VIAGGI DI ALI BEY EL-ABBASSI IN AFRICA ED IN ASIA
TOMO IV
VIAGGI DI ALI BEY EL-ABBASSI IN AFRICA ED IN ASIA
DALL'ANNO 1803 A TUTTO IL 1807
TRADOTTI
DAL DOTTORE STEFANO TICOZZI
con tavole in rame colorate
TOMO IV
MILANO Dalla Tipografia Sonzogno e Comp. 1817.
INDICE
INDICE DELLE TAVOLE VIAGGI in AFFRICA ed in ASIA FATTI DAL 1803 AL 1807.
CAPITOLO XLIV.
Haram, ossia Tempio musulmano nel luogo dell'antico tempio di Salomone.
El-Haram, o il Tempio, detto altresì Beit-el Mokaddes-el-Scherif, o la casa santa principale di Gerusalemme, è una unione di più edificj fabbricati in varie epoche dell'islamismo, e che portano con loro l'impronta del gusto dominante de' diversi secoli in cui furono fatti; formando non pertanto un tutt'insieme abbastanza armonico. Non è precisamente una moschea, ma un gruppo di moschee. Il suo nome Arabo El-Haram significa positivamente un tempio, un luogo consacrato dalla presenza particolare della Divinità, e proibito ai profani, agl'infedeli. La religione Musulmana non riconosce che due tempj; questo, e quello della Mecca, il di cui ingresso è dalla legge proibito a chiunque non sia musulmano, a differenza delle altre moschee non proibite da alcun precetto canonico; cosicchè in virtù d'un ordine della pubblica autorità un cristiano può entrare ancora nella moschea di Santa Sofia di Costantinopoli: ma nessun governatore Musulmano ardirebbe permettere ad un infedele di penetrare sul territorio della Mecca, o nel tempio di Gerusalemme; perchè tale licenza sarebbe riguardata quale orribile sacrilegio, non sarebbe tollerata dal popolo, e l'infedele, che tentasse di metter piede in questi santi luoghi sarebbe la vittima della sua imprudenza.
PORTA DEL CAIRO NOMINATA BEB EL FATHA.
Questo monumento forma l'angolo S. E. della città di Gerusalemme, nel luogo medesimo in cui era altra volta il tempio di Salomone.
La storia musulmana attribuisce all'antico tempio de' Giudei 1563 piedi e 3 pollici di lunghezza, e 958 piedi e tre pollici di larghezza della misura Parigina. Il nuovo è composto d'una gran corte, o piazza chiusa, lunga 1369 piedi, e larga 845. Ha nove porte dalla banda occidentale e settentrionale, ma nessuna a levante e a mezzodì, perchè chiusa dalle mura della città, che si alzano al di fuori sull'orlo dei precipizj del torrente Cedron, e sull'orlo del burrone che la divide al S. dal monte Sion.
La parte principale del tempio è formata di due corpi di magnifici edificj, che potrebbero riguardarsi come due diversi tempj: ma per la loro rispettiva situazione formano un insieme simmetrico, che non manca d'una tal quale unità. Uno chiamasi Aksa, e l'altro el-Sahhera.
Il primo è composto di sette navi sostenute da pilastri e da colonne; ed in testa alla nave del centro ha una bella cupola, a destra ed a sinistra della quale apronsi due altre navi perpendicolari al corpo principale della chiesa. Questo principal corpo è preceduto da un portico di sette archi di fronte sopra uno di profondità, sostenuti da pilastri quadrati; e l'arco centrale che risponde all'asse dell'edificio ha inoltre colonne incrostate aderenti ai pilastri. La maggior nave può avere 162 piedi di lunghezza e 32 di larghezza. È sostenuta da sette archi, leggermente acuti, da ogni lato appoggiati sopra pilastri cilindrici in forma di colonne, ma senza alcuna proporzione architettonica, con capitelli a foglie che non appartengono a verun ordine. I piloni cilindrici hanno più di due piedi e mezzo di diametro, e sedici piedi d'altezza comprendendo anche le basi ed i capitelli. I muri si alzano tredici piedi sopra gli archi con due ordini di 21 finestre per ogni rango; e quelle dell'ordine superiore guardano sulla parte esterna perchè la nave centrale è più alta delle sei laterali, e le finestre dell'ordine inferiore guardano nella parte interna delle altre navi. Il tetto è di legno senza volta.
Le navi laterali sono appoggiate sopra archi eguali a quelli della centrale, sostenuti da pilastri quadrati.
La cupola è sostenuta da quattro grandi archi appoggiati sopra quattro pilastri quadrati, che hanno belle colonne di marmo bruno balzanti dai diversi loro lati. Questa cupola è sferica con due ordini di fenestre, ed ornata di rabeschi dipinti e dorati assai belli.
Il suo diametro è uguale a quello della nave centrale.
Le navi laterali alla cupola sono sostenute da belle colonne di marmo bruno simili a quelle degli archi di mezzo. Il braccio che si dispiega a sinistra, perpendicolarmente al fondo della nave centrale, è formato d'una semplice volta assai bassa, ed ha due navi. La volta del califfo Omar può avere press'a poco dodici piedi di lunghezza; l'altra sembra avere la stessa lunghezza, ma è chiusa da una grata di legno; e perciò io non vi entrai.
Nella parte esterna a sinistra sono addossate all' Aksa molte case mal fatte ove abitano gli impiegati dell'Haram. Avvi in faccia alla porta principale un rialto lungo 284 piedi, in mezzo al quale trovasi una bella vasca di marmo con un lavoro in forma di conchiglia, che anticamente mesceva acqua. In fondo al rialto una superba scala conduce all' El-Sahhara, che è l'altro ragguardevole edificio dell'Haram, il quale riceve il nome da una rupe assai rispettata che trovasi nel suo centro.
Il Sahhara è posto sopra un piano parallelogrammo lungo circa 460 piedi, e largo 599. È sedici piedi più alto del piano generale dell'Haram, e vi si sale per otto scale poste due al sud, due al nord, una all'est, e tre all'ovest. Quasi in mezzo a questo piano superiore lastricato di bei marmi sollevasi il magnifico edificio del Sahhara, tempio ottagono, i di cui lati nella parte esterna sono lunghi sessantun piedi.
Si entra nel tempio per quattro porte collocate ne' quattro punti cardinali dette Beb-el-Kebla, el-Garb, Djenna e Davoud. La prima ha un bellissimo portico sostenuto da otto colonne corintie di marmo. Le altre sono senza portico.
Dal centro dell'edificio si spinge in alto una cupola sferica con due ordini di grandi finestre, e sostenuta da quattro grossi piloni e da dodici magnifiche colonne disposte in cerchio.
Questo cerchio centrale è circondato da due navi ottagone concentriche, tra loro separate da otto pilastri e da sedici colonne della stessa specie e grandezza di quelle del centro, del più bel marmo bruno che vedere si possa. I tetti sono piani, ed ogni cosa è coperta d'ornati del più squisito gusto e di modanature in marmo ed in oro ec. I capitelli delle colonne sono d'ordine composito interamente dorati, ed attiche la basi delle colonne, che formano il cerchio centrale; e quelle che trovansi tra le navi ottagone, sono tagliate nella parte inferiore e senza listello, ed invece della base vengono portate da un dado di marmo bianco. La proporzione delle colonne le avvicina all'ordine corintio: il loro fusto è di sedici piedi.
La cupola ha quaranta piedi di diametro sopra novantatrè di altezza, ed il totale diametro dell'edificio è press'a poco di cento cinquantanove piedi e mezzo. Il piano del cerchio centrale, tre piedi e mezzo più alto di quello delle navi che lo circondano, vien chiuso da un'alta e magnifica grata di ferro dorato.
Entro a questo cerchio chiudesi la rupe el-Sahhàra Allàh, che è il principale oggetto di questo ricco edifizio, ed in generale di quello del tempio di Gerusalemme. El Hadjerà el Sàhhara, o rupe Sahhara, esce di terra sopra un diametro medio di trentatre piedi in forma di segmento di sfera. La sua superficie è disuguale, scabra, e nella sua forma naturale. Nel fianco del nord vi si vede una cavità, che la tradizione dice fatta dai Cristiani, che volevano rubare la porzione del masso che manca; ma che questa si fece allora invisibile agli occhi degl'infedeli, che fu poi trovata dai fedeli credenti divisa in due parti, che ora trovansi in altri luoghi dell'Haram.
Il fedele musulmano crede che il Sahhàra-Hallàh sia il luogo in cui le preghiere degli uomini riescono più care alla divinità, dopo la casa della Mecca. Per tale motivo tutti i Profeti dalla creazione del mondo fino a Maometto ci vennero a pregare, ed anco presentemente i profeti e gli angioli vengono in schiere invisibili a fare le loro preghiere sulla pietra, non compresa la guardia ordinaria di settantamil'angeli che continuamente la circondano, dandosi ogni giorno la muta.
La notte che il profeta Maometto fu rapito nella Mecca dall'angelo Gabriele, e trasportato colla velocità del lampo a Gerusalemme sopra la giumenta El-Boràk, che ha testa e seno di bella donna, lasciata la giumenta alla porta del tempio, venne a fare la sua preghiera sul Sahhara cogli altri profeti ed angioli, che avendolo rispettosamente salutato gli cedettero il luogo d'onore.
Nell'istante in cui il Profeta si fermò sopra il Sahhara, la pietra sensibile alla felicità di portare questa santa salma si abbassò, e come una molle cera ricevette nella sua parte superiore verso il nord l'impronta del suo sacro piede. Questa impronta fu poi coperta da una specie di gabbia di filo di metallo dorato, fatta in modo che non si vede l'impronta per causa dell'interna oscurità, ma si può per un'apertura fatta nella gabbia toccare colla mano; e ci santifichiamo passando all'istante la stessa mano sul volto e sulla barba: prova troppo manifesta che dessa è la vera orma del piede del più grande dei profeti.
L'interno della roccia forma una cavità nella quale si scende per una scala dal lato di S. O. Vi si trova una camera d'un quadrato irregolare di diciotto piedi di superficie, alta nel centro otto piedi. Il palco consiste in una volta naturale irregolare. In fondo alla scala vedesi alla diritta un piccolo frontispizio di marmo che porta il nome di el-Makam-Soulimàn ossia lungo di Salomone; ed un'altra lapide posta a sinistra chiamasi el-Makam-Davoud, luogo di Davide. Chiamasi poi el-Makam-Ibrahim, o luogo d' Abramo, una nicchia cavata nella roccia nel lato di S. O.; come un gradino semicircolare concavo si dice el-Makam Djibrila, luogo di Gabriele: finalmente viene chiamato luogo d' Elia el-Makam el-Hòder, una specie di tavola di pietra all'angolo N. E.
In mezzo alla camera la spessezza della volta vedesi forata in forma d'abbaìno cilindrico di tre piedi di diametro; e questo è il luogo del Profeta.
La rupe è circondata da uno steccato di legno ad altezza d'appoggio; ed al di sopra a cinque in sei piedi d'altezza vi è un padiglione di seta a liste alternative rosse e verdi, sospese su tutta la larghezza della rupe con pilastri e colonne.
Per quanto ho potuto vedere, sopra tutto l'interno della cantinetta, questa rupe parmi di marmo fino, di color bianco rossastro.
A poca distanza dalla parte settentrionale vedesi nel pavimento un marmo quadrato verde marezzato bellissimo, di circa quindici pollici da ogni parte, assicurato con quattro o cinque chiodi dorati; e si dice essere la porta del paradiso. Varj altri fori indicano ch'era fermato con più chiodi che non lo è al presente, i quali chiodi credono che siano stati rubati dal Diavolo, quando tentò d'introdursi in paradiso, impeditone dal non aver potuto svellere i chiodi che tuttavia rimangono.
Il Sahhara ha una tribuna di legno pei cantori sostenuta da piccole colonne. Vi ho veduto un Corano i di cui fogli sono quasi alti quattro piedi, e più di due e mezzo larghi. Si pretende che appartenesse al Califfo Omar; ma si dice lo stesso di altri affatto somiglianti che mi furono mostrati al Cairo ed alla Mecca.
L'esterno del Sahhara è incrostato di varie qualità di marmi, fino a metà della sua altezza; il rimanente è ricoperto di piccoli mattoni di diversi colori elegantemente disposti. Le cinque finestre per ogni lato dell'ottagono sono chiuse con bei vetri dipinti a rabeschi.
Il tempio ha quattro torri; una sull'angolo S. O. della gran corte, la seconda nel mezzo del lato occidentale, un'altra sull'angolo N. O., e l'ultima sull'angolo N. E. dello stesso cortile.
CAPITOLO XLV.
Viaggio al sepolcro di Davide, e ad altri sepolcri. — Viaggio al monte Oliveto. — Al sepolcro d'Abramo ad Hébron. — Al presepio di Cristo a Betlemme. — Al sepolcro della Vergine. — Al Calvario ed al sepolcro di Cristo. — Sinagoga de' Giudei. Descrizione di Gerusalemme.
Dopo aver soddisfatto a tutte le cerimonie, ed a tutte le limosine dovute al tempio lo stesso giorno del mio arrivo a Gerusalemme: nel susseguente giorno fui condotto al sepolcro di Davide.
Sortendo di città per la porta di Davide trovasi in distanza di 150 tese un edificio che ha l'apparenza d'un'antica chiesa greca. Appena entrati, prendendo la sinistra, si arriva al sepolcro chiuso da molte porte e grate di ferro. È questo una specie di catafalco coperto di bei drappi di seta di varj colori ricamati in oro, che può avere tredici piedi di larghezza.
Terminate le mie preghiere al sepolcro di Davide fui condotto all'est luogo le mura della città, e scendendo per un pendìo assai ripido giunsi presso all'unica sorgente che trovasi a Gerusalemme, dai cristiani detta fontana di Neemia. Credono i musulmani che l'acqua di questa sorgente derivi per un miracolo dell'onnipotente dal pozzo di Zemzem della Mecca, quantunque l'ultima sia caldissima e salmastra, e quella di Gerusalemme fresca e dolce. Di là passai il torrente Cedron, di dove a traverso a varj poggi andai a visitare i sepolcri di molti santi e profeti del primo e del second'ordine.
Dalla sommità di questi colli scopersi in distanza di tre o quattro leghe in linea retta una parte del Bàhar Lout, detto da' cristiani Lago Asfaltide, o Mar Morto. Col cannocchiale osservai due piccoli seni, e le montagne che coprono il lago a S. E. Vedeva pure le onde rompersi contro la riva; e l'agitamento dei flutti mi mostrava che questo mare non è affatto morto, come lo indica il suo nome. Tutto il paese che lo circonda è montuoso. Giunto in appresso alla cima del Diebel Tor, detto dai cristiani Monte Oliveto; dove assicurasi essere stati sepolti settantadue mila profeti, trovai la chiesa cristiana, nella quale si venera sopra un marmo l'impronta del piede di Cristo lasciatavi quando salì al cielo dopo la risurrezione.
Da questa montagna, posta a levante di Gerusalemme, si scopre la città sì bene che se ne possono contare le case.
Sceso dalla montagna e giunto in fondo al torrente Cedron, passai a lato del sepolcro della madre di Cristo; e dopo salito un colle rientrai in città per la porta detta di Maria.
All'indomani 25 luglio sortii di Gerusalemme al levare del sole per visitare il sepolcro d' Abramo.
Alle sette ore ed un quarto del mattino giunto presso a Betlemme, incontrai una truppa di pastori cristiani che venivano a Gerusalemme per accusare i pastori musulmani di Ebron che loro avevano presi molti bestiami, per rappresaglia dei quali i cristiani avevano portati via due cammelli. Il principale pastore raccontò ad uno de' più rispettabili Sceriffi che m'accompagnava tutto l'accaduto, in così energica maniera, che la mia immaginazione mi rappresentò all'istante le contese de' pastori d' Abramo e di Lot, la guerra dei cinque re, ec., tanto essi ne conservano ancora il carattere, le abitudini e perfino le vesti consistenti in una camicia di lana bianca rossastra attaccata con una cintura, e in un drappo nero gettato sulla spalla, con una fascia di tela bianca intorno al capo.
Appena congedati i pastori, avendo Betlemme a sinistra e Beit-Diele dall'altro lato, mi si presentò lo spettacolo della più singolare meteora che veder si possa. Il sole alto sopra l'orizzonte circa trenta gradi brillava alla sinistra di tutta la sua luce a traverso di una atmosfera purissima; e la luna, vicina al suo ultimo quarto, era sulla mia diritta quasi nella stessa elevazione del sole, così chiara e così bella quanto è possibile di vederla in tale circostanza. Tutt'ad un tratto vidi comparire sotto forma d'una stella due o tre volte più grande, e molto più luminosa di Giove o di Venere nel loro più grande splendore, una meteora che svolse dalla banda di levante una coda, la quale parvemi lunga due gradi. Io non mi potei contenere, e gridai Kif hàda! Kìf hàda! cioè che è questo! che è questo! Le mie genti sbalordite gridarono in pari tempo Minn Allàh! minn Allàh! Dio! Dio! Frattanto la meteora s'avanzava verso occidente facendo ondeggiare dolcemente la sua coda lungo una linea orizzontale, all'altezza di circa 30 gradi, come il sole e la luna. La coda che ben tosto si divise in più raggi, riuniva tutti i colori dell'iride assai vivaci, ed un mezzo minuto dopo, avendo la meteora nel suo pacifico movimento scorsi quasi sei gradi all'O. scomparve senza esplosione, senza tuono, nè alcun'altra spaventosa circostanza. Io mi buttai a terra prostrato avanti al Creatore, e lo stesso fecero tutti quelli che mi seguivano.
Continuai il cammino al sud, assorto nella meditazione di ciò che aveva veduto: la stella dei pastori, la stella de' magi, tutto ricorreva alla mia memoria; ma io sospetto che i vapori bituminosi salini del Mar Morto rendano in questi paesi simili meteore assai frequenti. Lasciai a destra un eremitaggio dedicato ad Elia, ed alquanto più avanti giunsi ad un bell'Alcassaba mezzo ruinato, accanto al quale trovasi una sorgente di bonissima acqua con un serbatoio lungo cinquanta passi, largo trenta, e più a basso da altri di quasi eguale grandezza: finalmente dopo aver superate diverse montagne giunsi in sul mezzo giorno ad el Hhalil, che i cristiani dicono Ebron, e presi alloggio all'osteria.
Ebron è una città di circa 400 famiglie Arabe, posta sul pendio di una montagna con un castello. I viveri sono abbondanti, ed ha molti fondachi. È governata da un Arabo del paese col titolo di Hakim, e di Scheih el Bèled.
I sepolcri d' Abramo e della sua famiglia trovansi in un tempio che fu già una chiesa greca. Si sale per recarvisi una bella e vasta scala che guida ad una lunga loggia, di dove si entra in un piccolo cortile. Dalla banda sinistra vedesi un portico sostenuto da pilastri quadrati, presso al quale sorge il vestibolo del tempio composto di due camere, una delle quali posta a destra contiene il sepolcro di Abramo, e l'altra dall'opposto lato quello di Sara. Nel corpo della chiesa che è gotica, tra due grossi pilastri a destra vedesi una casuccia isolata contenente il sepolcro d' Isacco, ed in simile casuccia a sinistra quello di sua moglie. Questa chiesa ridotta a moschea ha il suo Mereb, la tribuna per il sermone del venerdì, ed un'altra pei cantori. Nell'opposto lato della corte avvi un altro vestibolo con due camere laterali destinate ai sepolcri di Giacobbe e di sua moglie.
All'estremità del portico per una specie di loggia si passa in altra camera contenente il sepolcro di Giuseppe, le cui ceneri furono trasportate dall'Egitto dal popolo d'Israele.
I sepolcri di questi patriarchi sono tutti coperti di ricchi tappeti di seta verde, magnificamente ricamati in oro: rossi egualmente ricamati sono quelli delle loro consorti, che il sultano di Costantinopoli manda di quando in quando. Io ne contai nove, uno sopra l'altro sul sepolcro di Abramo. Anche le pareti delle camere sono coperte di bei tappeti. Le grate delle finestre sono di ferro dorato, e le porte di legno coperte di piastre d'argento con serrature e catenacci dello stesso metallo. Si contano pel servigio del tempio più di cento tra impiegati e domestici; onde può agevolmente calcolarsi il numero delle elemosine che vi si debbono lasciare.
Terminata la visita ai sepolcri all'indomani 26 luglio allo spuntar del giorno ripigliai la Strada di Gerusalemme. A breve distanza da Ebron lasciai da un canto un eremitaggio sacro al profeta Jona; e mi fermai per fare colezione presso ad una bella sorgente; indi presi la strada di Betlemme, ove giunto alle dieci ore e mezzo del mattino, mi recai a dirittura al convento de' Cristiani ove si venera il luogo in cui nacque Gesù Cristo.
È questo convento fatto a guisa di rocca, e la sola porta che serve d'ingresso è tanto bassa, che convien piegare il corpo per entrarvi. Vi stanno circa venti monaci, europei, cattolici, greci, ed armeni; e quasi tutti gli abitanti di Betlemme sono cristiani. Scordava di dire che questa città posta sopra un monte conta circa cinquecento famiglie.
Gli abitanti che vivono in continuo sospetto de' musulmani, vedendoci arrivare a cavallo ed armati, si adombrarono, e molti erano già corsi alla porta del convento che trovarono chiusa; ma rassicurati del nostro contegno, picchiarono essi medesimi alla porta, che dopo molti discorsi ad alta ed a bassa voce con quelli che stavano al di dentro, ci fu alla fine aperta.
Introdotto in un angusto vestibolo oscuro, vi trovai molti uomini armati che avevano l'aria di corpo di guardia. Da questo vestibolo entrai in una vasta sala, il di cui palco è sostenuto da circa quaranta colonne di marmo alte quindici piedi, con basi e capitelli d'ordine corintio, comecchè il fusto abbia le proporzioni del dorico: sala comune dalla quale per diverse porte si passa ne' separati appartamenti de' monaci romani, greci, ed armeni.
Dopo esserci trattenuti alcun tempo in questo luogo, un monaco greco aprì la porta del suo appartamento, e ci fece entrare in una sala, alla di cui estremità scendesi per una scala in una specie di grotta, che è il luogo sacro della nascita di Cristo. Giunto nella grotta vidi una nicchia quasi semisferica nel vivo della rupe, nella quale, secondo mi assicurò il monaco che mi accompagnava, nacque Cristo; e fu deposto dalla Vergine nella mangiatoja, che è una specie di bacino di marmo; di fronte al quale fu innalzato un altare che ha un bel quadro rappresentante l'adorazione dei Magi. Ed il presepio, ed il luogo della nascita sono arricchiti di superbi addobbi, e di molte lampade di cristallo e d'argento; tra le quali ne vidi una in figura di cuore, contenente il cuore del divoto Antonio Camillo de Lellis, il di cui nome con bella iscrizione latina e l'anno 1700 è scolpito nella stessa lampada.
Sortendo dalla grotta il monaco greco mi condusse nella chiesa posta sopra alla grotta, che non ha cosa alcuna di molta importanza. Tutti i luoghi santi furono ampiamente descritti in tanti libri, che avrei potuto dispensarmi dal darne una nuova descrizione; ma ho creduto di farne un cenno in grazia di coloro che non ne avessero verun'altra alla mano.
Dopo aver ringraziato il buon monaco, e lasciategli prove della mia gratitudine, ripresi la strada di Gerusalemme ove arrivai poco dopo il mezzo giorno.
All'indomani, lunedì 27, scesi in fondo al torrente Cedron per una bella scala, alla metà della quale trovansi alla diritta i sepolcri di Gioachino e di Anna, ed in un'altra cavità a sinistra quello di Giuseppe sposo di Maria. In fondo alla scala entrasi in una chiesa greca, il di cui Sancta Sanctorum contiene il sepolcro della Vergine. Ascoltai in chiesa un armonioso coro di monaci, mentre il celebrante vestito de' sacri abiti restava nel santuario.
Dopo mezzo giorno mi recai al sepolcro di Cristo; ma non aprendosi la porta del convento che in certi determinati giorni, trovavasi allora chiusa secondo il praticato, al di fuori dai turchi, dai monaci al di dentro.
A traverso alla grata della porta mi trattenni con un monaco spagnuolo nativo di Ocanna, detto Ramirez d' Arellano, che mi diresse al procuratore generale pure spagnuolo, onde avere il permesso d'aprire la porta. Il procuratore era ammalato, e fu il suo vicario, che ci accolse con estrema cortesia; ma sopraggiungendo il governatore ed il kadì della città, mi ritirai, dopo avere ottenuto di entrare all'indomani nel sepolcro di Cristo.
In fondo ad una vasta chiesa gotica vedesi una magnifica cupola, o rotonda, nel di cui centro è posta una casuccia isolata, nella quale i cristiani venerano il sepolcro di Gesù Cristo. Per entrare in questa casuccia si scende per pochi gradini: il sepolcro è a destra in una piccola camera, che può avere sei piedi e mezzo di lunghezza, e quattro di larghezza. È questi un avello che occupa tutta la lunghezza della camera, e può avere ventisette pollici di larghezza: parvemi di marmo bianco rossiccio, il di cui coperchio è composto di due pietre. Il sarcofago è alto in modo da formare una specie d'altare, sopra il quale i monaci celebrano la messa. In questa angusta camera posta sotto al piano della chiesa, e priva di finestre, ed inoltre riscaldata dai moltissimi lumi che vi si accendono qualunque volta si apre, non è possibile di rimanervi a lungo senza incomodo. Il sarcofago è semplice e senza ornamenti, ma riccamente decorata la camera.
I musulmani fanno preghiere in tutti i luoghi consacrati alla memoria di Gesù Cristo e della Vergine, fuorchè al sepolcro. Credono essi che Cristo non morisse, e che salendo al cielo vivente, lasciasse le apparenze della sua figura a Giuda condannato a morire per lui; che in conseguenza essendo stato crocifisso Giuda, può ben questo sepolcro aver contenuto il corpo di Giuda, ma non quello di Gesù Cristo, e perciò non lo onorano. La chiave della cappella in cui trovasi il sepolcro viene custodita dai monaci latini, che però non possono aprirla senza la presenza di un monaco greco, che resta a lato al sepolcro finchè la cappella è aperta.
La rotonda ove trovasi la cappella del sepolcro è sostenuta da informi colonne e senza proporzioni architettoniche. Tutti i capitelli sono d'ordine corintio o composito. La sommità della cupola è vòta, e forma un'apertura di tredici piedi di diametro per la quale riceve la luce.
Unite alla cupola trovansi le separate chiese de' Cattolici Romani, degli Armeni, de' Sirj, de' Cofti, degli Abissini; ed il corpo centrale del tempio forma la chiesa de' Greci.
Presso al Sancta Sanctorum della chiesa greca una scala conduce ad una cappella. Salendo a sinistra vedesi un altare formato nel vivo sasso, in mezzo al quale trovasi un foro di tre in quattro pollici di diametro, ove si dice che fu piantata la croce; in distanza di tre piedi mi fu mostrata nella rupe una fessura naturale perpendicolare, apertasi nell'istante della morte di Gesù Cristo. Tre o quattro passi più in là vedesi un altare, ed avanti a questo altare uno spazio quadrato, che si venera come il luogo in cui Cristo fu crocifisso. II Monte Calvario, un tempo fuori delle mura dell'antica Gerusalemme, trovasi nel centro della moderna.
La casa posta accanto al tempio che contiene il sepolcro di Gesù Cristo, è abitata da alcuni monaci Musulmani, i quali dalle finestre della casa che guardano nell'interno del tempio, diedero più volte giuste cagioni di lagnanza ai monaci cristiani.
Gerusalemme conosciuta dai Musulmani sotto il nome d' el-Kods, ossia la santa, e per quello d' el-Kodse-scherif, è posta al grado 31 46′ 34″ di latitudine settentrionale, e nel 33º di longitudine orientale dell'osservatorio di Parigi. La di lei forma, quantunque irregolare, ove facciasi astrazione dalla cittadella addossata all'angolo occidentale della città, si avvicina assai al quadrato.
Fabbricata sul lato meridionale della sommità d'una montagna con qualche inclinazione al S. E. è circondata di precipizj, sul di cui orlo girano le mura dalla banda di S. E., di E., e di O., non avendo che un breve piano al S. che conduce al sepolcro di Davide, ed un altro più esteso al N. che forma la parte superiore della montagna attraversata dalla strada di Jaffa.
Le strade di Gerusalemme sono assai regolari, diritte, ben selciate, e molte con marciapiedi; ma triste, strette, e quasi tutte poco o molto inclinate. Le case hanno quasi tutte due o tre piani, e poche finestre con porte assai basse, e colla facciata semplice di pietra senza verun ornamento, di modo che quando si passeggia per la città, sembra che si cammini ne' corridoj di una vasta prigione. In una parola vi si ravvisa la verità della pittura fattane da Geremia: facta est quasi vidua domina gentium.
Alcune case hanno piccoli giardini, ma in generale non vi si trova alcun vòto considerabile; onde sopra un'estensione assai minore di quella della Mecca, contiene, per quanto mi fu detto, circa 30,000 anime, senza contare la popolazione dei sobborghi della città.
Non ho veduto in Gerusalemme alcuna piazza propriamente tale, ed i pubblici mercati e le botteghe sono lungo le strade. Abbondanti vi si trovano i viveri ed a buon prezzo: una mezza dozzina di polli, per esempio, pagasi una piastra spagnuola. Il pan comune è una specie di cattiva focaccia, ma trovasene ancora di assai buono; come pure ottimi legumi, erbaggi, frutta, e squisite carni.
Essendo quasi centrale fra l'Arabia, l'Egitto e la Siria, è assai frequentata dagli Arabi di questi paesi, che vi fanno il loro commercio di cambio. Il principale ramo di commercio attivo della Palestina è quello dell'olio; ma l'importazione del riso, che tirasi dall'Egitto bilancia l'esportazione dell'olio.
I pesi, misure e monete sono le medesime degli altri paesi Turchi; e la piastra spagnuola vale quattro pezze turche e mezzo, ossia cento ottanta parà.
Pochi e di cattiva qualità sono i cavalli della Palestina; molti e ottimi i muli, benchè alquanto piccoli. Gli asini cedono in bontà a quelli dell'Arabia e dell'Egitto, e non si fa frequente uso dei cammelli.
Benchè assai lontane dalla perfezione, le arti vi fioriscono più che alla Mecca; ma le scienze vi sono affatto sconosciute, e le più ragguardevoli persone, che pur vogliono parer costumate, versano nella più profonda ignoranza. La lingua Araba è la più comune, ma vi si pronuncia alquanto diversamente che nell'Arabia, accostandosi all'accento turco.
Contansi in questa città settemila musulmani, de' quali duemila abili alle armi; più di ventimila cristiani di diversi riti: maroniti, greci uniti, greci scismatici, cattolici latini, armeni ec. Pochissimi sono i Giudei nell'antica loro patria.
Quantunque gli abitanti di Gerusalemme, appartenendo a diverse nazioni, e seguendo culti diversi si disprezzino internamente gli uni gli altri; pure perchè i cristiani sono assai più numerosi, vi regna una certa eguaglianza tanto nelle relazioni commerciali, quanto negli affari domestici, e ne' divertimenti. I seguaci di Gesù Cristo vedonsi uniti coi settatori di Maometto, e questa mescolanza è cagione d'una più estesa libertà che in tutt'altra città musulmana.
Il governo di Gerusalemme viene affidato ad una persona del paese, che porta il nome di Scheih el Rele, o di Hhakim; ed il giudice civile è sempre un Turco mandato da Costantinopoli che cambiasi ogni anno. Vi è inoltre un governatore del castello, il capo del tempio, il Muftì o capo della legge, i quali tutti hanno le particolari loro attribuzioni.
In aggiunta di pochi soldati, Gerusalemme può contare sopra duemila musulmani in istato di portare le armi. È circondata di mura merlate assai alte, fiancheggiate di torri; ma incapaci di resistere al cannone. Ho già fatto osservare, che questa città è circondata in più lati da precipizj: negli altri luoghi si supplì a tale difesa naturale con fossi artificiali.
Quando si considera da prima Gerusalemme, circondata da precipizj e da alte mura di pietre tagliate ben conservate, e ricoperte da numerosa artiglieria, con una fortezza di bella e solida costruzione, e ben provveduta di mezzi di difesa; se si fa attenzione al ragguardevole numero di difensori che può dare la sua popolazione, si è tentati di crederla quasi inespugnabile: ma esaminandola più posatamente, svanisce la prima illusione, e si trova incapace di lunga resistenza, perchè per la topografia del suolo non è possibile d'impedire l'avvicinamento del nemico, ed è signoreggiata quasi a vista d'uccello in distanza del tiro di fucile dal monte Oliveto.
La montagna su cui è fabbricata Gerusalemme è affatto sterile, ed è composta d'una roccia cornea o basaltica, facente transizione al trappo, come quasi tutte le montagne del vicinato.
La sua ragguardevole elevazione sopra il livello del mare è cagione della freddezza del clima quantunque vicinissima al tropico. Nel mese di luglio il termometro esposto a mezzo giorno non segnò più di 23° 5′ di Reaumur, e la mattina scese fino a 17° 3′. Il vento fu sempre occidentale, e l'atmosfera variabile. Mi fu detto che nell'inverno cade molta neve, e molta pioggia.
Vi trovai pochi vecchi, ma per altro più che alla Mecca. Le persone del paese osservarono che gli anni più abbondanti d'olive sono quelli ne' quali cade molta neve.
Io ho osservato che il vento vi acquista una straordinaria rapidità.
CAPITOLO XLVI.
Ritorno a Giaffa. — Tragitto ad Aeri, e descrizione di questa città. — Il monte Carmelo. — Viaggio a Nazaret. — Notizie intorno ai monaci di terra Santa. Partii da Gerusalemme ad otto ore e trequarti del mattino il 29 luglio 1807, per ritornare a Giaffa, strada che aveva fatta venendo in tempo di notte. Dopo la scesa di lunghissima fila di colli, giunsi alle dieci ore in fondo alla valle, ove trovai un ruscello ed un ponte di due archi; a poca distanza in su la diritta il villaggio Alioune, e presso alla strada le ruine di un antico tempio.
Di là salito sulla sommità di altre montagne, passai alquanto prima delle undeci ore presso alle case di Kaskali, poi sceso un poggio, e salitone un altro, mi trovai in sul fare del mezzogiorno a Kariet-el-Aaneb, villaggio meritevole di essere veduto per una bella antica chiesa a tre navi, ora abbandonata, e ridotta ad uso di stalla. Da Kariet montando ancora tre quarti d'ora, si giugne sulla sommità della montagna detta Saariz, appunto nel luogo ov'ebbi l'incontro dei due vecchi gabellieri. Era stato loro detto essere io figlio dell'Imperatore di Marocco; onde, pentiti dall'accaduto, mi aspettavano per iscusarsene, e vedutomi, mi vennero incontro baciandomi le mani, i piedi e la testa. Mi pregarono a scendere da cavallo, e ad aggradire un magnifico pranzo preparatomi presso ad una bella fonte, di dove vedesi il mare.
Poi ch'ebbi mangiato, presi congedo da questi buoni vecchi, e continuai questa penosa strada a traverso di aspre montagne fino ad Abougos, posto in miglior paese, ed alle sei ore arrivai a Ramlè. Le montagne di Gerusalemme fino ad Kariet sono quasi affatto sterili; a Kariet incominciano le vigne, poi piantagioni d'ulivi, e belle foreste di alberi fino ad Abougos La soggetta pianura era tutta coperta di frumento già mietuto, di tabacco, e di frumento della Guinea.
All'indomani 30, partii alle cinque ore e tre quarti, e prendendo la strada di Far e Nazour, arrivai verso le nove a Giaffa, piccola città regolarmente fortificata, capace di buona difesa, e provveduta d'artiglieria, con guarnigione turca e mogrebina.
Il porto non ammette che i piccoli bastimenti che fanno il cabotaggio della Siria, ed i grandi restano in rada sopra una sola ancora per prendere il largo al primo vento essendo la costa troppo aperta. M'imbarcai la stessa sera sopra un battello che fece vela alle nove della sera, e scesi a terra nel porto di S. Giovan d'Acri il giorno susseguente.
Questa piccola città, dai musulmani detta Akka, assai celebre in tempo delle Crociate per la comodità del suo porto, si distinse ultimamente per la bella difesa fatta contro i Francesi; dopo la quale epoca le sue fortificazioni vennero notabilmente migliorate. Il suo porto è molto angusto, ma la rada può contenere numerose flotte. La sua moschea fabbricata dal Pascià Diezzar è tanto gentile, che si assomiglia più ad una casa di delizie, che ad un tempio.
Altra volta era provveduta di eccellente acqua che derivava da lontana sorgente; ma il governo turco non ha fin ora pensato a rimettere l'acquedotto rovinato dai Francesi in tempo della spedizione d'Egitto: onde gli abitanti sono ridotti a bere l'acqua de' pozzi carica di salenite, e pesante come il piombo.
Diezzar Pascià, per quanto mi fu detto, diede prove in tempo dell'assedio de' Francesi, di valore e di fermezza; ma egli era mamelucco, ed educato soltanto nel mestiere delle armi, onde fu estremo nel male e nel bene, non conoscendo la via di mezzo.
Gli Europei hanno in Acri molta libertà, e vi sono rispettati assai, tanto dal governo che dagli abitanti turchi ed arabi. La città è situata nel lato settentrionale d'una vasta baja in faccia al mezzogiorno: e nel tempo della mia dimora il caldo era insopportabile. All'estremità meridionale della baja vedesi il monte Carmelo che prolungasi nella direzione di E. O. fino al mare, ed ha sulla cima un monastero greco dedicato a S. Elia, ed un altro più basso dei cattolici sotto lo stesso titolo, e tra l'uno e l'altro una moschea turca parimenti sacra al Profeta Elia.
Il 6 agosto decisomi di andare a Nazaret, mentre in compagnia di alcuni amici usciva di città, fui attaccato da una vomica spasmodica, dalla quale mi liberai in poche ore con una dose d'emetico, che fortunamente conservava ancora nella mia piccola spezieria. Fu questo il terzo attacco di bile ch'io soffersi in trentotto giorni, il primo al Cairo, ed il secondo a Gerusalemme.
Mi posi in viaggio il giorno 7 alle sei ore del mattino, prendendo la strada all'est per un terreno prima piano, poi montuoso, di tratto in tratto coperto di alti alberi, e sparso di casali circondati da campi e da prati. Trovandomi ancora assai debole camminava lentamente temperando la noja della strada coll'osservare le numerose greggie che pascolavano su quelle pendici.
VEDUTA DEL MONTE CARMELO DALLA PARTE DI S. GIOVANNI D'ACRI.
Non arrivai a Nazaret prima delle quattro della sera, quantunque non sia distante che sei ore da S. Giovanni d'Acri; ma io era forzato di andare lentamente, e di prendere riposo ogni due ore. Andai ad alloggiare nel convento de' Francescani posto nel sito in cui la Vergine fu visitata dall'Angelo Gabriele.
Nazaret di Galilea è città aperta, fabbricata sul pendio d'una montagna volta a levante, popolata da circa mille Turchi, e da altrettanti Cristiani. Gli abitanti approfittano del pendio del suolo per cavare delle camere nella roccia di modo che ogni casa ne ha una parte sotterranea. Tra i Cristiani i cattolici romani sono di lunga mano più numerosi di quelli degli altri riti, che pure vivono in buona armonia. Le donne musulmane sortono col volto scoperto, e le feste e le allegrie sono comuni ai due sessi, ed agli individui di tutte le religioni.
La carne, i legumi, o frutta, l'acqua, il pane, tutto è bonissimo specialmente nel convento. I monaci vi godono piena libertà come in Europa: portano pubblicamente i sacramenti agli ammalati, e sono sommamente rispettati dalle persone di ogni culto, perchè la loro condotta è veramente esemplare e meritevole della riputazione di cui godono.
Il convento è un grande e bello edificio solidamente fabbricato, e capace di una buona difesa militare. In mezzo alla chiesa assai gentile, vedesi una grande scala di marmo che conduce alla grotta ove si effettuò il grande mistero dell'incarnazione. Per due anguste scale si monta all'altar maggiore posto sopra la rupe che forma la volta della grotta, e dietro all'altare trovasi il coro de' monaci; cosicchè questa chiesa è formata di due piani, quello della grotta nel fondo, l'altro del corpo principale della chiesa in mezzo, e l'ultimo dell'altare maggiore e del coro nella parte più elevata. Al di là del coro vedesi pure un altro piano in forma di tribuna, occupato da un eccellente organo. Un'angustissima scala fa capo ad un'altra grotta, che si suppone essere stata la cucina della Vergine, per esservi in un angolo una specie di focolajo. Altra scala, egualmente stretta, comunica coll'interno del convento. Questo convento è composto di tredici religiosi, nove de' quali, compreso il prelato, sono spagnuoli.
I Musulmani credono anch'essi la verginità di Maria, e la miracolosa incarnazione di Gesù, spirito di Dio, per l'intromissione dell'Angelo Gabriele; e venerano il luogo santificato da questo grande mistero, ove vengono frequentemente a fare le loro preghiere. Un giorno vidi una numerosa processione di montanari maomettani venire accompagnati dalla loro musica per presentare un fanciullo alla Vergine, tagliandoli la prima volta i capelli in chiesa.
Mezza lega al S. O. della città avvi un luogo detto precipizio, che è propriamente una gola delle montagne di Nazaret sopra la valle d' Estrelon; accanto alla quale la montagna è tagliata a picco dalla cima al fondo. La tradizione del paese vuole, che i Giudei conducessero Gesù Cristo in questo luogo per precipitarlo, e ch'egli si salvasse rendendosi invisibile. Non molto al di sotto della sommità fu cavato un altare nella rupe, al quale una volta all'anno vi si reca il popolo per celebrarvi una messa; al quale oggetto fu fatta una strada che attraversa il precipizio.
Nella valle d'Estrelon avvi un vasto e popolato villaggio dello stesso nome, ove fu data la celebre battaglia di Nazaret.
Dietro le più autentiche notizie ch'io mi sono procurato in sul luogo, guarentisco il seguente stato de' monaci cattolici romani in Terra Santa
A Gerusalemme 40 a S. Salvatore, de' quali 25 Spagnuoli
11 a S. Sepolcro, 8 Spagnuoli
10 a S. Giovanni tutti Spagnuoli
A Ramlè, o Rama 3 tutti Spagnuoli
A Betlemme 10 7 Spagnuoli
A Taffa 4 tutti Spagnuoli
Ad Acri 4 1 Spagnuolo
A Nazaret 15 9 Spagnuoli
Ad Aleppo 9 tutti Italiani
A Tripoli, Arizza e Latakia 3 Italiani
A Larnica in Cipro 5 Italiani
A Nicosia ibidem 3 Spagnuoli
Totale N.º 124 monaci dei quali 79 Spagnuoli
A Seida avvi un convento pei monaci Francesi ora disabitato. Inoltre trovansi in Levante quattro altri conventi separati dal corpo di Terra santa: cioè
Quello di Costantinopoli N.º 4 monaci Spagnuoli
Del Cairo di 8 monaci Italiani
D'Alessandria di 2 idem
Di Rosetta di 1 idem
Totale N.º 15 di cui 4 Spagnuoli
Le contribuzioni ordinarie che i monaci pagano ogni anno al governo turco, sono così regolate
Al Pascià di Damasco piastre lir. 7,000.
Allo stesso il solo convento di Damasco 1,000.
Al Pascià d'Acri 10.000.
Totale lir. 18,000.
Oltre le ordinarie sono inoltre costretti di pagare altre eventuali contribuzioni, e gratificazioni ai governatori, ec. Il solo Muftì di Gerusalemme ha esatte nel corso di otto anni 40,000 piastre.
Il panno, di cui vestonsi i monaci vien loro spedito dalla Spagna e dall'Italia; come pure il cuojo di cui fannosi in paese i loro sandali. In fine può dirsi, generalmente parlando che i cristiani latini, i quali in altri tempi sconvolsero il mondo per impadronirsi dei luoghi Santi, li hanno adesso talmente abbandonati, che senza i soccorsi della Spagna non sarebbevi alcuno stabilimento del loro rito.
Anche la Francia contribuisce al loro mantenimento colla protezione del suo ministro a Costantinopoli; ma questa non toglie che i governatori turchi non vessino di continuo i monaci di Gerusalemme per cavarne denaro: talchè passano la vita in perpetui travagli, e sono veri martiri del loro zelo.
Poichè lo stabilimento de' religiosi cattolici romani in terra Santa arreca grandi vantaggi agli abitanti di questi paesi, io non temo di raccomandarli alle potenze d'Europa. La diversità dei culti deve dileguarsi innanzi agli occhi del filosofo che desidera il bene della umanità: e questo è il sentimento che dirige le mie azioni, e la mia penna. Senza grandi sacrifici si potrebbe rendere assai migliore la sorte di queste virtuose vittime dello zelo religioso.
CAPITOLO XLVII.
Viaggio a Damasco. — Monte Tabor. — Mare di Galilea. — Fiume Giordano. — Paese vulcanizzato. — Damasco. — Popolazione. — Grande moschea. — Bazar o mercati, e manifatture.
Partii da Nazaret il giorno 19 agosto in migliore stato di salute, che riconosceva da quel felice clima, e dopo due ore di cammino fra le montagne, arrivai a Canaan, celebre pel miracoloso cambiamento dell'acqua in vino. Da questa piccola città che può contenere al più cinquecento famiglie, scesi in una valle alla destra del Tabor, montagna di ragguardevole elevatezza, ove accadde la trasfigurazione di Gesù Cristo, ed alle di cui falde i Francesi diedero la famosa battaglia del Monte Tabor. Dai colli che chiudono la valle a N. E. vidi l'estremità del mare di Tiberiade, di Galilea; e feci alto presso al villaggio Stheltinn.
Il giorno 20 dopo aver passata una stretta gola tra le montagne tutte coperte di boschi, mi trovai quasi sulla spiaggia del mare di Galilea, che ha sette in otto leghe di lunghezza dal nord al sud, e due leghe di larghezza. Questo bel catino d'acqua circondato da alte montagne; l'atmosfera carica di grosse nuvole ammonticchiate che lasciavano appena sfuggire di quando in quando qualche raggio di sole; la città di Tiberiade, famosa per le sue acque termali posta sulla riva occidentale; finalmente il monte Tabor che signoreggia le circostanti montagne, presentavano ai miei occhi un'interessante veduta animata da numerose greggie che pascolavano in ogni lato.
La costa settentrionale di questo mare è tutta coperta di basalte, di lava, e di altri prodotti vulcanici: di modo che se le altre rive da me non vedute sono composte delle medesime materie, non sarebbe fuor di luogo il credere che il mare di Galilea fosse altre volte il cratere di un vulcano.
Salendo il pendio di N. N. E. vedemmo alcuni Bedovini a cavallo, che osservandomi in atto di difesa non osarono di attaccarmi. Presi riposo alle nove ore del mattino nel Khan, ossia casa del profeta Giuseppe, ove trovai un corpo di soldati mogrebini d'Acri, ed una cisterna d'eccellente acqua; a quaranta passi dalla quale sono le ruine di una altra, che la tradizione dice essere quella, in cui i figli di Giacobbe rinchiusero il fratello Giuseppe avanti di venderlo ai mercanti Ismaeliti. Ripresi il cammino alle dieci ore, e giunto sulla sommità d'una collina a N. N. E. mi si aperse innanzi un nuovo orizzonte di dove vedeva scorrere in profondo letto il fiume Giordano. Ad un'ora dopo mezzo giorno giunsi al ponte di Giacobbe ( cantara Yacoub ) di tre archi acuti di pietra sul Giordano, con un'antica fortezza alla testa occidentale allora occupata da un distaccamento di soldati del pascià d'Acri: ma circa sessanta passi al di là trovai altro corpo di soldati del pascià di Damasco. Queste due guarnigioni poste ai confini dei rispettivi governi, quantunque egualmente composte di turchi, pare che appartengano a differenti nazioni; tale è lo stato di indipendenza dei Pascià, e l'anarchia che regna nelle provincie dell'impero ottomano.
In questo luogo il fiume Giordano può avere sessantaquattro piedi di larghezza, e non è molto profondo, ma scorre rapidamente. L'acqua quantunque alquanto calda è buona, e le sue rive sono coperte di giunchi e di altre piante palustri. Siccome noi altri musulmani conserviamo una particolare riverenza per questo fiume, non mancai di bagnarmi, e di bere della sua acqua a sazietà. Fui qui raggiunto da una carovana assai numerosa, colla quale feci alto sulle rive del fiume.
Venerdì 21.
Partimmo alle quattro e mezzo del mattino, e dopo un lungo e disastroso viaggio per luoghi alpestri, indi per una sterile campagna, entrammo in una piccola macchia, in fondo alla quale trovasi sopra un poggio il villaggio di Sassa, ove si passò la notte.
I campi Flegrei, e tutto quanto può dare un'idea della distruzione vulcanica, non sono che una languida immagine dell'orribile paese attraversato questo giorno. Dal ponte di Giacobbe fino a Sassa il terreno è composto di lava, di basalte, e di altri prodotti vulcanici: tutto è nero, poroso, tarlato, sicchè ci pare di viaggiare in una regione infernale: ma particolarmente presso Sassa vedonsi spaccature ed ammassi così spaventosi di materie vulcaniche, che fanno inorridire, pensando all'epoca in cui vennero lanciate dal seno della terra infiammata. Le spaccature, ed i bachi che vedonsi qua e là, contengono un'acqua nera come l'inchiostro, e per lo più puzzolente.
Da ciò apparisce chiaramente che questi paesi furono in altri tempi popolati di vulcani; e scontransi ancora varj piccoli crateri sul piano. Per un singolare contrapposto questo piano è chiuso a settentrione da una montagna, la di cui sommità inalzandosi fino alla regione delle nevi perpetue, offre al di sopra delle reliquie degli spenti vulcani l'aspetto di un perpetuo inverno.
Sabato 22.
Dopo due ore di viaggio cominciammo a trovare i segni della prossimità di una grande capitale, borgate e villaggi e giardini ad ogni passo. Alle otto e mezzo essendo saliti sulle colline che chiudono l'orizzonte, scopersi all'est un immenso piano, circondato al nord da alte montagne, tra le quali ne marcai una isolata dalle altre di gigantesca forma piramidale, alle di cui falde tra un'infinita quantità di giardini sorgono le torri delle moschee di Damasco; e tutta la campagna è seminata di villaggi e di alberi fruttiferi.
Riposatomi un istante nel villaggio di Daria posto entro ai giardini di Damasco, giunsi poco dopo mezzo giorno alle prime case della città dagli Arabi detta Scham.
Il viaggiatore che si avvicina la prima volta a Damasco crede di vedere un vasto campo di tende coniche; ma avvicinandovisi davvantaggio trova che queste tende altro non sono che un'infinità di cupole, che servono di tetto a quasi tutte le camere delle case nei sobborghi esteriori della città. Queste cupole e per la forma e per la grandezza loro rassomigliano perfettamente alle colombaie d'Egitto di cui si è parlato in addietro.
Le case dell'interno della città formate di più solidi materiali hanno d'ordinario due piani, ed il tetto piatto come nelle città dell'Affrica, avendo egualmente poche finestre e piccolissime porte, e la facciata senza ornati: ciò che unito al silenzio che regna nelle contrade dà alla città un aspetto tristo e monotono. Le strade sono ben selciate con marciapiedi assai elevati da ogni banda, di sufficiente larghezza, ma non livellati.
Credesi in paese, che Damasco abbia quattrocentomila abitanti: ma io sono di sentimento che, compresi anche i sobborghi, non ecceda di molto i dugento mila, tra i quali contansi ventimila cristiani cattolici, cinquemila scismatici, ed altrettanti giudei: al contrario delle altre città del Levante che per lo più hanno maggior numero di scismatici che di cattolici.
La maggiore moschea è un estesissimo edificio, in faccia al quale trovasi un magnifico serbatojo d'acqua, con una fontana di venti piedi di getto. Il caffè presso alla fontana è sempre pieno di oziosi. Sonovi molte altre moschee che non meritano d'essere descritte.
Damasco, siccome le altre città musulmane, non ha piazze pubbliche. L'uso di lasciare grandi spazj vuoti in mezzo alle città per renderle ariose e belle, è affatto ignoto ai musulmani; forse perchè dovendo provvedere al più urgente bisogno di temperare gli effetti d'un sole sempre ardente, pensarono soltanto a non dare troppa ampiezza alle strade, onde più facilmente poterle coprire colle frascate. Per altro a Damasco trovansi poche contrade abbastanza larghe, specialmente intorno al palazzo del Pascià, chiuse in modo dalle altre case, che non se ne vede che la maggior porta. In faccia al palazzo del Pascià trovasi il Kaala, fortezza che può esser utile a tenere in freno la popolazione; affatto inutile per la difesa della città.
I commestibili e le mercanzie d'ogni genere si vendono nelle botteghe poste ai due lati delle strade, che chiamansi Bazar, o Zok; alcune delle quali sono riccamente provvedute. Quale diversità fra questi abbondanti magazzini, e le povere e piccole botteghe del Cairo, di Fez e di altri luoghi, ove pare che il negoziante esponga suo malgrado gli oggetti che vuol vendere?
A Damasco le botteghe rigurgitano, per così dire, di mercanzie, e specialmente di seterie, di belle tele dell'India e della Persia; ma più di tutto di tele fabbricate in paese. Contansi a Damasco più di quattromila famiglie di fabbricatori di stoffe di seta e di cotone: ma non vi si fabbricano tele di lino, che non viene coltivato nella provincia.
Nel nuovo magnifico bazar che si fabbrica adesso di fronte al reraya, vi ho veduto un orologiaio arabo che faceva degli oriuoli da tavola.
I principali rami del commercio di Damasco sono le seterie, e i fornimenti da cavallo, facendosi delle prime un estesissimo consumo nella Turchia, nell'Egitto, nell'Affrica e nell'Arabia; e de' secondi dagli arabi de' vicini deserti di Bagdad, e di Medina, che non hanno altro favorito mercato per tali oggetti che quello di Damasco.
Gli armajuoli formano pure una ragguardevole parte delle manifatture del paese, quantunque più non esista la famosa fabbrica delle sciable damaschine, risguardate adesso come cosa rarissima, e vendute a prezzi enormissimi. Dopo queste antiche sciable, le più riputate sono quelle della fabbrica persiana del Khorassan.
Anche le fabbriche di sapone, i fabri, i calzolaj, ec. occupano molte contrade, e vi si trova pure una fabbrica di vetri. Ma per avere un'adeguata idea del commercio di Damasco, basta fare attenzione alla quantità dei falegnami esclusivamente addetti alla costruzione delle casse che servono ogni anno ad imballare i prodotti del suolo e dell'industria. Più migliaja di persone che occupano un vasto quartiere della città formano ogni giorno parecchie migliaja di casse; benchè non tutti gli oggetti che si esportano da Damasco vengano incassati.
L'affollato popolo de' bazar forma un singolare contrasto colla solitudine delle altre contrade ove non sianvi nè officine, nè botteghe. In tutti i bazar vi sono forni per cuocere continuamente piccoli pani, focaccie, e varie altre pasticcerie: e le botteghe dei barbieri nelle vicinanze dei bazar sono ornate di pitture a rabeschi, di specchi, di cristalli, d'iscrizioni a caratteri d'oro ec. onde allettare gli avventori. I caffè dei bazar sono pieni di gente tutto il giorno. Bianchi, neri, mulatti di qualunque casta, di ogni religione, di qualsiasi nazione, esclusi gli europei, vi hanno un'intera libertà.
Magnifici sono pure i bagni de' bazar, e provveduti di tutto quanto si conviene al comodo, e dirò anche al lusso, ad al divertimento de' concorrenti. Non dirò alcuna cosa della quantità e bontà de' commestibili, non essendovi forse altro paese al mondo che vantar possa più grasse e delicate carni, erbaggi più teneri, più belli e saporiti frutti, più variato ed abbondante selvaggiume, mèle e latticinj più deliziosi, più bianco o miglior pane; in una parola, tutto ciò che può desiderarsi per la vita animale.
CAPITOLO XLVIII.
Acque di Damasco. — Cristiani. — Commercio, prodotti, clima. — Razze dei cavalli. — Abiti. — Donne. — Sanità. — Scuole. — Governo. — Fortificazioni. — Bedovini di Anaze. — Salakhie.
Damasco è in modo provveduta di acqua che tutte le case hanno più fontane; non servendo le pubbliche che all'inaffiamento delle strade. Queste acque formano una quantità di canali: ma derivano da due soli fiumi, che dopo essersi uniti in un solo, dividonsi poi in sette rami, dai quali viene distribuita l'acqua in tutta la città.
Trovansi nella città di Damasco più di cinquecento magnifiche case, che possono dirsi palazzi; che per altro non essendo esternamente ornati di belle facciate non contribuiscono all'abbellimento della città. Tutte le comunioni cristiane hanno le particolari loro chiese, Greci, Maroniti, Siriaci, Armeni, ed inoltre sonovi tre conventi di Francescani, uno di osservanti Spagnuoli, e due di Cappuccini Italiani.
Il Patriarca greco d'Antiochia risiede a Damasco, ove riceve determinate tasse pei battesimi, pei matrimonj, pei funerali de' cristiani d'ogni rito, che sono obbligati di presentarsi innanzi al ministro da lui delegato a quest'effetto.
Vi sono otto sinagoghe di Ebrei, che allora, per quanto mi fa detto, erano assai ben trattati. Per altro mi è parso, che il fanatismo del popolo di Damasco avanzi quello degli Egiziani, perchè un Europeo non potrebbe senza pericolo mostrarsi ove non sia vestito all'orientale. Un cristiano, un ebreo non può andare a cavallo per città, e neppure valersi di un asino.
Si contano dugento negozianti molto accreditati, tra i quali i due più ricchi sono Sckatti, Mehemet Sua, a cadauno dei quali si attribuiscono in circolazione quattro o cinquemila borse (cinque milioni di franchi).
Il commercio si fa d'ordinario colle carovane, di cui le più considerabili sono tre: 1.º quella della Mecca maggiore d'ogni altra, che faceva il viaggio una volta all'anno; ed ora da qualche tempo sospesa per l'invasione de' Wehhabiti[1]: 2.º quelle di Bagdad che vengono a Damasco tre o quattro volte all'anno scortate da oltre duemila cinquecento persone armate: 3.º Le carovane d'Aleppo che partono d'ordinario due o tre volte al mese, e rimangono dodici giorni nel viaggio, quando un corriere montato sopra un dromedario fa questo viaggio in tre giorni. Contansi ancora varie altre minori carovane che ogni giorno arrivano o partono per Beruti, Tripoli di Siria, Acri, ed altri luoghi.
A fronte della eccessiva loro abbondanza i viveri si vendono in Damasco a più alto prezzo che altrove; e ciò a cagione del moltissimo numerario che vi condensa la straordinaria attività del suo commercio.
I principali prodotti del suolo sono formento, orzo, canape, uva, meschmesch, specie d'albicocca che si fa seccare, pistacchj ed ogni qualità di frutti. Poca, ma bellissima è la seta che vi si raccoglie, ed il rimanente che manca al consumo delle sue fabbriche s'importa dai vicini paesi, come pure tutto il cotone, che non si coltiva nel territorio di Damasco. Benchè il raccolto del mèle sia abbondantissimo, gli abitanti non appresero ancora a lavorare la cera; non sapendo fare che cattive candele gialle. Riceve lo zucchero dall'Egitto e dall'Europa, e tutto il riso dall'Egitto.
La fertilità del terreno è tale, che gli abitanti non ricordano veruna cattiva annata. Perciò gli agricoltori trovansi generalmente nell'agiatezza, quantunque aggravati da enormi tasse, e dall'arbitrario mantenimento delle truppe.
Il clima di Damasco è piuttosto dolce, non essendo troppo freddo d'inverno, e venendo i calori dell'estate temperati dalla freschezza delle acque, dalle ombre degli alberi, dalla disposizione delle case, ec. Alcuni anni nevica ancora in Damasco; ogni anno sulle vicine montagne. I più ordinarj venti sono quelli di levante e di ponente, ma senza periodo determinato. Da aprile fino al novembre piove rarissime volte; e regolari e moderate sono le pioggie degli altri mesi, e sempre portate dai venti occidentali. Lo scioglimento delle nevi sulle montagne incomincia in aprile e talvolta in marzo; ma la sommità delle più alte ne rimane sempre coperta; lo che procura a Damasco l'abbondanza del ghiaccio a moderati prezzi tutto l'anno.
Mi si faceva credere che incomodo riuscisse il soggiorno di Damasco per la copia delle cimici, delle pulci e delle zanzare; ma io ne vidi pochissime; e solo mi furono moleste le morsicature assai dolorose dei tafani indigeni di questo paese.
Pochissimi e poco velenosi sono i serpenti e gli scorpioni.
I muli e gli asini non sono più buoni di quelli dell'Egitto, e rispetto ai cavalli io mi sono procurate le seguenti notizie. Sei sono le più conosciute razze; la prima detta djelfè trae la sua origine dall'Arabia felice, ossia dell'Ieman: cavallo maraviglioso al corso, e nelle battaglie; agilissimo, pieno di fuoco, instancabile e sofferente oltre ogni credere della sete e dalla fame; non pertanto docile come un agnello, senza collera, e che nè spranga, nè morde mai. Conviene però nudrirlo scarsamente, e tenerlo continuamente esercitato. È alto di taglio di groppa, ha il collo sottile, e le orecchie piuttosto lunghe. Non può dirsi questo il più bel cavallo, ma è incontrastabilmente il migliore. Un cavallo perfezionato di questa razza, vale a dire di due in tre anni, costa per lo meno duemila piastre turche.
La seconda razza detta seclàoui è indigena della più orientale regione del deserto. È in tutto somigliante alla precedente; tranne pel luogo della nascita; imperciochè i più esperti conoscitori li distinguono a stento, ed uguale ne è il valore, quantunque si preferiscano i cavalli della prima razza.
Ma soprammodo belli sono i cavalli della terza razza detti ooel mefki, inferiori per altro ai precedenti nella velocità del corso. Vengono a Damasco dai vicini deserti, e costano d'ordinario dalle mille alle mille cinquecento piastre. Hanno le belle proporzioni dei cavalli dell'Andalusia, e sono in Damasco assai comuni.
I cavalli della quarta razza, detti ooel sabi, rassomigliano affatto a quelli della terza, da cui non li distinguono che i più sperimentati veterinarj; e costano dalle mille alle mille dugento piastre quando non abbiano difetti, e non più di quattr'anni, nè meno di tre.
La quinta razza a cui si dà il nome d' ooel treidi, è la più comune, siccome quella dei contorni di Damasco, e somministra cavalli abbastanza belli e buoni: ma tra questi ve n'hanno assai di viziosi. Si vendono ordinariamente dalle seicento alle ottocento piastre.
L'ultima razza, indigena della provincia di Bassora, chiamasi ooel nagdi, e pareggia, se non avanza in eccellenza le razze djelfè, e seclaoui; ma rarissimi sono in Damasco, ed il prezzo affatto arbitrario. La maggior parte dei cavalli arabi sono bigi-leardi, o bajo-scuri; pochissimi sono i neri.
L'abito de' Damaschini è un misto d'arabo e di turco; ma più comunemente si fa uso del cappotto arabo a grandi liste, e l'alta berretta turca è più comunemente usata dai Turchi che dagli Arabi. Questi si coprono con una berretta di smisurata grandezza, che loro pende in sul di dietro; e si cingono il capo con un fazzoletto di cotone o di seta screziata; acconciatura non priva di grazia.
Le donne copronsi dal capo ai piedi con grandi veli di cotone bianco, e con enormi mutande. Le donne di condizione tengonsi riservate e modestissime, le volgari sono assai libere, ed anche dissolute. Portano le une e le altre un fazzoletto di seta trasparente, d'ordinario di color giallo che loro nasconde il volto, lo che le fa parere spettri ambulanti: ma molte sogliono gettarsi il fazzoletto sul capo, e portare il volto scoperto. Questa costumanza mi procurò il vantaggio di vedere in Damasco molte donne assai belle, e per la maggior parte di pelle bianca e finissima. Non si vedono in Damasco tante donne isteriche come in Gerusalemme e nell'Arabia, nè meno quelle pelli abbronzate dei paesi dell'Affrica, nè quei fanciulli sudici cisposi e ributtanti d'Alessandria e di altri paesi musulmani, nè finalmente quegli uomini secchi abbronzati o neri dell'Affrica e dell'Arabia. Vedonsi donne e fanciulli di bellissimo e grazioso aspetto, mentre gli uomini hanno maschili lineamenti, tinte robuste, e regolari proporzioni. E per dirlo in una parola la popolazione di Damasco è affatto diversa da quella dell'Affrica e dell'Arabia, tranne Fez, i di cui abitanti sono i più belli di tutta l'Affrica.
Eccellente è il clima di Damasco, ma forse più che al clima devesi alla comune agiatezza, al moderato esercizio, ed all'uso dei bagni caldi, la rarità delle malattie. La durata ordinaria della vita si calcola dai settanta agli ottant'anni; e vi si contano pure alcuni centenarj.
Difficilmente vi s'introduce anche la peste, e le ultime volte fu pure assai debole. Si osserva essere assai mite quando viene dal mare, più feroce quando proviene da Aleppo. Pure gli abitanti non pensano a cautelarsi contro tanta calamità, e mentre in Aleppo faceva orribili stragi, in Damasco ricevevansi e si spedivano ogni giorno le carovane senza prendersi alcun pensiero: eppure con mia sorpresa Damasco ne andò esente. Ciò prova, che la comunicazione della peste non dipende solamente dal contatto, ma ancora dalla combinazione di certe disposizioni locali e personali.
In un paese abitato da persone laboriose, gli oziosi non sono fortunati; e perciò rarissimi sono gli stregoni e gl'indovini, e tutti coloro che altrove trovano di che vivere ingannando i loro simili.
Sonovi in Damasco venti grandi scuole, e molte altre minori pei fanciulli: cinque per gli studj delle scienze, che come nel rimanente della Turchia riduconsi alla scienza della religione, che comprende pure la giurisprudenza.
Benchè questo popolo sussista in gran parte dei prodotti delle fabbriche e del commercio delle tele, e sia più incivilito de' suoi vicini, aveva un numeroso partito nel suo seno che desiderava i Wehhabiti, che pei loro principj religiosi oppongono tanti ostacoli al commercio ed alle manifatture[2].
Il governo della città di Damasco, e di un vasto tratto di paese al S. fino ad Ebron al di là di Gerusalemme, ed al N. fin quasi ad Aleppo, viene affidato ad un Pascià del Gran Signore. Quest'uomo, e per l'estensione del suo governo, e pel nobile incarico di condurre ogni anno la carovana della Mecca col titolo d' Emir-el-Hadj, o principe del pellegrinaggio, è tenuto in altissima considerazione alla corte, riguardandosi come uno de' più grandi dignitarj dell'impero.
Le entrate del pascialaggio si fanno ascendere a quattromila borse, corrispondenti a cinque milioni di franchi, ma le avarie, i regali, le estorsioni sono un altro importantissimo ramo d'entrata. Il Sultano, mentre io soggiornava in Damasco, dava a questo Pascià il governo di Taraboulous, ossia Tripoli di Siria, non meno importante di quello di Damasco.
Questo Pascià può avere nel circondario del suo governo cinque in seimila soldati, turchi, mogrebini, ed altri, e forse attualmente ammontavano ai diecimila, e ciò a cagione delle turbolenze di Gerusalemme.
Damasco è circondato di mura con torri e fosse, ma rovinate in modo da non poter resistere ad un regolare assalto. La sua maggior difesa consiste piuttosto ne' giardini, che formano una foresta d'alberi, ed un laberinto di siepi, di muraglie, di fosse di più di sette leghe di circonferenza; lo che non sarebbe un leggiero ostacolo per un nemico musulmano che volesse attaccarlo.
Tra le tribù Bedovine che abitano ne' deserti vicini a Damasco, la più ragguardevole è quella d' Anaze, il di cui capo chiamasi Fadde. Abita questa tribù il deserto posto a levante della città, e stendesi fin presso a Bagdad.
Io visitai il villaggio di Salokhi, che è la principale villeggiatura degli abitanti di Damasco. È questa una borgata vastissima con due pubblici mercati, e con una infinità di case e di giardini. Trovasi alle falde delle montagne al nord della città, ed è propriamente un delizioso soggiorno.
CAPITOLO XLIX.
Viaggio ad Aleppo. — Descrizione dei Khan. — Carovana. — Tadmor o Palmira. — Città di Homs. — Fiume Oronte. — Città di Hama. — Libertà de' costumi. — Incontro notturno. — Arrivo ad Aleppo. — Osservazioni intorno a questa città. Partii da Damasco il sabato 29 agosto alle quattr'ore dopo mezzogiorno, con una carovana destinata per Aleppo. Dopo un'ora di viaggio in mezzo ai giardini, si attraversò una campagna posta a N. E. provveduta di alcuni villaggi, ed arrivammo a sette ore e tre quarti ad un Khan detto Khosseir.
Domenica 30.
Alle tre ore ed un quarto del mattino, mi diressi all'E. N. E. lungo la vasta pianura di Damasco, e dopo due ore di viaggio entrai in una gola che mi fu rappresentata come pericolosa, in fondo alla quale vedonsi le ruine di un antico edificio, ed una cisterna di acqua. Di là salii alcune montagne, dopo le quali, attraversata una pianura, giunsi al villaggio di Cataïfa, ove alloggiai nella sua bella moschea fino alle dieci ore della sera.
Lunedì 31.
Alle dieci ore di jeri avendo lasciato Cataïfa, giunsi per un terreno disuguale verso la mezzanotte al Khan Aaron, omai affatto ruinato, posto ad una lega all'O. del villaggio di Maloula; di dove camminando al N. N. E. entrai a sett'ore ed un quarto del mattino nel borgo di Nebka, che può avere un migliajo di famiglie abbondantemente provveduto di giardini e di eccellenti acque. Gli abitanti spargevano la notizia che gli Arabi d'Anaze avevano attaccati i Wehhabiti, e prese loro molte donne e fanciulli, che vendevano come schiavi, riguardandoli come infedeli indegni d'essere musulmani. Si diceva a Damasco che la tribù d'Anazis era amica dei Wehhabiti, onde supposi che si trattasse di una diversa popolazione della stessa contrada.
Martedì 1º settembre.
Dopo tre ore di viaggio giunsi a sette ore ed un quarto a Kara, paese assai ben situato sopra un'altura, e circondato di bei giardini. Al presente non ha più di trecento famiglie; ma in addietro era assai popolato, onde la metà delle sue case va ruinando. Tutto il suolo attraversato questo giorno è affatto deserto.
Le carovane si fermano sempre nei Khan che si trovano in vicinanza dei villaggi e delle città. Il precedente giorno io aveva preso alloggio in casa di un bifolco cristiano; e nel presente presso un bifolco musulmano. Non si può a meno di non ammirare la bontà ed il candore di questa gente; essi trovansi abbastanza agiati, e tengono le case loro con estrema politezza, e provvedute di tutti i necessarj arredi. Osservai in particolare che hanno molti assai gentili materassi e cuscini alla turca, ne' quali ripongono il principale loro lusso.
Siccome ho più volte parlato dei Khan parmi necessario di doverne dare una circostanziata descrizione.
Il Khan è un edificio quadrangolare, talvolta fiancheggiato agli angoli da torrette, e coronato di feritoje che gli danno l'apparenza di fortezza. Diversa ne è la grandezza, ma la media può ritenersi di cento trentatrè piedi per ogni lato. Sonovi internamente uno o due cortili circondati da stalle, con una moschea o semplice cappella per la preghiera; ed alcuni de' più grandi sono anche provveduti di appartamenti. Questi stabilimenti, ch'io credo fatti per ordine del governo, sono sempre aperti, ed i passaggieri e le carovane entrano e sortono liberamente senza chiedere licenza; rimanendovi finchè ognuno vuole, senza pagar nulla a chicchessia.
Così bella istituzione nell'impero turco è dovuta al principio di morale religiosa, che obbliga tutti i musulmani ad esercitare l'ospitalità verso il passaggiero di qualunque nazione o culto egli sia. In conseguenza di tale principio sonovi Khan in tutti i luoghi abitati o deserti, ne' quali i viaggiatori sono costretti a fermarsi. Quelli ch'io ho visitati sono solidamente fatti di pietra ed alcuni con qualche lusso architettonico; ma perchè costruiti già da più secoli, molti vanno ruinando, senza che si pensi a ristaurarli; perchè l'epoca della gloria musulmana è omai passata.
La carovana con cui io viaggiava era formata di circa trecento bestie da carico, muli, cavalli, cammelli ed asini, e quasi tutti di Aleppo. I muli senz'avere una vantaggiosa statura, sono forti e coraggiosi, onde difficilmente si distinguerebbero senza le grandi orecchie che portano sempre diritte. I muli e gli asini sono ordinariamente neri, e cercano sempre di sorpassarsi l'un l'altro nel cammino. Eranvi tra i molti passaggieri della carovana molte donne, e fanciulli d'ambo i sessi.
Dietro le informazioni ch'io mi procurai, seppi che Taraboulous, o Tripoli, trovasi quasi esattamente all'ouest di Kara; lo che coincide pure colla mia stima geodetica. Una giornata al di là verso l'ouest-sud-ouest è situato Baàlbek, città grande, ma ruinata. In distanza di una lega all'ouest trovasi il fiume Caftara, che perdesi in un lago; ed a tre giornate di cammino all'est giace Tadmor, o Palmira, un tempo doviziosa e celebre città, che ora conta appena cinquecento famiglie. Andando a Palmira si arriva il primo giorno al villaggio di Haouarìnn, il secondo a Karìtèìun. Gli arabi d'Anaze due giornate lontani da Kara dalla banda di sud-est, spingono il loro dominio e le scorrerie fino a Palmira.
Mercoledì 2.
La carovana partì alle tre ore e mezzo del mattino, prendendo una strada che attraversa alcune montagne nella direzione di N. ¼ N. E., ed alle sei ore si passò in mezzo ad un gruppo di case dette Kalaat-el-Bridj. Due ore dopo arrivammo in una gola creduta pericolosa, onde tutti gli uomini armati della carovana salirono sulle alture che fiancheggiano la strada, e vi rimasero finchè la carovana si trovò tutta in sicuro. Poco dopo essere usciti da questa gola trovammo un khan quasi affatto ruinato, ed a breve distanza il villaggio di Hassia, ove entrammo alle nove ore e tre quarti del mattino.
Tutto il paese da Damasco fino ad Hassia è affatto deserto, e questa miserabile borgata non ha che alcuni piccoli orti.
Giovedì 3.
Partiti da Hassia avanti la mezza notte, giugnemmo ad Homs alle otto e mezzo del mattino. Attraversammo una montagna quasi perfettamente rotonda, dalla cui sommità circoscritta a mezzo giorno dalla catena delle alte montagne del Libano, scopersi un estesissimo orizzonte. Tutto il paese è deserto, ma cominciavamo a vedere un terreno rossiccio, fangoso, diverso da quello de' precedenti giorni, e coperto di arbusti in questa stagione disseccati. Questo terreno potrebb'essere ridotto a coltura. Allo spuntar del sole ci trovammo avviluppati improvvisamente da una densa nebbia, che dopo dieci minuti si dissipò colla medesima celerità.
In queste contrade le donne, in sull'esempio degli uomini, sono provvedute d'una pipa lunga circa quattro piedi. Questo giorno ne vidi una fumare con tutta gravità sul suo cavallo. Aveva il volto affatto scoperto, e mostrava l'età di diciotto in vent'anni: benchè bella come un angelo, l'uso della pipa la rendeva ai miei occhi deforme.
Homs è una ragguardevole città popolata da venticinque in trentamila musulmani, e da trecento cristiani. Contiene molte moschee con altissime torri sottili all'usanza turca, due chiese cristiane di greci scismatici, ed una siriaca, diversi bazar, o mercati ben provveduti di mercanzie, ed assai frequentati, alcuni caffè molto frequentati, un alcaïsseria considerabile di stoffe di seta, un gran khan, e varj altri più piccoli. Le strade sono regolarmente lastricate; ma le case quantunque fatte di sassi hanno un aspetto lugubre pel loro color nero. Infine Homs ha tutti i requisiti di una gran città.
Gli abitanti fanno un commercio attivissimo. Il paese produce molto frumento, ma importa l'olio dalle coste, ed il riso dall'Egitto. In distanza di mezza lega della città scorre il fiume Wad-al-Aassi che è l'antico Oronte, dal quale derivansi le acque che servono all'innaffiamento dei giardini della città.
Il governatore, il kadì, e gli altri impiegati del governo sono tutti arabi del paese, e ne sono esclusi i turchi. Questa città dipende dal pascià di Damasco, che nomina il scheih el-bedel, ossia governatore, tra i naturali del paese, in conformità delle sue costituzioni.
Le mura sono circondate da un giro d'innumerabili cimiterj, che attestano la grande popolazione della città. Vedesi al mezzodì sopra una montagna isolata, che rassomiglia a quelle delle ruine d'Alessandria, una vasta antichissima fortezza con molte torri ma in gran parte ruinate.
Felice è la posizione della città, alquanto elevata, ariosa, e perciò salubre: onde meno degli altri paesi esposta ai danni della peste.
Conservansi ancora ad Homs una porta, alcuni tratti di muraglia, e due torri, rispettabili avanzi degli antichi Greci che l'abitavano.
Venerdì 4.
La carovana riprese il cammino alle due ore e mezzo del mattino, dirigendosi al nord, e lasciato da una banda il villaggio di Deàa et Teille entrò in Rastan alle sette ore.
Benchè generalmente non coltivato, il terreno scorso questo giorno è coperto di cespugli, e di pianticelle disseccate. Restan è un povero villaggio posto sull'orlo di uno spaventoso precipizio a piè del quale scorre il fiume Aassi, che veduto dall'alto non sembra molto largo. Fu già un tempo in cui questo villaggio dovette essere assai più considerabile che non lo è al presente, di che ne fanno prova molti rottami di colonne di marmo e gli enormi pezzi di granito, ormai ridotti all'ultimo grado di decomposizione. Fioriva forse all'epoca più gloriosa di Palmira? era forse una piazza di frontiera, come sembra indicarlo la sua posizione? Come deciderlo, se manca ogni memoria per appoggiare una qualunque congettura?
Prima di sera scesi in riva al fiume ov'era accampata la carovana. È questi tagliato da grandi dighe assai ben fatte, che servono a dar l'acqua ai mulini, e dalle quali l'acqua si precipita con molto fracasso.
Sabato 5.
A mezzanotte lasciando il fiume a destra, e salito il piano superiore, prendemmo la direzione al N.; indi fatta una dolce scesa, arrivammo alle cinque e un quarto del mattino nella città di Hama posta alle falde di una linea di basse colline, ed attraversata dall'Oronte. Hama è una ragguardevole città la di cui popolazione dovrebb'essere di circa centomila anime. Scende a guisa di anfiteatro dalla sommità delle colline che stanno alla destra dell'Oronte fino alla riva del fiume, e al di là del fiume risale sulla opposta montagna. Piacevolissima ne è la situazione, e tutto dimostra una città di primo ordine, sicchè rimasi estremamente sorpreso nel vedere una così bella e vasta città in luogo di una borgata come stando alle relazioni de' viaggiatori e de' geografi io credeva di trovare. Molte case sono tutte fatte di pietra, altre non di pietra che interiormente, e nella parte superiore di mattoni coperti di marmo bianco: diverse case dei sobborghi sono coronate di cupole come quelle dei sobborghi di Damasco.
L'irregolarità e l'angustia della maggior parte delle strade viene compensata dalla bellezza delle principali che formano i bazar, abbondantemente provveduti di mercanzie e di grascie, e sempre affollati di gente. Sono pure assai frequentati i caffè, tra i quali ne vidi alcuni bellissimi.
L'Oronte chiuso tra belle case e deliziosi giardini, è attraversato da frequenti dighe che sostengono l'acqua, onde far muovere una prodigiosa quantità di ruote idrauliche, alcune delle quali hanno più di trenta piedi di diametro. L'acqua inalzata dalle ruote viene distribuita per la città col mezzo di spaziosi condotti sostenuti da solide arcate. Questi condotti sono belle opere dell'antica età, e fa meraviglia che siansi così ben conservati a fronte della non curanza musulmana, e del genio distruttore del paese. Le ruote sono così ben fatte che invece di quella disgustosa scricchiolata che sogliono d'ordinario produrre cotali macchine, rendono un suono grave assai dolce: queste ruote, i condotti, le case, i giardini e le frequenti cascate delle acque dall'una all'altra diga, formano il più pittoresco punto di vista che immaginar si possa.
Gli abitanti di Hama mostrano una straordinaria inclinazione al commercio ed alle manifatture, delle quali è piena la città. Il grosso della popolazione è formato di arabi. Pochi sono i turchi, i cristiani, gli ebrei, che vi godono molta libertà. Arrivando in città mi parve di entrare in un vasto ospitale: uomini, donne, e fanciulli ne' mesi più caldi dormono nelle strade, sui terrazzi, avanti alle porte delle case. Siccom'era assai di buona ora, la maggior parte dormiva ancora in piena sicurezza, altri già risvegliati mi osservavano senza nulla scomporsi, abbigliandosi tranquillamente uomini e donne come fossero chiusi nei proprj gabinetti. È ciò una conseguenza della depravazione dei costumi, o dell'innocenza?.... Il poco tempo che restai in Hama non mi permette di deciderlo. Nella casa in cui alloggiai vidi molte donne, assai brutte a dir vero, che liberamente entravano senza velo nel mio appartamento per farvi quanto occorreva. Una di queste che aveva l'aria di civetta, portava a traverso la cartilagine destra del naso un anello d'oro del diametro di tre pollici. L'abito loro consiste in una grande camicia di cotone turchino o bianco con sopra una stoffa aperta, senza cintura e poco larga, A queste vesti aggiungono anelli, collane, orecchini, braccialetti, laminette ai capelli, ec.: infine tante e sì varie sorte di gioje, che quando una donna galante cammina, fa un rumore eguale a quello dei muli del mezzodì dell'Europa ornati di sonaglini e di campanelli.
La città viene governata da un paschalik del paese nominato dal pascià di Damasco.
Siccome le acque del fiume non possono rimontare sul più alto piano del paese, l'aridità di questo deserto forma un singolare contrasto col fresco verde del piano inferiore, ove l'inaffiamento è praticabile.
Domenica 6.
Alle due e mezzo del mattino presi la direzione di N. N. O. attraversando varie colline; ed in sullo spuntar del sole mi trovai presso ad una moschea. Alle otto ore giunsi tra le mine d'un'antichissima città, cui la tradizione del paese dà il nome di letmiun. Entro un mucchio di rottami osservai un bel frammento di cornice di un granito rosso, alcuni pezzi di colonne, ed i frammenti di un grande acquidotto. Finalmente alle undici ore arrivai a Khan-Scheikhoun, villaggio posto sul pendio d'un colle, alle di cui falde trovasi un vasto Khan. Le case di questo villaggio coperte di cupole coniche gli danno l'apparenza di un gruppo di arnie, e l'acqua del suo pozzo è assai buona.
Lunedì 7.
Si partì alle quattr'ore del mattino prendendo una strada al N. che attraversa alcune colline, dalla di cui sommità vedonsi all'O. le montagne, dalle quali andavamo allontanandosi. Si trovarono lungo la strada altre ruine omai ridotte all'ultimo stato di decomposizione, ed alcuni pozzi, ne' quali si scende al fondo per bellissime scale di sasso. Quantunque il paese sia incolto, come quello attraversato ne' precedenti giorni, è per altro formato di una terra rossa vegetale, e di roccia calcarea. Alle nove ore e mezzo arrivammo a Màrra, borgata di circa duemila abitanti, al cui ingresso vedonsi molti tumuli di pietra isolati a guisa di catafalchi, circondati da cinque sei gradini. Marra è l'ultimo paese del governo di Damasco, che stendesi ancora tre leghe al di là verso il N.; di modo che questo Pascialaggio prendendo dal deserto d'Egitto fino alle porte di Aleppo, può riguardarsi come un regno.
Martedì 8.
Si riprese il cammino alle tre e mezzo della sera. Due strade conducono da Marra ad Aleppo; ma trovandosi la principale occupata dalle truppe d'un antico pascià d'Aleppo, colle quali i miei Arabi non volevano incontrarsi, si preferì la strada meno frequentata a traverso di un deserto.
Mercoledì 9 settembre.
Oscurissima era la notte; ed il suolo bagnato di rugiada appariva così nero, che nulla distinguevasi alla distanza di dieci passi. Io mi trovava in testa alla carovana con otto o dieci Arabi armati a cavallo, avendo sempre sotto i miei occhi il mulo che portava le mie carte, di cui mi riservava la custodia in tempo di notte. Camminavamo così ordinati quando alle due ore e mezzo del mattino scoprimmo innanzi a noi in distanza di soli venti passi una truppa d'uomini a cavallo. Non eravamo più in tempo di dare a dietro, o di fermarci. Subito io grido; fuor di qui, fuor di qui. I Bedovini rispondono colle medesime parole, e noi avanziamo colla sciabla alla mano. Il mulo che portava le mie carte trovavasi di già in mezzo alla truppa nemica; molti uomini armati della carovana mi raggiungono; ed uno che trovavasi alquanto addietro di me, tira una fucilata all'azzardo, ed io sento fischiare la palla a diritta. Tutto ciò si eseguì in un istante. I Bedovini vedendo la nostra risolutezza, si ritirarono, salutandoci senza tentar nulla. Erano venti uomini all'incirca armati soltanto di lancia.
Alle quattro e mezzo del mattino si prese riposo presso la sponda d'un canale, ov'erano alcune fattorie, nelle quali battevasi il grano.
Ripostici in cammino alle dieci ore, attraversammo alcune colline calcaree coperte di piantagioni di ulivi, ed alle tre dopo mezzogiorno si entrò in Aleppo.
Questa città detta dagli Arabi Hàleb è stata tante volte descritta, che tutto quanto io ne dicessi non potrebb'essere che una ripetizione di ciò che tutti sanno; perciocchè trovandosi assai frequentata da tutte le nazioni commercianti, viene ad essere conosciuta come una città d'Europa: mi limiterò dunque a dire che racchiude molti belli edificj, e quantità di marmi d'ogni specie; che bella è la grande moschea senza essere magnifica; che le strade sono assai ben lastricate; ed i bazar coperti di portici a vòlto, illuminati da frequenti abbaìni: che però i bazar di Damasco sono più ricchi, e meglio provveduti; che in settembre il caldo fu insoffribile fino all'equinozio; e finalmente che allora sulle montagne all'O. vi fu una gagliarda burrasca, dopo la quale l'atmosfera si rese temperata. In Aleppo vedesi la bizzarra mescolanza dei cappelli appuntati colle lunghe vesti orientali.
In tutto il tempo che rimasi in Aleppo mi trovai talmente ammalato, che non potei quasi occuparmi dei più piccoli affari
CAPITOLO L.
Viaggio a Costantinopoli. — Antiochia. — Targo. — Monte Tauro. — Arco trionfale. — Orde di pastori della Turcomania. — Maniera di viaggiare in Turchia. — Città di Konia. — Assiom Karaïssar. — Kutaïeh. — Catena del monte Olimpo. — Scutari. — Ingresso in Costantinopoli.
Il Sabato 26 settembre sortii d'Aleppo allo cinque ore del mattino, seguìto soltanto da uno schiavo, da un tataro, da alcuni mulattieri, e da cinque fucilieri di scorta.
Camminando all'O. con una dolce inclinazione al N. entrai in un paese alto e deserto, tutto composto di roccia calcarea. Giunto alle otto ore presso ad un piccolo casale, congedai i cinque soldati, perchè ad una certa distanza da Aleppo non si corre più pericolo di essere spogliati dai Bedovini, o da altri ladri che sogliono aggirarsi ne' contorni della città.
In questo luogo vedesi accanto alla strada uno scavamento perpendicolare di forma quasi ellittica di un diametro maggiore di trenta piedi, e di quaranta di profondità. A metà circa della sua profondità trovasi una galleria che gira tutto all'intorno, lungo la quale sonovi le aperture di varie caverne. Credono i musulmani essere questi i resti di una città sommersa; ed i cristiani d'Aleppo dicono invece, e con maggiore probabilità che fu già un anfiteatro pei combattimenti delle bestie feroci. Non è pure inverosimile che servisse di prigione o di catacomba; oppure che fosse una vastissima cisterna. Io non oso niente asserire di positivo su quest'oggetto.
Di qui la strada piega a S. O. attraversando aspre rupi che dovetti salire e scendere alternando fino a dieci ore e tre quarti; quando feci alto per fare colezione in un casale detto Tadil.
Dopo un'ora di riposo continuando il cammino attraversai il casale di Tèreb, indi una vastissima campagna tutta sparsa di villaggi, fra i quali considerabilissimo è quello d' Azèni, dove entrai in sul tramontare del sole; poi fui ad alloggiare nel vicino casale di Mortahoua.
Questa pianura assai fertile è popolatissima, e lo sarebbe assai più se non fossa ridotta alle sole acque dei pozzi e delle cisterne. I suoi villaggi presentano frequenti vestigia, e rottami di antichi edificj; ed io penso che ad una lontanissima epoca appartengano ancora le cisterne. S'incontrano ad ogni passo frammenti di cornici, e di altri ornamenti architettonici, ammucchiati con rozze pietre intorno agli orti; come vedonsi molti pezzi di colonne destinati a coprire i pozzi. In tal modo la mano del tempo, sempre più possente dei vani sforzi dell'uomo, restituisce alla natura tutto quanto le era stato tolto dall'arte.
Domenica 27.
Riprendendo il cammino alle cinque ore e mezzo del mattino, uscii poco dopo dalla pianura, che mette capo in una valle assai ben coltivata, e circondata da belle colline coperte d'ulivi.
Alle sette ore dovetti attraversare una difficile gola; dopo la quale, ora salendo ora scendendo alcuni poggi, sboccai alle nove ore nella valle che prende il nome dalla borgata d' Armana. Alle dieci feci alto accanto ad una fonte di eccellente acqua che scorre presso ad un giardino.
Mentre facevamo colezione sei giovanette presentaronsi entro il chiuso del giardino, che potevano supporsi il fiore delle fanciulle del paese, tanto eran vaghe e gentili. La siepe di spine che le separava da noi, rendevale più ardite, onde coprivansi a loro voglia o si scoprivano, facendo pompa di una bianca delicatissima carnagione resa più bella dai grandi e neri loro occhi. Osservai che non avevano il volto imbrattato come le donne d'Affrica, ma soltanto un poco di nero intorno agli occhi. Mandai loro un cartoccio di dolci, che contraccambiarono con un mazzolino di fiori (ecco un gentil cominciamento di romanzo); ma non mi fu possibile di vedere interamente, come ne aveva vaghezza, le loro vesti. Ci separammo alle undici ore, ed io continuai il mio viaggio montando un colle assai aspro e circondato da precipizi; ed alle tre ore e mezzo giunsi sulla riva destra dell'Oronte, detto Wad-el-Aassi nel villaggio Hamzi.
Si passò il fiume, che in questo luogo non può avere più di cento piedi di larghezza, sopra una barca non calafattata, che faceva acqua in ogni lato. Un uomo la governava con una lunga pertica, mentre un altro stava occupato a vuotare la barca colla gotazza: e perchè tutti gli sforzi dell'ultimo non supplivano al bisogno, ad ogni tragitto i due navicellai tiravano la barca a terra, e la liberavano dall'acqua rovesciandola. A quale epoca devesi riferire la perizia nautica di queste buone genti?... Avendo rimproverato a questo moderno Caronte (la di cui veneranda bianchissima barba in nulla cedeva a quella del nocchiero della livida palude) il pessimo stato della sua barca, mi rispose che ne aspettava un'altra nuova da Antiochia. Gli soggiunsi che dovrebbe far buona provvigione di catrame e di stoppa per tenere la barca in buono stato, altrimenti anche la nuova sarebbe in breve ridotta alla condizione della vecchia. Parve sorpreso da questo avviso, come di cosa di cui non avesse mai udito parlare; e dopo essere rimasto alquanto pensieroso, mi disse che approfitterebbe de' miei ricordi, che trovava ragionevoli.
Si fece alto sulla sinistra del fiume. L'acqua in questo luogo è tanto tranquilla, che non se ne può conoscere la direzione senza gettarvi qualche corpo galleggiante. La sua maggiore profondità è di quattro piedi e mezzo; le rive argillose e coperte della melma del fiume sono tagliate quasi a picco, ed alte circa sedici piedi. Il pesce è abbondantissimo.
Lunedì 28.
Si partì alle quattr'ore del mattino viaggiando lungo le falde di alcune montagne. Alle sette passai sopra un ponte di un solo arco sotto al quale scorre un piccol fiume che sbocca nell'Oronte. Appena giunto sull'opposta riva, mi fu presentato un pesce lungo più d'un piede, in quell'istante saltato sulla sabbia, ed era ancora vivo.
Alle otto ore feci colezione al di là di un altro torrente che mette pur foce nell'Oronte, lontano poco più di quattro miglia dal lago d'Antiochia detto Bahar Caramort, formato da più fiumi, le di cui acque si scaricano nell'Oronte.
Dopo tre ore di riposo feci il giro di una montagna, indi ne attraversai alcune altre più basse, che seguono la direzione dell'Oronte. Piegando poi quasi al S., entrai alle undici ore per la porta della vecchia in Antiochia, e dopo il cammino di una mezz'ora in mezzo ai giardini posti entro il circondario delle antiche mura, giunsi nella nuova città, il cui governatore di nazione turco, mi alloggiò in sua casa.
Questo governatore detto Hadj-Bekir-Agà, assai ragguardevole personaggio, per mostrarmi il suo affetto non mi lasciava mai, di modo che non aveva un istante di libertà. Appena arrivato mandò ordine a Souaïdia, che è il porto più vicino, di approntare un bastimento per condurmi a Tarso; trovandosi la strada di terra esposta alle scorrerie della gente di Kouchouk-Ali.
Antiochia, che i Turchi chiamane Antakia contiene quindicimila musulmani, 5000 cristiani di tutti i riti j e 150 ebrei. Il Patriarca greco trovavasi allora a Damasco, ed il cattolico nelle montagne.
La moderna Antiochia non occupa che un piccolo spazio dell'antica; di cui rimangono ancora le mura per attestarne l'ampiezza. Questa nuova città comprende un'area di oltre mezza lega di diametro, con alcune colline coperte di antiche rocche che scendono fino al piano: sono di pietra, fiancheggiate a disuguali distanze da torri quadrate, ma ora tutta va in ruina. Magnifica è l'antica porta per cui era entrato, ma minaccia di cadere da un momento all'altro.
Prima d'entrare per questa porta io aveva veduto a sinistra una montagna, la cui più bassa parte tagliata a picco presenta la forma di una facciata d'edificio, con una porta quadrata ben tagliata nel mezzo e varie finestre tagliate nella viva roccia con eguale perfezione; lo che sembra indicare de' sotterranei troppo interessanti per un antiquario. Le colline poste entro le mura hanno al loro piede alcuni strati perpendicolari da cui zampillano molte acque.
Le strade d'Antiochia sono strette, ma hanno de' marciapiedi alti da ogni banda e ben lastricati. Le case fatte di pietra senza cemento hanno un aspetto tristo e monotono: sono le prime ch'io abbia vedute coperte di tegole dopo essere uscito dalla Mecca. Tutto indica essere questo il paese delle pioggie, ed il clima è più freddo assai di quello d'Aleppo, ove non suole mai nevicare. Pare che il principal prodotto del paese sia quello della seta. Abbonda di buoni cibi e di acque; ma non si fa uso di altro pane che di focaccie arabe. Giungendo in città incontrai molte donne, quasi tutte assai belle.
Il Governatore, dipendente dal pascià d'Aleppo vive splendidamente, e parvemi che il paese fosse ben amministrato.
Martedì 29.
Ebbi a mezzo giorno avviso che il bastimento era pronto; voleva partire all'istante, ma dovetti trattenermi fino all'indomani. La sera dopo cena un ufficiale Francese vestito da Tartaro, che veniva da Costantinopoli, chiese di parlare al Governatore, e prendendomi in iscambio, si lagnò di un Tartaro che non si affrettava a provvederlo di cavalli per continuare il viaggio alla volta di Aleppo. Dopo averlo calmato, ed indicatogli il Governatore, accomodai la faccenda: gli chiesi se poteva essergli utile in qualche cosa, e partì soddisfatto del mio accoglimento[3].
Mercoledì 30.
Essendomi congedato dal cortese governatore, partii alle otto del mattino, e poi che ebbi attraversato l'Oronte, mi avanzai a qualche distanza lungo la riva destra, tenendomi generalmente nella direzione di O. S. O. Alle dieci ore mi trattenni alcun tempo per prendere riposo in mezzo ad alcuni bei giardini; ed alle due ore dopo mezzo giorno giunsi allo sbarco di Soauïdia a piccola distanza dalle fóci dell'Oronte.
Nulla può vedersi di più dilettevole del paese tra Antiochia e Soauïdia, tutto intersecato da pozzi e da valli coperte di campi ben coltivati, da prati e da boschetti. Il cammino, sebbene alquanto aspro, rassomiglia piuttosto a quello di delizioso giardino reso dall'arte disuguale e tortuoso, che ad una pubblica strada. Ad ogni passo s'incontrano ruscelli e piccoli fiumi d'acqua limpidissima che irrigano i giardini e le piantagioni delle valli, ove frequentissimi sono i gelsi bianchi, che formano piccole macchie sparse di viti, di granati, e di altri alberi fruttiferi. Numerose greggie di armenti, coprono le colline e parte delle valli. Il maestoso Oronte, ricco delle acque del lago Caramorto, e di quelle d'infiniti torrenti, scorre maestosamente in traverso di questo gentil paese: e per dirlo in una parola, tutto in questi ameni luoghi annuncia la vicinanza del recesso delizioso un tempo abitato dalla bella Dafni.
Allo sbarco di Soauïdia non vedonsi che cinque o sei baracche, ed una casuccia abitata dai gabellieri.
M'imbarcai sopra una scialuppa alle sette ore della sera, ed un'ora dopo arrivai alla foce del fiume. Il mare era grosso, le onde rompevansi furiosamente sulla barra del fiume, ed il cielo era tutto coperto di nere nuvole. Il bastimento preparatomi aveva dovuto allontanarsi dalla riva, onde soffersi scosse terribili attraversando le barre colla scialuppa. Appena montato a bordo, si fece vela quantunque con vento contrario.
Giovedì 1 ottobre.
Dopo ventiquattr'ore di navigazione con venti diversi, e sempre contrarj, la nave attraversò la bocca del golfo di Scandroun, e diede fondo presso terra sulla costa della Caramania alle otto ore della sera; io però restai quella notte a bordo.
Venerdì 2.
Appena sbarcati, moltissimi facchini con muli e cavalli sempre in agguato delle navi che approdano, ond'essere impiegati, s'impadroniscono delle persone e degli effetti, disputandosi tra di loro a colpi di pugno l'onore di accompagnarci. Vero è che le loro premure non sono affatto disinteressate: ma in ogni luogo l'interesse è la molla delle nostre azioni.
A non molta distanza dal mare trovasi un villaggio chiamato Cazanlìe di una singolare costruzione: è composto di un centinajo di baracche sospese sopra quattro pertiche all'altezza di nove in dieci piedi; ed ogni baracca è formata di un semplice pergolato di travicelli, o di canne, rassomigliando ben più ad un nido di uccelli, che all'abitazione di uomini inciviliti. Per salirvi si adopera una rozza scala.
Vidi a maggior distanza un altro villaggio fatto assai meglio, ed assai più interessante. È questo un dovar abitato da pastori della Turcomania. Le baracche sono piccole, ma gentili, e poste a livello del terreno. Consistono in tre pergolati di quattro piedi di altezza coperti da un tetto della stessa qualità in figura di volta cilindrica; la pergola della parete è formata di canne, di tralci, o di frondi, ed il tetto è coperto di pelli. In questo villaggio non si vedono che donne e fanciulli perchè gli uomini conducono le mandre al pascolo; ma le donne non rimangono oziose, facendo esse il butirro, il formaggio, ed ogni altra sorte di latticinj con un'estrema pulitezza. Il loro abito consiste in una camicia bianca, un giustacuore colle maniche ornate, ordinariamente di cotone trapuntato, una sottana di cotone bianco, con un fazzoletto che loro fascia il capo ed il collo. Sono tutte bianche, ed alcune abbastanza avvenenti. Quelle che allattano non lasciano di lavorare tenendo sospeso al dorso il fanciullo. Tengono il volto scoperto, e benchè musulmane, pare che non sappiano, che la legge non accorda loro questa libertà. I ragazzi vanno ben vestiti, con camicie, casacchini, e turbanti di colore.
Gli abitanti di questo distretto, detti Turcomani, sono tanto terribili colle armi in mano, quanto buoni, dolci, ed onorati in società.
Dopo tre ore di viaggio lungo il mare entrai in Targo alle dieci ore e mezzo del mattino. Aveva incontrati lungo la strada molti bufali, ed alcuni cammelli con basti di differenti colori.
Quasi tutti gli uomini portano camicie e mutande bianche, ed un giustacuore con maniche trapuntate; ma altri non hanno che una casacca senza maniche, legata con una cintura, ed una berretta bianca alta ed acuta da un turbante, sono d'ordinario calzati di grandi stivali neri.
Targo o Turpis (che suole pronunciarsi in un modo e nell'altro), è una ragguardevole città, le di cui case sono assai brutte e fatte di terra. È posta in mezzo ad una vasta campagna, circondata di giardini a breve distanza dal fiume, in cui il grande Alessandro corse rischio di perire; ed è nella vicina pianura a levante che sconfisse lo sfortunato Dario.
Quand'io vi passai non eravi che un solo Europeo.
Il cotone e la seta sono i principali oggetti del commercio di Targo. Piovve tutta la notte dirottamente.
Sabato 3.
Partii a sette ore del mattino, e mezz'ora dopo attraversai il fiume di Targo sopra un ponte di tre archi, indi piegai a settentrione, tenendo la medesima direzione tutto il giorno.
Giunto in sulle nove ore all'estremità della pianura, dovetti valicare più colline, uscendo dalle quali mi trovai circondato alla catena del Monte Tauro, composto nella parte da me veduta di roccia cornea, e di trap talvolta aggruppato in enormi masse, talvolta a strati ondeggiati più o meno obliqui, e talvolta finalmente in aguglie altissime formate dalla unione di prismi perpendicolari, che hanno l'aspetto di una cristallizzazione.... E che è in fati qualunque montagna primitiva, se non una cristallizzazione colossale?..... Io non vidi verun indizio di granito o di porfido.
Questa parte della catena è coperta di magnifiche foreste, i di cui più comuni alberi sono quercie, cedri, cipressi, e lentischj. Tutto quanto mi si offriva questo giorno agli occhi, mi faceva presumere che le alte montagne dell'isola di Cipro fossero in rimotissimi tempi una continuazione del monte Tauro. Le pittoresche vedute, le magnifiche cascate d'acqua trasparente quanto il cristallo che da ogni lato invitavano il mio sguardo, facevanmi nascere rincrescimento di non poter godere che di passaggio così deliziose contrade.
Giunto alla sommità vidi un antico maestoso argine fatto di grandi sassi quadrati lungo un piano orizzontale in cima alla montagna dalla banda di S. E., e terminato con un arco di trionfo semplice, ma nobile, la di cui più elevata parte cominciava a cadere in rovina.
Quest'arco può essere riguardato come una grande finestra, di dove signoreggiansi interamente le pianure che furono il teatro della vittoria di Alessandro sopra Dario; lo che potrebbe dar sospetto che l'arco fosse stato eretto ad onore di questo conquistatore. Anche l'argine incomincia a guastarsi: vidi all'estremità settentrionale un sasso tagliato in figura di piedestallo sul quale dovette probabilmente esservi qualche iscrizione, ma ora affatto cancellata dall'inesorabil mano del tempo, che si prende giuoco degli sforzi che gli uomini fanno per rendere eterni i monumenti del loro orgoglio.
Dopo essermi riposato un istante presso ad una bella fonte, giunsi verso le quattr'ore sulla strada che conduce direttamente da Aleppo a Costantinopoli, e ch'io dovetti abbandonare per la ribellione di Kouhouk-Alì. Pare che anticamente questa strada fosse assai buona; ma al presente trovasi in estremo deperimento. Entrai in Diàïde alle sette ed un quarto della sera, e trovai nella casa della posta cinque Tartari che successivamente erano sortiti da Aleppo dopo di me.
Domenica 4.
Io desiderava di partire di buon mattino, ma essendo accostumati a partir tardi, così non sortii da Diàïde che alle sei ore. La sera si fece alto alla casa di posta di un miserabile villaggio detto Wadicàschli, chiamato dai Turchi Ouloukiscla.
Di mano in mano che avanzavamo verso il N. O., la parte del monte Tauro che attraversammo andava perdendo la sua bellezza; ed in fine non presentava che ignude balze, le di cui sommità settentrionali erano coperte di neve: entrato verso le tre dopo mezzogiorno in un paese alquanto più aperto e meno aspro, trovai alcuni villaggi circondati di orti e di vigne; ed essendo il tempo della vendemmia quegli abitanti mi offrirono uve, e cestelle di saporitissime frutta.
In questo giorno vidi passare alcune truppe di cammelli alquanto differenti da quelli dell'Arabia e dell'Affrica; hanno le gambe davanti più corte e più grosse che le deretane, il collo assai più forte, e tutte le parti anteriori del corpo più coperte di lana.
Aveva pure incontrati molti pastori turcomani: quale diversità da questi ai pastori Arabi! Gli uomini, le donne, i fanciulli, tutti sono ben vestiti, i cammelli che portano i loro effetti, sono coperti di bei tappeti turchi. Pare veramente ch'essi godano di tutta l'agiatezza, e di tutti i piaceri della vita pastorale, ed è tra costoro che dovrebbonsi cercare esclusivamente i modelli de' pastori che furono spesso l'argomento delle più commoventi poesie.
Lunedì 5.
Erano ormai le otto ore quando mi posi in cammino a traverso di un paese di sterili colline, indi di una vasta incolta pianura. In sulle undici ore passai per un casale composto di miserabili casucce di terra; e finalmente dopo altre quattr'ore di viaggio, avendo passato un fiume sopra un ponte, entrai nella borgata d' Erehli posta in un gentil paese pieno di giardini sulla sinistra del fiume, e non sulla destra come viene indicato nella carta d' Arrowsmith. Questa terra è abbastanza grande, ma le case sono brutte, fatte di terra e di mattoni seccati al sole, come costumasi da tutti i popoli della Caramania; per lo contrario i giardini sono belli assai, e danno frutta in copia, e specialmente grosse ed eccellenti pere. L'entrata d' Erehli dalla parte del N. è un magnifico viale fiancheggiato da alti pioppi, e da due canali di limpidissime acque.
Martedì 6.
Partimmo poco dopo le sette ore, camminando al N. a traverso di vastissime praterie piene di mandre, e specialmente di bufali, e sparsa di casucce circolari con tetti piani. Verso le nove ore lasciai a destra la città di Hartan situata sulla sponda sinistra di un piccolo fiume.
Di là volgendo ad O. N. O., ed in seguito a N. O. in mezzo a campagne aride come le montagne che le circondano da due lati, passammo alle due ore dopo mezzodì presso ad una Salina formata da un ampio fossato che circonda una piccola montagna di terra affatto isolata: l'acqua ch'entra nel fossato, svaporando pel calore del sole, lascia sul fondo un sale marino bianchissimo, che viene trasportato coi cammelli ai vicini paesi.
Alle tre ore e mezzo si entrò nel castello di Carabig-Mar, ove feci riposare le mie genti. È questo un ragguardevole paese, ma mal fabbricato alle falde di un monticello aridissimo, siccome affatto sterile è l'adjacente pianura; non vi si vede un solo orto, nè alberi, tranne due pioppi che sono entro il castello. E ciò riesce tanto più sorprendente, che il piano non è privo di acqua. La moschea di Carabig-Mar ha un vago esterno con grandi e piccole cupole, e due sottili altissime torri. Sul monticello vedonsi gli avanzi di un'antica rocca.
In questo luogo, come in altri della Caramania si osserva un vasto edificio, che può rassomigliarsi ad un tempio di tre navate, intorno al quale s'inalzano molti fumajuoli. È una specie di Khan destinato all'alloggio delle carovane della Mecca.
Dei cinque tartari incontrati a Diaïde uno solo ci aveva lasciati addietro, gli altri camminavano con noi.
Siccome io mal poteva reggere al trotto franco e disagiato, che è la loro ordinaria andatura, era costretto di alternare il passo ed il galoppo disteso quando mi trovava addietro di quattro in cinquecento passi; lo che mi stancava assai meno che il trotto sostenuto de' cavalli tartari.
È noto esservi sulle grandi strade della Turchia cavalli di ricambio; onde mutavamo cavalli ogni giorno, e spesso due volte al giorno.
Per essere affatto sbarazzati dalle molestie del viaggio si pattuisce con un tartaro, il quale si obbliga a condurre, alloggiare, nutrire il viaggiatore, e pagare tutte le spese del cammino, contro una convenuta somma che gli viene sborsata metà all'atto della partenza, ed il rimanente arrivati al termine del viaggio. Pel mio viaggio da Aleppo a Costantinopoli aveva convenuto col mio tartaro ottocento piastre, ed egli somministrava un cavallo per me, uno pel mio schiavo ed un altro per portare gli effetti, oltre le spese di vitto, e di alloggio, ed anche le accidentali che tutte restavano a suo carico.
Mercoledì 7.
Si ripartì alle sei ore e mezzo del mattino, prendendo la direzione d'O. per una campagna deserta. Ad un'ora ed un quarto si giunse ad Ismel, cattivo villaggio ove dovevamo passare la notte.
Lungo questa strada si trovano molti pozzi, nei quali si scende per una scala di sasso fino al livello dell'acqua. Discesi in uno che aveva cinquanta scaglioni, e lo trovai provveduto di eccellente acqua.
Il piano tutto argilloso non ha un solo albero.
Giovedì 8.
Alle cinque e tre quarti io era già in viaggio lungo lo stesso piano, verso O. N. O. poi a N. O. Alle otto e mezzo attraversai una specie di macchia che interseca la pianura, e che non è poi altro che un vasto spazio coperto di giunchi, e di altre piante de' pantani assai fitte, di diversa altezza, ed in alcuni luoghi fino di dodici e tredici piedi. Dopo avere passato questo pantano, continuai a camminare lungo la stessa campagna, finchè alle due dopo mezzogiorno giunsi a Konia capitale della Caramania, che è l'antica Iconium. Questa città è situata all'estremità occidentale della deserta pianura che aveva attraversata, ed alle falde di una catena di basse montagne che chiudono l'orizzonte a mezzodì; hannovi molti giardini sul fianco meridionale, e qualcuno ancora dalla banda di settentrione. Ciò che io vidi di questa città me ne diede una poco vantaggiosa idea, benchè sia la residenza del Pascià di Caramania. Contiene vasti cimiteri, ne' quali ogni sepolcro viene indicato da una pietra rozza alta sette in otto piedi, larga un piede, grossa quattro dita, e situata verticalmente: la quantità di questi grossolani monumenti, sparsi sopra un vasto piano fa una penosa sensazione all'occhio dell'osservatore. Le case sono di terra o di mattoni cotti al sole, come quelle de' più poveri villaggi. Non osservai che una sola casa che avesse un buon esterno; ma anche questa formata coi materiali delle altre case. Si vuole che quest'edificio, che per la sua forma ed ampiezza potrebbe dirsi un palazzo, fosse fabbricato da un uomo che ne' paesi de' cristiani aveva imparata l'alchimia, ossia l'arte di far l'oro, col qual mezzo si era fatto ricchissimo. Al presente serve d'ospizio ai poveri. Ho pur veduto l'esteriore di tre moschee che hanno un magnifico aspetto con grandi cupole, e campanili alti e sottili.
La più bassa parte della città è chiusa da alte mura fiancheggiate da torri quadrate, ed incrostate di pietre tagliate; vi si ravvisano alcune iscrizioni turche; ma il lavoro è fatto dai greci, come lo attestano i lioni ed altre figure che sonovi scolpite.
Entrando in città osservai molti fanciulli, di diverse età, tutti belli, con carnagioni di latte e rosa, ben fatti, e decentemente vestiti. Non potei a meno in vedendoli, di benedire l'attività e le attenzioni delle donne di questo paese, e di risovvenirmi con pena dell'indolenza delle Egiziane e delle Arabe.
Il pane che mangiasi a Konia, ed in tutta la Caramania, è una focaccia d'un piede di diametro all'incirca, grossa una linea od una linea e mezzo; di modo che queste focaccie rassomigliano esattamente, tranne la grandezza, alle ostie da suggellare dell'Europa. Si mangiano mentre sono ancora tenere; e servono pure ad involgere un uccello, o altra carne, come potrebbe farsi con un foglio di carta.
In tutta la Caramania adoperansi carrette, le di cui ruote sono formate di tavole, ma assai ben fatte.
Il lettore avrà rilevato dal mio racconto, che tra Ismil e Konia, non trovansi le montagne notate sulla carta d' Arrowsmith. Del resto la sua carta dell'Asia minore parvemi ben fatta, e queste leggieri inesattezze potranno emendarsi in una seconda edizione.
Venerdì 9.
Due ore dopo uscito da Konia, e dopo aver costeggiate le montagne a N. E., incominciai a salire alcune colline; e giunsi ad un'ora e mezzo all'estremità settentrionale delle montagne, ove trovasi sopra un'altura il villaggio di Adik.
Ciò ch'io vidi di queste montagne è formato di schisto argilloso e corneo a piccoli strati assai sottili disposti orizzontalmente, o disugualmente inclinati senza veruna traccia di vegetazione, tranne pochi cespugli ne' contorni del villaggio, ove per altro vi sono alcuni giardini ed una bella fontana.
Trovandosi indisposto uno de' Tartari che viaggiavano in nostra compagnia, fummo costretti di rallentare il viaggio. Io aveva per altro bisogno di arrivare a Costantinopoli il più presto possibile; e perciò offersi cento piastre di più al mio Tartaro, a condizione di farmi arrivare la domenica 18 del mese. Malgrado la sua promessa, io era ben certo che non l'avrebbe mantenuta, a cagione della sua infingardaggine. Egli era solito di andare a letto alle sette della sera, ed io doveva ogni mattina risvegliarlo alle sette, se voleva fare un discreto viaggio. Ma questa negligenza è un vizio comune a tutti i Tartari.
Dietro le mie osservazioni, e calcolata la direzione della strada, si trova facilmente che Ladik non è all'O. di Konia, come viene notato sulle carte.
Questo villaggio fu anticamente un luogo più importante che non lo è adesso, siccome lo attesta l'infinito numero de' capitelli, de' piedestalli, delle cornici ecc., ed alcune iscrizioni greche.
Sabato 10.
Partii alle sette del mattino nella direzione d'O. N. O., e verso le nove ore attraversai Kodenkhan, villaggio alquanto maggiore di Ladik; alle undici e mezzo si passò un ponte sotto al quale passa un fiume affatto limpido; e feci alto ad un'ora col mio seguito ad Elguinn, piccolo villaggio alle falde delle montagne, circondato da giardini.
Vedendo che malgrado le promesse del mio condottiere, non sarei giunto a Costantinopoli nel giorno fissato, minacciai di farlo castigare, o di castigarlo io stesso, se non si determinava ad essere più sollecito. Il timore fu più efficace dell'interesse, ed incominciò ad accelerare il cammino. Subito dopo pranzo tutti rimontarono a cavallo, sortendo da Elguinn alle due dopo mezzo giorno. Poi che avemmo varcato un fiume che sbocca in un lago posto in poca distanza al N. il quale può avere una lega all'incirca di diametro, si prese la direzione all'O. Alle cinque e mezzo eravamo giunti nel villaggio d' Arkitkhan, al di là del quale si passa un piccolo fiume. A notte già fatta passavamo in vicinanza di alcuni villaggi; ed alle otto e un quarto entrammo in Akschier piccola città posta sul pendìo d'una montagna così abbondante di acque, che i loro zampilli formano un ruscello, e talvolta un piccolo fiume in ogni strada della città. Tutte queste acque si scaricano in un lago distante all'incirca una mezza lega dalla banda di N. E. Akschier contiene alcuni rottami che mi parvero avanzi d'una antica cattedrale.
I miei Tartari sempre pigri volevano fermarsi in questa città il susseguente giorno; ma io mi vi opposi con fermezza, e malgrado i loro barbottamenti fu deciso di partire all'indomani di buon'ora.
Domenica 11.
I Tartari mi si fecero innanzi in sul far del giorno mostrandosi inquieti; e mi avvidi all'istante che bramavano di dissuadermi a partire questo giorno, col mettermi a parte dei loro timori veri o simulati di vicina dirotta pioggia. Tanto meglio, risposi loro, non soffriremo il caldo. Vedendo tornar vani i loro pensamenti per trattenermi, ritiraronsi in silenzio per allestire i cavalli.
Si partì poco prima delle sette prendendo la direzione del nord, al lungo di una linea di montagne; ed alle dieci ore avendo alquanto piegato al N. O. entrammo nel piccolo castello di Aïsa-Klew.
Questa strada è molto amena: il viaggiatore trovasi continuamente alcune tese al di sopra del piano che prolungasi a destra, e di là vede il lago in tutta la sua estensione di circa due miglia di diametro; mentre a sinistra s'inalzano le montagne dalle quali si precipitano infiniti ruscelli, e le di cui vette più alte sono coperte di neve. Le valli che si aprono alle loro falde sono sparse di villaggi, di casali, di giardini.
Dopo avere cambiati i cavalli si lasciò questo castello alle undici ore, e tenendo la strada all'O. N. O. si scese in una pianura che si attraversò fin quasi al tramontar del sole nella direzione di O. Tutte le case di Barafdon piccolo villaggio situato in questo piano, ove dovevamo passare la notte, trovandosi già occupate dal Pascià e dal suo seguito, fui costretto di coricarmi alla meglio in una scuderia in mezzo ai cavalli.
Lunedì 12.
Alle sette ed un quarto del mattino, trovandomi in viaggio, m'accorsi che i miei tartari erano agitati: si videro talvolta rallentare il passo, poi fermarsi a discorrere con un certo contegno di tristezza e di spavento. Fui ben tosto al fatto dei loro timori. Il Pascià che avevamo lasciato a Barafdon aveva fatto tagliare il capo al maestro di posta della città cui eravamo diretti; onde temevano di esservi mal accolti, e qualche cosa di peggio.
Dopo lunghi consigli risolvettero di mandare avanti due di loro con un postiglione onde scandagliare il terreno. Io tenni loro dietro a qualche distanza, e mi fermai presso di un pozzo lontano circa trecento tese dalla città. Allora un tartaro si avanzò fino alle porte, ed essendo il postiglione venuto a cercarmi, entrai con lui in Assiom-karaïssar alle undici ore del mattino, prendendo tranquillamente alloggio alla posta. Il fratello del maestro di posta decapitato aveva già trafugati tutti i cavalli ed erasi posto in sicuro nelle montagne; fortunatamente i miei Tartari ebbero modo di far sapere al governatore ch'io era un inviato del sultano Sceriffo della Mecca presso al Sultano di Costantinopoli: onde il governatore ed i suoi subalterni si fecero premura di offrirmi i loro servigi, e mi assicurarono che all'indomani potrei partire.
La situazione di questa città, stando alla carta di Arrowsmith non combina colla mia stima geodetica della strada; ma tengo in sospeso il mio giudizio finchè sia giunto ad un altro punto geografico conosciuto.
Stando a questa carta la città sarebbe volta a S. O., ed il famoso Meandro che prende origine nelle vicine montagne, scorrerebbe nella medesima direzione; quando invece la situazione della città è al N. E., ed il fiume, che io attraversai sopra un ponte a non molta distanza dalla città, segue la stessa direzione.
Assiom-Karaissar è una assai vasta città, con molte moschee, una delle quali sembrommi magnifica. Questa città ha, come quella d'Akschier, le strade cambiate in piccoli fiumi per le acque che scendono dalle montagne vicine; e le case sono triste in sul fare di quelle delle precedenti città. Malgrado il freddo che faceva acutissimo, si trovarono eccellenti frutta, uve, poponi, e pomi delicatissimi. Il pane fatto a focaccia è molto buono. I coltivatori vedevansi tutti intenti a battere i grani.
Al S. O. della città vedesi una rupe isolata in forma di pane di zucchero, formata dall'unione di prismi irregolari perpendicolari, talchè sembra tagliato a picco da ogni lato. La sommità è coperta da un'antica fortezza, che dovette essere in altri tempi una piccola Gibilterra.
VEDUTA DELLO SCOGLIO E DEL CASTELLO D'ASIOM KARAÏSSAR NELL'ASIA MINORE
Martedì 13.
Alle otto e mezzo del mattino mi diressi al N. O. Poichè ebbi attraversato un ruscello non lontano dalla città, si proseguì il cammino lungo una pianura fino alle undici ore; quando si cominciò a salire sopra alcuni poggi, sui quali dopo un'ora di viaggio trovai un casale, ed un altro alle due e mezzo detto Osmankoï, ove il mio condottiere si fermò alloggiandomi in un'oscura stalla. Irritato contro di lui pel breve viaggio fatto in questo giorno, e del pessimo alloggio che mi aveva procurato, mentre gli altri Tartari erano meglio alloggiati, lo sgridai aspramente, ed alterato dalla collera, lo minacciai di fargli saltar il capo colla mia sciabla se continuava a condurmi in tal maniera. Accorsero gli altri Tartari e mi calmarono, confessando che avevo ragione; e fui tosto condotto in più decente alloggio.
Mercoledì 14.
La riprensione fatta al mio Tartaro non fu senza effetto: spaventato dalla maniera con cui gli aveva parlato, mi diede la stessa sera una squisita cena, ed all'indomani eravamo già in cammino alle sei ore. La strada andava ad O. N. O. in mezzo alle montagne. Alle sette ed un quarto lasciavasi a destra Altonntasch, villaggio ove potevamo arrivare il giorno avanti, se i Tartari non fossero così infingardi. Si ripiegò allora al N. N. O. sempre in mezzo alle montagne, ed attraversando una foresta: ma avanti mezzogiorno fummo costretti d'abbandonare i nostri cavalli che perivano. Un'ora dopo scesi un lungo pendio, al di cui piede scorre un fiume che va da mattina a settentrione, e che si passa sopra un ponte. Dall'opposta riva s'inalza subito un altro ripido poggio, ma meno lungo del precedente, di dove scendesi in una larga valle; ed arrivai verso le tre ore e mezzo a Mitaïeh, bella e ragguardevole città, capitale della provincia di Nadoulia o Natolia, e residenza di un Pascià. È posta sul pendio d'una montagna, e le case fatte parte di muro e parte di legno, sono tutte dipinte, con grandi finestre, terrazze, e generalmente unite a' giardini che loro danno un bell'aspetto: ma le strade, almeno quelle che io vidi, sono sudice, mal selciate, e nel mezzo ingombrate da un rigagnolo di acqua limacciosa. Osservai due mercati abbondantemente provveduti di frutti e di legumi; e seppi che la carne è buona ed a buon prezzo, come pure le farine. Sono notabili alcuni belli edificj e molte moschee. La montagna che signoreggia la città è coronata da un antico castello.
Le carrette che si adoperano in questo paese tirate dai buoi o dai bufali sono in modo strette, che appena possono ricevere comodamente due persone. Piccola è la specie de' buoi, con corna tanto corte quanto quelle de' buoi della costa di Barbaria; ma all'opposto i bufali sono alti ed armati di grandissime corna. Questi animali servono pure alla coltivazione; come avevo veduto in Antiochia alcuni buoi servire da bestie da soma.
Giovedì 15 e Venerdì 16.
Il mio condottiere mi costrinse a restare a Kutaïeh due giorni, protestando di non trovare cavalli. Approfittai di questo ritardo per visitare la grande moschea, antico e vasto edificio di una singolare costruzione, e di forma quadrata, diviso in due navi eguali da una linea di colonne che dalla porta va fino al fondo. Si andava riedificando in tempo del mio passaggio, aggiugnendovisi un ordine di tribune in giro. Questa singolarità unita alle pitture che abbelliscono l'interno dell'edificio mi sorprese in maniera, che mi credeva trasportato in un teatro d'Europa.
I ruscelli che scorrono per le strade sono veri torrenti, sui quali il bisogno di passare da un lato all'altro, fece fare dei ponti di legno. Le strade sono sempre piene di oche, di anitre e di cani.
Sabato 17.
Partii il giorno 17 alle nove ore e mezzo del mattino; e dopo avere attraversato il piano al N. mi trovai verso le dieci ore in una campagna sparsa di colline. Fu duopo passare due volte il fiume Poursak, che scorre all'O. poi a N. E. Sortendo da una bella moschea attraversata dalla strada, mi diressi al N. O. in mezzo alle montagne, e dopo tramontato il sole scesi per un ripido pendìo sul piano, ove trovai un casale quasi tutto costruito di legno, detto Yea Ouglou.
Domenica 18.
Il sole nascente ci vide partire. Sortendo dal casale avevamo in faccia un'angusta valle coperta di gelicidio, dalla quale ci separava soltanto un fiume. In mezz'ora eravamo giunti all'estremità della valle tenendo sempre la direzione di N. N. E., ed omai saliti sulle montagne, quando ci trovammo quasi senz'avvedercene imbarazzati in così fitta macchia, che quantunque il cielo fosse affatto sereno, ed il sole splendesse di tutta la sua luce, ci sembrava talvolta che non fosse ancora giorno. Nulladimeno di tratto in tratto trovavansi dei sorprendenti colpi d'occhio, e ridenti situazioni rinfrescate da zampilli e ruscelletti d'acque freschissime. Molti di questi ruscelli erano abbelliti da piccoli frontispizj dovuti alla pietà musulmana; ciò che dava l'apparenza di giardini a questi luoghi selvaggi. Finalmente vidi Stuhout in una bassa valle, ove arrivammo scendendo un ripido pendìo ad undici ore del mattino.
Questo villaggio quantunque piccolo, mi parve ricco. È circondato da ogni banda da giardini e da vigne, i di cui prodotti vengono dagli abitanti trasportati a considerabili distanze. Trovandosi abbastanza ricchi si prendono cura di avere case appariscenti, e ben addobbate: le fisonomie di questa gente non hanno la dolcezza di quelle dei Caramani: hanno il naso grosso, e sono generalmente tetri, tristi, cupi e diffidenti, come gli Ebrei tra i Musulmani. Il fiume Sakaria non passa per Souhout come l'indicano le carte.
L'ostinata pigrizia del mio condottiere mi obbligò a trattenermi fino all'indomani, malgrado il desiderio che avevo di giugner presto a Costantinopoli.
Lunedì 19.
Erano le sei del mattino quando ripresi il cammino col mio seguito. Da principio si andò verso N. N. O. a traverso le montagne; indi seguendo per qualche tratto la direzione della cresta d'una montagna; si discese poi in una valle angusta e profonda divisa da un fiume, passato il quale entrammo ad undici ore in Verzirkhan, villaggio situato sulla sinistra del fiume, e non sulla destra come viene segnato nelle carte, e abitato solamente da cristiani greci.
Riposatomi pochi istanti, ripresi a mezzo giorno la direzione al N., poscia al N. N. O. in mezzo a giardini e piantagioni di gelsi bianchi che cuoprono la valle: si dovette in appresso salire e scendere un'alta montagna, alle di cui falde la strada piega all'O. Arrivammo alle due ore ed un quarto a Lefkie, che trovasi in fondo ad una valle lungo la quale scorre un piccolo fiume.
In sul far della sera soppraggiunse un ufficiale di Mehemed Ali pascià d'Egitto, apportatore al governo della notizia della ritirata degl'Inglesi. Essendo venuto a trovarmi, sgridai in sua presenza i miei Tartari, i quali contavano d'impiegare ancora quattro giorni per condurmi a Costantinopoli, ed ottenni la promessa di arrivarvi in due.
Martedì 20.
Per non mancare di parola si posero in viaggio a tre ore del mattino verso O. N. O. Si passò il fiume sopra un ponte lontano mezz'ora dal villaggio, ed in breve eravamo alle falde delle montagne che dovevamo sormontare per andare a Nicèa. Malgrado l'asprezza della strada, camminavamo speditamente, attraversando rupi e burroni, e spesse volte sull'orlo di spaventosi precipizj; fortunatamente la luna vicina al meridiano rischiarava perfettamente la strada. Entravamo in Nicèa al levare del sole.
Questa città, celebre tra i cristiani pel concilio tenutovi l'anno 324 di Gesù Cristo, è come Antiochia, un piccol luogo chiuso da vaste antiche mura, tagliate da magnifiche porte. È situata sull'estremità occidentale d'un lago, in mezzo ad infiniti giardini.
Appena ricambiati i cavalli si proseguì il viaggio lungo la riva del lago accompagnato ancora dai domestici dell'ufficiale di Mehemed-Alì.
L'acqua del lago è dolce e bevibile. Questo lago di forma irregolare prolungasi da levante a ponente, e può avere cinque in sei leghe di lunghezza sopra mezza lega di larghezza. È circondato di montagne da ogni banda, tranne un piccolo piano al N. E. lungo il quale si camminò circa un'ora e mezzo.
Alle undici ore si ripigliò la direzione del N. e del N. O. attraversando montagne coperte di arbuscelli, e dalla cui sommità scoprivasi il lago in tutta la sua estensione. Eravamo intenti a così bella veduta quando il sole si coperse improvvisamente di nubi, e nell'istante medesimo incominciò a piovere dirottamente. Scendevamo allora per un ripido pendìo, che il terreno argilloso, e la pioggia facevano sdrucciolevole: il mio cavallo cadde, e mi prese sotto una coscia, malgrado gli sforzi da me fatti per sostenerlo; ma perchè la caduta si fece in due tempi, ed abbastanza lentamente, non mi cagionò verun male: questa è la sola caduta ch'io facessi in tutti i miei viaggi dell'Affrica e dell'Asia.
Poco dopo il mezzo giorno si attraversò un casale, indi un magnifico ponte, di dove essendo scesi in una valle si andò a seconda di due fiumi che si dovettero attraversare più volte. Ma appena usciti dalle sinuosità dei fiumi ci trovammo sopra un argine antico fatto in mezzo ad una palude, a poca distanza del quale trovasi il villaggio d' Herseck vicino al mare. Colà c'imbarcammo coi nostri cavalli per tragittare il golfo d'Isnikmid, che si profonda alcune leghe entro terra, e che in questo luogo può esser largo quattro in cinque miglia.
Siccome avevamo il vento contrario, il battello, o kaick, come vien detto in paese, dovette correre una bordata di mezz'ora all'E. ed una seconda di tre quarti d'ora a N. O. per giugnere sull'opposta riva. Si sbarcò nel porto di un piccolo villaggio, ove danno fondo quasi tutti i battelli che fanno questo tragitto.
Di qui continuando il cammino tra le montagne, giugnemmo alle otto della sera ad un altro villaggio. I miei Tartari calcolavano di fare in tre giorni il viaggio fatto in questo solo giorno.
Mercoledì 21 ottobre.
Allo spuntar del sole la nostra gente si pose in cammino coi più cattivi cavalli ch'io vedessi mai; e perciò facevasi poco viaggio. Da principio si seguì la riva del mar di Marmara nella direzione dell'O. N. O.; e riconobbi subito le isole de' Principi poste a piccola distanza dalla spiaggia. Essendo in seguito passati per molti villaggi, ed attraversata una specie di necropoli, ossia un vasta campagna di sepolcri, si arrivò finalmente a Scutari, o Scondar, ad un'ora e mezzo dopo mezzo giorno, ov'io smontai ad un caffè.
In tempo della mia dimora in Europa aveva contratta amicizia col Marchese d'Almenara, che adesso era ministro della corte di Spagna a Costantinopoli. Gli diedi avviso del mio arrivo, ed all'istante questo ragguardevole amico mi mandò il suo dragomano, domestici e battelli per attraversare il Bosforo; e spinse la gentilezza fino a darmi un appartamento in propria casa, ch'egli mi aveva fatto preparare alla turca, onde non contrariare le mie abitudini.
CAPITOLO LI.
Descrizione di Costantinopoli. — Il Bosforo. — Il Porto. — L'Arsenale. — Pera. — Top-Hana. — Galata. — Strade di Costantinopoli. — S. Sofia. — Uscita del Sultano ogni venerdì. — Le Moschee. — Eyoub. — Reliquie del Profeta. — Serraglio, o palazzo del Sultano. — Vetture. — Hippodromo. — Castello delle Sette Torri. — Mura.
Costantinopoli fu visitata da tanti curiosi, che io non prenderò a descriverla. Pure perchè sarebbe fuor di luogo il non parlare di così grande metropoli dopo avervi dimorato alcun tempo, e perchè altronde a molti dei miei lettori non sarà discaro il trovar qui uno schizzo di questa città, descriverò brevemente quello che ho veduto. Io rappresenterò gli oggetti quali si presentarono a' miei occhi, senza farmi carico di quanto hanno potuto dirne gli altri viaggiatori; e siccome avanti d'entrare in questa città, sono rimasto alcuni giorni a Pera presso il signor Ambasciatore, incomincerò a parlare delle cose vedute in questo luogo.
Il Bosforo di Tracia, detto el-Bogaz dai turchi, ed il Canale dai cristiani, perchè unisce il Mar Nero o Ponto Eusino, al Mar di Marmara, ossia Propontide, chiamato dai turchi Mar Bianco, è posto quasi nella direzione N. E., con molte sinuosità, che rendono varia la sua larghezza da un miglio fino a quattro.
Il canale ha una corrente rapida quanto quella d'un fiume che va dal Mar Nero al Mar di Marmara. Questo fenomeno è prodotto dai molti fiumi che sboccano nel Mar Nero, e dalla limitata superficie che presenta alla evaporazione in una così elevata latitudine; di modo che se il Mar Nero non avesse una uscita per il Bosforo, dovrebbe necessariamente dilatarsi finchè acquistasse una bastante superficie per istabilire l'equilibrio tra la quantità d'acqua che gli portano i fiumi, e la massa assorbita dall'evaporazione.
Tanta è la rapidità della corrente, che rende necessario il tenere alcuni uomini sopra varj punti della costa per tirare a riva i battelli e le scialuppe; non bastando la forza dei remi per superare la corrente quando si vuol rimontare il canale: sonovi ancora alcuni luoghi in cui le acque formano gorghi così rapidi, che la superficie si cuopre tutta di schiuma.
D'altra parte s'io considero che le acque del Mar Nero e quelle del Canale sono salse come quelle degli altri mari, io non posso non credere che esista in fondo al canale una contraria corrente che riporta l'acqua del Mar di Marmara verso il Mar Nero; imperciocchè non ammettendo tale supposizione non sarebbe possibile di spiegare in qual modo, dopo tanti secoli, siansi le acque del Mar Nero conservate salse, malgrado l'enorme quantità d'acqua dolce che ogni giorno riceve dai fiumi, e la massa d'acqua salsa ch'esce pel canale del Bosforo.
Il disequilibrio che deve produrre la diversa gravità specifica delle due masse d'acqua diversamente cariche di sale, e che sono in contatto, concorre altresì a provare la necessità dell'esistenza di questa corrente inferiore del Mar di Marmara verso il Mar Nero; poichè se suppongansi due masse d'acqua perpendicolari della medesima altezza ne' due mari, che siano in comunicazione per mezzo del Canale, è cosa indubitata che quella del Mar Nero composta d'acqua salsa e d'acqua dolce dei fiumi, sarà più leggiera di quella del Mar di Marmara, quasi affatto composta d'acqua salsa; ed in conseguenza il Mar di Marmara per livellare il suo peso a quello del Mar Nero deve versare in questo una parte della sua acqua, finchè l'abbassamento del suo livello, e l'elevazione di quello del Mar Nero compensino la differenza della gravità specifica delle due acque. D'altra parte la colonna allungata del Mar Nero non potendo sostenersi al di sopra del livello della colonna corrispondente, verserà sopra di questa una parte della sua acqua superiore per equilibrare il livello delle due colonne; ed ecco stabilita la corrente superiore dal Mar Nero a quello di Marmara, e mantenuto dalla continua affluenza dei fiumi che si gettano nel primo. La necessaria esistenza di una corrente inferiore in senso contrario viene egualmente dimostrata dallo stesso principio, il quale indica altresì che l'acqua del Mar Nero dev'essere meno salsa che quella del Mar di Marmara.
Le due rive del Canale sono notabili pe' molti sobborghi che quasi si toccano l'un l'altro, e vengono a formare una continua strada lunga più di una lega e mezzo. Spetta al pittore delle grandi epoche della natura, all'autore del Maometto e della Zaira, il descrivere come si conviene lo spettacolo imponente che presenta quest'immensa strada acquatica, in mezzo alla quale io vidi navigare tutta la squadra con una infinità di altri bastimenti, e migliaja di scialuppe e di battelli: i palagi e i terrazzi superbi, le ville del Sultano, delle Sultane, e dei grandi dell'Impero, che fatte col più squisito gusto orientale gareggiano fra loro in beltà e lusso; i colli pittoreschi che circondano il canale coperti del più bel verde e di eleganti casucce isolate; il corpo colossale della città di Costantinopoli che si presenta coperto da una foresta di campanili, di cupole, di terrazzi, il tutto dipinto di variatissimi colori, e solo interrotto dal verde di grandi alberi; e finalmente il mare di Marmara che chiude l'orizzonte al sud: questo magnifico aggregato forma un quadro che non può descriversi, ma la di cui impressione non può cancellarsi dalla memoria.
Una lega e mezzo al di là di questo spazio, i villaggi posti sulla riva del Bosforo sono alquanto più separati gli uni dagli altri: la foce del Mar Nero viene difesa da un forte sopra ogni lato del canale, e da due antichi castelli situati a mezzo la costa a diritta ed a sinistra; la torre di Leandro guarnita d'artiglieria è posta sopra un'isoletta in mezzo; sonovi inoltre molte batterie di campagna sopra le due rive alla foce del canale nel mare di Marmara.
Il porto di Costantinopoli è il migliore del mondo. Formato da un braccio di mare che si avanza sinuosamente nelle terre tra la città ed il sobborgo di Galata, di Pera, ec. è tutto circondato da colli, e perciò al coperto da tutti i venti. Il fondo è tale, che le navi a tre ponti possono accostarsi alla riva, e prender terra colla loro prora senza toccare colla chiglia.
Sulla costa del porto opposta a Costantinopoli vedesi l'arsenale, nel quale io contai quattordici o quindici navi da guerra, le une interamente corredate ed armate, le altre preparate a metà, tutte ben fatte ed in ottimo stato. Vi trovai pure molti vascelli o carcassi inutili, alcune scialuppe cannoniere, e sul cantiere una fregata che si andava formando da operai europei. L'arsenale è vasto, e provveduto di materiali. Contiene un infinito numero di cannoni la maggior parte di bronzo, una eccellente macchina per alberare, ed un bacino da costruzione, il cui solo difetto è quello di avere un fondo che perde l'acqua: trovavasi allora occupato da un vascello di settantaquattro cannoni che veniva racconciato. Presso al bacino sonovi due belle macchine per tirare le navi in secco. La casa del capitano Pascià, o grande Ammiraglio della marina Ottomana, è situata vicino all'arsenale: è un magnifico edificio con un bellissimo sbarco sul mare. Dietro a quella del Pascià viene la casa del capo dell'arsenale, innanzi alla cui porta un'urna sepolcrale serve di fontana.
Quando si viene dall'Asia per recarsi a Pera, che è il sobborgo ove risiedono gli ambasciatori ed i negozianti europei, si sbarca di ordinario a Top-hana, altro sobborgo in riva al canale. Colà trovansi le caserme de' cannonieri, come pure una batteria di ventiquattro cannoni montati sopra carrette di forme diverse per difendere l'ingresso del porto. Rimarcai un'antica colombrina di quasi un piede di calibro, ossia diametro interno, e lunga diciannove piedi, destinata a tirare palle di sasso, delle quali se ne vedono molte presso. Le caserme sono belle, e contengono molti carri e cassoni.
Il sobborgo di Galata, che si unisce a quelli di Top-hana, e di Pera, è grande, popolato assai, e chiuso da una muraglia che tocca le case degli adjacenti sobborghi. Lo attraversa dall'una all'altra estremità una strada lunga più d'un quarto di lega, ma sucida, mal selciata, e quasi tutta fiancheggiata da botteghe di commestibili. Le case quasi tutte di legno inspirano tristezza. Si andavano rifabbricando le case consumate da un incendio nel precedente anno.
La chiesa greca di S. Dimitri è composta di tre piccole navate ben proporzionate, e sostenuta da colonne di legno coperte di stucco imitante il marmo. Il santuario non ha ornamenti, ed il tempio è oscuro. Mi fu detto essere questa una delle più belle chiese greche della capitale.
Il passeggio degli abitanti di Costantinopoli è il Cimiterio, che i cristiani dicono Campo dei morti. Non può quindi essere molto allegro, ma signoreggia parte della Città e del Bosforo, e vi si gode una maravigliosa veduta. Da questo lato trovasi pure una bella caserma, altra volta abitata dalle truppe regolari e disciplinate all'europea, che chiamavansi Nizàm Djidid; ma queste truppe più non esistono.
Per andare da uno di questi sobborghi a Costantinopoli si attraversa il porto con una piccola scialuppa con uno o due rematori, e si sbarca in luoghi coperti, dove vedonsi ammucchiate le une sulle altre molte scialuppe. Questi magazzini sono di legno, e vi si entra senza sbarcare. Sulla porta di questi edificj dalla banda di terra trovansi sempre cavalli da nolo sellati per portare subito i viaggiatori ove vogliono, per istrade sporche, scoscese, e fiancheggiate da ambo i lati da officine e case di legno coperte di vivi colori, ma senza essere a filo, e formanti le une colle altre angoli entranti e salienti senza veruna uniformità: vi si vendono commestibili, confetture, tabacco, droghe, ec.
Io fui alloggiato in un bellissimo Khan fatto con pietre tagliate; senz'altra compagnia che quella del mio dragomano turco, dello schiavo, e di un giannizzero. Il dragomano era un uomo singolare; nato cristiano nell'Albania erasi portato in Europa per istudiare la medicina. Dopo avere viaggiato cinque anni per questo motivo in Italia, in Francia, in Germania, soggiornò due anni a Vienna col primo medico dell'imperatore Giuseppe II nel palazzo di questo Principe, col quale ebbe più volte l'onore di parlare. Era in allora vestito all'europea: giunto a Costantinopoli erasi fatto musulmano, ed a quest'epoca non aveva di che vivere. La sua conversazione aveva qualche cosa di straordinario. Siccome io non parlo il linguaggio turco, ed egli non sapeva l'arabo, adoperava un latino maccaronico misto d'italiano. Quantunque nelle scuole de' cristiani non imparassi l'alchimia, studiai per altro non so perchè, il latino; imperciocchè, non avendo mai fatto uso di questa lingua, non la parlo meglio del dottore albanese: il suo era un latino italianizzato, il mio un latino arabo. Dietro queste nozioni figurisi il lettore quali potevano essere i miei discorsi con un uomo che univa ad una istruzione confusa una mescolanza di stravaganti chimere dell'immaginazione. Egli credeva per modo d'esempio, che l'aria sia popolata di spiriti o di uomini invisibili, che hanno una diretta azione sugli uomini, e che formano una specie di fratellanza con alcuni mortali, ec. Del rimanente era un buon uomo e senza rigiri.
La grande moschea di Aya Sophia, antica cattedrale di S. Sofia, è un magnifico edificio; la vasta sua cupola ad arco stiacciato, circondata da mezze cupole produce un maraviglioso effetto. Non prenderò a farne la descrizione, perchè già fatta da molti viaggiatori. I cristiani vi possono avere accesso, come in tutte le altre moschee di Costantinopoli, col permesso del governo, che facilmente si ottiene. I muri sono incrostati di marmo, e le colonne bastantemente conservate, ma il tetto incomincia a guastarsi. La tribuna del Sultano è tutt'altro che bella: è una specie di gabbia sostenuta da quattro colonnette, e circondata da griglie dorate.
Ciò che reca maraviglia è il vedere questo tempio ingombrato da una quantità di bastoncelli, e di canne posti lungo le muraglie ed intorno ai piloni; pezzi di tela, come lenzuoli, tovagliuoli, ec. sospesi, onde formare una specie di separata tribuna, ove non possono entrare che i proprietarj per fare la preghiera o per leggere: la qual cosa forma in chiesa una ridicola specie d'accampamento. Nell'angolo di N. O. della navata principale si vede una magnifica giara di marmo elegantemente lavorata, che tien luogo di fonte. È pure notabile un tramezzo di marmo in forma di paravento, assai ben fatto, ed imitante il legno che trovasi in una delle loggie superiori.
Un venerdì vidi andare alla preghiera il sultano Mustafà nella moschea Sultan Djèámi, o moschea del Sultano, posta in faccia ad una delle porte del serraglio. La strada che per recarvisi doveva il Sultano attraversare, era fiancheggiata da due linee di giannizzeri dalla porta del serraglio fino a quella della moschea. Il mio dragomano ed il mio giannizzero non volevansi avvicinare perchè al solo nome del Sultano tutti tremano; io invece attraversai le linee e passai nel cortile della moschea, ove mi posi nella più vantaggiosa situazione per vedere S. Altezza.
Arrivarono prima a varie riprese molti personaggi della corte circondati da domestici a piedi, e montati sopra bellissimi cavalli riccamente bardati, scendevano alla porta della moschea, ed i domestici prendevansi cura dei cavalli.
I giannizzeri, come gli altri turchi, portano una lunga veste ma di color diverso, come ognun vuole, col solo segno distintivo di una ridicola berretta di feltro bianco-grigia, che pende per di dietro; e copre loro la schiena; e sul davanti una piastra di metallo che viene come a cadere sopra la fronte, e chiude come in un astuccio un grossolano cucchiajo di legno che ogni giannizzero è obbligato ad aver sempre presso di sè. Marciano senz'armi non avendo che una mazzetta in mano.
Vidi poi arrivare dieci cavalli del Sultano tutti assai alti, e di diverso pelo, coperti di grandi gualdrappe riccamente lavorate in oro ed argento, e di selle con sopra magnifiche stoffe.
Il Sultano montato sopra un superbo cavallo giunse poco dopo preceduto da una trentina di guardie Bostandgi armate di piccole alabarde dorate. Stavano a' suoi fianchi quattro ufficiali, che potrebbero chiamarsi ventole del Sultano, perchè colle immense penne che hanno sul capo nascondono in modo la persona di S. Altezza, che riesce difficile il vederla; pure io la vidi perfettamente in volto, e lo guardai col mio occhialino finchè mi fu possibile. La figura del suo volto è lunga assai, ed anche il naso quantunque un po' rivolto all'insù; ha gli occhi grandi, e la pallidezza del suo colore non è rotta che dalle due pommelle rosse delle gote; parvemi piuttosto d'alta statura, smilzo, ed assai vivace. Aveva una semplice pelliccia, ma il turbante era ornato di una ricchissima rosa di brillanti assai grossi e di una luce vivissima. Entrando nel cortile del tempio fece un leggier saluto, portando la mano destra al petto, e guardando a diritta ed a sinistra. Regnò un profondo silenzio finchè il Sultano giunse alla porta del tempio; ove tostochè smontò, una dozzina d'uomini ch'erano presso alla porta fecero alcune grida di vivat.
Teneva dietro al Sultano il capo degli Eunuchi negri, il cui aspetto è veramente orribile; era riccamente vestito, e montato sopra un bellissimo cavallo simile a quello del Sultano, ed anch'esso circondato dai suoi domestici a piedi. Salutava passando a destra ed a sinistra con una tale misurata precisione, che sembrava un automa.
La stesso giorno andai a fare la preghiera del mezzodì a S. Sofia. Non vi si fa alcuna cerimonia particolare, e solo dopo l'orazione vidi un dottore montare sopra un alto pulpito, e fare seduto un lungo sermone. Mentre io stava divotamente ascoltandolo, l'ufficiale capo della tavola del capitano Pascià, che io aveva conosciuto in Alessandria, mi si accostò, e mi diede infinite prove d'attaccamento baciandomi le mani ed i piedi.
Le altre più ragguardevoli moschee di Costantinopoli sono:
Il Tourbèh, ossia sepolcro del sultano Abdoulhamid, padre dell'attuale sultano Mustafà; bella cappella ottagona, ove viene riverita entro una nicchia una pietra nera guernita d'argento, sopra la quale conservasi l'impronta dei piedi del Profeta, come in una piastra di cera molle.
La moschea Yenid Djeàml ornata di bellissimi marmi è una perfetta copia di S. Sofia.
Il Tourbèh, o sepolcro del sultano Soulimen, elegante cappella ottagona somigliante a quella di Abdoulhamid, sebbene meno magnifica, è situata in mezzo ad un piccolo giardino, accanto alla moschea detta Soulimania. Per recarvisi si passa sopra un terrazzo che signoreggia una parte della città, il porto ed il sobborgo di Galata, ec.; indi dopo avere attraversato un vasto cortile abbellito da una loggia sostenuta da colonne di granito rosso, si entra nel corpo della moschea, ricco di quattro grandiose colonne dello stesso granito e di altri marmi di diverse qualità che ne coprono le interne pareti. In un angolo del tempio un certo qual missionario seduto in terra predicava al numeroso popolo che gli stava intorno affollato.
Non cede alle altre in bellezza la moschea del sultano Ahmed, i di cui quattro piloni, che sostengono la cupola centrale, sono incrostati di marmo bianco scannellato; la tribuna del Sultano è sostenuta da molte colonnette, tra le quali vedonsene alcune di una bella breccia oscura, ed una di verde antico. Anche nella corte trovansi diverse colonne di granito rosso di una non comune grandezza. In questa moschea il Sultano suole recarsi due volte all'anno, per la Pasqua, e per il giorno natalizio del Profeta, perchè la sua posizione riesce comodissima a tutto il suo seguito, che può allargarsi nell' Hippodromo accanto alla moschea.
La moschea del Sultano Maometto II, che conquistò Costantinopoli, è pure un ragguardevole edificio. Quand'io andai a vederla i portici del cortile erano pieni di piccole botteghe di mercerie, ove i mercadanti gridavano come in un mercato, e nell'interno della chiesa gridavano ancora più forte cinque o sei predicatori. Il turbeh, o sepolcro del Sultano posto accanto alla moschea in mezzo ad un piccolo giardino, è una semplice cappella di mattoni, ma il catafalco è coperto da un ricchissimo tappeto. La cappella ed il marciapiede erano affollati di donne che venivano a visitare il sepolcro.
Elegante è la moschea Osmania, ma meno grande delle altre.
Sortendo dalla città verso il porto trovasi ad un quarto di lega di distanza un gentile palazzo del Sultano, passato il quale si giugne al sobborgo d' Eyoub posto lungo la riva del canale del porto. Diede il suo nome a questo sobborgo un santo discepolo del Profeta, venerato come il protettore di Costantinopoli, e le di cui ossa furono miracolosamente trovate nello stesso luogo. Nella moschea di questo sobborgo vien cinta la sciabla al nuovo Sultano; lo che tien luogo della coronazione dei monarchi in Europa. L'ingresso di questo tempio essendo assolutamente vietato a tutti gl'infedeli, niuno lo descrisse, onde cercherò di supplirvi.
Dopo avere attraversata una piazza irregolare si entra nell'edificio, consistente in un cortile al centro, nella moschea alla diritta, e nella cappella dall'altro lato, ove trovasi il sepolcro del santo. Questi edificj sono incrostati di marmo dall'alto al basso, tanto le pareti quanto il suolo.
Il cortile ha la figura d'un paralellogramo, e da tre bande è circondato di portici. Nel centro s'inalzano due pioppi, le cui frondi ombreggiano tutto il cortile.
La moschea non è diversa da tutte le altre moschee imperiali di Costantinopoli, vale a dire che come quella di S. Sofia, è formata di una gran cupola sopra un quadrato; ma questa ha due particolari cose che la distinguono: la prima che i piloni posti agli angoli del quadrato sono assai sottili; che la cupola è sostenuta da sei piloni cilindrici in forma di colonne ai tre lati del quadrato; e che sul muro del fondo si alza una mezza cupola formante una cappella ove trovasi il mehereb, o nicchia dell'Imano: la seconda particolarità si è che la tribuna del Sultano non è come nelle altre moschee alla diritta del mehereb, ma alla sinistra. I muri sono tutti incrostati di rarissimi marmi; il suolo coperto di ricchi tappeti, ed un gran numero di lampade e di candelabri di cristallo e d'argento, ova di struzzo, noci di cocco, ed altri minuti ornamenti tutti guarniti di preziosi metalli e smaltati de' più bei colori, vedonsi sospesi all'altezza di sette in otto piedi.
Nel lato opposto al cortile trovasi una sala ornata di tappeti e di soffà, e di varie iscrizioni che ne ricoprono tutte le pareti. In una piccola nicchia formata nella grossezza del muro della sala viene custodito un pezzo di marmo vergato bianco, e nero che ha l'impronta del piede del Profeta; ed è quella ch'io vidi meglio segnata in tutti i monumenti di tal genere da me veduti ne' miei viaggi. Questa sala è per così dire l'anticamera della cappella, ove conservasi il sepolcro del santo.
La cappella illuminata da belle finestre forma un piccolo tempio coperto di una elegante cupola; le pareti sono coperte d'iscrizioni come quelle dell'anticamera, ed il catafalco del santo posto in mezzo è coperto di una ricca stoffa, e circondato da un cancello d'argento. Dalla banda del capo evvi uno stendardo ripiegato nel suo fodero, che è l'insegna distintiva del discepolo del Profeta: nell'opposto lato trovasi il pozzo da cui si attinge l'acqua con un secchio d'argento che si beve con bicchieri dello stesso metallo; e si vuole che quest'acqua sia miracolosa.
Dopo aver lasciate nell'interno abbondanti elemosine, ed altre alla porta sempre assediata da qualche centinajo di poveri, non molto incomodi a dir vero, perchè essendo registrati non si presenta a chiedere l'elemosina ai fedeli che il solo capo. Non lasciai di visitare il sepolcro della madre dello sventurato Selim III, che consiste in un piccolo tempio incrostato di marmi preziosi, ed ornato al di dentro ed esternamente da colonne e da mondanature del più squisito gusto. Riceve la luce da molte finestre con inferriate dorate; ed ha in sul davanti un vestibolo sostenuto da belle colonne di marmo screziato.
Osservai pure molte altre moschee famose pel loro nome, ma di poco pregevole architettura. A lato alle moschee trovansi i sepolcri de' personaggi illustri, le biblioteche, le scuole, gli ospizj de' poveri, i Khan pei viaggiatori, gli ospitali, ed altri pii stabilimenti, che tutti furono già descritti da altri viaggiatori.
Ho pure voluto vedere una casa, nella cui maggior sala sono disposti i mausolei di una famiglia che possiede alcuni peli della barba del Profeta, tesoro infinitamente più prezioso di tutte le ricchezze dell'India. Questa reliquia si espone alla pubblica venerazione in una cappella situata di faccia ai mausolei. Quand'io entrai, un ministro mi presentò un piattello con un cuscinetto coperto di differenti pezzetti di stoffa paonazza, che spargeva un gratissimo odore: dopo avermi fatto venerare il piattello, mi toccò a più riprese gli occhi, la fronte, il naso e la bocca con un capello steso sopra un pezzo di cera nera, e recitando alcune preghiere ad ogni suo toccarmi, mentre io mi teneva nel più esemplare raccoglimento: dopo di che feci la mia preghiera, e depositai l'offerta, che parve al ministro abbastanza ragguardevole perchè si degnasse esibirmi di ricominciare la ceremonia del piattello, e del capello, che accettai di buon grado, come un singolar favore. Mi diede in oltre una piccola bottiglia d'acqua entro la quale erano stati bagnati i santi capelli, e partii colmo di gioja. I capelli che mi si fecero toccare erano alquanto rossicci, torti, forti, della lunghezza di due dita traverse. Avvezzo a riflettere su tutto quanto mi accadeva, non potei in questa occasione dispensarmi dall'ammirare il miracolo della divina Provvidenza, che si degnò di rendere una intera famiglia ricchissima col solo prodotto d'una piccola ciocca di capelli!
All'indomani mi recai ad un'altra casa ove si venera un pezzetto dell'abito del Profeta. Una guardia di giannizzeri e di sceriffi ne occupava la porta; la casa era piena di donne, che d'ordinario vanno la mattina ad adorare la reliquia, e molte vetture stavano aspettando nella strada: mi fu detto che non potrei entrare che dopo mezzogiorno; onde mi trattenni in una vicina moschea fino all'ora indicatami. Alla porta si distribuiscono a modico prezzo piccole bottiglie dell'acqua in cui si bagnò la reliquia.
Vuole l'usanza che si lascino le pantoffole a' piedi della scala, ove trovasi uno sceriffo incaricato dì riceverle, e di restituirle quando si esce. Si sale da prima in una camera irregolare col palco assai basso, e fattavi la preghiera si entra nella cappella della reliquia: è questa una camera di dieci in undici piedi in quadrato, bassa come un mezzanino, che ha siccome le moschee il suo mehereb con una finestra da ogni lato; il tutto coperto di ricchi tappeti.
Sta entro al mehereb uno sceriffo, innanzi al quale vedesi una piccola tavola coperta di molte stoffe ornate di ricami assai ricchi, e poste le une sopra le altre; l'estremità della reliquia viene mostrata sotto ad una di tali stoffe alla venerazione de' fedeli credenti. Malgrado la religiosa oscurità della camera, ho potuto osservare che la reliquia è un pezzetto di grossa tela di lana di color nero, o bruno cupo, e che non era posta in mezzo alla tavola, ma alla diritta, onde siccome io suppongo, preservarla dagl'innumerabili baci dei divoti. Penetrati questi da un santo terrore, e da profondo rispetto baciano senza troppo riflettere una stoffa ove non è la reliquia, e con questa innocente astuzia viene sottratta ad un'infinità di toccamenti, che a lungo andare le arrecherebbero danno, e la insudicerebbero. Alquanto più riflessivo, quantunque divoto come gli altri, io baciai veramente la reliquia, applicandovi le labbra, la fronte, e le guance; ma in pari tempo ebbi l'avvedutezza di lasciare una larga elemosina per compenso di così straordinario servigio: Dio ne sia lodato!
Questa inapprezzabile reliquia, non meno dei peli della barba del Profeta che aveva venerati nel precedente giorno, non si espone al pubblico culto che in tempo del Ramadan.
El-saraya, o serraglio, palazzo del Sultano, può riguardarsi come un'altra città entro Costantinopoli, tanti sono i palazzi, le case, i terrazzi, i giardini che racchiude nel suo vastissimo circondario. Io non vidi che due porte in così grande circuito, le quali troppo male corrispondono alla maestà del palazzo.
Una di queste, custodita dai bostangì, è posta sopra un cortile, o piazza irregolare, nella quale trovasi una zecca che io non ommisi di visitare. La vite del punzone viene mossa da tre uomini, ed un quarto colloca la moneta sotto il conio. In altra casa dello stesso cortile si conservano molte armi antiche appese alle pareti.
In fondo al cortile apresi un'altra porta egualmente custodita dai bostangì, da eunuchi, e da altri impiegati, che non mi permisero d'inoltrarmi più a dentro. Vidi per altro guardando per questa porta un secondo più spazioso cortile, con molti terrazzi ed altri edificj isolati: ed ecco tutto ciò ch'io posso dire del serraglio del Gran Signore, che altronde essendo stato tante volte descritto da chi lo vide, o pretende d'averlo veduto, non è bisogno ch'io soggiunga il poco che ne so. Avrei bensì potuto ottenere la permissione d'introdurmi; ma non volli impiegare il denaro in così fatti oggetti, perchè se io avessi voluto trattarmi colla magnificenza conveniente al mio grado, avrei sacrificata all'ambizione quella dolce indipendenza che aveva incominciato a godere nella specie di oscurità da me scelta, e dalla quale non desiderava di sortire. Per tale motivo mi tenni lontano dalla corte, e non mi presentai a Moussa Pascià mio amico d'Alessandria, che allora era Kaïmakan del gran Visir, ossia il primo funzionario dell'impero in Costantinopoli quando il gran Visir trovasi all'armata, siccome allora trovavasi di fatto a quella di Adrianopoli: e sono ben sicuro ch'egli mi avrebbe ricevuto come un suo caro fratello se avessi voluto farmi conoscere alla corte.
Uscendo del serraglio attraversai la casa del gran Visir, e vidi nel quartiere terreno una vasta sala, in fondo alla quale vien posto sopra un rialto il soffà di questo ministro in occasione delle pubbliche udienze. La sala è vasta, ma non conveniente a quest'uso.
La principale porta della casa consiste in un arco semplicissimo in faccia alla muraglia del serraglio, notabile per una torre, nella quale recasi talvolta segretamente il Sultano per vedere le pubbliche cerimonie del gran Visir coi ministri stranieri, ec.
Il palazzo di Costantino trovasi nel centro di Costantinopoli, e vien detto il vecchio serraglio: io non potei vederne che le mura che sono altissime; ed è abitato dalle donne rilegate del serraglio.
Quasi tutte le strade di Costantinopoli sono anguste e sporche. I marciapiedi alti quattro o cinque piedi, mal lastricati ed incomodissimi; onde andava quasi sempre a cavallo. Le case hanno tante finestre che pajono gabbie. Ho già detto che sono di legno dipinte con vivacissimi colori, o disposte senza veruna regolarità. Ciò è cagione degli incendj che ogni anno distruggono qualche quartiere della città; ed in tempo della mia dimora fui testimonio di due, che arrecarono gravissimi danni: ma il fanatismo dei Turchi resiste costantemente a così funeste esperienze, e rifabbricano le nuove case com'erano le incenerite, lasciando alla Provvidenza la cura di conservarle. E per tal modo potrà dirsi tra non molto tempo che la città di Costantinopoli fu rifatta ben cento volte.
Ho vedute alcune botteghe di farmacisti come in Europa, una strada d'argentieri, e tutto un quartiere abitato da calderaj, di dove uscii affatto stordito. Passai pure per una lunga strada ove si vendono i vasellami di rame, notabile per la quantità immensa delle merci, e per la bella simmetria con cui vengono disposte nei magazzini.
Costantinopoli è la sola città musulmana in cui sianvi vetture. Quelle di cui io mi valsi sono sospese sopra quattro ruote ben proporzionate, cariche di dorature, coperte di tela bianca o rossa, e tirate da un pajo di cavalli guidati da un cocchiere a piedi a lento passo: sul di dietro della vettura si pone una scaletta di legno che vien collocata alla portiera quando si sale o si scende. I turchi non adoperano domestici, e sembra pure che sdegnino di servirsi delle vetture per girare la città, non avendovi costantemente vedute che donne.
Volli un giorno minutamente esaminare l'Ippodromo, chiamato dai turchi Admeïdan. È questa una piazza irregolare lunga all'incirca duecento cinquanta passi, e larga cento cinquanta; nel centro della quale s'inalza un bell'obelisco egiziano di granito rosso, somigliante alla guglia di Cleopatra in Alessandria; ma meno alto, sebbene gli si diano sessanta piedi d'elevazione: ogni facciata presenta una linea perpendicolare di geroglifici assai grandi. È sostenuto da quattro dadi di bronzo sopra una base o piedestallo fatto di varj pezzi di marmo grossolano mal lavorato, sul quale furono scolpite diverse bizzarre figure in rilievo, tutte in maestà, e del cattivo gusto greco de' secoli di mezzo. Mi fu detto che tali figure rappresentano i discepoli di Gesù Cristo: ma ciò che non ammette dubbio è, che questo piedestallo fa torto a così bel monumento, di cui presto o tardi ne cagionerà la ruina, per esserne le parti affatto mal legate.
A non molta distanza da questo obelisco egiziano se ne vede un altro alzato dai Greci ad imitazione del primo, che credo pure avere le medesime dimensioni; ma essendo formato di piccoli sassi di varie qualità e mal quadrati minaccia ruina, e presenta un singolare contrapposto di debolezza colla solidità dell'altro.
Trovasi presso a quest'obelisco un ospizio pei poveri, minacciato da un giorno all'altro di rimanere sepolto sotto le sue rovine.
Tra i due obelischi vedesi un terzo di colonna di bronzo mancante della parte superiore. Pretendesi che terminasse con tre teste di serpenti, i di cui corpi s'avvolgevano tenacemente intorno al fusto. Il bronzo è sottile assai, ed essendo bucato in più luoghi, si colmò di pietre l'interno vuoto. Il pezzo esistente può essere alto dieci piedi.
Dopo avere esaminati i monumenti dell'Ippodromo, mi diressi al S. O., facendo molte strade. In una piccola piazza osservai stese a terra due bellissime colonne di granito; e ne vidi altre due più piccole di verde antico presso alla porta di una casa affatto eguale alle altre. Vidi camminando molti mercati assai ben provveduti, ma separati gli uni dagli altri da lunghe strade affatto spopolate.
Finalmente giunsi al piede di un'alta torre, coperta d'un cono assai acuto; ed è una di quelle che formano il Castello delle Sette Torri ove si custodiscono i prigionieri di Stato; e come tale soleva ritenersi l'ambasciatore di qualunque potenza che dichiarava guerra al Sultano, e per questo solo motivo veniva imprigionato; ma pare che quest'usanza sia omai andata in desuetudine.
Scesi da cavallo, ed entrai nel primo cortile del castello; ove ben tosto mi si presentò un gran diavolo d'uomo con viso dispettoso; cui avendo domandato il permesso di osservare l'interno, n'ebbi un'assoluta negativa. Rimontai subito a cavallo, ed uscii dalla porta della città vicina alle sette Torri, volendo se non altro formarmi qualche idea di questa fortezza osservandola esteriormente; ma non vidi che un confuso labirinto di torri e di mura le une sopra le altre.
Piegando al nord al luogo delle mura della città, esaminai le opere che difendono dalla banda di terra la capitale dell'Impero. I suoi mezzi di difesa riduconsi ad una fossa quasi affatto colmata, e ridotta a giardini; una prima linea di mura assai bassa, a guisa di parapetto; una seconda linea di più alte mura, ed una terza linea interna ancora più alta, e fiancheggiata da torri altissime.
Queste tre linee di muraglie a scaglioni, coronate di feritoje hanno certa quale imponenza perchè presentano tre ranghi di fuoco; ma che non potrebbero resistere al fuoco ben diretto dell'artiglieria del nemico, il quale avrebbe inoltre il vantaggio di avvicinare le sue artiglierie coperto dalle colline, e dalle siepi dei giardini che vengono fino al piede delle mura. Costantinopoli non sosterrebbe più di otto giorni l'attacco di un'armata di terra. Altronde in uno spazio molto considerabile tra la porta di Adrianopoli, e quella di Top, come pure in un'altra parte tra quest'ultima porta ed il castello delle Sette Torri, i tre ordini di mura sono affatto ruinati, e rimpiazzati da una sola, che sembra piuttosto una semplice muraglia d'un ricinto, che un bastione di una immensa città. Tutto il rimanente delle mura cade pure in rovina.
CAPITOLO LII.
Cisterna di Filossène. — Colonna di Costantino. — Mercato delle donne. — Bezesteinn, o grande Bazar. — Quartiere del Fanale. — Alai Kiksoe del Sultano. — Punta del serraglio. — Riva del Mar di Marmara. — Caserma de' bombardieri. — Casa di piacere del Sultano. — Illuminazione del Ramadan. — Festa del Beyrom, o della Pasqua. — Acque di Costantinopoli. — Carattere dei Turchi. — Divertimenti. — Donne. — Clima.
La Cisterna di Filossène fatta a' tempi di Costantino per provvedere di acqua la città, ora non è più che un arido sotterraneo, in cui si formò una filatura di seta. Vi si scende per una cattiva scala che mette capo in un luogo quasi oscuro, sostenuto da più centinaja di colonne, e tutto ingombro dalle macchine destinate a filare e torcere la seta, i cui fili presso che invisibili in luogo così poco illuminato, dividonsi orizzontalmente tra gli ordini delle colonne, in maniera che non si può fare un passo senza arrischiare di romperne delle centinaja; onde rendesi necessaria una guida per girare in questo labirinto.
Preceduto da questa, e seguito dalle mie genti ordinate una dietro l'altra come una compagnia di ciechi, io girai questa specie di sotterraneo, che adesso serve ad usi così diversi da quello cui fu in origine destinato. La volta appoggiata sulle colonne ha di tratto in tratto alcune aperture che adesso fanno le funzioni di abbaìno, e furono aperture per attinger l'acqua.
Ogni colonna è formata di due fusti posti l'uno sull'altro senza verun mastice: il fusto inferiore in vece di capitello, porta uno zoccolo largo un piede all'incirca, sul quale si alza il fusto superiore, cui tien luogo di capitello un'informe figura somigliante ad un cono rovesciato. Le colonne sono d'un marmo grossolano la cui superficie va sciogliendosi. La terra ed i rottami che fino a certa epoca gettavansi per le finestre, hanno colmata quest'immensa cisterna fino a due terzi dell'altezza delle colonne inferiori. La mia guida mi disse, che queste colonne sono più di quattrocento, benchè nella descrizione non se ne contino che dugento dodici: ma la guida deve aver ragione, perchè calcola le colonne inferiori e le superiori. Gli operai chiusi in questa sotterranea officina hanno un cattivo colore ed un ributtante aspetto.
Uscito da questa caverna passai presso alla colonna di Costantino fatta di molti pezzi di porfido rosso, ad eccezione delle parti superiore ed inferiore, che sono formate con sassi di affatto diversa natura, lo che fa torto al resto del monumento. La colonna comincia a disfarsi.
Non dimenticai di visitare il mercato ove si vendono le donne d'ogni colore. È questo un vasto cortile circondato di ammattonati alti tre in quattro piedi, sui quali espongonsi le schiave, e di camerini ove il compratore fa entrare la donna che ha scelto per osservarla più minutamente. Quand'io vi andai era il giorno di Pasqua, e non si teneva mercato. Il luogo è chiuso e ben custodito, e si dice che i cristiani non possono entrarvi.
Il gran Bazar, dello el Bezestein, è magnifico, dividendosi in molte strade tutte coperte di volte altissime, che ricevono la luce dagli abbaìni. Alcune di queste contrade vengono esclusivamente occupate dai mercanti di stoffe di seta riccamente provveduti; in altre non vedonsi che gioje e materie preziose; per ultimo le altre offrono un'infinita varietà di magazzini di ogni genere, di armi, di pelliccie, di bardature, di tele dell'Indie, di tele di cotone e di lana, di libri, sebbene in poca quantità, di oriuoli, e di prodotti di tutte le parti del mondo. Vi osservai in particolare de' bellissimi brillanti, ed una tazza d'oro col suo coperchio egregiamente lavorata. Vi si trovano armi turche ricchissime, ma assai pesanti.
Io cercava nelle botteghe de' libraj la storia dell'impero Ottomano in lingua turca; e me ne fu offerto un esemplare, diviso in due volumi, uno de' quali era affatto nuovo, e l'altro vecchio, pel valore di ottanta piastre: ne volli dare sessanta, ma non si volle rilasciarmelo a questo prezzo, avrei potuto acquistarlo con poche piastre di più, ma per essere un volume vecchio, ed in un paese così frequentemente esposto alla peste, prendeva con ripugnanza oggetti ch'erano stati adoperati da altre persone: e per tale motivo rinunciai di buon grado a tale acquisto.
Il Quartiere della città abitato dai Cristiani greci chiamasi il Fanale. In questo quartiere trovansi le case del Patriarca e delle principali famiglie di questa nazione. Nell'attraversarle osservai alcune case d'un buon aspetto, ma senza lusso esterno. Quella del principe Suzzo, nominato allora ospodaro di Valachia non distinguesi dalle altre. È vietato ai Greci il dipingere esteriormente le loro case con vivaci colori, dovendo farlo con colori cupi; lo che dà loro una cotal aria di tristezza e di monotonia che dispiace.
Durante il mio soggiorno a Costantinopoli m'imbarcai tre volte per visitare le rive del circondario.
La prima volta noleggiai una scialuppa per andare al terrazzo del Sultano posto in sulla riva presso al porto, fuori del ricinto del serraglio.
Questo belvedere, detto Alàï Kiesk, consiste in una piccola casa quadrata, tutt'intorno alla quale gira una galleria sostenuta da colonne di marmo, chiusa soltanto da cortine di grossa tela. Entrai senza trovare veruna persona: il suolo era coperto di tappeti, il palco ornato di pitture, di dorature, ed il soffà montato in argento massiccio, ma senz'altri ornamenti, e senza mondanature; è largo quanto un letto, ed aveva un materasso grossolano coperto con una tela turchina; innanzi al soffà vedesi una fontana di marmo, ma senz'acqua.
MONUMENTO ANTICO NEL SERRAGLIO DEL GRAN SIGNORE A COSTANTINOPOLI
Continuai ad osservare dalla scialuppa la punta del serraglio, ove sono molti belvederi coperti quasi tutti di fitte gelosie, ch'io supposi essere gli appartamenti estivi delle sultane. Questi terrazzi sono di diverse altezze, e senza apparente simmetria; e vidi presso uno di tali edificj delle colonne di una breccia preziosa. Entro al serraglio ed a poca distanza dalla punta trovasi un'antica magnifica colonna, che può avere circa sessantadue piedi d'altezza; ma è posta in luogo tanto rimoto che non può vedersi dagli occhi profani, onde non potè prima d'ora essere descritta da veruno viaggiatore: e soltanto in occasione dell'ultimo attacco degl'Inglesi, essendo stati ammessi gli Europei nell'interno del serraglio per regolarvi il servigio della batteria spagnuola, fu disegnato questo monumento, che il rispettabile marchese d'Almanara ebbe la gentilezza di comunicarmi[4].
La seconda volta ch'io m'imbarcai fu per esaminare la fronte della città dalla banda del mare di Marmara, che presenta un prospetto veramente magnifico e straordinario di una sorprendente quantità di case e di edificj d'ogni sorte, che stendonsi a perdita d'occhio lungo le rive di questo mare.
Ho già fatto osservare che la punta che mette capo alla bocca del porto viene formata dal serraglio circondato da una semplice muraglia merlata con loggie, terrazzi e giardini posti in diverse distanze.
Al di fuori il piede di questa muraglia vien difeso da una linea di batterie da campagna costrutte nell'indicata epoca sotto la direzione degli ambasciatori di Francia e di Spagna, il generale Sebastiani, ed il marchese d'Almanara. Queste batterie sostenute da quelle delle opposte rive del porto e del Bosforo, assicurano il serraglio da ogni insulto dalla parte del mare. Io non vidi sulle mura del serraglio che una sola batteria; chiamata batteria degli Spagnuoli, la quale fu nell'interno del serraglio servita dagli individui di questa nazione; ciò che prova l'estrema confidenza del Gran Sultano.
Queste mura sono perfettamente simili a quelle che circondano la città in riva al mare. Nell'ultima batteria del serraglio posta a mezzodì vidi alcuni antichi cannoni turchi di una colossale grossezza, alcuni de' quali hanno sette ed otto bocche minori intorno alla grande centrale; e gli altri un piede di diametro: questi servono a tirare palle di sasso, preparate ed ammucchiate presso ad ogni pezzo. Questi grandi cannoni stanno sul suolo senza carro per tirare a fior d'acqua; di modo che qualsiasi bastimento toccato da uno di questi projetti deve necessariamente colare a fondo. Ma perchè queste pesantissime macchine non possono muoversi, difficilmente possono cogliere oggetti mobili. Il rimanente delle mura al di là del serraglio non si trova già più nel medesimo stato di difesa.
M'imbarcai l'ultima volta il primo giorno di Pasqua ad oggetto di osservare il fondo del porto.
Tutti i bastimenti ottomani avevano spiegato il loro paviglione, ma nessuno era pavesato, ed una perfetta calma rendeva inutili i paviglioni. Vi contai circa trenta tra vascelli, fregate e corvette, di cui venti disponibili, e dieci scialuppe cannoniere.
Ammirai il bel frontispizio della caserma de' bombardieri, presso alla quale facevansi delle salve di allegrezza con una linea di mortaj.
Dopo essere passato in faccia alla moschea al quartiere d' Eyoub, ed a varie case di piacere del Sultano, trovai il canale del porto, ristretto e diviso in più canali tra le isole a fior d'acqua, e coperto di giunchi. Di là il battello entrò in un canale d'acqua dolce, che deriva da un villaggio detto Belgrado, tre ore lontano della strada; indi essendo passato sotto due ponti di legno poco discosti uno dall'altro, scesi a terra per vedere una delle case di piacere del Sultano posta a destra del canale, un'ora circa di cammino distante dal luogo del mio imbarco. È questa formata di varie casucce, e di un bellissimo terrazzo con colonne di marmo; i palchi hanno ricche dorature: il centro della gran sala è ornato da una bella fonte, e da un canto vedesi il soffà del Sultano consistente in un materasso ed alcuni origlieri rossi ricamati d'oro posti sopra un rialto, e coperti dal padiglione ottomano in forma di cortina.
Il terrazzo trovasi di fronte ad una cascata, nella quale l'acqua si precipita sopra gradini in forme di conchiglia per tutta la larghezza del canale che può essere di circa settanta piedi: al di sotto vedesi uno stagno quadrato ove cade l'acqua da un secondo ordine di gradini. Vedonsi entro allo stagno tre pergolati isolati assai gentili, ed in faccia al terrazzo una fonte che imita la figura della colonna dei serpenti dell'Ippodromo, e getta l'acqua per la bocca dei serpenti.
In fondo al canale trovasi una fontana di marmo rozzamente lavorata, ed alquanto più sotto ancora un'altra in forma di gran vaso.
Dall'alto della caduta il canale si presenta in retta linea fino a ragguardevole distanza, mantenendo costantemente la stessa larghezza. Due filari di pioppi ne orlano le due sponde.
Questo luogo altra volta chiuso, resta ora aperto al pubblico, ma in uno stato di deplorabile deperimento, non essendo frequentato dal Sultano presente, il quale lo vide una sola volta. Vi sono alcune case ove alloggia un corpo di bostangì, presso alle quali vedonsi pochi cannoni che servono per esercitare gli artiglieri. Le guardie mi accolsero gentilmente, e servirono anche il mio seguito di caffè. Il canale si scarica in un'angusta valle chiusa tra montagnette incolte. Questo luogo vien detto le acque dolci.
S'impiegò un'ora ed un quarto per tornare allo sbarco di Costantinopoli quantunque la barca assai leggiera, ed armata di quattro remi facesse più di una lega per ora.
Nelle notti classiche del Ramadan le moschee sono illuminate, e magnifica è l'illuminazione delle moschee imperiali, e sopramodo bella quella di S. Sofia. In questa circostanza soltanto può aversi una perfetta idea di questa immensa cupola; perchè la luce che v'entra di giorno non basta a far rilevare la grandezza dell'edificio. Molte migliaja di lumicini posti lungo le cornici, sulle mondanature e le parti saglienti dell'interno, altre migliaja sospesi alle volte, ed una infinità di lampade di cristallo e di vetro di varia grandezza, fanno assai meglio comprendere la maestà di questo tempio che la luce del sole; e confesso che io non ne ebbi una compiuta idea fino all'istante che lo vidi illuminato.
Mi riuscì pur nuova la maniera di spegnere tanti lumi. Molti uomini con grandi ventagli di penne agitano l'aria, e ad ogni colpo spengonsene dieci, dodici, venti, benchè distanti otto o dieci piedi dal ventaglio; di modo che in pochi istanti tutto il tempio ritorna oscuro.
Mentre consumansi tanti lumi nelle moschee, ed anco sopra le torri ove non servono a nulla, non se ne trova un solo nelle strade, ingombre di nero fango, ed in mezzo a case ordinariamente dipinte di oscuri colori, che rendono ancora più cupa l'atmosfera; la luna non rischiara parecchie notti del Ramadan, e le profonde tenebre che regnano in tal tempo in tutte le strade mal selciate, più o meno ripide, e sempre bagnate, le fa incomodissime, quantunque si abbia seco una o due lucerne; perchè quelle adoperate comunemente dagli abitanti essendo coperte di tela rendono una così debole luce, che appena distinguonsi le persone che le portano; e la quantità di queste pallide luci che si vedono andare da un luogo all'altro come sospese in così bassa regione dell'aria, le fa rassomigliare ad una danza di spettri. In tempo di notte non ho mai incontrato donne per istrada.
Terminato il Ramadan l'ultimo giorno di novembre, si celebrò la Pasqua il 1.º di decembre. Il Sultano fece la festa alla moschea Ahmed Dieamisti, secondo praticarono i suoi predecessori. Desiderando di vedere il suo seguito, volli preventivamente prender posto nella moschea, perchè S. Altezza entra nella tribuna per di fuori; onde recatomi a quattr'ore del mattino in un'altra moschea vicina per fare la preghiera pasquale allo spuntar del sole, venni in appresso a quella d' Ahmed, ove trovai nel cortile due o tremila donne, pochi uomini, alcuni soldati bostangì, i giannizzeri, ed i cavalli del Sultano e del suo seguito. Prima che terminassero le cerimonie la strada era già affollata di gente, oltre due file di giannizzeri. Questi avevano l'ordinario loro abito, ed i bostangì avevano dei caftan rossi con lunghe berrette dello stesso colore. Una dozzina di giannizzeri avevano in dosso una specie di pianeta grigia, ricamata d'argento. Io mi posi nell'angolo interno della porta. Un certo numero di capigi bascialà sfilarono, vestiti di grandi caftan con finte maniche pendenti per di dietro, foderate di ricche pellicce, ed esternamente tessute d'oro ed avevano bellissimi cavalli riccamente bardati.
I personaggi d'alto rango avevano in capo doviziosi turbanti di cerimonia, a guisa di cono troncato e rovesciato, alto circa un piede e mezzo, tutto guernito di mussolina.
Molti ufficiali, e grandi impiegati del serraglio uscirono in appresso con magnifici cavalli; indi il Scheih el-Islam, o Mouftì circondato dai suoi Oulems o Dottori.
Gli tennero dietro dieci o dodici cavalli di apparato del gran Sultano, con bardature coperte di brillanti e di altre pietre preziose; ed in particolare ricchissime erano la briglia e le staffe di uno di questi cavalli. Alcuni altri avevano sulla sella a destra uno scudo del diametro di due piedi, ed a sinistra una sciabla, ricchissima d'oro e di gemme.
Volgendomi dall'altro lato vidi passare a cavallo Moussa Pacha Kaimakan del gran Visir in mezzo a quattrocento in cinquecento ufficiali, impiegati, e soldati tutti a piedi, che quasi lo portavano in aria. Avendomi conosciuto, mi salutò graziosamente, e continuò la marcia volgendo il capo per vedermi; ed uscendo dalla porta mi salutò di nuovo con un leggiero affettuoso sorriso, lo che fece tanta sensazione, che molti ufficiali dei giannizzeri chiesero alle mie genti notizia di me, dicendo che non avevano ancor veduto il sorriso sulle labbra di questo Catone Musulmano. Mi spiacque assaissimo che le circostanze non mi avessero acconsentito di andare ad abbracciare un così affettuoso amico; ma perchè questo riconoscimento avrebbe contrariato il mio piano di condotta, ebbi bastante forza per oppormi alle affezioni del mio cuore, e soffocare le passioni, che in simile circostanza avrebbero potuto vincere altri assai da più di me. In fatti potevo io, dopo aver resistito alle affettuose istanze, ed alle energiche persuasioni del mio più caro amico Mulley Abdsulem, e di suo fratello Mulley Solimano, abbandonarmi all'affetto che mi legava a Moussa Pascià, e forse rimanere oppresso dagli onori onde poteva ricolmarmi in meno di ventiquattr'ore?.... No: perdonatemi, caro amico: so che in quest'istante mi aspettate; ma io vi fuggo: domani abbandonerò Costantinopoli.
Seguiva il Kaimakan un corpo di bostangì a piedi: allora risuonò il grido di viva e comparve il Sultano a cavallo, ma coperto dai grandissimi pennacchi di sei in otto ufficiali che lo circondavano. Per altro potei vederlo in volto, e fargli un saluto, cui egli gentilmente corrispose: la sua tinta mi parve assai pallida e sparuta: aveva un bel caftan color rosso, ma la ricchezza, ed il lampeggiare della rosa e del pennacchio di brillanti che ornavano il suo capo, richiamarono come cosa affatto straordinaria e di una sorprendente ricchezza, tutta la mia attenzione.
Seguivano il sovrano tre grandi ufficiali, uno de' quali portava un altissimo turbante ricco di una rosa e di un pennacchio eguali a quelli del turbante che il Sultano aveva in capo; gli altri due un turbante ciascheduno della dimensione e forma ordinaria. Tutti questi turbanti appartengono a S. Altezza che ne pone in capo ora uno ora l'altro secondo vuole il rituale delle ceremonie della moschea.
Venivano in seguito a cavallo i grandi personaggi dell'Impero con vesti e turbanti ordinarj, e senza verun segno distintivo: mi fu detto essere questi il fiore della nobiltà musulmana, i figli, i nipoti dei principi, ec. Finalmente chiudeva l'accompagnamento un corpo di soldati a piedi.
I turbanti del Kaimakan, del gran Visir, e del Reis Effendì avevano il distintivo di un ricamo d'oro nella mussolina. Notai molti grandi ufficiali negri di orrendo aspetto, vestiti ed equipaggiati così riccamente come gli altri.
Il capo degli eunuchi neri aveva sul turbante lo stesso distintivo del gran Visir. Tutti i principali personaggi avevano a lato un domestico o impiegato che portava avvolto in ricco drappo un turbante di ordinaria grandezza, che sogliono porsi in capo in tempo della preghiera nella moschea invece di quello di ceremonia.
I Turchi ne' tempi del Ramadan e della Pasqua hanno costumanze diverse dagli altri musulmani. Ho di già fatto osservare che nelle notti del Ramadan non illuminano le strade, e che nelle feste di Pasqua non fanno corse di cavalli nè finte guerre, nè giuochi pubblici come negli altri paesi soggetti all'islamismo: tutte le dimostrazioni nelle pubbliche allegrezze riduconsi a passeggiare gravemente da uno all'altro luogo, a visitarsi a vicenda, a mangiare il più che si possa, ed a tirare in determinate ore colpi di cannone nel porto.
Ho veduti i vasti depositi delle acque potabili di Costantinopoli, le quali tutte derivano, attraversando il quartier nord-ovest della città, dal distretto di Belgrado, villaggio popolato pressochè di soli Greci, siccome tutte le terre del circondario.
Trovansi in questo distretto, in tre diversi luoghi, tre grandi muraglie, che chiudendo le valli da una montagna all'altra, formano vasti serbatoj delle acque piovane. Queste dighe vengono dai Turchi dette Bent.
Il più gran Bent è lontano tre leghe all'incirca da Costantinopoli, e può avere cento sessanta piedi di lunghezza sopra, e quindici di grossezza nel piano superiore con una grande scarpa, che ne accresce considerabilmente la grossezza inferiore: è formato di pietre tagliate ed ottimamente conservato; ma perchè non era peranco cominciata la stagione delle pioggie non aveva che le acque d'un piccolo ruscello.
A non molta distanza di questo Bent trovasi il secondo fabbricato dalla sultana Validè, madre di Selim III. La muraglia che abbraccia quasi tanto spazio come il precedente, è più solidamente costrutta, perchè appoggia le due estremità a due solide roccie: sgraziatamente però fu data poca base alla scarpa, per cui a lungo andare potrebbe cedere al peso delle acque.
Negli acquedotti che conducono l'acqua dei bent a Costantinopoli si cercherebbe invano la grandiosità e la magnificenza delle opere romane dello stesso genere, ma non lasciano di essere generalmente fatti con bastante solidità. L'acquedotto di Giustiniano posto nel greco villaggio di Pirgos ha fino tre ordini di archi gli uni sopra gli altri di marmo di nicchi; ma la sua costruzione mostra il decadimento delle arti all'epoca in cui fu fatto: i piloni sono troppo pesanti, gli archi strettissimi, e di diversa luce in larghezza ed in lunghezza come se fatti fossero senza preventivo disegno, e senza calcolare le spinte degli uni sugli altri.
Non molto lontano da questo è l'altro inalzato dal Sultano Solimano Canouni, che io non vidi abbastanza vicino per poterne dare sicura notizia.
Alquanto più sopra di Pirgos trovasi un antico acquedotto fabbricato dai Greci: l'arditezza degli archi, e la bellezza della sua costruzione provano per conto delle arti la superiorità della prima sulla seconda epoca: ma questo bel monumento, da molti secoli affatto trascurato, è già sensibilmente danneggiato nella parte più alta.
Per ultimo andai a visitare un quarto acquedotto fatto recentemente dai Turchi in faccia al Bosforo, presso a Bouyoukdere; i di cui archi fatti sull'andamento di quelli di Giustiniano, sono però alquanto più regolari.
Questi acquedotti formano colle loro projezioni degli angoli colle sinuosità delle montagne, ove i condotti sono posti a terra.
Il distretto di Belgrado è tutto sparso di basse montagne coronate di belle foreste, che stendonsi a ragguardevole distanza, e per quanto mi fu detto, abbondano di selvaggiume.
Il carattere dei Turchi è grave; e direi anzi melanconico. Confrontandolo con quello degli Arabi, credo di poter asserire, che se gli uni e gli altri giugnessero all'incivilimento europeo, gli Arabi avrebbero il carattere dei Francesi, ed i Turchi quello degl'Inglesi.
Le belle arti sono talmente proscritte dai paesi musulmani, che un Turco si crederebbe avvilito se suonasse un istromento, se, fuorchè nelle preghiere, cantasse o danzasse. Essi quasi non conoscono la costumanza di adunarsi in grandi conversazioni per ingannare il tempo. Le donne affatto escluse dal commercio degli uomini, non possono colla naturale dolcezza del loro sesso correggerne i feroci costumi, e spargere la piacevolezza nella società. L'ignoranza quasi assoluta in cui versano i Turchi delle lingue d'Europa, e le limitatissime loro corrispondenze all'estero, li privano delle notizie di quanto accade su questo vario e grande teatro; onde riguardano con occhio d'indifferenza le vicende politiche di questa bella parte del globo. Finalmente la mancanza di libri, e di maestri per imparare le scienze fisiche, e le innumerabili scoperte degli ultimi secoli, li privano di quelle interessanti cognizioni, che sole potrebbero operare il loro incivilimento.
Queste cause unite alla precaria esistenza di un governo dispotico: a quello stato di diffidenza, e dirò meglio, a quello stato di guerra, in cui deve trovarsi ogni paese ove il culto de' governanti è diverso da quello di quasi tutti i governati; a quelle false idee di felicità che ogni turco riceve nella sua prima fanciullezza; fanno sì che quantunque incapace di aprire il suo cuore ad una libera innocente allegrezza, si creda non pertanto felice, ed inoltre più valent'uomo allorquando più si avvicina allo stato de' bruti. Passare l'intero giorno seduto nella più assoluta inazione fisica o morale, fumando la pipa, e prendendo caffè ed altre droghe; ubbriacarsi coi liquori, o con pillole d'oppio; esaurire le forze fisiche e morali con replicati eccessi di godimenti naturali, o contro natura: questi sono i piaceri che formano la felicità dei Musulmani; i quali se degnansi talvolta di porgere attenzione ad uno qualsiasi spettacolo, non è se non quando loro presenti l'immagine degli oggetti de' loro unici piaceri.
Di fatti i Turchi non sono privi di spettacoli; ma quali spettacoli! Quantunque la loro musica non abbia armonia, offre alcune dolci modulazioni; ma trovasi mescolata con tante dispiacevoli discordanze, che non può a lungo andare soffrirsi: e per tal motivo appunto sogliono d'ordinario avere un buffone che di tratto in tratto eseguisce una danza o una ridicola indecente pantomima, terminando sempre col rappresentare un uomo ubbriaco.
Hanno pure de' ballerini la di cui abilità si ristringe al camminare con misura, a fare una semplice contradanza, rapide giravolte, movimenti e pantomime della più sfacciata indecenza, camminando in giro l'uno dietro l'altro col capo imbacuccato in una parrucca a lunghissimi capelli, avendo in mano i crotali o castagnette di metallo; e tutto ciò eseguendosi nel più sgraziato modo che immaginar si possa. Ho veduto alcuni di questi danzatori fare delle pantomime nelle quali rappresentavano le più schifose e lascive attitudini. Hanno ancora le ombre chinesi colle quali rappresentano orrende lubricità.
Tali sono gli spettacoli dei Turchi, cui i grandi, i dotti e lo stesso gran Visir non vergognansi di essere spettatori.
Io sono stato testimonio d'un giuoco di forza assai curioso: un uomo girando rapidissimamente a suono di musica, si attaccava alla cintura un gonnellino, che la velocità del giro faceva spiegare in figura di campana o di ombrello; levavasi in appresso la camicia senza sbottonarsi il farsetto che la copriva, divideva in più treccie la ciocca de' capelli del suo capo, e prendendo a volo una dopo l'altra molte sciable nude che gli presentava un suo compagno, attaccava ogni impugnatura ad una delle sue treccie, e lo vidi in tal modo attaccarne dodici o quattordici, che per la rapidità de' giri, venivano a formare un cerchio o disco orizzontale intorno al suo capo: in appresso prendeva un'altra sciabla ignuda coi denti, ne collocava alcune altre in altre parti del suo corpo, non saprei in qual modo, finchè trovavasi tutto coperto di sciable nude. Continuando a girare colla medesima rapidità senza interrompimento, sguainò una sciabla, e la mise nella guaina colla stessa facilità, e con una sorprendente destrezza. Allora si levò le sciable ad una ad una per darle al suo compagno, si levò il gonnellino, si rimise la camicia senza sbottonarsi il farsetto, e dopo più di un'ora e mezzo di rapidissimi giri, il compagno terminò questo bizzarro spettacolo coprendolo con una gran pelliccia: precauzione necessaria per impedire che non soffrisse passando da così violento moto allo stato di quiete.
A Costantinopoli vengono strettamente custodite le donne di alto rango: ma le plebee sortono sole a loro piacere: nelle strade, nei bazar, nelle cappelle, ai cimiterj, e sulla spiaggia del mare, in qualunque ora del giorno s'incontrano tante femmine che uomini. Tale libertà in così popolata capitale, circondata di giardini, di colli e di boschi, deve singolarmente favorire il libertinaggio; che infatti è in questa città grandissimo. Malgrado il denso velo che le dovrebbe coprire le donne hanno quasi sempre il volto scoperto, perchè ne dilatano in modo i fori destinati al solo uso della vista, che a traverso di tali aperture si vede quasi interamente la loro fisonomia.
Malgrado la sua distanza dell'equatore il clima di Costantinopoli è assai dolce, perchè trovasi al livello del mare, difeso dai venti settentrionali delle montagne di Belgrado, ed affatto aperto al Sud ov'è il mare di Marmara; di modo che quantunque sia sensibile la diversità delle stagioni, non vi si conoscono gli estremi tanto incomodi negli altri paesi posti nella medesima latitudine di questa città.
Avevo disposto ogni cosa per osservare l'eclissi del sole del 29 novembre; e salii per tale oggetto sopra una torre, ma le nuvole si opposero al mio desiderio.
CAPITOLO LIII.
Stato attuale della Turchia. — Barbarie dei Turchi. — Giannizzeri. — Stravaganze di questo corpo. — Bostangì. — Cannoniere e bombardieri. — Altre truppe. — Il gran Signore. — Pascià ribelli. — Tesoro pubblico. — Venalità degl'impiegati. — Disperazione dei popoli.
L'impero ottomano è un colosso composto d'una bizzarra mescolanza di parti eterogenee affatto inconciliabili: di Turchi, di Tartari, di Arabi, di Greci cattolici, di Greci scismatici, di Cofti, di Drusi, di Mamelucchi, di Giudei, e di altre razze affatto diverse le une dalle altre di costumanze, di religione, di opinioni, non convenendo in altro che nel profondo inveterato odio che si portano: tali sono gli elementi che compongono quest'immensa massa.
I Cristiani perduti in altri tempi dietro le quistioni scolastiche, gli Arabi divisi dallo stesso motivo, e privi di una costituzione che assicurasse la successione al trono del Califfato, aprirono, per una deplorabile apatia le porte a quella irruzione di Tartari quasi selvaggi, che successivamente distrussero il trono degli Abassidi, e di Costantino, fondando sulle loro rovine l'impero della Mezza-luna.
Il caso, che gli aveva fatte cominciare le loro conquiste nell'Asia allora dominata dai successori di Maometto, rese maomettani questi Tartari idolatri: se avessero invasa prima l'Europa, essi sarebbero adesso Cristiani; perchè ogni culto appoggiato alla sublime idea di un essere supremo ed unico deve egualmente convincere, e soggiogare l'uomo idolatra.
Ecco ciò che ha resi, ed ancora non cessa di rendere i Turchi affatto stranieri alle costumanze d'Europa; se si fossero convertiti alla fede cristiana, sarebbero diventati Europei.
Perchè i Califfi Abassidi accolsero le arti e le scienze, che le irruzioni de' Vandali avevano scacciate dall'Europa, questi Tartari trovarono colla religione gli elementi della civiltà, di cui ne presero a bella prima una leggier tinta, ma i di cui progressi furono in pari tempo contrariati da alcuni dommi, che proscrivendo le belle arti, stabilendo la dottrina del fanatismo, e proclamando odio ed aversione ad ogni individuo opposto all'islamismo, li veniva a privare degli elementi del buon gusto; e facendo loro riguardare come inutili i mezzi, e le combinazioni dell'umana saggezza, li privava dei vantaggi di un'intima comunicazione cogli Europei che soli potevano istruirli. Queste cause aggiunte all'estrema diversità che esiste tra le lingue dell'Occidente e dell'Oriente, all'effeminatezza che addottarono nell'istante medesimo in cui si videro possessori di sufficienti capitali per soddisfare alla propria sensualità, e per ultimo alla mancanza d'educazione dei loro principi, che passano sempre dalla solitudine di un Harem al trono ottomano, paralizzarono i loro progressi verso l'incivilimento.
Perciò, quantunque musulmano, sono costretto di confessare, che i Turchi sono ancora barbari: ne chiedo perdono a coloro che sono di opinione contraria; ma quando vedo una nazione, che non ha la più piccola idea del diritto pubblico, e dei diritti dell'uomo; una nazione che appena conta in mille un solo individuo che sappia leggere o scrivere; una nazione presso di cui non esiste garanzia delle proprietà individuali, e nella quale la vita degli uomini è continuamente in balìa dell'arbitrio; una nazione finalmente, che si ostina di chiudere gli occhi per non vedere la luce, e che scaccia da sè la fiaccola dell'incivilimento che gli si mostra in tutto il suo splendore, per me sarà sempre una nazione di barbari. Che gl'individui ond'è formata abbiano abiti di seta e ricche pelliccie, che stabiliscano fra di loro un ceremoniale, mangino, bevano, fumino ogni giorno cento diverse mescolanze, che si lavino e si purifichino tutte le ore; non lascierò per questo di ripetere; questi sono barbari.
Vero è che trovansi in corte alcuni personaggi, i quali avendo imparate le lingue d'Europa, ne hanno pure addottata in segreto la civiltà, almeno in parte; ma il numero è infinitamente piccolo, paragonato alla massa della nazione.
Concorre pure un'altra cagione a tenere i Turchi nell'attuale stato di barbarie. Gli Arabi avevano il dominio di mezzo il mondo, quando furono soggiogati dai Turchi; i quali diventati perciò padroni dello stendardo del Profeta, dovettero credersi invincibili. Le vittorie ottenute in Europa contribuirono a confermarli in tale opinione, che malgrado le disfatte avute negli ultimi tempi, si propagò di una in altra generazione. Questa superiorità che si arrogano sulle altre nazioni, li move a guardare con sommo disprezzo chiunque non è Turco. Nè gli ambasciadori esteri si lascino illudere dalle apparenze di deferenza e di rispetto che potessero ricevere in Turchia: io conosco gli uomini della mia religione più che tutt'altri, e posso francamente asserire, che il Turco unisce alla barbarie ed all'orgoglio musulmano l'orgoglio e la barbarie particolari della propria nazione.
Tale orgoglio gli fa preferire alle altre professioni quella della milizia: egli è soldato per la sua religione, perchè ogni musulmano deve esserlo; ma lo è pure per iscelta essendo il mestiere più utile, e quello che apre la porta all'indipendenza, ed al dispotismo.
Non è perciò da credersi che il soldato Turco sia un uomo vestito ed armato in un modo uniforme e determinato, un uomo soggetto a certe leggi, a militar disciplina, nudrito e pagato dal pubblico tesoro, come in Europa: egli non è altrimenti tale. Ogni individuo qualunque volta ne lo voglia si arma di una o due pistole, d'un khandiar o grande coltello, e di qualunque altr'arma a suo capriccio, e dice: Io sono soldato. Si attacca in allora a qualche divisione di Giannizzeri, ad un Pascià, ad un Agà, o a qualche altro ufficiale che acconsente di riceverlo al suo servigio: e quando poi è stanco di far il soldato getta le sue armi, dicendo: io più non sono soldato; e niuno lo molesta, o gli rimprovera la sua diserzione.
I giannizzeri possono riguardarsi come il principal nervo della forza ottomana. Il celebre Reis Effendì nel suo trattato della milizia ottomana ne conta nell'impero quattrocentomila, e pargli che verun'altra nazione possa presentare un'egual forza, ch'egli chiama uniforme. Ma cosa è il giannizzero? È un calzolajo, un artigiano qualunque, un contadino, un facchino, che dà il suo nome ad una divisione di giannizzeri, detta orta. Alcune di queste orta non contano più d'un migliajo di uomini, altre venti, o trentamila.
Quando il nome d'un uomo è scritto nella lista, si obbliga a presentarsi qualunque volta l'orta si dovrà riunire. Ma sarà egli fedele alla promessa?... Ciò dipende dalle circostanze, o dalle combinazioni dell'interesse individuale nell'istante in cui viene chiamato. Non nego che i giannizzeri non abbiano alquanto di ciò che si dice spirito di corpo, pregevole pregiudizio quando non sia troppo esclusivo: ma ciò non basta per consigliargli ad ubbidire alla chiamata de' loro capi, se vi si opponga il loro personale interesse, che è sempre la molla principale delle loro azioni. Quindi allorchè trovano utile il motivo della chiamata, prendono subito le armi e si presentano; nel contrario supposto o non si movono, o si presentano soltanto per formalità, tornando subito tranquillamente a casa loro.
Se trattasi di adunar l'orta per fare qualche tumulto, o ribellione, tutti accorrono, perchè tutti sono sicuri della vittoria, o del saccheggio. Lo stesso non accade quando trattasi di andar contro ad un nemico straniero; perchè in caso urgente il governo trovasi costretto di proclamare che il Sainjaàk Scherif, ossia lo stendardo del Profeta sarà portato all'armata, onde riscaldare in tal modo il fanatismo religioso, che deve tener luogo dei sentimenti d'onore e dell'entusiasmo patriottico, che non esiste.
Questa risorsa politica non lascia di dare qualche vantaggioso risultamento, chiamando maggior numero di uomini intorno a questo palladio, che i maomettani sogliono riguardare come un sicuro pegno della vittoria. Ma perchè lo zelo religioso va di età in età facendosi minore; quando non sia secondato da un interesse personale diretto ed immediato, gli effetti di questo stratagemma saranno sempre minori. L'ultima volta che uscì di Costantinopoli il Sainjeak Scherif si credeva di vederlo seguito da trenta o quarantamila giannizzeri, ma non lo accompagnarono che tremila. Questo così famoso corpo non è dunque paragonabile alle guardie nazionali degli stati Europei, nè ad altro corpo qualunque organizzato e disciplinato; e non può riguardarsi che come una leva in massa del popolo. Le vittorie de' giannizzeri negli andati tempi non furono che il risultamento di una grande massa di uomini armati sopra popolazioni disarmate, o sopra masse più piccole ed egualmente male organizzate. Oggi che la tattica militare ha combinati i più piccoli mezzi per calcolare i risultati con una quasi certezza morale, chiara cosa è che le truppe turche non potranno opporre una costante resistenza ad un corpo di truppe europee meno numeroso ma meglio disciplinato. Non farò parola di qualche caso particolare che può fare eccezione alla regola, perchè ci condurrebbe ad un'analisi, ed a disamine affatto straniere al mio argomento.
I giannizzeri hanno delle particolari costumanze che meritano di essere conosciute.
I trofei militari più rispettati da questa truppa sono le pentole di cuojo nelle quali fanno cuocere la vivanda, che consiste in riso condito col butirro, detto dai Turchi pilaw. Queste pentole, oggetto della più alta venerazione, allorchè vengono trasportate da un luogo all'altro, ottengono da tutti coloro che trovansi sulla strada le dimostrazioni di rispetto che devonsi al principe; e guai a colui che non si affretta di ossequiarle: egli sarebbe all'istante punito dalla guardia che le accompagna. Sono queste il punto d'unione di ogni divisione di giannizzeri; al campo si portano con grande apparato ornate d'orpello e di altre inezie; e se un'orta ha la disgrazia di perdere le sue marmitte, viene riguardata come un corpo disonorato.
Quando i giannizzeri vanno con affettata premura a ricevere le razioni, si può essere sicuri che l'orta è soddisfatta; e per lo contrario è una prova di malcontento quando vi si recano con aria di non curanza. Se poi arrivano a non presentarsi alle distribuzioni, allora convien pensare ad ogni modo a soddisfarli, onde impedire le imminenti violenze.
Quando sono estremamente malcontente le divisioni dei giannizzeri, portano le loro marmitte innanzi al palazzo del Sultano, e le pongono sotto sopra la terra. A questo segnale di sedizione i giannizzeri si armano e si adunano per dettare la legge al governo, chiedendo le teste dei ministri o capi dello stato, che vengono loro accordate all'istante senza verun esame, o destituendo lo stesso Sultano come fecero poc'anzi collo sventurato Selim III. E finchè questa indisciplinata milizia non abbia riprese le sue marmitte, tutta la città trovasi in disordine e piena di spavento.
Quando il Sultano accorda pubbliche udienze agli ambasciatori, per dar loro un'alta idea della sua potenza fondata sulla soddisfazione delle sue truppe, si fanno prima dell'udienza distribuire le razioni ai giannizzeri che accorrono tumultuariamente per riceverla in presenza dell'ambasciatore. Nello stesso modo per dare ai ministri delle corti straniere una idea della giustizia sovrana, il gran Visir giudica alcune cause in loro presenza; come per dispiegare innanzi ai loro occhi la magnificenza imperiale, li ammettono ad un banchetto col gran Visir, coprendoli di ricche pelliccie, mentre ne vengono date altre meno preziose alle persone addette all'ambasciata.
È in conseguenza dell'importanza delle marmitte nel corpo de' giannizzeri, che il nome turco de' capi delle orta equivale a distributore della zuppa. Tutti i militari di questo corpo portano sopra la fronte attaccata alla berretta di gala una placca d'ottone, entro la quale pongono un grossolano cucchiajo di legno di cui si servono per mangiare il riso, e che viene a formare una parte essenziale del loro uniforme.
Le persone incaricate in alcune circostanze del castigo de' giannizzeri sono i distributori dell'acqua, i quali camminano armati di un bastone fornito di lunghe coreggie.
Ogni orta possiede alcune tavolette maggiori di un piede quadrato, che vengono portate in cima ad un bastone e scarabocchiate di pitture emblematiche dell'orta. Queste tavolette accompagnano le marmitte.
Quando l'orta marcia in campagna, le marmitte sono accompagnate da alcuni giovani affatto coperti di grandi haik, cui si dà il titolo di el Harem. Riguardandole come una specie di talismano, e di sacro pegno, hanno sempre la scorta d'una guardia particolare, che sta in una tenda vicina a quella delle marmitte; e queste guardie non fanno verun altro servigio, nè vengono sottoposte ad alcun lavoro; ed i giannizzeri dell'orta si farebbero uccidere tutti per difenderli e salvarli dalle mani del nemico; perchè la perdita delle marmitte è ciò che di più obbrobrioso può accadere ad un'orta.
I giannizzeri passano a capriccio da una all'altra divisione.
Risulta dal fin qui detto, che i giannizzeri lungi dall'essere le truppe del sovrano, non sono che una inquieta e rivoluzionaria milizia che si fa giustizia colle proprie mani, anche contro il principe a cui serve.
È vero che alcuni giannizzeri ricevono fino dalla fanciullezza una specie d'educazione militare: ma tanto è limitato il loro numero che nulla influisce sulla massa generale del corpo. Altrettanto può dirsi della loro disciplina, ed organizzazione nelle caserme di Costantinopoli.
Per contrabilanciare la potenza dei giannizzeri, i Sultani armarono gl'impiegati dei loro giardini, delle loro case di piacere, e ne fecero una specie di guardie del corpo col nome di bostangì, ossia giardinieri; cui sono affidate le loro persone. Questo corpo composto di alcune migliaia d'uomini, ha resi ai loro Sovrani molti importanti servigi: ma nelle ribellioni d'ordinario si uniscono al giannizzeri, che sono più forti; e questo contrappeso diventa allora inutile al Sovrano, come sì è veduto nella rivoluzione che balzò dal trono lo sventurato Selim III.
Il corpo de' cannonieri e bombardieri è formato di quarantotto compagnie bene organizzate; ma perchè sulle batterie trovansi ancora varj carri antichi con ruote di tavole poco atte al maneggio principalmente delle grosse colubrine, di que' cannoni di mostruoso calibro stesi a terra per tirar palle di sasso, e di quegli altri cannoni di più bocche; non possiamo farci una troppo vantaggiosa idea della loro scienza, perchè s'impiegano nel servigio di pezzi quasi inutili uomini e munizioni, che più utilmente sarebbero impiegati nel servigio di pezzi ben montati di un discreto calibro.
Il rimanente delle truppe che compongono le forze ottomane in tempo di guerra, sono squadroni più o meno numerosi di genti armate mandati dalle provincie agli eserciti; gli avventurieri volontari che vogliono far fortuna, i fanatici di buona fede, e quelli che hanno interesse di parerlo; e per ultimo il contingente di uomini armati che alcuni possessori di feudi sono obbligati di mandare al campo.
Tutto ciò forma una mescolanza, una così strana confusione, che nel fondo un'armata turca non è diversa da un ammasso di orde arabe, e quindi incapace di produrre assai vantaggiosi risultati. Se a tanta irregolarità s'aggiungano i grossi equipaggi che i Turchi si tiran dietro, e l'immensa quantità di domestici e d'impiegati non combattenti che seguono l'armata, potremo formarci un'idea dell'estrema difficoltà di dare a così pesanti e disordinate masse la precisione richiesta dai movimenti militari di una campagna.
Il governo di Costantinopoli penetrato della verità di questa osservazione, volle rimediare al male formando nuove milizie organizzate e disciplinate all'usanza europea: ma perchè questa novità offendeva l'amor proprio dei giannizzeri, che avrebbero perduta l'indipendenza; mentre erano, ed ancora sono al presente i veri despoti dell'impero; si ribellarono sacrificando alla conservazione della propria potenza forse le più utili teste dell'impero, e deponendo il sultano Selim III: deplorabile trionfo dell'anarchia militare, che ritardò due secoli l'incivilimento dei Turchi. Il Sultano Mustafà successore di Selim[5] è dotato di ottime qualità: ma che può fare il migliore de' Sultani finchè sarà signoreggiato da una milizia così rivoltosa come i Giannizzeri? Qual ministro oserà aprire la bocca dopo l'orrenda catastrofe di cui fu testimonio? Credo dunque di poter conchiudere che i Turchi non possono da se medesimi incivilirsi.
Quando si ode ricordare negli altri paesi il nome del Gran Signore, ci figuriamo un despota la cui parola è una legge, e che non prende consiglio che da' suoi capricci. Quanto siamo ingannati! non avvi al mondo uno schiavo più schiavo del Gran Signore; i suoi passi, i suoi movimenti, le sue parole in tutto il corso dell'anno, in ogni evento della vita, sono misurati e determinati dal codice della corte; non può far più nemmeno di quanto è prescritto; ed è ridotto a far la parte di vero automa, le di cui azioni sono regolate come risultamenti meccanici, dal codice, dal Divano dell'Olema, e dai Giannizzeri. Sarà coperto di brillanti, inebriato d'incensi, circondato da adoratori come il gran Lama, o come una vivente divinità: ma la sua esistenza non sarà punto diversa da quella di una macchina, e come tale sarà sempre riguardato con somma indifferenza dai popoli che non possono da lui sperare nè bene nè male, poichè il potere trovasi in mani subalterne, come lo feci osservare in parlando della caduta di Selim, e della elevazione al trono di Mustafà, avvenimento riguardato con perfetta indifferenza nelle provincie turche ch'io scorrevo.
Questa indifferenza dei popoli verso il sovrano è una delle primarie cagioni che agevolano, e favoreggiano le ribellioni de' Pascià nelle provincie. Tutti sanno quanti anni sonosi sostenuti Diezzav, Paswan Oglou, Kadi Agà ec. ed intanto vediamo Mehemed Ali in Egitto, Couchouk Ali in Siria, Moustapha Pascià in Bulgaria[6], Ali Pascià in Albania, Ismail Bey in Romelia, e molti altri di minor rango, che sotto ad un'aria di subordinazione al sovrano sono affatto indipendenti, non facendo verun caso dei firmani della Porta quando non favoriscono i loro interessi.
Un principe ridotto a tanta subordinazione dovrebbe essere cancellato dalla lista dei sovrani; poichè l'impero trovasi sempre in mani subalterne o mercenarie, mentre quello cui si accorda il supremo titolo è il più insignificante ed inutile personaggio del governo: egli non vede nè ascolta de' suoi sudditi che il solo gran Visir, e passa i suoi tristi giorni tra le donne e gli eunuchi; straniero, si può dire a tutti gli atti d'amministrazione, perchè ogni cosa dev'essere ordinata dal gran Visir o dal Divano. Il potere del gran Signore si riduce quindi a zero. Solo a Marocco trovasi il vero modello del dispotismo.
Le mani mercenarie che governano l'impero turco vengono ricompensate delle loro cure con ricchezze proporzionate alla loro ambizione: ma le rendite dell'impero vanno ogni anno diminuendo per cagione delle ribellioni che stendonsi d'una in altra provincia: Pascià precedentemente nominati poco o nulla mandavano al tesoro pubblico: i tributi della Siria vengono assorbiti dal Pascià di Damasco sotto pretesto delle spese occorrenti per la carovana della Mecca, e nel presente anno (1807) il governo gli aveva inoltre mandate, sulle sue istanze, alcune migliaja di borse per le spese della guerra difensiva contro i Wehhabiti, i quali andavano di mano in mano sempre più restringendo i limiti del dominio ottomano, togliendogli ogni giorno qualche parte di provincia. Le rivoluzioni dalla Servia, della Moldavia e della Valacchia occupate dai Russi[7], la separazione delle reggenze barbaresche, finalmente le scandalose dilapidazioni del Pascià e degli altri impiegati turchi, hanno terminato di esaurire il tesoro. In tale stato di cose i grandi impiegati di corte non percepiscono gli appuntamenti annessi alle loro cariche, onde si procurano coll'intrigo il danaro che non ricevono dal tesoro.
In Turchia è permessa la vendita degl'impieghi, ma in ragione che l'impero si ristringe, diminuiscono anche gl'impieghi: è però vero d'altra banda, che se diminuisce il numero degl'impiegati, cresce in proporzione quello degli aspiranti; e la concorrenza ne accresce il prezzo; lo che torna press'a poco lo stesso per i cortigiani ma non per gli sgraziati popoli, perchè coloro che pagarono il doppio ed il triplo l'acquisto dell'impiego, si credono egualmente autorizzati a duplicare e triplicare le avanie. I popoli reclamano e si lagnano altamente, ma i loro pianti non si ascoltano, perchè il frutto di queste subalterne esazioni entrano nel prossimo anno in mano degl'impiegati di corte. Lo sdegno e la disperazione armano i popoli, che vengono poi chiamati assassini e ribelli: se lo stato ha bastanti forze per farli rientrare in dovere, come spesso accade, si sparge il sangue di molti infelici, e le cose rimangono nello stato di prima; ma l'impero perde sudditi e ricchezze; onde poi crescono i bisogni della corte, e per conseguenza le avanie. Questi mali diventano ogni giorno maggiori.
CONCLUSIONE.
Partenza per Bucarest in Valacchia. — Itinerario. — Adrianopoli. — Monte Emo. — La Bulgaria. — Rouscouk. — Il Danubio. — Bucarest. Il mercoledì 2 decembre del 1807 secondo giorno della Pasqua dei Musulmani, Ali Bey andò nel sobborgo di Pera, di dove partì alla volta di Bucarest in Valacchia il 7 decembre, accompagnato da un Tartaro.
Allorchè partì da Costantinopoli desiderava ancora di accrescere le sue cognizioni con nuovi viaggi; ma non aveva ancora determinato quali paesi avrebbe visitati. Fidò quindi le sue carte ad un amico, cui permise di pubblicare dopo alcuni anni, incerto, se arrivato a Bucarest, prenderebbe la strada d'Oriente, d'Occidente o del Settentrione.
Mandò da Bucarest il suo itinerario di Costantinopoli, che soggiungiamo compendiato.
Il 7 decembre alloggiò nel villaggio di Konchouk Charmagi in riva ad un lago formato dal mare di Marmara.
Il giorno 8 passò per Bonyouk Charmagi, Coruhourgas, Boadas, fermandosi pochi momenti a Selivria, terra più grande delle altre posta sopra un piccolo scalo del mar di Marmara, con alcune moschee. Tutti questi villaggi sono abitati da pochi Turchi, e dai Greci più numerosi, che sembrano esservi alquanto meglio trattati che altrove.
Il 9 attraversò Kinikli, e si fermò a Djiorio, città di mediocre grandezza, ove sonovi alcune moschee. Il 10 passò a lato a Karrestan, e pernottò nel villaggio di Bourgas; di dove, dopo avere attraversato Baba-Eski, entrò l'11 in Adrianopoli. Questa grande città è posta al N. di una vasta campagna circondata da colline, sopra una delle quali trovasi parte della città: contiene molte moschee, alcune belle case, strade ben selciate, un grande bazar formato da più strade coperte, e fornito di botteghe d'ogni specie; ed ha un bel ponte sopra la Marissa, ragguardevole fiume che traversa la città. Adrianopoli è cinto da un parapetto di terra con una palizzata al di dentro, ed una piccola fossa esternamente. Vi si trovava allora il gran Visir, generalissimo dell'armata ottomana. Osservò per altro, che v'erano pochissimi soldati, e che le strade erano solitarie. Gli fu però detto che osservasse un accampamento fuori di città. E per tal modo stando il quartier generale de' Turchi ad Adrianopoli, trovavasi più di sessanta leghe lontano dalle armate attive.
Ali-Bey si fermò poche ore in questa città, ed andò lo stesso giorno a Moustafa Bacha ove trovò un drappello di soldati, che sembravano piuttosto un branco di banditi.
Vide il dodici molti villaggi abitati dai Greci, e dormì a Karapannar, villaggio musulmano assai popolato. Il 13 dopo esser passato per Zaara e per Kenaanlek, ove fu invitato a cena dal governatore, viaggiò tutta la notte, nella quale soffrì assai per una terribile burrasca di vento, neve e pioggia; indi giunse a Schipka Balcana, piccolo villaggio posto ai piè del Balcàn, o monte Emo, ove dovette trattenersi due giorni prima di poter esporsi al passaggio della montagna allora coperta da grande quantità di nevi.
Il 16 traversò la montagna, lo che non gli sarebbe riuscito di fare, se non fossero stati mandati prima alcuni cavalli di posta per aprirgli la strada. Giunto sull'opposto lato del monte passò per un villaggio detto Bedjene, le di cui case di legno erano per metà sepolte nella neve alta quasi quattro piedi, e continuando la scesa si fermò a Kaproa, le di cui case sono fabbricate parte di sasso, e parte di legno. La catena dell'Emo che forma il confine tra la Romelia, e la Bulgaria, essendo coperta di neve non permise ad Ali-Bey di fare veruna osservazione.
Il 17 passò per Derroba e giunse a mezzo giorno a Terranova, città posta sul pendio di due montagne, ed attraversata da un grosso fiume. Vide molti giardini e vigne, alcune case assai belle, ed alcuni bazar coperti, ma il suolo era tutto coperto di neve.
Di là venne a Poulicraïschte villaggio, le di cui case sotterranee non s'inalzano più di mezzo piede sopra il livello del suolo, ed i cui abitanti tanto uomini che donne si vestono di sole pelli di montone.
Piccolissime sono le donne di Bulgaria, e di grazioso aspetto finchè sono giovanette; ma tosto passata l'adolescenza ingrassano a dismisura. Gentili sono i fanciulli, ma tanto piccoli che pajono scimie. Gli uomini portano l'impronta della schiavitù che li opprime: continuamente tiranneggiati dalle esazioni della soldatesca, trovansi nella trista necessità di nascondere sotto terra ciò che vogliono sottrarre alla rapacità ed alla violenza.
Dopo aver passato il 18 a mezzogiorno il fiume Yantra che ha molta rapidità e molte acque, andò a Rouschouk grande e forte città situata sulla destra del Danubio.
Il Pascià Moustafà[8] avendo esaminate le carte del nostro viaggiatore, ordinò di lasciarlo passare: quindi s'imbarcò la stessa notte sopra un battello a sei remi, ed attraversato in trentacinque minuti quel maestoso fiume, sbarcò a Djíourjoi piccolo castello difeso da una vasta fortezza, allora occupata da un corpo di truppe sotto gli ordini d'un altro Pascià; ed era questo il più avanzato posto dei Turchi.
I passaporti di Ali-Bey vennero di nuovo esaminati; ma il Diouan Effendi cui spettava l'esame, aveva conosciuto in Alessandria Ali Bey, onde veduto appena il suo nome sul Firmano, gridò: non v'è più nulla da osservare, io conosco Alì Bey; e fatti gli elogi del viaggiatore, gli mandò una gran cana, dando ordine di preparargli i cavalli. In tal modo Alì Bey uscì dall'impero ottomano il sabato 19 dicembre 1807 allo spuntar del sole.
Dopo dieci ore di cammino arrivò ad un villaggio ove trovavansi alcuni esploratori russi, uno de' quali lo accompagnò fino all'avanguardia dell'armata che occupava una linea di alture e di piccoli ridotti al di là d'un vasto fiume i di cui ponti erano stati distrutti. Ali Bey lodasi dalle gentilezze usategli dagli ufficiali Russi. Fu in seguito scortato fino ad un villaggio più vicino a Bucarest, ove fu assai ben accolto dal generale che lo lasciò partire alla volta di Bucarest, ove giunse a notte assai inoltrata. Oppresso dalle fatiche di così disastroso viaggio dovette fermarsi due giorni per riposare, nel qual tempo gli prodigarono le più cortesi cure il Console Russo Bahmatiet, ed il Cavaliere Kiriko Console generale della stessa nazione. Ali Bey non sa esprimere la sua riconoscenza verso il generale Ulanius, l'arcivescovo Diothitheos, i due luogotenenti del principe Ipsilanti, e gli altri Bojardi della Valacchia.
Bucarest è una grande città di un aspetto campestre assai grazioso: le sue strade sono larghe, diritte e lastricate di legno; basse sono le case con vaste porte per dare accesso alle vetture che vanno fino alla scala. La sua popolazione si presume di sessanta in settanta mil'abitanti. Conta trenta tra chiese e cappelle greche; e la cattedrale situata sopra un'altura è piccola ma bella. Eranvi, oltre l'arcivescovo, alcuni altri prelati.
Benchè il rito dominante sia il Greco, vi sono anche dei cristiani degli altri riti, provveduti di chiese e di preti.
Il governo civile è tra le mani di due Kaömakan, o luogotenenti del principe Ipsilanti, assistiti da un consiglio di dodici Bojardi. Fu detto al nostro viaggiatore che la Valacchia conta un milione e mezzo di abitanti. Più della metà di questa provincia è circondata dal Danubio, e bagnata da molti fiumi. Il suolo assai fertile è sparso di montagne selvose abbondanti di selvaggiume. Vi sono miniere, ed infine tutto quanto può desiderarsi di vedere unito in un paese posto al 45º di latitudine. Si assicura, dice Ali Bey, che il clima è sanissimo, e che le rendite dello Stato ammontano a quattro milioni di piastre.
Fine del tomo quarto ed ultimo.
INDICE
DELLE MATERIE CONTENUTE IN QUESTO TOMO QUARTO.
Capitolo XLIV.
Haram, ossia Tempio musulmano nel luogo dell'antico tempio di Salomone Pag. 5
Cap. XLV.
Viaggio al sepolcro di Davide, e ad altri sepolcri. — Viaggio al monte Oliveto. — Al sepolcro d'Abramo ad Hébron. — Al presepio di Cristo a Betlemme. — Al sepolcro della Vergine. — Al Calvario ed al sepolcro di Cristo. — Sinagoga de' Giudei. — Descrizione di Gerusalemme 16
Cap. XLVI.
Ritorno a Giaffa. — Tragitto ad Acri, e descrizione di questa città. — Il monte Carmelo. — Viaggio a Nazaret. — Notizie intorno ai monaci di terra Santa 34
Cap. XLVII.
Viaggio a Damasco. — Monte Tabor. — Mare di Galilea. — Fiume Giordano. — Paese vulcanizzato. — Damasco. — Popolazione. — Grande moschea. — Bazar o mercati, e manifatture 45
Cap. XLVIII.
Acque di Damasco. — Cristiani. — Commercio, prodotti, clima. — Razze dei cavalli. — Abiti. — Donne. — Sanità. — Scuole. — Governo. — Fortificazioni. — Bedovini di Anaze. — Salakhie 55
Cap. XLIX.
Viaggio ad Aleppo. — Descrizione dei Khan. — Carovana. — Tadmor o Palmira. — Città di Homs. — Fiume Oronte. — Città di Hama. — Libertà de' costumi. — Incontro notturno. — Arrivo ad Aleppo. — Osservazioni intorno a questa città 66
Cap. L.
Viaggio a Costantinopoli. — Antiochia. — Targo. — Monte Tauro. — Arco trionfale. — Orde di pastori della Turcomania. — Maniera di viaggiare in Turchia. — Città di Konia. — Assiom Karaïssar. — Kutaïeh. — Catena del monte Olimpo. — Scutari. — Ingresso in Costantinopoli 83
Cap. LI.
Descrizione di Costantinopoli. — Il Bosforo. — Il Porto. — L'Arsenale. — Pera. — Top Hana. — Galata. — Strade di Costantinopoli. — S. Sofia. — Uscita del Sultano ogni venerdì. — Le Moschee. — Eyoub. — Reliquie del Profeta. — Serraglio, o palazzo del Sultano. — Vetture. — Hippodromo. — Castello delle Sette Torri. — Mura 124
Cap. LII.
Cisterna di Filossène. — Colonna di Costantino. — Mercato delle donne. — Bezesteinn, o grande Bazar. — Quartiere del Fanale. — Alai Kiksoe del Sultano. — Punta del serraglio. — Riva del Mar di Marmara. — Caserma de' bombardieri. — Casa di piacere del Sultano. — Illuminazione del Ramadan. — Festa del Beyram o della Pasqua. — Acque di Costantinopoli. — Carattere dei Turchi. — Divertimenti. — Donne. — Clima 155
Cap. LIII.
Stato attuale della Turchia. — Barbarie dei Turchi. — Giannizzeri. — Stravaganze di questo corpo. — Bostangì. — Cannonieri e bombardieri. — Altre truppe. — Il gran Signore. — Pascià ribelli. — Tesoro pubblico. — Venalità degli impiegati. — Disperazione dei popoli 180
Conclusione.
Partenza per Bucarest in Valacchia. — Itinerario. — Adrianopoli. — Monte Emo. — La Bulgaria. — Rouscouk. — Il Danubio. — Bucarest 199
INDICE DELLE TAVOLE
Contenute in questo Tomo quarto
Tavola I. Porta del Cairo nominata Beb-el-Fatha [9] Pag. 5
Tavola II. Veduta del Monte Carmelo dalla parte di S. Giovanni d'Acri 38
Tavola III. Veduta dello scoglio e del Castello d'Asiom Karaïssar nell'Asia Minore 113
Tavola IV. Monumento antico nel serraglio del gran Signore a Costantinopoli 160