MONOTONIE
MONOTONIE
VERSI
DI
OTTONE DE BANZOLE
(ALFREDO ORIANI)
IN BOLOGNA PRESSO NICOLA ZANICHELLI MDCCCLXXVIII
INDICE Signora
Il vostro nome era una virtù, la vostra vita un capriccio, la vostra morte fu un martirio. Questo libro che mi chiedeste un giorno col più spensierato dei vostri sorrisi lo depongo oggi sulla vostra tomba; non lo leggerete; se foste viva non vi risovverreste più nè del poeta, nè dell'uomo.
Ottone de Banzole.
Là dove altra volta l'artista disperò, là cominciarono la politica e la filosofia; là dove oggi il politico ed il filosofo disperano, là ricomincia l'artista.
Riccardo Wagner.
LO SCROFOLOSO
Vien qui, divina
bionda fanciulla dalla fronte pallida:
vieni e ti china
sull'infelice che t'amava incognito.
Dalla finestra
non veggo il sol, ma sento che dilegua...
Oh! la tua destra
mi pon sul capo, ancor morir non voglio;
e se tramonta
il caldo sole e, qual nella miseria
amico, pronta
fuggi la giovinezza e sul giaciglio
dell'ospedale
imputridisco — tu, severa monaca,
l'ultimo vale
del poeta deliba ed egli un bacio.
Lo so, che puro
come la neve delle alpine guglie
un sacro giuro
vuole il tuo corpo dall'amor degli uomini;
che uno schifoso
male mi cruccia e sul sembiante gonfio
e sanguinoso
abbuia l'idëal luce dell'anima.
Ma sovrumano
m'urge il bisogno di un tuo santo bacio:
vergin, la mano
ponmi sul capo e vuo' parlarti. Splendida
una mattina,
dalla triste soffitta uscivo all'aria
pura; la brina
di ricami vestiva i nudi platani
del gran viale —
ed io sognava una passione incognita,
una spirtale
beltà di donna qual non era e d'angelo,
candida, mesta
voluttuosa e alteramente vergine.
La bella testa
tua m'apparì, disparve in un patrizio
cocchio elegante.
Ed io t'amai d'immenso amor: quel rapido
beato istante
fu la mia vita — e qui sul letto incommodo,
che la insolente
carità dei felici mi elemosina,
oh! finalmente
qui ti riveggo dall'eccelsa immagine
quanto mutata...
Di gnomo il corpo con un volto d'angelo:
o sciagurata
vien qui ed amiamci, che la mia bell'anima
val la tua faccia.
Santo l'amore che consola il povero;
fra le mie braccia,
sposa di Cristo, ti rifugia e lagrima!
Vuoi tu che il mondo
per noi deformi non possegga un gaudio?
Lacera al biondo
crine le bende e sul guancial discioglilo
del tuo morente,
inutil vate e ci perdiam nell'estasi
muta, fremente
d'un insaziato, interminabil bacio.
Fuori all'aperto
crescan le rose ed armonioso palpiti
il gran concerto
della vita: per noi brutti, ridicoli
nei corridori
di un ospedale fra strazianti gemiti,
chiusi dolori,
di un disperato amor solo il delirio,
sol ci rimane.
O bella santa! se la tua disgrazia
non rese vane
degli afflitti le voci alle tue orecchie,
e la malata
vita sacrasti a consolar; se lagrima
unqua asciugata
ti fu rugiada all'arso fior dell'anima;
e se la fede
hai di un divino amor, che dove orribile
la sferza fiede
della natura ci soccorra un balsamo...
m'ama: il tuo Dio
certo il consente. Inorridita, trepida
mi fugge... Addio!
Muori, ti aspetta il sol, poeta inutile!
Casola Valsenio 1876 10 Settembre.
LA VIOLA (PER UNA FANCIULLA)
Viola, che mediti
fra l'erbe romita,
col capo sì languido
che sembri assopita?
Il sole rifolgora,
la vita è una gioia:
e il fior primigenio
di marzo si annoia?!
Perchè? sei pur pallida...
T'intendo, bel fiore;
te, nata nei palpiti
precoci di amore,
emblema d'insipida
modestia ti volle
un volgo d'ignobili —
E allor fra le zolle,
dimessa la faccia
ti festi romita;
e i primi rammemori
bei giorni, avvilita. Bologna, 1876 8 Maggio.
AUTUNNO
Vola, fuggiasca rondine,
che verrò teco a vol.
Tutto è qui morto — o rondine,
dove dirizzi il vol?
Lontan lontan ceruleo
sorride il ciel; sorride
più in alto il sole — o rondine,
quale più ti sorride?
Vola, fuggiasca rondine,
fuggiasco volerò:
tutto è qui morto — perdermi
lontan, lontan io vò.
Casola Valsenio 1876. Agosto.
IL COLTELLO
Son lungo, son lucido,
la punta sottile;
mi appiatto in saccoccia,
mi dicono un vile;
mi offusco nell'aria,
non soffro un vicino,
la luce mi è in odio
siccome al buon vino.
Son tacito, gelido,
robusto e leggiero,
la lama bianchissima
nel manico nero,
e quasi somiglio
nell'abito bruno
la monaca pallida
dal santo digiuno.
La spada dal fodero
è lenta ad uscire;
poi romba nell'aria,
bastone al colpire.
Imita la vipera
l'antico fioretto;
ha il guizzo ed il sibilo,
ma io sol son perfetto.
Attendo invisibile
in tasca sdraiato,
immobil nel rischio
mortal nell'agguato
e irrompo, fiammeggio,
baleno, dileguo
nel corpo, nell'anima,
divido, proseguo,
ritorno, rosseggio
scompaio... son muto,
fumante, eppur gelido;
ho vinto, ho perduto.
Ma senza uno scoppio
di suon, di scintille.
Son chiuso: nel manico
mi restan tre stille —
domani tre macchie;
sarò decorato,
saran le medaglie
che danno al soldato
qual premio di gloria...
ovver saran spie.
Che importa? non mentono
i forti — son mie.
Guerriera è la sciabola,
patrizio il fioretto,
da sbirri o da comici
la daga, il stiletto.
Io sono del popolo:
battendomi attacco,
non paro, non simulo;
mi dicon: vigliacco!
Adoro le tenebre,
gli orrori, i secreti:
son come le nottole,
gli spirti, i poeti.
Severo, immutabile
tal ier, tal domane;
al colpo infallibile,
fedel più di un cane.
Non latro, non mangio
nè polver, nè palle:
m'avvento alla faccia
al petto alle spalle
e mordo insaziabile.
Pistole strepenti,
o tosse o sbadiglio,
vi cascano i denti;
e inutili, vacue
ad ogni latrato,
buon'arma pel vecchio,
pel vil, pel soldato.
Io sono lo slancio,
la forza, il coraggio,
violenza di fulmine,
fulgore di raggio.
D'intorno mi piovono
condanne e disprezzo;
d'intorno mi semino
paura e ribrezzo...
Coi vinti, coi poveri,
coi servi ribelle:
La vita è una insidia?!
E pelle per pelle...
Bologna 1878 Aprile 25 Marzo.
IDEALE
Pure t'amai, incognita
forma, d'immenso amor;
ed un sublime tempio
t'ersi nel vuoto cor.
Là nelle notti assidua
venivo a vigilar...
spesso la calda guancia
premendo al freddo altar.
E là sull'arpa trepida
la vergine cantò;
povera Emilia! l'idolo
il velo non alzò.
PALINODIA
Ah! ridi e arrossi, Emilia!
Mi piace il tuo rossor:
egli è d'ebbrezza e luccica
dei capelli fra l'or.
Di lor ti vesti, spregia
la cotta del pudor...
È nudo il sol — dev'esserlo
la voluttà e l'amor.
Intorno al seno candido
ti verrà il mio pensier
battendo l'ali tremole
di angoscia e di piacer.
E tu lo chiama: docile
l'amoroso sparvier
vedrai.
— Ah, pena inutile!
vola il bruno corsier,
s'alza la sabbia in nugolo,
dilegua il cavalier...
Povera Emilia, l'idolo
svanisce e il cavalier!
Faenza 1875.
BARCAROLA
Soffia il vento nella vela,
ride il cielo e ride il mar;
la fanciulla ascolta anela
la canzon del marinar.
Poveretta! canta il vino,
canta il mare traditor,
la sua pipa, il suo destino,
canta tutto e non d'amor.
Soffia il vento nella vela,
ride il cielo e ride il mar;
la fanciulla il volto cela
lagrimoso al marinar.
Ridi, via! t'asciughi il vento,
bella, il pianto del dolor;
e all'ingenuo lamento
chiuda l'uscio del tuo cuor
la speranza d'altro amor.
Oh! ti s'alza il fazzoletto
svolazzandoti sul petto...
Qual più ride di candor?
NEL BAGNO
Se nuda sei, se libero
il lungo crin t'innonda,
non ti guardar, bellissima,
non ti guardar nell'onda!
Troppo la canda immagine
ti parrà bella allor,
e nel superbo fremito
io ti cadrò dal cor.
Bella, nel manto morbido
de' tuoi capei ti stringi
e la vezzosa lagrima
della conchiglia fingi!
L'acqua l'ignori — io pallido,
io solo t'aprirò:
e con un bacio, o lagrima
sublime, io ti berrò.
BRINDISI
Nevica sulla neve — un assassino
freddo s'insinua
nelle soffitte: allegramente il vino
versiam nei calici.
Versate, amici, il vino! ormai la testa,
fosca nel tacito
cimitero del cor, alza e si desta
degl'inni il genio
e resuscita. Un dì carco di fede,
d'amor, di floride
speranze mise falsamente il piede,
e come un asino
per troppa soma cadde. All'infelice
passo una femmina
fu la cagione e si chiamava Bice.
Aristocratica,
a me poeta preferì il cocchiere
di spalle erculee...
Versate vino, empitemi il bicchiere —
un inno, Lazzaro!
Nevica sulla neve — il freddo sprona
la fame ai poveri.
La Provvidenza, che all'agnello dona
lana bastevole,
i ricchi inspiri; nei caldi tinelli
tribune s'ergano
pei poveri affamati — Siam fratelli:
il vangel predica!
Mangeranno cogli occhi e colle nari
a due ganascie
i ricchi: dunque non è il conto pari?
Ecco il rimedio.
Nevica sulla neve — e noi la tazza
vuotiam dell'orgia:
la voluttà vuolsi ubbriaca o pazza:
voglio il delirio
di visïoni belle e forsennate,
e risa ciniche,
gesti convulsi ed insolenti occhiate,
baci che mordano,
un amor che s'uccide e sè disprezza...
Anch'io son asino,
drizzo le orecchie e strappo la capezza:
signore, amatemi!
ne val la pena e valgo il vostro amante;
non ho modestia:
in alto levo il merto ed il sembiante,
sogghigno e raglio.
Nevica sulla neve — e mi divora
la gola e l'anima
una sete infernale: ancora, ancora
la tazza empitemi.
Sento una fiamma che sferzando sale
dal cuore fumido
al cervello e diggià vi abbrucia l'ale
alle libellule
voluttuose. Mi ribolle il sangue,
prorompe l'odio —
Tu che strisci pei fior, mortifer'angue,
mi presta il tossico
della tua bocca e il canto avvelenato
lamba le orecchie
ed avveleni. Tu, vile affamato,
cui la miseria
non fa ribelle e sotto un nobil tacco
la fronte umilii
supplicando: ho fame... ho figli — vigliacco,
muori... ti odio!
E tu, ricco felice, che assapori
gli ardenti gaudii
della giovane vita, e gloria, amori,
ed arte e studio
di sublimi pensier: tu, che imbecille
o grande domini
in alto sempre sopra mille e mille,
che muti soffrono...
Ebben più vasto della tua ventura
ti porto un odio,
che succhiai dal dolore e freme e dura
inestinguibile.
Bada che presto ci battrem, fratello:
a te gli eserciti,
i cannoni e le spade — a me il coltello;
Viva il petrolio!
Nevica sulla neve — Oh qual dolore
la vita inutile!
Mamma, quell'ora che ti vinse amore
era ben meglio
di morir: tu, buona mamma, l'ebbrezza
della lussuria
volesti; adesso la crudel stoltezza
paga tuo figlio
e tu, mamma, godesti... Maledetta
l'ora del nascere,
l'ora che piansi, che pensai l'abbietta,
nudità livida
della vita vestir con illusioni
e vaghe e nobili;
maledetto l'ingegno e le canzoni,
la fede e l'orgia!
Maledetto quel sen che mi nutriva,
e il sen più tenero
delle amanti di un dì — Sento la riva
sotto il piè cedere
e trascinarmi nel fatal torrente.
Mena cadaveri
giù negli abissi; nero e silente
lungi dilegua...
Ebben m'inghiotta — la fangosa sponda
scema, precipita:
l'onda m'inghiotta, ma vaghi sull'onda
la mia bestemmia!
Casola Valsenio 1876 Agosto.
BIANCA!
Pallida come il raggio
dell'alba sulle eternamente nivee
cime dei monti la tua gota, o Silvia,
e come il ciel di maggio
la cerula pupilla.
Quieto splendor, quasi velata e tremola
profondità — incanta, non affascina;
riluce e non scintilla,
Eppur sei bella! Spesso
inavvertito d'ostinato ed avido
sguardo ti stringo, e sul tuo bianco gelido
erro, erro perplesso
al par del vïatore
per le balze scoscese e le voragini
mentite dalle nevi — arcani brividi
scuotono mente e cuore.
E sul tuo freddo bianco,
sotto lo sguardo immensamente cerulo
de' tuoi begli occhi il febbril desiderio
cade gelato e stanco.
LA VESTIZIONE
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . .
Prega il tuo vecchio Dio; da lunghi secoli
alla tua casa si mantenne amico;
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . .
. . . . . . . . . . e tu lo supplica,
che dal libro tremendo della storia
il tuo nome cancelli. Una miseria,
frate, è la gloria:
una miseria di peccato, un orrido
rossor d'incendio la sua luce, un grido
spaventato di poveri lo strepito
confuso, infido
de' suoi trionfi — e tu lo sai, che, estranio,
di Carlo quinto risalisti il trono
e lo scendesti di un tumulto civico
al primo tuono.
Va, fàtti frate — per cento battaglie,
per ogni terra ogni nemico infranto,
con due mondi prostesi alle ginocchia
stette; ed il manto
imperïal gittando, nel silenzio
di tutti scese pallido severo
di uno sprezzo sublime e in sulla soglia
del monastero
fra i mendichi aspettò mendico — principe
di poco nome, re fuggiasco, vinto
guerrier d'Italia vuoi la doppia gloria
di Carlo quinto?
Va, fàtti frate: del titano l'epiche
orme ricalca in umiltà mentita,
ripeti al mondo la vasta tragedia
della sua vita.
Il mondo applauda nel convulso gaudio
di spettacolo insano al nuovo attore:
della tomba nel pensoso silenzio
l'imperatore
ti sorrida — Va, fàtti frate, umilia
la tua testa di re: di Dio sei degno;
tu sulla terra, ne' svelati empirei
ei senza regno!
Noi procediamo, i lombi di coraggio
cinti, dell'avvenir sulla collina,
il baleno negli occhi, ai piedi il sangue
per la ruina
di cento mondi, e nella densa marcia
principi e grandi cadon soffocati...
urla la plebe indomita e si slancia
pei dirupati
sentieri all'ardua vetta — il sol purpureo
ride agli sforzi giganteschi, esulta
la natura e ci guarda lusinghevole
la storia adulta.
Avanti, avanti, nella irremeabile
tenebra fuggendo Dio s'è ritratto:
è la scienza con noi, con noi la gioia
di un nuovo patto.
Avanti, avanti, sulla fosca traccia
di Dio fuggiaschi vanno i privilegi
dell'avaro lavor, dell'ozio nobile,
e preti e regi.
Avanti, audaci pionieri, martiri
fatali, eterni di un pensier negato,
alte le scuri, nudo il braccio e l'animo
insazïato!
è l'estrema battaglia di uno splendido
novello mondo sulle sante porte:
È nostra la vittoria, il vinto muoia...
Viva la morte!
Casola Valsenio Agosto 1877.
DOPO
Oh! ti ricordi quella bianca stella
lontanamente splendida
che guardammo una notte? Eri pur bella,
pallida, seria e meditavi. Lente
in alto si curvavano
le cime dei cipressi e nel fremente
silenzio lussuriose moribonde
parlavan le gardenie
pur cogli odori: dalle treccie bionde
il tuo profumo mi salia pel volto,
e l'anima fantastica
d'una ignota passion da te, dal folto
giardin rapiva, come il vento invola
alla rosa le foglie,
in alto in alto; e in quel viaggio sola
col tuo profumo nel languor sveniva
d'una indistinta, gracile,
misteriosa carezza. In sulla riva
di quella canda stella ancor più canda
radïavi sul limpido
oceàn dell'azzurro; un'aura blanda
tradia d'un bacio le tue molli forme:
l'immenso mar ceruleo
morìati a' piedi ed i pianeti a torme
vi navigavan — Naufrago morente,
a un vago desiderio
aggrappato, lontan, lontanamente
io ti vedevo bella bella bella...
e invan le stanche braccia
agitavo nuotando inver la stella
lontanamente splendida. Sfinito
in quell'immenso, inconscio
desiderio, nel placido infinito,
fra gli astri innumerabili, nel vasto
luminoso silenzio,
del tuo bel volto nel pallido fasto
io mi perdea, e, del tuo biondo odore
nelle carezze tenui,
dell'ignoto naufragio il mio dolore
consolavo e consolo — E tu la stella
lontanamente splendida
di quella notte li ricordi, o bella?...
Casola Valsenio. Agosto 1877.
A GIOSUÈ CARDUCCI (ODI BARBARE) RISPOSTA DI UN BARBARO
I.
Sprona il tuo sauro dalle nari ardenti
e la lunga criniera, e via pel cielo
corri siccome una fatal cometa
orribilmente bella,
sola: le stelle fremano curiose
al furiar della corsa e le saette
rispondano lontane agli anelanti
nitriti del corsiero;
mentre le genti dalle grasse valli
alzin gli sguardi e a te meraviglianti
accennino con trepido sussurro
di fede e di speranza.
Sprona: la soglia d'ignorati mondi
batti colla sonora unghia ferrata,
quindi improvviso delle reggie avvalla
a scalpitar sui tetti,
bianco di spuma, il morso insanguinato,
l'occhio di fuoco e la criniera al nembo...
e tu, poeta, calmo nel pallore
d'invincibil veggente.
Bello! le turbe leveranno il grido
della tempesta a salutarti, e lungi
l'arcangelo di dio ritto sul tempio
fiammante di baleni
sentirà della destra un dì possente
cadere il brando arrugginito, mentre
il re si cerchi con convulsa mano
la corona sul capo.
A che pei colli ove la magra capra
bruca i cespugli incarogniti e ignaro
d'ogni passato ed avvenir fischiando
il capraro si svaga;
o per deserta via nota al mercante
di selvagge vaccine, o nella calva
prateria che i ruscelli apron fetenti,
verdi, brevi ed immoti;
perchè sul collo del bel sauro lente
le redini trapassi e l'occhio al suolo
cercando le vestigia di una strada
trionfale di Roma?
È morta Roma: l'edificio immane
del suo impero crollò, che il sol vitale
ai popoli rapiva, invan sparuti
nell'odio e nella fame:
Roma patrizia che la immonda plebe,
siccome una gragnuola di locuste,
scagliava alle provincie, e nei teatri
di marmi istoriati,
dei vinti regi al calice prezioso
beveva il sangue di un venduto eroe,
barbaro lo chiamando e la sua gente
lontana all'orizzonte,
con un sorriso di pensier superbo.
Roma pagana dalle dotte leggi,
schiava regina d'infiniti schiavi,
parassita del mondo,
cadde. Lo sguardo dalle vette alpine
abbassa intorno e làgnati, poeta,
del rovinato imperio e delle tante
vaste nazioni sôrte
dalle macerie. Primo fior la croce
sui rottami del tempio apollinèo
bruna s'aderse e ignoto nazareno
v'apparve nuovo Dio.
Quindi i selvaggi vincitor di Roma
piegâr le fronti; una tepente brezza
aleggiò sulla terra e i conculcati
sorrisero di fede,
invano sempre! Il martire giudeo,
nella corrotta aura del tempio antico,
risorgeva tiranno al par di Giove
dai tristi sacerdoti:
ed ei più triste di dolor demente
l'anime invase, maledisse al mondo,
l'immortale terror in sul confine
chiamando della vita
a precluder lo scampo. I dì passaro
del cristiano impero. Un freddo vento
boreal dalla croce il secco Dio,
qual foglia inaridita,
dall'albero divelse. Indarno i bronzi
tuonan festosi dalle sacre torri
richiamando le turbe nella vasta
chiesa parata a festa...
Un lungo lagno sepolcral s'eleva
dall'organo: l'altar divenne bara;
bruciano i ceri, olezzano le rose
funebri — è morto Cristo.
E tu, poeta dall'acuto sguardo,
che fóra l'avvenir, fascio di luce,
onde balena ai popoli la strada
dell'incognita meta,
tu vedi ancor Cristo ed Apollo in lotta
mortal ferocemente abbrancolati
come atleti nel circo, e buon pagano
scommetti per Apollo?
Ancor republicano il Campidoglio
di Roma antica fantasioso sali,
aspettando la candida quadriga
del console vincente;
che in cor ti freme il lubrico sorriso
di Lidia bianca dalle rosee braccia,
cura d'Orazio? È morta Roma, il biondo
Apollo è morto, è morto
Cristo, l'estremo degli Dei: lo sdegno
cesse e la beffa sui caduti — è morta
Lidia, cura d'Orazio; e la tua bianca
Lidia è di bianco marmo.
II.
Lascia, poeta, l'aere muffoso
della scuola e gli antichi oscuri libri;
fremon le vie, sorride il ciel, sorride
il sol, la vita è fuori.
S'urtano le passioni; dagli sguardi
balzan rosse scintille, dalle labbra
rosse parole e nel clamor la nota
s'ode di un fresco bacio,
che lungi il vento gitta alla sonora
chioma della foresta ed ai narcisi
ripetono le rose coll'olente
sussurro delle foglie.
Ama: vezzosa popolana ride
nel logoro corsetto: imbaccuccata
nello scialle fiorito, a brevi passi,
in pugno le sottane,
s'affretta la sartina e par sul prato
allodola che salti e al sol nascente
mandi un vispo saluto. Altera e bella
di negletta eleganza,
nel gemmeo pallor gli occhi languenti,
odorosa di sete e di un febbrile
mister di voluttà, passa la dama,
novissima pagana.
Ama: di puro, di lascivo amore,
mesto, giocondo; alla menzogna credi,
menti tu stesso e la ragion correggi
nel senno del demente.
Vita è follia ed il dolor peccato,
virtù la gioia... Oh se fatale il giorno
della luce ti fu, se in cor ti rugge
l'ira della sventura,
lascia le strade popolose, ai neri
borghi ti cala e le soffitte cerca
note alla fame, tu feroce ignoto
fra incogniti feroci.
Odi, interroga, scruta — ogni soffitta
ha la sua storia di dolori, antica
storia dei vinti di ogni dì, dei morti,
di color che morranno
nella battaglia della vita inermi.
Anime e corpi scruta: ai sozzi cenci
delle speranze e delle vesti ardito
poni la mano: origlia
alle coscienze e sentirai compressa,
profondamente con sordo rimbombo,
ribollir di vulcani insospettati
l'irosa onnipotenza...
ed esci — Invano con convulse dita
tenti la cetra del tuo biondo Apollo
a tal canto di morte — o mio poeta,
è d'avorio la cetra!
L'unghie ti caccia in cuore e il cuor ti sbrana
ferocemente e col zampil di sangue
ti prorompa la nota, unico e primo
urlo di un altro mondo.
Canta la fame dei poppanti, orrenda
fame di vecchi e di malati, orrenda
fame di luce, di saper, d'amore,
la fame della vita:
canta, risali i secoli, divaga
per ogni terra, ogni nazione illustre
od umile di storia; e ovunque l'eco
il canto ti ripeta
e tu coll'eco addoppia il tristo canto.
Canta, poeta, la leggenda arcana
dei vinti eterni, dei vincenti presso
al giorno della morte;
belli nel manto del trionfo, il capo
inghirlandato e nello sguardo il riso
di un vasto mondo di pensier di gloria,
sonnambuli felici;
mentre tremoto sotto i monti e sovra
nube infinita di procella nera
freme l'odio immortale e vittorioso,
sola virtù dei vinti.
Casola Valsenio Ottobre 1877.
NINA — NANNA
Fuma presso la cesta una candela
lercia di sego e sgocciola;
fuori la notte sonnecchiando gela
ravvolta nelle tenebre.
È freddo: il vento dalla chiusa imposta
brontola come un povero
ed allo spento focolar s'accosta
soffiando nella cenere,
che s'alza: la candela alle pareti
sbatte l'ombre fantastiche,
mentre i bambini dormono quïeti
nel cesto della paglia.
Affagottati dentro una sottana
non han più freddo, e ridono
sognando chi sa cosa nell'arcana
vacuïtà dell'anima.
Ma la vecchia rimasta col corsetto
e la corta camicia,
strette le mani nello scarno petto
e il petto alle ginocchia
invano si rannicchia e sui piccini
fisa l'occhio sonnambulo —
È troppo freddo, i due biricchini
han spogliato la vecchia;
e tepidi abbracciati in una gioia
senza pensier l'uccidono;
ieri s'urlava in piazza: morte al boia...
Ed i bambini ridono.
È freddo, nina-nanna:
per coperta non ho che la camicia
e il letto m'è la scranna.
Il vento come un cane
nelle gambe mi sfrega e si rannicchia
cercando le sottane...
O cane, va in malora:
apposta per istrada la pelliccia
di una vecchia signora
e vi ti caccia, e s'ella
non ti vuol dispettosa, tu la morsica
di sotto la mammella.
È freddo, nina-nanna;
Il vento fischia e brontola lo stomaco,
la fame non s'inganna.
Nè pane, nè minestra
da ieri; in casa una polenta candida
di neve alla finestra,
che pare il primo fiore
del grano — è stata l'ultima elemosina...
anche Dio è un signore!
Mezzanotte suonata.
È tardi: quando l'alba strizza il ghiaccio,
strizza, sarò ghiacciata.
È freddo, nina — nanna:
La mamma e il babbo sotto terra scordano,
dormendo, la condanna.
Che neve quella sera!
Il sangue aveva macchiato giù la manica...
babbo morì in galera.
la mamma era di latte:
portava le sottane alle ginocchia,
battendo le ciabatte,
che la gente guardava,
e più d'un bel signor le diede un bacio
Allora si mangiava...
È freddo, nina — nanna
i baci sulla becca le marcirono,
la vita di una spanna...
è morta all'ospedale.
Io v'ho raccolti e adesso manca l'olio
al lume e manca il sale.
Buona notte! persino
mi son cavata la camicia e muoio
nuda come il mattino.
Ma, bimba, tienti a mente
che finirai come la mamma, marcia
dai baci della gente.
e tu da galeotto...
Per noi poveri in terra si sta peggio
di sopra che disotto.
Si dorme almen, la neve
fa da lenzuolo bianco che abbarbaglia
al letto e non è breve
che scappin fuori i piedi.
Dormiamo in pace, i nostri conti tornano;
ci penseran gli eredi.
Siamo morti del male
di stomaco digiuno o del rimedio,
galera ed ospedale:
È freddo, nina — nanna;
con Dio, col mondo ci rimane un credito,
scontata la condanna...
Casola Valsenio Novembre 1877.
CURIOSITÀ
Dove mel credi, o bionda indifferente,
il tentator mistero che ti affascina;
nel cuore o nella mente?
nella faccia o nell'anima?
Come il riso del tuo occhio sereno
e l'oro caldo dei capelli morbidi,
bianca come il tuo seno
ti fu la vita inconscia.
Musica e fiori, eterna primavera,
continuo oblio di un continuo bacio,
la mattina e la sera
confuse nel crepuscolo
di un solo amor come profumo solo
di un vario mazzo: sempre fiori e musica,
api e farfalle a stuolo,
oblii, capricci e gioie.
Ed or curiosa sul mio bruno viso,
inchina coi lunghi ricci l'interroghi,
lo sguardo ed il sorriso
tentando colla ingenua
ansia del cuore che la vita ignora.
Non vi badar, se quando l'occhio umido
ti accarezza e t'implora,
improvviso mi striscii
un ghigno sulla bocca. All'alte vette
delle montagne inabitate mesconsi
nubi, aquila, saette,
fior sulla neve, mobili
scheggie di sole, turbini dementi,
bianchi silenzi ed ululanti dialoghi...
guardan raro le genti
giù dalla valle e fremono.
Ama sempre, fanciulla — il tentatore
mister non dimandar che in me ti affascina,
non origliarmi al cuore,
non m'obliarti in faccia.
Musica e fiori, eterna primavera,
baci odorosi, ebbrezze mute, spasimi,
capricci di pantera,
canti di balli scenici...
Ecco l'amore, o bionda indifferente:
ama scherzando coll'oblio nell'animo —
forse il mister ti mente
un poeta maniaco.
Bologna Aprile 1878.
SILENTIUM
Musa, silenzio; muor la sera, rade,
semispente le stelle nell'azzurro
guardan lungi sul mondo un'altra stella
muta ed inutile;
mentre per l'infinita ombra un deserto
infinito si allaga e non par moto,
nè voce s'alza di tranquilla vita
o di naufragio.
Forse le stelle si annegar, che smorte
galleggiano sul cielo: onde, tempeste,
lidi svanir, inanime deserto...
Musa, silenzio!
MEMENTO (11 MAGGIO. 2 GIUGNO 1878)
Lo sai tu, santo imperator, qual mano
t'abbia raggiunto? Dalle cime fulgide
della tua gloria non volgesti il guardo
giù nella valle,
dove ferve del popolo la vita
intensa e oscura? Quel perenne fumo
di vulcano passandoti sul volto,
nera carezza,
l'anima vecchia e sul sepolcro curva
l'infinito a spiar dell'indomani
mai non ti cinse e la irritò col torbo
ondar? Scintille
rosse, guizzanti quasi d'occhi accesi
e schiacciati ad un punto, in fuga, in folla
vi salian turbinando e al ciel svaniano
per entro il fumo,
come inutil dilegua e inascoltata
nel voto immane la bestemmia. O vecchio
vittorioso guerrier, sull'elmo acuta
porti una punta,
che sorride col ciel, riso d'acciaro
al sorriso fiammante della folgore;
bada alla terra — le saette irrompono
su dagli abissi!
E tu chi sei? Qual dalla bieca fronte,
greve di allori e di corona, orrendo
stranier nel mondo e re, qual ti somiglia,
o imperatore?
Come la donna dal lascivo cuore
e i dotti sensi, te fanciullo vide
la fortuna ed amò: con improvvisa
viltà l'antico
pallido amante di fatali giorni
e di notti fatali empia tradendo,
fra gli ululati, il cozzo, il vespro, il buio,
lo scroscio pazzo,
d'una battaglia e di un imper più vasto
d'un sogno e bello più del sol, fanciullo
principe, a' piedi ti gittò sfinito
Napoleone
e col vento furial della vittoria
la imberbe guancia ti lambia perversa
di molli baci. Nel deserto livido
dell'oceàno
misterïoso e solitario sparve
una sera col sol lo smisurato
vinto Titano. Dai cadenti azzurri
dell'orizzonte
sprizzâr baleni, e un mormorio dall'acque
sommesso ascese, che svanì nel soffio
d'un lamento infinito — Hai vinto, hai vinto
ovunque e sempre
Paride imbelle e Priamo tremante.
Hai vinto: bada, l'oceàn talvolta
schianta lo scoglio: ti vacilla il capo
sotto l'elmetto
e sotto i piedi il trono, altar maggiore
della tua chiesa. Con delirio arcano
vi si sfracella una tempesta: bada,
re sacerdote,
che in cor l'orgoglio degli aviti regi
e dei percossi ammicchi in ciel con Dio —
sulle tempeste della terra ghigna
ateo il sole!
E preme il vento e l'uragano; l'aria
fosca s'aggreva: pei silenzi sacri
ignorati dell'alte cattedrali,
dei monumenti,
l'alme grandi dei morti erran fremendo
di un'altra morte e fin sul regio letto
a notte intendi sibilar tremanti
le tue bandiere.
È notte, è caldo: delle scolte il grido
lungi si tocca e si allontana: forse
domani all'alba ti battranno; vigila,
imperatore...
Bologna 18 Giugno anniversario di Waterloo.
INDICE
Lo scrofoloso pag. 3
La viola (per una fanciulla) 11
Autunno 15
Il coltello 19
Ideale 27
Palinodia 31
Barcarola 35
Nel bagno 39
Brindisi 43
Bianca! 53
La vestizione 57
Dopo 65
A Giosuè Carducci (Odi barbare) risposta di un Barbaro 71
Nina — Nanna 87
Curiosità 97
Silentium 103
Memento (11 maggio, 12 giugno 1878) 107
Finito di stampare il dì 15 ottobre MDCCCLXXVIII nella tipografia Zanichelli e soci in Modena