ALFREDO PANZINI

MILANO

Società Editoriale Italiana

Diritti letterari ed artistici riservati per tutti i paesi alla Società Editoriale Italiana—Milano

A Titiritì

INDICE

I. —Che cosa è l'amore? Pag. 9

II. —Le olimpiadi e la signorina Olimpia » 21

III. —Abito nero e abito bianco » 33

IV. —Le mosche e la Polonia » 47

V. —La busecca » 59

VI. —Ahi, quel povero colonnello! » 71

VII. —La bambola fatale » 85

VIII. —Vuoi sapere come ho fatto il milione? » 97

IX. —Un piccolo bacio, qui! » 107

X. —Giacominus Giacomini » 119

XI. —Come la lingua della signora si calmò » 133

XII. —La morte di un re » 145

CHE COSA È L'AMORE?

Il signor Aurelio, uomo di abitudini mentali alquanto filosofiche, e perciò mediocre accumulatore di denaro, viaggiava in uno scompartimento di terza classe.

D'estate si viaggia meglio in terza classe che in prima, specialmente oggi che la democrazia ha attaccato dei carrozzoni belli e inverniciati di terza ai diretti, così che poveri e ricchi hanno la soddisfazione fraterna di trovarsi a breve distanza, trascinati dalla stessa forza; e più specialmente si viaggia bene in terza classe quando non si gode di nessun diritto a biglietti gratuiti, come era il caso del signor Aurelio.

La campagna, verde e rosea, fuggiva davanti al finestrino, e quel movimento di tutte le cose suggeriva al signor Aurelio quest'idea peregrina: «tutto è mobile in questo mondo.» Ma poi considerando che gli oggetti si movevano soltanto nell'apparenza, meditò quest'altra idea, anche più peregrina: «tutto è stabile ed immobile in questo mondo. Dormi, Pina, Pinuccia bella! sì, il lacu...»

Il signor Aurelio non viaggiava solo, ma con una sua bambina, gracilina e bionda come l'oro. L'aveva posta a giacere sopra un cuscino: aveva steso un lenzuoletto candido per evitare il contatto coi microbi: ma la non voleva dormire. Oltre che gracilina, nervosa, eccitabile! Dio, che disgrazia essere nati da un padre di abitudini filosofiche!

«Sì, cara, il lacu!» Ella aveva un suo linguaggio, tutto fatto di strane analogie, che lui solo, il padre, intendeva. Ogni corso d'acqua era lacu, cioè, lago. Ogni oggetto, fuori del finestrino, destava in lei enorme meraviglia. «Eppure un poco di ricchezza e di proprietà per queste povere creaturine, non è mica un delitto!» (Il signor Aurelio già pensava alle teorie collettiviste che oggi sono così in vista sull'orizzonte umano, e per le quali egli simpatizzava un giorno sì, e un altro giorno no).

* * *

Cadeva il vespero; ed una grande città sfumava enorme, rossiccia, turrita in fondo al piano: il diretto vi si approssimava rapidamente.

—Ci fermeremo qui—pensò il signor Aurelio dopo molte considerazioni.—Proseguire col treno della notte e col freddo che fa alla notte, non conviene.

Lungo la notte fredda vegliano le bronchiti, le polmoniti, ed altre cose feroci che la Natura sparge e contro cui la sua povera mimma aveva le più limitate difese.

Per tutte queste ragioni il signor Aurelio instituì questo bilancio, se era più dispendioso proseguire, mutando la terza in una seconda classe, o pernottare in un albergo molto pulito, quasi in un hôtel, non per sè—si intende—ma per la Pina; un hôtel dove i microbi fossero meno visibili. Vinse la scelta dell' hôtel, anche perchè si correva il rischio di trovare una seconda classe piena zeppa di gente, e allora la Pina? Non dobbiamo meravigliarci di questi dubbi, considerando che il signor Aurelio aveva per le altre questioni un colpo d'occhio fulmineo, ma per le piccole operazioni quotidiane era spesso impicciato in una maniera troppo vergognosa per un uomo della sua barba, della sua età.

Scese, dunque, e si fece condurre in un albergo dove i camerieri hanno l'abitudine di portare la camicia bianca e si assicura che la biancheria del letto è di bucato. Il naso del signor Aurelio fece, tuttavia, parecchie esperienze.

Disse il babbo alla sua mimma:

—Una felice idea, adesso, Pina. Andiamo fuori di porta io e te. Troviamo un bel restaurant, e facciamo un bel pranzo.

E richiamò alla Pina tutte le cose che le piacevano: latte, purée, pappa, e le fragole rosse, queste soltanto da vedere e da ammirare.

—Ah! sì!—faceva la Pina con gran serietà e convinzione.

Ma poi, lavata che ebbe la sua mimma, un grave pensiero si affacciò alla mente del signor Aurelio: «Le metterò il berretto di lana o il cappellino di velo?» Il pomeriggio era tiepido, ma calato che fosse il sole, probabilmente l'aria si sarebbe fatta fredda. Dunque mise alla Pina il cappello di velo, e nella tasca si tenne la berretta di lana e sul braccio prese la mantellina di lei.

Uscì: il corso era tutto elegante, fastoso, signorile, nella rossa luce del tramonto, che stendeva come un pulviscolo di porpora fra la gente, ed anche di microbi.

«Oh, io prendo la mia Pina in braccio, e chi vuol guardare, guardi», così deliberò il signor Aurelio.

Pensare che vent'anni addietro, quando lui abitava in quella città, da studente, si sarebbe messo a ridere vedendo un uomo con la barba come lui ora aveva, andare, a modo di una balia, con una mimma in braccio!

Fece il corso. Giunse nella piazza dove erano i tram. Scelse un tram che conduceva verso la collina, fuori di porta. Si attraversò un altro gran corso, poi con diletto si vide che le case diradavano, ed i pioppi sorgevano verdi con un fremito già di frescura vespertina. Il tram correva oramai per la campagna, nella bianchezza della via, tagliata netta, ai margini, dal verde dei campi. Il tram cominciò a salire verso i primi colli, e quando fu giunto ad un piccolo alberghetto o ristorante, quivi le rotaie finivano ed il tram si fermò.

L'alberghetto era pulito, ed aveva una bella cucina. La padrona, in bel grembiale bianco vi troneggiava fra i fornelli e le casseruole, e due minuscoli garzoncelli, in berrettino bianco, la aiutavano a sbucciare pisellini e tagliare una gran spoglia gialla e grande come luna nascente.

—Buona sera, signore—e—oh, che bella mimma—disse la padrona venendo incontro agli ospiti.—Vuol restare servito qua? o vuole invece andar di sopra, che c'è una bella terrazza? C'è pronta una minestrina di pasta battuta coi piselli che è una bontà, e dei maccheroncini che aspettano che l'acqua bolla: poi ci sono bistecche, costolette. Oh, vuole un mezzo pollastrino alla diavola? E da bere desidera vino o birra?

Anche qui non era facile decidere: ma quanto alla terrazza, sì, fu deciso: per il resto avrebbe pensato poi, ma certamente, intanto, una minestrina minuta, e ben cotta per la mimma.

—E il brodo leggero, leggero, quasi acqua, mi raccomando!

—Per questo non dubiti, Signore—disse l'ostessa.

Salì dove c'era la bella terrazza.

Essa era rossa di gerani in gran fiore e pun teggiata di campanelle che già chiudevano i loro petali iridescenti. La sera imminente alitava la sua pace e la sua frescura, oramai, nell'aria calda del giorno.

La Pina vide le belle tavole preparate, e fece un «oh» di felicità.

—Guarda, nei campi, mimma—disse il babbo sollevandola—, ecco il grano. Esso è biondo oramai. Guarda sopra la collina quei bei draghi e serpenti grandi d'oro che vi si posano: le nuvole. Vedi come si rompono, come si snodano; dileguano, impallidiscono! E vedi tutti quei cipressi neri come una processione? Oh, ma quelli non li guardare!

—Oh, la luna!—fece la mimma che aveva scoperto anche la luna, una falce pallida, pallida di luna nel cielo d'oriente.

—Già, anche la luna: tutto tuo, mimma!

—Oh sì, e la pappa...

* * *

Parlavano forte il babbo e la fanciullina perchè nella terrazza non c'era alcuno.

Ma no! Nella stanzetta che precedeva la terrazza, c'era un giovane: un elegante aitante giovane di primo pelo. Pareva solo: ma anche uno meno distratto del signor Aurelio, subito si sarebbe accorto che non era solo. Egli stava dritto e guardava i due nuovi venuti, mentre con una mano accarezzava una rotondità pro vocante che terminava in due scarpette alte e lucide. Era una grisette graziosa, nascosta dalla figura del giovane ed appoggiata al davanzale. Si voltò: apparve un volto birichino di giovanetta, con un nasetto all'insù. Curva sul davanzale, la cara fanciulla si lasciava lisciare molto dilettosamente.

«Anch'io, se ben mi ricordo, vent'anni fa devo aver fatto qualcosa di simile—pensò senza rancore il barbuto signore—e certamente era una cosa molto piacevole. Anzi si può affermare che le osterie suburbane sono una succursale del paradiso; ed un'ostessa che tiene pronte le tagliatelle e delle uova e delle bistecche, l'estate specialmente che fa gonfiare i papaveri, ella è una benemerita del genere umano; e tutte quelle buone cose da mangiare in due, fra il verde, rappresentano come degli zeri aggiunti all'esponente ben miserabile della felicità.»

Queste cose pensò il signor Aurelio mentre la Pina contemplava nella sua innocenza un piccolo gnomo di terracotta, che la guardava dalla sua gran faccia di satiro ridente.

«—La presenza delle terze persone—continuò il signor Aurelio—non è piacevole, e noi certo non siamo piacevoli e bene accetti a quei due innamorati».

Per questa ragione, dopo aver disegnato sulle labbra un garbato sorriso, il signor Aurelio non esitò a parlare così:

—Proseguano pure le loro occupazioni, come se noi non ci fossimo: la piccina, come ben vedono, è ancora innocente; e, per conto mio, ciò che non fa male alla piccina, non mi disturba affatto.

Disse ciò da filosofo e insieme da persona educata: così come si suole dire per cortesia: «Seguiti, o signore, a fumare lo stesso! A me non disturba il fumo, anzi...»

Probabilmente i due innamorati avrebbero seguitato a fumare, anche senza permesso.

La ragazza sorrise, cioè distese in su le estremità delle rosse labbra e socchiuse i suoi grassi occhietti. Il giovane, invece, aggrottò le ciglia, e parve pensare se quelle parole contenevano l'offesa di una ironia. Ma no! Allora sorrise anche lui, e ringraziò.

Poi si stabilì un certo scambio di parole fra le due coppie di commensali.

Aspettando che il cameriere portasse in tavola, la ragazza fece conoscere meglio alla mimma quei gnomi di terracotta che ornavano la terrazza, in figura di vecchietti ridenti, barbuti ed incappucciati; e le spiegò che quei coboldi incappucciati non mangiano le bambine, nè buone nè cattive; ed infine le mostrò l'imagine sua di angeletta deformata nelle spere di vetro. Ciò fece molto ridere la mimma. E il signor Aurelio fu molto riconoscente alla graziosa grisette.

Poi vennero i maccheroncini fumanti nel po midoro nuovo e nel burro: venne la minestrina leggera per la mimma, ed allora ognuno badò ai fatti suoi.

Ma poi accesa la sigaretta, lui e anche lei, lui, il bel giovane, disse al signor Aurelio:

—Eppure, veda, caro signore, vi sono dei brontoloni, specie certi vecchi barbogi e puritani, che in una sala di albergo si scandalizzano se trovano una coppia, così come noi, tête-à-tête, che fa all'amore. È invidia. Creda, tutto invidia.

—Certo è invidia, invidia dormente—rispose l'uomo filosofico.—Io però non la provo affatto. Io provo un altro ben diverso sentimento quando vedo due giovani, come voi due, avidi,... avidi di confondere il loro essere in un essere solo.

—Mi piace la frase—disse il giovane.—Ma tu, Argia, non ne hai capito niente, vero?

L'Argia sosteneva che aveva capito benissimo, e poi, disse:

—Il sentimento, mi dica il sentimento che lei, signore, prova quando vede due giovani che si vogliono bene.

L'uomo filosofico meditò e poi disse:

—Oh, una gran cosa, sublime e terribile! Veda, signorina, comunemente il pubblico, quando osserva due amanti camminare su e giù per i luoghi solitari; o, a tavola, negli alberghi, come può essere qui, li vede alternare un boccone e un sospiro; e lasciare in pace la bistecca per appiccicarsi per mano; e fare sbocciare piccoli baci dalle labbra socchiuse, ebbene allora il pubblico grossolano crede e giudica che ciò sia cosa immorale. Ma niente affatto...

—Ma sicuro...—disse l'Argia con molta approvazione.

—Adagio: la mi lasci finire, signorina. Per me i due innamorati non sono due che si divertono; ma due meschinelli, due inconsapevoli lavoratori e servi di quella grande autocrate che si chiama Natura, i quali, poveretti, ubbidiscono a certe leggi che impone questa fatal Natura. A me è accaduto lo stesso come accade a voi. Ho amato, ho baciato e poi..., e poi e poi è nata quella lì. Allora ho sentito la mia giovinezza morire, ed ho sentito che la mia vita non aveva più altro ufficio che quello di difendere questo piccolo debole fiore delle mie carni.

L'uomo filosofico prese la Pina sulle ginocchia e la guardò con grandi occhi, umidi e dolci; e domandò:

—Lei non ha mai pensato a queste cose, signorina?

La graziosa Argia questa volta non rise.

Ma il giovane, recingendo alla sua bella amica il fianco, disse:

—Lei deve essere filosofo, caro signore. Ma in verità ella è troppo filosofo, e perciò non è più filosofo. Anch'io sono filosofo e come studente di medicina, è quasi un dovere essere tale. Certamente io convengo che la natura imponga queste leggi. Ma il nostro dovere di uomini civili è di non pigliarlo sul serio il codice semi-barbaro della natura. Frodarle fin dove si può queste leggi! Questo sì è il segreto della vita!

—E se non si può?—richiese il signore.

—Se non si può—disse in tono di suprema rassegnazione il giovane,—si è dei deboli, cioè bisogna accettare di essere infelici. Ecco tutto. Ma bisogna potere! Pensi, caro signore: non abbiamo mica noi, nascendo, approvato, firmato e sottoscritto il contratto feroce che la Natura ci ha imposto! È lei che ce lo ha imposto. Chi non lo sa? È una delle prime nozioni di fisiologia: alla natura brutale niente importa di noi, ma la conservazione di noi come specie. Invece a me importa moltissimo di me e niente affatto della conservazione della specie. Io perciò come persona intelligente, mi ribello ai decreti imperiali della natura, o quanto meno cerco di raccogliere le rose e buttare via le spine. L'Argia, quest'amabile fanciulla, possiede anche lei un'intelligenza filosofica istintiva e condivide queste mie idee; e perciò tutti e due facciamo un amore facile, piacevole, direi così, sportivo; e molti giovani fanno come noi, e fanno saviamente. E lei che mi risponde ora, caro signore?

L'uomo chinò il capo.

—Lei è destinato ad essere più felice di me, e perciò a vivere di più—disse e guardò a lungo la sua piccola Pina.

Poi sospirando aggiunse:

—Tutto il mio mondo è qui, in questi quattordici chili di carne! Qui stanno tutte le leggi della vita, per me!

Era sera oramai.

Mise alla Pina la berretta di lana e la mantellina.

* * *

Altre coppie intanto dall'amore «sportivo» cominciavano ad occupare rumorosamente qua e là i tavoli. Col nascere delle tenebre cominciava la giornata gaia del piacere per gli amanti più saggi. Per lui si chiudeva.

* * *

Ricondusse la Pina all'albergo, voltò la chiave della luce elettrica, e la bella stanza si illuminò di bianchezza con gran piacere della Pina.

Il signor Aurelio le tolse poi le vestine, e la mise sotto le coltri; dicendole che stesse buona e dormisse.

Ella dormiva. E lui guardava con occhi di infinita domanda quella strana imagine che era sopra il letto: Maria Vergine, vestita di azzurro, con gli occhi in su, sopra un arco di stelle!

—Quella lì—mormorò il signor Aurelio—è destinata a correggere i tremendi decreti di Dio o della Natura. Ma che ne sai tu, povera imagine?

LE OLIMPIADI E LA SIGNORINA OLIMPIA.

—Lei faccia i suoi libri e vada via!—scoppiò a dire il signor professore contro di me.—E via subito, subito, subito. Fuori da quest'aula!

E la mia giovinezza fu tutt'ad un tratto investita, assalita da quell'uomo congestionato in faccia, che mi respingeva con parole di minaccia, coi gesti, con la persona, finchè l'uscio della scuola fu ribattuto contro di me.

E ancora sento e vedo lo stupore e il silenzio dei miei compagni. Ma che misfatto mai avevo commesso? Quale malefizio avevo mai perpetrato contro quell'uomo? Quale lebbra era apparsa in me, giovinetto, per essere espulso a quel modo?

Io mi trovai solo, nella strada, coi miei libri di greco: le tempie che mi martellavano, il pensiero che non si fissava più se non in un'unica idea: la licenza liceale perduta, il mio avvenire distrutto, il mio povero babbo... E allora cominciai a lagrimare.

E così lagrimando mi accorsi che non ero più tra le vie tumultuose della città; ma seduto su di una banchetta solitaria dei giardini pubblici, e sopra di me i tronchi protesi e neri di un'antica pianta si aprivano pudicamente, meravigliosamente con le loro infinite gemme di petali rosa, e più sopra ancora splendeva l'azzurro del cielo.

Era il dolce maggio.

Ma quale misfatto avevo io commesso?

Lo dirò candidamente ora che la tranquillità è ritornata nel mio spirito, e molto tempo è trascorso.

Io avevo allora diciotto anni ed ero un buon scolaro di greco e di latino. Ero ossequiente alla mitologia greca, credevo alle virtù dei Greci e dei Romani. Credevo, senza che il mio pensiero avesse sino allora sollevato alcun dubbio, in Giove Tonante, nei Titani, nelle Muse, nelle regole di grammatica e di retorica. Ero, insomma, un bravo figliuolo, un buon figliuolo, ed anche un gentile ingenuo figliuolo.

Ma il vero è che in quel giorno io avevo inconsapevolmente offeso il mio professore di greco in ciò che di più delicato e sensibile ha l'uomo, cioè nella sua vanità.

Ma quale colpa ne avevo io se ignoravo nella mia candida anima l'esistenza di questo punto vulnerabile nell'epidermide coriacea dell'uomo? Se lo studio delle virtù greche e romane mi avevano quasi instillato la convinzione che dire la verità fosse il miglior modo di mettere in pratica quelle illustri virtù?

Dunque in quel giorno si spiegava un passo di autore greco e vi si trattava delle Olimpiadi. Io sostenevo che le Olimpiadi erano uno spazio di quattro anni nel complicato Calendario dei Greci; il professore sosteneva che esso era di cinque anni. E certo io avevo più ragione di lui! Ma poi la disputa si inacerbì e, non so come, mi vennero fuori queste vere ma infelici parole, cioè che anche i professori di greco si preparano sulle versioni letterali dal greco.

Non l'avessi mai detto!

Quel maestro di umanità perdette d'un tratto ogni sua umanità, divenne furente e mi scacciò, come ho detto.

* * *

Dunque io lagrimavo silenziosamente sulla banchetta dei giardini pubblici, sotto quella dolce fiorita di rose, e un cantare lontano di uccelletti pareva come aiutasse le timide gemme a sbocciare.

Allora mi accorsi di non essere solo sulla banchetta.

Una giovane donna sedeva presso di me.

Io fino a quel giorno avevo conosciuto, anzi avevo combattuto con i tre generi, maschile, femminile e neutro; ma ignoravo che cosa fosse quel l'essere delizioso e perfidamente saggio che è la femmina.

Era bella? era elegante colei che sedeva presso di me? Io ben sentivo il languore di due grandi pupille nere che sempre più si venivano scostando da un fine libro e si posavano, quasi avvolgendomi, sulla mia giovinezza lagrimante.

Alla fine udii una voce pietosa e quasi materna che mi rivolse queste parole:

—Perchè piange, se è lecito domandare?

Così cominciammo a parlare, ed io raccontai tutta la mia disavventura, dalla questione delle Olimpiadi a quell'espulsione feroce, la prima grande sventura della mia vita.

Ella ascoltava. Un grazioso sorriso di meraviglia e di pietà balenava sulle sue labbra. Il volto, un po' chinato, mi si faceva sempre più da presso: un volto pallido, ambrato, fine, strano, delimitato da un velo nero che si inarcava sulla fronte: perchè all'infuori di quel volto bianco, di due nude bianche mani, tutto era nero: tutta chiusa ella era in una veste nera. Ma non ne emanava alcun fantasma di morte o di lutto; ma come un profumo esotico e forte.

A quel profumo anzi io sentivo sobbalzare l'anima mia stranamente, e quasi sbocciare come sbocciavano le gemme della pianta che si allargava sopra il mio capo. E ciò mi dava un senso di nuovo piacere, che nasceva dal mio dolore.

Diceva ella ogni tanto:

—Oh, che roba! Che orrore! Pauvre enfant!

Poi con volubilità che quasi mi offese, mi pregò che le spiegassi quella storia delle Olimpiadi.

Che cosa le potevano interessare le Olimpiadi?

—Così—disse con un sorriso ambiguo—, è perchè anch'io mi chiamo Olimpia.

Allora io cominciai a raccontare.

—Ella deve sapere, signora—dissi—che nell'anno 776 avanti Cristo, cioè 23 anni prima del 753, anno della fondazione di Roma...

A queste mie parole la signora strabiliò, e inarcò le grandi ciglia.

—E lei, così giovane,—disse—deve ricordare tutte le cose dai secoli delle Olimpiadi sino ad oggi? Ma se io non ricordo più nemmeno quello che è avvenuto ieri! Ah, pauvre enfant!

E mi guardò con intensa pietà.

Io andai avanti e le spiegai tutta la storia dei giuochi Olimpici: cominciando da quel re briccone di Enomao, che sfidava alla corsa dei cocchi tutti i pretendenti alla mano della bella sua figlia Ippodamia,—ma siccome l'asse dei cocchi era di cera, veda, signora, così tutti cadevano vinti.

—Oh, che birbante!—disse la signora Olimpia.—Ma oggi sarebbe squalificato quel signore!

—Ma un bel giorno—proseguii—nella terra Apia arrivò Pelope, figlio di Tantalo.—La storia di Pelope e dei suoi cavalli fatati interessò moltissimo la signora, specialmente quando imparò la sua vittoria su Enomao, il suo sposalizio con Ippodamia.—E da queste nozze poi nacque Atreo, che fu padre di Agamennone e di Menelao.

—Oh, guarda—disse la signora Olimpia, e sorrise in modo che mi sconcertò.

—Ho detto qualche sciocchezza forse, signora?

—Ma niente del tutto—e rideva gaiamente.

Ma poi si fece seria e mi domandò:

—E lei deve sapere tutte queste cose?

—Ah sì, e altre ancora.

La signora si strinse le tempie con le mani, come fosse stata colta da un accesso improvviso di emicrania.

Domandò:

—E cosa prendono di paga i vostri professori, che insegnano tutte queste cose?

—Due o tremila lire, credo, signora.

—All'anno?

—Sì, signora, all'anno.

La signora parve sbalordire.

—E anche lei, se volesse fare il professore, prenderebbe lo stesso?

—Così credo—risposi.

I grandi occhi della signora Olimpia espressero una grande pietà.

Disse:

—Ma se io ne spendo quasi altrettanto per le calze...!

Allora stupii io:

—Per le calze, signora?

—Sì, calze e accessori—si affrettò correggendo. Ma poi parve pentita delle sue parole.

Domandò di vedere i miei libri greci: li girò in alto, in basso come una cosa nuova.

Dissi io allora:

—Anche lei leggeva, signora.

—Ah, il mio libro non si può vedere: e sigillò il libro, posando sulla busta di cuoio la mano.

Io non insistetti e tacqui.

Ma dopo un poco mutò pensiero.—Guardi—mi disse audacemente.

Guardai. Era un libro francese, un romanzo. Non lo avevo mai letto; ma il titolo non mi era nuovo. Poi ricordai. Ricordai che un giorno mio padre, parlando con un magistrato di quel libro, aveva detto: «Finchè non riuscirete a togliere dalla circolazione questo genere di libri, le vostre leggi non rappresenteranno che un'ipocrisia sociale di più».

—Non ha letto mai questo libro?

Io arrossii grandemente.

Per me? per lei arrossii che leggeva quel deplorevole libro? Non so: mi sentivo un gran calore nelle vene.

—Davvero non l'avete mai letto?—chiese socchiudendo maliziosamente le sue grandi pupille.

—Davvero!—e arrossivo anche di più.

Mutò discorso.

—Dunque il vostro caso è disperato?

—Sì, signora.

—Ma io non credo—disse ad un tratto assumendo un'aria ben strana di serietà.—Anzi è un affare rimediabile. Dunque il greco, voi dite, è molto difficile. E deve essere così! E voi assicurate che anche i professori si aiutano con le traduzioni?

—Sì, signora, con le traduzioni letterali dal francese. Io non dico che tutti i professori facciano così, ma il mio fa così.

—E voi gliel'avete detto?

—Pur troppo, signora—sospirai—, e magari potessi rimediare al malfatto!

—Semplice—disse.—Carta, penna e calamaio. Vi detto io.

* * *

Ora io non ricordo più come avvenne, ma so per certo che per trovare carta, penna e calamaio, io salii con lei, da lei, nel suo appartamento.

Venne ad aprire una cameriera. Non ricordo l'appartamento. Mi parve strano e diverso da quello di casa mia. Perchè diverso, non so.

La camera da letto dove mi introdusse, era misteriosamente elegante, con un lettuccio piccolo, grazioso, tutto a trine.

Ma non conservo percezioni nette; soltanto ricordo che un brivido morboso si veniva impadronendo di me, mentre ella con calma esacerbante si toglieva, allo specchio, tutti quegli strani armamenti della testa.

Mi pareva che qualcosa di inusitato, di enorme dovesse fra poco succedere.

—Ma sapete—disse—che l'abito nero dà un bel caldo! Deve essere caldo, oggi.

—Sì, caldo!—dissi, e ricordai non so quanti gradi di temperatura.

—Oh, anche di più!—disse ridendo.—Permettete?

Uscì. Rimasi solo. Rientrò poco dopo. Era uscita dalla guaina nera: era tutta vestita di una gran veste rosea. Mi parve più magnifica. Stupii come sotto quelle maniche dell'abito nero ci fossero state nascoste due braccia così bianche! Ebbi l'impressione di una energia occulta e deliziosa in quelle braccia nude.

—Oh, che cattiveria, che cattiveria, che cattiveria—disse ridendo e venendomi sempre più vicino, quasi rasente—tormentare col greco e con tutti quei libracci un povero bambino!—e così dicendo crollava la testa, e si appressava di più.

—Povero bamboccione—disse d'un tratto, e mi prese con le due mani adunche per i capelli ed accostò il mio volto alle sue grosse labbra.

Io impallidii. Ella parve godere del mio pallore. Non parlava più.

Probabilmente la mia faccia era diventata una mela o una pesca di luglio: una pesca sugosa e fresca che ben si morde.

* * *

—Ora, ragazzo, s'il te plait, torniamo alle Olimpiadi e al tuo professore—disse.

A me parve come di essere desto dal sogno in cui il Veglio della Montagna immergeva coloro che gli dovevano essere devoti sino alla morte.

Io non ne volevo più sapere nè di Olimpiadi, nè di scuole.

—Voi siete ben goloso, mon petit. Torniamo alle Olimpiadi.

In quell'ampia vestaglia ella si era rannicchiata in fondo ad una poltroncina.

—Mettetevi lì, e buono. Già bisognerà fare così!—Prese un tavolino e lo collocò fra la sua persona e la mia a guisa di bastione.—Posso offrirvi?

Mi porse una sigaretta: ne accese una per sè.

Devo confessare che la mia mente era così annebbiata che se colei mi avesse detto: «manda i padrini al tuo professore, e battiti a duello», io avrei trovato il consiglio naturalissimo.

Invece il suo consiglio fu molto savio e rivelò molto acume. Aggrottò le ciglia e disse:

—Tu capirai che lui dovrà pensarci due volte prima di formulare l'atto di accusa contro di te. In fondo è un atto di accusa contro di sè.

—To', è vero!

—Ma non basta: la sua rabbia è appunto in relazione alla impossibilità in cui l'hai messo di punirti...

—To', è vero! Ma può vendicarsi—aggiunsi.

—Perfettamente. Ma tu prendi dal «secrétaire» carta e busta e scrivi. Scrivi: detto io. No, quel foglio lì.—Guardai il foglio. Vi era impresso in azzurro, «Olympie».

Oh, Olimpia, dolce pingue nome! Tutto azzurro, tutto fresco come la grande acqua del mare.

—Su, andiamo, scrivi! Eri così «savio» poco fa.

Io scrissi: «Signor Professore, in un momento di vera aberrazione mentale ho osato formulare contro di lei un'accusa che tanto più mi tormenta di rimorso quanto più riconosco la sua dottrina e il suo sapere. Come posso rimediare se non facendo piena dichiarazione della mia colpa e supplicandola di volermi perdonare?»

—È tutta una bugia—dissi.

—E la bugia si trova dentro la vita o fuori della vita?—mi chiese l'adorabile Olimpia.

È vero: la menzogna è nella vita. E allora perchè soffrire per combattere quello che è nella vita, che è la vita?

Guardò l'orologio.

—Presto, pòrtala subito al tuo professore.

* * *

O me, miserabile! Mi feci quasi scacciare da quella stanza da cui non volevo più uscire.

* * *

Il giorno dopo il professore annunziò la mia lettera alla scolaresca; la lesse anzi; poi pronunciò un discorso di elogio alla mia persona. Ma io rimasi molto indifferente.

* * *

Dopo due mesi ero in possesso della licenza, ma senza troppo studiare. Me ne era andata via la voglia di studiare. Mio padre forse se ne accorse, specialmente quando gli manifestai la intenzione di darmi a tutt'altri studi che quelli classici.

Abbandonai le Olimpiadi per sempre e tutti i secoli di cultura classica prima di Cristo e tutti quelli dopo Cristo, fino ai tempi nostri.

Bisogna conquistare la vita, e non servire ai morti.

E se i Greci avessero dovuto studiare il greco, e i Romani studiare il latino, quei due popoli non sarebbero stati i grandi popoli che furono.

Di questa semplice verità io devo la conoscenza alla signorina Olimpia, artista di caffè-concerto e stella di prima grandezza.

ABITO NERO ED ABITO BIANCO.

—Ecco, veda, io non domando di far carriera: io domando, prima che questa barba diventi grigia, di poter respirare un poco d'aria igienica.

E il signor Foresti mi presentava sul dorso della mano, dall'alto della sua statura atletica, la sua barba, dove il grigio già minacciava una invasione generale: ed io credo che fosse questo grigio, in aumento, combinato con la speranza, sempre più in diminuzione, di potere respirare «un poco d'aria igienica», che rendeva il signor Foresti piuttosto irritabile, anzi molto irritabile, nel suo ufficio di capo-stazione della piccola stazione di S... Egli era capace di avvertire dal suo buco di distribuzione dei biglietti: «Questa bottega è diversa dalle altre: meno avventori vengono, più piacere mi fanno!»; era capace di dire, percorrendo il treno con le braccia aperte e con un sorriso tremendamente ironico: «Ma quei baci, ma quei saluti, ma se li distribuiscano prima!» Capace, nella spedizione delle merci, di attaccarsi a tutti i rampini di quei regolamenti che odiava di un odio così profondo.

Un orco! La più docile ed umile pasta di questo mondo: tanto è vero che non aveva fatto carriera. Certo, in quei momenti, era bene non avvicinarlo, non parlargli.

Ma io avevo trovato un mezzo per esasperarlo in modo soave ed atroce. Chiudevo le pupille dolcemente, dicevo con voce sentimentale:

—Ecco qui il suo piccolo giardino, i garofani, l'insalata; ecco la sua piccola stazione, beata come un eremo, baciata dal primo raggio del sole e salutata dalle rondini... Ah, se io fossi come lei, capo-stazione, come lo terrei coltivato, inaffiato, fiorito, il piccolo giardino: e come ci farei una capannetta per leggere, per istudiare...

—Badi bene come parla, sa! Non si prenda mica giuoco di me!...

—Scusi, capo, io dico sul serio. Per me, costretto a vivere in una grande città, questa vita idillica sarebbe l'ideale... Lei qui, intanto, è padrone assoluto...

In verità, in verità, era un reclusorio quella piccola stazione: e lui, il capo, un coatto, costretto a vivere fra un disco al nord e un disco al sud; giacchè l'amministrazione lo aveva bensì elevato al grado di signore assoluto, essendo egli, bigliettaio, spedizioniere, telegrafista; ma non aveva chi lo sostituisse o lo aiutasse fuorchè uno scambista e un facchino.

—Quanto ai libri da leggere, eccoli qui!—e prese un ammasso enorme di libri e carte. Io temetti che me li scaraventasse sulla testa: si accontentò di accatastarmeli davanti: erano regolamenti, circolari, istruzioni.

—Questa è la mia letteratura!—Aveva gli occhi feroci.—Creda—mi diceva poi acquietandosi con la subitaneità della sua indole buona—io odio questo sole, io odio quest'aria balsamica; io, democratico, considero questa sudicia umanità di campagna come una razza inferiore. Persino le donne, capisce lei? persino le donne non mi sembrano donne!

L'aria balsamica, l'aria igienica pel signor capo era quella che si respira nel fondo di quei pozzi grigi che sono le vie, le piazze di una grande città.

«Ah, a mezzanotte—sospirava—un teatro illuminato! per le vie lucide dei tram lucidi! uomini col colletto pulito, donne all'ultima moda; donne autentiche, lavate; bars, buvettes, scintillanti di luce elettrica, vetrine messe con gusto: lavorare sì anche, ma almeno potere un'ora al giorno sedere entro un caffè, godere lo spettacolo dell'umanità che passa davanti al vostro tavolino, al vostro calice di birra autentica! Macchè sole, macchè mare, macchè alberi, fiori, verdura, insalata, garofani!»

Oh, allora sì, il signor capo si sarebbe «arrangiata» la barba che oramai diventava grigia, ed avrebbe speso allegramente il capitale esuberante della salute che rifioriva nel suo corpo.

Da anni ed anni tempestava la direzione per un trasferimento in una città grande: era lì, rimaneva lì, e non aveva più altra speranza che quella di ammalarsi sul serio e poter ottenere un congedo.

Ma come fare ad ammalarsi? In quella piccola stazione dall'aria balsamica, la gente ci veniva per salute all'estate, ed egli aveva la soddisfazione di vedere bensì in quel tempo aumentato il suo lavoro, ma senza potere avere la consolazione di ammalarsi.

* * *

Una mattina di luglio, una ben calda e serena mattina, io presenziavo l'arrivo di un piccolo treno, che usurpa il nome di diretto.

Il signor Capo, tra spedizione merci e spedizione viaggiatori, ne aveva sino oltre al berretto paonazzo. Tempo di villeggiatura per la restante umanità! Un piccolo rossore alla fronte, un parlar secco allo sportello dei biglietti, un saluto glaciale a me, mi avevano fatto capire che quella mattina la caldaia cerebrale del signor Capo era in uno stato di ebollizione pericolosa.

Il treno si era appena fermato che un piccolo signore, da uno scompartimento di prima classe, si era affrettato a chiamare:

—Aprite, presto, presto!—Poi si era calato da sè, come se la carrozza fosse in fiamme: ma un po' impediva il ventre che sporgeva dagli svolazzi di un giacchetto di orléans nero; un poco era colpa delle gambine esili, che non riuscivano a toccare il predellino.—Dove sono i carabinieri? i due carabinieri regolamentari?

Le guardie del treno, la gente si affollò subito d'intorno a quel signore, invocante l'intervento di quegli uomini neri e rossi, i quali, benchè siano da alcuni considerati come un arcaismo nella società moderna, tuttavia costituiscono la più visibile manifestazione della giustizia umana. Essi però erano assenti.

—Ma non si faccia compatire; ma non faccia ridere il pubblico—gli gridava dal treno, come dall'alto di una tribuna, un giovane signore, tutto vestito di bianco che pareva un sorbetto vanigliato.

—Lei ha violato la mia personalità! Quel signore ha violato la mia personalità!—denunciava il piccolo signore nero con gli occhi fuori dalla testa, con una voce così irosa, che guai per l'elegante giovinotto se il vecchiotto avesse avuto il resto del suo fisico così bellicoso come la voce.

Un professionista del furto nei treni? Mai più! L'elegantissimo giovane scese anche lui per dare spiegazione al pubblico che si affollava.

Semplicemente uno che voleva chiuso il finestrino. Invece il vecchio signore lo voleva aperto.

—Soffro d'asma!—diceva, e questo era evidente, chè pareva minacciato da una congestione.

—E se soffre d'asma? Io non posso mica sacrificare il mio vestito e il mio panama (il panama che il giovane aveva in testa era veramente bellissimo ed immacolato) alla sua asma!

Così si riaccese la disputa lì sul marciapiede, con l'intervento giuridico dei signori ferrovieri e dei signori viaggiatori. La questione giuridica sui finestrini aperti o chiusi fu dibattuta con quell'entusiasmo del tutto italico per le questioni bizantine. «Esiste un articolo del regolamento...!» «Non esiste niente, invece! Chi è immediatamente vicino al finestrino, è padrone del medesimo». «Sì, ma i finestrini laterali sono piombati. Esiste solo il finestrino di mezzo. Quello di mezzo è collettivo!» «Ma nel caso specifico erano due soli nello scompartimento e perciò non si poteva invocare l'appello alla collettività.» «Esisteva però sotto la vecchia Mediterranea un articolo che dava diritto di chiudere dalla parte del vento!» «Ma oggi la Mediterranea è scomparsa: non esiste che lo Stato.» «Le ferrovie di Stato hanno creato un subbisso di regolamenti: ma nessuna regola specifica oggi esiste in relazione ai finestrini aperti o chiusi.»

L'elegantissimo giovane con calma imperturbabile dimostrava la assoluta inferiorità delle ferrovie di Stato italiane, rispetto alle ferrovie estere. «Chi ha viaggiato all'estero, sa che nei vagoni- salons è diffusa l'abitudine di tenere chiusi i finestrini in qualunque stagione; e se quel si gnore non sa fare a viaggiare...» «Io non so fare a viaggiare? È il mio mestiere viaggiare...—fremeva il vecchio signore.—Del resto, qui è unicamente questione di essere gentiluomini o mascalzoni».

—Be'—disse il capo-stazione intervenendo—a che punto siamo? Sciocchezze, sciocchezze! Capo-treno, dia la partenza.

—Io rimango—disse il vecchio, immobile, lì, coi suoi occhietti irosi fissi sull'avversario.

—Io parto—disse il giovane, arrampicandosi, ma con la testa rivolta all'avversario.—Del resto, sa, se vuole riparazione...

Squillò la cornetta; e il treno si mosse; e il vecchio signore già emetteva, con tutto il suo fiato disponibile: «Prepotente!», quando l'elegante giovane signore fu colto da un fremito di spavento. Che era accaduto?

Il suo abito candido, il suo cappello splendido non erano più bianchi che davanti.

L'uomo era diventato bicromatico.

Durante la sosta e la disputa, la macchina, seccata, aveva fumato vigorosamente, e tutto il fumo aveva investito in modo irreparabile l'abito bianco.

Non era il giovane signore più presentabile alla prossima stazione balnearia, dove era diretto e dove probabilmente gli stava a cuore di giungere perfettamente candido.

Già il treno era in moto, ed egli, aperto lo sportello, era balzato a terra con la sua valigetta.

Il vecchio signore, all'improvvisa discesa del suo avversario, galoppò, come potè veloce, nella sala d'aspetto. Senonchè il giovane non lo inseguì. Affrontò alteramente il capo-stazione Foresti, dicendo:

—Favorisca presentarmi il libro dei Reclami.

—Cosa vuol reclamare?—domandò il Capo, con un certo fare un po' bonario, un po' canzonatorio all'aspetto bicromatico del signore.—Io piuttosto potrei reclamare contro di lei che è sceso dal treno in moto.

—La sua macchina mi ha rovinato!—esclamò il giovane con voce esasperata.

Il capo-stazione lo guardò: le sue labbra sorrisero, tutta la barba sorrise.

—Infatti—disse—è un pochino sudicio.

—E lo dice in questo tono?

—Pretende forse che mi metta a piangere?

—Pretendo che lei faccia il suo dovere. Intendo elevare formale reclamo contro la sua macchina, intendo domandare risarcimento del danno subìto... Esiste un articolo del regolamento ferroviario che vieta alle macchine di fare fumo...

—Infatti—disse il signor Capo—articolo decimo, paragrafo sesto delle Istruzioni pel servizio dei macchinisti e fuochisti: «i macchinisti devono astenersi da qualsiasi operazione che possa produrre fumo, o, comunque, riuscire molesta od incomoda ai viaggiatori, come...»

—Perfettamente, e allora perchè lei rifiuta di accogliere il mio reclamo?

—Perchè è stupido—disse il capo-stazione accendendo in tutta pace una sigaretta.

—Ma chi, stupido?

—Il reclamo, il regolamento, la causa per il risarcimento dei danni... Il mondo è pieno di cose stupide...

—Ma io le posso citare—disse il giovane signore eccitandosi visibilmente—il caso del barone Y..., segretario dell'ambasciata germanica, mio buon amico, che fece causa ed ottenne un risarcimento dignitoso dallo Stato perchè una macchina aveva, come nel caso mio, rovinato una toilette della sua signora...

—Ma cosa vuole che me ne importi del suo barone, della toilette di quella signora? Bella novità che lo Stato paga! Non paga mica, però, chi dovrebbe essere pagato! Oh, vada a farsi benedire e favorisca di lasciarmi libero...

Il giovane signore, invece, gli sbarrò il passo e con voce insolente esclamò:

—E chi crede di essere lei? Un tirapiedi del Governo, forse?

La parola «tirapiedi» ebbe la virtù di trasformare il signor Foresti.

—Le pare che io abbia una faccia di tirapiedi?

Si era drizzato sulla persona, aveva buttato via la sigaretta.

—Tirapiedi del Governo,—confermò il giovane signore andandogli col viso contro il viso—la metterò io a posto!

—Ma non lo dica neanche per ridere!...—e proferendo queste parole, distese quella sua larga mano, prese tutto il disgraziato signore per l'abito e con violenza inaudita lo tirò a sè; poi lo allontanò usando del braccio come fosse stato un'asta di stantuffo; quindi lo proiettò sconciamente lontano.

Per sua mala sorte lì presso c'era un carretto delle merci, e il giovane vi urtò in malo modo, cadendo.

Sanguinava.

Il facchino accorse e lo rizzò a stento.

Fu condotto al pozzo: rimase lì un po', fra un secchio d'acqua e un asciugamano.

—La caserma dei carabinieri? dov'è la caserma dei carabinieri?—domandava angosciosamente.

Gli fu indicata. Due chilometri di distanza.

Il signor Capo, intanto, aveva riaccesa la sigaretta: andava fra un disco e l'altro: la sua galera.

—Ci rivedremo in tribunale!—gli disse il gentiluomo salendo in una carrozzella.

Il Capo non voltò nemmeno la testa. Ma vide me che attendevo, e allora, un po' ridendo, un po' fremendo:

—Bel mestiere il capo-stazione!—disse.

—Bravo Capo! Bel colpo! Ma lei ha una forza...

—Da facchino, caro. Doveva vedermi dieci anni fa! Povero giovane, mi dispiace, ma che vuole? Ho perso il lume degli occhi. Mi poteva dire tutte le brutte parole che voleva: è un corollario del mestiere: non ci bado più. Andò proprio a trovare quella parola tirapiedi. Io tirapiedi del Governo! Io che per dire a tutti, superiori e inferiori, quello che va detto, ho fatto questa bella carriera dopo venti anni di servizio! Adesso il meno che mi possa capitare è una sospensione.

* * *

Ma non fu propriamente così.

Mezz'ora dopo, il signor Capo stava consumando la sua modesta colazione fra un treno e l'altro, in una piccola osteria, vicina al disco, quando precipitò nella stanzetta quel signore vestito di nero. Il suo aspetto era esilarante, luccicante: saltellava sulle piccole gambe.

—Ah, finalmente la ritrovo! Ma dove è il signor Capo, quell'egregio signor Capo, quel grande uomo del signor Capo? ho chiesto e mi hanno indicato qui. Permetta che io stringa quella valorosa mano! Lei è la perla dei funzionari dello Stato!

—Grazie—disse il signor Capo, Foresti—è la prima volta che mi sento fare un simile elogio. Peccato che lei non sia un ispettore dello Stato.

Il piccolo signore sorrideva con aria olimpica; volle nelle sue piccole mani prendere la grossa mano del signor Foresti; la voltò, la rivoltò, la esaminò.

—Una mano simile—disse con profonda convinzione—vale tutto un codice di legislazione sociale. Pensi che questa mano mi ha risparmiato un mezzo accidente. Io schiattavo dalla bile. Pensi che in treno quel prepotente si è permesso di fermarmi il braccio che voleva tirare il campanello di allarme: il suo vestito bianco gli premeva più della mia soffocazione! Io voglio proporre per una ricompensa quell'egregio macchinista che alimentava così vigorosamente il fuoco, che usava con tanta opportunità il soffiante... Ma lei, lei poi come ha risposto bene, che dignità, che correttezza! Oh, se tutti i funzionari dello Stato sentissero la responsabilità del proprio ufficio; considerassero lo Stato come, come dire? come la rocca Capitolina delle istituzioni sociali, e non come la vacca da mungere...! Ma che cosa posso fare io per lei? Mi esprima un suo desiderio, io sarei ben lieto, ben onorato...

Il signor Capo aveva smesso di levare la pelle a certe infami fette di mortadella e fissava il suo interlocutore. Il suo aspetto era molto autorevole.

—Oh, io—disse quell'incognito autorevole signore—proporrò per prima cosa tutto un regolamento sull'uso dei finestrini: infatti la legislazione delle ferrovie dello Stato è muta a questo proposito. E lei, scusi, mi viene un'idea splendida, possederebbe per caso una qualche laurea in legge? No? Peccato! Io la proponevo subito all'Ufficio centrale per le contestazioni legali...

—Ma scusi—fece molto turbato il capostazione Foresti—lei chi è?

—Chi sono? Ah, sì, chi sono?—e trasse e presentò al capo-stazione il suo biglietto da visita: Cav. Comm. X. Y.—Ispettore capo delle Ferrovie dello Stato.

* * *

E fu così che il signor capo-stazione Foresti fu trasferito in una grande città, dove potè respirare l'aria balsamica dei grandi corsi, l'aria igienica dei teatri scintillanti, dei caffè-concerto; dove i suoi occhi poterono contemplare delle donne pulite, autentiche, all'ultima moda; dove potè consumare tutto il suo capitale di salute prima che la barba diventasse totalmente grigia.

LE MOSCHE E LA POLONIA.

Non mi accusate di essere positivista, scettico o come meglio vi piace chiamarmi. Io, alla vostra età—parlavo con un giovane amico—ero terribilmente romantico ed idealista. Combattere per la infelice Polonia era il mio sogno...

—Non per il Proletariato?

—No, mio giovane amico; allora non era ancora di moda quella cosa che voi dite.

—Non c'era il Socialismo ai vostri tempi?

—Sì, c'era; ma era—come dire?—ancora a balia: un grosso, tozzo marmocchio di una voracità incredibile che lasciava indovinare uno sviluppo prodigioso: un po' bruttino, sia espresso col dovuto rispetto, ma marmocchio ancora, come vi dicevo. Ah, morire con una palla in fronte e il sole polacco davanti agli occhi, centuplicava l'ebbrezza della mia gioventù! La mia gioventù è fiorita agli ultimi bagliori del Romanticismo. Ma anche senza Romanticismo, sta il fatto che pei giovani la Morte spesso si presenta come una forma eroica di Vita. Se la natura non ci usasse questo lugubre scherzo, le guerre sarebbero finite da un pezzo! Ma io non voglio tediarvi con la filosofia. Vi dirò, dunque, che allora vi erano comitati per la Polonia, conferenziere polacche, come oggi vi sono le suffragette. Sapete chi mi ha guarito della mia malattia romantica? Le mosche!

—Le mosche?

—Sì, come ho il piacere di dirvi: se non c'erano le mosche, io sarei rimasto—forse—ancora romantico ed idealista, e non avrei fatto la discreta carriera politica che voi, bontà vostra, esaltavate poco fa. Quel lurido e petulante animale mi ha inoculato il virus del positivismo. Una reazione, quasi fulminea, è sopravvenuta, ed improvvisamente la mia vita ha deviato come un treno, a cui lo scambista toglie, con un colpo di leva, la direzione: dà un sobbalzo e poi fila, precipita verso nord invece che verso sud. Vi può interessare?

Il mio giovane amico rispose gentilmente:

—Moltissimo.

Io allora gli offersi una sedia, una sigaretta e, richiamando alla memoria cose antiche, proseguii. Alla vostra età io amavo una signora polacca, di Varsavia, anzi di Varsovì, come ella diceva in un suo gergo, mescolato di polacco, di francese e di italiano.

—Ci siamo col solito amore!—disse l'amico.

—Ma, benedetto Iddio, questo dovreste saperlo: senza l'amore e senza la donna non esi sterebbe nè romanticismo, nè positivismo, nè lirica, nè epopea, e tutto questo benchè la donna sia un fenomeno triste. Ricordate la conclusione dei Nibelunghi?

—Nemmeno per sogno.

—È un'espressione notevole. I Nibelunghi terminano con queste parole: «perchè l'amore porta in fine disgrazia».

—Era questa vostra signora una conferenziera Pro-Polonia?

—Mai più. In che lingua doveva conferire? Era una splendida, lattea, placida creatura bionda, di quel biondo tenero come di spiga non baciata bene dal sole; anzi vi dirò che quella bellezza nordica aveva così conquistato il mio animo che non soltanto il color bruno ardente delle bellezze nazionali, ma lo stesso color falbo delle nostre donne, mi pareva un'imperfezione di natura. Ella era inoltre così squisitamente monda e detersa che dalle sue carni lattee io sentivo esalare un perpetuo profumo di pervinca e di mughetto; e gli occhi suoi grandi, quasi squarciati, di un azzurro dolcissimo, sotto due archi di ciglia perfetti ed evanescenti, mi immergevano nello stupore di un sogno, da cui uscivo talora fremente e con queste terribili domande: «E come finirà questo amore? Come farò io a palesarle il mio affetto? E palesato pur anche il mio amore, dopo che avverrà?»

—Allora un amore ideale...

—Altro che ideale, romantico, vi dico: anzi nessuna dichiarazione d'amore era avvenuta. Ella era donna per bene, madre di due graziosi bambini a cui io facevo da bambinaio, perchè la servetta era una smemorata, un'arfasatta, come sovente sono nei nostri paesi.

Suo marito, uomo di molti affari, viaggiava per l'Europa, ed aveva lasciata la sua signora a curarsi in una piccola, modesta stazione balnearia, dove ella aveva preso a pigione una villetta solinga presso il mare, e dove io l'avevo, naturalmente, seguita. Permettete che continui la descrizione: Il suo mento era di un ovale perfetto e la sua piccola bocca, a cuore, era la sola cosa rosea in quel volto. Il naso, quello sì, era poco perfetto: un piccolo nasetto rivolto in su, ma vi dirò: i nasi aquilini e forti delle nostre donne, con sopra le dense corrusche ciglia nere, spesso congiunte, che sono così caratteristiche fra noi, mi spiacevano tanto al confronto che mi chiamavano in mente il becco delle civette e le ciglia dei bachi da seta.

—Parlavate della Polonia?

—Mai più: ella era una donna placida, come vi dissi, e si parlava di cose placide: delle mie cacce, dei bagni, di cose da mangiare, tanto più che io la aiutavo nelle compere presso gli avidi e zotici nostri rivenditori, che avevano, anche allora, l'abitudine di mettere sugli stranieri una tassa di soggiorno mediante un sovrapprezzo sui commestibili. Del resto, la cucina italiana le gradiva moltissimo, e se ne parlava. I pròcoli (broccoli) fritti le piacevano assai. I nostri vini leggeri, razzanti, erano una deliziosa pìpita (bibita). Sospirava Napoli dove era stata parecchio tempo. A Naple semper trovate tante buone gente. Ma le pizze di Napoli la turbavano, al ricordo.

Ella mi affidava il suo portmonè (portamonete), e andavamo coi bimbi a far la spesa. Si comperava la pulpa di manzo per fare il buglione (brodo); e trasaliva di gioia con tutta la chioma flava, come una fanciullina, quando vedeva nei panieri: Keste pikkel cose fini fini (queste piccole cose fine fine), le ziligi (ciliege).

—Dio, come era volgare!

—Tutto è relativo; e poi a quel tempo non era di moda l'estetica. Vi ho detto che era placida, ma aveva anche lei i suoi momenti di lagrime e di commozione: per esempio quando il marito la avvertiva che lui non poteva tornare, perchè era chiamato per affari a Parigi. Lambiva con le belle mani i suoi piccini: « Povres enfants! Kante (quando) un ome (uomo) promette, deve mantenire » (mantenere). E diceva ciò assai gravemente.

Aveva molti scatti di sdegno contro la fanticella très-laide, e peggio: chè, spesso di giorno, spesso anche di notte, era trovata assente, sotto il pretesto delle danze campestri al lume della luna. Le diceva sempre: Vergognati gli occhi fuori della testa! Doveva essere una espressione polacca.

Per conforto io dovevo cantare.

—Voi cantavate?

—Certo, come italiano io avevo il dovere di sapere cantare e cantare canzoni napoletane.—Canta, bell'italiano!—diceva.

—Anche «bello» vi diceva?

Era nient'altro che un epiteto ornativo: tutto ciò che era in Italia godeva di questo aggettivo, eccezione fatta dei bottegai. Povera e buona signora! Del resto io ero assai bello, nè mi vergogno, oggi, di dirlo: bello di quella bellezza maschile, forte, che io non so se l'esotismo della moda, oppure il positivismo hanno fatto perdere a voialtri, giovani moderni. Concedetemi la divagazione: voi moderni siete brutti: la virtù fisica maschile è appena sostenuta oggi dagli ufficiali; e quelle signore che oggi sono così fiere propagandiste dell'antimilitarismo, dovranno creare, forse, un militarismo pacifico ed artificiale in omaggio alla bellezza virile. Ma sapete che siete ben goffi, ben menci coi vostri abiti razionali? Noi, romantici, eravamo belli. Alto io ero, nerboruto, con due calzoni assaettati, stretti sì che i muscoli delle cosce guizzavano: voi oggi portate le gonnelle, non i calzoni, e qual meraviglia se le donne vogliono adottare i calzoni? Portavo io, allora, coturni da cacciatore, feltro grigio, giacca stretta al busto e così cantavo, come potevo, ed ella diceva: Canta, canta, mio core mi fa male! tanto dispecere col core malato!

Ma il cuore, malato veramente, era il mio.

* * *

Avevo cantato tutta quella mattina stringendo appena la sua pallida mano, odorante di giunchiglia, fresca della sua primavera. Avevo mangiato un boccone all'osteria; mi ero chiuso nella mia stanza. Era un giorno ardente, e il sudore, con la passione, grondava dalla mia fronte. Come concludere quell'amore? Rapirla, e poi? E dove andare? Come vivere? E quei figli? Sappiate che io ero povero, allora. Volli almeno, qualunque fosse stato il nostro destino, che ella sapesse almeno tutto il mio amore. Non ci saremmo, forse, mai più riveduti, ma del mio amore ella doveva avere notizia certa e memoria perpetua.

Per tutto questo, benchè mi paresse cosa disonesta ed audace rivolgere dirette e vere parole d'amore a donna che apparteneva ad altro uomo, pure la passione vinse e scrissi. Timidezze dei venti anni!

Suo marito, forse—io pensavo—mi avrebbe ucciso. Ebbene? Non ero già io disposto a dar la vita per la Polonia? Guardai per la misera stanza d'albergo: non c'era calamaio nè penna, istrumenti poco usati nelle locande campestri, anche oggi che siamo così evoluti. E poi, che calamaio, che penna! Trassi il coltello, mi denudai il brac cio, vi immersi la punta della lama. Più profondamente premetti che non fosse necessario; ed un forte rivoletto di sangue, del mio sangue, rutilò. Lo contemplai con occhi sbarrati: scendeva giù per l'avambraccio, scuro, e si veniva grumando nella mano. Poi che l'ebbi deterso alquanto, scrissi col mio sangue. Che cosa scrissi? Non ve lo saprei ripetere. Poche parole, ma parole di sangue; ma degne di essere scritte col sangue. Poi mi si appannò la vista; mi parve che un'aria, quasi gelida, asciugasse il sudore della fronte. Un gran languore mi colse. Caddi riverso sul letto, e mi addormentai profondamente.

* * *

Cadeva il vespero quando i miei occhi si riapersero. I bagliori sanguigni del tramonto sereno entravano nella stanzetta muta. Mi ricordai. Balzai per prendere il foglio dove avevo consegnato al mio sangue la confessione del mio amore.

Il foglio era scomparso!

V'erano bensì sul pavimento due o tre fogli del mio taccuino, ma quello con la lettera era scomparso.

Qualcosa di terribile balenò allora nel mio cervello. Io non vi ho detto di alcune gelosie che nutrivo in segreto per la bellissima donna. Ella ne era del tutto innocente: ma un barbuto signore del luogo, assai prepotente e ricco, e di sospetti costumi, troppo spesso e troppo da vi cino, e con aria troppo beffarda soleva passare presso di noi, lungo la spiaggia del mare. Io vi assicuro che più volte ero stato preso da un impeto folle di affrontarlo, e soltanto per riguardo alla dama me ne era trattenuto, per timore che egli beffardamente mi dicesse: «E lei chi è? che c'entra?» Ora il sospetto che colui, o altri per lui, avesse, durante il mio sonno, fatto rapire il foglio, mi si presentò come cosa certa, per effetto dell'immaginare mio fallace; tanto più che l'uscio della stanza era rimasto aperto. Misi in tasca il coltello, stavo per lanciarmi fuori, quando rassettando rapidamente le cose mie e raccogliendo quei fogli sparsi, m'avvidi con stupore profondo di una cosa non sospettata.

Ecco: durante il mio sonno, le mosche avevano fatto colazione con la mia lettera. Avevano mangiato col sangue le mie parole d'amore.

Il foglio non era stato rapito; era stato succhiato dalle mosche. Ecco perchè esso era tornato bianco come prima. Quali pensieri mi germogliarono in mente, non vi saprei dire: ma ricordo che guardai le molte mosche appollaiate sui vetri: esse parevano godere di una eccellente digestione. La mia idealità era stata divorata dalle mosche!

Allora avvenne quel disorientamento nel mio spirito di cui vi parlavo in principio; o se vi pare, un nuovo orientamento.

—Avete rifatta la lettera con l'inchiostro?

—Nè con l'inchiostro, nè col sangue: avevo trovato la soluzione semplice, naturale del problema che mi tormentava. Il violino dell'oste faceva già zin-zin e un contrabbasso faceva zun-zun: le danze sotto l'imminente luna erano cominciate.

Attesi: Quando fu notte alta, vidi fra le ballerine apparire la servetta della mia signora polacca a cui la frase, vergognati con gli occhi fuori della testa, non produceva alcun effetto morale.

La Polonia, dunque, era sola in casa.

Allora mi avviai, ed ero ben risoluto: il cancelletto era aperto e la sabbia del viale non produceva alcun rumore.

Povera e buona signora! Me ne rimorde un po' ancora il cuore: ella aveva messo a letto i suoi piccini e si preparava in abito molto notturno a seguirli, dolce, placida, indifesa e per nulla presaga dell'avvenire di quella strana notte. Quando mi vide scavalcare la finestra a piano terreno mandò un grido...

—Di paura o di piacere?

—Chi se ne ricorda più? Ricordo che rimase immobile, paralizzata. Io ero ben gagliardo allora, e le mie braccia e tutto il mio essere si affondò in quella profumata tenerezza bianca della Polonia.

La sentii più tardi mezza dormiente sussurrare alle mie orecchie:—Da quanto tempo ti aspettavo bell'italiano!—E la mattina mi diceva quasi piangendo: Mon Dieu, come mi potevo difendere? Voi siete entrato come un véritabile brigante et une femme quand est en toilette de nuit ne peut absolumment se défendre.

Non mi rimase che l'ufficio di confortare la sua coscienza, assicurandola che la colpa non era sua, ma della toilette che vestiva in quell'ora.

* * *

Il dì seguente io mi ricordo che ebbi una discussione con l'oste e con alcuni avventori di campagna. Le mosche erano a nembi per la cucina in quella mattina d'estate; e quella gente ragionava, per effetto di quella disposizione filosofica che è connaturata nell'uomo, sui misteri della Creazione.

Essi sostenevano, ad esempio, la inutilità assoluta delle mosche nella economia della vita.

Io ero di opinione contraria.

Sventuratamente non potevo spiegarmi, se non col dire che anch'esse erano creature di Dio. Certo io ero guarito dell'orgasmo della mia passione. Avevo trovato quella base morale che Archimede, come sapete, propone come giusto fulcro delle operazioni umane, nessuna esclusa. Sono diventato positivista; ho abbandonato la Polonia al suo destino storico; mi sono dato anch'io al Proletariato, del quale, come esempio vi dimostra, si vive, ma non si muore.

LA BUSECCA.

Vedi questa mia barba selvatica? Vedi queste mie scarpe e questi calzoni inconciliabili nemici di ogni elementare eleganza?

E d'altra parte vedi quella automobile laccata di verde con quella bella signora? con quei due bambini, compresi già della loro posizione privilegiata? Vedi quella governante che conserva tutta la dignità della razza britannica a dispetto della bianca cuffia servile? Vedi tutto questo?

—Sì, vedo, ma andiamo oltre.

Il mio amico pittore—artista molto delicato e fine, ma pur troppo, oramai fallito per la gloria—si trovava in quell'ora del pomeriggio nel suo stato abituale di saturazione lucida di assenzio.

—Niente affatto «andiamo oltre», rimaniamo qui. Contempla soprattutto quella signora. Ti pare bella, sì o no?

—Sì, bella, ma andiamo oltre.

—Niente «oltre», perchè tu devi sapere che io, se non fossi nato imbecille, potrei essere seduto su quella limousine: quei figliuoli, cioè no quei figliuoli, insomma alcuni figliuoli li avrei potuti fare io, cioè lei; lei ed io in marital nodo congiunti. Tu ne dubiti? tu credi ad una mia allucinazione verde? Guarda! Sono stato avvistato. La signora ha dato ordine al meccanico di allontanarsi.

La signora, infatti, volgendosi a caso verso di noi, ci aveva scorti: aveva fatto un impercettibile segno di spiacevole sorpresa e poco dopo la automobile si allontanava per il viale del Parco.

L'amico pittore continuò:

—Ci credi ora? Vuoi sapere la storia? Vuoi venire a casa mia a vedere i documenti? no? Bene, paga un assenzio e ti racconto la storia inverosimile. Essa è fatta di niente.

È il dramma psicologico di un cretino: e il cretino, lo intuisci subito, sono io. Credi tu che uno, perchè è artista, non possa essere profondamente cretino? Credi tu che uno, perchè è pittore e sente il colore, non possa essere un cieco della vita reale?

Io sono un cieco della vita. Ascolta.

Dieci anni addietro questa barba orribile non era nata: fra le mie scarpe ed i miei calzoni esisteva un'intesa di eleganza e la mia cravatta svolazzante era come una bandiera di giovinezza. Ero astemio. I miei capelli fiorivano sul mio capo dolcemente al tepore della mia anima sciocca, ma sensitiva. Io giungevo per la prima volta a Milano così sicuro di essere accolto nel Grande Hôtel della gloria, come il mio primo quadro era stato accolto all'Esposizione di Brera: le poche centinaia di lire che avevo in tasca, mi parevano un capitale a fondo illimitato, come si legge nelle Società di banca, «capitale a fondo illimitato». La prima impressione di Milano non fu piacevole. Era un mattino grigio di febbraio; e già quel verde crudo della campagna sotto il cielo basso che gemeva di pioggia, mi pareva un colore stonato, disteso da un cattivo pittore. Le case, le strade, tutto mi pareva precipitare verso una tinta unica: un grigio caffè e latte. Perchè uno è imbecille? Perchè ha i sensi che fanno vedere e sentire tutto falso.

Era il mattino. Avevo negli occhi il risveglio nel mattino della mia Venezia, in piazza San Marco. San Marco balena d'oro; è tutto animato come una trireme antica in voga piena. Poi abituato al fetore delle alghe e di altre cose stagnanti, l'assenza di quel profumo mi pareva rendere l'atmosfera priva di un elemento necessario alla respirazione. Vi sentivo invece un indistinto lezzo di coloniali, droghe, zafferano; come un odore dell'anima mercantile della città. Il dialetto, questo terribile dialetto lombardo con quelle desinenze cupe, in oeu, u, uh, uuh, mi scoteva i nervi, e mi pareva che tutti si fossero divertiti a rivolgermi delle parole scortesi. Oh, invece, il risveglio della mia Venezia! batter di zoccoletti, scandere di parole cadenzate, musicali, come su di un'antica spinetta. Provai un bisogno di fuggire ancora, di imbarcarmi sul primo treno in partenza. Ma poi pensai: E la conquista della gloria? e il mio quadro all'Esposizione?

Avevo una fame da poeta; e proprio in quell'ora un ristorante si apriva.

—Avete niente di pronto?

—La busecca.

—Ah sì, la busecca!

Mi stava in mente l'idea che la busecca fosse una sorta di manicaretto raro; un cibreo delicato, aristocratico, asciutto, finamente rosato, servito in un piattino, o tegamino di bel metallo.

Mi vidi portare davanti una tazza da brodo, soverchiata da un liquido giallastro purulento. Dentro vi nuotavano delle anse intestinali lardacee. Ne concepii un terrore macabro.

Guardai il cameriere: esso stava col naso in su, soddisfatto di sè, intento alla disinfezione mattutina del detto naso. Questa non è una specialità milanese, ma dei lavoratori della mensa in genere. Ma allora mi parve una specialità milanese, come la busecca. Uscii naturalmente senza toccare cibo.

* * *

Girai tutto il giorno per trovare una stanza d'affitto che non avesse l'apparenza atroce di essere io in balìa di un'affittacamere. Ebbi la fortuna di trovare una cameretta pulita, in una via relativamente silenziosa. La mia finestra dava in un cortile grigio, quadrato. Quattro pareti grige, ma pulite, si innalzavano per altri tre piani e sprofondavano per altri due. In fondo, alcune piante di bambù si allungavano nella nostalgia dell'azzurro. Io le guardai con un affetto fraterno.

* * *

Passavo lunghe ore alla finestra a dipingere, ed ero così assorto nel mio lavoro che non mi accorsi che di fronte a me, a venti metri di distanza, una figura di giovinetta passava, ripassava, era intenta a fissarmi. La guardai anch'io. Essa si era messa con la testolina appoggiata sulle palme della mano, e mi pareva che le sue labbra mormorassero: «Cattivo, non vi accorgete che da tanti giorni vi guardo?»

Certamente—pensai—è una cameriera, una sartina, una ballerina, io non so bene. Ma qualcosa di volgare deve essere per fissarmi con tanta insistenza.

Risposi tuttavia al saluto. Un giorno mi fece un cenno vivace, come a dire: «Abbiate la cortesia di aspettare».

Aspettai.

Scomparve un momento, riapparve: diede una occhiata rapida per osservare se dalle altre finestre poteva essere scorta, se vi era qualcuno; poi rapida, risoluta, graziosissima, sollevò un foglio grande come quelli da disegno. Se lo collocò davanti alla faccia.

C'era disegnato in nero un gran V geometrico.

Subito il V è buttato via; ed è sollevato un altro foglio con un I della stessa proporzione.

Seguì un breve cenno molto calmo, molto grazioso con la testa, come a chiedere: «Avete capito? Quello che vi ho fatto vedere è un VI. Ora attento.»

Ed allora sfilarono fulmineamente tre lettere, sostenute da un colossale ammirativo: esse formavano la parola Amo! Vi amo!

E rimase lì imperterrita. Io rimasi lì. La rivedo ancora fare un gesto così grazioso, così disperato di impazienza! Certo deve aver detto: Dio, come l'è bell, ma come l'è stupid. El capiss no!?

Allora io, cretino, meditai come avrei dovuto fare per comunicarle la risposta, che era questa: «Io sono straordinariamente stupìto».

Mi posai la mano sulla fronte, e la allontanai con un gesto melodrammatico. «Ah! Ah, io sono straordinariamente stupìto».

Lei, la cara fanciulla, interpretò quel gesto come un'espressione romantica, come avessi detto: «Il vostro amore mi dà alla testa, e mi toglie la facoltà, per ora, di rispondervi.»

Parve soddisfatta; prese dalle sue labbra un bacio e me lo consegnò deliziosamente.

Scomparve.

* * *

Noi abbiamo tenuto corrispondenza epistolare per quasi un mese. Le sue lettere erano scritte tutte con alti caratteri in punta; esatte, regolari, e contenevano un loro profumino delicato, e la loro immancabile enorme viola fresca del pensiero, fermata con uno spillo e un nastrino all'angolo superiore sinistro. La sua ortografia era precisa, la sua prosa non priva di fioriture letterarie, nate non da lei, ma appiccicatele dalla maestra di letteratura. Le espressioni sue, sue di lei, invece balzavano fuori da quelle convenzionali, misurate, calme, positive, concludenti: tutto il contrario di quello che si poteva supporre dopo quell'assalto di torpedine: Vi amo!

La prima lettera fu naturalmente la sua, ed il ragionamento, così della prima come delle seguenti, seguiva questa linea di logica: «Voi—parliamoci chiaro—non mi amate se non forse un pochino per vanità. Io vi amo invece davvero, e ve l'ho dichiarato. Per quante prove io vi portassi che sono una signorina per bene, voi non ci credereste: non negate. È una disgrazia; ma mi crederete in seguito. Siete disposto a sposarmi? I miei genitori sono molto severi, ma mi vogliono anche molto bene. Io ho ventidue anni, ma non intendo di fare niente senza l'approvazione dei miei genitori. Potete dare, come non dubito dal caro volto che avete e che amo tanto, buone re ferenze di voi? Se sì, ditelo presto e l'affare è fatto».

Era stata allieva di qualche scuola di ragioneria, la signorina, per trattare l'amore così alla spiccia?

La signorina era carina: e ti confesso che se l'avessi veduta su di un balcone di marmo a Venezia, intenta a interpretare l'azzurro interminabile della laguna, io mi sarei chiamato felice di una così rara ventura. Invece io la vidi un giorno, quasi da vicino, in un grande negozio: slanciata, bella, elegante in un grembiuletto di seta, tutto quello che vuoi; ma ritta accanto ad un libro mastro. Era il negozio paterno. Esso era immenso, pieno di commessi, e ne esalava quell'odore di droghe, caucciù, medicinali che mi pareva l'odore di Milano. Il sorriso, che lei mi lanciò dietro il libro mastro, si impregnò di drogheria, di ragioneria. Ma che importa la ricchezza! Che importa la miseria!—dissi fra me—Non è la Miseria la divina introduttrice nel vestibolo della Gloria? Almeno così avevo imparato nei romanzi e anche nei libri di scuola.

Allora avrei dovuto lasciarla: una bella lettera d'addio, e tutto finito. Ma io, uomo inconcludente, oltrechè cretino, non sapevo decidermi. Non per amore, sai, ma così, per quella impotenza morale, che ho alfine riconosciuta come mia proprietà inalienabile: e un po' per egoismo, perchè mi confortava il sapere che, nella città tu multuosa e grande, esisteva un piccolo cuore che palpitava per me; fosse pure un cuore di ragioniera.

Un giorno mi scrisse e diceva così: «Sentite, per lettera vedo che non c'intendiamo. Proviamo ad intenderci a voce: mi vedrete così anche da vicino. Alle ore sette trovatevi nella chiesa di via X***. Entrate in chiesa: a quell'ora la chiesa è deserta; potremo parlare.»

* * *

Un piccolo raggio di sole si riverberava sulle alte cime delle piante allora rifiorenti nei giardini pubblici per cui lei doveva passare per recarsi in quella chiesa. La vidi arrivare in fatti. Era in compagnia di una sua governante o domestica che fosse. Vestita di scuro con una veletta scura sul volto: dietro turgeva la massa bionda dei capelli. Mi vide. La sua testolina si inchinò insensibilmente, ed un piccolo cenno della mano mi fece capire: «Seguitemi a distanza». Le sue scarpette facevano scricchiolare i sassolini dei viali, deserti a quell'ora.

Allora vidi bene i suoi piedi. Io, l'essere più sprovvisto di fondamento, avevo delle idee estetiche assolute, sui piedi delle donne. Io pensavo ai piedi di lei e ad un'altra cosa che mi si era fissa in mente.

«Piedi troppo lunghi—sospirai—: irremissi bilmente piedi troppo lunghi. È orribile: queste donne lombarde hanno tutte i piedi lunghi.»

Ella scomparve dietro la portiera della chiesa.

Io entrai.

La chiesa era deserta, infatti. Lei mi affrontò. Due bianche belle mani sollevarono la veletta.

—Voi non mi avete veduta mai da vicino—disse.—Voi siete artista e questo pensiero mi turba un po'. Sono quello che sono, così: guardatemi. Vi piaccio?

Dio, che caro volto, che tremore nelle pupille, che candore nei denti! Ma io pensavo a quei piedi, e poi aveva quell'altra idea fissa in testa. Vedi, quando io ricordo tutte queste cose, io corro alla buvette a bere assenzio e domando:

«Un assenzio per questo cretino.»

—E la voce?—io domandai.

—Ma deliziosa, amico mio: tutto delizioso.

—E cosa ti disse?

—Cosa vuoi che possa ricordarmi io che vivevo dentro un'idea fissa? Mi fece, ecco, capire che bisognava che mi decidessi: o prendere o lasciare. Quella insistenza mi turbava. Io mi ricordo che sentivo il suo piccolo tacco battere impazientemente come tu faresti se fossi un maestro di musica e udissi delle stonature.

—Ma di positivo che cosa hai detto tu?

—Di positivo? ho domandato: Signorina, lei mangia la busecca?

Mi guardò trasognata.

Io ripetei imperterrito la domanda.

—Ma certamente—rispose.—Il sabato è d'uso, in casa, fare la busecca: a papà piace tanto. Perchè?

Vedi, amico, allora l'idea di sposare una donna che mangiava la busecca, mi incuteva un senso di orrore!

* * *

Poi non ricordo più nulla.

La rividi attraversare ancora i giardini. Aveva la testa abbassata, come se una ferita la avesse offesa nel petto.

Le sue finestre non si aprirono più.

La grande Arte non mi aprì nemmeno l'anticamera del suo palazzo; e l'Arte del tanto per cento mi scacciò a calci nel sedere.

Ma nelle trattorie di infimo ordine sono felice oggi quando mi annunciano che c'è una busecca con cui riscaldarmi e sfamarmi con poco prezzo. Allora penso: Cretino, che ti era capitata una donna col cervello sano e forte, col cervello di ragioniera, che avrebbe pensato anche per te... E tu...! Via, via, amico, pagami l'assenzio.

AHI, QUEL POVERO COLONNELLO!

Polifemo—come sanno quasi tutti—era un mostro della specie oggi scomparsa dei Ciclopi, cioè che avevano un solo grand'occhio tondo in mezzo la fronte.

Questo Polifemo era innamorato di Galatea, la quale era una bella ninfa del mare, bella e bianca come il latte. Aveva un solo occhio, Polifemo, ma le lagrime che pioveva per la passione di Galatea non erano per ciò meno abbondanti, e i sospiri che mandava su la zampogna silvestre facevano tremare le foreste dell'Etna.

Ma Galatea veniva su dal mare e gli faceva, maramao! e poi con le compagne vezzosamente rideva del rozzo amatore, e tratta dai delfini, gli facea davanti scorribande pel glauco mare.

Queste cose, assai vecchie, sono consegnate nei libri degli antichi poeti.

Ma i poeti hanno trascurato di dirci che guai per Galatea se fosse giunta a tiro di mano di Polifemo!

Per troppa furia d'amore se la sarebbe messa in bocca come un fondant e se la sarebbe ingoiata, per goderne tutto il sapore.

* * *

Ebbene, qualche cosa di simile accadde tra il signor conte Guido Ubaldo e la signora Fanny, o donna Fanny, come ella amava chiamarsi; perchè ella era una dama molto aristocratica. «A Roma—e sospirava—andavo ai balli di Corte!»

Ci fu un giorno che il signor conte si trovò al contatto della mano della signora Fanny, e dopo la mano venne il braccio e dopo il braccio venne il resto, finchè... «Finchè il signor conte ingoiò così come stava la signora Fanny...?» Per l'appunto: finchè la sposò, così come stava.

* * *

Ma non bisogna dimenticare che le mani della signora Fanny erano deliziose e rare; e un po' i profumi, un po' la pelle, un po' lo splendore languido delle turchesi e degli anelli, accoppiato col pallido corallo delle unghie, fatto è che quelle mani esercitavano una tale seduzione, che il signor conte fu più che scusabile se ne subì il fascino irresistibile.

Gentiluomo campagnolo, il signor conte, bruciato dal sole, riarso dalla vita faticosa dei campi e della caccia, col sangue grosso e caldo di un uomo che—quando arrivava a sedere nel tinello della sua villa—li faceva suonare sì gli ossicini dei pollastri, e un fiasco di vino della sua vigna (oh che vino!) gli andava giù come ridere; un uomo—dico—in quelle condizioni, al posar le sue grosse e arse labbra su quelle mani, aveva provato l'impressione indimenticabile di ingoiare un sorbetto di vaniglia o di ananasso.

Ora, tutto il resto della signora Fanny era—almeno per gli occhi e pei sensi del signor conte—nella relazione di quella mano: una donnina profumata, signorile, languida, che pareva avesse la virtù di attaccare alle vesti la emanazione carnale di se stessa. Ora se una mano soltanto dava questa sensazione di piacere, che cosa avrebbe dato l'intera signora Fanny?

Il signor conte si ammalò di questa malattia di assaporare la signora Fanny per intero, e l'infezione giunse a tal punto che fu necessario l'intervento del matrimonio.

Ma ci furono dei guai seri e delle difficoltà da superare.

Il signor conte, ohimè! rasentava il peso di un quintale: ora appariva da molti segni poco probabile che la signora Fanny volesse accettare il matrimonio con un uomo di quelle proporzioni. Inoltre il signor conte portava le camicie di flanella coi colletti rovesciati: aveva l'antiestetica abitudine di legare le mutande su le calze, per modo che bene spesso si scorgevano giù pendere i legacci: ignorava—almeno a giudicar dall'e sterno—l'uso degli stiracalzoni; e non soltanto fumava degli orribili mezzi toscani, ma, quel che è peggio, giungeva al punto di tagliuzzare con un coltello da tasca un mezzo toscano, ne imbottiva la pipa e fumava come un plebeo.

Aveva altre abitudini rozze e contadinesche, che non concordavano niente con la sua nobiltà. Per esempio, fra le otto e le nove del mattino, dopo tre o quattro ore di caccia o di sorveglianza ai lavori agricoli, era per lui un gran piacere far colazione, all'ombra se era estate, al sole se era inverno, nelle più umili osteriuzze di campagna in cui s'imbatteva, e mangiava quello che c'era, come un muratore: quattro soldi di tonno cosparso di pepe e un mazzo di cipolline fresche, e, se v'erano operai, manovali, carrettieri, villani, parlava con loro da pari a pari, tranne che a lui aggiungevano un signor conte, ma un signor conte così alla buona e consuetudinario che passava inavvertito. E d'altronde se quel tonno con la cipolla piaceva tanto a lui come a quegli altri, che bisogno c'era di far tante distinzioni anche nel resto?

Nella casa del signor conte non esisteva una table à the, anzi credo che quanto al tè preferisse una buona tazza di camomilla; e infine attorno alla sua mensa non girava nessun muto e impassibile cameriere, ma la stessa cuciniera si staccava dai fornelli per mettere in tavola, così com'era, con il grembiule. Ed essendo oramai solo e senza nessuno, arrivava d'estate al punto da mangiare anche in maniche di camicia.

Però di tutte queste ultime cose la signora Fanny non aveva che un lontano sospetto, come ignorava la predilezione di lui per la minestra di fagiuoli col lardo; o di ceci, con i quadrettoni di cruschello ben grossi, che si sentono sotto i denti.

La signora Fanny era in quell'estate ospite in villa di una cospicua famiglia, la quale era in buoni rapporti di vicinato e confinante per proprietà coi beni del signor conte; e per tal modo si erano conosciuti.

La signora Fanny aveva appena da un anno smesso l'abito di lutto per il suo primo marito: anzi si può quasi assicurare che era stato lui, il signor conte, a farla sorridere la prima volta dopo quella gran disgrazia; lui, con quel suo fare bonario, semplice, con quel suo largo riso sano e felice, con quei suoi occhi celesti, senza ombre e senza malizie.

—Pare un grosso bambino, ed ha la barba che qua e là è grigia—aveva detto agli ospiti la signora Fanny.

—Un uomo felice—avevano detto gli ospiti.

* * *

La signora Fanny non aveva appetito, perchè aveva troppo sofferto per la morte del suo povero colonnello, chè tale era il grado del defunto consorte. Ma ci pensò lui, il conte, a stuzzicarglielo l'appetito, chè da un laghetto sull'Alpe lontana faceva venir giù certe trotelle, certi panierini di fragole selvatiche, certi formaggi che fanno i pastori, certi funghi...! Tutta roba che si trova sul remoto Appennino, e non è facile conoscere la via, i mezzi, il tempo per acquistarla. Ma il signor conte, gran cacciatore, conosceva la montagna a palmo a palmo, e sapeva in quale gorgo di fiume matura la trota, in quale selva cresce il lampone e la fragola.

E che dire della caccia? O, quanti pennuti, già felici fra i ginepri e le forre montane, quante gallinelle, quante starne, quante quaglie furono dal micidiale piombo del conte sottratti alla libertà ed alla vita e presentati come omaggio alla inappetenza della signora Fanny!

Fu così che la signora Fanny cominciò ad acquistare l'appetito; ma il signor conte cominciò a perderlo.

Un giorno gli caddero molte lagrime sopra due quaglie, le cui compagne erano state consegnate alla cuoca della signora Fanny, e allora pensò:

—Ma perchè piango io, sciocco che sono mai? Se quel povero colonnello fosse in vita, allora sì avrei da disperarmi; ma poichè il colonnello è morto..., io ben la posso sposare.

Pensar questo fu cosa facile.

Ma se il conte ci riusciva ad offrire le quaglie e le starne, ad offrir se stesso non ci riusciva: trattare con donna Fanny era per lui un'impresa seria: si imagini come offrire la scomposizione e ricomposizione di un orologio alle dita di un carrettiere. Ne parlò ai comuni amici, i quali ne parlarono alla signora Fanny.

—Rimaritarmi, io?

La signora Fanny non faceva questione del conte o di altri: faceva questione semplicemente del verbo rimaritarsi. Come è naturale, donna Fanny faceva presente l'ombra di Sicheo, voglio dire del defunto colonnello, il quale era inutile che fosse stato così buono, così cavaliere, così compiacente di morire, se la vedova si doveva legare con altri. Il vero è che lei non vedeva nessuna necessità di queste seconde nozze. Sarebbe come offrire una seconda licenza ad uno scolaro: ma è la prima quella che è necessaria, il porro unum della carriera.

Così per le donne: è il primo marito che è necessario.

E poi quel dover rinunciare alla pensione che quel povero colonnello le aveva lasciata, a lei pareva quasi un delitto di ingratitudine.

E infine, perchè non dirlo? Il suo primo marito era stato troppo buono, troppo cavaliere, troppo delicato in tutto, così che lei si sentiva come un pochino viziata.

—No, amico, credetelo, vi farei infelice—diceva al conte.

Ma se tutti gli impedimenti erano questi, egli, il conte, poteva garantire che sarebbe stato tanto buono, tanto docile, tanto delicato anche lui.

—Sì, ma poi voi siete troppo colossale, mio Dio! Vi pare che staremmo bene vicini l'una all'altro?

A questa terribile domanda, il povero conte non sapeva che rispondere; ed era tanta la desolazione che si dipingeva sul suo viso, che donna Fanny ridea di gusto, e da allora cominciò a pensarci su. Le donne—come è ben noto—hanno l'istinto della redenzione, e fu appunto per questo che nel cervello della signora Fanny entrò, non l'amore propriamente, ma l'idea di redimere quel povero conte: compiere come una missione di bene.

Senza cominciare da Beatrice Portinari, che gettò nella mente del suo pallido amico l'idea della Divina Commedia, quante donne potrebbe registrare la storia che furono cagione dell'opera egregia di tanti uomini illustri!

Ora la signora Fanny non si proponeva certo di far comporre al conte una Divina Commedia, e nemmeno di iniziarlo alla vita politica. Ma le pareva opera degna della sua muliebre intellettualità e di quell'istinto materno che fu depositato dalla natura nel segreto di ciascuna discendente di Eva, richiamare alla vita quel disgraziato conte.

Perchè io non ho detto tutto: ma il vero è che il conte Guido Ubaldo portava un bel nome sto rico, che il suo patrimonio era cospicuo, e il castello che abitava era stato testimone di antiche storie. Con questi requisiti, un uomo si doveva seppellire in campagna? vestire a quel modo? condurre l'esistenza di un fattore?

«Ma salva e redimi quell'infelice nostro discendente», pareva dicessero alcuni ritratti antichi a donna Fanny, il giorno che il conte la condusse a visitare il castello.

Fu così che donna Fanny si decise, perchè oltre a richiamare il conte Guido Ubaldo a vita conforme al proprio grado, c'era tutto il castello e le sue adiacenze da riformare.

Riformare la mobilia, se non in tutto almeno in parte: tutte quelle sale tetre con quei mobili neri, roba d'altri secoli, consunti dai tarli, roba da antiquari, sostituirli con aerei, azzurri, rosei mobili di stile floreale; e bianco e oro alle pareti; e su la spianata invece di quei funebri cipressi, spianarvi un lawn-tennis, e perchè no? sostituire il vecchio e geometrico giardino all'italiana con tutti quei vasi di limoni, con tutti quei corridoi di verdura, con un vago e vario giardino all'inglese.

C'era insomma da consumare l'attività di una donna anche meno intraprendente della signora Fanny. Ma più che il castello, stava a cuore a donna Fanny di riaprire e rimodernare il palazzo comitale di città; e più che il castello e più che il palazzo, le stava a cuore di rimodernare e aprire alla vita il suo volonteroso secondo consorte.

* * *

Così adunque vennero celebrate le nozze.

Gli sposi partirono, e si racconta che, nei primi tempi, molto viaggiassero, e in grandi città facessero loro dimora.

Se non che, dopo qualche anno, ritornarono al castello perchè il povero conte non istava proprio bene. Infatti non si riconosceva più.

Lasciamo stare l'abitudine delle minestre col cece e delle colazioni da cacciatore con il tonno, il pepe e la cipolla: ma voglio dire che lui non si conosceva più. Era diventato di un colore che ricordava il grano che è cresciuto in cantina; e, mentre prima stava ritto, ora era tutto cascante, e quella sua barba veramente fiorita, in cui i fili d'argento già facevano bizzarro contrasto con il color primitivo del rame, era stata trasformata in una barbetta in punta, d'un colore tutto eguale, un colore sporco fra il cenere e il biondo.

Parlava mansuetamente e assicurava tutti che stava bene di salute; ma quel suo sorriso stirato, dava a vedere che non lo diceva con convinzione.

Anche l'aria nativa non gli giovò: e come molti avranno osservato che gli uomini prima di impazzire, prima di ammalarsi di incurabili mali, ovverosia prima di morire, mettono fuori certi loro sentimenti sigillati nel cuore da anni ed anni, così si racconta che il povero conte esclamasse una volta:

—Ah, perchè è morto quel povero colonnello!

* * *

Quando anche il conte morì, fu osservato che la sua barba era tutta bianca e così i capelli; e così si osservò che il suo volume e il suo peso non erano diminuiti.

Ahi, come si dolse donna Fanny della morte del povero conte! Dopo il colonnello ella credeva impossibile di trovare un uomo più cavaliere, più gentile. Eppure ella lo aveva trovato nella persona del conte Guido Ubaldo; ed era morto!

Tutto ella aveva fatto per lui: lo aveva abituato a portare i colletti alti; a gustare il tè, che prima non poteva soffrire, a fumare le sigarette invece dei toscani. Aveva smesso l'abuso dei farinacei, del fiasco di vino; s'era adattato benissimo ai ricevimenti del venerdì, a coricarsi dopo il teatro, a stare in letto al mattino sino alle otto per lo meno: insomma, in tutto si era incivilito, dirozzato quel povero conte; in una sola cosa non era riuscita donna Fanny: nel farlo dimagrare. Perchè quello di ridurlo magro era stato il principale pensiero di donna Fanny. Ma invano!

Cure sopra cure, aveva fatto: non vino rosso, non farinacei di cui era sì ghiotto; molto tè, molto digiuno, massaggio, cura elettrica ad alta frequenza, idroterapia, cura di Montecatini, di Carlsbad, tabloidi di tiroidina. Macchè! Diventava pallido, ma magro niente!

Così, ma molto più in lungo spiegava donna Fanny al dottore, il vecchio dottore di condotta, che la stava ad ascoltare a fronte bassa e con gli occhi chiusi dalla mano.

—Pensi—seguitava donna Fanny—che vedendo l'impossibilità di ottenere alcun dimagramento, mi sono raccomandata ad un celebre specialista omeopatico, il quale mi consigliò come infallibile una cura assai rara e costosa, fornitami—noti bene—da quella stessa casa—una delle case più accreditate—da cui io da anni faccio venire i miei articoli da toilette.

A questo punto il vecchio dottore si tolse la mano dagli occhi, e, levando il volto, affissò attentamente il volto della contessa Fanny, chè tale ora si poteva a buon diritto chiamare; e poichè qualche cosa era necessario rispondere, così il dottore disse:

—Io sono della vecchia scuola, signora contessa; ma io credo che chi è nato grasso e grosso non potrà mai diventare snello e magro. Credo piuttosto che una vita libera ed all'aperto, piena di attività, quale era quella che spontaneamente conduceva prima il defunto signor conte, avesse virtù di mantenere l'equilibrio organico meglio che le cure specifiche escogitate al proposito e a cui ella testè mi accennava. La ragione ci consiglia spesso di violentare la natura, ma una più acuta ragione ci avverte che è bene usare le maggiori cautele in quest'opera di violenza.

Così parlò il vecchio dottore.

Ma alla sera, avendo osservato il volto imbiutato e lisciato di cosmetici della signora contessa—cosa di cui forse il conte Guido Ubaldo non si era mai interamente accorto—scrisse in un suo libro di memorie mediche, accanto al nome del defunto, questa nota in latino, come soleva:

E le parole sono queste:« Ex eodem unguentario unde causas nuptiarum, idem, miser comes Guidobaldus, mortis emit causam.» (Dal medesimo venditore di cosmetici, da cui il misero conte Guidobaldo tolse la causa del matrimonio, comperò pure la causa della sua morte.)

LA BAMBOLA FATALE.

Patà! Canca Imma.

—Cosa vuol dire patà?

Patà vuol dire, in braccio. E canca vuol dire, che Irma è stanca.

La prese in braccio.

Dopo un po' egli disse:

—Ma, cara mia, capirai che valigia, pastrano, ombrello e la bambina, anche, per giunta... è impossibile.

La signora, allora, lo alleggerì della valigia, una di quelle valigette di cuoio, leggere leggere; poi gli prese anche il pastrano e l'ombrello, e non gli rimase che la mimma.

—Auf!—soffiò ancora il giovane.

—Ti pesa?

—Piuttosto: ma vedremo di rimediare. Di'? tu, oilà, vuoi andare più in alto, al terzo piano, che ti porto meglio?

Tì! —rispose la piccola mimma con quella sua languida voce di cantilena.

lo capisco: vuol dire —disse il babbo.

—Eppure pesa così poco, pesa: magari pesasse di più—disse la madre.

Il babbo sollevò la bambina sua al terzo piano: cioè a cavalluccio sopra le spalle.

* * *

Il babbo e la mamma erano assai giovani: lei una donna scialba, delicata, lunga, troppo lunga. Doveva essere stata vezzosissima pochi anni prima: ma la maternità intensa aveva fatto quasi repentinamente sfiorire la sua giovinezza; aveva deformata la sua persona. Le mani erano lunghe, trasparenti: le orecchie, il naso mostravano le cartilagini. Lui, sì, era un bruno, aitante, esuberante, forte maschio. Pareva che la sua giovinezza fosse ancora sorpresa del laccio ineffabilmente tenue e infrangibile del matrimonio, rappresentato da quella mimma esile come la mamma, da quella sposa patita. Eleganti erano l'uno e l'altra: ma di diversa eleganza: in lui era l'eleganza che cerca il piacere, in lei l'eleganza che non va oltre il decoro e la nettezza.

Dunque la sollevò, la sua mimma, sulle spalle, al terzo piano.

Pimpala, Imma! —fece la bimba spaurita.

—Cos'ha, adesso, con questo pimpala? —chiese lui alla moglie.

Pimpala —spiegò ancora la moglie con una sua voce di rassegnazione—vuol dire che l'Irma cade, che lei cade.

—Ma dio—disse lui alla bimba—dammi le manine. Con tutte le cose che hai in mano!...

Ed egli prese le cose che aveva nelle sue mani di giglio, e se le pose in tasca; poi strinse l'una e l'altra mano dell'Irma; e ci stavano per intero, la manina ed il piccolo braccio della bimba, nella sua forte mano.

Oh, lulù, lulù! —esclamò ad un tratto gioiosamente la bimba, dondolando con la voce la testa e le chiome.

Lulù, vuol dire?—chiese lui.

Lulù vuol dire il lago.

—Perchè?

—Mah! lei dice così.

Infatti, dall'alto del terzo piano anche lei, la piccola mimma, vedeva il lago.

* * *

I giovani sposi con la loro bambina scendevano verso il lago. Il paesaggio era immobile nella lucidità del mattino di giugno: il lago giaceva laggiù così in fondo che i battelli bianchi a vapore che lo attraversavano, parevano balocchi.

Al di là dei muriccioli di pietra che costeggiavano il sentieruolo, si occultavano le villette; e qua e là tutti i fiori, tanto quelli dalle aiuole ben rasate delle villette, quanto quelli dalle rocce e dai dirupi erbosi, si occhieggiavano nella rivista del sole: bocche di leone, giaggioli, rose, viole, contesse e duchesse della specie, pettinate dal giardiniere, fiori aristocratici, insomma; e poi umili fiori di campo.

—Bella mattina, eh, Irma?—domandò il babbo.

La bambina non rispose niente.

Da due mesi erano brutte mattine per lei: non si destava più ridendo e gorgheggiando, ma tediata e piangente. Perchè prima il riso ed ora il pianto, ella non sapeva. Lo sapevano i genitori ed il medico. Per ciò era stata condotta sul lago, fuori della città afosa. Era pallida pallida; era magra, non pesava più nulla. La pelle le cadeva giù per le coscie come due borse vuote: il collo era uno stelo venato d'azzurro. Piangeva spesso per niente. Ora però si veniva rimettendo in meglio, ed i suoi genitori spiavano il suo volto, il suo colore, il suo appetito, il suo umore ed altre cose, come i marinai fanno col cielo quando temono la burrasca.

* * *

—Ma ha un bel colorito stamane, vero?—chiese lui.

—Non c'è male.

—Irma, mi vuoi bene, oh Irma, dimmi, mi vuoi bene?—chiese lui.

—Sì, tanto, papà.

La voce veniva da sopra il suo capo, dal terzo piano. Ma che voce! Accorata, profonda. Pareva venisse come da un mondo crepuscolare, ove non è lago, non sono fiori, non è sole. Un mondo crepuscolare ove abitano quelli che furono, ove abiteremo noi, che siamo.

Sorrise a quel— sì tanto;—lo fece ripetere e disse:

—Ah, questo sì, Irma, è un linguaggio chiaro.

E poi, come... come non so, la tolse dal terzo piano, la accostò alle labbra, la baciò.

—To'! e tu perchè piangi?—domandò alla moglie.

—Perchè non ci vuoi bene a questa povera bimba. Ogni momento tu te ne vai via.

—Ma, amica mia, sii ragionevole; gli affari in prima linea, dopo voi altre, si intende! Sto fuori, qualche volta mi assento. Ma che vuoi? Un artista è come un uomo politico: non può allontanarsi dalla società. Son capaci di dire: «Lo scultore Taliedo com'è che non si vede? Mah! È ammalato, è neurastenico, è etico, non può più lavorare. Che peccato, un artista così bravo!» Ora io non voglio dare queste soddisfazioni ai miei amici. Per esempio, l'affare per cui vado oggi a Genova mi è venuto d' emblée, al Grand Hôtel Excelsior a Roma. Senti, è buffa: un americano è venuto in Italia per farsi fare la statua di sua moglie morta. Egli è felicissimo che sua moglie sia morta, ma vuole eternare in marmo la sua gratitudine.

Il giovane scultore Taliedo parlava così con volubilità allegra, ma la giovane donna ascoltava come fossero cose estranee e lontane: la piccina aveva reclinata la testa bionda sull'esile stelo del suo collo esangue.

* * *

Un'ora dopo il giovane scultore Taliedo correva in diretto—ben rincantucciato e accomodato—verso Genova.

La felicità della vita consiste, come tutti sanno, di diversi capitali, come la salute, i denari, il buon umore; ma consiste anche nel sapere mutare, nel cinematografo del cervello, la serie delle imagini.

Un'imagine è lugubre, per lo meno sconsolante? Sostituiamola con un film tutto da ridere.

Mentre il treno correva, lo scultore Taliedo faceva passare con vertiginosa rapidità le ultime imagini di sua moglie: «Cara, brava, buona, virtuosa, tutto quello che volete: ma è strano come con l'apparire delle virtù morali, siano scomparse le virtù corporali. Poverina, non è colpa sua, ma è troppo lunga, troppo affilata: troppe cartilagini visibili.»

Lo scultore Taliedo era pienamente giustificato davanti ai suoi occhi se lasciava il lago e correva a Genova in un treno diretto.

—Mia moglie—proseguiva dal delizioso angolo ove stava rincantucciato—andrebbe bene come modello per Maria Vergine! Ma non se ne fanno più ordinazioni di Marie Vergini in questi tempi sacrileghi; e quei positivisti di parroci le comprano già bell'e fatte, inverniciate e vestite, dalle case di commercio. Ah, poveri artisti!

Però l'idea di modellare sua moglie con Irma in braccio lo seduceva: una visione soave. Irma che ride, pargoletta, dalle braccia materne: una visione secolare: la maternità e il figlio o la figlia, cioè il germe della vita!

È il grande motivo dell'arte che fu. E Taliedo vide, nel corso dei secoli, artefici canuti e barbuti che gareggiavano nell'esprimere sulla tela o con la creta il tema meraviglioso della Donna vergine e madre; e di mano in mano che creavano, adoravano la loro creazione.

Sì, ma erano tutte cose che si potevano fare al tempo di Giotto e del Beato Angelico, perchè è un fatto che nell'evo medio a Venere erano riusciti a dare una bella batosta. Un po' con l' asperges, un po' col vade retro, Satana, l'avevano spaventata, povera Venere! Ah, l'evo medio aveva ridotto Venere in uno stato ben deplorevole. Una età senza bagni in casa, senza calze di seta, senza saponi, senza tela batista. Imaginare Beatrice con una camicia storica color Isabella; Laura con un paio di calze di bigello affezionate alle gambe per delle settimane; madonna Isotta con le unghie non spazzolate! Che orrore! La voluttà era allora condita in salsa naturale, come quella che gli offriva sua moglie.

* * *

La dama che lo attendeva a Genova pareva invece avere la specialità delle salse più rare e raffinate. Non le aveva ancora assaggiate, è vero: ma se il treno fosse arrivato a Genova, tutto, tutto dava a credere che le avrebbe assaggiate.

Era una dama americana. Gli era stata presentata ad un grande albergo in Roma. Lui le era stato di guida in qualche gita artistica ed ella si era persuasa che lui solo aveva le qualità richieste per eseguire il busto del suo defunto marito, da collocare onoratamente nel cimitero di***. A Genova, diceva lei di avere alcuni ritratti del morto: ripassando per Genova avrebbe telegrafato a Taliedo. Così avvenne: così egli era partito.

Dopo tutto Taliedo non aveva mentito a sua moglie che nel genere: un'americana, invece di un americano.

Il treno arrivò.

La dama attendeva.

Anch'ella era magra come sua moglie, ma di una magrezza diversa e provocata da ben altro genere di sofferenze.

Si parlò molto del defunto marito: un uomo pieno di capacità e di ragionevolezza, come dimostravano i suoi ritratti. Egli aveva provato tutte le gioie del matrimonio e perciò Dio lo aveva fatto morire a tempo. Non era stato un re dell'ot tone, o del ferro, o del grano; ma un onorevole vassallo al servizio di un re del petrolio: tuttavia un uomo di grande valore. Si trattava di far rilevare, nel monumento funebre, i simboli del suo commercio.

—Sempre felice con lui: mai divorziata—ella diceva.

Anche questo doveva apparire dal monumento.

—Come, voi non avete ancora legge del divorzio in Italy?—ella chiese.

Taliedo atteggiò il volto alla più infantile meraviglia: non conoscendo il matrimonio, come poteva conoscere il divorzio?

Così conversando del defunto marito, quella dama magra e ardente gli si era venuta accostando, da buona compagna, lì, sul sofà.

La sua toilette da casa era in quel caldo giorno il perfetto contrario dell'infagottamento rigoroso e sudicio in cui erano imprigionate le Laure, le Beatrici e le Isotte del tempo antico.

Ridendo gaiamente delle virtù del defunto marito, le parti molli del suo lungo corpo, parevano sussultare di gioia. I denti erano lupigni. Un braccio pallido, terminava in una deliziosa mano rapace. Taliedo se lo sentì svolgere dietro le sue spalle: apparire dall'altra parte della sua testa, dietro la spalliera del divano.

Che enorme caldo! Egli era assai pallido, come avviene nei casi di insolazione. Era il momento di reagire: egli lo intuì.

Mosse per levare il fazzoletto di tasca ad asciugarsi il sudore gelido.

—Oh, Taliedo, cosa avete lì?

—Dove lì?

—In vostra tasca.

Taliedo non ebbe il tempo di guardare che cosa avesse in tasca, che la dama con l'altra sua mano rapace gli aveva estratto, per la testolina sporgente, una piccola bambola.

Essa, la pupa, non era scostumatamente in camicia, come sogliono essere le pupe che si espongono e si fanno comperare nei negozi; ma era rigorosamente e virtuosamente vestita come le Laure, le Isotte antiche.

Aveva le calze, le scarpe, le doppie sottane con la cintura, un giubboncino: tutto in regola.

Era la pupa di Irma che Taliedo si era messa in tasca quando aveva elevata la sua mimma al terzo piano.

Si era dimenticato di renderla alla mimma: gli era rimasta in tasca.

—Oh, a little doll! —fece la dama accostandola molto da vicino ai suoi grandi occhi miopi.

—Date qui—disse Taliedo di scatto—è un piccolo regalo, un piccolo modello...

—Oh no!—disse la dama come non rispondendo a lui,—oh no!

—Molto pretty, very pretty —diceva intanto lei, gravemente.

—Già, molto pretty. Piccolo modello artistico.

—Oh, no.

—Dico di sì, modello artistico. Date qua, via.

—Niente dare qua, niente modello, niente via.

—Giuro!

Ella fece una brutta, severa smorfia a quel «giuro».

—Avete visto? Vi piace? Adesso datemi il mio piccolo modello.

—No, non dare.

—Io non capisco cosa vi troviate di straordinario...

Ella guardava ora non più la pupa, ma gli abiti, le cuciture: le faceva passare al contatto delle sue lucide unghie crudeli.

—Dove vendono in Italy le poupées così vestite?—domandò, seccamente.

—In tutti i magazzini.

—Falso!

—Giuro.

—Falso!

Taliedo comprese che il suo volto tradiva che realmente egli diceva il falso: infatti la vestizione della pupa era stata opera paziente di sua moglie, sotto le più precise ed esigenti indicazioni di Irma.

—A me non piacere uomini maritati: uomini senza dedizione assoluta—disse ella infine come ritraendosi, come rimettendosi nella credenza tutte le salse che aveva preparato, compresa la deliziosa mano rapace.

—Ma io non capisco, scusate.

—Voi capite benissimo.

—No!

—Voi avere moglie e little baby.

—Giuro di no!

—Allora lasciate fare così!

Prese la pupa e fece atto di collocarla sotto il nero, americano tallone della perfetta sua scarpa.

—Ah, no!—fece Taliedo balzando.

—Non bambola italiana io: donna americana—disse la dama levandosi in piedi e restituendo la pupa con disprezzo.

* * *

E fu così che, per colpa di quella malaugurata pupa, dimenticata lì in tasca, Taliedo perdette l'occasione di guadagnare una bella somma facendo il monumento a Mister George Paddy, mercante defunto di petrolio, e anche—ciò che gli lasciò una grande amarezza, un vuoto strano—l'occasione di gustare quella salsa esotica di cui aveva gran desiderio.

VUOI SAPERE COME HO FATTO IL MILIONE?

Eravamo nel palco: io, Ballesio, l'universale Ballesio, il famoso Ballesio il cui nome è da per tutto, il cui ritratto onora persino le scatole dei cerini, la cui réclame splende, scintilla dalle quarte pagine dei giornali alle proiezioni luminose sui tetti; e con noi c'era il colonnello, personaggio assai decorativo, e infine la signora dell'immortale Ballesio.

La signora dell'immortale Ballesio sedeva al parapetto con la guardia d'onore del colonnello.

Io non conosco di preciso l'età della signora Ballesio, ma certamente fra i quaranta ed i cinquanta: però si può dire di lei «è ancora una bella donna». Ma il cav. Ballesio afferma invece che la sua signora è, tuttora, la più bella donna della città. Esagerazioni! Certo è che a teatro tutti gli occhi girano, e poi si fermano su di lei. Perchè? Perchè è la moglie dell'immortale Ballesio? Perchè osa esporre, contro la maldicenza, uno scollato autentico ed inaudito in un teatro di provincia? Perchè i due solitari che le adornano gli orecchi sono calcolati a lire diecimila l'uno?

Il cav. Ballesio mi disse piano:

—Senti: ho sonno, e poi mi annoio. Sono stanco di Vedova allegra. Vieni con me a prendere un altro caffè? Permetti, cara?—chiese alla signora.

—Sì, caro.

E ci allontanammo.

—Questa sera tua moglie è, come dire?, superlativa,—dissi versando il caffè all'amico.

—Questa sera? Puoi dire «sempre», mia moglie, la Trebbiatrice.

—Perchè la chiami così?

—È un vezzeggiativo. Non hai mai visto le trebbiatrici? Ingoiano tutto. Così mia moglie, in fine d'anno, ha il coraggio di trebbiare dalle venti alle trentamila lire per le sue spese personali. A Parigi, a New York sarebbe un'inezia; ma qui in provincia, bada che ci vuol del genio per trebbiare trentamila lire l'anno! Mia moglie è straordinaria! Ma come fai ad ingoiare tanti biglietti da mille? le domando. È un suo segreto! Capisci tu? Ma sta sicuro che li ingoia.

L'immortale Ballesio, quando ha mangiato e bevuto bene—quella sera egli aveva onorato il colonnello con un magnifico desinare—non si riconosce più: non è più la solita mutria: parla, ha dello spirito. Capace poi, domani, di negare villanamente tutto quello che si è lasciato sfuggire: ma per quella volta, parla.

—Così che, così che—chiesi io—la tua casa privata ti porta ad una spesa equivalente ad un milione circa di capitale. Non è così?

—Un piccolo milionario—rispose Ballesio—un modesto milionario... Il milione, vedi, sarà in avvenire come quel tale pollastro che quel Re di Francia voleva nella pentola dei più poveri fra i suoi sudditi. L'avvenire della società è sbalorditivo...

—E tu intanto principi...

—Bisogna ben dare l'esempio...

—A parte gli scherzi—dissi,—ma spiegami come va questa faccenda; come va che tu che sei un modello di esosità, spendi, senza protestare, ventimila lire e più per la tua signora...

—Mettiamo le cose a posto: prima di tutto, modello sì, ma non di esosità. Quanto alla mia signora, è evidente; io devo tutta a lei la mia fortuna. Lei non lo sa, ma è così!

—Ma se non ti ha portato un centesimo di dote!...

—Ti sbagli: mi portò il padre, la madre e quattro fratelli da mantenere, che oggi sono tutti impiegati nell'azienda.

—E allora?

—È un problema psicologico. Tutti i problemi umani hanno un fondamento psicologico occulto. Senti il mio: ma prima di tutto guardami bene in faccia: non quale mi vedi nelle fotografie, nei quadri, nei tablò; ma quale sono realmente: sono bello o brutto?

Esitai.

—Di' pure brutto, piccolo, rincagnato, pelato fino dalle origini, e senza l'onor del mento. Ma devi aggiungere che a ventidue anni, quando la sposai, ero anche più brutto: lo dico io, e mi puoi credere. Mi sono fatto un po' bello in seguito. Immagina invece che cosa doveva essere mia moglie allora! Tu dirai: Una dea! Io aggiungo: Una carica di cavalleria! Dopo la quale tu non sapevi più in che mondo eri. Sono cose che a dirle non ci si crede. Bisogna provarle.

—Provare per credere—dissi io—come per le tue pillole.

—Precisamente—disse con gravità Ballesio.—Senonchè Mariuccia allora non era Giunone; era Ebe; Giunone, quale tu la ammiri adesso, diventò un poco per volta. Ebbene io, a differenza di molti uomini, inconsapevoli della verità, intuii subito che avrei fatta una deplorevole fine nella mia qualità di marito. Bada bene però, e vedi di non confondere: mia moglie era, come è adesso, l'esemplare delle mogli; ma tu devi sapere che le facoltà ragionative della donna non hanno sempre la stessa sede di quelle dell'uomo. Supponi, per modo di dire, che in mia moglie le facoltà ragionative risiedano nell'epidermide, e che la sua epidermide dicesse allora: «io ho bisogno di vestirmi—quando mi vesto—di seta e di pietre preziose», e poi di' quale doveva essere la mia sorte che non potevo comperarle che un abito di cotonina! Io sentivo la necessità di diventare ricco appunto per non diventare un marito, come dire? infelice. Ma come si faceva a diventare ricco? Lo sai tu?

Io sospirai.

L'immortale Ballesio mi spiegò e disse:

—La donna è la glandola della ricchezza. Pare un assurdo, ma è così. La donna è come la pituitaria, la tiroide, la surrenale, glandole superflue in apparenza. Ma tu portale via, e l'uomo diventa l'ombra di un uomo. Sopprimi la donna, e tu hai l'uomo che ritorna allo stato selvaggio e cretino.

Dopo ciò Ballesio bevve un cognac, e seguitò:

—A quei tempi io reggevo una farmacia a Montefalco. Guarda che per andare giovane di farmacia in quel paese bisogna essere morti di fame. In una settimana tu non fai cinque lire di banco. Il mio predecessore era scappato via per disperazione, portando con sè quel po' di chinino che c'era e una mezza dozzina di barattoli antichi.

Io, appena arrivato lassù, avevo messo fuori un gran cartello: Farmacia uso Roma. Sai tu cosa vuol dire farmacia uso Roma? Io no. Probabilmente era uno sfogo di quel genio della réclame che mi si sviluppò in seguito. Una sera d'inverno, dopo l'avemaria, stavo al buio pensando al mio avvenire di marito infelice. Sentivo nella stanza di sopra, ogni tanto, il passo di Mariuccia. Ella bubbolava dal freddo, poverina! e doveva tenere sotto le sue adorabili sottane un vile scaldino di carbonella. Sai tu quali orrendi pensieri devono passare per la mente di una bella giovane costretta a bubbolare dal freddo in un paese come Montefalco? Io sentivo già i brividi sul mio capo. O Mariuccia—esclamai—o io morirò, o tu avrai un camino grande come una fornace; e quando vorrai andare a spasso, avrai una carrozza con quattro cavalli che ti tireranno dove vuoi. Allora, capirai, di automobili non si parlava dalle nostre parti; non esistevano le mie pillole; il termosifone era una cosa sconosciuta.

Ed ecco che un Marcantonio di montanaro, grosso e alto come la bottega, mi spalanca la vetrina, entra e butta sul banco una cosa, e dice con disprezzo:

—Questa tientela per te.

Guardo. Era una carta senapata.

—Non ha fatto effetto, galantuomo?—dico io.

—E che effetto vuoi tu che abbia fatto?—mi dice. Non mi ha grattato nemmeno la pelle.—Ora, prosegue l'ineffabile Ballesio, tu sai la storia dell'uovo di Colombo, della lampada di Galileo, del pomo fradicio di Newton! Ebbene, quell'uomo è stato la mia lampada, il mio uovo, il mio pomo marcio. Sentii, come farti capire? una luce trapassare la mia mente, un lampo; ma avevo trovato!

—Amico—dissi con effusione a quel villano—vieni fra due ore e avrai, ti giuro, il cerotto che tu vuoi e che ti guarirà.

Due giorni dopo l'uomo tornò. Mi mostrò la sua schiena che era tutta una piaga; ma lui era esultante: era guarito!

Io avevo inventato il famoso cerotto di Sant'Antonio. Nelle nostre campagne chi non conosce adesso il cerotto di Sant'Antonio? I farmacisti delle città avevano dimenticato la esistenza dei forti lavoratori della terra, la cui epidermide, perchè sa—come si dice oggi—il lavoro dei campi, è insensibile ai comuni revulsivi. Avevano dimenticato questa elementare psicologia della medicina popolare che un farmaco è creduto tanto più efficace quanto più si sente e fa male.

—Ma tu dici delle bestialità, Ballesio.

—Mai più! È affare di autosuggestione. Il villano si sente bruciare e pensa: «ecco, io guarisco!» Pensare di guarire spesso vuol dire guarire. Aggiungi poi dietro il cerotto l'imagine di Sant'Antonio, del grande taumaturgo, e tu hai la spiegazione dell'immenso successo del mio specifico. Devi poi notare che nelle nostre campagne c'è ancora un po' di religione e i parroci, con una piccola percentuale sulle vendite, hanno fatto una réclame strepitosa a questo revulsivo che cura sciatiche, lombaggini, raffreddori e, dopo usato per l'uomo, tu non lo butti via, ma ne incolli la immagine nelle stalle per la protezione delle bestie.

Dopo il cerotto di Sant'Antonio, la via era aperta. Un giorno contemplando la mia signora che si svestiva allo specchio, esclamai: «Dio, che tesori! ma perchè devono esistere fanciulle clorotiche, smunte, senza l'onore di quel seno e perciò prive della venerazione degli uomini e della santa gioia della maternità?» Pensare questo ed inventare le mie pillole fu un attimo. Ah, tu ridi? saresti buono anche tu di far le mie pillole, eh? Ma di persuadere l'umanità che con le mie pillole si guarisce, fui capace io solo.

E Ballesio assunse la sua aria di grand'uomo. E aggiunse gravemente:

—Al bene di tutte le classi sociali io ho provveduto: ai neurastenici, agli stitici, agli ipocondriaci; e poi mi chiamano—qui in quest'idiota paese—avaro, esoso, tirchio; imbecille mi chiamano anche! pucinella politico, perchè, ora—dicono loro—sto coi preti, ora sto coi socialisti. Io sto con chi soffre, e il mio nome è universale: Vos omnes qui laboratis et «ammalati» estis, venite ad me! Questa è la mia divisa. Non vi sono che i medici ed i preti che preferiscono la percentuale sui miei specifici agli specifici medesimi: ma si tratta di una classe, direi quasi cinica, senza fede, destinata a scomparire. Ma tutto il resto del mondo è basato sulla fede! Come ha progredito il Cristianesimo? Con la fede. Come progredisce il Socialismo? Con la fede. Che cosa è il sole dell'avvenire che gli increduli deridono? Una forma allotropica della fede. Come si diffondono per il mondo le mie boccettine, le mie scatoline? Con la fede. La fede è l'ossigeno della vita. La fede genera il dogma: il categorico imperativo di Massimiliano Kant. Chi non crede al dogma, anathema sit! Scomunicò la Chiesa, quando potè! Scomunico io chi non crede a me! Ti pare? Senza fede, che cosa hai? Hai la ribellione, hai la critica, hai individui pallidi, stitici, dolorosi, senza vigore di volontà; hai degli irregolari della vita. Ora—sta bene attento—dall'incontro di un atomo di fede negli altri con un atomo di genio tuo, si ottiene il protoplasma intorno a cui si verrà poi innucleando il milione. Hai capito adesso come si fa a diventare milionari?

—Ma tu hai fede nei tuoi specifici?—chiesi io.

—Immensa! Essi valgono quello che valgono gli altri specifici. Tieni bene a mente: nel campo terapeutico, tranne l'olio di ricino, il chinino per la malaria, il bicarbonato pel bruciore di stomaco, tu non hai che dei medicamenti illusori: bastoncini di carta su cui l'ammalato si appoggia disperatamente per passare dallo stato egrotante a quello di sanità. La sola terapia vera è l'igiene, l'aria, il sole e, moralmente, essere un poco be stia. Ma che colpa ne ho io se l'uomo non può e non potrà mai essere uomo igienico? se la sua anima non è sempre bestiale?

* * *

E quell'imbecille di Ballesio chi sa per quanto avrebbe durato, se in quel punto il rumore del pubblico non avesse avvertito che la Vedova allegra era finita.

Ballesio corse a prendere la sua signora: giacchè questo onore egli non lo cede a nessuno.

Sarà ridicolo questo minuscolo uomo, in grande sparato bianco, dare maestosamente il braccio alla giunonica sua signora; ma è uno spettacolo che tutti ammirano.

Quella sera la signora aveva un manto di ermellino arrivato da Parigi.

Si può chiamarlo imbecille finchè si vuole, ma bisogna fargli largo. La sua automobile ha l'ordine di rombare spaventosamente, ed i suoi fari devono essere i più luminosi. La luce ed il suono tengono viva la fede. Ammirabile uomo, dopo tutto, che conserva inalterabile, assoluta la fede, anche nella sua signora.

UN PICCOLO BACIO, QUI!

—Riservato per dame?—domandò la dama al conduttore indicando l'interno di uno scompartimento di seconda classe, dove otto corpi di grosso sesso maschile si stavano pigiati.

—Viaggiamo in condizioni eccezionali, signora.

—Ah!—fece la dama—e le sue pupille grige sotto il velo rialzato, e che scendeva giù da una gran falda di cappello, fulminarono gli otto grossi corpi; fulminarono il conduttore, e con lui il suo colletto un pochino lercio, le sue mani quasi nere; fulminarono il treno in disordine, la stazione in disordine; e, più largamente, fulminarono l'Italia e le ferrovie in disordine: anzi in quel giorno in completa disorganizzazione per effetto della neve; una neve enorme, paurosa, strana, la quale pareva avesse un suo linguaggio di morte, come dire: io ti voglio coprire, congelare, vecchio mondo!

—Venga con me, signora: la metterò in prima—disse il conduttore, e precedette la dama at traverso un ingombro immenso del treno: bagagli, gente.

—Qui è interamente vuoto—disse infine, indicando uno scompartimento di prima classe.

—Se permette, ci sono io—disse al conduttore un signore che era lì, in piedi, nel corridoio; ed indicò il suo grosso sciallo buttato nell'angolo.

* * *

Questo signore era piccolo, anzianotto, sbarbato e fiorito nel volto: però aveva un bellissimo naso grosso, ed un bellissimo ventre, sporgente da un bellissimo pastrano da viaggio. La sua testa pelata era difesa da un cupolino di seta. Egli stava a guardare dietro la grossa lastra di cristallo ciò che avveniva nella stazione, e con una mano grassoccia, adorna di un pesante anello, fumava un vile toscano: da che si poteva arguire che quel signore era italiano, non straniero.

All'avvicinarsi della dama egli ritirò con bel garbo il ventre, e la dama passò; passò perchè era sottile, ma la si contorse come per evitare il contatto di quel ventre, di quel naso, di quel puzzo di vile toscano. Ma per entrare, la sua alterezza dovette piegarsi da una banda perchè il cappello non entrava.

Tranne il cappello, che fra veli e piume e spilloni, era di una complicazione ammirabile, tutto il resto era semplice: una gonna nera, un'ampia giacca di lontra, nel cui mezzo era po sato un cespuglio di violette finte: finte, ma non importa! Tutta la leggiadra creatura odorava di viva viola, di fresco mughetto, di pura lavanda. Ma le narici del suo nasetto impertinente si dilatarono e parvero aspirare in quello scompartimento come un malvagio odore: le delicatissime labbra si storsero: poi si sedette come rassegnata. Lentamente, con due sottili mani inguantate, alti i cubiti, si toglieva veli, spilloni, cappello, come fosse una funzione sacra. Apparve allora una leggiadra testa dai capelli cinerei. Con un rapido moto trasse poi da una borsetta uno zendado, vi ravvolse in un attimo il capo nella foggia languida in cui è effigiata Beatrice Cenci; distese sul velluto un gran lino bianco; vi si adagiò con la testa; vi si immobilizzò: forse dormiva se non fosse stato un piccolo piede a dichiarare che ella era pur desta.

Il grosso signore si rivoltò ancora, lui e il suo naso, contro la stazione. Era interessante guardare quello che vi succedeva. Un grigio enorme, un umidore intenso, una folla sconvolta era sotto la tettoia: ogni tanto passava qualche macchina fumida, gemebonda che trainava vagoni lenti grondanti da una impellicciatura mostruosa di neve: dentro si vedeva sfilare un ingombro di umanità.

Si va? si sta? cosa si fa? chi lo sa? Dall'interno del treno immobile, dal di fuori giungeva un ininterrotto suono di voci:

«Ritardo di due, sei, dieci ore! La neve! mac chè la neve: il «sabotaggio». Ci vuole un ferroviere impiccato per ogni stazione! Ma si impicchi lei per primo! Le ferrovie ai ferrovieri! Alle società private le ferrovie. Senti il compare! È un deputato forse lei? Vi sono delle donne, dei bambini nelle sale d'aspetto che strillano, che si disperano, che hanno fame.»

Il vecchio signore faceva: up, là! sollevandosi ritmicamente sulle punte dei piedi, poi ricadendo sui talloni. Ad un tratto abbassò il vetro: un signore era uscito dall'ufficio del capostazione; agitava furibondo le braccia; dietro di lui erano altri signori furenti; dietro, due capo-aggiunti, ma avviliti, poveretti; la barba di tre giorni, i baffi in giù, il bavero in su, l'orgoglioso berretto color granata, pesto, avvilito anche lui. Quel signore aveva tutta la bocca aperta e le sue parole dovevano essere terribili: ma non si sentivano: ecco perchè il vecchio che faceva up, là! aveva abbassato il vetro.

Allora si udì la voce di quell'energumeno che urlava:

—Ma dove è quel capostazione? Ha finito il suo turno ed è andato a casa? Già loro signori capi non sanno niente, loro non capiscono niente, tutto un giuoco a scaricabarile. Al telegrafo, al telegrafo! Mangiapani a tradimento. Vi concio io, ora! Un dispaccio al ministro.

Chi poteva essere quell'autorevole e furibondo personaggio?

Tutta la folla si volta, al galoppo, verso il telegrafo, e dietro corrono le lucerne di due carabinieri. Ma tornano tutti subito indietro. Una imprecazione collettiva, enorme: Il telegrafo non funziona più!

Ma che succede adesso? Un altro signore rompe la calca, affronta l'energumeno e strilla come un'aquila:

—Prima di tutto, lei che grida tanto, fuori il biglietto!

Era il più bello della scena, quando la dama, levando appena il dito, disse laconicamente:

—Prego, chiudere.

Il vecchio grasso gentiluomo udì, si voltò, guardò la dama. Ella diceva proprio a lui. Lui parve meditare: dopo tutto la signora di seconda classe era come sua ospite nel compartimento di prima.

—Prego chiudere—ripetè la signora in tono che non era affatto di preghiera.

Allora il signore alzò lentamente e come a malincuore il cristallo.

Intanto un lento moto avvertiva che il diretto, forse, stava per partire: uscì dalla tettoia, infatti. Allora brillò una gran luce: ma non dal cielo uniforme di piombo scendeva quella luce; ma dalla immensa candidezza della terra, e fuori di quel candore, tutto era ugualmente plumbeo: le fiumane, le piccole case, disperse, livide, sepolte: un paesaggio immobile, desolato, bianco su cui avanzava, quasi immersa, la linea nera del convoglio.

* * *

Però era oramai mezzogiorno e il signore si preparò a far colazione: l'apparecchio o viatico che levò da una cestina e dispose bene bene, rivelava l'esistenza di un cuoco di casa, o forse anche di una di quelle mogli rare e preziose che preparano tutto per il marito che viaggia. Quel viatico rivelava inoltre che egli era un buongustaio e anche uno stomaco solido. Guardò con occhio commosso un'anca di cappone a lesso; pallida, piena, gelatinosa, accuratamente priva di bordoni e di piume, oh non come sono le ali e le ànche scheletriche nei disingannevoli cestini da viaggio! Guardò un bellissimo, brunito, rosato, profumato arrosto di filetto, disposto in ordinate fette. Esitò: finalmente prese delicatamente una fetta d'arrosto, aperse la bocca, mise un po' fuori la lingua... In quel punto la dama fece una smorfia di supremo disgusto.

Il signore fissò: depose la fetta su le altre, non sulla lingua, e in tono di persona seccata disse:

—Oh, senta, cara signora, che lei mi voglia impedire di fumare, vada anche, benchè questo è scompartimento per fumatori; che non mi permetta di aprire il finestrino per un momento, sia pure; ma mangiare, ah, mangiare...

—Non parlare con voi.

—Allora io parlare con voi... oh, corpo di Bacco! E dire che quando noi andiamo all'estero, stiamo, si può dire, col cappello in mano; e questa razza prepotente quando viene in Italia...

Ma la signora con una mossa sdegnosa, appena detto «non parlare con voi», si era rifugiata nell'angolo opposto, e d'altra parte, quell'arrosto era così buono, così persuasivo che pareva dire: «Perchè ti vuoi guastare la digestione?» Le fette sparivano tranquillamente, alcuni panini scricchiolarono, una bottiglia nera versò una volta e due il suo contenuto luminoso giù per la gola dell'amabile signore. Non rimaneva che la frutta, e questa era rappresentata da grossi mandarini dalla buccia ben sciolta.

A questo punto il treno, che già andava lento, rallentò: la macchina mandò un gran sbuffo, poi un sibilo flebile, lugubre, morente: il treno si fermò. Un silenzio profondo, poi un'agitazione paurosa per tutto il treno. Il treno era sotto la neve. Stazione vicina? No. In aperta campagna. Si sentivano sportelli e vetri aprirsi. Un individuo o due saltarono giù. Rimasero confitti come cialdoni nel lattemiele: la neve rasentava la banchina. Terrapieno, siepe, tutto era livellato in una desolazione bianca: la macchina—la si scorgeva in curva—era quasi tutta immersa. Nevicava ancora.

La signora si scosse.

—Cosa succede?—chiese voltando la testa verso il compagno di viaggio.

—Probabilmente bloccati.

—Ah! Verranno a sbloccare.

—Speriamo bene, signora.

Può fare sempre piacere ad un filosofo il constatare che la piccola graziosa neve ha forza di arrestare una macchina enorme e nera, simbolo del progresso; come la pudica acqua di affondare un transatlantico; come un microbio invisibile di uccidere un uomo: ma è bene non trovarci in simili casi.

La verità cruda non tardò a farsi strada: treno bloccato in aperta campagna: avanzare e retrocedere impossibile: segnalazioni insufficienti: telegrafo rotto: macchina spenta.

Prospettiva certa: cinque ore di blocco, almeno, cioè il tempo da permettere alle guardie di percorrere i venti chilometri lungo la linea sino ad arrivare alla stazione da cui erano partiti: poi aspettare la locomotiva liberatrice. Altra prospettiva molto più probabile: la notte in treno, senza calore e senza luce perchè la caldaia era già spenta.

Quando la signora seppe questo, fece anche lei come tutti nel treno: protestò: il treno era un coro di proteste. La signora aggiunse la sua voce esotica al coro, con speciale sintesi diffamatoria verso l'Italia.

—Viaggiato molto—diceva—ma mai visto qualche cosa così orribile. Russia, Norway, Svizzera, paesi avanzati avere puf, uf (soffiava). Avere, come dicete voi? Avere rotery-snow-plough per soffiare via neve.—E con la manina vorticosa faceva un molinello che buttava via tutta la neve.

—Vuol dire—spiegava il capotreno ai circostanti, un giovanotto quasi elegante—che all'estero adoperano un tipo nuovo di spazzaneve a ventilatore per liberare i binari. Qui siamo ancora al vecchio tipo che non è buono se non a buttare la neve da un binario sull'altro; e poi con una neve come questa non va.

La signora, dopo avere protestato, si dovette anche lei adattare al fatto reale; aspettare, pazientare, tacere.

Passava, interminabile, il tempo.

Quando la superba umanità intuisce una forza che non può vincere, con cui non può lottare, si abbatte avvilita, muta. I carrozzoni, specie quelli di terza classe, potevano richiamare in mente certi carri-bestiame, pieni di corpi immoti, attoniti.

Ma i bambini si udivano gemere: qualche donna piangeva. La fame! Qualche vigoroso, qualche ardito discese: dal casello vicino, da una cascina si potè avere un poco di pane: ma era una disputa feroce: la si intravvedeva nei vagoni di testa.

Calava la sera.

—Signora, posso offrire?

La signora pareva sofferente: era scossa come da brividi.

Il signore aveva tolto dalla grossa valigia di cuoio una fialetta di essenze.

—Veda, signora—disse—quando io viaggio, ho l'abitudine di prevedere tutto. Ecco qui, oltre al resto, una candela: è probabile che fra poco torni a proposito.

—Grazie, ma avere anch'io petit flacon. Piuttosto ho fame.

—Ah—fece il signore—e presa la cestina, ne trasse ancora quella deliziosa anca di cappone. Poi fissò la signora: sorrise dolcemente con i suoi denti bianchi nella faccia rubiconda, un po' ironica, e senza muoversi punto, appena movendo le labbra:—Sì—disse—ma pagare!

«No, no denaro—disse fermando il gesto della signora.—Soltanto un piccolo bacino, qui!»

E indicò la punta del grosso naso.

—Ah!... Fy, old satyr!

—Niente, vecchio satiro, madam. Ho dato addio da tempo alla carne: non però alle ànche di cappone. Ma quest'oggi mi sento americano anch'io, cioè molto originale—e così dicendo fece atto di riporre la preziosa anca superstite.

Allora con un moto rapido, la dama si appressò: il signore sentì cose molli, profumate, deliziose appressarsi a lui: la lontra, le viole.

I labbruzzi di lei sfiorarono il suo grosso naso. Poi tutta si ritrasse indietro, coprendosi il volto per non vedere quella orribile cosa che aveva baciata.

* * *

—Dire—ruminava tra sè il signore allontanandosi nel corridoio, e riacceso un toscano per lasciare che la dama affondasse in pace i suoi dentini in quella anca rosata—dire che circa vent'anni fa questa triste avventura della neve poteva essere fra i più saporiti ricordi della vita!

Un mezzo toscano è spesso una grande consolazione, nella miseria.

GIACOMINUS GIACOMINI.

Quella volta la mamma, per quanto pietosa, non potè nascondere il grave fallo di Giacomino: il babbo venne, seppe, e quella sera grandinò.

Una grandine alla vigilia di Natale?

Sì, una grandine di busse, ma non sui campi: bensì sulla persona di Giacomo Giommi, ovvero Giacominus Giacomini, come lo chiamavano beffardamente i compagni di scuola, figlio legittimo ed unico del signor cav. Antonio e della signora Palmira, scolaro ginnasiale scioperatissimo.

La signora Palmira conosceva del non egregio suo Giacomino tutte le prodezze: dalla vendita della grammatica latina per acquistare il diritto di copiare i problemi, alle lezioni marinate con superba disinvoltura; sapeva perchè diminuiva lo zucchero ed aumentava in modo anormale la lista del calzolaio e del sarto. Il padre, cav. Antonio, ignorava tutte queste cose: prima perchè nessuno gli diceva niente, secondo perchè dalle sette del mattino—ora in cui si levava—a mezzanotte e anche all'una talvolta—ora in cui rincasava—non compariva nel domestico foco lare che per le due ore del pranzo. Però se ignorava l'analisi, intuiva la sintesi:

—Quel ragazzo non ha voglia di far niente di bene!

—Ha ingegno, e farà bene—risponde la signora Palmira che più si avvicinava alle nozze d'argento e meno veniva dividendo le idee del marito.

—Ingegno a dir le bugie, ingegno a sgraffignare se trova, ingegno ad inventare tutte le scuse per faticare meno che si può e godersela più che può. Credete che io non me ne accorga?

—E anche in ciò si richiede ingegno—rispondeva la signora Palmira, la quale si riserbava almeno il diritto di parlare sempre per ultima.

Chi possedeva l'analisi e la sintesi sul conto di Giacomino era la donna di servizio: ella sapeva tutti i progressi fatti da lui nel folklore delle ingiurie plebee ad una umile fantesca: da servaccia, sguattera sino a certe parole che offendevano la dignità del sesso. Ella aveva anche imparato la differenza che passa tra l'impressione di una scarpa coi chiodi e un'altra senza chiodi: i modi con cui Giacomino comandava potevano ricordare un linguaggio non più ammesso dalla democrazia. Vero è che, quanto a termini ingiuriosi, la domestica disponeva di un vocabolario ricchissimo. In questi casi Giacomino, leso nel suo onore, riferiva alla mamma.

La mamma allora interveniva come giudice e diceva: «Mettiamo bene le cose a posto. Tu sei la serva e lui è il padroncino, tu sei una donna fatta e lui è un bambino ancora ingenuo.»

«Per me l'è un barabba!» diceva con profonda convinzione la donna, e allora Giacomino assisteva ad un'altra varietà di diverbio, quello fra la donna di servizio e la mamma: diverbio molto più clamoroso e lungo perchè la donna di servizio si credeva in diritto di pretendere per sè l'ultima parola.

Dunque quella antivigilia di Natale la signora Palmira aveva dovuto recarsi alla direzione del Ginnasio, chiamatavi d'urgenza da un laconico biglietto del signor Direttore.

Veramente il biglietto era per il padre e non per lei.

Il signor Direttore, anzitutto rilevata questa sostituzione, accolse la signora Palmira con un contegno così solenne ed enigmatico che la detta signora perdette la sua abituale sicurezza.

—Abbia ad ogni modo la bontà di accomodarsi.

«Non avrà mica ammazzato qualcuno!» pensò la signora Palmira.

Il signor Direttore torna a sedere sul suo seggiolone: preme il bottone elettrico: compare il bidello: ordine di far comparire Giacomino Giommi, e Giacomino compare.

«Povero figlio mio—palpitò la signora Palmira come lo vide con un aspetto così compunto come mai gli era accaduto—questa volta ne hai fatto una grossa!»

Il Direttore con una crudele lentezza estrasse un foglietto e lo presentò alla signora.

—È questo—domandò—il carattere del suo signor consorte?

—Veramente...—disse la signora.

—Questo è un falso; ieri il suo signor figliuolo ha presentata questa giustificazione. Del resto guardi—e col dito fulminò lo scolaro— habemus confitentem reum! —Per tutto questo ed altro io desidero la presenza del padre.

—Ma...—obbiettò la signora Palmira.

—Assolutamente: intanto la avverto che il suo figliuolo, per deliberato consiglio dei professori, è sospeso dalle lezioni. Questo come preavviso: il resto verrà poi!

Il signor Direttore fece capire che non aveva altro da esporre, almeno a lei, signora Palmira.

La signora Palmira inchinò, uscì, con Giacomino dietro.

«Si può essere più imbecilli? E si può essere più villani con una signora? Un falso! a quell'età!» e rideva verde: tuttavia come giunse a casa, ordinò con un cenno al rampollo di seguirla. La signora elevò il tu alla potenza del lei.

—Ha inteso, bel signorino?

—È stato Finotti...!—rispose Giacomino con un tono che non avrebbe per nulla indicato quel nobile sentimento «che fa l'uom di perdon talvolta degno»: indi dirotto pianto, ma di rabbia.

—Finotti a far che? a scriver la lettera?

—No, a dirmi come si doveva fare la scusa. La fanno tutti, mica io soltanto! Il direttore l'ha su con me, e mi castiga solamente me—così rispose Giacomino.

—Va bene: lei vada intanto nella sua stanza.

Giacomino non domandava di meglio e si rifugiò nella sua stanza dove tutto serbava traccia delle sue imprese: la tappezzeria stracciata per ornare il palazzo della regina nel teatrino dei burattini: le sedie adattate a biciclette e ad automobile: il lume meccanicamente contorto per costituire il fanale della detta automobile: le quali cose insieme a molte altre, se davano alla stanza un disordinatissimo aspetto, provavano le disposizioni congenite del giovanetto alla meccanica.

Ma quel triste vespero Giacomino entrò assai turbato nella sua stanza: il gatto che lo vide—al rumor della porta aveva levato la pupilla dal suo vigile sonno—come saetta fuggì: negli esperimenti meccanici di Giacomino, o nelle rappresentazioni dei burattini, egli—onesto micio—era forzato a fare delle parti repugnanti alla sua indole tranquilla.

* * *

Proprio in quell'ora il signor cav. Antonio tornava a casa.

L'abitudine nei paterfamilias è così forte che essi ricasano anche quando la dimora non è più asilo di pace.

Il signor Antonio era bensì cavaliere per ragione del suo grado ufficiale, ma viceversa doveva sgobbare come un somiere. Giacchè se lo stipendio governativo era sufficiente per una famiglia di abitudini modeste, diveniva inadatto a sopperire al treno di casa quale era imposto dall'esempio delle altre famiglie e dalla filosofia della signora Palmira, la quale soleva dire: «Si vive una volta sola e perchè ci dovremo privare di qualche piccolo benessere?» Per soddisfare questo piccolo benessere, il cav. Antonio doveva «arrotondare» il suo stipendio.

Questa necessità dell'arrotondare degli stipendi spesso rappresenta uno sgonfiamento del denaro pubblico, e qualche volta ha il suo epilogo nelle aule dei tribunali. Ma è proprio vero che il signor Antonio arrotondava onestamente, cioè lavorando di più col tenere alcune amministrazioni private.

Però con questa vita da bue lavoratore portare il titolo di cavaliere, è una ironia! Ma il cavalier Antonio non si accorgeva oramai più di questa ironia: il mondo era divenuto per lui un immenso cartafaccio con colonne di numeri lunghe lunghe da sommare, e non finivano mai, e non lo avrebbero mai abbandonato: lui sì avrebbe abbandonate le formiche delle cifre il dì della morte, ed esse—le cifre—sarebbero state prese sotto tutela da qualche altro: ma suo figliuolo—Giacomino—sarebbe divenuto non un impiegato, ma un libero professionista! ed ecco perchè Giacomino era entrato in Ginnasio e nella casa del cav. Antonio era entrato Rosa Rosæ, genitivo e dativo, Fedro e la grammatica dello Schultz: arnesi di pensieri, dei quali il più domestico e perito era, a tutto dire, Giacominus ipse!

Il povero signor Antonio si confortava di respirare la libertà futura che avrebbe goduta il suo figliuolo, dottore, ingegnere, avvocato! Di altre soddisfazioni non ne aveva. Il thè che la sua signora offriva alle amiche nel giorno di ricevimento, aveva per lui un sapore di amarezza stantìa: e quanto al buon gusto della sua signora nel vestire egli era forse il solo a non apprezzarne tutta la finezza. Tuttavia anche lui aveva le sue oasi, rappresentate dalle rare e necessarie vacanze, e fra queste la più dilettosa e lunga era quella del Natale. «Tre giorni di pace in casa!»—pensava il signor Antonio rincasando—e passando dal pasticcere ha ordinato un dolce di vaste proporzioni: dal pollivendolo un tacchino, due capponi e tre dozzine di uova, dal droghiere, marsala e liquori. Con queste liete disposizioni di spirito il cav. Antonio entra nel lare domestico.

—Oimè! cos'è quest'aria di mistero? Perchè tutti si rimpiattano? dove è Giacomino?

* * *

La signora deve pur raccontare.

Il volto del cav. Antonio si offusca: insolitamente balena e lampeggia. La signora Palmira non ha mai assistito ad una burrasca di suo marito più improvvisa di quella. «Oh! come diventano neurastenici questi uomini! e poi chiamano isteriche, noi, donne!»

Il cav. Antonio entra nella stanza di Giacomino.

Giacomino lo sbircia.

Svelto come uno scoiattolo, ha presentito la caccia e la tempesta. Cerca di fuggire, ma la porta è chiusa.

Caccia, nella stanza, all'uomo, anzi a Giacomino!

Giacomino salta sul letto, s'appiatta, s'arrampica. Ma il terrore di quell'uomo che non ha mai visto così adirato, paralizza la velocità delle sue gambe.

Giacomino, infine, come un volgare malfattore, è preso da quell'uomo e per qualche tempo una grandine di pugni cade su di lui senza riguardo ad una parte piuttosto che ad un'altra della sua persona.

Finalmente la grandine cessò.

Al molto rumore di grida e di mobili smossi è successa una gran calma.

Il bruciore dei pugni passò in breve. Giaco mino mette fuori la punta di un occhio: sbircia, e torna ancora a nascondere la testa fra le braccia. Sì, perchè quell'uomo è ancor lì, anzi era lui—quell'uomo—che faceva quel curioso rumore—e non sapeva prima quello che fosse—col fiato. Giacomino non si muoveva perchè aspettava che quell'uomo andasse via; e torna a sbirciare con la coda dell'occhio: guarda meglio, e lo vede finalmente alzarsi, e andar via.

Ma dietro la porta chiusa c'era la mamma che invano aveva forzato di aprire. E come i due si incontrarono, si appiccicarono: e Giacomino sentì che si dicevano fra loro quelle brutte parole che a lui erano interdette e per cui—per l'appunto—la serva lo chiamava barabba.

Ma il babbo, a differenza della mamma e della serva, non ci doveva tenere al diritto della parola per ultimo, perchè poco dopo fu un gran silenzio e non si mosse più nulla.

Però qualche piccola, impercettibile cosa si mosse. Dove? Dentro di Giacomino.

La mamma aveva detto che lui, quell'uomo, lo voleva ammazzare con tante busse, ma Giacomino non ne sentiva più nemmeno l'indolitura.

I pugni che pigliava talvolta, come incerto delle sue monellerie, da qualche condiscepolo, più robusto ed anziano, lasciavano un'impressione molto, oh molto più durevole. Eppure il babbo è molto più grosso di coloro!

E allora perchè? Perchè ha meno forza? E per chè ha meno forza? perchè ha la barba quasi bianca? Sono i vecchi che hanno la barba quasi bianca.

Dunque il babbo è vecchio!

* * *

In quel punto la stanza si illuminò ma nessuno aveva portato il lume: era la lampada nella strada e la stanza appariva chiara, più chiara che mai, perchè oltre alla luce della lampada c'era la luce del tramonto, un tramonto di una luminosità trasparente e grande come suole d'inverno talvolta, con dei riflessi azzurrini.

Le altre volte che Giacomino era stato messo agli arresti di rigore nella sua stanza, come si era fatto certo di esser ben solo, obliava il suo fallo, obliava il rimprovero, obliava la lieve percossa ricevuta, e levati alcuni ferri dal comodino, si sfogava esercitando l'arte del meccanico con ingiuria dei mobili, ovvero insegnava la parte di elefante al gattuccio quando doveva comparire su la scena dei burattini. Così operando, tutto facilmente obliava.

Ma quella sera i mobili godettero della loro pace, e il micio—prudente—non c'era. In vece Giacomino pensò.

Che cosa pensasse, non è facile a dire: ma qualche cosa pensò: non alla mancanza della scuola, oh no davvero!

Ma il babbo, quell'uomo che vedeva così di rado; quell'uomo che per aver dato pochi pugni leggeri leggeri, tirava il fiato sul letto, poco fa; quell'uomo che la mattina si alzava col lume, e via; che la sera col boccone ancora in bocca, pioggia o bel tempo, inverno o estate, neve o afa, si alzava e via; quell'uomo che poco fa aveva detto «vergogna!» gli stava davanti: penosamente davanti.

Oh, bella! anche il direttore aveva fatto la voce terribile e aveva detto a Giacomino «vergogna!» eppure quella stessa parola «vergogna!» detta dal babbo gli faceva un altro effetto: gli faceva un'impressione più dolorosa che i pugni che aveva presi.

Giacomino voleva un gran bene alla sua mamma, mentre col babbo non aveva avuto mai gran relazione. Se ne riconosceva l'autorità, ciò era per il fatto che doveva dire «buon giorno, buona sera», per il fatto che era lui che metteva fuori i denari, era lui che per fare certe spese tirava fuori dal portafogli certi biglietti grossi che Giacomino avrebbe mutato così volentieri in tanti dolciumi; era lui, sempre lui.

Se non che la gran differenza tra prima e adesso era questa: prima gli pareva una cosa naturale che tutto ciò dovesse avvenire per parte del babbo, nel modo medesimo che è naturale che colui il quale ha sete va al caffè e ordina il gelato: chi ha fame va al ristorante e ordina un bel piatto di maccheroni: chi ha freddo va presso alla stufa: chi vuol fare un viaggio monta in treno: chi vuol vivere in montagna, prende in affitto una villetta sui monti nel tempo dell'estate, ecc. Ora tutte queste cose così naturali e così semplici, anzi così abituali, erano abituali semplici e naturali perchè c'era quell'uomo che vi pensava: quell'uomo che si alzava al mattino col lume, che la sera andava via col boccone in bocca, che poco fa ansimava per aver dato a lui Giacomino, due piccoli pugni, che avea detto «vergogna!» e avea la barba quasi bianca.

* * *

Congiunte queste due cose che prima erano disgiunte, Giacomino capì che aveva fatto male, molto male! Male a far la firma falsa? No. Ma se lo fanno tutti! Male a fare una cosa che dava dispiacere al babbo.

E siccome questo dispiacere che dava dispiacere al babbo, dava anche un certo non so che a Giacomino che gli faceva venire la voglia di piangere, così Giacomino si mosse in punta di piedi alla ricerca del babbo. Giacomino sa camminare, quando vuole, con la prudenza di un pellirosso: esce di stanza, fiuta e, naturalmente, s'avanza verso il tinello. No, il babbo e la mamma non pranzano, come credeva. La tavola è bensì apparecchiata, anzi c'è in mezzo la zuppiera. Ma nessuno dei due l'ha toccata.

Le posate sono al loro posto: sul canterano sono gli involti intatti dei doni di Natale.

Giacomino sbircia: la mamma, seduta su la poltrona, legge il giornale.

E il babbo?

È andato via anche quella sera che è l'antivigilia del Natale? Io non saprei proprio dire se Giacomino ebbe la visione dolorosa di tante belle serate con dolci, castagne, panna levata e cialdoni, forse anche con teatro, andate maledettamente a male per colpa del direttore; certo ebbe il sentimento che nessuno più del babbo soffriva per la sua mancanza.

* * *

C'era il lume nella stanza da letto. Giacomino spinse l'uscio. È il babbo che va a letto.

Giacomino non si ricorda più—perchè adesso è diventato un giovanotto serio e bravo—non si ricorda più quello che disse, però si ricorda che il babbo, quando lo vide con quelle disposizioni, fu molto buono con lui: lo perdonò subito subito e diceva:—Non mi darai più dispiaceri, vero?—e lui Giacomino rispondeva di no! con una convinzione insolita, e il babbo non gli diede nessun bacio, ma con la mano gli toccava i ca pelli, e ciò gli faceva un gran piacere, e quando il babbo gli disse: «Adesso va a mangiare, che avrai fame!» Giacomino non andò a mangiare, ma prima andò nella sua stanza e acceso certo suo candeliere, cominciò a scrivere una lettera al babbo. La lettera fu tanto lunga che nessun compito raggiunse mai, a memoria di Giacomino, una così spontanea prolissità.

Scritta la lettera, Giacomino la collocò in luogo tale che il babbo al mattino la scorse prima di ogni altra cosa.

Di fatto il babbo la scorse, la aprì, la lesse e riconobbe che il suo Giacomino ha cominciato a pensare. Ah, se il signor Antonio sapesse il latino, come si rallegrerebbe ripetendo il motto di Cartesio: cogito ergo sum, cioè non più Giacomino birichino, ma homo sum!

COME LA LINGUA DELLA SIGNORA SI CALMÒ.

La signora entrò in casa, si gettò sul sofà, tacque, cioè no; si preparò a parlare: invocò il nome di Dio—riservato così spesso, ohimè! per gli attacchi d'emicrania—si levò di scatto, spalancò due o tre porte a vetri, e si precipitò, cioè scoppiò nello studio di suo marito.

—Io non ne posso più, più, più! Capisci tu? intendi? fai il sordo? l'oca? lo stupido? il superuomo? Io soffro, ho dei dolori atroci, mi sento come svenire; non mangio più, non dormo più, non digerisco più. Sono diminuita di tre chili e mezzo. Capisci tu cosa vuol dire diminuita di tre chili e mezzo? Ho delle vampe, delle fiamme; poi un gran freddo, un gran gelo; poi tutto un formicolìo; il cuore si ferma, dà dei colpi, poi mi sfugge, non lo sento più, lo sento in gola: mi chiude, mi soffoca! Ho un vizio di circolazione, l'arteriosclerosi, capisci? È orribile l'arteriosclerosi, capisci? Orribile! E quest'uomo, questo marito, questo esseraccio spregevole che si chiama marito, si riempie l'epa, beve come un facchino, dorme come una talpa, va a spasso, digerisce stupendamente e non s'accorge d'una povera donna che soffre, che sta male, che muore; una donna tanto gentile, elegante, fine, buona, intelligente, sì, intelligente per un uomo che mi sappia intendere, una donna che avrebbe fatta la felicità di qualunque altro che non si chiamasse Marx Giraldi! Ah, la mia personalità, il mio io, ah, questo voi vorreste distruggere, annientare, calpestare; voi mi vorreste ridurre alla moglie che bada al soffritto e sorveglia i buchi delle vostre calze e serve per gli usi intimi! L'avete trovata, il mio uomo, la donna che si lascia calpestare! Vendicatevi, ora, fate la mummia, il papa di gesso, l'indifferente. Vi sveglierò io, vi sveglierò! Mi voglio distrarre, capite? Distrarre! Aspettate, aspettate che stia un po' meglio! Intanto fuori i soldi: cento lire! Chi rompe paga. Domani altra visita. Il professor Marchi non visita per meno. Se mi volete accompagnare, è al Grande Hôtel, se pure non riparte stasera.

Qui si fermò, e allora una voce rispose dietro i cumuli delle carte della scrivania:

—Io credo che cinquanta lire siano sufficienti.

—Le figure grette, meschine, esose, le lascio tutte a voi.

Allora si udì una chiavetta aprire un cassetto ed una mano porse un biglietto da cento lire.

—Imbecille!—e la mano della signora prese il biglietto e rovesciò tutte le carte.

Dietro di esse apparve un uomo di mezza età, barbuto, con la fronte posata in calma sulla mano: il marito.

La signora uscì sbattendo l'uscio.

Allora, dietro una specie di paravento, venne fuori un omarino mezzo spelato e con barbetta caprina, il quale subito si rivelava come appartenente alla nobile, antica classe degli scrivani, che le macchine da scrivere e le dattilografe vanno distruggendo in modo spietato.

Pareva abituato a questa specie di cicloni familiari, perchè si mise senz'altro a raccogliere le carte e i libri.

—Per un uomo d'affari però—osservava—è grave questo modo di sfogarsi con le carte. Pare, vero signor Giraldi? che vi sia nella signora una specie di crescendo. Ogni parola si accumula con l'altra, come in una pila elettrica, finchè avviene l'esplosione.

—State buono—rispose il signore, aiutando anche lui a raccogliere le carte—oggi è andata abbastanza bene. È quando comincia dalle origini, dai tempi precedenti il matrimonio, quando prende a rivangare i vivi ed i morti. A proposito, cos'ha nominato? il prof. Marchi? Grande Hôtel? Che sia il Marchi, professore dell'Università di...? Voi che avete la specialità dei nomi, ve ne ricordate?

—Sì, certo: Gian Franco Marchi, specialista per le malattie del cervello. Deve essere venuto qui apposta per un consulto al senatore X***. Sarà una visita in extremis, ma era d'obbligo.

—Allora—disse il signore—noi ci siamo conosciuti, e molto bene, in collegio. Egli era di due corsi avanti di me. Un giovane di valore, ricordo benissimo: uno dei pochi che si son fatti strada senza ciarlataneria. Sapete, amico mio, che è una cosa curiosa?—e pareva un po' rasserenato.—Noi nella vita moderna ci perdiamo spesso di vista, di nome, di tutto, peggio che nel deserto. Accade poi, un bel giorno, di vedere nel giornale un necrologio e allora diciamo: Io l'ho conosciuto quell'uomo! Ma non siamo più a tempo per andare a stringergli la mano.

—Lo dica a me che sono rimasto solo come un fungo...; e non me ne pento ormai più—sorrise fra sè l'omarino.

—Vi dispiacerebbe di portare, ma subito, un biglietto al Grande Hôtel? Se il Marchi non c'è, aspettate. Se domattina presto non può, mi fissi a che ora vuole, stasera, un appuntamento.

Il signore si mise a scrivere.

L'omarino si levò la manica di lustrino e andò ad infilare il vecchio pastrano a pipistrello e ad avvolgere il collo, le orecchie, la nuca nella fascia di lana.

—Si trova da per tutto quest'accidente! io domando come si fa a non avere male di testa con quest'accidente!

Lo prese con delicatezza, come fosse stata una macchina infernale, diabolica.

—Un chilo e mezzo deve pesare!

Era il cappello della signora.

* * *

Alle ore undici, nel Grande Hôtel, il prof. Gian Franco Marchi parlava ancora con la signora Giraldi. La signora si veniva riallacciando l'abito con mano tremante. Era una cosa terribilmente piena di mortificazione per la signora: quell'uomo, il prof. Marchi, gelido, meccanico, irreprensibile nel vestito, aveva esercitato su di lei un'impressione di paura, di soggezione e di ammirazione insieme. Eppure quell'uomo aveva parlato sempre con una voce soavissima, musicale, con un bellissimo accento italiano: appena, appena una sfumatura di amabile ironia. Aveva trattato con la verecondia di un asceta, con la delicatezza di una suora di carità. Oh, nulla di brutale, come certi medici; e nulla nemmeno di manierato, di dolcificato come altri medici alla moda. La signora Giraldi ne aveva fatti passare ormai parecchi di medici, e invano! Ma era quella specie di gelidezza interiore ad ogni influsso di passione, che la soggiogava.

La signora, nei preliminari della visita, aveva cercato, come soleva, di celiare un po'. Bella donna, elegante, donna di spirito, poteva conce dersi questo privilegio. «Non so, come chiedere: Lei ha moglie, dottore? ha provato mai questi incomodi? ha avuto casi consimili?» Ma poi le si congelò la voce e si trovò paurosamente nello stato di materia inerte nelle mani del prof. Gian Franco Marchi.

La signora si veniva, dunque, riallacciando. Le stanze dell'Hôtel scintillavano di lampadine elettriche, perchè il sole esisteva forse ancora, benchè vedendo la città fasciata tuttora dalla caligine del dicembre, se ne potesse dubitare.

Il dottore aveva escluso in modo assoluto l'arteriosclerosi, il vizio valvolare, il diabete, l'appendicite, il verme solitario ed altri mali proposti dalla signora.

—Isterismo allora, come dice mio marito?

Il dottore fece un nobile gesto per allontanare questa parola, «isterismo» ed anche «marito».

—Ma allora cos'è il male che io ho? Almeno sapere il male che io ho. Perchè io sono ammalata, vero?

Il dottore si fece serio, terribilmente serio.

—Non mi guardi così! no! Mi fa paura! Devo forse morire?

Finalmente il dottore domandò con voce lenta:

—La signora ha paura di morire?

La signora impallidì...

—Quando penso che anch'io dovrò, molto probabilmente, morire... Ah, no, signore! E lei ride?...

—Sorrido, signora.

—Agli Stati Uniti—disse la signora—i medici vietano assolutamente di pensare a morte, a disgrazie, a malattie; ma assolutamente. Ecco perchè le Americane sono sempre belle, allegre, piene di vitalità.

—E invecchiare, signora, è anche questo un pensiero che la turba?—domandò ancora il dottore, senza tener conto dell'America.

Un fremito scosse la signora:

—Mi pare impossibile di dovere invecchiare! Ogni sera, a letto, mi viene questo pensiero; ed allora il cuore comincia a precipitare. Faccio la luce: prego,—noti bene, prego—mio marito di sentirmi il cuore. Si rifiuta! Un brutale, mio marito!

—I mariti sono quasi sempre brutali—sentenziò gravemente il dottore.

—Ah, ecco un medico che capisce!—esclamò la signora.

—Lei, invece—proseguì il dottore—è di indole dolce, amabile, ma ha la sua personalità...

—Il mio io... Certamente!

—Ella vede, per esempio, suo marito che divora beato una bistecca, mentre lei non può digerire, e allora in un impeto di giustificabile rivolta, scaglia la tovaglia per terra...

—Come fa a saperlo?

—Il suo male, signora—disse blandamente il dottore, e proseguì:—Lei deve possedere una memoria di ferro e quindi deve ricordare, enu merare tutti i torti di suo marito. Questo elenco, fatto quasi ogni giorno, supponiamo, porta all'autosuggestione, all'esacerbazione della voce, agli atti—diremo così—incoscienti. Poi segue un abbattimento, nausee, palpiti, cefalee...

—Ah, sì, mio marito è la causa di tutto!—esclamò la signora.—Oh, come capisce, dottore! Ecco, bisognerebbe che lui si sopprimesse.

—È un consiglio che non so se vorrà accettare, ed intanto veda, osservi gli effetti di questa iperestesia del suo «io subcosciente».

—Ha detto?...

—Oh, non importa che lei impari il nome! Osservi gli effetti! La pupilla ha già acquistato una disposizione strabica; le corde laringee per lo sforzo abnorme della voce, stanno producendo le matasse del collo; il quinto paio nervoso stira le labbra fuori della linea normale e produce le così dette rughe; la digestione, resa impossibile, genera macchie, acni, rossori.

—Orribile! Ma quale il rimedio?

—La calma assoluta e perciò il silenzio, signora. L'assoluto silenzio.

—Allora, abolito l'«io», la personalità, la volontà, la libertà, tutto... In politica, in morale, in arte, nell'economia della casa non dovrò più avere le mie idee?

—Sì, signora. Ma noi ne modifichiamo semplicemente le manifestazioni. Per esempio, invece di dire: Il giornale! il giornale! il giornale! lei dice: Favorisci il giornale? Invece di ricordare i torti passati di suo marito, lei ricorda soltanto i torti presenti. Anzi, faccia di meglio: glieli presenti in iscritto. Invece di dire: Voglio andare a teatro, lei dice: Avresti voglia questa sera, amico mio, di condurmi a teatro?

—Anche «amico mio?»

—Ma sì! Dopo tutto lo fa per la sua salute. Invece di domandare al cameriere: C'è lui? lei domanda: Mio marito, oppure Giulio, Jacopo, come si chiama?

—Marx... pur troppo!

—Ebbene, lei chiede: Marx è in casa? Invece di dire: «Ah, lo hanno impiccato quell'infame di... Così dovrebbero fare anche di te!» Lei si limita alla prima frase. Quanto alla politica, non se ne preoccupi. Io, per esempio, non me ne occupo affatto.

—Allora tutta grazia, tutta gentilezza con un rospaccio, con un istrice, con un orso, un villanaccio di quella sorta.

—Ecco, veda, troppe parole! rospetto, villanello tutt'al più. Si guardi come subito le rughe tirano in giù il labbro. Che cosa è la vecchiezza? Sono gli anni? Mai più! Sono i nervi che subiscono una lenta, irreparabile alterazione.

—Allora io dovrò essere una moglie come una di quelle che esistevano prima della proclamazione dei diritti della donna?

—Ecco, lei provi: e pensi che lo fa per suo bene e non per riguardo al marito: ma silenzio, assoluto silenzio. E come cura, moto, aria aperta, passeggiate in campagna, alla buona. Lei dice: Marx, mi conduci a spasso?

—Ma se non è buono di cogliere un fiore, di aiutare a passare un fosso...

—Glielo insegni, signora. La donna in queste cose è nata maestra.

Sommessamente intanto il paggetto dell'hôtel aveva avvertito che l'automobile era pronta. Pian piano, garbatamente, giù per le belle scale di marmo, l'illustre dottore accompagnò la signora sino al vestibolo, assicurando la più completa guarigione. Fuori rombava l'automobile.

La signora estrasse la busta col denaro.

—Sì, va bene—disse il dottore—ma faremo tutto un conto. Io devo ripassare fra un mese; e respinse la busta con gesto che non ammetteva replica.

* * *

Alla stazione, sotto la tettoia, era un grigio che mal si vedeva d'intorno: le macchine vi immettevano getti di fumo come nell'ultimo atto della Valchiria. Il dottore, in piedi, presso il montatoio di una vettura a letto, pareva in attesa di qualcuno.

Un uomo si precipitò.

—Ebbene?

—Niente di grave, caro Giraldi; vizio organico nessuno: si tratta di difetti funzionali dovuti a forme isteriche, tipiche, ma di cui io ne so quanto te. Bada però che il non sapere o il non trovare noi, così detti scienziati, la causa del male, non vuol dire esclusione del male: il male esiste, ricordatene!

—Allora i più grandi oratori—disse il signor Giraldi—devono essere stati tutti degli isterici perchè l'eloquenza di mia moglie è senza limiti.

—Lascia le facezie: anzi abolisci assolutamente con tua moglie ogni genere di facezia, di ironia, sopra tutto abolisci il silenzio; parlale molto, molto, di molte cose buone ed allegre. È donna, cioè un essere meravigliosamente fine e complesso, che noi altri uomini, occupati negli studi o negli affari, giudichiamo spesso con una semplicità di criteri che ci fa veramente torto. Tienti a mente questa cosa, caro Giraldi: tu essendo freddo, sgarbato con tua moglie, commetti il delitto medesimo che molti commettono essendo crudeli verso i bambini, così detti cattivi. Sono bambini infermi! E non dimenticarti anche questo: la donna è un'infante di cui possiamo avere bisogno supremo. Il nostro orgoglio maschile ci nasconde questa verità. Ma se tale sventura dovesse avvenire, tu baceresti piangendo quella mano che ora allontani da te.

—Ma quella spaventosa eloquenza..., quella lingua che non tace mai!...

—Credo di averla curata o, almeno, mi lusingo. Basta, tu me ne scriverai...

In quel punto il diretto si mise in moto.

—Dimenticavo una cosa—aggiunse il dottore sforzando la voce,—se la conduci a spasso in campagna, misura il tuo passo col suo e qualche volta prendila per la vita; e se di notte vuol farti sentire il suo cuore, e tu sentilo. Esiste realmente un po' di cardiopalmo.

LA MORTE DI UN RE.

Quando io avevo dieci anni, o giù di lì, giocavo coi re, e fu il solo tempo in cui vissi in dimestichezza con gente di gran paraggio. Li avea fatti io stesso di cartone e dipinti di rosso e di azzurro con elmo e spada. L'ho a mente quella stanzaccia a soffitta, diroccata, con un odor di topi. Là i miei re conducevano un'esistenza da fare invidia ai veri re della terra. Si cavavano tutte le voglie, i miei nobili re. Ma in fondo ero io che mi cavavo simbolicamente le mie: ed era certamente per questa specie di incantamento che io non mi stancavo mai dal giocare a quel giuoco silenzioso e calmo, ma pieno di terribili cose: giacchè vendicarsi, sterminare i nemici e farne strage, e poi riportarne il trionfo era il più grande de' miei piaceri.

Allora non era convinto amico della Società per la Pace e gli istinti atavici parlavano potentemente in me: ma forse più che atavici erano malvagi istinti naturali, che troviamo in tutti i bambini.

I miei di casa si meravigliavano come io po tessi stare per ore ed ore con un pupazzo in una mano e un pupazzo nell'altra, e non capivano che era un re che parlava ad un altro re suo rivale, vinto, stretto in catene davanti a lui.

Ma in simili casi la concione avrebbe potuto durare delle giornate, tanti erano gli argomenti che il trionfatore avea a sua disposizione per ischiacciare e vilipendere il vinto re! Io non ero malvagio, ma i miei re erano terribilmente feroci, e inesorabili. Quali diritti esercitavano mai!

Un'altra cosa ricordo ancora, cioè che i miei re riposavano delle fatiche belligere in grandi e sontuosi pranzi, i quali corrispondevano a punto a quelli che non si facevano a casa mia, ma erano bensì nel mio desiderio. Sua maestà di cartone era un principe molto vendicativo, ma era anche un goloso eminente.

* * *

Un bel giorno, non ricordo da chi nè come, mi venne regalato un piccolo falco; un falchetto.

Ora quando venne il falco, i re furono messi in riposo, anzi furono dimenticati. La polvere cadde su di loro; lo scudiero non venne ad avvertire i nobili signori che già il sole era levato e illuminava la nera foresta sonora; e i palafreni bardati scalpitavano e i mastini odoravano la caccia.

Il senso di profonda soddisfazione che mi invase al nuovo possesso, evidentemente doveva provenire da questo: cioè che ora possedevo un re autentico, non di cartone, ma vivo; un re dell'aria; un re anzi prepotente e crudele, ma che adesso si trovava sotto la mia giurisdizione assoluta, astretto in catene e sul quale io certamente avrei avuto finale vittoria. Era il medesimo giuoco che continuava, soltanto che la finzione aveva una parvenza di realtà.

* * *

Li avea visti spesso nel cielo i falchi o, più esattamente, me li avevano indicati.

Nel cielo lucido del mattino aveva visto certi uccelli che un più trionfal giro volgevano nel cielo: poi si libravano in alto e disparivano nella superba profondità dell'azzurro. Ne avea chiesto ai villani e quelli, sospendendo il placido lavoro della vanga:—Son falchi!—dicevano,—tutta l'aria ubbidisce a loro: quando ci sono quei signori lassù, non vedrai altri uccelli volare e cantare.

Ora un falco stava in mia balìa e lo contemplavo con avida curiosità per iscoprire il segreto della sua potenza. Lo avrei pensato più grande, come un tacchino almeno o un pavone. Era un piccolo re, grosso come una colomba. «Sei un piccolo re!» gli dissi.

Piccolino era infatti, liscio, grigio, con due zampe aduste come due ferri da calza; immobile, con la testa piatta ritirata fra le penne. Immobile come una mummia, supremamente indifferente alle mie ispezioni.

—Dico a lei, signor falco, ha inteso? le ho detto che lei è un piccolo, anzi ridicolo re!—e siccome quegli pareva non tener conto alcuno delle mie parole, tanto mi accostai col dito che lo toccai. Non lo avessi mai fatto! Quel re disprezzava le parole, ma non ammetteva scherzi di mano. Fulminee vidi aprirsi due alacce smisurate che pareva impossibile dovessero star rinchiuse in quel piccolo corpo, e in pari tempo mi ritrassi con la mano ferita; il dosso della mano portava l'impronta di cinque scalfitture, dove il sangue segnò cinque tracce di avvertimento. Come ebbi a lungo contemplata la mia ferita, mi riaccostai al falco, ma con molta prudenza, e lo vidi con regale solennità immobile come prima: solo l'ala rientrava come da per sè quasi serpe che rimbuca, e quattro lunghi e sottili aghi adunchi si ritraevano nei loro alveoli.

I suoi occhietti gialli, tondi, si movevano solo essi, e seguivano ogni mio gesto, come l'immagine nello specchio segue chi vi si affaccia, e col muover delle pupille si moveva un becco breve ma uncinato, di cui prima non mi era accorto, e dava alla fisionomia un aspetto grifagno.

Compresi allora come il piccolo animale, uguale nell'aspetto agli altri uccelli, ne fosse diverso per certe qualità segrete che prima non avea sospettate.

Pensieri di rappresaglia si agitavano nel mio cervello.—Io ti punirò di morte,—dissi con voce di giudice che sentenzia, ma la mia voce risonò a vuoto nello stanzone melanconico, ma era una voce dolce la mia: egli invece mi aveva colpito senza emettere un suono.

Gli enumerai con persuasione tutti i suoi torti:—Voi siete un violento, un rapace, un masnadiero dell'aria, voi avete, signor falco, spogliato tanti nidi, lacerato e ucciso tanti innocenti augelletti i quali cantavano la gloria del Signore e provvedevano il vitto ai loro piccini! Gran perfidia fu la vostra, signor falco, ma ora siete in mia balìa e ne sconterete bene la colpa senza alcuna remissione o pietà.

Così fermato il proposito della pena, dopo essermi assicurato che il falco era ben legato, corsi in cerca di un bastoncello e feci per colpirlo.

Ma il falco stette: solo si contorse nell'atto superbo e magnifico con cui sogliono effigiarsi le aquile negli stemmi dei re e le pupille perforanti saettarono un senso:—Vile!

Ed io non lo percossi.

* * *

Come la mia piccola anima si mutasse, io non so. Ma ricordo che, dopo essermi aggirato due o tre volte per la stanzaccia, sentii nascere in me per il prigioniero una grande pietà e una viva ammirazione; ma sopra tutto un indistinto desiderio di farmelo amico, di allearmi a quella sua indomita fierezza, a quella sua forte malvagità.

—Ti faccio grazia della vita per ora, e ti porterò da mangiare,—gli dissi.

E con tale proponimento mi recai da un certo tale, esperto di cacce con l'archibugio e con le panie, e gli richiesi quale fosse il nutrimento dei falchi.

—Cuore e fegato,—mi fu risposto.

Cuore e fegato ebbe, e ben lo seppero i polli della cucina che in quel giorno vennero trovati privi delle interiora, con gran dispetto della fantesca e sorpresa del gatto—un onestissimo e moderatissimo gatto—che mi guardava con le sue fosforescenti pupille come a dire:—ecco un altro che usurpa il mio mestiere di rubare!

Corsi in soffitta e presentando quella superba imbandigione, mi lusingavo di ottenere almeno un cenno di ringraziamento. Non fu così.

Non si degnò nemmeno di chinarsi per toccare quei cibi.—Quando avrai fame mangerai e quando avrai sete berrai,—dissi allora.

* * *

Era azzurro il cielo fuori della finestra; un cielo fondo, pieno di libertà e di silenzi. Ma il falco aveva abbassato sulle terribili pupille le due palpebre gialle e grinzose e rimaneva ritto, rigido. Lo contemplai: non un atto per istrappare la catena!

Piano piano, me gli accostai.—Povero falco,—dissi,—vuoi la libertà?—e feci per lisciarlo.

Fu, come prima, un istante: si voltò, si rabbuffò, le ali si spiegarono, le cortine delle pupille si alzarono e folgorarono le pupille. Questa volta la mia mano portava, oltre ad un'altra copia di solchi, uno strappo sanguinoso. Mi aveva ferito col becco, in modo che mi fece subito conoscere senza aiuto di storia naturale quale differenza interceda tra il becco degli uccelli di rapina e gli altri suoi pennuti fratelli. La notte dormii con la mano fasciata, e al mattino corsi su in soffitta a vedere che ne fosse del falco.

Il falco non aveva mangiato; il cuore e il fegato imputridivano ai suoi piedi.

—Tu vuoi morire, bestiola mia, se non mangi,—gli dissi, ma ogni mia esortazione cadde a vuoto. Le palpebre gli si chiudevano con una non so quale solennità e pareva ed era immobile. Molta tristezza vinse la mia piccola anima infantile e quel dì non giocai.

Andai nell'orto a trovare dei lombrichi i quali strisciavano i loro umili anelli sulla terra; presi larve di insetti, bachi, piccole lucertole, che godevano sul muricciuolo il dolce sole, e fatto di questi innocenti animaluzzi un cibreo che giudi cai appetitoso, lo offersi al mio falco. Non mangiò nemmeno allora.

* * *

Al mattino seguente era ancora lì, rigido, fermo. Ne ebbi pietà e gli dissi:—Vedi che ti voglio bene e solo desidero che tu ti faccia buono e che noi diventiamo amici!

Ma poi vedendo che non dava alcun segno, e meravigliandomi come potesse vivere senza cibo, ne ebbi alquanto sgomento.

E l'Ave Maria del terzo giorno cantava melanconicamente nel vespero dall'alto di un campanile, quando il falco cadde di botto; le gambe sottili non sorressero più l'esile corpo, e l'esile corpo si era rovesciato all'improvviso. Corsi e con trepidanza paurosa lo toccai; strinsi sotto le piume quel piccolo corpo che non si scosse. Era morto.

Egli, il re dell'aria, aveva vinto su di me.

Allora mi accostai alla finestra col falco fra le mani e, alla luce che ancor pendeva nell'aria, a lungo cercai tra quelle penne di scoprire il segreto della sua ferocia, come fanno i bimbi che cercano nei balocchi infranti il segreto del loro moto; ma non ve lo trovai, e da allora ne ebbi grande tristezza.

Fine delle Novelle. Estate 1912.— Laus Deo.