VIAGGI DI ALI BEY EL-ABBASSI IN AFRICA ED IN ASIA
TOMO II
VIAGGI DI ALI BEY EL-ABBASSI IN AFRICA ED IN ASIA
DALL'ANNO 1803 A TUTTO IL 1807
TRADOTTI
DAL DOTTORE STEFANO TICOZZI
con tavole in rame colorate
TOMO II
MILANO Dalla Tipografia Sonzogno e Comp. 1816.
INDICE
INDICE DELLE TAVOLE VIAGGI in AFFRICA ed in ASIA FATTI DAL 1803 AL 1807.
CAPITOLO XV.
Descrizione di Marocco. — Santi. — Palazzo del sultano. — Giudei. — Giardini. — Corvi. — Leprosi. — Monte Atlante. — Brebi. — Collezione di alcuni vocaboli di quell'idioma.
La città di Marràhsch, o Marocco, antica capitale del regno di questo nome, ruinata da una lunga serie di disastrose guerre, spopolata dalla peste, non conserva ora che l'ombra del suo passato splendore. Ne' tempi della sua prosperità una popolazione di quasi settecento mille abitanti ravvivava l'agricoltura, le arti, ed il commercio del paese: al presente appena conta trenta mille abitanti.
Le sue mura che sopravissero alle ingiurie del tempo, e della mano degli uomini, ne attestano l'antica grandezza. Esse girano tre leghe, e questo spazio è adesso ingombro di ruine, o trasformato in orti; la minor parte forma la presente città; e quantunque le muraglie delle case siano tirate a filo, e formino contrade, lasciano ancora nell'interno delle isole grandi spazj vuoti.
Molte osservazioni astronomiche mi hanno data la longitudine della mia casa, chiamata Bebhamed Duquali posta quasi nel centro delle mura: longitudine orientale = 9° 55′ 45″: dell'osservatorio di Parigi, latitudine settentrionale = 31° 37′ 31″; e la declinazione magnetica = 20° 38′ 40″ Orient.
Le strade della città sono di larghezza assai disuguali, allargandosi qua e là e ristringendosi più volte. Gli accessi alle case alquanto considerabili sono quasi sempre formati da chiassolini tanto angusti e così tortuosi, che un cavallo non vi passa senza difficoltà; e ciò fu espressamente fatto dai grandi per potersi più facilmente difendere nelle rivoluzioni popolari, e nelle frequenti guerre de' scheriffi per la successione al trono, poichè bastano quattro o sei uomini per difendere uno di questi vicoli. Per la stessa ragione le case sono provvedute di feritoj, e la mia sembra, piuttosto che una casa, una fortezza.
L'architettura di Marocco non è diversa da quella delle altre città dell'impero; val a dire che le case sono composte di un cortile con gallerie, o corritoj all'intorno, cui corrispondono lunghe e strette sale, illuminate soltanto dalla luce che entra per la porta. Le principali case hanno due e tre cortili simili al descritto; la mia ne conta cinque. Poche sono quelle che abbiano finestre verso la strada. Molte sono fatte di pietra, ma la massima parte di smalto composto con terra, sabbia, e calce che si batte entro due tavole applicate alle due superficie del muro; ciò che chiamasi tàbbi.
La città di Marocco contiene varie piazze o mercati, che come le strade, non sono nè lastricate, nè coperte d'arena; la qual cosa le rende estremamente incomode, sia ne' giorni piovosi a cagione del fango, come ne' tempi asciutti per la soverchia polvere.
Tra le molte moschee di Marocco se ne contano sei grandi, delle quali le principali sono El Kautoubia, El Moazinn, El Benious. Trovasi la prima isolata in mezzo ad un grande spazio scoperto: elegante ne è la sua architettura, e l'altissima sua torre si rassomiglia molto a quella di Salè. La moschea di Benious conta omai seicento cinquantadue anni da che fu fabbricata: è grande assai, ma la sua architettura presenta una bizzarra mescolanza di architettura antica e moderna, essendo stata in molte parti rifatta di nuovo. Trecento cinquant'anni dopo fu innalzata la moschea El Moazinn veramente magnifica, e posta in vicinanza della mia casa. Le sono addetti dieci ministri, assai mediocremente pagati per ordine del sultano colle entrate della moschea: di modo che questi ministri, come tutti gli altri di Marocco sono obbligati di procacciarsi la loro sussistenza col travaglio, o colle pie truffe dei talismani che vendono per guarire le malattie, i veleni, le ferite, i maleficj ed altri accidenti.... Ah grande Maometto! voi non ingannaste mai gli uomini con sì piccole frodi!... Il profeta non si arrogò giammai il dono dei miracoli, pubblicamente confessando che fu accordato a Gesù Cristo, e non a lui.
Sidi Belabbèss è il santo patrono di Marocco. La sua moschea, come quella di Muley Edris a Fez, è composta d'una sala quadrata coperta da una cupola ottagona, le di cui travature sono incise e dipinte in rabeschi, e coperte al di fuori di tegole inverniciate e colorite. Il sepolcro del santo è coperto di molte stoffe di lana e di seta, poste le une sopra le altre: vedesi da un lato la cassa delle elemosine. Il palco, ed una parte delle muraglie sono coperti di tappeti, e di altri drappi.
Presso al salone o moschea sono molti cortili con portici e camere destinate ad alloggiare i poveri, i storpiati, gl'invalidi, i vecchi. Questo spettacolo è ributtante, ed al triste aspetto che presentano tante miserie dell'umanità, si aggiunge la mancanza di quelle saggie istituzioni praticate in Europa negli stabilimenti di tale natura. Mille ed ottocento infelici dei due sessi sono al presente alimentati in questo luogo col prodotto delle elemosine, e colle entrate della moschea.
Questo santuario serve pure d'asilo agli sgraziati perseguitati dal dispotismo, i quali rifugiatisi nel suo circondario possono negoziare la loro grazia, ed aspettare di essere riammessi al godimento de' loro diritti, essendo intanto sicuri che il loro asilo non sarà violato. Per altro non avvi veruna legge positiva in favore di tale immunità, ma è talmente fondata sulla pubblica opinione, che quel monarca che, abusando del suo potere, osasse di violarla, sarebbe irrimediabilmente perduto nelle rivoluzioni che farebbe nascere. Quanto è mai vantaggioso all'umanità questo pregiudizio in un paese ove l'abitante, privo d'ogni civile guarenzia, trovasi assorbito dallo spaventoso vortice del despotismo! Il capo di questo stabilimento ha, come quello di Muley Edris a Fez, il titolo El Emkàddem, il vecchio, ed è egualmente rispettato; anzi incomincia ad avere odore di santità.
Farò qui parola dei due più gran santi che attualmente vivono nell'impero di Marocco; uno de' quali Sidi Ali Benhamet risiede a Wareu, ed il secondo chiamato Sidi Alarbi Beumàte trovasi a Tedla.
Questi due santi si può dire che quasi decidano della sorte dell'impero, perchè si crede ch'essi soli provochino sul paese le benedizioni del cielo. Nel loro distretto non avvi nè pascià, nè kaïd, nè governatore del sultano, e non si paga alcun tributo: il popolo viene governato dal rispettivo Santo, sotto una specie di teocrazia ed in una tal quale indipendenza. È tanta la venerazione di cui essi godono, che quando visitano le provincie, i governatori vicini ricevono i loro ordini, ed i loro consigli. Non però lasciano i due santi di predicare la sommissione al sultano, la pace domestica, e la pratica delle virtù. Immenso è il prodotto dei doni, e delle elemosine che loro si fanno, e forse non v'è una sola donna in tutto l'impero che non si procuri l'opportunità di parlargli quando vengono nel proprio paese. In questi religiosi viaggi sono accompagnati da una folla di miserabili che cantano le lodi del Signore, o quelle dei Santi personaggi. Li seguono pure molti uomini armati, preparati a difendere la santa causa a colpi di fucile.
Ho di già fatto osservare che questa celeste grazia della santità era in alcune famiglie ereditaria: il padre di Sidi Ali era un gran santo; Sidi Ali lo è attualmente, ed il suo maggior figlio Sidi Bentcami incomincia ad esserlo.
In un gran giro che Sidi Ali fece a Marocco, ebbi l'onore d'intrattenermi con lui; egli liberò la mia dilicata coscienza da qualche scrupolo. Gli feci un piccolo dono di mille franchi, ed egli mi diede una magnifica pelle di leone, sopra la quale egli da tredici anni faceva la preghiera: vi aggiunse molte confetture ed un gran vaso di siroppo di limone, ch'egli costuma di mischiare col suo te. Non trascurai di encomiare molto questo siroppo quando ne presi in sua compagnia. Sciolto affatto da ogni mondano interesse, il sant'uomo impiegò il danaro ch'io gli diedi, ed il prodotto delle abbondanti elemosine che aveva ricevute, nell'acquisto di fucili e di altre armi pei difensori della fede che l'accompagnano.
L'aspetto di Sidi Ali, dell'età di circa cinquant'anni, è venerando e grave. Un volto regolare, colori risentiti, occhi vivaci, piccola barba candida come la neve, forme piccole e pienotte perfettamente proporzionate... Dio sia lodato! Il suo abito sempre uguale consiste in una specie di camicia, o piccolo caftan di lana bianca, un piccolo turbante, una specie di hhaik leggere di lana bianca, che coprendo la testa del santo gli ondeggia sciolto sulle spalle e sui fianchi a guisa di piccolo mantello. La sua voce alquanto nasale acquista grazia dalla sua divina dolcezza. Il maggior figlio di Sidi Ali cammina sulle traccie del padre, e spira santità malgrado la sua fresca età. Può avere ventisei anni, ma è più grande e grosso di suo padre, e più rossiccio. Altri figli avuti dalle sue negre, accompagnavano il santo che viaggia in una lettiera sostenuta da due muli. Questa lettiera è abbastanza lunga perchè l'uomo apostolico possa coricarsi quando trovasi stanco d'avere colle sue ferventi preghiere chiamate sopra l'impero le grazie della divinità.
Non ho potuto vedere Sidi Alarbi che era a Tedla, ma conosco un suo nipote venuto a ritrovarmi da parte sua. Egli è rubicondo assai, e talmente grosso d'avere difficoltà di respiro. Mi si disse che Sidi Alarbi, è ancora più grande e grasso del nipote. Onde apparisce che i digiuni, e le mortificazioni non pregiudicano al vigore ed alla sanità dei nostri santi. Si aggiungeva che a fronte della sua pinguedine Sidi Alarbi monta leggermente a cavallo, e sa ben tirare un colpo di fucile, lo che è un nuovo favore della divinità. Sgraziatamente ebbero luogo alcuni diverbi tra questo santo ed il Sultano Muley Solimano. Avendo l'ultimo fatta fabbricare una moschea nel territorio di Tedla, ed avendo forse mancato a certi riguardi, Sidi Alarbi credette di doverla convertire in una scuderia. Muley Solimano per rappacificarlo gli donò mille ducati; ed il venerabile santo mandò in vece mille montoni al Sultano. Giova sperare che quest'atto di pentimento gli procurerà la misericordia di Dio per le raccomandazioni del santo.
La città di Marocco ha nove porte. Le mura che la circondano sono abbastanza solide, altissime, ed armate di torri al di fuori, tranne dalla banda del palazzo del sultano, ove invece sono al di dentro, formando come una cittadella che domina la città. Le muraglie sono quasi tutte costrutte di terra battuta colla calce.
Il palazzo del sultano trovasi al S. E. del circondario della città. Viene formato dall'unione di molte fabbriche assai vaste; perchè oltre gli appartamenti del Sultano, de' suoi figliuoli, di Muley Abdsulem, e dell'infinito numero di donne che loro appartengono; vi si trovano diversi giardini ed orti. Sonovi pure le abitazioni delle persone della corte, dei domestici, delle guardie, due moschee, ed immensi cortili o piazze nelle quali il Sultano accorda le sue meschouàrs, ossia pubbliche udienze. Tanti edificj formano un laberinto di muri, e come un'altra città, il di cui esterno recinto può avere una lega e mezzo di circonferenza.
Per entrare nel palazzo propriamente tale, dopo avere attraversate tre immensi cortili, o piazze d'udienza, conviene da prima entrare in un quarto cortile ove trovasi il corpo di guardia, di poi passare in un altro, in mezzo al quale vedesi un cobba, o casuccia quadrata alcuni piedi più alta sopra il piano del cortile. Questa casuccia internamente coperta di tappeti, e provveduta di alcuni cuscini è il luogo in cui stanno i grandi ufficiali di corte in attenzione degli ordini del Sultano: è propriamente un'anticamera, ove le persone obbligate a risiedervi si fanno servire di pranzo e di cena. Da questo cortile si entra in un vestibolo, ove trovansi paggi di servizio, ed un'altra guardia; e di là finalmente si entra in un giardino, ove sono due casette di legno, in una delle quali il Sultano suol ricevere le persone.
Questo giardino di forma regolare è pieno d'aranci, è assai bello, e ben provveduto di fiori e di piante aromatiche. Le donne non vi entrano. Esse ne hanno alcuni altri di loro esclusivo uso inaccessibili agli uomini. Tra le due casette vedesi un pilastro sopra il quale è collocato un quadrante solare orizzontale. Un giorno che aveva fatto portare i miei strumenti, osservai il passaggio del sole per prendere la latitudine di questo punto, e feci un segno sul pilastro, affinchè si rettificasse la posizione del quadrante che trovavasi alquanto disorientato. Feci quest'operazione in presenza del sultano.
Un'altra volta il sultano mi condusse egli medesimo nell'interno del palazzo, e mi fece vedere i bei appartamenti fatti all'europea con grandi finestre dalla banda del giardino, ed una magnifica sala, che non aveva altri mobili che pochi tappeti. Quest'appartamento che trovasi al primo piano è assai bello, e soltanto la scala è mal collocata, oscura, ed assai meschina. Nello stesso giardino trovasi un passaggio interno per andare nell'appartamento di Muley Abdsulem posto a fianco del palazzo. Quest'entrata non ha guardie, ma le porte sono sempre chiuse; ed il portinajo non le apre che al Sultano, a Muley Abdsulem, ed a me: per ogni altra persona è necessario un ordine particolare del Sultano. La casa di Muley Abdsulem è abbastanza spaziosa, ed ha pure in sul davanti un bel giardino.
La Giuderia ossia il quartiere de' Giudei, che ha pure un parziale recinto, è situato tra il palazzo e la città. Anche questo quartiere fu ruinato come gli altri, e vi si trova solamente un mercato abbondantemente provveduto. La porta viene chiusa la notte ed il sabbato, è custodita da un kaïd.
I Giudei di questo quartiere si fanno ascendere a circa due mille; quali tutti, senza distinzione d'età nè di sesso, non possono entrare in città che a piedi nudi; e sono trattati con estremo disprezzo. Il loro abito di color nero è assai meschino, ed è perfettamente eguale a quello de' Giudei di Tanger. Il loro capo che sembra un buon uomo, e che venne più volte a ritrovarmi, non veste meglio degli altri. Le donne vanno per le strade col volto scoperto, ed io ne vidi alcune assai belle, anzi straordinariamente belle. La loro capigliatura per lo più bionda, ornata di rose e di gelsomini, dà ai loro volti un'aria seducente. La dilicatezza e la regolarità dei tratti, l'eleganza del corpo, la bellezza degli espressivi loro occhi, le grazie allettatrici sparse su tutta la persona, danno loro quel bello ideale, che invano cercasi altrove che nei capi d'opera della greca scoltura. Eppure queste singolari bellezze sono disprezzate ed avvilite; esse vanno a piedi nudi, e sono obbligate di prostrarsi ai piedi riccamente ornati delle orribili negre, che godono dell'amor brutale e della confidenza dei Musulmani loro padroni. I figli maschi de' Giudei sono belli finchè sono giovanetti, ma degradono coll'avvanzare degli anni, talchè difficilmente si vede un Giudeo di bell'aspetto in età matura. Devesi ciò forse ascrivere alle sofferenze inseparabili dall'orribile schiavitù che li opprime?
I Giudei esercitano molte arti o mestieri; sono essi i soli argentieri, i soli lattonaj, i soli sarti di Marocco. I mori sono soltanto calzolai, falegnami, muratori, magnani, e fabbricatori di hhaik.
Anticamente la città di Marocco era circondata di giardini, e di belle piantagioni, che stendevansi a grandissima distanza. Per l'irrigazione di que' giardini vi derivavano dalle montagne dell'Atlante moltissime sorgenti per mezzo di acquedotti, o canali scoperti: grandiose opere, di cui al presente non rimangono che le ruine per attestare alle persone istruite che gli arridi deserti ond'è al presente circondata la città, erano ameni e fertili orti. I pochi giardini tutt'ora esistenti ricevono l'acqua da alcuni conservati acquedotti sotterranei; tra i quali quello che conduce alla mia villa di Semelalia è così grande, che gli uomini incaricati di ripulirlo vi passeggiavano sotto in piedi fino ad una ragguardevole distanza. Quest'acqua è eccellente.
La pianta più comune ne' contorni di Marocco è la palma. Quest'albero si solleva ad una prodigiosa altezza; ma i frutti nè uguagliano quelli di Taffilet, nè possono conservarsi secchi tutto l'anno: chiamansi billòh. Entro e fuori del circondario di Semelalia io possiedo molte di queste piante; e nel mio giardino io mangiavo frequentemente del midollo, ossia della parte centrale del tronco, che è un'eccellente cosa.
In una foresta di palme tra Semelalia e Marocco si è formata una specie di repubblica di corvi, le di cui costumanze sono affatto singolari. Ogni mattino allo spuntar del giorno questi uccelli partono tutti in traccia di cibo, recandosi in luoghi assai lontani senza che che rimanga un solo in quel contorno: tornano poi verso sera riunendosi a migliaja nel bosco e facendo un orribile fracasso, quasi fra di loro si facessero il racconto delle avventure di quel giorno: cosa da me più volte osservata tanto in tempo d'estate che d'inverno. A fronte delle praticate diligenze io non ho mai potuto trovare in queste parti i corvi a piedi rossi osservati da altri viaggiatori e naturalisti.
Trovasi a breve distanza da questo bosco un sobborgo isolato abitato soltanto da famiglie che hanno la sventura di essere infette da una espulsione somigliante alla lepra, che si propaga di padre in figlio. Quest'infelici sono esclusi dalla società degli altri abitanti, e non avvi persona che ardisca di avvicinarli.
Vedesi stando a Marocco la Cordelliera dell'Atlante, di cui un quarto rimane costantemente coperto dalla neve. Ho calcolato che nella sua totalità possa avere 13,200 piedi d'altezza sopra il livello del mare; ciò dico per approssimazione, giacchè per averne un'esatta misura avrei dovuto eseguire delle operazioni trigonometriche, che avrebbero allarmato i barbari che mi circondavano, e sagrificai quest'oggetto, siccome molti altri, al mio grande progetto. Questa cordelliera è posta obbliquamente innanzi a Marocco dirigendosi dal S. O. al N. E., ma la parte più immediata trovasi al S. della città non più distante di sei leghe. Essa si prolunga nell'interno dell'Affrica, e si volge al levante passando al S. d'Algeri, e di Tunisi fino ai confini di Tripoli. Avremo opportunità di parlare altrove di queste montagne, esaminandole sotto un diverso rapporto.
I viveri sono più a buon mercato a Marocco, che a Tanger, o a Fez. Questa sgraziata capitale quasi spopolata affatto dalle guerre e dalla peste ha perduto ogni commercio. Le arti e le scienze non possono prosperarvi, nè avervi incoraggiamento, mancando Marocco perfino d'una scuola di qualche importanza. Il circuito delle mura, l'immenso ammasso di ruine, gl'infiniti acquedotti resi inutili, i vasti cimiterj che la circondano, possono soli rendere credibile una distruzione così rapida, e così sorprendente.
L' alcaïsseria di Marocco non è paragonabile a quella di Fez, ma gli Arabi delle vicine montagne vengono a farvi le loro provvisioni; lo che anima alcun poco il mercato.
Questi Arabi montagnardi sono tutti di piccola statura, negri, abbrustoliti del sole, e di un ributtante aspetto. Sono conosciuti sotto il nome di Brebi, e formano una nazione separata. Quantunque la maggior parte di loro sappia parlare l'arabo come gli altri abitanti, si valgono d'un idioma affatto diverso dalla lingua araba, fuorchè nelle espressioni prese dalla medesima. Io mi feci spiegare alcuni vocaboli, di cui ne do la seguente nota:
Amànn acqua.
Agròm pane.
Tiffli carne.
Oudi buttiro.
Tàmment miele.
Adìl uva.
Accaïnn dattilo.
Agmàr cavallo.
Tèzerdunt mulo.
Erguez uomo.
Tamgart donna.
Tamtot donna.
Taouàïa negra.
Yessèmh negro.
Aguioul asino.
Taguiòul montone.
Tehzi pecora.
Tagat capra.
Tofòunagt vacca.
Azuer bue.
Aïdi cane.
Idan cagna.
Tigmi casa.
Agadir muro.
Lafit fuoco.
Imi porta.
Zeccar albero.
Timuzunìn argento monetato.
Kareden rame monetato.
Afous mano.
Adar piede.
Alen occhio.
Imi bocca.
Tamàrt mento.
Medden del mondo.
Tadovatz calamajo.
Taparout chiave.
Touslinn forbici.
Hint coltello.
Ohsan dente.
Ils lingua.
Egf testa.
Iberdan arredi.
Amzog orecchio.
Inzar naso.
Adouco scarpa.
Sabàït scarpa.
Iducan scarpe.
Zifr libro.
Quièguit carta.
Maismennek come vi chiamate?
Saoval chiamare.
Aglid sultano.
Amgar pascià.
Aronco vaso.
Torazinn orzo.
Ierdenu grano.
Ibaun fave.
Turigt sale.
Abdan pelle.
Idemmen sangue.
Azèr capelli.
Iegzan braccio.
Ifedden ginocchio.
Tàdautt dorso.
Addiss ventre.
Ovoul cuore.
Eguer spalla.
Adat dito.
Idudan dita.
Aglid moccorn Dio.
Taffoct sale.
Aïour luna.
Azal giorno.
Gayret notte.
Zik mattino.
Tedduguet sera.
Tirerninn l'ora dopo mezzogiorno.
Takourinn due o tre ore dopo mezzogiorno
Tenouschi o el mogareb tramontana del sole.
Tenietz o al Ascha ultimo crepuscolo.
Idgam jeri.
Azca domani.
Azzummeit freddo.
Ierga calore.
Elhhall tempo.
Behra molto.
Imik poco.
Ariatzaat di qui a poco.
Aschat venite.
Ascht venite.
Souddo andate via.
Adrer montagna.
Azif fiume.
Aragar piano.
Orti giardino.
Atchag mangiate.
Atzog bevete.
Igdad uccelli.
Hoùloussen pollo.
Tigliaï ovo.
Taouount rupe.
Accoraï bastone.
Aganìmm canna.
Ouchen lupo.
Tiflouz tavola.
Acal terra.
Imèndi grano.
Tigant sale.
Agauhha cucchiajo.
Timsguida moschea.
Tahanutz bottega.
Araam cammello.
Numeri.
Tau uno.
Sin due.
Crad tre.
Cos quattro.
Semmòs cinque.
Seddès sei.
Za sette.
Tam otto.
Tza nove.
Meràou dieci.
Ian de meraou undici.
Sin di meraou ec. dodici.
I Brebi contano così fino al venti, ch'essi chiamano aascharinn come gli Arabi, di cui ne hanno adottate le espressioni numerali di decine, che combinano colle unità brebe; per esempio
Cos de ascharinn ventiquattro.
Za de telatiun trentasette.
Usano pure le espressioni;
Ascharin de meraou trenta.
Telatin de meraou quaranta ec.
Secondo la costumanza de' Francesi, che dicono sessanta dieci, quattroventi dieci.
Rimarcansi nelle montagne diversi dialetti della lingua breba: tutti estremamente poveri e formanti misti d'arabo; di modo che si può prevedere che la lingua breba scomparirà in pochi secoli. Per iscrivere in questa lingua si adoperano i caratteri e l'ortografia araba: ma a fronte delle mie più diligenti ricerche non ebbi notizia di verun altro libro scritto in questo idioma.
CAPITOLO XVI.
Malattia d'Ali Bey. — Storia naturale. — Eclissi della luna. — Ritorno del Sultano. — Regalo di donne. — Annuncio del viaggio alla Mecca. — Visita di etichetta, e regalo del Sultano. — Tenda mandata dal medesimo. — Ali Bey parte da Marocco.
Mentre mi trovavo a Semelalia fui sorpreso da grave malattia, che mi ridusse agli estremi. Nel corso di tre mesi ebbi cinque gravi ricadute, che mi lasciarono così debole da non potermi neppure leggermente occupare de' miei più favoriti studj. Rimasi costantemente nel mio palazzo di Semelalia senza medico, perchè non voleva prevalermi di quelli del paese, e non eravi in Marocco alcun medico europeo. Dovetti perciò curarmi da me stesso, adoperando i medicamenti, di cui ne aveva meco un abbondante provvisione, accompagnata da una apposita istruzione intorno al modo di farne uso; ed ebbi la fortuna nel tristo stato di trovarmi affatto abbandonato a me medesimo, di non perdere affatto i sensi. Quando potevo alzarmi del letto non omettevo di fare qualche operazione astronomica; e rispetto alla storia naturale raccolsi i seguenti fatti.
In maggio i pomi granati erano perfettamente fioriti, come ancora le palme e gli ulivi: gli albicocchi erano maturi, e tagliavasi l'orzo.
In sul finire di giugno incominciava la stagione dei fichi che durava fino alla metà d'agosto.
In luglio eranvi popponi e pastinache, e verso la fine d'agosto si ebbero i primi dattili di Taffilet.
Alla metà d'agosto i mercati incominciarono ad essere abbondantemente provveduti di uve.
In giugno ed in luglio eranvi molti citriuoli, pomi d'oro, ec., legumi di varie sorti, e si raccolsero le granaglie.
Il giorno 31 luglio i miei domestici uccisero nel mio giardino d'estate un serpente lungo sei piedi e quattro pollici, e della circonferenza di cinque pollici ed otto linee nella parte più grossa. Questo rettile mi parve analogo al coluber molurus o al boa; ma egli aveva sulla testa alcune grandi piastre, che lo avvicinavano al Scitale. Io sono di parere che sia d'una specie sconosciuta: ma per mala sorte era un animale immondo, che la legge non permetteva di toccare; onde non potei esaminarlo attentamente, nè disegnarlo, lo che sarebbe stato un delitto in faccia alla gente che mi stava intorno. Perciò i miei domestici si affrettarono di levarmelo dinnanzi e portar lontano quest'animale così bello e curioso. Come mai potrebbero le scienze naturali fare alcun progresso ne' paesi mussulmani!
Ne' tre mesi di maggio, giugno e luglio l'atmosfera fu quasi sempre serena.
Nel medesimo giorno in cui si trovò il bel serpente un vento di S. O. portò una specie di turbine che si mantenne molto elevato, o dirò forse meglio, una massa di vapori che aveva un orribile aspetto. Non vedevasi alcuna nube, ed il lontano orizzonte sembrava un immenso vortice di fiamme, mentre una linea rubiconda sembrava circondarci da ogni lato all'altezza apparente di sei gradi; e di là fino allo zenit il cielo era tutto di colore citrino. Il disco solare era bianco smaccato, affatto privo di splendore e rassomigliava ad un globo di terraglia, o a dir meglio ad un disco di carta bianca. Il termometro era salito al 36°, ed il calore era effettivamente soffocante. Questa meteora si mantenne tutto il giorno; e fu portata senza dubbio dal vento simoum dal deserto, comechè non abbia potuto per cagione del monte Atlante dispiegare al di qua delle cordelliere la sua forza distruggitrice.
L'atmosfera fu alquanto meno carica all'indomani, e quantunque il sole la penetrasse con difficoltà, non presentò il fenomeno del precedente giorno.
Due dì dopo l'atmosfera si caricò di nubi, il tempo fu borrascoso, il vento soffiava interrotto con violenza, accompagnato da' rovesci d'acqua, e da tuoni.
Mi fu detto con asseveranza che in tale epoca non avevansi mai nè borrasche nè pioggie, che non incominciano prima d'ottobre.
Alla metà d'agosto i popponi sono maturi.
In sul finire dello stesso mese maturano ancora e sono già grossi i pomi granati che si raccolgono alla metà di settembre.
Incominciasi ad aver dattili a mezz'ottobre, di cui se ne fa la piena raccolta in novembre, come nell'ultima quindicina dello stesso mese raccolgonsi ancora le olive.
Alla stessa epoca incominciano a cadere le foglie; ma quest'anno gli alberi si spogliarono così lentamente, che ne' primi giorni di decembre conservavano ancora due terzi di foglie.
In tale stagione io avevo nel mio orto ogni sorta di verdure e di legumi: radici, cipolle, agli, lattuche, fave, cavoli ec. L'orzo era bellissimo, ed era già alto quasi otto pollici.
Dopo le borrasche d'agosto, il tempo fu costantemente bello, non essendovi state che alcune brevi e leggieri pioggie; onde incominciavasi a sentire il bisogno dell'acqua, perciocchè alla fine di novembre i terreni erano così asciutti, che non si potevano seminare. Può darsi che quest'anomalia fosse cagione della tarda caduta delle foglie. Fatto è che tale siccità fu assai dannosa alla provincia di Duquela, risguardata come il principale granajo dell'impero.
Viene costantemente osservato che in sul finire d'agosto tutte le cigogne sono di già partite alla volta di Soudan. Io ne avevo tre nel giardino d'estate, cui erano state raccorciate le ali, che rimasero tranquille affatto, ed assai famigliari: di modo che venivano, a farmi compagnia quando io pranzavo nel padiglione sotto un pergolato, e quantunque avessero rifatte le ali non pensarono pure alla partenza.
Le notti e le mattine freddissime alla fine di novembre cagionano molti reumi. Fra i primi giorni di questo mese non si videro più nè ranocchi, nè rospi. Il dieci novembre furono trovati sotto il guanciale del mio letto due scorpioni ( scorpio africanus di Linneo).
Le mosche incominciano a diminuire verso la metà di novembre, e verso il fine non se ne vedono più. I mosconi erano di già scomparsi in ottobre.
Il termometro esposto al sole ad un'ora dopo mezzogiorno marcò il primo di decembre 41°; e perchè continuava a salire, mancando maggior vuoto nel tubo dovetti ritirarlo perchè non si rompesse. Lo stesso giorno segnò all'ombra 21° 2′.
Lo esposi più volte ne' giorni susseguenti, e gradatamente montò sempre meno.
Il maggior caldo che si ebbe in estate fu il due, ed il tre di settembre. Il termometro all'ombra segnò 38° 8′.
Alla metà di decembre gli alberi non erano ancora spogliati affatto di foglie.
Il 18 decembre osservai una cigogna che volava sopra i miei giardini senza che le mie tre cigogne facessero verun movimento. Siccome non trovavasi allora ne' contorni di Marocco alcun uccello di tale specie non saprei dire da qual parte venisse questa, tanto più che non era di passaggio, giacchè dopo aver volteggiato tre o quatro volte sopra Semelalia partì dirigendosi al N. E. Forse che alcune cigogne si rimangono tutto l'inverno nascoste in paese. Questo giorno era turbato, e la mattina vi fu un uragano che forse fu quello che fece sortire la cigogna dal suo ritiro.
Il 19 decembre incominciarono le pioggie; e prima che terminasse il mese gli alberi non avevano più foglie.
Dopo mezzogiorno del 31 decembre il sole aveva una corona mal terminata, che mostrava tutti i colori dell'iride assai vivaci sopra una superficie di due gradi della sua circonferenza. Il fondo, per così esprimermi, era d'un bianco che piegava al grigio come una corona lunare sopra uno spazio di duecento, ed il rimanente appariva confuso.
Le pioggie continuarono, e la seminagione si fece alla fine di decembre. Non si udì il tuono che la notte del 30 decembre, ed il primo fu veramente spaventoso. I venti furono quasi costantemente d'Ovest.
Il minor calore fu da 7° sopra zero di Réaumur il 18 decembre alle cinque ore della mattina; e pure in quel giorno, e nell'ora medesima il freddo era sensibilissimo.
Il primo gennajo alle dieci ore e mezzo del mattino il termometro esposto al sole segnava 29° 5′.
Avevo ne' miei giardini quattro gazzelle perfettamente addomesticate. Allorchè vedonsi affatto libere i loro giuochi sono veramente dilettevoli, facendo salti e capriole sorprendenti. I miei giardinieri le perseguitavano perchè mangiavano, e guastavano le piante, ma io le proteggevo perchè i giardini erano abbastanza grandi per non lasciar sentire i guasti che facevano. Addomesticate come le cigogne non mi privavano mai della loro compagnia in tempo del pranzo e della cena; di modo che aveva in loro e nelle cigogne le sette mie migliori amiche.
Desiderando che la morte non rattristasse il sacro recinto della mia semelalia, proibij, severamente ogni sorta di caccia. Volevo con ciò offrire agli uccelli nel mio podere un sicuro asilo; ove il variato canto di tante diverse specie faceva della mia Semelalia un paradiso terrestre. Allorchè passeggiavo fuori dei giardini; ma però sempre entro il recinto generale, varie bande di pernici mi stavano dintorno, ed i conigli passavano spesso, per così dire, tra le gambe. Io cercavo d'allettare, ed addomesticare questi animali, che corrispondevano alle mie cure assai più di alcuni uomini che chiamansi civilizzati. Gli uccelli non temevano di venire a prendere le miche di pane che gli gettavo, ed entravano senza timore nelle mie camere, e la notte io avevo le tende del mio letto coronate di uccelli liberi nel paese della schiavitù.
Non ottenni però mai di render familiare un triste chakal ch'erami stato recato. Gli avevo fatta fabbricare una casuccia; terminata la quale, per lasciargli maggiore libertà, gli feci levare la catena, e lo lasciai padrone del suo nuovo alloggio: ma egli seppe aprirsi un passaggio sotto il muro, e fuggì con tanta destrezza (giacchè non oserei dire altrimenti) quanta ne avrebbe appena saputo impiegare un essere ragionevole. Vero è che il mio chakal era incoraggiato dalle grida de' suoi compagni, che venivano la notte in truppe intorno a Semelalia: e perchè i molti cani d'ogni specie ch'io tenevo al di dentro rispondevano abbajando in varj tuoni, venivo ad avere due bande di musica notturna, spesse volte sostenuta dai contrabassi dei ragli dei giumenti, mentre i galli, ed i polli di Guinea faceano le parti di soprano. Tale cacofonia lungi dal sembrarmi disaggradevole mi riusciva aggradevole: niente vi era d'artefatto.
Pareva che la fama dell'immunità della mia villa si fosse estesa fino ai deserti poichè io vidi numerosissime truppe di gazzelle venire a diporto, e giuocare a centinaja intorno alle mura di Semelalia. Forse m'illuderò, ma parvemi talvolta, ch'esse bramassero la licenza d'entrarvi.
Feci un assai interessante collezione di piante, d'insetti, e di fossili di Semelalia. Fra gl'insetti trovasi l' aranea galleopodes magnifica per la sua grandezza: la prima volta ch'io la vidi mi spaventò da dovero, tanto più ch'ella passò sul mio petto mentre stavo seduto sul soffà. Tra i fossili bellissima è la raccolta dei porfidi e dei ciottoli rotolati giù dall'Atlante.
Avendo dato avviso di un eclissi della luna, che doveva vedersi la notte del 15 gennajo del 1805 molti pascià ed altri ragguardevoli personaggi vennero a casa mia per osservarlo: ma sgraziatamente il tempo fu tutta notte affatto coperto, e cadde tant'acqua accompagnata da violenti colpi di vento, che ci fu tolto di fare veruna osservazione.
Il Sultano non rimane mai lungamente nello stesso luogo: pochi giorni dopo l'eclissi si ebbe notizia dell'imminente suo arrivo a Marocco, notizia assai gradita al popolo, e specialmente a me, che desideravo di prendere da lui congedo per fare il pellegrinaggio della Mecca.
Il Sultano giunse a Marocco nel giorno indicato, ed io andai ad incontrarlo a molta distanza. Stava in una lettiga portata da due muli. Appena vedutomi, si fermò, e discorse meco alquanto, testificandomi la sincerità del suo affetto. Muley Abdsulem, che lo seguiva mi trattò come fossi stato suo fratello. Durante la loro lontananza la nostra corrispondenza non era stata interrotta; e quando la malattia non permettevami di scrivere, supplivano le persone che venivano spedite da Fez con ordine di vedermi, e di riferir loro lo stato di mia salute. Ora che vedevanmi rimesso in salute, e capace di sostenere il disagio della cavalcatura, non sapevano saziarsi di attestarmi la piena loro soddisfazione. Soggiornando essi a Marocco fummo costantemente nella più intima confidenza.
Pochi giorni dopo fui stranamente sorpreso dall'avviso, che il Sultano mi regalava due donne. Nella ferma risoluzione di non prenderne alcuna finchè non avessi terminato il mio pellegrinaggio alla casa di Dio, rifiutai di ricevere il dono; ma le donne erano già sortite dall' harem del Sultano, e non potevano più rientrarvi: il buono Muley Abdsulem, si compiacque di accoglierle in sua casa. Egli temeva di parlare del mio rifiuto col Sultano, e con me. Tutta la corte teneva gli occhi sopra di noi, desiderando di conoscere il fine di questo grande affare: ognuno sussurrava all'orecchio del suo vicino, ma niuno ardiva spiegarsi intorno a quest'oggetto apertamente: io andavo continuamente a corte, come se nulla fosse accaduto.
Intanto Muley Abdsulem non potendo durarla in così imbarrazzante situazione, mi aprì finalmente il suo cuore: io gli risposi che all'indomani mi recherei al suo appartamento per rispondere a quanto vorrà dirmi.
Quando andai a ritrovarlo stava aspettandomi insieme al primo fakih del Sultano, uomo rispettabile per ogni riguardo. L'attacco incominciò, ed io fui costretto di rispondere a tutti gli argomenti de' miei avversarj. La disputa durò alcune ore. Muley Abdsulem che non voleva disgustare nè il Sultano nè l'amico, era agitatissimo, ed i suoi occhi per sempre chiusi alla luce, s'inumidivano di lagrime. Più commosso dal pericolo in cui per amor mio erasi posto questo buon principe, che dai mali che potevano rovesciarsi sopra di me; io mi alzai, e presagli la mano gli dissi: «Infine Muley Abdsulem io conosco quanto voi mi amate, voi che leggete nel fondo del cuore dell'amico i più segreti pensieri, indicatemi quale condotta io debba tenere; ditemi ciò che volete ch'io faccia, ed io lo farò, ma pensateci bene.» Egli prese la mia mano, che accostò al suo cuore, e dopo alcuni istanti di silenzio, mi disse con voce mal ferma. «Che si conducano le donne a casa vostra. — Io vi acconsento, gli risposi, ma sappiate Muley Abdsulem, che io non le vedrò; che non tarderà ad arrivare il giorno in cui partirò per la Mecca che in allora, se le donne vogliono rimanere potranno farlo, perchè io non le avrò vedute, e se vogliono seguirmi, accorderò loro protezione.»
Sollevato dal peso che l'opprimeva, Muley Abdsulem non potè più contenersi. Passando dall'estrema tristezza alla più viva gioja, mi saltò al collo abbracciandomi con tenerezza fraterna. Il suo volto brillò di gioja, e fu bagnato dalle lagrime di tenerezza. Fu convenuto che la sera dello stesso giorno le donne sarebbero condotte a casa mia: chiesi che la cosa si facesse senza romore e senza alcuna ceremonia; e passai subito al mio alloggio. Il Sultano mi aveva regalato una bianca chiamata Mohhàna, e la nera Tigmu.
Ordinai che venisse allestito un appartamento separato nella mia casa di campagna, e lo feci ammobigliare decentemente; vi feci riporre abbondanti provvisioni di zuccaro, di caffè, di te, ec., ed inoltre un forziere con entro molte stoffe, ed altre bagatelle, alcuni giojelli, ed una borsa con alcune monete d'oro.
Erano quasi le dieci della sera quando il mio mastro di casa venne ad annunciarmi che le donne erano arrivate. Che si conducano al loro appartamento, io gli risposi, e continuai a discorrere col mio segretario, il mio fakih, e due altri amici. La governante dell'harem di Muley Abdsulem con una mezza dozzina di donne erano venute ad accompagnare le mie. S'imbandì la cena alle donne, ed un'altra agli uomini, terminata la quale chiamai la governante dell'harem di Muley Abdsulem, che si presentò velata secondo il costume. Le feci un piccolo dono, poi consegnandole la chiave del forziere, gli dissi: «Date questa chiave a Mohhàna; ditele ch'io la stimo; ma che alcune particolari circostanze m'impediscono di vederla. Tutto quanto ella troverà nell'appartamento, e sotto questa chiave è robba sua. Spero che proteggerà Tigmu. Io parto alla volta di Semelalia; ma lascio qui in mia assenza uno di casa della mia famiglia il scheriffo Muley Hhamèt, il quale avrà cura di servirla con due domestici e due serventi. Tutto quanto ella desidera non ha che a chiederlo a Muley Hhamèt.»
Licenziai all'istante la governante sorpresa. Era ormai mezzanotte, ed io montai a cavallo coi miei amici, e la mia gente, ed accompagnato da molte lanterne, presi la strada di Semelalia, ove contavo di trattenermi lungo tempo. Le donne di Muley Abdsulem rimasero in casa mia fino all'indomani.
Se la corte di Marocco si maravigliò del rifiuto delle donne, non fu meno sorpresa del modo con cui le ricevetti. Non era possibile con tanti domestici, e con tante altre persone che frequentavano la mia casa, che la cosa rimanesse segreta: nè passarono ventiquattr'ore, che tutta la città fu informata di tutte le più minute circostanze.
Io continuavo a vedere il Sultano e Muley Abdsulem, come se niente fosse accaduto, presso i Musulmani vuole la creanza che non si parli mai di donne.
Finalmente palesai la mia risoluzione di andare alla Mecca. Ebbi su quest'oggetto lunghe conferenze col Sultano, con Muley Abdsulem, e con i miei amici, che mi sconsigliavano dall'intraprendere questo penoso viaggio. Mi veniva opposto che il medesimo Sultano non l'aveva fatto; che la religione non obbligava a farlo personalmente, e che facendo le spese ad un pellegrino mi acquistavo agli occhi della divinità lo stesso merito. Queste ragioni ed altre molte che non accade accennare, non mi rimossero punto dalla presa risoluzione.
Il Sultano che desiderava d'avermi vicino venne un giorno alla mia casa accompagnato da suo fratello Muley Abdsulem, da suo cugino Muley Abdelmelek, e da tutta la corte. Il Sultano arrivò alle nove ore del mattino, e si ritirò soltanto alle quattro e mezzo della sera. In questo tempo si parlò più volte del mio pellegrinaggio ma non mi rimossi dal mio proposito: due volte s'imbandì la mensa, quando arrivò il Sultano col suo seguito, e quando partì. Il Sultano che voleva convincermi del suo affetto, e della illimitata sua confidenza, mangiò una volta, prese molte volte il caffè, te e limone; scrisse e firmò dispacci sulla mia scrivania; mi trattò in ogni cosa come fratello; e finalmente, partendo, sei de' suoi domestici mi presentarono da parte sua due magnifici tappeti.
La maggior parte degli ufficiali dopo avere ricondotto il Sultano al suo appartamento, tornarono a complimentarmi ed a scongiurarmi di nuovo a non partire, facendomi le più lusinghiere predizioni sul mio destino se rimanevo. Insensibile a tante belle promesse, fissai l'epoca della mia partenza entro tredici giorni.
Giunse il tempo di dare l'ultimo addio al Sultano. Rinnovò le più calde istanze, e mi replicò le mille volte di pensar bene a quel ch'io facevo, di riflettere alle fatiche ed ai pericoli cui mi esponevo in così lungo viaggio. Nell'abbandonarlo ci abbracciammo colle lagrime agli occhi. L'udienza di congedo con Muley Abdsulem fu ancora più tenera, e fino all'ultimo mio sospiro io porterò scolpita nel mio cuore l'immagine di così caro principe.
Il Sultano mi regalò una ricchissima tenda foderata di drappo rosso, ed ornata di frangie di seta. Prima di mandarmela la fece alzare in sua presenza: allora v'entrarono dodici fackiri, recitandovi certe preghiere che dovevano assicurarmi le grazie del cielo ed una costante prosperità in tutto il viaggio. Aggiunse a questo dono alcuni otri per portar l'acqua, articolo necessario in questo viaggio.
Feci dire a Mohhàna, che si coprisse perchè dovea parlarle. Appena si fu assettata, mi recai al suo appartamento accompagnato da molta gente, e le dissi: «Mohhàna in procinto di partire per il Levante, io non vi abbandonerò se volete seguirmi; ma voi siete ugualmente in libertà di rimanervene, poichè voi sapete essere questa la prima volta ch'io vi vedo, e vi parlo.»
Ella modestamente rispose: «Io voglio seguire il mio Signore. — Pensate bene, gli replicai, a ciò che voi dite, perchè risposto che abbiate non v'è luogo a pentimento. — Mohhàna replicò; sì mio signore, io vi seguirò in qualunque parte del mondo vi portiate, e fino alla morte.» Allora rivoltomi a quelli che mi accompagnavano; «voi udite, dissi loro, ciò che dice Mohhàna, voi siete testimonj della mia risoluzione. Indi dissi a Mohhàna; voi siete una buona donna, avete dell'attaccamento per me; ed io vi proteggerò sempre. Preparatevi a partire con me. Addio.»
Feci subito fare per Mohhàna una specie di lettiera chiamata darboùcco chiuso da ogni banda, che si colloca sopra un mulo, e sopra un cammello, e che si usa in paese per le principali dame. Non si fecero per Tigmu tante ceremonie; essa poteva viaggiare avviluppata nel suo hhaïk, o bournous. Destinai a queste donne una gran tenda, ove non potevano essere vedute da alcuno. In tal modo io intrapresi il mio viaggio alla Mecca lasciando incaricato dell'amministrazione de' miei beni a Marocco Sidi Omar Bujèta pascià di quella capitale, con le opportune istruzioni.
CAPITOLO XVII.
Casa regnante a Marocco. — Genealogia. — Scheriffi. — Tattica. — Entrate del Sultano. — Sue guardie. — Sue donne. — Partenza d'Ali Bey da Fez. — Viaggio ad Ouschda.
Molti autori scrissero la storia de' Sovrani dei paesi, che formano l'attuale regno di Marocco. Tra le composte da' Scrittori Europei, quella del sig. Schénier incaricato d'affari del re di Francia presso l'imperatore di Marocco, mi sembra la più pregievole.
È noto che dopo Muley Edris, che vivea nel secondo secolo dell'Egira, ottavo dell'era cristiana, il regno di Marocco, di Fez, di Mequinez, di Sus e di Taffilet furono governati da diverse dinastie sempre in guerra tra di loro fino al tempo in cui il Sceriffo dell'Yenboa, Muley Schèrif si stabilì a Taffilet, acquistandosi colle sue virtù la stima di tutti i popoli, che si affrettarono di sottomettersi alle sue leggi.
Suo figlio Muley Ismaïl, che dopo molte guerre occupò il trono, e Muley Abdalla suo nipote resero colle crudeltà famoso il loro governo. Muley Mohamed più politico de' suoi predecessori fu meno crudele, ma non meno avaro. L'attuale Sultano Muley Solimano è il più moderato di quanti scheriffi occuparono prima di lui il suo trono.
L'impero di Marocco non ha nè costituzione nè legge scritta. La successione al trono non è regolata, ed ogni Sovrano prima di rimanere padrone dell'impero deve sempre combattere contro i suoi fratelli, ed altri rivali, che tutti del canto loro armano i popoli per la propria causa; talchè la morte di un principe Marocchino è sempre cagione di quella di centomille uomini.
L'attuale Sultano Muley Solimano ha tre fratelli, che sono Muley Abdsulem[1] il maggiore della famiglia; Muley Selema, che dopo aver combattuto contro suo fratello, ritirossi vinto al Cairo ove vive miseramente; e finalmente Muley Moussa che dimora a Taffilet, ove mena una vita dissolutissima.
Muley Solimano è un uomo abbastanza istruito nella scienza della religione: è fakih o dottore della legge: ma per ciò appunto più devoto degli altri, consuma parte del giorno in preghiere, e veste d'ordinario un grossolano hhaik, sdegnando ogni sorta di lusso, ed ispirando la stessa religiosa severità ai suoi sudditi: quindi ad eccezione di Muley Abdsulem, e di me, non avvi forse alcun altro che osi far pompa di qualche appariscenza di lusso.
Dietro questo principio, allorchè Muley Solimano trionfatore de' suoi fratelli, si vide tranquillamente stabilito sul trono, fu sua prima cura quella di far estirpare tutte le piante di tabacco che trovavansi nel suo impero, e che davano il sostentamento ad alcune migliaja di famiglie. Quantunque l'uso del tabacco non sia dalla legge espressamente proibito, non avendone il profeta fatto uso, viene dai rigoristi riguardato come una lordura. Non pertanto Muley Abdsulem ne prende molto; e Muley Solimano, benchè di raro assai, non lascia di usarne alcune volte. Ad eccezione degli abitanti dei porti e dei marinai, pochi altri Marocchini prendono tabacco.
E questo è pure il motivo che lo ritrae dall'aver commercio coi cristiani. Teme sempre che le relazioni cogl'infedeli non finiscano col corrompere e pervertire i fedeli credenti. Questo modo di vedere rende tanto difficile ogni relazione commerciale, che sonovi persone che potrebbero caricare intere flotte di grani, e che mancano di danaro per vivere, per l'impossibilità di venderlo all'estero. In una nazione ove l'uomo non ha veruna proprietà, poichè il Sultano è padrone d'ogni cosa; ove l'uomo non ha la libertà di vendere, o di disporre dei frutti del suo travaglio; ove finalmente non può nè goderne nè farne pompa in su gli occhi de' suoi compatriotti, è chiara la cagione della sua inerzia e della sua miseria.
Ho copiato l'albero genealogico di Muley Solimano, ch'egli medesimo mi confidò originale. Rimontando da lui fino al profeta conserva il seguente ordine:
Solimano Hassèn Ismaïl
Mohamèd [2] Kàssem El Kassèm
Abdallà Mouhamèd Mouhemèd
Ismaïl Abulkàssem Abdallà el Kàmel
Scherif Mouhamèd Hassàh el Meschna
Ali Stassèn Stassèn es Sèbet , figlio di Ali Ben Abutàleb , e di Fatima el Zòhra (la Perla) figlia del profeta Mouhhammed .
Mohamèd Abdallà
Ali Mouhamèd
Jussuf Aàrafat
Ali Elltassèn
Stassèn Abubekr
Mouhamèd El Kassèm
In Taffilet contansi più di due mille scheriffi, che tutti vantano diritti al trono di Marocco, e che per tale cagione godono di alcune leggieri gratificazioni del Sultano. In tempo degl'interregni molti prendono le armi, siccome Marocco non ha verun'armata propriamente tale per comprimere all'istante questi parziali movimenti, la nazione intera soffre tutti i mali dell'anarchia.
La tattica de' Marocchini è sempre la stessa in tutte le battaglie. Consiste nell'avvicinarsi alla distanza press'a poco di cinquecento passi dal nemico. Colà giunti dispiegansi con un subito movimento cercando di presentare la più estesa fronte possibile; indi corrono a tutto potere imbracciando il fucile. Giunti a mezzo tiro fanno il loro colpo: fermando allora il cavallo tutt'ad un tratto, ritiransi colla medesima celerità con cui avanzarono. Ricaricano il fucile correndo, e se il nemico si ritira, continuano il fuoco guadagnando terreno. Ma se l'azione si fa calda, e si viene a far uso della spada, in quale imbarrazzo non devono trovarsi questi combattenti, i quali senz'alcun ordine, sono costretti di tenere colla sinistra la briglia, ed un lungo fucile, e la spada colla mano destra! In questa circostanza collocano essi il fucile sopra l'arcione della sella, ed in allora ogni uomo occupa una fronte più estesa che quella di due, e rimane isolato, e senza appoggio ai fianchi. Quale sarebbe in allora l'effetto di una linea di battaglia europea sopra tali ranghi di truppe! Per tale motivo appunto il soldato moro non s'impegna che sforzato, a battersi colla spada; riponendo la sua superiorità nella velocità dell'attacco, della ritirata, e nella destrezza del maneggio del fucile.
Le entrate del Sultano di Marocco si valutano venticinque milioni di franchi. Avendo pochi impiegati, i quali non hanno altro appuntamento che i prodotti eventuali, ed alcune gratificazioni che ben poche volte sono loro accordate; non avendo bisogno di mantenere un'armata, perchè nel caso di guerra ogni Mussulmano è soldato per religione; la maggior parte di questo danaro va a seppelirsi nel tesoro di Marocco, di Fez, e principalmente di Mequinez.
La guardia del Sultano, che si vuole di circa dieci mille uomini è la sola truppa che venga mantenuta anche in tempo di pace: è questa in parte composta di schiavi negri comperati dal Sultano, o ricevuti in dono, o in pagamento; oppure figli di soldati negri. L'altra parte è formata di mori tolti dalle tribù Oudaïas. Queste truppe rimangono di fazione nelle provincie dell'impero, ed un grosso corpo segue sempre il Sultano. I soldati quasi tutti a cavallo hanno il nome di el bokhari, che presero, quasi mettendosi sotto la protezione dell'imam espositore di questo nome, la di cui dottrina è addottata a Marocco.
Quantunque Muley Solimano viva senza splendore, la spesa della sua casa è per altro ragguardevole per cagione delle moltissime sue donne e figliuoli. Egli non può avere più di quattro mogli legittime, oltre le concubine; ma egli suole ripudiarle frequentemente per prenderne delle altre. Le ripudiate vengono relegate a Taffilet, accordando loro una pensione per il mantenimento. Ho veduto più volte gli abitanti presentargli le loro figliuole, che in conseguenza entravano nell'harem sotto nome di serventi, e che avendo la fortuna di piacere al Sovrano, vengono poi sollevate al rango di sue mogli, per essere poscia a vicenda ripudiate. Nè Muley Solimano si fa scrupulo d'avere nello stesso tempo due sorelle per mogli, quantunque i dottori non riguardino quest'azione di buon occhio, come ne pure quella di bever vino la notte nell'harem; cose proibite dalla legge.
Il Sultano è del resto sobrio, e mangia colle dita come gli altri arabi; pure quando m'invitava a pranzo con lui, mi faceva portare un cucchiajo di legno, perchè la legge non permette l'uso de' preziosi metalli nel vassellame; e per questo motivo i suoi piatti e la tavola sono affatto simili a quelli dei suoi sudditi. Egli non mangia che le vivande cucinate nell'harem dalle sue negre. A casa mia per altro mangiò cibi preparati da' miei cuochi.
Io tenni andando a Fez la medesima strada che avevo fatto venendo a Marocco. Benchè non fossi pienamente ristabilito in salute, non ommisi nel mio viaggio di fare alcune osservazioni astronomiche, che confermarono le precedenti; sgraziatamente però non ero ancora capace di sostenere un lavoro continuato.
Ne' primi giorni dopo il mio arrivo a Fez ebbi una disputa col pascià; egli pretendeva che in conseguenza d'essermi congedato dal Sultano per andare in Algeri, avrei dovuto partire entro otto o dieci giorni; e mi preparò pure gli oggetti necessarj al mio trasporto, e la scorta che doveva accompagnarmi, ma io mi dichiarai in termini positivi, che non poteva ancora partire, e rimasi a Fez un mese e mezzo. Poco prima ch'io partissi Muley Abdsulem venne a Fez, mi portò una commendatizia del Sultano per il Dey di Tunisi, ed un'altra per il pascià di Tarabba o di Tripoli: Muley Abdsulem me ne diede una sua per il Dey d'Algeri, cui per alcune considerazioni politiche il Sultano non aveva voluto scrivere.
Avendo finalmente fissato il giorno della mia partenza da Fez, mi congedai da Muley Abdsulem, e dai miei amici con maggior rincrescimento che la prima volta, perchè vedevanmi intraprendere un viaggio azzardoso, e temevano di non più vedermi.
La mattina del giovedì 30 maggio 1805 sortj a nove ore e tre quarti di casa coi miei amici che mi accompagnarono prima alla moschea di Muley Edris, indi per un tratto di strada fino all'istante in cui li congedai. La mia casa, le strade, la moschea, e l'uscita della città erano affollate di gente, che da ogni banda cercava d'avvicinarmisi per toccarmi, per chiedermi una preghiera, ec. Dirigendomi al N. giunsi a mezzogiorno nel mio campo di già stabilito al di là del ponte sulla riva destra del Sebou, fiume assai considerabile, che scorre all'ouest.
Venerdì 31 Maggio.
Ci ponemmo in cammino alle otto del mattino, diriggendoci d'ordinario all'E. N. E., e facendo mille ravvolgimenti nelle montagne, fino alle due dopo mezzogiorno, che feci alzare le tende in riva al fiume Jenaoul che scorre con poche acque all'ouest.
Il paese è composto di montagne secondarie, la maggior parte calcaree, con alcuni tratti di terra coltivata.
Tra gli omaggi che mi furono resi dagli abitanti de' Dovar posti lungo la strada merita d'essere ricordato il seguente. Io vidi i fanciulli riuniti per incontrarmi; de' quali colui che precedeva gli altri era vestito d'una tonaca bianca, con un fazzoletto di seta sul capo, e portava in mano un bastone alto sette piedi, all'estremità del quale eravi una tavoletta su cui era scritta una preghiera. Dopo avermi fatto un complimento studiato, mi baciarono la mano, la stoffa, o ciò che potevano toccare, e partirono in seguito assai soddisfatti. Quanto era commovente la loro semplicità! Le madri facevano la scolta per vedere l'accoglimento ch'io faceva ai loro figliuoli.
Sabbato primo Giugno.
Alle otto del mattino eravamo già in su la strada andando nella direzione di E. seguendo più d'un'ora e mezzo il fiume Yenaoul che scorre lungo la vallata. Si entrò subito dopo nelle montagne, e si attraversò un piccolo fiume ad un'ora dopo il mezzogiorno. Alle due si fece alto sulla sponda destra.
Il terreno non diversifica da quello di jeri, se non che la vegetazione era alquanto più rigogliosa. Vidi molti campi lavorati, ed un solo dovar.
Il tempo era in parte coperto, ed il termometro nella mia tenda segnava alle quattro della sera 26 e 7 di Réaumur.
Domenica 2.
Si riprese il cammino alle sette del mattino seguendo l'andamento di molte vallate tra montagne di mediocre altezza, ove si dovettero attraversare ad ogni istante alcuni piccoli fiumi; ed alle quattr'ore ed un quarto della sera si piantarono le tende presso a Tezza, piccola città posta sopra una rupe alle falde d'altre montagne più alte al N. O. Assai pittoresco è il quadro che offre questa città, circondata di antiche mura, colla torre della moschea che s'innalza fuori delle case come un obelisco. La rupe è scoscesa in alcuni lati, ed in altri coperta di piante fruttifere. I giardini ne circondano la base. Da un altro lato aggiungono varietà alla veduta un ruscello ed altri minori rigagnoli che si precipitano dall'alto, ed un ponte mezzo rovinato. Una sorprendente quantità d'ussignuoli, di tortorelle, e d'altri uccelli di varie specie, rendono questo luogo assai delizioso.
La valle coperta d'abbondante messe, mi convinse che questi abitanti sono più laboriosi che quelli delle coste del mare.
Il tempo fu sereno, e caldo assai fino all'istante di far alto, in cui il cielo coprissi di dense nubi; ed appena alzate le tende si udirono terribili colpi di tuono, e cadde una dirotta pioggia.
Malgrado questo contrattempo, ebbi il vantaggio di poter approfittare d'un istante in cui il sole apparve tra le nuvole, e trovai la mia longitudine cronometrica — 6° 0′ 15″ Ouest dell'osservatorio di Parigi.
Incontrai sulla strada molte carovane di Arabi che venivano da Levante, cacciati dalla carestia che regnava ne' loro paesi: erano composte d'intere tribù, che conducevano con loro gli avanzi de' loro bestiami, e tutto quanto possedevano. L'aspetto di tali carovane può dare un'adeguata idea delle antiche emigrazioni della Palestina e dell'Egitto, prodotte dalla stessa cagione.
Un colpo di sole sul rovescio delle mani mi cagionò una resipola. Si gonfiarono assai, e l'infiammazione diventò forte in modo di farmi soffrire acuti dolori.
Lunedì 3.
Non diminuendo le mie doglie non feci levare il campo: altronde tutta la notte e la mattina il tempo imperversò.
Osservai il passaggio del sole di mezzo a grosse nubi, che mi diede la latitudine al N. di — 34° 30′ 7″; ma quest'osservazione non è attendibile. La pioggia continuava ancora verso sera con un gagliardo vento d'O., e la mia mano sinistra proseguiva a tormentarmi.
Martedì 4.
La dirotta pioggia non ci permise di riprendere il cammino.
Mercoledì 5.
Alle otto del mattino si partì dirigendoci all'E., attraversando vallate, salendo e scendendo colline rinfrescate da molli ruscelli. Ad un'ora ed un quarto essendosi passato un fiume, feci alzare le tende entro il circondario d'un antico Alcassaba (castello) detto Temessovín.
Il terreno di questa contrada è tutto composto di argilla glutinosa che forma le colline e le valli fino ad una grande profondità, poichè io vidi degli strati verticali di oltre quaranta piedi. Io suppongo essere il medesimo strato generale, che da una parte va fino alla strada che conduce da Tanger a Mequinez, e dall'altra va a formare le montagne del Tetovan.
In questo giorno incontrai una càffila (carovana) proveniente dal Levante, che conduceva una greggia di più di mille cinquecento capre. Avevano collocate sopra alcuni camelli una specie di baldacchini o piccole tende entro le quali stavano le donne ed i fanciulli delle famiglie più ricche della tribù; le altre camminavano scoperte. Molti buoi e vacche erano cariche, e portavano, come i muli loro carico sul dorso.
Questo era l'ordine della marcia. Il bestiame collocato avanti era diviso in corpi di circa cento capi cadauno, e diretti da quattro o cinque garzoni, che cercavano di conservare un intervallo di circa venti passi tra un corpo e l'altro; le tende, gli equipaggi e la maggior parte delle donne e dei fanciulli collocati sui camelli stavano nel centro; gli uomini a cavallo e a piedi portando il fucile appeso, formavano la retroguardia, ed andavano pure dispersi sui due lati.
L'Alcassaba ove noi eravamo accampati è formato d'un quadrato di muri di 425 piedi di fronte con una torre quadrata ad ogni angolo, ed un'altra nel centro di ogni faccia. Il muro aveva tre piedi di spessezza, ed era alto diciotto. Da quest'altezza sorge un sottile parapetto sull'estremità esteriore tutto sparso di feritoj; e la residua grossezza del muro è il solo spazio su cui devono stare i difensori, che non possono fare alcun movimento senza pericolo di cadere. Vedesi nel centro dell'Alcassaba una moschea ruinata, presso alle rovine d'altri edificj. Varj gruppi, ciascuno di tre o quattro baracche, sono il miserabile asilo degli abitanti di questa solitudine. Il kaïd dell'Alcassaba che abita in un dovar distante una lega, venne a complimentarmi, e ad offrirmi un montone, orzo, latte, ed altre derrate.
Giovedì 6.
Alle sette ore e mezzo del mattino la mia carovana si avanzava all'Est, e continuò a tenere la stessa direzione fino alle tre e mezzo della sera, quando a canto di un povero dovar, ed a poca distanza da alcune rovine, o informi abituri, feci collocare il mio campo.
Il terreno formato d'argilla pura presentava una vasta pianura, ed un vero deserto senz'abitanti, e senz'altra verdura che quella d'alcuni cespugli abbruciati. Alle dieci si passò presso ad una grande cisterna piena d'eccellente acqua, e verso il mezzogiorno si attraversò un piccolo fiume.
Il tempo benchè sereno era rinfrescato da un vento d'E.
Venerdì 7.
Partj alcuni minuti prima delle sette del mattino, e dopo di avere passato il fiume Moulovìa, vidi le ruine d'un Alcassaba. Per lo spazio di due ore seguitai a tenere la strada al N. E. in poca distanza dal fiume, indi piegando all'E. continuai fino alle due dopo mezzogiorno. Passai in seguito presso ad un grande Alcassaba minato, intorno al quale vedevansi molti dovar: indi dopo aver attraversato il fiume Enzà si fermò il campo sulla sua sponda.
Profondo è il fiume Moulovìa, ma nel luogo in cui noi lo varcammo, avendo molta estensione, presenta un buon guado. Egli scorre al N. E., le sue acque cariche di melma erano rosse, e dense come quelle del Nilo, ma lasciate alquanto in riposo sono assai buone. Le rive sono basse e coperte di alberi nel luogo in cui eravamo jeri.
Il fiume Enzà, oltre d'avere naturalmente poche acque, viene impoverito di più dai canali che servono all'irrigazione. Era per me un vero piacere il contemplare in mezzo ad un deserto queste tracce dell'umana industria. Le sue acque scendono all'O.
A principio il suolo pare una continuazione della stessa pianura argillosa, deserta, osservata nel precedente giorno. Ma alle dieci del mattino si discese in un altro paese alternativamente composto di strati argillosi e calcarei che formano delle colline. A mezzogiorno passai innanzi ad una montagna che mi sembrò formata di basalto, e che lasciai sulla diritta. Ad un'ora e mezzo entrai in un bel paese, ben coltivato, coperto di belle messi nel di cui centro vedesi l'Alcassaba, ed al N. l'Enzà, sulla di cui riva diritta feci far alto.
Il cielo era mezzo coperto, ed un forte vento di N. E. rinfrescava l'aria. Questo deserto è noto sotto il nome di Angad. Sembra che si dilati nella direzione di N. O. dall'Alcassaba di Temessouinn fino al Sud d' Algeri.
Sabbato 8.
La mia gente levò il campo alle sette ore ed un quarto, e prendemmo la direzione di N. O. seguendo lo stesso deserto. Alle otto trovammo un ruscello di acqua assai buona. Alle nove e mezzo il paese si andava restringendo tra piccole montagne calcaree ed argillose. Ad un'ora e tre quarti dopo mezzogiorno si passò un piccolo fiume, e volgendomi all'E. camminai alcun tempo lungo la riva destra; alcun tempo dopo si cominciò a vedere qualche terreno coltivato, ed in seguito un dovar. Alle tre e mezzo si alzarono le tende vicino ad un Alcassaba, e ad un dovar chiamato l'Aaïaun Maylouk.
Il suolo attraversato questo giorno è a vicenda argilloso e calcareo. Due linee di montagne che fanno parte del Piccolo-Atlante chiudono l'orizzonte al N. ed al S.
In tutto questo deserto non si videro altri animali che alcuni piccoli ramarri, alcuni ragni morti o addormentati sui rami spinosi di una piccola pianta abbrucciata.
Sopraggiunsi colà nell'atto che gli abitanti facevano la ceremonia d'un convoglio funebre. Il cadavere posto in parata sopra un luogo eminente era circondato da una quarantena di donne, che divise in due cori gridavano in misura avvicendando: Ah-ah-ah ah. Tutte le donne del coro pronunciando il loro ah rispettivo, graffiavansi, e guastavano la cute del volto in modo che grondavano sangue. Stavano al loro fianco sei uomini in linea cogli occhi rivolti al paese d'una tribù nemica, che aveva ucciso l'uomo cui facevansi i funerali: gli altri Arabi a piedi, che formavano il corteggio, le circondavano interamente.
Rimasero mezz'ora in tale attitudine; e le donne dopo avere continuate per tutto questo tempo le loro grida e le loro graffiature, separaronsi dal morto piangendo in battuta. Gli uomini sepellirono il morto nello stesso luogo, e tutti ritiraronsi senz'altra ceremonia.
Il tempo sempre fresco fu costantemente coperto.
Domenica 9.
Alle sei ore del mattino si riprese la via verso il N. E. Alle sette ore attraversammo un fiumicello; e piegando poi all'E. N. E., alle due dopo mezzogiorno si passò altro fiumicello uguale al primo, ed alle quattro meno un quarto entrai in Ouschda.
Qui il suolo conserva la stessa natura di quello della pianura deserta di cui abbiamo parlato. Alle otto del mattino vidi per altro una buona terra vegetale, ma mal seminata. Le due catene d'alte montagne continuavano a limitare l'orizzonte al N. ed al S. ad una ragguardevole distanza.
Alle sett'ore e mezzo del mattino avevo scoperto in lontananza sopra una eminenza presso al cammino due uomini armati a cavallo, che avanzavansi lentamente verso di noi. Le mie genti incominciavano ad allarmarsi, ma io li acquietai, e quando giungemmo presso di loro seppimo ch'erano scolte della tribù nemica che aveva ucciso l'uomo Aaïaun Moylouk, e che dietro di loro trovavansi le truppe della tribù.
Scontraronsi poi alcuni uomini che mietevano le biade che avevano tutti presso di loro i cavalli sellati ed imbrigliati. Più lontano vedevasi la truppa armata.
Alle dieci ore eravamo nel territorio di questa tribù: è questo uno spazio d'una lega di diametro, tutta coltivata, ed avente più di venti dovar. Ci vennero incontro quattro uomini armati a cavallo, che mi chiesero una preghiera, indi mi licenziarono cortesemente. Questa tribù nominata Mahaïa parvemi composta di gente armigera; e credo che il Sultano di Marocco non eserciti su di lei un precario potere.
CAPITOLO XVIII.
Descrizione d'Ouschda. — Difficoltà per proseguire il viaggio. — Detenzione per ordine del Sultano. — Partenza da Ouschda. — Avventure del deserto. — Arrivo a Laraïsck e sua descrizione. — Partenza dall'impero di Marocco.
Ouschda, villaggio che contiene cinquecento abitanti all'incirca, è come gli altri luoghi popolati che trovai al di qua dell'Alcassaba di Temessouin, nel deserto d'Angad.
Le case fatte di terra, sono piccole, e così basse che a pena vi si può stare in piedi. Sono inoltre così succide, e piene d'insetti, ch'io preferj di rimanere sotto la tenda nell'Alcassaba che è assai grande e posto a canto del villaggio: passeggiai alcun tempo entro un piccolo ma grazioso orto di sua pertinenza.
Un'abbondantissima fonte che scaturisce mezza lega al di là d'Ouschda somministra un'eccellente acqua, ed inaffia gli orti del villaggio. Offrono questi una bella verdura e varie specie d'alberi fruttiferi, tra i quali il fico, l'ulivo, la vite, la palma, tengono il primo rango. Il paese produce pure deliziosi popponi, e carni d'una squisita qualità; nè può immaginarsi quanto sia delicato il montone del deserto. Questi animali sono lunghi, magri, hanno poca lana, e vivono in un paese ove trovano appena di che vivere; ma la loro carne è forse la migliore del mondo.
Sia nel villaggio, sia ne' contorni trovansi pochi polli, e nessun selvaggiume; ma abbondano le carni, il riso, la farina, i legumi.
L'esatte osservazioni astronomiche da me fatte collocano Ouschda nella longitudine orientale dall'osservatorio di Parigi di 4° 8′ 0″; e nella latitudine settentrionale di 34° 40′ 54″. In una latitudine così elevata il clima dovrebb'essere poco diverso da quello d'Europa, ma il deserto che la circonda ne riscalda l'aria a dismisura. Vi ebbimo non pertanto alcuni giorni abbastanza freschi nel mese di giugno, totalmente coperti, ed anche piovosi.
Osservai ad Ouschda un'eclissi della luna. Avrei dovuto fare alcune altre osservazioni, ma sgraziatamente non mi furono dalle circostanze permesse, perchè io doveva tutto sagrificare all'oggetto principale del mio viaggio.
Quando arrivai, il capo ed i principali del villaggio mi avevano dichiarato ch'io non potrei proseguire il viaggio, perchè in questo stesso giorno avevano avuto avviso della rivoluzione manifestatasi nel regno d'Algeri, e che a Tlèmsen, o Tremecèn dov'ero io diretto scorreva il sangue Turco ed Arabo.
Dopo molti discorsi, e dopo avere maturamente riflettuto, mi determinai di spedire un corriere, che al suo ritorno mi portò la notizia, che i torbidi nati in Tlèmsen erano sedati, ma che la strada era infestata dai ribelli che rubbavano ed assassinavano. Chiesi all'istante una scorta al capo del villaggio, il quale mi rispose non aver forze bastanti, ma che cercherebbe ad ogni modo di assecondare il mio desiderio.
Avanti che passassero due giorni il capo ed i principali d'Ouschda fecero venire il Schèk el Boanani che è il capo di una vicina tribù, e gli proposero di scortarmi a Tlèmsen. In sulle prime il Schek non vi acconsentì, e dopo avere lungamente discusso l'affare, partì senza nulla decidere.
Erano già scorsi più giorni in trattative inutili; ed intanto i rivoltosi erano venuti fino sotto le mura d'Ouschda, tirando alcuni colpi di fucile che uccisero due uomini. La mia situazione diventava sempre più difficile, perchè da una parte si esaurivano tutti i miei mezzi di sussistenza, e dall'altra io non ignoravo che i miei nemici di Marocco, che avevano saputo rendere sospetto al Sultano il mio lungo soggiorno di Fez, non ommetterebbero di approfittare di questa circostanza per calunniarmi: risolsi quindi di montar solo a cavallo per andare in traccia di Boanani, che aveva il suo dovar alla foce delle montagne, due leghe distante da Ouschda.
A tale notizia le mie genti si sbigottirono, fuorchè due rinnegati Spagnuoli, che mi seguirono da Fez, e che in questa difficile circostanza mi si presentarono, dicendomi; «Signore se voi ce lo permettete noi vi seguiremo, e divideremo la vostra sorte». Fissai loro gli occhi in volto, e conoscendoli coraggiosi, gli ordinai di prendere le armi affinchè uno mi tenesse compagnia, e l'altro rimanesse coi miei equipaggi.
M'incamminai per sortire accompagnato da uno schiavo fedele detto Salem, e dal mio rinnegato, ma trovai chiusa la porta delle mura, e circa quaranta o cinquanta de' principali abitanti determinati di vietarmene l'uscita.
Io li scongiurai di lasciarmi sortire; ma mi risposero tutti ad un tratto, alcuni colle ragioni, altri colle grida. Io instai, essi resistettero. Finalmente rivolgendomi al capo, presi una delle pistole appese all'arcione della mia sella, e con un tuono tra l'amichevole, ed il minaccioso, gli dissi: «Schek Solimano, noi abbiamo cominciato bene, ma credo che la voglia finir male. Aprite la porta.» Allora Schek Solimano aprì la porta, dicendo agli altri: «poichè egli vuol perire, lasciatelo andare.»
Sortj seguito dal mio schiavo e dal rinnegato, e presi la strada delle montagne di Boanani. Poco dopo la mia partenza vidi avanzarsi a briglia sciolta gli stessi abitanti, che venivano per scortarmi: mi s'avvicinarono scusandosi della loro opposizione, che non aveva avuto altro scopo, dicevan essi, che il loro attaccamento alla mia persona, ed il timore di qualche sventura.
Fummo assai ben accolti da Boanani. Si diede premura d'invitarci a pranzo, e ci trattò lautamente, ma trovava sempre mille ostacoli per condurmi solo a Tlemsen. Finalmente vinto dalle mie persuasioni e da quelle di Schek Solimano che in quest'occasione mi servì assai bene, convenne di accordarsi con il Schek d'un'altra tribù chiamata Benisnouz. Quest'ultimo doveva aspettarmi colla sua gente a mezza strada per scortarmi fino a Tlemsen, ed il Boanani incaricavasi di condurmi fino a lui.
Due giorni dopo Boanani venne a dirmi di star pronto per partire all'indomani. Giunse infatti con circa cento uomini, e sortimmo subito da Ouschda. Quando eravamo solamente distanti una mezza lega ci vennero dietro a briglia sciolta due soldati del Sultano, gridando di fermarmi. Erano seguiti da un corpo di truppa comandato da un ufficiale superiore della guardia chiamato El Kaïd Dlaïmì. Egli mi disse che il Sultano avendo saputo ch'io era ritenuto ad Ouschda l'aveva spedito per proteggermi, e per difendermi in caso di bisogno.
Gli risposi che la rivoluzione d'Algeri e di Tlèmsen, ed il brigandaggio de' rivoltosi essendo le sole cagioni della mia dimora ad Ouschda, io potevo proseguire senza pericolo il viaggio, perchè il pericolo era passato, tanto più che mi trovavo scortato dalle tribù dei boananis e dei benisnouz.
Malgrado le mie rappresentanze Dlaïmi mi disse, che in vista dell'attuale stato di cose, egli non poteva accondiscendere alla mia partenza finchè non ricevesse nuovi ordini dal Sultano. Fui perciò costretto di tornare ad Ouschda, e di scrivere al Sultano. Questi appena ricevuta la mia lettera, mi spedì due altri ufficiali di scorta con ordine di condurmi, dicevano essi, a Tanger, ove potermi imbarcare per il Levante. Tale disposizione Sovrana mi forzò a sortire d'Ouschda con tutta la mia gente ed i miei equipaggi il giorno 3 agosto alle nove ore della sera. Ero accompagnato dai due ufficiali, e da trenta oudaïas, o guardie del corpo del Sultano. Io lasciai ad Ouschda il Kaïd Dlaïnci, ed il rimanente della sua truppa.
Partj così tardi a cagione che Dlaïnci aveva ricevuto avviso che quattrocento Arabi armati aspettavanmi sulla strada. Fui però obbligato di lasciare la città segretamente, e senza sapere quale direzione dovessi tenere fino all'istante della partenza, in cui Dlaïnci l'indicò ai miei conduttori. Lasciando da banda il cammino frequentato, attraversammo i campi verso il S. entrando assai avanti nel deserto. La notte era assai tenebrosa, ed il cielo tutto coperto.
Domenica 4 agosto.
Dopo aver camminato celeremente tutta la notte, e sormontate delle montagne, arrivai alle sei del mattino presso le rovine d'un grande Alcassaba, a' piedi del quale trovammo una sorgente d'acqua ed un grande dovar.
Si continuò a camminare senza prendere riposo, a seconda dell'andamento di molte tortuose vallate, in fondo alle quali scorreva un fiume che quantunque piccolo, non riusciva meno utile per l'inaffiamento de' loro poderi ai laboriosi abitanti di molti dovar.
In conseguenza di un ordine che avevano i due ufficiali che mi accompagnavano, da ogni dovar sortivano uno o due Arabi montati ed equipaggiati, che s'incorporavano alle persone del mio seguito. Arrivato verso le nove del mattino al luogo in cui terminava il piccolo fiume i trenta oudaïas si congedarono da me, lasciandomi la scorta degli Arabi armati sotto il comando dei due ufficiali.
Nell'istante che le guardie del Sultano si ritiravano, diedi alcune monete d'oro ad uno degli ufficiali per gratificare i soldati, e continuai il cammino; ma ben tosto avendo udito qualche rumore in sul di dietro, volsi il capo, e vidi gli oudaïas rivoltati contro i loro capi, minacciare di massacrarli. Contemporaneamente giunsero due di loro a briglia sciolta per riclamare, supponendo che gli ufficiali avessero ricevuto parte del danaro loro destinato. Accorsi verso questa truppa, cui mi affrettai di far abbassare le armi. Ottenni di rimandarli tranquilli, e di persuaderli. Durante questa rissa che ci tenne alquanto inquieti per le tristi conseguenze che poteva avere, niuno pensò a provvedersi d'acqua; pure incominciavamo ad averne bisogno, e sgraziatamente io non sapevo che questo era l'ultimo luogo in cui poteva trovarsene.
Si camminava sempre con celerità temendo l'incontro dei quattrocento Arabi, dai quali procuravamo di allontanarsi. Per tale cagione si avanzava a traverso al deserto, invece di tenere la strada. Questo paese è affatto privo di acqua, non vi si trova un albero, non una rupe isolata che possa offrire la più piccola difesa contro i raggi d'un sole infuocato. Una atmosfera perfettamente trasparente, un sole immenso che ferisce il capo, un terreno bianchiccio, e d'ordinario di forma concava come uno specchio ardente, un legger vento che abbrucia come la fiamma; tale è il fedele ritratto dei deserti che noi attraversammo.
Ogni uomo incontrato in questa solitudine viene risguardato come un nemico. Perciò avendo i miei tredici Beduini veduto, verso il mezzogiorno, un uomo armato a cavallo, che tenevasi ad una considerabile distanza, riunironsi all'istante, e partirono come un lampo per sorprenderlo, mettendo acute grida, interrotte soltanto da motti di disprezzo e d'irrisione: Che vai tu cercando fratel mio? Ove ten vai mio figliuolo? ec., ed in pari tempo facevansi scherzando passare il fucile sopra la testa. Il Bedovino trovandosi scoperto approfittò del suo vantaggio, e fuggì nelle montagne, ove non lo raggiunsero. Fu questo il solo uomo da noi incontrato.
Intanto e gli uomini e gli animali non avevano quasi nulla mangiato nè bevuto questo giorno, e dalle nove di jeri sera avevano sempre camminato senza prendere riposo. All'un'ora dopo mezzogiorno non avevamo più una gocciola d'acqua, e le mie genti, e le loro cavalcature, incominciavano a mostrarsi abbattute dalla fatica. Ad ogni passo i muli cadevano col loro carico; e bisognava rilevarli, e sostenere il carico che portavano. Questo penoso esercizio consumò le poche forze che ci rimanevano.
Alle due ore dopo mezzogiorno un uomo cadde irrigidito come un morto spossato dalla fatica e dalla sete. Io mi fermai con tre o quattro de' miei domestici per soccorrerlo. Si spremette il poco umido che rimaneva in un otre, e si ottenne d'introdurre poche gocciole d'acqua nella sua bocca, ma così debole soccorso non produsse verun effetto. Io stesso incominciavo a provare certa quale debolezza, che accrescendosi a dismisura mi presagiva la prossima perdita delle mie forze. Abbandonai quello sventurato, e rimontai a cavallo.
Intanto andavano successivamente cadendo altre persone del mio seguito, e rimanevano sul terreno abbandonate alla sventurata loro sorte, perchè la carovana si era già dispersa, salvisi chi può salvarsi. Furono pure abbandonati i muli col loro carico, e vidi due grandi miei bauli in terra, senza che potessi sapere cosa fosse accaduto alle bestie che li portavano, giacchè non eravi più alcuno che si prendesse cura de' miei effetti. Ma io vedevo queste perdite coll'indifferenza medesima che avrei veduto cose di niuno valore, e passai oltre. Sentivo tremarmi sotto il cavallo, comecchè fosse il più robusto della carovana. Tutti camminavamo abbattuti e senza parlare, nè guardarsi in volto: e quando io mi provavo d'incoraggiare qualcuno ad affrettare il passo, in luogo di rispondermi mi guardava fissamente, e portava l'indice verso la bocca, per indicarmi la sete che lo struggeva. Volli rimproverare agli ufficiali condottieri la poca cura che avevano avuto di provvederci d'acqua; ed essi ne incolpavano l'ammutinamento degli oudaïas; e soggiungevano, forse non soffriamo noi pure come gli altri? La nostra sorte era tanto più spaventosa in quanto che nessuno di noi credeva mai di poter sostenersi fino al luogo in cui troverebbesi dell'acqua. Finalmente verso le quattro ore della sera caddi ancor io spossato dalla fatica e dalla sete.
Steso al suolo, senza sentimenti, in mezzo ad un deserto, circondato da quattro o cinque uomini solamente, uno de' quali era caduto quando caddi ancor io, e gli altri tutti incapaci di soccorrermi perchè non sapevano ove trovare acqua, e perchè altronde non avrebbero avuto forza bastante per andarne in traccia, sarei indubitatamente perito in quello stesso luogo coi miei domestici, se un miracolo della Provvidenza non ci salvava.
Era già passata mezz'ora da che mi trovavo in quello stato, secondo mi venne dopo riferito, quando si scoperse a molta distanza una grossa carovana di più di due mille persone che s'avvanzava verso di noi. Era questa diretta da un marabotto, o santo, chiamato Sidi Alarbi, che recavasi a Tlésmen, ossia Tremegen, per ordine del Sultano. Vedendoci in così disperata situazione, s'affrettò di far versare sopra ciascuno di noi alcuni otri d'acqua.
Poichè me n'ebbero gettato a varie riprese sul volto e sulle mani, incominciai a rinvenire; aprj gli occhi, e guardando da ogni lato non potevo conoscere alcuno. Finalmente vidi sette od otto Scheriffi, e Fakihs, che standomi intorno, mi parlavano amichevolmente. Volevo rispondere, ma un nodo insuperabile nella gola non permettevami di articolare una parola, e dovetti supplirvi coi segni, indicando la mia bocca colle dita.
Si continuò a spruzzarmi d'acqua il viso, le braccia, le mani, e finalmente potei inghiottirne a diverse riprese alcuni sorsi. Allora potei pronunciare: chi siete voi? Tosto che mi udirono parlare, mi risposero con allegrezza. Non temete nulla; lungi dall'essere ladri o briganti, siamo anzi vostri amici: io sono un tale ec. Allora mi risovenni della loro fisonomia senza potermi però ricordare i loro nomi. Mi fu nuovamente gettata addosso dell'acqua, ed in maggiore quantità che le altre volte; bevetti ancora: e quando videro che incominciavo a rimettermi, riempirono una parte de' miei otri d'acqua, e mi lasciarono all'istante, perchè preziosi erano tutti i momenti che perdevano in questo luogo, ed irreparabile la perdita.
Quest'attacco della sete si manifesta su tutta la superficie del corpo con una somma aridità della pelle; gli occhi pajono sanguigni, la lingua e la bocca, sì internamente che al di fuori si ricuoprono d'un tartaro della densità di una linea: questa crosta è d'un giallo fosco, insipida al palato, e d'una consistenza perfettamente uguale alla cera molle d'un favo di miele. Una spossatezza, un certo languore impediscono il movimento; e l'angoscia, ed una specie di nodo nel diafragma e nella gola impediscono la respirazione; cadono dagli occhi alcune grosse lagrime isolale; si cade a terra, ed in pochi istanti si perdono i sensi. Tali sono i sintomi ch'io notai sugli sventurati compagni del mio viaggio, e che poco dopo provai in me stesso.
Montai a cavallo con molta difficoltà, e si riprese l'interrotto cammino. I miei Bedovini, ed il mio fedele Salem erano ognuno dal suo lato in traccia d'acqua, due ore dopo tornarono l'un dopo l'altro con un poco d'acqua buona o cattiva. Siccome ognuno arrivava frettoloso per porgermi ciò che aveva ritrovato, dovetti beverne, e bevetti più di venti volte: ma sì tosto ch'io avevo inghiottito un poco d'acqua, la mia bocca tornava ad essere arsa come avanti di bagnarla; di modo che io non potevo nè sputare nè parlare.
Alle sette ore della sera facemmo alto presso ad un dovar e ad un ruscello dopo una marcia sforzata di ventidue ore consecutive, senza un momento di riposo.
Le mie genti ed i miei equipaggi arrivarono la notte a diverse riprese. Io non perdei quasi nulla perchè la carovana di Sidi Alarbi avendo successivamente incontrati i miei equipaggi ed i miei domestici, soccorse e salvò colla sua acqua gli uomini e gli animali.
Se non giugneva questa carovana noi tutti perivamo infallibilmente, perchè l'acqua portata dai Bedovini e da Salem sarebbe giunta troppo tardi: la respirazione e le funzioni vitali andavano già mancando, ed io credo che non sarebbesi durato altre due ore in così violento stato senza perire. Allorchè io penso che questa grande carovana erasi allontanata dalla strada ordinaria dietro la falsa notizia che vi erano due o tre mille uomini disposti ad attaccarla, (non erano poi che i quattrocento Arabi che mi aspettavano) che quest'errore fu la cagione della mia salute, io, confesso il vero, non posso stancarmi d'ammirare e benedire la Provvidenza.
Adesso comprendo facilmente come lo sgraziato maggiore Houghtton può essere perito nel deserto in conseguenza di una circostanza simile alla mia, senza che vi abbia avuto parte la perfidia di coloro, che lo accompagnavano.
La maggior parte del suolo del deserto è di pura argilla, ad eccezione d'un breve tratto di terreno calcareo, la superficie è coperta da uno strato di ciottoli calcarei bianchi, rotolati, liberi, grossi come il pugno, quasi tutti eguali, aventi la superficie bucherata come fossero pezzi di vecchio calcinaccio, lo che mi persuade a ritenerli come un prodotto vulcanico. Questo strato è steso con sì perfetta eguaglianza, che non lascia assolutamente verun punto discoperto, e rende il cammino assai faticoso.
Non vedesi in questo deserto veruna specie d'animali, quadrupedi, od uccelli, rettili od insetti; l'occhio vi cerca invano una pianta, e l'uomo non si vede altro d'intorno che il silenzio e la morte. Soltanto verso le quattr'ore della sera si poterono distinguere a qualche distanza alcune piccole piante abbrucciate, ed un albero spinoso senza fiori e senza frutti. Io avevo raccolte nel deserto due pietre, un pezzo d'argilla, e due pezzi di minerale: ma tutto andò perduto.
In questa orribile calamità i miei muli ed i miei cavalli non solamente perdettero i ferri, ma rimasero quasi tutti storpiati.
Lunedì 5.
Erano le sette del mattino quando si riprese la strada a traverso lo stesso deserto, e facendo un giro al S., ed al S. O.
Il terreno è lo stesso di quello di jeri. Alle undici ore del mattino si scese una lunga costiera, dopo di che ci trovammo nella provincia di Schaonia, e sulla sponda diritta del fiume Enzà. Sull'opposta riva vedevasi una sola casa ove abitava Schek Schaoui, o capo della provincia. Poi che si ebbe tre volte attraversato il fiume, ci accampammo a mezzogiorno sulla riva sinistra presso ad un dovar, e ad un mercato. Le mie genti avevano l'immaginazione ancora così calda del passato pericolo, e gli animali risentivansi in modo delle fatiche dell'antecedente giorno, che gli uni e gli altri appena veduto il fiume, corsero a gettarvisi dentro all'istante, gli uomini vestiti com'erano, e gli animali coi loro carichi; onde vi abbisognò molto tempo, pena e travaglio per farneli sortire.
Io fui tormentato dalla febbre tutto il giorno, effetto, non v'ha dubbio del sofferto disastro.
Assai ben coltivate erano le sponde dell'Enzà; e vi trovammo in abbondanza pastinache, popponi, uve, che furono da noi risguardate come un dono del cielo nello stato d'irritamento in cui trovavasi il nostro sangue.
Schek Schaoui, la di cui provincia parvemi assai ricca, era assente, ma suo fratello venne a trovarmi, e mi mandò a regalare molte provvisioni.
Martedì 6.
Alle sei ore del mattino si levò il campo dirigendoci all'O. nelle montagne, e dopo mezzogiorno soltanto scendemmo nella grande pianura, ove camminando a N.O. si passò verso le quattr'ore della sera il gran fiume Moulouia: al di là del quale feci far alto presso ad un dovar.
Le montagne attraversate questo giorno non sono sterili come le precedenti; vi si trovano di quando in quando piccoli fiumi e terreni coltivati. La pianura è quel medesimo deserto, ch'io avevo attraversato precedentemente andando verso Ouschda.
Io continuavo ad essere assai indisposto, e temevo di qualche più serio attacco.
Mercoledì 7.
La mia carovana prese il già descritto cammino, che ci condusse all'alcassaba di Temessouinn.
Giovedì 8.
Proseguendo la stessa strada giunsimo presso alla città di Tezza.
Venerdì 9.
Questo giorno non si levò il campo; ed io entrai in città per assistere alla pubblica preghiera del venerdì.
Tezza è la più gentile città che io vedessi nell'impero di Marocco; la sola ove l'occhio non è rattristato dalla vista delle ruine: le strade sono belle, le case dipinte. La principale moschea è grande assai, ben fatta, ed ornata d'un vago vestibolo. Sonovi varj mercati ben provveduti, molte botteghe, orti assai fertili, acque eccellenti, l'aria purissima: vi si trovano buoni cibi, ed a prezzi assai moderati, ed in grande abbondanza; e gli abitanti mi sembrarono assai risvegliati. Questi vantaggi riuniti mi fanno preferire Tezza a tutte le città dell'impero, non escluse Fez e Marocco.
Trovavasi accampato presso alle nostre tende un corpo di truppe comandate da un pascià, che mi fece rendere gli onori dovuti al mio rango, e mi mandò alcune provvisioni. Eravi con lui Muley Moussa fratello dell'imperatore di Marocco; cui la mia indisposizione non mi permise di visitare.
Più accurate osservazioni delle prime mi diedero la latitudine di Tezza a 34° 9′ 32″; lo che dimostra l'errore in cui ero caduto la prima volta. Soltanto la longitudine fu esatta.
Deviando dalla nostra pratica si riprese il viaggio alle nove della sera, dirigendoci al S. O. Dopo aver passato il fiume Tezza, e fatte molte sinuosità in mezzo alle montagne, si passarono altri fiumi.
Sabbato 10.
Dopo avere camminato tutta la notte passammo in sul far del giorno un altro fiume che va verso l'E. Attraversando un paese sempre montuoso, mi volsi all'O., ed alle otto del mattino feci far alto presso ad un dovar. Ero allora nella provincia di Hiàïna.
Si riponemmo in via ad un'ora dopo mezzogiorno volgendoci all'O., ed al S. O. fino alle cinque della sera; ed allora feci piantare le tende presso ad un dovar, patria di uno degli ufficiali che mi accompagnavano.
Domenica 11.
I buoni abitanti di questo dovar mi pregarono di così buona grazia a rimanere un giorno con loro, che non mi vi potei rifiutare. Nulla essi ommisero di tutto ciò che poteva riuscirmi dilettevole, onde testificarmi la loro gratitudine e rendermi meno nojosa la dimora. Io non mi dolevo di questa circostanza, che mi diede agio di riposarmi dopo tante fatiche sofferte.
Lunedì 12.
Dato ch'ebbi un addio a questi buoni Arabi, mi posi in cammino alle sei ore, facendo molti giri entro le montagne. Erano le nove ore quando scendemmo per passare il Levèn fiume assai vasto che va al S. O. Si costeggiò la sua sponda destra per lo spazio di due ore in un luogo piano, dopo il quale si tornò a salire sulle montagne. Ad un'ora dopo mezzogiorno si fece alto presso ad un dovar.
A poca distanza dal mio campo trovansi alcune ricche saline; di là scoprivansi una serie di sei o sette montagne isolate in forma di pani di zuccaro; il di cui colore rosso mi fece sospettare che siano interamente metalliche.
Martedì 13.
Alle sei ore del mattino si proseguì il viaggio tra le montagne fino alle due dopo mezzogiorno, che si pose il campo presso ad un grosso dovar.
Tutto il paese ch'io avevo attraversato apparteneva alla provincia di Hiaïna.
Il suolo è composto di montagne rotonde di argilla glutinosa come quelle di Tetovan. Sono esse naturalmente sterili; ma gli abitanti sono laboriosi, e vedonsi quasi tutte le colline coperte di panicum ossia di quel miglio; che s'avvicina al mais, e costituisce la base della loro sussistenza. Era allora maturo, e tutti i poderi venivano custoditi da alcuni uomini che avevano cura d'allontanarne gli uccelli con continue grida.
Tranne i fiumi di cui si è parlato, gli abitanti della provincia di Hiaïna non hanno che acqua dei piccoli pozzi che scavano sul pendio delle montagne: le acque di quasi tutti questi pozzi hanno un cattivo gusto sono salate, sulfuree, o minerali. Vedonsi alcuni burroni, e letti di torrenti coperti di uno strato bianco di sale. È probabile che questo paese abbondi di minerali; senza che gli abitanti abbiano il più leggero sospetto dei tesori su cui passeggiano. In molti luoghi gli strati metallici si manifestano di sotto all'argilla che li ricopre; ed alcune roccie perpendicolari, quasi affatto composte di sostanze metalliche, s'alzano qua e là in mezzo alla pianura come torri isolate.
Gli abitanti dediti all'agricoltura abbondano di granaglie, ma non hanno alberi, e non coltivano che pochissimi erbaggi, o frutta. Le loro case fatte di terra, e coperte di tralci sono assai piccole, ed abitate soltanto nell'inverno; perchè durante la bella stagione stanno sotto le tende come gli altri Arabi.
Mercoledì 14.
Alle sei ore del mattino ci ponemmo in viaggio facendo mille ravvolgimenti tra montagne assai alte e sparse di dovar. Era ormai mezzogiorno allorchè scendemmo in sul piano. Dopo avere traversata la Wérga fiume assai largo che scorre all'O., costeggiammo la sua sponda destra nella stessa direzione fino alle tre della sera; ed in allora piantaronsi le tende presso a due dovar.
La tribù che abita questi e molti altri dovar vicini chiamasi Vlèd-Aaïza, o figlia di Gesù; ed è assai numerosa.
Giovedì 15.
Alle sei ore tutti eravamo pronti a porsi in cammino prendendo la direzione di N. O. Entrammo alle otto nel distretto di Wazéin, e poc'appresso vidi al N. la montagna su cui è posta la città; che si lasciò alla dritta, continuando la strada fino alle tre ore della sera, che si alzarono le tende presso a molti dovar.
Il distretto di Wazéin è composto di vaste pianure chiuse all'E. da alte montagne. In mezzo alle pianure alzasi una grande montagna vasta affatto isolata, a metà del di cui declivio è posta la città di Wazéin; che chiamasi la forte, ma che non è cinta di mura come le altre città dell'impero. Colà dimora il celebre Santo Sidi Ali Benhamet di cui si parlò poco sopra. Padrone della città e del distretto, egli vive quasi affatto indipendente.
Io non vidi mai altrove un paese più bello, più popoloso, e meglio alimentato, nè più belle messi. Onde convien credere che la Divina grazia protegga in particolar modo questi abitanti. Il paese è tutto sparso di grandi dovar disposti affatto diversamente da tutti gli altri: qui le tende sono poste in linea retta, e negli altri luoghi in cerchio.
In tutta l'estensione del piano non vedesi un albero; e non vi si trova che l'acqua di alcune piccole sorgenti.
Il mio campo trovavasi distante dalla montagna di Wazéin all'O. Dalle osservazioni astronomiche ebbi il risultato di 6° 55′ 0″ di longitudine orientale, e di 34° 42′ 29″ di latitudine.
Notai ne' due ufficiali condottieri una cert'aria misteriosa, e segni di connivenza; pure continuavano a trattarmi con profondo rispetto; ed io non potevo dir loro alcuna cosa, nè manco concepire verun dubbio sui loro segreti abboccamenti. Le tribù stazionate sul mio passaggio venivano a rendermi tutti gli onori, ed a offrirmi i doni di viveri e di foraggi; ed io continuavo a far uso del parasole; ero in somma sempre trattato come un figlio o fratello del Sultano. Questo stato di cose potev'egli durare? Ecco ciò che vedremo tra poco.
Venerdì 16.
Si riprese in cammino verso le sei del mattino dirigendoci all'O. in mezzo a piccole montagne, ed un'ora dopo la nostra partenza essendo arrivati sulla strada da Fez a Tanger, ci volgemmo direttamente al N. fino alle tre ore della sera, ed allora ordinai di spiegare le tende tra i giardini situati al N. della città d'Alcassar.
Feci una cattiva osservazione intorno alla longitudine; ma non mi riuscì d'afferrare il passaggio d'alcuna stella, nè meno quello della luna in su lo spontar del giorno, per causa di alcune grosse nubi che ingombravano l'emisfero.
Sabbato 17 Agosto.
In questo giorno finalmente cadde il velo che copriva il misterioso contegno de' miei ufficiali; allorchè mi annunciarono che dovevasi andare a Laraïsch, o Larache, e non già a Tanger, ov'essi avevano prima detto di andare. Questo procedere spiacquemi assaissimo, ma dopo avervi riflettuto, mi lasciai condurre, essendomi affatto indifferente l'andare in uno, o in altro luogo.
In conseguenza di ciò alle sei ore del mattino si riprese la strada all'O.; ed un'ora dopo si piegò al N. o al N. O. Entrammo in un bosco di lecci assai alti abbondante di felci, del quale non uscimmo che a mezzogiorno dopo aver fatti molti giri. Finalmente si passò un fiume, ed un'ora dopo mezzogiorno giungemmo a Larache.
Laroïsch che i Cristiani dimandano Larache è una piccola città di circa quattrocento case, poste sul pendio settentrionale d'una ripida collina, di dove le case si prolungano fino sulla riva del fiume, la di cui imboccatura serve di baja alle grandi navi. I bastimenti che non oltrepassano la portata di duecento tonnellate possono entrare nel fiume, ma sono costretti di scaricarsi onde passare la barra.
Larache abbonda di moschee, la principale delle quali è pregevole per la sua architettura. Vi si trova un grande mercato, circondato da portici sostenuti da piccole colonne di sasso; ed è il più bel mercato ch'io vedessi nell'impero di Marocco. Fu fabbricato dai Cristiani, ugualmente che le principali fortificazioni. La città appartenne agli Spagnuoli, ai quali fu tolta da Muley Ismaïl.
Dalla parte di terra la città è difesa da buone mura con larga fossa; e due bastioni proteggono la porta ed il ponte. L'alcassaba o castello posto verso terra al S. della città è un piccolo quadrato di bastioni ad orecchioni circondato da una fossa. Ogni cosa trovasi bastantemente conservata, fuorchè il parapetto estremamente guasto. Sgraziatamente la piazza non ha acqua, e quella che vi si beve deriva da una sorgente che scaturisce in riva al mare a cento ottanta tese di distanza dalle mura, in luogo coperto dal fuoco della piazza. Ne viene presa ancora da un'altra sorgente lontana una lega. All'estremità della città, presso la foce del fiume, avvi un castello che mi si disse fabbricato per ordine di Muley Edris. La fortezza quadrata è provveduta di molte piccole colombrine. La bocca del porto viene difesa da due batterie poste al S., e da una specie di castello situato dalla stessa banda a tre cento cinquanta tese di distanza, con cannoni e mortai. Non avvi veruna fortificazione al N. del fiume o del porto.
A trecento tese al S. dell'ultima batteria di cannoni e mortai, sonovi presso all'acqua alcune opere, che viste dal mare, hanno l'apparenza di fortezza, ma che in realtà non sono che le ruine d'una casa e d'un molino a vento.
A sessanta leghe all'E. S. E. del castello quadrato trovasi una Cappella o santuario di una santa femmina patrona della città, chiamata Làla Minàna. Vi si onora il suo sepolcro. Io non ho giammai potuto dicifrare la complicazione delle idee che risvegliò in me l'esistenza della canonizzazione d'una donna, colla credenza mussulmana dell'esclusione di questo sesso dal paradiso. Ma Dio ne sa più che gli uomini.
La costa del S. è formata da una rupe assai alta, mentre quella del N. ha un piccolo banco di sabbia.
Per ordine del Sultano, Sidi Mohamed Safaxi, che era pascià di Larasche, mi destinò la miglior casa, situata sul gran mercato a lato alla principale moschea.
Malgrado questa vantaggiosa posizione, non potendo salire sopra la casa per osservare il cielo senza impedimenti, non potei prendere le distanze lunari; a fronte di ciò per mezzo degli ecclissi dei satelliti ho potuto fissare la longitudine O. dell'osservatorio di Parigi ad 8° 21′ 45″; come la latitudine per il passaggio del sole a 35° 13′ 15″ N. La declinazione magnetica è di 21° 39′ 15″ orientale. La temperatura è assai dolce e corrispondente a quella dell'Andalusia.
La città è circondata da un'arena rossiccia, ch'io riguardo come una decomposizione di feldspato, con molta disposizione a conglutinarsi. La rupe alta del mezzodì è formata di strati perfettamente orizzontali, sottili assai, e vicinissimi gli uni agli altri, lo che forma un'ardesia tagliata perpendicolarmente in riva al mare. Questi strati di roccia sono formati soltanto di arena rossa di già conglutinata nella sottile tessitura d'ardesia.
La città non è affatto sprovveduta di giardini. I viveri sono buoni, e l'acqua, quantunque alquanto cruda, non è malsana.
Le fatiche sofferte nel viaggio d'Ouschda mi cagionarono una malattia di quindici giorni. Furono pure indisposti alcuni miei domestici, e le bestie da soma, alcune delle quali rimasero storpiate; ma non morì che un mulo. Feci i bagni di mare, ed approfittai dell'opportunità per arricchire la mia collezione di piante marine.
Una corvetta di Tripoli, che da più mesi era entrata nelle acque del fiume, trovavasi a Larache. Il Sultano ordinò di equipaggiarla a sue spese, destinandomi la camera di poppa per il mio viaggio in Levante. Visitai questa nave che dovea tra pochi giorni mettere alla vela per Tripoli, e feci disporre per questo lungo viaggio la camera che mi era stata destinata.
La Domenica 13 ottobre 1805, giorno fissato per la mia partenza andai la mattina a congedarmi dal pascià, che mi diede tutte le migliori dimostrazioni di stima, e di considerazione, soggiungendo, che se volevo differire il mio imbarco fino alle tre ore dopo mezzogiorno, egli avrebbe assistito alla mia partenza. Tale inchiesta era per me troppo lusinghiera per non la poter rifiutare.
Essendo i miei equipaggi già imballati e caricati a bordo, andai al porto all'ora concertata per imbarcarmi colle mie genti. Chiesi conto del Pascià, e mi fu risposto che non tarderebbe ad arrivare. Mentre veniva la scialuppa, mi trattenni alcun tempo sulla spiaggia, ove la muraglia forma un angolo rientrante, e dove trovasi un vicoletto che sbocca dall'angolo.
Arrivata la scialuppa, e non vedendo venire il Pascià, mi disponevo di andare a bordo, quando due distaccamenti di soldati si presentarono a dritta ed a sinistra, e un terzo uscì dal vicolo in fondo all'angolo. I due primi s'impadronirono bruscamente di tutte le mie genti, l'altro mi prende in mezzo, e mi comanda d'imbarcarmi solo, e di partire all'istante. Chiedo la ragione di così strano procedere; e mi viene risposto: così ordina il Sultano. Domando di parlare al Pascià, e mi vien detto, imbarcatevi. Conobbi allora apertamente la mala fede del Sultano, e del Pascià, che fino all'ultimo istante, avevano ordinato che mi fossero resi i più grandi onori dalle truppe e del popolo, mentre meditavano il colpo che doveva profondamente ferirmi, poichè io non avevo meno premura per le persone che mi erano affezionate, che per me medesimo.
M'imbarcai nella scialuppa col cuore lacerato dalle grida di alcune persone della mia famiglia desolate da così subita separazione. Scesi il fiume divorato dalla rabbia e dalla disperazione finchè si giunse al passaggio della barra, ove i violenti colpi dell'onda mi sconvolgevano lo stomaco; lo che mi fu salutare, essendomi scaricato di un'enorne quantità di bile: ma spossato da così violenti scosse morali e fisiche, arrivai quasi privo di sensi alla corvetta che stava ancorata a poca distanza dalla barra. Mi trasportarono nella mia camera, e coricaronmi a letto.
In tal modo uscii dall'impero di Marocco. Sopprimo tutte le riflessioni che qui sarebbero inopportune. Forse avranno luogo in altra opera.
CAPITOLO XIX.
Dell'antica isola Atlantide. — Dell'esistenza di un mare Mediterraneo nel centro dell'Affrica.
Prima di visitare la parte occidentale dell'Affrica, l'accurato studio della geografia fisica di questa parte del mondo, confrontato colle nozioni che la tradizione e l'istoria ne trasmisero intorno alle grandi rivoluzioni del globo, ed alcuni indizj somministrati dai recenti geografi e viaggiatori rispetto alla situazione interna di questo continente, mi guidarono quasi simultaneamente a due idee che emanano dal principio medesimo, ed appoggiandosi vicendevolmente, sembrano concorrere a dare un grado di probabilità più grande di quello che possa sperarsi in simili argomenti alla seguente opinione:
1.º Che l'antica Atlantide era formata dalla catena del monte Atlante;
2.º Che trovasi nell'Affrica un mare Mediterraneo, che siccome il Caspio nell'Asia esiste isolato senza aver comunicazione cogli altri mari.
Dopo tanti sistemi e visioni sul luogo che doveva altra volta occupare l'isola Atlantide, si risguarderà forse come una pazzia il voler di nuovo far rivivere una quistione tante volte agitata, e che ora sembrava dimenticata: ma siccome io mi limito ad indicare soltanto leggermente quest'idea troppo spesso messa in campo da altri scrittori; la sua coincidenza con quella dell'esistenza d'un mare interno nell'Affrica, mi scuserà presso al lettore; il quale non pertanto potrà risguardare questo capitolo come un episodio della storia de' miei viaggi. Per leggerlo è duopo avere innanzi agli occhi la carta generale dell'Affrica settentrionale.
Benchè niun viaggiatore Europeo attraversasse giammai nel suo centro il Sahhara, o grande deserto dell'Affrica, noi abbiamo sufficienti dati per essere quasi assolutamente certi, che dal N. al S. non è tagliato da veruna cordelliera di montagne, la quale leghi quelle dell'Atlante con quelle di Kong, e con quelle che sono al S. E. del deserto, e stendonsi nella direzione E. O. fino nell'Abissinia.
Nell'estremità orientale della catena Atlantica trovansi i deserti che s'avvicinano a Godemesch ed a Tripoli, quello di Soudah e quello di Borca, che da un lato toccano al Sahhara, e dall'altro il mare Mediterraneo; quindi la catena degli Atlanti circondata al N. ed all'O. dal Mediterraneo e dall'Oceano, confinata al S. ed all'E, da deserti di sabbia, che da una banda arrivano all'Oceano Atlantico, e dall'altra al Mediterraneo, viene ad essere una vera isola senza apparente legame colle altre montagne dell'Affrica.
Tutto ciò che si sa intorno ai deserti di sabbia che circondano la catena dell'Atlante all'E. e al S. prova, che non sono composti come quelli della Tartaria dell' humus depauperatus di Linneo, val a dire, di una terra che a forza di travagliare, e di produrre, è rimasta esinanita, e priva delle molecole organiche necessarie alla vegetazione. Si può far illazione ai deserti che sono al S. dell'Atlante da quelli che io ho veduti al N. ed all'O. In questi io non trovai che strati estesissimi d'argilla glutinosa, che viene considerata come un prodotto vulcanico sotto-marino, pianure di sabbia sciolta tutta composta di una polvere selciosa di quarzo, e di feldspato, mischiata di un detritus di conchiglie estremamente fino, e di banchi di una marna calcarea assai moderna, evidentemente formata dalla conglomerazione della sabbia, o del detritus animale.
Vero è ch'io non trovai in questi deserti intieri avanzi di animali marini; ma perchè la situazione in cui io mi trovavo, non permettevami di fare accurate ricerche; ed è altronde verosimile che questi avanzi, quando esistano, non potrebbero trovarsi che a molta profondità al S o all'O. dell'Atlante, perciocchè la violenza delle onde polverizza qualunque oggetto che in questi luoghi s'innalza alla superficie del mare. L'urto delle onde è così terribile, che senza borrasca, nella più perfetta calma, e quando di lontano la superficie del mare sembra tranquilla, le onde battono così furiosamente sulla costa, che frequentemente innalzano montagne di schiuma alte cinquanta o sessanta piedi, non solamente sulle coste sparse di scogli, ma ancora sulla spiaggia d'arena.
Non esaminerò adesso le cagioni di tale fenomeno, che dovrebbero forse ricercarsi nel movimento generale della grande massa delle acque dell'Oceano, accresciuta o diminuita dalla projezione o configurazione delle coste: ma devonsene soltanto considerare i risultati sotto i rapporti che hanno colla presente quistione.
Quando il mare lambisce dolcemente una riva, le conchiglie ed i zoofiti vi si stabiliscono, germoglianvi le piante marine, e si moltiplicano come gli animali: la successiva decomposizione di tutti questi corpi organici ingrassa il terreno, lo rende proprio alle posteriori generazioni; e dall'ammasso di tante spoglie, nel corso di più secoli, che per la natura non sono che un giorno, ne risulta finalmente una ricca terra vegetale abbondantemente provveduta di mollecole organiche proprie ad alimentare, ed a dare la vita agli animali terrestri, che devono anch'essi servire ai bisogni dell'uomo.
Ma quando per lo contrario il mare batte furiosamente una costa, i moluschi e gli altri animali marini se ne allontanano come da uno scoglio contro di cui sarebbero infranti, le piante marine non possono allignarvi perchè vengono sradicate prima d'essersi profondamente fissate nel terreno che loro serve di sostegno. L'infelice animale, o la pianta che la corrente porta su queste rive periscono vittime del furore delle onde, ed i loro rottami sono spinti a grandissime distanze. Quando per effetto delle correnti dell'Oceano, e per lo scemamento dei mari, e per qualsiasi altra cagione, questa costa rimane scoperta e fuori dell'acqua, non può offrire che un ammasso informe di pietre, di arena, o di particelle selciose isolate, improprio alla vegetazione, e per conseguenza ad essere abitazione d'animali, in una parola, inutile all'esistenza dell'uomo: e questo avendo molta estensione sarà chiamato deserto.
Una gran parte delle coste di Marocco trovansi in tale stato. Tanger è circondato da un suolo arenoso, Rabat ugualmente: Mogador, che è il punto più meridionale da me visitato, è posto nel centro d'un piccolo Sahhara, la di cui sabbia forma colline mobili assai alte. Se, come io lo suppongo, questi deserti diventano più estesi a misura che c'innoltriamo verso il S., noi dobbiamo trovarvi il Sahhara o grande deserto, il quale non è che una replica in grande del fenomeno che vedesi in piccolo a Mogador, ed in miniatura a Rabat ed a Tanger.
Non è a dubitarsi che queste pianure di sabbia non siano depositi del mare, che sensibilmente si ritira da queste rive: la baja di Tanger si colma; il fiume di Rabat va egualmente colmandosi e restringendosi, e lo stesso fenomeno si riproduce a Mogador, nel canale, che lo separa dall'isola, e serve di porto. Questi fatti sono provati dagli ancoraggi che ogni giorno diventano più ristretti, e vedonsi ad ogni istante vortici di sabbia levati dalla spiaggia del mare dal vento d'O. formare in poco tempo dune o colline ne' luoghi ove non eranvene per lo innanzi, senza che giammai un contrario vento, una forza contraria equilibri questi effetti, di modo che la sabbia viene levata sempre dalla riva del mare senza più ritornarvi. Quindi se il Sahhara è una replica in grande dello stesso fenomeno, come tutto c'induce a crederlo, ben lungi d'essere composto dell' humus depauperatus di Linneo, non sarà che una superficie di sabbia abbandonata dal mare, come quella di Tanger e di Mogador, e che non fu giammai atta alla vegetazione.
Tale congettura si spinge ben presso all'evidenza quando si fa attenzione alla piccola elevazione del Sahhara sopra il livello del mare. Noi vediamo il Wad-Dràd, il Wad-Taffilet, e gli altri fiumi che si precipitano dal piovente settentrionale dei monti Atlante nel deserto, perdersi senza poter arrivare al mare per mancanza di declive per proseguire il corso.
Il Senegal e la Gambia si precipitano dalle vicine montagne di Kong verso il N., ed il N. O.: arrivati, il primo sui confini del Sahhara, ed il secondo in altra pianura, ritorconsi bruscamente all'O., e dopo infinite sinuosità somiglianti a quelle del Meandro dell'Asia minore, giungono al mare a traverso un piano quasi insensibilmente inclinato, formando nel loro corso innumerabili isolette, perchè la caduta di un albero, o qualunque altro leggero ostacolo basta a deviare, e dividere la loro debole corrente.
Ciò sembra indicare, che quando le montagne del Kong formavano un'isola, questi grandi fiumi precipitavansi nel mare del Sahhara, e che quando questo mare fu colmato dalla sabbia ammonticchiata a poco a poco, i fiumi diressero il loro corso verso l'Oceano, a misura che la sabbia successivamente aumentandosi li forzava a ripiegare dalla prima direzione. Debole essendo la loro corrente, bastava a farli piegare il più leggero ostacolo, come a' nostri giorni accade rispetto al Senegal quando questo fiume è vicino a metter foce nel mare.
Queste considerazioni corroborate dall'immensa quantità di conchiglie trovate nei deserti all'O. dell'Atlante, e dalla considerabile quantità di sale che trovasi nel Sahhara, e da altri fatti da me osservati, mi fanno credere che il Sahhara fu un mare fino ai tempi assai vicini all'età nostra, quando si paragoni colle grandi epoche della natura; ed allora troviamo che la Cordelliera dell'Atlante era un'isola.
Questa Cordelliera dai naturali è chiamata Tedla, e siccome questo vocabolo, secondo il costume delle lingue orientali, è scritto senza vocali, può ancora pronunciarsi Atdla; cui i Greci aggiunsero la finale come comportava il genio della loro lingua: ed ecco questo nome conservato dalla prima antichità tradizionale fino al presente.
Se consultinsi gli autori e le carte antiche, si troveranno i mari che circondano l'Affrica dalla parte di levante, di mezzogiorno, o d'occidente, indicati col nome di mare Atlantico; e poichè il paese d'Atlante dava il proprio nome a mari tanto lontani, a più forte ragione l'avrà dato ancora al mare di Sahhara che bagnava le sue coste, ed in allora l'isola dell'Atlante, e l'Atlantide si presenta circondata dal mare dello stesso nome, e dal Mediterraneo, offrendo esattamente le prime circostanze annunciate a Platone dal sacerdote di Sais, il quale dice che quest'isola era situata sulle rive del mare Atlantico.
Un'altra particolarità di quest'isola è quella di trovarsi in faccia all'imboccatura che i greci chiamano nel loro linguaggio le Colonne d'Ercole. Il sacerdote non dice solamente che l'isola fu in faccia alle Colonne d'Ercole, ma ne indica più circostanziatamente il luogo dicendo, ch'era in faccia all'imboccatura che i Greci chiamano nella loro lingua le Colonne d'Ercole. Ora quest'imboccatura non fu mai altro che lo stretto di Gibilterra; ed il piccolo Atlante, che è una diramazione della Cordelliera che prolungasi fino a Tezza, a Tetovan soddisfa esattamente a questa seconda condizione.
Quest'isola era più estesa della Libia e dell'Asia insieme[3]. Ecco press'a poco l'estensione del grande e del piccolo Atlante.
Aggiugne il sacerdote di Saïs che i viaggiatori potevano da quest'Atlantide recarsi ad altre isole, di dove era loro agevole il passare sul continente. Chiara cosa è che le molte isole del Mediterraneo potevano facilitare le comunicazioni dell'Atlantide coi diversi punti del continente d'Europa e d'Asia, bagnati dallo stesso mare, tanto più che nello stato di potenza in cui suppongonsi i re Atlantici, dovevano avere esteso il loro dominio sulle piccole isole vicine, per valersene, secondo l'espressione dello stesso sacerdote di Saïs, come di scala.
La dominazione dai re atlantici stabilita da una banda sopra la Libia fino in Egitto, e dall'altra fino alla Tirrenia, e le loro minaccie contro la Grecia s'accordano perfettamente colla posizione di quest'isola, situata sopra una linea centrale di questo paese, e colla sua popolazione.
Una sola opposizione può essere fatta a questo sistema che al primo aspetto sembra distruggerlo affatto. Questa è la narrazione fatta dal sacerdote di Saïs della scomparsa dell'isola prodotta da spaventosi tremuoti, e da disastrose inondazioni. In fatti l'isola lasciò di essere isola da che fece parte del continente: non è pure improbabile che qualche parte dall'isola sia stala inghiottita dai tremuoti, come per esempio la porzione che occupava lo spazio oggi coperto dal golfo di Tripoli, dal Capo Bon presso Tunisi fino al Capo Ras Sem presso di Derna: i gran banchi di Kerkena e quelli di Sydra, che sono in quei golfo appoggerebbero quest'ipotesi, ove si vogliano considerare come avanzi di una terra sommersa; lo che combinerebbe coll'ultima circostanza riferita dal sacerdote di Saïs intorno all'isola Atlantide. Quanto alla sommersione totale effettuatasi in ventiquattr'ore di un'isola così estesa quanto si suppone l'Atlantide, e sparsa di alte montagne; è un avvenimento che a stento si ammette, qualunque volta si voglia rappresentarsi all'immaginazione gl'immensi abissi che debbono supporsi per concepire un così prodigioso effetto: supposizione altronde affatto gratuita, e non convalidata da veruno avvenimento analogo preso dall'istoria naturale dopo l'ultimo grande cataclisma.
Se si voglia supporre che l'Isola d'Atlante arrivasse fin al Capo Ras Sem, allora questa parte dell'Atlantide sarebbesi trovata in faccia ed a poca distanza della Tirrenia, dalla Grecia, dall'Asia, dall'Egitto, e dalla Libia; ed ecco il teatro delle conquiste degli Atlanti, la di cui metropoli trovavasi nel centro.
Potrei aggiugner prove a prove, ragionamenti a ragionamenti in sussidio del mio sistema; ma non volendo trattare questa quistione che come una parte accessoria, e subordinata a quella dell'esistenza d'un mare interiore nell'Affrica, io ne lascio la soluzione ai dotti critici che l'hanno di già analizzata. Frattanto senza parlare di quei tanti sistemi creati intorno all'Atlantide, credo di poter far osservare che la posizione data a quest'isola dall'autore della storia filosofica del mondo primitivo, non corrisponde ai dati che noi abbiamo dal sacerdote di Saïs, poichè più non sarebbe sulle rive del mare Atlantico, collocandola, com'egli fa, in mezzo del Mediterraneo, che non ebbe mai il nome d'Atlantico; nè in faccia all'imboccattura che i Greci chiamano nella loro lingua le Colonne d'Ercole; ossia lo stretto di Gibilterra; di dove, secondo il citato autore, sarebbe stata lontana quasi duecento leghe. In tale ipotesi niuna linea retta sarebbesi dall'isola tirata allo stretto senza passare sopra terre intermediarie a cagione della projezione delle coste di questo mare: altronde il piccolo spazio entro cui pone quest'isola non poteva contenere un territorio tanto esteso quanto la Libia e l'Asia insieme, qualunque riduzione si faccia subire al paesi allora conosciuti sotto questi nomi; meno poi un territorio sul quale regnavano molti re famosi per la loro potenza...., che stendevano il loro impero sui vasti paesi adjacenti, ed andavano altieri delle loro grandi forze. Vedo che l'autore della storia filosofica ha cercato di dissipare tanti inconvenienti con ingegnose soluzioni, ma a lui medesimo io subordino queste osservazioni, e sono persuaso ch'egli renderà giustizia a' miei voti per la verità, qualunque sia il grado di probabilità che voglia attribuirsi al mio sistema.
Devo pure notare che la situazione data a quest'isola del sig. Bory de Saint-Vincent nei suoi saggi intorno alle isole Fortunate, non combina meglio colle circostanze riferite dal prete di Saïs; poichè il sig. Bory la suppone nel mare Atlantico, e non presso le rive di questo mare, come l'enunciato prete. Nè in tal caso avrebbe più da un lato la Libia, e dall'altro la Tirrenia. Per la situazione e la forma che le vengono da lui date non sarebbervi state isole intermediarie per passare sul continente. Ma ciò che è ancora più notabile, il sacerdote dice positivamente che Atene esisteva già al tempo dell'Atlantide, e che gli Ateniesi condussero le loro flotte contro gli Atlantidi conquistatori: ora nel sistema dell'autore, risulta, malgrado il suo commentario, che ai tempi dell'Atlantide lo stretto di Gibilterra, ed Atene non esistevano, perchè quello ancora non era aperto, e l'altra con tutte le pianure della Grecia era tuttavia coperta dalle acque del Mediterraneo, che non la scoprirono che per rompere lo stretto, ed inghiottire l'Atlantide. Come dunque gli Ateniesi, che ancora non esistevano hanno potuto frenare l'ambizione degli Atlantidi? Come mai le flotte degli uni e degli altri hanno potuto entrare e sortire dal Mediterraneo, il quale, come suppone l'autore, non era allora che un lago chiuso da ogni banda senza avere comunicazione con verun altro mare?
Provato una volta, come possono provarsi simili oggetti, che il Sahhara era un mare ne' tempi d'assai posteriori all'ultimo grande cataclismo del globo, risulta che la sua superficie essendo pochissimo elevata al di sopra del livello del mare, deve formare un gran bacino, ove si precipitano le acque piovane di tutti i paesi che lo circondano. È pure probabile che nel centro dell'Affrica sia restato un vasto lago, ossia un mare Mediterraneo, che sarebbe per avventura un irrefragabile prova dell'essersi il mare Atlantico ritirato dalla Sahhara.
Abbiamo dimostrato la poca elevazione della Sahhara al di sopra del livello del mare col fatto dei fiumi che dopo essere penetrati nel deserto mancano di declivio per giugnere ai mari esteriori dell'Affrica; esaminiamo adesso i motivi che mi muovono ad ammettere un mare interno nell'Affrica, indipendentemente dalle acque che ha potuto lasciarvi l'Oceano, e che forse, come nel mar Caspio, basterebbe per mantenervi un vastissimo lago per molti secoli.
Avvi nell'interno dell'Affrica uno spazio di trentatrè gradi e mezzo dall'E. all'O. dalle sorgenti del Niger fino a quello del Misselad; e più di venti gradi dal N. al S. dal piovente meridionale dell'Atlante, e delle altre montagne vicine ai Mediterraneo, fino al piovente settentrionale dalle montagne del Kougo e fino alle sorgenti del Bahàr-Koula, superficie immensa da cui non sorte una goccia d'acqua per gettarsi nei mari esteriori dell'Affrica, poichè da un lato non conosciamo le sorgenti dei fiumi, che mettono foce nel Mediterraneo, e nell'Oceano occidentale, i quali tutti derivano le loro acque fuori di questa superficie; e dall'altro lato i fiumi che si gettano nel golfo della Guinea non sono troppo più abbondanti degli altri, e per conseguenza non suppongono un'origine più lontana dalla loro foce, di quello che lo sia il piovente meridionale delle montagne del Kongo, e delle altre montagne che seguendo la stessa linea dell'E. vanno a riunirsi alle montagne di Kouri o della Luna, ove trovansi le sorgenti del Bahàr el-Abiad, o fiume bianco, che forma il principal ramo del Nilo.
Sappiamo inoltre che i fiumi di questa parte dell'Affrica si dirigono per linee convergenti verso il centro: i fiumi dell'Atlante, e quelli del deserto al S. ed al S. E., il Niger e quelli che scendono dalle montagne di Kong al N. E. ed all'E., il Misselad, il Kulla, e molti altri intermediarj al N. O.; il Kuku, il Gazel, ed altri al S. ed al S. O.; e finalmente tutti quelli che sono conosciuti nell'interno dell'Affrica, hanno la loro direzione verso il centro del continente.
Le relazioni di alcuni viaggiatori nell'interno dell'Affrica, e le informazioni che si hanno dagli abitanti, danno, che la quantità d'acqua somministrata dalle continue pioggie in quel paese è tanto considerabile, che gli animali e le piante cadono in uno stato di deperimento.
Non avendo osservazioni metriche dirette intorno a questa quantità d'acqua dell'estensione de' paesi di cui parliamo, ci è forza supplirvi con calcoli approssimativi, fondati sulla misura de' luoghi conosciuti. Sappiamo che in Europa prendendo un termine medio cadono annualmente diciotto pollici d'acqua, e che questa quantità cresce al Sud. In Algeri, ad anno compensato, ne cadono ventotto pollici: nel 1730 ne caddero trenta pollici, e quaranta quattro nel 1732. A Madera ne cadono trenta pollici all'anno, e sotto i tropici, stando alle osservazioni del celebre Humboldt, settanta. La superficie in quistione è tagliata a mezzo dal tropico; pure per dare maggiore forza a tutte le supposizioni a me contrarie, ridurrò la quantità della pioggia a cinquantaquattro pollici, vale a dire a sedici pollici meno di quanto ne dà il sig. Humboldt, ridurrò a zero le pioggie del deserto, e supporrò che il Sahhara occupi la metà di questa superficie, di modo che soltanto le pioggie dell'altra metà somministrino acqua al gran lago interiore. Spero che chiunque troverà larghe queste concessioni: dunque calcoliamo: la superficie intera è di 240,000 leghe di venti al grado; ma perchè ne ho assegnata la metà al deserto, non ne rimangono che 120,000 per somministrare le acque piovane al gran lago: questa estensione a ragione di 292,410,000 piedi quadrati rotondi per lega, forma una superficie di 33,089,200,000,000 piedi quadrati, sulla quale le pioggie depongono ogni anno compensatamente una massa d'acqua di 157,901,400,000,000 piedi cubi.
Se diansi al mare interiore dell'Affrica 150 leghe di lunghezza e 50 di larghezza, verrebbe ad essere press'a poco grande come il mar Caspio o il mar Rosso: e formerebbe una superficie di 12,500 leghe quadrate, eguale a 3,655,125,000,000 piedi quadrati.
L'evaporazione in Europa in una temperatura media di 11° è, secondo Dobson di 30 a 38 pollici all'anno. Il sig. Humboldt l'osservò a Cumana in America a 28° centigradi di temperatura 2780 millimetri all'anno Si trovò alla Guadaluppa di quattro a sei millimetri per giorno; e questo dotto viaggiatore suppone che possa portarsi ad 80 pollici per anno sotto i tropici. Ma per non lasciare alcuna cosa a desiderarsi agli antagonisti del sistema, porrò contro di me questo risultamento, triplicando la quantità assegnata dal sig. Humboldt, e portando l'evaporazione del nostro lago a 240 pollici, ossiano 20 piedi per ogni anno.
Ora se moltiplichisi questa evaporazione per la superficie del lago, ne risulta una massa di 157,901,400,000,000 piedi cubi: onde rimane ancora un eccedente di 84,698,900,000,000 piedi cubi di acqua per supplire alla evaporazione nei fiumi e nei laghi subalterni, e per la decomposizione dell'acqua per la vegetazione ed altri fenomeni: lo che dimostra, stando anche alle supposizioni meno favorevoli al sistema, che in un mare della grandezza del Rosso, o del Caspio, posto nel centro dell'Affrica, l'evaporazione non leverebbe pure la metà dell'acqua che le pioggie devono deporre ogni anno sulla superficie in quistione, e che ne rimarrebbe più della metà per le altre cause d'assorbimento; tal che, se queste non bastano per consumare l'altra metà, come sembra probabile, il nostro mare Affricano dovrà essere più vasto del Rosso e del Caspio.
Nulla dirò della sua profondità, perchè dipendente dalla configurazione del suolo: ma qualunque sia tale profondità, il mare conserverà senz'alterazione tutto l'eccedente dì venti piedi tolti dalla evaporazione.
Questi calcoli dimostrano l'impossibilità della supposizione, che il Niger si perda nel pantani a Wangara; e spiegano ove devono essere le foci dei tanti fiumi che vanno nel centro dell'Affrica senza che più si vedano sortire.
Dimostrano in pari tempo l'impossibilità dell'uscita di tanta quantità d'acque per la costa della Guinea, come lo suppose un dotto tedesco. Di fatto il Migered ed il Senegal hanno le loro sorgenti nelle montagne di Kong a brevissima distanza le une dalle altre, e questi fiumi dirigonsi, uno al N.E., l'altro al N. O. Il primo dopo un corso dì cento sessanta leghe arriva a Giambala in sul confine del Sahhara, ed il secondo dopo avere percorso un eguale spazio, bagna i confini dello stesso deserto a Fariba. La situazione di questi due fiumi è allora assolutamente la medesima. Il Senegal per arrivare da Fariba al mare, di dove non è lontano più di cinquanta leghe, fa mille tortuosità, e forma colle sue acque un gran numero di laghi e di paludi in un suolo appianato, e quasi al livello dell'Oceano; di modo che può dirsi che se il mare si ritraesse cento leghe dalle rive attuali, conservando lo stesso livello, il Senegal non potrebbe arrivare colà, e svaporerebbe in uno o più laghi.
Per più forte ragione le acque del Niger, che a Gimbala è nella stessa posizione che il Senegal al Fariba, non avranno una bastante inclinazione per iscorrere più di cento cinquanta leghe, ossia il triplo della distanza che attraversa il Senegal da Fariba all'Oceano; ed allora incomincierà il gran lago interno dell'Affrica, che stendendosi nelle supposte dimensioni arriverà presso al lago Fitrè, ove gettansi i fiumi delle Gazzelle, il Misseda, ed altri, e che comunicano col lago di Semegonda, che io riguardo come una baja, o un golfo del nostro mare Caspio d'Affrica.
Ma se dal punto in cui io suppongo che incominci questo mare interno, dovesse il Niger scorrere ancora duecento quaranta leghe, il Gazzel, il Misselad, ed altri fiumi trecento quaranta di più in linea retta per arrivare al golfo della Guinea, chiara cosa è, che trovando il suolo senza inclinazione, si spargerebbero e perderebbero nei laghi senza arrivare all'Oceano.
I grandi fiumi Formoso e Rey, e gli altri che gettansi nel golfo della Guinea, ricevono le acque da una superficie assai estesa per poter pareggiarsi ai più gran fiumi, poichè calcolandosi dal piovente meridionale delle montagne di Kong e di Komri fino all'Oceano, avvi una superficie di 75,000 leghe quadrate, più che bastante ad alimentare tutti questi fiumi in un paese ove in uno spazio minore della metà si formano i fiumi del Senegal, di Gambia, di Rio grande, di Messurata, e molti altri i quali presso a Capo Roxo ed alle isole Bissagos dividonsi in grandi canali e laghi uguali press'a poco a quelli di Rio Formoso, e di Rio de Rey sul golfo della Guinea.
La carta generale dell'Affrica settentrionale del maggior Rennel prova che la supposta esistenza del mare interno risolve il problema delle foci degli interni fiumi dell'Affrica, senza deviare un atomo dalla geografia conosciuta.
Dimostrato una volta, per quanto lo acconsente la qualità dell'argomento, che l'immensa quantità d'acqua versata dalle pioggie nell'interno dell'Affrica, e portata dal Niger, e dagli altri fiumi nel centro del continente, non può svaporarsi nei piccoli laghi, e meno poi nei semplici pantani del Wangara ed inoltre che non può arrivare all'Oceano nel Golfo della Guinea; se noi ne deduciamo la necessità dell'esistenza d'un gran lago o mare interno, in cui riuniscansi e svaporino le acque che sovrabbondano ai bisogni della vegetazione, ed alle altre scomposizioni di questo fluido, non rimane che ad addursi alcun fatto per ultima prova dell'esistenza di questo mare interno.
Trovansi negli antichi autori rammentati molti grandi laghi dell'interno dell'Affrica; la palude Nigrite, i laghi Clonia, Libia, Nili, Nuba, Gira, Ghelonide. Non potrebbero essere questi golfi o baje d'un solo e gran lago, cui sarebbersi dati tali nomi? I moderni fecero lo stesso, e se taluno, ignorante della geografia, udisse parlare del mare Adriatico, dell'Arcipelago, del mare di Marmora, e del mar Nero, non crederebbe egli giammai, che queste siano parti di un solo e medesimo mare, che dicesi Mediterraneo, ma li crederebbe altrettanti mari isolati.
Nelle discussioni cui ha dato luogo questa quistione, sonosi, per non essersi intesi, ammessi degli errori, ed io ne trovo la ragione principale nei vari significati attribuiti al vocabolo Bahàr. Le nazioni che parlano l'arabo chiamano Bahàr il mare, Bahàr un qualunque lago, e Bahàr un fiume.
Quando gli abitanti o gli Arabi viaggiatori dell'Affrica interna parlarono d'un Bahàr esistente in quel paese, gli antichi e moderni Europei intesero semplicemente un lago, e senza cercare ulteriore spiegazione di un vocabolo, di cui credevano averne compreso il vero significato, supposero che si parlasse di laghi, o di fiumi.
Ecco le ragioni che m'indussero ad ammettere questo mare interno anche prima di viaggiare nell'Affrica; ragioni da me discusse nel 1802 a Parigi con varj dotti dell'Istituto, ed a Londra con molti membri della Società reale. Spedii pure intorno allo stesso argomento una memoria da Cadice in data del 30 maggio 1805, ed un'altra da Tripoli nel novembre del 1805.
Ma veniamo al fatto che conferma il sistema, e rende innegabile l'esistenza di questo mare interno.
Nel bastimento che portavami da Laraïsch a Tripoli in ottobre del 1805 eravi un negoziante di Marocco detto Sidi Matte Bouhlàl, ch'era stato lungo tempo a Tombout, o Tombouctoo, ed in altri paesi del Soldano o della Nigrizia, ove commerciava in società con uno de' suoi fratelli. Quello Bouhlàl era fratello d'un cheik nominato dall'imperatore di Marocco direttore della carovana della Mecca, se le circostanze politiche avessero permesso di fare il viaggio. Era un uomo intelligente di circa quarant'anni, d'irriprovevole condotta, veritiero, ricco, e che non poteva avere il menomo sospetto ch'io andassi in traccia di notizie intorno allo stato interno dell'Affrica. Il complesso di tali considerazioni m'inducono a dar piena fede al suo rapporto, ed a credere ch'egli non volle ingannarmi perchè non aveva il menomo interesse di farlo.
Essendomi durante il viaggio trattenuto in lunghi discorsi con questo negoziante, si venne più d'una volta a parlare dell'interno dell'Affrica; e n'ebbi le seguenti notizie:
«Tombout è una grande città assai commerciante, abitata dai Mori e dai Negri.
«La famiglia colà regnante discende da un imperatore di Marocco, che fece un'incursione in quel paese, ed il di cui nome vi è tuttavia rispettato assai.
«A Tombout Bouhlàl avea più libertà che a Marocco. Aveva sempre ai suoi servigi molte negre, che comperava, vendeva, cambiava a suo capriccio; lo che avea pure alquanto alterata la sua fisica costituzione, e cagionate più malattie.
«Tombout trovasi alla medesima distanza dal Nilo Abid (Nilo dei Negri, o Niger ) che Fez da Wad Sebou, vai a dire a meno di due leghe.
«Questo fiume scorre verso il levante.
«Il Nilo Abid è largo ed ogni anno nella stagione delle pioggie sorte dal suo letto, ed inonda il paese come il Nilo d'Egitto, talchè allora sembra un braccio di mare.
«I Negri navigano su questo fiume con barche di una costruzione particolare; non hanno chiodi, e tutte le parti sono legate assieme da sottili corde di palma.
«Ogni barca porta fino a cinquecento cariche di cammello in sale, in grani, ed in altre derrate.
«Queste barche viaggiano senza remi e senza vele: per farle camminare, un certo numero d'uomini, secondo la grandezza della barca; si colloca sui due lati, verso prora; ognuno tiene in mano una pertica assai lunga che appoggia contro il fondo del fiume, e tutti spingono la barca nello stesso tempo. Questa nascente navigazione li costringe a non iscostarsi dalla riva.
«Il Nilo Abit scorre verso l'interno dell'Affrica ove forma un gran mare senza comunicazione cogli altri. In questo mare le barche dei negri fanno quarantotto giornate di cammino rasentando la costa, e sempre senza vedere la terra opposta.
«I più comuni oggetti di commercio su questo mare sono i grani ed il sale, perchè trovansi nell'interno vaste contrade, cui mancano tali generi.
«Si dice che questo mare comunica col Nilo d'Egitto, ma su questo proposito non avvi nulla di positivo.
«Si soggiugne che Haoussa è una città molto grande, e molto popolata, all'E. di Tombout, e che è assai civilizzata.»
Siccome in questi intrattenimenti parlavamo l'arabo, e che Bouhlàl faceva sempre uso del vocabolo Bahàr, io non ommettevo giammai di chiedergliene spiegazione: ed egli mi replicò più volte che intendeva significare un mare di molti giorni di traverso in largo ed in lungo, come quello sul quale noi navigavamo nel nostro bastimento; ed era il Mediterraneo.
Un fatto così notabile toglie qualunque dubbiezza intorno alla esistenza del mare interno, o del Caspio Affricano, che Bouhlàl chiamava sempre Bahàr Soudan, ossia mare della Nigrizia. Si faranno tuttavia alcune obbiezioni, e si aspetterà ai futuri viaggiatori il darne, o cercarne la risposta[4].
CAPITOLO XX.
Viaggio per mare da Laraïsch a Tripoli in Barbaria. — Innalzamento del mare. — Burrasca. — Si approda al banco di Kerkeni. — Descrizione delle isole dello stesso nome. — Arrivo al porto di Tripoli.
M'imbarcai la domenica 13 ottobre 1805 sopra una fregata di Tripoli comandata dall' Erraiz ossia capitano Omar: trovavasi ancorata nella rada di Laraïsch, ove rimasi tutto il susseguente giorno. Si spiegarono le vele il martedì 15 in sul far del giorno; ma mancando il vento favorevole, il bastimento non poteva che bordeggiare.
Mercoledì 16.
La mattina s'alzò un vento d'O. S. O. A mezzogiorno eravamo nello stretto di Gibilterra, e due ore dopo tra Gibilterra e Ceuta, di dove vedevansi le due città in una prospettiva assai pittoresca. Il campo Spagnuolo in faccia a Gibilterra formato di tende e di baracche, la città di S. Rocco posta sopra un rialto, ed Algezira che vedevasi a traverso una punta di terra, formavano un sorprendente quadro. Trovavansi nel porto di Gibilterra una squadra inglese, ed un convoglio.
Si seguì tutto il giorno il rombo quasi all'E. col medesimo vento.
Giovedì 17.
La notte il vento rinforzava con molto travaglio della fregata: l'acqua passava sopra il ponte, e ne penetrò ancora nell'interno. La mattina si scoprì Capo di Patta, che si trapassò alle due ore dopo mezzogiorno; e dopo si prese la direzione del N. E.
Venerdì 18.
La mattina per tempo si vide il Capo di Palos. Gli eravamo già sopra quando il capitano fece tirare al S. per dare la caccia ad una nave che aveva l'apparenza di voler sottrarsi alla nostra visita. La raggiunse ad un ora dopo mezzogiorno: era un brick svezzese. Al cader del sole eravamo ai 37° 15′ di latitudine N., e 2° 47′ 30″ di longitudine O. dall'osservatorio di Parigi.
Sabbato 19.
Durante la notte il bastimento erasi avanzato assai poco, e la mattina faceva quasi calma. La nostra direzione era all'E. ¼ S. E.
Alle quattro della sera si scoprì una catena di montagne della costa dell'Affrica, ed alle cinque la mia longitudine 1° 37′ 30″ O. dell'osservatorio di Parigi.
Il vento mancò affatto, ma la corrente portava all'E.
Domenica 20.
La calma continuò, ed alle nove ore del mattino avevo la longitudine di 1° 27′ 30″ di Parigi.
Lunedì 21.
Si virò di bordo al N. con leggier vento di S. E.
Martedì 22.
La fregata proseguì avanzandosi al N. fino a breve distanza dall'isola Formentera, ove prese la direzione di S. O. Si camminò quasi ad O. S. O. fino al cadere del sole, ed allora si volse la prora all'E. N. E.
Mercoledì 24.
A mezzogiorno si ripiegò a S. E. ¼ E.
Rinfrescandosi il vento alle tre ore dopo mezzogiorno il bastimento si trovò in mezzo ad una straordinaria meteora. Il mare s'alzò tutt'ad un tratto, ed invece di muovere le onde sulla superficie le une dietro le altre, l'acqua slanciavasi verticalmente in piramidi o coni diafani a punte acute, le quali sostenevansi lungo tempo senza piegare da veruna parte, finchè cadevano perpendicolarmente sopra se medesime. La cagione di questo fenomeno, che s'avvicina assai a quello delle trombe, parvemi prodotto dalla elettricità di alcune grosse nubi che ci stavan sopra, ed esercitavano così violente attrazione per equilibrarsi alla elettricità del mare. In pari tempo rinforzò il vento, onde il vascello saltellando a traverso di queste acute piramidi ne faceva sentire spaventose scosse accresciute dal volume dell'alberatura affatto sproporzionato al corpo del bastimento; e perchè erano aperte le cannoniere, entravano da ogni banda torrenti d'acqua. Non eranvi sgraziatamente che due pompe; una del tutto inservibile, e l'altra in cattivo stato, onde non veniva assorbita che una piccola quantità d'acqua. I pertugi, e condotti onde doveva uscire l'acqua al di sopra della tolda e de' ponti, erano chiusi dalle balle di mercanzia, e dalle spazzature, perciò l'acqua ch'entrava a torrenti, e non poteva uscirne minacciava di affogare ad ogn'istante il bastimento. Il fondo della stiva era sott'acqua, e non vedendosi veruna terra, non si aveva alcuna speranza di soccorso. I marinai, ed i passaggieri atterriti erano saliti sopra la tolda persuasi di dover soccombere. Si chiusero le cannoniere alla meglio, e gettaronsi in mare le balle, e gli effetti che potevano sopraccaricare la nave. Tutti travagliavano intorno alla sola tromba, che poteva ancora servire, e si ottenne con infinita pazienza e fatica di sbarazzare alcuni dei condotti onde dare sfogo all'acqua. In pochi momenti la fregata erasi sensibilmente alleggerita; ma a fronte di ciò e malgrado gli sforzi dell'equipaggio, la nave periva infallibilmente, se la meteora in vece di soli dieci minuti avesse avuto una maggior durata.
Ne' più terribili istanti della nostra situazione ebbi la ricompensa di alcuni atti di beneficenza fatti sul bastimento. Il capitano, il contro maestro, e molti marinai vennero a dirmi all'orecchio gli uni dopo gli altri ch'io non dovessi temere, perchè sarei stato salvato a preferenza d'ogni altro. Compresi da tale discorso ch'erasi formato un complotto per assicurarsi della scialuppa; la quale in sul finire della meteora andavasi preparando, e che sarebbesi difesa col coltello alla mano contro chiunque non era destinato ad entrarvi. Fortunatamente che la cosa si terminò colla perdita degli effetti spettanti alla fregata, ed ai passaggieri, il di cui valore ammontava a parecchie migliaja di piastre: io non ne perdetti che circa trecento, perchè in quest'occasione mi fu utile la riconoscenza dell'equipaggio. Alcuni effetti conosciuti di mia spettanza furono nell'istante, che volevansi gettare in mare, ritolti a chi li portava, e rimessi nella camera nel tempo stesso che non si perdonava agli effetti più preziosi del naviglio e de' passaggieri; di modo che inclino a credere che io non avrei perduta alcuna cosa, se nella confusione di così terribili momenti si fossero conosciuti di mia proprietà. Dopo la partenza da Laraïsch aveva gratuitamente distribuiti medicamenti ed altri soccorsi agli sventurati che ne abbisognavano; ecco la cagione del loro attaccamento.
Venerdì 25.
Si seguì in quel giorno lo stesso rombo fino al tramontar del sole, ed allora si piegò al N. E.
Sabbato 26.
Il bastimento trovandosi a mezzodì sotto il 38 grado di latitudine, si volse con leggier vento all'E. S. E.
Domenica 27.
Si scoprì a mezzogiorno Capo Bugaroni, sulla costa d'Affrica, e fu presa quella direzione.
Lunedì 28.
In sul far della sera eravamo fra l'isola di Galita e la costa d'Affrica.
Quest'isola osservata col mio grande canocchiale parvemi formata da una vasta rupe di granito rosso di mattone con larghe vene di quarzo puro ondeggiate. È una montagna assai elevata, il di cui aspetto ha qualche rapporto con quello di Gibilterra.
Buono è il canale tra Galita ed il continente. I Tripolitani non passavano giammai al largo dell'isola, vale a dire tra l'isola e la Sardegna per la continua guerra che hanno cogli abitanti di quel regno; i quali, secondo m'assicurava il capitano della fregata, sogliono appiccare tutti i comandanti di nave che hanno la sventura di cadere nelle loro mani.
VEDUTA DELLE ROVINE DEL PALAZZO DELLA REGINA DALLA PARTE DEL MONASTERO DI S. GRISOSTAMO.
Martedì 29.
In questo giorno si avanzò assai poco; ed a mezzodì il bastimento trovavasi in faccia a Biserta o Capo Bianco.
Mercoledì 30.
Dopo avvicinato il Capo Bon, che si oltrepassò avanti mezzogiorno, il capitano si diresse col favore d'un leggier vento al S. S. E. 5° E.
Giovedì 31.
Continuando lo stesso rombo con un vento più fresco, si scoprì avanti sera l'isola di Lampidosa o Lampedusa in distanza di cinque leghe dalla banda d'E.
Se il movimento del mio cronometro non soffrì una considerabile anomalia da un giorno all'altro, convien dire che la posizione di Lampedusa è posta d'un mezzo grado più all'O. nella carta del deposito idrografico di Madrid, secondo l'osservazione astronomica ch'io feci in vista della medesima. Rimetto questa quistione alla parte scientifica de' miei viaggi, ove vengono discusse le osservazioni astronomiche.
Alle nove della sera il vento rinfrescò, ed andò rinforzandosi in maniera che a mezzanotte la burrasca era terribile. Il bastimento faceva molt'acqua, il mare spingeva le onde sopra il cassero ch'era a metà coperto, ed inondava l'interno. La nostra cattiva tromba agiva sempre, ma con poco successo. Gli attrezzi del vascello erano vecchi, ed il mare li consumava. Il moto del vascello era tanto forte, che le antenne entravano più di sei piedi sott'acqua: l'equipaggio credevasi perduto, e di già intuonava la cantilena della morte. Il capitano pallido e spaventato venne ad avvisarmi che il vascello non poteva durarla a lungo andare; e mi chiedeva consiglio intorno ai mezzi da adoprarsi in tale frangente.
Gli chiesi se trovavansi ancora delle vele spiegate; e dietro la sua risposta affermativa, lo consigliai ad ammainarle tutte, fuorchè una piccola per governare. Il capitano partì all'istante per ordinare la manovra; e momentaneamente calcolando con difficoltà il mio punto di stima, mi trovai press'a poco a ventiquattro leghe al N. di Tripoli.
Allorchè tornò il capitano gli chiesi se il vascello poteva orzare, «Non lo so, rispose; ma proveremo». E bene, soggiunsi volgetelo all'O. N. O. e procurate, se è possibile, d'imboccare il canale tra Kerkeni e Zerbi.
Mi ubbidì, e poco dopo si riuscì a sottrarci a quel terribile filo di vento che minacciava di farci rompere sulla costa di Tripoli. Il vento incominciò a calmarsi, ed il mare abbonacciò quantunque le onde fossero ancora grosse.
Venerdì primo novembre.
Dopo aver seguito tutto il giorno lo stesso rombo, resosi il mare più tranquillo, si gettò l'ancora alle otto ore della sera in quindici braccia d'acqua, sopra un banco presso Kerkeni.
Tutte le persone del vascello risguardavansi come risuscitate, s'abbracciavano, e si felicitavano vicendevolmente.
Sabato 2.
Io riconobbi il nostro punto lontano tre leghe da Kerkeni, che trovavasi all'O. N. O. 6° N.
Eravamo sopra un gran banco di sabbia di feldspato rosso di tegola e di quarzo, che stendesi per una superficie di molte leghe, e sul quale si sta all'ancora con egual sicurezza come in un porto chiuso, perchè col vento più gagliardo, siccome quello che faceva allora, le onde non si alzavano, e le acque del mare sembravano uno stagno.
Questo banco forma un piano inclinato quasi insensibile fino alle isole di Kerkeni, ed alla costa del regno di Tunisi. Alcune miglia prima di giugnervi, si riconosce al color biancastro dell'acqua, e quando vi si è sopra per la tranquillità della medesima.
Due sono le isole di Kerkeni poste a breve distanza dalla costa di Tunisi, tra di loro separate da un canale; sono così basse che appena si vedono uscir fuori dal mare. Vi si vedevano alcuni alberi, ossia palme. Il capitano scese a terra più volte; e mi riferì che lo sbarco è difficilissimo, perchè la più piccola scialuppa non trova acqua bastante: onde non vi si può giugnere che per alcuni punti conosciuti dai piloti pratici.
Queste isole che i loro abitanti, e quelli delle vicine coste chiamano Kàrgnana vengono indicate sulle carte con quello di Kerkeni.
Il dubbio che io avevo intorno alla longitudine dell'isola di Lampedusa abbraccia pure la situazione di queste isole. La latitudine del punto medio tra le due isole è di 34° 39′; alquanto diversa dalla sua posizione sulle carte.
Non vi sono in queste isole nè sorgenti nè fiumi; e gli abitanti non hanno altr'acqua per bevere che quella che piove; e questa ancora è così scarsa, che per portarne un poco al bastimento convenne raccoglierla presso gli abitanti in piccoli vasi.
Il suolo che è una roccia quasi scoperta non produce che poche palme, e perciò quegl'infelici abitanti non hanno altro alimento che quello dei datteri, del palma christi, e del pesce che seccano per la provvisione dell'anno.
La popolazione vi abita riunita in capanne bassissime, che offrono l'aspetto della più grande miseria.
Hanno una specie di battello estremamente cattivo, con una piccola vela, che non può portare più di quattro uomini. Questi battelli detti Sandal scorrono la costa fino a Tripoli, e non si scostano mai più d'una lega da terra. Uno di questi venne a portare l'acqua che noi avevamo richiesta, ed i pochi volatili che avevano potuto raccogliere. Gli uomini non vestono che un chaïk bruno, grossolano, sono magri, ed hanno il colore di cuojo. Interamente dediti alla pesca, usano varj artificj per rinchiudere, e per prendere i pesci, che formano la base della loro sussistenza.
Non potei avere accurate notizie intorno al numero degli abitanti di queste isole; ma credo che non arrivi a quello di seicento, e forse è minore assai. Professano la religione mussulmana, e sono governati da un cheik nominato da loro, il quale manda ogni anno a Tunisi un tributo al Pascià, che non percepisce da queste isole verun altro prodotto.
La nostra nave rimase sul banco di Kerkeni fino alla notte del 7 di novembre, ed in questo frattempo i venti furono sempre impetuosi in maniera che spezzarono una volta l'albero, e squarciarono la vela della scialuppa che portava il capitano a terra, mentre al nostro ancoraggio il mare era affatto tranquillo. Questi giorni furono impiegati nel riattamento delle vele, ed a chiudere con lastre di rame le fessure per cui penetrava l'acqua in fondo alla cala.
Giovedì 7.
Si levò l'ancora alle otto della sera, e si prese la direzione di S. E. con un leggier vento.
Venerdì 8.
Dopo aver seguita tutto il giorno la medesima direzione, il vascello bordeggiò durante la notte per non avvicinarsi troppo alla costa di Tunisi, ch'era a breve distanza.
Sabato 9.
La mattina il cielo era coperto; ma prima di mezzogiorno vedevasi chiaramente la costa di Tripoli. Si governò verso il porto. Passando innanzi al castello si salutò col cannone, e fu risposto al saluto. La scialuppa del governatore venne a riconoscerci all'ingresso del porto; alcuni individui montarono a bordo, e presero una specie di dichiarazione dal capitano. La nave continuò ad avanzarsi tirando molte salve d'artiglieria, finchè si gettò l'ancora in mezzo alla baja. Erano allora le tre dopo mezzo giorno: il capitano scese subito a terra.
Domenica 10.
In questo giorno sbarcò l'equipaggio; ed io rimasi a bordo aspettando che mi fosse preparata una casa in città.
Lunedì 11.
A mezzo giorno andai a terra dopo avere felicemente terminato questo faticoso tragitto.
Devesi notare che il grande sollevamento del mare il 24 ottobre accadde due giorni dopo la nuova luna, e quasi ad un'ora e mezzo dopo il suo passaggio per il nostro meridiano.
La gagliarda burrasca della notte del 31 ottobre sopraggiunse due giorni dopo il primo quarto; e cominciò un'ora e mezzo circa dopo il passaggio della luna per il nostro meridiano.
In questi due casi la luna trovavasi nella sua costituzione boreale. Spetta al dotto Lamarck l'apprezzare queste osservazioni.
CAPITOLO XXI.
Sbarco. — Presentazione al Pascià. — Intrighi. — Descrizione di Tripoli. — Governo. — Corte. — Moschee. — Tribunali. — Caffè. — Viveri. — Giudei. — Commercio. — Misure, pesi, monete. — Clima. — Antichità. — Regno di Tripoli.
Ho di già osservato, che quando giugnemmo nel porto di Tripoli, il capitano era subito sceso a terra, per presentarsi al Pascià, e rimettergli le sue carte, ed alcune lettere di Marocco.
All'indomani mattina il capitano venne a bordo coll'ordine di sbarcare i passaggeri; e si scusò verso di me di non avermi ancora potuto preparare una casa, pregandomi d'aspettare fino a sera. Quando tutta la gente fu sbarcata, tornò dopo mezzo giorno per dirmi di pazientare fino alla susseguente mattina. Io non ignoravo che il Pascià Salaovi di Laraïsch aveva scritto contro di me; e diffidavo pure di due passaggeri ch'erano a bordo, ma ero pienamente sicuro degli altri: lo era ancora dell'equipaggio, e del capitano. Non presi dunque pensiero di nulla, e quantunque mi fossi accorto che il ritardo procedeva da tutt'altro che da mancamento d'alloggio, io rimasi affatto tranquillo. Non tardai a verificare che non erami ingannato ne' miei sospetti. Il susseguente giorno il capitano mi prevenne, che potevo andare a terra. Feci sbarcare i miei equipaggi; e sortendo di nave fui condotto nella casa in cui dovevo alloggiare, la quale trovavasi in faccia a quelle del primo ministro, e del console generale di Spagna.
Mi trovavo già da tre giorni in Tripoli quando il capitano mi portò l'ordine di presentarmi al Pascià. L'udienza fu solenne; ed ebbe luogo in una vasta sala, ove il Pascià stava seduto sopra una specie di trono, o di piccolo soffà alquanto alto, intorno al quale stavano i suoi figli, e molti cortigiani. Gli fu presentato il mio dono, ch'egli accolse dignitosamente, mi colmò di gentilezze, e mi rese ogni sorta d'onori. Rimasi lungo tempo seduto sopra una sedia ch'egli avevami fatta preparare, intrattenendomi col Pascià intorno a diversi oggetti; ed intanto fui servito di tè, d'acqua odorifera, e di profumi. Dopo aver molto parlato ci separammo assai contenti l'uno dell'altro; egli mi porse la mano come ad un amico, e senza permettermi di baciargliela come costumasi con un sovrano; in somma mi diede la più sincera prova d'affezione.
Partendo ordinò a due de' suoi grandi ufficiali di condurmi dal primo ministro, personaggio veramente rispettabile, che aveva quasi affatto perduta la vista. Lunga ed amichevole assai fu la nostra conferenza, onde rientrai in casa assai contento delle due visite che avevo fatte.
Alcune persone di Marocco, e specialmente il Pascià Salaovi avevano scritto dipingendomi coi più neri colori: uno de' passeggieri, forse di commissione dello stesso Pascià, nulla aveva trascurato di tutto quanto poteva rendermi odioso; ma i suoi tenebrosi raggiri furono disprezzati dal Pascià e dalla sua corte, dopo le prese informazioni, e le dichiarazioni fatte da tutte le persone del bastimento. Il passeggiere che era un negoziante Marocchino non ottenne che l'universale aversione. Io ero così sicuro del fatto mio, che presentandomi al Pascià non volli far uso della commendatizia dell'imperatore di Marocco. Avevo precedentemente dichiarato al capitano, ed a qualcun'altro, che in vista della condotta tenuta dal Sultano quando sortii da Laraïsch, rifiutavo la sua protezione: il mio procedere franco e leale, mi rese più rispettabile agli occhi del pascià e della sua corte. Frattanto per cancellare affatto la memoria dell'affare di Marocco, come anco a cagione del Ramadan e d'una indisposizione sopraggiuntami, uscii poche volte di casa finchè rimasi a Tripoli, fuorchè per andare alla moschea, per visite di etichetta, e per fare qualche passeggio a piedi. Le addotte cause non mi permisero di estendere molto le mie ricerche. Dalle poche osservazioni astronomiche ch'io feci, mi risulta la longitudine E. di Tripoli 11° 8′ 30″ dall'osservatorio di Parigi, e la latitudine N. 32° 56′ 39″. La declinazione magnetica osservata 18° 41′ 2″ O.
Tripoli di Barbaria vien detto Tarabla dagli abitanti; ed è una città assai più bella di qualunque del regno di Marocco: è posta in riva al mare, e le sue strade sono diritte, ed abbastanza larghe. Le case regolarmente fabbricate sono quasi tutte bianche. L'architettura s'accosta assai più all'europea che all'araba; ed in ispecial modo le porte quasi tutte d'ordine toscano, i cortili con colonne di pietra ed archi di ottimo stile invece degli arabi acuti che vedonsi a Marocco. I fabbricati di pietra seno frequentissimi, e vedonsi pure alcuni marmi fini ne' cortili, nelle porte, nelle scale, e nelle moschee. Le case hanno finestre verso strada, cosa non praticata a Marocco, ma per altro sono sempre chiuse da fitte griglie.
Osservai nelle case di Tripoli un'usanza assai singolare; cioè, che in quasi tutte le camere per lo più lunghe e strette, trovasi a ciascheduna delle due estremità un palco di tavole press'a poco alto quattro piedi dal suolo, sopra il quale si ascende per angusti scalini. Questi rialti hanno una balaustrata, ed alcuni ornamenti di legno, e si va sotto ai medesimi per una piccola porta. Esaminando quale potesse essere lo scopo di questa singolare disposizione, trovai che ogni camera poteva contenere le masserizie complete di una donna, poichè sopra l'uno collocasi il letto, sull'altro gli arredi de' fanciulli; sotto di uno si pone il vassellame e le altre cose occorrenti al pranzo, e sotto l'altro gli altri effetti della famiglia. Questa distribuzione lascia in mezzo alla sala il luogo necessario per ricevere le visite; ed un uomo in una casa, o in un appartamento composto di tre o quattro camere, può tenere tre o quattro donne con tutte le comodità possibili, ed affatto indipendenti le une dalle altre. Tripoli non ha fontane nè fiumi; e gli abitanti bevono l'acqua che cade dal cielo conservata entro le cisterne, di cui ne è provveduta ogni casa: per i bagni, per le abluzioni, ed altri usi, valgonsi dall'acqua salsa dei pozzi.
La peste distrusse gran parte della popolazione; e vedonsi ancora molte case rovinate in conseguenza di quel flagello che mandò sotterra molte intere famiglie. Di presente il numero degli abitanti può calcolarsi di dodici in quindici mila.
Questa popolazione è composta di Mori, di Turchi, e di Giudei: e perchè da prima il governo era assolutamente Turco, gli abitanti sono più civilizzati che a Marocco. La seta ed i metalli preziosi s'impiegano negli abiti; e la corte si mantiene con estremo lusso. La maggior parte degli abitanti conosce e parla diverse lingue Europee, e lo stesso Pascià parla l'italiano: ciò che a Marocco risguarderebbesi come un peccato più o meno grave.
La società vi è pure più sincera, e più libera che a Marocco; i Consoli Europei mi visitavano frequentemente, e nessuno se ne formalizzava. I rinnegati Europei possono ottenervi avanzamento, ed elevarsi alle prime cariche dello stato: l'ammiraglio o capo della marina Tripolitana è un inglese che sposò una parente del pascià. Gli schiavi cristiani sono ben trattati, hanno il permesso di servire ai particolari, corrispondendo parte dei loro profitti al governo.
Il sovrano di Tripoli conserva ancora il titolo di Pascià, perchè da prima quel paese era governato da un Pascià mandato di tre in tre anni dal gran Signore. Questi efimeri comandanti non altro vedendo nei loro firmani che un mezzo di spogliare inpunemente gli abitanti, si resero in modo insoffribili che questi massacrarono l'ultimo Pascià mandato dalla Porta. Dopo tale rivoluzione accaduta circa ottant'anni sono, scelsero per loro principe Sidi Hhamet Caramanli nativo della Caramania, che fu il fondatore della regnante dinastia. In seguito a Sidi Hhamet suo figliuolo Sidi Ali padre dell'attuale sovrano montò sul trono; ma obbligato da alcune rivoluzioni ad abbandonare la patria, riparossi a Tunisi. Il figlio di Sidi Ali chiamato Sidi Hhamet, come suo avo, prese le redini del governo. Era questi un uomo vizioso, le di cui malvage qualità gli costarono il trono e la vita; e gli succedette Sidi Youssouf, suo fratello, oggi regnante.
Sidi Youssouf, ossia sig. Giuseppe è un uomo di bella presenza di circa quarant'anni. Non è privo di spirito, parla assai bene l'italiano, ama il fasto, la magnificenza, e si mantiene dignitosamente senza trascurare d'essere manieroso e gentile. Sono ormai dieci anni e mezzo che occupa il trono, ed il popolo si mostra di lui contento.
Sidi Youssouf non ha che due consorti propriamente tali: una delle quali sua cugina e bianca, gli ha già dati tre figli e tre figlie; e l'altra è una negra, da cui ebbe un maschio e due femmine. Tiene molte schiave negre, ma veruna bianca. Spiega tutto il lusso e la magnificenza negli abiti delle sue donne, e negli arredi delle loro abitazioni. I figli del pascià assumono il titolo di Bey, e l'uno di essi ha il mio nome Ali-Bey; ma quando dicesi soltanto Bey, intendesi per antonomasia il primogenito, che è di già conosciuto erede del trono.
Fui assicurato che le rendite del pascià non ammontano ad un milione di franchi all'anno.
Il portiere interno del palazzo è uno schiavo negro; e sonovi più di quaranta schiavi cristiani tutti italiani pel servizio interno.
Il giorno di Pasqua nell'istante ch'io entravo in palazzo per vedere il pascià, la sua orchestra che stava entro una camera più interna cominciava a suonare, ma quand'egli mi vide fece segno di far cessare la musica, siccome un divertimento che un grave mussulmano deve risguardare con disprezzo. Nei brevi momenti che io l'udii, la trovai passabile ed infinitamente migliore di quella di Marocco. Mi fu detto che l'orchestra era composta di ventiquattro parti.
I principali impiegati sono l'hasnadàr, ossia tesoriere, il guardian bàchi capo e maggiorduomo di palazzo, il Kiàhia, luogotenente del Pascià, il quale occupa un magnifico sofà nel vestibulo; poi il secondo Kiàhia, cinque ministri incaricati di diversi rami d'amministrazione, l'agà de' Turchi, ed il generale della cavalleria araba. La guardia del Pascià è composta di trecento Turchi, e di cento mammaluchi a cavallo.
Ad eccezione delle guardie, il Pascià non mantiene verun'altra truppa regolata in attività. Allorchè deve sostenere qualche guerra, aduna le tribù arabe che si presentano colle loro bandiere o stendardi in sul davanti; e può in tale circostanza mettere in piedi dieci mila cavalli, e quaranta mila pedoni.
Abbiamo già detto che l'ammiraglio del Pascià è un rinnegato inglese ammogliato con una sua parente. Le sue forze marittime consistono ne' seguenti legni.
1. Fregata o corvetta di cannoni N.º 28
1. Idem di » 16
3. Sciabecchi di 10 cannoni ciascuno » 30
1. Saica di » 8
2. Galeoni di sei cadauno » 12
1. Piccolo sciabecco di » 4
1. battello di » 1
1. Galeotta di » 4
In tutto 11 bastimenti, e cannoni N. 103
A quest'epoca si fabbricavano due altri galeoni, lo che formerà un totale di 13 bastimenti armati.
Tripoli contiene sei moschee del primo ordine con torri, e sei moschee minori.
Magnifica veramente è la grande moschea, e di elegante architettura: il tetto tutto formato di cupolette viene sostenuto da sedici maestose colonne doriche di un bel marmo grigio, che mi fu detto essere state prese sopra un bastimento cristiano. Fu fabbricata dall'avo di Sidi Youssouf. Questo tempio, siccome gli altri ch'io vidi a Tripoli, non sono di quella meschina architettura che rimarcai a Marocco. La loro elevazione non manca d'imponenza; ed in tutte sonovi all'usanza delle chiese Europee, alcune tribune alte per i cantori. Tutte le moschee sono coperte di tappeti, mentre che quelle di Marocco, non esclusa pure la moschea del palazzo imperiale, sono coperte di stuoje: quella di Muley Edris a Fez è la sola che abbia tappeti.
Le torri di Tripoli sono di forma cilindrica, assai alte con una galleria circolare nella parte superiore, di mezzo alla quale alzasi una torricella, o garetta. Dalla galleria il mudden suole chiamare il popolo alla preghiera.
A Marocco il culto è più semplice, e più misto; qui più complicato, e pomposo. Il venerdì a mezzo giorno danno cominciamento alla cerimonia molti cantori che intuonano alcuni versetti del Corano. L'imam sale la sua particolar tribuna, che consiste in una semplice scala come a Marocco, colla diversità che a Tripoli è di pietra, colà di legno. Recita una preghiera sotto voce in faccia alla muraglia, ed in appresso volgendosi al popolo, canta un sermone coi medesimi trilli e cadenze proprie di certe canzoni Spagnuole dette polo andalous. Parte del sermone è variabile, ed il predicatore canta leggendo il suo manoscritto; l'altra parte che è sempre la medesima viene recitata a memoria, con alcune preghiere ed altre formole di pratica, che canta sul medesimo tuono.
L'imam infine del suo sermone voltasi con affettazione verso il meherèb, o nicchia che sta alla sua diritta, cantando una preghiera in più alto tuono: indi voltandosi alla sinistra colla stessa affettazione, ripete la medesima preghiera: scendendo due o tre gradini della scala recita alcune preghiere per il pascià e per il popolo, infine d'ognuna delle quale il popolo risponde amen; finalmente, nel tempo che canta il coro, l'imam scendendo al mehrèb, recita la preghiera canonica col popolo, come costumasi a Marocco. Le grida che si fanno dalle torri per l'adunanza del popolo sono a Tripoli meno gravi che a Marocco, perciocchè in alcune moschee sono i ragazzi che fanno le funzioni di mudden, cosa che non eccita troppa devozione.
Nel tempo del Ramadan non si odono le trombette funebri che si usano a Marocco; ogni notte vengono illuminate le gallerie delle torri ove i mudden cantano alcune lunghe preghiere.
Le moschee possedono case e terreni provvenienti da donazioni volontarie: queste entrate servono al mantenimento dei ministri e degli altri impiegati nelle cose del culto.
Il muftì è il capo della religione, e l'interprete della legge. Stan sotto di lui due kadì, uno per gl'individui del rito ehanefi, l'altro per quelli del rito maleki.
La composizione dei tribunali del muftì e delkadi è veramente una istituzione rispettabile Questi giudici sono incorruttibili, e tutti i loro ministri sono mantenuti coi proventi delle moschee.
Sonovi in Tripoli tre prigioni, una per i Turchi, e due per i Mori, ma sono male governate ed i prigionieri sono obbligati a mantenersi del proprio, o col prodotto della carità pubblica.
I negozianti e gli oziosi sogliono riunirsi in un caffè; ed il basso popolo in due altri d'un ordine inferiore. Da pertutto vi si prende il caffè senza zuccaro.
Vi sono pure alcune taverne ove si vendono vini e liquori dai Mussulmani medessimi, che non si fanno scrupolo di beverne ancor essi malgrado la proibizione della legge. Questo ramo di pubblica entrata produceva all'erario centomila franchi.
Il mercato è assai ben provveduto, ed i viveri si vendono a prezzi moderati. Vi si trovano eccellente pane e carni, non così i legumi. I Tripolitani fanno il couscoussou meno fino che a Marocco; essi usano molti altri grani, alcuni de' quali provengono dall'interno dell'Affrica. Il paese produce l'olio necessario al suo consumo.
La terra è comune come a Marocco, purchè non sia circondata da qualsiasi siepe; e trovansi varj abitanti che possiedono quindici ed anche venti poderi chiusi; e mi fu detto averne uno bellissimo il Pascià. Mancando acque correnti s'innaffiano i giardini coll'acqua salmastra de' pozzi, che si attigne con una macchina posta in moto dai muli.
I Giudei che hanno in Tripoli tre sinagoghe sono assai meglio trattati che a Marocco. Sono circa due mila che vestono alla musulmana, e solo la berretta, e le pantofole devono essere nere, ed il turbante ordinariamente turchino. Si contano fra questi circa trenta famiglie ricchissime, gli altri sono artigiani, orefici ec. Il commercio d'Europa è quasi tutto nelle loro mani: essi corrispondono principalmente con Marsiglia, Livorno, Venezia, Trieste e Malta. Vi sono pure alcuni negozianti mori tra i quali Sidi Mehemet Degàiz primo ministro del Pascià, che ha fama d'avere in circolazione un milione di franchi.
Se sono sincere le notizie che ho potuto raccogliere, la bilancia del commercio di Tripoli coll'Europa è a suo vantaggio, perchè le esportazioni eccedono d'un terzo il valore delle importazioni; ma il suo commercio col Levante e coll'interno dell'Affrica conguaglia i vantaggi di quello d'Europa. Riunirò altrove le particolarità del commercio di questa città con quello degli altri paesi.
Le misure ed i pesi che vi si adoperano sono inesatti come a Marocco, tanto per la grossolana loro forma che per mancanza d'un tipo originale.
Dietro un grande numero di confronti diretti ho trovato i seguenti risultati.
Il pik o gomito di Tripoli, detto dràa è la base d'ogni loro misura: corrisponde a venticinque pollici, nove linee e mezza del piede Parigino.
L' Artàl o rottla a sedici oncie, sei grossi, e 54 grani del peso di Parigi.
La misura dei grani è chiamata ouiva, ma perchè riesce incomoda a cagione della sua grandezza, adoprano d'ordinario un'altra misura che non è che la quarta parte.
Questa misura di capacità, quarto ouiva, è un vaso di legno che ha la figura di cono troncato fatto assai grossolanamente. Dopo fatte le possibili riduzioni trovai che la sua capacità era uguale a pollici cubi di Parigi 1200. Ma perchè si usa di colmare la misura, devono aggiungersi 130. Onde questa misura colla colmata contiene del piede Parigino 1330 pollici cubi.
Tali sono i piedi e le misure da me paragonati; ed avuto riguardo ai mezzi di cui mi sono servito, ho motivo di lusingarmi che i miei risultati siano più esatti di quelli avuti precedentemente.
Le monete in corso a Tripoli sono le seguenti:
In oro
Scherifi — Vale 48 hamissinn: è la moneta di maggior valore.
Nos scherifi — Eguale a 24 hamissinn.
Mahbouh trablessi — Vale 28 hamissinn.
In argento
Yuslik — Vale 10 hamissinn.
Tseaout hamissinn — Eguale a 9 hamissinn, come lo indica il suo nome.
Hamissinn, ossia bou hamissinn — È l'unità monetaria, e la moneta più comune in circolazione; 26 hamissinn valevano allora una piastra Spagnola.
Nos hamissinn — La metà d'un hamissinn come lo indica il suo nome.
Para — dodici para e mezzo equivalgano ad un hamissinn.
In rame.
Para — Dodici para e mezzo equivalgono ad un hamissinn.
Nos para — ossia mezzo para, de' quali 25 formano un hamissinn, è la più piccola specie corrente.
Moneta ideale.
Piastra — Cinquanta piastre formano un hamissinn.
Tutte queste specie, ed in particolar modo quelle d'argento sono d'una bassa lega, e poco più che rame inargentato.
Il valore rispettivo di queste specie va soggetto ai capricci del momento: di modo che all'epoca in cui io mi trovavo a Tripoli eranvi dei para di buon argento in circolazione, che avevano esattamente lo stesso peso di quelli di rame, e pure gli uni e gli altri avevano lo stesso valore rappresentativo di dodici para e mezzo per un hamissinn.
Gli Europei sono a Tripoli assai ben veduti, e rispettati. Oltre gli agenti delle diverse potenze d'Europa, eravi allora un negoziante Francese, fratello del Console, uno Spagnuolo fabbricatore di navi, un medico Maltese, ed un orologiajo Svizzero.
I Cristiani vi hanno una cappella ufficiata da quattro monaci del terz'ordine di Roma. È cosa assai singolare che questi monaci hanno nella loro cappella una campana, il di cui suono si fa udire ogni giorno in tutti gli angoli della città. Questa chiesupola è mantenuta cogl'incerti, colle donazioni, e con una pensione della corte di Roma.
Si dice che il clima è caldo nella state proporzionatamente alla latitudine, ma che tutte le altre stagioni offrono l'immagine d'una perpetua primavera. Pure, durante la mia dimora, ebbi alcuni giorni freddi, che però mi fu detto essere affatto straordinarj al paese. Dalle mie osservazioni meteorologiche fatte a Tripoli risulta, che il più alto grado di calore fu di 16° 1′ di Réaumur in diverse mattine, e durante la notte.
Questa minorazione di calore sarebbe in Europa poco sensibile, ma qui produce una così piccante sensazione di freddo, come in Europa il freddo dell'inverno, lo che senza dubbio è relativo allo stato abituale dei pori, che sono in questo paese sempre aperti.
Ho veduto regnare quasi abitualmente i venti del quartiere d'O.; cadde molta pioggia, e l'igrometro di Saussure segnò frequentemente 100 gradi, termine della estrema umidità.
Vidi un bel monumento presso alla casa del console di Francia; un arco trionfale inalzato dai Romani, e composto di una cupola ottagona, sostenuta da quattro archi posti sopra quattro pilastri. Il tutto è fatto senza cemento con pietre tagliate di enorme grandezza sostenute dalla propria gravità[5].
Questo monumento era ornato di sculture, di figure, di festoni e di trofei d'armi internamente, e al di fuori; ma la maggior parte di tali rilievi fu distrutta: non rimangono adesso che parti isolate incoerenti, che attestano ancora l'antica eccellenza del lavoro.
Sulle facciate al nord, ed all'occidente vedonsi gli avanzi d'una iscrizione, che pare essere stata la medesima in amendue i lati. Questa singolarità rese facile al sig. Nissen console di Danimarca il redintegrarle, riunendo ed ordinando, i frammenti delle due iscrizioni.
Lontano venti leghe da Tripoli vedonsi le ruine dell'antica Leptis, e Lebda; e mi fu detto rimanervi tuttavia molte colonne, capitelli, ed altri interessanti rottami. Il sig. Delaporte cancelliere del consolato generale di Francia che visitò tali ruine ha copiato le iscrizioni.
A maggiori distanze entro terra vedonsi pure le grandiose ruine d'altre città antiche, con catacombe, statue, ed avanzi di edificj d'ogni specie.
La costa di Tripoli stendesi duecento venti a duecento trenta leghe dai confini di Tunisi fino a quelli d'Egitto, ed in tale estensione contansi i seguenti porti.
Trabonca porto situato alla estremità della costa; dodici leghe al di là del quale verso occidente trovasi Bomba, rada con un buon ancoraggio. Rasatin si trova otto leghe più lontano, porto che non ammette che i piccoli bastimenti che vengono a caricar sale. Altre quindici leghe più in là avvi Derna, il di cui basso fondo rende quel porto impraticabile nell'inverno: vi si caricano per Alessandria butirro, cera e lana, in cambio di riso, e della tela di cottone. Gli abitanti di Derna non conoscono altra moneta che quella del Levante, e le piastre spagnuole. Quaranta leghe al di là da Derna vedesi Bengàssi buon porto, ma non praticabile dai grandi bastimenti: pure vi si fa un ragguardevole commercio di lane, di butirro, di miele, di cera e di piume di struzzo, con Marsiglia, Livorno, Venezia, Malta e Tripoli. Cinquanta leghe più in là è situato il Capo Messurat, la di cui cattiva rada è esposta a tutti i venti: vi si caricano datteri per Bengassi.
Tripoli il di cui porto non ha bastante fondo per le navi da guerra, ed è aperto ai venti di N. E. trovasi lontano trent'otto leghe all'O. dal Capo Messurat: vi s'imbarcano lane, datteri, zafferano, soda, senape, donne negre, pelli, penne di struzzo per i porti d'Europa sopra enunciati, e per il Levante. Dieci leghe più occidentale era il vecchio Tripoli, il di cui porto non è ora praticabile che ai piccoli battelli, che caricano la soda per Tripoli. Vedesi finalmente altre ventiquattro leghe più in là Sovàra nella di cui rada le piccole barche vanno a caricare sale e pesce salato per tutta la costa.
In così vasta estensione del regno di Tripoli non si contano che due milioni d'abitanti, perchè la maggior parie del paese è deserto, e tranne gli abitanti della capitale, gli altri sono poveri e sventurati Arabi. L'autorità del governo sul paese è così poco rispettata, che niuno, se non è Arabo, può viaggiare a qualche distanza senza andare in carovana, o fortemente scortato; altrimenti sarebbe infallibilmente derubato, o assassinato.
Gli abitanti di Soàkem, di Fezzan e di Guddemes che sono tributarj di Tripoli, tengonsi in corrispondenza cogli abitanti dell'interno dell'Affrica. Il sovrano di Fezzan viene riconosciuto dal bascià di Tripoli sotto il nome di Scheik di Fezzan. I Fezzanesi sono neri grigi, poveri, ma di un carattere assai dolce. A Tripoli s'impiegano ne' più piccoli esercizj.
Abita due leghe lontano da Tripoli il maggior santo o marabotto del paese detto il leone. Ha un villaggio cinto di mura ove trovasi la moschea; gode il dono della santità ereditaria, come i santi di Marocco: il suo villaggio è un asilo inviolabile per i delinquenti, qualunque siano i loro misfatti, fosse anche l'assassinio del Pascià. Il leone attuale è un uomo d'oltre quarant'anni.
Le montagne più vicine alla città trovansi ad otto leghe verso il S., i di cui abitanti sono tributarj del Pascià.
In vista del pericolo non potendosi viaggiare isolati, molte carovane vanno e vengono di levante a ponente ne' tempi tranquilli. Le grandi carovane di Marocco, di Algeri, di Tunisi, e di El-Gerid quando intraprendono il viaggio della Mecca, riposano quivi quindici giorni: attualmente non possono viaggiare per le turbolenze che agitano quasi tutta la Barbaria e l'Egitto. Questa circostanza mi costrinse ad intraprendere per mare il tragitto di Alessandria, e di continuare in tal modo il mio pellegrinaggio alla casa di Dio.
CAPITOLO XXII.
Congedo d'Ali Bey dal Pascià di Tripoli. — Partenza alla volta di Alessandria. — Errore del Capitano. — Arrivo sulle coste della Morea. — Isola Sapienza. — Continuazione della strada. — Mancanza di viveri. — Ritorno a Sapienza. — Modone.
In conseguenza delle mie disposizioni sì allestì per il mio tragitto ad Alessandria un grosso bastimento Turco, che sortì dal porto di Tripoli il 26 gennajo 1806, colle mie genti ed i miei equipaggi, mentre io mi stavo ancora a Tripoli con due domestici, aspettandovi gli ordini dei Pascià, che mi aveva fatto prevenire che desiderava abbracciarmi avanti ch'io partissi.
Perchè il tempo passava, ed il Pascià non mandava a cercarmi, incominciai ad essere inquieto, come pure i miei amici, perchè il bastimento trovavasi già due miglia al largo, bordeggiando per aspettarmi.
Finalmente alle dodici ore del mattino ebbi ordine dal Pascià di recarmi al suo palazzo.
Mi accolse colla maggiore cordialità, mi fece sedere presso di lui, e rinnovò in una lunga conversazione i primi tentativi per indurmi a restare a Tripoli. Alzossi in uno slancio di cuore, e stando in piedi innanzi a me, mi disse: Io sono tuo fratello; che vuoi tu? parla. Lo accertai della mia riconoscenza, ma stetti fermo per la partenza. Poco dopo scherzando meco, condussemi ad una finestra, di dove vedevasi il bastimento che bordeggiava verso l'orizzonte, e prese a dirmi: vedete, vedete come vi aspetta. Avendo il bastimento tirato un colpo di cannone, soggiunse: egli vi chiama. Presi allora la parola per dirgli: in nome di Dio, mio amico, lasciatemi partire. Ci abbracciammo colle lagrime agli occhi, e partii accompagnato dai miei amici, e da alcuni suoi cortigiani. Trovai preparate al porto le scialuppe del Pascià: miei amici imbarcaronsi meco ad un'ora dopo mezzogiorno, e mi accompagnarono fino al bastimento, ove li congedai. Immediatamente dopo, il vascello si diresse al N. E. con buon vento, e si perdette ben tosto di vista la terra.
Questo bastimento era grande ma cattivo veliero; ed il capitano la più gran bestia che si potesse trovare. Quand'egli non vedeva più la terra, non sapeva più dove si fosse, e non sapeva pur fare il più piccolo conto di stima. Fortunatamente il suo secondo incaricavasi di tutto, e non rimaneva a quest'imbecille altra incombenza che quella di bevere a dismisura, e di dormire.
Trovavansi a bordo molti passeggieri, cioè: due negozianti Marocchini, un ufficiale del Pascià di Tripoli, due o tre piccoli negozianti Tripolitani, uno scheriffo Marabotto detto Muley Hassen, che vantavasi di essere stato grande distruttore dei Francesi nella guerra d'Egitto; cinque in sei donne, e molti pellegrini che andavano alla Mecca, i quali erano tanto miserabili, che sembravano piuttosto avventurieri che cercassero di fare fortuna, che persone che andassero a soddisfare ai doveri della divozione.
L'aria del mare mi era così contraria che ogni tragitto ch'io facevo mi ruinava sempre più il temperamento: di modo che questa volta mi trovai estremamente male, avendo dovuto restare due giorni a letto. Il 29 potei alzarmi, ed avendo fatte alcune osservazioni astronomiche mi accorsi che in vece di tenere la strada d'Alessandria, ci eravamo alzati in maniera verso il N. che il bastimento stava per entrare nel mare Adriatico, sulla direzione di Corfù.
Prevenni il capitano dell'errore, ed egli fece cambiare direzione all'E. per cercare la costa della Morea, sulla quale giugnemmo dopo quattro giorni di calma. Si gettò l'ancora all'isola Sapienza in faccia a Modone.
Questo paese offre una spaventosa prospettiva; sembrando tutto squarciato da eruzioni vulcaniche. La base del terreno è un'argilla glutinosa assai tenace, ed il fondo del mare è della stessa specie di terra, per cui le ancore vi si attaccano con una straordinaria forza. Avevamo dato fondo a quaranta braccia dalla costa al N. dell'isola Sapienza, in venti e più braccia di acqua.
Si rimase cinque giorni all'ancora nella medesima posizione, e quantunque ammalato scesi un giorno a terra, e trovai che la latitudine settentrionale dell'isola in vicinanza al nostro ancoraggio era 36° 49′ 51″; ma la longitudine vuol essere meglio discussa. Osservai altresì la declinazione orientale dell'ago magnetico di 14° 27′ 0″, non rispondendo per altro della differenza di uno o due gradi, perchè la mia bussola sofferta aveva l'avaria d'un colpo di mare nel tragitto di Laraïsch.
L'isola della Sapienza può avere otto in dieci miglia di circonferenza: è formata di terra argillosa coperta di roccie calcaree; ed è tutta sparsa di piccole montagne e di colline. Mancante di ruscelli, di sorgenti, di pozzi, non ha che un poco d'acqua che si raccoglie quando piove in alcune cavità delle rupi; ma anche quest'acqua sempre malsana non conservasi in tempo d'estate. Veruna famiglia vi soggiorna stabilmente, e soltanto finchè vi si trova acqua vi si conducono alcune mandre di pecore e di capre, custodite da pastori greci vestiti di una specie di giubbone, e di un pajo di mutande di pelli dì montone non spogliate della sua lana. Sembrano sani e robusti, e nella ilarità del volto mostransi contenti della loro sorte: bella è la loro carnagione, ed il loro sguardo penetrante e vivo. Siccome non conoscono che il linguaggio del proprio paese, non potei legar con loro conversazione; ma parvemi che conservassero ancora un avanzo della politezza e della urbanità che formavano il carattere degli antichi Greci.
Da questa isoletta vedesi la città di Modone posta sul continente in riva al mare alla distanza di mezza lega al N. N. O. Vedesi pure a poca distanza dal continente un isolotto assai alto, sul quale i Russi avevano nell'ultima guerra piantata una batteria di ventiquattro cannoni per battere la città: io per altro non so persuadermi, che in uno spazio così limitato, comecchè opportunissimo all'oggetto, si potessero manovrare ventiquattro cannoni.
Noi restammo all'ancora; ed il capitano continuava a bevere largamente: in fine la mattina del sette febbrajo si spiegarono le vele con un vento d'O. Poco prima gli avevo indicata la direzione che doveva prendere per tenersi al largo dell'isola di Candia, e andare direttamente ad Alessandria. Promise di attenersi ai miei ricordi; ma egli aveva intenzione d'entrare nell'Arcipelago, e di dar fondo sotto qualsiasi pretesto nel porto di Canea, o di Candia. Perciò durante la notte mutò direzione all'E., ed in sul fare del giorno mi vidi in faccia alle isole di Cerigo e di Candia all'imboccatura dell'Arcipelago. Rimproverai al capitano un'operazione che doveva prolungar molto il nostro viaggio, del che scusossi, dicendo di non aver potuto fare altrimenti, e che non si poteva a meno di entrare nell'Arcipelago. In tale stato di cose ci sorprese una perfetta calma.
I molti capi e montagne della Morea coperte di neve, e le varie isole poste sull'ingresso dell'Arcipelago presentano una sorprendente veduta. Tutte le isole assai alte mi parvero composte della roccia medesima ond'è formata l'isola della Sapienza. Quella di Cerigo che domina l'ingresso dell'Arcipelago pare ben coltivata, e contiene molti villaggi. Trovavasi allora occupata dalle truppe Russe.
In sul cominciare della notte si levò un piccolo vento, che facendo temere al capitano l'avvicinamento della terra, volse la prora al mare, indi s'addormentò affatto ubriaco.
Il giorno dopo voleva entrare nell'Arcipelago; ma eravamo troppo lontani. Il vascello con piccoli venti, o contrariato dalle calme avanzava assai lentamente; ed essendo sopraggiunta la notte prima di arrivarvi, il capitano rinnovò la manovra del precedente giorno, lo stesso fece cinque giorni consecutivi: lo che non sarebbe accaduto, e noi saremmo entrati il secondo giorno nell'Arcipelago, se, vegliando una sola notte, avesse corso piccole bordate per tenersi nella sua posizione.
Un giorno si dubitò d'essere minacciati da un pirata; e si approntarono le armi, ma il pirata s'allontanò rispettando forse la portata del nostro bastimento, ed il ragguardevole numero di uomini da cui lo vedeva montato. Il labirinto delle isole dell'Arcipelago favorisce i progetti di questi assassini, che con deboli barche senza artiglieria, e con iscarsi equipaggi, ma ben armati e decisi, attaccano bastimenti assai considerabili: il nostro capitano ed il suo secondo avevano molti anni esercitato questo nobile mestiere. Allorchè un pirata s'impadronisce di un bastimento, annega d'ordinario tutto l'equipaggio, e chiunque si trova con esso, onde non si palesi il segreto; conduce poscia il bastimento in alcuno dei tanti porti deserti di cui abbonda questo mare, e colà si gode pacificamente la sua preda: lo che prova evidentemente che il governo Turco non è capace, o non si cura di distruggere tanta infamia.
Durante questa nojosa navigazione, eransi consumati quasi tutti i viveri e l'acqua: molti passeggieri non avevano più nulla da mangiare; ed eravamo tutti ridotti ad un ottavo di razione d'acqua.
In tale situazione i viaggiatori, ed i marinaj tanto più rattristati, in quanto che non sapevano vederne il fine, tenevano tutti rivolti gli occhi sopra di me: ma che potevo io fare con quell'imbecille di capitano, il quale in mezzo a tanta sciagura continuava ad ubbriacarsi e dormire?
Finalmente montai sul ponte, feci distribuire parte de' miei viveri, e somministrai denaro ad una quarantina di sventurati, onde potessero comperarsi i viveri da coloro che ne avevano. Riconfortata così alla meglio la gente; rimproverai acerbamente il capitano della sua condotta, che ci aveva ridotti in così trista situazione. Sentendo il suo torto e vergognandosi, voltò bordo al N. E., e facendo buona guardia tutta la notte, all'indomani 14 febbrajo rientrò in un piccolo porto dell'isola Sapienza, onde vettovagliarsi a Modone.
Questo piccolo porto, detto Porta-Longa è bello e ben chiuso con un isoletta alla imboccatura, ed un fondo eccellente: vi si può dar fondo fino a quaranta braccia dalla riva, ed ancora molto più vicino coi piccoli bastimenti. È capace di dodici o quindici vascelli di guerra che vi possono restare in tutta sicurezza in qualunque vento, perchè coperto da tutti i lati, e protetto da montagne.
La stessa sera entrò in Porta-Lunga un bastimento greco proveniente da Livorno.
La domenica 16 febbrajo io sbarcai a Modone piccola città sei in sette miglia lontana da Porta-Longa.
Tre grosse figure turche mi ricevettero alla dogana su la riva del mare, e mi colmarono di gentilezze, invitandomi a prendere il caffè, e mi offrirono una delle loro lunghe pipe che io rifiutai. Siccome nessuno di loro intendeva l'arabo, nè verun altro linguaggio da me conosciuto, non potei rispondere che con segni di riconoscenza alle lor gentilezze. Ci lasciammo reciprocamente soddisfatti, ed io entrai in città, ove mi era stata destinata una casa nella contrada principale.
La città di Modone può riguardarsi come una buona fortezza. Posseduta un tempo dagli Spagnuoli, poi dai Veneziani, fu successivamente fortificata da quelle due nazioni. E circondata da alte fortissime mura con torri provvedute di numerosa artiglieria, larghe fosse, controguardie, strade coperte, palificate, ec., ma ciò che in particolar modo difende i ponti levatoj e la porta di terraferma è un gran bastione fatto dai Veneziani, sulle di cui facce vedesi tuttavia il leone di San Marco. La città dalla banda di terraferma ha una sola porta, e due in sul mare. Vien detto che abbia inoltre un portello segreto che mette in campagna, e per il quale, mentre i Russi l'assediavano, i soldati turchi fecero una sortita, e batterono così aspramente gli assedianti, che furono obbligati a fuggire abbandonando tutta l'artiglieria, e gli altri effetti di campagna.
Non pertanto questa piazza ha il capitale difetto di essere dalla parte del N. dominata da una piccola altura, sulla quale può facilmente il nemico stabilire delle batterie in distanza di sole centocinquanta tese dal corpo della piazza, senza che questa vi si possa opporre, e di dove il nemico signoreggia una gran parte della strada coperta, e batte fino ai piedi della muraglia. Per ovviare a questo inconveniente, gli Spagnuoli fabbricarono un'altissima batteria nel corpo della piazza; e questa opera, benchè in parte danneggiata dal fuoco russo, esiste ancora in buono stato: ma in vece sarebbesi dovuto spianare il rialto esteriore, che pure non sembra cosa assai difficile. Imperciocchè finchè resta, le batterie che il nemico sarà sempre in libertà di stabilirvi, malgrado gli sforzi della piazza, riusciranno ben tosto a far tacere il fuoco degli assediati; ed in allora gli assedianti possono stabilirsi liberamente su la cresta della strada coperta, e battere in breccia.
Questa piazza è piena d'una immensa quantità d'artiglieria d'ogni calibro, d'ogni nazione, di tutte le età, ma questi pezzi sono tutti mal montati; la maggior parte senza carro, e posti soltanto in prospettiva.
Modone è abitato dai Turchi. Credo che possa contenere un migliajo di famiglie; e si vuole che abbia settecento soldati pagati dal Gran Signore. I pochi ch'io vidi mi parvero belli, bianchi, ben fatti, e sopra tutto ben equipaggiati, e ben vestiti. Le loro armi sono una piccola carabina, due pistole, ed il khanjear, ossia coltello. Vidi pochissimi cavalli, e questi ancora assai cattivi.
In tempo della mia dimora tutti gli uomini d'arme uscirono di città per dar la caccia ad una masnada di briganti che pochi giorni prima avevano sorpreso un villaggio, e scannati gli uomini, le donne, ed i fanciulli. Queste orribili scene sono sgraziatamente nella Morea assai frequenti; manifesto argomento della disorganizzazione del governo turco.
Modone circondato di alte mura, con strade anguste, e sucide sembrommi un soggiorno insalubre, perchè vi si respira un'aria inprigionata, ed infetta di cattivi odori. Ho inoltre osservato nella campagna che l'argilla forma un terreno pantanoso e disaggradevole, ed a questa cagione io attribuisco quell'apparenza di putrefazione che vedesi egualmente nei legumi e nelle frutta. Il pane molle, ed affatto nero rassomiglia perfettamente ad un pezzo di fango disseccato per metà; e la stessa disgustosa apparenza trovai perfino nella carne. Pure gli abitanti vi si conservano sani e con bei colori; vantaggi che potranno forse ascriversi alla molta quantità di vino che vi si beve: in proporzione più considerabile che in qualunque città d'Europa malgrado la proibizione della legge.
In città non sonovi fonti, ma soltanto pozzi, la di cui acqua non è bevibile, e quella che vi si beve vien portata dalle bestie da soma, e presa in un ruscello che scorre a breve distanza dalla città. Eranvi in altri tempi alcune fonti, ma ne furono minati i condotti.
Quasi tutte le muraglie sono fatte di pietre tagliate; le case sono pure di pietra, coperte di tegole all'usanza d'Europa, e le strade ben lastricate. Queste pietre sono di varie specie d'ardesia, di pietra calcarea, o di marmo grossolano. I palchi delle camere sono di legno. Le case hanno molte finestre verso strada fatte all'europea, e chiuse da griglie assai fitte. Alcune porte, ed alcuni archi che preludono qualche idea d'architettura sono tutte di stile greco, e nulla vi si vede che ricordi lo stile arabo.
In generale l'aspetto di questa città è trista assai. Il color cenericcio degli edificj, le tegole dello stesso colore, l'altezza delle mura, le sozzure che si lasciano nelle strade, il cattivo odore che n'esala continuamente, la cattiva qualità dei cibi, la scarsezza d'acqua buona, la povertà e la inazione assoluta degli abitanti che non hanno nè arti nè commercio, la reciproca loro diffidenza, le diverse loro sette sempre armate e sempre disposte a battersi, il cupo silenzio che domina la città, la pubblica ubriachezza, tutto concorre a dare a questa città l'aspetto di una dimora infernale: pure per le sue fortificazioni può risguardarsi come una piazza di second'ordine, come ancora per la sua posizione geografica, che è l'angolo S. O. della Morea, ed il passaggio dall'Arcipelago ai mari d'Europa. Ella ha pure nelle sue vicinanze eccellenti porti, che potrebbero renderla un emporio di commercio.
Trovai con una buona osservazione la latitudine settentrionale di Modone 36° 51′ 41″. Una cattiva osservazione precedente dava due minuti meno. La sua longitudine è quella dell'isola Sapienza che gli sta al S. Non mi fu possibile di osservarvi le distanze lunari.
Nel tempo del mio soggiorno la temperatura fu fredda, l'atmosfera quasi sempre coperta di nubi, e piovve spesse volte.
Sopra un isolotto distante poche tese dalla città vi è un castello, o torre ottagona, composta di tre piani gli uni su gli altri; ed il più basso è guernito di artiglieria. In questa torre abita il capitano del porto, e per passare dalla torre all'isola fu costruito una specie di molo.
Presso Porta a mare eravi anticamente un altro molo, di cui più non rimangono che le ruine.
Mal tenuto e meschino è il bagno pubblico. Sonovi molti caffè nei quali i Turchi sono continuamente occupati a bevere, a fumare, ed a giuocare a scacchi. Vedonsi nella strada principale diverse botteghe mal provvedute, e di cattivo aspetto.
L'unità monetaria che si usa a Modone, siccome in tutta la Turchia, è una piccolissima moneta d'argento, o di rame inargentato, che chiamasi para. Centoquaranta para equivalgono ad una piastra spagnuola.
Il Goeursch o piastra turca moneta della grandezza della piastra di Spagna vale quaranta para. È di rame con poca mistura d'argento.
Il Yuslìk dello stesso metallo vale cento para.
Il Mahboub del Cairo, moneta d'oro vale cent'ottanta para.
Il governatore di Modone la di cui autorità è sempre precaria, chiamavasi Mehemet Aga allora indisposto.
Il più influente abitante di Modone è certo Mustafà Schaoux, uomo ricco, che ha l'aspetto perfettamente di grossolano bandito. Esce sempre di casa armato di coltello e di pistole. Padrone del bagno pubblico, del grande caffè, e di tutte le biscazze della città e dell'isola Sapienza tiene l'Agà quasi confinato nel suo alloggio; ed il capitano del porto, che ugualmente lo teme, non osa d'entrare in città. Il gran caffè è un asilo sicuro per ogni delinquente. Dopo esservi entrato, non gli resta a temer nulla per conto della pubblica autorità finchè non sorte da quel sacro recinto.
Mustafà Schaoux proteggeva la pirateria nella sua isola. Era amico del mio capitano, e del suo secondo, che mi accompagnò dalla nave alla casa quando sbarcai. Poichè questi ebbe avvisato i doganieri che conducevami in una casa di Mustafà Schaoux, tutti chinarono il capo; mi si fecero singolari distinzioni, e fui spedito all'istante.
Pure questo Mustafà aveva di fresco sostenuta una guerra con una fazione sollevatasi contro la sua tirannia. Le ostilità durarono più mesi, i suoi partigiani assai numerosi eransi ritirati ne' suoi caffè e nelle sue case, di dove facevano fuoco sopra i nemici che uscivano dalle proprie abitazioni, ed osavano passeggiare per le strade. In fine trionfò e mantenne il suo dispotismo, che rinforzossi più che mai. Simili avvenimenti rinnovansi ad ogni istante nella maggior parte delle provincie sottomesse all'imperatore di Costantinopoli: onde non è difficile il prevedere che un tal'ordine di cose non può durare lungo tempo, e che quest'anarchia perpetua, queste parziali sommosse termineranno col distruggere l'impero de' Turchi.
Ho già detto ch'io ero alloggiato in una casa di Mustafà Schaoux. Suo fratello erasi incaricato de' miei affari, ed egli medesimo mi faceva continuamente la sua corte, ripetendo che Ali Bey era il primo uomo del mondo; volendo con ciò farmi sentire che la mia riconoscenza doveva essere proporzionata ai servigi, ed agli onori che mi rendeva.
Quest'uomo potente e feroce ha una figlia e due figli bevitori quanto il padre, ed egualmente grossolani e rossi; sicuro pegno della perpetuità di così nobile razza. La figlia dell'età di circa dodici anni venne tutta sola a recarmi la mia biancheria: entrando nella mia camera scoprissi intieramente il volto assai avvenente. Quando rientrò Mustafà gli chiesi perchè sua figlia avesse tanta libertà; mio caro Signore, mi rispose, noi non formiamo che una sola famiglia. Io mi mostrai grato alla distinzione che si compiaceva d'accordarmi.
Sul rovescio della collina che signoreggia la città è fabbricato il villaggio dei Greci, nel quale contansi a pena centocinquanta abitanti; e le loro case hanno l'apparenza dell'estrema miseria. Pure in questo luogo teneva la sua residenza il solo console straniero che trovavasi a Modone, quello di Ragusi. Era questi un uomo di gentili maniere; aveva seco un canonico, prefetto apostolico della Morea, personaggio istruito assai, e che nel suo lungo soggiorno di Roma aveva acquistata tutta la delicatezza dell'urbanità romana. Gli altri consoli Europei risiedono nella città di Corone distante un giorno di viaggio all'E. di Modone.
Tripolizza è la capitale della Morea in cui risiede il Pascià. Si pretende che la Morea racchiuda 88,000 Greci, e 18,000 Turchi. La popolazione Greca era in addietro infinitamente più numerosa; ma vessata di continuo orribilmente da' suoi brutali padroni, soffre ogn'anno una sensibile emigrazione. Continuando alcun poco ancora lo stesso ordine di cose, i Greci abbandoneranno affatto la terra de' loro padri. Se le virtù e le austerità de' costumi non salvarono la fiera Sparta dalla vergogna della schiavitù, quale mai nazione potrà lusingarsi d'esser libera!
La parte orientale della Morea forma un separato dipartimento, detto la Maïna, abitato da 30,000 abitanti. Questo dipartimento è sempre l'appanaggio del Capitan-Pascià della Porta Ottomana, che lo governa a suo capriccio, e ne percepisce tutte le rendite.
CAPITOLO XXIII.
Porta-Longa. — Bastimenti Europei. — Ipsilanti. — Continuazione del viaggio. — Burrasca. — Arrivo in Alessandria. — Uragano. — Spaventosa burrasca. — Arrivo a Cipro. — Pessimo stato del bastimento. — Sbarco a Limmassol.
Io rimasi a Modone fino al 20 febbrajo dì sera, quando il capitano mi avvisò d'essere pronto a partire. Perciò entrai nella scialuppa che mi condusse a Porta-Longa, ove trovai tre bastimenti austriaci, i di cui capitani mi diedero all'indomani una piccola festa.
I venti d'E. ci obbligarono a restare tre giorni in quel porto della costa orientale dell'isola Sapienza. Due esatte osservazioni fatte in terra mi diedero la latitudine settentrionale di 36° 46′ 37″.
In questo frattempo si approvisionò la nave di viveri presi a Modone, come pure d'acqua piovana raccolta nell'isola.
Nell'ultimo giorno entrarono in porto una grande ourca Russa armata, ed un altro bastimento procedente da Napoli e da Corfù, i quali portavano ufficiali e soldati Russi sulle coste del Mar Nero.
Vennero a visitarmi un general maggiore ed alcuni ufficiali. Il generale parvemi un buon uomo; era vestito di nero, con una piccola berretta di cuojo in capo dello stesso colore, ed una corona composta d'una dozzina di grani grossi come una noce che teneva in mano. Gli ufficiali avevano tutti presa l'aria e le maniere inglesi. Erano accompagnati da un Greco, chiamato Costantino Ipsilanti, nipote del famoso principe di tal nome. Questo giovane che aveva servito in qualità d'ufficiale nelle guardie vallone di Spagna, mi parve un dizionario poliglotto ambulante, perciocchè parlava e faceva versi in dieci o dodici lingue. Io l'udii parlare inglese, francese, spagnuolo, italiano assai bene: sgraziatamente per altro con tante cognizioni e talenti, le sue idee erano frequentemente confuse.
Poichè si ritirarono, io mandai loro un piccolo regalo di latte, e di rinfreschi, cui corrisposero con una scarica generale dell'artiglieria dei due bastimenti. Ipsilanti mi spedì i seguenti versi:
«Volerà di lido in lido
La tua gloria vincitrice,
E d'oblio trionfatrice
La tua fama viverà.
«E non solo in questi boschi
Sarà noto il tuo coraggio
Ma ogni popolo più saggio,
Al tuo nome, al tuo valore
Simulacri innalzerà.»
«In segno di verace stima
e profondo rispetto
«L'infimo sì, però servo sincero
Costantino Ipsilanti.»
Se come pare questi versi improvvisati sono suoi, può riguardarsi il Greco Ipsilanti come l'uomo attualmente più istrutto della sua nazione.
All'indomani mattina 21 febbrajo si mise alla vela per continuare la nostra navigazione al S. O., avendo il capitano alla fine risolto di passare al largo di Candia senza entrare nell'Arcipelago.
Il vento di N. O. cominciò a rinfrescarsi a mezzodì, e verso sera erasi cangiato in decisa burrasca. Si corse tutta la notte, ed il susseguente giorno con colpi di mare terribili; ma in su le nove della sera il vento calmossi alquanto, ed il pericolo cessò.
Moderati furono i venti del susseguente giorno benchè il mare continuasse ad essere grosso. Io trovavami in un estremo stato di debolezza; niente potendo mangiare o ritenere nello stomaco, e vomitando sangue. Quasi tutti i passeggieri trovavansi egualmente ammalati, e nel più compassionevole stato. Il capitano peggiorava i nostri mali prolungando il tragitto, perchè faceva di notte piegar le vele onde poter dormire a suo agio, dopo aver passata un'ora a cantar canzoni in onore di Bacco in mezzo alle bottiglie; ciò che non lasciò di fare in tempo di burrasca. Io non avrei mai creduto d'incontrarmi in un capitano Turco così dedito all'ubbriachezza, e così poco guardingo nel celarla. Molte volte pregavami di alzarmi per osservare la nostra posizione, perchè egli non teneva verun conto di stima, nemmanco per approssimazione; e trovavasi come un cieco in alto mare senza sapere da qual parte andare: cosa che faceva disperare i passeggieri, onde mi pregavano tutti a levarli da tanto imbarrazzo.
Portato a guisa d'un moribondo su le spalle di alcuni uomini veniva spesso sul ponte. E perchè non avevasi veruna stima della nostra posizione, feci varie osservazioni del Sole e di Venere, e per approssimazioni successive, fui a portata di determinare con esattezza il nostro punto, che trovai di già ben vicino ad Alessandria. Tale notizia rincorò tutti i passaggieri.
All'indomani mattina 3 marzo avendo trovato che la nostra longitudine era vicinissima a quella di Alessandria, feci drizzar bordo al S. per trovar terra. Si scoperse infatti prima di mezzogiorno, e da quest'istante la gioja fu universale. Ma perchè è una spiaggia assai bassa ed uniforme, non trovavo verun punto che me la facesse distinguere.
Osservai la latitudine meridionale, e la trovai quasi affatto la stessa di quella d'Alessandria. Feci girar di bordo all'E. con vento fresco di N. O. che ci faceva avanzare gagliardamente.
Ad un'ora e mezza si scopri Alessandria in faccia a noi. Due ore dopo eravamo già presso al porto; e le case sembravano tanto vicine da toccarsi colla mano: tutti saltando per allegrezza, si vestivano, e disponevansi a scendere a terra; già preparavansi le ancore.... Nel medesimo istante in cui afferravamo la bocca del porto col vento più favorevole, uno spaventoso colpo d'uragano colpisce la nave ed impietrisce il capitano.
Il suo secondo, ed i marinaj si ostinano a voler entrare in porto; il capitano vi si oppone, si fa ubbidire a colpi di bastone, e correndo sul ponte rimette la prora al mare. Si scongiura di prendere l'altro porto d'Alessandria, o quello d'Aboukir: ma sordo alle preghiere riprende il mare, e ci porta in seno alla burrasca la più orribile che immaginar si possa.
La furia del vento e delle onde s'accrebbe a segno che verso sera tutti i passeggieri si credettero perduti, e già imploravano ad alte grida la Divina misericordia. Salii sul ponte, e vidi uno spettacolo d'orrore. Le onde più alte assai del vascello venivano le une sulle altre a rompervisi contro; e formavano come una specie di nebbia densa, che a traverso dalla incerta luce del crepuscolo confondeva la vista del cielo con quella del mare; tutti gli oggetti sembravano d'un color grigio che piegava al rossiccio; le vele erano squarciate, il bastimento faceva acqua da tutte le parti, e le pompe non bastavano per diminuirne la quantità. La maggior parte de' passeggieri tremanti, sembravano moribondi; molti marinai erano feriti, sia pei colpi loro dati dal capitano, sia per le cadute ed i colpi della manovra. Il bastimento era raggirato come una palla da giuoco tra i due elementi che lo battevano. Tale fu io spaventoso quadro che s'offerse a' miei occhi. Il capitano mi s'avvicinò colle lagrime agli occhi, e mi disse; che potrei io fare, Sedi Alì Bey? Se è volontà di Dio che noi moriamo qui, questa notte, che andiamo noi ad essere?.... Io gli risposi soltanto: Ah! capitano.... e non volli proseguire, perchè la cattiva sua condotta, e la sciocca sua ostinazione ne avevano condotti a tale estremità, ch'egli avrebbe potuto schivare entrando in uno dei porti d'Alessandria, o meglio ancora s'egli avesse vegliato la precedente notte; nel qual caso saremmo entrati in porto avanti il mezzogiorno.
Questa terribile burrasca si andò alquanto calmando in sul cominciar della notte. Così urgente pericolo non impedì al capitano di chiudersi nella sua camera, ove poich'ebbe bevute alcune bottiglie di vino s'addormentò così tranquillamente come se fosse stato all'ancora. Lo stesso fece il suo secondo poich'ebbe fatto assicurare il timone. I marinai stanchi e senza capo, sparirono l'un dopo altro andando per dormire sotto coperta. Io rimasi sul ponte con un marinajo maltese e due napolitani. Quale spettacolo presenta una nave della grandezza di una fregata, sbattuta da violenta burrasca, facendo acqua in ogni lato, senza capitano, senza piloto, senza marinaj, col timone attaccato, e totalmente abbandonata al furore dei venti e delle onde!
Alle dieci ore della sera il vento rinforzò ancora, ed i colpi di mare si resero più gagliardi e più frequenti. Vedendo che la burrasca prendeva nuovo vigore, ero preparato ad una crisi terribile nell'atto del passaggio della luna per il meridiano; e non potendo assolutamente contare sul capitano, nè sull'equipaggio, ritenni ogni cosa perduta.
Alle undici ore la luna passò il meridiano, crebbe la burrasca, ed a mezzanotte era più orribile che mai. Malgrado la luna, ci trovavamo tra le più dense tenebre; montagne di flutti ne coprivano di quando in quando, e la pioggia, e la grandine alternavano col furore del mare. I lampi illuminavano questa scena d'orrore, ma non si udiva il fracasso del tuono, reso nullo da quello delle onde somigliante al ruggito di mille lioni e tori; e per colmo di sventura il bastimento, in tale estremità era, per così dire, abbandonato dal capitano e dall'equipaggio!... Io mi trovavo affatto debole, ed omai fuori d'ogni speranza di salvezza: ma la considerazione che vent'anni di vita più o meno passano come un sogno, ed alcune altre riflessioni calmarono il mio spirito; e rimasi alcun tempo aspettando tranquillamente il fatale istante.
La burrasca continuava colla medesima forza. Vidi più volte cadermi il fulmine vicino, e parvemi ancora di averlo altra volta osservato guizzar dal mare verso le nubi. Ottenni intanto di risvegliare il secondo ed alcuni marinaj, i quali cominciarono a pompar acqua, mentre il secondo ch'era un uomo colossale, preso il timone, cercava di presentar la prora alle onde: queste due operazioni furono assai utili. Finalmente alle due ore dopo la mezzanotte vidi innanzi alla prora risplendere una fiamma che parvemi avesse tre piedi di diametro; ma perchè non potevo calcolarne la distanza non mi fu possibile di conoscerne l'effettiva grandezza. La sua esplosione si eseguì senza lampo e senza apparente movimento; la sua luce brillante come il sole durò tre in quattro secondi. La figura di questa meteora parvemi quella d'un sacco che si vuota, e di cui si svolge la tela. Turchino e rossastro fu l'ultimo raggio di luce.
Lo sparire della meteora fu seguito da un orribile colpo di mare, di vento, di grandine, che durò fino alle tre ore. Allora la tempesta cominciò a scemarsi quantunque fosse ancora assai violenta fin dopo il levarsi del sole; continuando a mantenersi tutto il giorno il vento N. O., e l'onda grandissima.
Il cinque di marzo poi ch'ebbi osservata la mia posizione, il capitano decise che non potevasi arrivare ad Alessandria; e risolse di passare a Cipro. Diressi perciò la nave a quella volta, ed in tre giorni di navigazione con venti sempre furiosi, ed il mare grossissimo, si diede fondo nella rada di Limmassol nell'isola di Cipro il 7 marzo 1806.
Come potrei io descrivere il miserabile stato del nostro bastimento? Tutte le vele squarciate, e senza averne di cambio; il corpo faceva acqua in ogni lato a segno che le pompe dovevano sempre essere in azione; tutte le genti ammalate; venti che sembravano prossimi a spirare: uno era morto il giorno 4, ed il suo corpo era stato gettato in mare, un altro morì il giorno che si prese porto, due altri erano agonizzanti, e due impazziti. Gli uomini dell'equipaggio ajutandosi a vicenda per iscendere a terra fuggirono tutti lasciando il capitano a bordo con tre o quattro marinaj turchi. Tutti ci affrettammo di sbarcare. Gli abitanti in vista dell'infelice stato del bastimento, se ne allontanarono: niuno voleva montare a bordo; e fu duopo che il governatore della città ordinasse ad alcuni calafattaj di chiudere almeno le principali aperture del carcasso per salvar la nave, che faceva temere di colare ben tosto al fondo.
Si pretese che la cattiva acqua dell'isola Sapienza avesse pregiudicata la salute della nostra gente, e che il vapore di alcuni quintali di zafferano avesse viziata l'aria del bastimento: ma il peggio di tutto fu, che in molti giorni che fummo agitati dalle burrasche, furonvi sempre più d'ottanta persone chiuse sotto senza la menoma apertura per respirare: tutti eravamo tristi ed abbattuti non avendo altro che pochi cibi freddi, e gli escrementi di tante persone gettate in fondo alla cala. Da ciò è facile l'immaginarsi lo stato di quegl'infelici. Rispetto a me, fortunatamente la camera di poppa ov'io ero solo, non aveva comunicazione colla sotto coperta.
Allorchè sbarcai a Limassol mi si presentarono alcuni Turchi e Greci; ai quali avendo chiesto un alloggio, mi condussero in una bella casa, di cui ne presi possesso coi miei domestici. In seguito venne ad offrirmi i suoi servigi il governatore turco che è un agà, e spedì due scialuppe con un ufficiale per isbarcare i miei effetti, che alla dogana non furono visitati. In ogni cosa fui trattato con quella delicatezza che avrei potuto desiderare nella più cortese città d'Europa.
Colui che qui aveva cura de' miei affari era il più ricco greco, Dometrio Francondi, allora vice console d'Inghilterra, e di Russia, e console di Napoli: parlava assai bene l'italiano, ed era egualmente rispettato dai greci, e dai turchi.
Era alloggiato in sua casa un inglese chiamato il sig. Rich, che risiedeva al Cairo, come egli diceva, per amministrarvi gli affari della compagnia delle Indie. Questo giovane preveniente che parlava senza stento il turco, ed il persiano, ed aveva adottati gli usi e le costumanze mussulmane mi accompagnava spesso a pranzo, e parlavami sempre con entusiasmo di Mamlouk Ali-Bey.
Trovavasi pure presso il sig. Francondi un eunuco nero, ch'era uno dei quattro capi del serraglio del Gran Signore: chiamavasi Lala, e si recava alla guardia del sepolcro del Profeta a Medina. Allorchè arrivò a Limassol rimase mortalmemte ferito da alcuni soldati, che avevano attaccato uno de' suoi domestici; e questo uomo dotato del più dolce carattere che mai possa immaginarsi, perì vittima di tale accidente.
Uno de' miei domestici era ammalato in conseguenza delle fatiche sofferte sul bastimento. Eranvi nella moschea molti altri sventurati nello stato medesimo.
Il 21 marzo morì una delle donne ch'erano sulla nave, il 25 si perdette un altro passeggiere, ed un altro mio domestico ammalossi il giorno 23.
CAPITOLO XXIV.
Viaggio a Nicosia. — Descrizione di questa città. — Architettura. — Visite d'etichetta. — Arcivescovi, e Vescovi. — Tributi dei Greci. — Donne. — Ignoranza. — Chiese Turche. — Moschee.
Trovandomi nel paese reso famoso dalle descrizioni che fecero i poeti delle gentili avventure della madre d'Amore, volli visitare i siti più celebri di Citera, d'Idalia, di Pafo, d'Amatunta, accompagnato soltanto dal sig. Francondi, da suo figlio, e da quattro domestici. Il 28 marzo 1806 partii alle cinque del mattino, prendendo la strada all'E.
Appena passato il fiume d'Amatunta che scorre al S. per isboccare poco dopo in mare, trovai in riva al mare stesso le ruine della città, di cui vedremo più sotto la descrizione. Di là seguendo la stessa direzione al N. O., entrai nelle montagne, ove a mezzogiorno fui sorpreso dalla burrasca, ed all'un'ora e un quarto giunsi al villaggio di Togui.
Il paese attraversato questo giorno offre le più ridenti prospettive. Da Limassol alle ruine la strada costeggia il mare, e la terra offre piccole pianure dolcemente inclinate che vanno a terminarsi in amene colline coperte di un bel verde. Al di là delle colline innalzasi una catena di alte montagne, le di cui cime erano coronate di neve. Il suolo formato di una terra vegetabile rossiccia è fertilissimo.
Le montagne attraversate dalla strada hanno un pendio assai dolce, e la più rigogliosa vegetazione anima questo grazioso paesaggio.
Il villaggio di Togui, le di cui case sono brutte, e mal fabbricate, trovasi in una pittoresca situazione sul declivio di due colline, abitata l'una dai greci, l'altra dai turchi. Passa tra le due colline un piccolo fiume sotto un ponte d'un solo arco, sopra il quale è fabbricata la chiesa de' greci dedicata a S. Elena.
Il 23 marzo partii alle sette ore ed un quarto, seguendo sempre la direzione dell'E., un'ora dopo si attraversò il fiume Scarino, che scorre al S., ed alle tre ore un altro fiume che va dalla stessa banda.
Alle nove e mezzo la strada piegò al N E., s'incominciò a salire sulle alte montagne. Si giunse alla sommità alle undici, e discendendo per un dolce pendio si attraversò mezz'ora dopo un villaggio, chiamato Corno, ove si entrò a mezzogiorno nel monastero greco di Aià Tecla (Santa Tecla).
Sortendo dal monastero ad un'ora e mezzo mi diressi al N. N. O. Alle due si guadò un piccolo fiume, e dopo un altro mi lasciai alle spalle il villaggio Traforio posto a piccola distanza dalla strada. Proseguendo trovammo a destra altro villaggio detto Tisdarchavi, ed attraversato un torrente, si giunse alle sei ore, tenendo sempre la stessa direzione, nella città di Nicosia capitale dell'isola.
Il paese ci presenta in principio piccole montagne fatte a scaglioni, e coperte di freschissima verzura, che ad ogni tratto ci offrivano ridenti prospettive veramente degne dell'amabile divinità cui era consacrata l'isola. Il suolo è composto di una eccellente terra vegetabile, quale potrebbe desiderarsi per un giardino. Le alte montagne sono formate da una roccia cornea a varie degradazioni di color verde, dal verde pomo fino al verde cupo; e vi si trovano ancora dei pezzi di cornea assai bella, e lucidissima.
Fermai un'istante il mio cavallo per esaminare queste roccie. Il sig. Francondi mi disse: queste roccie chiamansi Rocche di Corno. Gli chiesi, com'erasi formato tal nome, ed egli mi rispose; da un luogo che vedremo tra poco. È questo quel luogo di cui feci cenno nel descrivere la strada. Se è accidentale quest'incontro del nome vernacolo d'un villaggio colla denominazione mineralogica, sarebbe assai singolare; e nel contrario supposto qual mineralogista avrà fondato, o denominato così il villaggio di Corno? Sulla origine di questo villaggio non poterono darmi veruna notizia, lo che è una prova della sua antichità. Può avere, a dir molto trenta case, ma la sua posizione in mezzo ad una valle coperta d'ulivi e di cavoli è veramente deliziosa. Gli abitanti sono quasi tutti fabbricatori di stoviglie.
Queste montagne sono tutte sparse di cipressi selvaggi che formano macchie assai graziose. Quest'albero indigeno di Cipro, ne ha pure ricevuto il nome. Tra gli strati di roccia cornea vedonsi alcune vene e piccoli filoni di quarzo; ma non mi riuscì di vedervi verun indizio di granito. Che tali montagne siano metallifere, ne fanno prova la mica ch'esse contengono, e gli ossidi di rame e di ferro.
Dopo avere attraversato due ore dopo mezzogiorno un ruscello si entrò in un piano di una cattiva terra argillosa. Il piano può avere una lega di diametro, ed è chiuso all'E. da montagnette di pura argilla bianca, affatto sterile ed ignuda. Trovasi in sull'uscita di questo piccolo deserto un poco di terra vegetale, ma d'inferiore qualità. Tutte le pianure seguenti non presentano nè la fertilità, nè la bellezza della parte meridionale dell'isola.
Il monastero di Santa Tecla è in una ridente situazione sul pendio delle montagne cornee. Vi abita un solo monaco con molti domestici, e lavoratori che coltivano le terre del monastero. L'Arcivescovo di Nicosia, vero principe dell'isola, gode le entrate di questo monastero e di molti altri. Sotto alla chiesa di Santa Tecla sorge una fonte di eccellente acqua. La chiesa è ben tenuta; è nel monastero vi sono celle, ed abitazioni pei viaggiatori.
L'estensione di Nicosia, capitale dell'isola, la renderebbe capace di centomil'abitanti; ma è spopolata affatto: vi si vedono in vece di case molti orti assai vasti, e molti tratti di terreno ingombrati di ruine. Mi fu detto che attualmente non aveva più di mille famiglie turche, ed altrettante greche.
Questa città, posta sopra un rialto di alcuni piedi in mezzo ad un vasto piano, gode di un'aria purissima e di una amena vista. Scoscesa è la circonferenza del rialto, che serve di muro alla città con parapetto di pietre tagliate, e mezze lune ad angoli salienti e rientranti, di modo che è suscettibile di regolare difesa, ciò che gli dà un'importante aspetto. Ha tre porte dette di Pafo, di Chirigna, di Famagosta. L'ultima è magnifica essendo formata di una volta cilindrica che copre tutta la salita dall'inferior piano della campagna fino al superiore ov'è posta la città. A metà della salita v'è una cupola compressa, o segmento di sfera, nel centro della quale trovasi una fenestrella circolare per ricevere la luce. Questo monumento tutto formato di pietre tagliate, e di marmo comune rammenta l'eccellenza della greca architettura. La parte di città abitata dai greci non è affatto priva di belle strade; ma tutte le altre sono anguste affatto, ed inoltre sucide. e non selciate. Vedonsi alcune case molto belle, ed alcune ancora assai grandi. Quella in cui io alloggiai, e che apparteneva al dragomano di Cipro primo impiegato della nazione greca nell'isola può dirsi un vero palazzo, ed è vagamente ornata di colonne, di giardini, di fontane.
Qui gli edifici sono costrutti affatto diversamente da quelli di Barberia: colà non ricevono luce che dalla porta, qui per lo contrario non vedesi muro interno od esterno che non abbia due ranghi di finestre poste le une sopra le altre, ed in tanto numero, che nella camera da me più frequentata, la quale aveva 24 piedi in lunghezza sopra dodici di larghezza, se ne contavano quattordici oltre la porta. Il superiore ordine di finestre è chiuso da una griglia esterna, ed internamente di vetri: le inferiori hanno griglie, vetri ed imposte. Questa disposizione produce un buon effetto in case che hanno il tetto assai alto; e non devo dimenticar di dire che anche i muri di separazione, hanno le loro finestre come gli esterni. I corritoi o gallerie sono egualmente provvedute di griglie.
Il tetto ed una parte della scala sono fatti di legno; di marmo i pavimenti di tutte le camere, come pure i pilastri delle porte e delle finestre, ed il primo filare delle case: il rimanente delle muraglie è fatto di sassi comuni, di mattoni malcotti, e di calce. Il coperto non è di tegole, è piano, ed assai pesante: ed è forse a questa dannosa pratica che si deve imputare la distruzione di tutti gli antichi edificj, de' quali non altro rimane al presente che il palazzo, il quale vien chiamato Scraya, ossia Serraglio, monumento vasto e mal distribuito ove dimora il governatore generale dell'isola.
L'antica cattedrale d' Aïa Sophia (Santa Sofia), grandioso fabbricato gotico, fu ridotto in moschea di turchi, che coprirono le colonne con un grosso strato di calce, onde sembrano mostruosi cilindri: vi aggiunsero due torri assai ben fatte, ma discordanti affatto dal totale della fabbrica.
Perchè la legge ordina di pregare volgendosi verso la Mecca, non essendo questo tempio stato fatto pel culto mussulmano, si dovette nell'interno del medesimo alzare delle facciate o frontispicj di legno, posti obliquamente nella direzione della linea della Mecca, onde poter pregare nella situazione prescritta.
Tutti i Vescovi dell'isola erano venuti a Nicosia per ricevervi il nuovo governatore generale; e vi si trovavano egualmente molti de' più distinti personaggi dell'isola.
All'indomani del mio arrivo venne a trovarmi il Vescovo di Lamarca accompagnato da numerosa comitiva. Lo conobbi uomo di buon senso, di molto giudizio, ed assai istruito.
Il susseguente giorno accolsi la visita del Vescovo di Pafo, che quantunque giovane, mi parve assai destro, l'altro Vescovo di Chiriga, era gravemente indisposto.
L'Arcivescovo ritenuto dall'estrema sua vecchiaja, e dai dolori della gotta, mi mandò il suo Vescovo in partibus che ne fa le veci; il quale venne a trovarmi accompagnato dall' archimandrita, dall'economo, e da altri cinquanta preti. I tre dignitarj mi fecero mille scuse in nome dell'Arcivescovo, che malgrado il suo stato, voleva assolutamente farsi trasportare, se non n'era impedito.
Tra le molte riguardevoli persone, che mi frequentavano, distinsi in particolar maniera il sig. Nicolao Nicolidi, incaricato della dragomania di Cipro in assenza del Dragomano. Egli parla con tanta eloquenza anche improvvisamente, ch'io gli diedi il soprannome di moderno Demostene.
Il terzo giorno andai a visitare il governatore generale, che mi ricevette in grande cerimonia, circondato da molti ufficiali, soldati, e domestici armati fino ai denti. Alla porta della sala eravi una sentinella in piedi con una scure in ispalla.
Il governatore si alzò per ricevermi, e mi fece sedere al suo fianco sopra un magnifico sofà. Lo trovai uomo di spirito, pieno di fuoco, e mi fu detto ch'era assai colto. La conferenza che fu molto lunga, s'aggirò specialmente intorno ad oggetti politici. I signori Nicolidi e Francondi, che mi avevano accompagnato, mi servirono da interpreti, perchè il governatore non parlava l'arabo, nè alcuna lingua europea, ed io non intendeva la turca. Il governatore riccamente vestito, aveva una superba pelliccia. Gli fu recata la sua pipa persiana, che presentò a me, ed io rifiutai per non essere avvezzo a fumare. Sei paggi dell'età di quindici anni, di bella e vantaggiosa statura, doviziosamente vestiti di raso, e di finissimi scialli cachemiri servivano di caffè; ed in appresso mi profumarono e mi spruzzarono d'acqua di rose. Partendo, il governatore volle accompagnarmi fino alla porta dell'appartamento.
Passai in seguito nella camera d'un suo fratello, che è un buon vecchio: ci fece anch'egli servire di caffè, e si accese d'entusiasmo per me quando seppe ch'io mi disponeva a fare il viaggio della Mecca, ov'egli era stato più volte. Mi diede alcuni consigli, e ci separammo egualmente contenti l'uno dall'altro.
Terminata la visita al serraglio passai al palazzo dell'Arcivescovo. Trovai alla porta l'archimandrita e l'economo, con venti in trenta domestici per ricevermi. A piè della scala fui preso da molti preti, e portato fino alla prima galleria, ove mi ricevette il Vescovo in partibus, con molti altri preti. Nella seconda galleria trovai l'Arcivescovo. Questo venerabile vecchio quantunque avesse le gambe straordinariamente enfiate, erasi fatto colà trasportare dal Vescovo di Pafo, e da cinque o sei altre persone, per venirmi incontro. Gli feci degli amichevoli rimproveri per essersi presa tanta pena, e presolo per mano lo seguii nella sua camera.
Il dottor Brunoni medico italiano domiciliato a Nicosia, il quale aveva tutte adottate le usanze, i costumi, e le greche maniere, mi servì d'interprete. È questi un uomo di bell'umore, accorto assai, e senza verun pregiudizio.
Il venerabile Arcivescovo mi fece il racconto delle violenti vessazioni sofferte nel precedente anno dai turchi ribelli dell'isola; ed io procurai di consolare questo cuore ancora esulcerato dalle recenti ingiurie. Si parlò assai intorno a ciò, e dopo i consueti onori del caffè, de' profumi, e dell'acqua nanfa, ci separammo presi da vicendevole affetto.
Visitai in appresso nelle loro abitazioni l'economo e l'archimandrita, ove trovai pure il Vescovo di Pafo, ed il Vescovo in partibus. Ma quale non fu la mia sorpresa, allorchè sortendo vidi ancora il venerabile Arcivescovo nella galleria, ov'erasi fatto condurre per darmi un'ultimo addio! Non saprei dire quanto mi toccasse questo tratto del venerando vecchio. Volli fargliene un dolce rimprovero, ma la parola si spense sulle mie labra.
L'Arcivescovo di Cipro patriarca indipendente in seno della chiesa greca, è inoltre il principe, o capo supremo spirituale e temporale della nazione greca nell'isola. Egli risponde verso il Gran Signore delle imposte e della condotta de' Ciprioti greci. Per non entrare nelle particolarità degli affari criminosi, e per iscaricarsi di una parte del governo temporale, ha delegati i suoi poteri al dragomano di Cipro, il quale in forza di tale delegazione è diventato la primaria autorità civile: egli trovasi per il rango e per le attribuzioni eguale ad un principe della nazione, perchè il governatore non può far nulla contro un greco senza la partecipazione e l'intromissione del dragomano, che trovasi pure incaricato di portare a' piè del trono del Gran Signore i voti della nazione.
Eravi stata l'anno avanti nell'isola una gagliarda sommossa de' turchi contro il dragomano. Essendosi costoro impadroniti di Nicosia vi commisero infinite atrocità contro l'Arcivescovo e contro gli altri greci, uccidendo coloro che rifiutavansi di dar loro del danaro. Il dragomano fuggì a Costantinopoli, ove non solo vinse la causa in favore dei greci, ma ottenne ancora l'ordine di far marciare un pascià con truppe della Caramania, contro i ribelli ch'eransi chiusi in Nicosia.
In così difficile situazione l'economo fu l'angelo tutelare della nazione, essendo riuscito coi suoi talenti a calmare alquanto il furore dei faziosi.
Dopo varj combattimenti questi entrarono in trattative col pascià, il quale per l'intromissione di alcuni consoli europei, promise di non castigarli. A tale condizione i ribelli aprirono le porte della città: ma senza aver riguardo alla data fede, il pascià appena entratovi ne fece decapitar molti.
Questo avvenimento umiliò i turchi dell'isola, ed incoraggiò i greci che affettano una certa qual'aria d'indipendenza. Il dragomano trattenevasi tuttavia a Costantinopoli; ma se io non potei conoscerlo personalmente, le sue opere da me vedute lo fanno conoscere per un uomo dotato di spirito e di talento.
Ho di già fatto osservare che in ciò che spetta allo spirituale l'Arcivescovo di Cipro è patriarca indipendente: e perciò egli non ha veruna relazione col patriarca di Costantinopoli, ma bensì con quello di Gerusalemme per rispetto ai luoghi santi, i di cui sacerdoti possedono alcune proprietà nell'isola.
L'Arcivescovo conferisce i vescovadi e le altre dignità, ed impieghi ecclesiastici dietro la presentazione del popolo; ed accorda le dispense matrimoniali ne' gradi proibiti.
L'Arcivescovo, i Vescovi, e gli altri grandi dignitarj non possono ammogliarsi: ma viene permesso d'aver moglie ai semplici sacerdoti secolari, i quali la sposarono avanti di diventar preti: e se questa muore non possono passare a seconde nozze. L'attuale Arcivescovo è vedovo, ed ha un figlio. I monaci sono a perpetuità obbligati al celibato.
L'insegna distintiva de' preti consiste in una berretta di feltro nero, angolare per gli ammogliati; rotonda in forma di cono rovesciato per i celibatarj, e per i monaci. I Vescovi hanno il distintivo di un piccolo nastro violetto intorno al capo, e vestono frequentemente una stoffa dello stesso colore. Gli altri preti sono per lo più vestiti di nero.
I greci sono subordinati assai e rispettosi verso i loro Vescovi: quando li salutano, si prostrano, si cavano la berretta, gliela presentano rovesciata; e quasi in presenza loro non osano parlare. Vero è che i Vescovi sono come punti di riunione per questa nazione schiava, e quelli cui devono la loro qualsiasi esistenza; e quindi l'interesse loro proprio vuole che diano ai prelati quella importanza politica che i medesimi turchi riconoscono, se dobbiamo giudicarlo dal modo con cui questi li trattano, e per la deferenza, e, dirò ancora, per il rispetto che gli dimostrano. Nelle loro case, i Vescovi spiegano un lusso principesco, non sortendo mai senza un numeroso seguito; e facendosi portare quando ascendono una scala.
I greci pagano al Vescovo la decima e la primizia de' frutti, gl'incerti, le dispense, ed altre molte elemosine.
Siccome questi principi riscuotono le imposte della nazione per pagare al governo turco l'ordinario tributo, ciò dà luogo tra di loro ad una specie di monopolio. Il governo turco non potè mai sapere con precisione il numero de' greci dell'isola. Essi confessano un totale di trentaduemila anime: ma le persone istruite portano la popolazione greca a centomila. Nel precedente anno il governo aveva mandato un commissario per fare il censo esatto della popolazione greca, ma questi fu guadagnato coll'oro, e partì senza far nulla. Quest'amministrazione delle imposte produce ai capi un immenso guadagno; ed il popolo soffre in silenzio per timore di peggio.
I greci pagano al governo il tributo di cinquecentomila piastre all'anno per il soldo della guarnigione di quattromila soldati turchi; numero ben lontano dall'essere giammai compiuto. In oltre il Gran Signore percepisce ancora due in trecentomila piastre sull'esportazione dei cotoni, ed altri prodotti dell'isola. Tali somme riunite a quelle che il governo generale, ed i governatori particolari esigono, possono portare le imposizioni ad un millione di piastre che i Ciprioti greci pagano ai turchi. Ma i Vescovi, e gli altri capi della nazione ne percepiscono assai di più.
I greci non sono meno gelosi dei turchi; e tengono le donne loro in luoghi così appartati, che non è possibile di vederle. Quelle che io scontrai sulle strade erano coperte ed avviluppate in una tela bianca, come le donne turche; e non si vedono a viso scoperto se non le vecchie, e le deformi affatto. Il loro abito non è senza eleganza: ma dispiacemi assai una specie di berretta in figura di cono ch'esse portano in capo. Rispetto agli uomini sono generalmente ben fatti, ed hanno una bella tinta. I ricchi portano sempre degli abiti lunghi come i turchi, dai quali non si distinguono che pel turbante turchino; e molti ne hanno pure di altri colori, e perfino di bianchi, senza che i turchi gli muovano querela. In generale osservai, che tutti i greci dell'isola, non esclusi i pastori, i giornalieri, ed i poveri, erano decentemente vestiti.
Mancando i greci di scuole pubbliche nell'isola per istudiarvi le scienze sublimi, sono assai poco istruiti. Pure si fa ancora travedere l'antico spirito de' loro padri, e vi si trovano non di rado uomini pieni di fuoco, e di eccellenti disposizioni; ma la massa della nazione avvilita dalla schiavitù è pusillanime, ignorante, e vile.
Essi adoprano l'antico calendario senza la correzione gregoriana, onde il loro computo trovasi arretrato di dodici giorni da quello d'Europa; resta ugualmente indietro dal corso solare, talchè se non viene corretto, verrà un tempo in cui il calendario noterà il mese di luglio nel solstizio d'inverno, o i giorni del freddo nella canicola.
La quaresima che i greci osservano rigorosamente è più lunga una settimana di quella dei cattolici. Durante questo tempo di penitenza non mangiano nè carne, nè pesce, nè cose di latte; e si fanno per fino scrupolo di adoperar l'olio; onde il loro cibo si riduce al pane, ed a poche olive. Essi credonsi i soli ortodossi, perchè suppongono d'aver conservato il rito greco primitivo, e trattano di scismatici i cristiani latini. Hanno tutti i Sacramenti ammessi dalla chiesa Romana; ma consacrano l'Eucaristia col pane fermentato.
Il santuario delle chiese greche è separato dalla nave per una sbarra di legno coperta di quadri dipinti secondo il cattivo gusto che regnava in tempo del basso Impero. Questa sbarra ha nel mezzo una larga porta, ed altre più strette, una da ogni lato, che servono per entrare nel santuario, in mezzo al quale s'inalza un piedestallo quadrato coperto, e circondato da una piccola balaustrata di legno. Vedonsi su questo piedestallo alcuni piccoli quadri, il messale, ed altri arredi. I ministri del culto che possono soli entrare in questa parte della chiesa, dicono la messa, per quanto mi fu detto, colle tre porte chiuse, che si aprono soltanto a certi tempi fissati dal rituale. I fedeli stanno nella nave, e la loro immaginazione supplisce alla grandezza dei misteri che non vedono. Le donne stanno in una tribuna alta, chiusa di dense griglie, ove non possono essere vedute.
I greci portano i mustacchi, e si radono la barba come i turchi; ma gli uomini d'età avanzata, ed i preti la lasciano ordinariamente crescere. È loro proibito il portar armi; ma tutti tengono sotto l'abito nascosto uno stile, o un coltello.
I greci fanno quasi esclusivamente il commercio dell'isola, il di cui principale prodotto è il cotone; ed i turchi in questa parte gli sono di lunga mano inferiori. L'indolenza del loro carattere è abbastanza conosciuta; soddisfatti del clima, e degli abitanti di Cipro, fumano tranquillamente le loro pipe, e non si scompongono che quando possono fare una soverchieria ad un greco, sotto pretesto d'un fallo reale, o apparente. Il più grave delitto viene perdonato, quando il reo pone sulla bilancia la quantità d'oro, che, secondo l'avidità del giudice, equivale alla gravità del fatto. La proprietà non è rispettata se non allora quando il proprietario è più forte, o più protetto del rapitore; quindi si vedono frequentemente degli sgraziati villani greci spossessati dai turchi, che si usurpano il loro patrimonio.
Per evitare queste arbitrarie vessazioni, alcuni greci si mettono sotto la protezione dei consoli europei, che possono accordare tale favore ad un determinato numero di famiglie. Questi protetti godono delle immunità accordate agl'individui della nazione che li protegge. Portano per segno distintivo una gran mitra di pelle d'orso, detta calpàc, col pelo assai nero. Ho però veduti alcuni greci portare la mitra senza essere protetti, e senza che i turchi guardino troppo per minuto[6].
Le moschee del paese, tranne quella di Santa Sofia chiamata dai turchi Aïa Sophia, sono meschine e sudicie.
Abbiamo già detto che ogni venerdì, avanti la preghiera del mezzogiorno, l'Iman deve fare un sermone in arabo; ma qui, siccome nissuno Iman turco conosce quella lingua, i loro sermoni riduconsi ad alcune frasi assai brevi che imparano a memoria, e ripetono sempre come papagalli senza intendersi, e senza essere intesi dagli uditori. Quantunque l'araba sia la lingua sacra de' musulmani, non ve n'hanno appena dieci in tutta l'isola che l'intendano.
Con osservazioni soddisfacenti ebbi la latitudine N. di Nicosia 35° 13′ 14″, e la longitudine E. dall'osservatorio di Parigi 31° 6′ 30″.
È da notarsi che in questo paese il gesto negativo, ossia il segno che tien luogo del vocabolo non, consiste nell'alzare il capo nel modo medesimo con cui in Europa si suole indicar disprezzo, o derisione. Il gesto del disprezzo si fa ponendo la punta della lingua tra le labra, e pronunciando potu, quasi si volesse sputare. Il segno negativo degli europei di girar la testa a diritta ed a sinistra, non è conosciuto in Cipro.
CAPITOLO XXV.
Viaggio a Citera. — Ruine del palazzo della regina. — Osservazioni intorno alla loro origine. — Ritorno a Nicosia. — Viaggio ad Idalia. — Larnaca. — Ritorno a Limassol.
Partii da Nicosia il giorno tre di aprile alle otto del mattino prendendo la direzione di N. E. per andare a Citera: alle nove attraversava un villaggio detto Diamiglia; e dopo tre quarti d'ora ero giunto al termine del mio viaggio. La vasta pianura di Nicosia stendesi fin presso a Citera posta in mezzo a collinette d'argilla. Quanto riscalderebbesi un'immaginazione poetica all'aspetto di questi luoghi consacrati un tempo alla madre d'amore!... A Limassol aveva trovato il sig. Rook viaggiatore inglese, il quale avendo visitato Citera, mi disse che la sua immaginazione aveva supplito al difetto della realtà, e ch'erasi figurata innanzi agli occhi la Dea circondata dalla sua corte. Il mio capo mal proprio alle illusioni non seppe presentarmi immagini opposte a quelle che ricevono dai sensi. Le Ninfe, le Grazie, gli Amori non vollero abbellire a' miei occhi l'aspetto della povera Citera, ch'io non seppi rassomigliare che al più misero casale del contado Venosino, o della Limagna dell'Alvernia. Citera non è infatti che un piccolo quartiere di forma irregolare coperto di orti, e di gelsi sopra lo spazio d'una lega dal nord al sud, e d'un quarto di lega da levante a ponente.
Questo piccolo villaggio deve la sua esistenza ad un'abbondante fontana, che dividendosi in due ruscelli bagna il piano di una valle formata da colline affatto nude d'argilla pura, che giammai non hanno potuto rendersi fertili. Vedonsi in questa valle qua e là sparse diverse case, ed alcuni mulini che provvedono Nicosia di farine. Il terreno non è di sua natura fertile, ma la rarità dell'acqua in tutta l'isola fa sì, che non si trascurino i mezzi d'innaffiamento; e questa valle è ben coltivata dovunque può essere irrigata. Sonovi molti orti, e molti gelsi, e questi non isolati gli uni dagli altri come costumasi in Europa, ma per l'opposto fitti in modo da formare una densa macchia che direbbesi un vivajo, tanto le pianticelle sono piccole e sottili. Pretendesi che con tal metodo producano maggior abbondanza di foglie; ed inoltre si ha l'avvantaggio di poterle spogliare stando in terra.
Citera presenta dunque una foresta di gelsi per i bachi da seta, alcuni carrubi, ulivi, alberi fruttiferi, ed erbaggi nel fondo di una valle, che per lo stagnamento dell'aria, il riverbero delle colline, e la vicinanza di una catena di montagne vulcaniche al nord, deve essere in estate un soggiorno infernale. Pure gli abitanti vogliono che il caldo siavi moderato; ma perchè l'uomo è un animale che s'avvezza a tutti i climi, devesi piuttosto dar fede alla sua posizione topografica, che a tutte le loro asserzioni.
Io non aveva in questo viaggio altri compagni che un domestico, ed il dottor Brunoni che facevami da interprete e da Cicerone. Fummo per ordine dell'Arcivescovo alloggiati in casa del parroco, che era un ottimo vecchio. Desideravo di vedere qualcuna delle donne che hanno così universale opinione di bellezza, ma tanto nelle case, che nelle strade non vidi che donne al disotto della mediocrità. Pretendeva il mio dottore non esservene di veramente belle, ma che sono le più scostumate dell'isola, e sono spesso cagione di procedure innanzi ai magistrati di Nicosia. Non è inverosimile che il calore del clima, la separazione delle case, le fitte macchie di gelsi, e la frequente assenza dei mariti, che vanno al mercato della città, siano cagioni della loro dissolutezza, o non la rendano, se non altro, più facile.
Assicurasi che l'antica Citera era posta sopra una piccola altura alla distanza di un miglio. Io non crederò mai che colà vi potesse essere un giardino; o almeno non vedesene traccia. Ma noi dobbiamo descrivere assai più interessanti oggetti. Partendo da Nicosia fui prevenuto, che tornando da Citera, potevo visitare le ruine del palazzo della Regina: ma ciò mi fu detto con certa quale non curanza, siccome di cosa di non molto rilievo. Il dottore m'avea strada facendo indicato il luogo di queste ruine sopra la più elevata sommità delle montagne poste al nord di Nicosia. Credetti, osservandole col cannocchiale, vedervi oggetti degni della mia curiosità; onde mi proposi di visitarle nel ritorno da Citera. Dalla casa del parroco in cui eravamo alloggiati, vedesi di fianco la montagna del palazzo della Regina. Congedatomi dopo il pranzo dal nostro ospite, partimmo per vedere la fonte che bagna Citera. Ai piedi delle colline argillose che sono al sud d'una catena di montagne basaltiche, l'acqua sorge in abbondanza da cinque luoghi, ed in minore quantità da molti altri, e forma ben tosto un piccolo fiume. È trasparente, leggiera, perfettamente pura, e freddissima, per quanto mi fu detto in estate; lo che prova derivare da profondo deposito posto nelle montagne, e non mai nelle colline d'argilla. Credono gli abitanti che abbia origine nei monti della Caramania continentale, e si faccia strada per di sotto al mare. Nè ciò sarebbe, rigorosamente parlando, impossibile; ma è ben più probabile che provenga dalle montagne basaltiche dell'isola, facendosi strada sotto alle colline d'argilla, senza però toccarle, perchè in tal caso perderebbe le sue buone qualità; tanto più che queste colline sono di più moderna formazione, e sovrapposte alla massa primordiale delle montagne.
Soddisfatta in tal modo la mia curiosità, lasciai con tutta indifferenza la povera Citera, cui ben poco rimane del bello, ch'ebbe allorquando vi dimorava la Dea della Grazie. Salimmo verso il nord fino alla prima linea delle montagne che signoreggiano le colline d'argilla, e la grande pianura al sud, di dove dirigendomi all'ovest sul piano superiore di questa linea coperta di lava e di prodotti vulcanici, e costeggiando la catena delle montagne basaltiche che ci stavano a destra, riprendemmo dopo due ore la direzione del nord, finchè si giunse al monastero di S. Giovanni Grisostomo posto a poca distanza della roccia, sulla quale sono le ruine del palazzo della Regina, che chiamasi Buffavento.
Questo monastero che ha press'a poco la forma di quello di Santa Tecla appartiene ai luoghi di Terra Santa. Tre monaci greci, la sorella del priore vecchia e vedova, ed una giovane serva assai bella, sono i soli abitanti di questa solitudine. Gli ortolani, e gli altri lavoratori alloggiano fuori del monastero.
All'indimani 4 aprile uscii accompagnato da due guide, non avendo avuto coraggio di seguirmi nè il dottore, nè il mio domestico troppo pingue per arrampicarsi sulla rupe. Montato sopra un mulo andai fino alle falde della rupe lontana del cammino mezz'ora di viaggio; e colà dovetti smontare per salir l'erta. Dopo un quarto d'ora eravamo giunti al piede dell'aguglia, ove trovansi due quadrati di muraglie rovinate. È quest'aguglia una rupe tagliata quasi perpendicolarmente in ogni lato, che non offre niuna traccia di sentiero. Approfittavamo dell'ineguaglianza del sasso, e delle stenditure per aggrapparci colle mani e co' piedi, ajutandoci a vicenda l'un l'altro: talvolta le guide si fermavano per riconoscere il lato che offriva minori ostacoli, comecchè tutti difficilissimi, e tutti sparsi di orribili precipizj. Finalmente dopo molti stenti arrivammo alla porta del palazzo ove si prese un istante di riposo.
Questo edificio può considerarsi come diviso in quattro parti le une più alte delle altre, che io indicherò così; il primo l'alloggio delle guardie, il secondo quello de' magazzini, il terzo il luogo di parata, ossia la corte, il quarto il dormitorio de' padroni posto sulla più elevata parte dell'aguglia.
La costruzione di questo edificio che posa sopra camere sotterranee parvemi anteriore all'epoca istorica: onde per quanto mi fu detto non viene ricordato in veruna storia degna di fede; ed io, per quanto attentamente ne esaminassi ogni parte, non vi scorsi alcun indizio d'iscrizioni, o di geroglifici.
Le mura sono formate di pietre prese in sul luogo, ed unite con cemento di calce; e molti angoli sono fatti di mattoni ancora rossi, e ben cotti. Quelli ch'io misurai sono lunghi due piedi, e larghi un piede, ed hanno la spessezza di due dita: i pilastri delle porte e delle finestre sono di marmo composto di nicchi marini di diverse specie, ed assai ben conservati: alcune camere dell'edificio hanno ancora il coperto. Pensando al lavoro ed alla spesa di quest'edificio posto in tal luogo, e ponendo mente alla sua antichità, non si può non esserne sorpresi. Si vede abbellito di tutto ciò che di più magnifico e signorile aver poteva il lusso de' tempi in cui fu eretto. Le finestre sono regolari e simmetricamente disposte, i pilastri, le cornici, i fregi delle porte e delle finestre sono tutti di marmo colassù trasportato da lontane parti; come non hanno potuto fabbricarsi in luogo, la calce, i mattoni, ec. La bellezza, o dirò meglio, la magnificenza dell'appartamento in cui io penso che si radunasse la corte, e perfino la provvista dell'acqua necessaria alla costruzione di così vasto edificio in così elevato luogo, tutto concorre a farci credere che il di lui fondatore fu un sovrano fornito di non comuni talenti, e di molte ricchezze.
Se vuol supporsi che quest'edificio non fosse che una semplice rocca, potrebbesi press'a poco determinare l'epoca in cui fu fatta, senza farsi scrupolo del silenzio della storia perchè potrebbe non aver meritato per alcun fatto importante, l'attenzione degli storici. Se vuole risguardarsi come l'abitazione di piacere di alcun ricco privato somigliante a quelle ch'io vidi sovr'alcune montagne dell'Affrica, direi che tal'edificio si fece in eguali circostanze, cioè quando non eranvi case nel paese piano. Ma se poi riguardo alla magnificenza ed al lusso di questo palazzo, prezioso monumento dei progressi dell'arte all'epoca della sua costruzione, ed alla singolare inattaccabile sua posizione; son chiamato a crederlo la dimora di un gran sovrano.
Parmi adunque che il palazzo della Regina sia stato fatto avanti i tempi storici, ed abitato da un ricco e potente sovrano dell'isola, il quale volle farne a un tempo una rocca inespugnabile, ed un magnifico soggiorno, ove i piaceri della società abbellivano e rallegravano l'apparato della potenza. Ma qual è il principe che lo fece inalzare?
Il nome di palazzo della Regina fu da costante tradizione trasmesso fino ai nostri tempi, non essendovi persona nell'isola, che non lo conosca sotto tal nome. Siccome ogni culto ha le sue misticità, mi fu mostrato nel convento di S. Giovan Grisostomo un antico quadro in legno, rappresentante, come mi fu detto, la regina fondatrice, cui i monaci attribuiscono ancora la fondazione del loro convento. Questa principessa vedesi in atto supplichevole avanti ad una immagine della Vergine Maria. Il pittore ha fatta la regina più bella ch'egli ha potuto, ma gli diede un abito greco moderno. A piè del quadro trovasi una iscrizione greca quasi affatto perduta, ove leggesi ancora il preteso nome di questa signora, Maria figlia di Filippo Molinos, ec.
Pretendono i monaci che si conservasse nel loro convento un antico manoscritto, portante che questa sovrana era loro protettrice. Niuno però vide tale manoscritto, ed il confronto dei due edificj disvela l'anacronismo. Certo è intanto che quando fu fabbricato il palazzo della regina non conoscevansi ancora nè la Maria, nè i Filippi, nè i Molinos, ed ancora meno il monastero di S. Giovanni Grisostomo. Questi poveri Greci dopo l'epoca del basso impero non vedono per tutto che monaci e monasteri: essi chiamano chiesa la superior parte del palazzo, quantunque composta di due piccole camere quadrate, con porte anguste che escludono ogni verisimiglianza d'avere servito per luogo di riunione di molte persone. Altre ruine poste quasi a' piè della rupe vengono pure risguardate come reliquie d'un monastero; quando non sono meno antiche delle altre. Io per me le ritengo essere stati ridotti, ed opere avanzate per difendere l'ingresso del palazzo.
Trovansi discendendo alquanto più a basso le ruine di una vera chiesa; e queste apertamente dimostrano la falsità dell'origine attribuita alle prime. Ma inalziamo il nostro pensiero, e troviamo a questo singolare monumento un'origine più analoga alla sua forma, alle sue ruine, alla sorprendente sua situazione. Il nome di palazzo della regina, come osservai poc'anzi è stato conservato e trasmesso dalla più uniforme tradizione. Nella rimotissima epoca in cui fu fatto, se l'autore fosse stato un uomo, avrebbe fatto soltanto una rocca, limitandosi ad una ristretta abitazione per proprio uso, ma il buon gusto ed il lusso estremo che campeggiano in quella parte da me chiamata salone della corte, o della società, mi fa sospettare che sia stata l'opera di una donna. È questa composta di quattro sale quadrate poste l'una dietro l'altra con grandi finestre a settentrione ed a mezzogiorno, talchè da ogni lato godesi l'aspetto di quasi tutta l'isola: le porte fatte nel mezzo sono della stessa grandezza, e dall'ingresso della prima si vedono tutte quattro le sale. Non può supporsi che tale appartamento si facesse per luogo di difesa, perchè la sua forma non è punto appropriata a tale uso: non potrebbe pure risguardarsi come un luogo di abituale residenza, poichè le sue grandi finestre, postate fino a terra, ed aperte fino ad ogni vento escludono questa supposizione. Nemmeno può risguardarsi come un luogo destinato al culto, fuorchè a quello di Venere, essendo privo di quella misteriosa oscurità, che caratterizza gli antichi tempj. Io non trovo verun'altra spiegazione che quadrar possa a questa continuazione di camere, fuorchè quella di essere state destinate ad uso di loggia ossia d'appartamento di corte e di società. Il gusto altresì e l'eleganza delle parti mi consigliano a riguardarlo come l'opera di una donna: e quando altronde troviamo dalla tradizione conservato a questo luogo il nome di palazzo della regina, è difficile il non prestarvi fede.
Considerando la posizione di questo monumento, non si può a meno di non essere sorpresi che niun viaggiatore l'abbia ricordato sotto il suo vero punto storico e filosofico. Lo stesso signor Rooke che aveva lasciato libero il corso alla sua immaginazione in questi luoghi popolati da tante antiche memorie, non fece un solo cenno di questo singolare edificio che signoreggia quasi tutta l'isola, ed in particolar modo Citera ed Idalia. Riferisce la tradizione che negli antichi tempi potevano fino alla sommità montarvi i carri. Citera ed Idalia sono i luoghi più vicini, ove trovinsi acque abbondanti in modo da poter innaffiare ed abbellire i vasti giardini della potente padrona del palazzo. Allora se questa signora era..! sì voi l'indovinate, lettore, una vera Venere, o uno dei tipi della Venere poetica..! se altri viaggiatori visitarono queste ruine, e ne diedero una più fondata spiegazione[7], non vogliate togliermi alla mia illusione d'avere soggiornato un istante nell'abitazione delle grazie, e d'essermi introdotto nel più elevato e più segreto gabinetto della Dea d'Amore. Senza dubbio, quand'ella voleva compartire i suoi favori ai mortali, riceveva a Citera e ad Idalia gl'incensi ed i non cruenti sacrificj, indi ritiravasi a godere la compagnia degli Dei nella sua celeste dimora al di sopra delle nubi.... Ah Rooke! io sono al par di te in preda all'immaginazione.
Per ultimo se paragonisi la costruzione, la posizione, e l'antichità di questo edificio colla tradizione e la favola, risulta in un modo assai probabile che fu l'opera di una donna; che questa donna era assai potente nell'isola; che Citera ed Idalia devono risguardarsi siccome parte dei giardini della Dea; che essendovi allora qualche poeta nell'isola, avrà senza dubbio divinizzati questi oggetti, facendo l'apoteosi della regina, rassembrandola a Venere figlia di Giove: allegoria della fecondità della materia, e forse dell'attrazione universale, che precedette di molto tempo la civiltà de' Greci e degli Egiziani. In tale ipotesi il genio poetico avrebbe fatto immortale un oggetto che forse era ben lontano del meritarlo.
Nella camera più alta che non ha più tetto evvi un cipresso selvaggio. Ne colsi un ramo col frutto; poi salito sul muro staccai la più elevata pietra dell'edificio.
Da questo luogo si gode la più magnifica veduta. Ad eccezione d'un piccolo angolo di terra coperto dalle montagne di Pafo o del monte Olimpo, l'occhio abbraccia quasi tutta la circonferenza dell'isola a vista d'occhio come sopra una carta geografica. Verso la costa del nord scopresi la piccola città di Chirigna, che sembra posta alle falde della montagna. Avendo di là fatto le mie osservazioni trovai che la latitudine di Chirigna, è di 35° 25′ 0″ nord, e la sua longitudine 31° 1′ 30″ est, dall'osservatorio di Parigi. L'orizzonte del mare è così vasto, che la vista confonde il mare col cielo, rassomiglianti ad un caos o densa nebbia. Attualmente su questa rupe non avvi acqua, come forse eravene in antico; e forse l'acqua del monastero di S. Giovanni Grisostomo non è che un'antica sorgente deviata dalla pristina sua destinazione.
Respirasi su quest'altura un aere purissimo, ma di una tale temperatura che non avrà permesso alla Dea di vestire tanto leggermente, come piacque ai pittori ed agli scultori di vestirla. Questa guglia spingesi in alto isolatamente sopra la catena delle montagne vicine, e forma una specie di conduttore elettrico. Ho più volte notato, trovandomi nel sottoposto piano, che le nubi che si alzano dalle minori montagne, o sono portate dai venti, s'attaccavano alla sua cima: fenomeno favorevole alle religiose illusioni della misticità[8].
Alle nove ore del mattino uscii del palazzo della regina. Non incontrammo minori difficoltà nello scendere di quelle sostenute nel salire. Giunto ai piedi della guglia, rimontai sul mio mulo, ed alle dieci ore mi trovai al monastero per riunirmi al dottore ed al mio domestico.
Dopo un'ora di riposo scendemmo le falde delle montagne basaltiche, poi le colline d'argilla, ed eravamo in sul piano mezz'ora dopo mezzogiorno. Occorrono dunque due ore ed un quarto per iscendere dal palazzo della regina in sul piano.
Camminando verso S. O. passai ad un'ora dopo mezzogiorno il torrente di Nicosia, che non ha acqua che nella stagione delle pioggie, ed un quarto d'ora dopo attraversai il villaggio Caïmakà, di dove giunsi a Nicosia alle due ore.
All'indomani 5 aprile partii da questa capitale alle otto ore ed un quarto, andando pel gran piano verso S. O., poi avanzando tra mezzo a colline d'argilla, piegai alle undici al sud, costeggiando la riva sinistra di un torrente, che attraversammo a mezzogiorno poco prima d'entrare in Idalia. Questo luogo un tempo così famoso pei suoi boschetti non è che un miserabil villaggio posto in una valle circondata di colline d'argilla pura, sterili, e assai triste. Le case sono mal fatte e meschine, e gli abitanti poveri all'eccesso. Sonovi pochi alberi, e pochi erbaggi, non coltivandovisi che frumento ed orzo; onde si può dire che la moderna Idalia somigliante ai più poveri villaggi delle pianure della Beozia, è il più tristo soggiorno che immaginar si possa. Credesi in questo paese che l'antica Idalia fosse situata sopra una piccola altura distante un miglio dalla presente. Mi recai in sul luogo, ma non mi fu dato di scoprirvi alcun'orma di antichità. Di là vedesi perfettamente il palazzo della regina.
Non trovando cosa degna di attenzione ripresi la strada alle due ore dopo mezzogiorno. Poichè ebbi attraversati un villaggio ed un paese assai tristi fra colline d'argilla sterilissime, scesi in sul piano, lasciando a sinistra il villaggio d'Aradipo, ed a sei ore entrai in Larnaca, la più ragguardevole città dopo Nicosia, residenza d'un vescovo, di tutti i consoli stranieri, di alcuni negozianti europei, e di molti Greci protetti da diverse nazioni, colle quali dividono i privilegi e le immunità della rispettiva bandiera. E per tale ragione vi si trovano le costumanze press'a poco delle città e dei porti d'Europa.
Il giorno del mio arrivo il governatore Turco, che è uno sceriffo, venne a visitarmi portando a lato la sua carabina; ed il giorno dopo fu a trovarmi con numeroso seguito il vescovo. Lo stesso fecero i consoli, ed i principali cittadini.
La rada di Larnaca parvemi troppo aperta e mal difesa; ma la sua posizione geografica in faccia alle coste della Siria vi chiama molti bastimenti. Lontano un miglio da questa città trovasi il borgo Scala, in cui risiede il console inglese e due altri consoli. La sua latitudine è di 31° 27′ 30″ E. dell'osservatorio di Parigi, e la latitudine 34° 56′ 54″ N.
Il giorno 8 aprile alle due ore ed un quarto dopo mezzogiorno uscii di Larnaca prendendo la direzione di S. S. O. Trovai a breve distanza un acquedotto di notabile lunghezza, ma di meschina struttura. Alle tre mi trattenni alcun tempo nel giardino di una casa di campagna, e quando mi rimettevo in cammino il tempo si andava abbaruffando di modo che a fronte d'ogni mia diligenza fui raggiunto dalla pioggia. Alle sei ore entrai nel villaggio di Mazzotos.
La pianura attraversata è alquanto fertile; a destra è chiusa dalle montagne, ed a sinistra dal mare, lontano sei miglia dalle montagne. Mazzotos è un povero villaggio posto in buon terreno alle falde delle montagne.
Il giorno nove alle cinque ore e mezzo del mattino mi diressi al S. O.; indi piegai all'O. dopo avere attraversato un paese fertilissimo chiamato Laconicos, e che i naturali credono essere stato abitato da una colonia di tal nome. Fui avvisato che troverei a diritta le ruine di una antica città detta Alamina, che non devesi confondere con Salamina. Alle sette ore varcai un piccolo fiume, ed un'ora dopo un altro pure di poca importanza: finalmente alle otto e tre quarti feci alto in riva al fiume di Sant'Elena.
Alla foce di questo fiume trovasi un piccolo porto con una vasta rada dello stesso nome, perchè la principessa Elena madre dell'imperatore Costantino vi sbarcò tornando dal suo pellegrinaggio di Gerusalemme. Partii alle dieci del mattino camminando lungo il mare. Alle due ore dopo mezzogiorno passai in vicinanza delle ruine di Amatunta; un quarto d'ora appresso attraversai il fiume di questo nome: alle tre ore ed un quarto si giunse a Limassol.
CAPITOLO XXVI.
Viaggio a Pafo. — La Couclia. — Bellezza delle donne Cipriote. — Jeroschipos Aphroditis, ossia giardino sacro a Venere. — Xtima. — Antica Pafos. — Nuova Pafos, ossia Baffa. Il mercoledì 23 aprile sortii alle sette ed un quarto della mattina da Limassol per andare a Pafo. Due ore dopo passai per Colossi, di dove, poichè ebbi varcato il fiume che va al sud, venni a riposarmi ad Episcopi fino alle tre e tre quarti dopo mezzogiorno. Alle quattro e mezzo era giunto a S. Tommaso, ed alle sei a Latanischio ove doveva passare la notte. Il piano di Limassol stendesi fino a Colossi, ed a mezzogiorno di questo piano si prolunga il Capo Gatta.
Colossi è un villaggio circondato di giardini, e bagnato da molte acque. Vi si vede ancora un castello o torre quadrata, che dicesi fabbricata dai Templari, ed accanto alla torre un grande acquedotto; fatti sì l'uno che l'altro con marmo grossolano.
Episcopi giace in amenissimo sito, ed è più grande di Colossi. Ogni casa è circondata di giardini, di alberi, di piantagioni di cotone e di campi a grano. Questo villaggio posto alle falde delle montagne che si prolungano fino al mare, signoreggia un bellissimo piano e la costa: l'abbondanza delle acque, e la fertilità del terreno rendono delizioso il soggiorno d'Episcopi, e ben più degno che Idalia e Citera della Dea protettrice dell'isola. Fu anticamente una assai ricca città con vaste raffinerie di zucchero, per le quali erano stati fabbricati un grandioso acquedotto, ed immensi magazzini, come lo attestano anche al presente i loro miseri avanzi. Ora non è che un villaggio abitato da' Turchi e da' Greci, che hanno il loro separato quartiere. Parvemi che le donne vi godano molta libertà, ma non ebbi la fortuna di vederne di belle.
Al di là d'Episcopi convien salire alcune montagne calcaree: i di cui grandi strati perpendicolari lungo il mare ne rendono tanto più difficile e pericoloso il cammino, in quanto che i cavalli non possono assicurarsi sopra un suolo affatto liscio ed inclinato. Dopo questo pericoloso passaggio la strada prosiegue sempre tra le montagne in mezzo a boschi di cipresso, di quercia, di leccio, e di varie piante aromatiche che riempiono l'atmosfera di soavi profumi.
S. Tomaso è un piccolo villaggio posto tra le montagne; ed a non molta distanza trovasi pure Latanischio alquanto più grande, e situato propriamente nel centro delle montagne. Da quest'ultimo vedesi perfettamente il Capo di Gatta, la di cui estremità sembrommi lontana sette leghe al sud-ovest.
I più numerosi abitanti di Latanischio sono Turchi, che mi parvero buona gente, ed amanti del lavoro: sono decentemente vestiti di una stoffa di lana bianca, e si lasciano crescere la barba lunga, folta e rossiccia; le loro mense s'imbandiscono con proprietà, e di abbastanza delicate vivande. Sarebbero felici se meno fossero vessati dal governatore che li maltratta ancora più de' Greci, perciocchè anche la più povera famiglia paga cento piastre all'anno. Questi buoni montanari mi fecero pena e pietà: sono fedeli musulmani, e meritevoli di miglior sorte.
All'indomani 24 lasciai Latanischio alle otto e mezzo del mattino, e scesi per un gran burrone, in fondo al quale vedesi una bella sorgente, la quale come più altre dell'isola è ornata di un piccolo antico frontispizio. Il burrone ha duecento quaranta piedi d'altezza perpendicolare, e presenta un infinito numero di strati orizzontali di sasso calcareo, o di marmo grossolano. Tutta la parte non tagliata perpendicolarmente è coperta di folte macchie.
Alle nove ed un quarto passai per Jalectora, adesso povero villaggio, ma altravolta assai grande e ricco, se può farsene giudizio dalle ruine delle chiese, e di altri grandi edificj. È posto sul pendio delle montagne, e circondato da belle valli in gran parte coltivate.
Finalmente alle undici e tre quarti, sortito da questo mucchio di montagne, attraversai un piccolo fiume presso alla sua foce nel mare, la di cui costa in questo luogo cammina dall'E. S. E. all'O. N. O. e di qui proseguendo la strada quasi a N. O. giunsi alla Couclia, antico palazzo fabbricato sopra un alto còlle, distante mezza lega dal mare, e vicino ad un villaggio dello stesso nome quasi affatto ruinato, e che non conta più di dieci famiglie. Il palazzo è tutto fabbricato di pietre riquadrate, ed ha in sul di dietro un vasto cortile circondato da scuderie e da magazzini; ma tutto l'edificio trovasi in estremo deperimento.
Alcuni autori vogliono che la Couclia fosse l'antica Citera, altri la ritengono per Arsinoe; gli abitanti invece credono che questo fosse il prediletto giardino della Regina Aphrodite (Venere). Chi bramasse vedere più diffusamente trattata tale controversia potrà leggere la parte storica e geografica di questi viaggi. Il palazzo signoreggia una vasta e fertile campagna irrigata da molti ruscelli, o da alcuni fiumi; che attualmente forma l'appannaggio di una delle sultane del Gran Signore, ma abbandonata agli affittajuoli, o sotto affittajuoli, che ne trascurano la coltivazione; e per tal modo questo quartiere, che dovrebb'essere un luogo delizioso, ed in pari tempo bastante ad alimentare più migliaja di persone, sarà ben tosto un deserto.
L'affittajuolo principale, che è un greco, alloggia nel palazzo, e trovandosi assente, mi riservai di rivedere le vicine antichità di questo luogo nel ritorno da Pafo. Dalla Couclia vedesi il mare ad un mezzo miglio di distanza, ed un villaggio turco detto la Mandria.
Mentre stava per partire, un prete greco conducendomi poche tese lontano della porta del palazzo mi mostrò sulla sommità del còlle due bellissimi mosaici recentemente scoperti di circa tre piedi di diametro. Fa meraviglia che niuno si avvisi di scoprire il rimanente, non essendo coperto che da uno strato di terra di pochi pollici: ed il prete mi soggiunse che in tal luogo eravi pure un palazzo d' Aphrodite.
Uscito dalla Couclia alle quattro e mezzo circa della sera, e prendendo la strada al N. O. passai sopra un bel ponte di un solo arco con una iscrizione turca. Alle cinque attraversai un altro fiume, ed i villaggi di Demi, d'Ascheïa e di Coloni, gli uni agli altri affatto vicini, ed arrivammo a Jeroschipos alle sei e tre quarti. Si vuole che fosse questo uno de' sacri giardini di Venere, e tale veramente è il significato del greco vocabolo, che dalla più remota antichità trovasi dato al piccolo villaggio posto sulla sommità della rupe che signoreggia il soggetto giardino. In Jeroschipos alloggiai presso il greco Andrea Zimbolaci, agente del consolato inglese, la di cui bandiera svolazzava sul tetto della casa. La figlia di questo compitissimo uomo parvemi la più bella donna ch'io vedessi in Cipro, e degna veramente di abitare nella signoria di Venere. Senza essere perfettamente bianca, la sua carnagione è la più bella che veder si possa, e le proporzioni del suo corpo sono quelle delle greche statue,[9] a riserva del petto, che come osservai in tutte le altre cipriote, è troppo pendente. Avendo osservato che costei aveva i capelli dorati, mi rissovvenni che le donne affricane li colorivano. Ne feci la confidenza a suo padre, il quale mi fece vedere una polvere proveniente d'Alessandria, di cui le cipriote si servono per dare ai loro capelli il color d'oro. Vidi nella stessa casa una fantesca musulmana con biondissimi capelli, che quantunque bella, aveva una cert'aria di selvatichezza che disgustava. Vero è che non deve cercarsi tra le musulmane il tipo dell'antica bellezza greca, ma bensì tra le cipriote; ma come trovarvelo, se queste sottraggonsi ai nostri sguardi? Ma questo tipo di perfetta bellezza conservatoci nella Venere de' Medici, ha egli mai esistito?... Forse il poco merito delle altre donne greche contribuì ad accrescere il pregio delle cipriote; o fors'anche i più dissoluti costumi di queste supplirono alla bellezza per riscaldare la fantasia de' poeti, de' pittori e degli scultori. Confesso, che anche fatta astrazione da quell'aria di riservatezza e baloccheria ch'io notai in tutte le donne greche, che è una conseguenza del presente stato d'avvilimento di quella nazione, il loro volto ritondo e senza espressione, il petto pendente, il portamento sgraziato, ci danno una poco vantaggiosa idea delle bellezze delle loro antenate.
All'indimani 25 aprile andai a visitare il sacro giardino di Venere. È questi un piano largo un miglio all'incirca e lungo due, che partendo stendesi fino al mare con dolce declivio da una rupe a strati orizzontali tagliata perpendicolarmente, che lo chiude nella parte più elevata; lo che dà a questa campagna l'aspetto di un sotterraneo, perchè non vi si può entrare da veruna banda senza scendere per un burrone; e perchè soffiando il vento anche gagliardissimo nella parte superiore, nel giardino si gode costantemente di una perfetta calma. Da più punti delle spaccature della rupe zampillano limpidissime acque, che possono irrigare tutta la soggetta campagna, e vedonsi frequenti traccie di assai maggior numero di sorgenti, negli andati tempi. E siccome la rupe ha molte sinuosità, ad ogni tratto vedesi variare l'aspetto del giardino, che potè essere naturalmente diviso in più scompartimenti tutti provveduti di grotte o abitazioni tagliate nel masso, quali vedonsi anche al presente.
Il principale ingresso sembra essere stato una scesa aperta nella rupe accanto al presente villaggio, la di cui volta è adesso caduta lasciando il passaggio scoperto ed ingombrato di ruine; ciocchè avvalora l'opinione che si entrasse nel sacro giardino per un sotterraneo somigliante a quello che tuttavia si vede accanto all'ingresso. Forse il postulante vi era ritenuto per subire le prove, o per partecipare ai segreti dell'iniziazione. In tale supposto quando da quel tenebroso antro veniva condotto nel delizioso giardino, doveva credersi trasportato in un celeste soggiorno. È certo intanto che questo strato di rupe è sottilissimo, vedendosi in più luoghi traforato artificialmente, e altrove smottato; onde è facile l'immaginarsi per quali oscuri labirinti doveva andar brancolando l'iniziato prima di entrare nel giardino. Ci sono note le terribili prove d' Iside e d' Osiride, e sappiamo, che volendo Pitagora partecipare ai misterj di Diospoli, fu forzato di sottoporsi alla crudele operazione della circoncisione[10]. Ma tali prove usavansi ancora nelle iniziazioni d'Aphrodite?.... Io parlo d'iniziazioni primitive anteriori a quelle che usavansi ne' tempj della Dea.
FONTANA NELLE MONTAGNE DI PAFO.
Ma questo famoso giardino che fu un tempo la delizia degli abitanti della Grecia e dell'Asia, non è adesso che il soggiorno ed il mal coltivato campo d'un povero affittajuolo!
Quasi nel centro del giardino vedonsi gli avanzi d'una chiesa greca detta Aïa Maria, tra i quali è notabile il capitello d'una colonna striata di marmo grigio assai semplice ed elegante.
Sotto al villaggio di Jeroschipos trovasi la principale sorgente del giardino, che pur sorte di sotto allo strato superiore della rupe, e somministra un'acqua così limpida e fresca, che fa dolce invito a gustarne.
Lo stesso giorno alle nove ore e mezzo del mattino lasciai Jeroschipos, e passando in su la destra della città e porto di Pafo, oggi Baffa, arrivammo un'ora dopo a Ktima, ove risiedono il governatore turco di Pafo, ed un vescovo greco. Era allora governatore Alai Bey, garbatissimo vecchio, che nel lungo suo governo aveva saputo guadagnarsi l'amore ed il rispetto de' Turchi e de' Greci. Egli mi accolse pomposamente facendomi entrare a cavallo fin presso alla porta della sua camera, ove fui servito a splendida mensa. Dopo il pranzo fui condotto nell'abitazione che mi era stata destinata, e di là passai in una gentile moschea, che fu già una chiesa di rito greco dedicata a Santa Sofia.
La città di Ktima, un tempo così rinomata, non è oggi che un ammasso di ruine, ove non sonovi più di dugento famiglie turche, e venti greche. Il palazzo del vescovo colle sue pertinenze trovasi in separato quartiere; ma pare che il vescovo preferisca la dimora di una città interna, che mi si disse bastantemente grande e popolata di soli Greci.
Dietro buone osservazioni fissai la latitudine settentrionale di Ktima a 34° 48′ 4″. Il porto di Baffa trovasi mezza lega più a mezzodì di Ktima.
1. CASA FORMATA IN UN SASSO NELLA VECCHIA PAFO. 2. CATACOMBA A PAFO.
All'indomani sabbato 26 dopo aver ricevuta la visita del rispettabile Alai Bey partii per Pafos lontano un miglio sulla riva del mare. Avvicinandomi a questa città vidi nel piano alcune rupi isolate. Ma quale fu la mia sorpresa allorchè visitandole, le trovai internamente tagliate in modo da formare regolarissime case? E la mia maraviglia si accrebbe a mille doppj quando trovai sotto terra l'immagine d'una città scavata nella rupe. I palchi di queste case sotterranee sono fatti ad arco stiacciato, ed alcuni senza centine, le muraglie sono perpendicolari e liscie, e gli angoli perfettamente a piombo. Alcuni di tali edificj hanno l'apparenza di palazzo, con cortili, logge, colonne, pilastri, e tutta la squisitezza degli ornamenti architettonici, che immaginare si possa; ogni cosa scolpita nel vivo masso con finissime modonature. Il più perfetto pulimento conservasi ancora dopo tanti secoli. Quando si considera questo sforzo dell'uomo, non si possono non ammirare così fatte opere anteriori, a quanto sembra, ai libri ed alle medaglie della più rimota antichità. La rupe onde sono composti tali edificj è formata di una pietra calcarea arenosa di un bianco giallognolo, di finissima grana, a strati orizzontali obliqui. In uno di questi edificj vidi alcune colonne spezzate, i di cui capitelli rimasero sospesi all'architrave perchè formano corpo colla cornice.
Quantunque possano riguardarsi come catacombe a motivo della loro situazione, e dell'infinito numero di anguste nicchie che sembrano destinate a ricevere i feretri; pure la mancanza di così fatte nicchie in molti appartamenti, ed in altri l'interna comunicazione dell'una coll'altra nicchia, e la qualità degli ornati, mi piegano a credere che questi luoghi servissero d'abitazione anche ai vivi.
La vasta estensione di tali ruine non permette di dubitare, che facendovisi degli scavamenti continuati e ben diretti, non si trovino degli oggetti interessantissimi, rispetto all'antichità di lunga mano più ragguardevoli di quelli d'Ercolano e di Eraclea.
La tradizione che assegna per soggiorno a Venere questo luogo, ed il Jeroschipos, è troppo ben fondata perchè possa richiamarsi in dubbio, e le spaziose grotte che si vedono ancora s'accordano coll'idea che noi abbiamo delle iniziazioni misteriose della Dea. Ma che questa Dea di Pafo, e di Jeroschipos sia la stessa Dea d'Idalia e di Citera, e regina del palazzo delle montagne di Nicosia, è ciò che nol posso credere; imperciocchè lo stile dell'architettura del palazzo è patentemente posteriore alle ruine ed agli avanzi di Pafo[11].
Ciò ammesso una volta si deve probabilmente supporre esservi state in Cipro due regine Aphroditi ( Veneri ), la più antica delle quali regnò a Pafo, a Jeroschipos ed alla Couclia, l'altra, in un'epoca meno lontana, nel palazzo delle montagne di Nicosia, e signoreggiò Citera ed Idalia; che l'una e l'altra essendo di molto anteriori all'epoca istorica, furono dai poeti delle posteriori età ridotte ad una sola sovrana di Citera, d'Idalia, e di Pafo; nelle quali città le furono innalzati templi ed altari come ad unica divinità. Tale è almeno il risultato delle mie osservazioni, che sottopongo alla saggezza de' miei lettori, desiderando che ove dissentano dalle mie opinioni possano almeno dire: Se non è vero, è ben trovato: pronto a ritrattarmi, se mi vengano mostrate più verosimili congetture. Sgraziatamente quando trattasi di così lontane memorie, ci è giuoco forza accontentarci delle probabilità, o tacere.
È cosa notabilissima che la città di Pafo posta in riva al mare è un monumento dello stato stazionario del Mediterraneo, che nello spazio di tanti secoli non variò di un solo pollice il suo livello generale. A dir vero le rupi nelle quali è tagliata la città di Pafo sono di formazione marina; ma ciò dovette operarsi in un'epoca anteriore ancora all'ultimo grande cataclismo del globo. Avendo osservato il passaggio del sole, stando in mezzo alle ruine che ho descritte, le trovai poste nella latitudine settentrionale di 34° 48′ 4″.
Dopo mezzogiorno lasciai le ruine per andare alla nuova Pafo, porto di mare distante mezza lega, dai Turchi e dalle carte nautiche detto Baffa, altra volta ragguardevole città, nella quale trovansi rottami di colonne di archi, ecc., e poche case abitabili sparse tra le ruine con alcuni giardini.
Piccolo è il porto, e così ingombrato di arena che appena possono entrarvi i più piccoli battelli. Sulla punta di uno scoglio al S. O. avvi una fortezza fabbricata dai Turchi, e fornita d'artiglieria. Giunto in faccia al forte vidi inalberarsi la bandiera, e fui salutato da tre colpi d'artiglieria, secondo gli ordini dati da Alai-Bey. In un côlle in faccia al porto sonovi degli scavamenti i di cui ingressi sono ora ingombrati di ruine; e nella superior parte di questo côlle vedonsi i rottami di molte colonne di granito grigio nerastro affatto liscie, che attestano la remotissima esistenza d'un magnifico monumento. Dicono gli abitanti che fu questo un palazzo di Venere: ma io sono di sentimento che fosse un tempio di un'epoca meno lontana dei sotterranei dedicato al di lei culto.
Dopo aver data un ultima occhiata al labirinto delle ruine della nuova Pafo, ritornai la sera a Jeroschipos.
CAPITOLO XXVII.
Ruine gigantesche della Couclia. — Ritorno a Limassol. — Amatunta. — Ruine. — Catacombe. — Osservazioni generali. — Viaggio ad Alessandria. — Sbarco. All'indomani 27 aprile dopo aver visitate altre case sotterranee a non molta distanza da Jeroschipos, partii alla volta della Couclia, passando per Coloni, per Ascheïa, e per Dimi. Nel secondo di questi villaggi esistono gli avanzi ed alcune arcate di un acquedotto, che serviva alle fabbriche di zucchero del paese.
L'affittajuolo principale della Couclia, che mi aspettava, aveva fatto preparare un lauto pranzo. Lagnossi meco della sultana sua padrona; perchè non permetteva che si riparassero le fabbriche di questo vasto possedimento, che vanno in ruina. Egli paga venti borse all'anno.
Tra le ruine della Couclia trovansi alcune ale di muraglia affatto straordinaria, composta di due ordini di grandissime pietre che ne formano la base, e sopra un secondo ordine di doppie pietre che ne fanno tutta l'altezza e la spessezza. Quest'opera colossale pare inalzata da mani gigantesche: onde non dando fede a' miei occhi, volli piuttosto credere che questa massa altro non fosse che un'antica pasta pietrificata; ma invano il suo colore nerastro ed un principio di decomposizione mi rendevano probabile tale supposizione: invano si vorrebbe illudersi; sono queste vere pietre, e pietre di così enorme dimensione, che la nostra immaginazione rimane atterrita pensando agli sforzi che dovette costare il loro trasporto, e il loro collocamento. Sarebbe questo un avanzo dell'architettura Ciclopica....?[12] Si pretende che queste ruine, ed i mosaici di cui si parlò poc'anzi, appartenessero al palazzo d' Aphrodite. Presso a queste ruine colossali veggonsene alcune altre de' secoli di mezzo, con iscrizioni, bassi rilievi, e pitture a fresco. La moglie dell'affittajuolo della Couclia è molto bella benchè troppo pingue, e belle ugualmente sono le sue due fanti; ma tutte tre hanno il volto greco-rotondo. Fui assicurato che a Pafo, a Ktima, e nella vicina contrada il sesso è molto bello.
Il 28 partii alla volta di Limassol per la già fatta strada, ove arrivai il giorno susseguente. Non molto dopo mi recai a vedere le ruine d'Amatunta lontana una lega da Limassol.
Amatunta fu già una grande città fabbricata sopra diverse colline in riva al mare; ma tali ruine sono così consunte che non vi si trova alcun ragguardevole oggetto. Tra queste ruine richiamarono la mia attenzione, quelle d'un tempio, la di cui poca regolare architettura lo dimostra fabbricato nel decadimento delle belle arti. Sulla sommità d'un colle trovasi un frammento d'una colonna, e due vasi tagliati, o a dir meglio formati della stessa rupe di una colossale grandezza: uno è quasi affatto distrutto, l'altro abbastanza ben conservato. Questi due vasi giganteschi posti uno accanto all'altro dovevano essere destinati al medesimo oggetto. A traverso all'oscurità della tradizione, la costruzione di questi vasi sopra la sommità di un colle presso ad un monumento, e la figura d'un toro in rilievo scolpito egregiamente ne' quattro lati di ogni vaso, corrispondenti ai quattro punti cardinali mi fanno conghietturare che fossero destinati alle libazioni, o ai sacrificj di Adone.
Vi si trovano pure molti sepolcri cavati nella rupe, ed infinite iscrizioni scolpite sopra grandi pietre. L'ingresso delle catacombe o grotte sepolcrali all'O. d'Amatunta è così ingombrato di ruine che non è possibile d'entrarvi che per un'angusta apertura, trascinandosi col ventre a terra per lo spazio di alcune tese colla sola luce de' fanali che portansi seco. Un andito, una camera centrale, e tre altre camere sepolcrali compongono queste catacombe. Migliaja di pipistrelli risvegliati dalle nostre fiaccole, i letti sepolcrali cavati nella rupe ed aperti, l'estrema umidità, ed il silenzio della mia guida che sola era meco, mi ricordarono che questo era il soggiorno de' morti, e mi determinarono a tornar presto a godere della luce del giorno.
Il fiume d' Amatunta scorre a poca distanza all'O. della città; e pare che anticamente la attraversasse. Il mare si rompe contro le mura della città.
L'attento esame delle antichità dell'isola di Cipro mi conferma nella supposizione dell'esistenza di due diverse sovrane dette Aphrodite, ossia Veneri, in affatto diverse epoche, la prima anteriore all'epoca istorica sovrana delle catacombe o palazzi sotterranei dell'antica Pafo, di Jeroschipos, e della Couclia; l'altra posteriore, signora d'Idalia e di Citera, posseditrice del palazzo della regina, sulla montagna di Buffavento. I poeti contemporanei della seconda Venere per lusingare la sua vanità non la distinsero dalla prima: e quelli de' posteriori secoli ingannati dai loro scritti terminarono di confondere in buona fede la copia coll'originale, dando ad una sola Venere gli attributi di quella di Pafo, e di quella d'Idalia, e di Citera. La superstizione, la licenza, e l'interesse de' Ciprioti consacrarono tempj all'apoteosi di questa donna ne' luoghi dalla tradizione e dai poeti, soli storici di que' remotissimi tempi, indicati come soggiorno della Dea. Il porto di Pafo, o Baffa, posto nel lato occidentale dell'isola in faccia alla Grecia ed all'Arcipelago, tra l'antica Pafo ed il Jeroschipos, sarà stato il luogo dello sbarco de' pellegrini greci. Le offerte impiegate, non v'ha dubbio, nella costruzione del magnifico tempio, le di cui belle colonne trovansi in pezzi sul colle della nuova Pafo o Baffa in faccia al porto, avranno contribuito più che tutt'altro a rendere questa città doviziosa e grande, quale la dimostrano le immense sue ruine.
PROFILO D'UN ANTICO TEMPIO IN AMATUNTA.
Io non mi ricordo d'aver letta alcuna descrizione di quest'isola, e non so cosa ne pensassero altri viaggiatori; ma qualunque ne sia stata la loro opinione, io sono di parere che la Venere di Pafo sia diversa dalla Venere di Citera e d'Idalia[13].
Se quest'isola avesse un governo tutelare ed amico delle arti, è probabile che ricerche ben dirette darebbero assai più interessanti, e variati monumenti che Ercolano e Pompeia.
L'isola di Cipro in generale scarseggia di acqua; e mentre le montagne di Pafo e di Episcopi ne danno in abbondanza, le altre parti dell'isola non sono irrigate che da poveri ruscelli e torrenti, in tempo di estate quasi sempre asciutti.... Gli avanzi di antichi acquidotti che vedonsi qua e là sparsi in tutta l'isola ben dimostrano, che anticamente veniva irrigata in ogni lato; è certo che le montagne di Pafo potrebbero darne a tutta l'isola; ma come pensare a queste opere sotto il governo Turco?
Si vede pure che nella medesima epoca eranvi strade e ponti, che rendevano facili e deliziosi i viaggi nell'isola; ma tutto è adesso guasto e ruinato.
Quest'isola per tanti altri riguardi così accarezzata dalla natura è afflitta da due calamità: 1. da una quantità straordinaria di vipere o serpenti lunghi due in tre piedi, le di cui trafitture sono generalmente mortali; onde gli abitanti d'ogni classe od età anco i più poveri sono costretti di camminar sempre stivalati. Ho veduti più volte alcuni di questi serpenti la di cui abituale andatura è lentissima. 2. Dalle cavallette che riproduconsi ogni anno in prodigiosa quantità senza che si pensi al non difficile mezzo di distruggerle. Io mandai all'arcivescovo principe di Cipro una breve memoria su questo argomento, e n'ebbi il più grazioso ringraziamento.
Se la popolazione fosse portata al numero di cui l'isola è suscettibile; se una costituzione liberale assicurasse agli abitanti le proprietà, e la libertà del culto, non tarderebbe a diventare una delle più felici contrade del mondo: così la natura le fu liberale di clima temperato, di aere purissimo, di acque eccellenti, e di fertilissimi terreni. I raccolti del cotone, del vino, dei grani, che andrebbero crescendo in ragione della popolazione, dell'industria, della libertà e della sicurezza degli abitanti; le fabbriche di zucchero e di tabacco che vi si potrebbero ristabilire, i legnami d'opera che facilmente si moltiplicherebbero sulle alte montagne, lo scavo delle abbondanti miniere di rame, e fors'anche di più ricchi metalli che esistono nell'isola; la disposizione degli abitanti per un nuovo ordine di cose, che desse impulso all'industria nazionale: tutto contribuirebbe a far prosperare l'isola di Cipro.
Rispetto alla parte topografica può risguardarsi quest'isola come un segmento del circolo, che ha sessanta leghe di corda, e diciotto e mezzo di seno. Questa superficie dividesi in tre grandi parti: 1º la catena delle montagne di Pafo, o del monte Olimpo, le di cui più alte cime sono sempre coperte di neve; questa catena di prima formazione compone la parte meridionale dell'isola, dalle vicinanze di Pafo, ove trovansi le più elevate cime fin presso a Larnaca: 2º la grande campagna di Nicosia che traversa nel centro l'isola da levante a ponente: 3º la catena delle montagne vulcaniche al nord che stendonsi da Chiringa fino al Capo Sant'Andrea.
Dietro le mie osservazioni astronomiche fatte in diverse epoche a Limassol ebbi la latitudine settentrionale di 34° 36′ 30″, e la longitudine orientale di 30° 36′ 30″.
Per proseguire il mio viaggio alla Mecca approfittai della prima opportunità d'un brigantino greco che faceva il tragitto d'Alessandria; e noleggiai la camera per me, e piazze per i miei domestici. Si fece vela la notte del 9 al 10 maggio con vento in poppa, che durò fino alla notte dell'undici in cui ebbemo vento contrario; ma la mattina del 12 avevamo ancora buon vento. Scoprimmo avanti mezzogiorno un vascello da guerra che ci veniva sopra, nè si tardò a riconoscerlo per una fregata turca. Dopo le interrogazioni di pratica ci diede il buon viaggio, e poco dopo fummo in faccia al porto d'Alessandria dove entrammo felicemente a mezzodì del 12 maggio 1806.
All'indomani il secondo Scheih Ibrahim Baschà venne a trovarmi a bordo. Sbarcai subito e lo accompagnai a casa sua, e di là fui condotto in una casa che mi aveva fatto preparare.
Alla dogana non si vollero visitare nè i miei bauli nè le mie casse, e ricevetti tutte le dimostrazioni di rispetto, e quei riguardi che la costumatezza poteva ispirare a così buoni abitanti.
Fine del tomo secondo.
INDICE
DELLE MATERIE CONTENUTE IN QUESTO SECONDO TOMO.
Cap. XV.
Descrizione di Marocco. — Santi. — Palazzo del sultano. — Giudei. — Giardini. — Corvi. — Leprosi. — Monte Atlante. — Brebi. — Collezione di alcuni vocaboli di quell'idioma Pag. 5
Cap. XVI.
Malattia d'Ali Bey. — Storia naturale. — Eclissi della luna. — Ritorno del Sultano. — Regalo di donne. — Annuncio del viaggio alla Mecca. — Visita di etichetta, e regalo del Sultano. — Tenda mandata dal medesimo. — Ali Bey parte da Marocco 25
Cap. XVII.
Casa regnante a Marocco. — Genealogia. — Scheriffi. — Tattica. — Entrate del Sultano. — Sue guardie. — Sue donne. — Partenza d'Ali Bey da Fez. — Viaggio ad Ouschda 49
Cap. XVIII.
Descrizione d'Ouschda. — Difficoltà per proseguire il viaggio. — Detenzione per ordine del Sultano. — Partenza da Ouschda. — Avventure del deserto. — Arrivo a Laraisck e sua descrizione — Partenza dall'impero di Marocco 71
Cap. XIX.
Dell'antica isola Atlantide. — Dell'esistenza di un mare Mediterraneo nel centro dell'Affrica 105
Cap. XX.
Viaggio per mare da Laraisch a Tripoli in Barbaria. — Inalzamento del mare. — Burrasca. — Si approda al banco di Kerkeni. — Descrizione delle isole dello stesso nome. — Arrivo al porto di Tripoli 136
Cap. XXI.
Sbarco. — Presentazione al Pascià. — Intrighi. — Descrizione di Tripoli. — Governo. — Corte. — Moschee. — Tribunali. — Caffè. — Viveri. — Giudei. — Commercio. — Misure, pesi, monete. — Clima. — Antichità. — Regno di Tripoli 151
Cap. XXII.
Congedo d'Ali Bey dal Pascià di Tripoli. — Partenza alla volta di Alessandria. — Errore del Capitano. — Arrivo sulle coste della Marea. — Isola Sapienza. — Continuazione della strada. — Mancanza di viveri. — Ritorno a Sapienza. — Modone 175
Cap. XXIII.
Porta Longa. — Bastimenti Europei. — Ipsilanty. — Continuazione del viaggio. — Burrasca. — Arrivo in Alessandria. — Uragano. — Spaventosa burrasca. — Arrivo a Cipro. — Pessimo stato del bastimento. — Sbarco a Limassol 195
Cap. XXIV.
Viaggio a Nicosia. — Descrizione di questa città. — Architettura. — Visite d'etichetta. — Arcivescovi, e Vescovi. — Tributi dei Greci. — Donne. — Ignoranza. — Chiese Turche. — Moschee 208
Cap. XXV.
Viaggio a Citera. — Ruine del palazzo della regina. — Osservazioni intorno alla loro origine. — Ritorno a Nicosia. — Viaggio ad Idalia. — Larnaca. — Ritorno a Limassol 230
Cap. XXVI.
Viaggio a Pafo. — La Couclia. — Bellezza delle donne Cipriote. — Jeroschipos Aphroditis, ossia giardino sacro a Venere. — Xtima. — Antica Pafos. — Nuova Pafos, ossia Baffa 250
Cap. XXVII.
Ruine gigantesche della Couclia. — Ritorno a Limassol. — Amatunta. — Ruine. — Catacombe. — Osservazioni generali. — Viaggio ad Alessandria. — Sbarco 266
INDICE DELLE TAVOLE
Contenute in questo Tomo secondo
Tavola I. Veduta delle rovine del Palazzo della Regina dalla parte del monastero di S Grisostomo Pag. 142
Tavola II. Fontana nelle montagne di Pafo 258
Tavola III. ( a ) Casa formata in un sasso nella vecchia Pafo 261
( b ) Catacomba a Pafo ivi
Tavola IV. Profilo d'un antico tempio in Amatunta 271