incuorandolo alla speranza. Nè Loris, nè Maria Alexewna erano in chiesa; quegli errava per la campagna, questa non s'alzava da una settimana. Egli li cercò istintivamente collo sguardo, perchè avrebbe voluto essere udito da loro per l'ultima volta.

Popiel lo guardava in sospetto.

Allora tutta la sua ira traboccò. Invece di ubbidire alla circolare del vladika, l'attaccò furiosamente accusando lo Czar, la chiesa e sè stesso della miseria popolare; tutto derivava dalla menzogna dei potenti, e tutto era menzogna in essi. Perchè sperare in un'altra vita la giustizia, che è il primo dovere di questa?

Ma i mugiks, incapaci di comprendere quel discorso, guatavano credendolo impazzito; Popiel cercava di rattenerlo con gesti.

Poi tutto quel bollore gli venne meno all'improvviso così che dovette appoggiarsi con una mano all'altare per non cadere. Il suo pensiero aveva invano esploso in quella chiesa; si mirò attorno come strabiliato. Perchè aveva dunque parlato? Adesso tutto era perduto.

Disse ancora con voce strozzata queste parole:

— Lo Czar è sopra di voi, Dio contro di voi.

Una settimana dopo la carrozza del vladika venne a prenderlo alla parrocchia.

Maria Alexewna dormiva. Egli non andò nemmeno nella camera a vederla; abbracciò Loris, mostrandosi calmo.

— Temi qualche cosa? questi gli disse, alludendo al discorso della domenica.

— No; bada bene alla mamma fino a sabato, quando tornerò.

Sopraggiunse Popiel, che pareva agitato. Nicola lo guardò senza rancore, l'altro non seppe che cosa dire; ma siccome Loris cominciava ad impazientirsi, Nicola invece di baciarlo gli strinse con uno sforzo supremo la mano.

Non ritornò più.

Si seppe che Nicola, quantunque ammalato, aveva dovuto fare tre ore d'anticamera fra i domestici del vescovado; quindi il vladika lo aveva ricevuto con terribile severità rinfacciandogli tutto, la sua vita, le tendenze rivoluzionarie, l'ultimo discorso in chiesa, minacciando finalmente di sconsacrarlo.

— Fate, gli aveva risposto freddamente Nicola.

Dopo queste parole era stato gettato nelle carceri del vescovado; l'indomani nel secondo interrogatorio, Nicola aveva sputato in faccia al vescovo. Era la fine. Il mese seguente partiva per la Siberia, condannato a dieci anni nelle mine, e moriva in viaggio.

Nel villaggio di Kourlak la notizia di questo processo, divulgata da Popiel, aveva prodotto un'altra catastrofe; Maria Alexewna, prevedendo la condanna del marito, aveva tentato di dar fuoco alla chiesa, e si era suicidata gettandosi dalla finestra a capofitto nella neve.

II.

Il principe Anatolio Lukitch Kovanski si era ritirato nel proprio castello di Kourlak per un dispetto di corte. Malgrado una vita di grandi dissipazioni aveva conservato, caso abbastanza raro in Russia, quasi tutte le proprie ricchezze; ma disinganni di ogni fatta, il celibato e la vecchiaia, gli avevano sciupato il carattere, già bizzarro di per sè stesso. Adesso non gli rimaneva più che una nipote, Tatiana Paulowna Neginski, unica figlia di una sua unica sorella, morta vedova qualche anno prima.

Egli aveva raccolto con piacere la fanciullina, finendo naturalmente per innamorarsene. Tatiana cagionevole di salute, era già troppo alta per i suoi tredici anni, magra, quasi cerea; aveva i capelli di un biondo ardente e gli occhi di un cilestro pallidissimo. Con Tatiana erano venute al castello due vecchie cameriere e una istitutrice francese; al resto dell'istruzione il principe pensava di provvedere da sè.

Cresciuto sotto il regno di Nicolò, egli se ne ricordava ancora come di un lungo inverno politico, che avesse congelato la vita russa. Tutte le speranze suscitate dal misticismo di Alessandro I, il sentimentale amico di Madama Krudener, erano state a poco a poco distrutte dal ghiaccio di una politica, che concepiva l'ordine nell'immobilità, e l'adesione dei sudditi nel silenzio. Ma appunto allora era cominciato nella coscienza russa quel fermento ideale, che doveva rinnovellare l'impero secondo lo spirito dell'Occidente. Poi Nicolò era morto, e con Alessandro II le idee riformiste avevano ripreso il sopravvento. Il principe Kovanski, tenutosi sino allora in disparte, sperò una rapida ed illustre carriera politica. Anzitutto conosceva abbastanza bene la Russia, e si sentiva così onestamente liberale da meritare il potere nell'interesse di tutti; ma combattuto dal Santo Sinodo e dalla Terza Sezione rispose troppo imprudentemente, aumentando il numero dei proprii nemici. Alessandro II, sul carattere del quale calcolava, titubò al solito nel sostenerlo. Allora, gettandosi all'opposizione temperata, divenne amico di Milutine, di Samarine e più specialmente del principe Tcherkvassky, il grande terzetto, che doveva dopo infinite lotte imporre a tutta la Russia l'emancipazione dei servi.

Ma il principe Kovanski non vi ottenne la parte che desiderava; già le sue idee non combinavano con quelle dei triumviri, essendo al tempo stesso più rivoluzionarie e più conservatrici. Egli avrebbe voluto concedere subito ai contadini minore quantità di terre, ma senza riscatto, ed organizzare per la borghesia mercantile, e per la aristocrazia a mezzo spodestata, una costituzione con un parlamento ed un senato elettivi. Il popolo, siccome analfabeta, non vi avrebbe partecipato. Senza tale costituzione ogni riforma conchiuderebbe fatalmente ad una lustra, mentre la concessione delle terre ai contadini, coll'obbligo di pagarle in comune, li avrebbe resi più schiavi del mir, che non lo fossero prima dei padroni.

Poi si lusingò di essere assunto, come generale di divisione, al ministero della guerra per la riforma dell'esercito e dell'armata, chiaritisi così male in arnese alla guerra di Crimea. Egli, slavofilo ardente, che sognava per la Russia un primato storico, ben maggiore di quello dei romani e degli inglesi, per iniziare l'ultima grande epoca del vecchio mondo contro la minacciosa rivalità del nuovo, credeva una tale riforma la più urgente fra tutte. Senza una forza guerresca, pari all'estensione dell'impero e al numero de' suoi abitanti, la Russia non potrebbe compiere la doppia missione di conglomerare nel proprio governo tutti gli slavi d'Europa, e d'insignorirsi nell'Asia di tutte le genti maomettane sino all'India. L'Inghilterra, potenza marittima, esclusivamente mercantile, aveva provato in quasi due secoli la propria insufficienza a risolvere il problema asiatico, riallacciando alla civiltà europea i popoli indiani, che ne erano stati i lontanissimi padri. Solo una potenza continentale, così grande da riassumere tutta la vita europea e così vergine da non trovare ostacoli nel proprio passato, poteva colla creatrice energia dei propri immensi contatti rinnovellare l'impero braminico. Così il principe Kovanski comprendeva la Russia.

Ma il principe non arrivò nemmeno al ministero della guerra; si dubitò del suo ingegno, si credette troppo alla sua onestà. Le riforme di Alessandro II, più piccole e più leggiere, scorrevano invece sulla superfice dell'impero senza fecondarlo. Egli già ritirato da qualche tempo all'estero, in una lettera al principe Tcherkvassky, definiva così lo Czar:

«Alessandro I era il dubbio nell'intenzione, Alessandro II è l'indecisione nel processo, solo Nicolò in mezzo a loro aveva potuto rappresentare la sicurezza della reazione.»

A poco a poco il suo spirito si falsò, mutandosi di slavofilo in pessimista. Nulla era più vero nella Russia, ne il governo, nè la rivoluzione, nè l'ortodossia, nè l'incredulità. L'emancipazione dei contadini, alla quale non aveva potuto cooperare, l'irritò. Durante l'estimo delle terre e le trattative del loro riscatto coi comuni, che componevano il suo vasto patrimonio, i mugiks gli apparvero anche più ignobili di prima. Non un orgoglio in essi, non un ideale anche lontano.

Adesso si occupava tratto tratto di agricoltura, inspirandosi ai modelli inglesi, senza poterli applicare per l'insufficienza degli uomini, ai quali era costretto di ricorrere.

Quando venne a stabilirsi nel castello, anche per consiglio dei medici, che credevano la vita dei campi più utile a Tatiana, avvenne appunto la catastrofe del povero pope e di sua moglie; il principe mandò Andrea Ivanovich, il vecchio intendente a prendere Loris, che fu trovato nella casa, accanto alla stufa spenta, col cadavere gelato della madre sulle ginocchia.

Tutto il villaggio era sossopra.

In poche parole Loris disse tutto al principe, le idee e la vita di suo padre, e quanto sapeva della sua morte. Il principe si commosse; Tatiana, sopravvenuta a mezzo il racconto, si rifugiò sbigottita fra le braccia dello zio, guardando Loris ancora così vestito di pelli di lupo, qua e là spelacchiate. Il ragazzo nullameno era bello.

Tatiana sussurrò all'orecchio del principe:

— Tienlo con te.

Questi, mostrandosi più affettuoso del solito, gli offerse tutta la propria protezione.

— Potrete aiutarmi a vendicarmi?

— Ma contro chi?

Due lagrime caddero lentamente per le guancie del ragazzo. Allora il principe gli propose di restare al castello; Tatiana gli sorrideva con simpatia. Egli in quel salotto sontuoso, il primo che vedesse, si sentiva già ammollire dal caldo.

Non pertanto reagì.

— Non farò mai il domestico.

— Eh! ragazzo mio, esclamò il principe con impazienza, avrai dei padroni ugualmente. Tu qui sarai libero, ti prendo per compagno di mia nipote: lo accetti, Tatiana?

Essa gli rispose con un bacio.

— Allora portalo via, e fallo vestire. Ho sempre avuti molti cani in casa, ma non intendo di tenervi dei lupi.

L'amicizia fra i due ragazzi si strinse presto.

Il principe divenne il loro professore.

Ma la dottrina di Loris da principio l'imbarazzò. Loris sapeva molte cose più di lui, il greco, l'antichità classica, conosceva quanto lui il tedesco, era già iniziato alla teologia. Il principe, volteriano, anche dopo che Voltaire era passato di moda, doveva talvolta retrocedere davanti alle terribili negazioni del ragazzo; quindi una mattina lo chiamò nel proprio gabinetto:

— Tu non credi in Dio, Loris?

— No.

— Già! tu sei quasi di casa con lui, essendo figlio di pope; nemmeno Andrea Ivanovich, il mio intendente, crederà in me. Però Dio è una delle più indispensabili invenzioni umane, dacchè nessun popolo ha saputo ancora farne a meno; mi permetterai dunque di dirti, che in faccia a Tatiana devi astenerti da ogni discorso ateo. Essa è donna, e senza Dio non potrebbe comprendere nè sè medesima, nè il mondo.

Loris non rispose.

— Capisco il tuo silenzio: vuoi dirmi che siccome anch'io ci credo poco in Dio, ho torto di allevare Tatiana nella menzogna. Ma tu non conosci la società: ora non posso in poche parole dartene la quintessenza. È necessario che una donna creda in Dio; mi farai dunque il favore di non parlarne con Tatiana. Non t'impongo nessuna ipocrisia, ma se assisterai alla messa, te ne sarò grato. Conto sulla tua parola.

Loris ne convenne.

Le lezioni del principe non andavano più in là di una stravaganza. Côlto nelle lettere e nella storia, non sapendo trovar modo d'insegnarla a loro, finiva quasi sempre col lasciare Loris e Tatiana leggere e commentare gli autori alla loro maniera; d'altronde nel suo grande disprezzo per la letteratura nazionale accettava appena Soloviev come storico, e Tolstoi come romanziere. Per imparare la Russia non v'erano secondo lui che i libri esteri di Vallace e di Ralston, di Légèr e di Rambaud, di Haxthausen e di Le Play; tutte le opere degli slavofili, da Komiakof ad Aksakof, da Kostomarof a Katkof, sembravano scritte da maggiordomi dimentichi dell'imbecille tirannia del padrone nel fare l'elogio delle sue tenute.

Laonde tornava sempre alle matematiche, che aveva imparato seriamente da giovane all'Accademia militare. Loris vi si prestava di buon grado, ignorandole quasi del tutto, mentre Tatiana finiva coll'attirarsi per punizione qualche problema, che l'altro le risolveva.

Tatiana aveva già fatto perdere a Loris quanto gli rimaneva di selvatico, apprendendogli come stare elegantemente a tavola, e presentarsi, salutare, tacere, tutti quei piccoli usi mondani, che compongono la grande educazione signorile, e hanno tanta importanza nella fortuna della vita. Poi Loris aveva presto compito la propria educazione. Il principe stesso gli aveva insegnato a tirare di spada e di pistola; il primo cocchiere, un cosacco che aveva fatto il jockey, lo aveva messo a cavallo. Sulle prime Loris si sentiva umiliato dalle loro rudi osservazioni, ma presto il suo coraggio e la sua agilità gli meritarono elogi. Allora gli si sviluppò la passione delle armi e dei cavalli. Tatiana, alla quale giovandosi della reciproca simpatia, era riuscito a persuadere i medesimi esercizi, ne migliorava in salute; essa dal canto proprio gli insegnava invano la musica. L'istitutrice, vecchia dama francese di nobile famiglia, era scandalizzata dell'insensibilità di Loris, mentre il principe, sempre più affettuoso verso il ragazzo, ne sorrideva.

— Sarà più uomo: la musica non serve che alle donne, per consolare la loro impotenza.

Madama d'Aubrivilliers punta da questa massima, nella quale sentiva un'allusione, ripeteva invariabilmente che la musica ingentilisce gli animi.

— Perchè dunque, esclamò una volta il principe impazientito, le donne così gentili non hanno mai saputo scrivere un pezzo di musica, che si possa ascoltare?

Neppure Tatiana vi faceva molti progressi per la troppa nervosità, che la rendeva spesso bisbetica e sgarbata con tutti. In quella vita al castello la noia diventava sovente assai greve; il principe, dopo essersi occupato de' suoi disegni agricoli, non sapendo più che cosa fare rimpiangeva la vita di Pietroburgo. Talvolta andava alle assemblee del zemstwo, ma ne ritornava sempre di malumore, perchè tutta quella gente non aveva un'idea in testa. Nell'inverno la nobiltà dei dintorni emigrava a Mosca o a Pietroburgo. Appena qualche volta un generale o un governatore passavano dal castello per presentare i proprî omaggi al principe, ma non essendovi altra donna che Tatiana, cui fare la corte, se ne andavano presto. Loris studiava nella biblioteca, Tatiana errava per le sale senza trovar modo di animarne il silenzio. La miglior distrazione erano le passeggiate a quattro cavalli nella slitta, con due altre slitte dietro, piene di domestici armati; ella faceva tenere le redini a Loris, e lanciavano i cavalli al più sfrenato galoppo. Poi a casa parlavano della neve bianca, infinita, del freddo e del silenzio. A giorni faceva ballare i numerosi servitori, accompagnando ella stessa sul pianoforte un cocchiere, che pizzicava la balaika. I domestici ballavano, cantando dei cori secondo il costume russo, ma erano danze lente e fredde quanto quel clima, con grandi inchini come nei saloni dell'alta società. Altre volte metteva madama d'Aubrivilliers al piano per ballare con Loris qualche valtzer, mentre il viso pallido le si colorava, e il suo naso fino ed imperioso batteva voluttuosamente.

Loris e Tatiana cominciavano a farsi grandi. Ma la posizione di Loris al castello era troppo buona momentaneamente per non destare invidia, e troppo indefinibile per non prestarsi ad umilianti interpretazioni. Egli si ribellava orgogliosamente a questa evidenza senza opporvi ancora alcuna risoluzione. Quanto resterebbe al castello? Come vendicherebbe suo padre? Ora tutte le sue idee ribelli parevano così assopite che nemmeno i giornali, tutti pieni di notizie sulle ultime imprese nichiliste, bastavano a ridestarle. Quella vita e quel lusso signorile lo compensavano di quanto aveva sofferto, lusingando tutti i suoi istinti. Il suo odio contro i ricchi si ammansava dinanzi a quel principe buono, che tutti i domestici amavano sinceramente, sebbene li facesse talvolta frustare malgrado la proibizione della legge; ma in questa crudeltà vi era piuttosto l'uso antico di una correzione corporale che una malvagità verso gli inferiori.

Tatiana ne rideva senza cattiveria.

Il vecchio principe, preso dalla manìa di fabbricare colle proprie mani modelli in legno di case agricole, aveva fatto venire da Veronege due falegnami, coi quali si chiudeva buona parte del giorno in uno stanzone al pianterreno. Madama d'Aubrivilliers, finite le lezioni di pianoforte e di francese con Tatiana, passava il tempo a leggere vecchi romanzi di cavalleria, che la facevano rivivere nel passato della propria famiglia feudale, lasciando la fanciulla a discutere di mode colle cameriere sartrici.

Ma intanto Tatiana diventava donna. Il primo abito lungo le fece un'impressione, della quale stentò a rinvenire, parendole di non essere più la medesima. Quindi corse da Loris a farsi vedere, girandosi e rigirandosi davanti a lui come una trottola.

— Ti piaccio più così, o come prima?

L'altro rimase pensieroso.

Le loro relazioni cangiavano insensibilmente di tono; ella tentava ancora tratto tratto di scherzare come pel passato, ma non era più possibile.

— Lo voglio, lo voglio, gli gridò un giorno stizzosamente: dovete ubbidirmi.

Questa volta Loris impallidì.

Ella cresceva di civetteria ogni giorno, quasi sollecitando quella bellezza femminile, ancora troppo lenta a rivelarsi nel suo corpo, sebbene le mettesse già nel sorriso della bocca e nelle grazie nascenti del petto una seduzione indefinibile. Il vecchio principe, nel vederla così inorgoglire, le prometteva a certi momenti di buon umore di fabbricarle colle proprie mani un castello di fata, in legno dorato, per sottrarla alle importunità di madama d'Aubrivilliers, sempre intenta a darle sulla voce e a proibirle metà di quanto faceva. Ma in tanto orgasmo Tatiana non sapeva più con che cosa divertirsi. Poi soccombeva ad improvvise malinconie, come se tutti la contraddicessero per astio.

Da qualche tempo Loris era passato con lei dai tu confidenziale al voi, abbassandosi involontariamente nell'inferiorità della propria posizione. Ma se quella vita al castello gli riusciva sempre più incompatibile colla dignità di uomo, nullameno si sorprendeva spesso a sognare l'impossibile fortuna di sposare Tatiana, diventando così milionario, principe, e fors'anco ministro per grazia dello Czar. La sua onestà giovanile, non al tutto corrotta dall'empietà dell'educazione paterna, gli diceva invano, che sarebbe la più vile delle ingratitudini ricambiare tutte le bontà del principe col sedurgli la nipote; giacchè subito dopo l'orgoglio satanico del suo carattere rispondeva, che egli valeva bene qualunque altro, e che Tatiana, sposando un principe, sceglierebbe probabilmente un uomo a lui inferiore.

Poi Tatiana era bella. Qualche cosa di puro e al tempo stesso di voluttuoso esalava dalla sua fresca personcina di quindici anni, come uno di quei vapori di primavera, lievi e penetranti, che salgono dalle zolle umide ai primi tepori del sole. Ella stessa sembrava inebbriarsene a certe lunghe occhiate di Loris, nelle quali s'abbandonava come nuotando inconsciamente verso di lui malgrado i sospetti, che già la vigilavano. Senonchè madama d'Aubrivilliers avendola ripresa un giorno seccamente, Tatiana non trovò che un sorriso stentato. Loris invece stette più sull'avviso. Quindi cominciò ad assentarsi dal castello, stringendo più intima relazione con Andrea Arsenief, quel settario del Raskol, che gli aveva regalato Aiace. La sua isba, non diversa dalle altre, sebbene Arsenief fosse meno povero de' suoi compagni, sorgeva all'estremità del villaggio. Andrea Arsenief era un uomo di cinquanta anni, corto e grosso, dagli occhi dolci; sua moglie, una brutta donna ancor giovane, non aveva mai avuto figli, quindi vivevano ritirati con una grande modestia. Ma quantunque per gratitudine dei servigi ricevuti dal vecchio pope Arsenief si mostrasse molto devoto a Loris, non aveva mai voluto rivelargli nulla sul Raskol, o diffidasse della sua età o, vedendolo così innanzi nella grazia del principe, credesse coll'ingenuità di un villano, che finirebbe collo sposare la principessina e diventare il padrone del villaggio.

Batouska, voi sarete un giorno il nostro barine; gli diceva talvolta, strizzando l'occhio.

E Loris, pure irritandosene, sentiva una sottile vanità salirgli al cervello dalla supposizione di così immensa fortuna.

Nell'estate capitò al castello il principe Nesvitskj, maresciallo della nobiltà di Veronege; egli si ricordava confusamente il processo del pope Nicola, ma non fece più attenzione a Loris che agli altri servitori. Madama d'Aubrivilliers, che detestava il ragazzo, se ne compiacque vivamente vedendolo malgrado la protervia del carattere perdere improvvisamente ogni spirito.

Appena finito il pranzo, Loris si ritirò. Tatiana nel traversare il grande salone con un fascio di musica nelle mani lo trovò poco dopo appoggiato alla finestra.

— Loris! gli disse con voce tremula, indovinando il suo dolore e prendendogli una mano, che l'altro ritirò. Ma la fanciulla, indispettita dell'inefficacia della propria carezza, gettò tutta quella musica in mezzo al salone, e fuggi nelle proprie stanze.

Il principe Kovanskj dovette andare egli stesso a cercarla.

— È troppo brutto il tuo maresciallo, guaì per tutta risposta la fanciulla; non suono, non suono. Fagli suonare quello che vuole da madama d'Aubrivilliers; egli potrebbe anche sposarla, perchè è nobile quanto lui, e quasi altrettanto brutta.

L'indomani Tatiana, che s'aspettava da Loris una grande effusione di riconoscenza, rimase così piccata del suo contegno, che madama d'Aubrivilliers potè profondersi in elogi maligni al maresciallo senza trovare contraddizione. Tatiana guardava Loris, sentendo crescere fra loro due una indefinibile distanza. Chi era Loris? Quale sarebbe il suo avvenire? Ella non sapeva che il proprio, un avvenire di splendori, nel quale Loris non aveva posto. Però quel destino oscuro di lui l'attraeva come certe profondità misteriose della foresta, ove qualche volta erano andati a cavallo seguiti da Vaska.

Quell'estate Tatiana andò a molte feste dei castelli vicini col principe, ma Loris, dopo l'umiliazione inflittagli dal maresciallo della nobiltà, evitò di accompagnarla colla scusa di nuovi studi nella biblioteca. Ella comprese, poi dimenticò. Quelle piccole riunioni aristocratiche erano come uno spiraglio aperto sul gran mondo; tutti l'accoglievano con premura, mentre le giovinette della sua età, compiangendola per quella vita d'inverno, sola col vecchio principe, la consigliavano ad usare di tutta la sua influenza per ritornare a Pietroburgo. Anche madama d'Aubrivilliers era della stessa opinione, e Tatiana cullata da tutte quelle promesse pregustava già i trionfi dei saloni, ove brillerebbe come una stella di primo ordine fra le dame più corteggiate.

Alcuni giovanotti la fecero ballare, ma essendo ancora troppo bambina non ricevette dichiarazioni d'amore.

Solo Giulia Mikailowna Touchine, una baronessina sua amica, che aveva già l'amante, le chiese improvvisamente fra un crocchio di compagne:

— E il tuo bel seminarista?

Era stata Fedora Dmitriewna a raccontare la storia di Loris, dicendo di averlo visto. Tatiana si vergognò; in quel momento ricominciava il valtzer, e le ragazze si dispersero per la sala.

— Dovresti sposarlo quel povero figlio di pope, insistè Giulia malignamente. Sarebbe bello da parte tua, tu che sarai così ricca.

Ritornando al castello Tatiana pensava a queste parole. L'indomani a pranzo Loris non l'interrogò sulla festa; Tatiana, che già si pentiva di non averlo difeso con Giulia, si mise a particolareggiare col principe tutti i piaceri di quella serata.

— Andremo a Pietroburgo quest'inverno? domandò al principe senza guardare Loris.

Il principe volse bruscamente la testa.

— A Pietroburgo, signorina, non ci andrete per un pezzo; io non ci rimetterò più il piede.

— Vorrete dunque farmi morire qui?

— Spero che potrete andarci prima, quando sarete in grado di scegliervi un marito. Allora potrete abbandonarmi, se sarò ancora vivo. Ecco quello che tocca a noi, dopo che ci siamo sacrificati. Siete tutti ingrati.

Il principe cominciava ad indebolirsi, la vista gli era scemata improvvisamente così che doveva usare sempre gli occhiali; poi quella manìa delle casine in legno lo aveva stancato. Quando leggeva i giornali della capitale, a certe notizie politiche andava in bestia pentendosi segretamente di vivere così fuori del mondo, e di non avervi mai avuto importanza. Un cordoglio pieno di segreti rancori lo irritava perfino contro la giovinezza di Tatiana e di Loris.

Nell'inverno una bronchite l'obbligò per quattro mesi a non uscire dalle proprie stanze; Loris andava a leggergli i volumi dell'inchiesta agraria, e doveva lasciarsi strapazzare per tutte quelle leggi e quei fatti contrari alle sue idee. Poi madama d'Aubrivilliers gli leggeva i giornali, e Tatiana veniva a suonargli il pianoforte, che aveva fatto portare nella sua camera di malato. Così riuniti passavano le sere. Spesso il principe dormigliava; allora nessuno parlava più per non svegliarlo, ma bisognava rimanere nella camera.

Il principe non aveva voluto nessun medico.

— Non ho bisogno che mi si aiuti a morire, aveva risposto a Tatiana: tu sei una sciocca, che vorresti ereditare troppo presto.

La fanciulla era scoppiata in lagrime.

Adesso il principe pareva prediligere Loris.

— Hai pensato ad abbandonarmi? gli chiese una volta bruscamente; e siccome Loris tardava a rispondere: è inutile che tu mi dica una bugia, t'avvertirò io, quando sarà tempo.

— Perchè mentirei con voi?

— Perchè invece non saresti ingrato anche tu? Vattene piuttosto fuori; qui ti annoi senza divertirmi.

Ma una volta, per l'attentato di Solovieff contro lo Czar, le parole furono più aspre. Loris, che non aveva mai parlato delle proprie idee nichiliste, sentendo il principe inveire contro la politica dell'imperatore, si permise un elogio dei rivoluzionari. Il principe s'irritò, Loris insisteva; allora l'altro lo coperse d'ingiurie, e finì dicendo:

— Per te i nichilisti non dovrebbero essere che assassini: io solo sono abbastanza vecchio per giudicare se dal canto loro ci possa essere qualche scusa. Vorresti darti anche tu delle arie nichiliste? per un figlio di pope...

— Principe, esclamò Loris fremendo, rispettate mio padre; egli aveva quelle idee...

— E ha saputo anche morirne: tu non sei che un inutile chiaccherone.

Una risata fresca di Tatiana troncò la disputa.

Vivendo così molti mesi in quella stanza, Loris e Tatiana avevano potuto riavvicinarsi fondendo il proprio orgoglio, lentamente, nella dolcezza intima di quelle cure affettuose per il principe, che li strapazzava egualmente ambedue. Sebbene non se lo fossero detto, sentivano troppo che quella loro esistenza dipendeva dalla sua per non gareggiare di premure verso di lui. Loris affettava un contegno freddo verso Tatiana, ma quando il principe s'addormentava, e nelle lunghe sere anche madama d'Aubrivilliers si lasciava cadere il libro di mano, essi si mostravano involontariamente con un sorriso quei due dormienti. Nell'aria calda pesava una nausea. Il principe in fondo all'alcova, sotto le cortine di damasco, sedeva quasi sui cuscini, ravvolto entro un bornous ovattato, respirando faticosamente; e pareva più secco e malandato alla luce incerta, che riverberava su lui dall'armadio delle sacre iconi. Madama d'Aubrivilliers russava lievemente colla testa abbandonata sulla spalliera della larga poltrona rossa, e gli occhiali penzoloni sul naso; passavano così delle ore.

Tatiana leggeva dei romanzi, Loris generalmente non leggeva.

A poco a poco parlavano. Poi vennero le confidenze; Loris le narrò tutto quello che le aveva sino allora nascosto della sua vita passata coi particolari più atroci, frenandosi a stento per velare le proprie opinioni più atee. Tatiana ne fu commossa. Anch'essa aveva dei dolori da raccontare, un mondo di futilità, perchè non aveva conosciuto abbastanza nè il padre nè la madre per soffrire della loro morte; ma ella pure era sola nel mondo. Loris tornava subito grave. Egli sapeva ora che non gli restava più gran tempo da vivere nel castello, il principe guarisse o morisse.

Lo disse a Tatiana; ella protestò. Perchè andarsene? Ma Loris, diventato uomo, non poteva profittare più a lungo di quell'ospitalità; era già troppo, se avesse dovuto andarsene alla morte del principe. Tutti avrebbero creduto allora ad una cacciata.

— E chi vi scaccierebbe?

— Voi per la prima.

Tatiana scosse le spalle. Il principe fece un movimento, Loris corse tosto al letto, ma il principe dormiva. Tatiana, che si era levata anch'essa, curvandosi sul volto dello zio sfiorò col proprio quello di Loris.

— Dorme, disse cercando di nascondere il proprio rossore.

Ma quando il principe cominciò a star meglio, Loris gli chiese improvvisamente:

— Quando mi avvertirete dunque?

Egli lo guardò senza comprendere.

— Ma di andarmene. Dopo aver fatto di me un uomo, non vorrete distruggere l'opera vostra.

Tatiana dietro la poltrona del principe gli faceva cenno di tacere; sembrava sorridere dolorosamente.

Il principe si girò sui bracciuoli.

— Ah! vi credete un uomo? Infatti parlate come un imbecille: leggetemi piuttosto il Golos, a meno che, aggiunse tossendo, io non vi sia diventato insopportabile. In questo caso non pretendo di sacrificarvi, non sono egoista io.

Tatiana applaudì scherzosamente dietro la testa dello zio, ma questi rimasto di malumore, a mezzo della lettura, li cacciò via tutti due.

Madama d'Aubrivilliers sembrava non sospettare più di alcuna relazione fra loro dal momento che Loris aveva detto di andarsene dal castello; mentre invece i due fanciulli avevano già in comune il segreto di una passione, contro la quale non cercavano nemmeno di lottare. Una indefinibile dolcezza li sorprendeva appena si trovavano soli per qualche minuto; pareva che l'aria si riscaldasse intorno, e le camere stesse diventassero più grandi. Egli sempre più addolorato della propria inferiorità dinanzi a quell'ereditiera di uno dei più illustri nomi e dei più grossi patrimoni della Russia, riparlava sempre di andarsene con un accento, nel quale un fino osservatore avrebbe notato una certa smanceria. Tatiana, più nervosa, s'indispettiva dicendo che lo zio stesso non lo avrebbe permesso, giacchè sino dal primo giorno lo aveva ceduto a lei.

— Allora mi prendeste per giuocare; adesso non potrei essere che uno dei vostri domestici.

— Vi dispiacerebbe tanto di servirmi? Ma sotto la gaiezza dell'accento si sentiva la nota imperiosa.

— Potrei amare, non servire, egli rispose con durezza.

Erano nella piccola sala rossa dai mobili dorati; Tatiana vestita di bianco si baloccava con una lunga treccia di capelli.

— Amare chi?

— Forse chi non potrà mai capirlo.

Un sorriso di trionfo illuminò il volto della fanciulla.

— Addio! esclamò Loris con accento teatrale.

L'indomani nel giardino s'abbracciarono giurando d'amarsi, ma la fanciulla rimase al di sopra di lui, meno per quella adorazione che l'uomo tributa sempre alla donna nel primo amore, che per l'altezza della sua posizione sociale. Involontariamente Loris si sottometteva alla signora, credendo di ubbidire deliziosamente alla fanciulla. Siccome non avevano parlato che d'amore, ella non vi trovava ostacoli; la società era scomparsa lasciandoli soli fra la scena bella di quel giardino primaverile. Non vi erano più che fiori, gli uccelli cantavano nell'aria, e le nuvole passavano nel cielo come tende leggiere, che il vento avesse involato ad immensi palazzi di altri mondi.

Allora cominciarono i loro convegni dappertutto; si parlavano alla sfuggita gettandosi un bacio, quando non potevano darselo. Ma le fiamme avvampavano nel loro sangue troppo giovane. Senza accorgersene non facevano che cercarsi; la notte sognavano l'uno dell'altro, il giorno avevano bisogno di scriversi. Tatiana si abbandonava con passione a questo torneo epistolare, cercando di farvi dello stile colle frasi più pazze dei romanzi, mentre tutte le loro scene le s'imbrogliavano dentro la testa attraverso una stravaganza di combinazioni, dalle quali l'amore usciva sempre vittorioso. Però non osava nemmeno seco stessa discutere la soluzione più semplice, che Loris domandasse al principe la sua mano. Sapeva bene che il principe non avrebbe potuto concederla, e in fondo all'anima ella stessa si rafforzava di questa sicurezza. Il suo amore non era che effervescenza di sensi e di fantasia; Loris, bello e sventurato, aveva la solita eccentricità di tutti gli eroi da romanzo. Egli invece l'amava con tutta la passione, di cui era capace. Quella fanciulla gracile ed aristocratica, posta così in alto nella scala del mondo, era l'ideale di tutte le sue sofferenze. Il fascino di quella sua fresca giovinezza gli faceva dimenticare tutti i propositi di vendetta nella speranza di una felicità semplice e profonda, amare ed essere amato.

Ma questo idillio primaverile non era possibile che nella solitudine delle loro stanze; appena ne uscivano, la realtà li separava rigettandoli brutalmente all'immensa distanza, posta fra loro dalla società. Loris, rinvenendo pel primo, le parlò seriamente del futuro; l'altra s'imbronciò, quindi si bisticciarono. Tatiana cansava istintivamente il problema, contenta se avesse potuto tornare nell'inverno a Pietroburgo con lui, perchè l'amore dell'uomo le svegliava l'amore del mondo.

— Tu non mi ami.

— Cattivo!

— Come faremo dunque?

— Così, e gli diede un bacio.

Loris l'abbracciò stretta. Tatiana sentiva una paura inesprimibilmente deliziosa, tremando fra le sue braccia. Per un momento Loris perdette la testa; si chinò, la morse al collo, la sollevò robustamente correndo verso un divano. Allora Tatiana gettò un grido respingendolo, non le pareva più Loris.

Questi arretrò pallido, senza parlare, ella aveva abbassato la testa, sorpresa come da una improvvisa ripulsione per lui.

Poco dopo Loris l'intese suonare nella sua camera la delirante dichiarazione d'amore della Traviata: «amami, Alfredo, amami quanto io t'amo».

Un'altra volta che Loris era nella camera del principe, dietro la sua poltrona, Tatiana entrando inavvertita gli si sospese al collo, coprendolo di baci. Ella provava una perfida delizia nel comprometterlo così; ma quel giorno accadde un'altra brutta scena. Siccome Loris aveva finito pel principe un lungo rapporto sull'inchiesta agraria, questi per ricompensa gli offerse un biglietto da cinquanta rubli.

Tatiana sorrise a Loris, tutta contenta del regalo.

Questi invece ricusò di riceverlo; il principe andò in bestia.

— Tu credi che con questi cinquanta rubli intenda pagarti il tuo scritto; anzitutto tu lo stimi troppo, perchè non li vale. Te li do, mi piace di darteli. Bada, gridò alzandosi, se non li prendi, sono capace di sbatterteli sul muso. Sarebbe bella che non potessi fare del mio danaro quello che mi pare!

— Del danaro sì, ma non di me.

Il principe cominciò a passeggiare per la stanza.

— Sei qui anche tu! esclamò scorgendo Tatiana, che si era appressata allo scrittoio. Lo vedi? Ricusa questo regalo per superbia: siete un imbecille. Se aveste davvero della superbia, avreste accettato questi cinquanta rubli, e me li avreste restituiti in acconto di quanto mi dovete pei quattro anni, che vi ho tenuto qui. Questa sarebbe stata superbia; non siete che un imbecille. Se aveste almeno saputo far questo, vi avrei fatto frustare, ma vi avrei stimato un uomo. Tatiana, conducilo via.

Durante questa scarica d'ingiurie, Loris era diventato livido; poi Tatiana volle ammonirlo. Loris la guardava meravigliato di non essere compreso, l'accento di Tatiana diventava sempre più freddo.

Stettero impermaliti parecchi giorni. A tavola il principe affettava di non vedere Loris, questi perdeva il coraggio di mangiare. Tatiana non sapeva che dire, madama d'Aubrivilliers tentando di annodare una qualche conversazione si attirava dal principe certe occhiate, che parevano schiaffi. Allora Loris si chiuse nella propria camera. Si sentiva più abbandonato della mattina, nella quale era rimasto solo, nella casa deserta, col cadavere della mamma sulle ginocchia accanto alla stufa spenta. Bisognava partire; i milionari non possono amare i poveri, nemmeno volendo.

Ma Loris amava Tatiana; avrebbe voluto abbracciarla, stritolarla sul proprio petto, commettendo magari un delitto per uscire da quella condizione in faccia al principe. Tutti gl'istinti malvagi della sua natura rifermentavano, mentre la ragione più terribilmente limpida ora gli rivelava la falsità di quei quattro anni. Il principe non era che un vecchio bisbetico, generoso del proprio danaro, non sapendo che farsene; se lo aveva raccolto per carità, fors'anche per un dispetto al vladika, non aveva e non poteva avere nessuna affezione per lui. Perchè dunque Loris avrebbe dovuto essergli grato? Tatiana era una civetta, che giuocava all'amore con lui, come quattro anni prima a mosca cieca. Egli invece l'amava perdutamente: perchè? Perchè si era egli abbandonato a questa passione, che lo ratteneva ancora nel castello a ricevere simili affronti?

Il passato lo riprendeva. Tornava a rivivere gli anni dell'infanzia, quando soffriva la fame, e la mamma era malata e il padre ruggiva bestemmiando per la casa. Allora tutto era vero intorno a lui. Egli rimpiangeva quella miseria, della quale gli rimaneva almeno l'orgoglio di non aver mai piegato dinanzi a nessun altro uomo. Ora invece era un giullare due volte vile e ridicolo.

Evitò Tatiana per tre giorni; il quarto ella gli scrisse un biglietto, ma invece di risponderle Loris cercò d'incontrarla nella sala rossa.

Era un giorno d'estate. Il sole, passando attraverso le tende rosse, riempiva la sala di una luce quasi sanguigna. Loris, che si era finalmente deciso, le offerse di fuggire con lui o di permettergli di andare dal principe a chiedere la sua mano; Tatiana, di umore più chiassoso quel giorno, si mise a ridere. Allora egli la prese per mano, la condusse al canapè, e con tutto l'impeto della giovinezza le rinnovò per la centesima volta la solita dichiarazione di amore. Il mondo era sparito; non pensava al come avrebbero vissuto, se Tatiana lo seguisse nella fuga e il principe non li riprendesse a qualche versta dal villaggio; non vedeva più che il volto di lei pensieroso, più pallido, col seno che le ansava, e un sorriso tremulo sulla bocca. L'abbracciò. Tatiana invece, sentendo l'impossibilità di quella scena, ne soffriva senza osare di opporsi alla passione di Loris; quindi con abilità istintiva si fece scherzosa per evitare di rispondere alle sue pressanti domande, ma segretamente irritata seco stessa di quella momentanea soggezione.

Loris voleva domandare la sua mano al principe.

Tatiana ebbe un cattivo sorriso:

— Non l'oserai.

— Io!

Pareva che ella si compiacesse d'irritarlo.

— Vorrei essere presente, quando gli farai la domanda. E dopo una pausa: è impossibile, non puoi averne il coraggio.

— Lo avresti tu?

Ella si turbò, ma la sua faccia esprimeva una sfiducia così ingenua, che Loris non ripetè la domanda.

Poi tacque; egli era in preda alla più viva agitazione. Tatiana, mutando discorso, gli parlò di un abito, che doveva arrivare da Pietroburgo: nella settimana ci sarebbe festa al castello di Viasma. Ella ci andrebbe collo zio. Loris l'ascoltava ricevendo a una a una le sue parole sul cuore come goccie gelate; poi fece un gran gesto drammatico. Tatiana tornò a sorridere.

— Vuoi che ci vada adesso? e scattò in piedi.

Tatiana corse salterellando nel mezzo della stanza, si rivolse, e gli gettò dall'uscio beffardamente:

— Povero Loris!

Sotto questa scudisciata egli s'avviò precipitosamente verso le stanze del principe, a pianterreno; traversando il cortile vide Tatiana alla finestra, che rideva. Evidentemente la fanciulla, non credendo a questa smargiassata, lo beffava colla monelleria dei primi giorni, quando si erano conosciuti. Loris si arrestò: forse a lei parve irresoluto, e gli fece un gran cenno per aria, rinchiudendo la finestra.

Egli era già presso il piccolo uscio a vetri, che dava nell'appartamento del principe.

Nell'anticamera trovò Andrea Ivanovich e Vaska.

— Andate dal principe, batouska? gli chiese colla sua voce buona il vecchio intendente: ci vado anch'io. Vaska vorrebbe domare i due morelli, figli di Gourko e di Letounia.

— Bisognerebbe aver già cominciato, intervenne Vaska battendosi con un grosso frustino sugli stivaloni molli, che gli strozzavano le corte gambe muscolose: ma il principe, non so perchè, teme che si sciupino.

Loris ebbe un'impressione di ghiaccio a questo discorso così semplice: Andrea Ivanovich notò il suo turbamento.

— Che cosa avete, batouska?

Ma stavano già sull'uscio del gabinetto; era impossibile indietreggiare.

— Avanti, rispose il principe alla piccola battuta di Vaska.

Il gabinetto era vivamente illuminato.

— Che cosa vuoi? si volse il principe a Loris, vedendolo dietro i due servi. Era seduto allo scrittoio ingombro di carte; la sua sottile veste da camera, di seta azzurro cupa, era aperta sul petto lasciando vedere il bianco della camicia. Stava senza berretta.

— Vieni dunque avanti: che cosa vuoi?

Egli si avanzò automaticamente, pallido come un morto, ma non tremava.

Il principe l'osservava meravigliato, e stava per ripetergli la domanda, quando Loris lo prevenne:

— Vengo a chiedervi la mano di Tatiana.

— Che?

Loris non replicò; i servi non avevano bene inteso, ma il principe appoggiando le mani sullo scrittoio, si era chinato verso la sua faccia. Allora Loris ripetè come in sogno:

— La mano di Tatiana...

La cosa parve così enorme al principe che sulle prime non ne rinvenne: guardava Loris con curiosità non scevra di apprensione. Lo credette impazzito.

— Loris...

Ma questi, avendo finalmente ritrovato tutto il proprio coraggio, si raddrizzò:

— Sono venuto a chiedervi la mano di Tatiana. Non ignoro nè la mia, nè la sua posizione, ella mi ama.

— Tu menti, miserabile! gridò il principe con voce strozzata. Tu, ridicolo figlio di pope, che ho raccolto per carità come un cucciolo, cui fosse morta la cagna...

Loris tentò di rispondere, ma il principe non glie ne lasciò il tempo.

— Ah! ti ama, vigliacco bugiardo! Tatiana, mia nipote, ama un pari tuo... almeno avessi cominciato col dire che l'amavi tu. Tatiana?

— Perchè no? ribattè Loris livido di umiliazione.

— Perchè, perchè? Vaska, si rivolse con un gran gesto al cocchiere; tu Andrea... Ah! Perchè? e respingendo la sedia, che cadde, uscì dallo scrittoio. Si avvicinò a Loris coi pugni chiusi, poi, voltandosi, prese Vaska per una spalla e lo cacciò contro di lui.

— Gettami in terra quel miserabile; in terra, figlio di pope! Tu sposare Tatiana? così, eccoti: è la tua posizione, quella dei pari tuoi. Tienilo dunque anche tu, vecchio Andrea...

Ma non potè seguitare, la collera lo soffocava.

Vaska alla spinta datagli dal principe si era scagliato su Loris, e lo aveva istantaneamente atterrato con uno sgambetto, cadendogli con ambe le ginocchia sulla schiena e una mano sul collo, prima che il vecchio Andrea, spaventato della scena, avesse pensato a muoversi. Loris nello stramazzare aveva battuto duramente la faccia; tentò istintivamente di liberarsi, ma era come dentro una morsa. Mise un grido, poi più nulla.

— Muoviti dunque, vecchio! gridò il principe spingendo Andrea Ivanovich su Loris: e tu frustami questo miserabile.

Loris, colla faccia schiacciata sul tappeto, non diè un tremito; un mutamento improvviso era avvenuto nel suo spirito, una calma più orribile di qualunque sforzo. Avevano ragione di frustarlo: era il suo pensiero di quel momento, il solo pensiero limpido, indiscutibile.

Ma vi fu un istante d'indecisione negli altri; il vecchio Andrea non sapeva come piegarsi per tenere Loris, e tremava per l'affezione posta a quel ragazzo, e per paura del principe. Vaska, tenendolo così stretto, non poteva maneggiare il frustino, poi non aveva ancora capito bene di che si trattasse. Questa incertezza degli altri rattenne il principe, che si appoggiò con una mano allo scrittoio ansando. Sembrava attendere una parola di Loris.

— Miserabile! tornò a gridare esasperato dal suo silenzio.

— Debbo spogliarlo? chiese Vaska.

— Frusta sulla schiena così; e dopo una pausa: due colpi soli.

Vaska s'alzò. La sua faccia non esprimeva alcun sentimento; teneva gli occhi su Loris, pronto a scagliarsi se avesse tentato il più piccolo moto. Il vecchio Andrea aveva fatto un passo addietro, Vaska si voltò verso il principe, quasi per attendere un altro ordine, poi girò sapientemente il frustino su Loris, e lo sferzò sulla schiena.

Loris rimase insensibile.

Vi fu un momento d'immobilità, quindi il principe rientrò dietro lo scrittoio. Loris si alzò sulle ginocchia, lentamente; una polvere bianca gli era rimasta, davanti, sul vestito, si drizzò e guardò il principe. Vaska fece un movimento per rattenerlo, ma Loris pareva calmo, solamente la bianchezza della sua faccia non somigliava più a nulla. Andò verso lo scrittoio, fissando il principe.

Questi sostenne fieramente il suo sguardo; Loris abbassò il proprio, si spolverò colla mano una macchia bianca sopra la manica, parve tardare. Poi appoggiandosi allo scrittoio, così che il suo volto toccava quasi quello del principe, gli disse:

— Non vi debbo più nulla.... Auguratevi di essere morto il giorno, che mi vendicherò su quell'altra.

Gli voltò le spalle, raccolse il berretto, ed uscì senza guardare nè Vaska nè il vecchio Andrea. Ma appena fuori del gabinetto le forze l'abbandonarono, e i muscoli della sua faccia si distesero.

Passando pel cortile il rumore di una finestra gli fece alzare gli occhi; comparve il viso ridente di Tatiana, che gli fece cenno di salire per raccontarle la scena. Ella rideva sempre.

Loris si fermò. Tatiana, spaventata dall'espressione del volto di lui si gettò indietro.

Quella sera Loris dormì nell'isba di Andrea Arsenief; l'indomani ne partì per sempre, e il mugik gli disse salutando colla sua voce buona:

— Dio ci abbandona qualche volta, perchè vuole che noi lo cerchiamo.

III.

Per tre anni Loris condusse la vita più vagabonda.

Egli stesso più tardi non avrebbe osato raccontarla tutta, malgrado la crudità dell'orgoglio, col quale metteva come una sfida in ognuno dei propri eccessi; ma pellegrinando dai toundras gelati del nord ai deserti ardenti del mar Caspio, dai laghi a vasche di granito della Finlandia alle tepenti terrazze di Crimea, dalle steppe immense come il pensiero alle foreste più lunghe di ogni pazienza, e nelle quali i tronchi bianchi delle betulle e le colonne ramee dei pini sembravano soffrire quanto gli uomini per la inclemenza del cielo; discendendo i fiumi, pei quali la storia passò come per una grande strada, e che alimentano ancora colla propria pesca tanta parte del vasto impero; mescolandosi ai pellegrinaggi dei mugiks verso le catacombe dei santi più gloriosi, o associandosi ai banditi percorrenti malgrado la sorveglianza spietata della polizia ogni provincia colla falsità di tutti i mestieri e la facilità di qualunque delitto, viaggiò come Rakhmetof, l'eroe prediletto di Tchernicewsky, attraverso tutta l'anima russa.

La sua cultura aiutata da una meditazione, che quell'esilio spirituale rendeva più intensa, gli scopri molti segreti della vita e della storia nazionale. Indovinò dall'opposizione delle steppe colle foreste la lotta secolare fra le due metà della Russia, il nord sedentario e il sud nomade, tra il russo ed il tartaro; sentì la fatalità del primo stato moscovita, cinto da una barriera naturale di selve e di là straripante sulla steppa, ove pastori ed agricoltori vagavano nel primo inconscio atomismo sociale; comprese il lento procedere della civiltà per questo impero, di cui ogni provincia è un regno, e nel quale le città sorgono ad immense distanze sulle campagne sommerse dalla propria immensità, ma sopratutto sofferse e vide soffrire ogni varietà di miseria con quella rassegnazione russa, che nè il clima potè mai vincere, nè il dispotismo stancare. Il popolo, preoccupato solo di vivere, accettava qualunque condizione naturale e politica; il suo socialismo agricolo, anzi che da un'idea sociale, derivava dal sentimento del primo gruppo domestico reso inscindibile dalla necessità della guerra incessante alla natura; la sua religione, bizzarro miscuglio di tutti i paganesimi, aveva tuttavia una idealità inestinguibile di giustizia terrena. Il popolo viveva mestamente. Le sue canzoni cadevano come lagrime sonore lungi per le steppe nel silenzio dei tramonti, quando il sole invece di sparire sembrava allontanarsi per l'infinito della pianura, come la lucerna di un pellegrino, e le ombre della notte precipitavano compatte dal cielo. Il popolo non aveva nè un'idea politica, nè un presentimento sociale. La facile isba fabbricata colla scure, e che il fuoco deve divorare inevitabilmente dopo pochi anni, era come una tenda piantata nella steppa, dalla quale gli giungevano sul soffio silenzioso del vento gl'inviti di un viaggio senza meta e senza scopo. Perchè restare come un punto immobile nello spazio? Ma lo Czar delle foreste moscovite aveva con un ordine incatenati i mugiks alla gleba, servendosi delle loro abitudini socialiste nel comune per ribadire loro la catena. Adesso solo i cosacchi erano nomadi, mentre i contadini attendevano colla pazienza dei prigionieri di essere vecchi, e quindi liberi da tutti i debiti comunali, per abbandonare il villaggio e partire pellegrini col bordone e la bisaccia magari verso Terra Santa, ove era morto un redentore senza poterli redimere. Liberi come il vento sui prati ed instabili del pari, i cosacchi vivevano in piccole repubbliche senz'altro statuto che il cavallo; questo era per loro l'ozio e la libertà, il coraggio nella battaglia e l'ebbrezza continua nella pace. Correre, sfuggire persino a sè stesso, sul piano ove il verde è infinito come l'azzurro del cielo, non avendo altro padrone che il capriccio e altra virtù che l'indipendenza, ecco la vita! Essi accettavano lo Czar come il maggiore degli Etmani, il generalissimo della loro cavalleria. Ma nemmeno essi pensavano. Perchè diventerebbero civili, se la civiltà costringe l'uomo a sedersi per sempre, lavorando colle mani o colla testa, per crearsi prima un bisogno e poi un comodo, sino a soccombere sotto uno sciame di problemi pungenti e velenosi quanto i calabroni della steppa? Nell'immenso impero russo i cosacchi erano adesso l'estrema poesia selvaggia, mutata dalla raffinata barbarie del dispotismo czaristico in una bestiale prosodia, giacchè gli ultimi manipoli della loro orda antica, ridotti nelle città a gendarmeria, riscattavano dal governo il privilegio della propria indipendenza col servire agli abusi della sua forza.

Oggi i cosacchi, una volta così efficaci nella storia russa, non sono più che una varietà della sua vita; altri popoli più selvatici di loro furono aggregati all'impero, e vi accampano come prigionieri, che l'impossibilità della rivincita mutò gradatamente in servi o in coloni. Interi regni turchi sono ora provincie russe; Kirghiz Mussulmani e Kalmouks buddisti macchiano della propria presenza l'ortodossia russa, conglomerati nel governo imperiale, di cui sentono solamente la forza. E l'impero dilaga nell'Asia. Tutte le religioni, le civiltà, le barbarie e i climi hanno la propria zona nell'impero russo; gli ebrei addensati nella Polonia vi soffrono di una schiavitù più atroce della polacca; sulle altezze impervie del Caucaso, ove l'umanità trovò la sua massima bellezza, gli antichi villaggi indipendenti ripensano ancora nel silenzio dell'oppressione le gesta di Schiamil, il loro ultimo eroe; sulle sponde del mar Bianco, nel regno eterno dell'inverno, gli uomini passano come fantasmi, e vivono sotterra come animali. La Russia è più che metà dell'Europa, la Siberia è quasi metà dell'Asia.

Loris errò tre anni senza scopo e senza meta: voleva tutto vedere e conoscere.

Coll'invidiabile facilità della propria razza potè adattarsi rapidamente a tutti gli ambienti, associandosi alle carovane, unendosi ai pellegrinaggi, o errando solo e fermandosi ovunque era possibile, colla curiosità di un dotto e la passione indefinibile di un predestinato, che credesse così di compiere la propria preparazione. Era diventato più alto e più robusto. In quella vita, dalla quale bisognava conquistare giorno per giorno il pane, egli si era fatto a tutti i rischi e a tutti gli usi; poteva soffrire lungamente la fame, e dormire sulla steppa o nei boschi, mendicare o rubare secondo i compagni del momento.

La terribile empietà della sua prima educazione gli era scoppiata nell'anima, polverizzando la fragile crosta dei sentimenti più civili assorbiti in quella vita al castello. Una sinistra poesia raddoppiava l'energia della sua volontà in quella lotta insensata di un'esistenza, concepita oltre ogni ordine legale; nessuna morale inceppava la logica implacabile del suo pensiero. Attraverso le sofferenze di tutti quegli oppressi, egli non raccoglieva che il grido soffocato della vendetta o il rantolo dell'odio impotente, e quando capitava tra una festa di popolo, quella allegria in tanta abbiezione di miseria gli faceva male.

I suoi compagni, quasi sempre malandrini o mendicanti, non gl'ispiravano che disprezzo; i più vivevano così, perchè preferivano quell'ozio avventuroso alla fatica di una qualunque altra esistenza regolata.

La sua prima compagnia fu una banda di zingari, che traversavano la steppa verso l'Asia; visse a lungo con essi, imparandone il gergo e i mestieri, ma senza innamorarsi di quella loro libertà fraudolenta, che li rende così enigmatici nella storia e seducenti nella poesia. Poi dai pescatori del Volga, l'immenso fiume, apprese a reggere una barca e a frequentare i mercati. Quella rude operosità lo stancò presto. Percorse i conventi più celebri, fingendosi pellegrino, iniziandosi a più di una setta religiosa; stette coi cosacchi, guardiano di puledri, guidò le greggie dei pastori, che le contano a migliaia e migliaia.

Come i romei non possedeva che una scodella, una bisaccia e un bastone. I suoi abiti cadevano a lembi, parlava sempre in dialetto colla più aspra volgarità. I suoi capelli e la sua barba, incolti, gli davano un'aria strana e malgrado tutto signorile, che gli attirò spesso l'attenzione pericolosa della polizia: tre o quattro volte fu gettato nelle carceri con altri vagabondi, ma potè sempre uscirne grazie alla prontezza del suo spirito e all'arbitrio capriccioso della polizia stessa. Si serviva di un passaporto rubato nelle più tristi circostanze ad un vagabondo, che gli somigliava. Nei più rigidi inverni si arrestava dove poteva. In un convento, ove i frati lo accolsero ingannati dalla sua devozione e dal racconto fantastico della sua miseria, rimase tre mesi copiando antichi manoscritti greci. Poi fece parte di una banda di ladri da cavalli, che nascondevano i puledri rubati entro una foresta, e da essa li avviavano a mandre verso un altro governo. In questo esercizio pericolosissimo, perchè i mugiks si associano in truppa per dare la caccia ai rapitori, e li uccidono senza pietà ovunque li sorprendono, il suo coraggio e il suo ingegno gli assicurarono presto un'autorità indiscussa sui compagni. Egli rubava indifferentemente ai mugiks e ai signori, ma divideva il guadagno colla banda largheggiando verso di essa con modi da capitano. Però una volta furono colti; egli e due altri solamente poterono salvarsi nel bosco.

Era stata la stagione più bella della sua vita, dopo la quale si mise in un'associazione di giuocatori di frodo, che si recavano alle fiere suonando varî istrumenti. Avendo accumulato qualche danaro in tutti questi mestieri, lo portava cucito nelle vesti, ma viveva sempre colla più avara frugalità.

Alla grande fiera di Ninhny Nowgord s'incontrò con uno strannik, un errante, personaggio bizzarro di una fra le più stravaganti sette russe. Era un ometto di bassa statura, tarchiato, di una incredibile forza muscolare. Sebbene non avesse più di quarant'anni ne mostrava cinquanta, e vestiva di pelli di montone anche nell'estate, coi sandali ai piedi, fasciandosi le gambe di cenci immondi. I capelli lunghi e crespi, di un colore incerto fra il rosso ed il castano, gli crescevano a cespuglio dalla testa, sulla quale non portava berretto di sorta. Sotto la barba lunga un lupus gli divorava l'angolo sinistro della bocca. I suoi occhi piccoli e bianchi sotto la fronte bassa, quasi sorretta da due enormi sopracigli villosi, parevano spenti: e rideva spesso scoprendo una rastrelliera di denti corrosi, attraverso i quali passava un alito fetido. Si chiamava Topine.

Loris l'incontrò col proprio gruppo sull'imbrunire a non molta distanza dalla città. Cadeva il tramonto, dalla campagna venivano soffii profumati, che ammollivano l'aria troppo calda. Loris, che aveva fatto anche lo stregone e sapeva dire la buona ventura, lasciò andare innanzi i compagni per strologare un crocchio di ragazze tornanti dalla falciatura dei prati. In quella passò Topine a passo rapido, trascinando faticosamente una gamba, che gli doleva. Le ragazze se lo mostrarono con un grido di orrore, egli rispose loro con un gesto osceno.

Quando Loris le ebbe contentate, ricevendone pochi kopeks per le solite fandonie profetiche, allungò indarno il passo per raggiungere gli altri; ma conoscendo la bettola, ove andrebbero ad alloggiare, cedette insensibilmente alla blandizie della sera. D'un tratto, alla svolta della strada, udì uno strepito di voci, e scoperse un gruppo di mugiks schiamazzanti intorno a qualcuno, che bestemmiava con voce più aspra. Quando fu loro presso, Loris s'accorse che avevano circuito Topine e, dileggiandolo, volevano costringerlo a ballare. Uno fra essi aveva già cominciato a scuoterlo, ma Topine rivoltandosi ferocemente lo aveva atterrato con un pugno. Naturalmente s'impegnò una rissa. Topine faceva sforzi sovrumani per saltare fuori dal loro gruppo, ma stretto da ogni parte, malgrado tutta la sua robustezza, non poteva riuscirvi. Un pugno gli aveva scrostato i grumi del lupus, così che un sangue giallastro gli colava per la barba. Loris, ubbidendo ad un irriflessivo istinto generoso, si slanciò al suo soccorso, rovesciò un mugik, pervenne nella sorpresa sino a Topine e lo liberò dalle mani, che lo tenevano avvinghiato. Quindi si postò fieramente dinanzi a lui, senza parlare, brandendo un lungo coltello.

L'effetto ne fu irresistibile, gli altri arretrarono. Loris ordinò a Topine di andare innanzi, e rimase in faccia a tutti, guardandoli così terribilmente che non osarono attaccarlo. Ma Topine si era fermato a poca distanza per sostenerlo in un nuovo assalto.

Quando ripresero la via insieme erano già amici.

Loris gli confessò di andare a Ninhny con una compagnia di suonatori ambulanti, l'altro gli rivelò la propria setta. Era un errante, di coloro che come gli antichi profeti si erano ritirati nella solitudine, in fondo alle foreste, nelle quali non penetravano ancora i servitori dell'Anticristo, lo Czar. Aveva abbandonato moglie, figli e comune per non avere più alcun rapporto colla società legale; portava al collo una croce benedetta a Gerusalemme sul sepolcro del Redentore, e la mostrava ai gendarmi dicendo loro: Ecco il mio passaporto vidimato dal Re dei Cieli. Naturalmente i gendarmi lo arrestavano, ma egli s'ingegnava per evitarli. Nel suo delirio settario affermava che l'epoca dell'Anticristo era già incominciata, e che lo Czar era il nemico di Dio, come i ricchi lo erano dei poveri, mentre egli non voleva aver nulla di comune con essi. Vivendo solo nel pensiero di Dio, girava da dieci anni per tutto l'impero russo, alloggiato e nutrito segretamente da quei correligionari, che imperfetti nella fede restavano ancora nel mondo comunicando di nascosto coi perfetti, gli erranti. Loris conosceva già confusamente quella setta. Poi Topine gli chiese con accento cupo:

— Sei tu un credente?

Loris alzò le spalle.

Presso la città si separarono.

— Giacchè rimarrai parecchi giorni a Ninhny, ti rivedrò, disse Topine.

Due giorni dopo, sull'imbrunire, Loris fu fermato da Topine in un vicolo già oscuro della città.

— Vuoi venire con me? gli mormorò misteriosamente: ti condurrò da Ouliana, la Boghiniia.

— Boghiniia, una madre di Dio! esclamò Loris meravigliato.

— Sì, la Boghiniia, replicò Topine con accento ispirato: essa è l'ultima nipote di Ivan Timofewich Souslof. Sotto il regno di Pietro I, Dio Padre discese frammezzo a nuvole di fuoco sul monte Gorodine, nel governo di Vladimir, e vi si fece uomo sotto la forma di Daniele Philippovich. Quindi generò da una donna vecchia di cento anni un contadino per nome Ivan Timofewich Souslof, e lo riconobbe per proprio Cristo prima di risalire al cielo. Iwan Timofewich Souslof scelse dodici apostoli, coi quali predicò sulle rive dell'Oka i dodici comandamenti del suo padre Sabaoth; poi lo Czar lo fece imprigionare, flagellare, torturare, e finalmente crocifiggere presso la porta santa del Kremlino. Fu seppellito il Venerdì, ma risuscitò a confusione degli infedeli nella notte dal sabato alla domenica. Allora lo arrestarono di nuovo e lo crocifissero. Questa volta lo scorticarono e, perchè non potesse più risorgere, la sua pelle fu ridotta in cenere. Ma una donna avendo ottenuto di gettare un lenzuolo sul suo cadavere, Ivan Timofewich Souslof risuscitò ancora. Adesso la sua pelle è formata di quel lenzuolo, e Ivan Timofewich si è ritirato sul monte Gorodine, dal quale ritornerà nella pienezza dei tempi.

La sua voce gutturale si era fatta a mano a mano più stridente durante la lunga filastrocca. Loris lo ascoltava curiosamente.

— Vuoi tu venire dalla Boghiniia? Io sono un suo servo; le porto l'elemosina dei credenti di Jaroslavt, disse traendo di sotto la pelle di montone un sacchetto, e battendovi colle dita orgogliosamente.

— Oro?

— Tutto.

— E perchè non te lo tieni?

— E scritto nei dodici comandamenti «non rubare. Se qualcuno ha rubato solamente un kopek, gli si metterà nel giorno del giudizio finale quel kopek sulla testa, e il peccato non gli sarà rimesso, che quando il kopek si sarà fuso al calore del fuoco.»

— È bella la Boghiniia?

— Più di te, e Topine lo guardò con ammirazione.

Loris sapeva qualche cosa della setta dei Klysty e sulla loro adorazione della donna, ma non aveva mai potuto accertarsi della verità dei loro riti pazzi e licenziosi. Quell'incontro con Topine cominciava a divertirlo. Quindi tentò d'interrogarlo, ma Topine rispondeva di ignorare i loro segreti, tradendo involontariamente un grande terrore.

— La Boghiniia è bella ma terribile, una sua parola basta a dare la morte.

— Perchè dunque mi conduci da lei?

— Tu sei bello, rispose sottovoce; se ella vuole, può farti diventare come lei. Non mi hai tu salvato la vita? esclamò con orgoglio selvaggio, sentendo di rendergli un beneficio anche maggiore.

Erano usciti dalla città, annottava.

Loris, all'idea di un abboccamento con una donna bella e potente, aveva sentito rinfocolarsi tutto il suo odio ripensando a Tatiana. Da tre anni la ferita del suo cuore sanguinava come il primo giorno, sebbene non amasse più quella fanciulla, della quale l'immagine gli stava confitta nella memoria come una placca rovente. Ma da tre anni ruminava la propria vendetta, preparandosi in quella peregrinazione ad impadronirsi dell'anima popolare. Sotto i suoi cenci qualche volta si sentiva più potente dello Czar prigioniero dei propri funzionari, in fondo ad un palazzo di marmo, nel quale non giungeva dal di fuori alcuna voce. Ma prima di scendere nella lotta dovrebbe ancora entrare nel mondo dei signori per impararne i segreti come di quello dei poveri. Quindi a forza di meditare la propria vita si era convinto di essere un predestinato. Tutto era stato strano e terribile nella sua fanciullezza; la sua educazione, la morte del padre, il suicidio della madre, l'accoglienza e poi la cacciata dal castello. Egli aveva dovuto amare Tatiana per spremersi dal cuore l'unica goccia d'amore, diventando invulnerabile a questo sentimento, che perde tutti gl'individui.

Chi era quest'altra donna, contro la quale lo gettava il destino?

Con rapidità spaventevole concepì tosto il disegno di sopraffarla. Il fanatismo istintivo di Topine non poteva ingannarsi se, malgrado il terrore che di lei provava solo nominandola, osava così senza preparazione alcuna condurre lui vagabondo e cencioso da una boghiniia. L'anima semplice di quello strannik aveva dunque sentito che egli era un predestinato?

Camminavano in silenzio, la strada era deserta.

Si fermarono davanti ad una casa in muratura, chiusa da un altissimo stecconato nero interrotto da un cancello a grosse sbarre di ferro foderate da lamiera per togliere ogni vista ai curiosi; pareva una fortezza. Alti pini le coprivano quasi interamente il tetto coi rami; si distingueva poco più lungi un altro caseggiato.

Topine rattenne Loris per una mano, poi improvvisamente, a più riprese, imitò il fischio della vaporiera.

Il cancello si aperse, e comparve un vecchio in caffetano rosso, tutto raso. Topine gli pronunciò all'orecchio una parola, quegli squadrò Loris, e li accompagnò fino alla porta. La casa aveva i muri a scarpa, colle finestre piccole e nere.

Topine disse a Loris:

— Resta qui.

— Alla porta? E invece lo spinse avanti così vivamente che l'altro non osò resistere.

Il servo accese una piccola lanterna, quindi li condusse per una scala di legno attraverso alcune stanze sino ad un gabinetto tutto giallo. I suoi mobili erano dorati, le pareti rivestite di damasco.

Loris si guardava attorno meravigliato, Topine tremava.

Poco dopo entrò una donna vestita di rosso, con una lunga veste a coda: era alta, bianchissima, con un'immensa capellatura nera. Topine le si gettò ai piedi, baciandole le pantofole rosse ricamate d'oro, e senza far motto, le pose innanzi sul tappeto il sacchetto.

Ma ella esaminava Loris, rimasto ritto col berretto spelacchiato sulla testa; in quella camera, così stracciato ed altero, pareva anche più bello.

— Chi è il tuo compagno? chiese a Topine, percuotendogli con una pantofola la fronte per farlo alzare; ma egli rimase nullameno bocconi.

— Il mio salvatore: senza di lui mi avrebbero ucciso e rubato il sacchetto.

Ella pareva perplessa; la sua fisonomia diventò terribilmente severa. Tornò a guardare Loris, poi riabbassando su Topine un'occhiata d'un disprezzo infinito si torse verso l'uscio, donde era entrata.

Allora Loris s'avanzò.

— Grazie! mormorò Topine con voce soffocata.

— Alzati, Topine, gli disse Loris: la commedia è più breve di quanto supponevo. Per sdebitarti della vita, che mi devi, bai creduto nella tua semplicità di farmi conoscere una Boghiniia! L'ho vista, è abbastanza bella per fare da madre di Dio.

E il suo accento aveva una ironia così signorile, che la donna si voltò.

— Perchè, fu pronto Loris a seguitare, componendosi nell'eleganza di un gentiluomo, non potrei io stesso quantunque così vestito essere un personaggio come voi? Se il mio presentatore, aggiunse con fine sorriso, non mi ha presentato, la colpa è ancora più mia che sua, giacchè non gli ho ancora detto il mio nome. Ma nemmeno vi chiederò il vostro. Chiunque io mi sia....

— Ma, signore, riprese la donna, che cominciava a subire l'ascendente di quella disinvoltura, la vostra presenza in questa casa....

— La casa non è dunque vostra? Che cosa potete temere da me? Quel sacchetto è pieno d'oro, non avrei potuto prenderlo a Topine? Forse consentiste a divenire pei vostri credenti una madre di Dio per l'oro? Topine mi disse che eravate bella con accento di così mistico terrore che desiderai di vedervi. Volevo giudicare le facoltà estetiche del nostro popolo. La Russia ha ancora abbastanza fede, se può adorare Dio nella manifestazione della vostra bellezza.

L'imbarazzo della donna cresceva visibilmente; l'alterigia fredda del suo classico viso di statua era scomparsa. Loris si accorse che la signorilità di quella conversazione gli dava un vantaggio enorme.

— Voi non saprete mai chi io mi sia. Se mi supponete un funzionario del governo, così travestito per sorprendere i riti della vostra setta, stimereste troppo il governo. Chi può ancora servirlo e per uno scopo così basso, per impedire a uomini, che nulla più consola, l'estasi di adorare una bellezza di donna, che pare loro un anticipo sul paradiso? Voi, che non credete in Dio, giacchè rappresentate la parte di sua madre, potete comprendere come non tutti gli erranti debbano somigliare a Topine, e la bellezza non sia il solo sintomo di un'altra predestinazione. La vostra è una setta di deboli, i quali obliano il proprio dolore nella contemplazione della bellezza; ma il loro dolore, passando nella vostra vita, vi ha reso così tragicamente bella. Il dolore, seguitò con accento cupo, è presso a trionfare nella Russia; presto avrà il suo eroe. Vi pensaste mai nella solitudine divina, che i vostri adoratori vi hanno fatto?

Loris aveva parlato con modi aristocratici, ma il suo sguardo sfavillava.

— Chi siete voi, signore? ella esclamò finalmente.

— Quando una donna è curiosa, il suo cuore è ancora muto, altrimenti ella avrebbe già indovinato. Andiamo, Topine.

E si voltò verso di lui tuttora ginocchioni, cogli occhi spalancati, senza intendere verbo. Topine ubbidì macchinalmente.

Ella era sempre così incerta. Topine le si rigettò ai piedi baciandoli.

— Andiamo, ripetè Loris con voce imperiosa. L'altro lo seguì.

Quando furono nella strada, Loris gli disse:

— Domani tornerai dalla Boghiniia, e se ti dice di cercarmi, mi troverai alla stalla dei tre Magi tutta la giornata.

La bellezza della Boghiniia aveva riacceso gli ardori del suo sangue giovane, mutandogli quel disegno di conquistarla nella necessità di un trionfo improvviso. Con quella donna sperimenterebbe per la prima volta la propria potenza. Ella doveva essere senza dubbio un forte carattere per imporsi così all'adorazione di numerosi fanatici. L'imponenza del suo volto, lo splendore ardente de' suoi grandi occhi, e sopratutto quella indefinibile alterigia, che nullameno si era scomposta sotto la fredda lusingatrice violenza del suo attacco, rivelavano una natura superiore. In quella setta misteriosa dei Klysty, derivata da un ritorno puerile al vangelo primitivo, e discesa grado grado nel più demente e lascivo misticismo, l'adorazione della donna non poteva essere che l'ultima sconfitta della virilità. Come la loro ragione si era prima smarrita sulla traccia di Dio per chiedergli la spiegazione della vita, il loro sentimento si perdeva nel senso dinnanzi alla donna. L'estasi della rivelazione, ottenuta coll'ebbrezza dell'amore sensuale, era per quei fanatici la soluzione del problema umano e divino; quindi la donna, nella quale si elabora la generazione, questo mistero dei misteri, doveva essere per loro il maggiore dei simboli.

Loris si domandava per quale strano processo quella donna aveva potuto elevarsi tanto alto. Evidentemente la Boghiniia era ricca, e poichè Topine lo aveva condotto da lei, giudicandolo bello, questa vivente divinità si permetteva i capricci di tutte le altre donne. Diventando l'amante della Boghiniia arriverebbe dunque alla ricchezza. Loris sapeva che i capi di tutte le sette religiose nella Russia sfruttavano con pari destrezza la credulità dei loro adepti.

I suoi compagni erano ritornati malconci alla stalla dopo aver giuocato in una stamberga, ove erano stati scoperti e bastonati così da dover scampare, abbandonando anche quel poco danaro, che possedevano prima.

Quindi destarono Loris per chiedergli qualche rublo.

Egli rispose con male parole di non averne, e si riaddormentò. L'indomani non uscì di casa aspettando Topine, che venne solo a sera.

Pareva più misterioso, ma Loris s'accorse che era anche più allegro.

— Ella stessa m'invita? Che cosa ti ha detto di me quando ti ha richiamato?

— La Borghiniia non confida i propri segreti ad un povero verme come me, ma può fare di un verme un angelo.

L'appuntamento era alle dieci della notte.

— E tu dove abiti?

— Nel suo canile. Verrai solo, io stesso ti aprirò il cancello.

— Ma chi è la Borghiniia? chiese Loris con impazienza.

Topine se ne andò senza rispondere.

Alle dieci Loris si fermava dinanzi al cancello di quella casa, e Topine lo introduceva nello steccato. Appena dentro gli parve d'intendere uno strano ronzio di voci. Invece di dirigersi alla porta girarono dietro la casa verso un enorme capannone bruno, del quale era impossibile indovinare l'uso. A Loris sembrò che le voci crescessero; poi entrarono per una porticina, al buio, in una specie di andito pieno di un forte odore di terriccio. Adesso non poteva più dubitare, il capannone era pieno di gente ed illuminato; la luce filtrava dalle fessure dell'assito. Più innanzi v'era un uscio a vetri.

— Mettiti lì, gli disse Topine e scomparve.

L'uscio, chiuso dal di dentro e bipartito, aveva nel mezzo di ogni battente un largo vetro tenuemente colorato in rosa.

Quel capannone era un'immensa sala, tutta parata di bianco in mussolina indiana sapientemente panneggiata e frangiata d'argento; la sua vôlta scompariva sotto un tulle candido e cilestro, come un cielo che si vedesse tra nuvole lattee. Egli n'ebbe una grande impressione di soavità, attraverso quel vetro rosa, che toglieva a tutto quel bianco la inevitabile crudezza dei toni opachi. Trenta o quaranta persone, vestite di lunghi accappatoi bianchi, strette nel mezzo a circolo intorno ad una lunga tinozza bianca, posta sopra un tripode acceso, giravano lentamente tenendosi per mano e salmodiando. Le loro teste gittate indietro, così che i colli ne divenivano gonfi violentemente, guardavano al cielo. Un alito leggero di vapore saliva dall'acqua bollente della tinozza, perdendosi nell'aria.

Loris osservava estatico. Tra quella gente v'erano fanciulli e vecchi, donne dai capelli bianchi spioventi sulle faccie grinzose, e giovinette dal viso fresco di primavera, che parevano impallidite per una dolorosa emozione. Tutti gli accappatoi erano uguali, tutte le teste e i piedi nudi; un tappeto bruno sul pavimento imitava la terra. Molte lampade dorate, sospese a cordoni bianchi, penzolavano dalla vôlta, spandendo colle incerte fiammelle una luce misteriosa; dinnanzi alla tinozza, coperto di un drappo nero, saliva per tre gradini una specie di trono, agli angoli del quale ardevano quattro alti candelabri. E il circolo girava sempre lentamente, mormorando, strisciando sul tappeto i lunghi accappatoi; si sentiva già lo sforzo di qualche respiro, alcuni si portavano le mani al collo come per sottrarsi allo spasimo di una soffocazione. Poi si fermarono, e una voce declamò questo versetto:

«E accadrà negli ultimi giorni, dice il Signore, che spanderò il mio spirito in ogni carne, e i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, e i vostri giovani vedranno delle visioni e i vostri vecchi sogneranno dei sogni.»

Il circolo ricominciò a girare, prima adagio alternando ritmicamente i piedi e scuotendo le teste, poi crescendo a grado a grado di velocità. Era la danza sacra dei dervischi, la ronda stordente, che prelude alla frenesia della rivelazione. Cominciavano i rantoli e le grida. Quindi d'un tratto il circolo si spezzò; gli uomini scaraventarono lungi le donne per restringersi in un cerchio più piccolo e più rapido, ma esse si riattaccarono fra loro a grandi urla, e si scagliarono in una ridda inversa circuendoli. Allora la visione s'intorbidò; non si distinsero più che due pareti bianche, formate dagli accappatoi, sui quali ondeggiavano penzoloni le teste coi capelli svolazzanti, due pareti circolari, aggirantisi come sopra un perno segreto, rapite da una bufera insensibile. Non si poteva sorprendere una fisonomia, afferrare una forma, nel volo di quel bianco abbacinante. Loris ne risenti l'impressione angosciosa.

Essi giravano sempre più rapidi, trasportati dal reciproco impulso, nell'impossibilità di arrestarsi. Si udiva il fischio rantoloso del loro respiro, s'indovinavano nei tremiti di una impossibile caduta gli spasimi di un deliquio, che l'energia dei più forti ritardava.

Loris si tolse da quel vetro per ritornare nel buio dell'andito. Una collera profonda ruggiva nel suo spirito allo spettacolo di quell'ultima degradazione della preghiera umana. Avrebbe voluto essere già fuori da quel corridoio, ma nelle tenebre non trovava più la porta, per la quale era entrato. Perchè dunque era venuto a questa suprema imbecillità religiosa? Attraverso l'assito gli giungeva ancora il rumore turbinoso della danza come un sordo murmure di acqua, che s'inabissi nelle bocche di un molino. Involontariamente tornò ad ascoltare. Così nell'ombra contemplava ancora quelle due pareti umane, bianche e rigirantisi sopra sè stesse, colle teste che trabalzavano cadavericamente; vedeva certi sorrisi tormentati, certe occhiate livide, certi denti balenanti dalle bocche spalancate, come gli era parso di osservare dianzi. Ma essi turbinavano sempre; se li sentiva intorno, quasi al di dentro, colla vertigine di un vortice. Poi un urlo immenso, lacerante, lo colpì.

Tornò a spiare dal vetro. La ronda era finita, tutti giacevano in un alto mucchio bianco, palpitante e semivivo, come sepolti sotto la neve negli ultimi conati dell'agonia. Le lampade sacre agitavano leggermente gli azzurri lucignoli come stelle tremolanti nel cielo lontano; dalla tinozza il vapore dell'acqua s'alzava in una nuvola sempre più densa, ondeggiante nell'aria al pari di un incenso.

Loris tentò di aprire l'uscio per accostarsi a quell'ammasso di caduti, che subitamente si rialzarono come sferzati da uno scudiscio invisibile, mettendosi a saltare soli, dimenandosi nelle più incredibili contorsioni. Dopo la preparazione collettiva di quella ridda cominciava il tormento singolo dell'attesa in ognuno, l'estremo sforzo verso l'estasi col sommovimento di tutte le fibre. Qualcuno preso da un tremito convulsivo sembrava oscillare come una canna, colle ginocchia piegate e la faccia cinerea; altri balzava furioso come un cavallo slanciandosi nell'aria, chi si dondolava in una specie di valtzer; un vecchio roteava sopra sè stesso, colle mani in croce e gli occhi chiusi, insensibile a tutto. Loris vide una giovinetta bella, dal volto marmoreo, che colle braccia abbandonate e la bocca aperta protendeva il ventre in un conato mostruoso, che le spezzava le reni e la faceva singhiozzare. Poi coppie di uomini e di donne saltellavano prendendosi per le mani, urtandosi rabbiosamente coi petti, e cantavano. Una donna, coll'accappatoio rigettato sui lombi sino alla cintura, scopriva un seno grasso, dondolante, di una carne stanca; verso di lei veniva un'altra donna colle braccia tese e l'occhio fisso come dietro un fantasma, che si fosse involato dal vapore ondulante sulla tinozza. Molti caduti in ginocchio si percuotevano le mammelle, o si rotolavano sul tappeto.

Uno gridava monotonamente: oh! oh! spiccando balzi prodigiosi per ghermire una lampada sospesa troppo in alto; una vecchia, dopo aver corso pazzamente intorno alla sala, venne a cadere moribonda sul primo gradino del trono.

Quello scoppio di demenze individuali era anche più insopportabile della prima ridda. Invano Loris si richiamava alla memoria quanto aveva letto su questi riti orientali, e le spiegazioni nevropatiche che ne dava la scienza moderna; la scomparsa totale della personalità umana in quei bianchi fantasmi, grottescamente saltellanti come per forza magnetica, sconvolgeva la sua stessa ragione. Non solo non poteva comprendere quale stato intellettuale si formasse in essi con quella voluta agonia di tutte le forze fisiche, ma egli stesso si sentiva cogliere da qualcuno di quegli spasimi così intensi, che nessuna crisi della vita vera, malgrado tutte le sue tragedie, avrebbe potuto provocare.

Essi saltavano sempre con una energia inesauribile. Le loro faccie, sudicie di sudore e bianche come la calce, esprimevano un tormento senza nome; dai loro occhi, nei quali lo sguardo si era spento, uscivano lampi vitrei, mentre le loro bocche incapaci di formulare più una parola si stiravano nell'avidità febbrile della sete.

— Oh! oh! oh!

Qualcuno mormorava ancora torcendosi nelle ultime convulsioni; quella vecchia caduta sui gradini del trono li saliva leccandovi come delle orme invisibili, e colle mani incrociate dietro la schiena chiamava tutti gli altri.

Allora da una porta laterale apparve un'alta figura di donna.

Loris palpitò.

La Borghiniia aveva i capelli sciolti come un immenso manto nero, che toccava quasi il terreno; sulla fronte le tremolava una grossa stella di brillanti. Era vestita di un accappatoio azzurro, stellato d'argento. Si fermò sull'uscio colle braccia alte, guardando al cielo. Il suo volto statuario, insopportabilmente bianco, pareva quello di una Niobe, tanto era il dolore che ne gelava i lineamenti; ma le sue labbra erano più rosse di una ferita, e i suoi occhi ingranditi dalle occhiaie livide nuotavano in una fiamma azzurrognola. Lentamente salì al trono. Tutti erano caduti ginocchioni, colle mani tese; alcuni piangevano.

Ella li guardò con una inesprimibile passione d'amore, incrociandosi le braccia dietro la nuca, e arrovesciando la testa così che i capelli le si confusero sul velluto nero del trono. Nel largo manto aperto si scoprì nuda alla adorazione dei credenti.

Loris dal proprio uscio la vedeva di fronte, atteggiata scultoriamente sul fondo turchino dell'accappatoio come dentro una nuvola; il suo seno pareva di vergine, coi capezzoli rosei, e il suo ventre di madre. La linea ondulante delle anche si piegava ai ginocchi di un'estrema finezza, interrompendosi agli stinchi, chiusi da due monili di brillanti; mentre le coscie, leggermente divaricate in quella violenza del ventre proteso, mostravano ai fedeli la gloria della sua maternità in un divino impudore.

Sorrideva. Brividi luminosi le scendevano dalla fronte per tutte le carni, spegnendosi sul velluto del tappeto.

L'adorazione cominciava.

Tutti i volti di quei fanatici s'illuminavano della sua bellezza come fiori ai primi raggi del sole. La tinozza le innalzava ai piedi una nuvola molle e vorticosa, e le lampade intorno al trono impallidivano ai bagliori della stella brillantata, che le tremolava sul capo.

Quella vecchia, rannicchiata sui gradini del trono, le si nascose sotto il manto accovacciandovisi come una scimia e salendole colle lunghe mani grinzose lungo le reni, mentre il viso incartapecorito le sorrideva animalescamente al contatto aromatico di quelle carni brinate e marmoree. Poi una giovinetta montò tremando gli scalini per abbandonarsi sul corpo della dea, e cadde colla bocca sulla sua bocca. Ambedue oscillarono; ma la dea si scosse rovesciando la giovinetta svenuta ai propri piedi. Allora un hurrà fece palpitare i veli della vôlta. Tutti i fedeli si rialzarono stringendo un'altra ronda furiosa intorno al trono. La diva, insensibile, con quel cadavere ai piedi e quella bestia fra le gambe, quasi sostenuta da quel manto azzurro, e pura come il marmo, pareva sfidare coll'enigma del proprio sorriso dolentemente voluttuoso la loro passione. Un fascino divino emanava dal suo corpo potente di tutte le forze della maternità e fulgido di tutti gli splendori virginei; il suo ventre palpitava più del suo seno, il sorriso le errava come una fiamma sulla bocca rossa. Essi cantavano, urlavano sgambettando, stirandosi, stracciandosi quasi le membra, mentre i loro accappatoi sollevati dal vento li nascondevano quasi, e la frenesia del loro entusiasmo scoppiava in gesti e grida cannibalesche.

Quindi la catena si spezzò in tanti anelli, che rotolarono sul pavimento, rimbalzando intorno al trono.

La dea si raddrizzò. La sua testa olimpicamente altera conservò sulla bocca quell'espressione dolorosa, le mani le caddero lungo i fianchi, e le sue coscie le si allargarono ancora, mentre il ventre palpitando più violentemente sembrava soffrire quasi le angoscie del parto.

Tutti si avventarono simultaneamente al trono per salirne i gradini, schiacciandosi con trasporto frenetico. Erano grida rauche, urli e lotte disperate, nelle quali l'oblìo del sesso e dell'età permetteva ogni trionfo della forza. Ma sulla piattaforma, presso la dea, ridiventavano improvvisamente immobili. Poi s'inginocchiavano, la baciavano ai piedi, sui ginocchi, sotto al ventre; quindi si rialzavano barcollando, gli uomini le baciavano il seno per memoria del latte succhiato alla nutrice, e le donne invece si stendevano sulla sua bocca.

Ella rimaneva immota. I suoi occhi fisi sopra una lampada non avevano un tremito, il suo ventre solo tremava sempre. Un effluvio di amore e di terrore saliva intorno a lei coll'alito ardente di tutti i fedeli; qualcuno dimentico delle prescrizioni terribili le errava un istante colle mani tremule sulle carni, altri stringeva il suo manto. Una fanciulla le era caduta bocconi ai piedi, e si lasciava schiacciare dai sorvenienti, piuttosto che muoversi. Solo la vecchia accovacciata, sotto il manto, sorrideva nell'orgoglio del proprio privilegio, e sfidando il loro riserbo spaventato accarezzava colle dita il dorso della dea.

Loris si era obliato nell'incanto.

Improvvisamente la dea vibrò, tutti si ritrassero; ella, spiccando un salto, giunse all'uscio di Loris, l'aperse e scomparve.

Loris si trovò stretto fra le sue braccia prima di aver tempo di muoversi.

Ella lo aveva sollevato e lo portava correndo; traversarono il prato, salirono nella casa, al buio, sino a quel gabinetto. Loris si sentì gettato sul divano.

Poco dopo ella ritornava vestita modestamente di bruno, e si metteva ai suoi piedi guardandolo.

Quindi gli abbandonò la testa sui ginocchi.

Loris rimase in quella casa oltre un mese. Ouliana, innamorata sino alla sommissione, avrebbe voluto abdicare al grado di Boghiniia per andare a vivere con lui a Mosca; ma non era abbastanza ricca per questo. In danaro contante non possedeva allora che trentamila rubli, il resto lo aveva profuso in gioielli e nel lusso dell'appartamento. Loris non le aveva nemmeno detto il proprio nome, contentandosi di cangiare i vecchi cenci in un modesto abbigliamento di gentiluomo campagnuolo.

Topine rintanato nel canile, con due grossi veltri, che lo amavano, viveva inorgoglito di quel trionfo di Loris come di un successo personale. Nella demenza delle proprie idee settarie egli ammetteva solamente l'amore vagabondo per non riconoscere nel matrimonio un patto sociale; e non diversa era l'opinione dei Klysty e della Boghiniia, che ogni tanto prescieglieva qualcuno fra i propri adoratori. Però in quella casa, malgrado l'intimità di una vecchia serva, colla quale s'amavano nel più sozzo libertinaggio, Topine fu presto ripreso dal proprio umore randagio. Una mattina ne parlò a Loris, che passeggiava meditabondo entro lo steccato.

— Dove vai? questi gli chiese.

— A Voronege.

— Conosci il villaggio di Kourlak?

— Ho vissuto molti mesi nelle tane della sua foresta. Nel villaggio vicino di Twer vi sono quattro imperfetti.

Loris si oscurò nel volto.

— Aspettami laggiù, nella foresta, fra un mese: lo voglio.

Allora Topine gli spiegò in quale tana era solito ad abitare, ma Loris non la conosceva. Convennero quindi che Loris si sarebbe presentato a Sevastianucko, lo stregone di Twer.

Topine partì.

Venti giorni dopo Loris rientrando nella camera di Ouliana le disse freddamente:

— Mi occorrono ventimila rubli.

Ella balzò radiante dal letto: era la prima volta che Loris le chiedeva qualche cosa. Aprì uno stipetto e gli presentò in un pacco tutti i buoni di banca, che possedeva. Loris era sempre così cupo.

— Chiudili in una busta da lettera, e mettili sul tavolo da notte della mia camera.

Ma siccome la busta vi rimase intatta quindici giorni, Ouliana finì col credere che Loris avesse voluto fare un'esperienza su lei, domandandole quella somma.

Poi Loris scomparve lasciandole questo biglietto laconico:

«Un giorno sarete superba per l'impiego del vostro danaro».

Nessuna firma.

Loris era partito in ferrovia per Voronege; di là venne a Twer, e seppe da Sevastianucko che Topine doveva ritornare la sera stessa dal villaggio di Zeutko. Quindi si avviarono insieme verso la foresta per incontrarlo a mezza strada.

Era il plenilunio, una di quelle notti russe, quando il sole discende appena sotto l'orizzonte, delle quali nessuna parola e nessun pennello potrebbe esprimere la divina trasparenza e la delicatezza delle sfumature. La luce pallida aveva al tempo stesso qualche cosa di etereo e di vivente; si sarebbe detto che i due crepuscoli si fossero fusi nella stessa trepidazione. Traversando quei luoghi Loris non potè difendersi dalla tristezza delle memorie; camminava a testa bassa, in silenzio, senza avvertire la bellezza della sera. Quando entrarono nella foresta senza aver incontrato Topine, lo stregone prese un sentiero a destra; dopo quindici minuti si fermarono dinanzi ad un albero, intorno al quale densi ed alti cespugli facevano macchia. Lo stregone v'entrò. L'albero, vacuo al piede, dava accesso ad una grotta abbastanza ampia, nella quale Topine dormiva sopra un grosso mucchio di fieno. Riconoscendo Loris, diè un grido.

Lo stregone aveva acceso una piccola lanterna da tasca.

— Lascia questa e vattene, gli disse Loris.

L'altro parti senza rispondere. Allora Loris uscì dalla grotta per esaminare se la luce di quella lanternina fosse visibile fra i cespugli; s'accorse di no.

— Sono venuto a dormire con te, dammi metà del tuo fieno.

Il suo disegno, non ancora ben chiaro, era d'impadronirsi di Tatiana. L'indomani mandò Topine dallo stregone per sapere notizie del castello. Questi, che vi aveva qualche aderenza nel servidorame, fu largo d'informazioni: il vecchio principe, declinando sempre più, non usciva che di rado in carrozza con madama di Aubrivilliers e Andrea l'intendente. Tatiana era stata lungamente ammalata, e proprio uno stregone, non egli, l'aveva guarita. Ora brillava di salute e di bellezza.

Dal principio della primavera si era data a percorrere le campagne con Vaska, cacciando e correndo sempre a cavallo. Era l'ammirazione di tutti. Qualche volta usciva sola sopra un alto baio, incredibilmente secco e leggero, un cavallo inglese, del quale lo stregone parlava con disprezzo.

Adesso erano in visita al castello le contessine Oglobine.

Lo stregone promise di andare al castello; tre giorni dopo recò altre notizie. L'indomani, nel pomeriggio, le signorine attraverserebbero la foresta per recarsi allo stagno di Asok; Tatiana monterebbe il suo cavallo inglese, le contessine la seguirebbero su due morelli russi. Ma Tatiana aveva detto segretamente con Vaska, che le perderebbe a mezzo la foresta, prendendo il sentiero degli androni per giungere prima allo stagno.

Loris da tre giorni nascosto in quella tana, ove Topine gli portava i viveri dal villaggio per mezzo di Sevastianucko, concepì tosto l'agguato. Era sicuro di Topine. Lo Strannik non aveva che due vizî, la vodka e le donne; pel resto si poteva fidarsene a tutta prova. La notte usciva spesso dalla tana per andare al villaggio di Twer, dove aveva più di un'amica, e ne ritornava quasi sempre ubbriaco. Loris l'interpellò bruscamente:

— Andrai subito a Kourlak da Elia Mitolka, il fabbro; comprerai dieci metri di filo di ferro del numero cinque. Se torni ubbriaco ti spacco la testa, gli disse mostrandogli una piccola rivoltella.

La faccia di Loris era fosca.

— Che c'è, barine?

— Domani tenteremo la prima vendetta; ne va della nostra vita.

Topine eseguì puntualmente la commissione.

In tutto il resto della giornata Loris studiò la foresta per indovinare da qual punto entrerebbe la comitiva, e come si dividerebbe pei sentieri. Quasi tutti conducevano allo stagno di Asok, famoso nei dintorni per la pesca delle anguille; ma il più breve ed insieme il più pericoloso era appunto quello degli androni, attraverso un'avvallamento del suolo dovuto ad antico lavorìo delle acque, abbastanza bello di selvaggia orridezza. Loris sapeva che fra quelle anfrattuosità v'era una caverna, nella quale più di una volta aveva riposato da fanciullo col babbo. La rinvenne. Un folto di pruni selvatici, fra cui i cani stessi avrebbero stentato a cacciarsi, la nascondeva ad ogni sguardo. Ordinò a Topine di portarvi la lucernina, provò se dal di fuori la sua luce si scorgesse, e vi fece disporre due grossi fasci di fieno. Uno avrebbe servito da letto, l'altro per otturare ermeticamente l'ingresso.

— Di chi ti vendicherai, barine?

— Di una principessa.

— Oh! esclamò Topine passandosi con atto goloso una mano sulla barba sempre impegolata di marcia: pane bianco! Come faremo?

— Te lo dirò domani.

Quella notte Loris avrebbe scommesso di avere la febbre. Gli pareva di vedere Tatiana in mille modi, ascoltava la sua voce fra un murmure lontano di applausi e di fischi per quest'opera di vendetta, nella quale una principessa bella e vergine avrebbe pagato per tutta l'aristocrazia. Poi, a certi momenti, temeva di venir meno nella stretta suprema, e si sferzava colle ingiurie per esasperare il proprio odio.

Prima ancora che l'alba sorgesse vagava già per la foresta. Tutto era incanto. Le macchie splendevano di fiori, l'erba mormorava; gli uccelli vagavano a stormi o cantavano solitari, gli insetti ronzavano a nuvole entro le pezze di sole distese fino a terra dai rami degli alberi. Una freschezza innocente saliva dagli antri più cupi della foresta, dove l'ombra ed il freddo, in altra stagione, soffiavano indefinibili terrori.

Ma Loris s'irritò di quella pace. Nella caverna trovò Topine attaccato al fiasco della vodka.

— Non voglio che t'ubbriachi quest'oggi, gli gridò strappandoglielo.

Poi uscirono assieme. Loris credeva di non ingannarsi sul punto, ove entrerebbe la comitiva: sarebbe nello spiazzo della grande betulla di Sant'Elia, perchè un'immagine del santo era confitta nel suo tronco biancastro. Topine sollevava difficoltà per ostentare la propria conoscenza della foresta; finalmente convennero di tutto.

— Ma se pigliano invece dallo sbocco della Cerva? obbiettò ancora Topine.

Loris gli rispose con una bestemmia, e andò a mettersi in agguato. Fumava. Topine, che non poteva ammettere questo per le proprie idee settarie, gli chiese un mozzicone di sigaro per farne una cicca.

Attesero lungamente. L'aria era snervante malgrado il vento odoroso, che susurrava fra gli alberi. Tratto tratto minimi rumori sembravano ingigantirsi e vanire; qualche animale invisibile passava stornendo fra i cespugli. Loris s'incantò a guardare un ramarro, che lo spiava. Poi udirono delle voci e dei passi frettolosi; erano due servi del castello, e due mugiks carichi di attrezzi da pesca, che si affrettavano verso lo stagno. Avevano preso per quel sentiero degli androni.

Passò ancora del tempo. Loris e Topine erano sdraiati a poca distanza, questi pareva sonnecchiare; sulla faccia di Loris passavano a quando a quando delle nuvole. Era vestito elegantemente di un panno cenerino, due stivali molli e giallognoli gli arrivavano alle ginocchia; una camicia di seta a fiorelli su fondo paglino, aperta sul collo e rattenuta da una cravatta svolazzante, gli scopriva la sommità del petto bianco come quello di una donna. La barba tagliata a punta dava un'aria marziale al suo viso, rimasto ancora delicato malgrado il sole e il freddo della steppa. Aveva gettato sull'erba il cappello bianco a larga tesa.

— Eccola! esclamò.

S'udiva da lungi il latrato di un cane. Loris e Topine s'alzarono a disporre l'agguato, nascondendosi reciprocamente dentro la macchia, per la quale passava il sentiero e tendendovi il filo. Ne avevano piegato i capi a cerchio, tenendoli stretti in pugno con un fazzoletto per non farsi tagliare le dita dallo strappo, quando il cavallo vi avrebbe urtato. Se non fosse stata Tatiana, bastava abbassare il filo sino a terra, che niuno se ne sarebbe accorto.

Loris si sentiva battere furiosamente il cuore, non poteva star fermo. Ogni tanto sporgeva la testa dai cespugli, non capiva quasi più, e si pentiva bestemmiando ferocemente per affrettare la catastrofe. Distinse il fremito di un uccello fra le fronde.

Poi un galoppo poderoso risuonò, le piante stormivano; una voce femminile gridò:

— Ohep!

Loris alzando imprudentemente il capo vide a poca distanza una figura di donna con un lungo velo bianco svolazzante dal cappello a cilindro, curva sul collo di un gran cavallo baio lanciato alla carriera.

— Topine! gridò.

Fu un attimo. Forse la donna aveva udito, ma non avrebbe potuto frenare il cavallo; poi un impeto come di valanga rovesciò tutto, e Loris e Topine si trovarono addosso al cavallo caduto, colla faccia graffiata dagli stecchi, travolti, quasi schiacciati, perchè il filo non si era rotto. Il cavallo pareva tramortito, la donna, sbalzata di sella a cinque passi, si rialzava. Ci fu un minuto d'incertezza.

Ella si rivolse.

— Topine! urlò Loris già in piedi. L'altro si levò pesantemente, ma scorta la donna si slanciò; parve un lupo, la rovesciò, le gettò le sottane sul capo, gliele fasciò strettamente, e con quel fardello, tutt'altro che leggero sulle braccia, si mise a correre rapidamente. Quel latrato si perdeva in lontananza.

Il cavallo, che si era rotta una gamba, gettò un nitrito doloroso tentando di rizzarsi.

Loris si voltò involontariamente a guardarlo dalla svolta del sentiero, precipitandosi dietro Topine.

Fu una corsa di pochi minuti, penetrarono nella macchia quasi contemporaneamente. Nella caverna la lanternina agitava una luce fioca. Topine gettò la donna sul mucchio di fieno, appoggiandosi per non cadere alla parete, e cercando cogli occhi il fiasco della vodka.

La donna balzò in piedi; le vesti le si abbassarono sugli stivali, si tastò istintivamente il cappellino a cilindro, di felpa nera, tutto ammaccato. Era rossa dalla soffocazione delle vesti. I suoi occhi gonfi sulle prime non discernerono nulla, poi vide Loris senza riconoscerlo; Topine restava dietro di lei. Tatiana travide la sua figura mostruosa, colla barba, così vestito di pelli, e rinculò guardando l'altro.

Allora le sfuggì un grido.

Loris spinse l'altro fascio di fieno all'imboccatura della caverna.

Quando si rivoltò, Tatiana non si era ancora riavuta. Adesso la poca luce della lucerna bastava a tutti e tre per esaminarsi minutamente. Nessuno parlava, si sentiva il rantolo di Topine diminuire a poco a poco.

Loris incrociò teatralmente le braccia. Gli era caduto il cappello, la sua bella testa aveva un'espressione satanica di trionfo, guardandola cogli occhi fissi.

Ella levò il capo.

— Un agguato! esclamò con voce tremula.

L'altro non rispose.

Tre persone erano troppe in quella caverna, nella quale si sarebbero toccate al più piccolo gesto. L'amazzone verde di Tatiana, diventata nera nella penombra, era rimasta colla coda sul fieno; ella se ne avvide e con un moto di pudore istintivo se la ravvicinò ai piedi. Il loro imbarazzo cresceva.

— Perchè mi avete rapita? gridò finalmente Tatiana con tutta l'alterigia del proprio carattere.

— Credo che vi sarà difficile indovinarlo.

— Infatti se avete sperato, che cederei così alla vostra violenza, vi siete ingannato grossolanamente.

— Meno di voi, principessa, che vi credete ancora tanto amata che vi si rubi per possedervi, ribattè Loris con gelida ironia.

Tatiana vacillò, non comprendeva più.

Egli parve contemplarla con ammirazione. Infatti così vestita, con quell'amazzone che le guantava mirabilmente il busto, un grande mazzo di capelli biondi rialzato sulla nuca sotto il cappellino, cui le ammaccature sembravano dare un'aria biricchina, pareva anche più bella. Il velo bianco le era caduto sul ventre come una falda di neve.

— Eppure, seguitò Loris lentamente, siete diventata più bella. Ti piace, Topine?

— Vieni qui, esclamò improvvisamente.

Topine gli si accostò.

— Ti piace? Guardala bene, è una principessa.

Topine aveva sbarrato gli occhi, e guatava estatico quell'incantevole figura di giovanetta tremante, col seno che le palpitava perdutamente. Ma guardandola un luccichìo gli si accendeva negli occhi bianchi, poi sbirciava il padrone come un cane.

— E bella, non è vero? Nella tua miseria non ne hai avuto mai un'altra come questa. Solo le donne dei signori sono così belle, ma sono anche più vili delle altre donne. Sono capaci di far frustare un povero che le ami, e di riderne.

Tatiana fremè; avrebbe voluto rispondere, ma un terrore inesplicabile la dominava. Le sue labbra tremavano, chiuse gli occhi. Loris attese che li riaprisse.

Tatiana si sentiva girare quella caverna intorno, un brivido freddo le scendeva lungo il dorso sino ai piedi. Un tremito della lucerna le parve l'ultimo incomprensibile schianto. Balzò indietro spaurita, urtando nel fieno, quasi vi cadde.

Loris ebbe ancora un sorriso.

— Ti piace? mormorò posando una mano sulla spalla di Topine e carezzandolo come un animale: da migliaia d'anni i pari tuoi soffrono tutte le fami.

Sulla faccia di Topine apparve un sogghigno bestiale.

— Mangia, disse Loris spingendolo violentemente su Tatiana.

Allora avvenne una scena orribile. Topine traballando cadde quasi su di lei, e l'abbracciò così che si rovesciarono entrambi sul fieno. Ella si dibatteva furiosamente, quasi soffocata dalla stretta erculea di quell'uomo, che non sapeva ancora tutto quanto voleva, e le pesava addosso con tutto il corpo. Topine le stava sopra alla bocca colla vasta ulcera del lupus, schiacciandole quasi il petto, mentre ella faceva sforzi prodigiosi per scostare la faccia, cercando cogli speroni di ferirgli le gambe.

— Ah! mordi, gridò ad una speronata, che gli ferì il polpaccio. Quindi sollevandola robustamente la conficcò con una mano nel fieno e le calcò un ginocchio sul ventre.

Tatiana rantolò.

Ma al contatto di quel corpo Topine si sentiva infiammare. Un calore spasmodico gli serpeggiava nelle vene e sulla pelle, facendogli come scottare i cenci che la coprivano. Era diventato scarlatto, cogli occhi bianchi pieni di sangue, la bocca aperta famelicamente; una riga di marcia gli colava adagio per la barba. Egli contemplava Tatiana, quasi svenuta sotto la sua mano, sentendo col ginocchio il palpito molle del suo ventre.

Un urlo sordo sfuggì al petto di Topine, che ritirò vivamente la mano dal collo di Tatiana per portarsela sotto la casacca. A quell'atto Loris si sentì come uno schiaffo sul volto. Ma fu un attimo. La mano di Topine era già scomparsa sotto le gonnelle di Tatiana, raspando ferocemente. Ella tentò ancora di sollevarsi, ma Topine più rapido le entrò tutto fra le ginocchia slargandole, e le traboccò sul collo.

La lotta ricominciò più atroce e più pazza. Ella si divincolava cercando di sfuggire sul fieno, egli le aveva messo un gomito sul collo e la soffocava tenendole sempre la mano sotto le sottane, oscillando alle scosse, che ella gli imprimeva, e perdendo spesso l'equilibrio.

Rantolavano. Il cappellino di Tatiana rotolò sul fieno e cadde dall'altro lato con suono sordo; ella si volse macchinalmente a guardarlo. Topine ne profittò per spingersi oltre, ritirando un istante la mano e ricacciandogliela subito dopo sotto il ventre.

Tatiana gettò un urlo insopportabile.

— Loris... Loris!...

Con una suprema convulsione di vergine fece arco della testa sul fieno e, puntando ambo i pugni al volto di Topine, lo respinse.

Loris vide Topine staccarsi dal suo grembo, ove le sottane lo nascondevano a mezzo. Tatiana rimase scoperta fino a mezzo le coscie; i suoi stivali alla scudiera parevano stravaganti in quel momento. Ma Topine le si riavventò addosso mormorando fra i denti, lottarono ancora; Loris intese un'altra volta il proprio nome, poi Topine furibondo scagliò un pugno sulla testa di Tatiana, che gettò un sordo gemito, e sollevandole tutte in pugno le sottane le si distese rabbiosamente sopra.

Ella tremava ancora. La sua testa semisvenuta si muoveva spasmodicamente sul fieno, mentre il petto le si sollevava spaventosamente.

— Ah! le sfuggi in un gridò straziante, cui ne segui un altro selvaggio di Topine, che si squassava su lei.

Loris incontrando lo sguardo agonizzante di Tatiana dovette abbassare il proprio.

Tatiana si senti morire.

Quando rinvenne, si trovò sotto Topine assopito sulla sua faccia; la marcia del lupus le aveva macchiato tutto il mento. Ebbe uno sguardo vago, poi vide Loris colle braccia incrociate, che la contemplava, pallido come un morto.

Allora con un balzo respinse Topine, e cadde dall'altro lato del fieno raggomitolata alle pareti. Si sentiva ferita, sanguinante. Tutto un mondo era crollato dentro di lei; Topine stava rovesciato per terra, laidamente sozzo di sangue e di bava.

Loris volse le spalle a Tatiana afferrando Topine per un braccio.

— Vattene.

L'altro si riassettava istintivamente con una mano, cercando Tatiana collo sguardo.

— Vattene, gli ripetè con voce piena di fremiti Loris, spingendolo verso rimboccatura, e spostandone con un piede il fascio, che l'otturava.

Topine esitava.

Ma Loris si cacciò vivamente la mano in tasca, ne trasse la rivoltella, e a denti stretti gli susurrò:

— Vattene o ti uccido.

Topine uscì.

Loris non si rivolse, voleva dar tempo a Tatiana di rimettersi. Quei minuti gli parvero un secolo. Non poteva più respirare in quella caverna, nè ritrovare il proprio equilibrio; finalmente intendendo un moto di Tatiana si voltò.

Ella aveva già raccolto il cappellino, era disfatta, incredibilmente più bella. Si vedeva che non poteva camminare; una vergogna inconsolabile trapelava dal suo stupore di ammalata.

Loris s'intese prendere alla gola da una pietà quasi egualmente desolata, ma facendo un ultimo sforzo raccolse il proprio cappello bianco a larga tesa, e si avanzò d'un passo.

Temeva quasi di non poter parlare: Tatiana lo guardava intontita, come interrogandolo sul perchè di quell'assassinio con tale tragica incoscienza che Loris indietreggiò.

Perchè aveva egli fatto così?

Allora Loris, che non voleva perdere dopo la vittoria, trovò nella perfidia della propria vanità una suprema ingiuria:

— Ora, principessa, vi sfido a denunziarmi.

Ed uscì.

IV.

Loris era all'università di Kazan, l'antica capitale mussulmana, quando il 13 marzo 1881 Alessandro II soccombette al grande attentato diretto da Sofia Perowskaia. L'impressione ne fu immensa per tutto l'impero; all'università gli studenti radicali ne delirarono. I nomi di Sofia Perowskaia, di Jeliabof, Kibalchich e Rissakof s'involavano dalle loro labbra fra gli inni più ardenti. La grossa borghesia rimase atterrita, il popolo minuto compianse lo Czar, i mugiks invece lo credettero assassinato dai signori per tema di una seconda ripartizione di terre, e sarebbero insorti massacrando tutta la classe intelligente ad una sola parola di Alessandro III. Nessun acido rivoluzionario aveva potuto intaccare la loro massa rurale; fra la plebe senza numero delle campagne e lo scarso patriziato individuale delle scuole, anzi che contatto ed influenza reciproca, v'erano sfiducia ed ostilità aperta.

La passione d'apostolato, conducendo nel popolo tanti rivoluzionari, non aveva servito che a svegliarvi sospetti; e se qualche missionario era parso più avventurato nel comporre alcune drouynes di contadini, gettandone i più temerari in qualche processo politico, questa lustra di propaganda era tosto vanita. I mugiks nel partecipare a quei moti avevano presi i nichilisti per emissari segreti dello Czar.

Loris era a Kazan dal principio dell'inverno. Non aveva nemmeno tentato d'inscriversi all'università per difetto dei titoli necessari, e per ripugnanza alla tirannica disciplina imposta dal terrore del governo agli studenti. Si era presentato come un figlio di pope, orfano, venuto per frequentare solamente la biblioteca. Un passaporto falso, in piena regola, comprato al solito da un agente della polizia per cinquanta rubli, lo metteva al sicuro delle prime sorprese col nome di Loris Vassilich Orobine.

Viveva con certa modesta eleganza affettando una grande austerità di costumi, e non concedendo la propria intimità che a pochi sicuri. Il suo disegno era di penetrare nello spirito del giovane radicalismo per valutarne le forze e studiarne le passioni. Mentre la negazione anarchica era nel suo spirito diventata manomania, per una facoltà abbastanza comune nell'ingegno russo una tendenza critica, sostenuta da forti qualità realiste, lo rendeva poco incline all'ammirazione di quel moto terrorista.

Fra tutti quegli studenti, che il principe di Bismark doveva definire benissimo un proletariato di baccellieri, non sentì che dolori personali provocati dall'indigenza e consolabili da un qualunque impiego. Moltissimi vivevano su borse istituite dal governo o dai privati; gli stessi ultimi czaricidi erano borsieri nutriti e educati a spese dello Czar. Gli studenti, per la maggior parte usciti dalle ultime file popolane, non avevano alcuna educazione nè morale nè intellettuale; ma spinti in alto dall'istinto delle loro famiglie, che sognavano così un avanzamento sociale, recavano negli studi colla passione di un guadagno immediato la mortificazione di una nuova superbia spirituale.

Poi la polizia, invitandoli a scuola, li sottoponeva alle più insopportabili precauzioni di sempre nuovi regolamenti, mentre l'amministrazione, anche più ostile, chiudeva loro dopo il corso dell'università quello degli impieghi.

Quindi gli studenti vivevano nella più squallida povertà, così derisi dal popolo che molti dovettero smettere l'uniforme per sottrarsi alle ingiurie nei quartieri più bassi della città. Alcuni erano alloggiati presso famiglie di artigiani o di piccoli mercanti, cui davano la magra pensione in cambio di più magri alimenti; altri s'ammassavano in case grandi come falansteri, uomini e donne in una promiscuità di miseria, nella quale i sogni politici ed amorosi nascevano colla stessa facilità. Pochi erano davvero nichilisti, allora che dopo il piccolo congresso di Lipetsk i terroristi avevano cominciato quel terribile duello a colpi di attentati e di patiboli. I più sguazzavano ancora nel radicalismo negativo, senza originalità di pensiero o di passione, che aveva ispirato gli eroi da romanzo a Tchernicewski a Tourgnenief e a Pisemski. Nemmeno lo scoppio della Comune di Parigi era bastato a dare un indirizzo più pratico alla logica del loro malessere coll'esempio della guerra civile. Gli ebrei, per l'indole dello spirito assolutista e una più dolorosa persecuzione nelle parti più delicate della vita, meglio atti a fornire un contingente rivoluzionario, erano presso che esclusi dalle università, e non potevano soggiornare nelle capitali senza diploma professionista o permesso speciale della polizia. Fra la studentesca e le alte classi nessun rapposto amichevole: gli studenti formavano una corporazione più spregiata che temuta, ora che il governo aggravava sovr'essi la mano. Poi la mendicità toglieva ogni poesia alle loro aspirazioni liberali, giacchè che appena fuori della scuola si sarebbero venduti al più miserabile degli impieghi. D'altronde la borghesia dei mercanti, quasi la sola, era troppo ignorante per indovinare il mondo ideale, che si apriva in quegli studi. Nullameno le scuole e per i bisogni fomentati, e il gusto acuito dell'investigazione, e la confidenza ispirata nel diritto, e le curiosità svegliate, e i confronti suggeriti creavano una minoranza eletta di studenti capaci d'interpretare i propri patimenti colle idee di una nuova civiltà e i dolori di tutto un popolo.

La morte dello Czar produsse nel loro piccolo cenacolo una esplosione; tutti i pareri erano unanimi. Slotkin e Kriloff, più anziani, perchè passavano di poco i vent'anni, tempestavano ferocemente; due studentesse ritornate a mezzo il corso da Zurigo s'abbandonavano ad una sorta di cannibalismo sul cadavere di Alessandro II. Si sarebbe voluto festeggiare quella strage con un banchetto e una luminaria, se la polizia avesse potuto permetterlo. Gli amori, oramai noti, di Sofia Perowskaia con Jelabof infiammavano quei giovani cuori, sebbene l'orrore di quella morte sulla forca gittasse molto freddo sul loro entusiasmo. Una colletta iniziata segretamente per coniare una medaglia commemorativa, colle due teste di Sofia Perowskaia e Jelabof da un lato e di Alessandro II dall'altro, fallì; pochi avevano danari, pochissimi osarono contribuire. Attraverso tale tumulto di frasi Loris constatava in essi una gran gioia di non essere coinvolti in quel dramma per poterlo meglio vantare a distanza. La morte dello Czar veniva considerata colle norme del classicismo, già abolito nelle scuole per timore del repubblicanesimo greco-romano, poi sostituito colle scienze naturali, e da capo reintegrato dopo che le teoriche positive delle nuove scuole erano sembrate dare frutti anche più pericolosi. Lo Czar era la vittima antica offerta in olocausto pei dolori del popolo; quella folla di studenti straccioni si vergognava momentaneamente meno dei propri cenci, pensando che un imperatore era caduto per strada sotto i colpi di miserabili pari a loro, e che pochi risoluti avevano potuto trionfare così del più potente governo del mondo.

Slotkin, incontrando Loris fermo dinanzi ad un bazar turco nella contemplazione di un magnifico tappeto persiano, gli disse:

— È arrivato Dmitri Orchanski, segretamente, uno studente di Pietroburgo.

Entrando in casa di Kriloff non vi trovarono alcuno. Per prudenza il convegno era stato mutato. La sera si riunirono fuori di Kazan in una strada deserta; erano pochi. Orchanski, giovane d'aspetto, povero, dava particolari su particolari dell'attentato colla vanteria ingenua di avervi partecipato almeno indirettamente; quindi raccontò lo scavo di Mosca, la mina al Palazzo d'Inverno, l'attentato fallito di Odessa. Una veemenza rettorica dava una grande efficacia di persuasione alle sue parole.

— Che ne dici dunque? si rivolse Slotkin a Loris.

— Aspetto la conclusione.

Orchanski offeso di quella freddezza guardò gli altri, come interrogandoli sulla fiducia, che si poteva avere in Loris, ma questi soggiunse:

— Naturalmente voi concluderete proponendo di metterci sotto il Comitato Esecutivo.

— Perchè no?

— Perchè sì piuttosto? Hanno ucciso lo Czar, sta bene: e poi? Perchè non tentare un colpo di mano sul governo? Se non miravano a questo, a che serve aver ucciso lo Czar?

— Siamo pochi ancora.

— Anche Catilina aveva pochi congiurati, ma costretto a fuggire formò un esercito, si battè e fu vinto. Egli era un grand'uomo.

— La storia romana adesso!...

— La storia è uguale in tutti i tempi.

L'accento delle loro repliche diventava sempre più aspro. Gli studenti tacevano; qualcuno s'andava voltando per assicurarsi di essere soli, ma in cuor loro propendevano per Loris. La giustezza delle sue critiche coincideva colla loro paura istintiva. La discussione proseguì ancora.

— Finora siete andati a predicare nel popolo: io lo conosco tutto, seguitò Loris con superbia, esso non vi ha creduto. Siccome eravate per lui scienziati borghesi, vi ha sospettato imbroglioni: il popolo è ancora per lo Czar. Dovevate sedurre l'esercito. Volete fare una guerra senz'armi? Avete voluto uccidere uno czar, ma il suo cadavere ve ne costa parecchie centinaia. È stato un duello ridicolo.

A questa violenza tutti protestarono.

— Ridicola Sofia Perowskaia! esclamò Kriloff.

— Anche lei. Che importa il valore personale in una rivoluzione, che solo l'idea e il metodo possono far trionfare?

Orchanski era diventato rosso dalla collera.

— Chi siete voi per permettervi tali ingiurie sull'unica gloria rimasta alla Russia?

Loris sogghignò, l'altro rispose concitato:

— Non vi conosco.

— Io invece potrei sospettarvi.

Li separarono. Orchanski predicava sempre, gli altri tornavano ad infiammarsi. Quando furono presso la città, siccome Loris accennava a separarsi, gliene chiesero il perchè. Egli si limitò ad alzare le spalle. Orchanski, che non aveva ancora digerito la prima ingiuria, intervenne daccapo. Questa volta Loris si mantenne più calmo.

— So già quello, che egli seguiterà a dire, e ciò che voi altri farete: non vi iscriverete al partito.

— Ci credi vigliacchi?

— No, ma non vi inscriverete. Questo signore non potrà vantarsi a Pietroburgo di aver fatto proseliti, ecco tutto.

— Potrei vantarmi d'avervi data una lezione.

— Vorreste battervi meco? Perchè fra tanto romanticismo politico, non avreste anche questo romanticismo borghese! Consultatevi con questi signori; se saranno del vostro avviso, vi consentirò.

Quella scena acquistò a Loris grande autorità, ma gli diminuì le simpatie.

L'ascendente del suo carattere e della sua posizione, relativamente agiata, gli avevano conquistato una vera superiorità. Egli non parlava mai come gli altri del come si sarebbe poi guadagnata la vita, e mentre tutti farneticavano sempre dell'ultimo volume letto, Loris affettava il più grande disprezzo pei libri. Il suo scetticismo sembrava ridere di tutte le forme passionate della rivoluzione; ogni precursore era per lui un sognatore, e ogni scrittore un parolaio, perchè la rivoluzione bisognava farla colla guerra, e la guerra colle battaglie. Ma, caso strano, egli non pareva loro un prudente, che parlasse così per evitare i pericoli delle congiure. Quando trasportati dall'impeto della giovinezza essi dimenticavano gli ideali rivoluzionari per smarrirsi in facili amori, egli rimaneva svogliatamente cinico e superbo.

Qualcuno propose fra loro una società segreta, questo fascino irresistibile per tutte le giovani immaginazioni, ma Loris s'oppose. Allora sarebbe valso meglio il dispotismo del Comitato Esecutivo, che disponeva almeno di qualche mezzo; però secondo lui il Comitato Esecutivo non si sarebbe più mosso per lungo tempo. Gli altri credevano invece fermamente ad un nuovo attentato per l'incoronazione di Alessandro III, dopo la dichiarazione stampata sulla Norodonia Volia. Loris invece lo dichiarava altrettanto inutile che impossibile.

— Allora?

— Una insurrezione. Sareste pronti ad arruolarvi sotto un capitano? disse loro squadrandoli così penetrantemente, che molti titubarono. Il capitano verrà forse più presto che non si pensi, forse non potrà vincere subito, ma anche sconfitto avrà fatto avanzare di un passo la rivoluzione. I martiri servono solo alle religioni, che possono venderne le reliquie.

Ma nell'alterezza di quest'idea non sapeva mescersi agli altri, simpatizzando coi loro difetti e attirando le loro forze. Il suo odio, troppo profondo contro la società, lo rendeva inabile alla vera politica, che sarà sempre la conquista delle adesioni incoscienti della folla. Un orgoglio smisurato gli impediva di agire, perchè ogni inizio essendo fatalmente piccolo gli pareva indegno di sè; i dispareri lo irritavano, talvolta s'impermaliva alla contraddizione. Nel suo sogno di vendetta si vedeva gigante sul mondo, al di sopra di tutti, senza amici, come Maometto e Napoleone. Così giungeva all'adorazione di sè stesso, triste pania di tutti gli ingegni, che si isolano, e di tutti i caratteri, che non operano.

Non leggeva e non scriveva. Poi lo riprendevano i desideri della gran vita mondana, facendogli sentire spasmodicamente l'indifferenza delle dame e dei signori, che nemmeno avvertivano la sua presenza. Allora gli pareva bella la posizione dello Czar, minacciato di morte da tutti i rivoluzionari, e nullameno fermo a non concedere nulla alle loro recriminazioni.

Benchè dicesse di essere venuto a Kazan per la biblioteca, non vi aveva ancora posto il piede, dacchè viveva in una famiglia di piccoli mercanti di grano, che gli avevano affittato una stanza. Il suo riserbo, la sua educazione, la sua stessa bellezza lo avevano reso l'idolo della casa, mentre la padrona, donna grassa sui quarant'anni, si era invano innamorata di lui, e i bambini invece lo sfuggivano istintivamente.

Nelle lunghe sere che gli studenti venivano a trovarlo, offriva loro la vodka; si leggevano i giornali clandestini, il Vpered, Zemlia e Volia, le opere di Marx, assurdamente permesse mentre quelle dello Spencer erano proibite. Quindi s'accendevano discussioni letterarie, nelle quali egli si manteneva indifferente. Allora uno degli scrittori prediletti era Ernesto Renan; Loris, che ne aveva letto poco, lo giudicò succintamente:

— Un musicista!

Non accettava nemmeno Zola, perchè il suo naturalismo gli pareva più falso di qualunque altro idealismo. Quei personaggi, viventi solo di sensazioni sensuali, erano manichini; il popolo non poteva essere così nemmeno in Francia. Una volta disse che i casuisti della morale ortodossa conoscevano l'uomo meglio di lui.

— Zola non ha mai dipinto un grand'uomo: gli sfugge dunque la parte più importante della vita. I mugiks non furono finora che candidati all'umanità.

Stimava più utile alla rivoluzione l'impianto di un opificio che un attentato; nel 1861 la Russia era senza grande industria, in quel momento possedeva già 85000 manifatture, dentro le quali si veniva elaborando il proletariato operaio. Ma la Russia non farebbe mai che una rivoluzione rurale. Questa secchezza di giudizi non piaceva. Egli non toccava mai le tesi predilette del radicalismo, la soppressione dell'eredità, l'abolizione della proprietà individuale, il libero amore, il collettivismo, il comunismo, tutti i sogni dei falansteri e l'utopie bonarie di una felicità futura nell'uguaglianza dei diritti e delle funzioni. Il solo libro, che si era degnato ultimamente di leggere, il Capitale di Marx, diventato la bibbia di tutti i rivoluzionari, non gli era piaciuto; trovava anzi ridicolo che gli economisti borghesi non avessero saputo rispondergli. Carlo Marx giudicava assurdo il sistema capitalista, senza aver saputo scoprire per quale vera ragione organica aveva potuto durare migliaia d'anni nella storia.

A che pro' la critica? Essa non migliorava l'arte e non distruggeva i fatti. Chi si sentiva capace d'insorgere doveva tentarlo, non fosse che per conquistare un posto migliore.

— Tu sei dunque individualista?

— Potrei diventare un ribelle se non lo fossi?

Poi una malinconia cupa s'impadronì del suo spirito. Qualche volta l'immagine di Tatiana, sanguinante e piangente sotto l'orribile figura di Topine, gli tornava all'immaginazione. Era essa davvero colpevole delle frustate di Vaska? Ridendo l'ultima volta a quella finestra, sapeva veramente del suo supplizio? Certo Loris allora non amava più; ma questa fredda superiorità di cuore, mettendolo al di sopra dei compagni, glieli faceva spesso invidiare, quando li vedeva felici nell'ebbrezza dei loro labili amori.

Come tutti i rivoluzionari, subiva inconsciamente il fascino dell'antica idea messianica. Se ogni fantastica ricostituzione della società finiva anche per lui alla ricostruzione di forme viete fra il convento e la caserma, l'azione storica gli si presentava ancora come opera individuale. Solamente un grande, sconosciuto ed inconoscibile da principio, potrebbe organizzare entro la propria superiorità i concetti amorfi della massa, dando coscienza alle sue vaghe aspirazioni. La predestinazione del grand'uomo era un dogma oscuro ed orgoglioso del suo pensiero; tutto gli sarebbe stato possibile tranne il considerarsi pari al popolo.

Gli mancava l'oblio di sè stesso, così necessario per trovare l'anima della moltitudine, e quella passione ardente dei minuti particolari, che forma davvero la caratteristica degli uomini d'azione. Non vi sono grandi fatti nella vita, ma grandi risultati spesso non visibili che a grandi distanze. I maggiori artefici della storia cominciarono sempre inconsapevolmente; le loro passioni coincisero col sentimento delle masse, mentre l'egoismo della loro carriera li salvò dall'incertezza dialettica dei sistemi. Credendo operare nel proprio vantaggio ubbidirono alle impulsioni popolari, finchè si ruppe l'impercettibile accordo del loro individuo colla moltitudine, e morirono abbandonati.

Loris, sentendo in Proudhon, in Lassalle e in Marx tre delle nature più vanitosamente aristocratiche del secolo, credeva di somigliare loro; e si scordava che questi oligarchi rivoluzionari, capaci di spregiare tutto nel nome del popolo senza credergli, dovevano pure per una antitesi forse inintelligibile a loro stessi avere coll'anima popolare qualche profonda affinità.

Ma nella studentesca era già scoppiato un dualismo nel giudizio su Loris; alcuni, offendendosi che non fosse studente, gli negavano ogni valore. Chi era? Che cosa faceva a Kazan? A sentirlo non v'era in tutta l'Università un professore decente, sebbene non avesse mai intesa una loro lezione; nessun autore aveva per lui abbastanza autorità. Ma gli altri insorgevano: perchè domandare ad un uomo chi è, quando il suo valore è manifesto? Non si sapeva forse che le Università russe erano le ultime del mondo? Se Loris non credeva a nulla, era questa la caratteristica del secolo, la sua superiorità sugli altri, che avevano ubbidito a idee riconosciute oggi false. I più rivoluzionari intervenivano allora: egli insultava i martiri senza avere ancora fatto nulla. Quali erano le sue idee? Parlava di guerra senza provare che la guerra fosse possibile. Il suo ingegno era ancora un enigma; però lo conoscevano coraggioso. In parecchie risse di studenti o fra studenti e popolani Loris si era sempre gittato in mezzo con una temerità superiore ad ogni complimento. Era questa la base della sua autorità, poi non faceva debiti; qualche volta prestava danaro. Nessuno lo aveva mai visto ubbriaco.

L'opposizione maggiore veniva da un piccolo gruppo, che si vantava nichilista; essi lo chiamavano per dileggio Catilina da quella sua frase.

— Catilina era amico di Cesare, ecco perchè Loris non odia lo Czar.

Una sera in un tractir s'accese fra studenti una grossa lite. Loris aveva parlato male di Tchernicewski, il martire sepolto vivo nella Siberia, analizzandone succintamente tutte le opere: la sua risposta a Stuart Mill, poco scientifica e meno filosofica, quasi sempre combatteva un testo capito al rovescio; il suo romanzo « Che fare? » diventava ridicolo come arte dopo quelli di Dostoievski e di Tolstoi; la sua stessa prigionia in Siberia, non abbellita da alcun tentativo di fuga, perdeva ogni interesse.

— Non vale più del suo partito, che non ha osato nemmeno il rischio di farlo evadere.

I più violenti s'alzarono in piedi, parlavano tutti in una volta. Loris li lasciò dire, poi volgendosi al gruppo nichilista, che fomentava gli odî contro di lui:

— Se voi amaste Tchernicewski, esclamò, invece di essere qui a Kazan, vantandole sue opere, sareste in Siberia per salvarlo.

Fu una doccia fredda.

— Occorrerebbero denari.

— In Siberia? basta il coraggio; io ho girato tutta la Russia per tre anni senza un kopek.

— Vanteria!

Scoppiò una collutazione fra i nemici e gli amici di Loris; egli vi assistè impassibile.

L'indomani era chiamato in polizia, una settimana dopo aveva passata la frontiera.

Rimase cinque anni all'estero viaggiando per l'Europa. Quando giunse a Parigi non gli rimanevano che poche migliaia di rubli; ma il suo disegno era fisso irrevocabilmente. Piuttosto che sottomettersi lavorando a qualcuno, avrebbe rubato sino al giorno, nel quale potrebbe iniziare la lotta. Su questo non aveva alcun dubbio morale nella coscienza. Con perfetta lucidezza comprese subito che di tutti i furti il più facile e il più proficuo è quello del giuoco. Da Parigi venne ad Aix-les-Bains, ove era sicuro di trovare dei maestri, avendo già scelto come giuoco più propizio l' écarté. Dopo un mese aveva stretta relazione con alcuni bari e ricevute tutte le lezioni; allora scomparve. Per sei mesi, con una pazienza da prigioniero, si addestrò nella propria camera a togliere dal mazzo delle carte il re con tale disinvolta rapidità, che fosse impossibile accorgersene; egli poi lo avrebbe tentato solamente nei momenti più opportuni, a seconda del carattere dell'avversario e del luogo. Quando credette di essere perfetto, si vestì da operaio e si mise a frequentare le bettole per tentare in basso le prime armi, e giudicare della propria forza. L'esperimento andò bene; allora ridivenne un elegante, e andò a Nizza. Si faceva chiamare come a Kazan Loris Orobine, spacciandosi per un emigrato politico; ma la sua cultura e i suoi modi squisitamente signorili dovevano ottenergli dappertutto la stessa simpatica considerazione.

Viveva solo, in un riserbo quasi troppo aristocratico, non concedendosi alcun vizio. Alcune relazioni con veri signori russi a Cannes gli valsero l'ingresso nella buona società.

Non giuocava che all' écarté dopo aver misurato il valore dell'avversario, affettando pochissima passione al giuoco, e non rubando che nel momento più favorevole. In quella vita mondana gli si era attaccata una così grande vanità signorile, che avrebbe profondamente sofferto di un qualunque scandalo proprio; quindi sulle prime vinceva appena di che intrattenere quella appariscente eleganza. Evitava colla massima cura le grandi cortigiane e gli avventurieri; per quattro mesi divenne il compagno indivisibile, quasi l'infermiere, di un vecchio lord spinitico, che aveva comprato sulla spiaggia di Cannes una villa incantevole. In questa continua tensione obliava quasi lo scopo rivoluzionario della propria vita. Finalmente un'estate, ai bagni di Trouville, potè vincere ad un americano quarantamila franchi. Ciò gli permise di arrischiare più grosse partite ogni qualvolta lo stimasse opportuno; dopo tre anni sebbene possedesse trecentomila lire non ne spendeva più di mille al mese. L'anno seguente ad Amburgo vinse un altro centinaio di migliaia di lire. Si era proposta la somma di mezzo milione.

Poi venne nella Svizzera per mettersi in rapporto coi rivoluzionari.

A Zurigo si mescolò fra la folla degli studenti e delle studentesse russe, a Ginevra conobbe i maggiorenti della rivoluzione, ma non vi fu bene accolto. Poi informazioni giunte forse dalla Russia gli rassicurarono la fama. Allora si vide circuito perchè s'inscrivesse nel partito, ma questo era già diviso in sette, che si combattevano fra loro. I compagni di Bakounine e gli scolari di Marx si facevano una guerra mortale. Nelle riunioni si agitavano più questioni accademiche che non si allestissero complotti; sopratutto mancavano i danari, quantunque l'Europa supponesse molto ricco il partito nichilista. Loris avrebbe voluto acquistarvi grande importanza senza farvi prima il gregario; ma i modi patrizi e il carattere altero glie lo impedirono. I più lo giudicavano un dilettante, di coloro che simpatizzavano platonicamente colla rivoluzione senza volervisi compromettere; però la fredda violenza delle sue idee e la inesorabile perspicacia delle sue critiche lo facevano sospettare di ben altra natura. Allora fu sorvegliato. Si seppe che era un giuocatore, si dubitò della sua onestà; fra i rivoluzionari si affollavano avventurieri di ogni sorta, troppo addestrati in tutti i giuochi per non sorprendere quello di Loris. Infatti una sera, in un caffè, Loris, avendo fatto in una partita di cento lire saltare il re, un baro se ne accorse.

Questo difetto non gli avrebbe molto nuociuto in tale ambiente, se si fosse gettato a capo fitto nel partito, ma la sua indipendenza da ogni legame e la poca stima, che mostrava pei maggiori uomini e le massime imprese nichiliste, gli attirarono molti odî. In un duello rimase ferito.

Ma ogni giorno si sentiva più scontento di sè stesso. Una sete di gloria gli bruciava il sangue facendolo sognare di un gran colpo, che lo mettesse alla testa della rivoluzione, e gettasse il suo nome a tutti gli echi d'Europa. Visitò la Germania, l'Inghilterra, per fermarsi da capo a Parigi. Era tornato allo studio nella solitudine delle proprie ore.

Un vuoto freddo e buio gli si allargava nell'anima, incapace di più amare, ora che quella fortuna al giuoco lo aveva sottratto alle più pungenti umiliazioni della miseria. In che dunque consisteva la sua preparazione? Fino a quando avrebbe durato? Napoleone a venticinque anni era già generalissimo d'Italia. Nelle più cupe malinconie qualche volta pensava al suicidio, dicendosi che i tempi non erano maturi, e forse nemmeno egli possedeva le qualità indispensabili al futuro grand'uomo.

Quell'isolamento morale, da cui non avrebbe potuto uscire nemmeno scendendo all'azione, lo condannava ad immolarsi per una grande idea o a suicidarsi, perchè nessuno può resistere nel vuoto. Egli vi si dibatteva da cinque anni. Un'amara svogliatezza dava un'aria romantica al suo volto rigido, mentre una maggiore esperienza della vita gli rendeva egualmente antipatici i gentiluomini mondani e gli emigrati politici, le cortigiane e i giornalisti, gli avventurieri e i politicanti, fra i quali era costretto a vivere. I giorni gli sfuggivano a uno a uno come a quei malati, che sanno di non poter più guarire.

E a poco a poco la Russia l'attirava, col suo popolo vergine e colla sua estensione di continente metà europeo e metà asiatico, solcata da tutte le tradizioni, agitata da tutti gli istinti, terrorizzata da un gruppo di studenti, che aveva potuto dichiarare guerra all'impero, uccidendo uno czar e tenendo l'altro prigioniero nel suo palazzo. Là tutto era ancora possibile. La Russia autocratica e piena di piccole repubbliche cosacche, col comune socialista e un governo senza libertà, si avanzava lentamente come una inondazione nell'Asia, tentando di arrestare contemporaneamente in sè medesima il progresso della civiltà. Solo nella Russia l'incredulità pessimista rinnovava ancora i miracoli delle fedi religiose, e il dolore del popolo poteva essere il prognostico più sicuro della sua grandezza.

L'inverno seguente Loris ritornava a Pietroburgo.

V.

Tatiana rimase sola nella caverna; a quell'ora le contessine Oglobine e Vaska dovevano essere sulle sue traccie, spaventati da quell'assenza. Uscì tentando di correre malgrado le fitte, che l'arrestavano, mentre la foresta le oscillava intorno come squassata da un uragano.

Da lungi risuonava un galoppo.

Il suo bel cavallo, sempre così sdraiato, aveva la gamba destra anteriore spezzata; ella ebbe appena il tempo di sdraiarglisi accanto e di prendergli la testa sulle ginocchia, che Vaska arrivava a tutta carriera. Sebbene fosse disfatta, nessuno sospettò dell'accaduto; la disgrazia di Giaour spiegava tutto.

Tatiana ammalò, ma imitando lo zio non voile medici. Per lunghe settimane rimase a letto, poi si chiuse nella propria camera in un silenzio di malaugurio, che nemmeno lo zio vivamente impressionato di quel mutamento osava rompere. Il suo volto dimagrito, illuminato dai grandi occhi cilestri, esprimeva tratto tratto uno di quei grandi dolori, che cangiano le epoche della vita, e d'una fanciulla fanno una donna, o di questa una vecchia. Aveva perduto ogni brio, non strapazzava più nemmeno i servi. Questi la credevano toccata dalla grazia del Signore, avendola più di una volta sorpresa in ginocchio davanti alle iconi nel fervore della preghiera. Infatti Tatiana, resa quasi pazza dal terrore di essere incinta, si prosternava dinanzi ai santi, chiedendo loro la grazia di farla piuttosto morire. Furono quattro mesi di una tortura inesprimibile, poi un altro spavento la colpì. Agli angoli della bocca le comparvero alcune granulazioni: sarebbe mai l'ulcera del mento di Topine?

Avrebbe voluto consultare un medico, ma una paura anche maggiore glielo impediva; e se questi avesse indovinato tutto?

Non dormiva quasi più. Malgrado ogni sforzo si vedeva sempre in quella caverna, soffocata sotto la stretta di Topine, mentre Loris la guardava con quella faccia di marmo, che ella non potrebbe più dimenticare. Quei due uomini la possedevano ancora, la possederebbero sempre; li sentiva dentro di sè come un ferro, che le fosse rimasto nella ferita, o una demenza, che le si allargasse consciamente nel pensiero. Perchè Loris le aveva fatto così, a lei sola? Ella si ricordava il suo volto diventato più bello; le era persino sembrato in un momento d'indovinarvi un dolore.

Tatiana avrebbe voluto morire di quella prostituzione inguaribile.

Le si era manifestato una malattia uterina. Quindi dopo lungo titubare se ne aperse colla vecchia cameriera, che le suggerì dei bagnuoli con alcuni succhi d'erbe altrettanti innocui che misteriosi. Cominciava a soffrire di vertigini; poi colla nevrosi vennero le convulsioni. Allora lo zio fece venire da Veronese il migliore medico, ma Tatiana si chiuse nella propria camera in preda ad una crisi così spaventosa, che lo zio dovette rimandarlo senza nemmeno averglielo presentato. Quantunque dimagrasse le sue forme acquistavano una afflitta grazia femminile, che la rendeva più bella; gli occhi le brillavano di iridi, ingranditi da un cerchio nero, che le scavava le orbite mentre la bocca le si appassiva, e il collo, allungandosele, si piegava teneramente sopra la spalla sinistra.

Non suonava più. Invece si era data alla lettura del romanzi di Zola, facendoli comprare segretamente dalla vecchia cameriera. Era quella la passione? Quello l'ideale? Eppure Loris, amandola, non era stato così: perchè si era poi mutato? Se lo zio aveva potuto frustarlo per la richiesta della sua mano, quale colpa ne aveva ella? E rivedendosi da capo in quella caverna, si sentiva ancora l'alito fetido ed oleoso di Topine sulla bocca, si vedeva seminuda, colle gambe scoperte, gli stivali in aria, tutte le sottane sul ventre bruciato come da un ferro rovente, mentre Topine la schiacciava con un gomito sul collo, e Loris pallido come un morto si curvava su lei contemplandola.

Allora impeti d'odio la facevano urlare; avrebbe voluto tenere Loris sotto i piedi per ucciderlo o farlo uccidere col più feroce dei supplizi, ma non avrebbe osato rivedere Topine. Il suo aspetto solo l'avrebbe uccisa. Come vivrebbe ella in appresso? A qual uomo potrebbe raccontare quello che le era accaduto? Quale uomo lo crederebbe? Tutto era dunque finito: la sua vita non sarebbe più che l'indomani di quella catastrofe, un indomani atrocemente monotono, senza una speranza, nella solitudine di un rimpianto inconsolabile, colla sensazione inesauribile di quel momento infernale.

Poi lentamente migliorò.

L'anno seguente, nel Novembre, lo zio fu contentissimo di accompagnarla a Pietroburgo, malgrado tutti i vecchi giuramenti di non rivedere più la grande capitale. Egli sperava che il mondo guarirebbe Tatiana di quella ipocondria incomprensibile, sentendosi egli stesso molto invecchiato, mentre madama d'Aubrivilliers invece pareva sempre la stessa, sebbene non occupandosi più di Tatiana. Quindi si era fatta prendere da molte piccole manie, annusava tabacco e coltivava i cagnolini: poi guadagnando sempre più autorità nella casa cominciava ad assumere arie di padrona, esigendo la più meticolosa pulizia nell'appartamento. Oramai tutta la sua attività si consumava nel sorvegliare la spolveratura dei mobili e la compitezza dell'arredo, così che una macchia o un ragnatelo le avrebbero dato il senso di una rovina.

A Pietroburgo Tatiana dovette riannodare almeno le più alte relazioni della propria famiglia. Il suo nome, la sua gioventù, la sua bellezza e sopratutto l'immenso patrimonio le attirarono ogni sorta di corteggiamenti; il suo spirito un po' selvatico parve originalità, la sua malinconia una tendenza sentimentale. Ma considerandosi dopo quella degradazione come morta al mondo, ne indovinò facilmente sotto l'eleganza dei modi la volgarità dei calcoli e la bassezza delle intenzioni. Tutte quelle dame si disputavano l'attenzione della folla come in una fiera di vanità, i vecchi, non avendo rimasto che dei vizi, cercavano di collocare le figliuole o di fare avanzare i figli in una qualunque carriera; la sola passione segreta, ma universale, era il danaro. Nessuno amava o stimava un altro. Le sue compagne, ingelosite di già, l'aspreggiavano con ogni maniera di calunnie sotto una rugiada di carezze; coloro, che aspiravano alla sua mano, ed erano troppi, non vi scorgevano che un magnifico affare.

Laonde la sua anima s'innalzava istintivamente ad un mondo, ove gli uomini potessero inspirare il sacrificio e comprendere la sventura. Se lo zio fosse stato in grado d'accompagnarla, sarebbe partita per un lungo viaggio. Forse lontana, sotto altro cielo, incognita fra incogniti, avrebbe potuto dimenticare e trovare un uomo, cui dir tutto, così grande da purificarla col proprio amore. Una dolcezza umida ed ombrosa come nelle incantevoli sere dell'autunno russo le scendeva da questo sogno, quando rientrava stanca dalle veglie, e lasciandosi spogliare dalle cameriere non voleva pensare alla solitudine, che l'attendeva nella notte. Allora cominciò a fumare sigarette e a bere qualche fine rosolio per scaldarsi il sangue. Erano piccole ebbrezze, che le richiamavano intorno i fantasmi di tutte le gioventù come la sua, rimettendole nei sensi ancora vergini le bramosie della donna. Quindi ribellandosi alla propria condizione si diceva colla scienza dello scetticismo mondano che nulla era ancora perduto, perchè molte altre ragazze erano anche meno immacolate, e nonpertanto disposte al matrimonio: che quello era stato un caso, come ne aveva letti tanti nei racconti dei viaggiatori attraverso i continenti misteriosi. Perchè la brutalità mostruosa di Topine avrebbe mutata la sua natura di donna e di principessa? Il mondo non sapeva quella infame vendetta, e non l'avrebbe creduta a Loris, neppure se questi la raccontasse. Nullameno sotto ogni sorriso ironico di uomo ella pensava a Loris, tremando d'essere sospettata. Loris la dominava ancora dall'alto del proprio rifiuto; egli non aveva voluto violarla, e dopo due anni Tatiana doveva ancora indovinarne la ragione. Come mai un uomo volendo violare una fanciulla anche troppo bella, faceva compiere questo delitto da un altro, invece d'inebbriarsene lui stesso? Ma Loris, amandola, e Tatiana ne era sicura, aveva potuto nullameno gittarla a Topine, come si getta un tozzo di pane immondo al proprio cane. Che cosa era avvenuto di Loris dopo quel giorno? A Pietroburgo ella non aveva ancora trovato un giovane che lo valesse; erano tutti eleganti frivoli, o diplomatici già ridicolmente inamidati nella gloriola del proprio grado, che le vantavano la sua bellezza, non pensando che al suo patrimonio, mentre Loris aveva tenuto in pugno quella bellezza senza degnarsi di delibarla. Questa ingiuria misteriosa le diventava ogni giorno più cocente, perchè nessun uomo si era ancora innamorato così pazzamente di lei da riconfermarle la fede nella sua superiorità di donna.

— Mi farai morire nel dolore di lasciarti abbandonata, le diceva lo zio.

— Voi non morrete così presto, perchè io non lo voglio: non vi sarebbe garbatezza dal canto vostro, ella rispondeva con giocondità simulata.

— Perchè non vuoi maritarti? Nessuno di quei giovani ti piace; forse non hai torto, ma in fatto di mariti la nostra società non offre molto di meglio. Se tu sogni un vero uomo, sarà difficile trovarlo: la gioventù studiosa è rivoluzionaria, quella aristocratica incretinisce nei saloni, o si corrompe nel governo.

— Allora lasciatemi attendere; c'è sempre tempo a rovinarsi.

Nell'estate Tatiana andò alle acque di Ems, che dovevano giovare anche allo zio; il viaggio invece le nocque così che dovettero rimpatriare accompagnati dal principe Vladimiro Gregorevich Tewceff, un uomo sulla cinquantina, già amico dello zio, venuto egli stesso a quelle acque per rinfrancarsi di una lunga convalescenza. Era un signore di grande educazione, coltissimo, dallo spinto severo e mordente, che piacque a Tatiana malgrado tutti gli svantaggi fisici dell'età e della figura. Egli passò una settimana al castello di Kourlak, che parve a Tatiana e allo zio una delle migliori dopo molti anni.

Poi questi essendo ricaduto sotto un secondo attacco di bronchite, nell'autunno Tatiana lo ricondusse a Pietroburgo per costringerlo a curarsi malgrado tutta la sua caparbietà di vecchio. Tatiana gli si era attaccata colla disperazione del naufrago, che sente sfuggirsi in mezzo alla tempesta l'ultima tavola. Con chi vivrebbe dopo la morte dello zio? Madama d'Aubrivilliers le era diventata così insopportabile, che l'aveva lasciata al castello con autorità di sovraintendenza. Tatiana non abbandonava più la camera dello zio, il principe Tewceff veniva spesso a trovarli; a poco a poco la loro intimità si strinse.

Un giorno lo zio le disse:

— Peccato che Vladimiro Gregorevich non sia più giovane: era l'uomo per te. Non approvo le sue segrete idee rivoluzionarie, ma val meglio averne di queste che non averne affatto.

Tatiana sorrise.

Il principe Vladimiro Gregorevich veniva tutte le sere, e spesso restava a pranzo. Tatiana, conscia della sua passione, gli era grata del riserbo che s'imponeva, quasi egli stesso sembrasse riconoscere per primo l'impossibilità di quell'amore attraverso tanta differenza di bellezza e di età. Ma il principe Vladimiro Gregorevich era forse il solo uomo a Pietroburgo che pensando a Tatiana avesse dimenticate le sue ricchezze. Questa sincerità di passione dava a Tatiana una sensazione dolcissima di nuovo orgoglio.

Finalmente lo zio le rivelò il grande segreto: il principe Vladimiro gli aveva confessato tutto. Naturalmente non aveva nemmeno pensato a chiedere la sua mano, ma il suo amore era arrivato a tanto, che non si sentiva più la forza di seguitare quelle visite; non potendo essere amato voleva almeno evitare di essere ridicolo. Lo zio diceva tutto questo lentamente, come giudicando egli stesso il caso troppo assurdo. Tatiana rimase pensierosa. Quella sera, quando venne il principe, ella fu più grave con lui; egli parve diventare più timido. Lo zio si lagnava.

— E il principio della fine, rispose al principe Vladimiro: sono come gli dei della vecchia Russia, me ne vado.

Questa parola sconsolata gelò la camera.

Infatti non era possibile farsi molte illusioni. Il vecchio tossiva e dimagrava a vista d'occhio; l'infiammazione dai bronchi era scesa ai polmoni allargandosi alla pleura. Il respiro gli diventava tratto tratto difficile.

Dopo altri discorsi insignificanti egli disse improvvisamente con voce stentata:

— Vladimiro Gregorevich, quando sarò morto, tu sarai il protettore di mia nipote in questo mondo di banditi eleganti, che sono peggiori degli altri.

— Mio buon amico, questa sera tu hai più malinconia che spirito. Signorina, dite dunque a vostro zio che domandare certi favori a vecchi amici, e la voce gli tremava guardando Tatiana, è quasi un supporli incapaci di farli.

— Tatiana resterà sola; non si può star soli.

Ella senti inumidirsi gli occhi: tutta la sua sventura le si addensò al cuore.

— Si è sempre soli nella vita....

— Credete che le fanciulle della vostra età, maritandosi, rimangano egualmente sole? intervenne il principe Vladimiro Gregorevich.

— Forse più di prima.

— Anche diventando madri?

Il principe Vladimiro si era già pentito della risposta; si alzò per andarsene. Il vecchio ebbe un accesso di tosse, e sputò dolorosamente sopra una pezzuola. Tatiana corse al comò per prendere una bottiglia; quando l'accesso fu passato, il il principe Vladimiro gli stese con dolcezza la mano:

— Dovresti riposare di più; non è vero, signorina?

— Partirai domani? domandò l'infermo.

Il principe Vladimiro tardò a rispondere, la sua faccia giallastra era diventata pallidissima; pareva lui stesso più ammalato dell'altro, ma lo zio, intento a guardare Tatiana, non se ne accorse. Ella era turbata.

— Allora, esclamò lo zio, dico tutto: già è il mio dovere.

Tatiana e il principe si guardarono istintivamente; ella arrossì, l'altro attese senza un gesto, ma lo zio non sapeva più come esprimersi.

— Ecco, disse finalmente: non ha chiesto la tua mano.

La formula era così bizzarra che Tatiana non potè schermirsi dal sorridere.

— Non ha chiesto la tua mano, perchè neanche lui può farlo: ora pensaci tu, e si rigettò sui cuscini chiudendo gli occhi, felice di essere finalmente riuscito a porre quel problema. Ma un imbarazzo si era aggravato istantaneamente sugli altri due, inchiodandoli sul tappeto presso il letto di quel morente. Tatiana si sentiva come dentro un suono diffuso e confuso.

Poi intese la voce del principe Vladimiro. Questi aveva rialzato il capo; il suo volto, sempre così malaticcio, era divenuto potente d'espressione, i suoi occhi brillavano.

— Signorina.... vorreste essere la mia vedova? Pensateci bene. Se amate qualcun altro degno di voi, io sarò sempre egualmente ai vostri ordini; vi basterà volere una cosa, perchè io non viva più che per ottenervela. Forse io sono più potente che la mia posizione sociale non lasci supporre: tenetevi pur sicura che nessuno potrà nuocervi impunemente, finchè sarò vivo.

Queste ultime parole, che parevano sfuggirgli in una esaltazione generosa d'orgoglio, furono pronunciate con un suono così terribile di minaccia, che Tatiana stessa ne tremò.

— Ebbene, principe, Tatiana ti risponderà; bisogna lasciare tempo alle ragazze. Io non ho più diritto nemmeno di dare consigli, ma la mia opinione potrò esprimerla. Tatiana è in grado di giudicare da sè. Tu, amico mio, ti sei espresso benissimo; sciaguratamente bisognerebbe che tu fossi un po' meno vecchio... anch'io lo sono troppo. Ecco il perchè.

Il principe Vladimiro, per quanto uomo di salone, non trovava il modo di andarsene; avrebbe voluto attendere una risposta, che allora capiva impossibile. Finalmente s'inchinò a Tatiana, che si lasciò stringere la mano, ed uscì come potette.

Due mesi dopo Tatiana aveva sposato il principe Vladimiro Gregorevich Tewceff senza pompa e senza seguirlo nel suo palazzo. Tale matrimonio confuse tutti i calcoli della grande società mondana, incapace d'indovinare la profondità di certi sentimenti.

Tatiana, fredda e riservata, non aveva voluto mutare nulla alle proprie abitudini di ragazza; era uscita un momento per la cerimonia, ed era ritornata al capezzale dello zio, che non lasciava più il letto. Il principe Vladimiro, quella sera, non osò chiederle che un bacio, tornando al proprio palazzo; ella gli offerse la fronte. La devozione di Tatiana per il malato era l'ammirazione di tutti; quando morì, ella fu ripresa da grandi convulsioni, che la compromisero seriamente, e volle ritornare al castello di Kourlak.

Dopo tre mesi di matrimonio si trovava col principe come alla vigilia; egli adorandola non si era permesso nè un lamento nè una allusione, ma Tatiana tratto tratto leggeva ne' suoi occhi una passione così intensa, che le faceva paura.

Infatti il principe era più temuto che amato nella stessa propria società, per la quale non aveva mai nascosto il disprezzo; ma lo si credeva generalmente un dotto, che vivesse di studi, quantunque non avesse mai stampato un libro, e nascondesse la propria vasta erudizione.

All'epoca dell'emancipazione dei servi aveva sostenuto il partito più liberale, attirandosi molti sospetti di appartenere a quello rivoluzionario; poi impegnatosi in una lotta colla polizia per difendere un cugino nichilista aveva corso nuovi pericoli. Però la sua vita aristocratica, la sua apparente devozione ortodossa allo Czar, e sopratutto il suo grado e la sua parentela lo rendevano invulnerabile. Quindi di commissione in commissione era entrato nel senato come uno dei membri più giovani. Reggeva allora il ministero dell'interno il conte Tolstoi, spirito mediocre e violentemente reazionario, che divenne presto l'uomo più impopolare della Russia; fra questi e il principe s'accese una rivalità al ministero, nelle commissioni, a corte, da per tutto. Il principe Vladimiro pareva un originale, cui la dura onestà del carattere permettesse molti atteggiamenti ribelli. In tutti i rami dell'amministrazione, ove l'avevano messo, n'era uscito promuovendo grossi scandali ma con così fine abilità da non dar presa ad alcuno dei propri nemici.

Una volta per allontanarlo da Pietroburgo gli fu offerta l'ambasciata di Danimarca; ricusò

Poi malgrado lo splendore del nome e la molte ricchezze non aveva mai voluto prender moglie, vivendo quasi sino ai cinquant'anni con una sorella, vedova senza figli, alla quale aveva testimoniato la più nobile affezione, ma che non avrebbe nemmeno essa potuto dare molti particolari sulla sua vita segreta. Non ostante quella vita a parte, passava però per un uomo di grande autorità, capace di rendere eminenti servigi allo stato, se i caratteri della sua tempra avessero potuto davvero trovarvi posto.

Segretamente era un rivoluzionario.

Come molti signori della sua classe, egli aveva cominciato a simpatizzare colla rivoluzione per il liberalismo della propria educazione occidentale. Già l'ardore del temperamento e la vivacità dell'ingegno lo avevano messo da giovinetto fra i più caldi ammiratori di Hertzen; quindi l'esperienza sempre più vasta della corruzione imperiale, cui nessuna riforma poteva nemmeno arrestare, aveva tenuta in lui viva la passione dell'ideale. I primi drammi nichilisti, dei quali tutte le migliori anime russe si esaltarono, quelle deportazioni in massa, la persecuzione a tutti gli scrittori abbastanza coraggiosi per dire la verità, lo esasperarono profondamente. Alcuni suoi compagni di scuola furono condannati alla Siberia; un suo cugino, giovane focoso e da lui sinceramente amato per la dolcezza del suo carattere, fu cacciato nelle mine, e vi morì. Questi non era stato più colpevole di molti altri, ma la Terza Sezione volle ostinatamente farne una vittima. In tale lotta per salvarlo il principe Vladimiro scese a contatti coi veri rivoluzionari, rimanendo vivamente impressionato della loro grandezza morale. Essi invece lo circuirono, lusingando i suoi più nobili istinti. Presto corsero aiuti in danaro e di ogni altra maniera. Il principe comprò una casipola a Pietroburgo per tenervi nascosto il cugino, affittandola ad altri nichilisti; quando tutti furono arrestati, la Terza Sezione sospettò di lui, ma il principe era ancora troppo ben visto a corte per poter essere travolto in simile processo.

Poi il principe, costretto dal proprio disprezzo pel governo e dall'impossibilità di impiegare in modo migliore la propria attività ad entrare nel partito, divenne pei rivoluzionari uno dei più sicuri ukrivateli, nasconditori. Molti trovarono rifugio nelle sue terre lontane; la sua posizione a corte e la sua conoscenza nell'amministrazione lo posero in grado di fornire notizie e passaporti, sventando spesso i disegni della Terza Sezione. Laonde a questa caccia dovette presto farsi cacciatore per non diventare selvaggina.

Allora tutte le forti qualità del suo carattere apparvero improvvisamente. Il suo grado sociale lo rendeva già capitano fra quei rivoluzionari, usciti quasi tutti dalle file della plebe e, malgrado ogni negazione sistematica, ancora sensibili alle vanità della gerarchia. Poi il suo ingegno e il suo coraggio gli conquistarono un'alta autorità. Quando si allargò il moto terrorista, egli si schierò col gruppo più moderato senza contrastarvi, perchè la sua fatalità s'imponeva oramai a tutti.

La sua vita si riempì così di una immensa ambizione: essere il presidente di quella segreta repubblica di minatori, che volevano far saltare il trono più grande del mondo. Ma, diplomatico cresciuto nei circoli del governo, affettò il maggiore riserbo in faccia al Comitato, che allora dirigeva quella guerra.

La morte di Alessandro II, disorganizzando il nucleo terrorista, lo mise fra i membri del nuovo Comitato esecutivo, ove recò la terribile prudenza di quell'odio signorile, così diverso dal rancore dei rivoluzionari di piazza. Nessuno conosceva come lui la cancrena delle alte classi, e sentiva più profondamente la necessità di togliere loro il potere a qualunque costo; nessuno forse metteva in tale passione rivoluzionaria una più acuta sete di rivincita, dacchè respinto da tutte le carriere politiche e libero da ogni vincolo di affetti domestici, in sul declinare di una vita malaticcia, non gli restava più che una suprema ambizione di sovrastare a tutti coloro, dai quali era stato sconfitto.

Per opera sua il Comitato mutò subito di tattica, sospendendo gli attentati contro Alessandro III. Il principe, che conosceva bene le campagne e sapeva come tutti i contadini tenessero nella propria isba al di sopra delle sacre immagini il ritratto di Alessandro I, lo Czar martire, temeva una rivolta rurale, che avrebbe fatto indietreggiare la rivoluzione di forse un secolo. Tutta la sua attività si rivolse ad una riorganizzazione dei gruppi per una nuova forma di propaganda: bisognava penetrare in tutte le recenti assemblee della vita provinciale, ed insinuarsi nell'amministrazione per cessare di temerla.

In quel tempo s'innamorò di Tatiana coll'ardore di un uomo rimasto sino allora, per l'indole del carattere e la povertà della salute, quasi casto.

Le donne non avevano mai avuto significato nella sua vita, tranne una amata molti anni addietro, mentre era già fidanzata ad un altro, e che credeva di aver reso madre. Ma quest'amore troppo breve gli si era mutato in una tenerezza poetica per quella bambina, della quale riceveva notizie, pressochè ogni settimana, senza che gli fosse mai permesso di vederla, perchè quell'altro suo padre era stato uno di coloro da lui denunciati negli scandali delle amministrazioni.

Nella solitudine di quella vita il suo carattere era divenuto sempre più cupo, impregnandosi di quell'inesprimibile odio rivoluzionario, che faceva delirare anche le teste più forti. I medesimi eccessi del governo nella propria difesa contro i rivoluzionari lo costrinsero grado a grado a mutare ogni tradizionale idea di giustizia, perchè nessuna onestà sarebbe stata logica in questa lotta contro di esso, che padrone di tutte le forze violava egualmente tutte le leggi. Il suo lungo disprezzo per l'aristocrazia, ligia al governo per viltà ed ostile al progresso per avarizia di privilegi, gli faceva persino invocare una strage, nella quale sparisse per sempre lasciando libero il campo ad una nuova classe più moderna di idee e sana di cuore.

Ma, innamorandosi di Tatiana, tutti i suoi istinti di uomo si ridestarono come una reazione a quell'assorbimento settario, che lo aveva a poco a poco isolato dalla vita. Al pari dei caratteri troppo duri si spezzò.

Tatiana fu per lui il ritorno alla vita, non ancora veramente vissuta.

Ma quel riserbo di lei, dopo il matrimonio, gli fece presentire un dramma. Quindi diventò più guardingo, affettando quasi le maniere di un padre, ed aspettando da una inevitabile crisi la soluzione. Egli aveva di sè stesso, fisicamente, una opinione così desolata, che non avrebbe mai osato pretendere dalla moglie i diritti coniugali per timore di leggergliene sul volto il disgusto. Era questo il suo martirio quotidiano.

Tatiana con donnesca furberia ne aveva approfittato. Il principe, non avendole lasciato trapelare nulla della propria posizione politica, doveva assentarsi spesso dal castello, quantunque si sforzasse con ogni espediente di diminuire il numero di quelle assenze o di renderle più brevi.

E ogni volta Tatiana gli porgeva la fronte da baciare con languida cortesia come ad un padrino.

Una sera d'estate il principe, tornato improvvisamente, entrò nelle sue stanze e la sorprese, sola alla finestra, immersa in un raggio di luna. Tatiana, oramai rimessa, era diventata più bella. La notte era piena di soffi e di aromi.

— Ebbene, mia cara, le disse dopo averla baciata in fronte, sedendole vicino e prendendole risolutamente una mano nelle mani: sei contenta della tua vedovanza?

Ella si levò bruscamente, l'altro credendo di averla offesa scostò la sedia. Tatiana si rimise alla finestra, ma si volse poco dopo. Anche lei aveva presa una risoluzione.

— Sedete, gli disse con accento grave.

La sua voce tremava.

— Voi volete che io sia vostra moglie.

— Non lo siete forse?

Ella l'interruppe.

— Pensateci prima... Certamente ho avuto torto verso di voi; non avrei dovuto sposarvi. È inutile rinfacciarmelo, perchè non ne ho bisogno per pentirmene. No, no... non interpretate così le mie parole, esclamò ad un suo gesto: non è di voi che mi pento, ma di me. Voi avevate diritto ad un'altra donna. Ora il male è fatto.

Ella si torse sulla sedia verso di lui, che la guardava immobile, e seguitò:

— Ma tutto è ancora riparabile. Voi potete divorziare; sono pronta ad accettare tutti i pretesti che si converranno, perchè sono io che ho torto.

Un singhiozzo invano frenato le tagliò la voce; il principe allungò istintivamente la mano per soccorrerla, ma ella lo respinse.

— Ecco la mia condizione, perchè ne pongo una. Voi mi crederete sulla parola: se un dubbio solo vi passa nell'anima, e lo nascondete, sarete più vile di me. Io me ne andrò, e non mi vedrete più.

Il principe non parlava. La passione di Tatiana era così sincera che si sentì preso, tutta la sua anima era sospesa nel terrore. Tatiana si levò. La sua alta figura parve crescere nella penombra, erse il capo.

— Principe, vi ho ingannato... non sono una fanciulla. Non mi chiedete di più. Se volevate una fanciulla... Ah! io sono stata violata da un mostro.

Egli aveva indietreggiato.

— Badate! proruppe Tatiana avanzandosi quasi minacciosamente contro di lui. Se credete questa una scena, colla quale io voglia ingannarvi, non parliamone più. Non posso dirvi come fui violata, ne morrei. Immaginatevi quanto di più turpe una donna, sorpresa in un bosco, possa sopportare da uno sconosciuto più immondo di qualunque animale, e non arriverete alla verità. Mi volete così per vostra moglie?

Tatiana gli si era chinata sul volto per leggerne l'espressione; era pallida, non respirava. Il principe parve sospeso un attimo, poi le aperse le braccia, la cinse senza quasi toccarla, e travolto dalla passione l'abbracciò, baciandola sul collo. Egli traballava.

Quando si furono rimessi, il principe sedè sopra una poltrona, traendosi Tatiana sui ginocchi.

— Mi ami... un poco? le sussurrò timidamente.

— No, ella disse con dolcezza, volendo essere sincera fino in fondo, ma vi stimo.

Il principe provò al cuore un morso lancinante di serpente, ma non allentò le braccia, che le teneva sulla cintura. Aveva troppo la coscienza della propria bruttezza per non indovinare il sentimento di Tatiana, e le fu quasi grato della franchezza. Il corpo di Tatiana lo bruciava entro quel raggio di luna, che sembrava dare una purezza eterea al candore del suo bel volto desolato.

— Tatiana! esclamò, stringendosela furiosamente sul petto: non mi vorrai dunque?...

Tatiana chiuse gli occhi abbassando languidamente la testa.

Dopo quella scena rimasero dolorosamente imbarazzati. Il principe avrebbe voluto sapere come Tatiana era stata violata, perchè un dubbio sottile gli era penetrato in fondo al cuore attraverso l'irresistibile sincerità di quella confessione, mentre Tatiana stessa se ne accorgeva fra il disgusto insormontabile di quel primo contatto maritale. Non poteva amare il principe. Tutta la riconoscenza per le sue maniere e la stima del suo ingegno non bastavano a riempire l'orribile lacuna rimastale in cuore; quell'uomo le richiamava Topine. Nei momenti più convulsi dell'amore ella non vedeva che la sua faccia gialla di malato diventare più brutta, mentre alla veemenza di certi suoi scatti le pareva quasi di essere preda di un animale. Quindi il sangue, invece d'infiammarsi, le si gelava; il principe lo sentiva, mordendosi le labbra e chiudendo gli occhi per nasconderne il lampo di dolore.

L'indomani ella dovette rimanere a letto; il principe ne fu così vergognoso che non osò nemmeno restare a lungo nella sua camera. Ella invece si concentrava in lunghe meditazioni, provando ancora quella stessa angoscia nauseata, che l'aveva sorpresa dopo la violenza di Topine. Che il principe fosse suo marito, il fatto ne diveniva anche peggiore, giacchè con Topine aveva potuto resistere sino a non soccombere che quasi morta. Adesso si rimproverava acerbamente quel matrimonio, accettato per paura della solitudine e per la vergogna di presentarsi così ad un giovane, che sposandola per il danaro non le avrebbe certamente creduto. E il suo pensiero tornava a Loris, terribilmente bello in quella caverna, quando le aveva gettato addosso Topine, e più terribilmente cattivo dopo con quel sorriso di scherno. Se egli sapesse ora il suo matrimonio col principe, sarebbe capace di credere che Topine le avesse inoculato il gusto dei mostri. Quell'uomo, certamente superbo della propria bellezza, si sarebbe sentito anche più bello immaginando lei fra le braccia del principe, e rammentandosi di avere già un'altra volta ricusato di possederla.

Quando Tatiana lasciò il letto, dopo una settimana, al principe stesso parve di guarire; ma non osò per lungo tempo parlarle d'amore. Tatiana affettava una tale aria di sacrificio nel proprio languore di convalescente, che una straziante vergogna qualche volta gl'impediva persino di guardarla. Ma la sua passione così repressa raddoppiava di violenza; egli amava quella donna col delirio di tutta la propria carne, e lo spasimo inconsolabile di non poter essere amato. Tutta in lei tradiva questa impossibilità. Dandogli la mano o fissandolo negli occhi, non aveva mai la più fugace di quelle intimità della donna coll'uomo, al quale ha conceduto sè medesima; mentre al tornarle dei colori sulla faccia, quando pareva riaprirsi alle gioie della giovinezza, il principe indovinava nella voluttà di certe sue pose un desiderio femminile, che lo oltrepassava forse sulla traccia di un altro uomo.

Chi era colui, che aveva violato Tatiana?

Il principe non voleva dubitare di quella sua confessione, ma una gelosia, resa più dolorosa dal sentimento della propria inferiorità fisica, gli faceva spesso pensare ad un amante, cui Tatiana avesse ceduto. Benchè non fosse mai stato donnaiuolo, conosceva troppo le donne per poter essere senza dubbi. Chi era colui? Nullameno il carattere di Tatiana, così forte nella propria dolorosa franchezza, s'imponeva alla sua ammirazione, mentre un abisso s'allargava continuamente fra loro. Tatiana non lo interrogava mai, non si preoccupava di nulla, pareva estranea alla sua vita; nella stima, che gli mostrava, v'era una indifferenza micidiale. Egli pensò perfino di rivelarle la propria vita politica per apparirle così sotto un aspetto migliore. Chi sa se la grandezza del pericolo, al quale era sempre esposto, non l'avesse commossa; ma la voce rauca dell'esperienza gli diceva che anche questo sarebbe indarno. L'amore è anzitutto una frenesia fisica, che nessuna ammirazione morale o intellettuale può produrre. Sciaguratamente Tatiana nell'ingenuità del proprio sentimento aristocratico stimava i nichilisti una setta di assassini, e parlando della tragica morte di Alessandro II se ne commuoveva come per una sventura domestica. Nell'inverno a Pietroburgo Tatiana, profittando finalmente della propria condizione di moglie, si sottopose alla cura di uno specialista, dal quale si fece naturalmente proibire ogni contatto maritale. Poi tornò ai saloni sfoggiando un'eleganza fine come l'incanto, che le veniva dalla stessa malattia. I suoi occhi umidi d'isterismo avevano uno splendore di poesia, alla quale le donne stesse rimanevano prese; i suoi languori, le sue debolezze improvvise, mentre alle volte ballava colla foga più pazza, il tono amaro della sua conversazione originale le diedero per una stagione l'impero della moda. I giornali la citavano nei loro articoli mondani; a tutte le feste ella compariva come una gloria, davanti alla quale tutte le altre s'inchinavano.

Troppi s'innamorarono di lei, ma affettando molto scetticismo galante nei discorsi ella respinse ogni omaggio. Nessuno le aveva tocco il cuore. Allora una segreta opposizione le si formò intorno, alimentata dal rancore delle donne meno belle e degli uomini respinti; si cominciò a ridere della sua originalità trovandola ostentata, del suo matrimonio col principe Vladimiro, della sua onestà senza ragione dal momento, che mostrava tanta indifferenza pel marito e tanto dispregio per la virtù coniugale. La sua malattia servì di pretesto alle più immonde invenzioni femminili; alcune signore parlando di lei sfoggiavano ignobili nozioni mediche.

Ella se ne offese.

Intanto un bisogno, lentamente cresciuto, le occupava tutto il cuore. Voleva l'amore come tutte le altre donne, ma un amore, che la purificasse dalla sozzura, lasciatale da quel mostro nell'animo. Quindi in preda alle fantasie di una testa giovane e disoccupata tesseva romanzi su romanzi, senza nemmeno guardarsi attorno per cercare l'uomo, che potesse amarla davvero. Se qualcuno le avesse chiesto di quell'uomo, come doveva essere, non avrebbe forse saputo rispondere. Lo sognava bello e grande, nello splendore della gioventù e nell'onnipotenza della forza: il suo amore per lei, che il mondo avrebbe certamente conosciuto, doveva essere una di quelle glorie della passione egualmente ammesse dai più umili e dai più illustri — Byron o Napoleone, un re dell'idea o un re della guerra. Solo così avrebbe potuto ripensare senza vergogna a Topine, come ad una espiazione anticipata del trionfo, perchè tutto si paga nella vita, e non s'arriva sulle sue alte cime che passando per le valli profonde.

Ad un ballo dell'ambasciata inglese fu presentata alla principessa Dolgorouki, amante, poi sposa morganatica, ora vedova di Alessandro II. La principessa ancora bella e corteggiata, quantunque decaduta da quella potenza, che per tanti anni l'aveva resa arbitra di tutte le Russie, si mostrò tenerissima per Tatiana, colla quale non avrebbe potuto rivaleggiare.

Tatiana riportò di lei un'impressione così gradevole, che nei giorni seguenti si fece raccontare tutti gli aneddoti più contradittori sul conto suo, al tempo de' suoi amori imperiali. Quella donna aveva potuto credersi grande, vedendo talvolta l'Europa intera sospesa ad un suo capriccio.

Involontariamente pensò ad Alessandro III, all'amore dello Czar, minacciato di morte come Alessandro II e fermo contro tutti i pericoli, buono e colossale come un guerriero dei tempi eroici.

Da principio non fu che una fantasia, quindi le si mutò in un desiderio ancora oscuro, nel quale lo Czar era piuttosto l'ultimo termine di un problema ideale che un uomo. Tatiana non aveva la più piccola idea sulla vera vita della principessa Dolgorouki fra tutti quegli intrighi di palazzo, e la lotta incessante per conquistare o conservare una influenza equivoca ed effimera; avrebbe voluto solo che lo Czar s'innamorasse perdutamente di lei vedendola.

Laonde, non essendo ancora andata ad una festa di corte, quell'inverno volle esservi presentata solo per parlare allo Czar. Ne rimase abbagliata; l'imperatore, che le aveva diretto appena alcuni complimenti insignificanti, le parve un semidio.

Tornata a casa non pensò più che a lui. Il principe Vladimiro, che si permise una osservazione sprezzante sullo Czar, fu vivamente colpito del calore, col quale ella lo difese.

— Non siete principe voi?

Questa volta egli s'ostinò.

— Non è che robusto, può alzare un quintale d'acciaio con una mano; è un po' più facile che sollevare un'idea.

Tatiana non s'arrese; il principe finì col sorridere del suo fervore monarchico. Ma siccome quella sera ella sembrava anche più fresca, arrischiò un motto d'amore. Da sei mesi ne aspettava il momento. Era ridiventato timido. Tatiana lo guardò quasi meravigliata, confrontandolo colla gigantesca figura di Alessandro III, come le era rimasto nell'immaginazione.

Allora una collera fredda irrigidì la faccia del principe, che nullameno con uno sforzo incredibile potè ancora frenarsi.

Ella gli aveva già letto nell'anima, ed alzò duramente la testa.

— Siete cattiva meco, mormorò con accento insinuante.

— Non intendo di ammalarmi.

Ma egli la fissò in modo da farle comprendere che quella scusa non poteva ingannarlo: Tatiana arrossì. Il principe le prese una mano fra le sue ardenti dalla febbre.

— Non diverrete dunque mai mia moglie?

— Volete dunque prostituirmi, dacchè il medico vi ha pur detto tutto! gridò volgendogli le spalle sdegnosamente.

Il principe rimase atterrato.

Qualche tempo dopo dovette andare a Sebastopoli per coordinarvi alcuni circoli nichilisti, nei quali pericolosi dissensi minacciavano di produrre una catastrofe. Partì colla morte nell'anima. Si credeva sicuro che Tatiana non lo ingannerebbe con alcun uomo, ma quel suo ultimo rifiuto irrevocabile gli toglieva l'estrema ragione della vita. A che pro lottare ancora? La passione rivoluzionaria veniva languendo nel partito, scompaginato dall'ultimo sforzo terrorista; era quindi impossibile sognare una prossima rivincita, colla quale giungere simultaneamente alla gloria e al potere. Egli stesso si sentiva troppo vecchio.

A Sebastopoli il partito si sfasciava. Egli si informò appena delle sue condizioni, dimenticando persino quella prudenza, che aveva sempre usato per nascondere i propri rapporti coi rivoluzionari; molti lo credettero malato. Ma una mattina ricevette per la posta questo biglietto:

«Vostra moglie è stata ricevuta dallo Czar: guardatevene.»

Invece della firma v'era la sigla del Comitato Esecutivo.

Il principe riconobbe il carattere di colui che l'aveva scritto; era il suo rivale, ma appunto per questo non potè dubitare della sua sincerità. Fu uno schianto di morte. Ripartì subito col primo treno, scordandosi persino le valigie. Il viaggio lunghissimo gli parve eterno, sebbene non vi pigliasse alcuna decisione. Viaggiava in uno scompartimento di prima classe, affagottato nella pelliccia, nascondendovi il volto, così che gli altri viaggiatori credevano sempre dormisse, e parendogli in quel rullìo incessante del vagone di essere sopra una nave abbandonata alla tempesta in alto mare. Non sapeva raffigurarsi nemmeno chiaramente Tatiana. Quando bisognava scendere per mutare treno, sembrava smarrito; non mangiò e non bevve.

Ma arrivando a Pietroburgo si sentì nell'animo come un colpo di vento gelido, che ne spazzò tutte le nebbie. Si gettò nel primo fiacre e si fece condurre al palazzo. Erano le undici del mattino, Tatiana doveva essere alzata. Entrando nel suo gabinetto passò dinanzi ad uno specchio, e vi si vide talmente disfatto che rabbrividì di sè stesso.

Il suo volto era terribilmente livido; ella balzò in piedi arretrando e questo atto la tradì. Una luce quasi fumida ondeggiò sugli occhi del principe.

Era impossibile dubitare. Rimasero così qualche secondo, squadrandosi, quasi egualmente pietrificati da quella confessione.

Tatiana vacillò.

Allora il principe abbassò gli occhi e, traendosi dalla tasca interna della giacca nera il biglietto, glielo porse. Tatiana in quell'attimo lo aveva già osservato. Il principe aveva gli abiti spiegazzati, il colletto della camicia sudicio e pesto; il giallore cinereo del suo volto, in quell'insonnia disperata di due giorni senza riposo e senza cibo, era diventato spaventevole, ma i suoi occhi sprofondati nelle borse, che gli penzolavano floscie sulle gote, brillavano come due carboni.

Ella gittò macchinalmente uno sguardo al biglietto, e lo lasciò cadere sul tavolo mirabilmente incrostato di madreperla. Il principe fece un passo, lo riprese gualcendolo furiosamente, e se lo rimise nella tasca dei calzoni.

— Vero!? stridè a denti stretti.

La sua voce parve a Tatiana di agonizzante, ma la sua bocca tremava di una tale minaccia, che davanti al pericolo ella ritrovò tutto il proprio coraggio.

L'altro ripetè quella parola con un gesto.

— Se lo credete, perchè chiedermelo?

— Confessate?...

— Che cosa?

Il principe sentì di perdersi nell'uragano, che lo squassava; la donna, come sempre in questi casi, aveva già riacquistata la propria superiorità. Ma il principe nella confusione di un dolore anche più violento della collera non capì quello, che stava per dire; gli rimaneva solo la coscienza di uno strazio inesplicabile, e come un fanciullo gridò singhiozzando:

— Perchè dunque?

Ansava. Si vedeva che non poteva piangere e nemmeno pensare. Tatiana lo contemplava, accumulando inconsciamente le energie della resistenza; l'egoismo vitale le toglieva di partecipare a quell'angoscia.

Ma quando il principe potè parlare, le loro volontà si cozzarono come due montagne di ghiaccio. Erano troppo forti per minacciarsi scambievolmente, e tuttavia le loro spiegazioni avevano la terribilità della morte.

— Mi avete tradito.

— Non fui mai vostra moglie.

— Sia, ma la vostra parola...

— Adesso avete la mia vita.

— La vostra vita! esclamò con uno scoppio di rimpianti, che la fece fremere: la mia vita eravate voi, ora non ho più nulla. Un assassino non potrebbe offrire la propria vita ad una mamma dopo averle ucciso il figlio. Allora, perchè ucciderlo prima? Ma vi è un mistero qui...

Ella non rispose.

— Voi non amate lo Czar; è un facchino, mentre io....

Un sorriso tagliente passò sulle labbra di Tatiana; egli lo colse, e fremette di un nuovo spasimo.

— Una donna si rivela nell'uomo che sceglie.

— Infatti io vi ho sposato, e avrei per amante lo Czar.

— Lo confessate?

— Accetto la vostra affermazione. Dal momento che mi accusate sulla fede di una lettera anonima, non posso difendermi scendendo più basso di chi la scrisse. Aspetto la vostra decisione. Quando ebbi qualche cosa a confessarvi, lo feci non richiesta. Avete tutto il tempo per riflettere, aggiunse con calma ironica: lo Czar non mi difenderà.

— Non lo potrebbe, nemmeno volendo, perchè sua potenza non arriva sino alle anime! Noi siamo qui dinanzi al problema della nostra vita. Io non ho amato che voi; perchè? Voi potete saperlo forse, io no. Quando una passione mette così una persona umana nella dipendenza di un'altra, questo tremendo mistero non può rivelarsi alla creatura, che vi soccombe. Io vi ho amata inevitabilmente, così come vi veggo, perchè ho gli occhi. Quando mi diceste di essere stata violata fanciulla da un mostro, lo credetti: se mi diceste ora di non esservi abbandonata allo Czar, lo crederei ancora. Ma voi non amate lo Czar, non avete ceduto che al suo grado: ecco il vostro mistero. La vanità non può essere una passione, è troppo piccola.

— Avete ragione.

Il principe a poco a poco si ricomponeva: una severità solenne gli apparve sul viso. Aspettò qualche momento, poi le si volse:

— Ditemi ora quello che intendete di fare. Io appartengo a qualche cosa di così alto, che debbo sempre sapere dove sia la mia vita. In Russia l'amante dello Czar potrebbe, anche involontariamente, riuscire fatale a molti.

A questo discorso Tatiana tremò; il principe proseguì:

— Il vostro potere finisce in me: al di là vi è un'altra ragione, che nessuna passione può travolgere. Ecco perchè devo chiedervi che cosa intendiate di fare. L'amante dello Czar può chiamarsi principessa Dolgorouki come principessa Tewceff, ma il mondo ha diritto di conoscerla. Volete restare nel mio palazzo come portate il mio nome? Ditemelo, è il mio diritto di uomo, non di marito, poichè non avete voluto mai essere mia moglie. Volete divorziare? Ditelo, è il vostro diritto di donna. Non chieggo altro: regolerete i vostri rapporti, come vi piacerà, e mi farete apparentemente nel mondo la posizione, che vorrete. Che importa? La vanità è troppo piccola per essere una passione.

— Si può diventar vani anche per disperazione, ella ribattè con una allusione egualmente torbida.

Ma il principe la richiamò alla realtà di quella strana situazione.

Tatiana si sentiva travolta, nullameno potè ancora dirgli:

— Decidete voi stesso se dovrò restare presso di voi o divorziare.

Non vi era più che una parola da dire.

Allora il principe provò come un altro improvviso avvallamento. Quella terribile scena era finita troppo presto, e quasi volgarmente nell'apparenza, malgrado la tensione dei sentimenti e delle idee, che vi si appiattavano. La fatalità della decisione lo sorprese.

Tatiana, tuttora vibrante della prima emozione, gli parve in quel momento più bella di purezza. Un lampo lo abbagliò; e se quel membro del Comitato Esecutivo si fosse ingannato per un caso inesplicabile? Tatiana era tal donna da lasciarsi accusare di adulterio, subendone tutte le conseguenze, piuttosto che scendere a difendersi. Infatti la sua bocca era rimasta contratta in un sorriso doloroso, mentre la fronte le splendeva superbamente, e negli occhi limpidi e cilestri come il cielo delle albe più vivide le s'allargava una divina trasparenza. Simile all'incredulo, nel quale rimase il bisogno della preghiera, egli sentiva la fede in quella donna invadergli nuovamente l'anima, contemplando la sua immagine sempre più lontana, quasi immobile sul filo luminoso del proprio sguardo, come l'ultimo fantasma della vita, quando le onde della morte stanno per sommergerla.

— Restate.

PARTE TERZA

I.

Quella notte sulle dieci Loris dovette cenare col principe nel salotto azzurro di Tatiana; ella li aveva fatti invitare dal maggiordomo, e il principe si era affrettato a parlarne con Loris. Questi, ridivenuto padrone di sè medesimo, ascoltò colla massima freddezza le sue spiegazioni.

— Non sareste malcontento, gli si rivolse, che qualcuno l'umiliasse.

Il principe titubò.

— Quella donna è la fine della vostra vita. Adesso, nell'impossibilità di farvi amare da lei, non vi resta che l'amore di un altro, il quale la spezzi, per possederla almeno in frantumi. Ma voi non l'amate abbastanza per aspettare di ottenerla così.

Il volto del principe esprimeva un'angoscia umiliata.

— Vi ho indovinato come la prima volta. Avreste dovuto soggiogarla, perchè la donna è nata schiava; può preferire un amante, ma soggiacerà sempre ad un padrone.

— Voi non avete dunque le idee correnti sull'emancipazione della donna?

Loris alzò le spalle.

— Ogni vittoria è maschile. Se avessimo ucciso lo Czar, ne avreste rivelato il segreto a vostra moglie per ingigantirvi nella sua fantasia; non è vero? Ebbene, ella vi avrebbe invece creduto un vile assassino, e vi avrebbe denunciato.

— Voi non conoscete l'alterezza del suo carattere.

Il principe si era alzato nervosamente guardando Loris. Tutta la segreta ambizione della sua vita si era infranta nella volontà di quel giovane, che sembrava sfuggire alle crudeli necessità delle passioni, nelle quali si consumano le anime più forti.

— Ella vi subirà, mormorò il principe.

Loris aspettò.

— A voi non sfuggirà quello che le manchi. Lasciate che mi confessi con voi, seguitò con voce quasi umile, voi siete qui il mio superiore, l'unico uomo, al quale possa dire un segreto, di cui tutti riderebbero. Voi, che non amate e non volete essere amato, potrete facilmente scoprire nell'imbroglio di una passione il suo segreto micidiale, come un medico legge fra i sintomi di una malattia quale ne sia la causa.

— E quando pure lo indovinassi?

— Mi aiuterete. Io sono vecchio, anche più di quanto lo sembri. Vi farò entrare nel Comitato Esecutivo, del quale v'impadronirete in pochi giorni, mentre io non vi sono riuscito in cinque anni. Avete ragione: la politica non sopporta altre passioni, bisogna amarla per sè stessa rinunciando a tutto per mettersi al disopra di tutti. Io non lo posso; sento che per Tatiana sarei pronto a dimenticare tutto. Vedete; da che sono ritornato, non mi riconosco più lo stesso uomo. Quando poco fa la stringevo svenuta fra le braccia, mi è sembrato per un momento che morisse, e ho provato l'angoscia del vuoto eterno.

— Non odiate più nemmeno lo Czar?

Gli occhi del principe rifiammeggiarono.

— Quell'uomo, esclamò, ha potuto non amarla! La sua profondità di bruto supera quella stessa dello spirito.

— L'avreste ucciso, se ella lo avesse amato?

— Sì, ma non si amarono: ecco il mistero. Potevo uccidere lo Czar; e poi? Gli ha ella ceduto in quel colloquio? Vi ho pensato spesso, spogliandomi di ogni qualità di marito, e non sono giunto a decidermi per alcuna soluzione. Odio istintivamente quell'uomo; eppure non sono certo di credere che sia stato l'amante di mia moglie. Ella da quel giorno fu impenetrabile d'indifferenza; se ha voluto lo Czar ai propri piedi, o non le riuscì o non le basterebbe più. Adesso la vita di Tatiana è spezzata come la mia. Nulla al mondo l'interessa; la solitudine del suo orgoglio è l'ultimo impero, che le rimane.

Loris si era fatto pensieroso. Quella confessione del principe, così nobilmente umile davanti a lui, gli mostrava un nuovo aspetto della natura umana, mettendogli nell'anima un sottile senso di paura. Che cosa era dunque questa passione di amore, che riempiva tutta la vita di un vecchio, al quale la fatalità della rivoluzione si era pure rivelata da molti anni? Quanti uomini avevano in cuore altre passioni individuali, e dimenticavano quindi, o dimenticherebbero poi, le supreme esigenze della rivoluzione? Dopo quell'attentato fallito, nel quale tutte le Russie avrebbero potuto rinnovarsi, ecco che ritrovava da capo la vita ordinaria colle sue passioni effimere ed assolute, perchè gl'individui devono inevitabilmente preferire sè stessi a tutto il resto.

Il principe sembrava ricaduto in una meditazione.

Tatiana entrò nel salotto, ove l'attendevano da mezz'ora. Era vestita di un casimiro nero, senza nè ricami nè sbuffi; il corsetto attilato rivelava tutta la superba bellezza del suo busto, dandole col solino dritto e rigido un'aria anche più imperiosa alla testa. Era pettinata alla greca, bizzarramente, coi capelli attorcigliati sulla nuca, e gonfi a riccioli sulla fronte. Dal collo alto e sottile le scendevano tre o quattro fila di coralli ardentemente rossi su tutto quel nero, e un grosso brillante le sfolgorava all'anulare della mano destra, lunga, sottile e bianca.

Accettò la presentazione di Loris senza notare la falsità del suo cognome; quindi sedette invitandoli col gesto. Il tavolo era rotondo. Loris le stava quasi di fronte, per qualche momento la conversazione non fu possibile. Malgrado la propria freddezza Loris non poteva a meno di trasalire guardando il volto bianco di Tatiana, che si dorava ai riverberi dei capelli, mentre negli occhi ingranditi dalla malattia le tremolava un dolore indefinibile. Con quell'abito nero, sotto al quale il seno piuttosto basso, forse libero da ogni busto, le disegnava una curva molle, resa più voluttuosa dagli angoli acuti delle spalle, pareva anche più magra. Le maniche strette le modellavano le braccia esili, animate tratto tratto dalla nervosità delle mani.

Stava seduta rigidamente, colla testa inclinata a sinistra.

Il principe la serviva con attenzioni affettuose di padrino.

Ella guardava Loris, ma questi, deciso a non parlare pel primo, affettava il contegno riservato di un gentiluomo alla tavola rotonda di un grande albergo.

Finalmente il principe potè annodare la conversazione sui soliti nonnulla. Parlarono di Mosca, di Pietroburgo, della vita russa in campagna, di tutte quelle notizie volgari, che riempiono i giornali e i salotti delle signore.

Il principe raccontava le proprie impressioni della neve in quell'ultimo viaggio.

— È una rivelazione dell'infinito, disse Tatiana, quel bianco, che nulla può macchiare o esaurire nelle nostre steppe. L'anima russa vi ha attinto forse la sua massima virtù.

— Quale? chiese Loris.

— La pazienza.

— Forse per ciò nessun poeta russo ha saputo cantare l'inverno: la pazienza non può essere che del popolo.

— Se il popolo rimase paziente nella forza del proprio numero, perchè un individuo non lo diventerebbe nella grandezza della propria passione?

Il principe aspettava la risposta, Loris sorrise.

— La passione, aspettando, confessa a sè medesima la propria debolezza, e soccombe generalmente a questa rivelazione. Quando l'orso è davvero affamato, lascia l'agguato per rimettersi in caccia.

— Questa potrebbe riuscirgli molto meno sicura, osservò il principe. Avete mai cacciato l'orso, Loris?

— Non ebbi che fanciullo uno scontro coi lupi nella foresta di Kourlak.

— Quella del tuo castello, Tatiana: la conoscete bene, Loris?

— Me ne rammento ancora, ma la principessa avrà seguitato a cacciarvi, e la ricorderà meglio di me.

— Non la dimenticherò mai, ribatto Tatiana portandosi la mano al seno, e fingendo di accarezzarsi i coralli rossi per dissimulare il tremito delle mani. Vi sono certe prime impressioni, che rimangono indimenticabili come un delitto.

— Infatti solo i grandi delinquenti sanno scordarsi dei propri crimini, e questo loro oblìo è forse la sfida più temeraria, che un uomo possa gittare a tutte le leggi. Voi, principe, che siete senatore, ne avrete forse conosciuto qualcuno di questi grandi uomini, che fanno della propria galera una Sant'Elena, o salgono al patibolo come ad un trono. Qualunque sia il giudizio, che la società è costretta a portare sovra di essi, bisogna confessare che la ribellione della loro volontà è una delle glorie più altere del carattere umano.

— Non credete ai loro rimorsi? replicò Tatiana prevenendo il principe e scrutando il volto di Loris, che si nascondeva dietro il velo sottile di una allegria da tavola.

Quella battaglia di allusioni al passato, inintelligibile al principe, le aveva già messo nell'anima un orgasmo pieno di trepidazione.

— Almeno non ne mostrano, ma è difficile sapere se il delinquente creda di aver torto. Le nostre idee del bene e del male secondo i codici non sono quelle di tutti gli uomini; fra cento delitti, forse almeno in novanta, colui che li commise, giudicò allora di aver ragione, o se li permise come un compenso alle proprie sofferenze. Naturalmente la società non può accettare questi conti, e costretta a difendersi immobilizza o sopprime il delinquente, che in questo caso si considera piuttosto vinto che colpevole. Ecco perchè la maggior parte dei delinquenti mostrano davanti alla morte il medesimo coraggio degli eroi.

— Così voi togliete alle vittime l'estrema consolazione di credere che la loro superiorità morale si riveli agli assassini più umiliante di tutte le condanne.

In quel momento un servo recava entro un vassoio d'argento un gelato a piramide, sul quale era piantata una larga paletta d'oro dal manico attorcigliato.

— Dite dunque alla principessa, voi magistrato, che le vittime hanno sempre torto di essere tali, o perchè la natura le gettò sul sentiero dei più forti, o perchè nella loro ingenua vanità pretesero di combatterli. Guardate questa verità nella zona più frivola della vita: chiunque, non sapendo farsi amare, fu respinto o tradito malgrado tutta la sincerità della propria passione, non potrà mai ottenere compensi alle proprie pene se non innamorando con una seconda trasformazione il proprio avversario.

Il principe a questa allusione ironica sussultò; Tatiana aveva perduta la prima disinvoltura, e teneva gli occhi bassi, ma sentendosi quelli del principe sopra li alzò macchinalmente. Una contrazione quasi invisibile di dolore le animava la bocca, mentre l'altro la guardava, trepidando sotto quello scherno di Loris, che li riavvicinava. Ma Tatiana in questa nuova umiliazione sentiva come una dolcezza inesprimibile evaporare da tutto il suo essere di donna, e confondersi coll'amore del principe. Una bianchezza luminosa le passò sulla faccia, allorchè alzando gli occhi verso Loris coll'indefinibile umiltà degli innocenti, che soffrono, gli rispose in un murmure:

— L'amore reietto diventa così nella creatura amore divino.

Poi la conversazione cadde.

Quando Tatiana si levò da tavola per passare nell'altro salotto, Loris tardò abbastanza perchè il principe dovesse offrirle il braccio. L'accento sottomesso di Tatiana in quel primo scontro gli aveva dato un compiacimento di superbia, nel quale vibravano già alcune note voluttuose. Malgrado tutti i propositi non aveva potuto schermirsi da un senso di viva ammirazione contemplando quella fragile ed altera bellezza di Tatiana, così dissimile dalla fanciulletta di un giorno, ora che una malattia forse inguaribile, isolandola tratto tratto nell'impotenza del sesso, aveva dato alla sua fisonomia una spiritualità dolorosa. Quella malattia era forse l'orma lasciata sovr'essa da Topine; Loris non potè dubitarne nemmeno un istante, e la sua stessa brutalità ne fu scossa. Quel martirio di tutta la vita era troppo per un fallo, che la storditezza della gioventù avrebbe dovuto scusare.

Ma la sventura, innalzando Tatiana sulle cime più pure dell'essere femminile, aveva raffinata la sua anima collo stesso esercizio dei santi, che lungi dai contatti del mondo cercano la vita nelle indicibili rivelazioni dell'ideale.

Un ricchissimo samovar d'argento fumava tenuamente sopra un tavolino. Il salotto era piccolo, tutto in legno come una cabina; molte pelli di orsi e di leoni pendevano alle pareti da grandi chiodi neri; sul pavimento di quercia a quadrelli un breve tappeto persiano dai colori smaglianti sembrava una fiorata. Nessun specchio. Un lume enorme a petrolio, in bronzo verde, sostenuto da una catena ardeva come un braciere; nell'angolo un pianoforte verticale nero, in quella chiarezza di tutto l'altro legno, diventava cupo come l'abito di Tatiana. Sedie e poltrone erano di modello americano a bastoni ricurvi, piegati a vapore, con una tela rada e fine di scorza.

La canzone del samovar saliva gorgogliando.

Loris si guardò attorno; se il salottino avesse oscillato si sarebbe creduto in alto mare.

Mentre Tatiana preparava il the, il principe fumava cogli occhi socchiusi; Loris imbarazzato da quella loro disattenzione cercò sulle pareti qualche oggetto, cui interessarsi. Non vide che il ritratto di un cavallo. Nell'aria caldissima passava il soffio continuo della bocca del calorifero cerchiata di ottone. Quando il the fu pronto, Tatiana ne portò la prima tazza al principe, trattandolo così piuttosto da padre che da marito; poi venne coll'altra verso Loris colla fredda disinvoltura di una gran dama. Gli porse la tazza, e andò a sedersi presso il principe.

Un silenzio si appesantì nel salotto. In quel momento Loris pensava che se il principe Kovanski gli avesse concessa la mano di Tatiana, egli l'avrebbe amata forse per sempre, e la sua vita si sarebbe svolta signorilmente in un castello, fra l'amore di una famiglia e il rispetto di tutto il mondo. Ma subito un amaro orgoglio gli fece disprezzare quella visione di pace; il suo sguardo cadde su loro come una scudisciata.

— Quanto contate di restare al castello, principe? gli chiese con voce quasi imperiosa.

— Non lo chiederete già per lasciarci troppo presto: non è vero, Tatiana? Questa è forse la prima visita, che ricevi nell'anno.

— La principessa ne riceverà ancora; le grandi dame non fanno altro.

— Invece io sono sempre sola.

— Voi sola ne saprete la ragione. Generalmente il mondo lo si evita quando non si seppe conquistarlo; ma vi sono, aggiunse ironicamente, oltre i re decaduti quelli che ricusarono la corona.

— E gli uni e gli altri sono egualmente incomprensibili alla satira del volgo, osservò il principe.

— Il volgo satireggiando un re non s'abbandona ancora che al proprio corruccio di schiavo incapace di distruggere ciò che gli nuoce. Se ho consentito ad accompagnarvi qui, caro principe, speravo che non vi ci fermereste troppo a lungo: m'accorgo ora che avrei torto di togliervi alla felicità di questa solitudine.

— Perchè non riposereste qui voi stesso qualche tempo? La vostra grande opera non ne soffrirà; siete ancora nell'età, che permette le vacanze.

— Potrei chiedervi, signore, domandò Tatiana con voce aggressiva, quale è l'opera, cui vi siete votato?

— Perchè ve lo direi, principessa? A voi sembrerebbe assurda poichè l'amore non vi entra.

— Sareste per caso un nichilista? Oggi, aggiunse sorridendo, si trovano anche nella migliore società.

— Infatti, anche lo czarevich è sospettato di nichilismo: ma voi, principessa, rassicuratevi, io non credo abbastanza alla rettorica per essere un nichilista.

— Credete rettorica una setta, che ha ucciso uno czar?

— Forse appunto per questo. Alessandro II era così bello, che tutte le signore lo venerano oggi come un martire. Infatti lo è stato. La sua morte fu inutile anche a coloro che la vollero; credevano di uccidere un tiranno, e non ammazzarono che l'amante della principessa Dolgorouki.

— Voi sembrate scherzare su quell'orribile delitto.

— Ne trovo ridicoli gli autori, mentre voi giudicate un santo la vittima. Vedete bene che in due forniamo di quello czaricidio il giudizio più ortodosso.

Loris pronunziò queste parole con così sprezzante ironia, che Tatiana fremè. Da qualche momento ella ritrovava in lui gli accenti e gli atti imperiosi del fanciullo, quando improvvisamente si ribellava alla tirannia de' suoi capricci.

— La principessa Dolgorouki, sposata da Alessandro II, avrebbe dato alla Russia quella costituzione, per la quale si sono commessi tanti delitti; ne aveva già persuaso lo czar.

— Sciaguratamente le donne possono dominare gli imperatori, non gli imperi. Ora la principessa Dolgorouki è vedova, e la Russia, aspetta ancora la costituzione. Chi sa se un'altra donna, innamorando Alessandro III, non possa compiere il voto di Alessandro II?

Una fiamma di rossore sali al volto di Tatiana.

— Se non credete all'influenza delle donne, negherete anche quella di Sofia Perowskaia nell'attentato contro Alessandro II.

— Sofia Perowskaia vi morì come lo Czar. Essa amava Jeliaboff, forse più che Alessandro II non amasse la principessa Dolgorouki: ma essendo egualmente principessa non potè sottrarsi alla fatalità dell'amore romantico in un'impresa storica. Adesso le grandi dame la ripudiano; un giorno i poeti, svisando tutto al solito, la confonderanno forse colla principessa Dolgorouki.

— Avete conosciuta la principessa Dolgorouki?

— L'ho vista a Pietroburgo. Una donna, che si deve essere creduta onnipotente per avere innamorato un uomo!

— Vi è forse qualche cosa più potente dell'amore? domandò Tatiana, guardandolo ansiosamente.

— Non credo che Colombo sia andato la prima volta in America per cercarvi un'amante.

— Così, replicò con un sorriso, che avrebbe voluto essere di scherno ed invece era doloroso, chiunque non ami può stimarsi un Colombo?

Loris si voltò al principe.

— Certo, non amando, un uomo può facilmente dominare gli altri.

— Voi non amaste mai? gli chiese insidiosamente il principe.

— Da fanciullo, come si crede da fanciullo.

— Chi ha amato amerà, replicò il principe. Tatiana andò al pianoforte aperto. Il principe si affrettò a raggiungerla, fingendo di volerle porgere la musica da una cassetta nascosta nell'angolo dietro il pianoforte.

— Confessa, mia cara Tatiana, che vuoi rispondere alle desolanti opinioni del signor Loris con qualche pezzo del tuo Schumann.

— Non amate la musica? gli si rivolse Tatiana.

— Ho questo di comune coi veri poeti, l'antipatia per un linguaggio, che non può nulla precisare.

Tatiana, già seduta sullo sgabello, si torse verso di lui; Loris si raddrizzò in tutta l'alterigia del proprio portamento. Era bello, ma la durezza dei suoi lineamenti doveva in quel momento renderlo antipatico.

— Voi stesso sapete suonare, esclamò ricordandosi imprudentemente di avergli ella stessa insegnato la musica.

— Da fanciullo.... come amavo, come credevo.

Il principe si accorse che Tatiana era battuta, ma leggendo ne' suoi occhi una angosciosa ripulsione per Loris si abbandonò istantaneamente alla più pazza speranza. Convinto di aver ben compreso il carattere di Loris, lo giudicava incapace di attardarsi in un amore, specialmente allora colla responsabilità di un attentato fallito e col frenetico proposito di una rivincita. I suoi modi freddi e dominatori avevano offeso naturalmente in Tatiana le fibre più delicate del sentimento femminile. Per un momento pensò d'intervenire gettando una frase melanconica ed affettuosa nel loro diverbio, ma vedendo Loris pronto a riprendere l'offensiva stava maliziosamente per lasciarlo fare, quando Tatiana impallidì.

— Ti senti male? gridò il principe con voce spaventata, lanciandosi verso di lei.

Loris rimase impassibile.

Tatiana, che realmente si era sentita salire nel cervello come, una nebbia, ebbe un gesto elegantissimo di smarrimento; poi si rinfrancò, e reagendo con bruscheria sopra sè stessa tornò a sdraiarsi sulla lunga poltrona presso il principe.

Loris non aveva ancora fumato, il principe gli offerse l'astuccio delle sigarette.

— La principessa potrebbe soffrirne, e la sua voce era sempre così dura.

Tatiana abbassò il capo, ma riprendendo dalle mani del marito l'astuccio glielo presentò aperto colla più squisita cortesia.

— Fumate pure, la mia malattia non può più inasprirsi pel fumo di una sigaretta.

— Siete davvero ammalata?

Ella lo guardò con una attonitaggine quasi spaventata, tanto le pareva insultante quel dubbio in bocca sua.

— Le signore sanno ammalarsi con così poco e così a tempo, che spesso esigono di non essere credute.

— Lo sono, mormorò con un accento di lontano rimpianto.

— Ma guarirai, mia cara, solo che tu lo voglia, tornando a Pietroburgo. Qui non hai nemmeno medici, disse il principe con voce intenerita.

Ella scosse tristamente il capo.

— No, amico mio, non si guarisce più: è troppo tardi.

Loris era diventato pensieroso. Nella profondità de' suoi occhi verdi tremava un sentimento di pietà, ma Tatiana non se ne accorse.

— Credete, signor Loris, gli chiese, che potrei guarire?

Questa domanda lo colse sprovveduto; gli parve di sentirvi un appello, un grido, come quando Tatiana, dibattendosi sotto la stretta di Topine, lo chiamava per nome: Loris.... Loris!

Ma cangiando ancora fisonomia ella esclamò:

— Perchè infine, non potrei guarire? Anche l'inverno è una malattia, della quale la terra guarisce in primavera. Chi è, signor Loris, il primo medico di Pietroburgo, ma il primo davvero?

— Lo ignoro.

— Avete conosciuto a Parigi Charcot?

— No.

— Mi avevano consigliata di consultarlo, lo dicono un grand'uomo; però, se avesse amato, non potrebbe esserlo secondo voi, insistè con malizia.

— I grandi medici non sono quasi mai grandi scienziati; come Amerigo Vespucci, non descrivono che terre già scoperte.

Ella ebbe una moina di sdegno.

— Principe, mi accompagnerete a Parigi, se vorrò andarci?

— Lo volessi tu davvero!

— Partite dunque presto, principessa, disse Loris indovinando il segreto di quella mossa: il principe ha diritto alla vostra salute.

Ella s'accorse di non poter lottare. Allora dinanzi a Loris, bello ed implacabile, senti riavvampare la fiamma di quell'amore, che l'aveva gettata per disperazione nelle braccia del principe, facendole indarno sognare l'impero sullo Czar come un compenso al proprio cuore ammalato. E Loris, superbo in quell'eleganza signorile, che per lei era una condizione essenziale, stava presso il principe, piccolo e giallo come Topine. Una nausea le salì dal fondo della coscienza a quel ricordo, che le tornava sempre, ad ogni minuto di quella malattia inguaribile, colla quale Loris si era impadronito di lei.

Egli solo avrebbe ora potuto salvarla.

Improvvisamente non potè reggere alla sua presenza. Aveva bisogno di essere sola per rivedere Loris ed avvicinarglisi maggiormente, perchè il suo contegno verso di lei non le permetteva di avanzare.

Ma sotto le sue parole dure, attraverso quelle teoriche disperanti, per le quali passavano come dei soffi polari, aveva ritrovato Loris fanciullo, quando l'amava nell'ingenuità della propria primavera, prima che il principe Kovanski, spezzandolo brutalmente con due colpi di scudiscio, lo gettasse lungi dal castello dei loro giuochi nell'ignoto della vita, ove l'aveva creduto per sempre perduto.

S'alzò.

La sua faccia bianca pareva brillare di una luce interna come una lampada di alabastro.

— Vuoi ritirarti? le chiese premurosamente il principe afferrandole la mano sinistra.

Ella in piedi, così vestita di nero, coi coralli che le grondavano dal collo come goccie di sangue, e la testa leggermente gettata indietro per salutare il principe, stese l'altra mano a Loris, offrendoglisi nella curva sapiente di uno scorcio, che era come un abbandono di tutte le proprie bellezze.

Loris, stringendo quella mano palpitante, credette di sentirsela salire lungo il braccio, sotto le carni, sino al cuore.

Tatiana la ritirò vivamente, salutò il principe, ripetè un cenno cortese a Loris, ed uscì.

I due uomini rimasero alquanto in silenzio. Il principe osservava Loris già ridivenuto freddo come al solito; poi si voltò a guardare l'uscio, dal quale Tatiana era scomparsa. Sul suo volto passò un grande rammarico.

— E così?

— Seguitela dunque, ribattè Loris con quella brutalità signorile, che era tanto offensiva nelle sue maniere.

II.

Passarono alcuni giorni.

Una mattina il principe recò a Loris i giornali di Mosca e di Pietroburgo: tutto era scoperto, ma degli autori dell'attentato solo Lemm era noto. Il suo vecchio soldato era stato arrestato col dwornik della casa, e poco dopo l'orefice che aveva affittato a Loris l'appartamento, Matrona e l'altro dwornik. La Gazzetta di Mosca dava i più minuti particolari del nuovo attentato, domandandosi con un senso di paurosa ammirazione come mai non fosse riuscito. Il filo caduto entro la doccia della casa era stato tagliato; perchè? Le congetture del giornale si moltiplicavano a perdita di vista senza trovare una conclusione. La polizia doveva quindi essere in moto da molto tempo cercando febbrilmente gli czaricidi. Loris lesse freddamente i giornali, ma scorrendoli si era già posto tutti i problemi: dov'erano Olga e Lemm? Evidentemente Olga non era stata uccisa, se il piccolo ebreo aveva potuto salvarla; ma sfuggirebbero ancora alla caccia della Terza Sezione? Quel gruppo di studenti, al quale aveva proposto la guerra civile, indovinerebbe in questo attentato l'opera sua, e tradirebbe o si tradirebbe involontariamente coll'imprudenza della giovinezza?

Loris non aveva conservato molta stima del loro carattere dopo quel rifiuto alla cena del conte Ogareff, però non osava concludere alla necessità di una delazione. Un profondo disgusto gli era rimasto nell'anima da quell'insuccesso: egli medesimo non vi aveva agito con tutto il rigore della logica, associandosi Olga senza valutare esattamente la debolezza del suo carattere femminile. Dov'erano adesso Olga e Lemm? Questi doveva aver conservato qualche danaro, quindi il colmo dell'abilità sarebbe per loro di fuggirsene all'estero coi falsi passaporti. Ma Lemm, essendo già scoperto, consentirebbe ad imbarazzarsi di Olga?

Quel colpo di pistola, sotto al quale Olga era caduta come morta, era stata l'ultima scempiaggine di quell'impresa fallita, giacchè avrebbe potuto attirare i vicini, impedendo ogni ritirata. Se Loris nella frenesia del primo sdegno non avesse perso al tutto la testa, avrebbe dovuto restare a Mosca qualche giorno per mettere in salvo i propri complici; invece coll'impeto cieco di un fanciullo aveva tutto compromesso.

— Ho scritto al Comitato per avere informazioni su Olga e su Lemm; posdomani forse riceveremo un telegramma in gergo, disse il principe osservando Loris.

Questi era impassibile.

— E voi siete sicuro di non essere già sospettato?

— Io.....

— Se vi avessero riconosciuto nella mia drioska!

Il principe sorrise intrepidamente.

— Ho nella Terza Sezione due alti funzionari, che mi debbono tutto: mi avrebbero già avvisato.

Appena rientrato nella battaglia, Loris aveva già ritrovato tutta la propria terribile elasticità.

— Nullameno la mia presenza qui è un errore. Non fate pompa inutile di coraggio, seguitò duramente tagliandogli la parola con un gesto: il compromettersi sarebbe per voi, che non voleste mai davvero la battaglia, un'imprudenza senza merito. Se Olga e Lemm saranno presi, Lemm forse confesserà: credo più al carattere di Olga. Essa è una di quelle sentimentali, che gustano nella morte la poesia del sacrificio. Quanto agli studenti, sono fanciulli chiacchieroni, che si salveranno forse per la loro poca importanza. È d'uopo provvedere; domani partirò per Pietroburgo.

— A che fare?

— Bisogna ritirare il deposito dal mio banchiere; è tutto il nerbo di guerra che ci rimane.

— Correreste un rischio inutile. Firmate uno chéque per un altro banchiere, farò io ritirare la somma.

— Siete sicuro di non arrischiare alcuno?

Il principe non rispose nemmeno: Loris seguitò:

— Conducete con voi Tatiana a Pietroburgo, non è bene restar qui. Tornerete nel Comitato e vi agirete potentemente per deciderlo; io mi metterò subito in campagna. Bisogna cancellare ai più presto il ridicolo dell'ultimo smacco; verrò ad un'altra seduta, appena disposte le prime file.

Ma arrestandosi bruscamente, considerò il principe, che pareva di una grande svogliatezza.

— Voi non credete più a nulla!

— Avete indovinato.

— Separiamoci dunque. Voi sperate di vivere, almeno gli ultimi giorni, coll'amore di vostra moglie. Quella donna, ve l'ho già detto, è la vostra fine. Io comincerò la guerra.

A questo punto intese il fruscio di una veste nel corridoio.

— Silenzio! fece con un gesto al principe, che non aveva udito nulla.

Comparve Tatiana in veste da camera, salutò leggermente Loris.

— Vi ho cercato per tutto il castello, disse al principe, finalmente ho pensato che foste qui: mi perdonerete, se vi ho disturbato, si volse a Loris.

— Che cosa vuoi, mia cara?

— Non lo so. Ero sola nel mio gabinetto, ho dovuto fuggirne.

Il principe le prese premurosamente le mani, che essa ritirò.

— Desideri che ti teniamo compagnia?

— Impossibile, giacchè dovreste desiderarlo voi stessi. Avevo persino pensato di fare una lunga corsa sulla neve in slitta: mi accompagnereste, signori?

— Ma con tutto il cuore! esclamò il principe.

Loris s'inchinò cortesemente scusandosi.

— Perchè non venite? gli chiese il principe.

— Sapete pure quante lettere urgenti debbo scrivere: la principessa comprenderà che si possono avere dei doveri superiori alla cortesia.

Tatiana strinse impercettibilmente le labbra per nascondere il dispetto, e prendendo il braccio del marito uscì dalla stanza. Però sull'uscio potè rivolgersi, senza che questi se ne accorgesse, guardando Loris.

Appena rimasto solo, Loris s'abbandonò a una collera furiosa. Dacchè era fuggito da Mosca, il suo spirito non aveva potuto sfogarsi in nessuna violenza liberandosi dall'ammasso di passioni, che vi stavano compresse sotto da un ultimo sforzo della volontà. Tutto era crollato intorno a lui; si trovava ancora solo, già vinto prima di aver combattuto. Quell'attentato, che doveva dargli in mano tutta la Russia, era riuscito al più spregevole insuccesso, con una pistolettata ad Olga. Adesso questa stava nascosta o fuggiva con Lemm, forse egualmente pentiti entrambi di avere partecipato per un momento a tanta impresa, e parlando di lui come di un pazzo presuntuoso. Secondo la moda delle ultime teoriche psicologiche, tutte la eccezioni erano stimate pazzie, l'eroismo e il delitto, il genio e la santità. Ma la sua stessa ragione, ritorcendosi contro di lui, gli struggeva quella confidenza, che fino allora aveva avuto in sè medesimo. Perchè volendo impadronirsi della politica era rimasto sempre così solo nell'orgoglio di una superiorità inintellegibile agli altri? Per non aver mai voluto ubbidire, non aveva adesso a chi comandare. Tutta la terribilità logica del suo sistema rivoluzionario non aveva concluso che allo stupro di Tatiana, brutalità meschina ed inutile, che un politico vero avrebbe saputo risparmiare; poi a costeggiare dappertutto le forze politiche senza saperle afferrare. Gli rimaneva solo il tentativo di sollevare qualche villaggio, ma anche questo sarebbe impossibile senza l'aiuto dei vecchi nichilisti.

Nell'amarezza disperata di quel bilancio della propria vita arrivava freddamente al problema del suicidio.

Per essere forte aveva voluto essere solo. Non aveva genitori, amici, amanti; non era nemmeno sicuro di amare il popolo, questo individuo immenso, del quale il numero distrugge la personalità. Se altra volta gli era sembrato di sentirsi in cuore tutti i suoi dolori e la sua fede, ora gli pareva di averli perduti nell'immensità del vuoto.

La vita normale, che nessun individuo può frangere, era più forte di lui, riconducendolo attraverso tutti i sogni rivoluzionari dinanzi a quella donna abbandonata lontanamente sul margine della prima giovinezza. Senza avere ancora fatto nulla, si trovava come tutti gli uomini volgari preso tuttavia nel problema del primo amore. Che cos'era dunque la sua predestinazione, quell'orgoglio inaccettabile, col quale respingeva tutti inebriandosi segretamente della propria grandezza, quasi fosse un altro Napoleone intento a studiare incognito i campi delle proprie future battaglie? Come Cesare a trent'anni aveva pianto la prima volta dinanzi al ritratto di Alessandro, egli piangeva ora silenziosamente davanti al grande fantasma di sè stesso.

La vita lo respingeva, la vita, che non vuole tiranni capaci di dominarla.

Da quattro giorni la tranquillità di quell'esistenza al castello gli faceva la stessa impressione del mare ad un naufrago; nessuno di quella gente pensava o sentiva come lui, nessuno avrebbe potuto comprenderlo. Egli si ritraeva istintivamente in sè medesimo, provando nei brividi di un freddo sempre più intenso le prime emozioni della morte.

Poi Tatiana gli era ricomparsa nell'amore del principe, mentre anche questi si ritraeva sfinito dalla lotta, coll'esperienza inconsolabile della sua inutilità; ma il principe, rimasto uomo, poteva ancora amare Tatiana, rientrando nell'oblio della piccola vita individuale. Forse Tatiana non lo amerebbe mai; e che importa? La felicità è piuttosto nell'amare che nell'essere amato.

Loris pensava a tutto questo colla furia di chi, presentendo già la sconfitta, la ricusa doppiamente; sentiva di avere avuto torto, ma nella intatta potenza delle proprie forze non s'arrendeva ancora. Che cosa avevano fatto i più illustri alla sua età? Malgrado le recriminazioni implacabili della ragione, era certo di essere diverso da coloro, il cui solo ufficio è di riprodursi nella serie delle generazioni: perchè come tutti non vi sarebbe allora già entrato. Non avrebbe già potuto amare Tatiana? Tatiana non l'amava ancora?

Il principe solo, nella cecità della propria passione, non se n'era accorto.

Tatiana ondeggiava agli occhi di Loris come una di quelle immagini, che a certi momenti affascinano la memoria esaurendola nella loro contemplazione. La rivedeva fanciullina al castello nei primi mesi del loro amore, poi più grandicella, quasi donna, sino al giorno che gli aveva sorriso da quella finestra sul cortile, mentre lo attraversava agonizzante nell'angoscia di quelle due frustate; quindi a tutte le stazioni del suo lungo pellegrinaggio, di notte e di giorno, fra le vampe della luce e nelle oscillazioni dell'ombra, a Zurigo, a Parigi, Tatiana gli era riapparsa, sempre, più alta dell'orgoglio dei suoi istessi sogni, più bella della vanità delle sue speranze. Egli, vissuto casto, non aveva avuto che un rimpianto sensuale, negato indarno a sè medesimo, il rimpianto di quello stupro, l'invidia delirante di Topine, al quale aveva gettato Tatiana in un impeto di follia. Si era sentito ben grande in quell'ora; ma dopo aveva capito di non essere più uomo, e che nessuna donna potrebbe mai più accettarlo. Egli aveva rotto il ponte fra le due parti dell'umanità, rilegandosi per sempre nel campo degli uomini, isolato fra essi dall'impossibilità d'amare. Quindi Tatiana gli saliva nel cielo dell'immaginazione come i santi nelle risurrezioni dei vecchi quadri, fiammeggiante e serena dopo il martirio, guardando ancora verso di lui, dall'alto, come guardano le stelle.

Nullameno a che pro amare? La sua vita era diversa da ogni altra; l'umanità in tutti i tempi aveva imposto ad alcuni individui di non amare, perchè potessero concedere tutti sè medesimi ad un'idea. Il monachismo, comune a tutte le religioni, non aveva altre origini ed altro ufficio. Egli non amerebbe quindi ora, che stava per cominciare una guerra civile senza pietà e forse senza fine.

La sera era già calata. Dagli alti vetri si travedeva ancora la campagna in una nebbia malinconica, alcune isbe fumavano. A quell'ora tutti nel villaggio erano raccolti intorno alle immense stufe per la veglia; le sacre iconi sogguardavano dall'alto alla tremula fiammella di un lumicino, acceso sui loro piedi; la gente andava e veniva nella penombra, gli angoli dei vasti stanzoni si perdevano nel buio. Tutti quei poveri, felici nella loro abbiettezza, s'amavano spesso promiscuamente, trovando l'amore nell'irritazione della fame o nel gorgoglio dell'ebbrezza.

Loris guardava dalla finestra. Egli conosceva quelle isbe, che sognava di trasformare in casematte. La neve s'allontanava nell'infinito della sera, sotto il cielo plumbeo, bianca e fredda senza una macchia. Così per duecento giorni, in tutti gli inverni; quindi la primavera scoppiava improvvisa come un petardo, poi l'estate avvampava come un incendio e non molto più lungo, e da capo l'autunno coi presentimenti lividi dell'inverno, e i giorni che sembrano cadere anzi tempo nella notte; finalmente l'inverno, candido, gelido, uniforme, col silenzio di ogni attività, ricacciava tutta la gente nelle isole, costringendola a rannicchiarsi in sè medesima e a perdere col ricordo dell'ultima estate anche la speranza della futura primavera.

Nella Russia il vero Czar, il tiranno, era l'inverno, che vi arrestava la vita rallentando la storia.

Loris si tolse dalla finestra, udendo battere alla porta. Era un servo, che veniva a pregarlo da parte del principe di passare nel gabinetto della principessa.

Loris sorprese il primo sguardo di Tatiana, che lo spiava ansiosamente.

— Avete avuto torto di non accompagnarci, disse il principe con allegria forzata: ci avreste tenuto caldo solo colla vostra presenza.

Ma il calore del gabinetto era quasi insopportabile, Loris ne fece l'osservazione.

Tatiana sembrava di buon umore.

Si mise al pianoforte e suonò un valtzer di Chopin. Era una di quelle fantasticherie piene di singulti e di appelli, che il grande infermo aveva ritmato sul tempo di un ballo quasi per schernirne dolorosamente l'idealità; e vi si sentiva una angoscia profonda, mentre alcune frasi luminose vi si increspavano sopra, come acque lucenti di un gorgo, nel quale molti fossero periti. Tatiana suonava mollemente.

Il principe si era disteso sopra una poltrona, voltandole quasi le spalle.

Improvvisamente ella s'interruppe per cercare nella cassetta della musica.

— Non me lo ricordo più.

Quando lo ebbe ritrovato, lo spiegò sul leggìo e lo ricominciò. Loris, che si era accostato per aiutarla nella ricerca, rimase addossato al pianoforte.

Questa volta ella suonava vivacemente, guardandogli nel volto con un impudore dolente; pareva chiedergli perchè quella volta avesse voluto farla stuprare da un mostro come Topine. Il suo occhio azzurro aveva una fissazione interrogatrice, che l'altro non seppe sostenere; ma allora, leggendogli nell'anima tutto quanto egli stesso aveva sofferto suo malgrado in quella vendetta, sorrise trionfalmente. Il suo sguardo lo respingeva sempre con quella fissità inquisitoriale, ma la sua bocca tremava già dolcemente nell'invito del perdono.

Poi strinse il tempo del valtzer, quasi cedendo ad una rapina interiore, nella quale anche a Loris parve di essere travolto.

Quando Tatiana tornò presso il principe, si strinse nuovamente nell'abito come ripresa dal freddo.

Loris accese una sigaretta per darsi un contegno.

— Avete finito quelle lettere? gli domandò il principe con accento sornione.

— Quante? chiese infantilmente Tatiana.

— Nessuna.

— Allora era un pretesto.

— Non me ne servo mai, replicò duramente, ma accorgendosi di essere stato villano soggiunse: non lo so, ma mi sarebbe stato impossibile accompagnarvi, avevo bisogno di rimanere solo.

— La vostra opera forse...., ella lo punse gaiamente.

— Forse.

E il suo accento parve pesante a Tatiana.

Quindi cominciò un dialogo, scintillante di arguzie da parte di Tatiana; il principe sorrideva a quella sua pretesa di una rivincita con Loris, che le opponeva il più freddo riserbo, rispondendo ai suoi frizzi leggieri con gelide formule pessimiste. Ma Tatiana, usa al volteggio dei saloni, finiva qualche volta per avere il sopravvento.

— Voi siete un ambizioso, signor Loris.

— In questo caso, principessa, non ve ne sareste accorta: le donne ignorano l'ambizione costretta a dimenticarle.

— Anche gli ambiziosi secondo voi non possono amare?

— Infatti, non sono amabili.

Poi la conversazione deviò, parlarono delle campagne russe. Involontariamente Loris s'abbandonò al racconto di quanto aveva veduto in quei tre anni di pellegrinaggio, sfoggiando tanta ricchezza d'osservazioni, che il principe stesso lo ascoltò ammirando. Tatiana ignara di tutto pendeva dal suo labbro. Quel mondo segreto le pareva di una grande bellezza attraverso il racconto di Loris, quantunque egli non facesse la più piccola allusione alla propria vita di quel tempo; ma ella credeva di indovinarla colla fantasia, sentendosi in cuore un rammarico profondo di non averla divisa. Perchè non era fuggita con lui? Come era egli diventato ricco, poichè il principe glielo aveva presentato per tale? Avrebbe voluto saperlo a qualunque costo; quindi guardava Loris coll'insistenza di una vecchia intimità, che finì col turbarlo.

— Lo Czar può dormire tranquillo, concluse il principe: non si farà una rivoluzione per molto tempo.

— Perchè una rivoluzione? chiese Tatiana.

— Per farvi almeno sentire, minacciandoli, la grandezza dei vantaggi, che vi sono toccati, ribattè Loris.

— Essere principessa.... è questo il vantaggio?

E ridivenne malinconica.

Poco dopo un servo venne ad annunziare il pranzo: questa volta Loris dovette dare il braccio a Tatiana. Egli divenne più rigido, ella invece vi si sospese mollemente; passando dinanzi un uscio, mentre il principe restava loro dietro, mormorò in un soffio:

— Loris....

A tavola Tatiana si mostrò di nuovo vivace, Loris invece si ostinava a parlare di politica col principe, esaminando le probabilità di una alleanza tra la Francia e la Russia per resistere alla nuova coalizione europea capitanata dalla Prussia. Tatiana tentava indarno di scompigliare quella grave conversazione, ma agitandosi sulla scranna, il suo piede finì sotto la tavola per urtare in quello di Loris. Ella trasalì guardandolo, Loris era rimasto impassibile; allora ella non lo ritirò più, provando una gioia profonda ed infantile a tenerlo così presso il suo, senza rompere la riserva del pudore. Nè Tatiana, nè il principe, nè Loris bevevano secondo il costume russo; quindi il pranzo, malgrado la sontuosità del servizio, restava parco.

Un servo in caffettano rosso recò la posta sopra un vassoio di lacca cinese. V'erano molti giornali; Tatiana cercò vivamente fra essi il Vestinik Evropy, ma il principe le disse berteggiando:

— Aspetti un articolo di madama Blavatsky? Sapete, Loris, Tatiana è spiritista. Madama Blavatsky è per lei la più grande incarnazione dello spirito nel nostro secolo.

— È più facile negare che distruggere le prove spiritiste, ella rispose gravemente.

Loris sorrise.

— Nemmeno voi, signor Loris, ci credete?

— Non sono abbastanza ateo per avere questa fede.

A questa profonda risposta il principe, che aveva già lacerato la busta di una lettera, si volse; Tatiana rimase col giornale in mano.

— Non vi pare, principessa, un'ingiuria verso Dio pretendere di dominare i suoi spiriti, richiamandoli dopo morte nel nostro mondo per rivolgere loro domande, che esprimono solo la nostra curiosità?

— Ed essi poi risponderebbero facendo battere i piedi di un tavolo! Confessa, mia cara Tatiana, che questo plagio dell'alfabeto telegrafico non fa molto onore allo spirito de' tuoi spiriti. Ho conosciuto madama Blavatsky a Pietroburgo in una seduta, che essa diede in casa del principe Karaguine. Se tu la vedessi, perderesti subito almeno la metà della tua fede in lei; è una donna orribilmente brutta, pare un uomo.

— Dio non è generalmente meglio rappresentato del popolo, replicò Loris.

Tatiana, come una bambina ostinata, scosse la testa sfogliando il giornale.

— Sentite, Loris, esclamò poco dopo il principe, che scorreva una lettera, ammiccando: quei due sono già ad Amburgo, lo studente, che mi mostraste con quella bella ballerina.

Loris frenò un sospiro di soddisfazione.

— Si sposeranno certamente, rispose in tono allegro.

Tatiana si era sprofondata nella lettura di un articolo.

Allora i due uomini la punsero sulla sua credulità; il principe raccontava la seduta in casa Karaguine, mettendo in burla quegli esperimenti, e la nuova società psicologica fondata a Londra. I suoi motti di spirito esprimevano idee di una mirabile giustezza. Quella sera passò più gaiamente. Loris, alleggerito di un gran peso, dopo quella notizia si mostrava più amabile; Tatiana sfavillava accettando la corte del marito così trasfigurato da tale fortuna, che l'altro stentava a riconoscere in lui il vecchio congiurato.

Poi Loris si ritirò per primo.

Tatiana, leggendogli nello sguardo, ebbe un sorriso di trionfo.

Appena nella propria camera, della quale non chiudeva mai l'uscio, Loris si mise a letto. Oramai la sua risoluzione era presa; fra due giorni partirebbe, poichè restando in quella casa sentiva diminuire le proprie forze. Adesso Tatiana l'amava più che egli non l'avesse amata un giorno, ma colla pretesa inevitabile di una rivincita pari all'atrocità della tragedia patita; mentre Loris, quasi pentito di quella vendetta, pensava involontariamente che avrebbe ancora avuto tempo di riprendere Tatiana, e di possederla. Forse così avrebbe esaurito in sè stesso l'amore come tutti gli altri uomini, accettando e soggiogando la natura invece di respingerla. Ma oramai era tardi! Un amore, in quel momento, sarebbe stato l'abbandono di ogni disegno, l'abdicazione di tutti i propositi, che lo avevano condotto dal furto dell' ecarté all'omicidio di quella spia e all'attentato contro lo Czar.

Nella camera calda Loris stava col busto fuori dalle coperte; una candela di stearica entro una bugia di argento agitava larghe ombre leggiere.

Erano passate due ore.

D'un tratto si volse. Tatiana era entrata silenziosamente, avvolta in una veste scura da camera a risvolti sanguigni, ampia che le nascondeva ogni linea del corpo. Nullameno Loris travide le sue pianelline trapunte d'oro.

Non aveva lume in mano, s'avvicinò al letto. Era più pallida; i capelli biondi, pettinati per la notte, le cadevano bipartiti sulle orecchie, dandole un'aria di madonna; egli notò che un merletto della camicia le usciva al collo dall'incrociatura della veste.

Tatiana s'avanzò sino al letto senza alcuna civetteria nel passo. Loris aveva gettato istintivamente un'occhiata alle coperte, appoggiando un gomito sul cuscino.

Poi ella lo guardò con una grande sincerità negli occhi, e gli disse:

— Non lo sapevo.

Loris comprese. Tatiana toccava col grembo il letto, le mani le cadevano inerti lungo i fianchi; ma, siccome egli tardava a rispondere, ripetè semplicemente:

— Non lo sapevo.

Allora Loris abbassò gli occhi; quella donna, da lui assassinata col più turpe dei delitti attribuendole una qualunque complicità nelle due scudisciate, era innocente. Gli parve di vacillare nella rivelazione di una mostruosità, che quel perdono rendeva anche più inintelligibile.

Ella seguitò a bassa voce, col volto intenerito e sofferente:

— L'ho capito solamente molto dopo: voi avevate creduto che io ridessi, sapendo tutto anche prima. Il principe se ne pentì amaramente, benchè non indovinasse il resto.

La sua voce tremò.

— Tatiana! esclamò Loris.

Ella aveva inconsciamente posata una mano bianca e sottile sulle coperte.

— Foste ben crudele.... mormorò, scoppiando in un singhiozzo.

Era rimasta a testa bassa, in un atteggiamento puro, inconsapevole della propria posizione in quel momento. Loris invece si sentiva tremare sotto la superiorità di quella donna, che gli parlava così semplicemente.

Il suo corpo si agitò sotto le coperte, ma Tatiana quasi scossa da quel brivido risollevò il capo.

— Ho voluto parlarvene per non rimanere dei torti verso di voi. Quando vi ho visto la prima volta nel salone, sono svenuta; l'impressione era troppo forte. Da un pezzo lo desideravo, perchè avevo bisogno di essere almeno creduta innocente. Quello, che ho sofferto, adesso lo posso sopportare.

— Credete di essere stata sola a soffrire? ribattè Loris finalmente, cercando di sottrarsi all'umiliazione di quella grandezza col parlare di sè.

Ella attese.

— Sia pure, m'ingannai, seguitò con voce dura e concitata, ma ella s'accorse dello sforzo: era impossibile non ingannarsi.

Tatiana scosse leggermente il capo.

— Voi eravate principessa, io ero un ragazzo raccolto per carità o per vanità, poco importa. I poveri hanno torto di accettare simili condizioni. Il principe fece benissimo a frustarmi, e di lui non mi sarei mai vendicato.

— Egli vi amava.

— Non si amano coloro, cui si fa l'elemosina; ebbi torto di scordarmene. Ma nessuna donna, anche czarina, ha diritto d'umiliare un uomo. Se lo sono diventato, lo debbo forse in parte al vostro disprezzo.

Ella negò.

— Voi non riuscite comprenderlo nemmeno adesso, ma quello che poteva parervi scherzo, diventava per me, nella differenza della nostra posizione sociale, oltraggio: ecco perchè doveva finire così. Non vi è conciliazione possibile fra le due classi, e tutti coloro, che la tentano, debbono in un modo o nell'altro soccombervi. Se il principe non mi avesse frustato, avrei dovuto diventare il vostro giocattolo agli occhi del mondo e ai miei. Non mi conoscevate.

Tatiana si accorse di smarrirsi dal momento che Loris era rientrato sui proprio terreno; ella rivedeva già il suo volto ridivenuto lapideo nell'orgoglio. Allora un grande avvilimento la prese, di essere così venuta in camera sua, a quell'ora, in veste da camera, mentre egli sembrava non accorgersene nemmeno, immobile nella rigidezza del loro passato. Tutto il suo spirito l'abbandonò, non si ricordò più quello che si era detta prima di prendere quella grande risoluzione.

— Oh! Loris....

Egli le appressò vivamente il volto, Tatiana indietreggiò.

— Aspetta, gridò Loris.

— No, adesso lo sapete: non mi disprezzerete più. Volevo questo.

— Perchè vi disprezzerei? Il destino lo ha voluto. Non avete sofferto sola; ma la vostra vita di donna non è senza compensi.

— Quali?

Egli titubò, Tatiana si avvicinò d'un passo.

— Perchè siete venuta? le chiese Loris cogli occhi scintillanti.

— Ve l'ho detto.

— Solamente?...

Ella si torse, ma Loris tornò a gridare sommessamente:

— Aspettate, è l'ultima volta forse che ci parliamo. Domani partirò: perchè avete sposato il principe?

— Ma, non avevo altri....

— Non lo amate?

Ella rispose cogli occhi.

— Il principe vi adora: forse non sarà il solo.

Tatiana alzò la testa; il suo viso divenne nobilmente imperioso.

— Vi ha egli detto che sono stata l'amante dello Czar?

— E se lo avessi indovinato?

— Vi sareste ingannato; a voi posso dirlo, a lui no.

Loris si sentì vinto da capo.

— Come mi avete ridotta, non posso più amare: ecco perchè volevo dirvi che ero innocente. Voi siete l'unico uomo, che abbia il dovere di saperlo; tutti gli altri sono così lontani dalla mia vita, che non li incontrerò mai. Il principe crede di amarmi, sa il mio segreto, perchè ho dovuto dirglielo per la mia dignità, e non ha capito nulla. Il suo amore sarebbe l'ultima degradazione; egli pure è infelice.

Loris, colla fronte aggrottata, rivedeva in quel momento Topine, il solo, che in quella tragedia avesse avuto un istante di felicità bestiale, e si pentiva di non averlo ucciso. Se quell'uomo ricomparisse per caso agli occhi di Tatiana, ella malata ne morrebbe forse di orrore. Una immensa pietà gli strinse il cuore. Quindi con un gesto rapido e disperato si portò le mani alla fronte. Tatiana si appressò ancora, toccava nuovamente il letto; la candela, agitando sulla sua faccia bianca la propria luce, vi aumentava il turbamento. Quando Loris la guardò, ella aveva già ripreso quell'aspetto dolcissimo, e gli stese amichevolmente la mano.

— Adesso conosciamo tutto.

— Non partite.

Ella sorrise ritraendosi.

— Qualunque sia il mio torto, la mia vita ha uno scopo anche più alto.

— Addio, Loris, ella ripetè languidamente dal mezzo della camera.

Loris sentiva ardere delle fiamme sotto le coperte; avrebbe voluto slanciarsi giù dal letto, ma un pudore stravagante lo ratteneva dal mostrarsi a lei, la prima volta, in quell'atteggiamento, mentre il suo orgoglio ricalcitrava ancora dinanzi a quella donna così tranquilla nella propria superiorità.

Tatiana scomparve silenziosamente dall'uscio.

III.

L'indomani Loris non partì; voleva un altro abboccamento con Tatiana.

Ella invece si mostrava di una cortesia impenetrabile. Pareva che sicura di averlo umiliato colla rivelazione della propria innocenza non si curasse più di lui, solamente di quando in quando Loris si sentirà i suoi occhi addosso, e ne provava al cuore come il vellico di una fiamma.

In un momento, che rimasero soli nel salone, Loris le disse imperiosamente:

— Ho da parlarvi.

L'altra aperse gli occhi con grande meraviglia.

Loris frenò a stento un impeto di sdegno, accorgendosi di essere giuocato.

Con suprema abilità femminile, invece di rinfacciargli l'infamia di quello stupro, di cui porterebbe il lutto per tutta la vita e dal quale le era venuta quell'affascinante fisonomia di martire, Tatiana gli aveva lasciato travedere qualche resto di passione per lui; quindi era rientrata nella sicurezza di una castità ancora più garantita dalla malattia che dall'offesa sofferta.

Per la prima volta Loris trovava un ostacolo più forte della propria volontà.

— Verrete stanotte in camera mia?

E già l'interrogazione era quasi un comando.

Ella si levò per andarsene.

Loris la seguì fino all'uscio fermandola brutalmente per un braccio. Tremava; Tatiana a quel contatto sussultò, lasciando trasparire sul volto una gioia così soave che a Loris cadde la mano.

— Tatiana...

— Che cosa volete? mormorò, rannicchiandosi voluttuosamente sotto il suo sguardo.

— Debbo parlarvi a lungo, non qui.

— Perchè?

— Ve lo dirò.

— È impossibile. Volevo che mi conosceste innocente, ora lo sapete: mi basta.

— Tutto è finito?

— Voi distruggeste tutto.

Loris indietreggiò, ma la passione lo risospinse ancora, e dimenticando ogni pudore le chiese con voce tremula e una grande sfacciataggine negli occhi:

— Siete ammalata così?...

Tatiana uscì, Loris rimase in preda ad una collera pazza. Sentiva di essersi nuovamente innamorato di Tatiana, ora che colla rivelazione della propria innocenza ella aveva umiliato la superbia del suo delitto, lasciandogliene nell'anima il più irritante rammarico. Loris non avrebbe potuto più vincerla che innamorandosi così perdutamente da apprenderle il contagio della propria passione. Ma anche allora la donna avrebbe trionfato di lui.

Per calmarsi uscì a piedi dal castello, nel freddo della campagna, ma rientrò poco dopo. Tatiana canticchiava nel gabinetto di legno la grande romanza del Tannhauser; quando vide Loris smise.

— Disturbo?

— No, ma non voglio darvi il diritto di ridere della mia voce. Scommetto che non ammettete nemmeno il nostro grande Bortniansky, voi che non amate la musica.

— Perchè non citate piuttosto l'autore dell'inno imperiale, l'illustre Alexis Lvof, ribattè sottolineando sardonicamente le ultime parole.

Ma appena fatta quella villana allusione se ne pentì.

Tatiana lasciò cadere su lui uno sguardo di disprezzo. Loris di malumore andò a gettarsi sopra una sedia; il principe gli si accostò per dirgli di aver già mandato a Pietroburgo lo chèque, e che sarebbe riscosso entro la settimana. Questo semplice discorso parve a Loris una spinta a partire. Infatti perchè restare ancora dopo quelle dichiarazioni al principe, mentre la sua presenza poteva attirare su quella casa pericoli altrettanto enormi che inutili. Bisognava ricominciare il pellegrinaggio forse verso la morte, senza quella consolatrice poesia della prima giovinezza.

Un freddo lo colse in quel gabinetto, ove si respirava quasi a stento per l'eccessivo calore. La sera s'avvicinava nuovamente, gettandogli le proprie ombre sul cuore. Decise di partire.

Tatiana rideva col principe.

— Mostratemelo.

— No, no, voi siete troppo intelligente; lo trovereste ridicolo.

— Badate, Tatiana, con tutte queste riserve finirete col darvi davvero l'aria di un pittore.

— Allora ve lo mostro.

Ella aveva in un acquerello tentato di riprodurre un effetto di neve sopra un albero del parco, dipingendolo dalla finestra della propria camera, chiusa per non prendere freddo. Evidentemente era stata una fanciullaggine, ma al principe sembrava di ringiovanire in quegli scherzi con Tatiana.

— Venite anche voi, signor Loris; forse v'intendete d'arte meno del principe, e mi difenderete dalle sue critiche.

Prese il suo braccio, conducendolo nel proprio appartamento. In quella luce degradante della sera passavano di camera in camera talora avvolti nell'ombra di un cortinaggio più denso; Tatiana, sospesa al braccio di Loris, gli sfiorava col seno il gomito; egli la stringeva furiosamente sino a farle male, camminando a testa alta.

Quando furono nella camera alta e vasta, la luce vi era già così scarsa che non si sarebbe potuto esaminare l'acquerello, posto sopra un piccolo telaio da ricamo. Tatiana si sciolse ridendo dal braccio di Loris e, mentre il principe cercava sulla parete un bottone del campanello elettrico per chiamare un servo ad accendere i lumi:

— No, gli disse, accendo io; e vispa, leggera, corse al letto, che si vedeva largo e bassissimo biancheggiare sul tappeto scuro. Quindi tornò subito con una candela rosea e trasparente entro una piccola bugia d'oro. A quella fiamma apparve la stanza molle ed elegantissima, coi mobili biancastri di acero, sui quali il tremolio della luce accendeva improvvise iridescenze di madreperla. Il letto nascosto da un'immensa coperta bianca, lattiginosa, s'allargava sotto un padiglione di merletti rialzati da cordoni più scuri, che forse di giorno erano cilestri. Intorno al letto cinque o sei poltroncine, disposte quasi a circolo, parevano rivelare che Tatiana ricevesse qualche volta in letto. Ma la camera aveva pochi mobili; nello specchio di un piccolo armadio balenava a quando a quando una lucentezza di gorgo, le pareti erano piene di quadri, di borsine, di lavori femminili, irreconoscibili in quel momento.

Un odore vago di fieno riempiva tutta la camera; nell'angolo sinistro, presso al letto, l'iconostase incrostato di pietre preziose gettava qualche bagliore.

Tatiana avvicinò la candela all'acquerello.

— Confessate, esclamò gaiamente, che a questa luce pare un albero.

— E la neve, mia cara?

— La neve è fuori, qui si scioglierebbe. Difendetemi dunque, signor Loris, gli si rivolse vedendolo assorto nella contemplazione della camera.

— Aspetto il giudizio del principe.

Tatiana l'aveva forse condotto in quella camera per insegnargliene la strada?

Egli ne respirava l'aroma con un senso malinconico di amore, che gli toglieva ogni forza. Tatiana in piedi, vicino a lui, fingendo di tenere occupato il principe, gli rispondeva con ogni atto del corpo e con ogni inflessione della voce.

Il principe depose sorridendo l'acquerello sul telaio.

— E così? ella si volse improvvisamente a Loris.

— Non potrei, rispose Loris, difendere il vostro quadro, che il principe non si è degnato di chiedervi, se non pregandovi di regalarmelo come un ricordo.

— Vorreste il mio albero? Principe, vedete, non siete stato gentile.

— Intendevo di aspettare che vi dipingeste sopra la neve.

— La vostra freddura è anche più gelida.

Ritornando, Loris nel passaggio di un uscio, baciò improvvisamente Tatiana sui capelli; ella quasi svenne.

Quindi discorsero di Pietroburgo. Tatiana acconsentiva già al disegno del principe, che andava arrischiando qualche parola di cura. Veramente il governo russo era mostruoso d'incuria; nelle campagne mancava ancora ogni servizio sanitario. Il principe con accento grave si abbandonava a critiche, delle quali Tatiana non poteva malgrado la propria intelligenza cogliere tutta l'importanza. Ella pensava già a Pietroburgo, ripresa dal bisogno di vivere e di brillare dopo quella lunga solitudine nel castello, ove si era terribilmente annoiata.

— Quando tornerete a Pietroburgo, signor Loris?

— Non saprei dirvelo, probabilmente passeranno molti anni.

— Sempre la vostra opera! Io vi ho mostrato il mio acquerello, non potreste essere altrettanto cortese dicendo il vostro segreto? Si può almeno domandarvi dove andrete?

— Forse in Polonia.

— Il ghetto degli ebrei.

— Potevate anche dire l'accampamento degli ultimi patriotti e la patria dei poeti.

Tatiana, alla quale il vecchio principe aveva inspirato un grande disprezzo per i polacchi, non insistette, ma avrebbe voluto sapere a che cosa Loris attendesse; era già gelosa di quel mistero. Quindi ricominciò a punzecchiarlo. Il discorso cadde naturalmente sull'amore; Tatiana ostentava di parlarne accademicamente, come di cosa che non l'avesse mai riguardata, domandandone notizie a Loris e al principe, i quali per aver molto vissuto dovevano saperne qualche cosa. Loris senza confessare alcuno dei propri sentimenti pareva non accordargli più importanza che a tutte le altre passioni della giovinezza; il principe invece lanciandosi nella metafisica vi scorgeva il principio essenziale e la forza più viva della vita.

— Si crede scioccamente che oggi si ami meno. Anche sotto la stessa corruttela elegante, troppo analizzata dai romanzieri, l'amore persiste in tutta la propria interezza, giacchè senza di esso la sensualità non potrebbe arrivare al delirio di tutti i sacrifici per donne, che la coscienza non può accettare. D'altronde l'amore è sempre una trasfigurazione di colui che si ama: perchè la bruttezza morale potrebbe impedirla più della bruttezza fisica? Si ama non ciò che è, ma ciò che si vede.

— Voi, Loris che cosa ne pensate? gli chiese il principe.

— Che non si ama. Il dolore umano depone contro l'amore di Dio per l'umanità, la storia depone contro l'amore dell'umanità per sè medesima.

— Adesso comprendo che siete un nichilista, ella disse.

— V'ingannate ancora; i nichilisti pretendono di sacrificarsi per l'amore del popolo, che non li ama.

— Chi siete voi dunque? esclamò gaiamente come non avendo capito la profondità di quelle risposte.

Ma ella voleva ottenere da lui, con caparbietà imprudente di donna, in faccia al principe una parola di amore; il suo bel volto si rannuvolò.

Uscì e non ricomparve che a pranzo.

Ma quella sera si mostrò in una grazia irresistibile di bambineria, facendosi più piccola e più sciocca quasi per sentir meglio la loro superiorità; la sua voce trovava dei trilli argentini, mentre le sue movenze, qualche volta petulanti, lasciavano perfino dubitare della sua sincerità.

Loris tentò di premerle il piede sotto la tavola, ma Tatiana lo ritirò.

Ella mangiò di tutto, beccando nel piatto come un uccellino; bevve anche un bicchiere di Portho. Il principe, che la sorvegliava inquieto, le portò via il piatto delle frutta candite.

— Ti faranno male.

— Volete esser voi il mio medico?

— Ti guarirei senza dubbio, solo che tu volessi dar retta.

— Così diventereste il mio padrone, ribattè con un adorabile sorriso.

Ma poco dopo divenne malinconica, un pallore perlaceo le si diffuse dalla fronte. Invece di passare nel gabinetto, presero il thè a tavola; Tatiana lo fece preparare dal cameriere.

Il principe, mostrandola a Loris con un'occhiata, parve dirgli: glielo avevo pur detto!

Però quel piccolo disturbo passò presto. Quando furono nel gabinetto di legno, Tatiana mise il discorso sull'appartamento del principe: era nell'ala opposta e, fra le altre meraviglie, conteneva una bellissima sala d'armi, che Loris aveva già vista. L'appartamento di Tatiana ne rimaneva diviso dall'altro di ricevimento, composto di due saloni e tre gabinetti. Tatiana s'attardava in tutta questa topografia, parlando della necessità di alcuni cambiamenti, perchè così non si sarebbe nemmeno potuto dare una vera festa da ballo.

Loris ascoltava leggendo un giornale; a un momento alzò gli occhi.

Ella si ritirò presto.

Loris rimase nell'appartamento del principe sino oltre mezzanotte. Benchè si mostrasse più infervorato che mai dell'impresa, lasciava travedere un doloroso scetticismo sul suo risultato per quell'invincibile indifferenza del popolo. Nullameno andrebbe a Varsavia per accontarsi con qualche grosso mercante di grano, giacchè senza gli ebrei nulla sarebbe stato possibile; quindi bisognava far centro lungo uno dei grandi fiumi per il contrabbando delle armi e la facilità delle comunicazioni, troppo pericolose per terra. Egli spiegava una grande scienza di particolari, insistendo per un aiuto da alcune forze nichiliste.

— Quando vi metterete in campagna? gli chiese il principe, scrutandolo con un'occhiata.

— Entro la settimana.

Erano al mercoledì.

— E voi, quando tornerete a Pietroburgo colla principessa?

— Credete che verrà? Che cosa pensate di lei?

— Nulla.

— Le avete fatto una grande impressione.

— Può darsi.

E alzò le spalle con indifferenza così assoluta che il principe tacque.

— Voi non amerete mai, Loris? gli domandò dopo una pausa.

— Come mai pensate sempre all'amore, non avendo nemmeno il coraggio di usare di vostra moglie? Perchè non andate questa notte stessa da lei, se tutta la vostra vita è sospesa al filo di questa speranza?

Il principe si fece triste.

— Ecco quello che voi non potete capire.

Ma Loris si era alzato:

— Lo so, voi amate quella donna; prendetela dunque. Vi resisterà, ne morrà, voi credete, io non lo credo; e quand'anche morisse? Potrete morire con lei, poichè non sapete viverne senza, ma almeno vi sarete cavato questa voglia, che vi consuma. Invece non l'osate, vorreste essere amato. A che pro? Avreste di più in questo caso?

— Come siete forte! esclamò il principe.

Poi Loris si rimise ancora a parlare di rivoluzione, e non lo lasciò che un'ora dopo mezzanotte.

Appena entrò nella propria camera, vi rimase in piedi dieci minuti guardando fissamente la candela.

Il suo volto esprimeva una grave concentrazione. Risolutamente soffiò sulla candela, ed uscì nel corridoio dirigendosi al buio verso l'appartamento di Tatiana; per arrivarvi aveva visto di non dover passare per la camera o dinanzi alla porta di alcun domestico. Nel salone la finestra socchiusa lasciava filtrare un po' di luce, poi tutto tornò buio. Ricordandosi meravigliosamente la posizione di ogni mobile non vi fece rumore, ma nel traversare il gabinetto di legno urtò in uno spigolo; quindi s'avviò alla camera di Tatiana, mentre la memoria cominciava a tremargli. Si sentiva battere il cuore. Gli parve di cogliere a volo quell'odore di fieno, e di seguirlo, senza quasi camminare più, come trascinato in un viaggio, che gli si allungava sempre dinanzi.

Finalmente scoperse una luce lontana sul pavimento; la porta di Tatiana era socchiusa.

Tatiana avvolta in un immenso accappatoio bianco, tutto a merletti, stava sdraiata sopra una lunga poltrona leggendo.

Evidentemente lo aspettava. Loris s'inoltrò senza chiudersi dietro la porta e senza guardarsi attorno; oramai ogni prudenza sarebbe stata inutile.

Si fermò dinanzi a lei; le tese le mani, ella le prese, e si alzò. La sua testa bionda, bella ed imperiosa, sorgeva come da una nuvola bianca, ma pareva anche più bianca, mentre gli occhi cerchiati di nero le contrastavano vivamente colle labbra troppo rosse.

— Sono venuto a chiedere la vostra mano, disse Loris con un suono grave nella voce; quindi, come pentito di avergliele già prese tutte due, le abbandonò. Restarono l'uno in feccia all'altro in atteggiamento quasi rigido.

Loris seguitò:

— Vostro zio mi fece frustare per questo la prima volta. Voi non lo sapevate; la mia legittima vendetta non è più che un errore, di cui siamo entrambi innocenti. Volete darmi la vostra mano?

Tatiana gliela porse, e Loris se la portò alle labbra con un gesto compassato; ma come scrollato da quel contatto, respinse Tatiana sulla poltrona, cadendole ai piedi. Se non che quell'atteggiamento gli ripugnò ancora, ed afferrando uno sgabello, sedette così vicino a lei, che le toccava coi ginocchi i ginocchi.

— Vi ho uccisa, non è vero? Dal giorno che non vi ho voluta, gittandovi ad un mostro per infrangere la vostra anima di donna e di principessa, vi domino. Voi non potevate comprenderne allora tutto il perchè, ma io non ero solo in quella rivincita; milioni di uomini e di donne si vendicavano su voi in tale momento. Siamo sopravissuti entrambi, eccomi dinanzi a voi.

Tatiana lo ascoltava colle labbra frementi.

— Che vi resta ora della vita? Sapevo che questa notte mi avreste atteso, perchè una spiegazione è necessaria: parlate.

Ma Tatiana non ne aveva la forza. Benchè preparata a quella scena, Loris l'aveva presa così dall'alto, che ella non poteva ancora ritrovarvisi.

— Mi aspettavate, Tatiana?

— Sì.

— Io non volevo pensare più a voi dopo quel giorno, e nullameno eravate sempre come una sbarra sulla mia strada. Adesso ci urtiamo ancora; sarò io l'infranto questa volta? La vostra vita esige una rivincita, se la mia idea non sarà ancora più forte della fatalità, che ci spinge nuovamente l'uno sull'altro. A voi sta il decidere: quando m'avete poco fa data la vostra mano, avete voluto prendermi? Qualunque siano le conseguenze di quest'incontro, voi potete chiedermi tutto. Nessun uomo potrebbe tenervi simile linguaggio.

Ella arrovesciò la testa sulla spalliera della poltrona, colle braccia molli, sfinite lungo i fianchi, in una inesprimibile prostrazione d'amore. Allora Loris tacque in preda ad una strana confusione di aver saputo parlare così, mentre venendo in quella camera ignorava quello che avrebbe detto; ma si sentiva l'anima inesprimibilmente alleggerita.

Una freschezza di primavera gli scendeva per le vene.

Tatiana si staccò languidamente dalla poltrona, gli prese una mano e, stringendogliela affettuosamente, gli disse con accento di purezza verginale:

— Lo sapevo che dovevate essere così: Dio è buono!

Quindi prosegui:

— Io vi ho amato dopo; prima, me ne sono accorta, non era amore. Ma dopo eravate dentro di me. Non ho nemmeno tentato di reagire: avrei potuto dimenticare anche attraverso la malattia il marchio, che mi avevate impresso, ma non smuovervi di mezzo al cuore. La mia vita si svolgeva intorno a voi. Ero sicura che ci saremmo ritrovati. Chi siete ora? Non lo so.... siete qui dinanzi a me, come vi ho sempre visto nel mio avvenire, ai miei ginocchi, voi, davanti ai quale io non sono nulla.

Loris infatti era scivolato involontariamente ai suoi piedi; Tatiana gli buttò le braccia al collo.

— Voi mi amate, Loris: era impossibile che Dio vi permettesse di non amarmi dopo quello, che tentaste contro di lui. La sua giustizia è sempre migliore dei nostri cuori, che s'ingannano spesso senza mentire. Ora sono felice.

Queste ultime parole passarono sulla bocca di Loris come un effluvio. Cinse Tatiana colle braccia e, sollevandola robustamente come una bambina, la portò sul letto. La vasta camera restava in una penombra misteriosa, rischiarata appena dalla candela del tavolo, sul quale Tatiana aveva deposto il giornale. Il letto bianco sembrava anche più grande.

Tatiana vi si adagiò confidenzialmente sugli origlieri, tenendo sempre per mano Loris, che si era seduto sulla coperta coi piedi sul tappeto.

Ella pareva in una calma così stravagante, quasi di moglie col marito dopo una lunga abitudine di amore, che egli stesso ne subiva l'irresistibile ascendente.

Poi Tatiana chiuse gli occhi nella felicità di quel sogno; al suo tenue respiro si sarebbe creduto che dormisse.

A Loris parve di vaneggiare. Quella beatitudine appassionata ed innocente, della quale non aveva nemmeno mai sospettato la possibilità, lo rigenerava. Tatiana era la prima donna, che incontrava nella vita; tutte le altre non erano state che femmine. Allora un lampo sinistro lo abbarbagliò, e pensò al principe, che adorava Tatiana con una passione inesprimibile a tutte le parole; quell'uomo era un altro Topine, il secondo mostro del loro dramma, nel quale egli si spezzerebbe. La mano della morte gli strinse il cuore così violentemente, che Tatiana, desta da quel soprassalto, aperse gli occhi, e si sollevò sulle reni per interrogarlo.

— Come sei bello, mio Loris! esclamò, accarezzandogli il volto come ad un bambino. Adesso vattene: ho bisogno di riposarmi per questa felicità. Non ne voglio morire.

E pigliandogli una mano lo fece alzare; egli ubbidì fanciullescamente. Tatiana gli baciò la mano, quasi come avrebbe fatto con quella della propria madre, ma tirandoselo leggermente contro, gli soffiò in un orecchio:

— Te lo dirò....

E tranquilla, beata, bianca nella veste e sul letto bianco come la neve, chiuse gli occhi.

IV.

— Ecco il vostro chèque sulla banca Fitz di Varsavia, disse il principe a Loris: ho già fatto attaccare la vostra droiska.

Era il sabbato, l'ultimo giorno della settimana, che Loris si era assegnato per rimanere al castello. Il suo sguardo cadde imprudentemente su Tatiana, che a quelle parole aveva impallidito aprendo smisuratamente gli occhi, ma Loris per impedire al principe di accorgersene lo trasse alla finestra, ponendosi fra lui e lei. Nullameno anche il suo volto era agitato.

Il principe sembrava scrutarlo.

— Sono sospettato?

— Si.

— Avete notizie da Pietroburgo?

— Dal Comitato; gli studenti hanno parlato di voi.

Loris si sentiva internamente tornare di ghiaccio; un momento perdette di vista il principe per rivolgersi tutto al nuovo pericolo, che veniva a destarlo da quel breve sogno di amore. Non pensava già più a Tatiana.

Il principe seguitò a bassa voce:

— È stata notata la mia uscita dal teatro, non altro su me. Invece lo stalliere, presso al quale tenevate la droiska, ha dato i vostri connotati, e concordano colle indicazioni di coloro, che vi hanno conosciuto a Mosca.

— Infatti deve essere così.

Parlavano così piano che ella non poteva intenderli.

— Partirò.

— Subito?

Loris alzò il capo.

— Vi pentireste già di avermi ospitato?

— Non mi perdonerei di farvi arrestare in casa mia.

— Il pericolo non può essere così urgente.

— Allora restate.

E un sorriso enigmatico commentò quella risposta troppo breve.

Un dubbio aveva ad un tratto illuminato la mente di Loris, che il principe mentisse per cacciarlo di casa, sospettando de' suoi amori con Tatiana. Involontariamente si voltò verso di lei, seduta sulla poltrona ed in preda ad una visibile commozione; ma non ebbe nemmeno il tempo di pentirsene, che il principe proseguì con voce fredda:

— Se intendete di restare ancora qui, manderò via Tatiana; ella è troppo cagionevole di salute per potersi trovare impunemente alla scena spiacevole di una fuga o di arresto. Credo che voi stesso sarete di questa opinione.

Nessuna obbiezione era possibile; il principe gli voltò le spalle per andarsene.

— Aspettate, disse Loris alzando la voce: parto.

Il principe si rivolse colla maniglia dell'uscio in mano, ma il suo occhio atono non espresse nulla.

Tatiana, che aveva abbassato gli occhi, mentre egli le passava dinanzi, ascoltò allontanarsi i suoi passi; poi scattando dalla poltrona si slanciò ai collo di Loris.

— Bada! egli susurrò respingendola.

Ella aveva il viso sconvolto.

— Tatiana, disse Loris severamente per richiamarla all'impero di sè stesso: parto.

— Perchè?

— È inevitabile.

— Perchè subito?

— È inevitabile.

Ella sentì in queste parole la fatalità.

— Vengo con te.

— È impossibile.

— Ebbene, verrò dopo.

Parve loro di udire un passo nell'altra camera,

Tatiana balbettò rapidamente:

— Torna a mezzanotte, verrò ad aprirti dalla porticina della serra.

— Sì.

Loris ebbe appena il tempo di ricomporsi, che il principe era già sulla soglia del gabinetto; la sua faccia si conservava sempre così impassibile.

— Ho ordinato a Dmitri Soudaieff, il secondo cocchiere, di accompagnarvi sino a Wyasa.

Loris lo trasse di nuovo in disparte.

— Avete fatto male; nessuno dei vostri servi deve seguirmi. Sarà già troppo che mi abbiano conosciuto qui per dieci giorni, se dovranno essere interrogati. Lo credete probabile?

— Quanto voi.

Loris avvampava di collera davanti a quella freddezza impenetrabile, dietro la quale indovinava un proposito geloso. Ma bisognava compiere correttamente la ritirata per non mutarla in fuga; quindi cangiando tono gli chiese:

— Dove mi scriverete?

— Voi stesso ora non sapreste indicarmelo: vi fermerete dove potrete, assumendo il nome e la fisonomia che meglio vi converrà; poi mi scriverete. Alterate la calligrafia, e non firmate nemmeno coll'ultimo nome.

— È giusto, mormorò Loris accorgendosi di essere battuto.

— Farete anche benissimo disfacendovi dei cavalli e della droiska a una delle prime tappe.

— Voi pensate a tutto.

— A tutto, ribattè il principe con strana inflessione di voce, anche a quello, cui non si vorrebbe pensare.

Era impossibile resistere. Loris si volse a Tatiana domandandole con un inchino il permesso di andare nella propria camera a mettersi la pelliccia, per ritornare a salutarla. I due coniugi rimasero soli. A Loris sembrava di agire sotto l'impulso di un sogno. Nessuna idea gli rimaneva chiara nella mente, nemmeno quella che il principe conoscesse il suo amore con Tatiana, e lo cacciasse di casa. Si mise rapidamente la pelliccia e tornò nel gabinetto. Aveva bisogno di far presto, di essere fuori, per non tradirsi.

Il principe e la principessa erano ancora nel medesimo atteggiamento, come se non avessero parlato. Quando Loris entrò, Tatiana per frenare uno scoppio di pianto s'irrigidì così duramente che non potè muoversi. Loris invece andò verso il principe disinvoltamente: solo nella voce gli restava un certo tremito.

— Ci rivedremo alla guerra, caro principe, gli susurrò a bassa voce con accento quasi allegro.

— Forse.

— Ricusereste di battervi?

— Io non posso più dare che una battaglia, ma non la perderò.

Quindi andando verso Tatiana, le disse con voce meno cupa:

— Il signor Loris deve partire improvvisamente, mia cara.

Loris le tese la mano; ella gli mise negli occhi uno sguardo luminoso, e levandosi con improvvisa energia gli prese il braccio.

— Venite dunque in camera mia a prendere quell'albero che vi ho promesso, e fissò così alteramente il principe che questi capì di non poterli seguire. Un pallore cinereo gli si diffuse sulla faccia, le labbra diventate bianche gli tremarono; ma furono pochi istanti. Loris tornava già sorridente col rotolo dell'acquerello in mano.

— Arrivederci, caro principe; non mi accompagnate, l'aria è troppo rigida fuori.

Il principe gli allungò la mano.

À la guerre comme à la guerre, esclamò Loris con gaiezza che all'altro parve insultante.

Pochi minuti dopo il principe udiva tintinnire la campanella della droiska lanciata vigorosamente a tutta carriera. Tatiana si ritirò nella propria camera. Il pomeriggio era cominciato da poco; fuori, nel sereno della giornata freddissima, la luce della neve abbarbagliava. Il principe rimase lungamente alla finestra in una meditazione, che di quando in quando gli traeva sul volto nuvole fosche. La sua veste da camera di seta cinese, a larghi fiorami vividissimi, rendeva col contrasto anche più malata la sua fisonomia di vecchio; portava in testa un berretto ricamato, dono di Tatiana.

La voce di questa lo riscosse.

— Siete ancora lì.

Nel suo accento non v'era che una curiosità benevola. Aveva mutata la veste per un abito di un rosso cupissimo a merletti neri, corto che le lasciava scorgere le scarpine dal tacco alto, di pelle bronzata, e scollate. Una sottile freccia color d'oro le saliva per le calze di seta nera perdendosi sotto le gonnelle.

Sedette negligentemente e prese un giornale.

— Che avete dunque quest'oggi? gli domandò.

Il principe sentì l'agguato in questo attacco; invece di rispondere venne a sedersele vicino, ma entrando così nel raggio della sua bellezza tutta la sua risoluzione si sciolse. Non gli rimaneva più che un'idea limpida ed irresistibile, la necessità di un'ultima spiegazione con Tatiana, però ella stessa evidentemente vi si era preparata.

— Quando vorrete partire per Pietroburgo? le chiese scioccamente, non sapendo come incominciare.

— Ma, non lo so; l'inverno non è che a mezzo, avremo sempre tempo di arrivare agli ultimi balli. Resterete ancora al castello?

— Aspetto i vostri ordini.

— Sapete pure che per voi non posso averne, amico mio, e la sua voce era dolce come nei momenti più buoni della loro pace.

Egli ne provò un'immensa amarezza.

— Non vorrete averne mai per me?

Tatiana meravigliata gli rispose con un sorriso. Allora il principe proruppe: s'accorgeva di perdersi, ma la passione lo trascinava.

— Perchè finalmente? esclamò. Io vi ho amata sino dal primo giorno, come nessuno potrà mai amarvi; voi siete sempre rimasta egualmente insensibile, quasi fra noi vi fosse uno di quegli abissi, che solo il delitto può scavare. Nessuna grandezza d'animo basta dunque per trovare grazia ai vostri occhi?

— Vi credete grande? ella ribattè con calma irritante. Può darsi che abbiate ragione, io non saprei giudicare della passione di cui parlate, però confessate che grande non lo foste sempre. Per esempio, quando veniste a dirmi che ero l'amante dello Czar, non mostraste in quest'accusa molta grandezza.

— Non vi difendeste.

— Nè mi difenderò. Chiedendo la mia mano, mi offriste cortesemente di diventare la vostra vedova; più tardi vi ho offerto, e ve lo offro ancora, di divorziare: di che cosa vi lagnate? Se io sono l'amante dello Czar...

— Non lo siete.

— Ora non lo credete più, e sia; probabilmente crederete fra non molto che sono l'amante di un altro.

Il colpo era così diritto, che il principe barcollò.

— Se lo credessi....

— Sentiamo.

— Neghereste anche questa volta di difendervi?

— Provate ad accusarmi.

Tatiana si conservava calma, senza quella imperiosità abituale, accorgendosi di avere il sopravvento; quindi colla temerità della donna arrischiò tutto per tutto.

— Perchè è partito così improvvisamente il signor Loris? Voi, che siete il suo amico, dovete saperlo.

Egli la guardò, quasi sbigottito; ma Tatiana precipitò l'ultimo attacco.

— Ah! è dunque il signor Loris, che io amo? Lo credete?

— Tatiana...

— Perchè questa volta non osate dirlo? Vi pare che sarei discesa troppo bassa, avendo cominciato dallo Czar? Eppure potreste dirlo francamente, perchè non siamo marito e moglie, e la sua voce era ritornata stridula. Se non volete divorziare, non so per quali ragioni, siamo egualmente liberi; nè io mi sono mai interessata alla vostra condotta, nè voi potete sindacare la mia.

— Vi sentite libera, assolutamente?

— Assolutamente. In faccia a voi il mio onore di donna è salvo. Quando dovetti farvi quell'orribile confessione, vi offersi prima il divorzio: potevate accettarlo, e siccome mi sarei assunta qualunque torto vi fosse meglio piaciuto, il vostro matrimonio di tre mesi con me, non sarebbe stato per voi una grande disgrazia. Sposare la principessa Tatiana Neginsky non poteva essere un disonore per alcuno, aggiunse con sovrana alterigia.

Il principe ne convenne con un gesto, Tatiana parve fare uno sforzo.

— Allora vi cedetti; era lo scotto dell'inganno, nel quale vi avevo tratto, poi avevate creduto nobilmente alla mia confessione.

— E ora? egli esclamò con voce dolorosa.

Ella finse di non comprendere, accomodandosi una piega dell'abito.

— Tatiana, non mi amerete mai?

— Mai.

— Ne amerete un altro?

— È possibile.

Il principe si alzò in piedi, fremendo.

— Voi scherzate con una passione che non conoscete. È vero, siete libera: il nostro matrimonio è una apparenza, che non mi dà nessun diritto; poi le donne, come voi, vanno conquistate. Ma la passione ha dei misteri anche per chi ne è la vittima: badate! Io vivo da molti anni nella vostra ombra, so tutto quello che soffrite, tutto quello che desiderate, tutto quello che amate. Non s'inganna una passione come la mia; non potete formare un pensiero nella mente, che io non lo senta subito nel cuore.

— Diventereste anche voi spiritista?

— Non insultate, Tatiana: la mia passione merita almeno il vostro rispetto. Io vi amo col delirio del naufrago; non voglio sapere nulla, non voglio discutere. Sì, siete libera, potete aver amato lo Czar, se egli ha potuto piacere alla vostra anima: in questo caso avrebbe conquistato un impero migliore di tutte le Russie. Ma voi non lo avete amato, lo so; egli non poteva comprendervi, non basta per questo essere Czar. Sentite, Tatiana: io non amo che voi, voi sola, non vivo che di voi: non ho più che questa speranza, la mia vita è vuota senza di voi. Ecco come sono: non posso uccidermi perchè vi veggo, e non posso vivere senza.

Le parole gli mancarono improvvisamente. La sua faccia convulsa era diventata più brutta, uno schianto di tosse gli scrollò il corpo magro entro quella lussuosa veste da camera. Egli se ne accorse e si avvilì, ma nell'orgasmo di una risoluzione suprema non potè arrestarsi.

— Bisogna che me lo diciate subito. Vi lascierò poi tutto il tempo che vorrete, perchè credo alla vostra parola. Tatiana, siate mia.

Ella si alzò.

— No, le gridò con nuovo impeto, ascoltatemi, sarà magari per l'ultima volta. Possibile che non comprendiate il mio stato! Siate mia, vi porterò più alto dello Czar, perchè vi è qualche cosa in Russia, davanti alla quale lo Czar trema, e che può da un giorno all'altro rovesciare il suo trono. Non ho bisogno che di voi. Non potete amarmi, ebbene lo so.... Sì, aggiunse rabbiosamente: non sono amabile, avete ragione. Non lo sono! Lasciatevi amare, siate l'elemosina che mantiene la mia vita, e Dio, voi che ci credete, vi compenserà. No, no, ascoltatemi ancora. Non ho nessun diritto, non chiedo nulla, non lo merito.... ma, solo quando vorrete! Avrete i vostri giorni buoni: quando avrò molto sofferto, sofferto come voi sola potete ricompensare, verrò ai vostri piedi; non mi respingerete. È orribile quello che vi chiedo, orribile per voi che non mi amate, per me che vi amo. Lo so, ma è così: non posso, non posso....

Sotto quella bufera ardente Tatiana non provava che un freddo di orrore, come quella volta nella caverna, quando aveva incontrato lo sguardo bianco di Topine fisso sul proprio. Involontariamente indietreggiò; il principe ebbe un gesto delirante.

— Ah! ella gridò con ribrezzo così vivo, che l'altro si arrestò immobile.

Tatiana si mosse verso la porta.

— Una parola, mormorò il principe con voce strozzata.

Ella si rivolse.

— Dunque non volete.... badate di non avervene a pentire.

— Minacciate?

Egli era tremendamente cupo, Tatiana tornò indietro. I loro sguardi s'incontrarono; ella sfavillava d'orgoglio, i capelli biondi sembravano farle sulla testa un'aureola sulfurea.

Il principe chinò la fronte con un gemito.

— Le vostre ultime parole sono vili, se avete inteso con esse di mettermi paura. Le donne, seguitò dopo una pausa con un sorriso micidiale di disprezzo, non si conquistano così.

Egli la fissò con uno sguardo, che la fece rabbrividire.

— E voi avete torto di pretendere, che si possa vivere così.

Tatiana quel giorno si fece un dovere di comparire a pranzo, fingendo di aver tutto dimenticato. Il principe, che vi sarebbe mancato volontieri, dovette per imitare il suo contegno comprimere gli spasimi del cuore: in un'ora era invecchiato di molti anni. Se Tatiana non fosse stata innamorata, avrebbe avuto pietà di quella passione ma l'egoismo assoluto dell'amore le toglieva perfino di comprenderla: però nessuno dei due, malgrado ogni ostentazione di disinvoltura, potè mangiare.

Invece di ritirarsi subito dopo il pranzo, Tatiana passò con lui nel gabinetto di legno e vi sostenne una lunga conversazione sullo spiritismo.

Il principe non ostante la propria incredulità aveva anche su tale questione, ridivenuta così ardente per tutta l'Europa in questi ultimi anni, una vasta cultura, quindi ella con grazia squisitamente femminile insisteva per farlo parlare. Sembrava voler sapere come la grande filosofia considerasse quel problema, che la grande scienza aveva da un pezzo cessato di sdegnare.

A poco a poco il principe cedeva ad un'altra speranza; forse Tatiana non era al tutto inaccessibile, perchè le passioni vere finiscono per diventare contagiose come tutte le verità.

Il suo sguardo espresse luminosamente questa fede, ma allora l'altra tornò rigida.

Quindi s'alzò per ritirarsi.

— Andate a letto?

— Sì, sono stanca.

— Io non posso più dormire: voi avete ucciso in me il sonno, come ha detto Shakespeare.

Appena nella propria camera Tatiana fu ripresa dall'emozione, ma dominandosi si fece spogliare da Polemska, la vecchia cameriera, per mettersi subito a letto. A rovescio di molte dame, ella non aveva mai concessa alcuna intimità a quella donna, che l'aveva veduta nascere: e non ne stimava il carattere, accettandone i servigi piuttosto per lunga abitudine che per elezione. La vecchia temeva la padrona.

Quando Tatiana fu coricata, Polemska le accomodò il servizio da thè presso il letto, sopra un piccolo tavolino intarsiato, e si ritirò mutamente. Tatiana non aveva mai voluto domestici nel proprio appartamento; d'altronde era tutto così pieno di bottoni elettrici, che avrebbe potuto suonare comodamente in qualunque posizione si trovasse. Tutti nel castello sapevano che di notte la porta del suo appartamento non era mai chiusa a chiave: ma quella sera ella vi pensò con rammarico. Quindi l'orgasmo la riprese poco dopo così vivamente che dovette rivestirsi. Trasse dall'armadio la più elegante delle proprie vesti da camera, in seta cilestra, marezzata, e foderata di raso bianco: davanti e di dietro, dalla sommità del seno e delle spalle, ne cadeva come una lunga stola, raddoppiata e trapunta di sottilissimi fili argentei. Le maniche larghe e lievi lasciavano travedere le braccia fin sopra al gomito.

Si mise calze e pianelle cilestrine. Voleva essere supremamente bella. In quello studio paziente occupò più di un'ora; il suo volto pareva tranquillo, ma tratto tratto le mani le tremavano.

Quando quella lunga acconciatura fu terminata, scoperse da un cofanetto giapponese lo scrigno delle gioie, e si mise al collo un magnifico cordone di perle nerastre; per un momento dubitò di insinuare fra i capelli uno spillone incappellato di un grosso diamante, perchè vi brillasse come una stella, poi si pentì. Invece si spruzzò col polverizzatore i ricci sulla fronte di una tenue essenza di fieno.

Era pronta, il cuore cominciava a battere. Allora un senso di pudore la sorprese; il letto disfatto le parve volgarmente sguaiato. Sorridendo seco stessa si pose a rifarlo, forse per la prima volta in vita sua, ma la cosa le riuscì meno facile che sulle prime non avesse immaginato; nel mezzo vi restava sempre una piccola depressione, e l'immensa coperta, ammassandosi sul tappeto, vi faceva molte pieghe antipatiche.

Poi sedette attendendo.

Mancava un'ora a mezzanotte, Loris non poteva mancare.

Ella lo amava perdutamente, giacchè nelle due notti, che Loris era venuto a trovarla in quella camera, aveva finalmente provato l'amore dell'uomo, quel mistero, cui la sua anima anelava da tanti anni attraverso l'orrore della doppia violenza di Topine e del principe. Ella ne rimaneva ancora vibrante. La malata sensibilità del suo temperamento, che poche carezze bastavano a prostrare, le faceva riassaporare dopo, lungamente, l'effimera violenza di quelle gioie, nelle quali le pareva sempre di morire; mentre Loris, bello come un arcangelo, la stringeva furiosamente fra le braccia, o allentava d'un tratto la stretta, vedendola imbiancarsi nel volto colla fisonomia di un agonizzante.

Tatiana era felice; seguirebbe Loris dove e come vorrebbe. La sua posizione col principe era nettissima, perchè anche non amandolo ella lo stimava abbastanza per saperlo incapace di una volgarità e di negarle il divorzio, qualora glielo avesse reclamato. Ma Tatiana non avrebbe mai osato chiedere a Loris di sposarla. Sentiva nella sua anima un immenso segreto, una grandezza, della quale non provava che il freddo anche nei momenti più soavi del loro abbandono. Loris non s'obliava mai. Ella lo credeva nichilista, la più terribile originalità allora conosciuta nella Russia, inorgogliendo generosamente del proprio amore, che potrebbe un giorno farla diventare sua complice.

Colla foga delle anime appassionate Tatiana aveva già rinunciato nell'amore di Loris a tutti i pregiudizi e le abitudini della propria classe per sposare quella rivolta, che aveva inspirato tanti martiri e tanti eroi. L'eccesso medesimo della vendetta, praticata su lei da Loris, le dava le vertigini dell'ammirazione, pensando di che cosa un uomo simile potrebbe essere capace in una guerra. La sua fantasia lo paragonava a Napoleone, alto sui popoli e sui re, con quel profilo di aquila e quel pallore tragico, che nessuna emozione aveva mai potuto alterare. Ella timida e malaticcia, cresciuta come un fiore di serra ed ammirata sino allora come un fiore di salone, era colta alfine dal gran vento della steppa, ed abbandonandovisi colla dolcezza di una paura quasi confidente errava già sotto i cieli frigidi di serenità e sulle pianure scintillanti di neve, mentre le città dileguavano all'orizzonte come una macchia nerastra, e il sole riapparendo all'improvviso la avvolgeva nella pompa dei propri raggi.

Poco prima della mezzanotte accese una candela entro una piccola vaschetta di cristallo, si raccolse la veste in pugno, e discese coraggiosamente.

Per la scaletta di legno, che dall'ultimo gabinetto del suo appartamento comunicava col vestibolo presso le cucine, non incontrò alcuno; tutti i servi erano ritirati, ma incontrandoli avrebbe risposto al loro inchino ossequioso senza dire una parola e senza tremare. Dal vestibolo infilò tre grandi sale, una volta occupate dall'amministrazione, adesso vuote da parecchi anni, quasi senza mobili. Tatiana aveva detto più volte di volerne fare tre saloni da ballo, poichè finivano alla serra, ma nemmeno questa era gran cosa. Si componeva di un rettangolo a vetriate, pieno di piante, senza disegno alcuno di architettura, addossato all'ala del castello come un ripiego posticcio e non bello.

Quando Tatiana v'entrò, il calore della stufa e l'umidità aromatica delle piante le tolse quasi il respiro; istintivamente, parendole per la trasparenza delle vetriate di essere all'aperto, riparò sotto una manica la vaschetta della candela. I sassolini dei viali, fra i vasi, stridevano sotto il suo passo. Tatiana non degnò la serra nemmeno di uno sguardo, non vide alcune piante mostruose, dai rami, che parevano braccia stese verso di lei; non badò ai bagliori bianchi di certi fiori, al silenzio anelante, che opprimeva tutta quella folla vegetale.

Arrivò difilata all'usciolo chiuso dall'interno, e l'aperse.

Loris, nascosto da due ore dietro un grosso abete, entrò con un buffo di aria così rigida che quasi la rovesciò; egli stesso rinchiuse la porticina. Tatiana, senza parlare, risalì alla propria camera. Quella freddezza le era venuta da un subito senso di sconvenienza aristocratica, ricevendo così, a quell'ora e a quel modo, colla viltà di un sotterfugio l'uomo amato.

Ma appena nella propria camera la confidenza le tornò.

Loris aveva la faccia livida e chiazzata pel freddo sofferto; sul bavero della pelliccia il suo alito si era congelato in sottili cristalli. Tatiana gli si appressò, e umiliandosi colla inimitabile grazia della gran dama a fargli da cameriera, gli trasse la pelliccia, che andò quasi a nascondere sopra una sedia dietro l'armadio. Poi lo condusse ad una poltrona, e gli si fermò dinnanzi per attendere un bacio.

L'altro sembrava accigliato.

— Hai chiuso a chiave l'appartamento?

Tatiana sembrò meravigliata.

— Perchè? non verrà, sono libera.

Loris la contemplò senza che lo spettacolo della sua voluttuosa eleganza gli traesse un'onda di sangue al viso. Tatiana sedette, quasi devotamente, davanti a lui.

Loris le prese la mano.

— Perchè sei partito mio Loris? gli domandò accostandogli sempre più la fronte.

— Tu non puoi saperlo, d'altronde non lo capiresti.

— Ma io ti amo; capirò sempre tutto quello che vorrai.

— Adesso non voglio che tu capisca, egli rispose con un sorriso.

Ma Tatiana, che aveva un bisogno insopportabile di abbracciarlo, gli si gettò al collo, quasi mordendolo a più riprese; così seduto egli barcollò sulla poltrona, e per resistere dovette tirarsela sulle ginocchia. Ella felice raggiò.

— Non ami che me, Loris? Non hai mai amato che me, mi amerai sempre?

— Quante cose, bimba mia!

— No, dimmelo subito.

Ma Loris restava aggrondato. Tatiana afflitta si levò dalle sue ginocchia, e si rimise a sedere vicino a lui; una dolorosa umiliazione gli apparve sul volto a quella sua impotenza di donna. Poi Loris riprese:

— Tu credi che non verrà? Verrà.

— Qui! nel mio appartamento? ella replicò con quell'accento altero, che era uno dei fascini della sua bellezza.

Loris accennò di sì col capo.

— No, sono libera. Oggi stesso, dopo che tu eri partito, ce lo siamo reciprocamente ripetuto. Egli non è mio marito: abbiamo associato inutilmente i nostri due nomi, domani possiamo dissociarli.

— Verrà, ti dico. Tu non comprendi la sua passione, egli ti ama sino alla morte.

— Mi ama dunque più di te? ribattè con una interrogazione sfolgorante. Vuoi che vada a chiudere la porta dell'appartamento?

— È inutile.

E ricadde in una meditazione.

La faccia di Loris diventava sempre più fredda. Pensava di aver fatto male a tornare nel castello, dove il principe lo sorprenderebbe fra poco, poichè sapeva già tutto indubbiamente. Forse lo aveva visto entrare dalla porticina della serra; era impossibile che un uomo del suo carattere, e con quella sua passione, si fermasse a mezzo. Quanto tarderebbe a comparire? Loris se lo chiedeva con freddezza misteriosa anche per lui stesso. Dal momento che aveva promesso a Tatiana di ritornare nella notte, gli era parso di sentire come spaccarsi una frana nella propria vita: non era più possibile andare avanti. Amava egli Tatiana? Se non l'amava, era tornato solo per vanità, perchè ella non lo credesse così pauroso da arrestarsi davanti a simile pericolo? Ma così volgare amor proprio che cosa aveva di comune colle necessità politiche di quel momento, e colla tremenda impossibilità, alla quale si era educato da sè medesimo tanti anni per assorgere al tipo ideale di capo-partito. Un rimorso amaro e velenoso gli zampillava dalla coscienza. L'ora della debolezza era suonata anche per lui, come per tutti gli uomini, anche i maggiori, quell'ora che li uguaglia ai più piccoli, e sottomette i loro più alti disegni al capriccio del più meschino fra la gente, o del più bestiale fra i piaceri. Adesso Tatiana lo dominava. Ella lo aveva voluto in quella camera, sotto la vendetta del principe, certo non credendovi, per una fantasia erotica di donna nei primi giorni di un primo amore; ed egli era venuto come uno scolaro vanaglorioso e ridicolo, invece di gettare quella donna ai pruni della propria memoria per ritrovarne poi molti anni dopo qualche brandello.

— Loris, disse Tatiana, tu sei nichilista.

— No, è troppo poco.

L'altra tremò.

— Che cosa sei dunque?

— E tu che cosa hai voluto, facendomi ritornare qui?

— Te ne penti?

— Non mi pento mai.

— Volevo chiederti, ella mormorò finalmente, dove mi avresti aspettata.

— Sarebbe stato impossibile: egli rispose, come se tutto fosse già finito, quello che stava per accadere.

Si levò, ma la sua fronte ridivenne minacciosa.

— Hai voluto che ti ami.... e sarà forse la legge comune! ma bada di non avere voluto troppo. Al di sotto di questo amore, che ubbriaca tutti, uomini ed animali, vi è un'altra legge, che sospinge le migliaia delle generazioni ad una meta oscura, lasciando loro appena il tempo necessario a riprodursi. Quella è la legge vera, che crea i popoli e li distrugge a pro di una civiltà sempre più alta. In quella legge non si ama, perchè ogni progresso si è ottenuto solo colla morte. Io volevo essere l'uomo di quella legge: avevo raccolto tutti i dolori, mi ero nutrito col sangue di tutte le piaghe. Tu hai voluto che io ami.

— Ma io ti amo, Loris.

— Il tuo amore non è che un riverbero di neve, che si squaglia nel sole: domani non amerai più.

Ella si nascose il viso fra le mani.

— Tu non puoi nemmeno comprendere tutta l'ironia della tua vittoria di donna.

— Se tu non sei nichilista, vorresti però fare una rivoluzione: io posseggo tre milioni di rubli, prendili. Adesso non hai più il diritto di ricusarmi. Poi saltandogli al collo dalla gioia esclamò: l'ho trovata, l'ho trovata!

Così barcollando caddero sul letto. Tatiana aveva l'occhio morente, Loris la baciava sul collo; ella lo teneva stretto con tutte le forze senza lasciargli modo di muoversi, e parlandogli all'orecchio.

— Se no, no, mormorò Tatiana, alzando leggermente la voce.

Egli le rispose con una stretta più convulsa, ma rivolgendo istintivamente il capo verso l'uscio, diede un balzo irresistibile.

Il principe era in piedi, dinanzi alla porta, con una rivoltella in pugno. Da quanto tempo li spiava?

— Dio! urlò Tatiana inorridita.

A questo nome Loris si senti passare una tenebra sugli occhi: l'espiazione lo sorprendeva nell'atteggiamento medesimo del delitto, da lui commesso sopra Tatiana. Eppure lo sapeva, gli sembrava di averlo già previsto. Quella vasta camera, annegata in una molle ombra femminile, diventava l'arena del suo ultimo scontro, improvviso ed inevitabile malgrado tutti i disegni della sua ragione. Si ricordò di aver lasciato il revolver nella tasca interna della pelliccia, non aveva un'arma, nulla intorno poteva diventarlo.

Il principe lo guatava.

Sotto la fissazione di quello sguardo mortale sentì scattare violentemente tutte le proprie energie, quasi nella stessa suprema emozione dei condannati all'apparire del patibolo. La sua immensa guerra sociale si riassumeva in quel duello senz'armi.

Il principe s'inoltrò; Loris mosse verso di lui, ed incrociando le braccia attese provocantemente.

L'altro, insensibile a quella sfida, camminava colla rigidità di uno spettro.

— Ebbene! chiese Loris con accento di comando.

Tatiana dal fondo della stanza si slanciò innanzi a lui, gli cinse il collo con un braccio, protendendo l'altra mano per respingere il principe.

— Chi siete, che cosa volete?

Un riso stridulo, quasi meccanico, fu la risposta.

— Scostatevi, signora, non si tratta di voi; e l'atto di Loris fu così violento, che Tatiana traballando si abbattè sopra una poltrona.

— Quest'uomo vuole uccidermi: vediamo.

— Ti ucciderò, rispose il principe con voce sorda.

— Mi assassinerete.... è il diritto dei deboli. In una lotta con me sareste ucciso.

Il principe ebbe un sorriso di scheletro, ma Loris, invece di restargli superbamente rigido dinanzi, indietreggiò di qualche passo, prese una poltrona, e vi si sdraiò squadrandolo con aria dileggiatrice. Il principe sorpreso da quella manovra si arrestò, nell'occhio di Loris passò un lampo. Il principe non era che a tre passi, teneva la rivoltella in pugno, puntata; la piccola canna pareva di cristallo.

— È dunque la mia morte che vi fa paura? gli chiese Loris con atto di scherno, piegandosi sulle ginocchia e stropicciandosi nervosamente le mani.

Il principe ebbe ancora un istante di agitazione, gettò un'occhiata di sbieco a Tatiana.

Questo bastò a Loris. Con un balzo da tigre, così seduto, s'avventò nelle gambe del principe e lo rovesciò; caddero entrambi sul tappeto, abbrancolati, senza un grido, senza un soffio. Loris tentava di afferrargli colla mano il pugno, nel quale teneva la rivoltella, mentre coll'altro gli stringeva furiosamente il collo; ma il principe era riuscito a scartare l'arma, e gli sparò nel fianco. Loris non provò che un urto violento, si rialzò di scatto, lasciando la presa, e arretrò di qualche passo.

Tatiana alla detonazione era svenuta.

Loris vide il principe raspare sul tappeto per rialzarsi; in un attimo capì che aveva tempo per scagliarglisi nuovamente addosso e soffocarlo, che avrebbe potuto correre a prendere la propria rivoltella nella pelliccia. Fu un baleno; poi un'ombra immensa gli ondeggiò agli occhi, e portandosi istintivamente la mano al cuore ricadde.

Il principe si era rialzato.

Loris aveva gli occhi socchiusi, col pallore della morte sul volto. La sua bella testa pareva dentro una nebbia, che ne intorbidasse la potente espressione; era caduto in una posa quasi elegante, come un gladiatore antico.

Quindi aperse gli occhi, che non sembravano più quelli. Il loro verde, diventato opaco, non aveva più fondo; si guardò attorno, tentando di raddrizzarsi faticosamente sopra una mano.

Un filo sottile di sangue gli usciva dal fianco, rompendosi come a goccie di coralli sul tappeto scuro.

Il principe lo contemplava, sempre coll'arma in pugno, senza che la sua faccia avesse cangiato. Allora la ragione di Loris si schiarì luminosamente, e l'opacità de' suoi occhi s'aperse lasciando passare un raggio così vivo, che il principe non potè sostenerlo. Loris si guardò attorno. La testa smorta di Tatiana penzolava dalla spalliera della poltrona respirando a stento; una mano le toccava il tappeto. La mano era diventata rossa.

Fu l'ultima sensazione.

Poi il suo sguardo si riportò sul principe, fisso, coll'immobilità vampeggiante di un incendio lontano. Quell'uomo era la fine della sua vita, l'ultima realtà del mondo, dal quale stava per sparire.

Una malinconia ineffabile gli calò sulla fronte.

— L'uomo che salverà la Russia non amerà: mormorò fiocamente.

Nè Tatiana nè il principe avevano inteso.