CAPITOLO I. Il maestro e la scuola.

Torna alla mente con gran tristezza di desiderio il tempo che io studiava a Bologna; e la rivedo ancora quella severa e lunga aula dell'università con i finestroni dai vetri verdognoli che prendono luce dal pian terreno del cortile interno: la rivedo tutta gremita di uditori; tutti col viso rivolto e teso ad un punto, in silenzio: seduti sui banchi, fitti in piedi e addossati agli angoli, presso la porta d'ingresso. E su quelle teste, le più giovanilmente vive, altre grige o canute, altre di donne diffondenti in quella austerità non so quale femminile lietezza mi pare ancora di udire la sua voce che si spandeva ora vibrata, staccata, nervosa; ora lenta, commossa e saliente come nembo d'incenso. Su l'alta cattedra, in fondo, appariva quel capo poderoso, curvo fra i cubiti, con la fronte ferma, come diga a reggere l'onda irrompente del pensiero; la breve mano bianca agitata a ricercare il libro o l'appunto, pur non ristando la voce.

Qualche volta, sopravvenendo le tenebre, accennava gli recassero una candela e se la poneva da presso; e allora quella fiammella rossa che or s'allungava in sottile piramide e stava immota, ora ballava come un folletto, faceva in quella penombra strani effetti di luce su quel volto animato dall'idea creatrice.

Era l'autunno o era l'inverno nevoso: eppure per quella tetra sala in alto passava la primavera al suono della sua voce, l'eterna primavera del pensiero che Egli ogni volta evocava, viva, luminosa, presente fuori dai secoli che furono.

* * *

Con ciò non intendo dire che il Carducci sia un oratore nel senso che comunemente si dà a questa voce: l'impeto, la profondità, la larghezza con cui Egli concepisce e sospinge i suoi pensieri non hanno pari riscontro nella fluidità delle parole, e perciò di quel torrente di idee e di imagini solo una parte trova l'uscita; l'altra percuote e rimbalza contro quell'impedimento, e perciò in chi l'ode per la prima volta si genera come un senso di pena; chi invece conosce l'uomo e in quelle parole uscenti a scatti e svincolantisi sente tutto il prodigioso lavoro interno, non può sottrarsi a un senso di ammirazione e di meraviglia.

Egli inoltre che ci era così austero maestro nell'insegnare ed imporre il puro metodo storico della ricerca paziente e analitica, aveva sovente degl'impeti luminosi di sintesi, con una così sicura ed anelante concezione del vero quale gli eredi del genio greco latino sanno, forse soli, afferrare ed esprimere. E allora si vedeva quel suo volto acceso impallidire come sotto lo spasimo di un'idea gigante, l'occhio nero sconfinare oltre il recinto dell'aula e le parole venir fuori ora a gruppi rapidissimamente battute e serrate, ora gravi, tarde; quasi ogni voce avesse con sè un misterioso seguito di ombre, di luce e di fantasmi che doveano uscire con lei. Ed in quello impallidire, in quel commosso esprimere di parole, pareva che la sua fronte si cingesse come d'un profetico nembo; e gli angoli delle labbra in giù volti gli davano un'attitudine cupa di vaticinante.

Non era però raro il caso che tutto il getto dei pensieri trovasse libera uscita; e allora era un allegro irrompere di idee germinanti, salienti, scoppianti per raggrupparsi ancora e salire fin dove per la soverchia altezza oscillavano, e il periodo precipitava e finiva non con armoniche voci, ma con un gesto rapido e con uno scatto quasi feroce di accenti che sembravano come un'invettiva alla parola tarda ed inefficace a investire e rendere i suoi concetti.

A spiegare questo suo modo di parlare s'aggiunge un'altra causa, ed è che il Carducci che fu per tanti anni chiamato il poeta della democrazia, è il più aristocratico oratore che si possa pensare. La frase fatta con lo stampino, il periodo d'effetto, i facili artifici del dire, che un autore fine evita di scrivere, ma però nel parlare largamente profonde, giacchè sfuggono all'analisi e dilettano l'uditorio, il Carducci sdegna anche nel parlare. La sua frase è originale e viva come il suo pensiero; e perciò si arresta finchè non ha trovato quella voce che gli pare propria, quell'architettura del periodo corrispondente al suo pensiero. Da ciò ne deriva che quel discorso che ad un uditore volgare riesce slegato e duro, ove lo si fermi con la stenografia appare perfetto.

Finita la lezione, che durava circa due ore, indossava a fatica il pastrano o la pelliccia di cui mostrava avere assai cura, e passava fra il riverente aprirsi della studentesca. Era la dolce ora che le tavole delle trattorie suburbane attendono le chiassose brigate degli studenti, e il numeroso uditorio uscendo dall'università già deserta, si spandeva sotto gli alti e tetri portici di via Zamboni. Le ombre della notte vi erano discese; ma sovente giunti al largo delle due torri, dal fondo di via Rizzoli, un ultimo raggio di sole, come solo ne ricordo in quell'ora a Bologna, si riverberava vermiglio sul vertice aereo e sui merli dell'Asinella. Carducci che a brevi gesti e a più parche parole rispondeva al premuroso stuolo che lo circuiva, non mancava mai, io lo ricordo, di volgere lo sguardo su quegli alti fastigi delle torri che anche Dante mirò e dove il sole s'indugiava ancora

guardando

con un sorriso languido di vïola,

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e un desio mesto pe'l rigido aëre sveglia

di rosei maggi, di calde aulenti sere.

* * *

Il Carducci è inoltre di una sensibilità estetica meravigliosa; e questo fenomeno geniale un positivista di professione chiamerebbe, io penso, iperestesia artistica, o qualcosa di simile, non è vero? appunto per quella brutale superbia scientifica di classificare con una voce patologica i più nobili e meno concepibili movimenti dell'anima, e così confonderli con i più abbietti in un'uguale terminologia. Dunque io voglio dire che questa sensibilità del fantasma artistico è così prepotente in lui che lo vince e gli s'impone mal suo grado. E questa vittoria del genio sulla volontà era cosa nuova e commovente, giacchè la sua indole disdegnosa e il verecondo culto dell'arte lo rendevano restio a manifestarci tutte le visioni del suo pensiero; inoltre la scuola era per lui una palestra di severi esercizi, e il diletto dei commenti estetici Egli lo giudicava didatticamente pericoloso pei giovani cui l'ingegno e la coltura facevano difetto per assorgere a questa alta e geniale forma della critica. Ma ciò che sopra tutto lo rendeva aggressivo e violento era il sospetto che gli uditori, specie di altre facoltà che non mancavano mai, si fossero dato convegno con l'animo di chi va ad ascoltare una prima donna o un tenore di grido.

Eppure spessissimo avveniva che la visione suscitata da un verso o da uno di que' periodi armonicamente partiti come un edificio della rinascenza, tendenti al loro fine come getto di balestra, gli togliesse per così dire la mano: era una breve ed occulta lotta fra il voler dire o seguitare il commento linguistico; ma infine l'onda delle imagini crescenti come l'impeto della marea, vinceva ogni resistenza e si udivano allora le più alate e scintillanti digressioni che mai siano risonate in quelle scuole di filologia.

Chi, ad esempio, tra i frequentatori della facoltà di lettere a Bologna non ricorda, specie in certi giorni senza sole, grigi di nebbie e di piogge, il caratteristico entrare del Carducci nella scuola di filologia? Non era l'aula detta sopra, ove Egli faceva le sue lezioni di letteratura, ma un'altra molto più piccola e abbastanza chiara al primo piano.

Benchè i banchi fossero quasi per intero occupati dagli studenti della facoltà e si sapesse che quel giorno il Carducci non teneva che le solite lezioni di magistero, ciò è a dire di critica e d'interpretazione, tuttavia l'affluenza del pubblico era sempre tale da riempire tutti i vani possibili: studenti di altre facoltà, signore e signori venuti o per amore d'arte o per curiosità di vedere ed udire il grande Poeta.

Rammento fra gli uditori illustri la biblica, pensosa e dolorosa figura del conte Aurelio Saffi; la faccia animata della nobile donna Vitthe Jessie Mario. Egli li scorgeva appena che rendeva loro ossequio prima di salire su la cattedra.

Ma qui una parentesi cade giusta: voglio dire che l'universale degl'italiani press'a poco sa chi è il Carducci: il primo poeta della nazione, che ha scritto l'inno a Satana, le poesie barbare con l'ode alla Regina, che prima era repubblicano e adesso è senatore e monarchico.

Questo lo sanno tutti e nessuno lo contrasta. Alcuni, è vero, discutono se più Egli valga come poeta o come prosatore; ma per compenso quasi tutti spingono la loro erudizione sino a recitare a memoria un certo sonetto del Rapisardi, e tutto ciò va bene: però se questo allegro popolo per sue speciali ragioni non può intendere nè il poeta, nè il prosatore, nè l'uomo, sarebbe però giusto che sapesse come il Carducci che prima accusavano di godersi lo stipendio governativo, lui repubblicano; ed oggi accusano di avvantaggiarsi del suo mutamento politico (di diversa fede gli uni dagli altri, uguali gli uni agli altri nella cosciente calunnia), non abbia fra tutti gli ufficiali dello Stato alcuno che lo sorpassi nell'adempimento continuo, austero, pieno del proprio dovere.

Egli è il primo maestro del regno; ed anche oggi prosegue ed insegna con l'animo e con la fede d'allora. Una sola volta, in quattro anni che fui suo scolaro, venne alla scuola e disse, come confessando un suo errore da cui voleva che noi giovani dati all'insegnamento molto ci guardassimo, di essere costretto per quella volta a improvvisare la lezione a braccia e fu, ricordo, un poderoso raffronto fra i classici ed i romantici, denso di sintesi e di riattacchi storici quali Egli sa fare.

Del resto ogni lezione era una primizia de' suoi studi, che Egli recava alla scuola ancora viva e palpitante delle ultime ricerche: e da quel vigoroso e sicuro percuotere del pensiero entro le viscere del passato balzavano fuori scintille di verità e di luce: e in alto, senza alcun preconcetto di scuola o di politica, ma naturalmente, in alto, come faro luminoso, splendeva o s'intravvedeva risplendere l'ideale di questa gran patria italiana.

Tale il Carducci come maestro, tale la sua opera rigeneratrice in quella scuola piccola, dalle finestre luminose donde il giorno fuggiva e dove la sua parola richiamava la luce.

Lo ricordate voi, compagni buoni, dispersi per le scuole d'Italia, lo ricordate voi? Si chiosavano i canti dell'Inferno, si leggevano le stanze della canzone di Rolando, i sonetti del Guinizelli e del Petrarca, lo ricordate? L'ora era trascorsa; era venuta la notte e il silenzio: le sei lampade a gaz mandavano il loro ronzio e la loro viva fiamma. Egli saliva su per i banchi, si sedeva talvolta presso di noi, accennava ora all'uno ora all'altro con la sua nervosa, breve e bianca mano di continuare; e spesso, vedendoci stanchi per l'ora tarda e per il prolungato lavoro, Egli stesso leggeva e spiegava, e ci trascinava oltre, fuori del presente, per quelle grandi ondate degli antichi canti. Taluno, ricordo, che era in maggiore dimestichezza, levava fuori l'orologio come a dire: «Maestro, l'ora è trascorsa, anche quella del desinare.» Egli vedeva, sorrideva bonariamente e interrompeva dicendo: «Fra poco, sino a questo punto e poi basta.»

Si usciva: fuori frizzava la nebbia e sotto i lunghi portici batteva largo il vento; pure noi scolari non si cessava del conversare animato. Lo ricordate, buoni amici, se pure vi rimane animo e tempo di ricordare?

E chiudo la parentesi perchè l'indugiarmi con memorie subbiettive ripugna a me e alla natura di questo scritto.

* * *

Dunque Egli entrava regolarmente alle tre e come un fremito di rispettoso silenzio lo precedeva su per l'ampio scalone sino agli angoli più remoti della scuola: era un ultimo bisbiglio, un adattarsi alla meglio degli uditori su le poche seggiole fornite dalla premurosa solerzia del bidello Monti, dalla voce fessa e dal cuore mite.

Il Carducci volgeva attorno uno sguardo aggrondato, tediato alla vista di quel troppo numeroso uditorio: un altro sguardo lungo fuori dei vetri al cielo grigio, ai tetti umidi; poi un altro ancora agli uditori attenti, aspettanti e maraviglianti in silenzio.

Noi che si conosceva l'uomo, ci scambiavamo sguardi d'intelligenza, chè di parlare anche sottovoce non era quella la buona occasione e si rischiava di pigliarci un rabbuffo secco e terribile.

Ah, voi vi aspettate oggi la conferenza letteraria, forbita e oratoria che si convenga all'aspettazione e vi faccia passare piacevolmente queste ore incresciose! Ve la darò io la lezione! Ma questo non è un ridotto per conferenze, nè io son qui per divertirvi col sentimento e con l'estetica, e nè meno per avere applausi: questa è semplicemente una scuola dove io devo e voglio attendere a fare de' buoni maestri per i ginnasi ed i licei d'Italia: null'altro.

Questo pensiero si leggeva in certe sue mosse brusche, nello sguardo, nell'aggrottare della fronte e in certo suo tormentarsi la barba; poi si esplicava di solito in poche, burbere e rotte parole che sonavano presso a poco così:

«Avverto lor signori che questa è lezione di magistero: farò della pura filologia, molta filologia...» come a dire: ciò non può interessarvi e fareste meglio per voi e per me ad andarvene.

La minaccia riusciva, come è a credere, vana: nessuno si moveva.

Alcuni scolari, ad un suo cenno, andavano a prendere i soliti testi di consultazione: Egli passava dall'uno all'altro scolaro; rivedeva i quaderni, i libri, gli appunti. Erano per noi momenti terribili!

«A lei!» questa era la parola sacramentale.

L'interpellato cominciava e leggeva. A poco a poco la scuola si animava e ripigliava il solito aspetto; la voce e la fisonomia del maestro scendevano al livello normale, e lezione cominciava.

Il suo metodo didattico è ammirevole e perfetto. L'interrogato legge e chiosa; ne' passi controversi od oscuri ognuno è libero d'esporre la sua interpretazione. Egli ascolta, accetta, disapprova, corregge, talvolta loda, in fine amplifica e fornisce tutti gli elementi per cui il giudizio si possa accostare al vero; e se alcuna cosa ignora in quella sua molteplice ricerca, lo confessa liberamente; ne prende appunto per sè ed invita altri ad approfondire la questione. La più scrupolosa esattezza critica e linguistica si congiunge senza sforzo, senza stacco, alla più alta e spirituale concezione del testo: piano, insensibilmente, forse senza volerlo, ma con la forza intuitiva del genio, spesso movendo dal più semplice esame filologico, solleva la mente dello scolaro fino a far sì che questi fissi diritto, quasi allo stesso livello, il pensiero de' sommi autori di cui si ragiona.

Pure Egli così rimesso e semplice, avea degli scatti invincibili di sdegno se s'imbatteva in qualche scolaro che si fosse presentato a rispondere impreparato di tutto quel corredo di nozioni filologiche e storiche che si richiedevano.

Tale mancanza, spesso scusabile in un giovane, si presentava al Carducci sotto l'aspetto assoluto di un'affievolita coscienza del dovere e dello studio, e allora scoppiavano di que' rimproveri che dove toccavano levavano la pelle.

E anche di ciò bisogna ricercare la causa nel concetto che Egli aveva della scuola. Il Carducci, io penso, non si è mai illuso di avere sotto di sè dei geni in erba, ovvero che a lui spettasse il bizzarro incarico di coltivarne la rara pianta: se qualcuno mostrava più larghezza e genialità di mente che gli altri, se ne compiaceva e lo dava a conoscere con una ritenuta e pure affettuosa gentilezza; ma non faceva nè elogi, nè predilezioni. La cosa che Egli sopra tutto pregiava e richiedeva era la severità della vita, la costanza e l'assiduità del lavoro, il sentimento della dignità, degli studi e dell'arte; e tutto ciò per quell'elevato sentimento patrio che mai non si scompagnava da ogni sua azione e da ogni sua parola: l'Italia avea bisogno di rifarsi moralmente ed intellettualmente; perciò occorrevano pochi ma buoni maestri.

A questo Egli attendeva per parte sua e voleva che i giovani vi attendessero; al governo assicurarne la vita, la dignità, gli studi. Nè mai voce più nobile e più elevata suonò in loro difesa.

Ma anche qui quell'ottimismo che non sa distinguere le eccezioni e che in fondo è proprio, perchè necessario, di tutti gli uomini di genio, e quel giudizio quasi sempre assoluto ed unilaterale che è speciale del Carducci, inducevano spesso in errore un così alto e degno modo di giudicare; chè non solo molti di mente meno che mediocre, ma pazienti ed assidui, lodava e incitava; ma, quel che è peggio, non s'avvedeva come non pochi fra quelli che più lo circuivano, sotto un simulato amore di ricerche e di studi null'altro celassero che una gran vanità, un'ambizione dannosa ai buoni, senza avere alcun senso dell'arte, alcun animoso o doloroso ideale.

Egli psicologo acuto e mirabile dei fenomeni morali più complessi, non riusciva a scendere e a leggere nettamente nell'animo di coloro che con certa simulata modestia sembravano intendere e seguire le sue idee. Forse prestava loro un po' della sua grande anima e nel suo giudizio li faceva degni di sè.

* * *

Ma tornando al proposito, è certo che tali lezioni, per quanto perfette, non erano quelle che l'uditorio estraneo alla scuola si aspettava; se non che a poco a poco un verso del Petrarca o di Dante, uno di que' portentosi aggruppamenti di parole melodiche dove o l'anima o la natura o l'una e l'altra insieme vibrano nella misteriosa concezione dell'arte, investiva il suo pensiero e tutta la sua fantasia s'accendeva come un sole.

Non v'era più l'espositore paziente, il critico minuzioso; ma il sapiente ed il vate si congiungevano in una non so quale concezione grandiosa e quasi profetica, e sotto quell'impeto di idee s'indovinava una sacra tristezza.

Parea che si rivolgesse a noi come se fossimo i colpevoli di non so quale mancato bene, noi poveri giovani venuti alla sua scuola per acquistarci un diploma e guadagnarci questo misero pane. Egli ci trascinava dietro di sè e ci costringeva a salire in alto! O Maestro grande e buono, quante cose vedemmo, o piuttosto intravvedemmo di lassù dove Tu ci guidavi! Ma chi se ne ricorda più, chi ritiene più la forza di combattere per le battaglie di cui Tu segnavi così nettamente il campo, o Maestro?

No, da quella sua cattedra Giosuè Carducci non parlava al mondo, come diceva con infelice retorica il manifesto degli studenti monarchici invitante ad una pubblica dimostrazione dopo il fatto dell'11 marzo: Egli da quella sua cattedra si era proposto un compito molto più modesto eppure molto più arduo: rinnovare nel pensiero e negli studi la gioventù d'Italia, come nelle battaglie e nelle congiure fu rifatta materialmente la patria.

CAPITOLO II. La dimostrazione dell'11 marzo '91.

Il giorno 11 marzo '91, che fu appunto di mercoledì, alle ore tre, in quella grande aula numero uno, parecchie centinaia di questa gioventù italiana insultò di fischi assordanti, di improperi indicibili Giosuè Carducci.

I fischi e gli improperi durarono un'ora e mezzo non interrotti e crescenti.

Chi volesse far mostra di perizia descrittiva potrebbe agevolmente ricostruire quella scena dolorosa e, sotto un certo aspetto, fatale. Ma una simile descrizione sarebbe retorica nel senso brutto della parola, ed io la sdegno: però retorici non sono certo i due aggettivi che ho scritto, ma rispondono ad una verità che vorrei emergesse al lettore dalla comprensione di questo libro.

Si ebbe appena notizia del fatto, che la studentesca radicale delle università di Genova, di Cagliari, di Pavia, di Pisa, di Roma, di Modena e di altre città, compresi i giovanetti dei licei, perchè essi pure vollero fare udire la loro voce autorevole, si resero solidali e plaudenti agli studenti di Bologna, stigmatizzando con tutto lo sdegno delle loro offese coscienze — la deficenza del carattere del senatore Carducci e l'apostasia di Enotrio romano, disertore bandiera, santi ideali vera democrazia italiana; — chè così appunto suonano le lettere ed i dispacci d'allora.

Non ricostruirò, no, la scena; ma io penso che fra il frastuono e la tempesta degli insulti dovea squillare alta la plebea e feroce ingiuria di Romagna, e so di un'accusa ripetuta sino alla rabbia: — Tu sei un cattivo cittadino!

Θαυμάσιόν τι!, avrebbe detto Socrate. Ma che vale? Oggi il riportare un motto greco sarebbe ingenuità ovvero ignoranza; dirò dunque: — Mirabile cosa, non è vero?

Ma una ve n'ha più mirabile ancora: — Quella gioventù in quel suo accanimento contro l'uomo era sincera e convinta: sincera sino all'odio, convinta sino alla ferocia. Perchè non esitò, non oscillò dinanzi al Poeta; lo assalì con una logica ineffabilmente ignorante; non pensò e, se pensò, non paventò di recare danno con l'immane insulto a quella esistenza preziosa!

Dirò di più: era convinta di compiere un dovere. Essi scrissero: «Noi l'abbiamo fischiato per significargli lo sdegno delle anime oneste[1]

* * *

Egli ebbe l'intuizione eroica del momento: non protestò, non si mosse, non uscì, non volle uscire che ultimo. Montò ritto in piedi sur una tavola che era dinanzi alla cattedra, «non per parlare, ma per meglio esporsi ai fischianti che fischiassero con più loro soddisfazione e per ricevere in pieno petto gli oltraggi[2]

Crescendo gli urli, trasse dalla tasca uno zigaro e si mise a fumare. Quelli gridavano: «A basso Carducci!» Rispose: «Meno male se gridaste a morte! È inutile gridiate a basso: la natura mi ha messo in alto... ed io fumo.»

Ma Egli «cinicamente ci guardava fumando;» così dice l'esposizione che del fatto diedero gli studenti radicali nel citato numero unico, e quest'avverbio attribuito ad un'azione del Carducci fa fremere; eppure esso è riferito in buona fede.

Non è anche questo mirabile?

Il torrente dell'indignazione e dell'odio straripò e si scatenò sopra l'uomo senza che questi vi potesse porre argine. La memoria del maestro non si affacciò dinanzi ai tumultuanti; il genio del poeta, o almeno una sola delle sue mirabili idealità non fu ricordata; o, se fu, non ebbe forza di agghiacciare l'insulto prima ancora che le labbra lo avessero espresso.

Eppure l'uomo non si scompose, ma stette dinanzi a loro impavido e tutta la maestà del cittadino e del poeta si drizzò eroica, nel suo silenzio disdegnoso da ogni discolpa. Ma Egli «cinicamente ci guardava fumando,» ma l'uragano gli montò sopra e fuggì via col suo urlo. L'uno rimase rigido all'urto, gli altri trascinati come da una procella, seguirono il loro viaggio: termini irreconciliabili.

Eppure sono corsi pochi anni dal tempo che quella gioventù riguardava il Poeta come maestro, come esempio, come profeta: ed Egli profondeva per lei i tesori dell'inesausto suo genio. Ora gli uni si separano dall'altro nè v'è speranza di intesa o di ritorno.

Non è ancora questo un fatto mirabile?

Non pare a chi legge che l'avvenimento dell'undici marzo stia fuori dal mero fatto di cronaca universitaria; ma sia indizio di un grave fenomeno morale rimasto da lungo tempo latente, non determinato, non studiato e che in quel giorno si manifestò con quella selvaggia esplosione di insulti?

Tale convincimento mi animò a stendere queste pagine, e fu così forte l'impulso che vinse molte incertezze e riluttanze più facili ad intendere che piacevoli ad esporre.

* * *

Cominciamo da un paragone che può sembrare enfatico o strano. Ricorda il lettore uno dei titoli d'accusa per cui fu Socrate condannato a morte?

Nell' Apologia di Platone è detto: — «Socrate è empio perchè corrompe i giovani.»

Nel caso del Carducci mancano gli accusatori pubblici: sono i giovani stessi che l'accusano di corruzione. Essi dicono press'a poco così: «Il vostro canto, o Poeta, ci educò agli ideali della democrazia; ed ora vi vediamo non solo ritirarvi dalla lotta, ma passare duce e colonna degli avversari.» Dicono ancora: «Quest'uomo che, appunto perchè era messo più in alto, più era in vista, dava, sia pure colle più buone intenzioni, un esempio dannoso. Bisognava dirlo. E noi sentimmo il dovere di farlo, di ribellarci a tutti i pregiudizi dei feticisti, appunto quando contro di noi egli lanciò una cinica sfida, facendosi — egli professore ed educatore — capo di quegli studenti che rinnegano tutte le nostre e già sue aspirazioni[3]

Dunque Egli è esempio alla gioventù di disonestà e di defezione politica. Anche questo è mirabile, non è vero? E più mirabile è che è detto in buona fede.

Gli studenti monarchici, secondo il citato giornale, dicevano «beffardamente» agli studenti radicali: «Carducci è come gli altri; ad accarezzarne la vanità si rende più monarchico del re, più scettico di noi!» Esclamano in fine gli studenti radicali: «Oh, se nel cervello del Carducci fosse rimasta latente qualcuna delle antiche potenze, come scoppierebbe tremenda a schiacciare questa turba che ha imparato i paroloni altisonanti e non ha mai assaporato la dolcezza dei sentimenti potenti!»

Dunque quest'uomo che, secondo le vostre parole, si levava impavido dalla bassezza presente, che accendeva le anime vostre alla fede e all'amore del bene, è così mutato e diverso da quello che ora condannate e fischiate?

Davvero?

* * *

Ancora: Per chi ha non superficiale conoscenza dell'opera del Carducci, apparirà manifesto il fatto che Egli rivolse tutte le energie della sua vita a fare sì che il cittadino ed il poeta fossero una cosa sola: forza costante che, penetrata dall'agitatrice tempesta dell'arte, batteva contro questo «vecchio, ignavo titano» del popolo d'Italia; e se in questo percuotere per avventura commise peccati, furono — come Egli disse — non di volgarità mai: sì di passione.

Ora essi con spietata e certo incosciente crudeltà disgiungono il poeta dall'uomo; e con ciò non solo mostrano di disconoscere l'opera sua, ma gli fanno l'offesa che si può fare maggiore.

Premettono: «Noi intendevamo troppo bene quanta irresponsabilità ci fosse in quel poeta atto alle forti impressioni e incapace di convinzioni maturate,» poi aggiungono: «Carducci mentre rimane per noi un grande artista, non può rimanere un grande carattere; e impallidisce nella scuola, come passerà macchiato nella storia;» e in alcuni foglietti distribuiti dopo la contro dimostrazione tenuta in piazza S. Petronio il giorno 12, è scritto: «Il poeta e il letterato tutti ammiriamo. Noi abbiamo voluto fischiare il disertore di una bandiera!»

Davvero? Mirabile ad ogni modo!

Sì — voi dite — egli cantava molte leggiadre e, più sovente, molte strane canzoni: queste rimangono e noi le leggeremo ancora per nostro diletto e anche per dimostrare che riconosciamo i suoi meriti di scrittore, sempre che ci avanzi tempo e voglia: ma quell'anima ardente di entusiasmo e di bene per noi non esiste più.

Tutto ciò più che meraviglioso è supremamente triste.

* * *

Ma io sbaglio nel tempo. Essi non dicono, ma dissero. Forse non ricordano nemmeno più le infauste parole che proferirono e stamparono; eppure esse rimangono. La vita urge ed incalza que' giovani, ma la piaga da loro aperta non cessa per allentar di balestra.

E dico il vero; perchè se a quelle centinaia di studenti sono imputabili sì l'aperta manifestazione come la volgarità delle ingiurie, non è meno vero che quella gran forza inerte la quale spesso si chiama opinione pubblica, con la sua inettezza ad intendere l'evoluzione monarchica del Carducci, scusa e coonesta in certo modo tanto il tumulto come le ingiurie.

Mi si può chiedere: Perchè così di preferenza togliete passi e giudizi da quel foglio apologetico degli studenti? Rispondo: Appunto perchè di questa massima parte dell'opinione pubblica esso rappresenta l'espressione più esagerata, ma in pari tempo più animosa e sincera.

Ma su questo argomento ritornerò fra poco.

Sono dunque gli scolari stessi che accusano il maestro. Vero è però che nessun tribunale accoglie l'accusa e, seguendo il paragone incominciato, nessun ministro di giustizia apparecchia la cicuta al nuovo corruttore della gioventù. Anzi quelli che in certo modo rappresentano l'autorità delle leggi, accolgono con grande apparato di cortesia e di difesa il maestro oltraggiato, il quale non richiede altro schermo che la propria coscienza. Mancano dunque e tribunali e cicuta; ma anche voi mancate, o Simmia, o Cebete, o Fedone, e tu Apollodoro che non ragionavi no alla morte del Maestro mirabile, ma piangevi solo.

Gli scolari del Carducci — e per scolari intendo non pure quelli che frequentarono le sue lezioni, ma quanti nel rinnovamento degli studi dovrebbero riconoscere lui come maestro — i suoi scolari, dico, non scesero con lui nel combattimento: essi, pur fatta alcuna eccezione, hanno troppo da attendere alle loro piccole ricerche erudite e alle loro piccole scuole.

Socrate moriva per risalire il corso dei secoli: invece grande aura di tristezza già ottenebra la fronte del Poeta. Egli scende vivo nella sua idealità e la gente nuova senza di lui palpita e s'agita al nuovo viaggio umano.

Parole mistiche forse sono queste, ma che spero abbiano ad acquistare luce di verità da ciò che segue.

* * *

La requisitoria degli insultatori si fonda sui fatti e su le parole stesse del Poeta ed ha tutti i caratteri di una logica brutale e invincibilmente ignorante.

— Non scriveste voi l'inno a Satana? non cantaste voi la rivoluzione francese? non proclamaste voi la repubblica santa, la repubblica vergine? non vi pronunciaste voi stesso repubblicano nel discorso di Lugo e in molte altre occasioni? chi scrisse i Giambi ed Epodi? chi imprecò in tante forme e per tanto tempo ai moderati? chi fremendo ricordò il nipote di Carlo Alberto cui si fece indossare la divisa di Radetsky? Ed ora voi avete composta l'ode alla Regina; non basta, ma vi siete fatto poeta cortigiano delle gesta di Casa Savoia. Chi ha scritto il Piemonte, chi l'ode Il liuto e la lira? Ma non basta: mentre noi commemoriamo Mazzini, voi accettavate di essere padrino della bandiera che le gentili donne di Bologna ricamarono per il Circolo monarchico universitario.

Per tali titoli noi vi condanniamo.

* * *

Il citato giornale degli studenti ha però un'osservazione vera e gravissima più che non sembri ad un primo esame, ove dice: «La stampa italiana in generale ha riportata quasi senza commenti la notizia delle dimostrazioni pro e contro Carducci.» Tutt'al più, osservo io, alcuni giornali si mostrarono indulgenti e favorevoli agli studenti, altri d'opposto colore politico li condannarono più o meno aspramente. Molti del pubblico dissero che era una lezione severa ma ben data; altri più miti concedettero ai giovani il diritto di giudicare e biasimare il Carducci, ma ne disapprovarono il modo ed il luogo. Grazie! I più equanimi e liberali «Oh che diavolo — dissero — che non si possa, almeno una volta nella vita mutare francamente opinione e cambiar strada dopo che si conobbe che l'altra era sbagliata, senza che i soliti difensori della morale pubblica ci abbiano a ringhiare alle calcagna! o che si deve pretendere un'assoluta coerenza politica per tutta la vita?»

Grazie maggiori e senza fine!

Del resto non molto diversamente giudicò l'onorevole Ferdinando Martini alla Camera dei deputati nella seduta del 16 marzo, dando così, e per il luogo e per la persona, speciale valore a tale opinione. Ecco come: L'illustre Villari, allora ministro, condannò l'opera degli studenti e disse: «Quando assistiamo a fatti deplorevoli come quelli di Bologna, dove impunemente s'insulta l'uomo, il cittadino, il maestro, mi sembra vedere dei figli che insultano il loro padre.» La dolorosa e semplice gravità di queste parole può sembrare ed è in fatti compenso all'impunità che si dovette concedere; ma pur è vero che niuna parola l'illustre uomo disse su le cause della dimostrazione: quasi vi si sente il timore di inoltrarsi in un terreno mal fido, dove se era facile condannare la mancanza di rispetto al maestro, non era poi così semplice o breve cosa, lì per lì, in una seduta parlamentare rendere ragione di un complesso di fatti per modo che l'azione del Carducci uscisse giustificata, anzi lodata.

Ma l'onorevole Ferdinando Martini volle con un breve confronto affrontare la questione; e dopo aver deplorato questo rifiorire di spirito settario ( mormorio all'estrema sinistra; approvazioni a destra ) «sì, spirito settario, — aggiunse — perchè chi rimprovera l'evoluzione del Carducci, applaude poi a Victor Hugo che di evoluzioni ne fece parecchie ( approvazioni ).»

Già: Victor Hugo monarchico diventò repubblicano e Giosuè Carducci repubblicano è invece diventato monarchico. È un'equazione perfetta che non fa una grinza e non c'è nulla a ridire!

Ma è possibile pensare che Giosuè Carducci dopo avere speso tutto il suo genio e le sue forze a sostegno di un determinato principio civile e politico, nella giovanile età di cinquantaquattro anni passati si ricreda e professi una fede opposta?

Ammettere questo è ammettere implicitamente la demolizione di un uomo.

Il vero è che questo mutamento sostanziale non esiste se non in alcune forme apparenti che Egli volle accentuare con la sua rude e coraggiosa franchezza. Non è l'evoluzione dell'individuo ma è l'evoluzione dei tempi che, giunti a maturità, hanno necessariamente determinato nel Carducci un'attitudine che prima o non appariva così manifesta o si fingeva di non vedere.

Il paragone parve felice; ma in verità non regge sotto niuno aspetto.

Victor Hugo, anche per speciali circostanze intime e famigliari, monarchico ne' primi anni della giovanezza, a trent'anni si professa di non dubbia fede repubblicana; e in fine la sua mutazione segue e s'accompagna gradatamente al corso dei tempi. Essa è logica e naturale.

Ora tale non si potrebbe dire la mutazione del Carducci se essa fosse, come fu nell'Hugo, cagionata da un nuovo ordine di convincimenti politici.

In oltre, pur prescindendo da diverse condizioni di civiltà e di nazione, non credo possibile un paragone fra i due uomini attesa la diversità della loro indole: il Carducci rigido, schietto, appassionato, ingenuamente semplice ed eroico, naturalmente ribelle; il poeta francese invece ammaliante e accarezzante il pubblico col fascino della continua sua enfasi trascendentale, cui sempre, forse, non corrisposero le intime convinzioni e la pratica della vita[4].

Può darsi che la parola o la concitazione del momento abbiano tradito il pensiero dell'oratore; ad ogni modo sarei curioso di sapere se il Carducci rese grazie all'onorevole amico del servizio resogli.

* * *

Ma ritornando all'effetto che il fatto dell'11 marzo produsse sul pubblico, aggiungerò che un osservatore pessimista potrebbe anche insinuare questa supposizione, che gli studenti fischiatori ingenuamente si prestarono alla gratuita vendetta della non breve schiera dei letterati e dei poeti o invidi, o percossi, o schiacciati dal solo muoversi del gigante, senza che questi nemmeno ne avesse intenzione. Altri poi soverchiamente malevolo potrebbe pensare che a qualcuno de' nostri critici ed eruditi, più o meno grave, più o meno giovane (il quale certo per conto suo non avrebbe mai osato levare la voce verso il Carducci se non in tuono di grande reverenza) nel segreto que' fischi e quegli insulti allargassero piacevolmente il cuore e movessero il pensiero a formulare presso a poco questa considerazione: «È deplorevole, ma era da prevedersi: il Carducci avrebbe dovuto accontentarsi di essere un poeta e basta, invece volle invadere tutto, anche il campo della critica, che spetta di diritto a noi, anche la politica che spetta ad altri.»

Il vero è che la dimostrazione contro il Carducci non oltrepassò nel pubblico le dimensioni di un semplice fatto di cronaca universitaria.

Ora nel non aver notato in quel tumulto che un avvenimento scolastico, consiste gran parte dell'importanza storica e morale del fatto stesso. Tanto è vero che se l'universale degli italiani e della stampa fossero stati in condizioni di giudicarlo nel suo valore, esso non sarebbe potuto avvenire, nè il Carducci vi avrebbe dato pretesto.

Si possono obbiettare le infinite testimonianze di sdegno e di affetto che il Poeta ricevette, ma esse hanno un carattere o privato o ufficiale e sono infine manifestazioni di una minoranza.

La contro dimostrazione del 12, indetta dagli studenti monarchici, cui prese parte la classe più eletta della cittadinanza bolognese, è in parte una giusta protesta contro un insulto volgare fatto ad un illustre concittadino e per altra parte è di natura essenzialmente politica. Vero è che se gli studenti monarchici avessero avuto conoscenza precisa della evoluzione del Carducci, per così darle un nome, non avrebbero avuto molto da rallegrarsi o da vantarsi come di un loro speciale acquisto.

* * *

Nei fenomeni fisici vi sono cause che sfuggono ai sensi, e nei fenomeni morali vi sono cause che sfuggono all'analisi del pubblico: eppure senza giungere alla conoscenza di quelle non è possibile dare esatta ragione di certi fatti. È la gran forza dell'imponderabile!

L'evoluzione del Carducci non segna, come già dissi, un mutamento sostanziale dell'uomo ma dell'universale. Egli non si è mosso che in certe sue attitudini esteriori, dovute all'imperiosa forza che lo costringe a dare risalto netto ad ogni sua opinione; ma è la maggioranza che si è notevolmente spostata, specie in questi ultimi anni ed ora vede il Poeta sotto un aspetto che prima rimaneva come nell'ombra.

Per provare ciò in verità non fa mestieri di battaglia alcuna di parole, o di speciosi equilibri di ragionamento, o di arte dialettica; ma, come a me pare, basta il semplice studio e commento dell'opera del Carducci.

E se nel mio ragionare per avventura mi sfuggiranno parole amare, voglia chi legge attribuirle non a malevolenza verso persona, sì a passione e ad amore di verità. Così pure se alcune affermazioni avranno più l'aspetto di paradossi che di verità, pensi il lettore benevolo che il paradosso talvolta ci appare tale non per assurdo che vi si contenga, ma per soverchia sintesi di vero; e che tal altra esso è nello scrivere ciò che nell'arte del dipingere è lo scorcio. Bisogna osservarlo da lungi che sarebbe a dire nell'intensità e nella solitudine del pensiero.

CAPITOLO III. Iuvenilia — Alla Croce di Savoia — L'inno a Satana — Giambi ed Epodi — Il discorso agli elettori del collegio di Lugo.

La guida più razionale e sicura per intendere il rivolgimento politico del Carducci, a me sembra sia il seguire quella che è invincibile, massima e sua più intensa e sincera espressione, cioè l'opera poetica; intorno alla quale si raggruppano le molte e varie prose battagliere, sì letterarie che politiche o, meglio, civili, e da quella in certo modo dipendono. La stessa sua produzione filologica e critica che può sembrare straordinaria per chi consideri l'erudito come disgiunto dal poeta, appare invece naturale se si pensa che una stessa unità di entusiasmi e di intenti è cagione sì del canto che delle sapienti e innovatrici ricerche.

Talora alcune poesie sembrano prendere misteriosamente ed improvvisamente le mosse da quelle ricerche come se il fantasma poetico dormente nelle immortali pagine vi aleggiasse evocato, ed hanno la fragranza di un'eterna e ridente giovinezza di sole; talora la maschia e nutrita sua prosa vibra tutta sotto lo sforzo del canto, cui il freno dell'arte a fatica ritiene e costringe.

* * *

Le poesie giovanili del Carducci sono contenute, come è noto, in due raccolte di rime: Iuvenilia e Levia Gravia, non sempre nello stesso modo distribuite nelle varie edizioni, giacchè nell'ordinarle l'autore ebbe piuttosto di mira lo svolgersi della sua idea artistica che l'ordine del tempo[5].

Sotto al primo titolo sono comprese le rime composte sino al 1860, nel quale anno il Poeta, nella combattente vigoria de' suoi ventiquattro anni, fu assunto alla cattedra dell'università di Bologna.

Nei Iuvenilia, scrive il Carducci stesso nel '71 «sono lo scudiero dei classici;» e in vero la forma classica, acquistata non di seconda mano, ma comperata proprio alle origini, riveste quasi interamente con una certa purezza e talora rigidità di linee un pensiero sano nella sua tristezza, vigoroso e composto, così da trarre in inganno su l'età dell'autore, giacchè non pochi versi si direbbero di un poeta di secondo ordine che ha raggiunto il suo pieno sviluppo. V'è di fatto tanta ricchezza d'arte, così maturo apparecchio di studi che pare cosa straordinaria in un giovane.

Se non che, di tratto in tratto, traluce non so quale austera e pur ridente verginità di pensiero, che si compiace ornarsi delle magnifiche vesti classiche; e, quando altri non l'osserva, pare vezzeggiarsi di sfuggita: e allora si sente che non è la maturità del pensiero, ma appena l'estiva aurora che attende il suo meriggio. Inoltre sotto quelle forme composte e perfette (e talvolta modellate con un atteggiamento che ricorda famosi esemplari) si sente fluttuare un rigoglio di forze ancora confuse e germinanti; ma tale è il loro vigore che la scorza della forma le frena a stento e pur qua e là accennano a scoppiare in quelle espressioni libere e rudi, proprie del Carducci, come nel verso:

Il secoletto vil che cristianeggia.

Ora questa percezione di forze originali e maggiori di cui si sente il germe e se ne intuisce lo sviluppo, danno ai Iuvenilia un carattere transitorio. In altre parole il poeta avvenire infirma ed offusca il poeta di allora.

Nei Iuvenilia non è alcuna decisa affermazione politica o filosofica, ma un continuo anelito al bene, un'onestà ed una purità d'intendimenti meravigliose in un giovane. Ben con pure mani e con candida veste egli si accosta all'ara di Febo Apolline!

Il fremito della rivoluzione maturantesi nel decennio, segue il giovane poeta su per il sentiero dell'arte, e se ne risente l'eco, non in allusioni a fatti e uomini del tempo, ma in un bisogno di rinnovarsi e di rinnovare, assorgere ad un vivere civile più libero, più virtuoso, più conforme ai grandi esempi del passato. La tristezza stessa che aleggia su quei canti è tutta ardente d'idealità e di speranza. Rileggendo i Iuvenilia io provo un'impressione strana, come di un uomo che è in fondo ad una valle caliginosa e densa di gravi vapori: respira a stento, eppure cammina con un'energia indomita per salire in alto; molto in alto. O l'uragano o la gran calma delle alte vette lo attendono. Non importa, ma si respirerà meglio lassù. Il suo gran petto e la sua ardente fronte hanno bisogno di questo.

* * *

Le poche poesie d'argomento politico non appartengono alla primitiva raccolta dei Iuvenilia, la cui prima stampa fu nel '57 in San Miniato[6], quando il Carducci era appena ventenne e nè meno sono accolte nelle successive edizioni del Barbera,[7] da cui furono escluse per ragioni d'arte e di opportunità. Esse sono: una canzone petrarchesca a Vittorio Emanuele che chiude:

Poi sui colli italiani

l'ombra adora di Roma e il voto augusto

sciogli di Giulio e di Traian sul busto.

altre rime cagionate dagli avvenimenti di quegl'anni; in fine la nota ode alla Croce di Savoia, stampata in fascicoli e messa in vendita e anche in musica nell'ottobre del '59. Nelle edizioni dello Zanichelli vennero poi fuse fra i Iuvenilia[8] e fu più giusto criterio perchè esse hanno grande valore nella storia del suo pensiero politico.

Il Carducci, fin da allora repubblicano classico (tanto per esprimere con parola poco determinante una quantità di fatti e di idee determinate, ma che richiederebbero assai tempo per dichiarare convenientemente) repubblicano per istudi, per l'antica origine della sua gente, per educazione famigliare, per la perfetta italianità del suo genio, dimostra in questo canto giovanile come il concetto dell'unità politica fosse in lui superiore a qualsiasi preoccupazione partigiana, supposto che ve ne fosse stata. Inoltre in questo poetico e gentile invocare l'elemento signorile, conservatore, eroico-feudale a fondersi con il popolo e con la borghesia, non si contiene un'esplicita affermazione di fede monarchica, come poi gli fu mosso rimprovero, quanto un'aspirazione sincera e sinceramente espressa di valersi di tutte quelle forze etniche e storiche che, formanti, per così dire, la complessa geologia morale di questa secolare Italia, potevano contribuire validamente a risaldare la compagine della risorgente nazione.

* * *

Sotto il secondo titolo di Levia Gravia si raccolgono le rime composte fra gli anni 1861-1867, cioè nel tempo in cui, anche a cagione dell'alto ufficio, rivolse tutta la sua mente ad ampliare ed approfondire la sua coltura; tempo «vissuto — come Egli stesso dice — in pacifica ed ignota solitudine fra gli studi e la famiglia.»

Nei Levia Gravia, scriveva il Carducci nel '71, «faccio la mia vigilia d'armi;» ma dieci anni dopo, nella prefazione ad una definitiva ristampa (Bologna, Zanichelli, 1881), così ne ragiona:

«Ci si vede l'uomo che non ha fede nella poesia nè in sè e pur tenta; tenta la novità, e non ha il coraggio di romperla con le vecchie consuetudini; discorda dalla maggioranza e la segue; scambia la materia per l'arte, o le mette in urto fra loro; si balocca facendo sul serio; gitta un grido, e ha paura della sua voce che si perde nel vuoto.

«Rileggendomi, mi giudico come un morto; e anche di questo volumetto che do a ristampare veggo e sento la livida screziatura e il freddo, come d'un pezzo di marmo che aggiungo a murare il sepolcro de' miei sogni di gioventù. Sparite via presto, o morticini; io non ho nè il tempo nè la voglia di farvi nè meno il compianto.»

A parte la violenza del giudizio che Egli nè meno a sè stesso risparmia, è certo che i Levia Gravia mancano di personalità e di originalità; sono piuttosto una sosta che un progresso. Egli forse volle significare ciò col togliere in questa ristampa dell'81 alcuni bellissimi sonetti i quali furono poi compresi nelle Rime Nuove, e con l'accogliere invece le meno perfette rime dei Decennalia[9]: ma è una sosta piena di raccoglimento, quasi a chiamare ed esercitare le forze per ispingersi a nuovo e libero viaggio.

* * *

L' Inno a Satana segna appunto il termine di partenza per il futuro viaggio.

Quest'inno concepito di getto «dopo anni di ricerche e di dubbi» in una notte di settembre del 1863, in una vera stasi di eccitamento lirico, chiude la serie delle poesie giovanili ed è la prima delle poesie nuove del Carducci, o piuttosto sta a sè come intermezzo di un impeto così pauroso e folgorante cui non trovo riscontro adeguato nella poesia moderna[10]. È lo scoppio di una forza selvaggia che si regge più per ingenito equilibrio che per meditato freno della ragione.

Quest'inno, ripeto, concepito e gettato nel 1863, pubblicato (si noti il lasso di tempo e il modo che sono di una significazione grandissima) nel '65 «per amici e conoscenti,» diventa di dominio pubblico, corre la penisola, i giornali massonici e democratici se ne impadroniscono come di un'arma e lo ristampano; il nome del poeta è fatto popolare oltre l'aspettazione e l'intenzione, più che per qualsiasi altra sua opera d'arte; ma nel tempo stesso si stabilisce il primo dei malintesi fra il Carducci ed il pubblico.

* * *

Ed ora una domanda: quest'inno ha veramente il valore letterale che gli fu dato, cioè di un carme oggettivo sciolto all'ara della pura dea Ragione?

Così pare ad una prima lettura, così venne interpretato: v'è di più, così il Carducci stesso lo difese nelle polemiche sataniche; dove, scusando la poco estetica sintesi, disse «di avere adombrato, come in una poesia lirica potevasi, la storia del naturalismo panteistico, politeistico, artistico, storico, scientifico, sociale;» cioè «la natura e l'umanità ribelli necessariamente nei tempi cristiani all'oppressura del principio di autorità dogmatico congiunto al feudale e dinastico.»

L'inno, fuor di dubbio, vuole anche significare tutto questo.

Ma ora un'altra domanda: il Carducci quando concepì quel canto, sentì la necessità sociale o filosofica o politica che dir si voglia di bandire al pubblico quelle verità? No certamente; tanto è vero che due anni passarono prima che fosse reso di pubblica ragione.

Se Egli era davvero convinto che vi si contenesse un insegnamento utile, una verità nuova da rivelarsi, perchè non lo divulgò subito? Forse perchè come esecuzione non rispondeva al suo concetto artistico? Ma questo, cioè che «mai chitarronata (salvo cinque o sei strofe) gli uscì dalle mani tanto volgare,» Egli potè dire nel 1881, dopo aver composto le Rime Nuove e le Odi Barbare, non allora che vivo era ancora l'ardore del concepimento. Di fatto in questa fine di secolo un tale intendimento filosofico, espresso per giunta in forma lirica, può sembrare un anacronismo o un'ingenuità. Non voglio dire con questo che la reazione politica di allora non coonestasse in parte questo intendimento; ma non giunge certo sino a spiegare la subitaneità e lo scatto lirico di quel canto. Le cause si debbono ricercare in fonti più intime e riposte.

* * *

Questo canto alla vittoria del pensiero umano sembra essere piuttosto il grido d'osanna alla vittoria sua, della sua ragione divenuta perfettamente libera, e segna il passaggio alla fase piena e virile.

Una più profonda e comprensiva conoscenza dello svolgersi del pensiero storico-umano, maturatasi in quelle sue divinatrici ricerche sul trecento e sul quattrocento e in un largo studio degli scrittori moderni, specie stranieri, diede origine al passaggio, formò la convinzione e l'inno balzò fuori come folgore. Esso in fine altra cosa non è che il paganesimo artistico degli anni giovanili, il quale è fatto cosciente di sè e si afferma naturalismo ed umanesimo: da questa convinzione procede il poeta nuovo e vi si mantiene.

«L' Inno a Satana — scrive tra le altre cose il Carducci in risposta all'affettuosa ma non profonda lettera che Quirico Filopanti gli rivolse in proposito il 9 dicembre 1868 nel giornale bolognese Il Popolo — è l'espressione subitanea di sentimenti tutt'affatto individuali;» e, se non vo errato, non molto diversamente da ciò che io ho detto, si espresse più tardi nel prologo Al Lettore, premesso alle edizioni Barbera.

Si può insomma affermare che quest'inno ha sopra tutto un senso non pur soggettivo ma simbolico: invece fu interpretato soltanto nel senso letterale ed oggettivo come un proclama di fede civile e politica.

E qui sta l'errore: errore a cui il Carducci stesso contribuì involontariamente, non tanto con la poesia quanto con le polemiche sataniche.

Egli non potè o non volle dare dell'inno la spiegazione che verosimilmente è la vera, ma accettò invece la battaglia nel campo che i suoi avversari avevano scelto e dove lo trassero in agguato, senza che nè meno essi il pensassero. L'irruenza alata, ridente, folgorante di quelle polemiche dovea di necessità riportare vittoria completa; ma fu una vittoria in cui è vero che gli anonimi o trascurabili avversari rimasero schiacciati; ma è vero altresì che Egli fu costretto ad avanzare con affermazioni di tal natura che pure essendo assolutamente esatte in sè, non potevano dal pubblico essere comprese se non in senso assai partigiano.

A queste polemiche Egli fu tratto sì dalla critica poco illuminata e molto settaria che gli fu mossa da ogni parte, come anche dalla sua indole «proclive — Egli stesso lo dice — all'opposizione, anche letterariamente». Vi sono poi altre particolarità del suo temperamento d'uomo e di artista determinanti la forma e la sostanza di questa e delle altre sue prose battagliere.

Non eccitato, il suo giudizio è di una serenità olimpica; ma l'opposizione sistematica ovvero informata di saccenteria partigiana, di burbanzosa sicurezza, di malafede o d'ignoranza, lo squilibra; non può restarne impassibile, ma corre dalla difesa all'offesa: e allora il fenomeno particolare, transitorio, sembra acquistare un carattere assoluto ed immanente; l'eccesso dell'intelligenza e le gemme scintillanti della prosa accumulano argomenti e prove come diga immensa contro un torrente da nulla; e tutto un esercito Egli accampa contro un nemico che cadrà l'indomani da per sè per difetto di forze.

Per queste cause mentre ogni singola ragione è vera in sè e tale ci appare e il tutto ci trascina e ci ammalia, non però ci persuade interamente. L'avversario ne esce disfatto; il lettore non sempre è vinto.

Ancora: molte fra quelle polemiche sono modelli meravigliosi di ardimento, di verità e di bontà illuminata dal genio; eppure hanno un altro lato debole, appunto perchè il Carducci è debole in questo che la sua mente, specie quando è contrariata, diviene troppo suscettibile a tutto ciò che si presenti con un lato estetico e questo gli esclude o per lo meno gli adombra gli altri.

Saranno forse queste le cause per cui rileggendo alcune di quelle pagine di prosa io provo oggi un'impressione strana, perchè mi sembra che il tempo le abbia troppo rapidamente scolorite; e pensando a tanta ricchezza di verità, di affetti, di pensieri che rimane lì inerte, un'immagine non lieta mi si affaccia, come di un nembo di gemme che ricoprano un cadavere.

Del resto sarebbe presunzione e mancanza di gentilezza l'avere accennato a questi caratteri difettosi senza dire per anche che essi (se pur difetti si possono chiamare) traggono origine da un invincibile ed eroico sentimento del bene e del vero, che noi mal nati a pena riusciamo ad intendere non che a sentire. Forse è per questo anche che quelle pagine ci sembrano scolorite. Ma di questa impronta e natura originalissima delle sue polemiche sarà detto più diffusamente nel capitolo che segue.

Concludendo per ciò che riguarda l' Inno a Satana, è certo che la difesa che Egli ne fece diede valore all'interpretazione popolare: l'intendimento politico venne subito a galla e s'impose alle altre e più difficili considerazioni filosofiche e storiche; la voce brutta di — cantore di Satana — divenne, malgrado l'austerità del Poeta, il maggior titolo di gloria; e la crescente generazione, inceppata da intellettuale, atavistico servaggio; incapace, per la più parte, di salire con meditazione, con pazienza e con raccolta energia di virtù e di studi al livello dei nuovi tempi, ma pur bramosa di giungervi ad ogni costo e di fare presto, ripetè le strofe di quel canto come dogma di una nuova fede, come espressioni di una dottrina nuova che già si respirava nell'aria, ma di cui mancavano i convincimenti e i salutari ritegni. Infine se ne valse come di un'asta per varcare d'un salto, allegramente, al di là del precipizio, ove sono i regni della dea Ragione, ne' quali è assai facile lo smarrirsi, se pure non si giunga per la difficile via del dolore e della vera sapienza.

* * *

Quelle energie che nell' Inno a Satana si risvegliarono indomite e selvagge, sono poi da una sovrana ragione rese domite e docili. L'arte ed il pensiero si modificano, ed acquistano una sicurezza di obbiettivo, una coscienza di sè che prima non erano; un ardimento cui la convinzione e l'alto intento non permettono di trasmodare, e perciò anche quando è eccessivo, ci pare vero e ci vince.

Appunto è in quel tempo che la sua Musa:

prese d'assalto intrepida

i clivi de l'arte.

La forma stessa si adatta al nuovo pensiero: metri più agili e saettanti subentrano; ed il sonetto acquista quell'equilibrio di struttura, quell'oggettiva e fremente comprensione di cose e di idee che lo rendono più unico che nuovo, tale che Egli si può con pari onore accompagnare ai massimi poeti ricordati[11] come maestri di questa originale forma della nostra poesia.

Non è più l'uomo che, come Egli stesso disse, «non ha fede nella poesia nè in sè», ma è il cavaliere che ha compito la sua vigilia d'armi, che esce dalla solitudine temperato nell'onda della sapienza e si affaccia al popolo d'Italia nell'invincibile sua fede.

Non è più la gioventù che mal cela il vigore delle membra nel raccoglimento delle venerate forme dell'arte; ma è una gioventù nuova, libera, quale è sorta dall' Inno a Satana, eccitata, infiammata, armata di tutto punto per la battaglia.

E di fatto tutta la sua vita è una battaglia.

Egli nella storia del risorgimento è un personaggio fatale.

Mazzini e Garibaldi formano due lati di quella base di cui il Carducci rappresenta il terzo lato.

Egli è la loro logica continuazione.

In Mazzini l'idea politica storicamente desunta dalle nostre tradizioni più pure; in Garibaldi il combattente eroismo congiunto ad un senso di umanità semplice e buono, proprio di nostra gente; nel Carducci l'arte e gli studi che furono tanta parte della antica vita italiana e così grande cagione nel sentire e nell'affermare il diritto di nazionalità; e in quelli e in questo quel senso dell'idealità e della virtù storica che si presentava come fisso termine di confronto per tutte le riforme richieste dalla necessità dei tempi.

Io so bene che a molti che appartengono alla vita combattente dell'oggi questo ravvicinamento sembrerà strano per lo meno; eppure io lo ho voluto dire perchè lo sento vero.

* * *

Gli avvenimenti politici che vanno dalla battaglia di Aspromonte alla presa di Roma, determinano l'indirizzo della nuova poesia del Carducci. I Giambi ed Epodi[12] sono il frutto di quegli anni, e muovono da quegli avvenimenti i quali segnano, a vero dire, non la via della gloria ma la via crucis per cui la patria si ricongiunse in nazione.

È inutile fare raffronti su la satira del Carducci: essa è tutta sua, tutta del tempo. Muoverà, forse, come arte dal Barbier e da Victor Hugo; nel Carducci vi sarà forse meno finezza di sarcasmo e meno intenzione letteraria: ma v'è più dolore.

Io non la chiamerei neppur satira: quello è un grido disperato al tradimento e al parricidio.

Senza dubbio i Giambi ed Epodi sono una requisitoria terribile contro il partito moderato monarchico che in quegli anni resse ed ebbe la responsabilità della cosa pubblica.

Sono queste questioni difficili, dolorose e pericolose non solo a risolvere ma ad accennare soltanto. Tuttavia, per usare di una metafora che può sembrare graziosa in questi tempi sgraziati, si può dire che la cambiale avente per sua scritta «unità e indipendenza d'Italia» ebbe bisogno della regia firma di re Vittorio se volle passare allo sconto della politica europea.

La firma di Giuseppe Mazzini non fu riconosciuta valida, e se una gran parte della nazione ne sentì sdegno e protestò, non vi fu però quell'unanimità di energie, di virtù, di convinzioni maturate tali da imporre ad ogni costo, anche a chi non voleva, la firma del grande agitatore.

Il nuovo avallo rese accetta la cambiale: se poi le condizioni e il metodo furono alquanto mutati, bisognava pur rassegnarsi e contentarsene, anzi saper grado al monarca, giacchè il fine si voleva e le forze morali e materiali per ottenerlo col primo mezzo si erano mostrate ed erano in realtà insufficienti.

Lungi ad ogni modo la supposizione di voler farmi io giudice del partito monarchico moderato d'allora: io credo tutt'al più a certe fatalità storiche che si impongono agli uomini loro malgrado; credo che i migliori fra quelli abbiano operato così non per incompleto senso di italianità, quanto facendo sacrificio di questo sentimento ad un fine che si presentava troppo facile per essere il vero, e per converso troppo immediato per lasciarlo sfuggire.

Quando si dice che l'unità d'Italia fu un fatto miracoloso, non si esagera. Ma non è una lode. Fu in vero un miracolo di contingenze, parte spontanee, parte provocate da un ministro di genio che produssero in breve tempo la unità della terra quando l'universale della nazione non era compresa da quell'altissima idea.

Con queste parole io non credo di menomare la dovuta venerazione agli eroi della patria, nel culto de' quali sento di non essere inferiore ad alcuno; sì di accennare ad un fatto storico che per opportunità si potrà nascondere, ma non con valide ragioni negare.

* * *

Sono i Giambi ed Epodi una requisitoria contro un partito? Sono. Ma un critico del tempo futuro che trascendesse a più lato senso, li potrebbe anche chiamare una requisitoria contro l'intera nazione.

Vi sono strofe come queste:

Solingo vate, in su l'urne de' morti

Io vo' spezzar la lira.

Accoglietemi, udite, o degli eroi

Esercito gentile:

Triste novella io recherò fra voi:

La patria nostra è vile.

e l'altra:

O popolo d'Italia, vita del mio pensier;

O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo,

Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo,

E de' miei versi funebri t'incoroni il bicchier.

ed altre, molto consimili di senso se non così di violenza, che sono voci nuove.

Non sono espressioni di poeta solitario od irato; e non sembrano nemmeno la voce d'un uomo solo: sembrano un grido fatale che muova dalla profondità della storia, quasi ultima strofa del carme secolare italico che palpita diffuso dai canti de' poeti che già vissero sotto il nostro gran sole.

Alcuno può ricordare le imprecazioni dantesche, i versi del Petrarca, ove chiama l'Italia «vecchia, ozïosa e lenta.» Sia pure; ma la storia è là a dimostrare come questa nostra patria seppe ne' suoi complessi elementi ringiovanire ancora, come per il fenomeno di una vitalità sorprendente seppe aprirsi la via fra infiniti ostacoli, e pur priva di unità politica, imporre alle circostanti nazioni l'unità del suo genio.

Speranza in una simile vitalità ci affida per l'avvenire? Così fosse! Ma fra l'esausta stanchezza di nostra gente e la maturità dei tempi e degli altri popoli vi è troppo dislivello così da sperare che quella possa dare l'impronta del suo essere a questi, o non piuttosto esserne assorbita e quindi distrutta in una più complessa e nuova forma di vita.

Tale presentimento di morte si diffonde come larga ombra su tutta l'opera del Carducci e dà alla sua energia l'aspetto di una difesa personale, appunto perchè Egli più di ogni altro sente di avere concentrate in sè le più nobili qualità del genio italico.

L'esaltazione che da ciò ne deriva è sublime e assolutamente logica.

Egli irrompe contro il partito moderato perchè offriva più manifeste le stigmate del male.

Esso ci dà Custoza, Lissa, la soggezione all'impero di Francia, la cessione della Venezia, la presa di Roma nel modo e nel tempo che avvenne; invece il partito repubblicano, libero dalla diretta responsabilità politica e avente ne' suoi capi un'idealità superiore, non solo esce immune da transazioni o da sospettate colpe, ma si cinge d'eroismo semplicemente. L'epica impresa dei Mille, Aspromonte, la spedizione dei Cairoli, Mentana, le cavalleresche gesta di Francia, per tacere dei fatti minori, sono così gentili e mirabili opere che alla nostra fantasia, dopo così pochi anni, si presentano cinte dall'aureola della leggenda: e i personaggi anche minori che da quei fatti emergono, hanno un'impronta così geniale d'italianità e di bontà, che io non so se sia effetto del tempo o della morte che placa le passioni presenti e dà agli uomini un'attitudine di fratellanza e di virtù, ovvero se proprio sia perchè essi erano tali, ma è certo che messi al confronto del positivismo utilitario che è il carattere più saliente di noi modernissimi, ci paiono troppo diversi e infinitamente più avanti nell'ideale della verace perfezione umana.

È il caso qui di ragionare dell'opportunità politica di quelle imprese repubblicane? No certo. Solo una considerazione io voglio fare, ed è che, se quelle che furono opere di pochi, fossero state opere dell'intera nazione cosciente e volente, nè prima nè poi sarebbe avvenuto di parlare di opportunità, ed altra sarebbe la fortuna della patria.

A parte dunque anche il lato eroico, è certo che quelle azioni e quegli uomini, per sè soli, astraendo affatto dalla loro fede politica, dovessero presentarsi come molto affini agli intendimenti ed all'idealità del Carducci.

E perchè quegli uomini erano naturalmente repubblicani, così il Carducci non solo riconobbe in questo concetto qualche cosa che rispondeva molto da vicino a' suoi individuali convincimenti già maturati nello studio e nella solitudine; ma per quello spirito di opposizione e di assoluto che gli è proprio, a quel nome di repubblica congiunse tutto ciò che la sua mente concepì come bene e come alto dovere, e lo spinse come un'arma contro il partito moderato monarchico.

A tutto ciò che non era allora e che non è oggi sì nella vita civile e politica, sì negli studi e nella molteplice attività nazionale: a tutto ciò che non è e che avrebbe dovuto essere, di cui la grande tradizione italica avrebbe dovuto imporre la coscienza e lo stimolo non solo in pochi ma nell'universale: a tutto quel complesso di idealità antiche e nuove a cui un popolo troppo vecchio, sebbene avesse l'apparente gioventù della rivoluzione, non poteva sorgere: a tutto ciò che è libero, generoso, bello, vero, il Carducci diede un epiteto di cui si compiacque come quello che rispondeva ad uno stato politico logico per la nazione quale Egli avrebbe voluto che fosse, l'epiteto «repubblicano.»

Che per tali affermazioni non fosse allora nè compreso nè piacente al partito avverso (il quale fra i torti attribuiti ebbe anche quello di dover fare, come già dissi, il molto col poco) non deve far meraviglia; come non parrà innaturale se io affermo che il grosso pubblico in quelle sue reiterate e sdegnose invettive non riconobbe che una semplice ribellione di parte, mentre erano espressioni della più fine aristocrazia del pensiero e della più alta italianità.

Ma in qualsiasi modo venisse dal pubblico interpretata, è sempre vero che quella sua lirica che suonava disperatamente, come campana a martello, acquistava grande forza di attualità politica per il fatto che in quel tempo vivevano Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, Mario e con essi il fiore del patriottismo eroico; i quali reggevano e improntavano l'opinione popolare della loro volontà e della loro fede: e il canto del Poeta, inspirato a quella volontà e a quella fede, sembrava ricordare al popolo i giorni numerati che mancavano all'avvento della santa repubblica.

* * *

Ma oggi che le idee ed i fatti hanno preso una piega ben diversa, bisogna convenire che l'influsso esercitato da quegli uomini fu più di apparenza che reale. In fatto da non pochi si sperò allora e si credette che le nuove generazioni, pur modificandosi in parte secondo le necessità storiche, avrebbero avuto origine da quegli uomini, e che la nuova civiltà italiana si sarebbe formata su i loro ideali. Invece pare vero il contrario, cioè che quegli uomini siano stati definitivi e non abbiano avuto discendenza morale se non effimera o apparente, quasi piante senza propaggini; e che la civiltà quale si va disegnando nel presente derivi le sue origini piuttosto da un movimento esteriore, internazionale, scientifico, di cui la libertà politica favorì e l'ingresso e lo sviluppo.

Per tali ragioni quelle rime dei Giambi ed Epodi che poco più di un ventennio addietro erano di una opportunità ed efficacia grandissime, oggi possono sembrare a molti come appartenenti alla storia politica e letteraria del tempo; e questo non per la sola ragione che la poesia politica è di durata breve, ma perchè il sentimento patrio che ne è la nota dominante, non è più sentito a quel modo o non è sentito affatto. Tanto è vero che la poesia civile del Carducci di questi ultimi tempi, informata allo stesso sentimento, sebbene con indirizzo politico apparentemente diverso, non commuove più il pubblico nè sarebbe più tale da procacciare popolarità ad un poeta nuovo.

* * *

Ma ritornando alla fede repubblicana del Carducci in quel tempo, si osservi di quante necessarie cautele Egli si munì, ogni qual volta dovette esplicitamente dichiararsi, perchè il suo giudizio non venisse frainteso.

Nelle elezioni generali del '76, agli elettori di Lugo che lo aveano eletto loro deputato, dopo avere con altissima parola sostenuto che a lui perchè poeta non dovea essere preclusa la via della rappresentanza nazionale, aggiunge: «Sì; io sono repubblicano. ( Scoppio di prolungati e replicati applausi ) E repubblicano divenni non per rapimento giovanile, nè per dispetti che io avessi col Governo dei moderati, del quale io personalmente non avrei che a lodarmi. Mi chiamarono ancor molto giovane, senza che io ne li chiedessi, a insegnare in una delle prime Università: mi diedero anche, sempre non richieste, altre onorificenze e commissioni didattiche: un solo torto mi fecero e ben lieve, e scusabile in tempi di tanta concitazione delle parti politiche.

«Nè prima io aveva preso parte ad associazioni politiche, nè vi presi parte, poi, per un pezzo. La mia gioventù fu tutta negli studi: nella solitudine degli studi nacque, crebbe, si afforzò in me l'idea repubblicana. Ma la repubblica mia non è repubblica per sorpresa: anche questa può sorgere a certi momenti, sebbene non è più desiderabile ai veri repubblicani, come troppo difficile a mantenere e ad assodare. E nemmeno è la repubblica oligarchica di un partito anche ottimo, e tanto meno la repubblica dittatoria d'una fazione. Ma non per questo io credo che la repubblica sia solamente quistione di forma: la repubblica per me è l'esplicazione storica necessaria, è l'assettamento morale della democrazia nei suoi termini razionali: la repubblica è per me il partito logico dell'umanesimo che pervade oramai tutte le istituzioni sociali ( Applausi ). Tale essendo per me la repubblica, è naturale che essa, questo governo di tutti, deve escire dalla persuasione della maggioranza; e dai voti della maggioranza io l'aspetto, e spero che non s'abbia a dire col poeta: Qual di te lungo qui aspettar s'è fatto! »

Questa esplicita quanto elevata professione di fede politica fu compresa nel suo pieno significato, o non si applaudì piuttosto che alla parola repubblica, giudicando le altre come un contorno estetico di quella? Così io penso: ma volendo giudicare il Carducci quale è, non quale appare ai più, è certo che quel discorso non solo contiene un'aspirazione quanto un avvertimento severo dove dice che tale forma politica non deve essere nè donata nè imposta ma conquistata col graduale e cosciente assorgere morale del popolo ad un più elevato tipo di vita e quindi ad una forma di governo che ad essa è conforme.

Forse movendo da tale considerazione o piuttosto da tale fede in un'umanità migliore, dopo sei anni, nel 1882, scriveva[13]:

«Io dico che in Italia, dopo Cesare Balbo, Camillo Cavour, Alfonso La Marmora, Vittorio Emanuele, non conosco monarchici altro che sentimentali e opportunisti; opportunisti, per amore dell'unità e per timore del mutamento: io dico (e lo dico con tutto il rispetto che devo al capo dello Stato e ad un nobilissimo gentiluomo) che nè anche la Maestà del Re Umberto non è un vero e proprio monarchico».

CAPITOLO IV. Le odi barbare e l'individualismo del Carducci.

Nell'intervallo, ed al cessare degli avvenimenti che diedero origine ai Giambi ed Epodi, specie dopo la rivendicazione di Roma, che chiude, bene o male, il dramma del risorgimento politico, l'arte pura riprende il sopravvento, e si dilata ed occupa tutto l'orizzonte del pensiero e dell'anima.

È un sole folgorante in pieno meriggio che penetra da per tutto, non nasconde nulla perchè di tutto è cosciente. V'è un'esuberanza di vitalità artistica e di passione che ci incatena e ci fa piccoli come dinanzi ad ogni altro grande fenomeno della natura. Se v'è un difetto, questo è nella ricchezza sua stessa. E quante nuove corde aggiunte alla sua lira: la nota intima, famigliare, lagrimosamente semplice e composta come in Pianto antico, nel sonetto O tu che dormi là su la fiorita, l' Idillio maremmano e Davanti San Guido; la riproduzione icastica e psichica dell'evo medio, come Su i campi di Marengo, Faida di Comune, La leggenda di Teodorico, concezioni epiche con forma e movimento lirico; cose nuove nella storia della poesia italiana; le Primavere elleniche, primavera delle odi barbare; i sonetti Il bove, Santa Maria degli Angeli; meraviglie di un'arte insuperabile!

Tutti i critici che trattarono di queste rime s'accordano nel notare l'immediata corrispondenza fra l'uomo e la natura. Ma la natura del Carducci non è solo quella che fiorisce e si muove sotto questo pallido sole dell'oggi; ma è tutta la natura che già visse e fu forse più ridente, più originale e più libera: ed Egli la fa palpitare e muovere tutta come su la tastiera di un organo immenso.

Se per questa diretta comunione del poeta col mondo esteriore, se per la nitida e plastica rappresentazione de' propri fantasmi, se per un senso umano e profondo da cui l'artefice è naturalmente portato ad elevare il suo canto a missione maggiore che il diletto artistico. Egli debba essere, come fu da molti suoi critici, chiamato pagano, io non so. A me sembra vero e grande semplicemente; e tanto più grande in quanto che a tale altezza Egli sorge più per prepotente sviluppo del suo genio, che per azione diretta degli uomini e dei tempi.

Del resto avverta il lettore che io non intendo con queste poche parole di fare nè qui nè in altri luoghi uno studio sull'arte: altri, e maggiori e più competenti di me e letterati di professione, ciò fecero. Il mio intento è di seguire un filo di idee che mi guidi alla soluzione della questione da cui si intitola questo scritto.

* * *

Ma se tutta quella ricchezza di canti, in vario tempo e modo pubblicati, raccolti infine sotto il nome di Rime nuove, segna il punto della maggiore varietà e genialità della sua poesia, pure a me sembra che questo incontentabile artefice non abbia ancora trovato l'espressione artistica che lo soddisfi interamente e raccolga in forma nitida ed una il suo complesso pensiero.

Le Odi barbare sono appunto questa espressione ultima e sinteticamente felice del suo genio di poeta, di filosofo, di italiano.

Esaminiamone da prima la forma o contenuto, avendo essa un gran significato; e benchè un tempo se ne sia ragionato e scritto moltissimo, tuttavia qualche cosa ancora rimane a dire.

Nel 1881, sotto il titolo La poesia barbara nei secoli XV e XVI[14] il Carducci stesso pubblicò un dottissimo volume ove con ogni diligenza sono ricercati i documenti e le tradizioni della poesia barbara nella lirica italiana: non solo, ma letterati e critici ne presero occasione per trattare con molta competenza e serietà la questione scientifica e metrica. Vedasi sopra ogni altro il dotto studio del Chiarini: I critici e la metrica delle odi barbare, precedente la seconda edizione delle prime odi[15].

Questi pregevoli studi mentre valsero a ridurre al silenzio molte affermazioni malsicure od erronee con cui una parte della critica non erudita combattè le Odi barbare, tuttavia ebbero a mio avviso un torto involontario, perchè contribuirono a rassodare una falsa opinione che era nel grosso pubblico, cioè che quelle odi fossero di formazione non spontanea, ma ricercata; una specie di esercitazione poetica elevatissima e dottissima fin che si vuole, ma che risente dell'arte del mosaico e della virtuosità dell'erudito.

Opinione falsissima se altra mai: eppure bisogna tenerne conto almeno da parte mia, poichè nel rilevare questo dissidio fra l'individuo ed il pubblico, consiste grande parte della forza e del concetto di questo mio scritto. Apriamo dunque una parentesi e cominciamo a fermarci un po' su questo punto che sarà ripreso più avanti e con diversa intonazione.

Quando il Carducci in fine dell' Eterno femminino regale (23 dicembre 1881) esclama: Ah vil maggioranza! A te il suffragio universale e tante scatole di penne di ferro quante servano a scrivere altrettanti romanzi che t'appestino e muoian con te. Ma strofe e te, mai! Sciagurato il poeta che pensi a te! Da lui la strofe alata rifugge su penna d'aquila o d'usignolo, cantando «Odi profanum vulgus et arceo»[16], dice cosa vera.

Ma quando dinanzi agli elettori di Pisa, nel '86, afferma che la sovranità popolare sta su tutto e su tutti, indiscutibile principio d'ogni autorità e d'ogni funzione politica... che non abdica mai, che nessuna forza può sequestrare, che nessun uomo può impersonare, dice cosa ugualmente vera.

Solo a me sembra che la vil maggioranza sia proprio una cosa sola con la sovranità popolare, sia essa o monarchica, o repubblicana, o socialista, o indifferente o quel che più piace; la quale se imprime la propria volontà nella politica, anche nell'arte non si astiene dal far sentire ciò che giudica e ciò che vuole. Un trattato d'erudizione potrà mettere alla berlina un critico impudente; ma non farà ricredere il pubblico, oggi che il pubblico è tutto; nè su di esso lascierà traccia maggiore che una barca sul mare. Il suo giudizio il pubblico se lo forma subbiettivamente con un'intuitiva e istintiva conoscenza di sè, delle sue forze, delle sue volontà, delle sue aspirazioni.

Il vero, il bello, il buono non esistono per esso in via assoluta.

Il vero, il bello, il buono sono ciò che giudica assimilabile, confacente, utile a sè: il resto può essere quello che si vuole: una sinfonia di Wagner, un'ode come Alle fonti del Clitumno; ma è sempre qualcosa che non soddisfa, che non s'intende o non giova intendere: cioè retorica. E intendiamoci: questa maggioranza è formata non da una speciale classe sociale; ma tutti vi contribuiscono anche quelli che sono conservatori e ricchi e borghesi. È semplicemente un fenomeno della nostra vita contemporanea che non tutti avvertono od ammettono, e per quanto possa essere individualmente spiacevole, ogni recriminazione in proposito sarebbe vana.

L'artista, sia poeta, sia pittore, sia drammaturgo, sia musico, dovrà scegliere: o rinunciare alla propria individualità o rinunciare alla popolarità e quindi a tutti i vantaggi che ne derivano.

Per ciò che riguarda questo mio lavoro, mi sono proposto di non perdere mai di vista il giudizio del pubblico e de' suoi interpreti, ma di tenerne conto anche se sostanzialmente erroneo, appunto perchè (ripeto) nel contrasto o latente o palese fra esso e il Poeta, sta la causa della sua evoluzione.

E ritorniamo ora alla forma delle Odi barbare.

* * *

Che le Odi barbare abbiano una parentela letteraria con erudite esercitazioni metriche dei secoli XV e XVI, è un fatto puramente occasionale e non deve avere influito che in parte minima su la scelta di quella forma lirica. Essa nacque non pensatamente, ma spontaneamente; cioè non la forma generò ed impresse la sua linea all'idea, ma l'idea si plasmò di per sè in quella forma. Appunto inversamente di ciò che dice il pentametro del Platen premesso alle prime odi:

forma più nobile abbisogna di profondi pensieri.

Il Carducci tolse la melodia degli usati metri ed il ritorno della rima per ragioni consimili a quelle che mossero un altro grande aristocratico dell'arte, il Wagner, nel suo teatro di Bayreuth, a sprofondare l'orchestra e spegnere ogni luce, appunto perchè tutta l'attenzione fosse rivolta alla scena.

Parimente il Carducci togliendo l'allettamento melodico dei metri conosciuti e la distrazione della rima, intese a costringere l'attenzione del lettore su la pura idea. Ma perchè un'idea per quanto poetica non può chiamarsi lirica se non riveste una forma ritmica costante, così il Poeta occultò e dispose i soliti versi italiani secondo lo schema della metrica greca e latina creando così un'armonia nuova, che io chiamerei esteriore o apparente.

Questa, a vero dire, è assai facile intendere come è facile comporre versi barbari anche senza conoscere affatto la metrica greca o latina. Lo prova il numero grande dei poeti imitatori che fiorirono breve ora attorno alla gran pianta della lirica carducciana.

Ma sotto quell'armonia esteriore ve n'ha un'altra interiore che vivifica quella forma antica e non è possibile imitare.

Questa seconda armonia se per un orecchio educato è facile a sentire, non è così facile a spiegare. Mi ci proverò tuttavia.

Nelle Odi barbare le parole si raggruppano in modo nuovo, acquistano significati speciali, si dispongono con trasposizioni talvolta audaci. Questa apparente contorsione del periodo sembra essere congenita al metro barbaro, invece è congenita al pensiero. Le forme della nostra lirica italiana non avrebbero avuto dimensioni e forza per accogliere questo nuovo stile senza perdere della loro linea naturale, invece il metro barbaro non solo l'accetta ma sembra quasi imporlo esso stesso.

Ma così nitido, così sicuro, così potente è il fantasma poetico, e per contro tanta grande la conoscenza della forze di ogni parola, che in questo nuovo stile Egli plasma di getto tutta la sua visione interiore e riesce con quello stesso inusitato senso e disposizione delle voci, a farci vedere questo interiore fantasma nitidamente nelle sue più lievi sfumature.

In altre parole è una meravigliosa e individualissima pienezza di pensiero che come si va svolgendo così si veste subito, senza alcun mezzo, della parola; la quale si piega, s'affina, si tormenta con vaghissimo spasimo a seguirlo e renderlo con esattezza fotografica, e questa parola così tormentata pur riesce divinamente naturale ed armonica, non per sè ma perchè divinamente armonico è il fantasma che sotto si scorge.

Vi sono versi che mettono dinanzi il quadro e la statua, come ove dice:

Tale ne i gotici

delubri, tra candide e nere

cuspidi rapide salïenti

con doppia al cielo fila marmorea,

sta su l'estremo pinnacol placida

la dolce fanciulla di Iesse

tutta avvolta in faville d'oro.

Altra volta il verso giunge a dare contorno e forma plastica a infiammati fantasmi del pensiero, come questo:

Pone l'ardente Clio sul monte dei secoli il piede

robusto, e canta, ed apre l'ali superbe al cielo.

Altri versi squarciano letteralmente le ombre del passato e ci mostrano il paesaggio antico con una intuizione di linee e di colorito sorprendente:

ancor lambiva il Tebro

l'evandrio colle, e veleggiando a sera

tra 'l Campidoglio

e l'Aventino il reduce quirite

guardava in alto la città quadrata

dal sole irrisa, e mormorava un lento

saturnio carme.

Movimenti dell'animo che sembrano tutt'al più esprimibili col puro canto, il Carducci riesce a fissarli con le parole, nitidamente, come ad esempio ove dice:

Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema

un desiderio vano de la bellezza antica.

Nè questo solo: sovente la sua lirica coglie il fiore che arduo cresce su la filosofia della storia e riproduce persone con un atteggiamento intuitivo del vero e nel tempo stesso sintetico e simbolico come forse non riusciremmo a formarci leggendo volumi di storia: forse vedendo i luoghi e meditando, potremmo averne un mal definito fantasma. Egli ce lo definisce. Vedi ad esempio Alessandria:

Ecco venimmo a salutarti, Egitto,

Noi figli d'Elle con le cetre e l'aste.

Tebe, dischiudi le tue cento porte

Ad Alessandro.

Il canto delle litanie e il terrore e l'anelito sacro che muove le voci, così sono resi:

..... fra nuvoli d'incenso fervide

le litanie saliano;

salian co' murmuri molli, co' fremiti

lieti saliano d'un vol di tortori,

e poi con l'ululo di turbe misere

che al ciel le braccia tendono.

Oh parola, divino dono dell'uomo, hai mai tu potuto dare maggior segno della tua potenza?

Ebbene, in questa percezione netta che noi sentiamo del fantasma consiste quella che io ho chiamato armonia interiore delle Odi barbare.

* * *

Molte volte però l'eccessiva estensione del pensiero lo costringe a frasi così sintetiche che richiedono una non comune coltura per essere intese, o un commento che potrebbe anche essere un trattato di storia, come nel verso ove dice, parlando di Roma:

Son cittadino per te d'Italia.

Altre volte certi fantasmi s'impongono per modo che Egli volendoli rendere così come li vede e sente, deve ricorrere a vere e difficili audacie di stile, come ove dice, ancora parlando di Roma:

Ecco, a te questa, che tu di libere

genti facesti nome uno, Italia,

ritorna, e s'abbraccia al tuo petto,

affisa ne' tuoi d'aquila occhi.

Questi e simili altri esempi che sarebbe molto facile raccogliere, non sono certo pregi, ma non si possono nemmeno chiamare difetti: sono quello che sono, espressioni che potranno piacere o spiacere, ma che sono il portato logico di un determinato atteggiamento del pensiero.

Dove formano un difetto vero è ne' suoi imitatori nei quali manca del tutto o in parte la ragione filosofica e lo svolgimento profondo che portarono il Carducci a improntare la sua lirica di quella forma.

In essi, più o meno illustri, è vera e propria retorica, e se ne può dire ciò che scrisse il Platen:

«Se si volesse imprimere il vostro cicaleccio ad un'ode saffica, il mondo s'accorgerebbe che è un vuoto cicaleccio.»

* * *

Ma prima di chiudere queste note su la forma delle Odi, mi sta a cuore fare un'osservazione per non essere franteso.

Dico cioè che sbaglierebbe molto chi imaginasse il Carducci come maestro e capo d'una nuova scuola poetica: Egli chiude, molto verosimilmente, un grande periodo artistico, e la sua poesia ha le impronte di una sintesi definitiva dell'arte, almeno quale fu sino ad ora concepita ed intesa.

Egli stesso per bisogno che ha di esprimere chiaro e rude ciò che crede o sente come vero, ce lo attesta. Nel congedo in prosa alle prime Odi, dopo aver detto che con questi nuovi metri intese di «recare qualche po' di varietà formale nella nostra lirica», aggiunge poi come per subentrare di un altro ordine di pensieri: «Son velleità queste mie, lo so io per il primo, tanto più importune e inopportune oggi, che dinanzi al vero storico, il quale, gloria e tormento del secolo nostro, pervade oramai tutto il pensiero umano, la poesia compie di spegnersi. Tant'è: a certi termini di civiltà, a certe età dei popoli, in tutti i paesi, certe produzioni cessano, certe facoltà organiche non operano più».

Ma a parte tale affermazione che a molti parve esagerata, perchè è un fenomeno umano che certi mutamenti debbono già essere completamente avvenuti prima che l'universale abbia il coraggio di apertamente dichiararli, è certo che questi caratteri definitivi della lirica carducciana si sentono sopra tutto a cagione di una grande e sacra tristezza diffusa per quelle Odi anche dove esse sono maggiormente irrise dal sole che i critici si ostinano a chiamare pagano.

Ben poco dunque Egli intende rinnovare nell'arte, se non forse il senso della austerità e della dignità in chi vi si applica, ma a moralmente rinnovare intende tutta la sua poesia, la quale acquista per ciò un carattere altamente civile e nazionale.

Tale senso ha il distico del Campanella che preludia alle seconde Odi barbare:

Musa latina, vieni meco a canzone novella:

Può nuova progenie il canto novello fare.

* * *

Ed ora esaminiamone un po' il contenuto, specialmente per ciò che esso si congiunge all'argomento di questo scritto; e cominciamo col notare un grossolano errore in cui non pochi sono incorsi ed incorrono. Costoro, argomentando solo dalla forma metrica, dall'elezione e collocazione delle parole e specialmente dal frequente ricorrere della vita ellenica e di Roma e da un certo anelito all'antichità, per tutte le odi diffuso, chiamano il Carducci ultimo dei classici.

È un perfettissimo errore.

Le odi barbare saranno (e dato il pensiero che le informa e il punto che segnano nella storia dell'arte non possono essere altrimenti; e questo pure non è nè un difetto nè un pregio, ma cosa inerente al loro essere) saranno, dico, di un'aristocrazia poco concepibile per la maggioranza; ma sono, se altra mai, opera nuova, originale, moderna.

Una sola qualità vi è che si può propriamente chiamare classica, cioè propria della grande poesia greco-latina; dico il suggello di immortalità che si impronta in ogni parola: le quali ci appaiono come fissate in modo non scomponibile, quasi fuse in bronzo. Di fatto esse non si aggrupparono per mezzo di quella geniale facilità e scorrevolezza che è propria degli scrittori moderni, specialmente stranieri, ma per una specie di lenta, solida e organica formazione; e questa non solo le renderà resistenti contro la corrosione del tempo, ma farà sì che quando questa nostra età scomparirà nel passato (come a chi fugge in treno il paesaggio si allontana e perde i suoi contorni) quelle odi spiccheranno con grande risalto su la tinta grigia del quadro storico, come appartenenti ad un'altra formazione.

Del resto il Carducci può essere anche chiamato l'ultimo dei classici, ma non per quelle ragioni esteriori che sopra ho ricordato. Egli è l'ultimo dei classici perchè attraverso la sua opera poetica, come attraverso un filtro, passa tutto ciò che la vita ed il pensiero antico ebbero di vitale, di perfetto, di lieto, di vero: passa, e si idealizza in un concepimento di perfezione umana, profondamente sentita, sicuramente intravveduta, ineffabilmente desiderata. Per questa ragione fu detto che Egli è un pagano legittimo come Goethe e che la sua poesia rappresenta il sereno e pieno e soddisfatto possesso della vita terrestre, contentezza che deriva dal possesso della chiave de' suoi segreti e delle sue leggi: affermazioni vere, ma solo in parte e che non rispondono ad un generale concetto. Perchè appunto questa perfezione alla quale il Poeta giunge con la sua sintesi purificatrice, ci deve fare intendere che Egli non rappresenta un principio ma una fine, e della fine vi è la ineffabile tristezza. Certo questa tristezza non si esplica in affermazioni concrete, ma si sente diffusa nell'intonazione generale: anzi dove più Egli si eleva a concepire alti ideali o di umanità o di patria, ivi essa maggiormente si sente per il vivo contrasto con il presente e con la realtà.

* * *

A questo proposito si osservi come la nota festosa e piena dell'amore manchi alla sua lira. Per lui l'amore è un rapimento più doloroso che lieto; un rifugio dell'anima: e la donna gli si presenta piuttosto come consolatrice di supreme cure che come fine a sè stessa. Vedi le odi: Su l'Adda, Ruit hora, Alla stazione, In una chiesa gotica.

Nelle altre barbare anche questa nota si affievolisce e non risorge che ad intervalli come intonazione mirabilmente dolorosa e spirituale per dar principio ad altro tema, come nell'ode Sull'urna dello Shelley, ove dice:

Lalage io so qual sogno ti sorge dal cuore profondo

So quai perduti beni l'occhio tuo vago segue.

Del resto questa tristezza non giunge mai sino a scomporre la figura del Poeta. Esso è sempre sicuro di sè, tetragono su la base di un razionalismo irradiato di stoica idealità, come nella bellissima ode per le nozze della figlia Beatrice, ove chiude così:

De gli anni il tramite

teco fia dolce forse ritessere,

e risognare i cari sogni

nel blando riso de' figli tuoi?

O forse meglio giova combattere

fino a che l'ora sacra richiamine?

Allora, o mia figlia, — nessuna

me Beatrice ne' cieli attende —

allora al passo che Omero ellenico

e il cristïano Dante passarono

mi scorga il tuo sguardo soave

la nota voce tua m'accompagni.

* * *

Ma la nota che vibra continua, dominatrice e che dà alla sua lirica un carattere, su cui insisto, di poesia civile e nazionale, è il ritorno dell'idealità della patria, cioè la resurrezione del genio latino che compie il suo adattamento nel tempo moderno; non ricusando, vuoi per democratica ignoranza, vuoi per decadenza di forze, nulla di tutto ciò che è giusta eredità del passato, anzi serbando rinvigoriti nella modernità i distintivi del suo carattere.

Ho detto idealità della patria; ma idealità non nel senso di fantasma poetico, che di tale significato a ragione si sdegnerebbe il Carducci; ma nel senso di cosa vera, grande, buona, umana che ci sfugge per invincibile fatalità di uomini e di cose.

La statua della Vittoria[17], che sepolta attraversò i secoli e a cui Lidia domanda se ebbe contezza di ciò che sopra la terra avvenne:

Sentii — risponde la diva e folgora —

però che io sono la gloria ellenica,

io sono la forza del Lazio

traversante nel bronzo pe' tempi.

Passâr le etadi simili a i dodici

avvoltoi tristi che vide Romolo,

e sorsi «O Italia» annunciando

«i sepolti son teco e i tuoi numi!»

Nell'ode Dinanzi alle terme di Caracalla invoca la dea febbre così pregando:

Gli uomini novelli

quinci respingi e lor picciole cose:

Ma nel XXI d'aprile dell'anno MMDCXXX dalla fondazione di Roma, il Poeta con una felice continuità ricongiunge il tempo leggendario in cui Romolo, in quel dì sacro a Pale, segnò col solco le mura dell'urbe, al tempo moderno: disposando così la più squisita idealità coll'indirizzo pratico della nuova vita del popolo d'Italia. Perchè Roma all'Italia liberatrice addita, è vero, le colonne e gli archi, ma non con un senso esausto di gloria, non con uno sterile rimpianto del passato (vecchia e fatale nostra retorica) ma solo perchè da quelle memorie tragga gli auspici a forte vita avvenire:

gli archi che nuovi trionfi aspettano

non più di regi, non più di cesari,

non di catene attorcenti

braccia umane su gli eburnei carri;

ma il tuo trionfo, popol d'Italia,

su l'età nera, su l'età barbara,

su i mostri onde tu con serena

giustizia farai franche le genti.

O Italia, o Roma! quel giorno, placido

tornerà il cielo su 'l Foro, e cantici

di gloria, di gloria, di gloria

correran per l'infinito azzurro.

* * *

A me pare che difficilmente l'arte possa congiungere una idealità maggiore con un maggiore senso pratico.

Vero è però che un così perfetto equilibrio se è proprio di un individuo non lo può del pari essere di un popolo, specie come il nostro e nell'ora che corre; nè quegli lo può imporre a questo per quanto si adoperi.

Ora per la conoscenza che la maggioranza ha, più o meno cosciente, di questo fatto, deriva che questa poesia che Egli detta con pieno convincimento nazionale e civile, sia considerata come semplice opera d'arte; e questa, perchè è troppo superiore alla comune comprensione e non arreca quel diletto che arrecano altre poesie, viene considerata come arte erudita e di lui speciale.

* * *

Quale ci si rivela da queste liriche, tale è la nota pura, fondamentale, costante, della sua fede politica; e tale nota diede e dà il tono alle sue varie affermazioni secondo il variare del tempo, degli uomini, dei fatti.

Certo lo svolgimento del popolo d'Italia a questo alto tipo nazionale da lui vagheggiato include necessariamente una forma di governo repubblicana e in tale senso era ed è repubblicano il Carducci; ma nel tempo stesso questa prepotente idealità politica non consente che Egli divenga uomo di parte; piuttosto lo costringe ad una libertà assoluta della sua azione individuale a qualunque costo e contro tutti.

* * *

Ma ora viene a proposito un'osservazione importante: Chi legge avrà notato in me un'ammirazione grande sì per il Poeta come per l'uomo. È vero; ma oso affermare che questa ammirazione se, per avventura, rende eccessive alcune frasi, non mi toglie la visione sicura del giudizio.

Io voglio dire che molti potrebbero credere che altro sia il poeta, altro l'uomo; cioè, in questo caso, che l'alta idealità nazionale ed umana che rifulge nelle sue liriche sia da lui accolta come buon mezzo poetico e nulla più. Invece non è così. Se mai nel tempo moderno fu tra i personaggi illustri esempio di fusione perfetta tra il loro essere vero e ciò che appaiono dalle loro opere, questo è il Carducci; e quell'altissimo sentimento della patria è anima della sua anima e movente di ogni sua energia.

E allora alcuno può chiedere: Perchè quest'uomo così noto e famoso che prese parte a tutte le battaglie della vita, che con le parole, con gli scritti, con gli esempi non ristette mai; esercitò invece sull'universale un influsso ben piccolo rispetto alla sua opera, anzi sembra chiudere la sua carriera con un voto di impopolarità?

La risposta è semplice: Perchè la sua perfezione stessa gli è d'impedimento.

* * *

Ho detto perfezione, e la parola mi sembra semplicemente vera.

Il Carducci, senza dubbio, ha raggiunto come un alto vertice di verità in tutto il vasto campo del pensiero. In lui l'antico ed il nuovo, la tradizione e la scienza si fondono con un largo senso di umanità e di ragione purissima; e credo che in mezzo al mareggiare delle idee, che è una caratteristica dell'ora presente, pochi siano equilibrati e sicuri di sè come Egli è: scoglio rigido in mezzo a un gran mare che s'avvalla e s'erge in spasmodica tempesta. Le onde lo flagellano, ma non ne scuotono la base nè offuscano la serena fronte.

Se non che quell'equilibrio di cui Egli individualmente gode, non può essere fatto partecipe alla maggioranza, come Egli vorrebbe; e ciò per moltissime ragioni etniche e storiche riguardanti noi italiani, delle quali sarebbe troppo lungo il parlare diffusamente; ma anche per un'altra ragione che forse è la principale, cioè che nella vita dei popoli l'equilibrio sembra consistere non tanto nel fermarsi in alcune forme riconosciute ottime e vere, quanto nel movimento continuo verso un divenire che pare non raggiungibile. Ancora: Per l'uomo sapiente la conoscenza del passato agisce come forza moderatrice e direttrice delle nuove idee, e la scelta di ciò che la tradizione e l'antico contengono di vero, di buono e di bello vale a dare carattere di maggiore stabilità e verità a queste nuove idee. Invece le moltitudini sono fatalmente inette a questa comprensione: esse non possono accogliere il bene nuovo senza distruggere il bene antico: e questa mi pare una delle più gravi imperfezioni dell'umana natura.

Quando una nuova idealità religiosa o sociale investe le moltitudini, esse hanno bisogno di buttare a mare tutto il fardello delle vecchie credenze, tradizioni, usi, memorie: tutto l'antico è errore; tutto il nuovo è vero. Gli iconoclasti non sono solo dell'era cristiana, ma appartengono a tutti i grandi rivolgimenti dell'umanità. Non che l'iconoclastia non abbia del vero in sè; ma per essere completamente logici e conseguenti bisognerebbe distruggere la specie; sed cave a consequentiis.

Ora il Carducci è, senza volerlo, un solitario a motivo della sua perfezione stessa.

Egli, una delle menti innovatrici più illuminate e franche del nostro secolo, per quello stesso vagliare delle sue idee, purificarle alla viva fiamma del sapere e del vero assoluto, ha creato di sè una così elevata aristocrazia d'uomo che come a fatica può essere inteso così non può essere seguito. Ed Egli non solo vuole essere inteso, che sarebbe abbastanza per la sua gloria, ma pur comprendendo le invincibili difficoltà che si frappongono, vuole anche essere seguito, giacchè quella sua stessa perfezione lo persuade che essa avrebbe ben poco valore se non agisse come forza benefica sull'universale.

Da questa causa si origina l'impeto e la passione delle sue prose, specie di quelle che sono d'argomento soggettivo o trattano di una questione presente.

Vale il conto di fermarci su questo proposito anche per completare ciò che ne fu detto nel capitolo che precede.

* * *

I volumi che si intitolano Confessioni e battaglie, contengono, come è noto, la maggior parte di queste prose e sono una delle prove più evidenti dell'intima fusione fra lo scrittore e l'uomo.

La sua parola è la fotografia esatta, senza ritocco, del suo pensiero: gran luce di sole su cui passano grandi e continue nubi.

Dice tutto, non nasconde nulla, anche ciò che per opportunità sarebbe utile non dire.

Il sarcasmo, la contraffazione audace, talvolta feroce dei personaggi, il quadro, il paesaggio, l'impeto lirico infiammato quasi di divinazione, il ragionamento battuto, serrato, profondo come falange antica, lo scoppio degli affetti, le aggressioni superbe, il sublime, il grottesco, il terribile si succedono con una mobilità e rapidità spaventosa.

Solo nella facezia non riesce: è il gigante che scherza.

E un'altra qualità delle sue polemiche conviene pur ricordare: cioè che anche dove sono più irruenti ed offensive, manca interamente la nota gelida dell'odio, ma vi si sente invece un'infinita bontà.

La questione letteraria difficilmente sta sola, ma si congiunge quasi sempre ad altre ed alte questioni civili, morali, storiche; e sotto questo aspetto è una delle più complesse e difficili prose che io mi conosca.

Tutto ciò che è vero, bello, nobile, trova in lui un difensore ad ogni costo e in ogni tempo.

Egli, a volere usare di un paragone, mi rende imagine di uno di quei favolosi cavalieri antichi che da solo difende un grande e meraviglioso castello simbolico.

La ragione, la verità e l'arte lo recingono di triplice muro e costringono il cavaliere ad una difesa eroica. Perchè egli non se ne sta quivi sdegnoso ed inerte, ma combatte continuo; e non solo irrompe disperatamente contro il mostro o il saracino che per progetto vanno ad urtarvi contro, ma con uguale animo s'avventa contro la turba de' pigmei e dei gnomi che aduggiano le torri dell'edificio mirabile; e tanta è la foga dell'assalto che sovente essi sono morti ai primi colpi ed egli pur seguita a ferire. Ma come è nelle leggende, così quelli rinascono dalla loro stessa putredine di morte e sono più numerosi che mai. Anche contro la folla che infinita, indifferente, abbacinata segue il suo viaggio, egli si avventa: la trapassa, la atterra col cavallo e con l'asta; ma quella si rialza e si ricongiunge indifferente come prima e prosegue il suo viaggio.

Talvolta però mentre così nettamente egli distingue i contorni de' mostri che vengono da lungi, non con pari chiarezza riconosce quelli che gli stanno vicino; troppo vicino per suo malanno. Ma qui l'allegoria del paragone dovrebbe dare luogo a più aperto parlare, e ciò non sarebbe nè piacevole, nè conveniente, nè senza pericolo.

* * *

Quando io penso a così grande animo e a così sovrano intelletto combattenti per la causa della verità e della bontà, mi ritornano in mente le parole che Ettore, apparendo sanguinoso in sogno ad Enea, dice:

...... si Pergama dextra

defendi posset, etiam hac defensa fuisset.

Le quali parole possono forse essere non indegno commento alle Confessioni e battaglie.

Ma non voglio cessare senza dire di un altro carattere delle sue polemiche: questo è che la coscienza della sua grandezza e della nobiltà della causa gli dà alle volte una sovra eccitabilità di offesa straordinaria che lo spinge a rispondere di colpo, anche quando sarebbe meglio il tacere: e allora non solo attacca a fondo le obbiezioni che sono realmente, ma ne deduce altre da un complesso di fenomeni e di fatti a cui il suo contradditore non aveva pensato o non era forse in grado nè meno d'imaginare: e ciò gli nuoce; non perchè non sia tutto, almeno subbiettivamente, vero quanto dice, ma perchè gli dà l'attitudine di combattente, mentre gli altri stanno fermi o si muovono a pena.

Eccone un esempio poco noto, ma notevole. Negli intermezzi del Resto del Carlino del 13 gennaio '89, dicendosi, per non so quali polemiche, come il Carducci debba essere amareggiato e sconfortato alle immeritate prove di mancato riguardo ed allo spettacolo ributtante di intolleranze indegne, risponde:

« Caro Carlino,

«Ringrazio, ma non partecipo. Che sensibilità? che amarezza? che sconforto? che rammarico? Ma per chi mi ha preso lei? per una cocotte o per un poeta romantico? Io ho fatto il callo alle insolenze, alle ingiurie, alle calunnie che all'età dei venti cominciarono e fino a cinquant'anni seguitarono a grandinarmi a dosso, provocate da un vizio ingenito del mio temperamento, che quando una verità o ciò che credo una verità mi si impone, mi bisogna dirla, interpellato o seccato che io sia, nel modo più nettamente reciso, che è, naturalmente, il più ostico a quelli a cui quella verità non piace. Da poco tempo in qua non sentivo più, o sentivo meno, ronzio d'insolenze e calunnie agli orecchi, e dimandavo a me stesso: sono imbecillito o invigliacchito? Ella mi fa capire che il ronzio è ricominciato. Bene. Io salgo al tempio della memoria e ringrazio Apollo medico del serbarmi ch'ei fa — mens sana in corpore sano. — E così dirò ancora la verità nel modo a me più igienico, per il quale non ho chiesto mai nè amore alle donne, nè amicizia agli uomini, nè ammirazione ai giovani, nè articoli ai giornalisti, nè voti al popolo, nè posti ai ministri, nè più di venti franchi per volta, e ciò in gioventù, ai miei amici e gli ho restituiti sempre.

«suo

« Giosuè Carducci ».

* * *

Con tutto ciò in quelle battaglie è qualche volta un ben allegro combattere! Ci si sente, in fondo, la voluttà dell'arciere che vede la freccia colpire nel segno, anche se la corazza o l'epidermide del nemico ne la respinga. Invece in questi ultimi tempi, nelle difese poche che Egli va facendo di sè e solo quando è direttamente attaccato, si nota una dolorosa e disdegnosa riservatezza.

Sembra che qualche cosa fuori di lui vada crollando ed Egli s'avveda che il suo genio più non vale a sorreggere.

CAPITOLO V. Il senso eroico. — G. Carducci e la giovane letteratura nazionale.

Nelle odi barbare, o per meglio dire in tutte le sue opere sì poetiche che di prosa, oltre all'idealità nazionale, v'è diffuso un altro sentimento che non bisogna trascurare per chi voglia trattare del Carducci nelle sue relazioni col pensiero e con la vita contemporanea.

* * *

Chi, ad esempio, non ricorda l'ode Per la morte di Napoleone Eugenio?

Io penso che il più volgare dei lettori deve averne risentita l'impressione come di cosa nuova e sublime.

Quest'ode sorge semplice, giovane, composta nel suo dolore come una figura della tragedia di Sofocle; ma sotto vi scorre una così diffusa passione, una così grande onda lirica che sforza il pianto. Quest'ode io la vedo nascere ed elevarsi come fiore semplice da una complessa maturezza, perchè mi sembra che mai una lirica così breve abbia con tanta semplicità assimilato così molti elementi del pensiero: la verità storica, l'epopea, la leggenda, la tragedia, gli affetti, l'epicedio infinitamente triste nel suo oggettivo dolore.

Questa lirica e quella Presso l'urna dello Shelley, che ha un movimento di figure così stupendo che se un pittore potesse esprimerlo farebbe la più fantasiosa tela del mondo, ed altre, come quella a Giuseppe Garibaldi, il sonetto a Giuseppe Mazzini, possono alla maggioranza sembrare elementi disparati di canto che il Poeta accolse ed informò di ritmo per semplice eccitazione artistica.

Così non è: un legame occulto le congiunge; un sentimento unico vi si esplica; cioè l'inno al gentile eroico che la modernità tende ad eliminare dal suo seno come forza di cui oramai più non sente il bisogno.

* * *

Egli di questo sentimento eroico possiede una sùbita ed istintiva percezione in personaggi anche contemporanei, e gli si impone così forte da imprimere loro figura trasumanata; e non solo in verso, ma in prosa.

Io penso fermamente che se oggi, ad esempio, altri rinnovasse il sacrificio di Guglielmo Oberdan, Giosuè Carducci monarchico, senatore del Regno e, se piace, poeta aulico, riscriverebbe ancora pagine frementi come già fece nell'82.

Egli dunque sovente canta l'eroe; sia esso re, sia poeta, sia martire, sia conduttore di popoli, sia figlio di popolo; ma la società moderna non ha bisogno di eroi, siano essi re, siano poeti, siano martiri e molto meno conduttori di popoli perchè allo stato in cui si trova e per quel che vuole essere basta a sè, intende guidarsi da sè e infine ripugna di subire l'impronta di individui anche se superiori.

Questo è uno dei caratteri differenziali più notevoli fra il Carducci e il suo tempo.

«Troppo sento profonda la religione degli eroi (meditava Egli la notte dell'11 marzo '72 saputo che ebbe della morte di G. Mazzini): e come essi splendono stelle benefiche sul firmamento del mio pensiero, così io non son lungi da credere o da sperare, o almeno da imaginare che da qualche parte dello spazio serena essi corrispondano immortali a questo bisogno, a questa foga di amorosi sensi e pensieri, che suscitati da essi ad essi ritornano con un'alterna e continua esondazione delle anime nostre verso le rive dell'ideale. O Dei della patria, proteggete i buoni, e salvateli dal fango, che sale, che sale, che sale!»

E per la morte di G. Garibaldi[18] esclama: «Oh, quando gli eroi non contano nulla, e li gnomi possono tutto e la retorica caccia a pedate di periodi epilettici l'epopea.... oh allora

«che importa vivere,

«che giova amar?»

Forse è vero, che importa vivere? Eppure è così! Non solo gli Dei, ma anche gli eroi se ne vanno e deserta è la loro casa! Gli eroi (e con questa voce intendo ampliare il senso che si dà all'uomo di genio) si discostano troppo dal tipo medio a cui la maggioranza degli uomini oggi aspira e tende: la loro opera invadente non recherebbe che danno all'edificio che si va formando su le basi di una raggiungibile ed equa mediocrità del tipo umano.

La demolizione degli eroi è già cominciata.

Non solo l'analisi scientifica ne va svelando il meccanismo interiore e rompe l'incanto della loro azione che parea cosa quasi divina; questo per sè solo non toglierebbe nulla all'azione degli eroi: ma il vero è che questi cominciano a degenerare e a squilibrarsi in sè per la incompatibilità col tempo e con gli uomini. L'azione degli eroi non ha più presa nel pubblico; e però essi si guastano nell'inazione come si guasterebbe una macchina se l'elica dovesse turbinare nel vuoto.

Ma è verosimile il credere che con l'andare del tempo essi cesseranno totalmente di essere, come organismi che scompaiono perchè venne a mancare la loro funzione sociale.

* * *

Una sera tarda io tornava a casa da un ritrovo di gente grave ove si era disputato a lungo ed io ne era uscito con la peggio. Ritornava, e per la via lunga un pensiero acuto mi martellava il cervello: in fine esso assunse forma di favola. Eccola: Un anno la benigna natura dispensò, secondo il tempo, la pioggia, la neve ed il sole. Ma la gentile pianta del frumento non granì nè tutta nè a maturità la sua spica.

Il loglio rigoglioso e superbo finalmente la aveva soffocata.

L'anno seguente, un debole seme caduto dall'etica spica fe' germogliare uno stelo stentato. Ma il loglio era ancora più fiorente e bello, e la soffocò ancora. Infine la nobile pianta s'avvide che due vie le rimanevano: o morire o diventare loglio essa pure.

È questo un paradosso? Può darsi. Io vi voglio allora aggiungere un corollario che lo corregga: cioè che producendo tuttavia la natura uomini di genio ed eroi, questi dovranno, per essere chiamati tali ed ottenere il dovuto ossequio, portare la livrea del pubblico, cioè a dire dovranno rivolgere le loro grandi forze in qualche opera implicitamente determinata e che torni alla moltitudine di pratica ed immediata utilità: certo non potranno agire in modo autonomo e con l'intento di una idealità superiore.

* * *

Gli eroi come deità, come profeti, come guerrieri, come fondatori di civiltà, come poeti, come investigatori dei supremi misteri delle cose e dell'anima già furono. E togliendo il pensiero che segue al Carlyle, chè meglio io non saprei, nè imaginare nè esprimere, bene io credo che essi siano stati «lampada dell'universo, anima dell'intera storia. Essi furono duci, modellatori, patroni e in un largo senso i creatori di tutto ciò che l'universale degli uomini ha potuto sforzarsi di fare e di raggiungere. Tutto ciò che vediamo è risultato materiale, esteriore, l'effettuazione pratica, l'incarnazione del pensiero degli eroi». E se questo risultato, aggiungo, non corrisponde al loro concetto, la ragione è che esplicandosi per mezzo degli uomini, si corruppe naturalmente, come si corromperebbe un cedro del Libano se lo trapiantassimo in regioni iperboree.

Certo io non ignoro che esiste una scuola più recente che nega questa importanza degli eroi ed anche ne condanna lo studio ed il culto. Ciò è forse vero per quanto riguarda il presente e l'avvenire; non è però nè giusto nè vero il negare l'azione grandissima che essi esercitarono sul progresso della umanità fino al tempo moderno.

I giganti hanno formato il grande edificio della civiltà; gli uomini se ne sono impadroniti: gli eroi furono i maestri; gli uomini hanno imparato quel tanto che basta per fare da sè ed oramai non hanno più bisogno nè di eroi nè di giganti nè di maestri; e come non ne hanno bisogno, così non ne riconoscono il culto.

La memoria e la riconoscenza possono essere proprie fino ad un certo punto dell'individuo, ma non lo sono dell'universale.

La storia non ha riconoscenza.

* * *

E qui un pensiero mi si presenta che, vero o falso o strano che possa sembrare, non voglio tacere.

È proprio la scienza che con le sue ultime ricerche ha sloggiato Dio dal sacrario delle coscienze?

Così si crede comunemente e così è; ma non del tutto. La scienza vera, non certa nuova metafisica settaria che talvolta ne usurpa il nome, ha ancora troppi numeri da mettere in colonna prima di tirare l'addizione ultima, se pure ci potrà arrivare.

Io penso che sia un'azione combinata della scienza con questo fenomeno dell'assurgere delle maggioranze alle funzioni autonome della vita, il quale fenomeno, dando ad un vocabolo vecchio un significato nuovo, si può chiamare democrazia. Ora la democrazia, non, ripeto, nell'antico senso storico, umano, cristiano; ma nel nuovo senso, cioè borghesia oggi, socialismo forse dimani (i due termini, sebbene nemici, hanno un legame di parentela storica e di dipendenza) come tende, per legge di conservazione e di espansione, ad impedire lo sviluppo e l'influsso delle forze preponderanti, invadenti del genio o dell'eroe, per la stessa ragione, involontariamente ma pure invincibilmente, è indotta a combattere questo concetto più di ogni altro individualista ed aristocratico che è Dio.

Ne rimane, è vero, il culto esteriore: ma nella sua sostanza cioè in quanto è morale rivelata da una legge superiore, eroica di sacrificio, designata come termine di perfezione, questo culto, questa fede non esistono più, e non diciamo nella pratica, ma solo nel sentimento.

A questo proposito il signor Nitti, noto studioso di cose sociali, in un suo discorso sulle condizioni presenti informato ad un ottimismo eclettico[19], dice: «Il positivismo, di cui anch'io sono seguace, ha spiegato le origini umane secondo l'ipotesi darwiniana; ma una dottrina puramente storico-biologica minaccia di diventare una dottrina morale e se ne abusa ogni giorno e male».

Io per me credo che le teorie positiviste non abbiano influito che a dare la sanzione ad un sentimento, ad un bisogno preesistente di morale, rinnovata su altre basi che non siano quelle della pura morale cristiana. Ed infatti questo avere subito intuito il lato positivo di una questione altamente scientifica ed averla così universalmente devoluta nella pratica della vita, mi sembra non piccola prova. Se poi in questa morale nuova v'è del male, o, per meglio dire, se gli uomini non seppero applicarla che male, cioè in quanto sembra rispondere a bassi istinti utilitari, il correttivo, a mio parere, non può venire che dalla conoscenza più perfetta delle dottrine positiviste; non da un neo-misticismo o da una fede che alcuni uomini pietosi e di buona volontà tentano o si illudono di riaccendere.

E per avere accennato a tale questione, alcuno mi potrebbe ricordare che anche il Carducci combattè il principio divino nell'inno A Satana.

Si può rispondere che, anche accettandone il senso filosofico, Iehova non rappresenta la mistica idealità di un Dio infinitamente buono, infinitamente misericordioso; Iehova è piuttosto la corruzione della pura fede, la tirannide umana del dogma e Satana è la ragione che combatte contro quella tirannide. Ma oggi anche Satana non ha più ragione di esistere. La sua missione è finita da assai tempo con la sua vittoria su Iehova.

Inoltre esso è un personaggio troppo eroico, troppo doloroso, sopra tutto troppo aristocratico e classico.

* * *

La scienza (il discorso mi vi conduce) al pari dell'arte è un fenomeno individualista; con la differenza che mentre l'opera d'arte conserva l'impronta del suo autore e rimane cosa sua, l'opera scientifica è per sua natura trasmissibile ad altri e, quel che più vale, si accumula con le precedenti.

Ciò che lo scienziato di genio scopre non può essere difeso da alcun brevetto d'invenzione; il pubblico se ne impadronisce, ne svolge un corollario di infinite applicazioni e riproduzioni: in altre parole il pigmeo monta su le spalle del gigante. Il nome dello scopritore può anche finire negli archivi della storia; ciò che importa è la cosa scoperta che diventa patrimonio e ricchezza comune. Questa molto verosimilmente è una delle più valide cagioni dell'ingordo attingere della modernità alle mammelle della scienza; mentre l'arte in quanto è manifestazione prepotente dell'individuo, cioè disegno di puri ed armonici fantasmi, va decadendo. Se rimane è solo dove essa soddisfi ad un certo diletto dei sensi e della intelligenza media e dove l'artefice non imprima più di dolorose e difficili idealità la sua opera; ma, comprendendo il gusto del pubblico, ne eseguisca con bel garbo le ordinazioni: e se le avrà eseguite secondo il suo piacimento, allora si applaudirà e si concederà il compenso e la gloria del giorno.

Questo fatto è universalmente sentito sebbene non sia apertamente confessato, e una prova fra le tante ce la porge il Carducci stesso. Da qualche anno il pubblico avea intuito che Egli sotto il velame degli versi strani non cantava proprio più all'unisono con le sue aspirazioni. Molto verosimilmente non avea cantato mai, ma certe apparenze facevano credere il contrario.

Un bel giorno, con uno di quei movimenti bruschi ed audaci che gli sono propri, Egli stesso ruppe l'incanto e dissipò l'equivoco e allora gli fu tolto il brevetto della popolarità e della modernità che prima gli era stato dato così generosamente.

* * *

Mentre il De Amicis che sino a ieri intese a scrivere per la classe borghese e felice in quella sua prosa colorita e facile, ma sempre castigata e misurata; e così offriva ai suoi molti lettori ed ammiratori la dolce illusione o persuasione di poter essi congiungere tre cose con quelle letture: divertirsi, istruirsi e commuovere l'animo ai dolci e lagrimosi affetti; mentre il De Amicis oggi si rinnova e in politica e in arte, facendo aperta adesione alle dottrine socialiste; il Carducci, invece, che fu sino a pochi anni addietro interpretato per il poeta della democrazia e della futura repubblica, in politica si dichiara tratto e convertito ingenuamente e sinceramente alla monarchia,[20] e in arte, in una delle sue ultime e più compiute odi, la già citata Presso l'urna dello Shelley, esclama:

....... O strofe, pensier de' miei giovani anni,

Volate omai secure verso gli antichi amori;

e un po' innanzi:

L'ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge

Sol nel passato è il bello, sol ne la morte è il vero.

il quale distico non è altro che una variante più triste di quel noto verso che chiude il sonetto a G. Mazzini:

Tu solo — pensa — o ideal sei vero.

In altre parole la sua arte ritorna con più dolorosa comprensione e convinzione al giovanile motto soggettivo, dedotto dalle iscrizioni sepolcrali romane Suis sibi fecit, cioè, come spiega Egli stesso, «questa tomba fece a sè ed ai suoi versi».

* * *

Questa coerenza che è in lui nell'arte, è anche in politica.

Forse può sembrare un'affermazione audace; ma io ho tutt'altra pretesa che di far mutare l'opinione del pubblico; tanto più che sarebbe pretendere l'assurdo il volere che gli uomini depongano le loro passioni per giudicare serenamente un fatto che certo si presta a critiche acerbe e non benevoli. Io voglio solo dire ciò che credo vero, e credo fermamente che volendo e potendo dare uno spassionato giudizio, questa coerenza conviene ammetterla.

L'evoluzione monarchica del Carducci sotto un certo punto di vista si potrebbe considerare come fatta a posta per indicare con un mutamento politico reciso un dissidio antico fra lui e l'universale: dissidio che si veniva sempre più accentuando per la maturità dei tempi, e che Egli, per quanto lo avesse voluto, non avrebbe potuto togliere in sè perchè sarebbe stato necessario mutare sostanzialmente la sua natura ed il suo genio.

* * *

Data l'indole de' tempi e la natura dei due ingegni, come trovo coerente l'evoluzione del Carducci, così mi sembra naturale quella del De Amicis, anche considerandone il solo lato artistico. Questo conosciutissimo scrittore (e il suo passato e la sua coltura lo dimostrano) è recente alla vita del pensiero. Egli, per usare di un paragone, certo è feconda pianta, ma di brevi radici e per vivere deve necessariamente assorbire la linfa alimentatrice alla superficie del suolo: in altre parole la sua opera artistica è determinata dalle condizioni generali dello spirito dell'epoca ed è quindi più che naturale che lo segua nel suo nuovo indirizzo.

Egli deve aver sentito che se si fosse voluto svolgere in un senso contrario a quello cui l'universale crede e tende, avrebbe trovato impedita la via. Questa, anche prescindendo dalle possibili convinzioni individuali, è una delle cause della vera evoluzione del De Amicis. Forse gli si può fare rimprovero di essere stato il primo; ma è verosimile che fra gli scrittori non sia nemmeno l'ultimo.

Per il Carducci invece è il contrario. Egli per vivere nell'arte, non ha bisogno di bere alle mal note fonti della vita presente: Egli è quercia secolare e quanto avanza pel cielo il tronco e le mirabili fronde, tanto sotterra spandonsi le sue radici. Molti secoli visse la sua anima, di molti fatti umani Egli assimilò l'esperienza e la sapienza perchè si possa mettere allegramente nella schiera degli innovatori e dei facili profeti della felicità del domani; e, forse, troppo s'indugiò nel giardino delle Muse di cui parla Platone, di troppo amore amò cose di cui a stento oggi si ricorda a pena il nome, perchè possa essere inteso dagli uomini nuovi e questi lo possano intendere.

Contro la verità dell'oggi, determinata dalle mutevoli correnti dello spirito pubblico, Egli oppone una verità maggiore, immanente, desunta dalle leggi storiche ed umane e si mette in uno stato di opposizione che non è tanto nel suo deliberato proposito quanto nella sua natura.

Così, ad esempio, la propaganda per la pace universale è tutt'altro che un'utopia: già al nostro tempo le utopie vere non attecchirebbero, ma risponde a ben conosciute tendenze economiche e sociali: ora per il Carducci il riconoscere, forse, l'opportunità di questa agitazione non è argomento sufficiente per accettare come assoluto un principio che pur troppo sembra contrastare sì con le leggi storiche come con le leggi biologiche. La sua mente, come già dissi, non si può fermare ai fatti parziali; bisogna che risalga alla ragione prima, al principio fondamentale, e scrive una delle sue odi più pensate e lavorate all'idea storica della guerra. Voce inopportuna e non adatta certo ad acquistargli popolarità: ma per lui l'opportunità sta ne' suoi convincimenti e tutta la opposizione del mondo non basterebbe a far tacere la sua voce.

* * *

In una parola si può dire che lo spirito pubblico non ha agito sul Carducci che, o negativamente o come stimolo all'opposizione: tutta la sua opera di arte risente lo spasimo della produzione autoctona, e di questo fatto la più parte dei lettori ben s'accorge ma non sa rendersene chiara ragione fuorchè dicendo che le sue poesie non sembrano spontanee come quelle di altri poeti; mentre se v'è lirica fusa di getto, questa è la lirica del Carducci.

Tali condizioni speciali d'animo e di coltura danno al suo genio un impeto di passione profonda, a cui risponde benissimo la forma lirica; ma nel tempo stesso gli tolgono la facoltà di studiare con oggettiva indifferenza e come pura materia d'arte i vari elementi di cui si compone la vita contemporanea; e questa è forse una delle cause per cui Egli non ci diede nè ci darà, molto probabilmente, nè il dramma nè il romanzo.

* * *

L'arte del Carducci nella letteratura italiana modernissima giganteggia solitaria.

«Il Carducci è uomo d'altri tempi» — esclama un giovane scrittore[21] in un suo libro di critica per alcuni lati pregevole; ed io riporto volentieri questo giudizio non per valore di verità che contenga, ma perchè rende abbastanza bene l'opinione di molti — «non sa respirare il flusso d'idee nuove che l'ultime nevicate letterarie ci àn soffiato da settentrione.» Ed un noto commediografo scrive in quest'anno a proposito del concorso drammatico ministeriale: «Povero Carducci! Lo vorrei ben veder io giudice alla lettura di una o più commedie applaudite o fischiate, egli che da anni non frequenta un teatro di prosa, e non conosce una sola commedia moderna» — e più innanzi — «noi vogliamo per differenti ragioni escludere (dal giurì del concorso) tutti quei letterati puri, i quali del teatro moderno e della salutare evoluzione cui va soggetto, non sanno nulla e mostrano di non saper nulla».

O egregi e strenui giovani della dimostrazione dell'11 marzo '91, quando voi proclamaste «Il poeta e il letterato tutti ammiriamo,» molto verosimilmente diceste cosa di cui non avevate piena convinzione.

Chi poi non si accontentasse di questi saggi, altri e molti consimili ne può trovare in giornali e riviste recenti, i quali giudizi (a parte il tono che fa la musica, cioè la irriverenza delle espressioni, la quale rivolta ad un uomo che è tanta parte del pensiero italiano e che non deve essere confuso coi letterati puri, può essere studiata come sintomo di fatale decadenza o, se meglio pare, di progresso perchè indica affrancamento da ogni feticismo ) a parte, dico, il modo che più m'offende, dimostrano come tutto il suo immenso lavoro non abbia punto influito a determinare nulla della nuova letteratura geniale o d'invenzione che si voglia dire.

* * *

Di fatto questa va per conto suo e combatte a tutto suo rischio e pericolo. Il dramma ed il romanzo ne sono le maggiori manifestazioni; e sebbene ogni scrittore segua con la più grande libertà quella teoria d'arte che più si confà al suo temperamento o che più è di moda, tuttavia essi hanno alcuni caratteri comuni che danno l'intonazione generale e sono indice abbastanza esatto del tempo.

Di questi caratteri tipici e comuni a quasi tutti i giovani autori italiani, due mi sembrano notevoli. Eccoli brevemente: Essi hanno fatto divorzio assoluto con l'erudizione e con gli eruditi; e non si può dire che abbiano avuto torto, tutt'al più si potrà lamentare questa scissura delle nostre forze intellettuali più vive e giovani: ma penso che sia un male senza rimedio.

I letterati puri, gli eruditi, i filologi sono gente che davvero vivono troppo a sè come se il pubblico non esistesse, ma senza sdegno come senza amore. Hanno giornali e riviste loro proprie che il pubblico non conosce nè meno di nome e dove ciascuno alla sua volta è spettatore ed attore.

E davvero questo segregarsi dalla vita combattuta e vissuta è un gran male, perchè essendo essi a capo della coltura e dell'insegnamento, godendo di molta autorità, almeno in un dato ceto sociale, del favore governativo, potrebbero esercitare un'azione attiva, direttrice sul serio e altamente benefica, coraggiosa sopra tutto su la vita del pensiero nazionale. E in verità a questo nobile fine tende l'erudizione del Carducci, anche dove rimane pura e perfetta scienza. Nei nostri giovani eruditi invece pare che manchi l'ingegno combattente e la ragione pratica dei loro studi.

Diseppelliscono i loro morticini letterari o storici; compiono i loro riti fra loro e quel che è peggio vi costringono tutta una scolaresca, con un frasario ostentatamente scientifico, che del moderno non ha le audacie e la vivacità; del classicismo non ha l'arte, la profondità, la lingua. Mancano degli entusiasmi degli umanisti; e del metodo di ricerca moderno non gli alti fini e l'ampiezza, ma solo ritengono ed ostentano una falsa rigidità ed un'astrusa freddezza.

Si potrebbero anche chiamare i primi e veri decadenti del classicismo; facendo sè stessi inconsciamente ministri di una evoluzione negli studi dagli innovatori audacemente propugnata. Ma di ciò più innanzi.

È esagerato quello che io affermo? Nella espressione forse, non nella sostanza per chi esamina spassionatamente le cose.

Ora i giovani che sentono di avere qualche cosa da dire al pubblico, cioè che credono di essere con più o meno vocazione chiamati all'arte, il primo atto di dovere verso sè e verso il pubblico da cui vogliono essere intesi, consiste nel ripudiare tutto ciò che possa sapere di studio e di coltura nel senso classico-nazionale. Tutt'al più se nell'arte formale del periodo e dello stile è necessario un modello, questo si ritrova in ogni letteratura, compresa di necessità la francese ed esclusa l'italiana. Nessuno più di me odia il falso e retorico classicismo che per tanto tempo tenne le veci della geniale spontaneità e dell'arte vera: ma che da una così copiosa e gloriosa e mirabile tradizione letteraria quale è la nostra; dal rigoglio di idee che, innegabilmente, è proprio dell'età presente non debba venir fuori nulla di originale, di nazionale, di italiano, è proprio sconfortante.

* * *

Un secondo carattere della letteratura geniale (dramma, romanzo, novella, critica) consiste nel fenomeno seguente, ed è così tenace da sopravvivere a tutte le mutevoli teorie d'arte.

Ecco: questo grande e complesso organismo della società borghese, reca attraverso la tenace resistenza che ancora lo sorregge, tutti i caratteri patologici di un dissolvimento assai grave. Bene: la nostra giovane letteratura si fissa e si propaga su queste profonde cancrene con la brillantezza allegra e la caducità delle fungaie. Si può obbiettare: tutta la letteratura europea dallo Zola, all'Ibsen, al Tolstoi offre questo carattere di decadenza. È vero; ma ad esempio, in questi grandi scrittori, campioni di tre grandi razze, oltre alla decadenza v'è anche un al di là, una fede non ricercata ma ingenita a non so quale remota rigenerazione umana, un'ebbrezza di bene, un mistico ed ascetico profumo di virtù consolatrice e redentrice. I nostri giovani autori nulla ritengono di tutto questo: essi hanno solo l'intuito felice di tutte le forme morbose della società; pare che le ricerchino come prediletta materia d'arte, e vi si posano con un compiacimento allegro e scettico, come le mosche iridescenti brulicano, s'accoppiano, folleggiano su le piaghe mortali. Si direbbe che da noi il decadimento della società presente, che è universale, si congiunga con un decadimento speciale della nazione.

Con queste parole non intendo di farmi campione della morale (voce oggi di molta incerta definizione) e molto meno di fare il maestro a quegli scrittori. Se essi scrivono così, vuol dire che il loro ingegno, la loro arte, il loro pubblico li porta a questo e non c'è nulla da aggiungere.

Io voglio dire semplicemente che quando una società riconosce il suo maggior diletto intellettuale in questa sua stessa patologia e criminologia sotto forma artistica; quando si compiace di questa specie di autopsia che essa fa di sè e de' suoi mali, tale società ha perduto il senso della propria conservazione.

Gli antropologi potranno, non dico di no, compiacersi vedendo come i loro soggetti di studio si allarghino oltre la cerchia del manicomio, dell'ospedale, delle carceri, per le vie e per le case; ma è vero anche che dinanzi a questa raffinata e voluttuosa patologia il socialismo nelle sue forme più audaci di distruzione si presenta talvolta come logica conseguenza, e talvolta sotto l'aspetto di una forza benefica, per quanto inconscia, che tende ad espellere dall'organismo sociale quei principii morbosi.

* * *

Dove può sembrare che il Carducci abbia fatto scuola, si è nel campo della filologia e della critica, dove con una larghezza e sicurezza sorprendente lasciò la sua impronta di leone.

Senza dubbio, come scrive il Panzacchi, Egli rimutò l'atmosfera letteraria del nostro paese e divenne centro di un rinnovato movimento critico. Ma affermando questo non si intende di alludere solamente al metodo storico di cui Egli, per la verità del sistema e per reazione alla letteratura falsamente estetica e d'impressione, fu il più sereno e sicuro maestro. V'è di più: Il Carducci è caposcuola dell'onestà letteraria e dell'avere segnato entro quali termini e per quale determinato fine gli studi abbiano giusta ragione di essere. Rimane poi sopra tutto meraviglioso nell'avere rivolto le ricerche e gli studi ad un fine pratico: cioè ad un'instaurazione superiore della coltura nazionale.

Ora questa grande idealità degli studi che anima il Carducci accende anche gli animi della nuova generazione che attende con tanto fervore all'erudizione e alle lettere?

Non pare, e non pare nè meno che lo seguano nella parte formale, cioè in quella chiarezza e genialità artistica la quale risplende nelle più severe opere di lui e che non solo del Carducci, ma è propria della nostra tradizione italiana. Lo crede Egli? Io non so. Certo è che la sua fede nell'opera rigeneratrice degli studi è immensa, sebbene (mi si perdoni il giudizio azzardato) questa fede pare che abbia origine più dalle sue forze soggettive che da una fredda conoscenza dei fatti e delle persone.

V'è in lui qualche cosa di invincibile, di rigido, di sublime che resiste ad ogni urto; una convinzione, una coerenza così serrata che non permette al dubbio e all'indifferenza di insinuarvisi e fanno sì che Egli rimanga credente e combattente sino alla fine.

A questo proposito sono notevoli i seguenti passi del discorso pronunciato in Senato il 17 dicembre '92, in difesa dell'insegnamento classico:

«Badate, o signori, la rivoluzione e la nazione italiana l'hanno fatta la nobiltà e la borghesia, quella che io direi cittadinanza. Le plebi, intendo specialmente le masse rurali, non ebbero parte nel nobile fatto. Non potevano capirlo: parteggiarono più di una volta coi nostri nemici. La patria la conoscono appena, e non benignamente come una madre. Giustissimo dunque ed utile rinnovare e rialzare con l'educazione le plebi; ma altrettanto necessario mantenere calda e viva nella cittadinanza l'idealità che fece la patria: e questa idealità, non importa che lo dica a voi, o signori, in gran parte proviene dalla coltura classica.

«Vorrei poter analizzare quanto di greco e di romano, quanto di Epaminonda e di Mario, di Trasibulo e di Caio Gracco entrasse nelle prigioni, salisse i patiboli, combattesse nelle battaglie dell'indipendenza.

Conclude dichiarandosi «fiducioso e certo che l'on. Ministro non ha bisogno di conforti a mantenere nelle scuole classiche, senza collegiali impacci di pedanterie, quella idealità superiore greca e romana, contro la quale tuttavia batte il flutto della volgarità, della materialità, ed anche, o signori, della ostinata torbida incertezza e istinti sovvertitori che tutto vorrebbero abbattere, e nulla sanno rifare.

«In tale mantenimento sta per me gran parte della speranza di salute e gloria al popolo italiano, che è per tutte le sue tradizioni altamente e profondamente classico e ideale. A ogni modo mi conforto col vecchio Guizot: l'aristocrazia greca e romana è l'ultima che rimane agli spiriti nobili e che nessuno può togliere».

* * *

Io, per mio conto, quando vedo questo fenomeno quasi costante, che i più lodati fra i giovani filologi, appena usciti dalle scuole, vanno col lanternino in cerca del codice da esumare o dell'autore da rimettere a nuovo o almeno del testo da commentare (se ancora qualcuno è sfuggito alla ricerca) e leggo certi loro libri e riviste che hanno tutta l'ibrida apparenza di un'algebra letteraria in cui nulla riluce della vivacità dell'ingegno e della lietezza di spirito inerente con gli anni, ma un'impacciata gravità inestetica lascia trasparire attraverso le screpolature qua e là la grettezza del pensiero ed una erudizione non maturata non organica ma accattata malamente; quando nelle scuole il metodo che dovrebbe essere il mezzo diventa il fine, oh allora a tutt'altra cosa io penso che ai liberali studi e all'umana idea classica; e invece, non so per quale associazione di idee, mi vengono a mente que' bravi giovani i quali dopo aver compiuto un certo tirocinio, o apprentissage, come meglio s'intende, in qualche fondaco o studio di commercio, stanno poi incerti se darsi piuttosto all'importazione delle arringhe affumicate oppure dei formaggi svizzeri.

Di grazia, non mi si creda per tali parole irriverente verso i maggiori e verso questa nobilissima scienza moderna della filologia e della critica, la quale ha recato tanto contributo alla conoscenza del vero e però alla civiltà e al progresso vero; e, certo, benedetti mille volte i giovani che a questa scienza attendessero con severità di propositi ed elevatezza di intenti; ma come studio individuale, ma per assorgere poi ad una più sapiente e sicura comprensione dell'animo, della storia, della filosofia, dell'arte; e questa conoscenza trasportarla come forza viva, benefattrice, illuminatrice nella corrente della vita che si vive per mezzo specialmente della scuola. Magari fosse così, e questa nostra patria italiana di quanto si sarebbe avvantaggiata nella ricostruzione della sua nazionalità intellettuale e morale!

Ma non è così. Si fa dell'erudizione per l'erudizione, della ricerca per la ricerca, e fin qui meno male; il male vero è che questa erudizione non è animata da un vero e proprio amore, come a dire approntare un grande e purgato materiale di analisi di cui poi altri o essi medesimi fatti più maturi si valgano per istudi più complessi e maggiori o per adattare il già noto al mutevole tempo. In generale è tutta un'erudizione frammentaria a cui manca la coordinazione e la finalità, se pure per finalità non si vuol intendere quella molto necessaria ma poco nobile di apprestarsi, come sembra sovente, i titoli per i possibili concorsi: ma sopra tutto manca la idealità, tanto che io non esito a dire che se invece del classicismo greco, latino, italico dovessero indagare le origini della letteratura chinese o giapponese. vi porrebbero il medesimo ardore e la medesima pazienza.

Tutt'al più a volere assegnare a costoro una ben strana missione storica, già adombrata sopra, si potrebbe dire che essi rendono simiglianza a' notai e loro scribi i quali compiono minuziosamente l'inventario del pensiero classico; e quando si parla di inventario, si parla anche di morte.

Bene io so che vi sono eccezioni molte e nobili, ma non valgono ad infirmare di troppo il mio giudizio. E ne fanno prova le scuole ove sono chiamati ad insegnare ed hanno i maggiori gradi, che mercè loro (e se vuole si aggiunga pure l'azione dannosa di certe vecchie e sfiatate cariatidi dell'insegnamento) la scuola classica si può chiamare la demolitrice del pensiero classico. Si possono rinnovare libri, rimutare leggi, come si mutano annualmente; ma rimane sempre il fatto che i giovani quando ne escono mandano un gran respiro come se il petto si allargasse, ed anche un tacito parce sepulto, quando non è un'imprecazione, non solo al buon Senofonte e a Cicerone, i due meno intellettuali autori e pure i capi saldi dello studio del greco e del latino, ma a Platone, a Sofocle, a Vergilio, a Tacito, al Petrarca ed a Dante insieme a Laura ed a Beatrice, coi quali autori vissero per tanti anni senza che a quella immortale luce la loro mente si accendesse; anzi credendoli conoscere per averli così spesso avuti seco e averli letti ed esserne stati martoriati, portano nella vita la persuasione che siano perfettamente inutili, appunto perchè perfettamente non li intesero o, meglio, non vennero fatti intendere.

Certo è che l'effetto dannoso di tale esagerazione del metodo, mancanza di idealità, di finalità, di arte diviene maggiore a cagione di un senso direi quasi universale di avversione per lo studio dei classici; e di questa avversione non so trovare altra causa vera e prima che la seguente, cioè che il pubblico intende ovvero intuisce come questo studio, se fosse ridotto alla sua vera missione e fosse insegnato come dovrebbe essere, non potrebbe a meno di non produrre una vera e fiera aristocrazia intellettuale, al quale fatto ripugna istintivamente.

Per le cose dette anche in mezzo a codesta classe di gente studiosa e colta il Carducci mi si presenta come diverso e solitario.

* * *

Non pochi hanno notato che nelle terze odi barbare v'è una decisa concentrazione del Poeta in sè medesimo, e ne hanno dedotto un decadimento delle sue forze poetiche. Per me invece sono prova della sua vera tempra di genio e della inesauribile potenza: appunto perchè essendo costretto ad attingere sempre più entro di sè, riesce tuttavia a dare alle sue fantasie soggettive un'estensione meravigliosa.

Tace in quelle liriche la vita presente, ma pare che l'anima dei secoli vibri all'unisono della sua in non so quale solenne tristezza, e la natura tutta vi risponda con una tragica serenità che non è nelle prime odi.

Sarebbe invece più giusta cosa il dire che Egli ha voluto o fu costretto a spingere l'arte della poesia a' suoi ultimi confini. Dopo s'innalzano le colonne d'Ercole e lì bisogna arrestarsi.

Egli sembra essere compendio e termine di questa divina arte del canto quale sino ad ora venne intesa, cioè come rispondente con armoniche forme ai nostri bisogni estetici ed ai nostri fantasmi.

Se poi per il tempo avvenire il sentimento fantastico, appassionato degli uomini, cioè il soggetto della poesia, avrà bisogno di rivestirsi di parole e di ritmo, io non so: tuttavia oso dire che, supposto che ciò sia, le forme liriche e l'arte quali furono sino ad oggi e che nel Carducci assumono l'espressione più sintetica ed acuta, non potranno più sussistere e dovranno rinnovarsi totalmente.

Così intendendo, con una rigida e stoica visione del vero e con la consapevolezza interiore del punto che Egli stesso avrebbe dovuto segnare nell'arte, scriveva sino dal '74[22] «La poesia oggigiorno non è più la produzione immediata o mediata del popolo, nè elemento di civiltà per la nazione, nè un bisogno estetico della società, nè instrumento di rivoluzione o mezzo di rinnovamento».

Egli fu logico sino alla fine e con la sua arte fornì la maggior prova di questa verità.

* * *

Per tale modo l'anima del Poeta varca il suo viaggio. Egli passa come cavaliere stoico e disdegnoso in mezzo alla turba e tende al fine ove la ferrea logica del suo pensiero e delle cose lo conduce. Passa in mezzo alla grave e immota folla dei dotti, fra il chiassoso seguito dei monelli dell'arte, attraverso l'indifferente aprirsi del volgo; e non verso l'avvenire, o Poeta, ma

A la scogliera bianca della morte.[23]

Anch'essa un avvenire!

CAPITOLO VI. Giosuè Carducci e l'ora presente.

Domanderà alcuno: Quando principia propriamente il Carducci a divenire monarchico?

In una lettera al Resto del Carlino (11 maggio '93) scrive: «Io di educazione e costumi repubblicano (all'antica) per un continuo svolgimento di comparazione storica e politica, mi sentii riattratto e convertito ingenuamente e sinceramente alla monarchia, con sola la quale credo ormai fermamente possa l'Italia mantenersi unita e forte». E il Corriere della Sera riproducendo questa lettera, dice che in essa il Carducci afferma ora nettamente la evoluzione politica compiuta nel suo pensiero.

Ma in verità io penso che queste parole, dette per incidenza, siano una concessione alla opinione pubblica; null'altro. Evoluzione propria e vera di lui non ne avvenne e senza che ciò gli sia di merito, non ne poteva avvenire. Fu piuttosto il tempo, furono le cose, come ho detto in principio, che si svolsero in modo da determinare questa specie di conversione che non sarebbe apparsa se i fatti e le idee avessero seguito un altro corso.

Mi sembra dunque inutile l'insistere su di un'epoca determinata alla quale non corrisponde un determinato e sostanziale mutamento.

Ma oggi che negli scritti di critica si costuma di raccogliere la maggior quantità possibile di documenti e si vagliano e si discutono consumando spesso gran parte del libro in un lavoro, per mo' di dire, di retroscena o di appendice, molti forse diranno che io avrei dovuto fare una raccolta ed un esame comparativo e cronologico di quegli scritti in cui il pensiero politico del Carducci si viene a mano a mano modificando, sino a che riesca naturale che Egli si affermi convertito alla monarchia.

Concedo che un simile studio possa valere per dimostrare il progressivo adattamento, ma non credo che convenga all'indole del libro ed al metodo seguito; oltre a ciò mi sono trattenuto per timore che insistendo troppo su di una questione più che altro di apparenza e di forma, questa venisse confusa con la questione sostanziale: giacchè il concetto informativo del presente lavoro fu, come già dissi, di persuadere il lettore benevolo che nelle opere maggiori di lui stanno tutti i germi e le cause della sua evoluzione, e non è necessario ricorrere o a sottigliezze o a documenti speciali: in altre parole che dato il genio e l'indole dell'uomo, data la natura dei tempi, la sua fede monarchica viene di conseguenza e non implica alcun nuovo convincimento.

Altri con più giusta ragione, mi potrebbe domandare perchè io non faccia nè meno cenno dell' Eterno femminino regale, e delle sue varie manifestazioni.

Certo è un'ommissione grave, ma più in apparenza che nel fatto. Questo nuovo sentimento che si inizia con l'ode Alla Regina[24] forse ha avuto un certo influsso nell'affrettare la conversione; ma non tanto a motivo di questo sentimento in sè, spiegabile per l'indole sua punto partigiana e cavallerescamente gentile nella apparente rudezza[25], quanto per l'acerba critica che gli fu mossa; la quale, per avventura, fece sì che uomini prima con lui concordi ed acclamanti, al solo primo urto gli si svelassero nel loro vero essere.

Credo anche che lo sviluppo dell' Eterno femminino regale abbia contribuito a rendere troppo acute, stridenti, eccessive alcune affermazioni in proposito, le quali offesero non solo gli avversari, ma anche a molti che del Poeta erano e sono ammiratori e benevoli, non piacquero.

Ma dopo aver fatto questa concessione, non mi sembra il caso di insistere più oltre su di un fatto che ha un valore molto trascurabile rispetto alla principale questione.

* * *

Se nei capitoli precedenti io sono riuscito a rendere intelligibilmente il mio pensiero, può oramai chi legge intendere di per sè quale valore e significato abbia questa conversione monarchica e come di necessità siasi originata. Tuttavia mi piace insistere in modo più particolare e dedurre quelle conclusioni e quei giudizi che vengono fuori da questo contrasto fra l'illustre uomo e l'ora presente.

* * *

Il lettore probabilmente ricorda la chiusa dell'ode il Piemonte[26]. In essa, con una di quelle visioni che da noi modernissimi non possono essere del tutto intese e gustate perchè dell'epico e del veramente fantastico, quale è in quella chiusa, abbiamo perduto o almeno di molto attutito il senso; in essa, dico, il Poeta imagina che lo spirito di Carlo Alberto, il re per tant'anni bestemmiato e pianto, salga a Dio scortato da un volo d'ombre eroiche; e dicono:

Anch'egli è morto come noi morimmo,

Dio, per l'Italia. Rendine la patria.

A i morti, a i vivi, pe'l fumante sangue

Da tutti i campi,

Per il dolore che le regge agguaglia

A le capanne, per la gloria, Dio,

Che fu ne gli anni, pe'l martirio, Dio,

Che è ne l'ora,

A quella polve eroica fremente,

A questa luce angelica esultante,

Rendi la patria, Dio; rendi l'Italia

A gli italiani.

Ma nel coro degli spiriti non sono solamente quelli che nella fede del re combatterono, ma anche quelli cui in vita il re disperse e percosse, cui in morte l'amore per la patria ed il dolore congiunsero.

Ora questa visione mi sembra che risponda, sotto un certo aspetto, ad un senso politico del Carducci, rinnovato in quest'ultimo tempo. Ecco: Egli visse in mezzo agli eroi della patria e fu allevato nella loro fede. Non congiurò nè combattè le battaglie cruente, ma combattè quella battaglia a cui lo portava il suo genio, cioè, come più volte dissi, per la rigenerazione del pensiero e della coltura nazionale.

Ma l'uno dopo l'altro i titani, i profeti, i buoni, i martiri la Morte ravvolse della sua ombra.

In un breve scritto che suona come ultimo vale ad Alberto Mario, ricordando come questi, oramai vicino a morte, gli rinnovasse la memoria di scrivere la storia del Quattrocento, prorompe: «Oh, se io fossi Erodoto e potessi leggere a un uditorio di Greci, io vorrei scrivere ben altra storia; la vostra storia, o padri e fratelli eroici. Voi sparite un dopo l'altro dallo spettacolo della vita: la nuova gente agita bandiere e sparge fiori su le vostre bare e le tombe, e vi piange, e vi acclama, e vi predica e poi vi dimentica.» E per la morte di Garibaldi, nel famoso discorso, dice: «La miglior parte del vivere nostro è finita». Certo ritornano alla mente quei versi nell'epodo in morte di Giovanni Cairoli, che dicono:

Oh come sola è ora

La casa degli eroi!

Ma non alla dimora di Groppello, sì bene più largamente sembrano significare. Caddero, e con essi cadde e tramontò l'idea di un'Italia repubblicana: repubblicana, intendo, non nel solo senso politico che anzi perdura più che mai, ma nel senso storico e classico, idealmente rinnovato secondo i bisogni della vita presente; per cui il Carducci chiamò sè stesso per educazione e costumi repubblicano all'antica.

Questi costruttori di una patria perfetta e bellissima non sono più: ma pare che dal loro scomparire dalla scena della vita, quasi non più da essi trattenuto, si sia rapidamente accelerato e diffuso quel movimento sociale, di cui ora voglio indicare un solo aspetto, cioè come le genti italiche o dimentiche o non più curanti dei distintivi storici di nazione, tendano a confondersi nella fiumana di una umanità rinnovata.

* * *

Ho detto dimentiche e non curanti; ma non è tutto il mio pensiero: io penso che la nostra rivoluzione politica abbia avuto anche per effetto di portare in su, alla direzione degli organismi più delicati e vitali della nazione, una certa classe sociale mezzo borghese e mezzo plebea, che non è da confondersi nè con la buona aristocrazia dei natali e dell'ingegno, nè con quella borghesia che il Carducci così bene chiama cittadinanza e nemmeno con le forti e serene classi lavoratrici delle officine e dei campi; ma qualcosa di mezz'e mezzo che non aveva nè tradizioni, nè energie, nè affetti superiori; che prima non era nulla, che oggi non è nè credente nè atea, ma egoista per istinto, cosmopolita per insensibilità; cui la libertà politica fornì i mezzi di rimpannucciarsi, di infarinarsi di coltura, di venire a galla, di farsi valere; che segue la corrente sempre dal lato ove è più forte, intendendo benissimo che comunque vadano le cose essa avrà sempre da guadagnare, nulla da perdere.

Questa classe indefinita e indefinibile si è propagata, sparsa, sovrapposta, un po' da per tutto: nelle assemblee legislative, nelle amministrazioni, nel giornalismo, negli impieghi, nelle scuole; si attacca dovunque, porta dovunque la sua bava che fa smarrire i colori e le fisonomie alle persone e alle cose, la sua distruzione anche quando in politica si atteggi a conservatrice.

Ora pare monarchica ed agisce come forza in sostegno di questa istituzione; ma basta il menomo contraccolpo perchè questa massa si sposti e diventi repubblicana, socialista, magari anarchica senza sapere neppur essa perchè; certo per forza di viltà: è una specie di grande claque sociale, che si recluta da per tutto, che non ha nessun convincimento, ma che in un momento grave deciderà della vittoria.

* * *

Dinanzi a questo disgregarsi e disperdersi delle forze morali della nazione, io non posso a meno in fantasia dall'imaginare questi veri padri della patria raccogliersi e proteggere non la loro repubblica, ma l'idea informativa della santa repubblica, cioè la virtù e la bontà degli animi, la gentilezza, la coscienza del concetto della patria.

E nella divina tranquillità della morte, nell'allontanarsi del tempo, dinanzi al supremo pericolo, non solo scompaiono gli antichi loro dissensi, ma con loro si accompagnano altri (e quelli ben volontieri li accolgono) che, monarchici di fede e loro nemici qui in vita, consacrarono pure l'ingegno e le forze per la patria.

A questa schiera di grandi spiriti, con una communione di anime, vivo, fuori da ogni preoccupazione di parte, si ricongiunge il Carducci.

Nelle sue ultime odi, Piemonte, Cadore, La bicocca di San Giacomo, prende argomento da fatti e da personaggi eroici per rievocare (forse Egli è l'ultimo) la santa, la meravigliosa nostra patria, le memorie infiammate di gloria, le speranze per cui invano i profeti segnarono i giorni numerati al loro avverarsi.

La verità vera è che il Carducci in questo sentimento è meno inteso che mai.

Riporto ancora le parole del signor Buti[27] perchè hanno il merito di riferire con scettica nitidezza il giudizio di moltissimi, volevo dire comune:

«Tale è l'ultima messe lirica di Giosuè Carducci ( Piemonte, Cadore, ecc.): un anacronismo, un deplorevole anacronismo, che avrebbe potuto essere della poesia civile cinquant'anni fa, ma che oggidì riducesi a un mero sfogo solitario e retrogrado senza eco e senza consentimento del pubblico. Il Carducci, in questi saggi di pretesa lirica civile, s'è dimostrato impotente non che a precorrere, anzi a seguire la rapida corsa verso l'avvenire del pensiero contemporaneo.» E finisce: «Egli si è lasciato illudere dalla sua fama. À creduto di parlare altamente e degnamente alla generazione presente. In vece la sua voce fu così bassa e così cavernosa, che parve ai giovani uscisse da un sepolcro!...»

Che cosa posso io rispondere? Nulla, e proprio lo dico senza ironia. La risposta sta in tutto questo scritto, se pure nelle parole è rimasta qualche cosa del mio pensiero.

* * *

Ma oggi mai molte sono le voci dei morti secondo il giudizio di quelli che si vantano vivi.

Ne ricorderò un'altra; quella di Felice Cavallotti, e prego chi legge a non mi volere frantendere. Certo io posso sembrare, e sono in fatto, più congiunto all'antico che al nuovo; ma il pensiero, appunto perchè non lieto ed intento ad una spassionata ricerca della verità, non trova forza nè modo di essere satirico o di trafiggere alcuno con le abusate arti dello scrivere.

Il Cavallotti, il quale è certo una delle poche figure del partito repubblicano storico che sia giunta sino ad oggi integra e combattente, dopo i noti scandali bancari bandì, a nome suo e de' suoi, un manifesto (3 dicembre '93) ove richiama i cittadini e gli uomini politici al sentimento della morale, del dovere e dell'idealità della patria; ed accenna ad un ordine di riforme tributarie ed amministrative tale che valgano a dare alla patria stabilità politica e benessere di vita sociale. Bisogna però aggiungere che queste proposte e queste riforme per quanto coraggiose ed organiche non escono dall'ambito della legalità e sono tali che un conservatore liberale e libero da preconcetti e da odi, può sottoscrivere; in altre parole stanno entro i limiti di un equo ed ideale ordinamento della società borghese quale oggi è o sembra essere esteriormente.

Ora il signor avv. Filippo Turati, uno dei più autorevoli e nitidi espositori italiani delle dottrine socialiste, nella Critica Sociale del 16 dicembre, a proposito di questo manifesto e del Cavallotti scrive fra le altre cose le seguenti: «Questa leggendaria logorea di morale, bandiera, sociali giustizie, popolo, che non tocca una sola delle cause dei mali presenti, è ben la fioca voce di un revenant del 48, voce che non ha in nulla l'accento, la vibrazione dei tempi, delle cose, dei bisogni dell'oggi.»

È questa un'affermazione assai grave e che dimostra il tormento dell'ora presente e la tensione a cui è giunto il dissidio; tuttavia bisogna saperne grado all'autore per avere messo le cose al loro posto.

Si richiedono però alcuni commenti.

Anzi tutto conviene constatare un fatto. L'attuazione di questo e di simiglianti programmi sovente banditi dai più autorevoli e degni superstiti del partito repubblicano storico, richiede ed implica necessariamente nella odierna società un complesso di energie, di convincimenti e di virtù che sembra che più non esistano. Il persistere stesso del male dimostra che vi è una vera incompatibilità fra il rimedio e lo stato patologico dell'organismo sociale quale è oggi.

Sotto questo punto di vista il signor avv. Turati constatando la inefficacia del detto rimedio, è strettamente logico, e secondo i suoi intendimenti, ha anche ragione di rallegrarsene.

Ma questa non è che una parte di ciò che a me sembra essere la verità. L'altra parte della verità è che il partito repubblicano classico o storico non si può accostare al socialismo scientifico perchè questo implica in sè la ruina di qualche cosa di storicamente superiore ed intellettualmente aristocratico, in cui sta la ragione di essere del detto partito repubblicano.

Questo qualche cosa di superiore dovrebbe anche essere anima e nervi della borghesia; ma invece di essere tale decade molto rapidamente, e decadendo a mano a mano segna come indice il formarsi ed espandersi del partito nuovo: e decadendo lascia un terribile vuoto morale nella società borghese, dal quale vuoto proviene il fatto che la difesa che la detta società fa di sè, diventa sempre più materiale ed a conservazione di beni materiali: lieve riparo o scorza contro cui i socialisti urtando fanno sentire con allegro sprezzo come risuoni a vuoto, e dicono che non fa nemmeno bisogno di abbatterlo; cadrà di per sè.

Da questa dolorosa contraddizione che nol consente, anche proviene che gli ultimi superstiti di quel partito repubblicano storico, che non potè fiorire e per il suo elevato concetto e per mancanza di forze etniche, o si addossino al presente ordine sociale costituito nella speranza di infondervi nuova anima, nuovo sangue, idealità, senso della propria conservazione, come il Carducci; o rimangano sospesi come il Cavallotti; o si ravvolgano nella propria saggezza come il Bovio, o si agitino tremendamente, perchè sentono che il terreno è da per tutto minato, come l'Imbriani.

* * *

Che cosa si intenda per questo non so che di superiore fu già detto innanzi con speciale riguardo all'arte; ora mi gioverò delle parole del Carducci stesso per meglio determinarlo nel senso politico.

Ecco: Nessuno è più del Carducci democratico nel senso umano della parola; ogni pregiudizio, ogni convenzionalismo dilegua dinanzi alla luce del suo giudizio; pochi come lui grandi, seppero vivere in tanta modestia e dignità di vita privata come Egli visse e vive; se altri lo uguaglia, certo nessuno lo supera nell'amore al benessere ed alla pace per tutti gli uomini di buona volontà, e sono convinto che in sostegno di qualsiasi riforma economica informata di giustizia e tendente al vero bene, Egli darebbe il suo voto.

Che cosa v'è dunque di diverso dagli altri in quest'uomo, in questo eroico combattente della libertà, perchè oggi debba essere giudicato inadatto a conoscere la pienezza dei tempi?

Forse perchè da ultimo si dichiarò monarchico? Evvia, anche quando Egli era repubblicano (a modo suo) e lo si applaudiva perchè v'era il tornaconto, si sapeva bene quale Egli era, cioè come è oggi.

La vera cagione è che fra il Carducci e la gente nuova v'è un abisso di mezzo: allora si fingeva di non vedere, ma oggi invece che Egli stesso bruscamente l'ha chiarito con la sua conversione, si coglie il pretesto di questa conversione per proclamare la sua incapacità di assurgere alla conoscenza dei bisogni e delle aspirazioni del momento che fugge.

Scriveva dunque nell'83, cioè quando non avea ancor cessato di essere il cantore di Satana e il poeta della democrazia:

«L'idealità di una nazione, la religione cioè della patria, ha per fondamento, per focolare alimentatore una o più realtà, ciò sono una graduale trasformazione e ascensione delle classi inferiori verso il meglio; un ordinato e sano svolgimento delle forze economiche nelle classi mezzane; un'aristocrazia almeno del pensiero, della scienza, dell'arte, in una coltura superiore di genio altamente nazionale,» e poco sopra definisce la idealità di un popolo così: «cioè la religione delle tradizioni patrie e la serena e non timida conscienza della missione propria nella storia e nella civiltà, religione e conscienza che sole affidano un popolo d'avvenire»[28]. E nella sua professione politica agli elettori di Pisa (maggio 1886) scrive: «Io voglio lo svolgimento di tutte le riforme democratiche richieste dalle necessità storiche dei tempi, ma con tutte le guarantigie dell'ordine politico e sociale secondo la tradizione italiana».

Ora questa pugnace aristocrazia dell'ingegno in una coltura nazionale, questa religione delle tradizioni patrie, questa coscienza della missione di un popolo nella storia e nella civiltà, sono sentimenti che la società che si va formando ritiene come un errore o, almeno, come un ritardo: ed è cosa logica. Essa ha bisogno di livellare, di scancellare, di rinnovare.

Ogni opera che tenda a conservare autorità di principii, tradizioni storiche, etniche, artistiche per quanto vere, ottime, bellissime, riesce a questa nuova gente di troppo insopportabile peso per il suo viaggio.

In questo consiste la vera differenza fra il Carducci e la nuova gente; differenza che esisteva anche prima; non nel vario significato fra i due nomi di repubblicano e di monarchico che, nel Carducci, non hanno una essenziale differenza di contenuto.

* * *

Perchè è un grave errore di miopia il credere, come fanno alcuni eterni sentimentali, che questo fenomeno dissolvitore e innovatore che si intende con la voce socialismo, sia una semplice malattia economica cui si possa applicare qualunque panacea, anche il puro cristianesimo!

Certo non è facile segnare il confine del punto ove il fatto economico cessa per diventare fatto morale, tanto più che sovente le due cause sono fra di loro congiunte ed intersecate; ma è però vero che la causa morale vi entra per grandissima parte.

Speciali condizioni e trasformazioni delle industrie, delle ricchezze, della proprietà, del lavoro, costituiscono il turbamento economico, quale con serena e fine diagnosi fu determinato dal Marx; e qui non tanto sembra doversi incolpare una speciale iniquità degli uomini, quanto la natura delle cose e del sistema capitalista a cui alcune classi della borghesia furono a mano a mano condotte e che esse stesse sembra non possano nè migliorare nè altrimenti modificare.

È però vero che questo disagio economico si è insensibilmente acuito a cagione di non so quale pervertimento della nostra natura, per cui avviene che tutti noi, dal più al meno, abbiamo smarrito il senso della vita fisiologica, semplice, vera, buona; ma consideriamo il superfluo, l'innaturale, l'artificiale come precipua condizione di felicità.

Negare od eludere questo male puole essere facile, non così il proporvi un adeguato rimedio.

Ma ommetterebbe un grave coefficiente per giudicare in modo imparziale, chi considerasse il socialismo come proprio di una speciale classe sociale, cioè di coloro che portano a dosso la livrea di servi del capitale. Anche le altre classi vi concorrono, almeno negativamente, cioè distruggono in un senso mentre quelli distruggono dall'altro; e in prima linea viene la stessa borghesia ricca, capitalista o industriale. Essa, salvo sempre le eccezioni molte e degne, offre questa strana contraddizione, che, mentre oppone una resistenza fierissima di conservazione materiale, moralmente sembra penetrata da una voluttà di dissoluzione maggiore che non sia negli altri il desiderio del divenire.

Non ha idealità religiosa, perchè, quando non è giudea, della vera fede ha perduto quasi tutto fuorchè le apparenze; non ha tradizioni eroiche e gentilizie, perchè è sorta da ieri da un'aristocrazia che avea finito il suo tempo; non si può dire che sia monarchica, perchè con pari garanzie accetterebbe anche la repubblica; idealità nazionale non sembra che ne abbia molta, perchè priva di profonda coltura; e se in alcuni casi ha contribuito all'unità politica, non si può dire che l'abbia fatto sempre per nulla o, se così fu, se ne venne poi dimenticando. Si vale però della religione, della morale, della patria, dell'arte come strumenti di difesa; ma senza volerlo o saperlo li scredita e li deforma. Essa ha un carattere cosmopolita ed utilitario; ed uno che volesse fare ricerca di frasi, potrebbe anche chiamare questa borghesia come la matrice storica del socialismo. Essa di fatto è portata dalla sua stessa natura ad accentrare e ad accumulare sempre: ma è giunta al punto che le forze per contenere e conservare ciò che chiama sua legittima proprietà le oscillano e accennano a scomporsi con suo gravissimo pericolo.

Di contro a questa smisurata e innaturale forma di proprietà, di ricchezze e di sfruttamento, il socialismo si accampa con la opposta reazione della comunità o socializzazione dei beni e dei capitali; la quale nuova dottrina economica sembra suggerita dallo stesso accentramento capitalista.

Intanto nell'oscillare fra questi due opposti eccessi il senso della proprietà vera, legittima, come quella che è prodotto esiguo, ma santo, ma caro dell'onesta attività dell'individuo, si perde; e fatalmente si dovrà perdere quella poca ma vera felicità che consiste nell'affetto e nell'uso delle cose proprie. La quale non è soltanto felicità individuale, ma è fonte di saggezza, di pace, di parsimonia e di bontà nel senso della conservazione della famiglia.

La guerra alla proprietà falsa e soverchia trasse seco anche la guerra alla proprietà vera e buona; e supposto che questo nuovo ordinamento economico si avveri nel modo e nel grado che si dice e si vuole, dovrà produrre anche un rinnovato ordinamento morale, in cui molte cose buone e care andranno sventuratamente disperse.

Anche il ceto della borghesia media o cittadina che può sembrare la classe più sana e più resistente, ha perduto moltissimo della sua forza conservatrice.

Anzi tutto essa pure si venne spostando e disorganando economicamente per forza del movimento accentratore del capitale; così che da proprietaria di modeste e care fortune che essa era, si trovò, per citare il caso più blando, a poco a poco alla mercè degli impieghi, dei commerci e della conseguente vita randagia; poi anche quella parte che si è potuta conservare integra e fedele agli usi, alla morale, agli studi, agli affetti, risente l'influsso di questa dissoluzione che non si sa dove sia propriamente, ma è diffusa dovunque come l'aria che si respira. Inoltre battuta in breccia senza tregua dalla gente nuova la quale fa balenare bandiere di ogni più ardita rivendicazione e innovazione; priva dell'appoggio e dell'esempio delle classi così dette dirigenti; avvilita da una certa fatalità che è nelle cose, sente sin da ora che sotto i suoi cardini di resistenza il terreno le cede; e insensibilmente si sposterà sempre più verso il nuovo quasi senza avvedersene se non quando il passaggio sarà avvenuto anche nella sua parte esteriore.

Concludendo su questo proposito, si può dire che mentre le classi dirigenti ed organiche della borghesia alta e media vanno perdendo il senso morale della propria conservazione, la misura e il modo della difesa e partecipano esse medesime di non so quale dissolvimento, dall'altro lato l'infinito numero dei lavoratori, dei diseredati, dei malcontenti che il capitale accentrandosi esprime e produce, con un mirabile accordo oltre ogni confine di nazioni, muove serrato alla conquista di ciò che è o si presenta sotto l'aspetto della giustizia, del diritto, del benessere.

Rimarrà il banchetto umano lauto per tutti, ovvero, ridotte le porzioni, si accorgeranno i nuovi venuti, essi per i primi, che ben di poco si avvantaggiarono? Cioè non avverrà forse che questo più raffinato senso che è universale, questo più intenso bisogno di partecipare ai godimenti della vita (oltre i giusti limiti della vita fisiologica) non trovino la possibilità di equilibrarsi con la maggior dose di benessere economico che sarà concedibile, e perciò, rimanendo lo squilibrio, rimangano le cause del male e del malcontento? Ma in verità ogni prognostico di ciò che sarà la società dell'avvenire col fondersi di questi vari elementi è assolutamente prematuro e fallace.

V'è però un fatto che mi pare indubitabile e di cui oggi stesso si vedono segni manifesti, cioè che un equilibrio ed un assetto stabile in questo futuro allargamento e partecipazione dei benefici sociali a tutti gli uomini, non sembra possibile senza ammettere un tipo medio umano entro cui di buona o di mala voglia bisognerà costringersi; e forse in questo adattamento al nuovo ambiente, in questo rimpicciolirsi del tipo umano chi sa che non si trovi il modo di essiccare le sorgenti di quel genere di dolore che proviene dalla meditazione, dall'ingegno e dalla filosofia.

In questo che io dico vi sarà alcuna parte di eccessivo, ma è certo che se all'organismo sociale in formazione sono di impedimento gli individui accentratori di moltissima ricchezza e di molte energie umane al proprio servizio, non è meno vero che, sotto un altro aspetto, anche le vere individualità dell'ingegno, essenzialmente indipendenti, preponderanti, bisognose di foggiare il mezzo che le circonda della propria impronta, devono riuscire pericolose od inutili; come deve anche riuscire inutile ogni studio, ogni arte, ogni meditazione che contenga un eccelso godimento o perfezionamento non partecipabile all'universale.

Così ad esempio supponiamo che ai giorni nostri comparisse un uomo il quale avesse tutto lo spirito apostolico, tutte le meravigliose energie psichiche di Gesù Cristo, e che quest'uomo senza alcun misticismo ultra terreno, ma su le basi di un'idealità umana altissima trovasse modo di stabilire in terra il regno della possibile felicità per tutti e di eliminare le cause di ogni ingiustizia e di ogni patimento per tutti. Ebbene quest'uomo, nella migliore delle ipotesi, troverebbe scarsissimi apostoli e seguaci: giacchè supponendo anche che la sua dottrina fosse così perfetta che l'arma della critica non la potesse nemmeno intaccare, per ciò solo peccherebbe che la maggioranza degli uomini non potrebbe assolutamente intenderla ed applicarla.

Che se i fondatori di religioni poterono stabilire e fare accettare dalle moltitudini come pietre angolari del loro edificio alcune massime di una morale superiore o extra umana, vi riuscirono solo perchè si valsero del terrore d'oltretomba e della volontà divina per loro mezzo rivelata. Ora questi mezzi mistici non commuoverebbero che pochissima gente; ed è per questa causa più che logico, non certo consolante, che l'umanità, ammaestrata e fatta scettica da secolare esperienza e da maggiore conoscenza scientifica, rigetti, scarti senz'altro ogni dottrina, ogni morale, ogni felicità che sia superiore alla capacità ed alla attuabilità delle sue forze medie e che per questa sola ragione le trovi erronee.

Invece è conseguente che con tutte le sue forze aspiri a quel benessere che è compatibile con le sue energie e con le sue facoltà, ancora che esso non sia nè il vero nè l'ottimo.

Per ottenere questo, due mezzi, oltre agli altri, si impongono come logicamente necessari alla civiltà in formazione, cioè, ripeto, livellare e scancellare.

Ed applicando questo criterio all'ora presente ed alla nostra patria, si può dire che l'Italia, la meno giovane fra le nazioni civili, la più provata dalla esperienza, la più ricca di memorie, di tradizioni, di glorie, sente prima e più che ogni altro popolo il bisogno di buttare a mare tutti questi inestimabili tesori che non essendo per così dire assimilabili ed utilizzabili dalla maggioranza sovrana, le diventano per ciò di peso e di impedimento.

Dinanzi a questa risorta forma di giacobinismo il Carducci mi rende sembianze di girondino nuovissimo e mirabile; e ne ha tutte le tristezze e le audacie, come nel sonetto Dietro un ritratto, ove chiude:

Oh fantasie di gloria a terra sparte!

E tu Italia vincente, e tu rubesta

Libertà coronata alto da l'arte!

Sopra il fango che sale or non mi resta

Che gittare il mio sdegno in vane carte

E dal palco fatale un dì la testa.

e più fortemente nello scritto su Alberto Mario, stampato primamente nel Don Chisciotte di Bologna, li 2 dicembre dell'81, ove dice: «Odi, Alberto Mario. Io ho ancora un ideale. Ed è quello di morire su la ghigliottina, condannato dal popolo vincitore.

«Il popolo, corrotto e accannato dai governi, pasciuto di frasi e aizzato al vento dai democratici, quando romperà la sbarra, ci scannerà, cioè, ci giudicherà.

«Ci giudicherà, perchè noi vorremo ancora la libertà e la giustizia: due parole che son per divenire di cattiva fama: l'una sbattacchiata in faccia alla gente che non può usarne, perchè ha fame e miseria e ignoranza: l'altra mascherante le mutazioni degli interessi nelle classi dirigenti.

«Noi veramente non pensavamo così. Ma... ma allora sarà quello che sarà.

«Alberto Mario, ti do il ritrovo alla ghigliottina.

«Ma vedi, nè meno ci ghigliottineranno. C'impiccheranno come servi feudali; ci lapideranno come ebrei.

«La Gironda è per sempre finita».

* * *

Ma ammainiamo le vele che, per avventura, troppo indugiammo e v'è rischio che il lettore anche benevolo ci muova rimprovero di avere abusato della sua pazienza, insistendo sempre su di uno stesso argomento per quanto questo sia vitale e presente.

* * *

Forse un errore può essere imputato al Carducci, cioè che la compagnia spirituale o di persona di quei cittadini eroici che furono padri della patria, lo studio dell'arte, l'impeto della fede ardente che rimovea da sè le correnti delle idee contrarie, siano stati cagione che fosse alquanto ritardata in lui la conoscenza esatta della natura delle nuove idee.

Si aggiunga l'effetto dell'applauso che non permise, forse, di separare quanta parte era rivolta all'alto concetto umano, storico, artisticamente sereno, contenuto in quella sua continua ribellione, e quanta maggior parte di esso applauso traeva origine solo dall'espressione rivoluzionaria, dalla frase tagliente ed audace.

Venne infine il giorno che questo movimento di idee e di gente nuova prese tanta estensione ed espressione che il suo carattere non potè più essere dissimulato.

La gioventù che gli passava da presso di anno in anno, ancora serbava il vecchio nome di repubblicana, e certo in buona fede; ma in sostanza era penetrata da queste idee e speranze nuove, le quali nulla contengono di quell'eccelsa idealità patria ed umana, di quel senso dell'individuo eroico, di quella religione delle memorie, di quell'aristocratico sentimento dell'arte che sono cosa propria del Carducci: anzi si può dire che l'attuazione di quelle idee non è possibile senza la distruzione di queste.

Io non so se alcuno molto poco intendendo dell'arte e del genio del Carducci si fosse da lui, come poeta, aspettato qualcosa di simile all' Inno dei lavoratori; questo so certo che non pochi dissero che il Carducci come intese questo crescente dissidio, avrebbe dovuto uscire dall'arena della vita attiva e combattuta, ravvolgersi ne' suoi convincimenti, nella sua antica fede repubblicana come Trasea Peto si ravvolse nel suo manto ed uscì dal Senato.

Così da quell'altitudine, sdegnoso ed immoto, avrebbe dovuto con filosofica serenità assistere allo svolgersi di questi nuovi fenomeni della vita sociale.

Tutto ciò avrebbe potuto piacere alla sentimentalità di qualcuno ed avrebbe prodotto un discreto effetto artistico. Ma via! supporre questo esiglio e questa morte volontaria quando i nervi ancor son forti, non solo è un semplice assurdo, ma è un disconoscere l'indole e l'anima del Carducci.

* * *

Egli non esitò un istante, il timore della calunnia, dell'insulto, di ogni sorta di denigrazioni non lo rattenne, ma si accostò decisamente alla monarchia.

«Ma che disertare? — esclama — Si diserta per vigliaccheria o per guadagno. E questo non è il caso mio. Si può disertare, e innanzi alla legge morale non è più diserzione, quando l'uomo si trovi per forza o per mala elezione arrolato sotto la bandiera dei nemici in guerra con la patria. Sarebbe questo il caso? No'l voglio credere»[29].

Ma nell'accostarsi a questa forma politica conservatrice Egli non cerca difesa o rifugio, ma il modo di meglio combattere ancora, sempre, finchè duri la vita. Per tal modo a questo principio monarchico Egli dà un'attitudine schietta, cittadina, nazionale, ideale come ove dice nel discorso agli elettori del collegio di Pisa (maggio '86):

«Io credo di rendere al re d'Italia il massimo onore quando io lo veggo in fantasia su l'Alpi Giulie a cavallo, capo del suo popolo, segnare con la spada i naturali confini della più grande nazione latina».

* * *

In questa nuova sembianza più grande Egli si erge e più manifesta ci appare la sua vera natura.

Perchè Egli, in questo lento dissolversi e disperdersi degli antichi distintivi del genio italico, sente che in sè ne è assimilata grande parte; e perciò la personalità del suo genio sotto un certo aspetto diventa personalità di razza: la necessità della propria conservazione individuale si impone come necessità biologica e storica.

Tutto ciò che in lui vi può essere di poco armonico, di eccessivo, di mutevole e, sia pure, di apparentemente illogico si deve ricercare in questa necessità di difendersi e di difendere.

* * *

Se poi alcuno domandasse: la monarchia a cui il Carducci si accostò, contiene essa questa virtù conservatrice della religione e delle tradizioni patrie? puole essere instauratrice di giustizia economica e morale, così da porre freno o almeno dirigere le esorbitanti forze dei nuovi partiti sociali? raccoglie e rappresenta essa le energie della parte più savia e più sana della nazione? insomma quanta parte di vero, quanta invece di soggettivo vi è in questa idealità di cui il Carducci la recinge?

Risponderei che questo non entra nel tema del mio scritto e che ognuno vi può dare quella risposta che crede migliore.

NOTE:

1. Vedi il foglio apologetico Ça ira. — Gli studenti radicali e Giosuè Carducci. — Numero unico, Bologna 19 marzo 1891. Società Tip. Azzoguidi.

2. Dalla Gazzetta dell'Emilia, — Bologna, giovedì 19 marzo 1891. — Lettera di Giosuè Carducci al direttore del giornale.

3. Ça ira, ecc.

4. Vedi a questo proposito l'opera: Edmond Biré. Victor Hugo. Paris, 1891. Perrin et C., etc.

5. Una bibliografia delle opere del Carducci è vivamente desiderata dagli studiosi, chè tale non si può considerare quella che il signor Brilli fece seguire alla quinta ristampa delle prime Odi barbare (Bologna, Zanichelli, 1887) non essendo, come scrive lo stesso compilatore, nè intera, nè del tutto esatta, nè, come io aggiungo, distribuita in modo e in proporzioni logiche e chiare.

6. Rime di Giosuè Carducci. San Miniato, tipografia Ristori, 1857. Edizione che ora non si trova in commercio.

7. Poesie di Giosuè Carducci (Enotrio Romano). Firenze, Barbera. (Quattro ristampe, '71, '74, '78, e '80).

8. Iuvenilia. Edizioni definitive dell'80 e del '91. Bologna, Zanichelli.

9. I Decennalia, editi nelle citate edizioni del Barbera, sono il nucleo delle rime politiche che aggiunte ad alcune delle Nuove Poesie (Imola, Galeati, 1873), formarono poi il volume dei Giambi ed Epodi (Bologna, Zanichelli, 1882).

10. L' Inno a Satana nelle citate edizioni Barbera è posto fra i Decennalia. Nelle seguenti edizioni (Zanichelli, '81 e '93) è posto fra i Levia Gravia, ma in fine, quasi ad indicare, anche materialmente, che è l'ultima delle poesie giovanili.

11. Vedi Rime Nuove. Il sonetto.

12. Vedi la nota apag. 50.

13. Polemica su i Giambi ed Epodi.

14. Zanichelli, Bologna.

15. Zanichelli, Bologna, 1878.

16. Questa invettiva, come è noto, si originò dall'erronea interpretazione data al verso dell' Ode alla Regina «con la penna che sa le tempeste», chè molti per penna intesero la cannella o quella d'oca per iscrivere.

17. Ode Alla Vittoria tra le rovine del tempio di Vespasiano in Brescia.

18. Per la pira del gen. Garibaldi. Nota.

19. Francesco S. Nitti. L'ora presente. Roux, Torino, '93.

20. Lettera dell'11 maggio '93 al Resto del Carlino.

21. E. A. Butti. Nè odi nè amori. Milano, Dumolard, 1893.

22. Critica e arte.

23. Iuvenilia.

24. 20 Novembre 1878.

25. Credo opportuno richiamare alla memoria il modo come si originò l'ode Alla Regina, lasciando ogni giudizio all'accortezza del lettore, tanto più che in qualche punto mi sembra di avergliene fornite le indicazioni. Scrive il Carducci nell' Eterno femminino regale: «di tutto ciò che di me può parere, mi addolora solo e anzi tutto l'apparire ingrato e disobbligante a chi mi abbia fatto segno di benevolenza e di attenzione. E veda, dicevo a Luigi Lodi, se io non fossi io, cioè il poeta (come mi chiamano) della democrazia, poco mi ci vorrebbe per mostrare a questi monarchici borghesi come uno può esser cavaliere senza aver mai a' suoi giorni portato una croce.

«Faccia un'ode alla Regina — dice Luigi Lodi.

«Chi sa? — rispondo io.

«La mattina dopo gittai giù le prime strofe dell' Ode alla Regina d'Italia

26. Bologna, Zanichelli, 1890.

27. Op. cit.

28. Ça ira.

29. Lettera al direttore della Gazzetta dell'Emilia, 18 marzo '91.

LIBRERIA EDITRICE GALLI di C. CHIESA & F. GUINDANI

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