VIAGGI DI ALI BEY EL-ABBASSI IN AFRICA ED IN ASIA
TOMO III
VIAGGI DI ALI BEY EL-ABBASSI IN AFRICA ED IN ASIA
DALL'ANNO 1803 A TUTTO IL 1807
TRADOTTI
DAL DOTTORE STEFANO TICOZZI
con tavole in rame colorate
TOMO III
MILANO Dalla Tipografia Sonzogno e Comp. 1817.
INDICE
INDICE DELLE TAVOLE VIAGGI in AFFRICA ed in ASIA FATTI DAL 1803 AL 1807.
CAPITOLO XXVIII.
Alessandria. — Antichità.
Potrebbesi formare facilmente una piccola biblioteca dei viaggi in Egitto e delle descrizioni di questo paese, il quale quantunque conosciutissimo, lo fu assai meglio dopo che tanti letterati francesi i quali accompagnavano l'armata che l'occupò in sul finire dell'ora decorso secolo, ebbero modo di esaminare in tre anni tutto quanto può meritare l'attenzione d'un osservatore. Forse più nulla rimane a dirsi di nuovo intorno alla patria di Sesostri, ma non è possibile di trovarsi in così celebre contrada, e di allontanarsene come un'ombra fuggitiva e muta, senza pagarle qualche tributo d'ammirazione. La posizione geografica d'Alessandria è di 31° 13′ 5″ di latitudine settentrionale, e di 27° 35′ 30″ di longitudine meridionale dell'osservatorio di Parigi.
È noto che l'antica Alessandria, uno de' più grandi emporii di commercio, e soggiorno della splendida corte de' Tolomei, era una immensa città che conteneva più di un milione d'abitanti. La sua dogana produceva in quei felici tempi enormi somme, che potrebbero valutarsi a circa sessantacinque milioni di franchi all'anno, il di cui valore relativo in ragione del presente abbassamento di prezzo dell'argento, può essere considerato equivalente a sei milliardi di franchi. Adesso non produce che un mezzo milione all'incirca.
Riferiscono gli Storici che quando gli Arabi conquistarono questo paese ai tempi del Califfo Omfor, Alessandria contava quattromila palazzi, altrettanti bagni pubblici, quattrocento mercati, e quarantamila Giudei tributarj. Tutti questi edificj più non esistono, ed appena si sa quale sia il luogo che occupavano.
Gli Storici ricordano un infinito numero di giardini e di orti che abbellivano i contorni della città: oggi non è circondata che da sterili deserti.
Finalmente questa magnifica città, opera del Magno Alessandro, doviziosa capitale de' Tolomei, non è più che l'ombra della sua passata grandezza. Un immenso ammasso di ruine in gran parte coperte da banchi di sabbia, la colonna di Pompeo, gli obelischi di Cleopatra, le cisterne, le catacombe, ed alcune colonne intiere o spezzate qua e là sparse sopra una superficie di alcune leghe, sono i soli testimonj del suo antico splendore. Un recinto di alte e larghe mura di circa due leghe con torri in parte ruinate, e molti casolari sparsi tra i rottami di caduti edificj occupano questo spazio: e questi sono i miseri avanzi dei mezzi tempi, ossia della seconda età d'Alessandria quando passò in potere dell'islamismo. Una popolazione di circa cinquemila abitanti d'ogni colore, d'ogni nazione, d'ogni culto, collocata sopra un'angusta lingua di terra che si prolunga entro al mare, senz'altri prodotti che quelli d'un commercio senz'attività, e che in quest'anno per colmo di sue sventure ha perduta l'unica acqua bevibile che possedeva: tale è lo stato della moderna Alessandria.
La massa principale degli abitanti è composta di Arabi, vale a dire di uomini generalmente ignoranti e grossolani: ma che invece d'essere indocili e cattivi verso i Cristiani, li servono, e soffrono perfino i loro capricci ed ingiustizie come se fossero loro schiavi. Io penso che in addietro questo popolo, anche per il solo motivo de' suoi pregiudizj religiosi, fosse assai meno affabile verso i Cristiani; ma la spedizione de' Francesi fece loro credere che il Cristiano non abbia in orrore il Musulmano, perchè avendo allora bastanti forze per farla da padrone, li trattava come fratelli: e queste circostanze produssero una fortunata rivoluzione nello spirito di questa gente. Gl'immensi vantaggi della civiltà, della tattica militare, dell'organizzazione politica, delle arti e delle scienze delle nazioni Europee ch'ebbero opportunità di notare, e le idee filantropiche comuni a tutte le classi della società ch'ebbero abbastanza tempo di apprezzare, loro ispirarono una specie di rispettosa ammirazione per nazioni che possedono così vantaggiose qualità sopra gli Arabi ed i Turchi.
Alcuni piccoli orti posti entro l'attuale recinto d'Alessandria, e sopra lo spazio che occupava l'antica città, non hanno che palme assai belle, e pochi altri alberi fruttiferi stentati perchè non possono inaffiarsi che coll'acqua de' pozzi. Per andare a passeggiare in questi giardini, e per passare da un canto all'altro della città adoperansi certi asini di così piccola razza, che appena bastano perchè il cavaliere non tocchi il suolo; ma la piccolezza è largamente compensata dalla loro vivacità e velocità del movimento, equivalendo l'ordinario loro passo al trotto forte di un cavallo. Vedonsi questi animali carichi di un uomo, e talvolta di enormi pesi correre continuamente da una all'altra parte della città come fossero cavalli di posta. I loro condottieri vanno sempre a piedi correndo quanto possono per poterli seguire, lo che spesse volte serve di piacevole intrattenimento agli spettatori. Io misurai l'altezza di questi interessanti animali, e trovai che il termine medio era di trentanove pollici di Francia, e taluno pure non ne ha più di trentasette. Quanto utili sarebbero questi animali nelle grandi città dell'Europa! Il loro giornaliero mantenimento non arriva al quarto di ciò che consuma un cavallo o un mulo, e i servigi che prestano sono egualmente grandi.
I cavalli che si vendono in Alessandria sono di razze diverse dell'Egitto, dell'Arabia, della Siria, dell'Affrica, ma tutti assai mediocri, ed i pochi buoni vi si vendono carissimi. Le staffe più grandi di quelle che si costumano a Marocco hanno alcuni angoli acuti che servono per spronare il cavallo. Qui come in Cipro quando uno è sceso da cavallo, non ha più nulla a pensare: il domestico lo prende per la briglia, e lo fa lentamente passeggiare per un quarto d'ora, onde l'animale passi gradatamente dallo stato di violento movimento a quello di riposo.
Trovansi in città molte persone che fanno professione di seguire il cavallo a piedi, e di averne cura, e sono chiamati di sàiz. Quando si acquista o si vende un cavallo, questi fanno le veci di cozzone; e quando si sorte a cavallo il sàiz cammina avanti con un bastone rosso o verde lungo sette in otto piedi, che tiene perpendicolarmente in una mano. I Pascià, ed i grandi sono preceduti da molti sàiz, che allora camminano due a due; e per poco che tale corteggio sia numeroso rassomiglia a certe processioni da me vedute in Europa.
Alessandria manca di scuole per le scienze, e perfino l'arte dello scrivere è ridotta in pessimo stato, perchè non venendo i maestri di scuola sottoposti a verun esame, formano ì caratteri della scrittura a capriccio; alterando ognuno a modo suo le lettere dell'alfabeto. I Cofti, i Greci, i Giudei, e dirò ancora ogni tribù hanno tratti e gradazioni insensibili; onde non basta la vita d'un uomo per imparare a leggere speditamente. Coloro che vogliono imparare le scienze vanno al Cairo.
Gli avanzi degli antichi edificj fatti di pietre, e coperti dall'arena, sono le cave ove gli abitanti della nuova Alessandria prendono i materiali per fabbricare le loro case. Tutto questo spazio è inoltre seminato di cisterne, alcune delle quali ornate da più ordini di colonne con archi gli uni sopra gli altri. Vi si vedeva anticamente una moschea detta moschea dalle mille colonne.
Molte colonne dissotterrate in questo luogo erano state in varie epoche condotte sulla riva del mare, di dove volevansi trasportare in diversi paesi di Europa; ma trovandosi un giorno in porto una flotta turca, e spiacendo ai capitani che la comandavano di non avere un comodo sbarco, fecero gettare in acqua tutte le colonne, ammonticchiandole le une sulle altre; ed in tal modo sorse ad un tratto un molo di preziosissimi materiali, rapiti un'altra volta e forse per sempre al lusso europeo.
1. COLONNA DI POMPEO. 2. OBELISCO DI CLEOPATRA.
Gli obelischi, detti ancora guglie di Cleopatra, trovansi in sull'estremità del porto di levante, presso ad una grossa torre chiamata la torre lunga. Sono due, una in piedi e l'altra rovesciata in terra, ambedue di granito rosso di tegola, e coperte di geroglifici assai ben conservati sopra alcuni lati, in altri quasi affatto cancellati. Si fecero alcuni scavamenti per discoprirli del tutto; e perchè i dotti europei ne hanno fatta un'accurata descrizione, come pure della colonna di Pompeo, e delle catacombe reali, ne ho copiato i loro disegni. La base dell'obelisco in piedi è appoggiata sopra tre scaglioni di marmo bianco cocleare.
La colonna Pompea, colosso forse unico nel suo genere, dello stesso granito degli obelischi fu pure esattamente descritta. È questa composta di quattro blocchi[1] che formano il piedestallo, la base, il fusto ed il capitello: il fusto è lungo sessantatrè piedi un pollice e tre linee, sopra otto piedi due pollici e due linee di diametro nella parte inferiore. Quanto mai sono fallaci i sensi degli uomini! In distanza di cinquanta passi da questo monumento, l'occhio ancora non s'accorge della grandezza del colosso che gli sta d'avanti; e l'immaginazione anche a brevissima distanza non è altrimenti colpita da così enorme mole. Ciò procede dal trovarsi la colonna sopra una piccola altura senza avere in vicinanza verun oggetto di ordinaria dimensione, che faccia le funzioni di scala di agguaglio. I sensi rappresentanci una grande colonna, e nulla più, ma quando s'arriva in distanza di soli dieci o dodici passi, allora, come ci cadesse tutt'ad un tratto una benda dagli occhi, vediamo tutta la grandiosità del monumento. Noi impariamo a vedere toccando, e qui l'occhio non dà la misura dell'oggetto che quando siamo vicini a toccarlo, o in istato almeno di agguagliare alcune delle sue parti col nostro corpo: allora un lampo di luce viene a sorprendere la nostra immaginazione scoprendoci la maravigliosa mole che abbiam sotto gli occhi. Io sperimentai più volte questo fenomeno dell'ottica, che le persone dell'arte hanno dottamente spiegato. Il capitello forato in più luoghi ci fa conoscere che altra volta sosteneva una statua. Ignorasi affatto l'epoca della colonna e degli obelischi; ed i nomi di Cleopatra e di Pompeo non possono risguardarsi che quali moderne intitolazioni, mentre questi monumenti sono più antichi de' personaggi da cui ebbero il nome. Quello di Severo dato da taluni alla colonna è ancora più assurdo perchè non ha altro fondamento che l'ignoranza della lingua araba. Questi popoli la chiamano el Souari, vocabolo che significa colonna, e che nella imperfezione della scrittura araba scrivesi cogli stessi caratteri o lettere che il vocabolo Severo; lo che diede luogo all'errore.
Alcuni Arabi più istruiti pensano che la colonna sia opera d'Alessandro, da loro detto Scander: ma io ho trovato fra i dotti del paese una più rispettabile tradizione, e più analoga alla natura ed alla grandezza dell'oggetto; questa vuole che la colonna fosse inalzata a' tempi di Ercole, ch'essi dicono Scander-el-Carnéinn, ossia Alessandro dai due secoli, perchè la traduzione lo fa vivere due secoli; e non Alessandro dalle due corna, come alcuni autori tradussero questo nome. Carn significa secolo, e carneinn, duale di carn, due secoli.
Le catacombe o grotte che formano l'antica Necropoli, (città de' morti ) sono un altro oggetto degno dell'attenzione del viaggiatore. Molte sono cavate nella roccia a guisa di camere più o meno grandi, con uno, due e tre ranghi di nicchie destinate a ricevere i corpi. Presso alla casa di un marabotto detto Sidi-el-Pabbari vedesi una specie di strada tutta composta di catacombe poste a' piedi di due côlli l'uno in faccia all'altro. Da una banda quasi tutte le catacombe sono chiuse dalla sabbia, ad eccezione di una grandissima che contiene tre sale ed un infinito numero di nicchie. Dall'altro lato numerai undici catacombe in generale assai ben conservate, le quali hanno tre ranghi di nicchie.
Ma le più magnifiche grotte sono quelle al S. O., due miglia distanti dalla città. Sembra che queste fossero destinate ai re d'Egitto; ed oggi sono ridotte ad estremo deperimento; onde non tutte sono praticabili. Prima d'inoltrarvisi convien tirare alcuni colpi di fucile o di pistola per atterrire le bestie feroci che d'ordinario ricoveransi in questi lugubri soggiorni, come per mettere l'aria in movimento. Si entra poscia con più fiaccole, e muniti d'una corda che serve di guida per il ritorno, attaccandone una estremità all'ingresso.
Per l'eccessivo calore che vi regna si suda come in un bagno a vapore, talchè prima d'uscire fummo forzati d'intrattenerci mezz'ora nel primo salone, mettendoci gradatamente al livello dell'esterna temperatura. Le tenebre sono così dense, che più fiaccole riunite appena bastano per distinguere alcuna cosa assai da vicino, anche dopo esservi rimasti un'ora, e quando la pupilla dell'occhio ha già acquistato tutto il dilatamento di cui è capace. Le bestie feroci che abitano queste catacombe vi portano le loro prede per divorarle, onde il suolo è pieno di ossa d'ogni specie d'animali, alcune delle quali recentemente spogliate. Non sonovi pipistrelli come in quelle di Amatunta, ma in vece un infinito numero di falene, ossiano farfalle notturne, e mosche di vivaci colori come le cantaridi. Vi si trovano pure molti rospi i di cui buchi s'internano nel suolo, ove trovano l'acqua a poca profondità: la loro pelle d'un bianco grigio sembra coperta di polvere. Tali sono i presenti abitatori di questo soggiorno della morte, che l'uomo preparò con tanto lusso onde perpetuare l'esistenza delle mortali sue spoglie. I corpi postivi dalla vanità, ridotti da più secoli in polvere, non lasciarono veruna traccia, ed ignoriamo i nomi di tutti coloro che fecero scavare questi monumenti.
A pochi passi all'ovest delle catacombe vedonsi i bagni di Cleopatra, i quali sono composti di tre camere cavate nella roccia, di forma quasi quadrata di circa undici piedi da ogni lato. L'acqua del mare può entrarvi per tre aperture alcuni piedi più alte del suolo. Bagni accanto alle case della morte?... Per chi, ed in qual tempo furon fatti?... Nulla, assolutamente nulla sappiamo di tutto questo. Oh perdita irreparabile della biblioteca d'Alessandria...! Ma io rispetto la decisione del Califfo del maggior de' profeti.
Seguendo la riva del mare una lega più all'O. si trova l'abitazione d'un marabotto detto Sid iel-Ajami. È questo il luogo in cui sbarcò l'armata francese.
CAPITOLO XXIX.
Abitanti d'Alessandria. — Corrispondenza. — Clima. — Notizie storiche. La mescolanza degli abitanti d'Alessandria è cagione che vi si parlino tutte le lingue del mondo; ma tutte male, perchè in questa moderna Babele si dimentica poc'a poco il linguaggio materno per parlare i diversi idiomi di coloro, dai quali desideriamo di essere intesi. I fanciulli imparano nello stesso tempo senza maestro tre o quattro lingue senza che mai ne sappiano una perfettamente.
I Cofti discendenti, come ognun sa, dagli antichi abitanti d'Alessandria e dell'Egitto sono adesso ridotti ad un migliajo d'individui o poco più, quasi tutti commercianti. Avevano altra volta pel loro culto un magnifico tempio, che fu spianato per iscoprire il fuoco della piazza.
Di Greci stabilmente domiciliati in Alessandria non vi sono quaranta famiglie; ma sempre vi sono molti Greci di passaggio, perchè la maggior parte de' bastimenti che vi approdano o sono greci o con equipaggio greco. Il patriarca d'Alessandria, uomo rispettabile e dotto, risiede col vescovo nel convento di questa religione. Sonovi inoltre alcuni cattolici della Siria, che fanno un piccolo commercio eventuale.
Si contano in Alessandria più di trecento Giudei occupati del commercio, e dell'usura, i quali mantengono una vivissima corrispondenza con Livorno. Adesso non hanno che alcune sinagoghe provvisorie, perchè la loro grande sinagoga corse il destino della chiesa de' Cofti.
I Cristiani ed i Giudei del paese vestono all'orientale, senza verun segno che li distingua dagli altri; sono ben trattati dai Turchi e dagli Arabi: perciò fanno i loro affari, celebrano le loro feste, professano la propria religione, e spiegano tutto il lusso che loro piace con tutta libertà, e senza timore d'avanie.
I Franchi, ossia Europei di qualunque nazione, e le loro donne vestono all'europea con tutto il lusso, e secondo la moda giornaliera. Abitano tutti in un quartiere che rassomiglia perfettamente ad una città d'Europa. Uomini e donne escono dalle case loro di giorno e di notte, suonano e cantano per le strade senza che giammai un musulmano commetta contro di loro la più piccola scortesia. Questa libertà stendesi ancora a' semplici protetti dei consolati, i quali vestiti all'europea godono degli stessi diritti degli Europei, quantunque siano giudei del paese. Quale differenza con Marocco!
I Cattolici possedono in Alessandria una chiesa ed un convento posti sotto la protezione della Francia, come lo sono tutti gli stabilimenti religiosi di Levante, d'ordinario poi sono mantenuti dalla Spagna.
Le donne del paese cristiane ed ebree sortono velate, e vivono ritirate come le musulmane, mentre le europee godono della stessa libertà che hanno in Europa. Tra le cristiane e le ebree non sono rare le belle: ma se della bellezza delle musulmane dobbiamo giudicarne da' loro fanciulli, non potressimo formarcene una vantaggiosa idea, perchè tutti hanno forme ributtanti, ventre grosso, gambe corte e cagnesche, testa sproporzionata, occhi affetti d'oftalmia e cisposi, colore citrino verdognolo: mentre i figli delle europee nati ed ellevati in Alessandria sono belli e ben fatti come nella patria de' loro genitori. Quanto diversi sono i fanciulli musulmani di Féz, che frequentemente ci mostrano delle figure angeliche!
In vista dell'estesissimo commercio di questa città parrà strano che non siavi alcuno stabilimento pubblico per diramare le lettere, e perciò la corrispondenza si eseguisce per mezzo dei patroni de' batelli che vengono frequentemente da Smirne, da Costantinopoli, e da altri luoghi. Arrivati in Alessandria scorrono le strade e le case colle lettere avviluppate in un fazzoletto, e chiunque aspetta lettere, domanda il sacco, e visita tutte le lettere perchè d'ordinario il portatore non sa leggere, onde la corrispondenza rimane esposta all'indiscrezione, o all'interesse speculatore di qualche negoziante.
Benchè il clima d'Alessandria sia caldo non lo è per altro in ragione della sua posizione geografica. I venti di mare vi regnano tutta l'estate, e vi mantengono l'aria umida, di modo che il mio igrometro segnava un alto grado d'umidità in uno de' più caldi giorni ch'io vi provassi nel luglio e nell'agosto; ed il termometro all'ombra non si alzò mai oltre i ventidue gradi di Reaumur.
L'oftalmia risguardata come la sola malattia endemica del paese, parmi procedere da una causa affatto meccanica: essendo senza dubbio l'effetto di alcuni grani di sabbia impalpabile, di cui l'atmosfera è sempre ingombra. Penetrando questa nell'occhio, vi eccita una specie di prurito, che provoca a strofinarsi. Siccome l'organo è d'ordinario irritato dal riverbero del sole e della polvere salina, la più leggiera confricazione allorchè la sabbia è penetrata nell'occhio lacera la pellicola, e produce l'infiammazione. Poche persone sfuggono a questa malattia. Convinto di questa verità allorchè mi sentivo qualche corpo straniero nell'occhio resistevo costantemente al prurito, e tale precauzione mi salvò dall'oftalmia.
Fui meno antiveggente pei cambiamenti di temperatura in autunno; i quali sono in questo così improvvisi, che nello spazio di tre o quattr'ore provansi più variazioni di caldo e di freddo; onde vi soffersi una leggiera indisposizione.
Benchè la storia de' paesi da me visitati possa sembrare straniera all'itinerario de' miei viaggi, la singolare situazione politica dell'Egitto, paese privo di sovrano territoriale, e che gode d'una specie d'indipendenza anarchica domanda una particolare attenzione.
Dietro le notizie che ho potuto procurarmi sul luogo, darò dunque un cenno intorno alla sua situazione dalla spedizione francese fino al giorno della mia partenza per la Mecca.
È noto che un branco de' Francesi che occupavano l'Egitto dovettero cedere agli sforzi riuniti di un'armata inglese di 23,400 uomini, comandata dal generale Abercrombis; di un'armata turca di 6,000 sbarcata ad Aboukir, sotto gli ordini di Hassan Pascià, Capitano Pascià della porta Ottomana; di un'altra armata inglese di 6,000 diretti dal general Beird sbarcato a Suez, e di una quarta armata turca di 28,300 uomini, proveniente dalla Siria comandata dal Gran Visir; che uniti a 27,000 marinaj ed impiegati forma un totale di 70,700 uomini. Col mezzo di questa forza l'Egitto rimase in potere degl'Inglesi e de' Turchi.
Alcun tempo dopo in forza del trattato d'Amiens gl'Inglesi evacuarono il paese, Hassan Pascià si ritirò, ed il governo d'Egitto rimase tra le mani di Mehemed Pascià che aveva un corpo di truppe turche ai suoi ordini, composte in gran parte d'Albanesi e d'Arnauti. Ben tosto gli Albanesi si ribellarono contro il Pascià turco, e chiamarono i Mamelucchi che vivevano ritirati nell'alto Egitto. Questi non tardarono ad averne l'esclusivo comando, e gli Arnauti rimasti semplici soldati al servizio dei Bey, non soffrirono a lungo la loro signoria, si rivoltarono, e ne fecero perir molti; gli altri si salvarono nell'alto Egitto. Quando cominciò la sollevazione del Cairo, il bravo Osman Bey Bardissi trovavasi in casa con una ventina al più di Mamelucchi. Attaccato da alcune migliaja d'Arnauti, fa tranquillamente sellare i cavalli, indi tutt'ad un tratto facendo aprire le porte piomba come un fulmine sugli Arnauti, attraversa le loro file, e si ritira nell'alto Egitto ove trovasi anche al presente[2]. È verosimile che questa sollevazione fosse organizzata da Koursouf Pascià, governatore d'Alessandria, e che i scheich del Cairo non vi fossero stranieri.
Koursouf si recò subito al Cairo, e prese il comando dell'Egitto: ma gli Arnauti sempre inquieti, ed altronde tormentati dai scheih del Cairo abbassarono Koursouf, e gli sostituirono Mehemed Alì attuale Pascià.
Mentre i Mamelucchi erano al Cairo, la Porta aveva nominato governatore d'Alessandria l'inquieto Alì Pascià ch'erasi di già fatto conoscere nella rivoluzione di Tripoli di Barbaria, ov'era stato alcun tempo Pascià intruso. Venne in Alessandria con istruzioni d'indebolire la potenza degli Arnauti e de' Mamelucchi, per rimettere l'Egitto sotto l'immediata ubbidienza della Porta. Era seguito da un corpo di truppe di lui degne: l'indisciplina, il disordine, la licenza loro erano giunte a tale, che non facevansi riguardo di tirare dei colpi di fucile contro le persone che incontravano per istrada, e che gli prendeva voglia d'uccidere senza veruna ragione. Gli Europei e le loro case non erano sicure da tanta licenza, e le case de' consoli non erano in verun modo rispettate. Dal suo canto Alì Pascià ch'era il più crudel uomo che immaginare si possa, non lasciava passare un solo giorno senza fare strozzare qualche vittima, facendone poi gettare i corpi nel mare; mentre altre ne faceva assassinare segretamente nelle catacombe. Tale era l'uomo che la Porta incaricava di rimenare l'Egitto sotto le sue leggi.
Infruttuosi riuscirono i reclami de' Consoli Europei al Pascià per metter fine agli eccessi delle sue truppe, onde risolsero di andare colle loro famiglie a bordo di una fregata che trovavasi in porto, e di là spedirono le loro rimostranze ai rispettivi ambasciatori a Costantinopoli.
Alì Pascià intimidito da questo passo dei Consoli gl'invitò a trattare con lui; e finalmente accettarono la proposizione di ritornare alle loro case dopo avere solennemente capitolato col Pascià.
Terminata questa vertenza, ottenne da' Mamelucchi e dagli Arnauti di poter recarsi senza truppe al Cairo. Ma appena vi fu arrivato, facendo avanzare le sue truppe, furono sorprese e disfatte in sulla strada. In conseguenza Alì Pascià ebbe ordine di sortire dal Cairo e dal paese, prendendo la strada della Siria. Il terzo giorno il corpo de' Mamelucchi che lo scortava, rimasto addietro, fece fuoco contro di lui, che ne rimase ucciso con tutta la sua gente.
Mentre ciò accadeva in Egitto, la politica andava preparando per quel paese e pel commercio europeo del Levante un'assai più importante rivoluzione, che andò poi fallita.
Quando gl'Inglesi evacuarono l'Egitto, il Mamelucco Elfi Bey schiavo ed erede di Murat Bey partì con loro alla volta di Malta con intenzione di recarsi a Londra. Ma perchè le circostanze politiche variavano ad ogni istante, e l'importanza della persona d' Elfi Bey ne seguiva le vicende; stanco della poca considerazione in cui dagl'Inglesi era tenuto a Malta, pensò di entrare in trattative colla Francia; ed era già pronto ad imbarcarsi per andarvi, quando gl'Inglesi gli offrirono una nave per passare a Londra; ove appena sbarcato concertò tutto quanto poteva ad un tempo convenire alla propria ambizione, ed agl'interessi della Gran Brettagna. Gli furono in conseguenza assegnati fondi e mezzi per ingrandirsi, e convenuto il piano di condotta che doveva tenersi verso l'Egitto.
Ricolmo di doni e di ricchezze fu Elfi ricondotto in Egitto sopra una fregata inglese: ma Osman Bey Bardissi, il più valoroso ed influente di tutti i Bey adombrato del ritorno d' Elfi, e temendone l'ingrandimento, dispose di disfarsene ad ogni costo. Quando seppe ch'era sbarcato in Egitto, trovò chi si prese l'incarico di avvelenarlo, e temendo che non bastasse il veleno, gli tese insidie per assassinarlo sulla strada.
Elfi dubitò, o fu segretamente avvisato del pericolo che gli sovrastava, e fuggì a cavallo a traverso al deserto, solo, senza danaro, e privo di tutto. Si racconta, che entrato senza saperlo nella tenda di un Bedovino suo nemico mentre non eravi che la sua sposa, palesò il proprio nome per ottenere qualche soccorso. Spaventata la donna del suo pericolo, gli diede viveri ed acqua, pregandolo a fuggir subito onde non essere sorpreso dal marito che mortalmente l'odiava. Elfi approfittò del consiglio. La donna raccontò al marito l'accadutole, il quale non dimenticando in quel primo impeto di collera i generosi sentimenti che lo animavano: donna, gli rispose, se io l'avessi trovato qui non so quello che avrei fatto.... forse l'avrei ammazzato.... ma.... io t'avrei egualmente uccisa, se tu gli avessi rifiutata l'ospitalità, ed i necessarj soccorsi. Tratto maraviglioso di cui non trovansi frequenti esempi nella storia.
Tutti gli effetti preziosi ch' Elfi aveva portati da Londra furono dopo la sua fuga spezzati, saccheggiati, e venduti. Unitosi ad alcuni Mamelucchi suoi partigiani si stabilì nel deserto; e col danaro ch'ebbe dagl'Inglesi non tardò ad ingrossare il suo partito, e sentendosi abbastanza forte, dopo avere sottomesso alcuni dovar, e tribù, venne a bloccare la città di Damanhour poco distante da Alessandria. Ma gli abitanti ch'eransi dichiarati contro di lui, si difendono già da due anni con una piccola guarnigione di Arnauti.
Intanto gl'Inglesi, e gli agenti d' Elfi ottennero firmani dal Gran Signore che lo dichiaravano Schèih-el-Beled, ossia principe feudatario dell'Egitto. Per far eseguire questi firmani la Porta spedì il Capitano Pascià con tutta la squadra ottomana, e spedì inoltre con alcune truppe Mussa Pascià di Salonicchi, come governatore del Cairo: ma Mehemed Alì ed i Scheih di questa città si opposero a tale disposizione, e dopo alcune trattative col capitano Pascià, e colla corte di Costantinopoli, ottennero nuovi firmani in favore di Mehemed Alì. Il capitano Pascià e Mussa Pascià ritiraronsi senza aver fatto nulla il 18 ottobre 1806; ed Elfi Bey rimase solo ed abbandonato nel deserto. Fu questi senza dubbio un fatal colpo per gl'Inglesi, che perdettero i frutti di tanti sacrificj, ed i vantaggi che loro assicurava l'esclusivo commercio dell'Egitto. Ciò è quanto mi fu raccontato, ma io non guarentisco che la verità di ciò che ho veduto io stesso, e quantunque il capitano Pascià e Mussa Pascià mi dassero non equivoche testimonianze di considerazione e di amicizia, portato dai mio carattere più alla contemplazione dalla natura che agl'intrighi degli uomini, mi tenni sempre lontano da simili affari.
Rimasi diciannove giorni accampato fuori d'Alessandria con tutta la mia gente, nel qual tempo raccolsi molte piante marine, e disegnai la veduta d'Alessandria. Avanti di partire da Alessandria il capitan Pascià ebbe la delicatezza di presentarmi, senz'averla richiesta, una lettera commendatizia per Mehemed Alì, un'altra per il Pascià di Damasco, ed un firmano pel Sultano Scheriffo della Mecca.
CAPITOLO XXX.
Tragitto a Rosetta. — Bocche del Nilo. — Rosetta. — Viaggio al Cairo pel Nilo. Dopo il soggiorno di cinque mesi e mezzo in Alessandria, ripresi il mio pellegrinaggio il giovedì 30 ottobre 1806, e m'imbarcai sopra un dierme accompagnato da alcuni de' principali Scheih della città, che vollero seguirmi per due ore di navigazione. Il dierme è un bastimento scoperto a vele latine o triangolari. Quello che m'aveva ricevuto a bordo era de' più grandi, ed a tre alberi, con una gran vela ad ogni albero. La lenta manovra di queste navi le espone a frequenti pericoli; e non passa anno senza qualche naufragio al pericoloso passaggio delle barre del Nilo. Non potendo per cagione del vento assai fiacco giugnere avanti sera alle bocche del Nilo, si diede fondo nella rada d'Aboukir alle quattro della sera.
Il 31, alle sette ore e mezzo arrivammo alla barra del Nilo, la quale è posta quattro miglia all'incirca entro al mare. D'ordinario l'onda è assai gagliarda per l'urto delle acque del mare con quelle del Nilo; e perchè i passaggi praticabili cambiano continuamente di luogo, vi sta continuamente un battello per indicarli alle navi. Malgrado questa precauzione, essendo la barra assai larga, in tempo che il Nilo è povero d'acque non avvi legno per piccolo ch'egli sia, la di cui chiglia non tocchi più volte la sabbia; ciò che stanca assai gli equipaggi, e li espone a perdersi. Quand'io passai, essendo il Nilo gonfio ed il mare tranquillo, si attraversò la barra senza quasi avvedersene.
Mancato affatto il vento si gettò l'ancora sul Nilo poco più addentro della barra. Come è bella la vista di questo mare d'acqua dolce! la bocca del Nilo era ancor lontana più di una lega, e pure bevevamo le acque del Nilo perfettamente dolci, che rispingono quelle del mare assai al di là della barra. Alle nove ore e mezzo un vento favorevole ci portò in mezz'ora alla bocca del Nilo... Quale sorprendente spettacolo! Un maestoso fiume le di cui acque s'avanzano lentamente fra sponde coperte di alberi d'ogni specie, da vasti campi di riso che mietevasi allora, da una infinita varietà di piante aromatiche, da casali, da capanne, da case qua e là sparse, da vacche, da montoni, e da diverse specie d'uccelli che facevano risuonar la campagna co' loro canti, mentre copriva il Nilo un infinito numero di oche, d'anatre e d'altri uccelli acquatici, tra i quali si distinguevano alcune truppe di cigni, che sembravano aver signoria sugli altri. Ah perchè mai la Dea d'Amore non scelse per suo soggiorno le rive della foce del Nilo?
Lasciando a sinistra il forte Giuliano, e a destra l'isola Verde, che deve la sua origine ad un dierme naufragato, sul quale la sabbia e la melma ammonticchiandosi ne fecero poco a poco una vasta isola ora coperta di case e di giardini.
In una sinuosità del fiume prendendo il vento da prua, tutti gli equipaggi del nostro, e di altri tredici dierme che ci accompagnavano, saltarono a terra, rimurchiando il proprio bastimento colle corde, finchè in un giro prendendo vento in poppa, furono rimesse le vele, e si giunse in sul mezzogiorno a Rosetta. Sbarcato all'istante andai ad alloggiare nella casa che un arabo mio amico mi aveva preparata.
Rosetta posta sulla riva sinistra del Nilo è poco larga, ma lunga assai. Le case sono fatte di mattoni come quelle della vicina campagna, ed hanno quattro o cinque piani; lo che unitamente alle molte finestre ed alle grandi e sontuose torri, la fa parere una bella città d'Europa. Se poi vi si aggiunga la vicinanza d'un vasto fiume, ed al di là la prospettiva del Delta, la bontà del clima, e l'eccellenza de' suoi prodotti, è facile il giudicare quanto delizioso ne sarebbe il soggiorno, se le benefiche disposizioni della natura non fossero contrariate dagli uomini.
Rosetta è governata da un Agà arnauto detto Alì Bey, che d'ordinario tiene sotto i suoi ordini trecento soldati della sua nazione. Eravi accidentalmente in questo tempo un altro Alì Bey turco figliuolo d'un antico Pascià; onde eravamo nello stesso tempo tre Alì Bey a Rosetta.
In questa città fa la sua residenza un vescovo greco, ed adesso vi si trovava pure l'arcivescovo del Monte Sinai che recavasi dal Cairo a Costantinopoli, ov'era in pari tempo diretto anche il luogotenente generale del Capitano Pascià detto Kiùhia.
Non uscii quel giorno di casa che per visitare il celebre sig. Rosetti che mi fece una straordinaria accoglienza. La seguente domenica fu piovosa, e s'udirono gagliardi tuoni.
Il lunedì 3 ottobre m'imbarcai alle due ore dopo mezzogiorno sopra un càncha per rimontare il fiume. Il càncha è una specie di bastimento unicamente destinato alla navigazione del Nilo: rassomiglia ai dierme, ma ha di più una camera assai comoda divisa in due parti che ne formano una sola, ed un gabinetto circondati da belle finestre. Io vi occupai solo le camere, ed il rimanente della nave i miei domestici, equipaggi, e cavalli.
Alle due ore e mezzo si passò in faccia ad Abu Mandour, ed alle cinque giugnemmo presso Berinhal, borgata posta sulla riva destra dopo aver lasciato Lemir a sinistra.
Le frequenti sinuosità del Nilo obbligando gli equipaggi a rimurchiare spesse volte il bastimento, sono cagione che si prendono assai numerosi: il mio era di quattordici uomini. La sera si diede fondo tra i villaggi di Entaube, e di Edfina.
Martedì 4.
Si spiegarono le vele con leggier vento alle otto ore del mattino, e dopo avere lungamente rimurchiata la nave, arrivammo a Fizzara villaggio posto dirimpetto all'altro di Schemschera sulla riva destra, ove vidi passare un feretro. Un uomo ben vestito, probabilmente l'iman, apriva il convoglio seguito da dodici o quindici persone; teneva loro dietro il morto portato sulle spalle da quattro uomini, e coperto da alcuni panni di diversi colori, l'ultimo de' quali era rosso. Era seguito da cento femmine all'incirca che mettevano altissime grida. Giunto il convoglio al luogo della sepoltura le donne si ritirarono, e gli uomini rimasero soli per seppellire il cadavere.
Ad ogni tratto incontravamo delle aje ove battevasi il riso; e le rive erano tutte coperte di vacche e di bufali, che scendevano anche nel fiume fino al collo, e talvolta ancora cacciavano la testa sott'acqua, e ve la tenevano uno o due minuti.
Alle cinque ore e mezzo della sera passammo presso al villaggio di Salmia, e tre ore dopo si gettò l'ancora fra la città di Rähmanieh posta sulla riva sinistra, ed il villaggio di Dessouk situato sull'opposto lato.
La vista di Rähmanieh, come quella delle altre città interne del basso Egitto, è alquanto trista. Le case sono fabbricate sopra piccole alture di terra nera, e fatte di mattoni mal cotti dello stesso colore, che non venendo imbiancati, danno a queste città un aspetto lugubre. Notai un quartiere della città tutto composto di colombaje fatte a guisa di pani di zucchero, o di cupole paraboliche. Accanto alla città trovavansi accampati circa mille Arnauti, che avevano molti battelli al lungo della loro linea.
Mercoledì 5.
Si rimase all'ancora fino alle dieci ore, quando si mise alla vela con buon vento, che in breve tempo ci portò tra i villaggi di Morguese e di Maïdmoun, indi a Mehalet Abouaali e Caffer-Machar, in faccia al quale sulla opposta riva vedonsi molti gruppi di case nelle quali sonovi moltissime colombaje eguali a quelle di Rähmanieh; perciocchè scarseggiando in questi paesi le carni, vi si mangiano assai piccioni. In questo luogo le rive sono prive di alberi.
A mezzodì passammo innanzi a Saaffia, poi Mahhaladiaya, indi a Hheberhhil, Dameguiniddena, Schebberis, Saoun-el-Hajar, Nikleh, per ultimo Addahharie allora occupato da' Mamelucchi: per cui ci siamo ben guardati dall'avvicinarvici, tenendoci presso alla destra riva, ove trovasi il casale di Schabour.
Alle otto della sera giunti al di là di Noffa, il bastimento diede in secco sulla sponda destra; lo che ci forzò a passarvi la notte.
Giovedì 6.
In sul far del giorno mi avvidi d'essere tra Nitmè e Caffer-el-Baga. Non bastando l'equipaggio a metter la nave a galla si fecero venire alcuni Arabi; ma si dovette restare a Caffer-el-Baga finchè durò un gagliardo vento di levante. Approfittai di questo contrattempo per iscendere a terra, ed osservarvi il passaggio del sole che mi diede per latitudine settentrionale di questo villaggio 30° 47′ 55″.
Dopo tre ore di lentissima navigazione arrivammo alle quattro a Mischla, ed un'ora dopo dovemmo gettar l'ancora per mancanza di vento.
Trovavansi colà ancorati due altri bastimenti, dai quali fummo informati che gli Arabi della riva sinistra avevano alquanto più sopra preso un bastimento, e che avevano due scialuppe armate.
Alle sei ore e tre quarti si fece vela con leggier vento, e passata Zaïra, si diede fondo alle otto e mezzo a Tounoub.
Venerdì 7.
Il tempo burrascoso non ci permise di partire avanti le due dopo mezzogiorno. Dopo i villaggi di Komscherif, e di Tschan arrivammo alle quattr'ore e mezzo in faccia a Zaouch. Singolarissima è la vista di questo luogo. Figuriamoci un gruppo di cento cinquanta cupole paraboliche alte diciotto in venti piedi, la di cui base può averne dieci in undici di diametro, formate di terra e di mattoni neri, in mezzo alle quali s'inalza una torre. Queste cupole sono abitate da colombi, e la base dagli uomini; onde potrebbe dirsi essere questo un villaggio di piccioni con pochi individui della razza umana.
Avvicinandosi la notte, i tre equipaggi si posero in armi per esser pronti ad ogni avvenimento in caso che fossero attaccati dagli abitanti della riva sinistra.
Alle sei ore e mezzo, lasciato Nadir sulla sponda destra entrammo mezz'ora dopo nel canale di Menouf al S.O., abbandonando il tronco principale del Nilo, sul quale potevamo trovarci esposti agl'insulti degli Arabi della riva sinistra. Alle dieci ore si diede fondo nel canale.
Sabato 8.
Si spiegarono le vele alle sette ore e mezzo fra una densa nebbia, dissipatasi la quale, trovai che il canale poteva in quel luogo avere duecento cinquanta in trecento piedi di larghezza. Ritenuti dalla calma non arrivammo a Menouf prima del mezzogiorno. Ad un'ora ci rimettemmo in viaggio, e si dovette rimurchiare fino a notte.
Domenica 9.
Dopo essere rimasti all'ancora nel canale fino alle sette del mattino, si fece vela con un leggier vento, ed alle nove eravamo presso a Quèleti di dove incominciai a scoprire col cannocchiale le montagne del Cairo.
Vidi poco dopo sulla sponda diritta un villaggio con molte colombaje formate di segmenti di sfere di terra cotta, il di cui lato convesso è al di fuori, ed il concavo volto all'indentro serve di nido. Ogni sfera può avere un piede di diametro, ed ogni colombaja è composta da molte sfere ordinate in cupole paraboliche; una sola finestra serve all'ingresso ed all'uscita de' colombi; ed il padrone vi entra per un'apertura fatta nella base della cupola. Al di fuori sono assicurati nel muro molti bastoncelli perchè possano appollajarvisi i piccioni.
Alle dieci ore e mezzo entrammo nel tronco sinistro del Nilo che scende a Damiata. Il canale di Menouf riceve le acque del tronco destro del Nilo, e le versa nel sinistro. Alle dieci e tre quarti ci ancorammo sul braccio sinistro del Nilo, di dove vedevo perfettamente le due grandi piramidi benchè distanti ancora dodici leghe.
Si mise alla vela alle undici ore e mezzo, e dopo sei ore e mezzo di navigazione, durante la quale lasciammo a diritta ed a sinistra diversi villaggi, demmo fondo felicemente a Boulak, che è il porto del Cairo sulla riva destra.
La navigazione del Nilo da Rosetta al Cairo è altrettanto deliziosa, quanto stucchevole per il lettore deve riuscire il nome di tanti villaggi; ma avrei creduto di mancare all'esattezza del mio itinerario, ommettendo di ricordarli.
CAPITOLO XXXI.
Sbarco. — Stato politico del Cairo e dell'Egitto. — Le piramidi. — Djizè. — Il Mikkias. — Il vecchio Cairo. — Commercio. Il giorno dopo diedi avviso del mio arrivo al mio amico scheih El-Medhluti, che ne informò all'istante Seid Omar el Makram primo scheih del Cairo, il quale spedì i cammelli necessarj per lo sbarco del mio equipaggio. Scheih-el-Medluti venne ad incontrarmi con molte persone, e mi condusse a casa sua ove mi aveva preparato un appartamento.
Colà ricevetti le visite di Seid Omar, e di molti altri grandi del Cairo. Ma fui altamente commosso alla vista di Muley Selema fratello dell'imperatore di Marocco. La sua figura, i suoi lineamenti, le sue maniere mi rammentarono vivamente quelle del mio rispettabile amico il Principe Muley Abdsulem: il mio cuore balzò di gioja, e gridai: Muley Selema!... e di già eravamo nelle braccia l'uno dell'altro: lungo tempo le nostre lagrime c'inumidirono le guancie. Sedemmo senza poter parlare. Io ero informato delle sue sventure, egli non ignorava ciò che m'era accaduto partendo dagli Stati di suo fratello; onde potevamo senza preamboli entrare in discorso. Selema si lasciò trasportare assai contro il fratello Imperatore. Cercai di calmarlo, e gli rimproverai amichevolmente alcuni suoi leggieri falli. Dopo un lungo trattenimento alzandosi mi baciò la barba, dicendomi che le mie parole erano più dolci dello zuccaro.
Poi ch'ebbi restituite le visite ai grandi scheih, andai con Seid Omar a trovare il Pascià Mehemed Alì, cui diedi la lettera del capitan Pascià; e non vi fu cortesia che non mi usasse. Questo giovane principe è di gracile corporatura e svajuolato; ha gli occhi vivaci ne' quali scorgesi una cotal aria di diffidenza: è per altro valoroso, e non privo di buon senso, ma non avendo avuto veruna istruzione trovasi spesse volte imbarazzato. In tali congiunture, Seid Omar che ha molta influenza sul di lui spirito, rende importantissimi servigi al popolo ed allo stesso Pascià.
Si fanno ascendere a cinquemila gli Arnauti sotto gli ordini di questo governatore dell'Egitto. Questi soldati sono caparbj ed esigenti oltre ogni dovere; ma il popolo li tollera pazientemente, perchè non sarebbe più felice nè co' Turchi, nè co' Mamelucchi; e non essendo in grado di darsi un governo rappresentativo, sopporta il presente giogo in silenzio. D'altra banda Mehemed Alì che riconosce il suo inalzamento dal coraggio di queste truppe, ne dissimula gli eccessi, e non sa rendersene indipendente. Altronde i grandi scheih avendo sotto questo governo molta influenza e libertà, lo sostengono con tutte le loro forze. Il soldato tiranneggia, ed il basso popolo soffre, ma tacciono i grandi perchè non soffrono, e la macchina va alla meglio. Intanto il governo di Costantinopoli privo di energia per tenere tutt'i paesi sotto l'immediata sua dipendenza, si accontenta di una specie d'alta signoria, che gli frutta alcuni leggieri sussidj, che ogni anno sotto varj pretesti cerca di accrescere. I pochi Mamelucchi che rimangono ancora, vivono rilegati nell'alto Egitto, ove non giugne la potenza di Mehemed Alì: ma siccome questi per una singolarità della natura non possono colla generazione mantenere la loro popolazione in Egitto, e loro non è permesso di tirarne altri dall'Asia, si ridurranno tra poco al nulla. Elfi Bey col suo corpo di Mamelucchi, di Arabi, di Turchi e di rinnegati scorre il deserto di Domanheur. Il governo di Costantinopoli non può fare verun conto d'Alessandria, la quale per la sua posizione geografica non è nè città Egiziana, nè città Turca: tale è il quadro fedele dello stato politico dell'Egitto.
Io non prenderò a descrivere la città del Cairo, troppo nota a tutti gli Europei; nè a parlare dell'immenso suo traffico presentemente ridotto in misero stato per le guerre d'Europa, per la rivoluzione de' Mamelucchi, e per i progressi de' Wehhabiti; nè de' principali scheih ond'è formato il suo governo, perchè il presente sistema dipende in gran parte dall'arbitrio del Pascià.
Quantunque le piramidi di Djizè fossero allora circondate d'Arabi ammutinati, e che fosse pericoloso l'avvicinarsi, volli ad ogni costo tentare di vedere questi colossi inalzati dalla mano degli uomini. Recatomi a Djizè m'avanzai verso le piramidi scortato della mia gente armata fino al punto in cui la prudenza permetteva d'inoltrarsi.
L'immaginazione senza il soccorso del tatto non basta per formarsi un'adequata idea delle piramidi, della colonna d'Alessandro, e di tutt'altro oggetto di forme e proporzioni inusitate. Aveva meco un telescopio acromatico, ed il canocchiale militare di Dollond. A forza di confronti, di avvicinamenti e di raziocinj, io mi lusingo d'aver potuto formarmi un'idea se non del tutto esatta, lo che è impossibile quando non si consulta che un solo senso, almeno assai prossima alla verità.
Io non parlerò delle loro dimensioni, perchè la commissione d'Egitto ha completamente esaurito l'argomento: basta sapere che sono le più grandi moli che esistano.
Tre sono le piramidi di Djizè; una delle quali minore assai delle altre due: ma tra le due maggiori io credo non esservi la differenza indicata da' viaggiatori.
Il profondo storico de' traviamenti dello spirito umano, il sig. Dupuis, ha detto che la grande piramide è fatta in modo, che l'osservatore posto al piede il giorno dell'equinozio vedrebbe il sole a mezzogiorno come seduto o appoggiato sulla sua cima. Ciò vuol dire che il piano inclinato o la faccia della piramide forma col piano dell'orizzonte un angolo eguale all'altezza meridiana del sole a tale epoca, ossia eguale all'altezza dell'equatore. Le piramidi essendo esattamente poste nella latitudine di 30 gradi N., ne viene che quest'angolo dev'essere di 60 gradi. Ora siccome tutte le faccie pajono essere egualmente inclinate, il profilo della piramide tagliato perpendicolarmente dalla sommità alla base per il mezzo delle due opposte faccie, deve esattamente rappresentare un triangolo equilatero. Questo felice azardo, prodotto dalla più semplice figura rettilinea, adoperata nella costruzione di un edificio, produsse questo bel fenomeno, e diventò per me uno sprone che mi spinse a verificarlo.
Quando osservansi le piramidi a qualche distanza ci sembra che abbiano la base alquanto più lunga che i lati, ossia l'angolo della sommità più aperto, e più ottuso che gli angoli della base; ma questa illusione deriva dal vedersi quasi sempre due lati della piramide, ed allora vedesi la diagonale del quadrato della base, che di sua natura è più lungo che un lato; lo che rappresenta all'occhio le piramidi schiacciate quantunque la loro altezza sia eguale alla lunghezza d'uno dei lati della loro base.
Fu pure sciolto il problema rispetto alla loro destinazione, sapendosi destinate per ultimo soggiorno de' sovrani che le inalzarono. Gli Arabi le chiamano El Haràm Firàoun, e raccontano mille scioccherie delle loro strade sotterranee, che stendonsi sotto tutto il basso Egitto.
È noto che su questi antichi monumenti non vedonsi nè iscrizioni, nè geroglifici che possano condurci alla cognizione de' tempi in cui furono fatte. La più grande viene attribuita a Cheops che viveva circa ottocento cinquant'anni avanti l'era cristiana; ma io inclino a crederla anteriore ai tempi storici, perciocchè se fosse opera di quel principe avremmo altre testimonianze oltre quelle di Erodoto sopra un monumento che a' suoi tempi doveva eccitare l'universale ammirazione.
A' piedi della maggior piramide vedesi un dovar arabo, che serve di scala per formarsi una più esatta idea delle sue vaste dimensioni.
Presso alle piramidi vidi la Sfinge busto o testa formata d'una rupe di enorme grandezza, che gli Arabi chiamano Aboullahoul. Io ne rimarcai perfettamente l'acconciatura di capo, gli occhi e la bocca; ma perchè mi trovava quasi in faccia non potei vederla di profilo come lo desideravo.
Il piano e le colline del Sahhara affatto coperti di sabbia bianca mobile chiudono la vista all'occidente.
Djizè è posto sulla sponda sinistra del Nilo. Altra volta, secondo che mi fu detto, questo borgo era un luogo di delizie circondato di belle case di campagna e di giardini; al presente è un tristo villaggio popolato soltanto di soldati Arnauti, che non possono meglio rassomigliarsi che a banditi.
Ritornando da Djizè visitai l'isola di Roudi o Rouda sul Nilo presso la riva destra. Questa isola oggi abbandonata fu anticamente un piccolo paradiso coperto di deliziosi giardini. All'estremità meridionale entro una specie di profondo cortile che comunica colle acque del fiume trovasi il celebre mikkia, colonna innalzata per misurare giornalmente l'altezza delle acque del Nilo in tempo della escrescenza. A quest'effetto è diviso in cubiti disuguali, o a dir meglio inesatti, ed in dita, di modo che chiunque può calcolare l'abbondanza del successivo raccolto. Ma oggi questo monumento di tanta importanza è abbandonato ad un corpo di soldati, o a dir meglio di barbari, che sembrano cospirare alla sua distruzione. Allorchè sbarcai fui condotto sopra un ammasso di ruine abbandonate, di dove vidi con estremo dolore e sorpresa, che in breve preparavasi la stessa sorte al mikkia. Di già una moschea ed altri edificj vicini al mikkia sono stati atterrati; di otto colonne che ne formavano la galleria, quattro giacciono nella polvere, i tetti cadono a pezzi, e per affrettare il troppo lento lavoro del tempo, i soldati levano il piombo che unisce le pietre ed i legni del coperto: per cotal modo si accelera la ruina di un edificio così utile, e che da tanti secoli contribuisce alla gloria dell'Egitto.
I Francesi in tempo della loro spedizione in questo paese avevano ristaurato il mikkia, e ristabilito l'ordine del servizio; ma ogni cosa fu distrutta a quest'ora, e la medesima colonna del mikkia sarebbe già atterrata, se non fosse appoggiata ad una grossa spina trasversale che i Francesi posero sul capitello. Domandai se non eravi persona incaricata della custodia di un edificio di tanta importanza, e mi fu risposto: Chi pagherebbe? Perchè almeno non si provvede d'una porta che ne chiuda l'ingresso? Ciò ancora richiede denaro; altronde i soldati leverebbero la porta e la serratura... — Colle sole lagnanze si può rispondere a sì grande apatia. Sospettai che lo stesso Mehemed Alì cospirasse dal canto suo come gli altri alla distruzione del mikkia, di cui anche il Califfo Omar pare che desiderasse l'annientamento.
I muri del cortile nel di cui centro trovasi il Mikkia hanno l'esterno di pietre quarzose, e dello stesso sasso è la scala per cui si scende a basso, come pure la colonna che non potei avvicinare per essere circondata dall'acqua. Una elegante cupola di legno ond'era ricoperto il cortile e la colonna, viene ogni giorno esportata a pezzi.
Un simile monumento in tutt'altro paese in cui il raccolto discende dalle pioggie e da altre cagioni accidentali, sarebbe superfluo e fuor di luogo; ma in Egitto ove l'abbondanza o la sterilità dipendono unicamente dal grado d'elevazione periodica delle acque del Nilo, avendo l'esperienza dato un esatto risultato degli effetti d'ogni cubito sulla quantità del raccolto, della più alta importanza diventa uno stromento destinato a misurarli: ed un saggio governo deve prendersene la più attenta cura, perchè conoscendo anticipatamente la misura del raccolto, può provvedere, prima che si sentano, ai bisogni della popolazione. Per tali considerazioni i Francesi diedero a quest'oggetto la debita importanza, ed è loro dovuto il bel passeggio con doppie linee di alberi che attraversano in tutta la sua lunghezza l'isola della Rouda dal S. al N.
Di là ritornai al vecchio Cairo o Mussar-el-Atik, sobborgo posto sulla diritta del fiume in faccia all'isola di Djizè. Vuolsi che altra volta questo sobborgo fosse più dilettevole soggiorno di quello del Cairo per le moltissime case di delizia che vi avevano i grandi ed i ricchi abitanti del Cairo e che oggi abbandonate vanno cadendo in ruina. Pure la popolazione del vecchio Cairo è ancora ragguardevole, ed i pubblici mercati abbondantemente provveduti. Sonovi monasteri di varj riti Cristiani. Io visitai quello de' Greci situato in amena posizione, la di cui terrazza signoreggia la città e la campagna. Da questo punto vedonsi le piramidi di Sakkara, che sembrano rivalizzare con quella di Djizè. La cappella di questo monastero dedicata a S. Gregorio è sommamente venerata dalle persone del paese per l'immagine del Santo posta in un angolo sopra un piccolo altare, e chiusa con griglia d'acciajo. Nel centro della cappella s'innalza una colonna, dalla quale pende una catena di ferro con cui vengono legati i pazzi che vi sono condotti per ottenere il patrocinio del Santo; e que' monaci assicurano, che accadono frequenti miracolose guarigioni, qualunque siasi la religione del pazzo che vien presentato.
Visitando il convento de' Cofti fui condotto in una grotta sotto l'altar maggiore, nella quale credesi che si ricoverasse la famiglia di Gesù quando venne in Egitto, salvandosi dalle persecuzioni di Erode: ma la cosa mi parve troppo assurda per meritarsi la menoma considerazione. È non pertanto a credersi che la grotta e la cappella non siano sterili monumenti pei monaci che ne hanno cura.
Boulak posto sulla sponda del Nilo è il più considerabile sobborgo del Cairo. Sonovi molti buoni edificj, e la sua posizione lo assicura dalla distruzione, che si fa già sentire a Djizè, ed al vecchio Cairo. Il porto di Boulak è sempre coperto di bastimenti che commerciano con tutti i paesi posti lungo le rive del Nilo, e perciò vi si vede assai movimento, e le dogane danno molto profitto all'erario. La strada da Boulak al Cairo rifatta ed abbellita dai Francesi offre un dilettevole passeggio.
Rispetto al commercio di Boulak, è certo che adesso non è se non un'ombra di ciò che dovrebbe essere, perchè l'insurrezione dell'alto Egitto, ove sonosi ritirati i Mamelucchi con Ibrahim Bey ed Osman Bey Bardissi, toglie al Cairo tutto il commercio dell'interno dell'Affrica. Inoltre le rivoluzioni di Barbaria impediscono la partenza delle carovane di Marocco, d'Algeri, e di tutti i paesi occidentali; e d'altra parte gli Arabi di Ssaddor, ossia deserto dello smarrimento, si avanzano fin presso a Suez per ispogliare le carovane che portano le mercanzie dell'Arabia e dell'India, procedenti dagli scali del mar Rosso: a ciò si aggiunge per ultimo la guerra degl'Inglesi che guasta affatto il commercio del Mediterraneo: tutte cose estremamente nocive all'esterno commercio dell'Egitto.
Nè più florido è il commercio interno, perchè tutto l'alto Egitto è dominato dai Mamelucchi, la provincia di Bohira da Elfi, e gli Arabi della provincia di Scherkia sono rivoltati; parziali tumulti succedonsi senza interruzione nella Garbia o Delta, di modo che non è possibile fare un passo nell'Egitto senza esporsi a gravissimi rischi.
Se in così triste circostanze si fa tuttavia al Cairo un notabile commercio, quale sarebbe in più felici tempi e sotto un provvido governo...!
CAPITOLO XXXII.
Viaggio a Suez. — Navigli Arabi. — Tragitto del mar Rosso. — Pericolo della Nave. — Arrivo a Diedda. — Vertenza col governatore. — Diedda. Agli 11 di dicembre, essendo terminato il Ramadan, feci le necessarie disposizioni per proseguire il viaggio della Mecca. Varj miei amici scrissero ai loro corrispondenti di Suez, di Diedda, e della Mecca, per prepararmi alloggio e protezione in tutti i luoghi in cui doveva trattenermi; ed il lunedì 15 dicembre 1806 uscii dal Cairo accompagnato da molti scheik. A non molta distanza dalla città presi congedo da questi buoni amici, cui non poteva permettere d'avanzarsi più oltre nel deserto, e due o tre ore dopo, feci alto ad Ahsas lontano mezza lega al Nord di Mafarieh[3].
Ad Ahsas attesi due giorni sotto la tenda la riunione d'una numerosa carovana. In questo frattempo alcuni amici del Cairo sì musulmani che cristiani vennero a trovarmi, e tra questi il console francese accompagnato da molte persone, e da cinque Mamelucchi rinnegati Francesi al servizio di Mehemed Ali. Interpellai costoro se fossero contenti del presente loro stato, e seppi che dopo aver fatto parte dell'armata francese, avevano preso il turbante, e che trovavansi vantaggiosamente stabiliti in Egitto colle loro famiglie. Hanno una piastra spagnuola al giorno, ed essendo quasi sempre in commissione ne' villaggi per riscuotere le contribuzioni e per altri oggetti, ne ritraggono considerabili vantaggi. Hanno inoltre bellissimi cavalli, e sono riccamente equipaggiati.
Il segno della partenza fu dato il Giovedì 18 a mezzogiorno, e subito si videro arrivare da tutte le bande lunghe file di cammelli che uscivano dai rispettivi accampamenti per riunirsi agli altri, che tutti si posero in cammino a traverso il deserto dirigendosi a levante.
Io non conduceva meco che quattordici cammelli, avendo lasciati in Egitto la maggior parte de' miei effetti ed alcuni domestici. La carovana conteneva cinquemila cammelli, e due in trecento cavalli, ed era composta di musulmani d'ogni nazione che facevano il pellegrinaggio della Mecca. I cammelli camminano in lunga fila, e con un passo eguale come quello di un pendulo. Si passò parte della notte accampati in mezzo al deserto.
Venerdì 19 dicembre.
Siccome la carovana camminava lentamente, tenendo sempre la medesima direzione io la sopravanzava, accompagnato da due domestici, i quali tendevano un piccolo tappeto ed un cuscino presso la strada, e su questo restava seduto più di tre quarti d'ora che richiedevansi pel passaggio della carovana; ed allora rimontando a cavallo ripeteva la stessa operazione tre o quattro volte al giorno, ingannando in tal modo il tedio di quel lento viaggio.
Tutto questo deserto è composto di colline di arena affatto sciolta, e priva di qualunque essere vegetabile o animale; non un insetto, non un uccello. Scopresi a destra in molta distanza una diramazione del Djebèl Mokkattàm, ossia montagna tagliata del Cairo, che si prolunga fin presso a Suez.
Sabato 20.
Si riprese il cammino in sul far del giorno; e giunto sulla sommità d'una collina vidi in molta distanza la città di Suez. Allora tutti quelli ch'erano a cavallo, e gli Arabi armati, sui cammelli o sui dromedarj, si posero in sul davanti della carovana formando come una linea di battaglia, e proseguirono la marcia così ordinati. Non molto dopo scoprimmo un branco di gente a cavallo che sortiva da Suez per venirci incontro. Già ci preparavamo a difenderci, quando si riconobbero per soldati Arnauti, ed abitanti di Suez: la gioja sottentrò al timore, e riunitisi insieme i due corpi si rinnovarono le allegrezze.
Noi marciavamo collo stess'ordine sopra una lunga linea, mentre alcuni Arabi staccandosi qua e là a destra ed a sinistra, si sfidavano l'un l'altro e divertivansi correndo, e tirando delle fucilate parallelamente alla nostra linea, talchè sentivasi il fischio delle palle che ci passavano assai dappresso; lo che riusciva sommamente piacevole alla carovana. Ed a dir vero è uno straordinario colpo d'occhio il vedere questi Arabi staccarsi dalla linea, correre a briglia sciolta, montati sopra cavalli o dromedarj, colla lancia in resta in una direzione parallela alla linea, e tanto vicini che la punta della lancia passava lontana quattro dita dal naso dei nostri cavalli. Figurisi la specie di movimento che dovevano dare ai loro cavalli per non toccare la linea che andava avanzando: era duopo che i loro cavalli corressero con passo obliquo e veloce come il lampo: che cavalli sono mai gli arabi!
Finalmente verso mezzogiorno in mezzo al romore delle fucilate ed ai gridi di gioja la carovana entrò in Suez, ove io fui alloggiato nella casa che mi era stata preparata alcuni giorni avanti.
Suez è una piccola città che cade in ruina, abitata da circa cinquecento musulmani e trenta cristiani. Attesa la sua posizione all'estremità del mar Rosso, da questo lato è la chiave del basso Egitto, tanto più che non avvi alcun altro punto d'appoggio in tutta l'estensione del deserto.
Il suo porto è così cattivo che i bastimenti del mar Rosso, detti Dao, non possono entrarvi che durante l'alta marea, e dopo avere sbarcato il loro carico. Ma il vero porto di Suez trovasi al sud in distanza di mezza lega sulla costa d'Affrica, ed è praticabile anche dalle grandi fregate.
In faccia a Suez il mar Rosso non ha più di due miglia di larghezza in tempo dell'alta marea, e circa due terzi di miglio nella bassa. Lo sbarco è comodo assai; le strade della città di fondo arenoso sono regolari, ma non selciate; e le case, e le moschee vanno quasi tutte in ruina. Variabilissimo è il clima del paese. Il pubblico mercato è sufficientemente provveduto di alcuni articoli: riceve i viveri per mare delle due coste dell'Arabia e dell'Affrica; ed il monte Sinai somministra buone frutta e buone verdure. Il pane è mal fabbricato, i pesci e le carni scarseggiano, e talvolta queste mancano affatto. Il concorso dei convogli marittimi e delle carovane fanno circolare molto danaro tra quegli attivi abitanti, che tutti, niuno eccettuato, sono mercanti o facchini.
Le acque più vicine a Suez sono i pozzi di El-Bir-Suez lontano una lega ed un quarto sulla strada del Cairo, e le El-Aayon-Moussa, o fontane di Mosè sono ancora più lontane; ma le prime sono salmastre, le seconde puzzolenti. La sola acqua buona è quella che si porta dalle montagne dell'est; e questa è carissima, ed in così piccola quantità, che talvolta conviene incontrare dispute e battersi per un otre di acqua. Il terreno che circonda Suez è così arido che non vi si vede un albero, nè un filo d'erba.
I cristiani Greci di Suez vi hanno una chiesa ed un passo.
La città è circondata di cattive mura, di alcune trincee, e di poche altre opere erette dai Francesi; ma tutti questi ripari non sono armati che di due o tre pezzi di cannone di due libbre di palla. Un negro schiavo d'un particolare del Cairo governava in allora Suez col titolo di Agà, ed aveva sotto i suoi ordini una trentina di Arnauti. Il suo kiàja, o luogotenente governatore disimpegnava pure le incombenze di giudice civile. Tutti questi soldati ed i loro capi guadagnano assai con i continui contrabbandi. In Suez non si esercita arte veruna fuorchè quella di calafattiere.
Due soli giorni dimorai in questa città essendomi imbarcato il martedì 23 dicembre 1806 sopra un Dao per passare sul mar Rosso a Diedda.
Il Dao è il naviglio arabo di maggior portata che veleggi su questo mare. Singolare affatto n'è la sua costruzione, l'altezza è un terzo al più della lunghezza del corpo del naviglio, e questa lunghezza viene inoltre accresciuta nella parte superiore da una lunga proiezione a prora ed a poppa in sull'andamento delle antiche galee Trojane.
Proporzioni del Dao da me montato
Piedi Parigini
Lunghezza del Dao 43 —
Projezione della poppa 16 —
Projezione della prora 52 —
Maggior larghezza del corpo 21 —
Altezza del carcasso 16 —
L'albero misurato dal fondo della cala 60 —
L'antenna 80 —
Larghezza media della camera 14 —
Sua lunghezza 14 —
Altezza 5 ¼
Le corde sono di corteccia di palma, e le vele di grosso cotone. Porta tre vele di ricambio di diversa grandezza, e due piccole vele latine; ma non se ne spiega mai più d'una grande o piccola a seconda del bisogno. Il Dao da me montato non aveva altro carico che alcuni gruppi d'argento monetato, chiusi in sacchi suggellati dai negozianti di Suez o del Cairo, diretti ai loro corrispondenti di Diedda. Aveva noleggiata la camera per me solo; ed i miei domestici rimanevano nel corpo del bastimento con altri cinquanta pellegrini all'incirca. Il capitano era di Mokha, ed i quindici marinaj dell'equipaggio erano piccoli e neri come scimie. Dopo essere rimasto tre giorni all'ancora si mise alla vela in sull'avvicinarsi della sera del 26.
Sabato 27.
Avendo navigato tutta la notte e tutto il giorno del 27, si gettò l'ancora alle quattro della sera in un porto della costa d'Arabia chiamato El-Hamman-Piràoun, ossia bagni di Faraone. Dietro le mie osservazioni la longitudine di questo luogo è di 30° 43′ 25″ dell'osservatorio di Parigi alla punta del Capo Almarhha.
Domenica 28.
All'entrare della notte si gettò l'ancora in vicinanza della città di Tor sulla costa d'Arabia.
Lunedì 29.
La mattina il nostro Dao entrò nel porto di Tor, ove restò all'ancora tutto il giorno. Le mie osservazioni mi diedero la longitudine di 31° 12′ 55″.
Martedì 30.
Si tenne il mare tutto il giorno, e passammo innanzi al Capo Ras-Aboumohhammed sulla costa medesima.
Mercoledì 31 dicembre 1806.
Dopo aver navigato tutta la notte per attraversare il braccio di mare che si avanza entro l'Arabia, chiamato Bahàr el-Akkaba, il nostro capitano fece gettar l'ancora avanti sera in un piccolo porto chiuso, posto in una delle isole Naàman, ossia degli struzzi.
Giovedì 1.º gennajo 1807.
Si veleggiò tutto il giorno, e verso sera si diede fondo sulla costa d'Arabia.
Venerdì 2.
La stessa manovra del precedente giorno.
La navigazione del mar Rosso è spaventosa. Si viaggia quasi sempre in mezzo a scogli ed a rupi a fior d'acqua; di modo che per dirigere il bastimento conviene tener sempre quattro o cinque uomini sulla prora che osservino attentamente la strada, ed avvisino colle loro grida il timoniere di piegare a dritta o a sinistra: ma se essi s'ingannano, se scoprono lo scoglio troppo tardi, se il timoniere che non vede gli scogli non se ne scosta abbastanza, o scostandosi troppo porti il naviglio sopra uno scoglio vicino non osservato, se intende a rovescio il grido, come suole talvolta accadere, se nel breve intervallo della scoperta dello scoglio sott'acqua e dell'avanzarsi del bastimento al luogo del pericolo, il vento o la corrente si oppongono al cambiamento di direzione: quanti istanti si cammina tra la vita e la morte in così pericolose acque! Perciò contansi tutti gli anni molti naufragj su questo mare, che sembra vendicarsi dell'audacia dei naviganti: ma che è mai il timore della morte contro l'allettamento del guadagno? I navigli Arabi che portano i preziosi prodotti dell'India, della Persia, e delle Arabie solcano continuamente questo mare avido di vittime.
Per mettere alcun riparo a tanti inconvenienti i Dao hanno al disotto una falsa carena, che quando si tocca ammorza alquanto il colpo, e salva il naviglio, se la scossa non è troppo violenta. D'altra parte l'immensa vela di cotone quasi grossa un dito, la sua cattiva forma che richiede la stessa manovra d'una vela latina, dovendosi per cambiar rombo staccare la vela che allora volteggia come un immenso stendardo, e dà scossa terribili; le corde grossolane di corteccia che ubbidiscono a stento: tutti questi inconvenienti rendono la manovra così pesante e tarda, che io stesso sono sorpreso come i naufragj non siano molto più frequenti. In un naviglio quindici uomini d'equipaggio non bastavano ogni volta per manovrare la vela, e rendevasi necessario l'ajuto de' passeggieri.
Sabbato 3.
Passammo in mezzo al gruppo delle molte isole Hamara, e si gettò l'ancora presso una di loro.
Domenica 4.
Si diede fondo in sul far della notte presso un'isola in mezzo agli scogli.
Lunedì 5.
Giorno terribile. Dopo la mezza notte si levò una furiosa burrasca. Il vento rinfrescò talmente che alle due ore del mattino i colpi d'uragano succedevansi incessantemente con maggior violenza, onde in pochi minuti le gomene delle quattro ancore furono spezzate.
Il naviglio in preda al furore del vento e delle onde fu spinto sopra uno scoglio, contro il quale incominciava a dare colpi terribili. L'equipaggio credendosi perduto gettava grida disperate. Tra questi clamori io distingueva la voce d'un uomo che singhiozzava e piangeva come un fanciullo; ed avendo chiesto chi fosse, mi fu risposto essere il capitano. Feci, ma inutilmente, cercare il piloto; onde vedendo la cosa disperata perchè il naviglio, abbandonato alla sua ventura, continuava a dar colpi orribili, non volli aspettare che si aprisse contro gli scogli: grido ai miei domestici: la scialuppa; ed essi se ne rendono all'istante padroni. Allora tutti vi si vogliono precipitare; mi si dà la mano, e salto nella scialuppa sopra la testa de' passeggieri, ed ordino che si allontani dal naviglio: ma un uomo che aveva il padre a bordo la riteneva con una corda del bastimento che aveva in mano, gridando Abouya! Abouya! oh mio padre! oh mio padre! Io rispettai un momento questo slancio d'amore filiale; ma vedendo un gruppo di gente disposta a saltare nella scialuppa, grido a questo buon figliuolo di lasciar la corda; ma ostinandosi a chiamare il padre, glie la faccio abbandonare con un pugno datogli sulla mano, e nell'istante medesimo la scialuppa vien portata dugento tese lontana dal Dao. Questa scena non durò un minuto; brevi momenti, ma spaventosi.... Invece della dolce luce della luna che doveva rischiarare il nostro cammino, un denso velo di nere nuvole ci teneva in una profonda oscurità. Eravamo quasi nudi: i colpi di mare riempivano tratto tratto la scialuppa di acqua, e ad intervalli cadeva l'acqua a torrenti. Nasce una disputa; gli uni vogliono andare alla dritta; gli altri a sinistra, quasi fosse possibile di conoscere in mezzo alle tenebre la nostra direzione. La disputa facendosi più calda, io la feci cessare impadronendomi del timone, e loro dicendo con voce risoluta: io ne so più degli altri, e prendo il timone della scialuppa; guai a chi tentasse di riprendermelo.
Aveva avanti sera assai bene osservata la posizione della terra, ma non sapeva qual direzione mi prendessi. In mezzo alle tenebre non potendo orizzontarmi, cercava, per quanto lo poteva, di conservare la mia posizione rispetto al bastimento che io vedeva ancora. Per colmo di sventura mi trovava attaccato da frequenti vomiti di bile: pure non abbandonai il timone.
Ordinai di remare, ma i miei compagni non sapevano remare: assegno ad ognuno il suo posto, e dopo aver distribuiti i remi, ne insegno loro la manovra, e mi faccio a cantare sull'andamento de' marinai del mar Rosso per dar loro la misura, onde il movimento fosse uniforme. Quale spettacolo! Io mi trovava quasi nudo esposto ai colpi del mare, alla pioggia, alla grandine, colle mani attaccate al timone senza saper ove andare, molestato da violenti accessi di vomito, eppure obbligato di cantare per regolare la manovra. Talvolta la scialuppa, nostra ultima speranza, urtava nello scoglio, e ci faceva gelare il sangue. Finalmente dopo una lunga ora di così tormentosa angoscia, le nuvole si allargarono alquanto, ed un raggio di luce avendomi dato modo di orizzontarmi, e fatta rinascere nel mio cuore la speranza, gridai: siamo salvi. Allora drizzai la scialuppa verso la costa dell'Arabia, quantunque non fosse ancora visibile; e dopo tre ore d'immense fatiche, ci trovammo presso terra allo spuntar del giorno.
Sbarcammo tutti quasi nudi o in camicia: eravamo quindici. Il nostro primo atto fu quello di abbracciarci a vicenda, felicitandoci della nostra salvezza; i miei compagni sopra tutto non potevano saziarsi di attestarmi la loro sorpresa per così buona riuscita; chiedevanmi come aveva potuto sapere malgrado tanta oscurità, che la terra era là..., e per uno spontaneo movimento di riconoscenza, spogliaronsi di parte delle loro vesti per ricoprirmi; e per tal modo mi trovai ben tosto vestito, grottescamente è vero, ma riparato dal vento che soffiava freddissimo.
Ci rimaneva a sapere a qual terra eravamo approdati. Mandai a riconoscerla quattro uomini; ed il loro rapporto mi persuase essere scesi in un'isola deserta, che altro non era che un piano di arena mobile senz'acqua, senza rupe, e senza vegetazione. Ben si vedeva la gran terra poche leghe lontana, ma come avventurarsi ancora nella scialuppa sopra un mare sempre burrascoso? e se la burrasca durasse alcuni giorni come potevamo durarla senza mangiare e senza bere? Il cielo che s'andava rischiarando, mi permise di vedere il nostro bastimento all'orizzonte accompagnato da un altro Dao. Quale non fu la nostra gioja nel rivederlo quando credevasi già perduto.... Di dove veniva mai l'altro bastimento?
Il tempo tornò ad imperversare: la pioggia cadeva a torrenti, ed un vento gelato ne toglieva quasi il sentimento. Ci tenevamo strettamente serrati gli uni contro gli altri, ed il solo cappotto che avevamo fu steso sopra le nostre teste; difendendoci in tal modo dalla pioggia e dal vento, e riscaldandoci alquanto. Verso mezzo giorno il tempo si calmò un poco, e la scialuppa dell'altro bastimento che andava in traccia di noi vivi o morti, si avanzò abbastanza per conoscere i segni che andavamo facendo con una camicia in cima di un remo. Bentosto si avvicinò; ed i marinai ci assicurarono che il Dao erasi salvato senza aver sofferte considerabili avarie, perchè era fortissimo, ed era quasi senza carico. Perchè aveva perdute tutte le ancore fu fortunatamente soccorso dall'altro, che arrivandogli sopra accidentalmente nell'istante del maggior pericolo, gli somministrò un'ancora e corde.
Ci rimbarcammo sopra le due scialuppe, e tornammo al bastimento. Qual tenera scena fu quella del nostro amico a bordo! Tutti lieti di vedermi salvo gettavanmisi ai piedi piangendo d'allegrezza, mi abbracciavano, e non sapevano come significarmi la loro gioja, perchè ci avevano creduti inghiottiti dalle onde, come noi credevamo il bastimento spezzato contro lo scoglio. Il mio cuore non potè resistere a così tenera scena; e profondamente commosso da questa spontanea testimonianza del loro affetto, mi trovai gli occhi umidi di pianto.
Nel terribile istante in cui abbandonai il bastimento, un uomo volendo saltare nella scialuppa era caduto in mare; e questa fu la sola vittima della tempesta. Si rimase questo e l'altro giorno all'ancora, per dar tempo di rimettere tutto in ordine nel bastimento, onde partire all'indomani.
Mercoledì 6.
Dopo avere navigato tutto il giorno, passata l'isola di Diebel-Hazen, ci ponemmo all'ancora sulla costa d'Arabia in sul cominciare della sera.
Giovedì 7.
Si entrò avanti notte nel porto di Jemboa, città abbastanza considerabile, e dopo Diedda la più importante della costa arabica.
Venerdì 8.
Il capitano volle trattenersi quel giorno a Jemboa per fare acquisto di ancore e di altri oggetti che gli mancavano, e per far raddobbare il bastimento.
Sabato 9.
Questo giorno si passò il tropico, e si gettò l'ancora ad Algiar. Feci colà alcune curiose osservazioni, che in seguito ho perdute.
10, 11 e 12.
Si navigò di giorno, e si stette all'ancora la notte sulle coste dell'Arabia, ma le note da me prese si perdettero. Incominciai allora a sentire un leggiero ma continuato dolore al basso ventre, ed una notabile infiammazione nella parte inferiore: lo che mi fece credere di avere una rottura. Era senza dubbio cagionata dallo sforzo violento ch'io feci saltando nella scialuppa la notte della burrasca. Ciò mi rattristò assai, perchè temeva di rendermi incapace d'ogni fatica, ed anche di montare a cavallo nell'istante in cui aveva maggior bisogno di tutte le mie forze. E come era questi un accidente che non avevo preveduto, e di cui non ne aveva nelle mie note mediche fatta menzione, non sapeva come medicarmi. Guidato dal semplice raziocinio feci uso delle fasce, e mi posi a giacere nella più favorevole posizione.
Giugnemmo uno di questi giorni verso le dieci ore del mattino ad Aràboh, che trovasi al confine settentrionale di Beled-elaharam, o terra santa; il bastimento incagliò da prora nella sabbia, onde facilitare ai pellegrini la pratica delle prime cerimonie del pellegrinaggio detto Jahàrmo. Per soddisfare a questo preliminare, conviene buttarsi in mare, bagnarsi, fare un lavacro generale con acqua dolce e sabbia, in seguito recitare le preghiere affatto nudo, avvolgersi i lombi, e fino alle ginocchia con una salvietta senza cucitura che chiamasi l' Ihràm, camminare alcuni passi verso la Mecca pronunciando la seguente invocazione:
Li Bèïk; Allàhummma li Bèïk.
Li Bèïk; la Scharika laka li Bèïk.
Inna Alhàmda, oua maamàta làka,
Ouèl Moulkou, la schaùka lèïk.
Poi formansi colle mani alcuni monticelli di sabbia, e si rimonta a bordo così coperti ripetendo le stesse preghiere nel rimanente del viaggio.
Trovandomi ammalato non mi gettai in mare, ma feci la mia abluzione colla sabbia; i miei domestici mi formarono una cintura con drappi del letto e dei hhaïc per tenermi riparato dal vento mentre faceva l'abluzione, le preghiere, le invocazioni, ed i monticelli di sabbia, siccome prescrive il rito, senza mancare alla circostanza che esige, che tutto ciò si faccia a cielo scoperto. Tornai a bordo com'era venuto, appoggiato alle loro braccia.
Da qualunque parte il pellegrino arrivi al Bèled-el-Hayam è obbligato di fare le stesse cerimonie, risguardate qual preludio indispensabile del pellegrinaggio; diversificano per altro esse alcun poco ne' quattro riti ortodossi della legge.
Da quest'istante non si può più radersi il capo finchè non siansi fatti i sette giri alla casa di Dio, che siasi baciata la pietra nera, bevuta l'acqua del pozzo sacro, detto Zemzem, e fatti i sette viaggi tra le sacre colline di Saafa e di Mèroua.
Mercoledì 15.
Si gettò felicemente l'ancora nella rada di Diedda, meta di questo tragitto di mare.
Spedii subito a terra uno de' miei domestici con lettere pel negoziante Sidi Mehemed Nas, incaricato de' miei affari.
Poco dopo mezzogiorno vennero a prendermi con un battello, che mi portò a terra ove sbarcai alle tre ore circa. Fui ben accolto in un appartamento ammobigliato con tutto il lusso orientale, e fui all'istante ristorato con un ottimo pranzo.
Verso il tramontare del sole il Dao entrò in porto: ed all'indomani mattina avanti di sbarcare i miei domestici, ed i miei effetti, andai ad alloggiare in una casa che occupai io solo colle mie genti.
Continuava a trovarmi indisposto e debole a segno di non potermi più movere. Ne' primi quattro giorni dopo sbarcato fui travagliato dalla febbre, malgrado la quale il venerdì non mancai di andare alla Moschea, ov'ebbi un leggiero disgusto.
All'indomani del mio arrivo il governatore o Visir, che è un negro schiavo del Sultano sceriffo della Mecca, mi aveva fatto dire, che sapeva aver io alcune selle, e che desiderava di vederle. Non era difficile ad intendere che sotto questa inchiesta si voleva averne almeno una in dono; ma non avendo da costui ricevuto alcun contrassegno di distinzione, e non avendo di lui bisogno nè timore, ordinai al mio scudiere di portargli le cinque selle che aveva meco, ma soltanto per fargliele vedere.
Avendole il governatore osservate, si lasciò in presenza del mio domestico uscir di bocca alcune inconsiderate espressioni: questi mostrò di non intendere, ed a seconda dei miei ordini riportò le cinque selle. Conviene dire che questo procedere offendesse l'orgoglio del governatore, che per vendicarsene cercò di darmi qualche pubblico dispiacere.
In qualunque luogo mi condussero i miei viaggi io era avvezzo per fare alla moschea la mia preghiera del venerdì, di mandare avanti alcuni domestici a prepararmi un tappeto presso all'Imam, custodendolo fino al mio arrivo. Vi prendeva allora posto, e per quanto grande fosse la folla, il mio tappeto fu sempre rispettato.
Avendomi anche in questo venerdì preceduti i miei domestici alla moschea, collocarono il tappeto secondo la pratica, ed io vi feci la mia prima preghiera. Arrivò ben tosto il governatore coi suoi ufficiali negri come lui, ed alcuni soldati che fecero ritirare coloro ch'erano presso di me, e posero il tappeto del governatore in modo che copriva in parte il mio, ma non ebbero il coraggio di dirmi nulla.
Il governatore si pose sul suo tappeto, ed il suo primo ufficiale dopo essere rimasto un momento titubante ardì perfino di battermi dolcemente la spalla, e di farmi segno onde mi ritirassi, ciò ch'eseguii subito per non dar motivo di scandalo; ed egli si pose sul mio tappeto a fare la preghiera.
Tutti erano impazienti di vedere il fine di questa scena, e cosa risolvessi. Io sceriffo, figlio di Osman-Bey-el-Abbassi, avrei potuto sopportare l'insulto d'uno schiavo!... Ma egli aveva la forza in mano, e cercava di provocarmi, onde, nel caso che io non mi fossi saputo contenere, abusare con apparente giustizia della sua autorità; mi appigliai quindi ad un altro espediente.
Appena terminata la preghiera, prima che niuno si alzasse, dissi con voce ferma ai miei domestici «Levate questo tappeto; portatelo all'Imam, e ditegli che glielo dono per servizio della moschea. Io non potrei mai più far la mia preghiera sopra questo tappeto, levatelo». I miei domestici lo levarono bruscamente, e lo consegnarono all'Imam, che fu assai contento di questo dono. Tutti applaudirono, ed il governatore ed i suoi ufficiali rimasero come di sasso. Lasciai alcune elemosine alla moschea ed ai poveri; ed accompagnato da molte persone tornai a casa per mettermi a letto, essendo tormentato dalla febbre.
Questi ufficiali negri fanno pompa di un lusso orientale il più raffinato, portando ricchissimi sciali di cachemire, bellissime tele dell'India, armi magnifiche, squisiti profumi.
Malgrado il cattivo stato di mia salute feci pure alcune osservazioni astronomiche, che mi diedero la longitudine per distanze lunari di 36° 32′ 37″ E. dell'osservatorio di Parigi[4]; la latitudine per i passaggi del sole 21° 33′ 14″ N.; e la declinazione magnetica 10° 4′ 53″ O.
Djedda è una gentile città con belle strade regolari, e con piacevoli case a due o tre piani, tutte fatte di pietra, non però con troppa solidità, avendo molte e grandissime finestre, ed il tetto piano. Vi sono cinque moschee che non meritano la minima attenzione.
La città è circondata da vaghe mura con torri irregolari, ed in distanza di dieci passi da una fossa affatto inutile, perchè senza alcuna opera che la sostenga. In vece di un ponte levatojo in faccia alla porta della città si è riempiuta la fossa di terra.
I pubblici mercati sono ben provveduti, ma le derrate sono assai care. Un pollo costa una piastra spagnuola, e gli erbaggi provengono da luoghi assai lontani, non essendovi nelle vicinanze per mancanza di sorgenti nè giardini nè orti. Non vi si beve che acqua di pioggia, ma assai buona perchè conservata in ottime cisterne. Il pane non mi sembrò troppo bianco. Vi si respira un'aria fragrante perchè in ogni angolo vi sono venditori d'acqua da bevere i quali abbruciano continuamente incensi o altri aromi. Lo stesso metodo si pratica nei caffè, nelle botteghe, nelle case, ed in ogni luogo.
Contansi a Djedda circa cinquemila abitanti; e questa città può riguardarsi come centro della circolazione del commercio interiore del mar Rosso. I bastimenti di Moca vi portano il caffè e le derrate dell'India e di tutto il Levante, ed in Djedda si ricaricano sopra altre navi per Suez, Iemboa, e per tutti gli altri porti delle coste d'Arabia e d'Affrica.
Se gli Arabi conoscessero meglio la navigazione, Moca potrebbe spedire direttamente i suoi carichi a Suez senza accrescerne il prezzo col fare scala a Diedda: ma ciò è quasi impossibile con bastimenti senza ponte, mal costrutti, e mal capitanati.
Inoltre l'interesse degli Arabi deve opporsi a qualunque innovazione su questo particolare, poichè adesso le derrate di transito lasciano nella loro patria il prodotto degl'interessi, delle commissioni, de' trasporti, delle gabelle ec.; il che tutto sarebbe perduto perfezionandosi la navigazione: ed in questo caso Djedda cesserebbe di essere uno scalo di tanta importanza. I negozianti di Djedda acquistano a Moca, o a dir meglio i negozianti di Moca spediscono a Djedda le mercanzie, che i negozianti del Cairo, per mezzo dei commissionati di Suez, acquistano a Djedda. Trasportansi a Djedda per lo scalo di Suez drappi ed altre manifatture d'Europa; ma queste non bastano per pagare i prodotti dell'India, ed il caffè dell'Iemen. Vi si supplisce con piastre Spagnuole, e grossi scudi di Germania, che sono a Djedda ricercatissimi, perchè guadagnano assai nell'Iemen ed a Moca.
Parvemi che il negoziante incaricato de' miei affari a Djedda avesse un commercio assai esteso; ma che scarseggiasse di numerario, perchè difficilmente poteva averne quando gliene chiedeva.
Vidi molto lusso negli abiti e negli appartamenti delle persone agiate, ma tra il basso popolo incontransi molte persone quasi affatto nude ed estremamente miserabili.
La guarnigione è composta di dugento soldati Turchi o Arabi, che non fanno il più piccolo servizio, riducendosi ogni loro incombenza a stare seduti in un caffè giuocando agli scacchi, fumando, e prendendo caffè.
Non trovasi in Djedda verun cristiano Europeo; ed alcuni Cristiani Cofti vivono confinati in una casa o caserma vicina allo sbarco.
Il principale personaggio, ed il più ricco negoziante chiamasi Sïdi Alarbi Djilani; uomo di non comuni talenti, ed attaccato agl'Inglesi, coi quali fa quasi tutto il suo commercio. In questo tempo gli abitanti di Djedda erano crucciati coi Francesi, perchè nel precedente anno questi ultimi eransi impadroniti di un ricco bastimento del Sultano Sceriffo, e di altre navi Arabe; pure non chiedevano vendetta, nè dichiaravano odio alla nazione Francese; anzi bramavano un ravvicinamento, ma non sapevano come incominciarne le trattative. Io suppongo che incominciassero ad amare realmente i Francesi dopo aver veduta la loro condotta in Egitto.
Ingannato dalla fama de' cavalli Arabi avevo da Suez rimandati i miei al Cairo; ma ebbi cagione di esserne pentito, non trovandosi a Djedda che pochi cavalli di proprietà de' più ricchi negozianti che non volevano privarsene. Non vidi alcun mulo; ma bensì asini alti e ben fatti, sebbene però non superiori a quelli d'Egitto. Sonovi moltissimi cammelli, le sole bestie da soma che si adoperino in questo paese.
Le strade sono affollate, come nelle altre città musulmane di cani vagabondi o smarriti. Sembrano naturalmente divisi in separate tribù o famiglie. Quando un cane ha l'ardire o la disgrazia di passare in un dipartimento o tribù straniera, vi cagiona un rumore infernale, ed il temerario non si salva mai senza essere stato assai maltrattato. Nè minore è il numero de' gatti somiglianti affatto a quelli d'Europa. Sonovi alcune mosche, ma non moscherini, nè insetti di altra specie.
Djedda è priva affatto di carbone, e non vi si abbruciano che poche legna, trasportatevi da luoghi lontanissimi, o gli avanzi dei vecchi navigli ed inservibili. Le farine si tirano dall'Affrica.
Gli abitanti sembraronmi una mescolanza di sangue Arabo, Abissino o negro, e di un poco d'Indiano. Osservai parecchj individui di fisonomia assai prossima a quella de' Chinesi, che non diversifica molto dall'indiana. È così famigliare l'usanza di tenere schiave abissine o negre, che appena arrivato a Djedda, il mio mercadante mi propose prima d'ogni altra cosa l'acquisto di una negra: offerta che io rifiutai benchè non proibita dalla legge, perchè durante il mio pellegrinaggio mi riguardava come in istato di penitenza.
Si ritiene che cento bastimenti all'incirca vengono impiegati nel cabotaggio da Djedda a Suez, ed altrettanti da Djedda a Moca; ma trovandosene sempre molti inservibili può ridursi il numero ad ottanta. A quelli che perdonsi ogni anno sugli scogli del Mar Rosso sottentrano i nuovi che si fabbricano a Suez, a Djedda, a Moca.
Djedda poco prima aveva più ricchezze che all'epoca del mio passaggio; essendole riuscite dannose le guerre de' Wehhabiti, perchè per lungo tempo gli abitanti furono costretti di fare notte e giorno il mestiere del soldato. D'altra parte la guerra d'Europa paralizza il commercio del Levante; le rivoluzioni dell'Egitto, e dell'Arabia impediscono le comunicazioni commerciali della contrada, e quelle di Barbaria rendono assai difficili i pellegrinaggi degli occidentali; tutte circostanze contrarie alla felicità ed alla prosperità di Djedda.
Fuori delle mura della città dalla banda di terra avvi un gran quartiere di baracche assai popolato di famiglie quasi tutte povere, onde non si trovano che mercanti di commestibili, e di cose di poco valore.
Il circondario di Djedda è un vero deserto, ed il suo clima incostantissimo. Da un giorno all'altro io vedeva l'igrometro balzare dall'estrema siccità all'estrema umidità. Il vento settentrionale che attraversa i deserti dell'Arabia vi arriva talmente secco che inaridisce all'istante la pelle, e l'aria è sempre ingombra di polvere. Se sottentra il vento di mezzogiorno, si prova subito l'opposto estremo. L'aria, e tutto ciò che si tocca è zeppo di umidità; ed una subita spossatezza s'impadronisce delle nostre membra. Pure si crede più salutare il vento umido, che il secco[5].
Il maggior calore da me osservato fu di 23° di Reaumur. Coi venti di mezzogiorno vidi l'atmosfera carica di una specie di nebbia.
Ebbi una notte la luna al mio zenit, ed un'altra dalla banda di settentrione: era questo effetto della latitudine, trovandomi press'a poco a due gradi al sud del tropico. Dopo il mio arrivo mi venivano presentati ogni giorno piccoli vasi d'acqua del miracoloso pozzo Zemzem della Mecca: io beveva, e pagava.
La vigilia della partenza alla volta della santa città essendo venuto a trovarmi il capitano del bastimento, ruppe il mio igrometro.
CAPITOLO XXXIII.
Continuazione del pellegrinaggio. — El Hhadda. — Arrivo alla Mecca. — Ceremonia del pellegrinaggio alla Casa di Dio a Staffa ed a Meroua. — Visita dell'interno della Kaaba, o Casa di Dio. — Presentazione al Sultano Scheriffo. — Purificazione, o lavacro della Kaaba. — Titolo d'onore acquistato d'Ali Bey. — Arrivo dei Wehhabiti.
Trovandomi alquanto ristabilito in salute, benchè debole assai, partii per la Mecca il 21 gennajo alle tre dopo mezzogiorno sopra una macchina formata di travicelli, proveduta di un materasso in forma di piccolo soffà, coperta di panni sostenuti con archi, e collocata sopra la schiena di un cammello. Questa macchina chiamasi schevria, ed è abbastanza comoda perchè uno può adagiarvisi come vuole: ma il movimento del cammello che io non aveva prima provato, nello stato di attuale debolezza mi riusciva incomodissimo.
I miei Arabi incominciarono a disputare tra di loro nelle strade della città, facendovi altissime grida: e quando credeva terminata la lite, la vidi ricominciata appena sortito di Djedda, in modo da sospendere il cammino per un'ora e mezzo. Finalmente essendo succeduta alla burrasca la calma, e già caricati i cammelli, ci avviammo alle cinque e mezzo verso levante a traverso di una pianura deserta, terminata in fondo all'orizzonte da gruppi staccati di piccole montagne che rompono alquanto la monotonia del deserto.
Alle otto ore e mezzo della sera eravamo arrivati presso alle montagne, che sono piccoli ammassi di pietre affatto prive di vegetazione.
La serenità del cielo, e la luna che passava sulle nostre teste facevano la strada deliziosa, ed i miei Arabi cantavano e danzavano intorno a me. Ma io non mi trovava troppo bene, non potendo più sopportare il moto del cammello. A fronte di ciò stordito dal romore de' domestici, spossato dalla fatica e dalla debolezza, mi addormentai per due ore. Risvegliandomi sentii rinforzarsi la febbre, e mi venne un poco di sangue della bocca.
Intanto i miei Arabi, essendosi anch'essi addormentati, uscirono di strada. Dopo mezza notte accortisi d'essere su quella di Moca, piegarono a N. E. fra montagne di mezzana altezza qua e là coperte di boschi, finchè essendosi rimessi sulla direzione della Mecca, camminarono all'E. fino alle sei ore del mattino di giovedì 22 gennajo, facendo alto in un dovar di baracche detto el Hhadda, ove trovasi un pozzo d'acqua salmastra.
Io non posso dar conto esatto dello spazio percorso, ma suppongo che ci trovassimo allora lontani circa otto leghe da Djedda. Le baracche di questo dovar sono tutte eguali, affatto rotonde, del diametro di sette in otto piedi, con tetti conici alti da terra alla sommità circa sette piedi. Sono formate da una linea di pali piantati in terra, e coperte di foglie di palme, e di ramuscelli. Arrivando, ciascuno si prende una baracca senza chiederne il permesso a chicchessia.
Il pozzo ha un piede e mezzo in ogni lato del quadrato, e dieci braccia di profondità. Sta appeso alla sua apertura un secchio di cuoio con una corda per servizio de' passeggieri. Esaminando l'interno del pozzo vedesi, che il terreno fino a considerabile profondità è formato di arena sciolta, poichè per impedirne lo smottamento fu palificato dalla cima al fondo.
Le poche piante del circondario non hanno nè fiori nè frutta; e questo luogo è precisamente una valle che va da levante a ponente in mezzo a montagne di porfido d'un rosso più o meno oscuro.
Interessante parvemi il modo in cui in questo luogo si dà a mangiare ai cammelli. Viene prima stesa sul suolo una stuoja, o un pezzo di tela in forma circolare del diametro di cinque in sei piedi, sulla quale si pone un mucchio d'erba spinosa minutamente tagliata: fatti questi preparativi, si conduce un cammello che tranquillamente si adagia vicino a questa tavola, poi un secondo, un terzo, un quarto, che adagiansi nella stessa maniera a distanze eguali dalla tavola; allora cominciano a mangiare con una politezza senza pari, e con bell'ordine, prendendo ognuno l'erba a piccolissimi manipoli; e se taluno abbandona il proprio luogo, il suo vicino lo riprende amichevolmente, e l'indiscreto rientra in dovere; in una parola, la tavola dei cammelli è una fedele copia di quella dei loro padroni.
Qui rinnovammo la cerimonia della purificazione, tal quale l'avevamo già fatta ad Arabah, vale a dire l'abluzione generale ch'io feci con acqua calda, e la preghiera recitata in istato di assoluta nudità, ec., come sopra.
Gli abitanti del dovar vendevano acqua dolce assai buona che prendevano nelle vicine montagne dalla banda di mezzodì.
Partendo dal dovar si venne a chiedermi, ed io diedi una gratificazione per l'alloggio.
Alle tre ore dopo mezzogiorno si riprese la strada nella direzione di levante. Non tardai a scoprire alcuni piccoli boschi; e verso sera si passò in mezzo a montagne vulcaniche coperte di lava nera, e vidi gli avanzi di alcune case rovinate dai Wehhabiti. Poi attraversando molte collinette, alle undici e mezzo della sera ci trovammo in profonde e strette gole, ove la strada tagliata a zig-zag offre una eccellente posizione militare. La sera di giovedì 23 gennajo 1807, 14 del mese doulkaada dell'anno 1221 dell'Egira, giunsi a mezza notte col favore della Divina misericordia alle prime case della santa città della Mecca, quindici mesi dopo sortito da Marocco.
Erano all'ingresso della città molti Mogrebini, o Arabi occidentali, che mi aspettavano con piccoli vasi d'acqua del pozzo di Zemzem, che mi offrirono per bere, pregandomi a non riceverne da altra persona, ed assicurandomi di tenerne approvvigionata la mia casa: mi soggiunsero poi all'orecchio di non bevere giammai di quella che mi offrirebbe il capo del pozzo.
Molti particolari della città che pure mi aspettavano, disputavansi tra di loro l'onore o il vantaggio di alloggiarmi, perchè gli alloggi sono la principale speculazione degli abitanti sui pellegrini: ma le persone che in tempo del mio soggiorno a Diedda eransi incaricate di provvedere a tutti i miei bisogni, posero fine alle dispute, conducendomi in una casa che m'era stata preparata accanto al tempio, e presso al palazzo del Sultano Sceriffo.
I pellegrini devono entrare a piedi nella Mecca, ma in vista della mia malattia restai sul cammello fino alla porta della casa.
Appena entrati, io ed i miei domestici facemmo un'abluzione generale, indi fui condotto in processione al tempio con tutta la mia gente. La persona incaricata di guidarmi recitava camminando varie preghiere ad alta voce; e noi le ripetevamo tutt'insieme collo stesso tuono di voce parola per parola. Io era tuttavia così debole che doveva farmi sostenere da due domestici. Giunsi in tal modo al tempio facendo un giro per la principale strada onde entrarvi pel Beb-el Selèm, ossia porta della salute; lo che tien luogo di felice auspicio. Dopo essermi levati i sandali passai per questa avventurata porta posta presso all'angolo settentrionale del tempio. Già avevamo attraversato il portico o la galleria; già stavamo per mettere il piede nel grande cortile, in cui è posta la casa di Dio, quando la guida arrestò i nostri passi, e tenendo il dito rivolto alla Kaaba, mi disse con enfasi: Schous, schous el-Beït-Allah el Haram; «osservate, osservate la casa di Dio, la proibita». Il numeroso seguito che mi circondava, il portico di colonne a perdita di vista, l'immenso cortile del tempio, la casa di Dio coperta della sua tela nera dall'alto fino al basso e circondata di lampade, il silenzio della notte, e la guida che parlava come un ispirato; tutt'insieme formava un imponente quadro che mai non si cancellerà dalla mia memoria.
Entrammo nella corte per un sentiero diagonale alto un piede, che mette dall'angolo del nord alla Kaaba, che è quasi nel centro del tempio. Prima di giugnervi ci fecero passare sotto un arco isolato come una specie d'arco trionfale, detto Beb-el Selema, come la porta per cui eravamo entrati. Giunti innanzi alla Casa di Dio, facemmo una breve preghiera, si baciò la pietra nera portata dall'Angelo Gabriele, e nominata Stàjera el Ason'ad, ossia pietra celeste: avendo alla testa la nostra guida, schierati nello stesso modo con cui eravamo venuti, e recitando le preghiere in comune, facemmo il primo giro intorno alla Casa di Dio.
La Kaaba è una torre quadrata posta quasi in mezzo al tempio, coperta d'una immensa tela nera che non lascia di scoperto che lo zoccolo dell'edificio, lo spazio in cui sta murata la pietra nera all'altezza d'un uomo sull'angolo dell'est, ed un altro eguale spazio nell'angolo del sud occupato da un marmo comune. Dalla banda del N. O. sollevasi un parapetto all'altezza d'appoggio, che forma quasi un mezzo cerchio separato dall'edificio, e nominato El-Stajar Ismail, vale a dire pietre d'Ismaele.
Ecco il circostanziato racconto delle successive cerimonie di questo atto religioso, quali le feci io stesso in quest'epoca. Consistono queste in sette giri intorno alla Kaaba. Si comincia ogni giro dalla pietra nera dell'angolo dell'est seguendo la fronte principale della Kaaba ov'è la porta, e di là girando all'ouest ed al sud al di fuori delle pietre d' Ismaele, e giunti all'angolo del sud si stende il braccio destro, e dopo aver passata la mano sopra il marmo angolare (avendo grandissima attenzione che l'inferior parte dell'abito non tocchi lo zoccolo scoperto), si passa la mano sul volto e sulla barba, dicendo: In nome di Dio: Dio grandissimo, sia data lode a Dio. Si prosegue la marcia verso N. E., dicendo: Oh grande Iddio! siate con me: datemi il bene in questo mondo; e datemi il bene nell'altro; ritornato poscia all'angolo dell'est in faccia alla pietra nera, si alzano le mani come in principio della preghiera canonica, gridando: in nome di Dio; Dio grandissimo; ed abbassate le mani si soggiugne, sia data lode a Dio; dopo ciò si bacia la pietra; e così termina il primo giro.
Il secondo giro è affatto simile al primo; ma sono diverse le preghiere dall'angolo della pietra nera fino a quello del sud. La legge tradizionale vuole che si facciano gli ultimi giri con passo frequente, ma atteso lo stato di debolezza in cui mi trovava feci tutti i giri posatamente.
Alla fine del settimo dopo avere baciata la pietra nera viene recitata in comune una breve preghiera stando in piedi in faccia al muro della Kaaba tra la porta e la pietra nera. Si passa dopo in una specie di corridojo, detto Makam Ibrahim, o luogo d'Abramo, che sta tra la Kaaba e l'arco isolato, e colà si recita una preghiera ordinaria. In seguito si va al pozzo Zemzem, dal quale si attingono molti vasi d'acqua, e se ne beve quanta si può berne. Finalmente si esce dal tempio per el-Beb-Sàffa, porta di Saffa, di dove si sale sopra una piccola strada che gli è in faccia, e che forma la collina di Saffa, Diébel Saffa. In fondo alla strada terminata da un portico di tre archi, su cui si sale per alcuni gradini, avvi il luogo sacro detto Sáffa. Quando il pellegrino vi è salito, volge la fronte verso la porta del tempio, e recita stando in piedi una breve preghiera.
Allora si va in processione verso la strada principale, e si attraversa una parte del Dièbel-Méroua, o collina di Meroua, recitando continuamente preghiere: in fondo alla strada che è tagliata da un'alta muraglia, si sale per pochi gradini, col corpo rivolto al tempio, benchè le case intermedie non permettano di vederlo, e si pronuncia sempre in piedi una piccola preghiera. Si fa un secondo viaggio verso Saffa, un terzo verso Méroua; e così di tempo in tempo fino alla settima volta recitando preghiere ad alta voce, e facendo le piccole preghiere ne' due luoghi sacri; lo che forma il settimo viaggio tra le due colline.
Avendo terminato il mio settimo viaggio a Meroua, vidi alcuni barbieri stazionati in questo luogo per radere la testa ai pellegrini: lo che eseguiscono con somma leggerezza, e recitando preghiere ad alta voce che il pellegrino ripete parola per parola. Questa operazione termina le prime cerimonie del pellegrinaggio alla Mecca.
È noto che quasi tutti i Musulmani si lasciano crescere in mezzo alla testa una ciocca di capelli; ma perchè il riformatore Abdoul-wehhab dichiarò che la conservazione di questa ciocca è un peccato, e che i Wehhabiti, dominano nel paese, tutti si radono interamente la testa. Fui dunque anch'io forzato di lasciar cadere la mia lunga ciocca sotto le mani dell'inesorabile barbiere.
Già si avvicinava il giorno quando si terminava di soddisfare a questi primi doveri: allora mi si disse, che poteva ritirarmi per prendere un poco di riposo; ma perchè non era lontana l'ora della preghiera del mattino, scelsi di tornare al tempio, malgrado la mia debolezza e la sostenuta fatica, ed andai a casa solamente alle sei ore.
Al mezzodì dello stesso giorno tornai al tempio per la preghiera pubblica del venerdì, dopo aver fatta un'altra volta i sette giri della Kaaba, recitata una preghiera particolare, e bevuto largamente dell'acqua dello Zemzem.
All'indomani sabato 24 gennajo 1807, 15 del mese Doulkaada l'anno 1221 dell'Egira, si aprì la porta della Kaaba; ciò che si fa soltanto tre volte all'anno in tre diversi giorni. La prima volta affinchè tutti gli uomini che sono alla Mecca possano fare le loro preghiere nell'interno; la seconda, che ha luogo il giorno dopo, per le donne; e la terza, passati altri cinque giorni, è destinata a lavare e purificare la casa di Dio. Per questa ragione i pellegrini che non si trattengono alla Mecca che otto o dieci giorni all'epoca del pellegrinaggio di Aàrafat, partono senz'aver veduto l'interno del tempio.
La porta della Kaaba è nella faccia del N. E. a breve distanza dalla pietra nera, ed è alta circa sei piedi sopra il livello del gran cortile del tempio. Per entrarvi vien collocata al di fuori una bella scala di legno portata da sei ruote di bronzo.
In questo giorno fui condotto al tempio, e perchè la gente vi era affollata, mi fecero sedere in una specie di ricinto ove sta la guardia della Kaaba in faccia alla pietra nera. Questa guardia è composta di eunuchi negri. Essendosi scemata alquanto la gente, alcune guardie e la mia guida mi condussero nella casa di Dio; e si presero essi la cura di farmi mettere il piè destro sul primo gradino della scala. Entrato nella Kaaba fui direttamente condotto nell'angolo che guarda al sud, ove stando in piedi col corpo, e col volto possibilmente appoggiati contro la muraglia, recitai ad alta voce una preghiera; e quindi feci la preghiera ordinaria in faccia all'angolo del sud. Passai subito all'angolo che guarda all'O., e quindi all'angolo del N. facendo in ambedue ciò che fatto aveva nell'angolo del S. Di là essendo venuto all'angolo dell'E., ove non feci che una breve preghiera in piedi, baciai la chiave d'argento della Kaaba, che un fanciullo dello Sceriffo seduto sopra un soffà teneva a quest'oggetto in mano. Uscii scortato dai Negri che a forza di pugni mi facevano far largo. Appena fui fuori della Kaaba baciai la pietra nera, e feci di nuovo i sette giri della casa di Dio; entrai poscia entro una piccola fossa a piè della Kaaba, ed accanto alla porta, ove recitai la preghiera consueta, e dopo aver bevuta l'acqua del pozzo Zemzem ritornai al mio alloggio. Al mezzo giorno ebbi avviso di tenermi preparato ad essere presentato al sultano Sceriffo.
Il Nikeb-el-Ascharaf, o capo degli Sceriffi, venne a prendermi, e mi condusse al palazzo. Egli mi precedette, ed io rimasi alla porta aspettando l'ordine d'entrare. Un istante dopo il capo del pozzo di Zemzem, ch'era di già mio amico, scese per cercarmi. Montammo la scala, a metà della quale evvi una porta che ne chiude il passaggio. Il mio conduttore picchiò a questa porta, che fu aperta da due domestici, e noi continuammo a salire: attraversammo in seguito un corritojo oscuro, e dopo aver lasciate le pappuzze in questo luogo, entrammo in una bella sala, ov'era il sultano Sceriffo, detto Sceriffo Ghàleb, seduto presso ad una finestra, e circondato da sei personaggi che stavano in piedi. Poichè l'ebbi salutato mi fece le seguenti interrogazioni.
S. Parlate voi l'arabo[6]?
A. Sì, Sire.
S. Ed il turco?
A. No, Sire.
S. L'arabo solamente?
A. Sì, Sire.
S. Parlate voi le lingue dei Cristiani?
A. Alcune.
S. Qual è il vostro paese?
A. Aleppo.
S. Siete voi uscito assai giovane della vostra patria?
A. Sì, Sire.
S. Ove foste durante la vostra assenza?
Gli raccontai la mia storia. Allora lo Sceriffo disse a quello che gli stava a sinistra: parla assai bene l'arabo; il suo accento è veramente arabo; e volgendomi di nuovo la parola, dissemi alzando la voce, avvicinatevi. Mi appressai un poco, ed egli ripetè, avvicinatevi; ed allora mi avanzai fino a lui. Sedetevi, mi disse, ed essendomi affrettato di ubbidirlo, fece pure sedere il personaggio che gli stava a sinistra.
Voi avrete senza dubbio notizie del paese de' cristiani, ripigliò lo Sceriffo: ditemi le ultime che aveste. Gli feci un breve quadro dello stato attuale d'Europa. Mi domandò: sapete voi leggere e scrivere il francese? Un poco, Sire. — Soltanto un poco, o bene? Un poco, e non più, Sire. Quali sono le lingue che parlate e scrivete meglio? L'italiano e lo spagnuolo. Così continuammo a conversare più di un'ora. In appresso dopo avergli presentato il mio regalo, ed il firmano del Capitano pascià, mi ritirai accompagnato dal capo dello Zemzem, che mi condusse fino a casa.
Prima di passar oltre voglio dare contezza di questo importante personaggio, ch'erasi fatto mio amico. Era questi un giovane di ventidue in ventiquattr'anni, di una bellissima figura, occhi vivaci, ben vestito, assai gentile, d'un'aria dolce e seducente, e fornito di tutte le esteriori qualità che rendono amabile una persona. Depositario della intera confidenza dello Sceriffo, occupa il più importante impiego. È l'avvelenatore in titolo.... Rassicurati, lettore; nè questo nome ti faccia tremare per me. Quest'uomo pericoloso mi era noto anche avanti. Dopo la prima volta che fui al Zemzem, egli mi faceva assiduamente la corte; aveva già da lui ricevuto un magnifico pranzo; ogni giorno mandavami due bottiglie d'acqua del pozzo miracoloso: spiava i momenti in cui mi recava al tempio, e si affrettava di venire a presentarmi coi più dilicati modi una tazza colma d'acqua miracolosa, che io beveva senza timore fino all'ultima goccia. Questo scellerato tiene gli stessi modi verso tutti i Pascià, e personaggi d'importanza, che recansi alla Mecca. Dietro il più leggiero sospetto, e per capriccio, lo Sceriffo ordina, e lo sventurato straniero ha ben tosto cessato di esistere. Siccome sarebbe un'empietà il rifiutare l'acqua sacra presentata dal Capo del pozzo, quest'uomo con tal mezzo è padrone della vita di tutti i pellegrini; ed ha già sacrificato molte vittime. Da tempo immemorabile i sultani Sceriffi della Mecca tengono un avvelenatore alla loro corte; ed è cosa notabile che non si curino di tenere celato l'arcano, poichè si conosce in Egitto ed a Costantinopoli a segno, che il Divano ha più volte mandati alla Mecca Pascià, ed altri personaggi per isbarazzarsene in tal maniera. Ecco la ragione per cui i Mogrebini, e gli Arabi d'occidente erano solleciti di prevenirmi di stare in guardia al mio arrivo in questa città. I miei domestici non sapevano soffrire il traditore, ed io gli dava i meno equivoci segni di confidenza, affrontava le sue acque, ed i suoi pranzi con una serenità imperturbabile; e soltanto ebbi la precauzione di tener sempre in tasca tre prese di zinco vitriolato, vomitivo assai più efficace del tartaro emetico, e che opera all'istante, onde usarne tostochè avessi il più piccolo indizio di tradimento.
Parvemi che lo Sceriffo fosse dell'età di trenta in quarant'anni: la sua carnagione è alquanto bruna; ha grandi e begli occhi, e barba regolare; è grasso, e non pertanto assai vivace. Il suo abito consiste in un benisch, caftan esteriore, un caftan interiore con uno sciallo di cachemiro, ed un cachemiro, ed altro sciallo della stessa qualità per turbante. Aveva dietro di lui un gran cuscino, un altro a lato, ed un terzo più piccolo avanti, sul quale si appoggiava frequentemente. Nella sala non vidi altri arredi nè ornamenti fuorchè un gran tappeto che copriva tutto il suolo. In tempo della mia visita il sultano Sceriffo fumava una pipa persiana, o nerguilè, ch'era posta in una altra camera, e la di cui canna di cuojo per mezzo d'un foro fatto nel muro terminavasi alla sua bocca. Il riformatore Abdoulwehhàb avendo dichiarato che l'uso del tabacco è peccaminoso, ed i suoi segretarj che dominano l'Arabia essendo generalmente temuti, non si fuma che con molta circospezione, e quasi di furto.
All'indomani, domenica 25 gennajo, resi la visita al Nekih-el-Ascharaf, o capo degli sceriffi, e gli feci un piccolo regalo. Mi diede tutti i segni di distinzione e d'amicizia, che io poteva desiderare. Era il secondo giorno dell'apertura della Kaaba, come si disse poc'anzi, ma era il giorno esclusivamente destinato per le donne. Esse vi entrarono in folla per recitarvi le loro preghiere, e come gli uomini esse fanno i sette giri intorno.
Il lunedì 29 gennajo, 20 del mese doulkaada, si lavò e purificò la Kaaba colle seguenti cerimonie. Due ore dopo il levar del sole il sultano Sceriffo venne al tempio accompagnato da circa trenta persone, e da dodici guardie parte Negri e parte Arabi. La porta della Kaaba era già aperta e circondata da immenso popolo, ma non eravi ancora la scala. Il sultano Sceriffo montato sopra le spalle degli uni, e su la testa degli altri entrò nella Kaaba cogli Scheih principali delle tribù; gli altri volevano fare lo stesso, ma le guardie negre ne vietavano l'ingresso a colpi di pugni e di canne. Io stava lontano dalla porta per evitare la folla, quando per ordine dello Sceriffo il capo di Zemzem mi fece segno colla mano di avanzare; ma come farmi avanti a traverso di più di mille persone ch'erano tra me e la Kaaba?
Tutti i portatori d'acqua della Mecca appressavansi coi loro otri pieni, ch'essi facevano avanzare di mano in mano fino alle guardie negre della porta, come pure un gran numero di piccole scope di foglie di palma.
I Negri cominciarono a gettar acqua sul suolo della sala che è lastricata di marmo, e vi si gettò ancora acqua di rose. Quest'acqua scolando per un foro posto sotto la soglia della porta, era avidamente raccolta dai fedeli; ma perchè non era proporzionata ai loro desiderj, e che i più lontani ne chiedevano ad alta voce per bevere e per bagnarsi, le guardie negre colle tazze e colle mani la gettavano con profusione sul popolo. Ebbero l'attenzione di farmene passare un piccol vaso, ed una tazza, colla quale ne bevei quanto mi fu possibile, e sparsi il rimanente sul mio corpo; imperciocchè quest'acqua, quantunque salsa alquanto, porta seco la benedizione di Dio, ed altronde è bene aromatizzata dall'acqua di rose.
Feci allora uno sforzo per avvicinarmi; molte persone mi sollevarono sopra la folla, e camminando sopra le teste giunsi finalmente alla porta, ove le guardie negre mi ajutarono ad entrare. Io era preparato a tale operazione, non avendo in dosso che la camicia, un caschaba, o camicia di lana bianca senza maniche, il turbante, ed il hhaik che mi avviluppava.
Il sultano Sceriffo scopava egli medesimo la sala. Appena entrato, le guardie mi levarono il hhaik, e presentaronmi un fascio di piccole scope, delle quali ne presi alcune in ogni mano. All'istante gettarono molta acqua sul pavimento, ed io incominciai a scopare a due mani con un'ardente fede, quantunque il suolo fosse di già pulito come uno specchio. Durante questa operazione, lo Sceriffo che avea finito di scopare e di profumare la sala, stava orando.
Mi venne in appresso presentata una tazza d'argento piena d'una pasta fatta con raschiatura di sandalo, legno assai aromatico, e bagnato con essenza di rose; stesi questa pasta sulla parte inferiore della parete incrostata di marmo al disotto della tappezzeria che copre la parte superiore ed il palco. Mi fu poi dato un pezzo di legno d'aloè che feci abbruciare in una grande bragiera per profumare la sala.
Allora il sultano Sceriffo mi proclamò Hhaddem-Bèit-Allah-el-Haram, vale a dire servitore della casa di Dio la proibita; e ricevetti le congratulazioni di tutti gli assistenti. Dopo recitai le mie preghiere nei tre lati della sala, come la prima volta, lo che pose termine ai miei doveri. Mentre mi occupava di quest'atto di pietà, il sultano Sceriffo erasi ritirato.
Un gran numero di donne che stavano nel cortile riunite in corpo a qualche distanza dalla porta della Kaaba, gettavano di quando in quando acute grida di gioja.
Mi fu data un poco di pasta di sandalo con due piccole scope che io custodii religiosamente siccome preziose reliquie. Le guardie ajutaronmi a scendere sopra il popolo, che mi prese, e mi pose in terra felicitandomi dell'avvenimento. Passai di là al Makam-Hibrahim per farvi una preghiera, vi fui ricoperto del mio hhaik, ed entrai in casa mia tutto bagnato.
Altri impiegati del tempio mi portarono successivamente acqua del lavacro, ed un vaso me ne mandò il figlio dello Sceriffo che aveva la chiave della Kaaba, aggiugnendovi un cartoccio ripieno di raschiatura di sandalo ridotta in pasta con acqua di rose, un altro cartoccio di altri aromi, un cero, e due piccole scope. Dovetti corrispondere a tanti favori nel miglior modo possibile.
Il martedì 3 febbrajo, 25 del mese doulkaada, la grande tela nera che copre l'esteriore della Kaaba fu tagliata un poco sopra alla porta, e tutto all'intorno dell'edificio; cosicchè rimase scoperto nella parte inferiore; lo che compie la cerimonia detta Yaharmo-el-Bèit-Allah, cioè purificazione della casa di Dio.
In questa operazione tutti gl'impiegati del tempio procurano di ottenere qualche pezzo della tela, che dividono in minutissimi pezzetti per farne certe reliquie, che regalano poi ai pellegrini, obbligati di corrispondere a questo favore con qualche gratificazione. Io ne ricevetti tante che... Dio sia lodato!
In questo giorno medesimo un corpo d'armata de' Wehhabiti entrò nella Mecca per soddisfare ai doveri del pellegrinaggio, e per impadronirsi della santa città. Io li vidi entrare per accidente. Mi trovava alle nove ore nella strada principale, quando vidi venire una folla di uomini strettamente serrati gli uni contro gli altri, non avendo altra veste che un panno intorno alle reni, ed alcuni una salvietta posta sulla spalla sinistra, e sotto l'ascella destra; del resto affatto nudi ed armati di fucili a miccia con un cangiar, o grande coltello curvo appeso alla cintura. Alla vista di questo torrente d'uomini nudi ed armati tutta la gente sgombrò la strada. Io rimasi al mio luogo, salendo sopra un mucchio di rottami onde meglio osservarli. Vidi avanzare una colonna che parvemi numerosa di cinque in sei mila uomini talmente serrati su tutta la larghezza della strada, che non avrebbero potuto movere una mano. La colonna era preceduta da tre o quattro uomini a cavallo armati di una lancia lunga due piedi, e seguita da altri quindici o venti montati sopra cavalli, cammelli, e dromedarj colla lancia alla mano come i primi; ma non avevano nè stendardi, nè tamburri, nè verun altro stromento, o trofeo militare. Marciando altri mettevano grida di santa allegrezza, altri confusamente recitavano preghiere ad alta voce; ognuno a modo suo.
Salirono in tale ordinanza fino alla più alta parte della città, ove giunti incominciarono a sfilare a piccoli corpi separati per entrare nel tempio per la porta Beb el-Salem.
Un gran numero di fanciulli della città, che d'ordinario servono di guida agli stranieri gli si fecero incontro, presentandosi loro in piccoli gruppi per insegnar loro le sacre cerimonie: osservai che tra queste guide non eravi un solo uomo di età matura. Già i primi corpi in atto d'incominciare i giri della Kaaba si facevano premura di baciare la pietra nera, quando altri impazienti d'aspettare, si avanzano tumultuariamente, mischiandosi coi primi, e facendo una tale confusione che più non era intesa la voce delle guide. Alla confusione tien dietro il tumulto: tutti vogliono ad un tempo baciare la pietra nera, tutti vi si affollano, e molti cercano di aprirsi un passo col bastone. Invano uno de' loro capi monta sullo zoccolo presso alla pietra sacra per rimettere l'ordine; le sue grida, i suoi segni tornano vani perchè il santo zelo della casa di Dio che li divora non permette loro d'udir ragione, nè la voce del capo. Il movimento in giro s'accresce per mutuo impulso. Finalmente si vedono, a guisa d'uno sciame di api, che volano intorno all'alveare, girare confusamente intorno alla Kaaba, e nel loro confuso zelo rompere coi fucili che hanno sulle spalle tutte le lampadi di vetro che circondano la casa di Dio.
Dopo le diverse cerimonie intorno al tempio, doveva ognuno bere l'acqua del pozzo miracoloso, e spargerne sul proprio corpo, ma perchè ogni cosa facevasi disordinatamente, ben tosto i secchi, le corde, le tazze sono fatte in pezzi: i capi e gl'impiegati dello Zemzem abbandonano il loro posto; ed i Wehhabiti rimasti soli padroni del pozzo si danno mano, formano una catena, scendono in fondo, ed attingono l'acqua come possono.
Il pozzo chiede elemosine, offerte la casa di Dio, mercede le guide; ma la maggior parte de' Wehhabiti non avevano alcuna moneta; e soddisfano a quest'obbligo di coscienza dando venti o trenta grani di polvere assai grossa, alcuni piccoli pezzi di piombo, e pochi grani di caffè.
In fine delle cerimonie avendo essi i capelli lunghi un pollice, si fecero coscienza di farli radere, la quale operazione si eseguì nelle strade, ed i barbieri furono pagati colla stessa qualità di monete onde furono compensate le guide e gl'inservienti del tempio.
I Wehhabiti di Draaïya, principale luogo della riforma, hanno il color di rame. Sono in generale ben fatti e perfettamente ben proporzionati, ma di bassa statura: ed ho specialmente distinti tra loro alcuni che avevano così belle teste da poter pareggiarsi a quelle dell' Apollo, dell' Antinoo, o del Gladiatore. Hanno pure gli occhi vivacissimi, il naso e la bocca regolarissimi, i denti belli, ed una fisonomia piena d'espressione.
Figuriamoci una folla d'uomini nudi ed armati, quasi privi di ogni idea di civiltà, e parlanti un linguaggio barbaro: questo primo quadro è spaventoso, e ributta l'immaginazione; ma sormontata questa prima impressione, trovansi in questi uomini alcune rare qualità; essi non rubano giammai nè colla violenza, nè coll'astuzia, se non quando credono che l'oggetto appartenga al nemico, o ad un infedele; tutto ciò che comprano, e qualunque servigio venga loro reso si paga colla loro moneta. Ciecamente sottomessi ai loro capi soffrono in silenzio tutte le fatiche, e si lascerebbero condurre in capo al mondo. Finalmente si conosce essere costoro uomini dispostissimi ad essere inciviliti, se fosse loro data una conveniente direzione.
Ritornato a casa mia seppi che arrivavano altri corpi di Wehhabiti per soddisfare al dovere del pellegrinaggio. Intanto che faceva egli il sultano Sceriffo?.... nell'impotenza di resistere a tante forze stava rinchiuso, o a meglio dire nascosto, temendo di essere attaccato; le fortezze approvvigionate e poste in istato di difendersi; i soldati Arabi, Mogrebini, e Negri non abbandonavano i loro posti: vidi guardie e scorte ai forti, e varie porte chiuse e murate; in una parola tutto era disposto per rispingere un'aggressione. Ma la moderazione dei Wehhabiti, e le trattative dello Sceriffo resero inutili le prese precauzioni.
CAPITOLO XXXIV.
Pellegrinaggio ad Aarafat. — Grande riunione di pellegrini. — Descrizione di Aarafat. — Sultano ed armata dei Wehhabiti. Cerimonie di Aarafat. — Ritorno a Mosdelifa. — Ritorno e cerimonie a Mina. — Ritorno alla Mecca e fine del pellegrinaggio. — Appendice al pellegrinaggio.
Il gran giorno del pellegrinaggio al monte Aarafat era il martedì 17 febbrajo. Io partii il 16 dopo mezzogiorno, in una chevria posta sopra un cammello, eguale a quella di cui mi valsi per venire da Djedda alla Mecca. Alle due circa dopo mezzogiorno passai innanzi alla caserma delle guardie negre, posta all'estremità settentrionale della città.
Di là piegando a levante giunsi dopo pochi minuti in faccia ad una gran casa di campagna dello sceriffo, ed un quarto d'ora dopo scopersi la celebre montagna Diebel Nor, ossia montagna della luce, sulla quale l'Angelo Gabriele portò al più grande dei profeti i primi capitoli del Corano. Questa montagna s'inalza isolata in figura di pane di zucchero, sopra il livello delle altre montagne che la circondano. Eravi altra volta sulla sommità una cappella, che era una stazione del pellegrinaggio, ma i Wehhabiti dopo averla atterrata, posero una guardia alle falde della montagna per impedire ai pellegrini di salirlo per farvi le preghiere, che Abdoulwehhab dichiarò superstiziose. Vi si saliva, mi fu detto, per una scala tagliata nella roccia; e trovandosi questa montagna distante un quarto di lega a sinistra dalla strada, non la vidi che passando cogli altri pellegrini, ma pure ne presi uno schizzo in prospettiva.
Seguendo la strada verso l'E. S. E. vidi alle tre ore meno un quarto una piccola sorgente d'acqua dolce, con vasche artefatte, e poco dopo entrai in Mina. Il primo oggetto che si scopre entrando nel borgo è una fontana, in faccia alla quale vedesi un'antica opera che il volgo dice essere stata fatta dal demonio.
Il borgo di Mina, chiamato anche Mòna, non ha che una sola strada, ma così lunga che io impiegai venti minuti per arrivare dalle prime alle ultime case. Sonovi belli edificj, molti de' quali cadono in rovina, o sono senza tetto, ed alcuni recinti con muraglie a secco alte cinque piedi che vengono affittati ai pellegrini ne' giorni della Pasqua.
A tre ore e mezzo feci porre il campo fuori di Mina dal lato di levante in una piccola pianura presso ad una moschea circondata di mura come una specie di fortezza.
Tutto il paese attraversato fin qui è una angusta valle chiusa da montagne granitiche affatto sterili. Tutta la strada era coperta di cammelli, di persone a piedi ed a cavallo, e da un gran numero di schevrias.
Un distaccamento di Wehhabiti montati sopra dromedarj, che io aveva incontrati alle falde del Dièbel-Nor venne ad accamparsi avanti alla porta della moschea. Fu ben tosto raggiunto da altri corpi della stessa nazione montati egualmente sopra dromedarj o cammelli; ed in breve tutta la pianura ne fu piena. Dopo tramontato il sole giunse il sultano de' Wehhabiti, Saaoud, la di cui tenda era stata preparata al piede della montagna in poca distanza dalle mie.
Una carovana di Tripoli di Barbaria, un'altra dell'Iemen, di una quantità di pellegrini negri del Soldano, o dell'Abissinia, molti Turchi giunti per la strada di Suez, assai Mogrebini venuti per mare, una carovana di Bassora, ed altre del Levante: gli Arabi dell'alto e del basso Egitto, quelli del paese, ed i Wehhabiti, trovavansi allora riuniti, o piuttosto ammucchiati gli uni su gli altri in quest'angusta pianura, nella quale i pellegrini devono accamparsi per dovere, perchè la tradizione riferisce che il santo Profeta faceva lo stesso qualunque volta andava ad Aàrafat.
Non era giunta la carovana di Damasco, quantunque partisse con molte donne, e fosse scortata dalla truppa, e dall'artiglieria portando il ricco tappeto che ogni anno viene mandato da Costantinopoli pel sepolcro del Profeta a Medina; perchè i Wehhabiti che riguardano questa usanza come peccaminosa gli vennero incontro fin presso a Damasco, e fecero sapere a quel Pascià Emir-el-Stage, che la comandava, che non si poteva ricevere il tappeto destinato pel sepolcro; che se voleva proseguire il viaggio per la Mecca, dovesse rimandare addietro i soldati, l'artiglieria e le donne, e che trasformandosi in tal modo in veri pellegrini, la carovana non incontrerebbe verun ostacolo nel suo viaggio. Non volendo il Pascià sottomettersi a tali condizioni fu costretto di retrocedere. Altri pretendono che si esigesse da lui una forte contribuzione di denaro: ma ciò è contraddetto da altri meglio informati.
Il martedì 17 febbrajo del 1807 (9 Doulhagea, 1221 dell'Egira) alle sei ore della mattina, era in cammino nella direzione di S. E. ¾ E. A breve distanza dal luogo della partenza lasciai a destra una casa dello Sceriffo; alle sette passai Mosdèlifa, piccola cappella con una gran torre in una stretta valle; e dopo avere attraversata una gola ancora più chiusa tra le montagne, camminai lungo una vallata al S. E. che sbocca alle falde del monte Aàrafat, ove giunsi alle nove ore del mattino.
Il monte Aàrafat è l'oggetto primario del pellegrinaggio dei musulmani; quindi molti dottori furono d'opinione che quando non esistesse più la casa di Dio, il pellegrinaggio al monte Aàrafat sarebbe tanto meritorio quanto il fare i sette giri della Kaaba; e questa è pure la mia opinione.
Non è che al monte Aàrafat ove uno possa formarsi un'idea dell'imponente spettacolo che presenta il pellegrinaggio de' musulmani: una immensa folla d'uomini di tutte le nazioni, di tutti i colori, venuti dalle estremità della terra attraverso di mille pericoli, e sopportando gravi fatiche, per adorare assieme lo stesso Dio, lo stesso Dio della natura; l'abitante del Caucaso presentando una mano amica all'Etiope o al Negro della Guinea; l'Indiano ed il Persiano fraternizzando col Barbaresco e col Marocchino; tutti risguardandosi come fratelli, o come individui d'una sola famiglia, uniti dai legami della religione, parlando la maggior parte, o almeno intendendo la stessa lingua, la sacra lingua dell'Arabia: nò, alcun culto non presenta ai sensi uno spettacolo più semplice, più maestoso!.....[7] Filosofi della terra permettete, permettete ad Ali Bey di sostenere la sua religione, come voi sostenete lo spiritualismo o il materialismo, il vuoto o il pieno, la necessità dell'esistenza o la creazione. Il monte Aàrafat è una rupe granitica come le altre montagne vicine, alta circa cento cinquanta piedi, chiusa da una muraglia, e posta alle falde di un'altra montagna più alta all'E. S. E. d'un piano di tre quarti di lega di diametro, circondato da ogni banda di sterili montagne. Vi si sale per alcune scale, parte tagliate nella rupe stessa, parte formate di nuovo. Avvi sulla sommità una cappella di cui i Wehhabiti stavano allora distruggendone l'interno. Non potei vederla perchè resta vietato agl'individui del mio rito, cioè ai Maleki di salire sulla cima, secondo le intenzioni dell'Iman fondatore del rito; quindi ci fermiamo a metà del monte per recitarvi la preghiera. Al piede della montagna trovasi una piattaforma preparata a tale uso, detta Dianaà Arràhma, o moschea della misericordia: secondo la tradizione, colà pregava anco il Profeta.
Presso alla montagna sonovi quattordici grandi vasche riparate dal Sultano Saaoud. Somministrano esse una immensa quantità d'acqua bonissima a beversi, che serve pure ai pellegrini per lavarsi in questo giorno solenne. Affatto vicina dalla banda di S. O. vedesi una casa dello Sceriffo, e ad un quarto di lega a N. O. trovasi un'altra piattaforma sulla quale si fa la preghiera, ed è intitolata Diaman Ibrahim, moschea di Abramo.
Fu sul monte Aàrafat che il comun padre degli uomini incontrò o riconobbe la nostra madre Eva dopo un lungo divorzio, e per tal ragione questo luogo si chiama Aàrafat, ossia riconoscimento. Si crede che fosse lo stesso Adamo il fabbricatore della cappella, che i Wehhabiti hanno cominciato a distruggere[8].
Dopo la preghiera dell' aassar, che ognuno fa nella propria tenda, e tutto essendo pronto per la partenza, prescrive il rituale di portarsi presso alla montagna per aspettarvi il cadere del sole. Per ubbidire a tale precetto i Wehhabiti ch'erano accampati in luoghi assai lontani, cominciarono ad avvicinarsi, avendo alla testa il Sultano Saaoud, ed Abounocta loro secondo capo. In poco tempo vidi sfilare un'armata di quarantacinque mila Wehhabiti quasi tutti montati sopra cammelli o dromedarj, con un migliajo di cammelli carichi d'acqua, di tende, di legna da bruciare, e di fieno per i cammelli dei capi. Un corpo di dugento uomini a cavallo portava stendardi d'ogni colore appesi sopra le lancie: e mi fu detto che questa cavalleria apparteneva al secondo capo Abounocta. Vedevansi inoltre sette in otto altre bandiere tra le file de' cammelli, ma senza verun'altra insegna, senza tamburi, trombette, od altri stromenti militari. Siccome tutti questi uomini erano affatto nudi, non esclusi i loro capi, non mi fu possibile di ben distinguerli. Pure un vecchio venerando con una lunga barba bianca, e preceduto da uno stendardo reale parvemi essere il Sultano. Tale stendardo di color verde aveva per insegna distintiva la professione di fede = Là illaha ila Allah = «Non v'è altro Dio che Dio» ricamata a grandi caratteri bianchi.
Riconobbi perfettamente per i lunghi ondeggianti suoi cappelli uno de' figliuoli di Saaoud, fanciullo di sette in otto anni, di una carnagione bruna come gli altri, vestito con una grande camicia bianca, circondato da una scorta particolare, e montato sopra di un bellissimo cavallo bianco, senza speroni, essendo il costume de' Wehhabiti che non conoscono selle; questo era coperto di un drappo rosso ricamato, e sparso di stelle d'oro.
La montagna e tutto il contorno furono ben tosto coperti di Wehhabiti: in seguito avvicinaronsi alla montagna le carovane ed i pellegrini. Malgrado le dissuasioni de' miei domestici ardii penetrare tra i Wehhabiti, avanzandomi fino al loro centro onde vedere più da vicino il Sultano: ma molti di loro, cui io ne feci inchiesta, mi assicurarono che la cosa era impossibile, perchè il timore di un avvenimento uguale a quello dello sventurato Abdelaazis, ch'era stato assassinato, aveva fatto moltiplicare le guardie intorno alla persona di Saaoud.
Devo per amore di verità confessare, che ho trovato ragionevoli e moderati tutti quei Wehhabiti con cui ebbi opportunità di parlare, e da costoro ebbi la maggior parte delle notizie che soggiugnerò in ordine alla loro setta. Peraltro a fronte di tanta moderazione, nè gli abitanti, nè i pellegrini possono senza fremere udirne il nome; e non lo pronunciano che dicendone male; e cercano a tutto potere di non avere comunicazione di sorte con simil gente.
Il Sultano Sceriffo aveva, secondo la pratica stabilita, mandato un corpo delle sue truppe con quattro pezzi d'artiglieria; ed era voce che venisse in persona, lo che non si verificò. È antichissima costumanza che un Imano dello Sceriffo venga ogni anno a fare un sermone sulla montagna. Venne anche quest'anno, ma fu dal Sultano Saaoud rinviato prima di cominciarlo, e vi supplì il suo Imano, che io non ho potuto intendere per essere troppo distante, ma i Wehhabiti lo applaudirono assai.
Non mi sarebbe mancato modo d'introdurmi presso il Sultano Saaoud, ed ardentemente lo desiderava; ma prevedendo che ciò mi avrebbe reso sospetto al Sultano Sceriffo, il quale avrebbe attribuito qualche motivo politico alla mia curiosità, me ne astenni.
Stavamo sulla montagna aspettando l'istante del tramontar del sole. Arrivato questo momento.... quale confusione! Figurisi una massa di ottantamila uomini, duemila femmine, un migliajo di fanciulli, con sessanta in settantamila tra cammelli, asini e cavalli, che in sul far della notte vogliono tutti entrare correndo, come ordina il rituale, in un'angusta valle, camminando gli uni sopra gli altri in mezzo ad una nuvola di polvere, e ad una foresta di lancie, di fucili, di spade: ed in tal modo forzando il passaggio il meglio che per noi si poteva, pressandosi, urtandosi gli uni gli altri, si tornò a Mosdelifa in un'ora e mezzo, quando eransene impiegate più di due nella venuta.
VEDUTA DI MINA, E DELL'ACCAMPAMENTO D'ALI BEY AL SUO RITORNO DA ARAFAT.
La ragione di tanta precipitazione ordinata dal rituale, è quella che non deve farsi la preghiera della sera, ossia del Mogareb, ad Aàrafat, ma bensì a Mosdelifa nello stesso tempo di quella dell' Ascha, ossia della notte. Tali preghiere si fanno in privato; ogni famiglia, ogni unione di gente la fa nel luogo ove si trova. Noi ci facemmo premura di recitarle subito arrivati, avanti d'alzare le tende, ed il giorno si terminò con reciproche felicitazioni intorno alla prosperità della nostra santificazione col pellegrinaggio del monte Aàrafat.
All'indomani mercoledì 18 febbrajo (10 del mese doulhaeja, e primo dì di Pasqua), noi partimmo alle cinque ore e mezza del mattino per andare ad accamparsi a Mina. Appena arrivati, posto piede a terra, camminammo a furia verso la casa del diavolo, che sta in faccia alla fontana. Ognuno aveva sette pietre della grossezza d'un pisello, raccolte a bella posta nella precedente notte a Mosdelifa per gettarle al di sopra del muro nella casa del diavolo. I Musulmani di rito maleki, com'erano, le gettano una dopo l'altra, dopo avere pronunciate queste parole: Bison illah-allah-huakibar, cioè in nome di Dio, Dio grandissimo. Siccome il diavolo ebbe la malizia di porre la sua casa in luogo assai angusto, che non ha forse trentaquattro piedi di larghezza, e che è inoltre occupato da aspre grotte che conviene sormontare per gettare le pietre con sicurezza, e più ancora perchè tutti i pellegrini vogliono eseguire questa santa operazione nell'istante che arrivano a Mina, vi si forma una strana confusione. Ne venni a fine coll'ajuto de' miei domestici, e soddisfeci esattamente a questo santo dovere, non però affatto felicemente, avendo riportate due ferite nella gamba sinistra. Mi ritirai poscia nella mia tenda per ristorarmi dalle sostenute fatiche, onde potere nello stesso giorno celebrare ancora il sacrificio pasquale. Anche i Wehhabiti costumano di gettar le pietre, perchè soleva fare lo stesso il Profeta.
Devo encomiare la moderazione ed il buon ordine che si mantennero in mezzo a tanta folla di gente di così lontane e diverse nazioni. Più di duemila donne confuse con ottantamila uomini non diedero motivo alla più piccola malintelligenza, e quantunque vi fossero quaranta o cinquantamila fucili, non si udì che un solo colpo partito a non molta distanza da me: nello stesso istante accorse un capo de' Wehhabiti, e corresse l'imprudente dicendogli con dolce severità: perchè avete voi tirato questo colpo di fucile? forse che qui si fa la guerra?
La stessa mattina incontrai sulla strada il figlio di Saaoud. Era a cavallo alla testa d'un corpo di dromedarj: sopravanzandomi presso a Mina, e passandomi di fianco, gridò alla sua compagnia; andiamo, figliuoli, avviciniamoci; poi volgendosi a manca, e prendendo il trotto, seguìto da tutto il corpo, si restituì alla tenda di suo padre, accampato alle falde della montagna come il giorno precedente. Le mie tende si alzarono presso a quelle delle truppe dello Sceriffo.
Il giovedì 19 febbraio essendomi levato in sullo spuntare del giorno per fare la preghiera, mi avvidi ch'era stato rubato il mio scrittojo, i miei libri, le carte ed alcuni mobili. Lo scrittojo conteneva un cronometro, alcune gioje, pochi piccoli utensili, il mio grande suggello, varj disegni ed osservazioni astronomiche.
I miei domestici colpiti da tale accidente si fecero a cercarne in ogni lato, temendo le conseguenze di un furto che li dichiarava trascurati nella guardia ch'io aveva loro ordinato di fare in tempo di notte. Ma essi erano oppressi dalla fatica de' precedenti giorni, ed altronde si erano fatalmente fidati delle vicine guardie turche e mogrebine dello Sceriffo.
Io feci tranquillamente la preghiera alla testa delle mie genti; e quando il giorno permise di distinguere gli oggetti, si videro delle carte sparse sulla montagna. Accorservi tutti i miei domestici, e trovarono essere stata forzata la serratura dello scrittojo, e sparsi in terra tutti i libri e le carte, ad eccezione del cronometro, delle gioje, e delle mie tavole logaritmiche ch'erano legate elegantemente, e che nella oscurità saranno state dai ladri credute un Corano.
LUOGO SACRO NOMINATO SAFFA COMPOSTO DI TRE ARCHI ALLA MECCA.
Avanti la preghiera del mezzogiorno andammo a gettare sette pietre lavate nell'acqua contro un pilastro fatto di pietre e di calce, alto sei piedi, largo quasi due piedi quadrati, posto in mezzo alla strada di Mina, e creduto opera del diavolo: ne ho gettate altre sette contro un altro pilastro simile, innalzato dallo stesso architetto, lontano quaranta piedi dal primo: e le ultime sette furono gettate contro la casa di cui si è parlato poc'anzi.
LUOGO SACRO NOMINATO MEROUA COMPOSTO DI TRE GRANDI MURAGLIE ALLA MECCA.
Il venerdì 20 febbrajo, 12 del mese doulhaeja, e terzo della Pasqua, dopo aver ripetuta la cerimonia delle sette pietre, tornai alla Mecca.
Appena entrato in città, passai al tempio ove feci di nuovo i sette giri della casa di Dio, in appresso dopo la preghiera e dopo aver bevuta l'acqua dello Zemzem, uscii dalla porta di Saffa per terminare il pellegrinaggio coi sette viaggi tra Saffa e Meroua, come la notte del mio arrivo.
Quest'atto solenne era in addietro accompagnato da altre pratiche di stazione e di devozione, inventate da varj dottori, e da anime pie; ma i Wehhabiti soppressero tutte queste addizioni quali formole superstiziose, e non lasciarono che la seguente appendice da me osservata in tutta la sua estensione.
La domenica 22 febbrajo, quasi tutti i pellegrini vanno una lega lontano dalla Mecca verso l'O. N. O., in un luogo ove trovasi una moschea che cade in ruina, detta el-Aàmar. Si incominciò dal fare la preghiera, poi si posero divotamente tre pietre l'una sopra l'altra a poco distanza dalla moschea. Si passò in appresso nel luogo ove abitò l'infame Abou-gehel acerrimo nemico del nostro santo Profeta, dove animati da un santo furore, lo caricammo di maledizioni, gettandoli contro sette pietre. Ritornati in città si fecero di nuovo i sette giri alla casa di Dio, ed i sette viaggi a Saffa ed a Meroua, che chiusero la cerimonia del pellegrinaggio per la nostra santificazione.
Vuole la tradizione che quest'appendice sia una giunta istituita da Ayescha, la più cara sposa del nostro santo Profeta.
Darò adesso una concisa notizia degl'impiegati del tempio. L'Haram ha il suo capo principale detto Schéich-el Haram, ed il pozzo Zemzem egualmente il suo, chiamato Scheih Zemzem. La Kaaba è servita da quaranta eunuchi negri, che sono ad un tempo guardie e domestici della casa di Dio. Portano per distintivo sopra il loro abito ordinario un grande caftan, o camicia di tela bianca, stretta con una cintura, uno spazioso turbante bianco, e per ordinario una canna od una mazzetta in mano.
Il pozzo Zemzem conta pure un considerabile numero d'impiegati, e di portatori d'acqua, ai quali spetta inoltre l'amministrazione delle stuoje che dispiegansi tutte le sere sul suolo della corte e della galleria del tempio.
Un altro sterminato numero d'impiegati è formato dai fabbricatori di lampadi, smoccolatori, serventi di Makam Ibrahim, serventi della piccola fossa della Kaaba, serventi di cadaun luogo di preghiera dei quattro riti, portieri, domestici delle torri, serventi di Saffa, di Meroua ec. Inoltre domestici che custodiscono i sandali dei pellegrini a tutte le porte d'entrata del tempio, mudden, o gridatori pubblici, imani e mudden particolari per tutti i quattro riti, il Kadi ed i suoi impiegati, i cantori del coro, i monkis, ossia osservatori del sole per annunciare le ore della preghiera, l'amministratore ed i serventi del tobel-kaaba, i conservatori dalla chiave della Kaaba, il mouft, le guide ec. ec.; di modo che la metà degli abitanti della Mecca possono ritenersi impiegati o servitori del tempio, non avendo altro salario che il prodotto delle elemosine eventuali de' pellegrini.
Per questo motivo quando arriva un pellegrino tutti gli s'affollano intorno, tutti sforzansi a gara di servirlo e di onorarlo voglia o non voglia: essi prendono il più grande interesse all'eterna sua salute, facendo ogni sforzo per fargli aprire le porte del cielo con preghiere e pratiche mistiche secondo il rito del pellegrino.
Le numerose carovane che in addietro giugnevano da tutte le parti del mondo ove si pratica l'islamismo, provvedevano colle larghe loro elemosine ai bisogni di tutti; ma ora che il numero è minorato assai, pochi pellegrini si trovano abbastanza ricchi per supplire alle spese, cresciute a dismisura, perchè il numero degl'impiegati al tempio è ancora il medesimo, ed appena bastano in elemosine e gratificazioni mille cinquecento in duemila franchi. Perfino i più poveri pellegrini, e quei medesimi che viaggiano mendicando, sono costretti di lasciarvi qualche scudo.
Siccome queste elemosine sono individuali, ogni impiegato si appropria quello che può in pubblico o in privato, ad eccezione degli eunuchi negri, e degl'impiegati dello Zemzem, che formano due specie di corporazioni. Vero è che malgrado questa specie di società, malgrado i loro registri e le loro casse, ogni individuo di questi due corpi cerca di scroccare in particolare tutto quello che può.
In altri tempi le carovane portavano dai loro paesi considerabili elemosine per parte dei loro compatriotti; ora non si manda quasi nulla: manifesto indizio di un deplorabile rilasciamento.
In altri tempi il Capo del paese concorreva alla sussistenza degl'impiegati, ma oggi lo Sceriffo impoverito dalla rivoluzione dei Wehhabiti, invece di far elemosine, prende per sè quanto può.
Il Sultano di Costantinopoli somministra gli eunuchi negri per guardie e domestici della Kaaba, e per gl'impieghi de' cantori e dei mudden.
I pellegrini avevano altra volta varie altre stazioni da fare, che pure fruttavano agl'impiegati maggiori elemosine, ma i Wehhabiti hanno tutto distrutto, e privati i pellegrini del maggior merito che acquistavano visitando que' santi luoghi, fra i quali la cappella di Setaa Fatima figlia del Profeta, di Sidi Mahmud, la casa d' Aboutaleb ec.
CAPITOLO XXXV.
Descrizione della Mecca. — Sua posizione geografica. — Edificj. — Mercati pubblici. — Viveri. — Arti e Scienze — Commercio. — Povertà. — Decadenza. La santa città della Mecca, capitale dell' Hedjaz, o dell'Arabia deserta degli antichi geografi, è il centro della religione Musulmana, a cagione del tempio che Abramo v'innalzò all'essere Supremo, oggetto dell'attenzione di tutti i fedeli credenti.
Un gran numero di osservazioni mi diedero la latitudine della Mecca al 21° 28′ 9″ N., e la longitudine 57° 54′ 45″ E. dell'osservatorio di Parigi. L'osservazione di molti azimut dà per la declinazione magnetica 9° 43′ 52″ O.
Trovasi alla Mecca un dignitario col titolo di Monjim Bascki, o capo degli Astronomi; ma non ha verun astronomo sotto di lui, ed egli stesso ignora perfettamente la posizione geografica della città, non avendo la più leggiera tintura di astronomia, riguardata da lui e da tutti gli abitanti siccome l'arte di far pronostici: pure vi è molto stimato.
La città della Mecca, in arabo Mekka, è posta in una valle, la di cui compensata larghezza è di circa centocinquanta tese sopra una linea tortuosa che va da N. E. a S. O. tra basse montagne: e per conseguenza secondando le sinuosità della valle ha una forma affatto irregolare, e le case fabbricate sul piano della valle, ed ancora sopra una parte del pendio delle montagne da ambo i lati, ne accrescono l'irregolarità. Si può avere un'idea di questa città figurandosi un ammasso di molte case aggruppate al N. del tempio, che prolungansi in forma di luna crescente dal N. E. al S. O. per il S. La città si sviluppa sopra una linea di novecento tese di lunghezza all'incirca, e di dugento sessanta sei di larghezza nel centro dall'E. all'O.
Le principali strade sono bastantemente regolari, e potrebbero quasi dirsi belle per le eleganti facciate delle case: sono coperte d'arena, ed assai comode. Avvezzo com'io era alle città dell'Affrica fui graziosamente sorpreso dalla vaghezza degli edificj della Mecca.
Io suppongo che la loro forma si avvicini al gusto indiano o persiano, che si era introdotto durante la residenza del Califfato a Bagdad. Le case hanno due ordini di finestre, come in Cipro, con molte griglie; ma vi si vedono altresì grandi finestre aperte come in Europa. Le più però sono coperte da una specie di persiana leggerissima di palma che difende dal sole senza togliere il passaggio dell'aria, piegandosi a piacere nella loro più alta parte, come le persiane usate in Europa.
Tutte le case solidamente costrutte di pietra, hanno tre o quattro piani, ed anche più, con facciate ornate di modonatura, zoccoli e pitture, lo che dà loro un grazioso aspetto. Difficilmente trovansi porte senza gli ornamenti e modonature con iscaglioni e banche ai due lati.
I tetti sono piani in forma di terrazza, e circondati d'un muro alto circa sette piedi; il quale muro è di tratto in tratto interrotto da un andamento di fori fatto con mattoni bianchi e rossi posti orizzontalmente e simmetricamente a secco onde lasciar passare l'aria, di modo che contribuiscono ad un tempo all'ornamento della facciata, ed a celare le donne che trovansi sulla terrazza.
Tutte le scale ch'io vidi sono strette, oscure, e con scalini troppo alti. Le camere sono ben proporzionate in larghezza, lunghezza ed altezza. Oltre le grandi hanno pure un secondo ordine di piccole finestre, e come in Alessandria una tavoletta all'intorno che serve per riporvi diversi oggetti.
La bellezza delle case prova l'antico splendore della Mecca, che gli abitanti procurano di conservare appariscenti, per allettare i pellegrini, formando gli affitti delle case la miglior parte delle loro entrate. Non sonovi in questa città formali mercati, non permettendolo l'irregolarità del terreno, e la ristrettezza dello spazio; perciò tengonsi lungo le strade principali, e può dirsi che la grande strada centrale sia un continuo mercato da cima a fondo della città. I venditori stanno entro le loro baracche formate di bastoni e di stuoje, ed alcuni non hanno che un grande parasole sostenuto da tre bastoni che si riuniscono al centro. I mercati abbondano di commestibili, e d'ogni sorte di oggetti grossolani; e la gente vi è sempre affollata, specialmente nell'epoca del pellegrinaggio. Vi sono allora vivandieri ambulanti, pasticcieri, calzolaj, sarti, e simili.
Quantunque abbondanti i viveri, ad eccezione delle carni, sono cari: un grosso castrato si paga circa sette franchi; i polli scarseggiano, e perciò anche le ova; e non v'è selvaggiume d'alcuna sorte. La farina viene dal basso Egitto, i legumi ed il riso dall'India, gli erbaggi da Taïf, di dove viene ancora formento e farina in poca quantità, e di qualità inferiore a quella d'Egitto. Il butirro che si conserva negli otri e ne' vasi è assai comune; ma dal calore reso liquido come l'olio.
Il prezzo delle derrate varia assaissimo a cagione della mancanza di sicurezza del commercio: eccone i prezzi che vi si facevano in tempo del mio soggiorno nel 1807.
Piastre Turche
Un oka di butirro num. 5
Un pollo 4
Sei ova 1
Un carico di Cammello d'acqua dolce 2
Un oka d'olio 4
Parà
Un oka di pane num. 12
Un otre d'acqua di pozzo 15
Un oka di legna da fuoco 3
Un oka di carbone 20
I pesi e le misure sono le medesime che si usano in Egitto, ma così inesatte, che sarebbe inutile di cercarne la regola. Le monete correnti sono pure quelle dell'Egitto. La piastra spagnuola vale in commercio cinque piastre turche di cinquanta parà cadauna; ma a cambio non ne vale che quattro e mezzo. Vedonsi circolare alla Mecca le monete di tutti i paesi; onde trovansi cambiatori col loro banco ne' pubblici mercati sempre occupati con una piccola bilancia a pesare e cambiare valute. Le loro operazioni eseguisconsi per dir vero assai all'ingrosso, ma può facilmente credersi che i loro errori non siano giammai a proprio danno.
Trovansi pure ne' mercati tutti i prodotti naturali ed artificiali dell'India, e della Persia. Eravi presso alla casa in cui io alloggiavo una fila di botteghe esclusivamente destinate alla vendita delle cose aromatiche, delle quali io ne presi il catalogo e le descrizioni[9].
Alla Mecca, siccome in tutta l'Arabia, non si fa pane propriamente detto, ossia ciò che comunemente s'intende sotto questo nome: bensì si fabbrica con farina diluita nell'acqua senza lievito, e talvolta con pochissimo lievito, una piccola quantità di focaccie, di tre o quattro linee di spessezza, e di otto o nove pollici di diametro. Vendonsi tali focaccie mal cotte, e molli come pasta; e queste sono chiamate pane, hhops.
L'acqua dolce che viene continuamente portata dalle vicine montagne di Mina sopra cammelli è assai buona; ma l'acqua de' pozzi come anco quella dello Zemzem, quantunque bevibile, è alquanto salmastra: pure il basso popolo non beve che di questa.
Ho esaminati con particolare attenzione alcuni pozzi, e li conobbi tutti della medesima profondità, e tutti contenenti un'acqua perfettamente eguale. Nelle strade più vicine al tempio vi sono pozzi, e non ne mancano pure nelle parti più rimote della città. Io ho potuto persuadermi mercè di un attento esame intorno alla profondità, qualità, temperatura e gusto dell'acqua, che essa deriva da una sola fonte, il di cui livello è a cinquantacinque piedi sotto al suolo, ed il di cui ammasso si forma col filtramento delle acque piovane.
Il suo gusto salmastro non può attribuirsi che alla decomposizione della selenite mista colla terra.
La carne che si mangia alla Mecca non è della miglior qualità; i montoni sono assai grandi ma tutti magri. Non si sa quasi cosa sia pesce benchè il mare trovisi a sole dodici leghe di distanza. Gli erbaggi che vi si portano da Taif e da altri luoghi vicini principalmente da Santa Fatima, sono cipolle, cocomeri, pastinache, cetriuoli, capperi, ed una specie d'insalata con foglie somiglianti alle gramignacee; la quale pianta ch'io non ho potuto vedere intera, vien detta corrat.
Nel tempo ch'io dimorai alla Mecca non vidi altri fiori, fuorchè uno andando ad Aàrafat. Aveva ordinato ad uno de' miei domestici di portarmele colla pianta, ma ne fu impedito da molti pellegrini, i quali gli rimostrarono essere peccato lo svellere, o troncare una pianta nel pellegrinaggio d'Aàrafat: e quindi io dovetti rinunciare al solo fiore, che scontrai in quel viaggio. Fannosi alla Mecca diverse bevande con uve secche, zucchero, mele, ed altre frutta. L'aceto non val nulla, e si fa, per quanto mi fu detto, coll'uva secca.
Non credo che in verun'altra città musulmana si trascurino le arti come alla Mecca, dove non si troverebbe un uomo capace di fare una serratura, o una chiave. Le porte vengono chiuse con grossolane chiavi di legno, le casse ed i bauli con serrature europee. Non mi fu quindi possibile di sostituire altre chiavi a quelle rubatemi a Mina. Le pantoffole, e le pappuzze vengono da Costantinopoli e dall'Egitto, perchè alla Mecca non si sanno fabbricare che sandali e scarpe cattivissime. Altra volta eranvi alcuni incisori in pietra, che ora sono affatto mancati, e più non si troverebbe un uomo capace d'incidere ragionevolmente una iscrizione.
Parrebbe che in un paese, non alieno dalle armi, dovrebbero almeno trovarsi alcuni mediocri armajuoli, pure si cercherebbe invano chi sapesse rifare il più piccolo pezzo di un fucile europeo. Codesti armajuoli non sanno fare che rozzi fucili a miccia, coltelli curvi e lancie o alabarde all'uso del paese. In qualunque luogo essi trovinsi, la loro officina è subito allestita; riducendosi a fare un buco in terra che serve di fucina, una o due pelli di capra che un operajo agita innanzi alla fucina, e tengono luogo di mantice, due o tre stuoje di foglie di palma, e quattro bastoni formano le pareti ed il tetto.
Non si manca di chi sappia ripulire il vassellame di rame, che peraltro viene dall'estero; e sonovi fabbricatori di alcune specie di vasi di latta, di cui valgonsi i pellegrini per trasportare l'acqua miracolosa del pozzo Zemzem. Vi trovai pure uno sgraziato incisore in rame.
Nè le scienze vi sono meglio coltivate delle arti: tutto il sapere degli abitanti si ristringe al leggere il Corano, a scrivere assai male, ad imparare fino dalla fanciullezza le preghiere e le cerimonie del santo pellegrinaggio alla casa di Dio, a Saffa, ed a Meroua, onde poter di buon'ora guadagnar denaro, facendo la guida ai pellegrini; sicchè si vedono fanciulli di sei in sett'anni portati in ispalla dai pellegrini, farne le funzioni. I pellegrini vanno replicando le parole, che questi recitano con acutissima voce, mentre dirigono il cammino dei pellegrini, e le cerimonie alle diverse stazioni.
Io desiderava di far acquisto di un Corano scritto alla Mecca; ma difficilmente se ne trovano, ed anche trovandone, sono così orribilmente scritti, e scorretti, che non possono valere ad alcun uso.
La Mecca non ha scuole regolari fuorchè di leggere e scrivere. Alcuni Talbi o dottori, per capriccio, per vanità, o per allettamento di guadagno, vanno a sedersi sotto i portici o gallerie dell' Haram, ove incominciano a leggere ad alta voce per chiamare gli uditori, che d'ordinario vanno gli uni dopo gli altri a porsi in cerchio intorno al precettore. Questo, come può meglio, spiega, legge, o predica; e se ne va e ritorna come gli aggrada. Tali sono i mezzi d'istruzione che trovansi nella santa città. Tutte le sere due o tre di cotal fatta di dottori recansi nelle gallerie del tempio, ma io non vidi che alcun di loro avesse giammai più di una dozzina d'ascoltanti.
Da ciò risulta che i Mecchesi sono ignorantissimi; al che contribuisce pure assai la posizione geografica della città. La Mecca posta nel centro di un deserto, non venne, come Palmira, dal commercio dell'oriente cogli occidentali portata a quell'alto grado di splendore di cui ci fanno testimonio le sue ruine, e che forse sarebbe anche di presente una ricchissima città se non si fosse scoperto il Capo di Buona Speranza. La Mecca trovasi lontana da ogni passaggio, nel centro dell'Arabia, circondata a levante dal golfo Persico, dal Mar Rosso all'occidente, dall'Oceano a mezzo giorno, e dal Mediterraneo dalla banda del nord: però il centro di questa penisola non può essere un centro di comunicazione coi paesi circonvicini, cui si può andare per mare. I suoi porti possono tutt'al più servire di scala ai bastimenti commercianti di Djedda e di Moca sul Mar Rosso, ed a quelli di Muscate presso all'imboccatura del golfo Persico. La Mecca non è dunque per la sua posizione destinata ad essere piazza di commercio; nè i suoi abitanti in mezzo ad un arido deserto possono occuparsi nè all'agricoltura, nè alla pastorizia. Quai mezzi rimangono però ai Mecchesi per sussistere? la forza delle armi per costringere gli altri popoli a dargli parte dei loro prodotti, o l'entusiasmo religioso per chiamare gli stranieri a portare il denaro nella loro città. Ai tempi de' Califfi questi due mezzi avevano procurate alla Mecca immense ricchezze, ma prima e dopo quest'epoca gloriosa non ebbe altro modo di provvedere alla sua sussistenza, che quello dell'entusiasmo religioso, che sgraziatamente va scemando di giorno in giorno, e rende affatto precaria la esistenza di questa città.
La Mecca fu sempre il centro dell'entusiasmo religioso di diversi popoli. L'origine dei pellegrinaggi, e la primitiva fondazione del suo tempio perdonsi nell'oscurità de' secoli, poichè sembrano anteriori ai tempi storici. Il profeta atterrò gl'idoli che profanavano la casa di Dio; il Corano approvò il pellegrinaggio, ed in tal maniera la divozione degli altri popoli fu in ogni tempo la base della sussistenza dei Mecchesi. Ma perchè questa sorgente non basta ai bisogni di tutti gli abitanti, la Mecca era assai povera avanti la venuta del Profeta, e dopo una breve epoca di gloria e di ricchezze acquistate colle armi, ricadde in quella povertà cui sembra condannata dalla sua posizione. Come si può dunque sperare che vi fioriscano le arti e le lettere? Lontana da tutte le comunicazioni commerciali, ignora tutto quanto accade nel mondo, le scoperte, le rivoluzioni, le azioni tutte dagli altri uomini; e la Mecca rimarrà costantemente nella più profonda ignoranza malgrado l'affluenza degli stranieri, che non vi rimangono che il tempo necessario assolutamente al soddisfacimento de' sacri doveri del pellegrinaggio, per alcuni affari commerciali, e per preparare quanto abbisogna per tornare ai loro paesi.
La Mecca è di sua natura così povera che senza la casa di Dio troverebbesi deserta nello spazio di due anni, o ridotta piccola borgata, poichè i suoi abitanti non hanno, generalmente parlando, altro mezzo di sussistenza nell'andante anno, che quanto possono raccogliere nell'epoca del pellegrinaggio. In tale circostanza la città prende un'apparenza di vita, il commercio si anima, e la metà degli abitanti si trasmuta in albergatori, in mercadanti, in facchini, in domestici, ec.; mentre l'altra metà interamente attaccata ai servigi del tempio, vive colle limosine, e coi regali de' pellegrini. Tali sono i mezzi di sussistenza dei Mecchesi; esistenza deplorabile che impresse sulle loro figure l'immagine dell'alta miseria che li circonda.
L'arabo è naturalmente magro; ma i Mecchesi, e più d'ogni altro gl'impiegati del tempio sono vere mummie ambulanti ricoperte di una pelle attaccata alle ossa. Confesso che rimasi stupefatto quando li vidi la prima volta. Sarò forse imputato d'esagerazione, ma protesto che non ho minimamente alterata la verità, e soggiungo essere impossibile formarsi, senza averli veduti, un'adequata idea d'una unione di uomini tanto magri e tanto scarnati quanto gl'impiegati d'ogni ordine, ed i servitori del tempio, tranne il capo dello Zemzem che è il solo uomo ben nutrito, oltre due o tre eunuchi negri meno magri degli altri. Sembra impossibile che questi scheletri o piuttosto ombre, possano sostenere le fatiche come fanno. Figurinsi due grandi occhi sepolti, un naso affilato, guancie incavate fino alle ossa, braccia e gambe veramente disseccate, le coste del petto, le vene, i nervi tutte le parti secche così rilevate, che prenderebbonsi per modelli perfettissimi d'anatomia: tale è il tristo aspetto di questi sciagurati, che l'occhio mal può comportare così orrido spettacolo. Ma i piaceri, di cui parteciperanno in cielo, non sono forse un largo compenso dei terreni patimenti? Pure malgrado questa speranza è impossibile di trovare gente più trista e melanconica dei Mecchesi. In tutto il tempo della mia dimora non ascoltai un solo istrumento musicale, o il canto d'un solo uomo: ho due o tre volte udito il canto di qualche femmina, e mi sono preso cura di farne memoria. Immersi in una continua malinconia, s'irritano all'istante per la più leggiera contrarietà. I pochissimi schiavi dei Mecchesi sono i più sventurati di quanti se ne trovino in tutti i paesi musulmani. Ho udito stando in casa un abitante battere uno schiavo per un quarto d'ora non con altro intervallo che quello che gli era necessario per riprendere maggior forza.
Dopo ciò non sarà meraviglia che la popolazione della Mecca vada sensibilmente diminuendo. Questa città che altra volta ebbe centomila abitanti non ne conta oggi più di sedici in diciotto mila. Sonovi esteriormente delle contrade affatto abbandonate che cadono in ruina: due terzi delle case della città sono vuote, e le abitate si vanno internamente guastando malgrado la loro solidità, perchè i proprietarj non si prendono cura che delle facciate per allettare i pellegrini; ed intorno a queste ancora non facendosi importanti riparazioni, non tarderanno a cadere. Una sola casa io ho veduto rifarsi di nuovo, ma con una estrema lentezza: e per poco che duri un tale stato di cose, la città in un secolo si vedrà ridotta alla decima parte di quello che è presentemente.
CAPITOLO XXXVI.
Donne. — Fanciulli. — Lingua. — Costumi. — Armi. — Siccità. — Matrimonj, nascite, e funerali. — Clima. — Medicina. — Balsamo della Mecca. — Incisioni sul volto. Le donne hanno più libertà alla Mecca, che in tutt'altra città musulmana. Forse nell'epoca del suo splendore l'immensa affluenza degli stranieri contribuì a pervertirle, e l'abituale miseria e tristezza degli abitanti fu cagione che rimasero quasi affatto abbandonate a se medesime. Certo è per lo meno che l'opulenza e la povertà sono due estremi ugualmente contrarj alla conservazione de' costumi. Qui le donne, come in Egitto, copronsi il viso con un pezzo di tela nella quale sono due fori corrispondenti agli occhi, e questi d'ordinario abbastanza grandi per lasciar discoperto metà del volto; e senza ciò la maggior parte non si cura altrimenti di coprirlo. Tutte le donne portano una specie di mantello, o gran drappo di tela sottile a strisce bianche e turchine, in lungo ed in largo come in Alessandria, che loro dà molta grazia; ma quando loro vedesi il viso, si dilegua ben tosto ogn'illusione, essendo generalmente brutte, e del color giallognolo che hanno gli uomini. Il loro volto e le mani affatto imbrattate di nero, di turchino, o di giallo, offrono uno schifoso aspetto, che forse l'abitudine farà avere in conto di bellezza. Ne vidi taluna che aveva un anello passato a traverso della cartilagine del naso, e pendente sulle labbra superiori.
Esse sono assai libere, per non dirle sfrontate, ove si abbia riguardo alla riservatezza musulmana. Vidi continuamente le donne delle case vicine al mio alloggio stare frequentemente alla finestra, ed alcune affatto scoperte. Una che abitava il piano superiore della mia casa, mi faceva infinite pulitezze e complimenti a viso scoperto, qualunque volta io saliva sulla terrazza per fare qualche osservazione astronomica; lo che mi fece sospettare che le donne potessero essere un ramo di speculazione pei poveri Mecchesi. Tutte quelle ch'io vidi erano assai graziose, ed avevano occhi assai belli, ma le loro guance prominenti, e l'abitudine di tingersi di colore verdognolo, le rende disaggradevoli, e le fa parere oppilate. Del resto parlano bene, e si esprimono con grazia, hanno il naso regolare, ma la bocca grande. S'imprimono sulla pelle indelebili segni, e si tingono il contorno degli occhi in nero, i denti in giallo, le labbra, le mani, i piedi in rosso di mattone, come fanno gli Egiziani, e colle stesse materie.
Il loro abito consiste in un pajo di pantaloni immensi che entrano nelle pantoffole o stivaletti gialli: quelli delle povere sono di tela di canape turchina, e quelli delle ricche di tela screziata dell'India. Hanno inoltre una camicia della più stravagante forma e grandezza. Figurisi un pezzo di tela larga sei piedi, e lunga cinque; questa è la metà della camicia, un altro simile quadrato forma l'altra metà: unisconsi questi due pezzi nella parte superiore, lasciando nel mezzo un'apertura per passarvi il capo; ai due angoli inferiori vien tolta una sezione di cerchio di circa sette pollici, e con tale operazione ciò che forma l'angolo anteriore diventa una curva rientrante, si cuciscono soltanto le due curve, e la camicia rimane aperta in tutta la parte inferiore ed ai due lati dall'alto al basso. Le camicie delle signore sono d'un leggiero tessuto di seta finissima di color violetto liscio o screziato, che si fabbrica in Egitto. Per vestire tali camicie ripiegano sulle spalle la stoffa sovrabbondante della eccedente larghezza, e le ristringono al corpo con una cintura. Al disopra di questa camicia le ricche portano un caftan di tela d'India. Non ho mai veduto loro in capo altro ornamento fuorchè un fazzoletto, ma esse portano cerchietti, anelli, braccialetti come le musulmane degli altri paesi alle mani, alle braccia, alle gambe, ai piedi.
Il commercio della Mecca si limita alle carovane in tempo del pellegrinaggio. Ho già fatto osservare che ogni anno va diminuendosi, onde è facile il calcolare il progressivo vistoso decadimento della santa città. Vi si ricevono da Djedda le mercanzie d'Europa, che fanno la strada dell'Egitto e del mar Rosso; e si hanno per la stessa via molti prodotti dell'India, e dell'Iemen, ed in ispecie il caffè: le carovane di Damasco, di Bassora, dell'Egitto, e dell'Iemen portano il rimanente, e fanno de' vicendevoli cambj.
La consumazione della Mecca diminuisce ogni giorno in ragione della diminuzione delle ricchezze. Generalmente parlando la fortuna degli abitanti quasi tutti Wehhabiti, Bedovini, ed Arabi miserabili si ristringe alla possessione d'un cammello, e di pochi altri bestiami. Vivono quasi nudi sotto tende o baracche, non avendo altri mobili che una scodella di legno, alcuni piccoli pajuoli, un vaso per riporre l'acqua, una tazza di terra, una stuoja che loro tien luogo di letto, due pietre per macinare il grano, uno o due otri per conservare l'acqua piovana: in così misero stato quale alimento offrir possono per un commercio attivo o passivo? A fronte di ciò vedonsi alcuni personaggi riccamente vestiti di tele delle Indie, e di scialli di Cachemire, o di Persia.
Le donne Bedovine dell'interno del paese, non escluse quelle del più alto grado, non hanno altro abito che una camicia grandissima di tela turchina, un velo nero colore di conclicot sul viso, un ampio mantello o velo nero di lana, anelli, braccialetti, ed altre simili cosucce.
Chiara cosa è dunque che una popolazione di così limitati bisogni non potrà mantenere un considerabile commercio, fin tanto almeno che non sia incivilita, cosa presso che impossibile in un paese di deserti, dalla natura condannato alla superstizione, all'ignoranza, alla miseria. Se per alcuni istanti potè sortire da così infelice stato di nullità, lo dovette a quell'impulso momentaneo dell'effervescenza, dello zelo religioso; il quale non potendo lungo tempo sostenersi, nel suo raffreddamento lascia rapidamente ricadere il paese nel naturale suo stato di barbarie e di povertà. Gli storici vantano la nobiltà della nazione Araba, che non piegò mai il capo sotto il giogo de' Greci o de' Romani: ma è questa una falsa conseguenza dedotta dagli avvenimenti. Se l'Arabia ebbe la fortuna di non soggiacere a dominio straniero, lo deve più assai alla natura del paese che al carattere degli abitanti. Qual'è quel capitano che volesse sacrificar gente e denaro per conquistare vasti deserti, e popoli che non possono formare stabili corpi politici, se non quando le opinioni religiose uniscono tutte quelle volontà, che verun altro legame unire non potrebbe a cagione dell'isolamento di ogni tribù, e della sterilità del suolo, che ricusa ogni coltivazione, e per conseguenza anche le relazioni sociali che ne derivano?
La Mecca e Medina sono bensì la culla della lingua Araba, ma per cagione dell'ignoranza generale questa lingua va degradando, e variandosi per fino nella pronuncia con tanto più di facilità, in quanto che viene scritta senza le vocali, e perchè è ricca di aspirazioni che ognuno modifica a suo capriccio, per mancanza di una prosodia nazionale, e di ogni altro mezzo tendente a conservarne e perpetuarne la primitiva tradizione: e perciò in vece di andarsi perfezionando, si corrompe ogni giorno per le viziose espressioni particolari alle diverse tribù, e commercio cogli stranieri.
L'abito dei Mecchesi è simile a quello degli Egiziani, composto cioè d'un benisch, ossia caftan esterno, staccato da un altro che si unisce al corpo con una cintura, d'una camicia, d'un pajo di pantaloni, e di pappuzze, o pantoffole; ma questo è l'abito degl'impiegati superiori, de' negozianti, degli impiegati del Tempio ec. Il basso popolo non ha che la camicia, ed un pajo mutande.
D'ordinario l'arabo Bedovino porta sopra l'abito un largo cappotto senza maniche con due fori per passarvi le braccia. Questi cappotti di lana sono per lo più a strisce alternative bianche e brune, ognuna della larghezza d'un piede all'incirca.
Gli abitanti della città portano berrette rosse col turbante, ma i Bedovini non hanno berretta, e copronsi la testa con un fazzoletto giallo sparso di strisce rosse e nere, diagonalmente piegato in forma di triangolo, e semplicemente gettato sopra il capo, di modo che le due punte degli angoli acuti cadono sulle spalle davanti, e l'altra sul dorso. I Bedovini alquanto ricchi portano su questo fazzoletto un pezzo di mussolina ravvolta in forma di turbante; ma i poveri che formano il grosso della nazione, vanno quasi affatto nudi.
Tranne gl'impiegati del tempio, ed un piccolo numero di negozianti, gli abitanti sono sempre armati. Le armi più usitate sono il gran coltello curvo, l'alabarda, la lancia, e la mazza; alcuni, ma non molti, hanno ancora il fucile.
I coltelli hanno una guaina di forma assai bizzarra: questa, oltre lo spazio occupato dal coltello, ha un prolungamento curvo in forma di mezzo cerchio, e terminato con una palletta, o con altro ornamento più o meno complicato. Questo coltello viene portato obliquamente innanzi al corpo, l'impugnatura volta a sinistra, la curvatura dall'altra banda, e la punta in alto; in modo che i movimenti del braccio destro trovansi assai incomodati da simile disposizione, che non si mantiene che per la forza dell'abitudine: tanto è vero che l'uomo in ogni stato ed in ogni luogo è soggetto ai capricci della moda.
Un bastone lungo quattro piedi e mezzo o cinque al più, armato di una punta di ferro, ed ordinariamente di un'altra piccola punta nell'estremità inferiore è ciò che chiamasi alabarda. La lama o la punta superiore sempre più lunga d'un piede non ha costantemente la stessa configurazione, essendo ora larga ora stretta, con ferro di lancia o di bajonetta ec. Molte di queste alabarde hanno il tronco seminato di piccoli chiodi e di anelli d'ottone dall'alto al basso.
La mazza consiste in un bastone di circa quindici linee di diametro, lungo due piedi, e terminato con un globo dello stesso legno di ventisei in trenta linee di spessezza. Alcuni portano le mazze di ferro.
Assai rari sono i fucili all'europea, e non si vedono quasi che fucili a miccia assai pesanti e rozzi affatto: pure trovansene alcuni pochissimi assai ben fatti, ed io ne vidi uno assai bello tutto intarsiato d'avorio, che si voleva vendere per cento venti franchi.
Alcuni arabi portano certe scuri lunghe circa due piedi, altri vanno armati di bastoni del diametro maggiore d un pollice, lunghi quattro piedi e mezzo, e coperti di ferro nella parte inferiore.
L'arma de' soldati a cavallo è una lancia lunga due piedi e mezzo, ornata di un mazzo di piume nere alla imboccatura del ferro; l'altra punta del bastone vien chiusa da una piccola punta, colla quale il cavaliere fissa la sua lancia in terra perpendicolarmente quando vuole scendere da cavallo.
Gli arabi dell'Iemen portano una spada, ed uno scudo; la spada ha la lama diritta e larga; e gli scudi o sono di metallo, o di legno durissimo, o di pelle d'Ippopotamo; e questi sono i più stimati: tutti sono ornati d'incisioni, ma non hanno che un piede di diametro.
Tale è l'aridità del paese che non si vede veruna pianta intorno alla città, nè sopra le vicine montagne. Ho già detto che gli erbaggi vengono da lontani paesi; e le quattro o cinque piante da me trovate fanno parte del mio erbolajo. Forse in altre stagioni dell'anno se ne troveranno di altre specie; ma non si pensi però di trovare alla Mecca niente che abbia l'apparenza di una prateria, meno poi di giardino: arena e pietre sono i soli oggetti di cui la natura fu liberale a quegli abitanti. Non vi si semina verun grano, che sarebbe opera affatto perduta, non essendovi neppure i prodotti spontanei di ogni suolo, benchè ingrato. In somma non si trovano che tre o quattro alberi nel luogo ov'era un tempo la casa di Aboutaleb zio del Profeta, e sei od otto altri sparsi qua e là in diversi luoghi. Questi alberi sono spinosi, e producono un piccolo frutto somigliante allo zenzuino, dagli arabi detto Nèbbek. Presso ad una casa che lo Sceriffo possiede fuor di città verso il nord, vedesi una specie di giardino con piantagioni di palme dattilifere, che viene innaffiato colle acque di un pozzo.
Persone del paese mi assicurarono che i matrimonj e le nascite non sono accompagnate da feste e da allegrezze come si costuma negli altri paesi musulmani: io non ho veduto a celebrarsene.
I funerali si fanno pure senza veruna cerimonia. Portasi il morto a' piedi della Kaaba, ove i fedeli che trovansi presenti fanno una breve preghiera pel morto dopo la preghiera canonica ordinaria; ed in seguito vien portato il cadavere fuori della città per essere sepolto in una fossa. Per tale funzione innanzi ad una delle porte del tempio sulla pubblica strada v'è una quantità di cataletti: la famiglia del defunto manda a cercarne uno, sul quale si pone il corpo vestito degli ordinarj suoi abiti senza verun ornamento. Dopo sepolto riportasi il cataletto al suo luogo.
Ardente è il clima della Mecca non solo in ragione della sua latitudine geografica, ma particolarmente per la sua posizione topografica in mezzo a nude montagne. Il maggior caldo da me osservato fu di 23 gradi e mezzo di Reaumur il 5 febbrajo verso il cader del sole, ed il minimo di 16 gradi il giorno 16 dello stesso mese alle sette ore del mattino.
Avrei desiderato di raccomodare il mio igrometro, ma non me lo permise la difficoltà di trovare un capello: forse la cosa sembrerà inverosimile, ma non è perciò meno vera. Gli uomini hanno il capo raso affatto, ed i peli della barba non sono buoni: le donne poi per una specie di superstizione non darebbero un capello per qualunque cosa, temendo che si possa far servire a sortilegj e maleficj contro di loro. Per tal motivo quando si stanno pettinando hanno la più gran cura di seppellire segretamente i capelli che loro cadono di capo; e lo stesso caso sogliono fare allorchè si tagliano le unghie. Nè tutti gli uomini sono esenti da così fatte superstizioni: i Wehhabiti per altro pensano affatto diversamente, perchè all'epoca del loro pellegrinaggio li vidi farsi radere sulle strade, le quali rimasero in modo coperte delle spoglie delle loro teste, che sarebbersene potuti riempire dei matterassi: ma tutti questi capelli erano corti, non essendo più lunghi di un pollice.
Non avendo potuto aggiustare il mio igrometro mi trovai privo di uno de' mezzi d'osservazione; ma posso non pertanto dire, che durante la mia dimora alla Mecca l'aria fu costantemente secca; il vento dominante era di S. O. Il cielo fu alternativamente sereno o coperto, come ne' paesi temperati; ma non osservai verun cambiamento subitaneo di temperatura, e d'umidità, quali provai a Djedda. Pare che il clima sia sano, non osservandosi molte malattie, nè malattie croniche, ma nemmeno vi si trovano persone molto vecchie. Pochi sono ancora i ciechi, e niuno affetto dall'oftalmia egiziana. Dal poco che io ne ho detto è facile l'argomentare l'eccessivo calore dell'estate, poichè in tempo d'inverno colle finestre aperte appena si può di notte soffrire sul corpo una leggiera coperta di letto, ed il butirro anco in questa stagione è sempre liquido come l'acqua. Sotto il dardeggiare d'un sole ardente, due gradi al di dentro della zona torrida, nel fondo d'una valle di arena, chiusa da montagne ignude, senza un ruscello, senz'alberi, senza vegetazione, tutto concorre ad accrescerne il calore estremo. Senza dubbio l'Onnipossente si degnò di collocarvi la sua casa per consolazione di quegli abitanti, che senza ciò avrebbero affatto abbandonata così ingrata terra.
Alla Mecca come negli altri paesi musulmani non sonovi medici propriamente detti: pure io ne vidi due che ardivano intitolarsi medici, uno de' quali avrebbe dovuto incominciare dal curar se medesimo: questi empirici solevano impiegare quasi sempre nella cura delle malattie preghiere, e pratiche superstiziose. Dopo ciò è inutile il soggiugnere che non si trovano farmacisti, o altri venditori di droghe medicinali. Quando un abitante si ammala, un barbiere gli cava sangue, e gli fa bevere molt'acqua di zenzero; poi gli si dà dell'acqua miracolosa dello Zemzem in bevanda, e per fare i bagni; gli si fanno mangiare garofani, cannella, ed altri aromi, e l'ammalato secondo che è la volontà di Dio o muore o guarisce. Avendo portata la mia piccola spezieria, curava io stesso i miei domestici ammalati. Il mio padrone di casa si trovò preso da una febbre intermittente: dopo averlo preparato, gli feci prendere un vomitivo, che produsse il suo effetto; ma all'indomani invece di trovarlo sollevato, lo trovai più alterato che mai. Non sapendo quale ragione trovare di così straordinaria crisi, seppi la sera per accidente andando al tempio, che la notte era stato portato al pozzo di Zemzem, ch'era stato bagnato coll'acqua fredda, e fattagliene bere quanta poteva. Tornato a casa riconvenni seriamente i domestici che avevano tenuto mano a questa clandestina operazione, e ricominciai la cura del mio hhazindar, che guarì nel tempo ordinario.
Il famoso balsamo della Mecca è tutt'altro che un prodotto di questa città; che anzi è qui raro assai, e non può trovarsene che quando i Bedovini delle altre regioni dell'Arabia ne portano per accidente. Un uomo, che per essere mecchese, era abbastanza istrutto, mi disse, che questo balsamo proviene specialmente dal territorio di Medina, che colà dicesi Bèlsan, e che i suoi compatriotti non conoscono neppure l'albero che lo produce, il quale chiamasi Gilead.
Osservai in tutta l'Arabia la singolare usanza di farsi tre incisioni perpendicolari al lungo di ogni guancia, lo che fa parere la maggior parte degli uomini marcati da sei cicatrici. Interpellai più persone intorno ai motivi di tale costumanza: alcuni mi risposero, per farsi cavar sangue, altri ch'era una marca colla quale dichiaravansi schiavi della casa di Dio; ma in fondo è la sola moda che impone queste scarificazioni riguardate come una bellezza uguale alle pitture turchine nere e rosse, di cui le donne copronsi il volto. È pure la moda che fa loro portare anelli al naso, e coltelli curvi che rendono incomodi i moti delle loro braccia: ecco cosa è l'uomo.
CAPITOLO XXXVII.
Cavalli. — Asini. — Cammelli. — Altri animali. — Tappeti. — Corone. — Montagne. — Fortezze. — Case dello Sceriffo. — Sultano Sceriffo. — Situazione politica della Mecca. — Mutazione di dominio. — Beled-el-Haram, ossia Terra Santa dell'Islam. — Montagne dell'Hediaz.
Prima di terminare la descrizione della Mecca non devo ommettere di parlare de' cavalli Arabi tanto famosi in tutto il mondo. Ma che potrò io dirne? A pena se ne troverebbero cento nella guardia del sultano Sceriffo, e sei al più presso i particolari della capitale dell'Arabia. Sono così rari presso i Bedovini, che il sultano Saaoud alla testa di cinquantamila Wehhabiti non ha più di dugento in trecento cavalli, e questi pure dell'Iemen.
E quelli che io ho veduti sono brutti, piccoli e grossolani, tranne una mezza dozzina di mediocri, e due o tre assai belli. Generalmente parlando sono fortissimi, assai veloci al corso, e capaci di soffrire lungo tempo la fame e la sete. Tali sono i vantaggi de' cavalli Arabi. Generalmente sono d'un colore grigio leardo; hanno la testa assai bella, la coda sottile, l'occhio scintillante, l'orecchio fino.
I cavalieri trattano i loro cavalli barbaramente, servendosi come a Marocco di morsi durissimi, che fanno loro insanguinare la bocca.
Ad eccezione di alcuni soldati dello Sceriffo, che hanno selle e speroni, tutti gli altri arabi montano colle sole paniottine senza staffe, e su questa specie di scranna corrono colla rapidità del lampo. Tutti i Wehhabiti, e lo stesso figlio del sultano Saaoud cavalcano in tal maniera.
Di tanta scarsezza di cavalli conviene darne colpa alla sterilità dei deserti, ove il solo cammello può vivere e viaggiare comodamente. I cavalli non hanno, come il cammello, che un poco d'erba secca; non dandosi loro che rarissime volte orzo o avena.
Ma la patria di questo nobile compagno dell'uomo non è la Mecca: i migliori cavalli arabi trovansi nell'Iemen e ne' contorni della Siria, e di colà vengono condotti a Costantinopoli: ma io ne parlerò più opportunamente altrove.
Quantunque piccoli, eccellenti sono gli asini della Mecca; non però migliori di quelli d'Egitto. Il cammello è la sola bestia da soma del deserto; un dono della Provvidenza agli abitanti ed a viaggiatori di questo cocente clima. Che sarebbe mai l'Arabo senza il cammello? Quali umane forze avrebbero bastato per unire più di ottantamila uomini alle falde del monte Aarafat nel giorno del pellegrinaggio, senza il soccorso di questi preziosi animali? Lasciamo il cavallo, l'asino e le altre bestie da soma ai paesi ove l'abbondanza delle acque somministrano buoni pascoli; ma per le due Arabie, dette dagli antichi geografi, Petrea e Deserta, e pel Sahhara, o gran deserto d'Affrica, Dio creò il cammello, vero tesoro per gli abitanti di tali contrade. Trovansi, è vero, alcuni asini che vanno frequentemente dalla Mecca a Djedda in dodici ore; trovansi d'ordinario nelle grandi carovane pochi cavalli e pochi asini; ma questi non sono nulla, assolutamente nulla in paragone dell'immensa quantità di cammelli che circolano nel deserto.
Questi animali sono assai ben trattati dai loro padroni, ma sono condannati a travagliare fino all'ultimo respiro; essi muojono sotto la soma, e le strade sono coperte delle loro ossa. Io non trovai veruna sensibile diversità tra i cammelli dell'Arabia e quelli d'occidente. Per alimentare questo prezioso animale, i cavalli e gli asini, si vendono in tutti i mercati piccoli fasci di erba secca.
Vidi alla Mecca una specie di vacche senza corni, con una gobba sul dorso: mi fu detto che queste bestie vengono dai paesi più orientali, e servono per montura e per carico; viaggiano con molta celerità e danno molto latte.
Trovansi in città pochi cani, e que' pochi che s'incontrano rassomigliano assai ai cani da pastore. Alla Mecca come in ogni altro paese musulmano, questi animali sono erranti, liberi e senza padrone. I gatti sono della specie medesima di quelli d'Europa, ma alquanto più piccoli.
Trovansi montoni di coda grossa assai alti meno però di quelli delle altre contrade meridionali. Vidi pure nel paese una specie di capre assai gentili di conveniente grandezza, che hanno corna lunghe più di ventiquattro pollici, e piccole vacche e buoi con brevi corna come quelli di Marocco.
Gl'insetti vi sono rari assai, e pochissimi ne potei raccogliere. Vidi un giorno uno scorpione nel grande cortile del tempio che camminava colla coda rivolta sul dorso: fu ucciso coi sassi, e quando, ferito, stese la coda, parvemi che avesse più di sei pollici di lunghezza.
Non ho mai altrove trovati topi così arditi come alla Mecca. Tenendo io il mio letto in terra, tutte le notti mi saltavano addosso, ed io guardavo la cosa con indifferenza perchè qualche colpo bastava a metterli in fuga: ma una notte che aveva applicato del balsamo di ginepro ad un mio domestico, benchè mi fossi ben pulite le mani con un drappo, l'odore chiamò i sorci intorno a me, che sul più bello del sonno mi diedero due forti morsicature alla mano destra, e mi risvegliarono sbigottito. Temendo d'essere stato morsicato da qualche animale velenoso vi applicai subito dell'alcali volatile: ma conobbi ben tosto ch'erano stati i sorci. Feci allora, ma inutilmente, sospendere il mio letto, perchè trovavano modo di entrarvi ancora, saltandovi dai mobili più vicini. Sono questi perfettamente uguali ai sorci domestici d'Europa.
Sonovi molte mosche comuni, pochissime delle più grosse. Le pulci e le cimici non eranvi frequenti, ma non si poteva andare al tempio senza imbrattarsi d'altri schifosi insetti.
Una cosa da me riguardata come un avanzo dell'antica opulenza della Mecca sono i ricchi tappeti e cuscini che trovansi nelle case. Siccome questi due oggetti erano i più comuni regali dei pellegrini, si andarono accumulando ogni anno nella città in maniera, che anche nelle più povere case vedonsi dei vecchi ricchissimi tappeti.
I Wehhabiti proscrivendo l'uso delle corone come cosa superstiziosa, privarono gli abitanti della Mecca d'un vivissimo ramo di commercio; ma non pertanto si continua a farne segretamente per i pellegrini con varj legni dell'India, e dell'Ieman, e con odoroso legno di sandalo.
Le montagne della Mecca sono tutte di schisto quarzoso con poche parti di roccia cornea. In questo paese quasi tutto è quarzo; la sabbia non è che una decomposizione di quarzo, e la roccia cornea, il feldspato, il mica, ec. non sono che parti accidentali. Gli strati sono obliqui sotto diversi angoli d'inclinazione, ed ordinariamente dai trenta ai quarantacinque gradi, alzandosi verso l'est.
La Mecca è una città aperta, senza mura di alcuna sorte, ed è signoreggiata dalla fortezza posta sulla montagna detta Diebél-Djiád, che riguardasi dagli abitanti come imprendibile, benchè presenti una strana mescolanza di mura e di torri; e penso che sia stata fabbricata a differenti epoche, senza alcun piano regolare. Qualunque sia, è la fortezza principale dello Sceriffo, che ne ha due altre più antiche, fatte in figura di parallelogramo, con una torre ad ogni angolo, le quali trovansi sopra due delle montagne che chiudono la valle, una al nord e l'altra al sud.
Lo Sceriffo aveva un palazzo presso al tempio ai piedi della maggior fortezza e della montagna di Djebel-Djiad, che fu ruinato dai Wehhabiti, ed adesso lo Sceriffo abita in tre grandi case unite vicine alla montagna Djebel-Hindi. Innanzi a questa abitazione fece porre una batteria di quattro cannoni di bronzo. Lo Sceriffo possiede pure la casa ch'egli abitava prima di salire sul trono, una casa di campagna poco distante dalla città con un giardino di palme, una casa a Mina, un'altra ad Aàrafat, ed una a Djedda, ove suole portarsi frequentemente. Aveva pure un palazzo a Taït, che fu distrutto dai Wehhabiti. Tutte queste case, sono come altrettante fortezze circondate da mura e da torri.
L'attuale Sceriffo chiamasi Scherit Ghabel, ed è figlio dello Sceriffo Msàat suo predecessore. Sono di già molti anni che la sua famiglia possiede la sovranità di Beled el Haràm, e di Hedi-az; ma anche alla Mecca, come a Marocco si costuma d'ordinario di disputarsi il trono colle armi. L'attuale Sceriffo è un uomo di spirito, fino, politico e coraggioso; ma per mancanza d'istruzione trovasi abbandonato a tutte le passioni, per soddisfare alle quali, non avvi alcuna specie di vessazione, che non eserciti sopra gli abitanti, e sopra gli stranieri: e tale è la sua inclinazione alla rapina, che nemmeno risparmia i suoi più fedeli servitori quando crede di poter loro scroccare qualche somma. Nella breve dimora ch'io feci ne' suoi Stati lo vidi fare una soverchieria che costò più di centomila franchi ad un negoziante di Djedda, uno de' suoi favoriti. Arbitrarie affatto sono le imposte messe sul commercio, o sugli abitanti; e vanno ogni giorno crescendo perchè egli è fecondo di nuovi ritrovati per accrescere le sue entrate. In una parola il popolo è ridotto a tale estremità, che in tutta la terra santa non mi sono abbattuto in una sola persona che mi parlasse vantaggiosamente dello Sceriffo, tranne il negoziante, di cui ho parlato.
Oltre le tasse arbitrarie, con cui opprime il commercio, rende difficile ogni speculazione ai negozianti, prendendo egli stesso una parte attivissima nel commercio co' suoi vascelli. Non può caricarsi, o scaricarsi verun bastimento particolare, se prima non lo sono quelli dello Sceriffo: e siccome questi ultimi sono i più grandi, di miglior costruzione, e montati dei migliori equipaggi, assorbiscono la maggior parte del commercio del Mar Rosso con pregiudizio dei negozianti, che trovansi ridotti nella più dura schiavitù.
Riguardansi gl'Inglesi come i migliori amici dello Sceriffo pel diretto interesse che gli lasciano godere nel commercio delle Indie. Non perciò li risparmia egli quando crede di potere con suo utile far loro qualche soperchieria. L'anno passato un grosso bastimento inglese carico di riso, venne a Djedda: il capitano ch'era sbarcato trovando il prezzo di questa derrata troppo basso, risolvè di portarsi altrove: ma lo Sceriffo pretese il pagamento di tutti i diritti come se avesse sbarcato il carico sul luogo. Dopo alcune calde discussioni il capitano non trovò altro modo per sottrarsi alla rapacità dello Sceriffo, che quello di forzare l'uscita del porto.
Da poco tempo essendo morto a Djedda il capitano di un grosso bastimento delle isole Maldive, lo Sceriffo s'impadronì all'istante della nave e del carico, sotto pretesto che il capitano essendo morto nel suo territorio, era a lui devoluto tutto quanto gli apparteneva. Poco dopo lo Sceriffo in società coi commercianti di Djedda mandò questo stesso bastimento nell'India accompagnato da un altro di sua proprietà: e l'uno e l'altro con ricchissimo carico: ma i Francesi se ne impadronirono, e ne rilasciano un solo dopo averne levato tutto il carico. La notizia di questa presa fece molta sensazione allo Sceriffo, che me ne parlò al mio arrivo alla Mecca, ed avrebbe voluto ch'io ne scrivessi ai miei conoscenti d'Europa: ma io lo consigliai a scriverne direttamente al governo Francese: ma perchè ciò accadde nell'istante in cui i Wehhabiti minacciavano di occupare difinitivamente la Mecca, lo Sceriffo temeva che discoprendosi ch'egli fosse in relazione coi cristiani, non si attribuisse questo passo a qualche mira politica, e ne fosse severamente punito. Insisteva perciò che io ne scrivessi, fidandosi interamente di me, com'egli diceva, e delle mie relazioni; ma ad ogni modo lo ridussi a scriver egli medesimo. Mandò pure due lettere al governatore dell'Isola di Francia, che gli Arabi dicono Diezira Mauris, pregandolo di rimandargli i due bastimenti: ma il silenzio del governatore palesa il poco caso fatto di queste lettere.
Malgrado i suoi difetti, e la quasi totale nullità cui vanno riducendolo i Wehhabiti, lo Sceriffo conserva ancora molta influenza nei porti dell'Arabia, ed a Cosseïr per le relazioni ch'egli ha coi Mamelucchi e gli abitanti dell'alto Egitto; come pure a Saonàken ed a Messoua, ch'egli possiede sulle coste dell'Abissinia in nome del sultano di Turchia. Osservai pure, non senza sorpresa, che questo principe non aveva i pregiudizj della sua nazione.
All'epoca del mio arrivo la posizione politica della Mecca, era affatto singolare. Il sultano Sceriffo ne era il sovrano naturale ed immediato, ma non si lasciava di riconoscere la supremazia del sultano di Costantinopoli che veniva ricordato nella preghiera del venerdì, quando il sultano Saaoud, che occupa il paese coi Wehhabiti, proibì il venerdì avanti Pasqua di nominare il sultano di Costantinopoli.
La Porta Ottomana mandava pure un Pascià alla Mecca, e dei Kadì per esercitarvi il potere giudiziario alla Mecca, a Djedda, ed a Medina, ma non pertanto tutta l'autorità politica ed amministrativa restava nelle mani dello Sceriffo, che governava il paese come Sultano indipendente per mezzo de' suoi schiavi negri detti Ouisir, mentre gl'impiegati della Porta accontentavansi di vivere splendidamente a carico dello Sceriffo.
Intanto il Sultano Saaoud, la di cui autorità non era fondata che sulla forza, facevasi ubbidire, senza per altro aver prese le redini del governo: ma egli non esigeva contribuzioni, e faceva credere di rispettare i diritti dello Sceriffo. Questi godeva degli attributi di sovrano indipendente, disponendo della vita e dei beni de' suoi sudditi, facendo a suo capriccio e pace e guerra. Teneva perciò in armi tremila uomini Turchi, Negri, o Mogrebini; ma questi non bastavano per opporsi agli avanzamenti dei Wehhabiti, ed era forzato di deferire alle loro voglie, di accomodarsi alle loro leggi, di lasciarli portare la guerra ove volevano; contento di conservare le sue fortezze in istato di difesa. Da questo conflitto di poteri trovavasi compromessa la proprietà, la libertà individuale, e l'amministrazione della giustizia, e gli abitanti più omai non sapevano a chi ubbidire.
Tale era la situazione di questo paese quando il 26 febbrajo del 1807 per ordine del Sultano Saaoud si pubblicò in tutte le piazze, e luoghi pubblici, che all'indomani dopo mezzogiorno tutti i pellegrini, e soldati turchi o mogrebini dello Sceriffo sortirebbero dalla Mecca, e fuori dell'Arabia, come pure il Pascià turco di Djedda, ed i nuovi ed antichi Kadi della Mecca, di Medina, e degli altri luoghi; talchè non doveva rimanere verun Turco in paese. Lo Sceriffo fu disarmato, ridotta a nulla la sua autorità, ed il potere giudiziario passò in mano de' Wehhabiti.
La notte del 26 al 27 febbrajo tutti i soldati turchi si ritirarono a Djedda. Una piccola carovana di Tripoli, che trovavasi alla Mecca, levò il suo campo a mezzogiorno, e partì con sì poca precauzione, che temevasi per la sua sicurezza.
Erano rimasti il Pascià, i Kadi, i pellegrini turchi: e non sapevasi ancora a quale partito sarebbersi appigliati. Tutto era disordine, confusione, mala fede. Nella seguente notte due cento cinquanta soldati negri al servizio dello Sceriffo si arrolarono fra le truppe di Saaoud. Tutti gli altri partirono il 28 febbrajo; ed il Sultano Saaoud dopo avere installati i suoi Kadì, e lasciati 35000 franchi per gl'impiegati del tempio, ed i poveri della città, si avviò colle sue truppe sopra Medina. Ed in tal modo terminò senza spargimento di sangue questa politica rivoluzione.
Il Beled-el-Haram, o terra santa dell'Islam, di cui la Mecca è la capitale, giace tra il mar Rosso ed una linea irregolare che parte da Araborg ventuna leghe circa lontano da Djedda; descrive una curva dal nord-est al sud, passando per Ièlemlem, due giornate di viaggio al nord-est della Mecca: di là per Karna distante circa ventuna leghe dalla capitale, ed otto leghe quasi all'ovest di Taif, che rimane fuori della terra santa. Di qui ripiegando quasi all'ovest-sud-ovest passa per Dzataerk, e mette capo a Mehherma sulla costa, al porto detto Almarsa-Ibrahim posta al sud-est di Djedda nella distanza verosimile di trentadue miglia. Quindi la terra Santa ha presso a poco 57 leghe di lunghezza dal nord-ovest al sud-est, e 28 di larghezza dal nord est al sud ovest.
Questo spazio è compreso nella parte dell'Arabia conosciuto sotto il nome di El Hediaz o terra del pellegrinaggio, i di cui confini non sono abbastanza conosciuti per poterli esattamente descrivere. Medina e Taïf fanno bensì parte dell'Hedjaz, ma non del Beled-el-Haram. In tutta la descritta provincia non trovasi verun fiume, e non avvi che l'acqua di alcune povere sorgenti, e la salmastra di alcuni pozzi assai profondi. La terra santa è dunque un vero deserto. Per conservare l'acqua della pioggia si fecero delle cisterne alla Mecca ed a Djedda, ma non altrove; onde non si vede quasi verun giardino in così vasta superficie. I campi sono di sabbia o di cattiva terra affatto abbandonata; e non seminandosi grani in terra santa, si mangiano i grani e le farine che s'introducono dall'alto Egitto, dall'Ieman, da Taïf e dall'India. Il Beled-el-Haram è coperto di montagne tutte schistose e di porfido, ma non sonovi grandi cordegliere. Le più alte montagne del paese sono a Medina, ed a Taïf, città posta fuori della terra santa sopra un terreno abbondante di acqua, e coperto di giardini, e di piante fruttifere. Le sole città considerabili della terra Santa sono la Mecca e Djedda, le altre non sono che piccole borgate o villaggi. Quando un pellegrino, da qualunque parte egli venga, giugne al confine del Beled-el-Haram, ossia terra Santa, incomincia a santificarsi col Iaharmo, prende l' Ihram, o sacro abito di pellegrino.
Il sultano Sceriffo, benchè signore naturale del paese, non percepisce contribuzioni che alla Mecca ed a Djedda, il restante del paese paga la decima al Sultano Saaoud: e mi fu detto che gli abitanti di Medina non pagano veruna imposta.
Le alte montagne dell'Hediaz formano una linea obliqua, o un angolo colle coste d'Arabia sopra il mar Rosso. Dietro quanto ho potuto osservare, queste partono da Taïf, che trovasi trenta leghe circa lontana dalla costa, formano il confine del Beled-el-Haram, e passano a Mohhar presso all'arcipelago delle isole Hamara; e l'isola di Diebel-Hassen sembrami appendice di queste montagne.
CAPITOLO XXXVIII.
Notizie intorno ai Wehhabiti. — Principj religiosi di questi popoli. — Loro imprese militari più notabili. — Armi. — Capitale. — Organizzazione. — Considerazioni. Importantissima può un giorno diventare la Storia dei Wehhabiti per l'influenza che acquistasse questa nazione nell'equilibrio degli stati vicini, qualunque volta si risolva di addolcire l'austerità de' suoi principj religiosi; adottando un sistema più liberale. Ma se ostinansi a non declinare dall'austerità del loro riformatore, non è probabile che facciano gustare le severe dottrine ai popoli più inciviliti, e che possano stendere il loro dominio al di là dei deserti dell'Arabia: ed in tal caso la loro storia non potrebbe riuscire interessante al rimanente del mondo. Darò qui adunque le notizie che ho potuto raccogliere intorno a questi riformatori, e da loro medesimi e dagli abitanti de' paesi occupati dalle loro armate; aggiugnendovi le osservazioni fatte sul luogo dietro gli avvenimenti di cui fui testimonio e parte.
Scheih Niohamed-ibn-Abdoulwehhàb nacque nelle vicinanze di Medina; ma non mi fu dato di sapere nè l'epoca dell'anno, nè il nome preciso del luogo in cui nacque: per altro può fissarsi la sua nascita all'anno 1720 all'incirca. Fece i suoi studj a Medina, ove dimorò più anni. Dotato di non comuni talenti riconobbe ben tosto, che le troppo minute pratiche introdotte nel culto dai dottori, e certi principj superstiziosi, che più o meno scostavansi dalla semplicità del domma e della morale del Profeta, non ne erano che un arbitrario sopraccarico, ed abbisognavano di riforma, siccome cose attentatorie alla purità del Corano. Prese perciò la risoluzione di richiamare ii culto alla primitiva semplicità, purgandolo dalle particolari dottrine, e restringendolo nei limiti del letterale testo rivelato.
Vide però, che Medina e la Mecca troppo interessate a sostenere gli antichi riti, le usanze ed i pregiudizj che le facevano ricche, sarebbonsi opposte alle sue riforme; onde pensò di passare ne' paesi più orientali facendosi conoscere alle tribù degli Arabi Bedovini, che più indifferenti nelle cose del culto, o non abbastanza istruiti per sostenere o diffondere i loro riti particolari, ed altronde non avendo interesse a sostenerne alcuno, lasciavangli maggior libertà di disseminare e far abbracciare, senza incontrare alcun rischio il suo sistema.
In fatti Abdoulwehhab guadagnò al suo partito Ibn-Vaaoud, principe, o gran Schek di arabi stabiliti a Draaiya, città lontana diciassette giorni di viaggio al levante di Medina posta in mezzo ad un deserto. Da questo punto incomincia l'epoca della riforma d' Abdoulwehhàb l'anno 1747.
Abbiamo già osservato che questa riforma era ristretta al testo del Corano, che rigettava tutte le addizioni degli spositori, degl'Imani, e dei dottori della legge. In conseguenza il riformatore soppresse la differenza dei quattro riti ortodossi; sul qual punto non portò per altro l'estremo rigore, avendo io conosciuto alcuni Wehhabiti, che seguivano l'uno e l'altro di essi.
Ogni buon musulmano crede che dopo la morte e la sepoltura del Profeta, la di lui anima siasi ricongiunta al corpo, e salisse al paradiso montato sopra la giumenta dell'Angelo Gabriele detta el Barak, che ha testa e petto di bella donna. Vero è, che non è questo un articolo di fede, ma il musulmano che non lo credesse sarebbe risguardato qual empio, e come tale trattato. Abdoulwehhab dichiarò questo avvenimento assolutamente falso, e che la spoglia mortale del profeta era restata nel sepolcro come quella degli altri uomini.
Presso i Musulmani colui che si è acquistata opinione di virtù o di santità, viene dopo morte deposto in separato sepolcro più o meno ornato. Vi s'inalza una cappella ove gli abitanti vengono ad invocare la sua protezione presso a Dio, di cui è riguardato come amico. Se la riputazione del Santo si aggrandisce e cresce il numero dei divoti, se ne dilata la cappella, e si converte ben tosto in un tempio, che ha amministratori ed impiegati scelti per l'ordinario tra gli individui della sua famiglia; e per tal modo i parenti del santo sì fanno ben tosto più o meno ricchi in ragione della più o meno estesa riputazione del santo. Ma per una strana bizzarria accade spesse volte che si accordino gli onori della santità ad un pazzo o imbecille, riguardato qual favorito di Dio, perchè Dio gli negò il buon senso. Ne è cosa straordinaria il vedere onorato il sepolcro di un sultano o di un fellone che il popolo, senza saperne il perchè, dichiarò Santo.
Di già i musulmani istruiti sprezzavano in segreto tali superstizioni, comecchè per altro se ne mostrassero in pubblico rispettosi; ma Abdulwehhàb dichiarò apertamente che questa specie di culto reso ai santi è un gravissimo peccato agli occhi della divinità, i cui onori vengono divisi cogli uomini. In conseguenza di ciò i suoi segnaci distrussero i sepolcri, le cappelle, ed i templi innalzati in onor loro.
Posto questo principio Abdoulwehhàb proibì come grave peccato ogni atto di venerazione o di divozione verso la persona del Profeta: non già ch'egli non ne riconosca la missione, ma perchè sostiene che egli fu un uomo eguale agli altri, da cui si è servito Iddio per comunicare la divina parola ai mortali; e che terminata la sua missione, era rientrato nella ordinaria classe degli altri uomini. Per tale ragione il riformatore vietò ai suoi seguaci di visitare il sepolcro del Profeta a Medina; e parlando di lui, invece d'impiegare la formola adottata dagli altri musulmani: Nostro Signore Maometto, o nostro Signore il Profeta di Dio, dicono semplicemente Maometto.
I Cristiani hanno generalmente adottate idee false intorno ai Wehhabiti. Suppongono che costoro non siano musulmani, denominazione sotto la quale indicano esclusivamente i Turchi[10], spesso confondendo i nomi di musulmano, e d' osmanli. Scrivendo io per tutti, devo far osservare, che osmanli, ossia successore d' Osman, è l'epiteto adottato dal Turchi in memoria del sultano di tal nome, che fu il principio della loro grandezza, che questo nome nulla ha di comune con quello di musulmano, che vuol dire uomo Islam, uomo dedicato a Dio: di modo che i Turchi potrebbero farsi Cristiani senza cessare d'essere Osmanli.
I Wehhabiti diconsi i musulmani per eccellenza; perciò quando parlano d'Islam, non comprendono sotto questo vocabolo che le persone della loro setta, che riguardano come la sola ortodossa. I Turchi e gli altri musulmani sono ai loro occhi scismatici Mauschrikiun, cioè, che danno compagni a Dio; ma non però li trattano da idolatri ed infedeli Coffar. In una parola l' Islam è la religione del Corano, cioè il riconoscimento di un Dio solo ed unico. Tale è la religione dei Wehhabiti, che in conseguenza sono veri musulmani, quali secondo il Corano lo furono Gesù Cristo, Abramo, Noè, Adamo, e tutti gli antichi profeti fino a Maometto, che essi risguardano come l'ultimo inviato di Dio, e non già come un semplice dottore, siccome credono i Cristiani, parlando della credenza de' Wehhabiti[11], perchè in effetto se Maometto non è stato un inviato di Dio, il Corano non potrebb'essere la divina parola, ed allora i Wehhabiti sarebbero in contraddizioni con se medesimi.
I Wehhabiti non cambiano la professione di fede: non avvi altro Dio che Dio, Maometto è il profeta di Dio. I banditori pubblici dei Wehhabiti proclamano questa professione di fede nella sua integrità dall'alto delle torri della Mecca, che non atterrarono, come nel tempio già venuto in poter loro. E come non lo farebbero essi, dacchè il Corano proclama cento volte questa professione di fede per indispensabile alla salvezza dei Musulmani? I Wehhabiti hanno pure adottata la seguente professione. Non avvi altro Dio, che Dio solo; non sonovi compagni presso di lui; a lui appartengono la dominazione, la lode, la vita, e la morte; egli è potente sopra tutte le cose. Ma questa professione di fede particolare, che fu pure raccomandata dal Profeta, non toglie che la prima non sia proclamata giornalmente in tutte le preghiere canoniche.
Abdoulwehhab non si annunciò mai come Profeta, e non ebbe fra i suoi altro titolo che di dotto scheih riformatore, che ha voluto purgare il culto da tutte le aggiunte che gl'Imani, gl'interpreti, e i dottori vi avevano fatte, e ricondurlo alla primitiva semplicità del Corano. Ma perchè l'uomo è sempre uomo, vale a dire imperfetto ed inconseguente, Abdoulwehhab è anch'egli caduto in certe piccolezze affatto estranee al domma ed alla morale. Ne darò un breve saggio. I musulmani si radono il capo, e come vuole un'antica costumanza, si lasciano crescere una ciocca di cappelli: molti però non la portano; ma il maggior numero la conserva, senza darle a dir vero troppa importanza, e più per abitudine che per altro titolo. Tra questi avvi taluno d'opinione che nel giorno del giudizio universale il Profeta li prenderà per questa ciocca per portarli in paradiso. Questa usanza, pare, che non dovesse essere il soggetto d'una legge; pure Abdoulwehhab ne giudicò diversamente, e la ciocca fu proscritta.
I Musulmani hanno costume di tenersi una corona in mano, di cui, o per abitudine o per divagamento, ne passano i grani tra le dita, o si trovino in conversazione coi loro amici, o facciano soli qualche invocazione all'Essere supremo, o qualche brevissima preghiera ad ogni grano. Il riformatore Wehhabita ne proscrisse l'uso quasi segno superstizioso. Egli annoverò tra i gravi peccati l'uso del tabacco, della seta e dei metalli preziosi nelle vesti e nelle supellettili; ma poi non riguardò come peccaminosa l'azione di spogliare un uomo di un'altra religione o di un rito diverso. I Wehhabiti proibirono ai pellegrini le stazioni del Diebel-Nor o montagna della luce, e le altre stazioni della Mecca quali cose superstiziose; ad intanto essi fanno quella dell'Aàmara; vanno a Mina a gettare le pietruzze contro la casa del Diavolo: tale è l'uomo!
La riforma d'Abdoulwehhab tosto che fu ammessa da Ibn Saaoud fu pure abbracciata da tutte le tribù a lui sottoposte. Fu questi un pretesto per attaccare le vicine tribù, cui si offriva l'alternativa di adottare la riforma o di perire sotto il ferro del riformatore. Alla morte d' Ibn Saaoud il suo successore Abdelaaziz continuò a praticare questi energici infallibili mezzi: la più leggiera resistenza gli dava legittimo motivo di attaccare le ripugnanti tribù con una decisa superiorità; e da quell'istante le sostanze de' vinti diventavano proprietà de' Wehhabiti. Se il nemico non faceva resistenza, se la tribù abbracciava la riforma, si assoggettava all'imperio d' Abdelaaziz, principe dei fedeli, ed il suo partito acquistava nuove forze.
Già padrone della parte interiore dell'Arabia Abdelaaziz trovossi ben tosto in situazione di portare le sue viste sui paesi adjacenti. Incominciò dal fare un tentativo sopra Bagdad. Postosi nel 1801 alla testa d'un corpo di dromedarj, si gettò sopra Iman Hossèin, città non molto lontana da Bagdad, ov'era il sepolcro dell'Imano di tal nome, nipote del Profeta, in un magnifico tempio famoso per le ricchezze in esso profuse dalla Turchia e dalla Persia. Gli abitanti opposero quanta resistenza bastava per irritare l'assalitore, non quanta ne abbisognava per respingerlo; e furono tutti passati a fil di spada, uomini, vecchi, giovani e fanciulli d'ogni età. Mentre eseguivasi questa terribile strage, ammazzate, gridava dall'alto d'una torre un Dottore Wehhabita, scannate tutti gl'infedeli che danno compagni a Dio. Abdelaaziz s'impadronì dei tesori del tempio che fece distruggere, saccheggiò e bruciò la città, che fu convertita in un deserto.
Di ritorno da tale sanguinosa impresa Abdelaaziz volse gli occhi alla Mecca persuaso, che impadronendosi di quella città santa, centro dell'islamismo, acquisterebbe un nuovo titolo alla sovranità de' paesi musulmani che la circondano: ma temendo la vendetta del Pascià di Bagdad per la distruzione d'Iman Hossein, non osò allontanarsi dal suo territorio, e mandò suo figlio Saaoud con una numerosa armata contro la Mecca; il quale se ne rese padrone dopo breve resistenza del 1802. Il sultano Scheriffo Ghaleb ritirossi prima a Medina, che fece fortificare, poscia a Djedda, che pure rese capace di difendersi contro i Wehhabiti.
Saaoud attaccò tutte le moschee e cappelle consacrate alla memoria del Profeta e delle persone della sua famiglia, fece distruggere i sepolcri dei santi o degli eroi in venerazione, il palazzo dello Sceriffo, ed altri edificj, conservando solamente il tempio in tutta la sua integrità. Dalla Mecca si portò sopra Djedda, avendo in pari tempo staccato un corpo d'armata per sorprendere Medina. Queste due imprese contro città fortificate andarono a voto: e Saaoud fu costretto di ritirarsi a Draaïya cogli avanzi della sua armata, ridotta a piccolo numero non meno dalle battaglie, che dalla peste e dalla diserzione. Aveva lasciata una debole guarnigione alla Mecca per mantener viva in paese l'idea della sovranità di suo padre sulla santa città; ma non potè sostenervisi al ritorno del sultano Sceriffo Gheleb.
In novembre del 1803 Abdelaaziz fu assassinato da un uomo ch'erasi messo al suo servizio per meglio assicurare il colpo, e che ebbe abbastanza ardire e sangue freddo per meditare sì lungo tempo il suo piano.
Saaoud salì sul trono paterno, e pose particolar cura ad estendere e consolidare il suo dominio sulle coste del golfo Persico. Poco dopo trovò modo di rendere suo dipendente l'Iman di Muscate, e d'impadronirsi di Medina l'anno 1804. Del 1805 la carovana di Damasco non ottenne il passaggio che con enormi sacrificj; e Saaoud fece dire al Pascià Emir el Stagi, o principe de' pellegrini, che non voleva che questa carovana venisse colla scorta de' Turchi, nè che si portasse il ricco tappeto che il Gran Signore mandava ogni anno per coprire il sepolcro del Profeta; cosa risguardata da' Wehhabiti come un grave peccato. Voleva finalmente che la carovana fosse unicamente composta di veri pellegrini senza soldati, senz'armi, senza stendardi, senza musica e senza donne.
Malgrado questa dichiarazione l'anno passato la carovana di Damasco volle fare il consueto pellegrinaggio, senza strettamente uniformarsi agli ordini del vincitore; ma giunta alle porte di Medina fu costretta di ritirarsi in disordine inseguita dai Wehhabiti che occupavano la città ed i contorni. A questi si aggiungano gli avvenimenti ch'ebbero luogo quand'io era alla Mecca, in conseguenza dei quali Saaoud diventò assoluto padrone di tutta l'Arabia, ad eccezione di Moca e di poche altre città nell'Ieman, ossia Arabia felice; occupando tutto il deserto che trovasi tra Damasco, Bagdad e Bassora.
In questa vasta estensione di paese sonovi poche città; ma vi si contano non pertanto alcuni milioni d'abitanti che vivono nelle tende o baracche, sotto il dominio del Sultano Saaoud, cui essi ubbidiscono ciecamente, e pagano la decima delle loro gregge, e delle loro frutta. Questa decima è il tributo imposto dal Corano, e Saaoud non chiede verun'altra contribuzione; ma tutti i suoi sudditi sono forzati di seguirlo in campagna quand'egli li chiama, mantenendosi a proprie spese, come vien pure ordinato dalla religione: di modo che il Sovrano de' Wehhabiti ha sempre numerose armate che non gli costano veruna somma. Nelle sue spedizioni ogni cammello porta d'ordinario due uomini, coll'acqua ed i viveri necessarj per lui, e per gli uomini. Allorchè vuol gente scrive al capo delle tribù indicando il numero, il luogo, ed il giorno della riunione. Gli uomini si presentano nel giorno indicato coi viveri, armi e munizioni necessarie: tale è la forza delle idee religiose!
I Wehhabiti hanno le medesime armi dei Mecchesi. Traggono dall'Europa le canne da fucile ch'essi montano assai grossolanamente: fabbricano polvere e palle, ma con sì poc'arte, che la polvere è quasi tutta in grani grossi quanto un pisello, e le palle non sono altro che una pietra coperta da una sottile lamina di piombo. Acquistano questo metallo e lo zolfo alla Mecca, ed in altre città marittime della penisola d'Arabia; ed hanno in paese il salnitro.
L'abito de' Wehhabiti è affatto simile a quello degli altri arabi; soltanto ho notato che i figli di Saaoud portano lunghi capelli come segno distintivo della loro famiglia. Mi fu detto che questo sultano vive con molto lusso, ma io lo vidi affatto nudo come gli altri.
Draaïya capitale de' Wehhabiti è una grande città, trenta leghe all'E. da Medina, cento a S. S. O. da Bassora, e cento sessanta a S. E. da Gerusalemme. Le isole Bahareïnn, ove pescansi le perle nel golfo persico lontane cinquanta leghe da Draaïya sono soggette a Saaoud. Il fiume Aftan che passa lontano quattordici leghe dalla capitale sbocca in faccia a queste isole. Stando a quanto mi fu detto dai Wehhabiti questa città trovasi alle falde di altissime montagne, ed il suo territorio abbonda di grani d'ogni specie. Le case di Draaïya sono fatte di pietra.
I Wehhabiti non hanno ordini militari: e tutta la loro tattica consiste nel riunirsi sotto la direzione di un capo, e nel seguirne tutti i suoi movimenti senza conservare alcun rango: ma la loro disciplina è veramente spartana, e l'ubbidienza estrema; bastando il più piccolo segno del capo per ridurli al più rispettoso silenzio, o per sottoporli alle più dure fatiche.
Nè migliori sono i loro ordini civili. Ogni capo di Tribù risponde del pagamento delle decime, e della presentazione degli uomini per la guerra. Saaoud manda i Kadì alle città del suo dominio; ma non ha nè Kaïd, ossia governatori, nè Pascià, nè Visiri, nè altri impiegati. Il riformatore Abdoulwehhab non assunse mai verun titolo d'onore o carattere pubblico, fu sempre il capo della sua setta, e non pretese mai distinzioni personali. Dopo la sua morte, suo figlio che gli succedette, conservò lo stesso spirito di semplicità.
La persona più influente presso Saaoud è Abounocta, grande scheik di Ieman, che tiene molte truppe sotto gl'immediati suoi ordini. Mi accadde talora di chiedere ad alcuni Wehhabiti: appartenete voi a Saaoud: — Niente affatto; siamo d'Abounocta, mi rispondevano con cert'aria di fierezza che mostrava il loro orgoglio di appartenergli; lo che mi fa credere che dopo la morte di Saaoud potrebbe dividersi la setta de' Wehhabiti in due parti, e così farsi incapace di ulteriori progressi. Vedo pure un altro ostacolo d'ingrandimento nell'estremo rigore delle sue dottrine onde questa grande popolazione che poco produce e poco consuma, rimarrà in fondo ai suoi deserti, nella consueta nullità, non per altro celebre che pei suoi ladroneggi.
Ma forse il tempo gli farà conoscere che l'Arabia priva delle relazioni commerciali delle carovane e dei pellegrinaggi non può sussistere. Allora la necessità farà cadere l'intolleranza, ed il commercio cogli stranieri farà insensibilmente sentire ai Wehhabiti il vizio d'un'austerità quasi contro natura: a poco a poco lo zelo si raffredderà; le pratiche superstiziose che sempre sono l'appoggio, la consolazione e la speranza del debole, dell'ignorante, dell'infelice, riprenderanno il loro impero; e per tal modo la riforma dei Wehhabiti scomparirà prima d'aver potuto consolidare la sua influenza, e dopo avere versato il sangue di più migliaja di vittime del fanatismo religioso. Tale è la trista vicissitudine delle cose umane!
Altronde io credo che i Wehhabiti nel fondo de' proprj deserti saranno sempre invincibili, non già per la loro forza militare, ma per la natura del paese non abitabile da veruna altra nazione; e per la facilità ch'essi hanno di nascondersi ai loro nemici. Si potrà momentaneamente conquistare la Mecca, Medina e le altre città marittime[12]; ma semplici guarnigioni isolate in mezzo a spaventosi deserti potranno sostenersi lungamente? Quando si presenterà loro un potente nemico, i Wehhabiti si nasconderanno per piombargli addosso e sterminarlo, nell'istante che sarà forzato di dividersi per cercar viveri. Ecco i motivi che m'inducono a credere che non saranno facilmente sottomessi colla forza delle armi; e queste appunto sono le cagioni per le quali sempre si è salvata l'Arabia da ogni straniera dominazione.
CAPITOLO XXXIX.
Ritorno d'Ali Bey a Djedda. — Sua posizione geografica. — Notizie. — Tragitto all'Iemboa.
Il 2 di marzo del 1807 dopo aver fatti i sette giri alla casa di Dio, e recitate le particolari preghiere di congedo innanzi ai quattro angoli del Kaaba, al pozzo Zemzem, alle pietre d' Ismaele, ed al Makam-Ibrahim, sortii dal tempio per la porta Beb-l'oudaa: lo che è di felice augurio, perchè il Profeta sortiva di là quando aveva terminato il suo pellegrinaggio: indi abbandonai la Mecca alle cinque e mezzo della sera per tornare a Djedda.
Appena fuori di città gli arabi che mi accompagnavano contendevano tra di loro con tanto calore che non potei mettermi in cammino avanti le sette ore della sera. L'atmosfera era coperta in modo che a fronte della luna eravamo in una perfetta oscurità. Alle quattro e mezzo del mattino si fece alto ad un dovar detto el-Hàdda. Molti pellegrini che tornavano alle loro case coprivano la strada coi loro cammelli ed equipaggi.
Alle tre ore dopo mezzogiorno, quantunque ammalato, partii colla carovana tenendoci nella direzione d'O., e poco dopo il levar del sole si entrò in Djedda. Dalle più accurate osservazioni fatte al presente, e combinate con quelle della mia precedente dimora, trovai la longitudine Est di Djedda = 45° 54′ 30″, e la latitudine nord 31° 52′ 42″.
In questo paese circondato da deserti di sabbia, i giorni piovosi sono rari assai, fuorchè nell'equinozio di autunno, epoca in cui le pioggie sono abbastanza forti per riempire le cisterne. I venti che dominano sul Mar Rosso soffiano quasi sempre dal settentrione, fuorchè nei mesi d'agosto, di settembre, e di ottobre che passano al quarto del mezzodì.
I soldati turchi di Djedda congedati come quelli della Mecca, lasciavano la terra santa, e non rimanevano a Djedda che i cannonieri. Vidi imbarcarsi con bandiere spiegate, e tamburi battenti dugento soldati che lo scheriffo mandava sulla costa d'Affrica per riscuotere le contribuzioni; possedendo egli sulla costa d'Affrica l'isola di Saouàken, che i geografi chiamano Suakem, come pure Messoua sulla costa dell'Abissinia, ed alcune altre isole a nome del Sultano di Turchia.
Per ordine di Saaoud, erasi soppresso a Djedda come alla Mecca, nella preghiera del venerdì che si fa alla moschea, il nome del Sultano di Costantinopoli. Il Kadi Wehhabita era venuto a Djedda per amministrarvi la giustizia in nome di Saaoud in tempo che il governatore Negro, schiavo dello Sceriffo, continuava a governare la città in nome del suo padrone. Questa mescolanza di autorità non lascerà di produrre il cattivo effetto che forse ne spera il Sultano Saaoud.
Oltre i Mudden, che dall'alto delle torri delle moschee chiamano il popolo alla preghiera, i Wehhabiti hanno stabilito a Djedda una seconda specie di banditori, che potrebbero dirsi esecutori per costringere i fedeli a recarsi al tempio. Alle ore indicate vanno per le strade gridando: Andiamo alla preghiera; alla preghiera: essi spingono tutti gli abitanti per obbligarli d'andare alla moschea, ed obbligando gli artigiani ed i mercanti ad abbandonare le loro botteghe, e i loro magazzini, perchè vengano ad assistere alla pubblica preghiera cinque volte al giorno com'è prescritto dalla legge. Prima che spunti l'aurora gridano pure e fanno un orribile fracasso per le strade, per costringere tutto il mondo ad alzarsi, ed a venire al tempio. Quanto non è ardente il loro zelo! L'abito di questi esecutori è assai semplice non avendo che un pajo di piccole mutande bianche, ed una coperta ripiegata sulla spalla, ed un enorme bastone in mano. Seppi che alla Mecca erasi di già cominciato a far uso di questi eccitatori per isforzare il popolo a recarsi alla moschea; ma si usa maggiore moderazione a Djedda perchè si limitano al gridare, al rimbrottare, ed allo spingere tutti quelli che incontrano: almeno ciò è quanto mi accadde di osservare dalle mie finestre che guardavano sulla gran piazza.
Durante il mio soggiorno a Djedda vi diede fondo un grosso bastimento procedente da Bengala con bandiera rossa musulmana armata di venti pezzi di cannone, carico di riso. Il commercio riceve tutti gli anni quattro o cinque bastimenti di questa specie che portano oltre il riso altri prodotti dell'India.
Tragitto all'Iemboa.
Il sabato 21 marzo, giorno dell'equinozio, m'imbarcai dopo il cader del sole sopra una specie di battello detto Sarabok. Dopo un'ora e mezzo di ravvolgimenti tra i banchi e gli scogli della rada, arrivai al bastimento che doveva condurmi a Suez: era un daos come quello sul quale ero venuto.
A quattr'ore e mezzo del mattino del giorno 23 si levò l'ancora, e fu il bastimento rimurchiato a traverso di una infinità di scogli che chiudono la bocca del porto. A mezzo giorno rinfrescò il vento d'O., e si gettò l'ancora ad un'ora e mezzo in una cattiva rada, detta Delmaa, ove trovavansi all'ancora cinque altri daos che tenevano la medesima strada. Il mare era grosso, ed il nostro bastimento era gagliardamente agitato dalle onde.
Il martedì 24 si mise alla vela alle quattro ore del mattino, e benchè il vento non fosse troppo favorevole, il bastimento marciava assai bene. Alle due dopo mezzogiorno si diede fondo otto miglia lontano del villaggio d'Omelmusk. L'ancoraggio era eccellente, e vi restammo tutto il giorno per ricevervi il sopraccarico di trecento quintali di caffè, che si erano esportati da Djedda senza pagare la gabella. Tra il bastimento e la gran terra eravi un'isola bassa, e molto estesa. Il capitano discese nella scialuppa colle sue reti, e riportò molto pesce. Il tempo si mantenne costantemente cupo, e dopo mezzogiorno il vento rinforzò, ed il mare in alto era agitatissimo, mentre al nostro ancoraggio era affatto tranquillo.
Mercoledì 25.
Malgrado il vento del nord che contrariava la nostra direzione, si mise alla vela; il mare era grosso, ed il vento violentissimo. Il nostro bastimento soffriva assai per causa del suo eccessivo carico. Si ruppe l'antenna di un'altra nave, e noi fummo costretti di ritornare all'ancoraggio d'Omelmusk. Colà ci raggiunsero avanti sera altri bastimenti sortiti da Djedda, cosicchè formavamo una squadra di dieci daos senza contare altri più piccioli bastimenti.
Venerdì 27.
Alle quattro e mezzo del mattino si spiegarono le vele con vento contrario, ed alle due dopo mezzogiorno entrammo nel porto di Araborg. Mi feci portare a terra, e raccolsi alcune conchiglie e piante marine. Araborg è provveduto di pochi giardini, e mi furono portati alcuni cocomeri e cetriuoli.
Sabato 28.
Si fece vela alle dieci ore, e poco dopo, mancato il vento, la nave dovette farsi rimurchiare dalle scialuppe, come tutti gli altri daos. Alle quattr'ore della sera ci ancorammo presso ad Elsthat.
Domenica 29.
Viaggiammo lentamente al N. O. facendoci rimurchiare per mancanza di vento sempre alla distanza di tre miglia, o poco più dalla costa in mezzo ad infiniti scogli a fior d'acqua. Dopo mezzogiorno il vento rinfrescò, e passato il tropico, si diede fondo in faccia ad Algiar alle quattr'ore.
A mezzogiorno avemmo lo spettacolo straordinario d'un combattimento di pesci. Il mare tranquillo presentava nello spazio di cento in cento venti piedi di diametro un subitaneo bollimento, accompagnato da molta schiuma e da un grande romore. Ciò durava un mezzo minuto, poi il mare tornava tranquillo, ma un minuto dopo ricominciava la stessa scena. Al di fuori intorno al cerchio osservasi durante questo bollimento un gran numero di punti, lo che indicava le parziali zuffe, corpo a corpo, che stendevansi e notabile distanza dal campo di battaglia. Il bastimento rasentò il cerchio nell'istante dell'attacco, sgraziatamente nel punto del mezzogiorno, mentre io stavo osservando il passaggio del sole. Posto al bivio tra i due oggetti diedi la preferenza all'astronomia, e perdetti l'occasione di osservare il genio guerriero delle genti acquatiche. I miei compagni di viaggio mi dissero che avevano veduto combattere un'immensa quantità di pesci della lunghezza d'un piede all'incirca.
Mentre durava ancora la battaglia si vide accorrere da tutte le parti anche lontanissime una infinità d'uccelli di mare affatto bianchi che andavano svolazzando sopra il campo di battaglia quasi a fior d'acqua, sperando, senza dubbio, di predare i pesci uccisi, e forse i piccoli ancora vivi. La pugna era in tale stato quando noi eravamo già troppo lontani per conoscerne l'esito.
Lunedì 30 marzo.
Si levò l'ancora a mezza notte, ma durando tuttavia la calma i daos erano di tratto in tratto rimurchiati dalle scialuppe. Alle dieci ore si levò un vento di mezzogiorno, che ci portò ben tosto alla città di Iemboa ove sbarcammo felicemente ad un'ora e tre quarti.
Desiderava di andare a Medina a visitare il sepolcro del Profeta, malgrado l'assoluta proibizione dei Wehhabiti. La cosa era rischiosa assai; ma non pertanto trovai molti pellegrini Turchi, ed alcuni Arabi Mogrebini disposti ad esporsi meco ai pericoli del viaggio.
Siccome il mio capitano aveva la sua famiglia a l'Iemboa, ove tutta la flottiglia doveva rimanere alcuni giorni, convenni con lui che sarei di ritorno il giorno otto d'aprile. Feci tosto cercare i dromedarj onde viaggiare più speditamente; ma a dispetto delle mie diligenze non mi fu possibile di partire avanti la sera del successivo giorno. Non presi meco che un piccolo baule con alcuni istromenti astronomici; facendomi accompagnare soltanto da tre domestici.
CAPITOLO XL.
Viaggio alla volta di Medina. — Djideïda. — Viene arrestato dai Wehhabiti. — Dispiaceri che gliene derivano. — Viene rimandato con una carovana d'impiegati del tempio di Medina. — L'Iemboa.
Uscii da Iemboa il martedì 31 marzo alle cinque della sera, montato sopra un dromedario, e seguito da tre domestici, da alcuni pellegrini Turchi e Mogrebini, e da circa cinquanta dromedarj.
Si camminava all'E. un quarto S. E. lungo una pianura arenosa, sterile ad intervalli, ed offrendo qua e là alcune traccie di vegetazione: d'ordinario i dromedarj fanno più di una lega per ora; e noi li facevamo di quando in quando trottare; ma io non era abbastanza robusto per sostenere la violenza del loro moto: onde a mezza notte trovandomi estremamente abbattuto sia per lo scuotimento dell'animale, che per l'incomodità della sella tutta di legno e senza staffe, fui obbligato di andare più lentamente. Alle quattr'ore del mattino camminava all'est ¼ est in mezzo a piccole montagne, le quali andavano serrandosi di mano in mano che andavamo avanti. Si fece alto alle sei in una valle che io supposi lontana 15 in 16 leghe da Iemboa.
Le montagne da cui eravamo circondati sono tutte di schisti diversi, e non presentano la più debole traccia di vegetazione; ma nella valle benchè senz'acqua raccolsi alcune bellissime pianticelle, e tra queste una rarissima specie di Solanum con fiori assai grandi. Io mi trovava sempre indisposto, ed ebbi avanti l'aurora violenti eccitamenti al vomito.
Il mercoledì primo aprile, ripresi il cammino all'est per una valle di singolare figura. Le montagne poste a mezzodì sono tutte di arena sciolta e bianchissime, quelle a settentrione compongonsi di roccie di porfido, cornee, e schistose.
La valle non ha più di cento tese di larghezza. Vedendo montagne di sabbia alte come quelle di pietra, non poteva a meno di non meravigliarmi della forza che ammucchiò, e che tiene accumulata tanta sabbia mobile, senza che i venti ne portino mai un solo atomo sulle opposte montagne di settentrione; le quali contengono una bella collezione di porfidi di pasta e colori diversi. Nelle rupi cornee vedonsi belle gradazioni di verde, alcune delle quali sono veramente singolari.
Da questa valle passai verso sera tra gruppi di nere montagne vulcaniche, che presentavano pittoresche vedute di rottami e di precipizj. Di là si cominciò a salire questa linea di montagne fino alle dieci della sera, quando si prese a scendere per l'opposta china tutta ingombra d'arbusti spinosi che ci riuscivano incomodissimi. Finalmente alle cinque del mattino oppresso dalle fatiche e dal disagio giunsi a Djideïda. I miei domestici mi levarono dal dromedario, e mi posero sopra il mio materasso in mezzo alla piazza.
Esemplare veramente è l'esattezza dei condottieri dei dromedarj: ad ogni ora canonica fermavano la carovana, e gridavano Iova salàh, Iova salàh: cioè: andiamo a pregare, andiamo a pregare. Allora ognuno smontava, facendo le sue abluzioni colla sabbia, e dopo avere recitata la preghiera in comune, si rimontava per continuare il viaggio.
Una sera che camminava alla testa della carovana sentendo farsi del rumore al di dietro di me, volsi il capo, e vidi uno dei condottieri de' dromedarj che con un grosso bastone in mano minacciava il mio maestro di casa e voleva obbligarlo a retrocedere. Accorsi subito per informarmi dell'affare. L'Arabo trasportato da un santo zelo, rispondeva sempre Ah, Sidi Ali Bey; che peccatore è mai questo! — che ha egli fatto? — È un orribile peccatore. Gli chiesi di nuovo: ma che ha fatto? — Egli non deve andar più avanti; egli non anderà a Medina; no, non lo permetterò mai. Il mio domestico era affatto sbalordito. Io replicai: ditemi dunque qual è il suo delitto? — Sì Sedi Ali, egli fuma tabacco, questo grande scellerato; egli non anderà a Medina: io non lo permetterò mai. A stento ottenni di calmarlo, dicendogli che il mio domestico, essendo uno Sceriffo marocchino, ignorava del tutto gli ordini di Abdoulwehhab: e gli promisi a suo nome che non fumerebbe più. Volle che lo giurasse, e che gittasse la sua pipa in terra col suo tabacco che aveva. A tali condizioni gli permise di proseguire il viaggio.
Djiedeïda è un soggiorno assai tristo in fondo di una valle con case bassissime fatte di pietra a secco senza intonicatura, con alcune botteghe in cui si tiene il mercato. Sonovi alcune piantagioni di palme, ma la situazione è affatto malinconica. Il capo del popolo, soprannominato Scheih-el Belèd, ed il kadì sono naturali del paese, adesso sotto il dominio del sultano Saaoud, cui gli abitanti pagano la decima de' loro frutti.
È nel deserto di Medina che cresce l'albero che dà il balsamo impropriamente detto della Mecca. Siccome io non poteva trattenermi, mi riservava di fare al ritorno le mie indagini intorno a quest'albero.
Non potendo più soffrire la marcia dei dromedarj, lasciai partire la carovana, ripromettendomi di raggiugnerla ben tosto, e restai coricato in mezzo alla piazza, ove mi addormentai, non avendo ritenuti presso di me che i miei domestici. Quando mi risvegliai mi vidi circondato da un gran numero di persone accumulate vicino a me che mi guardavano. Apersi la mia spezieria che portava sempre meco, e posi delle filacce con balsamo cattolico su tutte le loro ferite o scorticature delle gambe e delle mani. Mangiai in appresso un cocomero squisito che mi rinfrescò a meraviglia: pure non era in istato di muovermi. Intanto i miei domestici facevano preparare quattro cammelli, ed una schevria simile a quella di cui mi era servito nel viaggio della Mecca; e la mattina dello stesso giorno giovedì 2 aprile, montai in questa vettura scortato soltanto dai miei tre domestici, e dal cammeliere, prendendo il cammino di Medina di dove non era distante, per quanto mi fu detto, più di sedici leghe all'est.
Due ore dopo usciti da Djidèïda, due Wehhabiti sortono dalle montagne, fermano i nostri cammelli, e mi domandano dove vado. A Medina, loro rispondo. — Voi non potete continuare il vostro viaggio. Allora un capo mi si presentò con due ufficiali anch'essi montati sopra cammelli, per farmi nuove interrogazioni. Sospettando il capo ch'io fossi Turco, minaccia di farmi saltare la testa: ma senza lasciarmi atterrire dalle sue minaccie, io rispondo tranquillamente alle sue inchieste; e le mie risposte sono attestate dai miei domestici. Benchè la mia immaginazione mi richiamasse in questo istante la notizia che circolava a Djedda, che tutti i Turchi partiti della Mecca erano stati scannati, non lasciai di conservare la più perfetta calma. Mi viene ordinato di consegnar loro il denaro, e gli presento quattro pezze spagnuole che aveva in tasca; ed insistendo essi per averne ancora, dichiarai di non averne, ed offersi loro di visitare il mio baule. Supponendo che io portassi denaro in cintura come costumano i Levantini, non si acquietarono alle mie negative; onde depongo il bournous, e comincio a spogliarmi per soddisfarli. Essi mi fermano; ma vedendo il cordone dell'orologio, lo tirano, e mi costringono a rilasciarlo loro. Dopo essersi appropriati il bournous, e l'orologio, minaccianmi di nuovo; poi si ritirano indicando al condottiere dei cammelli un luogo vicino, ove dovevamo aspettare i loro ordini.
Ridotti che fummo al luogo determinato, distrussi all'istante una cassetta contenente gl'insetti che aveva raccolti in Arabia, e getto lontano da me le piante ed i fossili trovati in questo tragitto dall'Iemboa: inghiottisco una lettera del principe Muley Abdsulem, che poteva compromettermi presso que' fanatici: consegno al mio maestro di casa poche piastre che tenevo ancora nel baule, e rimango affatto tranquillo. Lo stesso fanno i miei domestici rispetto al tabacco che avevano.
Un momento dopo vengono a guardarci a vista due Wehhabiti; abbastanza tardi per lasciarci sbarazzare da quanto poteva comprometterci: e sono di parere, che la difficoltà di dividere in cinque persone i pochi oggetti rapitimi, ci procurasse questo prezioso momento. Altre due ore dopo arrivano altri Wehhabiti, dicendosi spediti dall'Emir onde riscuotere da me 500 franchi per la mia libertà, e si ritirano dietro la mia risposta di non aver denaro.
Poco appresso un nuovo Wehhabita porta l'ordine di condurci altrove, e partiamo con lui; e dietro una montagna vicina trovo.... la mia carovana intiera egualmente arrestata. I miei compagni di viaggio pallidi, tremanti, incerti della loro sorte, erano circondati da molte guardie. Mi pongo a sedere accanto agli Arabi Mogrebini: i Turchi rimangono in luogo separato. Intanto arriva un Wehhabita coll'annuncio che ogni pellegrino Turco o Mogrebino deve pagare 500 franchi. A tale domanda i miei compagni di sventura gridano chiedendo grazia colle lagrime agli occhi. Rispetto a me dissi tranquillamente, d'avere già risposto; ed appoggiai le rimostranze di questi infelici.
Già il sole stava per tramontare, quando un Wehhabita si presentò dicendomi che l'Emiro aveva ridotta la contribuzione a 200 franchi: nuove lagnanze, nuovi pianti per parte de' miei compagni, che effettivamente non avevano di che supplirvi. In sulla sera ci conducono in uno sfondato, ove ci dividono in due gruppi l'un dall'altro divisi. Sopraggiungono nuovi Wehhabiti; i miei compagni erano atterriti, ed io medesimo temeva d'essere in breve testimonio di una sanguinosa scena sui nostri Turchi. Non temeva per riguardo mio perchè veniva riguardato come un Arabo Mogrebino, ed i Turchi non potevano deporre il contrario; ma non perciò era io meno afflitto per questi sventurati, che senza di me non sarebbersi esposti a questo viaggio; ed intanto io non aveva veruna influenza, verun mezzo per salvarli da una terribile catastrofe.
Dopo un'ora d'angoscie altri soldati ne ordinano di montare sui dromedarj, dicendo che l'Emiro voleva esaminare isolatamente ciascun di noi. Costretti di rifare la fatta strada nella più oscura notte che immaginare si possa, attraversammo Djidèïda, ed a poca distanza ci fecero far alto pel rimanente della notte. All'indomani mattina, venerdì 3 aprile, prima che levasse il sole continuammo a retrocedere, scortati solamente da tre soldati Wehhabiti. Non si tardò a scoprire un campo di belle tende. Supponeva di essere presentato all'Emiro, ma non tardai ad accorgermi, ch'erano gl'impiegati, i domestici, e gli schiavi del tempio di Medina che Saaoud scacciava dall'Arabia. Giunti al campo, ci fu ordinato di riempire ad una sorgente i nostri otri, e senza lasciarci riposare ci obbligarono a riprendere il cammino.
Mentre si andavano riempiendo gli otri, il domestico che guidava il mio cammello per la cavezza, preso da subito terrore, si mise a correre, traendosi dietro il cammello, per porsi meco sotto la protezione della carovana degl'impiegati del tempio, ma accorso uno de' Wehhabiti, levandogli di mano la cavezza, lo gettò a terra dopo avergli dato un calcio, e mi ricondusse alla carovana senza dirmi una parola.
Ci fecero passare per Hamira, piccola borgata somigliante a Djidèïda, ma in più amena situazione, circondata da giardini e da bellissime palme, nel centro di una gran valle, ed in vicinanza della bella sorgente ov'eransi riempiuti gli otri; sorgente considerabile che somministra una eccellente acqua, sebbene alquanto calda. Non tardarono poi a farci uscire di strada, e salendo le montagne ci fecero scendere dalle nostre cavalcature. Nuove discussioni pel pagamento della contribuzione prolungaronsi fino alle tre ore dopo mezzogiorno. I Wehhabiti visitarono tutti i nostri effetti, ed in fine fecero pagare 20 franchi ad ogni turco; presero un hhaik, ed un sacco di biscotto ai Mogrebini; impadronironsi di tre piastre spagnuole ch'io aveva scordate nella mia cartella, ed il caftan che apparteneva al mio maestro di casa. Volevano 15 franchi da ogni conduttore di cammelli: il mio vi si rifiutava, e partito per parlare all'Emiro; più non lo rividi. Allora ne dissero essere assoluto ordine di Saaoud, che i pellegrini non vadano a Medina, e ne riunirono subito alla carovana degl'impiegati del tempio, che in questo frattempo passava in fondo ad una valle scortata da altri soldati. In tal modo terminò, sto per dire felicemente, questo disaggradevole contrattempo, quantunque mi sia rimasto lo sconforto di non aver potuto fare un interessante viaggio, e di aver perduto l'orologio che serviva alle mie osservazioni astronomiche.
A mezzo giorno mentre disputavasi intorno alla contribuzione, quantunque non si vedesse alcuna nuvola, udironsi cinque o sei colpi di tuono.
Rispetto alla condotta tenuta dai Wehhabiti, deve riflettersi che noi non ignoravamo l'espressa proibizione d'andar a visitare il sepolcro del profeta a Medina. Avevamo dunque scientemente violata la legge, ed io mi era esposto a tentare l'avventura, sperando che il caso potrebbe favorirmi. Dunque i Wehhabiti arrestandoci non fecero che dare esecuzione all'ordine generale precedentemente stabilito. La contribuzione esatta non era che un'ammenda della nostra trasgressione. La maniera di esigerla fu veramente alquanto dura; ma deve condonarsi ad uomini così poco inciviliti. Mi presero l'orologio ed il bournous; ma perchè lasciaronmi gli altri effetti?.... Questi Arabi benchè Wehhabiti e sudditi di Saaoud sono abitanti di un paese di fresco soggiogato, e per conseguenza diversi assai dalla brillante gioventù Wehhabita del Levante ch'io aveva veduta alla Mecca; perciò quando mi presero l'orologio, ed il bournous, gli condonai di buon grado questo avanzo di antichi vizj del loro paese; e resi grazie alla riforma d' Abdoulwehhab per avermi lasciati gli altri effetti, e gli strumenti astronomici. Le minacce ed i cattivi trattamenti verso i Turchi non sono che una conseguenza del loro risentimento e del loro odio contro questa nazione, il di cui solo nome basta per renderli furibondi.
Questo sgraziato viaggio mi diede non pertanto una qualche idea del deserto di Medina, ed una vicina conoscenza della posizione geografica di questa città, fissandola a 2 gradi e 40 minuti all'est dell'Iemboa.
Riuniti alla carovana si camminò all'ouest. Speravo di rimpiazzare le piante che aveva dovuto abbandonare; si tenne la medesima strada, ma quando la carovana fece alto alle quattr'ore del mattino, mi vidi in mezzo ad una valle affatto sterile, ove non osservai che una dozzina di piante di niuna importanza. A mezzo giorno il termometro marcava all'ombra 28 gradi di Reaumur. Trovavasi in questa carovana il nuovo Kadì venuto da Costantinopoli, e destinato per Medina, col quale aveva contratta domestichezza alla Mecca. Feci pure conoscenza del tesoriere e primarj impiegati del tempio di Medina. Questi mi dissero che i Wehhabiti avevano distrutti gli ornamenti del sepolcro del Profeta; che avevano chiuse e suggellate le porte del tempio, e che Saaoud erasi appropriati tutti gl'immensi tesori accumulati in tanti secoli. Il tefterdar (tesoriere) mi assicurò che il valore delle sole perle, e delle altre pietre preziose superava ogni stima.
La carovana aveva un salvacondotto di Saaoud, con cui ordinava di rispettarla, lo che non impedì che fosse forzata ad abbandonare la strada tostochè si trovò fuori della santa città, e che le fosse imposta un'eccessiva contribuzione. Seppi pure che la carovana de' turchi della Mecca era stata interamente spogliata nel suo passaggio di Medina, non avendole nemmeno lasciati i viveri: talchè non si sa come costoro abbiano potuto sopravvivere in questi deserti alla sete ed alla fame.
Il giorno quattro d'aprile scopersi alle quattr'ore il mare, e l'Iemboa in sullo spontare del giorno susseguente, dopo avere viaggiato tutta la notte. Recatomi subito a bordo trovai la mia gente assai inquieta intorno alla mia sorte per le sinistre notizie che si erano sparse. Così finì questo viaggio, nel quale dopo aver corso grandissimo pericolo, si ebbe la fortuna di uscirne felicemente.
L' Jenboa-en-Nahùl, ossia delle Palme, trovasi una giornata lontana all'E. ¼ N. E. dell' Iemboa-el-Bàhar, ossia del Mare. Questa città situata in mezzo alla montagna è ben provveduta di acqua, di bei giardini, e di una notabile quantità di palme, da cui ebbe il nome. Gli abitanti sono tutti sceriffi o discendenti del Profeta, e grandi guerrieri. L'Iemboa del mare è posta in una vasta pianura, che conserva evidenti traccie d'essere stata in tempi non molto lontani abbandonata dal mare. L'alta marea entra ancora nel primo circondario esteriore della mura, ed inonda una parte della città. Il suo porto è buono, potendovisi ancorare le grandi fregate, ma gli scogli ne ingombrano l'ingresso. La città è circondata da vastissime mura affatto irregolari del diametro approssimativo di 350 tese dall'est al nord, e di circa duecento dal nord al sud. La sua popolazione è di circa tremila abitanti. Le case sono basse, e i tetti piani.
Benchè l'Iemboa-el-Bahar sia sotto il dominio del sultano Sceriffo della Mecca, che vi spedisce un governatore col nome d' Ouisir, riconosce ancora la sovranità del sultano Saaoud, che vi tiene un kadì; ma non gli si paga veruna contribuzione. Non è già perchè amino la riforma d' Abdoulwehhab, che gli abitanti dell'Iemboa abbiano preso il nome di Wehhabiti; ma perchè ne temono i seguaci, ch'essi odiano cordialmente. Perciò sono sempre armati per impedire ch'entrino le truppe wehhabite nel loro paese; e sono sempre disposti a respingerle colla forza. Fumano pubblicamente per le strade, quantunque ciò si riguardi come un grave peccato dai Wehhabiti.
Lo donne portano una grande camicia e mutande di tela turchina, con un grande velo o mantello nero in capo, un anello che loro attraversa la cartilagine del naso, anelli nelle dita, braccialetti e pendenti di orecchie. Sono libere in modo, ch'io ne vidi molte affatto scoperte.
Il loro colore è bronzino come quello degli uomini, e tutte quelle ch'io vidi sono sgraziate e deformi.
In tempo della mia dimora all'Iemboa si celebrò un pajo di nozze, ma non ne udii che il rumore. Una cinquantina di donne passò tre notti cantando ed accompagnandosi colle nacchere fin dopo mezza notte; e nell'ultima all'istante in cui la sposa passava in dominio dello sposo, incominciarono ad alzare acutissime grida con misura e ad intervalli; battevano in pari tempo palma a palma, di modo che rassomigliavano piuttosto ad una squadra di furie, che ad una unione di donne. Questa scena durò una mezz'ora, e così terminò la festa.
Tutti i contorni dell'Iemboa offrono l'aspetto di un orrido deserto; e non vi si trova che pochissime piante; ma le coste del mare mi diedero molte belle conchiglie.
Buone osservazioni mi diedero per longitudine orientale della città 35° 12′ 15″ dell'osservatorio di Parigi, e la latitudine settentrionale di 25° 7′ 6″.
CAPITOLO XLI.
Tragitto per andare a Suez. — Incaglio della nave. — Isola Omelmelek. — Continuazione del viaggio. — Accidenti diversi. — Sbarco d'Ali Bey a Gadiyahia. — Prosiegue il viaggio per terra.
Tutti i Daos che trovavansi nel porto dell'Iemboa riuniti a quelli che venivano da Djedda, ed a molti altri piccoli bastimenti carichi di caffè, misero alla vela il giorno 15 aprile a cinque ore e mezzo del mattino per passare a Suez. Il mio capitano comandava i Daos dell'Iemboa; ed un altro era alla testa di quelli di Djedda.
In tre giorni arrivammo nella rada detta el-maado, di dove vedeva al S. O. l'isoletta dell' Okàdi, ove mi salvai dopo il naufragio del mio tragitto per venire alla Mecca.
Domenica 19 aprile.
Sembra che la sorte non abbia voluto ch'io facessi verun viaggio marittimo senza qualche accidente. Alle quattro e mezzo del mattino la nostra flottiglia fece vela con un leggier vento che portava al nord, ed alle sei ore il mio dao incagliò sopra uno scoglio a fior d'acqua: la scossa fu terribile, e riportò una grande apertura all'estremità della chiglia dalla banda di prua, per cui entrava l'acqua in abbondanza. Come dipingere la confusione ed il turbamento dell'equipaggio in così fatale momento...! Io mi affretto di guadagnare la scialuppa seguito da due domestici e da pochi pellegrini portando meco le carte, ed i miei strumenti. Presenti a tanto disastro, tutti gli altri bastimenti ammainano le vele, e mandano le loro scialuppe in soccorso del dao naufragato.
Il nostro primo pensiero, tosto che fummo in sicuro, fu di presentarci per essere ricevuti in un altro bastimento. Il capitano cui prima mi rivolsi rifiutò di ricevermi. Ebbi lo stesso rifiuto da un secondo; e mi fu detto che in tali circostanze, sventuratamente troppo frequenti su questo mare, è stabilito di non ricevere a bordo alcun uomo, nè alcuna parte del carico del bastimento naufragato finchè il capitano non dia il segno di farlo, perchè la cosa interessa il suo onore. Fummo perciò costretti d'aspettare nella scialuppa la nostra sorte.
Convinto dell'impossibilità di fermare la quantità d'acqua ch'entrava nella stiva, il capitano diede il convenuto segnale, e tosto fummo ricevuti a bordo di un altro bastimento. Una parte del carico fu posto sopra le scialuppe per essere diviso sugli altri Dao; e così alleggerito si rimise a galla, e venne a dar fondo col rimanente della flotta tra un'isola vicina e la terra ove fu scaricato affatto, disalberato e messo alla banda. Questa scena non lasciava d'essere interessante. Figurinsi circa trecento marinai affatto nudi, quasi tutti neri in atto di tirare a terra il carcasso del Dao disalberato; in faccia tutta la flotta ancorata, coperta di pellegrini, e di passeggieri chiamati sui ponti dalla curiosità, mentre il capitano del naviglio naufragato, ancora stordito sedeva sul fianco, e gli altri capitani comandavano la manovra; aggiugnetevi il tumulto e le confuse grida che impedivano d'intendersi; tale fu lo spettacolo che durò tutta la notte. Gli Arabi Bedovini non mancano mai d'accorrere coi loro battelli in somiglianti occasioni, quantunque assai lontani dal luogo del naufragio, per vedere se loro riesce di rubare qualche cosa. Molti ci si avvicinarono in fatti, e se fossimo stati soli, non avrebbero lasciato di spogliarci. Io era accampato sull'isoletta, la maggior parte del carico e gli attrezzi erano al mio lato, i battelli de' Bedovini erano ancorati a poca distanza dalla mia tenda; ma noi li osservavamo. Intanto si rimpalmava la nave, talchè la mattina del 20 si potè metterla più al secco, e tutti i falegnami della flotta travagliavano intorno alla medesima.
La mattina del 19 morì un passaggiere sul bastimento, pellegrino Turco, e personaggio di considerazione. Morì pure un marinajo di uno de' vascelli del sultano Sceriffo della Mecca, e furono sepolti senza veruna ceremonia nell'isola.
Si continuò il lavoro ne' giorni 21 e 22, nel qual tempo presi la latitudine dell'isola che trovai di 25° 15′ 24″. Non potei fissarne la longitudine per causa delle nubi, ma credo potersi fissare a circa 33° 59′ 45″ dell'osservatorio di Parigi.
Nel dopo pranzo del 22 le riparazioni del dao erano terminate. Allora i capitani e gli equipaggi di tutta la flotta si riunirono per metterlo a galla, lo che si fece durante la notte in mezzo alle grida, ed al tumulto come quando fu tirato a terra. Si occuparono in appresso a ristabilire i cordaggi e le vele, ed a rimbarcare il carico.
Il 23 il Dao fu compiutamente ricaricato, ed avanti il cadere del sole era pronto per mettere alla vela.
Venerdì 24.
Di fatti alle cinque e mezzo del mattino dirigendosi all'O. con una serie intermittente di venti variabili e di calme si andò ad ancorarsi alle tre ore presso all'isola Schirbàna.
Sabato 25.
Essendo partiti alle quattro e mezzo del mattino con un vento contrario di nord assai forte, si corsero parecchie bordate fino alle tre, e si lasciò l'ancora all'isola Aleb.
I colpi di vento che avevamo provati, avevano cagionate delle avarie a tutti i bastimenti; il nostro ebbe l'antenna spezzata che fu rimessa all'istante; e molti altri dao furono tirati a terra per aggiustare le vele squarciate. Alle sette della sera, sette dao non erano ancora arrivati.
Qual mare è mai questo! esso è così sparso di scogli e di banchi, che la più leggiera negligenza basta per occasionare un naufragio; si deve ad ogni istante attraversare canali quasi impraticabili, ed ordinariamente con un terribil vento, che accresce il pericolo, e l'allarme.
Domenica 26.
Alle cinque ore del mattino eransi già levate le ancore, e si viaggiava all'ovest.
Alle sette ore un dao dello Sceriffo facendo una falsa manovra ci venne sopra, e toccò dolcemente il nostro bordo; ed in seguito rivolgendosi da poppa tornò sulla prora, e la urtò con tanta violenza che ne portò via una parte. Fortunatamente quest'accidente accadde in un mare aperto e tranquillo, senza di che poteva avere pessime conseguenze.
Lunedì 27.
Vedemmo finalmente ricomparire i daos, che il cattivo tempo aveva tenuti addietro: partimmo di conserva a sette ore del mattino, e si raggiunsero que' bastimenti che avevano jeri continuato il loro viaggio. Rinforzando un vento contrario d'ovest, e fattosi il mare assai grosso, fummo costretti di ancorarci alle undici e mezzo del mattino presso di un'isola riguardata come il punto di mezzo del tragitto da Suez a Djedda, nella quale si venera il sepolcro di un santo detto Scherih Morgob. Dal mio bastimento vedeva la cappella, che è metà casa e metà baracca. L'isola porta il nome del santo, e come tutte le altre isole Hamarà è bassa, piccola, formata di sabbia, e circondata di scogli. Trovai la latitudine di quest'isola di 25° 45′ 47″ N.
L'acqua della nostra nave era già affatto corrotta, onde per beverla era duopo chiudersi il naso, tanto era puzzolente; ma ad ogni modo lasciava dopo bevuta nella bocca e nella gola un odore insopportabile.
Martedì 28.
Alle cinque ore e mezzo del mattino la flotta veleggiava con leggier vento che ben tosto mancò. E dopo mezzo giorno essendosi rinforzato il vento contrario si camminò bastantemente per giugnere alle quattro ore a Vadjih sulla costa d'Arabia porto assai piccolo, ma bello molto e ben coperto dai venti, e l'unico di questa costa provveduto di buon'acqua. Quando arrivai vidi una specie di pubblico mercato per la vendita dell'acqua: erano molti Arabi, uomini e donne coi loro cammelli, e con una quantità d'otri pieni d'acqua posti a varj ordini sulla riva del mare.
Dietro buone osservazioni ho potuto fissare la latitudine settentrionale di Vadjih a 26° 13′ 39″.
Mercoledì 29.
I venti di nord-ovest non ci permettono di uscire dal porto, ove ci raggiungono tre dao rimasti addietro.
Giovedì 30 aprile.
Una violenta burrasca non permette l'arrivo degli altri daos. In questi giorni d'ancoraggio aveva raccolti diversi oggetti di storia naturale; ma accortisi delle mie ricerche gl'ignoranti miei compagni di viaggio, ed incominciando a sospettare intorno allo scopo di questa raccolta, fui forzato di sospenderla.
1 e 2 maggio.
Benchè arrivassero gli altri bastimenti, fummo costretti dal vento a restare ancorati.
Domenica 3 maggio.
Finalmente tutta la flotta uscì dal porto alle cinque del mattino dirigendoci a nord-ovest; ed a mezzo giorno diede fondo presso ad uno scoglio.
Lunedì 4.
Ad un'ora dopo mezza notte eravamo già in viaggio con vento variabile ed interrotto delle calme, finchè fissato all'O. N. O. ci portò felicemente al porto di Demeg, posto sulla costa d'Arabia. Avevamo fin allora generalmente tenuta la direzione di N. O. e sempre rasentando la costa; ma eravamo finalmente usciti da questo pericoloso labirinto di scogli, che per tanta parte della nostra navigazione minacciava d'inghiottirci ad ogn'istante.
Eccellente è il porto di Demeg e ben chiuso da montagne che sembraronmi argillose, e si prolungano fino alla riva. Nel circondario vedonsi alcune piante, ma in piccola quantità. Ci si presentarono diversi Arabi ed Arabe per venderci dei montoni. Mi fu detto che questa gente è assai cattiva.
Martedì 5 fino all'8.
Si spiegarono le vele allo spuntare dell'alba, ma rinfrescatosi il vento assai si dovette dar fondo alle otto del mattino a Libeyot. Poco viaggio si fece anche i giorni 6, 7 e 8, in cui si rimase all'ancora presso ad una delle isole Naamàn, ossia degli Struzzi.
Sabato 9.
Alle quattro del mattino eravamo in mare. Alla calma tenne dietro ben tosto un vento contrario assai violento, che durò fino alle sette ore, dividendosi allora in molti fili paralleli, di modo che la flotta che formava un solo ordine, presentava il più singolare spettacolo; mentre un dao correva a piene vele, un altro rimaneva in perfetta calma, e così alternativamente sopra tutta la linea, benchè la distanza di un dao all'altro non fosse maggiore di dugento tese. Questo fenomeno durò quasi un'ora, quando fissatosi il vento all'O. N. O. si potè continuare il cammino. Poco dopo mezzo giorno si gettò l'ancora a Kalaat-el-Moïlah che è un alcassaba quadrato, che può avere cento tese di fronte con una torre ad ogni angolo, ed un'altra in mezzo ad ogni lato.
Entro l' alcassaba trovasi un cattivo villaggio con una moschea. L'acqua de' suoi pozzi è assai buona; e vi si trovano alcuni bestiami, polli, e piantagioni di palme fuori delle mura, ma il restante del paese non è che un arido deserto. Gli abitanti possedono alcuni pezzi di cannone che attestano l'antica loro indipendenza. Al nostro arrivo spiegarono bandiera rossa, e la nostra flotta fece lo stesso. Alcuni di loro vennero a visitare il nostro capitano, ma gli uomini di poche scialuppe smontate per cercare acqua e comperare commestibili ottennero con difficoltà di essere ammessi entro le mura; tanto sono essi diffidenti! Lagnansi costoro de' Wehhabiti, che li sottomisero, come gli altri popoli dell'Arabia, al loro dominio, ed al pagamento della decima; ma non entrò verun impiegato nel villaggio.
In questo luogo la costa forma una vasta baja, in fondo alla quale è situato l' Alcassaba. Vedevansi in questo giorno le montagne dell'Affrica, che d'ordinario le carte geografiche pongono lontane ottanta miglia da Kalaat-el-Moïlah, quantunque assai più vicine. La latitudine di questo Alcassaba dovrebb'essere di 17° 10′ 51″.
Domenica 10.
Si partì alle due del mattino con leggier vento, seguito da una perfetta calma, durante la quale avendo fatte nuove osservazioni che confermavano quella di jeri, non potei più dubitare dell'errore, di più di mezzo grado nella posizione che le carte danno a Kalaat-el-Moïlah. Osservai inoltre che le montagne vedute il giorno innanzi non appartengono altrimenti all'Affrica, come indicano le carte, ma alla terra di Tor, e fanno parte del capo Mohamed nell'Arabia.
L'isola Schram, ove ci trovavamo ancorati è posta all'imboccare del Bahar el-Aakaba, ossia seno del mar Rosso, che s'interna nell'Arabia.
Lunedì 11 e Martedì 12.
Si ebbero due burrasche terribili che danneggiavano il dao, e non ci permisero di oltrepassare la rada di Ben-Hhaddem, di dove vidi effettivamente le alte montagne dell'Affrica.
Mercoldì 13.
Questo viaggio incominciava a diventare insopportabile. Il 13 morirono quattro uomini sopra un dao dello Sceriffo, un altro sul nostro, e ve ne avevano molti altri gravemente ammalati, che rifiutavansi di prendere verun medicamento in conseguenza del loro sistema del fatalismo, di cui erano stati vittima i loro compagni. Medicava per altro alcuni altri ammalati, e due feriti; cioè il mio capitano, che aveva una forte contusione ad una gamba, ed il capitano d'un dao gravemente ferito sotto la pianta d'un piede. Queste due ferite si avvicinavano alla loro guarigione, ma la mia piccola spezieria era quasi esausta.
Giovedì 14.
Si mise alla vela alle otto ore del mattino a fronte di un vento assai forte, e di un mare sparso di scogli che lascia appena un angusto passaggio alle navi, ed arrivammo finalmente in un bel porto detto Gadiyahia.
Venerdì 15.
Una terribile burrasca ci forzò a restare ancorati. Fin da jeri il mio capitano mi aveva esibito di procurarmi quattro cammelli, e tutti i mezzi di sicurezza per il mio viaggio, qualora avessi preferito di andare a Suez per terra. Veramente avrei amato di visitare Djebel-Tor, Tour Sinina, ossia Monte Sinai; ma non potendo più reggere alle fatiche di così aspra navigazione, mi disposi a partire la stessa sera, montato sopra un cammello, scortato da due miei domestici, da un cuciniere e da uno schiavo, con quattro cammelli; e lasciando nel bastimento il resto delle mie genti, e dell'equipaggio, diedi allegramente l'ultimo addio al mare.
CAPITOLO XLII.
Viaggio a Suez. — Disputa degli Arabi. — El-Vadi-Tor. — El Hammam Firaoun. — El-Wad Corondel. — Sorgenti di Mosè. — Arrivo a Suez. — Petrificazioni del mar Rosso. — Abbassamento del suo livello. — Corrispondenze su questo mare. — Viaggio al Cairo.
Lo stesso giorno, 15 maggio, partii due ore dopo mezzogiorno montato sopra un magnifico cammello ornato di funicelle, di fiocchi e di piccole conchiglie, e seguito dalle mie genti montate anch'esse sopra i loro cammelli.
Mezz'ora dopo raggiunsi una carovana, alla quale mi associai, e dopo aver mangiato insieme, continuammo il cammino nella stessa direzione facendo alto alle due della notte per prendere riposo.
Sabato 16.
La carovana composta di quaranta cammelli, di sessanta uomini e di tre donne, si pose in cammino alle cinque ore del mattino. È cosa notabile ch'io non feci verun viaggio coi musulmani per terra o per mare senza che vi fossero donne: vero è che allora la circospezione richiede che si riguardino come fantasmi, o come carichi posti sopra un cammello, o in un angolo del bastimento. La carovana era formata di turchi scacciati dalla Mecca, e da Djedda, e di pellegrini parte a piedi e parte a cavallo.
Alle dieci ore si fece alto in un eremitaggio quasi ruinato, dedicato ad un santo detto Sidi-el-Akili, il di cui sarcofago sussisteva ancora perchè i Wehhabiti non erano colà arrivati. Il freddo era piccante assai, ed incomodava molto un gagliardo vento di N. O. da cui vedevasi il mare agitatissimo. Si ripartì alle due, e si fece alto presso alcune case abbandonate del porto di Tor, ove fui testimonio della più comica scena che possa immaginarsi. Gli Arabi cammellieri dovevano continuare la loro lite sul riparto del carico dei cammelli, perchè è tra loro generalmente convenuto, che all'istante dello sbarco ognuno carichi tutto quanto può prendere: fin qui non parlano, ma appena sono giunti alla prima stazione hanno la libertà di contrattare insieme finchè arrivino ad un gruppo di palme, ove la lite deve terminarsi: allora tutto rientra nel buon ordine, ed ognuno deve accontentarsi di ciò che la sorte, il caso, o l'effetto della disputa gli ha procurato.
Fino dal principio del viaggio aveva osservato che alcuni cammellieri borbottavano tra di loro; ed avendone chiesto il motivo mi fu risposto, che la querela doveva terminarsi nella città di Tor.
Colà giunti fanno scendere a terra tutta la gente della carovana, e cominciano tra di loro la più accanita lite. Voleva interpormi per metter pace, ma mi fu risposto che era la costituzione. Lasciai dunque che continuassero la loro disputa, e li vidi mettersi in giro bocconi per terra, levarsi, e sempre parlando rimettersi nella prima positura in distanza di dieci passi, finchè finalmente chiamarono un vecchio per decidere le loro differenze. Il vecchio arriva e giudica. Gli uni si accontentano della sua decisione, gli altri chiamano un altro vecchio, e si rinnova la medesima scena. Scaricano alcuni cammelli per caricarne alcuni altri, e la disputa continua nello stesso modo, e colle grida di prima. Finalmente si rimonta a cavallo, e la carovana incomincia a camminare; ma la rissa non cessa: gli uni ritengono i cammelli; altri corrono per giugnere più presto al luogo in cui deve cessare la disputa. Talvolta fanno far alto a tutta la carovana stringendosi in cerchio in mezzo alla strada, riscaldandosi e gridando a perdita di fiato. Cammin facendo cambiano ancora alcuni carichi, e si prendono pel collare in atto di venire alle mani. Quando arrivati al gruppo delle palme si grida ad una voce Hhalòs! Hhalòs! (basta, basta). Tutti rimangono immobili come fittoni, e la carovana riprende pacificamente la strada. Io non poteva ritenere le risa; ma mi si diceva sempre, è la costituzione. Applaudii alla semplicità di queste genti, che davvero non hanno la fierezza degli Arabi dell'Hedjaz.
Si proseguì il viaggio fino alla borgata di Sadi Tor, distante una lega da Tor; ed io presi alloggio in una di quelle case.
Gli abitanti di Tor abbandonarono la città ed il porto, perchè frequentemente vessati e maltrattati dagli equipaggi dei daos, che vi davano fondo: e perciò le case rimaste vuote vanno cadendo in ruina, non servendo che di ricovero ai pescatori.
Gli abitanti che trasportarono le loro famiglie ad el-Wadi-Tor, vi si trovano assai meglio, perchè quantunque tal luogo sia posto in fondo ad una valle, vi è acqua in abbondanza ed a non molta profondità. Tutte le case hanno un largo pozzo che serve ad innaffiare i giardini, ove abbondano le palme, i fiori, i legumi ed i frutti.
Domenica 17.
Si rimase tutto il giorno in questo villaggio composto di trenta famiglie greche, e di un minor numero di musulmane. Benchè così poco popolato occupa un grande spazio di terreno pei giardini uniti ad ogni casa, e circondati di muri alti sei piedi.
Io era alloggiato in casa di un musulmano, nel cui giardino trovai alcune belle piante. Ricevetti la visita del curato greco, vecchio venerabile, dipendente dall'Arcivescovo del monte Sinai, da cui dipendono pure tutti i Greci di questa parte dell'Arabia. Quando andai a rendergli la visita mi fece vedere una Biblia in arabo ed in latino, che suppongo stampata in Venezia, benchè mancante de' primi fogli, ne' quali avrebbe dovuto trovarsi la data. Tutti i preti di questo paese dicono la messa, e le altre preghiere in arabo. Il curato mi diede il Pater scritto da lui medesimo in questo idioma.
L'arcivescovo del monte Sinaï è indipendente. I greci hanno quattro patriarchi, di Costantinopoli, di Alessandria, di Gerusalemme, di Antiochia. Hanno inoltre quattro arcivescovi, cioè quello di Russia, di Angora, di Cipro, e del monte Sinaï. Questi otto dignitarj indipendenti gli uni dagli altri, hanno sotto di loro tutti i ministri e tutti gl'individui del rito greco.
Il Papasso, o curato, mi disse ch'ebbe nelle sue mani tre disegni del monte Sinaï, che donò all'ammiraglio Sir Home Popham, e a due altri Inglesi.
Lunedì 18.
Il passaggio del sole osservato questo giorno, ed osservato anche il giorno precedente mi diede la latitudine settentrionale di 28° 18′ 51″. Tor trovasi distante tre miglia al sud-est, ed io conto sulla mia longitudine cronometrica 51° 12′ 15″ dell'osservatorio di Parigi, osservato nel mio primo viaggio. Così la posizione geografica dei punti principali della Arabia da Suez fino alla Mecca resta esattamente determinata.
Gli abitanti di Tor vestono come quelli di Hedjaz: ma se ne vedono molti coperti di un caftan di drappo, e di un turbante. I cristiani lo portano turchino; ed alcuni costumano una grande camicia dello stesso colore. Non vidi alcuna donna, ma soltanto qualche brutto fanciullo, sudicio e ributtante.
Il curato cristiano porta una veste nera, una berretta dello stesso colore in figura di cono troncato e rovesciato, ed un fazzoletto turchino o nero. L'attuale Papasso, detto Bàba Cheràsimus Sinaiti, è un uomo di cinquantott'anni, con venerabile barba bianca come la neve: è assai intelligente, e di ottimo carattere. La sua influenza non si ristringe sui soli cristiani, ma anco sugli arabi del circondario, per lo che gl'individui delle due religioni vivono in buona unione. Egli si lagna della mancanza delle mercanzie francesi cagionata dalle guerre d'Europa. Il paese scarseggia di carni, ed abbonda di pesci. I datteri sono piccoli, ma buoni, di cui si fa pane; ed i cristiani ne traggono un eccellente aceto.
Il Papasso, che ha viaggiato in molte parti della Turchia, mi assicurò, che al monte Sinaï, non molto lontano da Tor, trovasi molt'acqua ed assai buona, come pure molti giardini ricchi di aranci, limoni, peri, e di altri alberi fruttiferi.
L'arcivescovo del monte Sinaï detto Constanzio era allora in Egitto, ove stava ammassando denaro, perchè non poteva prendere possesso della sua sede senza regalare cinquantamila franchi agli arabi del vicinato.
Dopo mezzo giorno vidi tutta la nostra flotta passare con piccoli venti in faccia a Tor; di dove io partii un'ora avanti il tramontare del sole, e si fece alto per riposarci alle dieci ore.
Martedì 19.
Alle cinque del mattino marciando nella direzione di N. ¼ N. O. sopra un terreno sempre arenoso, fummo sorpresi da un caldo insoffribile. Invano già da qualche tempo sentivamo il bisogno di fermarci; che non si trovavano alberi, nè luoghi ombrosi per salvarci dagli ardenti raggi del sole. Scoprimmo alla fine alcune basse macchie, all'ombra delle quali si fece alto alle dieci del mattino. Bentosto fu alzata la mia tenda, ed io mi affrettai di entrarvi per ispogliarmi degli abiti che mi soffocavano. Questa diversità di temperatura così contraria all'acuto freddo di sabato dipende unicamente dal vento dominante.
Essendosi in sul mezzo giorno levato un venticello fresco, si riprese il cammino, ed alle sei della sera la carovana si fermò nella valle di Fàran, Wadi Fàran, ove tanti secoli prima si fermavano pure i figliuoli di Giacobbe.
La valle di Faran è generalmente calcarea, ed il suo suolo assai disuguale. È chiusa da alte montagne, nelle di cui roccie vidi molte belle breccie argillose, miste di ciottoli antichi e moderni. Vi abbonda il genere selcioso, e si trova molta pietra focaja. La vegetazione si riduce a pochi arbusti di abeti.
In questo luogo fui testimonio di una trista scena. Circa quaranta poveri pellegrini a piedi trovavansi senz'acqua. Piangevano tormentati dal bisogno della sete, ma niuno li soccorreva, perchè eravamo in un deserto, che ci obbligava a conservare l'acqua come un tesoro. Un pellegrino a cavallo che aveva terminata la sua acqua ne acquistò una mezza pinta all'incirca per cinque franchi. Io diedi da bevere ad alcuni di quegl'infelici, ma come mai soddisfare al bisogno di tutti?... Mio malgrado dovetti appigliarmi al partito di chiudere gli occhi e le orecchie, per non trovarmi io ed i miei domestici vittima in breve della mia compassione.
Si continuò a camminare lungo la valle, il di cui dolce pendio ci condusse in poco tempo alla riva del mare; di dove piegando ancora a N. O. e N. N. O. mi fermai per riposarmi alle undici ore sulla spiaggia del mare.
Mercoledì 20.
Alle due e mezzo del mattino la carovana era già in moto, ed io ne affrettava la marcia per arrivare più presto ad una fonte. Giunti poco prima di mezzodì ad Almarra lontano due miglia dal porto di questo nome, mi fermai, mentre alcuni della carovana si staccarono con tutti i cammelli per cercare l'acqua nelle montagne lontane due leghe dalla banda di levante.
Il passaggio del sole mi diede per latitudine settentrionale 29° 1′ 41″. La longitudine del Capo osservata nel mio precedente passaggio fu di 36° 43′ 25″. Questo capo forma l'estremità meridionale del territorio e del porto Hamam Firaun. Il paese è coperto di piccolissimi abeti, al cui rezzo si ristorano i viaggiatori. Tutto questo territorio fino al burrone detto Wadi Corondel è conosciuto sotto il nome di bagno di Faraone; nome venutogli da una sorgente d'acqua calda minerale sulfurea, ove vengono a bagnarsi alcuni ammalati.
Alle nove della sera si camminò lungo tratto sulla spiaggia; poi piegando al N. ed al N. N. O. si lasciò a mezza notte la spiaggia per entrare in uno stretto burrone in mezzo a montagne argillose tagliate a picco, come un muro sparso di frequenti spaccature bizzarramente disposte, che sembrano un muro di città mezzo ruinato. A mezza notte si fece alto.
Giovedì 21.
Si continuò il viaggio per lo stesso burrone, che ha l'aspetto d'una grande spaccatura cagionata dal tremuoto. Le montagne argillose sono composte di strati perfettamente orizzontali, e talvolta obliqui, dai dieci ai quindici gradi dal nord al sud.
Alle sette ore si cominciarono a vedere piante e palme selvaggie in fondo alla valle indizio sicuro di vicine acque. Di fatti si arrivò ben tosto ad una piccola sorgente d'acqua dolce, la prima che si trovi lungo questa strada dopo Tor.
Alle nove del mattino eravamo passati presso la montagna dell'acqua termale che dà il nome a tutto il distretto. Nel luogo in cui ci eravamo fermati all'ombra di molte belle palme selvaggie, eravi un pozzo di acqua ma non troppo buona.
Si camminò da un'ora dopo mezzo giorno fino alle tre, ed allora si fece alto presso al torrente Wadi Corondel. Mezz'ora prima aveva scoperto il mare e la costa d'Affrica assai vicina.
Il Wadi Corondel è un torrente asciutto che ha una fonte d'acqua assai buona, ed è coperto di abeti e di palme. Feci accampare la carovana fuori del suo letto, perchè gli arabi dicono che sonovi molti rettili velenosi; ma a fronte di tutte le diligenze da me praticate nelle macchie, nelle cavità, e dovunque sperava di poterne trovare, non vidi che moltissime grosse formiche, ed un piccolo insetto, di cui non seppi sovvenirmi il nome, ma non malefico.
Cammin facendo aveva trovato una lucertola lunga otto pollici, perfettamente bianca. Questo animale, un corvo, due piccoli uccelli, alcune formiche e mosche furono i soli esseri viventi da me veduti in quell'arido deserto.
Alle nove della sera si proseguì il viaggio nella direzione di N. N. O. in mezzo a basse montagne, e si fece alto alle undici ore per passarvi la notte che fu freddissima.
Venerdì 22.
Alle cinque ore andando sempre a N. N. O. scesi alcune collinette, di dove giunsi in una vasta pianura, ove si riposò fino a mezz'ora dopo mezzo giorno. Parmi che questa pianura affatto arida, e le colline attraversate prima chiaminsi dai cristiani: il deserto dello Smarrimento, o deserto di Faran. Alle undici della sera si arrivò ad un burrone ove si fece alto.
In sul far del giorno, svegliandoci, eravamo bagnati da un'abbondante rugiada; ed alle cinque ore si partì alla volta di Suez, che già vedevasi a molta distanza. Giunto alle sei ore e tre quarti presso ad Aàïon Moussa, ossia sorgenti di Mosè, mi fermai quasi due ore. Altro non sono queste sorgenti che poche buche sopra una sommità contenenti un'acqua verdognola e fetida; ridotta senza dubbio in tale stato dal lavarvisi gli uomini, e dall'entrarvi che fanno liberamente le bestie.
Durante la campagna d'Egitto i Francesi spinsero fin qui le loro scorrerie, e suppongo che i dotti che trovavansi in quella spedizione avranno data una circostanziata descrizione di queste sorgenti. Avendo ripresa la strada alle otto ore, e giunti sulla spiaggia in faccia a Suez, entrammo in un battello per attraversare quel braccio di mare che può avere poco più d'un miglio di larghezza, e con sì poco fondo, che il battello rimase lungo tempo incagliato in mezzo al tragitto: finalmente sbarcammo a Suez alle undici ore. Poco più alto trovasi un passaggio, ove i cavalli ed i cammelli possono sempre passare.
La nostra flotta aveva dato fondo nel porto.
Dietro un gran numero di osservazioni e di confronti per fissare il cammino della carovana in un tempo determinato, dopo aver calcolata la lunghezza ed il numero dei passi, e confrontate le ore di cammino colla diversità di latitudine osservata in due punti; finalmente avuto riguardo alla obliquità delle linee scorse, trovo per un termine medio che la carovana corse ordinariamente 13,392 piedi parigini, o 2,232 tese per ora. Siccome la strada di Tor a Suez segue quasi costantemente la linea del meridiano, questi confronti ed i loro risultati sono assai più esatti che tutti i calcoli che avessi potuto fare sopra linee più oblique o più lontane dal meridiano.
Se per una parte la natura è quasi morta per la vegetazione sulle coste del mar Rosso da me visitato, è invece attivissima e feconda di fossili. La somma abbondanza dei molluschi, dei polipi, e delli zoofiti somministra la materia delle concrezioni calcaree, e la poca profondità di questo mare, unita alla temperatura elevata dell'atmosfera, contribuisce in modo ad accelerare queste operazioni della natura, che per l'osservatore che vuole studiare e conoscere a fondo i fenomeni della petrificazione, io credo che non siavi miglior gabinetto al mondo delle coste del mar Rosso.
Benchè le circostanze mi vietassero di fare continue osservazioni, la natura travaglia qui in così visibile maniera, ch'io credo d'averla talvolta colta in sul fatto. Ho raccolte delle conchiglie nell'istante su cui stavano per conglutinarsi colla massa pietrosa che le circondava, altra ne raccolsi impietrita per metà. Ma ciò che è più interessante, è un banco di pietra calcarea che formasi attualmente nella parte orientale dell'isola Om-lmelek.
Qui è dove ho potuto osservare tutte le gradazioni dell'impietrimento dall'arena, ossia attritus pulverulentus delle conchiglie fino alla roccia compatta; e ciò che trovai di più maraviglioso in questa scala d'impietrimento, è che il detritus delle conchiglie di già amalgamato e diventato concreto, benchè ancora friabile, e di facile spezzatura, trovasi impregnato d'una specie d' olio volatile, che ugne le dita toccandolo: ma quest'olio si volatilizza e sfuma in poco tempo. Nel solo spazio di sei in sette piedi trovansi tutte le gradazioni dell'impietrimento; cioè l'arena incoerente, l'arena convertita in pasta molle, la parte che comincia ad indurirsi, la pietra friabile, la pietra molle e la pietra dura. Questa gradazione è ugualmente sensibile sulle spiaggie del mare. Colsi alcuni esemplari di tutte le curiosità: ma quanto mi pesa lo staccarmi da un luogo così interessante senza poter fare una folla d'osservazioni, che forse sarebbero feconde d'incalcolabili risultati pei progressi della scienza! Io raccomando lo studio di questo banco ai viaggiatori che dopo di me visiteranno queste contrade.
Questa specie di pietra che è assai bianca forma strati d'ardesia. Le case e le mura di Djedda, e dell'Iemboa sono formate della stessa pietra che trovasi abbondante su tutta la costa, ma particolarmente in quel laberinto delle isole e scogli, chiamate isole Hamara. Questa è la più interessante parte del mar Rosso sotto i rapporti della storia naturale.
Io sospetto una diversità di livello nel mar Rosso che tende progressivamente al suo disseccamento. Si è creduto apocrifo o erroneo il livello fatto dagli antichi geografi, che trovarono il mar Rosso più elevato che quello del Mediterraneo: ma io inclino a credere che tale veramente fosse la bisogna negli antichi tempi, e che al presente il mar Rosso trovisi di già al livello del Mediterraneo, e fors'anche più basso.
La rapida progressione con cui il mar Rosso si ritira, mentre il Mediterraneo sembra essere stazionario, o retrogradare più a rilento, mi ha già da lungo tempo fatto credere a questa diversità di livello tra i due mari, indipendentemente dalla differenza più generale dovuta all'accumulazione delle acque in certi punti; lo che fa che la superficie dei due mari forse non coincide con quella che si suppone alla sferoidità terrestre. Ma questo non è il luogo di sviluppare una questione che ci porterebbe troppo lontano, e che tratteremo di proposito in altro luogo. Qui ci limiteremo ad indicare soltanto alcune più notabili osservazioni.
Nel luogo detto el-Wadjik sopra la costa d'Arabia, è un banco, la di cui superiore superficie trovasi elevata ventiquattro in trenta piedi sopra l'attuale superficie del mar Rosso; la sua larghezza media è di dugento tese sopra alcune migliaja di tese di lunghezza, lungo le sinuosità della costa. Questo banco è unito alla terra ferma, che è più elevata; la sua superficie è perfettamente piana; dalla parte dell'acqua è tagliato perpendicolarmente in maniera che rappresenta assai bene la piattaforma di una fortezza.
Dopo avere esaminati li zoofiti che compongono questo banco, parvemi ch'essi fossero di recentissima formazione relativamente alle grandi epoche della natura: egli è pure evidente che questo banco si formò sott'acqua; e siccome io non conosco sulle rive del Mediterraneo un monumento di così recente ritirata, ne conchiudo che all'epoca della formazione di questo banco, la superficie del mar Rosso forse si trovava più elevata di quella del Mediterraneo, mentre attualmente trovasi allo stesso livello, e fors'anche più bassa.
La forma del mar Rosso lunga e stretta tagliata da tanti banchi, scogli ed isole, rende necessariamente più difficile la propagazione delle alte maree, come fu giudiziosamente osservato dal viaggiatore Niebuhr. Il vento quasi intermittente dal N. e dal N. E. per nove mesi dell'anno, deve contribuire alla sortita delle acque in tempo della bassa marea, mentre è anch'esso un ostacolo alla propagazione delle alte maree. Questa propagazione si fa ogni giorno più difficile in ragione dell'impietrimento attivo che sembra dover colmare il bacino del mar Rosso, colla rapida formazione di nuovi banchi, e di nuove isole, ostacoli novelli aggiunti agli altri che già opponevansi alla libera circolazione delle acque. L'evaporazione del mar Rosso dev'essere assai più forte che nel Mediterraneo, e per la diversa temperatura e latitudine, e pei deserti che lo circondano da ogni lato, e che seccando l'aria la rendono più atta ad assorbire i vapori. Dall'altra parte il mar Rosso non riceve, per così dire, una goccia d'acqua dalle terre vicine, perchè non sorte alcun fiume dalle coste dell'Arabia e dell'Affrica, tranne alcuni torrenti nelle stagioni piovose. Quindi può dirsi che nel corso dell'anno il mar Rosso perde una maggiore quantità d'acqua di quella che riceve dalle maree dell'Oceano. Altronde le più gagliarde correnti portano d'ordinario a S. E., cioè verso l'imboccatura di Babelmandel. A queste cause si aggiugne la differenza della forza d'attrazione planetaria in ragione del movimento dell'asse dell'ecclittica, e della situazione dell'orbita della terra, che è nel suo perièlio nel solstizio d'inverno; lo che deve produrre un ammassamento di acqua in certi luoghi. Finalmente devonsi calcolare molte circostanze per la soluzione del problema, che procureremo di svolgere in un'apposita opera.
Gli arabi custodiscono gelosamente come un segreto la navigazione del mar Rosso; e temendo che gli Europei non s'invaghiscano di appropriarsela, fuggono, per quanto è loro possibile, di avere con essi diretta comunicazione, onde non si avvedano del lucroso commercio di questo mare. Questo timore è la principalissima cagione delle avarìe che si fanno soffrire agli Europei sulle coste dell'Arabia. Anche un capitano inglese dipendente dal console Petrucci, che pure aveva l'intima confidenza del sultano Sceriffo, non potè sottrarsi che colla forza ai cattivi trattamenti degli Arabi.
Io sono di sentimento che le nazioni europee che tengono stabilimenti nel Mare Indiano potrebbero aprirsi pel Mar Rosso una linea di comunicazione, che non sarebbe difficile ad ordinarsi per mezzo di agenti stabili a Moca, a Djedda, a Suez, ed al Cairo.
Due dì dopo il mio arrivo a Suez una carovana partita pel Cairo fu attaccata sulla strada dai Badovini. La carovana si difese; ed ebbe due uomini feriti, e sei cammelli presi dagli assassini. Noi aspettavamo la venuta del gran Scheik Dìidid, che doveva arrivare del Cairo con un corpo di truppe per iscortare la nostra carovana incaricata di trasportare al Cairo il carico della flottiglia. Era prevenuto che col di lui mezzo mi sarebbero stati spediti alcuni cavalli, ma seppi in appresso ch'era partito per l'alto Egitto onde ridurre al dovere alcuni Arnauti ribellatisi al pascià Mehemed Alì.
Essendo giunta a Suez un'altra carovana di sette in ottocento uomini, ed altrettanti cammelli compresi i soldati e pellegrini turchi di Djedda, risolvemmo di partire insieme, non però senza qualche sospetto ancora, perchè tale unione presentava forze inferiori alla presente situazione del paese. I capi ed altri impiegati di Medina, ed alcuni grossi negozianti di Djedda e del Cairo, dovevano pure ingrossare questa carovana.
Viaggio al Cairo.
Il giovedì, 11 giugno, alle due ore e tre quarti dopo mezzo giorno uscii di Suez per unirmi alla carovana ch'erasi accampata presso Bir-Suez ( pozzo di Suez ), cinque quarti di ora distante dalla città. È questo un parallelogramo, i cui maggiori lati possono avere quindici piedi, e dieci in undici i minori, ed ha diciotto piedi di profondità. L'acqua è alquanto salsa, ma la sola che esista in questo luogo. I cammellieri ne attingono l'acqua con secchj di cuojo per darne a' cammelli; ma gli uomini della carovana avevano fatte le loro provviste a Suez. Il tempo era sereno, malgrado un gagliardo assai incomodo vento settentrionale. In sul tramontare del sole il termometro nella mia tenda segnava 37 gradi di Reaumur. È questo paese una grande pianura terminata in Affrica al S. O. dalle montagne Diebel Attaka, ed in Asia da quelle assai lontane all'E. dall'Arabia.
Venerdì 12.
Eravi nella carovana un santo Marabotto, che portava uno stendardo giallo e rosso somigliante ad una bandiera spagnuola, ma tutto stracciato. Consumò costui tutta la notte invocando a tutta voce il nome di Dio, e del Profeta, facendo preghiere, e correndo da un canto all'altro del campo, di modo che niuno potè dormire.
Si partì alle quattro e mezzo del mattino; alle sette si giunse al vecchio Kalaat-Ageroud fortezza abbandonata, e di là, avanzando nella direzione di O., si entrò un'ora dopo in una gola, che è il più pericoloso passo di questo deserto. La carovana precedente era stata attaccata in questo luogo, e nel mio primo viaggio vi aveva veduti molti Bedovini. Per passare queste strette mi posi in testa alla carovana colla mia guardia di dieci soldati turchi, sostenuti da una cinquantina di soldati della stessa nazione, e da pochi arabi armati: altri soldati senz'ordine determinato proteggevano i fianchi della carovana, che occupava una linea di oltre cinquecento tese; e due Agà turchi col rimanente della truppa coprivano la retroguardia. Io passai senza ostacolo colla maggior parte della carovana, ma quando era per uscire dalla gola udii delle grida sul di dietro. Accorsi colla spada alla mano, conducendo le mie truppe in sul punto attaccato; e conobbi che i Bedovini eransi presentati tentando di tagliare la coda della carovana, e che eransi ritirati dopo alcuni colpi di fucile, essendosi lasciati imporre dalla nostra risolutezza: non erasi avvicinato che un corpo di trenta uomini, ma ne vidi in distanza col cannocchiale altri sessanta all'incirca.
Alle cinque ore ed un quarto facemmo alto in un'aperta pianura affatto deserta. Si soffrì tutto il giorno un caldo che toglieva il respiro, ed in sul tardi alcune vampe di vento, che ci obbligavano di bevere ad ogni istante, di modo che taluno cominciava a scarseggiare d'acqua, ed io stesso non era tranquillo per l'indomani se non diminuiva il calore. Il luogo in cui eravamo accampati chiamasi Dar-el-Hhamara, posto a mezza strada da Suez al Cairo.
Questo tratto di paese di Suez ad Hhamara è quasi affatto sterile ed arenoso: vi si trovano poche piante senza frutta e senza fiori, e sulle rupi pochi cespugli spinosi senza foglie. Il termometro di Reaumur alle otto e mezzo della sera segnava 38° 6′. Molti passeggieri partirono questa notte coi loro dromedarj prendendo una strada traversa per giugnere al Cairo prima della carovana.
Sabato 13.
Il timore di mancar d'acqua ci fece partire alle due ore e mezzo del mattino: e dopo aver attraversate alcune colline si sboccò alle dieci e mezzo in un'altra pianura. Il caldo faceva grandissimo; e per un'ora continua provai il singolare fenomeno di un vento d'O. alternativamente freddo e caldo. Se questo vento avesse soffiato leggermente e per intervalli non sarei rimasto sorpreso, ma era un vento uguale ed intermittente con alternative di freddo e di caldo così rapide e violenti, che spesso nello spazio di un minuto ne faceva provare tre o quattro volte la vicenda del caldo ardente, e del freddo più acuto. Come mai il calorico non equilibravasi colla massa dell'aere ambiente?
Allora coi miei domestici e le mie guardie montate sui dromedarj passai avanti alla carovana, e giunsi due ore prima ad Alberca, detta dai Turchi Birked el Gad (pozzo dei pellegrini). È questi un villaggio di circa cento famiglie posto in così deliziosa situazione, che a chi sorte dal deserto sembra più bello di Versailles, o d'Aranquez. Le inondazioni del Nilo vi arrivano per un canale. Il villaggio occupa la sommità d'una collina corrosa al piede dalle acque; e la collina e la campagna sono coperte di palme simmetricamente disposte; e la salita al villaggio forma uno spazioso ed ameno passeggio rinfrescato dalle acque, ed ombreggiato da alte palme e da altre specie di piante. A piedi del colle, entro una moschea mezzo rovinata, trovasi una bella fonte. In somma Alberca è un luogo di delizie in mezzo ad un vasto deserto di sterile arena, lontano tre ore dal Cairo. Ebbi colà una gagliarda prova dell'apatia de' Turchi: la carovana era accampata presso a questo delizioso giardino dopo un viaggio che doveva farle ardentemente desiderare un così fatto godimento; pure io solo uscii dalla tenda per approfittarne. Il termometro alle cinque e mezzo della sera segnava 42° di Reaumur, ed alle sette ore 37° 3′.
Le mie genti dopo tramontato il sole si sollazzarono tirando de' colpi di fucile.
Domenica 14 giugno.
Si partì al levar del sole; ed io non tardai a trovare gli amici usciti di città per incontrarmi. A due terzi della strada vidi Seïd Omar, capo degli sceriffi, primo personaggio del Cairo, accompagnato da molti grandi e dai dottori della città con venti Mamelucchi a cavallo, altrettanti soldati Arnauti a piedi, domestici ed Arabi armati. Ci abbracciammo con vera effusione di cuore, indi mi presentò un bellissimo cavallo bardato. Dopo esserci riposati all'ombra e preso il caffè, fui condotto a visitare un eremitaggio posto accanto al luogo in cui eravamo. Rimontati poi a cavallo si prese la strada del Cairo, accompagnati da Muley Selima, fratello dell'Imperatore di Marocco, ch'era pur venuto ad incontrarmi.
Strada facendo i Mamelucchi e gli Arabi a cavallo fecero delle corse, delle scaramuccie, e consumarono molta polvere in segno d'allegrezza; lo stesso venerabile vecchio Seïd Omar si compiacque di correre un Djerid, mettendo grida di gioja per celebrare il felice ritorno di Seïd Ali Bey.
Entrammo in città per la porta Bab-el-Fatag, che è di felice auspicio quando si torna dalla Mecca. Seïd-Omar mi condusse come in trionfo in mezzo ad affollato popolo che andava sempre crescendo per le strade e piazze principali del Cairo.
Finalmente arrivammo alla sua casa ove ci aspettava un magnifico pranzo, dopo il quale fui condotto nel mio appartamento. Seïd Omar mi mandò un altro cavallo ancor più bello del primo: ed in tal modo terminò questa festa ed il mio viaggio della Mecca. A Dio sia la lode e la gloria.
CAPITOLO XLIII.
Viaggio a Gerusalemme. — Belbèis. — Gaza. — Saffa. — Ramlè. — Scena dei due vecchi. — Ingresso in Gerusalemme.
Ripigliai il mio alloggio in casa dello scheih el Metlouti; ossia capo de' Mogrebini, ed in pari tempo Scheih della grande Moschea el-Azahar.
Gli abitanti del Cairo erano alquanto inquieti per lo sbarco che gli Inglesi avevano fatto ad Alessandria, e pei due attacchi di Rosetta, nei quali gli assalitori erano rimasti soccombenti, ed il Cairo era pieno di prigionieri inglesi. Rimasi in questa città diciannove giorni festeggiato da tutti gli amici. Finalmente il venerdì mattina 3 luglio 1807 presi la strada di Gerusalemme.
Ebbi partendo lo stesso accompagnamento del giorno che entrai in città fin presso ad Alberca ov'erasi radunata la carovana.
Sabato 4.
Erano le due e mezzo del mattino quando la carovana composta di due cento cammelli si mise in cammino verso il N. ¼ N. E. sopra un suolo alternativamente di arena sciolta, e di ciottoli. Il paese prima piano, è poi tagliato da piccole colline. A mano a manca vedevasi molto lontano una linea d'alberi che fiancheggiano il canale di Belbèis, ove arrivammo alle dieci ore del mattino. La carovana si accampò presso alla città, ed io mi posi in un eremitaggio dedicato ad un santo detto Sidi Saadoun.
Il Capidgi Baschi apportatore del Firmano con cui il Sultano di Costantinopoli riconfermava Mehemed Ali Pascià nel suo governo di Egitto, faceva parte della carovana. Mi fu detto che il Pascià gli aveva in tale occasione regalati cinquanta mila franchi. Eranvi inoltre molti altri personaggi turchi.
Belbèis è una vasta città fornita di molte moschee. Un canale del Nilo la provvede abbondantemente di acque in tempo dell'escrescenza, e mantiene rigogliosi un infinito numero di alberi e di palme. Vi si trovano ottimi poponi ed angurie, ma non legumi. La città ed il territorio sono governati da un Kiaschet, ossia ufficiale dal Pascià del Cairo.
Domenica 5.
Ad un'ora dopo mezzo giorno camminavamo in mezzo ad un deserto nella precisa direzione di levante, esposti ad un vento infiammato, e percossi dai cocenti raggi del sole. Alle sei ed un quarto si fece alto in mezzo a questa vasta campagna ove non trovasi alcuna traccia di esseri organizzati animali o vegetabili. Poco prima di arrivare al luogo dell'accampamento il mio cavallo cadde come morto: tornò ben tosto a dar segni di vita, ma non potè levarsi, onde rimase abbandonato alla benefica natura fino all'indomani.
Lunedì 6.
Dopo un lungo cammino arrivammo al di là di el-Wadi; ed avendo attraversato il canale di Belbéis si fece alto alle sette ore ed un quarto in una piccola foresta.
Martedì 7.
Alle quattr'ore e tre quarti del mattino la carovana viaggiava nella direzione di N. E., ed alle undici arrivò in un luogo detto Al-bovaarouk, ove fece alto presso ad un pozzo di acque amare e fetenti.
Nel precedente giorno aveva ordinato di riempire i miei grandi otri dell'eccellente acqua di El-Wadi: ma quando si scaricarono i cammelli mi accorsi che non ve n'avevano che quattro di pieni. Chiesi al capo della carovana quando potrei trovare acqua bevibile; ed egli mi rispose che non ne troverei che ad Aaerisch, lontano quattro giorni di viaggio. In quell'istante mi si presentò all'immaginazione l'accidente del 4 agosto 1805 nel deserto della Sahara; onde trovandomi di nuovo in mezzo ad un deserto senza sufficiente provvisione di acqua, non fui padrone d'un primo impeto di collera, e sguainata la spada, mi volsi contro le mie genti. Tutti i viaggiatori e lo stesso Scheik condottiere dalla carovana, vedendomi preso da tanto furore, si buttano a terra. Questo commovente spettacolo disarma la mia collera; ma nell'agitamento in cui mi trovava, volendo rimettere la sciabla nel fodero, la mano si svia, e conficco il ferro nella parte superiore della mia coscia sinistra alla profondità di nove linee. Accortomi appena della ferita rimisi con più moderazione la sciabla nel fodero; ed entrato nella mia tenda, mi trovai inondato da un torrente di sangue, che parvemi uscire da una arteria. Feci subito recare la mia spezieria, e dopo aver lasciato uscire alquanto di sangue, lavai la ferita con acqua fredda, poi riempiendola di balsamo cattolico vi posi sopra un grande piumacciuolo di filaccie inzuppate nello stesso balsamo, e con tre bende feci una fasciatura che montava fin sopra le reni per assicurare il piumacciuolo contro qualunque accidente. Mi posi a letto per riposarmi, e la carovana volle per mio riguardo fermarsi fino all'indomani. In questo infausto giorno morì uno de' miei cammelli.
Mercoledì 8.
Alle quattr'ore del mattino, trovandomi in buono stato, e quasi non mi accorgendo della ferita, montai a cavallo colle debite precauzioni, e partii colla carovana dirigendoci al N. E.
Si fece alto la sera alle cinque ore e mezzo in un luogo detto Barra. La mia ferita non mi dava verun incomodo, e la scena che la cagionò produsse almeno il buon effetto di far rispettare le mie provvisioni.
Giovedì 9.
La carovana riprese il cammino alle quattr'ore, e tenendo sempre la direzione di N. E. giunse alle otto ore al villaggio abbandonato di Catieh, ove sonosi molte palme ad un pozzo di acqua bevibile, presso al quale i Francesi avevano fatta una fortezza, che ora più non esiste. Si tornò a mettersi in viaggio alle tre ore e mezzo, e poco prima delle sette si alzarono le tende ad Abouneïra, ove trovasi un pozzo.
Venerdì 10.
Questo giorno si avanzò nella direzione di levante, si fece alto a nove ore a Dienadel, ove scopersi il mare Mediterraneo a non molta distanza, ed alle sei ed un quarto la carovana si fermò ad Abudjilbana.
Sabato 11.
Nella carovana eranvi già molte persone alle quali incominciava a mancare l'acqua; onde si affrettava possibilmente il viaggio. Mentre io dormiva, alcuni Turchi entrarono nella mia tenda, che stava aperta onde dar passaggio all'aria, per levarmi la mia acqua, ma vedendomi addormentato rispettarono il mio sonno, e ritiraronsi senza prenderne. La notte si fece alto a Messaoudia in riva al Mediterraneo, ove trovansi molti pozzi d'acqua bevibile.
Domenica 12.
Si giunse alle sei ed un quarto del mattino presso ad Aarisch, e si fece alto in una macchia di palme. L' Aarish, è un alcassaba sul fare di quelli di Marocco, ed era stato dai Francesi rimesso in buono stato. Vi sono all'intorno alcune case abitate da circa duecento persone, pozzi di acqua di mediocre qualità, palme, e pochi erbaggi.
La mia ferita andava sempre di bene in meglio, e dava speranza di cicatrizzarsi senza suppurazione.
A mezzo giorno il termometro esposto al sole segnava 53° 7′ Reaumur, che equivale ai due terzi dal calore dell'acqua bollente, ed all'ombra 43° 5′.
Lunedì 13.
Alle due ore del mattino eravamo in cammino verso Levante. Non tardai a trovare alcune terre vegetali, poi terre lavorate, mandre di vacche, e di altri bestiami, benchè il terreno in generale fosse ancora arenoso. Dopo sette ore di cammino la carovana si riposò a poca distanza da un eremitaggio, ove si venera un santo detto Scheik Zonaïl. Vi si trova dell'acqua, ed all'interno alcuni Dovar, e piantagioni di palme. Alcuni abitanti ci vennero all'incontro per venderci delle angurie.
Alle undici ore e mezzo riprendemmo il cammino, e lasciando la strada maestra, attraversammo molte colline al S. E., il di cui suolo era a vicenda formato di terre vegetali e seminate, e di vasti tratti arenosi. Alle cinque della sera arrivammo a Khanjounes, borgata cinta di mura, e di giardini, in bella situazione, poco distante dal mare, e la prima popolazione della Siria da questa banda.
Martedì 14.
La carovana partita alle quattr'ore del mattino prendendo la direzione di N. E. in mezzo a terre parte sterili, e parte coltivate, attraversò alle sette ore il torrente el-Wadi-Gaza che non aveva acque; ad un'ora dopo entrò in Gaza, avendo così felicemente terminato il viaggio del deserto.
Gaza è una mediocre città vantaggiosamente fabbricata sopra un'altura, e circondata da molti giardini. Vi si contano presso a poco cinque mila abitanti. Le strade sono angustissime e le case quasi senza finestre. Il paese abbonda di pietre calcaree, o marmi grossolani di un bel bianco, che servono agli edificj di Gaza. I mercati sono assai ben provveduti di commestibili a discretissimi prezzi, il pane comune è piuttosto cattivo, ma se ne trova di buonissimo, ed eccellenti sono le carni, i pollami, gli erbaggi, i legumi e l'acqua. Vi sono molti cavalli, ma sembraronmi di cattiva razza, all'opposto dei muli che sono assai belli.
La popolazione di Gaza è formata di una mescolanza di Arabi e di Turchi; e perchè posta sulle frontiere del deserto, gli Arabi sono di tutte le nazioni, delle Arabie, dell'Egitto, della Siria, dei Fellahs, dei Bedovini, ec., e tutti conservano le proprie costumanze degli abiti e di tutt'altro. In Gaza non ho quasi veduta alcuna donna, perchè sono più riservate che nell'Egitto e nell'Arabia: a fronte di ciò il mal venereo è un mal comune in questo paese, e molti mi chiesero s'io avessi qualche rimedio per questa crudele malattia.
La città è governata da un Agà Turco, la di cui autorità stendesi anche sul territorio sotto gli ordini dell'Agà di Jaffa; esso pure dipendente dal Pascià di s. Giovanni d'Acri.
Il governatore di quel tempo era Moustafà Agà, uomo di buon carattere, da cui ricevetti mille cortesie. Il clima di Gaza è caldo in modo che il termometro all'ombra d'ordinario segnava 37 gradi di Reaumur. Gaza è distante mezza lega dal mare, una giornata e mezza da Jaffa, e due assai lunghe da Gerusalemme.
Io soggiornai qualche tempo a Gaza per terminare la guarigione della mia ferita ch'era omai chiusa il giorno 19 di luglio, quando partito a cinque ore e mezzo del mattino senza carovana, dopo mille ravvolgimenti in mezzo a giardini ed alle piantagioni d'ulivi, mi trovai ad un'ora e mezzo in aperta campagna nella direzione di E. N. E. Poichè ebbi fatto colazione alle otto in un villaggio posto al di là d'un piccolo ponte, continuando il viaggio a N. E., mi fermai ad un'ora e mezzo nel villaggio di Zedond.
Tutti i villaggi di questa contrada sono situati sopra alture; hanno le case assai basse, coperte di stoppia, e circondate da piantagioni di ulivi e da bei giardini. Quanto parevami nuova questa maniera di viaggiare! Avvezzo com'io era da lungo tempo ad attraversare i deserti con numerose carovane, provai questo giorno le più grate sensazioni non avendo meco che tre domestici, uno schiavo, tre cammelli, due muli, il mio cavallo, ed un soldato turco di scorta; mi trovavo alla fine in terreni coltivati, incontrava di tratto in tratto villaggi e casali abitati; il mio sguardo poteva sempre fermarsi con piacere sopra variate piantagioni; e di quando in quando incontrava degli uomini che viaggiavano a piedi o a cavallo, e quasi tutti vestiti, talchè parevami d'essere in Europa. Ma gran Dio! qual pensiero veniva a mischiare la sua amarezza a così dolci sensazioni! Lo confesserò poichè l'ho provata: entrando in questo paese, circoscritto da proprietà individuali, il cuore dell'uomo s'impiccolisce e resta compresso. Io non posso volgere gli occhi, non posso fare un passo senz'essere subito fermato da una siepe che sembra dirmi; Alto là, non oltrepassare questo limite; la mia anima si abbassa, mi si rilasciano le fibre, m'abbandono mollemente al movimento del cavallo, più in me non sentendo quello stesso Ali Bey, quell'Arabo che pieno d'energia e di fuoco slanciavasi in mezzo ai deserti dell'Affrica e dell'Arabia, come l'ardito navigante che si abbandona alle onde d'un mar tempestoso, colla fibra sempre tesa, e collo spirito preparato ad ogni avvenimento. Non è a dubitarsi che la maggior felicità dell'uomo non sia quella di vivere sotto un governo ben organizzato, che col prudente uso della forza pubblica, assicura ad ogni individuo il pacifico godimento della sua proprietà: ma sembrami altresì che quanto si guadagna in sicurezza ed in tranquillità, si perda in energia.
Il suolo attraversato questo giorno è composto di colline ondeggiate, coperte di ulivi, e di piantagioni di tabacco, che allora fioriva.
Lunedì 20.
Partii ad un'ora e mezzo del mattino prendendo la direzione di N. N. E., poi di N. E., e non molto dopo incontrai una carovana con carico di sapone e di tabacco che andava da Nablous al Cairo.
Attraversando il villaggio di Iebui vidi molte donne col volto scoperto, e tra queste alcune assai belle. Chiesi se erano cristiane, e mi fu risposto essere musulmane, e che le Fellahis, ossia paesane del contorno, non usavano di coprirsi il volto. Quale corruzione di costumi!
Di qui m'internai tra montagne coperte di boschi, ove mi trattenni alquanto per far colazione; indi ripiegando a N. O. entrai alle dieci ore in Jaffa.
Tutto il paese ch'io vidi della Palestina e terra promessa da Khanyounes fino a Jaffa è formato di belle colline rotonde ed ondeggiate, coperte di un terreno grasso somigliante alla belletta del Nilo, ridente della più rigogliosa vegetazione. Ma non vidi un solo fiume in tutto il distretto, una sola fontana. Secchi erano i torrenti che attraversai, ed il paese non ha altra acqua per bevere e per innaffiare la terra che quella delle pioggie e dei pozzi, che per altro è molto buona. Tale è la cagione delle frequenti carestie ricordate dalla storia di queste contrade.
È cosa notabile che tutti i luoghi abitati ch'io vidi nell'Arabia, sono posti in fondo alle valli, e che tutte le città, borgate e villaggi della Palestina trovansi sopra qualche altura. Potrebbe ascriversi tale diversità alla rarità delle pioggie in Arabia, ed alla loro frequenza nella Palestina.
Questa provincia abbonda di selvaggiumi; e le pernici che incontransi attruppate, sono così grasse e pesanti che basta avere un bastone per prenderle: ma vi s'incontrano altresì in grandissimo numero le lucertole, i serpenti, le vipere, gli scorpioni, ed altri insetti velenosi. A questi incomodi animali si aggiungono le mosche d'ogni specie e così copiose, che i cavalli, i muli, i cammelli ne sono fieramente molestati. Ma che dirò delle formiche? Figurisi un vasto formicajo sopra l'estensione di tre giorni di cammino; e questa è la sola idea ch'io posso dare di ciò che vidi. La strada è tutta coperta di questi animaletti che vanno e vengono in tutti i tempi occupati dei loro giornalieri travagli.
Tra i villaggi da me veduti lungo la strada non doveva ommettere quello di Askalan, patria del celebre Erode.
Sortii di Jaffa il mercoledì 22 luglio alle due dopo mezzo giorno. Alle tre ore passai pel villaggio di Nazouv, e lasciandone diversi altri a destra ed a sinistra giunsi a Ramlè in sulle cinque ore della sera.
Il suolo è perfettamente eguale a quello attraversato il giorno 20.
Ramlè, che i cristiani dicono Ràma, è una città di circa duemila famiglie. La gran moschea è un'antica chiesa greca che conserva ancora un'alta bellissima torre.
Fui alloggiato in una gentile moschea, ov'è il sepolcro d'Aayoub-Bey, Mamelucco, che fuggito d'Egitto in tempo dell'invasione Francese, morì in questa città.
Alle nove ore della stessa sera ripigliai la strada, ed attraversando la città trovai molti degli abitanti uomini e donne riuniti in una piazza illuminata da molte fiaccole, e che danzavano al suono di varj istromenti. Questa unione dei due sessi in una città musulmana mi riuscì oltre modo spiacevole.
Appena uscito di città m'internai tra le montagne, ove fui costretto di sormontare scoscese rupi. Giunto sulla maggiore sommità alle due ore e mezzo del mattino, mi vidi circondato di nubi, e di nebbie staccate, che col chiarore della luna, e gli spaventosi precipizj che mi circondavano, formavano un imponente magnifico quadro.
Preceduto dalla guida, e seguito dalle mie genti a qualche distanza, camminavo tutto concentrato nella contemplazione di questo grandioso spettacolo, quando all'improvviso due vecchi si presentano e fermano la mia guida. Io non saprei descrivere l'effetto in me prodotto dalla subita loro apparizione.
La guida che li conosceva disse loro: sono musulmani. I vecchi ripigliano: no, sono cristiani. La guida gridando più forte: vi dico che sono tutti musulmani. Uno de' vecchi mi si avvicina, prende la briglia del mio cavallo, e mi dice: tu sei un cristiano. La guida ed i miei domestici gridano ad una voce: è musulmano, è fedele credente. Io non sapeva che farmi perchè ignorava le loro intenzioni, ed altronde pareva stravagante il loro procedere. Il primo vecchio ricomincia, e mi dice: per Dio tu sei cristiano. Io gli rispondo: buon uomo io sono musulmano, chiamato Sceriffo Abbassi, e vengo dal pellegrinaggio della Mecca. Allora il vecchio mi chiese la mia professione di fede, ch'io gli feci per compiacerlo; ed egli ci lasciò in libertà di continuare il cammino. Ma per quale ragione ostinavasi questo vecchio a credere ch'io fossi cristiano, senza avermi mai veduto, e senza avermi udito parlare?... perchè io aveva un bournous turchino, colore in particolar modo usato dagli abitanti cristiani. Finalmente perchè questo attacco in tal luogo ed in ora così indebita? Perchè i cristiani e gli ebrei che vanno in Gerusalemme, pagano in questo luogo il tributo di quindici piastre a testa a profitto del sultano di Costantinopoli, e i due vecchi hanno l'appalto di questo tributo.
Arrivai a Kariet el-Aameb alle quattr'ore del mattino, piccolo villaggio posto sulla cima delle montagne, circondato da belle vigne. Dopo una mezz'ora di riposo proseguii il cammino scendendo per una lunga costa rigida e pericolosa. Giunto in sul piano della valle dovetti risalire altre più elevate montagne, dalla cui sommità vedesi la santa città di Gerusalemme, in cui entrai alle sette ore e tre quarti del mattino il giovedì 23 luglio 1807.
Mi fu dato per alloggio la moschea di un santo detto Sidi Abdelkader posta a lato del tempio Musulmano. Dormii fino alle tre ore dopo mezzogiorno: indi fui condotto al tempio.
Fine del tomo terzo.
INDICE
DELLE MATERIE CONTENUTE IN QUESTO TERZO TOMO.
Cap. XXVIII.
Alessandria. — Antichità Pag. 5
Cap. XXIX.
Abitanti d'Alessandria. — Corrispondenza. — Clima. — Notizie storiche 18
Cap. XXX.
Tragitto a Rosetta. — Bocche del Nilo. — Rosetta. — Viaggio al Cairo pel Nilo 31
Cap. XXXI.
Sbarco. — Stato politico del Cairo e dell'Egitto. — Le piramidi. — Djizè. — Il Mikkias. — Il vecchio Cairo. — Commercio 42
Cap. XXXII.
Viaggio a Suez — Navigli Arabi. — Tragitto del mar Rosso. — Pericolo della Nave. — Arrivo a Djedda. — Vertenza col governatore. — Djedda. 55
Cap. XXXIII.
Continuazione del pellegrinaggio. — El-Hhadda. — Arrivo alla Mecca. — Ceremonia del pellegrinaggio alla Casa di Dio, a Staffa, ed a Meroua. — Visita dell'interno della Kaaba, o Casa di Dio. — Presentazione al sultano Scheriffo. — Purificazione, o lavacro della Kaaba. — Titolo d'onore acquistato d'Ali Bey. — Arrivo dei Wehhabiti 88
Cap. XXXIV.
Pellegrinaggio ad Aàrafat. — Grande riunione di pellegrini. — Descrizione di Aàrafat. — Sultano ed armata dei Wehhabiti. — Cerimonie di Aàrafat. — Ritorno a Mosdelifa. — Ritorno, e cerimonie a Mina. — Ritorno alla Mecca, e fine del pellegrinaggio. — Appendice al pellegrinaggio 117
Cap. XXXV.
Descrizione della Mecca. — Sua posizione geografica. — Edificj. — Mercati pubblici. — Viveri. — Arti e Scienze. — Commercio. — Povertà. — Decadenza 137
Cap. XXXVI.
Donne. — Fanciulli. — Lingua. — Costumi. — Armi. — Siccità. — Matrimonj, nascite, e funerali. — Clima. — Medicina. — Balsamo della Mecca. — Incisioni sul volto 153
Cap. XXXVII.
Cavalli. — Asini. — Cammelli. — Altri animali. — Tappeti. — Corone. — Montagne. — Fortezze. — Case dello Sceriffo. — Sultano Sceriffo. — Situazione politica della Mecca. — Mutazione di dominio. — Beled-el-Haram, ossia Terra Santa dell'Islam. — Montagne dell'Hediaz. 170
Cap. XXXVIII.
Notizie intorno ai Wehhabiti. — Principj religiosi di questi popoli. — Loro imprese militari più notabili. — Armi. — Capitale. — Organizzazione. — Considerazioni 186
Cap. XXXIX.
Ritorno d'Ali Bey a Djedda. — Sua posizione geografica. — Notizie. — Tragitto all'Iemboa 205
Cap. XL.
Viaggio alla volta di Medina. — Djideïda. — Viene arrestato dai Wehhabiti. — Dispiaceri che gliene derivano. — Viene rimandato con una carovana d'impiegati del tempio di Medina. — L'Iemboa 214
Cap. XLI.
Tragitto per andare a Suez. — Incaglio della nave. — Isola Omelmelek. — Continuazione del viaggio. — Accidenti diversi. — Sbarco d'Ali Bey a Gadiyahia. — Prosiegue il viaggio per terra 231
Cap. XLII.
Viaggio a Suez. — Disputa degli Arabi. — El Wadi-Tar. — El-Hammam Firaoun. — El Wadi-Corondel. — Sorgenti di Mosè. — Arrivo a Suez. — Petrificazioni del mar Rosso. — Abbassamento del suo livello. — Corrispondenze su questo mare. — Viaggio al Cairo 244
Cap. XLIII.
Viaggio a Gerusalemme. — Belbéis. — Gaza. — Saffa. — Ramlè. — Scena di due vecchi. — Ingresso in Gerusalemme 272
INDICE DELLE TAVOLE
Contenute in questo Tomo terzo
Tavola I. ( a ) Colonna di Pompeo. Pag. 12
( b ) Obelisco di Cleopatra ivi
Tavola II. Veduta di Mina, e dell'accampamento d' Ali Bey al suo ritorno da Aàrafat 129
Tavola III. Luogo sacro nominato Saffa composto di tre archi alla Mecca 132
Tavola IV. Luogo sacro nominato Meroua composto di tre grandi muraglie alla Mecca ivi