La lotta politica
in Italia
ORIGINI DELLA LOTTA ATTUALE
( 476-1887 )
QUINTA EDIZIONE
Curata e riveduta sul manoscritto da A. Malavani e G. Fumagalli
VOLUME I.
FIRENZE SOC. ANONIMA EDITRICE «LA VOCE» — 1921
INDICE
LIBRO PRIMO: Il federalismo municipale Pag. 7
Capitolo primo. La fusione barbarica 9
— L'individualità romana e cristiana 9
— La federazione nell'impero 13
— Fondazione del regno 16
— Il patto di Carlomagno, e la dominazione franca 24
— Catastrofe del regno 28
Capitolo secondo. I Comuni 31
— Loro origini 31
— Vescovi e consoli 33
— Guerre municipali 44
— Le discese di Federico Barbarossa 47
— La guerra delle città ai castelli 52
— Il podestà 55
— I guelfi e i ghibellini 60
— Il capitano del popolo 62
— Ezzelino da Romano 64
— Carlo d'Angiò 66
— I tiranni 69
— Bonifacio VIII e Enrico VII di Lussemburgo 72
Capitolo terzo. Le Signorie 78
— Loro primi atteggiamenti 78
— Roberto di Napoli e Bertrando del Poggetto 83
— Lodovico il Bavaro e Giovanni di Boemia 85
— Trionfo dei signori 88
— Cola di Rienzi 91
— Il cardinale Albornoz 94
— L'unità ideale italiana 98
— Petrarca e Boccaccio 100
Capitolo quarto. Venezia nella storia italiana 103
Capitolo quinto. La rivoluzione militare 108
— Incapacità militare dell'Italia 108
— I masnadieri 109
— I condottieri 113
— Effetti della rivoluzione militare nelle repubbliche 117
— Trionfo delle capitali 121
— Conseguenze della rivoluzione militare nel resto d'Italia 124
Capitolo sesto. I principati 128
— Il secolo XV 128
— Impossibilità del regno 133
— Lodovico il Moro e Alessandro Borgia 137
— Leone X e Lutero 141
— Lodovico Ariosto e Nicolò Machiavelli 148
— La retrogradazione d'Italia 153
LIBRO SECONDO: Gli Stati 157
Capitolo primo. L'epoca della Riforma in Italia 159
— Condizioni spirituali 159
— Contraccolpi politici 163
— I gesuiti 165
— Attività del Piemonte nella decadenza degli altri stati italiani 168
Capitolo secondo. La rinnovazione dello spirito nazionale 179
— Torquato Tasso 179
— Gli scrittori politici 182
— Giordano Bruno e Tommaso Campanella 185
— L'emancipazione scientifica 193
Capitolo terzo. I regni del Piemonte e delle due Sicilie 198
— Il secolo di Luigi XIV 198
— Venezia, Genova e la Corsica 203
— Gli altri principati italiani 206
— Il Piemonte nelle guerre di successione 208
— Il Papato 215
— Il nuovo problema italico 216
Capitolo quarto. Genio e carattere nazionale durante la formazione dei due regni 219
— Le scuole politiche 219
— Giambattista Vico 222
— Pietro Giannone 228
— Metastasio e Goldoni 233
Capitolo quinto. Il periodo delle riforme 236
— Influenza europea 236
— Le due Sicilie 240
— Parma e Piacenza 242
— La Toscana 244
— La Lombardia 247
— Il Piemonte 249
— Lo Stato pontificio 250
— Soppressione dei gesuiti 252
— Giuseppe Parini 256
— Vittorio Alfieri 259
LIBRO TERZO: La democrazia moderna 265
Capitolo primo. Le repubbliche 267
— Rivoluzione francese 267
— Condizioni della penisola 274
— Discesa di Napoleone 277
— Costituzioni repubblicane 279
— Assetto rivoluzionario 285
— La reazione Austro-Russa 289
Capitolo secondo. Fine delle republiche 299
— Il consolato francese 299
— Battaglia di Marengo 300
— Il concordato 303
— Consulta di Lione 306
Capitolo terzo. I regni francesi in Italia 309
— L'impero francese 309
— Quarta e quinta coalizione europea (1807-1809) 313
— Mutamenti politici in Italia 319
Capitolo quarto. Caduta di Napoleone 333
— Campagna di Russia 333
— Catastrofe dei regni francesi in Italia 338
— I cento giorni 344
— Gli scrittori durante la rivoluzione e l'impero francese 348
— Vincenzo Monti 351
— Ugo Foscolo 352
— I poeti dialettali 354
Capitolo quinto. L'Italia sotto la reazione della santa alleanza 358
— Il trattato di Vienna 358
— Condizioni italiane 361
— Il liberalismo 373
AVVERTENZA
La presente edizione è curata da Achille Malavasi e Giuseppe Fumagalli. Essi hanno procurato di attenersi fedelmente all'edizione originale di Torino curata dallo stesso autore, pure tenendo a riscontro il manoscritto originale cortesemente messo a disposizione dal figlio dell'autore signor Ugo Oriani. Attenersi strettamente al testo di questo, apparve sin dall'inizio impresa impossibile. La stampa torinese presentava, nei confronti del manoscritto, numerose e radicali varianti, le quali, rappresentando il pensiero dell'autore nella sua forma definitiva, dovevano essere accolte nella presente lezione. Al manoscritto si ebbe tuttavia frequentemente ricorso; e precisamente ogni qualvolta la stessa lezione dell'autore presentava difficoltà di interpretazione. Errori di nomi e di date, sfuggiti alla revisione e all'attenzione di lui, si ebbe cura altresì di rettificare. LA LOTTA POLITICA IN ITALIA
ORIGINI DELLA LOTTA ATTUALE
(476-1887)
LIBRO PRIMO IL FEDERALISMO MUNICIPALE
Capitolo Primo. La fusione barbarica
L'individualità romana e cristiana.
Roma fu la patria dello stato, il suo impero la prima unità mondiale.
L'individualità antica vi ottenne colla coscienza della propria interezza, quella dei rapporti che la riunivano allo stato. Infatti mentre nella Grecia, patria dell'individuo, questi rimaneva chiuso in se medesimo e lo stato era piuttosto una somma che una unità capace di subordinarsi gli individui imponendo loro le proprie necessità come un'idea superiore, per la quale fossero nati e nella quale vivessero, a Roma individuo e stato, astrattamente concepiti, si costituiscono con reciproca personalità. La libertà dell'uno risulta dalla necessità dell'altro, il destino di Roma è la spiegazione e la gloria d'entrambi. Quindi le prime battaglie politiche vi hanno già uno spiccato carattere giuridico; la religione, più bassa dello stato, ne rispecchia le relazioni in una specie di contratto fra uomo e Dio; la famiglia vi fornisce l'unico altare praticato, la poesia vi è assente, la politica vi domina. Ma perchè il concetto della individualità possa esplicarsi diventando simultaneamente coscienza ideale e forma politica, l'individuo deve esservi in parte soffocato e contuso; la storia sembra imitare il processo dell'arte, che per estrarre il tipo è sempre costretta a spremere l'individuo. Così nella famiglia romana, modellata sullo stato, il padre solo, che ne è l'unità, si mostra perfetto; tutte le altre personalità soggiacciono alla sua, ma vi ottengono con secolare disciplina i sentimenti e le idee, che corrispondendo alla personalità astratta del loro tipo possono formarlo storicamente. Il diritto romano è la loro storia. In esso tutto è concepito astrattamente e nullameno a contatto della realtà; la procedura vi è infallibile, le relazioni precise; l'individuo romano vi è inviolabile come la proprietà, nella quale e colla quale si svolge; una severa ed angusta moralità impera a tutte le relazioni; autorità e servitù vi sono scevre di passioni.
Nè l'individuo, nè lo stato sono però perfetti: manca il terzo termine, l'umanità.
Nel diritto come nella storia romana si sente il dualismo: da un canto Roma, dall'altro il mondo; la vita vi è conquista e l'unità mondiale lo scopo che deve annullarla, e l'annulla. Quindi nel periodo romano, che compie il periodo ellenico, le due personalità dello stato e dell'individuo rimangono così violentemente strette per la necessità dell'incessante battaglia che, se non si soffocano, almeno s'impediscono vicendevolmente un armonico ed integrale sviluppo. Dal momento che Roma è in lotta con tutto il mondo per fonderlo col proprio processo nello spirito greco, il suo stato costituito di questa idea e per questa idea vi deve tutto sacrificare. La famiglia è un allevamento politico e militare, il governo una republica aristocratica, perchè la monarchia di Alessandro aveva già fallito alla missione di universalizzare lo spirito ellenico; il soldato deve essere cittadino e il cittadino soldato, il figlio sottoposto al padre come un milite a un centurione, la donna sottomessa all'uomo e senza funzione o carattere politico, la religione uno strumento di governo; e non pertanto ogni coscienza privata vi rimane alta quanto la publica, giacchè solo un popolo di soldati e un esercito di cittadini possono conquistare il mondo con una guerra di sette secoli.
I greci stimavano barbaro ogni altro popolo, i romani più forti e meno intelligenti lo consideravano nemico. L'umanità dell'individuo così a Roma come ad Atene è tutta nell'orbita della patria organizzata dallo stato. L'angustia di questo limite e la ferocia del processo storico dovranno quindi violentarla: però essa sarà la migliore apparsa sino a quel tempo nella storia, e vi resterà come uno dei massimi momenti dello spirito umano.
Il civis romanus sum, grido d'orgoglio insuperato col quale l'individuo romano si afferma in faccia a se medesimo e al mondo, esprime al tempo stesso il suo trionfo e la sua sconfitta, giacchè non avrebbe saputo abbreviarlo slargandolo fino all'universale: civis sum. Roma e il suo stato sono ancora necessari per essere cittadino; la personalità romana non è ancora umana.
Compita la conquista mondiale con un'assidua dilatazione da tutte le coste mediterranee ai centri d'Africa, d'Asia, e d'Europa, soppresse coll'antagonismo di tutti gli stati le antitesi di tutte le civiltà e di tutte le religioni, riassunto in una sintesi incomparabile quanto gli antichi imperi avevano connesso e la Grecia aveva fuso nel proprio spirito, propagata una legislazione uniforme, indotto nella coscienza di cento popoli il sentimento dell'unità storica col trionfo di Roma, occorreva ancora una nuova religione e un'altra filosofia per formare la vera personalità dell'individuo e dello stato entro il concetto dell'umanità. Dopo aver ellenizzato se medesima, Roma doveva romanizzare il mondo, comunicando a tutti i popoli colle proprie leggi i propri diritti. Caio Gracco e Giulio Cesare furono i due massimi eroi di questa necessità romana, che trionfò nel periodo imperiale con imperatori mostruosi come Caracalla e Commodo.
Se la monarchia cesarea era la negazione della nazionalità di Roma, il cristianesimo era la negazione dello stato romano.
L'impero, come soluzione del lungo periodo di conquista, fu dunque un'epoca di pace, una specie di riposo, nel quale tutti i popoli riconoscendosi ascoltavano le nuove promesse di un mondo migliore. L'unità cristiana divenne il rifugio di tutte le personalità offese dall'inevitabile tirannia unitaria dell'impero. Colla filosofia greca, col diritto romano e col cristianesimo la coscienza individuale non aveva più d'uopo di aderire allo stato per rassicurarsi: libera, ripiegata sopra se medesima, in faccia a un Dio tutto spirito, esaltata dalla tragedia del Golgota, che dichiarava falsa ogni società e la vita un pellegrinaggio verso il cielo, trovò subito istintivamente la propria identità. Patria e nazionalità, tutto fu nel primo fervore abiurato, mentre invece tutto doveva ricostituirsi sulla base di questa abiura.
Nella formazione etica della nuova personalità Dio si sostituì allo stato, cui per contraccolpo venne storicamente ad aggiungersi come terzo termine l'umanità affermata dalla nuova religione.
Senonchè il recente individuo creato da una formale negazione della storia, nella quale era chiamato ad agire, quantunque migliore dell'antico, non era meno imperfetto. Il processo di astrazione, mediante il quale si era realizzato, lo rendeva singolarmente inetto nella solidarietà storica, appunto nel momento che l'imperiale unità romana, avendo liquidato tutto il mondo anteriore, doveva alla propria volta liquidare se medesima.
L'impero avendo annullato tutti gli stati nella propria unità doveva essere franto dalla federazione.
Il cristianesimo, non meno pessimista del mosaismo donde usciva, aveva bensì creato una personalità più spirituale di quella sviluppata dalla filosofia greca e dal diritto romano, ma per ottenerla aveva dovuto sopprimere in essa ogni coscienza storica. Nel suo sistema la vita umana non aveva valore se non come prologo alla vita oltremondana: il mondo, effetto di una prima decadenza, si era mutato per misericordia di Dio in una specie di prova, dalla quale l'individuo non poteva uscire vincitore che con una rinunzia alla propria umanità. Questa negazione, meno profonda ma appunto per questo più efficace di quella di Buddha, se cancellava di un tratto tutte le tragiche differenze fra gl'individui del mondo antico emancipandoli in una libertà fatta di uguaglianza e di disinteresse dalla vita, correva pericolo di perdere i risultati del proprio progresso. La necessità metafisica del negar tutto per sopprimere molto, comune a tutte le rivoluzioni, doveva essere frenata dall'altra maggiore necessità di mantenere la vita per atteggiarla secondo le nuove idee.
Questa fatalità produsse la storia del cristianesimo, la quale altrimenti avrebbe conchiuso a un suicidio storico. L'impero romano logorato dal trionfo della propria missione si disgregò perchè entro le sue rovine si ricomponesse la doppia individualità degli stati e dei cittadini. Nell'unità religiosa, sostituita alla sua unità politica, non vi erano più nè barbari nè nemici; il dualismo fra pagani e cristiani si svolgeva come un processo di conversione al cristianesimo; le imminenti invasioni barbariche rappresentavano la necessità di una trasfusione di sangue vergine nel vecchio corpo dell'impero esaurito dalla vita e dalla storia.
Il civis romanus sum da grido di nobile orgoglio si era già mutato in vanto di efferata tirannide, mentre il dispotismo del governo imperiale, aggravandosi insopportabilmente su tutte le nuove coscienze, destava in ogni popolo il bisogno di riprendere la propria nazionalità sacrificata fatalmente alla conquista della civiltà romana. D'altronde il cristianesimo era inconciliabile coll'impero, che sintetizzava tutte le forme e le forze del paganesimo.
La federazione disgregò l'impero.
La federazione nell'impero.
Per qualche tempo l'impero resistette, impedendo e sventando le rivolte coi benefizi della propria democrazia cesarea. Siccome gl'imperatori trattavano le provincie meglio che la capitale, tutti i moti intesi a resuscitarvi le vecchie nazionalità fallirono: ma, sottomessi quei primi ribelli e reso indiscutibile l'impero, i popoli insorsero contro l'unità cesarea reclamando la propria autonomia colle forze stesse della civiltà romana. L'antica lotta degli italioti contro Roma ricominciò su tutti i punti dell'impero: i sudditi si agitarono come cittadini malcontenti, subornarono le legioni accantonate nei loro territori, le spinsero alla ribellione, le avventarono su Roma. Galba, primo fra gli imperatori imposti da una provincia insorta, distruggendo l'unità plebea sulla quale si era invano appoggiato Nerone suo avversario, affettò di rialzare il senato e di ripristinare l'antica libertà violata dalla famiglia di Augusto. Era questo il sogno e la rivincita delle provincie ancora credenti nell'impero e nemiche di Roma. Ma l'usurpazione diventò a mano a mano il solo modo di elezione all'impero; i generali vi succedettero ai generali, non fu nemmeno più necessario essere romano: Nerva era di Creta, Traiano di Spagna, Antonino di Nimes. Non importava essere nemmeno generale; la virtù era inutile come il genio per conciliare l'unità dell'impero colla libertà delle provincie, inefficace ogni mostruosità di ferocia per atterrire le ribellioni. Così, mentre la civiltà dei romani si estendeva, il loro dominio scemava, Roma decadeva e i municipii s'alzavano. Il federalismo barbaro del regno di Commodo oltrepassò quello inaugurato da Galba; ogni provincia, ogni legione proclamò i propri cesari, che si distrussero a vicenda. L'impero fu un dramma, in ogni scena del quale moriva un imperatore. Dopo Galieno si contarono in quindici anni nove imperatori, dei quali otto uccisi, e le insurrezioni continuarono.
Quindi, mutata la scena, la politica imperiale non potendo più contare nè sulle Provincie, nè sull'equilibrio fittizio di Adriano o sulle virtù distributive degli Antonini, nè sul tesoro esausto delle naturalizzazioni, s'appoggiò unicamente sull'esercito. La vera capitale dell'impero era l'accampamento: il suo governo assomigliava già ad una invasione. Se Caracalla toglieva ogni differenza fra i sudditi dell'impero romano, Commodo aveva già aperto a tutti le proprie legioni, nelle quali i soldati combattenti come gladiatori dovevano mutarsi presto in conquistatori. E allora i barbari associati con essi sfondano improvvisamente tutti i confini; la guerra rugge incessante alle frontiere, nelle provincie, alla capitale, negli accampamenti; il mondo, più forte di Roma, impone a Diocleziano di spezzare l'impero in quattro immense provincie. Da questo momento il senato non discute più leggi in Roma abbandonata dalla politica e dai Cesari; altre città come Treviri, Antiochia o Milano stanno per superarla. La federazione, stanca della lunga guerra e appagata dalla enorme vittoria, concede una tregua all'impero, ma per romperla dopo pochi anni e trionfare di Massenzio con Costantino, che decapita Roma e crea Bisanzio.
L'unità e il governo di questo secondo impero, non essendo più che di palazzo, rispetta tutte le forme politiche conquistate dalla federazione contro Roma, a cominciare dall'ultima e più importante, la divisione di Diocleziano. Tutto cede al cristianesimo, cui Costantino dà la forza di una rivoluzione sociale; vi affluiscono tutti i diritti, vi si accatastano tutte le ricchezze. Poichè nella battaglia contro il paganesimo i cristiani si sono divisi in varie sette, Costantino tenta di riunirli coi concilii, perseguita eretici e pagani, identifica la fede in Dio colla fede in Cesare. Ma alla sua morte le divisioni e le suddivisioni proseguono; l'eroismo di Giuliano l'apostata nel tentativo di una doppia risurrezione del paganesimo e dell'impero fallisce; la libertà propagata dal cristianesimo frantuma con rinascenti ribellioni la stessa divisione delle quattro provincie; Roma colla proclamazione di Nipote si contrappone a Bisanzio, finchè scoppia come un incendio l'arianesimo, che scindendo l'unità cristiana raddoppia le energie separatiste della federazione. Intanto i barbari, assoldati dall'impero e naturalizzati dal battesimo, secondano inconsciamente o volontariamente la multipla rivoluzione federale; prima coloni, poi ribelli, quindi liberatori percorrono liberamente la gamma loro assegnata dalla storia. Seduzioni irresistibili li circondano; incaricati di difendere la porpora imperiale, ne tagliano lembi per rivenderli stupidamente o per cingersene la fronte con orgoglio selvaggio.
Con Arcadio ed Onorio si entra finalmente nella fase degli imperatori ancora più inetti che immobili. Si adottano le invasioni per dissimularne le vittorie, si vezzeggiano le ribellioni per placarne i furori e nascondere la decadenza; il palazzo imperiale non è più abitato che da statue e da paralitici. L'inondazione barbarica straripa da tutti gli argini: quindi l'impero arruola intere nazioni di barbari contro altri barbari, distribuisce regioni ai goti, ai vandali, agli eruli, ai turcilingi, agli alani, negoziando incessantemente coi re assoldati, opponendo i primi agli ultimi, sostenendosi col maneggio delle invasioni.
Ma l'anarchia prorompente da questa diplomazia imperiale, costringendo le provincie a pagare le imposte per essere poi saccheggiate, presto suggerisce loro di voltare contro l'impero l'immane federazione dei barbari e di trattare direttamente coi singoli re dell'invasione: così la Spagna si dà ai goti, l'Africa ai vandali, la Gallia ai franchi, l'Italia ad altre nazioni.
Fondazione del regno.
Fra tutti questi torbidi moti l'Italia domina però ancora, opponendo la rivoluzione del regno all'impero di Bisanzio. Prima che le orde discendano le Alpi e sorga la stessa Bisanzio, Milano guida già la sommossa federale contro Roma, e il suo S. Ambrogio ne soverchia i pontefici; S. Agostino, scolaro di questo, gitta un appello sublime di coraggio e di eloquenza a tutti i barbari perchè accorrano d'ogni parte a rovesciare l'antica capitale. Quindi i barbari arrivano tumultuando. Ravenna, fondata tra la doppia inimicizia di Roma e di Milano, diventa la nuova città del regno dopochè Stilicone ed Ezio vi hanno invano mescolato eroismi e tradimenti; Ricimero tratta gli ultimi cesari come schiavi, Gundebaldo suo nipote lo imita, tutta l'Italia applaude ed asseconda, meno Roma ancora unitaria che resiste. Ma Nipote, impostole da Bisanzio, viene scacciato da Oreste, già segretario di Attila, che vi nomina il proprio figlio Romolo Augusto prontamente spodestato da Odoacre generale degli eruli. Questi è il primo re della prima Italia. Frazionata in Provincie, abitata da vari popoli, disforme di civiltà e di clima, soggiogata dai romani, associata con loro nella conquista del mondo e smarritavisi prima di loro, essa non aveva mai avuto nè vita nè storia nazionale. Tutto vi era stato importato. La sua prima civiltà etrusca era già greca in gran parte: la sua seconda civiltà romana diventò troppo presto mondiale atrofizzando fatalmente i pochi germi, che avrebbero potuto in una lenta fusione di popoli e di costumi darle carattere originale ed italiano.
Odoacre, insorgendo contro l'impero, è costretto ad intitolarsi re d'Italia. Nell'organizzazione del suo regno appare subito il principio della rivoluzione italiana, che frangendo l'unità della conquista romana nel nome delle eterne insurrezioni federali intende conservare le idee sociali e civili di Roma. Quindi le leggi vinte dai plebei sui patrizi e la democrazia cesarea restano indelebili sul suolo italiano, mentre l'imperatore di Bisanzio alzandosi nella unità spirituale dell'impero non è più che un pontefice del diritto, e il papa di Roma come capo del cristianesimo comunica alla grande urbe abbandonata la propria inviolabilità. Ma Odoacre va più innanzi, e, ariano, protegge i pontefici romani contro Bisanzio, che vorrebbe imporre loro nuove eresie, e li costringe ad essere solidali col nuovo regno sostituente una nazionale unità a quella formale dell'impero. Così la federazione trionfa col nuovo istinto indipendente dei barbari, che ringiovanisce quello ormai esausto della vecchia libertà e supera l'altro delle insurrezioni militari sempre circoscritte nella formola imperiale; senonchè una reazione rovescia prontamente il nuovo regno. Bisanzio scarica i goti sugli eruli, avventando Teodorico su Odoacre; Teodorico vince, ma per tradire anche più vastamente Bisanzio, slargando e consolidando il sogno di Odoacre. Il nuovo re aduna intorno a se stesso tutti i superstiti elementi della civiltà, moltiplica i monumenti, conferma l'indipendenza di Roma, vuole essere indigeno, federato e romano, re e vicario, conquistatore e console, dominatore e protettore della nuova libertà. Ariano come Odoacre, ne imita la politica religiosa e decide la nomina di Simmaco al pontificato contro Lorenzo candidato di Bisanzio: protegge vescovi, plebi, arti, redimendo l'Italia dall'impero colla doppia formula della monarchia a Ravenna e della republica a Roma fra tale uno splendore di gloria, che tanti secoli dopo confonderà ancora la fantasia di Machiavelli coi bagliori ingannevoli di una visione. Se il mondo antico aveva progredito coll'unità, il nuovo progresso derivato dal suo esaurimento deve invece attuarsi colla federazione, per determinare le individualità delle razze e degli stati, delle provincie e delle città, delle famiglie e degli individui entro le due idee universali della chiesa e dell'impero. Laonde dalla conquista irresistibile della republica attraverso le naturalizzazioni dei primi cesari, l'equilibrio di Galba, la democrazia militare di Commodo, le divisioni pacificatrici di Diocleziano, la democrazia cristiana di Costantino, le naturalizzazioni barbariche di Onorio, sorgeranno finalmente i regni indipendenti e federati dei barbari. L'embrione della storia moderna è già trovato; le leggi del suo primo momento saranno quelle di tutto il suo sviluppo.
Ma l'Italia non può come la Spagna appartenere ai goti fondendosi nella loro unità nazionale; Roma republicana e cristiana lo vieta. Quindi, emancipatasi da Bisanzio nella fondazione del regno, incomincia la propria guerra contro Ravenna rappresentante la nuova unità monarchica colla nobiltà ariana. Le differenze politiche e religiose fra le due città sono inconciliabili: il progresso sociale di Roma riassunto nel diritto romano e nel cristianesimo esige il sacrifizio di Ravenna, che contiene l'unico germe di progresso politico. La guerra scoppia, ma la vittoria è già prestabilita. Roma disarmata, alla testa di tutte le forze federali, di tutte le tradizioni e di tutte le idee, aiutata dalla stessa Bisanzio, prevarrà a Ravenna sconfiggendo nei goti gli ultimi invincibili soldati dell'epoca, annullando successivamente il genio di Teodorico diventato crudele, la clemenza di Amalasunta, l'impostura di Teodato, il suicidio regio di Vitige, il tradimento patriottico di Ildebaldo, i supremi eroismi di Totila e di Teia. Mentre i goti migrano dall'Italia per perdersi nelle paurose foreste germaniche, S. Benedetto arriva con un altro esercito di monaci e alza a Montecassino la magnifica ed imprendibile rocca, nella quale ripareranno tutte le arti e le scienze dalla tempestosa notte medioevale. La milizia cristiana ingrossa ora per ora, e si espande, conquista, si fortifica; i vescovadi italiani salgono a 145: ogni vescovo è un capitano pel quale sacerdoti e credenti possono trasformarsi in soldati; ogni fondazione vescovile è al tempo stesso un baluardo e un accampamento contro l'arianesimo al quale scemano moltitudini e guerrieri, generali e pensatori.
L'istinto politico di Roma non ha fallito; l'impero di Giustiniano e del suo successore è ancora una negazione della barbarie regia e una protezione delle vecchie libertà republicane. A Venezia, rispettata e protetta da Narsete, si costituiscono parlamenti cantonali; ogni isola ha un tribuno e un'assemblea: Eraclea è il centro delle deliberazioni generali. Napoli ha un'eguale libertà, Roma conserva il proprio senato, che può opporsi ancora al generale bizantino proseguendo la lotta fra il regno e la libertà, entrambi necessari alla vita italiana e non pertanto inconciliabili nelle proprie essenziali conseguenze. Quindi denunzia Narsete a Bisanzio; ma questi, ammaestrato dal dramma di Belisario, piuttosto che credere secondo una leggenda agli ordini insultanti dell'imperatrice Sofia, chiama i longobardi, che discendono le Alpi per rinnovare in Italia il regno dei goti. La loro conquista si compie però con metodo opposto; se i primi erano un esercito, essi sono un popolo e colonizzando dove si fermano, non mirano che all'Italia Cisalpina, ultimo campo del goto Ildebaldo, improvvisano un'infrangibile rete di fortezze intorno alle grandi città dei romani. Mentre i goti avevano rispettato le leggi e le magistrature romane, i longobardi invece sottomettono tutto e tutti alla propria legge militare. Il cittadino diventa servo della gleba, aldio, hospes; un decano regge ogni riunione di dodici uomini, uno sculdascio ogni riunione di dodici decani, un capo superiore ogni riunione di dodici sculdasci, e il re sovrasta a trentasei duchi sparsi nel regno. La faida, vendetta, è la gran legge dei longobardi, che simile all'ebrea discende al settimo grado di parentela e regola successioni e diritti di proprietà; qualunque uomo ha il proprio guidrigildo, meno i romani considerati come senza valore. Ogni longobardo è libero e soldato; ogni italiano è escluso dall'esercito, tributario e servo. I goti riconoscevano la supremazia formale di Bisanzio, i longobardi la ricusano. L'idea del regno, come negazione dell'impero, sale dunque con loro di un grado nella scala della libertà; ma i longobardi ariani essi pure s'accentrano a Pavia e vi si fortificano, come i goti a Ravenna, contro le due grandi città cristiane di Roma e di Milano. Però se questa è già vinta, quella invincibile infliggerà loro la sconfitta finale.
Intanto l'altra metà libera dell'Italia si volge contro il loro regno colla rivoluzione. Ravenna e Roma unite oppongono la più salda fortezza e il centro mondiale ancora più glorioso e ricco d'idee, mentre Bisanzio colpita a morte dalla negazione longobarda può tuttavia prestare gli eserciti di cui esse mancano; l'Italia meridionale, oltre Benevento estrema punta del dominio longobardo, è naturalmente federale; Venezia romita fra isole e paludi rimane al di fuori della lotta; tutte le città romane emancipate dalle prime battaglie fra Roma e Ravenna si stringono federalmente intorno ad esse con una somma di energie originali e incalcolabili, che la differenza di religione moltiplica esasperandole. La guerra fra cattolicismo ed arianesimo ricomincia più serrata e complessa, perchè il regno longobardo, superiore a quello dei goti, esige per essere vinto maggiori forze e diverse.
Il tempo longobardo si divide in tre periodi militari riuniti da una catastrofe: nel primo i longobardi conquistano mezza Italia, nel secondo il cattolicismo li conquista, nel terzo Roma li distrugge. La loro subita espansione supera quella dei goti, ma colta, si direbbe, istantaneamente dal contagio federale italiano, alla morte di Alboino subisce un interregno di dieci anni, nel quale i trentasei duchi regnano come tanti re. Poi nuove guerre costringono all'unità regia di Autari; vittorie si alternano a sconfitte, finchè l'eroismo di Pavia e l'abilità della sua politica trionfando con Agilulfo condensano il regno longobardo nella sola Lombardia. Nullameno l'Italia romana lo sorveglia implacabile. Mentre l'esarca di Ravenna non rappresenta che una specie di unità bizantina contro l'unità longobarda, la vera Italia dei Romani inerme è tutta nella rivoluzionaria federazione dei popoli, che odiando la barbarie del regno si serrano convulsivamente intorno alle vecchie libertà coll'ardore di una fede religiosa in lotta con un'altra.
In quest'epoca il vero capitano del popolo è già il vescovo, protettore delle moltitudini, elemosiniere dei poveri, semidio della città. La sua rivolta contro i duchi e gli esarchi per seguire il pontefice è l'origine e la forza persistente di questa guerra federale d'ispirazione e alimentata da alleanze, finchè S. Gregorio, nominato papa, non la rianimi con entusiasmo di apostolo, dirigendola con vera sapienza di statista. Di carattere bizzarro, amministratore esatto, caritatevole fino alla prodigalità, poeta e cerimoniere così da regolare le decorazioni del rito e il canto degli altari, egli è il politico più attivo del proprio secolo: e confedera tosto tutte le diocesi sfuggite ai longobardi, le dichiara suburbicarie da Tivoli a Siracusa, consiglia, dirige, sovrasta ai franchi, scatena l'impero contro Agilulfo. Quindi, reso più forte dalle contraddizioni, si rivolta con agile tradimento contro la stessa unità bastarda di Ravenna e di Bisanzio, cui si appoggia; nomina i generali, ravviva quotidianamente la rivoluzione indigena, centuplica i miracoli della religione col miracolo di una coscienza capace di credere alla propria fantasia; mentre, miracolo maggiore di tutti quelli narrati ne' suoi Dialoghi, l'Italia riunendo i risultati politici e sociali di questa lotta riesce a svolgere contemporaneamente in se stessa l'unità del regno e la libertà della federazione col grandeggiare simultaneo dei re di Pavia e dei pontefici di Roma.
Ma se il principio federale italiano raddoppia col proprio contagio la riottosità federale dell'aristocrazia longobarda sino a sollevarla contro i re, il cattolicismo più possente dell'arianesimo sulle terre italiane penetra nella corte di Pavia e la dissolve. Paolo Diacono, longobardo, storico dei longobardi, si perde nel mistero della loro conversione al cattolicismo, che oggi una critica più dotta ed acuta ha potuto scoprire. Teodolinda, bavarese cattolica, sposa di Autari e poscia di Agilulfo, appare la prima a conciliarli con donnesca abilità alla propria religione, voltandoli contemporaneamente contro l'indipendente feudalità dei duchi ariani. Nella nuova lotta dell'aristocrazia contro la monarchia, questa deve fatalmente ripiegarsi sul cattolicismo contro l'arianesimo, finchè Teodolinda vedova e sovrana, imponendo a Pavia la religione dei pontefici, permette a Roma di proseguire la vittoria colle stragi dei grandi tentate da Adeloaldo, colla divisione del regno concessa da Ariberto, coll'avvelenamento di Grimoaldo, ultimo eroe ariano, al quale succede indarno nella guerra contro i pontefici il cattolico Liutprando, marito di Guntrade, seconda Teodolinda.
Ma senza l'egida dell'arianesimo Pavia deve fatalmente soccombere a Roma. I pontefici sovrastano ai suoi re, dei quali governano la coscienza e le moltitudini, gli eserciti e le leggi. La federazione italiana sgretola ora per ora l'unità longobarda; ogni conversione è tradimento, ogni idea civile diventa deleteria in un regno, che non avendo tradizioni non può crearsi collo stato una patria, e, convertito a una religione nemica, aggiunge alle proprie contraddizioni di straniero tutte le insufficienze di un barbaro.
Le crisi imperiali di Bisanzio e le pontificie di Roma possono sole ritardargli la caduta. Infatti Roma, alle prese coi greci, deve difendere se stessa da rinascenti eresie e da continui agguati, nei quali i pontefici fanno da selvaggina. La destrezza, la perfidia, la passione sono uguali da ambo i lati, ma la rivoluzione sostiene Roma e guadagna Ravenna, ribella questa al proprio esarca e all'imperatore. Quindi tutta l'Italia romana, fraternizzando colla insurrezione di Roma, pare trascinata istintivamente verso una indipendenza longobarda come ad un'ultima gloriosa conseguenza del cattolicismo in progresso, mentre invece il trionfo di Roma su Bisanzio riaccende fatalmente la guerra fra quella e Pavia.
Così nel periodo seguente un'ultima insurrezione esplosa contro Bisanzio su tutti i punti, a Roma, a Ravenna, a Napoli, in Sicilia, fra i veneti, colla formula dell'indipendenza nazionale, non basta alla rivoluzione federale, quando il regno longobardo ingrossa minacciando di schiacciare tutto e tutti. La lotta, complicata al punto di sembrare assurda nel processo e impossibile nel risultato, conclude nullameno al trionfo della rivoluzione. La contraddizione cattolica paralizza la politica longobarda. Il papa, benchè soccorso momentaneamente da Liutprando contro gli iconoclasti bizantini, diffida del re, lo denunzia, lo costringe a dichiararglisi nemico, fomenta contro di lui tutte le ribellioni, lo gitta in braccia all'imperatore, invoca Carlo Martello, guadagna nel proprio disastro un piccolo patrimonio, pel quale si trasforma in sovrano. I papi si succedono, ma la loro politica prosegue inflessibile. Ratchis vuole seguitare il combattimento di Liutprando, ma percosso da religioso terrore ripara in un convento; Astolfo, suo successore, si arresta in mezzo a vittorie insperate, colto dallo stesso spavento, sulla via di Roma; e allora Stefano II, sublime di ardimento, viene a minacciarlo sino nel suo castello di Pavia, passa le Alpi, consacra Pipino re dei franchi e patrizio di Roma, lo trae seco, gli fa sconfiggere due volte Astolfo e disfare il regno longobardo, mentre l'esarcato e la pentapoli cadono in mano del pontefice, cresciuto a doge politico come quelli di Napoli e di Venezia.
Allora Desiderio, ultimo re scelto al trono dalla chiesa come un vassallo, tenta col disperato eroismo di tutte le decadenze una suprema rivincita; ma la stessa scomunica lo isola, il medesimo appello ai franchi lo prostra, e Carlo Magno scende dalle Alpi per cominciare nella storia un'epoca nuova.
Il patto di Carlomagno, e la dominazione franca.
Se i goti avevano commesso l'errore di accettare il principio imperiale, i longobardi lo avevano raddoppiato accettando quello cattolico. I loro due regni, sorti allo scopo di spezzare l'unità romana e bizantina, perchè le originalità latenti della nuova vita politica e sociale potessero prodursi, mutavano però l'Italia di Odoacre così che il nuovo patto fra Carlomagno e il pontefice trasportava la base del diritto da oriente ad occidente.
Tre secoli di rivoluzione avevano finalmente maturato il proprio frutto; l'antico mondo romano era cancellato, le invasioni arrestate, il dominio bizantino soppresso. La grande donazione franca alla chiesa emancipava tutta l'Italia non longobarda colla dominazione del pontefice, che non potrebbe mai regnarvi da principe unitario. Il federalismo liberale, di cui era tribuno e diventava doge, gli impediva il regno colle stesse micidiali contraddizioni che ai goti o ai longobardi, senza preoccuparsi nemmeno se egli per fatalità del proprio principio o del proprio istituto religioso dovesse tendere a una unità ben più grande e compatta che non quella dei re di Pavia. Quindi nella nuova Italia la lotta politica muta ancora terreno e metodo; la nazione divisa in franca e pontificia, giacchè i suoi punti estremi non compresi nel «patto di Carlomagno» non sono ancora politicamente italiani, prosegue la propria rivoluzione voltandosi contro i franchi per eliminarli lentamente dopo averne sfruttata tutta l'efficacia, e contro il pontefice ogni qual volta pretenda nella politica italiana all'assorbente unità della propria politica religiosa e cosmopolita. Le energie locali liberate dall'oppressione longobarda e bizantina, disciplinate dai municipii e dai vescovadi, ancora vivide di tradizioni e non imprigionate in sistema troppo angusto per contunderle, scattano rovesciando gli ultimi ostacoli. L'ideale politico individualizzato in ogni grossa città accetta le forme separatiste feudali contro ogni unità; il mondo sembra in frammenti nell'ora che la sua unità ideale si rinsalda fra Carlomagno e Leone III.
La formula del loro patto è tanto ignota quanto chiara la sua idea. Se l'impero bizantino rappresentava la modificazione indotta nell'impero romano dal cristianesimo, quello di Carlomagno esprimeva la morte dell'impero romano, quantunque la lettera del patto sembrasse invece riconfermarlo. L'impero di Carlomagno non era più che la conquista germanica consacrata dal cattolicismo, Roma la nuova Gerusalemme cattolica e Bisanzio una capitale d'oriente. Ma poichè la storia è sempre un atteggiamento dell'ideale, le due idee dell'unità religiosa e politica riassunte nella chiesa e nell'impero si toccano così in un patto, che deve guarantire la nuova vita spirituale e mondana. Per esso il papa, signore delle coscienze, sottomette all'imperatore tutti i re e tutti i sudditi, e l'imperatore dedica ogni forza propria alla difesa della chiesa contro ogni protervia del mondo. Per un residuo bizantino e per la sua doppia qualità di pontefice e di doge, il papa è soggetto all'imperatore, che solo può nominarlo; ma il papa sarà sempre più forte dell'imperatore, cui può isolare nell'impero con una scomunica.
E questo patto, del quale gli articoli non furono mai trovati, erompe dalla duplice idea del papato e dell'impero, e vivo, flessibile resisterà a molte rivoluzioni, soffocherà molte forme politiche, ne avvolgerà proteggendole molte altre, dilatandosi con esse, resistendo a violenti strappate di papi e d'imperatori prima di rompersi come una inutile bardella nelle mani della storia.
L'influenza romana passa quindi nella dominazione dei franchi, che si costituisce con una federazione di re e si suddivide in tre parti alla morte di Carlomagno. Ma sotto lo sforzo della federazione europea i Carlovingi si logorano e diminuiscono, mentre ad ogni grado della loro decadenza unitaria si scopre sempre la mano dei pontefice intento a stringere la propria chiesa in una costituzione capace di sfidare i secoli. I nuovi Capitolari fissano tutti i riti, la sacra gerarchia si purifica, le varietà monastiche si precisano, i miracoli scorrono a fiotti, e la teologia cattolica, liberata dalla teologia bizantina, attraverso la quale un capriccio dell'imperatore poteva decomporre le formule ed alterare i dogmi, presenta la prima volta al mondo il sublime spettacolo del pensiero abbandonato da ogni forza profana, e superiore a tutte le vicissitudini degli imperi. Il prete, non più suddito e maggiore di ogni altro uomo, inizia quella elevazione religiosa dell'occidente, che dovrà poi formare l'eroismo di qualunque uomo pensante nella sincerità della propria coscienza.
Sotto la dominazione dei franchi l'Italia offre il nuovo spettacolo di un progresso sociale determinato da una decadenza politica. Nel regno i romani sono definitivamente pareggiati ai longobardi, la nobiltà dei quali conserva tutte le proprie leggi e le proprie ricchezze; i vescovi riuniti in consigli semipolitici e ammessi nell'esercito acquistano la capacità della loro imminente rivoluzione. I vescovadi, forti delle nuove immunità, preservano industria e agricoltura, mentre il conte e il vescovo, rappresentanti il patto di Carlomagno e momentaneamente associati, resistono alla tradizione unitaria e a quella imperiale di Bisanzio. S'aprono le università. Il regno, già ostile al vecchio nome dei longobardi e al nuovo dei franchi, s'intitola dall'Italia squarciando la rete delle città militari stabilite a controsenso delle città romane, e spezzandosi in quattro parti con quattro capitali: Ivrea, Spoleto, Lucca e Verona; Benevento, superstite ducato longobardo col nome superbo di Lombardia minore, viene raggiunto dalla rivoluzione e presto sottomesso da Capua. Imperano dunque tre leggi: romana, longobarda e dei franchi; questi, piuttosto dominii diretti che utili del regno, soccombono ad una centralizzazione governativa confidata a funzionari volanti, a messi regi e a conti di palazzo. E il regno si mantiene immobile.
Il progresso sociale dell'Italia pontificia si mostra invece colla nuova ricchezza di Roma e del pontefice, mentre la decadenza politica condanna questo all'impossibilità di essere vero doge come vorrebbero i romani per imitazione di Napoli e di Venezia. Invece il pontefice, costretto quale capo della sola rivoluzione politico-religiosa ad esigere l'annullamento di Roma nella chiesa ed incapace di ottenerlo senz'armi, umilia sotto la spada del duca di Spoleto la propria città sino a farle rimpiangere l'anarchia bizantina e l'impotenza degli esarchi. Quindi vi scoppiano rivoluzioni contro di lui e contro i franchi.
A rovescio del regno e del papato le repubbliche bizantine, estranee al patto di Carlomagno, raggiungono un progresso politico mediante una decadenza sociale, che riconferma la tirannide del patriziato contro la nuova democrazia dei vescovi: il rigore della reazione vi è tale che si preferisce il dispotismo orientale alla dominazione franca, e vi si osteggiano simultaneamente Roma e il regno per salvare le proprie autonomie. Quindi dogi e nobili difendono l'indipendenza delle repubbliche contro l'opposizione popolare come veri despoti bizantini a Venezia, a Napoli, ad Amalfi invocante i saraceni, e nella Sicilia che accetta i mussulmani.
Ma nel rapido declinare dei Carlovingi il centro dell'occidente si sposta o meglio ancora scompare, permettendo a tutti i popoli oppressi dalla loro conquista di ricostruirsi in nazione. Il loro moto propagandosi all'Italia raduna in Pavia la dieta disusata dei marchesi, che offrono simultaneamente la corona italica a Carlo il Calvo re dei franchi e a Luigi re di Alemagna, pel quale accetta la candidatura il figlio Carlomanno. Papa Giovanni VIII, che deve consacrarli, opta per il primo contro i baroni parteggianti pel secondo, ma il mondo occidentale si allontana sempre più dal proprio centro francese. Carlo il Calvo assalito dal rivale diminuisce così che la sua dominazione sopra le grosse marche italiane, ormai forti quanto un regno, non è più che nominale. Quindi il papa, attaccato dai marchesi come supremo sostenitore dell'impero, rientra violentemente in azione, si reca in Francia, vuole incoronare re il duca di Provenza, convoca un concilio a Roma per deporre Carlomagno, sommove chiesa e regno invocando Bisanzio, sottomettendosi ai saraceni, moltiplicando eccessi e scandali al punto di parere impazzito. Ma la storia, come per dargli ragione, rievoca Carlomagno in Carlo il Grosso che, riassumendo per un istante l'impero, ridiventa re di Germania, d'Italia e di Francia, e si estingue improvvisamente come ultimo razzo di un incendio, onde era stato illuminato tutto il mondo.
Catastrofe del Regno.
Quindi l'unità del regno fondata dagli eruli, stabilita dai goti, cementata dai longobardi, mantenuta dai franchi, spezzata dalle quattro grandi marche, ritenta indarno di ricomporsi con una reazione. La prima lotta per la corona italica alla caduta dei Carolingi scoppia fatalmente in Italia fra Berengario duca del Friuli e Guido duca di Spoleto, che vincitore per un istante crede di regnare sui marchesi mediante la nomina ad imperatore ottenuta dal papa. Ma il problema, moltiplicandosi per tutte le antitesi dell'impero col regno, diventa inintelligibile; Roma tergiversa e rinnega la data consacrazione per ripeterla sul tedesco Arnolfo contro il nuovo imperatore di Spoleto; questi è disperso. Roma straziata fra papa e antipapa riconferma imperatore un secondo duca di Spoleto, finchè Berengario duca del Friuli ricompare sulla scena e ne fugge nuovamente. Allora si presentano Rodolfo di Borgogna e Ugo di Provenza: il primo soccombe dopo un anno a quella stessa rivoluzione che lo aveva chiamato; il secondo dopo quattordici anni di abili massacri, sempre vacillante sul trono, abdica forzatamente in favore del proprio figlio Lotario, che pupillo di Berengario II scompare nello stesso dramma del proprio tutore. Tutte queste prove dell'impossibilità di un regno nazionale determinano finalmente la calata di Ottone I in Italia; ma questi succede davvero a Carlomagno e ne ripete il sacro patto colla chiesa.
In tutto questo periodo le republiche bizantine, poste fuori dell'orbita della guerra e solamente preoccupate della propria indipendenza, assistono come spettatrici alla suprema contesa pel regno, ignorandone l'importanza e essendone ignorate. Ma poco dopo rassicurate dal trionfo della casa di Teodora, che trasforma Roma in una vera republica bizantina, rinunciano alle enormità delle tirannidi dogali e all'alleanza dei saraceni, onde si difendevano contro di essa.
Col nuovo patto di Ottone tutta la grande rivoluzione del regno è assicurata, ma il regno vanisce nell'imperatore dichiarato re d'Italia. Qualunque nuovo pretendente sarebbe d'ora innanzi impossibile contro l'immensa federazione italo-germanica. Nuove marche disorganizzano le vecchie, nelle quali i marchesi avevano cospirato pro e contro tutti i re; altre famiglie, come quella d'Este dalla quale uscirà Matilde, la grande eroina della chiesa, sorgono e grandeggiano sulle antiche. Per togliere il Piemonte all'influenza regia di Pavia e di Ivrea, Ottone dà la propria figlia ad Alerano, signore di Ronco, costituendogli un feudo enorme col Monferrato, mentre dietro il Piemonte Beroldo rinserra nelle torri di Morienna la futura casa di Savoia, nido di avvoltoi forti e rapaci, dal quale s'involerà qualche aquila. Ma per assicurare la demolizione del regno Ottone ne affida ai vescovi, implacati nemici di tutti i re, le rovine; e i vescovi regnano in ogni città rivaleggiando vittoriosamente col conte, ufficiale dell'impero, slargando la propria giurisdizione, assorbendo quasi tutti gli affari civili e politici. Così la chiesa, sempre ferma nel non riconoscere i barbari e nel conservare le circoscrizioni romane delle proprie diocesi contro l'ordinamento militare del regno, onde Milano signoreggiava ecclesiasticamente Pavia, e Aquileja quasi distrutta da Attila dominava tutto il Friuli, la Venezia e l'Istria, raccolse finalmente il frutto di una politica incomparabilmente longanime e sapiente in una supremazia, che le permetteva di assumere la direzione di tutta la vita italiana e di cedere nella nuova intima fusione coll'impero la nomina degli stessi vescovi agli imperatori fra le entusiastiche acclamazioni del popolo.
Capitolo Secondo. I Comuni
Loro origini.
Altre concessioni imperiali protessero i comuni.
Sull'origine di questi si è fin troppo discusso, attribuendola più specialmente alla gilda longobarda o al municipio romano; ma l'una non fu mai che un'angusta e semplice associazione commerciale, e l'altro era già una istituzione distrutta dalle invasioni dei barbari, seppellita dal loro regno unitario e feudale. Del municipio non si avevano da gran tempo memorie nemmeno nelle città come Napoli sfuggite all'azione del regno, quando la gilda appariva la prima volta a Genova nell'anno 1161. Il nuovo comune non poteva essere nemmeno la curia sopravissuta a Ravenna sino al sesto secolo e così svanita negli altri, che i nuovi giureconsulti s'imbrogliavano sul senso della sua parola, e le costituzioni 46 e 47 di Leone il Savio verso l'anno 890 vi accennavano già come ad antichità male conosciuta e facilmente erronea. Il comune è il borgo, la città creata nella nuova storia dalle rivoluzioni del regno, dalle insurrezioni contro i re, dalla chiesa che dirige il popolo, dai vescovadi che succedono alle curie romane, dai nuovi rapporti politici che raggruppano le genti, dalle necessità di una continua difesa che arma tutti contro tutti, dagli ultimi modi della libertà e dell'indipendenza, dal nuovo spirito che creando l'individuo dava una nuova individualità a tutte le forme della sua associazione. La lotta fra le città romane e le militari affrettò in queste ultime la formazione del comune: il moto federalista protetto dallo stesso regno contro l'impero svolse la prosperità e lo spirito di tutti i centri costretti a muoversi sopra se medesimi individualizzandosi in una fisonomia originale, che provasse la loro potenza. Le stesse milizie privilegiate dei conquistatori regnanti, respingendo dalle proprie file i vinti, dovettero addensarli, renderli più compatti, forzarli ad organizzare in seguito qualche istituzione capace di ospitare il loro presente e di preparare il loro futuro.
Il comune, incominciato non si sa nè come nè quando, appare nella storia al terzo spostamento dell'impero con Ottone I che, sembrando crearlo con alcune concessioni, invece è piuttosto l'interprete che l'autore della rivoluzione comunale, un alleato anzichè un conquistatore, un presidente meglio che un re.
Dopo Ottone I i conti non hanno più assoluto potere sulle città; nessun re concentra più le loro forze; ogni traccia dell'organizzazione unitaria scompare; ogni centro ducale si frange: i municipii si preparano già a lottare fra loro per ripetere colla grandezza delle vecchie marche la gloria di una vita, che la storia ammirerà per tutti i secoli. Invano alla morte di Ottone I Arduino d'Ivrea ritenta i moti di Berengario, ultimo pretendente; la sua proclamazione non è più che una commedia, la sua rivoluzione una rivolta, la sua impresa uno sbaraglio, la sua vita un brigantaggio, la sua fine in un convento una codardia. Quando più tardi nel 1024 un'altra cospirazione offre il regno italico a Guglielmo III duca di Aquitania, questi meno spaventato ancora da una guerra colla Germania che dalla sacrilega necessità di deporre tutti i vescovi ostili, declina l'offerta. I vescovi sono dunque i difensori della rivoluzione, che secondo l'antico disegno sviluppa il progresso della democrazia col tragico mezzo di una decadenza politica.
Ma la distruzione del regno, ottenuta con tanto sagace fermezza di propositi dalla chiesa, colpisce il dogado romano creato dai papi di Teodora e di Marozia, e distrugge la vecchia aristocrazia romana, mutando il nuovo papa in un vice-Dio delle moltitudini. La feudalità del contado insorge contro il patriziato romano, mentre per la recente donazione di Ottone le città romane si atteggiano invece a democrazia federale contro Roma umiliata dal pontefice oramai più imperiale che romano, e la suprema reazione repubblicana di Crescenzio, idealizzato poi da un patriottismo archeologico e allora abbandonato da tutte le forze vive del tempo, soccombe in un dramma mescolato di assassinio.
Così per impadronirsi di tutta l'Italia Ottone I, invertendo la propria politica, cerca invano di ricostituire intorno a Capua, la feroce, un ducato vasto quanto un regno, giacchè non ostante l'aiuto di Pandolfo Testa di Ferro, feudatario e bandito di genio, ogni tentativo vi fallisce. Tutte le repubbliche si collegano con Bisanzio per sottrarsi a questa nuova minaccia di dominazione unitaria, Napoli insorge, Amalfi resiste, Venezia ricusa ogni tributo, Bari accetta il Catapane bizantino e diventa la Ravenna del mezzogiorno, finchè Capua stessa, presa nel movimento greco, si desta per sempre dal proprio ultimo sogno longobardo, e del regno si dissipa persino il ricordo.
Vescovi e consoli.
Il comune è la prima grande originalità della nuova storia. Romani e barbari, regno ed impero, non si mostrano più nella sua formazione: l'antica città greca e romana, che sviluppando l'idea dello stato politico aveva riempita la storia antica, non risorge nel comune, creazione di nuovi uomini in lotta per nuove libertà e che posseggono già le due idee universali della chiesa e dell'impero. Il comune non vuole diventare regno, non cerca la sovranità politica ma l'indipendenza sociale. L'impero è lo stato, la chiesa l'umanità; esso invece è la patria composta forse di poche case, circoscritta a un minimo territorio, che l'ombra della cattedrale basta a coprire e a difendere. Il comune, agglomerazione di famiglie ed associazioni d'industrie livellate dagl'invasori coll'oppressione ed uguagliate dalla chiesa colla propria libertà spirituale, deve svolgersi; se non riuscisse a crescere bisognerebbe ritornare al sistema pagano della servitù per mantenere la produzione, e il regresso nella storia è impossibile. Stranieri l'uno all'altro, i comuni non hanno nazione: chiusi nell'egoismo come in una corazza infrangibile, resistono a tutti i colpi, si dilatano senza mutare idea; sempre preoccupati di produrre tutto in se stessi e per se stessi, paiono la negazione delle due grandi unità mondiali della chiesa e dell'impero, ed invece ne sono la conferma, giacchè la nuova patria separata dall'idea di nazione potrà nella futura fusione dei comuni e nella formazione dei massimi stati evitare la separazione dell'antico mondo, nel quale ciascun popolo considerava barbari e nemici tutti gli altri.
Le guerre dei comuni non avranno, per quanto atroci, i due caratteri antichi dell'odio di razze e della conquista politica, ma i grandi comuni assorbiranno i piccoli, lasciando loro i più essenziali caratteri. Gli interessi agricoli, commerciali, industriali saranno i motivi della politica comunale, mobile, feroce, senza scrupoli, piena d'indulgenze, di ritorni, di contraddizioni; capace di prendere le più varie forme politiche, di resistere a tutti i drammi, di sottomettersi a tutte le autorità, di ribellarsi a tutti i dominii per accrescere la libertà sociale, di agire, di produrre, di arricchirsi, di creare tutta quella civiltà, che dura ancora ed ebbe nel Rinascimento un meriggio senza pari nei giorni di tutte le storie.
L'Italia comunale non volle mai unificarsi in regno come molti storici dell'attuale periodo rivoluzionario hanno preteso: le due lotte del regno contro l'impero romano e il bizantino, e dell'impero franco e germanico contro il regno, non avevano nella storia altro scopo, e non vi rimasero con altro significato che la formazione del comune; il quale percorrendo tutta la propria gamma doveva sviluppare il concetto e la forma dello stato moderno. Soffocarlo allora per la formazione di un regno nazionale sarebbe stato un capovolgere le leggi storiche, e un volere la fine negando il principio.
La nuova lotta dei comuni contro l'impero non era per distruggere la sua tirannia ideale, ma per togliergli la dominazione ereditata dal regno, colla quale contrastava allo svolgersi della nuova vita. L'èra dei comuni si chiude come in una parentesi fra la caduta del regno e il sorgere dei principati. La rivoluzione comunale procede contro nobili, regi e feudali vigilanti come scolte nemiche; la cattedrale è la sola fortezza del comune, il campanile la sua unica torre.
Alla caduta del regno ogni città ha due capi, il conte e il vescovo. Il primo, anche se indigeno, è ancora uno straniero della razza distrutta degli invasori e ne conserva i diritti; comanda, non lavora, non produce. Sua legge è la spada, suo costume la rapina, sua virtù la violenza. Il secondo è del popolo, nel popolo, col popolo; nullo in diritto, muta in armi le proprie immunità e ne copre parte della popolazione; padrone di Dio, può dirigerlo contro ogni nemico; arbitro della religione, può schiacciare le più dure coscienze. Divampa la lotta: il conte per vivere deve decimare, taglieggiare, rubare; il popolo per vivere deve isolare, allontanare, sopprimere il conte. Ma davanti al vescovo, protetto e protettore dell'impero, il conte deve fermarsi; ecco il baluardo dietro il quale il popolo fulmina il conte, che l'impero abbandona seguitando nella distruzione politica del regno. La lotta eguale in tutti i comuni, grandi o piccoli, si svolge per fasi predeterminate: una prima rivolta, una prima espulsione del conte, probabilmente un suo ritorno, la sua cacciata definitiva, dalla quale viene l'esaltazione del vescovo, che sostituendosi al conte nella giurisdizione regia muta il comune in una specie di piccola teocrazia. Quindi la prima costituzione del popolo non esprime ancora che la fusione delle maggiori famiglie del comune, cioè della nobiltà del vescovado colla superstite corte del conte, mentre il resto del comune è appena il resto; ma la convocazione dell'assemblea popolare nella chiesa, cangiata così in parlamento e aperta a tutte le discussioni per abituare fra non molto al pericolo di tutte le congiure, rivela presto i primi lineamenti del nuovo stato. Ogni forma politica della storia attuale è dunque nata in chiesa e colla chiesa.
Milano, eroica avanguardia della nazione, condensa tutta la storia del tempo nella propria cronaca. Le vicende della guerra sono molte, il suo moto si propaga torcendosi sulle terre della chiesa contro i conti o i rettori nominati dal papa, si giova del terrore religioso gettato in tutte le coscienze cristiane dall'anno mille, investe i feudi incapaci di abbattere i loro capi feudali senza suicidarsi, costringe tutte le dinastie a popolarizzarsi. La famiglia di Canossa sfolgoreggia, l'altra dei Savoia aumenta, quella d'Este ramifica, e intorno ne spuntano altre cento. La rivoluzione guadagna Corsica e Sardegna, passa il Garigliano abolendo dogi e duchi, sollevando tutti i popoli del Mezzogiorno, riunendoli all'antica Italia, dalla quale si erano staccati all'urto della prima discesa longobarda. Mello, il grande eroe di Bari, per rovesciare la dominazione bizantina dei Catapani chiama i normanni dandosi all'imperatore Arrigo II; in Roma Gregorio VII, nemico dei conti e dei patrizi, compie contro l'imperatore, inteso a padroneggiare la grande urbe, sostenendovi i conti di Tuscolo, la stessa rivoluzione dei vescovi, e chiude per sempre il doppio periodo di Teodora e di Crescenzio.
Ma i continui appelli dei conti traccheggiati, sconfitti, scannati decidono l'impero ad una reazione.
Corrado II di Weibelingen discende le Alpi per mantenere in Italia l'equazione stabilitavi da Ottone I; la guerra è dunque fra legalità e progresso, tradizione ed innovazione, aristocrazia e democrazia. Senonchè la reazione, debole dappertutto, si logora in pochi scontri. Gli eroi della rivoluzione grandeggiano: Eriberto arcivescovo di Milano inventa il carroccio e lo addobba colle bandiere della vittoria; tutte le città sono chiuse, Bonifacio marchese di Toscana tratta coll'imperatore da pari a pari, l'esercito invasore o non vince o non conserva se non quanto può occupare. E la riconciliazione tra i vescovi e l'imperatore Arrigo III consacra presto la loro rivoluzione, mentre i normanni, poeti di un dramma fulgente quanto breve, ne precipitano la soluzione impadronendosi di tutto il mezzogiorno per riceverne ginocchioni l'investitura dal pontefice loro prigioniero, e che finalmente realizza così tutta l'antica donazione di Pipino e di Carlomagno.
Ma le città italiane non possono fermarsi all'espulsione del conte abbandonato nell'esilio dall'imperatore, poichè questi conservando il diritto di nominare i vescovi, può, collo sceglierli nella aristocrazia ostile al popolo, rialzare la tirannia abbattuta. Quindi la guerra ricomincia contro l'impero e nella regione della chiesa contro il papa per affidare l'elezione del vescovo ai preti e ai canonici del capitolo sempre in comunicazione diretta colla città.
Nella nuova lotta, anche più ricca di drammi, Milano conserva ancora il posto d'onore. Arioaldo è il santo, Erlembardo l'eroe di questa seconda guerra, che si ripete in tutte le città regie e romane guidate da un altro santo e da un altro eroe, S. Pier Damiano e frate Ildebrando di Soana. Pullulano i miracoli, risorgono le ordalie, tutti gli strattagemmi e tutte le armi sono impiegate per assicurare contemporaneamente la libertà del comune e della chiesa colla libera elezione dei vescovi e dei papi. Infatti frate Ildebrando, gigantesca figura di atleta fra tutti quei minuti combattenti, austero fino alla inflessibilità e nullameno duttile sino alla menzogna, instancabile, intrepido, infallibile, prosegue la rivoluzione nella libera elezione dei papi, finchè, papa egli stesso, dichiara la guerra del sacerdozio all'impero. Questa volta l'urto non è tra pontefice e imperatore, ma fra i principii che rappresentano; il conflitto accidentale delle loro volontà sovrane si cangia in un'antitesi inconciliabile di due idee. Gregorio VII con uno sforzo sublime di ardimento dichiara l'idea della chiesa superiore ad ogni altra e le sottopone conti, re, imperatori, città e popoli: reclama la libertà di tutte le nomine, di tutti i beni e di tutti i giudizi ecclesiastici. Il patto di Carlomagno si rompe, l'impero negato nella idea diventa pari all'antico regno longobardo. Mentre il papa ricusa di essere eletto dall'imperatore, questi ha d'uopo della consacrazione pontificia per essere tale. Gli imperatori sempre superiori al papato, che avevano salvato e ingrandito colle donazioni, vengono degradati da un loro vassallo; il papa, povero prete e semplice vescovo, che altre volte aveva pellegrinato mendicando al loro trono assolvendo i loro crimini e così spesso santificando i loro vizi, si erge improvvisamente loro innanzi come un giudice divino e un sovrano troppo alto perchè alcuna arma possa abbatterlo o qualche patto legarlo.
Ma nella mistura dei poteri politici di allora l'affermazione di Gregorio VII concludeva alla distruzione dell'impero, nel quale avrebbe nominato vescovi, grandi elettori, con un dispotismo unitario più terribile di quello stesso imperiale. Quindi la rivoluzione si scinde tosto passando con forti masse nel campo dell'impero. I preti stessi incalzati dalla riforma, onde l'austero pontefice li minaccia, recalcitrano opponendo al papa la storia del papato, accusando di utopia la sua idea, imbrogliandone il dibattimento; mentre la battaglia sta per avvampare colla forza indomabile di due principii sintetizzanti gli interessi di due mondi, e il popolo, sempre sicuro nell'istinto della propria storia, si prepara a rovesciare il vecchio impero sotto i colpi di Gregorio VII e il nuovo papato sotto quelli di un altro cesare rigenerato.
Nei quarantacinque anni della guerra per le investiture, dal 1077 al 1122, papa ed imperatore sembrano oscillare inesplicabilmente dalla sconfitta alla vittoria, poichè le città li seguono o li abbandonano secondo l'interesse della propria libertà; e quando cesare trionfa, le città lombarde passano al papa per ricondurlo sul campo di battaglia; quando questi prevale, Roma e le città della donazione passano all'imperatore per moderare il loro capo legittimo. Ma il vinto, rialzato sempre dalla politica cittadina contro il vincitore, è naturalmente condannato ad accettare il progresso dovuto alla propria sconfitta. Per governarsi in così difficili ed improvvise inversioni il popolo non ha che a guardare in faccia i nobili, i suoi eterni nemici, e a gittarsi ciecamente contro la vittoria imperiale o pontificia che li ha insuperbiti; finchè il moto arrestandosi lascia l'Italia emancipata e capovolta, colle città lombarde strette al papa e le pontificie alleate coll'imperatore.
Gli eroi di questa immensa tragedia finiscono tutti dolorosamente: Gregorio VII muore nell'esilio, Arrigo IV aspira invano al suicidio, incatenato dal destino alla vita come ad un supplizio; la contessa Matilde discende nel sepolcro avvolta nell'odio universale come in un sudario che le abbia gelato il sangue; ma nell'azione forse mai si videro più energiche e complesse figure.
Così, mentre Roma si era sollevata contro il papa e la Germania in ritardo si rivoltava contro l'imperatore moltiplicando le antitesi italiane per le proprie contraddizioni tedesche, la testa ancora troppo giovane di Arrigo IV aveva come girato su se stessa. Invano il cardinale Ugo Bianco e l'arcivescovo Gualberto di Ravenna lo guidavano contro il papa, da essi scomunicato alla dieta di Worms e al concilio di Pavia; l'imperatore atterrito dalle rivoluzioni cattoliche della Germania era venuto a scalpicciare seminudo e scalzo sulla neve nel cortile di Canossa, implorando perdono da Gregorio e dalla contessa Matilde. Ma, perdonato e ribenedetto, si era destato come da un brutto sogno al primo soffio della rivoluzione italiana, che lo respingeva irresistibile contro il papato. Quindi da abbietto penitente mutato in magnifico imperatore e in terribile generale stava già per sopraffare Gregorio VII e la contessa, quando la rivoluzione germanica lo arrestava ancora, l'imperatrice Adelaide lo copriva di calunnie. Milano incoronava suo figlio Corrado re d'Italia, la crociata di Pietro eremita gli scoppiava sul capo come un uragano, il papa consacrava l'anticesare Rodolfo, l'Italia spaventata dalle vittorie imperiali si riconciliava col papa, e la Germania lo aggirava per un laberinto di tradimenti nei quali perdeva se stesso e la vita. Così dopo settantadue battaglie Arrigo IV errava mendico come Belisario e fra tanta gloria moriva quasi sconosciuto. Però la guerra, cessata con Arrigo V suo figlio, si riaccendeva per sospendersi ancora ad un primo ed incredibile compromesso, nel quale papa ed imperatore rinunciavano ad ogni reciproca pretensione, l'uno a tutte le antiche donazioni, l'altro a tutte le investiture; finchè scoppiando come una rissa nella basilica di San Pietro al momento dell'incoronazione finiva al trionfo del pontefice Pasquale II e della rivoluzione liberata dal doppio patto di Carlomagno e di Ottone.
La chiesa e l'impero, rimasti alleati saranno d'ora innanzi nemici: quella armata della teologia e del vangelo, questo della giurisprudenza e della tradizione. La chiesa, separata dai propri credenti, è un istituto autonomo e autocefalo che ha conquistato un posto unico nella storia, al disopra di tutti i regni e di tutte le leggi. L'universalità della sua missione, la divinità della sua origine, l'unità del suo principio danno ai suoi sacerdoti il potere sul mondo. Siccome abbraccia tutti, nulla le sfugge, nè un individuo, nè un'idea.
Ma contro di essa sta l'impero, vivente nella tradizione politica e sociale del mondo antico, vivo di tutte le libertà e i progressi del mondo moderno, custode della legge e protettore dell'indipendenza federale. Se il papa, arbitro di Dio, può dispensare da ogni obbligo e assolvere da ogni peccato, l'imperatore impone la fedeltà a tutti i contratti e punisce tutti i delitti; l'uno rappresenta l'arbitrio che unifica le leggi annullandole, l'altro la legalità che le precisa e le conserva. E in mezzo all'impero e alla chiesa, condannati ad estenuarsi nello sforzo impossibile di sopprimersi reciprocamente, la rivoluzione libera e liberatrice prepara nei comuni gli stati moderni formando negli individui ancora imperfettamente eguagliati dal cristianesimo ed emancipati dalla federazione, i futuri cittadini di Machiavelli e di Mazzini.
Intanto la geografia politica d'Italia si è profondamente mutata. Il papa regna su tutta l'Italia greca all'infuori di Venezia; in Sardegna, in Sicilia, in Corsica rappresenta la rivoluzione vescovile e la democrazia cattolica, alla quale deve restare fedele per non perdere i benefizi delle donazioni ottenute per dedizioni spontanee. L'antico regno conquistato da Carlomagno e mantenuto imperialmente da Ottone I è una federazione repubblicana, che ha la sua dieta a Roncaglia, le proprie democrazie nelle città dei vescovi, le proprie aristocrazie nei feudi dei conti, e costringe l'imperatore ad essere libero e legale. Questi due alti dominii, dividendo l'Italia in due grandi parti, nord e sud, dovranno urtarsi daccapo sotto la pressione di un progresso costretto ad equilibrarsi con uno scambio continuo.
Infatti la guerra si dichiara immediatamente fra i due trionfatori rivoluzionari, il vescovo e il popolo: l'uno personaggio prodigioso, interprete del cielo a nome di Dio e signore di tutto il dominio temporale, perchè solo dinanzi a lui cessa la legge feudale del conte, ultramondano nel significato e nella tendenza della propria politica; il secondo, strano, multiplo, produttore, commerciante, così innamorato della terra da atteggiare la speranza del paradiso come una ripetizione della vita terrestre. All'ombra protettrice del duomo questi ha costituito il proprio organismo e sbozzata la propria forma; la sua testa sono i consoli, tutte le sue altre membra la moltitudine; dopo aver acquistata la coscienza della propria originalità coll'associarsi al vescovo nella lotta contro il conte, comprende ora la differenza della propria bottega coll'altare, dei giudizi consolari nelle liti di terra e di mare colle ordalie. Ma circospetto nella propria audacia perseverante, si limita ad insinuare la propria libertà fra quelle dei conti, dei vescovi, degli abati, delle diete, dei re, senza nulla modificare delle apparenze, e come un diritto non meno antico dei loro.
Quindi i consoli affettano abilmente la propria antichità: le corporazioni delle arti si mutano in compagnie guerriere non ubbidienti più che alla loro voce laica: il primo popolo composto dei notabili della curia vescovile e comitale, annettendosi nuove famiglie estratte dalla moltitudine, seguita a rappresentarla per un diritto aristocratico di nascita simile a quello dei nobili: laonde distribuisce ai propri membri ogni funzione mutandosi in secondo popolo, più numeroso e compatto, più organico e più forte. Il vescovo è presto spodestato. I consoli, di minori fatti maggiori, invece di essere immobili nel proprio grado, come i vescovi e i conti, vi sono così fluidi da parere effimeri.
Laonde, rinnovati continuamente sotto l'occhio vigile del popolo, non ne sono che i commessi. La necessità per loro di derivare ogni forza dai cittadini, non avendo come il vescovo influenza di religione o autorità di tradizione, li costringe a supplirvi con un consiglio di anziani scelto proporzionalmente fra i vari quartieri e rinnovabili ad ogni sei o dodici mesi. Ma questo consiglio, del quale si trova l'embrione anche nell'epoca di Carlomagno, diventa una specie di senato pei massimi affari della repubblica nascente, al disopra del grande consiglio o assemblea riunita la prima volta da Arioaldo e da Erlembaldo nelle lotte vescovili di Milano. Il parlamentarismo essendo iniziato, presto se ne stabiliscono le regole. Infatti l'assemblea universale non viene riserbata che ai casi estremi, nei quali la città venga compromessa dall'accettare o ricusare ordini pontificii o imperiali: la sua influenza scema ogni giorno sotto l'azione aristocratica del secondo popolo, che organizzandosi si sovrappone alla moltitudine.
Il sistema elettorale del nuovo parlamentarismo, imitato su quello della chiesa che lascia alle proprie gerarchie la nomina dei membri, permette ai consoli di eleggere gli anziani, i membri della credenza, persino i propri successori. Il popolo è dunque un'aristocrazia borghese formantesi al disopra della moltitudine per concessione della moltitudine stessa. Tutti gli statuti comunali italiani del tempo provano abbondantemente tale forma di diritto elettorale, ma questa usurpazione del popolo è così accetta alla moltitudine che passa come inavvertita, e i primi anni dell'èra consolare sino al 1133 rappresentano l'età dell'oro nella storia italiana; tutto è fatto in pubblico per il pubblico; moltitudine e popolo, rappresentato e rappresentante, si confondono in una sola idea e in una stessa volontà, mentre la rivoluzione consolare prosegue la vescovile ritorcendo il diritto romano contro il diritto longobardo. Giustiniano diventa un idolo, Pepo ed Irnerio sono i nuovi eroi dell'epoca, tutta la politica dei consoli si riassume nell'accettare la posizione intervertita delle città imperiali e pontificie, rimanendo amici dell'imperatore e del papa a rovescio della loro sovranità.
Ma la rivoluzione consolare, per uscire nel secondo momento dalla propria oscurità e soppiantare il vescovo indarno resistente, deve elaborare la propria organizzazione parlamentare. Infatti i poteri al tempo stesso militari e civili dei consoli, troppo simili a quelli del conte, si scindono colla creazione dei consoli del comune e dei placiti, il numero dei quali, determinato come a Genova dal numero dei quartieri, cresce colla cifra variabile che rappresenta l'intensità della democrazia. Roma e Milano, quella coll'antipapa Anacleto II, questa col proprio vescovo Anselmo, affermano il secondo momento della rivoluzione consolare, affrettandolo anche nelle città regie, sempre più retrive delle romane, e sconvolgendo le regioni feudali per mutarne in consoli gli ultimi feudatari.
La reazione pontificia ed imperiale, riuscita vana contro la rivoluzione dei vescovi, deve quindi investire questa dei consoli sotto la doppia direzione di papa Innocenzo II e di Lotario III imperatore velfo. Il papa è inerme, l'imperatore poco armato, giacchè per marciare su Roma non ha che 2000 cavalli, mentre l'antipapa Anacleto II e l'anticesare Corrado III sono sostenuti dalle maggiori città. San Bernardo è il grande oratore della reazione, Arnaldo da Brescia l'eroe della rivoluzione: si assomigliano e si urtano, entrambi austeri, forti d'ingegno, inflessibili nel carattere. Se l'eloquenza del primo è maestosa come il corso di un gran fiume, quella del secondo ha l'impeto e il fragore di un torrente: se quegli illumina, questi abbrucia. San Bernardo ripete l'utopia di Gregorio VII; ad Arnaldo la rivoluzione consolare suscita nel pensiero l'utopia di una risurrezione republicana. Ma tutti i moti di questa reazione, fiacchi e discordi, falliscono; le grandi città ne trionfano, Ruggero Normanno, invincibile entro Palermo, vi ospita l'antipapa Anacleto, abbraccia il suo scisma, e riunendo nella forte mano tutto il mezzogiorno riordina il proprio regno in senso unitario e consolare, per ritornare poi console vittorioso nel grembo della chiesa costretta a sanzionare la sua rivoluzione.
Guerre municipali.
Quindi la rivoluzione vincitrice della propria reazione si scatena in un tumulto inintelligibile di guerre municipali per determinare i contorni dei municipii educandone le forze. Dissipato ogni ricordo del regno, cessata la doppia pressione imperiale e pontificia sulle città, e costituitasi con una prima amministrazione indipendente la loro prima coscienza politica, tutte si guatano in cagnesco e si assalgono. La sola patria è il municipio, poichè di nazione non esiste nè ricordo nè aspirazione. Ogni frammento disgregato del regno animandosi ne ha concentrato i bisogni e le energie, ogni città vuole espandersi e soverchiare: le forze locali, le originalità latenti del nuovo sistema municipale sostituito a quello regio-imperiale esigono la guerra per prodursi. Ma il vecchio dualismo delle città regie romane dura tuttavia raddoppiato dalla rivoluzione vescovile e consolare, che avendo innalzato queste deve degradare quelle. Ecco il segreto della guerra, susseguente, ignorato dai cronisti, cercato da quasi tutti gli storici, sfuggito all'acume del Sismondi, colto magistralmente dall'ingegno divinatore del Ferrari.
Se i motivi della nuova guerra municipale sono economici, la sua vera ragione è nella necessità per i comuni di svolgersi contro tutte le superstiti forme feudali, accrescendo le proprie città oltre la cinta del vescovado, conquistando le campagne ancora tenute dai signori, liberando le strade pei commerci, emancipando i fiumi, lavorando le terre, acquistando in fine la sovranità politica e sociale contro i centri regi sempre in ritardo. Le guerre sono quindi multiple, minute, spietate, incessanti: premio ne è la vita. Chi soccombe ha torto: tutte le armi, tutte le arti, tutte le infamie, tutti gli eroismi, vi cooperano nella stessa misura e vi producono il medesimo risultato. Il municipalismo italiano a distanza di secoli riproduce la storia greca per rifare una civiltà non meno splendida ed originale di quella. Nella feroce disciplina di una tale guerra tutte le idee si elaborano, tutte le forme si precisano, tutte le funzioni si distinguono; siccome ogni municipio riconcentra la storia di un regno nella propria cronaca, i suoi individui vi spiegano la forza dei maggiori uomini storici. Quindi le guerre senza pace vi paiono spesso senza risultato, appassionate sino alla demenza, abili oltre ogni genio, inesauste come la vita, inevitabili quanto la morte.
Ma il loro effetto si mostra giorno per giorno nella crescente importanza dei comuni vincitori e nel decadimento dei comuni vinti; s'improvvisano republiche; sorgono fortezze, la strategia delle antiche vie militari è superata dalla nuova delle strade commerciali: il popolo inerme diventa un esercito, i mercanti si mutano in statisti, s'inizia tutta una legislazione, della quale i congegni parlamentari funzionano mirabilmente fra l'urto delle congiure e lo schianto delle sommosse, mentre le scienze proseguono tranquillamente negli studi a disseppellire il mondo antico, e le arti rinate trovano bellezze non meno originali delle greche o romane.
In tale ambiente medioevale le guerre s'incrociano naturalmente come duelli tanto più efferati quanto più vi mancano i giudici di campo; gli avversari si battono senza leggi, si arrendono per ferire l'ultimo colpo, si assalgono alle spalle, avvelenano le armi. La politica municipale s'inspira dal duello in tutte le alleanze; nessuna idea generale o disegno comune. I nemici sono predeterminati dalla storia e dalla geografia: tutti i comuni debbono battersi entro il sistema municipale, che riserba la vittoria ai centri romani e produttori contro i centri regi e militari. Nella Lombardia, Milano, massima città romana e produttrice, è il centro di tutte le dualità e deve combattere Pavia, Lodi, Cremona: quindi i suoi duelli si ripetono colla stessa legge fra le altre città, Brescia e Bergamo, Pavia e Piacenza, Torino e Asti, Verona e Mantova, Treviso e Cividale, Firenze e Fiesole, Lucca e Pisa, Orvieto e Spoleto, Perugia e Chiusi, Fano e Pesaro, Roma e Tivoli, Faenza e Ravenna, Cagliari e Oristano in Sardegna, in tutte le provincie, nelle vallate più remote, fra i borghi più ignorati, nei comunelli più esigui, nelle abazie e nelle parrocchie.
Giuseppe Ferrari nelle Rivoluzioni d'Italia ha dato l'enumerazione cronologica ed alfabetica delle guerre municipali, disegnando la loro carta storica con incomparabile abilità. In tale quadro sublime di esattezza e di orrore si veggono 99 città militanti e si contano sino a 119 inimicizie costanti; ma questa tragedia male intesa e quindi condannata dagli storici posteriori come uno scoppio di malvagità demente, era nel secolo XII il solo progresso possibile ai comuni per mutarsi in minimi Stati. Quindi nessuna vittoria generale o pace definitiva poteva trovarsi a capo di queste guerre, nelle quali i combattenti acciecati dalle passioni e guidati dall'istinto camminavano sicuri sulla via della storia. Se il trionfo era riserbato alle città romane come centri veri della rivoluzione e della civiltà, non tutti i centri regi dovevano soccombere, perchè o la loro contraddizione storica all'idea del progresso non era assoluta, o un mutamento nella tattica stessa della storia li rendeva utilizzabili. Così Roma, Ravenna, Palermo, combattenti alla testa delle città regie, ne evitavano la sorte e rivaleggiavano di splendore e di avvenire coi nuovi comuni.
Le discese di Federico Barbarossa.
Mentre l'Italia, dibattendosi nelle convulsioni di una guerra anarchica, rompe tutte le proprie frontiere interne per frangere quelle del vecchio diritto imperiale pontificio, Federico Barbarossa alla testa della rivoluzione vescovile nella Germania, sempre in ritardo, si prepara a discendere le Alpi per combattere la rivoluzione consolare italiana come una insurrezione contro l'impero. Lodi e Como spianate da Milano gli chiedono vendetta: Pavia si ridesta, Cremona si avventa sulla antica rivale. Ma Federico, cui la Germania non ha accordato che soli 2000 cavalieri, invece di soffocare la guerra municipale diventa il generale di queste città regie insorte contro Milano; e dopo avere inutilmente infierito deve ritirarsi imperatore meno stimato di prima, vincitore non ancora abbastanza temuto. Senonchè la guerra municipale lo richiama. Superbo come un eroe, testardo nell'idea imperiale di Carlomagno, della quale gli sfuggono le modificazioni storiche già compiutesi, alla dieta di Roncaglia ottiene dai quattro dottori discepoli di Irnerio il verdetto che tutto, regalie e diritti, città e contee, appartiene all'impero. Questo errore dei quattro grandi giuristi, tante volte accusati di viltà, indica però solamente che la rivoluzione consolare non è ancora abbastanza cosciente per negare l'astratta idea dell'impero.
Ma nemmeno questa volta Federico può battersi come imperatore: il nerbo del suo esercito è costituito dalle città regie alleate, ogni sua vittoria contro una città non è che vittoria della città rivale; se Milano soverchiata dal numero dei nemici capitola, egli capitano generale deve chiedere o rubare ostaggi a tutti i propri alleati per guarentirsi da tradimenti troppo improvvisi. Allora il suo ingegno politico cerca di riparare all'insufficienza della sua opera militare ordinando un vasto sistema di pacificazioni, che riconduca col terrore di esagerate penalità tutti i comuni sotto la giurisdizione dell'impero e tutti i sudditi sotto la legge. Giudici nominati direttamente dall'imperatore arrivano in ogni città per paralizzare il potere ribelle dei consoli e frenare gli odii municipali. Ma l'eroica Milano risponde a questa pacificazione con uno scoppio d'ire, che riaccendono la guerra; e l'imperatore sempre alla testa delle città regie deve smantellare Crema, abbattere Milano, seminare stragi, moltiplicare incendi. La vittoria questa volta è così vasta che par sua; senonchè tutte le città atterrite dal ritorno dell'antico regno gli si rivoltano subitamente, gli eserciti di Verona sbarrano i passi alpini quasi ad impedirgli ogni ritirata in Germania, nella quale non rientra che per rifornirsi di soldati e ripiombare daccapo sull'Italia. Questa volta la lega lombarda è già stretta, il papa vi è entrato, Milano è risorta, Alessandria creata contro Pavia, che capitana la lega regia. La guerra infuria in cento scontri per concludere nella battaglia di Legnano alla sconfitta dell'impero e alla emancipazione dei comuni. Il diritto politico moderno riceve quindi il battesimo al congresso di Costanza, nel quale la lega lombarda viene riconosciuta come autonoma entro la grande lega imperiale, e i comuni firmano il trattato come tanti stati.
Ormai la loro sovranità è riconosciuta. Quantunque l'impero riceva ancora tributi, il suo diritto e la sua supremazia non sono più così assoluti. Ogni città è libera di seguitare le proprie guerre, d'ingrandirsi, di mutarsi in capitale di una piccola repubblica o di un piccolo regno. Il suo ordinamento interno viene lasciato bene proseguire nel tragico lavoro di selezione perchè la classe politica dei cittadini meglio si organizzi. Dell'antica Lombardia dei goti, dei longobardi, di Carlomagno, di Ottone, di Berengario non rimangono più tracce. Intorno ad essa Venezia sepolta nell'oscurità delle lagune è ancora fuori del patto di Carlomagno e non partecipa alle crisi della sua negazione; la Toscana, paralizzata dalla lotta fra Lucca e Pisa e dalle antitesi degli interessi marinari e terrestri, che tolgono a quest'ultima di accedere a una delle due leghe, rimane inerte, mentre la marca di Verona e l'antico esarcato vi entrano a seconda delle loro interessate inimicizie.
E intanto che la lega lombarda ottiene il trionfo del sistema municipale contro l'impero inteso a soffocarlo con una ripristinazione del regno, Roma e Palermo ripetono sopra altro terreno e con diversa forma la stessa rivoluzione. Poichè Federico per mantenersi sulla linea di Carlomagno appoggia dapprincipio il pontefice contro l'insurrezione dei romani e disonora la propria prima vittoria consegnando Arnaldo da Brescia ad Adriano IV, il senato romano, risuscitato alla morte di questo dallo spirito di Arnaldo, costringe l'imperatore ad entrare nella rivoluzione municipale col sostenere l'antipapa Vittore III contro Alessandro III presidente della lega lombarda; poscia alla pace di Costanza, che sospendendo la guerra ne riconosce le conquiste della rivoluzione, il senato romano ottiene dal papa Clemente III un trattato solenne, col quale gli sono riconosciute le stesse franchigie politiche degli altri comuni, onde poi Arrigo VI nuovo imperatore arrivando in Roma per incoronarsi deve trattarne contemporaneamente col senato e col pontefice.
A Palermo invece Guglielmo il Malo, resistendo a tutti i moti della reazione feudale incoraggiati dalle discese di Federico, regna da vero capo della democrazia consolare. Maione suo primo ministro, cittadino di Bari come Mello, ne continua la lotta contro l'aristocrazia, che si difende assassinandolo per essere tosto dispersa e trucidata da una insurrezione di popolo. Quindi il re precipita da un'inerzia sospettata e sospettosa a tanto crudele tirannide da sbigottire anche gli storici più favorevoli alla causa della Sicilia, insino a che il suo successore sul finire della reazione viene chiamato Guglielmo il Buono, e Federico, già in guerra contro Alessandro III, avvisando l'utilità dell'amicizia con Palermo sempre in lotta coi baroni tutti alleati della chiesa, sposa al proprio figlio Arrigo VI l'unica erede delle due Sicilie. Così riconciliato colla grande rivoluzione italiana, dopo aver bruciato Asti, rovesciata Tortona, distrutta Milano, Federico Barbarossa diventa improvvisamente l'idolo e l'alleato di tutti contro le pertinaci pretese della Santa Sede; a Torino frena l'ignobile tirannia del conte Umberto III di Savoia, in Sardegna, sconfessando le due nomine di re concesse a Barisone e al duca di Baviera, finisce col vendere per 1300 marchi d'argento l'isola ai pisani, che sostengono la federazione di Cagliari, Torres e Gallura contro la regia Oristani.
Ormai l'imperatore e il papa non sono che due consoli di una guerra, che nè Gregorio VII, nè Arrigo IV avrebbero compreso. Qualunque sieno le segrete pretensioni del loro pensiero individuale, la loro reciproca ostilità li costringe a riconoscere come alleati o nemici i nuovi poteri popolari esorbitanti da ogni formola imperiale o pontificia. Le vecchie favole giuridiche, già dominatrici del mondo, pesano ancora sul pensiero universale dell'epoca, ma non impediscono più la formazione dei nuovi organismi storici, entro i quali stanno riparate le grandi idee future. Infatti le crociate, splendido sogno ed incomparabile espediente della rivoluzione anteriore, declinano subitamente nell'èra dei consoli. Alla terza crociata di Riccardo Cuor di Leone, l'interesse delle colonie cristiane soverchia già quello della croce; poco dopo, l'altro d'Europa costringe i principi a ritornare nei propri stati per difendersi dalla rivoluzione consolare. Alla quarta crociata Arrigo IV non mira che ad impadronirsi della Sicilia e ad affievolire i signori dell'impero; alla quinta, predicata da Innocenzo III e accettata solo dalla nobiltà francese, i veneziani stipendiano i baroni per la conquista dell'impero bizantino, e l'avventura militare si risolve in una speculazione mercantile; alla sesta non aderisce che Andrea di Ungheria, re barbaro e bigotto; alla settima guidata da Federico II, il papa non avrà in mira che un agguato contro l'imperatore per togliergli le due Sicilie, e vi soccomberà in sua vece.
Intanto l'entusiasmo politico assorbe già quello religioso, poichè l'effetto delle crociate a rovescio di ogni intenzione si esplica in una emancipazione economica delle terre e dei borghi dai feudatari, che ne hanno ceduto ai vassalli i più grevi diritti pel denaro necessario alla spedizione. La chiesa stessa, sottraendo nel 1153 al popolo e al clero volgare l'elezione del papa per affidarla al collegio dei cardinali, imita la rivoluzione dei consoli, che trasmettono al grande e piccolo consiglio del secondo popolo tutti i diritti dianzi riconosciuti nell'assemblea del primo. Dallo stesso anno 1153 ogni canonizzazione dovendo essere esclusivamente romana, la chiesa domina coll'entusiasmo pei nuovi santi il cuore delle moltitudini: si fondano gli ordini della Trinità, della Redenzione degli Schiavi e della Mercede; cinque congregazioni di eremiti si riuniscono in una, i cavalieri di Cristo si stringono coi cavalieri Teutonici, finchè la propaganda monacale, discendendo nella vita politica, irrompe con due nuovi ordini di frati profondamente originali e terribilmente guerrieri. Eroi della miseria, i francescani protestano colla moltitudine cenciosa contro la nuova privilegiata borghesia consolare, denunciando tutte le vanità della politica, della industria, del commercio; ma inesausti nell'opera consolano gli stessi dolori che esacerbano, assolvono tutti i peccati che combattono: nomadi e liberi dai consoli e dai vescovi, cittadini di una democrazia senza patria e democratici di un assolutismo irresponsabile.
Eroi del dogma, i domenicani organizzano invece la inquisizione come un governo tanto superiore ad ogni altro quanto il dogma è superiore a tutte le verità umane, e dando ai supplizi l'apparenza di una festa, che fanatizza la moltitudine, bruciano città, disertano campagne, spaventano re, curvano papi, penetrano case e coscienze, imperano nel pensiero contro al pensiero; che nullameno respira sotto tutte le pressioni, sfugge a tutte le strette, esce da tutti i tranelli, brilla su tutti i roghi contrapponendo fede a fede, conquista a conquista, trovando nello spasimo di questa secolare tragedia le voci più profonde dell'anima, e nella ginnastica di questo combattimento senza tregua le forze necessarie alla propria emancipazione finale.
La guerra delle città ai castelli.
Il riconoscimento del diritto di guerra conquistato dalle città nel trattato di Costanza le volta contro i castelli, che signoreggiando il contado le cingono come di tanti fortilizi nemici e misurano loro collo spazio la vita. I castellani sono feudatari discendenti dalle antiche invasioni, ultimi signori di una conquista, della quale la rivoluzione non ha ancora potuto trionfare. La lor vita ladra e militare contradice alla vita industriale dei borghesi: il contado, che si estende dalle mura di ogni città, è un campo nemico ove nessuno può avventurarsi senza essere spogliato o tassato; leggi e regolamenti cittadini non hanno forza oltre la cinta della città. Le vecchie differenze di razza, sebbene indebolite, sopravvivono tra feudatari e cittadini, dando alle loro idee una asprezza di antitesi irreducibile. La guerra è necessaria. Il castello soccomberà perchè l'imperatore, impotente a sostenere la prevalenza delle città regie, non riuscirà nemmeno a soccorrere i castellani, lontani gli uni dagli altri e senza lega politica fra sè medesimi, senza unità d'interesse e senza capo. Ricordàno Malaspina, fiorentino, è rimasto il più celebre e migliore cronista di questa guerra ripetuta con parità di drammi e di trionfi in tutte le contrade d'Italia.
Invano papa ed imperatore, ubbidienti alla propria idea, sostengono i castellani come alleati naturali del proprio assolutismo; l'imperatore lontano, il papa inerme, nemici entrambi troppo spesso, non possono accordarsi in questa difesa degli stessi loro difensori: le città regie e le romane assaltano simultaneamente i castelli così che i castellani per ritardare di qualche tempo la loro caduta, debbono diventare soldati di una città contro un'altra, accettando le leggi della guerra municipale. Ma la vittoria medesima, alla quale cooperano, li assimila ai vinti, mentre i tradimenti sciolgono le alleanze strette dalla perfidia. Sovente i servi stessi, uomini del contado, insorgono contro i padroni per darsi alle città che, aristocratiche nel proprio assetto borghese, invece di naturalizzare i borghi li annullano. L'aggrovigliamento dei modi e delle forme politiche in quest'epoca non è meno indescrivibile della guerra, onde è prodotto. Così alcune volte il conte emancipa i grossi villaggi per opporli alla tirannica conquista della città e seguita a regnare sovra di essi come un moderno sovrano costituzionale, però sotto il raggio delle grandi città commerciali anche questo disperato espediente fallisce, e la guerra ai castelli cresce di ferocia pel ritardo del trionfo finale. Se la conquista materiale è lunga e penosa, il suo riconoscimento nella legalità contemporanea presenta anche maggiori difficoltà contro le due formule imperiale e pontificia, che non si possono nè preterire nè violare. Quindi il comune, deludendole con abilità apparentemente assurda, è costretto a dichiarare alleati i vinti e a riconoscerli proprietari delle terre conquistate, finchè, fatto più sicuro, toglie loro anche questa falsa indipendenza, li trasporta nella città e li condanna a risiedervi. Così al secondo popolo ne succede un terzo. La naturalizzazione delle famiglie feudali trasformate in aristocrazia cittadina esige che molte altre famiglie borghesi, recentemente o arricchite o illustrate dalle guerre, vengano chiamate a parte dei poteri e delle funzioni interne per resistere alla forza dei nuovi venuti, acquistati alla città, ma pronti a conquistarla.
Infatti questi alzano palazzi simili a fortezze, li decorano di torri, armano famigliari, si cingono di clienti: le terre degli antichi dominii, rimaste loro come a proprietari, vincono in ricchezza qualunque patrimonio bottegaio; le loro attitudini guerresche di signori destano al tempo stesso l'ammirazione e l'invidia. La moltitudine dei cittadini, sui quali non gravano più come tanti re, simpatizza per loro contro le nuove angherie della città; la plebe allettata dalle loro lautezze attende un loro cenno per sollevarsi contro la borghesia privilegiata che la schiaccia. Un'altra lotta intestina è dunque inevitabile come la guerra municipale. I comuni non possono sopprimere la feudalità senza negare la chiesa e l'impero, i castellani non possono distruggere il commercio, l'industria e la libertà dei comuni, riconosciuti dalla chiesa e dall'impero, senza urtare nella stessa negazione e senza sopprimere la vita. Bisogna perciò che la lotta fra le due forme aristocratiche della feudalità e della borghesia, logorando le loro forze, muti la loro fisonomia insino a quando il popolo, ingrossato da tutti coloro che eccellono nella lotta, e ingrandito dal crescere della civiltà, si sovrapponga alle due fazioni, assorbendole nel proprio numero. Nelle prime fasi del combattimento il progresso è ottenuto con massacri furibondi e minime vittorie; se il palazzo del castellano concittadino viene abbattuto, le sue terre prosperano; se il castellano guida una sommossa, è forzato di gittare tutto il proprio denaro alla plebe che lo trasforma in capitali. La lotta circoscritta alla città vi affeziona tutti i partiti, i tempi dei castelli si allontanano, le aspirazioni al comando suppongono il comune signore di se stesso e delle campagne, la rivalità suddivide i feudali mentre il terrore mantiene uniti i borghesi. Quelli per comandare dovendo primeggiare, assorbono le idee della città; questi per non essere dominati trasportano nella politica le finezze del commercio e la pertinacia delle industrie, colle quali raddoppiano la propria importanza e la vitalità del comune.
La guerra municipale si complica di giorno in giorno con una guerra sociale.
Ma presto i consoli eletti annualmente appaiono insufficienti. La loro magistratura troppo breve per diventare autorevole consuma un numero prodigioso di uomini, che, costretti a diventare personaggi, dovrebbero tutti averne le capacità. Appena ridivenuti cittadini, gli odii destati dalla loro amministrazione li perseguitano; prima di essere nominati consoli diffidenze e calunnie li hanno già viziati; troppo partigiani per essere imparziali e troppo effimeri per inspirare timore, non rappresentano più che quella fase della rivoluzione, nella quale il comune uno ed unanime aveva fuori di se stesso l'obiettivo della guerra. D'altronde il giuoco della loro elezione, troppo facilmente falsato dalla corruzione del danaro o dalla violenza di una sommossa, tenta troppe cupidigie e si complica di troppe incertezze perchè duri lungamente in una lotta di tumulti incessanti e di passioni indisciplinabili. Laonde occorre un potere o tribunale più alto, solido e duraturo, cittadino insieme e feudale, che, dominando tutte le fazioni, costringa gli opposti diritti a rispettare il diritto comune. Una reminiscenza dei messi imperiali o dei giudici mandati nella prima reazione di Barbarossa a frenare i consoli suggerisce al comune il governo del podestà.
Il podestà.
Questo funzionario unico, investito di ogni funzione politica e giuridica dei consoli, è uno straniero. La sua autorità civica e feudale sovrasta all'anarchia; tiene corte come un sovrano, è magistrato come un cittadino, impera da soldato e da giurista ai due partiti, sui quali eseguisce egli stesso le proprie sentenze. Può chiamare all'armi i cittadini, trarre fuori dalle porte il carroccio, guidare la guerra, firmare la pace. Assedia i ribelli nei loro palazzi e li spiana, rende tutta una famiglia responsabile del crimine di uno solo, esilia i sospetti, amnistia i colpevoli, concilia, reprime, opprime, sopprime. Il suo dispotismo supera quello di tutti i tiranni perchè ha per scopo la libertà. Se non che il popolo non gli si sottomette senza garanzie, e però conserva i consoli riunendoli ad un maggiore consiglio di anziani, ne elegge un altro del podestà, quasi giunta amministrativa che lo consigli e diriga, mantiene la grande assemblea, e finalmente esige da lui un giuramento di fedeltà agli statuti e a tutte le giurisdizioni acquistate nelle vittorie contro i castellani. Qualunque trasgressione o distrazione del podestà è tariffata e multata: non gli si permettono parenti nella città o dimestichezze con alcun cittadino. Come un generale, che nessun'altra cura può distogliere dalla vigilanza del campo, egli non può nemmeno condurre nel proprio palazzo la moglie: finchè spirato il tempo della carica viene sottoposto ad un processo, nel quale ogni cittadino da lui offeso ha diritto di presentare la propria azione.
La rivoluzione dei consoli sale dunque di un grado col podestà, decidendo questioni di alta sovranità senza permesso nè del papa, nè dell'imperatore. Tutto un nuovo ordine di legislazione s'inizia. Se le prime leggi giurate dal podestà non sono che le prime costituzioni del popolo persistenti come usi e costumi, nel nuovo esercizio, che egli ne fa come magistrato straniero, se ne precisano le formole; e a poco a poco ordinanze e regolamenti si moltiplicano, si applicano alla finanza, all'edilità, ai diritti personali e reali, cancellando il diritto longobardo col diritto romano, formando i cento statuti della nuova Italia.
Non sempre il podestà raggiunge lo scopo della propria carica, ora egli stesso concittadino di nascita e cittadino di parte, o cittadino di nascita e concittadino di parte; ma la sua azione fatalmente ostile all'aristocrazia feudale è sempre benefica pei cittadini, e quella sottomette alla legge comune e questi educa colla costante rappresentazione dell'unità civile del governo. Infatti la sua crudele ed arbitraria imparzialità soffoca presto ogni tumulto, mentre la qualità di straniero necessaria alla sua carica, togliendo ad ambo le fazioni la possibilità d'impadronirsene, spoglia a poco a poco i loro misfatti di ogni carattere politico per lasciarli ricadere condannati nell'ignobile prosaicità dei delitti comuni. E quando esplode contro di lui la reazione pontificia ed imperiale, tutta la perfidia dei papi e il genio di Federico II non bastano a vincerlo.
Questi, costretto a sdoppiare il proprio carattere nell'antitesi delle due nazioni sulle quali regna, combatte i podestà dell'alta Italia come despoti nomadi e democratici in guerra coi castellani, ultimi sudditi e soldati dell'impero. La rivoluzione tedesca uscita dal trattato di Costanza impone un altro combattimento alla rivoluzione italiana trionfante della guerra ai castelli. Ma il tempo di Barbarossa è passato; la stessa guerra municipale di città contro città sembra quasi rallentarsi per lasciare il campo a quella intestina di ogni comune. Federico II non trova più i numerosi e furibondi alleati di Barbarossa: il suo appoggio ai concittadini contro i cittadini invocanti il podestà come ultimo termine di un sillogismo, del quale i vescovi e i consoli erano stati le premesse, ridestando il terrore di una ripristinazione del regno, concorda contro di lui tutte le forze dormienti delle vecchie rivoluzioni. La reazione condannata al regresso si frange contro tutte le impossibilità della vita: quando i concittadini la seguono, i cittadini più numerosi la combattono; se i cittadini delle città militari la sostengono, i concittadini aiutati dalla lega lombarda l'osteggiano; nessuno dei due partiti può soggiogare l'altro mercè la dispotica neutralità del podestà, che esprime appunto l'equivalenza delle loro forze. Federico II avrebbe dovuto imporre a tutte le città un podestà straniero e strettamente imperiale, che cancellando ogni legge e franchigia dei comuni li pacificasse nella soggezione all'impero; ma il regno sarebbe così risorto sulle conquiste dei vescovi, dei comuni, dei consoli, ed era impossibile.
Quindi la vita e il genio di Federico II si dibattono vanamente entro quest'impresa, che tenta tutti i problemi e accenna a tutte le soluzioni senza darne alcuna; la sua guerra non rimane che un tentativo di reazione contro la guerra interna dei comuni. L'imperatore, anche là dove trionfa, non può mettere unità o direzione nel moto sparpagliantesi a lui d'intorno; il pontefice suo signore per l'investitura delle due Sicilie lo scomunica, gl'insidia Palermo, fomenta contro di lui tutta la reazione della bassa Italia per disfarne l'unità, nella quale è perito l'alto diritto della Santa Sede. L'immensa donazione delle provincie meridionali ottenuta da Carlomagno e da Ottone I non è più che un rimpianto per il papato, il quale aveva dovuto investirne i normanni e la vedeva, oramai fusa coll'impero nella persona di Federico II. Laonde il papa non risparmia perfidie a combatterlo. Ogni arma è buona, ogni delitto diviene santo per la santità dell'intenzione, che vuole sottrarre la chiesa al pericolo di soccombere all'impero. Federico più forte del papa, fa scacciare da Roma Gregorio IX, salta di Terrasanta in Terra di Lavoro, quando questi gli invade le Puglie, lo umilia, lo costringe a sconfessarsi. Più tardi Gregorio IX predica inutilmente la crociata contro l'imperatore e convoca un concilio per deporlo: il suo successore Innocenzo IV, esule da Roma, lo ritenta a Lione, ma ogni rivolta viene soffocata nelle stragi, l'insidia di Pier delle Vigne è punita colla cecità, tedeschi e saraceni difendono Palermo nei posti più avanzati del regno, perchè l'imperatore vi è egli stesso invincibile quale podestà.
Invece i papi soccombono a Roma nella lotta contro il senatore e il podestà. Innocenzo III non resiste che per cedere negli ultimi giorni, Onorio III è scacciato due volte; Gregorio IX, che esordisce scomunicando l'imperatore Federico II, è inseguito fino a Perugia ed espulso altre due volte; Celestino IV muore avvelenato dopo sedici giorni, e la fuga di tutti i cardinali sospende ogni nuova elezione, finchè Francia ed Inghilterra imponendo allo stesso Federico di sollecitarla, viene nominato Innocenzo IV. Ma sotto di lui trionfa appunto la rivoluzione del podestà colla nomina del bolognese Brancaleone dell'Andalò, al quale vengono accordati tre anni di dispotismo e numerosi ostaggi contro l'odio del pontefice. E tosto s'infervora la lotta fra i due poteri: Innocenzo IV, assediato nel proprio palazzo dai creditori come un castellano fallito, deve sollecitare la sprezzante protezione del podestà; più tardi Alessandro IV, riparato in Anagni, dirige la reazione feudale contro Brancaleone, che vinto è nuovamente reintegrato dal popolo e vendica con terribile giustizia l'effimera sconfitta.
Tutte le predicazioni del papa contro l'imperatore, tutte le battaglie dell'imperatore contro il papa, tutta la guerra d'entrambi contro la rivoluzione finiscono al trionfo del podestà, primo magistrato e sola giustizia dell'epoca fra le carneficine di due partiti incapaci di schiacciarsi e la necessità del progresso, che sbozza nella sua magistratura, impersonale a forza di essere straniera, la figura del moderno magistrato indipendente dai governi ed astratto quanto la legge.
Persino nel campo chiuso della teologia imperversa la grande guerra della democrazia contro la feudalità; e nel 1247 Giovanni da Parma, generale dell'ordine francescano, spingendo troppo in alto l'ascetismo del suo fondatore, predica la virtù di una nuova rivelazione superiore a quella di Cristo. Sarebbe il regno dello Spirito Santo, annunziato come distruzione del regno del figlio nella stessa guisa che questi aveva nel mosaismo distrutto il regno del padre. Ma Guglielmo di Saint-Amour alla testa dei dottori di Parigi, perorando nella chiesa una insurrezione quasi feudale, accusa di demagogia la libertà democratica dei francescani e mostra nelle incessanti tragedie di Roma la rovina della religione; finchè il papa, imparziale fra ì due partiti estremi come un podestà, soffoca la rivolta mistica dell'uno e l'insurrezione laica dell'altro per inaugurare nella scolastica la riconciliazione della scienza colla fede. Aristotele, già proscritto, diventa il maestro dei nuovi dottori; dogmi, miracoli, misteri primitivi, tutto è dichiarato evidente e quindi indiscutibile; ragione e natura sono egualmente rivelazione divina, ma si possono e si debbono interpretare per trovare il punto dove combaciano colla rivelazione cristiana: le contraddizioni fra la tradizione umana e la religiosa, fra il dramma della filosofia e la tragedia della rivoluzione, fra Dio e la natura, fra l'uomo e Dio, non sono che apparenze, illusioni della mente o vizi del cuore. La libertà è dunque permessa entro l'ambito della fede, mentre S. Tomaso e S. Bonaventura, i due genii dell'epoca, che ne consigliano nel pontefice il podestà universale, spengono tutte le strambe ed inutili sedizioni del pensiero religioso anteriore, preparando l'uno nella più vasta enciclopedia filosofica, l'altro nella più solida metafisica del cattolicismo il terreno alla filosofia del rinascimento.
I guelfi e i ghibellini.
Il trionfo del podestà nell'equilibrio di due partiti cessa quando, nell'impossibilità di sopprimersi reciprocamente e nel lungo esercizio della lotta, le due sètte sono troppo cresciute di numero e di forze. Il podestà, dittatore e giudice al tempo stesso, non può comandare che nell'infanzia e quindi nella debolezza delle due parti; appena la città è tutta divisa e il popolo da un canto e i grandi colla plebe dall'altro si scagliano al combattimento, la sua repressione dittatoriale e la sua giustizia arbitraria rimangono impotenti. La guerra sociale diventa civile, e si moltiplica tingendosi di tutti i colori della guerra municipale. Ai concittadini e ai cittadini, cioè ai feudali e ai borghesi, succedono nelle battaglie i guelfi e i ghibellini.
La loro origine, nella quale si sono fanciullescamente perdute le fantasie dei primi cronisti, l'acume del Machiavelli e l'erudizione del Muratori, sta nelle rivoluzioni anteriori a quella del podestà; la loro ragione nella necessità di proseguirle. Mentre i primi castellani deportati nella città l'odiavano e dovevano essere frenati dal podestà, i loro discendenti naturalizzati nel nuovo ambiente invece di sognarne la distruzione ne ambiscono la conquista. Il podestà è dunque inutile dal momento che la città non è più in pericolo. Nella nuova lotta impegnata nelle vie e per le piazze è scopo il possesso indiviso della città e il suo reggimento democratico o aristocratico.
La vita degli individui si sviluppa nel partito e si consuma pel partito. La neutralità è assurda. Tutti i casi dell'esistenza si prestano a drammi politici, nei quali la morte falcia i personaggi a tutte le scene; i ghibellini sono i prosecutori degli antichi castellani, i guelfi i discendenti dei primi borghesi.
La guerra, propagandosi in tutte le città e assorbendo odii municipali, inimicizie storiche, rivalità economiche, pretensioni politiche, dissidi sociali, si complica così da non parere più che un disordine di battaglie, una marea di espulsioni e di ritorni, un tumulto di vita e di morte, nel quale si distinguono solo i colori dei combattenti. Poichè tutte le città hanno un partito esiliato, le alleanze si stringono per parte, e ognuno trova la propria italianità e quindi la propria nazionalità nell'esilio. L'idea municipale è quindi sorpassata da quella di setta, mentre la persecuzione inflitta o patita per un principio non più angustamente cittadino crea rapporti, provoca sentimenti, concorda pensieri, unisce opere prima non solo sconosciute ma inconoscibili.
Guelfi e ghibellini irreconciliabilmente nemici e reciprocamente invincibili, non sono che due forme del medesimo fatto e due momenti della stessa idea. Gli uni rappresentano una democrazia mal destra nelle armi se abile al governo, avara, nemica di ogni grandezza individuale e di ogni intellettuale libertà per rabbioso sentimento di uguaglianza; gli altri sono un'aristocrazia armigera, prodiga, altera di libertà legale, irrigidita entro vecchie formole e quindi incapace di comprendere gli interessi mobili e multipli del popolo. La storia, imponendo loro un combattimento secolare senza vittorie, ottiene dai guelfi il progresso, la ricchezza, l'uguaglianza, la democrazia; dai ghibellini, il genio, il carattere, la libertà. Nella loro epoca intanto entrambi snaturano i due principii della chiesa e dell'impero, dai quali s'intitolano e pei quali sembrano battersi così fanaticamente da ingannare cronisti e storici. Infatti sul cominciare della lotta, nel 1250, l'impero è vacante e più tardi nel fervore degli scontri cittadini, Rodolfo di Asburgo è in pace colla chiesa: più tardi ancora imperatore e pontefice, capi ideali, restano fuori della guerra, cui discendono invertendola Nicola IV, Martino III, Giulio II, Leone X, Clemente VII come pontefici ghibellini, e Rodolfo d'Asburgo, Carlo IV e Roberto come imperatori guelfi. Le vittorie alternate dei due partiti consacrano tutto il progresso ottenuto dal vinto prima della sconfitta: la plebe, insondabile fondo nel quale ambe le sètte pescano forze, accoglie tutti i caduti e si alza con tutti i sorgenti: i suoi individui senza nome diventano cittadini combattendo nella città per la città; il partito è scuola di guerra, di diplomazia, di governo, di viaggi, d'eguaglianza, di libertà, di nazionalità, di italianità. Mentre il palazzo del grande minacciando la casa del borghese protegge il tugurio del povero; la casa del mercante attira nobili e plebei: il denaro e il potere, il mezzo e lo scopo della guerra disciplinano ed avvicinano tutti coloro che vorrebbero divergere. Quando trionfano i guelfi, arti e mestieri raddoppiano la massa del popolo ufficiale; quando prevalgono i ghibellini, le arti minori, i più vili mestieri, le industrie più spregiate, il popolo magro, i Ciompi, invadono la scena e vi conquistano un posto.
Il Capitano del popolo.
Quindi l'ordinamento della città subisce profonde mutazioni: all'arbitrato del podestà, che manteneva l'imparzialità, succede il regno delle parti. La dittatura scade al capitano del popolo, generale dei vincitori e proscrittore dei vinti, padrone e custode della repubblica, mentre il podestà scelto nel partito e dal partito trionfante, mantenendo appena le funzioni giudiziarie, si muta a grado a grado in carnefice.
Ma il capitano, onnipotente e semplice cittadino, ha per organi e freni del governo il consiglio del popolo da lui presieduto in un palazzo speciale, il consiglio del comune presieduto dal podestà per le materie amministrative, l'antico consiglio degli anziani spesso diviso in due, la credenza per gli affari segreti di diplomazia e di polizia, il gran consiglio colle maggiori ampliazioni possibili allorquando si tratti di compromettere il maggior numero dei cittadini nelle publiche vendette; e il consiglio eslege, tirannico, assoluto, rappresenta il governo nel governo come la parte è il governo nello stato. Naturalmente tutte le corporazioni imitando l'esempio della repubblica costituiscono i loro consoli, i parlamenti, il capitano, si armano, sono partito ed esercito, vincitrici e vinte.
E la guerra guelfo-ghibellina irrompe in tutte le città d'Italia, sconvolgendo con tale furore le posizioni politiche della guerra municipale che i vinti di un partito riparano presso il medesimo partito di una città anche nemica, e vi trovano accoglienze ed aiuti. Le nuove rivoluzioni sembrano propagate dal vento, esplodono come tanti gas ammorbando l'aria ed offuscando la luce. Poichè tutti i cittadini si fanno partigiani, tutti i banditi si arruolano nelle due parti. Ma presto i due disegni storici della guerra municipale e della guerra guelfo-ghibellina, entrambe generate dalla stessa guerra sociale indispensabile alla formazione del comune e del cittadino, s'incorporano assestandosi sulla base delle rivalità geografiche. Nelle città romane prevalgono i guelfi, nelle città regie trionfano i ghibellini attraverso vicende così confuse, che i cronisti vi si perdono e gli storici non possono inoltrarvi.
A Firenze il dramma degli Uberti e dei Buondelmonti crea Farinata, che vietando ai ghibellini vincitori, ghibellino egli stesso, la distruzione di Firenze, afferma la differenza della nuova guerra colla precedente delle città contro i castelli: borghesi e feudali, cittadini e concittadini, guelfi e ghibellini, la patria è per tutti la stessa città. Quindi in ognuna di esse la rivalità si produce e prende nome da due delle maggiori famiglie dei due partiti, quasi ad accennare che nella futura rivoluzione, quando le parti saranno esauste e gl'interessi intermedi cresciuti, le famiglie vincenti ripeteranno il podestà sotto forma di tiranno. A Milano il duello comincia tra i Torriani e i Visconti, a Bologna lottano i Gallucci e i Carbonesi, a Modena gli Aigoni e i Grasolfi, a Faenza gli Accarisi e i Manfredi, a Bergamo i Colleoni e i Soardi, a Orvieto i Monaldeschi e i Filippeschi, ad Alessandria i Lanzavecchia e i Guasco, a Reggio i Roberti e i Sessi, a Camerino i Baschi e i Varano; mentre nelle città militari i partiti capovolgendosi mostrano la democrazia ghibellina e l'aristocrazia guelfa. Così Genova e le città nemiche di Firenze e di Milano sono tutte ghibelline di popolo e guelfe di nobiltà per meglio resistere all'espansione delle due grandi città odiate, che potrebbero col più fuggevole accordo imporre loro una durevole soggezione.
Ezzelino da Romano.
Ma fra tanta grandezza di drammi politici e guerreschi, nei quali talora è personaggio tutto un popolo o un solo individuo sembra centuplicarne la forza, assorbendone la vita collettiva nella propria unità passionale, nessuno uguaglia nemmeno nelle città militari quello ghibellino di Verona. Il suo eroe Ezzelino III da Romano, ariano figlio di ariano, diventa così grande che la sua epoca non può contenerlo e Dante solo, il poeta ghibellino di Firenze, potrà poi essergli paragonato. Dotto, incredulo, più freddo di un filosofo e più sensibile di un poeta, capitano fulmineo e politico improvvisatore, egli ha tutte le passioni del proprio tempo nel cuore e tutte le idee del rinascimento nella testa. Appena scoppia la guerra fra le due sètte Ezzelino stermina i guelfi, si associa in un triunvirato Buoso da Doara e Oberto Pelavicino, li dirige, li minaccia con sì terribile prontezza ed irresistibile abilità che tutta Italia piega sotto la sua mano, e le vittorie gli strappano in un grido d'entusiasmo il segreto del suo genio: io sorpasserò Carlomagno! Ma a questa minaccia la lega lombarda diventa guelfa, la Romagna si unisce alla lega, Treviso alla Romagna e l'assalgono. Ezzelino non piega, raddoppia i supplizi, prende Brescia, assedia Mantova, fronteggia tutti i nemici che aumentano e si mutano contro di lui in crociati; difende Padova, ritrascina Treviso nella propria alleanza, accampandosi con una temerità solamente giustificabile dal genio o dalla disperazione sotto le mura di Milano. Allora l'idea regia di Berengario, che lo trasportava così alto, vanisce come uno dei tanti miraggi della storia: le rivolte divampano sotto i piedi di Ezzelino, i tradimenti lo cingono, gli abbandoni lo scoprono. Solo, è ancora così terribile che la sua ritirata pare un trionfo, ma una ferita cogliendolo al tallone come Achille dissipa il terrore del suo nome e della sua spada. Ezzelino è vinto, preso, calpestato dai villani, riparato nella tenda dei traditori dalla loro stessa ammirazione, ove muore senza gettare un lamento, più sublime nella superbia di quest'ultimo silenzio che nel fracasso di tante incredibili vittorie. Ma Verona, da lui indimenticabilmente tiranneggiata, resta fedele alla sua opera, che ha democratizzato il senato degli ottanta, salariati e tolti alla nobiltà i magistrati, sconfitti i castellani delle campagne, prostrate le città nemiche, agguerrito il suo popolo sino a mutarlo in un invincibile esercito.
A Palermo, altra città militare e ghibellina, l'idea regia di Ezzelino trionfa con Manfredi, bastardo di Federico II, che a forza di tradimenti carpisce il regno e vi si fonda contro il papa, dal quale sulle prime aveva ottenuto l'appoggio come capo ostile alla Germania e poco temibile. Invece Manfredi fa spargere la falsa notizia della morte di Corradino, gli prodiga funerali, si dichiara indipendente, favorisce i ghibellini di Roma, soccorre quelli di Toscana, s'affratella cogli altri dell'alta Italia, più piccolo e finalmente non più fortunato che Ezzelino, perchè i guelfi di Milano, di Firenze, delle Marche, di Napoli, di Messina, di Ascoli affrettano sul quadrante della storia l'ora della sua caduta.
Tutta Italia è in fiamme; il Monferriato ghibellino sostiene Torino contro i conti di Savoia che vengono espulsi: la Corsica si strazia col partito trasmontano di Simoncello della Rocca e quello cismontano di Giovanninello della Pietra; la Sardegna si lacera fra Pisa e Genova; Ferrara ingrossa sul Po preparandosi all'urto di Venezia che sta per avanzarsi sulla terraferma; Brescia sanguina al seguito di Pelavicino; Parma e Piacenza si annodano come due serpenti, e non potendo soffocarsi si mordono; fra Cremona e Milano, Crema si sfinisce nella paura della prima e si perde nell'amicizia della seconda. Roma, riconoscendo l'impotenza del podestà a governarla, entra nel periodo delle due sètte colla nomina di due capitani del popolo; gli uni voglion Riccardo di Cornovaglia e gli altri Manfredi; i ghibellini Pietro d'Aragona e i guelfi Carlo d'Angiò.
La guerra comprime tutte le forze della nazione per trarne scatti ed esplosioni senza numero e senza nome.
Carlo d'Angiò.
Infatti Carlo d'Angiò, pallido imitatore di Rodolfo in Germania e di S. Luigi in Francia, chiamato da Urbano IV per soffocare la rivoluzione delle due sètte, dopo lunghe trattative nelle quali i pontefici tentano di ridurlo a semplice vassallo della chiesa, giunge a Roma per conquistare il reame delle due Sicilie. Una terribile reazione guelfa lo sostiene contro Manfredi, facilitandogli la conquista che si compie con tutti i furori delle sètte. Palermo detronizzata soccombe a Napoli, nuova capitale; i francesi si sovrappongono come gli antichi normanni, i ghibellini sconfitti, dispersi, trucidati a migliaia diventano così deboli che il tragico tentativo di Corradino per riafferrare la corona sveva non fa che raddoppiare la loro disfatta. La vittoria guelfa propaga per tutta l'Italia, mentre il papa, indarno superbo di esserne l'arbitro supremo per aver chiamato Carlo d'Angiò a limitare il trionfo ghibellino, prosegue invano nel sogno di podestà imperiale. La Toscana, tutta ghibellina nel 1262, è tutta guelfa nel 1270; ogni città è insanguinata, diroccata, incendiata. Le espulsioni e i ritorni accumulano in pochi anni le tragedie di molti secoli, poichè la guerra guelfo-ghibellina infuria fra quella municipale e l'altra dei castelli. Ma le città, inceppanti il moto dell'èra consolare, lasciano ora circolare la corrente della nuova vita: la libertà, monopolio sotto il vescovo, i consoli e i podestà, si è estesa giù nelle arti e nei mestieri della plebe. Colle vecchie famiglie sono svaniti molti antichi pregiudizi, gli odii viventi hanno assorbito gli odii regi, generazioni progressive sono succedute alle generazioni granitiche dei primi tempi. L'Italia rozza e grossolana dei barbari è oramai splendida e rumorosa, le sue chiese sono ricamate nel marmo, sulle fronti de' suoi minacciosi palazzi balenano già i sorrisi degli ornati. I suoi feroci partigiani hanno modi e cultura di cavalieri; alcuni parlano il bel provenzale di Carlo d'Angiò, altri il delizioso italiano di Federico II. Dante, Petrarca, Boccaccio, il primo ghibellino, il secondo guelfo, il terzo imparziale, stanno per riassumere nell'incomparabile originalità dei propri capolavori la varietà feconda di quest'epoca ingrassata di lagrime e di sangue, nella quale la frenesia della vita vince il delirio della morte. L'orrore di tante battaglie è così necessario che le cronache anzichè esprimerlo sembrano economizzare quei lamenti, onde i futuri storici fuorviati da idee posteriori saranno prodighi. Le due tradizioni contradittorie dei guelfi e dei ghibellini, uscendo dai sogni mitologici e dalle etimologie infantili, si precisano e si elevano: questi si assimilano la causa dei longobardi contro i pontefici, dei conti contro i vescovi, dei castellani contro i mercanti, della casa dei Weibelingen contro la chiesa. Per essi l'imperatore è libertà sopra tutti e contro tutti, d'opera e di pensiero, capace di anteporre un astrologo ad un vescovo, Averroe al Vangelo, distinguendo gli uomini come la natura in forti e in deboli, in grandi e piccoli, coordinandoli colle gerarchie che consacrano nelle differenze sociali le disuguaglianze del valore personale. Ma i guelfi, imperiali quanto i ghibellini colla dinastia dei Welfi, oppongono loro l'eroismo secolare dei pontefici che vincono la barbarie longobarda, dei vescovi che limitano la tirannide dei conti, di Gregorio VII che sottomette l'impero, di Alessandro III capo della lega lombarda che vince l'imperatore, di un progresso sempre romano che opponeva il diritto di Giustiniano alle legislazioni barbariche, la propaganda delle conversioni alle invasioni, l'uguaglianza di tutti alla libertà di pochi, l'emancipazione del comune all'indipendenza eslege del feudo.
Dopo trenta o quarant'anni di carneficine, dal 1240 al 1280, la rivoluzione guelfo-ghibellina non è ancora stremata. Attraverso azioni e reazioni incalcolabili l'armonia del sistema ha migliorato senza mutarsi; le città militari sono ancora ghibelline. Aquila, Benevento, Mantova, Forlì, Verona, il Monferrato, Pavia, Asti, Lodi, Pistoia, Arezzo, Siena, Genova, incrollabili sulle proprie basi, proseguono la lotta colla tenacità di un odio reso malleabile da una perfidia politica capace di raggiungere la sapienza; mentre dopo sedici anni di guerra civile e cinque papi invano imparziali e tre interregni, Roma trascina finalmente con Nicolò III il papato nel campo ghibellino contro le altre città romane guelfe; e guerre e rivoluzioni sembrano non dare ancora risultati. Infatti sotto il governo del capitano del popolo e l'amministrazione del podestà, lotta e scambio di partiti sono così disordinatamente rapidi da non potersene cogliere il frutto: bisogna quindi che la guerra, diventata stato normale della vita, atteggi colle proprie forme e discipline i governi perchè la vittoria dì una parte diventi davvero proficua, e la superstite energia dei vinti si canalizzi attraverso l'opera dei vincitori, fecondandola.
I tiranni.
Dal crescere della rivoluzione guelfo-ghibellina il capitano del popolo, assorbendo anche le funzioni del podestà, si muta in tiranno. Come capo e generale del partito, mentre la guerra politica e militare è più furibonda, questi sorge dalla vittoria per organizzarla: preterisce le procedure, viola i diritti, oltrepassa le sciocche pacificazioni predicate dai monaci, disciplina la milizia, riordina il governo colle idee della propria, parte togliendo che il suo contenuto storico si consumi in inutili tentativi. Le rivincite del partito sconfitto diventano così più tarde e difficili. Ogni idea ha tempo di maturarsi, e lo deve per vincere. La vecchia libertà municipale, troppo precocemente simile all'indipendenza individuale di noi moderni, svanisce; i consigli diventano corte o senato del tiranno, che nominandone i membri vi domina le votazioni. Alla testa del proprio partito e al disopra del partito vinto, il nuovo tiranno limita col proprio interesse le feroci rappresaglie della vittoria e mette modo agli odii, ordine alle vendette; condannato ad essere contemporaneamente amato, odiato e temuto, favorisce la plebe e frena il popolo, mentre la regolarità da lui imposta al disordine permanente della guerra asseconda tutti i lavori, compensando nella coscienza dei più la violazione di quasi tutti i diritti.
D'altronde la guerra municipale, che involge la guerra guelfo-ghibellina, giustifica ogni arbitrio del tiranno.
Difendendo la città colle forze meglio organizzate della propria parte e costringendo quella avversa ad allearsi colle città nemiche, questi legittima l'assolutismo delle proprie funzioni coll'assicurare con più vere alleanze e con più formidabili colpi l'avvenire della patria. La tirannia come unità diventa ragione di vittoria: i comuni, dibattentisi ancora nelle convulsioni della prima lotta guelfo-ghibellina, non possono quindi resistere a quelli, che giunti alla seconda fase posseggono nel tiranno un generale ed un ministro costretto a non sbagliare mai sotto pena di perdere se stesso, il suo partito e la sua patria. La rivalità delle grandi famiglie, le insurrezioni subitanee, gli accidenti drammatici, onde prima era resa impossibile ogni vera combinazione politica e militare, assoggettati ora alla necessità del tiranno, si assettano secondo la propria importanza nel partito senza frangerlo; la fatalità del quale, più evidente nell'unicità del capo, prepara gli spiriti a quel senso misterioso di abile solidarietà e di libera sudditanza alla legge necessaria a formare il carattere del cittadino moderno. Ma tali sentimenti e idee non sono ancora che rudimentali: il tiranno forzato a meritare la classicità del proprio nome, o arrivando al potere o mantenendovisi coi supplizi, non può nemmeno garantirvisi fra passioni ancora troppo selvaggie e una coscienza publica troppo incerta. Quindi, superbo come un vincitore e implacabile come un vinto, perfido ed eroico, guelfo col popolo e ghibellino colla plebe, dovrà consumarsi nell'impossibilità d'impadronirsi di ogni comando; mentre l'orrore della guerra, dilatando la sua vita sino alle proporzioni di un dramma fantastico, la sottoporrà al ritmo disperato di tutte le cadute e di tutte le espulsioni.
L'avvicendamento dei tiranni, ammirabile di precisione a Milano nel duello dei Visconti coi Torriani, comincia in ogni città secondo le sorti e le leggi della guerra, a Rimini fra Parcitade e Malatesta, a Ravenna fra i Polentani e i Traversari, a Ferrara tra Azzo d'Este e Torelli Salinguerra, a Treviso fra i Camino e i Romano, favorendo una democrazia dispotica, nella quale si conservano le vecchie cariche e i vecchi nomi. Le funzioni politiche sono guadagnate dalle nuove dinastie, gli uffici amministrativi meglio distinti e coordinati diventano invece sempre più impersonali a servizio del popolo e della plebe cresciuta.
Nelle città militari come Mantova, Verona, Urbino, Pavia, la scena è anche più cupa perchè meno feconda la vita. Pisa, già sconfitta da Genova, prepara nella tragedia del conte Ugolino il tema forse al più tragico fra i canti di Dante, rivelando in un solo fatto lo spaventevole segreto di tutto un secolo, giacchè, tradita dalla vanità del conte Ugolino, non può essere salvata nemmeno dalla severità del suo successore Guido da Montefeltro: Genova si alza raggiante sul mare coprendolo di navi, inghirlandandolo di colonie e sfidando in Venezia un'altra rivale ben altrimenti grande e poderosa. Invece Firenze, ancora atteggiata a repubblica, è divisa come Perugia, Siena, Parma, Bologna fra comune e popolo, subisce due statuti, suona due campane tiene due consigli. Poichè il dualismo delle sètte paralizzando lo sviluppo della sua vita la rende inferiore alle città rivali. Giano della Bella tenta una rivoluzione contro i grandi, che farebbe di lui un tiranno plebeo; ma l'astuzia dei nobili lo rovescia, improvvisando invece l'ignobile tirannia del podestà Monfiorito da Padova senza riparare a nessuno inconveniente della vecchia libertà consolare. Il disordine della legislazione è tale nelle città libere, e l'indipendenza dei cittadini belligeranti così violenta, che una più alta tirannia diviene il più urgente dei bisogni e il solo mezzo di progresso. Le assemblee republicane vi si tengono in armi; la gelosia spaventata del popolo rinnova i consoli ogni trimestre e li imprigiona, li rende invisibili per mantenerli incorrotti; la penalità esagera il taglione e colpisce i parenti del reo; la clientela dei grandi è cangiata in compagnia di armati e la loro insolenza diviene tanto facile, che si debbono dare cauzioni al popolo per danni non ancora commessi. Così Brescia e Piacenza non sapendo crearsi un tiranno nominano Carlo d'Angiò, e pacificate dalla sua pressione svolgono le proprie dinastie.
Nelle regioni feudali la tirannia procede con minori tragedie ma più scarsi benefizi, perchè nella storia il risultato di una contraddizione è sempre in ragione diretta della sua vastità e della sua durata. Il Monferrato, invaso dai Milanesi, salva la propria indipendenza, portando alla tirannia il figlio di Guglielmo IV Spadalunga caduto prigioniero di Alessandria; la casa di Savoia, non potendo assurgere all'unità della tirannia per l'inconciliabile dualismo de' suoi due governi di Piemonte e di Savoia, si spezza in due tirannie; mentre nelle due Sicilie i Vespri rompono l'unità francese di Napoli cancellando per metà il lavoro di Carlo d'Angiò colla resurrezione di Palermo sotto una dinastia ghibellina ed aragonese; e la grande famiglia dei Colonna, forte nella tradizione ghibellina del popolo romano, lotta di tirannia con Bonifacio VIII, equivoco temperamento egli stesso di settario e di tiranno.
Bonifacio VIII e Enrico VII di Lussemburgo.
Questa loro guerra, propagandosi a tutta l'Italia vi determina un supremo tentativo contro il progresso, rappresentato dai tiranni sull'atroce anarchia guelfo-ghibellina. Bonifacio VIII trascinato dalla ingovernabile molteplicità delle proprie macchinazioni, dopo aver chiamato Carlo di Valois alla conquista della Sicilia diventata aragonese e ghibellina, assale l'Aragona colla Francia, ma Giovanni da Procida, il grande cospiratore, e Ruggero Lauria, il grande ammiraglio, riparano tutte le debolezze della casa di Aragona mantenendole la Sicilia contro Napoli e Roma. Pisa evita la reazione nominando con satanica malizia Bonifacio stesso a proprio tiranno, Genova resiste collo schiacciare inesorabilmente tutti i guelfi che le rientrano, mentre i Torriani invece riconquistano Milano, e in tutte le altre città la reazione accelera il ritmo delle espulsioni senza profitto del pontefice, spaventato egli medesimo dalle catastrofi settarie della sua guerra ai tiranni.
In questa nuova crisi le due sètte si suddividono in neo-guelfi e neo-ghibellini, o in guelfi bianchi e guelfi neri, così che l'intreccio dei partiti confonde l'esattezza dei cronisti ed offusca le idee degli storici. Alberto Scotti a Piacenza, Giberto Correggio a Parma, Corso Donati a Firenze, Maghinardo di Susinana e Uguccione della Faggiola grandeggiano fra le tenebre e i lampi di questo temporale politico, che sconvolge tutte le città per sostituirvi la tirannia di un forte a quella di un debole. Se nella guerra fra i Colonna e Bonifacio VIII la vittoria resta a quest'ultimo per l'insidioso consiglio di Guido da Montefeltro, la rivincita di Sciarra, che al soldo del re francese arresta e malmena in Anagni il papa vincitore, pareggia fra loro il conto; quindi l'avvelenamento di Benedetto IX perpetrato dai Colonna e la fuga di Clemente V in Avignone, feudo del re di Napoli, suo vassallo, emancipano finalmente Roma e guarantiscono il trionfo alla rivoluzione dei tiranni.
Siamo al 1305, il secolo che resterà classico nella letteratura come aurora del mondo moderno. Cinque anni dopo l'esilio del pontefice almeno venti città sono passate dai guelfi ai ghibellini che abbondano di guerrieri, di capitani, di tiranni, di cronisti, di filosofi. Uguccione è dittatore a Pisa, Federico d'Aragona liberatore in Sicilia, Spinola sorpassa i Doria a Genova, Dino Compagni, oggi negato, è il primo cronista del tempo; Cecco d'Ascoli inizia con Pietro d'Abano la rivolta filosofica nella quale morirà Giordano Bruno e ne esperimenta il rogo; la poesia canta le stragi come un'allodola alta nei cieli sopra un campo di battaglia, e insegna le canzoni a Guido Cavalcanti, il sonetto a Guittone, educa in Cino da Pistoia il maestro di Petrarca, accarezza in Jacopone da Todi un'originalità popolaresca, bigotta e ribelle, eroica e gioviale, apprende a Marco Polo la nostalgia dell'Oriente sconosciuto, intanto che Dante, cacciato da Firenze alla discesa di Carlo di Valois, erra pallido e tetro per le terre d'Italia raccogliendo il gemito dei feriti fra l'urlo dei vincitori, avvelenandosi alla coppa di tutti i tradimenti, trasalendo di gioia infantile a tutte le bellezze della natura, fremendo come un eroe e declamando come un profeta a tutte le catastrofi della rivoluzione, che gli nascondono col polverio delle rovine i profili dell'epoca nuova. Ma quantunque tutta la tempesta medioevale infurii nel suo spirito e il suo pensiero abbracci tutto lo scibile del tempo, egli vi è come uno sconosciuto. Non arriva e non può arrivare all'idea d'una Italia, ma ne fissa nullameno l'eloquio volgare; sogna inevitabilmente l'impero, e in questo sogno sembra intravedere qualche lineamento dello stato moderno; è il più grande cittadino di tutti i secoli, e la sua patria non è ancora che la sua città. L'esilio, facendolo nomade per tutta la vita, lo rende italiano, e dà ai suoi vizi di partigiano l'onnipotenza di una passione, che Eschilo non avrebbe indovinato e Shakespeare non potrà poi sorpassare. Quindi incomprensibile ed incompreso riunisce nel proprio genio e nel proprio poema tutta la natura e tutta la storia, tutto il mondo e tutto Dio, per creare la lingua più bella, la poesia più profonda, la visione più fantastica e più reale in un secolo che resterà alla testa di tutti gli altri come Cesare e Napoleone sulla fronte dei loro eserciti.
E al suo grido di ghibellino invocante un'altra reazione imperiale, che schiacciando i tumulti di quella rivoluzione dei tiranni permetta alla neonata civiltà di fecondare il mondo, Arrigo VII, nuovo imperatore di Germania, scende le Alpi con attardata e magnanima ingenuità. Secondo l'idea del podestà, da lui rappresentato nelle nove città del Lussemburgo e nell'impero, ricusa persino di pronunciare i nomi di guelfo e di ghibellino, valuta i tiranni come avventurieri che la sua presenza basterà a mettere in fuga, giudica quella guerra civile una demenza di molti e una ribalderia di pochi intesi ad essere capitani per mutarsi in padroni. Il segreto dell'epoca gli sfugge insospettato.
Ma la sua discesa provoca invece una reazione ghibellina nella quale Matteo Visconti sopprimendo Guido Torriani e Antonio Fisiraga, tiranno di Lodi, sostituisce la propria alla loro tirannia, mentre altri guelfi, profondamente abili, come Alberto Scotto di Piacenza, sfuggono la catastrofe secondandola, e ghibellini terribili come Cangrande della Scala e Bonacolsi di Mantova proseguono nell'opera propria senza degnare Arrigo VII nemmeno di un omaggio. Perciò la sua opera si esplica in una perpetua contraddizione che lo trascina d'inganno in inganno, attirandolo cogli applausi, stordendolo cogli abbandoni, inceppandolo colle resistenze, evitando sempre i suoi disegni colla perfidia, finchè la reazione torcendosi contro di lui lo costringe ad uscire dall'imparzialità per difendersi coll'appoggio di un partito.
Tutte le città sulle quali contava smentono le sue previsioni e rosseggiano di stragi quasi irridendo alla sua pacificazione di podestà supremo; così che giungendo a Roma non ha più che Genova e Pisa al proprio seguito, e anche queste solo per odio del tiranno guelfo di Napoli, cui molte città come Faenza e Firenze si davano per sfuggire alla reazione ghibellina.
Allora Arrigo VII, aggirato dai Colonna, dagli Orsini, dal re di Napoli, dal papa procrastinante la sua incoronazione, diventa il giocattolo di tutta l'Italia che lo minaccia, lo circuisce, lo insegue, assassina i suoi partigiani, sconfigge i suoi soldati, dissipa il ricordo della sua opera più presto ancora che non cancelli l'orma del suo piede fuggente, e forse gli fa dare un'ostia guelfa avvelenata dai monaci di Buonconvento. Così finiva la reazione e l'eroe invocato da Dante, egualmente vinto dai tiranni che aveva dovuto sanzionare come da quelli che aveva forzatamente nominati, dal re di Napoli che per lui diventa il protettore guelfo di tutti gli stati incapaci di bastare a se stessi, dal papa che lo inganna e lo accusa, dall'Italia che aveva bisogno dei propri tiranni per consumare le proprie sètte ed elaborare le proprie tirannie.
Nè il papa, nè Roberto di Napoli possono quindi profittare delle sue sconfitte, o ritentando la sua opera evitarne gli errori.
Dopo di lui la rivoluzione vittoriosa comincia a discutere la propria vittoria più in alto, entro l'infrangibile dualità della chiesa e dell'impero, interpretando l'uno colle idee ghibelline dei giureconsulti e l'altra colle idee guelfe dei teologi. La discussione rivela già una emancipazione conquistata nella storia contro la chiesa e l'impero dalle nuove forme politiche, sebbene ancora dominate dall'idealità delle due astrazioni sempre identiche malgrado la loro antitesi. Il papato di san Tommaso, di Egidio Colonna e di Tolomeo da Lucca nel De regimine principum è lo stesso impero di Dante nel De monarchia, entrambi concepiti in una unità che discende nella storia invece di sorgerne, realizzati da Dio con un sistema del quale la sua rivelazione ci ha affidata la chiave. Se il papato è religioso e l'impero laico, il loro fondamento è identico per l'unità del fondatore; le loro differenze non arrivano a produrre due fisonomie nella dualità dei loro assolutismi. Invano Dante crede di sottrarre l'impero alla supremazia del papato invocando la sua anteriorità e le parole di Cristo: il mio regno non è di questo mondo! L'impero rimane sempre un concetto monoteistico, ieratico, che toglie ogni libertà alla storia e alla vita. Più assurdo del papato, che in possesso di una rivelazione continua potrebbe dirigere l'una e l'altra sul binario delle proprie leggi, deve soccombere primo nella lotta; e infatti Dante abbandona presto la polemica filosofica per trasportarla nel poema dove scolpisce nel Dio cristiano un imperatore romano e un tiranno medioevale, egualmente impassibile nelle condanne e raffinato nei tormenti. Il suo Inferno è il riflesso dell'epoca: i dannati vi sentono ancora le passioni della vita, i loro peccati dispaiono nell'energia del racconto che li evoca, onde ne rimangono solamente le pene, nelle quali il paziente è spesso così superiore da umiliare persino Dio. Tutta la politica medioevale segue il poeta all'Inferno, in Purgatorio, in Paradiso; la sua collera ha le vampe solfuree delle bolgie, la sua voce scoppia come un fulmine, i suoi morti sono doppiamente vivi, i suoi aneddoti sono tante tragedie condensate, come il suo poema è la sintesi del mondo. Ma accettando la nuova tirannia ghibellina di Arrigo VII e delle corti di Verona e di Ravenna, egli accoglie dal guelfismo le più belle figure in Paradiso, perchè nella sua anima immensa la libertà non può separarsi dalla democrazia, e nel suo istinto infallibile di poeta la realtà necessariamente tirannica del secolo non contradice alla cordiale idealità di san Francesco d'Assisi.
Capitolo Terzo. Le Signorie
Loro primi atteggiamenti.
Tutte le idee e le forme delle rivoluzioni anteriori attendono la consumazione delle due sètte per concentrarsi in una più alta creazione politica. Il comune e la città sono creati: la loro legislazione ha disegnato quasi tutte le funzioni necessarie ad uno stato moderno; le attitudini civili e guerresche esercitate da una lotta secolare hanno acquistato l'infrangibile pieghevolezza dell'acciaio e plasmato il carattere dell'uomo nuovo. Naturalmente tutti non sono ancora cittadini nella propria città, ma nessun cittadino vi ha più il carattere dell'antico civis romanus. L'impero e la chiesa, che sembravano soffocare in una parentesi mondiale l'infanzia di ogni stato, ne sono stati l'involucro protettore; la libertà, procedendo per emancipazioni graduali, per svolte e giravolte, ha superato ogni ostacolo della storia fecondando tutti i germi della vita. La guerra ai castelli, la guerra municipale, la guerra civile debbono conchiudersi in una vittoria collettiva e superiore, per la quale le città vincitrici si mutino in capitali, i maggiori comuni in stati, i più forti tiranni in signori. Se quelli erano stati l'espressione di una inevitabile supremazia militare rappresentante la violenza dell'ordine nella irrefrenabilità del disordine, questi saranno i mandatari di una sovranità senza titolo, data e sostenuta da una classe di cittadini cresciuta tra le guerre delle due sètte.
La imminente signoria non sarà nè feudale, nè monarchica, nè pontificia, nè imperiale; questi principii fermenteranno ancora nella sua forma originale mentre tutte le altre ne maschereranno, per meglio proteggerla, la fisonomia; però la sua spontaneità italiana resterà come una delle nostre glorie maggiori nella storia universale. Con essa si chiude il medio evo. La signoria è già uno stato moderno creato dalla storia nella storia con le evoluzioni combinate del regno, dei vescovi, dei consoli, dei podestà e dei tiranni. Non ha legittimità di titoli, e quelli che accatta sono tutto al più abili ipocrisie della sua politica; non si conosce confini, dinastie, eserciti, conquiste. Se comincia quasi sempre con una tirannia, questo processo non le è obbligatorio, perchè il suo carattere deriva da una pacificazione delle sètte e da una dedizione che tutto il comune le fa delle proprie franchigie. Un misterioso accordo stringe popolo e signore: il tiranno era il settario più forte, il signore sarà più forte di tutti i settarii. Nessuna garanzia contro di lui che è la garanzia suprema contro la violenza anarchica; il governo diventa personale per essere più spedito; la democrazia accenna alla monarchia per consolidarsi; non più parlamenti che provocherebbero sedizioni, ma un uomo solo che faccia tutto nell'interesse di tutti facendo il proprio. Essendo combattuto dagli avanzi settari, non potrà aggravarsi sul popolo, e come sottomesso ai poteri astratti della chiesa e dell'impero mutarsi in re; d'altronde l'esiguità e la rivalità di tutti i comuni lo impedirebbero. Invece compirà la signoria della città vincente sulle inferiori, annullando nella propria imparzialità le antiche differenze e disegnando i contorni del nuovo stato. Così la nuova pace soddisfa certamente tutti i bisogni, provoca tutte le attività, salva tutti gli orgogli.
Il signore, splendido, forte, abile, dotto, generale, ministro, sovrano, esprime il nuovo popolo da lui assimilato nel proprio spirito insieme all'anima degli antichi feudatari, al carattere dei primi borghesi e al cuore della plebe. Ormai le famiglie non sono più tanti nuclei nemici in un centro infrangibile; il valore dell'individuo comincia a diventare unità di misura sociale, e il valore non è più solamente guerresco. Le idee si dilatano; la signoria slargandosi oltre la città aumenta la patria; il signore non è più il capo della propria parte o dell'avversa, o il podestà straniero, servo provvisorio incaricato di funzioni provvisorie sovrane, ma un rettore che deve comprendere, soddisfare, eseguire tutto. Il popolo è talmente sicuro di se stesso che non si premunisce più contro di lui come contro i consoli e il podestà. Nella politica del signore, che sostituisce il tradimento alla guerra civile, si bada solo al risultato, perchè ogni ingrandimento di lui diventa grandezza della città. I partigiani piegano e si mutano in cortigiani o in sicari, al palazzo di città ne succede un altro, non ancora reggia e nullameno modello insuperato di tutte le reggie future.
Così il signore, dominando la città, l'emancipa dal papa e dall'imperatore, cui non chiede più l'investitura e dei quali non tiene più conto nel legare ai discendenti la propria sovranità come un patrimonio qualunque. Invano i partiti non ben morti insorgono con moti di agonia per assassinare il signore ed impedire l'assetto della sua dinastia; il tradimento settario non arriva all'efficacia del tradimento di stato, e la successione prosegue, la dinastia si stabilisce, la signoria si assicura. La sua necessità deriva dall'altra di una monarchia pacificamente progressiva che rassicuri il commercio, l'industria, l'agricoltura, le arti e le scienze effervescenti nella febbre di creare tutto un mondo. Il signore guarantisce la pace del lavoro per tutti i capolavori imminenti. Il ritorno alla republica è impossibile; se il signore soccombe ad una cospirazione, il cospiratore dovrà cangiarsi in signore; se la sua discendenza troppo numerosa richiamasse i pericoli della passata anarchia, il signore salverà la società scannando coll'efferatezza dei vecchi sicari tutta la propria famiglia, perchè le leggi della storia diverse da quelle della morale sono anche più inflessibili.
La guerra municipale diventa regionale quando le città di secondo ordine cadono sotto quelle di primo, e le altre incapaci di giungere alla signoria soccombono al signore più prossimo, le militari alle romane, atteggiando una geografia politica ben diversa da quella dell'antichità e del medio evo. La nuova dominazione unifica senza il soffocamento inevitabile in ogni altra dominazione anteriore; gli stati, che già si disegnano e non possono ancora consolidarsi, sono tirannici nella capitale e liberali nelle altre città, industriali nelle tendenze e militari nelle tradizioni, costretti alla guerra per l'interesse medesimo della pace e nullameno poco atti a mantenerne gli eserciti necessari. Questa suprema impotenza diventerà poi causa della loro rovina.
A Milano la signoria incominciata col tradimento di Matteo Visconti impone tosto agli emigrati di rientrare, proibisce alle famiglie rivali ogni guerra intestina, ordina alle truppe di sterminare i briganti, ai partiti di non più spianare le case dei proscritti. Quindi, pacificata all'interno, la forte metropoli conquista Piacenza, Bergamo, Alessandria, Tortona, Pavia, ed alleandosi con altre signorie guelfe o ghibelline diventa il centro di una lega di signori come nei secoli scorsi lo era stata per quella dei vescovi e dei consoli. Cangrande della Scala dietro l'esempio di Matteo Visconti rifiuta il titolo di capitano del popolo per sottomettere invece il parlamento ed annullare republica e tirannia in una signoria perpetua, che finge tenere dall'imperatore; a Padova la famiglia dei Carrara, rappresentanti il partito medio sorto tra i tiranni neo-guelfi e i proscritti ghibellini, s'impadronisce della repubblica; Ponzino Ponzoni a Cremona, Cecco Ordelaffi a Forlì, Francesco Manfredi a Faenza, Rinaldo d'Este a Ferrara, Alberghetto Chiarelli a Fabriano, Giovanni Gabrielli a Gubbio, i Malatesta a Rimini, i Vistarini a Lodi, i Trinci a Foligno, i Tarlati ad Arezzo, senza parlare dei minori, improvvisano altrettante dinastie.
Nelle regioni feudali la signoria si svolge regolarmente aiutata dall'unità militare e dalla successione dinastica. Così il Monferrato si acqueta facilmente nella signoria di Teodoro Paleologo e di Giovanni II; la casa di Savoia, sempre a due facce, guelfa in Piemonte e ghibellina in Savoia, accorda le proprie differenze lasciando a Amedeo V di Chambéry la supremazia sopra Filippo signore di Torino per meglio combinare i tradimenti di entrambi e preparare, slargandolo, l'ancor piccolo stato al grande intervento savoiardo nella politica italiana.
Mentre Pisa e Lucca si combattono nelle estreme convulsioni della guerra guelfo-ghibellina con Uguccione della Faggiuola e Castruccio Castracani, i due più grandi soldati dell'epoca e tiranni e signori al tempo stesso, Firenze invece dorme un sonno agitato sotto la tirannia guelfa di Roberto re di Napoli da lei invocato al principio del secolo per sottrarsi alla reazione di Enrico VII di Lussemburgo. Genova, divenuta guelfa nello strazio degli ultimi furori partigiani, per resistere ai propri emigrati si sottopone alla medesima tirannia napoletana; tutte le altre republiche agonizzano nelle stragi settarie, che i tiranni ormai sorpassati aumentano invece d'impedire. Napoli stessa, incaricata dalla chiesa di proteggere il guelfismo contro l'ultima reazione feudale, non presenta più nella storia che il mirabile fenomeno di una grande influenza senza risultati. La Sicilia, la Corsica, la Sardegna, grande triade insulare d'Italia, non ricevono le scosse politiche del continente che indebolite per tutta la distanza delle acque: la Sicilia è ancora libera contro Napoli cogli Aragonesi; la Corsica dominata ma non per anco riunita dai genovesi; la Sardegna, sempre litigata fra pisani e genovesi e concessa ultimamente da Bonifazio VIII a Giacomo d'Aragona, pare un pomo destinato a riaccendere le discordie, se lo sfinimento delle parti accennasse a placarle.
Ma l'avvenimento dei signori, legalizzando tutte le rivoluzioni antecedenti ed affermando i primi articoli del diritto pubblico moderno, non può passare senza reazione. Tutta l'abilità della diplomazia signorile, immorale sino all'ingenuità e intrepida oltre ogni delitto, non basta ad evitare la discussione pregiudiziale del nuovo principio politico, che consacra in qualunque minimo stato il diritto all'autonomia. La Signoria, imperiale quanto gli antichi podestà e più violenta degli ultimi tiranni contro le sètte nell'interesse della nuova classe popolare cresciuta fra le loro lotte, irrita naturalmente troppe passioni e sacrifica troppe persone perchè non si alzino appelli contro di essa ai due supremi poteri costituzionali della chiesa e dell'impero.
Roberto di Napoli e Bertrando del Poggetto.
Primi alla protesta sono i guelfi maggiormente mortificati dalle grosse signorie ghibelline. Roberto di Napoli loro capo, nel 1320, forzato d'indietreggiare su quasi tutti i punti, invoca Giovanni XXII, suo ospite nel feudo di Avignone, e gli persuade di mandare in Italia il figlio Bertrando del Poggetto a combattere le signorie dei Visconti, degli Scaligeri, dei Bonacolsi e del re di Sicilia coll'aiuto di Filippo di Valois e di Enrico d'Austria. Ma la nuova crociata si limita come sempre alle forze vive dei guelfi italiani, dei fiorentini, dei genovesi, dei bolognesi, degli Arcelli di Parma, dei Cavalcabò di Cremona, dei Lando di Piacenza, tutti egualmente minacciati e destinati a perire sotto le signorie.
La lotta terribile e varia non fa che eccitare le forze della rivoluzione e disegnarne le maggiori figure. Matteo Visconti vi spiega la duttile infrangibilità di un genio che si salva sempre dalla tragedia nella commedia, servendosi della stessa religione nemica e fecondando le vittorie della spada colla corruzione della diplomazia; suo figlio Galeazzo soccombe un istante ma per rialzarsi più forte a riprendere le proprie conquiste, mentre Cangrande della Scala circondato da ventidue capi italiani spodestati combatte Treviso, Padova, Aquileja, l'Austria, minaccia Bologna, soffoca Vicenza. A Rimini Malatestino, rovesciato per un giorno dalla reazione di Ramberto, ne trionfa e scanna poco dopo l'avversario col coltello; Castruccio Castracani, signore di Lucca, moltiplica le vittorie contro i guelfi e accenna a mutare la propria tirannide in signoria; Ostasio Polenta si fa signore di Ravenna con un fratricidio, Silvestro Gatti di Viterbo con una strage, Filippo Tedici con una serie di perfidie, che lo rendono singolare in un'epoca, nella quale le più tragiche infamie e i più mostruosi tradimenti erano comuni. Quindi le signorie si espandono come galvanizzate dalla reazione: gli Appigliaterra si impossessano di Cingoli, i Tarlati di Città di Castello, i Malatesta di Sant'Arcangelo, Cangrande di Belluno e di Feltre, i Visconti di Vercelli e di Cremona, i Bunacolsi di Modena. Altrove il Monferrato si conserva impassibile, la casa di Savoia vigila nell'immobilità, quella d'Este nella sicurezza, mentre le città incapaci di fondare signorie si lacerano in stragi settarie riconfermando così la legittimità della nuova rivoluzione. Infatti San Sepolcro, Urbino, Osimo, Iesi, Recanati, Fermo, Rieti, Spoleto, Assisi, Orvieto s'insanguinano e s'incendiano con ferocia maggiore di ogni demenza; Pisa, caduta in agonia, perde la Sardegna; Firenze, attardata, cede sotto la protezione napoletana alla tirannia provvisoria del duca d'Atene; Genova sembra esaurirsi nell'anarchia di quello stesso patronato che paralizza Alessandria, Tortona, Brescia. Ma la conquista pontificia non è migliore del patronato napoletano. Le città, che vi si abbandonano, sono o republiche colpite da marasma come Firenze e Genova, o città ancora dibattentisi nelle convulsioni delle sètte e quindi impotenti a comporsi altro governo come Piacenza, Parma, Reggio, Bologna, Cesena.
La reazione di Giovanni XXII e di Bertrando del Poggetto fallisce quindi il proprio scopo. Nessuna delle signorie combattute vi soccombe, molte invece vi si fondano e prosperano: Filippo di Valois, Enrico d'Austria e Enrico di Fiandra compaiono appena nella lotta; tutta l'energia, l'originalità e il genio brillano nei personaggi della rivoluzione. Matteo Visconti è il suo politico più viscido, Cangrande il più granitico, Filippo Tedici il più raccapricciante; Castruccio Castracani vi si mostra degno d'un impero, Marco Visconti di una corona; ovunque si presenta un signore si è sicuri che la sua apparizione copre un dramma degno di Shakespeare e ha risolti problemi, dei quali le formole basteranno più tardi ad infamare l'ingegno di Machiavelli. Ma la fede dei popoli e la loro prosperità seguono il signore; i delitti di questo rappresentano un'economia sui crimini inevitabili dell'anarchia ed un progresso del diritto politico giunto all'autogoverno mediante un segreto accordo fra popolo e signore. La tirannia, le sètte, il podestà, i consoli, tutte le vecchie forme rivoluzionarie colpite da sterilità o da epilessia non possono accogliere la nuova vita politica italiana, della quale è prima necessità mutare i maggiori comuni in stati. Il sogno reazionario di Giovanni XXII di sottomettere l'Italia all'unità guelfa napoletana per dominarla come un vecchio feudo, è peggio che pazzo; l'aspirazione di Cangrande a ritentare l'impresa di Berengario e di Ezzelino appare come una vanità appena giustificata dalla fortuna delle vittorie e dall'energia dell'ingegno; il piccolo dominio improvvisato nelle terre dell'esarcato da Bertrando del Poggetto, figlio del papa, non resisterà all'imminente reazione imperiale contro le signorie.
Lodovico il Bavaro e Giovanni di Boemia.
Infatti le grandi vittorie ottenute dai signori ghibellini contro il re di Napoli e Bertrando del Poggetto sotto le mura di Bologna e di Firenze danno un'impazienza così orgogliosa alla rivoluzione che s'invoca la discesa imperiale di Lodovico il Bavaro per finirla una volta colla insania della crociata pontificia. Ma al pericolo della reazionaria unità guelfa del pontefice e di re Roberto succede l'altro della regia unità ghibellina con Lodovico il Bavaro, fedele alla tradizionale illusione degli imperatori, e la rivoluzione deve neutralizzare con nuovi espedienti politici questo medesimo aiuto supplicato. Quindi i signori s'impettiscono presto contro Lodovico: Cangrande non va alla dieta ghibellina di Trento se non scortato da un esercito, e ne esce sdegnato; se Galeazzo Visconti soccombe da principio alla discesa imperiale invocata contro di lui da Marco e Lodrisio, così che Milano sembra riprecipitare nella anteriore forma republicana colla rivolta simultanea delle città rivali, poco dopo Azzo Visconti la rialza inalberando la bandiera guelfa di Avignone, e il consiglio dei novecento lo proclama signore perpetuo. Cangrande e Mastino, invincibili nella marca di Verona, aumentano le vittorie della loro espansione soggiogando Padova e Treviso; a Mantova Luigi Gonzaga soppianta col più ammirabile tradimento il tiranno Passerino Bonacolsi e fonda la propria dinastia, scrivendo con inimitabile ironia sotto al proprio stemma la parola Fides; e Lodovico il Bavaro deve approvarlo. A Lodi Tremacoldo, un altro servo, imita Luigi Gonzaga contro i Vistarini. Il moto di Lodovico contro i signori fallisce: le signorie restano immobili, il marchese d'Este passa al papa, le città forti resistono, quelle che cedono all'imperatore non ne comprendono l'opera e risentono la sua azione come una crisi di più nelle proprie convulsioni.
Castruccio Castracani, avendolo chiamato per insignorirsi della Toscana, profitta della sua presenza per prendersi Pisa, ma gli lesina i soccorsi e si premunisce contro i suoi possibili tradimenti; cosicchè, alla morte improvvisa del grande capitano, l'imperatore incapace di dominare nella Toscana deve mettere Lucca all'asta; Guido Tarlati, nobile vescovo di Arezzo e modello dei signori, lo insulta; a Roma i Colonna e gli Orsini gli resistono; intanto Firenze conquista quasi silenziosamente Pistoia e Valdelsa; la signoria s'alza a Parma coi Rossi, a Reggio coi Fogliani. L'odio italiano enorme, invisibile, invincibile, circonda, paralizza l'imperatore; tutto gli falla; non può colpire Napoli, abbattere Bertrando del Poggetto, sottomettere la Toscana, domare i grossi signori, affezionarsi i più piccoli; i delitti gli diventano inutili, le vittorie inconcludenti, le disfatte ignominiose, i risultati sempre contrari alle intenzioni e queste a rovescio dei tempi, finchè è costretto ad abbandonare l'Italia satanicamente incomprensibile alla sua intelligenza di tedesco.
Ma il suo abbandono accrescendo il terrore nelle città esposte alle annessioni delle grandi signorie, rinasce con Giovanni di Boemia, figlio di Arrigo VII di Lussemburgo, l'illusione di salvare con altro intervento l'indipendenza delle città destinate a soccombere. Brescia è la prima ad invocare il nuovo podestà germanico; dietro di essa Bergamo, Novara, Vercelli, Pavia, Cremona, Crema, Piacenza, Parma, Modena, Lucca, tutte le città agonizzanti, tutti i tiranni sfiniti si accalcano al seguito di lui. Bertrando del Poggetto regna ancora sulle Romagne per mezzo di vicari, riproducendo a Bologna quella signoria che dovrebbe negare. Ma Giovanni di Boemia, generale e balordo come un soldato, nulla intendendo della vita italiana, protegge i nobili contro i borghesi, gli uomini d'arme contro quelli di commercio, irrita guelfi e repubblicani sino a spingerli sotto le odiate signorie. E allora, avviluppato dai Visconti, dagli Scaligeri, dagli Este, dai Gonzaga, perde tutte le città protette; è battuto, sbertato, annullato. L'espansione delle signorie prorompe, le annessioni si moltiplicano: Milano, Verona, Mantova, Ferrara sorgono come tante capitali di piccoli regni.
In quello improvvisato di Bertrando del Poggetto le rivolte federali e signorili detonano come petardi: Rimini si ribella con Malatesta Guastafamiglia; Ravenna, Cervia e Bertinoro col fratricida Ostasio da Polenta; Imola cogli Alidosi, Forlì cogli Ordelaffi, che s'impossessano di Cesena. Bologna, eccitata da queste ribellioni e tradita nelle speranze di nuova capitale del pontefice, abbindola con Taddeo Pepoli e Brandoligi Gozzatini il terribile legato, lo assedia nella fortezza, lo costringe a capitolare, ad esulare, dissipando come un triste sogno il suo tentativo di regno guelfo.
La rivoluzione, trionfante secondo la parola del Villani nell'accordo dei guelfi e dei ghibellini per abbassare il re di Boemia e il furbo legato, ha contemporaneamente respinto imperatore e papa. Quegli per decisione di Lodovico il Bavaro prenderà d'ora innanzi il titolo d'imperatore prima della consacrazione, e rinunzia alle periodiche discese in Italia, all'intervento diretto colle vecchie teorie ghibelline; questi, capo della chiesa, è così poco sovrano che, espulso da Roma e rifugiato ad Avignone, non intenerisce e non impaura alcuno. Quasi straniero all'Italia, dalla quale Gregorio VII si era alzato minaccioso sull'impero e nella quale Alessandro III aveva sconfitto il più grande degli imperatori, la sua ultima invasione con Bertrando del Poggetto lo ha diminuito alle stesse proporzioni di Enrico di Fiandra e di Giovanni di Boemia. L'avvenimento dei signori non potrà lasciargli che una specie di presidenza decorativa delle loro forze, poichè Marsilio da Padova, araldo del nuovo pensiero, proclama la sovranità del popolo sul principe e la separazione della chiesa dallo stato in nome di una più alta interpretazione del principio cristiano. Il doppio misticismo di S. Tommaso e di Dante dilegua: al lugubre carnevale della chiesa e dell'impero sta per succedere la tragedia ben più vasta e profonda dell'individuo e dello stato.
Trionfo dei signori.
Al disopra di questa tragedia spirituale la prosperità dei signori dispiega dal 1335 al 1358 la propria decorazione. Dopo la ritirata del re Giovanni di Boemia e di Bertrando del Poggetto le signorie s'improvvisano come una commedia dell'arte sui teatri di pressochè tutte le città d'Italia. A Genova l'ispirazione di un cencioso, arrampicatosi sopra un piuolo per arringare la moltitudine, suggerisce trionfalmente il dogado di Simone Boccanegra che, secondo le parole della cronaca, trasferisce l'impero dai nobili al popolo ed opprime le sètte; a Padova, momentaneamente vassalla di Verona, il tradimento dei fratelli Ubertino e Marsilio Carrara contro Alberto della Scala, emancipa la città ricostituendone la signoria; Firenze eseguisce contro il duca di Atene, soldato francese e proconsole napoletano, la rivolta eternata dallo stile di Machiavelli; a Bologna Taddeo Pepoli, schiacciando il proprio alleato Brandoligi Gozzadini, si muta in signore; ad Orvieto Benedetto Buonconti, moltiplicando i tradimenti coll'abilità di Filippo Tedici e le coltellate colla precisione di Benvenuto Cellini, s'impossessa della città; a Pisa morente comanda l'effimera dinastia neo-guelfa dei Gambacorti; a Gubbio Giovanni Gabrielli domina col tradimento e coll'aiuto di Milano; Viterbo ripete con Giovanni Vico ghibellino la signoria di Silvestro Gatti guelfo ucciso da Lodovico il Bavaro; ad Urbino regna Galasso da Montefeltro; su Fermo preme Gentile da Magliano, a Jesi, a Volterra, a Pergola spuntano i Simonetti, i Belforti, Ongaro da Sassoferrato. L'idea della signoria s'impossessa di tutte le regioni italiane, mascherandosi con tutte le forme, servendosi di tutte le illusioni. Qualunque ne sia il governo democratico o aristocratico e per quanto incerta la sua durata, la signoria trionfa come un'avventurosa combinazione dell'imparzialità del podestà e della supremazia del tiranno per favorire con la pace interna lo sviluppo della vita civile. Se derivando da un tradimento e mantenendosi quasi sempre colla perfidia, essa compie ancora molte stragi, queste esigenze storiche non sono l'essenza della sua idea e non tolgono alla coscienza publica di assecondare il signore, giacchè nelle provincie tuttavia in preda all'anarchia guelfo-ghibellina, o sottoposte alla violenta pressione partigiana del tiranno, la vita e la civiltà sembrano ogni giorno decrescere tragicamente.
A Napoli l'imparzialità politica della signoria s'insinua tra le orgie e i tradimenti della regina Giovanna, frivola e feroce così da strangolare il suo primo marito, Andrea d'Ungheria, divenuto troppo presto e troppo imprudentemente ghibellino, e da sposare poco dopo Luigi di Taranto principe guelfo. Quindi perseguitata con orribile processo da Carlo Durazzo, essa deve rifugiarsi presso il papa, cui promette la proprietà di Avignone se la proclami innocente in faccia a tutto il mondo. Il papa acconsente. Allora richiamata dagli stessi errori del suo avversario, che aveva attirato nel regno il brutale Luigi d'Ungheria alla vendetta del fratello Andrea, non ha che aspettare l'assassinio dell'uno e la partita dell'altro per passare come una santa fra le ovazioni del popolo e regnare sull'oppressione simultanea delle due sètte. A Palermo i due partiti si dilacerano anche con maggiore atrocità per calmarsi quasi istantaneamente col truce omicidio dei due massimi capi, il signore di Cimina e il ministro Palici, preparandosi nella pacificazione interna all'imminente signoria di Napoli. In Sardegna il gran giudice di Oristani, dopo aver soppiantato la signoria ghibellina dei pisani colla signoria guelfa degli aragonesi, vorrebbe disfarsi di quest'ultimo coll'aiuto di Genova, ma costretto ad un processo di unificazione regia contro le quattro grandi giudicature di Cagliari, Torres, Gallura e Arborea, è invece sconfitto dalla signoria aragonese, che emancipa tutte le città imperando sopra di esse alla guisa di Verona e Milano.
Ovunque le signorie distruggono le repubbliche, o entrando nella loro forma le forzano ad agire come tante signorie. Asti, la più generosa e vivace città longobarda, si sottomette a Milano. Alessandria, costrutta dalla lega lombarda quale monumento di vittoria, subisce la stessa attrazione. Parma benchè più forte e lontana non può sottrarvisi. In Toscana Pisa e Lucca agonizzano, Siena e Firenze si dilatano e si spiano: se la prima è forse militarmente più forte, la seconda è incomparabilmente più abile. Perugia più feroce arriva sino alla distruzione per assicurarsi la conquista della piccola Bettuna. Dove invece le repubbliche tardano a morire, lo spettacolo delle stragi inutili vi è così pazzo, paragonato alla calma operosa delle città ridotte in signoria, che si direbbe un supremo conato per raggiungere l'imparzialità da queste ottenuta colla forza. Nulla uguaglia lo slancio e lo splendore di Milano; e il Monferrato sempre immobile, la Savoia che si espande, Verona regnante ancora su tante città al disopra di Mantova che sembra dividerla da Ferrara sempre in aumento, Ravenna, Rimini, Perugia, Siena, Firenze, Napoli, Palermo, tutte paiono prese nell'orbita crescente della grossa metropoli lombarda, diventata come il sole di un nuovo sistema politico.
Cola di Rienzi.
A Roma, sempre città universale malgrado la doppia perdita dei papi e degl'imperatori, la signoria si annunzia invece in un nuovo sogno d'impero. Cola di Rienzi, povera figura plebea di notaio, mettendosi con uno sforzo eroico della volontà nel mezzo di tutte le tragedie provocate da quell'anarchia dell'interregno, se ne assimila tutte le grandezze. La cornice costituisce questa volta pressochè tutto il valore del quadro, sul fondo cupo del quale la sua figura brilla un momento nella luce del trionfo. Immaginoso come un trovatore, eloquente quanto un tribuno, colto al paro dei notai di allora che spesso erano letterati e poeti, Cola di Rienzi s'impadronisce della fantasia popolare con una esposizione di quadri simboleggianti lo stato della città, solleva le truppe e occupa il Campidoglio.
La sua azione è così rapida, i suoi primi decreti di pacificazione tanto provvidi che il popolo lo acclama e i baroni lo riveriscono. Ma l'ampiezza della scena turba la mente dell'attore. Voci fatidiche salienti a notte dalle rovine di Roma, come echi o profezie di un impero immortale, impongono alla sua coscienza la fatalità del comando universale passato dagli imperatori ai papi e da questi a tutti i ribelli morti combattendo. Il rogo di Arnaldo da Brescia non aveva potuto bruciare la sua idea. Cola di Rienzi, còlto dalla stessa vertigine di una risurrezione romana, decide di riunire in fascio tutte le rivoluzioni italiche e di metterlo in mano al papa, dominandolo coll'idea di Roma. Non è l'unità italiana, ma una torbida visione romana che esercita il tribuno. La terribile unità cattolica di Gregorio VII, il primato italico di Alessandro III capo della lega lombarda, le pretensioni dominatrici di Bonifazio VIII, sono estranee alla sua idea. Roma sola ne è la causa, e la signoria, che trionfa in Italia, il processo. Cola di Rienzi sarebbe così il signore dei signori, come Roma è la città delle città. La sua idea non acquista coscienza di se medesima misurandosi colla realtà, ma luminosa e colorata come un sogno si presenta colla forma fantasmagorica di un concilio italiano, al quale tutte le città debbono mandare due deputati e un giureconsulto.
Si tratterebbe dunque di una federazione politica italiana contro gli interventi e le dominazioni estere, ma il modo sultanico d'intimazione usato dal tribuno di Roma indica subito che siamo ancora nel sogno. Nullameno l'Italia risponde a quest'invito, che implica la sua liberazione dai due poteri costituzionali del papato e dell'impero; il concilio si affolla, e Cola vi rivendica fra un entusiasmo frenetico l'impero immaginario di Augusto e di Gregorio. Storia, archeologia, poesia, religione, ne sono le ragioni: echi, imagini, ricordi, fantasmi che vorrebbero dominare la vita. Quindi trascinato dalla logica delle parole, egli dichiara romane tutte le rivoluzioni italiane, libera le città, naturalizza i loro abitanti, dà la propria bandiera ai loro soldati, cita al proprio tribunale inermi gli imperatori di Germania. Fraseologia e decorazione lo inebriano: tribuno, solo, poggiato su Roma, si sente più grande dell'imperatore e più universale del papa.
Ma questi con una sola parola soffia sopra il suo sogno e lo dissipa. La chiesa scomunica il tribuno, usurpatore di Roma da essa già quasi perduta. Allora la soggezione religiosa riprende i popoli sbigottiti dall'anatema scoppiato sulla testa di Rienzi come un fulmine; la sua idea fantastica svapora, la sua autorità dilegua. Troppo timido per immolare i baroni da lui stesso imprigionati, fugge di Roma innanzi alla insurrezione ghibellina del paladino di Altamura per riparare, dietro l'esempio antico di Temistocle e colla demenza vanitosa dei poeti, a Praga presso il medesimo imperatore Carlo IV da lui citato alla sbarra; ma imprigionato da questo gli scrive in stile apocalittico la propria visione dell'imminente riforma universale con Roma e l'imperatore alla testa. Deriso si umilia, da profeta discende a buffone, da tribuno si muta in cortigiano per consigliargli una reazione tedesca sull'Italia al modo di Enrico VII di Lussemburgo e di Giovanni di Boemia. Allora l'imperatore lo rimanda al papa, che lo imprigiona; e Cola bacia ancora le proprie catene, mente, calunnia, si rinnova, si muta, compie la propria evoluzione uscendo di carcere al seguito del cardinale Albornoz mandato a ritentare l'impresa di Bertrando del Poggetto. Quindi nuovamente senatore di Roma si mostra più gonfio, più declamatore, più falso, più pazzo di prima. Il suo republicanesimo è così assurdo, la sua volubilità così ignobile, i suoi tradimenti così miserabili, le sue imposte così avare che una insurrezione lo investe. Egli trema, dimentica ogni eloquenza, non trova alcun coraggio, getta le armi, cangia più volte di vesti, finchè ravvolto in un saio da saccomanno è scoperto dall'odio vigile della plebe e trucidato a' piedi della scalea capitolina, che non avrebbe mai dovuto salire.
Ma la sua demenza politica e la sua viltà morale non bastarono ad ucciderlo nella storia. Il suo sogno di unità italico-romana col papato e dominando il papato si riprodusse; le sue repressioni dei baroni, i suoi trionfi, le sue peripezie, il suo carattere rimasero nella tradizione e passarono nell'arte. Non si potè o non si volle capire la vanità insulsa della sua opera. Le idee politiche, che la sconvolsero e per le quali non seppe nè agire nè morire, parvero quasi sue idee personali; guelfi e ghibellini acclamarono la sua memoria, quelli per la sua liberazione d'Italia concepita col papato e pel papato, questi per il suo tentativo di mettere Roma al disopra del papa e a capo di una nuova Italia. Quindi Cola di Rienzi, moltiplicato per la grandezza del quadro e per l'antichità della cornice, entro la quale aveva recitato abbastanza malamente la propria parte di signore, parve giganteggiare fra le massime figure del tempo, tra i Visconti e gli Scaligeri, così terribilmente trionfanti nella storica realtà. Si è creduto lungamente che Petrarca gli dedicasse una delle sue più belle canzoni; Wagner, il maggior musico di questo secolo, cominciava da lui la serie dei propri melodrammi immortali. Ma oggi una critica più acuta disdice le dedica a lui della canzone del Petrarca, Wagner rinnegò il proprio melodramma; e Cola di Rienzi, severamente giudicato dalla storia, che a distanza di secoli punì della stessa morte il suo tentativo riprodotto da Pellegrino Rossi, vanisce nell'arte come una di quelle ambigue figure, alle quali nè il pensiero potè dare la trasparenza luminosa dei fari, nè l'azione il rilievo inconsumabile dei bronzi.
L'impresa fallita di Rienzi provava solo che il papato non era ancora maturo alla signoria, e che nullameno nessuno poteva sostituirlo in Roma.
Difatti Roma, predestinata all'opera del papato, doveva solamente con esso esaurire tutte le forme politiche, prima di rientrare nella futura unità italiana.
Il cardinale Albornoz.
Ma l'improvvisa ed eccessiva fortuna della signoria milanese minacciante tutte le altre determina presto una nuova spaventevole guerra di reazione. Primo Cola di Rienzi, perduto nel sogno di una unità republicana, appella al papa e all'imperatore contro i tiranni di Lombardia; poi nel 1350 Clemente VI manda il proprio parente Durafort a ritentare col medesimo esito l'impresa di Bertrando del Poggetto; nel 1352 Siena, Firenze e Perugia si alleano contro i Visconti; nell'anno successivo Mantova, Verona, Ferrara, Padova, Venezia pattuiscono una lega, che invoca l'imperatore Carlo IV. Questi discende in Italia, e tre anni dopo si congiunge con Albornoz, vittorioso dei signori romani, per distruggere la signoria milanese. Il combattimento dura ventisette anni come quello di Barbarossa, ma riesce alla vittoria di Milano e di tutte le altre signorie, trionfanti del proprio errore reazionario per la forza stessa dell'idea che combattono.
In questa lunga crisi l'eroismo politico dei Visconti sfolgora attraverso tutta la varietà dei loro caratteri individuali nelle più cupe tragedie, superando tutti gli eventi. Poichè Luchino soccombe troppo presto avvelenato dalla moglie, l'arcivescovo Giovanni più forte dell'antico Eriberto resiste al papa minacciando: allorchè Carlo IV giunge a Milano per ripetervi forse la tremenda condanna di Lodovico il Bavaro, che gettava Galeazzo nei forni di Monza, i tre fratelli Matteo, Galeazzo e Bernabò gli oppongono finzione a finzione, e lasciandolo fuori della mura lo assediano di visite, lo stordiscono di feste. Quindi fronteggiando in battaglia tutti gli avversari, mescolano tradimenti e vittorie, intrighi e sconfitte. La passione rivoluzionaria e l'idea politica del tempo li sostengono. Matteo II, il più vano dei tre fratelli, è ucciso dagli altri; Bernabò, il più forte di tutti, rivaleggia con Ezzelino da Romano, sopprime ogni sètta, largheggia col popolo, innamora la plebe, riordina l'amministrazione, fa inghiottire sul Lambro ai messi del papa le loro lettere, feroce, tiranno, imparziale, temerario sino ad avventurarsi ovunque senza guardie, collerico come un leone, innamorato della propria moglie come l'ultimo dei borghesi. I republicani lo maledicono, i guelfi lo detestano, la chiesa lo condanna, ma il popolo lo adora e le cronache lo esaltano come il capo della rivoluzione, che organizza la vittoria sui campi di battaglia e stabilisce una legislazione duratura per la felicità dei lombardi.
La guerra agevola la rivoluzione.
Ai primi baleni della reazione Bologna e Genova si arrendono ai Visconti; Pavia svillaneggiata dalla mistica demenza di frate Bussolari, tardo imitatore di Giovanni da Vicenza, è ridestata alla vita dalla sola presenza di Galeazzo; Bergamo entra nell'orbita di Milano; Reggio affidata dal signore di Mantova a Feltrino è da questo venduta a Bernabò; il Conte Verde di Savoia, abile guerriero e politico feroce, perde ogni impresa contro i Visconti, e vince tutte quelle che stabiliscono all'interno la sua signoria.
Molte signorie, già al declino e destinate presto a sparire, resistono nullameno a questa reazione che mette in pericolo il principio della rivoluzione; Mantova, Ferrara, Padova, Verona, il Monferrato, la Savoia rimangono immobili, quanto Milano sulle proprie basi; solamente, come a pena dei propri errori, si veggono compromesso il governo da un ultimo infuriare delle sètte. Così a Firenze i Ricci e gli Albizzi rinnovano la contesa degli Uberti e dei Buondelmonti, e all'arrivo dell'imperatore Carlo IV Pistoia, Arezzo, Volterra, San Miniato s'aggrappano alla sua porpora per sfuggire alle mani della republica; la quale, dopo una nuova rivoluzione nel campo imperiale e una nuova guerra contro il papa, rovescia finalmente nel 1378, ultimo anno della reazione, i popolani coi plebei avviandosi mutamente verso la signoria dei Medici.
Siena, più crudele, massacra i propri Nove all'arrivo dell'imperatore per ripetere alla sua partenza una eguale sommossa contro il governo da lui ordinato, straziandosi per tutta una serie di carneficine imbrogliata da un'aritmetica politica che varia sempre il numero nei membri del governo. Finalmente esasperata dal ritorno dell'imperatore, lo assedia nel proprio palazzo, lo condanna alla fame, lo annienta nel ridicolo, lo scaccia, e seguita a dibattersi nelle convulsioni della propria republica destinata a perire sotto la signoria di Firenze. Indarno l'imperatore decapita pazzamente a Pisa il signore Gambacorti, giacchè Agnello dei Raspanti lo sostituisce per morire in una identica tragedia e cedere indi a poco il dominio ai Gambacorti riconfermati. La reazione imperiale si consuma in tentativi inutili, che non distruggono nessuna signoria e non salvano l'indipendenza a nessuna città: onde Firenze riacquista presto i propri dominii, e Genova sempre sotto la dipendenza dei Visconti prosegue la guerra contro Venezia.
Solamente il cardinale Albornoz, combattente nel nome del papa, passa di vittoria in vittoria contro i signori romani. Le sue improvvisazioni infallibili di politico e di guerriero riparano prontamente l'insuccesso di Durafort e rovesciano tutte le giovani dinastie, i Vico di Viterbo, i Trinci di Foligno, i Gabrielli di Gubbio, i Gentile di Fermo; tentano i Varano di Camerino; penetrano tutte le città di Romagna raddoppiando le vittorie della guerra cogli intrighi della diplomazia. Ma il suo spirito è troppo grande per un'opera così falsa. Quindi l'ingratitudine del pontefice, che gli chiede i conti e al quale egli risponde mostrando con epico gesto un carro carico delle chiavi delle città prese, lo obbliga a ritirarsi dalla scena. Allora una nuova evoluzione di Firenze contro il papa trascina alla rivolta ottanta fra città e fortezze, cancellando in dieci giorni l'opera di ventidue anni.
Il cardinale Roberto di Savoia, sostituito all'Albornoz per ristabilire la sua conquista, non è più che un pazzo sanguinario, febbricitante nel furore di una reazione impotente. Il suo interdetto sui fiorentini, i pisani e i genovesi, nel quale permette a tutti di derubarli e di farli schiavi; la minaccia contro Bologna di lavarsi i piedi e le mani nel sangue dei cittadini; l'incredibile strage di Cesena, nella quale quattromila persone vengono sgozzate e i bambini lattanti sbatacchiati pei muri, mentre egli seguita ad urlare: voglio sangue, voglio sangue! determinano alla morte di Gregorio XI, nella questione se il papa debba risiedere a Roma o ad Avignone, la esplosione del grande scisma. Lo slancio dei Visconti nel riadergere quanto l'impeto di Albornoz aveva abbattuto, il nuovo entusiasmo d'Italia per un'altra guerra civile e politica contro la cieca democrazia cattolica del medio evo, e la stessa tirannia reazionaria dei papi d'Avignone strappano al conclave, quasi interamente francese, l'elezione di Urbano VI ghibellino, mentre il popolo grida: romano lo vogliamo o almeno italiano! E quando il conclave, riparando timidamente a Fondi, rinnova con criteri assassini l'elezione per proclamare papa guelfo lo stesso cardinale Roberto di Savoia, stupidamente sanguinario ed insanguinato, nel tuono degli anatemi barattati tra i due papi s'intende la voce trionfale della rivoluzione che gitta a tutta l'Europa l'appello della ragione contro una fede diventata insufficiente al pensiero e in contraddizione colla storia.
L'unità ideale italiana.
Ma la tradizione regia di Verona iniziata da Berengario, seguita fra le stragi da Ezzelino, accarezzata nel trasporto di un sogno glorioso dai primi Scaligeri, turba la cronaca milanese. Le vittorie viscontee danno alla grossa metropoli lombarda le vertigini del regno. Così quando Giovanni Galeazzo, il più ammirabile ipocrita del secolo, getta improvvisamente il proprio terribile zio nel castello di Trezzo, e la signoria milanese dilagando colla foga di un torrente s'impadronisce nel 1387 di Verona e Vicenza, nel 1388 di Padova, nel 1399 di Pisa, poi di Perugia, di Lucca, di Assisi, di Novara, di Spoleto, di Bologna, portando il proprio signore al titolo di duca, sembra davvero che tutte le rivoluzioni anteriori abbiano mirato a questa sua sovrana indipendenza per arrivare con essa all'unità politica nazionale d'Italia. I cronisti Fiamma e Mussi, scrivendo l'apologia di Milano, formulano nell'ingenuità vantatrice del proprio entusiasmo municipale le pretese regie della nuova capitale con una arditezza che non arretra nemmeno dinanzi al papa.
Ma l'unità politica è impossibile nella storia italiana predestinata a svolgersi federalmente nell'interesse della storia europea. La conquista milanese produrrebbe l'oppressione di tutti gli stati, distruggendo col terribile livello del proprio dispotismo tutte le fisonomie del pensiero italico. Mantova, Genova, Ferrara, Firenze, Venezia, Roma, Napoli, Palermo scomparirebbero dalla storia per discendere a grado di città subalterne e perdere in una sterilità senza compensi la fecondità del loro genio incaricato di elaborare i materiali e le idee della nuova civiltà europea. D'altronde le varie coscienze regionali non dominate ancora da una più alta coscienza nazionale, giacchè cittadino e stato italiano non esistono ancora, contrasterebbero alla dominazione unitaria milanese così ferocemente da ricondurre fra l'antica barbarie del regno longobardo gli ultimi orrori della guerra guelfo-ghibellina. Prima di raggiungere l'unità politica, l'Italia deve esaurire tutta la varietà dei propri caratteri servendosi dei confini interni come di tante egide, delle guerre incessanti come di un tonico, della religione come di una poesia e dell'empietà come di una indipendenza; esperimentando il regno nelle due Sicilie, la teocrazia a Roma, la oligarchia a Venezia, tutte le basse forme monarchiche nelle signorie, tutti i modi democratici nelle republiche. La sua arte, la sua scienza, la sua filosofia, il suo commercio, la sua industria, i suoi capolavori moltiplicati in tutte le opere, la sua sapienza che utilizza tutti i disastri, la sua virtù che resiste a tutte le colpe, i suoi vizi che si parano di tutte le bellezze, il suo primato in Europa, dipendono dalla sua mancanza di unità. Ognuno de' suoi piccoli stati può ottenervi così l'importanza e influenza di una nazione. L'Italia, necessaria ancora per molti secoli come campo di battaglia all'Europa, riducendosi per opera dei Visconti troppo presto ad unità nazionale, imporrebbe alla storia europea tutt'altro sviluppo.
Quindi la guerra ai Visconti, minaccianti di assorbimento regio le signorie, diviene una necessità italiana, nella quale Firenze, più nobile e fine di Atene, rappresenta col proprio contrasto a Milano, la grande tradizione federale, che dava già ad ogni borgo una così originale bellezza e a tutte le rivoluzioni anteriori la gloria di una inimitabile invincibilità. Nel proprio federalismo equanime Firenze è quasi italiana, giacchè i suoi cronisti, a rovescio dei milanesi chiusi nell'orbita della propria città come in un cerchio incantato, si occupano di ogni vicenda in ogni parte d'Italia e anche fuori. La sua azione politica limitata alla Toscana vi propaga irresistibilmente la propria influenza; la sua mente libera da ogni vapore di sogno precisa e sminuzza cose e idee; l'egoismo restringendola l'acumina; il regionalismo isolandola la perfeziona. Milano, troppo vasta per una signoria e troppo piccola per un regno, soccomberà; Firenze, mutata in ducato, arriverà sino alla grande rivoluzione nazionale, allora che Cavour, slargando l'ingegno politico del suo Guicciardini, e Mazzini, aggiungendo l'eroismo del carattere al patriottismo rettorico del suo Machiavelli, riuniranno l'indipendenza della nazione alla libertà dei municipii.
Petrarca e Boccaccio.
Se il suo Dante ha creato col maggior poema del mondo la lingua nazionale, Petrarca, librato nell'estasi della bellezza al disopra delle passioni che hanno tratto all'Inferno il grande ghibellino, mette nella parola una tale dolcezza, insinua nel verso una melodia così accarezzante, confonde siffattamente nel proprio entusiasmo l'erudizione romana e l'ignoranza politica del proprio tempo ancora tanto pieno di eccidi, che il mondo oramai pacificato nella signoria s'innamora di lui sino all'adorazione. Popoli, papi, imperatori, signori e republiche, tutti s'inchinano alla bellezza plastica di questo genio, che vede tutto attraverso gli splendori di una visione, nobilita tutto nello stile, unifica tutto colla parola. Se Dante è fiorentino, Petrarca è già più italiano che toscano; se la Beatrice di quello è meno che donna, la Laura di questo è al tempo stesso una Venere e una madonna dalla bellezza voluttuosa a forza di essere soave. Il dramma della signoria non turba il Petrarca. Egualmente amico dei vincitori e dei vinti, egli prodiga a tutti lettere e versi; sonnambulo nella lotta che gli ferve d'intorno, sembra non scorgervi che larve e concetti di storia antica avviantisi verso una misteriosa storia moderna. Le sue canzoni trasfigurano gli eroi, cui sono indirizzate; le sue evocazioni politiche, possenti e malinconiche, passano attraverso un crepuscolo colla grandezza e l'immunità di una profezia. Solo contro il papato di Avignone il suo classico sdegno diventa ira e le parole gli scoppiano dalle labbra stridendo come nelle terzine di Dante, quando fra i lembi di una rotta visione gli si para dinanzi il cadavere della chiesa corroso da tutte le cancrene. E allora la rivoluzione trionfante anche del suo genio contemplativo e del suo temperamento sensuale e serafico compie l'ultima vittoria, strappando al più immateriale dei poeti la più concreta delle invettive.
Ma se il Petrarca sembra obliare il medio evo e il proprio tempo per discendere nell'antichità come Dante nell'inferno, o per salire in un cielo ancora terrestre di colori e di profumi, il Boccaccio dimentica egualmente tutto nella gioia della nuova vita. Le sue novelle inconsapevolmente nazionali ospitano fiorentini, genovesi, veneziani, napoletani, palermitani: deridono tutti i partiti, sbertano tutte le passioni. Infallibili di verità, salgono coll'ironia fino alla sapienza più antica e serena della vita, trattando collo stesso sorriso prelati e mercanti, frati e re, Dio e il diavolo, l'amore e la politica, la scienza e la religione, la fede e la lussuria, l'usura e l'eroismo, la virtù e il vizio. Il loro scetticismo è quello medesimo del popolo, che accetta la signoria per liberarsi in una sola volta di tutto il passato; la loro originalità contiene tutta una flora artistica, che Dante non avrebbe sospettato e che il Petrarca scandolezzato non intende. Ma il Boccaccio prosegue più libero e moderno di entrambi, sorridendo delle passioni che avevano ucciso il primo, ghignando sulle bellezze ancora troppo vaporose che innamorano il secondo, opponendo al terrore della peste l'eroismo di un'allegria che esprime finalmente l'emancipazione dello spirito umano da tutte le superstizioni religiose e le barbarie storiche. Se Dante ritto sul proprio immenso poema domina colla fronte livida e luminosa tutto il medio evo, Petrarca e Boccaccio si presentano sulla soglia dell'evo moderno, l'uno col sorriso della bellezza che dovrà inspirare Raffaello, l'altro col riso della vita che animerà l'Ariosto.
Capitolo Quarto. Venezia nella storia italiana
Ancorata nelle lagune, come un'immensa nave, Venezia sembra nella propria storia piuttosto assistere che partecipare a quella d'Italia.
Il patto della chiesa e dell'impero, chiudendo in una infrangibile parentesi la vita italiana, non vincola la sua; le agitazioni rivoluzionarie e gl'interventi stranieri, come condizioni inevitabili dello sviluppo italico, non mutano l'indole del suo governo. Le rivoluzioni dei consoli, dei podestà, dei capitani del popolo, la guerra ai castelli, la guerra municipale, la guerra civile, si acquetano nelle sue lagune producendovi appena qualche ondulazione.
Da lungo tempo Venezia, quasi ignorata sul continente, è celebre e poderosa in Oriente. Le sue navi entrano in tutti i porti, il suo commercio sfrutta tutte le terre, le sue ricchezze superano quelle riunite di tutta l'Europa, i suoi patrizi sono più splendidi dei re, i loro palazzi somigliano piuttosto a reggie che a fortezze: il suo popolo che arricchisce nei traffici, la sua plebe che si espande sui mari, paiono non occuparsi del reggimento interno affidato ad una aristocrazia muta e solenne, duttile ed inflessibile. Fino dal 1040, dopo una sommossa, questa statuisce che nessun doge potrà più nè indicare il proprio successore, nè darsi un collega fondando così una dinastia civica. La democrazia elettiva dei conti entra dunque nel dogado senza che il popolo si scateni o il patriarca s'imponga. Amalfi, Gaeta, Sorrento, Bari, incapaci di sollevare tant'alto il proprio doge, lo lasciavano invece cadere, e cadevano con lui sotto i Normanni.
Ma il doge veneto, rappresentante in certo modo il potere astratto di Venezia, come il papa e l'imperatore rappresentavano la chiesa e l'impero per tutta Italia, è sottoposto all'autorità di sei consoli o consiglieri eletti dai sei quartieri di Venezia, e deve conferire sopra ogni affare di stato coi pregadi o senatori. Questi vengono scelti annualmente dal gran consiglio, nominato a ogni anno da due elettori per quartiere, i quali si riuniscono per designare nella massa indistinta dei cittadini quattrocento settanta deputati. L'imitazione del moto consolare italiano è evidente, ma con un processo formale invece che con una rivoluzione. Quindi Venezia stende dinanzi alla propria chiesa di San Marco, indefinibile tempio, nel quale Oriente ed Occidente sembrano accordare le proprie religioni in una confusione architettonica sostituente la fantasia all'unità e la bellezza del particolare alla logica dell'insieme, la propria piazza come un'immensa sala di ricevimento per i re e per i papi, che verranno a sollecitare la buona grazia della republica. La sua prosperità si moltiplica; le sue costruzioni di marmo sembrerebbero fantasmagorie orientali se il genio italiano non desse loro la propria euritmia; il suo arsenale è il primo del mondo; le sue navi corrono tutti i mari. Nessun progresso le rimane sconosciuto.
All'epoca dei podestà, comprendendo subito il valore di questa suprema magistratura innalzante il diritto della città al disopra di quello delle parti, crea gli avogadori col potere dispotico e giudiziario di sospendere per un mese e un giorno ogni funzionario, di vietare per incapacità legali o accuse criminali le funzioni ai magistrati, di giudicare sommariamente come un vero collegio di podestà tutti gli affari di polizia. Nel 1202 viene nominato l'altro dei corregidori, despoti supremi del doge, cui giudicano dopo morte, e specie di consulta per i miglioramenti possibili nella costituzione dello stato; nel 1220 si crea la quarantia, vera riforma dei tribunali compiuta dal doge Tiepolo correggendo le leggi. Alla rivolta guelfo-ghibellina contro il podestà, Venezia ha i Tiepolo, capi delle antiche famiglie, e i Dandolo chiedenti al gran consiglio l'ammissione delle nuove; ma immobili entrambi entro la sua costituzione secolare difesa dall'anormalità della sua vita quasi senza contatto con quella di terra. Quindi tutta la discordia si condensa nella contesa elettorale degl'impieghi. Nel 1268 l'elezione del doge passa per una intricata serie di ballottaggi, attraverso la quale tutti possono contendersi il dogato. Dapprima trenta elettori, nominati dal gran consiglio e diminuiti dalla sorte a nove, designano quaranta nuovi elettori: questi ridotti da un secondo sorteggio a dodici ne nominano altri quaranta, che ristretti da capo a nove ne eleggono quarantuno, i quali, presentati finalmente al gran consiglio, approvati dall'assemblea, isolati in un conclave scelgono il doge.
Questo capolavoro di diffidenza, invece di abbandonare l'elezione al caso, la riserba agli uomini più abili nella conoscenza delle persone, più influenti nelle famiglie, più iniziati ai raggiri, più pratici delle tradizioni aristocratiche. Infatti la prima elezione, proclamando Tiepolo, capo delle vecchie famiglie, prova la bontà del nuovo congegno elettorale. Ma poichè i capi delle recenti grandi famiglie erano spesso chiamati a Treviso, a Padova, a Ferrara col titolo di podestà, per timore che essi acquistino pericolose influenze, e trasportino la demagogia imperiale o papista nella republica, s'inibisce ad ogni veneziano di accettare funzioni all'estero, proibendo persino ai dogi di sposare o far sposare ai propri figli donne straniere. Nullameno, i Tiepolo essendo troppo amati dalla moltitudine ed accennando a diventare neo-ghibellini come i bianchi di Toscana, l'aristocrazia proclama poco dopo i Dandolo, e nel 1319 fa passare le decisione solenne che il gran consiglio non sarà più rinnovato e la republica apparterrà alle seicento famiglie regnanti. Ecco i tiranni, l'oligarchia è fondata, la democrazia esclusa per sempre. Venezia republicana, immobile nella marea che sposta tutti i partiti e le città d'Italia, combatterà fuori di se stessa ogni istituzione republicana, condensandosi sempre più nella signoria.
Ma una oligarchia di seicento famiglie e un consiglio di tiranni presieduto da un doge, che è appena una larva di magistrato, non potrebbero mantenere nella politica quell'unità d'indirizzo necessario alla sua immobilità costituzionale. Laonde il consiglio dei dieci, nominato provvisoriamente per scoprire i complici occulti di Baiamonte Tiepolo insorto a capo della democrazia esclusa dal consiglio, accorgendosi che il pericolo democratico è permanente, eternizza la propria funzione portandola più alto del senato, del gran consiglio, degli avogadori, dei corregidori, del doge stesso, di tutti. Il consiglio dei dieci, vero signore di Venezia come i Visconti di Milano e gli Scaligeri di Verona, tradisce tutte le fazioni, umilia tutte le personalità, sorveglia tutti i magistrati, matura ed eseguisce tutte le idee. La sua autorità è ancora più misteriosa che tirannica, la sua giustizia oltrepassa il delitto per giungere all'assoluto colla preterizione di ogni legalità.
Allora Venezia, sicura sotto questo potere impersonale che porta la passione del comando nel disinteresse dell'autorità, si svolge superba e magnifica, aggiungendo risultati a risultati, assorbendo tutti i progressi e rimanendo nullameno stazionaria. Infallibile nella politica quanto angusta nel pensiero, lascia il popolo sempre estraneo al governo e mantiene una costituzione inaccessibile alle nuove idee, elabora una giustizia sempre al di fuori della coscienza, domina con una civiltà egualmente violata dalle premesse della sua costituzione e dalle inevitabili bassezze del suo carattere. Quindi con alleanze, colonie, impero e tesoro incomparabile è meno conquistatrice di Milano, meno forte di Genova che la batte, meno colta di Firenze che la supera. La sua libertà della maschera a tutti i cittadini non compensa l'ipocrita fisonomia, alla quale costringe i loro volti sempre preoccupati di nascondere ogni emozione. Così, bizantina d'origine, di pensiero, di carattere, espia colla incapacità del proprio medesimo progresso la fortuna di essersi sottratta ai dolori delle prime rivoluzioni italiche. Il suo governo, nè monarchico, nè repubblicano, opprime colla stessa inquisizione popolo e doge, costringe Marin Faliero alla rivolta e lo decapita, rende obbligatorio il dogato e prigioniero il doge, rivedendogli persino le liste dei fornitori, ritenendogli parte dello stipendio per i suoi debiti possibili, proibendogli ogni idea o risposta politica, vietandogli di ricevere qualunque dono o di riscuotere qualunque somma oltre i confini del dogado, fosse pure un rimborso come quello del re di Portogallo a Carlo Zeno. Malgrado ogni resistenza irreligiosa a Roma, l'ateismo di Venezia non è una emancipazione del suo pensiero politico, ma una altera riottosità del suo governo geloso contro tutti, anche contro Dio, delle proprie prerogative. Al culmine della fortuna, quando la sua storia dilatandosi entra finalmente in quella italiana, al momento della grande contesa fra Firenze e Milano, la sua idea non può quindi fondervisi interamente, nè la sua opera acquistarvi l'importanza delle altre due metropoli.
Capitolo Quinto. La rivoluzione militare
Incapacità militare dell'Italia.
Nella rivoluzione della signoria ne covava un'altra, inavvertita prima, poi maggiore di essa.
Nessun comune o republica o signoria in Italia aveva mai avuto vero organamento militare. La nazione divisa in due grandi classi, nobiltà e popolo, mancava di soldati; la feudalità, composta di famiglie relativamente scarse rispetto alla massa della nazione e dedite all'uso dell'armi, raccoglieva in bande i propri vassalli, dominando a stento la loro ripugnanza al pericolo col timore di una morte anche più certa; la borghesia, insorgendo contro i castelli, si era improvvisamente armata, aveva combattuto, aveva vinto, e nullameno all'indomani di ogni vittoria o disfatta ambo i partiti si trovavano senz'armi, senza munizioni, senza soldati, senza capitani. La società dibattentesi nella conquista di forme politiche, che doveva nascondere con abili falsificazioni all'occhio vigile del papato o dell'impero, non avrebbe potuto organizzare una milizia, senza dichiararsi prima indipendente in un nuovo sentimento di patria e stabilire un sistema di finanze e di gerarchia, incompatibile collo spirito del tempo. Quindi la milizia, costituita nella feudalità con bande di vassalli guidate dal signore, si componeva nella città con arruolamenti improvvisati nelle corporazioni, e il seguimento, come dicevasi allora, non era in ambo i campi che una specie di volontariato più o meno libero e ripugnante, nel quale il soldato non sognava che i propri campi o le proprie botteghe. Qualunque fosse dunque la sua passione di parte, nè il concetto di patria, nè l'idea del dovere, nè quella tragica necessità che accetta di dare e di ricevere la morte per ubbidire agli ordini di una virtù superiore, dirigevano mai la sua coscienza troppo spesso sedotta dalle ferocie delle vendette o dalle cupidigie dei saccheggi. Di qui la poca mortalità delle battaglie medioevali e le incredibili carneficine di certe vittorie. Il console, il capitano, il signore erano l'anima, la gloria, la durata dell'esercito. Il loro spirito lo attraeva, la loro bravura lo manteneva, la loro morte lo dissolveva quasi sempre: ogni generale doveva essere tutto per la propria soldatesca, armarla e nutrirla, occuparsi di ciascuno e di tutti, farsi adorare e temere per essere seguìto nella battaglia e non abbandonato nella sconfitta.
I masnadieri.
Quindi in una milizia formata e riformata di bande, atea e superstiziosa, più feroce che intrepida, più rapace che disciplinata, al servizio piuttosto di una parte che della patria, non frenata dalla disciplina di un vero governo, nomade, avventizia, sognante le baldorie della pace per scialacquare le poche ricchezze rubate nella guerra, indifferente alle idee dei propri capi dei quali non poteva mai nè comprendere la politica nè partecipare ai trionfi, era naturale si formassero delle bande pronte a convertire quell'esercizio in mestiere, profittando dell'incessante bisogno di soldati e della poca passione alla milizia nelle moltitudini cittadine e campagnole. Da principio queste bande non saranno state che avanzi di eserciti disciolti, specialmente stranieri, chiamati in Italia dalle guerre regie o imperiali: e che abituati a vivere di guerra e nella guerra, trovandosi fra popolazioni stanche e poco armate, avranno fatalmente sognato di vivervi taglieggiando e assassinando, al servizio di qualche feudatario o di qualche comune. Le critiche del Machiavelli alle compagnie di ventura, e la mancanza di eserciti nazionali da lui spiegata coll'influenza ascetica del cristianesimo; le sue accuse all'antico impero romano di assoldare truppe estere, e ai signori italiani di copiare questa corruzione dei cesari per meglio corrompere e soggiogare i cittadini, non sono che puerilità rettoriche. L'Italia non aveva e non poteva allora avere eserciti nazionali perchè priva dell'idea di stato e di quell'organizzazione governativa, che dall'unità politica deriva i mezzi costanti della difesa. Se il combattente è possibile in tutti i luoghi e in tutti i tempi, il milite è un carattere storico, che presuppone un ambiente e una serie di fatti politici senza i quali diviene assolutamente impossibile immaginarlo.
Certo i signori disarmarono l'Italia per meglio regnarvi, ma questa loro politica fu una necessità del secolo nel quale i soldati non erano che partigiani e il progresso esigeva l'annullamento di tutti i partiti nella unità fecondatrice delle signorie. Industria e commercio, agricoltura e manifattura, arti e scienze non potevano avanzare che a questa condizione. D'altronde la massa del popolo aveva sempre odiato la milizia come conseguenza e incarnazione della conquista regia. Tutte le rivoluzioni dei vescovi, dei consoli, dei podestà, dei capitani del popolo, dei tiranni racchiudevano quest'odio, giacchè ogni loro movente veniva da una idea di emancipazione economica o politica, e l'ostacolo più forte ad ottenerla era appunto la soldatesca. I cittadini, per una delle solite antitesi della storia, si erano mutati in soldati per odio alla milizia. Quindi al trionfo della signoria, che rendeva inutile questo contradditorio sacrificio, il popolo rispose con gridi di una gioia, della quale si trovano ancora le parole nei cronisti. Una delle migliori leggi dei Visconti, secondo Azario cronista milanese, fu che il popolo non andrebbe più alla guerra; il Villani fiorentino è della stessa opinione, tasse sull'argento, sul sale, sulle campagne, liberarono dall'obbligo del servizio militare, formando il primo bilancio della guerra, la quale d'ora innanzi doveva esser fatta dai mercenari.
Infatti la sostituzione degli avventurieri ai cittadini facilitava la vittoria alle signorie più ricche contro le vicine republiche più esili e povere. Dal momento che il moto delle signorie, sommergendo le vecchie parti, imponeva a tutti il bisogno di una pace più equa di quella dei podestà e più sicura di quella dei tiranni, le signorie capaci di assoldare molte soldatesche dovevano fatalmente trionfare di quei liberi comuni inetti a trasformarsi secondo la nuova idea politica. Torme di mendicanti armati, lontani discendenti dei gladiatori, percorrevano dunque tutte le vie d'Italia e ne conquistavano le città dietro gli ordini di un invisibile signore troppo superbo per degnarsi nemmeno di assistere alle loro vittorie. Una perfida e sapiente finanza calcolava quindi nel segreto dei gabinetti quante barbute o fiorini costasse una città: la vittoria non era più che un conto aritmetico, e il vero campo di battaglia un banco. Tutto vi era valutato e pesato coll'oro; il popolo accettava questa nuova originale forma di guerra come la più economica e rapida liquidazione medioevale: inutile parlare di virtù, di diritti, di patriottismi. Poichè le unificazioni regionali delle signorie dovevano trionfare del vecchio atomismo comunale, il modo del loro trionfo predeterminato dalla storia diventava superiore a tutte le recriminazioni della morale. Ma in questo commercio militare il disordine apparente è tale che spesso toglie all'occhio dello storico di seguire con precisione il corso delle idee e il contorno dei fatti. La soldatesca, passando da signore a signore, da mercante a mercante, moltiplica rotte e vittorie, arresta a mezzo ogni impresa, scompagina tutti i disegni, sembra confondere tutti i risultati. Le signorie basate sovra di essa oscillano e a certi momenti paiono presso a sommergersi, ma questo tumulto militare non potendo rompere la propria cornice storica, ogni signoria conquista finalmente tutto il raggio della propria naturale espansione.
Fino dall'epoca dei tiranni, bande di mercenari servivano nella guerra senza vera organizzazione: residui di eserciti e avanzi di forca erano assoldati e congedati senza troppo pericolo. Ma nel dilatarsi delle tirannie il numero delle masnade crebbe colla necessità politica nei governi di avere una forza armata per disarmare le parti; e tutti questi masnadieri sentirono il bisogno di organizzarsi per facilitare i propri contratti e sottrarsi ai pericoli della pace, che li abbandonava affamati e sbandati in mezzo a popolazioni ostili. Senonchè, diversi di razza, attratti da tutte le contrade d'Europa all'incendio sempre vivo delle guerre italiane, selvaggi e corrotti, non potevano avere altra organizzazione che la personalità di un capo, il quale li reggesse coll'arbitrio e li nutrisse colla vittoria. I Tolomei di Siena, Marco e Lodrisio Visconti furono i loro primi duci; ma troppo partigiani per tale ufficio vi perirono o condussero a perdizione le compagnie. A Guarnieri duca d'Urslingen era riservata la gloria sinistra di organizzare le compagnie di ventura nel 1342. L'iscrizione «nemico di Dio, d'ogni pietà e d'ogni misericordia» che egli portava con satanico orgoglio sul petto, minacciava tutta l'Italia inerme e nullameno ancora abbastanza forte per mutare questo nuovo torrente di armati in un canale irrigatore della propria politica.
Infatti il duca Guarnieri, scannando, incendiando, devastando, serviva sempre la politica del tempo, abbatteva colla propria città nomade tutti i vecchi ripari guelfo-ghibellini, sollecitava colla propria spada insanguinata i comuni retrivi, assoldato segretamente o palesemente dai più grossi signori, ma sempre estraneo ai risultati di tutte le lotte. Dietro lui spuntano gli imitatori. Frate Moriale perfeziona l'organamento del campo fino a sorpassarvi l'ordine delle migliori città; quindi mistico e feroce, mercanteggiando con scrupolosa onestà ogni più ribaldo ladrocinio, cade in un agguato tesogli da Cola di Rienzi e vi perde la vita. Annichino Bongarten, Alberto Sterz prendono il suo posto per sparire nell'ombra spaventevole di Giovanni Hawkwood, detto Acuto, che alla testa di masnade inglesi supera tutti nella prontezza delle mosse e nella crudeltà delle devastazioni. Questo bandito di genio non solo vince i migliori capitani del tempo durante tutto il periodo delle reazioni imperiali ed aragonesi, ma finisce genero di Bernabò Visconti, al servizio della chiesa, arricchito ed ammirato dalla republica di Firenze, che gli erge un monumento.
I condottieri.
Ma il masnadiero mercantilmente imparziale, che si vende a tutte le ragioni di guerra in un paese incapace di comporsi eserciti nazionali, deve naturalmente destare la concorrenza dei masnadieri indigeni. Infatti una forte reazione determinata dagli orribili eccessi di queste bande, che nessun danaro pagava mai abbastanza e nessun capitano poteva frenare, prorompe da tutte le contrade d'Italia. Urbano V e Caterina da Siena eccitano Alberico da Barbiano contro gli inglesi e gli altri mercenari devastatori: questi li distrugge e diventa così il primo condottiero d'Italia. Quindi con istinto di gran capitano muta la tattica, raddoppia la disciplina e l'ascendente nel proprio esercito: invece di esserne il capo, ne è il padrone; arruola, compra soldati, li annulla nella propria compagnia, li possiede come tanti alberi di un podere, che può vendere ad altri o lasciare in eredità al proprio figlio. Le prime bande nominavano i capi dominandoli come i comuni facevano coi podestà; il nuovo condottiero applica la signoria all'esercito e vi diventa signore.
A questo punto si dichiara la guerra tra la signoria mobile del campo e la signoria ferma della città: questa, costretta a servirsi di quella per vivere, sente che può soccombere nell'alleanza e destarsi un mattino avendo cangiato di signore; quella, costretta a vivere di battaglie e a conquistare città, cerca istintivamente una cornice dove fissarsi. Il signore temerà spesso le vittorie del condottiero, il condottiero i tradimenti del signore, ed entrambi periranno entro l'orbita delle signorie spingendole colla propria lotta alla necessità dei principati. Si direbbe che l'ondulazione di tutti i campi armati si allarghi sempre più per annegare signorie e republiche. Dovunque sorgono condottieri ferrati, impennacchiati come tanti cavalieri di una decorazione fantastica, cinti d'eserciti rumoreggianti. La loro vita di guerra impone la prova della guerra a tutti i governi; le conseguenze della guerra gettano nella miseria tutti i paesi. Il denaro diventa sola ricchezza e unica forza. I signori disarmati non possono fare a meno dei condottieri, che alla lor volta debbono essere capi politici per orientarsi in questo tumulto di battaglie governato dalle necessità della finanza entro la cerchia naturale delle signorie e illuminato dai fuochi fatui delle vecchie libertà.
Milano, la più ricca delle signorie, stipendia i più illustri discepoli di Alberico da Barbiano per schiacciare gli stati limitrofi e proseguire nel torbido sogno di conquista regia. Ma l'impresa d'Italia, troppo superiore alla ricchezza di Milano, ne immiserisce così i sudditi che alla morte di Giovanni Galeazzo, nel 1402, molte rivolte la compromettono; e Firenze stringe col papa, col marchese d'Este, Venezia, Padova, Rimini, Ravenna e Alberico da Barbiano una terribile lega di guerra contro l'unitaria metropoli. Le insurrezioni squarciano come tante mine lo stato milanese: la reggente ridotta agli estremi cede al papa Bologna, Perugia ed Assisi; i condottieri milanesi disertando s'impadroniscono di altre città; il marchese di Monferrato piomba su Vercelli e Novara: Vicenza, Feltre e Belluno si danno a Venezia; tutto pare perduto, la reggente muore avvelenata, a Milano stessa i guelfi inalberano la croce rossa nel quadrivio di Malcantone.
Senonchè la signoria milanese non può perire: i due figli di Galeazzo, Filippo Maria e Giovanni Maria, resistono l'uno a Pavia e l'altro a Milano; poi alla morte di questo, pazzamente sanguinario, pugnalato nel 1412 dentro la chiesa di S. Gottardo, e col ritorno all'unità del potere, la fortuna milanese si ristora. Una stessa crisi finanziaria strema la grossa metropoli e quasi tutte le città insorte contro di essa in nome delle vecchie indipendenze comunali storicamente impossibili. Le autonomie morte non debbono risuscitare; i condottieri conquistando qualche città non possono mutarvisi in signori sotto pena di dover tradire l'esercito in una miseria senza paga che lo dissolverebbe. Quindi Filippo Maria, sposando la vedova di Facino Cane, che gli porta in dote l'esercito e le città del morto condottiero, riprende tosto l'offensiva per riconquistare quasi tutto il proprio stato e proseguire la guerra di Giovanni Galeazzo contro la federazione republicana di Firenze, di Venezia e della chiesa. I suoi eserciti diventano terribili, ma egli, più terribile ancora, domina colla propria signoria ferma le signorie volanti dei condottieri: diffida di loro, li inganna, li tradisce; tutti soccombono davanti all'impenetrabilità della sua politica, Carmagnola, Piccinino, lo stesso Francesco Sforza, l'uomo più grande del secolo che arriva sino a sposare la figlia di lui e deve fuggirlo, combatterlo, e alla sua morte, nel 1447, non può raccoglierne l'eredità perchè Milano ritenta in se stessa l'ultima prova della republica.
Ma in due anni Milano si convince che la republica sarebbe il ritorno dell'anarchia guelfo-ghibellina colla perdita della Lombardia, per l'impossibilità militare di difenderla contro Firenze e Venezia senza gli eserciti di Francesco Sforza. Quindi allo spirare dell'ultimo contratto, quando questi passa al nemico e assale Milano, la republica scompare, e la signoria ritorna più forte col nuovo signore che rinuncia a tutte le pretensioni regie del genio visconteo.
Le crisi dei Visconti si ripercuotono in tutte le altre famiglie regnanti; nessuna di esse per abilità politica o per fortuna può evitare la terribile prova imposta dai condottieri alla loro finanza e quindi alla loro vitalità. Molte vi scompaiono o vi sopravvivono così deboli che le signorie vincenti le conquisteranno. Un tumulto di drammi affretta il finale delle famiglie condannate; subitanee incandescenze republicane illuminano i tramonti sanguinosi delle signorie vinte. La miseria delle plebi, il numero degli eserciti devastatori, le sovranità improvvisate dai condottieri, le resistenze dei signori, l'irresistibile dilatazione delle maggiori signorie, lo splendore delle arti sorridenti in mezzo a tutte le catastrofi, le tragedie di una politica sempre misteriosa anche nei propri trionfi, atteggiano e colorano una scena storica così variamente bella ed orribile che nessun ingegno di storico potrà mai riprodurla. Le autonomie romagnole agonizzano; Firenze e Venezia, unite nell'inimicizia di Milano, stanno per scontrarsi nell'antica Pentapoli; Ferrara rimane sul Po come baluardo ancora necessario contro le possibili eccessive espansioni delle regioni transpadane. Mantova, simile ad una rocca che spunti da un padule, ha la sicurezza dell'una e la sinistra quiete dell'altro; Urbino si leva fra i monti umbri come una stella; sopra altri monti dal castello dei Savoia esce una luce fosca che non arriva ancora a mescersi cogli altri splendori d'Italia. Amedeo VIII, succeduto al Conte Verde e al Conte Rosso, padrone finalmente di Ginevra e del Piemonte e della Savoia, guardando dalla cima della propria alpe l'Italia, si sente bruciare nelle pupille la fiamma del primo sguardo di Annibale ritto sulla vetta del S. Bernardo; ma i suoi occhi si offuscano, la sua ragione vacilla, e finisce imitando l'avolo Umberto III col fondare in Ripaille un ordine di cavalleria monastica e col farsi, nel 1439, dal conciliabolo di Basilea consacrare vescovo, nominare cardinale, eleggere antipapa col nome di Felice V. Quindi il suo sogno della conquista d'Italia, pel quale nove anni dopo mandava il proprio figlio Luigi a Milano per proporre scioccamente alla republica di sottomettersi ai Savoia, vanisce nel trionfo di Francesco Sforza: il suo dramma di antipapa conclude ad una farsa, nella quale abbandonato dai fedeli, destituito dalla chiesa, può conservare come privilegio di pazzo e di fanciullo il diritto di vestire per tutta la vita gli abiti pontificali.
Ma la rivoluzione dei condottieri, distruggendo le ambizioni regie di Milano e imponendo a tutte le signorie la liquidazione della guerra e della finanza, riassicura il progresso storico tendente alla costituzione di stati maggiori, perchè solamente questi potranno, imprigionando la mobilità militare di quelli, impedire alla milizia, che deve proteggerne la vita, di contrastarne il necessario sviluppo.
Effetti della rivoluzione militare nelle repubbliche.
A Firenze le conseguenze delle guerre nelle ultime reazioni aragonesi e contro i Visconti avevano prodotto quello stesso malcontento di tutte le altre signorie.
La republica interamente guelfa non poteva sottrarsi all'imminente rivoluzione. Infatti Salvestro dei Medici, forse il più grosso mercante e il più fino politico fiorentino, riuscendo come gonfaloniere a diminuire l'autorità dei capitani del popolo, riabilita gli ammoniti ed infligge alla costituzione republicana e al partito degli Albizzi il primo colpo. Come sempre, una rivolta precede la rivoluzione mettendo a soqquadro la città, bruciando, uccidendo. I Ciompi, plebei e cenciosi, sfogano l'antico odio contro i borghesi padroni della republica; le arti minori si levano per domandare la parità colle maggiori; la passione dell'uguaglianza fa dimenticare l'antico amore dell'indipendenza; l'amnistia dei ghibellini naturalmente amici dei plebei, la sospensione di ogni processo per debito di cinquanta ducati e l'abolizione degli interessi del debito publico, mutano il governo e la fisionomia di Firenze. Ma questa insurrezione plebea non può raggiungere il proprio scopo nella signoria. Perciò Michele di Lando, docile strumento in mano di Salvestro dei Medici, l'arresta subitamente per essere anche più presto rovesciato dalla reazione povero e coperto di gloria. Il suo pietoso eroismo e la sua politica imbecille lasciano Firenze nella medesima necessità di scegliere fra una restaurazione della borghesia nemica del popolo ed incapace di progresso in quella ormai troppo lunga contesa dei Ricci e degli Albizzi, o un'altra rivoluzione signorile che riassumendo il potere nelle mani dei Medici dia a Firenze la forza unitaria e l'ordine interno di Milano.
Firenze incalzata dal moto italico sceglie presto: nove anni dopo la ristorazione republicana, nel 1391, una sedizione plebea acclama la signoria di Vieri dei Medici; nel 1424 Giovanni dei Medici, oramai piuttosto signore che privato cittadino, sempre colla stessa politica ottiene la legge del censo, che aggrava i ricchi e rianima il popolo minuto; nel 1433 l'ostracismo di Cosimo dei Medici, provocato dagli Albizzi troppo timidi per assassinarlo, decide della rivoluzione; Cosimo è richiamato dopo un anno fra ovazioni dementi, e la dinastia è fondata.
Secondo la legge del progresso italiano la signoria ha ucciso la republica. Coi Medici la tirannide faziosa delle grosse famiglie cessa; il popolo si mescola alla borghesia troppo privilegiata; il governo, sottratto alle parti incapaci di pensare al di sopra di sè medesime e di agire oltre l'orbita del proprio interesse, acquista improvvisamente altrettanta limpidezza nelle idee che sicurtà nelle mosse: tutta Toscana sente la nuova forza di Firenze che sta per rivaleggiare di grandezza con Milano.
A Siena, rivale di Firenze, una rivoluzione simile a quella dei Ciompi riesce ad una eguale ristorazione republicana: ma la crisi aggravandosi ogni giorno consiglia invano ai Salimbeni, capi ghibellini, la dedizione ai Visconti, poichè Milano, incapace nella propria catastrofe del 1402 di reggere così turbolenta republica, deve abbandonarla a nuovi drammi. Allora Siena, straziata dalle fazioni, tradita dai condottieri, vede finalmente Pandolfo Petrucci alla testa della plebe imitare i Medici di Firenze: lo decapita nel 1456 con dieci seguaci, ma senza sottrarsi per questo alla fatalità della sua dinastia. Più crudele di Siena, Perugia scatena nella stessa ora storica la propria plebe contro i nobili e la frena colla reazione borghese dei Raspanti; poi, vinti questi nel 1389 da Pandolfo Baglioni, che accenna così alla futura signoria della propria casa e finisce come Pandolfo Petrucci, passa dalla tirannia improvvisata del condottiero Biordo Michelotti, tosto assassinato, al dominio di Milano, della chiesa e di Napoli per risorgere sfolgorante fra le vittorie di Braccio da Montone, ben più illustre condottiero e nullameno costretto, malgrado l'altezza del proprio carattere, a riprodurvi la tirannia del predecessore. Ma alla sua morte in battaglia ricompaiono i Baglioni, dapprincipio abili e modesti come i Medici, finalmente signori nel 1488.
Vitellozzo Vitelli s'insignorisce di Città di Castello; Lucca, condannata a morte come Pisa, già comprata da Firenze per 200,000 fiorini, oscilla dalla republica alla signoria dei Guinigi con silenziose ondulazioni di cadavere senza potersi arrestare nè all'una nè all'altra; Genova consuma nella stessa crisi oltre quaranta governi. La sproporzione della sua grandezza marinara colla sua esiguità territoriale non difesa come a Venezia da paludi imprendibili obbliga la superba republica a riprendere lo stesso atteggiamento del mille, quando sotto la dipendenza di Milano e coll'aiuto della Lombardia romana poteva ancora prosperare in una libertà e in una industria indigena. Quindi accumula rivoluzioni su rivoluzioni, alternando dogi di tutti i caratteri e di tutti i partiti, sino a ritornare col Giustiniani al dogado annuale e all'antica anarchia, per cadere poi sotto il tirannico protettorato della Francia nella esasperazione di tutte le parti. Ma il suo genio commerciale supera nullameno la crisi della miseria coll'istituzione della banca di San Giorgio, prima e massima originalità del mondo economico moderno, specie di signoria finanziaria così superiore alla signoria politica da governarne le mosse e dirigerne le idee, come la signoria mobile dei condottieri s'imponeva a quella ferma di tutti i signori grandi o piccoli. Laonde un'altra rivoluzione, nel 1408, scaccia i francesi di Boucicaut e rianima le fazioni dei Guarco e dei Montalto, avvicendando gli Adorno e i Fregoso, finchè uno di questi ultimi consegna Genova con tutte le dipendenze a Filippo Maria Visconti alle stesse condizioni già accettate dalla Francia e dietro un pagamento di mille fiorini. Però le sommissioni di Genova non sono mai che formali; i partiti seguitano a dilaniarvisi, la republica si rivolta, imbroglia di drammi smozzicati la propria cronaca, avviandosi sotto la mano poderosa e leggera di Paolo Fregoso, furfante di genio, verso la signoria dei Doria.
A rovescio di Genova, lanciata a tutti i venti dalle esplosioni incessanti della propria politica, Venezia immobile nelle lagune acumina la spaventosa piramide del proprio governo impressa di arcani geroglifici e scavata internamente da misteriose prigioni, mettendo il consiglio dei tre sopra quello dei dieci, arrivando così all'ultima condensazione politica di una republica troppo forte per tramontare colla dittatura in una monarchia. Il nuovo tribunale dei tre inquisitori, stabilito occultamente dal 1400 al 1450, è ancora più tremendo ed iniquo di quello dei dieci: la sua esistenza è un mistero, la sua autorità vigila nell'ombra più grande dell'ombra stessa. La ragione di stato è il suo solo diritto, la sua giustizia deriva dalla negazione di tutte le giustizie, la sua idea immota, immensa, eterna, è Venezia. Tutti gli altri ordini non sono più che strumenti di questo supremo consiglio, il quale sembrando un triumvirato non contiene nè differenze di persone, nè gradazione di principii. La rivoluzione della signoria ha quindi raggiunto in Venezia l'ultima perfezione. Poco dopo eccola discendere ricca, compatta, silenziosa attraverso l'allegria del proprio popolo dispensato da ogni pensiero, verso terraferma; ereditare da Aquileja, la grande città romana, un'altra potenza; dall'Oriente, invaso lentamente dai musulmani, girare lo sguardo su tutta la Lombardia oltrepassando il Po, misurando terre ed avversari. Padova, Verona, Belluno, Vicenza, Rovigo, Treviso, tutto il Friuli è già veneziano; Guastalla, Brescello, Casalmaggiore sono già comprati, il Po non sarà un impedimento per un governo che domina sul mare e ha stabilimenti in tutto l'Oriente. Un'immensa fiamma di orgoglio illumina il genio veneziano, quando, nel 1421, il senato discute se debbasi continuare la guerra o sottoscrivere la pace rispettando i confini di Milano, diventata rivale ben più vicina e più vera di Genova. Foscari senatore spinge Venezia alla conquista d'Italia in questa guerra spietata di denari e di condottieri, nella quale la vittoria deve rimanere infallibilmente al governo più solido e più ricco. Il doge Mocenigo, atterrito da una conquista che dovrebbe fatalmente mutare il carattere di Venezia, insiste per la pace, e riesce a mantenerla sino alla propria morte. Ma Foscari nominato doge torna alla guerra, prende Brescia e Bergamo, semina l'oro, conquista Lonato, Valeggio, Peschiera, Crema; passa il Po, entra in Romagna, compra Cervia, acquista Ravenna. Il denaro di Venezia basta a tutte le guerre, la sua perfidia supera quella dei condottieri, ai quali dà un esempio indimenticabile decapitando il Carmagnola.
Alla Venezia marinara succede la Venezia di terraferma: mentre la sua decorazione e le sue ricchezze sono ancora bizantine, il suo carattere e la sua azione sono già così italiane che tutti gli stati d'Italia, spaventati dalla sua subita irresistibile espansione, pensano al come costringerla nella loro federazione, penoso e prezioso risultato di tutte le rivoluzioni anteriori.
Trionfo delle capitali.
Poichè i condottieri forzano colla propria crisi finanziaria e militare le signorie a ricomporsi sopra base più larga di territorio e di democrazia assumendo le forme di tanti principati indipendenti, tutte quelle città che non possono mutarsi in capitale, debbono soccombere. La loro lotta dell'ultim'ora può variare dalla tragedia più cupa alla commedia più spudorata, ma lo scioglimento ne è pur sempre il medesimo: il popolo minuto, i plebei di città e di campagna abbandonano i piccoli signori incapaci di resistere alla politica delle grosse signorie e alle armi dei grandi condottieri. Al momento della resa alcune città, come Verona, pesano le forze e le ricchezze di Venezia e di Milano per servire almeno sotto il più comodo signore; Padova produce nell'ultimo dei Carraresi forse il suo più simpatico eroe; Obizzo da Polenta offre spontaneo Ravenna alla servitù e se stesso alla morte, che Venezia gli riserba; gli Appiani vendono Pisa a Firenze, e col suo prezzo improvvisano la minuscola signoria di Piombino, rifugio di corsari mutato così in riparo di barattieri; Corrado Trinci a Foligno sembra riassumere nell'ultimo giorno di comando ogni demenza e ferocia delle rivoluzioni anteriori. Mentre la casa di Savoia si dilata verso la Svizzera e il Monferrato, Milano e Venezia occupano tutto il Lombardo, e quest'ultima penetra nella Romagna; nel momento che Firenze sovrasta a tutta la Toscana, contando a Siena gli anni estremi di vita, la chiesa si espande anch'essa, conquista, spiana città, chiude l'èra delle ribellioni, sperde perfino i ricordi della feudalità e dei comuni indipendenti. Diciassette fra piccole signorie e republiche scompaiono, semplificando la geografia politica dell'Italia, che lavora, s'insanguina e progredisce verso nuove e maggiori circoscrizioni.
L'indipendenza, necessaria nei secoli anteriori pressochè a ogni comune, ora si concentra nei massimi; tutti gli altri, incapaci di mutarsi in stazioni originali del pensiero italico, debbono sottomettersi serbando intatta la propria vita locale. Il regno è impossibile, i principati sono necessari. Il popolo livellato da una nuova democrazia, che sottopone tutto al signore e sta per dare alle guerre l'importanza di un fatto, nel quale tutte le anime di una regione sono unificate, si avvicina alla doppia idea del cittadino e dello stato. Le miserabili autonomie, le selvatiche indipendenze antiche non sarebbero più che un ostacolo alla nuova vita e un controsenso per la recente ragione: così malgrado il disperato eroismo, col quale si difendono o tentano di risorgere, debbono ripiombare nell'impossibilità del passato. Invano Pavia, Tortona, Vercelli vorrebbero riapparire nella storia, più invano a Crema, a Lodi, a Cremona, ad Alessandria ripullulano le vecchie dinastie; più inutilmente ancora i condottieri, sostituendosi a queste colla loro giovane originalità, ritentano l'assurdo problema di storiche risurrezioni. L'impeto di Facino Cane, la sanguinaria perfidia di Othobon Terzi, il genio di Gabrino Fondulo che arriva sino all'idea di precipitare dall'alto del proprio terrazzo di Cremona l'imperatore e il papa, suoi ospiti e protettori, e sale il patibolo coll'unico rimorso di non averlo fatto, sorpassando così colla propria morte i migliori finali di tutte le tragedie, non possono impedire la razionalità del nuovo assetto politico. Solo Francesco Sforza, il più profondo di pensiero e il più sobrio di azione fra tutti, giunge alla signoria di Milano, ma innestando la propria famiglia sul vecchio albero dei Visconti e subordinando la propria immensa ambizione alle storiche necessità del momento. Tutti gli altri scompaiono fra le battaglie o precipitano fra i tradimenti senza rimpianto, quasi senza gloria. Alberico da Barbiano, dal quale incomincia la moderna scienza militare, Braccio da Montone, eroe degno di epoca migliore, Niccolò Piccinino che merita forse il paragone con Annibale, i Torelli, i Pergola, i Vignate, nessuno di essi per quanto forte nelle battaglie, abile nella politica, pronto a tutti gli eccessi, può conquistare solidamente una provincia e fondarvi una dinastia. Fra popolazioni inermi, signori codardi e republiche inette, la loro superiorità è utilizzata dal disegno immutabile della storia, che sembra compiacersi a sottomettere la loro forza all'altrui debolezza: trionfi e sconfitte, nulla giova loro; vittime della finanza, alla quale debbono rendere tutte le vittorie di cui abbisogna, passano da mano a mano come il denaro che ricevono, ignorando come il denaro il segreto dell'opera propria.
Conseguenze della rivoluzione militare nel resto d'Italia.
La Corsica, rimasta nella storia come la terra delle implacabili vendette, benchè divisa dal mare, subisce i contraccolpi di quest'ultima rivoluzione. Il feroce disordine delle sue scissure è tale che non una roccia vi rimane senza sangue o una cronaca si conserva intelligibile. Sempre dominata da Genova e sempre in lotta contro di essa, colla aristocrazia che vi si vanta di difendere l'indipendenza, e col popolo che non può accettare la democrazia genovese costretta a fargli pagare le spese della propria guerra contro i signori, l'isola è finalmente venduta dalla superba ed abile republica ad una compagnia di cinque azionisti, detta la Maona, che ne prende in appalto il presente e l'avvenire. Ma le rivoluzioni proseguono alternandosi con ritmo più disperato e regolare. Dopo il trionfo e la catastrofe di Arrighetto Rocca, Vicentello d'Istria oppone a Genova la fiera resistenza dei Caporali, capi dei comuni, uomini della nobiltà popolana e civica, che diventano i condottieri della Corsica. Se non che la finanza, dalla quale dovrebbero essere pagati, per sottrarsi alle spese del loro soldo, spinge il popolo a vendersi spontaneamente alla banca di S. Giorgio dopo gli infelici esperimenti del governo di Genova, del protettorato d'Aragona e della chiesa, di tutte le utopie e follie rivoluzionarie. Infatti la banca, colla logica insensibile della propria imparzialità, pacifica l'isola struggendovi i partiti; poi alla riscossa dei loro inestinguibili residui le due republiche politica e bancaria di Genova, essendo cadute sotto il protettorato degli Sforza, oppongono agli ultimi insorti i soldati di Milano; l'estrema insurrezione còrsa infuria ancora nella più scellerata delle guerre civili per lasciare nel 1492 l'isola stremata e sottomessa alla signoria della banca regnante colla democrazia e colla finanza.
La Sardegna invece, calma nelle quattro grandi giudicature di Cagliari, Torres, Gallura e Arborea, concentra ogni sensibilità rivoluzionaria nella vecchia capitale di Oristani. Ugo IV, che vi sogna ancora di riconquistare l'indipendenza di tutta l'isola contro gli Aragonesi soggiogando le altre giudicature, aggrava così la mano sui propri sudditi da costringerli a scannarlo colla figlia e a proclamare la republica nell'inevitabile illusione di tutte le vecchie città militari. Ma la republica fallisce come dappertutto; quindi Eleonora, sorella di Ugo, sublime di gentilezza e di virilità, ricompone lo stato, continua invano la guerra contro gli Aragonesi col proprio marito condottiere e non può lasciare se non la famosa «carta de locu», statuto di tutte le giudicature sotto la vincitrice signoria aragonese.
A Napoli la regina Giovanna, invecchiata nella lussuria e nei tradimenti della signoria, colla quale aveva potuto riconquistare il trono, è sorpresa nello splendore del proprio tramonto dalla nuova rivoluzione di Carlo Durazzo, suo figlio adottivo, che, insorgendo all'arrivo in Napoli del papa francese Clemente VII, la sconfigge, l'assedia nel castello, la strangola. Ma Luigi d'Angiò, altro figlio adottato dalla regina nelle ultime ore, gli contende il trono; la guerra diviene inintelligibile coi due papati, avignonese e romano, favorevoli alternativamente ai due pretendenti; finalmente Durazzo scompare in una rivoluzione ungherese, e sua moglie Margherita diventa il primo personaggio della seconda crisi napoletana. Costei, ancora più avara che insensibile, rappresenta subito l'elemento finanziario della rivoluzione, dalla quale non pensa che a spremere denaro anche perdendo il trono, ma colla sicurezza di riacquistarlo mediante una cassa ben fornita. Infatti, rifugiata a Gaeta col figlio Ladislao e ricca a quattrini, gli dà in moglie l'erede dei Chiaramonti di Modica, favolosamente doviziosi e sognanti una corona. Ladislao, lazzarone e guerriero, politico pieno d'ambizione e senza scrupoli, ripudia tosto col permesso del papa la moglie tenendosi la dote, riconquista il regno, vende feudi a ribasso per far denaro con ogni mezzo, prende Roma, sogna egli pure l'impresa d'Italia, assalta Perugia e vi muore vittorioso ed avvelenato. Sua sorella Giovanna II riapre il regno tragicamente voluttuoso della I, passando di amante in amante fino al marito conte delle Marche, francese di sangue regio, cui inganna e costringe a riparare in un convento. Cavalieri e condottieri innamorandosi di lei soggiacciono come ad una forza misteriosa, che affretta in una specie di saturnale dissoluzione la liquidazione del vecchio regno. Così questa II regina Giovanna, ripetendo in tutto la vita dell'altra, adotta due pretendenti, Alfonso d'Aragona e Luigi III d'Angiò, i quali si combattono, lei viva, senza che la pubblica quiete ne venga disturbata nemmeno coll'assedio decennale della fortezza di Napoli; e, lei morta, compiono la rivoluzione. Alfonso d'Aragona vincitore del rivale, dopo altri sette anni di lotta, atterra l'anarchia dei condottieri senza disarmare la patria, rinunzia al sogno di un regno italico, svolge una democrazia borghese sulla feudalità depressa dei baroni, unifica Napoli e Palermo ricostituendo nel regno delle due Sicilie il primo e più vasto principato d'Italia. Poco dopo suo figlio Ferdinando, colla stessa perfidia di Gabrino Fondulo nel castello di Macastormo, invita gran numero di nobili riottosi ad un banchetto e li assassina misteriosamente senza che l'aristocrazia insorga o il popolo si commuova.
A Roma invece la signoria di Urbano VI, strappata al conclave quasi francese col grido «romano lo vogliamo», passa attraverso un laberinto di scismi, di elezioni e di guerre: Urbano VI, feroce quanto Giovanni Maria Visconti, arriva sino a gettare in mare cinque cardinali chiusi entro sacchi; Bonifazio XIII, suo successore, simile a Margherita di Napoli, non pensa che a far danaro e mette tutto all'asta, indulgenze e benefizi; più tardi Baldassarre Cossa, condottiere improvvisato cardinale, sotto il pretesto di por fine allo scisma di Roma e di Avignone, insorgendo contro Gregorio XIII, proclama papa Alessandro V arcivescovo di Milano, cui avvelena poco dopo per succedergli sotto il nome di Giovanni XXIII. Al papa di Roma e di Avignone si aggiunge così quello di Bologna, e contro al triplice scisma si aduna il concilio di Costanza.
Ma la crisi imposta dai condottieri a tutte le signorie seguita a gravare sulla chiesa, giacchè Martino V, insediato dallo stesso imperatore Sigismondo in Roma, deve riparare presto a Firenze per sfuggire alla spada di Braccio da Montone, padrone di Perugia, Todi, Orvieto, Terni, Iesi, Spello, Narni, Rieti, Roma stessa, e del quale non trova altro modo a mascherare le conquiste che nominandolo condottiere della chiesa. Il successore, Eugenio IV, lotta coi Colonna trovandosi nella stessa condizione in faccia a Francesco Sforza signore di Iesi, Fermo, Osimo, Recanati, Mogliano, Ascoli, Ancona, Todi, Amelia, e lo nomina gonfaloniere della chiesa per impedirgli di cedere forse ai Visconti queste città sottratte al proprio dominio; finchè il cardinale Vitelleschi, ferocissimo condottiero della chiesa, le riconquista e le compone in pace sotto il governo ecclesiastico come sotto ad una tenda di riposo dalla lunga fatica della rivoluzione.
Così il papato aveva finalmente un uguale territorio e si svolgeva colla stessa emancipazione economica delle altre signorie; i feudatari delle campagne e delle piccole città sono scomparsi interamente o quasi, quelli di Roma abbattuti, i papi ridotti come i dogi a non poter più fondare dinastie, giacchè ogni successore distruggerà fatalmente nell'interesse proprio, fuso con quello della signoria, l'opera domestica dell'antecessore; le rendite della chiesa si organizzano come la banca di S. Giorgio, i popoli si dispongono al progresso pacifico, la signoria s'avvia verso il principato coi pontefici, splendidi d'infamia, impenetrabili di perfidia, potenti, gloriosi, subordinati all'equilibrio della grande federazione italiana, che sta per frangersi sotto la nuova conquista straniera.
Capitolo Sesto. I principati
Il secolo XV.
Collo stabilirsi delle grandi signorie i campi armati subiscono la stessa miseria da loro creata nelle città. All'infuori di Francesco Sforza, che solo fra tutti ha potuto innestarsi sul vecchio tronco dei Visconti, gli altri condottieri, impotenti a crearsi una signoria, perdono d'un tratto ogni importanza per ridiscendere al livello degli antichi mercenari sotto il potere politico dei grossi signori. L'epoca eroica è conchiusa. Piccinino, figlio di Niccolò, non credendolo soccombe ad un agguato tesogli da Ferdinando d'Aragona: i nuovi generali sono signori che riprendono il mestiere dei condottieri per portarvi l'ordine della loro nuova funzione. Il problema del secolo XV si è risolto colla costituzione dei principati. Le nuove capitali sono Venezia, Firenze, Ferrara, Milano, Torino, Roma, Napoli, Palermo nella Sicilia non più indipendente, Aiaccio e Bastia nella Corsica, Cagliari e Sassari nella Sardegna: le antiche sono scomparse irrevocabilmente dalla storia. Le ultime republiche non lo sono più che di nome e aderiscono alla federazione dei nuovi stati, che proclama nella sconfitta dell'unità il trionfo delle individualità regionali. Tutte le varietà delle forme politiche fioriscono in Italia.
Mentre i turchi prendono Costantinopoli, nel 1453 il pontefice Nicolò V pacifica la penisola, riunendola in una crociata che svapora in parole, e sopravvive nella prima pace stretta tra le grandi potenze italiane. Più tardi, quando l'espansione di Venezia minaccia l'Italia, tutti gli stati si collegano contro di essa; più tardi ancora la lega si rinnova per la difesa di Ferrara, e due anni dopo Venezia rientra nella federazione. Il nuovo trattato sopprime per sempre la memoria dei guelfi e dei ghibellini, riconosce l'indipendenza sovrana degli stati, guarantisce loro reciprocamente il non intervento, assolda un condottiere a spese comuni e le riparte proporzionandole all'estensione geografica. L'antica unità romana ed imperiale è dunque sparita. Se le vecchie libertà republicane riavvampano ancora nelle congiure dell'Olgiati a Milano o dei Pazzi a Firenze, e il sogno unitario non è ancora dissipato a Venezia; se drammi in ritardo insanguinano tuttavia molte città, e i papi mirano già a più vasta restaurazione pontificia contro i recenti stati mentre nuovi stranieri stanno per discendere le Alpi; nullameno lo splendore di questa rivoluzione dei condottieri è più vivido che in ogni altra antecedente, e il genio politico di Lorenzo dei Medici diventato capo morale della lega annunzia al mondo una nuova èra politica. L'Italia libera, federale, ricca, colta, abbagliante di pensiero, stupefacente di opere, è più che mai la primogenita d'Europa. Tutti i popoli della penisola sembrano riposarsi nell'eleganza sapiente della nuova vita dalle tragiche fatiche di tanti secoli di rivoluzioni.
Un'altra società si era già formata e si veniva formando su nuove basi. L'unità nazionale penetrava nelle coscienze coi capolavori della pittura e della letteratura, coi trattati della politica, collo scambio dei commerci e delle classi. La democrazia trionfante colla signoria aveva livellato le maggiori differenze: il principato, troppo grande per sparire nella persona del principe, il popolo troppo cosciente per non cercare il principio razionale della legge in ogni ordine del governo, la nuova cultura troppo varia, scettica e passionata per essere semplicemente una decorazione di corte, la religione troppo poco sentita per impedire i primi slanci della filosofia e le prime investigazioni delle scienze, le antiche indipendenze mutate in orgogli cittadini, la coscienza di un primato mondiale, un epicureismo fine, energico, innamorato delle idee ed accorto dei fatti, tutto concorreva a fare della nuova civiltà il principio di un mondo. Si aveva ancora l'indipendenza nei singoli stati e si viveva già in una certa eguaglianza: l'unità regionale non arrivava ancora alla nazionale, ma negava nullameno con serenità derisoria le vecchie unità dei papi e degli imperatori.
Però la coscienza morale sbattuta da tante catastrofi non aveva più nè criteri, nè ideali precisi. Le sue passioni si erano logorate nella loro stessa tragedia, i suoi bisogni si davano libera carriera nelle gioie della pace fra i capolavori quotidiani di un'arte incomparabile. Questo trionfo non era una transazione ma una conclusione: l'Italia in sino allora rimorchiatrice del mondo non poteva andare più oltre. Dopo averlo emancipato dall'impero e dal papato, logorandoli e sottomettendoli alla ragione della propria storia, saprebbe ancora scoprire l'America con Colombo, la stampa con Castaldi, con Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci trovare il metodo sperimentale, dare un modello delle storie con Guicciardini, un codice della politica con Machiavelli, la satira di tutto il medio evo con Ariosto, rinnovare Dante con Michelangelo, assicurare più tardi la rivelazione astronomica con Galileo, creare un popolo di artisti e di statue, resuscitare tutta l'antichità coll'erudizione, improvvisare un'eleganza superiore a quella dei greci, brillare di scienza e d'incredulità, di ricchezze e di pensiero, ma non guidare ancora la storia europea.
Regno e rivoluzione religiosa sono per essa egualmente impossibili.
Quindi attraverso la gloria del secolo XV cominciano già i segni della decadenza. Nessuno succede più a Dante, a Petrarca, a Boccaccio: l'originalità sembra esausta nella letteratura mentre l'erudizione moltiplica i modelli diseppellendoli nell'antichità; si direbbe che la coscienza vuota di avvenire si precipiti sul passato. Alla passione dei fatti presenti, che dovrebbe animare l'arte, succede quella dei fatti passati; Crisolora portando l'ellenismo da Costantinopoli suscita un entusiasmo indescrivibile. Leonardo Bruni interpreta i vecchi filosofi greci, Flavio Biondo è il primo geografo dell'Italia antica e moderna, Pastrengo scrive la prima biografia universale, Poggio Bracciolini inizia storie, viaggi e polemiche, ammirabile di spudoratezza e di penetrazione, di servilità e di originalità; Aurispa, Barsizza, Traversari frugano archivi e biblioteche per rimettere in circolazione classici ignorati. Una traduzione di Tucidide e di Polibio è pagata quanto una città; Coluccio Salutati, incoronato come il Petrarca e tanto a lui inferiori, scrive come lui lettere che sono avvenimenti; Filelfo, Valla, Bessarione, Giorgio di Trebisonda discutono fra loro con una frenesia di passione che li spinge a ferirsi col pugnale dopo essersi contusi colle invettive, mentre il mondo li ammira e li applaude, gitta loro gemme e sorrisi, titoli e corone. La empietà diventa un orgoglio, la bellezza una religione, la dottrina una potenza, Platone e Aristotele rinnovano nella nuova chiesa dei dotti il contrasto di San Paolo e di San Pietro, dividendo i campi del pensiero filosofico ed assicurando alla filosofia lo stesso trionfo della pittura sulla religione. Idea e bellezza divengono le due verità supreme: la religione non è che la credibilità delle forme più basse della filosofia, la rappresentazione delle quali pericolava sotto l'ispirazione di un odio alla natura e al mondo. Ma la filosofia domina col pensiero, e la pittura glielo abbellisce. L'antica Maria del cristianesimo si muta nella Madonna del Petrarca, immagine immacolata e voluttuosa; il Padre Eterno non è più che un Giove Olimpico coi lineamenti inteneriti dalla tragedia di Gesù; questi più bello di un Adone, di una bellezza fra il femminile e il maschile, non soffre più che nello spirito e deve conservarsi sempre bello, anche sotto le battiture e sopra la croce, per commuovere i nuovi adoratori.
Poliziano incapace d'intendere Dante rifà un Petrarca più plastico, con suoni più dolci e colori più carnei; Lorenzo dei Medici sembra ritrovare qualche nota di Anacreonte pei canti carnascialeschi, nei quali la brutalità dei costumi anteriori e la corruzione dei costumi presenti si uniscono nullameno per indicare una decadenza, che l'arte abbellisce, la scienza distrae e la politica urge. Pulci nel Morgante Maggiore irride all'impero e alla chiesa con una satira mescolante mitologia cristiana e pagana, storia e religione, senza coscienza nè dell'una nè dell'altra, e gualcendo come per chiasso quasi tutte le figure del proprio poema, che Boiardo dovrà ricomporre ed Ariosto recare ad insuperabile bellezza.
Il teatro manca perchè manca la coscienza: la vita storica italiana trionfa delle proprie contraddizioni politiche, ma non ha contraddizioni ideali capaci di mutare i suoi assassinii in drammi. Gli eroi abbondano, le scene sono troppe, le peripezie incessanti, le catastrofi incalcolabili, eppure la tragedia non irrompe nell'arte. Tutti scherzano dopo la rivoluzione dei condottieri; la pittura non ama che la forma e il colore, la letteratura che la frase e l'erudizione. Fede e passione avevano creato Dante; scetticismo ed epicureismo preparano in Pulci l'Ariosto. Shakespeare fallirà alla gloria d'Italia perchè Savonarola non può essere Wiclef; nè Paolo Sarpi, Lutero. Solo Michelangelo sarà tragico, quasi per dimostrare che nel secolo XV l'anima italiana, passata dalle lettere nelle arti, non si esprime più che con immagini, per un inesplicabile segreto della storia perfezionando la propria facoltà di rappresentazione quando appunto le veniva intimamente mancando ogni coscienza. Mentre Lutero protesterà a nome di Dio contro il papa, Michelangelo minaccerà lo stesso Giulio II dipingendo le collere e i terrori divini per tutte le vòlte del Vaticano; quando la libertà di Dante spirerà sotto la signoria dei Medici, Michelangelo, costretto a scolpire le tombe dei tiranni, si vendicherà mettendo sulla fronte di uno tra loro la tragica concentrazione del problema affaticante il nuovo secolo, e atteggerà di dantesco dolore tutte le figure simboliche del tempo.
Impossibilità del regno.
I principati governano l'Italia libera da ogni autorità straniera e dalle vecchie discordie comunali e settarie.
II progresso politico ottenuto colle ultime rivoluzioni si traduce già in progresso civile, ma i principati, che lo attuano, dovrebbero come queste contenere la potenzialità di una più alta forma per lasciargli con più libera carriera la possibilità di creazioni originali. Ed invece i principati rappresentano l'ultimo termine dell'originalità italiana. Tutte le altre nazioni d'Europa, sempre accodate alla storia d'Italia, stanno per sorpassarla: questa non può produrre spiriti religiosi come Torquemada e Gerson perchè la sua fede cattolica manca al tempo stesso di passione e di disciplina; non conquistare nuovi mondi come il Portogallo e la Spagna perchè tutta piena di repubbliche marinare e di marinai, come Colombo, Cabotto e Vespucci, non ha creduto nè al loro genio, nè alla loro opera. La gloria delle armi d'ora innanzi apparterrà quindi ai francesi e agli svizzeri, quella delle imminenti riforme religiose all'Inghilterra e alla Germania, nella quale l'istinto federale seguita quella splendida vita di piccole o mezzane circoscrizioni che avevano illustrato la vita italiana dalla morte di Odoacre a quella di Lorenzo de' Medici. Per salvare l'Italia dalla irreparabile decadenza e mantenerla alla testa della civiltà europea bisognerebbe rifarle una coscienza morale e politica, tuffandola in una tragedia ideale che le scoprisse nel fondo del vecchio cristianesimo e della nuova filosofia, combattenti contro il papato, il segreto di una più alta libertà spirituale. La personalità dello stato e del cittadino non può scaturire che da tale tragedia. Nessun progresso materiale, nessuna bontà di congegni o di ordinamenti politici, potrebbero creare i due tipi del cittadino e dello stato moderno. Se il cristianesimo era stato un'emancipazione della natura dalle imminenti divinità pagane che l'infestavano coi capricci delle loro volontà, e la sua conquista di Roma si era svolta come liberazione dall'unitarismo imperiale soffocante nella cornice del passato ogni avvenire; se le invasioni dei barbari avevano rinvigorito con infusione di sangue vergine e di intatte potenze la decrepita individualità mediterranea; se l'impero romano era lentamente dileguato attraverso quelli di Carlomagno, di Ottone e del nuovo Massimiliano sino a non esser più che un ricordo e una decorazione; se il cittadino del comune italiano, quantunque più debole, era più complesso dell'antico cittadino romano; nè il cristianesimo, nè il cattolicismo, nè i barbari, nè i comuni cresciuti a principati, potevano senza una più profonda rivoluzione assurgere all'idea dello stato e del cittadino odierno.
Il cristianesimo sintetizzato dal cattolicismo si appesantiva sulla recente coscienza non meno del paganesimo sulla coscienza filosofica dei tempi di Augusto: l'altezza de' suoi principii diminuita dalle interpretazioni papali, invece di elevare i pensieri, impediva gli sguardi. Bisognava emancipare nuovamente la coscienza religiosa per ridarle l'estasi eroica di altri dialoghi con Dio nella superbia feconda di una sovranità spirituale superiore ad ogni potere mondano. Le incarnazioni domestiche religiose e politiche dell'autorità ne oscuravano il principio stesso: le differenze sociali, per quanto scemate nei fatti, rimanevano infrangibili nei sentimenti; ogni padrone si sentiva maggiore del servo, ogni servo conservava qualche cosa dello schiavo; i governi, invece di essere l'espressione organica del diritto pubblico, significavano il resultato di un compromesso fra le sommosse del popolo inasprito da bisogni o sollecitato da idee misteriose e le concessioni del sovrano, qualunque ne fosse il nome, che si reputava padrone dello stato e lo conquistava, lo conservava, lo trasmetteva con ogni mezzo, senza nemmeno sentire nella propria autorità una delegazione popolare e nella propria attività una rappresentanza legale. Tesoro pubblico e tesoro regio erano tutt'uno, ogni cittadino non valeva ancora che nella propria classe, e con essa e per essa solamente poteva ottenere giustizia; quindi le famiglie organizzate feudalmente, le corporazioni e i mestieri mutanti ogni novizio in uno schiavo e ogni associazione in una camorra, la giustizia ridotta a una capricciosa perfezione o ad un'infamia dell'arbitrio, la religione nemica delle scienze, le arti serve dei principi, il commercio senz'altra garanzia che la cointeressenza dei reggitori pubblici, l'industria sospettata nelle scoperte, non difesa nelle privative, abbandonata nei risultati; la vita privata senza virtù, la vita publica senza l'idea di nazione, di stato, di governo, di rappresentanti e di rappresentati, senza l'unità della sovranità che dev'essere identica nell'individuo singolo e nell'individuo collettivo.
L'Italia nata e cresciuta federale non poteva passare al regno.
Per giungere a quest'idea le sarebbe abbisognata una forte coscienza politica unitaria e un'immensa forza di conquista in qualcuno de' suoi tanti principati. Invece tutta la vita e la storia italiana si erano svolte nella negazione del regno iniziato da Odoacre: nessun conquistatore barbaro o capo indigeno, per quanto abile nella politica e prode nelle armi, aveva potuto diventare re d'Italia. Da Berengario ad Ezzelino, da Giovanni Galeazzo a Ladislao, dagli Scaligeri ai Savoia, da Pavia a Venezia, avventurieri, eroi, tiranni, signori, republiche, a tutti il sogno della conquista italiana era balenato nella mente e a molti aveva costato la vita senza nemmeno permettere loro di tradurlo nella sincerità di una pretesa. L'Italia aveva dovuto crescere nel federalismo e col federalismo. Ora il passaggio dalla federazione al regno era anche più difficile per l'aumentata importanza dei principati sugli antichi comuni. Napoli, soggetta agli Aragonesi, aveva così scarsa italianità che la sua conquista, impossibile per cento altre ragioni, sarebbe sembrata a tutti il trionfo di un'impresa straniera; la Savoia più francese che italiana, senza vita civile, povera e rapace, non si era ancora abbastanza mescolata nella storia nazionale: come mai Venezia, Napoli, Firenze e Milano avrebbero ceduto a Torino o a Chambéry? Milano limitata dal Po, stretta fra le forze marittime di Venezia e quelle montanare della Savoia, non avrebbe potuto sdoppiarsi abbastanza per dominarle entrambe; Firenze, scettica e coltissima, sfuggiva nella Toscana con incomparabile destrezza a tutte le prese; Venezia, bizantina e quasi ieratica nella propria organizzazione, non poteva mutarla per assoggettare l'Italia senza prima suicidarsi. Ma Roma sopratutto, caduta naturalmente nella signoria del papa, non poteva essere conquistata da nessun principe senza una rivoluzione religiosa che disarmasse il pontefice in faccia ai popoli; e senza Roma o contro Roma ogni unità italiana era assurda. La rivoluzione del regno non poteva uscire in Italia da quella dei principati: troppe differenze regionali separavano tutti questi piccoli stati, rendendoli fra loro più stranieri che non con tutto il resto d'Europa: nessuna republica o dinastia o lega o matrimonio avrebbero bastato nemmeno a riunire l'Italia in due o tre corpi.
Se la Spagna, federale come l'Italia, aveva raggiunto con Ferdinando d'Aragona e con Isabella di Castiglia l'unità regia, era questo un frutto della lunga guerra sostenuta contro gli arabi e i mori, nella quale la necessità della difesa tendendo sempre all'unificazione doveva fatalmente fargliela trovare nella conquista dell'indipendenza; poi la Spagna aveva un forte sentimento religioso, reso più vivo dall'urto secolare col maomettanismo, e invece l'Italia scettica subiva piuttosto l'influsso del papato politico che del cattolicismo.
D'altronde nella storia europea un regno italico del secolo XV sarebbe stato senza scopo e senza significato: l'unità italiana avrebbe dominato colla superiorità della propria forza spirituale tutta l'Europa, riproducendovi la tirannia romana ed impedendo l'individualizzarsi delle altre nazioni, mentre il papato soppresso in Italia da una impossibile unità regia o republicana avrebbe reso egualmente impossibile nella riforma quell'ideale tragedia, dalla quale la coscienza europea doveva derivare la libertà religiosa a fondamento della libertà politica.
L'Italia necessaria alla storia moderna, come la Grecia alla storia antica, nel medesimo ufficio di elaborazione per tutte le idee e le forme politiche, doveva somigliarle anche in questo: che non arriverebbe colle proprie forze a conquistare l'unità nazionale. Solamente l'Europa potrebbe costituire il regno italico quando, creati colla riforma tedesca e le rivoluzioni inglese e francese lo stato e il cittadino nella loro più pura identità, discenderebbe poi a realizzarli dovunque convergendo lo sforzo di tutte le proprie attività contro i residui medioevali della propria storia. Individuo, stato, umanità, il gran ternario della vita storica moderna, nella quale ogni termine è identico e composto degli altri due, impediva nel secolo XV all'Italia la sua unità nazionale. L'interesse della storia europea e le necessità della coscienza mondiale, aspettante dalle rivoluzioni germanica, inglese e francese la liberazione dall'unità cattolica, dovevano quindi valere e valsero più dell'interesse e della coscienza italiana. La quale, smarrendo improvvisamente la logica infallibile di tanti secoli di rivoluzioni, parve non comprendere più quelle che si iniziavano dappertutto, e si perdette in una vita altrettanto piena di avvenimenti che vuota di significati e di ideali.
Lodovico il Moro e Alessandro Borgia.
Alla morte di Lorenzo dei Medici (1492) e di Innocenzo VIII la lega dei principi italiani si ruppe. Altre gelosie si accesero fra Napoli e Milano; Lodovico il Moro usurpatore del ducato al nipote Gian Galeazzo con uno dei soliti drammi domestici, atterrito dalla nuova lega stretta contro di lui da Venezia, Firenze, Roma e Napoli, invocò contemporaneamente l'aiuto della Francia e dell'imperatore Massimiliano. Questa, che fu chiamata perfidia ed era la vecchia politica di tutte le rivoluzioni italiane, divenne il grande atto della servitù italica. L'Italia corsa per tanti secoli da invasioni d'ogni sorta, ne aveva sempre trionfato, utilizzandole perfino nei peggiori disastri; ma, esaurita allora nella propria potenzialità politica, si lasciò prostrare dalla calata di Carlo VIII di Francia, quantunque più effimera di quella di Enrico di Lussemburgo. Invano il Moro spaventato dagli incredibili successi di re Carlo, che ricordandosi importunamente di Valentina Visconti e di Carlo d'Angiò pretendeva all'eredità di Milano e di Napoli e traversava tutta Italia nel sogno trionfale dell'antico dominio franco, cercò riparo alla propria imprudenza riannodando contro di lui una lega anche più formidabile dell'altra, contro la quale lo aveva invocato; invano, ricomponendosi dallo sbalordimento dalla prima sorpresa, costrinse re Carlo a rientrare in Francia dopo l'inutile vittoria di Fornovo. L'Italia incapace di mutarsi in regno, deve finire preda delle nazioni vicine che lo sono già o stanno per diventarlo. Infatti poco dopo Luigi XII ridiscende le Alpi, fa prigioniero il Moro, penetra nel reame di Napoli cogli spagnuoli di Ferdinando il Cattolico, ma invece di spartirlo con lui secondo il trattato segreto, gli si volta contro, per tenerselo intero come vecchia appendice del ducato d'Angiò.
L'indipendenza della federazione italiana, così sicura poco prima, ha perduto i due più grossi stati; la sua vita chiusa nella parentesi di una conquista francese prova già i primi sintomi dell'asfissia. Il suo avvenire politico è chiuso. L'appello del Moro all'imperatore Massimiliano non può rievocare la vecchia dominazione imperiale, ma un'altra ne sorge a Roma con Alessandro Borgia, empio fra i più empi ed accorti pontefici. Poichè il papato si era assiso in Roma e in alcune sue provincie come una signoria destinata a svolgersi quotidianamente in principato, sente d'un tratto crescersi la necessità del regno. Milano soggiogata, Napoli caduta, Firenze respinta nel passato dalla nuova espulsione dei Medici, suggeriscono fatalmente alla politica del Vaticano il disegno di una conquista, che, slargando i confini del principato, dia alla chiesa l'estensione e l'importanza di un regno. I vecchi titoli delle donazioni di Carlomagno e di Ottone sono ancora là per giustificare qualunque impresa. Ma Alessandro Borgia, insignoritosi del pontificato colla perfidia di un Gabrino Fondulo, interpreta questa idea politica colla propria passione di avventuriero, sognando di costituire entro la chiesa e contro la chiesa un grosso ducato al proprio figlio Valentino, maggiore di lui nella profondità satanica dell'ingegno e nella potenza delle armi. La inconciliabile antitesi di quest'impresa sfugge non solo ai due Borgia, ma al Machiavelli. Il duca Valentino raddoppia invano eroismi, sfolgorando nelle vittorie, scivolando attraverso ogni combinazione politica, impadronendosi della Romagna, pacificandola con un mirabile governo. Il suo genio multiplo e indomabile resiste a tutti i rovesci, gira gli ostacoli che non si lasciano abbattere, finchè Alessandro Borgia muore e il Valentino, ammalato, ha appena il tempo di fuggire, lanciando alla storia, che rovescia l'edificio del suo sogno, la sfida di un orgoglio sempre superiore a tutti gli avvenimenti.
Ma il papato con a capo Giulio II, il forte nemico dei Borgia, prosegue nell'idea del regno senza contraddizioni di ducati domestici. La restaurazione pontificia si presenta come l'ultima forza e gloria dell'Italia. Solo il papato, sostenuto dal proprio principio religioso contro le pretese di tutta l'Europa cattolica, può impedire che l'Italia, incapace della propria unità nazionale, non si unifichi come provincia conquistata da qualche regno straniero. La necessità per il papato di costituire un regno salva l'Italia: Giulio II, presentandosi come il restauratore di quello, si precipita vecchio nella lotta coll'ardore di un giovane eroe. Poichè Venezia si è dilatata nelle Romagne idealmente acquisite alla chiesa dalle imprese dei Borgia, egli si avventa sulla republica: al tempo stesso veemente e profondo nella politica, riunisce contro l'altera republica nella lega di Cambray (1508) l'imperatore Massimiliano, re Luigi XII e Ferdinando il Cattolico; la republica resiste intrepidamente a questo sforzo di tutta l'Europa, ma vinta alla battaglia di Agnadello perde in un'ora le conquiste di un secolo. Il grande principato della chiesa è costituito; Bologna e Perugia vi sono perite prima; il ducato di Urbino ne è un vassallaggio che riproduce nella politica di Giulio II l'errore capitale di quella dei Borgia, inevitabile allora nel trapasso dei principati ai regni. Ferrara, agognata e minacciata, diventerà presto o tardi il forte baluardo del regno pontificio al nord.
Infatti Giulio II, sdegnato e pensoso dell'opera francese, si stacca dalla lega di Cambray per stringerne un'altra contro la Francia con Venezia, Ferdinando e gli svizzeri. Massimiliano rappattumatosi per denaro coi veneziani abbandona i francesi, che perdono alla battaglia di Ravenna tutti i vantaggi ottenuti da quella di Agnadello. Genova, che aveva tentato invano nel 1506 una rivolta contro di essi con Paolo da Novi, doge plebeo alla testa della plebe, la compie ora (1512) con Giano Fregoso; Massimiliano Sforza rientra trionfalmente a Milano piuttosto come vicario imperiale che quale duca indipendente; Firenze riconquista Pisa toltale dalla prima invasione di Carlo VIII, e perde nella seconda maggiore signoria dei Medici la repubblica improvvisata dall'eroismo religioso e dalla demenza politica di frate Savonarola. Tutte le altre piccole signorie o republiche attardate hanno dovuto capitolare in questa ultima crisi dei principati. Solo la chiesa è uscita trionfante dall'arringo perchè sola in Italia ha un'idea necessaria all'Europa e una forma politica da conquistare; ma Giulio II, aprendo il gran secolo cui Leone X darà il nome, non sospetta nemmeno che la ristorazione del papato, mal giudicato poi dal Machiavelli e da tutti gli storici posteriori, debba fatalmente coincidere colla Riforma di Lutero. Poichè l'Italia cessando di capitanare il progresso europeo non può come la Grecia ritirarsi dalla storia, svolge mirabilmente e consolida nel regno papale l'ostacolo necessario alla Riforma; quindi disciplina la tradizione cattolica, costringe i papi alla costituzione di un regno e li pareggia ai grandi re per dare loro l'indipendenza necessaria ad una tirannia ideale. La Riforma, già scoppiata inavvertitamente in Germania, si troverà così dinanzi riunite le due vecchie idee del papato e dell'impero per meglio vincerle in una guerra secolare, emancipando per sempre il pensiero politico e religioso nella storia. Il papato, costretto dalla vita italiana a mutarsi in piccolo reame, rivelerà più facilmente tutte le proprie brutture e inconciliabili contraddizioni ideali; l'impero, invocandolo, ne diverrà il gendarme invano prepotente; tutte le libertà e l'avvenire saranno dal canto della Riforma, tutte le servitù e il passato dietro Roma; mentre l'Italia inerte spettatrice dell'immensa lotta, della quale gli episodi insanguineranno le sue contrade, sembrerà perdervi ogni indipendenza di pensiero e di vita pur conservando nella vicenda di soggezione a stranieri, spesso mutati e sempre inevitabili, la fede di una futura unità nazionale in tre regni sopravviventi fra le rovine dei principati, la Savoia, le due Sicilie e la Chiesa.
Leone X e Lutero.
La restaurazione di Giulio II non si arresta alla sua morte, perchè le vere idee politiche s'incarnano, ma non si subordinano agli individui.
Il suo successore Leone X, meno vasto nell'ingegno e forte nel carattere, ha tutte le qualità necessarie al proprio periodo. Se la casa dei Medici, d'onde esce, gli apprende la vanità di Alessandro Borgia inteso a costruire nelle Romagne un ducato al proprio figlio Valentino, l'opera di Giulio lo persuade come lo stato della chiesa non possa più essere distratto in alcuna combinazione domestica: quindi, abolendo la republica fiorentina e reintegrando i propri nipoti in una signoria male dissimulata, coordina la politica italiana a quella della chiesa. Senza la tirannia dei Medici Firenze sarebbe stata conquistata dalla Spagna o dalla Francia come Napoli e Milano. Solo il papato, caduto in mano ai Medici nell'ora in cui doveva comporsi a regno, poteva dare a Firenze quell'immunità che salvava le terre della chiesa. La Savoia e Venezia, quella troppo alta, questa troppo marittima, entrambe ai confini d'Italia, potevano evitare la servitù minacciata a tutta la penisola; Firenze posta come un ostacolo fra la conquista napoletana e la lombarda avrebbe dovuto esservi fatalmente assimilata nella voracità delle prime guerre senza l'intervento di una potenza superiore. I pontefici medicei furono i suoi patroni. Leone X anzichè liberarsi del sogno di Alessandro Borgia lo ripetè ad Urbino, raddoppiandolo a Parma; ma nelle tergiversazioni della sua politica, ove s'imbrogliarono poi tanti storici, non fece che cedere all'inconscia necessità di opporre gli uni agli altri i nuovi conquistatori d'Italia, ingrandendo nei loro reciproci disastri il regno della chiesa, alzandolo nella storia come una nuova Palestina sacra a tutti i credenti, e nella quale Roma sarebbe stata piuttosto Atene che Gerusalemme.
Le contraddizioni ideali del papato si urtarono quindi nella maggiore delle crisi. Mentre come regno costringeva la politica di Leone ad una corruttela assassina, che lo scetticismo epicureo di una corte formicolante di pittori, di letterati e di cortigiane commentava anche più impuramente; come istituzione divina sollevandosi al di sopra dei vecchi credenti e dei nuovi eretici acquistava una compattezza ed una personalità senza riscontro in tutta la sua storia. La nuova inevitabile tirannia ideale, colorandosi di tutte le infamie della tirannia politica, dava alle critiche della Riforma la giustezza, la precisione necessaria a coordinare nella storia tutte le ribellioni spirituali esaurentisi da tanti anni in drammi inutili ed incompresi. La Riforma era la sovranità dell'individuo cristiano in faccia a Dio, il papato era la subordinazione di Dio e del credente nell'interpretazione vaticana; qualunque applicazione della libertà, anche contraddicendola, doveva venire dalla Riforma, tutte le resistenze autoritarie sarebbero inspirate e legittimate dal papato.
Il suo regno, sembrando contrastare alla formazione del regno italico, per una critica più acuta fu invece il solo ostacolo alla conquista spagnuola dell'Italia, che avrebbe ridotta la grande patria della federazione ad un'unità senza vita e senza fisonomia. L'egoismo del papato costretto a difendersi da tutte le aggressioni impedì la totalità di ogni conquista straniera. Il vario concetto dei papi nell'ubbidire a questa storica necessità (e alcuni fra essi avrebbero voluto magari la rovina d'Italia e nessuno di loro pensò mai all'interesse della grande patria italiana) non mutò l'opera del papato. Quindi la storia, come scienza di un sistema nel quale i fatti derivano dalle idee e si compiono coll'assorbimento di tutte le passioni, deve oggi affermarlo serenamente al disopra degli ultimi clamori ghibellini e giacobini, che insultano nel papato, già libero dal proprio potere temporale, gl'inutili e criminosi impedimenti da esso opposti alla recente formazione del regno nazionale.
Al momento della Riforma l'espansione francese, dovuta semplicemente alla superiorità del suo governo unitario su quello federale germanico nella prontezza delle mosse politiche e militari, deve cedere dinanzi alla necessità ideale che richiama nella lotta la vecchia idea dell'impero. La restaurazione pontificia di Giulio II si abbina alla restaurazione imperiale di Carlo V. Non è più l'Italia che lotta contro questi due poteri supremi, ma la Germania: l'ira cristiana di Dante diventa collera protestante nel petto di Lutero. Alla morte di Luigi XII, invano ostinato eroicamente alla conquista del milanese, e colla successione di Francesco I, cavaliere valoroso e grottesco, si disegna sul fondo del secolo la grande figura di Carlo V. Arciduca dei Paesi Bassi, erede di Spagna e di Germania, egli diviene involontariamente la sintesi dell'impero e l'ultimo imperatore. La Spagna riproduce in un istante indimenticabile di gloria la vecchia unità romana fusa nella nuova unità cattolica; ma la federazione, processo moderno dell'individuazione degli stati, è dentro di essa, e la Riforma, che deve formare l'individualità del cittadino coll'emancipazione del credente, è dentro e fuori di essa. L'espansione francese non ha e non può avere valore. Invano Francesco I discende le Alpi, vince a Marignano, e compra dalla viltà dell'ultimo Sforza per 30,000 scudi il ducato di Milano; più invano minaccia il reame di Napoli e si destreggia in una politica di leghe, nella quale i trattati succedono ai trattati: Carlo V, comparendo sulla scena della storia, lo rilega istantaneamente al secondo posto coll'imporgli la fatalità di una guerra, nella quale la Francia deve soccombere.
Infatti la scempia vanità di Francesco I aspirante all'impero moltiplica i pretesti della lotta: la Spagna, già in possesso di tutto il mezzogiorno d'Italia e coll'eredità dell'impero germanico succeduta in ogni diritto dell'antico patto di Ottone, non può evitare l'impresa di Milano. Leone X più duttile di entrambi gli avversari offre a Francesco I il suo concorso per la conquista di Napoli contro la cessione alla chiesa di tutto il territorio di qua dal Garigliano, e a Carlo V la sua cooperazione alla conquista di Milano contro la cessione di Parma e Piacenza e la conferma di Reggio e Modena. Carlo V, più largo, stringe il patto col pontefice. La guerra si accende nella Navarra, nel Lussemburgo, in Italia; è sospesa alla morte di Leone (1521), ricomincia con Adriano VI, si complica colla diserzione del Borbone, si allunga coll'inutile spedizione del Bonnivet nel Milanese e colla fallita invasione in Provenza del Borbone, finchè si chiude col più terribile disastro francese a Pavia. Francesco I vinto e prigioniero lascia l'Italia alla Spagna. Clemente VII, un altro Medici succeduto a Leone, meno splendido, ma forse più astuto, che aveva stretto un nuovo patto con Francesco I all'ultim'ora, si trova solo e nemico contro il vincente imperatore, al quale la Riforma impone di allearsi con Roma. L'equivoco di tale politica doveva presto dissiparsi nella chiarezza ideale della storia, ma il suo imbroglio supremo fu tale che Guicciardini, la testa più forte di allora, vi si perdette e Machiavelli ne delirò.
La dominazione spagnuola mise i tremiti della paura in tutti i principati italiani raggruppandoli in una lega, nella quale tutti sentendosi egualmente perduti trattavano separatamente e segretamente coll'imperatore per aprirsi una via di salvezza. Le idee più pazze si urtarono nelle più incredibili combinazioni; il Morone voleva offrire la corona d'Italia al marchese di Pescara, generale dell'imperatore e con questi imbronciato; il Machiavelli proponeva un esercito nazionale con alla testa Giovanni dalle Bande Nere: il senato di Milano inerme, credendo ancora nello Sforza, il più inetto fra gli inetti, ricusava di assumere il governo in nome dell'imperatore; poi il Frundsberg calava le Alpi coi lanzichenecchi per strangolare il papa, il cardinale Colonna a capo di ottocento cavalieri e tremila fanti assaltava Clemente VII nel Vaticano, il Borbone dava il sacco a Roma; mentre Firenze ritentava per l'ultima volta l'insana prova della republica, e Andrea Doria pari all'antico Timoleone e al futuro Washington, grande di ragione nella follia di tutti, liberava Genova colla gloria dei propri trionfi e coll'eroismo della propria virtù.
Ma il papa si sottopose finalmente alla Spagna ottenendone nel trattato di Barcellona quanto nessuna vittoria avrebbe mai potuto dargli; il suo stato, l'esarcato, il dominio su Roma, persino quello alto sulle due Sicilie, tutto gli fu riconfermato. Carlo V non gli chiese che l'incoronazione a Bologna e l'anatema contro gli eretici. La nuova incoronazione non era più il riconoscimento del vecchio impero romano risorto in quello di Carlomagno o nell'altro di Ottone, ma l'estremo patto delle due supreme autorità politica e religiosa egualmente minacciate dalla Riforma e minaccianti contro di essa. L'impero unitario di Carlo V poteva e doveva presto scindersi, ma il patto del pontefice si sarebbe ripetuto con tutti i re contro l'emancipazione di tutti i popoli, finchè la rivoluzione trionfante, attirando quelli nella propria orbita e costringendo il loro interesse nel proprio, li ribellasse contro il pontefice. In quel giorno il regno dei papi diventato inutile nella storia sarebbe condannato, e la sua disparizione avverrebbe come una scena del gran dramma rivoluzionario nell'ora e colla decorazione prestabilita.
Col nuovo patto fra la chiesa e l'impero, la geografia e la storia italiana rimangono definitivamente fissate: Venezia possiede quanto aveva perduto contro la lega di Cambray; il Milanese sotto il larvato governo dell'ultimo Sforza, e le due Sicilie appartengono alla Spagna; la Savoia, cresciuta fra i disastri degli altri, ha inghiottito quasi tutto il Monferrato; Mantova è fatta ducato; Firenze si prepara a trasformarsi in un granducato sotto i Medici dopo l'inutile eroismo di una resistenza republicana, nella quale la nullaggine dell'idea sarà ancora superata dalla scempia volgarità politica del suo processo; Genova republicana come Venezia, Siena con un fantasma di signoria, Bologna con una larva di libertà guelfa, Lucca con un'apparenza di libertà ghibellina, tutte piegano sotto il patronato della Spagna abbastanza forte per rattenervi ogni regionale velleità conquistatrice, e abbastanza indulgente per rispettarvi le forme del federalismo sempre necessariamente protetto dal papa.
La corruzione di quest'epoca meravigliosa, cominciata coi Borgia e finita coi Medici, è una conseguenza fatale della sua liquidazione politica: le grandi qualità del carattere e dell'ingegno mancano a tutti i suoi più illustri individui, se le si tolgono Michelangelo e Andrea Doria; la mobilità degli eventi, l'assenza delle idee, l'impossibilità di ogni originalità, annullano tutti gli ingegni, dominano tutti i temperamenti. La pittura rifugiata nella bellezza soccombe alla tragedia che agita l'anima di Michelangelo, la poesia muore nell'ironia inconsapevole dell'Ariosto, la Riforma brucia nel rogo acceso dalla demenza di Savonarola, la politica delira nelle formole di Machiavelli, la storia si distende come una trama patente, ma incomprensibile davanti allo sguardo di Guicciardini, la religione muta il proprio rito in carnevale per le aule vaticane, la coscienza regionale politica, che aveva creato dei partigiani come Dante, non produce più che dei diplomatici come il Morone.
Dopo l'esclamazione di Leonardo da Vinci: io servo chi mi paga! il Giovio tempera una penna d'argento e una penna d'oro a seconda del prezzo pel quale deve scrivere; e con più inconsapevole modernità Pietro Aretino, supremo condottiero della stampa, vi riassume il genio e la perfidia dei condottieri delle battaglie colla stessa imparzialità mercantile.
La liquidazione italiana è compiuta; gli ultimi conati delle città, ancora indipendenti o quasi, sono cessati. La follia republicana di Savonarola non dura più che nei sommessi rimpianti degli ultimi Piagnoni; l'obbedienza vicariale di Francesco Sforza succede alla temeraria indipendenza di Lodovico il Moro; il dramma di Squarcialupo in Sicilia s'acqueta come estrema convulsione dell'uccisa casa d'Aragona; le tergiversazioni di Leone X e di Clemente VII, ultimi tremiti del grande moto di Giulio II, s'arrestano nella quiete stagnante che sorprende la vita italiana. Il medio evo è conchiuso, tutti i vecchi partiti disarmati: i signori non sono più che aristocratici, il cavaliere si muta in gentiluomo aspettando da Baldassare Castiglione il nuovo codice del Cortegiano: non più eroi, non più partigiani, non più passioni. Le vecchie patrie sono scomparse, la nuova grande patria non è ancora formata. L'uomo e il cittadino sono in elaborazione, la futura libertà sarà democratica, non republicana; la futura indipendenza dovrà essere nazionale o non essere. L'immensa tragedia, che sta per iniziarsi, si svolgerà nell'intimo della coscienza lungi dai campi di battaglia e dalle riunioni politiche; in essa lo spirito trionferà della morte nella libertà della scienza e della religione.
Lodovico Ariosto e Nicolò Machiavelli.
Ma l'Italia decade.
Le sue arti, le sue scienze, la sua cultura sono ancora superiori a quelle degli stranieri che la conquistano, ma la sua idea storica, o meglio ancora l'esaurimento della sua idea, la condannano ad una decadenza simile a quella dei greci sorpresi dai romani, o dei romani assaliti dai barbari e dai cristiani. La sua forza federale resiste come stadio dell'individuazione dello stato, ma si arresta nell'impossibilità del regno; il suo papato vi arriva ma creando in se stesso l'antitesi nella quale deve soccombere: tutte le sue originalità sono finite, le sue virtù non hanno più campo, i suoi vizi ne hanno troppo. Nullameno l'Italia, sicura di non morire, non ha nè languori d'infermo, nè malinconie di condannato; e mentre l'esaltazione religiosa della Germania, precipitantesi nella nuova lotta ideale, oltrepassa i limiti del delirio per cadere in quelli del grottesco, essa sdoppia in due uomini tutta l'incredulità del proprio carattere e del proprio pensiero: Ariosto e Machiavelli.
L'Ariosto sogna, sorride, ride, deride: il suo poema si svolge in tutti i luoghi, fra un tumulto di scene nel panorama mobile di una decorazione, che mette la stessa verità nel fantastico e nel reale, accorda la medesima importanza a tutti gli episodi, prodiga la stessa bellezza a tutti i temi. Il disordine è la sua legge, la vivacità è la sua vita; senza principio e senza fine, non ha nè ideali, nè trama. Uno stesso sogno evoca tutto il medio evo, e una stessa derisione lo annienta: gli uomini vi sono trattati come le donne, nessuna impresa meglio condotta di una avventura, nessuna verità più sicura della follia. Il poeta si muove attraverso i propri canti urtandoli e scomponendoli, indifferente alle macchie di sangue e ai profumi dei fiori, distribuendo il medesimo sorriso alle figure più delicate e alle più impure, come un incantatore incantato egli stesso dalla forza del proprio incantesimo. Se il suo cervello è pieno, la sua coscienza è vuota: la nazione, cui appartiene, non ha nulla da dirgli, nè egli nulla da risponderle. Così la vita diventa per lui una fantasmagoria, che l'arte coglie senza dare alle proprie immagini maggior valore che non ne abbiano gli oggetti; Dio è un fantasma come gli altri, la patria un palcoscenico per dei personaggi immaginari, la virtù un costume di cavaliere e di dama, il vizio il fondo bestiale necessario a tutti gli animali anche umani. Le passioni, che sono sempre il fuoco di una idea acceso entro un cuore o entro un cervello, non illuminano e non bruciano mai le pagine del poeta: nulla è vero perchè tutto è effimero, ma tutto è bello perchè apparente. E il poeta, che ride di tutto, non sorride che alla bellezza di una parola o di un sentimento, di un paesaggio o di una figura, di una voce o di un verso. La sua sensibilità è così mobile e sincera, così pronta e fugace, che le lagrime si mescolano al riso e l'entusiasmo all'ironia; spesso, anzi troppo spesso, lo si vede sottrarsi alla commozione di una tenerezza con un motto osceno, o ergersi da una situazione scabrosa con uno scatto eroico. La sua anima di poeta non aspira a nulla, non rimpiange nulla, trastullata, beata nel giuoco radiante e sonoro delle apparenze, che confondono mitologia e storia, maghi e santi, epoche e religioni in un ateismo inconsapevole della propria decadenza, in un abbandono ignaro della propria abdicazione. Mentre Lutero, trascinando l'umanità nella teologia, la spinge a morire per la verità di certe interpretazioni dei libri santi coll'entusiasmo tragico di una libera fede, che riprendendo il dialogo interrotto dell'uomo con Dio rinsalda la catena del progresso storico spezzata in Italia; il grande poeta italiano, ignaro della rivoluzione germanica, sogna, sorride, ride, deride, e conoscendola seguiterebbe egualmente a sognare, sorridere, ridere e deridere. Per la coscienza poetica dell'Ariosto non vi sono che apparenze, delle quali l'unica verità è la bellezza; per la coscienza politica di Machiavelli non vi sono che combinazioni, delle quali l'unica verità è il successo.
Segretario di secondo grado nella republica, portato alla politica piuttosto dalla passione del temperamento che dalle attitudini dell'ingegno, Machiavelli non vi reca nè coscienza, nè idealità, nè metodo. L'ateismo del suo spirito, togliendo ogni significato alla vita e alla storia, non scorge in entrambe che una lotta di forme, nella quale la vittoria resta sempre e fatalmente al più forte. Il mondo non ha per Machiavelli nè disegno, nè scopo. Tutti gli uomini vi sono uguali in tutte le epoche. La marcia dell'umanità nella storia si cangia in una ridda intorno al potere politico, che tutti agognano, e pochi forti o robusti conquistano. Secondo lui l'uomo non ha che passioni e interessi: il governo dello stato non è quindi che governo di passioni e di interessi individuali. Famiglia, comune, regione, stato, umanità non esistono che come cornice insignificante, entro la quale le forze aggressive degli individui si danno libera carriera. La storia antica è così uguale alla moderna che basterebbe riprodurne i successi ed evitarne gli errori per aver sempre ragione di tutto e di tutti. Così il Principe, codice della scienza politica di Machiavelli, è un repertorio di massime per dominare tutti gli eventi e raggiungere tutti gli scopi, maneggiando, ingannando, assoggettando, massacrando gli individui. Ogni epoca, ogni fatto, vi è considerato solitario e come prodotto dell'abilità o dell'inettitudine d'un uomo. La morale vi è assente, ma più assente di essa la storia e la filosofia. Il popolo non pensa, perchè il sovrano pensa per tutti pensando a sè solo; l'impero è il rapporto di una coscienza egoistica con una incoscienza universale. Ma questo codice della politica, questo catechismo della tirannia e della rivolta, sempre egualmente considerate come interessi avversari, separato dalla vita e dalla storia, si risolve in un commentario di entrambe, altrettanto falso che inutile. I suoi precetti vuoti, le sue regole astratte, i suoi consigli a doppio senso, sono come i teoremi ingegnosamente sterili dell'arte poetica: invece di servire ad opere future, sono modi frammentari di opere passate; l'imitazione vi resta confusa coll'invenzione; il dato inconscio di ogni creazione, il genio e il carattere dell'ambiente e dell'uomo, vi sono assolutamente trascurati.
Laonde Machiavelli, che si erige a maestro di tutti i furbi, rimane il più ingenuo di tutti i politici nell'azione del proprio tempo, non comprende, non prevede, non giunge a nulla. La sua vita è una successione di disinganni e di miserie. Assetato di comando, non riesce nemmeno a rendere accetta la propria obbedienza, aderisce da volgare impiegato alla republica di Soderini senza indovinare l'imminente ristorazione dei Medici; si dà aria di capitano, e la sua Ordinanza è sconfitta a Prato nel modo più ridicolo; interrogato dal cardinale Clemente, rettore di Firenze per Leone X sul migliore assetto di governo in Firenze, gli consiglia la republica e dedica contemporaneamente il Principe a Giuliano dei Medici per insegnargli le arti del dispotismo col modello del Valentino; trascinato dalla rettorica del proprio temperamento artistico si trova involontariamente mescolato nella congiura del Boscoli, e n'esce colla più ignobile servilità; spaventato da questo disastro non osa partecipare alla congiura del Soderini, e si acconcia come scrittore di storie sotto i Medici, invocando sempre inutilmente da essi un impiego e mentendo sovra di essi nelle storie come il più ordinario cortigiano. Il suo odio non è che per il clero e il suo disprezzo per la religione, della quale non sente e non comprende lo spirito. Come contemporaneo di Savonarola coglie in lui la demenza non l'idea della Riforma; come legato in Germania non vi sospetta nemmeno la rivoluzione che muterà il mondo. Il suo patriottismo non ha che la sincerità di un calore poetico, il quale si agghiaccia a ogni difficoltà. Quindi, non prevedendo la rivolta contro il cardinale Passerini e l'ultima cacciata dei Medici, viene isolato, maledetto da tutti, e muore incompreso anche a se medesimo.
Le sue lettere politiche sono la più terribile critica della sua incapacità al governo: nessuna previdenza o intelligenza dei fatti in esse; nella discesa di Carlo VIII non vede il preludio della decadenza italica; l'invasione di Luigi XII, che chiude l'Italia nella parentesi di una doppia conquista, gli sembra naturale, lodevole, degna della propria collaborazione, se non vi fosse quell'errore di non voler colonizzare la Lombardia asportandone gli abitanti e trasportandovi francesi secondo l'uso degli antichi. Si entusiasma del Valentino e, non accorgendosi dell'antitesi della sua opera, la crede stabile, mentre sparisce nell'intervallo di un conclave; non indovina la lega di Cambray, la sconfitta di Venezia, la ristaurazione di Giulio II, la cacciata ultima dei francesi. Al momento in cui Lutero tuona sul mondo e Carlo V vi domina coll'immensa espansione spagnuola, teme che gli svizzeri possano invadere l'Italia riducendola a servitù; al momento di morire crede consunto il papato, e il papato è già divenuto l'ultima forza italiana, e la scoperta di questa idea sarà la gloria del Giovio. La sua migliore fantasia, il suo concetto più vuoto e meno conscio, è l'unità d'Italia, per la quale non ha nè disegno nè metodo. Nelle proprie storie non ha còlto il carattere nei tentativi impossibili dei goti, dei longobardi, dei Berengari, dei Romano, dei Visconti, degli Scaligeri, di Ladislao, dei veneziani, di Luigi XII; non ha compreso l'incapacità e l'impossibilità del regno in Italia, ha fallato sull'azione del papato, gli è sfuggita quella delle republiche e dei principati; e non pertanto l'ardore della sua fantasia, la luce del suo ingegno, trionfano di tutti questi errori coll'assurdo, strappandogli dalla penna la più bella, sincera e candida invocazione all'unità d'Italia, simile ad una profezia del Petrarca, e che si chiude con quattro versi del Petrarca.
Come l'Ariosto, Machiavelli non ha capito il proprio tempo, e lo ha interpretato coll'immaginazione; la poesia dell'uno e la politica dell'altro sono identiche: nessuna virtù, nessun ideale, nessuna idea. Gli eroi di Machiavelli uccidono colla medesima insensibilità di quelli dell'Ariosto; storia e poema sono una stessa successione di scene, nelle quali l'interesse è tutto nell'azione sempre interrotta e sempre ricominciata; nè il popolo, nè la coscienza esistono per loro. Chi vince ha ragione, e vince sempre il più forte; ma vittoria e sconfitta non mutano nulla al dramma che non va al di là della scena, e non lasciano conseguenze perchè non contengono concetti. I due ingegni dell'Ariosto e del Machiavelli si assomigliano; entrambi poetici, sereni, insensibili, fatti di arte e nell'arte, plastici e colorati, danno rilievo a tutto che disegnano: non credono a nulla, non si appassionano di nulla. Ariosto e Machiavelli contemporanei s'ignorano: trasportandoli in Germania, dove si elabora la nuova coscienza, si crederebbero in un manicomio; nella superbia della propria destrezza e della propria empietà non comprenderebbero nè la più piccola delle angoscie, nè la meno pura delle esigenze della nuova tragedia religiosa e politica. La loro mancanza di fede e la loro inconsapevolezza sono una conseguenza delle condizioni italiane: nè Ariosto, nè Machiavelli intendono Dante, l'ultima fede del quale è morta col misticismo di Colombo. Ariosto e Machiavelli sono già cortigiani senza più alcuna delle antiche fierezze dei partigiani o dei cittadini comunali: ambedue si sentono mancare sotto l'Italia; e, non potendo afferrarne la ragione, il primo, che è un poeta della vita, ripara nel sogno, il secondo, che è un poeta della politica, sogna la tirannia su tutti gli avvenimenti con un codice di massime come gli alchimisti si preparano a sognare il dispotismo sulla natura colla pietra filosofale.
La retrogradazione d'Italia.
Ma se l'Italia passa nel 1530 alla coda della storia politica d'Europa, dalla caduta dell'impero romano all'avvento della riforma, ne è stata non solo l'avanguardia ma il centro ideale. Senza l'Italia, nella quale sorgono e si urtano i due termini dell'impero e del papato, gigantesche pile su cui l'umanità getta il ponte dalla propria storia antica alla storia moderna, la vita europea non avrebbe avuto nè tradizione, nè progresso. Dall'Italia si diffonde la conversione cristiana e quella parte di cultura romana che può sopravvivere; in Italia spuntano le originalità della nuova creazione; sull'Italia basa l'impero che rattiene ancora nel mondo l'unità necessaria alla diffusione del cristianesimo e al federalismo generatore degli stati moderni. Tutte le altre nazioni, dalla Russia all'Inghilterra, dalla Scandinavia all'Ungheria, dalla Spagna, che respinge l'oriente, alla Francia, che resiste a tutti, hanno d'uopo della idea italiana, e domandano all'Italia il segreto della propria vita, aspettano dall'Italia il segnale delle proprie rivoluzioni. Tutte le legislazioni europee s'informano del doppio elemento cristiano e romano: al di sopra di tutte le anime sta il papa, alla testa di tutti i duci l'imperatore. Senza le due formole italiane della chiesa e dell'impero l'Europa non sarebbe uscita dal caos; senza Roma il mondo antico dispare e il mondo moderno non appare; senza la contraddizione ideale del papa e dell'imperatore la feudalità è invincibile per il popolo, e senza la loro duplice unità le coscienze ricadono dalla storia nella natura.
Per tutto il medio evo l'Italia è il centro, la passione, la ragione d'Europa, elabora le leggi del mondo, salva l'antichità, prepara l'avvenire, arma il clero, consacra e sconsacra imperatori, spinge e rattiene i popoli, diffonde la religione, maneggia la politica, prodiga capolavori d'ogni genere, resiste a tutti i modi della sventura: illumina e riscalda, pensa e sente, mantiene per un processo infallibile e misterioso al proprio pensiero e al proprio sentimento il carattere dell'universalità.
Ma nel 1530 l'Europa moderna è creata; e il grande ufficio storico dell'Italia si limita a mutare il papato e l'impero in ostacolo, per dare alla Riforma l'obbiettivo e l'energia di se stessa. La storia italiana, che procedeva con febbrile rapidità di rivoluzione in rivoluzione, si arresta quindi coi propri principati sotto la conquista spagnuola, mutandosi in una cronaca di Torino, di Roma o di Napoli. Venezia dura, non vive; Firenze vive, non crea; Roma governa, non regna; Napoli regna e governa inutilmente; Torino regna e governa oscuramente. La tragedia, nazionale in Germania, in Inghilterra e in Francia, discende a dramma individuale in Italia, giacchè il suo spirito troppo superficiale nel secolo di Leone X si è rituffato nelle proprie insondabili profondità sino al gran giorno, nel quale Napoleone I alla testa della rivoluzione francese ritenterà la ricostituzione del regno.
LIBRO SECONDO GLI STATI
Capitolo Primo. L'epoca della Riforma in Italia
Condizioni spirituali.
Il nuovo progresso dell'Europa deriva da una più alta interpretazione del cristianesimo, che, ricostituendo la sovranità ideale degli individui e degli stati, rovescia le storiche autorità della chiesa e dell'impero.
La corruzione della chiesa e l'organismo del papato sono le cause occasionali della Riforma, ma il suo più profondo principio è nell'emancipazione della fede cristiana per rimettere l'uomo in faccia a Dio e a se medesimo. Le tre massime romane della povertà, della castità e dell'obbedienza, che si risolvevano nella sterilità del lavoro, della generazione e della originalità individuale, vengono respinte; il clero, non più solo padrone e distributore della verità religiosa, è pareggiato al laicato e ricondotto nella vita comune col matrimonio; la liberazione della coscienza religiosa provoca la indipendenza dello stato dalla chiesa. L'individuo, libero d'interpretare nella sincerità della propria coscienza la rivelazione divina nei libri santi, vorrà per contraccolpo interpretare tutte le leggi politiche e sociali sottomettendole ad una critica, nella quale i privilegi si dissolveranno in una giustizia superiore. Le esteriorità artistiche ed idolatre del culto romano sembreranno una profanazione della persona divina, le decorazioni feudali regie o imperiali di tutte le autorità politiche non salveranno più l'insufficienza di nessun capo o l'arbitrio di nessun ordine. La verità diventerà la sola forza della legge, e l'inviolabilità dell'individuo il principio supremo della nuova società.
Qualunque sia dunque il dibattito fra Roma e la Riforma, a qualunque particolare discenda, a qualunque punto si arresti, e la essenza della sua polemica rimanga o no sconosciuta agli stessi campioni, la nuova rivoluzione non è che un processo di libertà e di liberazione spirituale. La coscienza religiosa, base della coscienza civile, vuol essere superbamente, assolutamente libera: se si attiene ancora ai testi santi, questa è la sua fede, non la sua sudditanza; se non traduce istantaneamente questo principio di libertà nella politica rovesciando il vecchio e grave edificio feudale, solo la storia lo vieta poichè immatura al grande atto. Ma nella plebe, sempre più logica d'istinti e più sicura d'intuizioni, molti tentativi democratici saranno fatti e soffocati nel sangue. La democrazia religiosa della Riforma, uguagliando tutte le coscienze nella libera interpretazione della Bibbia e sottoponendole solo alla scorta eterna della rivelazione, sarà la causa e la base di tutte le democrazie future: la sconfitta dell'ebraico, del greco, del latino, nella traduzione della Bibbia e nelle preghiere recitate in lingua nazionale rappresenta la sovranità legittima di un'epoca che deve esprimere tutta se stessa col proprio linguaggio; la tirannia di Roma, depositaria dell'unico processo di salvazione e carceriera delle anime anche dopo la morte colla formula insidiosa e mercantile del purgatorio, cadendo lascia scoperta in tutta la sua crudele inanità quella dell'impero.
L'unità medioevale è dunque dissipata; il papato e l'impero di ogni individuo si sostituiscono al papato di Roma e al sacro romano impero. Lutero riprende raddoppiandola la parte e la missione di Arminio, ma la sua rivoluzione è tutta chiusa nella legalità della religione e della politica del tempo. Nemmeno egli stesso misura l'estensione del proprio principio e l'espansione del proprio fatto. La sua intelligenza martellata dalle polemiche si restringe e si appunta come un cuneo, il suo cuore inaridisce; a forza di mirare gli ostacoli, che gli si parano davanti, non vede più l'infinita varietà dello spettacolo che gli si svolge d'intorno. Quindi la Riforma di Lutero si allarga con quella di Zuinglio; quegli vuol mantenere tutte le dottrine non in aperta contraddizione colla Bibbia, questi riseca dal codice religioso quanto non si può comprovare con essa: il primo vuole conservata nell'eucaristia la presenza di Cristo, il secondo la riduce ad un simbolismo appena commemorativo. Il progresso è evidente. Lutero può trionfare nella discussione col proprio avversario, e questi morire eroicamente alla battaglia di Kappel fra i cantoni riformati e i cantoni cattolici, poichè Guglielmo Forel a Ginevra si è già associato con Giovanni Calvino, il più terribile logico della Riforma, che la maneggia come una scure entro il vecchio edificio feudale.
La Riforma, poco prima ruscello, non è più un torrente ma un lago, un mare che sollevato da forze misteriose inonda e sommerge quasi tutta l'Europa. Contraddizioni, battaglie, soste, tradimenti, tutti i fatti l'assecondano. Nel colloquio di Augusta col cardinale Gaetano, alla disputa di Lipsia coll'Eck, alla Dieta di Worms, nel castello di Wartburg, colle Diete di Norimberga, di Ratisbona, di Spira, Lutero cresce, si dilata, giganteggia. La confessione Augustana è la sua tavola della legge in ventuno articoli, la lega Smalcaldica fra i nuovi protestanti gli dà un popolo e un esercito; le invasioni di Solimano in Ungheria, i ritardi del pontefice alla convocazione del concilio, le oscillazioni politiche di Carlo V costretto a bilanciare perpetuamente tutte le forze antagoniste dell'impero, aumentano la sua propaganda: le sconfitte della prima guerra Smalcaldica la consacrano col sangue, l' interim di Augusta la riconosce politicamente, il secondo tradimento di Maurizio di Sassonia contro Carlo V la rinforza, finchè il trattato di Passavia e la pace di Augusta nel 1555 le riconoscono la legittimità di fatto storico.
Ma se la Riforma trionfa in Germania colla dialettica di Lutero, in Svizzera col magnanimo buon senso di Zuinglio, a Ginevra colla logica democratica di Calvino, in Olanda col genio politico di Guglielmo d'Orange, in Inghilterra colla lussuria feroce di Arrigo VIII, nella Scozia colla superba austerità di Knox, nella Svezia col patriottismo dei Vasa, in Danimarca colla lealtà dei principi di Holstein; la chiesa assalita risponde alla Riforma colla riforma, accetta la guerra con tutte le armi e su tutti i terreni. Con una intuizione rapida e una duttilità meravigliosa il cattolicismo s'impossessa di tutte le insufficienze e gli errori del protestantesimo: Lutero aveva sconfessato la rivolta dei contadini morti eroicamente alla battaglia di Königshofen contro gli eserciti della nobiltà tedesca, e la chiesa dilata il principio della propria fraternità evangelica improvvisando una democrazia che nelle sue formule teologiche può andare fino al regicidio; quindi rafferma il principio dell'autorità compromesso nella ricerca della verità, deride la nuova interpretazione della Bibbia abbandonata come in Inghilterra alla tirannia di un principe, o come in Germania alla demenza della meditazione solitaria; contrappone alla sterilità della nuova religione le glorie artistiche della propria: alla legalità luterana, che soffoca la stessa rivoluzione, contrasta con una illegalità, che ha salvato cento volte il mondo ed esce vittoriosa da tutte le contraddizioni.
La Riforma, racchiudendo ogni uomo entro il proprio problema religioso, allenta naturalmente i legami della carità e raffredda l'ardore dell'apostolato; ma la chiesa, più antica e più universale, si affretta a purificare le proprie gerarchie, scema le turpitudini dei propri commerci religiosi, riordina gl'istituti monastici, dirige la politica di tutte le potenze rimaste cattoliche con una sicurezza di programmi e di mezzi contraddittorii, che forzano il mondo all'ammirazione. L'inquisizione rende la Spagna inaccessibile alla Riforma, Caterina de' Medici salva la Francia nella notte di san Bartolomeo dalla democrazia ugonotta collegata coi tedeschi, coi belgi, cogli olandesi, cogl'inglesi, con tutti i nemici della patria; in Italia la naturale empietà del carattere e lo scetticismo classico sfuggono di per sè alla crisi. La varietà dell'ingegno italiano, che nella scienza poteva andare dal sublime buon senso di Galileo alle abbaglianti e bizzarre intuizioni di Cardano, si colora nullameno alla Riforma, e vi si scorgono tosto Marco Antonio Flaminio poeta latino: Jacopo Nardi storico; Renata d'Este moglie del duca Ercole II; Lelio Socini, ingegno superiore a Lutero e a Calvino, che la porta ben più alto fondando la setta degli unitari; Bernardo Ochino e Pietro Martire Vermiglio teologo che passeranno, questi alla università di Oxford, quegli nel capitolo di Canterbury; Francesco Burlamacchi che ritenterà l'impossibile impresa di Stefano Porcari e vi perirà martire eroe; Pietro Carnesecchi e Aonio Paleario che vi perderanno entrambi nobilmente la vita. Ma questo moto incomunicabile al popolo è piuttosto una crisi del pensiero filosofico e scientifico, naturalmente ritmata sulla grande rivoluzione germanica, che un processo di purificazione e e di elevazione religiosa. Infatti Giordano Bruno e Tommaso Campanella riassumendola, per quanto vissuti e morti entro l'orbita di un ordine monastico, sono due filosofi trascinati dalla speculazione oltre i confini non solo della Riforma ma del cristianesimo stesso. Quindi il popolo rimane così insensibile alla loro tragedia che sembra quasi ignorarla; e nemmeno bastano le ultime sataniche ecatombi dei poveri valdesi a scuotere la sua egoistica indifferenza.
Contraccolpi politici.
Dopo il congresso di Bologna, che nelle intenzioni di Clemente VII e di Carlo V doveva pacificare l'Italia, le guerre vi ricominciano. Papi ed imperatori, avversari per interessi e per indole, si combattono ancora; tutti i pretesti servono ad una guerra senza risultati perchè senza ragione. Le insofferenze dell'ultimo Sforza, da vicario imperiale insuperbito a voler diventare duca sovrano, e la successione del Monferrato occupata dall'imperatore, quantunque contesa tra Gonzaga, Francesco di Saluzzo e Carlo III di Savoia, sollecitano l'intervento della Francia. Questa spinge l'indipendenza della propria nuova formula politica sino ad allearsi con Solimano e ad associarsi colla sterminatrice pirateria di Kaireddin Barbarossa. Ma dalla morte di Alessandro Medici, assassinato da Lorenzino, sino alla battaglia di S. Quintino, vinta da Emanuele Filiberto generale di Filippo II contro Montmorency, maresciallo di Enrico II, il trambusto d'Italia non ha altri avvenimenti politici che la costituzione del ducato di Parma e Piacenza, ottenuta da Paolo III in favore del proprio figlio Pierluigi Farnese, mostruoso tiranno; l'elezione a duca toscano di Cosimo I, ammirabile figura di tiranno politico degno di assidersi fra Tiberio e Filippo II e che abbatte Siena unificando tutta Toscana sotto un governo spietato e sapiente; e la conquista di quasi tutta la Savoia fatta dall'impetuoso Francesco I alla morte del duca di Milano e per contesa di questo ducato, del quale Carlo V investe il proprio figlio Filippo. Quindi la guerra tra Francia e Spagna trascinata di battaglia in battaglia, di trattato in trattato, sembra non giungere mai a una vera conclusione: si arresta alla pace di Crépy (1544), ricomincia con Enrico II a Metz e a Parma, si rallenta all'abdicazione di Carlo V, si riaccende più fiera fra Enrico II e Filippo II, che Paolo IV priva della investitura di Napoli in favore di un figlio di Francia, per finire dopo la battaglia di San Quintino alla pace di Cateau-Cambrésis (1559). Per essa i due re di Francia e di Spagna giurano di associarsi contro la Riforma e di restituirsi mutuamente i dominii perduti nell'ultima guerra. Emanuele Filiberto, sposando Margherita di Francia, riacquista gli antichi stati e vi disonora la propria gloria di soldato colla strage stupidamente inutile dei valdesi.
L'Italia rimane dunque dopo tante guerre come alla pace preparatoria di Crépy; Venezia non ha quasi azione di sorta in questo periodo e si limita a destreggiarsi colla vecchia scienza di stato condensata nella diplomazia; a Genova tre congiure scrollano invano il governo fondato da Andrea Doria; nel reame di Napoli, in guerra colla Santa Sede, si succedono Toledo, Alvarez e il duca d'Alba, terribili e dispotici, che lo immobilizzano nella servitù; la Corsica, invano emancipata da Sampiero, sta per ricadere sotto Genova; i Medici fedeli alla grande idea di Lorenzo il Magnifico mirano ad essere l'ago della bilancia italiana, importanti ed immuni: Milano è il terzo stato della Spagna; la Savoia ricostituita riprende il gioco contradditorio delle proprie alleanze educando nella propria fortuna quella d'Italia. Mentre Emanuele Filiberto e Cosimo de' Medici, ossequenti al consiglio di Machiavelli, hanno già chiuso colla istituzione di soldatesche nazionali il periodo dei condottieri, il papato sempre in lotta colla Riforma, già emancipatasi dall'impero coll'elezione di Ferdinando I, raduna finalmente il gran concilio di Trento e fonda la milizia dei gesuiti.
I gesuiti.
Alla Riforma, che stabilisce il principio della democrazia moderna pareggiando tutti gl'individui chierici e laici nella società religiosa, il concilio di Trento risponde col riordinare la disciplina ecclesiastica e col fissare la parte dottrinale del cattolicismo contro l'interpretazione individuale del protestantesimo. La chiesa compie così una delle proprie maggiori rivoluzioni, proclamando la superiorità del papa sui concili. La monarchia universale cattolica, costretta a dispotismo dalla contraddizione colla Riforma, si eleva improvvisamente su tutte le monarchie storiche con un'ultima formula che fonde nella più meravigliosa armonia l'assolutismo più irresponsabile colla più assoluta delle democrazie. Tutte le gerarchie del clero sono nulle in faccia al pontefice, ma ogni prete può diventare papa. Quindi i conventi, asilo di ammalati dell'anima, che si isolavano dal mondo con un suicidio parziale, si trasformano in tante caserme agli ordini del supremo monarca associato con tutti i re contro la rivoluzione della libertà. Ogni convento ha il proprio Lutero, che lo riorganizza: lo studio, che vi era distrazione nella solitudine, diventa cura di guerra.
Il lavoro dell'antica teologia è conchiuso; i nuovi dotti, che giungono al cardinalato e dirigono le battaglie, si preoccupano di un adattamento sempre mutevole del cattolicismo colla nuova civiltà. Sotto il moto della Riforma comincia a sentirsi quello della scienza e della filosofia: una critica più terribile investe già tutto il cristianesimo. Ma Roma risponde coll'inquisizione e coi gesuiti, minacciando e blandendo; l'inquisizione ucciderà coloro, che i gesuiti non avranno potuto sedurre.
Profondamente convinti della puerilità e dell'inettitudine degli antichi ordini religiosi, essi ne respingono le vesti e gli usi, l'indigenza e le preghiere; consacrati all'istruzione e alla casuistica, la loro guerra è al pensiero col pensiero; quindi si fondono nell'idea universale di Roma, s'immedesimano col papa, che finiscono a dominare come gli antichi pretoriani dominavano l'imperatore. La loro regola è l'ubbidienza, il loro scopo la dominazione. Democratici sino all'assurdo, non ammettono fra loro medesimi alcuna differenza; morti al mondo, non lasciano che un numero sulla propria tomba. Perinde ac cadaver, ecco il motto sublime della loro iniziazione: aut simus sicut sumus aut non simus, ecco l'eroica affermazione che essi gettano alla storia, eterna metamorfosi, come una sfida. Il loro fondatore, Ignazio da Loiola, è la più austera, impenetrabile, superba figura del secolo. Costretti a spiare il mondo, si spiano l'un l'altro; incrollabili nella fede cattolica, l'adattano a tutti gli ambienti, la servono con tutti i mezzi. Sottomettere il mondo dello spirito, imperare alla coscienza universale superando tutte le differenze di civiltà, di clima, di razza; essere alla testa di tutte le missioni, penetrare nei deserti della preistoria e nei segreti delle corti, insegnare in tutte le scuole, dirigere tutte le famiglie, disporre di tutto il clero; impossessarsi della scienza per frenarla, della letteratura per abbagliare, della filosofia per corrompere con essa tutti i sistemi: guadagnare tutte le ricchezze possibili negandosi ogni lusso, vietandosi tutte le cariche, irresistibili e segreti, onnipotenti e sconosciuti, vivere, operare, morire nella poesia della fede e del comando, ecco il loro miracolo unico nella storia di tutti i tempi. Impassibili nell'alterigia del pensiero non discutono e non valutano mai i mezzi di un'impresa: la moralità, necessaria alla vita privata, non offusca la loro politica universale; casti, s'impongono alle donne; disinteressati, s'impadroniscono degli uomini.
Nulla sfugge loro, perchè osano e vogliono tutto. Il loro ordine è la gloria di Roma papale, l'ammirazione degli statisti, la sintesi dei vizi e delle virtù di tutti i partiti. Una inconcepibile solidarietà vi comunica la forza del corpo intero a tutti gli individui; le distanze del tempo e dello spazio non hanno valore nelle loro opere, giacchè tutti si sentono egualmente sicuri nell'immortalità del proprio istituto e del proprio principio.
Mentre la loro azione si insinua nei meandri più sottili della società, la loro vita vi rimane un mistero: il loro generale è un ignoto, del quale nè le storie nè le cronache registrano il nome. Quindi una poesia sinistra avvolge questi re delle tenebre e degli spiriti, che raffinati come tanti poeti vogliono regnare piuttosto sugli imperatori che sui popoli; un terrore di ammirazione, la disperazione di un odio, che sa di non poterli mai colpire, seguono ovunque la loro effimera traccia. Ma superiori a tutte le debolezze della paura e dell'orgoglio, essi proseguono nell'opera immane della propria dominazione contrastando tutti i progressi della libertà, esposti a tutti i colpi della politica, sorpassati dalla scienza, illuminati loro malgrado dalla filosofia, travolti dalle rivoluzioni, rigidi e viscidi, sempre collo stesso eroismo della volontà, meno stanchi alla sera che all'alba, riparando colla conquista di un popolo l'espulsione loro inflitta da un altro; soldati così eroici da non riconoscere eroi nelle proprie file, e così disciplinati da ignorare persino la necessità di capitani.
Mentre la cattolicità rabbrividiva sotto le minacce dell'espansione luterana, i gesuiti convertivano quindi una metà della Germania coll'astuzia: s'inoltravano nell'India colla fede, s'imponevano alla China colla scienza, spaventavano il Giappone colle sedizioni, opponendo per tutte le terre d'Europa la predicazione del benessere alla passione rivoluzionaria, il teorema del regicidio a quello della libertà, la potenza della mediocrità resa invincibile dalla disciplina all'irresistibile spontaneità del genio, la docilità della plebe capace di diventare ribelle nell'entusiasmo dell'obbedienza all'indomabile indipendenza del popolo.
Attività del Piemonte nella decadenza degli altri stati italiani.
Ma la reazione contro la Riforma non tarda a scoppiare così nei paesi protestanti come nei cattolici. Una vasta guerra, peggiorata da rivoluzioni, insanguina tutta l'Europa rinnovandola. La Germania ha preso il posto dell'Italia e dirige l'immenso moto, determinando gli spostamenti della politica universale, colorando coi propri riflessi e ricalcando sulle proprie forme tutti i nuovi fenomeni storici. La sua influenza si propaga più rapidamente di quella del rinascimento italiano, la vecchia religione del medio evo cade scrollata in un giorno. Tutte le capitali funzionano colla stessa precisione e colla stessa importanza: la posta fondata da Carlo V accelera colle notizie dei fatti il loro sviluppo, creando la solidarietà universale nell'emozione quasi simultanea di uno stesso sentimento o di una identica prova; i popoli si copiano e manovrano come tanti eserciti sotto gli ordini di un generale invisibile. La storia europea diventa dappertutto rapidamente e palesemente la ragione di ogni storia nazionale: nessun popolo è più isolato, i contraccolpi europei arrivano con fulminea rapidità nei vecchi imperi dell'Asia e nelle giovani colonie d'America. I governi, ingranati come tante ruote l'uno dentro l'altro, perdono la facoltà di ubbidire al capriccio dei sovrani o all'egoismo delle republiche.
Le esplosioni della Riforma avevano scrollato la Germania nel 1517, Zurigo nel 1520, Stoccolma nel 1527, Copenaghen nel 1531, Ginevra nel 1532, Parigi coll'espulsione di Calvino nel 1534, Lucca nel 1545, le Fiandre nel 1555 col rifiuto di adesione al concilio di Trento: le reazioni contro di essa si succedono colla stessa regolarità, e nel 1573 i gesuiti si accaniscono a domare la Spagna, nel 1576 la lega sommuove la Francia, nel 1577 i cattolici ingannano la Svezia, nel 1580 il Portogallo cade sotto la dominazione del re cattolico, nel 1575 la Polonia proclama Batory, chiamato il re dei gesuiti, nel 1579 i protestanti bavaresi emigrano in massa per sfuggire i supplizi, nel 1584 Guglielmo d'Orange muore assassinato in Olanda, nel 1586 il Sonderbund scinde la Svizzera, nel 1587 i cattolici di Maria Stuarda minacciano Elisabetta d'Inghilterra, finalmente la Germania nel 1648 colla pace di Vestfalia chiude la sua guerra dei trent'anni trionfando di tutte le reazioni e riaffermando la Riforma.
In questo lungo periodo tutte le nazioni si sono rinnovate. La Germania ha trionfato col principio politico della federazione, la Francia colla centralizzazione di Luigi XI perfezionata da Caterina dei Medici e da Richelieu, il Portogallo con una nuova dinastia, la Spagna rinunciando al proprio sogno di universalità, la Danimarca coll'assolutismo, la Svezia colla devozione entusiastica alla figlia di Gustavo Adolfo, l'Austria ereditando l'impero, la Russia accogliendo nei Romanoff il principio di tutte le sue future conquiste. La grande contraddizione politica d'Europa si addensa e s'accentua fra la Francia e l'Inghilterra; quella democratica appoggia i re contro i grandi, questa liberale sostiene i lords contro i re; la Francia combatte nel protestantesimo l'avversario della propria unità, l'Inghilterra spegne nel papismo il nemico della propria indipendenza; i realisti francesi trionfano dei frati demagogici, i covenanters inglesi disperdono i vescovi dispotici. La rivoluzione di Richelieu decapita l'aristocrazia, quella di Cromwell il re.
La stessa reazione ha sorpreso e disciplinato il papato. Dalle negligenze epicuree e dagli splendori cortigiani di Leone X, attraverso le ultime crisi del nepotismo si giunge alla violenta centralizzazione di Sisto V (1590). Paolo IV Caraffa, nemico degli spagnuoli per tradizione domestica, proscrive i Colonna, inizia la riforma ortodossa della chiesa fondando con Gaetano di Thiene l'ordine dei teatini, aristocratico semenzaio di vescovi cresciuti nell'austerità; Pio IV per consiglio di S. Carlo Borromeo sopprime il nepotismo: Pio V severamente fanatico risuscita le pretensioni di Gregorio VII, fulmina gli eretici, ordina il debito pubblico; Gregorio XIII s'accorge primo dell'immensa forza e della suprema cattolicità dei gesuiti e si abbandona all'opera loro, riforma il calendario, reclama tutti i feudi, che l'oblio e l'usurpazione toglievano ancora ai pontefici, finchè Sisto V collo stesso ingegno e colla medesima inesorabilità di Cosimo II dei Medici spegne tutti i banditi, annienta gli ultimi feudatari riottosi, infonde nel governo una disciplina impeccabile ed infrangibile, mutando lo stato sempre tumultuante della chiesa nel regno più sicuro ed ordinato d'Europa. I monumenti, che la rinnovata ricchezza del tesoro e il suo genio alzano in Roma, hanno già il motivo moderno dell'utilità; la fama del suo carattere astuto, fantastico sino al grottesco e nullameno fermo fino all'eroismo, gli ha lasciato in Italia la stessa popolarità di Enrico IV in Francia. Clemente VIII, di fazione e di idee sistine, dopo i tre effimeri pontificati della fazione spagnuola, compie il voto di tanti pontefici colla confisca di Ferrara, che scompare dal numero degli stati lasciando scoperta Venezia agli attacchi di Paolo V, il pontefice più alteramente convinto della nuova autorità ideale del papato. Gregorio XIV ha appena il tempo d'immortalarsi col fondare la congregazione di Propaganda Fide, istituto che basterebbe solo alla gloria del cattolicismo dacchè ha potuto costringere il Protestantesimo a rivelare l'angustia del proprio carattere nelle inani imitazioni delle società bibliche; Innocenzo X, che assiste alla pace di Vestfalia, non può riparare per l'opposizione di Mazzarino i guasti del nepotismo ritardatario ed ignobile, col quale Urbano VIII Barberini aveva confiscato alla chiesa il ducato di Urbino.
L'espansione della Riforma e la concentrazione del papato seguono dunque la medesima legge; agendo e reagendo l'una sull'altro coll'infallibile precisione della storia. Così tutti i mutamenti italici non sono determinati e non diventano intelligibili che coll'interpretazione del grande moto germanico propagato a tutta Europa.
Il Piemonte ricostituito dal trattato di Castel-Cambrésis, malgrado l'occupazione delle città, che la Francia vi si riserbava per gelosa diffidenza, ridiventa lo stato più importante e appunto per questo più contrastato d'Italia. Emanuele Filiberto vi fonda una milizia nazionale e l'università di Mondovì, vi arma fortezze mirando sempre ad ottenere lo sgombro delle truppe francesi e in parte riuscendovi per le nuove strettezze di Caterina dei Medici alle prese cogli Ugonotti. Carlo Emanuele suo successore, soldato egualmente valoroso e politico forse di maggior accortezza, si appoggia alla Spagna sposando Caterina figlia di Filippo II, occupa il marchesato di Saluzzo, l'ottiene dal trattato di Lione (1601) cedendo alla Francia alcuni luoghi di là dal Rodano; quindi, trascinato dal trattato di Brosolo (1610) nel fantastico disegno di Enrico IV, che vorrebbe partire l'Europa in quindici stati confederati dando il reame di Napoli alla Santa Sede, il Milanese a Venezia e il Monferrato al duca di Savoia col titolo di re di Lombardia, risogna il regno d'Italia. Ma questo ultimo sogno invece di sorgere dalla storia italiana, vi deriva da una combinazione francese subordinata alla politica imposta dalla rivoluzione della Riforma alla rivalità della Spagna e della Francia, e fallisce contro tutta la tradizione federale della penisola. L'insidia tesa da Carlo Emanuele a Genova con Vachero, bandito cresciuto alla scuola del Machiavelli, conclude alla vergogna dell'uno e alla morte dell'altro; poco dopo il pugnale di Ravaillac, colpendo Enrico IV, lascia il duca di Savoia esposto a tutte le reazioni provocate dall'immaginoso trattato di Brosolo. Carlo Emanuele resiste nullameno con destrezza pari al coraggio, e, pacificata la Spagna, spinge la temerità sino ad invadere il Monferrato rimasto deserto alla morte di Francesco Gonzaga duca di Mantova. La guerra, che ne segue fra il Piemonte solo e la Spagna, rivela tutta la crescente vitalità del giovane stato e l'ammirabile destrezza del suo sovrano.
La morte improvvisa di questo a Savigliano, mentre la Spagna si acconciava a spartire con lui il Monferrato e il duca di Nevers veniva chiamato alla successione di Mantova, pur riaccendendo più vasta guerra e richiamando i francesi nella Savoia, non porta seco la fortuna del futuro regno. Vittorio Amedeo I può ancora gettarsi con uno dei soliti voltafaccia dalla parte di Francia per ricuperare alla pace di Cherasco (1631) quasi tutti i propri dominii, e più tardi nel trattato di Rivoli (1635), rimasto poi inutile, molte speranze del trattato di Brosolo.
In tutto questo tempestoso periodo la condotta dei duchi di Savoia, inspirandosi alla più classica duplicità italiana, cede meravigliosamente a tutte le ondulazioni della politica europea, mentendo e tradendo secondo la strategia di una politica, che reclama l'antico regno longobardo per ottenere qualche terra sulla via di Milano e di Piacenza. Quindi il Piemonte italiano, sviluppandosi a carico della Savoia francese, muta con avventurato e faticoso processo i propri duchi da portinai d'Italia nei capi più importanti della penisola. La fortuna della loro casa, così povera di significato al tempo degli Scaligeri e dei Visconti, non accenna ancora chiaramente al proprio glorioso futuro, ma supera già quella dei Medici e dei Farnesi decadenti fra l'immobilità di Venezia, la servitù di Milano e l'isolamento della chiesa. La vitalità del nuovo stato è tanto forte che la guerra civile fra Cristina, duchessa reggente nella minorità di Carlo Emanuele II, e gli zii Maurizio e Tommaso, malgrado le invasioni di questi ultimi alla testa di truppe spagnuole vittoriose dappertutto, e le insidie di Richelieu inteso a confiscare il Piemonte, non basta a sopraffarle; e alla morte di Richelieu e di Olivarez, supremi ministri di Francia e di Spagna, Cristina riacquista nel 1645 tutto lo stato meno Pinerolo, confittovi sempre nel cuore come un giavellotto francese.
Quindi il Piemonte rimane solo all'avanguardia della storia politica italiana.
Milano, immobile sotto il dominio spagnuolo, progredisce invece socialmente riversando nell'industria, nei commerci e nelle scienze quell'attività che una volta l'aveva alzata al grado di seconda Roma; la nuova grande famiglia dei Borromei non vi ha più che le virtù compatibili in uno stato soggetto, con una santità tutta moderna colorata di filantropia. Venezia inerte in Italia e sempre più respinta dall'oriente, malgrado la splendida e purtroppo inutile vittoria di Lepanto, perde a uno a uno tutti i propri stabilimenti senza nemmeno sospettare che Cristoforo Colombo e Vasco di Gama, aprendo al commercio nuove vie e nuovi mondi, l'abbiano inappellabilmente condannata a morire in un'agonia di due secoli. Quindi la contesa con Roma pei limiti imposti alle ricchezze del clero e per il processo di due preti colpevoli di reati comuni avocato al tribunale supremo della republica contro ogni immunità ecclesiastica, la sorprende nel 1601 secondo la legge della reazione cattolica che colpisce tutti gli stati. Ma Venezia fedele alle proprie tradizioni e forte ancora nella terribile libertà aristocratica del proprio governo respinge le nuove pretensioni di supremazia politico-religiosa, colle quali Roma vorrebbe imporsi a tutti i governi cattolici. Invano Paolo V irritato dal Ridotto Mauroceno, specie di libera accademia, nella quale i più dotti spiriti del tempo si accoglievano sotto la protezione della Serenissima a discutere ogni novità della scienza, e penetrato della necessità del proprio dispotismo ideale contro l'invasione del protestantesimo, minaccia tutti i rigori dell'interdetto. Paolo Sarpi, il grande servita, sorge a difendere la republica, opponendo tradizione cattolica a tradizione cattolica, scienza romana a scienza romana, fulminando il papa senza entrare nel campo ribelle della Riforma. La battaglia disonorevole per Roma, sospettata di aver ricorso più volte al ferro di sicari contro il suo indomabile avversario, onorevole pel governo veneto per fermezza di condotta, è gloriosa per il pensiero italiano, che al di fuori e al disopra della Riforma trova l'emancipazione dal romanesimo segnando i limiti del diritto e dell'azione fra la chiesa e lo stato moderno. Paolo Sarpi è il Lutero d'Italia, quale doveva nascere e atteggiarsi nella terra classica dell'incredulità. La sua Storia del Concilio di Trento è forse il capolavoro più originale del suo secolo per la penetrazione di una critica e la calma di una ragione capaci di giudicare cattolicismo e protestantismo nell'istante medesimo che la loro contraddizione, sconvolgendo tutte le coscienze, rinnovellava la storia d'Europa. Roma dovette cedere e confessare con questa prima sconfitta che la nuova formula della sua monarchia papale non bastava nemmeno a contenere tutto il principio cattolico.
Ma questa vittoria non rianima Venezia. La congiura del duca di Ossuna, vicerè di Napoli, risognante per Filippo III di Spagna il sogno di Enrico IV in una conquista d'Italia, soffocando Venezia con una sollevazione e riducendola come Milano a provincia spagnuola, fallì per l'oculatezza dei Dieci e la feroce energia di una pronta repressione; ma questo terribile tribunale, ultimo rappresentante dell'epoca dei tiranni, era così antiquato esso medesimo da cadere all'indomani del trionfo sopra una semplice mozione.
Ma Venezia senza il consiglio dei Dieci è un corpo senza capo, un governo senza unità e senz'idea. Alla grande regina dei mari, così superba della propria corona di castelli e così maestosa sotto il proprio manto di marmi, non rimane più che la maschera di un eterno carnevale per nascondere invano a se medesima la rapida decrepitezza del proprio volto già sfolgorante di impassibile bellezza fra le più tenebrose tempeste.
A Firenze l'ultimo avvenimento politico è il titolo di granduca concesso arbitrariamente da Carlo V a Cosimo I e al successore di questo confermato poi da Massimiliano II per la somma di 100,000 ducati. La resistenza fiorentina alla reazione romana non ha però nulla dell'altezza e dell'originalità veneziana, giacchè se Galileo vale più Sarpi, Firenze questa volta scende troppo al disotto di Venezia lasciando torturare il grande astronomo e rilegandolo, sgherra del pontefice, in Arcetri, cieco di dolore. Lucca, obliata dalla storia, attesta appena la propria vita soffocando nel 1594 la congiura degli Antelminelli; Mantova, passata sotto il ramo francese dei Gonzaga, si cangia in una Pompei animata solamente da un'orgia inesauribile; Modena, ultimo riparo della famiglia d'Este, deve l'esistenza alla propria mancanza di significato; Parma, ducato sorto dal nepotismo dei papi e mantenuto dall'eterna rissa fra Spagna e Francia, insufficiente al genio militare della propria dinastia, offre a Filippo II in Alessandro Farnese il più grande generale del secolo, il solo capace di lottare contro l'eroismo di Guglielmo d'Orange.
La rivoluzione di Masaniello a Napoli nel 1647, quando i protestanti trionfano colla pace di Vestfalia, e l'Olanda ha imposto alla Spagna il riconoscimento della propria republica, e l'Inghilterra ha imprigionato l'ignobile Carlo I, e il Portogallo si è sottratto alla Spagna, e i francesi preparano contro Mazzarino la rivolta della Fronda, sembra accordare all'Italia la data di una vera rivoluzione. Ma il tumulto, provocato dall'esazione della nuova gabella sulla frutta, non arriva a disciplinarsi sotto alcuna idea. Masaniello, reso pazzo dalla nuova parte di vicerè, che la demenza della plebe e l'astuzia dei grandi gl'impongono, è in pochi giorni acclamato, trucidato, trascinato cadavere per le vie, venerato come un santo; quindi la sommossa si acquieta all'apparizione del naviglio spagnuolo, malgrado l'intervento del duca di Guisa accorso da Roma col sogno di una seconda conquista alla maniera d'Angiò. Nessuna provincia d'Italia credette allora alla rivoluzione di Napoli troppo vantata in seguito dagli storici per patriottismo rettorico: Milano non s'accorse del moto, una guerra d'indipendenza contro la Spagna non passò per la mente di alcuno. Il popolo napoletano invocò il duca di Guisa all'ultima ora, sognando con mobilità meridionale di mutare piuttosto padrone che d'emanciparsi: la dominazione spagnuola non ne fu scossa, perchè l'Italia insorgendo avrebbe dovuto abbandonarsi al papa, o sottomettersi al Piemonte, o darsi alla Francia, alterando le condizioni normali della propria servitù senza giungere alla libertà.
L'antagonismo fra gli stati soggetti o indipendenti della penisola impediva loro ogni accordo necessario di guerra: una sollevazione di tutte le città e delle campagne, come in Olanda, non poteva esservi prodotta che da una contraddizione ideale come quella della Riforma col cattolicismo. Infatti nemmeno la Sicilia, per la sua qualità di isola più idonea a mostrarsi compatta e a mantenersi costante nella rivolta di Alessio Battiloro, vi mise un concetto politico. L'irritazione contro le gabelle vi produsse col medesimo trambusto la stessa strage senza disconoscere il governo spagnuolo; il partito ghibellino dell'aristocrazia, ostile al partito guelfo del popolo come a Napoli, giovandosi dell'insulsa vanità dei due capi, potè scatenare contro di essi la furia imbecille della plebe. Masaniello ed Alessio, un pescatore e un battiloro, senza carattere e senza ingegno, ancora più ignari che inconsci del proprio operato, danno la misura del valore politico d'Italia in un'epoca così splendida in Europa per grandezza di rivoluzioni e di rivoluzionari. Mentre il pensiero italiano si affermava, nella trionfante resistenza di Paolo Sarpi, nell'eroica prigionia di Tommaso Campanella, nel sublime martirio di Giordano Bruno, le rivoluzioni italiane non provocavano che tumulti di piazza disonorati da inutili saccheggi, insanguinati senza battaglie, guidati da capitani, cui una mantellina di seta, o una pensione di 1000 scudi facevano girare la testa. L'aristocrazia contenta di una servilità consolata da privilegi d'ogni sorta non era più che una corporazione contrassegnata da stemmi: il popolo composto da una massa di commercianti, di agricoltori e di industriali, avara, timida, inorganica, non aveva coscienza di sè: la plebe fuori della legge e conculcata dalla legge non conservava che l'istinto della rivolta.
Mentre l'uomo moderno si era affermato nella letteratura, nella scienza e nella filosofia, compiendo qualche eroismo solitario quando non poteva scrivere un capolavoro incompreso, il popolo moderno non era ancora nato, e la politica seguitava senza risultati storici e senza caratteri nazionali. I suoi moti piccoli ed incerti ispirano un senso di amara melanconia, paragonati colla guerra della Lega dei trent'anni, o con quelli del periodo anteriore italiano. Un invincibile torpore si aggrava sopra tutti gli stati, una paralisi grottesca e miserabile vi ridicoleggia ogni tentativo rivoluzionario. Invano la Savoia, il più giovane e vitale principato, assecondando le effimere e stordite combinazioni di Francia, aspira alla conquista d'Italia, giacchè la risurrezione impossibile del regno longobardo toglierebbe alla Francia stessa l'appoggio di Roma, per lasciarla debole ed isolata contro i protestanti d'Inghilterra, d'Olanda, di Germania, contro la Spagna ed i turchi. La Savoia stessa, perdendosi nella unificazione del regno come una delle sue estreme e più ambigue provincie, non potrebbe crearvi l'idea dell'unità. Quindi i duchi di Torino, malgrado ogni velleità di conquista italica, trattano contemporaneamente con la Francia e con la Spagna, secondando la reazione di Roma coll'ignobile e feroce persecuzione contro i Valdesi, mostrandosi inconsciamente ai grandi rappresentanti del nuovo pensiero nell'aspetto di soldati e di tiranni medioevali. Il problema della politica savoiarda non può diventare italiano: nessuna idea di Torino attira l'attenzione o lusinga il sentimento di Napoli o di Milano, di Roma o di Venezia.
Capitolo Secondo. La rinnovazione dello spirito nazionale
Torquato Tasso.
La letteratura, la scienza, la filosofia, che preparano nella solitudine di studi originali o nell'eroismo contro assurde condanne un'altra vita all'Italia, ignorano ancora l'esistenza della Savoia.
Tasso, il più moderno dei poeti, è già morto. Quasi contemporaneo e nullameno di tanto posteriore all'Ariosto, ne rimane il rivale e l'antitesi più meravigliosa: se il primo chiude colla satira di un facile riso tutto il medioevo, il secondo apre l'evo moderno con un senso di idealità, che mette nel suo canto una dolcezza irresistibile. Già il Trissino, natura prosastica e pedante, coll'istinto dei tempi nuovi aveva cercato e trovato un tema di epopea nazionale nell'Italia liberata dai Goti. Il poema era rimasto goffo e greve, ma l'intenzione non poteva andarne perduta. La scettica giocondità del cinquecento cedeva alla severa meditazione del seicento; non dalla fantasia ma dalla coscienza tutte le nuove opere dovevano ispirarsi. Ed ecco Torquato Tasso, poeta figlio di poeta, che accettando la guerra del Trissino contro gli ariani e quella dell'Ariosto contro i saraceni vi reca la potenza della fede colla malinconia di uno spirito immerso nella vita come in una tragedia e aspirante all'ideale come alla sola verità. La Gerusalemme liberata è il più epico momento e il massimo trionfo della cristianità: dalle crociate comincia la nuova vita colle rivoluzioni dei vescovi, e si riapre il conflitto di Roma antica coll'oriente per giungere all'unità mondiale.
Il poema, terso come un vetro, lascia passare la grande idea del medio evo e ne ferma tutte le immondizie; l'eroismo più puro, la fede più certa animano i crociati. Le scarse contraddizioni che rissano nel loro campo, i pochi cavalieri che innamorati da Armida abiurano, sono imitazioni e residui di altri poemi; ma i saraceni stessi ci si mostrano nobili quanto i cristiani. La coscienza religiosa nel poema non è che un modo della coscienza umana più profonda, vasta e forte di essa. Nessun carattere fra tanti personaggi poetici della Gerusalemme è antico: l'uomo moderno colla sua moralità, colla sua delicatezza, col pensiero della propria sovranità, vi brilla così nei due campi da neutralizzare le simpatie dei lettori. Solimano vale Goffredo, Argante è degno di Tancredi: all'Angelica e alla Marfisa dell'Ariosto, eroine dell'avventura scetticamente guerresca ed amorosa, succedono Erminia e Clorinda con un pudore e con un amore rinnovati dalla riforma di Lutero e dal concilio di Trento. Il poeta scarso di fantasia difetta forse troppo di originalità nelle forme: si preoccupa di imitare gli antichi, si smarrisce nelle dispute, ignora se stesso. Il suo verso non è vario, nè la sua vena abbondante come quella dell'Ariosto; ma la sua coscienza tanto più alta, la sua malinconia così vera, la sua meditazione della vita così grave, la sua modernità così spontanea, gli permettono di rinnovare involontariamente tutti i tipi drammatici dal pastore al diavolo. Senza il Tasso, nè Milton nè Klopstock avrebbero forse scolpito con tanta terribilità il loro Satana; l'inutile Pluto dell'antichità, il mostro informe di Dante si mutano entro il nuovo poema nel rivale di Dio, nell'eterno ribelle di tutte le rivoluzioni umane. Ma il Tasso, ammalato della propria originalità, soccombe alla tragedia della propria poesia. La sua alterezza di poeta, la sua delicatezza di cavaliere, lo trascinano dal carcere alla follia; incompreso ed incomprensibile nel proprio tempo, è assalito perfino da Galilei, il solo che per la modernità del proprio pensiero scientifico avesse dovuto intenderlo; finchè, lancinato dalle critiche dei falsi dotti, compie l'atto più tragico per un artista rinnegando in una correzione rattristante a forza di essere grottesca il grande poema. La Gerusalemme liberata diventa la Gerusalemme conquistata: ma la posterità, che non potè incoronare il poeta in Campidoglio, lo mise sull'altare più alto della propria poesia, e vantando Dante, encomiando il Petrarca, ammirando l'Ariosto, non sentì, non comprese, non amò che il Tasso della Gerusalemme liberata. Credenti, cittadini, gentiluomini, popolo, tutti ritrovarono se stessi nel grande poema; l'unica epopea italiana parve quindi eseguita da personaggi moderni entro un fatto antico. La donna del Tasso, più donna di quella del Petrarca, non fu più nè una Venere nè una Madonna, ma la donna amica e nemica, inferiore, uguale e superiore all'uomo. La sua civetteria moderna nacque nei poemi del Tasso, nella Gerusalemme e nell' Aminta mentre Palestrina, soffrendo delle insufficienze della poesia ad esprimere tutte le sfumature dei nuovi sentimenti, inventava la musica, e Guido e il Guercino si accingevano a mettere nella bellezza di Leonardo e di Raffaello una sensibilità più pronta e più passionale.
Ma Tasso è morto: la dominazione spagnuola ha soffocato la libertà delle muse. Un'enfasi fredda, una magnificenza vuota, succedono all'ispirazione della passione: Achillini e Marini sciupano nelle più pazze imitazioni i grandi poeti spagnuoli. La poesia diventa virtuosità di prosodia o delirio d'immaginazione; nessun fatto o sentimento o idea può sostenerla nella vita italiana trascinata dalla vita europea come il cadavere di Ettore dalla biga di Achille. Quindi, riparando nelle sicure profondità del dialetto dalle altezze soleggiate della grande letteratura, non canta più che col popolo e per il popolo, suscitandovi una infinità di poeti che riproducono in proporzioni minime le grandi figure di Boccaccio e di Dante, di Tasso e di Ariosto.
Le vecchie caricature, gli antichissimi tipi delle favole popolari diventano improvvisamente le maschere vive, poetiche, parlanti della letteratura dialettale. Una satira più mordace ed acuta assale la società soggetta alla Spagna, alla Francia, a Venezia, a Roma, a tutti: Arlecchino, Brighella, Pantalone, Beltramo, Pulcinella, il Dottor Bolognese, l'Amante Fiorentino, il Capitano Fuego o Muerte nel mezzogiorno, sono i nuovi personaggi della nuova commedia, che come quella di Dante riproduce capovolta l'immagine del mondo. Tutta l'anima popolare passa nelle commedie dell'arte, quando tutte le maschere riunite dal carnevale di Venezia improvvisano un teatro mobile, sul quale percorrono l'Italia. La loro assemblea sulla piazza di San Marco è il primo parlamento politico italiano, giacchè in esso la satira, sotto il velo della favola, tra il lazzo e l'epigramma, vi comincia la critica della società, opponendo la caricatura di tutti i vizi all'ipocrisia di tutte le virtù ufficiali.
Gli scrittori politici.
Dal 1530 al 1650 una folla di scrittori rispecchia i progressi dello spirito nazionale, proseguendo le grandi tradizioni di Machiavelli e di Guicciardini. L'ateismo politico è la base della loro dottrina; la preterizione della morale il sottinteso della loro scienza: ma in questa incredulità, che studia il giuoco e la successione delle forme politiche, vi è già l'emancipazione da ogni autorità astratta. Il loro carattere è quindi servile quanto libero il loro ingegno che può giudicare tutti i padroni, indicare il difetto di tutte le istituzioni, insegnare la difesa e l'attacco a tutti i combattenti. La casistica, sviluppata dai gesuiti nella teologia, signoreggia la nuova scienza politica. Poichè nessun governo italiano è santificato da un'idea, giustificato dall'unità, reso logico da un qualunque sistema rappresentativo o utile da una vera intenzione liberale, lo spirito politico, che, imitando a rovescio Galileo, cerca le leggi del mondo sulla terra, si compiace e si smarrisce al tempo stesso nello studio imparziale di tutti i fenomeni politici. Le alte idealità dei primi scrittori, intercettate dalle grandi figure di Machiavelli e di Guicciardini, non si veggono più; appena se ne conserva il ricordo come di una superstizione passata.
Ma nessun'altra idea sottentra a quella della chiesa e dello stato; l'unità nazionale è un sogno che fa sorridere anche i più ingenui, la Riforma una stramberia che sfugge alla penetrazione anche dei più furbi. Niuno sospetta che l'uomo morale possa essere il fondamento dello stato civile e che le idee siano le cause dei fatti. In uno stato impotente ad assumere colle due condizioni pregiudiziali dell'indipendenza e della libertà una qualunque vera forma, il problema politico si sminuzza fatalmente in tanti problemi individuali; l'interesse singolo è l'universale traguardo per tutti i fatti; l'abilità, non illuminata nè purificata da alcun ideale, scivola nel pantano di tutti i brogli, non trionfa che coll'oblio di tutte le leggi.
Quindi gli scrittori politici si differenziano fra loro secondo il principato dal quale guardano o nel quale agiscono, si racchiudono nell'orbita dei partiti dove armeggiano, non vedono che combinazioni arbitrarie e slegate, interpretano ogni sconfitta o vittoria cogli errori di una matematica che non sorpassa l'aritmetica. Se la loro penetrazione è ammirabile e il loro istinto sicuro, nessun sistema più povero del loro sistema, nessun avviso più falso dei loro consigli, nessun risultato più impossibile delle conseguenze da loro previste. Un dilettantismo classico e un patriottismo angusto imbrogliano tutti i loro teoremi allorchè, alzando la politica nella storia come il Vida e il Paruta, assalgono l'epoca moderna col paragone delle epoche antiche; una superficialità evangelica mantenuta dalla tradizione e dall'ipocrisia offusca la limpidezza delle loro osservazioni quando iniziano o concludono un giudizio per assolvere o condannare qualche storico personaggio. Bellarmino annulla l'antica idea dell'impero e del papato colla nuova interpretazione dei gesuiti. Paolo Sarpi scrive la storia del concilio di Trento ed esaurisce il proprio ingegno nell'evitare ogni vero giudizio fra la Riforma e il cattolicismo: come teologo difende Venezia contro il papa, ma incredulo quanto Marsilio da Padova non osa nemmeno ripetere le sue precise affermazioni. Gli scrittori di Genova sono i più democratici, quelli di Venezia i più aristocratici, gli altri dello Stato pontificio i più servili; e nullameno fra questi stride la satira del Boccalini mordendo tutte le autorità, lasciando nei morsi le stigmate di un ridicolo immortale. Il Piemonte, solo di tutti gli stati che conservi attività nella storia, suggerisce a Botero il libro sulla Ragione di Stato colla politica tragica e duplice dei propri duchi; cento altri scrittori stritolano la loro scienza in consigli, polverizzano i consigli in ricette già raccolte da Baldassare Castiglione nel Cortegiano, libro fine e nauseabondo, nel quale l'Italia del secolo XVI trova tutta se medesima colla squisitezza artistica dei propri modi e la nullaggine perversa ed ignobile del proprio carattere. Prima di lui Nifo di Sessa plagiario di Machiavelli, dopo di lui il cardinale Commendone e Grimaldi da Genova ne esagerano ancora la bassezza perdendone l'eleganza: la servilità è il tema inesauribile di tutte le speculazioni politiche, il campo nel quale giostrano gli spiriti più destri o meglio addestrati. Il decadimento della letteratura è anche più doloroso nei libri politici: dal Principe di Machiavelli al Principe regnante al Principe deliberante al Principe ecclesiastico: dai cavalieri del Tasso ai nuovi cortigiani, la distanza è già di un'epoca. Nei primi vi era ancora il vigore dell'individualità medioevale illuminata dal raggio di un'alba misteriosamente lontana, nei secondi non vi è più che la morbidezza di una decadenza, la quale deve arrivare alla putrefazione per produrre un altro rinascimento. La livellazione del dispotismo necessaria a schiacciare tutti i caratteri per togliere loro le differenze eccessive di razza e di storia ha prodotto già i propri frutti.
L'aristocrazia deve annullarsi nella corte disonorando se stessa o il sovrano perchè il popolo cresca solitario apprendendo nei commerci, negli avvenimenti quotidiani, le idee maturate e divulgate dall'Europa. Gli scrittori sono così persuasi di questa verità che i loro trattati non si rivolgono punto al popolo, e nelle loro prefazioni si fanno un vanto di allontanare plebei curiosi e lettori volgari.
Giordano Bruno e Tommaso Campanella.
Ma le scienze matematiche e naturali, indipendenti dalla politica, pure essendone la più vera preparazione, crescono tutti i giorni, sfavillano e riscaldano. Galileo troppo vecchio per l'energia dello scandalo si è disdetto senza contradirsi: le sue scoperte astronomiche, che detronizzando il sole decapitano le divinità della Bibbia, e il suo metodo sperimentale, che emancipa la ragione da tutte le autorità della storia, sono conquistati per sempre. Nelle scienze si stringe la prima grande federazione dei magni spiriti: naturalmente i primi liberi debbono essere i più forti. Il dispotismo stesso contrastando alla filosofia protegge la scienza per cavarne immediati vantaggi. Essa sola è dispensata dalla menzogna. Mentre i letterati adulano, e storici come Davila e Bentivoglio si compiacciono tuttavia con satanica perversità dei roghi accesi per gli eretici in Francia e in Olanda, mentre i politici della ragione di stato assolvono ancora tutte le infamie scambiando l'egoismo dell'interesse dinastico colla fatalità dell'interesse nazionale, e una specie di dubbio cartesiano sembra compiacersi a dissolvere tutte le verità della vita e della storia nelle combinazioni di un malandrinaggio troppo effimero per essere veramente utile e in una incredulità che finisce necessariamente a punire se stessa colla propria inanità, presto sul doppio confine della scienza e della filosofia due bianche e gigantesche figure lanciano all'Italia il verbo di una nuova fede. Giordano Bruno e Tommaso Campanella, eroi della rinnovazione, riaffermano l'antico genio italiano sempre incredulo nella religione, razionalista nella filosofia, giuridico nelle riforme, universale nelle aspirazioni.
Giordano Bruno giovanissimo esula dal convento, nel quale alcuni primi dubbi religiosi gli hanno già attirato due processi. Un istinto irresistibile lo trascina di paese in paese alla ricerca della verità. La sua sola ricchezza è l'abito di domenicano, il suo programma rimane un mistero per lui stesso, la sua passione è la filosofia, il suo campo di battaglia in tutte le università. La tempesta della Riforma infuriante per tutta l'Europa non basta ad impaurire il suo ingegno. Costretto a guadagnarsi il pane, insegna grammatica ai fanciulli, corregge bozze nelle stamperie, sogna libri su libri, ne pubblica, discute, arringa da per tutto e contro tutti. Raimondo Lullo, l'antico eroe della logica e dell'apostolato fra i Saraceni, lo affascina colla sua Ars Magna imprigionandolo nel sogno di dominare mediante congegni dialettici e mnemonici tutta la scienza; quindi la religione cristiana, nella quale i suoi primi dubbi avevano già disciolto i dogmi della trinità e dell'incarnazione, si perde nell'immensità della nuova logica, mentre le intuizioni dell'antico abate Gioacchino, di spirito profetico dotato secondo le parole di Dante, rifermentando nel suo ingegno al vento caldo della Riforma, lo portano sempre più alto coll'annunzio di un'altra rivelazione. La grande affermazione di Giovanni da Parma, profeta di una nuova legge superiore al vangelo e che starebbe a quella di Cristo come questa all'altra di Mosè, cancellando dal cristianesimo quanto Cristo aveva dovuto accogliervi e rispettarvi di pregiudizi e di errori, balena alla sua mente e le fa sembrare troppo oscura la riforma di Lutero. Il cardinale di Cusa, massimo metafisico del secolo e precursore di Hegel, col suggerirgli l'accoppiamento della matematica colla metafisica, gli sviluppa i germi di quel razionalismo e di quell'idealismo panteistico, dal quale uscirà la filosofia moderna. Ma Copernico sopra tutti lo soggioga e lo rapisce. La sua immensa rivoluzione ancora inavvertita a quasi tutti, e che Galileo si prepara ad assicurare, solleva l'animo novatore di Bruno già ribellatosi contro Aristotele, e gli comunica coll'orgoglio di tutte le vere originalità una indomabile passione di apostolato.
Quindi il secolo non basta più a contenerlo; il suo spirito non ha più nè patria, nè religione, nè tradizione. Cittadino cosmopolita erra per l'Europa come un cavaliere della disputa scavalcando tutti i dottori: le università rumoreggiano alla sua voce, le corti si aprono davanti al suo nome, Roma lo perseguita, la Riforma lo sospetta. A Ginevra il terrorismo di Calvino e di Beza lo costringe ad allontanarsi malgrado le nobili simpatie dei fuorusciti italiani, neofiti ammirabili quanto i primi cristiani; a Tolosa le sue lezioni rivoluzionarie preparano i sospetti che pochi lustri dopo accenderanno il rogo di Vanini; a Parigi ripete i trionfi di Dante, seduce Enrico III, e nel libro De umbra idearum schizza le prime linee del suo grande e confuso sistema. I dialoghi della Cena delle Ceneri, il libro della Causa Principio et Uno, e dell' Infinito, Universo e Mondi, schiarendo la sua teorica della pluralità dei mondi, che annulla tutte le leggende della creazione, precisano la sua idea dell'infinito, nel quale l'identità dei contrari e l'eterna migrazione degli esseri per tutti i gradi e le forme mutano radicalmente il concetto della religione e della filosofia di allora.
La sua religione non è quindi più che una filosofia davanti alla quale giudaismo e cristianesimo, paganesimo e maomettanismo, sono identicamente falsi; la sua riforma sorpassa tutte le conseguenze immediate di quella di Lutero e arriva d'un balzo ai limiti oscuri del socialismo. Ma Bruno esula ancora da Londra, ritorna a Parigi e ne riparte per la Germania. Preceduto dalla fama di scuola in scuola, ovunque giunge trae seco la disputa libera, estranea alle contese del giorno, anelante alla luce e all'aria dell'avvenire. Quando le memorie della patria lontana lo rimordono, non sogna l'Italia ma Nola; il suo pensiero non ha nazionalità, il suo cuore non sente la passione di nessun luogo. Nella fatica della continua pellegrinazione spesso gli sorride la pace dell'antico convento di San Domenico Maggiore a Napoli, e vorrebbe rivestire l'abito bianco; ma questa malinconia di pellegrino non raffredda la sua foga di combattente. Da Marburgo a Vittemberga, da Praga a Francoforte, orazioni e libri sostengono ancora il suo viaggio; nullameno la luce del suo ingegno non è più nel meriggio, la sua metafisica invece di salire ancora s'inceppa nelle rudimentarie qualità artistiche, che gli avevano fatto scrivere la volgare commedia del Candelaio. Il suo ultimo libro De Monade è un poema lucreziano, nel quale la barbarie della forma aumenta l'oscurità del trattato. Finalmente la tragedia di Bruno precipita alla catastrofe: Ticone Brahe e Keplero stringendogli la mano a Praga gli hanno dato il supremo addio della scienza; Andrea Morosini e Paolo Sarpi stanno per dargli a Venezia l'ultimo saluto della vita.
Infatti, attirato quivi da Mocenigo, gentiluomo imbecille e malvagio, fu da questo denunciato al tribunale dell'inquisizione. Le condanne dei primi due processi patiti tornarono a galla, Venezia consegnò a Roma il non suo suddito. Bruno, trascinato di carcere in carcere, dopo sette anni di martirio, dovette salire al rogo. Ma se nella prima parte del suo ultimo processo parve scusare le proprie opinioni col sofisma allora accettato che si poteva sostenere in filosofia quanto dovevasi rifiutare in religione, dopo si ricusò ad ogni abiura, e quando gli lessero la sentenza di morte, guardando i giudici colla serenità di un immortale rispose: «Maggior timore provate voi nel pronunciare la sentenza che non io nel riceverla». Morì il 17 febbraio 1600 in Campo di Fiori, presso l'antico teatro di Pompeo. La gente formicolante per le vie di Roma, nella allegrezza del giubileo traeva alla piazza del rogo per vedere il truce spettacolo, ignorando il nome del martire, che pallido e superbo la guardava dall'alto della catasta come da un trono, aspettando che le fiamme gli scoppiassero sotto i piedi e frenando nella bocca eloquente quel primo grido di spasimo, che Huss e Servet si erano lasciati sfuggire.
Più infelice di lui, Tommaso Campanella discende nel porto di Napoli nel 1592. Non ha che quattordici anni. Solo e nuovo per le vie dell'immensa capitale, penetra a caso in un luogo pubblico dove si disputa di filosofia, parla e l'entusiasmo di un'ovazione accoglie le sue parole. Così giovinetto, annunciandosi alla maniera di Cristo e dovendo poi sognare di essere un nuovo messia, entra presto nel grande ordine di San Domenico. La passione della scienza lo attira. I primi libri di Telesio capitatigli fra le mani gli scatenano una tempesta di dubbi così furiosa che s'invola dal convento per conoscere l'ardito novatore, e non trova che il suo cadavere esposto in una chiesa. Allora si precipita con giovanile entusiasmo nello studio per sorprendere il segreto chiesto invano all'estinto filosofo, ma la sua dottrina cresciuta spaventosamente, procurandogli l'accusa di magia, lo costringe a fuggire come Bruno. Di lui più sventurato è raggiunto dalla inquisizione, derubato dei manoscritti, relegato a perpetuità nel convento di Stilo suo paese nativo. Quivi l'ascendente del suo spirito trascina frati, vescovi, banditi e moltitudini ad acclamarlo capo della rivoluzione delle Calabrie: ma la rivoluzione soccombe e lo travolge fra duemila vittime nelle prigioni. La sua vita è finita, la sua opera comincia.
Per ventisette anni rimane prigioniero deludendo le insidie dei giudici, resistendo a tutte le torture, evitando la condanna capitale; nessun dolore lo fiacca, nessuna disperazione lo strema. Nella solitudine delle casematte o nei sotterranei delle torri il suo spirito pensa sempre, crea, scrive il proprio soliloquio, al tempo stesso trattato e poema, manuale e tragedia. Il disordine di un'improvvisazione, durata ventisette anni, ne imbroglia le idee e ne rende spesso inintelligibili i trapassi, come se una bufera incessante agitasse questo spirito prigioniero, al quale l'ampiezza del mondo sembrerebbe forse angusta. I suoi scritti, quelli rimasti degli ottanta volumi, ora teologici, ora scolastici, ora monacali, si contraddicono a ogni passo; egli non è nè republicano, nè monarchico, nè liberale, nè illiberale; ma la rivoluzione, che gli si disegna nel pensiero, abbraccia tutta la vita in ogni sua vicissitudine di pace e di guerra, di governi e di leggi. La sua dottrina è duplice: un sensismo sperimentale, che in certo modo fa di lui il precursore di Bacone, di Locke e degli Enciclopedisti del secolo XVIII; e uno spiritualismo, che crede a tutti i traslati mistici dell'anima, a Dio, a Satana, alla magia, alle scienze occulte. L'equilibrio forzato di questi due elementi opposti produce nullameno nel suo spirito un'unità colle forze misteriose di una dialettica, che sfuggirà sempre alla critica. Il primo principio nell'opera di Campanella è la teocrazia, dalla quale deriva l'unità del genere umano sotto una sola legge e un solo pastore: tutti i pontefici, tutte le religioni, tutte le tradizioni sono identiche come rivelazioni di Dio, perchè il loro scopo divino era la giustizia; le contraddizioni delle religioni non sono che l'espressione della nostra ignoranza e della nostra perversità. Le due grandi unità dell'impero romano e del papato debbono dunque fondersi in una sola. Secondo Campanella il moto e le forme della storia sono determinate dagli spostamenti e dai mutamenti nelle religioni; le idee sole generano i fatti. Solo i dogmi possono distruggere i dogmi; ogni scetticismo contiene il germe di una affermazione; il progresso continuo nella storia e ogni epoca della civiltà sono formati di una critica e di una fede. La politica, che per tutti gli scrittori di quel tempo era lo studio dei mezzi per giungere al comando e conservarlo, diventa così lo studio dei modi, coi quali le idee si svolgono e i personaggi operano nella storia preordinata da un disegno immutabile ed infallibile. L'impassibilità morale di Machiavelli nell'analisi della lotta politica si riproduce in Campanella entro la luce di un'idea superiore: tradimento e strage da necessità drammatiche si mutano in fatalità storiche, da interesse egoistico in beneficio mondiale. L'astuta crudeltà dei consigli di Sarpi a Venezia per conservare la republica, già nell'intenzione più nobili e storicamente più logici di quelli di Machiavelli nel Principe, perdono nel filosofo calabrese ogni infamia, per non essere più che una crisi indispensabile alla guarigione di un morbo. Quindi Campanella, purificato il passato della storia con quella interpretazione, ne idealizza l'avvenire nella Città del Sole, utopia ispirata da Platone e da Tommaso Moro, nella quale la più invincibile eguaglianza, la più amorosa fraternità e la più sicura comunione di ogni bene si sviluppano sotto il più assoluto ed innocuo dei dispotismi a cominciare dall'anno 1600. Ma per facilitare questa conquista della giustizia nella storia, ancora inferma del proprio passato, Campanella si rivolge al papato, lo arma, lo avventa su tutti, eretici, dissidenti, o restii; lo dilata, invoca un concilio di tutte le religioni, risolve tutte le antitesi in una republica del genere umano col pontefice, solo, armato a sua difesa. La religione della nuova utopia, che sembrerebbe un'epurazione del cristianesimo, ne è invece l'annientamento in una formula più alta, entro la quale la tragedia di Cristo perde tutti gli assurdi crudeli del proprio dato, e nella quale la società rispettata dal cristianesimo sacrifica finalmente tutti i propri vecchi privilegi.
Ma siccome questa rivoluzione deve cominciare nel 1600, Campanella, sempre positivo anche nelle più fantastiche combinazioni della filosofia, vedendo che la Spagna ha rinnovato l'impero romano e domina il mondo, le si rivolge come al papato per disciplinarla contro tutti alla conquista universale. Il demone della dialettica lo trascina, non vede più le difficoltà, non conta le stragi, non calcola le rovine: tutto sarà riscattato dalla felicità futura. La Città del Sole sarà la patria di tutti coloro che l'avranno perduta. Papato romano ed impero spagnuolo, annullandosi col proprio trionfo, fonderanno una democrazia mondiale ed eterna. L'immobilità della fine dà quindi al moto del suo sistema la vertigine passionata di una precipitazione; senonchè il mare così concepito nell'inerzia di una immutabilità assoluta non è più che un immenso stagno. Campanella nemmeno lo sospetta. Quindi distrutta ogni individualità della nazione e del cittadino, soppressa ogni legalità secondo il pensiero di S. Tommaso e di Platone, negata ogni libertà all'anarchia delle persone tumultuanti nelle gare sociali; estirpata la famiglia, abolita la proprietà, equiparati i sessi, sottoposti gl'imenei a regole igieniche ed astrologiche, le donne sterili consacrate al piacere, bruciati tutti i vecchi libri depositari pericolosi di vecchi errori; tutta la terra coltivata come un campo, la scienza pari in tutti, una lingua universale per un pensiero identico in ognuno; una religione senza misteri e senza ideali, composta delle memorie di tutti i profeti da Cristo a Xahnoxis, da Pitagora a Campanella; una serie di pene e di ricompense distribuite con monastica norma — tutto questo sogno e questo rinnovamento non sono che una morte, della quale il profeta invasato non s'accorge.
Nel fervore della distruzione egli non ha nulla risparmiato: come per Bruno, benchè il pensiero di questo poggi più alto, il cristianesimo non è per lui che un momento della religione universale, la distruzione della società un mezzo di progresso. La Riforma di Lutero, demenza teologica ed insufficienza politica dalla quale l'universalità del loro ingegno e il cosmopolitismo del loro carattere ripugnano istintivamente, finisce per attirare lo sforzo maggiore della loro critica. Entrambi ignorano la vita del proprio secolo, non comprendono e non parlano all'Italia, ma, rapiti in sogno dal genio della rivoluzione, accumulano teoriche su teoriche, adorano le scienze naturali, non appartengono a nessuna classe, vivono e muoiono del proprio apostolato. La loro fede è tutta nell'umanità concepita nell'unità della storia senza confini nè di epoca nè di razza; le loro aspirazioni salgono verso una libertà di pensiero redentrice di ogni spirito in ogni spirito; laonde ignoranti sublimi moltiplicano intuizioni e invenzioni lasciando ad altri, forse minori nell'ingegno, la gloria di battezzarle col proprio nome; credenti dell'incredulità la confessano col martirio contro i bigotti di una fede basata sull'ignoranza delle plebi e costretta a difendersi colla violenza.
Epperò nella rivoluzione della Riforma, preludio di maggiori rivoluzioni, essi rappresentano una società nuova che sfuggendo al medioevo si precipita nell'avvenire colla foga di un condannato evaso dal carcere. Il loro pensiero si smarrisce tuttavia nella penombra della nuova alba, la loro scienza è costretta ancora a bamboleggiare per l'insufficienza di metodi troppo tardi al volo delle idee; le loro profezie cadono nella demenza, le loro creazioni improvvisate con rottami franano sovra di essi, ma il loro carattere e la loro coscienza segnano nella storia europea la più tragica e la più consolante delle originalità. All'indomani del medioevo, nel giorno della Riforma, essi vivono già nel futuro e muoiono per la sua libertà con un eroismo, che non ha più bisogno di essere compreso per mantenersi invitto o di credere al paradiso per abbandonare la terra.
L'emancipazione scientifica.
Nullameno l'opera loro informe ed inorganica non potè avere nella storia maggior valore degli abbozzi nell'arte, e degli aborti nella natura. Il grand'uomo non è colui che sorprende un fenomeno o indovina un problema, ma che fonda una teoria o stabilisce una legge. L'immenso lavoro del secolo, cominciato con essi, aveva d'uopo di spiriti pazientemente indagatori, che sostituissero alle troppo rapide sintesi e alle arbitrarie affermazioni la certezza di una nuova esperienza. Al clamore delle università disputanti succede quindi l'operosità di gabinetti isolati: i grandi scopritori solitari, ad immense distanze l'uno dall'altro, invece di disputare, si consultano colla posta. La forza dell'ingegno questa volta si esprime colla lentezza delle conclusioni. Tutto è da rifare e a tutto si mette mano. L'Italia senza vita politica non possiede più nè storici, nè letterati, nè statisti, nè filosofi: Cartesio dittatore della rivoluzione contro Aristotele nasce in Francia. La rivoluzione filosofica, impossibile prima della scientifica, sarebbe inutile in una nazione incapace di applicarla.
Laonde lo scadimento della coscienza italiana si rivela nei libri sempre più inetti di tutte le scuole politiche. Mentre la reazione rivoluzionaria del papato, oppugnando anche le scienze, non può isolarle come l'eresia per soffocarle coi supplizi, i bisogni della vita e lo scetticismo generale proteggono tutti gl'inventori contro le demenze di tarde persecuzioni. Paolo Sarpi ha delineato nella lotta contro Paolo V i confini fra chiesa e stato; Galileo nella lettera al padre Castelli (1613) scrive la più energica e precisa dichiarazione dei diritti della scienza. Alla dualità dell'impero e del papato succede quella della scienza e della religione: entrambe universali, organizzate, solidali per i propri addetti. Preti e scienziati, spesso mutando campo, combattono ovunque la stessa battaglia; la politica vi pare estranea ed invece vi è più interessata che alle vecchie dispute filosofiche. L'emancipazione del pensiero scientifico diventa un progresso sulla liberazione del pensiero religioso. L'umanità senza unità anche nella religione, non essendovene alcuna veramente universale, la raggiunge finalmente nella scienza, mentre la supremazia di Roma discende a fatto superstizioso e la scienza, che non può avere capitali, ricusa dogmi e pontefici. Quindi, meno compromessa della filosofia dalla debolezza dei propri cultori, lascia Galileo disdire le proprie teoriche, e prosegue a moltiplicarne le prove. Ogni giorno crescono scolari al maestro condannato, da tutta l'Europa arrivano notizie di scoperte. Campanella entusiasta di Galileo, come Bruno lo era stato di Copernico, lo difende con un coraggio più forte della tirannia papale. La matematica educata da Tartaglia e da Cardano previene Keplero e anticipa su Newton con Cavalieri: Galileo, superiore a tutti, divide con Machiavelli la gloria di primo prosatore, inventa il termometro, trova l'isocronismo del pendolo, stabilisce la legge dell'assonanza e della consonanza nella musica, fonda la meccanica e l'idraulica, chiarisce ed assicura il sistema di Copernico, costruisce il telescopio, raggiunge gli astri, li novera, li descrive, scopre le montagne della luna, nota le fasi di Venere, sorprende i satelliti di Giove, avverte l'anello di Saturno, interpreta le macchie solari, accumula invenzioni, scoperte, teoriche sulla base incrollabile del metodo sperimentale, prima che Bacone si avvisi di predicarne la necessità. La chiesa, illuminata dall'istinto, sente che Galileo, mutando il concetto del mondo, rovescia involontariamente i dogmi cattolici, e lo colpisce con un processo gli minaccia la tortura, gli impone di rinnegarsi. Invano Galileo vecchio e cieco si arresta; la scienza prosegue. Castelli e Torricelli suoi scolari sviluppano l'idraulica, questi trova il peso dell'aria ed inventa il barometro; Giambattista Porta, trattando i fenomeni della visione, scopre la camera oscura, Dedominis spiega l'arcobaleno, Baldassare Peruzzi ha già determinato la prospettiva. Mentre l'insurrezione filosofica di Telesio contro l'idea della natura di Aristotele non aveva avuto altro merito che di rovesciare l'autorità di un errore millenario colla libertà di un nuovo errore, presto il metodo sperimentale afferra le più necessarie verità. Dopo gli studi di Salviani sulla ittiologia, Aldrovandi compie una vasta storia naturale, dalla quale usciranno tutte le altre; Girolamo Fabrizio tenta il problema del linguaggio; Andrea Cisalpino, genio vasto e precursore, rinnova quasi tutto il campo delle scienze e crea il metodo mineralogico; Fabrizio d'Acquapendente e Paolo Sarpi scoprono la circolazione del sangue; Fracastoro indovina dai fossili i primi segreti della geologia e intuisce lo teoria atomistica combattendo le cause occulte. Alessandro Benedetti da Legnano rinnova la gloria del Mondino da Bologna, aprendo il primo teatro anatomico e tracciando le prime linee dell'anatomia patologica; così la chirurgia, diventando scienza, sottrae il corpo umano alla tirannia della religione e i morti alle spiegazioni superstiziose. La chimica, nel delirio dell'alchimia e nelle avare ricerche della pietra filosofale, ha sorpreso molti misteri della vita: tutto vive, ogni fenomeno contiene la propria causa, ogni causa è limitata alla natura. Dio, che spiegava tutto, ora non rende più ragione di nulla; le scienze, invece di negarlo, lo dimenticano: la geologia riconosce alla terra un'antichità troppo più remota di quella attribuitale dalla Bibbia: la geografia, scoprendo agli antipodi i confini della storia sacra, ha trovato l'altra metà della storia umana. Nel nuovo cielo, troppo vasto per il dio di Mosè, la terra e il sole non sono che due piccole stelle fra milioni di mondi; Cristo non è più che un profeta fra i profeti, e Dio una ipotesi fra le ipotesi. Cartesio, che lo deduce dalla ragione, ve lo sottomette: solo il pensiero regna. Roma non dirige più il mondo, perchè ogni uomo che pensi dipende solo dalle leggi del pensiero. La libertà scuote tutte le vecchie tirannie, sbertando tutte le autorità irragionevoli. La democrazia trionfante nei due campi della Riforma e del cattolicismo trascina i gesuiti contro Giansenio, che rinnovando le teoriche agostiniane della grazia vorrebbe scemare la poca libertà rimasta nel cattolicismo all'individuo morale; e il papato appoggia i gesuiti. Col terribile dubbio di Cartesio, che si arresta solo alla verità del pensiero, la filosofia si libera finalmente da Aristotele, e il pontefice greco della scuola e il pontefice romano della religione e il re del diritto divino soccombono simultaneamente. Cartesio è il Lutero della filosofia.
Quindi si compie l'avvento del diritto pubblico. Alberigo Gentile ottiene ancora all'Italia la gloria di precorrere l'Europa nel diritto della natura e delle genti: la sua opera De iure belli apre la strada a Grozio e a Puffendorf per determinare coll'equilibrio dei diritti i caratteri e la posizione dell'individualità nazionale nella nuova storia. Ma, simile a Giordano Bruno, egli non è che un precursore condannato a parlare per se stesso invece di parlare a nome di un popolo. Dietro Grozio si avanza l'Olanda, dietro Alberigo Gentile sta immobile l'Italia: ecco la differenza fra i due autori. Infatti Alberigo Gentile, figlio di un riformato rifuggitosi in Germania per evitare le persecuzioni di Roma, aveva dovuto crescere nel pensiero e col pensiero germanico.
L'Italia coopera al movimento ideale dell'Europa, ma ne accompagna pedissequamente la storia, mentre, combattuta fra l'antagonismo franco-spagnuolo ed esercitata dal dissidio cattolico-protestante, cresce in secreto liquidando il proprio passato. Firenze si spegnerà silenziosamente, Venezia getterà ancora qualche lampo prima di tramontare, Napoli ripreparerà il proprio regno per contendere al Piemonte la gloria di costituire l'unità italiana, Roma è immortale.
Capitolo Terzo. I regni del Piemonte e delle due Sicilie
Il secolo di Luigi XIV.
La pace di Vestfalia arresta l'influenza politica della Germania in Europa; protestantesimo e cattolicismo sospendono la guerra riconoscendo l'impossibilità di una vittoria finale, e s'acconciano a vivere l'uno presso l'altro come due varietà del cristianesimo. L'eresia scientifica, trionfante su tutti i punti del pensiero europeo, li obbliga a riunirsi contro di essa in una unità di difesa contro la terribile unità de' suoi attacchi. Il diritto delle genti è secolarizzato, ogni nazione individuandosi non è più un frammento animato e protetto dall'idea del papato e dell'impero. Nessun ricordo delle antiche unità. Nell'Europa la lotta storica prosegue fra nazioni distinte ed originali. Apparentemente nulla pare cangiato: la nobiltà, il clero, i re, i parlamenti, il papa, Lutero, tutti conservano la propria posizione; ma uno spirito nuovo la muta ogni giorno con una interpretazione dissolvente. Gli eserciti stanziali sopprimono quello stato medioevale di guerra, nel quale ogni uomo doveva di momento in momento mutarsi in soldato; il modo scientifico della guerra riduce la milizia a professione, l'ambiente commerciale le impone scopi economici, assoggettandola alle leggi della nuova scienza finanziaria. Gli alti dominii, i vassallaggi assurdi, le dipendenze fittizie, tutti i residui dell'antica organizzazione feudale, si sgretolano rapidamente sotto l'azione della nuova atmosfera: oramai non vi sono più che cittadini; la gerarchia sociale non esprime che una inevitabile graduazione di uffici sempre più rappresentativi. La legge non consacra ancora questa uguaglianza, ma la coscienza ne è così profondamente convinta che viola e delude la legge; la libertà religiosa, scientifica e filosofica sta per produrre la libertà politica. La ragione di stato non si limita più all'interesse del sovrano, dacchè il popolo osserva e giudica colle norme del proprio interesse e al lume della propria coscienza. Una guerra minuta ed incessante assale tutti i privilegi e tutte le autorità; si deve rendere ragione di tutto, non si può essere creduto superiore ad alcuno che sapendo o potendo maggiormente.
Mentre in tutte le storie la classe dominante aveva sempre avuta la preponderanza economica, ora la ricchezza diventa la maggior forza della politica: ma poichè guerre di rapine, taglie e confische divennero impossibili, non si può più arricchire che nel lavoro e col lavoro. Le colonie danno alle nazioni la tendenza e il carattere d'immense società commerciali: la finanza sorge dall'economia come l'algebra dall'aritmetica, misurando coll'unità del proprio valore cose, individui e governi. Quindi una borghesia nuova invade la storia, riempie le scuole, si precipita alle colonie, applica tutte le scoperte scientifiche, si giova di tutti i progressi, tende a sostituire l'aristocrazia in tutte le funzioni. Coll'infallibilità dell'istinto essa si appoggia e appoggia i re senza credere al loro diritto divino; l'aristocrazia annichilita dalle centralizzazioni regie, attirata nella corte dalle seduzioni e dalle necessità della propria vita, abbandona i castelli per diventare cortigiana, mentre il popolo perde sino il ricordo dell'antico vassallaggio. L'ultima devozione, il supremo entusiasmo, il superstite vanto di essa è la servilità verso il re, che l'ha distrutta; il suo orgoglio si esprime col fasto di un lusso maggiore delle sue ricchezze. Il re rimane dunque solo nella nazione. Superiore all'aristocrazia, alla borghesia e al popolo, non appartiene a nessuna classe: questa che pare grandezza non è che decadenza, giacchè invece di essere un potere vivo e personale egli è appena un rappresentante, un simbolo costretto ad accogliere l'idea della nazione. Quindi nel giorno che pregiudizi o privilegi gli persuadano di essere minacciato nella sublimità della propria posizione, non avrà nè un'idea nè una forza, colla quale resistere all'invasione democratica. L'aristocrazia senza influenza e senza valore, divorando col più ignobile parassitismo la maggior parte delle rendite dello Stato nella cassetta del sovrano, non potrà che morire con lui, e non ne avrà forse il coraggio; quel giorno la democrazia troverà facilmente la propria republica.
La democrazia, principio e fine della sovranità individuale, deve abbattere i re in tutte le nazioni per crearne uno in tutte le coscienze.
Ma la democrazia religiosa di Lutero si arresta alla pace di Vestfalia. Una atonia sorprende la Riforma sui confini tracciati dalla spada di Gustavo Adolfo. Nemmeno tutta la Germania è protestante; il moto fallisce in Ungheria, è respinto dalla Polonia; non si estende alla Russia, non s'insinua che inutilmente nei paesi latini. L'Inghilterra vi si muta improvvisando una republica per conquistarvi alcuni progressi democratici; poi, fedele al carattere della propria storia, richiama i re cacciati e riprende il proprio corso colla libertà legale. La sua rivoluzione non ha quindi espansione politica, e, breve, sanguinosa, sembra quasi una rivolta. La ristorazione di Monk scema l'opera di Cromwell al punto che occorre una nuova espulsione degli Stuardi e l'elezione della dinastia protestante d'Orange perchè non vada perduta. L'Inghilterra, una volta così efficace sul continente colle vittorie contro la Francia, vi perde pressochè ogni influenza, mentre dilatandosi sui mari vi raccoglie la gloria e la potenza di Venezia. Le sue colonie diventano così floride e numerose che il suo impero commerciale supera per estensione e ricchezza quello antico di Roma. L'Austria cattolica eredita dalla Spagna l'impero, nella cui forma federale può contenere ancora la Germania luterana vibrante della memoria di Gustavo Adolfo e fisa instintivamente al piccolo trono di Prussia. La Spagna di Carlo V vede tramontare il sole della gloria entro i propri confini, mentre il suo impero colpevole di aver rappresentato l'ultima unità medioevale si sfascia come un immenso scenario, nel quale s'ingolfano i terribili uragani delle sue sierre.
La Francia, regia e unitaria, guerriera e liberale, s'avanza sola sull'Europa. Mentre la Riforma tenta replicatamente di infrangerla, il genio di Caterina dei Medici innestato su quello di Luigi XI schiaccia nel sangue, consuma col fuoco, disperde negli esigli, annienta colla sapienza di una tirannia feroce sino all'insensibilità e duttile sino alla spira la rivoluzione degli Ugonotti. Quindi Richelieu, compiendo l'opera di Caterina, purga da ogni ribellione tutto il suolo francese, emancipa la politica dalla religione, rovina la Spagna, frena l'Inghilterra; con lui sfolgora la grande civiltà francese già in lotta per la conquista del mondo. Cartesio è il primo re del pensiero moderno, che s'impone all'Europa liberandola da Aristotele. Dietro lui una legione di scrittori estrae e diffonde le idee latenti nella rivoluzione della Riforma col fascino di una letteratura incomparabile. La democrazia si avanza precipitosa e rumoreggiante. La Germania è ancora chiusa nella coccia della feudalità, l'Inghilterra ripiombata nell'immobilità delle proprie forme, la Spagna inerte sotto le rovine del proprio impero appena illuminato dagli ultimi fuochi dell'inquisizione, quando la Francia, gioviale ed incredula, colta e superba, si libera dall'oppressione della propria aristocrazia e dall'eccessiva costrizione dell'unitarismo regio coll'insurrezione carnevalesca della Fronda. Regalità e feudalità vi perdono per sempre l'intangibilità nel ridicolo di una guerra e nell'ignominia di un equivoco, che lascia al popolo l'orgoglio di aver potuto ridere ragionevolmente per molti giorni di tutte le autorità politiche.
Ma la democrazia rientra nelle forme monarchiche per la necessità di un ultimo periodo regio, che dia alla Francia col predominio sull'Europa, la più irresistibile espansione ideale.
Il grande secolo francese incomincia. Parigi succede a Roma nell'importanza: Bossuet diventa un papa francese contro il pontefice romano sostenendo l'inviolabilità del gallicanismo; Colbert contro la tradizione agricola di Sully ottiene al commercio, al lavoro e quindi al lavorante e al capitalista, come giovani forme della ricchezza, la supremazia contro tutte le altre classi sociali; l'Accademia reca nella letteratura l'unità monarchica raddoppiando la penetrazione del pensiero coll'infallibilità della parola ed assicurando la diffusione della verità col gusto della bellezza. Quindi la letteratura prende la forma di un contagio, dal quale nessuno resta immune. Tutte le idee trionfano in tutte le espressioni. L'Europa meravigliata si lascia invadere e soggiogare. Parigi è un immenso faro, la gloria, la moda, la passione, il vizio e la virtù di tutto il mondo. Luigi XIV può essere impunemente, senza alcuna vera qualità di guerriero o di statista, meschino nello spirito, eccessivo nel temperamento, violento nel carattere: vanitoso sino ad odiare tutti i grandi uomini che lo circondano, può trovare nella libertà dell'Olanda una offesa al proprio dispotismo: incapace di sentire la grandezza ideale come Federico II, può profondere nel fasto di Versailles la metà del tesoro francese, esagerare il cattolicismo monarchico gallicano colla revoca dell'editto di Nantes, lasciarsi governare tutta la vita dalle donne, non sopportando neppure il dubbio che qualcuno o qualche cosa gli resista: può non comprendere e non meritare la propria posizione, avere tutti i difetti di Enrico IV senza le qualità di Luigi XI e credersi nullameno un sole come Alessandro, giacchè con lui la Francia illumina il mondo; e solamente con lui dopo Carlomagno torna alla testa dell'impero. Infatti le sue guerre la rinnovano e la rimutano: tre volte, a Nimega, a Riswik, a Utrecht, le vittorie francesi obbligano tutti gli stati a ripiegarsi sopra se medesimi e a discutere il proprio diritto precisando la propria fisonomia. La Spagna diventa un regno subalterno francese; l'Olanda, resistendo alle forze combinate della Francia e dell'Inghilterra, riprende il corso naturale della propria rivoluzione e sacrifica i De Witt a Guglielmo III d'Orange, che spodesta gli Stuardi: sul Reno comincia la grande contesa di confine tuttavia ardente tra la Francia e la Germania, dell'unità dell'una colla federazione dell'altra, troppo forti entrambe per imporsi mutuamente una linea che divenga un lineamento della loro fisonomia geografica. La Germania, proclamando la permanenza della Dieta di Ratisbona nel 1663, colla camera imperiale e colla camera aulica composta metà di protestanti e metà di cattolici, accenna già al grande dualismo politico dell'Austria e della Prussia, che si muterà presto in duello per riserbare al vincitore la gloria di unificare la federazione. La Scandinavia e la Danimarca, la Polonia e la Russia si muovono egualmente nell'orbita francese. L'Austria, succeduta alla Spagna in Italia, vi ripete il suo ufficio, impedendo a questa di mutarsi in provincia borbonica ed improvvisandovi col regno indipendente delle due Sicilie un dispotismo illuminato e benevolo.
Venezia, Genova e la Corsica.
La storia italiana di questo periodo non è che una appendice e un episodio della rivoluzione di Luigi XIV. Solo la decadenza dei vecchi principati indipendenti e il rigoglio dei due nuovi regni vi hanno carattere nazionale. Il problema del futuro regno italico comincia a precisarsi nella rivalità di Torino e di Napoli, libere entrambe dallo straniero e capaci di assimilarsi altre forze nazionali.
Venezia, segregata dalla storia italiana, nella quale non rappresenta più nè un'idea nè una forza, si consuma in un lungo duello coll'oriente. Attirata, nel 1644, dalla pirateria dei cavalieri di Malta in una nuova guerra contro Costantinopoli, vi prodiga le ultime ricchezze e le estreme prove di quel valore, col quale aveva anticamente conquistati tutti i mari. Invano i suoi ammiragli affondano replicatamente le armate turche, e Lazzaro Mocenigo, sublime di lirico eroismo, muore vittorioso sotto le mura di Costantinopoli nell'incendio che gli divora la nave; più invano ancora Francesco Morosini, ultimo capitano, offusca la gloria di tutti i suoi predecessori, resistendo vent'anni all'assedio di Candia e soggiogando più tardi tutta la Morea. La repubblica morente sulle lagune non può mantenere la vita nelle proprie colonie: gli scarsi aiuti del papa e dei nobili venturieri francesi capitanati da La Feuillade e da Navailles, gli accordi con Sobieski e le vittorie del principe Eugenio di Savoia in Ungheria non bastano ad impedirle il trattato di Passarowitz (1718), nel quale, abbandonando tutti i possessi d'oriente, conserva appena le isole Jonie, quasi per lasciare in quella culla della poesia il testamento della propria storia.
Genova, sua eterna rivale già salvata dall'eroica generosità di Andrea Doria, resiste con maggiore energia ai nuovi attacchi, ma il suo spirito republicano langue nell'equivoca libertà misuratale dal protettorato francese. Carlo Emanuele II, fedele al programma politico della propria casa, le insidia la vita instancabilmente e invade le sue frontiere, compra in Raffaele della Torre un ribaldo peggiore del Vachero per assassinarla con una insurrezione di banditi: Genova, forte contro tale invasione, si torrebbe facilmente di dosso l'avvoltoio savoiardo, se Luigi XIV non la costringesse al disarmo, conculcando il suo orgoglio cittadino colla propria vanità dispotica (1688). L'umiliazione del doge Francesco Maria Imperiale-Lercaro a Versailles prostra lo spirito dell'altera republica e chiude per sempre l'altera tradizione di Andrea Doria. Quindi una prosperità commerciale inalterata, mentre quella di Venezia diminuisce giorno per giorno, non basta più a mantenerle nella esistenza di grosso comune la vita di piccolo stato.
Infatti le nuove insurrezioni della Corsica (1731) rivelano tutta l'insufficienza politica e militare della republica destreggiantesi meschinamente per opporre all'odio patriottico dei ribelli l'autorità equivoca dei vescovi, e invocante contro il Ciaccaldi e il Giafferri, generali improvvisati della rivolta, i reggimenti imperiali d'Austria. Ma, pochi anni dopo, la Corsica insorge di nuovo, dichiarando la propria franchigia ed eleggendo a re Teodoro Neuhof, ardito avventuriero e ciarlatano (1736): poi la guerra prosegue così atroce che Genova è costretta a chiamarvi i francesi per soffocarla nel sangue senza ottenere alcuna pace. Oramai l'isola non può essere per la republica nè uno stato soggetto, nè una colonia: pel primo Genova dovrebbe avere l'antica forza militare, per la seconda possedere attitudini agricole estranee alla propria natura. Invece, travolta nelle guerre di successione, deve cedere col trattato di Worms (1743) il marchesato di Finale e sopportare le ingiurie dell'Inghilterra, per soccombere abbandonata dai francesi e dagli spagnuoli sotto le forze riunite dell'Austria e del Piemonte.
Se non perisce interamente, come la inanità del suo governo vorrebbe, solamente la reciproca diffidenza dei due conquistatori e lo slancio della sua plebe marinara, insorta al grido di un fanciullo rimasto poi nella storia col nome di un eroe, lo impedisce. In un giorno solo gli austriaci del parricida Botta sono respinti. Ma la momentanea energia della plebe, capace di resistere trionfalmente agli sforzi combinati dall'Austria, del Piemonte e dell'Inghilterra, non bastano a risollevare la viltà del senato: così quando gli aiuti di Francia e di Spagna liberano la città dall'assedio, Richelieu ne diventa il generale supremo, e Genova, reintegrata dal trattato di Aquisgrana (1748) in quasi tutto il proprio dominio sotto la protezione degli interessi europei, non è più che la larva di se medesima. Il suo senato, equivoca clientela di tutte le corti, non ha fede nel popolo e non gliene ispira; la sua borghesia dimentica nell'acquisto delle ricchezze la passione della libertà; il suo governo, sempre schiavo di protettorati stranieri, non conserva dell'antica grandezza che il fasto presuntuoso e l'inutile duplicità. Infatti la Corsica, insorta alla voce dell'ultimo e migliore dei suoi eroi, costituendosi in una republica di tipo olandese sotto lo statolderato di Pasquale Paoli, batte tutte le truppe genovesi, sgomina ogni combinazione del senato, profitta dell'attrito fra Genova e la Santa Sede, improvvisa un governo talmente superiore a quello di Genova, che questo con inetto e codardo espediente è costretto a vendere l'isola alla Francia (1768).
Così finiscono contemporaneamente Genova e la Corsica. Pasquale Paoli, soldato non meno prode di Guglielmo d'Orange e politico generoso quanto Giorgio Washington, dovette esulare, povero e vinto, perchè l'Italia, incapace di risorgere come l'Olanda e l'America con una vera rivoluzione, non poteva ancora affermarsi in faccia al mondo se non coll'apparente inutilità di politiche grandezze individuali e solitarie.
Gli altri principati italiani.
Mantova, scaduta ad un principe poeticamente lussurioso, dopo la liberazione di Torino (1706) espia l'errore di essersi appoggiata ai francesi nella futile speranza di salvarsi da essi coll'appoggio dell'Austria, vedendo il suo ultimo duca tradito dalla Francia e destituito dall'imperatore morire di tristezza a Padova. L'imprendibile rocca della contessa Matilde, indarno agognata dai Veneziani, diventa quindi la più terribile fortezza dell'impero austriaco in Italia. Lo splendore della sua vita si spegne fra le nebbie silenziose dei suoi stagni, mentre Venezia, antica rivale, deve rimpiangerla come unico baluardo contro l'espansione imperiale. Ferdinando Gonzaga, principe di Castiglione delle Stiviere, e Pico della Mirandola spariscono egualmente dal numero dei principi, riparando a Venezia, città morente mutata in ospizio di moribondi. Più fortunato, il duca di Modena per aver aderito alla parte imperiale può conservare il proprio stato ed insidiare persino Ferrara al pontefice; mentre la famiglia dei Farnesi, colpita nella discendenza, deve cedere il piccolo trono ai Borboni di Spagna (1731). Elisabetta Farnese maritata a Filippo V ottiene nel trattato di Londra per il proprio primogenito, incapace di succedere al padre nel regno di Spagna perchè figlio di secondo letto, i ducati di Toscana e di Parma dichiarati, per un richiamo alle antiche formule, feudi dell'impero. Il pontefice protesta vigorosamente per Parma e Piacenza immuni da ogni diritto imperiale, e solo dalla chiesa e per la chiesa costituite in ducato; Cosimo III di Toscana imita il papa dichiarando Firenze piuttosto pronta a perire che a perdere la propria libertà. Vane proteste di minimi ed inutili regnanti condannati a sparire dalle necessità della nuova storia! L'Europa non bada ai guaiti dei due principati decrepiti, che passano dai Farnesi e dai Medici ai Borboni e da questi ai Lorena. Giangastone, ultimo pronipote di Lorenzo il Magnifico, più vile dell'ultimo Gonzaga, accoglie in Firenze l'infante don Carlo che deve succedergli, e chiude la storia della propria casa coll'osceno suggello di una spintria (1737). Dell'antico governo fiorentino, al quale Cosimo I aveva dato la terribile unità del proprio spirito, non resta più che una memoria lontana nel popolo e la gloria immortalata dai monumenti dell'arte. Ma i trattati di Londra, di Siviglia e di Firenze, coi quali si era disposto della successione dei due grossi ducati, non possono in tanta tempesta delle guerre di successione essere rispettati. L'Italia è preda e campo di tutti i contendenti: da un lato la Spagna e la Francia, dall'altro l'Austria, in mezzo il Piemonte sempre vinto e sempre invincibile, giacchè necessario all'equilibrio dei maggiori avversari, sollecitato da tutti e da tutti regalato di qualche provincia al finire di ogni guerra. Coll'insediamento dei Borboni nel cuore d'Italia la bilancia delle potenze precipita da un canto: la Santa Sede spodestata di Parma e di Piacenza, asserragliata dal ducato di Toscana e dallo stato di Napoli, teme di perdere altre terre; il Piemonte pensa con terrore ad una conquista borbonica del Milanese che contemporaneamente minaccerebbe gli ultimi giorni e gli ultimi possessi di Venezia. L'Austria respinta definitivamente dall'Italia perderebbe così quasi ogni importanza europea sotto l'impero di Luigi XIV formato dalla Francia e dalla Spagna.
Il Piemonte nelle guerre di successione.
Mentre tutta l'Europa si drizzava fremendo ai nuovi appelli di guerra per la successione austriaca di Maria Teresa, in Italia solo il Piemonte vigilava nell'armi. Da molti anni, attraverso invasioni e conquiste, dalle quali usciva sempre maggiore e libero sotto il governo dei propri duchi, esso rappresentava la vitalità e l'avvenire d'Italia. La sua politica tra avvenimenti così mobili mostra una fissità meravigliosa e si riassume in due parole: destreggiarsi per ingrandirsi. La coscienza di essere necessario a tutte le contese mantiene nel suo coraggio naturale una costanza eroica, che la duplicità della sua diplomazia illumina di luce incerta; i suoi duchi, volgari nelle armi e nella politica, ottengono dalla necessità europea quanto nessuna grandezza di cuore o di ingegno avrebbe potuto meritare ad alcun altro principe italiano. Il suo popolo, ignorante e compatto come gli antichi romani, non ha nè pensiero nè sentimento proprio. Nessuna guerra lo stanca, nessuna sconfitta lo prostra, nessuna libertà lo tenta. La fortuna di casa Savoia è talmente fusa con quella del Piemonte che nulla può scinderle.
Carlo Emanuele II, fedele al nome dell'avo, ritenta già nel 1672 l'impresa di Genova cogli stessi mezzi e col medesimo successo: alla sua morte, nel 1675, la duchessa reggente Maria Giovanna deve resistere a Luigi XIV, che rinnovando le insidie di Richelieu alla duchessa Cristina, vorrebbe mutare il Piemonte in feudo francese e il giovane duca, Vittorio Amedeo II, in re di Portogallo. Ma questi, accortosi della trama, la sventa, doma la piccola ribellione di Mondovì, e, cedendo agli ordini della Francia, massacra con un'ultima strage gli ultimi Valdesi. L'inutile viltà di questa carneficina, nella quale egli non figurò che come il più abbietto vassallo di Luigi XIV, lo attirò poco dopo in guerra contro la Francia per la successione del Palatinato. Destro e bugiardo, dopo aver molto temporeggiato trattando contemporaneamente con Luigi XIV e coll'imperatore Leopoldo I, dovette finalmente decidersi per questo, onde resistere a Catinat disceso a Pinerolo. Ma peggior generale che politico, malgrado il valore di Eugenio di Savoia accorso a sostenerlo, fu battuto a Staffarda (1690), a Marsaglia (1693), e dovette per non perdere interamente lo stato tradire i propri alleati, stipulando colla Francia la neutralità dell'Italia. Ma più che le infide tergiversazioni lo soccorsero i bisogni di Luigi XIV, il quale, divisando di impadronirsi della successione spagnuola col proprio nipote duca d'Angiò, mirava a liberarsi dalle armi dei confederati e considerava una prima pace col duca di Savoia come un mezzo di persuaderla agli altri. Infatti a Ryswick, villaggio olandese, fu conchiusa la grande ed effimera pace, che dopo una guerra esiziale di due lustri ristaurava con pochi mutamenti l'aspetto territoriale europeo stabilito dal trattato di Nimega. Il duca di Piemonte, miracolo di doppiezza e di fortuna, ricuperava persino le fortezze sino allora occupate dalla Francia, e fidanzava col figlio del Delfino la propria figliuola Maria Adelaide.
Ma alla nuova guerra determinata dall'elezione del duca d'Angiò a re di Spagna, il Piemonte, stretto fra i due maggiori contendenti, deve ancora scendere in campo ed essere campo alle più fiere battaglie. La sua politica non muta, sempre in partita doppia, aspettando dagli avvenimenti, l'ordine e l'ora di tradire qualunque alleato. Mentre Venezia, sollecitata da ambo le parti, può ricusarsi alla lotta col pretesto di ultime imprese in Oriente, confessando così di non appartenere più alla storia italiana; e Mantova, imitando le infedeltà savoiarde, è destinata a sparire come un principato minimo ed inutile; il Piemonte forte del presente e dell'avvenire d'Italia deve partecipare a quella guerra che fissa la fisonomia dell'Europa moderna. I suoi tradimenti esprimono i contraccolpi dell'avvenimento europeo nel fatto italiano, e la sua vittoria finale come regno consacra la necessità di uno stato italiano tra Francia ed Austria, non meno forte e più moderno di entrambe. La Francia non può quindi vincere la guerra se non distruggendo il Piemonte, indispensabile a tutta l'Europa contro l'espansione francese, che, secondo la frase classica di Luigi XIV, aveva già spianati i Pirenei; la Spagna decaduta e subalterna deve perdere fatalmente in Italia i dominii conquistati nell'apogeo del proprio impero; l'Austria sola può succederle, ma con minore importanza e zona più breve. Infatti questa, discendendo in Italia, invece di occupare la Toscana e le due Sicilie come provincie dell'impero, è costretta malgrado ogni trionfo a riconoscervi un regno e un ducato, autonomo il primo e soggetto il secondo al suo protettorato.
La guerra della successione spagnuola fu aspra e fortunosa. Vittorio Amedeo II e Catinat sostennero male il primo urto del principe Eugenio di Savoia generalissimo degli austriaci: Villeroy, succeduto a Catinat guerriero d'antica virtù, cadde di disastro in disastro, finchè il duca di Vendôme, impetuoso e scaltrito, potè arrestare la fortuna imperiale. Ma il tradimento di Vittorio Amedeo, alleatosi abilmente coll'Austria, imbrogliò la guerra: Eugenio di Savoia e il duca di Vendôme, richiamati l'uno in Baviera e l'altro in Francia, cessero il campo a minori generali. Allora le sorti del Piemonte pericolarono daccapo, Torino fu assediata, Pietro Micca la salvò, Eugenio di Savoia la liberò dall'assedio nel 1706. Quindi gli imperiali, voltandosi verso Napoli male difesa dal vicerè, marchese di Vigliena, la conquistarono a nome del pretendente austriaco Carlo III sconfitto in Spagna da Filippo V; il marchese Spinola potè appena impedire loro la Sicilia; Vittorio Amedeo cupido della Provenza tentò coi confederati l'impresa di Tolone, e vi si condusse e vi fu battuto come un brigante. La Sardegna, sforzata dall'ammiraglio inglese Leake, passò dall'ubbidienza spagnuola all'austriaca; il papa stesso s'impegnò in guerra coll'Austria per sostenere i diritti della chiesa, mandando il suo generale bolognese Marsigli a mescolare la comicità delle proprie disfatte agli orrori di una guerra, che insanguinava tutta l'Europa.
Ma la fortuna di Luigi XIV precipitò dappertutto: sbaragliati i suoi eserciti, distrutte le sue flotte, il tesoro esausto, la Francia prostrata, tutta l'Europa minacciante ai confini. L'altero chiese pace. I confederati, imponendo troppo dure condizioni, la trassero in lungo, finchè la morte dell'imperatore Giuseppe I, al quale successe il fratello Carlo, pretendente austriaco, e la caduta del ministero Marlborough in Inghilterra poterono agevolare gli accordi fra la Francia, la Gran Brettagna, la Prussia, gli stati generali d'Olanda e la Savoia. Quest'ultima, al trattato di Utrecht (1713) spalleggiata validamente dall'Inghilterra, dopo vane insistenze per dilatarsi sul territorio francese, guadagnò, oltre il riconoscimento delle concessioni sui territori lombardi, ottenuti coll'ultimo tradimento dall'imperatore Leopoldo I, la Sicilia col titolo di re per i propri duchi e col diritto sovrano di agguerrirsi e di fortificarsi.
Così il Piemonte si costituiva per primo in regno italiano col consenso e per opera della nuova Europa.
Al trattato di Rastadt stretto poco dopo fra i due supremi generali, Villars e Eugenio di Savoia (1714), si convenne che l'Austria succederebbe alla Spagna nei dominii italiani del regno di Napoli, del ducato di Milano e della Sardegna.
Però quest'assetto politico dell'Italia doveva mutarsi in breve per iniziativa di un grande italiano. Giulio Alberoni, povero prete piacentino, presentato dal duca di Vendôme a Filippo V di Spagna, potè persuadergli per moglie Elisabetta Farnese, donna di alti spiriti e di fiero carattere. Quindi, divenuto con lei e per lei primo ministro, volle con ammirabile superbia ed astuzia di ingegno risollevare la Spagna dalla bassezza politica, nella quale il trattato di Utrecht l'aveva precipitata. Rapidamente improvvisò eserciti, armate, finanze, deludendo tutte le diplomazie, galvanizzò il re, minacciò contemporaneamente la reggenza francese, il re di Piemonte in Sicilia e l'Austria in Sardegna. La temerità di tanti disegni gli attirò sopra tutta l'Europa senza che il suo spirito sbigottisse; ma la fiacchezza di Filippo V esaltato dalle prime vittorie non resse alle prime sconfitte, onde l'Alberoni, cacciato di Spagna, povero ed altero tornò in Italia per esaurirvi nella ridicola impresa di San Marino la potenza di un ingegno politico, che aveva potuto sollevare mezza Europa. Le conseguenze dei suoi moti determinarono però un migliore riparto negli stati politici d'Italia, giacchè la Sicilia fu ceduta all'Austria e la Sardegna al re di Piemonte. Questi, vecchio ed affievolito da tante vicissitudini, dopo aver compiute parecchie buone riforme, volle abdicare nel 1730 in favore del figlio Carlo Emanuele III, ma più infelice di Carlo V, avendo poi tentato di riprendere la corona, fu da quello chiuso nel castello di Rivoli, ove perì miseramente.
Quindi un'altra successione preparò all'Italia una altra guerra e un altro regno. Alla Prammatica sanzione emanata dall'imperatore Carlo VI nel 1724 per assicurare l'integrità dei possessi austriaci, conferendone l'eredità alla propria figlia Maria Teresa contro le due figlie del defunto imperatore Giuseppe I suo fratello, l'assetto politico dell'Italia si cangiò nuovamente. Per ottenere l'assenso della Spagna e della Francia alla nuova legge di successione, l'imperatore acconsentì che i ducati di Parma, Piacenza e Toscana, derelitti per difetto di discendenza nelle proprie dinastie, passassero dai Farnesi e dai Medici all'infante don Carlos di Spagna. Ma poichè le proteste dei principi elettori di Baviera e di Sassonia contro la Prammatica sanzione, e la successione di Augusto II di Polonia, alla quale concorrevano lo stesso principe di Sassonia e Stanislao Leszinski, già re di Polonia e genero di Luigi XV, aggiunsero altri problemi alla grossissima questione della successione austriaca, s'accese una guerra europea: da una parte l'imperatore d'Austria, dall'altra il Piemonte, la Francia e la Spagna. Questa volta le proteste degli alleati e dell'imperatore, per quanto ipocrite, suonavano tutte in favore della libertà polacca, annunziando colla necessità di questa menzogna la verità del nuovo diritto nazionale.
Sulle prime Francia e Piemonte avendo conquistato il Milanese, Carlo Emanuele III sognava già di ridurlo a propria provincia, quando il maresciallo Villars, sospettoso della duplicità savoiarda e non meno cupido della Lombardia per la Francia, si gettò attraverso quel sogno dissipandolo. Intanto gli spagnuoli, sbarcando nei porti della Toscana, già guadagnati, muovevano coll'infante don Carlos all'impresa di Napoli e saccheggiavano Mirandola e Piombino. L'agevole guerra si compì colla grossa vittoria del marchese di Montemar a Bitonto sugli austriaci; la Sicilia si arrese quasi senza colpo ferire, e il regno fu costituito fra le acclamazioni di tutto il popolo sempre infervorato di ogni nuovo signore (1735). Nullameno questa volta vi erano legittime speranze di un ritorno all'antica autonomia. La guerra intanto proseguiva fierissima nella Italia superiore. Gli austriaci respinti a Parma, battuti a Guastalla, dopo diversi altri scontri vennero ad un accordo, col quale la Toscana alla morte dell'ultimo duca Giangastone doveva passare alla casa di Lorena, il regno di Napoli veniva riconosciuto indipendente, il re di Sardegna acquistava con due distretti del milanese al di là del Ticino la superiorità sui feudi delle Langhe, e la Francia appropriandosi il ducato di Lorena riconosceva la Prammatica sanzione.
Lo scopo italiano della guerra era dunque raggiunto.
Oramai l'Europa riconosceva due grossi regni nella penisola. La Toscana, passata dai Medici ai Lorena, guadagnava una migliore dinastia; Venezia, estranea all'Italia come nei primi tempi medioevali, agonizzava lentamente; la Lombardia, sottomessa all'Austria, migliorava la propria condizione amministrativa; Genova, sempre agognata dal Piemonte, era una preda ancora troppo grossa per essergli conceduta. Ma alla morte dell'imperatore Carlo VI la guerra riavvampò per la successione di Maria Teresa, maritata a Francesco di Lorena granduca di Toscana. Francia, Spagna, Baviera, Russia, Sardegna e le due Sicilie si scagliarono contro Maria Teresa: questa, fuggiasca da Vienna, riparò fra gli ungheresi, che, giurando cavallerescamente di morire tutti per lei, ristorarono la sua fortuna con inaudito valore. Naturalmente Carlo III si alleò allora con lei, tradendo i confederati. La guerra imperversò quindi in un viluppo spaventoso sulle sponde del Po, del Panaro e della Secchia: il ducato di Modena ne andò rotto, la Savoia fu invasa. Il trattato di Worms (1743) fra Inghilterra Austria e Piemonte, togliendo a Genova il marchesato del Finale per attribuirlo a Carlo Emanuele, trascinò la republica nella guerra: gli austriaci ritentarono la conquista di Napoli; ma, fallendo nell'impresa di Velletri, dovettero abbandonarne ogni idea. Il Piemonte, diventato bersaglio di tutta la guerra, si difese validamente, resistè al principe Conti, parve anche una volta presso a sfasciarsi dopo la rotta di Bisignana e le perdite di Alessandria, Tortona, Casale e Asti; ma l'accortezza politica di Carlo Emanuele lo salvò, abbindolando la Francia, generosa con lui di un trattato che lo avrebbe costituito signore di Lombardia, e profittando della pace di Dresda fra Maria Teresa e Federico II, e della successione di Ferdinando IV a Filippo V di Spagna.
Finalmente alla pace di Aquisgrana (1748), dopo l'episodio di Genova, la pace riconobbe a Filippo Borbone, fratello minore di Carlo III di Napoli, il ducato di Parma, il duca di Modena fu reintegrato, il Piemonte giunse al Ticino, il regno di Napoli diventò più compatto e forte che non mai in tutto il passato della sua storia, la Toscana si cangiò in un ducato dell'impero austriaco, la Lombardia in una sua provincia, Venezia rimase rispettata perchè negletta, il popolo trascurato perchè impotente. Di Lucca nessuno si accorse.
Il Papato.
In tutto questo periodo di un secolo la sua opera politica fu peggio che nulla. Dopo la terribile energia di Pio V nella Bolla In Coena Domini l'irruenza altera di Paolo V contro Venezia e il nepotismo depravato e rapace di Urbano VIII, la vita del papato si allenta in una inerzia, che rivela nella decadenza della sua idea la nullaggine del suo regno. Innocenzo X (1644) non è più che un giocattolo nella mano fine di donna Olimpia Pamphili e un flagello in quella sanguinaria di Carlo Emanuele II infuriante sui valdesi: Alessandro VII, Clemente IX passano inosservati nella lunga serie dei papi. Innocenzo XI, tenace sino alla caparbietà, è il solo che osi resistere a Luigi XIV, togliendo le immunità agli ambasciatori e contraddicendo al gallicanismo malgrado l'invasione dei francesi in Avignone e la minaccia di peggior guerra contro Roma; ma la sua energia personale non può trasfondersi nel papato, che patteggia col suo successore Alessandro VII. Le contese del 1707 fra Clemente XI e Giuseppe I d'Austria par il ducato di Parma e Piacenza, ridichiarato feudo dell'impero, e le altre del 1716 con Vittorio Amedeo II a cagione della Sicilia e di alcuni feudi piemontesi soggetti a privilegi ecclesiastici, rinfocolando gli animi con discussioni e scomuniche, resero sempre più inefficaci ed assurde le viete pretese dell'impero e del papato. Ad ogni elezione di pontefici, le numerose fazioni contendenti nel conclave non ebbero più altro scopo che di impossessarsi di un grado e di un regno favorevole alla vanità e all'avarizia. Il papato non era più che un pontificato incapace di provocare o di sedare in Europa la più piccola discordia; le sue armi spirituali, una volta così terribili, non spaventavano più le coscienze, la nuova fede protestante e la nuova incredulità scientifica ne ridevano del pari.
Quindi Benedetto XIV (1740) giungendo al pontificato vi portò una disinvoltura bonaria ed incredula degna del secolo di Voltaire: invece di maledire sorrise, mutò le scomuniche in discussioni, cercò di resistere coll'elasticità dopo le troppe prove infelici della rigidezza. Con lui comincia un'epoca nuova nella storia del papato, oramai ridotto a semplice grado ecclesiastico e a una abbazia grossa quanto un regno. A distanza di un secolo e mezzo, dopo Sisto V, egli è il solo pontefice che lo uguagli nell'importanza e gli assomigli nella popolarità: quegli benefico perchè terribile, questi accetto perchè mite, ambedue mondi nel costume e inclinati a considerare la religione piuttosto come un istrumento che come un principio della storia.
Ma una insolubile contraddizione violentava lo spirito del papato, forzandolo ad affermarsi come regno su titoli medioevali santificati dalla religione, mentre tutte le nazioni d'Europa rimutavano il proprio diritto. Le antiche concessioni dell'impero, annullate gradatamente in tutti i principati della penisola, non potevano essere conservate nello stato pontificio: un popolo nuovo sorgeva nell'Europa, ostinato di già a cercare in se stesso l'origine di ogni legge politica. Impero e papato non esistevano più in nessuna coscienza; quindi, urtandosi come forme vuote, dovevano empire del proprio suono tutte le terre. Ma gli stati, respingendo la supremazia ideale di Roma e reagendo contro i privilegi del clero, invece di rinnovare le contese medioevali fondavano una nuova legislazione. Filosofi, giureconsulti, scienziati, statisti, scrittori, tutti si opponevano al papato, decomponendolo nella più fine analisi, dissolvendolo nei più caustici epigrammi. La sua impotenza politica saltava agli occhi di tutti; la sua immobilità nell'immensa rivoluzione rimutante l'Europa diventava un anacronismo.
Il nuovo problema italico.
Il problema politico si era capovolto. Mentre per tutto il medioevo lo scopo della storia italiana era stata la federazione contro le violenze unitarie di ogni barbara conquista, ora raggiunta colla federazione la grande civiltà del rinascimento e adempito l'ufficio della prima educazione europea, l'Italia si volgeva a creare il proprio regno. E come, nell'incapacità di fare in se stessa le grandi rivoluzioni necessarie alla creazione dell'uomo e dello stato moderno, doveva aspettarne i benefici contraccolpi dalla Germania, dall'Inghilterra, dall'America, dalla Francia, da tutte le nazioni già costituite o più pronte a costituirsi; così, invertendo il processo della federazione, ingrossava quello fra i suoi principati meno logoro dalle lotte medioevali. Solo il Piemonte non aveva avuto importanza nel medioevo e non vi aveva espresso alcuna idea, quando Milano e Venezia, Verona e Firenze, Napoli e Palermo, Pavia e Ravenna, Genova e Bologna brillavano di ogni civiltà alzando le proprie cronache a grado di storia.
Il Piemonte, riserbato a più alti destini, entra nella storia d'Italia all'agonia degli altri principati, e simile a Roma antica afferma subito la propria tendenza alla conquista del regno. L'unità di quest'idea spiega l'incessante duplicità della sua condotta e la brutalità militare della sua vita. Il Piemonte non ha significato che nella politica italiana. Ma le guerre della successione spagnuola lo mutano in piccolo regno, quelle per la successione austriaca ricostituiscono solidamente l'altro di Napoli. Quindi la storia d'Italia non si svolge più che nell'inconscia e fatale rivalità dei due regni condannati a non potersi nè confederare nè combattere e a doversi nullameno soverchiare nello scopo finale di un'unica monarchia italiana; mentre Roma, pietrificata nelle memorie medioevali, e l'Austria, succeduta all'impero come potenza moderna conquistatrice, raddoppiano con una inutile alleanza gli ostacoli alla formazione del regno. Contro l'opposizione di Roma e dell'Austria l'Italia avrà l'invincibile soccorso del diritto e della rivoluzione: nella rivalità dei due regni il Piemonte prevarrà necessariamente a Napoli, perchè la futura monarchia dovendo risultare dal diritto moderno con un processo di annessioni plebiscitarie, il Piemonte conquisterà meglio di Napoli le simpatie e gl'interessi della maggior parte d'Italia. Infatti i suoi contatti con Genova, con Milano, colla Toscana, con Venezia, colle Romagne gli permetteranno di loro affratellarsi, eccellendo nella libertà e nell'indipendenza dallo straniero, mentre lo stato pontificio, separando come un enorme muraglione il regno napoletano da tutto il resto d'Italia, impedirà nella grande metropoli del sud il formarsi del carattere e delle affinità nazionali. Le annessioni, come ultima formula dell'antica confederazione, si volgeranno più facilmente al Piemonte che alle due Sicilie; e poichè nella storia come nella vita chi non sale discende e chi non prosegue indietreggia, vedremo Napoli non solo abbandonare presto ogni tendenza italiana per chiudersi nell'angustia dei propri confini, ma inseguita entro i medesimi dallo spirito rivoluzionario, diventare con Roma e coll'Austria centro di ogni reazione politica.
Capitolo Quarto. Genio e carattere nazionale durante la formazione dei due regni
Le scuole politiche.
Dal periodo di Luigi XIV alla rivoluzione francese la vita politica dell'Italia si addensa nella riforma di pressochè tutti i suoi stati. Si direbbero i primi soffi del vento annunzianti l'uragano. La lotta s'impegna fra Roma e i governi per la laicità dello stato; i principi reclamano la propria indipendenza contro i privilegi del clero, non intendono riconoscere investiture, sopprimono le immunità, affermano nella politica un diritto civile superiore al diritto canonico. Così la riforma luterana penetra nel cattolicismo, emancipandone gli stati. La guerra si accanisce in battaglie quotidiane per diritti massimi e minimi entro procedure assurde, che impongono alle riforme le curve dell'arte e della scienza curialesca. Ma sotto il dibattito legale si agitano le idee filosofiche ed economiche del secolo. L'organizzazione sociale, ancora improntata sul tipo medioevale col re assoluto, col papa onnipotente, colle classi antagoniste ed irrefondibili, contraddice allo spirito di libertà e di uguaglianza della nuova civiltà. I principi, assalendo Roma, combattono il proprio diritto divino, senza sospettare che all'indomani della loro vittoria il popolo, invece di applaudire, li scaccerà colla più grande delle rivoluzioni.
Ma questo per ora non mostra nè genio nè carattere politico. La politica e la legislazione abbandonate al principe non esprimono più alcuna azione popolare; il perfezionarsi della loro giustizia e l'allargarsi della loro democrazia paiono piuttosto beneficenza di sovrano che esigenza di popolo. Le antiche rivalità municipali sono cadute colle vecchie energie: non più virtù militari o civili, nessuna funzione che permetta l'esercizio di grandi qualità, nessuna carriera che l'avvilimento cortigiano non interrompa o snaturi. Principe e corte riassumono tutti i poteri e tutte le forze vive dello stato: mai dispotismo fu più assoluto e meno esorbitante. Tutto stagna. Il popolo sogna nel pensiero di qualche solitario come Vico, non si riconosce nelle storie di Giannone, ride alle commedie di Goldoni, delira ai melodrammi di Metastasio. Quindi l'insurrezione dei dialetti, che aveva detronizzato la letteratura nazionale, cessa improvvisamente: sul teatro gli attori scacciano le maschere, e l'opera soverchia la commedia. L'ultima creazione della prosa popolare è Meneghino, immagine del popolo crapulone e codardo, nel quale il buon senso non serve più che a giustificare l'abbiezione del carattere e l'ignoranza del pensiero.
Dal 1650 al 1707 le scuole politiche italiane si oscurano nel più squallido tramonto. La scuola della ragione di stato, quella federale, dei tacitisti, dei republicani, dei monarchici, non hanno più uno scrittore degno di essere letto; il catalogo delle loro opere basta a rivelare coi loro titoli l'assurdità delle materie e dei metodi, coi quali furono composti. L'Italia non ha più pensiero politico, perchè la sua vita politica ha perduto ogni spontaneità e ogni indipendenza. Le rivoluzioni di Masaniello a Napoli e di Alessio Battiloro a Palermo non attirano l'attenzione di alcun scrittore; gli sforzi del Piemonte per espandersi fra le percosse di tutta l'Europa non bastano a ravvivare la morta tradizione del regno; l'atonia dello stato pontificio ha sorpreso lo spirito de' suoi sudditi; i mutamenti dinastici di Toscana, di Parma, di Napoli, di Milano avvengono senza strappi nelle abitudini e nella coscienza delle singole regioni. Tutti sono così persuasi dell'impossibilità di ogni libero moto italiano che sulla terra delle rivoluzioni regna per la prima volta una calma indefinibile. Malgrado i contraccolpi delle guerre europee strazianti la penisola, la sua vita interna prosegue fra così grandi franchigie, che le permettono di seguire a non grande distanza i progressi delle maggiori nazioni già emancipate.
La vecchia scienza politica, costrutta da Machiavelli nell'empietà e trasportata da Botero nella religione, soccombendo nella impossibilità di qualsivoglia azione, dimentica tutti i precetti di stato, gli assiomi delle perfidie sovrane e i teoremi dell'ubbidienza popolare, coi quali si era destreggiata per due secoli fondando e difendendo i principati. Oramai ogni espediente sarebbe inutile, ogni teorica impossibile. Il mondo del rinascimento è vanito; un'altra rivoluzione dopo quella di Germania e d'Inghilterra sta per scoppiare. Si ritorna all'antica politica creata da Platone e descritta da Aristotele, nella quale il bene pubblico ripiglia il posto di quello del sovrano. Il dualismo della chiesa e dell'impero, l'una concepita nella verità divina e l'altro nella verità umana, che aveva riempito il medioevo, si compone dopo il trattato di Vestfalia nella formula di un diritto al tempo stesso umano e divino, ideale e reale. Ogni individuo è pari all'umanità, ogni stato è fatto in lui, con lui, per lui: ogni governo esprime l'azione di tutti su tutti, ispirata alla verità, dominata dalla giustizia. L'interesse politico non può essere che il bene universale: il diritto dello stato domina quello degl'individui come il tutto domina le proprie parti senza sopprimerle. La scienza politica si muta quindi in scienza della storia: quella del governo in scienza giuridica ed economica. Al segreto della vecchia politica succede la pubblicità della nuova; non vi sono più nè sovrani nè sudditi: lo stato composto di cittadini è una unità costituita di unità.
Queste idee diffuse in Germania, in Inghilterra e sopratutto in Francia interrompono per sempre la lunga ed oramai inutile serie degli scrittori politici italiani bamboleggianti nei catechismi politici. L'ultimo scrittore è Gregorio Leti, bizzarra natura d'improvvisatore, che coglie a volo tutti gli effimeri aspetti della propria epoca, e li fissa in abbozzi degni di Salvator Rosa pel colorito. Incredulo, bugiardo, negligente, penetrante, passa attraverso il mondo come un viaggiatore frettoloso, che parla e schizza, racconta ed esamina: non rispetta nulla, ma fa buon viso a tutto; mente, ma cerca per istinto la verità; non arriva alla satira del Boccalini, e nullameno la sorpassa colla terribilità di un buon senso, che rispecchia capovolta l'immagine di tutte le assurdità ancora venerate e rovescia colla rapidità della propria onda cristallina gli avanzi di tutte le rovine medioevali. Ma egli muore nel 1701, quando al dominio ispanico sta per succedere l'austriaco, e Napoli e Torino si mutano in capitali di due grossi regni.
Giambattista Vico.
Dopo di lui la scienza politica passa dagli aridi e goffi trattati di se stessa nella storia. Giambattista Vico, un solitario grande quanto la solitudine, medita nel trambusto del proprio secolo e nel silenzio della propria vita il problema della storia universale. Ignorato ed incompreso, non comunica col proprio tempo che per la critica colla quale lo respinge: ultimo fra i cinquecentisti in ritardo, adora il classicismo e lo tradisce inconsciamente col proprio genio novatore. Le scuole, nelle quali era cresciuto, non avevano potuto nè contenerlo, nè soddisfarlo: aveva studiato la grammatica in Alvarez, la filosofia in Suarez, il diritto in Vultejo: incapace di scendere nel fôro, si rifugiò nella miseria della pedagogia e, solo per nove anni nella rocca di Vatolla, visse in una biblioteca come Campanella aveva vissuto in un carcere. Ma ritornato a Napoli e divenuto per forza di protezioni professore di rettorica nell'Università, fu tratto nella battaglia del cartesianesimo di allora. La sua cultura classica e la sua ignoranza del moto filosofico che agitava l'Europa lo misero fra gli oppositori: vide in Cartesio un Crisippo, in Gassendi un Epicuro, se non che, oppugnando Cartesio, fu trascinato oltre nella filosofia e nella storia. Un istinto di terre lontane, una inconscia bramosia di scoperte lo attirava nell'antichità, quasi che solamente risalendo tutto il passato potesse affacciarsi all'avvenire. Studiava da solo, non si concedeva altro maestro che se stesso. Simile a Rousseau, non aveva a quarant'anni scritto che due opuscoli quasi insignificanti.
Quindi, nell'esumare l'antichità italica, l'urto della filosofia di Pitagora contro le leggi delle XII tavole lo gitta nel diritto storico di Roma; Grozio lo soccorre, ma il diritto filosofico di questo raddoppia la contraddizione portandola dalla storia di Roma in quella del mondo: la republica ideale di Platone triplica l'antitesi col proprio quadro ideale, da cui non sorge e su cui nessuna storia si modella. La lotta fra la giustizia e la storia affatica lungamente il suo genio, finchè Leibnitz colla teorica dell'armonia prestabilita gli apre un'uscita improvvisa su meravigliose quanto confuse prospettive. E Vico si precipita. Tutto parte da Dio e ritorna a Dio; Dio congiunge spiriti e materie, sensazione ed idea. Nosse velle posse, son la triade divina, che atteggiano la vita dell'uomo e la storia dell'umanità. La storia non distrugge la filosofia come la fisica non sopprime la metafisica; l'interesse è la sensazione che sveglia l'idea dell'uomo e forma le nazioni nella storia. La quale, essendo una continua realizzazione d'idee provocate dall'utilità o dalla necessità, passa dall'infanzia alla giovinezza, per finire nella maturità come la vita dell'individuo. La storia di Roma si apre all'occhio di Vico come una lotta del diritto fra patrizi e plebei, nella quale ogni fase realizza una giustizia, e ogni fatto la prepara; la storia di Roma esprime tutta quella del mondo e ne rivela la preistoria.
Un lampo abbagliante scopre a Vico i primi giorni dell'umanità; gli mostra il terrore adunare i primi uomini, i padri dominare le prime adunanze, i forti stabilire i primi confini, i violenti insanguinarli, i deboli rifugiarvisi e mutarvisi in schiavi. Tale è l'origine di ogni città, una vittoria di padri o di patrizi. Vico raggiunge Hobbes nella descrizione dello stato selvaggio, ma lo supera nell'interpretazione delle prime forme civili: incontra Bodin nella decomposizione feudale di Roma antica, ma con occhio più sicuro ripete e migliora la sua analisi. A forza d'interpretazioni ideologiche e politiche Vico dissipa ogni dubbio nella storia del diritto umano. Un'immensa erudizione lo soccorre, una divinazione prodigiosa gli rivela tutte le intimità della vita romana. Dove Machiavelli non aveva veduto ed ammirato che la grandiosità di certe apparenze militari e politiche, Vico scopre una giurisprudenza e una psicologia universale. Brisson, Sigonio, Gravina, tutti i grandi interpreti dell'antichità, rimangono dietro di lui; dal diritto romano giunge al diritto feudale del medioevo, e lo penetra e lo spiega col medesimo processo. La storia è la fisica del diritto, del quale la filosofia è la metafisica; ma la fisica non essendo vera che nella costanza e nell'universalità de' suoi fenomeni, la storia di Roma dev'essere identica a quella del mondo. Da questa affermazione teoretica Vico scende alla prova. Nulla lo spaventa. Limitato alla bibbia, ai greci e ai latini, egli ignora le storie dell'India e della China: l'orbita tracciata da Aristotele e da S. Tommaso è un circolo fatato ed infrangibile per il suo pensiero, ma da questa prigione egli spinge lo sguardo su tutte le lontananze e ne fissa con meravigliosa audacia il disegno sulle proprie carte. Persiani, spartani, ateniesi, cartaginesi, ebrei, egiziani, tutti ripetono la storia di Roma; la identità della loro idea non è un plagio o una trasmissione, ma un carattere, una necessità al tempo stesso fisica e spirituale: l'uomo uguale dappertutto crea dappertutto la medesima storia. Le etimologie lo dimostrano. Nessun filosofo inventa ed affida ad alcun popolo un'intera civiltà; la mitologia è un linguaggio dei popoli incolti come l'immagine è l'espressione naturale dei fanciulli; le divinità non esprimono che i momenti di un'idea o di un fatto; il mito è al tempo stesso un quadro e una sintesi, ingrandita o svisata dalla tradizione.
Con questo sforzo Vico ha creato la scienza della storia: gli accidenti politici e militari, che vi tenevano il primo posto, rimettono la maggior parte della loro importanza; la storia è la psicologia dell'umanità, la legislazione è il moto della giustizia e la rivelazione della verità nella storia. Nessuna contraddizione deve dunque esservi insolubile, altrimenti l'unità divina e l'unità umana ne andrebbero rotte. Il modello di Roma dà la certezza a tutti i modelli frammentari delle altre storie. Tutte le lingue e le letterature debbono esprimere il fatto di Roma: Omero stesso non vi si sottrae, e il suo olimpo rappresenta nel patriziato degli Dei quello dei quiriti; l' Iliade descrive semplicemente gli ospizi violati, i rapimenti, le guerre perpetue degli eroi; l' Odissea significa le pretese delle plebi che vogliono i connubi contro l'ostinata opposizione dei patrizi, e le sconfitte e le restaurazioni di questi che ristabiliscono l'ordine colle pene più atroci. I drammi omerici si mutano in simboli politici alzando la loro verità individuale a verità rappresentativa.
Da questo immenso lavoro uscì la storia ideale, eterna, comune a tutte le nazioni, e il diritto universale condensato nella Scienza Nuova. Il processo della quale essendo di ricostruzione, creò di contraccolpo la critica e stabilì l'unità del genere umano. Ogni uomo, interrogando se stesso, può trovare la storia dell'umanità. Il diritto è al tempo stesso principio e risultato della storia: le tre età degli Dei, degli eroi e degli uomini formano la triade progressiva di ogni storia che si apre e si chiude con un circolo: lingue e letteratura rispecchiano queste tre fasi. La storia è una eterna ripetizione come la vita; non vi sono più casi ma leggi, non più arbitrio ma ordine. Civiltà e forme politiche, volgo e patriziato, idiotismo e genio, tutto è contenuto e dominato dal proprio periodo, e serve immancabilmente alla sua realizzazione; ma il circolo si chiude fatalmente in ogni storia, e l'umanità muore continuamente in ognuno di essi. Vico, che ha tutto spiegato col modello ideale di Roma, giungendo al medioevo e vedendolo finire nelle monarchie del proprio tempo, nelle quali si risolve la barbarie eroica della feudalità, si arresta. Dove va l'Europa? Il grande solitario, che aveva interrogato tutto il mondo forzandone il silenzio coll'insistenza del proprio genio, non osa rispondere; un'ombra fredda gli discende sul pensiero e, velandogli intorno tutte le forme della vita, gli insinua nel cuore un terrore di cimitero. Oramai tutto è decadenza: i cartesiani gli ricordano le sterili filosofie di Roma decrepita; l'individualismo rivoluzionario che si avanza non gli pare più che egoismo frammentario; il sensismo di Locke gli sopprime la morale; la nuova fisica gli toglie Dio. Tutto è finito, il circolo fatale sta per chiudersi, e Vico vecchio, ignorato, ignorante del proprio mondo, incapace di comprendere l'Italia, di osservare l'Europa, di sorprendere il progresso della politica e della civiltà mondiale, circondato da tutte le macerie, colle quali ha ricostrutta la storia eterna, soccombe come un titano dell'epoca divina sotto le rovine delle montagne da lui stesso lanciate contro il cielo.
Il suo genio eccentrico avendo compito l'opera immane deve sparire, giacchè nell'imminente rivoluzione sarebbe peggio che inutile. Simile a Copernico, a Colombo, a Galilei, a Newton, egli non ha misurato l'importanza della propria scoperta. Piamente cattolico, non sospetta nemmeno che la sua storia ideale, maggiore del cristianesimo, lo abbia livellato con tutte le altre religioni, mentre il suo diritto universale sopprime per sempre ogni diritto divino di papi e di imperatori. Egli, che si astiene dal commentare Grozio per non frequentare un eretico, è il più grande eresiarca del secolo, colui che lo emancipa dal peso di tutte le autorità, mostrando nella storia eterna il diritto universale come unico principio. Se l'idea del progresso gli si piega fatalmente in circolo, presto illustri scolari, dei quali rabbrividirebbe leggendo le opere, riprenderanno la sua linea per mutarla in spira. Condorcet, Herder, Comte, Hegel creeranno la filosofia della storia guidati dai lampi della Scienza Nuova; la critica seguendo le sue orme con Nièbuhr permetterà a Mommsen di ricostruire la storia di Roma, mentre lingue e letteratura ritroveranno nelle temerarie etimologie e nelle sistematiche interpretazioni del solitario napoletano il segreto delle loro origini e delle loro forme.
Vico, italiano senza un'Italia che potesse colla propria vita nazionale imporre al suo genio il senso della lealtà, doveva creare e smarrirsi necessariamente nelle astrazioni. Il suo diritto universale e la sua storia eterna non potevano arrivare alla teorica intera del progresso, quando intorno a lui la vita politica tramontava nella più ignobile decadenza. Vico in Germania, in Inghilterra, in Francia, circondato, aiutato dall'immensa creazione politica, scientifica e filosofica di quelle nazioni, avrebbe creato un capolavoro degno di contendere colla Divina Commedia. Solo, incompreso ed incomprensibile, ignorato ed ignorante del proprio tempo, si chiuse in se medesimo, radunò tutta l'antichità per lui conoscibile e soffocò nel circolo, che imponeva alla storia. Ma suicidandosi in una meditazione, nella quale i lampi aumentavano fatalmente l'oscurità, violentando il passato, aperse l'avvenire senza vederlo, più infelice di Mosè che potè scorgere dal Tabor la terra promessa, ingenuo come Colombo che, scoperta l'America, sognava la restituzione di Gerusalemme alla cattolicità.
L'Italia non si accorse di lui, come non si era accorta di Dante, non aveva creduto a Colombo, ascoltato Machiavelli, compreso Michelangelo, protetto Galileo, difeso Bruno, come doveva abbandonare fra poco Pietro Giannone nella carcere di Tomaso Campanella. In una nazione, condannata a una grandezza puramente ideale, il genio deve essere incompreso o tradito, mentre la realtà non può prestare alcun appoggio a' suoi tentativi o giovarsi immediatamente delle sue scoperte. Così l'Italia, che tradiva o ignorava i propri pensatori, cedeva alle altre nazioni magari nemiche i propri generali e vinceva con essi le maggiori battaglie d'Europa. Senza Eugenio di Savoia e Raimondo Montecuccoli l'Austria non avrebbe potuto resistere al periodo di Luigi XIV; senza Vico l'opera di Montesquieu sarebbe rimasta inutile, e quella di Herder impossibile; senza Giannone la lotta dei governi contro il papato non sarebbe passata dalla polemica alla storia.
Pietro Giannone.
Accanto a Vico, sconosciuti l'uno all'altro, Pietro Giannone, il più profondo giureconsulto e il più celebre avvocato di Napoli, pubblica nel 1723 la propria Storia civile. Il successo ne è istantaneamente tale che supera lo scandalo: l'Europa s'affretta a tradurla, Roma colpita a morte prorompe all'anatema, il principato compromesso dall'eccesso della difesa, che la nuova storia gli prodiga in tutto il passato, si rivolta e minaccia il proprio difensore. Il popolo, troppo spregiato da Giannone perchè sempre sottomesso al clero, incapace di comprendere questa grande rivolta, cede ai sobillamenti dei preti e muta il nome dell'illustre storico in improperio, costringendolo ad esulare a Vienna.
Ma la sua Storia civile del reame di Napoli, dedicata a Carlo VI imperatore di Germania, riassume in sintesi potente la vecchia e nuova lotta dello stato contro la chiesa. Erudita fino alla minuzie, spesso profonda quanto una filosofia, arguta e mordace, apparentemente imparziale e nullameno violenta come una requisitoria e implacabile quanto una sentenza, racconta ed esamina la conquista assidua e devastatrice della chiesa sullo stato; scruta tutte le tendenze della politica ecclesiastica, la perfidia delle intenzioni e dei mezzi, la rovina dei risultati spirituali e sociali. Giammai Roma aveva ricevuto più vigoroso attacco. Una ragione superiore guida lo storico, una passione onesta lo sostiene, una fede cristiana pura sino all'ingenuità e salda fino al martirio lo illumina. Il concetto della nuova storia, che il diritto risiede nell'universalità dei fedeli, era già stato affermato da Marsilio di Padova e da Paolo Sarpi, ed è la democrazia applicata alla chiesa; la sua contraddizione deriva dal sostenere che i principi come i capi della società laica ne hanno ereditato i diritti contro la conquista di Roma. La forza di questa storia civile è meno nel suo dato, evidentemente falso, che nella terribilità del processo critico e descrittivo, col quale suscita tutte le coscienze contro il dispotismo papale. Il parallelo fra la chiesa primitiva e la chiesa romana, la formazione del regno pontificio, lo stabilirsi del diritto canonico, la sottomissione dello stato alla chiesa, sono trattati con sì profondo magistero d'arte e di scienza e arrivano a tanta evidenza di rappresentazione, che fanno dimenticare i molti errori e superano tutte le antiche polemiche sostenute da principi o scrittori contro il papato. Invano i gesuiti, ritorcendo con splendida temerità gli argomenti di Giannone, affermano che la fonte dei diritti anzichè nei principi è nei popoli, e spingono la democrazia all'ultima verità; il popolo italiano, sprezzato giustamente da Giannone, non afferra la replica gesuitica e si mantiene estraneo al grande dibattito fra la chiesa e lo stato. La facile conclusione dall'universalità dei fedeli a quella dei cittadini, e quindi alla sovranità della democrazia, è impossibile alla coscienza del popolo da troppo lungo tempo straniero alla politica e degradato dalla superstizione.
Giannone stesso non osa tutte le conseguenze del proprio problema. Il suo dispregio pel popolo gl'impone la servitù verso i principi; il suo carattere non ha la forza del suo ingegno.
A Vienna, sotto la protezione dell'imperatore, scrive il Triregno, nel quale, universalizzando le idee della Storia civile e commentando Machiavelli, si lascia di gran lunga addietro ogni scrittore contemporaneo. Il Triregno riproduce nella storia la forma imposta da Dante al proprio poema. Nel primo regno sta il mondo antico pagano colle sue religioni positive, colle sue mitologie umane, pieno di eroi, forte della propria coscienza storica che crea la civiltà dell'Egitto e della Grecia, o resiste colla solitaria e sovrumana ostinazione degli ebrei, o si espande dovunque colle fatate vittorie di Roma. Quindi al regno terrestre dell'antichità succede quello celeste di Cristo, che attraverso un divino idealismo promette nullameno una redenzione politica, e vuole la giustizia sulla terra, l'uguaglianza nella storia, la felicità materiale sino ad assicurare la risurrezione dei corpi. Così sollecitando tutti gli istinti e animando tutte le passioni, il regno celeste di Cristo suscita eroi, martiri, taumaturghi, trasforma il mondo romano e rovescia gli idoli delle antiche nazioni. Ma i cristiani si stancano di attendere un messia incapace di mantenere le proprie promesse, l'eccidio di Gerusalemme scoraggia coloro che aspettavano quello di Roma; e sorge il terzo regno di dubbi, di sofismi, di raggiri. Il pessimismo prevale, la chimera del millennio prostra le genti alla chiesa, i teologi si domandano dove sia il cielo e disputano sulla resurrezione reale o metaforica, sugli angeli, sull'inferno, sul redentore, onde viene fondata la tirannia teologica. Finalmente S. Gregorio Magno stabilisce l'ammissione immediata dei credenti in cielo, rendendo inutile la resurrezione dei morti, il giudizio universale, l'intero dramma del cristianesimo primitivo. La chiesa è quindi l'arbitra della sorte delle anime, può canonizzare e dannare; il purgatorio, stazione dei morti, diventa prigione dei vivi costretti dall'amore a sottomettere al clero le proprie preghiere e a comprare da lui la beatitudine dei propri defunti. All'avvento di Cristo si sostituisce dunque quello del pontefice; la chiesa sorge a detrimento degli stati, il papa tesoreggia sulla imbecillità delle moltitudini e dei re, carpisce il dominio temporale a Carlo Magno, si asside al disopra di ogni impero e di ogni popolo. Contro questo ultimo regno Giannone bandisce la rivolta.
Ma al momento di stampare il Triregno, l'Austria, perdendo le due Sicilie dichiarate indipendenti, ritira la pensione allo storico che deve ancora esulare. Da Venezia l'indipendenza italiana peggiore della dominazione austriaca lo costringe a riparare a Ginevra, inviolabile asilo di tutti i ribelli. Qui lo attendeva un dramma peggiore di quello che a Venezia aveva travolto Giordano Bruno. Carlo Emanuele III per comporre il lungo dissidio colla Santa Sede, provocato da Vittorio Amedeo II nel suo effimero regno di Sicilia, discese alla più vile delle insidie: stipendiò il traditore Guastaldi, che trasse il povero Giannone nella speranza di farvi la pasqua entro il confine savoiardo, ove fu arrestato, quindi gittato nel castello di Miolan (1736), poi nella rocca di Ceva, finalmente nella cittadella di Torino. Nessuna sevizia fu risparmiata al martire: gli fu strappata la grande opera del Triregno, negato il conforto del figlio offertosi generosamente a dividere con lui il carcere, imposta un'abiura. Giannone piegò, scrisse un ultimo commento alle Deche di Tito Livio, nel quale, spingendo all'estremo le proprie teoriche, propose al piccolo e perfido re di Savoia di schiacciare Roma sotto una invasione italiana. La sua fiacchezza d'uomo, che non aveva mai potuto trionfare della propria fede cattolica, annullò da ultimo il suo ingegno politico e gli tolse di comprendere quanto ogni più volgare capiva, cioè l'impossibilità di una rivoluzione politica nel regno senza soccorso e coscienza di popolo. Dopo dodici anni Giannone morì prigioniero nella cittadella di Torino, lasciando sullo scudo già tanto bruttato dei Savoia una macchia, che nessun secolo varrà più a cancellare. Carlo Emanuele III fu degno di Vittorio Amedeo II che ricompensava l'eroismo di Pietro Micca con due rate di pane militare alla sua famiglia, e peggiore di Cosimo II che consegnava Pietro Carnesecchi a Pio V.
Il carattere italiano d'allora impediva che nessuna riforma potesse mutarsi in rivoluzione e nessun ingegno politico svilupparsi praticamente. Vico si smarrì nelle astrazioni, Giannone fuorviò nella storia: in entrambi la coscienza, troppo inferiore al pensiero, concesse loro di scendere a tutte le viltà della cortigianeria. La brillante e poderosa incredulità del cinquecento non sosteneva più l'anima italiana; una superstizione era calata nel popolo, prostrandolo così agli idoli e ai preti che nemmeno i massimi ingegni, come Vico e Giannone, potevano mantenersi dritti. Quindi isolati, sviati, forzati a guardare indietro per andare avanti, essi diffidavano perfino della stampa per un ultimo pregiudizio di classici eruditi. Mentre gli enciclopedisti in Francia scrollavano ogni autorità, e Voltaire aggiungeva il fascino dell'arguzia allo scetticismo di Bayle, e il grave Montesquieu nelle Lettere Persiane derideva con inimitabile e profondo umorismo ogni religione; nell'Italia di Guicciardini e di Paolo Sarpi, Giannone e Vico, i maggiori ribelli, soccombevano ancora come Galileo alla autorità di Roma. Lodovico Muratori nel silenzio di una solitudine pari a quella di Vico ammassava i materiali di tutta la storia italiana senza interessarvisi che quale erudito: neanche per lui esisteva un presente e si preparava un avvenire. Un'arcadia grottescamente raffinata e senile imponeva alla letteratura la peggiore delle sterilità nella pretensione di tutte le forme: non vi erano più nè idee, nè passioni, nè patria politica, poichè le corti erano tutto e nelle corti non si può essere che servi. La fede era diventata superstizione, l'autorità un potere materiale; l'abbandono di ogni funzione civile consigliava un ozio voluttuoso e allegro, nel quale la vecchia duplicità italiana riparava da ogni pericolo. Quantunque Malpighi, Redi e Morgagni creassero la fisiologia e la anatomia patologica per attestare all'Europa che in Italia le scienze vivevano ancora, il moto del pensiero italico nullameno languiva. Le stesse impulsioni francesi non bastavano a rianimarlo. Mentre Germania, Francia, Inghilterra lottavano di creazioni ingrandendo il mondo moderno, l'Italia, che nel cinquecento aveva ancora tanti artisti e poco dopo superava coi Socini la riforma di Lutero assicurando con Bruno e Campanella la compagnia dell'eroismo al genio, non aveva più che Metastasio e Goldoni. Il livello del dispotismo doveva ancora per molti anni schiacciare la massa inerte degl'italiani per livellare le loro superstiti differenze regionali.
Metastasio e Goldoni.
Metastasio è il poeta di questo momento.
Come Giannone aveva dedicato la propria storia civile a Carlo VI di Germania diventando suo storiografo, Metastasio diviene il poeta laureato di Maria Teresa. Il suo verso è così facile e vuoto che, scritto per l'orchestra, pare uscito da un istrumento; i personaggi de' suoi melodrammi non hanno maggior realtà delle maschere nell'antica commedia dell'arte, e si muovono attraverso un ambiente tragico nel quale la catastrofe attende puntualmente la stretta di un crescendo musicale. Nessuna idea, nessuna passione, nessuna coscienza. La melodia e il colore delle parole sono lo scopo e la gloria del poeta; il suo pubblico assiste alla pompa eroica di queste tragedie senza credere alla loro realtà e senza alcun bisogno di credervi. La fantasmagoria dell'opera supera quindi nella sua strana e multipla grandiosità tutti i sogni dell'Ariosto; il suo meccanismo montato da Zeno si maschera sotto il drappeggiamento gettatovi da Metastasio fino a simulare quello della tragedia; la musica vi accoglie gli amori eterei del Petrarca, le collere tempestose di Dante, la malinconia soave del Tasso, il lazzo amabile del Boccaccio, l'elegia del Sannazzaro, l'idilio del Guarini, tutto il ciclo della cavalleria, tutti gli eroi dell'antichità, per dissolverli nell'unità indefinibile della propria espressione. Metastasio è il poeta dell'opera: la sua patria è il palcoscenico, i suoi personaggi sono i cantanti, le quinte formano i suoi quadri, la sua poesia è una musica nella musica. Il pubblico, che non pensa, non sente, non ricorda, non aspira, si riposa a questo spettacolo del quale la vita è tutta nella esteriorità. Il dramma mutato in occasione di romanze e di trilli esprime il trionfo del cantante, onde, leggendolo dopo averlo udito, il maggior diletto che se ne prova deriva ancora dalla ricordanza delle note. Nullameno Metastasio pretendeva di scrivere tragedie, e i critici contemporanei per tali le discussero: i Martinez gli coniarono una medaglia colle parole — Sophocli italo — Rousseau e Voltaire stesso lo ammiravano. Lo sdilinquimento dell'elegia, la morbidezza dell'idillio, gli equivoci delle commedie e la ferocia delle catastrofi tragiche composero questi drammi per il popolo più spensierato ed inetto che abbia mai riempito un teatro. L'assurdità di una tale arte e l'insoffribile vacuità di una tale poesia non offesero allora alcuna coscienza; le discussioni che se ne fecero provano ancora maggiormente a quale nullità fosse disceso lo spirito italiano, giacchè nei pochi accenni alla vera tragedia, sparsi tra quei melodrammi, nessuno badò. E il Regolo e il Gioas hanno brani, dai quali sembra d'intravvedere l'accigliata ed energica figura di Alfieri.
Metastasio chiude l'Arcadia e trionfa, riassumendone sul teatro, mediante la musica, le poche bellezze.
Dopo di lui le accademie decadono, i pastorelli e le ninfe non possono più leggere le loro filastrocche senza timore di annoiare, nessuno si contenta più della pura musicalità del verso o della sola dolcezza della parola. Una grande separazione sta per compiersi: la poesia ritornerà in se stessa, la musica oltrepasserà la poesia per diventare l'espressione dei sentimenti, che nessuna parola potrà mai significare. Metastasio, adorato vivo nella gloria di un trionfo senza esempio, ricadrà nell'oblio. Il suo successore a corte fu il Casti, poichè tutte le decadenze debbono finire all'infamia. Ma poeta di corte e di volgo, inconsciamente abbietto ed amabile, buon uomo e buon cristiano, dolce nel verso quanto ricco nei contrasti ed ingenuo nelle conclusioni, Metastasio è l'immagine dell'Italia d'allora, con tutte le qualità e i difetti del suo spirito resi inutili dalla sua vita.
Infatti Goldoni, ritraendola, non dipinse che il pubblico di Metastasio. Le sue maschere, i suoi gentiluomini, le sue servette, le sue donnine innamorate, i suoi giovanotti eleganti, i suoi abati, sono quelli stessi che divertiva Metastasio, senza idee, senza passioni, senza coscienza. Goldoni, dominato da Molière come un satellite da un astro, aspirò alla commedia di carattere colla stessa ingenuità colla quale Metastasio aveva aspirato alla tragedia. Poeta del dialetto e inimitabile improvvisatore, colse sul vivo incidenti comici, labili ed efficacissime scene: poeta italiano invece, ignorò la lingua, il genio, il carattere d'Italia. Fu vivace quanto superficiale, osservatore solamente sicuro nella prima spontaneità: non avendo nella coscienza contraddizioni morali col proprio mondo non potè nè penetrarlo, nè dominarlo. Però lo divertì più lungamente di Metastasio. Nessuno de' suoi personaggi ha vita interiore, nessuna delle sue commedie contiene un brano o esprime un segreto della società; le scene sgusciano rapide e piacevoli, gli attori parlano naturalmente, il fatto si svolge, s'intrica, si risolve, si appiana; ma i caratteri vi si mostrano come comparse, i sentimenti vi trovano posto come riempitivi. Manca il cuore, lo spirito è assente. A Goldoni come a Metastasio fallì il popolo; ambedue soccombettero al pubblico. Metastasio più felice non sospettò di se stesso; Goldoni a Parigi allibì, e tacque per dieci anni. La grandezza della nazione francese, la sua immensa civiltà in subbuglio per l'imminente rivoluzione, tutte quelle passioni di cuore e di testa, tutte quelle energie di temperamento e di carattere, tutto quel popolo vero, forte, vivo, il più vivo d'Europa, soffocarono la sua immaginazione e inaridirono la sua vena, uguale se non maggiore di quella di Lope de Vega. Goldoni non potè più osservare, non seppe più comprendere. Dopo dieci anni scrisse il Burbero benefico in francese, e fu ancora un ricordo italiano e una imitazione francese.
La Francia aveva avuto Molière; l'Italia non poteva avere che Goldoni.
Capitolo Quinto. Il periodo delle riforme
Influenza europea.
La grande preparazione europea all'imminente rivoluzione francese giunge in Italia e la solleva.
La lotta per la laicità dello stato, della quale Giannone era stato il grande storico, è già scoppiata in tutti gli stati, mentre una nuova democrazia borghese vi afferma un diritto politico basato sul diritto civile e sull'eguaglianza economica. La Francia guida il movimento. La sua letteratura, universale per superiorità di bellezza, serve da veicolo a tutte le idee della scienza e della filosofia; la sua incredulità, pari a quella italiana del rinascimento, sgretola ogni autorità del passato; Law, sottomettendo l'aristocrazia alla banca, estrae dall'illusione di una ricchezza improvvisata, per la quale tutta la nazione delira, il segreto della nuova società. Il valore economico supera tutti i valori religiosi e feudali; i fisiocratici, coll'esagerare l'importanza della produzione agricola, emancipano la terra da ogni gravame antiquato; Turgot, mettendo la produzione a base unica di tutte le società, sopprime a nome della scienza ogni classe inutile; Voltaire conduce filosofi, letterati e lettori contro il cattolicismo; Rousseau scatena tutti gli infelici contro la vecchia società, dissolvendone nel Contratto sociale ogni vincolo; Diderot raduna nell' Enciclopedia tutte le scienze e le discipline per spingerle alla rivolta. L'aristocrazia cede sorridendo, la regalità tuffata in turpitudini secolari brontola, il popolo sberta e minaccia. L'Inghilterra, che organizza parlamentarmente la propria rivoluzione del secolo anteriore, prepara la scienza della legalità alla nuova rivoluzione costretta a negare tutta la storia per rimutarne l'ultima epoca; e, mentre la Francia si moltiplica per bastare alla distruzione dell'Europa medioevale, essa perfezionando l'ingegno dei propri ministri, da Orazio Walpole a Guglielmo Pitt, traversa trionfante la corruzione della propria epoca giorgiana. Nella Ispagna Carlo III, già re di Napoli, seguendo il ministro conte d'Aranda, in Portogallo re Giuseppe, abbandonandosi al marchese di Pombal, in Prussia Federico II, maggiore di tutti come generale, re e statista, in Austria Giuseppe II, associandosi Kaunitz, in Russia Caterina II, assorbendo dall'Europa con mirabile facilità ogni nuovo elemento civile, rinnovano lo spirito e il carattere delle proprie nazioni.
Attraverso diversità di metodi e di propositi il moto rivoluzionario scompagina l'antica Europa e ne rinnova le legislazioni, ne ricorregge i diritti, vi dilata le scienze, toglie l'onnipotenza alla religione, la divinità ai re, la supremazia al patriziato, l'immunità al clero. Alla passione delle conquiste militari e della libertà di coscienza succede quella di una civiltà universale: le scienze ne sono le forze novelle e le massime glorie, la ricchezza diviene la migliore delle armi, il diritto l'unica verità riconosciuta, la libertà condizione suprema di ogni giustizia e di ogni vita. Tutti i popoli si scuotono sulle basi centenarie; una discussione assordante agita i più svariati problemi, nulla sfugge alla critica; la indagine, cominciata colla profanazione dell'autorità, finisce al rispetto della verità; i governi sentono il bisogno di giustificarsi a se medesimi, giustificandosi in faccia al popolo, e il loro concetto di rappresentanza diventa così chiaro nella pubblica coscienza che nessun diritto antico basta più ad assolvere l'ingiustizia di un processo o di un privilegio.
L'Europa non subisce più la tirannia di alcuna nazione: tutte vi sono forti, armate, capaci di resistere nei propri confini, inette alle improvvise ed umiliatrici conquiste di una volta. Si livellano codici e costumi; produzioni e commerci cementano e fortificano l'accordo delle letterature e delle scienze; la religione caduta in discredito non scaglia più un popolo sopra un altro; ognuno vuol conquistare il proprio posto nella natura e nella storia. Dio è lontano, il papa quasi dimenticato, i re discussi, le aristocrazie negate. Ogni popolo cerca la propria orbita naturale; la rivoluzione delle colonie americane improvvisa oltre l'Oceano una Europa contro l'Europa, aprendo nella storia un'epoca nuova con un nuovo modello di società; Londra è il primo emporio del mondo, Parigi ne è il faro, Berlino la più forte caserma, Vienna la metropoli della più vasta confederazione, Pietroburgo la capitale improvvisata della Russia avanzantesi in Europa, Roma una Gerusalemme, nella quale la gloria eterna dell'arte vince come a Benares quella della religione.
Intorno a Roma l'Italia si muove lentamente guidata dai suoi principi. Dopo mezzo secolo di battaglie, la più lunga pace della sua storia (1748-1796) le permette il raccoglimento necessario ad imitare in se stessa il grande periodo delle riforme, che ringiovanisce l'Europa. La geografia politica italiana è divisa fra i due grossi stati di Napoli e di Torino, nei quali cova l'avvenire del regno italico: una rivalità inconscia li unisce quindi nella stessa lontana speranza di conquista e li obbliga ad irrobustirsi, assimilandosi i nuovi elementi di civiltà. Venezia agonizza dimenticata; la Lombardia prospera sotto l'influsso liberale di Giuseppe II; la Toscana, prediletta dalla natura e dalla storia, improvvisa coi Lorena una riforma che sarebbe una rivoluzione se il popolo potesse parteciparvi. Ma solo dai regni indipendenti di Napoli o di Torino sorgerà la nazione italiana, annullando le superstiti forme federali malgrado lo stato pontificio che vi arresta ad ambo i confini l'inconsapevole preparazione unitaria.
La riforma politica ed amministrativa dell'Italia mira dunque a compiere l'opera del dispotismo col distruggere nella moderna civiltà le ultime differenze regionali. Domati i costumi colla soppressione delle energie municipali, l'imminente legislazione deve informarsi a criteri generali dedotti dalla scienza che pareggia tutti gli individui; i principi uniti contro il papa per la laicità dello stato stabiliscono coi sudditi i rapporti del nuovo diritto; ogni loro atto è una emancipazione, ogni progresso una livellazione. Ma il popolo, ricevendo dal principe questi benefici, non sa giovarsene immediatamente, e coll'integrarne le relazioni sentirvi una rivoluzione. La depressione secolare delle forze, colle quali aveva creato il rinascimento, non gli permette ancora di assurgere a più alta vita: i suoi costumi vili ed abbietti gli contendono il concetto della nuova libertà; accetta le riforme, ma non può ancora riformarsi; guarda a principi e a ministri, applaude e critica, ma poco pensa e meno vuole. Il suo pensiero non è peranco originale, il suo carattere non è più eroico. Nell'uomo manca tuttavia il cittadino e nel cittadino il patriota. Se la patria non è più assolutamente la regione, non è ancora l'Italia; difettano armi, armati, idee e volontà di ribellione. I popoli dei vari stati s'ignorano l'un l'altro; le riforme, migliorando la loro sorte, sembrano isolarli ancora più nel nuovo benessere. L'educazione prodotta dalle riforme sarà dunque puramente esteriore e senza frutti politici, se prima la passione della rivoluzione francese non vi discenda, frangendo la cornice dei vecchi stati, entro i quali stagna la vita regionale.
Nella storia non havvi di attivo se non ciò che è spontaneo, e d'intero se non quanto è originale. Le riforme derivate dall'Europa in Italia la lasciano sempre addietro di un periodo: infatti allo scoppio della rivoluzione francese, che dovrebbe produrre la rivoluzione italiana, l'Italia resiste o cede quasi a novella conquista.
Ecco le sue riforme.
Le Due Sicilie.
Carlo III, creato da una mirabile fortuna re delle due Sicilie, si accinse con buona volontà a migliorarle. Il regno, splendido per natura, aveva ubertà di suolo, prontezza di spiriti, buoni confini, invidiabili opportunità di mare, ma pessimi gli ordini politici, inservibili i congegni amministrativi. Non strade, non ponti, non manifatture: povero il commercio marittimo, quello dei grani impacciato; servitù regie, feudali, comunali, di pascolo isterilivano le terre; feudi, fidecommessi, privilegi di caccia, di forni, di molini inceppavano la proprietà, moltiplicando le angherie delle amministrazioni e delle leggi. Diecimila feudatari nominavano ancora giudici e governatori, imponendo pedaggi, decime, servigi, primizie; trentun mila frati, ventitrè mila monache, cinquanta mila preti ingrassavano sopra un immenso patrimonio immune; in quattordici provincie non un solo tribunale di giustizia, i ladri numerosi quanto i frati, i contrabbandieri più dei preti. La Sicilia, sempre infelice, caduta dal cattivo governo di Filippo IV di Spagna sotto quello peggiore di Vittorio Amedeo II di Savoia, infestata da pirati, da masnadieri, da scomuniche, con sessantatrè mila fra preti e monaci sopra 1,200,000, soffocata da vincoli feudali, con una bizzarra legislazione composta di statuti romani, barbari, arabi, normanni, di decreti angioini, di costituzioni aragonesi, di prammatiche vicereali, di consuetudini paesane, era anche in più tristi condizioni.
Carlo III cercò ripararvi: Bernardo Tanucci, toscano, lo consigliava.
Questi ordinò la giurisdizione laicale togliendo ai preti le immunità del fôro, limitando le ordinazioni dei sacerdoti a dieci per mille, negando alle bolle dei pontefici ogni effetto senza l'accettazione del re, impedendo nuovi acquisti al clero, tassandone i beni, abolendo le loro innumerevoli immunità personali. S'oppose all'impianto dell'inquisizione tentato dal cardinale Spinelli per eccitamento di Benedetto XIV, soppresse le decime in Sicilia, vi introdusse il codice carolino compilato da Pasquale Cirillo, vietò i testamenti all'anima, dichiarò il matrimonio contratto civile. Quindi sfrattò i gesuiti, aperse nuove scuole, slargò l'università, negò al papa l'umiliante tributo della chinea. Lo stato rifioriva. Fiaccati i preti, Tanucci si volse ai baroni restringendo i loro diritti, aiutando i comuni a riscattarsi dai feudatari, riordinò la magistratura, richiamò l'antica prammatica aragonese del sindacato per gli amministratori del pubblico denaro, provvide al commercio punendo i fallimenti e liberandolo da ogni eccezione di fôro o di casta, instituì una borsa, creò un archivio, stabilì un sistema ipotecario. Ma queste riforme, con mirabile pertinacia preparate ed ottenute dal Tanucci nel regno di Carlo III e di suo figlio Ferdinando, allorchè quegli passò al trono di Spagna, perchè pensiero di statista superiore e solitario, per quanto coadiuvato da una nobile schiera di napoletani, peccarono nel metodo, e, trascendendo i principii e i fini della scienza, fallirono nel resultato.
Nella contesa della laicità dello stato il Tanucci oltrepassò, come Giuseppe II, i limiti per perseguitare la chiesa nella libertà invincibile dei propri ordini; nell'ammodernamento del governo, preoccupato di schiacciare clero ed aristocrazia, non intese la natura del terzo stato, e invece di aiutarne lo sviluppo e di sbarazzargli gradatamente la strada, volle, preterendo sentimenti e costumi, porre un liberalismo incomprensibile alla coscienza napoletana. Le plebi recalcitrarono, la monarchia lo abbandonò, e Tanucci, vittima del rancore di Carolina d'Austria, moglie prepotente e lasciva di Ferdinando, dovette esulare, lasciando lo stato con uno schema di costituzione tanto superiore al proprio tempo che nessuno dei tre ordini clericale, feudale e popolare l'intese. La monarchia stessa, che l'aveva largita inconsapevolmente, poteva ritirarla d'ora in ora; quindi la ritirò in parte senza che il popolo, inerme e dal Tanucci non addestrato alla milizia, la difendesse. La riforma dispotica era un effetto del liberalismo europeo stillato nella mente di un ministro e della negligenza brutale di un re per le cose del proprio governo; ma dispotica nelle intenzioni e nel processo, rinvigoriva il dispotismo regio senza elevare il popolo, rimanendo politicamente una esteriorità poco efficace, abbozzo ed aborto di uno statista, al quale erano contemporaneamente mancati dinastia e popolo. Le superstiziose turbe napoletane, incapaci di trasformarsi in cittadini, non ebbero per l'opera del grande ministro nè riconoscenza nè coscienza; laonde, pervertite dal più ignobile fra i cleri cattolici ed eccitate dalla più oscena tirannide, insorsero presto per ristabilire nel delirio dell'anarchia l'antico dispotismo della monarchia e della religione.
Parma e Piacenza.
Non più fortunato del Tanucci il francese Dutillot, ministro di Parma sotto i duchi Filippo e Ferdinando iniziò colla Santa Sede lo stesso litigio e introdusse nello stato le medesime riforme. Papa Rezzonico e Clemente XIII resisterono gagliardemente contro la emancipazione dello stato dalle giurisdizioni e dai privilegi ecclesiastici, molto più che trattavasi, secondo le loro pretese, di un feudo di Roma. La lotta aspra salì per tutti i gradi della polemica, piovvero libri ed opuscoli, il papa mandò un monitorio: Dutillot, destro e sicuro, proclamò l'indipendenza del ducato, sfruttò i gesuiti, innalzò l'università di Parma al maggiore livello, tassò preti e frati, avocò tutte le cause ai tribunali dello stato, rimondò i benefizi ecclesiastici, limitò le manimorte, sovrappose la legge civile al diritto canonico. Le sue idee francesi trionfarono, poichè tutte le altre corti borboniche, pel trattato del 1761 chiamato patto di famiglia, si mantenevano solidali nella contesa. Infatti allo scoppio del monitorio papale, Luigi XV fece occupare dal marchese di Rochechouart Avignone e tutto il contado venesino, mandando commissari del parlamento di Provenza a prenderne possesso in suo nome come di paese annesso alla corona: il re di Napoli prese Benevento. La Spagna minacciò. Evidentemente il principato vinceva, le pretese papali della bolla In Coena Domini non attiravano più che sarcasmi e violenze; ma la disputa, falsa nel principio che riconosceva nei principi la sovranità inalienabile nel popolo, non era sostenuta che da giuristi e da casuisti, primo fra quelli Francesco Riga piacentino. Il popolo, nemmeno consultato, vi assisteva spettatore, profittando della vittoria del principato. Senonchè Dutillot subì presto la sorte del Tanucci, e dovette esulare, cacciato dalla petulanza lasciva della duchessa Maria Amalia, sorella di Maria Carolina. Invano con accorto proposito aveva egli voluto ammogliare l'infante Ferdinando con Beatrice, unica figlia ed erede degli Estensi di Modena, per comporre così nell'Italia centrale un forte stato. Maria Teresa d'Austria aveva potuto sventargli il disegno col matrimonio della propria figlia Maria Amalia, togliendo col pericolo di una confederazione fra i grossi stati italiani quello di una guerra d'indipendenza. L'infante Ferdinando, niente migliore del re Ferdinando di Napoli, era stato invano educato alle idee liberali da Condillac, da Millot e da Mably: la bigotteria de' suoi primi anni gli aveva umiliato fatalmente lo spirito già scarso, la depravazione della moglie glielo travolse. Quindi Llano, ministro spagnuolo succeduto a Dutillot, contro il quale era insorto l'odio popolare per suggestione del clero, non potè proseguire nell'opera liberale.
Papa Ganganelli, spirito conciliativo sino alla remissione, si rappattumò con Parma, concedendo la soppressione dei gesuiti; ma il ducato non ebbe più altra vita che quella di corte, orgia ignobile e malsana, nella quale staffieri e gentiluomini si passavano da mano a mano la duchessa come una cavalla, cui nessuna striglia poteva calmare il prurito e nessuna sella stancare le reni.
La Toscana.
Tali riforme dei Borboni, esclusivamente dovute al valore dei ministri, furono superate da quelle dei Lorena più sinceramente riformatori di un popolo più colto e gentile. Già per opera dei Medici la Toscana era divenuta obbediente al potere, unte e quasi sfiaccolata nei costumi, viziata nella giustizia civile, con leggi diverse nella città e nella campagna, con privilegi che testimoniavano della sua antica formazione tutta di aggregati municipali.
Il Sanese era sempre riguardato paese di conquista: università, arti e mestieri conservavano statuti e giudici propri; Firenze era infestata da trenta tribunali oltre il magistrato supremo ridotto a semplice tribunale civile. Lo statuto fiorentino riformato nel 1415 suppliva alle imperfezioni di millecinquecento statuti parziali non mai cassati; le leggi granducali talvolta savie, troppo spesso oscure, intricandosi nelle anteriori di rado abolite, producevano viluppi, pei quali s'angustiavano i possessi e si eternavano le liti. Vigenti ancora gli atroci editti di Cosimo II contro i ribelli, le pene crudeli e sproporzionate, molti impieghi trasmessi per eredità: quarantasette feudi fra imperiali e granducali, questi ultimi conceduti da Cosimo per battere moneta, incagliavano e disonoravano il paese.
Francesco di Lorena intese al riparo, ma lontano dal ducato, marito di Maria Teresa, avaro e fraudolento, poco seppe giovare, malgrado il consiglio del Rucellai. Migliore e di lui più avventuroso il figlio Pietro Leopoldo, potè meritamente levare grande fama di sè in un secolo, nel quale pressochè tutti i principi, dal reggente di Francia a Federico II, da Giuseppe d'Austria a Caterina di Russia, erano spiriti superiori. Con ammirabile fretta e mano sicura, appena fatto granduca, uniformò le leggi, tolse gl'inutili magistrati, ridusse e scelse i giudici, aperse una camera di commercio, sottomise tutti alla stessa giustizia, persino se medesimo e il fisco. Pubblicato un nuovo ordinamento di procedura commise a Giuseppe Vernaccini, quindi a Michele Ciani, finalmente al Lampredi il codice, che, interrotto poi dalla rivoluzione francese, fu nullameno l'ammirazione dell'Europa. Soppresse la pena di morte, i delitti di alto tradimento, le immunità, i privilegi personali, i luoghi di asilo, la tortura, la confisca, il giuramento dei rei, le denunzie segrete, i processi di camera, i testimoni ufficiali, ogni avanzo di barbarie. Nell'amministrazione, dietro gli avvisi liberali del Giannini e del Fabbroni, sostituì una gabella unica alle molteplici dogane: libero l'entrare, l'uscire, il circolare d'ogni merce, libera da matricole l'industria, esonerati i contadini da servigi di corpo, prosciolte le terre dalle servitù del pascolo pubblico. Dopo aver concesso la vendita dei beni comunali, affidò l'amministrazione dei comuni ai possidenti, cassò l'appalto delle tasse, disdisse l'obbligo alle famiglie di comprare una quantità fissa di sale.
Le finanze, improvvisamente rifiorite, permisero stupende opere pubbliche, ponti, strade, lazzeretti, rifugi, conservatorii: Ximenes, Ferroni e Fabbroni curarono il prosciugamento delle maremme: quella di Siena fu sanata, val di Nievole, val di Chiana e Pietrasanta ridotte a florida coltivazione. Di riforma in riforma, malgrado le ingenti spese, accrebbe le entrate di L. 1,237,969 e in 37 anni da ottantasette ridusse a ventiquattro milioni il debito pubblico adoperandovi la propria ricchezza e la dote della moglie; cinque ne lasciò poi nel tesoro al successore, dopo averne speso trenta in opere pubbliche. Ma di spirito troppo pacifico, esagerò l'errore di tutti gli statisti italiani di allora, abolendo ogni nave da guerra, vendendo persino alla Russia le due fregate Boemia e Ungheria regalategli da Maria Teresa, sopprimendo i cavalieri di santo Stefano. Questo dispregio delle armi rivela il carattere delle riforme italiane, nelle quali il principato non mirava più a crescere e confessava di non sapersi difendere, aspettando sempre dall'Europa le decisioni sulla propria vita. L'idea italiana era dunque perita in esso, il distacco fra principe e sudditi diventava anche maggiore colle riforme, che sapienza generosa di sovrano o di ministri praticavano senza nemmeno sospettare nel popolo il principio supremo della sovranità, o cercare nella sua totalità le ragioni del governo.
Quindi lo schema di costituzione, che Leopoldo meditava di largire, divenne il più ammirabile e generoso nonsenso politico della storia moderna. In esso il principe voleva ammanettarsi volontariamente senza emancipare il popolo col riconoscere da lui la sovranità, ed ignorando ogni principio e forma di elettorato politico. Naturalmente di questo statuto non potè esserne nulla, giacchè avrebbe impedito la rapidità delle riforme granducali e chiamato ad agire nel governo un popolo ancora inconsapevole di se medesimo. Nobile ed accorta al tempo stesso per assicurare nella pubblica opinione il credito governativo fu invece la pubblicazione degli stati di finanza e delle ragioni delle principali riforme nel libro dallo stesso granduca compilato: Governo della Toscana sotto il regno di Pietro Leopoldo.
Nullameno Pietro Leopoldo, cedendo al proprio carattere pettegolo ed intemperante, varcò spesso i confini della prudenza e della giustizia, specialmente nel litigio religioso con Roma. La Toscana aveva allora 243 conventi e 22,268 fra preti, monache e frati, senza le altre confraternite ed associazioni religiose: la bigotteria era enorme; la corruzione specialmente nei monasteri anche maggiore; diritti, privilegi e pretese della curia insoffribili. Pietro Leopoldo abolì il Tribunale della nunziatura, cacciò i gesuiti possessori di cinquanta collegi, tolse le immunità ecclesiastiche; soppresse eremiti, frati mendicanti, duemila e cinquecento confraternite, molte fraterie, fra le quali i barnabiti inetti educatori, frenò le monacazioni, vietò le flagellazioni e i pellegrinaggi, ordinò il seppellimento nei cimiteri. Ma, trascinato dall'equivoco esempio del fratello Giuseppe II, animò e sostenne il moto giansenista del vescovo di Pistoia, Scipione de' Ricci, tentando un sinodo che abortì nell'impotenza, mescolandosi ad innovazioni religiose, che colpendo la superstizione violavano la coscienza e cacciavano il governo in dispute insolubili di sagrestia. La rivoluzione religiosa, sempre impossibile in Italia, lo era allora maggiormente nella ignavia dei caratteri e nell'ignoranza di tutti gli spiriti.
Quindi lo scisma di Scipione de' Ricci, malgrado il valore personale del vescovo ribelle e la bontà indiscutibile delle sue opere, la fiacchezza della Santa Sede e l'energia di Leopoldo, conchiuse ad uno scandalo, che scemò nel popolo l'autorità e la riconoscenza delle altre riforme. Infatti, se la Toscana molto più colta e civile delle due Sicilie si assimilò con maggiore prontezza le leggi leopoldine, specialmente quelle amministrative, così poco crebbe a sviluppo politico ed alzò la propria coscienza che, sorpresa dalla rivoluzione francese, non seppe nemmeno, come Napoli, improvvisare una repubblica impotentemente classica e generosa quando Leopoldo, per la morte del fratello Giuseppe II era già diventato imperatore d'Austria.
La Lombardia.
Nella Lombardia, sottomessa all'Austria e nominalmente governata dal vicerè Francesco III d'Este, il progresso legislativo seguì quello della Toscana e delle due Sicilie. Furono tolti molti abusi, svincolato il commercio dei grani, emancipate la finanze, pubblicata una tariffa uniforme per tutto lo stato. La misura dei terreni, imposta da Carlo VI, servì di base al censimento, permettendo agli antichi gloriosi comuni di ricomparire amministrativamente: si apersero strade e canali, sorsero ricoveri, si disciplinò l'istruzione dalle scuole elementari all'università, si preparò la migliore monetazione del secolo. Il governo, nonchè prendere ombra dei novatori, se ne giovava: a Pavia, Scarpa, Spallanzani e Volta davano alle scienze un impulso che dura tuttavia; Natali, Zola, Tamburini fondavano una scuola antipontificia, dalla quale derivò molta libertà del pensiero italiano; il governatore Firmian, emulo di Tanucci e di Dutillot, proteggeva Vallisnieri e Borsieri, liberaleggiando come tutti i grandi ministri del tempo; ma al disotto della numerosa aristocrazia dei belli spiriti il popolo fiacco, senza carattere e senza idee, si adagiava nel nuovo benessere che gli sembrava una libertà: i costumi erano abbietti in alto, in mezzo, in basso: nessuna coscienza politica, non più attitudini militari. La grande tradizione lombarda morendo non aveva lasciato nè poesia nè storia. Pietro Verri, che tentò di scrivere quest'ultima, non riuscì a venderne una sola copia, lui vivo. Così mutata in provincia dell'impero austriaco, la Lombardia non aveva più importanza di Modena, feudo tedesco, e di Lucca, diventata patrimonio di ottantotto famiglie che la governavano col discolato. Venezia non era più che la pietrificazione di se stessa. Il suo gran consiglio somigliava una innocua assemblea di convento; il suo doge era una maschera solenne fra le maschere allegre che popolavano tutto l'anno la piazza di San Marco; il tribunale dei dieci era quasi dimenticato, e la sua polizia non si componeva più che di una combriccola di bricconi. Quindi Brescia, Bergamo, Verona, Padova, Udine, Cividale, Treviso, quasi tutte le città soggette, vivevano in una specie di libera vita amministrativa, che permetteva loro qualche apparenza di vita politica colla impunità di disordini lontanamente simili alle antiche lotte settarie. Nullameno anche a Venezia scoppiò il dissidio ecclesiastico a proposito del patriarcato d'Aquileia, nel quale l'Austria voleva riprendere il diritto di nomina alternata. E poichè Benedetto XIV, quantunque benigno colla propria decisione, non aveva al solito soddisfatto nessuno dei contendenti, il senato si spinse oltre all'attacco ed emanò contro gli ordini frateschi, sui beni e privilegi del clero, gli stessi decreti di Tanucci, di Dutillot e di Leopoldo. Clemente XIII reagì, poi la querela si estinse nell'oblio; i tempi di Paolo Sarpi e di Paolo V erano troppo lontani e la rivoluzione francese oramai troppo vicina.
Genova, eterna rivale di Venezia, dopo la cessione della Corsica alla Francia nel 1768, si consuma in sterili agitazioni democratiche, imitando il moto di tutti gli stati che la circondano. Ma la sua indipendenza non è più che una larva, la sua vita un rimescolio di minute attività commerciali senza coscienza nè di stato, nè di governo. La sua bandiera non sventola più rispettata sui mari corsi da bandiere inglesi, francesi, olandesi, americane: il protettorato della Francia l'umilia, una senilità incurabile la debilita, togliendole, come a Venezia, la speranza di una morte gloriosa.
Il Piemonte.
La fortuna, che ha trasformato il Piemonte in regno, permettendogli una specie di centralizzazione francese, con un popolo addestrato alle armi, con una dinastia bellicosa e un antico programma di conquista, non basta nullameno a mantenergli l'energia del progresso. Se il suo stato è il meno decadente, il suo governo è il meno riformatore. La Lombardia caduta sotto l'Austria è diventata imprendibile, la Francia salvaguarda la falsa indipendenza di Genova; quindi il Piemonte si arresta. Il suo dispotismo regio e militare non s'accorda col soffio liberale che vivifica l'Europa: la sua vecchia politica di doppiezza e di guerra non è più possibile nell'epoca nuova. Il Piemonte regno diventa quindi meno efficace del Piemonte ducato: una paralisi subitanea lo ferma sulla via della storia, i suoi principi decadono, i suoi ministri non sono più che amministratori, governo e corte hanno tendenze e forme francesi, il popolo aspirazioni e costumi italiani. La sua indipendenza perde ogni significato dal momento che il Piemonte non è più l'unico regno progressivo e perciò l'unica speranza d'Italia. La piccineria di un egoismo piemontese raggricchia perciò corte e governo, e, togliendo loro collo slancio della conquista l'intrepidezza dell'avventura, li obbliga per reazione a restringersi nel dispotismo più ombroso ed antipatico. Mentre tutti i principi d'Europa e d'Italia sono miscredenti, i Savoia diventano bigotti: l'Austria ospita Giannone, e Carlo Emanuele III lo rapisce a tradimento per farlo morire in carcere. La lotta con Roma non ha in Piemonte lo stesso significato liberale che a Napoli e a Firenze: il re emancipa i servi per farne dei sudditi, toglie le dominazioni temporali ai vescovi di Tarantasia, Moriana e Novara, poscia Massano ai Ferrero, Voghera ai Del Pozzo, l'indipendenza alla val d'Aosta, il senato a Casale piuttosto per spirito di centralizzazione che di riforma. Il più liberale de' suoi ministri, il conte Radicati, è condannato all'esilio e nei beni da Vittorio Amedeo II, per avergli suggerito quanto Tanucci, Dutillot e Leopoldo dovevano più tardi gloriosamente praticare; D'Ormea, il più destro, disonora se stesso e Carlo Emanuele III coll'assassinio di Giannone: Bogino, il migliore, compie il catasto, riforma la moneta, redime la Savoia dalle manimorte e dai legami feudali, ripopola, pacifica, dirozza colle due università di Sassari o di Cagliari la Sardegna, e Vittorio Amedeo III, succeduto nel 1773, a Carlo Emanuele III, per primo atto di governo lo scaccia. Ma l'intima contraddizione, che obbliga il Piemonte ad esagerare il proprio dispotismo regio e militare in una bigotteria stupida e feroce mentre gli altri stati italiani morti alla politica possono liberaleggiare nel governo, s'acuisce al punto che tutti i migliori spiriti debbono uscirne. Alfieri, Lagrangia, Berthollet, Bodoni, lo stesso Denina, per quanto Vittorio Amedeo gli avesse stampato Le Rivoluzioni d'Italia, cercano in un esilio volontario una libertà italiana che non assomigli all'avara tirannica indipendenza piemontese.
Lo Stato pontificio.
Peggiore di tutti, lo stato pontificio non ha e non può avere riforme, giacchè il loro principio deriva appunto dalla lotta dei principi contro la chiesa per la laicità dello stato. Il governo teocratico di Roma, condannato all'immobilità del proprio contenuto religioso, avversa ogni diritto moderno. La sovranità divina del pontefice vi è pietrificata nella forma medioevale; il popolo non vi esiste; non havvi altra carriera che la ecclesiastica, funzioni e cariche che pei preti, legislazione che le costituzioni papali sovrapposte al diritto romano. Roma in lotta col mondo si restringe ogni giorno più nella reazione, come in una armatura di guerra. Francesco Beccatini nella vita apologetica di Pio VI confessa che, ad eccezione della Turchia, lo stato pontificio è il peggio amministrato d'Europa. Vietata ogni esportazione di grano, vincolati tutti i commerci interni, l'annona assurdamente tirannica colla facoltà di comprare ogni cosa a prezzo da lei stessa fissato; abbandonate e isterilite le fertili terre dell'Adriatico, talchè davasi ai vicini permesso di coltivarle per proprio conto. Angherie e vessazioni di ogni sorta soffocavano qualunque germe di vita economica; il tribunale delle grascie tassava le bestie a propria voglia ed incettava tutto l'olio per rivenderlo più caro; non manifatture, dazi altissimi d'introduzione e quindi un contrabbando universale e feroce. Negli undici anni che regnò Clemente XIII si registrarono dodicimila omicidi, dei quali quattromila nella sola Roma.
Papa Lambertini, succeduto al troppo debole Clemente XII, che nominava arcivescovo e cardinale di Toledo il terzogenito di Elisabetta Farnese fanciullo di soli sette anni, aveva arrestato con destrezza degna di Voltaire la decadenza del papato, riconciliandolo o meglio tentando riconciliarlo coi tempi nuovi; ma dopo di lui papa Rezzonico (Clemente XIII) volle ritornare inflessibile, opponendo al progresso del secolo la reazione di idee medioevali. I ducati di Parma e Piacenza, che la chiesa si ostinava a dichiarare propri feudi, mentre le monarchie subivano una ultima trasformazione annullando in se stesse gli avanzi della feudalità, furono la causa prima de' suoi dissidi con tutte le potenze d'Europa. Il papato, ultimo rappresentante del periodo feudale, doveva necessariamente diventare il bersaglio di tutte le corti. Le sue pretese erano così assurde nel diritto moderno, la sua incapacità politica così evidente, l'antitesi del suo dato divino colla sua forma monarchica così irriducibile, le sue bolle così pazze colle loro idee e col loro linguaggio di un mondo già svanito, che popoli e principi l'oppugnarono. Dal momento che il principato liberaleggiava creando la laicità e la democrazia dello stato moderno contro il papato e la feudalità, bisognava che l'istinto e la ragione popolare fossero pei principi contro il papa anche allora che per contraddizioni di battaglia questi sostenesse la libertà contro il dispotismo regio. Quindi lo stato pontificio fu invaso sotto papa Rezzonico o Clemente XIII; altre contese scoppiarono con Genova, Parma, Venezia, la Savoia, la Francia, la Spagna, il Portogallo, l'Austria, l'Olanda, con tutti. Papa Rezzonico trovò nobili parole contro l'invasione dei propri stati, affermando che avrebbe preso piuttosto la via dell'esilio che rispondere come padre di tutti i fedeli alla guerra colla guerra; Clemente XIV, più aspro, fu anche più inutilmente risoluto: il maggiore dissenso era per la soppressione dei gesuiti.
Soppressione dei gesuiti.
Stati, governi, filosofi, letterati, aristocrazie e popoli si levavano contro di essi, reclamando con decreti, con scritti, con violenze la loro abolizione. I gesuiti resistevano calmi ed intrepidi, destreggiandosi nei governi, ribattendo gli argomenti degli scrittori, ammansando e deviando l'odio popolare. La loro potenza era in due secoli mirabilmente cresciuta: avevano meglio dei francescani missioni in Asia, in Africa, in America, dovunque; innumerevoli collegi presso tutti i popoli civili, dei quali signoreggiavano l'educazione; consiglieri di ogni scuola, avevano immensi stabilimenti commerciali, colonie e stati come il Paraguai; regnavano nella teologia contro i domenicani, nella morale contro i giansenisti, a Roma sul papa, ubbidendolo nullameno coll'eroismo di una disciplina che non discuteva nessun ordine, con un concetto così alto della monarchia papale da morire per essa e da essa condannati in un silenzio sublime di fede. Il cattolicismo non aveva migliore milizia, Roma più invincibili pretoriani. Da due secoli essi la difendevano contro tutti, e le avevano riconquistato molte provincie protestanti, arrestando la Riforma e tentando d'indigare la rivoluzione delle scienze; avevano educati molti re, sedotti ministri e favorite, accese molte rivolte e sedate altrettante ribellioni, sostenuta con intrepidezza filosofica la tesi del regicidio e della sovranità popolare, provocati forse parecchi regicidi, sollevandosi al disopra dei popoli e dei re con una democrazia papale più logica e più vasta della cesarea. Nulla li spaventava: la fede era in loro pari al coraggio, la destrezza raddoppiata dal segreto. Mentre Giansenio, esagerando la teoria di sant'Agostino sulla grazia, prostrava il libero arbitrio già tanto fiaccato dal cristianesimo, i gesuiti gli avevano opposto Molina difendendo nel cattolicismo i resti della ragione e della libertà umana; quando Giannone più tardi si richiamava al diritto del principato dai soprusi della chiesa, essi avevano appellato al popolo dal diritto del principato.
Quindi tutti li odiavano.
In un mondo incredulo e corrotto si opponeva loro di rilassare la morale; in un secolo rivoluzionario, che acclamava Mandeville e Diderot, Voltaire e Rousseau, Elvezio e Holbach, erano accusati di sostenere l'antica tesi di san Tommaso sul diritto del popolo di uccidere il tiranno. Parrebbe una contraddizione, e non era. La rivoluzione, guidata dallo spirito francese al rinnovellamento dello spirito d'Europa, riconosceva istintivamente nei gesuiti la sola forza del papato. Tutti gli altri ordini religiosi, gli stessi preti dai più poveri curati ai più ricchi cardinali non avevano più l'antica fede battagliera; gran parte del clero viveva nella più crassa ignoranza, i prelati affettavano l'incredulità come ai tempi migliori del rinascimento, i domenicani non ispiravano più alcun timore, i francescani meritavano più poco rispetto. I gesuiti soli combattevano per Roma, erano la sua tradizione unitaria, i soldati del suo dogma papale. La loro tesi del regicidio e la loro temeraria affermazione della sovranità popolare contro i principi non derivavano dai principii ancora torbidi e dalle passioni latenti della rivoluzione, ma erano audaci e abili espedienti di guerra, improvvisati secondo i luoghi ed i tempi nell'interesse dell'idea cattolica e papale. La loro democrazia non era che la base di un dispotismo pontificio tanto maggiore di quello dei Cesari, quanto l'impero cattolico era più vasto del romano.
Quindi nella lotta dei principati europei contro il papato, come superstite forma medioevale e ultimo rappresentante del patto antico fra la chiesa e l'impero, tutti si accordavano a chiedere violentemente la soppressione dei gesuiti. Era un imporre al nemico di disarmarsi, secondo l'acuta frase di Federico II. Roma resisteva. Gli argomenti svolti contro i gesuiti l'avrebbero dovuta persuadere a conservare nel loro ordine una milizia, contro la quale gl'increduli delle nuove filosofie e i nuovi giuristi del principato avevano dovuto stringere una coalizione mondiale. Giammai lotta ebbe incidenti più vari, scene più equivoche e tremende. Pascal alla testa di Portoreale scrisse contro i gesuiti un capolavoro, Le Provinciali, dando alla prosa francese quella terribile agilità che doveva farne il più mirabile istrumento di distruzione; dietro lui tutti i maggiori letterati infuriarono: gli statisti sospinsero contemporaneamente gli assalti; i parlamenti se ne immischiarono; gelosie di donne, di vescovi e di riti imperversarono e tutto crollò simultaneamente intorno ai gesuiti. Questi stettero superbi di coraggio e di fede. Papa Ganganelli, Clemente XIV, troppo timido per solo pubblicare la solita bolla In Coena Domini, piegò sotto lo sforzo universale, sacrificando nei gesuiti gli ultimi legionari del papato. Il quale in tanto frangente fu al disotto non solo della propria idea, ma di ogni più piccolo stato italiano. Clemente XIII aveva già negata l'ospitalità ai sei mila gesuiti cacciati di Spagna e tradotti a Civitavecchia entro la stiva di vecchi bastimenti, lasciandoli errare di spiaggia in spiaggia sei mesi; Clemente XIV, meno abbietto e più imprudente, gettò Ricci, loro generale, nelle carceri di Castel Sant'Angelo. Ma il generale, degno dei propri soldati, non piegò sotto alcuna minaccia, non soccombette ad alcuna insidia, ricusò l'offerta d'un vescovado per non sottoscrivere una carta, e moribondo dettò una protesta nobilmente superba d'innocenza, commovente di rassegnazione ai voleri della chiesa. Pio VI, succeduto a Ganganelli, che si disse morto di veleno, rese al cadavere del generale tutti gli onori, ribadendo così l'errore commesso dal papato colla soppressione della compagnia di Gesù. Infatti Federico II e Caterina di Russia, i due maggiori sovrani del secolo per ingegno e potenza, ne lo sbertarono vivamente, mentre Voltaire e D'Alembert, quegli lo spirito più acuto, questi la migliore testa filosofica della Francia, spingevano l'abilità della vittoria ottenuta contro Roma sino a lodare entusiasticamente i gesuiti. Nel periodo delle riforme il papato aveva dunque commesso, per imitarle, il più assurdo degli spropositi, disarmandosi in faccia al principato intento a laicizzarsi e alla vigilia di una rivoluzione, che doveva spezzare la base millenaria della idea cattolica romana. Ma questo errore era ancora una conseguenza della sua organizzazione politica; per la quale doveva come Torino, Genova, Venezia e Napoli subire le fluttuazioni delle volontà e delle guerre europee invece di librarvisi sovranamente nella semplicità del sacerdozio. Poiché le accuse ai gesuiti non erano che politiche, e il papato sacrificandoli moriva con loro, la riforma romana fu un suicidio.
Infatti Pio VI, sbigottito dalle troppe innovazioni di Giuseppe II contro la chiesa, dimenticando l'antica altezza dei pontefici che citavano a Roma gli imperatori di Alemagna, pensò invece di andarlo a visitare a Vienna; ma il viaggio clamoroso non gli fruttò che complimenti ironici dall'imperatore, mentre il ministro Kaunitz, stringendogli alteramente la mano invece di baciargliela, lo abbassò al livello di tutti i principotti italiani più o meno sottomessi all'Austria.
Il papato era morto. Ricci, il suo ultimo eroe e il suo martire più originale, aveva trovato in Kaunitz un vendicatore anche troppo pronto.
Giuseppe Parini.
Ma per tutto questo periodo il genio italiano tace. Vico e Giannone sono morti senza successori; la grande tradizione italica si interrompe. Tutti guardano involontariamente alla Francia e ne seguono a distanza il moto, appropriandosene stentatamente le idee. La nazione addormentata nell'ozio non ha più energie di speranze o di ricordi; i governi riformano dispoticamente tutti i congegni amministrativi senza apprendere alla coscienza publica una scintilla di patriottismo. Lo scarso patriziato intellettuale vive di idee e di sentimenti esteri, la maggior parte degli scrittori pellegrinano a Parigi come alla capitale del pensiero moderno. Nullameno la letteratura nazionale si emancipa dalla servitù scolastica coll'imitazione delle letterature straniere; Baretti trasporta da Londra Shakespeare in Piemonte e tempesta sui vecchi classici con foga bizzarra ed efficace; Cesarotti traduce Ossian; Verri imita Young nelle Notti romane; Beccaria si assimila in un libercolo meraviglioso di buon senso e di limpidezza tutte le critiche recenti sulle legislazioni penali e ne detta un altro sullo Stile, del quale trova le leggi nella psicologia; Cesarotti nel Saggio sulla filosofia delle lingue scioglie i legami della pedanteria, che paralizzavano la prosa italiana. Comincia uno stile nuovo con idee, forme e andamenti più liberi derivati dall'estero. L'originalità italiana manca; Filangeri con entusiasmo giovanile improvvisa un trattato sulla legislazione, nel quale ospita tutte le idee francesi componendone quasi una nuova arcadia scientifica; Mario Pagano e Melchiorre Delfico, destinati alla gloria politica dell'imminente rivoluzione, esperimentano se stessi combattendo gli antichi abusi; Galiani, l'ingegno più acuto e brillante del mezzogiorno, economista, letterato capace di tutto comprendere e di tutto rivelare, diventa parigino ed eredita da Voltaire il bastone di maresciallo dello spirito. Gli economisti tardi ed impacciati non arrivano ad alcun sistema, imitano i governi studiando e proponendo riforme senza dare ai propri studi nè principii nè forma di scienza. Mentre la Francia ha i fisiocratici e l'Inghilterra Adamo Smith, l'Italia non ascolta che l'abate Genovesi, perde Galiani e vede Gian Maria Ortes, forse il migliore dei propri economisti, smarrirsi fra la doppia oscurità del passato e dell'avvenire. Novatore d'istinto come Vico, Ortes per andare avanti guarda indietro e rinnova con audace interpretazione economica tutto il medio evo cogli asili, i conventi, i feudi; poi, discendendo nella politica, vuol ripetere il vecchio patto fra la chiesa e l'impero perchè quella sia il potere legislativo e questo l'esecutivo. Il suo ingegno è forte, la sua logica ben addestrata, ma per seguire la tradizione italiana deve respingere tutto il mondo moderno; quindi la sua opera inutile di scrittore passa inosservata. Beccaria e Verri, Ricci e Palmieri seminano intanto buone idee e ne tentano applicazioni, quantunque sfiduciati del paese e senza troppa fede nella scienza; ma nessuno di loro sa giungere al potere per ritemprare nelle esperienze gli equivoci assiomi delle teoriche. La mancanza di libertà legali e il distacco fra principe e popolo, isolando ogni meditazione, costringeva al vago ed all'esagerato: i governi praticavano riforme con vedute proprie e con intenzioni dispotiche per emanciparsi al tutto da Roma e schiacciare sotto il proprio livello gli ultimi talli dell'aristocrazia. Nè il principato, nè la nazione badavano dunque ai novatori: la rivoluzione fermentava altrove, il moto italico era riflesso.
Nullameno anche in Italia l'uomo moderno aveva già trovato nell'arte un'espressione immortale. Giuseppe Parini e Vittorio Alfieri rappresentano in due classi distinte e con diverso temperamento il medesimo uomo. Stranieri alla società nella quale sono nati e debbono forzatamente vivere, la dominano coll'altezza di una coscienza e di un carattere ad essa incomprensibile. Una dignità insolita, un'alterezza originale alza le loro fronti e le loro parole tra la folla delle teste e dei discorsi comuni. Parini è uomo più di meditazione che di azione: il suo mondo interno fondato sulla natura e sulla ragione contrasta involontariamente al secolo fittizio e convenzionale; la sua cultura austeramente classica attraverso Dante e Plutarco arriva inconsapevolmente alle nuove idee agitanti l'Europa. Nè molto forte, nè troppo vario nell'ingegno, sorvola a tutti coll'originalità di un senso morale così schietta e profonda che da sola è già una poesia capace delle più fervide e magnanime aspirazioni. In lui l'uomo produsse l'artista: la sua poesia fu la parola del suo pensiero, lo sfogo del suo sentimento. Semplice come un contadino, onesto come un antico, liberale come un moderno, ma con un'intima misura che frenando la passione le associava la forza della ragione, egli mortificò la società del suo tempo in un poema ironico non sorpassato ancora in nessuna letteratura. Il paragone fra l'aristocrazia d'allora e l'antica, dal quale erompe la satira, non è che un'inconscia finezza del poeta animato da ben più nobile ira; Parini, avendo l'aria d'invocare la soldatesca virilità dei vecchi signori, richiama a un'altra virilità moderna senza nè ferocie tiranniche, nè privilegi micidiali. Un nuovo mondo, una più giovane coscienza si schiudono nei suoi versi. Il pedagogo che ammonisce e il poeta che deride sono del secolo di Rousseau; il sentimento religioso di Parini ricorda la teologia naturale del Vicario savoiardo; nello stridore della sua ironia borghese passano a volta a volta gli stessi fremiti che sollevano le migliori pagine delle Confessioni. Parini ignora forse Rousseau, ma il secolo congiunge le loro due opere riunendo in uno sforzo comune l'impeto delle loro due poesie. Il dolore delle ingiustizie sociali non turba a Parini nè l'equilibrio del pensiero, nè l'equaninimità del sentimento; quindi l'ironia colla quale flagella la società non è più quella del buon senso, scettica ed allegra come in Boccaccio e in Ariosto, ma un'ironia più profonda, tragica e profetica, che annunzia nella dissoluzione di un mondo decrepito l'alba di un mondo migliore. È l'ironia del senso morale. Fra poco il suo sibilo si muterà in bufera rivoluzionaria per spazzare tutta quella vecchia società, ma il poeta, percosso di terrore ed incapace di vedere il sereno fra gli squarci della tempesta, cesserà di cantare. Forse lo stesso implacabile disprezzo gli si muterà all'ultima ora in misericordia, quando il sangue dell'aristocrazia trucidata, colando per tutte le terre di Francia, susciterà in Italia un'arcadica demagogia scimmiottante negli abiti e nelle parole la terribilità della scena parigina. Allora Parini vecchio romperà il silenzio per scrivere a Silvia l'ode Sul vestire alla ghigliottina, lasciando incompiuto il poema del Giorno, nel quale aveva saputo rattenere per molti anni lo sdegno rivoluzionario.
Vittorio Alfieri.
Dove Parini aveva guardato, l'Alfieri si avventò: quegli aveva maneggiato lo scudiscio dell'ironia, questi si scaglia sulla vecchia società colla classica scure del littore romano.
Con terribile prontezza Alfieri vede e misura la nullaggine della società, dalla quale è nato, e la sua fibra gagliarda, il suo eletto orgoglio ne sono così ributtati che fugge viaggiando per l'Europa. È poeta e s'ignora, è tragico e si arrovella con se medesimo, ma l'Italia l'insegue dappertutto. L'infingardaggine e la vigliaccheria paesana irritano la sua attività contendendone ogni campo. L'izza del poeta diventa furore. Non ha frequentato le scuole, non conosce i classici, cerca una modernità, che sente e non sa ancora esprimere; è uomo nobile di nascita ed abborre l'aristocrazia, cerca uomini e non ne trova nemmeno nella borghesia e nel popolo. Tutte le idee francesi fermentano nel suo spirito, risvegliando il suo orgoglio italiano contro la Francia stessa. Finalmente un caso gli getta un Plutarco tra le mani, e gli eroi della antichità diventano i suoi contemporanei, gli uomini del suo spirito; un altro caso gli suggerisce di schizzare una scena tragica nella camera dell'amante ammalata; e il poeta, rivelandosi subitamente a se stesso, si scaglia sugli altri per trarli nel proprio mondo colla forza irrompente di un convertito e coll'albagia di un antico signore.
La sua tragedia è una battaglia della libertà contro la tirannia, della virtù contro il vizio, del genio contro la mediocrità, dello stato contro la chiesa. Non vi sono nè mezzi caratteri, nè figure di accompagnamento; vi si ama, ma non vi si veggono amanti; la scena è occupata dal tiranno e dal ribelle, aspri, enormi, inflessibili. Il verso stride come un ferro rovente nell'acqua, le parole squillano come mazze sugli scudi, la frase balena come una lama di pugnale. Non varietà di scena, non episodi, non dramma vero, non tragedia umana; ma una lotta di idee espresse da personaggi che paiono vivi, tanta è la vita che erompe da quelle idee: una battaglia di sentimenti con eroi che sembrano veri, tanto il loro unico sentimento è sincero. Nel teatro di Alfieri vi è già la libertà, ma non vi sono i liberi; la republica, non i republicani; il clero, non i sacerdoti. Il personaggio tipico non vi arriva alla suprema verità individuale, ma forse mai verità tipica fu più intensa.
Il pubblico, che accorre a queste tragedie, ne esce stordito. Quell'azione rapida, stringata, sopra una scena nuda, squallida, senza incidenti, con pochi personaggi, con una sola idea e una sola passione, gli è penetrata nell'anima come un ferro; Metastasio colle sue nenie, co' suoi vapori, colle sue decorazioni orientali, è superato. Quei pochi attori che sembrano ruggire invece di recitare, che mettono nelle proprie parole un'energia eccessiva anche per l'azione, che parlano seriamente di morire, e amano e odiano con così irresistibile furia, producono sulle immaginazioni deboli l'effetto di una evocazione. Nessun lenocinio, nessuna concessione in queste tragedie; nella loro nuova moralità il vizio è sempre vittorioso e la virtù sempre sacrificata; l'eroismo soccombe come il genio; la necessità della lotta, la gloria della sconfitta, lo stoicismo dell'olocausto, ecco la loro retorica.
Volendo essere il redentore d'Italia, Alfieri si getta al teatro, perchè solo con esso e per esso può giungere al pubblico. L'immunità della poesia salva le sue tragedie dalle repressioni dei governi. Le sue maledizioni che tuonano su tutte le corti, i suoi furori che esaltano tutte le plebi, le sue bestemmie che inseguono il clero persino nella chiesa, la sua modernità che lo obbliga a prendere le idee della Francia e a rinnegarla per conservarsi italiano, il suo classicismo che spezza tutte le vecchie maschere teatrali collo scoppio di parole e di sentimenti originali, il suo orgoglio di uomo che lo erge sprezzante in faccia a tutti i re, la sua alterezza di grande uomo che lo innalza sopra il popolo, la sua irrequietezza di poeta che lo costringe a ripetere senza rinnovarle le proprie tragedie, la sua passione per la Toscana che gli rivela il segreto della tradizione italiana, il suo amore burbero, lirico, tragico per l'Italia, l'asprezza del suo carattere e del suo genio, la spontaneità della sua natura stretta fra due mondi e nullameno capace di contenerli, gli danno una popolarità e una gloria senza raffronti in tutta la letteratura nazionale. Non lo si capisce bene, ma lo si segue: gli altri poeti ammutoliscono, e paiono come tanti veltri intorno ad un cinghiale. Alfieri è da solo un'altra Italia. Dalle sue collere, che sono uragani, verrà una fecondazione non prima conosciuta: le sue invettive si muteranno in tremuoti; la rapidità delle sue tragedie, che sembrano affrettarsi con feroce impazienza verso la catastrofe, accelererà la rivoluzione italiana.
Ma Alfieri non ne vedrà che l'inizio e non potrà intenderne il processo. Gli eccessi del Terrore francese gli rivolteranno la coscienza e gli ispireranno il Misogallo, ammirabile ed assurda reazione della personalità italiana contro la rivoluzione, dalla quale riceveva la vita; Napoleone non imporrà, colle proprie vittorie romane, rispetto alla protervia socratica del suo carattere sempre più alto di tutti gli avvenimenti e più puro del più puro fra i suoi personaggi. L'anima d'Alfieri, tempestosa come quella di Dante ma più nobile ed efficace a creare col proprio esempio una generazione di uomini nuovi, inizierà la terza epoca italiana. Come poeta ed artista Alfieri non vale certo nè Schiller, nè Goethe, suoi contemporanei; come uomo è il solo che possa rivaleggiare, sebbene da lui diversissimo, con Franklin. Questi è l'originalità e la gloria del carattere americano; quegli la modernità e la grandezza del carattere italiano: Franklin ha il buon senso sereno di un mondo che comincia; Alfieri il senso tragico di due mondi che si cozzano, sui quali fosco ed eroico si alza, urlando ai codardi che fuggono come ai vincenti che si sbandano, ai re che soccombono come ai tribuni che tradiscono, mentre con lirico oblìo di ogni proprio pericolo guarda la bandiera della libertà salire sempre più alto su monti di feriti e di morti.
Alla fine di questo periodo così attivamente riformatore nessuno stato italiano cova quindi una rivoluzione. Il principato cresciuto a regno nel Piemonte, nelle due Sicilie e nello stato pontificio ha esaurito la propria formula. Le vere differenze regionali sono pressochè scomparse: un medesimo dispotismo ha livellato i popoli della penisola, sciogliendoli dai legami della feudalità e del municipalismo; ma fra popolo e governo si è venuto scavando inavvertitamente un abisso. L'uno comanda e l'altro ubbidisce: la legge non congiunge libertà ed autorità, coscienza pubblica e coscienza privata sono antagoniste. Se la separazione doganale e politica isola ancora i popoli d'Italia, una stessa negazione significata dalla medesima indifferenza per i propri principati li affratella: tutti i migliori spiriti sono riformatori, i più alti sono inconsciamente rivoluzionari. Il patriottismo retorico del Machiavelli, dopo avere squillato nelle odi di tutti i poeti del seicento e del settecento, diventa vera poesia in Parini e in Alfieri. Si comincia a vedere una Italia intera al disotto e al disopra di tutti i suoi principati immobili nel mondo europeo; e poichè questi non possono più combattersi l'un l'altro per agglomerarsi in un corpo solo, son tutti egualmente inutili e tutti saranno rovesciati dall'imminente rivoluzione francese.
Gli animi sono sospesi, i governi disarmati, i popoli inermi, gli scienziati distratti, i filosofi silenziosi, gli statisti paralizzati: solamente i poeti cantano, ma la loro voce, come quella dell'alcione, annuncia la tempesta.
La tempesta scoppiò a Parigi.
LIBRO TERZO LA DEMOCRAZIA MODERNA
Capitolo Primo. Le repubbliche
Rivoluzione francese.
La grande rivoluzione agitante tutta l'Europa si svolse in Francia; nessuna dopo quella del cristianesimo fu più rapida, vasta e profonda: il mondo intero ne uscì rinnovato.
Essa negò la monarchia cristiana nella sua trinità di re, aristocrazia e religione per sostituirvi la sovranità popolare, il governo della borghesia e la superiorità della giustizia filosofica sulla giustizia cristiana. La sua passione era la libertà, le sue forze quelle dell'industrialismo contro il militarismo, il suo programma l'uguaglianza civile; il suo spirito era classico, il suo temperamento insubordinato. Appena comparsa sulla scena storica, entro le forme antiche dei parlamenti, le ruppe ed invase, rovesciando tutti gli ordini. Incalcolabili dolori, inesauribili speranze la spingevano. La monarchia borbonica, rappresentata dal meno cattivo e dal più inetto de' suoi re, scese al disotto del ridicolo e dell'infamia nella propria resistenza, trincerandosi entro la bigotteria cattolica ed invocando lo straniero. La plebe ruggì; sessanta mila banditi, prodotti dalle fiscalità incredibili dell'ultimo regime, accorsero in bande a Parigi e s'improvvisarono eroi, carnefici, popolo, pubblico, sovrano. L'aristocrazia o seguì nel tradimento di un volontario esilio la corte, o si chiuse nei propri castelli, o si buttò per nativa generosità o per tarda ipocrisia nella rivoluzione; e ovunque fu trucidata. Il clero, incredulo e corrotto, disparve quasi nella prima lotta per ricomparire più tardi coraggiosamente alla testa d'insurrezioni realiste e parricide; la borghesia vincitrice e vittoriosa fu travolta dallo stesso uragano che la portava a rovesciare tutto dinanzi a sè. La successione febbrile e fantastica delle forme politiche nella rivoluzione superò ogni tragedia, sgominando previsioni di sapienti, abilità di pratici, pretensioni di tribuni, combinazioni di partiti, intrepidezze di fanatici, disperazioni di deboli e di forti.
L'Europa, destandosi dal sogno arcadico delle riforme, allibì, e, improvvisamente pentita delle proprie idee, armò con senile imprevidenza tutte le antiche monarchie contro la rivoluzione francese. Il pericolo era imminente, ogni dinastia minacciata, tutto l'antico assetto politico sommosso. Ciascun'ora recava da Parigi annunzi di stragi: decapitati il re e la regina, nobili e preti passati a fil di spada, distrutti i castelli, incendiati i conventi, dichiarata la guerra a tutti i re, gridata libertà a tutti i popoli. I rivoluzionari apparivano sulla scena sinistri ed affascinanti, per sparire quasi istantaneamente, precipitati nel medesimo gorgo che inghiottiva l'aristocrazia, o troncati dalla stessa mannaia che aveva tagliata la testa del re. Luigi XVI, prima di essere giustiziato, aveva dovuto deporre il bilancio della monarchia innanzi alla convenzione come davanti ad una assemblea di creditori, che lo avessero condannato per fallimento doloso; aristocrazia e clero, commessi della regalità, avevano subìto le sorte del principale. Non più diritto divino, non più supremazie storiche di vincitori e di vinti stabilite nel medio evo, non più autorità di pontefici e di Dio confiscanti la terra a nome del cielo ed imperanti al pensiero col doppio mito della rivelazione e della risurrezione. La politica, che, rappresentando sino allora l'abilità dell'interesse regio sopra o contro l'interesse nazionale, aveva sempre pensato ed operato nel mistero, improvvisamente trascinata in piazza non è più che una discussione di tutti, nell'interesse di tutti, necessariamente tumultuosa, aggressiva, intrattabile in quell'ora suprema di delirio e di distruzione. Dio, disperso nei cieli, abbandona sulla terra i propri altari; la monarchia non trova giustificazione ai propri titoli, l'aristocrazia ai propri gradi, il clero alla propria autorità. La ragione trionfa, la scienza sovrasta, la filosofia si esalta, la politica delira. Nulla è più rispettato, perchè tutto deve essere ridiscusso; la demenza imperversa tra la foga irrefrenabile delle passioni necessarie all'immane sforzo di sconvolgere tutto il passato; la frenesia della libertà riproduce quindi l'insania del dispotismo; una distruzione maniaca seppellisce i guastatori sotto le rovine; uomini e partiti si dissolvono entro la trama sempre lacerata e sempre rammendata di un parlamentarismo, che imitazioni classiche ed estranee ordiscono e passioni nazionali ed istantanee stracciano.
La guerra civile avvampa prima che regii e preti l'attizzino; le coscienze violate urlano, martiri e carnefici lottano d'eroismo, il mondo atterrito e nauseato torce lo sguardo dall'instancabile carneficina, l'Europa si coalizza e si avventa sulla Francia per toglierle, liberando Luigi XVI, di compiere intera la rivoluzione. Senonchè la Francia, galvanizzata dal pericolo, illuminata dall'istinto, taglia la testa al proprio re e la gitta come una sfida all'Europa monarchica. La sfida è raccolta, ma la vittoria resta alla Francia. Esausta, senza denaro, lacerata dalle fazioni, smezzata dalla guerra civile, essa lancia nullameno un milione e mezzo di coscritti a tutte le frontiere; inesperienza e tradimenti di generali non la perdono; il genio e la passione riparano a tutto, trionfano di tutto. La storia si muta in poema, la tragedia sta per tramontare nell'epopea. Il popolo, che nella demenza delle prime ore ha massacrato quasi tutta l'aristocrazia della scienza e del patriziato, ne improvvisa un'altra di eroi, di generali, di ministri, che sconfiggono gli eserciti di Federico II, le diplomazie dell'Austria, i complotti di Roma, le macchinazioni dell'Inghilterra. Dal 1789 al 1796 la bufera rivoluzionaria non rallenta un minuto. La sua opera di distruzione è così rapida ed universale che nessun occhio può cogliere tra il polverio delle macerie l'originale fisonomia dell'epoca, che vi comincia: pare un guasto ed è una rinnovazione, un massacro ed è un olocausto, un delirio ed ogni colpo vi è infallibile, una passione ed è un'idea, una improvvisazione ed è un sistema, un sistema ed è un mondo.
L'America aveva cominciato poco prima coll'insurrezione degli Stati Uniti; l'Europa ricomincia colla rivoluzione della Francia. Bisogna quindi che una guerra trascini questa fuori dei propri confini: tutte le monarchie europee, rovesciate dalla rivoluzione francese, riveleranno nella caduta la propria vacuità, ma per risollevarsi dovranno tendere la mano ai popoli. Quando un popolo rialza un re, finisce di essergli suddito; appena il diritto divino patteggia col diritto umano, cessa di essere un diritto; quando un clero è costretto a discutere la propria religione, la fede in essa è già morta; allorchè spunta l'elettore, il monarca scompare. La sovranità è inscindibile. La formula conciliativa delle moderne costituzioni esprime, tentando coprirla, l'antitesi di un'idea nuova con una forma antica; ma ogni idea, presto o tardi, deve trovare di per sè la propria forma. Nessuna forma vuota ha mai potuto o potrà mai riprodurre la propria idea svanita: vi è generazione, non risurrezione: ogni corpo ha un'anima, nessun cadavere può rianimarsi.
Al rompere della rivoluzione francese, l'Italia vi è così poco preparata, che il Bertola (1787) nella prefazione della propria filosofia della storia dichiara che l'Europa non teme più rivoluzioni, e Pietro Verri, uno dei migliori, entusiasmato per le benigne intenzioni di Leopoldo II salito al trono d'Austria, consiglia a tutti di diventare buoni sudditi del nuovo monarca. A Pistoia e a Livorno sono scoppiati tali tumulti contro le riforme leopoldine da costringere il nuovo granduca Ferdinando III a sospenderne e a ritirarne alcune; a Napoli la prepotenza di Acton, Silio inglese di Messalina austriaca, fa dimenticare la benefica onnipotenza del Tanucci; Dutillot e Bogino, già caduti in disgrazia, si sono ritirati dalla politica.
Le armi della nazione scarseggiavano; pochi gli armati, e tra essi troppi stranieri. Il Piemonte manteneva ancora quindici castelli e trentacinque mila soldati; Genova, abbastanza bene fortificata, poco più di un migliaio e mezzo; altrettanti Modena, la metà di questi Parma, due centinaia Lucca, quattro mila la Toscana, cinque o sei mila il papa colle fortezze del Po, d'Ancona e di Civitavecchia; duemila stranieri, alcuni bastimenti, l'arsenale non assolutamente sprovvisto, Venezia. Acton a Napoli ringagliardiva con futile vanità il naviglio e riordinava l'esercito con istruttori francesi, licenziando gli svizzeri, restringendo in due reggimenti gli spagnuoli, i fiamminghi e gl'irlandesi, aggiungendo un battaglione di cacciatori albanesi al reggimento Reale Macedonia di greci. La Lombardia, forte per Mantova e Milano, non assoldava più di quattro mila uomini cerniti dagli ergastoli o ingaggiati. L'abisso, che separava il popolo dal governo, lo divideva pure dall'esercito. Quarantotto anni di pace avevano tolto da ogni memoria l'immagine della guerra, favorendo la putrefazione della coscienza pubblica.
L'antica Italia dei guelfi e dei ghibellini, così inesaustamente e terribilmente guerriera, non era certo riconoscibile in questa ultima Italia di cavalieri serventi e di eserciti inservibili, ove Ferdinando IV con cinica profezia poteva dire delle proprie milizie «scapperanno, scapperanno!».
Quindi la rivoluzione francese dagli stati generali con impetuoso e rapido crescendo arriva alla costituzione del 1791; il re spaventato fugge affrettando la catastrofe; ma scoperto a Varennes e ripreso, la sua causa è ormai separata da quella della rivoluzione. Le ostilità fra corte e rivoluzione rifiammeggiano, le plebi tumultuano. All'assemblea costituente, tosto disciolta, succede la legislativa tutta composta di membri nuovi; l'Europa freme, i popoli esultano, i re si alleano minacciosamente ed emanano il proclama insolente di Pillnitz. L'assemblea legislativa alla minaccia dell'invasione risponde imponendo agli emigrati di ritornare entro un anno in Francia sotto pena della confisca dei beni, e al clero il giuramento civico. La coscienza falsa e bigotta di Luigi XVI ricalcitra; la sua diplomazia, costretta a dichiarare la guerra a Francesco II d'Austria, che pretendeva si rendessero Avignone al papa e i diritti feudali ai principi tedeschi proprietari dell'Alsazia, tratta ancora segretamente con Vienna; alcuni rovesci all'aprirsi della campagna spargono nella nazione la paura del tradimento; finalmente il veto contro la deportazione dei preti, e il manifesto ingiurioso del duca di Brunswick, minacciante Parigi di un'esecuzione militare se fosse recato oltraggio alla famiglia reale, persuadono tutti che la corte è il nemico, il popolo insorge, invade le Tuileries, sforza le prigioni, massacra svizzeri, prigionieri, preti, aristocratici. Il delirio del sangue sale a tutte le teste, mentre l'entusiasmo patriottico infiamma tutti i cuori. Volontari accorrono sotto le bandiere da tutti gli angoli della Francia. Dumouriez, succeduto a Lafayette, batte i prussiani a Valmy (1792); Custine entra trionfante a Spira, a Worms, a Magonza, a Francoforte; Montesquieu occupa Chambéry, Anselme ghermisce Nizza al re di Savoia collegatosi all'Austria e alla Prussia contro la Francia.
Ma la rivoluzione vittoriosa alle frontiere raddoppia la propria vittoria all'interno e processa il re. La storia non aveva ancora avuto uguale giudizio; diritto divino e diritto umano, elettore e monarca sono di fronte: soccombe il re. La monarchia, uccisa nell'idea, non risorgerà che finzione di se medesima, sottomessa nel nuovo diritto costituzionale alla sovranità popolare. Quindi tutte le monarchie europee colpite al cuore da questa negazione del loro principio si coalizzano: Inghilterra. Spagna, Olanda s'aggiungono all'Austria, alla Prussia e al Piemonte contro la Francia. La convenzione superbamente eroica dichiara loro la guerra. Le prime armi sono infelici; la Vandea violata nella propria coscienza religiosa ed esasperata dalla decapitazione del re insorge. La guerra civile si mescola così alla guerra straniera, mentre la rivoluzione accampata a Parigi fra banditi indisciplinabili, plebi sanguinarie e partiti implacabili, senza denaro, senz'organizzazione, senza autorità, oppugnata dall'aristocrazia, combattuta dal clero, non abbastanza aiutata dalla borghesia, raddoppia il proprio eroismo, moltiplica il proprio genio, risponde colla morte alla morte, muta il massacro in governo, improvvisa quindici eserciti di centomila soldati ciascuno, arriva col trionfo della Montagna sulla Gironda all'esplicazione della propria formula finale. In questa vertigine di sangue la sua opera legislativa prosegue falsa nei metodi, violenta nelle forme, ma infallibile nei concetti. Tutto cede alla fatalità della sua idea. Mentre a Parigi i partiti trucidandosi l'un l'altro alzano una piramide di cadaveri, che gela l'Europa di orrore, gli eserciti republicani dissipano gli eserciti regi con una furia e una facilità di uragano. Pichegru e Jourdan battono gli austro-inglesi a Monseron e a Fleurus (1794): lo statolder fugge e gli stati generali proclamano la republica batava. Dumas, padre del grande romanziere, snida gli austro-sardi dai passi alpini del piccolo San Bernardo e del Cenisio; Dumerbin sconfigge i sardi a Saorgio e s'impadronisce di Savona; Dugommier ricacciati gli spagnuoli oltre i Pirenei, li prostra alla Montagna Nera in una battaglia di quattro giorni, nella quale muore vittorioso. Quindi Pérignon, suo successore, penetra nella Catalogna, e Moncey, sostituito a Mailer nei Pirenei occidentali, conquista la Biscaglia e l'Alava.
Il rombo di tante vittorie spaventa così Federico Guglielmo II di Prussia che, staccandolo dalla coalizione gli persuade la pace di Basilea, nella quale cede alla Francia il Reno per confine: quindi gli Elettori di Sassonia, di Annover e Assia Cassel, il granduca di Toscana e poco dopo la Spagna, seguendo il prudente esempio, riconoscono la republica francese.
Ma le due maggiori potenze dell'Austria e dell'Inghilterra, quantunque sconfitte in più battaglie, stanno pronte alla riscossa: l'Inghilterra tiene vittoriosa i mari, la Vandea eroicamente reazionaria si batte ancora per la corte vilmente raminga e per l'aristocrazia più vilmente agglomerata a Coblenza. A questo punto (1795) andò in vigore la costituzione dell'anno III, che affidava il potere legislativo a due consigli, i cinquecento e gli anziani, e l'esecutivo a un direttorio di cinque membri eletti dal corpo legislativo: dopo di che si riprese la guerra. Carnot, incomparabile organizzatore della vittoria, tracciò egli stesso il disegno per la campagna del 1796, secondo il quale i tre eserciti della Sambra e Mosa, del Reno e dell'Italia avrebbero dovuto prendere simultaneamente l'offensiva. Ma i due primi, guidati da Jourdan e Moreau, avendo commesso l'errore di avanzarsi sovra due linee parallele invece che convergenti, furono sconfitti dall'arciduca Carlo: il terzo scese in Italia con Napoleone Bonaparte, fanciullo come Annibale e forse il solo degno di essergli paragonato.
Condizioni della penisola.
Allo scoppio della rivoluzione francese esistevano in Italia quattro maniere di governo: quello austriaco nei ducati di Milano e di Mantova; la teocrazia negli stati romani; la republica medioevale a Venezia, a Genova, a Lucca e a San Marino; stavano ducati e regni indipendenti, la Toscana, Parma, Modena, le due Sicilie e il Piemonte. Nelle republiche il patriziato erasi insignorito del governo, identificandosi collo stato, ma fossilizzandosi nella più grottesca e vacua delle forme; la burocrazia austriaca fondata da Giuseppe II nella Lombardia vi contrastava a tutte le tradizioni feudali e clericali; Parma e Modena, ubbidiente agli impulsi borbonici francesi, si erano esaurite oppugnando le pretensioni di Roma; il movimento riformista delle due Sicilie e della Toscana, scendendo dall'alto attraverso capricci di sovrani e sapienza di ministri, aveva piuttosto sommosso che illuminato le coscienze, spostando molti interessi senza organizzarne alcuno. A Roma una falsa teocrazia, assalita e screditata in ogni parte, conservava nullameno costumi e idee medioevali: la sua legislazione si componeva ancora di ottantaquattromila leggi, la sua politica considerava Napoli, Milano, Genova, Parma e Modena come stati rivoluzionari, e vi prodigava ogni sorta di consigli e di richiami per eccitarvi una reazione religiosa. Il Piemonte, che negli ultimi due secoli era stato il regno più vivo d'Italia e nel quale sembrava prepararsi la nuova politica nazionale, arrestatosi improvvisamente, affettava pietà cattolica ed amore al feudalismo, mentre tutti gli altri stati battagliavano riformando contro Roma.
Nè governi, nè popoli erano dunque pronti a una rivoluzione: la coscienza degli uni era chiusa, quella degli altri vuota.
Al rombo della tempesta francese tutti i principi italiani sbigottirono: Pio VI propose un'alleanza sul genere di quella di Pillnitz, che naturalmente non potè essere stretta; Napoli stava imbronciata col papa per la chinea; Venezia temeva pel proprio commercio; l'Austria dubitava anche allora di ogni lega italiana; il duca di Modena, massaio volgare e vigliacco, preparava un grosso tesoro per fuggirsene; la Toscana, più aperta alle nuove idee, simpatizzava ingenuamente per la republica francese, e fu poi la prima a riconoscerla; il Piemonte, vano della propria antica capacità militare e più facilmente minacciato di ogni altro nella Savoia, davasi l'aria di armare. Vittorio Amedeo III, legato per molti matrimoni ai Borboni, aveva ospitato gli emigrati, mutando Torino in una fucina di contro-rivoluzione: quindi impazzando del proprio grado di re cristiano, aveva per le sollecitazioni dei preti, dei fuorusciti e del nuovo imperatore preso l'offensiva (1792). Ma i soldati piemontesi, imbozzacchiti dalla lunga pace e capitanati dalla più inetta aristocrazia di corte, si copersero di ridicolo, abbandonando più di una provincia in mano al nemico. Genova, dominata dai riguardi mercantili e timida di una alleanza così col Piemonte come coll'Austria, mentre vorrebbe restare neutrale, viene incalzata a decidersi dalle prepotenze inglesi, che assalgono sino nel suo porto le navi francesi; la Corsica, delirante per la nuova libertà concessale dalla republica francese, risogna l'antica indipendenza, e Pasquale Paoli, il suo eroe più puro, offusca tutta la propria vita coll'errore supremo di cedere l'isola all'Inghilterra per timore della volubile fede francese. Venezia ospita a Verona Luigi XVIII sempre inteso da lungi a miserabili congiure realiste, e lo caccia poi alla prima intimazione francese; Roma, in sulle prime riguardosa per paura dei furori rivoluzionari, ed esasperata poi dalle persecuzioni al clero, lancia scomuniche contro la republica francese, facendo trucidare dalla propria plebaglia Ugo Basville. A Napoli la reazione cominciata colla sostituzione dell'inglese Acton al toscano Tanucci prosegue con terribili forme inquisitoriali: la corte, resa crudele dalla paura e fanatica dall'odio, istituisce una giunta di stato con poteri esorbitanti; si accumulano prove su ventimila rei, sospetti su cinquantamila; le prime ingenue dimostrazioni liberali provocano esecuzioni; tre giovanetti esordiscono nel martirio. La regina Carolina delirante dichiara di stimare una spia meglio di un gentiluomo, i libri di Filangeri sono bruciati dal boia, re Ferdinando non esce più dalla propria colonia di San Leucio, sozzo lupanare nel quale intendeva forse riprodurre la Città del Sole di Campanella, che per segnare decreti di morte. La corte ricusa gli ambasciatori francesi; poi, atterrita dalla squadra dell'ammiraglio Latouche, li riceve, promette la neutralità e la viola alleandosi all'Inghilterra per assaltare Tolone. Intanto per far denari ruba gli argenti alle chiese, spoglia i banchi, ed improvvisa un esercito e un'armata relativamente enormi, ma di nessun valore. Ma poichè nel periodo del Terrore il re di Piemonte, per ribrezzo dei republicani, non osa allearsi coi lionesi e coi provenzali insorti a guerra civile, la republica, soffocati prontamente quei moti nel sangue, spinge Kellermann, abilmente impetuoso, nella Savoia; Ventimiglia ed Oneglia sono invase: altri francesi piombano dal Cenisio, Saorgio è espugnato, il colle di Tenda preso. Nullameno il Piemonte, decaduto dall'antico valore resiste colla vecchia pertinacia; e, cessato il Terrore, mentre Prussia e Spagna si compongono colla republica, esso dura alla guerra coll'alleanza dell'Austria. Quindi Scherer, spalleggiato vigorosamente da Massena e Serrurier, batte il generale Colli a Loano; l'Austria manda Beaulieu e la Francia contrappone Napoleone Bonaparte.
Discesa di Napoleone.
La guerra cresce istantaneamente. Napoleone, italiano, giovane e genio, muta improvvisamente strategia e tattica; questa perfeziona sull'esempio di Federico II, quella inventa colla prodigiosa facilità degli antichi condottieri. Vi è in lui del Nicolò Piccinino, ma raddoppiato da un ingegno politico che mira più alto e più lontano. Egli stesso s'ignora, ma, rivelandosi al mondo, si scopre a se medesimo. L'Austria sola è nemica della Francia: quindi colpirla con una guerra rapida, impetuosa ed irresistibile, ecco il suo disegno. Alla testa di trentasei mila uomini, laceri, scalzi, entusiasti, circondato da vecchi generali e da eroi ancora sconosciuti si dirupa sull'Italia. Vincitore a Montenotte, pel passo di Millesimo sbocca sul centro nemico, separa austriaci e piemontesi, si piega su questi; da Cherasco bandisce all'Italia il primo proclama di libertà e concede al re di Sardegna, tardi atterrito, un armistizio, pel quale s'impadronisce di quante fortezze gli occorrono. Secondo le idee del direttorio, la Lombardia doveva essere conquistata per ridarla all'Austria in cambio dei Paesi Bassi; ma Bonaparte accarezza già forse in mente altro pensiero. Quindi, appena quetato il Piemonte, perseguita Beaulieu, lo inganna, passa il Po a Piacenza, lo batte a Fombio, lo sgomina a Codogno, lo prostra a Lodi, lo ricaccia oltre il Mincio, ed entra a Milano. Parve un sogno ed era un risveglio. L'antica metropoli lombarda rivale di Roma risorgeva col vecchio antagonismo. Napoleone parlava di libertà, e sopprimeva la giunta di governo affidando l'amministrazione al municipio senza definirlo, ordinando guardie nazionali, permettendo tutte le speranze di una vita indipendente, vessando e taglieggiando peggio che per necessità di guerra. Le contraddizioni fra i modi di conquista e le dichiarazioni liberali esasperarono quindi gli umori reazionariamente patriottici; onde Pavia, insorgendo indarno, soccombe nell'atroce punizione di un saccheggio.
Ma Bonaparte infrancato dalla sosta incalza ancora Beaulieu sino al Tirolo: Venezia decrepitamente imbecille crede sfuggire al problema, che la urge, sottraendolo al consiglio, ed evitare la guerra chiudendosi in una neutralità disarmata. Ma tutti violano il suo territorio: Napoleone entra a Verona, cinge Mantova di assedio. Se non che questa fortezza essendo troppo ben munita per cedere ai primi assalti, egli con assennata temerità ripassa il Po, prende Ferrara, entra a Bologna, ove il senato risognando l'antica indipendenza municipale gli presta un giuramento equivoco, col quale vorrebbe sottrarsi al giogo pontificio. Il papa, prima così violento contro i francesi, ruina improvvisamente a patti umilianti, e si degrada sino a pubblicare un monitorio, immortale esempio di viltà, nel quale a nome della religione inculca a tutti i popoli di obbedire i loro reggitori quali si siano, mirando così ad ammansire i nuovi conquistatori francesi che occupavano tutta la fronte superiore de' suoi stati. Il duca di Modena, fuggito a Venezia, ha ceduto la città e pagato parte del proprio tesoro; a quello di Parma è stata concessa una tregua avvilente; la Toscana, incapace di difendersi, si abbassa sino a chiedere che Livorno le sia tolto piuttosto per la via di Pisa che per quella di Firenze; il re di Napoli, pazzo di terrore, consacra al cielo la propria corona, implora dai vescovi prediche guerriere, domanda ai sudditi di conservarsi tranquilli, e, disdicendo la propria alleanza coll'Austria, ottiene egli pure una tregua, che gli pare una vittoria.
Giammai nella storia italiana era stata più unanime codardia. Intanto, malgrado il desolante saccheggio di ogni tesoro artistico e scientifico avaramente e impudentemente organizzato da Napoleone, la fermentazione delle idee liberali procede a scoppi e a fumacchi: il contagio republicano s'appiglia a tutta l'Italia, l'inettitudine dei principi anima alla rivoluzione, la rilassatezza di ogni governo alla rivolta; volgo e feccia di ogni classe mestano e sbraveggiano; congiure regie e liberali s'attraversano; gli inglesi soffiano e pagano.
L'Austria, ancora non doma, rimanda Wurmser al soccorso di Mantova, ma anche questi, non meno facilmente sconfitto dal giovane capitano, riesce appena a gittarsi nella piazza per rimanervi assediato; Alvinczy, altro generalissimo sceso alla riscossa, è battuto definitivamente a Rivoli dopo molto armeggiare, e l'imprendibile fortezza deve arrendersi al genio di Napoleone.
Questa vittoria, cacciando gli austriaci dall'Italia, la sottometteva ai francesi. Poco dopo, Napoleone con marcia arditissima torna sull'Adige per assalire Vienna, troppo tardi e invano difesa dal migliore de' suoi generali, l'arciduca Carlo. Questi, sconfitto al Tagliamento e all'Isonzo, deve ritirarsi colle baionette alle reni; le alpi Noriche sono già di Bonaparte, ma il direttorio non può mandare l'esercito del Reno a congiungersi con quello d'Italia, e l'Austria per questa volta salvata accetta la pace di Leoben (1797), nella quale, cedendo Belgio e Lombardia alla Francia, acquista per tradimento di Napoleone la Venezia.
Costituzioni republicane.
All'apparire degli eserciti francesi la scena politica italiana muta improvvisamente di aspetto. Il dispotismo illuminato dei principi retrograda sulle vie delle riforme, mentre la corte romana, dianzi combattuta nel nome della libertà, viene vivamente invocata come appoggio supremo all'autorità pericolante. La borghesia colta accetta accademicamente le nuove idee, come sentendosi chiamata al governo, e s'improvvisa republicana; ovunque spuntano giacobini italiani più retori e infinitamente meno coraggiosi dei giacobini francesi; l'arcadia poetica risorge nell'arcadia politica; scoppiano declamazioni e congiure. Si parla di libertà e si prosegue ad aspettarla come un dono dalla Francia, che invece la gualcisce e la scema ogni giorno; mancano tradizione e coscienza politica. Tutto è gazzarra, improvvisazione, ladroneccio e plagio; i democratici riscaldano a freddo i furori rivoluzionari francesi, che già tendevano ad agghiacciarsi; gli aristocratici risognano una republica patrizia, nella quale conservare la stessa importanza con mutati privilegi; s'ordiscono sètte. Il patriottismo paesano, angusto ma sincero, offeso dalle rapine francesi, rigetta le nuove idee; la fede religiosa s'adonta della nuova tirannia atea; l'emancipazione francese assomiglia nelle apparenze alla servitù tedesca.
Ma attraverso tutte le contraddizioni il contagio della libertà si propaga: le idee francesi compensano i modi della dominazione francese, la costituzione delle nuove republiche italiane è tal fatto che, per quanto effimero ed incompiuto, rimescola tutti gli spiriti e crea una nuova generazione di uomini. A Milano e a Bologna si fondano due republiche, la cisalpina e la cispadana. Erasi da prima costituito un comitato per preparare la costituzione alla cisalpina; ma naturalmente il direttorio, imbevuto di classico spirito rivoluzionario e da conquistatore, impose la propria. Vi furono quindi quattro direttori e quattro congregazioni di costituzione, di giurisprudenza, di finanza e di guerra; un consiglio generale di 160 membri e uno degli anziani di 80. Però si ebbe un nome, una bandiera e un esercito; Bonaparte, come un condottiero antico, dettava e imperava. Nel Piemonte, ricaduto sotto il vassallaggio della Francia come ai tempi della Riforma, Carlo Emanuele IV, più nullo di Vittorio Amedeo III, subiva vessazioni ed ingiurie, reagendo con inutile stizza contro le congiure giacobine, che dissolvevano il suo governo: persino la Sardegna era insorta domandando gli Stamenti. La republica di Venezia, dopo aver agonizzato nella più supina codardia accettando anche di rimutare la propria costituzione dietro un ordine francese, aveva trovato nel tradimento di Napoleone, che l'abbandonava all'Austria in cambio della Lombardia dichiarata indipendente e del Belgio ceduto alla Francia, un motivo drammatico col quale rendere decente la propria morte. Dieci giorni dopo soccombeva l'aristocrazia di Genova, che, sostenuta sulle prime dalla plebe, non aveva poi saputo opporre alle truppe francesi se non pochi tumulti a Polcevera e ad Albaro. Poco appresso una sommossa scoppiata a Roma, nella quale rimase ucciso il generale francese Duphot, decise della caduta del papato. Questo aveva già rinnegato ogni verità assoluta delle proprie pretese, cedendo nel trattato di Tolentino (1797) il contado Venesino alla Francia, e alla Cispadana Ferrara, Bologna e la Romagna; il papa atterrito era inutilmente disceso dalle altezze medioevali della scomunica alle piaggerie del monitorio, destreggiandosi colla viltà di vani espedienti fra le strette della rivoluzione. Quindi il generale Berthier dietro ordini del direttorio marciava su Roma, ove, penetrato senza colpo ferire, si stanziava al Quirinale, piantando sul Campidoglio l'albero della libertà ed imponendo al papa di abdicare. Ma questi, vinto e prigioniero come re, ricusa improvvisamente come pontefice di rinunciare al regno, di cui è depositario; laonde, cacciatone, migra a Siena per andare a morire a Valenza dimenticato nel trambusto dell'epopea napoleonica. Una republica romana, sonora e vacua, di forme antiche e senza vita moderna, risorge dopo migliaia di anni fra le rovine del Foro e il silenzio del Vaticano come fantastica decorazione carnevalesca, che basta nullameno a surrogare l'inutilità di un regno papale. Il suo fatto storicamente enorme passa quindi inosservato: appena Vienna e Napoli se ne querelano, e i trasteverini per vanagloria offesa di borgo privilegiato tumultuano. Ma per convincere tutti che il papato non ha più fede nel proprio regno politico, ecco giungere l'enciclica di Pio VI sul nuovo giuramento da prestarsi a Roma di odio alla monarchia secondo la classica e declamatoria formula rivoluzionaria, e spiegare con ingenua sottigliezza come un cristiano, non dovendo odiare nessun governo, possa però giurare soggezione alla republica. L'enciclica sciogliendo così i sudditi dal giuramento di fedeltà al papa dava più che l'abdicazione ricusata non avesse potuto impedire.
Intanto re Ferdinando di Napoli, sollecitato dalla rovina delle finanze proprie e del regno nel mantenere su piede di guerra sessanta mila inutili soldati, e dalle istanze dei reazionari che lo circondano, urge Piemonte e Toscana perchè si uniscano con lui per abbattere la Francia. Napoleone, terrore epico e fantastico di tutti i principi italiani, è in Egitto, terra della morte: le sabbie del deserto hanno paralizzato lo slancio del suo esercito e ne saranno forse il sudario. Quindi Ferdinando, incuorato da promesse austriache e russe, chiama Mack alla testa del proprio esercito, e marcia su Roma. Championnet, sbandato negli accantonamenti d'inverno, non può vietargli l'ingresso: Ferdinando entra come un trionfatore nella città eterna, vi richiama il papa, e dall'alto del Campidoglio con voce di coniglio proclama all'Europa «che i re sono svegliati». Ma i nuovi crociati saccheggiano il Vaticano, indi fuggono col re prudentemente travestito dinanzi a Championnet pronto alla riscossa. Questi li perseguita, li sgomina, giunge per le campagne sollevate a furore regio e religioso dai preti sotto le mura di Napoli. Allora la corte, spogliati ladramente musei e banchi, fugge sul naviglio di Nelson in Sicilia, ove la popolazione, ingenuamente retriva e sempre nemica di Napoli per tradizione autonoma, li accoglie festosamente. L'anarchia insanguina Napoli assediata: la plebaglia incitata dai preti e fervida d'entusiasmo resiste all'invasione francese; la borghesia culta e fanatica di libertà arriva invece sino al tradimento patteggiando con Championnet: deliri e carneficine disonorano la difesa dei lazzaroni, che improvvisano un governo e un esercito con Michele lo Pazzo, nuovo e più eroico Masaniello. Ma la guerra civili fra rivoluzionari e regii apre le porte di Napoli a Championnet, che, affermandosi napoletano con scaltrezza politica, e dando una guardia d'onore a San Gennaro, seda prontamente gli umori feroci della plebe.
L'improvvisazione delle republiche cisalpina, cispadana e romana diventa a Napoli esplosione. Il popolo vi si mescola per l'abolizione di poche gabelle: si sciolgono subito i fidecommessi, i dominii feudali, le giurisdizioni e il satellizio baronali, i servigi di corpo, le decime, le caccie riservate, i titoli nobiliari; si correggono le banche. La republica partenopea, in questo maggiore delle altre, si dà una costituzione per la maggior parte opera di Mario Pagano, nella quale qualche cosa è salvata all'originalità paesana dalla imitazione francese; ma invece di sviluppare quanto restava di vitale nelle vecchie leggi e tradizioni, tutto viene abbandonato a chimere classiche. Si ristabiliscono i censori e gli efori, confondendo il principio di sovranità con quello di rappresentanza; si astrae da ogni realtà storica, si dimentica ogni immediata convenienza.
Il governo vi è poco più di un'accademia di retori e di filosofi sognanti e sottilizzanti all'infinito sui principii; ma vi brillano caratteri di splendore lirico e di purezza adamantina. Le feste vi si succedono colla rapidità delle leggi, mentre nè città nè campagne intendono nulla a questa republica; gli usi e le clientele feudali e clericali vi rimangono fiorenti, la barbarie irritata dall'antitesi del classicismo rivoluzionario sta per prorompere, gli interessi violentemente spostati si coalizzano e preparano armi omicide. Giammai più magico sogno ebbe più tragico risveglio, nè più miti e sereni rivoluzionari apparvero sulla scena storica per sparire nel turbine di una catastrofe. La republica partenopea pare un melodramma scritto per una accademia e invece recitato pel popolo da una compagnia di poeti e di scienziati. Solo forse fra tutti Melchiorre Delfico, che vi partecipò, seppe scriverne una critica mirabile di acutezza e di buon senso.
Ma intanto il direttorio, appesantendo la mano sulla republica partenopea, vi leva una contribuzione di ottanta milioni; indi spedisce Faypoult commissario contro Championnet, troppo mite, al quale finisce per sostituire Macdonald, precipitando il governo nella tristissima condizione di essere odiato dagli aristocratici, maledetto dal clero, biasimato dai democratici, oppresso dagli stranieri, con troppa libertà formale e troppo poca indipendenza politica, senza nè disciplina di partito, nè consenso di popolo, in faccia alla Sicilia fanaticamente reazionaria e aiutata da tutti i nemici della Francia. Ma questa, come consapevole dell'imminente reazione, affrettando l'unificazione dispotico-rivoluzionaria di tutta la penisola, aveva già costretto re Carlo Emanuele IV, assalito quasi contemporaneamente da sommosse giacobine e dalle republiche genovese e cisalpina, a cedere prima la cittadella di Torino, quindi ad abdicare. Re Carlo, meno abbietto ma non meno vile di re Ferdinando, dopo inutili ed umilianti querele aveva consentito l'abdicazione, consegnando prigioniero il suo ultimo ministro Priocca, feroce quanto onesto reazionario, e comandando persino ai piemontesi di ubbidire al nuovo governo. Poi giunto in Sardegna, fuori del tiro del cannone francese, ritirava la data abdicazione siccome impostagli dalla violenza, quasi che un re per timore della morte potesse abdicare in mani straniere senza consenso di popolo. Così sembrava allora finire ignobilmente la dinastia dei Savoia, guerriera e crudele, più fortunata nella duplicità che potente nelle armi; mentre il granduca Ferdinando III di Toscana, costretto dai medesimi procedimenti rivoluzionari a dimettersi senza avere nel trambusto disonorato il proprio governo con vane e sanguinarie reazioni, partiva da Firenze altero come un gentiluomo, e ricusando persino di portare seco una cassetta dei camei appartenenti al museo. Per una di quelle antitesi, che danno così spesso alla storia la vivacità di una commedia, il migliore dei principi italiani, il solo capace d'imporre rispetto ai giacobini coll'aristocratica nobiltà del carattere e coll'onesta intelligenza di governo era allora un austriaco! Lucca nei medesimi giorni era tolta alla propria decrepita aristocrazia dal generale Serrurier, e mutata in republica sovra il solito modello.
L'apparente risultato di questa prima rivoluzione era quindi di stabilire in Italia il governo democratico: tutti gli stati vi diventavano republicani. Dell'antica Italia dei municipi, delle signorie, dei principati, dei regni non restava più nulla.
Assetto rivoluzionario.
Un'altra èra incominciava. Milano a capo della rivoluzione era la capitale della cisalpina, che, fusa colla cispadana, comprendeva tutta la Lombardia austriaca coi ducati di Mantova, Modena e Massa, con Bergamo, Brescia, Crema, la Valtellina, le tre legazioni di Bologna, Ferrara, e dell'Emilia sino a Pesaro; Venezia, diventata provincia tedesca, aveva lasciato ai turchi e ai russi le sue ultime provincie ionie; il Piemonte si era volontariamente annesso alla Francia; Firenze, Roma, Napoli, Lucca saggiavano la propria republica. Ma nessuna era più stato nè possedeva vero governo. Un'antitesi irriducibile stava in fondo a questa rivoluzione, che dava la libertà e toglieva l'indipendenza, emancipava la coscienza e sopprimeva la personalità politica. Invano la cisalpina, avendo ottenuto un riconoscimento ufficiale dalla Francia, riceveva ambasciatori da tutta l'Italia, dalla Spagna e persino dal pontefice, cui aveva tolto parecchie provincie; il rifiuto dell'Austria a riconoscerla, perchè sottomessa alla Francia e difesa da un corpo francese di occupazione, svelava l'assoluta nullità della sua forma politica. Infatti appena fondata e riconosciuta, Trouvé giungendovi con mandato del direttorio ne rimutava la costituzione a forma più aristocratica, cacciando colle baionette i deputati dal consiglio; poi il generale Brune e Fouché la rimaneggiavano ancora nominando e destituendo.
La rivoluzione non era ancora che nelle idee, e così torbida che i migliori cervelli ne ammalavano. Tutta la storia e la tradizione italiana parevano dimenticate: si viveva nel sogno, nell'entusiasmo e nella cabala. I furbi arruffavano, i generosi s'infiammavano e s'impermalivano. Il popolo per tre secoli, sino dall'epoca delle grosse signorie, divezzato dal governo, non aveva nè concetti, nè carattere politico; l'inazione della lunga servitù e la passione della superstizione religiosa lo avevano paralizzato. L'improvvisazione confondeva tutti. Congegni amministrativi e municipali andavano rotti: impossibile rinsaldarli ai nuovi per ottenere il necessario giuoco meccanico. Le Provincie sconosciute l'una all'altra; nessun fatto comune fra loro se non questa conquista francese assurda nel suo dono della libertà, tirannica nell'imposizione della costituzione, spogliatrice per contribuzioni e rapine, labile e contraddittoria in tutti i provvedimenti. Non una città, un principio, una famiglia, un uomo che servisse di unità. Il popolo inetto ed inerte, al quale i preti solo potevano soffiare nell'orecchio parole capaci di farlo prorompere contro i francesi, come a Verona, a Lugo, a Pavia, in Piemonte, nel Napoletano; l'aristocrazia composta ancora di cicisbei e di cavalieri serventi, e solo spasimante di vanità e di privilegi; la borghesia chiusa nell'angustia dei propri negozi, o sbalestrata fuori di se medesima dal tumulto delle idee rivoluzionarie, senza nè ideali precisi, nè pratica alcuna di governo. Non si aveva nè il concetto della federazione, nè quello dell'unità; l'abitudine della servitù secolare toglieva l'idea e il carattere dell'indipendenza, mostrando nei francesi dei nuovi signori. Infatti il Piemonte, dopo un supremo tentativo del suo re per ottenere dal direttorio ingrandimenti in Lombardia, secondo la vecchia politica di Savoia, si era annesso alla Francia, e la cisalpina sfiduciata di se medesima stipulava col direttorio che ventimila francesi stanzierebbero sempre nella Lombardia per difenderla. Di libertà si declamava con fervore comico e sincero, con frasi classiche e giacobine, senza intendere nulla nè dei principii, nè degli ordini: v'era smania di emanciparsi dagli ultimi legami medioevali e dal dispotismo dei principi e dei papi, ma come per trarre l'ultima conseguenza del grande periodo anteriore delle riforme. I patrioti erano partigiani della Francia, i reazionari per contraccolpo difendevano la nazionalità; i liberali volevano la tirannide rivoluzionaria; i conservatori rievocavano il vecchio dispotismo colla prepotenza del suo ordine, nel quale le plebi godevano della più comoda e profittevole anarchia.
Quindi il problema italico non fu discusso in nessuna republica italiana. Milano non pose davvero la propria candidatura a capitale della confederazione o dell'unità. Roma non riapparve colla magia della sua eterna gloria, e malgrado la propria rivoluzione rimase sempre nel concetto di tutti come la città del pontefice; di Napoli lontana si parlava come di stato straniero; la Toscana gentile e quieta sembrò fra tanto frastuono affettare la compostezza. L'idea, il principio, l'unità nuova dell'Italia erano a Parigi; la negazione degli stati italiani anteriori non produceva novelle affermazioni: non si pensava all'indomani, alla catastrofe che potrebbe ingoiare tutti quei governi provvisori; non si proponevano leghe difensive, non si coordinavano armi e finanze. La cisalpina aveva un esercito proprio, ma ordinato da istruttori francesi e appartenente alla Francia.
Tranne la Sicilia e la Sardegna, rimaste fedeli ai loro re per gelosa rivalità di autonomia, nessuno degli stati e dei governi italiani aveva saputo trovare all'ultim'ora un sentimento o una idea per difendersi. Erano dunque finiti anche prima. Ma nulla di originale sorgeva dalle rovine.
L'Italia republicana non era che il fantasma del proprio cadavere regio, evocato dalla magica forza della rivoluzione francese.
Vi erano allora tre partiti: regio, democratico e nazionale. Il primo e più forte dei tre aveva le masse brute, capaci di sollevarsi per una strage, poi il clero, i vecchi governi colla loro tradizione e coll'organismo spezzato non morto, coll'odio allo straniero rapinante e col fanatismo religioso. Ma pronto per una reazione, associandosi alla prima coalizione europea, questo partito non aveva altro programma che il passato, altra idea che la negazione della rivoluzione. Quello democratico invece, tratto dal nulla e costituito signore officiale dell'Italia, aveva per alleato il direttorio, essendone fatalmente il servo. Le sue idee astratte e cosmopolite fuori della storia e della tradizione, senza abbastanza solidità o elasticità per il governo, non raggiungevano nè l'indipendenza, nè la libertà. Laonde pareva ai più composto di pazzi e di avventurieri, che, volendo rimutare istantaneamente tutto, riuscivano solo a tutto fracassare. Il terzo partito, nazionale, si era mostrato la prima volta (1796) nella Lega Nera, poi nel 1798 formò la Società dei Raggi: quindi, eletta sede a Bologna, stendeva le ramificazioni per tutta l'Italia. Era suo principale intendimento ottenere l'indipendenza d'Italia, subordinando il moto democratico all'ascendente di un patriziato republicano sull'antico stampo veneto o genovese; e perciò sorsero clubs antifrancesi a Napoli, in Lombardia e in Piemonte. Ma se la sua intenzione era giusta, il modo della sua idea s'imbrogliava nel passato. Un patriziato sul modello di Venezia e di Genova non poteva sorgere fuori di quelle republiche, e molto meno poi creare una nuova Italia, essendo esso medesimo piuttosto un effetto che una causa: d'altronde una novella aristocrazia rivoluzionaria e conservatrice, indipendente e liberale, senza una monarchia o una republica preordinata, era un altro fantasma, una rievocazione classica come tante dei giacobini. Così il partito nazionale, confessando da se medesimo la propria nullaggine, si nascose per operare nel mistero di una setta invece di agire apertamente e publicamente sulle masse; e più tardi, preso fra due fuochi, si disciolse per passare nelle file del partito francese, o peggio ancora in quelle del partito imperiale.
La reazione austro-russa.
Intanto una formidabile reazione si preparava entro la nuova coalizione europea.
La fortuna di Francia intristiva; il suo esercito e il suo miglior generale sembravano cercare inutilmente per l'Egitto e per la Siria le antiche orme di Alessandro Magno; i suoi soldati effettivi non erano più che centocinquantamila, le sue finanze erano esauste, le rapine nei paesi protetti non v'ingrassavano che gli amministratori; scarsa in tutti gli ordini la subordinazione, troppo viva la lotta tra esaltati e patriotti, generale la stanchezza della lunga rivoluzione e delle troppe guerre. Nullameno bisognava resistere a questa seconda coalizione. La linea di difesa dal Texel al Faro era forse la più lunga di tutta la storia moderna: Scherer comandava l'esercito d'Italia, Macdonald quello di Napoli, Massena quello di Svizzera, Jourdan quello del Danubio, Bernadotte quello sul Reno, Brune quello di Olanda.
Già al congresso di Rastadt alcuni ministri francesi erano stati proditoriamente massacrati da ussari austriaci. Suvoroff s'avanzava terribile nella Moravia; l'Inghilterra sublime nella tenacità dell'odio e dell'avarizia mercantile, gettava denaro e fiamme dovunque; l'Austria, condensandosi in uno sforzo supremo, muoveva 225,000 soldati, quantunque s'impedisse anticipatamente ogni vittoria legando colla pedanteria del consiglio aulico l'ingegno dei propri generali.
L'Italia regia e cattolica si risollevava.
Sino dallo stabilirsi della republica partenopea erano scoppiate tali ribellioni nelle provincie, che obbligarono il neonato governo a feroci repressioni: i francesi di Championnet riscuotendo le contribuzioni rubavano e maltrattavano; baroni, preti e corte aizzavano; ogni pretesto poteva d'ora in ora diventare causa. Infatti quattro fuorusciti còrsi, che si spacciano improvvisamente e impudentemente per principi borbonici, bastano a determinare una rivolta: il cardinale Ruffo, astutamente terribile come un condottiero del rinascimento, raccozza tosto alcune bande e sbarca in Calabria per ingrossarle in esercito. Campagne, città, villaggi, casolari tumultuano nel nome della religione, colla frenesia della morte. L'insurrezione diventa crociata, mescolando fanatismi e superstizioni di ogni sorta: il cardinale prodiga assoluzioni a tutti gli eccessi, stupra e benedice, incendia ed affoga: peggiore di lui, re Ferdinando nomina generali e chiama amici i capitani cannibali di quelle orde, mentre a Napoli i republicani divagano ancora nell'ideale. Ma l'insurrezione si propaga alla novella di tutta Europa congiurata contro la Francia; il direttorio, quasi per compromettere maggiormente la posizione della republica partenopea, dichiara i beni della corona di Napoli patrimonio della Francia. Fu l'ultimo tracollo. Invano due colonne di republicani si spiccano per la Calabria guidate da Giuseppe Schipani e da Ettore Carafa; più invano quest'ultimo moltiplica eroismi che lo assomigliano ad Aiace, giacchè la classica idealità e l'idillico platonismo del governo tolgono animo e forze ad ogni resistenza. La discordia sconvolgendo tutti i campi incrocia le scomuniche del cardinale Capece al cardinale Ruffo e di questo a quello; l'inane republica per sostenersi invoca fanciullescamente l'aiuto di Francia impegnata in ben altra contesa, e si espande in querele per l'abbandono. Ma l'esercito della Santa Sede, come la chiamavano allora, avanza raddoppiando di ferocia; Macdonald, richiamato in Lombardia per aiuto a Moreau già battuto a Cassano, ha il tempo appena di ributtare uno sbarco di anglo-siculi a Castellamare, e parte cedendo la republica alla morte. Tutto precipita intorno ad essa. Non armi, non denaro, non popolo, nullameno il governo invasato d'eroica teatralità dimentica ogni più volgare prudenza sino a respingere le assennate proposte del generale Matera per una sospensione della costituzione e per organizzare il Terrore. Si prosegue nelle feste e nelle declamazioni. L'enfasi tocca il grottesco per ridiventare sublime nel martirio: «pera la republica piuttosto che commettere una violenza», fu l'ultima formula del governo. E perì.
Congiure realiste vampeggiano a Napoli prima ancora che sia bloccata per mare e per terra: il direttorio dichiara la patria in pericolo e mette finalmente all'asta i beni della corona, ma per non trovare più che un solo compratore; Michele lo Pazzo, convertito alla repubblica, offre di armare ventimila lazzaroni, e il governo per timore di tradimento rifugge da questa suprema misura. Allora le bande calabresi, turche, russe, inglesi assaltano la città, conquistandola malgrado gl'incredibili eroismi dei difensori. Il presidio francese assiste inerte alla battaglia, inerte alla carneficina dopo la vittoria, inerte alla capitolazione, che la regina Carolina e Nelson violarono malgrado l'inopinata onorevole resistenza del cardinale Ruffo: quindi patteggia la propria resa consegnando ai borbonici i republicani napoletani militanti fra le proprie file. Trentamila persone furono imprigionate, trecento vittime illustri tratte al patibolo, sei mila republicani perirono tra le fila dei combattenti o tra i supplizi, sette mila sospetti vennero condannati all'esilio o costretti a salvarsi colla fuga. Si bandirono fanciulli di dodici anni, furono bruciati prigionieri per le piazze, venduta la loro carne, mangiata publicamente. Mario Pagano il maggior filosofo, Cirillo il miglior scienziato, Vincenzo Russo il più eloquente oratore, Caracciolo il più prode ammiraglio, Ettore Carafa il più prodigioso eroe, Eleonora Pimentel la più bella sibilla della republica, tutti perirono giustiziati colla sublime serenità di sognatori, che nemmeno lo spavento della morte poteva destare.
Poi su questa ruina ideale s'aggravò, immonda rovina, la restaurazione borbonica.
Intanto Macdonald accorse verso Lombardia al soccorso di Moreau, mentre intorno tutta la campagna napoletana arde e mareggia. Coll'esercito diviso in due corpi, egli si dirige rapidamente su Roma; costretto, saccheggia San Germano, brucia Isola; a Roma lascia artiglierie e salmerie, difilandosi rapido per la Toscana. Quivi pure la sollevazione regia e religiosa ha sconvolto Arezzo e Cortona. Macdonald prende questa, minaccia quella, ma incalzato dalle necessità sempre più urgenti di Moreau, si affretta a calare arditamente per la valle del Panaro. Era tempo ed era tardi. Moreau, riparato in Liguria per avere almeno libera la ritirata in Francia dal Colle di Tenda, era cinto dagli austriaci di Melas e dai russi di Suvoroff: tutto sembrava perduto per la Francia nell'alta Italia. Scherer, surrogato a Joubert sul principio della guerra e rotto due volte da Kray a Verona e a Magnano, aveva già dovuto cedere il comando supremo a Moreau, per fuggire fra le esecrazioni dei republicani. Moreau, raccattando l'impero sopra un campo di sconfitta e non riuscendo ad impedire la congiunzione di Suvoroff cogli austriaci, sconfitto da forze preponderanti a Cassano, era stato costretto ad abbandonare Milano ai vincitori e a riparare oltre il Po in Alessandria. Milano, invasa dai confederati, li aveva acclamati stordendoli di feste e di servilità: si erano cacciati, arrestati i republicani; si era invocata la ripristinazione della servitù austriaca con omelie e Te Deum, mentre d'un tratto di penna Francesco II condannava quattrocento giacobini a trascinare le navi alle bocche di Cattaro; primo martirio che doveva destare nella coscienza italiana l'odio di patria allo straniero.
In Piemonte sollevazioni sanguinarie avevano preceduto la conquista di Suwaroff; quindi Torino capitolava e il Fiorella, ultimo difensore della rocca, resisteva solo per soccombere onorevolmente.
Tutta la cisalpina e il Piemonte erano dunque perduti per la Francia e per la rivoluzione. I confederati avevano ripreso Roma scacciandone il generale Garnier; nella Toscana reggeva per il granduca, riparato a Vienna e riacclamato dalla plebe, un Sommariva.
Quindi il generale Macdonald, scontrati austriaci e russi alla Trebbia, mentre Moreau ingrossato di qualche aiuto mandava Victor a tendergli la mano, moltiplicando invano arte e valore, ne forza il passo in tre battaglie, e sempre sanguinosamente respinto, minacciato d'estrema rovina, con meravigliosa ritirata sfugge per la Toscana in Liguria. Il generale Moreau, costretto ad avanzarsi, solo, con mossa fortunata ed ardita libera Tortona dall'assedio; ma la fortuna francese ruina egualmente d'ogni parte. Tutte le fortezze capitolano; Joubert, rimandato generalissimo in Italia con nuovo esercito, è sconfitto ed ucciso alla prima battaglia di Novi; Championnet, che si accinge a vendicarlo, muore anche più infelicemente dal dolore di essere rotto; Mantova si arrende a Kray, Clément deve cedere Cuneo, Mounier perdere Ancona.
La ristorazione regia e religiosa è compiuta: solo il Piemonte e lo stato pontificio non vi si ricompongono nella vecchia integrità. Suvoroff, già risalito verso la Svizzera, dove l'indomabile Massena lo attende per distruggerlo, aveva indarno voluto ricostituire il Piemonte per ridarlo a Carlo Emanuele, sebbene questi con insigne viltà non avesse osato durante la guerra sbarcare dalla Sardegna per mettersi alla testa delle proprie truppe. Ma l'Austria, quasi sollecitata da tanta ignavia, aveva con astuta ingordigia sventato ogni disegno dell'onesto barbaro, badando invece ad occupare con uguale intenzione di conquista le tre legazioni della cisalpina. Così e colla Venezia, la Lombardia e mezzo il Piemonte avrebbe alzato contro Francia un baluardo imprendibile. Suvoroff, troppo ingenuo politicamente per comprendere tale giuoco, abbandonava quindi l'Italia, da lui riconquistata con effimere vittorie alla reazione europea, per vanire fra le grandi Alpi come un ciclone incomprensibile ed inutile.
Il moto republicano sembrava cessato.
Infatti se nella sua prima irresistibile espansione dovuta alle vittorie francesi il popolo si era appena mosso, ora invece si cacciava con impeto universale nella reazione provocata dall'Austria. Il grido di «morte ai giacobini» risonava per ogni dove; da Napoli i furori assassini si erano propagati ad Arezzo, a Cuneo, a Cortona, a Genova, alle Romagne, a Milano, a Torino, a Roma. I preti soffiavano, ma l'odio alla rivoluzione era istintivo nell'anima popolare. Le rapine e le taglie francesi sovra una nazione tanto abituata ai dolori delle servitù straniere non bastavano a spiegare l'unanime ferocia di quest'odio: il fervore della superstizione, giacchè vera passione religiosa in Italia non fu mai, poteva concorrere nella furia della reazione, ma era insufficiente a promuoverla. D'altronde la coscienza politica della moltitudine non aveva patito dai francesi violazione nè di nazionalità nè di libertà, mentre tutti i governi antecedenti non erano meno stranieri ed oppressori, e a Napoli s'aggravava la peggiore delle tirannidi, in Lombardia pesava l'Austria, in Piemonte gli ultimi re stringevano tutti i freni, e nello stato pontificio lo sgoverno dei papi sgomentava persino la servilità lodatrice degli scrittori.
L'unanimità delle violenze popolari era dunque prodotta dall'urto ideale della rivoluzione francese nella coscienza storica dell'Italia cristallizzata nelle forme monarchiche e papali. La condizione spirituale ed economica del popolo vi era infatti confortata dal lungo uso della servitù e dalla quiete egoistica, nella quale i governi lo lasciavano senza chiamarlo mai all'armi o costringerlo a faticare per le vie del progresso. E poichè l'abbiezione come ogni altro modo della vita ha i propri vantaggi, e crea col tempo abitudini ribelli ad ogni mutamento, una specie di benessere animale dava alla coscienza popolare l'illusione di una felicità, che nessun altro straniero o padrone avrebbero avuto diritto di turbare. Le catastrofi e le guerre immense della Francia per aver fatta la propria rivoluzione, ingigantite e falsate dai racconti di tutti, spaventavano il popolo. I giacobini italiani, costretti a violare ogni regionale individualità senza poter nemmeno accennare alla costituzione di uno stato libero ed uno, sembravano naturalmente pazzi e parricidi, giacchè il loro programma imponeva la guerra contro tutti, persino in casa; e il popolo non voleva battersi. La rivoluzione, concepita nella fatalità della propria idea e del proprio processo, significava un aumento di miseria per incalcolabili spese militari, e il popolo era anche troppo povero; significava l'abbandono della religione, giacchè il papa era contro la rivoluzione, e il popolo era superstizioso; significava un governo di borghesi arruffoni e venturieri, poichè i pochi buoni erano sconosciuti al volgo ignorante, e il popolo, padroni per padroni, preferiva gli antichi riveriti per tradizione e che sapeva fiacchi. Poi i principi per spingerlo alla reazione lo avevano sguinzagliato, lasciando libera carriera a tutti i suoi istinti bestiali, mentre i giacobini nella loro prima espansione non avevano parlato che di libertà e di ordine con frasi così classiche e con astrazioni così vuote che il popolo non vi aveva capito gran cosa. La sua coscienza politica non era ancora che napoletana, ligure, lombarda, toscana, veneta, così contornata e limitata da ognuno di questi stati frammentari che la necessità della loro federazione non avrebbe potuto essere intesa che dai principi, e quella più alta dell'unità offendeva mortalmente tutte le gelose individualità regionali. Così, quando alla prova dei fatti, unico argomento per la masse, i giacobini non seppero nè piantare governi liberi, nè attuare prontamente riforme sociali, che alleviando le miserie popolari convincessero le coscienze con un improvviso benessere; e le spese, e le taglie e tutti i mali della guerra crebbero sugli antichi dolori, il popolo, non vedendo nella rivoluzione che un peggioramento, insorse a brigantaggio intorno agli eserciti degli alleati che si battevano per i principi. Di questi nessuno seppe essere nè re, nè soldato, nè uomo. Il problema dell'unità e della libertà italica non esisteva ancora per il popolo.
I liberali furono compassionevoli per incapacità politica e per tragici martirii. Erano scienziati, artisti, belli spiriti, liberi pensatori, non concordi in una sola idea, non affratellati in un unico sentimento, non rannodati da alcun metodo. Servi quanto il popolo e dal popolo disertati, domandavano alla Francia l'unità, la libertà, l'indipendenza e quella personalità politica, che ognuno deve creare in se stesso; e poichè la Francia, dibattendosi essa medesima nell'antitesi dei propri dati rivoluzionari colle proprie tradizioni di conquista e colle necessità dei propri interessi immediati, non poteva concedere una costituzione senza violarla considerando fatalmente i paesi liberati come soggetti, i giacobini italiani strillavano all'abbandono e al tradimento. Avrebbero voluto tutto senza far nulla: stipulavano un presidio francese nella cisalpina invece di attuarvi la coscrizione come in Francia; a Napoli ricusavano d'armare i lazzari volonterosi e invocavano dal direttorio un esercito; le poche legioni lombarde unite a Scherer nel primo scoppio della reazione furono insignificanti di opere e di aiuto, le liguri mandate da Moreau verso Macdonald alla Trebbia furono disperse al primo urto; Lahoz, il miglior generale italiano nella patria dei più grandi generali del mondo e nel paese che aveva vissuto dieci secoli di guerra e per la guerra, passò prontamente e senza gloria dai rivoluzionari agli imperiali. L'altro generale italiano, Pino, che lo prostrò in uno scontro ariostesco all'assedio di Ancona, era egli stesso guerriero di scarso valore. Non un diplomatico o uno statista apparve nelle tante republiche improvvisate, che richiamasse la gloria politica del medio evo e del rinascimento. Rivoluzione e reazione rimasero allo stesso livello intellettuale; la viltà dei principi fu compensata dalla declamatoria insufficienza o dall'inutile solitario eroismo dei rivoluzionari.
Era e doveva essere uno sfacelo.
Bisognava che i principati e i regni sorti dal rinascimento cadessero, mentre le improvvisazioni rivoluzionarie incomprese dal popolo fallivano come i tentativi isolati dei pensatori e degli scrittori nel periodo antecedente. L'Italia, troppo più addietro della Francia nel corso politico, guadagnava però in tale trambusto la doppia coscienza dell'esaurimento del proprio passato e della necessità di un futuro diverso. I principi reintegrati non potrebbero più ottenere il cieco rispetto di prima, poichè nessuno crederebbe più alla loro stabilità dopo così facile caduta; i republicani, cacciati dalla reazione e ospitati in Francia, vi stringerebbero nella umiliazione di quella sconfitta la prima lega nazionale. Infatti il loro manifesto squillante di rettorica al direttorio, affermando la libera unità d'Italia e invocandola ancora puerilmente dalla Francia, non parlava più di unità cisalpine o partenopee. Fra la ruina dei principati solo il papato risorgeva più idealmente vigoroso. Se come regno la sua decadenza era pari a quella dei Borboni e dei Savoia, avendo col trattato di Tolentino abbandonato parte delle proprie terre e permesso coll'enciclica di Pio VI ai romani di giurar fede alla republica, e nella furia della reazione invocati russi e turchi, benedetti i cannibali di Ruffo e di Branda-Luciani, approvata lo superstizione che nominava sant'Antonio protettore di Napoli contro san Gennaro reo in faccia al popolo di avere compito il proprio miracolo del sangue per ordine di Championnet; nullameno era stato l'unità e la forza spirituale della reazione. Tutti i principi lo sentivano e piegavano innanzi ad esso. Re Ferdinando di Napoli poteva nella stupidità della propria natura pretendere come l'Austria a conquistare qualche terra papalina dal proprio canto, entrando la seconda volta a Roma per cacciare il generale Garnier, ma il papato lo dominava nella persona del cardinale Ruffo. La lotta dei principati contro la chiesa nel periodo delle riforme s'investiva in un'alleanza di quelli con questa contro la rivoluzione. Scienza e filosofia dovevano quindi gettare la maschera per passare francamente nel campo democratico. D'ora innanzi il papato, traendo dalla accettata infallibilità dei propri dati religiosi argomento per la verità del proprio assolutismo politico, sarebbe la suprema forza ideale dei principi italiani contro l'unità e la libertà d'Italia; ma, rovesciato al pari di loro dalla rivoluzione republicana, dovrà essere una seconda volta soppresso con loro dalla rivoluzione imperiale di Napoleone, per perdere nella coscienza italiana ogni valore storico e sparire per sempre entro la formazione di una terza Italia.
Capitolo Secondo. Fine delle republiche
Il Consolato francese.
All'eco dei disastri francesi Bonaparte vincitore ad Aboukir abbandona l'esercito d'Egitto, approda a Fréjus con quasi tutto lo stato maggiore e si difila su Parigi. L'entusiasmo scoppia sotto i suoi piedi. Il direttorio, nonchè processarlo quale disertore, lo accoglie come un padrone cui tutti anelano di sottomettersi: i Bruti come ad un Cesare col quale risalire al potere, i moderati come ad un forte capace d'infrenare finalmente la demagogia, i realisti come ad un futuro Monk, i disimpiegati e gl'intriganti come al più fortunato dei venturieri, i soldati come al prediletto della vittoria. I generali, quasi paladini di nuovo ciclo romanzesco, gli si stringono intorno: Fouché, il più terribile politico, e Talleyrand, il più duttile diplomatico fra i giacobini, gli si offrono; questi lo concilia con Sieyès daccapo invocato oracolo di nuova costituzione. Così il miglior teorico e il maggior soldato della rivoluzione si accordano ad abbattere il direttorio e ad emanare la costituzione dell'anno VIII. Da essa, attraverso inutili complicazioni di liste dipartimentali, comunali e nazionali, di un consiglio di stato che proponeva le leggi, di un tribunato che le discuteva, di un corpo legislativo che le votava mutamente, di un potere esecutivo affidato a un grande elettore vitalizio, specie di re costituzionale moderno e di idolo indiano, sorge vivo e forte il consolato. Sieyès, sorpassato, si ripiega silenziosamente sul senato; Bonaparte, primo console, ottiene più che una dittatura. Quindi collocatosi al centro dei partiti, li neutralizza abilmente consolando la stanchezza generale della lunga anarchia colla visione dell'unità. Limita il numero dei giornali, rinsalda la sbranata amministrazione comunale entro circoscrizioni prefettizie ubbidienti ad ogni impulso del gabinetto centrale, ricostituisce nel nuovo dispotismo democratico la gerarchia del merito concentrando tutti gl'ingegni intorno a se medesimo, deporta senza processo i più accaniti giacobini, schiaccia e placa la Vandea, doma le fazioni, mette l'uguaglianza nelle leggi e nelle loro applicazioni, consentendo alle inevitabili differenze naturali e storiche della società; finalmente, con suprema abilità di conciliatore, adula l'instituto e decreta pompose onoranze funebri a Pio VI morto esule a Valenza.
Oramai tutti respirano: al terrore del Terrore succede un'esplosione di giocondità che circonda Bonaparte di un'aureola meno fulgida e più cara dell'altra gloria.
Battaglia di Marengo.
Ma quantunque Massena e Brune abbiano già salvata la Francia, quegli sconfiggendo Suvoroff nella Svizzera e questi costringendo gli anglo-russi a capitolare in Olanda, dietro continue invocazioni di pace il nuovo console non bada che ad allestire la guerra. Siccome il supremo grado politico gli vieta il comando degli eserciti, Bonaparte nomina pro forma generalissimo Berthier e con trentacinque mila coscritti emula Annibale al passaggio del San Bernardo. L'impresa di tale valico era così temeraria che Napoleone, avvisandone clamorosamente l'Europa, ingannò tutti col dire la verità. Melas, che s'accaniva intorno alle possibili discese in Liguria, non vi credette e lasciò sguernite Alpi e Lombardia. La guerra mutava. L'eroico Massena, mandato innanzi da Napoleone per la riviera di ponente contro Melas, mentre Moreau penetrando nella Germania contro Kray passava già vittoriosamente il Danubio, aveva resistito più che umanamente entro Genova per dare al primo console il tempo di varcare le Alpi; e mal domo dalla fame conchiudeva col nemico superiore non vincente una capitolazione, che volle con epico orgoglio chiamata solamente convenzione. Per essa usciva da Genova intatto coll'onore delle armi, mentre Melas, superbo di aver vinta la guerra, aveva appena il tempo di voltarsi al clamore di Napoleone entrato in Milano. Il vecchio generale austriaco, che l'aspettava ingenuamente a Ventimiglia, tardi pentito s'affretta intrepidamente alla battaglia; la presa di Piacenza operata con fulminea rapidità da Murat, tagliando in due l'esercito imperiale, non lo sgomenta; ma Bonaparte, rinfiancato dalle artiglierie trovate in Milano, con maggior ardimento lascia scoperta la Lombardia per correre sul nemico nelle pianure del Piemonte. La battaglia divampa a Marengo così fiera tra i veterani imperiali e le reclute francesi che queste ormai piegano sotto il loro terribile sforzo, quando Desaix tragicamente fortunato arriva a rinforzo e muore strappando ai tedeschi la vittoria.
Questa rotta costerna sì fattamente gli austriaci che cedono tutte le fortezze pur di ritirarsi a Mantova, curvi sotto la sprezzante meraviglia dell'Europa per tanto avvilimento: ma poichè Francesco II, trattando contemporaneamente della pace con Bonaparte e con Moreau, tergiversa sino ad arrestare slealmente l'ambasciatore francese e ad accettare 62,000,000 di sussidi dall'Inghilterra, Napoleone riprende sdegnato la guerra iniziando la famosa campagna d'inverno terminata in venti giorni. Augereau è sul Meno. Moreau sull'Inn, Brune sul Mincio; Macdonald, rivaleggiando con Napoleone, si spicca da Moreau con quindici mila uomini e traversa lo Spluga per formare l'ala sinistra dell'esercito d'Italia. Quindi Moreau annichilendo a Hohenlinden l'arciduca Giovanni e Brune ricacciando Bellegarde dal Mincio, fiaccano, l'orgoglio di Francesco II, che colla pace di Lunéville (1801) subisce presso a poco le condizioni del trattato di Campoformio.
L'Italia ritorna sotto il protettorato francese.
Bonaparte vincitore ripristina la republica cisalpina, creandovi una consulta con podestà legislativa e una commissione di governo con potere esecutivo, entrambe sottomesse a Petiet ministro straordinario di Francia. Quindi riapre l'università di Pavia chiusa dai sospettosi tedeschi, piaggia i dotti, accarezza gli aristocratici; questa volta le sue intenzioni sono così mutate da quelle della prima campagna del 1796 che i democratici, trascurati o reietti, sono forzati di accorgersene, ma, incapaci di un qualunque riparo, avvallano più profondamente in questa nuova contraddizione. Dalla cisalpina tornando prontamente in Francia, il console per rispetto di Paolo I di Russia, ostinato protettore del Re di Savoia, lascia in sospeso la riorganizzazione del Piemonte. Veramente dopo la vittoria di Marengo aveva proposto a re Carlo Emanuele di ritornarlo in seggio se rinunciasse Nizza e Savoia alla Francia; ma questi, che prima aveva abdicato per timore, sicuro in Sardegna, si ricusò ai pericoli di un simile ritorno e nemmeno volle discutere la nuova offertagli cessione di tutta la cisalpina. Le condizioni del Piemonte, economicamente tristissime, peggioravano in questa suprema incertezza di governo, che permetteva agli amministratori e ai generali francesi ogni sorta di eccessi. Cresceva la confusione dei partiti: chi voleva essere francese, chi italiano, chi piemontese; gli aristocratici rimanevano bigottamente col re, i democratici si laceravano mutualmente. Intanto Napoleone, modificando ancora le proprie intenzioni, cedeva per consiglio di Prina tutto il Novarese alla cisalpina.
A Genova, sottomessa da Melas ad una reggenza imperiale e reale, si costituivano come nella cisalpina una commissione e una consulta sotto al ministro straordinario generale Dejean; Modena annessa alla cisalpina aveva pel trattato di Lunéville ceduto alla Brisgovia il proprio duca; Parma invece ingrossava il proprio con tutta la Toscana sino a farne un re d'Etruria. Con questo titolo l'infante di Spagna e duca di Parma doveva difendere l'Italia centrale e specialmente Livorno dagli assalti inglesi; ma questi si spense ben presto, e la reggenza assunta da Luisa di Borbone pel figlio giovanissimo Carlo Lodovico vi era regolata dispoticamente da Murat. La pronta ed esemplare punizione di Arezzo aveva già tolto alla Toscana il mal vezzo di scannare proditoriamente i francesi, acclamando i tedeschi come liberatori.
Napoli rimasta sola alla guerra dopo il trattato di Lunéville e minacciata da Murat con grosso esercito, non ebbe altro riparo che il solerte ingegno della regina Carolina, la quale, recatasi a Pietroburgo, ottenne per l'intercessione di Paolo I pace dal console. Ne furono condizioni lo sgombro dei soldati regi da Roma, la chiusura di tutti i porti agl'inglesi, la cessione di Portolongone e di Piombino alla republica francese, lo stanziamento di due grossi presidii francesi negli Abruzzi e nelle Calabrie.
Il Concordato.
A miglior fortuna invece sembrava risorgere il papato. Morto Pio VI nel Delfinato e radunatosi all'ombra labile delle bandiere tedesche il conclave in Venezia, venne eletto Barnaba Chiaramonti, già vescovo d'Imola, uomo di buoni costumi e di miti propositi. L'Austria, per l'assurdo diritto di veto concesso dal papato alle tre grandi potenze cattoliche, diede l'esclusione al filosofo Gerdil, e, fissa nell'idea di ulteriori conquiste, mirava ad impedire il ritorno a Roma del nuovo papa. Pio VII invece vi si affrettò, accolto dai romani come liberatore. Quindi ristorò le finanze comunali, trasferendo molti loro debiti alla camera pontificia; abolì parecchie gabelle privilegiate; creò due tasse, l'una reale e l'altra dativa: quella conteneva fra le altre una contribuzione di valimento per la sesta parte di tutte le rendite sopra coloro che le consumassero fuori di stato, questa manteneva ancora le gabelle del sale obbligatorio e del macinato. Pei beni ecclesiastici venduti cassò la vendita, salvando ai compratori il rimborso del quarto.
Ma un nuovo accordo del papa col primo console doveva rinnovare improvvisamente il prestigio del papato. Affogatasi la rivoluzione in quell'orribile mareggio di sangue che aveva allagato mezza Europa, e cominciata la reazione conservatrice col trionfo di Bonaparte, questi, fatto l'animo a maggiori grandezze, comprese tosto la necessità di un componimento con Roma. Già negli spiriti rifioriva il sentimento religioso, atteggiandosi nella letteratura con nuove forme romantiche; erano cessate le persecuzioni, emigrati e preti venivano riammessi, surrogandosi per questi ultimi il giuramento civico con una semplice promessa; il bisogno del culto e della pace religiosa cresceva tutti i giorni. Accordandosi con Roma, la rivoluzione trionfava una seconda volta della monarchia, alla quale non era rimasta altra forza che la devozione di alcune campagne.
Così Bonaparte, che tre giorni dopo la vittoria di Marengo ne aveva fatto parola col cardinale Martiniana, rinnovò abilmente le pratiche, blandendo la vanità del pontefice e minacciandolo al tempo stesso con un concilio nazionale di vescovi giurati, da lui medesimo adunato in Parigi. Roma, desolata per la sospensione di ogni culto cattolico in Francia, si vedeva minacciata da un nuovo scisma gallicano, nel quale la maggior parte dei credenti francesi avrebbe potuto gittarsi, trascinando coll'esempio l'Italia ridotta a potestà di Napoleone e già da gran tempo inquinata di giansenismo. Il moto, provocato dal Ricci vescovo di Pistoia, erasi piuttosto allentato che estinto: Degola, Palmieri, Zola, Tamburini, Gauthier, Vailna, combattevano ancora per simile dottrina; alcuni vescovi italiani, come il Solaro di Novi, parlavano perfino di aderire al concilio parigino. Roma piegò. Il cardinale Consalvi, l'arcivescovo di Corinto e il teologo Caselli trattarono a Parigi del concordato con Giuseppe Bonaparte, Cretet e Bernier curato di San Lodo. Le condizioni gravissime per Roma ribadirono molte delle vecchie contraddizioni politiche e religiose del papato. Questo concedeva al governo francese di regolare l'esercizio del culto con norme di polizia, riconosceva le nuove circoscrizioni rivoluzionarie delle diocesi e i vescovi nominati ad esse dal console, imponeva le dimissioni ai vescovi profughi che avevano nobilmente ricusato di giurare, ordinava a tutti i vescovi di non eleggere a curati che persone ben accette al governo; ogni alto e basso funzionario ecclesiastico doveva giurar fede alla republica; si riconoscevano al primo console tutti i diritti e le prerogative degli antichi re cristianissimi; si assolveva finalmente la vendita dei beni ecclesiastici. Per questo articolo gli scrupoli di sua santità furono maggiori che per tutto il resto, ma gli argomenti usati dall'Albani e dal Merenda per vincerli rivelarono colla loro casistica sottigliezza l'inanità della sua coscienza politico-religiosa. I due teologi infatti poterono persuadergli che, con la promessa di non molestare nel possesso i compratori di tali beni, ne conferiva loro immediatamente la proprietà invece di riconoscerla come un fatto giuridico anteriore. Ma riconquistando la Francia al cattolicismo e patteggiando così col primo console, il papato acquistava un'importanza politica che lo rimetteva alto sull'Europa. Il vecchio principio monarchico rappresentato dalla famiglia del re decapitato soccombeva daccapo al principio ieratico di Roma, mentre la rivoluzione stessa, costretta ad entrare attraverso il consolato nella forma imperiale per organizzare le proprie idee, sembrava nuovamente sottomettersi alla più antica autorità religiosa contro la quale era insorta. L'avvenire era dunque signoreggiato dal cattolicismo come il passato. Roma imperava; Napoleone dopo tante vittorie rivoluzionarie doveva ripristinare il regno e capitolare col pontefice per fondare il proprio governo. Il fatto pareva ed era enorme. Non si vedeva allora che il papato separandosi dal principio monarchico si suicidava, per non rimanere che un semplice pontificato religioso. Ma Napoleone, che, confessando contro i giansenisti la propria ammirazione per la podestà unica ed universale del papato, aveva già scoperte le proprie tendenze all'impero, si affrettava a conquistarlo coll'aiuto morale di Roma. Tutto gli giovava, lo splendore di tante vittorie, l'improvvisa irresistibile fortuna, il codice promulgato, il governo assodato, la pronta ed uniforme amministrazione, la stessa tradizione monarchica e l'oscura necessità della rivoluzione di contraddirsi nella forma imperiale per conquistarvi l'unità indispensabile ad una lotta decennale contro l'Europa. L'Inghilterra, rimasta ultima nella guerra, rovesciava Pitt e piegava alla pace di Amiens; Paolo I di Russia, supremo ostacolo per l'annessione del Piemonte alla Francia, moriva strozzato dai satelliti di suo figlio Alessandro. Quindi Napoleone, con un decreto antidatato per nasconderne al nuovo czar l'impertinenza, annette immediatamente il Piemonte alla Francia, dividendolo in sei dipartimenti; e blandisce la vanità del giovane imperatore, pregandolo di associarsi a lui per dare finalmente pace al mondo travagliato.
Saliceti, secondo ordini segreti, riforma daccapo Lucca con più aristocratica costituzione e ne reca il governo in mano ai più grossi proprietarii e negozianti; Moreau di Saint Méry viene mandato a reggere Parma scaduta alla Francia per la morte del duca Lodovico.
Consulta di Lione.
Riconciliatosi col papato, vinta l'Austria, adescato lo czar, pacificatosi coll'Inghilterra, adorato dall'esercito e dal popolo, Napoleone si servì astutamente dell'Italia per saggiare in Francia i primi effetti d'un'apparizione imperiale. Laonde, fingendo di cedere a supplicazioni di popoli italiani, convocò a Lione una consulta straordinaria per dare stabile ordinamento alla cisalpina, facendone al tempo stesso un vero stato e un forte baluardo contro l'Austria. Vi convennero rappresentanti di tutte le città allora affratellate, e ne uscì senza discussione, perchè imposto dal console e vegliato da Talleyrand, uno statuto col quale si stabilivano tre collegi elettorali permanenti e a vita completantisi da se medesimi: cioè trecento grossi proprietari, duecento grossi negozianti ed altrettanti letterati. Era ufficio loro nominare i membri della censura, della consulta, del corpo legislativo, dei tribunali, della camera dei conti: i possidenti dovevano sedere a Milano, i commercianti a Brescia, i dotti a Bologna. Come magistrato supremo, la censura composta di nove possidenti, di sei dotti e di sei commercianti sedeva invece a Cremona, adunandovisi cinque giorni dopo lo scioglimento dei collegi e sciogliendosi dieci giorni appresso. Il corpo legislativo non poteva nè proporre nè discutere, ma solo squittinava. Era unica religione la cattolica, e con incredibile regresso venivano ripristinati i fori ecclesiastici. Presidente per dieci anni, rieleggibile, quindi a vita, Bonaparte; vice-presidente Melzi.
Era una creazione dispotica con governo dittatoriale: di sovranità popolare, di elettorato, d'indipendenza e di libertà nemmeno un cenno. Ma a questa mostruosa republica, campata fuori della storia e del diritto come un'assurda transazione fra la rivoluzione e l'impero, la conquista e l'autonomia, si appose il nome di italiana. Questa grande parola, finalmente pronunciata, compensava col proprio valore ideale tutti gl'inevitabili e inestricabili errori dell'opera.
Bonaparte stava lontano, Melzi presente si obliava nella pompa della propria carica: il ministro Prina rinsanguava le finanze, si sviluppavano le armi, si cassavano gli ultimi privilegi aristocratici, si favorivano gl'ingegni, crescevano le speranze di vera indipendenza, quantunque represse dal governo ligio agli ordini del primo console. Molti furono carcerati per ciò solo che parlavano troppo di libertà. Intanto il nuovo benessere materiale aumentava, giustificando in parte le impudenti adulazioni di tutti gli scrittori al nuovo padrone. Naturalmente Genova, fra il Piemonte divenuto provincia francese e la recente republica più napoleonica che italiana, dovette riformarsi, supplicando con servile ipocrisia il primo console a darle nuova costituzione. E la grazia fu concessa, e la costituzione fu coi tre collegi dei possidenti, dei negozianti e dei dotti, che rappresentavano sovranità ed elettorato con un senato di trenta membri ed un doge eletto per sei anni: i distretti nominavano le consulte giurisdizionali, e queste eleggevano i membri della consulta nazionale. Il protettorato francese stava al disopra di tutto, e più alta di esso la volontà del primo console.
Mentre gli aristocratici, lusingati con ogni maniera di uffici, aderivano in massa al nuovo regime, e i democratici, spesso carcerati od espulsi, vedevano vanire sotto la prepotente ingerenza dei proconsoli di Bonaparte il proprio sogno di una vera republica italiana, re Carlo Emanuele di Savoia, ramingo per l'Italia in preda a nere malinconie, abdicava davvero il perduto regno al fratello Vittorio per consacrarsi tutto alle pratiche religiose, e Murat scacciava con tirannica crudeltà dalla Toscana i proscritti napoletani. La restaurazione napoleonica pigliava l'andatura di tutte le altre: si ordinava a Soult, accantonato sul Tronto, di condurre l'esercito a messa nelle domeniche: si ricercavano fra le macerie della rivoluzione e il disordine di tutti quei governi e quei costumi improvvisati i resti dell'antico rispetto all'autorità, invocando Dio e incensando il papa, distinguendo i marchesi e dispettando ogni uomo di carattere, abituando al dispotismo coi benefizi dell'uniformità amministrativa e dell'uguaglianza legale.
Ma la segreta dialettica della rivoluzione incalzava il consolato all'impero, costringendo Napoleone a farsi gridare imperatore.
Capitolo Terzo. I regni francesi in Italia
L'impero francese.
Da console vitalizio ad imperatore il passo non parve enorme, poichè l'elezione plebiscitaria, per quanto equivoca nel modo, salvava la democrazia, e la rivoluzione, uscendo dal costume, restava nelle leggi. Pio VII, sempre rimorchiato da tutti i grandi avvenimenti, venne sino a Parigi per incoronare il nuovo imperatore nella chiesa di Nostra Donna (1804), rinnegando così l'antica monarchia del diritto divino. I Borboni adunati a Colmar per protestare vi gettarono invece le basi di un sistema rappresentativo da concedere alla Francia quando cadesse Napoleone, senza accorgersi di uccidere così una seconda volta il proprio principio tradito dal papa. Plebe e soldati esultavano, l'Europa ammirava ed armava, l'Italia al solito invitava. I delegati della republica italiana andarono a Parigi per scongiurare Napoleone a ridurli sotto la propria monarchia, cingendosi la corona ferrea; ed egli, incalzato dai ricordi di Carlomagno, ridiscese a Milano con un esercito di cortigiani fra gli osanna del popolo. Si disse allora che, strappando di mano all'arcivescovo Caprara la corona, mentre questi si disponeva ad incoronarlo, e calcandosela alteramente sul capo, Napoleone esclamasse minaccioso: «Dio me la diede, guai a chi la tocca!» Lirica sfida che la storia contemporanea raccolse, e alla quale la storia posteriore non credette.
Nullameno una specie di regno d'Italia era fondato: Eugenio di Beauharnais, figliastro di Bonaparte, vi dominava vicerè; il ducato di Parma vi diveniva semplice dipartimento, la republica di Genova colla solita forzata spontaneità vi si annetteva, Lucca e Piombino costituivano un principato per Elisa e Felice Baciocchi, che doveva presto assorbire tutta la Toscana. Intanto l'Europa eccitata dall'Inghilterra, spergiura alla pace d'Amiens, e alla quale Napoleone aveva già risposto coll'insensata minaccia del campo di Boulogne, preparava contro di lui una terza coalizione. Austria, Russia, Napoli, Svezia, Turchia risorgono a difesa del diritto publico europeo conculcato dall'usurpatore; Pitt è il tesoriere della nuova guerra, la Russia forma il retroguardo dello immenso esercito. Ma Napoleone, sollecitato da Fouché ad una pronta vittoria, viola con incredibile temerità il territorio prussiano, piglia il generale austriaco Mack alle spalle, lo chiude in Ulma, lo fa prigioniero, marcia su Vienna, vi penetra, emana decreti dall'imperiale Schönbrunn. L'arciduca Carlo, incalzato da Massena vincitore a Caldiero, si ripiega invano sull'Austria, giacchè l'esercito italico, congiuntosi con quello di Napoleone, prostra ad Austerlitz con maggiore vittoria tutta la massa degli austro-russi.
L'Austria fiaccata patteggia a Presburgo (1805), abbandonando il regno d'Italia, la Venezia, la Dalmazia e l'Albania; la Russia retrocede, la Prussia scende a nuove cessioni, i Borboni di Napoli allibiscono. La regina Carolina, che vantavasi ancora impudentemente di avere ingannato Napoleone con una finta neutralità, resiste sola fra lo sbigottimento generale. All'annunzio della battaglia di Austerlitz e del decreto di Napoleone che annunciava al mondo: «i Borboni di Napoli hanno cessato di regnare», gli inglesi e i russi sbarcati nel regno per difenderlo si ritirano, il re preparandosi a fuggire ordina ai generali di morire piuttosto che cedere una sola fortezza, la regina ostinata all'ultima resistenza è travolta dalla fuga generale. Giuseppe Bonaparte, nominato da Napoleone re di Napoli, si avanza con Saint-Cyr e Massena. Tutto piega; Gaeta sola resiste, intanto che gl'inglesi occupano Capri, e la regina riparata in Sicilia scatena le vecchie bande di Rodio e di Fra Diavolo sul continente. Ma i tempi sono mutati: l'entusiasmo superstizioso ed anarchico della prima reazione non si rinnova.
Appena insediato, Giuseppe Bonaparte, piuttosto ministro di Napoleone che re, ordinava il regno alla francese tra le feste solite in Napoli per tutti i conquistatori. Stabiliva ministeri e consigli di stato, aboliva ventitre tasse indirette per sostituirvi la fondiaria senza esenzioni, ma purtroppo senza catasto; dava a censo il Tavoliere delle Puglie, toglieva giurisdizioni feudali e privilegi di nobili, svincolava fidecommessi, aboliva conventi, disciplinava la publica istruzione, sistemava giuoco e prostituzione, illuminava le strade, ne apriva di nuove. Il codice di Napoleone, quantunque senza giurati e con tribunali d'eccezione in quel primo trambusto, recava un indicibile miglioramento alla giurisprudenza e alla giustizia, semplificando ed irrobustendo l'amministrazione.
Ma il regno era sommosso da congiure e da insurrezioni. Carolina da Palermo e Saliceti primo ministro da Napoli combattevano un'orribile guerra di agguati e di assassinii; le bande dei briganti pullulavano; l'inglese Sidney Smith, sbarcato nel golfo di Sant'Eufemia, sconfiggeva il generale Regnier a Maida; Massena stesso, malgrado il terrore del proprio nome, non giungeva a quietare le Calabrie. Re Giuseppe poco amato e niente stimato, perchè fatalmente sottomesso ai voleri di Napoleone, non soddisfaceva ad alcun partito; la necessità delle feroci repressioni governative giustificava le crudeltà efferate del brigantaggio regio; la terribile dichiarazione di Napoleone: «i popoli di Napoli e di Sicilia sono caduti in poter nostro per diritto di conquista e come formanti parte del grande impero», neutralizzava tutti i benefici del nuovo regime. Se la memoria della teatrale ma nobile republica partenopea s'indeboliva nel popolo, il nuovo dispotismo faceva amare l'antico pieno di privilegi per tutti: il sentimento nazionale resisteva validamente alla minaccia di una francesizzazione, che avrebbe fatto discendere Napoli a grado di lontana e smembrata provincia francese. Ma come tutte le sventure dovessero raddoppiare di dolori in quella tragica transizione, la regina Carolina insaniva sui fedeli siciliani, spremendo loro ogni denaro, violando le loro antiche immunità parlamentari e sacrificandoli ai cortigiani fuggiti da Napoli. L'attitudine alle idee moderne imposte dalle armi francesi era dunque molto minore nelle Due Sicilie che nell'alta Italia, a giudicare dalla facilità onde questa si era sottomessa al governo napoleonico, e dall'entusiasmo col quale la sua miglior gioventù entrava nell'esercito del nuovo regno per partecipare alle guerre europee. Anzi le differenze storiche e politiche fra queste due massime parti d'Italia, specialmente nel grado e nella diffusione della cultura, vigoreggiavano talmente che una fusione di Napoli con Milano sarebbe parsa ad entrambe una conquista, e Napoli vi si sarebbe sentita degradare. Ma così grande fatto era impedito sopratutto dallo stato pontificio, che avrebbe tagliato in due il regno italico, e dal problema di Roma inevitabile capitale d'Italia, prima ed ultima condizione di una ricostituzione nazionale. La disperata resistenza delle Calabrie e l'indomabile perfidia della corte borbonica, discordi nel sentimento per quanto unite nell'intenzione contro lo straniero, non potevano quindi giungere a risultato di sorta perchè entrambe fuori dalla storia: il dispotismo regio, siccome contrario al diritto moderno, la ribellione popolare, siccome tendente a difendere in Napoli l'antica idea federale, mentre tutto quell'incalzare di mutamenti serviva a cancellare i confini e a sopprimere le differenze dell'antica federazione. Così il partito democratico, per giusto ed insieme erroneo odio allo straniero, ritornando a Ferdinando di Borbone per evitare Giuseppe Bonaparte, si suicidava nella più dolorosa contraddizione, per risorgere più tardi nella negazione d'ogni piccolo stato italiano entro la grande ideale repubblica di Giuseppe Mazzini.
Allo sbaraglio di questa terza coalizione europea il regno d'Italia comprende ormai tutta l'Italia superiore; la Toscana e lo stato pontificio stanno per sparirvi, quello di Napoli non appartiene che formalmente a Giuseppe Bonaparte; solo la Sicilia e la Sardegna restano a testimonio degli antichi stati italiani, ma sotto un protettorato inglese che ne viola la libertà e ne compromette l'indipendenza peggio dell'unificazione napoleonica.
Quarta e quinta coalizione europea: 1807-1809.
A questo punto le segrete e trascendenti necessità della rivoluzione francese in Europa sembrano spingere Napoleone alla follia. Il demone della guerra lo attira a nuovi campi di battaglia, che coll'apparenza d'un disastro per le nazioni vinte non daranno alla Francia alcun vantaggio positivo. Così dopo aver sovvertito col trattato di Lunéville dalle basi la costituzione dell'impero germanico, Napoleone ne cancella persino il nome e sostituisce il protettorato francese alla supremazia dell'Austria. La nuova confederazione del regno sbozzata da Talleyrand sottomette la vecchia confederazione tedesca all'impero francese con un'alleanza nella quale Napoleone è padrone. Se il trattato di Lunéville aveva secolarizzati parecchi principati tedeschi, l'atto della nuova confederazione ne mediatizza molti altri piuttosto ad incremento dei sovrani che a favore dei popoli; ma, costringendo la Prussia ad impossessarsi dell'Hannover, e annettendo col trattato di Tilsitt la Pomerania alla Germania, Napoleone scaccia da questa l'Inghilterra e la Svezia. Il principio di nazionalità contenuto nella rivoluzione francese si verifica quindi per opera dell'impero attraverso i capricci e le necessità momentanee d'una politica personale. Se non che l'ascendente di Napoleone aumenta le sue prepotenze. Invano la Turchia si umilia, la Russia patteggia, e Pitt muore forse credendosi vinto nell'immane tenzone. La guerra, che si rinfocola presto colla Prussia violata nell'onore di nazione dai modi tirannici e sprezzanti di Napoleone, richiama la Russia ancora sanguinante per le vecchie sconfitte in campo a soffrirne di peggiori.
Napoleone, infiammato dalla rivalità con Federico il Grande, precipita gli armamenti e mena la guerra con tanta rapidità che in una sola settimana rovescia esercito e trono prussiano. L'Europa urla al prodigio; la rotta di Rossbach è vendicata, la spada di Federico II viaggia scortata trionfalmente a Parigi. Ma caduta la monarchia, il popolo insorge, e i russi avanzano. Napoleone a Posen ridesta tutte le speranze polacche per tradirle poi nella costituzione del piccolo ducato di Varsavia: quindi di fitto verno s'inoltra la prima volta per quei climi inospitali senza sole. I russi resistono ad Eylau e ad Heilsberg per soccombere a Friedland (1807) con tanta strage che la pace diviene necessaria. E questa fu maggiore della battaglia, giacchè a Tilsitt Napoleone ed Alessandro si divisero l'Europa in due immensi imperi d'oriente e d'occidente. Suprema illusione suscitata in loro dalla storia per annullare il valore ideale di tutte le monarchie e gettare i popoli offesi nella propria personalità in braccio a una democrazia più grande di tutti gl'imperi! Napoleone, trascurando i popoli nei rimaneggiamenti della carta europea, non si accorgeva di lavorare unicamente per essi. Infatti, esclusi dalla diplomazia, violentati nelle nazionalità, offesi nelle tradizioni, sollevati dalle idee rivoluzionarie, pareggiati dal codice napoleonico, accettano la libertà ed insorgono per l'indipendenza. Le vecchie dinastie abbattute si affratellano con essi promettendo le medesime libertà e la stessa uguaglianza della rivoluzione francese; le inversioni scoppiano dovunque. Austria, Russia, Prussia parlano di emancipazione e di democrazia: Napoleone, rappresentante della rivoluzione francese, diventa il tiranno, e deve violentare tutte le genti, spremendo loro sangue e denaro per guerre che rinnovano l'Europa rovesciandola. L'Inghilterra, instancabile nell'assoldare l'Europa regia e feudale contro la rivoluzione francese, diventa campione della libertà di commercio per resistere al blocco continentale; le sconfitte, che disperdono gli eserciti, adunano i popoli; le vittorie, che rovesciano le nazioni, le liberano contemporaneamente dal loro passato, ringiovanendole coll'insurrezione popolare; i trattati stretti e violati arbitrariamente tolgono ogni valore all'antico diritto publico e ogni credito alla diplomazia per render e la politica un interesse di popoli anzichè di gabinetti; mentre la Francia, sublime di eroismo e di pazzia, illumina e brucia, batte e ritempra, frantuma e ricompone tutta l'Europa. La lotta è fra due mondi; Napoleone enorme, inconsapevole e fatale, li fonde, per cadere poi soffocato, a un'ora prestabilita, sotto il loro peso.
La sua politica necessariamente assurda negli scopi e nei mezzi non arretra davanti alcun ostacolo; spezza la Prussia in quattro dipartimenti alla francese per poi restituirla smezzata al re Federico Guglielmo III: da Berlino, imitando il disperato provvedimento della republica americana e della convenzione, intima il blocco all'Inghilterra, audacia maggiore di quella da lui mostrata al ponte d'Arcole, gigantesca guerra economica che Proudhon solo nella implacabile temerità del proprio genio doveva ammirare trent'anni dopo. Quindi perduto come un poeta nel sogno dell'impero di occidente getta corone a tutti i propri fratelli: a Luigi quella d'Olanda, che era republica e aveva tanto combattuto per farsi indipendente; ad Elisa quella d'Etruria; a Girolamo quella di Vestfalia, regno improvvisato, assurdo come una chimera e greve come un incubo; a Giuseppe toglie Napoli per surrogargli Murat e dargli invece la Spagna. Nel Veneto costituisce dodici ducati, ricordo dei pari di Filippo Augusto e dei cavalieri della Tavola Rotonda, impegnandovi un quindicesimo delle entrate che ne caverebbe il regno d'Italia; si riserba sei grandi feudi nel regno di Napoli, altri nel resto d'Italia e in Germania. Rievoca il cerimoniale di Luigi XIV, scimmiotteggia l'antica etichetta, s'umilia agli inflessibili aristocratici.
Ma l'utopia dell'impero occidentale, dopo averlo spinto sino ai confini della Russia, lo trascina all'estrema punta del Portogallo. Questo e la Spagna sono retti da due dinastie esaurite, che Napoleone vuole naturalmente sostituire. Così, dopo aver concesso pace alla Spagna entrata nell'ultima coalizione e rimasta scoperta dopo la grande vittoria di Jena, la tenta diabolicamente coll'offerta del Portogallo scaduto a Maria I, pazza, e a Don Giovanni per essa reggente, principe peggio che imbecille. La Spagna governata da Godoy, ignobile guardia di corpo diventato amante della regina e padrone del re, morde all'amo: un esercito francese con Dupont snida la dinastia dei Braganza da Lisbona, Murat occupa militarmente la Spagna. La corte vi si smarrisce nelle più nauseanti sozzure: la regina minacciata di perdere il trono non pensa che all'amante, Ferdinando principe ereditario insidia la vita al padre Carlo IV, questi preferisce il drudo di sua moglie al figlio; Napoleone li coglie tutti a Bajona con uno stesso tradimento e li spodesta. I Borboni di Spagna finiscono peggio che quelli di Francia: Luigi XVI ebbe la gloria del patibolo, Carlo IV pattuì il castello di Compiègne e trenta milioni di reali, Ferdinando si congratulò persino con chi gli occupava il trono. Murat, facile vincitore di quella scenica guerra, avrebbe ambito alla corona di Carlo V che toccò invece a Giuseppe Bonaparte, tolto a Napoli come un fattore ad una masseria.
Ma la Spagna è la prima nazione che si solleva contro Napoleone: Austria, Prussia, Italia non avevano avuto che volontari; qui tutto il popolo diventa esercito. Napoleone moltiplica invano generali, battaglie, vittorie; il suo genio militare sfolgoreggia più abbagliante che mai nel disegno della campagna (1808), cui viene egli stesso a dirigere e che gli riapre le porte di Madrid; nullameno il popolo spagnuolo ha ferito Achille al tallone. L'Inghilterra aiuta l'insurrezione con Wellington, generale mediocre e perfetto, che dovrà vincere fra non molto il grande condottiero. Ogni siepe si muta in baluardo, ogni casa in fortezza, ogni uomo in soldato, ogni frate in eroe, ogni parroco in capitano. Il marchese La Romana, disertando alla testa di tutti gli spagnuoli dalle rive del Jutland per venire al soccorso della patria insorta, emula la ritirata di Senofonte, Saragozza offusca la gloria di Numanzia, Mina risuscita Viriate. Intanto re Giuseppe e Napoleone sbarazzano la Spagna dal secolare fardello dei privilegi ecclesiastici e feudali: il governo è liberale ma tiranno, la nazione reazionaria ma indipendente; antitesi insolubile allora e che si risolverà dodici anni dopo colla rivoluzione del 1820, quando libertà ed indipendenza si saranno fuse nella democrazia. Questa guerra originale di popolo rende egualmente insignificanti le sconfitte e le vittorie: i francesi non posseggono mai che il campo sul quale combattono, o la città nella quale si fortificano. La loro gloria militare si appanna, l'eco della resistenza spagnuola traversa la Germania e la solleva.
Dumouriez, già traditore della convenzione e assoldato ora dai nemici della Francia, scrive il manuale della guerra per bande, la Prussia si prepara al riscatto, l'Austria alla rivincita: intorno ad esse, ancora informe ma immensa, una nuova Germania unitaria freme guerra e libertà; le idee rivoluzionarie e francesi, che l'hanno desta, la spingono già contro la Francia conquistatrice e tiranna con Napoleone. Questi, pronto al pericolo, si restringe con Alessandro di Russia, e al colloquio di Erfurt, nel quale riconfermando il trattato di Tilsitt, assodano la divisione dei due imperi orientale ed occidentale, può mostrargli stipata sotto i loro piedi nel gran teatro una platea di re. Ma questo accordo dei due imperatori, assurdo nell'idea quanto falso nell'intenzione, non sgomenta l'insurrezione tedesca, che spinge l'Austria a farsi assalitrice per la libertà d'Europa. I re hanno già imparato dalla rivoluzione come ricorrere alle masse: il loro linguaggio è mutato quanto il loro diritto; la nazione sola può dare la vittoria, essendo la ragione e la forza della guerra.
Nullameno il genio militare di Napoleone prevale ancora nel disaccordo delle due grandi potenze tedesche: la Prussia smembrata ed incerta fallisce alla guerra, l'Austria abbandonata vi soccombe, benchè Napoleone, tradito alla propria volta da Alessandro di Russia, sia solo a combatterla. Con un esercito quasi tutto della confederazione e con cinque battaglie respinge l'arciduca Carlo al di là del Danubio, marcia su Vienna e la prende in pochi giorni. Il popolo, poco compatto nelle troppe nazionalità e non ancora abbastanza rivoluzionario, s'accascia; dinastia e governo rimangono soli coll'esercito contro Napoleone. Questi da Schönbrunn ordina l'aggregazione degli stati pontifici all'impero. Se il papato incoronando Napoleone imperatore aveva tradito il principio della monarchia per diritto divino, il nuovo impero cesareo, formula sintetica ed effimera della monarchia e della democrazia, vendica quel tradimento, affermandosi con orgoglio antico e con empietà moderna padrone del papato. Così finisce il duello fra papato ed impero durato tanti secoli.
Napoleone trionfante a Schönbrunn crede di essere un imperatore, e non è che il condottiero della rivoluzione.
Mentre infatti medita di spezzare la monarchia austriaca per ridurla in provincie del proprio fantastico impero, la guerra lo obbliga a ripassare il Danubio; sorpreso ad Essling dall'arciduca Carlo, è quasi battuto e sarebbe catturato, se il suo mediocre avversario ne avesse il coraggio. Questa esitanza lo salva, permettendogli di ritirarsi sulla Lobau in mezzo al Danubio. La Germania urla freneticamente: il sorcio è nella trappola! ma l'arciduca Carlo, quasi atterrito dalla possibilità di tanta vittoria, dubita ancora. Napoleone improvvisa come Cesare un ponte sul Danubio, ne tocca l'altra riva, si congiunge all'esercito d'Italia vincitore dell'arciduca Giovanni, ripassa il gran fiume, e a Wagram, dopo orrendo macello, impone all'Austria la pace.
La Prussia, percossa di terrore, lascia esulare il duca di Brünswick e uccidere il maggiore Schill, che la chiamavano a guerra d'insurrezione; l'Olanda preparata dagli inglesi alla rivolta la procrastina; la Germania impreparata si vi addestra nelle società segrete e nelle canzoni; il Tirolo, insorto con Andrea Hofer a una crociata commovente di mistico eroismo «in nome di Dio e della Santissima Trinità», lascia fucilare piangendo il proprio generale, sublime natura di cristiano attardato nella storia; la Russia lontana, immobile alleata della Francia, scruta pensosa in quella sconfitta, che toglie all'Austria altre duemila miglia quadrate e tre milioni di sudditi, obbligandola a gettare una delle proprie principesse in braccio al vincitore per dargli una dinastia.
Mutamenti politici in Italia.
L'Italia aspettava da queste nozze il proprio re.
Infatti il regno d'Italia era venuto d'anno in anno crescendo. Quattro strade meravigliose aperte attraverso al Sempione, al Cenisio, al Monginevra e al Colle di Tenda, lo congiungevano all'impero; una corte, ministri, ambasciatori, un istituto, scuole, ospedali, fabbriche grandiose consolavano Milano della mancanza di vera libertà. D'altronde pochi erano a sentire tale difetto, e questi i giacobini. L'applicazione del codice francese rimutava quotidianamente tutta la società; l'abolizione graduale, poi totale dei conventi, la purificava; la coscrizione la rinvigoriva. Napoleone per i propri bisogni incessanti di guerre badava a questa sopratutto, ed era il massimo dei benefici per una gente snervata da due secoli di inerte schiavitù. L'abitudine delle armi ritemprava i caratteri; le idee rivoluzionarie ricostituivano la coscienza. Napoleone, ridiscendendo in Italia dopo la grande vittoria sulla Prussia, forse irritato egli stesso dalle troppe piaggerie, disse fieramente che le donne italiane non avrebbero dovuto permettere ai giovani di comparire loro innanzi se non recando onorevoli cicatrici. A Venezia sognava di formare una flotta, a Milano promise di accrescere il regno. Infatti il 22 novembre 1807 spodestò la regina reggente di Toscana, che cedette quasi ringraziando, per sostituirle la propria sorella Elisa, amazzone ariostesca sempre cavalcante fra generali e soldati: mutamento che tolse la Toscana alla segreta reazione bigotta di Luisa di Borbone. Il trapasso da una dinastia all'altra fu governato saviamente dal Degerando, buon amministratore quanto scarso politico; poco dopo Parma e Piacenza si fusero nel dipartimento del Taro. Al trono di Napoli, vacante per l'elezione di Giuseppe Bonaparte re di Spagna, fu eletto Gioacchino Murat, il cavaliero più impetuoso e pomposo del ciclo napoleonico. Napoli, terra di feste e di sommosse, magnificente e selvaggia, volubile e passionata, era fra tutti i regni dell'immenso impero quello che meglio conveniva a questo cognato dell'imperatore destinato a diventare re.
Laonde fu accolto da ogni sorta di luminarie e di adulazioni appena annunziò di accettare la costituzione largita in Bajona dal suo antecessore. Firrao, cardinale di Napoli, sorpassò Gamboni, patriarca di Venezia, nelle servilità al nuovo re: il tradimento di Pio VII verso i Borboni di Francia si ripeteva per tutta la gerarchia della chiesa contro tutti i re spodestati. Per prima impresa Murat, miglior soldato e sovrano più altero di Giuseppe Bonaparte, assalta a Capri e costringe alla resa Hudson Lowe, futuro carceriere di Napoleone; quindi, imitando da lontano l'equivoco esempio dell'imperatore, vezzeggia i baroni e dispetta i republicani memori ancora contro di lui dello sfratto dalla Toscana, finge dimenticare la riconosciuta costituzione per regnare dispoticamente a mezzo dell'antica feudalità: errore enorme che annullava tutto il pericolo anteriore delle riforme e l'altro della republica partenopea contraddicendo a tutte le idee del momento. E siccome le Provincie al solito non quietavano, costituì legioni provinciali, una per ognuna di esse, abituando ed addestrando il popolo alle armi. Ma se questo era un grande vantaggio per l'educazione dei caratteri mediante l'abitudine della disciplina e il tonico dei pericoli, non bastava nullameno a compensare i danni e i dolori di una incredibile licenza soldatesca.
Su questi malumori soffiava la corte di Palermo avaramente fissa al riconquisto del regno. Calabrie ed Abruzzi battagliavano ancora con intendimenti diversi: alcuni, implacabili nemici di ogni straniero, vi agognavano, il ritorno di Ferdinando; altri, indomabili amanti della republica, si ostinavano contro ogni re: fra questi e quelli scorazzavano ignobili e feroci banditi per vaghezza di sacco e di sangue.
I carbonari, nuova setta destinata a grande celebrità, scesero dalla purezza del loro principio religioso-politico secondo il quale consideravano Gesù come primo dei republicani e prima vittima del dispotismo, sino a trattare per mezzo del duca di Moliterno colla corte borbonica. Erano stati introdotti nel regno dal Menghella ministro di polizia; ma, quantunque avessero dovuto poco dopo rifugiarsi in fondo alle Calabrie, dimenticarono per odio allo straniero Murat la perfidia anche troppo provata della regina Carolina. Fra le tante inversioni di quel periodo politico si videro quindi i carbonari associati come rappresentanti del liberalismo colle vecchie bande borboniche, che avevano assassinata la republica partenopea. Tale falsa alleanza, inintelligibile per il popolo, non potè naturalmente giovare troppo nè all'idea democratica, nè alla causa regia, mentre Murat spiegava invece la più ammirabile energia alla conquista della Sicilia. Che se la viltà dei nuovi soldati napoletani guidati dal Cavaignac rese inutile uno sbarco ben riuscito, e gl'inglesi poterono preservare l'isola dall'invasione, nullameno la rivolta delle bande regie carbonare nelle Calabrie fu domata dal generale Manhès con sì tremenda ferocia che i luoghi purgati rimasero deserti. Capobianco, capo dei carbonari, vi perì miseramente in un'insidia.
Ma più grossa questione stava per risolversi in Italia.
Se la rivoluzione francese nella sincerità della propria idea republicana, decapitando il re per sostituire al vecchio principio monarchico quello moderno della sovranità popolare, aveva poi dovuto naturalmente sopprimere il papato, imbastendo a Roma una indefinibile republica; e se Napoleone, ricostituendolo nel concordato per farne puntello al proprio dispotismo cesareo, sembrava invece averne riaffermato la necessità millenaria; tuttavia il principio rivoluzionario, dirigente attraverso tutte le antitesi la politica dell'impero, esigeva daccapo la sua soppressione. L'impero come forma rivoluzionaria non poteva mantenersi in se stesso il papato sempre ostile col proprio diritto canonico ad ogni progresso del diritto civile, sempre superiore ad ogni altra sovranità pel proprio principio teocratico, sempre incompatibile con ogni riorganizzazione dell'Italia per il proprio minimo regno. Quindi nel concordato rivoluzione e papato avevano patteggiato come potenze piuttosto irreconciliabili che concordi, ribadendo nel nuovo patto ricalcato sull'antico l'antitesi secolare della chiesa collo stato. La religione vi si atteggiava sempre a fatto storico superiore a tutte le leggi della storia, mentre la chiesa, seguitando a dirvisi radice di ogni verità e di ogni diritto, pretendeva di assegnare ancora la parte ai re e ai popoli col verificare la giustizia di tutte le leggi, approvando o condannando tutti i governi. Ciò era assurdo ed impossibile dopo la rivoluzione francese. La religione nel secolo XIX, e in tutti i secoli avvenire, non doveva essere più che un inviolabile principio spirituale, significato ed operante con organismo pari a quello della scienza e dell'arte: non più papi-re o principi-cardinali sotto pena che la sovranità popolare fosse negata; il sacerdozio stesso per l'efficacia del proprio esercizio aveva d'uopo di liberarsi da tutte le armature e le armi, che nei secoli passati lo avevano trasformato in ministero politico di un governo monarchico-feudale.
Involontariamente l'incoronazione di Napoleone metteva il principio della consacrazione religiosa più alto di quello dell'elezione popolare. Impero e papato, restavano dunque distinti e aggrovigliati come nel medioevo, con tutti i problemi delle investiture e delle immunità ancora insoluti. L'accordo doveva presto mutarsi in dissidio per entrambi, risognando il passato in una nuova contesa sulla universalità del dispotismo. Il papa concepirebbe ancora l'imperatore come proprio gendarme e vorrebbe colla sua spada difendere dalle conseguenze rivoluzionarie i propri privilegi; l'imperatore considererebbe il papa come proprio ministro e vorrebbe ottenere dalla sua insidiosa predicazione l'ubbidienza del popolo.
La lotta religiosa era dunque inevitabile. Infatti si accese all'indomani del concordato per opera di Napoleone, che ne trasgredì molti articoli: a tutte queste cause spirituali, s'aggiungevano le ragioni politiche. Lo stato pontificio, tagliando l'Italia in due, v'impediva ogni opera militare e civile; la violazione del suo territorio vi diventava così necessaria a ogni momento che il papa stesso finì poi coll'accordarla. Naturalmente i nemici della Francia ne profittavano quanto Napoleone. Questi, più forte e più violento, pretese di essere solo in tale beneficio come successore di Carlomagno primo donatore di quegli stati alla Santa Sede. Il papa gli rispose come agli antichi imperatori di Germania, sostenendo la donazione libera ed assoluta, e schermendosi come padre di tutti i fedeli, da un'alleanza militare colla Francia. Ma questa ragione, per essere troppo buona, menava diritto all'abolizione del potere temporale. Infatti Napoleone minacciò subito il papa di restituirlo semplice vescovo di Roma. Quindi il generale Miollis pretestando di andare verso Napoli occupò Roma (1808) e si stanziò al Quirinale, intimando ai cardinali napoletani e del regno d'Italia di rimpatriare tosto. Pio VII protestò; Napoleone di rimando mutò le quattro Provincie di Ancona, Macerata, Camerino e Urbino in tre dipartimenti del regno italico. Allora i vescovi oscillarono sul giuramento di fedeltà imposto dal nuovo padrone, e al solito cercarono salute nell'equivoco della formula. La nuova guerra coll'Austria sospese per un istante la querela, ma le sconfitte dell'arciduca Carlo in Germania, costringendo l'arciduca Giovanni a ritirarsi dall'Italia inseguito colla baionetta alle reni dal vicerè Eugenio, permisero a Napoleone di decretare da Vienna, nell'ebbrezza del trionfo, l'abolizione del regno pontificio. Impero e papato medioevali cadevano così sotto il medesimo colpo.
Il papa protestò fra la disattenzione sprezzante del mondo. Napoleone, abolendo il papato medioevale, invocava invece del diritto moderno quello di Carlomagno, e sognava di ricostruirne un altro a Parigi con un papa, docile istrumento politico. La sua fantasia esaltata dalla teatralità di tanti regni improvvisati si smarriva nel desiderio di un impero politico-religioso come quelli dell'Asia: l'esempio della Prussia, della Russia e dell'Inghilterra, nelle quali i sovrani sono papi, lo spingeva a farsi signore del cattolicismo riorganizzando ogni confessione religiosa dell'Impero. Già a Parigi aveva adunato il gran sinedrio per accordare le pratiche ecclesiastiche colle leggi francesi; al papa, prima di torgli il regno, aveva chiesto che un terzo almeno dei cardinali votanti in conclave fossero francesi, per impadronirsi così dell'elezione papale, Pio VII avvertì il pericolo e resistette. Ora, decaduto, scomunicava con effimera arditezza l'imperatore, effondendosi in lamenti per tutto il rapido viaggio da Roma a Savona assegnatagli per carcere.
Quindi Roma diventava la seconda città dell'impero francese: Napoleone, aspettando il figlio che sta per nascergli, lo nomina anticipatamente re di Roma. L'antica città trasognata accetta nuove forme politiche. L'ordine del buon governo, creato da Sisto V e organizzato da Clemente VIII per amministrare i comuni, viene sostituito da municipi alla francese; il consiglio comunale romano s'intitola pomposamente senato, si purga il territorio dai banditi, si coscrivono legioni. Il nuovo codice livella tutte le antiche leggi, riformando la società; il giuramento politico imposto al clero è più presto accettato dai vescovi che dai parroci; nullameno molti giurano, altri fuggono vilmente. Nessuna grandezza di carattere in essi. Si conservano i due conventi di Montecorona e di San Romualdo; si decretano imperiali le spese del Sacro Collegio e di Propaganda Fide; si concede persino una pensione alla parmense duchessa di Borbone e a Carlo Emanuele di Sardegna, sepolto a Roma in pratiche della più imbecille bigotteria. Ed entrambi accettano.
Prony francese e Fossombroni italiano concordano studi sul risanamento delle paludi Pontine.
Ma la coscienza politica del popolo romano non si risveglia. I più non credono alla stabilità del nuovo governo; l'aristocrazia, ligia al papato per egoismo di privilegio, si chiude nel riserbo dei timidi; la borghesia non vigoreggia nè per scienze, nè per industrie, nè per governo; il popolo non è che clientela delle grandi case patrizie; clero e superstizione paralizzano ogni moto. Nullameno le violenze francesi esasperano; perfino la lingua italiana è minacciata di cedere alla francese negli atti ufficiali; delirio di unità dispotica, intelligibile solo in una natura onnipotentemente violenta come Napoleone!
Per contrasto il papa s'acconciava a resistenza passiva, dopo aver lanciata la scomunica e ricusato di riconoscere il divorzio di Napoleone. Quindi all'accusa di aver colla scomunica tentato di sollevare il popolo francese contro l'imperatore, rispondeva, contraddicendo agli antichi principii papali, la scomunica non sciogliere i sudditi dal vincolo di fedeltà, e la consacrazione degli imperatori non essere che la vidimazione religiosa dell'elezione popolare: terribile risposta che, annullando il nuovo diritto divino di Napoleone, riproduceva le teoriche della rivoluzione. E la querela, avviluppandosi in questioni di gallicanismo e di investiture, rievocava i tempi più torbidi del medio evo. Ma fra queste ambagi il pensiero di Napoleone, incaponitosi a volere un papa a Parigi togliendo a Roma l'ultima superiorità di centro cattolico, si veniva chiarendo tra minaccie e blandizie al pontefice per mezzo del clero e della diplomazia. Pio VII, sempre sdegnato, ricusava di provvedere alle molte sedi vescovili vacanti col riconoscere le nomine imperiali. Napoleone, dopo aver nominato ad arcivescovo di Parigi il cardinale Maury, come uno dei più fedeli giannizzeri, convocava un concilio per riparare a questo danno, facendo eleggere dai capitoli i nuovi vescovi. Brevi pontifici e decreti imperiali si urtavano; la polizia armeggiava nella più goffa delle persecuzioni; i cardinali divisi in rossi e neri parteggiavano vivacemente pel papa e per l'imperatore, i vescovi oscillavano, il clero basso, più sicuro nella fede ma più scarso nell'intelligenza, non sapeva più che cosa credere. Napoleone, arieggiando con grottesca gravità Costantino e Carlomagno, discuteva tutti i giorni con ecclesiastiche commissioni, proponeva loro quesiti, anticipandone prepotentemente la soluzione. Le pretese contro il pontefice, a proposito dei privilegi gallicani e per strappargli il consenso all'abolizione del regno pontificio, crescevano di quanto s'indeboliva la costanza di questo. Pio VII viveva cinto d'assedio da prelati d'ogni genere e guardato a vista da soldati. Quindi, passando dalle minaccie ai fatti, Napoleone imprigionava i suoi scarsi fedeli, confiscava beni e prebende ai capitoli e ai preti ricalcitranti; il popolo, malgrado la secolare superstizione, non si commoveva a questo duello fra un papa prigioniero e un imperatore onnipotente. Forse non aveva ancora dimenticato con quanta remissione Pio VI avesse trattato colla rivoluzione francese.
Il concilio nazionale adunato a Parigi, e al quale avevano aderito anche vescovi italiani, destreggiandosi colla tradizionale abilità di tutte le assemblee ecclesiastiche, appoggiava le pretensioni imperiali, senza nè violare i dogmi romani nè stabilire contro il papa alcun principio chiaro. Lo scandalo, prima divertente per tutti i vecchi increduli della rivoluzione e i nuovi miscredenti della scienza, diventava ignobile per la politica servilità dei prelati e per l'ambiguità del pontefice, resistente a Napoleone senza usare la scomunica contro quel concilio subdolamente ribelle. L'agonia del principio politico nella chiesa romana appariva dall'incertezza e dalla vacuità delle ragioni intese così a mantenerlo come a rimuoverlo. Infatti Pio VII trattò con una deputazione del medesimo concilio, (composta di quindici fra cardinali, arcivescovi e vescovi), del quale oppugnava l'autorità condannandone le teoriche; e si lasciò tanto da questa persuadere colla minaccia della rottura del concordato e d'altri maggiori mali alla chiesa, che tolse la scomunica, cedette a tutte le pretensioni imperiali sulle nomine dei vescovi, estese il concordato, già per lui umiliante, alle chiese di Toscana e di Parma, mostrandosi persino disposto a dibattere in altro trattato la propria condizione di ex-re di Roma. Poscia, pentito, si ritrattò. Napoleone, fatto più forte dalle concessioni ottenute, insisteva per la loro esecuzione immediata e per l'abdicazione alla sovranità di Roma col relativo giuramento di fedeltà all'impero. Ma Pio VII, tornato alla caparbietà secondo le contraddizioni della propria natura, tenne sodo malgrado ogni pressione e il trasferimento da Savona a Fontainebleau, ove due anni dopo doveva concedere a Napoleone vinto e quasi prigioniero quanto aveva negato a Napoleone onnipotente.
Quasi contemporaneamente Carolina d'Austria doveva esulare dalla Sicilia.
Il suo governo nell'isola, peggiorando ogni giorno per la necessità di una lotta senz'idea e senza speranza, aveva stancato prima l'affetto, poi la pazienza del popolo. Murat da Napoli, sempre intento alla conquista dell'intero regno borbonico, manteneva intelligenze con bassa gente, specialmente in Messina. Carolina, avvertitane, vi spedì il marchese Artali, uomo dei peggiori anche in quell'epoca, il quale vi menò tanta strage di rei, di sospetti e di innocenti, da provocare per disperazione la stessa rivolta che intendeva prevenire. Ma gl'inglesi, annettendo capitale importanza all'occupazione della Sicilia, nella quale tenevano quindici mila uomini e dalla quale padroneggiavano il Mediterraneo, avvisarono, per non alienarsi affatto il popolo, d'infrenare le sevizie e lo sperpero della corte. Era allora ministro delle finanze il Medici, destro e dispotico e nullameno inetto a fronteggiare tante spese; i napoletani ricoverati a corte, gentiluomini, banditi e spie, divoravano ogni rendita; le fazioni di Calabria, le spedizioni di Castellamare e di Procida avevano dissestato irreparabilmente i bilanci: le trecento mila lire sterline date a sussidio dall'Inghilterra non bastavano nemmeno al lusso della corte.
Il parlamento di Sicilia convocato nei tre bracci dal Medici (1810), mise per opera dei baroni sdegnati contro la corte tanta difficoltà all'esazione dei così detti donativi che non fu possibile ricavarne alcun partito. Capitanava l'opposizione il principe di Belmonte, che per staccare il popolo dalla devozione al re persuase ai baroni di rinunziare agli ancora vigenti diritti feudali. Era questo un espediente politico ed insieme un irresistibile influsso dei tempi. Si riformarono pure, sebbene con criteri più polizieschi che giuridici, gli ordini giudiziari. Medici dovette dimettersi, la regina inviperiva alla imprevista opposizione. Tommasi, succeduto nella direzione delle finanze, propose due espedienti: una tassa dell'uno per cento su tutti i contratti e una vendita a lotto di alcuni beni pii; e l'uno e l'altro fallirono per accordo unanime del popolo. Quindi i baroni, ingagliarditi dal successo, precipitano le mosse: la regina più feroce ancora imprigiona i loro capi e li separa nelle prigioni delle varie isole meditando di spegnerli; se non che gl'inglesi, gelosi del possesso delll'isola, attraversano così ribaldo disegno. Lord Bentinck, succeduto a lord Amherst, accorgendosi che la regina tratta con Napoleone già scontento di Marat e abbastanza abile per servirsi di Carolina stessa e del suo nuovo odio agli inglesi per la conquista dell'isola, spiega un'ammirabile risolutezza. Minaccia d'imprigionare tutta la corte, si reca in mano il governo dell'isola, costringe Ferdinando ad abdicare in favore del principe ereditario, libera i baroni, convoca il parlamento, e da questo fa promulgare una costituzione all'inglese. Libertà eccessiva ed incomprensibile in un paese ancora feudale, che volle invece il cattolicismo unica religione di stato e la deposizione del re qualora non la professasse! Nullameno l'abolizione dei gravami feudali e la soppressione delle bandite rianimava il paese. Ma la regina, relegata a Castelvetrano, anzichè impaurirsi, riannoda intrighi e congiure, aduna i malcontenti, crede alle promesse di Napoleone, galvanizza il codardo Ferdinando irritato per la soppressione dei suoi privilegi di caccia, lo spinge a Palermo perchè, affermandosi ristabilito in salute, riassuma l'autorità regia. Nella città scoppia una sommossa; agl'inglesi, odiati come stranieri ed oppressori malgrado l'imposta costituzione, anzi forse maggiormente per questo, si minaccia un altro Vespro. Senonchè Bentinck raccozza i propri soldati, occupa militarmente Palermo, cinge di forte assedio la villa del re, lo spaventa, gl'impone, oltre una nuova rinuncia, lo sfratto della regina.
L'indomabile donna era vinta, però nell'ultim'ora non piegò e non pianse: tutto l'orgoglio feroce della sua razza le bruciò in cuore come sopra un altare sacro agl'idoli sanguinosi dell'antico dispotismo, senza che nessuno potesse vantarsi di aver mai potuto spegnere tale fiamma. Laonde, tedesca, parve rampollata di Sicilia, terra di vulcani e rifugio di banditi, nei quali circola ancora il sangue voluttuoso e crudele degli antichi libici, dei mori, degli arabi, dei normanni, dei turchi, degli spagnuoli.
Partita la regina per Vienna, l'opposizione di regia si mutò in popolare. Si capì subito che Bentinck voleva comandare al parlamento, e che le tasse da lui levate per mantenere il proprio esercito erano un tributo della Sicilia all'Inghilterra; i democratici si urtarono ai baroni e ai preti; questi, perduto l'appoggio della corte e aborrendo dallo straniero, non seppero a che o a chi puntellarsi: la stessa contraddizione di tutti gli stati italiani, emancipati dalle idee liberali e sottomessi da occupazioni forestiere, si aggravò sull'isola.
Da questa Bentinck minacciava tutta l'Italia; Pellew signoreggiava l'Adriatico.
Intanto il regno d'Italia politicamente non progrediva. Al sud dominava Murat; Roma discesa a dipartimento francese, contraddiceva a tutta la propria importanza italiana; Milano, sede del vicerè e capitale della Lombardia, stava sottomessa a Parigi come un capoluogo dell'impero. La costituzione republicano-dittatoriale, accettata piuttosto che data dalla consulta di Lione, si era mutata in monarchica senza bisogno di ritocchi: si era affermato che la corona d'Italia resterebbe sempre disgiunta da quella di Francia. Ma avendo Napoleone un solo figlio, tale separazione diveniva peggio che problematica. Intorno a questo problema s'affaticavano già Eugenio di Beauharnais e Gioacchino Murat, entrambi inutilmente gelosi e perduti nello stesso sogno. Gli antagonismi federali della penisola per quanto domati dall'ammirabile amministrazione unitaria dell'impero, ringhiavano ancora. Genova e Venezia odiavano Milano; Roma non comprendeva nulla al gran moto, attardata ancora nella lentezza del governo dei papi; Torino si rammaricava per il perduto onore di capitale; Palermo esecrava Napoli; questa desiderava più che non comprendesse la conquista di tutta l'Italia. Unità vera nazionale non era ancora che nello spirito di pochi, ed anche in essi piuttosto fede poetica ed eroismo sentimentale che concetto organico. Roma sola avrebbe potuto imporre silenzio al regionalismo, ma nella mente di tutti era sempre la città del papa. In ogni costituzione italiana il primo articolo affermava immutabilmente unica religione la cattolica. Ferveva negli animi un forte desiderio d'indipendenza piuttosto prodotto dalle violenze, colle quali Napoleone strozzava ogni iniziativa nazionale, e dalle terribili imposte di denaro e di sangue, che da coscienza politica. Non si aveva alcuna idea sul come fondare la unità o stringere una confederazione. Le promesse tentatrici dell'Austria e dell'Inghilterra sviavano gli sguardi verso altri padroni: i regii sognavano un principe tedesco che prendesse il posto del Beauharnais e del re di Roma; i liberali aspettavano ancora libertà ed indipendenza dalla Francia, o disperati di questa si univano ai regi sperando poi di sopraffarli. Murat, insano imitatore di Napoleone, negava ogni costituzione, anche quella giurata a Bajona.
Il regno italico non si sarebbe potuto costituire allora che contro Napoleone, il quale lo spezzava in dipartimenti conquistati, e contro tutta l'Europa combattente l'impero francese in nome della libertà, ma non disposta ad applicarla rivoluzionariamente colla soppressione in Italia di tutti i principati a vantaggio della sovranità popolare. L'antitesi politica dell'Europa era allora più che mai diametrale. Napoleone, portando inconsciamente la rivoluzione in tutti gli stati, ne aveva perduto il senso, al punto di non essere più che un imperatore del basso impero, vivente nell'esercito e per l'esercito; il suo impero non era che un assurdo mosaico geografico, sempre ricomposto e male unito da grumi di sangue. Le monarchie feudali invece, risollevandosi dall'urto delle sue conquiste, rispondevano col grido della rivoluzione francese: indipendenza e libertà! Così, alla vigilia dell'ultima campagna di Russia, Napoleone restringeva il proprio dispotismo, per ottenere dall'artificiale unità del comando i miracoli della spontaneità rivoluzionaria del 1793; e i re largheggiavano di concessioni e di promesse ai popoli. Ma, caduto Napoleone, le ricomposizioni nazionali riprodurrebbero quasi tutta l'antica geografia politica, mentre la contraddizione dell'immensa tragedia si schiarirebbe improvvisamente: da un canto la reazione della santa alleanza, dall'altro la rivoluzione.
Per ora il regno d'Italia guadagnava nell'aggregazione all'impero francese idee, costumi, congegni amministrativi, forme politiche, ordini giudiziari, coscrizione e milizie, unità d'imposte e di leggi, e sopratutto la coscienza della propria inanità storica. Il bigottismo regio e cattolico vi era ancora profondamente radicato, la servilità agli stranieri mantenuta dalla necessità di servire ad essi anche pei migliori spiriti e pei più forti caratteri, le provincie separate e rivali non sognavano che governi separati, mentre tutta l'Italia non era ancora che uno dei tanti satelliti dell'astro francese.
Capitolo Quarto. Caduta di Napoleone
Campagne di Russia.
Il sogno dell'impero d'occidente, spingendo finalmente Napoleone contro la Russia, lo sfracella nella sola realtà imperiale ancora capace di avvenire in Europa. L'impero napoleonico svanisce, mentre la Russia, attirata dalla guerra sino a Parigi, entra definitivamente nell'orbita europea, iniziandovi il grande periodo slavo.
La incredibile guerra s'accende tra Russia e Francia quasi senza motivo: da un canto Napoleone, bruno condottiero dell'occidente; dall'altro Alessandro, candido e mistico, con tutto l'oriente ancora separato dalla storia d'Europa. La libertà, librata sulla tirannia militare dell'uno e sul dispotismo ieratico dell'altro, sfavilla. La guerra prepara alla storia battaglie, nelle quali interi eserciti spariranno senza traccia, incendi di città così vasti da illuminare tutto un regno, stragi che la neve sottrarrà col proprio bianco mistero, al computo inorridito della statistica. Napoleone s'avanza (1812) con seicento cinquanta mila soldati, cinquecento generali, centodieci aiutanti; polacchi, prussiani, austriaci, tedeschi, spagnuoli, portoghesi, svizzeri, italiani, marciano sconosciuti gli uni agli altri e fisi alle sue aquile: ottanta mila cavalli rumoreggiavano come turbine intorno ad esse. Un codazzo di re attende in timido silenzio gli ordini dell'imperatore.
La Russia aspetta intrepidamente il grande urto. I suoi soldati superano il milione, l'Inghilterra le profonde tesori; la Svezia attende un cenno da Bernadotte, suo nuovo re ed antico generale di Napoleone, per discendere terribile nella guerra; Dumouriez, l'implacabile traditore, suggerisce il piano della nuova campagna contro la Francia. Moreau accorre dall'America per eseguirlo. Lungi, a tutti i confini dell'immenso impero s'addensano orde di armati, che arriveranno forse a guerra finita. I cosacchi s'adunano e volano sulle steppe coll'impeto delle bufere, le popolazioni sciamano dalle città, il silenzio della solitudine circonda spaventoso la marcia degli invasori. Napoleone s'avanza da Varsavia verso Mosca, ma lentamente, attraverso campagne abbandonate e città vuote, dietro un nemico invisibile, che lo attira ritirandosi e lo inganna coi cosacchi, gli intorbida le già incerte cognizioni del paese, profitta di tutta la sua inesperienza. Invano i generali consigliano di svernare a Vitepsck: Mosca lontana affascina Napoleone come un miraggio. Smolensko soccombe all'invasione, ma vendica la propria resa incendiandosi. Centomila della grande armata sono già periti, gli altri soffrono la fame; Mosca è ad ottanta leghe. Da essa Napoleone spera dettare la pace. Kutusoff, supremo difensore della città sacra, battuto a Borodino è costretto a ritirarsi, e Napoleone entra vittorioso nell'inviolabile fortezza degli czar. Ma il medesimo eroismo, che aveva incendiato lungo la marcia dei francesi ogni villaggio, brucia Mosca; il più grande incendio della storia illumina la più breve delle sue conquiste. I russi, già chiedenti pace a Smolensko, la ricusano a Mosca; la ritirata è inevitabile ed impossibile. L'esercito cinque volte decimato riprende la via di Parigi lontana come un sogno; ma la Russia insta feroce ed innumerevole da ogni banda; a Malo-Jaroslavetz gl'italiani salvano il passo alla grande armata: la confusione del terrore penetra nelle file fracassate de' suoi reggimenti, che non trovano più nè generali nè bandiere, non hanno più nè armi nè viveri, ignorano le strade e non s'intendono l'un l'altro, non sanno ancora il perchè della prima vittoria e non impareranno mai la ragione di quella suprema sconfitta. Poi la neve bianca fredda incessante acciecante confonde cielo e terra, copre cavalli cannoni strade fossi fiumi villaggi città campagne; cancella gradi, gela armi mani occhi parole cuori pensieri. L'esercito non è più che un'orda; la Russia non è più che una bufera; la follia della morte sibila fra il silenzio della neve che cresce sotto i piedi e sulle spalle, abbattendo i vivi e seppellendo i morti. I cosacchi turbinano, si lasciano dietro qualche macchia di sangue che la neve nasconde prontamente, e scompaiono nella neve.
Solo Napoleone pallido, più terribile di quell'uragano, più freddo di quel ghiaccio, più grande di quel silenzio, cammina alla testa di tutti, pensando ancora. La sua guardia stretta dietro di lui pare un corteo di ombre dietro un fantasma.
Il suo XXIX bollettino all'Europa finisce con questa frase quasi inintelligibile nella sublimità del proprio orgoglio: «la salute di Sua Maestà non fu mai migliore».
Adsum qui feci!
Solo in tale procella di due mondi scatenati dalla sua volontà, non vinto ancora, quantunque abbandonato dagli alleati, tradito a Parigi da Malet, che in una notte s'impossessa della capitale ed annunziandolo morto sta per decretare la decadenza della sua dinastia, Napoleone diserta da quell'esercito di martiri, del quale la forza suprema sta ancora nel seguirlo, e, traversando la Germania insorta, accorre più rapido delle proprie aquile a Parigi.
Appena giunto loda, rimbrotta, sferza, rianima la devozione imperiale: a Fontainebleau (1813) circuisce Pio VII e gli appare così grande nell'estremo sforzo di quell'ora contro tutta l'Europa, che l'imbelle pontefice gli accorda la rinunzia al potere temporale e la facoltà pei metropolitani d'instituire vescovi, se Roma ritardi la loro instituzione oltre sei mesi. Era tutto quanto Napoleone gli aveva chiesto tempestando a Savona dall'alto di una potenza apparentemente invincibile; e allora il papa aveva balbettato concedendo, contraddicendosi, ritrattandosi. Adesso, dopo così formale abdicazione, appena sottratto al fascino di Napoleone, protesta daccapo contro la propria debolezza. Ma il grande atto è compiuto; il papato si è suicidato, il papa è ridisceso volontariamente dal grado di re a quello di primo vescovo della cristianità. Impero e papato soccombono alla stessa catastrofe, papa ed imperatore muoiono nella stessa abdicazione.
Intanto Napoleone non perde un minuto: la sua prodigiosa attività, aiutata dalla mirabile organizzazione delle prefetture, riprepara nell'impero sconvolto un nuovo esercito; la publica opinione, stordita dal rombo di tanti disastri e dalle nuove grida di rivincita, non sa più come giudicare: il linguaggio dell'imperatore suona altero come nei giorni della vittoria. Napoleone batte moneta con ogni espediente, deferisce la reggenza a Maria Luigia, e alla testa di un esercito di coscritti si riavventa sulla Germania, pigliando l'offensiva. Murat, al quale abbandonando i resti della grande armata aveva ceduto il comando, inquieto per il proprio regno di Napoli, diserta vilmente; Eugenio, che gli succede, non vale di più; Ney, che basterebbe forse contro tanta rovina, non è che generale e deve ubbidire al vicerè. Ma la sesta coalizione è già stretta. Prussia, Austria, Germania si rivoltano: Blücher è il nuovo eroe prussiano, Schwartzenberg il generalissimo aulico dell'Austria. Tutte le nazioni sono in piedi contro Napoleone al grido d'indipendenza e nel nome della libertà; nullameno il terrore del suo genio è tale che gli si offre ancora per confine il Reno conquistato dalla rivoluzione. Egli non può accettarlo: la follia dell'impero lo costringe a volerne i confini all'Oder e all'Elba; la storia ha bisogno della guerra nazionale per svecchiare e chiarire la coscienza europea. Quindi Napoleone, dimentico della Francia, non campeggia più che per il proprio impero; a Lützen, a Wurschen, a Bautzen la vittoria gli sorride ancora: l'Austria ingelosita del movimento tedesco diretto dalla Prussia propone una pace per impedire la formazione di una nuova Germania: Napoleone, più superbo che mai, ripretende l'integrità dell'impero dall'Illiria ad Amburgo, e la guerra si rinfocola. Castlereagh invelenisce col proprio odio inglese lo sdegno di tutta l'Europa, Bernadotte e Moreau parricidi combattono contro la Francia, Jomini dotto stratega svizzero la diserta; l'eroismo germanico emula quello della convenzione: filosofi, scienziati, poeti, diplomatici, donne e fanciulli si gettano alla guerra. Napoleone resiste invano: battuto a Lipsia, è già vinto; costretto a ritirarsi in Francia, la difende colla foga di una improvvisazione, che ripete i miracoli del 1796; ma tutto crolla intorno. Il suo impero si sfascia come un scenario; i re improvvisati si spogliano come tante comparse al finire del dramma. Wellington minaccia i Pirenei, il principe di Orange solleva l'Olanda, le città anseatiche insorgono, la confederazione del Reno è spezzata, Illiria e Tirolo si scuotono; Murat, stupidamente traditore, s'accorda coll'Austria; la Svizzera, giustamente ribelle, scrolla il protettorato francese.
Proposizioni di pace rallentano indarno questa guerra che deve congiungere con due campagne inverse Parigi e Mosca; Napoleone ricusa tutti i patti, non promette nessuna libertà, non domanda che soldati per vincere. La Francia non ne ha più. Gli alleati, vinto il Reno senza colpo ferire e violati gli antichi confini francesi, si congregano ancora a Châtillon incerti sul come ordinare la Francia: la loro esitanza in faccia alla rivoluzione li fa somigliare a gufi esposti al sole. Napoleone delirante adesso esige il Reno e compensi per i propri fratelli spodestati: suprema pretesa feudale, che solamente egli, estremo imperatore militare, poteva affacciare! Ma Pozzo di Borgo, il suo terribile rivale còrso, persuadendo agli alleati di marciare su Parigi, dà la formula finale di questa guerra delle nazioni e spezza l'incanto dell'impero.
Parigi disonora nella propria capitolazione se stessa e Marmont: Napoleone, separato dal popolo per la fatale follia dell'impero, non può, come Alessandro di Russia e la convenzione, bandire la guerra nazionale; quindi abdica (1814) a Fontainebleau, riserbandosi la sovranità dell'isola d'Elba e stipulando il ducato di Parma e Piacenza per la moglie. Così il ridicolo si mesce al sublime. Il suo ultimo addio non è alla nazione, ma ai soldati.
I Borboni rientrano in Francia sottomessi ad una costituzione, che tradiranno, ma che ha già distrutto il principio della loro monarchia divina.
Catastrofe dei regni francesi in Italia.
In Italia il disastro della campagna di Russia aveva ingagliardito la vecchia opposizione regio-cattolica.
Già da tempo questo partito, aiutato da Palermo, da Roma e da Vienna, intendeva ad una restaurazione. Per esso il codice francese era una tirannia e l'amministrazione napoleonica un saccheggio. Colle guerre del 1805 crebbe l'agitazione: il Polesine si dichiarò in favore dell'Austria; l'anno seguente Parma si ammutinò nel nome del papa; nel 1807 i regii di Napoli sconfitti si unirono agl'insorti delle Calabrie; nel 1809 tutta Italia rispose all'insurrezione del Tirolo. La polizia di Beauharnais, sequestrando le carte al conte di Goess, emissario austriaco, vi scoprì compromessi tanti nobili lombardi, che non ne osò il processo; a Como un montanaro organizzò una banda d'insorti; ad Arezzo il clero ordinò una vasta insurrezione, che pochi gendarmi bastarono nullameno a domare; a Lugo un'associazione teocratico-antinapoleonica disciplinava l'assassinio sui francesi e sui franchi muratori. Le società cattoliche assalivano la rivoluzione in Napoleone, quelle democratiche combattevano in Napoleone la contro-rivoluzione della sua dittatura militare; quindi le necessità del combattimento strinsero le due parti, mentre la sollevazione spagnuola sembrava giustificare tale mostruosa alleanza, provando ai regii come si potesse ritorcere la rivoluzione contro Napoleone, e ai democratici come battersi momentaneamente sotto l'infamata bandiera dei vecchi signori.
Poi la rivoluzione operata dal Bentinck in Sicilia contro la regina Carolina, avendolo reso popolare, gli permise di capitanare la propaganda regia e rivoluzionaria contro Napoleone. La carboneria calabrese, dianzi smarrita in un misticismo evangelico, si trasformò per la nuova influenza britannica in partito costituzionale, infiammandosi al contatto di tutte le feroci passioni meridionali. Murat le oppose Manhès e giustiziò Capobianco; naturalmente questa repressione sanguinosa accrebbe la forza della setta. Intanto Bentinck trattava con Genova e con Milano, a quella promettendo l'antica repubblica, a questa un regno italico indipendente.
Il partito dell'indipendenza italiana, che nel 1799 osteggiava austriaci e francesi, regii e democratici, costretto all'assurdo dalla forza delle circostanze, doveva ora sostenere i governi di Beauharnais e di Murat. Quegli, figliastro di Napoleone e a lui fedele, non avrebbe mai osato in tempo utile la rivolta necessaria a costituirsi indipendente; questi, piuttosto generale di cavalleria che re, impetuoso ed inetto, teatrale ed inconsapevole, non si era ancora fuso col proprio popolo, dandogli la costituzione giurata di Bajona, e non intendeva nulla nè di governo nè di storia italiana. D'altronde avrebbero avuto nemici l'Austria e il papa nell'ora imminente della grande restaurazione europea.
Il partito democratico rifugiato nelle sètte non aveva nè un fatto nè una forma politica entro cui operare in nome proprio, mentre tutta la storia era allora occupata dalla dittatura militare di Napoleone e dalla reazione nazionale europea contro la medesima. L'Italia, non essendo ancora nazione, giacchè il regno italico sbozzato dalla rivoluzione nella cisalpina era di fatto diventato un dipartimento dell'impero francese, e quello di Napoli successivamente conceduto a Giuseppe Bonaparte e a Murat appariva come un'usurpazione contro i Borboni ancora saldi in Sicilia e riconosciuti da tutta Europa, e Roma tolta al pontefice non era divenuta capitale d'Italia, e il neonato re di Roma non bastava nemmeno al vacillante impero paterno; l'Italia non poteva compiere la propria reazione nazionale assicurandosi l'indipendenza o guadagnandosi una costituzione come la Francia, la Prussia, la Spagna, la Germania. La forma politica del regno, dovuta esclusivamente alla rivoluzione francese, doveva sparire sotto la grande reazione europea, perchè nella storia le forme di accatto non sono vitali; d'altronde la nazionalità italiana, costretta ad essere per l'inevitabile soppressione del papato la più rivoluzionaria d'Europa, non poteva derivare da una reazione monarchica imitante i gridi liberali solo per odio alla dittatura soldatesca di Napoleone.
La reazione italiana non poteva non concludere alla ristorazione dello stato anteriore alla rivoluzione.
Quindi al fracasso dei primi rovesci napoleonici le cospirazioni austro-liberali e regio-cattoliche cominciano a mostrarsi. Il massacro dell'esercito italiano in Russia giustifica per la sua inutilità nazionale il rinfocolamento degli sdegni; l'imminenza di nuovi padroni agghiaccia gli ultimi entusiasmi per la libertà e ravviva l'orgoglio codardo e perverso delle antiche servitù. Murat, disertando il comando supremo della grande armata per timori sul proprio regno di Napoli, appena giunto a Milano, assiepato dal partito dell'indipendenza, si gonfia alla speranza di conquistare tutta Italia, solo superstite della caduta di Napoleone. Contro questi già covava rancore per il contrastato sbarco in Sicilia e gli accordi segreti tentati colla regina Carolina contro di lui. Bentinck, risoluto quanto sottile diplomatico, scoperte tali velleità, badava ad infiammarlo per spingerlo in mezzo agli alleati; ma coll'orecchio teso al rombo delle grandi battaglie Murat esitava ancora per concordarsi al più forte. Intorno a lui molti suoi generali cospiravano per imporgli una costituzione: Guglielmo Pepe tentò di proclamarla a Sinigallia.
Intanto Eugenio di Beauharnais, rimandato da Napoleone in Italia per levarvi uomini e denaro, si avviluppava involontariamente nello stesso problema di Murat, quantunque più sinceramente devoto alla Francia e all'imperatore. La rotta di Lipsia, col togliere a Napoleone ogni ragionevole speranza di rivincita, obbligava Eugenio a discutere la propria posizione in Italia. Quindi il desiderio di rimanervi mutandoglisi fatalmente nel sogno di un proprio regno indipendente, pose anche egli una seconda candidatura regale e fece saggiare la publica opinione da fidati. Murat se gli accostò, offrendo di spartirsi fra loro amichevolmente l'Italia: Eugenio, diffidente dell'emulo, non abbastanza staccato dalla Francia e troppo poco risoluto per l'energia di un tradimento efficace, esitava. L'opinione publica gli era contraria; l'aristocrazia lo aborriva e infiammava l'odio popolare contro Prina e Méséan, ministro segretario. Murat infervorato seduceva il generale Pino per tentare un moto nel regno malgrado il principe vicerè, e fallito nel disegno si buttava finalmente all'Austria, avendo già occupato Roma e le Marche; mentre Eugenio, costretto a ritirarsi sull'Adige dinanzi al nembo dell'invasione austriaca malgrado alcune brillanti fazioni, sembrava dimenticare i sogni regali in più generosi propositi di vittorie campali. Ma anche questa gloria doveva essergli contesa. Nugent, sbarcato a Goro, invadeva il Ferrarese; Bellegarde instava da Verona; Bentinck, approdato a Livorno con quindicimila uomini, muoveva alla conquista di Genova; Murat minacciava da Bologna. Oramai del dominio francese in Italia non restava che la parte compresa fra il Mincio e il Po e le Alpi: i greci e i calabresi di lord Bentinck avevano conquistato Genova ripristinandovi ipocritamente l'antica republica; tutti i proclami degli alleati promettevano libertà, indipendenza, unità, confermando nella menzogna di questo espediente la verità della nuova ancora immatura idea politica di una terza Italia.
Alle novelle della presa di Parigi e della abdicazione di Napoleone, Eugenio pattuiva con Bellegarde, generalissimo austriaco, il ritorno dei soldati francesi in Francia e la facoltà agli italiani di conservare la parte di regno occupata sino a che i loro delegati, abboccandosi coi confederati a Parigi, stabilissero una nuova condizione politica. Questa convenzione di Schiavino Rizzino era l'atto mortuario del regno italico. Ma partiti i soldati francesi, dopo grandi e tristi saluti ai soldati italiani loro affratellatisi sui campi di tante vittorie, e dispostosi il vicerè a ritirarsi in Baviera presso la famiglia del re suo congiunto; alla notizia che l'Imperatore Alessandro consentiva a conservargli il regno italico, rinacquero in lui e nei partigiani le speranza. Si fecero brogli, l'esercito italiano aderiva, ma Milano tumultuò. La plebaglia, assediando il palazzo del senato, domandò la revoca di un dispaccio che riconosceva il governo di Beauharnais, e la convocazione dei collegi elettorali; la sala delle deliberazioni fu invasa; quindi si corse infuriando al ministero delle finanze. Prina sorpreso nel proprio palazzo, e strangolato, morto a colpi di ombrello. Questa sedizione, opera della nobiltà milanese, ingelosita dell'importanza politica acquistata nella nuova amministrazione dagli italiani convenuti d'ogni parte del regno, fu invano frenata negli ultimi eccessi dall'onesta energia della cittadinanza. Infatti, senza nè attendere che i collegi fossero in numero, nè convocare quelli dei dotti e dei commercianti, nè ammettere al suffragio gli elettori delle provincie conquistate dai tedeschi e presenti in Milano, si impose al regno d'Italia la decisione di centosettanta elettori del ducato di Milano, i quali, dichiarato vacante il trono di Napoleone, inviarono commissioni al campo degli alleati per chiedere ingenuamente l'indipendenza del regno d'Italia e la sua maggiore estensione possibile, sotto una monarchia costituzionale con un principe austriaco. Al solito la religione cattolica doveva essere l'unica religione dello stato.
Naturalmente l'Austria largheggiò di equivoche promesse, delegando la reggenza a Bellegarde e riducendo Lombardia e Venezia a provincie austriache. Genova, indarno invocante l'indipendenza garantitale dal trattato di Aquisgrana (1748), fu ceduta al re di Piemonte, talmente fortunato nel trambusto che per poco non ottenne a confine degli stati restituitigli il Mincio. Invece gli fu assegnato il Ticino. Francesco d'Este, cugino e cognato dell'Imperatore d'Austria, dopo aver sperato anch'egli la corona d'Italia o almeno di Piemonte, dovette contentarsi di quella di Modena. Maria Luisa di Borbone ex-regina d'Etruria ebbe Lucca, e Maria Luisa d'Austria Parma in vitalizio. Ferdinando III tornava in Toscana dal trilustre esilio e, cassando tutti i mutamenti della rivoluzione francese, la rimetteva quale ai tempi di Pietro Leopoldo; Pio VII, reintegrato a Roma, vi cancellava ogni traccia rivoluzionaria.
Murat solo restava, estrema comparsa d'un dramma finito.
Intanto che il congresso di Vienna discuteva per ricomporre la carta politica d'Europa, Napoleone dal ridicolo regno dell'isola d'Elba tendeva occhi ed orecchi ai subiti rumori di malcontento scoppiati colla sua caduta. Parigi, dopo di essersi degradata in così festosa accoglienza agli alleati che lo stesso Alessandro di Russia se ne sdegnò, pentita e fatta accorta della impenitente malvagità dei Borboni, rammentava melanconicamente le glorie napoleoniche fra le umiliazioni dell'occupazione straniera; l'Austria, gelosa della nuova importanza della Prussia, le contendeva ringhiando la Sassonia; la Russia s'accaparrava la Polonia; intorno alla Francia temuta quantunque vinta ingrossavano Piemonte, Olanda e Svizzera con nuovi territori. Talleyrand, con suprema abilità di diplomatico francese, seminava gelosie fra i re per indebolirli: i principotti della Germania esclusi dal Congresso reclamavano; Murat, prima riconfermato da Alessandro, poi minacciato dall'Austria e istigato dall'Inghilterra intesa ad intorbidare il congresso, insorgeva con ottantamila uomini per combattere i Borboni di Francia e domandava il passo.
In Italia, il fermento cresceva. I soldati, i venturieri, i liberali, i politicanti addestrati dall'impero, si buttavano a congiure; congiuravano Austria e i Borboni contro Murat, per lui Francia, Russia e Prussia segretamente ostili all'Austria: questa, dopo aver guadagnato in Italia col Lombardo-Veneto un regno quasi uguale al napoleonico, mirava a soggiogarla tutta, o a dominarla almeno con un protettorato pari a quello di Napoleone; Murat, quantunque incapace di signoreggiare col pensiero tanto tumulto di combinazioni politiche, stringeva convulsamente la spada. Una vasta cospirazione, secondo la quale si dovevano catturare i realisti, il generale austriaco Bubna a Torino, Bellegarde e Sommariva a Milano, mentre Murat invaderebbe Roma e le legazioni, fu tramata. Talleyrand vi mestava, Romagnosi e Gioia, i due migliori ingegni italiani, v'entrarono. Ma Talleyrand, che avrebbe voluto in Italia un moto francese in favore dei Borboni contro l'Austria, denunziò la congiura a Bellegarde.
I Cento giorni.
In quell'istante medesimo Napoleone, fuggito dall'isola d'Elba, approdava in Provenza.
Il vessillo tricolore ridesta l'entusiasmo, le aquile napoleoniche volano di campanile in campanile, i Borboni fuggono salvi, fra il disprezzo del popolo che sdegna colpirli, e la viltà dell'aristocrazia che non osa difenderli. L'imperatore entra trionfante a Parigi, vi concede una carta, ibrida mescolanza di idee imperiali e democratiche, e sembra atteggiarsi a sovrano costituzionale. Ma la sua natura e lo scopo inconscio del suo ritorno non mirano a questo: è necessario trattare di effimera la ristorazione borbonica, per riconfermare, nei popoli la fede alle idee della rivoluzione e alla grandezza della Francia con un ultimo miracolo contro tutta l'Europa. Borboni, aristocratici, preti, stranieri, tutti allibiscono. I re disputanti a Vienna si concordano nella paura e, suprema confessione d'impotenza, dichiarano Napoleone fuori dell'umanità, mettendo due milioni sulla sua testa. Così alla nuova sfida rivoluzionaria essi rispondono come tanti bargelli con una taglia. Ma in Francia i democratici parlamentari, benchè soli, non tacciono. La loro opposizione irrita il carattere tirannico di Napoleone, che si precipita alla guerra: i consigli di Carnot non gli giovano; la demenza dell'impero lo riprende così, che invece di difendere la Francia proclamandovi la libertà e la guerra nazionale, prende l'offensiva con 180,000 soldati.
Murat impaziente aveva già occupato Roma, donde il papa fuggiva, e le Marche con due colonne, la prima guidata dal Lechi e la seconda da lui stesso; quindi, continuando le proteste agli alleati, diramava agli italiani un manifesto per chiamarli all'indipendenza. Ma l'impresa non era possibile. Murat e i liberali si ingannavano reciprocamente colla stessa millanteria. Questi affermava di avere sessantamila soldati e ne guidava appena la metà; quelli promettevano immensi aiuti, e non ne fu nulla. Solo in Romagna v'ebbe qualche moto: le altre provincie stettero a guardare, lesinando i viveri. Nullameno gli austriaci ripiegarono sul Po. Forse passando in Lombardia Murat vi avrebbe trovato aiuto da sollevazioni parziali, ma lettere della moglie lo richiamavano a Napoli, minacciata dagl'inglesi. Allora tradito perdette ogni coraggio politico. Inseguito, si apre il passo a Macerata con un battaglione di cerne, quindi Bianchi lo batte a Tolentino, mentre Nugent per la Toscana si difila sul regno; una altra sconfitta lo prostra a Ceprano, obbligandolo a riparare fuggiasco e disarmato a Napoli. Finalmente, imitando Napoleone in ogni errore, concede la costituzione, e stretto da Campbell, commodoro inglese, il quale minaccia di bombardare Napoli, esula (maggio 1815), raccomandando al nuovo governo il debito pubblico, la recente nobiltà, gli onori e i gradi militari.
Un mese dopo Napoleone, malgrado che il Belgio siasi sollevato per lui e la Sassonia, la Baviera e il Würtenberg abbiano risposto al suo appello, soccombe per sempre a Waterloo dopo la splendida ed inutile vittoria di Ligny. Oramai la sua missione è finita: i Borboni possono essere daccapo reintegrati in Francia, il congresso di Vienna seguitare le proprie sedute, la santa alleanza saldare insieme tutte le monarchie di Europa con ferri benedetti, dacchè la lirica riapparizione di Napoleone nei cento giorni è bastata a togliere ogni credito di stabilità alla ristorazione.
Napoleone, abbandonato dai popoli, si desta dal lungo sogno imperiale, per riconoscersi sconfitto dalle idee liberali. La rivoluzione, rovesciando il suo impero, trionfa del proprio imperatore, mentre la legale Inghilterra con feroce impassibilità lo relega come un volgare delinquente in un'isola deserta. Là, solo sopra uno scoglio nel cospetto del mondo, agonizza cinque anni, vigilato da un carceriere più gelido d'un cadavere e più insistente di un'ombra, coll'oceano per compagno, meno vasto del suo pensiero ma eterno come il suo nome.
Murat, già obliato, approda in Corsica quasi tratto all'incanto della cuna di Napoleone. Una stessa fatalità lo condanna a perire, imitando da lungi l'imperatore come un paladino generoso ed infedele. Napoleone si era ripresentato improvvisamente alla Francia risollevandola nei cento giorni: Murat pensa di sbarcare nelle Calabrie per riaccendervi una guerra nazionale. Ma sperduto da una tempesta, discende a Pizzo con appena ventotto compagni e, bello ancora come un guerriero delle leggende malgrado i suoi quarantott'anni, grida all'Italia il comando di una di quelle irresistibili cariche di cavalleria, che lo avevano fatto credere ai cosacchi figlio della tempesta. Ma l'Italia non risponde; pochi gendarmi bastano a catturarlo, e lo fucilano.
La sua ultima parola: salvate la faccia! riassume la sua vita di cavaliere fortunoso, pomposo, sempre piumato, sempre in parata, più superbo della propria bellezza, alla quale una corona era necessaria come acconciatura, che del trono regalatogli dall'imperatore.
Il partito dell'indipendenza italiana, dopo aver perduto in Prina il suo ministro migliore, perdendo in Murat l'unico generale, non ebbe più rappresentanti.
Il secondo periodo della rivoluzione italiana era conchiuso. La restaurazione assettava l'Italia come prima della rivoluzione, ma lo spirito nazionale era profondamente mutato. L'Italia dei cicisbei, addormentata nelle riforme, stupidamente devota ai propri re, adorante il papa come un semidio, sferzata da Parini, schiaffeggiata da Alfieri, non esisteva più. Vent'anni di vita e di guerre europee l'avevano trasformata. Tutti gli antichi principi erano stati cacciati: nuovi governi, altre classi, un popolo più omogeneo l'avevano riempita. I soldati italiani si erano battuti in Spagna, in Germania, in Russia, dappertutto; costituzioni date, rimutate, tolte, riconcesse, avevano parlato di un'Italia intera: il papa aveva abiurato abdicando il papato; tutti i principi erano fuggiti sconfessando il proprio diritto; gli stessi ultimi conquistatori avevano publicato promesse di libertà, d'indipendenza e di unità.
Se Napoleone non aveva potuto serbare sulla fortissima testa la corona di ferro, e Murat era morto nello sforzo di ghermirla; se Genova e Venezia non esistevano più, e Pio VII tornava a Roma, Vittorio Emanuele a Torino, Ferdinando III in Toscana, Ferdinando IV a Napoli, i gesuiti dappertutto; nessuno di questi tornanti poteva vantarsi di riconoscere la società che li accoglieva. Una bufera di vent'anni, squassando tutti gli spiriti, vi aveva deposto germi di nuove idee: l'arcadia del secolo anteriore era già lontana quanto la scolastica di san Tommaso.
Un altro uomo era nato in Italia col cittadino. La patria non era più in nessuno di quei piccoli stati; si sentiva, si discorreva involontariamente d'Italia. La opposizione politica si disegnava; da un canto i re, dall'altro i popoli: quelli dietro al papa, questi intorno alla libertà. I governi dovevano mutarsi in congegni di polizia e in macchine di compressione contro il pensiero nazionale per aumentare la sua forza; il carattere uscirebbe temprato da questo attrito; tutte le scienze e le arti si preparavano già a cospirare nella politica e colla politica.
Mentre la storia d'Italia nel medio evo e nel rinascimento aveva avuto a principio la federazione contro l'unità, e dal rinascimento alla rivoluzione francese invertendosi era passata all'unità colla formazione dei tre grossi regni dei Savoia, della Chiesa e dei Borboni; ora l'unità, diventando coscienza per la simultanea soppressione di tutti i regni operata dalla rivoluzione e dall'impero francese, esigeva una nuova forma unitaria republicana o monarchica.
La storia moderna d'Italia risulterebbe quindi dal contrasto dei residui stranieri, federali, regi e cattolici, alla sua unità.
Gli scrittori durante la rivoluzione e l'impero francese.
Se Parini ed Alfieri preludendo alla rivoluzione francese non ne compresero poi alcuno dei caratteri, Monti e Foscolo rappresentarono meravigliosamente la generazione da essa sorpresa. Appena l'Italia prese fuoco alla rivoluzione, la sua senile letteratura ammutolì. Le carneficine di Parigi e il rombo delle guerre francesi, caccianti austriaci, principi e papi per improvvisare republiche servili ma rivoluzionarie, sconvolsero il classicismo compassato dei retori, predisponendoli all'opposizione. Ma l'abitudine della servitù e l'apparire trionfale di Napoleone imperatore li riconciliò alla cortigianeria: allora tutti, capi politici ed amministrativi, ministri e deputati, scienziati e filosofi, poeti e prosatori adularono. L'oraziano Fantoni, che aveva protestato per l'annessione del Piemonte alla Francia, non osò continuare; Monti, di già glorioso per avere imprecato nella Basvilliana alla convenzione regicida, maledisse poco dopo al sangue del vile Capeto succhiato alle vene dei figli di Francia; Cesarotti, il bardo ossianico, sentì scoppiarsi alle labbra la tromba della gloria soffiandovi dentro il nome di Napoleone; solamente Alfieri, sopravissuto al proprio periodo e ributtato dal nuovo, proruppe ad un odio misantropo, che gli fece approvare persino gli inutili assassinii sui francesi e scrivere col sangue avvelenato del proprio cuore il Misogallo. Foscolo, classico e republicano, coll'anima onesta di Parini e il carattere sdegnoso d'Alfieri, si cacciò all'opposizione liberale, sognando una Italia republicana.
Gli scienziati blanditi da Napoleone, o solitari nei propri studi, poco intesero e sperarono nel movimento; i più si appagarono di vani onori e del più vano grado di deputato nel collegio dei dotti, limbo nel quale Napoleone chiudeva anticipatamente qualunque pensiero potesse resistergli. Filosofi veramente degni di questo nome e che potessero dare alla loro filosofia la importanza raggiunta dallo Spallanzani, dal Volta e dal Lagrange colle moltiplicate scoperte alla scienza, l'Italia non aveva. Mentre il Soave trionfava dietro Condillac malgrado la forte opposizione del Gerdil, e Draghetti cercava di fondare la psicologia sull'istinto, e Miceli respingendo l'ontologia di Wolff s'affrettava a un sistema di tutte le scienze, e Pino, Palmieri, Carli, Borrelli combattevano oscuramente per soccombere sotto la fama di Tracy, Romagnosi e Gioia, poco letti e meno stimati, guidavano il pensiero italiano verso il secolo XIX. Superiore al Janelli, che si era smarrito entro la vastità di Vico, Romagnosi tentò di naturalizzare le idee straniere, ripensandole nel metodo italiano. Quindi Bonnet, Smith, Condillac, Bentham ripassarono per il suo sillogismo entro interminabili esposizioni polemiche, per naufragarvi in spiegazioni non abbastanza originali e male sorrette dalla logica stecchita degli enciclopedisti. Il suo ingegno, mezzo italiano e mezzo francese, sorpreso nell'affacciarsi al secolo XIX dall'immenso moto napoleonico, perdette il coraggio della propria rivoluzione malgrado l'oscura necessità dialettica, che lo spingeva a geometrizzare tutte le idee per assicurare la filosofia nella scienza. Infatti, sempre più giurista che filosofo e miglior analitico che sintetico, Romagnosi dovette smarrirsi nella storia; derise Hegel conoscendolo appena da alcune pagine di Lerminier, comprese male Vico e lo combattè peggio per concludere a questo concetto spaventato e spaventoso: che la civilizzazione in sostanza non è che un'arte arbitraria e la storia una composizione del caso. Così, spiritualista nella ricerca delle cause assegnabili, si mostrò inconsciamente positivista nelle scienze morali; e le sue opere migliori rimasero la Genesi del diritto penale e il Diritto publico universale, quantunque il fondamento filosofico ne sia scarso e la modernità troppo annebbiata. Mentre la Germania aveva Hegel e la Francia Comte, l'Italia soccombeva ancora con Romagnosi alla fatica di assimilarsi le idee europee, o brancicava con Melchiorre Gioia tutti i fatti, studiando invano il metodo per disciplinarli. Questi pure, seguace del Bentham nell'economia e del Locke nella logica, tentò coll'istinto delle terre lontane di fondare la Filosofia della statistica e radunò nel Prospetto delle scienze economiche sopra ogni materia i giudizi dei dotti, le opinioni dei popoli e gli esperimenti dei governi. Se non che il numero dei fatti lo imbrogliò; dai fenomeni non giunse ad indovinare le cause, teorizzò arbitrariamente su fatti pochi e talvolta incerti: non comprese la morale, trascurò il popolo, e, proclamando la tirannide amministrativa, obliò troppo spesso i rapporti fra l'economia politica e la legislazione, fra i periodi della storia e i caratteri della società. Vero economista dell'epoca napoleonica, maneggiò i numeri come soldati, lanciandoli alla conquista del mondo senza più cura degli errori che dei morti se la vittoria gli sottomettesse la ragione su fatti futuri, o se nel circuire un'idea coi propri calcoli, come un esercito blocca una fortezza, potesse far pompa di molte forze. Però, come impossessandosi di una città non se ne conquista nè la storia nè lo spirito, così dilatando le condizioni e le conseguenze materiali di un'idea non se ne ottiene l'essenza.
Nullameno Romagnosi e Gioia furono i due spiriti più moderni del periodo napoleonico, nel quale, influenzando sull'educazione della gioventù, quantunque senza rivolgersi direttamente al popolo, prepararono più efficacemente d'ogni altro scrittore la sua nuova coscienza alle idee rivoluzionarie.
Vincenzo Monti
Il poeta della loro epoca, lirico, pomposo, sonante, è Monti. Nella sua fantasia infatti le nozze di un principe romano assumono la importanza d'una battaglia europea, la scoperta di Montgolfier provoca lo stesso entusiasmo che la nomina a cardinale di un protettore. Ignorando la Grecia e il greco traduce nullameno Omero nella musica di un endecasillabo rimato sulle guerre napoleoniche; quindi, sferzato dalla nobile ira di Alfieri, improvvisa tragedie, nelle quali il pensiero si spampana in aforismi morali e la passione si squaglia nell'incandescenza delle parole. Dall'assassinio di Ugo Basville prende argomento ad un poema, che dovrebbe significare la lotta fra Roma e la rivoluzione francese, ma non comprende nulla alla loro antitesi: e sogna, immagina, sentenzia con vena inesauribile, nascondendo il voto del pensiero nel rombo della frase, perdendosi nel volo del proprio estro che uguaglia spesso quello dell'aquila. Lo dissero un Dante redivivo, e somigliava a Dante come uno stucco somiglia ad un marmo. Dante è la coscienza costretta a diventare poesia dalla propria intensità; Monti è la fantasia inconsapevole, aperta a tutti gli spettacoli, abbandonata a tutti i venti, satura di tutti i colori, vibrante di tutti i suoni. La confusione europea, gettandolo dalle imitazioni classiche alle romantiche, non gli toglie nè scioltezza, nè arditezza; ma Prometeo, la grande tragedia dell'anima, si muta nel suo canto in una novella mitologica, le battaglie entro i dizionari per la classicità delle locuzioni diventano le più vere di tutta la sua vita; vede sempre in Napoleone un Giove, e lo maschera col paludamento degli imperatori romani, mentre Canova egualmente classico, capovolgendo l'errore, lo scolpisce nudo col mondo in mano nel cortile di Brera. Le violenze delle amministrazioni rivoluzionarie gl'inspirano la Mascheroniana, nella quale vibrano robusti sdegni patriottici; poi Napoleone cade, e questa immane caduta che trascina seco un mondo, questo immenso bolide, forse il maggiore apparso nella storia, che traversando il cielo di due continenti va a precipitare sopra un'isola deserta in mezzo all'oceano, gli suggerisce appena una canzone, il Ritorno di Astrea per gli austriaci riconducenti la reazione e la schiavitù. Del suo tempo, della Francia, dell'Italia, dell'Europa, Monti non ha che veduto la fantasmagoria, ascoltato i suoni, ripetute le parole; idee e passioni non lo hanno toccato. Ma nullameno riassume, come ogni grande poeta, il proprio paese, nel quale la rivoluzione era piuttosto importata che originale, e le idee si combattevano come gli eserciti per trionfare altrove. Monti non riflette, non ama, non odia, ma si scalda a tutti i fatti, s'interessa a tutte le scene, applaude tutti i vincitori, incita tutti gli sdegni, dà il volo a tutte le speranze, e per evitare rimpianti crede sempre a quello che appare. Quindi l'arcadia, calpestata da Parini e da Alfieri, rifiorisce con lui in una poesia, nella quale l'uomo è fuori del poeta.
Ugo Foscolo.
Ma poeta e uomo sorgevano contro Monti in Foscolo; se quegli era stato il più numeroso poeta per tutti i vincitori; questi è l'eroe più nobile del partito rivoluzionario, e la poesia deriva in lui dalla politica e viceversa. Materialista ed entusiasta, scettico e credulo, egli si dibatte già nel grande dramma del nostro tempo, fra le necessità atee della scienza e quelle mistiche della religione. Come erede del secolo XVIII, Foscolo è miscredente, come profeta del secolo XIX, sentendo che la fede sta per riapparire nel mondo, soffre di non poterla accogliere e la rimpiange come una illusione. Non è nemmeno italiano: l'Italia è per lui una patria d'accatto. Ma alla sua coscienza la patria è più necessaria della luce per gli occhi. Foscolo non può sentirsi uomo che riconoscendosi ed essendo riconosciuto cittadino. La tragedia spirituale gli si muta quindi in dramma politico. Questo si acuisce al punto da comunicargli nel Jacopo Ortis la malattia del suicidio; senonchè la forte natura del poeta trionfa, l'esercizio della vita militare lo risana, le crisi della politica lo irrobustiscono. Fin dal 1795, essendo imprigionato dalla inquisizione di Venezia per cospirazione, e già degno di ricevere dalla madre, una greca di Zante, l'eroico consiglio: «muori, figlio mio, piuttosto che denunciare i tuoi amici». Il tradimento di Campoformio contro Venezia lo sprofonda sempre più nella democrazia; più tardi soldato volontario nelle truppe della cisalpina, vagheggiando l'impresa d'Italia, la riconosce immensa, desolante, impossibile. Ma quando l'astro di Napoleone sta per abbacinare il poeta, e Monti brucia verso l'imperatore tutti gli aromi delle proprie strofe, e Giordani disonorando la dignità della prosa italiana gli tesse il più ignobile dei panegirici, Foscolo, smanioso di patria e di libertà, gl'impone di mutarsi in un Washington per creare l'Italia, come un impresario avrebbe potuto chiedere a Goldoni di mutare lo scioglimento di una commedia. Il segreto, dell'epoca gli sfugge, le improvvisazioni effimere delle violenze imperiali e la viltà di tutte le insufficienze democratiche lo sbalestrano fuori del mondo fra i Sepolcri, ispirandogli il carme più sublime del secolo. Quindi, ammalandosi di quella stessa miseria d'Italia che vorrebbe guarire, Foscolo dalla cattedra di Pavia predica e sferza, grida nelle liriche, protesta sul teatro colla Ricciarda e coll' Ajace.
Ma coloro stessi che rispondono alle sue parole non le comprendono. Alla rotta di Lipsia rompe il proprio bando per partecipare alle congiure di Milano contro Beauharnais, le quali invece di concludere alla libertà producono la ristorazione del patriziato milanese e dell'Austria colla più assassina delle sommosse. Laonde Foscolo, troppo tardi consapevole dell'inganno, s'invola nobilmente all'infamia di nuovi onori nella lontana Inghilterra. Ma nemmeno sulla classica terra della libertà trova pace. Perseguitato dalle calunnie di tutti, esaurito dalle proprie passioni, sfiduciato persino della storia d'Italia, si difende ancora dall'accusa di non combattere l'Austria col rispondere che ogni battaglia sarebbe inutile; finchè cessa di scrivere, e corroso dalla miseria si spegne silenziosamente nell'oblio. In questo periodo l'ira fantastica e rettorica di Alfieri è diventata passione in lui, senza che il concetto di una nuova Italia gli si sia abbastanza schiarito nella mente. Quindi egli la chiese egualmente alle sètte, a Napoleone, alla cisalpina, inconsapevole dei principii, dei modi che le sarebbero stati necessari; difese la republica di Venezia, forma esausta di più esausto principato; sostenne il papa contro Napoleone, non accorgendosi che l'abolizione del papato era il primo passo verso un futuro regno italico; non comprese il popolo e che dal popolo solo poteva uscire la nazione. Quantunque più vero del Monti, era anch'egli un classico ostile alla modernità, appartato nell'orgoglio che il pensare e il sentire sinceramente bastassero. Odiava la turba, il commercio, la volgarità rivoluzionaria; adorava la libertà senza sospettare che la democrazia fosse appunto il trionfo del numero sul genio e quella plebea uguaglianza, contro la quale aveva nobilmente protestato nei Sepolcri.
I poeti dialettali.
Fra la coscienza solitaria del Foscolo e l'incoscienza espansiva di Monti satireggiava l'istinto del Porta. Questi sorge improvvisamente entro la pesante atmosfera del dialetto milanese per diradarla. Prima di lui la Lombardia non ha poeti o tipi popolari consacrati alla gloria della satira. L'antico Beltramo di Gaggiano, cacciato nell'oblio dal Meneghino del Maggi, non è più ricomparso: ma lo stesso Meneghino, impantanato nelle quattro commedie attraverso le quali si era mostrato, sembrava presso a soffocare, malgrado tutti gli sforzi del Balestrieri per allungargli la vita. Senonchè colla rivoluzione francese Porta compare sulla piazza di Milano come uno sconosciuto onnipotente, al quale tutta la città appartiene tosto; le parole gli svelano le Idee, le idee gli disegnano le figure, le figure gli danno la scena. La sua strofa rapida ed aerea coglie a volo le rime, scintilla, trilla, si modula in tutte le gole, si adatta a tutte le intelligenze. Milano stupita impara i versi prima di conoscere il poeta; questa nuova poesia è così perfetta che naturalmente resterebbe anonima come i proverbi. Che importa il nome del poeta? Ma egli è al centro dell'anima popolare, pensa, sente, palpita, soffre, ride con essa. Porta, oscuro impiegato napoleonico, rovista in quel sommovimento della vecchia società per trarne fuori la caricatura. Il suo occhio è infallibile; la sua mano, schizzando la figura della marchesa Travasa, una discendente di donna Quinzia del Maggi, improvvisa un capolavoro. La marchesa Travasa parve una rivelazione e diventò un funerale: tutta la vecchia aristocrazia morì in lei. Ma il poeta nell'orgasmo della propria caccia colpisce monache, borghesi, preti, cardinali, scuole del Lancastro, romanticismo e liberalismo. Il suo buon senso inesorabile fa giustizia di tutto, la sua satira stende l'inventario di quel mondo in dissoluzione, obliandosi nella gaiezza dell'imprevisto e nella comicità dei difetti. Non è più la satira di Parini e non è ancora quella di Giusti; il poeta non condanna ma deride, non odia ma sberta, non strappa ma cincischia. Quel mondo, che si sgretola, non è più abbastanza importante per irritarlo; l'altro, che vi si sostituisce, non è ancora abbastanza organico per contentarlo. Quindi Porta, dopo aver ghignato sull'aristocrazia e sul clero, sorride sul popolo. I suoi due eroi Giovanin Bongée e Marchionn-di-gamb-avert, quest'ultimo tratto dai Dialoghi del Maggi, rappresentano non solo la minchioneria ma la viltà del popolo milanese, sul quale s'accavallano le onde sanguigne dell'immensa tempesta napoleonica senza che possa mai sollevarsi. Giovanin Bongée e Marchionn-di-gamb-avert non sanno farsi rispettare dai soldati francesi, che tolgono loro la moglie dopo l'amante; sono emancipati e non aspirano ancora a surrogare i padroni dispersi dalla rivoluzione. Il liberalismo dei democratici imploranti la libertà dall'imperatore, il dispotismo dei regii promettenti la libertà nella ristorazione, la nullaggine dei governi ridotti ad amministrazioni dai francesi, la buaggine dell'Italia più che mai in balia del caso, senza coscienza, senza stato e senza storia, fanno ridere il poeta; ma il suo riso, abbastanza forte per non sgomentarsi in tanto cataclisma, è già una speranza. Dietro al buon senso si prepara il carattere, dietro al buon cuore si addestra il coraggio; quindi pochi anni dopo Tommaso Grossi, nell'ammirabile novella dialettale La fuggitiva, dipingendo la tragedia di una fanciulla che fugge da Milano per seguire confusa nel tumulto della grande armata il proprio amante ucciso poi alla Moscowa, getta il ponte dalla satira alla drammatica. La coscienza ha trovato se stessa nell'eroismo dell'amore.
Milano, la città più avanzata d'Italia, è quindi la sola che con Porta arrivi a dare la satira di se medesima. La poesia dialettale veneziana, dal primo periodo del Calmo e del Veniero attraverso l'altro ricchissimo del Baffo, del Labia, del Gritti e del Lamberti, finisce nella insignificanza del Buratti ostile al regno italico e plaudente ai tedeschi come il Monti. La poesia meridionale invece ha nel Meli un poeta degno di rivaleggiare con Porta, e che rabbrividisce egli pure al solo pensiero della rivoluzione. Ma poichè la Sicilia ha sempre sognato la propria autonomia, il Meli ne tratta il dialetto come una lingua. Nulla di più soave e di più elegante della sua poesia: Petrarca pare grossolano e Poliziano sgarbato al confronto. Se non che il Meli, natura riflessiva e sentimentale quanto il Porta era caustico ed espansivo, sembra vivere tuttavia nel tempo di Rousseau e così soffre ancora di quella sua triste malattia che vedeva nella natura un rifugio dalla società. Il suo pessimismo si placa solo nell'idillio, o prorompendo invece di fare la critica alla società, come nel grande ginevrino, discende nel fondo della coscienza per processarvi amaramente l'opera di Dio. Meli, contemporaneo del Porta, gli è anteriore di un periodo. La bufera della rivoluzione, che caccia da Napoli Ferdinando e Carolina, non basta a trarlo dal suo sonnambulismo: anzi il poeta entra nella villa favorita dell'ignobile tiranno per baciargli la mano e chiedergli come prezzo dei propri versi una pensione. Quando un fulmine colpisce la statua dell'Europa a Palermo, Meli, spaurito dell'augurio e temendo che le genti collettizie della rivoluzione giungano anche in Sicilia, prega santa Rosalia di preservare l'isola da tanto flagello: finalmente nel Sogno di venticinque anni racconta d'aver sognato che l'Europa era sossopra con tutti i troni rovesciati e un milione di uomini morti e morenti, e di essersi destato felicemente perchè tutto era ancora a posto.
Ecco l'incomparabile poeta del mezzogiorno in faccia alla rivoluzione.
Il popolo italiano, cacciatovi dentro a colpi di baionetta, non la cantò nè per amore nè per odio, non vi sentì la propria vita rinnovata, non vi scorse il ritorno della gloria colle guerre, non vi distinse l'arrivo di nuovi principii fra le catastrofi: quindi a Milano, la città più avanzata e nullameno soccombente nell'ultima ora ad una reazione della propria aristocrazia austriacante, Porta, cogliendo l'assurdo di quella prima ricomposizione italica fra un patriziato senza carattere politico, una borghesia senza carattere nazionale e un popolo senza carattere morale, non potè scrivere che una satira sana ma incosciente, irresistibile e leggera, nè amara, nè tonica.
Capitolo Quinto. L'Italia sotto la reazione della santa alleanza
Il trattato di Vienna.
Apparentemente la rivoluzione francese è vinta. Sulla republica e sull'impero si rialza stranamente la antica monarchia dei Borboni, che, accettando una Carta, sembra prestarsi ad un giuoco troppo breve per essere pericoloso. Le invettive alla rivoluzione scrosciano ancora da ogni parte d'Europa: l'Inghilterra, rispettata rappresentante della libertà, insinua con Castlereagh le diffidenze più caparbie contro i principii rivoluzionari; la Prussia, già sospinta nel nuovo periodo della nazionalità germanica e quindi forzata ad irrobustire la propria dinastia per mutarla in pernio storico, seguita a blaterare con ingenua magnanimità contro l'invasione napoleonica; l'Austria, ridivenuta suprema mediatrice nelle ultime coalizioni e cresciuta nella longanime resistenza a massimo impero, si instituisce depositaria dell'autorità; la Spagna, rientrata nell'indipendenza, s'infervora intorno all'ignobile Ferdinando VII ricantando l'eroismo della propria guerra contro i francesi; la Russia, attirata dall'immensa cometa napoleonica nell'orbita europea, vi porta un misticismo politico oscillante con ritmo misterioso fra libertà e servitù.
Nei trattati di Vienna, complemento a quello provvisorio di Parigi, l'Europa preparavasi a restaurare il prisco edificio politico, riponendo in bilancia come a Vestfalia tutti i propri interessi. La rivoluzione non era stata che una sommossa e l'impero napoleonico che un'avventura; ma poichè si riconosceva attraverso le antitesi delle loro due forme politiche come un medesimo principio li avesse prodotti lanciandoli vittoriosi sull'Europa, si mirava a contrapporne loro un altro, rinfiancato con unanimi affermazioni di alleanze e con trasposizioni arbitrarie di popoli soggetti. Naturalmente questo principio doveva essere l'autorità regia delegata da Dio e testimoniata dalla religione. La nuova importanza, ottenuta dalle monarchie colla umiliazione della Francia, parlava abbastanza chiaramente contro di essa, che da tanto eroismo e da tanto genio non aveva per colpa del principio rivoluzionario guadagnato se non un restringimento di territorio e una elemosina insultante di vita sotto lo scettro dei Borboni. Senza di questi si credeva che sarebbe stata smembrata.
Non si vedeva allora che i trattati di Vienna erano un altro effetto della rivoluzione francese, come già quello di Vestfalia era stato una conseguenza della rivoluzione protestante. L'accordo di tutte le monarchie per resistere al principio rivoluzionario finiva fatalmente a riconoscerlo più vitale che mai. Un profondo dualismo divideva quindi l'Europa: lo spirito rivoluzionario rimasto nei codici, nelle carte, nelle memorie, nelle fantasie e nelle coscienze, proseguiva la propria opera latente, disonorando negli animi più eletti quel congresso di sovrani, che per assicurarsi sul trono mentivano alle promesse di libertà prodigate ai popoli nel mattino delle insurrezioni federali. D'altronde il concetto politico della nuova santa alleanza, redatto in stile mistico dallo czar Alessandro, era peggio che inintelligibile ad un'Europa uscita dalla scientifica empietà del secolo antecedente. Questi quattro massimi re che si obbligavano diplomaticamente alle virtù evangeliche, giurando di amarsi di una indissolubile amicizia fraterna, governando i sudditi da padri, mantenendo sinceramente la religione e la pace, considerandosi come membri di una medesima nazione soggetta a Gesù Cristo supremo imperatore, e da lui incaricati di dirigere le varie parti della stessa famiglia, dovevano necessariamente sembrare stravaganti al vivido spirito del secolo già affrettantesi a rivoluzionare tutte le scienze naturali e sociali. L'abdicazione della personalità politica, imposta al popolo dalla santa alleanza in nome della beatitudine patriarcale e del dogma cristiano, era una demenza, alla quale gli stessi diplomatici del congresso dovevano segretamente concedere ben poco rispetto. Infatti l'Inghilterra, ormai vecchia nelle proprie libertà legali, vi si ricusò: lo czar, rientrando nel proprio immenso impero barbaramente ieratico ed esercitato da un continuo moto di espansione alle frontiere turche ed orientali, dovette invece riconfermarvisi senza poter insistere efficacemente al di fuori sull'Europa occidentale: la Prussia se ne giovò all'interno per disciplinare il nazionalismo dei propri popoli entro la forma monarchica e sotto la direzione della propria dinastia: l'Austria per posizione storica e per necessità dialettica rimase sola rappresentante della santa alleanza contro ogni innovazione rivoluzionaria. La sua politica fu quindi di reazione e di compressione. Ma siccome le conseguenze dei principii liberali sollecitate dall'inesauribile fecondità delle forme rivoluzionarie penetravano per ciascun vano delle leggi avvelenando ogni differenza del suo impero eterogeneo, la diplomazia austriaca assunse terribili modi inquisitoriali. Per impedire le manifestazioni del pensiero si impegnò contro di esso in una guerra universale senza requie e senza fine. Talleyrand, coll'inventare allora la parola legittimità in favore dei re, suggerì ai popoli quella di liberalismo: mentre la rivoluzione, condannata dall'inerzia nei fatti a raddoppiare di vigore nell'idea, trascinava la monarchia ad una discussione di principii, per imporle anticipatamente la sconfitta.
La nuova geografia politica d'Europa differì dalla vecchia, ma non rivelò abbastanza l'immenso mutamento avvenuto nella storia europea. La Russia si accrebbe della Finlandia, della Moldavia e della Bessarabia; la Prussia si raddoppiò quasi, divorando gli stati inferiori limitrofi; nella Germania, sempre unita federalmente, Prussia ed Austria si equilibrarono, traendola colla fatalità del loro inconciliabile dualismo a stringersi piuttosto intorno a quella che a questa, per formarsi in nazione. La supremazia onorifica della dieta restava all'Austria, quella politica cresceva alla Prussia.
I Paesi Bassi furono ceduti all'Olanda come doppio freno per la Francia e per il settentrione; l'Italia ricadde sotto il protettorato austriaco.
Condizioni italiane.
Tutte le vaporose speranze suscitatevi dal trambusto rivoluzionario erano svanite ai primi venti freddi della reazione: le promesse russe nel 1805 di unirla in una confederazione di tre soli stati, alla quale sarebbero alternativamente capi il re di Piemonte e quello delle due Sicilie col papa gran cancelliere; le altre dell'arciduca Giovanni nel proclama del 1809, quelle del Nugent e del Bentinck nel 1813 e 1814, le ultime del Murat e del Beauharnais più segrete e credibili, tutte erano egualmente dimenticate. L'Austria rassicurata nelle sue prime menzogne all'Italia dal trattato di Praga (1813), libera ora per quello di Vienna, si disponeva a stendere sulla penisola il sudario gelato della propria tirannide.
Gli stessi principi avrebbero forse con unanime codardia invocato il suo appoggio, se con pronto ed insidioso proposito non si fosse ella stessa affrettata a porgerlo. I popoli, ancora senza vera opinione politica, rientravano inconsciamente sotto la ristorazione quasi a riparo della troppo lunga procella rivoluzionaria, mentre i principi, annullati dalla rivoluzione, ritornavano al potere con un odio esasperato da umiliazioni ventennali, preceduti da uno sciame di aristocratici ingordi ed abbietti, intolleranti ed intollerabili. I preti, deliranti di ignobile entusiasmo per il ripristinamento del potere temporale, si accingevano a riconquistare sulle coscienze l'antica autorità medioevale; la stessa borghesia, più implicata nella rivoluzione, per l'impossibilità d'intravedere salvezza in qualunque sistema politico avvenire, si lasciava andare ad una rassegnazione suaditrice ai nuovi despoti di ogni assolutismo.
L'imperatore Francesco, gelida natura di tiranno, si era affrettato a dichiarare coi delegati lombardi e col marchese di San Marzano legato sardo a Vienna, che i lombardi dovevano dimenticare di essere italiani. La costituzione, se può così chiamarsi, conceduta al Lombardo-Veneto dichiarato regno, consisteva nel governo di un vicerè e in due ordini di congregazioni provinciali e centrali, diciassette le prime e due le seconde. Le congregazioni centrali si componevano di un deputato nobile e di un borghese, mandati da ciascuna provincia e da ogni città regia: le città regie erano tredici in Lombardia e nove nel Veneto. Non vi si era eleggibile che possedendo un reddito annuo di quattro mila scudi in beni stabili, mentre per le congregazioni provinciali bastavano soli duemila. Ineleggibili i sacerdoti e i publici funzionari; gli eletti duravano in carica sei anni; per l'elezione alle congregazioni provinciali ogni municipio proporrebbe un nobile ed un borghese; ogni congregazione provinciale trarrebbe da quei nomi la terna da proporsi alla congregazione centrale, e il governo nominerebbe. Per le congregazioni centrali i municipi proponevano, le congregazioni provinciali facevano la terna, e il governo sceglieva. Questa rappresentanza senza rappresentanti doveva dare avviso sulle operazioni censuarie, sulla distribuzione delle imposte, sulle rendite e sulle spese dei comuni, sull'amministrazione degli istituti di beneficenza: il governo l'ascolterebbe o no. Il governatore adunava, presiedeva, proponeva il lavoro, decideva, licenziava; anche per indirizzare suppliche all'imperatore occorreva il permesso.
Queste le massime concessioni. Poi nel 1815 l'Austria, fatta più sicura dalla calma apparente di ogni spirito rivoluzionario, introdusse la coscrizione militare e i propri codici, secondo i quali bastava un indizio solo a togliere la libertà ad un accusato: a questo si negava qualunque conoscenza sugl'indizi dell'accusa nei casi urgenti, e tutti i casi potevano esserlo egualmente; il giudizio era statario.
L'arciduca Antonio, preposto al governo del regno, sembrò vergognarsene e si dimise: l'arciduca Ranieri suo successore, meglio scelto dal Metternich, non intese che a far danaro, lasciando facoltà di ogni ribalderia ai governatori che ne commisero siffattamente da indignarne persino storici tedeschi come il Gervinus.
In Toscana il ritorno di Ferdinando III, al quale l'Austria aveva preservato il ducato nel congresso malgrado le insistenze del Labrador legato spagnuolo che lo pretendeva per l'ex-regina d'Etruria, ricondusse il governo delle leggi leopoldine contro ogni innovazione republicana o napoleonica. Secondo le tradizioni della propria casa, il granduca fu mite e cominciò da un'amnistia generale; ma il suo concetto di uno stato patriarcale senza nè carattere nè idee politiche, frollato nella mansuetudine di una vita di obbedienza e di comodi materiali, era forse più nocivo delle feroci reazioni piemontesi e napoletane allo spirito nazionale. Una polizia vigile e destrissima chiamata per ironia buon governo, vi finì di avvelenare la publica coscienza, insidiandone tutti i pensieri: furono soppressi i monti di pietà, chiuse le scuole delle arti, richiamate al governo le nomine dei gonfalonieri e dei priori schiacciando così i resti della vita municipale, patteggiata con Roma la sanatoria dei beni ecclesiastici venduti, riaperti molti conventi ma ricusati i gesuiti. Il Fossombroni, il Corsini e il Frullani, nuovi ministri, resisterono nobilmente alla reazione, che avrebbe voluto retrocedere oltre le riforme leopoldine; quindi evitarono l'insidiosa offerta dell'Austria per una lega di tutti i principi italiani sotto l'alta direzione di Vienna, senza poterne però scansare l'alleanza: l'Austria doveva concorrere con 80,000 uomini e la Toscana con 6000 alla difesa dei reciproci territori.
E la Toscana parve allora modello di governo: infatti a Napoli, a Torino, a Roma le cose andavano ben peggio.
Re Vittorio Emanuele I, tornato dalla Sardegna, nella quale dimorando otto anni non aveva procurato miglioramento di sorta, quantunque la condizione del paese senza strade e senza commerci, colle terre incolte per difetto di bestiame e soggette quelle dei poveri a servitù di pascolo e ad imposte esorbitanti, mentre quelle dei ricchi e le città ne erano esenti e il clero dissanguava le popolazioni già esangui colle decime, fosse miserrima, non recava che odio alla rivoluzione in una mente chiusa ad ogni idea moderna. Vile e superstizioso, vano ed implacabile, circondato da ingorda aristocrazia, si accinse con un corteo di fantasmi a ricostrurre il passato.
Quindi ristabilì le dignità e i dignitari del 1798, prendendone i nomi nel vecchio calendario del Palmaverde, abolì le ordinanze dei francesi, ripristinò la nobiltà, le commende, i fedecommessi, le primogeniture, i fori privilegiati, gli uffici di speziale e di causidico, le sportule per i giudici, l'interdizione dei protestanti, i distintivi degli ebrei, le procedure segrete, ogni tortura. Dando forza retroattiva all'editto 21 maggio 1814, che richiamava le costituzioni del 1770, turbò le persone e i patrimoni, annullò i matrimoni contratti civilmente, cassò gli affitti non cessanti nel 1814, sbandì i francesi stanziati nel regno dopo il 1796, trattò di chiudere la via del Moncenisio e di abbattere il ponte sul Po, perchè costruzioni francesi. Destituì venticinque professori d'università nominati dalla Francia, e di demenza in demenza richiamò alle bandiere i coscritti del 1800 supplendo coll'ingaggio ai morti ed agli invalidi. Ipoteche, riforme amministrative, regolare graduazione di giudizi, tutto fu cancellato; imposti comandanti militari alle provincie con giudici mal pagati e costretti a vivacchiare colle sportule dei litiganti. Sola istituzione napoleonica conservata, la polizia, ma affidandola a gendarmi feroci ed irresponsabili. Non più sovranità di legge: lettere regie limitarono contratti, ruppero transazioni, annullarono sentenze per arricchire la nobilaglia impoverita; infamie e brogli imperversarono fra iattanze militali ed aristocratiche, al di sopra delle quali l'implacabile egoismo del re faceva pensare alle peggiori mostruosità dei governi orientali.
La cosa giunse a tale che i governi di Francia, d'Inghilterra, persino di Russia, ne fecero rimostranze consigliando a Vittorio Emanuele un temperato regime costituzionale. Ma solamente il minaccioso dilatarsi dell'influenza austriaca arrestò questa pazza reazione del Piemonte, e persuase al re la necessità di ordini più vitali. Infatti per riordinare l'esercito ricorse al generale Gifflenga di scuola napoleonica, e col conte Prospero Balbo surrogò agl'interni l'inettamente reazionario Borgarelli. Poco dopo, alle insistenti proposte dell'Austria per una lega di principi italiani, potè, validamente patrocinato dallo czar, non solo ricusarsi come la Toscana, ma tentare contro la stessa santa alleanza una lega segreta di stati minori, quali la Sassonia, la Baviera, Napoli e Roma, che naturalmente abortì. In questa iniziativa e nella resistenza opposta all'Austria, intesa ad ottenere dal vecchio re l'abolizione della legge salica per trasportare sul capo di Francesco d'Este, duca di Modena e marito della sua unica figlia Beatrice, la corona contro i diritti del ramo Carignano, giacchè nemmeno Carlo Felice, fratello di Vittorio Emanuele, aveva figli, fu la salvezza e il grande avvenire del Piemonte.
Nei due ducati di Lucca e di Parma, scaduti all'infanta Maria Luisa di Borbone e a Maria Luisa d'Austria moglie di Napoleone, con diritto di riversibilità di Lucca alla Toscana e di Parma ai Borboni di Lucca nella morte delle due duchesse, la reazione somigliò piuttosto a quella della Toscana che di Piemonte. L'ex-imperatrice, perduta in ignobili amori, mentre Napoleone grandeggiava ancora alto sul mondo dallo scoglio di Sant'Elena, non ebbe maggior coscienza politica che morale e concesse all'Austria facoltà di presidio in Piacenza, lasciando il governo del ducato agli amanti.
Del marito e del figlio, fra un poema conchiuso e una tragedia che incominciava, ella non sentì nè la grandezza nè la pietà: cattiva sposa e madre peggiore, non si ricordò di essere stata imperatrice e s'accorse appena di essere duchessa; anodina nipote di Carolina di Napoli e di Antonietta di Francia passate attraverso la rivoluzione, quella coll'eroismo disperato della tirannia, questa col romanticismo infelice della regalità, ebbe i difetti di entrambe senza il prestigio del loro carattere.
Maria Luisa di Borbone, traslocata dall'effimero ducato a Lucca, mutò i capricci amorosi della gioventù nei capricci bigotti della vecchiaia, senza lasciare del proprio estremo passaggio politico altra traccia che l'aver ricusato per suggestione dei preti l'offerta delle tre legazioni come nuovo ducato, prima e indarno pretese dall'Austria.
Francesco IV di Modena invece, gareggiando nella reazione con Vittorio Emanuele I e Ferdinando IV, l'inaugurò con publico bando, nel quale ripristinava il governo anteriore al 1797. Quindi vennero ristabiliti cogli antichi codici i tribunali ecclesiastici e i privilegi dei nobili, rimessi i gesuiti affidando loro l'istruzione della gioventù. Una persecuzione poliziesca insidiava tutti coloro segnalatisi per valore o per impieghi nella rivoluzione e nell'impero napoleonico; si violavano case e coscienze, si compravano segreti, s'inventavano congiure. Francesco IV, ghibellino a Vienna, guelfo a Roma, gesuita dovunque, concepiva politica e stato come gli antichi signori del rinascimento, risognando impossibili combinazioni che gli dessero tutta l'Italia. Si era tenuto così sicuro della successione di Piemonte per la propria moglie Beatrice, che nel 1814 aveva fatto ai collegati formale domanda del porto della Spezia, a fine di avere aperta una via facile e sicura per l'isola di Sardegna. Bazzicava preti per mutarli in istrumenti di politica, come avrebbe trattato coi carbonari per comprometterli nei propri disegni; ma altrettanto vile nell ingegno che nel carattere, così inetto generale che angusto statista, parodiando inconsapevolmente gli antichi signori, non era più che una caricatura fra i nuovi despoti.
Degno di lui Ferdinando di Borbone, IV a Napoli e III in Sicilia, profittò della propria reintegrazione a re delle due Sicilie per intitolarsi I. Quantunque sotto la pressione di Bentinck avesse conceduto agli isolani una costituzione imitata sul modello inglese, poscia diffuso contro l'ultima impresa di Murat un proclama al popolo napoletano, nel quale riconosceva la sovranità popolare promettendo ogni libertà costituzionale, appena sicuro di sè cassò la costituzione siciliana invisa all'Austria e non più difesa dall'Inghilterra, la quale spinse l'abbiezione fino a consegnare nelle mani del tiranno i nobili siciliani recalcitranti. A Napoli invece il re, dimentico di tutte le promesse, rientrò nella reggia con aspetto così grullo che gelò l'entusiasmo stesso dei lazzaroni usi alla teatrale maestà di Murat. Si ricostruì l'antico governo: il regno continentale fu diviso in quindici provincie, la Sicilia in sette valli; nuovi codici compilati a cura del Tommasi, miglior ladro che giureconsulto, tolsero quasi tutti i benefici dei codici napoleonici, s'introdussero delitti di lesa maestà e quattro gradazioni nella pena di morte; degli antichi tre bracci parlamentari non fu più parola. Il Tavoliere delle Puglie, distribuito dai francesi fra piccoli possessori, fu ridato in possesso comune, danneggiandone i recenti agricoltori ed inceppandone per sempre l'agricoltura. Il governo affidato al Canosa infuriava con ogni sorta di ribalderie e di ribaldi, opponendo la setta assassina dei calderari alla setta politica dei carbonari: rifermentavano le ferocie della prima reazione, bande armate infestavano con tanta spavalda sicurezza che si dovette patteggiare con esse quasi con nemico regolare, per scannarle poi violando la capitolazione. Col concordato di Terracina (1818) si riconcessero alla curia romana pressochè tutti i privilegi cassati dal Tanucci insino alla rivoluzione, indietreggiando di mezzo secolo in un giorno; le finanze esauste per mala amministrazione, per peggiore assetto d'imposte e per depauperamento del paese non bastavano più alle ingenti spese, dacchè l'alleanza dell'Austria era costata 25 milioni di lire ed altrettante e più ne costavano le truppe austriache stanziate nel regno. Inoltre le codarde liberalità del re, fra le quali 60,000 lire al Metternich come duca di Portella, 40,000 al Talleyrand duca di Dino e al Bianchi generale austriaco nominato duca di Casa-Lanza dal paese dell'ultima convenzione con Murat, 70,000 ducati d'oro a Nugent, ottenuti colla vendita a vilissimo prezzo dei vastissimi tenimenti di Castelvolturno, e i trattati commerciali coll'Inghilterra, colla Francia, colla Spagna, finivano d'immiserire un erario che non era stato mai ricco.
La restaurazione borbonica, meno sanguinaria questa seconda volta, fu però così inetta da togliere al regno ogni carattere di indipendenza. Oramai Ferdinando non era più che un vicerè austriaco, difeso da truppe austriache e solo in esso fidente. Ai reclami di Pietroburgo e di Vienna destituì Canosa; cedette a Roma, al clero, all'aristocrazia, ai lazzaroni, alla Francia, all'Inghilterra, alla Spagna, a tutti; la corte onnipotente non comandava più, mentre in essa si organizzava per interessi di casta l'opposizione al partito rivoluzionario. La monarchia borbonica era piuttosto una negazione della rivoluzione che una istituzione indipendente: serviva alle due classi estreme della società contro la media, senza regnare con programma proprio. La stessa unificazione della Sicilia, giovevole agli scopi ancora lontani dell'unità nazionale, era stata meno un atto d'energia che una conseguenza della uniformità legislativa lasciata da Napoleone come necessità a tutti i governi. La bestialità di Ferdinando, barattante persino i papiri in kanguros per arricchire il proprio serraglio, e le ecatombi compiute nelle prime reazioni toglievano alla corte e al governo ogni speranza di coscienza; i regi non erano più che una camorra e i liberali una setta, entrambe egualmente bisognose del re: l'una per difendere in lui i propri interessi, l'altra per incarnare in lui le proprie idee costituzionali. Ferdinando invecchiato non rappresentava più che l'inanime senilità della monarchia.
Roma stessa non era più Roma.
Quantunque Pio VII, ritornandovi, passasse di trionfo in trionfo, e Murat a Cesena, Carlo IV di Spagna alle porte della città, la ex-regina d'Etruria Maria Luisa e l'ex-re di Sardegna Carlo Emanuele a quelle del Quirinale, gli si prosternassero in umili ossequi, e quest'ultimo, geloso di essere il primo nell'avvilirsi, volesse baciargli il piede mentre le popolazioni superstiziose assiepavano le vie osannando; il pontefice riedeva troppo sminuito nell'autorità per riatteggiarsi davvero a re. Già l'Austria aveva più volte accennato ad insignorirsi di tutto il regno pontificio nelle guerre napoleoniche, quasi accettandone la decadenza pronunciata dalla rivoluzione e da Napoleone: al trattato di Parigi Metternich consegnava a lord Castlereagh una protesta contro il ristabilimento del potere temporale, chiedendo la cessione dei territori romani all'Austria pei diritti del sacro romano impero e per gli accordi stipulati dianzi coll'Inghilterra. Più tardi insistette gagliardamente per impossessarsi delle tre legazioni, e tutta la diplomatica abilità del cardinale Consalvi, legato al congresso di Vienna, non sarebbe bastata a contrastargliele, se Napoleone, fuggendo dall'isola d'Elba e largheggiando di promesse col pontefice per farsene un alleato, non avesse persuaso al congresso che bisognava cedere al papa. Nullameno l'Austria conservava diritto di guarnigione a Ferrara e a Comacchio.
Il regno papale distrutto dalla rivoluzione francese, assorbito dall'impero napoleonico, veniva dunque negato dall'Austria in nome di quello stesso sacro romano impero, al quale essa medesima aveva rinunciato. Il papa ridiventava un principotto italiano soggetto al protettorato austriaco, senza maggior prestigio politico degli altri. Infatti il suo ritorno a Roma si macchiò di tutte le colpe reazionarie, che infamarono quello dei Borboni e dei Savoia. Il cardinale Rivarola, focosa natura di prete condottiero, mandato a Roma in qualità di legato a latere, inaugurò la propria amministrazione provvisoria abolendo con publico bando ogni legge e contratto napoleonico. Le antiche ottantaquattromila leggi risuccedevano al codice francese; i vecchi tribunali ecclesiastici alla corte di cassazione, i cardinali ai prefetti, il monopolio dei prelati, l'inquisizione e la tortura agli ordini liberali della rivoluzione. Si costituì una setta di sanfedisti, fanatici ed assassini, che dovevano poi disonorare inutilmente religione e governo papale. L'amministrazione dello stato, già migliorata dagli altri principi prima della rivoluzione e dai papi invece conservata nel vecchiume medioevale, si volle a questo ricondotta, cancellandovi ogni traccia delle recenti migliorie; le milizie vennero racimolate per le strade; il commercio e l'industria furono sottoposti all'arbitrio di concessioni camerali; la censura peggiorò d'ignoranza fanatica; si misero al bando tutti gl'impiegati liberali per sostituire loro chierici in ogni uffizio laicale; si distrusse qualunque vita municipale; si tolsero tutte le forme di elettorato politico ed amministrativo; si perseguitarono patrioti, scienziati, scrittori, quanti per pensiero e per opera si stimassero favorevoli alla passata rivoluzione. Rivarola, in onta ai capitoli del trattato di Parigi, con una sola sentenza ne colpiva 508.
La corte romana, timorosa dell'Austria e de' suoi maneggi per l'abolizione del regno temporale, non ebbe il coraggio, e non poteva averlo, di appoggiarsi alle idee liberali. Si ricusò all'alleanza richiestale, ma non osò stringere contro Vienna l'altra col Piemonte; fulminò i carbonari, nei quali il liberalismo era ancora inceppato da troppe idee cattoliche e dal tradizionale rispetto alla monarchia, e non pensò a propiziarsi le popolazioni con miglioramenti amministrativi.
Così il motu-proprio, col quale il Consalvi, unico uomo di stato a Roma, intendeva a frenare la ridicola ed esosa reazione, non produsse alcun effetto, e Pellegrino Rossi, futuro ministro di Pio IX, forse anche allora propenso a un moderato governo papale, dovette scampare esulando da Bologna.
Colle altre corti italiane le relazioni di Roma non furono senza difficoltà. La Toscana, ancora imbevuta di idee giansenistiche e di tradizioni leopoldine, ricalcitrava; a Napoli, Ferdinando intitolandosi primo re delle due Sicilie intendeva rimangiarsi i vecchi tributi alla Santa Sede, ma si lasciava poi trascinare al concordato di Terracina, pel quale i beni ecclesiastici invenduti dovevano essere divisi fra i conventi ripristinati, e sui libri introdotti nel regno si riammetteva l'appello al papa. Vittorio Emanuele I parve resistere un istante alle pretensioni di Roma ridimandante l'omaggio del calice pel ricavato apostolico dei reali di Sardegna sui feudi di alcune diocesi; quindi, cedendo alle paure religiose, disfece il concordato di Bonaparte e ne strinse col Consalvi un altro poco meno grave di quella di Napoli. L'Austria invece, fedele alle tradizioni giuseppine, non solo nominava vescovi nella Lombardia esercitando poteri competenti a Roma, ma li pretendeva anche nei nuovi acquisti di Ragusi e di Venezia, e li ottenne per privilegio dal papa nel 1817.
Nullameno Roma si mostrava diminuita. In molti paesi stessi del concordato restava colpa pei dignitari ecclesiastici il comunicare direttamente con Roma; in nessuno si erano ripristinate intere le immunità reali personali e locali; limitato il diritto di acquisto delle mani morte; quasi tutte le prelature di nomina o di proposizione governativa, sorvegliati i possessi ecclesiastici, necessario l' exequatur regio; distrutti gli ordini e i feudi militari ecclesiastici. Il clero sentendosi indebolito si appoggiava naturalmente ai re, ma questi, sicuri dal liberalismo in quel primo fervore della reazione, si sottraevano all'aiuto di Roma per memore timore della sua pertinace tirannia. Le tradizioni del principato nel periodo delle riforme risorgevano, giacchè i pericoli erano ancora remoti, la rivoluzione lontana e Roma troppo vicina.
Il principio religioso di questa non era ormai più attivo che come superstizione di volgo cortigiano o plebeo; se parlamenti e corti vi aderivano, i fatti che avevano distrutto il governo dei papi vivevano ancora nella coscienza di tutti. D'altronde lo stesso pontefice Pio VII aveva abdicato, e Napoleone e l'Austria credendogli si erano impossessati o volevano impossessarsi di Roma; la rifioritura dei privilegi chiesastici sbocciava fra quella dei privilegi aristocratici e ne acquistava tutta l'antipatia e l'irragionevolezza. Poi la monarchia sola si riaffermava assoluta, mentre aristocratici e preti non erano che suoi valletti.
Roma era così avvilita, malgrado ogni superbia di concordati, che il suo unico pensatore, capace eroicamente di proclamarla ancora signora del mondo sulle rovine fumanti della rivoluzione, fu un laico, il conte Giuseppe De Maistre, savoiardo per la cupezza della politica, francese per l'impeto irresistibile dell'eloquenza. Infatti, gigantesco e fosco come il medio evo del quale riassume l'anima e condensa la voce, De Maistre nega ogni civiltà e progresso; per lui l'uomo è malvagio, nato nel peccato, vivente di peccato e nel peccato malgrado ogni redenzione. La vita dell'individuo e della società è quindi soggetta alla doppia legge della espiazione e della riversibilità: «La terra è un immenso altare, dove tutto ciò che vive deve essere immolato senza termine, senza misura, senza interruzione, fino alla consumazione delle cose, sino all'estinzione del male, sino alla morte della morte». Il giusto soffre dunque per il peccatore, le rivoluzioni scontano le pene del passato e le proprie in eccessi inevitabili. Le costituzioni debbono essere suggerite da Dio, che non parla ai popoli che per mezzo dei re: il re è il legislatore, carnefice e sacerdote della legge. Tutto è quindi rivelazione, e poichè anche i re sono uomini e possono fallire, la verità è a Roma depositata da Dio nel papato eterno, universale, onnipotente. alto sul mondo come un faro, nebuloso e fiammeggiante come un Sinai, dal quale s'ode di secolo in secolo la voce di Dio.
Era l'ultimo sublime sforzo della reazione medioevale, al quale Roma non poteva prestarsi: Pio VII non era Gregorio VII.
Roma invece patteggiava nei concordati, accattando pel proprio regno, destreggiandosi nella diplomazia, riorganizzando i gesuiti per lanciarli di nuovo alla conquista di tutti i piccoli interessi e di tutte le piccole coscienze. Il suo periodo di supremazia politica era passato, il suo tempo religioso proseguiva adattandosi inconsciamente alla nuova epoca storica; mentre la filosofia tedesca, riprendendo il lavoro della filosofia francese nel secolo antecedente, invece di abbattere il mondo della religione ne creava un altro, nel quale questa non era più che uno fra molti elementi spirituali.
Roma abbandonò il proprio teologo o seguendolo da lungi lo diminuì nelle interpretazioni col Cavedoni, col Leopardi, esoso genitore del grande poeta, col Canosa, poliziotto stupidamente feroce, coi sanfedisti inettamente superstiziosi e inutilmente assassini. La corte di Savoia, dopo essersi giovata di De Maistre come ambasciatore a Pietroburgo, non ardì servirsi di lui quale politico.
Il liberalismo.
Ma se il liberalismo non aveva ancora un ingegno così ardente di scrittore come il De Maistre, si dilatava sotto le pressure della reazione monarchico-religiosa con ammirabile celerità. Le idee di uguaglianza, di sovranità popolare, di diritto civile e politico si allargavano nelle coscienze: l'abbiezione del presente, malgrado i vantaggi della sua pace, rendeva belle le memorie delle agitazioni rivoluzionarie, quando esisteva il regno d'Italia, e le legioni italiane si addestravano nel campo di Boulogne, battagliavano in Ispagna, in Germania, in Russia, dappertutto; s'udivano in cuore le antiche fanfare, agli occhi sventolavano le bandiere vittoriose. Impiegati, soldati, politicanti, professori, mercanti, industriali, borghesi, popolani, molti anche dell'aristocrazia malvisi alle corti, si rinfiammavano nelle visioni del passato, beffando e contrastando alla ristorazione; gl'interessi offesi si coalizzavano, la fugace unità della dominazione napoleonica aveva interrotto la tradizione e scemata la certezza delle divisioni federali. Criticando i nuovi governi si opponeva loro inevitabilmente l'utopia di una Italia intera, poichè nella negazione di ogni fatto politico deve contenersi l'affermazione di un fatto maggiore. La partecipazione alla vita europea nei vent'anni della rivoluzione aveva dato alle coscienze una elasticità, che soffriva della nuova compressione. Tutti coloro abituati a pensare e ad agire odiavano quindi una ristorazione, che non avendo passato da riprodurre interdiceva l'avvenire. Mentre Napoleone, costretto ad amministrare con violenta dittatura, manometteva i diritti di tutte le amministrazioni da lui stesso liberate dei vecchi ceppi, i nuovi governi per imitare il suo assolutismo richiamavano ogni ordine e diritto sotto l'arbitrio della polizia. Una tirannide minuta ed odiosa soffocava così quelle speranze, che già promettevano all'Italia la personalità nazionale.
Poi le confessioni di Napoleone prigioniero a Sant'Elena, nelle quali riaffermava la necessità per l'Europa di ricostituire l'Italia, le risollevavano.
Mentre gli stati prima della rivoluzione poggiavano su privilegi e gerarchie immobili di classi, la rivoluzione, richiamando in disputa ogni principio di autorità ed aprendo la società come una carriera libera a tutte le forze individuali, aveva per sempre sommosso il loro vecchio assetto. Nulla poteva più riaddormentare la svegliata individualità. Ma poichè la rivoluzione era venuta dall'estero, le coscienze italiane accogliendola non potevano intenderla ancora che molto imperfettamente; i sentimenti anticipavano sulle idee; queste, imbrogliandosi fra abitudini incorreggibili ed irrefrenabili velleità, concordavano ad affermazioni fantastiche. Le monarchie, accolte con ovazioni quasi unanimi da principio, ripugnarono ben presto; il malcontento si accrebbe d'altre cagioni; infierirono pestilenze e carestie, alle quali i governi non seppero in alcun modo provvedere. Il bisogno di libero scambio fra tante dogane, di strade praticabili, di leggi discusse, di giudizi publici, di sicurezza nel debito publico, di uguaglianza nelle imposte, di pubblicità nell'amministrazione, di libertà nel pensiero, nella parola e nei viaggi, di azione politica nella vita, divenne passione, accumulando speranze e rancori, studi ed armi, propositi di vendetta e di emancipazioni.
La carboneria, mescolatasi invano a tutte le congiure per costituire un regno italico nelle ultime ore della rovina napoleonica, diramò le proprie propaggini per ogni città ed ogni villa, cosicchè un rapporto del governo austriaco l'estimò in breve ad 80,000 membri. Vi si era rifugiata la maggior parte dei bonapartisti sdegnanti la ristorazione o da essa ricusati. Nell'alta e nella media Italia le società degli Adelchi e degli Adelfi, nate dal bonapartismo liberale, si moltiplicavano, mentre i liberi-muratori già aderenti a Napoleone si rivoltavano contro i nuovi governi legittimi; nelle Calabrie interi municipi erano ordinati in Vendite di carbonari; queste avevano già guadagnato le Romagne, il Piemonte, la Lombardia, i ducati di Modena e di Parma. Altre sètte pullulavano. Maggiore fra esse l'Ausonia, che giurava formare una republica italiana divisa in ventuno stati, ciascuno dei quali manderebbe un deputato annuale all'assemblea sovrana; assemblee provinciali nominerebbero corti di cassazione, consigli dipartimentali, distretto e cantone, capi delle guardie nazionali, arcivescovo, prefetti dei seminari e dei licei. Il potere esecutivo sarebbe affidato a due re di terra e di mare eletti per ventun anni dall'assemblea senza distinzioni ereditarie; imposta progressiva, il più povero pagherebbe un settimo della propria rendita, il più ricco sei settimi; il papa sarebbe pregato di diventare patriarca della republica dietro risarcimento dei beni temporali toltigli; il collegio dei cardinali non risiederebbe nella republica, ed eleggendo un nuovo papa questi risiederebbe altrove; conservati degli ordini monastici solo i mendicanti.
Tale il concetto fantastico e bigotto dei settari di allora.
I carbonari non erano molto più pratici, benchè a contatto della Francia, nella quale Buonarrotti socialista discepolo di Baboeuf li aveva trapiantati, assorbissero idee più positive. Alti personaggi come Lafayette, Dupont de l'Eure e Luigi Bonaparte, figlio del re di Olanda, vi mestavano; ma l'arcadia politica dominava ancora tutte le sètte. Il romanticismo diffuso dalla letteratura si compiaceva nel segreto e nel terrore d'iniziazione teatralmente tragiche: si tenevano adunanze misteriose, si lanciavano minaccie ai sovrani e si colpiva raramente qualche poliziotto; s'inventavano lugubri scherzi per atterrire le fantasie e spaventare i governi. Ma questi, inseverendo nella reazione, spingevano allo scoppio: le sètte reazionarie spalleggiate dalle polizie cercavano a sfida le liberali, i moti rivoluzionari della Grecia accendevano gli animi, si attendevano esplosioni in tutta l'Europa. Un mondo sotterraneo si agitava sotto il mondo politico della ristorazione; piccole ribellioni a Macerata e nel Polesine (1817) represse ferocemente dal papa e dall'Austria iniziavano la guerra, mutando le forche in labari e i condannati in eroi. La santa alleanza, congregata ad Aquisgrana (1818), stringeva i freni del dispotismo, stabilendo di impedire ogni governo costituzionale e spronando a repressioni implacabili; il dispotismo nel precisarsi schiariva la libertà; il duello segreto delle sètte colle polizie assumeva proporzioni europee. Spagna, Francia, Germania fermentavano; l'Italia era tutta minata, e nullameno l'imminente esplosione non doveva fare che poco fumo e fracasso.
Le società, appunto perchè segrete, perderebbero la voce nel gran giorno della pubblicità. L'immensa massa del popolo incapace di entrare in esse non poteva comprenderle; il loro lavoro segreto, parcellario e quindi inorganico, non giungerebbe ad immedesimarsi istantaneamente colla vita del popolo secondo le necessità della rivoluzione. La coscienza politica era ancora allo stadio sentimentale; si amava la libertà senza saperla definire; dalle monarchie si attendevano costituzioni che nessuno si curava di precisare; il concetto lirico dell'unità italiana veniva negato ovunque dai risvegli federali; l'affratellamento delle congiure non compensava la scarsezza di relazioni fra le provincie; il problema del papato veniva peggiorato dalle idee religiose dei settari, che, affermando per primo articolo la necessità del cattolicismo, negavano la libertà religiosa. Mancava una città, una dinastia, una classe, un uomo, nel quale imperniare il movimento; non armi, non denari, non ordini, non idee. Le monarchie forti della identità di interessi, aiutate da Roma e sorrette dall'Austria, avrebbero fatalmente prevalso alla borghesia settaria, frazionata in sètte mal sicure di programmi e di capi.
Il problema italico non si era ancora rivelato ad alcuna coscienza nella terribile semplicità dei propri termini.
L'Italia non poteva costituirsi nazionalmente che colla federazione o coll'unità; per l'una e per l'altra, Austria e papato erano ostacoli invincibili. Per la federazione bisognava che un accordo spontaneo e quindi impossibile di principi concedesse ai popoli una stessa costituzione liberale, dichiarando tosto la guerra all'Austria. Ma il papa per il proprio principio teocratico non potrebbe concederla, e l'Austria invaderebbe tutti gli stati prima che questi si preparassero alla guerra. E dietro l'Austria minacciava la santa alleanza. Per l'unità il problema peggiorava ancora: republicana, doveva sopprimere tutti i principi; monarchica, divorarli con una conquista. Chi sarebbe il conquistatore? E Roma? e Vienna? e la santa alleanza?
Invece il problema si sminuzzava in ognuno degli stati. I settari sognavano un'incognita costituzione per emancipare se stessi, disponendosi ingenuamente a dimenticare i compagni congiurati delle altre provincie e ad agire magari separatamente come poi avvenne. Mentre l'idealità e l'intenzione erano italiane, coscienza, metodo e scopo erano ancora federali. Napoli si conservava tuttavia straniera a Firenze, a Milano, a Genova, a Torino. Di Roma, sola capitale, centro ideale storico, appena si parlava. L'imminente insurrezione non era e non poteva essere che una fase del duello fra le sètte e le polizie, un modo di pubblicità per le idee politiche, che, celate nelle società segrete, si scoprirebbero al popolo nell'inevitabile e generoso disastro d'una sconfitta. Quindi la necessità per l'insurrezione di fallire discendeva non solo dalla mancanza di una coscienza e di un'idea politica, ma dalla fatalità dell'Italia futura, alla quale simili forme e moti angustamente ed egoisticamente regionali contraddicevano. Ogni loro fallimento e le conseguenti rovine educherebbero gli animi a un più largo concetto dell'Italia, togliendoli di prova in prova all'inganno di compiere una rivoluzione colle monarchie della ristorazione. E poichè la storia utilizza sempre le forme che mantiene in se stessa, quelle monarchie risorte contro la rivoluzione francese dovevano servire alla futura rivoluzione italiana, ammaestrando il liberalismo tanto col combatterlo che col prestarsi ad assurde improvvisazioni costituzionali. La federazione indietreggerebbe così lentamente dinanzi all'idea dell'unità; il papato si scoprirebbe inconciliabile colla nuova Italia; l'Austria resterebbe unico nemico della sua indipendenza; e la libertà, sempre tradita dalle monarchie, si alzerebbe sopra di esse alla visione della republica, o guadagnerebbe la meno trista fra loro, per conquistare con essa tutta l'Italia e mutarla in nazione.