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ROMANZO

BARI

GIUS. LATERZA & FIGLI

TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

1918

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati tutti i diritti

AGOSTO MCMXVIII - 48794

INDICE

Parte Prima

CAP. PAG.

I. 7

II. 25

III. 35

IV. 51

V. 88

VI. 104

Parte Seconda

I. 127

II. 143

III. 162

IV. 178

V. 201

VI. 220

Parte Terza

I. 245

II. 256

III. 289

IV. 322

V. 345

VI. 369

cap7

I.

—Il dottore era questa notte colla Giovanna,—disse la Ghita.

Ida non si mosse.

—Ci vuole proprio il coraggio di un dottore; già, sono come i beccai, che ammazzano i vivi e sparano i morti. Anche sabato lo incontrai, che ritornava dal camposanto; aveva aperto Tonio. Erano dietro il vicolo dei Cappuccini: la ho riconosciuta, deve essere in ultimo.

In quella un magnifico gatto, nero come di onice, con una fettuccia rossa per collarino, entrando dalla porta socchiusa della cucina venne a saltare sulle ginocchia di Ida, e vi si allungò non senza tentare e ritentare prima mille pose. Stette così qualche secondo, poi avvallandole nelle sottane, e battendogliele carezzevolmente colla coda grossa come una coda di volpe, ne accompagnava ogni movimento con una voluttuosa trepidazione di orecchi.

Le due donne si distrassero un istante ad osservare il lascivo benessere del bell'animale, e la Ghita proseguì:

—La può fare quello che vuole, ma non la sposerà, lei.

—Lei chi?—proruppe la fanciulla schizzando dagli occhi un baleno.

—Lei, la Giovanna. Io non lo guarderei più in faccia un uomo, che dopo mi facesse un simile tiro e mi cacciasse di casa; ma il buono era di non guardarlo prima, allora. In ogni modo le darà venti scudi, metteranno il bambino all'ospedale, e chi si è visto si è visto; ci vedremo al secondo.

—Badate, avete fretta,—disse l'altra.

—Lo so, vado a tirar l'acqua.

—Anzi, ricordatevi la catinella per il bagno di questa notte.

—Già, già,—mormorò con crescente malumore, voltandole le spalle:—il bagno prima di andare a letto! Può fare quello che vuole, ma avrà da fare un bel pezzo prima di avere la pelle bianca: c'è della tela che si rompe prima.

Ida era rimasta alla finestra, con una mano accarezzando la grossa testa del gatto, lo sguardo incantato al di fuori. Intese il tinnìo vibrato dei secchi, che si urtavano nella camicia del pozzo, lo stridere lamentoso della carrucola, l'urlo del catenaccio al chiudersi della finestruola: quindi la Ghita ripassò nella cucina con passo lento ed affaticato per riempire la catinella su al piano superiore, ridiscese e tirò ancora due secchi d'acqua. Le sue scarpe grosse, guernite di chiodi montanari, risuonavano sul pavimento col rumore degli zoccoli da conciapelle, mentre sotto la gonnella rattratta sui fianchi le si scoprivano due stinchi grossi, nudi, di un colore incerto e di una disgustosa evidenza. Ida gettò un'occhiata a quei piedi sformati dal lavoro e dagli anni, e raddrizzando lo sguardo parve non accorgersi di altro.

La sera calava lenta e buia. Gli alberi, nudi sulla altura di contro, lasciavano ancora cadere qualche foglia morta sul terreno, dove tante altre foglie morte erano già cadute; il cielo non si vedeva, ma doveva essere fosco, senza malinconia e senza infinito, uno di quei cieli autunnali, che paiono partecipare della miseria e della volgarità della terra. Nella cucina gli oggetti si discernevano appena. Le pareti imbrunite dal fumo e dalla sudiceria sembravano divorare la poca luce della finestra; negli angoli del muro aperto dalla finestra la tenebra si ammucchiava; la madia non era più che un'ombra più nera, coi contorni meno indecisi, e sovra essa i candelieri, mutandola quasi in un altare, lottavano ancora colla invadente oscurità ad aurati e cangevoli sorrisi. Più in alto, in giro, nella parete di contro al camino, gli utensili di rame allineati scrupolosamente accendevano alla fiammella del focolare qualche largo riverbero, che si risolveva in una tenebria più densa, mentre una torma subitanea di scintille, infilando tratto tratto la bocca spalancata del camino, scompariva mutamente.

La cucina aveva un povero aspetto malgrado quel buio. I rintocchi dell'avemaria palpitarono lontani, e non riscossero la fanciulla.

Stava seduta, il gomito sul davanzale, e il gatto sulle ginocchia. Il breve cortile della casa, chiuso da una funebre siepe di mortella qua e là rattrappita dalla vecchiaia, era ancora più triste della cucina e più fosco del paesaggio vespertino. Un fico sciancato e brullo batteva con un braccio alla finestra come un mendicante, un altro più discosto e più povero si appoggiava al muro o ne sporgeva; il terreno era pesto, ignudo, se non se in un canto un cespo di ortiche, presso un mucchio di cenere bollita, grigie della polvere muffosa caduta dall'intonaco, aggiungevano la tetraggine di un altro verde al verde cupo della mortella.

La fanciulla sospirò.

—Dorme?—chiese alla Ghita.

—Sono passata per la camera in punta di piedi, e non si è destata nemmeno al rumore dei secchi. Poveretta! almeno adesso dorme.

—Vuoi andartene?

—Se non c'è più nulla da fare.

Ida andò alla madia, ne alzò il coperchio, che rattenne sopra una spalla, trasse un grosso pane, un formaggio di pecora ed un coltello. La Ghita, poichè si trattava della cena, si era appressata premurosamente, e girava gli occhi dal coltello al formaggio coll'ansietà male dissimulata della povera gente, la quale sa purtroppo come sia facile tagliare da un piccolo formaggio una piccola fetta e credere di averla tagliata anche troppo grossa. Ma Ida lasciò ricadere il coperchio, vi posò sopra ogni cosa, e piantando la punta del coltello nel mezzo del formaggio vi premè con tutto il peso del corpo per romperlo.

—Verrà il dottore questa sera?

—Probabilmente.

—Quasi quasi, se non avessi da andare lontano, mi fermerei ad aspettarlo: ho il bambino grande, che non vuol mangiare più nulla; non gli piace nemmeno il pane bianco.

Ida levò il capo.

—Bisognerebbe esser signori e pagargli sempre del companatico; allora forse... Ma già, i bambini dei poveri... se non mangiano! tanto peggio, moriranno.

Però l'accento di quelle desolate parole era troppo smancerato, e la Ghita ne sbirciava l'effetto sul volto della padrona, sempre sospesa col manico del coltello nel pugno.

—Ehi? per me poi! Ognuno ha le proprie disgrazie;—e tese la mano per ricevere quella porzione di cena, quasi nella fretta di andarsene; ma Ida le accennò il pane sulla madia, presentandole il formaggio sulla punta del coltello.

—E lei?

All'acuta ed involontaria ferita Ida drizzò fieramente la testa: fu un lampo.

—Io te lo do.

—Grazie, grazie proprio, la mia signora. Ah! io già non posso dir niente: il Signore le ne renda merito. Lo tengo tutto per lui! poverino... Dica: non ha proprio bisogno di niente? Perchè... se ha bisogno...

—No, andate pure.

—Vuole che accenda la candela?—insistè.

—Non importa.

—Allora...

—Ma no,—interruppe senza voltarsi la fanciulla, cacciando un sospiro di noia.

La Ghita si guardò tuttavia attorno, riordinò due bicchieri presso una boccia, schiacciò contro il muro il fascio della legna, si torse ancora sull'uscio verso la fanciulla, ed augurandole la buona notte uscì.

Nella cucina era già buio, e fuori la sera si abbuiava. La fiammella del focolare riappariva più rada e più piccola, i candelieri di ottone si erano spenti, gli utensili di rame non esistevano più; appena appena nell'oscurità un'ombra più densa faceva sospettare che in quel vuoto tenebroso vi fossero dei corpi. Nel cortile la sera pigliava del lividore, forse dalla terra e dai muri della casa, o forse i vetri della finestra la rendevano ancora più triste. Era una sera meschina come quel cortile; quel cortile non confinava con nessun mondo: non monti dalle cime bianche ed azzurrine, non campi dai lunghi filari denudati e col terreno pettinato dai denti del rastrello, non una strada che conducesse persone o pensieri ad una meta, non una voce che respingesse quel silenzio, non una forma di vita, che alterasse quella piccola e smorta desolazione.

Ida pensava; la fronte contro la palma, il mento innanzi, la faccia inverdita dal chiarore dei vetri, era fuggita dalla finestra di quella cucina in un altro mondo lontano; ma improvvisamente tutta quell'ombra le si infittì intorno e, fluttuando, la sommerse.

Quindi si mirò dappresso, quasi a riconoscere il luogo. Il buio si poneva invano fra gli oggetti, giacchè l'anima riconoscendoli si urtava in loro. Ella si rammentò ora l'aspetto del cortile, gli altri oggetti nel giorno, quando il sole saliva la curva del meriggio e discendeva la curva del tramonto; era sempre un cortile grande come un tavolone d'osteria, brutto di gibbosità, col terreno troppo calpestato. La siepe di mortella nella propria poetica miseria lo rendeva ancora più miserabile, con quei due fichi, e in un canto quei due cespugli di ortiche, i soli viventi, in un altro un fascio di legne racimolate dalle donnicciuole e vendute per pochi soldi in piazza, i cadaveri di quel cimitero. Si rammentò che non vi scendeva mai a passeggiare, che non si era mai seduta sopra quei due sassi composti a panchina presso il fico della finestra; poi la Ghita che portava nel cortile tutte le immondizie, tutte; il disgusto degli occhi che la vinceva sul disgusto del naso, certe forme, certe cose tutto il giorno sott'occhi, e chiunque entrasse nella cucina, cacciando lo sguardo dalla finestra, le vedeva in una specie di fossa poco imbottita di felci secche. Anzi una volta, discendendo le scale, aveva inteso una grottesca allusione del calzolaio colla Ghita: ella avrebbe voluto piangere e non lo potè, perchè non si piange di umiliazione. Il pudore della morale ha ferite, delle quali il solletico compensa lo spasimo, quello della vanità mai.

Quel cortile era la definizione di quella casa.

Ida gli voltò le spalle. Un guizzo della fiamma illuminò istantaneamente la cucina, e tutto riapparì; la madia coi candelieri lucenti, il vecchio armadio butterato, enfiato, coi quattro sportelli, che senza la serratura sarebbero cascati come i petti di un soprabito frusto, gli ornati della sua cimasa fracassati, quelli dei piedi mangiati dai topi, dai gatti, forse dall'acqua, dalla scopa.

—Certi armadi conservano male la biancheria,—aveva detto un giorno la Ghita colla Veronica, la moglie dell'oste, vendendole alcuni lenzuoli fini per conto di Ida. La Ghita aveva ragione. In seguito aveva venduto altre cose della cucina. Per esempio nella batteria dei vasi di rame v'erano dei vuoti e molti; quelli rimasti avevano una brunitura (Ida la vedeva al buio) appannata dal tempo e dall'ozio. E girando sempre lo sguardo, lo fermò nel muro sopra il ceppo a treppiede; un filo di ferro, rattenuto da due chiodi, vi sosteneva fra gli altri un coltello lunghissimo e bianco. Una volta questo serviva ad ammazzare i porci. Il pensiero della fanciulla si posò alquanto su quella lama, vi si strofinò, ma il freddo del metallo brunito le diè i brividi, costringendola a staccarsene.

Era caduta nella solita meditazione. Adesso si sentiva freddo. Si alzò: quindi camminando al buio colla sicurezza del cieco, cui la memoria è luce, si appressò al focolare, e si sedette sopra uno sgabello di legno greggio.

—Le sei e un quarto!—mormorò con voce avvilita, consultando l'orologio.

La sua immaginazione sfuggì di nuovo alla realtà di quella cucina, ma il luccichio dei carboni l'attrasse ancora. Ella vi si affisò, e quasi l'allegria di quei colori labili e dolci le si apprendesse all'anima, schiuse le labbra, e tutto il volto le si schiarì di una bontà quasi insolita. Allora, colle molle, pazientemente, levandoli ad uno ad uno, cominciò ad alzare i carboni in un mucchio conico ed ardente, e si disponeva a disegnare sotto di essi un terrapieno colla cenere, quando due colpi battuti sopra il soffitto la sorpresero. Le sfuggì un moto involontario di spalle. I colpi si ripeterono, si alzò, respinse il gatto, rattenne un carbone, l'ultimo, sulla cima, che cadeva, e la mente tuttavia preoccupata da quel giuoco irriflessivo, salì due rami di scale, spinse una porta socchiusa.

—Non avevi inteso?

—Sì.

—Ahi!—esclamò l'ammalata portandosi violentemente la mano al costato destro:—ma che cosa ho mai fatto io?—E, abbandonando il capo sulla testiera del letto, chiuse gli occhi. Furono pochi secondi.

—Che ora è? dammi un po' da bere.

—Che cosa volete, mamma?

—Ah! lo so, non ce n'è più. Se invece di studiare tanto, avessi fatto la sarta, a quest'ora potevi pagarmi di quel vino santo.

L'ammalata agitava smaniando la testa. Ida si sedette al capezzale, ed appoggiando un gomito sulla sponda del letto, si premè la pezzuola contro il viso. La stanza era piccola, l'ambiente tiepido ed umidiccio. Un'afa nauseante, quasi che la viscosità del respiro dell'ammalata pesasse nell'aria, sembrava umettare le pareti scalcinate negli zoccoli ed illuminate fievolmente da una candela di sego per terra, in un angolo, entro un imbuto di carta. Il letto restava al buio, ma sebbene la sera fosse appena incominciata, la camera aveva già l'atmosfera della notte. Ida, curva sulla coperta, colle spalle negli orecchi come per resistere all'oppressione di quel puzzo, che il caldo sembrava liquefare all'aria, aveva chiuso gli occhi respirando violentemente nella pezzuola.

—Mi dà fastidio,—disse l'ammalata accennandole la pezzuola.—Ma non ti si può dire più nulla! Non hai quattrini, e compri degli odori! Dove vai adesso?—proruppe.

—Giù a cena.

—Torna, mangerai qui; mi lasciate sola tutto il giorno!

Questa volta la fanciulla si sentì barcollare, gli occhi le si velarono, la ruga verticale della fronte le riapparve con severità quasi minacciosa. L'ammalata continuò:

—Hai dato un quarto di formaggio alla Ghita? Puoi cenare coll'altro quarto. Ma già, tu hai il palato fino di una signora, e il formaggio di pecora... Che cosa fai lì, ritta?

Ida scosse una spalla.

—Sì, hai ragione che sono ammalata, se no... Vergogna! abbandonare la propria madre vecchia... Disgraziata, pettegola!...

Ida giunse a mettere l'uscio fra sè stessa e quegli improperii, ma scendendo le scale udiva sempre la voce fessa dell'inferma, adesso stridula dalla stizza, che le lanciava dietro sconce ed inintelligibili parole. Era stanca, insopportabilmente tediata. Cadde sulla prima sedia, la fronte nelle mani, contraendo convulsivamente le dita come per strangolarvi inutilmente una idea importuna; poi si levò di scatto, e si riassise presso la candela di sego.

—Più il fumo che la luce, più il puzzo che il fumo, come la mia vita!—mormorò.

Quindi chiamando il gatto dal focolare, dove dormiva, si dispose a cenare. Andò alla madia, ne cavò un mezzo pesce, piccolo, ed un grosso pane casalingo.

—È merluzzo, non ti piace?—disse al gatto, accarezzandolo sul dosso;—non piace nemmeno a me. Io mangio il pane asciutto e bevo l'acqua. Hai sete anche tu?—aggiunse riempiendogli dalla boccia un secondo bicchiere.—Via, Atta Troll; la tua padrona te lo accomoda, mangia, mangia!

Infatti il gatto cominciava a mangiare, ma a bocconi così piccini, e fiutandoli talmente prima d'inghiottirli, che nessuna fra le persone meglio educate del villaggio avrebbe saputo imitarlo, mentre tutti i suoi pari avrebbero per un simile cibo commesso più di un furto e più di un duello. Ella lo osservava col pane intatto nella mano: poi lo ruppe, e ne ingoiò qualche briciola. Non andava giù. Era sola, ascoltò, attese senza intendere alcuno, aperse quasi la finestra, ma si pentì. Sul cortile, a che pro? Il gatto, trangugiata l'ultima spina, si era disteso presso il pane smezzato, leccandosi il muso colla indolenza di chi in fondo ha ben mangiato e si prepara ad una buona digestione. I carboni del focolare nereggiavano spenti nella cenere; la cucina appariva in tutta la propria sudiceria, piccola e muffosa. V'erano tre sedie spagliate.

Ella si raccolse ancora, ma la tristezza le diventava così orribile, che fortunatamente fece uno sforzo per vincersi; quindi afferrando bruscamente Atta Troll, spense la candela di un soffio, risalì le scale, e rientrò nella camera della ammalata.

—Dammi il gatto,—questa le chiese, vedendola aprire la porta dell'altra camera.

—Non ci vuole stare con voi.

—Come te.

—Eccolo.

Ma Atta Troll, invece di saltare a terra come gli ordinava la fanciulla, le montò sulle spalle sdraiandosele sul collo, così che colle quattro zampe le batteva sul seno.

—Lo vedete.

E senza attendere altre parole, sparve dietro la propria porta. Accese il lume a petrolio sul tavolo in mezzo, sedendosi entro una vecchia poltrona di paglia. La camera, povera, era però assai meno brutta delle altre. Aveva le tende bianche e un cortinaggio bianco al lettino di legno, servito dinanzi da un piccolo tappeto di lana, con due pantofole turche, due lavori di Ida fanciulletta. Nessun quadro pendeva dalle pareti o sul letto, ma parecchi libri erano allineati in due scansie portatili e molti ancora ingombravano una specie di scrittoio nel mezzo. Tutti gli altri mobili erano miserabili, le pietre del pavimento rotte qua e là, il soffitto a travicelli fiorati. Ma quella camera, così povera, tuttavia sentiva la donna giovane cogli istinti mondani e le abitudini del pensiero. Un forte odore di muschio, svaporando da una lunga bottiglia azzurra sulla toeletta, formata da un tavolo coperto da un paglioncino candido a fodera di mussola rosea, profumava ogni cosa, mettendo come una blandizie di poesia in quella indigenza, che la cura minuziosa e delicata del letto salvava da ogni basso presentimento.

Ida era seduta al tavolo leggendo Il Principe di Machiavelli in una antica edizione. Ma la fredda sapienza del libro le venne presto a noia, e mutò lettura, cacciandosi attraverso il Conflitto fra la Religione e la Scienza di Draper. Quelle vaste ed aride negazioni le piacquero, sebbene già le conoscesse; poi aperse ancora le Rivoluzioni d'Italia del Ferrari, scorrendole a sbalzi, meditando qualche pagina, postillando qualche pensiero. Pareva che volasse d'idea in idea coll'agilità di un uccello di albero in albero.

Però in mezzo agli studi s'andava distraendo, e allora ricompariva la fanciulla della cucina, dallo smorto pallore e dagli occhi fissi; una smania forse male avvertita dalla coscienza le irritava tutti i nervi, un vapore di sogni le bagnava la fronte illuminata come una vetta da un astro misterioso. In una di queste distrazioni il rumore di un passo sui ciottoli della strada le percosse l'orecchio. Il passo non s'allontanava; era un passo insistente e solitario nella notte.

Ascoltò, poi levandosi prestamente andò a guardare per i vetri.

Un'ombra avvolta in un mantello passeggiava innanzi la sua casa allo scarso lume di un fanale poco lontano; sembrava spiare la sua finestra, poi scorgendovi forse la fanciulla si arrestò. La notte era così buia, che la strada ancora umida dalla pioggia del mattino, si discerneva appena per un cinquanta passi, aperta dal raggio del lampione, che vi si acuminava in una punta indeterminabile. Quel solco radiante di luce all'ingresso del villaggio, simile al ferro di un'immensa alabarda corcata, della quale il tronco fosse la strada e che passasse fuori fuori il paesello, attirò il pensiero della fanciulla. Dalle sue spesse pozzanghere pareva guizzassero ogni tanto baleni, mentre una folla di ombre vaganti nel silenzio delle tenebre si abbatteva lentamente sulla sua sponda. Era un'immaginazione determinata da effetti ottici, facile e seduttrice di mistero. Ella non vedeva il fanale, sapeva lì presso il villaggio, e poi intorno tutto il mondo remoto, adesso tenebroso; e nell'universo non rimaneva altra luce che quella coda di ruscello all'ingresso del villaggio, nella quale si tuffava paradossalmente lunga la figura immobile del passeggiero notturno.

—Imbecille!—ella susurrò, urtandolo colla fantasia tutta piena di sogni.

Ma non lasciò la finestra, anzi si fisse in lui come se volesse leggergli negli occhi malgrado la distanza e l'oscurità, così che l'altro adoperandosi forse dal canto proprio nella stessa guisa, una corrente di pensieri li congiunse. Ma il rumore di un passo, che si avanzava dal villaggio, riscosse l'incognito, obbligandolo a riprendere la passeggiata.

Ida intese lo stridìo dei grossi chiodi sui ciottoli, ed indovinò un villano nell'ombra che passava; all'orologio della piazza suonarono le dieci.

L'incognito ritornava, che ella si tolse dalla finestra. Quindi si fece anche più scura, e consultò l'orologio nella speranza che quello del comune si fosse sbagliato. Erano le dieci, l'ora terribile della sua giornata. Sembrava non potervisi risolvere, quasi la lunga abitudine non avesse ancora calmata la irritabile sensibilità della sua natura.

Poi il bastone di spino bianco percosse il pavimento, e la fanciulla si slanciò nell'altra camera colla torva rassegnazione di chi si precipita contro il male, per non poterlo altrimenti evitare. Lo stoppino carbonizzato della candela lasciava la camera in una semi-oscurità tetra; il fetore vi si era fatto più umido e più denso. Ida andò diritta al letto. L'ammalata colla testa sopra una spalla come tutti gli infermi, e le spalle appoggiate ad un cuscino, guardava col busto mezzo fuori da un mucchio di coperte e di lenzuoli quasi dello stesso colore. Aveva le mani incrociate sul ventre; le braccia come due fragili e scure stazze le si perdevano sotto le maniche rappezzate.

Ida evitò di guardarla, dispose la pezzuola, le filacce, il barattolo della pomata presso la piattellina verde con dentro la spugna, esaminò le due foglie di cavolo, e si torse verso la malata.

—Proprio?!—questa domandò, vedendola prendere dalla sedia una tovaglia sporca. La fanciulla non rispose.

—Oh Dio!—fe' l'altra, lamentandosi di una fitta.

Adesso era tutta rabbonita e guatava con occhio pietoso il viso severo della fanciulla. La quale le portò la mano al collo riversandole la camicia sulle spalle; le filacce aggrumate sotto il piccolo cencio di tela lo seguirono, e si scoperse il seno. Non somigliava più a nulla. Un'enorme macchia rossastra, stendendosi dalla mammella destra scomparsa, aveva guadagnato tutto il costato insino alla clavicola, sino all'altra mammella, inesprimibile rimasuglio, e giù sino alla cintura. Le clavicole, come spostate da uno sforzo, erano salite fra i tendini rattratti del collo; la pelle si era chiazzata nello stiracchiamento, rigandosi di minimi solchi, finissimamente rugosi, flaccidi ed incerti. Il resto non si vedeva più, ma sotto le ascelle e sopra le ascelle, fra le spalle grugnose, si sprofondavano due buche, sulle quali l'ammalata piegava ogni tanto la testa, così piccola nella macilenza, che vi si sarebbe quasi nascosta. Anche gli uccelli ammalati la nascondono sotto le ali.

Ida le adattò la tovaglia alla cintura, ed insinuandogliene una punta sotto l'anca, con uno sforzo visibile su sè medesima staccò leggermente quel groppo di filacce, che imboccava l'ulcera. Le quali avendo troppo aderito alla carne viva si scissero. Le sue mani, quasi più belle in quel momento, coi mignoli alzati e le unghie rosee, tremavano nella disgustosa operazione, cercando uno per uno quei capi bianchi fra il glutine della cancrena, mentre un odore rivoltante le batteva il respiro e l'ammalata gemendo tentava di sottrarre la piaga.

—Coraggio!—mormorò la fanciulla, rialzandosi vivamente per non soffocare. I loro sguardi s'incontrarono, quello della vecchia spento e supplichevole, quello di Ida febbrile di animazione.

—Sporgete il petto,—le disse aiutandola con una mano al dosso:—così...

—No, oh mio Dio!

Ida le stava già sopra colla spugna inzuppata d'acqua.

—Madonna mia! mi raccomando! datemi voi un po' di forza,—gemè congiungendo le mani.

—Sì, sì, pregate.

L'acqua sgocciolò nel vano cavernoso battendone, strappandone i filamenti imputriditi, trascinandoli giù per il rossastro del seno fra un rigagnolo di marcia; ma alcuni non si spiccavano, lacerati dall'urto dell'acqua, movendosi come cespi d'erba alla foce di un fosso. L'ammalata, il labbro inferiore fra i denti, soffocava le grida del dolore.

—Conduce, conduce?—balbettò con un timido accento di speranza.

—Sì.

—È meglio, non è vero?

L'altra non rispose.

—No, no, basta;—supplicò, vedendola bagnare un'altra volta la spugna. Infatti la piaga era già lavata, e l'ulcera, larga quanto il buco di una palla, appariva di un rosso anche più bruno, colle labbra stracciate proprio dove altre volte sorgeva la punta della mammella. Un pensiero commosse la fanciulla; ella vi si era sospesa bambina, e la sua bocca, allora fresca come il calice di un fiore, aveva lungamente baciato la punta di quel seno, sprofondatosi poi in un'ulcera. Vent'anni fa! Adesso la donna inorridiva della delizia della bambina.

Ida era rimasta cogli occhi nel volto della madre.

—Perchè non ce la vuoi mettere un po' di carne? Intanto che si divora quella, non mangia la mia.

—Pregiudizio! ve l'ho pur detto.

—Però fa bene: la piaga mangia pure. Ah!—strillò, sentendosi premere nella piaga il groppo delle filacce asciutte. Ma Ida precipitò il resto della medicatura; spalmò qualche grano di una bianca pomata intorno al cratere, vi spianò sopra una grossa foglia di cavolo, la ricoperse colla pezzuola, e, riaccomodandole al collo la camicia, la ricinse col lenzuolo. L'inferma era di un pallore orribile, colla fisonomia stravolta, quasi senza espressione sotto quella stretta; solo il labbro inferiore, tremolo di spasimo, lasciava passare ancora un soffio di vita.

Ida s'incantò in quell'ineffabile spettacolo di strazio. Non sentiva più il puzzo, non aveva più schifo.

Quella donna era sua madre, sua madre moribonda, moritura di dolore. Un impeto d'amore le irruppe dal cuore inondandoglielo di una tenerezza refrigerante; e stava già per lanciarsele al collo, rattenuta solo dal timore di farle male, quando l'altra agitò lievemente la testa, aprendo gli occhi.

—Lì incantata a vedermi soffrire, invece di metterti in ginocchio e pregare la Madonna, che mi passasse! Ho quasi fede che tu ne goda.

—Oh!—mormorò la fanciulla, sentendosi afferrare rabbiosamente la gola da quel tumulto subitaneo di amore e palpitare le lagrime negli occhi. Fu un attimo; quella esaltazione le rovinò sul cuore, e la abbattè.

—Disgraziata!—susurrò ancora l'inferma, questa volta riassalita dai soliti dolori, ma con meno violenza.

Ida la considerò, e non riconobbe più la martire di poco prima. Riabbassò il volto, si girò attorno un'occhiata di esame, e lenta, sulle punte dei piedi, pallida, affranta, ritornò nella propria camera senza darle nemmeno la buona notte.

Il gatto dormiva sul letto.

Andò a sedersi sulla sedia presso il capezzale, reclinandovi la fronte. Avrebbe voluto piangere, ma la tempesta dei sentimenti era così furiosa, che non lo poteva. L'amarezza dello sdegno vinceva in lei la pietà del dolore. Di quando in quando un lamento angoscioso sorgeva dall'altra camera, senza che la fanciulla lo avvertisse, poichè si lagnava ella medesima. Il suo pensiero urlava in quella tempesta colla disperazione del marinaio, che insulta l'uragano troppo tardo ad ingoiarlo, la raddoppiava, la inferociva; le tenebre non erano abbastanza nere, i lampi abbastanza sanguigni, e la folgore brontolava appena come un cane da pagliaio. Avrebbe voluto che le onde fossero state di piombo, che le raffiche avessero avuto la ruina delle onde, per ruggire in quella procella, disperdervi il mondo, disperdendovi sè stessa. Le nubi addensatesi nella lunga sera si squarciavano d'un tratto, risolvendo tutto il temporale in uno scoppio. Quindi le pareva che i giorni della sua vita le piovigginassero sull'anima come sopra un cadavere, così che ella poteva contarne tutti i colpi, mentre un gran volo di corvi dagli occhi gialli le passava sulla testa e, mozzandole col vento delle lunghe ali il respiro, si allontanava.

Che le importava di morire?

Da gran tempo vestiva sempre di nero, portando così il lutto della propria giovinezza. Morire...; poi tutti i cancri non sono al petto, ella ne aveva uno nell'anima.

—Morire,—ripetè levandosi nell'attonitaggine della prostrazione:—per causa di lei?!

Invece andò alla finestra; il fanale apriva sempre nella strada quel solco lucente, vi si incantò.

—Pare un pugnale piantato nelle tenebre.

A poco a poco il vento di quella tempesta si acquetava, ma, riacquistando la coscienza della realtà, ella non conosceva quasi più la propria camera. Le pareva più piccola e miserabile, una vera prigione, nella quale l'avessero chiusa tutta la vita per rubarle nel mondo la fortuna di un trono. E allora un orgoglio smisurato le gonfiò il cuore, una nebbia di iridi le avvolse il pensiero, mentre il pensiero le si drizzava come un serpente sulla coda. Pallida, le narici frementi, guardò attraverso il muro di sassi il letto della mamma atteggiata di sofferenza, poi dilatando le pupille passò oltre, si spinse al di là, nel buio, come il raggio del fanale, alzandosi sempre, crescendo di statura; e quando fu gigante, col fremito dell'onnipotenza nei muscoli, col coraggio dell'infinito nel cuore, e i suoi occhi ebbero sfondato il mistero della paura, vinta la paura del mistero, erse la testa e, scrollandone poderosamente i ricci più neri della notte, con un gesto pazzo, titanico, sublime, scagliò nell'avvenire, invano minaccioso di oscurità, il guanto del duello:

—No.

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II.

La mattina seguente Ida si alzò prima del solito. Poichè l'aria era tiepida e il cielo del più bel sereno, volle uscire dalla camera, ove passava la maggior parte della giornata sempre sola. Traversò sulla punta dei piedi quella della mamma, buia ed ancora più fetida. La mamma dormiva quietamente.

Scese, spalancò la finestra della cucina e rimase all'inferriata, respirando con avidità l'aria e la luce mattinale. Il cortile era sempre il medesimo, ma in quella ora mattinale, così chiuso da ogni lato, meno all'angolo lambito da quel sentiero montanaro, sembrava come un piccolo recesso, nell'ombra e nel silenzio del quale si attenuassero gli echi e i riverberi dell'alba. Il terreno pareva bagnato, i muri più lebbrosi; il fico curvava sempre i rami, simili a una capanna sfrondata, sopra la panchina del muro.

Ida ne guardò lungamente le lastre di fiume, nerognole e pulite; il muro della casa faceva loro da spalliera, l'aria era tiepida. La fanciulla aveva in tasca una piccola edizione di Leopardi, aperse la porta ed uscì. Ma sebbene l'alito del vento fosse caldo, la terra, i muri della casa, i rami del fico, i sassi della panchina, l'ombra del cortile trasudavano una frescura, che penetrava carezzevolmente la fanciulla. Il pallore le si faceva più opaco, mentre i muscoli le si irrobustivano nei primi brividi dell'irrigidimento, e di sotto alle vesti, attraverso alle vesti, un refrigerio gelato le si insinuava nelle vene a purificarle il sangue troppo ardente. Un ronzio insensibile aliava fra le foglioline della mortella, lucenti all'azzurro del cielo e incoronanti come di sorrisi l'astiosa lividezza delle ortiche; la terra alitava il proprio profumo, e persino la buca delle felci, in quel canto, sembrava soffocare ogni disgustosa fiatosità sotto uno strato polveroso di spazzature.

La fanciulla era così immersa nella propria lettura, che non udì un passo di cavallo scendere verso il cortile per quel sentiero nascosto e fermarsi ad un vano della siepe. Cavallo e cavaliere guardavano verso di lei, ma la testa dell'animale, leggiera e piena di fuoco, sarebbe parsa anche ai meno intelligenti assai più bella della testa dell'uomo. Il quale, aspettandosi ad ogni momento di essere sorpreso in quella sorpresa, sembrava prepararsi già alla difficoltà dei primi complimenti, colle labbra contratte ad un sorriso di bonomia e lo sguardo acceso da una passione sanguigna, appena frenata da una confusa coscienza d'inferiorità. Ma questa grave preoccupazione non gli correggeva nè la posa sgarbata di cavallerizzo montanaro, nè l'atteggiamento anche peggiore del cappello nero, a larghe tese, rigettato sulla nuca e calcato sugli orecchi, così che la sua testa già volgare diventava quasi ignobile.

Senonchè il cavallo rattenuto nella scesa, sopportando gran parte del proprio peso e tutto l'altro del padrone sulle gambe davanti, alzò una zampa ed urtò in un sasso. A quella percossa la fanciulla alzò il capo, e trasalì impercettibilmente.

—Buon giorno,—disse.

—Buon giorno,—rispose l'altro, cavandosi il cappello e frenando il cavallo che saliva per il vano della siepe.

—Turno!—esclamò Ida, guardando con ammirazione il bel cavallo maremmano:—Lo lasci entrare.

—Ritorno adesso dalla Roccaccia, c'è la vecchia fattoressa che sta male. Ih! me ne ha quasi fatta una delle sue, stamattina, Turno. Ha troppo sangue, fortuna che è buono quanto un agnello, altrimenti ci sarebbe da accopparsi con questo ragazzaccio. Non ha che sei anni, ed è di una razza, che sono tutti più o meno mal sicuri; forti, ma mal sicuri.

E si fermò a mezzo, indovinando nell'occhio della fanciulla un sorriso d'ironia.

Ma la fanciulla accarezzava già colla mano libera il muso della bestia, la quale, usa alle pallottole di zucchero, gliela lambiva colle lunghe labbra nere.

—Non l'ho, ghiottone,—gli ripeteva percotendolo amabilmente sulle narici, senza occuparsi del cavaliere.

Questi sentì finalmente la goffaggine del proprio imbarazzo, e le chiese della mamma.

—Avrei potuto visitarla ora.

—In questo momento è forse di già desta.

Egli scese pesantemente, si accomodò senza un pensiero della fanciulla i calzoni, rattrattiglisi all'inforcatura dal cavalcare, si stirò le gambe, e legate con un nodo da contadino le redini alla inferriata:

—E fermi!—proruppe, abbassando sulla groppa di Turno, che s'impennò, la bacchettina di siepe, che gli serviva di scudiscio. La fanciulla ebbe appena il tempo di cansarsi, e ritornò alla panchina.

—Come stanca l'andare a cavallo!—egli disse sedendosi. Ida gli gettò uno sguardo. Il dottore era sempre così impacciato, coi gomiti sulle ginocchia e gli occhi alle punte delle scarpe, come per leggervi le parole; taceva. Poi le sbirciò la testa abbandonata sul muro, e correndole indiscretamente cogli occhi dal seno, ancor più gonfio in quell'atteggiamento, su tutte le forme, le risalì d'improvviso al volto. Ida guardava nel vuoto. Allora si sentì coraggioso; le posò la mano sulle mani in grembo, e, pigliandole il libro, ne esaminò il titolo.

—È di una tristezza! Lo leggeva da studente. Però è stato un grand'uomo.

—Lo dicono.

—Non ne sarebbe persuasa? capisco che lei studia.

—Grande!—replicò la fanciulla coll'accento altero di chi sa di essere incalcolabilmente superiore nella discussione e pretende di avere bene approfondito il proprio soggetto.

Quindi raccogliendosi seco stessa in un'altra meditazione, si avventò contro Leopardi. Lo aveva sempre giudicato antipatico, troppo più piccolo della propria gloria. Egli aveva negato quanto non gli era toccato, l'amore, la virtù, la gloria, ma rimpiangendole quali la gente le desidera, pronto a venerarle incontrandole per caso. La sua negazione valeva l'affermazione degli altri, due volgarità. Come i pittori greci dipingevano solamente con quattro colori, egli aveva appena due o tre note; de' suoi tempi e de' suoi contemporanei non aveva conosciuto che Nerina e Silvia, due ragazze da nulla. La sua infelicità tanto vantata non era più niente paragonandola con quelle di Manfredi e di Faust, poichè l'uomo che si lamentava in Leopardi era l'uomo di tutti i secoli, infastidito delle miserie ordinarie della vita; mentre l'uomo di Byron e di Goethe era del nostro tempo, un sovrano annoiato di tutti i piaceri, un dio nauseato della propria potenza, che sentendosi più piccolo della propria creazione avrebbe voluto nel medesimo tempo distruggerla, e non rimanere quindi solo. Ma la fanciulla, che come Manfredi credeva di avere riportato dal fondo della vita il sentimento della doppia impossibilità di vivere e di morire, si imbrogliava seco stessa in questa muta e violenta analisi; quindi per liberarsene scoppiò improvvisamente a dire:

—Non ha humour, guardate i Paralipomeni; non ha lirica, leggete la Ginestra, prosa poetica e non filosofica; non ha passione, passione vera, prepotente, esaminate il Consalvo, sentimentalismo clorotico. È morto...

—È morto vergine,—interruppe con accento sornione il dottore, barattandole il pensiero e guardandola nelle pupille per farla arrossire; ma ella che capì la maligna intenzione, invece di evitarla dilatò gli occhi neri, e rispose alla sua occhiata con uno sguardo così audace, che toccò al medico di abbassarli. Però egli non era più così impacciato dopo quelle ultime violente parole contro Leopardi che, svelando le tendenze letterarie della fanciulla, la impicciolivano nel suo concetto della vera donna, la quale non deve essere che madre ed occuparsi dell'andamento della casa.—Fumi di scuola!—pensava:—al primo arrosto ella lascia il fumo e si attacca alla carne.

Questo scherzo silenzioso lo fece sorridere, ma il silenzio troppo prolungato di Ida lo avrebbe ancora imbrogliato, se un rumore interno dalla cucina non veniva a destarli. Era la Ghita, che scorgendoli seduti sulla panchina, così nascosti a tutti gli sguardi e vicini che si toccavano colle vesti, non potè frenare un gesto malizioso.

—Ha fatto buone visite stamattina, signor dottore?—chiese appoggiando la testa all'inferriata.

—Una.

—Lunga eh?

—Così, così:—rispose sullo stesso tono.

La fanciulla si alzò indispettita.

—A quest'ora la mamma è desta senza dubbio, se lei vuole vederla; ed entrò per la prima. Egli la seguì, scambiando un sorriso colla Ghita nel passarle davanti. Salirono le scale.

—Che puzza!—esclamò entrando nella camera:—bisogna aprire la finestra. No, no, anderò io;—ma la fanciulla rossa in viso dalla vergogna gli rispose fra i denti.

—La non s'incomodi, guardi pure alla mamma.

Questa, scorgendo il medico, aveva già cominciato a gemere colle lagrime negli occhi, quasi per volerlo commuovere collo spettacolo della propria infelicità e strappargli alla fine il rimedio. Egli s'appressò sbadatamente al letto, come tutti i medici che, avendo già dichiarato il caso fallito, vengono solo per mostra. Le fece le solite domande inutili, cui ella rispose con voce piagnucolosa, lagnandosi dell'aria fresca, che entrava dalla finestra e poteva farle male; ma il dottore disse recisamente di no, e allora tacque.

—Guarirò?

—Col tempo.

—E tu?... dammi dunque il fazzoletto,—si rivolse alla fanciulla.—Dio! come sei disadatta! Ti sei incantata nel signor dottore?—proseguì barattando con lui un'occhiata.

Ida si chinò a raccogliere la pezzuola poco pulita, stentando a piegarsi entro quell'abito troppo attillato, che era lo scandalo del villaggio e la guantava superbamente dal seno sino sotto l'anca.

—Guardate come si vestono adesso! paiono dentro a un sacchetto. Lo guardi, signor dottore, che oramai si rompe. Se ai miei tempi avessimo vestito così, ci avrebbero tirato i pomidori. Adesso è tutto moda e progresso.

—Bene, bene, ai vostri tempi!—egli entrò per proteggere Ida visibilmente impallidita.

—Che cosa importa poi che tu diventi verde? Ci vorrebbe più giudizio invece di studiar tanto.

Ma Ida, che soffocava dalla umiliazione, stentando a rattener le lagrime, accennò di ritirarsi.

—Va pur là: tanto ho bisogno di dir due parole al signor dottore;—ed appena scomparsa la ragazza:

—Faccio così, ma in fondo poi è una buona pasta. Se non era suo padre con quei maledetti libri!

Il dottore sedette famigliarmente al capezzale col fazzoletto in mano. Sembrava che aspettasse una parola favorevole e che, indovinandola di già, nella superbia della riuscita non se ne preoccupasse quasi più. L'ammalata tornò ai lamenti.

—Soffrite?

Ella non rispose, quindi:

—Ma è proprio vero, signor dottore?—me lo disse ieri sera la Ghita.

—Ne avete parlato coll'Ida?

—No; mio Dio! vi ringrazio, perchè è proprio una fortuna;—e seguitò perdendosi in tali effusioni, che finirono per sconcertare anche lui, all'apparenza non molto sensibile. Ma l'ammalata parlava sempre con voce più affaticata, così che egli dovette ordinarle di tacere.

—Vuole che la chiami adesso?

—Per carità! credete che accetti?

—Accettare?... vorrei vedere io!

—Allora aspetterò la risposta dalla Ghita prima di mezzogiorno. Ho da fare altre due visite!

L'inferma abbandonò stancamente la testa contro il muro, ed ammiccando gli mormorò con accento di malinconioso rammarico:

—Bei tempi quando si aspettano certe risposte!

Il dottore si alzò.

—Andiamo, datemi la mano, oramai sono più che il medico.

—Aspetti, mi faccia il piacere, mi chiami lei Ida. Glielo dico subito, che lei non è ancora fuori di casa. Povera ragazza, ne sarà tanto allegra!

Egli bussò discretamente alla sua porta.

—La mamma chiama. Buon giorno, tornerò poi stasera,—si rivolse.

—Prima! prima!

Egli uscì così ilare, con un'aria così leggera malgrado la incipiente convessità del ventre, lanciando una tale occhiata di superiorità alla fanciulla, che questa rimase incantata sulla soglia a guardargli dietro:

—Ti piace? Vieni qui, te lo dico subito: ti ha domandata per sposa.

Ida si distrasse appena.

—Oh!—esclamò la madre ripetendo la frase:—Che cosa fai lì? Ti ha domandata.

—Ebbene?

—Ebbene che cosa? È una fortuna: vieni qui, ti piace?

—No.

—È lo stesso.

Ma la fisonomia troppo seria della fanciulla all'annunzio di quella grossa fortuna di sposare il dottore, che aveva tremila franchi di paga e quarantamila lire del proprio, cominciava ad inquietarla; mentre Ida collo sguardo sonnambulo, quasi non la intendesse, ed aveva inteso benissimo, pareva intenta ai rumori di un altro sogno lontano.

—Sei imbecillita stamattina, che non capisci?

—Ho capito: no.

—No?!—e fece uno sforzo per levarsi sentoni, che le procacciò un'acutissima ferita.

Ida si era seduta, osservandole in volto lo scoppio della tempesta, ma questa volta s'ingannò. Il colpo era stato così forte, che l'altra invece di resistervi ruppe in pianto, nascondendosi il viso nelle palme. Piangeva a singhiozzi con tale evidente dolore, che la fanciulla volle calmarla, e le disse queste strane parole:

—Vi comprendo: secondo voi sarebbe la fortuna, per me no. Vivrò peggio: che cosa può importarvi il modo come io finisca?

—Ma sei matta?... il dottore?

—Il dottore, e poi? invecchiare in questo paese, non essere mai capita, fargli le calze, fargli forse la minestra per dieci o vent'anni... Ma allora è meglio gettare la propria vita dalla finestra, gettarla nel nulla. Imbecille!—seguitava riscaldandosi:—doveva pure aver compreso che un pari suo non poteva piacermi. Mamma, sentitemi bene: è inutile che vi ostiniate; il dottore non lo sposerò mai, dovessi cercare l'elemosina.

—Perchè? perchè?

—Perchè?! ve l'ho pur detto! non mi capireste.

—Sei matta,—insisteva con voce man mano più stizzosa: chi sei? che cosa vuoi?

—Che cosa voglio?—proruppe:—Voglio la vita.

L'altra, che non comprese, tornò ad aprire gli occhi sospirando:

—La mia Madonna! come ho mai da fare? Sei già una disgraziata! E io che gli ho promesso la risposta prima di mezzogiorno!

—Risponderete di no.

—Di no?

—Badate,—proseguì levandosi con un gesto risoluto.

—Che cosa farai al mondo... da te sola?

—Quando non si può vivere, si muore. Badate, vi ho detto: no. Sono giovane, non sono bella, ma posso divenirlo,—e lo sguardo le corse sprezzante sui poveri abiti:—vi parrò matta, e invece calcolo benissimo, solamente voi non potete comprendermi. O la vita, o la morte. Il dottore sarebbe la morte, e adesso, a vent'anni, col mondo davanti, ve lo dico: no, no!

Quindi si volse per ritornare nella propria camera soffiando un'aria del Roberto il Diavolo. Sull'uscio incontrò Atta Troll.

—Non è vero, amico? tu sei aristocratico, tu mi capisci.

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III.

Quella mattina Ida la passò nella propria camera, anzi per non essere disturbata, vi si era chiusa a chiave. Una violenta preoccupazione esercitava il suo spirito. Quell'ultimo no, risposto alla mamma, era stata la più seria parola della sua vita, e quindi la rimeditava come un duellista ripensa nella notte l'audace alterezza della propria sfida. Ma se la mamma non lo aveva compreso, ella medesima, approfondendolo, sentiva annebbiarsi la fredda limpidezza della ragione. A vent'anni, senza posizione, oramai orfana, rifiutava la mano del più ricco signore del paese; e perchè? Lo capiva, ma non sapeva darsene la formula.

Pensava, risaliva il corso della propria vita, per non discenderlo verso l'avvenire brumoso di affascinanti e terribili incertezze. Quel no lo aveva pronunciato con voce vibrante, il cuore grosso di orgoglio, quasi avendo d'intorno tutto il mondo ad applaudire il suo eroico coraggio di fanciulla; lo aveva mille volte ruminato nel silenzio della propria camera, di notte, quando l'ombra si popolava di larve e le tenebre si diradavano sulla soglia di un mondo lontano; e nullameno le era sfuggito nella inconscia risoluzione di un momento supremo. Aveva arrischiata la vita alla posta di un giuoco sconosciuto, ma tanto più tremendo, che la posta poteva tardare di molto a risolversi; quindi soffriva le prime febbri del dubbio in un tumulto di affetti e di ragionamenti.

Tutte le energie della sua volontà e delle sue passioni battagliavano intorno a questo no, che il buon senso batteva col flagello della propria volgare ironia, mentre ella seguiva le vicende di quella battaglia in sè medesima coll'ansia immemore dello spettatore, che si perde in una troppo acuta attenzione.

Era sola. La mamma, il medico, il villaggio co' suoi costumi, i suoi giudizi, erano scomparsi; nessun'eco la infastidiva, nessuna voce la irritava. Era ben sola con sè medesima, in faccia alla propria risoluzione, col sentimento tragico della sua grandezza e l'affanno compresso di vere, indeterminate e forse invincibili difficoltà. Si accorgeva che, pure fortificandosi in questa decisione, non guadagnava nulla sul futuro, ma il cuore le si alzava sotto le strette della paura, mentre il pensiero le si spingeva innanzi come un segugio a cercare il nemico. Si esaltò ancora, prese quel no e, considerandolo come lo scrittore rivoltola fra le mani la prima copia del suo primo libro, lo ripetè sonoro ed aggressivo. No era stata l'arma delle sue battaglie sempre perdute, ma dalle quali era uscita sempre illesa, cosicchè nella propria vanitosa erudizione scolastica usava paragonarsi ad Isada, lo spartano, che balzò nudo dal bagno a combattere per le vie di Sparta la splendida ed inutile audacia di Epaminonda.

No! Se quando bambina si affacciò al mondo dal ventre della madre le avessero chiesto: Vuoi entrare? ecco forse il solo no, che non avrebbe pronunziato. Ida amava la vita e, benchè l'avesse sortita in un ambiente ingrato, vi si era abbarbicata colla incontrastabile tenacità di quelle piante selvatiche, che spuntano fra le fessure delle rocce e le allargano.

Era nata trovando un padre, una madre, un fratello. Così piccina la dissero subito incomoda; la mamma le dava mal volentieri il latte e, quando ella piangeva per la fame, la dichiarava la più cattiva delle bambine del mondo. Il padre non la guardava mai senza accusarsi dell'errore di esserle padre, e il fratello di quattro anni aveva già per lei tutto il disprezzo di un primogenito.

Ida era secca e livida. Malattie o patimenti, aveva la pelle già rugosa, orribile in quell'età che i bambini hanno la freschezza dei fiori, e, strano particolare, due bellissime labbra, la meraviglia di tutte le donne che bazzicavano per casa. Ida si era sempre ricordata di questa sua sola bellezza di bambina; quindi un giorno, che la mamma gliene parlava, scappò a dire:

—Era una promessa, la manterrò.

La mamma non le aveva badato; d'altronde non avrebbe capito.

In casa si diceva da tutti che la bambina morirebbe. Molte volte, sospesa alla mammella della madre, Ida avrebbe potuto udirla, se la sua intelligenza ne fosse stata capace, ripetere senza guardarla nemmeno: È un cadavere, il Signore se la prenderà. Poi la mamma chiamava il fratellino, incantevole fanciullo dalla testa bionda, e pazza d'amore si chinava ad inondargli la fronte di baci. La piccina, perdendo così la mammella, piangeva.

—È brutta, mamma!—esclamava Peppino, mezzo ridendo e mezzo rabbrividendo alle boccacce di quel visino sozzo di lagrime e di bava.

—Non è già tua sorella.

Infatti non lo fu lungamente. Un giorno Peppino si ammalò, quell'altro giorno la difterite lo aveva ucciso. Fu un intenso, uno spasimante dolore. Il padre, che aveva concentrato in quella graziosa e fragile vita tutte le speranze della propria, ne rimase per qualche tempo come selvatico; evitava ogni contatto di persona, usciva il mattino di casa alla campagna, e seduto sul parapetto di un ponte, al rezzo di una quercia, alla poca ombra di una siepe, passava tutta la giornata nella torbida fissazione del sogno svanito, per non ritornare a casa che la sera, quasi sempre colle lagrime agli occhi, come se la malinconia del crepuscolo intenerisse la sua disperazione. Era ancora più trasandato negli abiti ed incolto nella barba, mentre la mamma, avendo pianto maggiormente, cominciava già a consolarsi e lavorava per il Gesù bambino dell'arciprete una bella veste di moerro. Poi anche il padre si confortò, ma serbando sempre nell'anima la larga cicatrice di quella morte.

La sua vita non era felice. Nato da una ricca famiglia del contado, da lunghi secoli oziosa ed ignorante, fu educato prima in un seminario, poi all'Università, dove si laureò ingegnere. Ma nelle vacanze di un anno si era innamorato della vedova dell'usciere, bella donna, che faceva allora da levatrice e da balia. Sulle prime la cosa non fece rumore, e la si suppose un capriccio, molto più che la balia non godeva una riputazione troppo illibata; poi si rivelò la passione, e fu un subbuglio in casa. I genitori e i fratelli, che già astiavano il nuovo ingegnere per le opinioni e fors'anco i vizi guadagnati negli studi, a questa follia, che offriva loro la rivincita sulla sua continua boria, minacciarono di espellerlo se non troncava la mala pratica, ed avventarono parole oscene contro la balia; ne scoppiò una scena orribile. L'altro, così attaccato di fronte, si rifugiò nella ostinazione per vincere, esagerando a sè stesso il proprio affetto e servendosi dell'ombra gettata intorno alla propria donna per vederla più bella e più poetica; quindi volle sposarla per vendicarsi di loro colla propria rovina. Il padre gli diè la legittima, illusoria, giacchè in quattro poderi di nessun conto e stimati ad un prezzo assurdo; l'ingegnere capì, ma rispose coll'alterigia di un muto disprezzo. Quindi andò a stabilirsi nel villaggio, giurando (e mantenne poi il giuramento) che per fortuna o disgrazia non avrebbe più rimesso il piede nella casa avita, nè considerati per parenti coloro, che ne lo scacciavano.

Però la vita era scabra in quella nuova posizione, perchè egli aveva poco studiato e meno appreso all'Università, e, malato dell'orgoglio della vecchia casa, ripugnava ad un lavoro pagato con grettezza da quella gente montanara. La moglie, gonfiatasi nella superbia del nuovo stato, era continuamente in sullo spendere, i denari pochi, la noia dell'ozio intollerabile, i sarcasmi degli amici frequenti, le cure minuziose ed acute. Si scoraggiò, guarì dalla passione, e fu perduto; ma non mise un lamento, nemmeno quando la moglie, ghiotta di qualche veste o di altra spesa, lo irritava di sollecitudini, affinchè lavorasse. Allora gli nacque Peppino.

Lo stagno della sua vita ridivenne ruscello attraverso nuovi fiori, giù verso la valle popolosa e sonora di vita. Egli medesimo, rinato in questa nuova esistenza, vi si guardò bello, delicato, piccino, preparandosi questa volta a conquistare l'avvenire contro tutti coloro, che, tiratolo nel fosso, ne avevano alzate le risa e venivano tutti i giorni ad impancarsi nella sua vita travagliata, siccome ad una bettola, sminuzzandosi i suoi dolori. Peppino doveva studiare, divenire un grand'uomo, mentre egli si condannerebbe alla più stretta economia per preparargli in un modesto, ma netto capitale, il danaro d'ingresso al mondo dell'aristocrazia e degli affari. Però questi non erano, sebbene profondamente sinceri, che progetti; Peppino era troppo bimbo ancora per studiare, quantunque al giudizio di tutti gli amici di casa mostrasse di già una portentosa intelligenza; le economie ben stabilite nel bilancio mentale della famiglia non si realizzavano per una folla di piccoli inconvenienti, di minime spese, di più minimi danni, i quali facevano sì che il passivo superasse sempre l'attivo.

E Ida entrò come una nuvola in questo cielo fulgido di speranza; poi il sereno si fe' nero come un panno mortuale, il vezzoso bambino era morto, e in quel cielo abbrunato la piccola nuvola fu ancora un rifugio pei profughi dalle tenebre invadenti del sepolcro.

Ida fu più curata, più amata; ma quale differenza fra la sua testa ancora stupida e la personcina pietosamente frale colla testa folle di Peppino e quella sua attività battagliera, le movenze gaie, le scappate irresistibili!

La piccina, a due anni, stentava ancora il passo, e mettendo così tardi i denti piangeva tutto il giorno. La mamma poco paziente l'abbandonava, ma egli se la pigliava in braccio e, coprendola di baci, le parlava colla commovente insensatezza dell'affetto. La bambina, incapace di comprendere le parole, doveva per un mistero del sentimento capirne la bontà, giacchè in quelle carezze scordava quasi i dolorini delle gengive, e, guardandogli negli occhi azzurri, dolci dolci, gli sprofondava le impotenti manine nella barba. I denti spuntarono, e coi denti si fortificarono le gambette, si rinfrescò la pelle, crebbero i capelli, crebbe tutto il corpo. La bambina si sviluppava, si trasformava, non era bella ed era già graziosa; e forse un giorno avrebbe posseduto la più possente e continua delle bellezze, quella simpatia indefinibile delle persone dal cuore gonfio e dalla fantasia accesa, quella bellezza, che pare quasi l'avanzo di un'altra più plastica, e che una passione o un mistero abbiano misteriosamente scomposto.

Il padre lo sentiva, la mamma no.

A poco a poco Ida sostituì Peppino. Era sempre una donna, quindi male atta alle grandi battaglie e alle grandi vittorie della vita, ma l'intelligenza, pensava l'ingegnere, non ha sesso; non era bella quanto quel morticino, e tuttavia l'espressione s'insinuava in quella sua fisonomia e la animava. Il suo raccoglimento infantile imponeva un rispetto involontario, le sue risposte fosforescenti abbarbagliavano. Il buon uomo aprì ancora il cuore in faccia all'avvenire, perchè se ne involassero tutte le speranze a riconoscerlo; e decise che Ida, diventando di anno in anno più bella e più brava, possederebbe un giorno le ricchezze preparate per Peppino, e potrebbe, rivelandosi una gran donna, come il nostro secolo ne aveva vedute tante altre, innamorare qualche gran signore e dominare in una casa principesca. Egli la visiterebbe di rado, poichè si sentiva ancora addosso, malgrado gli studii fatti, la ruggine avita; la seguirebbe da lontano, scaldandosi a quel bel sole di primavera le vecchie membra assiderate. E così, sognando tutta la vita, vivea di sogni, preparandosi altri sogni.

Qualche volta ne parlava colla moglie, che gli rideva in faccia; qualche volta con Ida, la quale afferrava qualche lembo di frase e la ripeteva.

Però la loro fortuna, non soccorsa dai tonici delle economie, intristiva. I poderi trascurati dimagrivano, le rendite si facevano più incerte e più esigue, mentre la moglie seguitava a nuotare come un'anitra nella voluttà di una grassa illusione. Egli, nell'inerzia accorgendosi inutilmente di tutto, ne provava un grave malessere, dal quale non usciva se non cacciandosi nel giardino dei sogni, colla bambina sulle ginocchia, seduto sulla larga poltrona di percallo, solo in casa, poichè l'altra era sempre da qualche vicina per una qualche faccenda, che svaniva in un pettegolezzo.

A quattro anni Ida leggeva e scriveva, e l'ingegnere, che aveva trovato in un giornale il nome di Froebel, parlava continuamente della primissima istruzione, degli albori della intelligenza, della sintesi tanto meravigliosa e tanto inavvertita di tutta la logica nel semplice abbecedario. Ma sempre distraendosi, la moglie gli rimase ancora incinta.

Questa volta la gravidanza fu soggetto di male parole, i due coniugi se la rinfacciarono a vicenda; la nuova vita, che avrebbe dovuto stringere più fortemente la loro, vi si cacciò in mezzo e li divise. Egli riflettè che un'altra bambina sarebbe infelice nel mondo, rendendo infelici loro stessi, che male potrebbero educarla, male dotarla; poi contrasterebbe al cammino di Ida, ed essendo forse brutta e volgare quanto la madre, riattaccherebbe la famiglia a quella ignobile borghesia di villaggio, alla quale egli non avea mai appartenuto e nella quale era scivolato colla follia del matrimonio. Un altro maschio?... Ma dal giorno che Peppino era morto, egli non poteva avere più figli! Un altro maschio rovinerebbe Ida, senza riempirgli nell'anima la fredda lacuna di quella vita sbocciata e caduta come un fiore.

Geltrude invece, sperando di rifare il suo bel bambino, per dispetto del marito ne parlava assiduamente, massime a pranzo; così che l'altro, malgrado una qualche bestemmia, dovea pure andarne battuto, avendo piegato la prima volta il capo a quel matrimonio con una donna inferiore, e non avendolo più rialzato, vergognoso della propria debolezza, che gli alterchi avrebbero reso anche più ridicola. Taceva, divorava la bizza, o la sfogava indirettamente. Ma più la gravidanza inoltrava e più Geltrude la covava collo sguardo e col pensiero, tutta superba perchè la contessa Monteno di Valdiffusa, ricchissima tenuta di quel comune, ella medesima incinta, le aveva detto, passeggiando nel bosco, un giorno che era andata a trovarla nella carrettella dell'arciprete:

—Chissà se non partoriremo assieme, e tutte due un bambino.

La contessa gracile e malaticcia soffriva assai, e Geltrude, sebbene robusta, cercava di imitarla in quei patimenti per deferenza alla gran signora, che si degnava d'invitarla al proprio castello. Vi era ritornata più volte, sempre più accetta, giacchè la contessa, condannata in villa dai medici e noiata da morirne, sola col marito cacciatore instancabile, si sentiva come sollevare lo spirito conversando con qualche estraneo. Poi Geltrude, già levatrice ed una volta anche balia, le parlava sempre di parti, di bambini; conosceva a certi segni il sesso del feto, aveva rimedii per le nausee, una suppellettile fra pregiudizi e cognizioni, che intrattenevano il cuore della povera contessa, già etica, e dopo sei anni di matrimonio allora solamente alla sua prima gravidanza. E voleva un bambino.

—Le donne sono troppo deboli per la vita.

—Anche l'ingegnere,—così ella chiamava fuori di casa il marito,—dice sempre così.

Ma Geltrude partorì prima della contessa un maschio così esile e doloroso a vedersi che pareva un cadavere; tutti dissero che non sarebbe vissuto, e nessuno s'ingannò. Dopo quindici giorni lo portarono al camposanto; il giorno dopo Geltrude, andata a trovare la contessa malatissima dopo il parto, se ne portava a casa una bambina, bella come un angelo. La povera contessa, che si sentiva soffocare sotto le fredde spire della tisi, avea consentito quell'immane sacrificio perchè la piccina non suggesse al suo seno, o non respirasse nel suo alito il veleno della fatale malattia.

Era stata una scena atroce. Quando Geltrude, florida di salute, le presentò Jela per l'ultimo bacio, la contessa nella sfinitezza del proprio dolore avea ancora trovate due lagrime. Il marito, distrattosi involontariamente ad ammirare il petto turgido della balia, non avea trovato nè una parola, nè una carezza; la vecchia cameriera si era nascosto il volto fra le palme scoppiando in singhiozzi, mentre Geltrude stessa si commoveva suo malgrado, e la contessa fra quella cornice di dolori, nella patetica sublimità del proprio pallore di moribonda, pareva una martire.

Quella scena fece che Geltrude amasse Jela.

Infatti convenne con l'ingegnere che non avrebbe accettati salari o regali, allattando la bambina per affezione e cortesia verso la madre. Così il povero uomo salvava il suo orgoglio campagnuolo, mentre non si era piegato a quest'altra follia della moglie se non per la idea improvvisa che la fortuna, facendo di Jela la sorella di Ida, le unisse senz'altro nel medesimo destino per il medesimo mondo.

Ida, ormai di cinque anni, si mise come una mamma intorno a Jela.

La contessa di Monteno morì raccomandando al conte Ida e Geltrude. Egli ne fu scosso per qualche giorno, fece venire le piccine al castello, poi si calmò, e poichè si conosceva inadatto a curare quell'infanzia e sapeva Jela in mani che mai le migliori, lasciò andare le cose innanzi, tirando innanzi egli medesimo secondo il solito.

Una volta mandò un grosso dono; l'ingegnere lo fece respingere da Ida con una lettera scritta da lui e copiata dalla bambina, che lo ubbriacò nel proprio amore di padre. Il conte non ripetè più l'errore, limitandosi ad un complimento ben tornito, quando veniva a trovarle. Così passarono degli anni.

Jela prosperava. I medici approvavano quella vita, e il conte approvava i medici. Era una piccina bianca e rosea, coi capelli più biondi della seta e gli occhi color di viola; avea le carni di una inesprimibile finezza, i movimenti di un'eleganza e di una civetteria senza nome. Era dolce e buona. Non piangeva, chiamava mamma Geltrude, zio l'ingegnere, sorella Ida. A Geltrude quel nome di mamma facea talvolta sognare la ricchissima tenuta di Valdiffusa, l'ingegnere sorrideva del proprio come di un complimento, Ida esercitava l'autorità di sorella maggiore, tiranneggiandola con abbastanza mitezza. Jela era pazza per Ida.

Anche il conte le diceva sorelle.

Quando Jela toccò i sei anni il conte pensò a ritirarla dal villaggio, ma volle che Ida la seguisse; quindi cominciò per entrambe una nuova vita. Avevano i medesimi maestri, uscivano nel medesimo calesse sorvegliate dalla vecchia governante, vestivano i medesimi abiti, cosicchè si sarebbero difficilmente distinte; anzi Ida aveva un'aria ancora più fine ed altera. In quegli immensi appartamenti, arredati con un vecchio e nobile lusso, ella si trovava ancora meglio che non a casa propria; trattava i servi con maniera di piccola sultana, aveva una dolcezza, che respingeva e soggiogava. Così fanciulla non usava più dimestichezza con alcuno; ragionava e posava. Quasi tutto le fosse dovuto, nulla la maravigliava, e tuttavia sapeva che un giorno le converrebbe tornare al villaggio paterno. Quindi nelle lettere all'ingegnere gli narrava la propria vita, anatomizzando inconsciamente sè stessa, così che egli ne gongolava massime al racconto degli studii, nei quali Ida ripeteva a Jela le lezioni facendogliene apprendere col misterioso magistero dei fanciulli nel comunicarsi le idee.

Il conte la osservava stupito, i maestri ne alzavano gli elogi.

Ella cresceva bruna e slanciata, i capelli nerissimi le crescevano di una lunghezza eccessiva, ondulati e pieni di riflessi azzurrognoli; aveva gli occhi enormi, le estremità di una finezza rarissima. Parlava già il francese e balbettava l'inglese. A dodici anni avea letto un romanzo, a tredici un'opera di filosofia, avea ammonizioni per Jela, disegni per sè stessa, risposte per tutti.

Un giorno il suo maestro di storia, lamentando la povera condizione della donna in società, le chiese se desiderasse essere un uomo.

—No.

—Perchè?

—L'uomo non s'innamora della donna,—aveva risposto la fanciulla, accomodandosi un riccio di capelli sul seno, che cominciava a gonfiarsi delle seduzioni della donna. Avea la natura del lusso. Mentre Jela ancora bambina ruzzava alle sottane della vecchia cameriera, ella errava sola e pensierosa pei vasti appartamenti, movendosi come un'ombra nella penombra dei cortinaggi, esaminando ogni mobile, incantandosi dinanzi ai ritratti delle belle dame e degli eleganti cavalieri. Quegli antenati erano come suoi e aveano vissuto la vita dei suoi sogni, giacchè l'orgoglio della fanciulla provava già il bisogno di avere un passato, intanto che i suoi desiderii si precipitavano verso l'avvenire. La luce degli specchi e dei damaschi le piaceva già meglio che la luce del sole e delle acque; la poesia di quelle stanze, composte ad una ignota vita, la commoveva più che la poesia del bosco coi decrepiti ippocastani e le elci melanconiche. Spesso sdraiata le lunghe ore sopra un immenso divano dorato, la testa sopra un cuscino a ricami, i piedi sulla seta, si smarriva di sogno in sogno. La lucida levigatezza delle stoffe aveva per lei misteriose voluttà, i gracili capolavori, che ingombravano i tavolini, incalcolabili ed arcane significazioni; ognuno di essi non poteva occupare se non quel posto, ognuno di essi era necessario, i fiori dei tappeti e le mitologie delle volte, i paracamini e le poltrone, i vasi di maiolica e le porcellane di Sassonia, i ritratti e gli specchi vuoti, che la riproducevano all'infinito, spingendola per una fila interminata di saloni verso il salone fatato, al quale le chimere della sua fantasia cercavano inutilmente una porta aperta.

Più di una volta erano venuti a cercarla in quelle fantasticaggini, ma vi ritornava appena potesse.

Un'altra volta il conte la sorprese abbandonata sopra una poltrona. Avea le gote accese, l'abito le lasciava scoperte le caviglie, la posa le ingrossava il seno. Egli s'incantò come un poeta dinanzi all'aurora di quella donna. Una sottile seduzione, un profumo primaticcio esalavano da quel corpo troppo tenero, ma coi contorni già molli e le finezze indecise. Ella sorrideva nella penombra cogli occhi socchiusi, e quella penombra, che la ingrandiva facendola forse sognare, la rendeva un sogno per un altro.

Il conte ristette sulle punte dei piedi. La fanciulla lo vide, ma s'infinse; forse dubitò, e la vita incomincia dal dubbio.

Ma la vecchia cameriera, d'accordo col prete, non era contenta di Ida, la quale non le pareva una fanciulla come le altre, con quella gentilezza intrattabile nelle proprie voglie e quelle risposte, quasi dicesse sempre il pretesto e non la ragione di quello che faceva. Alla sera, ripetendo le orazioni con Jela, pareva che Ida vi si prestasse per giuoco, mentre evitava costantemente la compagnia del prete per una ripugnanza istintiva. Quella figura servile, sempre in estasi davanti al signor conte, irritava la fanciulla. Talora a pranzo, a qualche dialogo, quando nella riconoscenza della ghiottoneria egli si sprofondava in adulazioni del peggior gusto, Ida gli piantava negli occhi i suoi occhi neri, audaci e profondi, che lo ardevano scrutandolo. Il prete s'impigliava, perdeva il filo delle frasi, col fremito di un solletico per le vene, cercando qualche rimprovero per sacrificarla a Jela; ma Ida si sapeva troppo forte, e vi consentiva di buon grado.

Però una volta egli toccò della sua cattiva posizione in società, e Ida impallidì. Da quel momento la guerra fu dichiarata; la fanciulla, spalleggiata dagli altri maestri, proruppe nella incredulità, sostenendosi così bene colla vivacità dell'ingegno e la molteplicità delle letture, che il prete uscì più di una volta confuso dalla discussione. Jela rideva senza capire, il conte comprendendo, ma spesso allontanava Jela. Eppure Ida aveva un vuoto nell'anima.

In quel ricco palazzo era sola, e non avea alcuno fuori del palazzo. La sua casa al villaggio col babbo e la mamma non era più sua, giacchè vi si sarebbe sentita ancora più straniera. Il padre, che vociava sempre, la mamma, che girellava in pianelle; in tutta la casa non c'era che una specchiera di noce e una poltrona di percallo. Nulla, nemmeno quell'isolamento aristocratico del palazzo, dove i servitori non la incontravano mai senza inchinarsi, e potea aggirarsi nel silenzio, sola, sognando dei sogni da imperatrice, uscendone in carrozza scoperta a farsi ammirare dalla gente. Si accorgeva che i suoi genitori vi sarebbero stati anche più ridicoli, mentre ella vi stava a meraviglia. E fra lei e loro s'insinuava un filo d'acqua che apriva il terreno in fosso, lo allargava in ruscello, lo gonfiava in fiume, ruinava in torrente, cresceva a lago, immenso, come un mare, più di un mare. Era sola, non aveva nulla da lamentare o da desiderare, eppure un malessere la sorprendeva di quando in quando, quasi un ribrezzo, un freddo, che le si rifuggiva nel cuore.

Il conte avea con lei la più perfetta cortesia, non le usava differenza colla figlia, ma nullameno tutti nel castello ne la distinguevano, persino i sopramobili, che si lasciavano infrangere da Jela con una muta ed inalterabile devozione.

Una mattina ella ruppe disgraziatamente un gruppetto di Sassonia, tagliandosi un dito ad una scheggia. Jela dal canto proprio avea fracassato un piccolo specchio di Murano, antichissimo. La cameriera, che sopravvenne, sgridò Jela con una carezza, perchè avea corso pericolo di ferirsi, e rivolgendosi secca secca all'altra:

—Quando la roba non è vostra, bisognerebbe andare più piano,—disse nella sua lingua.

Quella notte Ida invece di dormire pianse.

Ma quella vita e quegli appartamenti la trattenevano. Ne conosceva tutti gli angoli, tutti gli oggetti, tutte le figure; aveva fantasticato su tutto, riempiendo tutto di sè stessa, giacchè gli appartamenti vuoti dalla morte della contessa aspettavano una donna. Ella non avrebbe domandato se non di occuparli per sempre, senza uscirne mai e senza mutarli; ella sola, ma sola davvero come una misteriosa prigioniera o una fata anche più misteriosa delle sue leggende favorite, coi servi muti, il mistero intorno, profondendo l'infinito in quella inutile esistenza senza fiori e senza musica, senza genitori e senza Jela. Ella già donna, ma sempre colle sottane corte, senza far nulla, nutrendosi di quel lusso, odorando i fiori del tappeto, aggirandosi fra la folla dei ritratti, riposandosi ad immense distanze sopra uno sgabello od una poltrona ricamata... finchè un raggio di sole, illuminando l'occhio di un antico cavaliere, la faceva rivolgere, e sotto quello sguardo di un uomo Ida sentiva interrompersi il sogno.

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IV.

Quando Jela ebbe nove anni, la misero in un convento di monache, e le due fanciulle si divisero piangendo. Jela singhiozzava disperatamente, supplicando la sorella ad accompagnarla, ma quantunque il conte avesse potuto acconsentirlo, incaricandosi della spesa, non osò parlarne coll'ingegnere. Nè Ida d'altronde si sarebbe piegata a quella esistenza oppressa e malaticcia dei conventi, colla monotonia delle occupazioni e la fastidiosità religiosa degli insegnamenti. Pianta robusta, ella aveva d'uopo di vento e di sole; meglio la cima combattuta di una roccia, che la calma tepente di una serra.

Ma per quanto si sforzasse a dissimularlo, Ida avea i goccioloni agli occhi. L'ingegnere, il conte, una vecchia zia, la vecchia cameriera, il domestico di confidenza del conte, erano tutti presenti agli addii nel cortile, dove attendevano la solita superba carrozza e la carrettella dell'arciprete, giacchè le due sorelle, e si capiva ai veicoli, si dividevano per due mondi diversi.

Jela trasse Ida in disparte, la fece entrare in un salotto al pianterreno, poi costringendola a sedersi sopra un divano le saltò al collo, e facendosi così grave, che l'espressione dell'affetto le ricomponeva il viso travagliato dal pianto:

—Mi vorrai sempre bene?—le chiese.

L'altra se la strinse al petto.

—Mi scriverai sempre, e dopo staremo insieme, sempre.

—Sempre!—e un melanconico sorriso contrasse le belle labbra della donnina:—Tu non sai...

—Lo so, me lo ha detto la Nencia,—rispose coll'adorabile importanza dei bambini, che sentono di fare qualche cosa di serio:—starai sempre con me; giuralo.

Ida giurò sorridendo, e Jela, che indovinava a mezzo quel sorriso:

—Sì, vedrai: mi vuoi bene?—e tornò a piangere.

Quindi rientrarono nel cortile. Jela smontò ancora dalla carrozza per salutare la sorella, ma la vecchia zia sbuffava, il conte s'impazientiva, la cameriera faceva gli occhiacci a Ida, la quale se ne accorse e disse all'altra con un bacio all'orecchio e il volto soffuso di rossore:

—Basta, s'inquietano.

Avea il cuore oppresso; in quella carrettella le pareva di soffocare, ma la carrozza non partiva. Vi era sempre qualche fagotto da accomodare, qualche oggetto di Jela dimenticato negli appartamenti che i servi portavano correndo, poi una ressa di persone, i domestici, i fattori, i due giardinieri, alcuni contadini, i più antichi della casa. Uno, che avea portato un bel paniere di mele fatto da lui stesso, inghirlandato di edera e di alloro, piangeva come Jela, baciandole la mano; era un bellissimo vecchio, che tutti guardavano ancora più commossi dalla sua commozione che dalla partenza della signorina. Il cagnuolo chiuso su nel salone uggiolava dolorosamente, mentre Jela sbirciava ogni tanto verso la finestra, non potendo rispondere a tutti, piangendo, inorgogliendo di quel movimento prodotto da lei sola, lanciando tratto tratto una occhiata a Ida, che attendeva di dietro, sola col babbo, nella carrettella dell'arciprete. La carrettella, molto più vecchia dell'arciprete, era sverniciata, a cinghioni, coi cuscini scompagnati di percallo, trapunti a fiocchetti di lana. Sul sedile posticcio, di contro e dietro la cassa, fra le ruote, due cestoni legati con una infinità di corde le davano l'aria di servire ad uno sgombero; mentre una farragine di fagotti a fazzoletti colorati le si alzava dentro in un monte, che avea già avvilito la povera rozza colle orecchie spelate e le gambe dinanzi ancora sanguinolenti di una caduta. Ma l'ingegnere non era molto più vivace del cavallo, preoccupato di nascondersi le scarpe di vacchetta bianca, vestito di quella giacca verdognola, logora ai gomiti ed abbottonata all'ultimo bottone come usavano gli eleganti del villaggio, senza un pensiero di Ida, la quale si sentiva man mano più straniera in quel ricco cortile, dove avea tanto giuocato e donde usciva per sempre senza lasciarvi tracce e senza che nessuno le badasse. Allora un avvilimento le ruinò sull'animo, una voglia subitanea la bruciò di fuggire subito al di sopra dei tetti col vento, che nessuno la vedesse, per dissolversi ancora profumata di quella signorile esistenza. Ma un'occhiata al padre col mozzicone della frusta in mano, il capo basso come il ronzino, evitando gli sguardi di tutti per non impacciarsi maggiormente, la richiamò alla orribile realtà di quella scena d'addio, dietro la carrozza di Jela, che non si moveva ancora, dentro la carrettella dell'arciprete ancora più immobile della carrozza, e nella quale non poteva nemmeno prendere la posa elegante delle solite trottate.

Fu un quarto d'ora infernale, il primo della sua vita.

Finalmente!

Giunsero al villaggio che suonava mezzogiorno, l'ora del pranzo. Le pareva di entrare in un mondo sconosciuto di persone che la salutavano, pieno di piccole case e di piccola gente; poi smontò, parlarono, nessuno la comprese, e dichiararono che facea la signorina per aver fatto mezzo la serva per quattro anni a dei signori. La mamma fu la prima a confermare quel sopranome.

Qui i ricordi della fanciulla incalzavano.

Si ricordava la dolorosa esumazione delle antiche abitudini della sua casa, la mamma e il babbo che si bisticciavano sempre, le ragazze del paese che la sfuggivano per le sue nobili maniere; quindi si trovava sempre sola, coglieva uno spino ad ogni passo, si sentiva attorno un'atmosfera frigida di ridicolo dovuta ad una superiorità morale, che, malgrado l'eccellenza della propria natura, stentava in quella fanciullezza a ben precisare. Si rammentava la difficoltà delle ore solitarie, le peggiori di un linguaggio, del quale avea perduto l'anima. Parlando in casa o fuori, non s'incontrava più in opinioni simpatiche, anzi non la capivano e la deridevano; si rammentava di un bel ragazzo falegname, che lavorava sotto la sua finestra e si era innamorato di lei. Allora ella stava sempre alla finestra con un libro in mano, si guardavano; poi si erano parlati, poi il giovinetto, messo su dai compagni, le avea usato uno sgarbo. Quindi una rottura, e poi sola nuovamente, e studiava, studiava.

Il babbo era sempre malinconico. A pranzo erano insistenti discorsi d'interessi, che andavano in malora; non si mangiava una pietanza che il suo costo non trascinasse seco osservazioni spiacevoli o qualche profetica lamentazione della mamma sull'avvenire della famiglia. Così la fanciulla smetteva di mangiare. Aveva ormai quindici anni, cresceva sempre più bella, di quella sua speciale bellezza.

L'ingegnere la volea sempre ben vestita, la meglio vestita del villaggio, ma la mamma contrastava ad insolenze, così che Ida finiva per vergognarsi di quei rimbrotti e di quei vestiti ancora più goffi, senza osare un'osservazione, ripiegandosi su sè medesima e pensando al destino di Jela, contessa milionaria.

—E io?!—le accadeva spesso di mormorare.

Poi fu presa la grande risoluzione; Ida anderebbe all'Istituto superiore femminile.

—In ogni caso sarà una maestra,—aveva risposto l'ingegnere a Geltrude, che si opponeva furiosamente.

La fanciulla aveva pianto di nascosto quel giorno.

Partì per la città.

Viveva a pensione con una modesta famigliuola di sarti, i quali le avevano assegnato la loro camera più bella e le servivano a tavola per la prima i migliori bocconi. Erano piuttosto buona gente, con idee più basse della propria condizione, che lesinavano il soldo e parlavano dell'avvenire delle maestre come di una mostruosa fortuna.

Ella vivea nella propria camera non uscendone quasi mai, studiando o sognando, ma soffrendo ancora più, giacchè per quanti quattrini le mandasse il povero ingegnere, erano sempre troppo pochi ai suoi nuovi bisogni di città. La superiorità della sua natura, che la spingeva verso il lusso, come le piante si spingono verso la luce, le facea provare una strana voluttà ad ogni camicia bianca, ad ogni stivaletto ben serrato. Il bello per lei era il primo aspetto delle cose, l'estetica una religione. Teneva quella cameretta con una decenza patrizia, sè medesima con una divinità. Si bagnava, si pettinava sovente nel medesimo giorno, usava sempre dei manichini irreprensibili come il buon gusto delle sue frasi e la sceltezza delle sue maniere.

—Chissà mai!—diceva la Lucia col marito.

Ma le rade volte che uscivano a passeggiare, questa le facea da serva, ed andavano nei luoghi meno frequentati, perchè Ida, vestita come nessuna delle sue pari, si vergognava tuttavia dei propri abbigliamenti, quasi tutti dovessero notarla e farne commenti. Quindi avviluppava ogni signora, cui s'imbatteva, di un lungo sguardo, al quale nulla sfuggiva; indovinava le sottane sotto le vesti, la camicia sotto le sottane, le calze sotto la camicia; i guanti, il cappellino, l'acconciatura dei capelli, la finezza di una trina, i ricami di un tulle l'occupavano per tutta una passeggiata; quindi la sera a casa li ripensava, distraendosi dagli studii. Una sete, un'invidia di lusso, la torturavano; provava le lacerazioni d'un insulto ad ogni occhiata lanciata dietro una donna meglio vestita di lei, avrebbe volentieri dato un anno di vita per passare un giorno in carrozza.

Il cuore inaridito lasciava libera la testa, ma la sua testa era un vortice, che ingoiava tutto il mondo.

Essendosi ingannata col nascere nella propria famiglia e nel proprio villaggio, si accorgeva di essere povera ed infelice per sempre; ma il malessere di questa preoccupazione incessante s'accresceva ancora in quella abitudine di mutismo e di isolamento. Quando il dispetto lungamente accumulato volea erompere in dolore, ella lo comprimeva tuttavia; i lamenti così soffocati morivano in maledizioni, che le lasciavano sulle labbra la schiuma di una convulsione, mentre per sopportare lo spasimo di tale piaga era costretta ad aprirsene un'altra colle unghie, rimedio feroce dei grandi ammalati. Quindi passeggiava febbrilmente per la camera o si buttava sul letto, perchè non avea poltrona; gettava via i libri, singhiozzava senza piangere, ruggiva senza gridare, finchè il pensiero che nessuno se ne accorgeva la scoraggiasse. Allora le tempeste si quetavano, la fanciulla ripigliava i libri, si accomodava i vestiti si stirava un colletto. Però se la lividezza del suo viso perdeva le chiazze del pianto, l'anima le incancreniva.

La fanciulla peggiorava tuttodì. Quella lotta impotente col destino la corrompeva, gli studi affrettavano quella corruzione. Siccome il mondo la opprimeva, ella studiava il mondo per combatterlo. Scrutava le sue leggi, i suoi pregiudizi, i suoi dogmi; rifaceva la sua storia e ne ricercava i confini. Ad ogni sosta un miraggio che svaniva, una grandezza che sfumava in una parvenza, una virtù che si risolveva in una ipocrisia: la scienza era impotente, la religione bugiarda, l'umanità affannata a sostentarsi la vita materiale e morale, l'una aiutando di fantasie, l'altra di delitti, perchè i forti divoravano sempre i deboli. La storia era una leggenda di dolori, la vita una marcia demente. Avea cercato un momento la formula della felicità senza trovarla; allora si ribellò nuovamente.

Disprezzò la religione senza oltrepassarla, personificandola nei preti, rise della filosofia senza averla approfondita; quindi lo scetticismo le parve il trionfo della ragione, l'aristocrazia dei forti, e vi si tuffò ingordamente. Sua madre non l'avea mai amata, suo padre non la capiva, giacchè l'avevano rovinata a forza di volerle giovare, ambedue preoccupati del proprio egoismo, aspettandosi da lei per un giorno, forse prossimo, il pane della vecchiaia, dopo avere in gioventù goduto allegramente tutte le proprie sostanze. Ma allora che cosa era più la famiglia e il suo amore? Ella avrebbe preteso, per credervi, un affetto di poeta, squisito, sconfinato, anelante al sacrificio. Secondo lei la madre non era perfetta nemmeno nel poema cristiano di Maria, e Pierre Leroux aveva ragione quando accusava Cristo di non aver conosciuto abbastanza l'amore dell'umanità. L'uomo essendo quindi un animale, l'egoismo era necessariamente la sola legge e la sola verità della natura; l'anima era una chimera uccisa dagli scienziati, cui i poeti cristiani avevano imbalsamato il cadavere negli ammirabili scritti. Libera ogni avarizia dell'istinto, insensatezza ogni immaterialità.

Questa era la sua tesi favorita, nella quale s'incaponiva quanto meno ne era persuasa; ma negava, perchè la negazione supponeva un orizzonte più vasto e una energia più acuta dell'ordinaria affermazione. Laonde non andò più a messa e staccò persino di sopra del letto l'immagine della Madonna. Forse di notte l'aveva più volte pregata col delirio della disperazione che ridiventa speranza; ma siccome la dolce immagine litografata non avea distolti gli occhi dal proprio paffuto bambino, ella si vendicava così della sua sordità sottraendosi alla sua protezione. La Lucia fu tutta stordita il mattino, trovando il quadro sul tavolo da lavoro.

—Non lo voglio:—aveva risposto Ida di malumore.

—La Madonna?!

—Una donna...—e un sorriso fremente d'infinita empietà commentò quella parola:—una donna!

Ida si arrovellava; non credeva, non ammetteva più nulla di ciò che credevano ed ammettevano le altre fanciulle sue pari, ma, struggendolo, non si era potuta liberare da quel vecchio mondo. Ogni tanto si sentiva addosso una ruina, che non riusciva a spostare. La sua vita dovrebbe passarvi sempre frammezzo.

Vedeva le altre fanciulle felici, e le disprezzava senza volersi confessare d'invidiarle, perchè erano buone, ignoranti, si attiravano tutte le simpatie, facevano o avrebbero fatto all'amore, avrebbero vissuto sempre contente, mentre con tutta la sua superiorità essa non poteva nemmeno umiliarle. Anzi se il mondo avesse penetrate quelle sue opinioni, l'avrebbe presa in orrore. Ciò soventi la tentava, ma sebbene audace, aveva paura di mostrarsi a nudo; quindi interrompeva le conversazioni, o le riassumeva in un motto troppo profondo per essere capito da quelle fanciulle. Ida, natura violenta d'ingegno, aveva forse per le discussioni il celebre talento di madamigella d'Espinasse per le lettere.

Allora si era data ai romanzi.

Sue più di ogni altro la sedusse, urtandola direttamente nel carattere. Quella continua intenzione al bene e quella inconcussa speranza nella redenzione dei poveri, le sorrisero come una soluzione del proprio accorante scetticismo. A poco a poco i quadri della vita laboriosa le acquetarono le smanie del lusso, così povero di significato morale, mentre dalle calde pagine del grande socialista le usciva una nuova vita più luminosa e più feconda. Il suo cuore chiuso come un fiore sinistro si aperse alla rugiada; quindi nata cogli umili, condannata cogli umili, che l'avevano tanto nauseata nei bozzetti sentimentali del Coppée, sentì che in essi solamente era la grandezza della civiltà. Essa, che non credeva più alla religione di Dio, credette alla religione dell'umanità per amare tutti gli infelici. Gli entusiasmi primaverili le sbocciarono dal cuore col profumo delle viole, e l'onda fulgida della fede li coperse nuovamente di sorrisi. Tutte le sue ingordigie erano appagate, la poesia le aveva ubbriacato la ragione.

Ma neppure quella credenza durò. La Lucia, donna d'esperienza e di buon senso, che osava spesso deridernela, la vide ben presto rinsavire, poichè partecipando, per soccorrerli, alla vita d'alcuni poveri, dovette accorgersi di quanto differissero dai modelli di Sue e ne fossero anzi una terribile antitesi. Erano ancora più abbietti che lagrimevoli, più perversi che ignoranti, senza decoro sdegnoso di passato, senza aspirazioni nobili di avvenire, accattoni, perchè non abbastanza grotteschi per essere parassiti, o audaci per farsi assassini. La vanità di non essersi ingannata la fece resistere qualche tempo nel romantico apostolato, come aspettando da quell'anime corrotte di miseria qualche rivelazione di grandezza; ma alla fine dovette persuadersi, e capitandole fra mano l'opera di Malthus, ammise volentieri con lui la morbosa superfluità dei poveri.

Aveva sperato con Sue che fossero anime cadute da rialzare, ed invece erano nature brutali da umanizzare.

L'ultima opera di beneficenza verso una madre, alla quale dava gli abiti e gli stivalini usati per salvarle la figlia, la disgustò per sempre, mentre costei si serviva di questi avanzi di un piccolo lusso per abbigliare la piccina e cavarne un migliore guadagno. Ida lo aveva indovinato senza stento, giacchè se il suo cuore era adolescente e i suoi sensi bambini, la sua ragione era adulta. Ma l'apostolato aveva appena consistito nella conoscenza di due o tre famiglie, che per ragioni di lavoro facevano capo a quella del sarto.

Intanto essa diventava sempre più donna. L'anno scolastico volgeva al termine, mentre la primavera moriva nell'estate. Lo sviluppo della persona essendosele arrestato nello sviluppo eccessivo dell'intelligenza, rimaneva con una testa di donna sopra un corpo quasi di fanciulla, stranamente allungato, e con una delicatezza di forme, che intratteneva il bisogno di una più sensuale efflorescenza. Ed era una contraddizione non meno fisica che morale, poichè i sensi le sonnecchiavano ancora, fremendo tratto tratto alle fredde temerità del pensiero, mentre una nebbia le passava per il sereno adamantino della ragione, e la fanciulla si sentiva avvolgere come in un calore di aliti, con certe strette al collo e un'inquietudine d'invisibili carezze per tutti i muscoli.

Ma ciò avveniva raramente, perocchè studiava molto e ambiva troppo; d'altronde non conosceva ancora l'uomo.

Quel ragazzetto falegname, il solo sul quale il suo pensiero si fosse fermato un istante, non le aveva ispirato che una forte simpatia di camerata, cui non erano forse rimaste estranee le contrarietà della sua vita casalinga e le confuse necessità di espansione, che travagliano l'adolescenza; poi lo avea dimenticato. Adesso non pativa bisogno dell'uomo, giacchè la differenza con lui le sfuggiva. Faceva la medesima strada, scorazzava nei medesimi campi, scalava le medesime vette gloriose, scandagliava i medesimi abissi, ostinandosi nella stessa lotta contro il destino, estenuandosi negli stessi sforzi contro il mistero; ma avendo in comune la scienza e la incredulità, si trovava superiore all'uomo nella bellezza del corpo e nella finezza del sentimento.

Talora le pareva persino impossibile che uomini come il suo maestro o come il sarto potessero comunicare all'anima qualche emozione passionata; quindi un abbagliante romanzo di Gauthier ed alcuni altri di George Sand, che rilesse più volte meditandoli, la confermarono in questa opinione. Ma poichè la Lucia aveva in quel tempo un bambino alla mammella, che allattava per casa senza soggezione della gente, Ida per cortesia verso la buona donna doveva nelle urgenti necessità di lavoro o delle faccende domestiche consentire talvolta a divertirlo. Quindi lo cullava, lo vestiva nella loro camera buia, la più povera dell'appartamento. Il letto vi era quasi sempre disfatto, i lenzuoli poco bianchi, le coperte di cotone, a uncino, rammendate, di un bianco ancora più ambiguo che nei lenzuoli. Ma quantunque da sposi, il letto non aveva se non un cuscino senza fodera, dalla parte della Lucia e bisunto, poichè il sarto dormiva più basso, colla testa sul capezzale.

Allora Ida pensava all'amore di un uomo e si sentiva nauseata.

Un sucido odore umano esalava da tutta la camera, l'ombra vi era oleosa, i mobili abbietti.

Una sedia fra la culla ed il letto faceva da comodino, ed aveva sempre un mozzicone di candeliere con dentro un mozzicone di candela per la notte; il sego era colato sulla paglia, incollandovi i zolfanelli sparpagliati, squagliandovisi a macchie fetide di verde rame. Bisognava che fossero ben bassi nella scala degli animali coloro, che potevano amarsi in un simile ambiente; ma nonostante tutto quel ribrezzo una ignobile curiosità la spingeva fatalmente verso il letto. I lenzuoli lanugginosi avevano la nauseante morbidezza delle carni non use ai bagni, e si affondavano in due lunghe buche, entro le quali i corpi degli sposi parevano aver lasciato le loro ombre. Quindi Ida pensava a quei due corpi, di notte, abbracciati, mentre ella dormiva sola nel proprio lettino bianco. Un odore viscoso le penetrava tutti i sensi, un calore, quasi rimasuglio del calore di quei due corpi, le saliva dai materassi per le reni, una scappata lubrica del sarto colla moglie, udita nel giorno, le passava sferzando agli orecchi, una stanchezza morbosa le si aggravava sulle spalle. Quella camera pigliava l'aspetto di un antro, il suo tanfo si mutava in un sito terroso di spelonca, tutti gli altri mobili sparivano, mentre il letto rimasto solo l'attirava talmente, che una volta avea dovuto sdraiarvisi abbracciandolo con le mani distese. Poi il falegname, il sarto, qualcuno dei suoi maestri le si presentavano con un'inesplicabile confidenza, intanto che le vesti le davano incomodi, ai quali non avrebbe saputo trovare un nome, e la scienza del pensiero le si nascondeva volontaria dietro l'ignoranza de' sensi.

Una volta assistette, nella stanza che fungeva da bottega, alla prova di due calzoni, e provò un turpe piacere nella discussione dei loro difetti, trovando strano, ella che si stimava così scettica, che nessuno le badasse. E a poco a poco l'animalità si destava nella sua natura colla sgarbatezza di un avvinazzato. Erano contorsioni e fiatosità, che la soffocavano svanendo, poi subito dopo una grande idea o il morso di una passione la ritornavano la solita Ida dall'intelletto sereno e il cuore sanguinante di orgoglio. A forza di sognare talora perdeva così il senso della realtà, che le pareva impossibile di non essere almeno duchessa e milionaria. Un disprezzo inesauribile le traboccava dal cuore su ogni persona e ogni cosa; disprezzava i poveri e i ricchi, tutti coloro che non la capivano o almeno non la indovinavano, mentre guardandosi allo specchio scopriva tanta evidenza di pensieri e tanta luce di passione nel sorriso dei propri occhi. Davvero che il mondo doveva essere composto d'imbecilli, i quali passavano la vita lavorando per un boccone di pane, come gli asini per una manciata di fieno, ed erano egualmente imbecilli, sebbene più belli, i fortunati che non lavoravano. Ella invece si sentiva degna di tutto, capace di tutto come Napoleone dal lido di S. Elena; ma come il grande, cui idolatrava per la fredda onnipotenza della volontà, era lontana dal mondo, sulla soglia di una prigione aperta, nella smorta solitudine di un oceano senza tempeste.

Povera Ida!

Aveva scritta una bella poesia con questo titolo e poi l'avea stracciata.

L'anno finì, e ritornò al villaggio in apparenza la stessa, ma nello spirito profondamente cangiata. Quindi riprese le antiche abitudini, accompagnando la mamma a messa o a spasso, rispondendo rispettosa a tutte le sue domande, ma in fondo al cuore irridendola. Alle compagne, che le correvano incontro, rese appena un saluto di sussiego e parlò col più elegante italiano; quelle sulle prime risero e si prepararono a canzonarla, ma Ida le imbrogliò con tali complimenti, che la beffa plebea cessò in una attonitaggine di meraviglia. Nullameno scoppiò dopo le spalle più violenta.

Però quel suo contegno superbo e cortese in casa cominciava a trionfare perfino della mamma, la quale, a forza di tagliarsi nell'acutezza di quella ragione, la evitava involontariamente e non facea più certi discorsi e non pronunciava più certe parole.

Spesso un'occhiata della fanciulla bastava a frenarla, ma come la sua non era natura da sollevarsi ad una vita più intelligente, ogni tanto si vendicava di quella soggezione con una scenata eccessiva. Ida si trincerava dietro un'aspra indifferenza, quindi tutto l'impeto di quella collera vi si frangeva come ad una scogliera.

Adesso un altro cielo le si era schiuso.

Benchè superasse di poco i sedici anni, lo sviluppo precoce dell'intelligenza la offriva a tutte le seduzioni del pensiero. George Sand l'ammaliò coi propri trionfi di scrittrice. La fanciulla, cui la divinità dell'arte aveva sferzato il cuore con un sorriso, soffriva già tutti i delirii della gloria. Una luce nuova le aveva invaso lo spirito, una lena inaspettata le rinvigoriva tutti i muscoli; nell'ardore delle imminenti battaglie le sue stesse spavalde impazienze la ubbriacavano. La modestia quasi pitocca de' suoi natali le parve allora bella di un significato glorioso in antitesi coll'apoteosi della meta, mentre i posteri li avrebbero cercati con religiosa emozione, e forse più di un poeta dell'avvenire avrebbe fatto colla sua povera cuna il nido ad una canzone immortale. Tutte le asperitudini della sua vita si levigavano perdendo del loro carattere umiliante, quasi tante prove, per le quali il suo spirito dovesse passare purificandosi, tante battaglie che il destino nemico desse al suo genio per contendergli la suprema conquista di un nome. Laonde si fortificò nello scetticismo, perchè l'artista, il quale studia per riprodurle tutte le fisonomie della vita, deve essere al disopra di ogni affermazione o negazione volgare, luminoso come un astro, limpido come uno specchio, sonoro come l'eco della montagna. Vizi e virtù, grandezze e bassezze, non sono che colori di tavolozza; vedere per vedere, ritrarre per umiliare i miopi coll'acutezza della propria vista: Goethe! Ida s'innamorò di Goethe, inabissandosi nel Faust. In fondo alla scienza il mistero, in fondo alla vita il nulla, giacchè lo sentiva fin troppo, il quinto atto del dramma, la redenzione di Faust nel bene era la massima ironia del poeta verso la borghesia inzaccherata d'ignoranza e di morale cristiana. Ma in fondo all'arte la gloria di gittare un ponte magico fra il mistero della scienza ed il nulla della vita, il trionfo dell'individuo sulla massa, la supremazia invincibile dell'ingegno sulle forze coalizzate della imbecillità, delle ricchezze e delle gerarchie.

Incanti di giovinezza, iridi di una bolla di sapone!

Ma lavorava sul serio. Concepiva più di uno studio alla volta, e lo cominciava per piantarlo subito dietro un altro più ampio e più bello, avendone appena come Murger scritto il titolo sopra un quaderno nuovo. Poi mutava ancora, aprendo cento porte e non entrandone alcuna, qualche volta precipitandosi nello studio per lo studio e ritornando ancora alla velleità delle rivendicazioni, drizzando i suoi futuri volumi contro i muri della società per aprirvi una breccia, sulla quale passare raggiante di superbia.

Persino la gente del villaggio cominciava a sospettare qualche mistero in quella fanciulla sempre pallida, col viso sempre aggrondato. Non sorrideva mai; e, per un capriccio inesplicabile, aveva adottato il nero pel solo colore de' propri abiti.

I giovanotti più depravati del paese, che passeggiavano a tarda ora cantando stornelli da osteria o storpiando qualche duetto di opera imparato dalla banda, guardavano la finestra sempre illuminata di Ida, diventando seri loro malgrado nello sparlare di lei. Era l'ammirazione e l'incubo di tutti.

Ma di notte l'assalivano fiere malinconie.

Tutti quei bei sogni di gloria, quasi foglie scrollate da un vento freddo intorno ad una rovina, le cadevano mutamente intorno. Si sentiva ancora più inutile che sola, più piccola che inutile, nata in un villaggio, condannata forse a fare la maestra in un villaggio, costeggiando sempre le rive del mondo senza approdarvi, intendendo dei brani di musica, odorando delle folate di profumi, ma senza che nessuno si rivolgesse a guardarla confusa fra le immondizie addensatevi dal riflusso del mare. Quindi riviveva in un minuto di spasimo tutta la propria vita di oramai diciassette anni, riassaporandone tutte le umiliazioni, succhiandone tutto il veleno, e dopo questa ineffabile agonia di dolori si adagiava in un tedio infinito, smorto come il crepuscolo, umido quanto la nebbia. Vedeva il mondo in una visione fumosa, nella quale la vita perdeva ogni significato e tutti gli oggetti la loro individualità, onde non le rimaneva più se non aspettare una piega della bruma, che avviluppandola la togliesse alla funerea scena. E Ida l'aspettava colla lugubre indifferenza della disperazione. A diciassette anni provava il peso della esistenza e il vuoto del lavoro senza aver troppo esercitato nè l'uno nè l'altro; la morte perciò era il supremo trionfo del vinto, la sua vendetta contro il mondo. Questa idea, che ha sedotto tanti poeti infelici, sedusse lei pure. La studiò, la vestì, le diede la posa più scultoria; si compiacque nell'immagine della torva fanciulla sempre bruno-vestita, che una notte, col cielo plumbeo, senza nè luna nè stelle, si alzava dal largo tavolo ingombro di libri lungamente compulsati e pur troppo capiti, si levava bianca di una tragica serenità, i capelli disciolti, e guatando un'ultima volta il mondo dalla guglia del proprio sublime dolore, si precipitava nella tacita immensità della morte, come una spenta meteora tramonta nel baratro della notte, senza gittare un grido o lasciare una parola, che potesse rivelare ai villani della terra il segreto della sua eroica sciagura. Morire, e che gli altri la piangessero poscia inutilmente, come inutilmente essa avea vissuto!

Ma la sua testa era troppo forte per cedere a questa tentazione; quindi bastava il ricordo del castello cogli appartamenti della morta contessa, perchè la vita la riattirasse con tutto il fascino delle sue speranze battagliere e la magia delle sue gioie vanitose. Allora sicura di una nuova energia scrollava il capo mormorando:

—No.

Ora le difficoltà finanziarie della famiglia si erano moltiplicate da non dare più requie. Tre dei quattro poderi della legittima avevano mutato padrone, il quarto stava per seguire il cattivo esempio; laonde fra la mamma e il padre si allargava l'abisso, sul quale le liti non gettavano più il loro ponte d'insolenze. Forse essendosi finalmente conosciuti, temevano di andare troppo oltre nel cedere all'intimo corruccio. Ma, allontanandosi l'uno dall'altra, si erano separati dalla fanciulla.

L'ingegnere, da qualche tempo uso alla bettola coi peggiori soggetti del paese (nè i migliori valevano gran cosa), non si ricordava quasi più della sua idolatria per la bambina; anzi il sogno della sua vita, essendo ormai sulla soglia della realtà, poichè Ida aveva mantenuto le promesse intellettuali dell'infanzia, sembrava come dispettarlo, ostinandovisi solamente per smentire le insolenze degli amici, i quali gli dicevano fra un boccale e l'altro:

—Quando spiccioliamo l'ultimo podere?

Ma in fondo era lacerato da un rimorso. Avea buttato la sua bella vita nel grembiale di una trista donna, sacrificando a' suoi capricci l'avvenire della figlia; la quale chi sa come finirebbe, costretta a battere alle porte del mondo come una mendicante. Il suo orgoglio si rivoltava, diventava odio verso tutti, verso la sua famiglia, che lo aveva scacciato, e pur troppo con ragione, verso la balia, verso Ida, che aveva l'immenso torto di essere una natura superiore, forse un ingegno potente, un carattere luminoso, e per colpa della povertà dovrebbe vivere e morire nel buio. Quindi non parlava più in casa o, se parlava, solamente a monosillabi, avventandoli come sassate rabbiose; mentre la moglie, che aveva sempre avuto su lui la supremazia dell'amata sull'amante, alzava le spalle con una tale aria di superiorità, che gli faceva perdere la testa.

Quel disprezzo invincibile di una donna, una... (e l'ingegnere trovava nomi sempre più osceni), era il colmo della miseria. Ida si accorgeva di tutto, ma si ritraeva in sè medesima non volendo, sebbene la sospettasse, conoscere ancora la vera posizione della propria famiglia. Fino allora i dolori della sua vita erano stati nobili, facilmente poetici all'immaginazione; i nuovi sarebbero dolori avvilenti. Ida ricusava. Ma poichè l'ingegnere non aveva trovato migliore rimedio che di ubbriacarsi tutti i giorni, ella non usciva quasi più dalla propria camera.

E una notte, che egli era rimasto per le scale e loro due donne dovettero portarlo di peso sul letto, Geltrude, dopo avere insultato lungamente quel corpo quasi inanime, invelenita ad un moto sgarbato della sua testa, gli diè uno schiaffo violento sulla bocca.

—Vigliacco! guarda come si riduce.

Ida invece mormorò quei versi di Byron:

—Poichè l'uomo ha la disgrazia di essere ragionevole, si ubbriachi!—e nel suo sguardo passò un lampo di compassione per l'infelice, di cui comprendeva la condotta.

Ma la vita peggiorava ogni dì, finchè ella lasciò il villaggio all'apertura delle scuole; si divise freddamente dai genitori, l'ingegnere piangeva.

Allora Ida scriveva un poema su Nerone, in lui personificando sè stessa. Aveva ottenuto dai maestri di essere poco assidua alle lezioni per non muoversi quasi mai di casa; nullameno vestiva colla stessa cura, smarrendosi ogni giorno in un mondo ideale, dal quale la distoglievano appena i fastidi della miseria e le insubordinazioni dei sensi.

La fanciulla perfettamente sviluppata aveva assunto la bellezza del proprio tipo. Aveva la pelle bruna ed ombrata di macchie, la fronte ripida e la bocca grande, ma la candidezza dei suoi denti aveva dei fulgoramenti di cristallo e le sue labbra, piuttosto grosse, si rialzavano agli angoli con una espressione irresistibile di sensualità e di sarcasmo. Il naso troppo piccolo fra gli occhi enormi e sotto le sopracciglie moltissimo arcuate, era il suo maggiore difetto, giacchè dal collo sino ai piedi il suo corpo era un capolavoro, una figura di Mieris allungata dal Parmeggianino. La grazia del suo portamento era ancora superata dalla provocazione inconscia dei suoi gesti e delle sue attitudini; aveva la voce velata come lo sguardo, quasi come la pelle. Poi la sua figura quasi avvolta nel mistero, odorante di voluttà, pareva tratto tratto ingrandirsi nella serietà di un grande pensiero. Ida si capiva. Sapeva tutti i propri difetti e tutte le proprie forze, studiandosi più dei libri prediletti e considerando la toeletta di ogni mattina come gli schermidori la visita quotidiana alla sala di scherma. Che se Leonardo impiegò due o tre anni a copiare la Gioconda, seguendo ad uno ad uno gli errori de' suoi capelli e de' suoi sopraccigli, ella faceva altrettanto con sè medesima all'ampio specchio, che il sarto le aveva messo nella camera e che ella usava quasi da consumarlo, se un'ombra potesse consumare un corpo. Inventava o si adattava gli abiti alla moda senza mutarne il colore, tagliandoli e cucendoli spesso da sè, colla mano ricoperta dal guanto per non sforacchiarsi le dita.

La donna nuda è la donna armata, ha scritto Victor Hugo.

Ida aveva corretto la formula: la donna bella è la donna forte; ma sapeva benissimo, quantunque giovane, che la bellezza della espressione vince così l'altra della plastica, che l'arte stessa ha sempre faticato a raggiungerla. Un pittore le avrebbe trovata una testa brutta, un poeta una testa fatale, ma ella non l'avrebbe cangiata con quella d'una Venere o di una Madonna. Senza averne la bruna caldezza e la incalcolabile sensualità somigliava quasi alla Femme Fellah di Landelle; il medesimo infinito del deserto negli occhi meno avvampante e più profondo, la luce che vi ondulava ad immense pieghe, e i baleni che folleggiavano per quella luce. Però doveva essere una donna brutta per la maggioranza degli uomini e delle donne; solamente colui o colei, che le badasse, sarebbe perduto.

Quindi coltivava questa bellezza segreta per renderla sempre più fine, affilandola come il taglio della spada, aguzzandola come la punta del pugnale. E poichè la bellezza dovea essere l'arma delle sue battaglie, la fanciulla che aveva tanto sofferto e tanto desiderato, aspettando da tanti anni in un silenzio grosso di tempesta, in una calma fremente di lotta il segnale dell'attacco, si guardava sovente nuda allo specchio; e nel provare a sè medesima tutte le pose dell'amore quasi in una rivista de' propri vezzi, agitava i lampi delle pupille come una lama di fioretto nel braccio tragicamente proteso.

Era donna.

Le sue malinconie pigliavano un carattere più serio, i suoi bisogni alzavano la voce; non erano più desiderii ma bramosie, non voglie ma appetiti. Aveva il calore ed invocava la luce. Talora, parendole di aver fin troppo aspettato, si allentava, discendeva dalla roccia scoscesa del proprio isolamento per mischiarsi fra gli abitanti della pianura, dalla quale le arrivavano esalazioni tepenti e voci giocose. Le sue passioni ruinavano al basso quasi a ritemprarsi nella prova, o a scagliarsi sopra una preda imprudente e come uno stormo di aquile riguadagnare le cime azzurrine.

Allora si guardava attorno esaminando gli uomini. Il suo sguardo profondo penetrava i loro abiti, oltre gli abiti la loro vita, impudente come lo sguardo della scienza ed acceso come quello dell'arte. Quindi spremeva il significato di tutte le forme, il piccante di tutti i difetti; animalità, brutalità e bruttezza in quelle ore di febbre avevano la maggior seduzione, un prestigio idealmente satanico, poichè sentendo di degradarsi in quella scesa, avrebbe voluto conservare la propria superiorità collo scendere più profondamente degli altri, che non sospettavano nemmeno le altezze della sua vita quotidiana.

E la sua anima fiutava.

Una volta...

Dirimpetto alla casa di Ida abitava una famiglia di due donnicciuole, due beghine, che si tenevano un nipote, povero gobbo malaticcio, dalla fisonomia livida e gli occhi verdi ed intelligenti. Le due vecchie zitellone, le quali passavano la vita lavorando dei fiori da chiesa e nelle ore d'ozio ripetendo le orazioni, adoravano quel ragazzo, cui avevano tardi insegnato a leggere e scrivere. Il ragazzo aveva quindici anni. Non conosceva compagni, non usciva quasi mai per il pudore ombroso della sua malattia; ma era amico di un vecchio cane e leggeva dei romanzi.

Le zie, che lo credevano sempre un ragazzo, nella loro ingenuità glie li permettevano siccome giocattoli.

Ida le conosceva appena. Le aveva incontrate più d'una volta nella bottega del sarto, si salutavano, anzi meglio la salutavano rispettosamente dalla finestra; invece conosceva quel ragazzo, e la loro conoscenza era nata di compassione. La fanciulla, che soffriva per il fermento delle vergini forze, si era impietosita allo spettacolo di quel povero ragazzo colle spalle nelle orecchie e le gambe contorte da uno scherzo feroce, lì sul margine dell'esistenza come un rifiuto immondo all'uscio di un'osteria.

Questa ultima immagine le tornava spesso nella mente come una insolenza contro la natura.

Il gobbo, comprendendo forse per l'arcana intuizione degli infelici la potente malinconia di quella testa, guardava sempre alla finestra di Ida, aspettando che ne cadesse uno sguardo o un sorriso. I loro più lunghi discorsi non aveano durato più di tre minuti, senza maggiore significato di un'elemosina che ella gli gettasse o di un gioco che la divertisse; nullameno, dacchè il gobbo stava tuttodì alla finestra, qualche cosa era passato fra di loro. Ida veniva più spesso al davanzale e vi si fermava col libro in mano, mentre l'altro, fingendo di ruzzare colle orecchie del cane, sbirciava in alto. Ma i loro sguardi s'incontravano, e dall'urto degli sguardi sprizzavano scintille di pensieri comuni. Nella fatica delle proprie febbri Ida più di una volta, addossata alla finestra, aveva avventato sul ragazzo la fiamma tigrina della propria pupilla. Ma sebbene per la età e per la sua natura fosse già iniziato a tutti i vizi dell'adolescenza, indietreggiava sotto quelle occhiate, egli che non potendo avere aspirazioni, aveva tutte le ritrosie e tutti i timori di una deformità.

Ella lo discuteva.

Una mattina le zie lo mandarono dal sarto per certa seta. Ida, in quel momento a discorrere coi padroni di casa, gli aperse la porta. Il ragazzo impallidì e si turbò talmente, che incespicando cadde. Ella lo prese sotto le ascelle e, sollevandolo robustamente, lo adagiò sopra una poltrona; poi seguitò ad interrogarlo accarezzandolo, quasi che fra loro corresse una immensa differenza di età ed egli fosse davvero un piccino.

Il ragazzo si rinfrancò, espose il suo incarico e rimase qualche minuto ciarlando. Avea la voce dolce, e vi era tanta confusione ne' suoi gesti, che diventavano amabili.

—Non mi dai la mano?—gli chiese Ida gaiamente, vedendolo rizzarsi.

Egli arrossì, ma l'altra comprese, e piegando le gambe per farsi della sua statura:

—Così, così, non è vero?

Il ragazzo sorrise tutto contento.

—Devi essere buono,—soggiunse pensierosa.

—Le mie zie mi vogliono bene.

—Esse sole?

L'altro rimase guardando.

—E tu vuoi bene a loro sole?

—Non ti piacerebbe la signorina, Rocco?—interloquì la Lucia.

Rocco aprì gli occhi, fissando la fanciulla con una ammirazione così intensa ed ingenua, che tutti risero.

—Quanti anni hai?

—Ormai quindici.

—Vuoi che facciamo all'amore... dalla finestra? vuoi? Devi essere tanto buono! Ma tu leggi spesso, che cosa leggi?

—Il Conte di Montecristo.

—Se vorrai dei libri domandamene, ne ho anch'io. Addio, Leopardi.

Il ragazzo non comprese quel nome ed uscì tutto ilare, ricomparendo subito alla finestra col cane.

Ida gli fe' un cenno amichevole con la mano, egli sorrise. D'allora non passò giorno che non si parlassero.

Era una domenica di febbraio, calda di sole. A quando a quando tepide ed indefinibili esalazioni passavano sulle vie della città formicolanti di gente in abiti da festa, che pareva più allegra in quella stupenda giornata a mezzo di un inverno troppo rigido di ghiaccio e frequente di nevi. Ida si appoggiava stanca al davanzale. Invano la Lucia avea messo tutto in opera per trarre seco ad una passeggiata la signorina, la sua dozzinante, come la chiamava colle amiche, giacchè per le stesse ragioni di vanità Ida rifiutava quasi sempre, e quel giorno vi si era ricusata anche più seccamente del solito. Le pareva di non poter camminare; piuttosto che vestirsi si sarebbe mille volte meglio spogliata in faccia a quel sole, che le allagava la camera prima di tramontare. Era sola in casa, aveva quasi caldo. Spalancò tutte le finestre, rigironzò per le stanze, fermandosi più lungamente nella bottega ad osservare gli abiti incominciati e quei due grandi figurini insinuati negli sportelli della credenziera. Ma quelle figure di uomini la indispettirono, tornò allo specchio. Le parve di essere più pallida e più bella; si sedette, girò ancora, andò alla finestra.

Rocco l'aspettava: non lo salutò nemmeno.

Il suo sguardo correva sull'azzurro colla fuga di una meteora; si sentiva battere il cuore e tratto tratto come il vellico di una carezza sul collo, che glielo stringeva al pari di un laccio. Poi il respiro se le ingrossò così che dovette rizzarsi, incolpandone tacitamente la posa sul davanzale. Il sole le batteva in faccia.

Ma siccome le gambe cominciavano a tremarle, abbandonò barcollando la finestra per tornare allo specchio. L'enorme volume dei capelli, raccolti capricciosamente sulla nuca, le ripiegava la testa; aveva il corsetto troppo attillato, allentò un bottone, poi un altro, respirava a stento, ne allentò ancora, li allentò tutti. La camicia non più compressa dal busto le si allargò e, nella violenta tempesta che lo scuoteva, il seno soverchiolla con un bianco sorriso. Ida tremava. Le pareva di avere una camicia di piombo, di essere ammalata, agitava la testa e le mani. Avrebbe quasi voluto torsi dallo specchio senza quell'irresistibile bisogno di esservi come in due, seminuda e morente. Un immenso desiderio, caldo come il respiro di un cane, le saliva dai piedi alla testa; si sentiva come delle dita che le scherzavano nei ricciolini della nuca, dei soffi che le passavano sulle labbra, mentre il sole impallidiva esso pure guardandola, librato nel vano della finestra, smorto nella voluttà di un'altrettale agonia.

Soffocava. Le palpebre abbassate, le mani frementi di carezze, tentò inutilmente un migliore atteggiamento e, sempre più violentata da quella smania, mormorò qualche accento colle labbra dischiuse dalla sete. Non vedeva, non udiva: vedeva solamente il sorriso dei propri denti nella lastra, provava il peso dei capelli, intanto che quel calore impotente la fasciava e l'incomodo della sedia le si acuiva in tormento. Ma le sue fibre compresse da quella attesa tropicale scattarono. Una treccia le cadde sferzando sulla schiena. Scinta, fremente, si cacciò in quel raggio di sole, e venne alla finestra.

Rocco la dovette vedere come una apparizione. Con quella fiamma nelle pupille la fanciulla lo discerneva confusamente; gli fe' un cenno, egli rispose.

—Vieni,—sussurrò con un gesto demente ma irresistibile, lo ripetè, poi come una pazza corse per le altre stanze alla porta dell'appartamento, e si appoggiò alla maniglia per non cadere. Ansava. Poco appresso intese per le scale lo strascicare di un passo, quindi dilatando gli occhi si alzò sulle punte dei piedi per non far rumore. Il passo si arrestò incerto alla porta.

—Sei tu?—sibilò spiando per la fessura.

Poi:

—Entra.

Entrò. Ida socchiuse, abbandonandosi sopra una sedia, ma si rialzò istantaneamente, lo prese per mano, lo trascinò nella propria camera.

—Sei solo?

—Sì.

Si fermò.

Rocco era verde, le arrivava appena all'anca; ella si sedette.

—Sei solo?—ripetè.

L'altro non rispose; le stava innanzi al seno scomposto. A poco a poco la sua lividezza s'imbruniva; un sorriso infantile gli sfiorò a volo le labbra. Poi le abbassò una mano sulla veste e gliela strinse; la camicia non difendeva più il seno della fanciulla, nudo come quello di una Madonna, ma ben altrimenti espressivo, con una bianchezza odorosa ed una inesprimibile follia di vita. Il ragazzo si allungò, ma gli occhi sbarrati della fanciulla lo trattenevano, e allora col petto contro a quelle ginocchia, sotto a quel volto, a quel seno, col mento su quelle ginocchia, titubò anch'egli senza volere, senza capire; e non sostenendo più quegli sguardi nè quel volto grave su lui come su una ruina, quel seno più misterioso adesso che era nudo, titubò ancora e, la gola stretta da quel sogno, scrollando spasmodicamente la testa, gliela nascose in grembo con uno scoppio di pianto.

—Eh!—mormorò la fanciulla, premendosi la sua fronte contro il seno come quella di un bambino; si levò, lo portò sul letto, vi si sedette.

Allora il torrente ruppe le dighe, e la febbre della strana vergine dalla mente più depravata di Messalina e dal cuore secco investì quel frale corpicciattolo, come la tigre addomesticata investe ruzzando il cagnuolo. Lo rivoltolò, lo mordeva coi baci, lo spogliava colle mani senza amore e peggio senza compassione, ella medesima seminuda in un gruppo ammirabile ed assurdo. V'era dell'aggressione in quella furia. Ella, che non rispettava più nulla e sapeva tutto, era quasi feroce; mentre egli, stordito, trovava appena il tempo o il coraggio di una carezza, difendendosi inutilmente, poi abbandonandosi con una disperazione voluttuosa a quell'impeto di felicità lungamente agognato, senza nemmeno la potenza di sognarlo.

Ella lo respinse dolcemente giù dal petto, più basso, perdendolo quasi nella sommossa delle sottane. Le sottane sottilmente profumate gli lambirono con un alito soave tutti i sensi della faccia, fasciandolo in una nuvola, nella quale la sua deformità non avea più vergogna e la libertà era tutto un mistero. Egli vi si accovacciò come una scimmia nel covo, buono e del pari animalesco, con tutte le sue malizie e le ingenuità ancora più maliziose, i vizi che gli strillavano in capo come una nidiata di pulcini, e l'anima assordata da quegli strilli.

Quando il sole si staccò dalla finestra Rocco era uscito da quella nuvola sdraiandosi ai piedi di Ida come un cane. Ella era immobile; poi si portò una mano al viso, stropicciandosi gli occhi, e non vide più il sole. Discese prestamente, andò allo specchio, si ravviò i capelli, rindossò l'abito, ricomponendosi la faccia con tanta facilità, che Rocco, il mento sulla sponda del letto, la guardava incantato senza comprendere. Era ridivenuta calma e severa.

Rocco si nascose il volto nelle mani.

Ida gli si appressò, lo posò per terra: ma il ragazzo le si aggrappò alle sottane.

—Piangi?

Infatti singhiozzava.

Gli staccò le dita, quindi pigliandolo per mano lo condusse senza dire una parola alla porta dell'appartamento.

—Tieni,—fe' chinandosi a baciarlo sulla fronte.

Rocco non rispose, infilò l'apertura tutto sbalordito, sentendo appena di essere spinto e rinchiudersi la porta; ma Ida, ritornando nella propria camera, intese i latrati del cane, che saltellava intorno all'amico per la casa deserta. Quei latrati la fecero pensare.

Quindi si appressò alla finestra senza mostrarsi, e vide Rocco colla testa forse ardente sul marmo del davanzale, e il cane che colle gambe anteriori sulla sua schiena era salito a leccargli gli orecchi.

Un empio sorriso sfiorò le labbra della fanciulla:

—Rocco rifà la mia parte.

Da quel giorno una sfacciataggine serena le brillò negli sguardi, ma a scuola parlando colle compagne usò come una sprezzante castigatezza di linguaggio. Non sentiva nè rimorso nè avvilimento; aveva voluto conoscere l'uomo, ed avea fatto un esperimento in anima vili. D'altronde con Rocco non correvano impegni.

Egli non si staccava più dalla finestra nemmeno la notte. Le buone zie gli dicevano scherzando che si era innamorato della signorina, ma non badavano alle lacrime, che gli gonfiavano gli occhi e cadevano talvolta sui loro fiori finti. Ida manteneva quel solito contegno: veniva raramente alla finestra, salutava Rocco senza curarsi delle occhiate affannose, che le figgeva in faccia, nè del suo aspetto ancora più macilento. Pareva impossibile che un corpo tale potesse dimagrire, e nullameno dimagriva. La pelle gli si facea addirittura verde, gli occhi gli lucevano di una luce sinistra, senza che niuno se ne accorgesse all'infuori del cane. La povera bestia, che amava il proprio padroncino con tutto il trasporto di un egoismo animale, adesso che Rocco non mangiava più e per vuotarsi il piatto gli gettava nascostamente gran parte delle pietanze, raddoppiava di carezze e d'insistenze. Non si lasciavano una mezz'ora se non di notte, quando egli saliva alla casa di Ida.

Allora Rocco si vestiva chetamente, pigliava le scarpe in mano, faceva un cenno a Toto, un cenno che esprimeva un mondo di cose e che questo capiva subito, perchè si rincantucciava sotto il letto. Poi sulle punte dei piedi traversava la camera delle zie, l'uscio della quale era sempre socchiuso; e trattenendo il respiro, trattenendo quasi con un conato supremo di volontà il battito del cuore, moveva un passo al minuto, ascoltando il russo di quei due nasi devoti, al buio come i gatti, tremando sempre di essere scoperto ed imbrogliandosi già per trovare una scusa. Finalmente arrivava alla porta dell'appartamento, si arrampicava sopra uno sgabello, che vi teneva appositamente di fianco, tirava il catenaccio, alzava il saliscendi, socchiudeva maliziosamente, insinuando fra il pavimento ed il battente aperto una scheggia di legno, perchè la porta urtata a caso resistesse, calzava le scarpe, e giù frettoloso, ma leggero.

Ida dalla finestra lo vedeva traversare a corsa la strada dopo aver spiato guardingamente se fosse deserta. Allora dalla propria camera, lambendo l'altra dei padroni che russavano egualmente, veniva ad aprirgli l'uscio della bottega, lo pigliava in braccio, e mentre Rocco le baciava il collo come ad una mamma, ritornava pian piano nella camera e lo posava per terra.

Ella non aveva mai un trasporto per lui.

Era stata la prima a proporgli quei convegni notturni una volta che Rocco era tornato su dal sarto, proprio dopo di averlo veduto uscire e la Lucia era di là dal bambino. Ella gli aveva detto che verrebbe alla finestra col candeliere, quando lo vorrebbe.

Rocco, che da letto vedeva la sua finestra, non chiudeva più la griglia, non dormiva più, perchè Ida si coricava tardi ed era capace di chiamarlo assai dopo la mezzanotte. Una volta mancò, e dovette piangere leccandole i piedi come un cane per ottenere il perdono. Erano notti stravaganti le loro, facevano di tutto.

Ida colla fantasia sboccata d'un poeta e la depravazione di una reclusa si abbandonava a tutti i capricci, mischiando idealismo e brutalità, spremendo la più pura essenza del sentimento dal fango di una parola o di uno scherzo. Rocco consentiva tutto, ma fra tutte quelle gioie, che lo soffocavano e forse lo uccidevano, una invincibile tristezza lo rendeva a quando a quando distratto, curvandogli la testa sul petto con un moto cadaverico.

Il piccolo cuore di quel martire della natura avrebbe avuto bisogno di un amore quasi materno, ed invece si accorgeva di non essere che un giocattolo, carino appunto perchè deforme, fra le mani di quella pallida superba, bella come la natura, e per lui egualmente insensibile.

Una volta nella esaltazione dell'orgoglio ella gli lesse un brano del suo poema.

—Lo sai tu di chi sei l'amante?—gli avea chiesto cogli occhi luccicanti.—Senti.

Rocco ascoltava senza capire gran cosa, ma le guardava intensamente la faccia illuminata nell'entusiasmo dell'arte. Ida era diventata Nerone; gli occhi le si erano dilatati, le narici le palpitavano, il seno disordinato nelle irruenze di poco dianzi le si alzava fremebondo, mentre il ragazzo, incantato in quello spettacolo così nuovo e misterioso, le si avvicinava mano mano, come sapendo che la grandezza vera è quasi sempre buona.

Ma la fanciulla, che all'ultimo razzo di un'esplosione lirica aspettava un urlo di ammirazione, e si era rivolta per sorprenderglielo, vedutolo così stupidamente attonito, gittò sdegnosa il manoscritto.

Quei convegni duravano sempre due o tre ore, e lo lasciavano affranto.

Ma Ida non aveva mai perduto la ragione nel tumulto più violento dei sensi. Anzi una notte che l'ambiente era tepido, invasa da una delle solite vanità si era spogliata ignuda allo specchio, imponendo a Rocco di fare altrettanto. Rocco vergognoso si era invece accasciato ai piedi del letto. Ella gli si volse camminando a fronte alta, col passo olimpico di una dea, le trecce nere che le sferzavano gli stinchi, lo prese lentamente per un braccio e lo portò allo specchio. Due candele lo illuminavano abbastanza vivamente.

—Non sei contento?—gli disse, mostrandoglisi entro il chiarore limpido della lastra.

Rocco le gittò le braccia al collo e si mise a piangere silenziosamente. Allora col cuore rabbonito dal trionfo, ella lo ricondusse dallo specchio al letto, ripetendogli con soave solletico:

—Non sei contento, Rocco? Che cosa vuoi?

Il ragazzo sollevò il viso lagrimoso e, guardandola arditamente, fe' un gesto.

—Tu?!

Il ragazzo insistè, ma Ida lo respinse brutalmente, schizzando dagli occhi una fiamma gialla.

—Tu?! no.

Quella notte fu l'ultima del loro stranissimo amore. Poco dopo Rocco si ammalò gravemente.

Le zie, che lo amavano con tutto il trasporto della loro vita sterile ed abbandonata, ne furono inquietissime e si dettero lo scambio di notte per vegliarlo. Rocco non parlava: era mesto e rassegnato. Si accorgeva di tutto quel bene delle zie, ma l'occhio gli correva ostinatamente alla finestra chiusa di Ida con un affetto calmo di moribondo, perchè Rocco sapeva di morire.

Quel corpicciattolo avea resistito fin troppo.

Il medico non ordinò che del vino generoso, il solo olio che potesse ardere ancora qualche giorno in quella lucerna. Le vecchie piangevano, avevano staccato di sopra al loro letto il gran quadro di san Giuseppe, drizzandolo sul canterano di Rocco con quattro candele benedette appositamente dal parroco, sempre accese. Poi fecero scoprire la Madonna delle Grazie e benedire una camicia. Quando gliela misero, una zia stava in ginocchio mormorando una speciale orazione. Rocco lasciava fare, ma una volta disse con un triste sorriso:

—Muoio!—poi guardò la finestra.

Le zie credettero che fosse davvero innamorato, lo dissero col curato, colle vicine, così che la Lucia corse dopo dieci minuti a dirlo scherzando con Ida intenta al suo poema.

—Proprio?!

—Povero ragazzo!—aggiunse la Lucia.

Ma la sera del giorno seguente la Lucia le tornò in camera con un contegno metà ilare e metà imbarazzato per dirle che c'era di là la signora Marcella, una zia di Rocco, la quale era venuta a supplicarla di un favore e non si arrischiava, perchè lei, la signorina... Insomma quel povero gobbo era innamorato sul serio e aveva tanto pregato il parroco, che questi gli aveva ottenuto dalle zie di vedere un'ultima volta la signorina.

—Si è confessato?!

—Già,—e la Lucia aprì tanto d'occhi.

Ida si alzò.

—Faccio entrare la signora Marcella? Se vedesse come piange, gli volevano tanto bene...

—È inutile, non vado;—e un turbamento mal suo grado visibile l'agitava, desto da quelle parole: si è confessato.

—Vada là... se vedesse...

—È impossibile,—ripetè la fanciulla con voce più dolce:—certe scene mi fanno male, non dormirei per un mese. Povero ragazzo! me ne dispiace, ma sarà una fantasia da malato, che gli passerà. Non posso, dite alla signora Marcella che sono dolentissima, ella pure mi capirà, non posso.

Rocco smunto, sfinito, attendeva col parroco al capezzale, ma sentendo muovere la gruccia dell'uscio alzò vivamente la testa. La zia Marcella entrò sola. Un pallore cinereo si diffuse sulla faccia del morente, che stette fiso, poi chiuse gli occhi e ricadde sul cuscino. Il prete gli si chinò sopra prendendogli il polso. Due lagrime gli scesero lentamente per le guance sciogliendoglisi sulle labbra. Erano l'ultima amarezza della sua vita; le bevve e svenne.

La mattina, quando il sole venne curiosamente a guardare con un raggio nella sua camera, il curato se n'era ito allora allora per dire la messa e dimandare un'ultima volta al Signore quella vita sciagurata. Rocco aperse gli occhi indeboliti.

—Come ti senti?—gli domandò piano la zia Marcella:—Eh! Rocco!

E gli posò una mano sulla fronte.

—Aprite la finestra.

—Eh?

Rocco non ripetè la domanda, ma la guardò con un'aria così patetica che la zia si sentì vicina a cedere.

—Che cosa vuoi? L'aria...

E gli carezzava affettuosamente il volto, ma Rocco levò una mano scheletrale e, pigliandole l'altra, se la portò alla bocca. Quella muta ed ineffabile preghiera la sconvolse; deviò gli sguardi, poi li incontrò ancora più insistenti, pieni di lagrime che non potevano più sgorgare, coll'ultima luce del pensiero, coll'ultimo calore del cuore, e non li potè sostenere.

Ritirò soavemente la mano, andò alla finestra, spalancò gli scuri. Rocco pregava. Ella titubò, aperse i vetri. Il sole inondò la camera della sua onda dorata, e una parola armoniosa di Ida percotendo sul pavimento rimbalzò sul letto di Rocco. La fanciulla canticchiava un'aria della Traviata, pettinandosi i magnifici capelli. Una lunga treccia caduta sul davanzale vi si dibatteva come un serpente nel muro. Al rumore della finestra la fanciulla s'interruppe.

Ella non scorgeva se non le coperte del letto, ma Rocco la vedeva bene.

—Oh!—mormorò la zia, sedendosi sopra una sedia, così che la fanciulla non potesse scorgerla.

Rocco guardava. Tutta l'anima, ritirandoglisi dal corpo, gli saliva alle pupille e vi bruciava. Era come una fiamma pallida e dolce di gemma, la quale si sciogliesse al sole e che, sprizzando sottile per la camera, traversava la strada, giungeva sino alla finestra della fanciulla a turbarle gli occhi colla moina di un invisibile riverbero. Ella li apriva involontariamente. Una metà dei capelli le pendeva come un velo sopra una spalla; avea il viso fresco, il seno male abbottonato; poi istantaneamente fremè, e quella fiamma le scese al seno. Quindi un'altra le si accese dentro, come un bruciore di rimorso, che cresceva sempre; le tempia le martellavano, il viso le ardeva e il seno le balzava con tale tumulto, che dovette appoggiare anche le mani al davanzale, chinandosi verso quella camera.

Allora la fiamma dal seno le tornò agli occhi, vi rimase, si alzò, le lambì sferzando la fronte e si spense.

—Ah!—sclamò la zia Marcella, vedendo che Rocco non si moveva più; e si appressò paurosamente al letto. Rocco avea gli occhi vitrei.

—Ma no!...

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V.

I suoi esami di quell'anno si chiusero così trionfalmente, che tutti i giornali della città ne parlarono colle frasi più lusinghiere senza che alla fanciulla, già malata del grande orgoglio di autore, battesse il cuore più vivamente. Al villaggio l'ingegnere, che si era ubbriacato una volta di più, leggeva per tutte le bettole gli articoli sopra sua figlia, frammischiandovi molti lamenti verso Geltrude, messa su dall'arciprete contro quell'istruzione delle donne, la quale toglieva loro ogni bontà religiosa e casalinga.

—Vedrete!—aveva detto con sprezzante rammarico il vecchio prete.

Ma per non farsi vedere, Ida aveva ottenuto di passare le vacanze in città e guadagnare così un anno di corso, un nuovo trionfo ed una considerevole economia, perchè la miseria era già entrata in casa. Ida stessa se ne accorgeva ai ritardi della pensione, la quale non arrivava più intera. Ma una volta, avendo chiesto denaro per un abito, il padre le rispose in una lettera piena di dolorosa rettorica che non aveva proprio un soldo.

Ida sanguinò, e non scrisse più.

Invano giunse l'estate ed arroventò i muri delle case; Ida, chiusa ostinatamente nella propria camera, non uscì nemmeno di notte, quando l'aria s'inumidiva e la campagna invitava col mistero delle ombre. Invano l'autunno ebbe le mattinate lucenti e i vespri pallidi di malinconia, giacchè la fanciulla non vi badò, tutta intesa allo studio coll'accanimento di un interno corruccio, fosca in un mutismo di mal augurio.

Ora che la meta si avvicinava, il suo miraggio rutilante di sorrisi come un diadema brillantato si dissolveva, e la meta compariva volgare quanto un banco da lotto.

Allora s'indispettì contro sè medesima. Le parve impossibile di aver tanto studiato per finire in un camerone, dalle pareti bianche, insegnando la grammatica ad una torma stridente di bambini, senza contare più nulla nel mondo e nessuno che si ricordasse più de' suoi esami o del suo ingegno. Il solo pensiero di vivere fra povere donnicciuole, in una povera casetta, vestendo miserabilmente, insudiciandosi in immondi discorsi e in più immondi contatti, le rivoltava il cuore.

Non volle. Nello sdegno di quella rivelazione si cercò inutilmente attorno un aiuto, ma il bel labirinto della sua vita non avea se non un'uscita, la scuola, colle siepi così alte che nemmeno un daino avrebbe potuto saltarle, e forti come quelle degli antichi Galli contro gli eserciti di Cesare.

A giorni si sentiva impazzire.

Allora gettava i libri giurando di uccidersi, ma li ripigliava subito dopo, costretta dal disegno di guadagnare un anno e trovando mal suo grado in loro soltanto un sollievo al suo tormento. Se non che il carattere le peggiorava, si faceva più aspra, rispondeva quasi malamente alla Lucia; le sembrava che la sua camera fosse più povera, il pranzo addirittura disgustoso.

In casa non osavano interrogarla, sopportando fin troppo amaramente il rimprovero dei suo silenzio.

Una notte bruciò il poema sul davanzale della finestra e, come evocata da quelle fiamme dolorose, le parve vedere la figura di Rocco moribondo, coi grandi occhi verdi, in atto di sommessa e desolata preghiera. Il povero gobbo l'amava ancora da morto, ma ella era ancora lì, pallida di feroce inquietudine, colla fronte aggrottata come tante volte nelle brevi notti del loro amore.

Un rimorso addentò il cuore della fanciulla, che sollevò subito la fronte, scuotendola cinicamente in faccia a quella apparizione e mormorando a sè stessa:

—Guai ai deboli!

Eppure si sentiva debole.

A forza di studiare s'accorse che il sorriso di gloria, balenatole su quei primi gradini del tempio, era stato un sarcasmo di riverbero; ella resterebbe fuori colla moltitudine dei chiamati, mentre gli eletti entrerebbero le porte della immortalità fra l'urlo delle ovazioni. George Sand era nel tempio, ma Ida non sarebbe che una maestra, cui tutti potrebbero disprezzare e che guadagnerebbe forse tre lire al giorno come una ricamatrice, e forse per questo un impiegato a cento lire consentirebbe di farle la corte. Quindi abiterebbero un quinto piano, formando una famigliuola, che uscirebbe la domenica coi bambini per mano a passeggiare lungo le mura, beandosi al passaggio di un legno signorile, ma badando bene di non infangarsi il vestito o di non farselo rodere dalla polvere.

—No!—ruggiva la fanciulla colle lagrime agli occhi.

Poi cercava di sognare per consolarsi.

Le pareva strano che nessun principe, di coloro ai quali supponeva colla felicità del lusso il gusto della raffinatezza, incontrandola a caso per le vie, non avesse indovinato quale affascinante principessa si potesse fare di lei, e non si fosse da uomo superiore innamorato. Si sentiva così dotta di seduzione, così capace di ammaliare un uomo, assaporava con tale avidità l'ebbrezza che avrebbe versato sul loro capo, che li compiangeva quasi di avere sottomano tutto un harem in una donna e di non sapersene impadronire.

Laonde il suo cuore si ubbriacava in questi sogni, nei quali tutti i mobili erano di palissandro e i cavalli inglesi scalpitavano sotto carrozze così splendide e così comode per sognare e i doppieri d'argento massiccio illuminavano tavole brillanti di cristalli e di rarità e i fiori profumavano gli appartamenti come i giardini, quando la primavera tripudia nelle proprie orgie: tutto era ricco, tutto era bello. Quindi un'aristocrazia di persone la circondava come una regina, mentre il mondo lontano, buio come lo sfondo di un teatro nel giorno, guardava per mille pupille invidiose il magico lume del suo palazzo ed ella scuoteva insensibilmente la testa sotto una rugiada di adulazioni.

Così la sua fantasia inesauribile si prestava a tutte le esigenze dei desiderii, mentre la ragione trovava argomenti per tutte le passioni; ma il tempo incalzava e la realtà allungava la propria ombra sul luminoso paesaggio del sogno.

Oramai non era quistione se non di mesi.

Una mattina le giunse una lettera tutta sgrammaticata della mamma, che l'ingegnere stava male e che, essendosi rivolta in queste strettezze alla famiglia di lui per averne un soccorso, avea sentito insolentemente negarselo. Nell'amarezza di questa nuova umiliazione Ida rispose:

—Hanno fatto benissimo.

Queste sole parole, senza un cenno per le raccomandazioni di studiare ed ottenere subito un posto di maestra, nè una domanda sulla triste condizione del padre.

Ma finalmente arrivò l'estate, improvvisa e violenta, che le tolse gli ultimi rimasugli di attività. Non si alzò più che a mezzogiorno, e per occupare il tempo rilesse dei romanzi. Invano il suo maestro, che la prediligeva, accortosi del cambiamento volle ammonirla con lusinghiere parole sul suo bell'avvenire e il nobile ufficio che ella, donna, eserciterebbe nella società, mentre tutte le altre sue pari erano bruti o giocattoli; la fanciulla non gli rispose nemmeno, seguitando a guardare il soffitto colla insolente disattenzione delle persone superiori all'improvvido consiglio di un ingenuo.

Il maestro scosse la testa.

—Ma che cosa fai tutto il giorno?—Egli solo era arrivato a forza di bontà a poterle dare del tu.

—Fumo sigarette... fumo!—ripetè, scherzando sulla parola.

—Sei diventata pessimista?

—Lo sono sempre stata.

—Non mi pareva.

—Fumo!

Egli si piccò.

—Il tuo poema?

—L'ho bruciato, fumo!

—Dunque non lavori più?

—L'ho pur detto, fumo.

Questa volta egli sorrise, la fanciulla gli tese amichevolmente la mano.

—Però gli esami saranno meravigliosi, ne sono sicuro, altrimenti come faccio io?

—Fumi, fumi,—insistè ironicamente, ma rassicurandolo con una stretta. Quando la ragazza gli ebbe voltate le spalle, il vecchio le guardò dietro con simpatica ammirazione.

—Peccato che non sia bella!

Ed era vero. Ida non faceva più che fumare, anche in letto, a grande scandalo della Lucia, la quale temeva per i propri lenzuoli di cotone; ma pareva che tutte le preoccupazioni del futuro le svanissero fra le spire odorose del fumo, mentre i libri dormivano impolverati sul tavolo e il calamaio si era persino disseccato.

Quando Ida se ne avvide sorrise, e fu un mattino che la Lucia le era venuta in camera per una nuova commissione della zia Marcella, la quale faceva una lapide a Rocco e non sapeva a chi domandarne l'iscrizione, poichè il parroco si era onestamente scusato, dichiarandosi incapace.

—Non c'è nemmeno inchiostro,—disse la Lucia con accento di rimprovero, vedendo la fanciulla colla penna alzata in atto di voler scrivere subito:—Vado a prendere il calamaio di Giacomo.

—Non serve,—ed afferrando una matita, còlta da una subita ispirazione, scrisse sopra un cencio di carta== Forsan. ==

—Così poco?—esclamò la Lucia, guardando curiosamente la carta.

—Tenete; e se la signora Marcella non la capirà, ditele,—soggiunse con voce stridente,—che non ho mai scritto niente di più bello; è tutto il mio lavoro letterario di quest'anno.

Gli esami si avvicinavano.

—A quando?—domandò Giacomo, che l'avea confortata dell'ultima lettera dell'ingegnere, nella quale, mandandole l'ultima rata di pensione, egli diceva di sentirsi sempre più male e che morrebbe presto.

—Lunedì.

—Dunque, signora maestra...

—Non mi date questo titolo, non sarò mai una maestra,—rispose brevemente la fanciulla.

—Ma allora?—ribattè il sarto, che da lungo tempo covava una rivolta.

—Allora datemelo, se vi fa piacere, così questo titolo sarà almeno la consolazione di qualcuno.

Giacomo si vergognò della propria asprezza, e non seppe più che pensare in faccia a quel muto e misterioso dolore. Quel giorno a pranzo non pronunziarono una parola, ma la Lucia, che s'era anche più intenerita, la domenica mattina le entrò per tempo in camera per trarla seco a messa in quell'occasione degli ultimi esami.

—Anche Giacomo, che non ci va quasi mai, ha detto che facciamo bene questa volta.

E la pregò tanto, che dovette accondiscendere. La Lucia, gioiosa di quel trionfo, avrebbe quasi arrischiato una parola di confessione, ma temette di compromettere la partita, e per quel giorno tacque. Uscirono. In chiesa alcune compagne di Ida strabiliarono scorgendola, e la fanciulla, vedendosi attribuire il pensiero della Lucia, si morse le labbra.

—Usciamo!—le disse a bassa voce.

L'altra la guardò e non rispose nemmeno.

Allora Ida assunse il contegno più irreligioso, esaminando i quadri degli altari, sorridendo della compunzione della gente quando il chierico suonò il campanello e tutti s'inginocchiarono, ed ella rimase in piedi, sola delle donne, perchè era forse la sola donna là dentro. Quindi attese con impazienza l' ite missa est, per avviarsi malgrado i cenni della Lucia, che voleva aspettare le ultime avemarie e risparmiarsi di scavalcare con fatica tutta quella gente ancora inginocchiata. Ida passò innanzi la pila dell'acqua santa senza intingervi il dito, infilò la porta, ed appena fuori mise un respiro. L'altra spaventata dell'aria fremente del suo viso, non arrischiò d'interrogarla; ma tornarono a casa di malumore.

Quel giorno Ida non comparve che a cena. Avea gli occhi rossi, nessuno aperse bocca.

Ritornò nella propria camera e vi si chiuse; era l'ultima tempesta.

Il mattino dopo Ida uscì tutta vestita per l'esame, ma così pallida che la Lucia, incontrandola sulla porta, le chiese sbigottita se stava male; ella sorrise tristamente.

Era un magnifico giorno. Malgrado la temperatura cocente Ida camminava frettolosa per le vie gremite, cogli occhi bassi, in un torpore senza pensiero. Era fuori del mondo. Entrò il portone dell'Istituto senza guardare le compagne, e seguì il vecchio professore venuto ad incontrarla. Toccava a lei.

—Hai paura?—le chiese a quel suo convulso il buon uomo.

—No, ho ribrezzo.

I professori l'attendevano col più benigno sorriso. Lo stanzone degli esami, una vasta scuola colle pareti bianche e la cattedra in fondo, aveva due finestre senza tende. I banchi lunghi, insudiciati d'inchiostro, tagliuzzati dai temperini, lasciavano un passaggio nel mezzo come nei teatri. Sotto l'alta cattedra dipinta di un giallo sbiadito i professori sedevano ad un tavolo ricoperto da un panno verde, sul quale le due urne delle votazioni, in legno nero, sembravano un emblema di morte. Ella si guardò attorno come se fosse nuova in quel luogo. Le finestre avevano l'inferriate. Quello stanzone avrebbe potuto essere tanto una sala di tribunale che un granaio o una prigione. Ella si sentì un raccapriccio per tutte le membra; poi un'onda di pianto le si ruppe con tale violenza alle pupille, che dovette fare uno sforzo sovrumano per rattenerlo.

Si passò una mano sugli occhi. Allora l'interrogarono.

Ma a poco a poco ritrovò la propria presenza di spirito e, spingendosi nella lotta, aggredì ella stessa i professori, che colla più cortese deferenza le lasciavano ogni maggiore libertà di divagazione. Trattavano di filosofia. Quindi la fanciulla alzò la bianca bandiera dello scetticismo, bianca perchè composta di tutti i colori, sintesi di tutti i sistemi e di tutte le opinioni: e la sua parola sprizzò scintillando. Sapeva di dare la sua ultima battaglia, quindi la volle degna delle Termopili. Sola contro tutti, contro quei cinque professori, contro il mondo, lottò col coraggio del disperato e l'incredulo eroismo del gladiatore; le sue risposte avevano delle nervosità da giaguaro, dei balzi da serpente, degl'impeti da leone, mentre le grazie più voluttuose della donna temperavano di un morbido fascino le violenze crude del suo pensiero. Forse era la prima volta che quelle pareti ascoltavano da un labbro femminile così grandi parole. Ella se ne accorgeva alla faccia dei professori e più ancora all'orgoglio, che le ingigantiva il cuore e l'atteggiava scultoriamente nell'ingegno e nella persona. All'ultima parata di un colpo tiratole dal Rettore, gli esaminatori commossi scoppiarono in un «brava!». Ida si alzò senza sapere il perchè.

Il Rettore prese la parola e, ripetendo la grande frase di Victor Hugo a George Sand: «Vi ringrazio di essere così grande»:

—Vi ringrazio,—disse,—di avere tanto ingegno e di avere tanto studiato. Il vostro esame è stato fin qui senza esempio. Sono superbo che sia toccata a me la ventura di accogliervi in questo tempio della scienza e di aprirvi adesso le porte del mondo, nel quale siete chiamata ad esercitare la più nobile e la più santa delle missioni, quella di istruire e di educare le generazioni avvenire. Il compito è grande, ma voi sarete alla sua altezza, voi donna, perchè la donna sola può fare gli uomini, l'anima come il corpo.

E si fermò. La fanciulla si era incantata parendo non udirlo, immobile nel pallore di una statua.

—Signorina Ida De Sinis, eccovi il vostro diploma d'onore.—Era già preparato.—Conservatelo orgogliosa, è la croce di una battaglia che non vi costa nè cicatrici nè rimorsi, l'emblema di una vittoria, nella quale non vi sono vinti, perchè le vittorie dell'intelligenza appartengono a tutti.

Ida accettò quel foglio lucente di oro senza scuotersi, poi figgendo gli occhi imbambolati in chi glielo porgeva.

—Il vostro diploma di onore, di maestra,—ripetè giulivo il Rettore.

—Brava Ida, proprio brava!—insistè il vecchio maestro tutto superbo.

Le compagne, che avevano dischiusa appena la porta e bisbigliavano sommesse di quella scena impreveduta, si guardarono fra loro cogli occhi luccicanti e i volti sospesi. Ida ebbe un moto di testa, si raddrizzò e, mormorando inintelligibilmente:

—No,—coll'occhio arido e la mano convulsa stracciò in quattro il diploma, lo lasciò cadere, fe' un inchino, e, prima ancora che i professori avessero il tempo di rimettersi, si volse, passò fra le compagne, discese le scale.

—Buon giorno, signora maestra,—le gridò il portinaio, avvicinandosele per la mancia.

Ella si trasse un anello di dito, glielo gittò ed uscì dall'Istituto per non rimettervi più il piede, colla fronte corrugata di sdegno e le labbra contratte da uno straziante sarcasmo.

—Via Sant'Agostino,—disse ad un fiacchero, che passava.

Quando vi fu salita, tutte le sue energie l'abbandonarono e dovette mettersi il fazzoletto sugli occhi per non mostrare che piangeva.

Qui i ricordi della fanciulla precipitavano. Ritornando al villaggio, trovò l'ingegnere già morto di un malore improvviso il giorno dopo l'esame senza saperne nemmeno l'esito bizzarramente glorioso. Ida capitò nella casa desolata. La mamma di un umore intrattabile le usò ogni cattiveria, e volle che andasse seco lei, per tempissimo, tutte le mattine alla parrocchia per suffragare l'anima del padre morto senza prete.

Poi tutto era a soqquadro; un creditore s'impadronì dell'ultimo podere, lasciandole senza beni. La mamma ne dava la colpa a lei, per le spese dell'educazione, con parole così ingiuste, che una volta la fanciulla dovette risentirsene, e allora l'altra le applicò due schiaffi sonori sulle guance. Ida divenne livida come un cadavere, barcollando più per la meraviglia dello sdegno che per l'urto della percossa, ma siccome la mamma sembrava insistere, protese le braccia e la respinse con tale forza, che la mandò a rovesciarsi contro il muro.

La Ghita era presente.

L'altra cominciò a gemere, ed avrebbe certo replicato, se gli sguardi di Ida non fossero stati così duri e fiammeggianti. Da quel giorno la guerra fu dichiarata a grande scandalo del villaggio, che aveva subito imparato la triste scena della dottoressa, come la chiamava la mamma. Il vecchio arciprete ne gongolava.

—Ve lo aveva pur detto,—proruppe orgogliosamente colla balia.

Era una vita d'inferno. Ida non usciva più dalla propria camera, e non era ancora comparsa nel villaggio, giacchè la parrocchia stava oltre; non avea riveduta nessuna delle amiche. Fuori sentiva nell'aria una frigidezza di odio, un'afa di disprezzo, che le toglieva il respiro. Tutti si occupavano di lei, mentre ella per un'altra affettazione non voleva occuparsi di alcuno; ma quando Savelli, il vecchio maestro sempre buono, scrisse alla mamma di aver trovato per Ida un posto di Direttrice in un istituto con mille e cinquecento franchi di stipendio, ed ella, alla mamma quasi dimentica di tutto nella gioia, ebbe risposto recisamente:

—No,—fu uno scoppio di bestemmie e di improperii. Sembrava che Ida avesse con quel no danneggiate tutte le famiglie del villaggio, mentre se avesse accettato, tutti si sarebbero rammaricati della sua buona fortuna. Poi la mamma ricorse all'arciprete perchè le dissuadesse la figlia. E questi si era presentato fiducioso nella propria autorità, ma Ida lo aveva trattato con un'alterigia così gentile, che il prete imbrogliato oramai si pentiva della propria audacia, più confuso ancora a quel pentimento impreveduto.

Quindi uscì senza aver nulla concluso, e alla mamma, che lo interrogava, per non sapere che rispondere voltò le spalle, borbottando un versetto latino. Ma Geltrude, piegando sotto la ferrea volontà di Ida, sparlava orribilmente della figlia colle vicine. Questa era un mostro; tutte le madri la citavano come un esempio spaventevole alle figlie, congratulandosi seco medesime di averle solamente mandate a scuola dalle monache. Certo tutte quelle ragazze facevano all'amore, e qualcuna ogni tanto era gravida, ma ciò era ancora meglio che mancare alla parrocchia e non lasciarsi bastonare ingiustamente dai genitori. Solo qualche giovanotto liberale del paese, che non andava a messa, voleva tuttavia difenderla, ma questa difesa le peggiorava la riputazione, conchiudendosi sempre con queste parole:

—Già mi piace più di quelle altre che sono sempre in chiesa.

—Bella ragione!

—Se ti pigliasse... tanto i preti sono un branco di carogne.

Una volta Ida aveva inteso quella disputa sotto le proprie finestre.

Però la vanità di quei giovani era offesa dal suo contegno indifferente; la dicevano brutta, ma piaceva a quasi tutti, e pochissimi l'avevano veduta. Questa fortuna non era toccata che al calzolaio, il quale era uscito entusiasmato.

—Se vi dico che pare proprio una gran signora.

—Che cosa vuoi capire tu, con quei quattro che hai?... una gran signora?

Questa volta era finita a pugni. Quando gli stivaletti furono terminati, egli si vestì da festa e glieli portò. Ida, che conosceva l'alterco accaduto, gli guardò con un'aria così nobile una contusione scura sotto l'occhio destro, che il calzolaio si sentì rimescolare il sangue e, se non fosse stata la soggezione, chissà che cosa le avrebbe detto.

Sulla fine dell'estate alla mamma si manifestò il cancro nel petto. Ida, capendo di restar sola, ne fu scossa per qualche giorno. Aveva giurato di non fare mai la maestra, ma non vedeva nessun rimedio alla indigenza di ogni giorno, ed aspettava come dal caso la soluzione del suo fantastico problema. Al pari di Goethe, che si sentiva capace di tutto e non si sarebbe punto meravigliato all'offerta di una corona, era pronta a tutti gli estremi, acquattandosi in quell'ombra silenziosa della propria casa ad aspettare colle pupille dilatate il passaggio immaginario di una vittima.

Nessun dramma della storia o dell'arte avrebbe potuto vantarsi più denso di peripezie e di catastrofi che quel dramma così semplice ed ignorato della sua vita casalinga. Tutte le passioni vi si erano dato convegno, tutte le contraddizioni vi si tenevano la posta come in un trivio, nel quale le speranze della reggia si urtassero coi dolori delle soffitte; era come una bisca, ove la brutalità popolana ringhiasse collo spavaldo cinismo e l'astuta bravura dei cavalieri d'industria.

Quella mattina Ida era più calma del solito. Svanito il subbuglio di quella offerta del dottore, una grande speranza le era entrata in cuore di essere vicina alla terra promessa. Finalmente il mondo cedeva al fascino della sua superbia. Il dottore non s'era forse innamorato se non perchè ella differiva dalle altre fanciulle del villaggio? trionfo tanto più bello, che egli medesimo non poteva apprezzare la superiorità della dottoressa.

Il sole era già alto, che ella sedeva ancora al largo tavolo, quando la Ghita le entrò in camera.

—Che cosa vuoi?—le si rivolse col malumore di chi è disturbato.

La Ghita non rispose subito, anzi finse di non sentire l'asprezza di quelle parole, e venne in mezzo alla camera a guardare per la finestra. Le imposte erano socchiuse.

—Eccolo là.

—Chi?

—Il dottore. Mi ha voluto mandare per forza, non lo vuole credere che lei rifiuti.

—Ti dispiacerebbe molto se accettassi?—rispose la fanciulla, levandosi e guardandole negli occhi lucidi di malignità.

—A me!—rispose la Ghita, abbassando la voce di un tono e tornando a spiare dalla finestra per sottrarsi al suo sguardo;—mi fa stizza la ragione. Dunque perchè lei è povera dovrebbe poi sposarlo dopo la sua brutta figura colla Giovanna? S'immagini che me lo ha detto lui stesso: ah non mi vuole? con quella dote! E poi mi ha pregato di tornare qui a persuaderla meglio. Ma che cosa crede di essere quel mobile coi suoi due centesimi?—esclamò stendendo un braccio verso di lui.

Il dottore, solo nel mezzo del mercato, guardava la loro finestra, come se ne aspettasse un segnale, ma, attendendo forse da un pezzo, fe' due o tre passi verso la casa. La sua tozza figura sotto quel cappellaccio disegnava una specie di grosso fungo sul suolo. Teneva gli occhi alzati.

—Guardi,—ripetè la Ghita alla fanciulla, mostrandoglielo del dito con una smorfia indescrivibile:—non lo crede!

Ida, che era venuta alla finestra, lo urtò con una occhiata, ed alzando le spalle:

—Lo scetticismo degli uomini!—mormorò.

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VI.

Nei giorni seguenti la malata peggiorò, così che la Ghita, trattenuta da Ida a vegliarla, si aspettava ad ogni momento di vederla morire. Da quell'ultima scena nè Ida nè il medico si erano più mostrati al suo capezzale, quegli chiuso nel proprio dispetto d'essere la favola del paese ed assaporando nella cessazione di quelle visite inutili una specie di vendetta, questa avendo già da lungo tempo esaurito ogni pazienza di decoro e di amore.

La Ghita regnava sola in casa. Giù nella cucina i suoi bambini giuocavano e rubacchiavano, le vicine entravano ad ogni momento, e quindi erano lunghi discorsi e confidenze sul triste destino della mamma e della figlia, sole, senz'altro appoggio nel mondo che la Ghita. Le vicine la complimentavano sul suo buon cuore ed ella se ne schermiva appena, mentre in mezzo a tutti quei complimenti gli ultimi arnesi della cucina si andavano sempre più rarefacendo. Un giorno la fanciulla se ne accorse senza dire parola. Un altro giorno trovò la Giovanna giù al focolare in colloquio colla Ghita. Ida si arrestò sulla soglia. La Ghita, che parlava a bassa voce, trasalì, ma l'altra, venuta solo per conoscere la signorina e ringraziarla, chinò la larga faccia arrossendo. Ida capì.

Andò dritta alla Ghita e le diede un ordine con quel suo occhio penetrante ed altero. La Giovanna scambiò un'occhiata furtiva colla Ghita come per domandarle coraggio, e appena la fanciulla si mosse voltandole le spalle, coll'impeto di un cane le saltò all'abito ed afferrandogliene un lembo lo baciò. La immensa distanza, che le separava, era scomparsa. Ida rivolse la testa, guardò quella donna ginocchioni in atteggiamento di preghiera, e per la prima volta dopo molti anni la compiacenza della sua vanità fu senza acredine. La Giovanna singhiozzava. Ella si torse, la prese per mano e la rialzò; ma la donna abbassò gli occhi in faccia alla vergine.

La Ghita aveva due lagrime alle ciglia; poi la Giovanna giunse a baciarle una mano, mentre Ida si liberava sparendo dietro l'uscio. Allora le due donne si osservarono mutamente, poichè quella scena subitanea era stata un enigma per tutte e tre, incontratesi come a caso nel trivio soleggiato d'un affetto cristiano.

La Ghita fu la prima.

—Ma è matta!—disse guardando il soffitto, sopra al quale era la camera della fanciulla, e come rispondendo ad un lungo ragionamento.

—Proprio?—ribattè la Giovanna aprendo gli occhi, nei quali si spegneva già il baleno dell'ammirazione.

—Ghita!—chiamò con accento angoscioso la fanciulla dalla scala:—Ghita!

—Che?—e corse all'uscio. L'altra la seguì.

La fanciulla era sul pianerottolo, aveva il volto bianco e sconvolto.

Salirono, si precipitarono nella camera della ammalata. Così alla poca luce delle imposte socchiuse si distingueva appena, ma si udiva un rantolo fievole fievole.

La Giovanna corse a spalancare un'imposta, ed allora apparve la faccia della morente. Era deperita in un'ora più che in tutta la malattia.

—Muore!—balbettò la Ghita:—bisogna chiamare il dottore.

La Giovanna alzò la testa.

—Troppo tardi!—rispose Ida, fissa negli occhi velati della mamma e travolta nel suo rantolo.

L'altra non replicò. Ida pareva estatica, gli occhi sbarrati, le tempia ventilate da un freddo terrore. Le due donne si distrassero a guardarla; poi la Ghita mormorò una parola all'orecchio della Giovanna ed uscì frettolosamente. La fanciulla non se ne avvide. Non perdeva una contrazione di quell'aspetto, una fisonomia di quella morte, costretta da un fascino misterioso, nel quale il dolore perdeva ogni coscienza e lo spavento ogni nervosità.

Tratto tratto la moribonda muoveva insensibilmente la testa, percotendo le dita sulle lenzuola gialle. La camicia, chiusa al collo ed ai polsi, pareva aumentarle inesprimibilmente l'orrore della magrezza. Moriva. Aveva ancora l'anello nuziale e i bottoncini alle orecchie. Il raggio di quell'oro traversò la fissazione della fanciulla, che le si riunì immediatamente nello scavo angoloso delle gote, entro una delle quali si arricciava un ciuffo di capelli grigiastri. Quella faccia era di una piccolezza impossibile, senza espressione.

Infatti la Giovanna se n'era distolta per guardare sopra il canterano un magnifico Gesù bambino sotto un'urna di vetro, sdraiato fra i fiori, tutto roseo nella sua vestina di seta. Non pareva vivo, ma l'esagerazione della sua lucidezza attirava come una vivacità di vita. E a poco a poco gli si era appressata, passando dietro Ida; ma fa pronta a rivolgersi, vedendola come destarsi al rumore, che saliva per le scale.

La fanciulla corse all'uscio; in quel momento l'ammalata scosse il capo quasi per disapprovarla. Era l'arciprete col barattolo dell'olio santo in mano, seguito dalla Ghita con due candele accese e da altre due vicine accorse per assistere devotamente l'agonia. La Ghita le fe' un cenno di interrogazione, se era morta, che l'altra non colse.

—Siamo in tempo?—domandò l'arciprete, che non aveva osservato il viso della fanciulla.

Ma Ida sbarrava la soglia.

L'altro si fermò.

Lo sguardo della fanciulla era sfolgorante di disprezzo.

—Mi lasci passare.

—No; non vi ho fatto chiamare e non permetto che si turbi l'agonia di mia madre.

Il prete fu così meravigliato, che parve quasi non avere inteso; poi avanzò un passo. Ida stese la mano per respingerlo, ma l'altro gliela afferrò brutalmente.

—Siete matta! Quella disgraziata non si è voluta confessare credendo di guarire, e volete rubarle l'ultima grazia, che il Signore le concede! Vergognatevi; andiamo dunque, che mi faccio proprio imporre dalle vostre pari io...

E respingendola con forza da un lato passò oltre, verso il letto. Le tre donne, che avevano susurrato, lo seguirono, guardandola nel passarle davanti con un ribrezzo pieno di dileggio, e si inginocchiarono intorno alla sponda del letto. Alla prima occhiata il prete s'accorse che l'agonia era innanzi; quindi confidando il barattolo alla Ghita, profferì le preghiere d'introduzione, così belle di poesia:

Asperges me, Domine, hyssopo et mundabor, lavabis me et super nivem dealbabor.

La sua voce nel pronunziare questo versetto aveva la solita cantilena rituale, mentre la Ghita rispondeva alla meglio da chierico. Poi egli aperse il barattolo, ma accorgendosi di avere dimenticata la bambagia:

—Come si fa? Ne avete in casa?

—Credo di sì; nel canterano.

—Spicciati.

L'ammalata rantolava sempre più fiocamente.

—Badi alla stola,—arrischiò confidenzialmente la Ghita, vedendolo schiacciarsi contro una macchia del letto.

—Hai ragione, ma sta attenta; mi hai assistito un'altra volta;—e composto il volto ad una espressione più grave, con un gesto quasi elegante intinse il pollice nell'olio; quindi mormorando l'analoga preghiera segnò una croce sugli occhi velati della moribonda, la terse, e dagli occhi, che avevano forse troppo veduto, seguì agli orecchi, che avevano forse troppo udito, poi alle narici ghiotte delle esalazioni voluttuose, poi alla bocca, comprimendone le labbra mal bianche, che avevano inghiottiti i baci della lussuria ed emesse le parole della mormorazione, poi alle mani, che unse sul dosso, poi ai piedi e si arrestò incerto sui lombi. L'ammalata non si poteva muovere. Allora pensò di omettere questa unzione purificatrice, forse la più importante, perchè sulla oasi del peccato.

La morente agitò le labbra.

—Prega...—pensò Ida fremendo, e cadde ginocchioni presso l'uscio, confusa in un dolore, del quale poco prima non si sarebbe creduta capace. Le orazioni proseguirono a bassa voce, quasi smorzandosi come quella vita, che imbalsamavano per la eternità; ma l'accento delle parole, talvolta sublimi, era così chioccio che ne scemava al suo spirito in gran parte l'effetto.

Domine, exaudi orationem meam: Et clamor meus ad te veniat.

A questo punto Ida rialzò il capo, e vide la mamma con un crocifisso sul collo muovere straziantemente la testa, mentre il prete s'interrompeva come per sorprenderle l'istante supremo. Scattò in piedi, tutti la guardarono.

Le aveva preso una mano già fredda e gliela stringeva interrogandola negli occhi; ma l'altra si quetò. Allora Ida sentì un fetore di sepolcro, come una protesta nauseabonda della materia contro l'immortalità dello spirito, passarle sulla faccia ed arrivarle sino all'anima. Resistè, anzi piegandosi sull'ammalata colle pupille piene di fulgoramenti notturni, l'attirò con tanta forza, che le fece volgere la testa. Aveva gli occhi appannati come un vetro dal freddo; poi abbassò lentamente le palpebre.

La testa della morta era abbandonata sulla spalla sinistra come nel sonno, colla medesima fisonomia e la bocca socchiusa. Il prete scambiò un'occhiata d'intelligenza colla Ghita. Allora le quattro donne allungarono il collo, e la Giovanna disse all'orecchio della vicina:

—È morta.

—Se non scappo muoio anch'io dal puzzo.

Il prete appressò un bicchiere alla bocca del cadavere, ve lo tenne qualche istante, poi scosse la testa e, posandolo sul comodino, mormorò:— Subvenite, Sancti Dei,—col solito accento, chiamando i santi del cielo incontro a quell'anima pellegrina per le pianure della eternità, intanto che nel mondo i viventi si scostavano inorriditi dal suo corpo.

Ida aveva lasciato cadere quella mano sul letto, stette ancora fissa nella madre non battendo palpebra, poscia volse lo sguardo in giro sulle donne, che lo evitarono, ed incontrò quello del prete. Questi si mosse come per dirle qualche parola di consolazione, ma la fanciulla alzò la mano ad un gesto imperativo di diniego, e con passo lento, quasi solenne nella tragica gravità di quel momento, entrò nella propria camera.

Appena uscita fu un bisbiglio. La Giovanna corse ad aprire la finestra, il prete ripiegava la stola ripetendo alla Ghita di bruciare la bambagia intinta di olio santo, rispondendo con un sorriso di bonomia alle altre donne, che ammiccavano con una smorfia verso l'uscio della fanciulla.

—Non volere l'Olio Santo!

—Sì, ma è rimasta male: vedremo come farà a vivere senza far nulla.

—Il Signore è giusto,—disse una, che non aveva aperto bocca.

—È giusto,—ripetè il prete.—Adesso, Ghita, vado via. A lei le dirai poi... cerca di consolarla, se ne ha bisogno,—aggiunse con un cattivo sorriso.—Oh! come sei tu qui?—si volse alla Giovanna:—bada...

—Adesso!—ribattè schernevolmente la Ghita.

L'arciprete si strinse nelle spalle biascicando un testo latino, quindi facendo alla colpevole, che non arrossì nemmeno, un gesto paterno d'indulgenza, si avviò veramente per uscire. La Ghita lo accompagnò insino alla porta e lo trattenne ciarlando. Quando tornò nella camera le donne erano ancora lì a chiacchierare, anzi una aveva tirato il cassetto della bambagia per provare di non avere mal veduto, in fondo, nell'angolo, vedendo una cassetta dorata.

—Cosa ci sarà mai lì dentro?—chiesero alla Ghita.

Ella non lo sapeva. Ma la Nunziata del muratore si esibì di fare la veglia.

—No, la faccio io,—ribattè la Ghita.

—Facciamola insieme, mangeremo un po' di costola di porco con un boccale di vino nuovo.

Allora tutte le altre si offrirono.

—Anzi figuriamoci... basta, vedrò per la Nunziata. Ora andate via; se torna fuori la signorina mi faccio strapazzare.

—Sì, va pur là, un buon capo.

Ma rimasero, poi la Giovanna uscì colle altre due, e restò la Nunziata. Discesero in cucina, era l'ora del pranzo.

—Come si fa,—domandò la Ghita,—a dirle se vuol mangiare?

—Credi che le dispiaccia della mamma?

Il sole era alto, la cucina abbastanza illuminata. Le due donne si occuparono dei preparativi del pranzo colla alacrità di chi prepara per sè medesimo, ciarlando del passato della morta, quando era balia e levatrice, quindi moglie dell'ingegnere e per un momento la signora più sfarzosa del villaggio. Le date, i particolari si affollavano; poi il pranzo le riattirava, e riflettevano alla condizione di Ida nell'inverno vicino, sempre terribile pei poveri. Anche esse non avrebbero nulla, sempre povere prima e dopo la gioventù. Almeno la balia aveva fatto la signora per una volta.

—Chi godè una volta non stentò sempre,—conchiuse la Nunziata col proverbio popolare.

Ma un pensiero attraversò la testa della Ghita.

—Aspetta, vado su.

La porta era chiusa; ella girò la chiave. Ida seduta al tavolo piangeva, ma le lagrime le dovevano uscire a stento, perchè aveva gli occhi troppo gonfi.

—Oh, è orribile!—esclamò, percossa da un brivido alla proposta della Ghita.

—Come vuole dunque fare? non ci si sta in casa.

Ida si levò convulsamente; il volto della Ghita era così calmo, che dovette comprendere di aver torto, e cedette con un gesto di raccapriccio. La Ghita discese e mandò la Nunziata dal marito, che lavorava in una casa vicina; senonchè gli era capitata un'altra incombenza ed era partito dicendo di tornare a notte. Allora la Nunziata era salita sino a casa propria ed aveva trovata una mezza grembiulata di gesso ed una cazzuola vecchia, la quale ciurlava nel manico. La Ghita si grattò la testa.

—Tonio è in casa?

—Ma no, non c'è nessuno. Gigetto è andato a zappare: pare proprio impossibile!

Si consigliarono ancora, finendo poi a canzonarsi scambievolmente del proprio ribrezzo, che in fin fine era una fanciullaggine da signorina. Ne avevano veduta morir tanta della gente. Era presto fatto.

—Non hai murato mai il buco di un topo? è lo stesso.

—Glieli muriamo tutti, tanto già non ci passa più nessuno a quest'ora. Tu ammorta il gesso nella casseruola, poi andiamo su.

Ma appena sull'uscio diventarono serie. Il cadavere immobile, rigido, guardava colle pupille vitree fra un puzzo veramente insopportabile. Si appressarono. La Nunziata rimestava il gesso nella casseruola, ma la Ghita fece evidentemente uno sforzo di coraggio per aprire la camicia della morta. Il letto male rifatto lì per lì, subito dopo la morte, dava una serietà di più a quel cadavere lungo disteso, le mani incrociate sul grembo, digrignante i denti bianchi di una bianchezza fantastica nell'ultima contorsione. Poi la Ghita le alzò la pezzuola infradiciata dal petto, e prendendo in fretta una cazzuolata di gesso, la tirò mal destramente sull'ulcere.

Ida apparve sulla soglia. I due strani muratori seguirono l'opera alla meglio sotto quello sguardo della fanciulla immobilmente severo ed attonito. Le pareva quasi di assistere in immaginazione ad una tetra fola, vedendo sua madre in quello stato ed in quelle mani. Quindi quel lembo aperto delle pupille, nel quale come in un gorgo opaco si era annegato lo sguardo della morta, le fece correre un brivido per le vene, e si avanzò per chiudere pianamente gli occhi a colei, che vent'anni fa glieli avea aperti alla luce.

—Dov'è l'anello?

—Ecco,—rispose la Ghita:—le ho cavati pure gli orecchini.

La fanciulla tese la mano, ma l'altra la guardò stupita, barattando un'occhiata colla Nunziata.

—Datemeli.

La Ghita spalancò la bocca.

—Debbo ripeterlo?—insistè con voce, nella quale fremeva già la collera.

—Ma sono miei; glieli ho tratti io!

—E per questo?

Allora la Ghita le spiegò il proprio diritto nel costume del paese, che i gioielli dei morti appartenevano a chi li cavava loro, invocando il testimonio della Nunziata e tutto il villaggio; lo dimandasse anche all'arciprete, al dottore, perchè non era già una ladra e non voleva portarle via nulla, ma questa volta era bene nel proprio diritto, perchè aveva sempre amata la povera signora e l'aveva servita sino in ultimo. Anche adesso serviva il suo cadavere; e qui le lacrime facendole groppo alla gola, non potè seguitare.

—Quanto volete di tutto?—la interruppe la fanciulla, niente commossa da quel dolore.

—Non lo so, bisognerebbe farli stimare.

—Stimateli.

—Vado fuori dallo schioppettaio, egli se ne intende: ha la pietra di paragone.

—No, stimateli subito.

La Ghita pensò un pezzetto. Intanto Ida si sentiva struggere di sdegno al solo guardarla, mentre il freddo del cadavere della mamma presente al mercato le saliva sottilmente per le reni. Finalmente la Ghita parve decidersi, ma doveva essere una grossa domanda.

—Andiamo,—fe' Ida collo sguardo.

—Il letto e la madia,—disse precipitosamente.

Ida allungò la mano.

—Il letto compito colle materasse.

La fanciulla annuì col capo e, prendendo i gioielli, andò verso la propria camera.

La Ghita si volse tutta ilare all'altra quasi imbronciata di quella sua buona fortuna, poi correndole dietro con voce melliflua:

—Bisognerà che prenda qualche cosa, è tardi; sono già le due. Ho uno stufato giù, che mi è proprio venuto bene, dia mente a me.

—Non ho fame.

—Che cosa vuol farci? le darà fastidio.

—Basta: mangiate voi per me,—rispose senza voltarsi.

Intanto fuori il sole d'autunno faceva le ultime carezze alla campagna, mentre i pettirossi cantavano, tutte le finestre del villaggio erano aperte e i tetti bruni parevano avvampare in un incendio di razzi e di scintille. Giù nella piazza i ragazzi, che non avevano forse pranzato, folleggiavano correndo, molti giovanotti passavano a gruppi, una lunga fila di donne novellavano filando lungo il muro dell'ospedale, a sinistra della parrocchia.

Per la finestra Ida partecipava a tutto ciò immersa in quell'onda placida di vita così repugnante al suo carattere e alla sciagura di quei momenti.

Un raggio di sole volato sul tavolo vi scherzava come un passero. E a poco a poco una quiete lenta s'insinuava nell'anima della fanciulla. Era sola, più sola dell'uccellino nel nido dopo che il cacciatore gli ha ucciso la madre, più sola del falco sulla rupe dopo una caccia inutile ed ostinata; ma non poteva pensare più a nulla, non soffriva più e non viveva. Sognava.

La sua coscienza somigliava alla campagna desolata nello squallore dell'autunno, in una luce bella ma inutile, nella quale rammarichi e speranze si perdevano abbacinati. Dal suo tavolo guardò lungamente al di fuori, cadendo di pensiero in pensiero come il pettirosso di ramo in ramo; fremè vagamente colle foglie secche, guizzò sulla rifrazione di un sorriso, fu quasi stupida e serena come quella gioia. Se non che la luce illanguidendosi divenne fredda. I passeri si rarefecero con pigolii più acuti, i sorrisi s'involarono come i passeri dai tetti e le voci si quetarono ad una ad una, mentre le foglie inaridite alzavano al vento della sera l'ironico canto dei morti. Gli alberi, rimasti nell'atteggiamento entusiasta di un saluto al sole, parvero immobili nella disperazione della loro secchezza scheletrale, il cielo si abbassò come un coperchio sempre più greve. Allora anche il sole, sdraiato sull'ultima montagna colla stanchezza fantasiosa del pellegrino, che ha tutto veduto e se lo ricorda, dovette levarsi lentamente per discendere la montagna. Si videro ancora i suoi capelli biondi come quelli di una donna agitarsi ad un moto della fronte, poi la testa era già scomparsa che si vedevano ancora; il pellegrino s'inabissò, e l'ombra si abbattè nella sua traccia.

La sera trionfava. Ida era nel buio, aveva buio.

Le tende di mussolina imbiancavano l'ombra della camera, un umidore frizzante arrivava sino alla fanciulla. I suoi occhi guardavano ancora senza vedere, il suo orecchio non ascoltava più nulla.

Quindi la solitudine le si restrinse intorno; non si poteva più muovere. Il mondo era dileguato.

Le tenebre atterrirono la sua immaginazione e la sua ragione allibì. Dov'era? Che cosa fare? Perchè? Intendeva indistintamente queste domande, come di gente che gliele profferisse intorno.

Il cadavere della mamma era nella camera vicina, ma per poco: e poi? Quel cadavere, la sola corda, cui si rattenesse ancora sul dirupo della vita, la morte l'aveva tagliata. Ida si sentiva precipitare giù in un buio freddo, senza voce e senz'aria. Non si ricordava più nessuno dei propri sogni prediletti, non trovava nessuna delle proprie energie. Era notte; nessuno la vedeva, nessuno poteva soccorrerla.

Ma inabissandosi si accorgeva solamente di avere vent'anni. Non era più malinconica; la disperazione aveva ucciso la malinconia, come l'ombra aveva spento la luce e il nulla inghiottito la vita.

La fanciulla pensava senza la forza di riflettere, soffocata da un peso, contro il quale non giungeva a rivoltarsi. Una biroccia, che scricchiolando sonoramente passò sotto la finestra, la riscosse da quel torpore. Le sembrò di destarsi, si strofinò gli occhi, si levò, passeggiò per la camera. Il primo risveglio alla realtà fu un vagito dell'egoismo: sola e miserabile! Quindi il cadavere vicino le attrasse il pensiero; e la triste fine di colei, che le era stata madre, la commosse profondamente come una lezione alla sua follia di volere che il mondo le gettasse fra i piedi la fortuna di un re, mentre ella non era nulla e non aveva fatto nulla per meritarla, se non gonfiare quotidianamente, ad ogni ora, ad ogni minuto un immenso desiderio, gonfiarlo come un pallone, che l'aveva trasportata nel cielo dei sogni senza nome, delle larve senza significato. Desiderare, nulla più che desiderare per vent'anni! Ella non sapeva altro della vita, malgrado le molteplici passioni e i lunghi studi. Il mondo avrebbe dovuto esistere per lei sola, la società per lei sola essere costituita, la civiltà per lei sola essere giunta a questo periodo. Desiderare, null'altro che desiderare, coll'ardore della febbre, coll'insistenza dell'ebetismo, colla fantasmagoria del delirio. Lei, sempre lei, unicamente lei, con un orgoglio ingigantito dalla vanità, con una raffinatezza ottenuta colla malattia, con un egoismo butterato di tutti i vizi e drappeggiato nella clamide dell'eroismo. Desiderare, null'altro che desiderare, spezzando la scala della vita, e dopo averla spezzata voler saltare a piè pari dal primo all'ultimo scalino, non poterlo, ed accusarne gli altri disprezzandoli, disprezzando sè stessa, eppure facendosi una superiorità della propria impotenza sovr'essi, che invece di saltare si contentavano di salire. In tutti quei vent'anni non aveva saputo che desiderare, aprirsi un abisso nell'anima, allargarlo con una ostinazione demente, gettarvi tutto dentro, Dio e la famiglia, la patria e l'amore, il passato e l'avvenire, per errare poi come uno spirito maledetto intorno all'abisso affamato e senza fondo. Sua madre era morta costeggiando senza vederle le rive del mondo, ma senza rammaricarsene; ella come vivrebbe?

Sola, in un villaggio, a vent'anni, con quattro mobili in casa, senza denaro, senza speranza! La solitudine si univa al freddo, e la pigliava ai ginocchi, alla gola. Dov'era? Che cosa fare? Perchè? Le domande si distinguevano meglio, ma erano come fumi, che si addensavano nelle tenebre, e non fiaccole, che le diradassero. Il passato le si destava confuso nella memoria, il presente era buio, l'avvenire era nulla. Provava rimorsi di non so che cosa, paure guizzanti; respirava e sospirava, era tuttavia stordita. Gli occhi non usi all'ombra stentavano a sorprendervi il profilo di un oggetto, il muoversi di una massa, mentre avrebbe avuto bisogno di misurare esattamente tutta la propria sciagura per impadronirsene. Vi si provò un istante senza riuscirvi.

Il turbine soffiava da ogni lato, la muraglia delle tenebre sembrava compatta come di ferro, Ida si era riseduta al tavolo, sostenendosi colle mani incrociate la fronte. Il freddo la sferzava con uno scudiscio, che pareva fatto di capelli; aveva le mani intorpidite e le si intirizzivano le gengive. Allora le parve che le si aprisse innanzi la landa de' suoi giorni umidi e neri come quella sera, immensa landa, che si rimpiccioliva di un tratto, così che la fanciulla non aveva più giorni da vivere. Vivere dove? con che? Si ricordava di aver ceduto per quegli ultimi gioielli il letto della morta e la madia della cucina, la metà delle proprie ricchezze; non ci volle pensare.

—Tanto è inutile!

Nullameno il pensiero vi ritornava fatalmente, sbattendovisi come un uccello nel vetro di un fanale. E tutte le follie della sua giovinezza l'assalsero dileggiandola, adesso che non vi era più scampo e per discendere dalla cima combattuta del suo orgoglio romantico doveva atteggiarsi così goffamente da provocare le risa di tutti gl'imbecilli. Ida era sempre sola, ma il mondo riappariva con tutto il corteo delle sue necessità e delle sue leggi inesorabili; il mondo immenso, infinito, nel quale gl'individui erano nulla e la massa appena qualche cosa, che non le farebbe nè un anticipo, nè un complimento, che non si rivolgerebbe nemmeno a guardarla, quando ella volesse chiudere con un suicidio la immaginaria ed infantile tragedia della sua vita! Bastava questa riflessione per disarmarle la mente e la mano. E non pertanto una risoluzione era fatale ed era egualmente impossibile.

Ma così sbattuta, invece d'impazzire la sua ragione si andava rischiarando. Una calma tetra, gelida come l'alba di un ghiacciaio, sorgeva da quella tempesta. Vedeva il suo villaggio senza un cuore simpatico, la sua casa fra poche ore deserta, sè stessa deserta in casa ad aspettare incredulamente una fantasia già morta. Ma vivrebbe; di che?

Dopo una lunga e lenta alternativa si trovò come prima, non avendo nulla deciso. Allora il vecchio orgoglio volle drizzarsi, ma il freddo l'aveva intorpidito come un serpente.

In quel punto la Ghita bussò discretamente all'uscio.

—L'abbiamo già vestita,—le disse,—domani mattina debbo andare dalla Virginia; così non ci pensiamo più. Le ho messo quell'ultimo vestito, che portava prima di allettarsi. Poi ho comprato un po' di carne dal lardarolo per la veglia di questa notte colla Nunziata, a credito. Non avevo quattrini.

Ida sembrava ascoltare attentamente.

—Anzi le debbo dire da parte dell'arciprete, che ho incontrato ora... Già lei forse non lo sa: i beccamorti verranno domani dopo mezzogiorno, e vogliono bere; dopo ci vuole un fiasco. Ecco: l'arciprete (noi in casa non ce n'è) lo darebbe: è nero, buono. Eppoi se lei vuole, le fa tutto un conto col mortorio. Il vino l'ho sentito. Adesso, sfido io, bisogna pensarci, tocca a lei.

Così parlando erano venute nella camera della morta, illuminata fiocamente da una candela di sego sul comodino. La morta riposava sul letto rifatto, sopra le coperte, vestita di un abito nero, con una cuffia nera in testa. Un crocifisso le dormiva sul petto.

—Guardi,—proseguì la Ghita, vedendola approssimarsi per una dolorosa attrazione al cadavere:—le ho dovuto mettere la mia corona in mano, la sua era di vetro, e non si può.

Ida considerava il cadavere con una stretta di cuore, poi lo studiò come avrebbe fatto di un proprio abbigliamento. L'abito abbastanza nuovo faceva una buona impressione, la cuffia, malamente stirata ma fresca, le incorniciava con una nobiltà malinconica la piccola testa macilenta, mentre la camicia, orlata al collo di un pizzo bianchissimo, dissipava con felice contrasto i ricordi della malattia. Ma sotto quelle ampie vesti il corpo si tradiva di una magrezza di spettro. La Ghita, che per una civetteria di brava donna aveva spinto la cura fino a pulirle le unghie, vi gettava tratto tratto uno sguardo di soddisfazione, quando la fanciulla le mostrò con un'occhiata fulminante le scarpe vecchie, scalcagnate, colle punte rosse.

La Ghita gliele aveva calzate per tenersi gli ultimi stivaletti.

—Per il viaggio che deve fare!—rispose in aria di scherzo per attenuare il furto.

Ida si sentì strozzare. E quella era la gente, fra la quale doveva vivere! Questa idea fu così greve, che non ebbe forza di sopportarla, e si tolse dal letto, mentre l'altra la tempestava di domande sul mortorio dell'indomani, al quale interverrebbe tutto il villaggio, e quindi non bisognava farsi guardar dietro, molto più che la gente era cattiva ed alcuni dicevano già che sarebbe senza preti.

Allora la fanciulla ebbe il pensiero di venderle tutte le mobilie, meno quelle della propria camera, perchè pensasse lei ad ogni spesa del funerale, parendole di morire a tutte quelle cure inevitabili, che le sorgevano innanzi come tanti pruni laceranti. Ma la Ghita si fece pregare un bel pezzo prima di acconsentire, e non cedette che sicura di aver tutto compreso nel contratto. Poi non voleva darle il denaro, pretendendo che per lei era una somma esorbitante quattrocento lire, duecento per il funerale, duecento per la signorina; la quale poteva bene aspettare, da lei, una povera donna con due bambini sulle braccia, adesso quasi nell'inverno. Ida sapeva benissimo di aver fatto un pessimo affare, ma quella somma così meschina le pareva una soluzione. Erano qualche mese di vita.

Ritornò nella propria camera alquanto sollevata, ma tosto pensò che la malattia aveva dovuto costare più d'un soldo, e che le duecento lire svanirebbero nei debiti della mamma. Fu un nuovo colpo che non la prostrò; la sua forte natura avea infine preso il sopravvento, scagliandosi nell'avvenire colla riottosa spavalderia della disperazione.

Non sapeva nulla e, peggio, non vi era nulla a sapere, ma la sua volontà, ritta nell'atteggiamento di Cambronne in faccia ai cannoni inglesi, eruttava contro il destino la parola sublimemente oscena di quell'invincibile vinto. Quindi il mondo ricomparve con tutta la magia de' suoi piaceri, le fronti s'inchinarono lontane, le gemme sorrisero il loro sorriso cortigiano, e la fanciulla si sentì grandeggiare nell'animo la implacabile ambizione del vizio. I forti non potevano fuggire la vita, perchè la volontà era la suprema delle forze: Balzac e Schopenhauer lo avevano provato.

Che importava, se la mamma era morta come aveva vissuto?

La vita degli individui come quella dei popoli ha il governo che si merita. Sua madre aveva nonpertanto accalappiato l'ingegnere, ella di valore più che decuplo accalappierebbe un principe e saprebbe imporsi al mondo legale, appena la ricchezza incorniciasse dei propri splendori il suo carattere ribelle e tirannico ad un tempo. Oramai la sua soluzione era presa: o maestra o cortigiana. Cortigiana dunque, perchè, almeno là capitavano i signori del mondo, e nel lupanare riuscivano le porticine secrete dei saloni. Il varcarle poteva essere difficile, ma non impossibile alla donna che si sentisse abbastanza forte per dominarvi. Ida aveva troppo studiato per credere alla morale ordinaria, ed avea troppa esperienza del mondo per non sapere che la vittoria è sempre una legittimità, quando il trionfatore sappia mentire le proprie origini. Quindi ruminava come gittarsi fra le perdute senza subirne le abbiette apparenze, ma non lo trovava per ora, abitando un villaggio e non avendo conoscenze per una capitale; però era fiduciosa in sè medesima come il viaggiatore, che parte per un mondo sconosciuto.

Invano la sua giovinezza e le idee della gente fra la quale era vissuta, si opposero all'empio progetto: una forza cieca ed inesorabile (i poeti greci l'avrebbero chiamata fato) la spingeva per quel viottolo forse più breve, sucido, forse dritto all'abisso infame della Tarpea. La sua miseria era per lei un'ingiustizia del mondo, il quale dovrebbe un giorno pagargliela, poichè soffriva da quattr'anni come i dannati dell'eternità, e non voleva più inutilmente soffrire. Adesso l'ora della battaglia suonava alla campana da morto di sua madre, coincidenza terribile che avrebbe spaventato un romano, mentre la fanciulla non avea finito d'indossare l'armatura ed erano quindi più probabili le ferite e difficile la vittoria. Ma ella si alzava bruna nelle tenebre, livida come quel cadavere, fredda forse altrettanto, non facendosi più un'illusione. Era sola e miserabile in faccia al mondo ricco e spietato, senza altre armi che il corpo, altra forza che la testa: tutti contro di lei, ed ella contro tutti. Non importa. Meno fanciulla di Annibale si ripeteva il suo giuramento, la mano stesa nell'ombra verso il cadavere della madre, giurando contro il mondo di essere un giorno bella, ricca, spietata come il mondo, scrollando gli ultimi rimasugli delle idee casalinghe, della fede religiosa, dei sentimenti giusti. Le passioni le suonavano nell'anima una fanfara piena di strilli e di scoppi, il vento di una corsa frenetica le fasciava la fronte, l'orgoglio delle sue ore più folli spiccava volate da stallone. Le narici palpitanti, l'occhio fulgido, coll'entusiasmo irresistibile della febbre, colla confidenza della disperazione, ella stracciava tutto il lembo della propria vita vissuta, per scagliarlo come un cencio in faccia al mondo dei lavoratori, al mondo degli onesti, al mondo dei borghesi, al mondo dei ragionevoli, ruggendo ancora una volta il vecchio urlo di battaglia, acuto, squillante, mordente, urlo di maniaco e di agonizzante, di suicida e di omicida:

—No.

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PARTE SECONDA

[126][127]

I.

Ida rimase meditabonda in faccia a quella traduzione. Da due mesi viveva con Jela, la quale fedele alla propria promessa di fanciullina era corsa a cercarla nel villaggio. L'aveva trovata col vecchio abito nero oramai diafano, il viso spento dalle sofferenze di ogni sorta. Quindi, saltando a piè pari tutte le scuse e i ritardi, l'aveva condotta seco come un'amica o una maestra, che la perfezionasse negli studii; ma, caso o felice cortesia, non aveva pronunciato quel titolo abborrito, porgendo l'invito con una affettuosità così fresca, che Ida fu doppiamente lieta di accondiscendervi.

Il viaggio non fu lungo.

Appena giunte al palazzo le due fanciulle si ritirarono nell'appartamento di Jela, e allora, sola in faccia a questa educanda, che aveva appena il senno di un fiore e lo spirito di un frutto, Ida riconquistò sè medesima. Però fu guardinga, e non si lasciò sfuggire nessuna di quelle risposte filosofiche, capaci di arruffare quella testolina di angelo monello. Quindi le raccontò con arte di consumato romanziere la propria sciagura, mostrandole così nudo e gladiatoriamente atteggiato il proprio orgoglio, che Jela ebbe quasi rimorso di averle chiesto aiuto per gli studii. Ma Ida sorrise abbracciandola; poi la intrattenne del convento, facendole indovinare tanta esperienza di vita ed insieme tanta facilità d'indulgenza frizzante di spirito, che la contessina ne rimase addirittura entusiasmata.

Se non che lasciando la casa, dove le erano morti il padre e la madre, Ida non aveva letteralmente più un soldo. Il suo abito pareva anche più miserabile con quella schizzinosa mondezza; aveva le scarpe scalcagnate, un cappellino lagrimevole sulla testa. La miseria aveva abbracciato quel suo corpo, nato per le orgie di un sultano, come una gramigna lo stelo di un garofano. Jela e Ida se ne accorgevano col medesimo sentimento. Ma la contessina, che le aveva già disposto un appartamentino provvisorio attiguo al proprio, entrandole in camera il mattino seguente e sedendosele sulla sponda del letto, le riparlò di tutti i discorsi della sera coll'amabilità leggermente servile di chi sta per chiedere una grazia. Ma non ne fu niente; parlò ancora d'altro, scherzò, fu bambina, sguaiata come tutti i bambini, tornò seria, tornò servile, e dopo tutto questo armeggio:

—Oh! senti Ida, facciamo i conti.

L'altra spalancò gli occhi senza rispondere. Ed ella seguitò esponendole il bilancio del proprio spillatico, abbastanza grosso e nullameno troppo tenue per tutti i capricci. L'altro giorno da un orefice avea veduto un diadema brillantato di contessa, una follia di bellezza e di prezzo: Dio! come era carino! Jela aggiungeva sospirando:

—Peccato che noi ragazze non possiamo avere nè gioie, nè quattrini. Dunque senti: ci conviene aver giudizio. Il mio appartamento è orribile, papà ha poco gusto; andrebbe appena per una nonna. Non v'è che la stanza da letto accomodata dalla povera mamma. È un appartamento serio come Giovanni il cavallerizzo: hai visto le sue basette? Beh! dunque?... ma se non m'aiuti, non ne vengo più a capo,—guaì rabbiosamente con le lagrime agli occhi, gettandosi fra le braccia dell'amica.

—Come stavo bene piccina a casa tua; e tu?

—No.

—No? non vorrai star bene con me? Bel gusto di umiliarmi per farmi piangere. No, siamo intese: tu hai più giudizio di me e mi sgriderai, ma se non hai giudizio, io piango tanto che te lo faccio spuntare.

E la fanciulla, superba di averle fatto tutto accettare senza nulla offrirle, si diè a saltare per la camera come una matta, finendo per strapparsi la veste e cacciarsi sotto le lenzuola con Ida.

E Ida s'installò nel castello dei conti di Monteno. Jela era tutta un sorriso, occupata nella vita come una bambina ad una festa di ballo, che ammira i fiori ed intasca i confetti. Appena fuori del convento se lo era scordato, quantunque ne avesse, varcandola, bagnata la soglia di molte lagrime; ma la sua armoniosa natura si conformava a tutti gli ambienti, respirava con eguale facilità in tutte le atmosfere. Era bella perchè era felice, era felice perchè era bella. Le sue idee, lunghe come i suoi capelli del biondo più soave, avevano tutte il colore di viola de' suoi occhi; la sua coscienza aveva la bianca freschezza della sua pelle; era delicata e leggiera. Non aveva sedici anni. Non sapeva nulla, non ambiva nulla, desiderando tutto. Poteva interrogare, ma non era curiosa; conosceva poco, capiva meno, non indovinava affatto.

La nota della sua anima era il riso; rideva con tutto, coi dorati riverberi dei capelli, colle iridi inumidite degli occhi, colle labbra rosse, coi denti bianchi. Le parole le cadevano come i fiori del mandorlo, colorandosi al bel sole della sua giovinezza come tante bolle di sapone, che si sciolgono senza scoppio nè traccia. Le sue mani si tendevano involontariamente per fare una carezza, appena si presentasse qualcuno a riceverla, con una delicatezza di puerilità bionda, di follia profumata. Era bella come un'apparizione, ed infatti appariva allora nella vita, di quella bellezza che non ha nome nè durata, che non significa nulla e ricorda tutto, i desiderii più puri, le fantasie più liete, le insulsaggini più perfette; capolavoro di una doppia giovinezza di corpo e di spirito, bellezza di una natura assurda, che ha spogliato la donna e la fanciulla per creare la giovinetta. Era come una camelia che avesse ceduto a un diamante la spenta morbidezza del proprio candore, un diamante che avesse ceduto a una camelia la propria soavità di gemma.

Jela non poteva essere amata e non poteva amare, ma attirava e sentivasi attirata. Se i fiori si movessero liberamente, pochi vorrebbero restare nel loro vaso di terra concimata, e li vedremmo al pari di noi cercare i siti più espressivi. Molte rose si poserebbero a fiorire sul seno di una donna, più di una viola malinconica andrebbe ad insinuarsi fra la tastiera di un pianoforte, per apprendere forse dalla musica il secreto della propria malinconia. Così Jela andava verso tutti, amava tutti, Dio e il mondo, il passato, il presente e l'avvenire, di un uguale affetto. Adorava suo padre, adorava la mamma senza ricordarsela, adorava la vecchia cameriera, adorava la cagnina, il canarino, il suo abito cilestro, la veste da camera bianca, le pantofole turche, la fanciulletta giapponese in avorio, un regalo dello zio, e tutti l'amavano, perfino i domestici. Era un giocattolo di tutti, che apparteneva a tutti, dal palafreniere che le insegnava equitazione al calzolaio che le misurava ammirando i minimi piedini. Non potendo dormire col canarino, dormiva con Nelly la piccola danese; ma fra tutti questi affetti, susurranti come un cespo di erba odorosa e poco più alti, uno solo sorgeva dominando, l'amore per Ida. Si conoscevano da bambine, e sino da allora la piccola rosea scherzava nelle braccia dell'altra, seria, cogli occhioni spalancati e i moti imperiosi. Una glicine abbarbicata ad una quercia. Gli anni erano trascorsi, ma le due donnine erano ancora nello stesso atteggiamento.

Quindi trascorrendo insieme tutta la giornata in incessante chiacchierio, Jela non impegnava mai una questione, non poneva un problema, o se presentavasi da sè, Ida ne dava indifferentemente la soluzione, senza premesse nè conseguenze, là, come uno scoppio di tromba in un preludio di violini. Jela accettava, guardava l'amica tirando innanzi. Ma tutte quelle risposte alteravano la flora della sua testolina, mentre la sua coscienza, che dovea pure fortificarsi, si assimilava lo spirito della sorella di latte.

Jela imitava inconsciamente Ida perfino nella frase e nel gesto; adorabile scimmia, più donna della donna che copiava, appendice brillante di un libro poderoso.

Ella non si era mai chiesta come Ida fosse povera: Ida avrebbe potuto mai esserlo anche essendolo?! E nemmeno come stesse nel suo palazzo senza far parte della famiglia nè dei famigliari, se vi resterebbe sempre, perchè spendesse il suo denaro non avendo il suo nome, donde venisse e dove andrebbe un giorno a finire, poichè Jela sapeva finalmente che ella stessa non sarebbe sempre una ragazzina. Che cosa il mondo diceva già di questa amicizia? Anzi una volta la vecchia cameriera, adesso più vecchia e golosa della affezione della padroncina, avendo voluto arrischiare qualche osservazione, Jela si era vezzosamente inferocita.

—Ida,—aveva esclamato,—è Ida.

Non ne sapeva oltre.

Ma se la serietà pensosa dell'altra non le avesse imposto, chissà che cosa quella pazzerella non avrebbe detto o fatto, perchè in questa sua passione composta di minuzie e di grandezze Ida era tutto per lei, la madre morta, il padre vivo, le amiche del convento, la suora prediletta, l'amante incognito ed ancora lontano lontano, il mondo con tutti i suoi misteri, la vita con tutte le sue febbri, la poesia con tutti i suoi splendori, la musica con tutte le sue soavità. Ida ascoltava, gettava il raggio del pensiero dove l'altra vibrava appena il filo luminoso della sua pupilla, alzava il velo cui ella toccava incertamente: le riempiva tutti i vani del cuore, le occupava tutti gli spazi della vita, era la parola di tutte le sue idee mute, l'eco di tutte le sue voci indistinte, l'anima del suo spirito, l'artista del suo corpo.

Jela era troppo bella per non essere civetta, ma era troppo giovane per saperlo essere, quindi scappava dalle mani della cameriera appena compiuta la toeletta, come Cosimo il canarino dalla gabbia aperta, e correva dalla maestra (questa volta Ida aveva accettato il titolo) a farsi vedere. Allora era un esame minuzioso e profondo: le stoffe e i colori, le trine e le frappe, le foggie ed i tagli, i nastri e le pieghe, armonie ed antinomie, sfumature e risalti, audacie e timidezze, tutto era discusso. Da ogni particolare esalavano profumi, su ogni curva strisciava un appetito, in ogni ondulazione palpitava una scoperta. Jela afferrava: la bellezza aveva un avvenire, ogni bellezza uno scopo. Quindi le pareva che le pieghe le penetrassero come nelle carni e le rivelazioni le salissero lambendo i piedi per la tenebrosa bianchezza delle sottane, mentre Ida le girava intorno parlandole colla sua voce più velata, quasi nella solennità di un mistero, creandola improvvisamente donna fra un'umida nebbia di caldezze. Allora la fanciulla si ricordava tutti i riserbi delle suore e le allusioni delle cameriere; si sentiva le palpitazioni della voluttà nella testa e giù nel cuore le vertigini dell'ignoto, ancora più ignoto dopo averlo immaginato. L'ignoto era l'uomo.

Ma tali conversazioni non erano se non parole, che erravano intorno a quell'arcano come un nuvolo di farfalle intorno ad un arbusto fiorito. Il riso vibrava sonoro e si spegneva di un tratto; v'era una lotta di ombre e di bagliori, di modestie e d'impudenze, poi Jela ritornava bambina ai discorsi insignificanti, alle divagazioni semplicemente birichine, senza una memoria di quanto aveva imparato e le sonnecchiava nell'animo.

Le due fanciulle non si lasciavano.

La mattina si correvano subito incontro, ciarlavano, si vestivano; ma Ida, che non aveva voluto cameriera, seguitava a vestirsi sempre in nero, adattandosi gli abiti da per sè. Indi facevano colazione, poi ritornavano nel loro appartamento, e Jela le insegnava il pianoforte, nel quale era abilissima delle dita come tutte le sue pari. Ida imparava con una rapidità spaventevole. Quindi scendevano nel cortile delle scuderie, dove un vecchio palafreniere le metteva a cavallo, vestite di una lunga amazone nera, in capo un bonnettino capriccioso inventato da Ida, gli stivali lucidi al piede, il frustino col manico d'oro o di agata in mano. Jela aveva paura, Ida era temeraria. Invano il cavallerizzo voleva rattenerla, quando partiva troppo spesso di galoppo sfrenato, più invano una volta avea voluto spaventarla gridandole:

—Se non si ferma, le farò saltare la barriera.

Ida col viso animato dalla corsa aveva gettato un urlo di gioia.

Si dovette per forza portare la barriera: mentre il maestro si raccomandava, Jela rideva senza sapere il perchè, e Ida tormentava ferocemente il cavallo.

Galoppò in giro, evitò l'ostacolo per due volte, tanto che il maestro e Jela non respiravano, ma alla terza storse Febo, lo lanciò dritto, dandogli la strappata così presto che le gambe anteriori gli percossero nei travicelli, la barriera si rovesciò ed ella sbalzò lungi quattro passi rattrappita sulle ginocchia.

—Ah!—gridò, rizzandosi prontamente e riafferrando le briglie.

Jela era pallida come un cencio.

L'altra volle rimontare, volle saltare e saltò. Il conte, che sopravvenne a quel punto, le battè le mani, Ida si volse salutandolo del frustino con una civetteria da circo equestre, e fece spiccare due altri balzi al cavallo.

—Siete ben forte,—le disse il conte avvicinandosi a guardarla seduta coi fianchi classicamente evidenti.

—Eppure Giovanni mi complimenta sempre sulla mia mano leggiera.

—Per reggere i cavalli la mano più sicura è la mano leggiera.

—Come cogli uomini.

Il conte raccolse il frizzo.

—Avete saltato la barriera alla prima prova?

—Alla seconda. La prima volta sono caduta.

—Male,—rispose il conte, frenando sulle labbra una risposta meno castigata, perchè Jela ascoltava, ma che Ida indovinò benissimo.

—Sono caduta in piedi,—ribattè sul medesimo tono.

Il conte tornò a guardarla negli occhi, parlando d'altro.

Del resto la vita al castello di Valdiffusa era così noiosa, che Ida si pentiva sovente di averla raccomandata a Jela, sulla proposta del padre, nei primi mesi di mondo, per eludere l'incomodo di tutte le visite e prepararsi meglio all'inverno venturo. Allora erano nel mese di aprile.

Il castello, come lo chiamavano, grosso palazzo di stile cittadino, coi pilastri al portone ed un giardino nel cortile, sorgeva da un largo prato cinto di siepi tosate, ai piedi di un colle, sul quale la sua massa biancastra spiccava pesantemente. Vi si accedeva per un'enorme cancellata di ferro a sei battenti, separata da colonne di pietra culminate da una cimasa di granito, meno le due di mezzo abitate da due leoni, i quali nell'inverno riparavano entro un casotto di legno per eccellenti ragioni d'igiene della pelle. La gente non passava mai senza guardarli con ammirazione, e li chiamava i leoni del signor conte. Erano lo spauracchio di tutti i bambini e una fola per tutte le mamme. Un viale fiancheggiato di oleandri e di limoni, alto su basamenti di pietra, sboccava nel prato dirimpetto al portone, sormontato da una ringhiera a fiori, sui quali o per l'acqua o pel sole si poteva abbassare una tenda bianca, filettata di turchino. Alla facciata, e non v'era altro di ornato, colle finestre incorniciate e divise da magre colonne prese nel muro, cogli abbaini dei solai rotondi e tagliati a croce, il palazzo si sarebbe detto quadro; ma i suoi fianchi si prolungavano nudi, forati da una infinità di vani sino ad un altro muro, che chiudeva il cortile della cavallerizza, colle scuderie, le rimesse e gli alloggi dei servitori.

Dinanzi al castello il prato si rompeva in aiuole incassate da tegole rosse e turchine, piene di fiori e di pianticelle puntute e rotonde, dominate dal getto pretensioso di una fontana, nella cui vasca i soliti pesci variopinti aspettavano dopo pranzo le briciole di Jela di qualche visitatore impacciato del villaggio vicino. Ed erano un'altra meraviglia della villa, quei pesci che ricomparivano sempre come nei paragoni lirici della Bibbia.

Quest'ultima osservazione era del curato.

Il castello si alzava bianco, verniciato, fra quei monti bruni di boschetti cedui e di marroneti, pei quali si scorgevano a quando a quando le case verdognole coi tetti a lastre di fiume. Il paesaggio era ampio e severo. Anche nel mezzogiorno, quando il cielo era terso come uno specchio e il sole fulgente come solamente un sole può fulgere, la vallata non si facea mai allegra. Pochi campi si adagiavano sulla riva sinistra del fiume, le querce asserragliavano i campi, attorno alle querce, oltre le querce salivano i querciuoli, qualche pino, qualche elce, e lungi castagneti. Una frana gettava fra quel bruno il sorriso biancastro del suo galestro, remota remota una vetta si colorava di scialbo azzurro sopra i monti terrigni. Era il regno dei querciuoli denso ed oppressore, nel quale sembrava che le altre erbe ed i fiori non avessero mai potuto penetrare e l'uomo stesso vi fosse rifuggito. Molti armenti vi pascolavano invisibili nel fogliame, non si discernevano strade. La maggiore, la sola veramente degna di questo nome, lambiva il castello, allargandosi devotamente per buon tratto nel passargli davanti, e conduceva al villaggio nascosto dalle svolte, lontano circa tre miglia.

Per essa non transitavano che carbonai, o nell'autunno i carrettieri trasportando i marroni, la prima se non l'unica ricchezza del paese. Tutte le birocce dipinte di rosso avevano la sonagliera; i carbonai, radi conquistatori di quel regno dei querciuoli, erano ancora più neri e più foschi.

Ma fra quei monti troppo uniformi e quel castello troppo cittadino sorgeva un bosco di elci. Lo si vedeva dal portone, dietro il cortile, aprirsi in un immenso stradone a volta, coi forti rami intrecciati, sotto nudi di foglie. E la sua volta, capace come la navata di un tempio, si allungava mano mano più scura, abbassandosi senza cadere, così che lo stradone parea finire in un antro, e non finiva, e nelle sue ombre il pensiero si ombrava esso pure. Ma lungo l'enorme viale altri se ne staccavano, a portico, come larghe fessure per le quali rideva il cielo e l'anima si alzava un momento. I viali serpeggiavano senza scopo o disegno apparente, avvicinandosi, allontanandosi, incrociandosi come in un labirinto, moltiplicando il bosco con tutti i loro giri e le prospettive imprevedute, i gruppi bizzarri, le vacuità misteriose. Qua e là, fra due alberi, due arbusti improvvisavano una nicchia o una capanna; un sasso su due sassi apprestava un sedile, il suolo oppresso dall'ombra era bruno, nudo, e la poca erba distesavi pareva come calpestata da un piede invisibile. Dagli alberi rampollavano altri alberi, cespugli gigantescamente snaturati, ai quali l'edera si mesceva insinuando per tutti i fori, lungo i forti steli e i tronchi nodosi, su per le forcate muschiose sino alle cime arruffate, i suoi capelli famelici, piovra del bosco, parassita prudente, che non uccide quasi mai per non morire essa medesima. Ma l'edera sempre verde anneriva le bacche solo quando la neve pretendeva di tutto imbiancare. Quindi i viali, ondulando per la pianura, sembravano accerchiare il castello quasi fino sulla strada, o salivano le prime falde del monte assottigliandosi. Il viale diventava viottolo, il viottolo sentiero; le foglie morte lo ingombravano, i cespugli lo attraversavano violentemente coi rami interrompendolo tratto tratto, finchè più in alto, l'erta diventando più erta, il sentiero si stancava. Talvolta però più fortunato o più forte montava ancora, torcendosi a tutti i capricci delle macchiette, infilandosi per tutte le screpolature, sparendo tratto tratto sotto la pelle verde del muschio o spezzandosi in scalini, finchè toccava l'orlo scapigliato d'un largo spazio.

Allora la vista si abbassava sui boschi cedui, sull'altro più profondo, sul palazzo bianco, urtandosi alla ripa opposta del fiume e ripiegandosi per tutta la vallata lunga e stretta, sino alle elci dense come un prato, sotto al quale s'indovinava una vacuità piena di mistero, un silenzio avvolto nell'ombra, una moltitudine di ombre susurranti nel silenzio. Lo sguardo vi si sommergeva col pensiero come dentro un'incognita foresta sottomarina. I viali tendevano tuttavia le loro volte, le gramigne si stiravano nocchiolute ai piedi degli alberi, i rami secchi ingombravano qua e là il terreno, l'edera infittiva la oscurità e intristiva la cupezza, i viali erano muti come gli alberi. Quello era il bosco delle elci e del sonno, che il giorno non poteva interrompere, ma cui gli uccelli giungevano forse a far sorridere i sogni colla nota perlata del loro cinguettìo; un bosco invecchiato nell'ozio di un'inutile vegetazione, nel quale il vento non entrava più del sole, e la luna filtrava appena qualche fantasia notturna. Il sudore viscoso dell'umidità vi gocciolava a tutti i tronchi, mentre la terra arenosa strideva sempre ad ogni più piccola pressione, e gli uccelli folleggianti per quella solitudine di vegetazione, la popolavano di amori spensierati e canori.

Quel bosco era la passione di Ida, che vi si obliava lunghe ore.

Sempre alzata per tempo, faceva toeletta e si andava a chiudere in biblioteca, finchè Jela non venisse a distorla per gli ordinarii sollazzi. Allora traduceva l' Ahasvero di Hamerling, coll'ardore di altre volte, poichè quella vita signorile, veduta dappresso, le aveva già smentiti tutti i lunghi sogni. Il conte era gentile ma nullo, Jela carina ma nulla, il castello comodo ma nullo; il suo lusso era senza raffinatezza come la campagna d'intorno senza varietà.

Però della vita intima del castello, tranne il contatto delle due cameriere e di Giovanni il cavallerizzo, esse non sapevano altro. La vecchia faceva con loro da governante, ma in presenza di Ida non parlava quasi mai, scusandosi astiosamente del non saperlo fare: del che Jela la derideva contraffacendola e colmandola di carezze. Del resto volendole tiranneggiare finiva sempre coll'ubbidirle o per l'amore di Jela o per l'abilità di Ida.

In principio, la sera o la mattina presto, uscivano per lunghe trottate colla Nencia e Giovanni, poi Ida era riuscita a sopprimere la vecchia, a mutare il calesse in un phaeton, che guidava ella stessa sotto la sorveglianza di Giovanni, il quale avrebbe voluto insegnare inutilmente anche a Jela. Ida aveva un occhio e una mano da cocchiere inglese con una temerità da americano. Poi le trottate le annoiarono: l'ultima fu a tiro a quattro, una scommessa di Ida col conte, che ella vinse a stento, ma vinse. Quindi vennero le passeggiate a cavallo, che non finirono più, solamente si fecero più rade; qualche volta, a grande scandalo della Nencia, Ida osava uscire sola senza staffiere. A Jela non lo avrebbero permesso.

Ma le giornate erano lunghe. Jela si rifaceva sui romanzi della mamma di vent'anni fa, Ida studiando finchè suonasse l'ora solenne del pranzo, servito da domestici sempre gallonati, con un lusso principesco e una raffinatezza degna di Brillat Savarin. La sera arrivava il curato per la partita a scopa o al bigliardo. Ida vi si rifiutava quasi sempre, Jela potendolo, e divertendosi un quarto d'ora coll'invariabile imbarazzo del prete. Ma la partita restava spesso a mezzo, il conte parlava di campagna, d'insulsaggini dette le mille volte e che l'altro accettava sempre come nuove, rispondendovi alla sua maniera, così che il conte sapeva già prima la risposta. Una volta Jela glielo disse.

—È un imbecille,—le rispose col suo tono abituale d'indifferenza.

—Però i contadini lo credono un grand'uomo!

—Forse ciò è conciliabile.

—Perchè no?—interloquì Ida, soffiando col suo sarcasmo su quella leggera ironia;—la più goffa delle imbecillità è forse nell'essere un grand'uomo.

Ma le due giovinette si annoiavano: una smania latente cominciava ad irritarle di essere così fuori del mondo ancora per molti mesi, senza udirne nemmeno gli echi e vederne di notte i fuochi lontani. Jela pensava alle feste, alle toelette da teatro o da ballo, alle passeggiate tra la folla; e a certi momenti le pareva di mancare di tutto.

Entro quell'enorme cornice di verdura, che a forza di riposare la vista la stancava, e quella calma greve come un'afa, il castello diventava più noioso. Dal mattino si aprivano porte e finestre; il conte o partiva per la caccia o si chiudeva nel proprio appartamento al pian terreno; la famiglia non si riuniva se non la sera. Quegli appartamenti così vasti, aereati, colle tappezzerie non meno lucide dei mobili e le dorature ancora fresche, parevano non aver mai appartenuto ad alcuno, siccome negli alberghi, dei quali aveano il lusso impersonale senza la vita tumultuosa del continuo sgombero. Tutte le tende armonizzavano colle pareti, tutti i mobili fra loro e tutti i saloni. Il conte occupava il pian terreno, Jela e Ida due quartierini in una specie di casetta interna agglomerata nel palazzo. Il piano nobile, un rettangolo di saloni infilati, era vuoto dal giorno che la contessa, accortasi di essere mortalmente ammalata, l'avea finita colle feste e coi ricevimenti. Ma dopo la sua morte la Nencia ne aveva assunta specialmente la cura. Quindi nessuna mano vi aveva più turbato l'ordine minuzioso e la regolarità implacabile. Nessun sopramobile si era mosso, nessuna poltrona aveva scivolato sulle ruote, nessuna piega di cortinaggio si era distesa. Le candele dei lampadari, aspettando da vent'anni di essere accese, si erano annerite, il tempo aveva fermato sui caminetti di marmo tutte le pendole dorate. Quegli appartamenti deserti non servivano più che ai vecchi ritratti, immobili nelle pose convenzionali, imbruniti dagli anni in fondo alle loro ombre rapprese.

Dalle larghe finestre la campagna entrava confondendo l'inerte ampiezza del paesaggio alla vuota ampiezza delle stanze, nelle quali la luce sembrava perdere anch'essa la rutilante giovinezza, come la vita vi avea perduto la confusione e la sonorità.

E a poco a poco il pensiero subiva quella smorta influenza. Una noia di luogo abbandonato si addensava in tutto l'ambiente cadendo sull'anima delle fanciulle, coprendovi come sotto uno strato di polvere tutti i floridi desiderii e le bionde passioni. Ma era così lieve che non l'avvertivano, se non quando era già troppo alta.

Jela fuggiva quasi subito, Ida tentava di resistere, cacciandosi attraverso le ruine dei suoi mille mondi, sempre frantumati nel secondo momento della loro creazione: poi le fanciulle si trovavano giù nelle stanze abitate, e la conversazione del conte col curato ricadeva loro addosso come una polvere più grossa e più disgustosa.

—Come mai papà non si annoia?

—Mia cara, dovresti domandarglielo: è un problema, di cui la soluzione può interessarci seriamente.

—Non mi risponderebbe: dimmelo tu.

—Chiedilo piuttosto al curato. Egli ti dirà che la noia del mondo è l'eco della voce di Dio, che ci chiama dal paradiso.

—E papà?

—Forse è sordo.

—Ma io mi annoio,—gridò Jela ridendo:—e tu?

Ida s'alzò, e pigliandola per mano la condusse alla finestra. La notte era scura; grosse nuvole aspettavano nel cielo.

—Credi che quelle nuvole si annoino?

—Chissà! che cosa fanno lassù? si annoieranno anch'esse.

—Avrebbero torto, perchè hanno la tempesta nel seno.

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II.

Una mattina Jela corse mezzo spettinata nella camera della sorella, non la trovò; era nella biblioteca.

—Indovina,—esclamò subito, spingendo il grosso portone colla spalla.—Stasera arriva lo zio col conte Alidosi: me lo ha detto ora la Nencia,—e si fermò come soffocata dall'emozione.

—Ho indovinato,—rispose Ida pensierosa.

L'altra pure si fe' grave.

—Lo vedremo.

—L'ho già veduto,—disse a precipizio, togliendosi di saccoccia una fotografia, e porgendogliela e ritirandogliela col vezzo dei bambini.—È bello?!

—I ritratti mentono più degli originali.

Ma con grande meraviglia di Jela, sfuggita di sotto il pettine della cameriera per confidare tosto alla sorella l'enorme segreto, la conversazione cadde. Ida guardò le pagine del libro, la fanciulla non seppe più che cosa dire. Fece una smorfia.

—Lo vedremo,—riprese Ida con accento quasi annoiato.

—E mi dirai poi che cosa ne pensi?

—Senza dubbio.

Quella mattina al castello ci fu moto specialmente del cuoco e della Nencia. Il conte provò alcuni cavalli nel cortile della cavallerizza, e, ricordandosi improvvisamente del salto di Ida alla barriera, si sentì come il bisogno di parlarle. Sapeva di trovarla in biblioteca.

—Studiate davvero come una maestra,—le disse colla sua gentilezza un po' stordita.

Ella ebbe un sussulto, ma non trovò risposta.

—Sarebbe indiscrezione domandarvi il titolo del libro?

—Un libro antico: Leone Ebreo, Filosofia dell'amore.

—Lo studiate per voi?

—Per me!—rispose con un gesto di elegante pessimismo,—per Jela.

Il conte, che conobbe il proprio secreto già propalato, se ne imbarazzò; poi gli balenò nella mente la posizione della fanciulla dopo il probabile matrimonio di Jela, ed osservandole le gote allividite dall'ombra di quelle due grandi pupille nere, n'ebbe quasi pietà. Conosceva già le sue stravaganti superbie di maestra, e vi si interessava a quando a quando come ad uno dei pochi romanzi letti nella vita.

La biblioteca, uno stanzone oblungo, colle pareti nascoste fino al cornicione della volta dagli scaffali e due grandi finestre, che la riempivano di una luce taciturna, aveva una specie di nudità conventuale polverosa e severa. Le finestre alte, riparate da tende scolorate dal sole e striate dalle pioggie, non lasciavano vedere della scena ebraica dipinta nella volta se non qualche vistosità di abiti dietro il profilo sfuggente di una palma. Una umidità di sotterraneo appannava i lastroni quadrati del pavimento, ed annerendo gli scaffali di quercia, cogli sportelli a rete di filo di ferro, agghiacciava ancora quello stanzone, nel quale la vita del pensiero sembrava non essere entrata che per morirvi mutamente. Alcuni busti di filosofi, affondati dietro le cimase degli scaffali, gettavano tratto tratto bianchi bagliori di teschi, mentre una vecchia lucerna in fondo, sopra al tavolo di Ida, spenta chissà da quanti anni, sembrava accrescere ancora quell'ombra. Il conte, che non vi entrava quasi mai, si guardò attorno.

—Osservi,—gli disse la fanciulla, vedendo il suo sguardo fermarsi sul Cristo gigantesco, inchiodato sulla porta dominando quel cimitero di pensieri con la propria figura cadaverica.

Il conte si rivolse invece a guardare lei, e fu colpito dalla strana rassomiglianza di quei due pallori, ai quali il nero della croce e il nero dell'abito davano un funebre risalto.

—Osservi,—ella ripetè dopo una pausa, con accento velato:—quel Cristo non ha la corona di spine.

—Gli sarà forse caduta.

—Nella biblioteca... e qualcuno l'avrà raccolta. Ma la fanciulla, evidentemente pentita della malinconia delle proprie parole, gli lanciò un sorriso vivace, riconducendo il discorso su Jela e i cavalli provati la mattina. Era forse la prima volta che il conte si trovasse in colloquio così libero e stretto con lei, dopo averla concessa a Jela come la distrazione più adatta appena fuori del convento e prevedendo bene che un giorno o l'altro se ne sarebbe stancata. Solamente, nella sua generosità di gran signore, egli si riserbava di fornire alla maestra un collocamento o una dote per pagarle così l'ultimo debito della educazione di Jela. E poichè nell'andare a riprenderla con Jela al villaggio, si era ingannato immaginandola di costumi e di apparenza volgari, dopo non aveva più analizzato il proprio disinganno su quella grande fanciulla dal portamento altero e dalla conversazione di una mobilità così intelligente. Invece vi si compiaceva inconsciamente, perchè le armonie si avvertono meno quanto sono più perfette.

Ma a volta a volta gli occhi gli si posavano sul bel corpo della fanciulla, che pareva offrirgli nel sorriso di una parola la chiave di una rivelazione. Allora un desiderio alzava la testa fra molti dubbi, agitandosi in un guizzo di fiamma; ma la fanciulla aveva già abbassato gli occhi parlando ingenuamente con Jela, e il desiderio del conte si riaddormiva come uno svegliato innanzi tempo o per errore. Egli era un gentiluomo di modi squisiti, profondamente convinto della propria nobiltà, troppo ricco per avere mai lavorato, e troppo corto d'ingegno per essersi mai annoiato nell'ozio. Un tempo aveva amato le cacce e i cavalli, ma col cadere della gioventù anche queste passioni se ne erano andate, lasciandolo in una calma d'inerzia, che aveva come la voluttà di un riposo e gli dava nel mondo la superiorità di un uomo molto addentro nella vita. Allora non amava più nulla e non si ricordava d'altro.

Da qualche anno si ritirava lunghi tratti in campagna fra quei monti pieni di selvaggina, vivendovi da solo una vita da gran signore. Di donne vi si occupava più poco, come di lepri alle quali somigliavano fin troppo nella timidezza selvatica e nell'agro del sapore.

Possedeva quattro belle tenute e una figlia ancora più bella: aveva poco oltre quarant'anni, era solo, eppure non molto tenero di quella bambina, capolavoro della sua gioventù, più incantevole della mamma, perchè più sana e con altrettanta delicatezza. Gli piaceva, l'amava, le dava in dote le due più belle tenute, qualche cosa come due milioni, le permetteva qualunque capriccio, non l'aveva mai sgridata e non la sgriderebbe; era contento insomma di vederla bella e felice e che la fortuna le stendesse lungo la strada della vita i morbidi tappeti della ricchezza, ma non si chinava mai a respirare il profumo di quel fiorellino o a percuotere quella piccola anima, adorabile appunto perchè piccola, per trarne un suono, che fosse l'eco dei suoni della sua anima di uomo e di padre.

Era uno di quei fortunati, pei quali la vita non ha problemi, e ai quali una salute di ferro metallizzando l'egoismo, non si può dire che siano cattivi, perchè non possono nemmeno esser buoni. La robustezza della sua costituzione lo aveva salvato dalla cancrena de' vizi, l'abitudine della caccia e della vita campestre lo preservava dalle morbosità vanitose delle piccole cariche. Gran signore, che sentiva parlare volentieri del medio evo, coll'istinto della prepotenza impedito dalla indolenza del carattere, aveva una muta ed educata ironia per le manìe progressiste e le borie democratiche del proprio tempo. Non era nè religioso nè empio, o più italiano che straniero; accettava egualmente la repubblica e la monarchia, ma era ancora un gran signore, nel quale la grandezza, diventata natura, pareva semplice e l'ozio meritato da servigi inconoscibili. E Jela, gracile pianta alimentata dal succo della madre sul terreno paterno, ne risentiva l'aridezza, affrettandosi ad esaurire tutta la propria vitalità in una festa mattinale di bottoni e di fiori.

Ida, che avendo compreso subito il conte non vi aveva fatto nessun calcolo, al vederlo entrare in biblioteca ne fu piuttosto meravigliata.

Il conte era sempre in piedi, colle mani appoggiate al tavolone, gustando la buona impressione, che gli faceva la maestra quel mattino, abbandonata sopra un braccio della vecchia poltrona di cuoio a spalliera dritta, alta come una cattedra.

—Come potete mai passare tante ore in questo tetro camerone, sempre sola?

—Forse che in due sarebbe più facile?

—Forse.

—Allora provi. Jela avrà troppo da fare colla toeletta e non verrà a cercarmi che fra due ore.

—Non sono uomo di studio,—replicò col suo tono leggiero, cercando cogli occhi una seggiola.

—Piccolo guaio! in due non studiano che i ragazzi preparandosi all'esame.

—Ma è dunque un invito!

—A che cosa, signor conte?—ribattè con un sorriso così fine, che egli comprese d'aver a fronte una donna, contro la quale le sorprese non erano possibili, e colla quale la commedia avrebbe dovuto essere di una grande perfezione. Si fermò, poi avvolgendola in un'occhiata di gentiluomo uso a comprare le donne e i cavalli, la squadrò, l'ammirò e ridivenne l'uomo amabile del salone, che ha sempre una spiegazione per ogni audacia e una ritirata per ogni sconfitta.

—È un invito per una trottata. Mentre Jela aspetta, noi che non abbiamo nulla d'aspettare andremo loro incontro. Oggi è una stupenda giornata.

—Ma così interromperò la Filosofia dell'amore.

—Sarà forse meglio per entrambi...—e fece sorridendo una sospensione,—che non possono andare uniti.

Ida si levò accettando l'invito con atto grazioso ed uscì dalla biblioteca, mentre il conte scendeva lo scalone agitando il frustino in una maniera, che per lui indicava molto buon umore. Fe' sellare il suo cavallo favorito, bel sauro dalle forme pesanti ma di una rara eleganza, gli mutò egli stesso la testiera di cuoio in un'altra di seta, costume mezzo orientale e mezzo di fantasia, esaminò coll'occhio dell'intelligente la bardatura di Febo, ed attese la fanciulla nel mezzo del cortile schioccando il frustone, intanto che i cavalli saltavano come per strapparsi alle mani degli stallieri.

—Febo!—esclamò Ida arrivando colla lunga veste sul braccio, che le si vedevano gli stivali di pelle lucida. Il cavallo si volse nitrendo.

Il conte gettò il frustone e le si appressò.

—Febo, Febo!—ripeteva la fanciulla, accarezzando il collo del vivace animale:—Ha lo stesso nome ed è bello come il sole.

—Avete dunque una vera passione per i cavalli?

—Anche.

Il conte piegò un ginocchio; ella si lasciò prendere con tale atto di sapiente civetteria, che persino gli stallieri se ne accorsero. Quindi egli la sollevò fra le braccia, lambendole quasi colla fronte il seno sotto al suo viso pallido, che lo dominava con una moina inimitabile, dall'alto, senza una preoccupazione del cavallo.

—Ida!—s'intese chiamare Jela da una finestra del primo piano:—senza dire nulla... mi rubi papà.

Questo scherzo innocente capitava così a proposito, che il conte sentì dietro le spalle fremere gli stallieri. Si slanciò sul suo sauro.

—Ida!—tornò a chiamare la fanciulla più forte, mentre l'altra si era voltata a vedere il conte inforcare il proprio cavallo impennatosi appena libero dal cocchiere. Vi fu una lotta, ma il conte perfetto cavallerizzo la vinse e, spingendosi innanzi ad Ida con tre salti, fe' un cenno alla figlia. Ida gli cacciò dietro Febo di un balzo temerario, e salutò Jela col frustino.

All'uscire dal portone i due cavalli già quieti caracollavano col collo arcuato e il passo sospeso. Il conte era fermo in sella come una statua, Ida invece acconsentiva ad ogni moto di Febo colla più graziosa morbidezza di flessioni.

—Cavalca pur bene!—esclamò Jela dalla finestra.

Ma la vecchia cameriera, che la spiava accigliata, mormorò:

—Gli vanno incontro... anche lei!

—Davvero!—gridò Jela tornando a guardarli, che erano già sulla cancellata. Il conte si ritraeva per lasciarla passare, e Ida innanzi gli si rivolgeva scherzando col frustino nel fiocco nero sulla fronte del suo sauro, con uno scorcio, che anche da lontano era di una audace bellezza.

—Civetta!—balbettò la Nencia, togliendosi dalla finestra.

Jela rimase impensierita.

Dopo circa due ore una elegante victoria entrava con un forte tintinnìo di sonagli il gran cancello del palazzo, seguita da Ida e dal conte sui cavalli bianchi di schiuma. Tutti i servitori erano accorsi, ma il duca, gettandosi prestamente dal predellino, volle aiutare la fanciulla a discendere, e le offerse il braccio per lo scalone.

In cima Jela, che fingeva di accorrere incontro al padre, si fermò percossa sulla soglia del proprio appartamento.

—Jela!—esclamò gaiamente il vecchio duca, chiamandola con un gesto:—sei proprio decisa a non darmi più un bacio?

La fanciulla, che aveva già guardato il conte Alidosi, rossa come una rosa corse allo zio per nascondergli il proprio turbamento sul petto. Egli le cinse col braccio libero la testa e, sfiorandogliela colle labbra, le presentò l'amico, così quasi nascosto, mentre ella tentava un piccolo inchino comico abbassando gli occhi. Poi entrarono nel salone. Allora il duca scherzò con Jela, disse qualche amabilità a Ida, intanto che il conte Alidosi s'insinuava elegantemente nella conversazione, mescendo la propria voce quasi femminile al concerto di quelle due voci tremule ed armoniose. Ma nonostante l'abilità degli attori la scena languiva, Jela non trovava più che dei monosillabi, l'altro con tutta l'apparenza di un giovane perfettamente alla moda, poco uso a simili convegni, perdeva la prima spigliatezza.

—È un tipo dunque?—rispondeva il duca al conte, sbirciando Ida.—Mi pare interessante. E tu?—seguì con fatuo sorriso di corruttela.

Il conte Alberto alzò le spalle.

—Troppo difficile...

—Bah!

E il duca si appressò galantemente per ripeterle un complimento sulla sua abilità di cavallerizza e il buon gusto della sua amazone.

—Ida veste sempre di nero,—disse Jela, che si sentiva opprimere dal silenzio del bel forastiere.

—Come Mazzini,—questi interloquì ironicamente, alludendo alla morte recentissima del grande rivoluzionario.

—Mazzini portava il lutto della patria, che non aveva,—ribattè Jela.

—E che poi creò?—seguì il duca sul tono dell'Alidosi.

—Forse no, perchè vestì di nero fino alla morte. Il conte Alberto, fiutando una lotta, si era avvicinato, ma a questa risposta più scettica delle loro domande sorrise. Poi Jela dovette mettersi al piano con dietro il conte Enrico, che le voltava le pagine, chinandosele tratto tratto a guardarla sulla fronte con un garbo più cortese che galante, mentre ella tanto sicura delle proprie dita se le sentiva tremare sui tasti e le note le svolazzavano intorno alle orecchie come tanti frantumi di un secreto spezzato.

—Non è forse un bel gruppo?—rispondeva Ida al duca, che le domandava perchè li guardasse tanto. Ma in quel punto Jela agli estremi chiamò Ida, perchè suonasse ella pure, denunciandola allo zio come una principiante portentosa.

—Una volta era anch'io un principiante mostruoso, per fortuna sono rimasto sempre tale.

—Allora suoneremo un pezzo a quattro mani.

—Così le mani possono sbagliare più facilmente.

—Gli è per questo che il signor duca ricusa?

—Oh!—rispose, offrendole il braccio e sedendosele accanto al piano.—Mettiti laggiù, Jela: certa musica ha bisogno di prospettiva. Che cosa suoniamo, signorina?

—Per me è tutt'uno, non so nessun pezzo.

—Allora suoniamo senza musica.

—Sia.

Disposero le dita, poi si guardarono ridendo. Pareva si conoscessero da lungo tempo.

—Zio, aspetto,—disse Jela.

—Eccomi,—ed alzandosi porse la mano a Ida.

—Permettete: oggi si sono incontrati, domani si scontreranno.

—Un duello sulla tastiera?

—Un duello.

—All'ultimo sangue?

—Con una donna... val meglio il primo.

Ida dissimulò la lubrica impertinenza dello scherzo susurrato a bassa voce e, chinando il capo quasi ad un complimento, mutò discorso. Quella giornata passò rapidamente. Il conte Alberto, che conosceva intimamente l'Alidosi, non fece cerimonie e si ritirò. Lo zio propose una passeggiata pel bosco, la magnificenza della villa. Jela era al braccio di Enrico, Ida a quello del duca, ma intanto che la coppia dei fidanzati s'impacciava ogni tanto nel silenzio, egli già tutto allegro di essere il corruttore di una civettuola, doveva tratto tratto indietreggiare ad una risposta, che gli si accendeva dinanzi come un razzo. Naturalmente il duca parlava di donne, di Parigi, donde arrivava da poco, delle grandi signore, della vita facile; se non che provandosi a trascinare il dialogo troppo in basso, la fanciulla, che aveva ascoltato sino allora ridendo, dava una forte strappata, e risaliva anche più in alto.

—È proprio un tipo!—egli ripeteva, colto nel fascino di quella originalità.

Ma cicaleggiando Ida l'interrogò a più riprese sul conte Alidosi. Girarono lungamente pel bosco tutto imbalsamato di viole; quindi il duca parlò della Patti a Parigi nella parte di Violetta, la Dame aux Camélias; aveva pure conosciuto Dumas in un salone.

—Ma Violette non ne ho mai trovato, non ne esistono.

—È una fortuna: sarebbero le donne più ridicole della nostra civiltà.

—Una donna, che muore d'amore, è ridicola?

—Forse, ma l'amore di Margherita era ridicolo con tutti quegli scrupoli sentimentali e quelle timidezze borghesi. Una donna, che muore, non si lascia rapire l'amante. E perchè? per una sorella di lui, che non conosce nemmeno. La passione è egoista come tutti i forti.

—Ecco un'opinione singolare.

Ida gli gittò un'occhiata di superiorità.

—Singolare!—riprese, come tenendo a quell'oggetto di conversazione.

—Quali sono dunque le donne forti?

—Quelle che si fanno amare.

—Non amando?

—Fors'anco.

—Ed avete detto questo con Jela?

—Jela è una bambina.

Quindi discorsero del bosco, della vita campestre, del mondo, che Ida non conosceva se non per fantasia, e del quale il duca era un indigeno. Ida ascoltava a quattro orecchie, sollevando il cortinaggio di ogni parola per scoprirvi sotto un secreto. Si accorgeva della strambezza della loro conversazione, specialmente per lei damigella di compagnia e non già la sorella di Jela agli occhi del mondo; ma esasperata dal lungo attendere della sua vita, si avventava nella battaglia, considerando il duca come un araldo, che il mondo le mandasse colla sfida.

Aveva un'urgenza febbrile di torsi la maschera e, aprendo gli scrigni del proprio spirito, gettarne a pugni le perle nel viso della gente. D'altronde Jela non l'abbandonava ella pure? Al braccio di Enrico, leggera, sospesa come una sciarpa, il viso in alto, ella non pensava più certo all'amica, trascinata da quel cavaliere ancora incognito verso il mondo lontano, al quale Ida era condannata a non avvicinarsi mai, e dal quale rivolgendosi a un ricordo improvviso e passeggero Jela avrebbe appena potuto travederla. Questo pensiero l'attristò.

—A che pensate?—le disse il duca in francese arrestandosi, mentre ella camminava a testa china.

Ida sollevò la fronte e, vedendo i due fidanzati che retrocedevano loro incontro, biondi e leggeri sotto quelle volte massicce di verdura, s'incantò, quasi non avesse udita la domanda. Il suo sguardo, urtandosi in quella coppia, si divise su Jela e sul conte e li sentì entrambi così simili, che dovette indietreggiare per meglio comprenderli; ma la gracile eleganza di Enrico le parve allora come la forza della delicatezza di Jela. Si distinguevano più alle vesti che alla figura, se non che egli, più alto, la dominava colla fronte bianca come quella di Jela. Quindi ricordandosi su nel salone il suo primo sguardo frizzante di ironia come un zaffiro di azzurro, vi sentì tutta una fisonomia di perversità adorabile e di stupenda ambiguità.

—Pensavo,—fe' scuotendosi,—ad un difficile problema: Jela due ore fa non amava.

—Adesso credete che ami?

—Sono sicura del fatto, ma non giungo a comprenderlo. Sapreste aiutarmi voi, signor duca, voi che sapete la vita?

—V'interessano dunque molto i casi dell'amore?

—Molto! curiosità di viaggiatore che domanda, vedendola, il nome di una pianta a lui sconosciuta.

Ma il duca, che non si era mai proposto simili quesiti, non potendo trovarne subito la soluzione, ebbe lo spirito di non cercarla.

—E così?—gli chiese il conte Alberto, quando furono di ritorno per il pranzo.

—Aspetta: ti dirò domani mattina la mia opinione.

—La notte porta consiglio.

—Mio caro, questa volta per aiutarmi davvero dovrebbe portarmi la ragazza.

Il pranzo fu allegro. Ida non era mai stata più nobile e più spiritosa. Alla galanteria piena di spirito, colla quale trattava gli ospiti, si sarebbe quasi detta la padrona di casa, così non dimenticava un sorriso e non lasciava cadere una frase. Il duca di Rivola e il conte Alidosi, sebbene arrivati da poco, s'accorgevano già della novità; mentre Jela, dimenticata nel fondo di quella brillante conversazione, spiava prima curiosa, poi indispettita, l'amica, che le rubava persino l'attenzione di Enrico, rivelandosi in una insolita bellezza quasi prestigiosa come una nudità.

Quindi dalla sala da pranzo passarono nel salone, si fece ancora un po' di musica, Jela cantò una romanza di Gluck, fresca di una primavera immortale, si rise, vi fu ancora una discussione, dalla quale Ida uscì trionfante, e la compagnia si sciolse. Le fanciulle si ritirarono prime. Jela era imbronciata. Traversarono l'appartamento di Ida, e l'altra passava già nel proprio, che non si erano ancora detta una parola.

—Jela!

Ella si volse.

—Ma te lo dirà, non dubitare.

—Quando?

—Forse posdomani, forse pure domani.

Un rossore di fiamma le tinse la fronte, Ida aperse le braccia e Jela vi si precipitò con un groppo di singhiozzi alla gola. Stettero abbracciate. Jela le baciava il collo, ma nel calore di quel bacio il groppo dei singhiozzi le si sciolse in una risata.

—È bello!

—Tu non dovresti accorgertene. Gli uomini lo diranno brutto.

—E le donne?

—Lo ripeteranno.

Jela si grattò la testina.

—Ma ne parleremo: adesso va' a letto, e non aprire la finestra.

—La sua è di contro,—esclamò sorridendo.

Ida ebbe un sorriso di sprezzo a quella furberia della Nencia di mettere i fidanzati in faccia per farli più presto innamorare, guardandosi la notte nel chiaro mistero della luna; accompagnò Jela fino nel salottino e dandole un bacio ritornò nella propria camera. Ma invece di coricarsi entrò in biblioteca.

L'indomani passò senza nota. I due ospiti, partiti di buon mattino per una partita di caccia, non ritornarono che a vespro carichi di lepri e di fango. Jela era malinconica, Ida tornata all'ordinaria indifferenza per tenere in iscacco il duca, che affettava una certa noncuranza di galante già inoltrato. Ma Jela, incapace di capire un simile gioco, coll'anima piena del nuovo sentimento, si avviluppava nelle odorose mestizie del romanticismo, rifabbricandosi nella testina i lirici mondi di tutti i primi amori. Il conte Enrico le pareva tanto bello, che l'avea sempre amato; e questa sola parola era un oceano, nel quale navigava perdendosi per tutta la lene vastità delle acque sino alle vaporose incertezze dell'orizzonte. Era felice e soffriva. Con tutta la sua malizia di educanda, il pensiero di essere un giorno o una notte sola con Enrico in una camera, le sconcertava perfino i desiderii, mentre non avrebbe osato per cosa al mondo confessargli nemmeno la propria passione. Però si lusingava di essere compresa e che egli parlerebbe per il primo. Non glielo aveva assicurato anche Ida? Ida, ecco chi era disimpacciata. Ella ne provava quasi un rancore.

Quella inferiorità di spirito alla presenza dell'uomo adorato (e la fanciulla credeva già di adorarlo) in un circolo formato unicamente per lei, giacchè nè lo zio nè il conte erano certamente venuti al castello per altri, la umiliava troppo nella vanità, perchè istintivamente non si cercasse attorno una rivincita. Per la prima volta, pensando all'amica si accorse di essere contessa e milionaria. Fu una rivelazione, ne gioì, poi se ne afflisse. Infine se Ida aveva ingegno, aveva anche bisogno di averne! Quindi ricordandosi una per una tutte le pungenti osservazioni della Nencia, le parve di comprenderle solamente allora; ma poi non volle pensarci altrimenti, e presa da una più dolce mestizia, perdonò a Ida lo splendore della intelligenza, promettendosi di esserle sempre, per tutta la vita, l'amica più devota.

Questa vittoria la calmò. Le parve di essere tanto buona, che ne trasse la sicurezza di essere amata. Si era ritirata nel gabinetto lilla e vi aveva abbassato tutte le tende, sedendosi sopra una poltrona da un'ora colla persuasione di non essere già più la Jela degli altri giorni, ma così cangiata, che tutti se ne dovevano accorgere della povera Jela, la quale amava ed era tanto infelice. Per fortuna Ida stette chiusa tutta il giorno nella biblioteca, non comparendo nemmeno a colazione, giacchè avrebbe indubbiamente sorriso di quella idilliaca disperazione e l'altra se ne sarebbe adontata, ritornando alle cattiverie del sapersi contessa.

Ma Ida dal canto proprio aveva ricevuto dal duca una rivelazione del mondo reale, vedendo risolversi in fumo tutti i vecchi disegni. Quell'uomo, che parlava con tanta facilità delle donne, doveva dar loro ben poca importanza in quella abitudine di trovarsele sempre fra i piedi, offrentisi per un tozzo di pane o per un braccio di velluto. Ella, così superba di un'eccezione, e talora inorgogliendosene come di un'aristocrazia, si avvide di essere nella regola e che migliaia e migliaia di donne correvano la sua strada alla sua meta, scinte come le baccanti degli antichi bassorilievi, affaticandosi a spiccare con un gesto fra la moltitudine perchè qualcuno le chiamasse da un balcone, forse a dispetto delle dame oneste appoggiate col gomito sulla finestra a guardare nella strada con sprezzante curiosità.

Ma ella non aveva altra superiorità che la intellettuale, inadatta alla vita libertina moderna. Da molti secoli le Aspasie erano passate di moda e non si trovavano più Pericli per farle regine, o Socrati per divertirle immortalandole. Oggi l'arma più tremenda stava nell'eccentricità, impossibile senza una certa ricchezza. Invece le sue abitudini intellettuali la trascinavano quasi sempre a conversazioni troppo concettose per divertire persone di un dialogo leggero come la loro vita, ed esclusivamente sensibili alla finezza delle maniere. Quindi si accorgeva che le proprie conservavano ancora nell'acre profumo dell'originalità un piccolo sito triviale.

La sera fu amabile senza sforzo, suonò il pezzo a quattro mani col duca, tenendolo a distanza cogli scherzi, ma non potè malgrado ogni premeditazione permettere a Jela di brillare. Così passò anche il giorno seguente, e nell'altro avvenne il colloquio di Jela con Enrico. Questi, che lo aveva preparato di lunga mano, lo condusse secondo le vecchie regole dei romanzi, inebriando la fanciulla così, che appena potè corse nella camera di Ida, la cercò dappertutto, finchè scese nel bosco e se la vide venire incontro al braccio del duca. Allora raccontò tutto. Il duca l'ammonì sorridendo, ma lasciandosi strappare la promessa di trattare egli col conte Alberto.

—Ama ed è felice,—disse il duca con Ida dopo una pausa, mostrandole Jela, che si allontanava;—ecco una risposta alla vostra teoria dell'altro ieri.

—Ma sarà amata?

Questa fu l'ultima parola del loro dialogo. Il giorno seguente gli ospiti partirono, tre giorni dopo Jela sapeva dalla Nencia che era stata chiesta la sua mano e che il conte Alberto aveva dichiarato di rimettersi perfettamente al suo arbitrio. La fanciulla spiccò un salto.

Giù in cucina si parlò molto del matrimonio criticandolo, perchè il cocchiere sapeva sicuramente dell'Alidosi che era mezzo rovinato e si serviva del favore del signor duca per rimettere l'equipaggio con quella dote, non vergognandosi nemmeno di venire a fare all'amore in quello di un altro. I pareri oscillavano, ma Giovanni, innamorato come un babbo della padroncina, si lasciava sfuggire qualche bestemmia, sintomo di una profonda collera.

—Si vede bene che è un pitocco: non sa nemmeno cavalcare! Le ginocchia gli ballano sulla sella, non stringe.

—Abitudine!—lo interruppe con un ghigno il cocchiere:—le donne...

—Le donne?—ripetè Giovanni, percotendosi gli stivali coll'inseparabile frustino.

—Donne e cavalli, tutta la differenza è nella sella: sarà avvezzo senza, ecco perchè non stringe.

Il cocchiere superbo del frizzo diè in un'enorme risata, alla quale tutti fecero coro con un fracasso così schietto, che Giovanni rosso dal dispetto non seppe trovare una risposta. Ma quando l'ilarità fu calmata:

—Sai chi gli darei io a quel biondino, che ha paura?—rispose colla sua tagliente serietà:—Gli darei la signorina Ida. T'assicuro che te lo farebbe ballare sul pomo del frustino; ma Jela!—egli solo ardiva chiamarla per nome.—Già i biondi sono tutti vigliacchi, ne ho conosciuti tanti, e i vigliacchi sono tutti cattivi.

Il cocchiere, che era biondo, si morse le labbra, ma non ardì rispondere a Giovanni, secco come il ferro e fermo altrettanto; gli altri ghignarono ed il vecchio cavallerizzo uscì. Per le scale s'incontrò colla Nencia.

Una volta si diceva che s'erano voluti bene.

—Jela è proprio contenta?—le domandò con voce strozzata.

La Nencia trovò così strano il dubbio, che alzò le spalle in aria di compassione.

—Allora poi...

Ma Jela non fu contenta che otto giorni dopo.

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III.

Finalmente il duca di Rivola e il conte Alidosi tornarono che il matrimonio era già conchiuso, sebbene il cocchiere non si fosse punto ingannato sulla cattiva fortuna del conte. Ma era un capriccio del vecchio duca di favorire l'elegante dissoluto, rovinatosi in appena tre anni con molte perdite al giuoco ed un ultimo viaggio a Parigi. Proponendogli la ricca nipote, gli aveva anche promesso la propria eredità, per un giorno il più possibilmente remoto, come all'unico figlio di suo fratello già morto e suo erede legittimo, perchè egli non era zio di Jela se non per avere sposata la sorella del conte Alberto. Questi, felice di sgravarsi su qualcuno della propria responsabilità, avea acconsentito, ponendo per sola condizione l'assenso spontaneo di Jela; e la condizione essendosi avverata con una prontezza quasi miracolosa, non restava più che fissare il tempo delle nozze. La dote consisteva in due ricche tenute, delle quali una cadrebbe sotto l'autorità maritale e l'altra rimarrebbe per l'indipendenza dei capricci di Jela; così il conte Alidosi, giovane di appena venticinque anni, sposava la contessa di Valdiffusa, e siccome erano entrambi ricchi, belli e nobili, il loro matrimonio sarebbe dei più felici. Se non lo si pensava da tutti, almeno lo si diceva.

Ma Ida s'irritava di questa concordia di giudizi. Quella felicità, troppo insipida per il suo spirito, le pareva nullameno troppo grande per gente, che univa la nullità presuntuosa del padrone alla nullità bassa del servo. Il loro sorriso aveva per lei la mordacità di un ghigno dissimulato, e la loro calma come l'insolenza di una impunità secolare. Talora, mentre il cuore le si gonfiava di tutte le umiliazioni passate e presenti, avrebbe voluto irrompere ferocemente sovr'essi e disperderli, come aveva fatto Hugo nell' Olimpio colla ringhiosa mediocrità dei critici, in una lirica escandescenza di paradossi e di verità; ma invece le si riaprivano inutilmente tutte le piaghe e, nello sforzo di un singhiozzo, le pareva di sentirsi, come un tisico, la nausea del sangue un istante prima dello sbocco.

Ma Jela soprattutto le faceva male. Jela aveva tutto, era bella, era ricca, era giovane, era buona, era contessa, era amata, era stupida, la maggiore delle felicità. Perchè? Perchè questa differenza? Chi gettava dunque le corone di regina sulla testa delle pupattole per avvoltolare in un fazzoletto di cotone le fronti capaci di dominare le tempeste? E l'orgoglio le si drizzava nell'anima come un ferito, che l'odio, un altro ferito, destava sopra il campo di una sconfitta; si guardavano attorno nella luce mortuale del vespero e, piantandosi gli occhi negli occhi, gittavano fra un rantolo di sangue l'ultima delirante bestemmia dei vinti.

Ma la fanciulla si trovava pur sempre nel circolo di quei felici, accoltavi da una carità tanto più dolorosa che drammaticamente era bella al giudizio del mondo e dei domestici, i primi a giudicarsi suoi eguali in quel palazzo; quindi ritraendosi le saette dagli occhi doveva spesso rispondere con un compiacente sorriso alle loro più odiose pretensioni. Se Jela fosse stata brutta e perversa, le avrebbe perdonato; ma sentirla ammirata da tutti per il suo affetto alla sorella di latte, e doverlo riconoscere ella stessa, era il supremo di ogni spasimo. Nella frenesia di conquistare l'impero della propria forte natura su quella fragile bambola, magari frantumandola, perchè sarebbe stato ancora il miglior modo di conquistarlo, avrebbe rinunziato alle speranze più audaci; ed ecco invece che ella sposava il conte Alidosi, un uomo bello di quella ambigua bellezza, cara ai sogni pagani della sua giovinezza, quando scriveva il Nerone.

Ida lo avea spogliato venti volte collo sguardo.

—È bello!—si era detto,—un giocattolo per una imperatrice.

Una volta, punta da un sarcasmo, gli aveva risposto:

—La bellezza non ispira che il desiderio; bisogna essere grandi per ispirare una passione.

—Ispirare un desiderio è già essere più grandi di chi l'accoglie, perchè si può sempre rifiutarvisi.

—Sempre?!—avea ribattuto, portando ironicamente gli sguardi su Jela.

Però, caso o attrazione misteriosa, accostandosi nel dialogo si urtavano. Spesso gli sguardi della fanciulla si obliavano sopra di lui, seduto presso la fidanzata, avviluppandolo come di una grande fiamma voluttuosa, sebbene l'Alidosi fosse il primo giovane signore che l'umiliava. Infatti Ida non era per lui che la prima cameriera di Jela, e brutta per giunta. Ella lo sapeva, e nel pensiero di questo ingiusto giudizio rispondeva al duca, sempre occupato a farle la corte:

—No.

—Non si nasce sempre belli, ma si può diventarlo, almeno noi donne. Avete letto Mommsen, signor duca, nel ritratto di Giulio Cesare? La regolarità, egli dice, non è la bellezza, ma solamente l'assenza del difetto. Vi è tutta un'estetica in queste parole.

—Probabilmente!

—Togliete dai saloni quelle due o tre dame, che vi regnano; gettatele in una famiglia borghese, lasciatevele tanto che ne prendano le maniere, e nessuno di coloro, che sono pronti a fare delle pazzie per la gran dama, si volterà vedendola borghese passare per strada. Si può essere belli essendo brutti.

—Un bisticcio.

—Che voi avete troppo spirito per non comprendere, e forse troppa esperienza per non aver provato.

E la fanciulla guardò fuori dalla finestra. La luna usciva allora da un crocchio di nuvole, illuminandole di uno sprazzo di chiarore.

—Stimate dunque molto la mia esperienza,—egli disse, spingendo il capo dalla finestra per appressarlo a quello della fanciulla.

—Non direte già che avrei torto. L'esperienza impedisce tante follie!

—Quali?—chiese ferito dalla punta del sarcasmo.

—D'innamorarsi, per esempio.

—Solamente?

—O pretendere d'innamorare.

—Sentiamo: se mi innamorassi?

—Di chi? Vedete, v'imbarazzate per trovare una persona da decorare con un'ipotesi.

—Ebbene: supponiamo dunque, mi permettete? di voi.

Ella si voltò lentamente, e squadrandolo con una freddezza altrettanto insolente e nullameno carezzevole, tacque. In quel momento la luna, che la incorniciava nel pallore dei propri raggi, parve impallidire; il volto della fanciulla ebbe come un fulgore.

—Siete bella,—egli mormorò, dimenticandosi già del dialogo e sollevandosi verso quei grandi occhi.

—I complimenti sono come i fiori, signor duca, non bisogna ripeterli o odorarli troppo, perchè avvizziscono. Del resto so di poter essere bella: tutti al mondo lo possono colla mia teorica,—seguì smorzando il tono altero di quelle parole in un sibilo d'ironia,—non per tutti però. Ma quando si crede che solo gli scultori traggano dalla creta una bella donna, e voi forse signor duca... Ebbene,—lo interruppe:—quell'incognito conte G. della Dame aux Camélias, per citarvi un romanzo, che pare vi abbia divertito, il quale lanciò Margherita nel mondo, fu uno scultore.

—Di nuovo genere.

—Forse del migliore. Le statue di marmo durano, le statue di carne muoiono; la fragilità della propria opera deve aumentarne il prezzo e la passione.

Questa volta il duca fu scosso, e la conversazione languì. Secondo il solito egli finiva per imbrogliarsi con quella ragazza, alla quale nè la imprudenza di certi discorsi faceva alcun senso, nè egli poteva mai apparire favorevolmente sopra un terreno tutto proprio. Il duca, che non era veramente un uomo di spirito, aveva bisogno della superiorità nella lotta per non diventare uno sciocco.

Rimasero ancora alla finestra; Jela ed Enrico suonavano un valzer a quattro mani, mentre il conte Alberto, sdraiato sopra una poltrona, sfogliava un giornale di caccia ornato di stampe.

Ida, accorgendosi che quel silenzio opprimeva il duca, non volle romperlo, giacchè la passione nasce quasi sempre da un capriccio, e il capriccio da un momento d'imbarazzo presso una donna. Quindi si era appoggiata alla finestra, in una posa distratta ma di una sapiente provocazione, mentre il duca, per dissimulare la propria incertezza, fingeva di guardarle nella faccia con una attenzione incantata.

Ma, volendo pur trovare una risposta, non la trovò.

Ida si tolse adagio dalla finestra.

—Ci lasciate?—egli domandò, tanto per riafferrare il dialogo.

—Perdono,—seguitò:—la finestra della biblioteca risponde contro la mia, ed io, che stento ad addormentarmi, ci veggo ancora il lume tardissimo.

—Sono io.

—Studiate?

—Qualche volta.

—E quando non studiate?

Ella gli gettò un sorriso.

—Forse sogno.

—Non vi pare un luogo triste per sognare, una biblioteca?

—E chi vi dice che i miei sogni non siano tristi? Ma almeno in biblioteca si è liberi, la libertà della solitudine.

Il valzer era finito, ella volle ritirarsi.

Salì in biblioteca e sedette al tavolone. La notte era così tiepida, che aperse uno dei larghi finestroni. Ascoltò il rumore sommesso del bosco come un murmure di onde che si ripiegassero ad una scogliera, e vi trovò una strana rassomiglianza col sentimento, che la faceva ondeggiare in quel momento, senza sforzo, dentro un'altra ombra, in un silenzio, pel quale anche la memoria perdeva tutte le proprie voci. Una quiete tremula si spandeva sotto gli sguardi delle stelle raggruppate lassù quasi in una immobilità di bivacco, e per la campagna piena di sogni e di brividi giungeva sino alla fanciulla. Ascoltò il bisbiglio delle elci, osservò sul pavimento la trepidazione del raggio lunare, che pareva fremere al vento della finestra come un mantello caduto ad un fantasma invisibile, poi tutte quelle ombre, ondeggianti più cupamente agli angoli e sotto la volta della biblioteca, diedero al suo pensiero una fluttuazione anche più leggiera. Gli scaffali, prolungandosi nella tenebra, allineavano sui vecchi libri di cartapecora una fila di sorrisi cadaverici, mentre in un angolo il busto di un filosofo pareva drizzarsi in un'immobilità di evocazione e, in alto, sopra la porta, la cerea salma del crocifisso saliva per la notte con una ascensione miracolosa di apoteosi. La sua immaginazione vibrò; le sembrò di essere nel mezzo di un gran quadro, come un capolavoro di Gherardo delle Notti, di una bellezza universale e di un prestigio irresistibile. Era seduta sulla poltrona di cuoio, le gambe nascoste dentro il tavolone, il seno illuminato dalla palla a petrolio riparata da un cappello verde, che le lasciava la faccia come dentro un'ombra piena di trasparenze marine. Allora pensò al duca, quasi ad una conquista già stabilita. Era secco, vecchio, ritinto, affettato come un commediante, insolente come un giudice, ma con quella indefinibile e morbosa eleganza, che è ancora l'ultima fisonomia della nobiltà oligarchica di un tempo. Invano colle riottosità vanitose del libertino, che vorrebbe servirsi di tutto e poi riderne, egli cercava di resisterle e di impacciarla; Ida lo aveva già arretato, e senza librare oltre la decisione fatale, si abbandonava a questo nuovo senso di intimo appagamento. Aveva l'anima sospesa, i sensi vibranti. D'improvviso le parve intendere un rumore soffocato di passi alla porta; palpitò, ebbe un lampo.

—È lui!—esclamò in sè stessa, prima ancora che il battente girasse; e riabbassando gli occhi sul libro finse di studiare.

Il duca entrò bussando leggermente, senza candeliere; si fermò un istante sulla porta in punta di piedi.

—Oh!—fe' Ida, respingendo appena la poltrona e levandosi come nel timore di qualche grave notizia.

—Perdono... prego... sono venuto per un libro.

—Una ispirazione improvvisa! Temevo quasi di una disgrazia, così, al buio. Un libro! Quale, signor duca?—E scostando maggiormente la poltrona si mosse per venirgli incontro.

Un solo lume a petrolio sul tavolo illuminava lo stanzone. Il duca si guardò attorno, poi la guardò. La fanciulla finse di non comprendere quell'occhiata.

—Non lo so il suo titolo.

—Allora lo cerchi,—e ripassando dietro il tavolo si risedette tranquillamente.

—Non mi aiutereste?

—È troppo difficile: benchè abiti da due mesi la biblioteca, conosco poco gli scaffali, non sono nemmeno ordinati.

Il pretesto cadde e il duca si fermò; ma siccome aveva già disposto in testa la scena non si perdette.

Con una disinvoltura di gran gentiluomo si raddrizzò, compose il volto ad un sorriso e, insinuandosi fra il muro e la poltrona, venne ad appoggiare i gomiti al disopra della fronte di Ida, nella posa favorita dei galanti nei saloni.

—Ebbene?—ella chiese con voce velata.

—Mi negate il libro, datemi mezz'ora di conversazione.

—Parlate.

—Mi ascolterete?

—Certo, perchè non siete venuto se non per questo.

—Avete troppo spirito e...

La fanciulla attese la fine della frase col volto in alto, e la più amabile ironia sulle labbra; ma il duca, sul punto d'imbrogliarsi ancora, chiuse un istante gli occhi ed abbassò il capo.

Le sue parole passavano sui capelli della fanciulla.

—Siete bella.

—Grazie.

—Vorrei potervi io pure ringraziare. Che cosa vi pare di noi due in questo momento? Un pittore potrebbe comporre un quadretto di genere.

—Situazione vecchia, soggetto trito. Ho veduto in molte stampe scene come questa, e mi hanno sempre fatto ridere.

—Ridete ancora?

—No, aspetto, sono curiosa: l'altra stampa potrebbe far pensare. Per esempio supponete,—e la fanciulla non mutava la languida attitudine,—che in questo stesso momento il conte Alberto o il conte Enrico subissero la vostra ispirazione di un libro incognito, e salissero senza candeliere nella biblioteca. V'è da scommettere, che non trovando il libro, direbbero per rivincita di aver trovato il signor duca facendo all'amore colla signorina Ida.

Il duca aveva guardato involontariamente la porta.

—E sapete che cosa ne nascerebbe per me?

Egli fe' un gesto.

—Ebbene, signor duca,—esclamò con gaiezza,—allora aspetto: non dovete parlarmi, non avevate cominciato?

—Dicendovi che siete bella: volete che finisca?

Ella replicò con una smorfia, ma il duca, chinandosi quasi per mormorarle una parola all'orecchio, le lasciò cadere un bacio sulla fronte. La fanciulla non ebbe che un battito negli occhi.

—Ida,—egli susurrò, di già in ginocchioni presso il braccio sinistro della poltrona, alzando una mano per posargliela sulla fronte, ma si fermò. La fanciulla avea un tale fulgore negli occhi e una serenità così dura nella faccia, che pareva di marmo. Ne fremette, poi cedendo ancora alla eccitazione nervosa, le si allungò un'altra volta sino alla bocca socchiusa e vi gettò dentro la fiamma di questa parola:

—Vi amo.

Ida non si mosse.

—Vi amo, vi amo,—ripetè con un gesto, che le trasse un baleno dalle pupille.

—Voi?—rispose lentamente.

—Non mi credete?

—Spiegatevi.

All'urto di questa parola il duca vacillò, n'ebbe quasi un risveglio, poi l'incomodo di quella posa drammatica gli diè il dubbio improvviso di una ridicolezza. Istantaneamente avrebbe voluto ritrarsi, ma la reazione dell'urto lo risospinse verso la fanciulla. Ella aveva il corpo abbandonato, la testa ritta, la bocca semiaperta, che parea fremere di un immenso sforzo rattenuto. Il duca, che vi si era già curvato, fu attratto ancora. Una forza arcana sembrava premerlo contro quella poltrona e su quella donna, bianca in volto come un fantasma, e alla quale la notte pareva aver prestato tutto il romantico prestigio della propria oscurità, e il silenzio la vertigine de' suoi mille significati.

Una confusione di novità stravaganti gli salse alla testa; poi si voltò quasi per vedere chi lo urtasse. Le tenebre si erano ancora più infittite contro il cerchio raggiante, che il cappello del lume a petrolio segnava sul tavolo e nella volta, quasi alle estremità ineguali di un tronco di luce, sotto il quale quella donna si adagiava senza illuminarsene. Un senso di paura puerile lo spinse ancora verso di lei, ma dalla bruna indolente figura della fanciulla un'altra ombra si alzava, macchiata dal suo volto bianco di un lascivo pallore e, ventandogli sulla faccia, gliela inumidiva.

Il duca ebbe un gesto fremente, che il baluardo della poltrona trattenne.

—Ida!—susurrò ginocchioni, tentando di insinuarle un braccio dietro le reni.

—No.

—Che cosa vuoi?

—Che cosa avete da offrire?

—Domanda.

—Offrite.

—Domanda: sono pronto a tutto.

—No.

—Per Dio!—gli sfuggì,—sarà l'ultima follia, ma la più rumorosa.

—Voi?—ripetè colla lentezza opprimente di poco prima.

La Dame...—e credendo che la fortezza avesse abbassato la bandiera, gettò un oh! soffocato di vittoria; ma Ida staccò così fieramente la testa dalla spalliera, che lo arrestò a mezzo. Quindi si rivolse, e pigliando sul tavolo un libro aperto, senza nemmeno gittarvi gli occhi sulla pagina, lenta, quasi solenne in quel momento, glielo porse.

Il duca accettò senza interrogarla.

—Qui,—gli disse mutamente, indicandogli col dito il periodo.

« Si deux hommes s'avisaient de jouer tout leur avoir (supposez le même avec les mêmes risques), quel serait l'effet de cette convention? L'un ne ferait que doubler sa fortune et l'autre reduirait la sienne a zero: or quelle proportion y a-t-il entre le perte et le gain? La même que entre tout et rien; le gain de l'un n'est égal que à une somme assez modique et la perte de l'autre est numeriquement infinie et moralement si grande, que le travail de toute sa vie ne suffirait peut-être pas pour regagner son bien

Durante la lettura Ida non aveva nemmeno respirato; leggeva seco, leggendogli contemporaneamente negli occhi e nel cervello, ma la fronte del duca, prima leggermente contratta, si spianò illuminandosi di uno sbiadito sorriso.

—Eh!—domandò, guardando il titolo del libro: Physique sociale. Adolphe Quetelet.

Ida concentrò tutta l'energia dei propri occhi in un raggio, e scagliandoglielo sul volto come una scudisciata:

—Non credo che in biblioteca si trovi il vostro libro.

—Ida...

—Signor duca; sono oramai le due dopo mezzanotte: è forse la prima volta, che vegliate così tardi in una biblioteca, e i principianti non debbono commettere eccessi.

—Ma voi...

—Io non sono una principiante: studio da cinque o sei anni, e studierò finchè non mi accorga di non capire ciò che studio.

Egli si alzò ancora più stordito che confuso, giacchè si era spinto così ciecamente avanti, che non avea veduto e non poteva ancora riconoscere quale ostacolo gli sbarrasse il passo. Quindi rimase qualche secondo fissandola ingenuamente. Il sangue gli batteva tuttavia a grosse ondate il cuore, mentre la sensuale poesia di quella scena, rarefacendoglisi intorno, gli bagnava le radici dei capelli come dentro una nebbia mordace. D'improvviso volle scuotersi come da un triste sogno e, tendendo amabilmente la mano alla fanciulla, stava per mormorare un complimento, che ella interruppe.

—Troppo tardi!

—Come?

—Troppo presto!

—Ma non capisco.

Ella si adagiò più mollemente sulla poltrona e, guardando la porta colla irresistibile indifferenza di una sovrana, che tronca un ricevimento:

—Forse risponderete quando avrete capito.

Il duca fe' un atto inesprimibile di mille irritazioni in una sola, ristette e, riassumendo tutto il fascino di quella donna dalla sua ultima posa, disordinato, quasi grottesco, egli da tanti anni abituato a tutte le iattanze della galanteria e alle bravate della disinvoltura, uscì dalla biblioteca colle tenebre non meno dense agli occhi che al cuore. Ida non si mosse, ma appena fu sola si libò sulle labbra un sorriso e, stringendosi addosso tutta l'ombra di quello stanzone, parve voler farsene un velo, nel quale avvolgere il mistero di quella scena e tutta sè stessa.

Quella notte il duca dormì male, la mattina le mandò per il proprio cameriere di confidenza questo biglietto.

«Un giorno Puskin mandò all'Imperatore un volume delle proprie poesie con questa dedica: Opere di Puskin a Nicolò. L'Imperatore fece legare in marocchino molti boni di banca e glieli spedì: Opere di Nicolò a Puskin. Il poeta ebbe lo spirito di rispondere: Maestà, ho letto il primo volume, un capolavoro; aspetto il secondo.

Nicolò non trovò la risposta.

Io l'avrei trovata inviandogli la chiave del mio scrigno come la chiave della biblioteca.»

—Il duca mi ha detto d'aspettare la risposta,—le disse il cameriere colla dissimulata finezza di un uomo uso a simili incombenze.

Ida, che aveva letto indifferentemente quel biglietto, andò al tavolo e scrisse:

«Filippo di Macedonia si vantava di pigliare ogni fortezza nella quale potesse introdurre un asino carico d'oro; vanto di mediocre capitano, uso ad assaltare villaggi troppo poveri per scapitare in una resa».

Il duca, che attendeva la risposta facendo toeletta, ne fu dolorosamente punto. Quel giorno Ida non comparve che a pranzo e fu insensibile a tutte le sue allusioni, anche le più trasparenti. Dal proprio canto il duca sempre più irritato cominciava a smarrirsi, parendogli quasi un sogno di essere tanto trascorso con quella ragazza e che ella non se ne fosse offesa. Ma se da provetto conoscitore egli le aveva riconosciuta fino dal primo giorno la stoffa di una gran signora, capace ancora più d'ispirare follie che di commetterne, e si era incapricciato per la vanità di creare un ultimo scandaloso capolavoro, la fanciulla, che aveva troppa forza d'esperienza per cadere nel primo tranello, tratto tratto gli ricompariva ancora giovinetta, col fascino leggero della propria età e le provocazioni delle primizie.

Così le difficoltà, che avevano salvato il conte Alberto, finirono di perdere il duca. Egli non volle confessarsi inferiore ad una maestra, dopo essere stato battuto come uno scolaro. Questa amara parola gli era rimasta nella strozza e pareva soffocarlo, quando ella lo guardava placidamente senza abusare della vittoria.

—Dunque?—gli domandò il conte Alberto, sorprendendolo a contemplare la fanciulla, che si allontanava al braccio di Jela coll'Alidosi verso il bosco.

Il duca alzò una spalla colla più suprema indifferenza, ma il conte Alberto, che aveva saputo dalla Nencia la visita notturna in biblioteca e ne indovinava il risultato, ripetè il suo primo sorriso di sarcasmo.

Il duca corse sulle loro tracce per il bosco, ma Ida non c'era più. Raggiunse i fidanzati, passeggiarono per il gran viale; poi i due uomini, che s'intendevano a meraviglia, vollero ritornare.

Jela era triste, la sera passò male. Ida non scese dalla propria camera, Jela suonò, cantò inutilmente, mentre Enrico e il duca parlavano in un canto della maestra, la quale dopo il matrimonio della sorella di latte si troverebbe a mal partito.

—Cederà.

—Ne dubito,—ribatteva il duca, che, esagerando la iattanza col conte Alberto, esagerava la diffidenza con Enrico, un giovane, che poteva facilmente scavalcarlo:—tu non la conosci, è una di quelle donne alla Dumas, che calcolano sempre ed hanno troppa testa per avere molti sensi o abbastanza cuore.

—Ma se è quasi brutta!

—Tanto meglio.

Così passarono vari giorni, poi Enrico partì e non rimase che il duca, del quale il capriccio nascente era omai noto a tutti grazie alla Nencia. Ida durava la solita manovra e gli parlava spesso dell'Alidosi, del suo matrimonio con Jela, della felicità di quest'ultima sposando un uomo così raramente bello. E a poco a poco quella ammirazione della forma le si riscaldava suo malgrado nell'anima, con quella incessante preoccupazione di eccitare la voluttà negli altri.

Adesso la sua fantasia di poeta offriva tutto un carnevale di orgie al suo cuore di vergine e ai suoi sensi di donna; non desiderava più, chiedeva: non saliva alla lussuria, vi discendeva colla famelica ostinazione di una abitudine irritata dall'impotenza stessa. Era sempre la fanciulla dalle immaginazioni sultaniche, la quale voleva essere amata invece di amare, avere un uomo piuttosto che una passione, ma con un egoismo più cosciente ed una raffinatezza più corrotta. La sua lussuria aveva l'acrimonia dell'odio sotto tutta quella pompa di pensiero, ed era come il crocicchio di tutte le strade della sua anima, il vertice di tutta la sua vita. Ella, che non poteva essere un giorno se non per la lascivia, se n'era fatta come una mazza medievale dalle punte dentate; se non che, tenendola sempre in mano o fra le ginocchia, vi si pungeva soventi ella medesima.

Innamorare Enrico schiacciando Jela, suo padre, il duca di Rivola ed Enrico stesso, qual sogno!

Lo aveva fatto, poi lo aveva ripetuto.

c178

IV.

—Me lo dici il segreto?—ricominciò Jela pigliandogliene un lembo dalle ginocchia e mostrandoglielo:—perchè questi colori? Quando te la metti?

—Forse la tua ultima notte. Non ti parrebbe ben immaginata per quella scena?—seguitò con voce sardonica.—Tu vi sei dentro nuda, più bianca di questa fodera stessa e con una commozione sul viso, alla quale il nero della veste dà quasi il tragico pallore del sacrifizio. Vedi, deve appena combaciare sul seno come nella Femme Fellah di Landelle; basta scostarla un momento, ed appari nuda nella nudità del raso, con una verginità di due candori, una morbidezza di due nudità.

—Senza camicia.

Ida alzò le spalle.

—La fai dunque per me, di raso nero foderata di raso bianco?

—No.

—Non capisco.

—Domandane la spiegazione ad Enrico.

Jela diè in una risata, poi discese a cercare lo zio, che doveva partire; questi le chiese di Ida.

—È nel suo appartamento,—rispose la fanciulla, rattenendo un sorriso malizioso.

Ma il duca non osò salirvi, invece entrò in biblioteca. Il ricordo di quell'assalto fallito lo perseguitava tristamente.

Si sedette sulla poltrona, sentendovi con ironico piacere l'impronta della fanciulla, guardò poi sulla tavola il libro aperto ancora alla stessa pagina enigmatica. Ora la comprendeva troppo bene. Per un istante pensò che Ida se la tenesse sempre agli occhi per difendersi dalla sua seduzione, ed un lampo d'orgoglio illuminò il vespero del suo capriccio.

In quel punto la fanciulla, che lo aveva spiato da una finestruola sullo scalone, aperse la porta e, scorgendolo al proprio posto, fece un gesto di meraviglia.

Il duca la guardò con melanconia.

—Ero tornato per il mio libro.

Ida sorrise.

—L'avete trovato?

Il duca si fermò; il sorriso della fanciulla era così insolente, che gli cadde ogni idea di lotta, ma nel medesimo tempo ella gli apparve così provocante nello splendore della propria superiorità, che si sentì vinto per sempre.

Si ricordò in un attimo tutto il breve tempo della loro relazione, illuminato qua e là da una frase, da un frammento di scena, nella quale ella si rivelava sempre più voluttuosa, tirando indietro tutte le soluzioni e gettandogliele poi sul capo come una rete infrangibile. Era vinto, ma la sua sconfitta poteva cominciare dalla resa di lei.

—Ancora?—rispose Ida a un richiamo di quella notte.

—Non ebbi già la disgrazia di offendervi?

—No, signor duca, ma con queste parole mi offendereste un'altra volta, se io fossi una piccola borghese come le mie pari. Voi credete di non avermi offesa, perchè voi siete duca ed io sono povera... Vi è abbastanza orgoglio in questo pensiero e mi piace; ma io pure ho il mio orgoglio.

—Signorina, non crediate...

—Non credo a nulla,—ribattè con accento nervoso:—ho l'orgoglio di sentirmi al disopra della mia vita ed, essendomi ben compresa, di potervi dire: signor duca, vi siete ingannato, posso ben perdonarvi un errore.

E, pronunciando queste ultime parole, la sua voce sempre soave avvolgeva quel perdono in una carezza di armonia.

—Mi perdonate?—egli domandò più meravigliato che commosso.

—Perchè no? Del resto il vostro errore non è forse senza mia colpa. Mi avrete creduta una delle tante ragazze, che cominciano ad arrendersi nei discorsi per cedere più facilmente dopo; la vostra esperienza avrà rafforzato questo errore. Ma a certe altezze, come diceva Madama di Staël, è sempre possibile intendersi: io non sono una fanciulla volgare e voi siete davvero un gentiluomo, che ha una maniera per la donna e un'altra per la dama. Dal momento, che v'accorgeste dell'equivoco, mutaste la vostra corte...

E si arrestò.

Il duca, che sapeva di non aver mai cangiato d'opinione verso di lei, dubitò di un complimento o di un sarcasmo, ma per timore di quest'ultimo:

—Però non la cessai,—soggiunse.

—La cesserete. Quando si fa la corte si spera, quando si spera...

Egli attese, e siccome ella sembrava invece aspettare da lui il resto della frase:

—Si ama,—continuò.

—Voi!—disse con quella irritante lentezza.

—Se arrivassi a persuadervene?

—Lo crederei.

—Allora?!

—L'amore è luce, ma il fosforo ha una luce fredda.

—Il fosforo non è amore.

Ma il duca, che sentiva divagare la conversazione, tornò a costringerla nella possibilità di una passione fra loro; quindi imbaldanzito della buona piega del dialogo parlò di un ricordo, di un pegno di pace; e siccome Ida senza rispondervi accennava a ritirarsi:

—Non mi lascerete baciare la vostra mano? Sarà il perdono di quell'altro bacio.

—Mi avete baciata!—esclamò con una indifferenza così perfetta, che lo ferì al cuore. Poi la fanciulla si rivolse leggiera, andò verso uno scaffale in fondo, vi si rizzò sulle punte dei piedi per leggere il nome dell'opera; ma non era quella, e dovette cercarla ancora, movendosi con una grazia così superba, che il duca stette lì lì per farle un altro complimento. Finalmente la rinvenne: era un grosso volume, vecchio; se lo mise sotto un braccio e, portando la mano più basso, a caso, sopra un altro volume, si sporse repentinamente verso il duca.

—Ecco!—esclamò:—era questo il vostro libro? George Sand, Le dernier Amour.

Le dernier...

Mais amour?

—Sia!—gridò facendole un passo incontro; ma ella agitò la mano ad un gesto di addio, di provocazione, di ripulsa, e fuggì per la porta. Il duca l'inseguì come un fanciullo, ma potè appena vedere le sue sottane svoltare all'uscio dell'appartamento. Ida proseguì; appena nel salotto s'incontrò nella Nencia, che la cercava da parte di Jela. La vecchia notò quell'aria trionfante della fanciulla e si morse le labbra per frenare una malignità irriflessiva, che l'altra fu pronta a coglierle nella contrazione della bocca.

—La signorina vorrebbe scrivere una lettera da consegnare al signor duca, che parte. Aspetta giù nel salone: il signor duca parte fra poco.

—Ritornerà.

—Quando si è amati in una casa ci si ritorna.

—Non sempre, buona Nencia; ma quando si ama sì.

Jela era già seduta al tavolo colla fronte aggrottata e la penna nelle mani. Voleva scrivere una lettera ad Enrico, ma con tutti gli sforzi non era riuscita ad andare oltre l'esordio, un periodo veramente orribile. Aveva quasi pianto di rabbia, poi si era dovuta decidere a mandare per Ida. Questa, già abbastanza informata dalle parole della Nencia, sorrise a quella confessione di una lettera segreta, cui il duca faceva da corriere. Quindi rispose subito:

—Scrivi.

Jela, ammirata di quel facile talento d'improvvisazione, la guardava ansiosamente.

—Scrivi pure; sarà una bella lettera, degna di voi due:—e mentre Jela si accomodava meglio al tavolo, Ida cominciò a passeggiarle dietro per la stanza. Era diventata pallida; la voce le tremò nel pronunziare il nome di Enrico. Colla sua prontezza agli espedienti aveva già traveduto tutto il partito, che poteva trarre da quella lettera.

Enrico!

«Quando m'imponesti di scriverti, non avevi certo pensato che per me sarebbe stata la prima volta e mi troverei qui ora, al tavolo, senza saperne più nulla. Ti amo, lo sai: ma dopo non so più cosa dirti, non lo so, non lo so. Mi pare che tu sia qui a vedermi scrivere, sorridendo del mio imbarazzo, mentre quello stesso rossore, sul quale hai tanto scherzato, m'infiamma orribilmente la faccia. Mi vuoi veramente bene, Enrico? Vedi, io non reggo teco a cinque minuti di conversazione, sono una bambina, ma ti amo tanto che consentirei anche a diventare brutta, se per uno strano capriccio tu dovessi chiedermelo un giorno».

—No, no,—interruppe Jela:—sei pazza.

—Scrivi,—ribattè l'altra con accento nervoso.

«Se non potrai ritornare prima di sabato, te lo dico apertamente, sei ben cattivo. Ma non lo sai, Enrico, che ho bisogno di vederti, che penso troppo a te quando sei lontano, che il tuo pensiero mi diviene un tormento, che ti ho sempre agli occhi e l'anima mi si sfinisce nello spasimo soave di questa illusione? La notte ti sogno, il giorno è un'altra notte, che mi ti fa più bello. Suono sempre quel valtzer, che hai composto per me, e ne ripeto le note per lunghe ore, perchè mi pare di sentirti così sotto le mie dita».

A questo punto Ida, che passeggiava innanzi al tavolo di Jela, dominandola di tutta la persona, vide schiudersi piano piano la porta ed apparire guardingamente la bionda testa dell'Alidosi. Impallidì. Egli entrò sulle punte dei piedi, vestito di bianco, leggiero, come un'ombra, sorridendo di quella scena indovinata all'ultime parole della lettera, e della quale la Nencia eragli corsa incontro ad avvisarlo. Le fe' un cenno scherzoso di seguitare, guardandosi attorno per sedersi in un angolo. Ma Ida si rimise prontamente, gli rispose con una occhiata, poi chinandosi su Jela si fe' ripetere l'ultimo periodo, quasi ne avesse perduto il filo, e lo pronunciò con voce vibrata.

—È troppo,—arrischiò timidamente Jela.

—Per il tuo amore? Se lo ami meno, possiamo smorzare le frasi.

—Ma infine non mi ha ancora sposata! Se lo sapesse papà mi sgriderebbe.

—Scrivi, la straccerai poi.

E Ida perfettamente sicura ricominciò a passeggiare verso il conte. Una indefinibile umidità le appannava la levigatezza della fronte, mettendole sulle gote un pallore di emaciazione; gli si appressò, sempre cogli occhi negli occhi, e con un gesto quasi grave gli tese la mano. Egli meravigliato, commosso, gliela strinse, avvolgendosi involontariamente nella luce del suo sguardo. In quel momento ella gli si chinava sovra i capelli biondi, divisi femminilmente sulla fronte, curvandogliela con una terribilità di atto amoroso, cui il pericolo di quel silenzio e lo stesso lividore del volto davano una solennità quasi tragica.

Quindi ripetè, staccando ad una ad una le parole:

«Io non lo so perchè ti ami, ma ti amo dal primo giorno che ti ho veduto, ti amo ancora, ti amerò sempre, anche se tu non mi amassi o, per una orribile brutalità del destino, dovessimo separarci per sempre prima di esserci uniti eternamente. Mi somigli quasi: sei bello come una donna».

—Questa poi è una insolenza:—disse Jela senza voltarsi.

Ida, piegata sul volto di Enrico, lo divorava cogli occhi dilatati:

—Aspetta,—susurrò con accento convulso.

«Sei bello, ti amo, ti voglio...».

—Ti voglio,—ripetè con voce strozzata, ed avventandoglisi colla furia dell'aquila, gli si posò fremente, feroce, ferita, sulla bocca. Egli, preso da quel bacio, ebbe appena la forza di resistere all'urto; non capì. Gli parve che un unghione gli si piantasse nel cuore, che gli bruciassero le labbra. Chiuse gli occhi, li riaprì, e vide Ida rivolgersi bruscamente col viso stravolto e dare in una risata stridente.

—Oh!—esclamò Jela, che si voltava in quel punto, e rimase tutta meravigliata di vedere Enrico ancora per mano di Ida. Egli non si poteva rimettere, ma l'altra, ridendo sempre più naturalmente gli diè una scossa disperata, mentre ubbriaca dal soverchio riso andava ad abbattersi sopra una poltrona.

Allora anche Enrico sorrise.

—Ma,—disse Jela, che stentava a comprendere.

—Sono entrato di nascosto.

—Non lo direte con alcuno?—intervenne Ida con gaio spavento.

—Che! è un segreto.

Quindi Ida si levò, venne intorno a Jela, e ridendo le chiesero perdono dello scherzo.

—Senti, se non ci perdoni, guai a te! Lo dirò a mia zia, che ti aspetta su nel salone con papà, e siccome è la donna più noiosa del mondo... Signorina,—si rivolse a Ida,—anche questo è un segreto... Ti renderà la vita impossibile. Mio Dio! ho dovuto portarla meco, ma ci aiuteremo a lasciarla sempre sola. È la mia unica parente.

—E il duca?

—È mio zio, ma lo considero come un amico. Eccolo là!—esclamò vedendolo passare pel cortile.

E corse alla finestra.

—Non parto per oggi: dov'è Ida?—chiese questi a bassa voce.

—Qui: l'ami?

—Come un pazzo.

—Lo sei.

L'indomani la marchesa di Renzuno, ancora indispettita col conte Alberto, il quale aveva rifiutato ogni ragione perchè il matrimonio accadesse pomposamente in città colla esposizione del corredo, i ricevimenti, le feste, il corteo dei parenti, la folla curiosa (un trionfo per la famiglia ed una vera entrata nel mondo dal gran portone aperto a due battenti), colla sua consueta febbrilità cercò subito del curato. Voleva intendersi seco per la cerimonia, preparando una festa campestre; ma poi non era contenta, e tornava sulla sconvenienza di questo matrimonio di sotterfugio, quasi Jela non fosse la contessa di Valdiffusa e il conte Enrico non portasse uno dei nomi più belli della provincia. Se non che il conte Alberto, il quale si vedeva innanzi tutta la schiera delle noie e delle contrarietà mascherate di cortesie, già ristufo del mondo ed inchine per pigrizia alla misantropia, non si lasciava punto smuovere e cercava di placarla, confessandole ripetutamente il proprio torto. Il duca lo sosteneva per sollazzo, il conte Enrico affettava una grande passività, piena di rispetto affettuoso per il suocero e di amore per Jela, cui il frastuono vagheggiato dalla zia spauriva. Ma ella si arrabattava ancora. La sua attività, diventata proverbiale nel vasto circolo delle sue relazioni, non aveva requie. Purchè ci fosse una causa, nella quale aver ragione a furia di dare torto agli altri, il titolo non importava; ella vi dava dentro soffiando, anfanando, girando sempre su sè medesima, e parendole così di fare il giro del mondo.

—Mio Dio!—aveva esclamato il conte Alberto dopo un assalto:—la vita deve sembrarvi ben breve.

—Ma l'ozio è orribile.

—Forse v'ingannate,—ribattè colla sua felice indolenza, allungandosi sulla poltrona e seguendo con occhio distratto il fumo azzurrino del proprio sigaro.

—Anche l'ozio deve essere stato calunniato: il destino di tutti i grandi!

Ida sorrise di approvazione.

—Ma come si fa a stare in ozio, pensando sempre?

—Non si pensa: non è vero, signorina Ida, voi che pensate sempre?

La fanciulla ripetè col conte il suo fine sorriso, e la marchesa non potè frenare un gesto d'impazienza.

Quella mattina, benchè il sole fosse già alto, volle partire per la parrocchia. Sarebbe stata una passeggiata.

—Andiamo a cavallo?—sclamò Ida guardando il conte Enrico.

—L'invito è a piedi,—ripetè secco secco la marchesa, e si volse al duca, perchè egli pure fosse della partita. Questi rispose con un inchino e, passando vicino alla fanciulla:

—Fate presto,—le disse:—la marchesa ha sempre fretta.

—Suo marito ne aveva anche più, giacchè è vedova.

—Ah!—gridò il duca, frenando a stento una risatina, e corse dal conte Alberto a ridirgli il motto.

Ida salì al proprio appartamento, si acconciò un velo nero sui capelli e prese il frustino invece dell'ombrello. Per le scale s'incontrò con Jela; la marchesa aspettava già sul portone col duca ed Enrico. Era un grazioso mattino. Traversarono il vecchio bosco, umido di nuova vita, cogliendo qualche viola serotina, la marchesa al braccio del duca, e Jela a quello della marchesa, Ida innanzi con Enrico. Benchè lo scopo della passeggiata fosse lieto e il cielo sorridente, parevano tutti malcontenti. Parlavano poco. Jela, col pensiero alla chiesa del suo matrimonio, seguiva coll'occhio i passi di Enrico, il duca ascoltava senza intenderle le parole di quei due davanti, che parevano camminare senza il solito brio. Il viale fu interminabile.

Ma Ida, cui la profonda serietà del bosco premeva la voglia di una risoluzione, avventò la prima frase; il conte si spinse oltre col solito tono di frivolezza, e il loro dialogo già difficilissimo s'impigliò nell'orgoglio di entrambi.

—Vi preferisco così,—ella proruppe nervosamente ad un silenzio:—sono io, che vi tento.

—Mi tentate?

—Volete un'altra parola? vi amo; siete bello, leggero... oh!—fe' mordendosi le labbra per trattenere un aggettivo più insultante ed egualmente vero:—Jela, non può comprendervi, perchè vi somiglia troppo. Ci vuole un poeta e non una rosa per capire un narciso.

E le parole le tremavano talmente sulle labbra, che egli vi sentì quel bacio delirante nel salotto. Le strinse il braccio.

—Lo so,—disse poi.

Ella attese.

—Mi amate?—ella domandò alzando la fronte.

—Sì.

—Questo sì è breve come un amore di uomo, potrebbe rispondervi Shakespeare. Ho torto; non avrei mai dovuto giungere con voi sino a questo punto, ma la vostra debolezza è stata più forte della mia forza.

Egli si scosse, e Ida proseguì frettolosamente:

—È la prima volta che ci parliamo liberamente, potrebbe esser l'ultima. Vi amo, ve lo ripeto umiliandomi. Sono parole avvelenate le mie. Se mi amate, che pensate di me? Fra un mese sarete il marito di Jela e partirete. Io...—Ma la fanciulla, che gli studiava attentamente nel volto, strozzò un urlo di sdegno.

—È orribile!—mormorò disperatamente fra i denti.

Il conte, che non capì, le si curvò precipitosamente sulla faccia, ma, sentendosi dietro il passo del duca, per timore di essere sospettato allungò imprudentemente il proprio.

—Che avete?—chiese con premura.

—Nulla! Lo volete sapere?... Adesso, in questo momento, mentre vi domandavo... ebbene avete supposto che cercassi presso di voi, nella nuova casa, un posto di maestra, come lo sono ora per voi e per tutti presso Jela. Non lo negate, lo avete pensato, signor conte. Ma voi non siete più una donna adesso, siete un uomo, perchè bisogna essere un uomo coll'abitudine di tutti i mercati per credere che volessi vendermi così abbiettamente per una simile carica.

—V'ingannate,—balbettò confuso dal tono ardente di quelle parole e dalla penetrazione di quel pensiero:—vi assicuro sul mio onore di gentiluomo...

—Non mentite, lo avete pensato. Chissà se non abbiate ragione, stimandovi così poco da non potere ispirare ad una donna un amore al disopra di ogni riguardo, e capace di farle perdere tutto senza nemmeno una speranza.

Questa volta il conte si morse le labbra.

—Più piano,—gridò loro dietro il duca, impigliato negli sterpi del sentiero e nei discorsi della marchesa.

Si arrestarono l'una in faccia all'altro, ma non parlarono più. Il duca li raggiunse, poi salirono la boscosa costiera per una piccola calagna, che menava alla parrocchia. La marchesa, vestita di un ricco abito da città, si lagnava incessantemente dei pruni e del terreno così sdrucciolevole e disuguale, che ad ogni passo si correva rischio di cadere.

—La strada del paradiso è malagevole,—disse Ida all'orecchio di Jela, ma così che il conte intendesse. La fanciulla ebbe un divino sorriso e non rispose. Si era separata dalla marchesa e camminava tutta raccolta, parendole di spingersi con quella passeggiata sul terreno del matrimonio, un mondo arcano, lungi sulle sponde dell'avvenire quando lo guardava dall'inferriata del convento, ed ora tanto presso che vi approdava. Il cuore le si apriva a tutte le sensazioni dell'ignoto, e tutte le ascensioni, che la poesia vi aveva deposto, si alzavano con un fremito sonoro di ali. Si sentiva così buona, che non camminava più, trasvolava; una misteriosa leggerezza la sollevava come un vento e, respingendole i capelli della fronte, gliela arrovesciava con una deliziosa espressione di fantasticaggine.

Ida se ne accorse e strinse i denti.

—Mi odiate dunque?—chiese il conte Enrico, avvicinandosele ad un mal passo per offrirle il braccio.

—Non ancora.

Ma accettò il braccio e, poichè toccavano la volta del monte, affrettarono il passo. I cespugli, più radi e più piccoli, non presentavano quasi più resistenza, sparsi qua e là come dalla mano di un abile giardiniere sopra una spianata arsiccia, aperta nel mezzo da una larga chierica arenosa. Una infinità di sassolini bianchi la smaltavano di piccoli sorrisi tra mille fiocchetti di erba rugosa e rattratta come un avanzo d'incendio. Ida si mirò attorno; il paesaggio si spiegava in tutta la pompa della sua verde serenità.

—Come è bella!—esclamò, voltandosi alla chiesa celata capricciosamente fra cinque o sei elci secolari sulla cresta del monte, ma troppo indietro perchè dal palazzo la si vedesse.

—Un nido!

—D'amore?

—No, di ozio, senza pensare, senza sentire, guardando da lontano la vita. Avete letto i Lotofagi di Tennyson? la sua migliore poesia!

—No.

—Tanto meglio: Tennyson ha torto. Fra il naufrago sbattuto dalle onde e l'altro spossato ignudo sulla riva, è ancora più felice il primo del secondo.

Il conte capì quella mobilità; ma la marchesa e il duca arrivavano con Jela sulla spianata, e fu uno scambio di esclamazioni sulla bellezza del luogo, che si prestava ad una vignetta da album.

—Come sarebbe carina! Tu sai disegnare, Jela?—disse la marchesa.

—Io no, Ida.

—È troppo bella, la disegnerete.

—Con noi sulla cima, per rendere intelligibile il paesaggio.

—Perchè no?—rispose piccata la marchesa.

—E colla chiesa sull'altra vetta, per esprimere lo scopo della nostra presenza. Se la vorrai, Jela, te la disegnerò: sarà uno schizzo poetico, giacchè siamo in alto, presso l'ideale. Solamente,—seguitò guardando la marchesa e il duca,—ti converrà prendere il braccio del conte Enrico, perchè si conosca bene il gruppo dei fidanzati.

A questa insolenza detta col miglior garbo tutti risero, ma la marchesa potè appena frenarne il dispetto, e condensò tutta la propria risposta in una di quelle occhiate di alterigia, che le grandi dame e gli uomini superiori trovano così spesso e così terribilmente. Ida non volle accorgersene e si mosse la prima verso la chiesa.

Camminavano per una strada abbastanza comoda sul ciglione del monte, chiusa in fondo da un'alta croce di legno, un centinaio di passi prima della parrocchia. A piedi della croce sopra una pagina di ferro era incisa un'iscrizione.

—Che cos'è?—dimandò appressandosi il conte Enrico.

—Un invito a pregare,—rispose Ida,—per una ragazza che si suicidò abbracciata alla croce; l'amante l'aveva abbandonata.

—Ed ella abbandonò l'amante,—ribattè il duca col solito spirito:—la partita è pari.

Ma tutti si volsero.

—Ah!—esclamò il duca nello scorgere una grossa figura di donna, nascosta presso un'elce facendo dei segni precipitosi a qualcuno invisibile dietro un'alta siepe di bossolo:—ecco la Perpetua!—Ed aveva appena finito l'esclamazione, che si vide sgattaiolare con una vanga in mano, curvo della persona, scamiciato, un uomo nero e, rivolgendo bassamente la testa, fuggire ancora con più impeto.

—Lo avevi detto!—proruppe il duca con Jela:—il tuo don Natale scappa.

Allora affrettarono il passo, ed arrivarono prontamente sul sagrato. La chiesa e la canonica addossate in un piccolo prato verde, sotto l'ombra delle elci, parevano due novità infantili nella loro pallida tinta rosea. La chiesa ancora più piccina, inquadrata da una lista turchina, colla porta gialla e due finestrelle rotonde, guernite esteriormente di due inginocchiatoi di sasso, finiva in un delta di pietre azzurre dentate, che le ricamavano l'ombra sotto il tetto. Una croce di legno, piantata sopra uno scalino ed inchiodata nel muro a destra, difendeva la porta; il campanile arrivava appena alla forcata delle elci, ed era roseo anch'esso colle campane brune. Un piccione casalingo vi tubava in quel momento sulla crocetta di ferro, mentre un altro passeggiava sul tetto muschioso della canonica, alta di un piano e larga di tre finestre, per due delle quali si vedeva una camera rosea, listata di azzurro. E quell'uniforme soavità di colori sotto la severità delle elci, su quella cima, fra quella immensa verdura dei monti, aveva una grazia di capriccio impreveduto, una amabilità piena di ingenua pretensione. Di fianco l'orto ed il cimitero, uniti dalla medesima siepe di bosso, ambedue senza cancello, compivano il quadro con una finitezza di più, e si aiutavano scambievolmente per quella vita grassa delle loro vegetazioni.

A sinistra della porta un ramerino, pieno di occhietti azzurri, era salito sulla finestra verso un bel vaso di rose bianche.

La comitiva si fermò, guardandosi maravigliati di trovare la porta chiusa.

—Che non ci voglia ricevere?—disse il duca, cominciando a divertirsi.

La marchesa strinse le ciglia.

—Favorite di bussare,—ordinò ad Enrico.

—Oh!

E la porta si aperse immantinente, e la stessa figura di donna riapparve rossa in viso come un gambero, con un'altra veste nera, a pieghe sbuffanti sulle anche, e un largo velo bianco sulle spalle. Aveva certo preparato qualche parola, che le cadde mutamente dalla bocca; quindi rimase in mezzo, incantata sulla porta, chiudendola quasi ermeticamente colla grossezza dei fianchi.

—Il signor curato?...—incominciò la marchesa.

—Si accomodino, aspettino che apro quest'altra mezza porta: sissignori, è in casa, adesso viene, se non hanno fretta.

—Grazie.

—L'ho già avvisato, li abbiamo visti venire, li ho visti io; si accomodino, adesso glielo vado a dire; ecco, si mettano a sedere. Compatiranno, vado e vengo subito; se hanno un po' di pazienza...—e, malgrado la disinvoltura di tutte queste parole, stentava a riaprire l'uscio del salottino a fianco della porta, nel quale li aveva introdotti. Il salottino era una stanzetta bianca, coi travicelli fiorati. La marchesa, che si era già seduta sull'unico sofà di paglia, fu la prima a sorridere dei sopramobili ordinati scrupolosamente sopra un piccolo tavolo da muro. Una Madonna e un Pio IX, entro due cornicette dorate, vi occhieggiavano fra molte linee di scatoline di zolfanelli di cera, rafforzate da due altre di sassi rari, pieni di asperità gemmee e di gobbe arabescate, come se dovessero segnare su quel tavolo i confini di due proprietà e mettere un ostacolo prudente nella solitudine di quei due. La Madonna era sola, colla bella faccia intenerita; Pio IX in ginocchio, le mani giunte, pregava con una compostezza elegante, tenendole gli occhi nel volto, dolci di affetto e di ispirazione. Ma le scatoline erano vecchie; Jela ne riconobbe molte alle figurine, già usate dal conte Alberto e che don Natale aveva intascate a una a una, nelle sere che veniva al castello. Anche Jela sorrise, poi tornò ad abbassare gli occhi; il conte Enrico osservava con Ida le rose della finestra. La finestra era senza tende.

Il duca, che aveva lasciato la marchesa sul sofà, si avvicinò loro.

—Rose bianche, amore pallido.

Ida si volse per rispondere, ma in quel punto si aperse l'uscio e don Natale si presentò tutto vestito di nero, colla sua faccia buona ed angolosa, così sbigottito dell'onore di tali ospiti, che la fanciulla commossa gli andò incontro come ad una vecchia conoscenza.

—Tocca a noi di cercarvi fino quassù: la nostra visita è di rimprovero.

—Signorina,—disse col suo più dolce sorriso, cavandosi solo allora la berretta nuova della domenica.

E il disgraziato non trovò altro; ma per colmo di sciagura, guardandosi le mani vi scoperse sul dosso una striatura del lucido dato or ora alle scarpe; e allora non capì più. Si trovò in mezzo a quel gruppo di gente mondana, tanto dissimili dal conte Alberto, col quale parlava di lepri come cogli altri parrocchiani, affabile, alla mano, che non pareva nemmeno un conte. Essi invece lo osservavano sorridendo sotto la loro educata serietà, perchè lo avevano veduto scappare scamiciato colla vanga, e trovavano ridicolo il suo salotto e lui peggio; indovinavano che si era mutato di veste per loro, si era lustrato le scarpe; poi ne avrebbero parlato scherzando al castello chissà quanti giorni, essendo venuti a trovarlo non sapeva perchè, forse solo per ridere. Quindi si girò gli occhi intorno senza vedere, in piedi fra le due fanciulle, come un prigioniero tra due gendarmi.

Il duca dovette ricordarsi di essere un gentiluomo per non dare in una risata, il conte Enrico si mordeva le labbra sotto i baffetti biondi. Ma la marchesa, che si era levata, gli andò incontro, lo fece sedere sul sofà accanto a lei e gli parlò del matrimonio di Jela, delle pubblicazioni, mentre egli rispondeva sempre di sì colle mani supine sui ginocchi, pensando che aveva il collare poco bianco, la barba vecchia di cinque giorni e le calze di un nero un po' rossiccio. Quando capì finalmente, alla terza volta, che il matrimonio della contessina si farebbe nella sua chiesa, si gettò indietro guardando la marchesa.

—Spero che non avrete difficoltà.

—Signora... ma la mia chiesa... troppo onore.

—Avete conosciuto Jela bambina.

—No, no, signora, non sono stato io, fu il mio predecessore.

La marchesa non finì la frase, e chiamò Jela.

—Abbiamo accomodato tutto, carina: don Natale,—e lo guardò in modo che ne fosse lusingato,—ti sposerà l'ultima domenica di quest'altro mese. Puoi ringraziarlo del regalo, sarà il maggiore che riceverai.

Jela arrossì leggermente.

—Verrà qualche volta da noi?—gli chiese colla sua grazia:—Papà lo ricorda spesso, lo ricordo anch'io.

—Adesso non lo dimenticherai più, non è vero?

Jela fece un atto grazioso colle spalle, e don Natale si sentì come sollevato da un gran peso.

Durante la conversazione la sua fisonomia si era andata schiarando, facendosi mano mano più simpatica, con quei capelli brizzolati, che gli davano un'aria rispettabile, e il sorriso della sua bocca grande a magnifici denti, che addolciva la durezza di tutte quelle angolosità già rugose e abbruciate dal sole. Si capiva che doveva essere un buon uomo, senza molta pietà, ma con abbastanza cuore, di un'umiltà più selvatica che servile, rimasto contadino malgrado gli studi fatti e le cure del sacerdozio. Ma un altro pensiero lo scombuiò improvvisamente, di non sapere come chiudere la visita con quegli ospiti insospettati, ai quali per consiglio della serva in cucina, mentre si lustrava le scarpe, aveva deciso di offrire una limonata.

Il conte Alberto gli aveva regalato l'anno prima un magnifico vaso di limone, diventato tutto il suo agrume e l'orgoglio del suo piccolo orto; e precisamente quella mattina ne aveva staccati tre frutti maturi.

Ma dopo quelle ultime parole della marchesa don Natale aspettò trepidando. Coi sensi resi più fini dalla paura, attraverso il muro della cucina, vedeva la faccia della Marianna preoccupata nel cercarsi inutilmente in testa un complimento, una frase da rivolgere alla marchesa o a Jela. Ida era tornata presso le rose bianche, il duca e il conte, malgrado la scioltezza di gente abituata a tutte le situazioni di una conversazione, avevano sotto il loro atteggiamento impenetrabile un impaccio sardonico. Il quale finì di centuplicare il suo. Quindi tentò un grande sforzo volgendosi alla marchesa; questa nel presentimento di una domanda annuì cogli occhi, egli mosse appena i propri invece delle labbra, poi li abbassò. La marchesa ne profittò per levarsi, e allora egli corse imprudentemente ad aprire l'uscio per farle onore.

—Manca un cucchiaino,—gli disse sordamente all'orecchio la Marianna in agguato dietro l'uscio.

Egli non potè rispondere, perchè la marchesa gli era addosso con un sorriso, Jela gli sorrideva, il duca ed il conte Enrico lo circondavano salutandolo. Il conte Enrico, che la marchesa gli aveva presentato parlando del matrimonio, gli strinse la mano con un complimento, tutti lo serravano con malizia indulgente, alla quale rispondeva con inchini, perdendosi in ringraziamenti inintelligibili, finchè tutti infilarono l'uscio, e ultima passò Ida, che gli aveva rubata una rosa.

—La conserverò, don Natale,—gli disse armoniosamente, tendendogli la mano.

Egli la strinse così così, e le si accodò, indeciso di accompagnarli alquanto sulla strada o di riverirli un'ultima volta sulla porta. La Marianna gli tirò una falda del soprabito; ma in quella il conte Enrico si ritraeva per lasciar passare Ida, poichè la marchesa era già sul prato a braccetto del duca.

—Al piacere di rivederla,—mormorò con un cenno del capo.

—Oh! grazie,—rispose don Natale appoggiato con una mano al becco del saliscendi, e piegandoglisi in faccia come davanti all'altare.

—Ma ci vada dunque dietro,—gli susurrò stizzita la Marianna da una spalla, mentre il conte discendeva i due scalini. Ma egli non si poteva risolvere, spaventato del come poi lasciarli a mezza la strada, e li guardava che si rivolgevano verso la porta, sospesi dalla sua stessa indecisione, intanto che la Marianna più coraggiosa seguitava a tirargli le falde, ripetendo:

—Sono signori, non istà bene.

—Arrivederla, don Natale, arrivederla,—gridò Jela.

—Buona passeggiata.

—Vada dunque,—insistè la serva.

Jela si voltò ancora.

—Vacci dunque tu,—replicò stizzosamente don Natale, umiliato della propria timidezza.—E il cucchiaino?

—Lo sa pure, che sono solamente quattro, d'argento. Sì, poi adesso mandarli via come cani: è una vergogna. Almeno ci fosse andato dietro, non morsicano già. Ma chiuda dunque la porta: sono cose da far pietà!

E la chiuse ella stessa, correndo subito alla finestra per tener loro dietro, nascosta dal vaso delle rose; don Natale riflettè un momento a testa china, poi la seguì. La Marianna, colla fronte contro il vaso e le reni grasse sporgenti, guardava per lo spiraglio fra il vaso ed il muro.

—Com'è che gli sposini non sono a braccetto? C'è la signorina Ida invece. Io poi ci vorrei stare, al mio posto.—Ma dopo un istante con un grosso riso di donna matura esclamò:—Non mi piace, è un coso bianco bianco come un pollo morto. Eh! sono in due, che se non s'insanguinano non diventano rossi.

—Sta zitta,—mormorò a bassa voce, quasi potessero udirla ancora, don Natale rattenendo una risata.

Ma la Marianna si rialzò dallo sforzo di quell'atteggiamento, che le aveva fatto diventare il viso purpureo. Era ancora bella; si passò una mano sugli occhi neri, poi mettendo un respiro, che le fe' tremare superbamente tutta la massa del seno:

—Non ce n'è nemmeno da cena con uno sposo così: dopo poi? Sì...

E ritta in tutto il vigore della sua sanguigna robustezza, lanciò loro dietro un gesto intraducibile, cogli occhi luccicanti, il seno grosso, la bocca commossa da un sorriso così formidabile, che don Natale ebbe una compiacenza nello sguardo, ammirandola, e sorrise.

c201

V.

—Pigliami teco a letto la prima notte: lo ameremo insieme.

—Che? Enrico è tutto mio, non te ne do neanche un capello.

—Bada, gli piglierò la testa.

—La testa?—rispose Jela, arrestandosi un momento all'energia feroce di questo scherzo; quindi buttandosele contro il viso ed arruffandone i capelli:—Il bel guerriero indiano! Te la metterai agli arcioni di Febo. Senti, ti suono il suo valzer: lo ha composto per me.

—E tu lo credi: lo ha rubato a Schubert.

—Bello! bello!... come sei bello, Enrico!—Jela seguitava a gridare scorrendo colle agili dita sulla tastiera, e traendone una danza di note calde e folleggianti, che pareano battere come tanti cuori e fremere come tante labbra, mentre la sua testina si agitava in una smania lasciva e scimmiesca.

—Ida, vuoi venire a letto con noi? Appena arriva glielo domando.

Ma Ida, che riceveva gli aculei di quelle celie nell'anima, come il toro la punta delle bandieruole rattenendo tutti gl'impeti dello spasimo per un salto inaspettato, era tornata collo sguardo sulla strada; quando all'urto di una massa bruna, che si avanzava verso il castello fra un nuvolo di polvere, esclamò:

—Arrivano.

Jela balzò alla finestra, poi fuggì. Ma Ida, che non voleva perdere il vantaggio di essere cercata, colse il loro doppio saluto, mentre entravano sotto il portone; il conte le parve anche più bello. Quindi ritornò sulla poltrona e riflettè lungamente prima di scendere in giardino. Nell'atrio incontrò il duca, che la cercava. Il sole curvo sulla cima del bosco allungava l'ombra del palazzo fin oltre la vasca dei pesci, mentre la moltitudine dei verdi sul monte impallidiva malinconicamente. L'aria era ancora calda e piena di profumi campestri. Essi rimasero in piedi, appoggiati colle ginocchia contro l'orlo levigato della vasca, ascoltando l'inesauribile soliloquio delle fontanelle. Ma il duca, che smaniava di offrirle il regalo, si trasse di tasca un astuccio e, presentandoglielo aperto con un garbo quasi di orefice, le domandò che cosa ne pensasse. Era un filo di perle piccole, brune ed uguali. Ida le considerò sbadatamente, e gliele restituì.

—Ma sono per voi, se avrò la fortuna che le accettiate,—disse con una certa crudezza.

La fanciulla lo guardò.

Egli fu impacciato.

—Quanto vi costano? signor duca?—chiese colla sua voce più limpida, giocarellando col filo delle perle nel mignolo.

Egli fu impacciato.

—Quanto vi costano? Spero che il loro prezzo non sarà un segreto.

—Duemila lire.

Ida trovò uno de' suoi potenti sorrisi.

—Al mio villaggio conoscevo un ragazzo falegname, che un giorno per una lite col padre dovette uscire di casa, e sostituì un signore nella coscrizione. È morto nella Sila contro i briganti. Povero ragazzo! vendette per tremila franchi la sua vita!

—Signorina,—rispose il duca colla fronte ardente di rossore:—vi assicuro che questa volta avete torto. Il duca di Rivola non è nè abbastanza ricco, nè abbastanza pazzo, per voler comprare con un filo di perle un brillante più grosso del Reggente.

—Ah!—fe' rattenendo una risata a questo complimento rettorico, ma guardandolo con aria lusinghiera:—siete voi, signor duca, che avete torto. Perchè mi fate la corte a questo modo? Perchè non mi avete presentato un fiore, un libro, una perla sola? In una perla piccina può capire un mondo di ricordi o un mondo di speranze.

—Vi ho offesa?—mormorò ammaliato dalla dolcezza di quella voce.

—Offesa! ve l'ho detto un'altra volta: non mi offendo per non darvi il vantaggio di una superiorità. Offritele a Jela queste perle: ne sarà tutta contenta.

—E se vi pregassi di accettarle come un rosario, col quale preghereste per me? Prendetene una almeno.

Ella ruppe con una strappata il filo delle perle e, raccogliendole tutte nel cavo della mano, gliele presentò sorridendo.

—Mettetemela nei capelli,—disse poi, abbassandogli il capo sul petto colla eleganza vezzosa, ma forte, di una capra.

Il duca si guardò attorno come per darle un bacio sulla nuca profumata di un sottile odor di fieno; ma l'abbattimento di quella nuova sconfitta fu più grave della tentazione, e il desiderio gli si affondò nella coscienza. La fanciulla, che in quell'atteggiamento gli porgeva la mano colle perle più alto della propria testa, sforzando voluttuosamente un contorno del seno, cominciava a tremare d'impazienza. Egli prese quindi una perla e, sollevandole un riccio sulla fronte, ve la nascose in modo che non cadesse.

—Avete finito?—sussurrava la fanciulla con un riso soffocato, accorgendosi che il duca le si perdeva cogli sguardi giù per il collo.—E queste? fate la mano.

—Accettatele, ve ne prego.

—Lo volete?

—Ve ne scongiuro.

—Ecco; grazie, signor duca!—e lanciò improvvisamente tutte le perle in aria, sulla vasca, che caddero in una pioggia minuta, attirando i pesci di Jela, mentre ella si curvava ad osservare le loro disillusioni colla stessa grazia, che se vi avesse gettato della sabbia. Ma il duca, sopraffatto da un sordo rammarico, era rimasto colla bocca aperta.

—Come mi esaminate!—ella sclamò ad un tratto.—Ecco che mi trovate straordinaria, perchè distruggo duemila lire senza possederne altrettante. Via, signor duca, dovreste esser più gentile.

—Vi ammiro.

—E mi amate un poco per questo?

—Vi amo troppo.

—Troppo! avaro! Ebbene, fatevi amare, diventate bello come il conte Alidosi: la bellezza è sempre la prima virtù.

—Siete innamorata di lui?—proruppe morsicato dalla gelosia.

—Io...

Poscia si fece seria e gli tese la mano.

—Signor duca, vi credo: forse un giorno avrò bisogno di voi e dovrò cercarvi, se mi amerete ancora o piuttosto non mi avrete dimenticata come tante altre donne, che v'ispirarono dei capricci.

—Mai.

—Conto su di voi. Adesso parliamo d'altro, perchè ecco appunto che vengono a cercarci il conte Alberto e i due sposini: vedete, parlano di noi, dicono già che mi state seducendo. Ma, signor duca, se non affettate un contegno più indifferente, crederanno di arrivare a tempo per salvarmi: siete quasi drammatico.

Il duca ebbe appena il tempo di rimettersi sotto questa nuova sferzata, che gli altri erano già loro sopra, e tutti insieme andarono nel bosco ad aspettare l'ora di pranzo. Jela raggiante pei regali ricevuti, e non ne era arrivata se non l'avanguardia, sotto la pressione di quella gioia, che le traboccava dal cuore, dovette appoggiarsi al braccio della sorella. Ella non capiva in sè, parlava, rideva, guardando Ida ed Enrico a vicenda, quasi per rifrangere sul loro viso la propria felicità e raddoppiarla.

—No,—rispose Ida al conte con uno sguardo fiammeggiante.

Egli le fece un cenno inutile, Jela non si era accorta di nulla, e l'altra era già tornata verso il duca.

Passeggiarono ancora qualche tempo per il bosco, poi la campanella li chiamò a pranzo. Ida era presso il conte Enrico.

—Ho bisogno di parlarvi: questa notte verrò nel vostro appartamento,—sussurrò offrendole una salsa.

—Non siete abbastanza forte per farvi un giocattolo di me.

—Allora non mi amate.

—Vi amo più di Jela, ma se non posso disputarvi, non voglio pregustarvi come un cuoco.

—Non le piace questa salsa?—le chiese il duca insospettito di quel dialogo a bassa voce.

—No.

Finalmente venne il giorno delle nozze. La funzione avrebbe dovuto essere per il mattino, ma Jela si era sentita così male, che sul consiglio del dottor Torquemasi, invitato dal villaggio, si era rimandato il tutto per l'indomani. La fanciulla non era più uscita dal proprio appartamento, sola tutto il giorno colla Nencia; poi la sera aveva pregato ella stessa lo zio, perchè il matrimonio si celebrasse subito, senza nemmeno quella poca solennità consentita dall'indolenza del padre. Ella aveva come paura e vergogna; se lo avesse potuto, sarebbe andata di notte, sola con Enrico e la Nencia, a bussare alla porta di don Natale, perchè li sposasse.

Ma tutte queste contraddizioni, che facevano mormorare i domestici ed i pochi invitati, finivano di esasperare il duca, già irritato per non aver veduto Ida da due giorni. Il conte Enrico cominciava a sentirsi ridicolo. Solo il conte Alberto conservava la propria indifferenza, quasi estraneo a tutto quel moto, con una piccola contentezza d'ironia nel vedere tutta quella gente trattenuta dalle fanciullaggini di Jela, ma la marchesa più d'ogni altro lo divertiva. Tuttavia Jela cominciava a vestirsi, girando fra le mani della Nencia come un fantoccio, coi brividi di un imminente naufragio per le ossa e la testa in preda ad un'allucinazione. La sua vita di bambina in casa di Ida, al convento, quegli ultimi mesi al castello, la chiesa di don Natale, il salottino delle rose bianche; Enrico dal primo giorno che lo vide, che lo amò, il primo bacio non mai confessato nemmeno con Ida; l'abito semplice, che indossava in quel punto, e l'altro bianco nella cesta di nozze, i regali ricevuti, i gioielli, le rarità; quel gabinetto tanto abitato, del quale ogni fiore della tappezzeria si ricordava una sua scappata, ogni piega del cortinaggio conservava le perle sgranate di un suo riso; lo specchio, i barattoli, le teche, i profumi, i nonnulla; poi la Nencia che le era inginocchiata ai piedi, poi tutto il castello, la valle, il mondo, l'infinito: ella sentiva tutto ciò con una confusione e una intensità così viva, che non poteva sopportarla, e alla quale non poteva sottrarsi. Quindi un senso strano di paura faceva oscillare tutta questa fantasmagoria, una paura di esservi dentro e che svanisse ad ogni istante; poi capiva, non capiva più, si accorgeva di aver fretta; e l'ultimo bottone era chiuso mentre la Nencia le drappeggiava ancora una piega sui tacchi balbettando:

—Come è bella!

—Aspettano, bisogna far presto... il conte Enrico...

Ma a questo solo nome, gettato nel mezzo della sua commozione e della sua vita come un raggio fra due nuvole scintillanti di bianchezza, una vibrazione di luce la percoteva; rinveniva, ascoltava le parole borbottate dalla Nencia, avvertiva l'errore di un riccio o di una trina, correggendolo con un gesto spossato.

Erano le sette e mezzo: l'ultimo raggio del sole strisciava sulla cima delle colline.

—Oramai verranno,—ripetè per la centesima volta la vecchia, affacciandosi alla finestra per vedere le carrozze allinearsi nel cortile.

—È impossibile: ho paura.

—E dopo poi?

Ma Jela tremava davvero. La sua testina spiritata si volgeva da ogni lato, con moti da uccello in gabbia, e il seno le pulsava, mentre negli occhi le passava fra mille baleni di terrore una frotta di sorrisi, e la poesia e la malizia le morsicavano il cuore col vezzo di due cagnuoli.

Quindi scordandosi ogni preoccupazione del vestito si gettò sulla poltrona, improvvisamente, tirandosi quasi la Nencia addosso.

—Starai nella mia camera.

—Finchè non verrà.

—E se non verrà?

Ella stessa non lo credeva; la vecchia si contentò di sorridere, poi aspettò. Jela aspettò anch'essa, e non ebbe altro da dire.

—Ho paura,—ripetè ancora quando, terminata finalmente la toeletta, la Nencia volle spingerla verso la porta; se non che parve anche a lei così sublime, che le sbarrò il passo indietreggiando per meglio guardarla colle lagrime agli occhi. Quindi inginocchiandosele ai piedi, le prese un lembo della veste. La povera vecchia piangeva adagio a monosillabi incomprensibili, frammenti della sua anima di zitellona e di madre, che si spezzava nel convulso di quel trionfo della sua bambina, cadendole ai piedi coi fiori bianchi della sua corona virginale e le cortine lacerate dell'amore. Ma Jela, coll'anima intenta a quella meta rosea come i fuochi del vespero, spossata dalla lunga emozione, cominciava già a provare il bisogno di contenersi; quindi la ringraziò con un'occhiata, la respinse dolcemente per tornare allo specchio, perchè le pareva di essersi scordata quasi tutto e di non essere vestita che a mezzo. Poi se ne accorse, udì lo scalpito dei cavalli, la voce del conte Alberto, ebbe un'ultima sommossa di ripugnanze, di ricordi, di violenze; si fermò e, lasciandosi spingere lenemente dalla Nencia, come dalla mano invisibile del destino, discese.

Giù nel salone l'aspettavano da venti minuti. La marchesa, quasi ringiovanita dal lusso severo dell'abito, era evidentemente inquieta.

—Pare una commedia il matrimonio di un Alidosi!—mormorava un invitato.

—Ho conosciuto fino da ragazzo il conte Alberto: è sempre stato così. La povera contessa ne è morta.

—E la signorina Ida?

—La signorina Ida?—ripetè la marchesa con tono secco alla Nencia.

Il duca, l'Alidosi e Jela si voltarono.

—Favorite di dirle che aspettiamo.

—Non viene!—mormorò seco stesso il duca, seguendo col pensiero la Nencia attraverso l'appartamento della fanciulla.

La vecchia traversò con passo vivace l'anticamera, il salottino da studio, ed entrò senza bussare nell'altra camera. Aveva fretta anche per sè medesima. Ida distesa sul letto, la faccia contro il muro, non l'intese.

—Aspettano—disse, osservandola malignamente per indovinare il suo pensiero di quel momento.

Ma Ida era distesa sovra un fianco, con ambe le mani al volto, i capelli in disordine, sul letto ancora più disordinato. Le coperte erano attorcigliate colle lenzuola, la fodera di un cuscino aveva lacerato mezzo un merletto.

Ella lo notò.

—Signorina,—ripetè:—giù aspettano. Jela è già al braccio dello sposo, non aspettano che lei, mi hanno mandata.

—Grazie.

—Non viene?

Ida frenò uno scoppio di pianto.

—Non viene? Jela ha fretta. Non viene?

—No.

—Si sente male?—domandò a bassa voce con melata ironia.

—Alla testa.

La Nencia, che voleva guardarla in faccia, fece un passo verso il letto, ma l'altra si strinse ancora più alla parete, rannicchiandosi come i malati per dormire, e si sottrasse.

—Dunque non viene?

—No.

Allora la vecchia scrollò sprezzantemente le spalle, senza offrirle nemmeno di chiudere la finestra.

Il conte Alberto era svanito. Tutti s'impazientavano, s'imbarazzavano. La marchesa stentò a frenare un: tanto meglio! alla risposta della Nencia; ma il dottore, che si credeva in dovere di essere quel giorno eccessivamente cortese con tutti, parlò di salire dall'ammalata.

—Dottore!—lo arrestò la marchesa con un'occhiata: poi ordinò a Jela di discendere e diè il moto al corteo.

—Si sente male?—domandò il duca, rimasto abilmente l'ultimo, alla Nencia nel passarle vicino, e la sua voce era commossa.

—Alla testa.

Ma la Nencia si sbagliava: Ida aveva male al cuore.

Rattrappita sul letto udì le voci del corteo, che saliva nelle carrozze, lo scalpito dei cavalli, il rotolare delle ruote, i parlari dei servitori, che si sparpagliarono per il palazzo; poi il palazzo tornò silenzioso, avvolgendosi nel tenebrore della sera. La sua camera s'abbuiava mano mano come la sua anima. Ida ricominciò a singhiozzare disperatamente contro il muro, premendovi il volto colla rabbia insensata dell'impotenza. Il suo cuore, la sua volontà, la ragione stessa, sempre in lei così limpida e fredda, erano sopraffatte come da una bufera, che le schiantava avventandone le schegge giù nell'abisso, tra una furia di vortici pazzi e sibilanti.

Era tutto uno schianto. Non sentiva più altro che la propria rovina, collo spavento di tutte le frane e lo strazio di tutte le lacerazioni. Il muro, sul quale gocciolava mutamente qualche lagrima, le insinuava dei brividi di freddo fra l'arsura della febbre. Stava immobile, smaniando al di dentro, abbandonata allo straripamento di tutte le passioni. Colle mani raggrinzite sulle coperte, i denti stretti, ruggiva, mordeva, fischiava. Vedeva cogli occhi fra le tenebre a distanze impossibili, udiva cogli orecchi fra quel fracasso della tempesta voci remote e sommesse. La fronte, infiammata dalla febbre e dal convulsivo strofinamento delle mani, le ardeva con una infinità di piccoli dolori a tutte le radici dei capelli, e le ardevano le gote, sulle quali si scioglieva il sale delle lagrime, mentre la voce le si agglutinava nella gola nauseata da un'amaritudine, che non poteva nè discendere nè salire. Nessuna idea le emergeva fra quella negra commozione di idee, nessun sentimento le stava fermo nel cuore. Era uno sfacelo, nel quale tutto andava rotto, anche la coscienza, sminuzzandosi in tanti frantumi come una coda di serpe, animati da un dolore, che sopravviveva alla morte. In quell'assidua ruina Ida si sentiva grandinare sull'anima le macerie di tutta la sua esistenza così giovane: gli anni dell'infanzia e della fanciullezza, quelli tanto dotti dell'istituto, quando cominciò la fecondazione del sole, poi tutti i sogni, i desiderii più giganteschi delle piramidi, le passioni più ardenti del deserto, le fantasie più tempestose del mare, le gracili creazioni d'un giorno e le effimere efflorescenze di un'ora, che le si ammassavano sopra, in una montagna informe, vibrante di rantoli, di feriti sopra un ferito, di moribondi sopra un moribondo.

Ma ella resisteva ancora per l'istinto disperato della vita, stracciandosi nella inutile resistenza tutte le piaghe, aggrappandosi alle schegge taglienti di tutti i dolori e nullameno avvallando sempre più profondamente. E allora una stanchezza l'avviluppava come una coltrice funerea, ed ella s'abbandonava senza piangere come distesa contro il muro nel sonno, se il frequente singulto e il gorgoglio d'un sospiro non avessero provato anche troppo che non dormiva.

La sera mandava fuori tutte le stelle, e l'avemaria era suonata alla parrocchia di don Natale senza che la fanciulla l'intendesse.

Poi rinvenne. Si vide dinanzi tutte le figure del suo odio, il padre, la madre, la famigliuola del sarto. Jela con tutti i parenti signorili, più felici nella ricchezza della loro vita ora che gavazzavano nella solennità di un matrimonio senza un pensiero per lei, estranea nella casa e straniera alla loro vita. Era dunque una fatalità? Sarebbe morta anch'essa sul margine della società, fra la beffarda indifferenza del mondo, come il povero Rocco? Ormai lo credeva, ma invece di spaventarsene si scagliava più ferocemente contro quei fortunati e li dilaniava. Si era rizzata sentoni sul letto, guardando per le tenebre fuori della finestra.

Forse a quest'ora Jela ed Enrico si erano sposati. Che le importava di tale amore sciocco come la loro unione? Ma non poteva tollerare la fortuna del loro destino! Qualcuno doveva ben pagarle quell'ineffabile umiliazione di sè medesima e tutte quelle lagrime, che le avevano bruciata la faccia. La sua vita era perduta, inevitabilmente perduta per sempre. Malgrado il turbamento della passione, sentiva di non poter durare lungamente in quella silenziosa agonia di disegni e di seduzioni, pensando sempre di sedurre qualcuno che le fuggiva, stancando il futuro coi sogni più assurdi, torturandosi in una dissimulazione dolorosa come una maschera di ferro rovente sul volto. Dopo tanta serietà di propositi era forse tempo di cedere alla follia e di puntare la vita all'ultima posta: infine la perdita sarebbe sempre inferiore al guadagno. Che valeva un'esistenza di affamato. In quel momento ella avrebbe arrischiato tutta una vita di trionfi per un'ora sola di vendetta scandalosa ed atroce.

Si fisse in questo pensiero, lo ingigantì, lo arroventò con tutti i bagliori della propria immaginazione in fiamme, ma questa volta era ben decisa. Se Jela ed Enrico erano uniti, ella passerebbe loro immezzo come una folgore, dovesse poi svanire nella luce del baleno o nel fracasso del tuono. Quindi sorrideva, respingendosi i ricci sulla fronte ed avanzando il volto quasi per contemplare di già lo spettacolo di quella ruina. Non era amore, non era gelosia, nemmeno invidia, ma odio, solamente odio, composto di tutti i dolori e di tutti i veleni. Non sapeva più di aver torto e non se ne sarebbe curata, ma ripigliava tutta la sua vita passata, l'appuntava in un cuneo, la scagliava. Era superba, spietatamente paga di aver vissuto. Non era sempre stato il suo sogno aprire un largo solco nella vita? Il torrente, che squarcia, lascia una traccia più profonda del fiume che irriga; rovinare sì, ma sopra qualcuno, a questo patto consentiva.

Se non che la disperazione, calmata momentaneamente, tornò a singhiozzare, e la fanciulla, troppo debole ancora per l'energia di quella risoluzione, vacillò. Invano colla schiuma della rabbia alla bocca e il lampo del delitto negli occhi, giurava a sè medesima di vendicarsi di tutti su Jela ed Enrico. Essi erano al coperto da ogni danno e così lungi da ogni pericolo, che non avrebbero nemmeno per stravaganza di fantasia potuto pensarvi; mentre ella povera e derelitta non poteva nulla contro di loro. Se il duca fosse stato giovane ed altro uomo, ed ella una duchessa, forse sarebbe riuscita a scagliarlo contro il conte in un duello mortale, gettando forse quella sera stessa o l'indomani sul letto primaverile di quella sposina un cadavere biondo ed insanguinato; ma il duca era vecchio a queste tragiche follie, nè forse abbastanza innamorato per accettarle, quando se ne fosse trovato il coraggio. La vita era ancora piena di drammi, ma gli eroi da romanzo non esistevano più. Oggi le pazzie non si fanno più che di denaro, e le donne si disputano coi boni di banca e non con le lame di Toledo. Ida, che lo sapeva, sogghignava colla sanguinolenta alterigia del disprezzo. Tutti erano piccini intorno a lei, donna sopravvissuta colle passioni spavalde e crudeli di altri secoli in un mondo di capricci.

—Vili!—mormorò guardandosi attorno.

Aver paura della morte le parve la suprema delle codardie, ma non pensò di compiere ella stessa il delitto. Non vi aveva ripugnanza di moralità, ma di orgoglio, poichè assassinando il conte Enrico perderebbe la partita invece di vincerla; Jela vedova si consolerebbe con un altro amore, mentre ella finirebbe in galera. Non erano più i bei tempi quando due o quattro gentiluomini si battevano ad oltranza e il vincitore si allontanava spensierato del cadavere del vinto, quando le principesse avvelenavano gli amanti infedeli e andavano dopo ad una festa di corte col più gaio sorriso sulle labbra. Bei tempi passati! Oggi tutto si era imbruttito, anche il delitto, giudicato nella corte di assise da una dozzina di pizzicagnoli e di affittaiuoli.

Pure, un bisogno di morte la urgeva. Profondere lo squallore nell'anima di Jela le pareva la più sublime delle felicità. In quelle tigrine immaginazioni era discesa dal letto, appressandosi alla finestra. La notte era bella, ma fosca come nel presentimento pauroso di un acquazzone; le stelle si erano abbassate sul volto un volo di un azzurro anche più denso e non osavano sorridersi, gli alberi secolari del bosco non mormoravano più. Il suo spirito esaltato provò una strana delizia in quella calma sinistra della natura. Appoggiò i gomiti sul davanzale e stette guardando.

Gli occhi infiammati dalle lagrime le bruciavano dolorosamente, le gote le si stiravano, i capelli le pesavano sulla nuca, mentre la frescura notturna, ventilandole il volto, arrivava alla sua passione come una carezza.

A poco a poco si calmò, irrigidendosi nel tetro disegno. Non ammetteva nè dubbio, nè discussione: voleva vendicarsi, strapparsi dall'anima il proprio dolore e sbatterlo sulla faccia di qualcuno come un cencio insanguinato. Pensò, divagò, seguì le tracce di mille idee, in fondo ad ognuna imbattendosi sempre nella figura di Enrico; quindi i sensi, freddi in quell'uragano dello spirito, sorsero e vibrarono. Si ricordò giorno per giorno la vita del suo lascivo desiderio di quel bel giovine, le ultime notti col povero Rocco, quando seminuda sul letto col mostricciuolo sul seno si dibatteva in un'empia agonia di voluttà. Alcuni versi di Hamerling le passarono mormorando all'orecchio.

Dovette soffocare un urlo.

Poi si tolse smaniando dalla finestra, traversò il salottino, l'altro gabinetto fino all'anticamera, si affacciò alla finestra sul cortile. Le carrozze erano ritornate da un pezzo, il matrimonio era stato celebrato. Questa prova preveduta, ma purtroppo irrefragabile, del proprio disastro, la rese più calma. Era decisa, non sapendo bene a che.

—Sono giù nel salone!—esclamò, vedendo un servo passare con un immenso vassoio.

Quindi riflettè amaramente che non la cercavano. Rientrò nella camera, erano appena le dieci.

Prima di mezzanotte nessuno andrebbe a letto. Questa insolente dimenticanza al ritorno dalla chiesa, mentre tutti si stringevano affettuosamente intorno alla sua sorella di latte (ella sottolineava nel pensiero questa parola) adesso la punse. Jela si staccava per sempre da lei: posdomani l'avrebbe scacciata. Tutti, tutti uguali. Ma il duca, ella lo sapeva, doveva essere partito immediatamente per la città; egli non l'avrebbe certo dimenticata.

—Oh il terremoto adesso!—brontolò, entrando coll'immaginazione giù nella gran sala illuminata.

Ma invano si sferzava i fianchi per eccitarsi alla ferocia, ora che il matrimonio di Jela con Enrico stava per compiersi davvero nella camera di Jela, assestata appositamente dalla Nencia, e verso la quale si sentiva suo malgrado attirata da un fascino voluttuoso. Quindi dal suo appartamento passò in quello di Jela. Un letto di quercia intagliato, annerito dagli anni, si allargava sul posto del lettino di Jela, attendendo gli sposi. Ella ignorava questo capriccio di Jela, nato all'ultima ora, di ricevere lo sposo nella camera verginale contro le disposizioni già prese dalla Nencia.

Ida indovinò quell'infantile delicatezza e, pure apprezzandola, provò la smania di rispondervi con un sarcasmo.

—Vuole evitare l'errore di Waterloo, cadere sul proprio terreno. Imbecille! non è il campo, ma il genio che dà la vittoria.

Quella camera era forse la più bella di tutto il palazzo, perchè la morta contessa nella malinconica gioia della propria gravidanza pensando, malgrado tutti i desiderii, che partorirebbe una bambina, aveva voluto arredarla essa medesima, e le aveva data un'aria di bellezza pura ed effimera, che stringeva il cuore. Non era più grande di un salottino comune, nè più alta; aveva una sola finestra, con due piccoli usci nascosti, un lettino bianco ed un tavolo di madreperla. Le pareti tappezzate di un damasco roseo sotto una tenda di trine bianche, fresche come la corolla di un gran fiore, che avrebbe dovuto avvizzire ad ogni raggio di sole e palpitare ad ogni alito di respiro, le sfumavano gli angoli colla leggerezza di un vapore rosato ed immobile. La volta rappresentava un tramonto con una nube in un canto, dietro la quale il sole era scomparso diffondendo per la smorta purezza dell'azzurro una blandizie di oro. Un tappeto a fondo lattiginoso con filamenti rosei aumentava tutta quella bianchezza, mentre un divano, così basso e piccino che entrando lo si distingueva poco dal pavimento e dalle pareti, si drizzava presso uno degli usci di ebano rosa, che la tappezzeria celava quasi a mezzo sotto alcune pieghe leggere.

Quantunque conoscesse quella camera di lunga mano, l'aspra gravezza del letto di quercia glie ne fece ora sentire meglio la soavità. Poi i lenzuoli l'attirarono colla loro freschezza bianca e levigata. Li toccò leggermente, sollevandoli per vedere dove si affonderebbero quei due felici.

Erano già trascorsi dieci minuti.

D'un tratto, accorgendosi di commettere una stravaganza, si fermò, ma nulla poteva più spaventarla; anzi per sfidare maggiormente il pericolo di essere scoperta, andò a sedersi sul divano, atteggiandosi sfrontatamente.

—Tertulliano ha ragione,—pensò colla solita perversità di erudizione:—l'amore è sempre una prostituzione. O uno o tutti, il fatto non muta... Non sono che in un postribolo qui!

E la sua immaginazione esacerbata afferrò Jela, le gittò sopra il conte Enrico, e rimase ad osservarli sghignazzando come una pazza. Poi un'idea l'abbagliò; quindi passando prestamente nel gabinetto della toeletta, da questo all'altro da bagno, si esaminò attentamente intorno. L'ultimo uscio dava sull'appartamento, che divideva i due sposi, e per il quale il conte Enrico doveva inevitabilmente passare. Il salottino pareva quello di uno stabilimento, colla tinozza incastrata nel muro, le pareti verniciate di bianco, a olio, e un breve tappeto scuro dinanzi alla tinozza. Ma un enorme specchio colla cornice di noce, sostenuto da due zampe di leone, si alzava in un angolo per una altezza di persona gigantesca.

Ida notò come la cornice toccasse il pavimento; rientrò nella camera di Jela, quindi nella propria. La finestra era aperta, la notte anche più buia. Si rigettò l'abito dalle spalle, slacciò il busto, le sottane, la camicia, si chinò a sfibbiare le giarrettiere, si trasse le calze, dritta, coi piedi, pestandoseli febbrilmente, traballando come d'ubbriachezza, cogli occhi pieni di lampi e la bocca di parole. Poi raddrizzandosi in faccia a sè medesima, si riaffermò con un sorriso. I capelli arruffati dalle convulsioni sul letto le coprivano mezza la fronte e gli orecchi, ma non li ravviò. Il dolore li aveva scomposti come il volto in un'altra bellezza più formidabile; quindi si rimirò dentro allo specchio nell'impudore della propria nudità, colla fronte solcata da una ruga profonda. Nei momenti supremi la fanciulla subiva sempre il prestigio di una posa.

Aveva steso sul letto l'ampia veste di raso nero, dentro di raso bianco, colle maniche ad imbuto, enormi, che consentivano tutta la nudità del braccio fino alla spalla: l'infilò, vi disparve. A quel lume delle candele il raso aveva delle ondulazioni di baleni. Poi cacciò i piedi in due pianelline di raso nero, e fece per muoversi udendo rumore nel gabinetto. La Nencia veniva ad informarsi della sua salute da parte del conte Alberto, se le doleva il capo.

—Ancora, ma passerà, grazie.

—Dove va?—chiese la vecchia, stupita di quell'abbigliamento.

—Nella biblioteca.

Infatti le passò innanzi senza nemmeno guardarla. La vecchia, che già preparava una malignità, la seguì suo malgrado fremendo alla molle superbia di quel portamento da palco scenico, che pareva passare fra gli applausi ed i fiori. La vide chiudere il pesante portone della biblioteca e sparire.

—È matta,—pensò fra sè medesima, ridiscendendo nel salone, dove la conversazione stava per sciogliersi.

Ma Ida mise il catenaccio al portone, depose il lume sul tavolo e da un usciuolo, nascosto fra gli scaffali, sicura di sè medesima, si diresse al bagno di Jela.

Jela ed Enrico, che dalle loro camere potevano vedere i finestroni illuminati della biblioteca, la crederebbero là dentro.

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VI.

Jela era già salita sul gran letto di quercia, nascondendosi la testa sotto i lenzuoli coll'astuzia di un fagiano spaventato. Il suo corpicino, rannicchiato sotto le coperte, aveva quasi rinunciato ad ogni seduzione per raddoppiare quelle del volto, seppellito fra un nuvolo di ricci ammassati capricciosamente sull'origliere. Non parlava più, ma si moveva a piccoli stridi, con una trepidazione piena di bruscherie ad ogni parola della Nencia, che le girava intorno come una mamma, assaporando nella propria malignità di vecchia quell'ansia suprema di un'ora unica nella vita, alla quale si tengono sempre fisi gli occhi prima di arrivarvi, e alla quale si rivolgono irresistibilmente appena passata. Ma Jela, vezzosa crisalide, nella quale il verme non presentiva la farfalla, era incapace di provare tutta la malinconica terribilità di quella agonia di un mondo poetico, che deve dissolversi al contatto della realtà senza che nemmeno un frantume possa raffigurarlo più tardi, perchè nulla della vergine sopravvive nella donna. Era tardi.

—E Ida?—chiese improvvisamente la fanciulla.

—Sarà in biblioteca.

L'altra non replicò e tornò a fissare l'uscio, pel quale la Nencia doveva uscire a spiare l'arrivo dello sposo. La vecchia, benchè reluttante, aveva dovuto consentire a questo ultimo capriccio di Jela.

—Nencia!—ella gridò, vedendola andarsene davvero dopo aver accesa la bella lampada di alabastro sopra il tavolino di madreperla; ma la vecchia, che si sentiva ingrossare il respiro ed aveva bisogno di uscire per non diventare più bambina di Jela, le fe' un gesto supremo di addio. Senonchè aveva ancora la gruccia in mano quando, ricacciata da un impeto di tenerezza dentro la camera, tornò al letto.

Jela aveva i goccioloni agli occhi:

—Sta qui,—balbettò:—senti, va di là nel salottino.

—Sì.

—Se entra all'improvviso mi vien male. Come mi batte il cuore, mamma, mamma!—ripetè, congiungendole le mani sul collo e guardandola con una adorabile desolazione.—Mi vuoi bene anche tu, come lui? Se partiamo posdomani, ti voglio con me.

—Ma andiamo dunque...—insisteva l'altra, cercando di dissimulare la propria emozione:—che cosa è poi mai? Il signor conte...

—Pss...—l'interruppe, mettendole una mano sulla bocca.

Questa volta fu l'ultima, e la Nencia uscì. Però quel capriccio di costringerla ad aspettare così in agguato non le pareva senza pericolo, se il conte dovesse crederla un'oscena malignità e negarle quindi un posto nella nuova casa maritale. A questo solo pensiero la vecchia si sentiva strozzare. Depose la candela sopra il tavolo e, sulle punte dei piedi, incollò l'orecchio al buco della serratura. Le sembrò d'intendere un sospiro. Attese, credette d'ingannarsi, ma un fruscìo di sibili seguì quel respiro, facendola palpitare di meraviglia. Nel salottino del bagno tutto era buio e silenzio. La vecchia rimase appiccicata all'uscio, indecisa, tornò ad attendere. Per un istante il pensiero le corse a Ida, la quale aveva pianto tutto il giorno per l'invidia del matrimonio di Jela, quasi per unire quel pianto e quel sospiro; ma un secondo sospiro (questa volta era sicura del proprio orecchio) le fece perdere il filo di ogni congettura. Quindi raddrizzandosi indolenzita, gittò senza volerlo per gli scuri socchiusi gli sguardi fuori del cortile, e vide i finestroni della biblioteca illuminati.

—È là dentro,—brontolò con gioia beffarda, pensando che Jela era nell'altra camera ad aspettare lo sposo.

Ma in quella lo scocco d'una porta lontana martellò; la vecchia, percossa da un brivido, non udì un altro fruscìo più distinto. Furono pochi istanti di una profonda ansietà: poi si distinse uno strascico leggero di passi.

—Il signor conte, che viene!

Non aveva ancora finito questo pensiero e cominciato l'altro di rientrare nella camera di Jela, che un rumore più vivo nel salotto la rattenne. Il lume del notturno visitatore passava già sotto l'uscio. La vecchia era tutta una vibrazione, aspettandosi a qualche cosa senza sapere che, nè perchè.

Un'onda di luce ruppe nel salotto e il conte apparve sulla soglia in veste di seta azzurra, con una bugia in mano. Era senza cravatta, ben pettinato. Ad un sibilo stridente, questa volta di un abito, si volse bruscamente. Ida livida, coi capelli disordinati, sorgeva dietro lo specchio, più nera dell'ombra, nella quale s'avvolgeva, inoltrandosi verso di lui come un fantasma.

Gli sbarrò il passo lentamente e, tendendogli la mano, mormorò:

—Aspetto.

Egli non comprese quella semplice parola, e la guardò attonitamente.

—Vi aspetto da due ore,—ripetè con voce vellutata ma fremente, la mano sempre tesa verso la sua.

—Che cosa volete?

—Voi.

—Qui... siete pazza?

—Vi aspetto,—insistè, cacciandogli dentro gli occhi tutta la fiamma de' propri in un razzo, che lo fe' quasi retrocedere.

Il conte ebbe un brivido d'impazienza.

—Non sono due ore, sono tre mesi che aspetto.

Egli si guardò attorno cautamente, quindi abbassò ancora più la voce:

—Siete pazza?

—Vi amo.

—Ma è impossibile! Se vi sentissero...

—Non sentono: vi ho già detto che vi amo, e non avete sentito.

—Sì, piano!

Ida gli prese la mano, gliela strinse fortemente, ed appressandogli il volto al volto in quella corrucciata lassitudine del desiderio, glielo lambì collo sguardo.

—Mi credi?—ella balbettò agitando la testa.

—Piano,—si affrettò, vedendola rannuvolarsi e temendo uno scoppio.

—Ti amo come posso amare solamente io. Questa veste l'ho fatta per te: guardami come sono vestita,—ripetè mirandosi il seno, che le trepidava nudo nel vano di due o tre uncinetti. Ma ad un tratto s'illanguidì e, posandogli l'altra mano sulla mano, che già gli serrava, cogli occhi socchiusi, abbandonata entro quella veste troppo ampia, che aveva dei panneggiamenti da statua, balbettò dopo una pausa:

—Come sei bello!

Egli era stordito. Quella aggressione in un momento già difficile, sulla soglia della camera nuziale, preparata da ore con un rischio da pazza, fredda e voluttuosa, lo sbaragliava. Ida non aveva più paura dello scandalo. A questo punto lo amava troppo. La sua passione lungamente soffocata le aveva fatto saltare la ragione, bruciandole il cuore. Era pazza per lui, era bella.

—Vieni,—ella gli disse a bassa voce ma imperiosa, attirandolo sopra una poltrona.

—Ma, Ida...

—Hai paura? Che importa? Io non ne ho, ti amo. Credi che avrei potuto lasciarti entrare questa notte in quella camera, e avrei dormito? Non lo sai dunque cosa sia una passione! Non sono stata abbastanza forte per impedirti questo matrimonio, perchè non sono ricca, e non si sposano che le ereditiere,—proseguì con straziante sarcasmo,—ma posso ancora disputarti. Intanto non entrerai in quella camera, adesso.

Egli ebbe come un sorriso d'orgoglio negli occhi.

—Ti voglio,—ella seguitò colla moina irresistibile della ostinazione, che sa di trionfare,—ti voglio prima di lei. Ella è ricca ed avrà il marito, ma io voglio l'amante, qui, sulla soglia della sua camera nuziale. Non è degna di te: sei troppo bello! Sono due ore che ti aspetto col mio abito da nozze, nero come la mia vita. Quando lo cucivo, ogni punto era una carezza per te; mi devi un bacio per punto.

E la sua voce sempre velata si affievolì; tremava di febbre e di freddo. Poi cadde ad un tratto sotto un dolore così scoraggiato, che egli se la sentì quasi rovesciare addosso. La sua fronte, ancora corrugata dallo sforzo di quella scena, aveva una bianchezza strana, colle pupille sbarrate che le divoravano quasi la faccia, e i denti più bianchi della neve, che le brillavano dietro le labbra come di un grande desiderio goloso. In quella stretta voluttuosa sembrava soverchiarlo con tutto il capo, con una passione di leonessa intenerita. Tutte le forze le si erano allentate, mentre l'ubbriachezza dell'odio risolvendosi le lasciava nei nervi un gran bisogno di calma.

Teneva sempre il conte per mano assorbendogli nel calore del contatto la sua rosea vita di aristocratico e perdendola soavemente nel proprio spirito, dove le tempeste viaggiavano per sconfinate opacità. Allora le parve di avere la stessa visione di Faust, e paragonandosi involontariamente con quel mitico spirito, pronunciò nel pensiero le parole desolanti della sua sfida con Mefistofele:

Se avvien che io dica all'attimo fuggente: Arrestati, sei bello...,

accorgendosi che il suo attimo bello era passato e la morte le aveva buttato nel sorriso di quella visione il proprio compenso. Quindi sorpresa da un nuovo avvilimento, chiuse gli occhi e gli abbandonò la mano. Il conte, lusingato ma del pari atterrito dallo scandalo di quella scena, credette giunto il momento della ragione.

Sommessamente colla sua voce più dolce:

—Ritiratevi,—mormorò.

—Del voi?—proruppe la fanciulla, richiamata da quella sola parola al tumulto della realtà.

—Quando ci avrete pensato, capirete che ho ragione. È tardi.

—Avete dunque fretta?

Il suo silenzio l'inasprì.

—Ebbene, andate,—disse con un impeto sdegnoso di disprezzo,—che trasse un gran peso dal cuore della Nencia.

Sulle prime ella aveva quasi temuto che il conte cedesse alla capziosa ferocia di quell'assalto, e non ne perdeva nè una sillaba, nè un gesto; ma la scena era talmente bizzarra, che il suo odio stesso per la fanciulla ammutoliva. Quindi non intese Jela socchiudere maliziosamente l'uscio arretrandosi stupita nell'osservarla ginocchioni in quell'atteggiamento di una sorpresa. Era in camicia, scalza, camminando sulle punte dei piedi, un labbro fra i denti per rattenere la risata, che le sprizzava dagli occhi; ma le stava oramai sopra, che l'ultima parola di Ida la colpì. Rimase sospesa, agghiacciata, poi un respiro della Nencia l'attrasse, e piegandosele precipitosamente sulla spalla, la urtò per prendere il suo posto al buco.

La Nencia giunse appena a frenare un urlo.

—No,—brontolò, contendendole la serratura ed impallidendo ella stessa al pallore della fanciulla.

—L'ami dunque molto?—s'intese la voce stridente di Ida, che gli aveva riafferrato la mano.

—Piano.

—È vergine, l'ami per questo? Lo sono anch'io, non perdi nulla nel cambio, ma bada che in quella camera non c'entri. Se mi sfuggissi, sarei capace di inseguirti. Sarò la tua sposa di questa notte, una notte sola per tutta la mia vita! su questa poltrona, che non dirà nulla domani, giacchè tu hai paura. Tu sei un uomo, tu! Spegneremo il lume, non parleremo. Oh! non temere, non urlerò. Sono forte io, mi lascerò uccidere senza un lamento... Mi ami?—seguitò,—che cosa ti costa il confessarmelo? Jela non saprà morire: domani notte farai il confronto, e mi amerai di più. Vi sono ancora dei gladiatori: vedrai come muoiono le vergini!—Ed appoggiandogli una mano sulla spalla, così che i capelli delle loro fronti si toccavano e la fiamma del suo alito gli bruciava le gote, esclamò come se le sfuggissero le parole:

—Non puoi amare tu! sei troppo bello: la passione ti guasterebbe. Tu devi salire sull'amore come su di un piedistallo, e lasciarti ammirare. Ad Atene ti avrebbero votata una statua, io te ne offro un'altra.

Ma questa volta, accompagnando l'atto alla parola, gli si sospese al collo con un bacio. Egli già scosso dall'impeto di quelle frasi tentennò, fece un passo addietro con tutto il suo peso nel petto, così soffocato da quell'abbraccio, che per reggersi dovette respingerle il seno col seno, cingendole col braccio libero la vita.

Ida cedette senza lentare la presa, le loro teste si dibatterono un istante, quando un grido li percosse, e Jela, spalancando l'uscio del gabinetto nell'urlo supremo di una follia, corse ad Enrico, e senza che nessuno dei tre se ne accorgesse gli si attaccò al collo, mentre Ida saltava indietro spaventata.

La Nencia si affacciò sulla porta.

Ida era verde. Vide la vecchia, e in un baleno credette di aver tutto compreso. La sua anima diè un balzo, ma un singhiozzo di Jela l'arrestò. La fanciulla abbandonata sulla spalla di Enrico, il volto sul suo collo, piangeva stupidamente. La camicia troppo fina la lasciava quasi in una nudità da bagno, coi piedi scalzi sul tappeto, una spalla nuda sino alla sommità del seno, e le mani congiunte disperatamente dietro la testa di lui nell'atteggiamento di un terrore fanciullesco ed immenso. La candela del conte, bruciandole quasi una ciocca di capelli dietro il collo, dava alla leggerezza della sua camicia la diafanità di un velo, che le trasparenze rosee della pelle macchiavano lungo il dosso e sui lombi.

La Nencia mosse un passo verso il conte. Egli se ne accorse, quindi sdegnato della confusione di quella sorpresa, nella quale entravano perfino i domestici, si rivolse obliquamente a Ida. Questa sentì la freddezza egoistica del suo dispetto e gli gettò l'ironia di un sogghigno, che cadde su Jela come uno schiaffo.

—Uscite,—egli rispose con un'occhiata, mentre la Nencia si avanzava d'un altro passo. Ida capì, ma erse il capo ed incrociò le braccia. Tutto era perduto. Non le restava più che una ignobile fuga, per il più triste dei motivi, da quella casa dove era stata accolta come una sorella, e donde aveva sperato innalzarsi ancora ad altri palazzi. Però quella stessa disperazione di tutto, invece di scombuiarla, la calmò. Quindi attese il risveglio di Jela nella tensione dello schermitore ferito, che vuole con un ultimo colpo ammazzare l'avversario. Era tremante e superba. Jela alzò lentamente il volto, e senza abbandonare il collo dello sposo, si rivolse come trasognata. I loro sguardi si sbatterono. Jela palpitò e dovette staccare i propri, ma l'orgoglio, che l'aristocrazia della razza e dell'educazione le aveva deposto nell'anima, vibrò in quel minuto. Li risollevò prontamente e dimenticandosi di essere scalza, seminuda, le additò con un'incredibile nobiltà di gesto la porta del suo stesso appartamento.

Ida accennò di sì col capo, ma invece di dirigersi all'uscio le venne innanzi foscamente.

—Avete vinto!—disse staccando sonoramente le sillabe.

Quindi la strinse in un'occhiata fiammeggiante, la scaraventò lontano, e voltandole le spalle passò davanti alla Nencia. La vecchia le sbarrò la soglia.

—Indietro, villana!—ruggì soffocatamente, alzando la mano a percuoterla sulla guancia.

Traversò il gabinetto, l'altra camera, lasciandosi dietro la veste una lunga traccia di sibili, che guizzavano per la lattea dolcezza del tappeto come tante serpi di sotto ad una mina rotolata da un uragano. Sfiorò il letto, osservò le coperte respinte dal canto di Jela, la luce venata dell'alabastro come una soavità notturna fra quelle soavità quasi mattinali. Sentì la morbidezza del tappeto salirle per le gambe come una morbidezza di carni smorte, mentre la trasparenza della volta le pareva un velo gettato sul rossore inconscio delle pareti, che si preparavano ad altri rossori; sentì la forza della quercia, che aspettava gli sposi fra tutte quelle rosee delicatezze, perchè potessero tumultuarvi liberamente e ripetere i tumulti per tutti gli anni che essa durerebbe, per tutta la diversità dei rabeschi che la venavano; sentì la vivezza di quel silenzio profumato, e poi da lungi lo strido morente di una voce giovanile, eco lontana di una pellegrina, che si avvicinava all'oasi e cadeva tramortita alla vista di una tigre, mentre la belva l'aveva già traversata senza traccia, lenta sì ma fuggiasca verso il deserto ignorato dalla carovana e dai ruscelli.

Aveva i capelli rabbuffati come una criniera, la bocca aperta. Si cacciò nel buio delle altre stanze, oltrepassandolo come aveva oltrepassato quella nuvola rosea illuminata dentro da un raggio prigioniero in un'urna. Non urtava nei mobili o non se ne accorgeva; spalancava le porte, sbattendovi il raso della veste, frantumandovene i sibili.

Poi rientrò nella sua camera ed accese il lume.

Si spogliò precipitosamente, si rimise le calze, la camicia, il busto, in un batter d'occhio come chi sfugge ad un disastro. Aveva sempre più fretta; tornò all'armadio per prendere il frustino e il cappello a cilindro. Non furono cinque minuti, era già vestita. Si adattò il cappello allo specchio, guardandosi colle labbra tremanti, ed uscì a furia.

Scese lo scalone, traversò il cortile d'onore, l'altro fino all'usciolo delle scuderie; era socchiuso, lo spalancò. Una lanterna sospesa ad una colonna bruciava, rischiarando le schiene lucenti di otto cavalli. L'odore di stalla la fermò sulla porta. Tutti i cavalli erano desti, alcuni si volsero al rumore e s'incantarono nella notturna visitatrice. Ella ebbe un sussulto. Una calma grassa sorgeva dal terreno imbevuto di concime, addensandosi nell'aria colla nebbia di tutti quegli aliti poderosi, che velavano quasi il chiarore della lanterna. I raggi separati dalla porosità del vetro vi aprivano come dei solchi, i quali si rompevano sulla noce levigata delle colonne e sulle culatte dei cavalli, rimbalzando da un ciottolo, scheggiandosi sopra una piastra di metallo, quasi senza vibrazioni sopra tutte quelle untuosità di sudore, che lo studio della pulizia non aveva se non aumentato. Bagliori di specchi parevano ondulare alle pareti, mentre la volta si oscurava in una tenebra di antro, e dinanzi ai cavalli il davanzale marmoreo della mangiatoia s'allungava in una striscia di un bianco stridente sotto le rastrelliere separate, ricurve, come tante piccole inferriate di prigione.

Ida si rattenne un istante, ma non potendo in quella frenesia aver modo di riflettere, si raccolse l'abito nella mano ed avanzò. Lo stalliere dormiva in un angolo sopra una branda, la faccia contro il cuscino, vestito, i piedi senza scarpe. Gli percosse le spalle col frustino.

—Ohe!—esclamò di soprassalto, alzando due occhi grossi, che non vedevano.

—Sellami Febo.

Alla sua voce il cavallo nitrì, Ida si rivolse. Era il quinto a destra. Ma lo stalliere seguitava a strofinarsi gli occhi per accertarsi di non sognare, ginocchioni sul letto, cercando macchinalmente coi piedi gli zoccoli.

—Sellami Febo,—ella insistè seccamente.

—Adesso?!

—Sì.

Egli si mosse.

—Febo?

Ida non rispose nemmeno, mentre l'altro, che aveva finalmente infilato gli zoccoli, ricomponendosi man mano, apriva una porta interna a fianco della branda, che dava nella selleria; ma si fermò ancora.

—Vuole montare?—tornò a ripetere con una confidenza mezza giustificata dalla stranezza dell'ordine.

—Non lo vuoi?

—Io...—e un sorriso gli compì sulle labbra quella confessione della propria nullità.

La fanciulla aveva un'aria così imperiosa che l'altro non aggiunse verbo; quindi entrò nella posta di Febo, mentre Ida abbassava gli occhi sopra un sasso, piegandovi nervosamente il frustino. Quell'odore di stalla la calmava. I cavalli non scalpitavano nemmeno, voltandosi ad osservarla con atti pigri, la lucerna aveva uno splendore oleoso, una misteriosità stupida per quella sonnolenza di bruti, in quel silenzio grave di un raccoglimento animale. Ma Febo fu presto sellato. Tratto tratto Matteo sbirciava la fanciulla evidentemente in preda ad una grande passione, e più bella in quell'amazone, che le guantava il busto. Dove andrebbe a quest'ora così sola? Che cosa era successo? Gli venne quasi in mente di destare Giovanni, per non essere strapazzato l'indomani, se lasciava di notte il cavallo alla signorina, ma non ebbe il coraggio di trovare una scusa, colla quale uscire cinque minuti di stalla.

—Le domando dove va,—conchiuse, forzando per il barbazzale il cavallo ad indietreggiare dalla posta. Ida si appressò.

—Fallo uscire: monto nel cortile,—e si mise dietro a Febo, che batteva sonoramente i ferri sul selciato, quasi spingendolo col proprio passo, mentre gli altri cavalli allungavano curiosamente la testa. Due nitrirono. Matteo si era fermato innanzi all'uscio.

—Prendimi,—gli disse, impugnando le redini ed offerendoglisi, perchè la salisse in sella.

—Va proprio via?

—Sì.

Egli l'afferrò timidamente alla cintura, piegò il ginocchio, perchè vi si poggiasse; ma Ida aveva già spiccato lo slancio e si adattava la coscia nel corno, cercando coll'altro piede la staffa. La notte era serena, Febo fremeva.

—Il cancello è chiuso: debbo aspettarla?—le si rivolse aprendo un battente.

—No.

—Non ritorna?

—No.

Matteo si stupì, ma Febo aveva già infilato il collo nell'apertura, cacciandosi innanzi così furiosamente, che egli dovette spalancare tutto l'altro battente per non lasciarvisi schiacciare.

—Ohep!—gridò Ida appena all'aria aperta, lanciandolo al galoppo lungo il muro, per svoltare all'angolo e correre manifestamente al cancello in fondo dello stradone.

—È chiuso! è chiuso!—egli urlò, trascinato da quella furia, che finalmente scoppiava, e balzandole dietro a corsa; ma Febo correva come un cavallo fantastico. Quando egli giunse all'angolo lo vide che aveva già traversato il giardino e si precipitava contro le stagge nere di ferro, a capo del viale fiancheggiato di limoni, sui quali passava come un'ombra la bruna figura della fanciulla curva sulla sua criniera.

Il cavallo era già troppo lontano; ma egli si spinse ancora correndo con tutta la forza di un ripicco e della paura per l'imminente pericolo della fanciulla, urlando, movendo più le braccia che le gambe; e la vide già in fondo, dieci passi prima di rompersi la fronte nel cancello, storcersi, deviare verso il pilastro destro, urtare nella siepe, sorvolarla di un salto e prorompere un'altra volta sulla strada maestra in un galoppo sonoro. Ida fuggiva, incitando Febo col morso e collo sprone.

La strada bianca e silenziosa nella notte si perdeva lontanamente, sempre sulla riva sinistra del fiume, lambendo le case dei contadini e dei carrettieri. Era secca e senza polvere. I monti, alti e ripidi sulle sponde del fiume, le davano l'apparenza di un altro canale morto, cui il bruno notturno degli opposti boschetti cedui accresceva l'opaca chiarezza e quella malinconia di abbandono. Ella fuggiva sfrenatamente sul cavallo disteso ad una carriera, che le toglieva quasi il respiro, colle redini rilassate, la testa bassa come chi ruini contro un ostacolo. Per limitarsi la strada non vedendola, guardava innanzi alle orecchie di Febo dieci passi, l'occhio fiso su quell'immobile candore, mentre la lena precipitante dell'animale la trascinava. Colle sottane sbattute dal vento come una piccola vela sulla groppa del cavallo, mentre le premevano il grembo con una sensazione di violenza voluttuosa, e i capelli, ricacciati a ciocche dalle tempia, che le pizzicavano le orecchie di carezze, ella non pensava, non sentiva più che lo sbaraglio trionfale di quel moto. Corse sempre a quella carriera svoltando a tutte le curve, precipitando per le discese, ansando alle salite, poi irruendo ad ogni distesa della strada come se vi caricasse guerrescamente tutte le difficoltà della sua vita, aprendovi un solco di rantoli e di urli, in mezzo ai quali passava col viso smorto come il chiarore di quella strada, l'occhio vitreo e le labbra tremanti. Respirava a stento, aveva il seno gonfio.

Il generoso cavallo era tutto bianco di schiuma, col ventre insanguinato. Benchè corresse da quattro miglia, non allentava l'impeto della corsa, invasato dallo spirito della fanciulla, battendo faticosamente i fianchi con un orgoglio demente, che non gli lasciava provare la stanchezza nella sonorità del proprio galoppo. Le orecchie basse, il collo teso, si respingeva la strada sotto le zampe come una larga tela, facendo uno sforzo supremo ad ogni nervosità della fanciulla, inchiodata robustamente sulla sella, ma percossa tratto tratto da un sussulto. Fortunatamente incontrarono poche birocce. I carrettieri, desti da quel rumore rovinoso, avevano appena il tempo di scansarsi e di guardare, interrompendo a mezzo la bestemmia dalla maraviglia; e vedevano una leggiera veste bruna fluttuare sulla groppa di un cavallo spaventato, e allontanarsi sonoramente attraverso la mitezza della notte e il sonno della campagna.

Ma il cavallo era già invisibile, e la veste svolazzava davanti alla loro fantasia eccitata, all'ultimo lembo della strada con una leggerezza sinistra. Ida non si era neppure accorta di loro. Due volte fu ventura se Febo non si spaccò il petto nei rotelloni delle ruote; un'altra volta strisciò contro un carro di fieno, e le raschiature alla faccia destarono la fanciulla. I contadini, che non avevano avuto il tempo di evitarla, le gettarono dietro un urlo stupefatto. Febo ansava come un mantice, e, malgrado la frenesia di quell'impeto, cominciava a rimettere della prima irruenza.

Adesso la strada spesseggiava di case.

Qualche villa vi avanzava i cancelli fino sul margine, qualche siepe tosata e qualche balaustra di ferro coi fanali spenti sorgeva sul fosso, qua e là irto di spini scapigliati. Più avanti un camino gigantesco forava il cielo sopra un gruppo di tettoie lucenti e prolungate; poi le case si addossavano a crocchi, molte con una leggenda commerciale a caratteri enormi fra i due piani, colle porte contigue quanto le finestre, mentre dalle griglie e dagli ornati di alcune altre s'indovinava il sobborgo. E la porta della città apparve davanti alla mole dei palazzi, delle case, delle casipole immobili nel proprio disordine; attraverso la barriera chiusa si vedeva una lunga strada punteggiata di fanali, per la quale qualche carrozza coi lampioni veniva verso il sobborgo, che aveva spento i propri, troppo povero o troppo rozzo per tale lusso di città. Lo sguardo della fanciulla entrò per la barriera, posandosi sopra un fiacchero lontano, come un uccello stracco sopra un albero. Febo s'inoltrava a mezzo galoppo, il sobborgo era deserto. Ella si gettò attorno un'occhiata: doveva essere tardi. Una calma silenziosa avvolgeva quella specie di villaggio, che aveva chiuse tutte le sue porte e le sue finestre, e nel quale non vegliava un lume, non si alzava una voce, non si moveva una figura. Tutti dormivano. I due caffè, quasi dirimpetto, si erano serrati gli usci in faccia, ed obliavano nel sonno le loro rivalità. I fondachi e le botteghe così sonore di lavoro nel giorno, si affondavano nell'ombra, mentre il catino d'ottone sulla porta del barbiere coll'incorreggibile pettegolezzo del mestiere gettava tratto tratto un riso stridulo, come la nota acuta di una maldicenza. Il galoppo di Febo tuonò. I doganieri di guardia uscirono e si fermarono contro il cancello meravigliati di quella signora sola a quell'ora; ma poichè si dirigeva evidentemente su di loro, apersero con abbastanza prontezza. La fanciulla provò una grande sensazione di quiete entrando dalla rozza barriera di legno sotto l'arco della porta spalancata. Era in città. Poi ebbe un brivido, e frenò il cavallo quasi colla circospezione del soldato, che sente l'agguato. Un orologio suonò le due e mezzo. Ella percepì nettamente gli squilli della campana, svegliandosi alla realtà di quella fuga romantica nel mezzo della strada lunga, gremita di palazzi, che avevano l'aria di chiedere curiosamente dove scenderebbe questa zingara senza casa, la quale sembrava arrivare dalla steppa sul cavallo morto di fatica. E allora, in quell'eleganza di toeletta e di cavalcatura, si sentì orribilmente sprovveduta ed abbandonata. Febo si era messo al passo, scotendo il collo con un tinnìo argentino del filone nel morso e sbuffando; la criniera gli rabbrividiva. Quindi Ida lo toccò collo sprone per sottrarsi colla fuga all'avvilimento, che le pioveva addosso da quei palazzi signorili, ma raddrizzandosi nella sua più bella posa di cavallerizza sotto gli occhi chiusi delle finestre e fra tutti gli echi di quel trotto ferrato, che le rimbalzavano intorno come inseguendola. Le poche persone attardate lungo la strada si voltavano attonitamente a guardarle dietro: ne intese alcuni dimandarsi ad alta voce il suo nome.

Sempre al trotto discese la strada, svoltò a sinistra; una carrozza l'obbligò a rattenersi, vide la signora cacciare il volto dagli sportelli per esaminarla. Proseguì. Passando dinanzi ad un caffè, un crocchio di scioperati allungarono il collo, un acquavitaro colla cesta posata sopra un pilastro all'angolo di una via esclamò: ohe!, un cane le corse dietro abbaiando. Persino una finestra, che si chiudeva, tornò ad aprirsi, ed una testa si sporse a guardare. Ma la città era deserta come il sobborgo. Quei pochi rimasugli del giorno, vagolanti al lume dei fanali, raggruppati ad una porta, incerti, fantastici, pronti a scomparire col mattino, le davano ancora più un'aria di città morta. L'ombra colava pei muri, giù dalle gronde, stracciata ad intervalli dai raggi di un lampione, addensandosi nelle porte, sotto i loggiati, e si mesceva col silenzio. Nelle stazioni i fiaccheri guardavano con due grandi occhi di fiamma, rimanendo invisibili; le strade partivano dalle strade, vuote, restringendosi in una taciturnità di mal augurio e piena di attrazioni. Ida vi guardava pensando a volta a volta che avrebbe potuto cacciarvisi inutilmente ed assurdamente. Poi si sentiva più strana in quel mondo notturno, che tutti avevano abbandonato, ella che fuggiva pure da un altro mondo. Un istante ebbe paura del proprio rumore. Finalmente infilò l'ultima via e guardò il cielo: era sereno, ma anche le stelle cominciavano a ritirarsi. Febo allungò spontaneamente il trotto; la strada tortuosa e stretta era chiusa ad un cento passi dalla massa bruna di un palazzo. In un baleno vi arrivò, entrò il portone col cuore e la testa in fiamme, non accorgendosi nemmeno della stravaganza, forse dovuta alla sonnolenza del portiere, che la metà del ricco cancello a dorature fosse aperta. Il becco di un fanale antico, in ferro intagliato e a piccoli vetri ottagoni, spandeva una luce quieta; il portinaio non c'era. Il passo di Febo echeggiò sotto la volta.

Ella discese precipitosamente e si cacciò per lo scalone, fermandosi sul vasto pianerottolo pieno di vasi, dinanzi a una gran porta, dalla quale pendeva un cordone rosso di seta a fiocco, e suonò. Poco dopo le fu aperto; il cameriere del duca indietreggiò stupefatto.

—Il signor duca?—ella chiese appoggiandosi all'uscio.

L'altro tardò a rispondere, esaminandole la faccia stravolta come da una fissazione.

—Si è coricato in questo punto.

—Introducetemi.

Il cameriere era titubante.

—Perdoni,—arrischiò,—è forse accaduto...—ma vedendo che la fanciulla si avviava già senza rispondergli:

—Il signor duca è a letto.

—Introducetemi.

—Nella camera?

Traversarono molte stanze in fretta, perchè Ida correva quasi, poi due salotti stupendamente ricchi, che ella non vide nemmeno, e il cameriere si fermò discretamente ad una porta per bussare; ma ella lo respinse con una mano, e fermandolo con un'occhiata irresistibile, aprì e se la chiuse dietro. La camera di una magnificenza principesca, lenemente illuminata, aveva un odore sottile. Rimase addossata alla porta, invisibile nello spessore del muro, rattenuta ancora da una suprema incertezza; ma la sensazione di quell'odore fu per lei la sola ben distinta. Poi si avanzò.

Il duca, già in letto, aveva alzato il capo, parendogli d'intendere rumore; quindi mise un grido.

—Voi?

La fanciulla si fermò nel mezzo della camera, lo guardò come inebetita e cadde sopra una poltrona. La poltrona, un mobile di fantasia, era di raso bianco di un candore virginale.

—Ida!—le chiese affannosamente, sedendosi sul letto senza poter rinvenire dalla meraviglia:—che cos'è?

—Sono stanca.

—Di dove venite?

Ella chiuse gli occhi.

Il duca ebbe una forte tentazione di scendere dal letto, ma non se ne fidò. Aveva solamente una camicia di seta, elegantissima. Era fuori di sè ed osservava stupidamente la fanciulla abbandonata su di una poltrona in una posa naturale di stanchezza. Ma d'improvviso ella scattò in piedi e gli si appressò.

—Venite da Valdiffusa?—egli ripetè.

Il duca era seduto sul letto, colla coperta di seta azzurro-cupo sul ventre e il busto dritto entro la camicia di seta paglina, legata al collo da un cordoncino, la quale gli disegnava i grugni delle spalle come una camicia da bagno inzuppata. Era gialla, e pareva ingiallita dal riverbero della sua faccia quasi irriconoscibile, così lavata da tutti gli impiastricciamenti del giorno. Aveva gli occhi sbarrati, il viso più smunto; i pochi capelli grigiastri, disordinati sulle tempia, senza quel solito riccio diplomatico ed elegante, non gli coprivano più la irradiazione delle piccole crespe dagli occhi. E le sorrideva inconsciamente, chinandosele incontro nella sua posa consueta di galanteria, senza pensare che la camicia di seta gli scopriva i peli bianchi del petto.

Il cuore della fanciulla si gonfiò; le parve che tutto si squarciasse, di vedere Enrico e Jela abbracciati.

—Ida!

Ella gli abbassò gli occhi sul petto, ve li trattenne, poi abbassandoli ancora scorse il Fanfulla mezzo spiegato sul letto.

—Vi annoiavate?—gli domandò accennandoglielo con un amaro sorriso.

—Ida...

Ella si sedette lassamente sulla sponda del letto e mormorò:

—Annoiatemi.

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PARTE TERZA

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I.

Ida aveva ordinato al cocchiere di retrocedere. Il vespro era sereno e malinconico. I grandi platani del viale, immobili e pensierosi, sembravano non avvertire la folla delle carrozze e dei pedoni, i quali rumoreggiando ritornavano in città a coppie, a crocchi, talvolta soli, coll'aria leggermente preoccupata, che il mistero invadente del vespero dà a tutte le fisonomie.

Ella si strinse nella mantiglia bruna a ricami dorati, premendosi nell'angolo del ricco landau. Quel giorno il passeggio era stato più popoloso del solito; nessuna delle ricche eleganti vi aveva mancato, quindi erano scese nel prato dei pini a calpestare il fresco tappeto primaverile, gustando la nuova gioia delle vesti striscianti sull'erba e degli stivalini, che vi si affondavano con una morbidezza refrigerante. Il sole aveva più luce che calore, le piante più bottoni che fiori. I loro verdi infantili, che si erano guardati tutto il giorno coi più teneri sorrisi, illanguiditisi al cadere del sole, vanivano ora in un'ombra fredda, che pareva divorare anche le foglie neonate, abbrunando gli alti scheletri invernali degli alberi.

Le carrozze calavano in lunga fila ininterrotta, al trotto rattenuto dei cavalli coperti di ricchi bardamenti, ondulando, la maggior parte scoperte per comodo delle signore, che avevano mutato le pellicce di Russia nelle mantiglie di Lione. E la folla dei pedoni, mano mano più frettolosi d'ambo i lati, prolungava gli sguardi al passare di qualche donna più bella o più celebre nel piccolo mondo aristocratico; le quali, felici di quelle occhiate anonime, facevano le viste di non sentirle, trascinandosele dietro con quella calcolata indifferenza dell'orgoglio, che dà all'anima la sensazione carezzevole del vento sulla faccia.

Il landau di Ida a due magnifici cavalli russi, col cocchiere in livrea nera, era forse il più ricco equipaggio della passeggiata, che attirava con tutti gli sguardi i maggiori commenti. Ella vi stava sdraiata nell'ombra azzurra della tappezzeria, resa più cupa ancora dal suo abbigliamento nero, colle mani nel manicotto di volpe turchina e una piccola piuma sanguigna sul cappellino. Ma, benchè distratta, coglieva quel trionfo del proprio lusso, quando le grandi signore, che affettavano di non vederla, se il suo landau le soverchiava, le ricercavano con uno solo sguardo il più piccolo difetto di eleganza e si parlavano all'orecchio. Talora il pensiero, fra quella folla bruna e ricca, le si posava involontariamente sopra una povera figura di uomo o di donna; la penetrava, poi sfuggiva ratto, ritornando sul largo stradone delle carrozze, dentro quel landau principesco, in quell'ombra di rasi e di velluti.

Il vespero saliva lentamente. Il viale, bianco e secco come di asfalto, proseguiva fra gli alberi e la gente, sotto le unghie dei cavalli, che vi battevano con misurata e sonora cadenza. Due o tre cavalieri venivano al passo. D'improvviso un galoppo poderoso percosse il terreno, molte persone rivolsero il capo e videro spuntare alla svolta un gran cavallo nero e un ufficiale coll'elmo. Cavallo e cavaliere venivano colla violenza di una ruina, ma si frenarono; il cavallo fece due o tre balzi, e seguitò al trotto, mentre altri tre signori a cavallo, come punti da rivalità, si spiccavano dinanzi al landau di Ida. Ma i più stavano intenti nel nuovo cavaliere. L'animale era di una statura e di una bellezza assai rara, morello, balzano da quattro.

—Il capitano Buondelmonti!—mormorava qualcuno.

Il cavaliere, più perfetto del cavallo, malgrado le difficoltà di quel trotto saltellato salutò graziosamente qualche carrozza, e si appressò a quella di Ida. Evidentemente, fingendo di rattenerlo, irritava il cavallo e gli faceva gittare dei salti, che lo portarono quasi allo sportello. Tutta la gente era incantata. Ida si rivolse appena, sorprese una intenzione nello sguardo del capitano: un invisibile sorriso le passò sulle labbra, il capitano lo colse, il cavallo ebbe uno scatto, che strappò quasi un applauso, e si precipitò. Il capitano balzava sulla sella con la leggerezza di una donna. Lambì come una visione fragorosa la lunga fila delle carrozze, poi dovette arrestarsi alla cancellata, perchè alcuni legni entravano tuttavia a quell'ora tarda.

Il mylord di Jela, guidato da un grosso cocchiere inglese, si avanzava al passo; il capitano salutò. Jela ebbe un tremito, rispose con un cenno leggero di capo e, quando fu passato, gittandogli dietro un'occhiata, chiese al conte Enrico:

—Credi che morirà?

—Forse. Buondelmonti gli ha spaccato la testa. Fortunatamente Villani aveva torto.

—È orribile!

Il conte non disse altro, ma Jela si guardò dietro un'altra volta, involontariamente. Ad un tratto proseguì:

—Ha la mamma?

—Le abbiamo telegrafato subito dopo il duello, arriverà questa sera. Forse sarebbe stata pietà il non chiamarla. Se Villani avesse potuto parlare, era della mia opinione, ma gli altri padrini hanno insistito. Egli si è battuto benissimo, ma Buondelmonti è troppo forte... Già aveva ragione,—ripetè, insistendo su questa parola con una certa ironia.

—Non valeva proprio la pena che due uomini distinti si ammazzassero per una donna, la quale ha avuto tanti amanti.

—Lo sai anche tu?

—Lo sanno tutti: però è abbastanza punita. Bice mi ha detto che Buondelmonti ha giurato di non mettere più il piede in casa di quella donna, e che non è punto innamorato.

—È possibile, ma Buondelmonti perderebbe troppo perdendo la contessa Ceri. Donne come la contessa non se ne trovano soventi.

—Fortuna!

—Per Buondelmonti?—e il conte aveva il sorriso maligno di chi conosce un secreto.

Ma s'incontrarono nel landau di Ida; le due carrozze andavano di un trotto lentissimo. Il conte vide quel volto pallido, che lo guardava sorridendo, e provò una specie di vergogna nell'essere sorpreso dalla moglie in tale apparente intimità; ma non potè evitarla. Ida diede al proprio sguardo un'espressione anche più sfacciata, fece col capo un cenno invisibile, intraducibile, ed allungandosi languidamente li oltrepassò.

Nessuno dei pedoni aveva capito, ma Jela si era sentita uno strappo al cuore. Non incontrava mai quella donna senza uno sconvolgimento di terrori e di attrazioni. Tutta la sua vita era ancora troppo piena di lei, giacchè quella scena, rompendo la loro amicizia, non aveva potuto nella sua fulminante imprevedibilità strapparne i più profondi rapporti. Poi Jela, avendo sposato il conte Enrico, si era trovata improvvisamente senza affetto e senza appoggio. Suo padre non lo era che di nome, forse di fatto, ma non di anima; suo marito l'aveva presa per la dote, ed ella si era innamorata meno per un'affinità di natura, che per la misteriosa ed ancora ingenua attrattiva del sesso. Tutte le poesie primaverili, addensandosi intorno alla figura femminea del conte, glielo avevano fatto desiderare coll'ingordigia della bambina e la depravazione birichina della educanda; ma quei primi entusiasmi d'amore erano stati appena i vagiti della donna, che si formava ed avrebbe amato un giorno, o i rantoli della donna che moriva nascendo, soffocata dalle animalità eleganti della femmina, dalle vanità corrotte della signora.

Il lucignolo, che si accende, ha lo stesso raggio e la stessa luce del lucignolo che muore.

Ma di ciò Jela non aveva potuto rendersi un certo conto che dopo, e nemmeno molto particolareggiato ed esatto. Però, se prima non aveva sentito neanche l'aridezza del padre, dopo aveva dovuto accorgersi di essere solitaria come un magnifico fiore in un magnifico vaso del proprio appartamento.

Persino la tenerezza brontolona della Nencia le mancava, giacchè la vecchia aveva capito, malgrado l'egoismo senile della propria passione per Jela, di essere impossibile nella nuova casa degli sposi. Il conte, che non la vedeva di buon occhio, l'avrebbe forse considerata come una spia del suocero; poi la Nencia, sapendo di non avere nessuna abilità per la toeletta, preferiva ancora di essere lontana dalla padroncina alla umiliazione di vedersi preposta un'altra cameriera, esperta delle eleganze e delle debolezze delle signore. Solamente aveva offerta a sè medesima una speranza, che Jela avesse un bel bambino, e allora la vecchia ridiventava possibile, rientrava nella nuova casa, e occupandosi esclusivamente di lui, vedeva e dominava tutto. Talora ne parlava col conte Alberto, che la guardava sorridendo.

—Tu speri dunque?

—Ma lo credo bene io, per la casa che finisce.

—È già finita.

Ma la vecchia non ne conveniva; quel bambino sarebbe sempre stato il bambino di Jela, qualunque fosse il suo cognome, giacchè per lui avrebbe potuto ritornarle vicino. Quindi ella potrebbe finalmente benedire la propria vita, di assidua migrazione attraverso la vita degli altri senza fermarsi mai sopra un terreno proprio, il giorno che, sedendosi povera vecchia con un angelo in grembo e guardando la sua bella mamma, potesse addormentarsi nonna zitellona nella rosea luce di quelle due vite. Il conte invece non sperava più nulla, e Jela non lo aveva veduto da due mesi; era andato in Inghilterra per comprare dei tori, poi non ne era più ritornato e non aveva nemmeno scritto; d'altronde non scriveva mai. Dal giorno che aveva lasciato il castello di Valdiffusa per il viaggio di nozze, Jela aveva ricevuto solamente una lettera paterna, breve come una ricetta. Ella se n'era un po' afflitta, minacciando di piangere, ma il conte Enrico aveva saputo commentarla così spiritosamente, che la sposina aveva dovuto conchiudere con una pazza risata. Allora erano sul Reno. Jela se ne ricordava ancora. Fu visitando uno de' suoi poetici castelli che le venne il primo dubbio di sè medesima e d'Enrico; giacchè in quel momento Ida le era apparsa pallida come una larva di quei drammatici corridoi, chiusa in una veste nera di un funerale, passando loro frammezzo cogli occhi assopiti e la bocca dilatata ad un riso marmoreo. Ne rimasero freddi. Che cosa era stato? Da che dipendeva? Essi medesimi non avrebbero saputo dirlo. Il loro amore si abbassava, il viaggio diventava increscioso; giunsero perfino a celiarne. Egli fu il primo, ella lo seguì vivacemente, ma in fondo al cuore soffrendo della propria inferiorità di donna, che l'attaccava fatalmente a quell'uomo come a tutto il mondo finora da lei conosciuto. Ma la natura le riparò tuttavia abbastanza presto quei primi guasti della vita. Se le siepi avevano troppi spini, bastava ancora gittarvi qualche fiore di giorno, o sospendervi qualche lampioncino di notte. Infine il viaggio li stancò.

Erano a Spah. Il conte Enrico aveva giocato, Jela era stata corteggiata due sere da un ungherese, splendido come un eroe nel suo costume di magiaro. Jela aveva subito pensato ad un ballo mascherato, il conte avea perduto una bella somma, Jela l'occasione di una bella galanteria. Ritornarono, andarono in una villa, che il conte aveva fatto restaurare durante il viaggio, e la loro luna di miele tramontò sulle sue vaghe colline. Fu un triste tramonto. Non che l'aria fosse fredda o la trepidazione della tempesta facesse già rabbrividire il giovane paesaggio, ma fu ancora più triste. Il sereno era scialbo, la luna dal colore dell'argento era scesa a quello dello zinco, l'aria aveva una immobilità di morta gora, il paesaggio un'attonitaggine di ebetismo.

La noia aveva ucciso quell'amore. Il conte era tornato alle distrazioni di prima, Jela si fermava talvolta a meditare sul piccolo sepolcro della propria felicità senza osare di aprirlo. Era meravigliata del proprio stato. Quindi i motti scettici di Ida le ripassavano per la memoria come improvvise rivelazioni. Spesso le pareva di rivederla trasfigurata dalla passione, come in quella notte fatale piegando Enrico quasi in due nella stretta spasmodica dell'abbraccio, con una pallidezza di spettro e tutto il corpo vibrante sotto quella veste di raso nero, per la quale correvano brividi di luce elettrica. Quindi tornava ad avere paura come la prima notte di matrimonio, quando credeva di sentirsela sempre intorno al letto e si tirava le coperte sulla testa sfuggendo ai baci di Enrico.

Poscia le novità del matrimonio, l'attività spensierata del primo viaggio, l'instancabile succedersi di mondi e il tumulto di impressioni, le quali non facevano se non che svanire nella sua anima, l'avevano distratta dai ricordi di quella notte. Ora i ricordi ritornavano più minuti e più precisi. La fanciulla, dopo quel primo abbarbaglio sulla soglia del mondo, cominciava coi begli occhi violetti a coglierne le forme ed i toni. Fu una ricostruzione: rimeditò Ida, la rifece, la comprese per quanto stava in lei, sentì come avesse dovuto fare sopra Enrico una incancellabile impressione, esagerò a sè stessa il valore della sorella. Nell'amarezza dell'umiliazione si negò persino l'incantesimo della propria natura eccezionale, vedendosi in faccia ad una donna senza dubbio meno bella (Jela su questo non aveva davvero molti dubbi) ma incalcolabilmente, misteriosamente più forte cogli uomini e colla vita. Il suo terrore centuplicò colla sua ammirazione; ebbe sogni che erano un intero romanzo, ridicolaggini paurose, che la divertivano.

Ma anche questo passò, perchè Jela non poteva nè troppo sentire, nè troppo riflettere. D'altronde l'ingresso nei saloni l'occupò. Fu accolta con festa, adulata, corteggiata, leggermente, senza insistenza, senza affetto. La trattavano ancora da bambina, e nullameno le piacque, giacchè aveva bisogno di piccoli trionfi, come le pianticelle hanno duopo di rugiada. La marchesa di Renzuno l'accompagnò qualche volta, l'accompagnò il marito, l'accompagnò lo zio. Ma adesso ella lo guardava con stupefazione. Che cosa aveva mai questo uomo da possedere pubblicamente Ida senza averla sposata? Ogni qualvolta lo incontrasse, la fantasia la riconduceva sempre in casa di Ida, e vedendoli come ella vedeva il conte Enrico a certi momenti, la naturalezza della cosa l'abbacinava.

Tuttavia il mondo di quella galanteria senile e di quel vizio vendereccio le restava chiuso. Una volta, cadendone il discorso, osò chiedergli.

—Siete innamorato?

—Forse.

—Una donna come quella...

—Ti piace pure la musica di Offenbach.

—Piace anche ad Enrico.

—Lo so,—e il vecchio duca aperse le labbra ad uno di quei sorrisi maligni, che indispettivano la fanciulla.

—Come siete cattivo!—esclamò alzandosi; ma la sera, quando seppe che Enrico andava qualche volta in casa di Ida, si fece pensierosa. Glielo aveva detto la contessa Bice Guelfi, una antica compagna di convento, maggiore di cinque o sei anni, che viveva assai elegantemente. Jela lo dimandò ad Enrico, egli negò, ella non ardì insistere. Però la domenica seguente, alla passeggiata, il calesse di Ida più ricco del loro, tappezzato di un raso paglino, tratto da due cavalli mezzo sangue, venne sfacciatamente a postarsi loro d'allato nel gran piazzale. Jela era sola con Enrico; fortunatamente, per la folla delle carrozze, non avevano giovanotti agli sportelli.

Jela ebbe una vampa di rossore, il conte Enrico aveva impallidito. Tutte le signore delle carrozze vicine, che conoscevano la storia di Ida, stavano così intente nei due sposi, che a Jela sembrava d'intendere i loro propositi. Quello fu un quarto d'ora d'angoscia, male dissimulata da tutti gli sforzi di Enrico per fingere una conversazione, mentre Ida, adagiata in una delle sue pose più sapienti, vestita di velluto nero, pareva non accorgersi nemmeno della loro presenza.

Jela ferita nell'orgoglio aristocratico, la sola sua forza, aveva osato lagnarsene collo zio, la sera stessa a pranzo, ma egli si era buttato nei principii democratici per provare il diritto di Ida, canzonando la nipote di quel puritanismo.

—Infine l'equipaggio di Ida era il più bello. Ma allora, mia cara, la duchessa Del Giglio, che tu saluti con tanto rispetto, non potrebbe entrare nel piazzale, perchè la sua magra carrozza sai benissimo che gliela mantiene quel vecchio ebreo.

—Ma Ida voleva offenderci.

—Glielo domanderò; in ogni caso tu non fai altro da mezz'ora: la partita è pari.

Jela non rinveniva dalla meraviglia, era tentata di piangere. Da quel giorno s'accorse che scoppiava la lotta, mentre la sua vita cominciava senza un amico o una amica. Fortunatamente la sua timidezza la salvò da confidenze stordite colle signore, che la ricevevano.

Quella sera il duca pranzava da lei, però essendovi altri invitati, non fu puntuale.

—Mi perdoni, Jela?—esclamò entrando nel salottino dei ritratti.

—No.

—Fai male. Vengo in questo punto da Ida, che voleva trattenermi a pranzo, ci ritorno.—Ma intanto si cavava i guanti, accomodandosi un riccio della pettinatura nello specchio del camino.

—Allora vengo anche io,—interloquì gaiamente il conte Enrico:—Non vedi come Jela è seria? Pranzeremo molto male qui.

—Per te staresti peggio laggiù: sei innamorato e non riesci.

—Adagio, zio.

—Gli è che non vali nulla: non è vero, Jela?

—E Ida vale proprio quello che vi costa?

—Più.

Sulla faccia di Jela passò una nube, il duca la vide come il conte, e ne sorrise. Ma a tavola Ida fu ancora il soggetto della conversazione, accarezzato con una esagerazione crudele, come se entrambi si fossero prima accordati per torturare fino a sangue la povera contessina. Il duca soprattutti era insolente. Nel bisogno di rifarsi sugli altri della vecchiaia attribuitagli prima di possedere quella donna singolare, la sua mordacità non aveva più nè tono, nè misura. Ida gli aveva raccontata, svisandola, la storia di quella notte, quando più curiosa che innamorata aveva voluto spiare come i due sposini si abbraccerebbero e il conte l'aveva sorpresa senza poterla sedurre; quindi egli, battuto recentemente dal conte con una ballerina celebre, per rifarsene lo aveva creduto. Anzi lo conduceva egli stesso da lei, per vederli lottare insieme e andarne sempre Enrico colla peggio. Ida era ogni giorno più implacabile contro lui e contro Jela.

Una volta il duca gliene chiese il perchè.

—Ditemi dunque perchè voi stesso serbate rancore a quell'adorabile contessina?

—Io... siete pazza?

Ma Ida lo aveva fissato con tale acutezza, che egli si era confuso, accorgendosi forse per la prima volta della verità di quella cattiva risposta.

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II.

Quando il duca entrò nel gabinetto la pendola del camino suonava le undici. Ida era sdraiata sopra una lunga poltrona di raso a scacchi bianchi e neri, colle gambe incrociate e una piccola pantofola, che le si agitava impazientemente fuori della veste. La lumiera della volta, velata di fiori, lasciava nell'ombra l'angolo, dove ella posava innanzi al vecchio maestro, arruffando nervosamente le piume di un parafuoco fatto di un uccello dell'equatore, dalle penne brillantemente colorate e la coda aperta, con un ramoscello di albero fra i piedi.

Il maestro volle alzarsi rispettosamente, ma Ida lo rattenne con un'occhiata, quindi accennando al duca, che si avanzava colla mano tesa e il sorriso sulle labbra, di sedersi, seguitò la discussione. Parlavano di Murger. Savelli ne aveva vantato la profonda tenerezza, il sentimento fine fra quelle girandole di motti spiritosi, sotto quell'apparente volgarità di soggetti; ma Ida si ribellava. Per lei Murger non aveva che dello spirito e non sempre buono, il suo sentimento sapeva di lattime, le sue finezze servivano troppo spesso per una scroccheria.

—È morto all'ospedale dopo avere inutilmente svestite le proprie piaghe su per le piazze, cercando d'impietosire col lazzo quando le lagrime fallivano; mentre Escousse, un altro boemo, forse con altrettanto ingegno ma con più cuore, piuttosto che scendere a tutte quelle bassezze, eseguite con tanto brio e descritte con abbastanza arte, si è ucciso. Non mi parlate di Murger,—seguitava riscaldandosi;—si può leggerlo, ma non si potrebbe invitarlo a pranzo, a meno di non considerarlo come uno scroccone, del quale si ammira la destrezza della mano e della lingua.

—Era povero,—arrischiò timidamente Savelli.

—Quando si è poveri e si vuol farsi una gloria o uno scandalo della propria povertà, bisogna vivere come Antistene o come Diogene.

—Un poeta!

—Perchè scriveva delle poesie! I poeti più che ai versi li riconosco alla vita. Byron, ecco il poeta; ha vissuto come ha scritto, è morto come ha vissuto. Musset, un altro. Un poeta è prima un temperamento, poi un ingegno. Goethe aveva più ingegno di Byron, ma io glielo pospongo. Hugo ha più ingegno di Musset, ma io ammiro Hugo ed amo Musset. Forse il poeta più vero non è quello, che scrive la migliore canzone, ma che commette la più bella follia.

—Perfettamente!—interloquì il duca.

Savelli, che temeva già di tener testa ad Ida, sentendo il duca approvarla si arrese del tutto, ma la fanciulla gli salvò la ritirata stringendosi improvvisamente col duca, che veniva da teatro. Era stato nel palco di Jela all'ultimo atto della Dora di Sardou. Domani sera si rappresenterebbe l' Etrangère di Dumas. Ida, che voleva assistervi, si volse al maestro, perchè la accompagnasse; egli titubava:

—Non è vero che non vi vergognate di me?

—Signorina!—esclamò sorridendo.

Ma questa domanda avea finito di sconvolgerlo. Malgrado la sua poca abitudine del salone, si accorgeva d'essere d'impaccio in quel gabinetto, fra quei due, ad un'ora così avanzata, egli che non frequentava altra casa e soleva coricarsi alle nove di sera, solo nel suo modesto appartamento alla mercede di una vecchia serva.

Gli pareva già di udirla brontolare in cucina. Tutte le sere, che veniva da Ida, bisognava chiedere il permesso, ed era sempre la solita ragione, che glielo faceva ottenere. Ida per mezzo del duca lo aveva fatto nominare direttore di un istituto tecnico con quattrocento lire di stipendio mensile. Questo colpo insperato di fortuna aveva portato alquanto di agiatezza nella vita di Savelli, entusiasmando la serva, umiliata fino allora da quella miseria nei propri talenti culinarii; ma non aveva potuto disarmarla. Per lei la fanciulla era sempre una sfacciata, buona per farsi mantenere dai vecchi, che non innamorava se non dei vecchi; ed egli pure, un vecchio, un professore, si era lasciato prendere come una lasca. E Savelli arrossiva.

Sicuramente sapeva di essere troppo vecchio per innamorarsi di Ida, ma la fanciulla d'oggi non somigliava punto a quella di due anni prima, quando meravigliandolo colla forte elettezza della propria natura gli faceva mormorare con mondano rammarico: peccato che non sia bella! Non era bella ancora, nel senso ordinario della parola, anzi a prima vista non destava nemmeno la simpatia delle persone brutte e squisitamente dotate. La sua fronte troppo seria per quella giovinezza, la sua pelle troppo bruna per quel pallore troppo livido, i suoi occhi troppo neri per essere così grandi, il sorriso sempre sprezzante delle sue labbra, impensierivano e repellevano; si considerava forse la sua testa, se ne ammirava la forza, ma non si poteva accarezzarla, e la simpatia non è se non la facilità della carezza. Ma la severa e nel tempo stesso pomposa eleganza del suo lusso attraeva l'attenzione; le sue arie di testa, il suo portamento, la perfezione plastica del corpo, al quale gli abiti così temerarii di rivelazioni andavano pur così bene; la finezza della sua pelle e la finitezza delle sue estremità, le mani nervose come la branca di uno sparviero e nullameno tanto morbide, il piede piccolo e superbamente arcuato come per calpestare tappeti ed affetti; un'alterigia che le evaporava da tutta la persona, e che ella agitava a onde col più leggero de' suoi moti e il più indifferente de' suoi gesti, le davano una vivezza di originalità troppo rara per una donna. Quantunque cortese e raffinata nelle maniere, un profondo disprezzo trapelava da ogni suo atto e da ogni parola; e vi era tanto orgoglio e tanta seduzione nella sua fisonomia, che sarebbesi detto non avesse voluto esser bella per un calcolo audace delle proprie forze.

—La bellezza nelle donne è come lo spirito negli uomini: si seduce, ma non si conquista;—ella aveva detto.

Infatti era un conquistatore. Nessuna dama era più dama di lei. Avrebbe rinunziato a tutte le altre belle fattezze pur di conservare i piedi e le mani, i capelli e la pelle: il resto se lo traeva dall'anima.

Nessuno gliela aveva insegnata, ma appena ricca da poter rivaleggiare colle vere duchesse, aveva subito trovato quella disinvoltura, che non si acquista se non coll'abitudine del comando. Il suo sorriso aveva delle compiacenze da regina, e la sua fronte delle subite rughe da generale, pur restando sempre fanciulla. Spesso un'ombra di malinconia le sfumava gli angoli imperiosi del volto, e il corpo le si illanguidiva in una soavità di abbandono verginale, mentre gli occhi le si velavano e la bocca le si schiudeva come nel solletico di una carezza, che un sogno le facesse sulle labbra prima di svanire nel soffio di un sospiro.

Savelli, che in tutta la vita non aveva mai conosciuto una gran signora, fu vivamente impressionato di quella metamorfosi. Malgrado l'onestà della propria morale, a poco a poco dimenticò la falsa posizione di Ida, abituandosi a vederle il duca nell'appartamento, quantunque sapesse che glielo aveva ammobigliato egli medesimo spendendo una somma assurda. Il lusso, l'eleganza, la poesia, che ella dava alla sua nuova ricchezza e che la ricchezza le rendeva, gli furono sorgenti di nuove e squisite sensazioni; di giorno in giorno senti più forte la necessità di quella fanciulla, che gli era rimasta nel cuore come un affettuoso ricordo. La loro amicizia rifiorì quindi come un alicante al sole d'inverno.

Ma Ida, che supponendolo assolutamente vecchio lo considerava quasi senza sesso, non aveva scrupolo di riceverlo nel gabinetto della toeletta, persino a letto; aveva per lui delle moine di piccola nipote per il nonno, delle confidenze di fanciulla per la mamma, dei dispotismi di beniamino per il maestro; gli mostrava, gli spiegava, gli offriva tutto il proprio lusso. Ad ogni visita gli presentava un regalo, lo tratteneva a pranzo, lo invitava spesso a tenerle compagnia per il thè, abbandonandosi quindi con lui alle più audaci discussioni filosofiche. Però nelle analisi anche più imprudenti non si erano mai fermati alla posizione di lei col duca, nè all'avvenire, che un altro capriccio o la morte di questi potesse riserbarle.

Egli non l'avrebbe osato per tutto l'oro del mondo, ella sembrava non pensarci; poi Savelli ne avrebbe sofferto. Una gelosia sorda gli rendeva disaggradevole il pensiero del duca, un vecchio come lui, senza nessuna buona qualità, ed ancora tanto ricco e felice da possedere donne come Ida. Savelli, che gli doveva quella nomina a direttore, finiva col sentirsi umiliato della sua indifferenza di gran signore per i clienti; ma bastava che Ida sorridesse, perchè il cuore gli tornasse a battere come ai bei tempi, quando studiava in una soffitta sognando una cattedra all'Università e ristorandosi dello studio nelle braccia di una qualche sartina. Le antiche dissolutezze, seppellite nella memoria da lunghi anni, gli risorgevano improvvisamente nella memoria, come se la morte le avesse colpite nell'ora più felice della loro primavera; si sentiva gli sguardi lucenti, alzava la fronte nell'antico orgoglio dei capelli neri, senza ricordarsi più di nulla, quasi avesse finalmente realizzato il sogno di tante notti insonni, essere l'amante di una gran signora.

Ma ciò gli accadeva quasi sempre nel gabinetto di Ida. Era un salottino buio come un antro, tappezzato di un damasco a foglie marine di mille colori verdognoli, che ne venavano il fondo, dandogli l'apparenza di un letto di mare, nel quale i riverberi della seta si accendessero qua e là come i riverberi dell'acqua alla luce del cielo. Il cortinaggio della finestra, doppio e panneggiato, non lasciava passare che un lume incerto sui pochi mobili di ebano, senza che nè un vaso o uno specchio potessero turbare con stridenti chiarori o con importune fosforescenze quel silenzio azzurro-cupo.

Ella vi restava sdraiata lunghe ore sull'ottomana prendendo un bagno di tenebre. Nessun oggetto poteva frammischiarsi a' suoi sogni: il tappeto era torbido come le pareti, la volta si distingueva appena. Savelli non vi entrava mai senza un fremito, come penetrando nell'ignoto delizioso di tutti i romanzi mal fantasticati nella gioventù. L'ombra aveva un tepore di meriggio primaverile e grandiosità notturne; dagli angoli del gabinetto, che parevano prolungarsi nel buio, si muovevano pericoli sonnacchiosi, mostruosità buie e vellutate; i mobili neri avevano un'immobilità, una nudità sinistra, come preoccupati di custodire i secreti della padrona, della quale non serbavano il più piccolo vestigio.

La prima volta, che vi fu ammesso, Savelli si ricordò del pranzo di Diocleziano colle corone di cipresso e gli apparati neri, scherzo di una imperiale ferocia, che lo aveva tanto divertito leggendolo la prima volta. Egli vedeva una massa, più bruna e lunga, schiacciata sul tappeto, rischiarata dalla pallida bianchezza del volto: si appressava, Ida gli tendeva mollemente la mano e chiacchieravano.

Caso civetteria, Ida aveva sempre delle pose seduttrici, delle temerità negligenti, che sembravano provocazioni.

Talora incantandosi in un pensiero, sospirava languidamente o si stirava le braccia. Savelli se ne accorgeva, seduto sempre sulla stessa poltrona, guardandosi attorno nella preoccupazione di quel buio, che pareva farsi mano mano più fosco e tremare di un palpito prepotente. Un odore di seta, un umidore di bagno, una caldezza di alcova piena di atomi frizzanti e di polveri pollinee gli irritava tutti i sensi.

Non avrebbe saputo dirlo egli medesimo, vergognandosi di analizzare ciò che provava, ma a poco a poco cessava di rispondere, come assopito in quell'olezzo leggero e diffuso come di prati falciati. Una lassitudine voluttuosa lo prendeva; si affondava in tutte quelle morbidezze, i piedi sul tappeto, il corpo sulla poltrona, gli occhi in quel crepuscolo. Ida sembrava dentro un bagno di rasi odorosi come tante foglie di fiori, del quale la ottomana fosse la tinozza. Egli le stava presso: non aveva se non ad allungare la mano e a tuffarvi dentro una carezza per dividerlo. Un'inquietudine trepidante di dolcezze gli saliva dalla coscienza; il cortinaggio della finestra apriva l'ombra del gabinetto con un chiarore calmo, una discrezione piena di lusinghe cortigiane; la punta di un mobile in un angolo frenava a stento un sorriso.

Tutto quel gabinetto non era che una cornice di Ida; ella lo riempiva, lo spiegava. I mobili erano neri come le sue vesti, la luce pallida come il suo volto; le stesse tenebre, lo stesso arcano della sua vita, un raccoglimento delizioso e sinistro, un lusso severo e romantico. Ella lo aveva creato traendolo da sè medesima, come altra volta si adattava le mode e si cuciva le vesti; giacchè il duca non vi appariva più del tappezziere.

Un giorno, che il cielo era nebbioso e l'aria tepida, il maestro stava con Ida. La fanciulla lunga distesa sulla poltrona, colla testa appoggiata ad un cuscino e i capelli disciolti, che le si ammucchiavano sul tappeto, aveva preso allora allora un bagno caldo e ne assaporava, colla quiete dei grandi raffinati, il rilassamento snervato. Non fumava, non aveva fatti due gesti in mezz'ora. Savelli, seduto sopra un pouff a capo della sua poltrona, le stava sopra col volto. Si era rasa poco prima la barba e spartiti accuratamente i capelli bianchi sulla fronte, ma il suo viso era ancora così fresco che i capelli parevano incipriati come quelli di un ritratto antico. Era malinconico.

Non si udiva che la calda respirazione del calorifero nascosto, rotta a volta a volta come dal soffio di un respiro o da un bollore di serra, che passavano sopra l'ottomana della fanciulla e sulla fronte di Savelli inumidendogliela. Due volte egli si era portato la mano al capo con un gesto nervoso, poi glielo aveva appressato ancora più, abbassandolo, così che avrebbe potuto darle un bacio sui capelli.

La ottomana aveva ingoiato tutto il corpo di Ida, l'ombra addossatavisi aveva divorato tutto il corpo di Savelli: non restavano che le due facce.

Savelli, una mano sulla spalliera della poltrona, le prese una ciocca di capelli, esaminandone, con quell'attonitaggine che pare il morto irrigidimento di una attenzione troppo prolungata, i fili radi, di una finezza di seta, quasi crepitanti fra le dita. Quindi si ricordò improvvisamente senza saper come il proverbio contadino: «regge più un pelo di donna che un canapo da carro», che egli aveva tante volte ripetuto al caso di qualche follia amorosa colla bonomia leggermente ironica dei vecchi saggi, senza accorgersi che quel ricordo era forse l'ultimo avviso della coscienza. L'odore della donna lo aveva ubbriacato. Ella non faceva un moto.

Forse la lassitudine del bagno, apprendendosele all'anima, gliene assopiva gl'istinti gagliardi e i fieri sentimenti. Si sentiva prostrata. Quel raccoglimento quasi di cappella e quel calore del gabinetto senza un fiore, uno specchio, un ricordo, una speranza di uomo, che ella si era composto in un giorno di orgoglio intellettuale per sottrarsi a tutto il mondo e sognare, le dava le lubriche mansuetudini, gl'incerti desiderii della notte a letto, nel silenzio della penombra, quando le vesti caddero dal corpo come i disegni e le preoccupazioni dallo spirito, e le due nudità si sdraiano in un morbido impudore. Le pareva di annegare nella ottomana come in una gora di raso tiepido, che le si apriva sotto con un romorio di fremiti accarezzandole le carni, fasciandola come in una grande moina dalla radice del collo ai piedi sporgenti asciutti sul tappeto.

La poltrona, larga quanto un lettino e quasi lunga altrettanto, le si abbassava con una curva sapiente sotto il dosso, rialzandolesi al capo con una mollezza di guanciale.

Ida alzò gli occhi e sorprese Savelli, che le guardava il seno.

La fanciulla ebbe un palpito.

—Perchè tacete?—gli domandò colla sua voce più dolce.

Savelli non rispose, tornò ad arrossire; poi levandosi come chi prenda una risoluzione, rimase ancora colla mano appoggiata sulla spalliera.

Ella non disse altro. Savelli, che aspettava una parola, interdetto da quel silenzio si smarrì di nuovo.

—Dovrei andarmene,—balbettò.—Dovrei...—ripetè, con sorriso fine ma indolente.—Anzi me ne vado,—e staccando la mano, cercò cogli occhi il cappello, lo vide sopra una poltroncina, fece un passo per prenderlo. Era agitato, tremava; una confusione di scolaro lo rendeva quasi compassionevole. S'abbottonò il vecchio soprabito, e allora, come se si fosse chiuso nella corazza, si sentì meno debole. Tuttavia le parole non gli venivano, era orribilmente imbarazzato per andarsene.

—Eccovi la mano,—gli disse Ida, che seguiva sempre colla stessa aria quella manovra.

Egli la prese infatti, ma Ida gliela strinse tirandolo a seder sulla sponda della propria poltrona:

—Cosa fate?—egli chiese smarrito.

—Sedete.

Savelli era rimasto colla mano della fanciulla nella mano all'altezza del petto, seduto, scivolandole verso il grembo della sponda della poltrona duramente imbottita. Una fiamma gli imporporò il viso.

—Lo so,—mormorò la fanciulla lentamente; poi raddolcendosi ancora ed appressandogli il capo di un dito:

—Perchè non mi baciate la mano? Preferite la faccia? Se non è che questo...

Egli ebbe un gesto perduto, abbassò gli occhi, si guardò il cappello, vergognoso di essere scoperto, ed impacciato ancora più da quel tono di tiepida affettuosità, che gli andava al cuore. Ida aveva una bontà quasi materna, una mitezza di vergine, che vela l'invito col sorriso, quasi per renderlo più facile con tale suprema delicatezza. Il pallore le si era fatto più opaco, e la mano nella sua mano gliela premeva con un crescendo insensibile.

—Perchè no? Siete il solo che mi ami per me. Una volta non vi piacevo, eppure mi volevate bene lo stesso; e se oggi...—e i suoi occhi ebbero un sorriso di soave malizia.—Ebbene tanto meglio, o tanto peggio: io valgo bene un'altra, e voi valete certamente il...

Stava per dire il duca, ma un pudore improvviso la rattenne in quell'invito brutale, poichè le parve un'insolenza per Savelli legare con un confronto quei due vecchi e quei due amori così dissimili. Quindi riprese concitata:

—Non l'avrei mai creduto, ma voi non siete un uomo come gli altri. Forse l'essere professore di storia ha servito a rendervi così buono. Guardando la vita dall'alto, ne avete perduto le passioni nella curiosità dello spettacolo; fors'anche la bontà di un genio (voi sostenete che il vero genio è sempre buono) dipende dall'indifferenza della sua volontà e dalla socievolezza del suo istinto. Che importa? L'essere buono sarà sempre una grande attrattiva, perchè è una grande originalità, e voi lo siete, mio caro maestro. Vi ricordate quando venivo a scuola? Allora non avremmo previsto di trovarci qui. Io aveva la febbre di tutti i sogni, voi mi guardavate con una passione malinconica di esperienza. Io lo aveva indovinato. Forse avevate ragione, ma potreste anche un giorno aver torto, perchè una battaglia perduta non decide sempre della guerra.

E la sua voce vibrò nel pronunciare queste ultime parole. Gli appressò ancora la testa, agitandola sulla spalliera. Savelli, che aveva sdrucciolato nuovamente sul pendio della poltrona e si sentiva un fianco grasso, caldo, della fanciulla contro l'anca, dovette reggersi con isforzo sulla gamba sinistra per non caderle letteralmente addosso.

La fanciulla scottava. Poi alzò pigramente un braccio, si volse, se lo passò sotto il capo a guanciale, ed allungandosi come sul letto, dal proprio canto, colle pupille velate, ebbe due o tre moti di sonnolenza. Savelli scivolò del tutto.

Le aveva quasi un gomito sul seno.

—Non ho che voi a volermi bene:—ella ripetè; quindi ripigliando l'immagine dell'ultima frase, proseguì:

À la guerre comme à la guerre. Tutto è provvisorio quando la vita è incerta o una vittoria può mutare il soldato più che la morte stessa. Non vi è più differenza tra un granatiere e Napoleone, che tra un granatiere vivo e un granatiere morto? Si bivacca, si uccide, si ama dappertutto. Si saccheggia oggi per essere derubato domani, si stringe una mano come un fucile, si agguanta un cavallo come una donna. Anche noi siamo in guerra, non è vero? Voi siete un uomo, io sono una donna, ma se foste un giovane non sareste più nulla per me. Così sì. Non arrossite, mio caro maestro. Un giovane vorrebbe strappare invece di accettare, avrebbe delle pretese, tutte le pose romantiche ed insopportabili. E tutto questo perchè? Per una ignobile commedia, che non c'ingannerebbe nessuno dei due. Mi desiderate? prendetemi: potrete aver l'orgoglio di essere il solo, al quale...—e senza finire la frase agitò ancora la testa e chiuse gli occhi.

Savelli la guardò di furto; era ancora rosso, ma quelle ultime parole lo avevano rimesso.

Ella non gli serrava più la mano, abbandonata. Una seduzione insistente esalava da quella donna ravvolta in una veste di raso, sopra una poltrona di raso, nel torpore di un lungo desiderio, che le socchiudeva gli occhi lasciandole la bocca aperta. Il seno quasi nudo sotto quell'abito, che lo guantava, le batteva con una respirazione forte ma calma, come la faccia, che pareva addormentata sotto un sorriso. Evidentemente la fanciulla non aveva preoccupazioni. Savelli lo comprese di un tratto, e quell'abbandono di ogni difesa lo umiliò profondamente, come un calcolo pietoso della fanciulla per non fargli sentire d'esser vecchio e dargli tutto il tempo di preparare in sè stesso le energie dell'assalto. Fu un tumulto, ventoso, di un istante: il calore dello scirocco si abbassò, le nebbie si sciolsero, il volto gli si imbiancò come i capelli.

Si alzò.

—Me ne vado,—disse, tendendole la mano.

Ella rimase sopra pensieri: Savelli in piedi era diventato anche più freddo. La reazione lo gelava, quantunque in fondo al cuore qualche fiamma gli tremasse ancora e un rombo di sibili gli passasse all'orecchio; ma la ragione aveva preso il sopravvento. Si accorgeva di essere sfuggito a un grande pericolo.

—Avete ragione,—mormorò Ida stringendogli la mano:—sarebbe stata una disgrazia per voi; ma però ricordatevene sempre come della mia più grande prova di affetto.

Savelli ebbe uno slancio di orgoglio, salutò volgendosi per uscire con un passo più elastico, quasi per mostrarle di non essere poi vecchio; ma sulla porta ella lo richiamò.

—Venite qui... più vicino,—disse, tendendogli la fronte,—datemi un bacio paterno.

Egli le si chinò, sorridendo amorevolmente, sulla fronte, e la baciò.

—Adesso eccovi sicuro; addio, papà.

Savelli si fermò meravigliato, indi comprese. Soffocò con una stretta il suo ultimo orgoglio, che in quell'ultimo bacio aveva voluto vedere un dispetto di donna, e partì tutto commosso. Ida era rimasta sulla poltrona; la profonda ruga verticale le apriva la fronte.

—È strano!—sussurrò,—il secondo uomo che mi rifiuta.

La sera, quando Savelli ritornò coll'aria splendente, Ida lo accolse come se nulla fosse mai stato tra di loro; ma egli, che non poteva capire quella suprema indifferenza e sperava di riparlarle del mattino per soccombere ad una nuova tentazione, rimase scombussolato. Due o tre volte fu sul punto di cimentarsi con qualche scappata contro quell'amabile superba, senonchè ebbe sempre paura e finì col ritirarsi più presto del solito. Ida insistè leggermente, poi lo lasciò andare. Poco dopo entrò il duca. Era ilare. Le raccontò che Laura, la mantenuta del prefetto, era scappata con un impiegato di prefettura, e che quegli infuriato li aveva fatti arrestare. Al club non si parlava d'altro. Il prefetto domani sarebbe la favola della città.

—Se fosse vivo Diogene!

—A proposito di che?

—Non avete mai letto il suo magnifico dialogo, conservatoci da Dione, sopra un caso consimile?

Il duca, che non s'aspettava questa doccia fredda di erudizione, sentì smorzarsi il proprio entusiasmo novellistico. Ida era seduta indifferentemente al tavolo col mazzo delle carte in mano: aveva incominciato un solitario.

—Sai che cosa si diceva al club?

Ella non si volse nemmeno.

—Che io sono fortunato.

—Perchè?

—Perchè tu non mi tradisci.

Ida si strinse nelle spalle con bonomia.

—Era il principe di Atella che diceva questo?

—Precisamente.

—Mio Dio! è così sciocco!

—Lo diceva con Lovito.

—Quello almeno è un bell'uomo; peccato che lo sappia troppo e si renda uggioso. Quando mi faceva quella corte spietata, aveva l'aria che io dovessi ammirarlo.

—Sei la donna più onesta della città,—proseguì il duca.

—È ancora il principe o Lovito che lo dice?

—Sono io.

—Avete ragione.

Egli fu scosso da quella risposta e più dal suo tono di semplicità. Ida ne sembrava così perfettamente convinta da non avere nemmeno sorpreso la ironia da lui messa nel complimento per una di quelle contraddizioni frequenti nei libertini, i quali in fondo alla coscienza non ammettono altra moralità che la borghese ed altra virtù che la legale.

—Sei singolare!

—Perchè sono onesta? E voi siete uno sciocco credendo che io lo faccia per voi. Una mantenuta dev'esserlo: è l'unica originalità, che le sia permessa. Gli scandali scadono di diritto alle signore, che sole vi arrischiano qualche cosa. Sposatemi e vedrete.

Il duca ammutolì.

—Intanto favorite di andarvene: mi avete seccato.

—Ida!

—Mi volete dunque costringere a scappare come la povera Laura? Buona notte, mio caro; domani v'invito a pranzo. Ho Savelli, non mancate,—gli disse voltandogli le spalle, senza preoccuparsi punto del suo viso confuso e collerico.

Ma il duca aveva l'abitudine di quei cattivi trattamenti. Erano poche le sere che Ida lo ricevesse di buon umore e gli permettesse di passare la notte nel proprio appartamento, perchè ella aveva subito compreso come per dominarlo bisognasse torgli ogni supremazia morale. Con un'abile manovra, e stringendolo sempre nel dilemma o di tacere subendo, o rispondere brutalmente (ed egli sapeva che Ida lo avrebbe piantato con quella audace indifferenza dell'avvenire mille volte provata), gli aveva tolto il coraggio della più piccola rimostranza. Come accade spesso a coloro, che sposano la propria serva, egli era lo schiavo della propria mantenuta; ma Ida aveva il tatto di non spingere troppo oltre la tirannia, e in faccia ad altri affettava talora una sommissione piena di blandizie, la quale gli lusingava tutti gl'istinti di uomo e di signore. Poi lo aveva persuaso di non ingannarlo. Il duca, che piegava sempre sotto la sua volontà, si era fatta un'idea bizzarra della forza di quella donna, nella quale sentiva qualche cosa di terribile, una risoluzione, un dramma nascosto, che la rendeva inaccessibile a tutte le debolezze delle sue pari. Questa stranezza di apparenza teatrale metteva come un'acrità di mostarda nel sapore carnale della loro relazione.

Gli pareva di non amarla; infatti cogli amici, al club, e col nipote parlava di Ida come di una delle sue tante mantenute; ma diceva: è l'ultima; e questa parola involontaria gli gelava spesso il sorriso libertino sulle labbra. Quella donna era diventata l'imperioso, il vitale bisogno della sua vecchiaia, giacchè lo divertiva, lo esaltava, lo rifaceva giovane con un solo gesto, con una risposta impreveduta. Ma vi era dell'astuzia in quella magia, perchè, bistrattandolo come amico, non gli faceva mai sentire di essere vecchio; quindi dopo averlo schiacciato colla superiorità dell'ingegno o del carattere, fingeva poi di soccombere nelle sue braccia, soffocata dal suo vigore di maschio, inebriata dal suo dispotismo di uomo. Ella che lo avrebbe scagliato nella parete colla stessa forza della Brunhilde dei Nibelungi, aveva allora delle umiltà trepidanti, dei rispetti di bambina e di schiava: era sfinita, dimandava grazia col corpo scultoreamente estenuato, lo sguardo velato e nullameno aperto ad una riconoscenza piena di ammirazione. Il duca che si sentiva abbagliare dalla morbida bianchezza di quel corpo, con tutti i profumi che gli entravano nelle carni, perdeva l'ultimo senso della realtà nella luce crepuscolare di quello sguardo. Amava quella donna, si ammirava col petto gonfio di orgoglio e il volto illuminato da un riverbero interiore, che sembrava verniciargli la precoce decrepitezza.

Quelle notti non ritornava al palazzo che verso le quattro o le cinque del mattino; ma nel giorno Ida non era più quella, non si ricordava più di nulla, aveva un sarcasmo per ogni allusione, una indifferenza altera, che gli frustava a sangue desiderii e ricordi. Così la loro relazione sembrava sempre al principio; Ida vi manteneva tutta l'etichetta di una gran signora, il duca ne soffriva qualche volta nei capricci di libertinaggio, ma in fondo n'era contento ed ammirava. Il linguaggio di Ida, troppo letterario per una donna, aveva la duttile castigatezza del salone; l'oscenità poteva entrarvi solo colla eleganza del tono e la superiorità della frase: ella, che ne aveva fatto un lungo studio, gli prestava sovente i motti temerari per i saloni, dove erano accolti colla più gaia cortesia e una meraviglia d'inaspettato. Se il duca non fosse stato duca e non avesse avuto forte sentimento della propria posizione sociale, sarebbe caduto piedi e mani legato dinanzi a quella fanciulla; ma ciò bastava a permettergli quella noncuranza spavalda parlando di Ida, e spiegava forse le subitanee e paurose tristezze di lei.

Quella sera il duca, che entrava allegrissimo, alla vista di Savelli si era subito agghiacciato. Istintivamente egli detestava quel vecchio pedante, il quale aveva passata la vita a fare il maestro per guadagnarsi da vivere, e gli si trovava continuamente fra i piedi nell'appartamento di Ida. Savelli aveva tutti i capelli bianchi, mentre il duca, più vecchio, li aveva invece tinti di nero. Poi la soggezione delle sue maniere, che egli giudicava servili, e la protezione di Ida, nella quale egli cercava delle intenzioni umilianti, glielo rendevano anche più antipatico.

—A proposito: vi ho mostrato lo stemma che metterò sulla mia carrozza?—disse Ida d'improvviso.—L'ho pensato questa notte. Un morione, scudo nero, in mezzo un braccio con una fiaccola, e sotto questo motto: N. I. L.

—Un motto nichilista.

—Internazionalista anche. N. I. L.; leggete: Noctu, Ignis, Lux.

—Uno val l'altro,—disse il duca.

—Non esattamente, ma si fondono: il motto della disperazione suicida e della disperazione omicida; convenite che è almeno bello quanto il vostro: Tarde sed tuto, che pare trovato per una diligenza di villaggio.

Savelli non potè a meno di sorridere, il duca arrossì leggermente. Così trascorse una grossa mezz'ora, durante la quale Savelli ascoltò due volte suonare la pendola, accompagnandone i rintocchi con una cadenza intontita e pensando alla serva, che lo aspettava addormentata in cucina.

Finalmente il valletto annunziò il conte Alidosi.

—Vi siete fatto aspettare,—ella gli disse colla voce più carezzevole.

Egli s'inchinò al complimento, strinse volgendosi la mano al duca e a Savelli, e le sedette vicino sopra una poltrona. Era sempre così biondo e così bello. Ripetè una delle mille insignificanti conversazioni per le signore, profumandola con tutte le piccole attenzioni, le amabilità effimere del gesto e della voce, per farsi più bello colla perfetta manovra di un uomo abituato al salone. Ida accettava, il duca con un sorriso velato gettava qualche parola nel loro discorso, Savelli si era ancora più rincantucciato. Il conte, che sapeva chiacchierare e quella sera era in vena, trovava dei frizzi, dei doppi sensi, che scattavano come giocattoli, sempre più lusingato dall'attenzione della fanciulla sospesa ai suoi occhi.

Ad un tratto questa lo interruppe:

—È orribile! Essere arrivata a quarant'anni senz'amanti ed incontrarsi in un geloso, che vi ammazza.

—Infine lo ha avuto: può ringraziare la provvidenza.

—La provvidenza ha delle ironie formidabili,—esclamò la fanciulla, che si era alzata nervosamente.—La provvidenza, che rende cieco Galileo e sordo Beethoven, che ispira ai missionari il coraggio apostolico per scoprire i selvaggi e manda poi sulle loro orme i soldati che li spodestano e li distruggono! Ironia per il catecumeno ed il catechista: non è vero, Savelli?

Ma senza dargli tempo di rispondere gli andò incontro.

—Siete stanco: aspettate, adesso vi libero.

—Duca,—lo chiamò:—la trottata di questa mattina mi ha affranto; mi corico presto, perchè ho bisogno di montare a cavallo per rimettermi in esercizio. Se volete v'invito ad ammirarmi; non voi, Savelli: voi farete qualche cosa di meglio, mio caro maestro, farete scuola, e non farete più un'altra allieva come Ida. Voi, duca, dovreste accompagnarmi in carrozza: intanto, giacchè l'avete alla porta, riconducete Savelli.

—Signor duca, io non permetterò mai...

—È inutile, poichè sono io che ordino: andatevene, siate buono. È tardi, Savelli abita lontano. Datemi un bacio sulla fronte.

A queste parole, pronunciate meno bruscamente, il conte si rivolse.

—Badate, uno solo,—ella seguitò sorridendo.—Sì, uno per tutti e tutti per uno, la mia divisa.

Il conte vide lo zio chinarsi compostamente sulla faccia della fanciulla e stamparvi un bacio. Un sorriso di scherno gli contorse le labbra, si avvicinò al loro gruppo. Il duca gli strinse la mano.

—Ti lascio in buona compagnia,—disse, restituendogli un altro sorriso non meno ironico, e:—Sono tuo zio!—mormorò a bassa voce.

—Dubitereste?

Il duca guardò Ida, poi fissandolo sicuramente rispose:

—No.

Savelli, che si era chinato per prendere la canna, fece un ultimo inchino, la fanciulla gli strinse ancora la mano, scambiò un'occhiata languida col duca e, scuotendo mollemente la testa in segno di stanchezza, sembrò rattenerlo ancora un istante. Il duca sentì quella morbida resistenza.

—Addio, Enrico.

Questi non rispose. Si era seduto famigliarmente sul divano, dissimulando a stento il malumore.

Savelli e il duca uscirono. Ida gironzò qualche secondo per il salotto, finalmente gli si fermò di contro.

—Mi sembrate annoiato, caro conte.

—Con voi?!

Ella sorrise e, sedendogli presso, appoggiò la testa alla spalliera del divano.

—Allora,—proseguì guardandolo fra le palpebre socchiuse,—il bacio del duca vi ha messo di malumore.

—Perchè dovrei inquietarmi? non so forse...

—Non sapete gran cosa; ma potreste confessarlo, poichè sapete benissimo che non tengo alla vostra gelosia. La osservo. È un fenomeno poco studiato la gelosia di un uomo, che ama, sa di essere amato, e che sarà sempre respinto. Che m'importa se siete geloso? Io non sono cattiva, so di essere amata e mi basta. Il mio trionfo è pieno.

—Non del tutto, se mi amate voi stessa.

Ella parve raccogliersi a questa obbiezione, forse più profonda che il conte non credesse, aprì gli occhi, ma chiudendoli subito dopo come per velarne la espressione, mormorò:

—È vero.

Il conte sentì la propria irritazione crescere fino alla collera. Ida gli confessava forse per la centesima volta di amarlo, con quell'accento stentato di una confessione che gli faceva battere il cuore d'una inutile speranza. Egli fremeva, si arrovellava contro un ostacolo infrangibile, la volontà di quella donna, che un giorno gli aveva detto piangendo:

—Vi amo, ma non mi avrete mai.

Quel «mai» se lo trovava sempre tra i piedi, nel presente, nel passato, nell'avvenire. Era come un cerchio che gli rinserrava la vita, una montagna sorta d'incanto e che gli sbarrava l'orizzonte, sulla cima della quale sedeva quella donna atteggiata di un sentimento fantastico a guardarlo con una ostinazione di amore impossibile. Invano egli le aveva fatto tutte le proposte, offerto tutte le follie, altero, supplichevole, geloso, civettuolo, studiando tutti gli aditi del suo cuore, tutti gli spalti della sua mente, giacchè ad ogni porta, ad ogni fessura, ad ogni feritoia trovava sempre quel sorriso languido, quello sguardo appassionato, che lo respingeva con una carezza. Quindi egli vi si incaponiva colla testardaggine del desiderio rinvigorito dalla umiliazione e dalla vanità di altri trionfi, sperando che Ida, innamorata da gran tempo e per lui solo buttatasi allo sbaraglio di una vita infame, un giorno o l'altro gli cadrebbe sfinita di resistenza e di bramosia fra le braccia. Ma s'ingannava, se ne accorgeva, e s'indispettiva inutilmente. Dal primo giorno la fanciulla non aveva mutato contegno. Aveva accolta la prima e l'ultima dichiarazione d'amore colla stessa franchezza, quasi con riconoscenza, ma dall'alto di una superiorità intellettuale e di una suprema decisione: no.

—Allora, perchè mi amate?

—Lo so io forse? Siete bello fino all'assurdo, probabilmente sarà per questo.

—Ida!

Ella gli tese la mano.

—Siate ragionevole: conoscete bene che è impossibile. Alla vostra vanità dovrebbe bastare che io, sprezzantemente respinta, in ginocchioni davanti a voi, scacciata da una casa dove ero stata accolta come una sorella, vi ami al punto di dovervelo confessare, a voi che mi avete rovinata. Se non vi avessi incontrato, a quest'ora invece di essere la mantenuta del duca di Rivola, sarei forse una direttrice celebre nei giornali per il suo ingegno, con una posizione netta nella società e un avvenire sicuro ed onorevole. Voi avete su di me un grande vantaggio.

Egli alzò le spalle.

—Io non ho che il mio no, l'ultimo brano di ragione, col quale mi sono armata la volontà contro di voi, che vi umilia un pochino nella vostra superbia di donnaiuolo, ma non áltera punto la vostra vita. Invece voi dominate la mia: vi siete trovato al suo principio, e tutto quello che mi accade è una vostra conseguenza.

Ida si alzò, pareva agitata da quell'analisi dolorosa della propria vita. Andò a un piccolo tavolo da fumare, ricco e bizzarro nel disegno, ne prese due grossi sigari d'Avana, ne accese uno alla candela, stracciandone quasi con rabbia la punta fra i denti, e ritornò a presentargli l'altro.

—Non parliamone più, sarà meglio per ambedue.

—Come sta Jela? Non me ne avete ancora dato nuove, cattivo marito.

—Colpa vostra.

—Ancora?

—Ancora e sempre. Non volete dunque accettare?

—Ma parlate sul serio?

—Avete torto.

—Ho ragione e vi compatisco, perchè vi so debole di testa. Essere la vostra mantenuta! E con che mi manterreste voi?—seguitava con accento nervoso e una fiamma gialla in fondo alle pupille, che le vibrava a quando a quando come una lingua di serpente:—voi che siete più povero di me! Il duca ve lo avrà detto, perchè se ne vanta: non siamo insieme da un anno, e gli ho già speso centocinquanta mila lire. Io amo il lusso; è la mia aristocrazia, la mia vita, io che ho perduto tutte le altre dignità e sono uscita dall'ambiente sociale. Che importa? Molti grandi furono gettati dalla tempesta sul margine della società, e seppero rientrarvi più violenti della tempesta. Voi siete povero, la vostra ricchezza è la dote di Jela. Intenderete benissimo che io amo Jela, la mia sorella di latte, che mi ha salvato un giorno dalla fame, e non voglio renderla infelice rubandole quelle ricchezze, che mi ha mille volte offerte con una generosità, che voi non capirete mai.

Il conte, pallido di umiliazione, non ebbe il coraggio di una risposta, gettò lungi lo zigaro, abbassò il capo. Avrebbe pianto come un fanciullo, se non se ne fosse vergognato. La inesorabilità di quella logica lo spezzava; ma Ida, dolente di averlo afflitto, mutò dolcemente la voce:

—Non vi basta, Enrico, di essere il mio amante?

—Così no.

—Mi amate dunque molto?

—Al punto di diventare uno sciocco.

—La cosa non è molto difficile,—ribattè con sarcasmo feroce, contemplando quella sua aria sconcertata.—Gli uomini,—aggiunse, ritornando al tuono lusinghevole di prima,—non sanno amare senza commettere scempiaggini. Amatemi come vi amo io, in fondo al cuore: vi ci ho seppellito sotto un mucchio di rose e non vado a cercarvi se non quando sono ben sola. Che importa se voi non siete con me? Ci siete egualmente e più bello di adesso. Passo con voi delle lunghe ore che mi sfiniscono, vi mangio con una avidità di poeta e di donna, che hanno raffinato le loro due delicatezze per una di quelle voluttà, alle quali si finisce sempre per soccombere, quando non se ne impazzisce. Perchè mai siete così bello?

—Davvero?—non potè a meno di rispondere, riscaldato dal calore di quella passione ed avanzandosi verso di lei per prenderle una mano.

—È la sola giustificazione della mia insensatezza: dovrei odiarvi, e vi amo.

La figura del conte si illuminò. Indovinava in quella scena un calcolo di umiliarlo, straziandolo colla povertà e fingendo di amare Jela, mentre forse la odiava con tutto l'accanimento di una popolana arricchita provvisoriamente dai disordini disonoranti della propria vita; ma non si poteva frenare. Gli occhi e le parole di quella donna lo trascinavano. Come un fiore strappato dal vento, avvolto nelle carezze del sole, nella confusione di una polvere ardente, egli si alzava leggiero e sbattuto, lacerato e felice, incoronandosi di quella luce che lo accecava, lasciandosi straziare da quella donna, che non giungeva ad odiarlo e, se non fosse stato l'orgoglio di una rivincita, gli avrebbe strisciato ai piedi leccandoglieli come un cane. Le prese tutte e due le mani e, stringendogliele con forza, finse di volerla ricondurre sul divano. La sua bella testa, bionda come quella di una fata, aveva un'espressione quasi pura, illuminata dalla luce turchina degli occhi, di una soavità fantastica. Ella l'avvertì, gli guardò il collo dolce come quello di una donna e più bianco della camicia.

—No.

—Datemi un bacio.

Egli insistette, ella negò, egli lo ridimandò ostinandosi invano, supplicando, ella rispondendo sempre di no col sorriso ed una fiamma negli occhi, che le divampava tratto tratto sempre più grande, vibrando con tutto il corpo quando egli le appressava il volto. Stettero così forse cinque minuti, egli non si stancava: la pendola suonò.

—All'ultimo tocco me lo darete.

—No.

—Vendetemelo dunque,—gridò con uno scoppio d'irritazione.

—Non siete abbastanza ricco per comprarlo; poi io sono come Diogene: mi si può pagare, ma non mi vendo.

Egli aprì le mani.

—Non siete ragionevole, Enrico. Un bacio! non ve lo do, mi perderei. La mia volontà ne resterebbe ubbriaca, e allora addio famosa risoluzione. Ad un altro uomo forse più bello, ma diversamente bello, a Buondelmonti... glielo darei un bacio, glielo venderei, per servirmi della vostra parola cortese: a voi no.

—A Buondelmonti non glielo vendereste certo un bacio,—ripetè colla sua stizza di femmina.

—Forse perchè egli pure non potrebbe pagarmelo? È povero?

—Più di me,—e un'ironia mista di amarezza gl'increspava le labbra.

—Conosco questo sorriso: sapete qualche cosa su Buondelmonti, o fingete saperlo.

—Sì, fingo.

—Perchè siete geloso. È bello quanto voi.

Egli scosse sprezzantemente il capo.

—Provatevi dunque a vendergli un bacio.

—È inutile, glieli regalo,—rispose tranquillamente.

—Buondelmonti è dunque il vostro amante?

—Forse: perchè non vi voglio, non è una buona ragione per non accettare un altro. È bello, intelligente, un nobile carattere.

Il conte era impallidito a quella confessione: per un momento vacillò. Egli aveva per Buondelmonti l'antipatia di un efebo depravato in paggio per il gigante guerriero, ma rattenuta dalla paura. Dubitò, poi l'ira del dispetto rendendolo meno guardingo, si raddrizzò con una grazia sinistra di serpente e le vibrò una occhiata di sfida. Ida per irritarlo doppiamente finse di non gli badare, quindi alzandogli gli occhi in viso con una di quelle occhiate di ammirazione compassionevole, parve dirgli:

—Povero ragazzo!

—Vendetegli un bacio!—egli ripetè con voce stridula.

—Giacchè ci tenete, lo farò.

—Mi farete vedere il prezzo.

—Sarà difficile, poichè me lo pagherà con un altro.

—Difatti, non ha altri capitali, ma ne vive bene.

Ella comprese:

—Voi dite una viltà, non vi credo.

—Se ne avessi la prova?

—Non l'avete. Siete vile come un fanciullo e calunniatore come una donna.

A queste nuove sferzate il conte s'impennò. La violenza di Ida nel difendere Buondelmonti, che egli temeva davvero il suo amante, lo accecava.

—Le donne non calunniano sempre. Potrei mostrarvi una lettera della contessa Ceri, che gli ha pagato il suo ultimo cavallo, quello stupendo morello, che gli avete visto oggi.

—Infamie di donna: Buondelmonti ha dovuto battersi ed abbandonarla, ed ella se ne vendica.

—Voi credete al carattere nobile di Buondelmonti?

—Voi siete suo amico.

—Ma non ho voluto servirgli da padrino.

—Lo eravate di Villani.

—E me gli ero offerto per non essere di Buondelmonti.

—Perchè dunque salutate quell'uomo e non lo smascherate al club, mio buon gentiluomo senza macchia e senza paura? Mostratemi quella lettera.

—No.

—Cossa vi ha indovinato quando scriveva la parte di Silio nella Messalina: sei bello, ma vile! Avete paura che non vi renda quella lettera e la mostri a Buondelmonti?

Ma ella si arrestò e, colorandosi di un rossore improvviso, come lanciata da uno scoppio di passione, gli si avventò al collo, gli prese il volto con ambo le mani e divorandoselo degli occhi con rabbia amorosa, mentre glielo scuoteva come quello di un bambino:

—Che m'importa,—proruppe,—se egli è un soldato di ventura, che rubi agli uomini in tempo di guerra e si faccia mantenere dalle donne in tempo di pace? Buondelmonti è un imbecille: se non fosse un capitano, potrebbe essere un facchino; sarà per questo che la contessa Ceri lo paga. Tu credi che io lo ami? Non ti sei accorto che faccio per attaccarti un po' del mio male con questa gelosia ridicola? che amo te solo?... e tu credi! Oh!—esclamò colla voce piena di singhiozzi, intanto che il conte indietreggiava stupefatto per comprendere meglio quel brusco impeto. Ma la fanciulla, che non lo vedeva convinto, lasciando la presa con un gesto sublime di disperazione fu per voltargli le spalle.

—Guardate,—fe' rattenendola per un braccio e presentandole la lettera con un ultimo tremito.

Ella la ghermì avidamente. La contessa Ceri aveva pagato quel cavallo a Buondelmonti, impegnando per quattro mila franchi di gioie al Monte di Pietà, come se ne era confessata col conte. Egli, che era stato uno dei suoi capricci più effimeri ed era poi sempre rimasto con lei in una amicizia di piccoli servigi e di grandi confidenze, aveva dovuto andarla a trovar la mattina stessa del duello. La contessa furiosa scriveva una lettera a Buondelmonti, rinfacciandogli tutto, minacciandolo persino di dire tutto al marito; e il conte Enrico aveva cercato di placarla senza ottenere nulla in quel momento di esaltazione gelosa, mentre essa non si era nemmeno accorta, leggendogli quella lettera, come gliene pigliasse dallo scrittoio, distrattamente, la prima copia macchiata largamente d'inchiostro. Ma la contessa, malgrado ogni rimostranza, aveva mandato quella lettera al capitano.

Il conte Enrico ne sorrideva ancora:

—Che fate?—le chiese meravigliato, vedendola bruciare la lettera sul candeliere.

—Vi salvo: questa lettera avrebbe finito per compromettervi: d'altronde è così terribile, che la so quasi a memoria—aggiunse con uno strano sorriso.—L'avreste mostrata a qualcuno, la contessa avrebbe negato, molto più che è senza firma, Buondelmonti calunniato atrocemente vi avrebbe ucciso. Non lo voglio.

Era ritornata blanda e carezzevole: gli si appressò adagio con una sommissione da cavalla, lo prese per mano, lo condusse alla poltrona, poi sedendogli sulle ginocchia gli diè un bacio sulla fronte.

—Non lo voglio che tu sia ucciso,—ripeteva con una specie di singhiozzo,—ti amo troppo, ti amo troppo.

—Mi ami?

—Cattivo!

Il conte inebriato, violentato da quell'abbraccio inatteso, le copriva il collo di baci, l'accarezzava, se la stringeva sul petto, soffocando dalla felicità, che gli alzava le spalle e gli faceva aprire la bocca con una oppressione ineffabile. Ma fu un lampo, la fanciulla gli sfuggì robustamente, scattò in piedi, cogli occhi ancora lagrimosi, le labbra tremanti.

—Andate, andate.

—Ida...

—Andate, no, Enrico: andate...

Egli fe' un passo, ella più pronta si gettò al campanello e suonò.

—Domani?

—Domani.

Allora un impeto di superbia lo sconvolse: Ida era già alla porta della propria camera.

—Mai!?—le gridò dietro con un gesto grazioso ed il viso sfavillante.

Ella si rivolse sorridente, felice, diede al proprio sorriso lo splendore di un razzo, e senza rispondere disparve.

Il conte aveva vinto. Quindi per una idea subitanea, poichè il valletto tardava a comparire, volle un trofeo; si guardò attorno, corse su tutti gli oggetti per prenderne uno e riportarglielo l'indomani, ma dopo averlo conservato tutto la notte e riveduto al mattino colla gioia dei fanciulli, ai quali la vecchia ha portato il regalo per il camino. Gironzò, andò a tutti i tavoli, al camino ingombro di ninnoli, alle pareti, alle due scarabattole degli angoli, sulle quali si ammucchiavano a piramidi le bagattelle, le rarità, i capolavori senza nome; ma fra tutta quella folla bella e deforme di capricci non ne trovò uno solo col significato del momento.

Il valletto attendeva rispettosamente sulla porta.

Allora il conte si diresse ad un ombrellino di porcellana mezzo aperto, inchiodato nel muro, dal quale sorgevano molti fiori appassiti, esaminò molti ritratti in cento pose, di cento grandezze, in cento cornici, di Ida in amazone, in veste da camera, scollacciata, in costume, e nessuno gli piacque, e quel capriccio improvviso gli diventava una necessità, che lo esilarava. Vi si ostinò, tornò a cercare, finchè voltandosi vide il valletto, che lo osservava. Si sentiva allegro, la gioia lo illuminava, gli pareva di ridiventare ragazzo alla prima avventura. Il gabinetto aveva una misteriosità profumata, una curiosità di tutti quegli oggetti coalizzati contro di lui. I quadri e le figurine di Sassonia si ammiccavano nell'ombra, le porcellane rompevano in scoppi di sorrisi rutilanti, il canarino, che aveva udita tutta la conversazione sospeso fra le tende della finestra, lo seguiva colla testina dorata, aspettando forse di coglierlo in fallo per gettargli la sua beffa in un trillo. Ma il conte tornò alla poltrona, sulla quale Ida lo aveva ricevuto, e scorgendo i libri sul tavolino di lacca, li esaminò: un romanzo di Zola, un volume della Psicologia di Spencer, De Virginitate di S. Ambrogio. Quest'ultimo lo fece ridere addirittura, senonchè alzandolo vi scorse sotto un pugnale piccino come uno spillone, colla lama lucida al pari del cristallo e il manico di oro. Ida se ne serviva da tagliacarte. V'era un motto sulla lama:

Nulli parcit.

Depose il libro e si tenne il pugnale.

—Bah!—mormorò nel pensiero,— nulli parcit!, come il «mai»: manìe di tragedia, che finiscono in farsa.

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III.

Jela era rimasta alla finestra, guardando la sera salire sulle falde delle ultime colline. Dall'altezza del suo bel palazzo, sola nell'appartamento, nella stanza oramai buia, il pensiero le si oscurava malinconicamente come la campagna lontana, nella quale il verde fanciullesco della primavera svaniva tra il vecchio grigio del crepuscolo. Era un paesaggio smorto, diluito entro una nebbia finissima, lacerata ancora dalla massa biancastra di una casa o dal profilo sinistramente bruno di un albero. Poi la nebbia si ammucchiava all'orizzonte, come sbuffata da un cratere invisibile, ed avvolgeva le colline, mentre i campi, livellati sotto l'ombra, parevano allontanarsi colla inclinazione uniforme di un lago pieno di una vegetazione silenziosa.

Jela alzò gli occhi; quel sereno così freddo e deserto le fece male. Colla mano guantata si strinse la capparella al seno, fece colla bocca una moina delicata e seguitò a pensare. La sera, bagnandola nel proprio umidore, la calmava in un'attonitaggine, che aveva la stessa incertezza di quell'ombra. Colla nuca appoggiata allo spigolo della finestra e il volto all'altezza del davanzale, senza un'attenzione per la strada, dalla quale si alzava un sommesso rumore di passi, seguiva col grande sguardo violetto quel digradamento della luce, digradando ella stessa in un abbattimento muto, senza trapassi di resistenza nè vertigini di cadute. Nella stanza il buio era così denso che lo specchio si era spento. Quindi a poco a poco ella si assopì. Il rumore della strada si era fatto più discreto, come di ombre vagolanti tra i fanali allineati fin lontano rompendo il buio del selciato con certe pozzanghere di chiarore, le quali rimbalzavano sui muri all'altezza più che di un uomo; e al disopra l'ombra calava dai tetti, sospesa ancora sulla strada, comprimendone l'altezza. La frescura troppo umida cominciava ad avere delle vibrazioni, che le scendevano nelle carni, delle ondate, che le si rompevano negli occhi. Poi un vento gelato la destò di soprassalto, e Jela si trovò ancora dinanzi a Ida come due ore prima nel salone della lotteria, fra un crocchio elegante, che la guardava ironicamente. Jela tremava ancora, ma Ida conservava la stessa calma teatrale, voltandole le spalle colla tranquillità di un avventore.

Ella che si era recata così gioiosa alla lotteria! Aveva indossato il nuovo abito di saia turchina, un costume immaginato colla contessa Guelfi, con una casacca da uomo che le serrava la vita incrociandosi sul petto, e quattro tasche piene di sigari e di sigarette. Poi aveva nascosto i capelli biondi sotto un cappellino tondo, birichino, colla fibbia di acciaio e la penna: un colletto dritto e largo acconsentiva tutta la delicata mollezza del suo collo, e intorno ad esso svolazzavano due grandi capi di una sciarpa turchina; la gonnella stretta a pieghe e rattenuta sul fianco sinistro da un gancio d'argento, cadeva sugli stivaletti bianchi, alti, che disegnavano due piedi e due caviglie adorabili. Una correggia a bandoliera reggeva tutta la sua piccola bottega di sigari e di fiammiferi. Jela era una tabaccaia e girava su e giù per il salone della lotteria festonato, la notte illuminato da tre grandi lampadari a gocce di cristallo, che s'accendevano come tre bracieri dalle fiammelle multicolori, dandogli un'aria da teatro, con tutta la gente che lo riempiva aggruppata intorno ai banchi delle venditrici, le più belle signore, rivaleggianti di grazia e di lusso, di avventure e di avventori.

Jela, che non si sentiva forte a spirito, aveva scelto quel piccolo commercio e vi era stata fortunatissima. La sigaraia entusiasmava. Entrava avvolta in una capparella quasi bianca, un'audacia di fanciulla, che il successo aveva giustificato, e che con quella pettinatura e quel costume la rendeva singolarmente vivace. La sua fisonomia forse troppo delicata e signorile assumeva una grazia popolana, una piccola energia di scappata, con un ardore roseo sulle guance, un'ilarità cristallina negli occhi. Non sapeva che ridere, sorridere, inchinarsi, ma le sue mani erano così piccine quando offrivano un sigaro, era così piacevole fermarsele innanzi e cacciarle a soqquadro la piccola bottega, che pochi vi resistevano. I suoi incassi facevano disperare le compagne, mentre la contessa Guelfi, che non era stata accettata fra le venditrici, ne gongolava, appropriandosi i due terzi del trionfo.

Jela era fuori di sè, si divertiva, si perdeva. Tutti i giovani più belli e alla moda le si serravano intorno in un cerchio mobile: riceveva un complimento ad ogni sigaro, i desiderii le si accendevano innanzi colla spontaneità dei fiammiferi, forse non durando di più, ma con una luce egualmente gaia e senza infiammare l'atmosfera. Ormai non parlava più di altro a casa, collo zio, colla zia, aveva sempre qualche aneddoto da raccontare, qualche piccola difficoltà superata, qualche audacia indovinata o cansata; poi sorrideva arrovesciando il capo con quella sua grazia di angelo monello. Solamente fra quei lumi, i fiori, le minime botteghe delle venditrici, quella folla educata e chiassosa, un incanagliamento aristocratico di un buon gusto forse equivoco ma pieno di acri profumi e di sapori carnali, ogni tratto il rosso delle gote le si smorzava ed un impaccio la investiva per tutta la persona incontrandosi nel capitano Buondelmonti, il più colossale e nullameno il più bel soldato del proprio reggimento; il quale la guardava con una sfacciataggine incredibile, ma di cui ella sola si accorgeva.

Sulle prime le era dispiaciuto questa specie di predominio brutale, poi lo aveva cercato involontariamente. Aveva tanto inteso a dire che Buondelmonti era il più bell'ufficiale della città, uno spadaccino e un donnaiuolo terribile, che la sua piccola immaginazione se ne era riscaldata. Lo sbirciava con un'ammirazione paurosa, non osando nemmeno dirsi tutto su quell'uomo, che avrebbe potuto sollevarla per giuoco sul palmo della mano.

Ma Buondelmonti, che si era accorto della buona impressione, le faceva la corte comprando qualche sigaro, che pagava sempre venti lire, e permettendosi spesso di accompagnarla in giro scherzosamente. Allora Jela si sentiva ancora più rimpicciolire, con una paura piena di soavità e una incertezza di moti e di parole fra quella gente, che la fermava ad ogni passo e alla quale bisognava pur rispondere, mentre ella cercava di farlo palpitando di vanità appena le paresse di aver trovato una risposta o avanzato un passo più presto. Se non che Buondelmonti, troppo guasto dall'abitudine delle donne facili per capire la grazia di quell'armeggìo, insisteva forse meno per capriccio galante che per la compiacenza di essere preferito dalla contessina Alidosi, una delle più grandi signore della città.

—Convenite però che è bella,—gli aveva detto la contessa Ceri, la quale vendeva i liquori nel caffè della lotteria, e colla quale si andava raccomodando.

—Per ora non posso: conoscete il mio modo di giudicare le donne.

—Quale?—calcò la contessa, che lo sapeva benissimo:—dopo una rottura?

—Sarebbe esigere troppo.

La contessa aveva trovato quel motto da caserma spiritoso, ma Jela, che sapeva della loro relazione, aveva provato il morso di un dispetto vedendoli assieme.

Quel giorno Jela era anche più gaia. Aveva girellato per gli scompartimenti delle venditrici sempre seguita da un gruppo di giovanotti, interessandosi a quelle piccole vendite così assurde di prezzo e talvolta, ma rado, così preziose di brio. Benchè la luce s'oscurasse nel salone, non si erano ancora accesi i lampadari, e quell'ora crepuscolare metteva nelle botteghe quasi una verità di chioschi lungo una strada, quando il giorno cade e la gente si rarefà. Le venditrici in piedi o sedute, usando dimestichezze deliziose, levavano ogni tratto una voce d'incanto e ridevano sonoramente, sorvegliandosi con occhiate scintillanti, facendosi più belle con uno sforzo di vanità a piacere. Quindi si udivano gli scoppi del bersaglietto dove una signora caricava ed offriva le pistole, i fiori olezzavano, il trillo nasale di una tromba da bambino dominava per un istante lo schiamazzo, poi lo schiamazzo cresceva, una ressa momentanea l'animava, perchè il pubblico a quell'ora non era più che di eleganti, una minoranza nella quale tutti si conoscevano. Molte mani si alzavano per ghermire un giuocattolo, e le risa stormivano con tinnii cristallini fra le note in falsetto, le parole tronche, le esclamazioni prolungate: ricominciavano da ogni lato nell'ombra, sprizzando fra la luce, di banco in banco, mescendosi, alzandosi, rumoreggiando, per ricadere in una cascata di zampilli, sparpagliarsi con un volo leggero di libellule, raggrupparsi ancora e risorgere.

Jela colla capparella bianca sulle spalle e la cassetta al collo girava nella folla, presa fra quella allegria, che le ricordava certe chiassate al convento, sorridendo di felicità quando vendeva dieci franchi uno zolfino e metteva la mano nel borsello ricamato delle sue grandi cifre in argento e la corona di contessa, per lasciarvi ricadere il denaro. Il borsellino già gonfio le batteva sopra un fianco. La marchesa di Renzuno, che a forza di istanze aveva dovuto accompagnarla quel giorno, rubandosi ad un altro comitato di beneficenza, il quale le dava una pena infinita per la inerzia degli uomini e la indisciplinatezza delle signore, osservava tratto tratto la folla, congratulandosene seco medesima come di un proprio affare.

—Mio Dio! marchesa, rovinate il mio piccolo commercio: mi avete mangiato tre fragole,—esclamò la baronessa De Angelis, una bella bruna, grassotta, vestita con buon gusto pretenzioso, vedendole prendere distrattamente un'altra fragola dal panierino di filigrana.

—Ah! è vero, carina.

—Settantacinque franchi di meno: non ne ho più che otto. Perchè non comprate piuttosto quest'uccellino del paradiso? Cento lire.

La vecchia marchesa sorrise.

—Guardate Buondelmonti,—esclamò l'altra,—si accosta alla contessina Alidosi.

—Le fa la corte, ma Jela ha altro da pensare, si diverte troppo.

Infatti Buondelmonti pareva volersele riavvicinare. Ella se ne accorse, e vedendogli il sigaro ormai ridotto ad un mozzicone:

—Un altro?—fe' mostrandogli un lungo sigaro Virginia con un gesto confidenziale.

—Fra poco,—e dovette voltarsi perchè un amico lo chiamava, ma si rivoltò nuovamente. Ida appariva sulla porta spalancata del salone. I primi che la videro, si guardarono meravigliati, ma ella si avanzò lentamente, cercando Jela coll'occhio. Era sola, certamente venuta in carrozza, con quel lungo abito a coda.

Jela, che la scorse quasi subito, si morse le labbra. L'abito color di foglia morta con una leggera guarnizione di foglie secche, rimaste come fra le pieghe della sottana, sapientemente traversate da una increspatura che le disegnava i ginocchi colla vivezza di un colpo di vento, era un capolavoro. La sua figura alta vi si allungava ancora sotto un cappotto grigio, chiuso sul petto e col largo bavero ribattuto, sul quale si attorcigliava il velo bruno del cappellino carico di foglie secche. Era più smorta del consueto, con un'aria più nobile, di una bella tristezza mondana, che la faceva rassomigliare ad un autunno, come lo rappresentano i giornali illustrati. In quei primi giorni della primavera Jela vi comprese una delle solite antitesi favorite di Ida. Il gruppo dei giovani, che la circondava, sussurrò, la marchesa di Renzuno occupata colla baronessa De Angelis non se ne avvide, ma due o tre altre venditrici si sentirono battere il cuore. Il loro istinto di donna le avvertiva di una scena.

Ida s'inoltrava; colpì l'aspettazione destata dalla sua presenza e venne dritto a Jela, che si era fermata inconsciamente nel mezzo di quel crocchio per ricevere l'attacco. Oramai tutti la spiavano. Jela ebbe un brivido, le parve di riconoscere in quel volto la fisonomia tragicamente sconvolta della sua prima notte di matrimonio, quando colla veste di raso nero come le penne dell'aquila, e con una stessa furia stava per rapirle il marito. La fantasia le si abbuiò, si sentì una paura serpere nelle vene colla fredda viscosità di una biscia: poi un palpito violento la scosse. Vide che salutava Buondelmonti, il quale ne rimase impacciato e contento fra quelle signore, e che le si appressava. Il suo abito di seta troppo lungo aveva dei sibili sottili, le scorse una foglia secca sospesa per il gambo, che sembrava staccarsi ad ogni passo, le esaminò il taglio del cappotto, le parve che Ida fosse cresciuta.

Si erano in faccia.

Ida fece ancora due o tre passi, il gruppo si era aperto stringendosi dietro Jela. Ella fu quasi per voltarsi invocando la marchesa, ma era troppo tardi; e come tutto cospirasse contro di lei, si trovavano dirimpetto ad un finestrone, che fasciava tutto quel crocchio in un lembo biancastro di luce. Ida le si fermò dinanzi, quindi cercandosi il portasigarette nella tasca del cappotto:

—Una scatola di fiammiferi,—chiese colla sua voce vellutata, accennandogliela del dito. Il guanto era colore di foglia secca, un'altra foglia le era caduta dal cappellino sulle spalle.

Jela tremava. Quella domanda così semplice le si prolungava all'orecchio col fragore di una cascata, assordante e diffuso. Le teneva gli occhi bassi all'altezza del seno, incantati nel luccichio di un bottone. Passò del tempo o le parve; poi sentì la gente sussurrare intorno, che forse non erano trascorsi tre secondi, e prendendo la scatola, alzò la mano, alzò gli occhi.

—Quanto?—seguitò Ida affrontandola.

—Per voi due soldi.

Fu uno scoppio di fulmine. Tutti sussultarono, ma nessuno parlò. Ida ricevette il fendente sul petto, ma non si mosse, la guardò colla stessa lentezza, poi cercando nel portasigarette ne trasse un bono, lo spiegò, era da mille lire, glielo porse. Jela lo accettò senza capire. Cominciava già a perdere la testa, sorpresa dalla soggezione di lei, che riceveva nel volto bianco come la cima di uno scoglio tutte quelle occhiate ostili. Era rimasta col bono nella mano aperta improvvidamente, non sapendo come o che cosa fare. Tutta la sua paura era risorta, non si ricordava più di nulla, con una sensazione soffocante della gente, che la serrava in un cerchio di curiosità malevole. Poi colla mano stessa, nella quale teneva il bono, cercò macchinalmente il borsello, ma Ida ebbe un gesto.

—Il resto per i poveri.

Ella si scosse. Senza comprendere seguitò a trarre dei biglietti di banca, guardandoli, che non potevano giungere a mille lire.

—Non ne ho...

—Dei poveri?—la interruppe vivamente.—Allora per voi, per i poveri di spirito.

E le volse le spalle. Jela non si ricordava più di altro, solamente di aver pianto due grosse lagrime fra quella gente, che si agitava in un mormorio di risa soffocate; poi aveva incontrato lo sguardo di Buondelmonti, e la vergogna dell'umiliazione era stata così forte che ne era quasi svenuta. Ida aveva fatto un mezzo giro nel salone senza fermarsi a nessun banco. Quindi anche Jela se n'era andata colla marchesa di Renzuno, come passando attraverso una siepe di spini, che le entravano nelle carni.

Adesso non pensava quasi più, sentendo il freddo di una grande irreparabilità agghiacciarle tutta la vita. Un dolore, che non osava di lagnarsi, le si aggrondava nell'anima, mentre cogli occhi fisi nella sera vedeva ancora il bel capitano con un sorriso involontario sulle labbra scambiare con Ida una rapida occhiata d'intelligenza, e rispondere poi agli amici, che gli si accalcavano intorno. La sua piccola testa di gigante si piegava con una compiacenza piena di discrezione, parlando certamente di lei, senza nascondere l'ilarità degli occhi, più insolente di tutto il rumore sommesso e beffardo di quella folla.

Vi pensava, v'era sempre più incantata. Non si rammentava che la marchesa l'aveva lasciata in quella camera, uscendone a furia per cercare il conte o il duca e ricondurglieli, perchè s'intendessero su quel vituperio. Ella si era seduta alla finestra guardando di fuori, ma non vedeva che il capitano. Le pareva più bello e più grande. In quell'abbattimento la sua forza l'attirava come un rifugio: quell'uomo non potrebbe mai essere sopraffatto. Il suo volto angoloso, malgrado la rotondità piuttosto grossa di tutto il corpo, aveva un vigore di arditezza, che incuteva ed ammaliava. Il suo petto era così vasto che due donne avrebbero potuto cadervi e non tremare. Senza pensare alle conseguenze di quello scandalo, che le avrebbe attirato chissà per quanto tempo una ressa di malignità velenose, ella cedeva all'avvilimento di sentirsi sola, abbandonata da tutti in un mondo, che si rideva della sua gracilità, mentre sembrava qualche volta applaudirla per coglierla forse meglio in fallo ed aggiungere l'ingiustizia di una condanna all'ingiustizia di quella ironia.

Il cielo si era fatto più scuro, la campagna affondata nelle tenebre mandava verso la città un roco sussurro di morente. Jela si alzò dal davanzale, e tutta quell'ombra della strada le fece paura; quindi per sottrarsi quasi ad un altro pericolo fuggì fanciullescamente nella propria camera.

Infatti la marchesa, il duca di Rivola e il conte entravano poco dopo nel gabinetto dei ritratti. La marchesa aveva già narrato tutta la scena, precipitando, con una collera di gesti e di voce, che dava tratto tratto alle sue parole una sonorità stridente e squarrata. Ma drammatizzando il racconto vi si accaniva mano mano. Pareva quasi che invece di narrarlo lo apprendesse, e le difficoltà della ritirata con Jela attraverso tutte le signore, che si stringevano loro intorno per aumentare a forza di moine l'importanza già grossa dello scandalo, la traversassero ancora di fremiti ghiacciati. Era stato un lungo orrore, un vituperio, un abbominio senza esempio, il quale non finirebbe più con grande contentezza di tutte le borghesi e dei dissoluti presenti, cui la marchesa aveva già letto sul volto tutte le più bugiarde dicerie. Quindi la sua testa di aristocratica, infiammandosi di sdegno, parlava a scatti, con gesti angolosi di pupattola meccanica che si disloghi, mentre un compiacimento nervoso le faceva prolungare il racconto attraverso quel silenzio degli altri due.

—È un orrore,—concluse infine riattaccandosi al duca.

Egli aveva sorriso deplorando l'accaduto, ma trovandovi alcuni lati comici con una leggerezza così naturale e perversa, che la marchesa aveva dovuto pur riderne: poi la questione si era spostata. I particolari su Ida si moltiplicavano, il duca scherzava, dandosi delle occhiate furtive nello specchio, giudicando le signore della lotteria uno stormo di civette poco belle e poco dame. Tutte non pensavano che a sfoggiare, a regalarsi a qualcuno: era una ruina, una depravazione tutta moderna. La beneficenza serviva di pretesto, giacchè tutte quelle signore, che mettevano bottega per vendere dello spirito, non sarebbero mai riuscite a mettere insieme la lotteria. Il duca guardava la marchesa.

—Già siete voi, mia cara marchesa, la cagione di tutto: siete l'anima della nostra aristocrazia; senza di voi non saprebbero nemmeno dare un pranzo.

E il suo accento aveva una grande sicurezza di ammirazione. Ma ad un tratto si rivolse:

—Jela non è che una bambina: tu dovresti, Enrico, impedirle certe scene. Non ha la più meschina esperienza del mondo.

Se non che la marchesa l'aveva nuovamente interrotto, rimproverandogli Ida, rimproverando il conte, le signore della lotteria, sdegnandosi di tutto il mondo, che andava male, ripetendo ancora alcune circostanze della scena preparata così malignamente da Ida, ma con tanto poco spirito nella sua risposta finale. La piccina l'avrebbe battuta se non si fosse smarrita subito dopo.

—Questo poi non lo credo.

—Perchè siete un libertino.

—Non lo crede nemmeno Enrico, che Jela la possa battere. È stato battuto lui stesso.

Il conte, che quella conversazione irritava, ferito nell'amor proprio dall'insulto di Ida alla contessa, alzò sdegnosamente le spalle. Si rinfacciava la sciocchezza di essersele ostinato dietro, frustato assiduamente dallo zio, che andava smussando con lei il proprio patrimonio, la sua eredità di un giorno, respinto invincibilmente da Ida con una dichiarazione di amore. Sulle prime non era stato che un capriccio di svogliato, poi l'umiliazione lo aveva acceso, e ora la cortigiana, dopo averlo deriso nel proprio salotto, gli entrava in casa e gli schiaffeggiava la moglie. L'altro rideva di quella sua falsa posizione di nipote arricchito dalla dote della moglie e che la lasciava vilipendere dalla mantenuta dello zio; mentre la zia invece non se ne era incollerita che per mescolarsi ancora nelle sue faccende, e comandargli in casa una volta di più. Ma ambedue in quel momento parevano non sospettare nemmeno della sua presenza; il duca parlava di Ida, la marchesa gli rallentava le confidenze con un battito degli occhi lustri, lasciando l'accidente disgustoso della lotteria allontanarsi a poco a poco nella conversazione come un semplice aneddoto senza interesse personale. Poi la marchesa si risovvenne improvvisamente di Jela, e andò ella stessa a cercarla nella sua camera.

—Aspettateci qui,—disse, ridivenendo contegnosa.

Il conte Enrico in piedi, colla mano dimenticata sopra un album aperto macchinalmente, la guardò appena. Una corrente di tristi pensieri lo travolgeva. Perchè Ida aveva fatto quella scena? Che cosa ne pensava il mondo? Perchè il duca e la marchesa, i primi a riderne malgrado gli obblighi mondani della parentela e del nome, v'intervenivano così dispoticamente per umiliarlo un'altra volta, ed egli doveva assoggettarvisi colla stupida docilità di uno scolaretto? Come era rimasta Jela? Ne scriverebbe al padre? Si rimprovererebbe di averlo sposato? Gli rinfaccerebbe almeno nel proprio pensiero i due milioni di dote, poichè Jela non era più innamorata di lui e sapeva del suo capriccio per Ida? Lo temeva. Malgrado tutte le promesse della notte, Ida non lo aveva ricevuto, invece di una sorpresa di amore preparandogli quello scandalo turpe. Ma dunque l'odiava? E allora come poteva mentire a tal punto, con tanta ostinazione di odio? Quindi i suoi complimenti convulsi quando gli diceva in faccia: come siete bello! gli passavano all'orecchio colla sonorità perlata di un riso nel silenzio di quel gabinetto coi ritratti degli avi allineati lungo le pareti in un'ombra come di sepolcro, che lo guardavano coll'indifferenza della loro posa e della loro superiorità, come il duca.

Questi aveva acceso una sigaretta e si era messo allo specchio, osservando tratto tratto il nipote, cui la commozione di quella scena abbelliva singolarmente la fisonomia femminile.

—Dunque Jela non viene? Mi dispiace, perchè sono invitato da Ida: mi aveva detto di cercarti, che si pranzerebbe assieme, ma tutto questo chiasso me lo ha quasi fatto scordare.

—Le sette!—seguitò,—fra un quarto d'ora sarà tardi, in caso che tu venga. Ma Ida è capace di non aspettarci, se tardiamo troppo; stamattina era nervosa.—Ma, poichè il conte non rispondeva, si rattenne e, guardandolo con la compassione di un uomo, cui la vita non serberà mai le disaggradevolezze di simili posizioni, scosse la fronte.

Finalmente la marchesa apparve con Jela dietro. Era ancora così vestita, si conosceva che aveva pianto. I suoi begli occhi, gonfi dall'infiammazione delle lagrime, le davano su quella improvvisa emaciazione del volto una commovente fisonomia di malata, che strinse il cuore del conte. Se non che, malgrado tutte le raccomandazioni della zia, la quale voleva condurla loro innanzi come un giudice, ella si avanzava come una colpevole, atterrita dalla propria innocente simpatia per Buondelmonti e dal sentimento di quel gran torto in faccia al mondo. La sua inesperienza della vita non le permetteva di capire i vantaggi di moglie ricca ed offesa, profittando di quel momento, forse unico nella vita, per assicurarsi l'indipendenza.

Entrando si scontrò in un'occhiata con Enrico, e la tristezza della sua faccia le fece sentire l'angoscia di un nuovo pianto negli occhi.

—Non ti sei ancora svestita, carina?—esclamò il duca, ammiccando con la marchesa ed attirando Jela con un gesto.

—Son venuto ad invitarti per domenica: verrai con Enrico e la marchesa. Sapete benissimo, marchesa, che me lo avete promesso, non accetto scuse: d'altronde il pranzo è dato per Jela, che avrebbe ragione di offendersi. Ci sarà pure la contessa Guelfi, la contessa Ceri: guarda, inviterò pure Buondelmonti, che ti farà la corte, così ci divertiremo colla contessa. Enrico, tu lo permetti, non è vero? Non sei geloso? Poi Jela non crede che Buondelmonti sia bello.

Ella arrossì trepidando.

—È un bell'uomo, ma troppo soldato,—interloquì la marchesa.

—Antipatico! ma dal momento che si prende come un giuocattolo...

—Sei geloso! Marchesa, lo vedete, è geloso. Sai, Jela, ci divertiremo: tu farai la civettuola, la contessa si metterà sulla faccia tutti i suoi verdi più belli. Povera contessa, non vuol persuadersi d'invecchiare, e che fra i veterani sono pochi i non invalidi.

Il conte Enrico, profittando della conversazione, si era avvicinato, la marchesa aveva preso una mano di Jela e gliela stringeva affettuosamente. La buona piega di quella scena la stupiva: quella le pareva, non meno che a Jela, una soluzione incredibile. Quindi profittando del destro scambiò un'occhiata col duca, quasi per mostrargli come ella aveva saputo da sola accomodare subito le cose, abbracciò Jela dandole un bacio sulla bocca:

—Sei contenta?

Poi, senza darle nemmeno il tempo di rispondere, si volse al conte Enrico, che si disponeva ad accompagnarla fino alla porta dell'appartamento. Ma appena furono soli, il duca mutò espressione, e dalla porta, dietro la quale era scomparsa la marchesa, riconducendole nel volto le pupille sembrò considerarla con simpatia malinconica.

—Come ti tratta!

—Io...

Egli ebbe un gesto superbo, come non preso da quella generosità.

—Sei un angelo! Buondelmonti avrebbe ragione d'innamorarsi.—Ma si fermò, sentendo ritornare il conte Enrico.

—Dunque andiamo,—esclamò, facendosi d'un tratto frettoloso,—è già tardi, ci aspetteranno. Mi scordavo di dirtelo, ti rubo Enrico questa sera, ma te lo pagherò domenica. Siamo attesi, è un affare molto serio. Mi dispiace che pranzerai sola, ma infine la colpa non è mia; se non era la marchesa, saremmo già al convegno: quella donna è un ostacolo sempre. Sai, Jela, mi perdoni? Andiamo, Enrico.

E mentre Jela lo guardava cogli occhi attoniti, temendo di una qualche minaccia in quell'abbandono, egli cercava di rianimare il conte. Jela tremava senza ardire di negare o di cedere, incantandosi in una indecisione, che prolungava la loro fretta simulata, mentre la paura dell'isolamento a poco a poco la ripigliava. Prima lo aveva desiderato, poi non avrebbe voluto per cosa al mondo restare sola colla propria coscienza. Quindi un sospetto la sfiorò abbarbagliandola.

Il conte Enrico si era scosso, aveva trovato il cappello e si accostava per stringerle la mano: ella gliela abbandonò rabbrividendo, ma quando lo zio gliela serrò per la terza ed ultima volta, gli mise un tale sguardo negli occhi, che egli fe' un gesto per rassicurarla.

—Impossibile!

Ed uscirono quasi correndo, mentre Jela, l'occhio e l'orecchio sulle loro tracce, mormorava a bassa voce:

—Vanno da Ida!

Infatti era vero.

L'aria era pungente, la strada deserta.

—Non passa un fiacre,—disse il duca.

—Avete fretta?

—Io? per te. Sono otto giorni che Ida non ti riceve dopo averti invitato per l'indomani: figurati come ti desidera! Dovresti ringraziarmi della bontà.

Camminarono ancora in silenzio, poi il conte, che non voleva mostrarsi interamente battuto, riannodò la conversazione. Il duca era in un accesso di moralità, e stigmatizzava violentemente tutte quelle feste di beneficenza, una nauseabonda affettazione democratica per ingraziosirsi il popolo, il quale aveva il buon senso di non esserne grato e di rispondere con insolenze a quella carità diventata una pania di adulterii. Le signore, invece di assentirvi, avrebbero dovuto far ancora l'elemosina alla porta dei loro palazzi come una volta, un'elemosina, che aveva il doppio vantaggio di lasciare chi la donava e chi la riceveva al loro posto.

—Noi, ai nostri tempi eravamo più coraggiosi; voi altri, che avete fatto l'Italia e farete forse un giorno la repubblica, non osate nemmeno di essere signori. Ne domandate sempre l'amnistia alla piazza, o paolotti coi preti, o filantropi coi borghesi. Bah!—aggiunse sogghignando:—Ida ha ragione, è più onesta delle signore: almeno ha il coraggio di sè medesima.

Passò un fiacchero, vi salirono. Il duca seguitava a calcare sulla bassezza dell'aristocrazia, la quale vuol farsi accettare dalla borghesia e dal popolo, senza poter assimilarsi ciò che forma la loro natura e garantisce loro l'avvenire; ma a poco a poco condannava tutto il vizio, anche l'antico, perchè in fondo non vi si trovava un gran vantaggio. La gentina aveva ragione, la famiglia era il più gran trovato dello spirito umano; egli ci aveva pensato, poi l'orgoglio dello scetticismo libertino lo aveva rattenuto. E la sua voce aveva un accento così sincero, che finì per meravigliare il conte.

—Mi guardi? Se sono rimasto vedovo è la tua fortuna. Io mi lamento perchè sono un vizioso fortunato: non è permesso che ai ricchi di sentire veramente il vuoto delle ricchezze.

—Però non vi rinunciano.

—Troppo giusto!—ribattè colla sua stridente ironia:—Rinunciarvi prima di conoscerle sarebbe una scempiaggine, dopo averle conosciute cattive una malvagità.

Erano alla palazzina di Ida. Il valletto livreato in nero li introdusse nel solito salotto, ma Giustina, la cameriera di confidenza, venne loro incontro con aria desolata. La padrona, ritornata di un umore massacrante dal passeggio, le aveva ingiunto di rimandar tutti, anche il duca. Ella non l'aveva mai vista di un simile carattere: si era chiusa nella propria camera senza lasciarsi nemmeno spogliare, borbottando fra i denti, strapazzandola quasi ferocemente per avere osato una piccola osservazione. Ma la fisonomia sbiadita di Giustina si andava man mano rischiarando di una malvagia malizia in queste parole strascicate leziosamente, come per osservarne meglio l'effetto sul volto del duca.

—Si figuri che ha minacciato di cacciarmi via,—seguitò, appoggiandosi famigliarmente alla spalliera della poltrona.

—Non ti ha detto che cos'ha?

—Glielo avrei chiesto!

—Ma non ha pranzato?

—Ha detto che suonerà. È nella sua camera.

Il duca non aggiunse altro. Evidentemente non ardiva di rompere la consegna. Giustina, che non si era nemmeno voltata verso il conte, si accomodava con affettazione una piega dell'abito, un ricco avanzo della padrona. Il duca taceva, il conte in piedi, esasperato da quel tono della cameriera, stentava a frenarsi. Tutta la collera, calmata dall'aria fredda della notte, gli riavvampava nella coscienza; sentiva di esser preso a gabbo.

—Ma perchè non ordinate a quella scema di annunziarci?—rispose in francese al duca, che aveva scambiato seco uno sguardo furtivo. Il duca non pareva più quello, la vecchiezza lo aveva ripreso con tutte le sue tremule diffidenze.

—Sei pazzo!

Il conte, che si sentiva soffocare, accennò di andarsene, ma il duca si alzò, lo trasse alla finestra, e sempre in francese, a bassa voce, come se Giustina, che non ne sapeva un ette, potesse capirli, seguitò a spiegargli minuziosamente come la posizione non fosse delle più facili. Ida, furibonda per quella scena della lotteria mal riuscita, ne teneva loro il broncio colla solita logica delle donne, ma era tale da rimandarli. Purtroppo egli aveva dovuto accorgersi in cento altre occasioni come Ida mettesse una speciale vanità nella propria indipendenza. Ora non v'era forse che un solo mezzo di eludere la consegna.

—Prova tu: va innanzi con Giustina. È abbastanza strano che tu venga da lei questa sera a domandarle da pranzo: Ida capisce, si mette a ridere, e tutto è accomodato.

—Ma è quasi una viltà!

—Ecco la borghesia: un signore non si avvilisce mai con una donna, che paga. Finezze di spirito!

Il conte titubava.

—Se no, io la conosco, ci tocca uscire, e questa volta diventiamo ridicoli sul serio.

Giustina appoggiata coll'anca alla poltrona nell'atteggiamento di un garzone di caffè, li ascoltava, indovinando senza intenderli ed aspettando, uno de' suoi piaceri favoriti, che il duca agli estremi la consultasse umilmente.

—Introduci il conte, io l'aspetterò qui,—le disse.

—Uhm!—fe' squadrandolo con diffidenza.

—Introducetemi,—questi ripetè seccamente.

Giustina senza affrettarsi fissò ancora il duca, dondolando la testa come per dire che accettava, ma tutto sarebbe inutile. Il duca rimase aspettando. Quello che aveva detto al conte sul carattere inflessibile di Ida, purtroppo lo pensava sinceramente; ma l'idea di servirsi di lui, dopo lo scandalo del giorno, per vincere il capriccio bizzoso della fanciulla, gli parve uno scherzo così trionfante, un'abilità così inimitabile, che se ne compiacque.

—È strano!—mormorava, parendogli di attendere da un pezzo. Poi si fermò dinanzi ad una litografia del Pollice Verso del Gérôme, si voltò due o tre volte verso la porta, si risedette, tornò ad alzarsi.—Che cosa le dirà quello sciocco? Eppure è così facile!—Ma riflettendovi bene, non gli veniva lo scherzo per far sorridere Ida, mentre le parole del conte: «è quasi una viltà» gli tornavano agli orecchi. Finalmente intese il rumore di un passo femminile; era Giustina.

—Venga, venga,—esclamò ridendo:—sono tutti e due seduti sulla sponda del letto.

—Oh!—gridò, correndole incontro con uno slancio giovanile, poi si fermò:—Ha scritto anche oggi?

—Il capitano? scrive tutti i giorni, la signora ha gettato la lettera senza neppure aprirla, deve essere sul camino.

Il duca raggiò.

—Sai, servimi sempre così,—disse pigliandole scherzosamente un pezzo di guancia tra l'indice ed il medio:—sei una bella ragazza!—E leggero, col passo di vent'anni, il volto ilare, entrò spalancando l'uscio nella camera di Ida.

—Giuseppe e madama di Putifar!—proruppe allegramente baciandole la mano,—vi sorprendo, sciagurati.

—Debbo invitarvi a pranzo anche stasera?—ella chiese dopo un istante.

—È un'elemosina.

—Già, nell'elemosina vi è sempre uno che si abbassa,—e il suo sguardo cadde sul conte, che trasalì; ma si levò di scatto e chiamò:

—Giustina! il pranzo? sono le otto; è incredibile come si sia mal serviti. Apparecchia su quel tavolo; non è vero, signori, che si sta meglio qui che nel salotto? Ma sollecita, questi signori hanno fame.—E si girò verso il conte, prendendogli di mano il libro, col quale l'aveva sorpresa sul letto, e che egli non aveva ancora aperto.

—Che cosa leggevate?—domandò il duca, che conosceva le tendenze letterarie della fanciulla, per lusingarla.

—Un libro di Lewes, splendido. Ha ragione: nulla è più facile che drammatizzare un fatto, nulla più difficile e diverso che concepirlo dramma. Victor Hugo drammatizza sempre, eppure è un genio. L'arte moderna non ha che tre drammi sublimi: l' Amleto di Shakespeare, il Tristano e Isotta di Wagner e La Faute de l'Abbé Mouret di Zola. Farò un dramma anch'io.

—Per il teatro? Musica o poesia?—domandò il conte con una leggera inflessione di scherno.

—Nè l'uno nè l'altro. Non lo farò per il teatro, ma in teatro. A proposito, è per domenica l'ultimo veglione?

Giustina rientrava in quel momento col valletto per apparecchiare la cena. Ida tornò a sedersi sulla sponda del letto, presso il conte, col duca ai piedi semicoricato sulla pelliccia d'ermellino. La camera alta, illuminata da due candelabri di bronzo a tre branche, si assopiva in un raccoglimento severo. I muri parati di stoffa azzurra, incorniciata da liste di bronzo inverdito, si alzavano in un'ombra nera fino al cornicione della volta, pieno di dorature e di arabeschi come la cornice di un immenso quadro, nel quale si scorgeva appena il sottanino rosso di un guerriero, qualche elmo, una bianchezza femminile perduta in una bruma di tramonto, in alto, fra una nuvola greve. Era una camera di palazzo antico, più vasta di un salone moderno, occupata la maggior parte da un letto di ebano incrostato d'avorio. La sua testiera, lavorata prodigiosamente, saliva riunendosi in una mensola da tabernacolo, con un'apoteosi di arte e di ricchezza. L'ebano aveva perduto il lucido, l'avorio si era ingiallito, ma dalla mensola, come dall'altezza di un trono, un piccolo Apollo di marmo sfolgorava di un candore immortale sotto un baldacchino di trine drappeggiate a minime pieghe, che lo raccoglievano come sotto una cappella cristiana dal lusso minuzioso e femminile. Una lampada antica di bronzo doveva ardergli tutta la notte dinanzi. E un'immensa coperta marezzata, dai bagliori cilestri, si arrovesciava dal letto, coprendone il lavoro meraviglioso con una frangia a ghiande alternativamente bronzee ed azzurre sino sul tappeto di una tinta bruna come le pareti. Il letto era posto sopra un gradino; a' suoi piedi, secondo il costume campagnuolo, una vecchia cassa di quercia intagliata sopra un piedestallo di panno turchino, con una grande chiave cesellata nella toppa e il coperchio aspro di un paesaggio, al quale gli anni avevano dato qua e là una lucentezza metallica, sembrava trattenergli le onde seriche; mentre ai fianchi, dal lato di Ida, una pelliccia di ermellino, ad orlo di seta cerula, conservava sulla innocente candidezza le orme leggiere della donna, e dall'altro una pelle di leone, colla testa fra le zampe, si stirava sul tappeto le unghie dorate con una vivezza di brace. Il leone aveva una pantofola da uomo in velluto cremisi sulla testa. Un camino di marmo nero, carico di ninnoli e difeso da una saracinesca di ottone, in faccia alla grande cassa intagliata, spiegava una pompa di incrostazioni a colori gemmei, pieni di fosforescenze e di bagliori. Tutti gli altri mobili, il piccolo armadio con due figure rilevate nei medaglioni dello sportello, e i due canterani a lato del camino, erano antichi, in quercia, a placche di acciaio annerito. Una psiche enorme metteva nell'angolo un chiarore notturno di lago; una lunga ottomana di raso rosso, davanti al lavabo in marmo nero a forniture di argento cesellato, accendeva in quel crepuscolo marino una vampa sanguigna d'incendio, mentre l'ombra vellutata di quell'azzurro si addensava con una mollezza di fumo, chiazzata dalla bianchezza degli origlieri ricamati in cilestro del nome di Ida, drappeggiandosi lungo i cortinaggi chiusi, ritraendosi ai solchi delle candele su per le pareti e sui mobili, addolcendo quella ricchezza quasi austera malgrado le bizzarrie moderne della gran mantenuta.

Ida adorava quella camera, che le costava un tesoro ed era il suo capolavoro, poichè vi aveva tutto discusso e curato dalle piccole scansie, a fianco del letto, in corno ed avorio, alle scimmie di Norimberga, grandi e piccine, che si arrampicavano per tutti i cordoni del baldacchino sino dentro a guardare l'Apollo colla adorabile brutalità del loro grugnetto lascivo. Una scimmia, la più grossa, si chiamava Mynos. Nel camino agonizzavano poche brace dietro la grata d'ottone, a saracinesca, agitando una iridescenza di sorrisi sui nicchi del marmo. La camera, tenuta con uno studio eccessivo, prendeva dal lusso femminile del talamo il proprio sesso, poichè nessun altro oggetto, nessun oblio di vita o di toeletta vi tradiva la donna. Era bene la camera di Ida colle crudezze logiche del suo pensiero e la maschile fantasia della vanità, il suo primo sogno realizzato, quando l'abitudine dell'opulenza non gliene aveva ancora calmata l'ingordigia. Ogni mobile vi rappresentava la ricchezza potente di un'aristocrazia, che sa di essere imperitura e si fa una barriera del proprio lusso al lusso provvisorio dei borghesi; ma ella li aveva comprati un po' dappertutto, pagandoli a un prezzo assurdo, sapendo che sarebbero sempre una ricchezza. Ida non conosceva ancora la gracile eleganza e la effimera pomposità del lusso moderno; d'altronde lo detestava. I suoi ninnoli, i sopramobili erano capi artistici, copie in marmo o in bronzo: non accettava nè maioliche nè porcellane, fasto di rigattieri; aveva appena fatto grazia a quelle scimmie per l'antitesi heiniana di circondarne il suo Apollo greco, urtando così il primo e l'ultimo termine della fisonomia umana. Ma le contraddizioni del suo carattere scoppiavano qua e là in quell'ammobigliamento, cui la filosofia di Poe non era estranea; all'Apollo pagano, che sostituiva la Madonna a capo del letto, sublime nella serenità della propria bellezza, contrastava sopra il camino con una bellezza più ineffabile un Ecce Homo del Guercino con i capelli biondi come l'oro ed il viso stravolto dalla passione; mentre sotto di esso un puttino di marmo, tutto moderno, un birichino in brandelli, le mani strette al seno dal freddo, stringeva pure il revolver preferito di Ida colla canna a rabeschi dorati, il calcio d'avorio e la sua cifra in oro. Nessun profumo di alcova, nessuna mollezza sensuale temperava quella sontuosità di mobili ad angoli retti, con modanature così taglienti, che bisognava sfiorarli guardingamente.

Ida celiava, Giustina e il valletto avevano apparecchiata la cena sopra il piccolo tavolo, miracolosamente intarsiato, fra la grande cassa ed il camino, ed aspettavano un cenno della padrona per servirla. Ma ella pareva essersene dimenticata, con un piede abbandonato nelle mani del duca e la testa quasi sulle spalle di Enrico, mentre la lunga veste da camera, rosea a trine bianche, di una leggerezza di nuvola e di una trasparenza quasi aerea, stava come per gonfiarsi ad ogni suo atto e sfiorare i volti di quei due uomini, che obliavano i loro rancori in un incanto di desiderio.

Ma in un impeto di risa Ida cadde rovescioni sul letto, il conte le passò una mano sotto la cintura.

—Ritirate quella zampa, cattivo gatto.

—Bianco,—esclamò il duca.

—Che? i gatti bianchi cogli occhi cilestri sono sordi, lo ha scoperto Haensinger. Poi i vostri occhi hanno la limpidità cristallina dei gatti, che morranno di tisi;—ma invece di sollevarsi ella gli si aggravava sulla mano col seno gonfio della sonorità di un riso voluttuoso. In quell'atteggiamento il piede, che il duca le teneva tra le palme, le si alzò scoprendo la caviglia rosea fra la nebbia rosea della veste. Il duca si levò ginocchioni, il conte Enrico le si curvò sul collo, tutti e tre ridendo nel riso scabro di quella scena; ma ella, che rideva più forte, a un tratto puntò la testa nel mezzo del letto e, ordinando loro di aiutarla, arrivò a distendervisi, adagiando il capo sull'origliere.

—Ho fame, volete servirmi, conte? Ma vi farete prestare i guanti di filo da Giuseppe; voi duca sarete lo scalco.

Malgrado la sua serietà di domestico ben educato, Giuseppe non potè trattenere una smorfia quando il conte gli chiese i guanti; questi se li mise, e chiamando il duca tutto ilare di quella follia, si fermarono davanti al tavolo. Il pranzo era di un'incredibilità capricciosa. Un enorme mazzo di fiori entro un vaso di argento massiccio, pieno di figure annerite dal tempo e sformate dalle ammaccature, occupava più che mezza la tavola, avvolgendola in un profumo di viole, che le gaggie disseminatevi come tanti occhi di falco fra quegli occhietti cilestri, irritavano con un'acrità di pimento. Il mazzo rotondo e convesso, allungava tutta la sua ombra sul tavolo, che ne restava bruno malgrado la frizzante candidezza della tovaglia. I bicchieri in cristallo di Boemia e i piatti in cristallo di rocca si discernevano appena nella loro bianca limpidezza, mentre le piccole forchette d'oro, fra tutto quel bianco pieno di iridi e di bagliori, avevano la dolce ricchezza di una ciocca di capelli biondi sulle spalle nude di una donna. Non v'erano che tre posti, uno in mezzo sulla cassa, e gli altri ai due lati. Alcuni barattoli dalle forme bizzarre si addossavano ad un compostiere guarnito di frutta rare, ananassi, fichi d'India, aranci di Singapore, perine montanare a grappoli, grosse come le nocciuole di un rosario, pesche di una biondezza femminile e con un sorriso di carni brinate, frammezzo a molte frutta candite dalla viscosità granulosa e gelata di cadavere. Tutto il pranzo si componeva di dolci e di paste, ammassate sopra un piatto enorme d'argento, entro un cerchio di bottiglie di liquori, nere come una cintura di piccoli cipressi intorno a una piramide sepolcrale. E lì presso una conca antica di Sèvres, smagliantemente colorata, pareva una barca piena di sandwichs, tutto il carico pesante di quel pranzo.

Il conte e il duca, che non avevano badato ai preparativi, esclamarono.

Essi avevano fame, quel pranzo era un'indegnità da parte di Ida, e non l'avrebbero servita; in nessuna casa del mondo si pranzava così. Ma Ida esclamò più di loro, perchè vi doveva essere un arrosto qualunque, un rifreddo e delle fragole.

—Delle fragole non ce ne sono che per noi,—disse il duca, osservando sul tavolino.

—Dove?—ripetè il conte seguendo il suo sguardo.

Ida aveva sollevato il capo curiosamente.

—Ma dove le cerchi, Enrico? non le vedi sulle labbra di Ida?

Ida, che stava per scoppiare a quella mancanza del suo frutto prediletto, sorrise, e Giuseppe entrò coll'arrosto di bue affettato in un piatto d'argento bislungo; lo depose sull'orlo del tavolo, ritirandosi coll'indifferenza corretta di un cameriere, pel quale le stravaganze dei padroni non hanno nulla di strano. Giustina era uscita. Ida, colla testa sotto la mensola dell'Apollo, coperta da quell'ampia veste, che su quel raso cupo aveva l'ardore d'una nuvola accesa dal sole in fondo all'orizzonte marino, guardava i suoi due nuovi camerieri con gioia insieme puerile e profonda. Il conte aveva portato sul letto un piattello di paste, il duca una bottiglia di rosolio chinato, e si erano entrambi seduti sulla sponda mangiando, fingendo dimestichezze da servitori innamorati della padrona, mentre ella li strapazzava fra uno scoppio di riso, prendendo certe arie di testa di un'incantevole seduzione. Ma realmente non avevano fame; il duca aveva mangiato al club, il conte, ancora agitato dalle scene precedenti, conservava appena un appetito di ghiottoneria. Il letto a molle, cogli spigoli fortemente imbottiti, cedeva lenemente verso il mezzo avvicinandoli a Ida, che si affondava come sotto un mucchio di rose, attirandoli colla gaiezza del sorriso e l'abbandono della posa. In quella camera così severa, illuminata da una luce fioca, tra que' mobili di trapassati, su quel letto imperiale rischiarato in alto dalla casta nudità dell'Apollo, ella felice nella soave mitezza della veste, una pasta fra i denti, era ancora una stranezza, la maggiore e la più artistica. Una beatitudine trepida apriva loro tutti i sensi, mentre scendevano il declivio capzioso del letto, respinti dall'ombra e dalle punte di tutti quei mobili secolari verso quella veste rosea, sotto il baldacchino bianco, come ad un ricovero di colori dolci, incomprensibile ed incantevole, un nido, un immenso fiore, una conchiglia, nella quale Ida metteva il suo pallore di perla, la sua morbidezza di rosa, il suo odore di donna. Parlavano adagio, i sorrisi filavano collo splendore illanguidito delle stelle, le parole avevano come un tremolìo di petali, un fruscìo di trine. La fronte rivolta verso Enrico, che teneva il vassoio in mano, Ida mangiava dei confetti fondenti come falde di neve, una evaporazione di rosolio magicamente congelata. Poi una carezza si diffuse sulla faccia della fanciulla, gli occhi le si inumidirono, ed un bagliore azzurrognolo le scese lungo i capelli, spegnendosi sul candore dell'origliere. Improvvisamente le parve di essere davvero sul letto con lui, sola, prostrata in una voluttà non ancora corrotta dall'abitudine. Il conte se ne accorse; una ruina gli avvallò nell'anima, come se tutti gli ostacoli e le resistenze di quella donna svanissero di un tratto, ed egli bello come l'Apollo scendesse dalla mensola a capo del letto per sdraiarsele sul seno, sotto quella nuvola di neve.

Ma non durò che un minuto. Ida si allungò per prendere un'altra pasta, egli attirato invincibilmente da quel gesto le tese la mano. La fanciulla la ritirò.

—Guardate, duca, se Enrico non pare proprio un cameriere innamorato: versatemi dunque un bicchierino.

—Eccolo.

Se non che Ida si trasse sulla sponda e vi si allungò, obbligando il conte a levarsi, mentre il duca accorreva col bicchierino dall'altra.

—No, inginocchiatevi qui tutti e due: prenderò quello che voglio. Voi per il primo, conte, qui al cuscino, ma tenete il piatto alto; voi, duca, lì. Una volta le dame erano servite in ginocchio dai più grandi cavalieri; allungate dunque il piatto, Enrico, mio bel paggio. Avete visto quell'adorabile quadretto, I favoriti della duchessa? È un paggetto di sedici anni, lungo, esile, che tiene sulle ginocchia il muso di un levriero, mentre guarda un falchetto, che gli stride sopra una specie di leggìo. Ah!—s'interruppe:—e il thè? Aspettate che suono, non vi movete.

Ed afferrò il cordone del campanello sotto il baldacchino.

—È un quadretto adorabile,—ella seguitò:—il paggio vi somiglia quasi, Enrico; voi, duca, sarete il falco. Siete un po' più spennato, ma, per quanto realistica, l'arte non è mai tutta la realtà. Io sono la duchessa, che nel quadro non si vede, ma si indovina, una duchessa focosa e insensibile, che ha dei capricci d'usignuolo e delle carezze da tigre.

Giuseppe e Giustina, che entravano in quel punto, meravigliati dei due in ginocchioni come due ragazzi ascoltando la lezione della maestra, frenarono a fatica una risata. Il conte li sentì e n'ebbe un insulto di malessere, che gli fe' tremare il piatto nelle mani.

—Non abbassate dunque il piatto così, mi costringerete a cacciarvi, se mi sciupate il mio quadro. Io sono la duchessa, come ne esistevano qualche secolo fa, e ora non se ne trovano più; voi, duca, il falco, voi, Enrico, il paggio. E il veltro bianco? Sarà Jela. Siete i miei favoriti,—proseguiva con uno stridore di lama nella voce,—più umili dei miei domestici, che posso insultare ad ogni capriccio, perchè io vi ho regalato tutte le mie bassezze di donna per potervi amare senza pericolo. Oh! come siete vili!—esclamò,—voi gli ultimi di un'aristocrazia, che ha fatto le crociate. Come siete vili!

E scoppiando in una risata sonora, quasi avesse sino allora declamato uno squarcio di commedia, li guardava torcendosi sul letto nelle convulsioni di una gioia così vera e nullameno così inesplicabile, che il duca ed il conte ne rimasero intontiti. Questi accennò di alzarsi.

—Che! che!—intervenne Ida imperiosamente.—Preparate il thè, Giuseppe; tu, Giustina, butta qualche pastiglia sul fuoco.

Giustina si avanzò subito per pigliare una piccola scatola sul tavolo da notte presso il conte. Il suo volto slavato aveva un'espressione contenta di sarcasmo guardando la padrona.

—Che te ne pare?—le disse Ida famigliarmente.

—Signor duca, badi, ha rovesciato mezzo il bicchierino sulla coperta.

—Vuoi tu il resto?

—Offritele dunque una pasta, Enrico.

—Signor conte, stia comodo, la prenderò sopra la sua testa. Grazie, signor duca.

E padrona e cameriera si divertivano di quei due gran signori, due dei nomi più belli d'Italia, in ginocchio davanti a loro nate dal popolo, col vecchio rancore del popolo nel cuore. Ma ella saltò dal letto e, chiamandoli a piccoli stridi, andò a sedersi sulla cassa davanti alla tavola, obbligando il conte a sedersele presso.

—Verrete al veglione, domani sera?—gli domandava poggiandogli una mano sulla spalla, mentre si faceva mettere un confetto in bocca dal duca.

—Senza dubbio.

—Non ci mancate. Io sarò mascherata: un costume originale, lo vedrete. Conte, voi ci sarete in palco con Jela.

—Ma scenderò: ho sempre il mio domino, faremo un diavolìo sino al mattino.

—Fino al mattino? Ma allora andatevene, voglio dormire questa notte: andatevene, a domani sera.

—Andiamo, zio.

—Oh no! non vi ho detto che voglio dormire,—ribattè Ida, abbandonandosi sulla spalla del duca. Questi la cinse con un braccio.

—Vedi bene che scaccia te solo: veramente è presto, non sono che le dieci. Ma se vuol dormire dopo...

—Dopo?!—rispose il conte con una inflessione di scherno, impallidendo, mentre Ida lo guardava cogli occhi socchiusi come nel languore del sonno.

—Andate al club?—gli chiese stancamente, tendendogli la mano.—Se ci vedete Buondelmonti favorite di dirgli che accetto: domattina alle dieci.

—Un appuntamento?

—Sì, voglio provare il suo bel cavallo prima di comprarlo. Così mi risparmierete di scrivergli: egli è così sciocco, che sarebbe capace di mostrare la mia lettera, vantandosene.

Il conte titubava ancora, non avendo in tutta la sera potuto ricordarle la promessa dell'ultima volta. Ma il duca col busto stecchito per sostenere il peso di Ida, che gli si aggravava addosso di tutta la persona, le aveva preso una mano e gliela sbatteva sul tavolo col vezzo dei bambini; e vi era tanta naturalezza nel loro gruppo, che si sarebbero detti due sposi. Il conte sentì un turbine di polvere passargli sugli occhi, ma volle dominarsi; salutò lo zio, strinse la mano a Ida.

—Buona notte.

—A rivederci, conte, grazie. Siete gentile quanto bello! Jela vi aspetterà.

—Rammentatele il mio invito per domenica. Povera piccina!—intervenne il duca.

—Non dubitate.

—Arrivederci, conte.

Quando fu uscito, Ida sempre colla testa sulla spalla del duca, rimase pensierosa; una tristezza le si stese sulla fronte, mentre gli occhi le si irrigidivano e la ruga verticale della fronte le si contraeva.

—A che cosa pensi?—le chiese il duca dopo qualche momento.

—Ad Enrico.

—È innamorato di te. Povero ragazzo!

—Povero ragazzo!—ripetè lentamente.

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IV.

Alla vigilia di compiere il lungo e feroce disegno Ida si sentiva come stanca. La notte non aveva dormito. Nella insonnia, che le rendeva aspro perfino il contatto levigato delle lenzuola, i suoi nervi avevano una sensibilità così sospettosa, che il duca si era affrettato ad andarsene senza nemmeno interrogarla su quello specioso appuntamento con Buondelmonti. D'altronde si proponeva di spiarlo. Ida, seduta al lavabo, lo aveva veduto partire, come chi si affretti sotto un uragano imminente. Una rilassatezza greve l'abbatteva sulla poltrona, dandole certi moti pigri, certi gesti prolungati, i quali stupivano Giustina, usa tutte le mattine ad una brevità piuttosto secca di comandi.

Si era appena attorcigliate le trecce sulla nuca, aveva infilata un'ampia veste da camera di lana col cappuccio, bianca come la tonaca di un domenicano, poi era passata nel gabinetto nero ordinandovi il fuoco. Fuori il mattino raggiava. Un enorme sorriso, vibrante, ostinato, inondava cielo e terra, ravvoltolandoli come in un velo immenso di una trasparenza abbagliante, colle pagliette accese e le pieghe in fiamme. Ida aveva detto a Giustina di abbassare una metà della tenda, di voltare il dosso della poltrona alla finestra, e vi si era allungata. Giustina indifferente a quella preoccupazione della padrona, era ritornata poco dopo colla macchinetta in argento per il caffè; ma Ida le aveva levato gli occhi in volto, rispondendo bruscamente:

—No.

—Allora mi ritiro.

L'altra non aveva replicato.

Teneva i piedi sulla piccola balaustra di bronzo, la testa sulla spalliera, la lunga veste ammassata sul tappeto come un veltro bianco. Le fiamme, lingueggiando sulla lastra nera, avevano una purità così diafana, che le illuminava i pensieri nella mente. Le pareva di vederli ondeggiare, storcersi ad ogni alito, risolversi nel guizzo di un colore e riapparire ancora avventando scintille come i fanciulli gettano un grido. Per qualche tempo quel giuoco l'interessò. Il casimiro della sua veste bianca scaldandosi al riverbero della fiamma si marezzava di bagliori metallici, che le salivano per le gambe e le si spegnevano sulla faccia. Ma in quel placarsi dei nervi un turbamento le si elevava dalla coscienza colla inesorabilità di un'ombra e la confusione di una tempesta. Era una melanconia, una scontentezza, un rimorso forse mille volte respinto, ricacciato nell'abisso, e che ne usciva sporgendo la testa di spettro. Ella lo conosceva. Sentiva questo rimescolamento della coscienza, la sua vita passata risalirle intorno, distendendosele sotto lo sguardo, dalla elegante veste bianca sino lontano, con una sconsolata miseria di landa. E la percorreva avanzando per quella vuota prospettiva, riconoscendone alcuni lembi, ritrovando molte orme, circondata da un silenzio, che sembrava accrescere la nettezza della visione. Rivedeva il suo villaggio in una vita spettrale, la gente che si muoveva, lavorava senza mai alzare la testa, senza barattare una parola, come tanti automi, che si spostassero adagio con una felicità meccanica. Lo rivedeva in una precisione di sogno, poi la città, l'istituto, la sua camera, il suo vestito nero, il lutto della sua giovinezza insanguinata dalla ecatombe di tanti desiderii, smorta dalla insonnia di tante notti; ella sempre sola in una pensierosità di prigioniero, e poi il villaggio ancora, ma in una luce più slavata, in un crepuscolo autunnale. La lebbra de' muri si era inverdita, l'orto più piccolo aveva una vacuità di deserto, mentre il villaggio si allontanava in un murmure lontano e il crepuscolo lasciava cadere una cenere fina ed intirizzente fino dentro alla camera, dalla quale ella guardava intontita attraverso i vetri, colla sensazione fissa di quella cenere, che pioveva sempre, lontano, in fondo all'orizzonte, da ogni lato, soffocando ogni rumore, annegando ogni forma, aumentando ciecamente, mutamente.

Quindi rivedeva il castello di Valdiffusa fra un anfiteatro di verzura, col bosco delle elci, umido e severo. Un uccello zufolava il ritornello di una canzone, i monti avevano una monotonia grandiosa, un silenzio pieno di fremiti e di sussurri. Ella era vestita ancora di nero, ma la coscienza le si era allargata come quella valle, colla forte tranquillità delle elci e la semplicità bruna e feconda del bosco. E una apparizione fantastica la investiva con un riso perlato, che batteva tutti gli echi, e tutti gli echi rispondevano sgranando le loro note cristalline fra uno stormire di alberi, un pigolìo di uccellini, un crepitare di bottoni, mentre Jela ancora bambina, le sottane e i capelli al vento, le correva incontro fra un raggio di sole, che l'ardeva sollevandola e gliela lasciava cadere sul petto con un abbandono di viola, che piega il capo.

Si amavano. Jela era tutta carezze, il castello prestava la sua vastità per i loro giuochi, la sua libertà, i suoi cavalli, Febo baio colla criniera che Ida aveva tante volte intrecciata di cordelle azzurre. Quindi correvano, folleggiavano; ma Ida si vedeva pur sempre innanzi una distesa, un deserto dietro quei monti, oltre tutto quel verde, che si perdeva in fondo, nel chiaro, nella nebbia e, avvicinandosele talvolta sino al petto del cavallo, svaniva poi all'improvviso.

Perchè mai odiava tanto il conte Enrico? Non lo aveva amato, o almeno ne dubitava, perchè quella passione le scendeva più dalla testa che non le salisse dal cuore. Le pareva bello, benchè non lo fosse; un grazioso biondo meschino, un marito per Jela. Ella se ne accorgeva, se ne era subito accorta, ma una segreta attrazione di battaglie la trascinava verso quel gracile aristocratico, che le veniva incontro dal mondo tanto sognato, con un sorriso di superiorità insuperabile sulle labbra. L'odio accumulato negli studi e nelle ultime miserie le si ridestava in fondo all'anima, mentre coi sensi ancora ammaliati e col più cinico scetticismo della ragione ella spremeva come una raffinatezza lasciva da quella sua mostruosa bellezza. Ella avrebbe voluto soggiogarlo come il povero Rocco, travolgerlo nella fiumana dei propri impeti, per abbandonarlo forse sdegnosamente sopra un greto sassoso; ma il conte le passava vicino senza sentire la sua eccellenza, giudicandola una povera maestra. Quindi ella così malata di orgoglio piegava sotto quella indifferenza di un aristocratico. Poi si ricordava come il conte l'avesse presa alla stessa pania che ella il duca: si ripeteva le parole, le risposte, i ripicchi delle loro conversazioni, nelle quali ella aveva quasi sempre la peggio; si rammentava quella osservazione di Stendhal su Rousseau, che la superbia del genio non è mai tanto forte da soffocare l'umiliazione della nascita, Rousseau piangente di orgoglio perchè un principe imbecille gli aveva offerto il braccio: osservazione, colla quale ella si era sferzata mille volte nella violenza dei propri dispetti.

Evidentemente ella non aveva nè spirito nè ingegno. L'albagia, colla quale credendosi una Sand trattava la gente, era ancora una ridicolezza di più nella sua vita già così falsa; la sua abilità nel maneggio degli uomini una pretenzione, che il fato aveva rudemente schiaffeggiata. E uno scoramento afflitto, quasi dolce, l'invadeva. Si era creduta un poeta, una scrittrice, odiata, ammirata, fischiata da tutto un popolo, e non era stato nulla: non aveva salito nemmeno il primo gradino della scala; era una ragazza uscita dall'istituto, come tanti ragazzi escono dal liceo, con qualche brandello di idee ed una deformità d'istruzione. S'era creduta una donna non bella, ma irresistibile, e il primo contino l'aveva battuta, e se il duca, un vecchio rimbecillito, non l'avesse raccolta, la raccoglieva forse la questura; si era creduta la elevatezza, la finezza di una dama, ed ecco che, contrariamente a tutti i suoi piani, era lo scandalo della città, tutti parlavano sprezzantemente di lei, che commetteva scene di una audacia sguaiata siccome l'ultima con Jela nel salone della lotteria, senza trovare nemmeno una risposta veramente spiritosa per demolire quel simulacro di donna.

Ella s'inabissava sempre più. Col corpo rilassato, depresso nella voluttà dei bambini, che si schiacciano sotto un gran peso, osservava le brace del camino bruciare con una soavità di piccole fiamme, piene di colori gemmei, sotto il velo della cenere, bruciato anch'esso e tagliuzzato sui tizzoni, che ne sembravano involuti. Diventando la mantenuta del duca di Rivola ella si era tracciato tutto un abile piano di vita; vendicarsi del conte innamorandolo, ma rimanere nascosta, invisibile, finchè avendo accumulato un piccolo patrimonio potesse partire quindi per Parigi o per Londra alla ricerca di un marito. Lo aveva seguito fedelmente nella parte finanziaria, malgrado la ricchezza dell'appartamento, nel quale erano passate tutte le sue economie, ma donde avrebbe sempre potuto ritirarle, aveva disteso in proprio nome le scritture di locazione; faceva ella stessa tutti i contratti, si ordinava le carrozze, si comprava i cavalli. Il cocchiere non conosceva che lei, e non avrebbe attaccato una carrozza ad un comando del duca. In quel disordine apparente di vita teneva la propria casa con una regolarità meticolosa, voleva sapere e conoscere tutto, pagava poco i servitori e li trattava alteramente. Sebbene prodiga per natura, si era fatta avara, rivendeva quasi tutti gli abiti vecchi, discuteva seco medesima la più piccola spesa. Una volta il duca, pregato dal prefetto, le aveva chiesto di presentarle Laura, la mantenuta fuggita poi con un impiegato; ma Ida era entrata in una collera così violenta che il duca, in fondo felice del rifiuto, le aveva regalato per placarla quel magnifico lavabo.

Viveva sempre sola: sulle prime non aveva voluto nemmeno la carrozza, poi il lusso l'aveva ubbriacata e si era mostrata qualche volta, più spesso, assiduamente, ai teatri e ai passeggi, cacciando Jela ed Enrico con una ostinazione demente. Così la grande città, che doveva ignorarla e che ella aveva scelto per il teatro della prima campagna, ripeteva per tutte le bocche il suo nome, interessandosi più a lei che non alle più ricche signore, alle mantenute più troneggianti. Ma nonostante tutta la cecità del suo odio e le lusinghe vanitose, quella impura celebrità l'angustiava per l'avvenire. Quindi un dispetto doloroso le peggiorava quella solitudine senza amici tranne il povero Savelli, non praticando che il duca, non ricevendo che il conte; molti signori le avevano fatto la corte, ma non aveva accettata se non quella di Buondelmonti. Ida pensava a tutto ciò, al nulla della vita, che si era figurata così splendida e rumorosa quando fanciulla all'istituto leggeva i primi romanzi ed osservava le piccole celebrità provinciali del vizio; quindi la sua anima, misantropa malgrado la bramosia insaziabile d'impero, si raggomitolava in sè medesima, divorando come un alimento la propria acerba malinconia. A che pro tanto armeggio? tanti sogni? tanti sacrifici? tante lotte? Il mondo le sfuggiva: appena qualche scioperato la conosceva e voltava la testa incontrandola; la gente passava oltre, forse anco la nominavano, ma come si legge un avviso sulla quarta pagina di un giornale. Allora avrebbe voluto essere un uomo. Poi il pensiero di Jela, della quale trovava spesso il nome nelle cronache dei giornali, le entrava nelle carni come un pungolo, quando la sera, d'inverno, accanto al fuoco, sola con un libro o un sigaro fra i denti, guardava tratto tratto la pendola avanzare con una lentezza disperante. A poco a poco l'isolamento la spaventava; ma quando entrava Savelli o il conte, come in faccia ad un avversario, col fioretto in pugno, rialzava la fronte e ritornava l'Ida eccentrica ma forte, con tutte le seduzioni della donna e le brutalità dell'uomo.

Fuori il mattino raggiava. Il cielo ampio e profondo aveva una limpidezza estiva, che lo dilatava. Malgrado la mezza tenda abbassata, il salotto se ne riempiva come di una sonorità, che scuoteva tutti i mobili ed animava di una vita tiepida quella tappezzeria a fondo marino, dove i colori sembravano dormire sopra una vegetazione naufragata. Dai mobili neri, che si squarciavano alla superficie sotto l'acuta pressione di un raggio, una polvere impalpabile, bionda, si sollevava sino ai vetri chiusi della finestra coll'apparenza di un muro diafano e tremulo, sul quale scendessero entrando i fantasmi del giorno. E il salotto perdeva in quella luce la espressione di tetraggine concentrata per una severità mondana ed elegante, che la veste bianca di Ida esilarava ancora colla sua stridente bianchezza, come un gran pizzo sul bruno castigato di una signora.

Ida era sempre in quella posa, domandandosi perchè odiasse tanto il conte Enrico. Nessuno al posto di lui avrebbe agito altrimenti, quindi ella, offendendosene, non era meno perversa che pazza. Era colpa del conte se ella odiava tutti i signori, ed egli era nato nella loro classe? Il conte era troppo piccino, troppo insulso, per sceglierlo a rappresentante espiatorio della propria gente. Perchè dunque sacrificare tutto a questa vendetta contro Jela, colla quale aveva dei debiti irredimibili di riconoscenza, e che ella sentiva così bambina e così buona? Ida non trovava la risposta. Aveva un tormento di febbre nelle vene, una malvagità fredda nella coscienza. E però un rimorso, nel quale si acuiva un rammarico di sconfitta, le penetrava sempre più innanzi, attraverso le barriere rovesciate di tutte quelle recriminazioni. Anche il povero Rocco era morto per lei; ella aveva ricevuta la notizia della morte del padre, aveva veduta morire la mamma senza la più lieve stretta di dolore, la più fuggevole incertezza di affetto. Chi era per sottrarsi così alle leggi della natura? E tutta la sua spavalda superiorità l'aveva condotta ad una prostituzione. Fango e sangue: il giorno, nel quale la rovina di quell'effimero edificio di vizi e di lusso le traesse il pianto dall'anima, la sua vita avrebbe trovato l'ultimo termine. Ella non aveva mai pianto, poichè le lagrime dell'ira sono come le gocce di sangue, che colano da una ferita.

E colla memoria vaneggiante nelle rappresentazioni del passato rivedeva Rocco, l'ingegnere, la mamma, che la guardavano con una spaventata attonitaggine, quasi aspettando di vederla piangere: e allora, irrigidendosi come tante altre volte, rispondeva alla desolata insistenza della loro attesa colla crudele caparbietà di una sfida:

—No.

Era iniqua, ma non importa: non voleva rimorsi, erano una viltà. Storici e poeti mentivano: Nerone non ne aveva provato, o se pure, tanto peggio per lui. Il rimorso è il dubbio de' ribelli, ma ella non si era mai ribellata, perchè non aveva mai servito, era nata libera, era ingenua. Il doppio senso di questa parola la fece sorridere. Andrebbe fino in fondo; poichè aveva torto e la sua vita si trascinava sopra una falsa strada, non le dispiaceva di schiacciare qualcuno nel proprio sbaraglio. Ma non voleva rimorsi. Se la notte aveva sofferto d'insonnia, ciò dipendeva forse da qualche disordine di stomaco: era troppo forte per queste debolezze, per deporre le armi a battaglia omai vinta. La notte seguente dormirebbe: le insonnie dei colpevoli non accadevano che in teatro, vecchia rettorica, buona per la plebe e per i pedanti. Nulla rassomiglia più al sonno di un galantuomo che il sonno di un delinquente: Despine l'aveva affermato giustamente. Quindi, colla esaltazione teatrale de' suoi momenti critici, si accovacciava nella reità di quell'agguato, assaporandone una squisitezza di ferocia. Rivedeva l'ingegnere negli ultimi giorni, la mamma negli ultimi momenti, Rocco nelle ultime notti, tutti questi vinti, e ripeteva come una provocazione la parola scritta sulla loro sola lapide: Forsan. La sua vita era infelice: perchè quella degli altri non lo sarebbe? Che importavano nel mondo la vita di Ida o quella del conte?

Ma ella l'avrebbe forse amato, se i loro due destini non si fossero urtati al primo incontro. Fuggendo dal castello di Valdiffusa Ida non era sicura di diventare la mantenuta del duca: e se questi l'avesse ospitata la notte per iscacciarla il mattino? In quel momento, con quella veste bianca, in quel gabinetto nero, Ida si diceva che sarebbe morta piuttosto. Ma non poteva perdonargli l'angoscia in quell'ora di fuga, mentre egli forse ne rideva asciugando coi baci le lagrime di Jela. A ciascuno la propria volta: vae victis! Era la sua divisa.

Ma il rimorso, malgrado tutte quelle iattanze, le si insinuava sempre più innanzi, al centro della vita, con una lenta inflessibilità, oltrepassandolo, al di là della vita, nella vacuità di un indomani eterno, in un silenzio spaventevolmente misterioso. La cenere aveva ricoperto tutte le brace del camino, mentre un alito di fumo si allungava ancora su per la lastra nera. Ella si levò. In quel tepore di stufa i mobili avevano una ilarità di sorrisi intorno alla sua veste bianca, sulla quale la polvere luminosa si alzava in nimbo, facendole un'aureola al capo. Il suo pallore aveva perduto lo splendore cereo della notte, gli occhi le si erano inumiditi. Ma era stanca, tornò a sedersi. Nel lungo attrito di tutta la notte e del mattino quei pensieri avevano oramai perduto ogni rilievo di fisonomia e le sparivano come nel letargo di un coma. Decisamente non andrebbe a quell'appuntamento di Buondelmonti.

Fu l'ultima idea improvvisa, socchiuse gli occhi. Nell'angolo del camino la punta di un sarmento respirava ancora un filo di fumo, che l'incantò. Il camino di marmo nero, pieno di un ondeggiamento luminoso, aveva ancora qualche vibrazione di tempesta, quando il raggio di sole posato sul davanzale della finestra sussultava. Ma ad un tratto Ida si ricordò di aver fame, e si allungò per tirare il cordone del campanello. Entrò Giuseppe.

—Dite a Giustina di portare il caffè.

Quindi tornò a guardare quel filo di fumo sottile, il quale pareva rompersi ad ogni istante, raggrinzandosi come in una spirale, poi si riattaccava, salendo fin sotto la cappa senza nè allargarsi nè attenuarsi, mentre la punta del sarmento non aveva più che una capocchia rossastra. Da quanto tempo quel fumo filava? La sua immaginazione, sedotta da quella continuità inesplicabile, vi si sospese.

Giuseppe rientrò con un biglietto sopra un bacile.

«Gualtiero Buondelmonti, capitano nel 2º cavalleggieri—prega di essere ricevuto». Queste ultime parole erano scritte colla matita.

—Fatelo passare.

Buondelmonti entrò.

Ida era in piedi presso il camino. Il capitano, piuttosto imbarazzato per quella prima visita, rimase ancora più perplesso all'aria eccessivamente contegnosa del suo viso. Ella ricevette il suo inchino, rispondendovi appena cogli occhi, senza invitarlo nemmeno a sedere. Vi fu qualche istante di silenzio. Sotto la negligente alterigia di quello sguardo il capitano ebbe un turbamento, ma si rimise e, considerando con ammirazione la bella posa evidentemente ostile di quella donna, le domandò in termini cortesi perdonò della visita importuna; ma poichè ella era mancata all'appuntamento, aveva temuto qualche disgrazia ed aveva osato salire.

Ma alle ultime parole s'intralciò, Ida lo guardava. Quella mattina il capitano era anche più bello, aveva una montura nuova, i capelli arricciati, forse di un biondo troppo dolce per la sua figura rossa e marziale. Colle lunghe punte dei baffi incerate, la persona leggermente inchina ad una eleganza di gentiluomo e di soldato, una mano sul pomo della sciabola e la cresta dell'elmo nell'altra, attendeva.

—Forse,—arrischiò con un sorriso,—l'appuntamento era troppo mattiniero?!

Ida non rispose.

—Me ne dispiace,—seguitò, piccato da quel silenzio, giacchè aveva supposto nell'appuntamento fallito un pretesto per riceverlo in casa:—Baiardo era di un'insolita vivacità stamane, non troverò più una mattina così propizia per venderlo. Non l'ho mai montato così bello.

—È bellissimo.

—Il più bel cavallo, che io abbia avuto. Sarei desolatissimo di non venderlo ad una signora, perchè non vi è al mondo cavaliere degno di Baiardo.

—Nemmeno voi! lo amate dunque?

—Come si può amare un cavallo.

Ida si rattenne ancora, poi sembrando fare uno sforzo:

—Vi costa davvero cinque mila lire, come mi avete scritto?

—Cinque mila lire.

—Voi mentite!—proruppe raddrizzandosi e scagliandogli in faccia un'occhiata formidabile, che lo fece retrocedere di un passo, meravigliato, attonito a quell'accento come di minaccia, dinanzi a quei due occhi sfolgoranti come due carbonchi. Ida aveva pronunziato quella parola con tale scoppio, che pareva irrompere dal silenzio di poco d'ora: lo guardò con violenza prolungata, poi, levando la mano ad un gesto di disprezzo, si mosse per voltargli le spalle.

—Signora...—mormorò fermandola, ancora più intontito che offeso.

Ella fece un mezzo passo per proseguire.

—Perdono, ma...

—Non è vero?!—l'interruppe con voce sorda e precipitata.

Quindi:

—Mi amate?

Egli voleva rispondere.

—No,—interruppe un'altra volta;—me lo avete scritto in molte lettere: menzogna! Voi non mi amate, non siete il capitano Buondelmonti, non siete un gentiluomo; Buondelmonti è un nome troppo bello per voi, Baiardo non è vostro.

—Non è mio?

—Ebbene, ditemelo in faccia, Baiardo è proprio vostro? L'avete pagato cinque mila lire, proprio voi?

Il capitano impallidì.

—Voi impallidite!

Ella si rivolse, si gettò sulla poltrona, l'attirò con un gesto sopra uno sgabello e, abbandonando la testa sopra la spalliera, con un moto convulso gli accennò di sedere. Ella stessa era smorta quanto lui, cogli occhi ardenti e una trepidazione di tutti i muscoli, che le dava una mobilità di fisonomia abbagliante ed irresistibile. Si era abbandonata stancamente sulla poltrona, ma vi si gittò; tutta la bianchezza della veste le era salita alla faccia, tutto il nero del gabinetto le si ammassava sulla testa. Allora, senza dargli il tempo di rinvenire, colla voce rotta, sibilante, spegnendo certe parole con un gesto, trascinando la voce come una lama di pugnale nel fodero, battendolo collo sguardo e col sorriso scomposti, a lampi, a contorsioni, gli disse tutto, che la contessa Ceri gli aveva pagato quel cavallo, che egli lo vendeva per un debito di giuoco, che la contessa ne era furibonda, ma non avendo altro denaro non poteva impedirglielo, giacchè aveva impegnato le proprie gioie per comprare Baiardo... che era una viltà, un'infamia...

—E allora,—proseguì, scuotendo la testa come una leonessa,—perchè non siete donna? Noi possiamo farlo, possiamo venderci: è il diritto dello schiavo. Noi non perdiamo nulla, la nostra bellezza è il nostro onore, finchè siamo belle possiamo essere amate. Ah! voi credete forse che una donna la si possegga, perchè la si sposa o la si paga? Lo credete sul serio, come tutti gli imbecilli? Ma voi... oh è vile! Se sapessi che siete un assassino, che siete un borsaiuolo, e che importa? Ogni eroe è omicida, ogni conquistatore è ladro: c'è ancora della forza, è una lotta.

Egli tentò un gesto.

—Volete le prove? volete che vi reciti la lettera della contessa il giorno del vostro duello con Villani? La so a memoria, sentite: «Voi siete un ingrato, un vile. Sapete benissimo che Villani non è mai stato il mio amante, e che non lo sarà mai, ma prendete questo odioso pretesto per sdebitarvi meco...»

E come spossata da questo impeto, si prese la fronte nelle mani e si rigettò sulla spalliera.

Buondelmonti immobile fra quella tempesta di parole e di passione, nemmeno sospettata da principio, guardava l'atteggiamento stravolto di quella donna, mentre nella incertezza scombussolata di tutto il suo spirito un'idea terribile sorgeva come una testa immane di capidoglio sopra un'onda, e gli ghiacciava il sangue. Era seduto goffamente sullo sgabello, quasi percossovi dal gesto di Ida, che si era rivolta al camino per evitare forzatamente di guardarlo.

Chi mai glielo aveva detto? Come aveva ella potuto sapere?... Perchè conosceva quella lettera? Egli non ne rinveniva: ma questa idea mostruosa gli si ingigantiva davanti, sulla veste bianca di quella donna, colla facilità di un'ombra e la immobilità di un fantasma. Eppure Ida l'aveva letta, e forse la possedeva. La realtà di questa impossibilità gli schiacciava la coscienza, annebbiandogli la ragione; non ardiva più nulla. La sua grossa faccia marziale esprimeva un'inazione di fantoccio, uno sbalordimento di soggezione, reso disgustoso dalla paura.

Ella levò ancora il viso, una lagrima sembrava brillarle sugli occhi.

—È stata una triste idea questa visita!—disse, rialzandolo dallo sgabello con un'occhiata di congedo e un suono lontano di malinconia nella voce.

Egli abbassò il capo.

—Addio, signore;—poi, come le parole le sfuggissero:—tutto è finito.

L'altro si scosse.

—Mi scacciate?...—mormorò umilmente, credendo di afferrare nella tristezza di quella frase una tavola di salvamento.

—Allora non vi avrei ricevuto: vi abbandono, signore. Una donna può scendere sempre... Forse questa teorica vi parrà ridicola in bocca mia,—seguitò con amaro sorriso:—non importa, una donna può essere venduta e pagata, poichè coloro, che la pagheranno, non la possederanno certamente. Vi è un angolo, una camera in fondo al cuore, nella quale bisogna essere amati per esservi ricevuti; la donna non è che lì dentro, il resto esteriorità, apparenza! Un uomo no.

—Ma siete ben sicura?...

—Non vi provate ad ingannarmi, signore; dovreste aver capito che è inutile. A voi non resta che una sola forza, il cinismo, per essere ancora un uomo. Io non userò contro di voi la mia arma; potrei mandare quella lettera al conte Ceri, e voi sareste perduto anche allora che aveste il coraggio di suicidarvi. Non lo farò.

Il capitano ebbe un respiro.

—Non mi ringraziate; sono io che vi ringrazio. Facendovi pagare,—ed ella sembrava sillabargli queste parole sulla faccia,—mi avete salvata da un grande pericolo. Vi avrei forse amato, ed amando un uomo più vile di me, avrei perduto l'ultima forza del mio carattere, l'ultima fede del mio cuore. Ma badate, il pericolo non è assolutamente scongiurato per voi: la persona, che involò la prima copia di quella lettera...

—Ah! vi è dunque qualcuno...!—gridò Buondelmonti con uno scoppio d'ira, sentendosi quasi libero in faccia a questo nuovo pericolo, che faceva una diversione nel loro dialogo chiamandovi un terzo, sul quale ruinare l'oppressione, di cui Ida lo soffocava.

Ella aspettò un istante.

—Ditemelo: dev'essere un vile.

—Oh! il giudizio potrebb'essere avventato.

Il capitano comprese l'allusione insolente, ma non piegò il capo. Quantunque ancora agitato, il suo occhio aveva ripresa la solita arditezza di bravata. Si raccolse, poi, mutando ad un tratto espressione e guardandola in faccia, quasi avesse penetrato il suo disegno:

—Voi odiate quell'uomo; dunque mi direte il suo nome.

—Forse.

—Siete ben sicura, che non abbia parlato con altri?

—Sicura.

—Oh!—esclamò, raddrizzandosi con orgoglio e quasi splendido nella prepotenza della propria forza:—avrà parlato per l'ultima volta.

Era ancora in piedi nello stesso atteggiamento, ma la facilità, colla quale s'intendevano, li abbassava allo stesso livello. Ida lo sentì troppo tardi. Allora una dimestichezza subitanea li strinse; Buondelmonti interrogava, ella rispondeva, a parole rapide, scontrandosi con occhiate di complicità. Ida immobile, cogli occhi ardenti, egli fremendo, trovando ancora qualche sorriso, qualche posa elegante, spiandola cautamente per non cadere in un agguato, e preparando già tutto un piano di guerra.

—E la lettera l'avete presso di voi?—le chiese ad un tratto.

—Sì.

Il capitano titubò.

—L'abbrucerò... dopo.

Questa parola li gelò. Ida si sentiva trascinata ed aveva paura, trovandosi finalmente in una delle situazioni tragiche tanto sognate nell'esilio dal mondo del suo odio e dei suoi desiderii. Ma improvvisamente un impeto di superbia la sollevò; Buondelmonti non era più nulla, lo sdegno realmente provato nel rinfacciargli la sua prostituzione era svanito per dar luogo ad un benessere feroce, nel quale il delitto si perdeva in una lirica astrazione, non conservando più che la fatalità della propria forza e uno splendore di eroismo. Quindi ella si alzava nella sua contemplazione come sopra un nembo freddo, all'altezza dell'areonauta, coll'occhio sbarrato dell'aquila e la limpida insensibilità di una stella.

Buondelmonti se ne accorse egli pure, ma, troppo preoccupato di sè stesso e troppo poco intelligente per comprendere certi fenomeni, attribuì ad un ritorno di debolezza la fissazione come spaventata del suo volto. Allora temette per il nome dell'incognito, il quale poteva perderlo con una sola parola, dinanzi alla paura supposta di quella donna, per lui non meno incognita che inesplicabile. Chi era colui? come aveva sorpreso quella lettera? Perchè l'aveva mostrata, data a Ida, una mantenuta? Qual dramma veniva a mischiarsi nella sua commedia, gaia, depravata, alla Molière, gettando lo scompiglio del terrore nel disordine allegro di un imbroglio? Il suo pensiero era corso per un momento al duca, ma deviandone tosto: non era possibile.

—Il suo nome?—ridomandò.

—Più tardi.

—Vi pentireste forse?

Un bianco sorriso sfiorò le labbra della fanciulla.

—Troppo tardi.

—Ditemelo.

—E quando l'avrò detto?

—Ci penso io.

—Sono io che ci penserò,—rispose sommessamente, appoggiando una mano sulla sedia con un gesto spossato. Buondelmonti fu pronto a farla girare e gliela offerse: ella sedette. Una lassitudine morbosa le intorpidiva i ginocchi, come se avesse ascesa frettolosamente e ridiscesa del pari la torre più alta. Poi allungò i piedi sino nel raggio di sole sdraiato sul tappeto, e tacquero. Nella commozione della fantasia quel raggio, che le saliva tiepidamente sugli stinchi, le parve un leone, che le si stirasse ai piedi. Riceveva sulle ginocchia il calore del suo alito, vedeva la polvere del deserto alzarglisi bionda dalla criniera, mentre in un luccichio del tappeto balenavano le chiazze dei suoi occhi di belva. Era la decorazione di quella scena.

—Che cos'è?—chiese di soprassalto, intendendo muoversi l'uscio.

Era Giustina, che al sopravvenire del capitano, malgrado l'ordine di Giuseppe, aveva giudicato di ritardare, ed entrava finalmente recando la colazione favorita di Ida. Al primo sguardo indovinò una scena violenta, ma infelice per il capitano: Ida era accigliata. Giustina depose il vassoio sopra un piccolo tavolo triangolare e glielo appressò. Conoscendo i gusti della padrona aveva già versato nella tazza di cristallo di rocca il latte, appena oscurato da poche gocce di caffè, e disposta sopra il piattino una piccola piramide di paste, appuntata da un confetto grosso come una susina. Il capitano si levò rispettosamente.

—Volete dividere la mia colazione, capitano, dopo una trottata su Baiardo?

—Mille grazie, l'ho già fatta al caffè.

—Non è una buona ragione: accetterete almeno un confetto.

—Come un ricordo.

Ella glielo porse, inghiottendo la punta di una pasta colla più delicata moina. Aveva appoggiato un gomito sul tavolo, colla fronte sopra un polso, come se mangiasse per compiacenza. In quella posizione la veste da camera le disegnava così squisitamente un contorno del seno, che il capitano dovette ammirarlo con rammarico, pensando che se non si fosse compromesso con la contessa Ceri, Ida lo avrebbe forse amato. Evidentemente la contessa non era che una signora corta a quattrini, poco bella, poco spiritosa, con gelosie da cameriera, che potevano un giorno o l'altro rovinare qualcuno. In quel momento egli la detestava, cominciando a sentire più vivamente l'eleganza di quel salottino senza dubbio immaginato da Ida. Ma se ella lo avesse amato davvero, esagerando per segno di gelosia il proprio disprezzo di poco d'ora? Le donne sono così strane; poi Ida era una mantenuta.

—Andate al veglione di questa notte?

—Sì.

—Pare che vi saranno molte signore in maschera. Ho saputo stamane che la baronessa De Angelis e la contessa Alidosi avevano concertato un costume di giapponesi, ma la contessina in ultimo non ha avuto il coraggio della pettinatura. Infatti i suoi capelli sono troppo belli per sciuparli così.

—Vi pare bella la contessa Alidosi?

—Tutti lo dicono, ma ve ne sono di più belle.

—La contessa Ce.....

Egli fece un gesto supplichevole.

—Ah! io forse? E del conte Alidosi che ve ne pare?

—Insopportabile.

—Tanto meglio!

Ma si fermò per bere un sorso, poi respinse la tazza.

—Dividete,—seguitò, porgendogli la punta di una pasta.

—Perchè tanto meglio?—ripetè, mentre pigliava gentilmente colla estremità del guanto la pasta.

Ida lo guardò negli occhi: egli tentennò, ebbe un lampo, alzò gli occhi al soffitto come per seguire l'idea e, riabbassandoli ancora con un dubbio supremo:

—È lui!

—Dividete dunque, capitano: rifiutereste?—E gli ruppe la pasta nella mano; poi aggrottando la fronte e con voce fredda:—Avete letto l'ultimo libro di Girardin: Le droit de punir? Vi è nell'appendice sull'antica penalità un particolare interessante: quando si condannava un reo a morte, due giudici rompevano una paglia... Dunque il veglione riuscirà bello; forse ci sarò anch'io. La contessa Alidosi verrà in palco: potrete trovarla meglio che sotto la maschera, ma il marito si annoierà con lei, perchè i mariti si annoiano sempre colle loro signore.

—Gli terrò compagnia.

—Ma lo divertirete?

Il capitano si era fatto pensieroso. La disinvoltura finale di Ida, che gli ordinava, rosicchiando una piccola pasta nera, di uccidere un uomo provocandolo in faccia alla moglie, nel tumulto folleggiante di un veglione, lo imbarazzava. Certo qualche gran cosa doveva essere fra di loro, oltre lo scandalo del castello di Valdiffusa secondo che il duca lo raccontava.

—Lo odiate dunque molto?—le si rivolse grossolanamente, stracciando tutto il velo da lei tessuto con un'arte così difficile su quella scena.

—Forse! forse lo amo.

—Ne dubito.

—Avete torto: non ho io forse bisogno di credere che voi amate la contessa Ceri?

Questa risposta lo persuase di non poter lottare: Ida respinse il tavolo, e fece un passo verso di lui come per accompagnarlo fino all'uscio, mentre egli si moveva colla sciabola in una mano e l'elmo dall'altra.

—Se per caso non fossi al veglione, manderò Giustina, la mia cameriera: le darete un biglietto per me,—disse chinando distrattamente gli occhi sopra una pantofola, che il sole le riscaldava in quel momento.

—Tutto non è dunque finito?

—Ma che cosa è incominciato?

—Se vi chiedessi di sperare per essere più forte?

—In che?

Buondelmonti si rattenne.

—Io sono sicuro,—disse poi risolutamente,—ma vorrei...

—Pss!—fe' troncandogli la parola, ma annuendo col gesto.

Ella stessa aperse l'uscio, il capitano congiunse i piedi per un inchino, urtando le rotelle degli speroni, sbozzò un ultimo sorriso e uscì. Ida tornò al camino; la punta del sarmento fumava ancora.

—Vi è dell'ostinazione,—mormorò, ricadendo nel sentimento di quella fissazione prima che entrasse Buondelmonti: ma allora il filo si ruppe e la capocchia, spegnendosi, cadde sulla cenere con un moto cadaverico.

—Così sia.

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V.

Ella passò in orgasmo tutto quel giorno, comandò la carrozza, uscì a cavallo, mutò due volte di abiti, ordinò il pranzo ad un'ora insolita e non potè mangiare, giacchè malgrado tutte le bravate della sua vanità, una paura profondamente femminile le faceva battere il cuore. A certi momenti le veniva di rivolgersi come se un incognito fantasma le fosse dietro e il suo alito le gelasse la nuca. Quindi si sforzava di non ci pensare, cacciandosi per tutti i ricordi della propria vita, intrattenendosi colle idee meno note. Ma a pranzo, quando la sartina le portò nella cesta il costume turco, al quale la maestra aveva cucito alcuni ornamenti di stile troppo europeo, ella parve uscire da quel concentrato mutismo.

—È orribile,—esclamò respingendolo brutalmente:—non entrerò mai lì dentro. Voi, Giustina, andrete al veglione per me.

Giustina, che non s'aspettava questo favore, lasciò sfuggire un'esclamazione di gioia.

—Speri dunque di divertirti?

—Ne ero sicura anche prima che non speravo d'andarci.

—Io no.

Ed entrò nel proprio appartamento; ma non si era ancora seduta al lavabo, guardandosi nello specchio, che Giustina sopravvenne con una lettera.

—Di Enrico!—ella proruppe, rompendone nervosamente il suggello.

—È Dio che la manda.

—Dio o il diavolo,—arrischiò famigliarmente Giustina, che aveva creduto di accorgersi altre volte delle intenzioni ostili di Ida verso il conte.

—Forse, ma è Dio egualmente.—Poi:—Salì dal cuoco e digli che prepari un altro pranzo per le sette, splendido, squisito. Ha tempo due ore, ne ha d'avanzo.

Quindi tornò a passeggiare febbrilmente per la camera: Giustina non era ancora all'uscio, che la richiamò.

—Metti fuori la veste coll'edera: non sono in casa per nessuno sino a domani.

—Se il signor duca...

—Nemmeno; vai, senti: fa scaldare il mio bagno, subito, ho fretta.

Giustina fuggì quasi a gambe. Ella seguitò a passeggiare osservando tratto tratto il letto, animata in viso da un rossore d'infermo, aprendosi l'abito come se il bagno fosse già pronto a quel solo cenno e volesse smorzarvi l'ardore divorante delle vene. Parlava a mezza voce, poi, fermandosi con un gesto convulso e guardandosi innanzi colla fissazione sonnambula di tante volte, sorrise. Non erano che le quattro: bisognava aspettare due ore. Improvvisamente le parvero troppe: due ore ad aspettarlo sola, contando tutti i minuti, ciurlando in quel pensiero... Almeno avesse avuto il duca per distrarsi. Dal biglietto capiva che la scena con Buondelmonti doveva già essere scoppiata e corsa la sfida, ma poichè ella l'aveva combinata per il teatro, questa piccola infrazione del proprio disegno la liberava da ogni complicità. Quindi colla volubilità della donna si mise in questa idea e la percorse tutta: le parve di non aver nulla pensato contro il conte, il quale le scriveva per chiederle da pranzo, avendo certamente scritto a Jela un altro qualunque pretesto. Quella scema lo crederebbe: imbecilli ed ubbriachi non erano i prediletti della provvidenza? Ma le dispiaceva che Jela cadesse in quella scusa. Perchè la contessa dovrebbe ignorare il dolore del tradimento? Non l'aveva forse Jela scacciata una volta dal castello di Valdiffusa, sperando che ne morrebbe di miseria o d'infamia, mentre ella sarebbe accolta in tutti i saloni cogli omaggi della ricchezza e del nome! Ma il calcolo della contessina non era tornato: Ida era risorta più bella, come una minaccia e un'invidia egualmente dolorosa per tutte le signore. Quindi il suo orgoglio perverso le si alzava come un'immenso nuvolone, chele gitta va un'ombra fosca sulla faccia. Si rivedeva al castello, fuggendo dalla camera nuziale di Jela, inseguita dal suo gesto imperioso; e Jela non sapeva ora che Enrico stava per venire da lei, da Ida, che vi resterebbe tutta la notte, che era innamorato pazzo, morto, di lei?

—Morto!—ripeteva.

Tutto era lotta nella vita. Ella credeva dunque, quella pupattola, che per essere onesta sarebbe più forte di lei? Scempiaggini! Il mondo, i saloni, la legge, erano per le donne oneste; ma ella aveva l'amore, aveva l'odio, e sopra tutto sè stessa. Tanto peggio per Jela. Perchè cominciare la lotta lei, la più debole? E lotta dunque, ma a tutti i momenti, sovra tutti i terreni, anche sul letto. Jela non sapeva dunque che si può uccidere un uomo con un bacio, strappare un marito ad una maglie, romperlo ed obliarlo, e che tutto il mondo riderebbe della vedova? Ma la vedova non riderebbe ella pure? Questo dubbio atrocemente depravato la ritenne, ma come la palla, che sfiorando un ostacolo rimbalza e sorvola, risalì alla astrazione del duello fra la donna onesta e la cortigiana, la fissazione di tutta la sua vita. Ella era il campione della propria classe, l'ultima rimasta nel circo fra i cadaveri delle compagne, cadute come tanti volgari gladiatori, per riparare la sconfitta di tutte e strappare la ghirlanda insanguinata dalle mani della vittoria. Non era già sicura? Non poteva come Otriade moribondo, sublime superstite, scrivere già col dito sanguinolento sullo scudo, come sulla propria lapide, la eroica iscrizione: «Ho vinto»? Cleopatra non faceva uccidere ogni mattina gli amanti d'ogni notte? Imperia non era stata la donna più adorata del suo secolo, e il popolo riconoscente non le aveva scritto sul sepolcro, a Roma, in Sant'Agostino, queste grandi parole: Imperia, cortisana romana? Atene non aveva votata una statua a Frine per ringraziarla di essersi mostrata nuda? Le cortigiane non avevano dunque sempre perduto. Che importa se oggi i trionfi sarebbero stati senza ovazioni e senza monumenti? a lei bastava di vincere: i veramente forti hanno l'indifferenza dell'applauso.

E come un maniaco ripreso dalla idea fissa, vi si ingolfava sempre più, accendendosi innanzi i razzi dei paradossi più colorati, cogliendosi fra i piedi i fiori più sinistri della poesia boema. Si era arrestata alla psiche, coll'abito rigettato sulle spalle e la camicia a mezzo il seno. Le maniche, ancora gonfie, sembravano abbracciarle le ginocchia nel dolore di un lungo gesto supplichevole, mentre ella si esaminava minutamente nell'acquea opacità della lastra.

—Com'è bella quest'oggi!—esclamò Giustina, colpita dal fulgore della sua fisonomia.—Il bagno è pronto.

—Hai aperto la finestra?

—Le pare? l'aria si raffredda a quest'ora.

—Aprila, e che il sole entri.

Giustina la credette ammattita.

—Ma il sole è già tramontato.

Ida rimase pensierosa, non aveva più fretta pel bagno. Si sedette sulla poltrona, e chiamando Giustina la fece parlare qualche tempo del conte. Giustina, che gli serbava rancore per l'alterigia delle sue maniere, lo diceva antipatico, brutto anche come donna, malgrado la bianchezza e la freschezza della sua pelle. Un uomo doveva essere un uomo.

—La sua superiorità consiste appunto nel non esserlo, ma allora non può essere amato se non da una donna, che sia un uomo.

—Perchè?

—Tu non puoi capirlo, gli ibridi non si riproducono. Questa condanna dipende forse dalla deformità delle loro nature, che si cercano per distruggersi. Poichè la vita è una continuità, ogni eccezione non è solubile che nella propria regola; due eccezioni, che s'incontrano, sono insolubili e devono frantumarsi.

Giustina, incapace di comprendere il filosofismo oscuro di quelle parole, la guardò stralunata, ma Ida si era già sprofondata nelle proprie riflessioni; poi si riscosse con queste parole:

—Viene!

—Sono oramai le cinque; badi, il bagno si agghiaccerà.

—Troppo tardi: hai pronta la veste? Allora prepara una di quelle camice rosse e profumala, a momenti sarà qui.—E, quasi per darle ragione, Giuseppe bussò in quel punto alla porta annunziando il conte Alidosi.

Ida scattò in piedi.

—Presto!—esclamò con Giustina, scomparendo nell'attiguo gabinetto:—introducetelo qui.

Il conte entrò: aveva inteso il fruscìo della veste di Ida, e rimase un istante cogli occhi sull'uscio, dietro il quale era scomparsa. La luce, che rasente i tetti opposti entrava per la finestra da un lontano lembo di cielo, dava una dolce pallidezza a quella camera già buia agli angoli e nobilmente severa. Le tappezzerie azzurre, piene di riverberi nel giorno, si erano spente e i mobili imbruniti: solo la psiche in un canto aveva ancora un chiarore vacuo ed abbagliante come di un abisso, nel quale si fosse perduta l'immagine di Ida. Egli si guardò attorno, poi venne a sedersi sulla poltrona rossa, appoggiata al letto facendovi come una larga macchia di sangue. La sua stanchezza, greve di un avvilimento malinconico, gli fece sembrare più bella la castigata sontuosità di quella camera, così poco adatta per una mantenuta; ma, arrovesciando la testa, si vide sopra una delle piccole scimmie del letto, arrampicata in atto di salvarsi al minimo cenno, con un sorriso così violentemente bianco sul suo grugnetto nero, che egli vi s'incantò. Il suo pensiero, eccitato dalla femminile birberia di quell'atteggiamento, le cercò un misterioso rapporto, una quantità di significati come profumi che evaporassero dal letto di Ida e dessero una voluttà di carni a quel sorriso di porcellana, una provocazione di più a quella lubrica selvatichezza. Perchè rideva quella scimmia? Rideva di Ida, o del duca? rideva di lui, che veniva in quel momento da Ida a provare l'ultima scena drammatica di un amore da commedia? Ma quel sorriso lo tentava in tale momento come un segreto; si alzò, alzò la mano per afferrare quella scimmietta ai piedi, quando Ida lo sorprese:

—La mia Mary!—esclamò avvicinandosi con una premura affettuosa, ed imprimendole un moto ondulatorio sopra la testa del conte.

—Di che razza è?—questi chiese ironicamente.

—Mirikina: sono gli Asra delle scimmie, quelle che muoiono d'amore.

Ma il conte se ne distolse, raccontandole subito con una leggerezza abbastanza coraggiosa come Buondelmonti al club, per una questione di cavalli l'avesse insultato, e si dovessero battere al mattino. Lo scontro sarebbe alla sciabola, nessun colpo escluso, ma a primo sangue.

—Ne uscirete quindi con una scalfittura.

—È probabile. Buondelmonti è una lama troppo celebre per potermi uccidere. Domani mattina faremo colazione insieme. Veramente ho avuto torto di trattargli così male Baiardo, ma egli non può aver sospettato le mie allusioni.

—Non avete dunque paura?

—Oh!

—Ne avreste il diritto... Allora venite a chiedermi da pranzo per non trovarvi colla contessa, la quale sapendo del duello vi farebbe forse una scena? Ma e dopo pranzo? Questa notte?

—C'è tempo ancora.

—Mio Dio! come siete pallido!—proruppe improvvisamente, appressandogli il volto.—Perchè negarlo? avete paura. Nelle donne il coraggio è sempre brutto, a meno che non sia tragico. Vorrei vedervi sul terreno contro quel Porthos di Buondelmonti.

—Ebbene! il duello è domattina alle dieci nel prato di S. Giacomo, venite;—ripetè piccato da quella insistenza.

Ma Ida gli volse le spalle e andò lentamente a guardare dalla finestra. La sua veste verdecipresso, ricamata a catenelle di edera, un prodigio d'imitazione, era così ampia che tutto il suo bel corpo vi scompariva come certe statue dei vecchi parchi in un lembo di verzura. Se non che i capelli, invece di starle attorcigliati col ciuffo classico sulla nuca, consentendo la soave mollezza del collo, erano distesi sulle tempia come quelli di una Madonna ed esalavano un odore lontano di fieno. Si era addossata ad uno scuro, colle braccia lente.

Il conte Enrico le si appressò.

—Avete dunque paura per me?—le chiese incoraggito dalla sua malinconia.

Ella non rispose.

—Vediamo,—seguitò appressandosi sino a toccarle col ginocchio la veste e chinandosi a parlare sul collo:—dubitate che io muoia? Ma Buondelmonti non sa che la contessa Ceri mi abbia mostrato quella lettera; d'altronde, se l'avesse saputo, è talmente sciocco che mi avrebbe provocato violentemente. Sono stato io a morderlo. Ieri sera foste ben cattiva con me: vi appoggiavate sulla spalla del duca niente altro che per farmi dispetto. Se volevate darmi lo spettacolo pungente di ciò che potete essere per un uomo, ci siete riuscita. Questa notte non mi è stato possibile dormire.

—A me pure.

—Mi amate dunque?

—No, forse vi desidero.

—È lo stesso.

—Fanciullo! l'amore può far morire di spasimo chi lo sente, mentre il desiderio può fare uccidere chi l'ispira. Perchè mi avete trattata così crudelmente quella notte al castello? Allora avrei potuto morire per voi: forse non vi amavo, ma la vostra mostruosa bellezza mi aveva sedotta a tal punto, odiavo così me stessa e la mia posizione, che sarei morta volentieri. Voi mi disprezzaste, vi montaste la testa di orgoglio credendo che sarei sempre ai vostri piedi a chiedere quell'elemosina di amore; ma v'ingannaste, v'ingannaste malamente, signor conte. Io ero infelice, odiavo. Nessuno al mondo aveva avuto una parola dolce per me, ero cresciuta come una tigre nella gabbia, ma una tigre che vedesse attraverso i ferri la bionda immensità del deserto colle sue abbrucianti seduzioni. Un uomo, una donna, che mi fossero venuti incontro, avrebbero potuto fare di me un altro essere, farmi credere e farmi sopportare. Oggi è troppo tardi: nel mondo non si è mai come la natura, ma bensì come la vita ci ha fatti.

—Siete dunque infelice?

—Non ve ne siete accorto e dite di amarmi! No, voi mi desiderate, come vi desidero io, noi non possiamo amarci. Io vi oltrepasso senza raggiungervi: siete inafferrabile, siete come un'ombra, che abbia tutti i toni della carne colla leggerezza di un odore. Voi non siete nè uomo nè donna; non siete qualcuno, che quando siete il conte Alidosi. Allora la superbia della vostra fortuna vi rende adorabile e perverso: diventate come l'upas, forse il fiore più bello e il più velenoso.

—Cosicchè mi odiate?—domandò, scosso suo malgrado dalla violenza di quelle parole, ma col suo accento educato d'ironia:—Confesso che se vi avessi conosciuta come...

—Non mi avreste amata più che non mi amiate adesso. E che importa?—seguitò con un gesto superbo e nullameno malinconico:—Dal primo giorno ci dichiarammo la guerra: voi vinceste contro di me una battaglia terribile, la vostra prima notte di matrimonio, e io dovetti abbandonare sul campo il mio onore di fanciulla e di donna. Sono diventata una mantenuta, un animale che costa più di un cavallo, ma si stima forse meno: e hanno torto. Napoleone ha detto che per vincere un nemico bisogna stimarlo. Io vi debbo tutto questo: perchè vi credeste il più bello e il più amato degli uomini ho dovuto perdere tutto; ma la guerra non è terminata, e la mia rivincita non sarà forse meno terribile della vostra vittoria.

Si arrestò. Una collera cupa le fumava in fondo all'anima, in faccia a quel tramonto di sole e a tutta quell'ombra, che dalle strade della città saliva come un fumo ad annebbiare le trasparenze aeree. La sua voce piena di sonorità lontane aveva degli stridori di vento e degli echi cavernosi, quando non guardandogli più in viso allungava gli sguardi davanti a sè stessa, come dentro ad un paesaggio fantasmagorico, sulle orme di una apparizione fuggente. In quel momento il suo passato la riafferrava con una stretta di cadavere risorto, ancora spaventato della morte.

—È un triste tramonto,—osservò mostrandoglielo con un'occhiata.

—Triste?

—Il tramonto lo è sempre, perchè nel tramonto non vi è mai la speranza del mattino. Ognuno pare l'ultimo: guardatelo.

—L'ultimo per me?

—Fors'anco: Buondelmonti può uccidervi, non fate l'eroe, Enrico. Voi siete un vile, giacchè avete sposato Jela per la sua dote, mi avete rifiutata una volta per la paura di Jela o di suo padre. Odiate vostro zio, che vi schernisce, e lo accarezzate per la speranza dell'eredità: odiate me, che ve la scemo, e mi fate la corte malgrado le mie insolenze, malgrado il mio odio, perchè io vi odio, Enrico. Voi avete paura di domani, e siete venuto da me, perchè vi siete detto: Ida è donna, si commuoverà al pericolo che corro, mi inviterà questa notte.

—È vero, ho sperato...

—Vi siete ingannato. Non ho paura, potrei assistere al duello e vedervi fracassare la testa senza impallidire. Jela avrebbe paura, ma più paura ancora che dolore. Ella non vi ama più, siete solo come me nella vita, voi mantenuto dalla moglie, io dal duca. La partita è pari. Il vostro duello non è con Buondelmonti, ma fra me e voi: ebbene...

—Ebbene!—proruppe finalmente,—ciò vuol dire, che voi avete detto a Buondelmonti come io vi abbia mostrato quella lettera.

—Potrebbe darsi,—replicò alteramente.

Il conte indietreggiò di un passo come davanti ad un nemico implacabile, che, avendolo tratto finalmente ad un agguato, si cavasse all'improvviso la maschera per vederlo meglio morire. Gli pareva di comprendere tutto, la sua ostinazione nell'innamorarlo, tutto quello studio di lusso e di seduzioni, la rovina del duca in pochi anni, gli scaldali con Jela, la rivelazione a Buondelmonti per avventarglielo contro ad un dato momento. Ida si era senza dubbio intesa con colui. Fu come una visione istantanea, una certezza mortale di una minaccia creduta fino allora romantica, la quale lo colpiva come una piattonata di sciabola sul petto pittandogli un gran freddo nelle carni. Egli non aveva taciuto fino allora se non credendo quella scena l'ultima resistenza di Ida, a secco di argomenti contro di lui e torturandolo col passato per sottrargli il proprio presente.

—Dunque,—ella riprese, alzando sprezzantemente le spalle e dando in una stridula risata,—vedete che vi ho fatto paura, mio bell'eroe. Via, non ve la farò più, ma,—proseguiva con una moina indescrivibile,—vi farò ammazzare egualmente, giacchè stanotte starete meco e domattina non avrete più la forza di una parata. Accettate? Accettate?—insistè, vedendo che stentava a rimettersi.—Povero Enrico! Come sono ingiusta con voi! Ma perchè far pompa di coraggio, quando è così semplice avere paura? Credete dunque che il coraggio sia una qualità di prim'ordine? Vi batterete, porterete il braccio al collo per otto giorni, e passerete per un'eroe dopo un duello con Buondelmonti.

—Ma se morirò?—la interruppe con una tristezza di paura finta eppure vera.

—Mio Dio! non sarete il primo; ma, Enrico, non vi avvilite a questo punto. Dimenticate dunque che discendete dalle crociate? Venite qui, mio povero bambino: per provarvi che è stato uno scherzo vi darò un bacio sulla fronte. Vi basta? Vi ripeterò che siete ancora più donna che bambino.

Ed accompagnando la parola col gesto gli aperse le braccia, sorridendogli invitevolmente come ad un fantolino.

—Provate dunque se sono una donna.

—Davvero?

—Sì.

—Pensateci, Enrico; la prova potrebb'essere al disopra delle vostre forze. Voi non siete un uomo.

Egli rispose con un sogghigno.

—Lo volete?—ripetè, ridivenendo torva nel viso a quella sua resistenza inaspettata.

Quindi parve titubare, cercando un pensiero sotto lo sprone di quel sorriso lubrico a un tempo e vanitoso. Lo trovò; e cacciandosi risolutamente sotto il baldacchino del letto, diè una forte strappata al campanello. Il conte, sorpreso di quanto accadrebbe e ancora commosso di tutte quelle minacce smentite e ripetute, si sentiva mano mano più mal sicuro in quella camera e con quella donna nascosta dietro il cortinaggio come per preparargli un tranello. Infatti ella ne uscì guardando alla porta del gabinetto: la porta si aperse, si presentò Giustina:

—Giustina, venite qui,—le ordinò seccamente: poi riavvicinandosi al conte, col volto illividito ancora più dal verde funereo della veste:

—Provate,—gli disse coll'accento di un supremo disprezzo, gettandogli quella donna con un'occhiata, come si gitta un soldo a un mendico.

—Oh!—egli mormorò spalancando gli occhi e vacillando dalla meraviglia.

—È una donna... le darò mille lire. Per la prova che invocate basta una cameriera. Giustina!—s'interruppe ripetendo quel gesto, mentre il conte la guardava ancora stupefatto.—Ma voi non avete nemmeno l'onnipotenza della brutalità, non siete un uomo, ve lo aveva pur detto che siete vile. I fiori di campo, perchè resistono al vento, si credono la forza di una quercia, e una zampa di pecora basta a schiacciarli. Bisogna avere il calore del simum nel sangue, le tempeste dell'oceano nel cuore e la serenità del cielo nel pensiero per essere un uomo: allora si affascina e si soggioga. Ogni uomo è un imperatore, ma gli imperatori si contano sulle dita. Andate, andate pure, Giustina,—le si rivolse, vedendola trattenuta nella curiosità di quel discorso e allontanandola con un'imperiosità, che finì di atterrare il conte.

Poi ella tornò a quello scuro della finestra, e vi si appoggiò.

L'ombra oscillava a onde sempre più dense sui tetti come un vapore che ne fumasse, oscurando la volta alta dell'azzurro. Sulle case di contro la gamma stridula dei colori, acquetatasi nel lividore della sera, era sparita sotto la scorie dei tetti, come sotto un immenso mantello lacerato ed imporrito disteso su tutta la città. La strada era stretta, il palazzo opposto bruno e screpolato. Ida taceva. Il suo cuore aveva ancora dei sussulti, dei rumori, che si andavano smorzando; poi quelle tenebre l'assopirono e vi si obliò. Tutta quella violenza di torrente si era calmata come nella vastità di una laguna. Allora, in quella solitudine bruna, l'immaginazione del deserto la riprese, una paura di perdervisi collo sguardo esterrefatto, coll'oppressione sempre più soffocante, che le grandi uniformità della natura aggravano sulla coscienza. Un arcano sentimento di piccolezza le veniva da quella sconfinata monotonia, nella quale non era nemmeno un punto. Quindi il ricordo dell'ultima agitazione le palpitò ancora dinanzi al pensiero immobile, come se in fondo a quel vuoto orizzonte un lembo superstite di nuvola compiesse di svaporare, mentre uno scoramento di naufrago che non lotta più, una tristezza di areonauta perduto per il rado azzurro del cielo le cadevano sull'anima. Ma a poco a poco il suo cuore tornò a battere. Qualche memoria si risollevava stancamente e ricadeva nell'ultima convulsione di una parola invano conservata, nella suprema amarezza di un dolore abbandonato e che non poteva morire di abbandono. Aveva un freddo di sonno nel corpo, un malessere di sogno nell'anima. La gelata resistenza del cristallo nella fronte le dava dei brividi quasi sonori, mentre l'ombra della strada, sempre più fitta, la respingeva dentro la camera. Stava ancora così appoggiata a quello scuro, colle lagrime negli occhi e nell'anima una trepidazione inesprimibile, alla quale sarebbe bastato forse il soffio di una parola o il moto di un pensiero per prorompere in singhiozzi.

Il conte le si avvicinò sommessamente, e, passandole un braccio alla cintura, le diè un bacio sui capelli.

—Mi perdonate?

Ella gli abbandonò la testa sulla testa. La strada buia non mandava più alla finestra che un incerto bagliore di gas ad illuminare la bianchezza delle loro fronti così giovani e così pure. Ida gli appoggiava tutta una gota sui capelli, premendo sulla loro finezza con una voluttà intenerita, mentre egli le aveva messo una spalla sotto la spalla sorreggendola, in modo da farle perdere l'equilibrio. L'ombra discreta e leggera li avvolgeva fino ai volti, annegati dentro quel barlume dei vetri.

—Ida...—egli sussurrò, sforzandosi di rivolgerle il capo per darle un altro bacio.

Ella si rizzò mollemente.

—Vai a letto.

—E tu?

—Pss,—fe' guardandolo con un'occhiata piena di crepuscoli, e respingendolo verso la poltrona diventata bruna in quell'ombra: poi si torse nuovamente alla finestra e vi restò in una fissazione sonnambula. Sentiva Enrico spogliarsi febbrilmente gittando gli abiti sul tappeto, mentre il pensiero le fuggiva invece sempre più lontano, ritirandosi da quella attesa voluttuosa come da una musica piena di frasi acute tra una irritante lentezza di accordi. Quel bacio del conte le stirava ancora i capelli con una carezzevole mordacità di spuma, e dagli ultimi ricci sotto la nuca le grondavano giù per il collo le gocce periate dei primi brividi. La notte incominciava. Il buio aveva una soavità indicibile, un silenzio di felicità; non si vedeva più nulla. Le catenelle dell'edera, abbarbicatelesi sul seno e intorno alle gambe con una tenacità egoistica di passione, la facevano vacillare; le trecce le si slacciavano sulla testa arrovesciandogliela, costringendola a guardare in alto, come dietro il sibilo di un'ora fuggiasca dal paradiso. Una tacita complicità saliva dalla strada deserta e, filtrando per i vetri opachi, si addensava nell'ombra della camera piena di un'aspettazione voluttuosa e discreta. I mobili parevano essersi ritirati nel buio, mentre il letto solo rimaneva dentro quella nuvola rischiarata insensibilmente nel mezzo dal candore divino dell'Apollo. Ella si rivolse, si sentiva il collo gonfio e battere i polsi.

—Ida...—chiamò il conte, scivolando sulla levigatezza delle lenzuola ed agitando la coperta con uno spasimo di felicità, mentre l'acre dolcezza di quel freddo gli entrava nelle carni.

Ella gli venne innanzi sotto il baldacchino; il conte le prese una mano, ma non trovò cosa dire:

—Come è buono il tuo letto!—esclamò finalmente, dandole un bacio e tirandola per un braccio per farla sedere. Poi intrecciandole le dita sulla cintura, appena fu seduta, ed appressandole la testa al grembo:

—Come sei grassa!—le diceva a piccoli stridi femminili;—avresti dovuto vestirti da turca: hai un seno da sultana.

Ella si scosse, e con voce trasognata rispose stranamente:

—Lo sai perchè i seni vi piacciono tanto così? perchè promettono molto latte al bambino, che nascerà. Tu non ci pensavi.

In quel punto la piccola pendola sul comodino suonò le sette.

—L'ora del mio pranzo,—egli proruppe.—Jela mi aspetterà.

—Ah!—gridò Ida scattando in piedi:—ora vengo,—e prendendo dal comodino un zolfanello l'accese, andò verso la piccola scansia all'altro lato, prese un foglio di carta, trovò una busta, una matita, e scrisse:

«Vostro marito si batte alle nove col capitano Buondelmonti, si farà ammazzare; io sola posso salvarlo.

Ida ».

Piegò la lettera, la mise nella busta, l'ingommò. Nel mezzo della busta, invece di una cifra, il motto tedesco di Moltke: «pensare prima, osare poi» si arrotolava come un serpente dalle scaglie iridate. Il grosso zolfanello da notte si spense, Ida scrisse l'indirizzo al buio.

—Che cosa fai?

—Comincio.

—Che cosa?

—Mi spoglio.

—Ida...

Ma ebbe appena il tempo di ripetere il nome, che ella era già sul letto incollandogli le labbra colle labbra.

Poco dopo Giustina, che entrava dalla porta del gabinetto nero con un doppiere in mano per annunziare il pranzo, si fermò attonita sulla soglia vedendoli già a letto. Il conte Enrico levò la testa.

—La signora è servita—ella disse ad alta voce, imitando la voce di Giuseppe nel pronunciare quelle parole sacramentali. Ma Ida storse il capo, e col suo accento più calmo:

—Servirete la cena nel gabinetto, pigliate questa lettera, la farete recapitare domattina alle otto, nè più tardi, nè più presto. Urgentissima: andate.

Quando Giustina fu uscita, rimasero soli tutta la notte.

Alle otto circa del mattino, mentre il conte assopitosi un istante aveva chiuso gli occhi, Ida scivolò chetamente dal letto. Era smorta, cogli occhi gonfi, con quella camicia rossa, che la rendeva ancora più pallida. La notte era stata tempestosa. Infilò i piccoli sandali di corno, ma afferrava appunto la veste, ancora gonfia sul tappeto come vi era caduta, che al suo fruscìo il conte si riscosse.

—È dunque tardi!—esclamò con un gesto di spavento.

—Oramai le otto, puoi riposarti ancora: l'appuntamento coi padrini non è che alle nove.

Però egli si era levato sentoni. Era più abbattuto, ma molto più bello, colla pelle fresca e le labbra rosse come un melograno. Ella si ravviò i capelli, finì di abbottonarsi la veste facendo il giro del letto col suo passo più pigro, venne all'altra sponda e gli si sedette così vicino che con un gomito gli toccava il ginocchio. Il conte l'avvertì appena. Stava quasi seduto, colle mani sul ventre al disopra delle coperte, in uno sbalordimento, al quale la contrazione della bocca dava un significato di desolazione. Ella gli contemplò un istante il disordine dei capelli biondi, nei quali le tracce delle proprie dita erano ancora visibili, e le ammaccature della camicia inamidata, senza più un solo bottoncino d'oro, che gli scopriva un petto delicato quanto quello di una donna.

—Enrico,—mormorò finalmente, aspettando in una carezza l'ultima effusione di quella notte innamorata; ma il conte le volse appena lo sguardo con una meraviglia quasi di malcontento.

—Enrico! ella ripetè con voce ancora più soave e una sommissione piena di incertezze.

—E già tardi: dovrò alzarmi,—rispose oppresso dal ricordo di tutte quelle minacce della sera, che gli cadevano come una grandine di sassi sulle memorie palpitanti della notte.

—Se non avete altro pensiero, potete aspettare mezz'ora,—ribattè l'altra alzandosi e gittandogli un'ultima occhiata.

Il conte si accorse di averla offesa, ma troppo preoccupato di sè stesso e dal sentimento confuso che Ida entrasse per qualche cosa nel suo duello con Buondelmonti, sebbene percosso da quello sguardo non la richiamò. Ida cercò un ferruccio sul lavabo, ed uscì. Il letto era disordinato, ma la camera aveva la stessa fisonomia; solamente due o tre piatti sopra il comodino, dal canto suo e sulla cassa, ancora sucidi della cena, e due o tre bottiglie sturate tradivano il passaggio di un'orgia. Li osservò, si richiamò tutta quella notte, dovendosi confessare che era stata la più bella della sua vita. Senonchè, invece di gioirne, se ne rattristò. Nella spossatezza ancora sensuale di quell'ora non avrebbe mai voluto essersi incontrato con quella donna, cui la sera seguente avrebbe forse ridesiderato con una veemenza anche maggiore di passione, e che lo aveva amato in una notte più che tutte le altre donne della sua vita nei lunghi mesi dei loro capricci, ma non dandogli mai un bacio se non sulla cicatrice di un morso. Il suo carattere, il genere della sua bellezza, la stessa voluttuosità di Ida lo irritavano al punto, che finiva col negarla. Se non le si fosse ostinato dietro così scioccamente, non si sarebbe svegliato quel mattino sul suo letto per andare a un duello con Buondelmonti. Ma Buondelmonti non era un amante di Ida? Avrebbe quasi voluto crederlo per meglio disprezzarla, ma il pensiero che la notte seguente Buondelmonti potesse essere al suo posto, dopo averlo ucciso, gli dava un insopportabile raccapriccio. Perchè no ucciso? Il duello era a primo sangue, però nessun colpo escluso; e Buondelmonti insospettito poteva bene, abusando della propria abilità, passarlo fuor fuori. In questo caso egli giurava di morire vendicato, rivelando prima di morire l'abbiezione di quello spadaccino: ma il caso non perdeva con questa consolazione gran cosa della propria tristezza. E perchè tutto ciò? Perchè la contessa Ceri pagava Buondelmonti, lo zio pagava Ida, egli aveva sposato Jela? Perchè la contessa amava Buondelmonti e lo denunciava, Ida amava lui e gli tirava addosso un duello forse mortale? perchè il duca scapolo senza altri figli che quei due nipoti, i bastoni della sua vecchiaia, si spassava a torturarli, inebriandosi ai dolori della loro falsa posizione, da lui stesso creata? Perchè questa falsa e trista società? Quale equivalenza di nature, malgrado le differenze irreducibili di classe! Jela sola era pura, ma talmente insulsa, che la sua purezza aveva la volgarità del vetro fra quei falsi brillanti. Forse a questa ora era desta aspettandolo: forse qualcuno l'aveva messa in sospetto! Il duca n'era benissimo capace.

Ma alla sua volta egli lo scherniva da quel letto di seta.

Questo piccolo trionfo lo animò; poi la pendola suonò le otto e un quarto, e Ida riapparve alla porta del gabinetto. Aveva il viso più fresco e una calma glaciale: scostò il cortinaggio del letto, ed allungandogli le due mani sul collo lo fissò con uno sguardo inesprimibile.

—Addio!

Si raddrizzò, ed uscì per la porta del gabinetto nero. Giustina, ritornata allora dal veglione colle tracce del baccano sul volto, le si presentò all'istante.

—Introducetela,—Ida rispose con voce breve.

Il fuoco ardeva nel caminetto, Ida era in piedi. Jela, vestita di grigio, col velo del cappellino ancora abbassato, entrò precipitosamente. Tremava, non sapeva quello che fosse per dire o per fare; forse la vedeva appena. Ida non si mosse, aveva ritrovato la sua posa più scultoria, la testa indietro e le labbra strette; l'arruffio dei capelli e la veste male abbottonata, sotto la quale si travedeva quella camicia sanguinolenta, facevano credere chi si fosse alzata allora per riceverla. Jela non si accorse di nulla, del calore del caminetto, del colore della veste di Ida, del suo atteggiamento; sentì solamente il freddo della sua faccia, e con un gesto eccessivamente simpatico di timidezza:

—Enrico?!—le domandò, come se fossero ancora ai giorni della loro amicizia.

—Il conte Enrico!—ripetè l'altra con una vibrazione metallica.

—Dov'è?

Ida non rispose, lasciò che Jela la guardasse ancora supplicando, poi colla stessa rigidezza andò alla porta della camera e l'aperse in modo da restarvi riparata dietro il battente. Jela la seguì istintivamente, ma si arrestò, vedendo che ella si fermava contro il muro nella immobilità di una statua. Ebbe un fremito: vedeva già un lembo della camera, il tappeto turchino, sul quale posava la grande cassa intagliata, il lavabo nero a magnifiche forniture di argento, la poltrona di raso rosso, un angolo di lusso antico, più aristocratico ancora che quello del proprio palazzo. Un profumo insensibile di alcova usciva dalla porta, un tepore della notte, che l'aria del giorno non aveva ancora alterato: notò un piatto sulla cassa, una bottiglia col collo inargentato; sentì la ricchezza delle grandi tende, che cascavano sino sul tappeto, velando colla loro trasparenza la luce già velata da tutto quell'azzurro; fece ancora due passi e scorse un angolo della coperta, travide una figura della volta, un guerriero in sottanino rosso, colla sciabola dorata. Ma Ida, cui ella sfiorava colla veste, ebbe un tremito, e i loro volti si urtarono; Jela fu respinta, chinò il capo, avanzò l'ultimo passo gettando un piccolo grido.

Il conte Enrico, che si era risollevato sui cuscini, ne cacciò un altro riconoscendola.

—Voi qui...

—Uscite!—esclamò subito dopo:—bisogna essere ben imbecilli... Uscite: assolutamente lo voglio.

Ma in quel momento Ida si presentò nel vano della porta, colle braccia incrociate sul seno e un sorriso immobile sulle labbra, osservando la loro confusione. Egli sussultò, Jela si volse d'istinto, e allora finalmente comprese. Vacillò, mosse un passo verso la sorella, ma l'occhio le corse irresistibilmente ad Enrico, e vedendolo colla fronte ardente di rossore, la fisonomia vergognosa malgrado lo sdegno, s'intese mancare. Ida le aveva sedotto il marito, e per dargliene colla propria vendetta una prova umiliante, l'aveva con quel bugiardo biglietto attirata nella propria camera. Il suo cuore si rivoltò: poi subito dopo, sotto quella mano, che li piegava, i due sposi si toccarono, in quella camera di Ida, nella quale l'aria della notte aveva ancora la nausea leggiera di una voluttà digerita.

Ida non si muoveva.

—Ma uscite dunque!—urlò Enrico a Jela, dibattendosi sotto lo sguardo fermo di Ida e riaccovacciandosi nel letto quasi per sottrarvisi. Jela restò sola. La sua piccola anima troppo debole per quella scena si scombuiò. Non capì più bene perchè Enrico fosse in quel letto, perchè a due passi da lei, su quella cassa intagliata vi fossero gli avanzi di una cena, perchè ella medesima fosse venuta in quella camera sulla fede di un biglietto terribile ed oscuro, che la cameriera le aveva portato ad un'ora insolita; ma provò come una difficoltà di respiro, un bisogno subitaneo ed infrenabile di uscire e di essere fuori. In quella camera, che non aveva mai veduta, l'abito grigio le diventava nero, si sentiva soffocare; non respirava più l'aria solita. Ebbe uno sforzo inconscio per rimettersi, indietreggiò, rialzò il capo e, intontita, col suo passo elegante, venne verso la sorella.

Il conte le spiava stupefatto. Ida tremò: Jela sembrava non vederla, ma quando le fu addosso, poichè le sbarrava la porta, si guardarono. Tutto il duello si riassumeva in quell'attacco. Jela non camminava più e l'altra era ferma ancora. La veste di edera coll'ampio panneggiamento dava una fosca grandiosità al disordine della sua figura bianca di una pallidezza gessosa: ma Jela fece un passo addietro e, afferrandosi con un gesto risoluto le sottane in pugno, come per non lordarle col suo contatto, proseguì. Ida, che aveva vibrato quasi sotto una forte scossa elettrica a quel gesto, rinculò lentamente senza rivolgersi, si ripiegò sul battente aperto, colle pupille sempre premute nel suo volto, dilatate in uno sforzo di visione. Era orribile, era pazza. Jela aveva già dovuto abbassare le proprie, ed ebbe un gran brivido di paura; ma quando fu nel mezzo della porta, che il conte non scorgeva più Ida, questa le si chinò sulla faccia, e con voce che non aveva più nulla di umano:

—Salutatelo per l'ultima volta,—le disse.

Jela, spaventata ancor più dall'espressione di quel volto che dal suono di quelle parole, che non aveva comprese, allungò un passo per fuggire.

—Sarò più gentile di voi al castello di Valdiffusa,—esclamò Ida, chiudendo la porta della camera e passandole innanzi per aprire l'altra del gabinetto:—uscite, signora contessa Alidosi, ma ora siamo pari.

E in piedi, colla maniglia in mano, la fronte alta nella prepotenza del comando, le impose con un gesto di andarsene, mentre il seno le palpitava quasi voluttuosamente e i suoi denti di giovane lupo gittavano attraverso le labbra rosse le bianche minacce di una fame di belva.

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VI.

Otto giorni dopo Ida era nel gabinetto nero con Savelli.

Il duello fra il conte Alidosi e il capitano Buondelmonti, a rovescio di ogni predizione, era riuscito fatale: il conte Enrico, con la testa aperta da un terribile fendente, fu ricondotto già morto al palazzo. I padrini, inorriditi al gran colpo, non avevano nemmeno avuto il tempo di prevederlo, poichè il capitano si batteva colla negligenza più affettata: quindi era avvenuto un incontro. Il conte era caduto colla faccia innanzi, lungo disteso come un albero.

Arrivando sul terreno era così disfatto, che Lovito, il suo padrino, dovette chiedergli se si sentiva male; il conte aveva avuto un pallido sorriso, e gli aveva risposto raccontando la nottata con Ida. Lovito ne lo aveva rimproverato, ma nel mettersi in guardia il conte gli aveva detto:

—Mi ammazzerà,—con un accento così sicuro, che Lovito stesso, malgrado il suo noto coraggio e la esperienza di simili scontri, ne era rimasto grave.

Il conte aveva lo sguardo spaventato.

Appena partita Jela si era vestito frettolosamente cercando di Ida, ma Giustina col suo cattivo sorriso gli aveva risposto che la padrona era uscita colla signora contessa.

—Assieme?

—Non credo, signor conte.

—E non ha detto nulla?

—Doveva forse lasciarmi detto qualche cosa per lei?—ribattè colla sua insolente famigliarità.

Quell'assenza inesplicabile finiva per atterrarlo. Adesso capiva tutto, il suo disegno lento ed infernale, l'ultimo agguato teso alla contessa con una ferocia assolutamente femminile; e tuttavia quei trasporti appassionati della notte, gli ultimi sguardi appena scesa da letto, quello supremo traversando la camera per introdurvi Jela, solenne come un addio di un moribondo a un moribondo, gli contraddicevano quella tetra persuasione. Finì di vestirsi, si pettinò coi pettini e le scopette di Ida, compì febbrilmente la propria toeletta, seccato anche per la convenienza del duello di non potersi mutare la camicia. In quel momento, così gualcita dalle carezze di Ida, gli era odiosa. Si gettò sulle spalle un mantello alla Talma secondo l'ultima moda, e uscì. Giustina gli aperse la porta.

—Tieni,—le disse, togliendosi di dito un piccolo brillante, per non cercarsi qualche scudo nel portafogli. Era un anello regalatogli dalla contessa Ceri.

Se ne accorse dopo, e un triste sorriso gli passò nella mente.

Ida, nascosta dietro un uscio dell'anticamera, lo vide partire, e corse immediatamente alla finestra. Non era meno pallida di lui, ma la stessa feroce esaltazione le fiammeggiava ancora nello sguardo. Giustina la vide poco dopo fare un gesto teatrale e rivolgersi colla faccia fremente; il conte non aveva alzato nemmeno una volta gli occhi, allontanandosi da quella casa fatale.

—Va a battersi?—chiese Giustina.

—Sì, ma la contessa può passare dalla sarta ad ordinare l'abito di lutto prima di ritornare a palazzo. Stupido!

—Davvero?

Ida parve meravigliata di quel dubbio, Giustina scossa da quegli accenti sinistri si guardò in dito l'anello.

Tutta la città fu commossa dal triste caso, Buondelmonti ne sembrò desolatissimo. Appena vide vacillare il conte, gettò la sciabola e si slanciò per rattenerlo, ma non lo potè: lo raccolse col cranio spaccato dalla sommità della fronte sino alla nuca, poichè sentendosi forse sopra il colpo, invece di pararlo il conte aveva piegato istintivamente la testa. Buondelmonti lo prese fra le braccia come un bambino, mentre due grosse lagrime gli nuotavano silenziosamente negli occhi; poi dovette allontanarsi su Baiardo, che la sua ordinanza teneva a mano poco lungi. Allora un orribile problema si aggravò sui padrini, come trasportare il cadavere del conte e dare a Jela la spaventevole notizia. Lovito esitava, il colonnello, che aveva assistito Buondelmonti, propose di condurre il cadavere presso il duca: quegli era più forte.

—Povero ragazzo! perchè cacciarsi contro Buondelmonti? È la migliore lama dell'esercito.

—Voi sorridete, colonnello?

—Non vi siete mai accorto che Buondelmonti faceva la corte alla contessa? Ma Buondelmonti è perduto. I morti talvolta sono più tremendi dei vivi.

—Credete dunque che la contessa ami Buondelmonti?

—Crederlo adesso sarebbe un'insolenza,—rispose il colonnello con un tono leggero.

Ma tornarono ad occuparsi del cadavere, discussero, poi, essendo venuti a piedi, Lovito si offerse di andare in cerca di una carrozza. Il cadavere era steso sul terreno presso una pozzanghera di sangue, la faccia e i capelli insudiciati. I padrini fumavano per darsi un contegno, ma il medico, che si era appressato ancora al morto per riosservargli la ferita:

—Oh!—esclamò indi a poco con un accento, che li fece tutti rivolgere:—un capello nero!—e scostandogli violentemente il colletto, proruppe più forte:—un morso, certamente di donna, fresco!

Tutti si erano avvicinati, ed esaminarono il capello fine, lungo come le due braccia, che il dottore apriva colla faccia illuminata da una vanità d'indiscrezione.

—Ecco perchè era così debole questa mattina: non vi è nulla più micidiale dell'erotismo. Avrà voluto farsi vedere da una donna alla vigilia di un duello,—proseguì, indirizzandosi al colonnello sopra un tono di famigliarità:—come se il coraggio bastasse... Sono imprudenze, che si pagano spesso colla vita.

Ma tutti facevano ressa intorno a quel capello, senza occuparsi delle sue osservazioni. La contessa Alidosi era bionda, la contessa Guelfi, sua amica, pure bionda.

—Se qualcuno conosce la donna, le si può rendere il suo capello,—egli seguitò, contento di tutte quelle curiosità da lui solo destate.—Ah! ecco il signor Lovito, egli forse ne saprà qualche cosa.

Infatti Lovito arrivava colla testa fuori da un brougham: il fiaccheraio frustava come un pazzo.

—Osservate questo capello,—gli si fece incontro il medico:—il conte l'aveva sulla testa proprio dove è caduta la sciabola. È lungo quasi un metro e mezzo.

Lovito pensieroso lo esaminò e tese la mano per prenderlo. Tutti gli si stringevano attorno solleticati dalla sua aria preoccupata, che prometteva qualche rivelazione.

—Lo conoscete?

—Si.

—Di chi è?

—Me lo concedete, dottore?—gli si rivolse senza rispondere.—Grazie! lo sapevo.

—Ah! di chi è?

—Un secreto!

—Allora bisogna dirlo,—intervenne il colonnello colla sua ironia:—in molti sarà impossibile che qualcuno non lo tenga.

—Anche il principe di Atella forse lo riconoscerebbe. Volete saperlo? È di una donna, che mi ha respinto: non posso dire di più.

—E che sperate,—riprese amichevolmente il colonnello,—di prenderla una seconda volta a questo laccio?

—Chissà?

—Già,—concluse filosoficamente il dottore,—tutto il male non vien per nuocere.

Poi tornarono alla serietà della situazione; fecero caricare il cadavere nella carrozza del fiaccheraio, Lovito e il medico vi montarono, gli altri si allontanarono. Fortunatamente, passando davanti al palazzo Alidosi, seppero che la contessa era partita in carrozza colla marchesa di Renzuno: allora salirono. Il duca, avvertito dal colonnello, recò la notizia alle due donne. Fu uno scoppio di pianto; ma quando Jela intese che l'uccisore era Buondelmonti, cacciò un grido e svenne. La marchesa, sebbene piangendo dirottamente, volle subito tutto il racconto del duello, vi fe' molte osservazioni e conchiuse che Enrico aveva avuto torto a non parare un colpo di testa.

Il duca indispettito si lasciò sfuggire un gesto.

—Un colpo di testa si fa più facilmente che non si pari.

Ma la marchesa non capì nemmeno, assalita immediatamente dalla preoccupazione dei funerali, i quali nella sua idea dovevano essere un trionfo. Naturalmente ella doveva pensare a tutto in quel frangente, perchè gli altri vi perdevano la testa, e tutelare il decoro della famiglia, prevedere e provvedere. Il suo orgasmo di attività diventava una febbre.

—La marchesa Brancaleoni non avrà avuto tanti fiori nell'appartamento per la sua gran festa. Avvisate il vostro giardiniere, mandatemelo sulle due: sarò di ritorno, in ogni caso mi aspetterà. È un'immensa disgrazia. Jela starà qui: telegrafate al conte Alberto che venga subito a prenderla.

Il duca pareva attonito.

—A che pensate adesso? è tempo d'agire.

—L'unico erede! non abbiamo più nipote!

—Ah! è vero! ma bisogna pure occuparsene, finchè si hanno. Povero Enrico!—e un insulto di lagrime le strinse la gola.—Vedete, non mi posso frenare. Mi vedranno piangere in istrada: è una sconvenienza.

E intanto che la marchesa col cuore grosso e la testa tumultuante scendeva lo scalone del proprio palazzo, stordendo il dolore in quella furia, il duca rimasto solo si sprofondava in una tetra meditazione. Quella morte inaspettata gli pareva impossibile, un sogno. Come mai egli non aveva saputo nulla del duello? Quale ne era stata l'origine? Certamente la questione del cavallo aveva servito da pretesto ad Enrico per insultare Buondelmonti, col quale Ida si compiaceva, presente lui medesimo, ad irritarlo, perchè Enrico era innamorato di Ida. Invano, per nascondere una sconfitta, il conte lo aveva sempre negato, mentre l'amava per ripicco senza poterla mai sedurre, giacchè in ultima analisi Ida non era fedele che al duca. Che ne penserebbe Ida? odiava ella davvero il conte Enrico, o era un semplice dispetto di vanità, che inveleniva tutte le loro conversazioni? Ma Enrico non pertanto era morto. Quindi egli si ricordava la sua invidia mal celata dell'ultima notte, quando Ida fingendo di voler dormire per il veglione lo aveva scacciato, e i suoi primi successi al castello di Valdiffusa, poi tutte le scene, nelle quali Ida primeggiava sempre vincendo tutti, servendosi di tutti. Non aveva contemporaneamente tenuto in iscacco lui stesso, Enrico, il conte Alberto e Jela? Ida era davvero una donna, e bisognava essere un uomo ben forte per incatenarle il carattere riottoso. Ma il pensiero gli fuggiva pur sempre alla morte di Enrico, un giovane ancora nella primavera, che molti uomini invidiavano e le signore dicevano così amabile. Povera Jela! un'altra infelice, che adorava il marito innamorato morto, veramente morto, di un'altra.

Erano due ragazzi. Perchè Jela così ricca aveva sposato Enrico troppo giovane, rovinato, senza un briciolo di cervello e di posizione nel mondo? Egli non se lo spiegava. Bisognava proprio che il conte Alberto non volesse occuparsi di nulla e trovasse tutto bene, per concedere l'unica figlia ad un uomo simile. Egli aveva chiesto la mano di Jela per il nipote, ma, fosse stato il padre, si sarebbe ben guardato di acconsentirgliela. Enrico non aveva altra speranza che l'eredità dello zio, il duca stesso lo diceva dappertutto, sebbene a malincuore, poichè quel diritto del nipote lo metteva come sotto la dipendenza di un Mentore ragazzo. Infatti il conte gli aveva più d'una volta infitta nelle carni la punta di un'osservazione sul lusso eccessivo di Ida.

Ma Enrico era morto. Morire! Uscendo dal palazzo della marchesa corse difilato da Ida. Ella era in casa, ma non volle riceverlo. Giustina piena di misteri e di precauzioni, non gli spiegò nulla: egli se ne ritornò desolato. La sera ripassò nuovamente, e seppe che Savelli era stato chiamato. Giustina diceva che la morte del conte aveva gittata la sua padrona in una crisi, che aveva pianto dirottamente. Allora il duca le scrisse un biglietto supplicandola di riceverlo, ed attese la risposta in anticamera. Giustina glielo riportò; Ida vi aveva scritto a piedi queste sole parole:

«Mi sento male: ogni scossa mi sarebbe insopportabile, vi riceverò venerdì».

Ancora tre giorni. Il duca ebbe pena a non piangere, tutta la forza del suo scetticismo l'abbandonava nell'abbandono momentaneo di quella donna. Senza di lei perdeva il suo carattere di uomo e non era più che uno zio, un nonno, un passato ancora in piedi, ma come le rovine. Quei tre giorni furono eterni. Nè i funerali, nè l'anfanamento sempre più rumoroso della marchesa, che aveva finito per scordarsi il proprio dolore nello studio di consolare quello degli altri, nè la visita di Jela abbattuta nell'amarezza di un rimorso immaginario, nè l'incontro col conte Alberto, accorso prestamente al castello di Valdiffusa, e col quale si erano analizzati a vicenda la sincerità della loro tristezza, nulla era riuscito ad accorciarli. Ma i tre giorni passarono, e Ida non volle ancora riceverlo. Allora fu atterrato, stette altri due dì senza uscire dal palazzo, concentrato in un avvilimento, che lo invecchiava di un anno ad ogni ora. Poi intese la storia del capello nero, che correva già deformata per tutti i circoli, e straziato da un supremo sospetto corse da Ida, interrogò Giustina, la quale sedotta più dalle lusinghe che dalle minacce, gli confessò tutto.

—E Buondelmonti?

—Quegli fu ricevuto per benino; quando entrai col caffè aveva un'aria da can frustato.

Ma il duca non lo avrebbe mai creduto. Questo ultimo tradimento del nipote strappò la maschera al suo dolore. Quel serpentello era dunque stato schiacciato! Se Buondelmonti fosse stato presente in quel punto, si sarebbe alzato per stringergli la mano. Egli era dunque vecchio, vecchio senza presa! Ida lo accettava per spremergli il denaro di tutto quel lusso e fuggirsene un giorno o l'altro con un uomo più giovane, altrettanto ricco, al quale avrebbe parlato di lui con quel suo terribile sarcasmo, che gli piaceva tanto. Allora gli parve che Ida fosse la donna più adorabile, e che tutti i grandi eleganti se la disputassero ora che, traendola dalla miseria di maestra, ne aveva fatto una Signora dalle Camelie.

Ma improvvisamente, nel timore di essere sorpreso con Giustina a complottare contro di lei, si alzò. Giustina, colpita dalla umiliazione della sua figura, si aspettava invece uno scoppio di risentimento.

—Bada di non dir nulla,—le si raccomandò.—Ti manderò domani il libretto della cassa di risparmio, ma te ne prego,—aggiunse con un accento quasi supplichevole:—-che Ida non sappia nulla della tua confidenza.

La mattina seguente, sulle undici, Ida vestita di un abito di casimiro grigio ferro, semplice come un abito da viaggio, chiacchierava con Savelli. Il vecchio maestro aveva l'aria sconcertata.

—No, avete torto con lui, non da questo punto di vista si può capire qualche cosa. Hartmann ha torto quando afferma che l'uomo è poligamo e la donna monogama, poichè così si confondono le esigenze della maternità colla tendenza del sesso. Anche l'uomo sarebbe monogamo, nella forma più alta raggiunta dalla famiglia, secondo il suo stesso argomento per la monogamia della donna.—E la fanciulla, che avea pronunciato con visibile compiacenza questi termini tecnici, proseguì incalorendosi.

—Voi conoscete troppo bene la teoria di Schopenhauer sull'amore, perchè ve la ripeta, una fusione di Platone e di Darwin, dovuta forse ad un genio altrettale. Se l'amore è un agguato tesoci dalla natura per il mantenimento della razza, riunendo gli individui dispersi e nell'azione armonica delle loro opposte qualità ottenendo così la maggior perfezione nel nascituro, allora, mio caro, il matrimonio è la ragione e l'adulterio è l'istinto; Hartmann direbbe: il matrimonio è la coscienza, l'adulterio l'incosciente. Il matrimonio è la lega tra le famiglie, la forma storica ed esterna, colla quale l'individuo si svolge nella società; l'adulterio è la lega dei cuori, il genio della razza, la forma, colla quale la natura corregge la vita nell'umanità. Avete torto, mio caro maestro, di accettare per assiomi i teoremi della morale corrente. Il Dio comune, lo ha detto Mommsen, non può essere il Dio della storia: la moralità della natura, determinata dall'interesse di tutta l'umanità non solo presente ma futura, non può essere quella di un codice o di una religione. Sopprimete la selezione, e sopprimete la vita, ma l'adulterio è la selezione naturale. Wallace ha constatato che l'aristocrazia morrebbe in poche generazioni senza l'infusione del sangue plebeo, ma l'infusione accade più spesso coll'adulterio che per l'inscrizione di qualche famiglia popolana sul libro d'oro. Mio caro, la scienza ha già disperse molte illusioni, smentite molte verità religiose e morali, e tuttavia non è ancora che all'esordio del suo grande discorso.

Savelli irritato da tutte quelle crudezze dette con brio così nervoso, si sentiva nullameno superbo in cuore di essere stato il suo maestro; mentre una malinconia quasi dolce gli faceva esaminare attentamente quella splendida testa, che il mondo avrebbe considerato sempre con disprezzo. Ida comprese il suo pensiero, e rispondendogli colla carezza di un moto, interruppe bruscamente la dissertazione.

—Voi non mi credete,—esclamò—v'intenerite sul mio ingegno e sulla mia forza, che sarà inutile al mondo e dannosa a me stessa. È la prima volta che ne parliamo, ma non ne parlerei che con voi. La mia posizione non è mai stata migliore di adesso, giacchè la morte del conte, privando il duca di ogni avvenire di famiglia, lo consegna piedi e mani legate al presente. Il suo presente sono io. Guardate, lo aspetto fra poco. Egli viene per rinfacciarmi di aver ceduto al conte la notte, che precedette il duello. Vedrete come lo riceverò.

A queste parole, pronunziate così freddamente. Savelli sussultò.

—Povero conte!—disse sbirciandola.

Ida non rispose.

—È finito ben tristamente.

—Noi tutti, che morremo senza lasciare un nome immortale, finiremo così. La morte è triste,—ripetè con accento lugubre. Poi rinfocandosi:—E che importa? La morte è la condanna di tutti i piccoli, ma fra i piccoli vi sono i minimi, il conte era di questi, io sono di quegli altri. Fidatevi, mio caro maestro, riescirò. Passata la frontiera il contrabbandiere ridiventa galantuomo; entrando nel matrimonio la cortigiana può ridivenire gentildonna. Anche ieri ho ricevuta un'offerta.

—Di chi?—chiese premurosamente Savelli.

—Del capitano Buondelmonti. Ho risposto,—Ida lo prevenne vedendogli fare un moto—che egli è un imbecille e non mi secchi altro. Essere la moglie di un capitano, abitare due o tre camere ammobigliate, pranzare alla trattoria, passare la sera al caffè... allora mi conveniva meglio restare maestra, e non arrivare sin qui. Io non aspiro all'onestà: rettorica! Quella del cuore si può averla in qualunque stato; quella del fatto, se non ho altro amante che il duca perchè se il duca mi mantiene, tutti i signori che sposano una donna povera la mantengono; quella della leggo è la sola, ma è questione di procedura e non di diritto. Io non aspiro alla famiglia, non ne ho e non ne voglio avere, io basto a me stessa. Ma voglio l'aristocrazia, che dà i primi posti nella battaglia della vita, la considerazione di un gran nome, che apre tutte le porte, voglio la legittimità delle mie ricchezze, perchè è il solo modo di spenderle bene nella società. Se fosse altrimenti non ci penserei; ma non intendo che nessuna donna possa guardarmi dall'alto di un privilegio, voglio essere pari colle prime. Allora mi batterò per la conquista de' miei piaceri, e che le altre donne si difendano: sarà una guerra epica e meschina, spietata ed amabile.

—E poi?

—E poi? nulla, una malattia che vi coglie, e la morte che vi calma. Forse la meta, cui mi dirigo, non vale gli sforzi per toccarla, forse tutta la nostra vita d'individui e la vita dell'umanità sono senza valore, forse la finalità non esiste nell'universo, ne ho sempre dubitato. Ma io lotto per vincere, vinco per lottare ancora.

—E se perderete?

—Alla vostra età avete il diritto della prudenza. La prudenza è una virtù della debolezza: ma io non posso perdere.

—Non potete perdere?

—No, pensateci bene, io non ho nulla da perdere: ecco la mia forza.

Savelli colpito dalla verità di questa risposta, si arrestò, ma la malinconia della sua faccia si era anche più irrigidita nella freddezza di quella logica. Stava colla fronte, così dolce sotto i capelli bianchi arricciati, china sopra una mano, mentre coll'altra disegnava sul tappeto dei segni invisibili colla canna.

—Ebbene?—ella chiese indi a poco, attaccandolo nel suo silenzio.

—Non vi credo.

—Perchè?

—Allora dovreste avere il cuore nella schiena, come dice il proverbio.

—Appunto, ma voi conoscete troppo la storia naturale per non sapere che le larve lo hanno così. Io sono la larva di una signora. Quando il soldato si slancia all'assalto, dimandargli la pietà di un infermiere o di un sacerdote sarebbe almeno ridicolo. Lasciatelo vincere, lasciate che il suo orgoglio si calmi nella stanchezza della vittoria e la veemenza della sua forza gli cada dinanzi senza incontrare un ostacolo, e allora chiedetegli la sua ultima lena per aiutare i feriti, le sue prime lagrime per i nemici morti. La vita è una guerra: non posso essere generosa coi vinti se non sono prima miei prigionieri.

—La vita è una guerra, sia pure, ma perchè volete essere degli agguati lungo le siepi delle strade, piuttosto che delle battaglie nelle pianure illuminate dal sole?—egli rispose col medesimo accento lirico.—Se la vostra energia vi spinge dove il pericolo è più grave e le percosse più sonore, combattetele queste battaglie per tutti coloro, cui la debolezza impedisce di essere soldati, come i Cimbri si battevano dinanzi ai carri del loro campo pieno di donne e di bambini. Perchè combattere contro l'umanità, invece di combattere per lei?

—Perchè l'individuo, per esistere, deve contrapporsi alla massa. La sua grandezza non è che l'effetto di questa opposizione. Una goccia non è una goccia che sola, nel mare non è più nulla.

—Ma questo può forse valere per Napoleone o per Carlo Marx, voi siete una donna.

—Non ancora.

—Che cosa vi manca?

—Che una folla vaneggi per me come si entusiasma per un altro. La forza di una donna è in proporzione degli appetiti che eccita, quella di un uomo degli interessi che conduce.

—Sempre la vanità!

—Vi è forse qualche cosa, che non lo sia nella vita?

Ma Giustina entrò annunziando la visita del duca. Savelli intimidito si levò subito.

—Gli hai detto che sono col maestro?—chiese Ida, trattenendolo collo sguardo.

—No, signora.

—Allora passate nella mia camera,—proseguì in inglese per non essere capita dalla cameriera.—Assisterete ad una mia battaglia campale, ringraziatemi.—Ed alzandosi per drappeggiare più sapientemente una piega dell'abito, gli strinse la mano.

Il duca entrò vestito a lutto, salutò con eleganza severa, e si sedette sopra una poltroncina come chi venga per una conferenza. Ma la sua freddezza aveva mal suo grado del broncio; Ida se ne accorse immediatamente. Nella notte egli aveva combinato un disegno per impadronirsi della fanciulla, minacciando di cacciarla brutalmente sul lastrico, magari col soccorso della questura; naturalmente Ida, mal preparata, perderebbe la testa, si raccomanderebbe, ed allora era soggiogata. Ma l'aria disinvolta di Ida nel riceverlo, come se nulla fosse accaduto o avessero ciarlato la sera innanzi, gli scompigliò subito l'esordio. Il gabinetto era tiepido, Ida vestita di un abito, che le guantava le spalle e il seno giù insino all'anche, s'affondava nel raso della poltrona dentro un'ombra leggiera. Ella gli fe' un complimento, egli rispose; poi, cedendo ancora alla negligenza del proprio abbandono, Ida si distese sulla spalliera e gli disse a bruciapelo:

—Dunque ci lasciamo fra poco.

Il duca trasalì.

—Io parto, non ve ne meravigliate. Forse quest'idea è passata pel capo anche a voi. Abbiamo vissuto assieme otto mesi: è quanto basta per conoscerci, e per non poterci forse più dimenticare. Mi ricorderò sempre di voi, di tutto quello che vi devo. Non m'interrompete, duca. Da un pezzo rivolgevo meco di farvi questo discorso senza trovarne il coraggio, perchè voi siete entrato troppo profondamente nella mia vita, e se oggi sono una donna, lo debbo a voi solo. Senza di voi sarei una povera maestra di un qualche villaggio, vestita con un abito di lanetta, cogli stivalini storti. È orribile. Le abitudini radicate si mutano difficilmente, voi siete l'abitudine più bella della mia vita.

—Partite... sul serio?—domandò commosso da quell'accento, che era quasi mesto nel tono pigro della sua sincerità, e spaventato da quella risoluzione, che lo preveniva.

—Sul serio, le esigenze del mio disegno di vita mi spingono altrove. Ascoltatemi. Il momento è abbastanza grave e noi siamo troppo interessati nella questione per ingannarci scambievolmente; poi sarebbe una viltà. Sono nata da una famiglia agiata, già in ruina al mio ingresso nella vita: parto quindi dalla miseria e dal popolo per mezzo alla società verso la ricchezza e l'aristocrazia. Non voglio più soffrire nella vita nè disagi, nè umiliazioni: lo giurai a me stessa, l'ho giurato un'altra volta sul cadavere di mia madre. O sarò un giorno una signora, o morirò: io sono di coloro, che tengono le promesse.

Il duca fece un atto.

—Capisco a che alludete... vi risponderò fra poco, così che mi darete ragione. Sono rimasta abbastanza con voi, giacchè non potete sposarmi, nè farmi ricca. Parto: andrò a Londra, a Parigi, a Nizza, a Ginevra, non lo so, ma so essere dama, ed esaurendo tutte le mie risorse, posso vivere due anni da gran signora. In due anni troverò qualcuno, che mi sentirà bella e s'innamorerà. La gioventù della bellezza colla maturità dello spirito e dell'esperienza è un'unione troppo rara, perchè vi si resista. D'altronde io non posso perderla inutilmente qui, sebbene voi mi amiate ancora un poco. Il mio debito ve l'ho quasi pagato; voi mi avete dato il lusso, io vi ho reso la giovinezza. Siate giusto, mio duca, non avete a lagnarvi di me. Io tengo le mie promesse.

—E Enrico?!—esclamò egli, che aspettava da dieci minuti di gettarle questo nome nel discorso; ma la fanciulla non si scompose, ed aprendo il castone del monile al braccio sinistro, mormorò:

—È vero, ecco il suo capello. Ho scritto a Lovito pregandolo di restituirmelo, ed egli me lo ha portato, me ne ha fatto un regalo, intendete bene,—insistè sottolineando le parole,—me lo ha reso per nulla. Quando diventai la vostra mantenuta vi dissi che nessun uomo avrebbe potuto sedurmi, e posso ripetervelo anche oggi. Una volta, offesa mortalmente dal conte giurai che morrebbe, ma prima di morire sarebbe il mio amante: ho tenuto la mia promessa.

—Cosicchè lo avete ucciso?—rispose con una insensibile ironia a queste parole, che prendeva come una bravata teatrale fatta per dare un colore alla scappata.

—Che importa il come? egli è morto. E adesso, poichè ci parliamo per l'ultima volta, avete altro a rimproverarmi?

—Per l'ultima volta? via, scherzate.

—Così mi dite un'imbecillità ed un'insolenza, mentre dovreste conoscermi abbastanza per credermi il coraggio di tutte le risoluzioni, anche le ragionevoli. E impossibile che io non parta, e subito. È una triste partenza verso un mondo non da scoprire, ma nel quale insinuarsi di frodo, il giorno la notte, deludendo le guardie ed arrischiando tutto per tutto. Credete che non ci abbia pensato? Se in due anni non conquisto un nome, ricasco nella miseria, non troverò più un altro uomo buono ed amabile come voi, e allora la miseria sarà la morte. Nullameno il non partire è anche più pericoloso. Se perdo la mia freschezza di donna e di novizia nella galanteria legittima delle mie pari, non potrò mai più trovare uno che mi sposi, e diventando una signora passare alla galanteria illegittima. Dividiamoci quindi amici: che io abbia almeno un cuore nel mondo sul quale contare, e un anno nella vita di cui compiacermi.

E tacque in una mestizia intenerita, quasi perdendosi fra le tristi difficoltà del loro distacco. Era abbandonata sulla poltrona, la testa sopra una spalla, senza guardarlo nemmeno, offrendosi un'ultima volta nel ricordo delle loro notti più dolci, della prima, quando vibrante di follia, colla veemenza della lunga corsa nei muscoli, gli aveva urlato nelle braccia in una suprema convulsione di vergine. Tutto il rancore del duca svanì. Le spiegazioni brutali di quello stato, invece di irritarlo col loro avaro egoismo, l'impietosirono, costringendolo ad ammirare un'altra volta la forza di quella fanciulla a vent'anni, che non aveva neppure bisogno di essere bella per diventare irresistibile. Dopo Ida nessun'altra gli sarebbe più sopportabile, poichè conosceva fin troppo la ignobile nullità di tutte le mantenute. Ida sola sapeva essere donna e dare un profumo di buon gusto ai più piccoli particolari della loro relazione. Con lei non correvano mercati, e pur mungendogli somme ingenti aveva sempre l'aria di concedere un favore coll'accettare un regalo. Questo era un segreto, una magia, la perfezione incomprensibile delle sue maniere. Ida non era mai stata la sua mantenuta, quantunque egli lo dicesse talvolta per iattanza, bensì la sua amante, altera e dissoluta come una principessa.

Ma allora sentì mortalmente l'orrore di perderla, e si vide vecchio nel fondo del proprio palazzo, non uscendone più, non andando più nei circoli e nei saloni. Oggi non v'entrava se non perchè Ida lo manteneva ancora vivo, attirandogli i sarcasmi delle signore e l'invidia degli eleganti. Per lei aveva ancora dello spirito, dei motti, dava il tono alle follie, troneggiava, era il principe di quella gran vita mondana, che aveva sempre fatta e sempre sognata. Quindi si umiliò seco medesimo di aver solamente pensato ad una minaccia di abbandonarla, mentre non aveva ancora fatto se non pochissimo per lei, e le doveva, vita per vita, secondo la frase di Ida, un lusso da regina, che oltraggiasse tutte le signore. Questa idea lo esaltò come l'ultimo atto, il gran finale della sua esistenza di libertino. Egli non morrebbe, non invecchierebbe più, sempre con Ida al fianco, poichè nessun uomo potrebbe disputargliela offrendole maggiori vantaggi di lui, duca e milionario senza eredi.

Ida si era riscossa: egli le appressò la poltroncina e, prendendole una mano, colla voce più insinuante, a volta a volta scherzosa e supplichevole, disse che ella non partirebbe, che non la lascerebbe partire, dovesse magari ricorrere al prefetto suo amico e farla arrestare per ladra.

—Per ladra, sì, l'ho trovato! mi avete rubato il cuore, tutto. Adesso dovrete tenermi, perchè non voglio che mi rendiate, e poi rendermi a chi? Avete torto, nessuno vi amerà mai più di me. Non lo dite più di partire, è una crudeltà ed un'insensatezza. Qui, lasciatemelo sperare,—aggiungeva modestamente,—non mancherete di nulla, io sarò tutto per voi, farò tutto quello che vorrete. Voi stessa l'avete pur detto, non potete lagnarvi di me.

—E non mi lagno, amico mio. Voi siete stato buono, generoso con me; nessun altro sarebbe stato così, ma a nessun altro patto io sarei rimasta con lui.

—Avete ragione.

—Credete che non soffra, io, che non ho trovato che voi nella vita, che vi ho concesso tutte le mie primizie? Lo sapete: vi è un uomo in ogni vita di donna, che ella non può dimenticare; vi e un momento nella nostra vita femminile, unico come quello della nascita e della morte. Io soffro, amico mio, ma voi non potete chiedermi di più: Dio domandava solamente le primizie ad Abele. Lasciatemi partire.

—No, no,—l'interrompeva, scuotendole la mano, già con le lagrime agli occhi:—non intendo e non voglio.

—Eppure dovrete essere ragionevole. Forse non mi amate quanto credete, subite un'illusione per me. Lasciatemi andare; se fra sei mesi non mi avrete dimenticata, vi prometto di tornare, potendo.

—No, no,—ripeteva ostinatamente:—non parliamone più, o me ne vado. È una malvagità. Venivo per confortarmi, ho tanto sofferto, ho avuto tante noie in questi otto giorni, Jela che si è ammalata, ma ora sta meglio... ed ecco che mi trattate peggio degli altri. Dovreste già avermi invitato a pranzo e dato un bacio.

—V'invito.

—E il bacio?

—Dopo... ma siamo intesi.

Questa volta le si inginocchiò improvvisamente davanti, le cinse con un braccio la vita, e guardandole in faccia con una passione così vera, che cessava quasi di essere ridicola:

—Che sia l'ultima volta,—le disse,—o mi farete impazzire. Eppure vi deve costare tanto poco l'essere buona!—Ma non potè seguitare, gli mancò la voce e, nascondendole il viso in grembo come un bambino, soffocò a stento un singhiozzo. Ida fremè: un lampo di orgoglio le bruciò negli occhi neri, come un lampo di saetta in fondo alla notte: si lasciò il duca in grembo per un istante, poi chinandosi improvvisamente gli prese la fronte tinta di nero fra le mani, e gli diede un bacio quasi figliale.

—Per oggi non parliamone più. Via, rimettetevi: se sapeste come vi sono grata del vostro dispiacere! Fa tanto bene nella vita l'essere amati. V'invito a pranzo.

—Siamo soli?

—Oh! a proposito, aspettate: c'è anche Savelli, me lo ero dimenticato. Sta nel mio gabinetto, traducendomi un passo di Sofocle, che mi ha fatto quasi impazzire. Povero Savelli, tanto buono! Non ho che voi due ad amarmi, ma il suo amore è più puro del vostro,—aggiunse col suo sorriso ammaliatore.

Il duca ancora sconvolto, ma radiante, sorrise.

—Aspettate,—ella ripetè già in piedi: venne ad aprire la porta, riempiendola prudentemente di tutta sè stessa.

—Savelli! Savelli!—gli urlò sul viso, come lo chiamasse dal gabinetto, poi cacciandoselo innanzi per la camera, che il duca non potesse vederlo, lo condusse alla finestra.—E così avete tradotto?—seguitava ad alta voce per dargli il tempo di rimettersi, mentre egli la guardava con due grandi occhi spalancati.

Ma Ida, che vide il duca entrare nella camera, spinse Savelli per un braccio sotto la tenda, e piantandoglisi superbamente dinanzi:

—Mi credete adesso?—dimandò con un sorriso d'impazienza.

Savelli era pensieroso; attese un istante, poi sulla sua faccia, ancora abbattuta, passò una luce soave.

—La maternità è una riconciliazione, poichè riproducendo la vita la si accetta; voi un giorno sarete madre,—disse lentamente.

—No.

—È difficile amare, ma è altrettanto difficile non amare; ricordatevi questo passo di Anacreonte.

—No,—ella ruggì soffocatamente, impennandosi sotto queste due verità senza trovare una risposta: ma d'improvviso alzò una mano, ed afferrandogliene un'altra, come per una violenta solennità di giuramento:

—A che cosa credete voi nella vita?—domandò.

—A tutto.

Ella si arrestò ancora, spianò la fronte, e colla calma di un deserto nella voce rispose lentamente:

—E io solamente a me stessa.