ALFREDO ORIANI

(OTTONE DI BANZOLE)

QUARTETTO

BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI 1919

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati tutti i diritti.

Tipi della S. T. E. B. Società Tipografica Editrice Barese — Bari, 1919

INDICE

Diapason pag. 5

Violino 43

Viola 77

Violoncello 127

Contrabbasso 211

DIAPASON

Caro Bariè,

Casola Valsenio 17 dicembre 1881.

Ho finito or ora il libro, e riprendo la penna per dedicartelo. Quando, fra qualche mese o qualche anno sarà stampato, chissà quali avventure, sorprendendo le nostre vite e divertendone la direzione apparente, potrebbero impedirmi di farlo. Forse la malinconia che c'invade, allorchè l'opera ancora tiepida della nostra mano, separandosi improvvisamente da noi, ci abbandona come un emigrante mal in arnese, il quale salpi verso ignote miserie, è uno dei sentimenti più amari ed inesprimibili. La generazione ideale, poichè più alta nella vita della generazione animale, è quasi sempre più lunga, sempre più dolorosa; quindi se il bambino prosegue quasi nella esistenza del padre, e sviluppandone i disegni, che la trascendono, vi si incorpora, il libro appena nato si contrappone all'autore con una personalità già perfetta ed indipendente. E, mentre quello sembra colla prova della nostra virilità darci l'altra di una nuova ricchezza, questo ci lascia nella lassitudine dell'esaurimento un senso più vivo della nostra debolezza. Che egli muoia prima di noi o ci sopravviva, e la sua fortuna sia come quella di un avventuriero, il quale diventa imperatore o portinaio; che egli passi fra la gente come un'apparizione di bellezza e di gloria, ovvero come un accattone, il quale mendica un'occhiata e riceve un sogghigno; che le sue mille edizioni, o le sue mille copie lo diffondano attraverso tutti i climi, al disopra dei monti e al di là dei mari, ovvero avvizziscano nell'ombra muffosa di un magazzino di libreria per finire sui banchi del commercio, come certi miserabili finiscono sul banco delle assise, non ci appartiene più e non ci conosce. Sarà forse ricevuto colla più nobile accoglienza dove nulla al mondo potrebbe decidere quelle stesse persone a riceverci; discenderà fin dove, per quanto intrepidi nella curiosità ed ottusi nel senso, non consentiremmo giammai a discendere: libero come un trovatello non sentirà nè riconoscenza, nè ingratitudine: avrà una patria ed una lingua, una civiltà ed un popolo, ma come molti trovatelli, i quali ripetono la sciagura donde nacquero, se avrà figli, saranno bastardi.

Il sentimento melanconico di cotesto abbandono ha probabilmente generato fino dalla antichità la prefazione, questa parola di rimpianto e di amore, che quasi tutti gli deponiamo sulla fronte, come l'ultimo bacio per una partenza senza ritorno. E mentre egli si smarrisce nella lontananza infinita dei casi, noi torniamo a rincantucciarci nel nostro angolo, e se pensiamo ancora a lui in qualche ora di tristezza, o ci voltiamo talvolta di soprassalto udendo pronunciare il suo nome; quando passarono molti anni incontrandoci su qualche tavolo straniero, o la sua idea parandocisi innanzi al pensiero come la prima volta che l'amammo e fu nostra, stentiamo forse a riconoscerla, come molte delle donne, che ci parvero belle un giorno e che credemmo di amare.

Già Pascal lo ha scritto da due secoli, che volendo giudicare l'opera propria, appena fatta è troppo presto, dopo è troppo tardi: prima vi siamo ancora dentro, dopo non possiamo più rientrarvi; laonde val meglio seguire l'andazzo dei padri, che fatti i figli, lasciano a loro medesimi la cura di vivere, e forse danno così alla società i suoi più robusti individui. Perchè dunque vi è ancora chi scrive libri? Sono il bisogno di un'espansione individuale, o l'espressione di un bisogno collettivo? Se belli, forse l'uno e l'altro; se brutti, forse egualmente ancora; ma infermi nati di una malattia saranno le più miserabili creature fra i viventi, non avranno nemmeno la pietà, che consacra i deboli, la guerra, che inorgoglisce i tristi.

E mentre nella solitudine del mio castellaccio, in mezzo a campi coltivati da migliaia di anni, circondato dalle forme embrionali di una civiltà, alla quale molte altre contribuirono, fra gente di contado e di villa, e i giornali che recano la sera le notizie del mondo, e i mercanti che il venerdì vi conducono la retroguardia dei suoi infiniti interessi, mi isolo qualche mese e scrivo un libro; tu, spirito fine e gentile, nato per vivere fra pareti rivestite di arazzi e respirare l'aria profumata delle serre, sei lontano, nella antica Chersoneso. Il vento, che ti arriva dalle lande superiori, è carico di indefinibili sentori: le montagne, che laggiù asserragliano l'orizzonte, sono forse del Caucaso, e hanno dato il nome alla nostra razza; la terra, che mediti riabbellire coltivandola, fu già coltivata dai greci, che vi mandarono le prime colonie, per cingere tutti i seni del Mediterraneo colla passamanteria delicata della loro civiltà. Intorno a te la pianura ha l'ondulazione sconfinata di un mare: gli alberi, la vegetazione tozza o sregolata di una natura, che l'uomo non ha ancora epurato o contenuto; il primo grano, che ti sei seminato fra i piedi, agiterà le spiche all'altezza della tua testa fra sei mesi; i puledri, che già accorrono al suono della tua voce di padrone, discendono da quei cavalli arabi, che portarono trionfalmente per tutta l'Asia e fin dentro i confini dell'Europa la religione voluttuosa ed austera del grande Maometto. Il paesaggio, che circoscrive il tuo pensiero e contorna i tuoi sogni, è quello stesso di tremila anni fa, quando i Greci vi discesero esuli di una vita, che il pensiero rendeva già troppo grave, per rituffarsi nella natura, e rifiorirvi nella sua eterna giovinezza.

Al pari di te avevano una fantasia popolata di statue, l'intelletto carico come una trireme, il cuore educato da grandi sentimenti e spossato da grandi passioni. Dotati di un genio indefettibile ripeterono la Grecia su quei lidi, coprirono il mare di barche, le sponde di templi, la terra di olivi e di viti; l'arte innamorata di loro non volle abbandonarli, e decorò tutte le loro opere: la filosofia, che avevano fuggita come un etèra di malvagie influenze, ma di seduzioni irresistibili, venne a cercarli nell'esilio, e si assise nobilmente superba, severamente ciarliera in mezzo ai loro circoli. Poi i Romani, che avevano sconfitto gli ultimi Etoli, passarono per quei remoti sobborghi di Atene, come un'orda brutale che distruggendo disciplinava, e il sorriso, che l'uomo aveva dato alla natura sulle spiaggie dell'Eusino, disparve. Più tardi un poeta innamorato ed infelice vi ramingò condannato dall'ira di un imperatore e dalla civetteria di una principessa; più tardi ancora, i Romani diventati Greci un'ora prima di morire, abbandonarono la loro terribile città conquistatrice per venire sull'Ellesponto, che i primi Greci avevano sentito così bello, e spirarvi mollemente in una musica di profumi e di colori, di parole e di baci. Quindi dall'Asia, che Milziade aveva respinto, ed Alessandro invaso per il primo, ruppe un'onda incontenibile di cavalli e di bandiere; la luna parve discesa dal cielo e procedere tremenda alla loro testa: il grido delle battaglie echeggiò oltre Roma fino a Tule, oltre Babilonia fino a Pechino; il fumo degli incendi si disciolse in pioggia fino sulle steppe della Mongolia e sulle dune della Brittania. Poi un immenso baleno, bianco come quello di una scimitarra, albeggiò sulla cupola di Santa Sofia, quando la mezzaluna vi si rizzò nella sua fredda gloria di pianeta, e la croce disparve dalle costellazioni di quel cielo così azzurro.

Chersoneso era una baia, la Grecia una penisola; la prima era stata dimenticata, la seconda era appena un ricordo.

Ma oltre quelle sponde, che i Greci avevano benedette della loro presenza, e alle quali il mare diceva le novelle di tutte le altre terre, si stendevano solitudini più grandi di tutti quegli avvenimenti, più terribili allo sguardo che non tutte quelle tragedie al pensiero. La fama raccontava di montagne, che la neve vi aveva alzate e che il ghiaccio vi aveva rese eterne; qualche volta in un rombo lontano lontano sembrava di ascoltare fracasso di fiumi, lunghi come una vita e vasti come un pelago; talora un cavaliere, in costume irreconoscibile, si affacciava al confine della landa come un'apparizione misteriosa, gettava uno sguardo su quel mondo già vecchio due volte, e spariva in un turbine di vento con un galoppo fantastico. Quel cavaliere, cui l'immaginazione trepidante dava il nome di Sarmata, era l'avvenire, e adesso è il presente. Il Sarmata si chiama Russo; ha sconfitto l'altro ieri l'ultimo Cesare romano, che gli aveva mosso contro da Parigi, e si è fermato ieri per la seconda volta sotto le mure di Bisanzio: egli è l'ultimo vincitore nella storia dell'Europa, l'ultimo impero nella geografia dell'Occidente.

Sgraziato come tutti i colossi e senza verginità di adolescenza come tutti i mostri, egli è passato dalla infanzia alla virilità, dalla crudeltà della selvatichezza alla ferocia della civiltà. Privo di tradizione e quindi di ideale, la sua unità è un'agglomerazione, la sua vita un istinto, la sua forma un embrione, la sua potenza una massa, la sua difesa la natura, la sua ricchezza gli viene dalla atonia di ogni sentimento e dalla brutalità di ogni bisogno. A volta a volta nomade e contadino come l'arabo, il cielo gli negò coll'azzurro la bontà del cuore, il sole non gli accese coi raggi la generosità nel pensiero: quindi il freddo, che restringe tutti i pori, gli racchiuse per sempre l'egoismo nell'anima, e la neve, che confonde tutte le fisonomie, gli intorbidò le forme dell'intelletto. L'uniformità della natura pesò sulla sua società: i gruppi umani apparvero disseminati nel suo impero come i gruppi degli alberi per le sue steppe, poi come gli uccelli unirono gli alberi col loro volo di landa in landa, i cavalli congiunsero gli uomini colle loro corse di provincia in provincia; e lontano, al di là degli occhi, al disopra del pensiero, come una montagna dalla vetta invisibile, il trono e l'altare furono una visione bianca e fredda, terrifica ed incompresa. Dalla sua cima la legge ruinò e si distese come un vento, che inclina tutte le piante e rugge agli angoli di tutti i tetti; sulla sua cima lo czar, fantasma sublime ed ignoto, aperse la mano a benedire come un pontefice e la strinse per brandire la spada come un imperatore: e d'allora la croce di Ivano il Grande sfolgorò contro la luna falcata di Maometto secondo, e la lotta fra la costellazione e il pianeta ricominciò più violenta ed implacabile.

Prevalse la croce, giacchè se una bufera d'inverno può prostrare le forze della primavera, questa non potrà mai prevalere contro la rigidità dell'inverno. Il Nord è invincibile nella sua corazza di ghiaccio, ma sarà sempre torbido nella sua aureola di neve. Impero vasto forse più che il romano, esso è un oceano di terra, nel quale qualche grossa città pare un'isola e qualche bella provincia un arcipelago: come il romano, racchiude molti popoli, ma in questo diverso, non ha nè detrito di civiltà, avanzi di religione o macerie di storie, colle quali covare una nuova èra mondiale. Cresciuto ai confini della vera Europa potè, esercitando una specie di contrabbando sulla frontiera, impadronirsi di qualche idea, ma la sua è una cultura artificiale, e prima che il sole la schiuda naturalmente sulla sua immensa superficie, dovranno passare altri secoli, nè forse il sole vi sarà mai caldo abbastanza. Se Pascal ha avuto torto affermando che la giurisprudenza varia coi gradi del meridiano, Bukle ha avuto ragione constatando che la civiltà è soggetta alle leggi del calorico, e non può salire al disopra di un certo grado di latitudine. Nullameno un fermento, ancora mal giudicato, fa oggi gonfiare la crosta di questo impero, che la geografia misurando ha trovato quasi pari al chinese, sebbene la statistica sommando lo trovasse di tanto inferiore; si direbbe che i suoi frequenti terremoti siano una palpitazione di vulcani i quali rompendo fra poco il loro fragile coperchio, lanceranno fino al cielo una spuma di lava e di fiamma. Lo squilibrio, che la differenza di popolo nella differenza di clima deve arrecare alla regolarità delle sue funzioni, e l'antagonismo tra la forma feudale della sua gerarchia e la forma democratica della sua cultura; la sua stessa estensione, per la quale la volontà della legge si rilassa inevitabilmente come una corda troppo lunga, e l'altezza inaccessibile del trono, che diventa così il centro misterioso di tutta la sua vita, ma il mistero responsabile di tutte le contraddizioni: forse la miseria della minoranza più spirituale colata sopra la povertà della maggioranza quasi bruta, come una putrefazione di germi precoci sopra un marciume di germi serotini; e forse una sofferenza, alla quale occorreva la uniformità di un tale impero per diventare più forte di lui, essendovi egualmente uniforme, hanno prodotto questo fermento sotterraneo per tutta la Russia, i terremoti che subissano la reggia non potendo rovesciare il trono, i vulcani che avventano bombe invece di lapilli, e questa rivolta, nella quale i ribelli hanno la terribile ubiquità dei fantasmi, e il motto della quale è il più incomprensibile nella storia, e il più assurdo nella vita — NIKIL —. Forse Napoleone portando inconsciamente la rivoluzione francese in tutta la Europa per stabilirvi il proprio impero, ve ne lasciò la semenza in quella orribile ritirata, l'ultima epopea dell'Occidente, che ha trovato un pittore ed aspetta ancora un poeta: forse l'impero russo vi perirà, e dai suoi frammenti, come da quello dell'impero romano, nasceranno tante nazioni. Ma a rovescio dell'altro, che aveva i nemici alla periferia, esso li ha al centro; quelli erano barbari e questi sono civili; i primi portavano un sangue giovane ad un cervello esausto, ad un cuore caduco; i secondi infonderanno idee mature ad un cervello adolescente, ad un cuore quasi animale.

E mentre nell'aria vibrano i fremiti della tempesta e la terra ti sussulta sotto i piedi, tu alzi appena il capo, e guardando al nord, ti stringi nelle spalle. Scettico, ma forte come un greco, tu sai che la vita è ancora più piccola che breve, che le tue pianure sono fertili, i tuoi cavalli veloci, i tuoi servi laboriosi. Sia che la croce e la mezzaluna si urtino un'altra volta sui tuoi campi, o una rivoluzione te ne cacci; che la tua provincia diventi un regno e il tuo villaggio una capitale, e lo schiavo di oggi si faccia padrone di domani, tu, greco, ammetti con Aristotile che vi saranno sempre degli schiavi, sai che la vita è breve, e la necessità del mietere non deriva dall'aver seminato, ma dal dover macinare. Uscito dalla società per rientrare nella natura colla stessa facilità, onde leggendo si passa da Swinburne ad Esiodo, tu vi hai recato la calma della ragione nella pace dell'istinto, la semplicità di un raffinato nella innocenza di un ignaro: e quando tutta l'Europa guarda verso l'America, tu, nipote di Colombo, hai guardato verso la Russia. Ora la tua vita chiusa entro la rivoluzione dell'anno agricolo non ha altra varietà che le stagioni, altro scopo che una messe, altro avvenire che questo scopo medesimo. La terra coltivata esprimerà il tuo pensiero, il benessere dei tuoi contadini attesterà il tuo piccolo regno. Così ispirandoti ad un verso di Virgilio, il tuo poeta antico prediletto, attui l'ultima scena del Faust, il tuo poema moderno preferito, ed immergendoti nella vegetazione di una terra vergine, purifichi il tuo spirito da tutte le malattie ereditarie delle nostre vecchie civiltà.

Ed ora che la natura ti ha reso straniero al mondo, esule, nobile e felice, non ti dolga se il migliore dei tuoi amici venga a parlarti di battaglie ideali, ostinandosi nella guerra, alla quale ti sei sempre rifiutato. Forse a qualche ora della notte o del meriggio, quando il tuo spirito riposa, un'immagine del mondo abbandonato ti sovviene ancora e svanisce; o nelle tue lunghe escursioni qualche fiore innominato o qualche canzone selvaggia ti hanno già ricordato i nostri fiori dal nome sapiente, le nostre romanze dal ritmo squisito. Che se migliaia di miglia ci allontanano e due mondi diversi ci separano, la nostra amicizia non ne sarà per questo meno intima, o il nostro commercio meno stretto. Gettati dalla natura nel medesimo stampo, e condannati dal destino alla medesima vita, sebbene tu abbia potuto eludere la condanna, ci saremo pur sempre presenti; e mentre tu mi troverai spesso a vagabondare pe' tuoi campi, io t'incontrerò sovente fra i miei libri, nella luce di un pensiero o nel sorriso di una frase, nell'ombra di un quadro o nelle pieghe di una statua.

Quando prima di partire per il tuo nuovo mondo mi scrivevi dissuadendomi da questa inutile e crucciosa guerra letteraria, le condizioni della nostra presente letteratura entravano forse per gran parte nel tuo saggio e malinconico consiglio. Se è sempre triste il nascere, vi sono epoche, nelle quali è tristissimo nascere uomo di pensiero o di azione.

Nei periodi di un fatto o d'un'idea ve ne sono alcuni che ci sollevano, altri che ci lasciano affondare, finchè un nuovo gettito sotterraneo non gonfi l'onda e l'innalzi fino al raggio del sole. La prima metà del nostro secolo fu per l'Italia una delle più belle fioriture d'ingegni, una delle messi più ricche di caratteri. La necessità sempre più crescente della rivoluzione metteva negli eletti della vita una vera forza di rappresentanza, che le finzioni parlamentari hanno poscia cercato inutilmente d'imitare, e che non raggiungeranno giammai. Ognuno di essi sentiva di riassumere qualche bisogno, o di esprimere un'idea nazionale; quindi molti furono i grandi, moltissimi gli illustri. Come se l'Italia volesse conquistarsi l'ammirazione dell'Europa per strapparle in un applauso il permesso di risuscitare, profuse i pensatori e gli artisti, i martiri e gli eroi; laonde dopo la rivolta del '31, esplose la insurrezione del '48, scoppiò la rivoluzione del '59. L'epopea fu così meravigliosa, che parve un miracolo, e resterà una favola; ma nessuno ha ancora osato fare il computo di tutti i sacrifici, che vi contribuirono, di tutti gli ingegni, che vi cooperarono. Vi furono libri che valsero battaglie, battaglie che nessun libro saprà mai narrare: si udirono motti che erano poemi, si fecero poemi, dei quali nemmeno un motto fu scritto. Accanto ai colossi del pensiero si drizzarono i giganti dell'azione, le corone dell'alloro furono posposte alle ghirlande del martirio, il sangue fu scialacquato come il danaro, le parole ebbero efficacia di fatti, i fatti prontezza di parole. E il sogno colorato dalla luce di tante fantasie si solidificò, come per incanto, sotto lo sforzo di tutte le volontà, mentre l'Europa guardava attonita dalle Alpi, e Roma si levava trasognata sul Tevere. Ma appena compiuto il prodigio, tutti si mirarono in faccia e nessuno più si riconobbe; quasi tutti i caratteri si ritirarono, quasi tutti gl'ingegni rimasero; gli eroi diventarono militari, i martiri si cangiarono in impiegati. L'epopea finiva fatalmente alla commedia, dacchè l'idea si era tradotta nel fatto, e il sentimento si riabbassava verso il senso. Era una legge della vita e della storia. Ma allora quelli, che avevano fatto l'Italia, cominciarono a sentirsi vecchi e ad essere riconosciuti per tali dai sorvenienti, leggeri e rapaci come tutti i saccomanni dopo la battaglia: l'arte e la filosofia, la politica e la milizia trionfanti non piacquero più, e si chiese del nuovo. L'ingegno, che si era manifestato così splendidamente nei padri, i figli se lo supposero volentieri, e guardando ai rivali d'oltr'alpe, si accinsero a sorpassarli nelle opere, come li avevano raggiunti nella vita. Ma la nazione aveva esaurito creandosi forse l'ingegno di due età, e i novatori d'Italia diventarono i plagiarii dello straniero. La generazione del '49 mancò nella storia del nostro pensiero. Fortunatamente l'ombra del monumento eretto sul suo confine lo nascose, e i posteri non s'accorgeranno forse della lacuna. Ma poichè l'impotenza rende malvagi e il sacrifizio ingrati, i nuovi scrittori risero dei vecchi, Guerrazzi fu troppo asmatico, Manzoni troppo cristiano, Niccolini troppo rettorico, Leopardi troppo classico. Il dualismo fra la scuola toscana e la scuola lombarda divenne scisma, e le eresie avvamparono nelle sue polemiche. Intanto nessun nuovo campione discendeva bene in armi nell'agone a percuotere sugli scudi dei vecchi tenitori di campo. Qualche paggio faceva bensì prova di destrezza giocarellando con una mazza, o un catafratto, chiuso nell'armatura pesante della erudizione, si pavoneggiava tutto solo; o un cavaliero, montato sopra un magro cavallo, tentava un giro al galoppo e, cascando ai primi passi col cavallo sul petto, giaceva. Finchè i tenitori di campo rimasero, malgrado le vanterie dei torneadori e le grida della folla, non vi fu nemmeno un duello, ma uno ad uno quegli scudi terribili furono levati. Sul primo c'era scritto Arnaldo da Brescia, sul secondo Assedio di Firenze, sul terzo Promessi Sposi. Uno solo, toscano alla parola, vestito classicamente, con un elmo tedesco sulla testa, aveva osato farsi largo fra la ressa e percuotere sprezzantemente col proprio scudo, nel quale era scolpito un Satana, sullo scudo di Manzoni. Se non che uno scudiero, dal volto smorto e gli occhi rossi, veniva in quello stesso momento a levare lo scudo glorioso: il vecchio guerriero era morto senza sapere della sfida. L'audace aveva troppo tardato.

Quindi egli rimase solo, e fu primo.

Ma questo illustre, per il quale ogni aggettivo comincia oggi a parer piccolo, e che seguaci fanatici invocano col nome ridicolo di pontefice, si era faticosamente educato alla stessa scuola degli antichi, fra le ombre incappucciate del primo rinascimento. I suoi giovani canti erano sembrati echi di perdute ballate; poi la rivoluzione, strappandolo a quei sogni toscani, gli aveva insegnato, coll'eroico linguaggio dei fatti, nuovi ritmi e nuove parole. Nullameno ignorato od incompreso per molti anni, invece di capitanare il nuovo movimento, parve ne continuasse un altro; mentre i giovani volontarii della letteratura, che avevano forse lasciato allora le bandiere del Garibaldi, ne cercavano un altro egualmente splendido, ma altrettanto facile. Invece il nuovo duce, che varcate le Alpi scrutava in quel momento per la Germania, preludendo alle teoriche ed ai trionfi di Moltke, affermava la necessità di una profonda dottrina per ogni ordine di milizie, e di una grande tradizione per una grande arte. Naturalmente i giovani volontari non intesero, o sdegnarono, e l'austero superbo rimase senza esercito.

Intanto due capitani di ventura levavano il campo a rumore: uno era vestito da bardo, l'altro da menestrello. Il primo coi panni sciattati, un mantello reale, ricamato di perle e schizzato di fango neglicentemente gettato sulle spalle, coi capelli che gli svolazzavano da un elmo fantastico, si abbandonava alla stupenda dolcezza del proprio canto, e cantava di tutto. Aveva la voce maschia e molle, le note piene, le cadenze quasi sempre leziose: ma le canzoni salivano dalle sue labbra con un volo inesauribile di insetti in un raggio di sole, e la sua fronte, sulla quale le visioni passavano come le nuvole in cielo, aveva una ineffabile espressione di malinconia. Bardo e capitano fu troppo l'uno per poter essere l'altro, nobile e bello non cercò d'ingrossare il proprio seguito, e procedette combattendo e cantando come un eroe di Ossian. La gente lo chiamava Prati, i giovani imparavano le sue canzoni, i critici insultavano il poeta e la sua poesia. L'altro menestrello era una figura femminea. Portava le scarpette scollate, le calze di seta, il giustacuore a sbuffi con un cuore, trafitto da una freccia d'oro, ricamato sul petto, e un berrettino con due penne di airone, che gli ricadevano sui ricci profumati della capigliatura. I suoi occhi avevano il languore spasimante di un paggio, le sue dita erano cerchiate di anelli come quelle della sua dama; e toccando il mandolino con una grazia piena di civetteria si avanzava occhieggiando ai balconi. Un giorno, da una finestra inghirlandata di vasi, una mano bianca gli aveva gettato un mazzo di viole, ed egli le portò sempre sul petto. Quelle viole diventarono la sua poesia, il loro profumo fu tutto il suo pensiero, ed il suo sentimento. La gente lo chiamava Aleardi, le donne cantavano le sue romanze, i critici basivano di ammirazione in faccia alla sua poesia ed al poeta.

Ma dietro loro, nel corteo variopinto, più di una figura e di una testa avrebbero dovuto attirare l'attenzione. Due vecchi, Mamiani e Tommaseo, dalla fronte alta e serena, procedevano a braccetto dietro la medesima idea e la medesima musa: il primo aveva pur trovato qualche canto, oggi perduto, e che sarà forse rintracciato fra un secolo; il secondo aveva dato il volo a qualche inno, che pochi avevano letto, ma che molti avevano ammirato, come un anello, che tentava di congiungere filosofia e religione, la tradizione dell'arte antica col sentimento dell'arte moderna. Però l'Uberti, malgrado i grandi sforzi, non potè uscire dal manipolo tumultuoso dei Tirtei da bivacco, i quali seguitavano le loro storpie canzoni senza l'accompagnamento delle fanfare ed il rullo dei tamburi: e quindi un levita ed un alfiere, irrompendo dalle file, parvero raggiungere per un momento i due acclamati capitani. Il primo era Zanella, il secondo Praga: questi morendo nominò eredi lo Stecchetti ed il Boito, all'uno lasciando la sensualità famigliare, all'altro la stramberia immaginosa. Zanella invecchiando sentì morirsi intorno quasi tutte le proprie poesie. Eppure pensatore modesto aveva avuto qualche nuovo ed elevato pensiero, cesellatore paziente aveva dato a qualche strofa la solida eleganza di un bronzo, la finitezza squisita di una orificeria. L'altro fu più una poesia che un poeta. Il tremito convulso della mano gli guastò quasi sempre il disegno, o gli intorbidò il colore, mentre il suo pensiero, che avrebbe avuto la grazia della leggerezza, prendeva volentieri la goffaggine della gravità; e la pretensione dell'orgoglio falsificava l'ingenua violenza o la mollezza nervosa del suo sentimento. Nullameno egli fu nuovo, e più semplice sarebbe stato originale.

Intanto Rovani, discendendo la parabola luminosa dei suoi Cento Anni, arrivava fatalmente alla Giovinezza di Cesare, abbandonato da Tarchetti e da Nievo, che gli si erano serrati attorno per un momento. Ambedue erano morti presto, ambedue prima di spegnersi ebbero o parvero avere un'ora di astro. Forse il raggio della pietà accresceva la luce della loro gloria, e la morte incontrata all'avanguardia parve al resto dell'esercito un segno di vittoria. Il primo scrisse perchè sentì, ed il suo stile peccò come il suo sentimento; il secondo pensò e sentì ciò che scrisse, ed il suo stile avrebbe forse potuto mantenere ciò che aveva promesso. Tarchetti è diventato un martire nel martirologio della boemia, Nievo è dimenticato persino dai cronisti dell'arte. E mentre il romanzo si contorceva nella culla, il dramma e la commedia si contorcevano nell'agonia. Giacometti, ingegno vasto, ma corroso dalla rettorica, aveva ceduto il campo ai sorvenienti: Cicconi, sbocciato e caduto come un fiore, non aveva lasciato dietro sè che alcune foglie secche: Gherardi del Testa tentava ancora di celiare: Ferrari costruiva impalcature, per le quali i personaggi salivano come manovali, la schiena carica di tanti frammenti di una tesi: Torelli, un novizio, che alla prima prova era parso un maestro, ridiventava mano mano uno scolaro; Marenco imperversando pestava idillio e tragedia; Bersezio credendo di dipingere qualche scena non si accorgeva di pitturare appena una quinta, e il nostro teatro italiano era sempre uno scalo dell'arte francese. Però la sua illusione abbacinava il pubblico, che intronato dai critici gazzettieri, cominciava a credere nella nuova arte.

Allora due nuovi scrittori comparvero nell'arringo: un bozzettista, che si fece poi viaggiatore: un novelliere, che salì fino al romanzo, De Amicis e Verga. Al primo salto oltrepassarono tutti e nessuno li ha ancora sorpassati. Quegli s'impossessò della fibra scossa dall'Aleardi, ed ottenne un secondo trionfo di lagrime. Soldato formò dei soldatini di piombo per il pubblico, che ne impazzì, perchè piangevano senza perdere la vernice: li depose nel proprio libro come dentro a una scatola, e il libro diventò una strenna. Tutti vollero averlo, la bottega dell'editore fu messa a ruba. Ma nessuno di quei soldati era dell'esercito che aveva fatto l'Italia, nessuno aveva la fibra dei veterani del trentuno, nessuno l'impeto lirico dei ribelli del quarantotto, nessuno il sentimento epico dei volontari del cinquantanove. Invano Garibaldi aveva difeso Roma da tutta l'Europa, invano Lamarmora più tardi aveva salvata la medesima Europa alla Cernaia, e le aveva per prezzo del servizio dimandato l'Italia; invano tutti i villaggi erano clamorosi di soldati e di racconti guerreschi, gli eroi ed i martiri caldi di entusiasmo e di ferite: De Amicis invece di vedere e di ascoltare, aveva monturato i versi dell'Aleardi, e ne avea fatti tanti soldati. Nullameno i paesaggi salvarono le figure dei quadri, e la madre del figlio fu la più nobile e fortunata risorsa dello scrittore. Verga più coraggioso e più acuto sfiorò appena l'idillio e cercò il dramma. I suoi primi libri furono più un ricordo che una scoperta, ma imitando gli altri finì per trovare se stesso; e oggi, dopo un raccoglimento di qualche anno, ricompare più severo e più italiano, mentre Fogazzaro tenta di oscurarlo colla sua Malombra, Faldella vezzeggia ancora nei racconti, Barrili trova lettori per le proprie immutabili favole, orlate della stessa immutabile frangia di riflessioni; Capuana ne cerca per i suoi nuovi e piccoli esperimenti naturalisti, e il Pratesi quasi ignorato ne merita.

Che se il romanzo aspetta ancora il proprio grand'uomo, il teatro ieri ha perduto uno dei suoi migliori, che molti credevano tale, Cossa è morto improvvisamente. I suoi primi saggi passarono inosservati, poi diede il Nerone, e l'Italia che giustamente si era appena voltata all' Arduino del Morelli, ed avrebbe dovuto voltarsi al San Paolo del Gazzoletti, svenne quasi d'entusiasmo davanti a questo capolavoro di una sera. I critici da giornale unirono in coro teorie ed applausi; si parlò di arte nuova, di uomini, che sulla scena venivano dopo tanti secoli a sostituire i personaggi, di una storia e di una vita, che uscirebbero rinnovellate da quest'arte. I drammi successivi, per quanto poveri, non valsero a smagare queste promesse, alle quali il poeta nella sua contegnosa modestia non aveva forse mai pensato, e il nome e l'arte del Cossa invasero pubblico e scena. Ingegno lirico senza profondità di sentimento nè elevatezza di pensiero, invece di concepire un dramma trovò spesso una scena, ve ne mise altre intorno, e lo fece; ma sempre lirico ripetè le stesse figure o le stesse idee, sostituendo una stampiglia ad un'altra, applicando alla storia la piccola pittura di genere invece della grande pittura accademica. Se non che a forza di impicciolire i personaggi, li fece quasi passare per uomini e credere vivi, benchè campati nel vuoto e moventisi per una scena, nella quale l'impero romano, reso con un processo di decalcomania, aveva appena il valore di una ornamentazione da piatti. Come tutti i piccoli, che la piccolezza inconsapevole rende temerari, affrontò tutte le epoche, si attaccò a tutti i colossi, Mario e Nerone, Cleopatra e Messalina, Beethoven e Ariosto, Giuliano l'Apostata e il Duca Valentino, alla repubblica di Rienzi e a quella di Cirillo, mettendo sempre un'epoca intorno ad un individuo, come si mette la paglia attorno ad un bicchiere, perchè non si rompa; poeta senza verso, dopo che Foscolo e Manzoni avevano scritto i versi dell' Aiace e dell' Adelchi; drammaturgo senza potenza di evocazione; artista, che del teatro aveva imparato la decorazione ed il macchinismo. Non avendo fiato per le tragedie, credette di salvarsi chiamando drammi le proprie, ma in questi drammi, ai quali la volgarità della forma avrebbe pur sempre conteso l'esistenza, non seppe convenire le vere fisonomie tragiche, le fatalità psicologiche o storiche, da cui solamente il dramma si forma. Ma il pubblico ristufo dei gentiluomini apocrifi del Ferrari si apprese ai romani falsi del Cossa, e contrapponendo per un istante l'uno all'altro i due scrittori, li riunì come due amici nel medesimo applauso. La fortuna di questi romani usuali ne attirò altri: drammi e romanzi pullularono. Tito Vezio e Spartaco tornarono col Castellazzo e col Giovagnoli per mettersi il nostro sentimento moderno sotto la loro tunica antica. Cavallotti, condannato dal destino alla rivolta in politica ed alla imitazione in arte, per essere originale seguendo il Cossa, andò in Grecia; ed egli, il poeta più sgraziato nella forma, rappresentò il popolo più poetico della terra: non pensando che scrivere una tragedia greca dopo Eschilo era una follia, e bisognava chiamarsi Shakespeare o Goethe, perchè la follia potesse essere genio; dopo Sofocle era un'imprudenza e bisognava essere un poeta come Foscolo, perchè la profonda umanità del sentimento e la irresistibile bellezza del verso la facessero perdonare. Ed invece parmi che a Milano l' Aiace fosse fischiato la prima volta. Col Cavallotti si unì il Salmini, ingegno rozzo, ma più forte; artista forse altrettanto scomposto, ma più serio. Ed ora è morto egli pure. Poi fra tutti questi rantoli di tragedie il Giacosa mise il riso gaio di una fiaba, che per un'ora trionfò di tutto e di tutti; senonchè temperamento delicato e spirito fine, salito trionfalmente dalla leggenda medioevale alla commedia goldoniana, volle essere tragico, come i tragici, che aveva quasi fatto dimenticare, ed allora il vincitore fu vinto. Ma col Giacosa avevano già preluso il Martini ed il De Renzis tentando i proverbi; però, se il primo valeva infinitamente più del secondo, nessuno dei due ricordò nemmeno da lungi il Marivaux o il Musset: invece di cammei fecero delle stampe, non furono abbastanza poeti per avere le perle, abbastanza orefici per saperle legare. Quindi il Martini arrischiò il racconto, e piacque; il De Renzis pretese al romanzo, e decadde.

E in questa catena di opere e di scrittori, che doveva legare il teatro italiano moderno al teatro italiano antico, che l'Italia non ha mai veramente avuto malgrado il Goldoni; nella quale Cossa colava il il bronzo delle statue antiche, Ferrari la ghisa dei mascheroni moderni, l'ultimo anello fu il solo, che non si rompesse sotto lo sforzo della critica. Il teatro popolare, che colle radici piantate nel cuore del popolo, fuori di ogni abitudine classica, prosperava più forse per un rigoglio di natura, che per una coscienza artistica, trovò nel Gallina il proprio instauratore. Il quale, giovandosi col tristo esempio del Torelli, che aveva fatto accettare sulla scena il proprio dialetto italiano, v'impose il vernacolo di Goldoni; il pubblico accorse, applaudì, non osò sentenziare fra questo principiante e i decani, fra quest'arte fresca e quell'arte decrepita, ma l'incertezza del pubblico fu il maggiore dei trionfi, giacchè per la prima volta il pubblico si trovava in faccia a del nuovo. Gallina aveva vinto, il teatro era nato: ma siccome i bambini non divertono che per una mezz'ora, quelle sue commedie, penetranti come un vagito e graziose come un sorriso, non potevano, e non possono bastare alla vita di un teatro.

Nè questa guerra nell'arte fu solo di uomini, chè sull'orme di Sara e di Ouida, due inglesi della colonia italiana, molte donne, che l'esempio della principessa Trivulzio ed il più alto ancora della Lorenzi non aveva scosso, entrarono in lizza. Ma siccome le donne, che pensano, sono una rarità nel loro sesso; così le donne, che scrivono, debbono avere il valore di una grande eccezione nel nostro: una scrittrice o è molto o è nulla; le nostre non furono che troppe. In un secolo, al quale la Stäel apre la soglia, George Sand illumina il meriggio, Giorgio Eliot rinchiude le porte del sepolcro, la donna che vuol perdere il proprio sesso, facendosi scrittrice, deve barattarlo con un'immensa gloria sotto pena di fare un contratto altrettanto dannoso che ridicolo. Certamente il pensiero non ha sesso, ma la sua è una fatica talmente maschia, che le donne non possono sopportarla, o sopportandola, vi si snaturano.

Ed ecco l'arte dell'Italia fatta dirimpetto all'arte, che ha fatto l'Italia.

Che cosa è il Nerone in faccia all' Adelchi? l' Arduino di Ivrea in faccia all' Arnaldo da Brescia? Che cosa sono i Rossi ed i Neri del Barrili in faccia all' Assedio di Firenze? Una volta i filosofi italiani si chiamavano Rosmini, Gioberti, Romagnosi: l'ultimo scolaro di quest'ultimo, grande quanto il maestro, il Ferrari, è morto ieri, e nessuno se ne è avveduto. Come si chiamano oggi i filosofi d'Italia? Ho letto Vera, e l'enormità di Hegel mi ha ispirato una calda ammirazione per l'interpetre; Ausonio Franchi, che Michelet battezzò il primo logico del secolo, si è ritirato dalla lotta; Augusto Conti, sentimento greve e ragione leggera, scema l'imponenza dell'autorità e il prestigio della poesia alla vecchia causa, che difende: Ardigò applica a se stesso la teorica della evoluzione, e di canonico si trasforma in ateo; Bovio, una nebulosa nella scuola, è diventato una nebbia nel Parlamento. E gli altri? Messedaglia e Correnti hanno trovato per la loro scienza una delle prose più belle del tempo; il Villari, spirito saldo ed acuto, preludia vigorosamente nella critica e nella storia; il padre Tosti mantiene il magnifico stile italiano di una volta, l'abate Fornari incolla l'abate Cesari sull'abate Gioberti, il Minghetti risente del Costa, il Tabarrini unisce al profumo dell'eleganza antica i sentori della vita moderna, il Bonghi, mente vasta e profonda, prodiga osservazioni e consigli talmente buoni, che nemmeno egli stesso sa praticare. Chi dunque alza una bandiera, la quale raccogliendo tutti gli sparsi manipoli, rannodi un esercito? Dov'è la lingua vera? quale è lo stile vivo? Manzoni prima di morire si abboccò col Bonghi su questo: che ne decisero dunque? Chi ha ragione, la piazza o la scuola, la tradizione o la vita? Certo col linguaggio della scuola non si può esprimere tutto, ma col linguaggio della piazza è altrettanto certo che non si è intesi da tutti. E non per tanto lo stile è tutta l'arte, perchè in pari tempo parola e frase, colore e disegno, ombra e luce, forma e sostanza. Quale oggi di tutti questi giovani ribelli, che disprezzano il passato e i passati, scrive una pagina come alcune del Tommaseo, o detta solamente un periodo, che si riconosca fra centomila, e sia forse il più bello, come uno qualunque del Mazzini? Profeta, apostolo e condottiero, la missione e l'epopea della sua vita gli contesero di essere forse dei primissimi fra gli scrittori del secolo, e non per tanto d'Italia fu il più nuovo ed il migliore. Immaginoso come il Niccolini ebbe il calore del Guerrazzi, colla fluidità del Manzoni e la precisione del Tommaseo: italiano dei tempi futuri, sarebbe parso un contemporaneo agli italiani del secolo d'oro, e nullameno le sue erano idee, alle quali egli primo aveva dovuto trovare una formula italiana. Filosofo etico come Socrate, non entra e non entrerà nella storia della filosofia del nostro secolo, che si inizia con Kant, sale fino ad Hegel, ridiscende fino a Spencer; ma se in lui la elevazione del sentimento superò quasi sempre l'altezza del pensiero, la perfezione del suo linguaggio ispirerà sempre una ammirazione malinconica, come se nella fiamma dello stile, col quale doveva riscaldare tutto un popolo, egli gettasse, sacrificatore disperato, colla sua vita di uomo la sua immortalità di artista. Ed oggi il Saffi, modesto Aronne di questo Mosè, che ha potuto morire nella terra promessa, conserva tuttavia nella devota interpetrazione del recente evangelo un raggio di quella purezza, che l'anima sembra comunicare alla parola, un residuo di quella efficacia nella frase, che il maestro gli apprese scaturire dalla sincerità del pensiero e dalla rettitudine della intenzione. Mazziniano meno ligio alla nuova legge, ma che pagò col proprio esilio e col sangue dell'eroico fratello la fede all'Italia, Giovanni Ruffini, del quale i giornali recano oggi la mesta notizia della morte, dovette farsi inglese per vivere del proprio ingegno e della propria gloria. La patria ingrata non lo conobbe che tardi, e non mandò nessuna rappresentanza ai suoi funerali. Scrittore del tempo eroico, quando lo scrivere era un combattere, egli parve dopo artista altrettanto fine, ma la sua arte, sempre mazziniana d'ispirazione, rimase ottimista, difendesse l'Italia o un'idea, sognasse una patria od una virtù. E nullameno fu posposto al D'Azeglio ed al Grossi, pei quali vi furono monumenti, oggi già più vecchi dei loro libri già morti. L' Ettore Fieramosca ed il Marco Visconti contemporanei del Dottor Antonio destarono un entusiasmo, che dura tuttavia in rispetto, malgrado che il primo fosse una degenerazione dei poemi guerrazziani, e il secondo rappresentasse la putrefazione del genere Walter Scott, che Manzoni, con uno sforzo allora incompreso e adesso ancora quasi incomprensibile, aveva alzato quasi sino alla maniera del Balzac. Ed oggi, che i violenti attacchi del Carducci alla lirica manzoniana hanno quasi reso di moda il disprezzo del grande poeta e romanziere, che fu naturalista, per usare questa nuova parola, quando solo Balzac lo era senza teorizzarne, e Zola sognava forse nell'utero materno, si osano citare a modelli il D'Azeglio ed il Grossi, la nullità del pensiero ed il lattime del sentimento: dai quali derivò la teorica dei buoni libri, eretta a dogma dai manzoniani. Per essa la moralità privata deve valere l'ingegno pubblico dell'autore, e la misericordia delle intenzioni ogni altra qualità di fantasia e di sentimento, di forma e di sostanza. Così la critica minuscola, ridotta dai giornali a sacerdozio come l'arte, crea e distrugge le effimere riputazioni sui giornali sbocciati. La grande critica tace: Settembrini, temperamento storico ed ingegno sistematico, è morto: il De Sanctis, temperamento poetico ed ingegno filosofico, dopo aver messo la psicologia a base della critica, sostituì troppo spesso la intuizione all'analisi; quindi i suoi ritratti diventarono teste, e le pretese lezioni di anatomia si cangiarono troppo sovente in speculazioni metafisiche, nelle quali il tempo storico era appena un colore, e il simbolismo dell'idea toglieva quasi ogni significato alla varia composizione umana dell'individuo. Il Carducci, lirico ed erudito, volle essere critico, e lo fu splendido e forte come in tutto ciò, che ottiene sempre dalla sua volontà. Forse se non il genio, poichè dei primi fra i primi del mondo, egli ha comune nel secolo col Balzac la nobile ed incalcolabile energia della volontà, colla quale coltivando instancabilmente il proprio terreno è arrivato a farne un ricco giardino, sebbene la sua flora originaria non fosse nè troppo varia, nè molto opulenta. Ma egli vi trasse semi da tutti i climi, le palme dell'Africa e gli abeti della Germania, le rose della Grecia ed i gazuma dell'America; vi educò la vite colla stessa perfezione dei vignaiuoli francesi, amò l'edera e si compiacque ad incoronarne le vecchie statue dissepolte, colle quali andava ornando i viali. Ma nella critica preferì la necroscopia alla diagnostica, i morti ai vivi, simile in questo al D'Ancona, che spinse la passione dell'anticaglia fino alla ghiottornia dei più minuti particolari, sprecando non si sa se più ingegno o dottrina; mentre il Zendrini, morto da poco, scambiava la propria cultura per una capacità critica, e il Massarani sdottrineggia ancora pigliando l'arte per la riprova di una teoria morale, piuttosto che per una totale rappresentazione della vita: il Trezza svapora in una fraseologia nebbiosa, il Franchetti nell'Antologia oscilla fra il buon senso ed il buon gusto, il Nencioni in articoli brevi e talvolta bulinati corregge l'influsso delle letterature straniere sulla nostra, analizzando gli esempi che la più parte invocano senza conoscere. Così, mentre la critica diventata embriologia nel Bartoli studia con amore sapiente le origini della nostra letteratura, e falsa o sdegna l'opera contemporanea, il verso che tubava ieri coll'Aleardi, zirla adesso col Fontana, parla collo Stecchetti, sorride col Panzacchi, stuona col Rapisardi, abbaia col Cavallotti, novella col Giacosa, si libra col Zanella, esulta ancora col Prati, crea col Carducci. Questi risuscita miracolosamente gli antichi metri latini, e vince nella prosodia una battaglia combattuta infelicemente da altri ingegni in altri secoli, ma il pubblico applaude senza gustare: Rapisardi, invidioso della risurrezione, profana il sepolcro dell'epopea, e ne trascina sulla piazza il cadavere purulento. Quando alla vita scema lo splendore manca il rispetto alla morte: i forti sono prudenti, i deboli sfacciati. E tra il Carducci e il Rapisardi, un poeta ed un ingegno, Renato Fucini è ancora l'uno e l'altro, sebbene il Porta gli sia ancora troppo al disopra e il Belli ancora molto innanzi. Ma primo fra i nostri lirici viventi, il Carducci pretende di essere l'ultimo nella storia e nella nostra lirica, poichè essa muoia: e già la musica, questa lirica della lirica, agonizza. Verdi, il superstite dell'immortale quadriglia, ricorregge colla mano tremula le opere della giovinezza, come un vecchio capitano ama di riforbire egli stesso la spada, che non può più cingere: il Boito ha impiegato dieci anni a scrivere il Mefistofele e riposa sugli allori guadagnati contro il Gounod: il Gobatti, giovane e fortunato condottiero dei Goti, ha d'uopo ancora di nuove battaglie e di nuovi trionfi. La musica classica è quasi obliata malgrado il valore dei suoi tre ultimi campioni, lo Sgambati, il Bazzini, il Rinaldi; nella piccola musica si adora il Tosti, e si misconosce il Gordigiani, si chiedono romanze da salone, le quali girino sulle casse dei pianoforti come tanti scarabei luminosi, invece di libellule, che balzino nei raggi del sole e vi scintillino. Così il canarino vince l'usignolo, e il profumo dei fazzoletti copre l'olezzo dei fiori.

Ed ecco l'arte dell'Italia fatta alla sbarra del mondo e della storia.

Certo la grande questione pregiudiziale della lingua ha efficacemente contribuito alla attuale miseria, epperò sorvolandola, penso collo Zola, che la nuova lingua dovrà uscire dalla officina del giornale, se nella scuola la tradizione contende il passo alla vita. Naturalmente occorrerà un lungo processo, ma diggià sull'incudine dell'articolo quotidiano qualche lamina viene superbamente battuta. La necessità di trovare un nome per ogni nuovo oggetto ed una formula per ogni nuova idea, egualmente compresa da tutti con uguale prontezza, ma specialmente uno stile agile e nervoso, elegante nella semplicità della eleganza moderna, colla fluidezza di un discorso e la correzione di un testo, predomina il giornale. Fiume e cloaca, che raccoglie ogni rivo e ogni scolo, come l'orchestra sognata da Berlioz, ha tutti gli strumenti e tutte le voci; effimero ed immortale come la vita, ne ha la stessa unità multiforme; è la forza più grande del nostro secolo, e ne sarà la gloria. Il giornale è essenzialmente moderno. La lingua, che in fondo non è se non un dialetto epurato, vi è in continua fusione; le parole vi si rompono e vi si formano fra un rombo assordante, un lavoro minuscolo ed assiduo, al quale cooperano migliaia di operai senza nome, mentre pochi direttori si aggirano fra di loro, sorvegliando con orgoglio di padroni. Molti articoli, che oggi si leggono già negligentemente, avrebbero fatto strabiliare inserti nelle pagine di un libro di trent'anni fa. Nullameno pochi sono ancora coloro, ai quali si possa riconoscere il merito vero di stilisti, sebbene, come osserva giustamente il Martini, il miglioramento nello scrivere comune italiano cominci ad essere sensibile. Tra i primi il Martini stesso, il De Zerbi, il Panzacchi, diversi di opinione e di indole; il primo forse ancora troppo toscano, il secondo ancora scorretto, il terzo italiano veramente, più fino di gusto e più forte di studi. Ingegno alato si posò dappertutto per involarsi appena posatosi; nato oratore come pochi, poeta che potrebbe tradurre nel verso più di una musica gentile, mentre tutti gli storpiano in musica le sue delicate romanze; critico, pel quale nessuna musica ha molti misteri, quella dei colori e delle note, della poesia e della prosa. Egli è celebre ed avrebbe potuto essere glorioso, se la pagana serenità del suo spirito, e l'ateniese indolenza del suo temperamento fosse stata guasta da un solo vizio: la vanità. Intorno ad essi altri molti vanno sorgendo, ma parlando di stilisti non posso citare nè il Ferrigni, nè il Petruccelli della Gattina. Il primo, costretto ad una moltiplicazione miracolosa di articoli, si sorregge collo spirito, come gli operai estenuati si rinforzano coi liquori; il secondo discende ancora nel giornale, come in un campo chiuso, a commettervi qualche prodezza colla vanteria di un vecchio giostratore. Pensatore senza sistema, dialettico senza metodo, artista senza forma, egli ha reso quasi cosmopolita il proprio ingegno: conosce tutte le lingue, meno l'italiana, ha difeso tutte le idee ed abbandonate tutte le opinioni. Ma la sua fibra, che nè gli anni, nè le apoplessie poterono fiaccare, è ancora della vecchia razza, che ha fatto l'Italia. Quando Petruccelli della Gattina sarà morto, nessuno si accorgerà della sua perdita, nullameno di tutti i giovani, oggi illustri, che piglieranno il suo posto senza dirlo, nessuno vi porterà la stessa ricchezza di cognizioni ed altrettanta forza d'ingegno.

E scioccamente i giovani letterati si lagnano ora della loro fortuna nel popolo, giacchè la sorte non fu mai più lieta ai novizi. Quelli che battono il teatro si dolgono perchè la società non abbia ben contornata la propria fisonomia come in Francia, dove il salone uniforma costumi e linguaggio, quasichè la società dovesse esistere per l'arte, e non questa per quella; mentre nella stessa Francia i grandi scrittori, da Balzac a George Sand, da Zola a Flaubert, cercarono i loro modelli fuori dell'ambiente falso del salone, falsato ancora peggio dal Dumas e dal Feuillet. Tutti gli altri del romanzo e del melodramma, del canzoniere e della tragedia guaiscono sulla indifferenza crudele del pubblico, mentre questi, che teme istintivamente la miseria della nostra arte, ne ricusa la coscienza, ed è pronto ad acclamare delirando ogni più vaga apparenza di grandezza. Applaude ancora al Ferrari: per dieci anni ha messo Cossa sugli altari, ed oggi paga una sottoscrizione per erigergli un monumento; si sollevò come un sol uomo alla marcia trionfale dei Goti, ha imparato a mente tutte le canzoni dello Stecchetti, batte perfino le mani ai greci di Cavallotti. Giammai vi fu epoca nella quale la celebrità fosse più pronta, e la gloria più facile. Tutti i grandi sono morti, tutti i seggi sono vuoti. Lo Stecchetti oggi è a fianco del Carducci, come il Leopardi trenta anni or sono era a fianco del Manzoni. Che se malgrado queste eccellenti disposizioni, cui la storia dovrà un giorno trovare piuttosto ridicole, nessun nuovo nome sorge dalla folla, si è che nessuno arriva nemmeno ad essere la larva di uno scrittore; e quando non si tocca la vita è più spregevole che pietoso il lagnarsi della immortalità. Muoia domani il Carducci, e dovremo per decoro di patria augurarci che le Alpi, le quali non poterono mai trattenere gl'invasori, trattengano la nostra letteratura dal commercio europeo. Che avrebbero dunque esclamato questi pigmei, i quali implorano istantemente il pubblico di farli grandi, poichè la natura non volle, se invece di capitare oggi, che il minimo della statura nella leva è diventato il massimo della statura nell'arte, fossero nati ottanta anni or sono fra i colossi, che hanno fatto l'Italia, ed ella avesse detto loro, come disse a Rossini, a Leopardi, a Manzoni: siate la mia gloria in Europa, poichè io debbo con questa ricomprarmi la libertà; mentre la Francia aveva Balzac e Hugo, la Germania Gian Paolo Richter ed Heine, l'Inghilterra Dikens e Thakeray, la Polonia Mickiewitz, la Russia Gogol e Puskin, l'America Pöe e Longfellow?

Se domani avremo una guerra, Cavallotti potrà essere il Petöfi, come lo è stato il Berchet? Non sanno dunque costoro, che dopo la Grecia l'Italia è artisticamente la più grande nazione, che l'Europa è il continente più piccolo per la geografia, ma il più grande per la storia, che l'America passa già dall'industria all'arte attraverso la scienza, e che per rappresentare il pensiero di un popolo anche in un solo e nel più piccolo dei momenti, bisogna essere ben grande, e quando non si ha questo onore doloroso non bisogna commettere la sciocchezza di augurarselo, o peggio la viltà di mentirlo? Quando Castelar combattendo la elezione di Amedeo di Savoia a re di Spagna opponeva la storia spagnuola alla nostra, conchiudendo ad ogni periodo del discorso col pesante ritornello: siete piccoli! aveva torto; ma noi eredi di una rivoluzione, che non avremmo mai saputo compiere, possiamo e dobbiamo ripetercelo amaramente sul volto, perchè la prima speranza di un risorgimento sta nella coscienza della propria prostrazione.

E ora che la natura ti ha ripreso dalla società, e il vento della steppa t'invola ad uno ad uno i ricordi d'Italia, t'immagini tu come sia la nostra coscienza nazionale? Mentre Garibaldi è ancor vivo crederai che in noi sia spento il senso epico della nostra rivoluzione? Nullameno, sventura od infamia, è vero. Quando Vittorio Emanuele morì all'improvviso, parve che il cuore della nazione desse un balzo, e da tutte le labbra rompesse un tremendo singulto: egli era l'Agamennone della nostra Iliade, il simbolo più sintetico della nostra idea. L'individuo non montava, e fosse stato pur pazzo, nullo come suo nonno, o inferiore come suo padre, poichè con lui si era trionfato e in lui s'incontravano la tradizione romana e l'italiana, il concetto dei pensatori e la visione dei poeti: poichè aveva riassunto tutte le forze, quella di Garibaldi e di Cavour, di Mazzini e di Cattaneo: poichè aveva fuso il regno di Piemonte con quello di Napoli, la repubblica di Genova con quella di Venezia, il ducato di Milano con quello di Firenze; poichè aveva riaperto Roma, chiusa dai papi al mondo civile; poichè infine tutto quello che si era voluto, e che si era fatto, aveva dovuto passare attraverso lui, come per un perno, che intrecciando i fili, torce la corda; tutti coloro, che la miseria di partito non abbassava sotto il livello del cittadino, dovevano convenire in questo simbolo, che uscendo dalla vita per entrare nella storia, prendeva la consacrazione della irrevocabilità. Cattolici e repubblicani, conservatori e socialisti, l'unità italiana doveva imporsi a tutti ed essere accettata da tutti come un campo, dal quale si erano scacciati i barbari e che restava libero ed aperto ad ogni coltura. E parve che fosse così. Quindi una voce, alla quale tutti risposero, invocò un monumento, che fosse testimone eterno di un'ora già passata, ma che resterà una stazione nel viaggio della civiltà. Si apersero sottoscrizioni, e tutti sottoscrissero, poveri e ricchi, vecchi e fanciulli. La mente raggiava, il cuore batteva. Ma quando il monumento dovè uscire dal sentimento per concretarsi nell'idea e tradursi nella forma, nessuno più si comprese. Le opinioni irruppero, i disegni fioccarono, le commissioni moltiplicarono i pareri e i dissensi. Nullameno vi era una idea vecchia di migliaia di anni, destinata a viverne altre migliaia, che era tutto il nostro passato, in nome della quale eravamo risorti, perchè con essa eravamo vissuti, perchè per essa il mondo aveva vissuto con noi. E questa idea era il Campidoglio. Come ora fosse sconciato non caleva; il Campidoglio era pur sempre il Campidoglio, il vertice più alto della civiltà antica, il primo centro della unità mondiale, che l'idea cristiana non osò occupare, e fece bene, poichè essa era un'idea religiosa, e il Campidoglio è un'idea civile. Roma era stata saccheggiata molte volte, distrutto il suo impero, ma nessuno di quei barbari trionfatori aveva osato fermarsi sul Campidoglio e diventarvi una statua. Se Giulio Cesare, al quale l'Italia deve ancora un monumento, che le consacrerebbe il primato fra le nazioni, l'avesse occupato, nessuno avrebbe potuto porsi al suo fianco: ma l'imperatore Marco Aurelio vi è appena una decorazione, incomparabile artisticamente, e senza storico valore. Perchè dunque tutti non hanno gridato: in Campidoglio, in Campidoglio!? Perchè quest'idea non venne ancora in mente ad alcuno? Perchè non si è sentita la necessità di riannodare la nostra storia all'antica, mantenendo la grande tradizione romana, che pure è la sorgente di tutta la vita moderna? Perchè rompere la serie dei periodi nella eterna idea dello stato, abbandonando il Campidoglio, che la repubblica di America ha dovuto copiare per ingrandire con questo simbolo il proprio fatto? Perchè lo stato moderno non risale il Campidoglio per provare alla chiesa la propria indipendenza, e al mondo la eternità del loro dualismo parallelo e fatale? Rienzi, che sognò forse primo la nuova Italia, morì sui gradi della scalea capitolina; perchè Vittorio Emanuele, che ha riparato la sconfitta di quel vinto sublime, non la monta, e mettendosi sul piedestallo di Marco Aurelio, calmo altrettanto, non mostra al mondo che tutte le epoche storiche si verificano solamente in Campidoglio, e che la libertà moderna per essere immortale deve prendere il posto dell'antica?

Forse metteranno Vittorio Emanuele in una piazza recente di Roma; così il rappresentante di tutta la nostra epopea sarà trattato come i rappresentanti delle sue fasi, poichè Cavour, Mazzini e Garibaldi dovranno egualmente occupare una piazza romana, ed allora col sentimento epico della rivoluzione avremo perduto la coscienza della nostra storia. E poichè ad ogni errore di testa, ne segue fatalmente un altro di cuore, e quando la testa si annebbia, il cuore marcisce, si sono invitati perfino gli stranieri al concorso per questo monumento, che costerà nove milioni, come se si trattasse di una grand'opera decorativa e non di un simbolo, che l'unità monarchica del fatto costringe nell'unità individuale del re; mentre avvenuto colla unità repubblicana, il simbolo avrebbe avuto una unità allegorica; come se a questo monumento, che noi facciamo a noi stessi, perfino i manovali e la sabbia non dovessero essere italiani.

Ed ecco, mio nobile esule, come la letteratura è prostrata in Italia, perchè, figli di ribelli conquistatori, noi abbiamo questa ciera da domestici, accattiamo originali da copiare nei libri e nelle leggi, e antesignani nelle scienze e nella filosofia, nell'arte e nell'industria, anche quando eravamo servi dello straniero, oggi liberi ed italiani non abbiamo nè l'orgoglio del passato, nè la dignità del presente. Forse non si è osservato abbastanza come i figli dei grandi uomini siano quasi sempre al disotto della media, in contraddizione con tutte le leggi biologiche: ma forse questo fenomeno, che dipende dall'enorme consumo di forze, onde si distinguono le grandi vite, si verifica egualmente nei popoli. Dopo la rivoluzione dell'ottantanove e l'impero napoleonico, due immense combustioni di pensiero, la Francia fu esausta e cadde sotto la restaurazione, un governo anche più piccolo nelle idee, che nei fatti; ma la decadenza fu effimera, e i bambini nati a quell'epoca, composero quella splendida fioritura d'ingegni, che va oggi morendo. La vita è immortale, e le giornate del tempo sono senza numero: però ogni giornata è chiusa fra due crepuscoli, e il nostro meriggio durò dal quarantotto al cinquantanove. Forse i grandi scrittori, che dovranno mantenere la nostra gloriosa tradizione sono già nati e tempestano nelle scuole elementari: fors'anche qualcuno dell'avanguardia a quest'ora si dibatte nei primi dolori del genio e dubita di se stesso, come tutti i forti. Coraggio, incognito infelice! Al pari di te noi tutti provammo le angoscie del dubbio e le ebbrezze della fede, delirammo di orgoglio e di umiltà, nel nostro secreto ci credemmo gli ultimi ed i primi. Come tu fra poco, avventammo il nostro libro primo nato, quasi uno squillo di fanfara in un mattino di battaglia; ma noi ci battevamo sotto l'eccelso monumento eretto dai nostri padri e la sua ombra agghiacciò il nostro entusiasmo. Ci sentimmo piccoli e deboli. Come gli egiziani moderni, che guardando le piramidi millenarie non hanno più nemmeno il coraggio di alzare una casipola, e spiegano lungo le vie le stuoie per dormirvi, noi scrivemmo articoli e bozzetti, romanze e canzoni, radunammo parecchi materiali e finimmo per servirci sopra. Invano gli stranieri ci derisero, invano i superstiti di quell'epoca gloriosa ci incuorarono: colle forze ci venne meno la fede, ed allora ridemmo, perchè il sorriso della incredulità cela spesso il sogghigno della impotenza. Chiunque tu sia, che applaudiranno domani, tu sarai fatale a noi tutti, giacchè i nostri abbozzi spariranno nelle tue opere, e i nostri nomi si perderanno dentro il fracasso del tuo. Larve del diluculo noi spariremo all'alba; manovali innominati, che ammassammo la sabbia ed i mattoni, moriremo appena arrivi l'architetto del nuovo monumento. Questo è il destino di tutti i deboli, che la natura dispone a gradini nella sua scalea, sulla cima della quale non arrivano che i forti; embrioni compassionevoli, noi vivremo nella vita del genio, che realizzerà la nostra forma, come tutti i malati e gli incompleti vivono della vita che i robusti fanno alla umanità.

Non ridere, incognito superbo, del nostro sogno, che tu dovrai attuare; il nostro dolore è comico, il tuo sarà tragico, ma pur sempre dolore.

Allorchè un contadino montato sopra uno dei tuoi puledri russi, che qui vincono tutte le nostre corse, ti recherà dalla città più vicina questo mio nuovo libro, parmi d'intendere fin d'ora il tuo malinconico ed amichevole: ancora! e ancora un errore, giacchè non è nemmeno un vero quartetto! Ma non ti dolga troppo dei tuoi saggi consigli, poichè l'effetto oramai ne è maturo. Entrato, tu sai perchè, in questa guerra letteraria, promisi sempre a me stesso di non morirvi: concepii un disegno, e lo attuai. Vinto ad ogni battaglia ed insultato come tutti i vinti, non scesi mai, nè scenderò alla scempiaggine della replica, alla bassezza del lamento: i vinti hanno torto. Altri sarà più fortunato, perchè più forte: pochi più sinceri ed intrepidi. Poichè ogni pompa dell'arte mi era contesa per la miseria dell'ingegno, ebbi l'orgoglio della nudità del mio pensiero; dissi tutto, forse dissi male, però dissi. Nella società due sole persone possono essere senza riguardi, il lazzarone ed il principe, ed essendo liberi, sono forse i meno sfortunati: lazzarone del pensiero, io volli essere pari al principe nella libertà, e se le mie parole dovevano andare perdute, non compresi perchè avessero ad essere menzognere.

Questo libro è il principio della fine.

Domani comincerò il, e sarà l'ultimo della serie concepita dieci anni fa. Tu ne conosci le idee, e ne indovini meco la sorte. Sarà la suprema battaglia perduta, dopo la quale, anche essendo buon patriota, mi sarà permessa la ritirata; la coscrizione non dura adesso che tre anni, io ne avrò passati dieci sotto le armi. Un proverbio dice che una bella ragazza non può dare più di quello che abbia, e gli scrittori buoni o cattivi non sono in migliori condizioni; laonde raggiungerò forse la tua vita di coltivatore, lasciando ad altri lo sfracellarsi inutilmente il cranio contro le porte bronzee della gloria, o l'aprirle validamente coll'appoggiarvi solo un dito.

I deboli tentando la prova sono eroici, ostinandovisi diventano ridicoli. Forse, anzi senza forse, la prova è già fallita, ma la costanza non è composta altrimenti della caparbietà, e non è facile nè a chi le ha, nè a chi le giudica, il distinguerle nettamente.

A rivederci dunque.

Quando il tuo cavallo russo ti sprofonderà galoppando dentro la steppa, e il tuo occhio si riposerà nell'infinito della pianura, e il verde della terra e l'azzurro del cielo si fonderanno in una sola sensazione entro il tuo cuore, in una sola idea entro il tuo cervello, ricordati, se puoi, l'amico lontano, del quale la fantasia prediletta è sempre stata di partire dal mondo sopra un cavallo nero, stellato sulla fronte. È una fantasia senza significato, ma che mi appare sempre al pensiero, nella stanchezza di una meditazione, o nella noia di una distrazione. Mi sembra di vedermi innanzi il cavallo sellato, e di avere agli occhi il deserto. Il cavallo è alto e leggiero, la criniera gli tocca i ginocchi, la coda gli batte i garretti: è senza testiera, la sella è piccola, il deserto è sconfinato. In sella adunque e al galoppo:

Allons, capitaine, appareillons pour l'infini

come urlava il marinaio di Baudelaire alla morte.

In sella ed al galoppo, ecco adesso la tua vita: a rivederci dunque, nobile esule, a rivederci forse nella steppa, nel silenzio della natura, nel deserto del mondo, nella solitudine dell'infinito.

Ottone di Banzole.

VIOLINO

Annottava.

Egli andò lentamente verso la scranna, sulla quale aveva posato il violino; lo prese, ne saggiò l'accordatura, ed avvicinandosi un altro passo alla finestra, senza rivolgere il capo, incominciò a suonare così:

Poichè siamo soli in questo gabinetto, mettetevi là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. Fra poco sarà notte: adesso il cielo è opaco come un mare e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto su quest'ora del vespro, quando tutto sta per sparire, e nulla è ancora scomparso? Vi è mai sembrato di perdere in quest'ora la coscienza del mondo, e di sentirvici come un pellegrino, il quale cammina alla ventura, distratto dalla curiosità del viaggio, ma rattristato dal mistero del proprio pellegrinaggio? Guardatevi attorno. Tutto questo bel gabinetto, di cui ogni mobile è come un capitolo di romanzo o un canto di poema, nel quale avete accumulato tutti i comodi della vostra eleganza ed i capricci della vostra fantasia, non lo si vede quasi più; i colori della tappezzeria sono periti, le forme dei mobili si sono dileguate. I quadretti, che rivestivano addirittura le pareti, hanno perduto i personaggi delle loro scene, e le statuette di Sassonia se ne sono andate lasciando sulle scarabattole un mucchio biancastro di ghiaia. Un'ombra di sotterraneo è sorta a poco a poco dagli angoli, come dai canti più inesplorati del vostro cuore si sono forse sollevati dei ricordi, e ha occupato tutto l'ambiente: la grande specchiera si è spenta, l'orologio non batte più. Perchè non l'avete caricato, signora? È da un pezzo? A qual minuto della vostra vita si è arrestato? Ve lo ricordate nemmeno? È stato al minuto, che Mefistofele aveva promesso a Faust, e al quale Faust non credeva? e voi, signora, più fortunata di Faust, e più bella di Margherita, ci avete creduto? Quando il cuore, che è l'orologio della nostra vita, si ferma, perchè l'orologio del tempo seguiterebbe? Io non lo so se il tempo sia una forma vacua o una realtà, nella quale si muova la nostra vita; non so se, come fu detto anticamente, sia la misura del moto; ma se lo fosse, perchè non si arresterebbe, quando la nostra vita si arresta sul vertice di un minuto, dal quale abbraccia tutto il proprio paesaggio? Amore e ragione hanno di questi minuti, sui quali arriviamo qualche volta, e dai quali discendiamo come dalla cima di uno scoglio nell'oceano, mentre i mostri marini ci seguono colla gola spalancata e le rondini tessono sul nostro capo cogli ultimi raggi del sole il velo ondeggiante del loro volo. Cantare coll'usignolo o volare colla rondine, ecco un destino. Quando il sole è partito per un altro mondo e la luna galleggiando per il cielo, come un avanzo di naufragio sulle onde, dà una fisonomia di ammalato al paesaggio, allora l'usignolo canta invisibile nel fogliame. Egli è solo. Nel giorno tutti ciarlano e si muovono. Egli ha aspettato il silenzio di tutti per il proprio monologo, al quale non chiede e non spera risposte. Il suo canto vario ed inesauribile ha l'accento di tutte le passioni e l'eco di tutti gli accenti. Fra gli accordi più pigri di una fantasticheria, a volta a volta getta una invocazione così ardente ed acuta, che traversa il silenzio della notte, come in fondo all'orizzonte un lampo di calura solca la tenebra dell'infinito. Egli si ascolta e si risponde: può darsi che ami, ma siate sicura, non ama che l'amore. Non è vero che richiami la propria compagna e la inviti alle nozze notturne sotto i raggi della luna e le esalazioni dei fiori. La sua è una poesia più vasta e più alta, il suo canto un romancero, dove gl'inni svolazzano fra le elegie, e lo strambotto interrompe spesso la modulazione cadenzata di una saffica. Come un poeta seduto sulle macerie di una morta città egli canta nel silenzio e nel deserto: attinge in se stesso l'ispirazione, trova nel proprio cuore le ragioni di essere mesto od allegro, e mentre la vita gli passa innanzi coi suoi mille problemi e le sue mille contraddizioni, egli le coglie a volo, e le libera nuovamente in un trillo o in una corona. Solo come tutti i grandi spiriti, non gli basta la solitudine e cerca il secreto; si nasconde nell'albero più foglioso, nella macchia più bruna, canta tutta la notte, e all'alba, quando tutti si ridestano, cerca un fitto anche più cupo e si nasconde. L'arte è così. Che cosa farebbero nel mondo dei lavoratori la poesia e la musica? Avete mai osservata la luna a giorno alto? Invece di un astro pare un cencio, un avanzo di quegli aquiloni di carta, che i fanciulli lasciano di marzo salire nel cielo. Ma anche il giorno ha il suo poeta, piccolo e a bruno come tutti i poeti del nostro secolo. Perchè mai nel nostro secolo la poesia è così triste mentre la vita è così florida? Forse l'usignolo ha ragione, o signora; la poesia ha bisogno della notte, come la musica del silenzio. Guardate il poeta del giorno come sta in alto. Ve l'ho detto; è vestito a bruno e non canta; appena appena incontrandosi con qualcuno scambia un saluto sommesso, come gli avvisi dei barcaiuoli pei canali di Venezia. Ma invece di cantare vola sempre. Le sue ali sono come due remi, la sua coda come la barba di Mefistofele. Non scende a terra, perchè se vi scendesse, non potrebbe più alzarsene: ha le ali troppo lunghe. Vi sono molti, signora, che non possono stare per terra, vi cresca la polvere od il fango, e una volta precipitativi, debbono morirvi di fame guardando in alto. La rondine vola. Essa è libera; il falco non è abbastanza agile per raggiungerla, il cacciatore quasi sempre troppo superbo per tirarle contro. E la rondine vola dalla mattina alla sera, quando l'aria è ancora umida dalla rugiada della notte, quando bolle nel meriggio, quando ondula al vento del vespro: vola sempre, s'innalza a picco, si abbandona strisciando, si libra e volteggia, si arresta e si disserra, destreggia e precipita, si piega sopra un'ala come una gondola, sopra un fianco, parte per lungo viaggio e ritorna, leggiera ed instancabile, muta e bruna, a stormo e sempre sola. Ed è sempre allegra. Come l'usignolo è inesauribile nel canto, essa è infaticabile nel volo: l'usignolo canta perchè è il poeta della notte e del pensiero, essa vola perchè è il poeta del giorno e dell'azione. Solo il vespero è senza poeta. L'allodola, che trilla così lieta al mattino, si è già riparata nel nido, la cicala ha mandato il suo ultimo saluto al sole, e i grilli attendono forse le lucciole nascoste nel grano. È l'ora dell'agonia, sentite la campana che l'annuncia. La sua voce lenta e solenne si perde nell'ombra come la vita, ma i suoi rintocchi sono contati come gli ultimi minuti del morente. Fra poco cesserà, l'aria sarà più fosca, e i morenti saranno morti. Avete mai pensato che questa stessa campana annunzierà forse la nostra morte? Voi siete bella, siete bionda, siete fresca: i vostri occhi scintillano come un lago, il vostro cuore olezza come un giardino: non vi ricordate di quando eravate bambina, non vi rammentate più che un giorno non sarete più donna? Eppure, signora, non vi è meriggio senza ombra, per quanto intenso ed abbagliante: sul mare si disegna l'ombra delle navi che viaggiano; sul deserto si stampa l'ombra degli uccelli che migrano. Ma voi siete troppo felice nella vostra bellezza, e la felicità è gemella dell'obblio. Quanti uomini di quelli, che passandovi innanzi, si sono inginocchiati ai vostri piedi come ad una immagine miracolosa, vi ricordate, signora? Molti forse vi hanno amato, e coloro, che parlavano meno, vi amavano di più. Viandanti stracchi o scoraggiati si accompagnarono con voi per qualche miglia; non so se tutti erano belli, ma tutti avrebbero voluto esserlo per accompagnarvi sempre. La loro anima era forse carica di speranze morte, il loro cuore un nido di desiderii neonati: viaggiatori giovani o vecchi, col raggio dell'alba o coll'ombra del vespero sulla fronte, guardavano verso di voi come al sole, che è la guida di tutti i pellegrini, l'astro di tutti i viventi, il focolare di tutti gli assiderati. Lungo la via senza meta e che bisogna pure percorrere, il solo piacere è di fermarsi sopra una pietra miliare all'ombra di un albero e barattare con un compagno i discorsi lenti e malinconici del viaggio. Poi si prosegue per la strada polverosa, nella quale il vento cancella le orme, e i passeggeri non cessano mai. Dove vada tutta questa gente, nessuno lo sa, ma tutti fanno la medesima strada per cadere ad un'ora misteriosa in uno dei suoi fossi, e restarvi. Forse molti di coloro, che vi offersero il braccio, vi sono già caduti, e voi non ricordate nemmeno il loro nome: molti proseguiranno in gruppo per dimenticare nel chiasso di una conversazione la faticosa necessità del cammino, o avranno a braccio un'altra donna e le ripeteranno le stesse parole, che vi dissero un giorno. Il vento della sera si è alzato e susurra fra gli alberi del giardino. Sentite come i grilli canticchiano e i gelsomini odorano. Il gelsomino è il fiore della notte; nel giorno o è chiuso o avvizzito, o morto o non nato: aspetta l'ombra per schiudersi, il fresco per olezzare. Allora tutti i suoi bottoni sbocciano e come l'usignolo apre il concerto dei propri odori. Gl'insetti randagi del giorno dormono nell'erba, gli uomini sono ricoverati nelle case. È per la delicatezza del suo odore, o per la singolarità di non odorare se non la notte, che ne avete fatto il vostro fiore prediletto?

Certo la donna non è mai più bella che nella notte, perchè l'amore cerca le tenebre ed il riposo, l'olezzo e la voluttà. Una volta ho veduto un gelsomino sul vostro tavolo da notte e non me lo sono più dimenticato. Una folla di rapporti fantastici fra il suo colore ed il vostro, fra il vostro alito ed il suo, mi occupò istantaneamente lo spirito; poi vi chinaste a respirare il suo profumo, e mi parve che gli diceste qualche cosa. Era una confidenza? Non lo so, e nullameno la compresi. Il linguaggio non ha centomila espressioni, delle quali la migliore non è certo la parola? Tutto non parla nel mondo? L'universo non è come un discorso, nel quale ogni individuo rappresenta una sillaba? La solidarietà misteriosa, che unisce tutti i viventi, non lega forse le loro voci, e non sarebbe strano, che mentre tutti si scaldano al medesimo sole e respirano la medesima aria, non parlassero un medesimo linguaggio, e non componessero un coro? Se invece di restare in questo gabinetto discendessimo in giardino, come voi udite senza avvertirla la voce del grillo, egli udrebbe senza badarvi la mia, ascoltando la voce di qualche sua compagna. Fra la moltitudine degli effluvii e dei discorsi ciascuno sceglie quello che gli si indirizza, e vi risponde; ma la sinfonia, che risulterà inevitabilmente dall'accordo di tutte le voci e dalla innumerevole partitura di tutti gli strumenti noi non possiamo sentirla più del moscerino, che ronza, o del bue, che mugge. Se vi fosse una montagna, dalla cima della quale abbracciare tutto il paesaggio della terra ed intenderne il concerto infinito, v'inviterei meco a salirla, e fosse pure alta o scoscesa, vi terrei sempre per mano ripetendovi: salite! Quando l'aria diventasse troppo rada, per impedirvi di accorgervene, vi direi: guardate come la luce è pura! Se l'altezza vi desse le vertigini, vi mostrerei la cima, ripetendovi: salite! Se il freddo vi gelasse la fronte, allora forse, solamente allora oserei dirvi: non sentite, signora, come la mia mano brucia nella vostra! E saliremmo: l'aquila vi vedrebbe senza paura passare rasente il proprio nido, perchè voi, signora, avete la più dolce fisonomia di questo mondo: dalla vetta di un pinacolo il camoscio ci indicherebbe con un fischio il sentiero più sicuro e più breve; la rosa delle alpi, questo mistico fiore, che vive di neve e di sole, di bianco e di azzurro, tremerebbe di confusione vedendovi, perchè voi siete più bianca della sua neve, perchè i vostri occhi sono più azzurri del suo cielo, perchè i vostri capelli sono più biondi del suo sole. E saliremmo sempre: gli abeti bruni come la folla degli uomini ed egualmente clamorosi stormirebbero al basso; i ghiacciai arderebbero in alto con un incendio di colori e di scintille, di raggi e di baleni. Non vi pare che sarebbe una bella ascensione? Talora guadagnando un monte si guadagna un cuore. Invano la montagna sarebbe levigata come uno specchio o irta come una lima: le nostre mani avrebbero una presa più fina di quella di una mosca, e più forte di quella di un artiglio: io vi farei arco delle spalle e vi ripeterei sempre: avanti, excelsior! Se ci siamo alzati più in su dell'aquila, saliamo ancora, perchè i raggi della luna si posano dove non arrivano i piedi dell'aquila, e i raggi discendono invece di salire: il sole passa al disopra della luna, le stelle migrano al disopra del sole, il pensiero vola al disopra delle stelle, Dio sta al disopra del pensiero. Ormai tocchiamo la vetta; salite meco e fidatevi, perchè ho giurato di riaccompagnarvi nel mondo quale ne siete uscita, e la mia parola è sicura come voi siete bella.

Poi arrivati sulla vetta mi sederei ai vostri piedi e guardandovi negli occhi vi direi: eccoci giunti, o signora; chinate pure lo sguardo ed ascoltate la musica, che si innalza fino a noi coi vapori attratti dal sole. I vapori ricadranno in pioggia, ma la musica svanirà lentamente nel silenzio dell'azzurro. Benchè soli come Satana e Cristo, non temiate che vi tenti. Il mondo non parve bello al Nazareno, poichè il mondo non è bello se non da vicino come tutte le piccolezze: da questa cima i suoi imperi fanno appena una macchia di paesaggio e le sue più enormi città un mucchio di ghiaia. Siamo soli, signora, ma talmente in alto che non ci resta più che l'orgoglio dei nostri cuori, e la serenità dei nostri pensieri. Non vi sentite più grande così? Ma se credendo alla mia parola e accettando la mia mano acconsentiste a seguirmi su questa cima così perigliosa ed eterea: se almeno questa volta desideraste ciò che desiderai, voleste ciò che volli, faceste ciò che feci, qui nell'azzurro, che le nubi non hanno mai contaminato, dove l'aria non svia più i raggi del sole, e nessuno ci ascolta, perchè gli uomini sono troppo in basso e le stelle troppo in alto; questo secreto che porto da lunghi anni come una luce nella mente, come un tesoro nel cuore, come una catena alle mani, sul quale avete tante volte soffiato e non si è spento, nel quale cacciaste tante volte le dita gettandone all'aria le perle e non è scemato, sotto la quale i miei polsi hanno tante volte sanguinato strappando, e non l'hanno rotta... ve lo dirò, qui, solo, senza lagrime, senza parole, con uno strido acuto, supremo:

Ah!

Il cantino si è rotto, signora, ma un violino come una barca non si arresta per la rottura di una corda. Poichè siamo soli in questo gabinetto mettetevi là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. Oramai è notte: il cielo è opaco come un mare e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto a questi due infiniti, che rinchiudono l'orizzonte creandolo? Eppure l'orizzonte è la cornice di ogni quadro. Nella indefinibile unità del suo colore trema una confusione di tinte indefinibili. Da lui il zaffiro ha preso il turchino, lo smeraldo il verde, l'ametista il violetto, il topazio il biondo, il rubino il lampo sanguigno, la perla il pallore, l'opale le iridi; voi, signora, lo splendore e la mobilità, la leggerezza e le nuvole. — Fatti un abito di taffetà, poichè la tua anima è cangievole come i suoi colori — disse una volta Shakespeare ad una donna, ed ella forse gli rispose con un sorriso più ricco di espressioni, che non di tinte il taffetà. Riso e sorriso, ecco la vita, signora. Se il sole fosse così bello, perchè gli uomini avrebbero inventato gli ombrelli, e Dio ne avrebbe loro suggerita l'idea colle nuvole? Se il cielo ci fosse destinato, perchè gli avrebbero negato l'aria, rendendolo sordo? Se il genio non fosse una colpa, perchè sarebbe costantemente infelice, e se l'amore non fosse una brutalità, come tutti gli animali vi si accorderebbero? La poesia è una noiosa menzogna, e la prova ne sta in questo, che le signore vi si annoiano. Invano si è voluto spiegarlo col paragone del flauto, il quale della musica, che gli fanno suonare, non sente se non la incomoda ripienezza del soffio, giacchè nella poesia dell'amore, chi dei due sia l'istrumento, se l'uomo o la donna, si debba ancora sapere. E poi gli strumenti non si giudicano sempre con facilità. L'asino non è mai passato per un eroe, e nullameno colla sua pelle si coprono i tamburi, e coi tamburi si indicono le battaglie. Le pecore, che belano così poco, benchè il belato sia uno dei linguaggi più facili, prestano le loro viscere ai violini, che se ne fanno le corde. E quando un grande suonatore vi suonerà un pezzo di Beethoven, o io stesso col singhiozzo nell'anima vi parlerò col mio violino per dirvi così tutto quello, che non oso; e voi forse cesserete per un istante di sorridere — le mie lagrime saranno forse sincere, ma i miei lamenti saranno di un altro povero morto: voi non potrete ancora comprendermi, ed io sarò un pazzo, perchè bisogna essere pazzo per sperare che una budella esprima ciò cui non basta una lingua, e una corda possa altrimenti giovare che ad impiccarsi. Se i Romani avessero conosciuto il violino, forse vi avrebbero fatto le corde con budella di schiava; e chissà se non fossero stati migliori dei nostri, e la storia dell'arte non vantasse uno Stradivarius di più. Come le lettere avevano gli schiavi per i dizionari, la musica avrebbe avuto gli schiavi per gl'istrumenti; la scienza, compiacente come sempre a tutte la tirannie, avrebbe forse trovato nelle fanciulle circasse la fibra migliore per i cantini; e voi, signora, ascoltandoli avreste sorriso come adesso col vostro bel sorriso di corallo, perchè il corallo è colore di sangue. Riso e sorriso, ecco la vita. Il sole fa sorridere le labbra delle nuvole, che avventano la folgore, come le goccie di rugiada, che incoronano le rose: le stelle sorridono di tutti i miopi, che le puntano coi telescopii, e ridono di tutti i ciechi, che piangono non vedendole: i vecchi sorridono dei giovani, che hanno la saggezza di essere folli, e i giovani ridono dei vecchi, che hanno la follia di essere saggi: il credente sorride dell'ateo, che ha la sventura di essere solo in questo mondo, e l'ateo ride del credente, che avrà la disgrazia di essere male accompagnato nell'altro. Riso e sorriso, che mostrano sempre i denti, perchè dopo il bacio vi è quasi sempre il morso. E voi, signora, preferite mordere o baciare? Forse l'uno e l'altro, forse baciare quando vi mordono, e mordere quando vi baciano, per contraddire sempre, perchè la contraddizione è il primo sintomo della forza e il primo beneficio della libertà. Se così non fosse, perchè i piccoli negherebbero sempre i grandi, e le donne avrebbero sempre ingannato gli uomini? Poichè la contraddizione è l'essenza della vita individuale, l'amore, che la perpetua, è costretta a servirsi egualmente del bacio e del morso. Solo negli animali morde il maschio, e negli uomini la femmina: variante misteriosa, che indica forse negli uni il pudore di quella, e negli altri la debolezza di questo. E poichè la debolezza conduce spesso alla tirannia, gli uomini dopo i ginecei inventarono gli harem, come dopo il vino i liquori; invenzione sciagurata, che toglieva la conquista all'amore, ed impediva il bacio per evitare il morso. L'amore ha d'uopo di libertà, come la luce di ombra per produrre il colore; giacchè non è vero che l'ombra sia nemica della luce, come afferma Mefistofele, e dovesse appiattarsi nella profondità dei corpi, quando raggiò la rivale. Non è vero che quando il sole discende dal suo carro di gloria, per mescersi famigliarmente colle stelle, essa ricompaia e ricopra astiosamente l'universo; e non è vero che nel principio fossero le tenebre, e che alla fine saranno le tenebre. L'ombra invece è innamorata della luce e la segue dappertutto. Mentre i colori si posano ovunque scintillando, osservate come l'ombra si sdraia voluttuosamente sotto a tutti i corpi, e col proprio contrasto raddoppia la loro vivezza: quando il meriggio discende, l'ombra si allunga, sale per lo stelo dei fiori, per il tronco degli alberi con una leggerezza amorosa, e li avvolge nel proprio vapore; come voi, signora, avrete molte volte riposto negli astucci i brillanti, che ad un ballo vi avevano fatto prendere per una bella notte stellata. Non è vero che l'ombra detesti la luce, e la menzogna sia nemica della verità, giacchè non si bacerebbero così spesso sulla medesima bocca e con tanto trasporto. Avete mai veduto due gemelle vestite con altrettale eguaglianza? Se la verità è il sole della vita, la menzogna ne è l'ombra; e per la strada del pellegrinaggio, quando la fatica ci ha affranti e la polvere riarsi, l'ombra di un albero è pure la sola speranza ed il solo ristoro. Che sarebbe di noi tutti, se costretti alla verità, dovessimo sollevare sempre il velo sulla cuna delle nostre intenzioni, o alzare il coperchio sulla tomba dei nostri ricordi? Se io dovessi confessarvi tutte le ragioni, perchè m'incanto a guardarvi, e voi tutte le altre, perchè vi lasciate guardare? Poichè i costumi sono la gentilezza delle nazioni, i complimenti sono la bontà degli individui: ma, come il bello ideale nella pittura non è che la correzione del brutto nel vero, il buono ideale nella vita non ci viene che dall'oblio volontario del cattivo. Mentite dunque, signora, poichè la misura della bontà consiste nel bene che si prodiga, e la natura diede per noi alle donne la menzogna e la bellezza. Profondete gli sguardi ed i sorrisi, i giorni e le notti; gettate a piene mani speranze e soddisfazioni, ricordi ed oblii; sminuzzate l'amore per moltiplicare gli amanti; invece di essere un sole immobile nella vanità della propria mole, siate la cometa, che vaga per l'empireo, ed ha un saluto per tutte le stelle. Bella come la primavera, siate così piena di grida e di fiori, abbiate la foga dei suoi balli, dei suoi canti, la sua gioventù eterna, che dà poco e si contenta di meno, ma che colora e profuma, accorda e solleva, scorazza e non fugge. Poichè tutto è menzogna nella vita, mentite voi pure, signora; mentite come mentono il pianto del bambino, che finge di arrivare fra noi dal cielo degli angeli, e il pianto del moribondo, che è sicuro di ritornarvi: come la povertà, che ha il medesimo sole della ricchezza, la ricchezza, che ha le medesime malattie della povertà; la scienza, che non sa nulla come la religione; l'arte, che ha tutti i difetti della vita, la vita, che ha tutte le impotenze dell'arte. Mentite pure se tutto mente; la gioia, che esagera se stessa per affliggere l'invidia; il dolore, che si macera per desolare la pietà; la pietà, che offrendosi ad ognuno, non si dà mai per riserbarsi a tutti; l'imbecillità, che si arroga i diritti del genio; il genio, che nell'amarezza della propria vanità si dichiara imbecille. Bisogna pur mentire, signora, per essere amabili, e lasciarsi ingannare per essere felici. Che importa la fine? Vi è forse una fine? Riso e sorriso! ma sorridendo, aprite tanto le labbra, che vi si possa gettar dentro un bacio, e spalancando le braccia, badate di chiudere gli occhi come la carità, che è la prima di tutte le virtù. L'elemosina consola più il ricco che il povero, perchè quegli non dà che il superfluo, mentre questi non riceve nemmeno il necessario; la fede giova più all'incredulo che al credente, poichè il primo vede sempre il secondo nella pania delle sue stesse sciagure; la speranza frutta meglio a chi la dà che a chi la raccoglie, giacchè l'uno ne è il padrone e l'altro ne è il servo. Vedete bene, signora, che nella nostra divisione la giustizia ha dato a voi tutto, e a me solamente il resto, a voi un palchetto di prima fila, e a me un posto nell'orchestra. E quando voi apparivate e tutte vi guardavano, io ero laggiù talmente lontano, che nemmeno il vostro pensiero poteva raggiungermi. Allora non so cosa mi accadesse nell'anima, ma, come se una bufera mi si scatenasse nel cervello, mi sentivo dei lampi dentro gli occhi e dei sibili alle orecchie. Quindi riafferravo disperatamente il violino, e mentre tutta l'orchestra reboava, e la luce dei mille fanali sembrava incendiare le decorazioni della scena, solo, senza più vedere nè intendere ricominciavo delirando a suonare. Nella effimera onnipotenza di quell'impeto, mi pareva che il mio violino coprisse tutti gli altri, e le sue note mi turbinassero sulla testa come tante faville e sopra un vulcano. Ogni crina del mio arco aveva la potenza di una corda, ogni corda dell'istrumento la sensibilità di un viscere vivo. Io stesso vibravo per ogni fibra, ma innalzandomi al disopra di tutta l'orchestra, vedevo la vostra dolce figura salire sempre più in alto, come camminando la notte per un bosco si vede la luna scavalcare ad una ad una tutte le cime degli alberi. Poi la visione mi si cangiava: ero nella tenebra, un vento gelato mi soffiava sulla fronte, le corde mi si irrigidivano sotto le dita come le gomene di una nave. L'ultima raffica strappava la vela, l'ultima onda di canto sommergeva il ponte, l'ultima stella spariva dietro le nuvole, l'ultima speranza cadeva sul cassero come un gabbiano sbattuto dalla tempesta nella alberatura: l'ultimo atto era finito, e la gente se ne andava. Io solo era rimasto nell'orchestra, voi sola eravate seduta nel palchetto. La lumiera salendo squarciava il zodiaco dorato. Allora un'orribile tentazione di suonare, perchè vi voltaste, mi artigliava il cuore: senonchè le dita, raggrinzite convulsivamente sulla tastiera, non sapevano più scorrere; e voi mi rivolgevate indolentemente le spalle. Finalmente ero rimasto ultimo nel teatro, io, che era l'ultimo anche fuori. Essere solo non è forse essere l'ultimo, come essere primo non significa essere solo? E questa giustizia mi faceva ridere di un riso muto, di pazzo, che invece di muovere la bocca agita le mani, e brancola, stritola, coi polmoni gonfi, il cervello in fiamme, il cuore che gli urla, tutte le fibre tese, vibranti come tante corde, che si romperanno ad ogni scoppio, perchè anche le corde si schiantano:

Ah!

La seconda corda si è rotta, ma una suonata come una impiccagione non si sospende per la rottura di una corda. Poichè siamo soli in questo gabinetto, restate là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. È notte. Il cielo si è fatto buio come un mare, e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto, voi, che sarete stata per tanti il loro più grande pericolo, ai pericoli del deserto e del mare, dei miraggi e delle sirene? Eppure nessun miraggio ha il fascino dei vostri occhi, e nessuna sirena la soavità della vostra voce. Quando tutti vi hanno detto che siete bella, lo avete saputo solamente allora, e quindi troppo tardi per ricordarvi dei primi, troppo tardi ancora per ringraziare gli ultimi? Perchè, se il genio si ignora spesso, la bellezza si conoscerebbe sempre! Volete che vi descriva col mio arco, come il pittore lo oserebbe col pennello? Non ho più che due corde, ma noi pure siamo in due, e se fallo, voi ne avrete sempre una per sferzarmi, io quell'altra per punirmi. Lasciatemi provare, e se vi conosco più della gloria, che non ho ancora raggiunto, non vi dispiaccia di ascoltarmi. I vostri capelli d'oro, biondi come l'oro della sua aureola, sono più lunghi del mantello incantato, sul quale essa vola sempre dinanzi agli avvenimenti. Quantunque neri più che l'ombra di un sepolcro, i vostri occhi risplendono come una fiamma; nessun fiore è più colorito del vostro sorriso, nessun frutto forse più sapido della vostra bocca. Leggiera come una rondine e forte come un falco, il vostro volo ha la grazia di uno scherzo e l'impeto di una minaccia; ma come l'orizzonte, del quale avete preso la leggerezza e le nuvole, siete inafferrabile e mutevole. I profumi vi attirano, i colori vi innamorano: vi ho veduto sulle vesti tutte le tinte dell'iride, vi ho odorato sulla testa tutte le fragranze della terra, dai sentori acuti del tropico agli olezzi morbidi delle serre, dalle essenze sapienti del lambicco agli olezzi morbidi del deserto. Ho veduto la vostra testa sorgere da un abito di raso bianco, coi capelli bagnati di stille, che erano perle, come una rosa delle alpi spunta sulla neve: vi ho veduta più pallida nel rosso che eccita i tori, più candida nel bruno che adombra la morte, più florida nel giallo che è il colore della ricchezza. Ho veduto il vostro collo rifulgere come quello di una colomba fra i bagliori dei brillanti, e sanguinare come per un colpo di ghigliottina fra le gocce dei coralli. Talora i vostri abiti avevano la fluidezza di un velo, tal'altra i panneggiamenti duri del marmo; il velluto vi cadeva attorno colla pesantezza di un cortinaggio; la seta vi rideva addosso con una gaiezza scoppiettante ad ogni più piccolo moto: i merletti vi gettavano un'ombra diafana, come i loro ricami, sul seno e sui polsi. Quando camminavate, tutta la vostra persona si animava; i vestiti le si drappeggiavano sopra con un discernimento da artista; seduta, avevate delle pose da regina e da tigre, da statua e da sogno. Il vostro piede piccolo, ma fatto per calpestare tutto ciò che gli altri ammirano, le pellicce e i mosaici, i fiori e gli affetti, si posava dovunque egualmente imperioso; la vostra mano, sempre molle e profumata, esprimeva il torpore terribile di un agguato, come la stanchezza soave di una carezza: facevate dei dialoghi, che parevano soliloqui: avevate dei silenzi, che somigliavano ai dialoghi, distrazioni che occupavano tutti, attenzioni che distraevano ognuno. Ricordo per gli uni e speranza per gli altri, lodata in pubblico e calunniata in secreto, amata colla veemenza del corpo che esige e coll'impeto dell'anima che invoca; secreto che tenta, contraddizione che punge, mistero che arrovella, eravate allora, come adesso, una eccezione senza regola; una signora bianca e bionda, nobile e fine, delicata ed infrangibile, che essendo forse cattiva piaceva a tutti, o essendo forse buona non soddisfaceva ad alcuno. Le onde della ammirazione rompendosi incessantemente ai vostri piedi, non arrivavano mai ad appannarvi la fronte colle proprie spume; l'alcione, che annunzia con profetica pietà la tempesta, a farvela rivolgere verso i nuovi pericoli. Quando la bufera di una dichiarazione vi soffiava sul volto, colla stessa furia del vento lacerando una vela, i vostri capelli si alzavano appena colla leggerezza di una nebbia dorata dal sole, e gli ignari credevano che fosse l'alito del vostro ventaglio. Se la notte aggiungeva la poesia delle proprie tenebre a quella della tempesta, e i naufraghi guardavano verso di voi coll'ultimo raggio della speranza, nell'ultima luce del pensiero, il vostro occhio diventava immobile come una stella, e gli ingenui credevano che foste distratta. E all'alba, quando tutti questi naufraghi della notte, che avrebbero dovuto galleggiare cadaveri sulle onde, se ne andavano tranquillamente nelle lancie, salutandovi da lungi sul ponte, un sorriso bianco come un lampo vi passava sulle labbra. La festa era finita, amiche e innamorati dileguavano, e voi ritornavate sola nel vostro appartamento. Simile agli esuli del genio chiusi nel loro pensiero, voi passate per la società, velata nella vostra bellezza, lasciandovi dietro una traccia di profumi e di desiderii. Tutto vi appartiene. Come per gli idoli dei santuari più celebri, gli omaggi e i tributi si ammassano sul vostro altare; i fiori della primavera e i frutti dell'autunno, le primizie del cuore ed i capolavori dell'ingegno. Ma forse nella vostra alterigia vi pare soverchia compiacenza lo scegliere, ed accogliete collo stesso disprezzo l'offerta del povero e del ricco, dell'inetto e del grande. Inettitudine e grandezza d'altronde sono spesso sinonimi. Solo la bellezza sempre sentita è sempre ben giudicata. Nell'immenso lavorio del mondo essa è lo scopo unanime, la speranza di tutti, il premio di pochi. Per voi, signora, l'uomo, questo lavoratore immortale, che soccombe sempre e non smette mai, allunga i giorni e si accorcia all'opera la vita: per voi ha traversato i deserti, o ha tolto i diamanti alle sabbie, le penne allo struzzo; o è salito fino al polo e ha raggiunto una volpe turchina per farvene un manicotto. Per voi nelle fabbriche si storpiano i fanciulli e si estenuano gli adulti: per voi si tesse il vetro e si solidifica la canepa, si domano i cavalli e il vapore, si inventano le navi e i palloni, si forbiscono le parole e le spade, si cesellano le coppe e i pensieri, si verniciano le carrozze e i sentimenti, si ricamano i metalli e le liriche. Per voi l'oro diventa un talismano e le gemme tante goccie di vischio; le nuvole si cambiano in un tulle, i fiori scompaiono nelle essenze e ricompaiono nella cera; per voi si tempra l'acciaio e si stemprano i caratteri, l'elefante si lascia sdentare perchè il suo avorio intarsi l'ebano del vostro letto, le immagini schizzano dai marmi e si colorano sulle tele, le visioni passano nei poemi e parlano nelle musiche, la scienza numera, l'arte inventa, l'industria uccide, la pace snerva, la guerra diserta. Per voi la storia è una serie di drammi, dove si mutano le parole e durano le scene, si alternano le decorazioni e si ripetono le catastrofi; per voi i desiderii piangono come i ricordi, e le loro lagrime grandi come gli occhi sono più amare di un veleno; per voi le speranze sono azzurre come il cielo ed agitate come il mare; per voi le gioie sono più vaste di un desiderio e più labili di una rimembranza, iridate come una lagrima, pronte come un veleno, piene di canti come il cielo e di naufragi come il mare. Nella tenda del deserto e nella casetta di ghiaccio, nel wighwam del selvaggio e nel palazzo dell'incivilito, nelle foreste dove l'uomo è ancora un animale, e nelle città dove non è più che una cifra; nella piroga del cannibale e sul vascello dello scienziato; sulle vette dell'Imalaya, dove non pascolano che i vapori, e nei cimiteri della storia, dove non vegliano che le rovine; sotto le fronti contuse dal diadema, circoncise dalle cesoie, scalpate dal coltello; dentro i cuori che ignorano, i cuori che apprendono, i cuori che rammentano; sulle stuoie d'oriente e sui guanciali di occidente, dove l'uomo pensa e sente, crea e distrugge, voi siete la prima idea e il bisogno supremo, la voluttà nella vita e l'aspirazione oltre la tomba; perchè siete la bellezza, e la donna, che è la bellezza della bellezza, come Dio, è il pensiero del pensiero. E voi siete dappertutto, vi troviamo dovunque: chine sulla nostra culla o sul nostro feretro per gettarvi un sorriso; sul nostro cuore ad origliare, sul nostro pensiero ad aizzarlo; eravate dietro a noi come una sorgente dietro a un ruscello, ci siete dintorno come la luce, dinanzi come un mare. Se vi scacciamo per un momento dal cervello, vi troviamo subito nel cuore; se vi esiliamo dal futuro, vi incontriamo nel passato; se ci cadete dai sensi come un peso troppo greve, ci salite nella mente colla leggerezza di un sogno. Il nomade del deserto scorge i vostri occhi nel miraggio delle sabbie, il marinaio travede la vostra figura nella bruma dell'oceano, il modesto vi cerca nella quiete del proprio riposo, l'ambizioso nell'orgia dei propri trionfi; siete sopra tutti i golgota, a piedi di tutte le croci, per ricevere il saluto estremo dei santi; in tutti i circhi ad insultare dai gradini le ultime convulsioni dei martiri. Voi riempite le Tebaidi di anacoreti e le biblioteche di libri, la notte di ombre, e i giorni di sogni; vi sdraiate su tutti i troni e per tutti i fanghi, coprite egualmente di baci tutte le mani ruvide che eseguiscono e le delicate che ordinano, le forti che abbattono e le più forti che elevano; abbandonate egualmente coloro che partono e coloro che restano; generose e crudeli pei vincitori e pei vinti; lievi come il nevischio e gravi come la valanga, farfalle nell'aria, lombrichi sulla terra, istinto nel sangue, amore nel cuore, ideale nella mente. La vostra parvenza azzurreggia nelle fiamme sulla fucina del fabbro e sul fornello dell'alchimista; passa come una larva sulla carta, dove il geografo ritrae i lineamenti del mondo, e dove il generale segna le tappe delle sue vittorie: per quanto il poeta s'innalzi nel proprio volo oltre i calcoli sublimi dell'astronomo, è sicuro di rinvenirvi ritta sull'orlo di una stella coricata indolentemente sullo strascico di una cometa. Perfino il filosofo, che oltrepassa il poeta di più ancora che non egli lo scienziato; quest'incompreso che sta nell'incomprensibile, ed è un'idea che vive nell'idea; che di lassù vede gli avvenimenti della nostra storia, come di quaggiù l'astronomo vede le stelle; quest'uomo, che ha obliato tutto il mondo per impararne le leggi, e non ha voluto sentir nulla per poter pensar tutto, egli pure vi trova lassù nel sesso di una parola, nella desinenza di un nome, e riprecipita sulla terra per prosternare ai vostri piedi, che lasciano l'orma sulla polvere, una fronte, sulla quale le stelle sarebbero superbe dì comporsi in corona. Voi conoscete il vecchio emblema del drago che uccide il leone, dell'astuzia che vince la forza, poichè ve l'ho veduto spesso al dito sopra un anello: e voi avete sempre vinto, poco importa se la vostra vittoria di donna fu nell'impedire ad un uomo una nuova conquista del pensiero. Gli imperi ideali non crollano come gli imperi storici? La tirannide di una teorica dura forse più che quella di una dinastia, i sistemi della filosofia più che i trattati della politica, i monumenti della poesia più che i templi della religione? Se ogni popolo ha il proprio dio, quante divinità mancano allora nel pantheon delle mitologie? Se ogni generazione ha un grande poeta, quanti poeti mancano nella storia della letteratura? Tutto passa, anche il passato, tutto muore anche i cadaveri: il tempo spiana le ruine, il vento dissipa la polvere dei sepolcri meglio chiusi, e non resta che il presente, questo minuto, che cade incessantemente dall'orologio della eternità, e si colora cadendo come una bolla di sapone nel sole. Invano chini sull'orlo del mondo tentiamo talora di sorprendere il suo tuffo nell'oceano delle età, o rientrando precipitosamente in noi stessi cerchiamo la sua traccia nella nostra vita; giacchè le ombre non lasciano vestigia, ma l'ombra continua imputridisce e corrode. Ad ogni attimo, che ci scivola addosso, gli atomi della nostra esistenza si disgregano, e si separano come tanti pellegrini ad un crocicchio, alcuni portando seco, attraverso infinite migrazioni, una scintilla, colla quale comporranno nuove vite. Avete mai riflettuto come ci salgono nella mente le passioni, o come ci discendono nel cuore le memorie? Non so, ma parmi che le passioni sorgano in noi dagli abissi della animalità, mentre le idee ci colano nel sangue dagli abissi dello spirito. Il cielo non è un abisso come il mare? E talvolta mi sembrava che il dio misterioso della creazione mi avesse dalla eternità seppellito nel profondo della vostra anima, e che a certe ore mi levassi, e per un filo più sottile del più sottile fra tutti i fili cominciassi la più strana salita. Nell'ombra cieca di quelle latebre sentivo muoversi una infinità di ombre, fantasmi forse di vite passate, larve forse di vite future; ma sulla bocca del pozzo, più lungo che nella più profonda miniera, la vostra bella testa rutilava in un nimbo di luce. Salivo. Le mie mani stringevano con una energia inesprimibile quel filo, che non avrebbero nemmeno dovuto sentire; il respiro mi si faceva affannoso, gli occhi mi si dilatavano come quelli di un felino. Le ombre sfiorandomi come per guardare il fortunato, che montava alle regioni della vita, mi gettavano nell'anima un raccapriccio senza nome: la vostra luce attirava colla stessa forza del sole, che raggira i pianeti. Avete mai provato in fondo al cuore una ondulazione insensibile, un moto lento di spirale, che s'innalzava sempre colla continuità e colla leggerezza di un'ombra? Ero io. Alle volte giungevo talmente in alto, che le ombre mi restavano laggiù sotto i piedi, e passavo fra gli ospiti del vostro cuore. Erano molti, alcuni li ho poi riconosciuti nella vostra società. In cima la luce cresceva, e cresceva la bellezza del vostro viso; l'aria cominciava a discendere satura di profumi, trepida di suoni. Ma a quella luce la mia corda diventava bionda come un filo di sole: una volta, che salii fino quasi al cratere, la riconobbi per uno dei vostri capelli. Però senza che le forze mi mancassero, quando già ricevevo il bacio dell'aria sulla fronte, e sentivo gli ospiti del vostro cuore bisbigliare sotto di me come una platea di spettatori, e colla testa sotto alla vostra stavo per chiedervi in un altro bacio il battesimo della vita, improvvisamente il vostro capello si rompeva:

Ah!

La terza corda si è rotta, signora, ma il suicidio è ancora possibile quando ne resta una. È notte: il cielo è bruno come un mare e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto che il silenzio è nero e l'ombra è silenziosa, e quando si riuniscono sul mondo fanno la notte, quando si congiungono sopra un uomo fanno la morte? Il vento della sera non soffia più, le stelle hanno naufragato nelle tenebre, le voci sono sprofondate nel silenzio. Poichè il mondo si è dileguato, e siamo soli in questo gabinetto, rimanete ancora per pochi istanti su quella poltrona, ed ascoltatemi. L'infinito e la eternità ci circondano; il primo è buio, la seconda immobile. La luce è un moto nella tenebra, il tempo un moto nella eternità; furono e quindi non saranno, l'infinito e l'eternità sono. Noi passiamo, voi proseguirete, io mi fermo. Ascoltatemi. Non ho più che una corda per esprimermi, ma non ho più che una parola da dire, l'estrema e l'unica, e quando l'avrò detta, il silenzio non sarà per questo più profondo, nè l'oscurità più fitta. Non è forse la sola consolazione per chi parte di non abbandonare alcuno, e per chi muore di non lasciare infelici? Se così non fosse, il mondo non sarebbe sempre un ululato di funerale, poichè la morte vi è incessante? Vedete bene che potete ascoltarmi, signora, se la vostra memoria non sarà nemmeno costretta alla gentile pietà dell'eco. Sono solo, la mia cuna fu deserta, come sarà dimenticato il mio sepolcro: non ho che il violino per parlare e il violino per vivere. Ignoro le sillabe, non so comporre una parola; le mie sillabe sono le note, le mie parole le battute; i miei periodi scritti in cifra, come tutti quelli che contengono un secreto, sono una varietà del linguaggio. L'aristocrazia non è una varietà in un popolo? Però di tutte le arti la mia è la più infelice, perchè la più mortale; e mentre di un terremoto restano almeno le ruine, non un'eco rimane di una grande suonata. Soli di tutti gli uomini, la nostra vita è un sopravvivere a noi stessi e alla nostra gloria, che muore posandoci sulla fronte una corona, della quale i fiori avvizziscono al contatto dei nostri capelli. Quindi nessun artista desta il nostro entusiasmo, e soccombe più disperatamente sotto la lapidazione dell'applauso. Io sono solo, non come voi, signora, che siete sola, perchè siete al disopra, ma perchè ho il nulla sulla testa e il vuoto sotto i piedi; perchè cammino e non proseguo, sono partito e non arrivo, creo e non formo. Il sole della mia vita illumina, ma non riscalda; l'orezzo dei miei meriggi è senza riposo, come l'ombra delle mie notti senza sonno. Fra coloro che possono, coloro che vogliono e coloro che sanno, io solo vorrei quello che non posso, e non so quello che voglio: quando desidero non mi è lecito sperare, quando spero non desidero più. Il mio passato non si dilegua, il mio futuro non giunge. Il sorriso scivola sulle mie labbra, come sulla superficie di un vetro; i dolori passano dentro il mio cuore invisibili, come i mostri nella profondità del mare. Le prime illusioni della giovinezza svanirono come i vapori iridati dell'alba, le ultime illusioni della mia virilità come le nuvole nella notte. Ma se nella serie drammatica l'egloga è il vagito, l'idillio il sorriso, la commedia il riso, la tragedia il rantolo; quattro forme che comprendono tutta la vita, come le quattro corde del mio violino esprimono tutta la musica: osservate come il vagito ed il rantolo, il cantino ed il basso, la corda dello strido e la corda del gemito siano gli estremi della gamma. L'egloga è il vagito che cerca, l'idillio il sorriso che trova, la commedia il riso che prende, la tragedia il rantolo che lascia. Nella commedia la coscienza si eleva sugli altri, e li ferisce: nella tragedia supera se stessa e si suicida. Così voi, signora, siete al disopra del mondo, e ne ridete; ma siete al disotto di voi stessa, e v'ignorate. Ah! non vi lusinghi l'altezza dello scoglio, e contentatevi della vostra magnifica terrazza piena di aranci e di magnolie. Sulla cima dell'Etna Empedocle è più alto di Aristofane sul palco del proprio teatro, ma per discenderne non gli resta più che gettarsi dentro al vulcano. E vi è una vetta ancora più alta dell'Etna, alla quale pochi potranno salire, e dalla quale nessuno può discendere. Di là si scorge la carovana della umanità passare per il panorama dell'infinito, come una carovana di camelli nel deserto, atteggiando una labile coreografia di fatti e di sogni. Quella è la cima del Nirvana, un monte di dolori più alto del Davalaghiri gettato sul Everest, del Chimborazo gettato sul Davalaghiri, sul quale la indifferenza sta eternamente. Un uomo solo vi è arrivato e si chiamava Bouddha; ma noi spiriamo tutti sui gioghi più bassi della tragedia, mentre egli ci guarda sublime di insensibilità dibatterci nelle spirali della vita, bambini col riso convulso di un solletico, uomini col riso straziante di una convulsione. Egli vede la rivolta di tutti e la rissa di ognuno contro il medesimo problema; la folla che stramazza nel piano, i pochi che rotolano dai dirupi, l'arte che soccombe di angoscia, la scienza che muore d'inanizione, la filosofia che s'inerpica e si arresta morente ad ogni minuto, la religione che precipita agonizzante di scheggia in scheggia: mira la rivelazione del nulla, suprema verità, nelle anime; quelle che si contraggono nello strazio, che si gelano nell'orrore, che si frantumano nella disperazione, che si dissolvono nella coscienza del dolore universale: guata la santa indignazione dei martiri e la collera virile degli eroi, l'avvilimento contenuto dei buoni e il motteggio funebre dei tristi, la desolazione incredula di quelli che pregano e lo spavento credulo di quelli che bestemmiano, quelli che uccidono e quelli che generano, quelli che nascono e quelli che muoiono; ma di lassù, dalla cima del Nirvana, nella indifferenza dell'infinito, dell'assoluto, della insensibilità. Discendiamo, signora, o se ci è fatalmente conteso, restiamo, voi sul carro di Tespi, io sul Caucaso di Eschilo: là almeno si ride, qua almeno si piange; ma più in alto, fra il Caucaso ed il Nirvana, vi è ancora meno aria che fra la luna ed il sole; un etere sottile, che impedisce la vita e non produce la morte. Poichè la nostra esistenza è una scala, alla quale rompiamo giornalmente i gradini, montandoli; e quindi la commedia non può più discendere fino all'idillio, nè l'idillio sino all'egloga: poichè non mi è dato invitarvi sulla mia tragica balza, lasciate almeno che vi miri laggiù in tutta la vostra bellezza di donna, e la vostra festività di commedia. Sgranate le perle del vostro riso, lanciate i trilli del vostro canto, vibrate i raggi dei vostri occhi; moltiplicate il numero delle vostre feste ed aumentatene la pompa; mettetevi la corona d'oro sulla testa e il manto di porpora sulle spalle; togliete all'alba i colori e al mare i riverberi, e fatevene una bellezza, la quale stordisca il desiderio e confuti il paragone, accechi la memoria ed aromatizzi il pensiero. Solo sul mio dirupo vi guarderò non visto e non cercato. Nel silenzio della notte, quando i venti dormivano negli antri e le stelle vegliavano nel cielo, le oceanidi venivano a frotte sotto lo scoglio, i capelli verdi fluenti sulle spalle bianche del candore della perla, ed offrivano a Prometeo il ristoro del loro compianto, la distrazione del loro chiacchierio. Ma nessuno degli spensierati, che solcano, cantando, il mare, ha mai diretto la prora verso il mio Acrocerauno. Da molti anni vi sono solo e ignorato, come le ceneri di Biorn lo scandinavo, il primo che scoperse l'America, e che i compagni seppellirono sopra un promontorio di Vinland. Egli il primo era partito per un nuovo mondo senza sapere quale si fosse l'antico, nè dove giungessero i suoi confini; la sua barca bruna come il mistero, che affrontava, aveva tre vele come sono tre le virtù: era leggiera come la poesia, e piccola come la fortuna di tutti coloro che inventano. Nessuno sapeva forse del viaggio, nessuno sospettava l'impresa: forse il capitano non volle nemmeno confessarla, e, issando la vela, credette di salpare per l'infinito. Ora egli dorme sulla cima di un promontorio sconosciuto, e l'amante del poeta scandinavo porta il nome di un mercante fiorentino. E che importa la gloria? Quando le brezze del mare porteranno su quella cima il fumo delle vaporiere e le canzoni dei naviganti, il vecchio marinaio non alzerà nemmeno la testa per rispondere con un sorriso: perchè egli sa da molti secoli che tutte le navi arrivano al medesimo porto, la morte, e che tutte le gioie di una traversata non valgono la quiete di un sepolcro. Rimanti dunque sul tuo scoglio, sublime marinaio! La tua conquista fu più vasta di quella di Cesare, e ben maggiore il tuo coraggio. Invano gli uragani, che ti strapparono la vela, volevano farti piegare la fronte; o i mostri, che addentavano meravigliati la carena della tua nave, tentavano rattenerla nel suo viaggio fatale. Ma quando la terra del mistero, lacerando i veli di un mattino, sfolgorò ai tuoi occhi di profeta, il tuo cuore, che aveva resistito a tutti i colpi della fortuna, fu percosso mortalmente, e, guardando la cima più alta di una scogliera, l'additasti ai tuoi compagni di eroismo: là. E là ignoto così alla patria, che avevi abbandonato, come all'altra che hai scoperto, senza poesia e senza storia, tu sei il più grande fra i grandi, se la grandezza di un imperatore si misura a quella del suo impero, e la statura di un cadavere a quella della sua fossa. Non hai tu l'America per regno, e l'America per sepolcro? Io non ho nulla, un violino ed una corda; la ricchezza di ogni impiccato, un legno ed un laccio. Il vento della notte si è quetato: sentite come il silenzio pesa nell'ombra, e come l'aria si è fatta densa. Avete mai pianto, signora? Avete mai fatto piangere? La ferita che sanguina e il dolore che lagrima, non essendo mortali, sono quasi sempre curati; ma la scienza non ha rimedi per le ferite incruente, nè la pietà consolazioni per i dolori muti. Non vi sono ospedali per i malati dell'anima, non vi sono ricoveri per gli invalidi del pensiero. Voi siete bella e ricca, nobile e giovane. Nata nell'accampamento dei conquistatori, sotto una tenda di seta, siete sempre passata per il mondo nei carri della vittoria. Le livree dei vostri servitori sono più splendide del mio abito di rapsodo; i cavalli della vostra calesse avrebbero potuto servire per la biga di Cesare. Quando, sola o a braccio di qualche principe, vi chinate a cogliere un fiore del vostro giardino, non avete mai pensato che centomila povere donne errano pei campi cercando un filo di gramigna, o frugano coll'unghia la terra per scovarvi una patata. Buona come tutti quelli, che ignorano, siete naturalmente insensibile come tutti quelli, che non hanno sofferto. Il vostro appartamento è ammobigliato come la più doviziosa fantasia di poeta: il vostro cuore è gremito di una folla sfarzosa come un teatro. Qualche volta vi sono entrato, ma come uno straniero, al quale la volgarità dell'abito non attirava nemmeno l'attenzione; e ne sono uscito poco dopo come uno straniero che non aveva amici fra quella folla. Sempre che v'incontro, mi pare che voi passeggiate per il mondo, ed io vi viaggio col violino sul dorso, facendomene il giorno un istrumento per vivere, la notte un guanciale per dormire. Nato fra gli schiavi, mi toccò l'ufficio anche più miserabile di divertire i padroni con la musica, come le schiave mie sorelle con la loro bellezza. Esse mi ammirano e mi disprezzano, io non li disprezzo e non li ammiro. Fra lo scoppio degli applausi non sento mai una voce che mi parli, nelle sospensioni più anelanti del silenzio non veggo nessun volto, che mi comprenda; i fantasmi delle mie musiche traversano invisibili le sale, e si perdono al di fuori, nella notte, come una processione di defunti. Quanti ne avete contato, signora, questa sera? Forse uno, forse meglio nessuno. Un solitario non è forse un incompreso, altrimenti perchè sarebbe solitario? Nullameno il mio braccio non fu mai più potente, nè la mia anima più commossa. Avevo ancora una speranza nel cuore, povera ammalata, alla quale non aveva giovato il sole di nessun clima e la brezza di nessun mare, e che è morta di freddo, come muoiono tutti gli ammalati. Avete sentito l'ultimo rantolo della sua voce, l'ultimo sguardo dei suoi occhi? Essa è morta in questo gabinetto, mentre voi non l'ascoltavate nemmeno morire! Ascoltatemi dunque — Addio, ultimo vapore del mare disseccato, ultimo rumore della terra deserta. Figlia della fede, che illumina, e della carità, che riscalda, tu sei morta nelle tenebre, come la fede che è una luce, e nell'acqua, come la carità che è un fuoco. Che avresti tu fatto nella solitudine del mio pensiero, che avresti tu detto nel silenzio del mio cuore? Addio dunque, figlia primogenita dell'ideale, sorella cadetta del dolore. Il cielo è nero, il tempo è freddo. Dove vuoi tu che ti seppellisca? Nel deserto, il Simoum verrebbe a scoprirti, dopo che le sabbie avrebbero corrosa la tua bellezza di morta: nel mare, sei troppo leggiera, e galleggeresti eternamente alle pioggie ed al sole. Poichè non ami più il canto degli uccelli e il profumo dei fiori, l'oasis non ti è sepolcro conveniente: e giacchè sei morta per tutti, il mausoleo dell'arte coi suoi cadaveri di marmo non potrebbe ricordarti a nessuno. Nullameno mi bisogna pur seppellirti. Se il cielo non può ricevere il tuo spirito, perchè tu eri una virtù della terra, e la terra non può ricevere il tuo corpo di vapore e di luce, ti depongo sotto questo baobab antico, e ti abbandono. Dormi adunque in pace, tu, che vegliavi anche nelle mie notti; riposa dunque nel sonno, tu, che non eri mai stanca. Addio per sempre. Addio, speranza, che salisti per tutte le sfere della vita; addio, granito, che diventasti terra; terra, che diventasti fiore; fiore, che diventasti colomba; colomba, che diventasti donna: addio, donna, che fosti rassegnazione; addio, uomo, che fosti costanza; addio, amore, che fosti generazione; addio, generazione, che volevi essere immortalità; addio, speranza, che sei vissuta e sei morta, sei morta e non risorgerai. Senza lagrime, perchè le lagrime sono dei fanciulli, e tu sola in me sapevi piangere: senza lamenti, perchè i lamenti non erano che l'espressione della tua impazienza, e adesso sei paziente, perchè sei morta, ti depongo qui nell'abbandono. Addio, passato, che dilegui; futuro, che dissipi; presente, che ti risolvi. Addio, speranza; addio, mamma della mia morte; addio, figlia della mia vita. — Adesso il mio strumento non ha più che una corda, e la mia vita un giorno; però se si romperanno ad un tempo, la corda farà forse più rumore della vita. Tutto è finito, vi ho detto tutto; e voi non potete aver compreso. Forse se sapeste che la mia vita è sospesa a questa corda, e che io stesso col coraggio del giustiziato, il quale accelera il proprio supplizio, l'ho tentata con tutti gli sforzi; se poteste sentire come cede, e cosa dicono i suoi stridori, e cosa tace il mio silenzio: se in quest'ultimo minuto, coll'audacia di chi ha davanti a se stesso l'eternità, solo, nell'ombra che è già la morte, e nel silenzio che è già l'oblio, vi urlassi la mia indicibile parola, rompendo nel suo singulto la corda:

Ah!

E la corda si ruppe con uno schiocco violento. Egli alzò la testa, che teneva piegata sulla tastiera, e lasciandosi cadere l'arco con un gesto trasognato, andò lentamente ad abbattersi sopra una poltrona.

La notte era buia, il gabinetto era nero.

Allora la signora, levandosi adagio, venne ad appoggiarsi come una visione alla spalliera della poltrona. Una pallidissima aureola bionda parve tremarle sulla testa. Poi si chinò sopra di lui colla lentezza di un'ombra, s'intese un soffio, e l'aureola si spense.

VIOLA

Ero solo.

Nel salone, immenso come tutti quelli dei palazzi antichi ed illuminato da tre lumiere di Murano vecchio, cento fiammelle di gas, al posto delle candele, aprivano le grandi ali di farfalle riempiendo tutto l'ambiente di un chiarore bianco e crudo. Le spalle delle signore e le camicie degli uomini avevano un riverbero marmoreo, una tinta unita e fredda, che respingeva gli sguardi. Il salone era rosso, i mobili dorati. Un odore sottile, che le sottane delle signore agitavano come un vento, pareva alzarsi dai fiori del tappeto, che lo scalpiccio di tutti quei piedi non poteva avvizzire. Benchè animatissima, la festa non era che al principio; molte bellezze nubili vi sfolgoravano, ma si notava ancora l'assenza di due o tre glorie del matrimonio, solite ad arrivare sempre le ultime, o per un calcolo sapiente di civetteria, o per quell'orgoglio dei sovrani di non apparire tra la folla, se non quando questa prova finalmente il bisogno di un capo, e di andarsene quando comincia a perderne la coscienza. Il valtzer, precipitando in una ripresa piena di scoppi, aggirava tutta quella massa silenziosa di ballerini, che abbracciati senza guardarsi nemmeno, si parlavano forse con una quantità di piccole strette. E solo, sopra un divano dominato da una mensola carica di fiori ed avvolto quasi fra il panneggiamento di una tenda damascata, la quale sdraiava sul tappeto una magnifica frangia tutta ad ovoli e a fiocchi, io guardavo.

Donna Augusta lasciò il proprio ballerino ad un'altra signora, e venne a cadere quasi stancamente sul mio divano. Era vestita di nero, nuda le spalle, con uno strascico leggiero come una nuvola e lungo come quello di una cometa. Alcuni grappoli di bacche rosse, colti come lì per lì ad una siepe, le disegnavano le pieghe dell'abito, stirandolo alle ginocchia e rialzandolo ai fianchi per formare la caduta della coda, dalla quale spuntava la trina di una sottana, diafana e bianca come un merletto di galaverna; mentre un grossissimo corallo brillantato le faceva sulla nuca da capocchia all'anellone delle treccie nere, e un'altra collana di coralli della più bella tinta sanguigna, un rosario di sangue, le ravvivavano il candore del seno, umido in quel momento come il marmo di una chiesa. Ella s'abbandonò sulla spalliera, percuotendosi il mento colle piume nere del ventaglio, sospeso alla cintura per una minima catenella d'oro. I monili delle sue braccia, formati da tante pallottole di corallo infilate in un cordoncino di seta, si urtarono con un suono sordo di gragnuola; e il brillante, che incappellava il perno del ventaglio, le gettò nell'ombra della mano un balenio labile ed acuto.

— Pensate forse all'ode di Byron sul ballo, voi, che non ballate come lui? — mi si rivolse improvvisamente con uno dei suoi moti più vivaci, che parevano sempre seguitare un discorso.

— No.

— Siete funebre: davvero che il vostro abito nero, come dice Musset, pare un abito da lutto.

— In questo caso le bacche del vostro potrebbero essere goccie di sangue. Avete ucciso qualcuno con una parola o con un sorriso?

— Ah! — esclamò — passarono quei tempi. La tragedia è stata espulsa contemporaneamente dal teatro e dalla vita; la commedia trionfa dapertutto. Le passioni oggi sono ridicole, i capricci appena tollerati, purchè brevi. Voi altri uomini non amate più, cercate di scegliere: noi...

— Di preferire.

— Se fosse possibile, benchè sia quasi sempre troppo faticoso.

E si gettò addietro in una posa, che diede una mollezza di più alla sua lassitudine. Poi girò l'occhio sulla folla, e, cogliendo a volo l'attitudine goffa di un ballerino, me l'accennò con un sorriso. Era allegra; le spalle, alzandosele ancora nelle ultime violenze del respiro, le facevano aprire la bocca e mostrare due file di denti, bianchi come quelli di un cagnuolo. Ad un tratto mi si appressò, e piantandomi negli occhi i suoi occhi verde-mare, pieni di ombre e di guizzi:

— Se indovino me lo confesserete? datemi la vostra parola. Voi cercate un romanzo.

— Piccolo.

— Una novella allora.

— Ma che lo fosse davvero.

Ella alzò le spalle alla freddura.

— L'avete trovata?

— Sapete bene che cercando non accade mai.

— Lo so — rispose con un'inflessione quasi grave nella voce. Quindi: — Lieta o malinconica?

— Mi è indifferente.

— E il titolo l'avete?

— Sì.

— Quale?

— La Viola.

— Mio Dio, è un po' fuori di stagione: mutiamo fiore.

— Impossibile, perchè è un istrumento.

— Ma se non conoscete la musica!

— E quindi me ne occupo per non essere un'eccezione.

— Come la volete lunga?

— Quanto un capriccio.

— Bella?

— Altrettanto.

— Allora vi contentate di poco: i capricci non sono belli che prima e dopo.

— A rovescio delle commedie, che non divertono se non negl'intervalli: la solita differenza fra l'arte e la vita.

— Quanti personaggi?

— Pochi, uno per corda basterà.

Ella sorrise.

— Sapete che mi divertite!

Io m'inchinai al complimento, ed ella proseguì:

— Ditemi almeno che cosa ne farete?

— La metterò fra altre tre, Violino, Violoncello e Contrabbasso, dentro un libro.

— Che naturalmente chiamerete Quartetto.

E si distrasse ancora.

— Voi, che ve ne occupate come romanziere — mi si rivolse gravemente dopo qualche minuto — avete ancora trovato un amore vero, di quelli, che uccidono per forza propria, e non per una circostanza drammatica ed esterna? Nel nostro secolo si ama poco, nella nostra classe non si ama più. Guardate questa folla; le signore sono slavate, gli uomini volgari. Se, ripetendo il celebre scherzo di Locke, applicassimo il fonografo a questo salone, e potessimo leggere domattina le conversazioni di questa notte, forse capiremmo anche meglio il perchè di questa osservazione, diventata quasi impossibile a forza di essere comune, che nella nostra classe non si ama più.

— Di chi la colpa?

— D'entrambi; di noi signore, che non sappiamo più ispirare; di voi altri signori, che non sapete più sentire. La nostra bellezza, che era delicata, si è fatta fievole; la nostra anima leggiera divenne futile. L'estrema volubilità della moda ci assorbe tutto il tempo, giacchè usciamo di casa due o tre volte al giorno, e dobbiamo improvvisare almeno sei abiti per stagione. Quindi la nostra vanità è senza requie, ed oramai senza soddisfazione. Vedete: oggi non vi è quasi più differenza di classe; la moglie dell'affittaiuolo veste come la moglie del principe che affitta; sono state educate nel medesimo convento, si servono della medesima sarta e delle stesse beneficenze. Le carrozze cominciano ad essere senza stemma, come le carte da visita, come le livree senza galloni, i guardaportoni senza mazza. I saloni per riempirsi hanno dovuto spalancare porte ed usci alla folla promiscua dei teatri; quindi nessuno vi dominò più. Le grandi dame ricusarono di sgrossare gl'invitati ben ricevuti e mal graditi, e trovarono più superbo il deriderli segretamente, subendoli in pubblico; le piccole signore vi continuarono le intimità del collegio, i borghesi vi raccolsero i rimasugli delle antiche buone maniere, e se ne decorarono; i popolani arricchiti, più rozzi e più forti, vi perdettero la loro forza originale ed il loro danaro acquisito. Le loro figlie sposarono i nobili decaduti o derubati; i loro figli si abbeverarono di umiliazioni, ed impararono a scrivere firmando le cambiali di coloro, che sulla onorabilità già offuscata del proprio nome li introducevano nelle case patrizie, dorate dall'oro antico ridorate dall'oro moderno. Una volta il salone era come una scuola superiore di buon gusto, l'anticamera dell'accademia per i letterati, o del parlamento per i politici: gli artisti vi arrivavano trionfando, il danaro redento da una prodigalità sontuosa e benefica. Oggi non è più nulla: vi si parla poco, vi si ama punto. Guardate: in tutti i saloni si giuoca; ma non ai giuochi d'azzardo, dove le maniere si formerebbero ancora nella necessità di mentire la propria forza o la propria fortuna, sibbene a bezigue o a picchetto. La bigotteria legittimista o mazziniana ha tolto lo spirito di una volta alla galanteria, la sincerità alla frivolezza: non si confessano più gli amanti, ma si palesano; lo scandalo, che spesso era la rivelazione di una bella originalità, e quindi accolto col sorriso, oggi è implacabilmente scacciato: e nel secolo, dove il matrimonio fu proclamato un contratto, e i principi del sangue in esilio sposano le figlie dei biscazzieri, non si permette più ad una signora di darsi per nulla, ad un uomo di offrirsi per intero.

E un sorriso di leggiera ironia chiuse questa maschia invettiva. Donna Augusta si raccolse un momento, quindi seguitò senza darmi tempo di rispondere:

— Che cosa venite a fare nella nostra società? Voi non avete le qualità necessarie per descriverla: non vedete come tutto vi è senza fisonomia, faccie e discorsi, azioni e sentimenti? Non vi è più nè una bella donna, nè un gran gentiluomo. Ieri un duca ricusava di battersi con un deputato, adducendo per pretesto la religione, come se il duello, invenzione cristiana, non fosse sempre stato un privilegio dell'aristocrazia. A questa festa non si è osato d'invitare la marchesa ***, perchè fuggita dal marito, e i giornali ne hanno parlato. Guardate in tutta questa folla; non vi è nè un poeta, nè un artista, nè un filosofo, nè un uomo di stato. Individui senza nome proprio, nè di famiglia, sono ammessi e fanno la legge; perchè oggi col suffragio universale la legge è il numero; l'aristocrazia non osa più essere se stessa, la borghesia, che ha conquistato il pensiero e il denaro, non è ancora arrivata a preferire quello a questo; invidia i nobili, che ha sconfitto e li scimmieggia; ne questua le parentele, ne mendica gl'inviti. Se domani la plebe facesse una rivoluzione, i banchieri del nostro secolo non saprebbero morire come i baroni del secolo passato; la religione non ha più nè un apostolo, nè un pensatore; la politica un riformatore od un tiranno. Non sorridete: bisogna bene che anche noi donne impariamo a fare un discorso, adesso che si sta discutendo la nostra capacità elettorale in parlamento. Sapete perchè l'aristocrazia non ama e non lavora, la borghesia lavora e non ama, la plebe ama e lavora? Perchè l'aristocrazia è morta, la borghesia è moribonda, la plebe è giovane, ed ha ancora davanti a sè un avvenire.

— Siete anche voi del partito di Schopenhauer come le signore tedesche: l'amore è il veicolo della vita?

— Forse meglio, la vita stessa: chi non vive non può amare, perchè non ha nulla da trasmettere.

— Così votereste per la repubblica.

— Giammai, è una forma antiquata. Tutte le repubbliche, che hanno vissuto, furono oligarchiche, le moderne non vivranno. In America, osservate, è appena l'amministrazione di un'immensa colonia; in Francia, un interregno; in Isvizzera, una parrocchia. Roma ha conquistato il mondo, Venezia raccolse la tradizione di Roma: Victor Hugo con tutta la enormità del proprio ingegno non ha potuto nemmeno rendere commovente l'agonia della seconda repubblica francese: Gambetta colle sue spalle da Ercole non sosterrà la terza. Solo la Comune ha saputo morire come Sardanapalo; e, quando si muore così, si rinasce.

— Forse.

— Perchè in basso, al disotto di noi, che viviamo di tradizione e di etichetta, di lusso e di incredulità, la plebe crea ad ogni attimo il proprio presente, lavora per tutti e crede in se stessa. Come non crederebbe nel moto essa, che è il vapore? Talvolta, sola in carrozza, mi diverto a confrontare le figure che incontro. Quale differenza fra coloro, che ordinano, e coloro, che ubbidiscono! Noi signore, colla personcina esile e la pelle bianca per difetto di sangue, non avremo mai figli capaci di lottare coi discendenti delle popolane dalle carni bronzine e le spalle poderose. I nostri figli non montano nemmeno più a cavallo, non tirano di scherma. Evitano l'università, perchè vi troverebbero negati i loro privilegi, mentre i borghesi vi studiano tutte le scienze per dominare fra il popolo. Ma neppur essi vinceranno. Noi avevamo un principio ed eravamo un tipo: accampati sulle rovine dell'impero romano, dovevamo mantenere la disciplina nei barbari vittoriosi, e ripigliare la civiltà dai vinti: e l'abbiamo fatto. Quando l'aristocrazia sentì scemare la propria efficacia nel popolo, si condensò e produsse la monarchia: noi abbiamo durato qualche cosa come una dozzina di secoli, il mondo moderno è l'opera nostra. Ma la borghesia nata nell'ottantanove è un assurdo. Noi avevamo diviso il mondo in due classi, ufficiali e soldati: essi vi hanno aggiunto quella dei fornitori, e vorrebbero che il loro denaro valesse come il sudore dei soldati e il sangue dei generali. Perchè terzo stato? Perchè non il quarto, il quinto, tutti gli altri, sino a tornare nell'antica divisione, da un canto i lavoratori delle braccia, dall'altro quelli della testa? Se noi fummo qualche volta la rapina, essi sono il furto; se noi fummo la violenza, essi sono la frode; se noi fummo la distruzione, essi sono la fame. Ma noi almeno eravamo belli. Paragonate, voi artista, i nostri palazzi colle loro case, le nostre chiese coi loro teatri, il nostro onore colla loro probità. Voi sapete che il genio non può mentire, perchè la menzogna è un'infermità. Ebbene, confrontate le nostre letterature: per i nostri ritratti occorrevano dei Dante e degli Shakespeare, mentre per loro oggi bastano dei Flaubert e dei Zola. La superiorità dell'artista non è solo nell'ingegno, ma nel modello: la scultura greca è più bella della nostra, perchè i Greci erano più belli di noi come popolo.

Ma in quel momento cominciava una quadriglia, e il ballerino venne ad inchinarsi davanti a Donna Augusta. Era un bel giovane biondo, dalla fisonomia signorile e macilenta. Donna Augusta me lo mostrò con un'occhiata, quasi a commento delle proprie osservazioni, e levandosi con grazia inimitabile mi gettò in un sorriso la promessa di ritornare. Rimasi solo, ancora nel turbine di quella sua conversazione. Non era strana, perchè conoscevo Donna Augusta da due anni, e le avevo già scoperto sotto l'apparente frivolezza della vita un colto ed originale talento di pensatore. Come si facesse a legger tanto, e ad aver tanto imparato, era un mistero: ma ella era al corrente di tutto, dell'ultima moda e dell'ultimo libro. Fra gl'inglesi preferiva Carlyle, fra i tedeschi Stirne. Però nei circoli eleganti nessuno lo sospettava nemmeno: ricordavano ancora la sua celebre avventura, un romanzo a mille variazioni, con un illustre defunto, al quale era mancato il tempo per diventare un grand'uomo, un deputato morto alla sua prima campagna come Hoche; ma i più la credevano una delle solite signore, che hanno imparato le lingue estere dalla governante, e sanno suonare passabilmente il pianoforte. D'altronde un piccolo difetto confermava il pubblico in questo giudizio. Donna Augusta rideva sempre. Era un sorriso nervoso, che le increspava la piccola bocca ad ogni minuto, dinanzi a tutti: un sorriso, che era forse una timidezza sopra tutta quell'audacia, un impaccio invincibile nella sua insuperabile disinvoltura.

In quel momento Donna Augusta ballava la quadriglia con tutta la foga di una giovinetta e la voluttà educata di una gran signora. Il ballerino, porgendole la mano, le diceva sempre qualche motto, al quale ella rispondeva con un sorriso, torcendosi lo strascico intorno agli stivalini, alzandosi sopra la sua onda nera colla grazia di un'ondina e gli atteggiamenti labili di una visione. Quindi, incrociandosi colle amiche, alitava una parola nel loro cicalio profumato, o coglieva a volo tutte le risorse di una posa, distribuendo i favori di un gesto, accettando gli omaggi di uno sguardo. Il suo abito nero fra tutti quei cilestri e quei rosa era di un effetto quasi eccessivo, di un risalto, che le attirava involontariamente tutte le occhiate e il peso di tutte le osservazioni. Poi mi distrassi, e le sue ultime parole mi risuonarono ancora all'orecchio nella loro stravagante verità. Era forse la prima volta in un salone, che una signora osasse non solo pensarle, ma dirle. Infatti quella festa, colla sua allegria di veglione e la sua famigliarità di club, era brutta: le signore parevano tanti figurini di moda, gli uomini tanti camerieri. Il salone enorme colla volta dipinta dagli Zuccari, i cornicioni frastagliati, i mobili dorati, le porte scolpite, faceva pensare ad un'altra gente, ad altri costumi, quando le dame erano in guardinfante, ed i cavalieri in cappa. Pochi ufficiali facevano tintinnire le rotelle degli speroni, poche gemme rutilavano fra quella confusione di colori. Gli uomini vestiti di nero formavano una cintura funebre intorno al gran quadrato della quadriglia, come intorno ad un catafalco: le signore stecchite, come tanti manichini entro le loro corazze di seta, non agitavano che la testa, un viso di bambola, cogli occhi lucidi, la bocca rosea, le spalle acute, il seno pallido. E movendosi con una compostezza automatica formavano certe figurazioni incomprensibili, aggruppandosi e sciogliendosi mutamente, in un ballo senza musica e senza danza, l'ultima goffaggine del sussiego, l'ultima creazione dell'impotenza.

Donna Augusta mi passò vicino.

— Ceneremo assieme: fate preparare.

Ubbidii.

Quando la quadriglia fu terminata, un cameriere ci aveva già disposto dinanzi un tavolino nero, grande quanto un bacile, con due piatti.

— Portatemi dunque dell'acqua — ella ordinò. — Ancora un sintomo; io sono astemia, il vino è troppo forte per noi.

— Ecco che negherete pure il vino dell'aristocrazia.

— Sicuro! — insistè con uno scoppio del suo sorriso.

— Ad un'aristocrazia, che ha avuto una parte così brillante nella nostra rivoluzione!

— Ricasoli ha inventato il Chianti.

— Siamo giusti: contiamo, sono molti: Cavour, Manzoni, Niccolini, Leopardi, Mamiani, Cibrario, Sclopis, Manin, D'Azeglio, Lamarmora, Pallavicini, Capponi, Dandolo.

— Questi sono i nobili: potreste contarne altri, ma sarebbero ancora individui. Anzitutto la nostra non fu una rivoluzione: una rivoluzione è un'idea nella storia della umanità, la nostra fu un fatto. Per parlare di aristocrazia, l'Italia ne aveva tre: una a Torino, una a Napoli, una a Roma. Quella di Torino si è battuta per il re, come se si trattasse di una conquista, e non era che una egemonia; quella di Napoli lo ha abbandonato nella sconfitta, come ha fatto quasi sempre per tutti i propri re; quella di Roma, la più grande, che avrebbe potuto essere un'oligarchia, perchè in ogni famiglia vi è ancora una tradizione di regno, non ha capito nulla, e non si è mossa. Nessuno dei nobili, che mi avete citato, rappresenta la propria classe, come da Chateaubriand a Montalambert in Francia gli scrittori aristocratici rappresentano la propria. Solitari nello studio, volontari nella rivoluzione, come la chiamate voi. L'aristocrazia è morta, osservatevi intorno.

— Questo è il suo funerale — dissi ripreso dalla mia idea.

— I perduti non ne hanno: essa è rimasta addietro nella storia, come un reggimento di veterani in una grande marcia sforzata. Almeno avesse avuto una Beresina!

— Le occorreva un Napoleone.

— Ogni avvenimento si proporziona i propri uomini. L'aristocrazia non ha avuto un generale, perchè non era un esercito; un uomo politico, perchè non era una classe; un oratore, perchè non era un sentimento. Se l'aristocrazia non fosse stata morta, avrebbe dovuto capitanare il moto della penisola, essa, che avanti di ogni altro poteva avere il senso dell'unità. Prima che Mazzini predicasse la fratellanza fra le provincie italiane e la insegnasse nelle congiure, un marchese di Napoli e un barone di Torino erano già fratelli, perchè erano uguali. Il privilegio serviva loro di unità. Bisognava che l'aristocrazia italiana dopo il primo regno italico avesse aperto gli occhi, e, presentendo i nuovi tempi, vi si fosse acconciata, acconciandoseli. In nessuna nazione del mondo la nobiltà è numerosa e storicamente importante come in Italia: ogni città di provincia conta ancora la propria dinastia. Tutto era possibile ad una classe, che avrebbe avuto per sè le campagne, e non avrebbe avuto contro nessuna altra forza di ricchezza, perchè la gente industriale non era ancora organizzata. La borghesia rivoluzionaria, una avanguardia di scienziati e di poeti, affamata di libertà, febbricitante di entusiasmo, ma in fondo ammalata di vanità come tutti gli eroi, si sarebbe battuta furiosamente sotto la nostra bandiera, perchè non avremmo avuto che ad aprire le nostre fila, e a decorare coi nostri titoli i suoi più illustri capitani per mantenerle la disciplina, e toglierle ogni voglia di ribellione. Allora non vi sarebbero stati che due soli interessi in azione: quello del popolo, che è il benessere materiale: quello dell'aristocrazia, che è il benessere intellettuale. Invece si unì coi preti, e credette di impedire la rivoluzione disprezzandola: doppio errore, che produsse due deformità: il clericalismo, che si batte oltre i confini della religione; il legittimismo, che si batte entro la piccola cerchia monarchica per difendere nel re i propri minimi privilegi di cortigiano. Ah! è sempre stato il mio sogno.

— Il vostro sogno di gloria e di amore.

— Noi avremmo oggi un senato più numeroso della camera, pieno di grandi nomi e di uomini superiori; amministreremmo tutto il paese, e non vi sarebbero ladri nell'amministrazione; serviremmo nell'esercito, e i nostri contadini si batterebbero come leoni col loro signore alla testa. Avremmo un re, che sarebbe nostro pari, come un presidente repubblicano è pari con tutti i cittadini; tutte le glorie e tutte le grandezze, anche il papato, che avremmo subordinato alla patria, come fece sempre Venezia. Ma Venezia era un'oligarchia, e l'oligarchia è la nobiltà nel patriziato. Invece abbiamo degli ufficiali, che si arruolano per trenta scudi al mese; dei deputati, che speculano sul loro mandato; dei consigli comunali, che sono camorre; dei saloni, i nostri saloni, che paiono sale d'ospedale, dove si raccolgono tutte le anemie del corpo e le tisi dell'anima. Confessate, voi, che non avete la goffaggine di essere uno dei soliti liberali, che era un bel sogno!

— Bello come l'impossibile, che è la grande tentazione dei tiranni e delle donne. E voi adesso, invece di essere qui, sareste a Roma, nel vostro palazzo che sarebbe una reggia, più regina della moglie del re, perchè l'impero della donna è di inspirazione e di influenza, e bisogna essere unicamente donna per averlo. Madame Recamier ebbe un impero ben più vasto di madama Staël. Come le principesse del rinascimento avreste la vostra corona di poeti e di scienziati, di politici e di capitani; sareste un idolo ed un oracolo; gentile come Lucrezia Borgia e terribile come Caterina Medici, riverita come Vittoria Colonna e amata come Imperia. Il vostro salone sarebbe un olimpo, il pantheon di tutte le grandezze, il tempio di tutte le glorie. Avreste le spade di Vittorio e di Garibaldi nella stessa panoplia, le bandiere della Cernaia e di Montevideo, di Goito e di Calatafimi nello stesso trofeo. Nel vostro circolo avrebbero discusso Curci e Gioberti, Cavour e Mazzini, e verrebbero adesso a stringersi la mano papa Pecci e re Umberto, mentre Morelli vi cercherebbe una testa di madonna, Boito penserebbe al suo Nerone, Carducci ad un'ode pagana, e Vera, il grande hegeliano, mostrerebbe ad Ardigò, il nuovo positivista, il trionfo del proprio sistema sul vostro, la necessità dei contrari e la loro fusione.

Ma ella non mi ascoltava nemmeno. Si era abbandonata nuovamente sul divano, la faccia immobile in un pensiero. La eletta e delicata vigoria del suo corpo si esprimeva in quell'attitudine con una potenza, che faceva ricordare il sublime ritratto di Agrippina; ma il suo viso più corretto nelle linee si dilatava alla fronte per una più vasta vita cerebrale. I suoi occhi, grandi e tagliati a mandorla, avevano una profondità dolcemente appannata, come a certe ore del mattino l'aria vela tremolando la cavità di una forra. Le sue spalle erano larghe e il suo seno ampio, benchè la cintura le serrasse troppo la vita, divenuta eccessivamente sottile sotto la pressione continua della moda. A che pensava in quel momento donna Augusta? Le dicerie sulla sua relazione con quell'illustre defunto, che l'Italia ha già dimenticato, e che passò attraverso il Parlamento come una cometa fra una folla di astri minori, mi ritornarono allora nella memoria. Quelle idee, frammenti di un antico mondo, colle quali uno spirito audace aveva forse sognato di ricostruirne un altro, e che ella gettava alla rinfusa contro la società moderna, come un grande artista si divertirebbe amaramente a scagliare negli ornati gessosi dei nostri edificii i rottami di un antico cornicione in terra cotta, mi parvero come le reminiscenze di un amore sconosciuto fra due grandi anime, le strofe mutilate di un poema rimasto inedito in un secolo, che non sente più l'epopea. Ella me ne aveva discorso altre volte, ma come per incidente, vibrando il bagliore di un'osservazione nel crepuscolo brumoso delle solite conversazioni. In quel momento ella aveva forse abbandonato la festa, e vagava come uno spirito, che non ha ancora potuto morire, per un cimitero silenzioso. La sua fronte troppo vasta per una donna, e che ella, malgrado le esigenze della moda, mostrava sempre nella sua orgogliosa nudità, aveva l'arditezza di una cupola gettata sopra un tempio; mentre il suo candore, che aveva resistito a tutto, pareva come la casta ragione del suo orgoglio.

Gli invitati sparpagliati per l'immenso salone, a gruppi, presso un divano, intorno a una poltrona; le signore sedute, gli uomini quasi tutti in piedi rumoreggiavano fra un tintinnio di piatti e di bicchieri, di posate e di risa; intanto che i camerieri, superbamente gallonati, passavano e ripassavano fra di loro come tanti dignitarii in mezzo ad un popolo. Per un momento, colle signore nascoste da tante cinture di uomini e che non mostravano se non una macchia stuonata dell'abito, il salone mi parve come una enorme tavolozza, sulla quale aspettassero dei mucchi giganteschi di colori. Sebbene il vento circolasse liberamente dalle finestre aperte, l'aria troppo satura di profumi s'aggravava sul respiro, e le cento fiammelle a gas vibravano un calore accecante di meriggio. L'animazione della festa era al colmo, i fiori cominciavano ad avvizzire, la musica taceva, i discorsi si alzavano stormendo con un suono secco di pioppi. Lo scoppio di una bottiglia di champagne tuonò.

Donna Augusta mi guardò. Mi affrettai ad alzarmi, e, inchinandomele senza dir altro, le offersi il braccio. Ella mi guardò ancora, e si levò. Traversammo quasi inosservati il salone: nell'anticamera le avvolsi intorno al petto uno scialle chinese, miracolo di un'industria, che vanta forse trenta secoli di studii e di progressi; ella mi lasciò fare, se ne accomodò i capi sulle braccia, stringendoselo con una sola ondulazione su tutta la persona. Si assicurò in una mano il mazzo dei gelsomini, il ventaglio nell'altra, quindi rivolgendomi il capo respirò potentemente l'aria più fresca dell'anticamera.

— Grazie — mi disse poi, infilandomi da se stessa il braccio per discendere lo scalone.

Io non risposi.

Il servitore gallonato, che aspettava all'ultimo pianerottolo, ci riconobbe e corse a chiamare la carrozza. Era scoperta: non dovemmo attendere neanche un minuto. Ella vi salì colla leggerezza di un levriero e per risparmiarmene il giro si sdraiò a sinistra: montai. Ella ordinò al cameriere, che chiudeva lo sportello:

— Al lago.

La notte era tiepida, la luna sorgeva allora. Traversammo la città senza dire una parola. I cavalli, due superbi trottatori, battevano sonoramente l'unghia sul ciottolato, trasportandoci colla rapidità di una visione: ma appena fuori delle mura il vento della campagna ci richiamò colla sua dolce sensazione. Ella cangiò posa, scambiò meco un'occhiata, e seguitò a tacere. Io aspettavo. Il nostro silenzio, leggero come il venticello, aveva la medesima mitezza della campagna e la stessa soavità del crepuscolo lunare. Ella pensava sempre. La tappezzeria bruna della carrozza e l'abito nero davano alla sua testa come una sembianza di statua, alla quale i riflessi dorati dello scialle chinese parevano tessere un'aureola evanescente. La campagna era bruna e profonda. L'ombre frastagliate degli alberi cominciavano a ricamare la strada aperta dal solco raggiante dei fanali: i domestici in serpa stavano immobili. Il suo mazzo di gelsomini avvizzito dal bollore della festa esalava un odore più acuto ed insieme delicato, che mi distrasse. Era l'aroma del suo pensiero femminile, o il preludio di ciò, che forse mi avrebbe detto fra poco? Infatti si raddrizzò leggermente sul cuscino, mosse la testa, e con quell'accento trasognato, che in lei sembrava uscire da un lungo soliloquio, mi domandò:

— Ci pensate ancora?

Non compresi.

— Allora ecco la vostra novella.

Involontariamente mi sfuggì un atto troppo vivo di curiosità, ella lo represse con un sorriso, e chinò il capo colla civetteria dei grandi oratori, che preparano una improvvisazione. Il trotto dei cavalli, cadenzato e poderoso come un rullo, avvolgeva la carrozza e dava il prestigio di una confidenza a quanto ella stava per narrarmi. La luna tardava a sorgere: ella incominciò nell'ombra a bassa voce:

— Vi ricordate la prima volta, che vi presentai alla duchessa di Campiano? fu ad una festa di ballo nelle sale dell'ambasciatore di Germania: quella sera la duchessa era anche più bella del solito, era vestita di bianco, stellata di diamanti. Mi pare che poco dopo veniste a dirmi molto bene della duchessa come donna e come dama; ma non mi sovvengo che me ne abbiate più parlato. Voi partiste, ella morì dopo tre mesi. Nessuna meglio di lei incarnava il tipo tanto studiato e così poco capito della gran dama moderna: ne aveva tutte le qualità e tutti i difetti, i caratteri tradizionali e le espressioni contemporanee. Nata in una delle famiglie più nobili e più ricche di provincia, era cresciuta a Firenze in mezzo agli splendori delle ricchezze, alle sontuosità dell'eleganza. La conobbi maritata, ed ignoro la sua infanzia; ma so che, essendo figlia unica, non fu posta in convento, e che sua madre in gioventù non era stata meno bella, nè meno elegante. Il suo fisico ve lo rammentate senza dubbio, il suo morale non lo avete certamente nè indovinato, nè studiato. Ella aveva ventitre anni, due bambine, sei milioni di dote, un marito. Educata in un ambiente aristocratico al disopra del mondo, come il suo palazzo antico era al disopra di tutte le case circostanti, ella non ne sapeva nulla; sembrava istruita ed era ignorante, non aveva letto nessun libro forte, nè riflettuto ad alcun problema umano: non sapeva la storia di nessun popolo e di nessuna idea. Dolce nel carattere come tutti quelli, che non incontrarono mai difficoltà; nervosa fino alle lagrime e all'entusiasmo, non aveva mai provato una qualsivoglia profonda emozione di pietà o di ribrezzo, di odio o di amore. Però aveva un'affabilità irresistibile ed una insolenza incantevole, le maniere morbide e i sentimenti duri: credeva nella religione senza sentirla, accettava i giudizi della propria classe al momento che imperavamo, come ne aveva appreso i modi, e li avrebbe forse istintivamente cercati per la delicatezza innata del suo organismo. Superba fino ad infrangere le leggi dell'etichetta per affermarsi più vivacemente, ma umile e tremante davanti ad ogni pregiudizio; colla freschezza di tutti i bisogni e la decrepitudine di tutte le idee; di una storditaggine, che andava fino alla poesia, e di una osservanza, che oltrepassava la meticolosità; mettendosi naturalmente al centro di tutto senz'altra attrazione che quella delle rose, il colore e il profumo; adorando le feste e i ricevimenti, nutrendosi di occhiate e di sorrisi, non concependo nulla al disopra di se stessa, e non curando quanto poteva essere al disotto; sapendo di essere bella e ricca, nobile e giovane, di possedere tutto e di potere esigere il resto, di essere un'arbitra in casa ed una sovrana fuori; era felice. Il suo egoismo, che aveva la profondità dell'inconscio e la ingenuità dell'esperienza, essendo una grazia, poteva parere un diritto: la sua bellezza aveva una gracilità, che la rendeva più poetica, e dalla quale il mondo interpetrava facilmente la delicatezza dell'anima. Del resto l'avete veduta. Ma quello, che tutti sentivano e nessuno formulava, era la sua coscienza di gran dama, di unicamente dama: vergine senza lirica, sposa senza passione, madre senza fanatismo. Le sue bambine non erano per lei che due gioielli, i più carini, fors'anche i più preziosi, ma solamente una decorazione; suo marito nient'altro che il suo stesso nome e la sua posizione sociale. La vita vera per lei si componeva del palazzo e della villa, del salone e della carrozza, di tutte quelle compiacenze minime e quotidiane, che attirano i privilegi della ricchezza e dell'aristocrazia, dalla servilità dei domestici alle deferenze dei signori più cospicui, delle persone più illustri. La sua vanità, sempre tesa come quella di una cantante, le faceva subordinare tutta la propria esistenza all'approvazione del pubblico, che affettava di non curare; ma il pubblico era per lei di due sorta: quello della piazza, al quale faceva la corte, perchè lo temeva; quello dei saloni, che le faceva la corte, perchè la desiderava. Come le sue eleganze sorpassando la moda non arrivavano mai all'arte, il suo gusto, raffinato senza cultura e senza elevatezza, avrebbe preferito un sopramobile ad un quadro, uno scialle ad un arazzo. Il carattere dominante della sua eleganza e l'ultimo verbo della sua coscienza era la distinzione; questa parola tutta moderna, che vale da sola un dizionario, e contiene tutte le nostre malattie e le nostre superiorità, i nostri sentimenti secreti e le nostre preferenze confessate. Che cosa è davvero questa distinzione, la quale si applica indifferentemente al colore di una stoffa e alla punta di una scarpa, al portamento di una donna e alle forme di un cavallo? Nè Baiardo, nè Vittoria Colonna, che mi avete citato, sarebbero oggi distinti per gente di salone: forse Olimpia Pamphili, se si occupasse meno di politica; ma Paolina Borghese col suo bel corpo di marmo e la sua bell'anima di ferro, no certamente. La bellezza distinta deve essere gracile o almeno angolosa, ma senza idealità nella delicatezza, nè vigore nella angolosità; il profilo di Napoleone primo parrebbe troppo arcigno, la testa della principessa di Lamballe troppo vaporosa. L'affermazione, comune oggi, che le statue greche vestite sarebbero brutte, esprime tutto il contenuto della distinzione moderna; la quale non vuole più il nudo e non sente più il forte, preferisce la decorazione alla semplicità, la mortificazione della fisonomia alla sua calma olimpica o alla sua maestà eroica. I gentiluomini emigrati a Coblenza, che trovavano ridicolo Charette, il quale si batteva e vinceva per loro. La duchessa di Campiano, che accusava Garibaldi di non avere un aspetto signorile, non osando più rinfacciargli la umiltà della nascita! Così ogni vera originalità viene condannata, poichè attesta una superiorità; mentre la distinzione non è che una supremazia collettiva come un marchio effimero di grandi decaduti fra la folla dei sorgenti. Quando i Greci non ebbero più nè potenza, nè libertà, nè arte, nè filosofia, rimasero il secreto della eleganza; sbertarono i Romani, loro padroni, col nome di barbari, e i Romani risposero chiamandoli greculi. Forse allora fu inventata la distinzione, come una rivincita dei vinti contro i vincitori, l'ultimo orgoglio di una razza moribonda, l'estremo vanto di una impotenza, nella quale sopravvivevano i ricordi e svanivano i residui di un'êra immortale. Oggi noi siamo greculi fra il popolo, che ritorna romano. Castellani nel medio evo, potentotti all'alba del rinascimento, principi al suo meriggio, signori al suo tramonto, perimmo nella rivoluzione francese. Fino all'ultimo, quando cessammo a poco a poco di essere noi la civiltà, la proteggemmo; e l'arte e la scienza, l'industria ed il commercio, tutto fu nostra clientela. Adesso una immedicabile incapacità ci condanna al più ignobile dei parassitismi, siamo senza testa e senza cuore, senza funzione nello stato e senza carattere nella nazione. Il disprezzo del denaro, che era stata la nostra ultima virtù, è perito colla nostra ricchezza; accattiamo gli impieghi e vendiamo i blasoni: sopprimete la monarchia, che ci dà ancora qualche onorificenza nei balli di corte, e saremo senza prestigio. Solo l'aristocrazia inglese, sorta l'ultima, quando la nostra, la più antica, cominciava a decadere, ha ancora una qualche coscienza di se stessa; ma la rivalità di opulenza coi grandi industriali la costringe alle stesse avare cupidigie, alle ferocie della grande cultura contro i poveri contadini; e mentre i mercanti uccidono gli operai nelle fabbriche, i lordi disertano la Scozia e l'Irlanda. Però la nobiltà inglese ha un orgoglio, e noi non abbiamo che una vanità. Essa crede alla propria superiorità naturale, e quindi empie le proprie fila di tutti gli aristocratici del caso, nati nelle soffitte e che giganteggiano fra la plebe; giacchè l'aristocrazia o è un fatto naturale o è nulla: noi invece ci siamo chiusi nella sua forma storica, e vi ci siamo incadaveriti, rinnegando il principio, che l'aveva creata, e faceva la sua forza. Quando il cristianesimo bambino si contrappose alla filosofia greca, Tertulliano gli salvò la vita nel terribile confronto con una sola parola: tutto ciò che vi era in essa d'immortale era un prodromo del cristianesimo: l'aristocrazia doveva ad ogni generazione ripetere il motto di Tertulliano alla plebe, e strappandole ad uno ad uno i suoi grandi, dire loro: voi mi appartenete. Invece la nostra vanità li ha respinti; mentre essi erano belli, noi volemmo essere distinti; mentre essi erano forti, noi ci vantammo di essere eleganti; mentre essi lavoravano, noi dichiarammo umiliante ogni lavoro. Essi inventarono il vapore, e noi perdemmo il coraggio di domare un puledro; svilupparono le scienze, e noi abbandonammo le scuole; mantennero l'arte, e noi abbassammo gli artisti al livello degli artigiani. Andammo ancora a teatro, ma unicamente per far pompa di una indifferenza insultante, arrivando infallibilmente dopo il primo atto e partendo al penultimo: leggemmo i loro libri, ma senza spremerne il significato, come si odorano i fiori in certi momenti di distrazione, o li accettammo come un omaggio dovuto alla nostra regalità, un passatempo prodigato alla nostra noia. E per l'illusione logica di tutti coloro che sopravvivendo a se stessi si credono i soli a vivere, battezzammo la nostra congregazione col nome di alta società, il nostro mondo coll'aggettivo di grande. Poi costretti all'appariscenza del lusso, non avendo più alcuna apparenza di grandezza, fummo più condiscendenti verso il danaro che verso l'ingegno; non dimandammo la fedina criminale all'usura, e chiedemmo al genio il suo blasone. Le signore presero per propri i colori della tisi, non ispirarono più passioni e non ne sentirono; bandirono dalla vita l'idillio ed il dramma per lasciarvi una commedia senza spirito, una satira senza profondità. Per essere veramente dame cessarono di essere donne: ebbero una religione senza pietà, una fede senza luce; furono senza patria, perchè non avevano più famiglia; senza poesia, perchè erano senza vita. Ah! me ne dimenticavo quasi, la duchessa di Campiano era così.

E donna Augusta si raccolse un istante.

— Quando conobbi la duchessa di Campiano la sua bellezza era in fiore, e la sua celebrità cittadina nel massimo frastuono. La sua vita, vuota di sentimenti e di azioni, era occupata febbrilmente dalle visite e dai balli, da tutte le necessità mondane delle sue innumerevoli relazioni e dei suoi trionfi. Colla casa piena delle più abili cameriere, non pensava mai che alle eleganze della toletta, alle soddisfazioni delle più minuscole vanità. La duchessa di Campiano non aveva salone. Dava due o tre grandi balli nell'inverno, qualche mattinata, qualche rarissima serata, se qualcuno o qualche cosa gliene fornivano il pretesto, perchè non sentiva nè il raccoglimento della famiglia, nè l'intimità di una corte. Le occorreva la folla sempre e dappertutto. I suoi trionfi di decorazione avevano d'uopo di una luce da palcoscenico, del fracasso di una grande orchestra, dell'applauso di una platea; e quindi le conveniva mutare spesso di pubblico per non stancarne la sensibilità di spettatore e permettere a se stessa il bis di qualche abito o di qualche piccolo motto. Come una prima donna nella retroscena di un teatro fra la folla degli inservienti e degli istrioni senza nome, la duchessa di Campiano era sempre sola nel suo palazzo e fuori, camminando circonfusa di una superbia indefinibile, passando come una visione che non scaldava i cuori e non ottenebrava le menti; leggiera ma inconsistente, profumata ma insipida, insensibile ma non sentita. Tutti la vantavano, e nessuno l'ammirava. Aveva dello spirito, e i suoi motti non restavano; era bella, e non aveva ancora destata una passione.

Ma ella non se ne accorgeva. La necessità di questa prova, che è una tentazione degli spiriti elevati, ella non la sospettava nemmeno; la unanimità dei complimenti le attestava la propria eccellenza, le temerità di qualche uomo, che come baleni da una nuvola troppo carica di elettrico le scattavano attorno, le provavano la sua onnipotenza di donna. Non avendo mai riflettuto, non aveva mai dubitato: invece di osservare, guardava; invece di cercare, accoglieva. Ella era dappertutto; non avrebbe permesso ad un ballo di essere citata senza avervi fatta una apparizione; ai bagni, non si sarebbe lasciata passare un'onda al di sotto senza sollevarvisi. Come una regina, aveva nominato le proprie dame di corte, quattro o cinque signore, alle quali gettava gli avanzi dei propri trionfi, e che la decantavano dovunque per dichiarare la propria intimità con lei e col suo genere di vita. Una sola volta disse meco di volersi comporre un salone, ma le difficoltà ne la spaventarono; e non vi sarebbe riuscita. La povera duchessa avrebbe dovuto far ballare tutte le sere per divertirsi e per far divertire. Ella non lo voleva, e il duca non glielo avrebbe permesso malgrado la sua grande condiscendenza. Essi vivevano quasi separati in un commercio molto amabile ed insieme molto freddo. Il loro matrimonio, determinato da mille ragioni di interessi, non aveva avuto naturalmente che il significato di una associazione, nella quale la galanteria era potuta arrivare sino alle conseguenze dell'amore. Del resto il duca era un gentiluomo molto distinto, che sapeva dirigere un ballo come guidare un tiro a quattro, e avrebbe disimpegnato nobilmente qualunque carica a corte. Non aveva voluto essere deputato; ma, appena l'età glielo permettesse, sarebbe senatore. Che cosa egli medesimo facesse e di che vivesse, era un mistero: era non so cosa in municipio, qualche cos'altro in molte banche, presidente di una società operaia o simile, per quella solita contraddizione del popolo, che odia i signori, e non sa far niente, se non sono almeno in apparenza alla sua testa; ed ecco un sintomo della legittimità dell'aristocrazia. Ma il duca lasciava la massima libertà alla duchessa. La conobbi e mi piacque: ella mi preferì per un certo tempo, perchè con tutte le smanie secrete di sovranità, aveva un bisogno ancora più secreto di essere dominata e di obbedire. Come a tutti i satelliti le occorreva un astro, intorno al quale gravitare; e prima che entrassi nella sua intimità, era quasi a discrezione di una cameriera. La duchessa, che parlava moltissimo come tutte le signore senza spirito, mi raccontò presto tutta la sua vita e le sue idee, con la ingenuità di chi non può nemmeno sospettare di aver torto, perchè non vede il contrario. Non era nè felice nè infelice, ma era contenta senza volerlo ammettere, per quella condiscendenza volgare verso il dolore, che è in tutti i discorsi sulla vita. Forse qualche volta si annoiava, ma era una lassitudine dei nervi, più che una stanchezza dello spirito, una disoccupazione della testa, piuttosto che un vuoto nel cuore. Siccome si afferma che il cervello di noi altre donne è più piccolo di quello degli uomini, avrei voluto vedere quello della duchessa, perchè fra il cervello di noi signore e quello delle altre donne ci deve essere altrettanta differenza. Benchè facciate il romanziere, non saprete mai misurare il cervellino di una dama, e farne la nomenclatura delle idee. Un uomo solo, il più gran genio del nostro secolo, Balzac, ci ha ritratte con una verità insuperabile ed insultante, impassibile ed immortale. Voi, mio caro Di Banzole, perderete dieci volte la vita prima di apprendere a decomporre la più semplice delle nostre fisonomie, a risolvere la più facile delle nostre contraddizioni. Forse il piccolo è più difficile del grande, forse il microscopio ha più secreti del telescopio. Nemmeno le grandi donne vi riescono: guardate la Stäel, George Sand, Giorgio Eliot, Elisabetta Browning, e paragonatele a Balzac. Le loro analisi femminili sono le più monche e le più false della letteratura moderna: o romanticismo tragico della prima maniera, o romanticismo casalingo della seconda; analisi vera mai. Quante volte Balzac deve aver sorriso dall'alto della sua immensa opera di titano, osservando le grandi scrittrici del nostro secolo salire sulle montagnuole dei giardini per imitarlo, e credere così di riuscirvi. Non si giudica se non ciò che si è oltrepassato; non si ritrae se non quello che ci è sottoposto: noi donne non possiamo comprenderci, e gli uomini non lo possono del pari, se non alzandosi al disopra del rapporto, che li unisce con noi. Dante, Shakespeare, Goethe, Balzac... Anche voi altri siete in pochi. Ma se i primi tre sorpresero i generi e le specie, il quarto fece ancora meglio, e sorprese le famiglie e gli individui. Oggi si vorrebbe fare di più, e Zola studia le malattie; ma ciò è molto meno, perchè le eccezioni sono più facili della regola, ed hanno fatalmente minore estensione e minore profondità. E voi, Di Banzole, dove tendete col vostro povero lirismo filosofico, che non riscalda e non rischiara, che ha tutti i difetti della lirica e della filosofia, quando vogliono diventare drammatica? Voi, che siete sempre al di là del vero, e al disotto del bello: povero romanziere di una nazione, che non ne ha avuto che uno, e non ne ha più; che credete alla necessità di scrivere, mentre potreste fare come me, che racconto solamente...

— Raccontate dunque.

— È vero. Quasi rimpetto al palazzo della duchessa di Campiano, all'angolo di una casetta antica colle bifore, appoggiato ad un pilastro di granito rosso, stava sempre un povero zoppo. I suoi cenci pieni di colori e di buchi avrebbero entusiasmato un pittore, la sua testa fatto fantasticare più di un poeta. Una gran barba, che cominciava a brizzolarsi anzi tempo, gli saliva fino agli occhi, e gli scendeva sul petto. I capelli gli uscivano a ciuffi dalle orecchie, e quando si traeva il berrettone per tenderlo col gesto umile del mendicante, gli si vedevano incollati sulla fronte, come a certe figure delle stampe antiche. Era zoppo da una gamba, pallido e sofferente. L'enormità del suo piede infermo, tutto fasciato di stracci, spiegava forse l'espressione macilenta del suo viso, e la malinconia del suo sguardo. Aveva gli occhi neri, oblunghi, di un taglio squisito e di una profondità mistica. S'appoggiava su due gruccie; una lunga, imbottita, che gli sorreggeva l'ascella; l'altra piccola, a bastone, sulla quale la sua mano si era deformata nella lunga e faticosa pressione. Da qualunque finestra del palazzo Campiano vi affacciaste, eravate sicuro di trovarlo accanto al suo pilastro, la fronte china, le spalle curve. Quando pioveva, si riparava sotto l'arco della porta più vicina, e vi restava invariabilmente sino all'ora di notte. Quindi se ne andava a passo lento, e mi ricordo di aver sentito più di una volta dall'appartamento della duchessa la percossa cadenzata delle sue stampelle, che nella notte rimbalzava sino ai vetri delle nostre finestre. La mattina tardi, mai prima delle nove, ricompariva al suo posto. Non chiedeva l'elemosina che alla gente ben vestita, ma la dimandava col gesto: si spiccava appena dal pilastro, allungando uno dei bastoni, si protendeva, abbassava la testa, alzava gli occhi con una attitudine da martire. Il suo berrettone, scuro e senza fiocco, era di quelli, che usano i carrettieri nella campagna romana. Ma non ringraziava altrimenti che battendo gli occhi e non invocava mai il nome di Dio. Forse la distinzione delle sue maniere, Donna Augusta ebbe un sorriso, e la sua poca importunità gli valevano la tolleranza delle guardie, e un ricolto quotidiano abbastanza abbondante. Però egli non mutava mai vestito; solamente nell'inverno si ravvoltolava in un mantello vecchio, a doppio bavero, con un grosso fermaglio a catenella di ottone, e si metteva due guanti a maglia senza dita. Il pallore di quel po' di faccia scoperta gli si faceva livido, e l'occhio gli si velava di una lagrima diacciata. Ma nemmeno allora, sotto il peso di quella nuova miseria, apriva la bocca, o faceva un gesto di più. Per una di quelle solite contraddizioni, che sono quasi sempre un'insolente ironia, si chiamava Prospero; e i monelli, che qualche volta avevano cercato inutilmente irritarlo, lo avevano battezzato Prosperaccio. A pochi passi, svoltando, v'era la chiesetta di santa Barnaba, nella quale la duchessa andava quasi sempre la domenica a messa. La messa era alle undici e mezzo. Appena ella usciva a piedi del portone, Prospero, che spiava chissà da quanto tempo, si raddrizzava alla meglio, tirava indietro il piede ammalato, e si cavava il berrettone come i devoti all'avvicinarsi del viatico. La duchessa ne sorrideva nel suo interno, e gli dava invariabilmente mezza lira. Ma neanche a lei Prospero aveva mai detto grazie colla voce. Se fra giorno la duchessa usciva a piedi, sola, e passava dall'altro canto della strada, Prospero non le andava incontro ad importunarla; restava addossato al proprio pilastro, dritto nella posa più composta, e si cavava il berrettone senza curarsi che la duchessa lo vedesse o no, e gli rispondesse con uno dei suoi invisibili cenni del capo. Se la duchessa gli passava vicino in compagnia di qualche amica, Prospero si traeva rispettosamente il berrettone, ma non lo allungava. La duchessa colpita da questa discrezione piena di buon gusto lo aveva elevato a suo primo povero, e ne aveva parlato colle signore. Qualcuna era passata apposta di lì per conoscere Prospero, gli aveva fatto l'elemosina, ricevendo lo stesso ringraziamento muto, e riportandone la stessa buona impressione. Ma a poco a poco Prospero era entrato nel palazzo di Campiano. Non che vi avesse mai posto il piede, ma aveva attirato l'attenzione dei domestici, sempre pronti a sorvegliare le preferenze dei padroni; e la sua sorte se ne era ancora avvantaggiata. Le cameriere gli davano qualche soldo, gli sguatteri qualche avanzo. Egli accettava tutto cogli stessi buoni modi, ma non parlava che con una vecchia guardarobiera, la quale, passandogli innanzi, si fermava sempre a dirgli qualche cosa. Non so qual genere di amicizia fosse la loro, ma ella se ne vantava cogli altri servitori, e aveva potuto parlarne anche colla duchessa, che aveva sorriso. Prospero, raccontava la vecchia, le dimandava sempre nuove della salute della signora duchessa, parlava di lei come di una santa, e le augurava tutte le felicità; una volta aveva persino chiesto se era contenta al mondo, e se andava bene in famiglia.

— Figuratevi, tutti l'adorano.

— Lo credo bene — aveva risposto Prospero; poi aveva strizzato gli occhi soggiungendo: — e col signor duca?!

— Ma si adorano: non vi è mai stato marito e moglie che si amino di più.

La duchessa sorrideva sempre di questo racconto, che l'altra le ripeteva ad ogni caso, con intenzione maligna, mentre invece chissà cosa aveva raccontato a Prospero sulle relazioni intime della duchessa col duca.

Infatti la loro freddezza non poteva essere un secreto nel palazzo. Il duca allora aveva una ballerina celebre, che gli costava più di uno scandalo. E poco a poco io stessa mi ero interessata a quel povero zoppo. Qualche frase della duchessa, la miseria pittoresca degli abiti di lui, l'espressione quasi mistica della sua faccia, il suo contegno, la immobilità della sua vita, lì, all'angolo di quella casa, mentre tutta Firenze gli si agitava incessantemente intorno, me lo richiamavano tratto tratto alla mente con una di quelle insistenze inesplicabili, le quali ci producono la sensazione indefinibile di qualche cosa, che stia per aggiungersi alla nostra vita, di un altro filo, che entri nella nostra trama. Ma quando gli passavamo innanzi colla duchessa, siccome gli guardavo nella faccia, egli evitava costantemente, e con una specie di paura, il mio sguardo. La duchessa invece arrivava qualche volta perfino a sorridergli. Una domenica di primavera, che ritornavamo da una visita, la duchessa aveva un mazzo di viole bianche ad un bottone del cappotto: quella mattina ella era di una gaiezza eccessiva: appena vide Prospero si cercò in tasca il portamonete, ma non trovandoselo, si sbottonò il cappotto:

— Poveraccio! — esclamò col suo riso inimitabile — dammelo tu, Augusta.

Gli eravamo già davanti. Prospero, che si era tratto rispettosamente il berrettone vedendoci spuntare all'angolo della strada, si curvava già per il suo inchino, quando la duchessa nel riabbottonarsi il cappotto perdette una viola. Malgrado la difficoltà di quell'attitudine e della gruccia, colla quale si sorreggeva, Prospero si precipitò per raccoglierla con tale violenza, che gli strappò un urlo sommesso di dolore; si rialzò pallido come uno spettro, e mentre stavo per aprire il mio portabiglietti, ci disse con accento cavernoso:

— Se la mi permette, tengo questa.

La preghiera andava alla duchessa, ma era rivolta a me. Lo sentii, e sentii che Prospero mi temeva. La duchessa soffocò una risata al complimento, lo ringraziò con un moto di testa come avrebbe risposto in un salone alla galanteria di un principe del sangue, e passammo oltre. Ne scherzò meco lungo tutta la strada, poscia non ne parlammo più. Poco dopo io partii per Ostenda. Quando ritornai, qualche cosa era accaduto fra il duca e la duchessa. Una sera d'estate, che uscendo dal Niccolini si erano fermati a prendere un sorbetto al Bottegone, una ragazza ed un vecchio vennero a piantarsi davanti al loro tavolino. Il vecchio suonava la viola, la ragazza cantava accompagnandosi sulla chitarra. Quella ragazza, l'ho poi vista molte volte, era di una rara bellezza, sebbene già avvizzita. Si diceva spagnuola, e vestiva il costume andaluso come lo acconciano in teatro, ma forse non era che siciliana. I capelli di un nero senza nome, pieni di ondulazione e di lampi, le incorniciavano con civetteria di ritratto il volto livido ed ovale. Aveva una fronte molto alta, con due sopracciglie troppo sottili, ma di una grande purezza di disegno, sopra due occhi, dei quali era impossibile immaginare gli eguali. Erano così profondi, che di primo tempo non se ne sentiva la grandezza: avevano le palpebre quasi lunghe come la frangia della gonnella, e una luce che teneva dell'abbarbaglio. Il naso leggermente ricurvo colle narici palpitanti le dava un profilo da uccello di rapina, mentre le labbra, rientrando, le lasciavano trasparire la bianchezza stridula dei denti di porcellana. Era di mezza statura, le spalle piuttosto curve, i fianchi arcuati, le braccia lunghe; ma il busto, a colori sotto la baschina nera, le rialzava il seno con una temerità, che aveva quasi della violenza, e dava al difetto delle sue spalle e dei fianchi tutta la provocazione, che possono contenere questi due deliziosi difetti. Infatti il suo collo era curvo come le sue spalle; pareva tutta un po' curva, col seno troppo alto come le donne, che sapendone profittare, vi mettono col piccante di una sincerità la tentazione di tutte le interpetrazioni. Quindi camminava quasi sempre a testa china, appoggiandosi naturalmente la chitarra sul grembo turgido come il seno. Spesso pure si guardava i piedini, i più piccoli che io abbia visto, calzati invariabilmente di una scarpetta scollata, di pelle bronzina, sopra le calze di una tinta molto pallida. Ma quando guardava era un'impressione di luce come il muoversi di uno specchio, dentro al quale mille lingue di fiamme vampeggiassero e svanissero. Però la sua voce stridula sarebbe stata insopportabile senza la stravaganza di quel costume, e la poesia della sua figura. A Firenze le avevano messo nome la Gitana, ed era l'avvenimento di tutti i caffè. Una folla di ragazzi e di donne la seguivano di uno in altro più per vederla che per udirla. Ella cantava una romanza spagnuola, o togliendo di mano al vecchio, un insipido figurante, la viola, vi suonava alla meglio un fandango. Quando aveva finito si traeva di tasca un piattino bianco, e andava disinvoltamente in giro, destreggiandosi tra le frasi e le occhiate. La prima sera il duca e la duchessa si erano fermati ad udirla quasi con piacere; ma, tornandosi a casa la sera dopo, allo svoltare di una strada avevano trovato la Gitana. Il duca, pretestando di essere aspettato altrove, aveva lasciato la duchessa al portone, ed ella si era naturalmente immaginato che ritornasse sulle orme della Gitana. Infatti era stato così. La duchessa, che non poteva essere gelosa, non si sarebbe occupata di questa nuova avventura, se il duca non si fosse imprudentemente mostrato la notte in ogni caffè di Firenze dietro la Gitana, come un novellino. Le amiche della duchessa si affrettarono quindi a pungerla con nuove malignità; e, malgrado che ella ne ridesse con una gaiezza fino ad un certo punto sincera, la sua indifferenza non giunse a togliere ogni alimento alla loro cattiveria. O il duca impazzisse davvero, o qualche cosa di funesto dovesse cadere sulla famiglia Campiano, il suo carattere si era fatto piuttosto chiuso, perdendo così col bell'umore la sua sola grazia. Un'altra sera, al Bottegone, che la marchesa Erminia d'Armillara era colla duchessa e col duca, la Gitana venne a postarsi davanti al loro tavolino. Io ero a pochi passi col povero Rattazzi. La Gitana aveva rinnovellato il proprio abito, conservandone ed arricchendone il costume. La baschina nera ricamata in oro sfolgorava, il busto aveva un balenio d'iride, le calze erano di seta, e un magnifico fornimento di corallo rosa le ornava la testa ed il collo, i polsi e gli orecchi. M'ingannai o mi parve che ella mettesse una speciale intenzione nel prescegliere il tavolino della duchessa, la quale naturalmente finse di non accorgersene.

Quella sera i tavolini erano più affollati, la gente gremiva il marciapiede: sarà stata circa un'ora; non passava più alcuno per la strada. Tutta quella gente che si era fermata al caffè veniva da teatro. La Gitana cantò una romanza napoletana, come un complimento, che ella spagnuola facesse all'Italia, e che la goffaggine del suo accento straniero rendeva più grazioso. La canzone aveva il colore e la nudità del mezzogiorno. Il pubblico, in quell'ora per la maggior parte di giovanotti eleganti, l'accolse con una simpatia clamorosa: e quindi s'intesero dei bisbigli, che scoppiarono al finale in un motteggio di applausi. Ma tutta quella folla aveva penetrata la oltraggiosa intenzione della Gitana; la presenza della duchessa atteggiava quasi drammaticamente la volgarità della scena. Il duca, che non poteva non provare quella tensione, profittando del cicalio della duchessa colla marchesa D'Armillara, per una delle sue morbose vanità di scandalo, si mise francamente a guardare la Gitana. La quale cantò la romanza più malamente del solito. Si volle il bis, la replicò, la dovette replicare ancora, e andò in giro. La duchessa, che non perdevo d'occhio, ebbe un'occhiata sublime di indifferenza quando la Gitana le si presentò col piattello: mi sembrò che l'altra trasalisse, ma certo trasalì la folla, che passò istantaneamente dalla parte della duchessa. La Gitana proseguì la questua sotto il nuovo peso di tutti gli sguardi e la percossa di tutte le parole, e si fermò davanti a noi. Il povero Rattazzi la guardò attraverso i suoi occhiali usi a scrutare dappertutto, la prese, la gittò dentro uno dei suoi motti, profondi e freddi come un pozzo. In quel momento alla luce di un fanale scorsi Prospero appoggiato all'angolo del Duomo, che seguiva collo sguardo la Gitana. Non so perchè fremetti. Poi la Gitana prese dal vecchio la viola e suonò la nuova canzone di Piedigrotta con una posa più corretta di artista: salutò, partì, gran parte del pubblico fece altrettanto. Allora me ne andai io pure senza parlare alla duchessa. L'indomani ricevetti un suo biglietto pressante; risposi che non avrei potuto sull'atto, e che a sera sarei passata al suo palazzo. Mi aspettava: era agitata, una collera fredda le balenava dagli occhi. Senza darmi nemmeno il tempo di interrogarla, mi raccontò come il duca volesse invitare la Gitana per la loro ultima serata d'addio agli amici, prima di partire per Sesto Fiorentino. La duchessa aveva sulle prime creduto ad uno scherzo di cattivo genere, ma egli si era fatto serio, mettendosi a spiegarle tutte le ragioni in favore della propria proposta. Certo la Gitana era tutt'altro che una buona cantante, ma essendo spagnuola, col costume spagnuolo, suonando dei balli di Spagna, offrendo così l'occasione di improvvisarne qualcuno colle nacchere, diventava più che possibile in una serata di amici, che l'avrebbero presa come un anticipo sui divertimenti della campagna. E il duca tornava sullo scherzo con quella persuasione dei propositi deliberati, che fanno sentire sotto la gaiezza dell'accento l'irritazione di uno sforzo. La duchessa offesa più nel suo orgoglio di dama, che nella sua dignità di donna, si era opposta con risolutezza sprezzante, senza degnarsi neppure di cercare se sotto quella sconvenienza si nascondesse una abbiezione. La discussione, lunga e difficile per se stessa, si era finalmente conchiusa in un alterco; ma siccome il duca non poteva addurre altre spiegazioni a questo capriccio che la propria volontà, la duchessa aveva allora dovuto provarne la percossa come donna. La sua testa ne aveva rintronato, immaginandosi subito che quello fosse un proposito della Gitana per mettersi meglio in voga, una condizione infame che gli avesse messo ai propri favori. Qualunque altra donna al posto della duchessa avrebbe trovato nello sdegno o nel dolore della propria coscienza la forza di umiliare o di convincere quell'uomo: sarebbe stata solenne nel silenzio, e eloquente nelle parole; avrebbe avuto di quelle frasi che tolgono il respiro, di quelle osservazioni che dissolvono ogni pertinacia. Ella non trovò nulla. Non contrappose che la propria vanità di dama, non invocò che le convenienze dell'etichetta: poi gittandosi nell'ironia, senza osare di strappargli il secreto, volle flagellarlo col ridicolo di ricevere condizioni chissà da chi e a che prezzo, mentre tutta Firenze ne rideva. Il duca, che non mancava al tutto di spirito, l'aveva rimbeccata; i sarcasmi erano arrivati fino alle insolenze, le insolenze quasi alle minaccie. Ella già impaurita aveva allora dichiarato che ritirerebbe gl'inviti: egli l'aveva guardata freddamente negli occhi, e l'aveva sfidata a questo coraggio. Quello sguardo l'aveva atterrata. Il duca se n'era andato intanto che ella scoppiava a piangere; e in quel momento, raccontandomelo, le lagrime le tornavano nuovamente agli occhi. Sulle prime aveva pensato di dare la serata, e di mancarvi con un pretesto qualunque; ma poi aveva riflettuto che la sua assenza renderebbe anche più viva l'ingiuriosa presenza della Gitana nel suo salone. Era pallida, cogli occhi gonfi, la testina arruffata e spiritata. La inanità della sua natura si rivelava tutta in quel frangente, guadagnandovi quasi una grazia di bambino. Le idee più strane, i divisamenti più inconcepibili le si affaccendavano nel discorso; poi ne smarriva il filo, e si abbandonava a lagnanze di un comico irritante. L'ascoltai pazientemente. Però siccome non le rispondevo, alla fine s'inciprignì anche meco. Le amiche l'abbandonavano. Invece non volevo che vedere a qual partito si appiglierebbe; ma non ne trovando, conchiuse quasi sbadatamente di avermi mandato a chiamare perchè le dissuadessi il marito. Allora le feci notare la sconvenienza di invocare un estraneo in questo loro pericoloso dissenso; se non che mi interruppe, e passandosi la mano sulla fronte con un gesto carino, inesprimibile di superbia, disse: parliamo d'altro. Quindi si mise per altri argomenti senza però diventar più calma. Eravamo nel suo salotto favorito, una scatola di raso, un astuccio delicato per una preziosa pupattola. Malgrado il turbamento di quella giornata, ella aveva trovato il tempo per una toletta dolcissima, di un buon gusto minuzioso, che finiva di togliere alla sua figura ogni supposizione di forza, per lasciarla come dentro un vapore bianco, un'aria profumata. Nessuno dei suoi lineamenti esprimeva un pensiero, nessuna delle sue contrazioni tradiva una passione. Allora la richiamai al primo discorso, promettendole di fare ogni possibile per distogliere il duca dal suo tristo capriccio, se le circostanze me ne porgessero il destro. Ella mi enumerò quindi tutte le necessità dei riguardi mondani, il rispetto del nome, del salone, degli invitati, e conchiuse:

— Infine anch'io sono donna.

Quando uscii dal palazzo rividi Prospero non più appoggiato al suo pilastro, ma dirimpetto al portone. Erano le dieci. L'osservai meravigliata di quella sua ora insolita, e mi parve che egli pure mi esaminasse; ma i miei cavalli partirono rapidamente, e lo perdei. L'indomani mi fu impossibile vedere il duca; assunsi qualche informazione, e seppi che tutte le sere andava dalla Gitana, la quale abitava il pianterreno di una casipola a S. Spirito. Recandomi quindi dalla duchessa, per strada, vidi la guardarobiera stretta in colloquio con Prospero al solito pilastro. Credetti che si trattasse di una confidenza, perchè parlavano in fretta, a bassa voce, Prospero cogli occhi fissi al suolo, come chi stia per prendere una risoluzione, l'altra con gesti concitati, guardandosi spesso intorno. Quando mi scorse, sussultò, ne diede l'avviso a Prospero, che levò repentinamente la testa, scambiarono ancora una parola, e si separarono. Ma la vecchia forse temendo che la interrogassi, invece di entrare a palazzo, tirò oltre. La duchessa non era in casa. Ripassando dinanzi a Prospero mi sembrò che fosse più pallido e sofferente, si trasse rispettosamente il berrettone, ma non me lo tese. Io stessa ero nervosa: nella sera Rattazzi venne a vedermi, e mi distrasse. Eravamo alla vigilia dell'ultima spedizione di Garibaldi a Roma, vi basti questo. Rattazzi mi espose il proprio piano, nel quale il pubblico non doveva capir nulla, come infatti avvenne, e che doveva attirargli, sulla sua piccola testa di grand'uomo, la esecrazione temporanea di tutto il paese. In quel momento Rattazzi era persino bello: i suoi occhi bruni ed acuti come la punta di un succhiello avevano attraverso gli occhiali un dardeggiamento assiduo ed insopportabile; le sue frasi scattavano, la sua ossuta figura di scheletro pareva slogarsi a certi gesti terribili ed imprevisti. Il duca e la duchessa colla miserabilità dei loro dissidii mi passarono quindi di mente; ma all'indomani la Gazzetta d'Italia annunziava che la Gitana era stata uccisa nella notte, tornandosi a casa, per un viottolo presso S. Spirito, da un accattone zoppo, che si chiamava Prospero. Compresi subito che doveva essere lui. Il giornale raccontava tutti i particolari della tragedia. Pareva che da qualche notte lo zoppo pedinasse instancabilmente la Gitana; e più d'una volta, fermandola per chiederle l'elemosina, avesse tentato di parlarle: ella gli aveva badato poco o punto, finchè l'ultima sera aormandola sempre a poca distanza, Prospero l'aveva raggiunta per quel viottolo deserto. Era oltre mezzanotte, non passava anima viva. Prospero si era levato il berrettone colla sinistra, tenendolo umilmente; ma la Gitana, importunata, gli si era rivolta di mal garbo, e il vecchio suonatore lo aveva minacciato. In quello stesso punto Prospero si era allungato improvvisamente vibrandole una orribile coltellata nel seno: la Gitana era caduta gittando un urlo straziante, il vecchio si era slanciato; ma, vedendo l'altro col coltello fumante, aveva pensato meglio di darsela a gambe, mentre Prospero, che, perduto l'equilibrio, si reggeva a stento sul bastone, traboccava egli pure sul corpo insanguinato della Gitana. La strada era deserta, il vecchio suonatore scomparso cacciando stridi da spiritato. Che cosa si fossero detti quei due in quel momento nessuno lo sapeva; ma quando sopravvennero le guardie, e fu prontamente, la Gitana era morta. Due seconde coltellate, una alla gola e l'altra al cuore l'avevano quasi dissanguata; Prospero, che le aveva lasciato il coltello nell'ultima ferita, tentava di rialzarsi sulla gruccia. Alle interrogazioni violente delle guardie, e a tutte le irruenze dell'altro vecchio, che vedendolo disarmato voleva finirlo, non aveva risposto una sola parola; solamente aveva osservato che ammanettandolo non avrebbe potuto camminare; e si era lasciato condurre al primo corpo di guardia. I questurini avevano raccolto la chitarra rotta ed insanguinata; il coltellaccio omicida era terribile, un'arma da beccaio perfezionata da un assassino. Vi ho ripetuto tutti questi particolari perchè mi si sono fissati uno ad uno nella mente. Ma quale era la causa di un simile delitto? La Gazzetta, che vi consacrava un lungo articolo colla compiacenza propria dei giornali per i delitti misteriosi, moltiplicava le congetture più drammatiche, finendo per attaccarsi all'ultima, che Prospero fosse disperatamente innamorato della Gitana. Intanto prometteva per l'indomani altri dati sulla vittima, che pareva una signora napoletana, costretta da una passione infelice a quel povero e tristo mestiere. Tutta Firenze non parlò che del trucissimo caso, e del lungo articolo della Gazzetta; la curiosità cittadina fu eccitata, gli altri giornali intervennero, e allora le ipotesi e le spiegazioni si urtarono. Ognuno conosceva qualche lembo del secreto, qualche circostanza decisiva; fu un pettegolezzo assordante e feroce. Quel dopo pranzo la duchessa era venuta a trovarmi e non aveva dissimulato la propria allegria. Mi assicurò che Prospero era proprio lui, e che era innamorato della Gitana. Siccome lo aveva letto nella Gazzetta, lo aveva già creduto. Avrebbe desiderato parlarmi del duca, ma voleva essere interrogata, e non lo feci. Allora l'inconscia brutalità del suo egoismo, che in quella tragedia, forse degna di un grande poeta, non vedeva se non il trionfo legittimo di un'etichetta, mi irritava contro di lei. Domenica sera la sua ultima serata non avrebbe una stonatura! Ma fossi troppo aggrondata, o ella sentisse confusamente in me la cattiva impressione dei suoi discorsi, e ne temesse qualche scoppio, mi fece ancora un complimento, e se ne andò. Seppi che la sera di quel giorno il duca partì per Sesto Fiorentino. L'avventura ben altrimenti sanguinosa di Mentana mi fece presto scordare di Prospero; quando, molti mesi dopo leggendo nella stessa Gazzetta il resoconto del discorso di Rattazzi, quel capolavoro che durò tre giorni e che io andavo religiosamente ad ascoltare dalla tribuna diplomatica, mi cadde sott'occhio l'annunzio della causa di Prospero. Era per l'indomani. Difendeva un avvocato di nome ignoto come accade sempre per i poveri; un giovane, che adesso è una piccola celebrità ed un piccolo talento. L'indomani Rattazzi non parlerebbe. Decisi quindi che sarei andata alle Assise. La sera m'incontrai da Gino Capponi colla duchessa, la quale aveva pure letto l'annunzio, e si sentiva la medesima voglia: concertammo di esservi insieme. Era una magnifica giornata. Andando a prendere la duchessa nella mia carrozza, rividi il pilastro abbandonato di Prospero, e tutti i particolari e le congetture della catastrofe mi si affollarono torbidamente nell'anima.

Un mistero così profondo, che nessuno l'aveva ancora penetrato e che non si scoprirebbe nemmeno al processo, stava forse in fondo a quella tragedia di strada. Perchè Prospero aveva ucciso la Gitana? La supposizione che fosse innamorato mi pareva, non so perchè, assurda: ma ero altrettanto sicura che Prospero l'aveva uccisa per conto proprio, e per una ragione non vile. In quel momento la sua fisonomia mistica e indolorita di martire, condannato a vivere del proprio martirio, mi riappariva al pilastro, e mi commoveva. La duchessa, vestita con un'audacia piena di colori, abbottonandosi in quell'istante un lunghissimo guanto, mi si rivolse, e col suo accento leggero:

— Ti ricordi, Augusta — proruppe — la mattina della viola?

Quando entrammo alle Assise la folla ingombrava i pressi e lo scalone: era un viavai, un romorio confuso e crescente. I ricordi si risvegliavano, la causa minacciava di farsi grossa. Potemmo a stento aprirci il passo, e coi biglietti d'invito essere introdotte nella tribuna. La sala era così gremita che le teste vi formavano un ciottolato; le signore abbondavano, alcuni avvocati illustri erano nei posti distinti e nelle tribune. Guardai Prospero. Nè la sua faccia, nè i suoi abiti erano cangiati. Stava seduto sulla ignobile panchina, la gruccia distesa lungo la gamba, e l'altro bastone fra i piedi: non pareva nè turbato, nè avvilito. Col berrettone a fianco e la testa nuda conservava il solito contegno rispettoso; solamente quella depressione dei capelli, che gli cadevano sulla fronte, lasciandogli quasi calva la nuca, gli dava un'aria anche più mistica. Il suo giovane avvocato in toga era più pallido e più nervoso di lui. Naturalmente egli dubitava di se stesso, mentre l'altro era sicuro della propria condanna. L'arrivo della duchessa, una delle glorie mondane di Firenze, produsse un movimento nella folla: le teste si agitarono e si volsero; quindi corse un bisbiglio insensibile, che ella colse a volo come un profumo. Il suo volto sfavillò. In quel momento Prospero si torse verso di noi e vide la duchessa, che innanzi a me coll'abito vivacissimo attirava tutti gli sguardi. Una vampa di rossore gli bruciò istantaneamente sulla faccia, poi si fe' pallido, e rimase su lei coll'occhio sbarrato. La duchessa, che guardava giù nel pubblico col canocchiale, non aveva ancora osservato il reo. Il cancelliere seguitava a leggere l'atto d'accusa, mentre sul tavolo, dinanzi al presidente, il coltellaccio omicida gettava qualche bianco riverbero, che finì per attrarre gli occhi della duchessa. Ella me lo indicò con un gesto di orrore, riportando istintivamente lo sguardo sull'accusato. Quando il presidente, un vecchio in capelli bianchi, cominciò l'interrogatorio, si fece nel pubblico un silenzio di statua: Prospero tentò di sollevarsi sulle gruccie, il presidente lo invitò con parole gentili a rimaner seduto, ma egli volle alzarsi egualmente, e si atteggiò come al pilastro. La sua figura di mendicante impietosiva, il suo piede enorme entro quel fagotto di stracci sembrava rendere impossibile tutto il racconto dell'accusa. Nessun lineamento della sua fisonomia, nessuna attitudine del suo corpo tradiva lo sforzo di un'ipocrisia, o una qualunque tendenza sanguinaria. Un fremito di pietà e di simpatia corse nel pubblico. Prospero disse nettamente, con voce cavernosa di malato, il proprio nome, e quando il presidente gli domandò se ammetteva di aver ucciso la Gitana, alzò gli occhi verso di noi, e rispose:

— Sì.

— E la ragione?

Prospero abbassò la testa, come allorchè ringraziava dell'elemosina, e non disse altro, solamente fece un gesto di stanchezza. Il presidente se ne avvide, e gli ripetè l'invito di sedere, che questa volta egli accettò. Quindi non aperse più bocca. Invano il presidente mise tutto in opera, esortazioni, consigli, minacce, spiegandogli come quel mutismo potesse nuocere alla giustizia, e a lui stesso nell'animo dei giurati. Prospero sembrava ascoltarlo attentamente, ripeteva ogni tanto quel cenno, che poteva parere ad un tempo di ringraziamento e di scusa, ma non parlava, non si muoveva. Tutti gli occhi della gente erano conversi in lui, tutti i pensieri, e tutte le volontà di quella massa gli pesavano addosso. Furono cinque minuti drammatici e febbrili. Prospero vinse. Il suo avvocato, il Pubblico Ministero stesso lo esortarono con parole, nelle quali vibrava una persuasione sincera, una benevolenza quasi eccessiva: ma egli ripetè ad entrambi il suo cenno umile, quasi di rammarico, e non parlò. Il pubblico affaticato da quella tensione ruppe in un chiacchierio fragoroso, mentre il presidente dava la parola all'accusa. Il magistrato fu limpido e tagliente; riassunse con sobrietà di grande oratore il fatto, urtando nel mistero di quel mutismo senza curarsi neanche di sfondarlo con un'ipotesi e concluse per l'assassinio premeditato senza circostanze attenuanti. Prospero fu impassibile. Toccava all'avvocato. La sua estrema pallidezza e il suo volto convulso attrassero persino l'attenzione dell'accusato. L'esordio fu rettorico ed infelice; ripetè senza profitto per l'accusato il racconto dell'accusa, andando innanzi sulle frasi, affettando un talento di romanziere, che analizza dipingendo e trova nell'analisi l'argomento della difesa. Poichè non si scorgeva un movente al delitto, dunque mancava. Prospero era pazzo.

A questo punto Prospero intervenne, e gridò risolutamente:

— No.

— La ragione dunque? — ripetè il presidente.

Prospero non gli si volse nemmeno, ebbe un gesto d'indifferenza, e si cacciò la mano in seno ricadendo nel silenzio di prima; mentre tutta la folla guardava verso l'oratore, cui l'interruzione aveva arrestato bruscamente a mezzo di un periodo. L'avvocato stentava a rimettersi.

In quel momento, io che guardavo Prospero, lo vidi trarsi di seno la mano, e spiare verso di noi: la duchessa osservava con un mezzo sorriso l'impaccio dell'avvocato; Prospero teneva in mano il cadavere di quella viola, che ella aveva perduto un anno prima, e della quale allora non si ricordava più.

Prospero abbassò lentamente la testa, come se la piegasse sul patibolo.

La duchessa non aveva veduto, io sola avevo compreso.

E donna Augusta tacque.

— La viola? — proseguì.

— La viola! — ella replicò con atto nervoso — non vi basta questo per la vostra novella? La viola gliela vidi cader di mano; ma la duchessa non lo ha mai saputo, perchè se glielo avessi detto ne avrebbe insuperbito, e non lo meritava.

La notte era tiepida, il lago ancora lontano.

— Ritorniamo — disse donna Augusta e ne diede l'ordine al cocchiere.

Quel racconto l'aveva così agitata, che me la sentivo fremere vicino. La luna alta sopra la carrozza dava alla sua faccia come il pallore di una lunga emozione, che da quel racconto prolungandosi attraverso altri ricordi si perdesse in un tetro presentimento. Ma la curiosità mi rimorse, e senza badare alla sua meditazione:

— Prospero fu condannato?

— Ah! — ella proruppe con un impeto quasi sdegnoso — siete dunque un romanziere da epilogo, il quale accompagna tutti i suoi personaggi fuori del dramma, sino alla tomba, per convincere bene il lettore che si tratta di un fatto vero e che egli non vi ha colpa, se sciaguratamente il fatto fosse brutto. Ma, mio povero Di Banzole — proseguì con ironia sibilante e sferzandomi il volto cogli sguardi — non avete dunque ancora compreso con tutto il vostro lirismo filosofico che il dramma avviene negli individui, ma non è l'opera speciale di nessuno di loro; che essi vi entrano senza capirlo, vi periscono senza saperlo, ne escono senza accorgersene: che in fine vi hanno la parte della grandine nella tempesta? Che cosa ne è dei suoi grani? Poichè avete tanto bisogno di saperlo, il loro diacciuolo ridiventa acqua, l'acqua vapore, il vapore diacciuolo, quindi grandine e daccapo la tempesta. Che cosa è il dramma? Voi dovreste saperlo più di me, giacchè ne scrivete; ma nessuno lo ha ancora ben definito: scoppia nella vita degli individui come in quella dei popoli, qualche volta dura un'ora, qualche volta un'êra. La storia di Roma non è un dramma? Il cristianesimo non è un dramma, come il Giulio Cesare di Shakespeare, nel quale il protagonista muore al primo atto? Dove trovate una tragedia in cinque atti più bella della vita di Napoleone? Il primo atto in Italia, il secondo in Egitto, il terzo a Mosca, il quarto a Waterloo, il quinto a Sant'Elena. Nella vita dell'umanità ogni popolo è forse un personaggio: ebbene, voi, che v'interessate ai drammi, avete ancora indovinato la trama di questo, riconosciuto quali siano i primi attori? Quante comparse mute, o delle quali nessuno ricorda più adesso le poche parole! Il dramma è molto ricco, poichè muta spesso di scena: il primo atto è stato tutto in Asia, il secondo in Europa, il terzo è cominciato col secolo in America. Dove sarà il quarto? Chi eseguirà il quinto? A chi è destinato questo spettacolo enorme, del quale l'illuminazione costa tanti soli, e nel quale il mutamento di una scena significa quasi sempre l'eccidio di una razza? Il dramma individuale è ben piccolo paragonato al dramma storico, alla tragedia umanitaria; ma tutto è forse riassunto nel dramma individuale. Non sono le gocce, che fanno il mare, i vapori, le nuvole, quindi la grandine e i diacciuoli, dei quali volevate sapere il destino come quello di Prospero? Prospero è perito nell'urto di due estremità. L'ultimo della plebe amava la prima dell'aristocrazia: nella impossibilità di congiungersi, quegli, che si moveva, si sarebbe rotto infallibilmente; ecco il dramma e la catastrofe. Il dramma non riposa sopra un'opposizione di due individui, che non possono nè separarsi nè unirsi, e, della quale la risoluzione avviene nel terzo termine, che è la loro razza? Non vi ricordate più che tutto è triplo, la trimurti indiana, che passa trinità cristiana; il triangolo, che diventa l'emblema di Dio e il cappello del prete; i tre momenti dell'idea brahminica ed hegeliana, le tre grazie e le tre virtù; il parlamento, che è triplo, senato, camera e corona; la famiglia, che è tripla, padre, madre e bambino, o marito, moglie ed amante...

E rise gaiamente. Ma poco dopo arrivavamo in città: il suo palazzo apparì.

— Salite? — mi domandò quando l'ebbi aiutata a discendere.

— Vi ricordate la canzone della Gitana?

— No.

— Allora, buona notte.

Ella sorrise amichevolmente e mi tese la mano. Gliela strinsi, m'inchinai, e mi avviavo già per l'atrio, quando ella mi richiamò con un grido:

— Di Banzole!

Tornai indietro: ella era già in cima al primo pianerottolo.

— Perdono: quella viola bianca, ora me ne rammento, era zoppa.

E disparve con un ultimo sorriso d'ironia.

VIOLONCELLO

La casa era nel fondo di una strada umida e buia, a cul di sacco: aveva tre piani e due finestre cogli scuri verdi ad un battente solo. Nè di giorno nè di notte la strada s'illuminava mai di un bel raggio; il sole vi passava al disopra, la luna vi si ratteneva sull'orlo dei tetti, come respinta dal tanfo grasso che ne saliva, mentre l'ombra addensata da tutti quegli sfondi sembrava piena di agguati e di abbandoni. Era d'estate. Le case purulente di quella muffa, che pare una malattia vergognosa dei muri, e non si trova quasi mai nelle campagne, dove il sole e l'aria mantengono in ogni miseria una certa quantità di salute, erano piuttosto alte. Le finestre, abbandonate penzoloni sui gangheri in attitudini patibolari, non si chiudevano nemmeno di notte, forse perchè l'aspetto esterno delle case tradiva fin troppo l'aspetto interno delle famiglie, e il pudore se n'era da gran tempo involato coll'anima di tante speranze morte e le visioni di tanti desiderii vivi. Dalle soglie logore dall'uso e calcinate dal fango un'ombra greve irrompeva fino al rigagnolo della strada, dando quasi quasi la medesima tinta scura ai sassi, sui quali passavano pur tuttavia i riverberi indeboliti del giorno e i passi di tutta la gente. Le case si rassomigliavano tutte; appena qualcuna di un piano solo e coll'impanata invece dei vetri, pareva un abituro campestre. Difatti in quel quartiere, egualmente separato dalla città e dalla campagna, v'era uno strano miscuglio di persone e di mestieri; un'agglomerazione di braccianti e di operai, che non dovevano nemmeno riconoscersi fra loro. La strada si vuotava rapidamente al mattino, e si riempiva lentamente la sera. Nel giorno qualche donna in ciabatte la traversava o la percorreva: qualche vecchio passava adagio e si allontanava come una miseria, che non sa più dove andare e vagola ancora per poco. Fiacchieri e biroccie non arrivavano mai sino in fondo al muraglione, che la chiudeva. La strada non aveva chiesa. Ma il rigagnolo, nel quale sovrannuotavano immondizie di ogni sorta, esalava fetidi vapori, specialmente se il tempo si mettesse alla pioggia, o il lungo sereno fosse arrivato al secco. Allora diventava una fila di pozzanghere, alimentate giornalmente dall'acqua delle finestre, che lasciavano nelle ineguaglianze del ciottolato una poltiglia nerastra, piena di bave e di fili, di insetti e di residui. E la notte, alla luce dei fanali, da quelle pozzanghere invisibili prorompevano bagliori metallici, mentre certe masse chimeriche, attirate e respinte dai lampioni, riempivano tratto tratto la strada. E su dai sassi della strada, fuori delle porte, giù dalle finestre, per tutta la tenebra della sua lunghezza venivano un tanfo umidiccio e viscoso, un silenzio morbido, nel quale s'affondavano le case coi loro abitatori ignoti, sino al muraglione, che la separava prudentemente da tutto il resto del mondo.

Era già notte. Un ragazzo si arrestò un istante alla vetrina del caffè, dalla quale usciva un inquieto rumorio di istrumenti; parve indeciso, si trattenne, e, come per sottrarsi ad una tentazione troppo forte, se ne spiccò con un salto. Sempre lungheggiando i muri arrivò senza incontrare anima viva alla penultima casa, ne infilò la porta aperta, bussò nell'uscio di faccia, all'ultimo piano. Una donna gli aperse.

— Hai fatto tardi! — gli disse, guardandolo amorosamente con voce di strana dolcezza — dove ti sei fermato?

Intanto egli si era cavato il berretto, avvicinandosi al tavolo, dove la donna cuciva a macchina. Il lume a petrolio riparato da un cappello bucherato, di carta verde, gli illuminava la faccia incorniciata da una magnifica capigliatura bionda, tutta a ricci. Egli stette così, come dubitando di dire qualche cosa, poi la donna gli alzò gli occhi in volto con muta interrogazione.

— Hai fame?

— Adesso poi: sono stato a teatro.

La notizia parve così stravagante, che la donna si voltò di soprassalto.

— A teatro — seguitò il ragazzo ridendo —; ecco, dietro il vicolo, ma si sentiva lo stesso. Non vi era nessuno: si sentiva come di dentro, l'orchestra, i cori, poi di quando in quando la voce della donna. Come dev'essere bello il teatro! facevano la Norma.

E il ragazzo sospirò. Quindi la donna si alzò per servirgli da cena ripetendogli:

— Hai fame?

— Sì.

Il ragazzo aveva forse tredici anni, era alto e magro. Benchè non ancora formato e vestito miseramente, la finezza della pelle e la delicatezza dei lineamenti lo rendevano già singolarmente bello. Due occhi bianchi, ma enormi, colle palpebre molto lunghe, gli illuminavano la faccia tinta del più soave incarnato, con una bocca fresca e un mento piccino come quello di una donna. Nei capelli arruffati gli si riconosceva ancora la discriminatura, che forse quella donna gli faceva ogni mattina, ricacciandogli i ricci dietro le orecchie rosee dagli orli ribattuti. Era vestito di una giacca logora al bavero ed alle orlature, di un paio di calzoni più chiari della giacca, e di un corpetto a maglia, quantunque la stagione cominciasse già a farsi tiepida; ma il ragazzo era freddoloso, e si lasciava volentieri ovattare coll'egoismo minuscolo dei fanciulli troppo amati. A vederlo non si sarebbe creduto un popolano, o almeno non lo era che alle estremità; le mani troppo grosse per i polsi, colle dita schiacciate e le nocche salienti, e i piedi, che s'indovinavano male sotto la rozza calzatura. Ma la sua bocca aveva una dolcezza quasi ancora da bambino, mentre la parte superiore del viso era già di uomo. Qualche cosa gli dilatava gli occhi e la fronte alta, sporgendo sull'arco delle sopracciglia, ed era come una luce incalorita dai riverberi dei capelli, più fini della seta, e di un biondo così puro che avrebbero fatto invidia ad una polacca. Poi la donna lo chiamò nell'altra camera. La cena era già pronta sopra un tavolino, con un tovagliolo e pochi piatti; egli sedette, mangiò di buona voglia, rispondendo a monosillabi, mentre ella lo sorvegliava amorosamente assaporandogli sul volto la gioia sensuale di ogni boccone.

D'improvviso egli scappò a dire:

— Cosa siamo dunque noi al mondo?

— Siamo i poveri.

— Siamo gli ultimi!

— Non si è mai l'ultimo, perchè dopo i poveri ci sono i malati, dopo i malati ci sono i morti.

La donna era giovane. Un erpete rosso-cupo le deturpava il sorriso della bocca rischiarato da due grandi occhi pieni del lume placido di una lampada. Non aveva altro; il resto della fisonomia sarebbe stato ripugnante senza quella espressione di profonda tenerezza e di mite rassegnazione. I capelli pettinati con estrema cura e coronati da un vecchio nastro di velluto nero le lasciavano già trasparire la cute biancastra: le spalle le sporgevano in arco, mentre il petto le rientrava con una pietà malaticcia sotto quel corsetto di flanella a scacchi rossi e nerognoli. Era una povera figura colle mani rachitiche e il collo grinzoso, nel quale un buon osservatore avrebbe distinto il battito pericoloso di una vena: non aveva forse ventott'anni, era secca, scarna, cogli occhi troppo belli e la voce troppo dolce, sebbene appannata da un'invincibile reuma di petto, che era forse una bronchite. Aveva lo sguardo estatico e la parola lenta; ma ogni qualvolta egli le cacciava nelle pupille il razzo bianco dei propri occhi, o la ravvolgeva nel turbine caldo e romoroso di una scappata, lo sguardo le si velava come per resistere al penetrante prestigio di quel ragazzo, che oramai cominciava a non esserlo più. Allora il suo viso storto a sinistra si illuminava di un intimo sorriso; ella si rigettava adagio sulla spalliera bianca della sedia, una mano sul tavolo, la testa sopra una spalla, e sospirava.

Ma la cena era finita; ella s'alzò, ripiegò il tovagliuolo, rimise i piatti nella madia, soffiò via le ultime briciole dal tavolino, mentre Giorgio si alzava stirandosi le membra come un gattino.

— Tu hai sonno questa sera — ella disse guardandogli negli occhi —. Se domani mattina ti alzi mezz'ora prima a studiare, ti lascio andare a letto.

Giorgio non se lo fece dire due volte. Il letto era nella cucina, in un angolo, un letticciuolo di legno con una coperta fiorata di percalle, e un piumino rosso sui piedi a fioretti trapunti. Aveva un comodino di fianco, una madonna coll'ulivo benedetto al disopra. Nell'altra parete la tafferia calata faceva da seconda tavola; c'era una piccola madia in un cantone, la scaffa nell'altro con sopra la rastrelliera dei piatti. Alcune casseruole di rame sospese alla cappa del focolare gli davano una qualche speranza di cucina; un tavolinetto esagono nel mezzo serviva a tutti gli usi. E con tutto ciò quella cucina era un modello di mondezza. Il ragazzo si spogliò in un batter d'occhio, gittando uno ad uno i panni sul letto, finchè rimase in camicia colle scarpe: se le trasse, lesto, senza usare le mani, e prima che la donna, occupata a comporre gli abiti sopra una sedia, avesse il tempo di fare la piega, era già sotto le lenzuola. Vi si agitò qualche minuto coi brividi del freddo, raggomitolandosi, la testa affondata nel cuscino, e chiuse gli occhi. La donna gli rimboccò la coperta sotto il materasso, gli accomodò e gli distese la piega del lenzuolo con compiacenza prolungata, senza che egli sembrasse nemmeno accorgersene; poi il ragazzo spalancò improvvisamente gli occhi, ed allungò le labbra. Ella si chinò, ricevette il suo bacio sulla fronte, glielo rese, lo contemplò un'ultima volta e: — Dormi — disse.

Egli si strinse nelle spalle, e l'altra uscì tirandosi dietro la porta.

Quell'altra camera piccola e bianca, con un lettino, un armadio, un tavolo per la macchina da cucire, era la sua: aveva una sola finestra colle tende, il pavimento rotto. Posò il lume sul tavolo, e si sedette guardando l'uscio della cucina per aspettare che Giorgio si addormentasse.

Allora il suo volto perdette la dolcezza di poco dianzi, e una contrazione penosa le stirò gli occhi senza poterne trarre una lagrima. Forse una mezz'ora passò così, poi si levò col viso sempre egualmente triste, ed, aprendo adagio adagio l'uscio della cucina, ascoltò. Un raggio del lume, filtrando per la porta, le mostrò Giorgio nella stessa posizione, colla testa mezzo nascosta fra il cuscino ed il lenzuolo. Lo sentiva respirare. Allora s'inoltrò sulla punta dei piedi fino al capezzale, e stette contemplandolo nella tenebra. Ma lo vedeva come in un raggio di sole, coi capelli biondi pieni di sorrisi, gli occhi bianchi come due fiori animati, il viso dolce ed aristocratico, che faceva spesso soffermare i passanti la domenica quando uscivano insieme a spasso: un viso di fanciullo e di giovinetto, lucente di poesia e di avvenire; lo vedeva dormire sul lettino sotto i propri occhi, in una posa di uccellino, respirando un alito soave, riposando, sognando, calmo e felice sotto la sua protezione invisibile e senza sentirla.

— Se morissi troppo presto — mormorò piangendo finalmente una lagrima, e piegandosi a sfiorargli i capelli: ma un pensiero anche più angoscioso gliela abbruciò istantaneamente, e stringendosi con una mano la fronte, mentre si rialzava quasi con un senso di ripugnanza sdegnosa:

— Anche tu! anche tu! morirò magari troppo tardi... povera Anna!

Quindi tornò al lavoro. Anna era una ragazza abbandonata nel mondo. Aveva appena conosciuta la madre, e il padre le era morto da molti anni lontano, a Nizza, dove suonava il violoncello nel teatro comunale. Ella aveva ricevuta la notizia quasi senza piangere, perchè il padre, o per la professione, o per abitudini malsane di vita, non si era mai occupato di lei: ella aveva imparato il mestiere della sarta, e ne viveva mediocremente. Cresciuta sola, coll'anima troppo bella, e il corpo troppo brutto, era diventata misantropa per eccessiva tenerezza; e poichè i rudi e immondi contatti della società la disgustavano, a poco a poco rinunciò a fare da sarta, prese la clientela di un grande magazzino da biancheria, e cucì a macchina. Così non usciva quasi mai di casa: andava a prendere il lavoro, e lo riportava, guadagnava poco e faceva dei risparmi. E perduta nel fondo della propria miseria fisica e sociale, senza guardarsi dintorno per non desiderare quello che non potrebbe avere, si era come rassegnata al proprio destino. Era così. Fuori il mondo aveva delle città e delle campagne, i monti ed il mare, i fiori e gli uccelli, l'amore ed il lusso: vi erano dei signori in carrozza e dei mendicanti senza scarpe, tutta la vita e tutta la natura; ma era fuori, lontano. Ella non guardava e non ascoltava, giacchè nelle sue poche intimità col mondo ne aveva preso fin troppo disgusto. Poi aveva poca salute, una sensibilità così tarda e squisita, che nel mondo non avrebbe potuto vivere; ma sola nella propria camera, colla macchina, senza un vaso sulla finestra, nè un uccellino in gabbia, lavorando tutto il giorno, e coricandosi stanca, era quasi contenta. Non aveva nè rammarichi nè speranze, non pensava nè agli uomini nè a Dio, simile ad un fiore non sbocciato per alcuno in un angolo ignorato, con una tinta troppo pallida per essere mai scoperto, o un sapore troppo recondito per attirare gl'insetti vagabondi.

Una volta si era ammalata, e non aveva chiamato il medico: la febbre le era durata molti giorni, e quindi più nulla.

Nella casa non aveva relazioni, si faceva la propria cucina, e dava il resto del pranzo ad una vecchia, che veniva una mezz'ora tutte le mattine a tirarle l'acqua e a farle i più grossi servigi. La vecchia era golosa, e si ubbriacava spesso, ma Anna non se ne curava; e d'altronde le parlava pochissimo. I risparmi li portava ogni tre mesi alla cassa, e sommavano già a qualche centinaio di franchi. Quando non lavorava leggeva; ma invece di leggere dei romanzi come tutte le sue pari, preferiva i viaggi, come un'occhiata gettata distrattamente al di fuori, così da lontano, che lo spettacolo perdeva le tentazioni. E a forza di togliere ogni rapporto ed ogni ideale alla propria vita se la era resa più leggiera: infatti non aveva durata. I giorni potevano essere dieci come mille; essa non li guardava venire, giacchè non le avrebbero apportato nulla; non si voltava a vederli passare, perchè non le avevano portato via nulla. Abitava ad una finestra, dove il sole non veniva quasi mai, in una strada senza sfondo, in un quartiere dove nessuno la conosceva, e nessuno passava.

E a poco a poco si era fatta pigra, si alzava più tardi la mattina, si coricava più presto la sera, viveva di latte e di erbaggi. Un giorno ebbe l'idea di comperarsi una macchina da caffè, ed ebbe un vizio: il caffè col latte a colazione, a pranzo, e a cena.

Un altro giorno, tornando dal magazzino, la vita, che aveva evitato così bene fino allora, la investì e la sopraffece. Un giovane l'aveva guardata e l'aveva seguita: poi un'altra volta la fermò addirittura; era molto bello, abbastanza ben vestito. Allora in lei accadde un rivolgimento profondo e terribile: da tutte le fibre del cuore le irruppero i sentimenti dell'amore, in tutti i muscoli del corpo le palpitarono i fremiti della giovinezza; si sentì sollevata a tutte le altezze, gittata a tutti i venti, immersa in tutti i raggi; fu come se una goccia sopra un sassolino della spiaggia fosse ripresa dal mare, e partecipasse istantaneamente alla immensità della sua estensione, a tutte le vibrazioni della sua eterna mobilità.

Poi lo sbalzo di un'onda ricacciò ancora la goccia sopra un sassolino della spiaggia. Il giovane l'aveva amata due mesi per mangiarle quei risparmi, e l'aveva bastonata prima di abbandonarla.

E strano, ella riprese il proprio equilibrio. Ma un nuovo bisogno, che passandole attraverso come una tradizione le si prolungava davanti indefinitamente, la tolse alla solitudine di prima: il mondo afferrandola e ballottandola crudelmente per un attimo l'aveva buttata alla natura, la quale s'impossessa di tutto e non cede nulla. Anna aveva abortito dopo quattro mesi dall'abbandono; e la maternità, destandole l'amore nella coscienza, l'aveva come rimessa nel quadro della creazione. Allora invece di ritirarsi dal mondo, vi ritornò con un'altra necessità di parlare e di sentirsi rispondere, di essere buona ella che non era mai stata cattiva, di essere madre ella, che non poteva essere donna.

Il suo amore si era dissipato come uno di quei temporali, che intristendo all'alba cielo e terra, si risolvono in uno scoppio, dopo il quale il sole sfolgora e gli uccelli cantano. Finalmente viveva.

Quell'uomo non lo vide più. Invece contrasse qualche amicizia, e il suo dramma essendo rimasto ignorato, il suo ingresso nel mondo potè essere senza scandalo.

In quell'anno conobbe la mamma di Giorgio, giovane ancora, inferma, e sempre nei rimpianti del proprio passato di mezza signora, perduto dietro un uomo, che l'aveva amata tirandosela dietro nella miseria. Poi egli ne era morto, estenuato dal lavoro e dai rimbrotti. Giorgio, bello come un serafino, non bastava al cuore di quella donna ammalata di egoismo; la quale sentendosi peggiorare, volle essere portata al nuovo ospedale, dove la raccomandazione di una signora le aveva fatto sperare un'assistenza piena di distinzione. E là era morta. Anna aveva adottato Giorgio. Quindi cominciò per entrambi una nuova vita. Ella gli aveva fatto un letticciuolo nella cucina, ed un immenso posto nella propria anima. Tutti i rumori folli e le compiacenze chiacchierine della maternità invasero la casetta: due o tre vasi di fiori vennero sul davanzale della finestra, un canarino vi portò la propria gaiezza di bel forestiero, colle piume dorate da un sole più caldo, e il canto appreso da una primavera più bella della nostra: un gatto vi aggiunse un'altra fanciullezza coi giuochi acrobatici e le malvagità carezzevoli. Il deserto fu popolato, la famiglia composta. La domenica, quando uscivano a spasso, la gente si fermava ad ammirare quel bel bambino e quella buona donna, accompagnandoli con un sorriso pieno di benevolenza: fuori per la campagna la natura era una festa. Quell'immenso verde li accoglieva da ogni parte, il cielo aveva delle trepidazioni di lago, il vento delle ondate di profumi; poi, quando ritornavano a casa per la strada umida e buia, il canarino lanciava dei razzi scoppiettanti di note, e il gatto trovava delle parole rauche di gioia, mentre i fiori sulla finestra sembravano pieni di una curiosità affettuosa per i fratelli lontani lungo i margini dei fossi e fra gli spini delle siepi.

I primi anni passarono così. Giorgio andava alla maestra, Anna lavorava più di prima, facendo egualmente qualche risparmio, perchè fra tutti quattro, col canarino e col gatto, un po' di riso e di latte, qualche frutto e qualche erba bastavano a nutrirli.

Poi Giorgio si rivelò.

Ella lo aveva collocato presso un sarto come garzone, dicendogli per incoraggiarlo che così potrebb'essere ben vestito; ma il ragazzo annoiato mortalmente della bottega, dove lo strapazzavano troppo spesso, perdeva le lunghe mezz'ore per istrada ascoltando gli organetti, o dietro un gruppo di suonatori ambulanti. Quindi guardava con ammirazione i loro vecchi istrumenti pieni di gobbe e di malattie: le trombe avevano delle raucedini da invalidi, i clarinetti delle gutturalità cavernose, i violini mettevano degli stridori spasmodici; ma da tutti quei corpi infermi prorompeva una musica chiassosa, una foga di ballo, nella quale la canzone dell'amore tradito metteva a quando a quando un sentimento di malinconia, una soavità sensuale di martirio. E le faccie riarse dei suonatori, sotto i capelli unti e scoloriti dal sole delle grandi strade, avevano un'indifferenza gioconda di chi non serve a nulla e non appartiene a nessuno; una esultanza di festa inesauribile, offerta a tutti, accettata da pochi e nullameno pagata con una elemosina universale. Non erano quasi mai più di tre, qualche rara volta con una donna, più spesso con un ragazzo. Allora Giorgio stentava a frenarsi, e, mentre quegli andava in giro col cappello, invece di buttargli un soldo, che non aveva, si sentiva tentato di dirgli:

— Vengo con te?

Ma i ragazzi avevano tutti un'attitudine stanca, una fisonomia triste, che lo facevano pensare.

E allora in casa cominciò a suonare.

Il primo strumento fu un pettine dentro un foglio di carta, poichè gli organini di latta, a rucchette, costavano fino a dieci soldi, e lasciavano tutte le voci alzarsi insieme ronzando. Il pettine invece bastò per qualche tempo. Era una musica fra il suono ed il canto, che frantumandosi fra quei denti come fra le corde di un'arpa, si ripercuoteva nella carta dando già un suono metallico, una diffusione cristallina alla sua voce. Egli vi ripetè quanto udiva per strada con entusiasmo di fanciullo e di principiante; ma sopra tutto furono canzoni d'amore dalla cantilena dolce e le cadenze affaticate, nelle quali moriva qualche cosa che avrebbe dovuto vivere, sospirava qualche cosa che non aveva potuto respirare.

La mattina presto e la sera dopo pranzo la musica non cessava mai; una ad una tutte le suonate della strada dovevano passare dentro quel pettine e svolazzare nella camera con uno starnazzo infernale, mentre la macchina seguitava a cucire col suo fracasso di telaio, e l'Anna, emaciata dal lavoro, si curvava sulla tela nell'ombra del paralume.

Ma neanche questo durò. Il pettine, che l'accompagnava in tasca dappertutto, un bel giorno fu abbandonato per lo scacciapensieri, uno strumento, che par fatto di uno scorpione, ed ha il ronzio di un'ape. Egli vi si perfezionò rapidamente, poi lo smise per la piva, e giunse non si sa come a possedere un organetto col mantice a pezze e le note raffreddate. Allora gli parve di entrare per davvero nell'arte. Non era più la sua voce incanalata o battuta in un arnese qualunque, una specie di soliloquio, nel quale prevedeva e sapeva già tutto; ma un dialogo vero, dove le risposte dell'organetto avevano una varietà piena di ribellioni e di misteri. Bisognava cercare le note una a una, raggrupparle sotto uno sforzo della volontà, nella forma di un pensiero. La lotta era accanita. L'orecchio, che aveva ritenuto e come contrassegnato tutti i suoni di una canzone, al primo accento di un tasto trovava la traccia della nota vera; e quindi principiava come una caccia. Le mani correvano febbrilmente sulla tastiera, le note vibravano inabissandosi dentro la cavità misteriosa del mantice, ma un dito le afferrava, l'orecchio le ormeggiava, il pensiero tagliava loro la strada, e le ricacciava su, in frotte, sotto i tasti, facendole passare per le feritoie, quasi nel dolore di una stretta, nella foga di una carica.

Se non che le note erano poche, e la canzone, così aitante per strada, usciva storpia dall'organetto. E l'Anna cominciava a protestare. L'organetto con tutti quegli stridori di chiavistello diventava a volta a volta così straziante, che ci voleva tutto quell'affetto tiranno pei bambini e l'amabilità di Giorgio, perchè ella si frenasse nella voglia di scaraventarglielo fuori dalla finestra. Ma il ragazzo fingeva di non accorgersene, o se la irritazione di lei giungeva al colmo, si alzava, e, abbracciandole il collo, le dava un gran bacio negli occhi.

— Ma vuoi dunque diventare un suonatore?

— Sì — aveva risposto colla fronte aggrottata sul cattivo istrumento.

Ma dopo alquanti giorni l'Anna si stizzì davvero. Giorgio era venuto a casa con un violoncello da contadino, comprato per quattro lire in una cocomeraia. Il ragazzo era talmente sudato, che ella ne tremò. Giorgio non rispondeva, posò per terra l'istrumento più grande di lui, e, appoggiando le spalle alla tastiera per sostenerlo, si volse finalmente. Aveva tutte le scarpe infangate, la giacca spaccata sotto le ascelle; ma una speranza indefinibile, un orgoglio di prima conquista gli raggiavano sulla fronte.

Questa volta Anna fu violenta.

— Chi ti ha dato i quattro franchi? — proruppe dopo un gran fracasso di parole e di minacce.

— Beppe; ma gli ho detto che gli lascio le mie due settimane.

— E tu come farai a mangiare?

Giorgio, che aveva resistito fino allora, riparando il violoncello col proprio corpo, a questa ultima osservazione si sentì vacillare, ed abbassò la testa.

— Non sai che bisogna guadagnarsi il pane? — ella ripetè coll'accento duro della povera gente.

Ma il volto dianzi così animato di Giorgio esprimeva una tale angoscia di umiliazione, che ella fu presso a commoversi, e non osò seguitare.

Ci fu un istante di silenzio. Due lagrime, grosse come gli occhi, gli rotolarono lentamente per le guancie: ma ad un tratto sollevò il volto, e scuotendone i ricci colla energia di un'ispirazione:

— Quando avrò imparato, guadagnerò.

— Morirai prima — fe' l'Anna ingrossando la voce: — a suonare quell'istrumento viene la tosse, e si sputa sangue. Anche l'altro giorno hanno portato al camposanto un bambino come te, e lo hanno seppellito dentro la cassa dell'istrumento.

— Aveva imparato? — proruppe Giorgio.

Ella titubò.

— Io imparerò, io!...

* * *

Ma non imparò.

Invece, poichè la vocazione gli si faceva ogni giorno più manifesta ella gli pagò una specie di maestro, vecchio suonatore di orchestra, già amico del padre, e col quale aveva conservato una certa relazione. Ma Giorgio dovette andare egualmente a bottega, perchè Anna col suo buon senso di massaia non voleva illudersi sulle voglie impetuose ed effimere della fanciullezza. Giorgio vi si acconciò di buon grado. Sulle prime non doveva prendere che due lezioni la settimana; ma colla seduzione della propria incantevole natura ebbe presto innamorato il vecchio celibe, che vivendo solo come un orso era naturalmente pazzo per i bambini. Gaspare, che abitava in un quartiere povero come quello dell'Anna, quantunque meno remoto, era pieno di piccole manie; adorava la musica, e non vi era mai riuscito a nulla. Roso da una invidia benevola per i veri suonatori, e dopo aver sognato per tutta la vita di entrare nell'orchestra del teatro comunale, per una di quelle arcane ferocie del destino era ancora a suonare nei teatri secondari, dove il direttore di orchestra si mutava tutti i giorni, e i cantanti recitavano male, come egli diceva da gran tempo col solito motto. Egli aveva dunque accettato quella proposta come un complimento; e rivoltosi al ragazzo, che lo guardava con ammirazione mista di terrore:

— Ah! tu vuoi suonare? — aveva detto prendendogli un pezzo di guancia fra le dita ed aggrottando i sopracigli smisuratamente lunghi — ah! tu vuoi suonare il violoncello, vecchio brigante? Non sei di cattivo gusto per la tua età. Il violoncello è il primo istrumento del mondo, è tenore, baritono, soprano, contralto, tutti insieme con un petto solo: basta un petto solo, veh! per far tutto. Si fa anche tutto con una corda sola, ma allora si sa proprio suonare.

— Sì?! — ripetè Giorgio, che beveva con avidità quelle parole incomprensibili.

— Sì, eh! tu capisci, e va bene; ma bada che con una corda sola è più facile impiccarsi che suonare il violoncello. Basterà se impari con tutte. Studierai?

— Sempre, voglio diventare come voi.

— Ah! — esclamò il vecchio colpito da quest'elogio innocente, il primo di sua vita; e chinandosi da tutta l'altezza della propria statura di pertica, colle rughe che gli drizzavano tremolando i peli bianchi della barba, prese il bambino fra le braccia e lo baciò. Giorgio, punto atterrito da quel bacio, glielo rese con una stretta al collo. L'amicizia era fatta.

Allora fu convenuto del prezzo, e il vecchio Gaspare si lasciò andare quasi volentieri fino alla miseria di cinque franchi il mese.

— Mi direte poi se ha una vera disposizione — gli disse l'Anna all'orecchio, mentre il ragazzo era andato nell'angolo a guardare il violoncello dentro la cassa aperta.

— Non dubitate, me ne intendo io.

L'Anna aveva riaccompagnato Giorgio dal sarto, ammonendolo di essere più buono, adesso che per contentarlo ella dovrebbe lavorare due ore di più tutte le notti. E l'Anna, che era nella effusione sentimentale del benefizio, seguitò a parlargli del presente e del futuro, stringendogli la manina, che teneva fra le proprie, con tale emozione, che egli stesso ne fu preso, e si mise a piangere silenziosamente a testa bassa.

— Andiamo, andiamo — borbottò tutta confusa di abbandonarsi così per strada, e di avergli fatto troppo sentire il peso della nuova grazia. Ma Giorgio rialzò la testa, e guardandola cogli occhi lagrimosi:

— Imparerò io, non dubitare — le disse con accento vibrato.

Quel giorno stesso il sarto avendolo licenziato mezz'ora prima, Giorgio si cacciò a corsa per strada, ed arrivò ansante alla porta di Gaspare: era socchiusa, la spinse, e si fermò nel mezzo della saletta male illuminata dalla luce sporca del cortile. La differenza di temperatura e di atmosfera lo destò da quel sogno, e stava già per sottrarsi non visto e vergognoso, quando l'uscio della cucina si aperse, e Gaspare gettò una forte esclamazione:

— Cosa fai lì, brigante — gridò indovinando di già a mezzo, ed ingrossando la voce per ischerzo.

E si avanzò verso di lui.

Giorgio vedendolo avvicinarsi così minacciosamente, con una calotta nera sulla testa, dalla quale gli sfuggivano agli orecchi due ciuffi grigiastri di capelli, il collo avvoltolato in un fazzoletto nero, tutto il corpo dentro un antico soprabito, che gli si drappeggiava sinistramente su quella magrezza di spettro, ebbe un fremito nell'anima.

Egli non capiva ancora la bontà di quella faccia grottesca coi baffi dritti a spazzola, e due occhi cilestri, già appannati dalla vecchiaia, che fra quelle sopracciglie parevano due viole nell'ombra e negli spini di una siepe.

— È troppo presto: sarai già scappato di bottega, birichino?

— No: il padrone mi ha mandato via prima.

— E allora? — incalzò, levando la mano come per volerlo percuotere, ma con celia così evidente, che anche Giorgio se ne accorse.

Giorgio abbassò gli occhi, e stringendosi dentro gli abiti colla moina adorabilmente imbarazzata dei fanciulli, che desiderano e tremano contemporaneamente, non rispose.

— Va pur là, devi essere un buon capo.

Un odore di soffritto, che veniva dall'uscio socchiuso della cucina con uno scoppiettio grillettato, attrasse involontariamente l'attenzione del fanciullo.

— Sei dunque venuto a pranzo? — disse ironicamente il vecchio Gaspare, cogliendo a volo quel movimento, e voltandosi egli pure verso la cucina, dove stava forse per bruciarglisi qualche intingolo.

— No, no — rispose vivamente il fanciullo col rossore della vergogna, e girando gli occhi verso il violoncello nell'ombra del cantone:

— Volevo sentir suonare; — eppoi subito dopo congiungendo le mani ad una preghiera di grazia inimitabile:

— Vada là, suoni, suoni.

E gli tese le mani.

Il vecchio vacillò.

— Va via, va via — fe' attirandolo come per dargli un bacio, e resistendovi: — corri a casa, e di' che pranzi con me: questa sera avrai la prima lezione.

Giorgio studiava con frenesia. Il suo orecchio era così fino, e le sue mani assecondavano così bene ogni atto del pensiero, che la musica pareva discendergli lungo il braccio e passare sul violoncello, piuttosto che salire dalle sue corde.

Quando Gaspare, per meglio apprenderglielo, insisteva lungamente sull'alfabeto musicale, egli si sentiva come preso d'impazienza; ma appena l'altro toccava il violoncello, la sua attenzione arrivava ad una immobilità, che gli produceva sulla memoria gli effetti prodigiosi della fotografia. Si ricordava ogni scambio di dita, ogni movimento di braccia con tale precisione, che, diventato sordo di un tratto, avrebbe potuto integralmente riprodurre la lezione. Per lui tutto diventava ritmo. In preda ad una fissazione non cercava e non sentiva che la nota; per lui un'associazione di idee era un'associazione di suoni, nè più nè meno che per il pittore ogni oggetto è una sintesi di colori. Quindi colla freschezza sensistica del ragazzo distingueva tutta una scala dentro l'oscillazione di una nota, e decomponendola involontariamente come in un prisma cercava la quantità vera di ogni suono; ma tutto ciò piuttosto per un impeto d'istinto, che per una coscienza di pensiero. E come la fantasia imbarcandosi talora sopra una parola, ma lontano lontano attraverso regioni già scomparse dalla storia, egli si allontanava misteriosamente sulle oscillazioni di una nota, l'orecchio teso come una vela al vento e l'anima più bianca della vela addossata nella sua conca. La gente, non accortasi sulle prime del mutamento, prese quindi a risentirsene, quando le sue disattenzioni diventarono addirittura distrazioni, nelle quali si perdeva lunghissimi tratti. L'Anna taceva o si limitava a qualche amorevole rampogna, ma il padrone, un uomo sulla quarantina, di aspetto bilioso e di umore sempre nero, passava oltre, ed erano scappellotti, che gli rintronavano gli orecchi come colpi di piatti.

Intanto viveva una vita stranamente operosa, giacchè l'Anna lo aveva persuaso a studiare molte altre cose per figurare un giorno decentemente nel gran mondo. Si alzava ogni mattina per tempo, faceva le lezioni, poi andava a bottega, e la sera da Gaspare prima del teatro: quindi tornava a casa, e fino alle dieci era musica. Giorgio non aveva nè compagni nè amici: viveva solo, non parlava quasi mai, ma quella precoce e sfrenata attività cerebrale gli aveva di già mutata la fisonomia. Gli occhi gli si erano fatti più grandi, la fronte più alta, le guancie più pallide, di un pallore quasi cereo, sotto al quale le vene azzurrine sembravano nervature di corolla. Il collo, forse troppo esile per sostenere il peso di quella testa, si era piegato leggermente a sinistra, le spalle gli si erano ingobbite, mentre i magnifici capelli biondi, troppo lunghi per la sua età, gli cadevano ancora in anella, e davano alla sua testa una rassomiglianza meravigliosa col suonatore di violino di Raffaello. E con quei panni poveri e trasandati, i calzoni a pillacchere, che gli battevano sulle scarpe spelate, la giacca più lunga da una parte, un cappello piccolo rigettato sulla nuca, quando passava per istrada cogli occhi inchiodati sui ciottoli, o in alto nella dilatazione di uno sguardo, che non vedeva già più, molte signore si voltavano ad esaminarlo con ammirazione pensosa.

Egli non sapeva nemmeno di essere bello.

Un desiderio lo corrodeva atrocemente senza che osasse aprirsene coll'Anna, della quale cominciava a comprendere gl'immensi sacrifici. Anzi talvolta pensava rabbrividendo a quella sua vita di ragno, sempre cogli occhi sulla tela, il naso affilato dalla malattia, curva sul manubrio della macchina, le spalle negli orecchi e le mani scheletrali piantate sul tavolino come una branca di sparviero. Sempre che entrasse in casa, la trovava nella stessa posizione, ed ella si voltava sorridendo.

Giorgio avrebbe voluto un violoncello, magari cattivo, su cui sfogare il tumulto, che gli intronava la testa. A volta a volta gli pigliava una smania di prove sopra qualche nota o un gruppo, che si torturava ad intrecciare mentalmente di cento guise, per fonderlo poscia in uno scoppio o diffonderlo in una lontananza: poi nella questua quotidiana per le strade raccoglieva troppi motivi, che Gaspare non gli permetteva mai nelle lezioni, giacchè il suonare a mente, diceva lui, guastava l'orecchio e la mano, il sentimento e la testa. Ma gli esercizi del vecchio metodo, col quale Gaspare era diventato suonatore di ultima fila, non bastavano più a Giorgio.

La sua prodigiosa attitudine finiva talvolta per spaventarlo.

— Chi ha inventato la musica? — gli chiese un giorno il ragazzo.

Gaspare rimase sconcertato, e dopo lunga esitanza rispose con un sorriso:

— Dio.

— Bravo! — esclamò il ragazzo alludendo all'inventore.

Adesso Giorgio aveva trovato un altro grande divertimento.

La sera sulle otto, all'ora del teatro, andava dietro un vicolo, nel quale arrivavano a quando a quando dei brani di opera. Il vicolo era quasi buio e deserto: egli si appoggiava alla parete nell'ombra di una porta, ed ascoltava colla fronte in alto, quasichè dai tetti del teatro s'involassero col soffio della musica le visioni fantastiche della scena. Così le ore gli passavano come minuti. Ma per quanto i suoi sensi fossero fini e l'anima li acuisse ancora, gli accadeva troppo spesso di precipitare nel silenzio dopo di essersi innalzato sulle ali di qualche nota, o di aver turbinato in un pieno tempestoso di orchestra. E allora il dramma, che si agitava lungi nelle profondità imperscrutabili di quei muri, pareva inabissarsi sinistramente nel buio di un sotterraneo. Quindi colla fantasia del ragazzo proclive alla fola, e i sensi sureccitati da quelle crisi violente di musica e di silenzio, si creava una fantasmagoria fosca di visioni: si sentiva il freddo del terrore sulla fronte, vedeva l'ultima luce di un velo bianco nelle tenebre, ascoltava la ressa spaventosa di un passo nell'ombra, un tintinnio lugubre di ferraglia, che discendeva nelle spirali del buio; e, trattenendo involontariamente il respiro, si stringeva al muro, mentre il vicolo gli si allungava davanti nella notte, e il fanale lontano del gas non illuminava alcuno col suo chiarore rossastro. Gli pareva di essere solo, perduto in una sciagura misteriosa: ma d'improvviso scoppiava un altro canto, l'orchestra si appressava colla sonorità trionfale di una banda, i cori arrivavano colla giocondità del loro accordo indebolito attraverso i muri come un rumore discreto di festa, nella quale la voce pura del soprano sparpagliava dei mazzi di note o si alzava in un inno luminoso come un razzo. Poi uno strepito copriva tutto come un ululato di bosco, un fracasso di uragano prigioniero entro una sala, e che stia quasi per sbalzarne la volta. Il pubblico applaudiva: le teste si agitavano, gli occhi balenavano, le mani si percotevano l'una l'altra con rabbia demente, mentre una donna vestita di bianco e d'oro, ritta sui lumi della ribalta come sopra i gradini di un altare, curvava lievemente la fronte raggiante di un vapore di gloria. Allora anch'egli vedeva attraverso i muri, come se si trovasse nella sala; i palchi erano pieni, le signore si sporgevano dai parapetti, metà della platea era in piedi: un'onda di teste rimbalzava e cadeva quasi giù dall'orlo del loggione pieno di urla, l'orchestra era muta, e i suonatori cogl'istrumenti in mano guardavano dentro il palcoscenico, illuminato come il palazzo di un sogno, ricco come la reggia di un imperatore immaginario. Poi una tenda calava su tutto quell'incanto e la reggia spariva. Ma il frastuono della sala cresceva, la tempesta diventava bufera, si udivano grida di trionfo e singulti di naufragio; i lumi roteavano, le teste della platea fluttuavano come la schiuma di un'onda, i veli delle signore tremolavano come altrettante alberelle fiorite che si sfrondino tra il profumo, i bastoni percossi sul pavimento imitavano le vibrazioni secche della gragnuola. L'uragano cresceva, aveva delle folate e delle raffiche, degli aneliti e dei vortici, finchè la tela s'involava ad un ultimo scoppio, e riapparivano la reggia e la regina. Allora era un trionfo, una demenza di evviva, una girandola di sguardi, una pioggia di sorrisi bianchi come i gelsomini; i cortigiani erano scomparsi e le musiche tacevano.

E Giorgio ritto per aria, nel mezzo della sala, simile all'angelo del lampadario dorato, si sentiva spingere dal vento di tutti quegli applausi verso il palcoscenico, sul quale la regina si ritirava l'ultima volta nella maestà del suo paludamento bianco e oro, mentre le ovazioni stormivano ancora, e la tela si abbassava lentamente sugli ultimi fremiti della tempesta.

— Ah! — ruggiva Giorgio scagliandosi sul palcoscenico, di cui non restavano più che il basamento della grande sala e i mobili, intanto che il pubblico, in piedi per andarsene, gli aveva già voltato le spalle.

Ma il telone gli precipitava sul collo come il ferro di una ghigliottina.

Il pubblico non era più quello.

— Ah!

Con quest'esclamazione Giorgio si toglieva quasi sempre dal vicolo, accorgendosi di aver fatto tardi. E nella notte quelle visioni di gloria lo inondavano di splendori. L'ideale della sua arte, così poco mondano per se stesso, si vestiva di quella decorazione, mentre col violoncello fra le ginocchia gli pareva di sospendere ai fili invisibili delle proprie note migliaia e migliaia di anime sconosciute. Allora una grande ascensione avveniva nel suo cuore, come se un altro spirito vi si alzasse nel rossore di un'alba polare, e le parole del violoncello diventassero il suo divino linguaggio.

Ma ormai Giorgio ne sapeva quanto il maestro, che per quella assimilazione involontaria delle nature incompiute, le quali credono di svilupparsi nelle nature più ricche, assistendole, considerava come propri i suoi progressi. Infatti Giorgio aveva tutto ciò che mancava a lui e nelle proporzioni più giuste; la misura, il senso fine, il sentimento contenuto ed elevato, l'attitudine fisica, questa materialità tremenda ed incomprensibile, che fa uscire accenti sovrumani dal gozzo di un cantante imbecille, e toglie al più gran genio di poter esprimere, altrimenti che scrivendolo, il proprio canto. Perfino il difetto delle mani troppo grandi lo favoriva. Un giorno finalmente Gaspare gli permise di portarsi a casa il violoncello per far sentire all'Anna la romanza del tenore nel terzo atto del Faust. Giorgio avrebbe voluto che Gaspare assistesse all'esperimento, ma egli ricusò per una modestia, che era una grossa superbia. Anna strabiliò alla novità inaspettata, ma come intese quella musica di Giorgio, il cuore le sobbalzò. Giorgio aveva una fisonomia signorile, alla quale l'ispirazione di quel momento aggiungeva un significato romantico. Ella ascoltò colle lagrime agli occhi, e il cuore grosso di una gioia, che era quasi un dolore. Era strano, era impossibile, che Giorgio potesse suonare così, fosse così bello!

Gli anni erano passati inavvertiti. E il loro spirito confuso cercava a tastoni le date nella memoria per misurare la strada percorsa e contare i giorni vissuti col povero orfanello, allevato da lei per carità di madre sterile. Ma quando Giorgio all'ultima nota della romanza le cacciò gli occhi negli occhi col raggio dell'artista, ella si sentì ferita, e si allentò sulla sedia. Una rivoluzione le scoppiava nell'anima, accumulatavi insensibilmente nei lunghi giorni solitarii col ragazzo, che le diventava uomo alle sottane, e le gettava negli orecchi le modulazioni di tutte le voci, le voci di tutte le passioni.

— Dio! che cos'è? — esclamò Giorgio, correndo ad abbracciarla — non sei contenta?

L'Anna trasalì, e lasciandosi cadere la testa sul petto soffocò un:

— Oh!

Giorgio tremava, ma ella si levò impetuosamente, lo respinse, e andò all'armadio. Giorgio non l'aveva mai veduto aperto. Anna si cercò febbrilmente la chiave in tasca, e spalancandolo alla fine, gli mostrò dentro una cassa di violoncello: l'altro frenò appena un urlo. Con un forza nervosa, che non si sarebbe mai creduta nel suo corpicciattolo, essa l'afferrò, la trasse dall'angolo, la posò per terra con una mano sola, e girando convulsamente la chiavetta, che era ancora nella toppa d'ottone, scoperse un magnifico violoncello.

La cassa era foderata in felpa verde, scolorita.

Giorgio si era appressato.

— Eccolo! — gli disse con un gesto quasi solenne.

— Era di mio padre, bada! Sai che ti amo molto per dartelo... e tu... — ma un nodo di tosse, che pareva un singhiozzo, le soffocò la voce, squassandole il petto. Una vampa di rossore le salì dall'erpete delle guancie sino alla fronte; ella chiuse gli occhi, e con accento fioco, il volto annebbiato da un cordoglio inesprimibile, proseguì adagio:

— Mio padre mi ha sempre detto che è un istrumento prezioso, è un Albani. Mio padre era primo suonatore nell'orchestra del teatro comunale, dava dei concerti, e avrebbe potuto diventare un signore: invece è morto lontano, nella miseria, lasciandomi questa sola eredità. Ho voluto tardare a dartelo, perchè volevo essere sicura che saresti un suonatore: ora ti credo. Tu sarai più bravo di lui, io non me ne intendo, ma lo sento nel cuore. Ecco la mia eredità, ti ho dato tutto.

Giorgio ebbe un singulto.

— Non piangere — ella proseguì con voce sorda; — forse verrà anche la tua volta, ma tu almeno potrai piangere sul tuo violoncello. Io no...non posso... — esclamò agitando la testa, e dando in un grido, che tentò invano di nascondere sotto una risata.

— Porta via — soggiunse allungandoglielo —: va di là in cucina, e suona quello che vuoi.

Così dicendo tornò al lavoro. Giorgio rimasto coll'istrumento in mano, istupidito e commosso, non sentiva nè il fracasso procelloso della macchina, che pareva rompersi sotto le pedate, nè il soffio sibilante di quell'anelito, che la faceva quasi rassomigliare ad una locomotiva.

Poi si distrasse, e, lasciando l'istrumento appoggiato ad una sedia, le venne dinanzi. Anna aveva il naso sulla tela; le mani le tremavano convulsamente.

Ella non gli badò.

— Anna — susurrò il ragazzo, allungando la mano sulla tela per pigliarle una mano; le strinse una palma fra le dita, e, curvandosi, aspettò che levasse il viso.

La macchina proseguiva a corsa.

— Anna! — replicò più forte, vibrando di tutto quel trasalimento.

Ella rallentò il pedale.

— Tu sei la mia mamma.

— La tua mamma non ti amava.

Ma come pentita fermò la macchina, e gli guardò in faccia. Tutti e due avevano le lagrime agli occhi.

— Vuoi un bacio? — esclamò Giorgio colla grazia di un bambino, che non ha nulla di meglio da offrire.

— Andiamo, sì, l'ultimo.

Da quel giorno l'umore dell'Anna fu più ineguale. La mattina non andava più in cucina a farlo alzare, non lo aiutava più a vestirsi, non gli dirigeva più le solite ammonizioni di portarsi bene a bottega e di non sprecare i pochi soldi delle mancie. Invece lo trattò da uomo, quasi col rispetto dovuto ad un dozzinante. Ma egli non se ne accorgeva, accettando quel miglioramento con un senso di egoismo soddisfatto; e a poco a poco fu meno diligente a bottega.

Il padrone in fine di settimana gli trattenne due franchi. Giorgio, che ne aveva già fatti altri tre di debito per comprare della musica, rimase con pochi soldi in tasca, e non si arrischiò di consegnarli all'Anna, come faceva sempre: ma ella non mostrò di notarlo. D'allora tutto il danaro fu speso in musica; Gaspare gli prestò la propria, se ne fece prestare da altri per lui, che passò le notti intere a suonare col sordino, o accennando semplicemente le note coll'arco, ed ascoltandole nel pensiero. Non dormiva, non mangiava quasi più. Dal canto proprio l'Anna, che era sempre vissuta di un becchime da uccello, smise anch'essa di mangiare: l'erpete, allargatosi mano mano, le nascondeva un altro rossore più cupo nello scavo delle gote. E quel lavoro ostinato cresceva sempre. Adesso ella si alzava più presto e si coricava più tardi, cucendo dei monti di roba, curva sulla macchina, gli occhi appannati da quell'eterno riverbero della tela, sulla quale di notte il lume a petrolio stendeva la propria luce oscillante e veemente. E poichè la lunga abitudine la dispensava quasi da ogni attenzione, ella si lasciava come scorazzare da quel rotolio, che le toglieva di vedere o di sentire tutto il resto. Solamente nella estenuazione della fatica qualche volta abbandonava improvvisamente regolo e pedale; e allora la sua faccia, insensibile nel lavoro come quello di un automa, prendeva un'aria di rassegnazione mal doma, con una fiamma rossa negli occhi. Ma non parlava quasi mai, nemmeno seco stessa, come i solitarii, o tutt'al più con un gesto, un sorriso, che erano tutta una fisonomia, il riassunto sublime di un discorso desolante.

Un giorno, portandosi alla bocca un pezzo di tela per trattenere un insulto di tosse, vi lasciò una bava sanguigna. Rimase un istante pensierosa, poi un sarcasmo le contrasse la bocca.

— Ohi! — esclamò — la gioventù, l'amore e la morte hanno il medesimo segno.

Ma, invece di riprendere il lavoro, si buttò sul letto.

Giorgio arrivò a casa più presto, e, trovandola coricata, sbigottì.

— Stai male?

Ella saltò a sedere sul letto col volto infiammato.

— Perchè? no.

Poi Giorgio le narrò come Gaspare avesse tanto parlato di lui col direttore d'orchestra, che questi aveva promesso di venirlo a sentire, e quindi ci poteva essere la speranza di un concerto alla Società filarmonica. Pronunciando queste parole, il cuore di Giorgio batteva come un pendolo.

— Sarà il principio della tua fortuna.

— E anche della tua.

Ella si era seduta sulla sponda del letto.

— Fai ancora all'amore? — gli domandò improvvisamente — già i compagni ti avranno messo su.

Giorgio ebbe una vampa di rossore, e si coprì di tale confusione, che l'Anna comprese la sua verginità, ed ebbe un brusco movimento.

— Allora bisogna che tu sia ben vestito; con questi stracci non ci puoi andare al concerto. Domani mattina dirai al padrone che ti prenda la misura di tutto un abito nero: il nero ti farà parere un signore; perchè vedi, me ne intendo io, ho fatto la sarta. Colla tua pelle bianca e i capelli biondi... Saprai poi salutare, quando vieni fuori, a tutta la gente, che ti guarda negli occhi...? Figurati che la sala sarà piena, ci saranno delle signore e delle ragazze, che ti batteranno le mani.

— Suonerò bene, non aver paura.

— E quando tornerai in questa miseria, ti parrà di soffocare e penserai che tutte quelle belle signore, che ti guardavano, saranno nei loro appartamenti parlando forse di te. Sono sicura che incontrerai, ma poi ti sembrerà di star peggio, qui, solo con me.

— Tornerò a suonare — rispose Giorgio coll'ingenuità dell'egoismo: — darò degli altri concerti.

— Anderai a girare il mondo?

— Sì, sì.

— Allora guadagnerai dei quattrini; i signori ti faranno dei complimenti, e ti inviteranno a pranzo per sentirti suonare dopo.

— Non ci andrò — ripetè con un impeto d'orgoglio.

— Perchè?

— La mia musica vale di più: non è già un divertimento.

Anna si arrestò; poscia guardandolo con malinconia:

— E quando sarai famoso?!

— Presto — replicò Giorgio, che non comprese il significato della domanda.

— Va a suonare, va.

Era vero. Il direttore d'orchestra venne a casa di Gaspare, e si mostrò poco commosso. Incoraggiò il ragazzo a proseguire, ma notò subito molti difetti di scuola e di interpetrazione: i tempi non erano sempre giusti, le note affettavano una smanceria di linguaggio umano, i bassi avevano poca profondità. Solo gli acuti gli piacquero.

— I vostri acuti sono perlati — disse finalmente; — avete superato una grande difficoltà.

Quindi Gaspare gli si raccomandò per un concerto, dipingendo alla propria maniera la posizione di Giorgio, ed insistendo con tale servilità, che l'orgoglio del ragazzo cominciò a sanguinare.

Il direttore promise così così, ingrandendo gli ostacoli, il pubblico che era svogliato, i concerti giù di moda, e sfruttati da tutti i grandi suonatori vaganti; nullameno procurerebbe, e disse al ragazzo di andare da lui per la risposta decisiva e per intendersi sulla musica. Egli aveva scritto un concerto per violoncello e pianoforte, ancora inedito, che potrebbe servire a meraviglia.

— Anzi, anzi — esclamò Gaspare — sarà una magnificenza.

Quando il direttore fu andato via:

— Vuole che suoni la sua musica, ecco perchè!

— Eppoi se non è bella, mi darà la colpa — ruppe improvvisamente Giorgio.

— Come siamo superbi! — rispose Gaspare, che in fondo divideva il dispetto del ragazzo per la freddezza del direttore; ma fortunatamente tutto andò per la meglio. Giorgio accettò di suonare quel concerto, una povera imitazione di Vieuxtemps, aggiungendovi un'elegia di Fumagalli, e la sublime romanza del Tannhauser. Per un ragazzo era fin troppo. Aveva un mese di tempo, Gaspare s'incaricava di tutto.

— Tu studia e lascia fare.

Fu convenuto che Giorgio per quel mese non andrebbe a bottega; Gaspare avviserebbe il padrone, e l'Anna non ne saprebbe nulla fino all'ultima sera.

Giorgio doveva passare tutte le giornate in casa di Gaspare studiando.

Allora tutta la sua espansione cessò. Colla precocità di tutti i grandi artisti egli intuiva di già la vita in ogni rapporto coll'arte: quel concerto doveva essere la sua prima e più importante affermazione. Bisognava stordire il mondo per regnarvi poscia. La musica era la più grande delle arti, il violoncello il migliore degli strumenti. Egli lo sapeva e tutti lo dicevano, ma, appunto per questo, guai se non arrivasse ad esprimersi come sentiva, a far piangere come aveva pianto tante altre volte suonando!

Egli non sapeva ancora darsi la formula della perfezione, che sognava, e nella quale dovevano sparire scrittore e suonatore, partizione e strumento, la nota diventare una parola, e la parola un verbo. Allora solamente la musica era musica, quando diceva ciò che tutte le altre arti non possono, e parlando un linguaggio intelligibile a tutti, quantunque intraducibile per ognuno, ricordava alla coscienza ciò che essa non ha mai saputo, ma forse sempre presentito.

Giorgio sentiva tutto questo in confuso e, se non misurava sempre l'altezza cui la passione dell'arte lo spingeva, ne aveva già le vertigini e il freddo. Più spesso lo sviluppo del linguaggio musicale lo preoccupava dolorosamente. Egli lo avrebbe voluto col rilievo della plastica e la luce dei colori: quindi il pianoforte, colle sue note già fatte, di una misura e di un accento immutabile, non era per lui nemmeno un istrumento. Invece il violoncello aveva tutti i fremiti della carne e le vibrazioni del pensiero: ma come la parola parlata, la sua parola ritmica doveva dir tutto e mostrar tutto. Da qual cuore usciva dunque quell'elegia di Fumagalli? Era il primo singhiozzo, o l'ultimo rantolo del dolore? Quelle lagrime cadevano colla rugiada dell'alba, o con quella della sera? Gli occhi avevano la profondità del cielo o quella del mare, cerulei o neri? Cercavano in cielo, o scrutavano sotto terra? Quando egli suonava quell'elegia gli pareva di vederne la donna, conosceva il suo dramma, udiva la musica nel suo cuore, e la ripeteva sul violoncello senza sapere come o perchè.

Ma la sera del concerto quella evocazione della sua anima doveva essere visibile a tutti, lì, presso lui, vestita come un angelo, colla veste troppo lunga, che le si ammassava ai piedi, e il corpo spossato.

Quel fantasma era una ossessione, che non lo lasciava più.

Gaspare gli andava dicendo:

— Studii troppo, ti ingrosserai la mano e l'orecchio.

Finalmente arrivò la vigilia del gran giorno.

In quel mese l'Anna era talmente deperita, che quando Giorgio se ne accorse rimase sgomento. Nullameno ella gli aveva cucito sei camicie alla moda e due cravatte di raso nero, che lo fecero piangere di una tenerezza mista quasi di rimorso. L'Anna si era forse uccisa a lavorare per lui; infatti non le restavano più che la pelle e le ossa, con due grandi occhi azzurri giù nella profondità dell'orbita, brillanti di una luce intollerabile. La sera, quando Giorgio tornò di bottega coll'abito nuovo, ella pretese che se lo provasse, e gli accomodò con civetteria di donna il nodo della cravatta e i riccioli sulla fronte. Ma dopo un lungo esame concluse che il soprabito era mal fatto.

— Quando sarai ricco, bada di vestir sempre bene — esclamò con un'ammirazione malinconica, che lo fece arrossire; quindi:

— Adesso va di là in cucina; lascia qui il violoncello, ed entra come se questa fosse la sala. Io mi metto là in fondo; tu entri, fai l'inchino al pubblico, ti accomodi a sedere, e suoni. Ti voglio vedere.

— Perchè non vieni al concerto?

— Io, così! finiresti col vergognartene.

Giorgio, che si sentì penetrato troppo, fin dove non voleva arrivare egli stesso, abbassò il volto; ma ella proseguì:

— Devi entrare disinvolto, sai? Non t'impacciare, il mondo è senza simpatia per quelli che lo temono, senza pietà per quelli che lo fuggono. Vediamo, va.

Giorgio andò: stette nella cucina due secondi, poi aprì l'uscio, e si avanzò superbamente fino alla sedia, presso alla quale aveva lasciato il violoncello; fece un piccolo cenno col capo, e si adattò l'istrumento fra le gambe, saggiandone l'accordatura.

— Vuoi che suoni? — disse smettendo la posa teatrale, e rivolgendosele con un sorriso.

— No — ella rispose trattenendo uno sbocco di sangue.

Quindi aperse il comò; ne trasse uno scudo, e glielo offerse.

— Divertiti, va a teatro.

— Ma perchè mi fai tutto questo? — proruppe commosso ed umiliato da quella bontà inesauribile.

— Dà mente a me, distraiti; domani sera suonerai meglio, altrimenti stanotte non dormirai.

— Allora mi spoglio.

— Mai; avvezzati l'abito addosso, se no domani sera parerai impacchettato.

Giorgio uscì trionfante, e l'Anna si buttò sul letto piangendo.

Si sentiva morire! Un gran bollore di sangue le montò dai polmoni con una nausea calda: potè appena nello spasimo afferrare il vaso da notte, e lo empiè mezzo. Un pallore cinereo le si diffuse sotto quel rosso ecchimosato dell'erpete, e le fe' una fronte di morta. Ricadde sull'origliere. In un mese la tisi, aiutata da quell'atroce lavoro della macchina, l'aveva uccisa senza uno scoppio di tosse. Anna lo sapeva. Era notte, il lume a petrolio ardeva sul tavolo: la camera era quieta, fuori la strada silenziosa. Allora le parve di non essere più nel mondo, e un pianto a goccioloni le cadde dagli occhi, mentre l'anima costernata le si sdraiava in fondo alla coscienza come dentro al sepolcro. Riassunse tutta la propria vita con uno sguardo, una vita grigia e taciturna, di lavoro automatico, in una stamberga, in fondo ad un quartiere abbandonato, dirimpetto ad un muraglione, che le toglieva ogni prospettiva. Ella non aveva vissuto, non aveva avuto nè mamma nè babbo, non aveva visto nulla, nè posseduto nulla. Era calata lungo la corrente dei propri giorni, come per uno di quei fossi metà ignoti e metà sotterranei: adesso il fosso era secco, e sovra i margini del suo pantano nemmeno un fiore agonizzava. Poichè non aveva avute speranze, non aveva rimpianti. Il sepolcro era per lei un'altra camera, in un quartiere abitato da gente ignota, perchè nessuno è più ignoto dei morti. Così il crepuscolo della sua giornata tramontava nella notte, e l'ombra dei suoi giorni si perdeva nella eternità. Tutto questo era giusto, ma era stato altresì inutile. Ella, che non aveva parenti, era senza santi. Però in quell'infinita oscurità dell'indomani, che le si diffondeva già intorno, e in quell'ultimo dolore del corpo singhiozzava con tale passione, che quel dolore da solo non avrebbe potuto produrre. E, cercando spasmodicamente colla testa dove riposarla, girava gli occhi nella curiosità desolata dei moribondi!

Anna aveva dunque vissuto?

Poi nel fosco e freddo paesaggio del passato distinse qualche sprazzo di luce, qualche angolo fiorito: un uccello cantava da una siepe, un sorriso balenava da una pozzanghera. Poi arrivavano rumori di festa, e la gente cominciava a passare; uno si era fermato, mentre il sole irrompeva con tutta la potenza del proprio incendio. Quindi il sole impallidiva, e passava altra gente: erano donne e bambini, sorrisi e sarcasmi, grida e chiacchierii; una monotonia inesauribile di attività minute in una immensa società misteriosa.

Anna aveva dunque vissuto?

Bisognava morire. Ma perchè soffrir tanto? In ultimo la vita si divide; una metà guarda indietro: cosa faranno coloro, che lasciamo? Una metà guarda innanzi: dove andremo noi, che partiamo? Ella pianse, poscia il dolore le si calmò in una specie di sonnolenza. Non dormiva; il silenzio della camera le pesava sul respiro, la fiamma del lume a petrolio le bruciava nel petto. Le pareva impossibile di poter confessare: ho vissuto! e subito dopo morire. In quel momento ella sentiva come non mai prima la poesia irresistibile della vita e del moto. Voleva essere in due anche lei, perchè tutti sono in due nella vita, la sposa ed il marito, la madre ed il figlio. Ella invece, avendo dovuto esser sola, non era mai stata nulla. Quindi il mistero del mondo si complicava del suo piccolo destino, il dramma eterno della vita colla sua effimera tragedia. Perchè dunque non aveva mai potuto amare ed essere amata? Tutte le forme dell'affetto le si erano perciò agglutinate mostruosamente nella coscienza: aveva ancora le tenerezze della bambina, le simpatie della giovinetta, le affezioni della ragazza, le passioni della donna; poi tutte le soavità dell'amicizia e gl'impeti dell'amore, le idolatrie della madre, e le bramosie della sposa, gli entusiasmi della vergine, e le gelosie della ganza. Ella, che aveva vissuto tanti anni così calma, credendosi quasi una donna dell'altro mondo, cominciava a comprendere di essere come tutte le altre. Perchè dunque morire? Perchè aveva dovuto suicidarsi con quel lavoro della macchina? Perchè le avevano fatto inghiottire tutte le amarezze, e adesso le facevano sputare tutto il sangue? Perchè dunque c'era Dio?

Morire, abbandonare Giorgio nel mondo senza esperienza e senza aiuto!

— Giorgio! — mormorò fiocamente spalancando gli occhi e avventando come un grido in faccia ad un invisibile interlocutore.

Giorgio non venne a casa che tardi, ella lo sentì, ma finse di dormire. Il ragazzo rimase due minuti a guardarla con una tenerezza piena di apprensioni, e andò a coricarsi in cucina. L'indomani Giorgio era invitato da Gaspare; passò la giornata fuori.

Benchè si sentisse molto male, l'Anna si era alzata per non scoraggiarlo: vegliò al suo abbigliamento, e, appena sola, tornò a letto. Contro tutte le istanze di Gaspare stesso aveva rifiutato di assistere al concerto, prestando per suprema ragione la mancanza di un vestito adatto. Fu l'ultimo giorno. Lo sfinimento di tutte le forze le dava la rassegnazione dell'impotenza. Quindi scrisse una lettera, che era il suo testamento, se la nascose sotto il capezzale, e ricoricandosi disse con un mesto sorriso le stesse parole di Byron:

— Adesso dormiamo.

La finestra era socchiusa: il gatto era scappato fin dal gennaio dietro una misteriosa avventura di amore, il canarino era morto coi primi freddi dell'anno.

Ella se ne ricordò, e il malinconico destino di quel povero uccello, vissuto sempre in gabbia, che non aveva conosciuto nè la patria lontana, nè la nuova dove avevano trasportati prigionieri, chi sa da quanti secoli, i suoi avi, le parve pieno di triste affinità col proprio. Anche il canarino non aveva avuto nè nido nè figli: perchè dunque era vissuto?

Dopo una lunga meditazione, nella quale si rimproverò di essere stata la sua carceriera, se ne distolse susurrando:

— Beh! tanto è finito.

Non ci pensava: tutto le moriva in cuore, anche il problema della vita. Allora ebbe un letargo, era già morta.

Passarono molte ore, poi si destò come ad un richiamo.

— Il concerto?!

Erano circa le sei della sera.

D'improvviso tutto quell'egoismo dell'agonia svanì, e rientrando precipitosamente nel mondo vi riconobbe tutti i viventi. Fu un tumulto. Il concerto, Giorgio, il suo trionfo, l'amore di madre e di donna, che gli portava e che sembrava già morto, tutto rifulse in quell'ultimo crepuscolo. Rivide Giorgio, e le parve di abbracciarlo stretto per portarselo nella eternità. Ma in quell'abbraccio si sentì mancare il respiro: le mancava davvero.

Allora colla ostinazione e l'avvedutezza dei moribondi si stese sul letto, e vi rimase cercando di raggranellare tutti gli atomi delle proprie forze; fece una provvista di aria e di pensiero, stette ancora chi sa quanto così; quindi lasciandosi scivolare dal letto con una circospezione indefinibile, adagio, a passi insensibili per consumare meno energia, arrivò al tavolino.

Voleva scrivergli una lettera.

Quando sentì di riuscirvi, mise un sospiro di gioia, la più intensa di tutta la sua vita. Era quasi felice nel sentimento poetico della propria morte: un chiarore di aureola le imbiancava il volto.

Scrisse un pezzo, poi chiuse la lettera, e, sorridendo come una bambina, tornò a letto.

— Ora è proprio finita.

Ma poco dopo intese aprire violentemente la porta; Giorgio entrò rosso ed ansante.

— Fra un'ora incomincia — esclamò —. Sono scappato, volevo vederti.

Ella, che non capì quella curiosità affettuosa, le diede un significato tragico.

— Non aver paura, morirò dopo — disse con voce quasi insensibile.

— Vieni?

— Sento di qui.

In quel momento, animato dalla corsa e dall'emozione, Giorgio era bellissimo: non sapeva bene quello che si facesse: distingueva appena gli oggetti. La espressione morente dell'Anna gli sfuggì.

Ella chiuse gli occhi abbacinata dalla sua visione.

— Scappo.

E scappò senza attendere la risposta.

Era notte: un chiarore pallido, filtrando per la finestra, bagnava cinque o sei mattoni del pavimento, il grugno brunito della macchina e lo specchietto della parete avevano a quando a quando un raggio. Tutti gli altri mobili erano spariti, la piega del lenzuolo, prolungandosi verso terra, faceva una chiazza indecisa nell'ombra.

Anna sonnecchiava: per un momento le parve di udir suonare, poi più nulla.

Aveva freddo, ma non ebbe la forza di ravvoltolarsi addosso le coperte, e si tirò solo un lembo del lenzuolo sul volto. La notte e il freddo crescevano, il chiarore si appannò, poi si spense del tutto nella camera.

Non si intese più nulla.

Alle undici il rumore di un fiacchero, che si fermava alla porta, salì: poco dopo Giorgio rientrava col violoncello in una mano, e il fiammifero nell'altra. Era raggiante, si accostò premurosamente, ma udendo il suo piccolo respiro rantoloso, e vedendole gli occhi chiusi, non osò chiamarla. Anna si teneva con una mano il lenzuolo sulla bocca, l'altra le pendeva abbandonata lungo la sponda del letto.

Stette così infra due di narrarle tutto, le sale, il pubblico, la propria paura, poi i primi applausi, applausi sempre, un trionfo, una demenza, i signori che gli stringevano la mano, le signore che lo guardavano cogli occhi inumiditi: e Gaspare, il suo padrone, il sarto che era venuto in camerino a dargli un bacio e a dirgli che gli regalava il vestito. Ma l'Anna aveva gli occhi chiusi, e il suo piccolo respiro rantolava insensibilmente fra le fila del lenzuolo.

Giorgio guardava sempre col fiammifero, riparandolo coll'altra mano. Appoggiò il violoncello alla testiera del letto come per farle capire, se si destava, di essere tornato, e sulle punte dei piedi andò in cucina.

Era così affaticato da tutte quelle emozioni, che si addormentò.

Quando si svegliò la mattina, era solo.

L'Anna era morta; non aveva più il lenzuolo sul volto, ma il lenzuolo era macchiato di sangue.

* * *

Gaspare aveva ospitato Giorgio.

Sciaguratamente la lettera trovata sotto il capezzale dell'Anna non giovò a nulla; alcuni parenti lontani s'impossessarono dei pochi mobili, senza che si trovasse un avvocato per difendere la causa dell'orfanello. D'altronde nè Gaspare nè Giorgio insistevano; questi si portò via i panni, la musica, il violoncello, ed entrò con Gaspare nell'orchestra sotto il solito direttore; poi un impresario gli offerse di fare un viaggio per l'Italia e per l'estero dando concerti. Giorgio accettò con entusiasmo. Però i loro conti fallirono quasi interamente. Quindi da Venezia, la terza stazione del pellegrinaggio, entrarono in Germania già decaduti dalle prime pretensioni, fermandosi in tutte le città, e adattandosi alle esigenze della speculazione per fare quattrini. Se non che quella vita, tanto sognata, finì presto per mortificargli, colla passione della musica, la squisita sensualità artistica. Ogni giorno si faceva più malinconico, non parlava, ricusava tutte le sollecitudini dell'impresario, il quale per tenerlo allegro avrebbe voluto visitare i luoghi dove transitavano. Invece di passare come uno straniero poetico e fatale incantando la gente, e lasciandosi dietro una lunga commozione di ricordi, si accorgeva di non essere che un povero ragazzo in mano ad un mercante, il quale lo faceva suonare negl'intervalli delle commedie in tutti i teatrucoli, e, urgendo il bisogno, gli avrebbe fors'anche imposto le birrerie. Fortunatamente l'impresario, una natura di boemo, metà speculatore e metà dilettante, che aveva vissuto la più strana vita di avventure, si compiaceva troppo nella mobilità di quel vagabondaggio per pensare molto a sfruttarlo. Quindi trattava Giorgio da camerata, dandogli volta per volta pressochè la metà vera dell'incasso; e mentre egli la spendeva il più presto possibile in bagordi, ai quali aveva la prudenza di non invitarlo, per non compromettergli la salute, Giorgio la riponeva quasi integralmente.

La sua sola e grande spesa erano i vestiti e le biancherie; voleva scendere ad un albergo più che decente, arrivare e partire sempre dal teatro in carrozza. Ma sebbene fosse oramai un uomo, era ancora vergine o quasi, giacchè l'attività incessante dell'anima gli produceva come un'inerzia nei sensi. Vestiva di nero, come gli aveva consigliato l'Anna, e, unico malvezzo della professione, portava i capelli in una pioggia di riccioli sulle spalle, i quali gl'incorniciavano romanticamente la magnifica testa, fine nella bocca, altera e quasi brusca nell'altezza e nella convessità della fronte. Una lanuggine trascurata gli metteva un pallido color d'ambra sul pallore quasi cereo delle gote, che un largo cerchio turchino sotto gli occhi solcava con una patetica espressione di malattia. L'impresario, sui cinquant'anni, aveva ancora tutta la giovinezza ostinata di certi dissoluti, e si ubbriacava di donne e di vino, trovando sempre, diceva lui, il manico, pel quale pigliava le cose e le persone. Ma se acchiappava non sapeva tener stretto, e peggio s'innamorava tuttavia come un fanciullo. A Gratz si legò con una serva di birraria, bella ragazza, bionda come Giorgio, e che Giorgio detestò quasi subito. Quindi una rottura. Giorgio, che s'accorgeva di non ricevere più la metà degli incassi, disgustato da quella facilità di amori, se ne lagnò aspramente con lui; la servetta volle interloquire ad insolenze, e l'impresario fidandosi sulla propria superiorità di guida, che sa la lingua del paese, con un ragazzo abbandonato, inesperto e quindi nella impossibilità di ribellarsi, sbraveggiò. Giorgio allora lo guardò con disprezzo, avvertendolo che si sarebbero separati.

— Voi? Non trovate neanche la stazione per andarvene, povero coso!

Giorgio gli voltò le spalle senza dir altro.

La mattina per tempissimo, colla prima corsa, partì; ma, ancora fanciullo, nel timore di essere inseguito, invece di ritornare, proseguì verso Vienna. Rimase due giorni nascosto in un piccolo paese; quindi diede volta per l'Italia. Rivide Venezia, tutto il Veneto, a piccole tappe, senza aprir mai la cassa del violoncello; e si trattenne a Milano. Da Milano discese a Firenze, gironzolò per tutta la Toscana, finendo per fermarsi a Scarperia sotto l'Appennino. L'incantevole paesello lo innamorò, non era ancora la primavera: i monti bianchi di neve si alzavano a picco, prolungandosi indefinitamente come un muraglione che dividesse due mondi. Era un paesaggio severo ed aggradevole, romito e gentile. Una mattina entrò in una piccola osteria, a mezza strada, fra il paese e la montagna. La strada vi faceva un gomito, e a poca distanza una casetta nuova, con dinanzi due aiuole ed una cancellata di ferro, sorgeva in mezzo ad un orto. Tutta la sua facciata era coperta di pianticelle rampicanti. Forse l'ortolano, che l'abitava, era pure il padrone dell'orto. Giorgio rimase pensieroso a guardarla dall'uscio dell'osteria, mentre gli ammanivano il pranzo.

— Potreste alloggiarmi qui? — domandò all'ostessa, che era venuta a chiedergli se gli piaceva il pecorino nella minestra.

Ma ella, che dalla fisonomia e dagli abiti lo prendeva per un gran signore, si scusò della povertà dell'osteria, buona appena per i pecorai della montagna: quindi Giorgio la interrogò sulla casetta di contro. L'ortolano presente si mescè al dialogo, e convenne di affittargli una stanza.

— Quella di mio figlio: l'ho messo nel seminario di Firenzuola.

Il prezzo fu di dieci franchi al mese, l'ostessa per altri quaranta s'incaricò del pranzo: era il mese di marzo, e il seminarista non doveva tornare a casa che sulla fine del settembre. Giorgio fu contentissimo: l'ortolano andò subito coll'asino a prendere i bauli dall'albergo; e quella sera stessa, prima di coricarsi, Giorgio potè contemplare lungamente dalla finestra i monti bianchi di neve. La cameretta era piccina, colle tende. La famiglia dell'ortolano si componeva della moglie, una donna sulla quarantina, una bambinetta, due garzoni, poche galline, quattro mucche e due grossi cani pastori.

In casa credevano di avere un inglese, che sapesse l'italiano.

Per alcuni giorni Giorgio non aprì ancora la cassa del violoncello. Dal primo istante tutti si erano innamorati di lui per la sua ammirazione della vita campagnuola; l'ortolana specialmente per la sua ghiottornia del latte: poi l'olio, il pane e il vino, queste tre perfezioni della Toscana, che egli lodò con entusiasmo sincero, gli dettero il prestigio di un gran signore, che sa essere giusto col paese e colla povera gente.

Ma Giorgio, che voleva evitare ogni soverchia famigliarità, stava malinconicamente chiuso nella modesta cameretta, o uscendone a passeggiare, rispondeva breve e garbato con un sorriso più dolce di ogni risposta.

Aveva poco più di duemila franchi, due anni quindi di vita oziosa e tranquilla, ignoto a tutto il mondo, studiando fra quella dolce natura. In viaggio aveva comprato molti libri. Fece un disegno di vita, e vi si conformò abbastanza scrupolosamente. Aveva pressochè diciott'anni, ed era solo al mondo, come il più giovane garzone dell'orto, un trovatello di Firenze.

Allora la rivoluzione, che fermentava da lungo tempo nel suo spirito, scoppiò. Rimeditando il viaggio in Germania, ne risentì una profonda umiliazione per se medesimo e per l'arte. Gli parve di essersi degradato ad un'apostasia, e che il pubblico avesse avuto fin troppa ragione di accoglierlo così freddamente. Infatti il mondo era tutto pieno di rapsodi come lui, che viaggiavano solleticando gli orecchi, come gl'impresari dei teatrucoli meccanici solleticano gli occhi. Non era così la musica, non era così il violoncello. Poco prima di morire l'Anna gli aveva detto che se ne sarebbe fatta sepolcro, e vi avrebbe abitato per tutta l'eternità: come mai aveva egli potuto suonarvi dunque dei valtzer, e gettare nel raccoglimento divino di quella morte la volgarità chiassosa di un ballo? Che cosa ne aveva detto l'anima della morta chiusavisi volontariamente per seguirlo dappertutto? A questo pensiero un rimorso, che era quasi una paura, gli addentava il cuore, mentre il suo spirito cercava di rifugiarsi in un nuovo e più alto concetto dell'arte. Il bisogno di una formula, che spiegasse l'essenza della musica, lo urgeva, senza che il suo ingegno troppo esaltato ed insieme troppo povero di nozioni positive potesse arrivarvi. Secondo lui la musica era nata ultima nella storia dell'arte, quando il poema era già morto con Dante, e il dramma con Shakespeare: gli antichi non l'avevano nemmeno sospettata. Era nata quando la poesia del popolo tramontando nella poesia dell'individuo diventava lirica con tutta la varietà dei ritmi e delle passioni.

Ma come la lirica era la quintessenza della poesia, la musica era la quintessenza della lirica, giacchè solo la melodia degli accenti e la composizione misteriosa delle sillabe producevano nella massa il suo sentimento. Egli non sapeva la storia del linguaggio, ma l'inventava così: prima il gesto, poi il suono, poi la parola, poi la poesia, poi la musica: la musica, l'ultimo sforzo del linguaggio umano, che esprimeva quanto le altre forme non avrebbero saputo o potuto. Era quindi nata dopo che le tre grandi manifestazioni del linguaggio, la linea, il colore e la parola, si erano esaurite; dopo che la poesia si era ammutolita in faccia all'ultimo dubbio, e la religione aveva sospirato sul cadavere dell'ultima speranza. Allora dalla cima della piramide umana, alla quale tutti i popoli avevano portato un sasso o lasciato un rabesco, la musica aveva alzato l'ultimo canto della vita. Essa era ancora là, misteriosa come la vita medesima, riassumendone tutte le armonie, e ripetendole.

Secondo lui nel mondo la poesia rappresentava l'infanzia della musica, come il graffito era forse ad un tempo l'infanzia della pittura e della scultura: ma la musica era inoltre tutta l'anima del linguaggio. Che altro aveva determinato l'accordo delle vocali e delle consonanti, l'allinearsi delle sillabe, il disporsi delle parole? La musica era l'architettura del linguaggio umano, mentre la poesia non ne era che l'ornato: la musica sentiva le convenienze intime e i rapporti misteriosi dei suoni colle idee: essa scriveva i periodi larghi e maestosi delle storie, le strofe leggiere per i conviti, raggruppava i versi degl'inni e dava loro il volo delle freccie; gettava le ottave dei poemi come gli archi dei portici, tirava le linee degli esametri come le linee dei cornicioni; tutto il linguaggio era un'orchestra, prosa e poesia, periodo cifrato e periodo scritto, le stesse leggi e gli stessi principii; la parola vi era sempre regolata dal tempo come la nota; e poi le gamme e le serie, e poi la musica ancora, sempre e dappertutto, nelle linee e nei numeri, nell'uomo e nella natura, nella eternità e nell'infinito.

E il suo spirito si smarriva sbigottito fra questo caos di idee, come il viaggiatore per le rovine di un antico mondo geologico. Quindi tutti i problemi della coscienza venivano a tempestare in quel problema artistico. Prima di possedere la musica come arte, l'umanità l'aveva avuta come ricordo o presentimento divino. L'anima dei primi abitatori, abbandonandosi al rumore dei fiumi, aveva nella inesauribilità di quel suono trepidato la prima volta nel sentimento dell'eterno: il bianco è un unisono di colori; il tuono una nota, che nessuno può fare se non Dio; l'amore, la gloria, i funerali, il paradiso... musica, null'altro che musica. Forse nell'ultima giornata della storia essa sarebbe il linguaggio dominante.

E allora, quasi l'ammasso informe di quelle idee mal nate e mal vive fosse già disposto nell'ordine di un sistema, si lanciava d'un salto alla musica moderna. Siccome l'epopea era discesa da gran tempo nel sepolcro, e il dramma era più che morto negli ultimi tentativi per risuscitarlo, la musica melodrammatica doveva essere morta del pari. Le necessità della scena l'avevano sempre soffocata, giacchè un dramma ha più efficacia in prosa che in verso, in verso che in musica. Nel dramma primeggia la rappresentazione della verità esterna, e quindi il linguaggio dell'arte che evoca un fatto, deve possibilmente essere lo stesso, col quale il fatto avveniva nella storia. Gli uomini parlano non cantano, la vita storica è azione e non sentimento. Egli negava il melodramma, e più ferocemente ancora la lirica musicale rifatta sulla lirica poetica. Perchè ripetere colla musica ciò che si è già potuto dire colla poesia? Poi nel melodramma prevaleva fatalmente la voce umana, mentre Beethôwen aveva pur dovuto confessare di non potersi costringere nella sua piccola gamma. L'uomo non poteva essere che un istrumento nella grande orchestra della natura, o tutto al più una specie di condensatore, nel quale passavano le varie forme della musica. Quindi l'arte doveva significare l'azione reciproca dell'uomo sulla natura, e della natura sull'uomo.

Ma questa concezione, dandogli le vertigini orgogliose di una scoperta, impiccioliva ancora la sua piccola personalità di violoncellista. Ormai non ammetteva più che la forma orchestrale colle voci umane discese ad istrumento di canto o di accompagno: nessuna scena, ed un'orchestra immensa in un teatro enorme. Là doveva eseguirsi la musica del nuovo genio, forse già nato, perchè quando una rivoluzione è iniziata, poco sta ad arrivarne il conduttore. Da Beethôwen a Berlioz il gran concerto e la grande sinfonia tendevano alla trasformazione del teatro e del gusto musicale. Wagner per difendere il dramma aveva dovuto innalzarlo nel mito, la grande regione musicale, trascinandosi dietro il mondo nell'ascensione. Ma dopo Wagner ogni altro dramma sarebbe impossibile collo sviluppo assorbente dell'orchestra nell'opera. Ciò era fatale e provvidenziale; le corde di una gola non potevano prevalere contro quelle di un violino. Da questo egli deduceva la subordinazione di ogni individuo nell'opera immensa dell'orchestra. Oggi che tutte le grandi arti erano morte per l'eccessiva importanza dei singoli artisti, e il libro aveva ucciso il monumento secondo la terribile frase di Hugo, solo la musica poteva ottenere l'annichilamento di mille volontà nel prodigio della sinfonia. La sinfonia era l'ultimo monumento della civiltà, l'ultima cattedrale della religione.

Poi la musica conteneva tutto. Berlioz non aveva scritto la Dannazione di Faust, Beethôwen la Tragedia di Cristo, Haidn il Poema della Creazione? E in tutte queste opere le parole avevano appena un valore di spunto per la frase musicale. I quartetti di Boccherini, di Mozart, di Mendelsonn, di Goldmark non valevano le poesie di ogni altro poeta? Chopin non era stato il sentimento poetico più squisito del nostro secolo? Schumann e Raff non avevano scritto senza parole, l'uno il Carnevale, e l'altro il Fiore misterioso?

Così proseguendo a sbalzi gettava il ponte di una induzione su due nozioni fragili e lontane, avventava un giudizio nella mischia indistricabile di mille contraddizioni. Aveva letto troppi libri negli ultimi mesi, quindi un capitolo di Wagner, il trattato sulla istrumentazione di Berlioz finirono di sconvolgergli la testa. Ma coll'energia, che si attinge quasi sempre dalla coscienza del sacrificio, si inabissava intrepidamente nelle conseguenze più profonde e gelate del proprio sistema. Adesso un suonatore non poteva essere più che un istrumento, nel quale passava qualche filo di musica, un rigagnolo destinato a formare un fiume e ad ignorarne il corso.

Come dunque aveva egli osato di credersi un artista per avere espresso un pensiero o una passione di altri?

Comporre la propria musica e suonarla, ecco l'ultimo sogno. Gli antichi rapsodi, i meno antichi trovieri non inventavano assieme musica e poesia; non erano poeti, attori e suonatori ad un tempo? L'arte consisteva tutta nell'idea, epperò l'eseguire non era un creare, ma un trasmettere.

Giorgio volle essere artista. Aveva diviso la musica in epica e lirica, sinfonia e ode, quartetto e romanza. Egli sarebbe un lirico. Allora non ebbe più requie. Pensò di scrivere il proprio romancero, e di suonarlo in un nuovo pellegrinaggio pel mondo; e siccome nei mesi passati in orchestra con Gaspare, il direttore gli aveva appreso alcune lezioni di contrappunto, credette che potessero bastargli. Come tutti i giovani ribelli, egli non ammetteva quasi regole di sorta. In tale fermento di spirito trascorse un mese. Quando gli parve di aver trovato la nuova maniera, scrisse una lunga lettera esplicativa a Gaspare, che gli rispose con entusiasmo, lagnandosi solamente della loro separazione. E il suonatore scrisse musica. La sua prima romanza fu per l'Anna, una melodia semplice e lenta, nella quale agonizzava un gran dolore, e che malgrado alcune reminiscenze classiche era piuttosto bella. Un'armonia grave e monotona vi imitava il crepuscolo della sera, ricordando la semplicità di un povero destino operaio: poi alcune strida esprimevano quella terribile vigilia dell'Anna sul letto e la rivelazione terribile ed impetuosa, che ella aveva provato della vita; quindi l'armonia si prolungava attenuandosi, interrotta ancora da un singhiozzo, e si spegneva nelle lontananze dell'oblio come nella oscurità della tomba.

La prima volta, che la suonò per intero, l'ortolana, sola in casa, ne fu talmente compresa, che gli entrò in camera tra meravigliata e piangente.

Giorgio, che non era soddisfatto dell'opera, l'accolse freddamente, e le disse di averla scritta in tre giorni.

— In casa mia?

La buona donna non ne rinveniva.

— Le è morto qualcuno? — chiese poi —: io ho subito pensato al mio primo bambino.

Allora Giorgio palpitò e, appena uscita la Rosa, scrisse nel petto del violoncello, sotto la cordiera, questa epigrafe

QUI GIACE ANNA VENTURI.

Il sepolcro dell'Anna aveva quindi l'iscrizione.

Poscia compose un'altra romanza per Gaspare, che, avendola mostrata al direttore d'orchestra, si intese rispondere come fosse piena zeppa di errori grammaticali. Gaspare non volle crederlo; la portò al professore di contrappunto, una gloria del Liceo, il quale, riconoscendovi molto ingegno, ripetè presso a poco lo stesso giudizio. Allora Gaspare coll'anima addolorata aveva scritto a Giorgio di non fidarsi della propria testa per quanto buona, e di venire al liceo per impararvi davvero il contrappunto. La lettera lunga dieci facciate, era piena di contorsioni affettuose.

Giorgio sorrise sdegnosamente, e si disse che cominciava la persecuzione. Se i vecchi professori non l'avessero rinnegato, egli non sarebbe stato un vero rivoluzionario dell'arte.

«Ciò che è grande non cresce veramente che dopo negato», pensò col celebre verso di Hamerling, che aveva trovato recentemente in un libro.

E Giorgio non mandò altra musica al povero Gaspare.

Faceva una strana vita: s'alzava per tempissimo e si coricava tardi. Tutto il giorno lo passava fuori per la campagna col violoncello sul dorso, cosicchè i villani, incontrandolo, stupivano di questo signore, benissimo vestito, colle spalle cariche di una gran cassa come un facchino. Ma sopratutti l'ortolana non cessava dalle dolci rimostranze.

— L'aria della montagna è buona — ella diceva — ma il vento ben capriccioso.

Giorgio aveva finalmente concepito il proprio poema. Se Haidn aveva scritto Le Stagioni, egli scriverebbe Il Giorno. Il giorno non era tutta la vita, poichè la vita non è se non una successione di giorni? Voleva dipingere il preludio dell'alba, le prime tinte opaline, poi le note acute dei rossi sprizzanti dal fondo ancor buio della notte, l'accordo lento dei gialli, l'insistenza tremula dei violetti, dietro i quali bolliva un gorgoglio mano mano più balenante. E allora i boschi stormenti con un fremito indebolito di contrabbassi salgono di tonalità, gli alberi isolati accordano il loro murmure, le siepi seguitano col sordino, i fiori allungano le smorzature. Il gran concerto delle voci sale. I torrenti incalzano col pieno delle riprese, le allodole ripetono i motivi del flauto, il fringuello schizza delle note di ottavino, il bue apre dei muggiti di clarone, gli armenti arrivano con tutta una banda di clarinetti, alla quale gli uccelli mescolano il pizzicato dei violini; e la sinfonia pastorale di Beethôwen si diffonde dalla terra al cielo in un dialogo infinito, cui l'uomo aggiunge un'altra musica, l'idea.

L'alba è piena, il mondo è desto. Poi in mezzo ad un accordo fuso come un unisono, fra uno scoppio abbagliante di gloria, spunta il sole. Tutto sussulta, i colori balzano sugli oggetti, gli occhi sono rivolti in alto. Il mattino riprende la propria festa; i fiori e gli alberi si salutano, tutte le conversazioni del giorno innanzi proseguono, si rintrecciano le commedie degli amori. Le api col vizio mattinale di tutti gli operai bevono i primi bicchierini nelle corolle rugiadose, e il gallo batte l'ali con uno strido dispotico. Solo l'uomo lavora, ma la sua canzone s'innalza gioconda nel mattino fra il rumore degli istrumenti. Quindi i cavalli passano tintinnando colla sonagliera, l'asino raglia stuonato come un corista, il postiglione getta dalla cima dell'alpe lo schiocco della sua frusta, come una battuta di nacchere nel ballo. Il sole monta, è già mezzogiorno. L'ombra sfinita si raggomitola ai piedi degli alberi, i lavoratori meriggiano al rezzo setacciato di una quercia. Per la strada deserta, come nella notte, non passa più che il ramarro, o le lucertole scherzano sopra un pilastro arroventato, mentre dagli alberi, presso e lontano, il coro delle cicale cresce con vibrazione uniforme ed instancabile. Laggiù in fondo l'aria turbina, il cielo pare di metallo bianco: una solitudine ardente si distende sul mondo. Ma in quel silenzio soffocante i gatti vanno a sdraiarsi al sole, e i cani scuotono la bocca bagnata guardando al padrone, che disteso per terra apre involontariamente le braccia e chiude gli occhi. È l'ora dell'amore. La voluttà s'innalza nell'aria come da un braciere, e cade dalle foglie coll'ombra come un refrigerio. Il vento vellica tutte le labbra, il sonno intorpidisce tutte le coscienze. Il sole stesso è immobile: la sua grande pupilla di leone ha un dardeggiamento insopportabile, una fissazione dissolvente. E per la solitudine silenziosa le cicale invisibili rumoreggiano come per coprire discretamente l'anelito di qualche parola, intanto che le messi ondulano, le piante sonnecchiano, gli animali riposano, il sole guarda, il vento sospira, e l'ombra si allunga adagio. Quindi un fremito passa per tutta la natura. Gli armenti escono dai boschi ai prati, il bue ritorna al campo, i viandanti ricominciano a passare per la strada, gli uccelli volano e cantano, l'uomo canta e lavora. Il sole e l'ombra discendono riavvicinando tutti i viventi. Il cielo è tornato turchino, le foglie hanno dei sorrisi più calmi, ogni linguaggio un accento più mite. E a poco a poco i toni si raffreddano. I boschi s'infittano, le vette dell'Appennino si abbrunano, le cicale accordano il loro accompagnamento stridulo col murmure delicato del vento e il susurro più commosso degli uccelli. Ecco il vespero col raccoglimento della sua malinconia e il crescendo del suo pallore. Il sole brucia ancora un istante sulla montagna, l'ombra ha tutto allagato, e la canzone del lavoratore s'interrompe nell'aria fresca tra i richiami dei passeri. È l'ora dell'agonia e della musica umana: mentre la tenebra s'inoltra sul mondo, l'uomo si avanza nell'infinito. Allora la voce gli si affievolisce, e dal cuore misteriosamente commosso gli si alza il canto della sera. Come la natura finisce nell'uomo, la sinfonia conchiude alla elegia fra l'umidore della rugiada, che pare un pianto, e la prima luce delle stelle, che non è ancora un sorriso. Il murmure roco delle foglie somiglia ad un brontolio di trapassati; laggiù i lumi vagabondi delle lucciole simulano il corteo di un funerale, che gli ultimi rintocchi dell'avemaria abbiano annunziato nella sera. La tenebra arriva colla morte, i dubbi cadono dalle stelle. E nella dissoluzione di questo mondo, che gli svanisce dintorno, l'uomo, che non osa parlare, si rifugia nel canto. Gli ultimi ricordi gli prorompono col volo delle nottole da tutti i vani della memoria, le ultime larve sfuggono nell'ombra sempre più densa, le ultime voci si acquetano in un silenzio sempre più lungo. L'uomo non sente più, pensa; l'elegia, che era come la sua orazione sul giorno morente, diviene il soliloquio del suo pensiero.

Così Giorgio aveva sentito e creato il proprio poema. Ma appena si propose di scriverlo cominciarono le difficoltà. Conoscendo troppo poco il contrappunto ed avendone l'istinto, gli scoppiava ad ogni passo nella coscienza il bisogno delle regole negate. Invano per facilitarsi l'ispirazione usciva fuori alla campagna come un pittore, e vi restava le intere giornate; che dovette accorgersi ben presto come l'andare in cerca d'impressioni o di idee prestabilite fosse un'altra follia. Allora colla reazione dei caratteri nervosi si chiuse in casa, dicendosi che ogni sensazione per riuscire artistica doveva subire una lunga incubazione. Per tre mesi rimase invisibile a tutti, scrivendo una pagina e stracciandola cento volte, passando lunghe settimane a perfezionare sul violoncello una nota imitativa. Egli voleva rendervi tutta l'orchestra non solo, ma tutte le voci della natura, dai cori dei boschi ai pieni dei torrenti, dall'accompagnamento insensibile degl'insetti agli a solo dell'usignuolo. E, mentre si stremava contro queste impossibilità, un orgoglio caldo gli andava salendo al cervello, come se in quella ignorata casetta di ortolano egli preparasse una nuova epoca per l'arte, e quella buona gente dovesse apprenderlo un giorno e fare su di lui una leggenda. Quindi fra di loro si faceva più volgare e più povero per raffinatezza di vanità.

Ma un giorno fu quasi per tradirsi col più giovane garzone dell'orto, che avendogli portato da Firenze un grosso pacco di carta da musica, gli domandava a cosa servisse.

— A tutto — concluse Giorgio troncando il discorso, che aveva già cominciato.

Con questo però il poema non andava innanzi. Allora pensò di farne la partitura per orchestra. Le intestature riuscirono incredibili: Quercie e Pioppi, Il Fiume, I Grilli, Il Sole. E si mise subito a scriverle per impossessarsi bene della natura di ogni istrumento, e farlo poscia passare nel corpo del violoncello. Fu un lavoro accanito e doloroso, nel quale lo sorprese l'inverno. Ma per quegli sforzi l'umore gli si faceva sempre più nero; mentre i lunghi esercizi, massime di notte, quando scendeva di letto e si metteva a studiare il canto di qualche uccello, cominciarono ad irritare la gente di casa. L'ortolana, così commossa alla prima romanza, era adesso più insofferente di ogni altro.

Giorgio non le rispondeva o faceva un sorriso di compassione.

Anche l'inverno passò. Giorgio, che per vegliare al caldo aveva dovuto rifugiarsi nella stalla delle mucche, sentì la primavera con un impeto di gioia. Aveva scritto e rifusa nel violoncello tutta la partitura, un enorme volume diviso in tre libri: Alba, Meriggio, Sera. Tutti tre formavano un concerto di almeno cinque ore. Giorgio ne era talmente entusiasmato, che fra quelle dolcezze di primavera consentì perfino a suonare in un ballo di parrocchiani, dove tutti rimasero inebbriati: quindi il mondo lo riattirò. Conchiuso quel lavoro colossale, provò così vivamente il prurito di parlarne, che prese a frequentare il grande caffè di Scarperia, dove la sera convenivano, coi pochi signori del paese, molte altre persone di buone maniere. Naturalmente Giorgio trasse dai bauli gli abiti belli, e parve loro un gran signore, anche dopo essersi confessato per un artista rifuggitosi in quella incantevole solitudine per accudire ad una grand'opera. La vanità terrazzana ne fu soddisfatta, il segreto di Giorgio circolò, e tutte le ragazze parlarono dei magnifici capelli lunghi del suonatore.

Una sera Giorgio intese annunziare l'arrivo di una famiglia americana, immensamente ricca, alla grande villa presso la casetta dell'ortolano. Parlavano di una ragazza bellissima e stravagante. Tutti raccontavano le sue follie, che a Giorgio parvero, com'erano, le più naturali del mondo; ma, avendo voluto dirlo, dovette accalorarvisi.

— Ah! — esclamò un uomo, che cominciava a diventar vecchio, bella testa di campagnuolo dorata dal sole e animata dalla malizia di mercato. — Ella, signore mio bello, s'innamorerà, glielo predico io.

— Bravo, signor Simone! — risposero in coro.

Giorgio rimase interdetto: poco dopo uscì dal caffè col cuore agitato. Era una notte tiepida. Venne fuori del paese sovra pensieri, e si trovò involontariamente davanti alla villa, che la bella incognita doveva occupare l'indomani, a duecento metri dalla casetta dell'ortolano. Allora per uno di quei tristi ed inesplicabili presentimenti si disse che quella donna gli sarebbe fatale; il sangue gli diè un tuffo, la fantasia gli si accese. Era di primavera, le stelle della notte sorridevano, le acacie all'ingresso del villaggio mandavano a quando a quando un soffio pimentato, le tuberose e le gardenie della villa esalavano un odore più esotico, un sentore aristocratico e strano. Giorgio si sedette sul muricciuolo del cancello; la notte e la primavera lo ubbriacavano. Per molte ore i suoi sensi furono in orgasmo e il suo pensiero non si staccò dalla bella incognita, alla quale si compiacque di attribuire una fisonomia di regina, bruna, cogli occhi enormi, il portamento e le forme superbe. Si coricò quasi all'alba. La mattina presto era già in piedi ben vestito, ma gli americani non arrivarono che sul vespro senza che egli potesse vederli. Quella sera invece di andare al caffè scrisse una romanza con questo titolo: « A te ».

Per uno dei soliti casi di vicinato egli potè divenire presto amico dell'incognita, e frequentare la sua villa. La fanciulla non era bella: bionda con due occhi cilestri, un naso all'insù, un musetto rotondo, di un colorito smagliante. Si erano conosciuti alla cascina dell'ortolano, dove era entrata un mattino col babbo, vecchio negoziante arricchito, grasso e bonario, per mangiare delle fragole col latte. Giorgio in quel momento suonava a bella posta. La relazione presto fatta divenne presto intima, perchè Giorgio ebbe per loro il pregio di una scoperta. In casa tutti amavano la musica; Mary, si chiamava così, suonava il piano ai genitori, che, ascoltandola in estasi, ripetevano sempre lo stesso elogio per la musica italiana, la prima del mondo. La madre stava per Verdi, il padre per Bellini; Giorgio invece li disprezzava entrambi, e d'italiani non ammetteva che due antichi, un grande ed un colosso, Palestrina e Marcello. Laonde accaddero frequenti discussioni, nelle quali Giorgio rivelò volentieri il proprio secreto. Allora tutto si mutò a suo riguardo, e mentre prima l'avevano giudicato un povero diavolo, buono per divertirsene in campagna, dopo lo riguardavano col rispetto ossequioso, che talvolta i borghesi milionarii, di temperamento delicato, hanno per gli artisti in genere. Giorgio non disse tutto, nè della propria famiglia, nè come vivesse: solo confessò di essersi ritirato in campagna per scrivere un'opera, che ricusò di mostrare malgrado tutte le seduzioni e le moine. E una volta che Mary ne lo stuzzicava, rispose alteramente che la sua non era musica da signorina.

La ragazza ne fu punta.

Frattanto in quella villa e in quella vita di agiatezza raffinata Giorgio si svestiva della prima ritrosia. Tutti parlavano bene l'italiano ed amavano l'Italia: avevano servitori e carrozze, cavalli da sella e due bei cani da caccia. Giorgio era invitato a pranzo quasi tutti i giorni, lo tempestavano di biglietti, lo soffocavano di cortesie. Egli lasciava fare. La mamma sedotta dal suo aspetto aristocratico e da quel suo abbandono misterioso nel mondo voleva essere la sua nonna: il padre lo portava seco a caccia, e gli parlava delle Ande a proposito dell'Appennino, Mary diventava sempre più buona. Sul principio aveva avuto delle maniere piene di bruscherie, che lo irritavano, quando pigliandolo improvvisamente dentro una frase insidiosa voleva penetrare nel secreto della sua vita. Giorgio si vergognava di essere povero e plebeo. Poi poco a poco divenne malinconico, e cominciò a sottrarsi a qualche pranzo, ad evitare qualche scampagnata. In paese non compariva quasi più, o scansava studiosamente il gran caffè, dove lo dicevano già innamorato. Infatti lo era e al punto, che toccando raramente il violoncello, non suonava più che quell'ultima romanza.

Giorgio non aveva suonato alla villa se non per accompagnare Mary nell' Ave Maria del Gounod, la quale naturalmente egli giudicava molto al disotto dell'altra del Cherubini, o dell'Arcadet a sole voci. Ma la signora Edvige, la mamma, che non conosceva queste ultime due, ed era fanatica del Gounod, aveva troncato sdegnosamente a mezzo tutti i paragoni. E una notte, quando Giorgio suppose che i genitori dormissero, avendo veduto il lume alla finestra di Mary, aperse il piccolo cancello del bosco sempre socchiuso, e venne a nascondersi nell'ombra di una siepe col violoncello. La notte era molto buia. Egli attese lungo tempo, poi suonò la romanza « A te » con tale passione, che alla fine gli venne da piangere, e dovette scappare. Gli era parso di sentirsi a mezzo la romanza chiamare dalla voce dell'Anna. L'indomani non osò presentarsi alla villa, quell'altro giorno nemmeno, finchè ricevette una lettera di Mary e della signora Edvige, le quali, fingendosi scherzosamente inquiete sulla sua salute, gliene domandavano novelle, e lo invitavano a pranzo.

— Di chi è quella romanza, che avete suonato l'altra sera sotto le mie finestre? — gli chiese improvvisamente Mary.

— La signora Edvige ha sentito? — egli susurrò a precipizio.

— Ma certo — rispose Mary con indifferenza —: scommetterei che è la vostra.

— Appunto.

— Andate a prendere il violoncello e tornate subito a suonarcela — disse con quell'affettazione d'impero, che andava così bene al suo visetto.

Dovette ubbidire, se non che avendo paura non la suonò come quella notte.

La signora Edvige e il padre lo guardavano, Mary era distratta. Quando Giorgio ebbe finito, dopo i soliti complimenti dei due vecchi, Mary s'impossessò della musica. Giorgio, che rimetteva già l'istrumento nella cassa, tese la mano; ma ella guardandolo arditamente:

— Non è per me? — domandò.

Giorgio impallidì.

Mary si gettò attorno uno sguardo, vide che non erano sorvegliati, gli stese rapidamente una mano, allungandogli il volto e mormorando:

— A te?

Giorgio non capì o non si arrischiò di cogliere quel bacio.

Da quel giorno furono amanti. Egli si sentiva scoppiare d'amore e d'orgoglio, ella era allegra come prima, e cominciava già a canzonare la sua aria fatale. Parlavano spesso di musica senza intendersi, perchè Mary non la pigliava che come un divertimento, col quale interrompere gli altri, e Giorgio invece come la più alta manifestazione del pensiero religioso. Laonde nell'amore egli non sognava che conversazioni mute guardandosi negli occhi, effusioni sentimentali, baci al lume di luna, mentre nel suo orgoglio di povero plebeo avrebbe voluto vedersi ai piedi quell'ereditiera di milioni offerentesi con una trepidazione di terrore.

— Mi amerai sempre, sempre? — le domandava spesso cogli occhi gonfi.

Ella rispondeva di sì col suo più bel sorriso, e poco dopo gli parlava di un viaggio in America, dove resterebbe forse due o tre anni. Giorgio non osava insistere; una volta ella gli disse leggermente:

— Vieni anche tu?

— Non posso — mormorò Giorgio, pensando alla spesa, ed obliando in quel momento le risorse del violoncello.

— È vero, non ci pensavo.

Un'altra volta, che erano al piano, avendo provato la canzone del salice nell' Otello, Giorgio nella soave vanità d'impietosirla cesse finalmente, e le raccontò la propria vita, le sofferenze da bambino, la mamma morta all'ospedale, l'eroismo, il martirio dell'Anna. Ma Giorgio, combattuto ancora dalla falsa vergogna della miseria, raccontava così male che Mary, invece di sentirsene tocca, finì quasi col riderne.

— Sarà stata innamorata di voi!

Giorgio rimase colpito dall'osservazione e peggio da quel voi, che non avevano mai usato nella loro secreta intimità. Troncò il racconto, ma tornando al violoncello non seppe resistere alla compiacenza di spiegarle, come ne avesse fatto il sepolcro romantico dell'Anna, e vi avesse incisa l'iscrizione. Questa volta Mary non si tenne.

— Bello! — esclamò curvandosi vivamente per leggere l'iscrizione.

— Questa invece è brutta: se me lo aveste detto, vi avrei disegnato delle magnifiche lettere. Datemi quel temperino che almeno le accomodi.

E piegandosi sulla cordiera, si mise realmente a correggere gli sgorbii. Giorgio non poteva osservare quello che facesse, ma il legno così grattato metteva tali stridori di lamento, che il pensiero gli corse all'Anna moribonda, mentre dalla figurina di Mary, quasi accovacciata sul violoncello, gli veniva un'emanazione odorosa e penetrante.

Mary si volse ridendo:

— Leggete

QUI GIACE ANNA VENTURI «SUONATE PER LEI»

Aveva aggiunto monellescamente: ma vedendolo rannuvolarsi, e fare come un gesto di minaccia, fuggì sghignazzando per la porta.

Da quel giorno cominciarono gli attriti secreti; ella, che affettava di esser gelosa di quella morta, e gliene rinfacciava ad ogni momento l'affetto; egli, che sentiva in quei rimproveri una punta avvelenata di scherno per la propria miseria di artista, mentre tutte le bramosie dell'uomo gli si destavano impetuosamente dinanzi a quella donna, che aveva col fascino morbido della sensualità tutte le lusinghe laceranti della civetteria. Ogni giorno si accorgeva di amarla di più e di rovinarsi per quest'amore, che gl'imponeva di vestirsi sempre a festa e di non pranzare più alla bettola. Adesso l'ortolana doveva cucinargli un pranzetto, che egli aveva la scortesia di trovare costantemente poco buono. Una volta indispettita ella lo punse sull'americana, e Giorgio proruppe in una scena.

Intanto l'amore non inoltrava; non si erano ancora baciati, non avevano parlato di matrimonio.

Giorgio volle metterne il discorso una sera, ed ella rise, perchè la mamma voleva farle sposare qualche signore toscano, che avesse un gran titolo.

— Non ci penso neanche, verrà poi — ella concluse.

A Giorgio parve di morire. Un avvilimento pieno di rancori gli rovinò sulla coscienza, e non parlò più. Mary sembrava non accorgersene, la signora Edvige colla faccia rosea, incorniciata di capelli bianchi, illuminata da una grande espressione di bontà, vegliava in quel momento su di loro come sopra due fidanzati. E quella mamma così buona non aveva capito quell'immenso amore per sua figlia! Ma Giorgio era povero, senza parenti, senza posizione, senza nome: se lo confessava, e subito dopo l'orgoglio di artista gli saliva al cervello, bruciandogli le lagrime degli occhi. Paganini non aveva sollevato l'Europa guadagnando milioni e milioni? Paganini aveva forse più ingegno di lui? Quindi un odio ancora voluttuoso, un disprezzo feroce e carezzevole gli veniva per Mary, una donna, che non sapeva indovinare quello che egli sarebbe forse tra poco. Giorgio ignorava ancora che la donna è quasi sempre così, e non può amare gli uomini superiori se non a patto di abbassarli. Ma se nella propria alterezza di artista avesse forse potuto consolarsene, essendo povero e plebeo si arrovellava di restarle socialmente inferiore; mentre la signora Edvige, parlandogli dei futuri concerti, si dichiarava sua protettrice, e s'incaricava fin d'ora della vendita dei biglietti, promettendogli con certo accento particolare grandi incassi.

Quando arrivò il mese di luglio, alla villa si discusse dei bagni. La signora Edvige preferiva Pegli, il babbo Viareggio: Mary non consultò nemmeno Giorgio, e la mamma, invitandolo, gli disse che a Viareggio sarebbe forse possibile qualche concerto.

— M'incarico io di prepararvi il pubblico, ne avrete fin troppo, e potremo mettere il biglietto al prezzo che vorrete. Io ne sono pratica; spesso la stagione delle acque vale quella dell'inverno.

Giorgio era rosso come una bragia, ma l'accento della signora Edvige era così sincero e benevolo, che egli comprese di non potersi offendere. Fortunatamente Mary sopravvenne, e, distraendo la mamma, gli diede il tempo di rimettersi. Mary parve non accorgersi del suo imbarazzo.

— E così venite? — insistè la signora Edvige.

Egli balbettò alla meglio di aver incominciato un altro poema, e di voler restare nella solitudine per finirlo.

Dopo otto giorni la villa era deserta.

Rimasto solo, Giorgio si sentì abbandonato come la prima volta alla morte dell'Anna. Per molti giorni stette chiuso in camera a piangere disperatamente la partenza di Mary fra mille altri dolori di uomo e di artista. Gli pareva di essere un esiliato nel mondo, senza famiglia e senza patria, senza mestiere e senza denaro. Adesso non credeva più neanche alla musica. Che cosa era l'arte, se avendola avanzata di un passo col poema, essa non gli aveva servito nemmeno a soggiogare la piccola testa di Mary? In che consisteva la sua sovranità, se gli artisti dovevano essere sempre poveri e spregiati? E le ultime parole della signora Edvige sul concerto gli cadevano nel cuore come tante goccie di piombo. Non v'era dunque differenza fra il musicista e il saltimbanco? La gente veniva egualmente a vedere o ad ascoltare, gettando la stessa elemosina a chi lo divertiva? Poi Mary gli riappariva, ed egli l'amava appunto perchè era una smentita continua al suo orgoglio, alle sue delicatezze giovanili, alle sue sincerità popolane. Mary camminava sopra di lui come per un campo, stracciando i fiori e lacerando le frondi. L'amava ella? Cosa faceva a Viareggio? Con chi parlava? Con chi rideva? Mille volte al giorno Giorgio soccombeva alla tentazione di andarla a vedere, e di tornarsene incognito; mille volte sul punto di partire aveva paura, e restava. Era una vita d'inferno. Ad ogni ora veniva a guardare la villa abbandonata sperando di incontrarsi col giardiniere e così di penetrarvi: se ne ricordava i particolari più minuti, i discorsi più insipidi, le scene più effimere. Il giardiniere, accortosene, lo canzonava; nel caffè grande di Scarperia facevano peggio. Una sera, che Giorgio vi entrò, le punture furono tali e tante, che accadde una scena. Giorgio dopo di essersi schermito colle insolenze tirò un bicchiere alla testa di un avventore, un uomo sulla quarantina, fortunatamente senza colpirlo, e lo sfidò a duello. La gente, che si era interposta fra i due, aveva quasi voglia di bastonarlo, e gli rise in faccia alla sfida: nel villaggio l'uso del duello non esisteva. Giorgio tornò a casa lagrimoso, e non ardì più di mostrarsi in paese, dove il suo alterco prese proporzioni enormi, e la sua passione per l'americana l'aspetto più grottesco. Mangiava appena, non dormiva più. La notte, due fantasmi inseparabili gli venivano sempre al capezzale, Anna e Mary: Anna non era più gobba, non aveva più quell'erpete sulla faccia, ma i suoi begli occhi di martire brillavano come la stella del mattino.

Mary invece diventò la fidanzata del marchese Soderini, uno dei grandi nomi della Toscana, giovane, bello e povero, che rialzava con questo matrimonio l'antica fortuna della propria casa.

Se Giorgio non ne morì, fu perchè non si muore di dolore; se non ne ammalò subito, la sua vergine giovinezza era ancora troppo forte. Mary non gli aveva più scritto, nessuno si ricordava più di lui, nemmeno il vecchio Gaspare. Allora i disegni più infantili di vendetta gli passarono dinanzi; andare a Viareggio, apprendere per dove erano partiti, poichè si diceva che viaggiassero, seguirli travestito in ferrovia, all'albergo, ucciderli col medesimo pugnale, ed uccidersi. L'ebbrezza del sangue gli saliva al cervello, la sinistra poesia del delitto gli entusiasmava l'immaginazione. Mary avrebbe impallidito vedendolo, gli si sarebbe buttata alle ginocchia pentita, innamorata, perchè quel matrimonio era forse una violenza dei suoi genitori; e allora egli le imponeva di fuggire, tornavano a viaggiare, vivendo di concerti, passando dappertutto come una visione di musica, un fantasma di amore. Oppure se Mary non l'amava, come non lo aveva forse mai amato, imporle un'ultima notte d'amore, un'ora sola di voluttà nel fondo di un sepolcro, e poi al mattino, quando sorgeva il sole, abbassarne il pesante coperchio di marmo, e dormire.

Ma le difficoltà dell'esecuzione impedivano ogni disegno. Pensò di morire da solo, gittandole nell'anima il rimorso di un delitto, e non vi si decise, perchè era troppo ed insieme troppo poco, e per farlo avrebbe avuto bisogno della sua presenza, cadendole ai piedi insanguinato. La necessità di un dramma lo perseguitava: non voleva morire nell'ombra, dileguare nel silenzio. La sua bella testa di giovanetto pigliava una fisonomia dolorosa di sonnambulo, un'espressione di martirio. La notte, invece di coricarsi, usciva pei campi, estenuandosi in corse folli, addormentandosi poi sotto un albero in un sonno pieno di fantasmi e di singhiozzi. E in casa, dove lo spiavano da qualche tempo, cominciavano a stancarsi di lui, che era mezzo matto, che bisognava un giorno o l'altro aspettarsi qualche cosa di grosso; la sua passione per la signorina americana avrebbe meritato gli scappellotti, quelle stranezze quotidiane peggio ancora. L'ortolano voleva cacciarlo addirittura, ma la donna lo proteggeva ancora. E una volta, che ella volle parlargli, Giorgio sulle prime andò in bestia, poi ruppe in un pianto disperato, che fece piangere anche lei; quindi le cadde colla testa in grembo come un bambino.

— Dunque non ha proprio nessuno al mondo?! — Giorgio non rispondeva.

— Si faccia coraggio, passerà: noi poverette abbiamo più cuore, ma le signore... si figuri... Povero signorino!

Finalmente si ammalò. Il medico constatò una minaccia di tifo, che fortunatamente svanì in meno di dodici giorni, durante i quali Mary tornò alla villa col fidanzato. Giorgio non lo seppe, e non seppe nemmeno che la signora Edvige mandasse a prendere sue notizie. Poi un mattino il servitore mancò, perchè i padroni avevano saputo tutto. Appena Giorgio potè alzarsi, ed imparò quel ritorno, volle partire, così ancora convalescente, malgrado ogni rimostranza. Pagò generosamente tutte le spese e gl'incomodi di cui era stato causa, fece i bauli, e sopra una vettura noleggiata a Scarperia partì per Firenze. Erano le quattro dopo pranzo, col sole velato, il vento fresco. Passando dinanzi alla villa, sperava che Mary sarebbe alla finestra e lo vedrebbe pallido come un moribondo, che andava a morire lontano da lei; quindi si era sdraiato nella posa più pietosa, la sua bella testa sopra una palma, senza cappello, coi ricci biondi che gli svolazzavano al vento, il violoncello a fianco nella cassa, il suo piccolo bagaglio metà legato sulla serpa, metà dietro le ruote. Le finestre della villa rimasero chiuse. Invece presso Scarperia fece alzare il mantice della carrozza per non essere veduto attraversando il paese. La sera sull'imbrunire giunse a Firenze.

Il suo primo pensiero fu di scrivere una lettera a Mary. Vi passò attorno la notte, e finalmente al mattino era compiuta; sedici lunghe facciate, un'elegia ed una requisitoria scritta colle lagrime e col sangue. La rilesse ancora una volta inorgogliendone, ed uscì per impostarla. Era più calmo, si cercò quel giorno stesso una cameretta, e vi si rifugiò.

La lettera a Mary rimase senza risposta. Era il mese di settembre coi giorni ancora lunghi e caldi: Firenze abbandonata dai forestieri e dai fiorentini sembrava quasi più bella. Tutte le sere Giorgio andava a vedere tramontare il sole dal cimitero di S. Miniato, e si sentiva una gran voglia di morire con lui in un magnifico vespro, cogli occhi incantati nei suoi ultimi raggi, e gli orecchi pieni dell'ultimo addio, che la terra gli mandava. Poichè nessuno lo conosceva, o gli indovinava dal viso il suo dramma, nessuno doveva udire il suo poema; egli sarebbe venuto a bruciarlo nel cimitero, fra mezzo ai grandi morti nel silenzio della notte. Questo tetro pensiero, che era ancora un pensiero di amore sebbene non volesse confessarlo, gli faceva battere il cuore ad ogni signorina dalla fisonomia straniera, a cui s'imbattesse. Tutte le notti i suoi sogni partivano per Scarperia, e ne ritornavano singhiozzando. Poi il mattino, aprendo la finestra, cercava involontariamente cogli occhi il bianco profilo di quella magnifica villa.

Nullameno Firenze cominciava ad interessarlo. Uno dei suoi luoghi favoriti era il Mercato Vecchio, una città microscopica dentro la grande, una topaia dentro il portentoso capolavoro di una cattedrale. Egli ci viveva col popolo, mangiando alla stessa cucina economica e succolenta, abbandonandosi alla novità musicale di quel gergo, melodico come un canto. Talvolta pure si metteva dietro a un suonatore ambulante, e gli dava sempre un soldo, spremendo un'acuta voluttà dagli sguardi curiosi del povero rapsodo, il quale si vedeva perseguitato da quel bel signore, e non sapeva che quel signore era forse il primo violoncellista del mondo. E a poco a poco la musica lo riattirava. Il pretesto di quel poema, opposto alla signora Edvige, per sottrarsi ai bagni, gli ritornava alla memoria, e una sera seduto sul piedistallo del David in faccia al sole morente, guardando le prime ombre discendere dai colli decise di scrivere la Notte. In quei giorni si legò con un giovane fiorentino, piccolo e bruno, boemo come lui. Pareva poverissimo, ma era allegro, chiacchierava bene e volentieri. Alle prime parole simpatizzarono, alla fine della colazione erano intimi. Giorgio, che dalla morte dell'Anna non si era più sfogato, si gettò nel cuore del nuovo amico, parlandogli da solo per due ore, piangendo e bestemmiando; mentre l'altro ascoltava mano mano più severo, rispondendo appena con qualche parola. Egli si chiamava Momo Martelli, un nome diventato celebre nella letteratura di questi ultimi anni, e che allora si nascondeva dietro varie maschere di pseudonimi.

Momo taceva. Lo lasciò effondersi liberamente sulle proprie sciagure, ma al capitolo dell'arte protestò energicamente. Momo non era uno dei soliti boemi, che si credono novatori per ciò solo che sono ribelli; aveva ancora un sincero entusiasmo pei vecchi capolavori, e lacerava con mordace ironia la inane vanagloria dei nuovi artisti, che, dopo aver deriso il passato, lo copiano. Per la prima volta Giorgio si trovava di fronte a un ingegno giovane come il suo, ma più colto e più forte: quasi quasi se ne adontò. Momo aveva delle frasi più dense di pensiero, e lo stringeva così forte, che Giorgio inferocito della sconfitta gli disse con uno scatto di orgoglio:

— Vieni domani, ti farò sentire il mio Giorno.

— Lo sentirò al concerto, che darai: io discuto volentieri un'opinione, non un'opera coll'autore. C'è il pericolo di non capirsi, e quasi sempre la sicurezza di guastarsi. In pubblico non è così: il nostro giudizio si integra di tutte le sensazioni dei vari temperamenti. Piuttosto domani ti porterò un libro di Balzac; se questo non ti salva, tu sei perduto — aggiunse con un sorriso, che voleva essere scherzoso ed invece era triste.

La mattina Giorgio ricevette il piccolo volume, e lo rilesse due volte con un tremito sempre maggiore di sentimenti e di idee. Avrebbe voluto veder Momo per parlargliene, ma non riuscì a trovarlo; gli andò a casa, lo cercò per Firenze, salì due o tre volte alla Laurenziana, dove gli aveva detto di capitare sovente, e alla fine del quinto giorno lo sorprese in una delle solite bettole di Mercato Vecchio.

— Così? — chiese Momo.

— Gambara è morto pazzo, ma aveva ragione.

— Me lo immaginavo — e non volle intendere altro.

Invece parlarono di dare un concerto ai primi della stagione d'inverno. Momo tornò alla carica, perchè il concerto fosse, secondo il solito, con accompagnamento di orchestra; ma Giorgio fu irremovibile.

— L'orchestra sono io.

Questa volta Momo non sorrise, disse che s'incaricava di far cantare i giornali, dove scriveva, e nei quali aveva moltissimi amici. La sala sarebbe una delle solite.

— Se tu mi sei contro?! — disse Giorgio ammirato di quella facilità.

— Mio caro, nel mondo bisogna avere due opinioni su tutto, forse per essere perfetti — seguitò con ironia — bisognerebbe avere anche due morali. Io ti condanno, ma lavorerò perchè il pubblico ti assolva, e, se ci riesco, il pubblico avrà preso a prestito la mia opinione invece che quella di un altro. Mio caro, il pubblico di tutte le sale, non bisognerebbe mai dimenticarselo, siccome giudica sempre sopra una prima sensazione, ha bisogno che qualcuno gli prepari il proprio giudizio; i critici da giornale non servono ad altro, e se vogliono fare di più, cessano di essere capiti. Forse riusciremo, ma la tua vittoria non sarà per questo una vittoria decisiva nel campo dell'arte.

E questo concerto divenne il tema delle loro conversazioni e dei loro sforzi.

Momo, maggiore di cinque o sei anni, e che allora lavorava ad un romanzo, buscandosi la vita quotidiana cogli articoli di giornale, era di una compiacenza inesauribile. Firenze cominciava a ripopolarsi, Mary non era ancora tornata da Scarperia. Quando ebbero fissato il giorno del concerto, Momo aprì la crociata nei giornali a favore dell'amico con una serie di articoli sopra la musica moderna, sul Berlioz, e sul Rinaldi, questo illustre italiano incognito solamente in Italia; e Giorgio, che non approvava le sue idee artistiche, giungeva quasi a lagnarsene. Il giorno spuntò. Giorgio non dormiva da parecchie notti, era sparuto e nervoso come un malato; aveva indossato una nuova marsina del miglior taglio, e per gentile superstizione l'ultima delle sei camicie, che la povera Anna gli aveva cucito per il primo concerto. Momo, che si era accorto di quel convulso, non lo lasciò tutto il giorno, e fece inutilmente ogni sforzo per distrarlo. Mano mano che s'avvicinava l'ora, Giorgio si rabbuiava e non parlava più: per strada i grandi cartelli colorati, col suo nome a lettere cubitali, gli davano dei sussulti.

Passando davanti al campanile di Giotto:

— Se la mia musica fosse così, credi che la capirebbero? — disse Giorgio.

— Credo di sì.

— T'inganni, le creazioni fantastiche non sono intelligibili che alle fantasie.

E non parlarono più.

La gente e le carrozze assiepavano la porta del palazzo del concerto: essi passarono inosservati, e per una porticina secreta furono nel camerino, dove li aspettava il violoncello. Alcuni amici di Momo, musici e giornalisti, vennero poco dopo; si sentiva il rumorio della sala come uno stormire discreto di fronde, dall'uscio socchiuso penetravano dei soffi profumati.

Giorgio era pallido come un morto.

— Avresti paura? — gli mormorò Momo all'orecchio.

— È un fiasco!

— Lo berremo — rispose Momo con gaiezza affettata.

— Sì, perchè sarà avvelenato.

Fu l'ultima parola. Accordò il violoncello, ordinò al cameriere di portarlo sul palco, ed attese. Gli amici rientrarono nella sala. Giorgio e Momo rimasero soli. Erano entrambi febbricitanti: Giorgio camminava su e giù, guardò all'orologio, quindi fermandosi dinanzi a Momo aprì le braccia. Egli comprese, vi si gettò, e si dettero un bacio come per un ultimo addio.

Giorgio entrò nella sala. Fu un'apparizione. Quella sua figura delicata e signorile destò un murmure di simpatia; arrivò colla testa alta, prese il violoncello, fece un inchino quasi orgoglioso al pubblico, e si assise. La sala era gremita, le signore abbondavano in mezzo ad una moltitudine di colori. Ma con tutta la sua iattanza Giorgio non osò di alzare gli occhi. La sala era inondata di luce, si sarebbe udito il fluttuare di un velo: Giorgio, che dava il concerto a proprie spese, vi aveva impiegato gli ultimi danari riuscendo ad una discreta decorazione. Incominciò: la mano gli tremava talmente, che le prime note quasi non s'intesero; poi si rimise, e attaccò il preludio. Alla terza frase il pubblico fremè. Gli uomini ascoltavano, le signore guardavano: la musica, una descrizione a tocchi sobrii e risentiti, fu subito compresa, e proseguì crescendo di colorito e di vivacità come l'alba: si udiva il vento del mattino, si discerneva lo stormire delle piante, il risvegliarsi simultaneo e nullameno graduale di tutta la natura. Ma quando nell'incalzare di tutte le voci e nel lampeggiamento di tutti i colori rifulse il sole, la frase, che si era innalzata ingrossandosi di tutti gli altri accordi, ebbe uno scoppio così potente, che il pubblico urlò. Giorgio provò la percossa voluttuosa di quell'applauso, e senza badarvi proseguì lo sviluppo della frase rompendola in cento razzi, in una pioggia di sorrisi e di colori, che sembravano cadere nella sala come tante faville di girandola, tante foglie vaganti di fiori. Allora gran parte del pubblico, levandosi come per respirare meglio la freschezza di quel mattino, applaudì con nuovo impeto, e Giorgio dovette sorgere egualmente per ringraziare. Quindi girando gli occhi nella sala, non vide che teste luminose in un'agitazione di marea. Mary col fidanzato guardava dalla seconda fila; era ancora più bella, coi ricci biondi, che avevano lo splendore dorato di un raggio. Giorgio vacillò, ricadde sulla sedia, e involontariamente si passò la mano sul volto. Riprese, ma la definizione così viva dell'alba perdeva nella luce crescente la propria chiarezza, sminuzzandosi in un chiacchierio affaccendato di tutti i piccoli viventi. Invano il violoncello moltiplicava i miracoli della imitazione, ripetendo la stessa parola in tutti i linguaggi, chè alla descrizione mancava pur sempre l'insieme di un'idea, e quindi la intelligibilità della rappresentazione. Giorgio aveva voluto esprimere intimamente tutti gli individui della natura, dimenticando che l'uomo non intende che l'uomo, e animando l'universo non può dargli che la propria vita. Che se nel dramma il protagonista diventa drammatico solo perchè lo si riguarda momentaneamente isolato da tutti gli altri uomini, e si separa il suo destino singolare dal fato comune; nella sinfonia invece tutti gli esseri della natura debbono perdere la individualità delle loro sensazioni per esprimere un'idea o un sentimento umano. Giorgio invece aveva voluto riprodurre integralmente nel proprio poema l'anima di tutti i viventi, e piuttosto che una sinfonia n'era risultato un tumulto. Ma come in quest'audacia stava la vera originalità della sua composizione e ogni speranza della battaglia, l'orgoglio esaltato gli dava un'incredibile energia di attacco. Curvo sull'istrumento, che i lunghi capelli gli piovevano romanticamente dalla fronte, ne provava tutti i fremiti e tutte le vibrazioni. Non vedeva più la luce della sala, non sentiva più il calore umano di quella folla. La sua immaginazione si era perduta nei quadri del poema, come un viaggiatore nella visione dei propri ricordi. Allora appunto il sole si fermava sul meriggio con un immenso abbarbaglio di fornace. L'aria oscillava, la terra si screpolava, tutte le piante erano immobili. Nell'oppressione ineffabile di quell'ora Giorgio si sentì oppresso; il respiro gli si fece più difficile, il braccio gli cadde quasi penzoloni lungo le gambe. Il sudore della spossatezza gli bagnava la fronte. Gli pareva che le corde del violoncello si fossero allentate. Poi in quello sfinimento improvviso tutti l'abbandonarono, non seppe più bene dove fosse, cosa facesse. Come viaggiatore, che, traballando per la stanchezza, cerchi di cadere all'ombra di un albero, egli andava involontariamente ad abbattersi sotto la malinconia dei suoi giorni più tristi, finendo quasi per provare una specie di benessere in quel languore esausto del meriggio. Ma il vento tornava a far stormire le frondi, Giorgio si ascoltava intorno un susurro. Non si ricordava più da quanto tempo suonasse. Il susurro sorgeva dal pavimento con uno scalpiccio di piedi, uno stridio di sedie mosse qua e là; un sibilo di parole correva tra le file delle poltrone smorzandosi nel fiotto dei ventagli, nell'accento soffocato di un'esclamazione, mentre il fruscio degli abiti delle signore imitava le prime impazienze del vento nell'ora del temporale, e la percossa di qualche canna le prime battute della grandine. Giorgio lo avvertiva. Ma intanto che i sensi gli si ottundevano nella stanchezza, la coscienza gli si rischiarava nella visione della realtà. Sciaguratamente poema e concerto non erano nemmeno a mezzo. Allora l'impossibilità di giungere in fondo lo colpì in mezzo al cuore come una palla. Non vi era più scampo, egli stesso era prostrato, le dita non gli rispondevano più agli atti del pensiero. Il meriggio era appunto la pagina più faticosa e difficile nell'esecuzione. Il suo cuore ebbe una suprema convulsione di ferito, le sue tempia si lacerarono in uno scoppio. Il mormorio del pubblico cresceva di minuto in minuto, vi si distinguevano i fremiti della collera, i soffii gelati dell'ironia; tutte le bocche avevano una moina insultante, tutti i gesti un'intenzione malevola. E mentre lo stesso dolore di quelle trafitture gli comunicava un'ultima suprema energia, un nome gli squillò nell'orecchie: Mary. Giorgio alzò il capo.

In quel momento Mary si arrovesciava sulla spalliera della sedia, colle piume del ventaglio fra i denti, guardando il marchese Soderini, che le terminava nei capelli la frase di uno scherzo. Gli occhi di Mary schizzarono come uno scintillio sul volto di Giorgio; il pubblico, vedendolo alzare il capo, era rimasto intento.

Giorgio impallidì come uno spettro, rimase cogli occhi sbarrati nel volto di Mary, che non riusciva a soffocare la propria ilarità; quindi facendo all'improvviso un gesto orribile, inesprimibile di follia si alzò, brandì il violoncello come un violino, e fuggì a precipizio per l'usciuolo.

Il camerino era vuoto.

Il cappello a cilindro stava solo nel mezzo del tavolo. Giorgio non vide nemmeno la cassa dell'istrumento, si cacciò il cappello in testa, e si precipitò per scappare: la sala rumoreggiava. Ma in quella rientrarono nel camerino il cameriere e Momo, pallido egli pure come un morto. Giorgio aveva una fisonomia insostenibile; respinse il cameriere con un gesto, respinse Momo che gli tenne dietro, e sempre col violoncello in mano irruppe nel corridoio, calò le scale. Momo tentò due volte di trattenerlo parlandogli: il rumore della sala cresceva, alcuni signori cominciavano già a discendere. Giorgio saltò addirittura gli ultimi gradini, vide un fiacchero dirimpetto al portone, vi corse, vi gettò il violoncello, e quando fu seduto, non ebbe ancora la forza di parlare.

— La cassa? — esclamò Momo, guardando l'istrumento, per una di quelle sensazioni della realtà, inevitabili anche nelle più violente tempeste dello spirito.

Giorgio si voltò di soprassalto, e con un'occhiata che intendeva ben diversamente la sua domanda:

— Domani — rispose.

Fu la sola parola di tutto il tragitto: Momo aveva dato al cocchiere l'indirizzo di Giorgio, ma quando il fiacchero si arrestò, Giorgio prese il violoncello, e impose a Momo di restare. Si era ricomposto, o pareva; solo la voce gli tremava ancora.

— Rimani: ho bisogno di essere solo — disse con accento sicuro.

Momo fe' un diniego col capo.

— Tu hai paura che mi ammazzi — seguitò l'altro con uno strano sorriso — per loro?!

Momo insisteva: allora Giorgio tornò a sedersi, e parlò così lucidamente, con tale tranquillità, che l'altro dovette arrendersi. Solamente nel salutarlo gli appressò gli occhi agli occhi per studiarne bene lo sguardo, e ripetè:

— Lasciami salire.

— No — disse l'altro risolutamente tendendogli la mano, ed entrò solo in casa.

Salì le scale al buio, la camera era al terzo piano. Quand'ebbe acceso il lume, si guardò involontariamente nella specchiera sopra il canterano, e la sua fisonomia stravolta gli fece così male, che tutta la collera gli riavvampò. Aveva la faccia di un'immobilità marmorea, la bocca ringrinzita da un tremito di paralisi. Con un moto violento si slanciò sul violoncello, lo afferrò con ambe le mani per il manico, ed alzandoselo sopra la testa lo sbattè con rabbia demente a più riprese per terra. Un'ira selvaggia gli centuplicava la forza nelle braccia, mentre le schegge balzavano grandinando nelle pareti, e le corde slacciate sibilavano per l'aria attorcigliandoglisi alle mani con movimenti viperei. Ma egli proseguiva, inebriandosi di quel dolore feroce, attraverso il quale sentiva confusamente di commettere un'insensatezza e un'infamia. La piccola camera pareva in tempesta: il pavimento traballava, i vetri delle finestre tintinnivano: una voce tuonò dal piano sottoposto senza che Giorgio l'intendesse.

Colle mani sanguinolenti dalle ferite delle chiavi, seguitava a percuotere il troncone del manico per terra, trasportato dall'impeto di quella furia, colla bocca, che aveva finalmente trovata la contorsione del pianto.

Ad un tratto lasciò cadere il troncone, e si chinò a raccogliere una carta. Era una lettera. Cogli occhi che leggevano a stento, gli parve di riconoscere il grosso carattere dell'Anna.

Il cuore gli si arrestò così bruscamente, che cadde quasi in deliquio. Era proprio il carattere dell'Anna, la lettera doveva essere nascosta entro il violoncello.

Allora, sotto la pressione di una nuova paura, strappò il suggello.

La lettera era senza busta.

« Caro Giorgio,

«Ti scrivo prima di morire. Ecco, tu adesso sei al concerto, ma io ti sento di qui. Troverai il mio testamento in un'altra lettera sotto il capezzale; con essa ti lascio la mia poca miseria, pregandoti di conservarla anche quando sarai diventato un signore, come un ricordo del bene che ti ho voluto, dopo che ti era morta la mamma, e ti ho raccolto.

«Eri bello come un angelo, povero Giorgio! Ogni giorno ti facevo sempre più mio come se ti avessi fatto davvero. Tu non puoi ricordartene, perchè i bambini sono senza memoria, ma io mi rammento di tutte le tue cattiverie; ogni mattina ti alzavi più cattivo per me. Dopo che hai avuto il violoncello, io non ho contato più nulla. Tu sei bello e di una razza di signori: io sono brutta, di povera gente, e mi sono ammazzata a lavorare per te. Cosa vuol dire? non ci pensiamo più. Quando sarò morta, fa conto, come ti ho detto, che mi abbiano seppellita dentro il violoncello: te l'ho dato come il capo più caro della mia miseria, tientelo come una reliquia. Adesso, a pochi minuti dalla morte, non ho più vergogna di dirtelo, perchè lo saprai quando sarò spirata: io ti amo, Giorgio. Ti amo come il mio bambino, se ti avessi fatto, come il mio amante, se avessi avuto da te un altro bambino. Ma sono vecchia per te; ho trentasette anni, sono gobba, e non potrei ispirare che un poco di pietà. Figurati se non l'ho capito subito! Ora, che parlo per l'ultima volta, voglio parlare. Diventerai un signore, avrai tante belle donne, che ti ameranno: io non te lo posso impedire, e non lo vorrei: ma pretendo un posto nel tuo cuore, un cantuccio dove non ci sia nessuno, e dove tu verrai tutte le volte che avrai bisogno di una mamma, o di una sorella. Io sarò sempre lì; mentre le altre donne ti faranno delle carezze, o tu ne farai a loro, io ti aspetterò lì colla tua musica; tu dopo farai il confronto fra noi e loro, e ci amerai di più. Nessuno al mondo ti vorrà mai bene come meriti, e come hai bisogno. Si dice che i moribondi vedono nel futuro; bada dunque alle mie parole: nessuno ti amerà come io ti ho amato. Se un giorno non te ne accorgi, non sarai un gran suonatore.

«Non ho più forza di andare innanzi.

«Quando leggerai questa lettera sarò morta: prendila come la preghiera della mia agonia.

«Sta attento. Io non so dove si vada dopo morti, ma fa conto che ti vegga sempre, e se un giorno tu dovessi dimenticarmi, o suonare un altro violoncello, che tu sia maledetto da Dio, e non sappia più nè dove andare, nè dove stare come Caino. Egli non aveva ucciso che suo fratello; tu avresti ucciso tutta la tua famiglia nella tua Anna.

«Ti saluto, e credimi per sempre la tua

«ANNA VENTURI.»

All'ultimo periodo la calligrafia era quasi illeggibile.

Giorgio aveva scorso quella lettera cogli occhi balenanti, e un convulso, che gli faceva tremare tutto il corpo a verga a verga. Aveva i capelli irti, una specie di bava alla bocca. La sua fisonomia era diventata orribile nel terrore, la fronte imperlata di sudore, il corpo raggricciato in una contorsione di vecchio e insieme di bambino.

Quando l'ebbe finita, rimase egualmente fiso, cogli occhi che non leggevano più, la ragione schiacciata nel cervello da un gran dolore improvviso. Tutti i muscoli gli battevano.

— Oh! — mormorò con gesto disperato, tentando di slacciarsi la cravatta per poter singhiozzare; ma non vi riuscì.

Allora barcollando, metà ebbro e metà svenuto, andò tastoni verso il letto, e vi cadde. Ansimava, gli battevano i fianchi, gli sibilava il respiro. Tutto l'impeto di quella convulsione gli si addensava in una necessità di pianto, che gli gonfiava il petto, martellandogli il cranio. Furono pochi minuti di uno sforzo e di uno spasimo supremo. Era caduto bocconi sul letto colle braccia distese sul cuscino, le gambe floscie, che gli tremavano.

Ad un tratto gli mancarono, e cascò pesantemente per terra. Non gridò nemmeno, ma poco dopo s'intese un rantolo.

Non aveva potuto piangere...

Se andate al manicomio di Bologna l'illustre professore Roncati vi mostrerà un pazzo interessante. È un bel giovane biondo, coi capelli lunghi, la fisonomia nobile e triste. Il professore, che aveva avuto l'idea di un'orchestra, voleva farne di lui il direttore; ma Giorgio si scusò, spiegandogli a lungo l'impossibilità di ottenere qualche cosa di buono con simili elementi.

— Ma ho tutti gl'istrumenti — insisteva il professore.

— La musica è un accordo di pensieri prima che d'istrumenti. I pazzi non si accorderanno mai.

— E tu sei pazzo? — gli aveva chiesto ridendo.

— Non lo so: gli altri sono senza testa, io invece sono senza cuore.

Ecco la sua pazzia; dice che non lo ha più, e non si ricorda dove lo abbia perduto. Ma se gli fate osservare che gli batte sotto la terza costola sinistra, egli vi guarda con due grandi occhi, fa un pallido sorriso, e ripete invariabilmente:

— Batte, ma non suona.

CONTRABBASSO

Il teatro Brunetti era già pieno. Una folla incredibile lo stipava da cima a fondo. Nella platea, un ciottolato di teste slavate da un immenso riverbero, i colori vampeggiavano qua e là sui cappellini delle signore; mentre un ondeggiamento sollevava ancora qualche fila, appena un nuovo arrivato volesse allinearvisi, o una qualunque curiosità serpeggiasse. Non si discerneva più nulla, nè differenza di persone, nè diversità di posti. Solamente la riga delle poltrone guernite in felpa rossa, serrate dagli altri scanni, che l'altezza delle loro spalliere diventava quasi invisibile nell'accavallamento di tutte quelle teste, aveva ancora qualche punto sanguigno. E dalla porta, sotto l'ombra della prima galleria, che i becchi di tutto il teatro non giungevano a diradare; fra le due gradinate, gremite quanto la platea e perdute egualmente in una penombra di cantina, nuovi flotti venivano a schiacciarsi contro le ultime panche con un vocìo soffocato di violenza. Ai lati dell'orchestra, più numerosa del solito e piena di un'animazione febbrile, salivano altre due file di persone, che gl'inservienti in livrea gialliccia non riuscivano a trattenere, e le quali ostinandosi contro ogni evidenza a trovar posto, si serravano sotto le colonne fra le gradinate e le panche. Un moto sordo di pigiamento dava un tremolìo quasi minaccioso alla base del teatro, che le esili colonne di ghisa inargentata parevano sostenere con uno sforzo supremo. Ad ogni istante, fra la gente già seduta, qualcuno si alzava in piedi per respirare a pochi centimetri più in alto, e si girava intorno uno sguardo meravigliato. Il caldo era soffocante, l'aria torbida. Nullameno la folla cresceva, le teste si moltiplicavano assiduamente a tutti gli ordini; la ressa alle porte dell'orchestra, per le quali si arrivava ai posti distinti diventati platea, e dalle quali i tardivi guardavano sollevandosi sulle spalle di chi stava loro innanzi, si raddoppiava. Le corsie brulicavano. E in alto, nel cielo del teatro, le scalee del loggione parevano in un'ondulazione di bosco, mentre, forse nella vanteria di una sfida alle vertigini, molti corpi si protendevano dal davanzale, e molte mani balenavano in un gesto inesprimibile; e tutta quella siepe umana restava bruna, campata in aria sopra un pericolo, che poteva essere una minaccia per chi la riguardava dal fondo agitarsi tempestosamente. Poi il susurro della platea, che lassù scoppiava in clamori; le grida, nelle quali andavano rotte le parole, e che le volte comprimevano ingrossandole, davano un fracasso di tumulto a quel frastuono di agitazione, una violenza di rivolta alla impazienza di tutto il pubblico, nel quale l'attesa aumentava col numero, e il sangue s'infiammava col calore di tutti gli aliti e l'attrito di tutti i corpi. La prima e la seconda galleria, trasformate in tanti palchetti, erano zeppe di spettatori e di spettatrici. Le signore più ricche di Bologna vi si mostravano in vistose toelette, a colori chiari, coi volti animati dal calore dell'ambiente e dalla eccitazione della serata. Le conversazioni erano vive, i binoccoli puntati da tutte le gallerie e da tutti i palchi, dal loggione e dalla platea. I forestieri, accorsi numerosamente dalla vicina Romagna e dalle altre provincie, si notavano alla curiosità più insistente delle domande, agli accenni, ai gesti, coi quali s'indicavano le signore, e si movevano sui sedili per attirare gli sguardi come nei loro piccoli teatri cittadini; ed alzavano la voce. Attraverso le file degli stalli, fra i palchi, di galleria in galleria, si scambiavano saluti e convegni per la fine dello spettacolo: molti cercavano lungamente fra la folla per sorprendervi qualcuno, che avrebbe dovuto convenirvi; gli studenti del loggione, colla volgarità chiassosa della loro natura, gettavano a quando una parola sconveniente. A fianco della bocca d'opera le barcaccie rigonfie di uomini avevano acceso tutto il lusso delle loro candele a gas. Gli eleganti si alternavano all'onore del parapetto guardando nella moltitudine colla indifferenza sicura dei privilegiati. Ma tutti alzavano involontariamente la testa, ed osservavano in alto. Ogni galleria aveva tante file di sedie quante ne poteva contenere, e non pertanto un'altra fila di uomini, in piedi, si schiacciava contro il muro, nelle tenebre, con una regolarità militare. Qua e là, disseminate fra gente sconosciuta, si vedevano molte signore distinte, alle quali la poca sollecitudine o la troppa avarizia avevano impedito di ottenere un palchetto: alcune affogavano nella marea della sala, non difese nemmeno dalla rispettabilità di una poltrona. Ma il prezzo dei palchetti era salito ad una somma provincialmente assurda: due erano vuoti, e solleticavano tutte le curiosità. Si sospettava più di una grande famiglia, si susurravano molti nomi. Gli uomini alla moda avevano il loro contegno più disinvolto, quella finta negligenza di chi, avendo vissuto qualche mese a Parigi, non si meraviglia più di nulla; mentre le signore dei palchetti, abbassando tratto tratto uno sguardo inorridito sulla platea, cercavano d'incontrarsi negli occhi delle amiche, che già vi soffocavano, e che quella sera non guardavano a nessuno.

Ma l'orchestra non si apprestava ancora. Secondo il gergo teatrale, quella sera avevano fatto porta da tre ore, e da tre ore il loggione era pieno. La platea aveva cominciato a riempirsi poco dopo, e molti installativisi al buio aspettavano, chi sa da quanto, in piedi, addossati ad una colonna o ad una panca che tutto fosse rigonfio, e finalmente il direttore salisse sulla scranna. Ma l'orologio avanzava con lentezza disperante. Intanto il teatro stipato era già uno spettacolo per se stesso. Le piccole lumiere, a tre becchi, sospese in giro agli ordini, avventavano una vampa al viso delle signore appoggiate sui davanzali, ed illuminavano ogni macchia della decorazione. Il parapetto della prima galleria, enfiata come un ventre, sembrava vicino a crepare sotto il peso enorme che la dilatava; e la sua tinta gialliccia, diluita e scrostata, accresceva il terrore di tale impressione. Il teatro con tutta quella luce e quella gente pareva più vecchio: i cuscinetti dei davanzali orlati di passamanteria, che avrebbe dovuto essere bianca, erano di una sordidezza senza nome; la tappezzeria dei palchi, divisi da un tramezzo poco più alto dei sedili, e che consisteva in una povera carta a quadretti nerognoli e rosei, aveva una povertà più vergognosa fra quegli abiti di seta, le trine e i merletti, il scintillamento dei colori, i ventagli piumati, i guanti grigio-perla, il balenìo dei binoccoli perlati, i razzi delle gemme, lo schiumare dei fazzolettini di battista, tutto quel lusso del teatro comunale, che ne richiamava la magnifica decorazione a rilievi e a dorature, a frangie e a velluti. Una volgarità di ressa usciva da ogni palco; le signore in gran toletta, gli uomini senza l'abito nero e il piastrone bianco, tutti i posti occupati, così che le pose eleganti diventavano impossibili, e le figure aristocratiche scapitavano. Alcune grandi dame, forse non mai comparse al Brunetti, avevano un'aria impacciata, una specie di malessere, che era forse un malcontento: qualche vecchia invece, dalla fisonomia signorile e mummificata, tornata fanciulla nell'ingenuità dell'oblio, osservava con beata compiacenza; mentre forse nella memoria le si ridestavano i ricordi della Malibran, quegli entusiasmi, che oggi paiono impossibili, e che allora erano così veri fra quei vecchi senza passato, e quei giovani senza presente. Infatti gl'iniziati del piccolo gran mondo bolognese si accennavano sorridendo la presenza di molte fra le antiche glorie mondane, dimenticate da venti anni nel fondo dei loro palazzi; e che riapparivano forse un'ultima volta con un ultimo rimasuglio di mode trapassate, un cravattone o una bavarina, e mettevano nella confusione di un palchetto il rilievo delle loro fisonomie di antenati, il disaccordo della loro immobilità. Poi tutto il teatro ondulava, le fiammelle del gas avevano uno sbattimento increscioso, tutte le teste si movevano, i discorsi fluttuavano in un mormorio incessante; il telone della bocca d'opera, un immenso lenzuolo giallo a toppe, cogli orli segnati da due o tre striscie cremisi, che gli davano un'apparenza di tendone da fiera, palpitava; un'agitazione sommessa scuoteva tutti gli spiriti, un incomodo scomponeva tutte le pose. Sotto l'ombra della prima galleria, dalle gradinate e dalla platea, dal loggione e perfino dall'atrio gremito più che un mercato, saliva e discendeva un fremito mano mano più tempestoso, una trepidazione barcollante, nella quale si sentivano come degl'impeti di collera e delle sospensioni di minaccia. Ma nell'aria già morbida di tutti quei fiati cominciava a pesare un'oppressione sempre più grave: la freccia dell'orologio s'appressava alle otto, e molti sguardi si alzavano alla volta, osservando il timpano di cristallo e i quattro sfiatatoi agli angoli, che naturalmente non si aprirebbero per tutta la sera. Una voce dal loggione, dove si soffocava per tempo, avventò una protesta, alcune altre le si unirono, ma tutto il teatro si volse sdegnato, e le voci tacquero. Fuori l'aria era così frizzante, che, aprendo la vetriata, qualche corrente pericolosa poteva invadere il palcoscenico. Ad un tratto il direttore, in abito nero, salì sulla sedia. Un sibilo di silenzio corse per tutto il teatro, i suonatori guardavano le partiture, l'orologio era quasi sulle otto. Il pubblico ebbe un enorme sospiro di soddisfazione: lo spettacolo sarebbe puntuale. Ma nel loggione e sotto la prima galleria il murmure si allontanava come un susurro di vento per un bosco; tutti si adattavano il più comodamente sugli scanni, le fisonomie si ricomponevano, le pose da teatro ricomparivano. La bacchetta del direttore percosse la lingua di latta sul leggìo, e l'orchestra attaccò la sinfonia. Era la Traviata di Verdi, cantava la Patti. Il pubblico stette fra contegnoso e disattento. L'orchestra diretta mediocremente eseguiva colla stessa bravura che al Comunale, poichè composta all'incirca degli stessi elementi: i violini erano numerosi, tutti allievi o quasi dell'illustre Verardi. Mano mano il pubblico si faceva più immobile, gli sguardi si aguzzavano. La sinfonia passò inosservata, forse qualche frase destò un fremito, ma l'opera era troppo vecchia per tutte le curiosità, troppo udita per tutti gli orecchi, e cantavano la Patti e Niccolini. Però verso il finale, quando il telone parve ondeggiare insensibilmente, tutto il pubblico ebbe un sussulto. La Patti doveva essere in iscena, la grande artista, la diva, come la chiamavano i giornali, l'usignolo, come molti se la ricordavano ancora, diventata adesso una cantante drammatica, e che ritornava al Brunetti, perchè il Comunale non poteva contenere tutta la folla necessaria per i suoi diecimila franchi di ogni sera. Il telone fiottava già sotto il soffio di tutte le bocche, e la frase finale della sinfonia si smorzava senza che la sua tragica mestizia impietosisse pure un cuore. Per un momento sembrò che nessuno respirasse, poi come se l'anelito di tutto il pubblico avesse uno scoppio, il telone si scisse e sparve in alto sotto le quinte. La Patti era in iscena, seduta sopra un divano, discorrendo col medico e con alcuni amici. Tutti non videro che lei. Era vestita da ballo, scollacciata, con un abito elegantissimo, volgendo le spalle al pubblico. Nella platea sorse un applauso di saluto, ma la curiosità e l'emozione erano tali, che l'applauso fu scarso, ed ella si torse appena colla testa per coglierlo. Quindi i cori degli invitati entrarono, ed ella si alzò gettando loro le prime note in una parola d'invito. Allora quella donnina, piccola, colla fisonomia rapace, gli occhi neri, secca, colle spalle aguzze, la persona senza forme, ma circonfusa di un'eleganza che impediva ogni analisi, campeggiò fra quella folla di straccioni, abbigliati di un povero uniforme in velluto da gentiluomini in un secolo equivoco, colle calze di cotone e i pizzi rammendati. Era in piedi, trascinando fra gli abiti orlati d'oro annerito delle coriste il suo magnifico strascico, sul quale scintillavano i ganci brillantati; ma così straniera a quella festa, che la sua contraddizione col teatro sprizzò vivamente. La scena era la solita di tutte le rappresentazioni. Una specie di gran salone di quell'architettura da palcoscenico, la quale fortunatamente ha trovato pochi imitatori, occupava tutta la bocca d'opera, con una sola porta nel fondo, e una tavola da locanda nel mezzo, lunga e stretta. La tavola aveva una tovaglia di carta, e una vecchia tenda orlata d'oro, che la fasciava fino ai piedi, dandole una strana fisonomia da altare e da banco di pasticciere. Sulla tavola i soliti calici di legno inargentato, quattro candelabri di bronzo, una conca in legno dorato piena di fiori naturali, quattro pasticci di cartone, cinque o sei bottiglie di legno nero col collo bianco, e due bottiglie vere di champagne dinanzi alle poltrone, che interrompevano alle estremità il giro delle sedie. Le poltrone, vecchio stile indefinibile, erano dorate, in felpa rossa; mentre le altre sedie ad angolo retto le avrebbero superate in ricchezza se la loro doratura fosse stata più visibile e lo stile meno sgraziato; ma non avevano imbottiture di sorta. Evidentemente a quella cena dovevano assistere due personaggi. Non v'erano altri mobili. Solamente due tavolini dorati, da muro, sostenevano nella parete di carta due specchi dipinti, bianchi da un lato e turchini dall'altro, per imitare possibilmente il gioco luminoso dei cristalli: e due ritratti di antenati fiancheggiavano la porta, adorna di un gran lavoro di stucchi, a volute e fiorami. Il sofà era rimasto vuoto. Alfredo doveva arrivare ad ogni istante; infatti entrò poco dopo col visconte suo amico. Ambedue erano abbigliati come coristi, solamente di abiti più ricchi; una casacca smollata colla bavarina, le orlature a merletti, i calzoni larghi a mezza gamba, le scarpine scollate, e un cappellone piumato nella mano. Impossibile immaginare un costume più falso, e due fisonomie meno amabili. Alfredo aveva una grossa testa a lineamenti regolari, che il volgo poteva forse trovar bella, coi lunghi capelli neri, divisi femminilmente sulla fronte e accartocciati sulle orecchie, ma che sulle sue spalle quasi esili, e con quella rotondità piuttosto boffice delle guance, gli davano un'aria di fantoccio. Il visconte era insignificante come un cameriere. Un mormorìo di ripugnanza corse fra il pubblico, che probabilmente si ricordò l'Armando di Dumas. L'apertura drammatica era presso che la stessa, però quale differenza nel secondo personaggio! La Patti poteva ben essere Margherita: forse non aveva nè la sua anima buona malgrado tutti i capricci, nè il suo corpo ancora soave di tutta la freschezza della gioventù e aromatizzato dal sentimento della morte vicina; ma la magrezza della sua persona poteva ben far credere ad una tisi, e lo sfarzo inimitabile del suo abbigliamento bastava a spiegare tutto un presente di dissipazioni parigine, di milioni fusi con uno sguardo, di amori pagati con poco più di un sorriso. Le camelie, che le guernivano il vestito e le biancheggiavano sulla testa, erano forse una vera predilezione di questa donnina, che, avendo odorato tutti i fiori della vita, preferiva adesso per orgoglio nauseato i fiori senza profumo e l'uva candita, ultimo ricordo della sua infanzia povera nei campi, che le ritornava falsificandosi attraverso la vita di cortigiana e la sua cucina di malata. I lumi, il belletto, la biacca, tutte le risorse e le menzogne delle tolette teatrali aiutavano nella fantasia del pubblico l'immagine di Margherita, così poco vera e così poco grande, e che nullameno ha commosso per dieci anni l'Europa; ma Armando, questo provinciale ingenuo sino alla goffaggine, che si trova un po' dappertutto, e attraversa per un istante la gran vita mondana per finire in un impiego subalterno, dove oblia prontamente la breve primavera della gioventù, che può averlo reso poeta un mattino: l'Armando di Dumas, che Parigi ha ingentilito senza corrompere, che la passione spiritualizza, e la sincerità rende quasi simpatico, non era certo riconoscibile in quel figuro vestito di velluto, coi calzoni orlati di una passamanteria, che gli velava i magri polpacci, e quella testa, che avrebbe figurato abbastanza bene nella vetrina di un barbiere fra le guglie dei ceroni e le iridi delle boccette.

La cena fu brevissima: gli ospiti si erano appena seduti, che Alfredo fu invitato a ripetere quel brindisi di una intonazione da baccanale, con cui Verdi ha creduto inutilmente di soddisfare alla doppia esigenza di una scena di baldoria e di un coro. Alfredo non fu nè gran signore, nè gran tenore; non ebbe alcuna delle finezze di entrambi, e sparve quasi nella risposta di Margherita. Ella fu splendida di brio, e quando tutti si alzarono, e aggirandosi fra di loro col bicchiere in mano cantò l'ultimo ritornello, se quella gente fosse stata davvero elegante, sarebbe parso di assistere ad un'ultima ora carnevalesca in casa di una grande mantenuta. Non fu che un lampo, il pubblico non lo colse, e rimase nella prima diffidenza. Sciaguratamente il biglietto era troppo alto per una città di provincia, e lo spettacolo solamente alla prima scena, perchè gli spettatori lo avessero già dimenticato. Quindi Violetta, sorpresa da un deliquio, andò a cadere sul sofà; Alfredo, che stava per uscire cogli altri, si trattenne, e le fece quella celebre dichiarazione dello stile verdiano il più puro, nella quale l'amore del collegiale è forse reso con tutto il caldo ed i fiori della sua rettorica. Non era certo la dichiarazione di un elegante ad una donna del genere di Margherita; ma se il suo soffio lirico, arrivando da una terra vergine ed ardente, saliva troppo in alto, dissipava con felice contrasto i fumi grassi di quella cena, per crudele fatalità dei coristi troppo apparente. Ella lo sentì, e come desta da un olezzo di aria nativa, ruppe in un grido di emozione. Quel linguaggio poetico, il solo genere di linguaggio falso che non avesse udito da molto tempo, e che in quel momento esprimeva una vera passione, le ricordò forse un altro mondo, dove si amava e si viveva altrimenti: se non che ricomponendosi d'improvviso, ed avanzando la fronte verso di lui come per bagnarla nel sentore delle sue ultime parole, con un sorriso ancora gaio, ma già diversamente gaio di poco dianzi, quando agitava nella piccola mano il bicchiere dello champagne, e con una bonomia intenerita nella voce, che era già una tristezza nel cuore, consigliò ad Alfredo il solito consiglio di fuggire e di amare un'altra. Il rimedio volgare era forse ben adatto, ma la piccola beffa, che lo accompagnava in fondo, ne impediva singolarmente la pratica. Malgrado la bontà di quella commozione, il gesto e le parole di Margherita avevano ancora la monellesca amabilità, il pungente scetticismo della mantenuta: Alfredo n'era impacciato, Violetta tornava a riderne.

Il suo magnifico abito di raso aveva dei sibili di serpente, mentre il suo ventaglio piumato, che valeva forse tutto il patrimonio di Alfredo, le batteva sul petto colla impertinenza superba di chi non ha cura nemmeno di se stesso. Se Alfredo non fosse stato sincero, avrebbe provato la falsa vergogna di quella posizione, e sarebbe fuggito; invece fu goffo e fu amato. Le donne pretendono sempre un sacrificio, e preferiscono fra tutti quello di un'umiliazione. Il dramma vivo di Dumas e di Verdi cominciava a questo punto. La Patti, fino allora una prima donna impeccabile, fu improvvisamente l'artista, che sapeva recitare come la Ristori. Seduta languidamente sopra quel povero sofà rosso, sorreggendosi la testa colla mano, in un abbattimento, che tradiva già un'implacabile malattia, parve perdersi silenziosamente nel vuoto gelido del passato. La sua posa, che avrebbe entusiasmato uno scultore per la involontaria espressione di tristezza, era già un capolavoro. A che pensavano in quell'istante Violetta e la Patti? Alla dichiarazione di Alfredo, o di Niccolini? A quell'amore vergine, idolatra, del povero provinciale, che ha vissuto quattro anni nel quartiere latino ricordandosi la inevitabile Provenza fra i sogni incendiarii di Parigi, dove la vita ha ancora più seduzioni dell'immortalità, e i propositi feroci delle ambizioni soccombono quasi sempre alle tentazioni del piacere? O all'amore tardivo di questo tenore ammogliato con quattro o cinque figli, la voce già velata e la fisonomia teatrale piena di rughe, che la seguiva per tutto il mondo, attraverso le ironie del pubblico e le indiscrezioni dei giornali, e che forse l'amava con tutto l'egoismo di un uomo, il quale sente mancarsi ad un tempo la vita dei sensi e la vita dell'arte? O sentiva il terrore della solitudine in quell'ignobile teatro di provincia, dove la maggioranza l'ammirava forse più per la paga che per la voce, ed entusiasmandosi per l'artista conserverebbe forse tutto il proprio disprezzo per la donna? O la sua grand'anima, sparendo davvero nel tragico destino di Margherita, si fermava come lei a mezzo il corso carnevalesco della propria esistenza, sorpresa da una di quelle ripugnanze, che sono come l'esplosione di un disgusto accumulato insensibilmente, una negazione disperata di tutto ciò che si è voluto preferire nel mondo, i diamanti veri e i sentimenti falsi, il lusso del corpo e la miseria dell'anima? E la sua voce aveva delle trepidazioni di spavento; mentre, passeggiando per il palcoscenico cogli occhi sbarrati, ella sembrava cercare una spiegazione su quelle asse, dalle quali si erano alzati tanti desiderii e sulle quali erano cadute tante speranze di donne. Forse in quell'istante il suo pensiero si era appannato, e la coscienza le si destava alla puntura di un nuovo sentimento. Poi le ultime parole della dichiarazione le tornarono involontariamente sulle labbra, quando, lontano dalle quinte o dalla strada, la voce di Alfredo risalse e la percosse. Era un'eco del cuore o un'illusione dell'orecchio? O il povero innamorato, che aveva giurato di partire per sempre e che ella aveva trattenuto scherzosamente con un fiore, era ancora sotto le finestre, a Parigi, dove la folla passa come la fiumana; e, non sapendo spiccarsene, le ripeteva di laggiù a tutta gola, come un vero ragazzo, la sua prima dichiarazione? Forse ella non lo comprese bene, ma la follia di quell'insistenza le rianimò tutte le follie della sua vita tragica ed allegra. Perchè amare? Chi amare? Comunque principii, l'amore non finisce sempre ad un modo, nella voluttà prima, nella nausea poi? La morte non era essa pure la nausea della vita? Se Alfredo l'amava davvero, tutti quelli, che si erano rovinati per lei, l'avevano amata almeno altrettanto, poichè qualcuno n'era morto. Avevano goduto con lei, poi l'avevano abbandonata. E godere dunque, sempre e dappertutto, sinchè si può essere o si può ricevere una voluttà! La fiumana di Parigi, che passava a notte così avanzata sotto le sue finestre, era sempre così torbida; tutti i caffè erano aperti, i clubs affollati, i teatri rilucenti, tutti si apprestavano a godere, gli uomini offrivano un desiderio, le donne donavano una soddisfazione, nessuno aspettava il mattino, nessuno credeva all'indomani. Essere bella ancora, avere più diamanti che sorrisi, più sorrisi che pensieri, era tuttavia un destino; e mentre laggiù, in fondo, la massa della popolazione lavora e stenta, non avere che a bramare per ottenere, essere una piccola regina, alla quale tutti i re della ricchezza offrano un trono; bella come un capriccio e debole come una malata, giovane come il mattino e nullameno moribonda come la sera. Si era decisa nuovamente. Il suo gesto piccino aveva avuto l'espressione superbamente scettica del giuocatore, che arrischia per la centesima volta l'ultima posta. Allora la sua canzone di guerra col mondo scoppiò in un ritornello pieno di trilli e di baci, di note acute e di sentimenti leggieri come il suo sacco di giovane volontaria nelle bande del brigantaggio femminile. La sua voce aveva degli scoppi di fanfara, l'abito le garriva come una bandiera al vento, il ventaglio brillantato balenava come un'arma omicida. Una gaiezza di recluta alla prima marcia le animava tutti i moti, e le accendeva già i fuochi della vittoria negli occhi neri come l'abisso. Non era più la Violetta della cena, sofferente ed avvilita pur non volendo sembrarlo; ma la Violetta di vent'anni, l'etèra moderna, che deve al lusso tutto il proprio prestigio, e uccide col lusso tutti quelli che lo sentono. L'ingenuità di questa vanteria, uscendo dall'abbattimento di poco d'ora, aveva la soavità di una brezza e il fresco mordente di un'alba. Così trovando nell'ultima ostinazione della vanità femminile le stesse lunghe compiacenze delle sue prime conquiste, si attardava sulle frasi del soliloquio, dilettandosi ad esaurirne la sonorità nelle gamme più bizzarre del ritmo, nelle pazzie più scapestrate della modulazione. Quindi sollevando improvvisamente una parola la sparpagliava in un turbine di note, la raggruppava ancora, l'avventava sopra un'altra, la perdeva in una discesa precipitosa; e riafferrandola giù nel crepuscolo dell'ultima nota, la gittava entro un gorgheggio, riscagliandola in alto, sulla cima più acuta di un trillo, dove vibrava come uno squillo e raggiava come un baleno. E la sua mano secca sotto il guanto grigio-perla sembrava appuntarla con un gesto indefinibile, mentre il suo volto splendeva di luce febbrile, e il suo sorriso passava sulle teste della platea come un riverbero, che faceva vacillare i cuori e battere le palpebre.

Poi tutte le mani si percossero, e una nuvola gialla cadde sugli sguardi del pubblico. Il primo atto era finito. Allora il teatro fu in sommossa: quasi tutti gli uomini si alzarono in piedi, quasi tutte le signore mutarono attitudine. Le conversazioni rumoreggiavano.

— Dunque?! — proruppe, torcendosi come uno scoiattolo sulla sedia, il violoncellista dell'ultima fila al secondo contrabbasso della prima, appoggiato al parapetto della ribalta e sorreggendosi sul manico dell'istrumento — mi pare che questo sia canto! La tua Frezzolini non ci ha che fare.

Ma s'interruppe dispettosamente per guardare nel pubblico, che lasciava finire il primo applauso di convenzione, obliandosi nel fracasso dei discorsi.

— Vedi — proseguì levandosi in piedi senza parere niente più alto, cogli occhi grigi, scintillanti come quelli di un pollo, e la voce stridula come una lima: — vedi — ripetè, mostrandogli il pubblico con un gesto veemente di disprezzo; — non hanno capito. Hanno battute le mani agli ultimi trilli, e diranno che la Donadio li sa fare anche lei. Ti ricordi Salvini? — seguitò stringendosi la fronte illuminata da un pensiero — la Patti è Salvini che canta.

— La Cazzola allora.

Il violoncello si volse al violinista, che aveva parlato, un ragazzo dai capelli rossi e la fisonomia ebete, e insultandolo collo sguardo:

— Questo dev'essere per te un ricordo di muratore.

Il contrabbasso ebbe un principio di sorriso.

Era un vecchio alto e grasso, la faccia del tutto rasa, con un cravattone nero, che a prima vista sembrava un collare. Due ganascie di gran mangiatore, penzoloni sotto il mento, gli scoprivano due magnifiche fila di denti ancora bianchi, capaci di stritolare tutti gli ossi di un pranzo. La calvizie inoltrandosi gli aveva dato un po' d'intelligenza alla fronte, sotto la quale una bonomia inalterabile ammolliva ancora i suoi lineamenti linfatici, congiungendogli insensibilmente il sorriso della bocca con quello degli occhi. Il resto della persona gli spariva dietro l'enorme contrabbasso, sul quale la sua mano di pizzicagnolo posava con una specie di poderosità pacifica. Un immenso soprabito, tagliato a giacca, coi bottoni neri di prunello sopra un fondo color tabacco, gli ingrossava il busto smollato dentro un immenso corpetto, sul quale una collana femminile, d'oro, attorcigliata con un resto di pretensione, faceva sospettare di qualche antico orologio a cipolla. Ma in quel momento Bartolomeo sembrava concentrato in un pensiero difficile. I suoi sopraccigli, grigi e ricurvi sugli occhi, s'andavano contraendo, mentre una contentezza ilare gli saliva dalle labbra, illuminandogli le guancie tinte ancora di un magnifico vermiglio. Rimase qualche minuto così, poi la marea del teatro, sorpassando la ringhiera dell'orchestra e scompigliandola, lo destò. Il teatro reboava. Un rumore composto di un'infinità di mormorii, di gesti, di cenni, di occhiate e di sorrisi riempiva tutto l'ambiente, agitandone l'aria, che si vedeva distintamente bruciare sulle fiammelle del gas. Il caldo era opprimente, tutte le fronti rilucevano, i ventagli susurravano sui petti delle signore, i fazzoletti biancheggiavano in tutte le mani. Nella platea era un continuo sorgere e risedersi, nei palchi già pigiati le visite sopravvenivano e si pigiavano, il frastuono cresceva per le gallerie, scoppiava in grida sul loggione. Lassù il calore dell'entusiasmo, raddoppiato da tutto l'altro del gas e della gente, doveva essere arrivato ad una temperatura di deserto africano. Nullameno panche, gradinate, muri, parapetti, tutto rimaneva letteralmente imbottito di figure umane; lo skacò placchettato di un poliziotto, arenatosi lassù come in un banco di sabbia fino al collo, gettava qualche riverbero metallico fra quel grigio tumultuoso di bruma: e dalla platea all'atrio, per la porta, l'onda di coloro, che uscivano e rientravano, quelli che non potevano più reggere all'arrembatura, e quelli non ancora entrati, i quali non speravano se non in ciò, s'accavallava in grossi fiotti, vibrando nel frastuono della sala grida di soffocazione. Le signore della platea erano già ardenti, le altre dei palchi scintillavano. La luce profusa di tutte le fiamme diventava la sola aria dell'ambiente, non si vedeva più una faccia pallida, tutti gli occhi rutilavano, tutte le bocche si movevano. Solo in un palchetto una principessa ottuagenaria, vestita di un moerro del suo tempo, con una fisonomia di mummia, ancora spiritosa quando parlava, e la nipote gracile, smorta, vestita di bianco come un angelo, diafana come una visione, fredda come una statua, sembravano non partecipare alla confusione bollente della serata. La vecchia teneva quasi sempre la testa bassa, la giovane l'appoggiava al tramezzo, e guardava in alto con due occhi affossati, che sulla sua faccia impassibile avevano una luce spettrale. La gente si voltava spesso a guardarle. Poi su quell'agitazione di marea, contenuta e raddoppiata dalle gallerie, fra tutte le conversazioni, nelle teste e nei cuori, suonava il nome della Patti. Quel primo atto, un capolavoro per qualche iniziato, non aveva soddisfatto interamente al gusto sempre grossolano, e questa volta avaro del pubblico. Ma quel turbine di note esplose all'ultima scena, e l'atmosfera del teatro dissolvevano già ogni incertezza; mentre la famigliarità di tutte le pose pigiate e delle attitudini compromesse disponeva involontariamente a maggiore compiacenza.

Poi la bacchetta del direttore percosse sul leggìo, che il pubblico non si era ancora ricomposto.

L'idillio campestre della Signora delle Camelie, narrato dal Dumas con minutezza così vera e commovente, si apriva invece con una romanza di Alfredo, eco indebolita dall'altra del Rigoletto, senza luce e senza calore. Quel povero Alfredo, che per far credere di essere in campagna, compariva in stivaloni di pelle lucida, vestito di velluto granatino, i pizzi ai polsi ed al collo, il gran cappello piumato nelle mani per darsi un contegno, era ancora più ridicolo che alla presentazione del primo atto, nel quale la goffaggine stessa della situazione poteva far scomparire la sua. Egli venne dritto alla ribalta, come chi si affretti a sdebitarsi di un incarico, e cantò con sicurezza di vecchio tenore la propria felicità di giovane innamorato. La frase leziosa del finale gli valse il primo applauso della sera, e il dramma si riannodò immediatamente. Colla delicatezza sempre poco delicata delle sue pari, Violetta voleva vendere i cavalli guadagnati in altri amori per aiutare quello di Alfredo, e seguitare quella vita di campagna, che Verdi in tutto il melodramma non ha voluto svolgere con una scena sola. Forse il suo temperamento tragico e lirico ad un tempo, innamorato delle catastrofi e delle passioni esplodenti, non ha osato di affrontare un interno casalingo, la mattina, quando l'aria è fresca, il cielo azzurro, e la casetta apre tutte le proprie finestre alla primavera. Una magnifica scena, come nel Tristano e Isotta del Wagner, avrebbe potuto spiegare il passaggio troppo brusco dell'ultima decisione di Violetta nel primo atto al sacrifizio nel secondo, appena si presenta il padre di Alfredo; ma Verdi non potè o non volle, e senza saper come si siano uniti, Alfredo e Violetta si separano immediatamente. Così quest'idillio, quest'amore, sul quale si è tanto discusso e che tanti hanno provato nella vita, non trova dentro l'opera destinata ad immortalarlo una sola frase, che lo renda nell'abbandono gentile della confidenza, quando il mondo lo aveva quasi obliato, e la natura lo riconfortava colla sua eterna salute. Ma Dumas nella Signora delle Camelie disegnava un carattere, e Verdi nella Traviata espresse il solito amore di tutti i suoi melodrammi, senza preoccuparsi delle differenze, che potessero correre fra Violetta e le sue altre eroine. Nella gamma dell'amore egli arriva subito ed involontariamente alle note più acute, alla prepotenza più acre del desiderio o al dolore più spasimante del sacrificio. Come per Victor Hugo il personaggio è per lui una forma vuota, nella quale gittare indifferentemente una passione o un pensiero, che lo animi di quella vita eccessiva, cui l'uomo non prova davvero se non in qualche terribile coincidenza. Quindi l'architettura complicata dei loro drammi, le passioni irrefrenabili, gli eroismi fatali, le contradizioni strazianti, tutto l'apparato romantico, che, trasfigurando la realtà, squilibra incessantemente il sentimento del personaggio stesso e del pubblico. Malgrado la differenza di nazione e di razza, Manrico e Radamès sono lo stesso individuo, come Gilda e Violetta, Ernani e Don Alvaro, Riccardo e Don Carlos, Dea e Cosetta, Gilliat e Guynwplaine, il marchese di Lantenac e Don Silva; perchè Hugo e Verdi fanno delle statue e non degli uomini, e sono come due fratelli, dei quali il minore aspetta che il primogenito abbia parlato per cantare. Talora si uniscono, e ne esce una grand'opera come il Rigoletto; talora non s'intendono, e producono due mostri come nell' Ernani. Così della Signora delle Camelie, aneddoto triste e volgare della cronaca parigina, che Dumas ha narrato con vecchia sapienza di novelliere e giovane entusiasmo di predicatore, Verdi ha fatto una tragedia, nella quale non si sente che un grido di amore, con quattro personaggi insignificanti come una decorazione, una trama molle quanto una matassa, una sceneggiatura falsa come quella di un giornale illustrato, un processo psicologico, che mutila i caratteri e deforma le situazioni. Invano l'anima, stanca da quest'alternativa di cicalio e di gemiti, o disorientata da tutti questi avvenimenti, che cadono come tante tegole dai tetti, domanda la dolce malinconia di quest'amore, nel quale il sorriso della tisi ingannava così spesso ambo gli innamorati, e la verginità dell'inesperienza nell'uno e dell'oblio nell'altra si fondevano come due soffi in un bacio, due note in un accordo. La figura di Violetta, questa donna, della quale ogni particolare dovrebbe essere supremamente elegante: sempre leggiera anche nelle violenze più inebrianti del senso, o negl'impeti più disperati del sacrifizio: sempre mantenuta anche nel breve idillio coniugale, poichè invece di morire ricacciandosi nella miseria morale della sua vita anteriore, riprende facilmente il corso delle antiche feste: sempre sfarzosa e sempre con un uomo, al quale concede le proprie notti: la figura di Violetta così vera nelle contradizioni e così falsa nell'eroismo, fragile e terribile nella sua effimera prepotenza di grande mondana, spregevole e pietosa nell'ultima lotta col destino, contro al quale non ha mai saputo lottare colle forze del lavoro e le energie della volontà; questa figura composita come i suoi pranzi, i suoi profumi, le sue tolette, le sue preferenze e le sue antipatie, diventa una figlia nobile dalla bellezza spirituale, colle stigmate del romanticismo sulla fronte; povera anima che aspira al cielo, assetata di amore e di ideale, che parrebbe un angelo smarrito sulla terra, se i singhiozzi laceranti del suo petto di tisica non la tradissero per una donna. La bianchezza della sua fronte di predestinata è la stessa di Gilda, la vergine soave; il sacrificio del suo amore quello medesimo di Eleonora, l'altera castellana: il suo cuore è sempre puro, la sua testa illuminata dal sole della poesia. Malgrado la differenza degli abiti e delle parole, mutando scena, ella sarebbe probabilmente l'una e l'altra; e quando si sentirà soccombere sotto il peso del dramma, o morire nell'ultima stretta della catastrofe, troverà la frase di quelle martiri, ineffabile e sublime come l'ultimo accento dell'amore e la prima parola della fede.

In quel momento Violetta stava attendendo il padre di Alfredo. Era vestita semplicemente, ma le cattive abitudini della mantenuta, o la falsa vanità della cantante le avevano fatto mettere una moltitudine di brillanti sopra quel corsettino da campagna. Le signore, che non l'abbandonavano un solo istante col cannocchiale, susurrarono mostrandosi la raggiante ricchezza di quelle gemme. Evidentemente Violetta preferiva i diamanti ai cavalli. Ma il padre di Alfredo, Moriami, bell'uomo camuffatosi male appositamente, dal portamento vivace e la voce poderosa, entrò poco dopo. Con una condiscendenza inesplicabile per la decorazione della scena rimproverò acerbamente a Violetta l'estrema eleganza della casa, che pareva appena quella di un giardiniere; e perdendosi subito dopo nelle rimostranze di padre offeso dalle follie del figlio per una donna, stava per trascendere, che Violetta lo trattenne con un gesto. Allora la vera ed unica scena dell'opera scoppiò; Moriami fu un padre ordinario, ma un baritono corretto, la Patti un miracolo di arte e di natura. La insulsaggine del pretesto inventato da Dumas e musicato da Verdi per mettere la tragedia nel racconto e l'equivoco sulla scena, uccidendo nell'anima di Violetta la vita e in quella di Alfredo l'amore; la povera storia di quella sorella perduta in un villaggio di Provenza, la quale deve sposare un possidentuccio qualunque con centomila lire di patrimonio, mentre ella ne porterà forse ventimila in dote, e che spaventati dallo scandalo di Alfredo non possono più unirsi, come se le amanti dei fratelli disonorassero le sorelle a cinquecento miglia di lontananza; questo padre, che arriva dal fondo della Provenza attirato dai debiti del figlio, una delle più forti attrazioni, e per persuadere la donna, che egli crede il suo mal genio, ad abbandonarlo, non trova nulla di meglio a dirle che lo scrupolo piuttosto ebete del proprio futuro genero; la musica triviale come le parole del racconto e la posizione del dialogo, la cantilena dei ritornelli, la nudità del motivo e la miseria dell'accompagnamento, tutto si illuminò e disparve alle prime parole di Violetta. Coll'accento della paura, che la sorpresa intenerisce ed aggrazia, la voce rotta dai singhiozzi, sublime di debolezza e di entusiasmo, ella gli confessò il proprio amore per Alfredo, amore quasi santo per la redenzione della donna, quasi sacro in quella brevità di tisi. E mano mano che il canto angosciato le si affievoliva, quasi il solo pensiero di perdere Alfredo le rompesse l'ultimo filo di voce, le sue parole frettolose risuonavano con un borbottio d'invocazione, e i suoi occhi si figgevano nella faccia del vecchio con espressione imbambolata. Forse col presentimento degli infelici aveva paura di quel volto bonario, sul quale le passioni non avevano mai balenato, e che solo la morigeratezza e l'egoismo avevano potuto conservare così fresco. Tutto in lei pregava per l'amore. Ma colla testardaggine della gente onesta, la quale, trovandosi ad avere dal proprio canto la virtù e l'interesse, diviene scettica sulla importanza delle passioni, egli seguitò a darle i consigli di circostanza. Nè la magrezza della sua personcina, nè il rossore della febbre l'impietosivano: non si accorgeva di strapparle dalle labbra l'ultima goccia di cordiale, di soffocarle nel cuore l'ultima speranza della vita. E la musica nella sua fraseologia rettorica e plebea esprimeva abbastanza bene questo carattere vero a forza di essere brutale, questa posizione tragica, nella quale la ragione parlava col vecchio e la poesia singhiozzava colla giovane. Naturalmente il pianto è uno dei primi sintomi della debolezza, e Violetta cedè. Forse ella stessa non ne capiva bene il motivo, ma per uno di quegli abbandoni disperati, propri delle nature patetiche, si lasciava cadere ai piedi della prima contraddizione colla voluttà singhiozzante del sacrificio. Allora la vita degli ultimi mesi in campagna coll'amore di Alfredo, affluendole impetuosamente al cuore, le sgorgò in lagrime dagli occhi. La sua fiacchezza di donna e di malata le fece provare anticipatamente tutto l'orrore del distacco, e di un ritorno alla vita della cortigiana, che non può credere più alle illusioni del lusso, o sperare in un ideale più alto. Per un momento si era lusingata di rientrare nella virtù di un unico amore, e la virtù la rigettava sul corso rumoroso del vizio. Il cuore le batteva, il petto le bruciava. Le pareva impossibile di cedere, ella che aveva tutti i diritti di una moribonda, il suo ultimo mese a chi vivrebbe ancora molti anni; mentre sapeva di non costar nulla ad Alfredo, e che una rottura sarebbe forse la morte per entrambi. Ma una mano di ferro le era discesa sul cuore, e l'aveva prostrata. Il feroce destino della sua vita la ripigliava stracciandole tutti i sogni, pestandole tutte le speranze. La cortigiana doveva morire cortigiana, nella miseria di uno spedale, o nella vergogna di un sequestro. Quindi una luce improvvisa illuminò il destino, che la uccideva, e riapparve la provvidenza della sua infanzia, quando la mamma l'ammaestrava accanto al focolare, inculcandole l'umiltà dei principii e la purezza dei sentimenti. Le sembrò di ritrovarsi nell'antica casetta montanara, intatta ancora dal giorno della sua fuga, poichè la mamma ne era morta poco dopo. Ma un'altra casa sopra una più bella costiera piena di aranci e di olivi, fra una corona di colline, sotto un cielo di smalto, in faccia ad un mare di zaffiro, in un'aria imbalsamata, in mezzo ad un sorriso eterno di giocondità e di salute, le passò come una visione nel pensiero. La conosceva, era la casa di Alfredo, che egli le aveva tante volte descritto. Il vecchio cane pastore era sdraiato sulla porta, la capra favorita della mamma brucava ad una siepe. La porta era spalancata, il prato deserto. Ma ad una finestra del primo piano una fanciulla pettinata modestamente ricamava un paio di pantofole da uomo, col volto illuminato da un impercettibile sorriso. Era la sorella d'Alfredo, la vergine, alla quale ella non poteva essere presentata, l'angelo della famiglia, che stava per aprire le ali bianche al volo. Le sembrava di vederla in alto, dal prato della casa, alla guisa dei mendicanti, che venivano spesso ad implorarla. Allora tutta la ribellione del suo dolore ammutolì, e comprese di essere inevitabilmente perduta. Il destino, che la buttava ai piedi di quella vergine, come gli antichi guerrieri venivano a gettare ai piedi delle loro spose i prigionieri di guerra, era la provvidenza della sua infanzia, che sparisce talvolta, ma non dilegua, perdona forse, ma non oblia. L'ora della espiazione era suonata prima dell'ora del pentimento. Le ginocchia le si piegarono quasi involontariamente; ma come se l'aria di quella visione l'avesse già purificata, col gesto del pellegrino, che sta per riprendere coraggiosamente la via dolorosa del pellegrinaggio, stese la mano al vecchio, e cantò la preghiera dell'addio. Come la figlia di Jefte ella moriva per la parola di un padre, ma senza la poesia dell'innocenza e l'onore del corteggio. La sua lamentazione, lenta come i rintocchi di un'agonia, calava laggiù, in una valle della Provenza, sotto la finestra, alla quale la sorella di Alfredo lavorava senza alzare gli occhi dal ricamo; mentre Violetta, stringendo convulsamente la mano del padre, gli mormorava un saluto per la vergine, che doveva ignorare per sempre l'infamia del suo nome, e l'eroismo del suo sacrificio. La sua voce, sempre soave, aveva un accento ineffabile di malinconia in questa romanza, la più bella e la più vera di tutta l'opera; ma alla ripresa, quando il presentimento della morte le ebbe tolto ogni forza, anche la voce le si affiocò senza appannarsi, ed abbandonando la mano del vecchio, gli ripetè con tale sfinitezza — Dite alla giovane sì bella e pura — che il pubblico strozzato dall'emozione scoppiò in un urlo. Istantaneamente l'incanto si ruppe, Violetta scomparve e rimase la Patti, un'artista inimitabile, alla quale il teatro chiese due volte il bis, due volte soffocandolo sotto un grido fanatico di applauso. A poco a poco il calore dell'ambiente aveva guadagnato tutte le anime, quella romanza le incendiò. La sua tristezza era così vera, che l'amore ed il suicidio di Violetta diventavano reali, atroci, inevitabili. Non si vide altro, non si comprese di più. Per qualche minuto lo spettacolo rimase sospeso. L'applauso diventava ovazione, crescendo d'intensità e di frastuono; si sentivano i fremiti, scoppiavano già le strida della demenza. L'emozione del pubblico era talmente viva, che per sopportarla dovette ricorrere al bis. L'arte è un punto, l'artificio una linea: questo si raggiunge una volta, questa si può prolungarla sempre. Il pubblico, che aveva sobbalzato alla voce di Violetta, giudicò allora quella della Patti, e il giudizio fu così lusinghiero, che la grande cantante ebbe un sorriso di regina, curvandosi sotto il vento degli evviva. L'artista ed il popolo si erano intesi prima; la donna ed il pubblico s'intendevano adesso.

Quando il padre fu uscito, Violetta rimase sola per scrivere ad Alfredo il terribile biglietto. I violini di Verardi interpetrarono mirabilmente le poche e stupende note, colle quali Verdi ha reso l'ansia di quel momento, ma nè la musica, nè la voce, nè la perfezione inimitabile dell'attrice poterono risollevare il pubblico. La reazione dell'entusiasmo lo prostrava. Alfredo rientrò, e l'accordo fra il pubblico e la Patti si ruppe di nuovo.

Quella figura di barbiere, camuffato da postiglione, smagava tutta la passione di Violetta. Ella avrebbe avuto talmente torto di amarlo, che era impossibile credere al dolore delle sue menzogne e alla verità del suo olocausto. La farsa spuntava sotto la tragedia. Forse Violetta fingeva quel convulso per non parere troppo cortigiana; poichè l'insulsaggine in mostra sulla fisonomia del suo innamorato doveva averle reso ben uggioso il lungo faccia a faccia in campagna. Flora l'invitava ad una festa. Parigi rumoreggiava da lontano, attirandola come l'oceano attira il marinaio. Involontariamente tutti gli orecchi riudivano i gorgheggi leggermente avvinazzati del primo atto: ma d'improvviso, mentre l'ironia del pubblico, malcontento del tenore e forse geloso dell'uomo, agghiacciava quella scena di addio a parole mozze, Violetta riapparve con un grido talmente lacerante, che tutti impallidirono. Molti si voltarono, sporgendosi per vedere se fosse caduta ai piedi di Alfredo con una bava di sangue alle labbra; ma Violetta era già scomparsa, e Alfredo si fregava le mani in faccia al pubblico colla vanità di un uomo idolatrato.

Il resto dell'atto sembrò interminabile, il dolore di Niccolini fu ridicolo essendo falso, e lo sarebbe stato più essendo vero; i conforti di Moriami, di una scioccheria appena perdonabile ad un padre, che non può aver torto vantando i prodigi del proprio cielo provenzale. Niccolini seduto sull'unica poltrona di casa, la mano alla fronte, conservava abbastanza sangue freddo per non scomporsi la sapiente pettinatura; mentre Moriami imbarazzato sotto quella parrucca ed entro quegli abiti da vecchio, egli che la sera dopo doveva essere il più bel Barbiere di Siviglia, seguitava la predica. La quale produsse finalmente il solito effetto, e quando sperava di aver persuaso il figlio a prendere il primo treno per la Provenza, questi indovinando dall'ultima lettera di Flora, trovata sul tavolo, che Violetta sarebbe a quella festa per trovargli il successore, scappava impetuosamente per Parigi.

Si credeva che il telone sarebbe calato secondo il solito, per dare alla prima donna il tempo della grande toletta da ballo; ma forse la Patti volle provare di riuscirvi in pochi minuti, e l'atto seguitò. Solamente la scena passava dalla campagna a Parigi, in casa di Flora, che quella sera dava un ballo in costume. Gl'invitati alla cena di Violetta dovevano convenire nella festa di Flora. Infatti un'orda di zingarelle e di ballerine sboccò da una porta laterale del gran salone, illuminato da palle di carta oliata, che imitavano i globi di cristallo: ma Verdi o l'impresario non avendo osato affrontare la realtà di un ballo, la scena rimase fredda. Poco dopo un fiotto di mattadori spagnuoli irruppe dalla medesima porta, e volle cantare un secondo coro alla padrona di casa, che non ne capì nulla come il pubblico. Se gl'invitati seguitavano a venire a torme, la festa doveva finire per essere ben numerosa. Però la crisi del dramma appressava. Alfredo, pallido ancora dalla lunga corsa dal casino a Parigi, entrava vestito da ballo come alla prima cena di Violetta: gli stessi amici lo aspettavano al giuoco. Accettò, ed aveva appena puntato il primo luigi, che Violetta giungeva a braccio del barone, parata di un abito di raso bianco, meno bianco tuttavia del suo volto. Uno strascico lungo come la coda di una cometa, ornato di camelie bianche e costellato di brillanti, la seguiva ondulando sulla scena. L'abito era un capolavoro di ricchezza e di semplicità. Ella pareva uno spettro. I capelli neri, divisi sulla fronte come quelli di una madonna, le cadevano sulle orecchie con una trascuratezza, che stringeva il cuore. All'estremo pallore della faccia e al largo cerchio turchino sotto gli occhi, si capiva subito che quella donna doveva aver pianto troppo o dormito troppo poco; e, venuta per forza alla festa, si era lasciata abbigliare dalla cameriera senza accorgersene. Violetta non si sarebbe mai disposto quelle camelie in fila sul fianco, come un rosario di fiori, nè piantato quel fermaglio sull'ultimo bottone del corsetto scollato. Fiori e gemme erano troppi: una collana di perle le cingeva il collo, i monili le salivano per tutto il guanto quasi all'altezza del gomito, una minutaglia di brillanti le balenava da ogni piega dell'abito, persino dalle fibbie delle scarpe. La pompa insultante della toletta guastava l'aristocratica delicatezza della sua figura, alla quale la piccola camelia bianca sulla fronte avrebbe dato un ben altro significato di poesia.

Come tutti gl'innamorati, che cercano uno scandalo, Alfredo aveva subito alzato la voce provocando il barone al giuoco. Il barone aveva acconsentito ed aveva perduto. Fortunatamente quando l'alterco stava per scoppiare, e Violetta lo seguiva con occhio smarrito, un servo venne ad annunziare la cena. In due ore era la seconda per i coristi, che nullameno urlarono ad unanimità: andiamo! I due rivali dovettero seguirli per ultimi, non senza scambiare prima qualche frase equivoca di minaccia; e la scena rimase vuota. Ma Violetta rientrò barcollando quasi immediatamente; aveva indovinato il disegno di Alfredo, e voleva impedirlo affrontando magari tutte le contumelie ed i graffi della sua gelosia. Da vero collegiale Alfredo non capì nulla della sua costernazione. Violetta avrebbe voluto inginocchiarglisi ai piedi, se il pericolo di essere sorpresi non l'avesse trattenuta, e cogli occhi dilatati dallo spavento, che le battevano come nell'abbarbaglio di un miraggio, vacillava ad ogni sua cattiva parola. Egli era superbo, affettato. Quella preghiera sbigottita gli saliva alla testa come l'ultimo incenso di un amore non ancora ben spento; epperò, malgrado ogni feroce proposito, gli trasse di bocca qualche motto di fuga. Allora Violetta ebbe un gesto così sublime di disperazione, che tutto il teatro fremè: Niccolini invece saltò alla porta con due grandi passi tragici, e, prima che ella avesse il tempo di vietarlo, chiamò tutti i coristi. Era destinato che quegl'infelici non dovessero cenare. Infatti accorrendo di malumore gli fecero cerchio intorno come in piazza: gli altri invitati arrivavano, Flora si mise a fianco di Violetta, il barone pretesto imbecille di tutta la scena, si cacciò coraggiosamente fra loro ed Alfredo, che aveva avuto il tempo di atteggiarsi con tutta la maestria di un provetto cantante. Ma questa volta fu tenore e buono. La sua invettiva, da principio a voce sorda, crebbe tremendamente di parola in parola, come se nella veemenza dell'ira gli si rischiarasse la voce. I capelli neri arricciati con tanta civetteria sulla fronte, questa volta gli squassavano come una criniera, mentre colla faccia vampeggiante di rossore, e i garretti tesi come un leone che sta per spiccare lo slancio, gualciva nella mano contratta la terribile borsa. Sciaguratamente per lui Verdi aveva perduto tutto l'impeto della maledizione, ripigliandone la cadenza con una modulazione da stornello nel momento, che lo scoppio di quella collera, quasi degna di un eroe e così vera per un geloso, doveva avere la detonazione di una bomba. Niccolini dovette scomporsi. Il pubblico lo perdette di vista per Violetta. Aggrappata alle sottane di Flora col viso stravolto dall'orrore dello sfregio imminente, il seno anelante, la bocca aperta per un urlo impossibile, che sospendeva il battito di tutti i cuori, tremava ed oscillava come un giunco. La sua veste bianca pareva una falda di neve, la sua faccia una faccia fantastica. Era troppo! Quella scena di Alfredo doveva essere un sogno peggiore di ogni realtà, una immaginazione spaventevole di un fatto non mai accaduto! E in quel raccapriccio Violetta rassomigliava all'olandese del vascello incantato, colla indescrivibile fisonomia, che solo una tempesta di mille anni ha potuto comporre. Non le restavano più che gli occhi e la bocca, il resto era tutto bianco come una nebbia, che sarebbe svanita con un soffio. Ma i suoi occhi ardevano, e nelle contrazioni della bocca muta le ruggivano tutte le strida della procella. Tratto tratto una frase infame di Alfredo l'attirava e la respingeva, mentre un terrore tragico le saliva dall'anima sul volto come un'ombra sopra una larva. Le sue mani sole parlavano, e una parola inarticolata, unica e tremenda, una negazione irresistibile ed inutile le crepitava nell'ultima convulsione dei lineamenti. Ognuno tremava, ma la tensione delle anime era tale, che la più piccola percossa avrebbe determinato un'esplosione. E fra il rombo di quell'anatema ed il silenzio di quell'esecuzione, nella quale la vittima era innocente, Violetta cresceva. Ritta sulla punta dei piedi, le mani raggrinzite sulle spalle di Flora come per sollevarsi al disopra di quel gesto che le cadeva sul capo, la sua bianca figura sembrava allungarsi in un prodigio di luce bianca: e quando Alfredo, sfinito di rabbia, le scaraventò in faccia la borsa, trattenendo lo scatto più brutale di uno schiaffo, ella pure gli si avventò dall'alto del suo bagliore di angelo, e respinta dalla ferita mortale si abbattè vacillando sulle spalle di Flora.

Il teatro ruppe in un urlo di liberazione; l'incubo si era risolto nella morte.

Ma invece di attendere ai rimproveri del padre, che arrivava in buon punto per compiacersi dell'opera propria, o al borbottio di Alfredo prolungato dalla musica in una imitazione di gargarismo, mentre il barone approfittava del frastuono per minacciare impunemente, tutti gli sguardi si accalcarono intorno al sofà di Violetta. Era svenuta in atteggiamento scultorio. Poi sembrò ridestarsi, e girando intorno gli occhi, sentì nella cantilena del coro il dolore della propria ferita. Alfredo si era quasi rincantucciato come un pauroso dietro la gente. Allora senza vederlo, con un gesto di martire, ella esalò l'ultimo sospiro d'amore. Il sacrifizio era compiuto e la vittima era viva. Il suo abito bianco pareva una tunica di angelo, la camelia della sua fronte un astro. La sua voce pura, come il suo cuore dopo l'olocausto, cantava fra quella turba ad una visione trionfante, quando Alfredo sapendo finalmente la verità verrebbe a morire d'amore sulla sua fossa recente. Un'ultima generosa malinconia velava la gioia del suo perdono, mentre i suoi occhi illuminati dalla fede si appannavano di una lacrima tardiva. Ella si obliava nel canto. La sua invocazione, forte sul principio come il grido di un risorto, s'indeboliva lentamente nel murmure concitato della folla, sulla quale la sua anima bianca si librava come una nuvola di sacrificio sull'altare. L'accordo tumultuoso di quel pieno, che sembrava sostenerla, dava un'acutezza quasi più limpida agli squilli, una lentezza più mesta alle cadenze della sua voce. Tutta l'orchestra ondeggiava, la bacchetta del direttore non percuoteva più la lingua di latta, e la Patti cantava sempre in quell'attitudine di statua, animata da un sentimento che eccedeva la vita, e al quale solamente il suo canto poteva infondere la verità. Quindi il telone avviluppò nuovamente tutta la scena, e il finale s'interruppe senza che paresse esaurito.

Il pubblico, che non se l'aspettava, ne rimase intontito. Poi le conversazioni risorsero in mezzo ad un applauso pieno di urla rotte e di gesti maniaci. La platea era in piedi, uomini e signore, tutta la gente si sporgeva dai palchi, si protendeva dalle gallerie, precipitava quasi dal loggione. Era come un'enorme scommessa a chi troverebbe la percossa più sonora, l'evviva più clamoroso, il grido più entusiasta. E tutto ciò in uno strepito di sommossa, che eccitava perfino le adesioni compassate dei pochi aristocratici, alzando il pigolìo delle signore a schiamazzo di fanciulli. Per tre o quattro volte il telone si squarciò, e la Patti vi apparve nel mezzo come dentro una nuvola; la sua testa non aveva più il tragico pallore, e si chinava sotto la carezza della tempesta con una grazia di airone. Quindi un bisogno più intenso arrestò l'ondata dell'applauso, e ognuno si volse con una specie di precipitazione al vicino: vi furono ancora degli scoppi parziali, degli impeti, che dal loggione attraversavano la platea, e l'ovazione si sommerse nel rumorio delle conversazioni. L'aria era salita a una temperatura tropicale senza che alcuno vi badasse: i visi erano caldi come le parole, gli occhi scintillavano come le osservazioni.

— Bartolomeo, meo, marameo — guaì il violoncellista slanciandosi verso il contrabbasso caduto pesantemente a sedere; e ripetendo con perfetta intonazione le ultime note della Patti nel finale dell'atto: — finalmente se ne sono accorti; hanno applaudito al miracolo! Te lo avevo predetto — insistè con una esplosione di orgoglio dispettoso.

La sua testina di monello ingegnoso e depravato gettava lampi, mentre tutti i suoi moti scattavano con un'energia, che non si sarebbe mai sospettata in quel corpicciattolo. Tutta l'orchestra era in piedi, una ressa di artisti stringeva il direttore disceso dal pulpito.

— Li vedi, Bartolomeo — proruppe accennandoglieli imprudentemente del dito — che ricevono l'imbeccata? Ah! se io fossi quella donnina, piccola come tutti i tesori, che hanno un valore inestimabile; ancora abbastanza bella, perchè la sua voce che è la prima bellezza del mondo sia bene incorniciata dal suo volto, credi tu che vorrei venire al Brunetti? Perchè canta questa donna? Diecimila franchi per sera... e poi? A che cosa le servono diecimila franchi? per comprare un abito, e tornando nuovamente sulla scena guadagnarne altri diecimila. Ciò è assurdo: è la nostra vita miserabile trasportata nelle ricchezze, il nostro mestiere nel genio. Noi possiamo vivere così: abbiamo preferito di tirare un arco piuttosto che una sega, ci pagano quattro franchi per sera la nostra segatura di note, che il pubblico piglia per musica e se la goda: ciò è abbastanza degno di noi e di lui. Io non canterei.

— Perchè? — domandò ingenuamente Bartolomeo, che aveva ascoltato mezzo distratto quel discorso proferito con una precisione piena di sussulti.

— Tu non lo capisci, aspetta — fe' attirando una sedia col piede, e sedendoglisi presso con famigliarità protettrice ed ironica.

— Ti sentiresti capace d'innamorarti della Patti?

Bartolomeo provò una tale percossa a quest'esordio, che il violoncellista gli posò una mano sopra i ginocchi per trattenerlo.

Quindi riprese:

— Ti sono piaciuti i diamanti della Patti? Te lo leggo sulla faccia, li hai ammirati. Ella ha voluto farne pompa anche in campagna, ed era una scempiaggine; nel ballo, ed è stata una provincialata. Eppure il più piccolo di quei diamanti costa forse più di quello, che nè tu nè io guadagneremo mai nella nostra carriera di suonatori. I diamanti bisogna averli, ma nel cassetto, per godere ogni tanto della loro purezza, che supera quella dei fiori, della loro luce, che vince quella del sole. Li porti? Ed allora fossi pure un imperatore, non sei più che un povero borghese, il quale ha bisogno di fare invidia per sentirsi superiore, e fra tutte le invidie sceglie quella dei miserabili, che è la più bassa. Perchè la Patti se li è messi stasera? Per provare al pubblico che i diecimila franchi di ogni sera sono una verità, e alle signore dei palchi, che essa, una cantante, ha più gioie di loro, principesse di nascita o milionarie di posizione. La Patti è una donna: ecco perchè canta. Perchè vendere per diecimila franchi la sua voce e la sua anima? Se io le fossi amico, le direi che un cavallo da corsa, a Londra, in tre minuti vince centomila lire di premio, e due milioni di scommessa, in faccia allo stesso pubblico, al quale essa getta così se medesima, e che non l'ha mai applaudita come Gladiateur o Iroquois. Bada; il Brunetti contiene tremila persone, il Covent Garden poco più: al gran Derby, io ci sono stato, nelle corse meno frequentate vi sono trecentomila persone. Ecco il pubblico nella verità della sua natura grossolana, che non può andare al di là della sensazione, e preferisce quindi la più acuta, quella di una scommessa sopra un cavallo, all'altra di una sorpresa in una scena. Credi tu che questa gente, la quale applaude con tanto fracasso, possa aver compreso l'arte divina, con cui la Patti ha cantato tutto quell'atto? Allora perchè non ha applaudito il primo, diversamente, ma non meno perfetto? Ma il sentimentalismo di questo è più facile del brio di quell'altro. Si distingue una donna, che pianga da una che rida, ma cogliere la differenza fra due lagrime o due sorrisi, ecco l'incomodo per coloro, ai quali manca l'intelligenza penetrante della realtà, o il senso squisito dell'arte. Vedrai che a quest'altro atto la platea scoppierà in grida, e i palchi in singhiozzi; la Patti sarà sublime a buon mercato, poichè il patetico profuso nella scena basta per sè solo a commovere una massa. Ed ella colla Malibran, la prima artista del nostro secolo, al disopra della Sontag e della Galletti; ella, che crea colla voce, come Verdi può creare colla penna, e spesso molto meglio; già abbastanza ricca per vivere come una regina, ed abbastanza gloriosa per rientrare nell'isolamento di tutti i grandi spiriti, viene in quest'ignobile cantina del Brunetti davanti a un pubblico, nove decimi del quale non conoscono la musica, per ottenere diecimila franchi di paga, e diecimila applausi di buona mano. Ciò è ancora più vigliacco che assurdo.

Bartolomeo travolto da quest'eloquenza fece un gesto per resistere.

— Aspetta — gridò l'altro. — Se la sua fosse la beneficenza del genio, che si prodiga in capolavori per decorare la vita sciagurata dell'umanità, e si getta egli stesso in elemosina come un gran signore, il quale non avendo più denaro si offre per un servizio: se ella fosse Dante o Beethôwen, Michelangelo o Shakespeare, bisognerebbe cadere colla fronte per terra, e adorare quest'artista incomparabile, che passa attraverso l'Europa per improvvisare un'ora di gioventù nei cuori più invecchiati, un profumo di primavera nelle anime più inaridite. Ah! sarebbe più bello di Dante, e più grande di Shakespeare: l'arte non ha altra missione, far dimenticare la vita rappresentandola, illuminare la realtà trasfigurandola nel sogno. Ma no, mio caro — proseguì incalorandosi e contraendo la faccia a una fisonomia ringhiosa di scimmia: — diecimila applausi, che valgono ancora molto meno, di gente, che ella non conosce e non vorrebbe conoscere personalmente, che la farebbero forse ridere se non piangere coi loro giudizi.

E si arrestò ansante: il teatro tumultuava sempre. Si girò intorno uno sguardo, quindi rivoltandosi verso Bartolomeo quasi inebetito da quel lungo discorso:

— Non è vero che ho ragione?

— Ma allora come faremmo noi a sentirla?

— Faremmo a meno. Bevi forse del tokai tu? Ho forse una madonna di Raffaello sopra il mio letto, io che non ci credo, e la terrei tanto volentieri? Guarda: se io avessi dei milioni, non come i nostri milionari di Bologna: essi sono miserabili, nessuno ne ha nemmeno un paio di dozzine, e vedi che è un'inezia. Se io fossi milionario anderei subito domattina dalla Patti, e le direi: il vostro impresario vi dà diecimila franchi per sera perchè cantiate, io ve ne do quindicimila, e compro il vostro silenzio. Se me lo permettete, verrò a tenervi compagnia; canterete, se ve ne salta il ticchio, ma se m'accorgo che lo fate per sdebitarvi, ve ne manderò altrettanti ogni mattina per il mio cameriere, e non metterò mai il piede nel vostro appartamento. Ecco che cosa direi a questo genio che si degrada, a questa donna che si prostituisce. Le direi: andate a Roma, a Parigi, vi darò un palazzo grande come una reggia: voi già sareste ricca da comprarlo volendolo; siate una gran signora, gettate alla porta quel Niccolini, che non è mai stato un gran tenore e non può essere più un grande amante; aprite i vostri saloni a tutta l'aristocrazia del pensiero, e componetevi una corte di sovrani come Napoleone I. Voi avete la sua potenza ed il suo genio, giacchè vi trascinate dietro la stessa Europa incatenata al vostro carro: aspettate che il vostro spirito avvampi nella febbre dell'arte, e allora cantate per essi, che potranno comprendervi. Aspettate che Victor Hugo, il vecchio sublime, venga qualche sera a riposarsi nel vostro salotto, e ravvivatelo col canto: egli sarà l'idea e voi sarete la parola, egli il ritmo e voi la modulazione: aspettate che qualche grande ambizioso vinto vi domandi un'ora di calma, e allora cantate come voi sola potete cantare. Sarete la prima donna, e la prima dama del nostro secolo. Ma non mischiate mai danaro nella vostra arte, siate come Dante e come Shakespeare, come Beethôwen e Michelangelo: lasciate agl'istrioni la plebe dei teatri, che vuole divertirsi perchè fatica, e giudicare perchè paga. Il suo denaro eccellente per pagare delle scarpe o saldare dei pranzi non può valutare la vostra anima, essere il prezzo della vostra voce. I capolavori sono fatalmente gratuiti, anche quando non sono pubblici. Forse ella è donna, e non mi comprenderebbe, e allora le getterei un milione in faccia, proprio come nel finale di quest'atto, e le direi colla mia voce più insolente: giacchè la sordidezza della vostra anima è pari alla purezza della vostra voce, tenetevi il pubblico e Niccolini, fatevi pagare tutte le sere come le coriste; ma, per quanto gl'impresari vi paghino bene, non raggiungerete mai il prezzo di un cavallo da corsa, e sarete sempre meno stimabile; il cavallo corre per guadagnare la bandiera, mentre voi cantate per intascare il premio.

In quel momento il direttore risalse sulla scranna.

— Aspetta — gridò il violoncellista vedendo Bartolomeo, che si alzava senza rispondere: — sai che cosa è la Patti?

— Sei matto, tu!

— Infelice! — egli rispose compiangendolo con un gesto comico di disperazione — tu non mi comprenderai, e la mia definizione della Patti sarà la più bella di quante ne daranno i giornali.

— La Patti è...

Fortunatamente la bacchetta del direttore percosse la lastra tagliandogli netta la parola; ma Bartolomeo, che l'aveva intesa, alzò vivamente l'arco per darglielo sulla testa. Il violoncellista fu presto a balzare indietro, e sempre ridendo tornò alla propria sedia. Bartolomeo guardava già al sipario; la preoccupazione del suo spirito si era fatta grave come una malinconia. Appoggiato al grosso manico del contrabbasso arricciato e borchiato come un pastorale, la mano sulle chiavi e la testa sulla mano, aspettava che il telone si squarciasse nell'atteggiamento vanitoso di un concertista, che attende il proprio pezzo. La sua alta statura, che lo faceva quasi dominare tutta l'orchestra, rendeva anche più sensibile il contrasto della posa romantica colla sua fisonomia bonaria di grande mangiatore. Il violoncellista, che non lo perdeva d'occhio, se ne accorse, e quando il sipario si scisse, e la Patti apparve in fondo all'alcova, sdraiata sul lettino, vestita di bianco, alle ultime note del celebre preludio celando rapidamente la testa dietro il violoncello:

— Meo! — gridò.

Egli si volse, e l'altro gli rise in faccia con tale escandescenza, che raccapricciando di essere penetrato, Bartolomeo impallidì.

A rovescio di Dumas, che descrive la miseria di Margherita in mezzo al magnifico appartamento sequestrato dai creditori, Verdi ha immaginato una modesta cameretta, come se uscendo da quel ballo fatale, Violetta avesse abbandonato il barone e fosse ricaduta nella miseria. Ma la musica non avrebbe potuto raccontare tutti i dolorosi particolari della Signora delle Camelie, analizzare le ultime lacerazioni della realtà nella trama già troppo logora dei suoi ultimi giorni. In questo la musica, linguaggio eccezionale, rimane troppo al disotto dal linguaggio ordinario, pel quale un'esistenza può passare intera. La piccola camera aveva le pareti giallognole, una toeletta dozzinale in un canto, una specie di alcova in fondo, con uno straccio di cortina bianca, sotto la quale riposava una forma ancor più bianca. Era la Patti. La scena indicava il mattino, e pareva notte. Una miseria mal dissimulata dalla decenza faceva sentire un'aria fredda nella camera, che il respiro troppo tenue dell'inferma, e il sonno troppo lieve dell'infermiera non bastavano ad animare. La camera vuota pareva troppo grande. Il caminetto di carta non aveva nè fuoco nè legna: era in sulla fine di carnevale, l'aria di Parigi all'alba pungeva senza dubbio. Sul tavolo da notte una bottiglia d'acqua, e due o tre boccette luccicavano alla fiamma del lumino riparato da un cappello verde. Violetta si destò per chiedere un sorso d'acqua, ma nell'accostare le labbra al bicchiere nascose la faccia contro il grembo dell'Annina. Per un'ultima civetteria di grande artista la Patti riservava l'effetto del proprio volto per quando scenderebbe dal letto. Adesso non si discerneva che una cuffietta bianca, dalla quale sfuggivano sull'origliere alcune ciocche brune: il resto era confuso sulla coperta. Poi il medico arrivò mattiniero secondo il solito, e Violetta volle alzarsi.

Allora un raccapriccio gelato corse per tutto il pubblico. La tisi lenta, che la divorava da qualche anno, non le aveva lasciato più che la pelle cenerognola e poche ossa, fortunatamente nascoste dal vestito. Ma i suoi movimenti erano così rotti, che sembrava di intenderle scricchiolare ad ogni istante. Il suo bel viso da uccello di rapina, a forza di assottigliarsi, era rientrato nel profilo tagliente del naso, mentre gli occhi le si erano sprofondati nell'orbita, e il loro cerchio turchino era disceso giù nello scavo delle guancie. Ma la bocca livida aveva ancora i denti bianchi come nei giorni del suo bel sorriso. Una piccola cuffia da notte, di una semplicità molto povera, tratteneva il disordine dei suoi magnifici capelli neri, e le si annodava sotto il collo con due lunghe cordelle cadenti sul seno. Ella si appressava, sorreggendosi sulla spalla del medico e sul braccio di Annina con uno sforzo così faticoso, che le traeva ad ogni passo dal petto uno scoppio di tosse. Nulla restava più della Violetta, che Parigi aveva ricevuto un mattino dalle mani della provincia, fresca come un pomo, per gettarla nella terribile operosità delle proprie cucine, e trarla frutto candito dall'aspetto malsano e il sapore composito. Tutta quella decorazione, abbagliante a forza di essere ricca, che aveva fatto di Violetta una delle tante fantasime del lusso, una figura volgare e straordinaria appunto come una decorazione improvvisata, nella quale non si erano risparmiati nè danari nè uomini; la Violetta, che passava fra le duchesse del bosco di Boulogne come una duchessa di un'altra aristocrazia, che era una curiosità per tutti gli uomini ed una novità per tutti i luoghi; la Violetta, che una sera, d'improvviso, era saltata a piè pari dal proprio trono vendereccio per infilare il braccio di Alfredo, e fuggire con lui in campagna a respirare l'aroma della terra; la Violetta dell'ultimo ballo, spettro regale, che ricompariva nella sala del trono per ricevere un insulto plebeo da un suddito pazzo di amore: tutto era sparito senza traccia e senza speranza. Solo i capelli, ricciuti e neri come una volta, gettavano ancora sotto il trapunto della cuffietta qualche ilare riflesso.

Tutto le era stato egualmente fatale, il vizio come la virtù.

Poi, sedendosi, trovò ancora un gesto della passata eleganza, e lasciando la mano, bella tuttavia, sulla spalla del medico, lo ringraziò con uno straziante sorriso. E cantò.

La musica delle sue parole sembrava battuta sul ritmo affaticato del suo cuore, mentre la sua voce, fattasi più pura nello sfacelo di tutto il corpo, aveva l'inesprimibile limpidezza del pensiero nei moribondi. Si sentiva morire. Invano il medico colla pietà dozzinale del mestiere le diceva di confidare nella convalescenza vicina, mischiando le proprie frasi fredde tra le parole intenerite di Violetta. Poi l'ultima speranza, la sublime illusione di ogni martire, che aspetta di veder squarciarsi il cielo, ammalata anch'essa di tisi, le si svegliò in cuore. Da molti giorni Violetta aspettava una lettera di Alfredo. In quella rassegnazione d'agonia ella non domandava più che di vederla per inebriarsi l'estrema volta d'orgoglio, e concedergli il perdono del martirio. Sempre donna, voleva Alfredo ai piedi per sentirlo rabbrividire al suo aspetto di agonizzante, egli che le aveva affrettato la morte, e, mentre singhiozzerebbe, adagiargli il capo sulla spalla e spirargli l'anima nel petto. Era l'ultima decorazione della sua vita, il gran finale del suo ultimo atto. Quindi uscita l'Annina, si trasse di seno la lettera del padre, conciso rescritto di grazia, e la rilesse forse per la centesima volta. Dopo essersi battuto col barone ed averlo ferito, Alfredo era scappato all'estero per stordirsi; ma il padre impaurito del suo cordoglio ostinato, gli aveva scritto rivelandogli finalmente il secreto: Alfredo era già forse in viaggio, ed affrettava col cuore febbricitante d'impazienza l'impeto del treno, che lo portava. Ella lo vedeva laggiù, in fondo alla Francia, cacciare la testa dagli sportelli, guardando verso Parigi, e ritirarla con atto di scoraggiamento. Allora una eguale paura la sopraffaceva, e, piegando il volto sul seno, ripeteva a bassa voce colla parola di tutti gl'infelici, che la vita uccide e la morte non disillude: è tardi! Ma l'orgasmo di quell'attesa le si fece improvvisamente così vivo, che dovette levarsi. Un raccapriccio gelato le passò sulla faccia, travedendosi nello specchio: vi si appressò. Una boccetta azzurra, dal collo lungo, vi esalava ancora il profumo favorito dei suoi fazzoletti, sui quali aveva forse tante volte lasciata la bava sanguigna dei primi scoppi di tosse. Ella sorrise, poi chinandosi sulla lastra sino quasi a toccarla colla fronte, parve voler esaminare attentamente la povera sembianza, che la guardava dal cristallo con due grandi occhi di spettro. Una mano le corse involontariamente al riccio, che le usciva dalla cuffia, immutata bellezza della sua gioventù, sul quale avevano scintillato tanti brillanti, e nel quale forse si erano tuffati tanti baci di tante persone. Quindi ridivenne seria obliandosi per qualche minuto nella propria apparizione. A che pensava? Quali ricordi le tornavano alla memoria dai giorni lontani della vita, dal mattino campestre o dal meriggio parigino, e, migrando lontano come uccelli passeggeri, quale strido le gettavano dall'ultima curva dell'orizzonte? Forse il loro volo era così denso, che la loro ombra le imbruniva il volto: lo abbassò, e sempre barcollando tornò ad aggrapparsi alla poltrona. Vi sedette.

Allora l'ultima speranza, che le agonizzava in cuore, si rizzò per dare uno sguardo d'addio al mondo. Era un canto sommesso come una preghiera mormorata ai piedi di un altare, sotto la volta scura di una chiesa, che le colava insensibilmente dalle labbra, mentre l'occhio le strisciava sullo smorto paesaggio della vita. Le ultime foglie gialle erano già cadute sul terreno, tutte le mandre avevano riparato alle stalle, il vento passava in silenzio per la campagna brulla, il sole si spegneva a poco a poco come una lampada funerea. Ma ella non rabbrividiva. La sua canzone solitaria si perdeva nell'aria come l'ultimo fumo di una ruina. La testa abbandonata sul cuscino, che le rammorbidiva la spalliera della poltrona, le mani incrociate sul grembo nell'attitudine dei morti, l'occhio immobile come vetro, cantava lentamente. Quella cuffia da nonna dava un'altra malinconia alla sua nenia, una inconsapevolezza di vecchiaia, nella quale il linguaggio non è più che un'eco. Finì, poi riprese, cullata dalla sua monotonia, trasportata dal suo murmure verso il silenzio del sepolcro. Che cosa diceva quel canto? Nessuno lo distingueva bene, ma tutti capivano ed impallidivano al barcollamento di quella testa vicina ad addormentarsi nell'ultimo sonno, e che affondata nel cuscino sembrava dentro una culla. Tutto il genio infermo di Verdi mormorava in questa ultima romanza del dramma più accarezzato dal suo cuore di artista. Poi un singhiozzo, che era un insulto di tosse, la interruppe. Il pubblico rattenuto sino allora dal rispetto della morte, si scatenò in un applauso furente mentre il baccanale del bue grasso passava sotto le finestre dell'inferma con strepito avvinazzato. Quindi Violetta, ridivenendo nuovamente la Patti, dovette ripetere la romanza.

Naturalmente la ripetizione fu ancora più acclamata, ma la Patti si scompose talmente alla fine, che se la cameriera avesse tardato a rientrare colla grande notizia di Alfredo, forse non avrebbe saputo ricoricarsi moribondamente sulla poltrona. Allora la Violetta d'altra volta riapparve entro un baleno acciecante di vita. Aveva già compreso; ansava, cogli occhi in fiamme, le mani brancicanti, sentendolo salire per le scale, mentre Annina non si era ancora spiegata. Vedeva, udiva, poi l'anelito la soffocava, e le forze stavano per abbandonarla, quando Alfredo comparì sulla porta, ed ella gli si precipitò nelle braccia con un urlo straziante di demenza. Perchè mai Alfredo era sempre Niccolini, cogli stessi stivaloni e il medesimo cappello piumato? Perchè Verdi, obliando tutto il proprio ingegno, ha scritto il dialogo dei due amanti con quella volgare stampiglia di frasi, sciupando una scena, che sarebbe stata sublime in mano a qualunque altro: e stretto della necessità di una bella romanza è andata a cercarla nell'ultimo atto del Trovatore? Perchè Verdi è così spesso un altro, che scrive della musica da capobanda, senza testa e senza cuore? Perchè quando si sa mettere nella bocca di Violetta quell'ultima frase, mandando l'Annina per il medico, nella quale si sente dissolversi tutto il suo cuore, e che la Patti cantava come non è possibile immaginarlo senza averla sentita; perchè dunque mungerla in una cadenza, che dovrebbe far trasecolare la stessa Annina, e cader le braccia ad Alfredo per quanto sinceramente innamorato? Perchè nel duetto seguente la disperazione ribelle di Margherita, e la speranza rassegnata di Alfredo si esprimono col medesimo canto, mentre sentimento e parole sono così terribilmente opposti? Perchè questo fatale convenzionalismo, che deforma la bellezza e mutila l'arte: perchè, essendo grandi, non si osa essere liberi, e Verdi viene anch'egli colla turba dei minori e degli uguali a curvare la fronte incoronata sotto certe forche caudine? Perchè mai, quando Wagner le ha rovesciate con un cozzo superbo, i critici le rialzano, e artisti come Verdi vi ripassano?

La Patti era in piedi: un riflesso d'incendio le bruciava il viso illividito, la cuffia gettata indietro con gesto quasi feroce le svelava l'altezza della fronte, solcata da una ruga profonda e battuta da un vento di tempesta. Un momento parve dimenticarsi di Alfredo per ridiscendere come un giudice nella propria vita, e risalirne come un condannato, che montando il patibolo si ferma in faccia al cielo per disonorarlo con una suprema bestemmia d'innocente. L'accompagnamento su tutte le corde basse imitava l'anelito faticoso d'un'ultima collera. Poi fece un passo, e sollevandosi sulle punte dei piedi, le braccia levate, le mani raggrinzite nello sforzo impotente di un graffio, squassando la testa nel delirio di una imprecazione, avventò la prima nota. Era orribile, era vero. Tutta l'orchestra batteva, tutte le dita pizzicavano le corde con inconscia veemenza; Niccolini stava intontito, il pubblico era perduto di terrore. Ma le forze l'abbandonarono, e l'imprecazione le morì in lamento soffocato. Il destino aveva vinto. Perchè dunque le gettava Alfredo fra le braccia, pronto a condurla sposa in Provenza, adesso che ella non aveva più la forza di un bacio? Ah! era vile, era degno di Dio! Invano con faccia di marito bonario, Alfredo ripigliava uno ad uno i suoi accenti, e la pregava di calmarsi per non fare troppo soffrire lui medesimo; chè ella non lo sentiva nemmeno, e seguitava a gemere nel singhiozzo convulso dell'orchestra.

Allora la corda di un contrabbasso vibrò con tale violenza, che la Patti stessa, curva sui lumi della ribalta, fra le braccia di Alfredo, si volse involontariamente. Era Bartolomeo con due grandi lagrimoni per la faccia, che pizzicava rabbiosamente la propria corda: ma l'arco gli cadde di mano a quell'occhiata, rumoreggiando: ella si rivoltò, alcuni suonatori si torsero. Bartolomeo era scoperto, piangeva; però nessuno sorrise, tutti erano commossi. Il maligno violoncellista, estatico, non si avvide fortunatamente di nulla; poi, quando la Patti si abbattè nuovamente sulla poltrona, l'orrore fu tale, che egli stesso balzò in piedi. Il pubblico non potè nemmeno applaudire. Quindi l'ultima scena precipitò. Annina, il padre di Alfredo e il dottore rientrarono insieme. Naturalmente la musica sofferse del loro ingresso, e ricomparvero le frasi di riempitivo, questa volta quasi naturali, per la qualità dei personaggi e la loro posizione drammatica. La stessa volgarità delle parole li rendeva veri. Violetta moriva: l'anelito delle spalle e il cerchio turchino sotto gli occhi le diventavano più visibili, il naso le si profilava sotto la mano della morte. La vittima era adagiata sull'altare attendendo la fiamma del cielo. Una emozione religiosa s'impadronì di tutti i cuori, assiderandoli nella paura dell'invisibile. La fisonomia della morente si illuminò. Il martirio, nobilmente accettato e intrepidamente sofferto, le dava l'ineffabile sembianza dei santi. Cortigiana immolatasi per la felicità d'una vergine sconosciuta, moriva sulla soglia del santuario, come gli antichi romei in vista del Golgota, sul quale era spirato il loro Dio: e allora, pregando per un più santo Romeo, cui il cielo concederebbe di baciare la terra bagnata del sangue divino, gli affidava nell'ultima preghiera l'adempimento del proprio voto mortale. La peccatrice perdonata, non era degna di morire nel tempio di Dio. Un'altra vergine sconosciuta, forse romita di qualche povera casetta, doveva ricevere dalle mani di un sacerdote il cuore di Alfredo. Ella solamente doveva essere madre, e piangendo sul capo dei figli insegnar loro la virtù del dolore. Violetta no; il suo labbro non avrebbe potuto baciare, senza profanarle, quelle teste innocenti, il suo nome sarebbe sempre stato per loro una condanna d'infamia. Ma in quel momento, purificata dalla morte, coi piedi sulla terra e la fronte nel cielo, non pregava più, ammoniva. China sul suo diletto, porgendogli come reliquia il proprio medaglione, gli ordinava di amare un'altra donna e di procedere come un forte sul cammino della vita. La sua voce non era più umana, la sua musica era più che divina. Era un alito più leggiero di quello d'un morente, e profumato come d'un fiore; una voce, che salendo in alto si attardava in un'eco, aveva la dolcezza diffusa di un murmure e la soavità penetrante di un bacio. Non era più nè voce, nè musica, ma l'anima che si dilatava in una oscillazione di luce; la fiamma, che discesa sull'altare del sacrificio aveva consumato la vittima, e risaliva lentamente verso il cielo. Allora un grido supremo di Alfredo percosse il teatro, grido di spavento e di negazione umana dinanzi a quella visione di paradiso; poi il coro degli altri mormorò bassamente, e tutto tacque. Violetta era morta; ma il suo cadavere respirava ancora. Si alzò, battè gli occhi, brancicò la luce, mandò qualche suono che parve di parole, indi un grido, e si spezzò. Violetta era morta prima.

Allora tutti cacciarono il solito urlo, e il telone si abbassò per sempre sulla Traviata.

Lo spettacolo essendo finito, incominciava il trionfo. L'aria era di fornace, densa ed insoffribile: un'afa torbida s'aggravava su tutti i respiri e tutti gli occhi. Palchi e platea si alzarono: nel loggione il soffio dell'uragano piegò tutte le teste della plebe sul parapetto, e squassò sonoramente tutte le braccia. Fu uno scoppio irresistibile, che salì come un unisono procelloso, mentre la percossa delle mani imitava lo scroscio della grandine, e l'accento dell'applauso femminile vi aggiungeva come un sibilo di rami secchi. Uomini e signore, aristocratici e borghesi, tutti applaudivano col medesimo orgasmo, con una impossibile vanità di far spiccare il proprio applauso. Nelle barcacce gli eleganti erano montati sui sofà e sugli sgabelli, i fiori piovevano; i cartellini a mille colori, coi due versi della lapide collocata a perpetua memoria nell'atrio, svolazzavano con un volo di farfalle intorno alle lumiere: la gente li ghermiva e si sentiva ripetere lo splendido distico dell'impresario poeta:

Adele Patti dell'Italia vanto,

Qui Felsina beò col divo canto.

Un vecchio dandy con un piede sul parapetto della barcaccia immaginò di agitare il fazzoletto bianco, e tutti lo imitarono con un urrà, di cui gran parte andava a lui stesso: altri gestivano coi cappelli, gli aggettivi più entusiastici e più audaci esplodevano. La folla fraternizzava, tutti vociavano col vicino incoraggiandosi a battere più violentemente, nessuno accennava ad uscire, i volti s'infiammavano come le teste ad ogni squarciarsi e racchiudersi del telone. La Patti correva sola alla ribalta con passo saltellato di fanciulla, sorridendo, ringraziando con un sorriso di vanità intenerita, ponendosi le mani sul cuore, portandosi una volta le dita sulle labbra. Intorno a lei i mazzetti fioccavano percotendola sulle vesti: ella li raccoglieva, ne inseguiva qualcuno, lo raccattava, lo perdeva sempre sorridendo, con una famigliarità di scherzo, con un sollazzo di ricreazione. E il pubblico andava in visibilio di questo sfarfallare della grande artista, di questo giuoco, nel quale egli era il leone ed ella la cagnuola. Poi l'entusiasmo vero lo riprendeva, e allora in mezzo a quella compiacenza metà paterna e metà infantile, ritornava popolo, e le si serrava intorno per alzarla sulle proprie voci se non sulle proprie braccia. Il palcoscenico stesso era invaso: molti, i più fortunati, avevano rotto la consegna, e si erano affollati nelle quinte per stringerle la mano fra una chiamata e l'altra: non si pensava più alla presentazione, al decoro dell'etichetta, alla distanza del genio. Quindi nella dimestichezza della ressa erano spuntati addirittura sul palco, in soprabito e cilindro, in giacca, disinvolti come tanti inservienti, dividendo l'ovazione colla diva, applaudendola dietro la testa, urlandole sul volto i loro complimenti forsennati. Ed ella rideva, facendosi sempre più piccola, discendendo al livello di tutti, curvandosi per cogliere l'applauso di tutti. Un momento, sulla soglia d'una quinta, mentre affranta dall'incessante ringraziare riparava nell'interno, si vide un signore, un vecchio notissimo, trattenerla porgendole da bere in un calice d'argento: era una reliquia, il bicchiere consacrato dalle labbra della Malibran. Ella lo prese con nobile gesto d'orgoglio, e bevve. Il pubblico non comprese, ed applaudì anche più strepitosamente. Intanto nessuno si moveva. Il telone si abbassava e si alzava come al vento, ed ella con quell'abito semplice, il volto ripulito dalla fisonomia biaccosa di tisica, arrivava insino alle barcacce, ai lumi della ribalta, si piegava sull'orchestra più rumoreggiante di tutto il resto del teatro, si gettava nella platea e nei palchi a gesti commossi e graziosi. Ma il loggione, troppo alto e troppo lontano per essere veduto, ingelosiva e lanciava urla, che parevano minaccie: ella alzò una volta il capo, e lo chinò con tale espressione di meraviglia sbigottita, che fu per lui il miglior complimento possibile. Il loggione indovinò e ruggì. Allora dalle sue tenebre, fra gli urli degli evviva e dei bis, una voce più forte di tutto lo schiamazzo ridomandò l'ultima romanza: tutti si volsero ed acconsentirono, le domande s'intrecciavano, si rivolevano tutti i pezzi più belli, ostinandosi in quell'impossibilità di averli con una compiacenza demente ed adulatrice. Giammai tempesta di teatro fu più ruinosa, nè folla più fitta e scompigliata. La maggior parte era in piedi sugli scanni, battendo i piedi, percotendo i bastoni, sbatacchiando i coperchi dei sedili per disperazione di non poter fare di più. Ma se il pubblico non si stancava, la Patti era esausta. Il suo passo diventava lento, il suo gesto spossato: la fatica dell'opera e l'emozione di quel turbine, per quanto vi fosse avvezza, la sopraffacevano. Il pubblico lo sentì, e si acquetò quasi d'improvviso. Ella riapparve ancora una volta, un urrà fece tremare la volta del teatro, e un paio di guanti, lanciato da un palchetto, venne a caderle ai piedi. Era l'ultima follia della sera. Ella lo raccolse con un sorriso, lo strepito ondeggiò, il sipario calò per l'ultima volta. Allora le piccole vanità vollero tentare di mettersi in mostra applaudendo ancora, mentre la folla si voltava per uscire: vi furono sforzi feroci, grida isolate e rauche, parve quasi che l'applauso si ragglomerasse, salì, oscillò, e si disciolse inutilmente. Tutti erano stanchi. Quindi la moltitudine cominciò ad occuparsi di se stessa, e un'altra curiosità la distrasse. Così denso ed illuminato, in quell'ondeggiamento di colori e di persone, il teatro era un altro spettacolo.

Mezz'ora dopo in una piccola bottiglieria presso il Brunetti, affollata di gente, un gruppo di suonatori d'orchestra discuteva la Patti. Erano tutti giovani, che avevano preso nel mezzo Bartolomeo come un giocattolo, ma che nel calore della disputa se lo andavano dimenticando. Il buon uomo ascoltava intontito quella diatriba appassionata, nella quale sfolgoreggiavano le nuove teoriche dell'arte. I nomi celebri abbondavano fra una agglomerazione violenta di giudizi e di osservazioni bislacche, di argomenti acuti e di appunti sensati. Naturalmente Bodoni, il violoncellista, col suo entusiasmo a fondo pessimista, dominava la discussione, animandola. In quel momento lottava col primo violino di spalla, un giovane alto e magro dalla fisonomia malaticcia e l'accento freddo. Era il miglior allievo dell'illustre Verardi, una speranza dell'arte, di già celebre per tutta la città. Bartolomeo, contrabbasso dozzinale d'orchestra, guardava con rispetto misto di ammirazione quel ragazzo di vent'anni, che dava dei concerti, e ch'egli credeva destinato ad un immenso avvenire.

— Ah, lo stile! — interrompeva il violoncellista — hai ragione. La Patti lo ha castigato, la sua misura è ineffabile, il suo accento sicuro. D'accordo; bisogna saper disegnare per essere pittore, ma il colore è più che il disegno, e il colore stesso non è che un elemento dell'arte. La vita sola, mio caro, chiamala anima, realismo o idealismo, tutte parole inutili, che spiegano male il secreto; la vita sola è tutta l'arte.

Ma si fermò come sorpreso da una interna contraddizione. Rimase un istante concentrato, indi proruppe quasi stizzosamente:

— Credi tu che la Patti sia un genio? No, perchè allora sarebbe troppo grande. Essere stasera Violetta per diventare domani sera Rosina nel Barbiere, poi Ofelia nell' Amleto, poi Dinorah, poi Margherita nel Faust, poi Amina nella Sonnambula: mio caro, ma allora è un fondere Verdi con Rossini, Rossini con Thomas, Thomas con Meyerbeer, Meyerbeer con Gounod, Gounod con Bellini: e nota che dietro Verdi c'è Dumas, dietro Rossini Beaumarchais, dietro Thomas Shakespeare, dietro Gounod Goethe, dietro Bellini c'è Romani, e quindi non c'è nessuno. Sarebbe troppo, ed è impossibile. La sua piccola testa dovrebbe contenere tutta la sostanza di quei cervelli creatori, se la magìa del canto le venisse da coscienza di ingegno drammatico. Ella non ne sa niente.

— Che! — esclamarono tutti in coro.

— Silenzio! Non m'interrompete — gridò con gesto vivacissimo, levandosi in piedi e cacciandosi più innanzi coi gomiti fra i bicchieri —. Credi tu che Salvini sia arrivato al fondo dell' Amleto, egli che lo fa come nessuno al mondo lo ha mai fatto? O Modena, il suo sublime maestro, che declamando Dante spingeva l'impudenza del proprio genio fino a fingersi Dante medesimo nell'atto d'improvvisare quei versi, come se Dante li improvvisasse, e si arrestava correggendoli: credi tu che Modena abbia sorpreso il processo del genio dantesco? Parla con Salvini di Shakespeare, e sentirai che genere di analisi: leggi ciò che Modena ha scritto su Dante, se vuoi comprendermi, e comprenderai che nessuno dei due artisti ha capito i due poeti. Eppure li rendono, e forse nè Dante, nè Shakespeare, assistendo alle loro recite, li avrebbero rinnegati. Perchè? Mistero. Cantanti, comici, suonatori, non comprendono mai quello che fanno; qualche volta lo sentono e nullameno lo rendono male; più spesso non lo sentono, e lo rendono benissimo. Quando la Patti fugge singhiozzando fra le quinte, la prima cosa, che le presentano, è un bicchiere di acqua o di vino per risciacquarsi la bocca; ecco per la sincerità della sua emozione drammatica. È la voce, il gesto, la fisonomia, è un arcano inesplicabile, che crea questi artisti, i quali muoiono senza provare quasi mai nessuna delle emozioni o delle idee, che destano negli uomini d'ingegno. La Patti possiede questo segreto: la sua voce ha le flessioni di tutti i sentimenti, le gradazioni di tutte le espressioni, lì, pronte al minimo cenno, sopra qualunque parola. Rossini si vantava di poter mettere in musica anche la lista del bucato, e ci sarebbe riuscito; la Patti, se vuole, ti farà piangere con uno stornello da osteria e col più sciocco. Rossini è un genio intellettuale, la Patti è un genio fisico. Qui sta la differenza.

— Come si accordano allora?

— Ecco ancora il mistero! Come stanno assieme anima e corpo? eppure ci stanno. Tu sei un grande suonatore: lasciamelo dire — ripetè ad un gesto del violinista: — tu suoni Beethôwen. Ebbene, giacchè dovresti secondo il tuo sistema averlo compreso, ti sentiresti di tradurre nel linguaggio comune le idee, che egli ha espresso col linguaggio musicale? Boito, e vedi che ha dell'ingegno, si è provato di scrivere la poesia di alcune fra le romanze senza parole di Mendelsonn, e ha dovuto smettere, poichè si accorgeva di diventare ridicolo. E tu vuoi che la Patti, afferrando il significato morale delle due Margherite, quella di Dumas e quella di Goethe, senta egualmente la diversità di questi due amori, ella che nell'amore è arrivata fino a Niccolini, e si è fermata? Eccolo lì il tuo genio femminile colla sua gamma di mondi e la sua scala semitonata di personaggi, che vanno dalla servetta alla dama, dalla civettuola alla martire, passando attraverso l'imperatrice e l'eroina: il tuo genio, che, identico a se stesso in ogni secolo e in ogni clima, rivivrebbe in tutti i temperamenti: eccolo lì, in adorazione, davanti alla testa grossa di Niccolini, il quale, credo, si tinga i capelli, e dovrebbe tingersi la voce per farla parere più giovane; eccolo lì, che viaggia l'Europa per fare quattrini, e si mette i diamanti regalati come i galloni della propria livrea di cantante. Questo genio — seguitava con una specie di rabbia — il quale in fondo non è che l'eco delle idee altrui, e non ha più coscienza di un'eco; questo miracolo, che appassiona tutto un mondo e me per il primo; quest'artista, che adoro e che disprezzo, che ha aspettato, dicono, quarant'anni per innamorarsi di Niccolini, un Alfredo, che ne ha cinquanta, e ch'ella ha nullameno anteposto al marchese proprio marito. Eccolo lì; questo genio femminile, al quale Rossini, il genio intellettuale, disse un giorno colla sua solita profondità: quando si è la Patti, si sposa un principe del sangue o un tenore: cioè, o si ha una grand'anima, e si diventa una gran dama, che non canta più che per amore; o si ha una piccola anima, e si resta una grande artista, che canta per i quattrini e s'innamora sul palcoscenico come le coriste. Naturalmente il tuo genio non capì: ed ecco la tua Patti, marchese di Caux, al Brunetti con Niccolini. Assurdo, demenza, vigliaccheria!

Questa violenta diatriba pronunciata con voce stridula e accompagnata da una bufera di gesti sbaragliò per un momento tutto il coro degli elogi. Bodoni era rimasto in piedi, assaporando sulle faccie ammirate e confuse degli amici il trionfo dei propri paradossi. I suoi occhietti grigi di pollo scintillavano, mentre le dita per un vizio di suonatore gli picchiavano inconsciamente sul marmo del tavolino una suonata inintelligibile. Ma il violinista replicò. Egli era freddo e non gestiva. La sua fisonomia, smorta di ammalato, sarebbe stata quasi inanime senza la vivacità degli occhi, nei quali a quando a quando passava un baleno. Bodoni stava per ribattere, quando un altro lo prevenne.

— Tu già sei sempre dell'avviso contrario — gli disse un clarinetto con accento piccato. Ma Bodoni non gli si volse nemmeno, e seguitò a guardare il violinista.

Questa attenzione lo lusingò.

— Tu parli benissimo, ma sei andato fuori di questione. Appunto perchè la voce della Patti non è perfetta come quella della Frezzolini, e Bartolomeo aveva ragione...

— Niente, niente, non lo dirò mai più — interruppe Bartolomeo con impeto così comico di convinzione, che tutti sorrisero; e l'altro seguitò:

— Appunto per questo avevo voluto insistere sulla purezza del suo stile e sulla perfezione del suo metodo. Se non hai ragione in tutto, ne hai moltissima qui: il segreto dei cantanti sta nella impostatura della voce, nel conoscerne bene il registro, e nel saper formare la nota. Il resto è natura; il timbro, l'accento, la pasta, l'estensione non si acquistano. Per esempio, io preferisco i bassi della Stolz a quelli della Patti: la Galletti ha molte note migliori, ma è un altro temperamento di artista; forse egualmente forte, ma più limitato. Non so se la Patti nell'ultimo atto della Favorita la vincerebbe. La Patti invece è insuperabile, e mi pare che oltrepassi persino le esigenze dell'immaginazione nell'agilità: le sue note si sgranano come perle e balzano come tanti martelli di pianoforte. Quanti anni di studio le costeranno!...

— Peggio per lei — irruì Bodoni. — Guerra all'agilità, abbasso le variazioni. Se Thalberg non fosse morto, io voterei serenamente la sua decapitazione; egli rappresenta la putrefazione nella musica. Le sue variazioni sopra un motivo mi hanno sempre avuto l'aria di vermi sopra una carogna.

— Bene! — fu urlato in coro.

— Non è questo che intendevo — proseguì senza scomporsi il violinista. — Prima di tutto vi è variazione e variazione.

— Cioè gargarismo e gorgheggio, d'accordo — intercettò ancora Bodoni.

— Sia come vuoi; ma quelle del finale del primo atto...

— Ah, non me lo dire! Sì, ecco le variazioni: ciò è giusto, è sublime. Io firmo, io, e non vario per questo. Ma che accento in quegli scatti, che legature di orefice fra quegli sbalzi di tono e in quel rimescolamento di note! Ma questo è vero, questo è ancora canto, e non vocalizzo! Ti ricordi la Donadio nella Sonnambula? E c'è chi la paragona alla Patti! Morte alla Donadio, a questa bella donna, che pare una fattora e deve avere, sono io che te lo assicuro, un'anima più grossa del corpo della Patti. Il suo rondò finale nella Sonnambula, che faceva delirare al Corso, è un affare di cariglione, o, se ti piace meglio, non è più un pezzo della Sonnambula, ma uno squarcio d'esercizio.

— È troppo! — esclamò il violinista rattenendolo con un gesto di pacificazione.

— Sì, ciò che dissi anch'io quella sera; è troppo! — replicò l'implacabile Bodoni con accento di scherno — ma il pubblico allora applaudiva in delirio, e stasera è quasi rimasto freddo ai gorgheggi della Patti. Giustissimo: Berlioz, Beethôwen, Donizetti, che muoiono quasi nella miseria, mentre Marchetti, che ha musicato il Ruy-Blas di Hugo peggio che Garibaldi non abbia scritto il proprio sbarco dei Mille, morirà nelle ricchezze guadagnate.

Lascia stare Garibaldi — disse severamente il clarinetto entrato nella disputa: — tu non sei neanche degno di nominarlo.

— Come tu di averlo avuto generale a Mentana quando sei scappato. Niente: io sono aristocratico. Se i repubblicani arrivassero al potere, forse la loro prima legge sarebbe di abolire la dote dei teatri per distribuire ai poveri i diecimila franchi della Patti. Io che invece sono aristocratico, preferisco la musica ai poveri. Probabilmente per l'onore dell'umanità, la tua repubblica del dovere non sarà mai che una prosa fredda come quella di un processo verbale, la forma più bassa della letteratura, mentre la musica è la cima più alta dell'arte. Se ti dicessero stasera: sta in te, puoi fare la repubblica o avere la Patti? Ebbene, tu sceglieresti la repubblica, infelice clarinetto, e anderesti in piazza con un'altra guardia nazionale a stonare l'inno di Garibaldi, che è brutto. Ricordati, patriota repubblicano, che l'inno austriaco di Haydn è sublime. Se tu fai la repubblica, io ti abbandono Niccolini, che è degno di cantare i vostri inni democratici, e mi tengo la Patti. Bartolomeo, tu sei un uomo onesto: giurami che sei del mio gusto, e che accetterai la Patti piuttostochè la repubblica.

Una risata clamorosa accolse questa diversione su Bartolomeo, che sbattè gli occhi in segno di assenso.

— Pensaci, mio caro Bartolomeo, se vuoi diventare il suo amante, perchè sei vecchio e il tempo stringe. La Patti non è bella come femmina, ma è talmente elegante come donna, che Cremona, il pittore milanese, le ha proposto di farle un ritratto, sedotto dalla intonazione della sua toeletta. T'immagini tu di essere il suo amante, nel suo magnifico appartamento di Parigi, perchè sono sicuro che ne ha uno magnifico, dopo averla veduta in teatro fra il delirio del pubblico, sopra una bufera di desiderii: sapendo che fra un'ora ella ti aspetterebbe in un gabinetto di raso, e che quattromila persone si farebbero tagliare a pezzi per entrarci in vece tua. Ciò è superbo. Ecco la vita, mio povero clarinetto repubblicano: posare i piedi dove gli altri arrivano appena colla fronte, possedere ciò che tutti desiderano, e magari gettarlo. La tua repubblica è una livellazione, una pianura: io pittore preferisco il paesaggio accidentato della montagna, io uomo adoro le cime e vi pianto sempre i miei castelli fantastici. Se fossi come te, mio grande Bartolomeo, l'amante della Patti, vorrei un gabinetto di raso cilestro, mi coricherei sopra un divano colla pancia in aria, e vorrei che ella mi si accovacciasse daccanto sul tappeto come una cagnina. Allora chissà a che cosa si pensa. Ma in mezzo alle tue distrazioni non avere che a dirle: Adelina, accendimi il sigaro, e cantami il finale del Trovatore, la frase più bella di Verdi, la frase più sublime di Eleonora: ed ella, che la canterebbe per me solo, come in teatro e meglio. Tu sai la mia stranezza: io adoro la voce senza accompagnamento di sorta, perchè mi pare che il linguaggio vero sia così. L'Adelina mi canterebbe sul capo come a Manrico, e all'ultima nota, colla sua leggerezza di prima donna, che ha migliorato sul palcoscenico la naturale facilità di cadere, mi si rovescerebbe addosso, gettandomi un bacio dentro la bocca. Così.

E accompagnando il fatto alle parole, si avventò alla faccia di Bartolomeo, che lo aveva ascoltato a bocca aperta, e vi soffiò dentro come sopra una candela.

Bartolomeo, che si era abbandonato alla poesia buffona e voluttuosa di quel sogno, ebbe un tale sussulto e strizzò gli occhi così comicamente che la discussione degenerò in baia, ed egli ne fu la vittima. Allora gli rinfacciarono la commozione all'ultimo atto in quel violento pizzicato, quando piangeva a lacrimoni, guardando morire la Patti. Egli non negava.

— Che! sissignore, ho pianto, ed ella mi ha visto.

— Lo hai dunque fatto apposta — esclamò Bodoni.

— Io! no; mi vergognavo anzi: ma non ho potuto mandarla giù; mi si è serrato il gozzo a quella vocina, con quella cuffia, che la faceva quasi parere più bella.

— La voce?

— No.

— E tu ti sei innamorato!

— No.

— Sì, sì — gridavano in coro.

— Domattina — disse il violinista — io debbo esserle presentato da Verardi, che ella desidera gentilmente di conoscere: glielo dirò.

A queste parole, pronunciate coll'accento più freddo, Bartolomeo ebbe davvero spavento. Il carattere serio del violinista fra tutti quei cervelli scapestrati gl'ispirava una tale stima, che non dubitò nemmeno dello scherzo. Ma Bodoni non gli diede il tempo di rimettersi.

— Io ti osservavo, sai. Tu le hai fatto la corte tutta la sera: negli intervalli, quando ti parlavo, eri distratto, pensavi a lei. Senti, mio povero Bartolomeo. Tu lo sai se ho amato nessun contrabbasso come te: questa passione ti ucciderà. Nel — Gran Dio, morir sì giovane — la Patti si è voltata per vedere quale era il contrabbasso, che accompagnava con gemiti così sdegnosi e profondi le sue ultime grida di disperazione. In quell'occhiata le vostre anime si sono intese, ma una barriera insormontabile dividerà sempre i vostri corpi. Ella è un soprano e tu un basso. La natura e l'arte ti hanno votato all'accompagnamento, per te non vi sono duetti. Tu non dormirai questa notte: domani sera soffrirai come un dannato vedendo il tuo tragico ideale trasformato in una Rosina briosa sino alla sfrontatezza; perchè capirai, che se la Patti dovesse trattarti, avrebbe per te le maniere canzonatorie di Rosina e non la dolcezza mesta di Violetta. Poi la Patti partirà, e tu cosa farai a Bologna? Penserai a lei.

— Senza dubbio — esclamò Bartolomeo.

— Questo pensiero ti ammazzerà, perchè l'impotenza è più micidiale dello stravizio, e il desiderio logora più dell'uso.

— Ma io non sono innamorato.

— Generosa menzogna! Tu vuoi salvare la tua donna dal ridicolo: ma giacchè sei generoso, sarai naturalmente sciagurato. Ella non ti imita, e affronta la caricatura: in questo momento la Patti e Niccolini sono in una camera da letto dell'Hôtel Brun. Tu impallidisci — gridò — mentre tutti invece lo facevano arrossire, guardandolo: infelice, tu vali più di Niccolini, e morirai della sua morte! Avete quasi la stessa età: solamente tu morrai di fame, ed egli precisamente dell'opposto: te l'ho già detto, ma se il desiderio logora più dell'uso, l'uso ha questo di orribile, che logora anche il desiderio.

Queste ultime parole portarono l'ilarità al colmo. Ma il padrone disse di voler chiudere, e il gruppo degli amici dovette alzarsi. I conti della birra e del vino sviarono per un momento l'attenzione, Bartolomeo potè alzarsi, ricevette ancora qualche risata, e, infilandosi il sopratutto, si avvicinò alla porta. Una contestazione minacciava d'insorgere, l'oste piuttosto villano alzava la voce, quando Bartolomeo si ricordò improvvisamente di essere aspettato a casa, si volse, diede un'occhiata e, vedendosi inosservato, se la svignò.

Quando arrivò a casa, Adelaide, che lo attendeva, da due ore, lo accolse malamente. Per un motivo inesplicabile, invece di coricarsi, lo aveva aspettato in cucina, a tavola, con un vecchio mazzo di carte in mano.

— Finalmente! — esclamò con quella collera fredda, che in certuni è il colmo della esasperazione.

Bartolomeo divenne mogio mogio, perchè aveva paura: Adelaide era la sua amante da sei mesi. Si erano conosciuti da lunghi anni in teatro senza parlarsi, poi il caso li aveva messi ad uscio e uscio, e allora avevano stretta relazione, passando alle intimità per finire nell'amore. Ma veramente non si amavano. Adelaide, vedova, aveva maritata l'unica figlia fuori di Bologna, e, rimasta sola, s'ingegnava a levar le macchie dagli abiti, a stirare, per buscarsi la vita; poi la sera, capitando, faceva la corista al Brunetti o la cameriera alle prime donne di prosa e di canto, che vi transitavano. Naturalmente a tutti questi mestieri la sua coscienza si era fatta più larga che pulita. Ella non se ne nascondeva, anzi sui primi del loro incontro aveva affettato una tale insubordinazione beffarda a tutti gli scrupoli, che Bartolomeo, timido anche in quell'età, trovandovi del piccante, si era lasciato accalappiare. Solo, di costumi morigerati, suonando tutte le sere, aveva messo da parte qualche cosa; l'Adelaide l'aveva indovinato. Quindi cercò di attirarselo, e Bartolomeo gliene fornì il pretesto; poichè, costretto a mangiare in trattoria come tutti gli scapoli, aveva finito per rimpiangere la vita di famiglia, il pranzetto quotidiano discusso ogni sera ed allestito ogni mattina, le piccole provviste, le festicciuole, tutte le gioie casalinghe, pigre e squisite malgrado la loro volgarità. Alla trattoria non poteva fare nessuno dei propri comodi, non sbottonarsi il corpetto e il primo bottone, il più alto, dei calzoni, come la natura gl'imponeva sempre a mezzo del pranzo: l'inverno aveva freddo alla testa mezzo calva, ma tenere il cappello mangiando era troppo, la berretta sarebbe stata abbastanza, ma non l'osava per soggezione dei camerieri e degli avventori. Sopra tutto la pipa l'angustiava. Bartolomeo possedeva una enorme testa di moro, in spuma, diventata nera come un moro originale, e nella quale fumava da molti anni in casa per non correre il rischio e l'incomodo di portarla fuori. Il solo astuccio era già un bauletto, la lunghissima cannuccia, a nocciolo d'ambra, e di ciliegio boemo, diceva lui, odorava ancora. Per Bartolomeo questa pipa era quasi tutta la famiglia, perchè il vecchio merlo dal becco giallo, che teneva in cucina, rappresentava l'amicizia. Pranzare modestamente in cucina, massime l'inverno, col merlo che verrebbe a beccare sulla tavola, la pipa, carica come una bomba inoffensiva a fianco, con un immenso paltò spelato, che gli faceva da veste da camera, annusando il profumo dei piatti sopra i fornelli, dando un'occhiata alle casseruole, servendosi e servendo qualcuno, era da lungo tempo il suo ultimo sogno. Secondo lui le serve erano tutte ladre; giovani aprivano la casa agli amanti, vecchie ai figli e ai parenti. Così, ammassando qualche mobile e le stoviglie necessarie a piantar casa, aveva oltrepassato la cinquantina senza sapere neppur egli come: una volta faceva da scrivano in uno studio di notaro, poi aveva smesso, e non faceva più nulla. L'inverno andava al sole nei giardini pubblici, e si fermava coi giardinieri in lunghi cicalecci: al tempo cattivo in qualche caffè a leggere i giornali o giocare la partita a domino, o da qualche amico. Del resto suonava spessissimo, anche di giorno, avendo la clientela di quasi tutti i curati: non vi era festa senza il suo contrabbasso.

Poscia aveva conosciuto l'Adelaide. Una volta doveva essere stata piuttosto bella, adesso era ancora benissimo conservata: aveva le carni vermiglie, i capelli neri, i denti bianchi. Naturalmente le borsine degli occhi si cominciavano a gonfiare, e gli angoli della bocca le si raggrinzivano; ma il suo seno aveva ancora un magnifico turgore, massime per la vita troppo corta e le spalle un po' tozze, che lo facevano stare più alto. Il resto era quasi insignificante, statura comune, naso regolare, fronte egualmente, come nei connotati dei passaporti. Solo, come segno particolare, aveva una lanuggine, oramai barba, lungo le guancie, e due occhietti neri, rotondi, affossati, di una mobilità eccessiva, a volta a volta di una gelida durezza. Adelaide conquistò Bartolomeo in pochi giorni. La prima domenica pranzarono assieme in cucina, la stessa sera Adelaide rimase nella sua camera. Bartolomeo era felice: l'Adelaide, da donna accorta, aveva conservato la propria stanza, che comunicava colla cucina e rispondeva libera sul pianerottolo, per ricevervi qualcuna delle proprie pratiche: vi aveva messo un fornello, e talora vi stirava. Ma siccome qualche soldo lo guadagnava essa pure, sul principio contribuì alle spese domestiche. Fu un incanto, giammai due coniugi avevano vissuto più armonicamente. Bartolomeo ringiovaniva, sebbene si accorgesse di non essere innamorato. Sedotto da quel benessere sensuale, cui l'ordine e l'economia davano quasi un'apparenza di virtù, e soddisfatto nell'egoismo di vecchio celibe, che vorrebbe la famiglia senza i suoi impicci, si abbandonava morbidamente in quella nuova vita del focolare. Avevano comprato un fusto di vino e un mezzino di castagne da cuocere sotto la cenere alla sera. Adelaide, che s'intendeva veramente di cucina, preparava certi pranzetti, ai quali Bartolomeo paragonava con voluttà orgogliosa i pranzi della locanda, cogli umidi riscaldati mille volte e gli arrosti lessati prima nella pentola. Ma, per l'istinto di tutte le felicità e la prudenza naturale ai suoi anni, Bartolomeo non aveva aperto bocca con alcuno; solamente aveva finto di sdegnarsi coll'ultimo oste e di averne trovato un altro, che gli mandava il pranzo a casa. Infatti la colazione colle ova e la Gazzetta dell'Emilia la faceva sempre al solito caffè.

Ma Adelaide lo dominava. A poco a poco gli invadeva tutta la vita a forza di rendergliela comoda e di risparmiargliene le brighe. Gli aveva compiuto il fornimento della casa, aumentata la biancheria, rimesso quasi a nuovo il vecchio letto di noce a due posti, ricoprendolo di un grande baldacchino bianco e decorandolo di una bella madonna a stampa colorata. Ella stessa faceva la spesa, e stabiliva il pranzo: gli fissava l'ora per tornare a casa o per alzarsi, lo mandava sino in giro per qualche commissione, che egli sulle prime accettava con una specie di contentezza galante. Se non che una volta avendo voluto rifiutarsi, ella fu così ragionevole nelle osservazioni e severa nelle parole, che dovette arrendersi con un sentimento di soggezione. Quello fu il primo sintomo del servaggio. Poco tardarono gli altri, insignificanti all'apparenza, ma così frequenti, che si trovò arretato prima di sentirsi nella rete. Un altro giorno gli fece una scena di gelosia. Bartolomeo, che non vi aveva mai pensato, ne ringalluzzì, ma poco dopo si sorprese a pensare sul passato poco scabro di lei, e a domandarsi se alla propria volta dovesse essere geloso. Il problema era difficile, la china molto sdrucciolevole. La loro vita di camerati, alla quale la differenza di sesso aggiungeva un'attrattiva di più, leggiera fino allora, diventerebbe una vita di matrimonio, tanto peggiore quanto era fuori della legge, il giorno che, facendosi geloso, affermasse la propria solidarietà con quella donna. Si accorgeva di non amarla, ma che d'ora innanzi non avrebbe più potuto fare senza di lei. E lì erano rimasti, quando capitò la Patti. Adelaide, che avrebbe voluto servirle da cameriera per buscarsi qualche grossa mancia, non voleva saperne di corista, ma quando si vide rifiutata per la prima volta, diceva lei e non era vero, la sua collera e la sua lingua non conobbero più freno. Bartolomeo, cui i lirismi dei giornali avevano desto il prurito delle negazioni, l'aveva secondata, promettendosi a teatro una cattiva impressione; ma a rovescio di ogni calcolo, sollevato dal più grande entusiasmo, si era nella sincerità della propria grossolana natura dimenticato persino della Adelaide.

Quando entrò nella cucina, e la vide alla tavola colle carte in mano, allibì: la fisonomia dell'Adelaide stanca dal sonno e gonfia dall'ira, non prometteva niente di buono; e, sintomo spaventevole, ella non si era tratta nemmeno il sopratutto. Bartolomeo indovinò, che lo aspettava così da quasi tre ore. Poi le sue frasi a pranzo contro la Patti gli tornarono nella mente, urtandosi coi discorsi entusiastici della bottiglieria. L'Adelaide fu tremenda. Invano per calmarla egli affettava la più grande docilità; la voce di lei si alzava ad ogni parola, stridula e sibilante, come uno scudiscio, sferzandolo, non lasciandogli nemmeno il tempo di offendersi, destandogli una inesprimibile ripugnanza per quella donna, che gli si rivelava in un momento, mentre la sua anima era tutta piena della rivelazione della Patti. Ma colla prudenza di un uomo, che sa compatire una stranezza, e rattenuto da un sentimento delicato, poichè l'Adelaide non era in fondo che sua ospite, e si sarebbe vergognato di cacciarla così su due piedi, si lasciò generosamente opprimere: solamente, essendogli sfuggito un moto di diniego ad una sua laida stupidaggine contro la Patti, ella esclamò furiosamente:

— Ah! anche tu sei innamorato di quel baccalà?! Tutti urlavano stasera: sì! perchè non la vedevano da vicino come noi. Va là, è secca come un uscio, ha tutta la pelle grinza. Se ci aveste guardato al collo, invece di guardarla cantare, ve ne sareste accorti. Ci voleva ben altro che quel vezzo di perle, che ella si sarà guadagnato senza cantare. Oh! — insistette ad un altro suo moto — credi che cantasse anche allora! Sarebbe carino per l'uomo in quel momento di sentirla stonare, perchè la tua Patti stona. L'ho sentita io, non importa che mi dicano di no, perchè le orecchie io le ho buone, più degli altri, e me ne sono accorta. Sì, stona come Niccolini, che è vecchio come te ed è il suo amante: degni uno dell'altro: vivono assieme e guadagnano assieme — aggiunse con un sibilo, che esprimeva più di tutte le frasi di Bodoni.

— Cosa importa se ama Niccolini — disse nobilmente Bartolomeo.

— A me?! e a te?

— Io...

— Mo! innamòrati: è la donna dei vecchi; già alla sua età bisogna essere ragionevoli. Non ho fatto così anch'io? — strillò, guardandolo con una sfacciataggine, che era il colmo dell'ingiuria.

A questo insulto, che lo toccava nella sua sola debolezza, Bartolomeo provò una stretta al cuore.

— Solamente — seguitò, gonfiando il petto e arrovesciando il collo con moto d'orgoglio — la tua Patti pare la carcassa di un ombrello. Pelle e voce, come i rosignuoli; non è vero, tu che la credi tanto brava, la prima donna del mondo?

— Ma non ne parliamo più; a te non è piaciuta, ecco tutto.

— Ti do fastidio?

— Ma no: hai ragione, se la vuoi.

— Se la voglio? tientela la tua ragione; per chi mi pigli? Credi che sia perchè non mi ha voluto nel camerino? Non ci penso nemmeno. La sua cameriera l'ho vista: dicono che è una sarta di Parigi, ma l'ultimo abito dell'ultimo atto non era nemmeno stirato. Fin lì ci arriviamo anche noi, a Bologna, non ci è bisogno d'andare a Parigi per questo. Cosa credono questi forestieri? Poi lei è italiana, e dovrebbe avere più riguardi: invece li ha tutti per Niccolini. È lei, che gli tinge i capelli per ingannare il pubblico; lo vorrà forse vendere. Già quello che si compra si può anche vendere.

Bartolomeo non ne poteva più.

— Ci mettiamo a letto? — borbottò dopo un momento, andando verso il lume sulla tavola.

Ma ella lo fermò con una occhiata. Bartolomeo non l'aveva mai vista così.

— Hai sonno! — quindi si gonfiò ancora, ghermì il lume e con un gesto, che la Patti stessa le avrebbe invidiato, gli si avanzò fin sotto al naso, e gli soffiò in faccia:

— Buona notte! — quindi voltandogli le spalle, invece di andare nella camera, aprì l'uscio della propria stanza, e lo rinchiuse a chiavistello.

Bartolomeo rimase al buio. Non capiva bene. Il furore dell'Adelaide doveva dipendere da altro che l'avere egli fatto troppo tardi quella sera: forse ella non aveva potuto perdonare alla Patti lo sfregio di averla ricusata, e la ovazione del teatro l'aveva esasperata. Egli no invece, amava il merito ed applaudiva volentieri. Ma quella congiura in tutti di dirgli che era innamorato della Patti, cominciava ad impensierirlo seriamente. Se n'erano dunque accorti? Aveva commesso qualche imprudenza, o tra le sue parole, che pure gli sembravano castigate, glien'era sfuggita qualcuna, la quale potesse comprometterlo?

E intanto che questi pensieri gli battevano sul cervello, aveva acceso un altro lume. Attese, origliò. Adelaide non si andava a letto. Allora si arrestò discutendo seco medesimo se dovesse dirle qualche buona parola: ma a mezzo la riflessione si accorse di essere egli dal lato della ragione e di avere ricevuto in compenso un sacco di contumelie. Infine il torto era di Adelaide. Però una voce segreta gli diceva con insistenza sempre maggiore di picchiare al suo uscio. Naturalmente Adelaide doveva aver sofferto dello sfregio, in teatro, dove i pettegolezzi sono così facili e pungenti; bisognava compatirla, le donne sono sempre donne. Tornò ad aspettare: la sua bontà avrebbe voluto, ma il suo coraggio non osava; tentennò, si ammonì, si spinse due o tre volte verso quell'uscio chiuso, che in quel momento rappresentava il più grande ostacolo di tutta la sua vita. Era molto tardi, aveva quasi freddo. L'aspetto del focolare e degli arnesi tenuti con estrema pulizia lo commossero; l'Adelaide era pure una brava donna. Forse le avrebbe dovuto maggiori riguardi in tale critica circostanza, giacchè colle donne non è mai questione che di tatto. In quel momento la sua grossa faccia di contrabbasso esprimeva un imbarazzo pieno di benevolenza, che avrebbe commosso un nemico. Finalmente la bontà del suo cuore trionfò della timidezza del suo carattere, e camminando sulle punte dei piedi, colla circospezione d'uno scolaro, che vuole origliare alla porta del maestro, venne ad incollare l'orecchio alla fessura dell'uscio. Però malgrado tutti gli sforzi di leggerezza lo scricchiolio delle scarpe lo aveva tradito. Un fruscio di abiti usciva dalla stanza. Si sveste! pensò Bartolomeo, e credendo il momento buono, picchiò discretamente alla porta: ma quasi contemporaneamente, come risposta collerica, che non lascia nemmeno esaurirsi la domanda, uno stivaletto lanciato a tutto braccio venne a percuotere proprio dove egli si appoggiava colla fronte.

La sua anima era così disposta alla benignità d'un accomodamento, che fu miracolo se non gli cadde la candela di mano. Si drizzò pallido, e sempre indietreggiando sulle punte dei piedi, tornò alla tavola. Pareva prostrato. Una malinconia improvvisa venne da tutti gli angoli della cucina, nella quale aveva sorriso a tanti pranzetti, e che in quel momento era tornata fredda come prima quando, vivendo solo, non vi accendeva mai il fuoco. Abbassò la testa. L'altro stivaletto gettato collo stesso impeto, invece di battere nella porta, urtò nel canterano e produsse un suono secco: intese il letto scricchiolare sotto il peso di Adelaide, che vi si rannicchiava ferocemente, sentì il suo soffio smorzare la candela, e rimase colla propria in mano guardando. Aveva tuttavia il paltò nelle braccia, il largo cappellone in testa. Sospirò, poi, scuotendo malinconicamente il capo colla rassegnazione della buona gente che crede di disarmare il destino accettandolo, andò verso l'uscio della propria camera, e vi sparì. La cucina restò abbandonata come un campo di battaglia, dal quale ambe le parti si erano ritirate negli accampamenti.

Ma a letto il pensiero gli tornò sulla Patti. Sentiva ancora la sua voce, vedeva ancora la sua gracile e pallida figura muoversi stancamente sul palcoscenico in una penombra mortuaria, con un'aureola di martirio sulla fronte; e, mentre il cuore gli si tornava giovanilmente ad intenerire, la Patti rientrava nella scena sorridendo sotto la grandine degli applausi, disinvolta come una regina, amabile come una fanciulla. Allora tutto il pubblico subiva il prestigio della donna dopo aver provato il fascino dell'artista, e l'onda del desiderio di tutti arrivando al cuore di Bartolomeo lo bagnava entro una spuma mordace. Invano Niccolini, preso per mano la Violetta, veniva ad opporsi all'impeto della marea; la tempesta raddoppiava di violenza, e investendo quel bianco fantasma di donna, lo portava sempre più in alto, come quelle larve di nebbia, che dondolano mollemente in fondo all'orizzonte marino. Bartolomeo pensava alla Patti. Tutti i sarcasmi sguaiati di Bodoni e le infamie dell'Adelaide gli suonavano alle orecchie. Le aveva intese susurrate tutto il giorno, le aveva lette nei giornali velate dalla forma più trasparente dell'indiscrezione, abbigliate colla frase più ipocrita d'un complimento: poi le aveva ascoltate la sera nell'orchestra, le aveva colte nel pubblico, finalmente Bodoni le aveva disciplinate in una teoria paradossale e l'Adelaide denudate nel più cinico impudore. Ma la Patti usciva radiosa da quella bruma d'improperi. Egli non ci credeva. Forse l'amore di Niccolini non era vero, forse era la pietà d'una grand'anima d'artista per questo infelice tenore, vicino a perdere la voce senza essersi acquistato un patrimonio. Fors'anco la Patti lo amava, ma se la ragione intima di questo amore gli sfuggiva, doveva esserci, e degna di una donna, che arrivava col proprio genio all'altezza dei genii più eccelsi. Giammai donna aveva potuto cantare così. La Malibran, egli non l'aveva sentita, e nullameno era sicuro che a quei tempi dovevano contentarsi di poco. E quell'ultimo sogno tratteggiato con causticità così voluttuosa da Bodoni gli fluttuava sul letto, riempiendogli la camera di luce. Essere la Patti o essere il suo amante era troppo anche per un sogno. Essere giovane, perchè la Patti per lui, malgrado ogni verità, non aveva che venticinque anni; essere bella e cantare a quel modo! Nessuna regina aveva un regno più vasto o un popolo più innamorato. Tutti i giornali bruciavano per lei gli incensi più odorosi, la gente si pigiava alle porte del suo albergo, si schiacciava nei suoi teatri; molti avrebbero rubato per comprare un biglietto di loggione, i milionari le gettavano i diamanti come fiori, i sovrani andavano in camerino a baciarle la mano. In nessun paese del mondo vi era una donna come lei. Ma essere il suo amante era ancora più bello. Qui la sua immaginazione si perdeva. Solo, in quel letto a due posti, non pensava più all'Adelaide e non sentiva più la realtà della camera. I suoi desiderii non si formulavano ancora, ma le immagini più bislacche si accendevano e svanivano nel suo cervello come fosforescenze di legno imputridito, che, imitando il bagliore delle gemme, vibravano nella notte incomprensibili sorrisi. In quell'aurora boreale della passione tutti gli oggetti e tutti i colori gli si confondevano; Niccolini e la Patti non erano più che una luce ed un'ombra, un canto ed un accompagnamento, che passandogli per l'anima, se la trascinavano dietro. Egli non sapeva bene se vegliava o sognava.

La mattina si era già scordato di tutto, ma attese invano che l'Adelaide gli portasse il caffè a letto, una delle ultime e più voluttuose abitudini della sua nuova vita. Si alzò avvilito, poi sentendo rumore nella cucina, così come si trovava, in manica di camicia e in ciabatte, finse di aprire sbadatamente la propria porta: nello stesso momento, quasi il suo pensiero fosse stato penetrato, l'uscio dell'altra stanza si rinserrava, e la cucina restava deserta. Il focolare era spento, un fornello acceso. La cocoma del caffè vi gorgogliava spumeggiando. Egli non osò trattenersi, ritornò nella propria stanza, e uscì di casa senza aver visto l'Adelaide. Appena fuori la regolarità delle abitudini lo calmò al punto, che entrando nel caffè aveva già il solito sorriso per i camerieri. A colazione lesse tra gli amici abituali un brillante articolo del Panzacchi sulla Patti, poi rimase solo, rilesse l'articolo, lo confrontò coll'altro della Gazzetta dell'Emilia, andò verso i giardini. A quell'epoca non c'erano ancora i tramways. Vi rimase fin tardi, poi ritornando s'incontrò fortunatamente in Bodoni. Quel giorno era vestito di un paltò incredibile, giallognolo di crema, sul quale la sua piccola testa smorta, senza quella barbetta tosata rabbiosamente alla Enrico IV e macchiata di rossiccio e di castano, sarebbe parsa una cimasa di latte e miele. Ma era serio.

— Vieni a pranzo con me — gli disse a bruciapelo.

A Bartolomeo si allargò il cuore.

Il discorso cadde naturalmente sulla Patti e sugli articoli dei giornali, che Bodoni trovava nauseanti d'imbecillità. In nessuno, nemmeno il tentativo di un'analisi, tutti s'erano tratti d'impaccio rovesciando sul capo dell'artista i superlativi più strani; così chi aveva capito aveva capito.

— Invece — seguitava con accento severo — hanno gratificato Niccolini di complimenti velenosi. Anzi tutto questo amore potrebbe essere una invenzione sciagurata, ma quando pure fosse una realtà, il pubblico non avrebbe a ridirvi. Che importa se una grande artista ama un genio o un idiota, un sovrano o un paltoniere? La Patti non è la Patti, che sulla scena, e allora Niccolini scompare nel proprio personaggio tenorile: fuori essa è libera d'avere, e non può a meno di averli, tutti i gusti della femmina e le incongruenze della donna. Chi deciderà del gusto? L'eccessiva raffinatezza coincide colla brutalità, o se non vi coincide sempre, vi si allea sovente. Il selvaggio e il gastronomo preferiscono le bistecche crude: il facchino non cerca che la carne nelle donne; in Oriente, dove la voluttà fu più profondamente studiata, la carne è rimasta l'unico pregio delle donne. Se la Patti ama Niccolini, forse è nella regola del genio. Le nature volgari trovano facilmente qua e là il proprio ideale; le nature superiori se lo formano nella disperazione d'incontrarlo, e lo incarnano nel primo venuto. Che io getti dunque un mantello di porpora sopra un manichino di pioppo o di amaranto, il mantello solo dà al manichino quel paludamento da re o da regina, sul quale vengo a deporre i miei baci o le mie corone. In questa creazione dell'amore fra creatore e creatura non vi può essere giudice, poichè il giudice vede cogli occhi del corpo, e il creatore con quelli dell'anima. Sai tu perchè i giornali stamane celiavano educatamente su Niccolini? Perchè la folla non tollera superiorità, colle quali non possa avere contatto, e accusando la Patti di amare Niccolini, ha creduto di bollare il suo genio col marchio della natura femminile. Se nella Patti la donna fosse pari all'artista non sarebbe più donna. Ma la folla affermando la gran legge, che non vi siano individui slegati nella serie della vita e il genio non debba essere immune dalle nostre infermità, non sente che l'istinto invidioso del rettile contro il volatile, dell'anitra contro l'aquila.

Bartolomeo, cui la conclusione troppo filosofica del discorso aveva imbarazzato, non ne gustò meno per questo l'assennatezza del principio, e avrebbe quasi voluto rinfacciargli i paradossi della sera innanzi, se il timore di qualche altra scarica non l'avesse rattenuto. Bodoni sembrava malinconico: Bartolomeo glielo disse.

— La Patti mi fa male. È triste, mio caro, avere ventiquattro anni, capir tutto e capire per giunta che non faremo mai nulla. Fra vent'anni io sarò come te. Che cosa ti è accaduto nella vita? nulla. Che cosa mi accadrà? nulla. Tu almeno non capisci; perdonami, mio buon Bartolomeo, questa insolenza che t'invidio: io debbo invece morire di freddo al sole.

Con questi discorsi erano arrivati dinanzi alla locanda, una delle solite, metà osteria e metà albergo; molta gente l'ingombrava. Un cameriere di vecchia conoscenza venne incontro a Bartolomeo e gli fece mille complimenti, domandandogli dove era stato per sei mesi, se ritornava davvero, e scherzando gettava tratto tratto un'allusione galante, arrischiava un gesto confidenziale. Bartolomeo s'impacciava, Bodoni si era già seduto alla tavola col capo fra le mani. La sala rumoreggiava, era un va e vieni di camerieri, un vociare stonato, un cozzar di bicchieri e di piatti: dalla cucina, che si vedeva in fondo alla sala, veniva un odore grasso, uno stridio di frittura, che nauseava il palato; le berrette bianche dei cuochi passavano e ripassavano davanti all'uscio con un volo di colombi, gli ordini dei camerieri in cucina salivano e discendevano sulla gamma più assurda, nella varietà più strampalata di accenti. Bartolomeo si faceva grave, era senza appetito: Bodoni sembrava mangiare per compiacenza. Intorno a loro fioccavano i giudizi e le osservazioni sulla Patti, la esorbitanza del suo prezzo di cantante, nel quale nessuno osava acconsentire.

— Eppure — osservò Bartolomeo — tutta questa gente non avrà mai speso meglio quindici lire. Quante volte le avranno bevute in tanto vino cattivo. In fin dei conti la Patti è unica al mondo.

— Quale voluttà, ma quale sciagura! — mormorò Bodoni. Ad un tratto s'imbrunì.

— Ecco — disse — accennando ai discorsi di quella gente, perchè io avevo ragione d'insultare la Patti per essere venuta al Brunetti; il pubblico sarà sempre al disotto dell'arte, che per una fatalità della creazione gli è destinata. Vedi, mio caro, la gloria, che attira tutti gl'ingegni, è composta di questi discorsi; tutto finisce nel popolo, scienze, arti, industria, commercio, tutto per questo bruto che è senza riconoscenza, perchè è senza intelletto. I grandi uomini vissero sempre miserabili: e che importa al monello, il quale mangia le pesche, se l'albero muoia? Egli non ci pensa o, se pure, non se ne preoccupa, perchè sa che i peschi non finiranno mai. Quattro secoli fa non c'era musica a proprio dire, musica come intendiamo noi, quindi malgrado la ferocia dei costumi la poesia e la pittura erano nella massima voga. Oggi la poesia è rimasta nel sentimento di pochi, la pittura di pochissimi. Invano si fanno le esposizioni e si vende un quadro di Meissonier cinquecentomila lire: ciò prova che il lusso dei ricchi ha ancora bisogno di questa decorazione, ma l'anima del popolo non è più nella pittura. Sai tu che cosa si diceva quattro secoli fa in ogni palazzo e in ogni taverna? Michelangelo sta sbozzando una statua, Raffaello dipinge un quadro, Brunelleschi alza un palazzo, Ghiberti fonde un bronzo; e ognuno s'interessava all'opera, e l'artista povero si sentiva intorno una simpatia, che lo sorreggeva e dalla quale assorbiva la vita necessaria all'opera propria. E quando l'opera era finita, la moltitudine si pigiava alla porta del santuario, bestemmiando, osannando, perchè quella era l'opera di tutti eseguita da un solo. Oggi non è più così. Lo sviluppo dell'industria e delle macchine ha quasi ucciso l'uomo nell'operaio; i miracoli della meccanica più grossolani e di una utilità più immediata bastano alla sua fantasia, l'arte si è isolata nella classe dei ricchi. Qui la musica ha battuto la pittura. Siccome l'arte non giova che a interrompere la serie delle sensazioni reali con un'altra serie di sensazioni ideali, la musica è più facile ed efficace della pittura. La musica dell'orecchio vinse quella dell'occhio, giacchè in fondo, si tratta di due specie e di un genere solo. Anzitutto un quadro non si traduce, e sebbene al mondo si facciano molte copie, esse rispondono meno a un vero bisogno di pittura che a una moda decorativa: la musica invece la traduci, la trascrivi e, quello che è infinitamente meglio, la suoni da te solo, forse malissimo, ma ancora abbastanza bene per appagare il tuo sentimento di mezz'ora. La musica della pittura ci arriva attraverso un'immagine immutabile e che non possiamo quindi consultare in tutti i nostri bisogni: l'altra musica invece non ha immagini, parla e noi inventiamo il personaggio, magari noi stessi o un altro, poco monta; ride e noi inventiamo la bocca, piange e noi inventiamo gli occhi, esulta e la sua gioia serve ugualmente alla gioia di tutti, sospira e il suo sospiro solleva egualmente tutti i dolori. Alteri il tempo d'un motivo e ne fai così il linguaggio di qualunque situazione; e mentre il quadro non è appeso che alla parete del milionario e devi andare a cercarvelo, la romanza ti segue dappertutto entro il cervello, la riprendi e l'abbandoni dove vuoi. Ricco e povero ne hanno quasi un numero uguale, una medesima ricchezza, e perfino l'infelice, cui la natura discordò l'organo vocale, può ripeterle e gustarle nel pensiero. Sai tu perchè gli appartamenti sono oggi meno decorati e meno artisticamente? Perchè in ogni appartamento vi è un pianoforte: il pianoforte ha cacciato il quadro. Metti una statua in una soffitta e ne avrai una cattiva impressione, mettivi un violino e potrai dimenticarti presto di essere in una soffitta. Vedi: l'architettura è morta, la scultura sta morendo, la pittura per salvarsi è diventata letteratura. Al secolo d'oro il soggetto del quadro era un pretesto per disegnare un bel corpo o stendere un magnifico accordo di colori; adesso che il sentimento della bellezza e il senso del colore si è perduto anche nella classe dei ricchi, che comprano i quadri, la pittura è diventata romanzo. I compratori le domandano dei fatti e non dei colori, delle idee e non delle forme: quindi l'epopea e la tragedia vi signoreggiano, sotto di esse imperversa il dramma, più basso sghignazza la commedia, in fondo smorfeggia l'idillio, dal cui incesto colla realtà è nata la pittura di genere, il genere più odioso fra tutti i generi esistenti e possibili. Ma nella musica stessa comincia il decadimento, e la sua diffusione n'è causa; la diffusione, che degrada anche le religioni, perchè così si arriva nel popolo. Il concime fa nascere il fiore, ma se il fiore lo tocca colle foglie avvizzisce. Ti vuoi persuadere della nullità del popolo in arte, una verità che la scempiaggine del giornalismo liberale è quasi riuscita a far passare per una menzogna? Ricordati tutte le canzoni popolari delle nostre due rivoluzioni '48 e '59 e giudica se il maggior avvenimento accadutoci da millecinquecento anni, la resurrezione della terza Italia ottenuta con tanti miracoli di ingegno e di sangue, non ha inspirato che l'inno di Garibaldi e «l'Armata se ne va». Il popolo, mio caro, non è che plebe, e la plebe è un bruto. I Romani, che l'avevano conosciuta, invece di buttarle come noi la sovranità nazionale o la infallibilità politica, le davano «panem et circenses», cioè pane e sangue. Ma in questo caso il pane era sprecato.

E Bodoni stanco egli stesso dalla lunga dissertazione non disse altro. Bartolomeo, che non ne aveva capito quasi nulla, invece di domandarne spiegazioni, sedotto dai discorsi dell'altra gente ritornò sulla Patti, e l'altro, che per caso si trovava ad essere veramente serio quel giorno, cominciò su lei un'analisi fine e profonda. I più vicini si misero ad ascoltare, ed allora alzò involontariamente la voce, crebbe di vena, trovò una vivacità d'appendicista, per uno di quei successi di trattoria, ai quali si resiste così difficilmente e che ottenuti umiliano tanto. Fortunatamente l'ora del teatro si avvicinava, pagarono il conto, Bartolomeo trovò che era troppo caro avendo mangiato così male, poi fu tutto contento di accompagnare Bodoni a casa per non passare dalla propria.

Il teatro fu egualmente affollato, la Patti una Rosina inimitabile, una cantante anche più perfetta.

Siccome la maggior parte del pubblico l'aveva già veduta nelle parti di Violetta, la sua trasformazione parve ed era veramente un miracolo; l'ovazione salì di scena in scena, piovvero i fiori, tutti i complimenti che una folla in delirio può tributare a un idolo. Bartolomeo piangeva, ma erano lagrime d'allegria. A rovescio delle predizioni di Bodoni, la malizia di Rosina gli riusciva più grata del sentimentalismo di Margherita. Niccolini fu un Lindoro come era stato un Alfredo, Moriami invece il più bel barbiere di Siviglia. Alle emozioni terribili della sera innanzi successero le emozioni gaie, il solletico sensuale della commedia più bella, forse l'unica che si conosca nell'arte. La Patti sfoggiò tutte le risorse del mestiere, fu un organetto come sua sorella Carlotta, un usignolo, una capinera, un'equilibrista, che si dondolava sopra il filo d'una nota, e l'attenuava all'infinito senza romperla. La sera innanzi aveva trionfato lo stile, quella sera signoreggiava il metodo, prima il sublime dell'arte nel canto, poi il sublime della natura nella voce.

Durante lo spettacolo Bartolomeo, che si era dimenticato di essere sotto gli occhi dell'Adelaide, fu di una ilarità clamorosa, cercando inutilmente di ottenere una seconda occhiata dalla Patti, mentre svolazzava col suo gramurrino di farfalla sui lumi della ribalta. Poi, quando il telone si abbassò all'ultimo atto, egli fu dei primi ad applaudire cacciando addirittura le mani sul palcoscenico. Il suo faccione imporporato dallo sforzo e la sua statura gli avrebbero in tutt'altra occasione attirato gli occhi del pubblico, ma l'emozione dell'ultimo addio alla grande artista e la confusione di tutta l'orchestra non lo permise. La Patti tornò chi sa quante volte a salutare, duecento mani parevano volerle brancicare la veste; ed ella tornò ancora, ricevette sulla fronte tutto l'anelito di quel saluto, aprì i raggi di tutte quelle occhiate, strisciò come un sogno su tutte quelle fantasie, battè come un palpito in tutti quei cuori, si chinò, si rizzò nel suo sottanino di libellula, coi suoi occhi d'Andalusa, col suo corpo d'uccellino, sopra i suoi stinchi di mosca, col suo prestigio di artista, colla sua magìa di cantante, balenò, oscillò, disparve.

Il telone la celava forse per sempre agli occhi dei bolognesi.

Quella sera i suonatori si dispersero col pubblico, e Bartolomeo rimase solo. Attese mezz'ora nella bottiglieria, poi dovette andarsi a casa. La casa gli parve deserta, sulla tavola non trovò la candela coi zolfini, nella camera dell'Adelaide non si udiva rumore. Nullameno era rientrata. Tutto il suo buon umore sparì: la cucina abbandonata aveva un aspetto desolante, non vi erano legne nell'angolo, mancava l'acqua nei secchi. Perse qualche minuto in questa analisi, poi vergognandosi di potere essere sospettato dall'altra stanza, prese l'ordinaria risoluzione contro la tristezza, e si mise a letto.

Il pensiero della Patti lo riassalì nuovamente. Una a una si ricordò le moine del suo gesto, le carezze della sua voce, le sue malizie procaci di Rosina nelle scene col vecchio o negli incontri con Lindoro, e un fremito sottile gli passava fra la pelle e le lenzuola, dove aveva dormito l'Adelaide. Bartolomeo avendo trovato il letto disfatto, come al mattino nell'uscire di casa, si era coricato dall'altro lato. Quindi le memorie di tutta la sua vita povera e modesta s'illuminarono come ai bagliori di un gran sogno, nel quale era solo colla Patti. Finalmente poteva alla propria volta essere come tutti i principi e farle la corte. Per loro tutte le porte erano sempre aperte, avevano dei brillanti da offrire, dei grossi titoli, e quella disinvoltura da gran signori, la sola, che anche vincendo l'indomani una cinquina al lotto, egli non potrebbe mai sperare. Per lui non c'era nulla. Povero suonatore di fila, accettato raramente al Comunale, vivendo delle proprie economie, non aveva che il diritto di sognare; miserabile diritto, che aumentava la forza del desiderio e il rammarico della impotenza. Nullameno si cacciava voluttuosamente in quel sogno. La Patti gli pareva la donnina più adorabile, per lui che aveva il gusto delle donnine da tenere sulle ginocchia. Steso sul letto, la pancia in aria, la testa ravvoltolata in un vecchio folardo, guardava con due grandi occhi spalancati nella tenebra la magìa della propria visione. Aveva caldo, la faccia gli scottava. Colle mani brancicanti sotto le coperte, e un prurito per tutte le vene, si veniva accarezzando il ventre come nell'intima e indefinibile voluttà di premerlo sopra una donna e di sentirla schiacciarvisi sotto. Se la Patti fosse stata seco in quel punto l'avrebbe forse soffocata per farle sentire tutta la propria forza. Poi chiudeva gli occhi, il sogno cresceva. La scena arrivava al punto, nel quale le commedie fanno calare il telone e i romanzi di una volta mettevano i puntini, ma sul quale si ostinava come al punto migliore agitando la testa sul cuscino. E un riso di contentezza gli restava sulle labbra di essere così felice, senza che il pubblico potesse nemmeno sospettarlo, con quella donna, difesa dalla etichetta di tutte le aristocrazie, e che era allora nel suo letto, di Bartolomeo, il quale la chiamava semplicemente Adelina, un nomignolo più breve di Adelaide ed infinitamente più vezzoso.

D'un tratto si sorprese a ripeterlo con voce alta; allora si scosse e si volse sopra un fianco.

Il sogno si alterò, si confuse, finchè svanì in un altro e si sciolse.

Ma la mattina sentì più acutamente la necessità di una spiegazione con Adelaide.

Sebbene l'avesse già osservato la sera nel coricarsi, il disordine della camera gli fece male; il portacatino era ancora presso la finestra pieno di acqua sudicia, la tovaglia gettata sul comò, il letto disfatto anche dall'altra parte. Una tale confusione nella propria vita e nelle proprie cose non se la ricordava. Fece la grande risoluzione. Così come si trovava, udendo l'Adelaide in cucina, uscì di camera. Non aveva che i calzoni con le tracolle e i piedi dentro due ciabatte tagliate da lui stesso colle forbici in due stivaletti vecchi. L'Adelaide accennò di ritirarsi, ma egli la trattenne:

— Adelaide!

— Che cosa volete?

— Sei stizzita?

— Che cosa ve n'importa? — E aveva già la maniglia della propria porta in mano.

La cocoma del caffè fumava sul fornello.

— Ma aspetta almeno di fare il caffè.

— Quando sarà fatto tornerò — e disparve.

Egli rimase come un palo. Cominciava a perdere la testa. Se aveva compreso lo sdegno dell'Adelaide la prima sera, mezzo giustificato dalla mancia perduta e dalla sua vanità offesa di grande cameriera, non capiva l'ostinazione contro di lui, che alla fin fine non c'entrava nè punto nè poco. L'Adelaide lo sospettava dunque di qualche cos'altro? Era gelosa del suo entusiasmo per la Patti, entusiasmo sincero, che egli non aveva avuto mai per nessuna donna?

Finì di vestirsi ed entrò in cucina. Ella non tornava, allora convenne a lui di ritirare la cocoma, che schiumava sul fornello, ed attese inutilmente. Quindi con malizia di ragazzo pensò di tornare nella propria camera e di spiare l'Adelaide, quando verrebbe a prendere il caffè. Vi riuscì. Ella era seria.

— Ma che cos'hai contro di me? — conchiuse finalmente, non riuscendo a finire l'esordio.

— Io! nulla.

— Allora?

— Allora?

— Io non capisco più.

— Già gl'innamorati...

Bartolomeo tremò, nullameno si affrettò a negare.

— La Patti vi ha stregato, me ne sono accorta, non importa che facciate degli sforzi per negarlo, perchè anche l'altra sera me ne avvidi alle prime parole. Cosa volete farvene di una povera corista come me dopo una prima donna come lei? Avete ragione: tutto il pubblico dalla vostra parte. Io non sono mai stata una prima donna. Zitto! — esclamò vedendo che voleva interromperla... — Che cosa vuol dire? che ritorniamo come prima: voi non avete mai sentito nulla per me, e se io non posso dire altrettanto per voi — aggiunse con un tremito nella voce — la colpa sarà tutta mia. Delle sciocchezze al mondo ne facciamo tutti: benedetto chi non le paga. Lasciate stare; qui le parole sono di più, ci siamo capiti. Voi avete delle pretese, che io non posso soddisfare: se lo sapessi, non sarei costretta a menare la vita che meno. Dunque voi farete a modo vostro come avete sempre fatto, e se non mi volete più vedere in cucina, ditemelo.

— Ma io...

— Non siete voi il padrone?

— Andate là, andate là...

Ella afferrò la cocoma, e gli volse le spalle con quel gesto di bonomia rassegnata, che fa tanta impressione in certi momenti.

Bartolomeo rimase prostrato. Al caffè trovò i soliti avventori che parlavano della Patti leggendo gli addii dei giornali: uno propose di andare alla stazione per vederla, che ci sarebbe chi sa quanta gente, ma il cameriere bene informato assicurò che era partita per Roma colla corsa delle otto. I discorsi seguitarono su quel tema, poi gli avventori si dispersero ognuno dal proprio canto. Bartolomeo rimase solo. Era una giornata umida di primavera. Egli si avviò a testa bassa sotto i portici meditando sul proprio caso, ma non aveva fatto cento passi che se lo era scordato entro la tristezza del tempo. Quindi tornò alla Patti e, soffrendo per causa sua, entrò poco a poco nel carattere dell'innamorato. Mentre ella seguitava la strada dei trionfi, egli più povero ed abbandonato di prima cominciava a morire in quella giornata senza sole, umida e solitaria. Non sapeva nè dove stare, nè dove andare. Le gambe lo portavano ai giardini, ma non sarebbe possibile rimanervi: i nuvoloni crescevano in cielo. Si rimise a riflettere sul celibato impostogli per una metà dalla sua posizione sempre troppo incerta e per l'altra dall'avarizia dell'egoismo, che lo lusingava di vivere sempre colla medesima forza. Adesso egli non apparteneva a nessuno, non poteva attaccarsi a nessuno. I suoi amici di una volta erano già tutti vecchi ed accasati; i giovani li vedeva qualche sera dopo il teatro, e ridevano; ma se domani si fosse ammalato non avrebbe ricevuto una visita, non avrebbe avuto una mano per curarlo. Ebbe paura. I giardini erano bruni e deserti, qualche monello sfuggito di bottega o di scuola, o qualche altro abbandonato come Bartolomeo vi vagolavano: i giardinieri erano scarsi e non zufolavano come al solito. Sedendosi sopra uno dei sedili artificiali di gesso, gli sembrò che fosse bagnato. Il Brunetti resterebbe chiuso forse per una settimana; dove passare la sera? Allora sentendosi cadere addosso i brividi delle fronde intirizzite, pensò per la centesima volta alla Patti. L'eco solo del suo nome pronunciato a bassa voce lo riscuoteva. Si scaldò un istante alla sua visione, poi rincantucciandosi in un angolo di quella vita, che riempiva tutto un mondo, si compiacque a seguirne il pellegrinaggio imperiale. Almeno ella era felice. Gli pareva di essere diventato come del suo seguito, un fagotto di quei moltissimi, che si portava sempre dietro, e sui quali chi sa quante volte chinava la testa per dormire. Rimase molte ore nel giardino, cercando d'incontrarsi in qualcuno; quindi tornò in città, annasò ancora in qualche caffè e, non imbattendosi in anima viva, pensò di andare a pranzo. In tanta ruina il suo stomaco era ancora intatto. Sciaguratamente tornò alla trattoria del giorno innanzi, dove il cameriere lo accolse colle solite chiacchiere; il pranzo gli parve detestabile: la sera per disperazione egli, che abbominava il teatro come suonatore d'orchestra, andò al Corso. I discorsi della Patti lo seguivano dappertutto, l'aria pareva vibrare ancora delle sue note. Lo spettacolo, una commedia, gli sembrò incomprensibile; quando la gente se ne andò, uscì macchinalmente egli pure. Per istrada incontrò Bodoni col paletot di crema, che salutandolo senza fermarsi gli ravvivò tutti i pensieri del mattino sulla miseria dell'isolamento. Dovette andarsi a casa; qui lo aspettava un secondo stringimento di cuore. La cucina era assettata, la sua camera era tornata al solito aspetto di ordine e di decenza, rifatto il letto, chiusi i cassetti del comò, le scarpe lustrate sul baule, il portacatino colla brocca pieno d'acqua al suo posto; ma l'Adelaide non c'era. Se ci fosse stata e avesse solamente aperto bocca sarebbe scoppiato a piangere come un bambino. Invece si coricò e per colmo di stranezza, egli, che non l'aveva mai fatto per riguardo alle lenzuola, caricò ed accese la magnifica pipa. E allora col caldo del letto e col fumo del tabacco, le due voluttà, che maggiormente li attirano, i sogni della Patti tornarono a riempirgli la camera. Nell'altra Adelaide dormiva pacificamente.

Così durò molti giorni. Siccome ella aveva smesso di farsi il caffè la mattina, Bartolomeo non vide più l'Adelaide. Sulle prime non indovinò, poi aprendo a caso la madia, gli cascò la mano sul vaso del caffè, e lo sentì vuoto: forse la povera donna non aveva denari per comprarne. Egli fremè ed uscì per riempirlo; ma per quanto vi si scervellasse quel contegno gli riesciva inesplicabile. Mise il caffè nella madia, e attese lungamente nella cucina, se la sentisse rientrare. Giorno per giorno l'Adelaide gli assumeva nella coscienza una grande dignità di carattere, e se al principio gli era stata simpatica per i modi aperti, adesso gli diventava rispettabile come una dama. Aveva maritato bene la figlia e non volendo esserle a carico, come diceva lei, s'ingegnava in mille lavori: non era più giovane, ma tuttavia abbastanza ben mantenuta per ispirare qualche cosa ad un uomo.

Chi sa se non c'era molto cuore sotto quelle sue bruscherie, e dentro quella sua vita troppo spalancata. Alle volte il lepre sta dove meno si pensa. D'altronde in quei cinque o sei mesi egli non aveva avuto a lagnarsi di lei, nè come donna, nè come massaia. La vivacità dei suoi discorsi rendeva anche più saporiti i pranzetti, che sapeva fare con sì poca spesa; e qui Bartolomeo, guardando la fiamminga della minestra asciutta, si ricordava il proprio piatto prediletto, recato da lei all'ultima perfezione, un ricordo di Napoli, dove il grande Bottesini lo aveva una sera invitato a cena. Erano maccheroni all'acciugata, che a Bologna avevan dovuto diventare vermicelli senza troppo scapitarne. Si rammentava come l'Adelaide li riserbasse per il venerdì, giorno nel quale, malgrado tutte le bravate, voleva assolutamente mangiare di magro; e soleva farli seguire da alcune cotolette di tonno alla graticola, un tonno, che pareva a quel modo tutt'altra cosa.

Ma l'Adelaide non si vide.

La sera Bodoni al caffè aveva due magnifiche fotografie della Patti, in costume di Violetta all'ultimo atto; e rammentandogli la famosa occhiata nel «Gran Dio, morir sì giovane», gliene volle regalare una. Il suo cuore si commosse nuovamente a quella povera immagine bianca, abbandonata sulla spalliera della poltrona.

— Sei ancora innamorato? — gli domandò Bodoni accarezzandosi la barbetta.

— Matto!

— Io incomincio ad innamorarmi adesso. La lontananza per i grandi artisti è come la morte per i grandi uomini: l'uomo scompare nel personaggio, i difetti sfumano e la fisonomia vigoreggia. La Patti! — seguitò con quell'entusiasmo, che faceva di lui una contraddizione così piena di sorprese — darei tutta la mia miserabile vita di suonatore per essere il suo amante solo una mezz'ora, e potermela stritolare sul petto come un istrumento, troppo buono per cederlo ad un altro. Guarda la bocca: t'immagini tu come debbano baciare queste labbra, che fanno delle note più dolci di tutti i baci?

E cedendo all'impeto riprese dalle mani di Bartolomeo la fotografia per baciarla.

— Bacia anche tu.

Bartolomeo non se lo fece ripetere due volte.

Poi Bodoni notò improvvisamente la sua tristezza e gliene chiese la causa con accento amichevole. Bartolomeo titubò, perchè da molti giorni soffriva un gran bisogno di sfogarsi, ma il carattere caustico dell'amico lo rattenne. Si fece più serio, intascò la fotografia, ravvoltolandola in un giornale, che Bodoni rubò tranquillamente al caffè, e cadde in un pesante silenzio. Quella vita cominciava a superare le sue forze. Poi, sentendoselo continuamente attribuire per malizia o per ischerzo, aveva finito col credersi davvero innamorato della Patti; e se non voleva convenirne, dipendeva dalla ripugnanza istintiva di ogni passione a mostrarsi apertamente. Ma questo culto ideale non bastava a sorreggerlo contro le difficoltà rinascenti delle giornate deserte e dei cattivi pranzi in trattoria. Invano nei momenti più difficili ricorreva all'occhiata del «Gran Dio, morir sì giovane», nella quale le loro anime, trasportate dalla medesima poesia, si erano sfiorate in un contatto fatale. Quello sguardo era stato per lui come una stretta di mano in un'ora di pericolo, una parola d'eguaglianza barattata in un momento d'ispirazione fuori delle differenze e delle contraddizioni del mondo.

Bodoni gli aveva spiegato in modo molto oscuro il contatto secreto degli spiriti sotto la pressione di un medesimo sentimento, ma egli non vi aveva capito se non che Bartolomeo solo e la Patti avevano cantato quel pezzo.

E gli bastava.

Tornando a casa Bartolomeo si andava tastando in tasca la fotografia. Non sapeva ancora dove nasconderla, e provava già le trafitture voluttuose di un secreto pieno di pericoli. Passò per la cucina senza fermarsi, e si chiuse a chiave nella propria camera. L'indomani invece di andare da Bodoni, che si scordò l'appuntamento, dovette gironzolare per Bologna, comperò l' Illustrazione Italiana, che rappresentava la Patti nella Traviata alla scena della borsa. Il quadretto gli parve un capolavoro, l'articolo, datato da Roma, carico di ironie per Niccolini, una vera indecenza. In fondo all'articolo si annunziava che la Patti partirebbe l'indomani per Madrid; ma egli non se ne fece caso, perchè la loro distanza non cresceva così e non scemava.

Invece passando dal Brunetti imparò che il teatro si sarebbe riaperto fra tre giorni, e questa notizia lo esilarò; fece la solita passeggiata ai giardini, vi si trattenne poco, rientrò in città sempre in preda alla solita inquietudine. A casa la cucina era vuota, il focolare freddo. Allora gli venne in mente il caffè, e andando alla madia guardò se l'Adelaide se ne fosse servita. Nulla: il vaso era intatto al posto dove l'aveva lasciato.

— È dunque una scommessa! Ma perchè — seguitò ad alta voce — mi fa la camera se non vuole saperne? — Così dicendo spinse la porta per constatare rabbiosamente come tutto fosse assettato; senonchè, appoggiata sulla cimasa del letto, sotto l'immagine della madonna di San Luca, la fotografia della Patti, che egli aveva studiosamente nascosta fra cinque o sei quaderni di musica, gettava un baleno nerognolo.

Bartolomeo cacciò un grido: era impossibile, l'Adelaide vinceva.

Da quattro o cinque giorni non l'aveva veduta. Come potesse vivere da se stessa, lavorando poco o punto ed essendo senza risparmi, Bartolomeo non lo capiva; giacchè, vissuto sempre celibe e non avendo conosciuto le donne che in certi momenti e da certi punti di vista, ignorava la loro scienza minuscola della vita, come esse, che dissipano così facilmente i milioni, riescano a campare senza stento con pochi centesimi. Gli venne persino in mente di osservare nella cucina e negli armadi se l'Adelaide non gli rubasse qualche cosa; non lo credeva, ma il dispetto di sentirsele inferiore era tale, che se ne sarebbe quasi compiaciuto. Contò i rami, andò all'armadio; fra le biancherie cercò subito l'involto, nel quale teneva le quattro posate d'argento comprate a peso da un amico orefice; esaminò la bica dei lenzuoli, sommò ad occhio i mantili e le tovaglie, senza osare di spostarli. Tutto gli parve a posto, allora arrossì. Perchè dunque l'Adelaide gli teneva il broncio? Si mise a riflettere sulla natura di lei; benchè non vi trovasse a ridire, n'era poco contento. Era una donna onesta, nel senso popolano della parola, che lasciava la roba a posto e non tirava a far sacchetto, sapeva cucinare e mandare innanzi una famiglia con poca spesa, ma in fondo a tutte queste belle qualità, egli sentiva un difetto, una certa freddezza di animo, una soverchia maturità di ragione, che gli faceva paura. L'Adelaide non aveva mai torto, non si stupiva di nulla. Spesso chiacchierando dopo cena col bicchiere in mano, lo aveva fatto precipitare di sorpresa in sorpresa colle sue massime sulla vita, di uno scetticismo pratico ben più tremendo di quello che affettava Bodoni. L'Adelaide gli voleva dunque bene? Abbandonata dalla figlia, sola nel mondo colla vecchiaia e la miseria dinanzi, forse gli si era affezionata per una conformità di gusti e di destini; però, essendo ancora donna, aveva le gelosie del proprio sesso. Fra tutti quei pensieri decise di volere un secondo discorso con lei, e uscì di casa colla fotografia della Patti in tasca per andare a pranzo.

I vermicelli furono detestabili, le acciughe erano rancide, l'olio sapeva di muffa: perfino la pasta di Faenza, solita ad essere buona, non aveva retto alla cottura, e i vermicelli facevano, come suol dirsi, la colla. Nulla gli andava più per il verso: gli dettero delle seppie per calamaretti, ordinò un mezzetto di Chianti invece del solito vino romagnolo, e gli portarono del vino rosso bolognese, che è l'ultimo vino del mondo. A poco a poco la sua collera saliva. Nella sala molti mercanti di granaglie e di maiali facevano un chiasso indiavolato, bevendo e mangiando come tanti eroi di Omero; due orbini che vennero a suonare, e che essi accolsero colla vanteria crapulona dei mercanti, riempiendo loro il piattino di soldi ed offrendo loro da bere nei propri bicchieri, lo fecero quasi dare in escandescenza. Poi gli orbini non finivano più, le risa e le oscenità degli altri montavano di tono, quasi tutta quella gente aveva il cappello in testa e stava a tavola nelle più sguaiate attitudini, mentre egli per educazione, sebbene mezzo calvo, rimaneva a testa nuda. Non prese nemmeno la frutta e scappò. Gli era venuto un pensiero. Nella cucina, sotto la tavola, ci doveva essere un barilotto di vino di Castel San Pietro, ancora mezzo, da quando s'erano bisticciati coll'Adelaide: comprò una ciambella inzuccherata dal primo fornaio, e corse a casa per accendere il fuoco, e fumare nella pipa. Il barilotto era quasi vuoto: dunque l'Adelaide se n'era servita anche dopo? Questa debolezza lo rallegrò, ma nel cantone non c'era legna: si mise in veste da camera, si cavò le scarpe, accese la pipa e portando la bottiglia del vino sul focolare, si sedette sotto la cappa del camino come nell'inverno. Sulle prime tutte queste buone disposizioni non sortirono effetto, ma al quarto bicchiere la sua malinconia si rischiarò: fortunatamente la boccia di vetro bianco, dalla quale mesceva, era capace di due buoni litri. Egli si stese sul seggiolone di faggio, allungò i piedi sugli alari, e finita la ciambella che gli parve piccola, cominciò a soffiare nel fumo. A poco a poco diventava allegro. Le memorie della cucina gli calavano intorno dalle casseruole appese alle pareti, come da tanti quadri, dei quali la poca fiamma della candela non lasciasse distinguere le immagini: ed erano figure grasse, profumate di intingoli, con un riso giocondo sul volto, che tratto tratto si illuminava di un grande riverbero, quasi che il focolare fosse acceso. Di sotto alla tavola, dalla madia uscivano echi di vecchi discorsi, frammenti di scene casalinghe, quando collo stomaco pieno ed il cuore digiuno si era abbandonato alle piacenterie confidenziali della luna di miele coll'Adelaide. Dalla trave di mezzo penzolava ancora la canna, alla quale si erano dondolati tante volte i coteghini grassi, fra le ghirlande delle salciccie, mentre un prosciutto attaccato più in là, ad un gancio, aveva l'aria d'un violino. Egli stesso gli aveva trovata questa somiglianza e l'aveva mille volte ripetuta coll'Adelaide, quando giungendo a casa troppo presto se ne tagliava una fetta dicendo:

— Suono, eh!

E l'Adelaide sorrideva al suo bell'appetito di suonatore.

Poi il fumo alcoolico della pipa, giacchè da fumatore arrabbiato vi fumava dei mozziconi di sigaro lavati nel rhum, avvolgeva quelle figure paffute e rossiccie in una nuvola aromatica. Mezzo coricato sul seggiolone, la pipa sul petto, respirava lentamente, operazione che aveva la voluttà di tutti i giuochi automatici e nella quale si sarebbe addormentato, se la necessità di tenere la cannuccia fra i denti non lo avesse tenuto desto; tornò a bere. Ma l'ebbrezza del vino, più calda di quella del fumo, gli accese i sensi già vellicati. Ad un tratto la cucina rischiarata a stento dalla candela di sego sopra la tavola, allargandosi in un incendio di luce, divenne un teatro gremito di spettatori; il focolare era il palcoscenico, lo sfondo giù ai lati l'apertura delle quinte dove formicolava la popolazione misteriosa dei teatri. Lo spettacolo era abbagliante. Un'oppressione voluttuosa pesava nell'aria facendo battere tutte le palpebre e aprire tutte le bocche. E una figura patetica di donna, moribonda bellezza di martire, alla quale la morte aggiungeva una bellezza di più, taceva in mezzo a quell'aureola, sopra a quel silenzio angosciato di tutti. Una storia indicibile di dolori era scritta sul suo volto, una memoria d'amore le impallidiva sulla fronte. Poi senza scomporsi, come se non ne avesse avuto la forza, cominciava a cantare, calando un lungo sguardo verso di lui.

Ma in quella l'Adelaide, non sospettandolo in casa, rientrava per la porta della cucina. Aveva il solito impenetrabile di Casimiro grigio, il cappello scuro con una vecchia penna di struzzo colorata di rosso. La sua figura atticciata diventava tozza sotto l'ombra di quelle grandi ali. Sembrava aver fretta, ma vedendolo si arrestò. La candela del tavolo non illuminava abbastanza bene la scena, perchè ella potesse vedere subito la boccia, ed il bicchiere sopra lo sgabello del focolare. Nullameno finì per accorgersene.

— Oh! — esclamò Bartolomeo rimettendosi a sedere sul seggiolone.

— Scusate se vi disturbo — rispose con accento secco, che finì di svegliarlo, andando verso la madia per accendervi una candela e ritirarsi. Bartolomeo accennò di scendere.

— Non v'incomodate, ho già fatto: vi lascio in libertà — seguitò con intenzione evidente.

— Non potete fermarvi un pochino!

— A far che?

Bartolomeo avrebbe voluto calar giù, ma temendo di farlo male per il vino, che cominciava a pesargli sullo stomaco, rimase sotto l'ombra del camino, che ingrossava singolarmente la sua figura già grossa. Tutti i proponimenti del giorno gli si affollarono nella memoria.

— Aspettate: oh! ecco: sentite.

— Cosa?

— Ve l'ho pur detto, io non ci capisco nulla.

— Nemmeno io.

— Allora?

— Cosa volete dire?

Bartolomeo s'incagliò ancora: ella ripetè l'atto di andarsene.

— Io sono sempre quello stesso — disse finalmente con un immenso sforzo, e un sospiro di soddisfazione.

Ella finse di non comprendere.

— Volete far la pace?

— Sentiamo: condizioni e patti!

— Ah! — fece Bartolomeo.

— Scusate; questo nome vi dà fastidio?

Egli s'imbrogliò nuovamente, ma per una di quelle scappate, che non vengono se non agl'ingenui in certi momenti:

— Cosa avete fatto tutti questi giorni? — prosegui.

La domanda era così imprevista che ella stessa titubò.

— Ho lavorato.

Bartolomeo comprese la portata di quella parola, e si arrestò. Malgrado tutta la buona volontà non trovava modo di venire ad una spiegazione, parendogli di aver egli tutti i torti e nel sentimento della vergogna sentendosi crescere ancora l'imbarazzo. Un sospiro leggiero, che l'altra colse benissimo, gli uscì dalla bocca.

— Buona notte! — ella disse questa volta incamminandosi.

— Ma è dunque molto tardi?

— Non saranno nemmeno le nove.

— È presto.

— Buona notte!

— Buona notte! — rispose Bartolomeo con voce, nella quale l'umiltà dell'accento faceva sentire la malinconia di una preghiera.

Ella entrò nella propria stanza, e l'altro, appena scomparsa, fece un gesto violento contro se medesimo quasi per darsi un pugno.

— Bamboccio!

Quella fu la sua sera peggiore. Per uscire di casa avrebbe dovuto rivestirsi, rimettersi le scarpe, riannodarsi il fazzoletto, tutta una farragine d'incomodi, dei quali ognuno aveva in quel momento l'intensità di un supplizio. Poi non sapeva, una volta fuori, dove dare del capo. Ma rimanere in casa, solo in cucina, coll'Adelaide di là, che lo sentirebbe andarsi a letto così presto, era impossibile. Tentennò lungo tempo in preda ad una collera, che cresceva di minuto in minuto, coi ricordi di tutte le contrarietà toccategli nella giornata e le difficoltà di una soluzione altrettanto inevitabile che impossibile.

Nei giorni seguenti cadde in una tetra malinconia, dalla quale non uscì nemmeno a teatro.

L'oscurità, che l'aveva protetto contro i pericoli del mondo permettendogli di vegetare prosperamente all'ombra come una pianta grassa, gli diventava una tenebra di prigione, fuori della quale il paesaggio ardente della vita spiegava la pompa delle sue decorazioni. Tutti erano felici intorno a lui, il giorno si occupavano dei propri affari, la sera andavano a teatro per divertirsi, mentre egli, accasciato tutto il giorno sotto l'incubo di se medesimo, doveva venirvi per diventare parte inavvertita del loro divertimento. Almeno la Patti aveva diecimila franchi ogni sera senz'essere schiava del pubblico. Al Brunetti due settimane dopo ognuno parlava ancora di lei, che era in Ispagna e faceva delirare quel popolo, ancora abbastanza romano per preferire l'orgoglio a tutte le virtù e il sangue a tutti i piaceri.

E allora si obliava nei sogni della Spagna, che non conosceva nemmeno per lettera, alla quale non attribuiva nè gli aranci, nè le palme, nè i costumi ancora medioevali, nè le architetture moresche capricciose come le sue colline e trasparenti come le sue nuvole. Però in fondo ad ogni sogno trovava sempre una tristezza più cupa, simile alla tenebra di una lanterna magica, che pare più densa quando l'apparizione è svanita. Il giorno non andava più ai giardini pubblici, che la esultanza di primavera gli rendeva odiosi, ma girellava per la città come tutti i vagabondi, che cercano d'ammazzare il tempo e invece soccombono sotto di lui. E poco a poco si scordava della Patti e dell'Adelaide, le due cause della sua infelicità, per non sentire che il proprio malessere, una stanchezza morale, che gli dava l'uggia di ogni persona, un esaurimento fisico, che gli dava la nausea di ogni cosa. Trascorse ancora una settimana. Il suo aspetto cominciava ad intristire, le borse sotto gli occhi gli si erano ingrossate, perfino il suo bell'appetito, l'amico fedele di tutta la vita, stava per abbandonarlo. Allora per disperazione cominciò ad alzarsi più tardi e a coricarsi più presto: aveva fatto una specie di raccolta di tutti i giornali, che parlavano della Patti, e li andava rileggendo. Qualche mattino mancò alla colazione del caffè, dove i soliti avventori si fecero caso della sua assenza; a pranzo non andò più alla trattoria, che aveva scelto dopo il disastro domestico, e si abbandonò alla ventura per l'izza di dover parlare col cameriere, o di incontrarsi con persone conosciute. Anche Bodoni, cui prediligeva sopra tutti, gli era divenuto insoffribile; mentre una delle sue ultime parole di quella sera alla bottiglieria gli era rimasta confitta nella memoria come un chiodo arroventato.

— Ella ti avrà reso miserabile per sempre!

Era un venerdì di primavera, era piovuto tutto il mattino, poi aveva soffiato un vento freddo senza spazzar via le nuvole. Il cielo era torbido, la città pareva bigia. Bartolomeo era uscito. Fosse il tempo o altro, si sentiva anche più triste; da due giorni non aveva quasi mangiato, aveva fatto un giro per il Pavaglione, era entrato macchinalmente in S. Petronio, poi era tornato a casa, sorpreso da un freddo, che in quello scoraggiamento prese per un sintomo di malattia. Si sdraiò sulla vecchia poltrona, affagottato dentro un paltò d'inverno, lasciando errare gli occhi sui tetti vicini, pei quali i passeri pigolavano lamentevolmente. Il sentimento della morte lo invadeva. La sua camera poco allegra per la qualità dell'arredo e il colore della luce gli ricordò quella della Traviata all'ultimo atto; proprio in quel momento tornava a piovere. Le percosse dell'acqua contro i vetri lo fecero fremere di terrore, poi abbassò la testa come un malato, e chiuse gli occhi. Il Bartolomeo di una volta era morto.

Ma la porta della camera si aperse con fracasso, e l'Adelaide entrò rossa come un gambero. Aveva un giornale in mano.

— Leggi — esclamò dandogli del tu per la prima volta dopo la rottura.

Egli si destò di soprassalto, ma l'altra non badando alla prostrazione del suo aspetto, cogli occhi sfolgoranti di disprezzo:

— Ah! tu non ne saresti capace. Te lo leggo io; sta attento, come tratta in Spagna la tua Patti; — e senza dargli tempo nè di rispondere, nè di capire, con voce concitata, che la passione di quel momento aguzzava come un pugnale, spuntandolo tratto tratto ad una frase, gli lesse un articolo riportato da un giornale di Madrid. Con stile vivace, pieno di reticenze insidiose e di approvazioni ironiche si narrava come re Alfonso si fosse invaghito della Diva e per non imbarazzarsi con Niccolini, diventato geloso fuori di tempo, gli avesse fatto bere d'accordo con lei un narcotico a cena. Niccolini si era addormentato, ma o la dose fosse troppo lieve, o essi profittandone subito facessero troppo rumore, si era svegliato prima. Allora il re aveva sorriso e se ne era andato; Niccolini era rimasto e aveva bastonato la Diva. Forse questa era una storia di giornale, ma l'Adelaide lo credeva, e:

— Tieni — fe' lanciandogli il giornale sul ventre — te lo diceva pure: è una... e si fermò meravigliata della faccia di Bartolomeo, che ella credeva allibito. Era quasi ilare.

— Ma tu! — esclamò.

Egli si levò in piedi. La pioggia scrosciava ancora nei vetri, il cielo si era fatto più buio, e nullameno egli riacquistava il bel colore d'una volta.

— Non eri dunque innamorato tu, che hai fatto tanto?

Bartolomeo ebbe un gesto di stupore, che voleva dire:

— Puoi crederlo?!

— Però confessalo, se non fosse stato così...

— Sei tu, che lo hai detto.

Rimasero incerti tutti e due, ella collo sguardo ardente, egli quasi curioso. Per un momento si studiarono.

— Ma se è brutta!... — ella proseguì esaminandolo; Bartolomeo non si mosse.

Allora Adelaide ebbe come un gesto di dispetto contro se stessa nello sforzo di cercare inutilmente una spiegazione, e ripetè più forte:

— Che cos'era dunque? Tutti impazziscono per questa donna, che pare un'acciuga.

Bartolomeo ebbe un lampo.

— Oggi è venerdì.

Ella comprese, egli titubò.

— Se potessi credere...

— Li faresti?... i vermicelli all'acciugata...

— Forse...

— Te lo dirò io — esclamò con un sorriso che gli morì nullameno in un sospiro: era, ecco...

E non trovò altro.

Tre mesi dopo Bodoni, incontrando Bartolomeo al caffè del Corso, gli correva incontro col suo riso sinistro sulle labbra.

— È proprio vero che hai sposato la grossa Adelaide?

Bartolomeo chinò la testa.

Bodoni si arrestò, poi dardeggiandogli un'occhiata in faccia:

— Ti piace la trippa?

— No — rispose ingenuamente Bartolomeo.

— Avrai una vecchiaia infelice.