INDICE
I. Gioia! (Idillio in sei mesi) pag.1
II. Notte di Vigilia47
III. Tenebroso amore67
IV. Fata luminosa93
V. Quella che Landru non uccise105
VI. «Galeotti....»121
VII. Lezioni di Felicità135
VIII. «L'Apollinea Fiera» (Ricordi di Carducci)149
I. Gioia! (Idillio in sei mesi)
GENNAIO
LUI
(Ciò che pensa)
L'anima mia è triste fino alla morte.
(Ciò che scrive)
Gentile signora,
Antonino Melzi mi ha detto ch'Ella, illustre poetessa, s'interessa alla mia arte e che alla Promotrice, degnandosi di ammirare l'opera mia, «Il Sacrificio», ha espresso il desiderio di conoscermi.
Ne sarò invero onorato e felice.
A. Galeazzi.
LEI
(Ciò che pensa)
La mia anima naviga in un mare di letizia. Rescia mi ha mandato il vestito: charmeuse verde-Nilo con bordo di velvet vieux-rose. Lidia e la Delvago che vennero a trovarmi erano verdi d'invidia. La vita è buona a viversi.
.... Bisogna ch'io scriva a quell'oscuro scultore romano. Che noia! Perchè ho detto che volevo conoscerlo?
Melzi e Flavia dicono che è un grave austero melanconico genio. In altre parole vorrà dire che è noioso come la pioggia.
Insomma, intoniamo la corrispondenza alla sua austerità.
(Ciò che scrive)
Egregio signore,
Grazie. Antonino Melzi e anche la mia cara amica Flavia non cessano dall'esaltare Lei e il Suo grande ingegno.
Venga dunque a trovarmi. Parleremo delle sofferenze profonde e sublimi che l'Arte infligge a chi la segue e serve....
Viviana Allori.
(LUI)
Com'è vuota la mia vita! Com'è grigia e meschina e solitaria.
«Hai la tua Arte», mi dice Melzi. — «Hai la gioventù», mi dice mia madre. — «Hai il genio e la speranza», mi dice mio fratello che è invalido e misantropo.
Io sento di non aver nulla. Nè genio, nè gioventù, nè speranza. Vivo solo, rintanato come una fiera; selvaggio e scontroso nel mio studio tra questi esseri gelidi e immoti di creta e di marmo foggiati da me. Talvolta li guardo — sono tutti nell'atteggiamento della sofferenza! — e mi chiedo:
«Perchè vi ho creati?».
Forse Iddio così guarda noi, e si fa la stessa domanda.
Gentile signora,
Con lieto animo ricevo e accetto il lusinghiero invito.
A. Galeazzi.
(LEI)
Claudio mi ha fatto una scena di gelosia che ha durato quattro ore. Ciò mi rialza il morale.
Oggi con lui e qualche amica, da Baratti, nella «princesse» di Rescia mi sentivo veramente « Au-dessus de la mélée ». A proposito, che libro sarà quello? L'avrà scritto certo una donna con un vestito nuovo, un amante geloso e un cappello che le stava bene.
Egregio signore,
Sono desolata di aver mancato oggi la Sua visita. Una Lettura di Dante e una conferenza sull' «Evoluzione del Concetto dell'Immortalità dell'Anima, da Platone a Porfirio», m'hanno presa tutta la giornata.
Mi permette di venire al Suo studio? Domani, verso le quattro?
Entrerò trepida e riverente in quel tempio sacro alla Sua nobilissima Arte.
Viviana Allori.
(LUI)
Il tedio della vita è su di me come un mantello di piombo. Lo spleen mi sommerge e mi annienta.
Domani verrà a trovarmi quella lugubre letterata di cui non ho letto che le gravi e rimbombanti epìstole.
Ahimè! Non conosco che gente plumbea, non penso che pensieri tenebrosi, non compongo che monumenti funerari. Il mio studio e la mia anima sono dei cimiteri. Dei cimiteri in cui nessuno è morto; perchè nessuno vi è stato vivo mai.
Mi farò una festa, gentilissima signora, di accoglierla qui domani nel mio studio, pur temendo che ella abbia a provare un disinganno riguardo alla mia arte, la quale.... ecc. ecc. ecc.
(LEI)
Claudio mi conduce a Montecarlo in automobile. Dice che ha un sistema. Gliel'ha dato un professore di matematica. È infallibile. Si gioca sulle dozzine e le colonne. Partiamo subito.
Bisogna avvertire lo scultore....
Egregio signore,
No. Non posso venire oggi al Suo studio.
Non mi trovo spiritualmente preparata alla grande impressione d'arte che — lo sento — mi verrà da Lei. Vorrei per qualche giorno chiudermi nel raccoglimento....
Sono strana? No. Sono poeta; e sono donna. Questa duplice sensibilità mi rende quasi timida davanti alle grandi emozioni spirituali.... ecc. ecc.
(LUI)
Son contento — se qualcosa può rendermi tale — che oggi non venga la trasecolante poetessa. Già troppo sono depresso.
La sua grandiosità di sentimenti mi opprime.
Signora,
Quella trepidanza spirituale di fronte alle mie povere opere, che le vieta di venire oggi da me, troppo mi onora.... e mi addolora.
Invero Ella sente squisitamente l'eccelsa tortura di spirito che.... ecc. ecc.
Attendo dunque ch'Ella mi dica: Verrò!
A. Galeazzi.
(LEI)
Idiota il sistema di Claudio e del suo professore di matematica. Dovevo immaginarmelo! Una progressione pazzesca sulla dozzina che non esce; mentre tutti sanno che bisogna giocare sulle dozzine che escono. Risultato: Claudio — che già è più decorativo che utile — completamente spiantato per un mese; mentre io ho sacrificato tutta la prima edizione di «Parossismi» alle fisime sue e del suo maniaco professore di matematica.
Egregio signore,
Di ritorno da un breve e triste viaggio in Riviera dove le tonanti onde si accordavano col mio agitato e tumultuoso cuore, trovo il Suo gentile biglietto.
Sì, sì! verrò senza fallo. Domani? Alle quattro?
Viviana Allori.
(LUI)
È stata qui la scrittrice. È diversa da quanto m'aspettavo. Molto diversa.
Partendo, ha dimenticato qui la borsetta e un libro.
Per distrazione, più che per indiscrezione, ho aperto entrambi: la borsetta conteneva uno specchietto, della cipria, del profumo e il biglietto di visita di un tenente di cavalleria con alcune parole che non mi permisi di leggere. Il libro s'intitolava: « Pour lire au bain », di Catulle Mendès.
Già; è una donna diversa da quello che m'aspettavo.
Illustre signora,
Fu per me un grande onore accoglierla nel mio umile studio che echeggia ancora del trillante riso ch'Ella ebbe davanti alle mie tragiche figurazioni. Queste dunque non furono create invano se hanno potuto divertirla.
Le rimando ciò ch'Ella scordò e La saluto devotamente.
Galeazzi.
(LEI)
Fui nello studio dello scultore. Ha dei bellissimi occhi. Si gelava.
Illustre artista,
Il senso di quasi religiosa esitazione col quale varcai la soglia del Suo studio era invero giustificato. Io sono completamente sous le charme!
Le ginocchia mi si piegano davanti al mistero del Genio.
Mi sembra che le Sue statue mi afferrino colle mani di marmo il cuore, e mi atterrino davanti alla divinità dell'arte.
Viviana Allori.
P.S. — Ricevo in questo istante la borsetta e il libro. Appartengono a una mia amica.... persona un po' frivola e vana.
Come mai, come mai ha potuto credere che le sublimi Sue opere: «La Rinuncia sostenuta dal Dovere», «La Rassegnazione che sorride al Dolore», «La Coscienza innalzata dal Sacrificio»!... abbiano potuto suscitare la mia ilarità?
Quel riso è una forma di convulso che mi prende, soprattutto quando sono molto commossa.
Più volte, anzi, ho pensato di consultare un neuro-patologo per questa spasmodica ipersensibilità del mio sistema nervoso....
Viviana Allori.
(LUI)
Che silenzio! Che freddo!
Queste stanze mi sembrano più che mai sepolcrali.
Grazie, gentile signora, delle parole lusinghiere. Mi è doloroso apprendere ch'Ella soffra di quella lieve forma convulsa che, spero, non sarà nulla di preoccupante.
Augurandole pronta guarigione La saluto devotamente.
A. Galeazzi.
(LEI)
Claudio mi ha condotta in automobile a Lanzo. Abbiamo avuto due pannes.
Pioveva.
Ritta in mezzo alla strada, col mio cappello Louis-Lewis esposto all'acquazzone, sono stata a guardare Claudio che pompava aria nella grossa gomma moscia e schiacciata. Non aveva con sè il martinetto per rialzare la ruota. I suoi sforzi erano vani.
Io mi domandavo, guardandolo, come mai ho potuto amarlo; come mai da quasi due anni Claudio rappresenti per me l'estasi e lo strazio....
Dopo circa mezz'ora ha smesso.
— Perde aria dalla valvola — mi spiegò.
E a me pareva di sentire che anche il mio amore per lui si sperdeva via, pianamente, lievemente, in un soffio che era tra la risata e il sospiro....
. . . . . . .
Ho rivisto lo scultore. Passando con Claudio in automobile ho fatto fermare davanti alla sua porta e l'ho mandato a chiamare.
È uscito subito dal suo studio a pian terreno, ed è venuto a salutarmi. Ritto sul marciapiede nel sole, senza cappello, colle chiome nere e lucidissime divise nel mezzo, mi ricordava l'amante nel quadro intitolato « Vertigine ».
Ho notato che ha degli occhi inverosimili, velati da ciglia lunghe e fini come le frangie di seta nera di uno scialle spagnolo.
Che meravigliose ciglia!...
La sua anima deve essere un abisso.
Egregio signore,
Venga stasera a trovarmi. Ci sarà gente.
Viviana Allori.
(LUI)
Se quei briganti del Comitato delle Onoranze non mi pagano «La Rassegnazione che sorride al Dolore» sarò in un bell'impiccio. Da tre mesi dovevano portarselo via. Farabutti!
Gentile e illustre signora,
Grazie. Verrò col massimo piacere.
A. Galeazzi.
(LEI)
Iersera ho avuto molte visite.
C'era anche Galeazzi. Non ha mai parlato.
Pareva il giovane Endimione dormiente, prima che Astarte lo baciasse in fronte. Ha una fronte classica, calma, pacata sotto quei capelli neri e lisci divisi nel mezzo. (Come mai hanno potuto un giorno piacermi le teste à la Pompadour dalle chiome ondeggianti e svolazzanti, come quella del banalissimo Claudio?).
Temo che lo scultore abbia trovato stolta e frivola la nostra conversazione. Ho pur provato a parlargli dell'influenza di Nietzsche sull'evoluzione della moderna mentalità — devono essere questi gli argomenti che lo interessano! — ma subito il tenente Rossi mi ha distratta e mi ha fatto venire il «fou rire».
Ridevo, ridevo.... e lo scultore mi guardava cogli occhi così gravi e strani che ne rimasi tutta sconcertata. Spero che si sarà ricordato che patisco il convulso.
(LUI)
Ho scoperto ciò che manca, ciò che ha sempre mancato, alla mia vita. Il riso. Nessuno ride mai intorno a me. Il riso, che cosa meravigliosa!... C'è della gente che quando ride riempie di luce, di suono e di fragranza il mondo.
(LEI)
Si chiama Andrea.
FEBBRAIO
(LUI)
Ho pensato a una nuova statua, affatto diversa dalle altre opere mie.
Non mi occorre modella. La farò, così.... dal ricordo: Una donna. Una donna che tra i tragici simboli della vita e il macabro apparato della morte ride! Null'altro.
La intitolerò «Gioia».
(LEI)
Ho rotto definitivamente coll'insoffribile Claudio. Tutto è finito tra noi; egli ha accettato il posto a Budapest; ed io ho scritto un poema intitolato «Addio»! ritmo moderno, come un carro che sballotta per una via sassosa; versi lunghi e corti: bellissimo!
Lo manderò alla Rivista «Ardente».
E così dalla mia vita — exit Claudio.
Che sollievo! Che leggerezza!
Mio signore,
Venga a trovarmi questa sera.
Sarò sola.
Viviana Allori.
(LUI)
Ciò che mi rapisce in lei è la sua letizia, la sua trillante esultanza! Sembra vivere in una continua estasi, in una perenne ebbrezza.
Lavoro alla statuetta «Gioia». Mi pare ch'essa chiuda nel viso ancora misterioso tutti gli splendori e tutte le giocondità.
Mia signora,
Grazie. Verrò.
Andrea Galeazzi.
(LEI)
Ero brutta, so che ero brutta iersera. Alice mi pettina esecrabilmente. Mi fa una testa che pare una «pagnotta Garibaldi».
La licenzierò.
Farei bene ad andare in campagna per un mese a curarmi i nervi e la carnagione. Flavia dice che contro i primi soli di Febbraio non c'è di meglio che la crema Hazeline coll'acqua di rose e alcune goccie di tintura di benzoino.
Mio signore ed amico,
Lascio la città per qualche tempo. Un nuovo poema mi canta ed urge entro il cervello. Andrò ad ispirarmi nella solitudine e nel silenzio.
Venga a salutarmi prima ch'io parta.
Se domani, alle cinque, non avesse nulla di meglio a fare....
V. A.
(LUI)
Fui da lei oggi alle cinque. Quante cose avrei voluto dirle per impedire o ritardare la sua partenza! Non ho trovato nulla nel mio cuore selvatico, nella mia gola inaridita. Sono rimasto muto, impietrito, a guardare quel riso che le scintillava negli occhi.
.... Non sapevo che le donne potessero essere delle creature così gaie e delizianti.
Già, ne ho conosciute ben poche.
La donna, dunque, è così? Non parla, canta. Non cammina, vola. Non vive, gioisce....
Mi pare di aver trascorso i miei giorni finora rinchiuso in un sepolcreto di famiglia.... d'autunno.... nella nebbia....
Signora gentilissima,
Se la Sua partenza, come spero, non sarà imminente mi permetterei di offrirle il modello di una mia nuova statua, intitolata «Gioia» che mi sarebbe caro dedicare a Lei.
Confido che Ella ritarderà di qualche giorno il progettato viaggio, e mi professo di Lei devotissimo
A. Galeazzi.
(LEI)
«Nella guerra d'amor vince chi fugge, E chi non fugge, strugge.»
Amico mio,
È necessario ch'io parta. Il clima di questa città.... ecc. ecc.
Le arrida ogni fortuna.
Viviana Allori.
(LUI)
Mio Dio!... mio Dio!
Viviana,
Non partite!
Andrea.
(LEI)
Andrea,
Non parto.
Viviana.
MARZO
(LUI)
Mia adorata, mia adorata!
Verrai stasera?
Altrimenti verrò io da te.
Tuo per la vita e al di là.
Andrea.
(LEI)
Mio divino amante,
Ti aspetto.
Viviana.
(LUI)
Gioia!... Gioia!...
Non trovo altra parola nel mio cuore.
Non trovo altro nome per te.
Andrea.
(LEI)
Ti ho negli occhi, nei nervi, nelle vene. Vado tra la gente come in un sogno, estatica e stupefatta, perduta nel ricordo di te....
Viviana.
(LUI)
Viviana,
Mi pare di aggirarmi in un mondo popolato di fantasmi, dove tu sola sei viva.
Mentre intorno a me si discorre, si ragiona, si vive, io, trasognato e tremante, sento al mio collo la stretta delle tue mani, sento la fragranza del tuo respiro nella mia gola; m'anniento nella profonda e spaventevole estasi che tu mi dài....
(LEI)
Andrea,
Sono posseduta da te, anima e corpo, posseduta nel senso biblico della parola — in modo che nulla all'infuori di te può entrare in me o nel mio spirito. Posseduta in un senso quasi innaturale che preclude il corso alla vita stessa; che ferma ogni palpito, che arresta ogni pensiero.
Dal momento in cui ti lascio al momento in cui ti ritrovo mi pare di trattenere il respiro.
Viviana.
(LUI)
Come ho potuto vivere prima di conoscerti? Prima di respirare l'atmosfera d'ebbrezza, d'esultanza e d'estasi che si sprigiona da te? Ed io credevo che l'amore nella donna fosse una passione fosca e malinconica, tragica e tormentosa!... No! tu, mia divina creatura, sei tutta luce, tutta riso e sorriso e voluttà!
(LEI)
Ma è possibile, è possibile che tu, così grave e austero, abbia amato in me la mia letizia, la mia insensata, irragionevole giocondità?... Ed io che avrei voluto ammantarmi di solenni e sentimentali parvenze per piacerti!
Potrò dunque finalmente essere sincera con te? Essere quale sono — folle frivola felice? Sorridere e ridere, di tutto e di tutti, col capo appoggiato al tuo cuore?...
(LUI)
Ridi, ridi, ridi, adorata!
È questa letizia, questa esultanza, questa fresca felicità che più io amo in te.
Andrea.
APRILE
(LEI)
.... Intorno a me c'è musica e folla. Vorrei essere nel silenzio del suo studio, vicino a lui e alle sue sublimi opere d'arte. Beate, ah! beate quelle donne marmoree ch'egli ha creato e che inclinano a lui i volti appassionati ed estatici.
Anche a me pare d'essere una donna creata da lui, che aspetta d'essere dalla sua mano immortalizzata o distrutta.
(LUI)
Novità piacevole e inattesa: il Comitato Regionale ha pagato!
Vengono oggi a prendere la «Rassegnazione che sorride al Dolore».
Era tempo!
(LEI)
Egli è così bello quando si china su di me e i suoi sguardi di luce filtrano obliqui sotto alle ciglia lunghe, che ne provo un senso quasi di vertigine, un senso di disperata estasi che non so nè descrivere nè spiegare.
Allora mi assale un affanno, uno struggimento dell'infinito.... o del nulla; come una profonda nostalgia della morte....
Mio diletto,
A che ora ti vedrò?
Viviana.
(LUI)
Viviana era diversa oggi. Mi pareva meno gaia e scintillante.... Perchè?
Amor mio,
Verrò stasera.
Andrea.
(LEI)
Che cos'è questo struggimento? questa inquietudine? questo affanno?
Mi pare di non poter ridere più; mi pare di non poter parlar più. La gola mi si stringe come in un perenne singhiozzo.
Quando gli sono lontana mi sento morire; e quando sono con lui non ho voglia che di abbattermi sul suo petto.... e piangere.
(LUI)
È venuto il conte Ilario d'Eril a darmi l'incarico di eseguire una targa. Ha visto il modello di «Gioia» rimasto a mezzo, e l'ha trovato bellissimo.
Voglio terminarlo.
«Gioia»! La contemplo, la scruto; assomiglia a Viviana.
E pure, strano a dirsi, talvolta mi sembra che Viviana alla statuetta non assomigli più.
Dolcezza mia,
Mi rimetto al lavoro che tu mi hai ispirato. Così, anche da lontano, sento di essere con te. Ci vedremo domani.
Tuo
Andrea.
(LEI)
Dunque per tutt'oggi non lo vedrò.
La giornata primaverile splende e si spegne; io sono qui, sola, triste a struggermi.
Ed egli è rinchiuso là, tra le sue spaventose e immobili statue, macabre nella loro fissità; terribili e contronatura perchè non mutano e non muoiono in un mondo dove tutto muta e muore.
Egli è calmo e contento; il suo lavoro lo assorbe, la sua arte lo affascina.
L'Arte, ah! l'Arte.... che orrore! L'Arte! la nemica della donna, la nemica della felicità!
Ma se io gli dicessi questo, non mi comprenderebbe.
Amor mio,
Fai bene, fai bene a lavorare. L'Arte sarà per te la Donna migliore di tutte. Essa non ti tradirà e non ti scorderà se tu non la scordi e la tradisci.
A domani, dunque.
Viviana.
(LUI)
Mio tesoro,
Com'è bello ciò che tu dici dell'Arte!
Tu vedi la vita e l'amore diversamente da tutte le altre donne. È per questo, forse, ch'io ti amo così perdutamente.
Neppure oggi mi stacco dal mio lavoro. Sei contenta?
Tuo
Andrea.
(LEI)
Strano che il cuore dell'uomo e della donna non siano mai, non possano mai essere completamente all'unisono! La loro armonia sembra basata sul contrattempo, come le note sincopate dei «rag-times» o delle Danze Ungheresi di Brahms: quando l'uno è sul «battere», l'altro è sul «levare»; quando l'uno è felice, l'altro soffre; quando l'uno comincia, l'altro termina....
L'uomo vuole la gioia dell'ora; la donna, non appena ama, vuole il parossismo e il pathos, vuole l'infinito e l'eterno.
Andrea s'è innamorato di me per la mia spensierata indifferenza, la mia gaia, incurante letizia; e non appena m'innamoro io di lui, ecco svanire la mia gaiezza, spegnersi la mia giocondità ed io non sono più quella che egli ha amato. Sono cupa, fosca, esigente, noiosa, come tutte le donne innamorate. Mi sento l'anima piena di una esasperata ostilità e la bocca piena di parole amare.
Flavia, a cui mi confido, scrolla le spalle: «Che vuoi! siamo fatte così. L'amore si posa sulla soglia del nostro cuore come una cosa mite, luminosa, alata; ci sembra una farfalla, una colomba, o un'allodola che batterà l'ali.... canterà e volerà via. Ma non appena è in noi, ecco che ci accorgiamo di aver chiuso nel nostro cuore una tigre; una tigre che ci rode, ci strazia e ci dilania».
È vero, è vero! Anch'io sento la tigre accovacciata in me. E pensando ad Andrea mi domando: che cosa posso fare per tormentarlo, per farlo soffrire come soffro io?
Mio carissimo,
Poichè oggi tu non vieni, andrò alle corse con Clerici e Giorgio di Vallefuoco. Stasera Silvestri mi conduce a udire le poesie indiane del Tagore. Tu sai che cosa è per me la poesia!...
In ispecie quella indiana.
Sempre tua!
(LUI)
La statuetta non mi riesce. Il viso pare velato da non so quale mestizia; sulle labbra non vi è più un riso ma un «rictus», e le occhiaie sono piene d'ombra. Forse, dopo tutto, ci vorrà una modella.
. . . . . . .
Viviana fu oggi da me per pochi istanti. Era strana. Mi fissava con uno sguardo di fuoco e un sorriso di gelo. Mi disse che Clerici era di fuori in automobile. D'improvviso mi ha domandato:
— Per quanto tempo m'amerai?
Io risi.
— Hai forse qualcuno che aspetta il suo turno?...
— Rispondi! — fece lei colle labbra strette.
Allora le presi le due mani:
— Per sempre.
— Uh, che orrore! — esclamò con una risata cinica. — Non voglio. Voglio essere amata per poco tempo.
— Perchè? perchè?
— Perchè.... le cose lunghe diventano serpi! — mi disse lei.
E mi lasciò.
Più conosco le donne e meno le comprendo.
(LEI)
Sincera! Volevo essere sincera con lui. Ma qual'è la donna che può essere sincera con un uomo?
È nostro destino mentire, mentire sempre. Mentire all'uomo, per non perderlo, quando non lo si ama.... Mentire, mentire mille volte di più, per non perderlo, quando lo si ama!
Se ad Andrea io svelassi tutto il mio cuore, se gli gridassi sul viso: — Ti amo! Ti amo! Non posso più vivere così.... Portami via, tienimi con te per sempre!... oppure, dammi la morte! Fa ch'io piombi dal tuo abbraccio nel Nulla! — egli mi guarderebbe stupito con quei begli occhi tranquilli e profondi, e penserebbe con un lieve senso di noia e di stanchezza: — Mio Dio! Come è eccessiva ed esaltata questa donna!
Non è così fatto il cuore degli uomini? L'eccessiva passione, l'esaltazione del desiderio, la dedizione completa, invece di avvincerli li allontana.
Mio caro,
Impossibile vederti questa sera. Vado al Regio con Oldofredi a udire il concerto di musica boema. Tu sai quanto adoro la musica.... in ispecie quella boema.
Addio.
Viviana.
A meno che ciò ti dispiaccia?...
(LUI)
Strano questo bisogno che hanno le donne di correre di qua e di là coll'uno e coll'altro....
Probabilmente se io la pregassi di non andare, mi troverebbe geloso e tirannico e mi prenderebbe in odio.
Amor mio,
Nulla di ciò che a te piace può dispiacere a me.
Andrea.
(LEI)
No. Nel cuore della donna l'amore non è la gioia: è lo strazio, è lo struggimento, è una fosca e frenetica disperazione senza ragione e senza rimedio.
Non c'era concerto al Regio iersera. Egli avrebbe potuto accertarsene, guardando il giornale. Poteva telefonarmi; accorrere, protestare, pregare; poteva rimproverarmi, ingiuriarmi, insultarmi.
Niente! Si è rassegnato. Come la sua statua, la sua aborrita e orrenda statua: «la Rassegnazione che sorride al Dolore».
Io odio la Rassegnazione. Odio la gente che si rassegna. Odio le statue. Odio tutto.
(LUI)
Il modello in creta di «Gioia» è terminato. È indubbiamente ciò che di meglio ho fatto finora.
Melzi mi fa osservare che dico sempre questo di ogni mio lavoro più recente.
Sarà così.
Tuttavia «Gioia» mi sembra senza contestazione il mio capolavoro.
Viviana ne sarà felice.
(LEI)
Vorrei morire! morire subito, fulminata ai suoi piedi! Non posso più vivere, non posso più mentire. Non posso più sorridere colla Tigre che mi sbrana e mi dilania. Non penso più che alla morte, al silenzio, alla pace, all'oblio.
Esco sul balcone e guardo il fiume che scorre calmo e lucente sotto alle mie finestre. Perchè non correrei fuori nel grigio crepuscolo e mi lascerei scivolare giù in quell'argentea profondità? Dopo un breve attimo di terrore, di soffocazione, di disperata lotta, calerei lentamente al fondo, e vi giacerei immobile, calma e placata, colla fronte al cielo.... E le tranquille acque mi scorrerebbero sul viso.
Oh, dolce giacere immobile e supina sotto quel liquido e mobile frescore! oh, dolce sentire l'acqua scorrere sopra il mio viso!...
Perchè non morire?... O allora.... dirgli tutto?
(LUI)
Ho deciso di concorrere per la Fontana Monumentale di Piazza Solferino.
(LEI)
Gli ho detto tutto. Tutto!
Gli ho detto: — T'amo troppo. Soffro troppo. Voglio lasciarti.
— Ma perchè soffri? Non t'amo forse? non t'amo? — mi chiedeva lui smarrito.
— Sì, sì! m'ami! — E gli accarezzavo i capelli, mentre dentro la tigre mi lacerava e mi sbranava.
Allora egli mi è caduto ai piedi. — Dimmi che cosa debbo fare! Che cosa vuoi che faccia? Io non ti capisco. Non so perchè soffri, non so perchè dici che ti rendo infelice.
— Non lo so neppur io, — risposi singhiozzando.
Allora egli mi chiuse tra le braccia come fossi una bambina. — Vuoi che lasciamo tutto? Vuoi venir via con me? Vuoi?... Vuoi che si vada lontano dove nessuno ci conosce a vivere insieme per sempre?
. . . . . . .
Mio Dio, mio Dio! Vi ringrazio.
Partire con lui!... Andare lontano, dove nessuno ci conosce! Vivere insieme!... per sempre!...
La tigre è morta.
(LUI)
«Alea jacta est». Partirò con lei.
Sarà quel che sarà.
MAGGIO
(LEI)
Come sono felice! Come sono felice!
Forse non è tanto il pensiero della fuga con lui, della vita con lui, che mi esalta, ma il fatto ch'egli lo voglia.
Una immensa tranquillità, una pace blanda è scesa sulla mia anima e quasi non riesco a comprendere e a ricordare le turbolenti angoscie dei giorni passati. Perchè soffrivo tanto? Non lo so più.
Oldofredi, il pittore, è venuto a trovarmi oggi e mi ha guardata stranamente. — Che cosa avete? — mi ha chiesto. — Come siete translucente e raggiante! — Indi ha soggiunto: — E perchè non lavorate? Perchè non scrivete più?... Badate che l'ingegno non è un dono, ma una responsabilità. L'ingegno è un debito da pagare, è un dovere da compiere; non è un fiore da puntarsi nei capelli!
Io sospirai. — Lo so, lo so; ma che volete? Una donna non può scrivere se non è innamorata. E quando è innamorata.... non può scrivere!
— Forse è vero, — disse Oldofredi colla sua voce un po' cavernosa. — Ma vi è un momento, momento fugace, effimero, evanescente, tra un amore che sta per tramontare e un amore che sta per nascere, in cui può fiorire il capolavoro. State in attesa, o Viviana! di quel momento fatale e vitale. E non lasciatelo passare invano.
Rimettermi a scrivere? Creare un capolavoro? Ah, lo vorrei!
È vero. — L'ingegno non è un fiore da puntarsi nei capelli!...
(LUI)
Più ci penso e più mi afferra la febbre della partenza, mi appassiona l'idea di lasciare dietro di me il passato, e slanciarmi nell'avvenire. Ciò che da principio mi spaventava, mi pareva una follia quasi colpevole, quasi imperdonabile, mi sembra ora l'unica cosa giusta e grande e felice ch'io abbia concepito mai, ch'io possa realizzare mai.
E perchè no? Sono un artista, dunque sono libero. Dovunque io vada porto le mie due mani con me; porto con me i miei occhi e la mia anima; e porto con me Viviana, ispirata e ispiratrice.
Partire! partire con lei! Ricominciare la vita in un paese nuovo, ignoto, vasto, generoso; lavorare, sostenuto dal meraviglioso amore di quella creatura meravigliosa!
(LEI)
Partire!... Esiliarsi!... Lasciare l'Italia e tutto ciò che l'Italia rappresenta per me! La luce.... l'incanto.... l'ispirazione!...
Questo pensiero talvolta mi spaventa.
(LUI)
Giro per questa città come un allucinato.... o come un dio: già rimoto, già staccato da tutto e da tutti.
Come mi sembrano poveri e pietosi quelli che restano qui, in questo ambiente ristretto, sordido, meschino, dove ogni giorno s'incontrano le medesime persone, i medesimi pregiudizi, le medesime piccole amicizie e piccole ostilità. Tra un mese sarò lontano da tutto ciò. Lontano!...
E tutte le acque dell'Atlantico scorreranno tra me e questi pallidi giorni del passato!
(LEI)
Da due giorni non vedo Andrea. Lavora febbrilmente alla sua statua, o corre in qua e in là preparandosi alla partenza.
Fui stamane nello studio di Oldofredi che s'apre su un grande giardino soleggiato.
Ne esco ebbra di colori. Donne azzurre e donne arancine, donne drappeggiate e donne ignude, donne sdraiate e donne ritte, donne vaganti per lunghi misteriosi corridoi o danzanti all'aperto sotto cieli verdastri punteggiati di lucciole.... Quanta fantasia, quanta stranezza, quanta suggestiva ambiguità in quest'arte!
Già, l'Arte!... In fondo, come dice Oldofredi, non c'è altro di bello al mondo. L'Arte! figlia del Sogno, sorella dell'Amore!...
(LUI)
Oggi ho detto a mia madre e a mio fratello che partivo. La loro disperazione è indescrivibile. Sembrano annientati, terrorizzati.
— Che cosa faremo? — piangeva mia madre, — io vecchia, lui malato, senza di te?
Sono fuggito. Mi pareva d'essere un carnefice.
(LEI)
Ho voglia di lavorare; di scrivere un nuovo libro.
Che sia questo il momento fatidico pronosticato da Oldofredi? Ma quale sarebbe «l'amore che tramonta», e quale «l'amore che nasce»?
.... Pensiamo al capolavoro.
In un libro ciò che conta soprattutto sono due cose: il titolo — e la fine.
La fine è subito trovata. Lui la abbandona, e lei muore. (Non è forse freschissimo ma è sempre bello).
Ma il titolo? È cosa più ardua.
Inviterò tutti i miei amici per venerdì sera: farò servire il thê à la russe; del caffè fortissimo; del vino di coca, e delle pillole di fosforo. E tutti dovranno aiutarmi a trovare un titolo, un titolo strano, strabiliante, per il mio nuovo libro. Lo dirò anche ad Andrea, sebbene non abbia molta fantasia.
Andrea,
Ti aspetto domani sera, senza fallo!
Viviana.
(LUI)
Questa sera l'ho udita ridere come nei primi giorni in cui la conoscevo. Veramente non rideva con me. Io andavo da lei credendo di trovarla sola, ma il salotto era pieno di gente.
Mi accolse festosa salutandomi da lontano colla mano alzata e il sorriso raggiante.
— Oh.... Andrea Galeazzi! Che piacere!...
In quell'istante mi parve che tutte le acque dell'Atlantico scorressero tra me e lei.
GIUGNO
(LEI)
Carissimo Andrea,
Ma come puoi pensare ch'io voglia rinunciare al nostro progetto? Mi credi dunque incostante e leggera? frivola e senza cuore?
È perfettamente vero che i Laforêt mi hanno invitata a passare l'estate nel loro castello di Revoire. Ma non per un istante ho pensato ad accettare l'invito.
Il mio pensiero è con te; lo sai.
Viviana.
P. S. Mi pare che di tutti i titoli suggeriti l'altra sera, «Narciso» è quello che mi piace di più. Anche «Pervertimenti» non sarebbe male....
Tu, che ne dici?
Oldofredi mi ha promesso le illustrazioni.
(LUI)
La statua è finita.
Tutto è pronto.
Agli amici più intimi ho già detto addio.
Il mio cuore è in tumulto.
(LEI)
Perdonami, Andrea! Perdonami!
Non parto. No. Non posso partire con te. Sarebbe la peggiore delle follie, sarebbe la più atroce delle crudeltà.
Pensa, pensa quanto saremmo infelici.
Sì: dopo un anno, dopo due anni — forse anche prima — pensa quanto soffriremmo tu ed io. Tu più di me!... O io più di te!... Non lo so.
So che verrebbe presto tra noi l'ora atroce del rimpianto e dei rimproveri.
Oggi ci sembra che l'esistenza intera non basterebbe alla nostra sete d'amore. Oggi, che tutto ci separa, che non possiamo mai saziarci l'uno dell'altro, mai guardarci abbastanza, mai parlarci abbastanza, ecco, ci irrompono dal cuore, ci fioriscono sulle labbra le grandi parole enfatiche di tutti gli amanti: la Lontananza!... l'Isolamento!... l'Eternità!...
Ma quando fossimo isolati, quando fossimo lontano, quando — dissetati e placati — ci trovassimo soli di fronte l'uno all'altra nella perpetua solitudine accoppiata degli amanti che vivono fuori della legge.... credi tu che non ne soffriremmo?
Tu forse non lo credi. Ma io lo so.
Quando tu, per amor mio, avessi lasciato dietro di te tutto ciò che ti fu caro, tutto ciò che ha formato fino ad oggi la tua esistenza: tua madre, tuo fratello, i tuoi amici, i tuoi impegni, i tuoi doveri, — ne avresti rammarico e rimpianto.
E quanto a me?... Oh, Andrea, io non sono che una piccola anima meschina; sono come tutte le donne — o quasi tutte — che, pur anelando alla vietata gioia vogliono anche la decorosa rispettabilità; che pur non volendo rinunciare al piacere, non intendono derogare dalle convenienze; che vogliono la passione ma non lo scandalo; che vogliono l'abbraccio degli uomini ma anche il saluto delle donne....
Tu mi odierai; tu mi disprezzerai! E avrai ragione.
Ebbene, disprezzami, odiami, ma non soffrire. Non voglio, non voglio che tu soffra per me. Non lo valgo, non lo merito.
Io ti ho sempre mentito. Io ti scrivevo delle lettere tristi quando ero gioiosa, ti scrivevo delle lettere gioiose quando ero triste; e anche ora, ora che vorrei essere così sincera con te, forse.... non lo sono.
Forse la verità è un'altra.
Non lo so. So che tu non devi, che tu non devi soffrire per me.
Andrea, Andrea! Dimmi che non soffri.
Viviana.
(LUI)
Non importa se io soffro. Segui la tua strada.
Quanto a me non affliggerti. Anche prima di conoscerti ero triste.
Addio.
LUGLIO
(LEI)
È finito. Finito!
Quando penso a lui, solo laggiù, nel suo studio tetro e desolato, mi sento morire.
Perchè l'ho amato? Perchè ho sofferto? Perchè l'ho lasciato?...
Non so. Non capisco il mio cuore.
Parto domani per Castel Révoire; con Flavia.
Viene anche Oldofredi.
(LUI)
Quanto vano gioire e vano soffrire! Ecco: torno qual'ero; torno alle mie silenziose creature.
E di tutto questo turbine di voluttà e d'angoscia, di tutta questa bufera che è passata sul mio cuore, che cosa resta?
. . . . . . .
Resta una statua intitolata: « Gioia ».
II. Notte di Vigilia
Un invito da Bérangère! Dopo un anno di silenzio. Stupita rileggo il biglietto postale:
«Diletta Annie,
So che sei in Isvizzera. Dove passi il Natale? Perchè non a Montreux, colla tua sempre affezionata amica
Bérangère?».
Io ripasso mentalmente la lista delle diverse persone con cui ho promesso di passare quest'anno il Natale: con Jack a Dublino; con Maman a Nervi; con Vivien a Glasgow; con Barbara a Torino; con Silvia a Roma; con O'Kelly a Parigi.... Secondo una mia abitudine, nei momenti d'incertezza faccio saltare in aria un soldo perchè decida della mia sorte: se è testa — Bérangère; se è croce, no.
Il soldo balza, gira e cade. È croce. Dunque è esclusa Bérangère. Ma allora, rifletto io, chi prescegliere tra tutti gli altri a cui ho promesso?... Ritentiamo la sorte!
Stavolta è testa. Dunque Bérangère.
Ed io le scrivo:
«Cara Bérangère,
Aspettami nel pomeriggio della Vigilia.
Tua Annie»
Chiusa la lettera, mi si affaccia un dubbio: Bérangère Tarnier? Era fidanzata un anno fa al conte Lucien de Lussain-Maldé di Château-Mirval; poi non ne ho più saputo nulla. Sfumate le nozze? o smarrito il faire-part?
Mi decido a indirizzare: «Bérangère Tarnier, Montreux»; e il mattino del 24 dicembre salgo nel treno Berne-Genève con gente di ogni paese e d'ogni colore, politico e fisico. Di fronte a me un grande e magnifico Bey egiziano guarda con cupi occhi sfilare il paesaggio da cartolina illustrata, sognando certo le sue pianure torride, i suoi deserti sabbiosi, la sua gente oppressa dal ferreo pugno britannico.... Accanto a lui un uomo biondo, ancor giovane, di cui i tragici occhi azzurri hanno scandagliato le profondità ultime del dolore; lo riconosco: è Von Hindenburg, nipote del chiodato Feld-Maresciallo. Presso a lui, rosea e ridente sotto al grande cappello nero, Mary Snowden, la propagandista del Labour-party inglese, la bionda Amazzone degli operai. Nell'angolo di fronte a me due giapponesi, a cui io mi sentirei tentata di dire: « Anatanohà Taxan Kiri! » in purissimo nippone; ma me ne astengo perchè non so più che cosa voglia dire. Alla mia destra, biondo-ricciuta come l'immortale suo fratello, la sorella di Paderewski mi saluta con affetto.
E il treno corre....
Qui ci starebbe un po' di descrizione di paesaggio svizzero sotto la neve; ma le descrizioni di paesaggio si possono trovare in molti libri scritti da altri autori.
Quindi salto subito, come in un viaggio cinematografico, alla stazione di Montreux; ed ecco anche Bérangère, sorridente e soave, che dalla piattaforma mi saluta sventolando il fazzoletto di seta rossa. (È sempre stata un poco socialista, Bérangère!).
— Prenderemo il thè qui nell'Eden Palace, — dice, traendomi verso un Grand Hôtel vicino alla stazione. — Dopo, verrai a casa mia.
Quando siamo nell'Hall, installate in due grandi poltrone, le chiedo:
— Parlo con mademoiselle Tarnier o con madame la comtesse de Lussain-Maldé?
Ella, senza rispondermi, si slancia in una poetica dissertazione sul Natale; sul mistico significato della Vigilia di Natale, del giorno di Natale, della notte di Natale.... Indi improvvisamente mi chiede:
— Tu, come hai passato la notte della Vigilia, l'anno scorso?
Io riordino rapidamente i miei pensieri; poi rispondo: — Nascosta in una casa di Londra con cinque o sei Sinn Feiners evasi dalle carceri irlandesi. E tu?
Bérangère nervosamente gira e rigira entro le mani il suo fazzoletto rosso e ne fa qualche cosa che somiglia a un topo, con coda e orecchie; poi lo fa saltare da una mano all'altra.
— Io?... — dice, come per guadagnar tempo; — Ah! Io!... — E improvvisamente si chiude il viso nelle mani.
Vi è nella sua voce un'espressione che non comprendo. Orrore? Estasi? Disperazione? Non so.
— Dimmi, — le ordino, colla tazza di thè in mano, mentre di fuori nel crepuscolo....
(Qui leggere due pagine di un altro autore).
— Ebbene, — dice Bérangère, — ascolta.
— Ero venuta a passare un mese dalla zia Clotilde qui sopra, a Glion, dovendo poi raggiungere per le feste natalizie la famiglia del mio fidanzato a Ginevra. La sera della Vigilia vi doveva essere da loro a Château-Mirval un pranzo di famiglia seguìto da un grande ricevimento per partecipare al mondo che l'erede dei Lussain-Maldé si fidanzava.... a me. Da Parigi era annunciato, per l'occasione, l'arrivo di parenti milionari che portavano in dono a lui una Peugeot 40 HP., e a me una collana di perle con sessantotto gemme scelte. Tutta la festa doveva rivestire un carattere di grande etichetta e solennità.
Fu deciso ch'io lascerei Glion, accompagnata dalla zia, alle due del pomeriggio, arrivando a Ginevra verso le quattro. Indi, thè di gala; pranzo intimo; ricevimento fastoso.
Il giorno 23 mandammo a Ginevra bauli e valigie; il 24, alle due, uscimmo dall'albergo e ci avviammo alla stazione della funicolare per scendere a Montreux.
Ed ecco che sulla strada nevosa e ghiacciata mia zia scivola, cade, si sloga un piede.
Agitato ritorno tra le braccia del portiere all'Hôtel! affannati telefonamenti al dottore di Montreux — assente! a quello di Territet — presente ed accorrente. Compresse d'acqua vegeto-minerale. Altri telefonamenti ai de Lussain-Maldé, Château-Mirval, Ginevra. «Verrò, io sola, col prossimo treno. Arrivederci stasera alle 21,10». Disperate proteste dall'altra estremità del telefono. Laceranti gemiti dal letto di zia Clotilde. Nuove compresse d'acqua vegeto-minerale. Tristi riflessioni: niente thè di gala! niente pranzo intimo! Unico conforto: arriverò a tempo per il fastoso ricevimento.
Difatti alle 17,50, avviluppata in fluttuanti veli da viaggio, scendevo nella neve e la nebbia alla Funicolare Glion-Montreux; alle 18 e 20 m'aggiravo quaggiù nella stazione di Montreux con quaranta minuti da aspettare. Era buio; faceva freddo; la sala d'aspetto era lugubre e deserta. Nessuno viaggiava in questa serata. Pensai al pranzo di famiglia — tavola risplendente, visi sorridenti, vini spumeggianti, discorsi augurali, ed io, a fianco di Lucien, eroina di tutti i festeggiamenti.... Un'irrefrenabile tristezza mi morse il cuore e mi riempì gli occhi di lagrime. Ma subito il pensiero di arrivare in casa de Lussain cogli occhi gonfi, frenò il mio pianto, e decisi di andare nella Salle de Toilette a dare un ultimo ritocco ai miei capelli ondulati, un soffio di cipria alle mie guancie.... Quest'idea mi confortò.
M'avviai per il vasto andito deserto, percorsi un altro lungo corridoio ed arrivai davanti all'uscio della « Toilette pour Dames. (Luxe). 50 centimes ». Girai la maniglia ed entrai.
La custode aveva già lo scialle in testa per partire e stava riponendo in un armadietto il «luxe», costituito da un pacco di forcelline, una scatola di cipria e una saponetta rosa. Parve contrariata dal mio arrivo.
— Capirà, — mormorò, — è la Vigilia. I bambini aspettano ch'io vada ad accendere l'albero di Natale.
— Non occorre che aspettiate, — diss'io; — lasciatemi il sapone e un asciugamano. — E togliendo dalla borsetta (unico mio bagaglio, poichè il resto mi aveva preceduta a Ginevra) alcune monete d'argento, gliele porsi augurandole buon Natale. Essa ringraziò con effusione; indi, salutandomi e raccomandandomi di «badare alla porta», uscì.
Io udii risuonare a lungo i suoi passi per l'andito sonoro.
Chiusi con cura la porta ch'essa aveva lasciata semi-aperta e mi dedicai alla mia toilette. Non fu spiacevole occupazione; m'incipriai; mi lucidai le unghie; constatai che i miei occhi non erano per niente gonfi; appena un leggero arrossamento delle palpebre tendeva a darmi — colla mia carnagione bianca e i miei capelli color rame — un'aria un poco tizianesca. Pensai con soddisfazione alla mia entrata nel gran salone di Château-Mirval, all'effetto che produrrei sui parenti milionari, al primo sguardo di Lucien.... Indi mi disposi a tornare sul quai ad aspettare il treno.
Richiusi la borsetta, gettai un ultimo sguardo nello specchio e m'avviai alla porta.
Afferrai la maniglia. Non girò. Spinsi la porta — non cedette. Tirai la porta — non si mosse. Tentai di scuoterla — era rigida, solida, incrollabile. Mi guardai d'intorno in cerca d'una finestra. Non ve n'era.
Allora chiamai. Chiamai: «Custode!... Facchino!... Portiere!...» Nessuno rispose; nessuno venne. Tutti erano a casa a fare il pranzo della Vigilia. Tutti erano intorno agli alberi di Natale accesi; ed io ero qui rinchiusa nella «Toilette pour Dames, luxe, 50 centimes».
Udii da lontano un fischio, seguìto quasi subito dal fragore del treno che entrava nella stazione. La disperazione mi colse; poi rinacque la speranza: qualcuno sarebbe venuto; qualche «dama» che per 50 centesimi....
Nulla. Nessuno venne. Urlai, strillai, diedi dei calci nella porta e nel muro, corsi in su e in giù, aprii e richiusi una porticina in fondo su cui spiccavano due lettere maiuscole dell'alfabeto inglese....
Un altro fischio, un rintocco di campana, un rullìo: il treno usciva dalla stazione — andava a Ginevra senza di me! La festa del fidanzamento avrebbe luogo senza la fidanzata.
Colla calma della completa stupefazione sedetti sull'unica seggiola — quella della custode — e cercai di riordinare i miei pensieri sconvolti. Non c'era più treno per Ginevra fino alle 2 del mattino. Viceversa c'era un treno proveniente da Ginevra alle 23,28. Pensai: Lucien prenderà quel treno e verrà a cercarmi. Chiederà, cercherà; interrogherà il bigliettario, il capostazione.... Il bigliettario non mi aveva veduta, poichè avevo preso il biglietto direttamente da Glion; ma il capostazione, sì. Durante quei pochi minuti in cui avevo girato per la stazione prima di venir qui, l'avevo scorto col suo berretto rosso; ed anch'egli mi aveva veduta. Era un capostazione giovane, con baffetti biondi.... e se li era arricciati, guardandomi. Sì, sì! il capostazione direbbe a Lucien d'avermi veduta; mi cercherebbero, mi troverebbero, mi salverebbero!
Ma erano le 19,10. Come far passare le ore fino alle 23,28? Non avevo altra occupazione che di lucidarmi le unghie; non avevo altro da guardare che il lavabo di marmo, la saponetta rosa, l'asciugamano e la tavola; non avevo altro da leggere che le due lettere maiuscole sulla porticina in fondo.
Mi chiusi nei miei pensieri. Pensai a Lucien, al mio avvenire con lui.... pensai al pranzo di famiglia.... agli alberi di Natale accesi per il mondo....
E lentamente — oh! come lentamente! — le ore passarono. Ogni tanto emettevo qualche strillo per il caso che qualcuno potesse udire. Ma la mia voce in quel silenzio mi gelava il sangue. Cominciai ad aver paura, a guardarmi attorno; mi pareva di veder muovere delle ombre negli angoli della stanza.
Allora provai a dire tutte le preghiere che sapevo; poi tutte le poesie che ricordavo. Cominciai con « Napoléon écolier ».
«À genoux, à genoux au milieu de la classe,
L'enfant mutin,
Dont l'esprit est de feu pour l'algèbre, et de glace
Pour le latin!...».
Ma il terrore mi riprese, mi agghiacciò. Il cuore mi batteva così forte che pensai: «Adesso morirò di sincope. Mi troveranno domani, giorno di Natale, seduta qui, morta — tragica e ridicola in questa esecrabile «Toilette».
Le 22. Le 22 e un quarto. Le 22 e mezzo. Le 23. A momenti sarebbe arrivato il treno da Ginevra.... e Lucien! Questo pensiero mi agitò tanto che mi misi a gridare e non smisi più; gridai, gridai frenetica e forsennata, e i corridoi vuoti echeggiarono dei miei urli stridenti.
Un passo! Sì, era un passo. Smisi di strillare un attimo per ascoltarlo, poi ripresi più forte. Il passo si fermò; indi riprese, affrettandosi, avvicinandosi: e una voce chiamò:
— Allò! allò! Dove siete?
— Qui! qui! qui! — e lo stridìo della mia voce si ripercuoteva in tutti gli angoli.
— Ma dove?
— Qui! Toilette pour Dames! Luxe! Cinquante centimes! — ululai. E caddi, quasi svenuta, sulla seggiola.
Dopo molto lavorìo colla maniglia la porta si aprì, e il mio salvatore apparve sulla soglia. Era il capostazione.
Mi guardò stupefatto. — Mais qu'est-ce qui arrive?
— Qu'est-ce qui arrive? Qu'est-ce qui arrive? — feci io, balzandogli incontro come una Furia. — Arrive che io dovevo essere a Ginevra per il mio pranzo di fidanzamento e che sono qui, da quattro ore, a strillare, a soffocare, a spasimare....
— Oh! che disastro! — esclamò il capostazione; ma mi parve di scorgere sotto ai suoi baffi biondi tremolare un sorriso represso. Questo m'infuriò.
— È iniquo — gridai, — è infame. Farò un processo, a voi, alla Compagnia, alla Direzione, alla Federazione. Sì, vi processerò; perchè non avete il diritto di rinchiudere una creatura in questo posto immondo la notte della Vigilia di Natale....
E il mio pianto sgorgò.
— Creda, sono desolato, — diss'egli; — ma non capisco.... — e tenendo la porta aperta girò due o tre volte la maniglia e poi la chiave ch'era al di fuori. — La serratura funziona perfettamente.
— Già — esclamai sarcastica. — Perfettamente! Difatti.... — E con un riso di scherno gli volsi le spalle.
— Ma sì; funziona perfettamente, — disse lui calmo e cortese. — Guardi lei stessa.
— Non è vero, non è vero! — gridai, e afferrando la porta la chiusi con violenza. — Non funziona affatto! — E gli mostrai, tentando di riaprire, che la maniglia non girava.
Un poco impressionato, egli l'afferrò a sua volta. La mosse, la scosse; spinse la porta, tirò la porta. Niente. Solida, ferma, incrollabile, quell'uscio resisteva ad ogni sforzo. Egli si volse e mi guardò.
— Siete pazza? — disse, e i suoi occhi mandavano lampi, — ci avete chiusi dentro!
Io fremetti di sdegno. — Uscite, — gli dissi, con gesto di comando. — Uscite subito di qui. Lasciatemi sola.
— Magari! — rispose lui, sgarbato. — Siete voi che me ne avete impedito.
Il mio furore non ebbe limiti. — Andate via! — strillai; e poi, come quello mi guardava con occhi saettanti, mi misi a urlare di nuovo: — Aiuto! Aiuto!... Ah! ah! ah!...
Egli non badò più a me. Chino accanto all'uscio, esaminava la serratura; quindi, subitamente risoluto, cominciò a dare delle potenti spallate nel legno. (Mi passò per la mente che se Lucien, colle sue esili ed aristocratiche spalle, avesse tentato un'impresa simile, avrebbe dovuto poi stare otto giorni in letto).
Ma la porta resisteva. Il capostazione si guardò intorno; indi, buttando per terra il berretto rosso che finora aveva tenuto in testa, afferrò il tavolino, lo alzò in aria brandendolo per le gambe, e, con quanta forza aveva, lo scaraventò contro la porta.
Il tavolino andò a pezzi; ma la porta non crollò. Una lunga striscia bianca sulla vernice scura del legno rimase, unico testimonio dell'inutile violenza.
Il mio compagno di prigionìa allora si appoggiò al muro, e colle mani in tasca guardò la porta. Gettò un'occhiata verso il piccolo uscio in fondo alla stanza, ma di sopra a quella tramezza si scorgeva la continuazione della parete a indicare che di là non v'era uscita.
I suoi occhi tornarono, irosi, alla porta screpolata, e a me. Io m'ero accasciata su quell'unica seggiola che pareva un isolotto in un mare di desolazione; ai miei piedi giacevano i rottami del tavolino. Avevo cessato di gridare; la violenza di lui m'aveva intimidita e calmata.
Forse il mio atteggiamento di mansueta disperazione lo commosse, perchè disse con voce abbastanza umana:
— Mi dispiace per lei. Comprendo quanto sia penosa la sua situazione; e quanto la mia presenza l'aggravi.
Chinai il capo senza rispondere. Veramente, io non la pensavo così. La presenza di un essere umano, chiunque fosse, m'era di conforto; se non altro mi impediva di aver paura, quella paura frenetica e sragionata che mi assale talvolta nella notte e nella solitudine. Forse avrei dovuto aver paura anche di quest'uomo, di quest'estraneo col quale ero qui rinchiusa, lontana da ogni soccorso; ma a dir vero egli non m'ispirava alcun senso di terrore. Era molto giovane e molto biondo. I capelli, scompigliati dai suoi gesti violenti, gli cadevano in ciocche soleggiate sulla fronte; erano bionde le ciglia aggrottate, e biondi i brevi baffi sopra la bocca risoluta. Aveva il mento quadro, indicante fermezza di carattere, ma una fossetta profondamente incavata ne attenuava la durezza. (Pensai al mento alquanto fuggente di Lucien, e mi dissi ch'egli certo doveva essere di carattere assai più malleabile ed arrendevole di costui. Infatti sapevo Lucien anche troppo suscettibile alle influenze femminili!...).
Lo sconosciuto stava ritto, immobile, addossato al muro colle braccia conserte. Io alzai gli occhi al suo viso fosco e chiesi, tremante: — E adesso?
— Adesso, — disse lui, — arriverà il diretto di Ginevra ed io non sarò al mio posto.
— Allora la cercheranno! — esclamai subitamente sollevata.
— Sì, mi cercheranno! — ribattè lui con un sorriso ironico, — ma non qui.
— Cercheranno anche me, — dissi con un piccolo singhiozzo, pensando a Lucien.
— Chi? Chi la cercherà?
— Il mio fidanzato, — risposi, chinando il capo. Avevo ancora il cappello da viaggio e il velo grigio in testa, e ne ero tutta avviluppata come da una nube malinconica. — Non vedendomi arrivare alle nove a Ginevra, avrà preso il primo treno per venirmi a cercare.
— E qui, non trovandola, — fece il giovane, sempre con lieve aria di motteggio, — vorrà subito interrogare il capostazione. Irreperibile anche quello! Sarà una bella situazione, — soggiunse con un'amara risata, — quando portieri, facchini e fidanzato apriranno la porta e ci troveranno qui.
Io trasalii. A questo non avevo pensato. — Mio Dio! — esclamai, — e il conte Lucien è un vero Otello!
Il giovane, a queste parole, dètte in un'improvvisa risata, e continuò a ridere e ridere, col viso all'indietro e la testa appoggiata al muro.
Rise tanto ch'io fui molto offesa. Mi alzai con dignità; avrei voluto uscire, con tranquilla alterezza, dalla presenza di quello stolto giovinetto ridacchiante.... ma dove andare? Non c'era che da avviarmi altezzosa verso la porta colle due iniziali....
In quel momento ecco da lontano il brontolìo, il rullìo, il fischio del treno da Ginevra. Il capostazione smise di ridere e mormorò tra i denti un'amara esclamazione.
Con clamore e clangore, con stridìo e cigolìo il treno entrò nella stazione e si fermò, con un lungo sospiro stridulo in scala discendente.
Restammo entrambi silenziosi, immobili, ascoltando. Non altro rumore ci giungeva traverso le mura massicce della stazione — non voci, non passi — nulla eccetto il profondo, asmatico respiro del treno. Allora il capostazione alzò le mani alla bocca e con due dita, allargando le labbra, emise un lungo e potente sibilo. Lo ripetè tre o quattro volte. Nulla! Aspettammo irrigiditi una risposta, un suono. Nulla.
Allora io mi rimisi a gridare con quanta voce avevo (e mi pareva fievole e poca) e non sapendo che cos'altro gridare, gridai alternatamente: «Aiuto!» e «Lucien!...» A mia grande mortificazione vidi che quell'uomo se ne divertiva; anzi non gli riusciva più di emettere il suo fischio perchè le labbra gli tremavano nel riso.
Un rintocco di campana e il treno, sibilante e rantolante, si mosse. Ben presto il pulsante battito si fece più ritmico, più rapido, più lontano.... e il silenzio ricadde.
Restammo per un gran pezzo immobili, impietriti.
— E adesso? — diss'io di nuovo.
L'altro non rispose.
— Quanto tempo dovremo restar qui?
— Fino alle sette del mattino, quando la custode verrà ad aprire.
— Misericordia! — esclamai, e chinando il capo tra le mani, piansi.
— Farebbe meglio a togliersi il cappello e cercar di dormire, — disse lui.
Obbediente e piangente tolsi il cappello e il velo, e quando li ebbi tolti non sapevo dove metterli; se sul lavabo o per terra. Mi decisi per il lavabo: e, deponendoli, gettai uno sguardo nello specchio.
Mi vidi una piccola faccia smunta e gli occhi spiritati e gli ondulati capelli in disordine. Tuttavia non ero bruttissima. Già.... se avevo potuto piacere al conte Lucien de Lussain-Maldé, così difficile a contentare.... Nello specchio incontrai lo sguardo del capostazione; arrossii, e tornai a sedermi.
. . . . . . .
Come passarono le ore? Non lo so.
Ogni tanto guardavo l'orologio, e, dopo due o tre ore, quando lo riguardavo erano passati dieci minuti! Pensai alla zia Clotilde e al suo piede; pensai a Lucien, che certo s'aggirava, frenetico e disperato, pei corridoi della stazione....
Invece no. Seppi poi che in quel frattempo egli (arrivato difatti col treno delle ventitrè) adesso saliva nella nebbia e nella neve da Montreux a Glion; saliva a piedi perchè a quell'ora non c'era più funicolare; e lo accompagnavano — fiutando l'articolo sensazionale — un redattore del Journal de Genève e due altri cronisti che i de Lussain avevano invitato per render conto della festa. La strada è lunga, ripida, scurissima; e i tre salivano cupi, tragici, gelati, sdrucciolando nella neve e nel fango, coi colletti rivoltati fino al naso.... salivano verso la dormente zia Clotilde per svegliarla di soprassalto e gettarla nel pànico e nella disperazione....
E il capostazione ed io, rinchiusi nella «toilette de luxe», ci guardavamo inebetiti ascoltando da lungi un suono festoso di campane....
Bérangère tacque.
— Ebbene? — chiesi io.
— Ebbene? — fece Bérangère, e colle dita irrequiete tornò a far saltare il topo rosso dall'una mano all'altra.
— Come andò a finire? Come passaste la notte?
— Ma, non so, — fece Bérangère; — faceva un gran freddo.... camminammo in su e in giù.... Poi ci parlammo. Io gli narrai di Lucien, ed egli mi parlò di suo padre, un vecchio dottore di La Chaux-de-Fonds e di una sorella «bionda come una lampada accesa». Mi piacque il paragone: e pensai, guardandolo, che anch'egli era biondo come una lampada accesa. Le sue chiome flave parevano mandar luce.
Poi parlammo di letteratura e di musica. Egli era stato in Ispagna e in Germania prima della guerra; aveva letto « Also sprach Zarathustra », e gli piacevano le sinfonie di Mahler.
Io gli recitai «À genoux, à genoux au milieu de la classe»; e poi egli, seduto sul lavabo, mi cantò dei brani d'opera.
Stava appunto cantandomi il Leitmotif delle Figlie del Reno, allorchè uno strepito alla porta ci fece voltare. Era la custode, esterrefatta, che dalla soglia ci contemplava.
Ma come! Erano già le sette del mattino?...
E di nuovo Bérangère tacque.
— Ebbene? — diss'io.
— Ebbene; quando, dopo aver calmato e consolato la zia Clotilde, mi presentai nel pomeriggio al Château-Mirval, la contessa mi accolse con gelida cortesia; disse che suo figlio era sofferente, ma che, probabilmente, quando stava meglio, mi avrebbe scritto....
Indi mi porse, con gesto regale, alcuni giornali: la Gazette de Lausanne, le Journal de Genève e La Suisse.
Il primo narrava in forma serio-comica « L'Avventura di una Fidanzata ». Il secondo, più faceto, intitolava il suo articolo: « Fortunato Capostazione! ». Il terzo, oh! il terzo!...
In cima alla colonna spiccavano a grandi caratteri queste parole: « IDILLIO DI NATALE IN UN.... » .... e qui le due iniziali che sai!
Non ho più veduto Lucien.
.... Basta! Sono molto felice. La zia Clotilde mi regalò per le nozze una collana di perle di ottantasei gemme scelte; una meraviglia! Quanto alla Peugeot, non saprei cosa farmene. Capirai, abbiamo tutti i viaggi gratuiti!...
— E infine, — soggiunse Bérangère, disfacendo il topo e facendosi vento al viso roseo col fazzoletto rosso; — aspetto tra poco l'arrivo di qualcuno.... di qualcuno.... che forse sarà anche lui «biondo come una lampada accesa!».
III. Tenebroso amore
PARTE PRIMA
L'Amico — quell'«amico» che troviamo sempre nelle novelle e nei drammi, il modesto e mansueto amico che non vive di vita propria ma esiste soltanto per accompagnare con brevi commenti ed esclamazioni i discorsi del protagonista — quell'amico (utilissimo anche in questo racconto) disse, come dice sempre:
— Ma.... ella ti ama!
— Sì; ella mi ama, — disse cupamente Manlio.
— E non ti tradisce.
— No, — disse Manlio, con un profondo sospiro; — non mi tradisce.
(Da quel sospiro che cosa deduce l'intelligente lettore?
Deduce: a ) che Manlio parla di sua moglie.
b ) che questa moglie è probabilmente grassa e sulla quarantina.
c ) che Manlio ha un cuore modernamente irrequieto e infedele).
— Io non so di che cosa ti lagni, — disse l'amico. — Sei un uomo arrivato; sei un poeta stampato. Hai girato il mondo; ti sei divertito; ne hai fatto di tutti i colori....
— Ah no! — gridò Manlio — no! Non è vero. Non ne ho fatto «di tutti i colori».... — E sprofondando le mani nelle tasche soggiunse, crollando il capo: — Ed è questo, questo appunto che mi affligge.
L'amico (di cui la missione è di raccontare diffusamente al protagonista ciò che questi sa assai meglio di lui) enumerò la serie di brillanti conquiste fatte dal fortunato Manlio:
— La Tortola.... la Vannucci.... Carlottina.... Vilfrida.... Cicì.... la Soresina....
— Sì!... sì!... sì!... — gemette Manlio. — Ma quelle.... erano tutte dello stesso colore.
L'amico si stupì. — Che cosa vuoi dire?
— Voglio dire, — e Manlio appoggiò il capo sulla spalliera della poltrona guardando con aria ipocondriaca il soffitto, — voglio dire che quelle donne non erano di tutti i colori. Erano tutte più o meno bianche; chi un po' più chiara, chi un po' più scura; chi d'un bianco latteo, chi d'un bianco niveo, chi d'un bianco d'avorio.... Ora tutto quel biancore mi è venuto a nausea. Il mio cuore e i miei nervi reclamano delle tinte più forti e fosche, del pimento più carico e più caldo.... I miei sensi reclamano.... un tenebroso amore! — E Manlio si passò una mano fine e «psichica» (come l'aveva un giorno definita una Americana dilettante di chiromanzia) si passò dunque la mano psichica sulle lunghe chiome ondulate che portava spazzolate indietro dalla fronte e gonfie in cima al capo, à la Pompadour.
L'amico — che aveva i capelli semplicemente castani e tagliati a spazzola — crollò la testa.
— Manlio, tu leggi troppa letteratura psico-analitica, — disse. — Queste inquietudini intellettuali morbose, questa ricerca di stranezze, diremo così cromatiche, le ho trovate già nei libri di.... — (ed enumerò vari autori moderni a cui io qui non desidero fare della réclame).
— Ti sbagli, — rispose Manlio. — Questa mia brama, questo mio struggimento ha una tutt'altra origine. Tu sai che quando ero in Libia le donne indigene, per me.... posso dire che non esistevano. Le avevo in orrore colle loro forme nere e le loro chiome lanose.... Ebbene, strano a dirsi, partendo, quasi non ero ancora a bordo che già provavo come un senso di rammarico.... che so io!, di rimpianto; come se avessi mancato qualche cosa, come se fossi passato accanto a un fiore senza coglierlo, a una sensazione senza provarla.... Allora quando l'altra sera il maggiore Hubert Elia mi lesse certi suoi bellissimi versi intitolati: «La Migiurtina»....
— Ah! vedi che c'entra la letteratura! — esclamò l'amico.
— .... questo rimpianto, questo desiderio retrospettivo, si acuì fino alla sofferenza.
«Chi t'ha foggiato in questa forma pura
Di bronzo antico, figlia del deserto?
Quale artefice l'agile cintura
Ti assottigliò con lo scalpello esperto?...»
citò Manlio, fervido e fremente.
— Ah sì, sì! bellissimo, — mormorò l'amico, che non amava la poesia.
«Ma tu sei tutta caldo bronzo aurato....».
— Di chi parli? — interruppe l'amico.
— Ti dirò. Questa specie di nostalgìa vaga, questo desiderio fluttuante e indefinito, da ieri si è fissato su un essere vivo e tangibile, ha preso forma materiale e umana....
— La forma di chi? — chiese l'amico.
— Stasera vedrai! — pronunciò Manlio misteriosamente (anche per mantenere tesa l'attenzione del lettore). — Vieni con me all'Alhambra. Trovati sulla porta alle nove precise.
E l'amico, il quale, s'intende, non ha mai nulla da fare per conto suo, accettò.
PARTE TERZA
(Il lettore dirà: — Il tipografo ha sbagliato. Qui doveva esserci la «Parte Seconda» non la terza.
Invece no. Poichè la letteratura d'oggi esige qualcosa d'inatteso e d'originale, io ho escogitato questo modo di stupire il lettore.
L'inversione! Fargli leggere prima la fine della mia opera — Parte Terza — e poi la continuazione — Parte Seconda. Basta questo semplicissimo mezzo per generare nella sua mente quella confusione necessaria a convincerlo che si trova di fronte a un capolavoro.
Dunque ecco la fine del mio racconto).
Dopo questo trasecolante avvenimento.... (il lettore non sa di quale avvenimento si tratti, ma appunto in questo sta l'interessante) si sparse per la città sul conto di Manlio una dicerìa macabra e misteriosa.
Donde nacque?... Chi l'originò?... Mistero. Ma il nefando sospetto serpeggiò, subdolo, da casa a casa, da ristorante a caffè, da strada a piazza. E un giorno tutti lo sapevano, tutti lo dicevano. Manlio De Luca aveva ucciso sua moglie!
— Ma perchè, perchè l'avrebbe egli uccisa? — gridava l'amico (di cui oggi la missione era di saperne meno di tutti gli altri), perchè? — E battendo coi pugni sul tavolino di marmo del Caffè più frequentato, urlava: — Perchè?
— Perchè Manlio è un poeta, e quindi un degenerato, — diceva l'uno.
— Ma se voi stessi, — ribattè l'amico, — ma se voi tutti avete sempre detto di Manlio che non era che un mezzo poeta. Quindi non poteva essere che un mezzo degenerato. E per uccidere la moglie bisogna essere un degenerato completo.
Su questo punto si fu d'accordo. Ma un altro suggerì:
— L'avrà uccisa perchè aveva quarant'anni ed era grassa.
— Ma lui ne ha quarantotto! — gridò sdegnato l'amico. — E se la signora Clotilde era grassa, non era più facile farle fare la cura Guelpa (Digiuno e Purga, Quintieri L. 3.50) che ammazzarla?
Vi fu un breve silenzio. Poi qualcuno disse:
— L'avrà uccisa perchè ella lo amava troppo.
— Mio Dio! — fece l'amico, abbassando le palpebre e inarcando le sopracciglia, — se dovessimo uccidere tutte le donne che ci amano troppo!...
— Eh.... già! — sospirarono tutti. E tutti abbassarono gli occhi e inarcarono le sopracciglia con un'aria di rassegnazione e di lieve stanchezza. E chi aveva i baffi se li arricciò.
— Non ha ucciso! No! Non ha ucciso! — gridò l'amico, alzandosi in piedi pallido e fremente.
E poichè tutti lo guardavano, egli per non diminuire l'effetto di quel momento drammatico, si calcò in testa il cappello, e cupo, a lunghi passi, colle spalle curve, lasciò il Caffè, dimenticando di pagare la consumazione.
E Manlio? Aveva egli davvero ucciso sua moglie? E se non l'aveva uccisa dove la teneva?
Da oltre due mesi nessuno aveva più veduto la signora Clotilde. È vero che la sua suocera, e anche qualcuna tra le sue amiche più intime, avevano ricevuto qualche biglietto da lei, o che almeno parevano scritti dalla sua mano. In queste brevi comunicazioni ella diceva:
« Non state in pensiero per me.... Sto bene.... Mi rivedrete un giorno.... ».
Ma questi oscuri messaggi non facevano che accrescere vieppiù i sospetti.
E intorno a Manlio, divenuto cupo, evasivo, impenetrabile, si addensò la fosca nube del sospetto.
E qui possiamo tornare indietro alla
PARTE SECONDA
La signora Clotilde non aveva un «Amico». Non aveva neppure un'amica a cui si sentisse disposta a confidare i suoi intimi pensieri.
— Io conosco le donne. Sono vipere, tutte quante! — diceva a sè stessa. E si rassegnava quindi durante le frequenti assenze di suo marito a dare alle sue considerazioni e ai suoi sentimenti una forma di semplice soliloquio.
Nel giorno stesso in cui suo marito recitava all'amico la poesia del maggiore Elia, ella — facendo in camera sua un po' di ginnastica svedese secondo le prescrizioni di un Manuale intitolato « Igiene e Bellezza Muliebre », — così rifletteva:
— Ho notato che Manlio.... (la signora Clotilde si alzò sulla punta de' piedi, allargando lentamente le braccia e respirando profondamente) uno.... era alquanto.... due.... eccitato iersera.... tre. Non so precisamente.... quattro.... se era per quella canzonettista belga.... cinque..... oppure per una di quelle.... sei.... spudorate femmine seminude... sette.... nei tableaux vivants.... otto.
La signora Clotilde abbassò le braccia e le calcagna e tornò in posizione di «riposo».
— Già non avrei dovuto permettergli di condurmi in un Café-Chantant, — riflette. — Viceversa, se non mi ci lasciavo condurre.... (la signora mise le mani sui fianchi, coi pollici in avanti e i gomiti bene all'indietro).... probabilmente ci andava da solo. E visto che era l'anniversario del nostro matrimonio.... Uno.... (la signora chinò il busto in avanti e roteò lentamente otto volte da destra a sinistra).... questo mi sarebbe spiaciuto. Due.... tre.... quattro.... Tutta notte è stato.... cinque.... inquieto.... sei.... e mormorava in sogno.... sette.... delle parole strane.... otto. — (Si raddrizzò). — «Sed Formosa!» L'ho sentito chiaramente pronunciare più volte quelle due parole: «Sed Formosa». Vediamo! L'epiteto «formosa» potrebbe applicarsi a me. Ma «Sed?» Che cosa mai vorrà dire «Sed»?
La signora tornò a chinarsi in avanti e riprese il suo esercizio girando lentamente il busto otto volte da sinistra a destra.
Quindi si sdraiò per terra rigida e supina.
— Forse era quel Tokay che bevemmo a pranzo al Savini. U-no.... — (la signora sollevò lentamente i piedi in aria) — du-e.... — (li riabbassò). — Io non ne presi che mezzo bicchiere.... U-no.... e subito sentii un non so che.... du-e.... come uno stordimento.... U-no. E lui bevette tutto il resto.... du-e.... Sì, sì. Era probabilmente.... U-no.... il Tokay.... du-e.
Finiti gli esercizi la signora Clotilde, sempre seguendo il Manuale d'Igiene, si fece una frizione di Acqua di Colonia, si spalmò sulla faccia del bianco d'uovo sbattuto, e si sdraiò sul letto per venti minuti cogli occhi chiusi.
« Rilassate completamente i muscoli e la mente », diceva il Manuale; ma ahimè! se alla signora Clotilde riusciva di rilassare i suoi muscoli, il suo cervello rimaneva teso nello sforzo di sciogliere l'enigma dell'agitazione di suo marito.
— L'anniversario delle nostre nozze, l'anno prossimo lo festeggeremo in casa, — si prefisse ella. Ma questa saggia risoluzione non bastò a tranquillizzarla sul conto del festeggiamento di ieri.
Ella ben conosceva il suo Manlio; le erano note le sue placide abitudini giornaliere e notturne. Il suo calmo e ritmico russare che dalle undici di sera alle sette del mattino accompagnava i loro sonni coniugali (e che talvolta negli anni trascorsi l'aveva stizzita ed irritata) era divenuto ormai per lei quasi una musica piacevole e tranquillizzante, un simbolo di sicurezza maritale.
Già qualche altra volta, quando questa sonora berçeuse si era per un breve intervallo interrotta, la signora Clotilde vigile e all'erta si era guardata d'intorno. La prima volta — ben se lo ricordava! — si trovavano con certe sue cuginette ai bagni di mare ad Alassio. Allora, senza indugio, aveva deciso che si andrebbe a finire le vacanze in alta montagna. La seconda volta ella non aveva fatto altro che licenziare una cameriera bionda e petulante.... ed ecco che la notturna musica da camera, col suo timbro tra il bombardone e il fagotto, aveva ripreso il misurato ritmo abituale.
Ora, anco una volta, era interrotta; la berçeuse era divenuta spasmodica e sincopata come un «bunny-hug» americano. Manlio per tutta la notte si era rigirato inquieto e febbrile nel letto, destandosi di soprassalto, con una scossa, da brevi sogni agitati.
Nel buio, al suo fianco, sua moglie silenziosa ascoltava e notava quei rotti sospiri, e si diceva:
— Clotilde!... in guardia!
Ora, di giorno, coi muscoli rilassati, cogli occhi chiusi e il bianco d'uovo sulla faccia, ella passava in severa rivista i ricordi della serata precedente, come un colonnello farebbe allineare davanti a sè i soldati tra cui volesse ravvisare un delinquente.
Ripassò mentalmente l'intero programma della serata.
I primi due numeri — causa il pranzo e il Tokay — non li avevano veduti; dunque si potevano escludere. Erano entrati nel loro palchetto a metà del terzo numero: « The Jolly Japs », una compagnia di equilibristi giapponesi; Manlio non li aveva neppure guardati; anche quelli erano dunque esclusi.
Il numero 4 era un baritono francese. Escluso.
Numero 5: « La blonde Aglaé », danzatrice. Manlio l'aveva guardata; aveva detto: — «Che rana! — e ritiratosi in fondo al palco aveva schiacciato un sonnellino. Esclusa.
Numeri 6, 7 ed 8, esclusi, perchè Manlio dormiva.
Numero 9: Canzonettista Belga. Manlio s'era svegliato di soprassalto, s'era affacciato all'orlo del palco; poi, ritraendosi, aveva acceso un sigaro. Poteva essere lei?... Mah!
Numero 10: Prestidigitatore Chinese. Escluso.
Numero 11: Cani ammaestrati. Esclusi.
Numero 12: Quadri Viventi Allegorici della Guerra Mondiale. Primo Quadro: « Gli Alleati affrontano la Tigre Germanica ». Niente. — Secondo Quadro: «La piccola Martire» (il Belgio). Niente. — « Il Sorriso della Vittoria ». Ah!... Vediamo. La Vittoria era tutta chiusa in un'armatura d'acciaio, e invero di lei non si vedeva, sotto l'elmetto rilucente, che il sorriso. Ora è difficile che un sorriso per quanto radioso, basti da solo a turbare.... No. Escluso anche il Sorriso della Vittoria. — « La Liberazione della Colonia Germanica Sud Africana ». Esclu.... Alto-là!
Della Colonia Germanica Sud Africana, rappresentata da una giovane negra che tendeva le braccia incatenate verso un gruppo di soldati alleati, non si vedeva il sorriso.... ma si vedeva quasi tutto il resto. Quelle braccia tese all'altezza del volto le celavano i lineamenti ma concedevano interamente allo sguardo del pubblico il corpo, quasi nudo, di un bel color mogano scuro. La linea di quel corpo, appena interrotta da una sciarpa rossa legata intorno ai fianchi, era perfetta; poteva anche dirsi conturbevole.... La signora Clotilde aveva creduto udire dietro di sè un piccolo fischio sommesso in scala discendente.... e s'era voltata di scatto. — Manlio? Cos'hai detto? — Ma Manlio non aveva detto niente. Allora la signora, china in avanti e movendo i piedi irrequieti, aveva esclamato: — Guarda un po' se vedi dove è andato a finire il mio sgabellino.... — E Manlio per tutto il tempo che aveva durato la Liberazione della Colonia Sud Africana era rimasto a brancolare per terra in cerca dello sgabello (ch'era poi sotto la sedia della signora Clotilde). Quando si rialzò, una bianca e grassa « Pace Imperante sul Mondo », reggendo una colomba imbalsamata aveva sostituita la Colonia Sud Africana che, probabilmente, era andata a rivestire di etiopici drappeggi le sue belle membra crepuscolari....
La signora Clotilde balzò dal letto. Che si chiamasse Sed Formosa quella femmina nera?
Ritrovò sul tavolo da toilette il programma. (Aprendolo notò che oggi vi era una matinée all'Alhambra). No. La negra non si chiamava Sed Formosa; si chiamava Alabama Loo.
— Del resto, — riflettè la signora Clotilde mettendosi le calze (ch'erano di seta fino ai ginocchi, e di cotone più in su) — quella donna non era affatto formosa. Lo sono assai più io.
Ciò che noi, pudichi lettori, ci asterremo dal constatare o contrastare.
La signora Clotilde scese mezz'ora dopo, e cercò suo marito nello studio. Non c'era. Sulla scrivania giaceva un libro aperto e la signora Clotilde si chinò a guardarlo. Commossa e stupita constatò ch'era la Bibbia: un'edizione bilingue, in latino a sinistra, in italiano a destra. Era aperta al Cantico dei Cantici.
Ed ecco che una parola nella colonna latina balzò, tonda come un molle pugno, agli occhi della signora Clotilde!
— Formosa! — Sì, sì.... ed era preceduta dalla paroletta: Sed. Lo sguardo di falco della signora viaggiò a ritroso e trovò la parola « sum », preceduta a sua volta dalla parola « Nigra ».
«Nigra sum sed formosa». Che cosa voleva dire? Guardò la colonna a destra e ne trovò la traduzione: «Non ti dispiaccia, amato mio.... ecc. Nera io sono ma bella! ».
Un grido sfuggì alle labbra della signora Clotilde. Manlio!... Dov'era?
L'intuizione la illuminò come una folgore: Manlio era andato alla matinée!
Le intuizioni non sono sempre esatte. Manlio non era alla matinée. La signora Clotilde, in agguato dietro una colonna nell'atrio dell'Alhambra, dovette convincersene vedendo vuotare la sala, e la folla che le passava dinanzi riversarsi sul Corso.
Ma subito un'altra intuizione la illuminò, mozzandole il respiro e facendole mancare i ginocchi. Manlio era colla negra! Era nel camerino della negra!... Ebbene — ci andrebbe anche lei.
. . . . . . .
.... La fecero aspettare parecchio in corridoio. Miss Alabama Loo non poteva riceverla. Stava svestendosi.
— Ma che svestendosi! — esclamò sdegnata la signora Clotilde. — Se era già svestita!
Dopo un quarto d'ora ribattè alla porta. Ancora no.... Miss Alabama si vestiva.
Tremando e ansando la signora Clotilde aspettò, dicendosi: — S'egli esce di lì deve passare di qui. S'egli non esce, entro io. E guarderò negli armadi!...
— Entri pure, signora — disse una donna affacciandosi alla porta. E la signora Clotilde entrò.
Vide subito che non vi erano armadi. Vide anche che non vi era Manlio. E vide infine che non vi era neppure la negra.
Una signorina bionda, alta e sottile, stava incipriandosi davanti allo specchio. Fremente la signora Clotilde si guardò intorno.
— Dov'è?... Dove sono?... — chiese con voce rauca e tremante.
— Dove sono chi? — domandò con amabile sorpresa la signorina.
— La negra.... e mio marito.
La giovane si fermò impietrita col piumino della cipria in mano. Che fosse pazza questa povera signora?
— Suo marito, non so. La negra.... sono io.
.... La signora Clotilde ebbe un breve accesso convulso, e fu premurosamente assistita dalla signorina e dalla cameriera. Riavutasi alquanto, spiegò le sue angoscie e i suoi sospetti alle due, che ridevano sgangheratamente.
La Colonia Sud Africana non era affatto bella, e la signora Clotilde si trovò quasi a desiderare che Manlio fosse qui a vederla. E poi non era neanche «nigra-sum», si disse la signora con sarcastico compiacimento.
Era una buona e semplice creatura contenta di parlare di sè e di rivelare alla elegante visitatrice tutti i segreti della sua toilette: una parrucca di lana nera, una bottiglia di liquido bruno, un vasetto di vasellina color caffè....
— Ma non sarebbe più semplice mettere una maglia scura, invece d'impiastricciarsi tutta a quel modo? — chiese la signora Clotilde.
— Magari! — esclamò la signorina. — Ma la Direzione non permette. Il pubblico se ne accorgerebbe subito.
— E non è difficile levare tutto quel colore?
— No, no; affatto. Con questa lozione — e la signorina additò una grande bottiglia quasi piena di un liquido incolore, chiaro come l'acqua, — si toglie tutto. È un preparato americano, meraviglioso! Guardi come lascia la pelle bianca e levigata. — E stese alla signora Clotilde una mano bianca e un braccio fine e candido. — Appena appena se le unghie restano un pochino scolorite....
In quel momento si battè alla porta.
La signora Clotilde sussultò.
— Manlio!...
Ma non era Manlio. Era un telegramma urgente. La signorina l'aprì, lo lesse e diede uno strillo d'esultanza:
— Parigi, Parigi! Sono scritturata a Parigi!... — E nella sua gioia abbracciò la cameriera. E quasi quasi avrebbe abbracciato anche la signora Clotilde se avesse osato. — Mi ha portato fortuna, mi ha portato fortuna! — esclamava stringendole le grassocce mani inguantate. Ma d'un tratto si fece seria e guardò di nuovo il telegramma. — Si va in scena il primo del mese. E oggi è già l'ultimo. Cielo! Per arrivare a tempo dovrò partire stasera col diretto delle nove.
— Ma è impossibile! — esclamò la cameriera, molto agitata anch'essa; — poichè qui andiamo in scena alle nove e quaranta.... — La cameriera non andava affatto in scena, ma quando si alludeva alle funzioni artistiche della sua padrona parlava sempre al plurale.
— E che importa? Credi ch'io voglia perdere la scrittura di Parigi per un'ultima rappresentazione qui? Vuoi dire che per questa sera troverò una sostituta; oppure si ometterà il quadro, e pagherò la penale. Sì, sì! Che cosa importa?... Pagherò la penale.
La signora Clotilde ebbe un lampo d'ispirazione. Drammatica e maestosa mosse un passo avanti.
— Voi non pagherete la penale. Vi sostituirò io!
Un momento di silenzio esterrefatto seguì questa dichiarazione; ma la signora Clotilde, a testa alta, nell'atteggiamento ispirato e solenne di Martire Cristiana entrante nell'Arena, ripetè:
— Vi sostituirò io. Io, Clotilde de Luca, nata Arpiggiani, di eminente famiglia bolognese, figlia di avvocato e nipote di sottoprefetto, comparirò stasera sul palcoscenico dell'Alhambra vestita unicamente di tintura marrone, di una sciarpa rossa, e di una parrucca di lana! Ah!... Ma questo sacrificio ch'io compio, questa immolazione dei miei più sacri istinti e delle più eccelse tradizioni della mia famiglia, avrà la sua ricompensa! Allorchè mio marito questa sera tornerà al suo focolare, tutto fremente della sua illecita passione, io gli andrò incontro colle braccia aperte, col sorriso sulle labbra: «Manlio! Colei che tu credi d'amare, colei che ti conturba i placidi sonni.... la «Nigra sum sed formosa», sono io!... Io che t'amo, e ti perdono!».
Questa prova generale di una scena così commovente turbò la protagonista stessa a tal punto che scoppiò in lagrime, e di nuovo toccò alla buona Alabama Loo e alla fida cameriera di calmarla. A dir vero, parevano anch'esse in preda a un accesso di commozione convulsa; erano rosse in faccia e ogni tanto si coprivano la bocca colle mani. Riavutesi tutte e tre, la cameriera, ancora colle lagrime agli occhi, interrogò la sua padrona: — Che cosa ne dice?
La signorina sfiorò cogli occhi la persona breve e tondeggiante della signora Clotilde. — Dico ch'è un'idea magnifica!
— Ma, — fece in uno scoppio la cameriera, — il direttore non consentirà mai!
— Ma che! — esclamò Miss Alabama. — Non ha bisogno di saperlo.
— Già!... che non se ne accorgerà! — strillò la cameriera, dimenandosi convulsa.
— Se ne accorgerà troppo tardi, — singhiozzò Miss Alabama, coprendosi il viso. — Noi saremo già in treno.... lontane.... Del resto, a lui importerà poco, visto che è l'ultima sera dei Quadri Allegorici....
Furono impartite accuratamente alla signora Clotilde le istruzioni necessarie per l'uso del liquido bruno, della vasellina marrone, della cipria color caffè; e della lozione americana decolorante. Si fecero delle prove, che riuscirono perfette, sulla faccia della cameriera e sulle braccia di Miss Alabama. E poi anche sulle mani della signora Clotilde.
La signora Clotilde ringraziò Miss Alabama, Miss Alabama ringraziò la signora Clotilde.
Si lasciarono con un abbraccio.
. . . . . . .
— Chi m'avesse detto che avrei baciato Alabama Loo!... — riflette la signora Clotilde andando a casa in carrozzella.
Quella sera Manlio, tornando a casa verso le sette, trovò sua moglie incappellata e ammantellata, pronta ad uscire.
— Pranzo in casa di mia nipote (la figlia del sottoprefetto!) — spiegò la signora ad occhi bassi, mettendosi i guanti. — Capirai, non potevo rifiutare.... Non aspettarmi prima delle undici.
— Oh, guarda un po', — fece Manlio, — come capita bene! Io per l'appunto stasera devo uscire....
— Ah, devi uscire? — fece ella, subdola, sogguardandolo.
— Ho da trattare un affare, — rispose disinvolto Manlio.
Un lampo passò negli occhi della signora Clotilde. — Te lo tratterò io l'affare, — disse tra sè e sè.
E uscì.
Manlio pranzò solo, con placido godimento, poggiando alla caraffa dell'acqua il giornale della sera.
Alle nove si trovò davanti alla porta dell'Alhambra dove l'amico, come d'accordo, l'aspettava.
. . . . . . .
La Colonia Sud Africana ebbe quella sera un grande successo d'ilarità e d'applausi; e nella Direzione del teatro si decise, seduta stante, di continuare la serie dei Quadri Viventi, sostituendo però ai Quadri Viventi Allegorici una serie di Quadri Viventi Umoristici — visto che il pubblico pareva dilettarsi ancor più al comico che all'estetico.
Ma nella sala, Manlio, sprofondato nella sua poltrona accanto all'amico, esclamava sbigottito:
— Misericordia!... Che orrore!... Che orrore!... — E si batteva coi pugni la fronte. — Ma cosa avevo io iersera?... Le traveggole?... O allora che cosa diavolo m'avevano messo in quel Tokay?...
PARTE QUARTA
La signora Clotilde, intontita dal successo e dall'abbaglio dei lumi della ribalta, ritornò barcollante verso il suo camerino. Percorse coi neri piedi scalzi il dedalo degli stretti corridoi, aprendo molte porte che non erano la sua, e gli artisti — chi più o meno vestito, chi più o meno spogliato — salutarono con urli di protesta o con strilli d'ilarità la sua breve apparizione sulla loro soglia. Finalmente aprì una porta — N. 12 — che era la sua: ma si ritrasse ella stessa con un grido, vedendosi confrontata da una fosca e spaventosa apparizione.... Poi s'avvide che era la psiche che le rimandava la sua propria imagine.... e sorrise.
Ma il sorriso bianco in quella faccia color cioccolata le fece una penosa impressione, e si affrettò a volgere le nere spalle allo specchio. Si tolse di testa la parrucca di lana nera che le dava un caldo insopportabile; indi, seguendo appuntino le istruzioni di Miss Alabama, si dedicò alla delicata impresa del « démaquillage ».
Prese un grosso batuffolo di ovatta e vi versò qualche goccia di liquido trasparente. Anzichè cominciare dal viso, volle, per prudenza, provarselo prima su una gamba.... la sinistra....
Benissimo!... Constatò con gioia che, dovunque passava il batuffolo bagnato, il magnifico colore nocciola scuro spariva subito, lasciando trasparire a strisce la naturale tinta carnicina. Quando il cotone fu tutto nero e la gamba tutta bianca, la signora Clotilde gettò in un angolo il batuffolo usato e ne prese uno nuovo. Aveva appena afferrato la bottiglia del liquido, quando udì battere alla porta.
— No! — strillò la signora Clotilde, — no!
Ma la porta ciononostante si aprì, e un signore col cappello in testa entrò con passo risoluto. Era il Direttore in persona che veniva a chiedere spiegazioni alla ignota sostituta di una delle sue artiste.
Con un urlo la infelice signora Clotilde, ricordando di essere nipote di un sottoprefetto, volle nascondere a quell'intruso le sue bicromatiche forme. Fece un balzo all'indietro, vacillò, scivolò...., la bottiglia — la preziosa bottiglia del liquido Americano! — le cadde dalle mani e andò a frantumarsi in mille pezzi in un angolo sotto lo specchio.
Allora una sequela di frenetici strilli riempì di stridore il camerino e i corridoi. Il Direttore, non comprendendo la gravità del disastro, si turò le orecchie colle mani:
— Ma cos'hai da strillare, cretina? Credi forse che mi commuova la vista delle tue gambe.... Per me, oramai, gamba più, gamba meno....
. . . . . . .
L'intera Compagnia si radunò intorno al camerino N. 12, con consigli e suggerimenti. La signora Clotilde, avviluppata in un ampio accappatoio prestatole dal baritono, tremava e piangeva in un angolo, presentando invero lo spettacolo della più.... nera disperazione.
Tutti offrivano consigli, unguenti, vasetti, bottigliette. Si provò a strofinarla colla vasellina, colla lanolina, colla benzina, col sapone al pomice, col sale e il limone.... I Giapponesi suggerirono una mistura d'alcool e di latte caldo. Il padrone dei cani ammaestrati suggerì la terebentina collo spirito canforato. Nulla valse....
La signora Clotilde fu portata a casa in carrozza, accompagnata dalla canzonettista Belga che aveva buon cuore, e dalla Pace Imperante sul Mondo che aveva voglia di ridere.
Si telegrafò a tutti i Cafè-Chantants di Parigi, chiedendo nuove di Alabama Loo. Invano. Certo ella aveva cambiato nome e colore.
Si fecero richieste in tutte le farmacie americane, si telegrafò a New-York, a Washington e a Chicago. Invano.
. . . . . . .
Lugubre, truce, colla sua faccia nera e la sua gamba bianca, la signora Clotilde, chiusa in due camere, aspetta fosca e depressa la lenta azione del tempo.
E infatti, adagio, a poco a poco, col passare dei mesi, la tinta va lievemente rischiarandosi. Dal caffè moka scuro ha preso qua e là una tinta khaki.... e si spera che forse, tra un anno o due anni....
. . . . . . .
Una profonda malinconia incombe sulla casa, interrotta a rari intervalli da improvvisi e pazzeschi scoppi di risa.... È l'Amico (l'unico ammesso in quella tragica dimora) che tratto tratto non sa frenare la sua crudele, spasmodica ilarità.
E contemplando Manlio, — sprofondato nella sua disperazione, sfuggito dai suoi simili, temuto dalle donne, sospettato d'uxoricidio — egli talvolta mormora sommesso:
— L'hai voluto!... L'hai voluto un tenebroso amore!
IV. Fata luminosa
La Fata Luminosa sono io.
Questa dichiarazione può sembrare mancante di modestia. Infatti, scrivendolo, arrossisco.
Tuttavia, trattandosi di narrare una storia che ha la sua brava morale, la racconto tale e qual'è.
E forse a Lola farà piacere.
Incontrai Lola in montagna. L'estate era stata torrida, ma io, occupata a scrivere degli articoli illustranti la barbarie della perfida Albion, non me ne ero accorta. Un giorno alzando gli occhi per caso al calendario m'avvidi che l'estate era già lontana. Ed io non ero stata in campagna! Non ero stata, come ogni anno, a 1000 o 2000 metri d'altitudine!
— Dov'è la più vicina montagna? — chiesi a chi mi stava accanto, mettendomi in fretta il cappello.
— Macugnaga, — mi fu risposto.
— Avanti. Vado a Macugnaga. Addio a tutti.
Invano si protestò che Macugnaga in ottobre sarebbe vuota, che a Macugnaga sarei gelata....
Partii.
Il sole d'ottobre — il più bel sole dell'anno — raggiava in un cielo di lapislazzuli quando arrivai lassù, e i ghiacciai del Monte Rosa fumigavano abbaglianti e le valanghe balzavano e rotolavano tonando, come per un foot-ball di giganti.
E Macugnaga era vuota.
Meglio così. Tutta questa gloria di sole e di neve era per me, per me sola.
Ma facevo i conti senza l'oste: l'oste di Macugnaga chiudeva i suoi alberghi, e se non volevo dormire nelle pinete o sul ghiacciaio, dovevo scendere con lui al piano.
Scesi; ma il meno possibile. Mi fermai a mezza montagna, a Ceppo — ridente villaggetto che si posa come una driade montana, con un piede sul pendìo e l'altro nel torrente — e presi alloggio nel piccolo Hôtel des Alpes, presso la signora Maria. (Signora Maria! se voi leggerete questo racconto, sentitevi nel cuore il mio saluto).
E a Ceppo conobbi Lola. Passando un meriggio accanto alla scuola, la vidi, circondata dai suoi venti o trenta bambini, che tutti le strillavano qualche cosa. Lei non rispondeva. Teneva fissi su me gli occhi, occhi immensi, neri, ardenti.
Le dissi qualcosa; ella si fece rossa e poi pallida e mormorò il mio nome. Mi parve lusinghiera, sebbene esagerata, la sua commozione.
Nel pomeriggio venne a trovarmi. Mi portò molti fiori. Era magra, esaltata, febbrile.
E nel villaggio mi dissero: — Ah, la maestrina? Poveretta! va consunta.
Anche lei me lo disse un giorno, ansando un poco: — Vado consunta. — E nella sua voce vi era insieme una grande paura e un certo romantico compiacimento. — L'hanno detto tutti; anche i dottori di Milano; e il dottore di qui, che mi fa delle iniezioni. È tutto inutile! Vado consunta.
Io ne ebbi grande dolore e pietà. Quando salivo correndo per la montagna, al sole e al vento, pensavo a lei, e mi dicevo: — Povera Lola, che non può!... — Perdendomi nei boschi d'abeti, arrampicandomi per l'arida morena, traversando il torrente e scivolando sui sassi levigati e bagnandomi fino alle ginocchia nella gelida acqua, arrivando infine alla croce sul ghiacciaio e guardandomi intorno, col mondo ai miei piedi e soltanto il cielo sopra di me, pensavo: — Povera Lola!... povera Lola che non deve muoversi, che non deve stancarsi....
E ad ogni cappelletta, ad ogni crocifisso sull'orlo delle vie alpestri mi fermavo a dire una piccola preghiera perchè Lola guarisse; ad ogni Madonnina ammantata d'azzurro, impallidita dal sole e dalle pioggie, sussurravo piano: — Oh Madonnina, fate guarire Lola.
Ma in fondo al cuore sapevo che Lola non poteva guarire.
Lola si aggrappò a me con un affetto febbrile e appassionato. Ad ogni passo la incontravo, ferma a guardarmi con quegli occhi troppo lucenti. Le bambine della scuola avevano tutti i momenti ricreazione perchè la maestra doveva uscire; lieve e lenta passava davanti alla bianca porta e sotto alle verdi finestre dell'Hôtel des Alpes.
Allora, un giorno, l'invitai ad entrare.
Poi l'invitai a rimanere; ed ella passò i suoi pomeriggi sdraiata sul divano a guardarmi scrivere; talvolta, in pieno sole, uscivamo entrambe sul terrazzo. Non permettevo che mi parlasse. Era l'ora in cui le veniva la febbre; aveva le guance infocate, le mani brucianti: e i brevi capelli neri le si arricciavano sulla fronte sudata.
Sempre, quando arrivava e quando partiva, io la baciavo. Ed ogni volta che la baciavo, lei mi diceva:
— Grazie!
Venne il novembre, e il sole si ritirò da Ceppo; si ritirò con garbo, un poco ogni giorno, allontanandosi gradatamente dal villaggio come un amante infedele che medita un tradimento.
— Ora per tutto l'inverno il sole in paese non verrà più, — disse la signora Maria. — Tornerà in aprile. E spero che allora, — soggiunse, china ad aiutarmi a chiudere la valigia, — tornerà anche Lei!
— Anch'io lo spero, — dissi con un sospiro, pensando come di rado mi sono concessi i ritorni.
Tutto il villaggio si radunò davanti alla Posta per salutarmi alla partenza; soltanto Lola non c'era.
Io avevo prescelto di fare a piedi i dieci o dodici chilometri di via maestra che scendono allegramente a valle tra rocce e abeti; e alcuni dei miei nuovi amici mi accompagnarono per un tratto di strada. Ma già tutti se n'erano tornati indietro al villaggio allorchè, a uno svolto, vidi Lola seduta su un tronco d'albero ad aspettarmi. Aveva le braccia piene di fiori e gli occhi pieni di lagrime. (Non mi piacciono nè le lagrime quando sono per me, nè i fiori quando sono colti).
— Non dovevate venire così lontano, — la sgridai. — Come farete ora a tornar su?
Tremava tutta. — Addio, addio! Non La scorderò mai, — disse. — Ella è stata per me.... una fata luminosa!
— Che esagerata! — risi, baciandola.
E lei subito mormorò il suo solito — Grazie!
— Addio, Lola. Andate a casa. Badate di far giudizio. E mangiate molte uova.
— Addio, Fata Luminosa, — singhiozzò lei.
E la lasciai così — sola, in mezzo alla strada maestra; piccola e scura sullo sfondo del Monte Rosa, col suo male e la sua malinconia. Ricordo che dopo qualche chilometro — e i fiori ciondolavano le teste di qua e di là, stanchi d'essere portati come io di portarli — passai davanti a una piccola cappella. Mi fermai a guardare. Dentro, una Madonnina sorrideva in atteggiamento assai mite, quasi le rincrescesse d'aver messo per errore il piede sulla testa del serpente. Sette stelle le incoronavano il capo.
Le posi sul davanzale i fiori. — O Madonnina dalle Sette Stelle! — pregai. — Fate guarire Lola.
E ripresi la via.
. . . . . . .
Il destino mi trasse lontano, e Lola era già da un pezzo scordata, quando mi giunse a Parigi (rispeditomi dal mio indirizzo «stabile» di Milano, dove non mi trovo mai) una cartolina. Era scritta in una grande calligrafia chiara e infantile; e diceva:
« Fata Luminosa!!... Noi siamo ventinove bambine che le vogliamo bene. La nostra maestra ci parla sempre di lei. Andremo questa primavera a cercare le viole nei boschi per lei »!
Sorrisi. Come era sentimentale e romantica Lola!... Con una cartolina ringraziai collettivamente le ventinove bambine; che a loro volta mi risposero con un'altra cartolina. Nella stessa calligrafia grande e tonda cominciava anche quella, al solito:
« Fata Luminosa! ».
(Mi sembrò che il portiere dell'albergo presentandomela avesse un piccolo sorriso).
E in primavera mi giunsero le viole. Ogni otto giorni arrivavano delle scatolette di cartone schiacciate, piene di muschio — talvolta ancor umido — su cui posavano pallide ed avvizzite delle violette boschive. Mi seguivano da Milano a Roma, da Roma a Genova, da Genova a Montecarlo, da Montecarlo a Parigi.... Un giorno di nebbia nera a Londra, al mio ritorno da un tragico viaggio in Irlanda, ecco sul mio tavolo il solito pacchettino sgangherato, con dentro i cadaverini di viole mammole. Tutta una piccola primavera morta!
Le gettai via con impazienza.
Ma nel cuore me ne rimase, lene e lieve, il profumo.
Alfine la mia felice ventura mi ricondusse in Italia. Ed ecco che un giorno mi venne annunciata una visita. Sospirai, ed entrai nel salotto.
In un angolo sedeva una figuretta, una figuretta esile sotto un grande cappello di feltro. Si alzò e mosse con passo trepido verso di me.
— Fata Luminosa! Non mi riconosce?
Era Lola. Una Lola rosata, abbronzata, ingrassata.
— Ma Lola! Come state? Ma state meglio, molto meglio!
— Sono guarita, — disse Lola. — Peso quarantanove chili. — Per Lola è l'obesità, poichè a Ceppo ne pesava trentasette. — E lo devo alla Fata Luminosa.
— Silenzio! Non siate sempre così esagerata, — dissi severamente. E l'abbracciai.
Notai che stavolta non mi disse grazie.
— Sono guarita, — disse; — e lo devo a Lei che mi ha incuorata e consolata; a Lei che non aveva paura di baciarmi; a Lei che....
— Lo dovete alle uova. E alle iniezioni del dottore. — E in cuor mio soggiunsi: — E alla Madonnina delle Sette Stelle.
Lola chiese ed ottenne una licenza di due mesi dalla sua scuola. E quei due mesi li passò con me.
Parlandomi, o parlando di me, essa mi chiamava invariabilmente: «Fata Luminosa». Non ci fu verso di farla smettere. E — devo confessarlo? — da principio questo nomignolo mi lusingava deliziosamente. Quando per la casa mi udivo chiamare così, accorrevo lieta e sorridente. E a poco a poco anche gli altri in casa — un po' per ridere di Lola, un po' per prendersi gioco di me — cominciarono tutti a chiamarmi con quell'appellativo.
.... Ebbene, se io dovessi dire quale martirio, quali sacrifici m'impone oggi quel nome, non mi si crederebbe.
Vengono dei momenti nella vita, dei momenti nella giornata in cui non si è, nè si vuol essere, una fata luminosa. Quando si ha molto da fare, quando si ha fretta, quando le cose non vanno pel loro verso, quando si è nervosi e contrariati, allora è odioso, è insopportabile sentirsi dare della fata luminosa.
«Fata Luminosa!». Con queste due esecrabili parole Lola mi ha amareggiata l'esistenza. Un tempo io facevo press'a poco ciò che mi garbava. Al mattino mi alzavo quando mi pareva; mi vestivo come mi piaceva; quando aveva voglia di ridere, ridevo; quando avevo voglia di far bronci, li facevo. Ora non più.
Ora, all'alba, prima ancora ch'io abbia aperto gli occhi, mentre lo spirito è voluttuosamente inabissato nelle lontane, vellutate profondità del sonno, odo al mio capezzale un saluto alacre e festoso:
— Ben svegliata, Fata Luminosa!
Allora mi tocca aprire gli occhi e abbozzare un sorriso il più possibile luminoso; mi tocca rispondere a tono — non con un inarticolato brontolìo, ma giuliva come risponderebbe una fata desta all'aurora:
— Ah! buon giorno! buon giorno!...
Alzata di malavoglia nel grigiore mattutino, infreddolita e lugubre, penso di indossare una certa vestaglia di flanella regalatami da mia suocera (che disprezza le apparenze) e infilare i piedi in un paio di pantofole paleontologiche, ma che serbano i resti d'una fodera di pelliccia. Così, appuntate le chiome à la sans-façon, apro la mia porta per dire che mi si porti il caffè-latte. Lo prenderò, sola, con un certo «confort», leggiucchiando il giornale.
Ma ecco le voci dei familiari che da lungi mi salutano: — Ti aspettiamo, fata! — E il trillante soprano di Lola che esclama:
— Ah! ora viene la fata!... la Fata Luminosa!
Richiudo la porta. Getto uno sguardo nello specchio e mi convinco che, lungi dal sembrare una fata, somiglio piuttosto (come direbbe la mia toscana amica, Pia) a «Quella che diede la via ai fulmini!...»
Con ira getto lungi da me la vestaglia di flanella, scaglio una dietro all'altra, fuori dei piedi! le pantofole colla pelliccia; mi vesto, mi calzo, mi profumo.... e mi presento con un sorriso estatico alla soglia della sala da pranzo.
— Ah! eccola la fata! La Fata Luminosa!
La morale? Sì, al principio di questo racconto vi ho promesso una morale.
Eccola. Se tu, caro amico sconosciuto che mi leggi, hai la fortuna di avere nella tua casa una donna — sia essa moglie o sorella, suocera o cognata, zia o nipote; sia essa allegra o arcigna, indulgente o rigida, angelo o megera — tu prenderai l'abitudine di dirle, e lo dirai tutti i giorni, incessantemente:
— Ah, Clelia! (o Sofia, o Luisa, o come del caso), tu sei invero una fata luminosa!
Basta questo semplice mezzo perchè la tua casa divenga un paradiso.
Quando la vedi un poco torva, un poco severa, quando la senti litigare coi fornitori, gridare colla cameriera, dare gli otto giorni alla cuoca, assestare qualche scappellotto ai bambini strillanti.... presto, prima che venga il tuo turno, hop-là! senza por tempo in mezzo, apri la porta e chiama con voce soave:
— Sei tu, mia Fata Luminosa?
Ella ti dirà: — Sì. Sono io. — (Perchè non può dirti: — No, non sono io!).
E nove volte su dieci la bufera si dileguerà.
Ma questo non è tutto. Nove volte su dieci quell'appellativo la indurrà non soltanto a comporsi un'espressione intonata all'epiteto; ma inclinerà anche la sua anima alla blandizia.
A poco a poco, ella prenderà la consuetudine — direi quasi il vizio — di essere adorabile e adorata, di effondere intorno a sè luce e letizia, di sentirsi il sorriso sempre presso alle labbra, la carezza sempre dentro alla mano, e la bocca sempre «di perle piena e di rose e di dolci parole».
.... Così, quasi per incanto, pronunciando queste due parole evocatrici di raggi e di lucentezze, ecco che il mondo intorno a noi si riempirà tutto di fate luminose.
V. Quella che Landru non uccise
Parigi, 26 Novembre.
.... Uscivo questo pomeriggio dalla Direzione del Matin, dove ero andata a salutare l'amabile De Jouvenelle e la sfolgorante Colette, allorchè il vecchio usciere — un sorridente cerbero che conosco — mi fermò, e additandomi una donna che in quel punto scendeva le scale uscendo dagli uffici di redazione, susurrò misterioso: — Sa chi è quella signora?
Io non lo sapevo; ed egli, abbassando ancor più la voce, mi informò:
— È quella.... che Landru non uccise!
— Landru! — Subito mi si affacciò alla niente la imagine del terribile uomo supposto uccisore di almeno dieci donne. Tratto in arresto per una frivola mancanza (faceva un breve viaggio senza biglietto) ecco che venne alla luce la più mostruosa serie di delitti che sia mai stata attribuita ad un essere umano. Una donna che era partita con lui non era più tornata; una seconda donna ch'egli aveva condotto nella sua villa a Gambais, non aveva più dato nuove di sè; una terza donna ch'egli aveva promesso di sposare era sparita.... E così via. Il Matin pubblicò il suo ritratto, e da ogni parte di Parigi affluirono alla redazione di quel giornale e all'ufficio della Sûreté lettere, telegrammi, ricerche di parenti d'altre donne che, partite col sorridente Barbableu, non erano mai più ritornate.
Gli abitanti del villaggetto di Gambais (a un'ora da Parigi) lo vedevano arrivare ogni poche settimane sempre con una compagna nuova ch'egli installava con affettuose premure nella solitaria villa. E per alcuni giorni i passanti scorgevano quella donna, ignara e lieta, aggirarsi nel giardino, cogliendo fiori o seduta all'ombra degli alti alberi secolari.
Per ben dieci volte Landru aveva fatto il viaggio da Parigi a Gambais in lieta compagnia, prendendo — particolare trasecolante! — un biglietto d'andata e ritorno per sè, e un biglietto di sola andata per la sua compagna! Quelle giovani donne erano tutte eleganti; molte portavano ricche vesti e preziosi gioielli.... Poi da un giorno all'altro, non si vedevano più.
Ciò che si vedeva era, al calar della notte, delle nuvole di fumo denso e giallastro uscire dai camini della villa; un fumo così acre e fetido che i contadini passando esclamavano tra loro: — Ma che orrenda cucina si fa mai in quella casa! — (Orrenda cucina, invero!)
Ciò che si vedeva — o qualcuno almeno dice di averlo veduto — era una misteriosa automobile chiusa, che nelle notturne ore s'avviava dalla villa verso lo Stagno delle Brughiere — un'acqua viscida e profonda sull'orlo di un bosco vicino....
— Quella che Landru non uccise!... — Non stetti ad ascoltare di più; scesi rapida dietro la snella figura che già spariva allo svolto della scalinata. Volevo vederla, questa donna scampata da una morte così atroce; volevo vedere se il suo viso portava le traccie del passato terrore.
Giunsi quasi contemporaneamente a lei nel grande vestibolo, ed ella, uscendo, si volse a tenere con atto cortese la porta aperta dietro di sè.
Pioveva; sul boulevard Montmartre passavano frettolosi i viandanti sotto gli sgocciolanti ombrelli; in mezzo alla via correvano veloci le carrozze tutte occupate.
La mia automobile stazionava vicino al marciapiede.
Mi volsi e guardai quella donna che, senza ombrello, ferma sullo scalino del Matin pareva incerta se avviarsi o no; non era bella, ma aveva un viso estremamente interessante e due grandi occhi scuri, mobilissimi. Seguendo l'impulso del momento io le rivolsi la parola.
— Vuole ch'io la conduca.... quelque part?
Ella mi guardò un po' stupita e non rispose subito. Indi chiese repentina: — Lei appartiene alla redazione del Matin?
— Sono scrittrice, — risposi evasivamente.
— Ah! — vi fu un attimo di pausa. — E.... sa chi sono io?
Allora, guardandola fisso, io ripetei la frase dell'usciere.
La donna si volse di scatto e un'espressione indefinibile le passò sul volto. Era come un tic nervoso che per un attimo le sconvolse i lineamenti.
— Ah!... — fece di nuovo. E tacque.
In me la smania dell'esplorazione psicologica era nata, e s'agitava.
— Venga a prendere il thé con me al Grand Hôtel, — dissi, seguendo l'impulso irrefrenabile dello scrittore davanti ad un'anima nuova, ad un'esperienza nuova.
— Che strana idea! — esclamò lei, e rise. Aveva un sorriso bellissimo; ma non era un sorriso consenziente; anzi, vidi i suoi occhi vagare inquieti per il boulevard, come s'ella meditasse la fuga..
D'improvviso mi balzò nel ricordo un consiglio datomi un giorno a Roma da un eminente personaggio diplomatico: «Se mai volete ottenere qualche cosa da qualcuno», mi aveva detto lui, «ricordatevi di guardarlo fissamente in mezzo agli occhi: proprio tra le due sopracciglia! Quindi esprimete lentamente e con ferma volontà il vostro desiderio. Vedrete che nove volte su dieci riuscirete nel vostro intento».
Allora io, ferma su quel trottoir parigino, incurante dei passanti, fissai con intensità ipnotizzante quella sconosciuta; la fissai nel centro della fronte tra le due sopracciglia nere, e ripetei il mio invito.
Ella ebbe uno strano gesto delle spalle, un istante d'esitazione.... Indi accettò.
Il foyer del Grand Hôtel era pieno di una folla cosmopolita, profumata e mormorante. L'orchestra suonava dei languidi «Hesitations» e dei sussultanti «Shimmy-shakes». Trovammo una tavola appartata in mi angolo, tra fronde e fiori; e ci venne servito il thé.
— Volete aprirmi per un istante la vostra anima? — diss'io.
La donna volse su me i suoi occhi un poco spiritati. Aspettava.
Ed io l'interrogai.
— Foste amata da.... quell'uomo?
Ella chinò il capo in segno di affermazione.
— Che cosa vi siete detta quando scopriste che era un assassino?
Un attimo di silenzio. Indi ella disse lentamente, deliberatamente: — Io lo sapevo già.
— Lo sapevate!... Quando?
— Prima di andare da lui. Mademoiselle Marchadier, quella ch'egli.... — la voce cadde d'un semitono.... — ch'egli strozzò e bruciò, era una mia amica.
— Voi sapevate.... sapevate ch'egli l'aveva uccisa?
— Lo immaginavo. Essa mi aveva fatto delle confidenze molto strane. Poi era sparita. Nessuno aveva più saputo nulla di lei.
— Ma allora.... — E mi mancò la voce per continuare.
Gli occhi spiritati si fissarono su me con una espressione stranissima. — Già. Allora sono andata lo stesso da lui.
— Ma voi.... siete dunque un'isterica? siete una pazza? — esclamai.
— Può darsi. — E la sconosciuta si strinse nelle sottili spalle. — Siamo tutte un poco squilibrate, noi donne oggigiorno. Non trovate?
Io non rispondo. Contemplo smarrita e stupefatta questa enigmatica creatura; e guardandola negli occhi mi pare di guardare nelle torbide acque di quello Stagno delle Brughiere che nasconde tanti orrendi misteri.
L'orchestra frattanto intona un malinconico valzer e la mia vicina si volge subitamente a me.
— Volete proprio guardare nella mia anima? Ebbene....
Colle labbra pallide e le mani strette convulsivamente in grembo essa mi fa il seguente racconto:
— Sappiate che io ho sempre avuto orrore di tutto ciò che è consueto, usuale, terre-à-terre.
Il mio sogno era di vivere una vita stravagante e fuori del comune. Sognavo delle avventure fantastiche, degli amori bizzarri.
Invece parve che la mia esistenza dovesse scorrere sulle grige linee della più tediosa convenzionalità. Mio padre era notaio in un piccolo villaggio, ed io, la maggiore di quattro sorelle, avevo, a quanto pare, un certo talento per la musica. Fatto sta che quando ebbi sette anni mia madre cominciò ad insegnarmi il pianoforte. Si principiò col Diabelli; poi venne lo Czerny; poi il Cramer; poi le mazurke di Chopin.... Alla terza mazurka mia madre morì.
La maggiore delle mie tre sorelline aveva allora otto anni; e mio padre volle ch'io le insegnassi la musica. Così ricominciai da capo col Diabelli, col Cramer, collo Czerny.... Quando fummo alle mazurke di Chopin, mia sorella sposò il farmacista del paese.
Le altre due sorelle avevano allora nove e dieci anni; ed ecco che si dovette ricominciare anche con loro il Diabelli, il Cramer....
Stavolta, arrivate allo Czerny io scappai di casa col figlio del sindaco, e venni a Parigi.
E qui speravo che cominciasse per me la vita strana e avventurosa che avevo tanto sognato. Ma quasi subito il figlio del sindaco mi lasciò, ed io, per poter sussistere, dovetti cercare delle altre bambine che volessero imparare il Diabelli, il Cramer, lo Czerny e il Chopin.
Disgustata della vita sognai di morire. La morte almeno me la potevo scegliere e foggiare a piacer mio.
— Ah, vivaddio! — dissi un giorno alla mia amica, Céline Marchadier; — la vita è quella che è. Ma la morte è quella che noi vogliamo. Io voglio trovare pel grigio dramma della mia vita un finale inedito!
Ella rideva; e mi rimproverava d'essere romantica ed esaltata. Aveva una piccola anima borghese, Céline. E colla sua piccola dote borghese s'apprestava a trovare una calma felicità nel matrimonio.
Aveva infatti incontrato il fidanzato dei suoi sogni: una onesta persona, con modi corretti, con barba rassicurante, con villa in campagna.... Landru!
Céline partì un giorno per la villa di Gambais col suo fidanzato; mi disse che sarebbe ritornata la settimana seguente.
Non la vidi mai più.
Ricevetti da lei una strana lettera:
«Questa villa», diceva essa, «è lugubre. La parete della mia camera, accanto al mio letto, è tutta chiazzata di macchie scure.... Il giardino mi fa orrore. Figurati che in un angolo, sotto a delle foglie secche, ho visto due cani e un gatto morti; avevano tutt'e tre intorno al collo uno spago, quello spago impeciato che adoperano i calzolai.... Ce n'è molto in questa casa di quello spago....».
Una seconda lettera, datata il giorno seguente, diceva:
«Credo che quest'uomo sia un maniaco! Tutto il giorno mi ha fatto raccogliere delle foglie secche e portarle nella cucina.... Domani torno a Parigi».
E un terzo messaggio mi giunse da lei; era una cartolina tutta sgualcita ch'io stessa le avevo scritto: ella aveva cancellato a matita l'indirizzo e riscritto il mio; le parole erano quasi illeggibili. La carta era infangata come se fosse stata gettata sulla strada, e poi raccolta da qualcuno e impostata. Diceva:
«Vieni, vieni subito! È pazzo. Sta accendendo un gran fuoco.... Ho paura».
Immediatamente, con una mia vicina e suo figlio, partii per Gambais. Trovammo la villa chiusa e silenziosa. Nel villaggio nessuno sapeva nulla.
L'indomani e l'indomani ancora, tornai sola a Gambais, ma il cancello del giardino era sempre chiuso.
Una terza volta, in un grigio pomeriggio di marzo, feci da sola quel viaggio; e già me ne tornavo via, scoraggiata e depressa, allorchè sulla strada solitaria che conduce alla stazione mi trovai d'improvviso faccia a faccia con un uomo. Era lui!
Lo riconobbi subito. Era tal quale Céline me lo aveva descritto.
Mi fermai, come paralizzata; senza respiro. Quell'uomo mi guardò in faccia — non so dire l'impressione di ribrezzo e insieme d'orribile attrazione che provai. Rimasi ferma a guardarlo, e un gran freddo mi correva come una serpe viva per la schiena.
— Buona sera, — disse lui. — Cercate qualcuno?
Aveva una voce stranamente morbida e bassa.
— Sì, — balbettai; — cercavo.... volevo.... delle notizie di Céline Marchadier.
Vi fu un attimo di silenzio. Poi quell'uomo si avvicinò di un passo.
— Io posso darvene, — disse, — se volete entrare nella mia villa....
Io volevo gridare, volevo fuggire. Già mi vedevo correre urlando per quella strada solitaria, inseguita da questo spaventevole uomo, pazzo ed assassino.... Ma egli mi teneva ferma, come catalettica, sotto il suo sguardo, e non potevo parlare, non potevo muovermi.
D'improvviso mise una mano sul mio braccio. Come una sonnambula io lo seguii.
. . . . . . .
Non vi dirò ciò che provai quando fui chiusa in quella casa con lui. Quando ridomandai di Céline, egli disse: — Prima mangiamo!
E mi preparò egli stesso una cena: — Da studenti!... — diceva lui ridendo.
— Le piacciono queste avventure, signorina?
Ed io, tra me e me, pensavo:
— Quando mi ucciderà? E come?... Mi salterà al collo improvvisamente e mi strangolerà? Oppure in questo vino che mi offre avrà già messo un narcotico o un veleno?...
Egli frattanto mi parlava, mi parlava di cose indifferenti.
Ed io lo guardavo.... lo guardavo. Guardavo le sue mani scure e nervose.... e me le figuravo intorno al sottile collo di Céline....
Ed ecco ch'egli si mise a parlare di lei; disse ch'era partita per l'America....
A quelle parole io fui presa come da una crisi isterica e scoppiai in una risata, una risata convulsa, frenetica, rotta da singulti. Landru mi guardava con aria stupefatta.
A un tratto si alzò, andò nella stanza attigua ch'era la cucina, e tornò portando un bicchierino di liquore.
— Bevete, — comandò.
Io ridevo ancora; mi battevano i denti; ero tutta scossa da un tremito violento. Gli presi di mano il bicchiere, e d'improvviso, guardandolo negli occhi, domandai:
— È veleno?
Egli trasalì; vidi lampeggiare nei suoi occhi la sorpresa ed il furore.
— Oppure... — continuai singhiozzando e ridendo, — oppure mi strozzerete? Sì!... sì!... mi strozzerete colla cordellina impeciata, come strozzaste i due cani e il gatto?...
Egli fece un balzo in avanti e mi afferrò le braccia; il suo terribile viso era vicino, vicino al mio.... Sentii che la mia ultima ora era venuta. Mi balenò il pensiero che era questa la morte, la morte strana, la morte trasecolante che avevo desiderato....
E glielo dissi! Gli gridai sulla faccia — forse con un senso istintivo che questo solo mi poteva salvare — la mia voglia di morire.... di morire sgozzata da lui che sapevo assassino!
— Uccidetemi! uccidetemi!... ho bisogno di morire così! Mettetemi le mani alla gola.... e stringete! Stringete! Cacciatemi le unghie nelle carni....
E rantolavo di voluttà.
Egli indietreggiava da me con gli occhi sbarrati.
— Che donna! Che donna! — esclamò. — Mio Dio! che donna!...
Sentii ch'ero salva. Sentii che in quell'uomo mostruoso sorgeva per me qualche cosa che somigliava alla passione....
Fuori era già notte; e pioveva. Si udiva lo scroscio della pioggia nel giardino, e il vento correva mugolando intorno all'ampia casa.... mentre quell'essere nefando mi svelava gli abissi della sua anima demoniaca.
Parlava piano, chino in avanti, accarezzandosi la barba colle mani scure e sottili.
— Tu mi hai capito, tu sola! — sussurrava. — Tu sai che gli altri uomini quando vedono una donna si domandano: «Come sarà quella donna nell'amore?» Ebbene, io no! Io, quando vedo una donna, mi domando: «Come sarà quella donna.... nella morte?» Si dibatterà come una furia, con urli orrendi che bisognerà soffocare? O si torcerà con piccoli gemiti e strilli, come un cagnolino che si tortura?... Il bisogno di veder morire le donne che mi piacciono è in me come una frenesìa, come un parossismo di desiderio....
. . . . . . .
La narratrice interruppe l'orrendo racconto e si coprì il volto. L'orchestra del Grand Hôtel sospirava « Shadows ».
Io balzai in piedi.
— Basta! — gridai. — Non voglio saper altro. Non mi dite di più!
Allora la sconosciuta si alzò; era terrea in volto, ma sorrideva.
— Non avete i nervi forti, — disse.
E, sempre con quel sorriso ambiguo, mi salutò e uscì dall'albergo.
. . . . . . .
Passata la prima emozione di questo incontro, io ora mi domando: ho forse guardato per un istante nei più profondi abissi della mostruosità umana?...
Oppure quella donna che veniva dalla redazione del Matin, non sarebbe essa forse una mia collega e rivale.... fabbricatrice di favole?
Non lo so. Forse non lo saprò mai.
Ignoro tutto di lei, persino il suo nome.
VI. “Galeotti....”
I.
.... — Poi mi prende come un capogiro e debbo aggrapparmi a qualche cosa per non cadere. Talvolta ho delle palpitazioni che mi par di soffocare. E altre volte il cuore mi si ferma d'un tratto, salta un battito.... senti! anche adesso....
E Vilia stese un polso sottile verso la sua amica, che glielo prese tra le dita inguantate. — Sentirai; ogni dieci o dodici battiti ne salta uno: c'è un attimo di arresto che mi toglie il respiro.
— Uno, due, tre, quattro, cinque.... — contò l'amica. — Ah, ecco! Ho sentito come un'intermittenza....
— Poi ho mille altri guai. Qualche volta ho dei ronzii nelle orecchie, come una nota di contrabbasso che s'interrompe e riprende. E anche la vista mi fa degli scherzi. Vedo sempre come un moscerino nero che mi balla davanti agli occhi....
— Mio Dio! e che cosa prendi per tutti questi mali?
— Ma.... non so. — sospirò Vilia, incerta. — Il dottore ha suggerito una cura di Jodarsol e poi un soggiorno in alta montagna.
Un breve silenzio regnò nel tepido salotto, e dalla larga pianta d'azalea in mezzo alla tavola caddero alcuni petali sul tappeto di velluto cremisi.
— Cara mia, — disse Claudia, togliendosi di tasca un porta-sigarette d'oro fregiato di uno stemma di marchese, — secondo me, tu hai bisogno di tutt'altro.
— Non credi a quella cura? — chiese Vilia un poco inquieta.
Claudia scelse una sigaretta, la battè lievemente sull'astuccio, l'accese e soffiò verso il soffitto una lunga boccata di fumo.
— Sì, sì; puoi andare in montagna e prendere il Jodarsol, — disse Claudia. — Ma faresti bene a prendere anche un amante.
— Che cosa dici? — esclamò Vilia, trasalendo.
— Hai pur sentito, — dichiarò l'amica.
— Un amante! Ma che idea! Ma perchè?
— Dolce mia, — disse Claudia poggiando all'indietro la graziosa testa nella toque verde di rue de la Paix; — perchè fa bene ai nervi, fa bene alla carnagione, fa bene al carattere; bisogna prenderlo come si prende un tonico. Che vuoi, a una certa età come si farebbe una cura iodica, si fa la cura dell'amore.
— Che cinismo! — esclamò Vilia coprendosi il volto colle mani. — Sei veramente una persona immorale e orribile.
— No, no, — disse Claudia, — io sono una persona semplice e sincera. E se ti guardi d'intorno dirai che ho ragione. Guarda le donne poco amate, come inaridiscono! — E Claudia incrociò le ginocchia e fece dondolare in aria un sottile piede ben calzato.
— Dici delle cose orribili! — esclamò Vilia, fissando la sua amica con occhi turbati.
— Tu, tu inaridisci e t'ammali, — proseguì Claudia, — semplicemente perchè sei poco amata.
— Ma non è vero! Mio marito....
Claudia la interruppe alzando una mano sottile, colle lunghe dita tutte unite, nel gesto solenne di un antico idolo indiano. — Non parlarmi di tuo marito. Mi dirai che ti adora. Lo so. Ma ciò entra in un tutt'altro ordine di idee. Non parlo di affetti familiari.
— Ti accerto che Gino....
Claudia rifece il gesto di vecchio Budda.
— Da quanti anni sei sposata? La tua Luciana ha dieci anni, se non erro.
— Ne ha undici. Da tredici anni Gino fa di me la più felice delle donne, — disse Vilia risentita e stringendo le labbra un poco pallide.
— Lo so, lo so, — rispose Claudia, — so che Gino è un angelo, ma ciò non cambia le eterne leggi della natura. Fisiologicamente, l'amore, nel senso specifico della parola, non può durare più di quattro anni. Dunque tu da nove anni fai una vita incompleta ed anormale.
— Ma che eresie, che sciocchezze dici?
— Non sono sciocchezze; me lo ha detto un dottore, un neuropatologo, uno che ha studiato a Parigi, in Germania, in Olanda; uno che sa tutto. Mi ha anche condotta nel suo laboratorio e mi ha fatto vedere dei cervelli conservati nello spirito.... Ebbene, egli mi ha assicurato che, dopo quattro anni, le cellule nervose.... il neurolemma....
E Claudia fece una lunga dissertazione scientifico-realistica.
Ma Vilia non ascoltava. Guardava con occhi trasognati l'azalea che lasciava cadere silenziosamente di quando in quando i suoi pètali rosati.
— Del resto, — concluse Claudia — non hai che da osservare intorno a te. Guarda la Miriam Voli: ha trentadue anni e ne dimostra cinquanta. Guarda la Gina Del Bosco: ne ha anche meno ed è avara, arcigna e bigotta. Guarda Carlotta Allegri: è più giovane di noi, ed è completamente mummificata. Tutte donne irreprensibili ed infelici. E guarda te! Sì, sì! Va! va a guardarti nello specchio. Guarda che faccia hai! Hai quella faccia noiosa che hanno le donne che non sono innamorate.
Vilia rise. Si era alzata ed era andata a guardarsi nello specchio sopra il caminetto. Claudia la seguì e le cinse le spalle col braccio.
— Vedi se ho ragione? Arida sei; arida. Hai gli occhi morti, hai la pelle morta, hai i capelli morti; sei tutta senza vita e senza elettricità. Se vai avanti così, tra cinque anni sarai un rudere.
Vilia rise ancora, ma senza soverchia gaiezza.
— E guarda me, invece, — continuò Claudia; — ho la faccia noiosa io? Guarda i miei capelli! Quando li spazzolo crepitano e mandano scintille. Ogni filo è una pila di elettricità. E guarda i miei occhi!... e la mia bocca, com'è vivida. Ebbene, credimi; se non era Renzo Galimberti, a quest'ora ero incartapecorita anch'io. Renzo rappresenta per me un vero Institut de Beauté.
— Renzo Galimberti? — Vilia la fissò stupefatta. — Ma scusa!... credevo.... credevamo tutti che il conte Arsieri....
— L'anno scorso, — disse Claudia con gravità, — compievano i quattro anni da che Giulio Arsieri era il mio amante. Quindi ho dovuto lasciarlo.
— Ma perchè? Se ti era così devoto! E col legame della vostra musica....
— Te l'ho detto il perchè. La teoria del mio dottore. Erano passati i quattro anni; quindi l'azione.... terapeutica del nostro amore era cessata; e Giulio, come rimedio, come tonico, come antisclerotico, non serviva più.
— Tu sei un mostro! — disse Vilia.
L'altra rise e si alzò. Vilia l'accompagnò alla porta.
Sul limitare Claudia si volse; prese tra le due mani il viso sottile dell'amica e la guardò negli occhi:
— Non odiarmi, piccola Vilia; non odiarmi.
— Non ti odierò, — disse Vilia, — ma voglio scordare ciò che hai detto.
— Va bene, — rispose Claudia. — Ma fa che io non ti veda sfiorire ed intristire.
E con un bacio la lasciò.
II.
— Sfiorire ed intristire.... — Le due melanconiche parole ossessionarono Vilia per parecchi giorni. Ogni volta che si guardava nello specchio diceva a sè stessa: — Tu sfiorisci ed intristisci. — Poi i doveri della vita quotidiana la chiamavano, la distraevano; doveva ordinare il pranzo per Gino, riordinare la casa per Gino, mettere ordine nelle carte di Gino; doveva sorvegliare i compiti di Luciana, condurre a passeggio Luciana; ed ecco che quando andava a passeggio si accorgeva di non essere nè sfiorita, nè intristita. Tutti la guardavano; gli occhi degli uomini si fermavano su di lei insolenti ed insistenti, e le donne la fissavano, la studiavano, la analizzavano colla disapprovazione più lusinghiera.
La cura di Jodarsol consigliatale dal suo dottore — la cura derisa da Claudia — fece miracoli; Vilia non soffriva più nè di palpitazioni, nè di aritmie, nè di vertigini. E la vita le parve buona a viversi.
Claudia era andata in Sicilia con suo marito, e Vilia fu contenta di non vederla più.
Un giorno, in Villa Borghese, incontrò Renzo Galimberti; lo vide appoggiato alla ringhiera del galoppatoio intento a guardare delle amazzoni che passavano al piccolo trotto. Vilia sentì una improvvisa voglia di ridere al pensiero che Claudia l'aveva chiamato un «Institut de Beauté».
Il giovane Galimberti la scorse e la salutò; poi, vedendola così rosea e ridente, si avvicinò premuroso e offerse di accompagnarla.
Si parlò di cavalli, di società, di danze moderne; egli disse che sarebbe andato l'indomani a un concerto al Grand Hôtel. Poi si parlò di Claudia; e Vilia rise, e Galimberti sorrise.
Luciana camminava davanti a loro, composta e snella, a braccetto di una sua piccola amica. Galimberti osservò che la bimba aveva dei meravigliosi capelli — erano infatti lunghi, rossi e ricciuti — e soggiunse rivolto a Vilia:
— Ecco una personcina che tra pochi anni le darà assai da pensare!....
Vilia si sentì seccata da quell'osservazione senza sapere perchè. E dopo un istante lo congedò. Egli, alto e ritto, a capo scoperto nel sole, tenne un momento stretta la sua mano.
— Verrebbe con me al lunch domani all'Excelsior?
Vilia scosse il capo.
— Ad ogni modo.... io ci sarò, — disse l'Institut de Beauté, con uno sguardo significativo.
Vilia chiamò a sè Luciana, salutò e tornò a casa.
Guardandosi nello specchio, mentre toglieva il cappello, si trovò bella. E per tutto il resto del pomeriggio si fece del massaggio alla faccia e si aggiustò le mani e le unghie. Alle sette fece una toilette ricercata, indossando una veste gialla e nera che non metteva quasi mai. ( — Sembri un affiche di qualche marca di Champagne, — le aveva detto suo marito la prima volta che gliel'aveva veduta, soggiungendo in francese perchè Luciana non capisse: — Tu es très troublante et émoustillante! ).
Ma Gino quella sera non tornò a casa. Telefonò dallo studio che doveva andare in casa Ricci ad incontrare un deputato che forse si sarebbe interessato al Credito Fondiario, e ch'ella non lo aspettasse a pranzo.
Vilia, vestita di giallo e nero, pranzò sola con Luciana, la quale fece molti capricci e pianse e dovette essere mandata a letto prima delle frutta.
Vilia girellò un poco per sala e salotto, suonò un poco il pianoforte, lesse un poco il Giornale d'Italia, poi fece i conti colla cuoca, si tolse la veste gialla e nera e si coricò. Disse a sè stessa che la vita era una vacua e noiosa istituzione; e nella notte ebbe nuovamente dei ronzii nelle orecchie e delle palpitazioni di cuore.
Da parte sua Gino si seccò molto col suo deputato che non s'interessò affatto al Credito Fondiario; la cucina di casa Ricci essendo detestabile — il vecchio Ricci era stato in Inghilterra e voleva sempre le salse al curry indiano — Gino mangiò poco, digerì meno, e tornò a casa di cupo umore. Andò da Vilia per farsi consolare e la trovò sveglia, ma fredda e sarcastica; e per di più assolutamente scettica riguardo alla storia del deputato.
— Ma fammi il piacere.... ma che deputato! non parlarmi di deputati.
— E di che cosa devo parlarti? — brontolò Gino, togliendosi la cravatta. — Del curry indiano?
Vilia voltò le spalle e si sprofondò nei cuscini.
— Io conosco la signora Ricci; è un'isterica che ti vuole nella sua collezione. E tu te ne compiaci, la incoraggi, la lusinghi....
Il curry indiano è cattivo consigliere. Gino uscì dalla camera sbattendo l'uscio e andò a dormire nella stanza degli ospiti accanto alla sala da bagno. Lasciò aperte le imposte e si coricò.
Dalla finestra circondata d'edera entrò lungo la notte un avventuroso insetto, che porta il nome imponente di «formica punzaiola». Questo girò nel buio lungo la parete, soffermandosi, voltando la testa in qua e in là, aprendo e chiudendo le piccole forbici maligne; girò nello spiraglio della porta socchiusa che metteva alla sala da bagno, e, continuando la sua peregrinazione, avvertì che la parete di mattonelle di maiolica offriva ai suoi passi una sgradevole superficie lucida e bianca; affrettò il passo, tastando colle pinze frementi le mattonelle fredde, e scese correndo verso un rifugio più grato. Lo trovò in una spugna, piacevolmente soffice, un poco umida, piena di ombrosi corridoi; e penetrandovi frettolosamente, inconscia arbitra di due destini, vi si annidò.
L'indomani mattina Vilia si svegliò presto, ma non aprì subito gli occhi. Collo spirito ancora sommerso nel dormiveglia, tentava di ritardare l'ora del ritorno alla cruda vita mattutina, riluttante a lasciare le vaghe luminosità dei sogni per rientrare nell'aspra e materiale realtà giornaliera. Con senso fastidioso udiva battere un tappeto nel cortile, udiva nell'appartamento sopra al suo l'andirivieni di passi e lo smuovere di mobiglio. Indefinitamente, nebulosamente sentiva che era meglio dormire che svegliarsi; nello sfondo del suo pensiero ancora assopito vi era come un senso premonitore di cose disaggradevoli che l'attendevano sulla porta del giorno.
Il battito del tappeto continuò, irritante, insistente; e, nell'appartamento vicino la figlia dell'ingegnere fece i due soliti accordi al pianoforte, preludianti alle solite scale.
Vilia sospirò e aprì gli occhi. Era sveglia.
Che c'era di sgradevole a ricordarsi? Ah sì! Gino. Gino non era tornato a pranzo iersera. E, tornato, era stato antipatico e scortese. La Ricci.... già, la Ricci. E lei, Vilia, aveva passato il pomeriggio stupidamente a lucidarsi le unghie, ad aggiustarsi la faccia e ad arricciarsi i capelli, e poi aveva passato la serata stupidamente sola. Dunque, dalle quattro del pomeriggio alla mezzanotte quando s'era addormentata, otto ore gettate via; buttate nel vuoto, sprofondate nell'abisso. Otto ore non vissute e che non tornerebbero mai più. Che spreco, che sciupìo! Alla sua età non doveva permettersi di questi lussi. Alla sua età ogni ora della vita dovrebbe contare; non si poteva gettar via così il terzo d'una giornata....
Alla sua età! Odiose parole. Le pareva di non avere ancora incominciato a vivere, e già doveva dire di sè — perchè, tanto, gli altri lo avrebbero detto — «alla mia età non si fa questo.... non si fa quello».
Col subitaneo istinto di chi annega e stende la mano a un'asse di salvezza, il suo pensiero corse a Gino. Gino era buono; Gino l'amava; Gino l'avrebbe sempre amata. La Ricci non lo interessava affatto; la Ricci non serviva che di pretesto a Vilia per qualche rara rappresaglia, quando, ogni tanto, sentiva il bisogno di tempestare un pochino, di fare qualche piccolo litigio.
Vilia si alzò rapida e si vestì.
Gino che aveva dormito male nel letto non suo, e a cui bruciava ancora il ricordo del deputato, del curry e dell'ingiustizia di Vilia, si alzò anche più tardi ed entrò frettoloso e rabbioso nella sala da bagno. Trovò il bagno preparato, la stufa a gas accesa, la bottiglia dell'acqua di Colonia a portata di mano, e subito il suo rancore cadde e si spense. Vilia si era pentita, aveva fatto onorevole ammenda; Vilia era un angelo, la Ricci era una bestia, la Ricci che gli serviva un curry indiano e un deputato ancora più indiano — puh!
Gino con un colpo del piede gettò lontane le pantofole come se fossero state la signora Ricci, scagliò via il pygiama come se fosse il deputato, e risolvette che dopo il bagno sarebbe andato a baciare le mani a Vilia e dirle che l'adorava.
Come al solito, prima di entrare nel bagno afferrò la spugna, la tuffò nell'acqua e se l'applicò sulla faccia. Subito sentì correre sulla guancia una cosa, e si sbattè la mano sul viso; la cosa gli corse nei baffi e sull'altra guancia. Che cos'era? Gino si guardò nello specchio. Era una «forbice», era una formica punzaiola uscita dalla spugna!
— Porcheria! — urlò Gino, gettando da sè la spugna e sbattendosi dal collo la bestia che gli correva verso l'orecchio. Gino sentì la sua pelle nuda incapponirsi. Non solo schifo aveva, aveva anche paura! Una vecchia domestica gli aveva detto, anni fa, che quelle bestie entravano nelle orecchie e facevano impazzire la gente. Egli non aveva mai dimenticato quella disgustosa storia.
L'immondo insetto dov'era? Era sparito! Ma dov'era? Gino si cacciò le dita nelle orecchie, e pestò i piedi nudi profferendo molte bestemmie. Suonò per la cameriera e le gridò traverso la porta chiusa:
— Questa casa è una porcheria. Le spugne piene d'insetti!... È una vergogna.
Non fece il bagno, non baciò le mani a Vilia, non entrò neanche nella sala da pranzo dov'ella con Luciana l'attendevano per prendere il caffè. Uscì sbattendo l'uscio di casa e prese un esecrabile caffè in un bar.
A mezzogiorno tornò a casa, ammansito e compunto. Vilia non c'era.
Non c'era che Luciana, lagrimosa e spettinata. La mamma era uscita alle undici dicendo che non sarebbe tornata fino a sera.
La formica pinzatola, avendo compito la sua missione, passò una giornata febbrile sotto al bagno, e la notte tornò fuori nell'edera; dove, quando fu giunta la sua ora, un passerotto la mangiò.
VII. Lezioni di Felicità
Il Destino sonnecchiava, stanco dopo le fatiche d'una giornata occupatissima. Aveva rovesciato le sorti di ventisette nazioni; aveva gettato nelle fauci spalancate della Morte qualche milione d'uomini e ne aveva messo al mondo altrettanti; aveva spezzato molti cuori teneri e ferrei; aveva fatto dei milionari e dei mendicanti; aveva sparso per l'orbe terracqueo gioie e sventure, ed ora si sentiva in diritto di riposare.
Ma, appena assopito, si udì invocare a grandi grida, e, brontolando come un vecchio medico condotto un po' rimbambito, si alzò, mise le pantofole e si affacciò a vedere chi lo chiamava.
Era tutta una folla — c'era mezzo il mondo. Allora, sospirando e soffiando, il Destino si rimise in giro, coi suoi occhiali da orbo sul naso e la sua vecchia scorta di rimedi in tasca.
La sua prima visita fu per una donna che piangeva, e la sua voce era più forte di tutte le voci. — Cosa volete? — chiese il Destino.
— Mio figlio!... Fatelo tornare. Fate che non sia morto!... Rendetemelo, e non vi chiederò mai altro.
— Sta bene, — disse il Destino. E, scostandosi sul limitare per lasciar entrare un soldato, se ne andò piegando il capo sotto un turbine di benedizioni.
La seconda visita fu ad una giovinetta.
— Fammi sposare Gigi! — gridò lei, aggrappandosi convulsa al manto lacero del Destino. — Se non sposo Gigi, muoio!...
— Prenditi il tuo Gigi e non seccarmi più.
— Mai! Mai! Te lo giuro. Non ti chiederò mai altro!
.... Poi c'erano delle donne senza figli che ne volevano, e delle donne incinte che non ne volevano; e dei malati che volevano la salute; e dei poveri che volevano l'agiatezza; e dei poeti che volevano la gloria.... E tutti giuravano che non volevano altro; che se il Destino stavolta li accontentava, non avrebbero mai chiesto altro favore.
E il Destino li accontentò.
Ma ecco che appena fu tornato a casa — e non era passato per i mortali un anno e pel Destino un'ora — che già tutti quelli ch'egli aveva assistito erano a battere alla sua porta, chiamandolo a gran voce.
— Ma cos'avete tutti quanti? — brontolò il Destino affacciandosi; — non avevate promesso...?
— Sì, — strillò la vecchia, — ma c'è mio figlio che mi vuol portare in casa una nuora senza cuore e senza dote.
E la giovane piangeva: — C'è Gigi che mi tradisce....
E le donne che avevano voluto dei bambini erano piene d'ansie e d'angoscie; e le donne rimaste sterili erano piene di rimpianti e di struggimenti; e gli ammalati che avevano ricuperato la salute ora volevano l'amore; e i poeti che avevano la gloria volevano anche dei denari....
Allora il Destino gridò — Basta! avevate promesso di non chiedere più niente, e non vi dò più niente.
Chiuse la finestra e tornò a dormire.
Morale: Bisogna guardarsi dal fare delle promesse al Destino; poichè non accade mai che, ottenuta una cosa, non se ne voglia un'altra.
Oppure — morale alternativa — : Se avete ottenuto una grazia, accontentatevi di quella, e fatela durare il più possibile. Perchè non sempre ve ne sarà concessa un'altra.
. . . . . . .
Questo io pensavo, la sera di San Silvestro, mentre legavo i ricordi del passato alle speranze dell'avvenire, come un mazzo di fiori da offrire ai Fati sulla soglia di un anno nuovo.
E tra i ricordi ne sorgeva uno, della mia lontana infanzia.
Eravamo un gruppo di bambini nel giardino di Park House a Norwood; e ciascuno diceva ciò che avrebbe desiderato essere quando sarebbe grande.
— Io sarò pittore, — disse Arnaldo, il maggiore di noi sette. — Ed io cavallerizzo, — dichiarò Ferruccio. — Io palombaro, — disse Anselmo. — Io sarò capo di una tribù di pellirossi, — disse Eva, ch'era fantasiosa e selvaggia. E rivolta a me ch'ero la più piccola, e tacevo: — E tu, Annie, cosa vuoi essere?
— Felice, — diss'io.
Tutti tacquero un momento, riflettendo. Poi il futuro cavallerizzo disse: — Che sciocchina! La felicità non è.... una professione.
Allora io, mortificata, dissi subito che volevo essere padrona di una pasticceria; e questo mi riabilitò agli occhi dei miei fratelli.
Ma un po' più tardi chiesi ad Anselmo: — Che cos'è una «professione»?
— Una professione.... — spiegò lui, con pittoresca ambiguità, — è quello che s'impara ad essere.
Ed a me stessa io posi la domanda: — E non si può imparare ad essere felici?
* * *
Oggi più che mai sono convinta che si può. Sono anzi dell'opinione che bisognerebbe istituire dei corsi di lezioni speciali per insegnare alla gente — soprattutto alle donne! — come si fa ad essere felici.
Siamo tutti d'accordo nell'ammettere che una vita, una giornata, un'ora in cui non si è stati felici (o, ciò che è sinonimo, in cui non si è reso altri felici), sono un'ora, una giornata, una vita perdute.
Ma la felicità non è cosa semplice ed elementare. La felicità è un'arte difficile e complessa; per possederla occorre un'educazione speciale; per apprezzarla ci vuole coltura, esperienza e raffinatezza.
Naturalmente, il concetto della felicità è assai diverso secondo le persone e i temperamenti. Quello che rende felice me, per esempio, lascerebbe perfettamente indifferente la mia amica Dora; mentre ciò che rende felice Dora....
E qui apro una parentesi. La felicità di Dora è una cosa così strana che sento di doverla raccontare.
Essa mi venne a trovare ieri, raggiante, trasfigurata. Prima di salutarmi corse allo specchio e si guardò lungamente, facendo molte smorfie colla bocca e movendo il capo in su e in giù come un idolo chinese un po' pingue.
— Cos'hai? — le chiesi attonita.
— Tu vedi in me, — diss'ella, — una donna felice!
— Che cos'accade? Sei divorziata? Tua figlia si sposa?
— Ma che! — esclama lei. — Figurati che ho trovato il modo di far sparire il doppio mento. È una americana che me l'ha insegnato. È un metodo miracoloso e semplicissimo!... Tre volte al giorno ti metti ritta e pieghi il collo all'indietro, forzando tutti i muscoli; poi giri il capo lentamente da destra a sinistra, e viceversa, sessantaquattro volte. Poi pizzichi fortemente ottanta volte la carne sotto al mento; e, dopo un grande lavacro con acqua gelata contenente venticinque goccie di benzoino, spalmi la pelle colla crema hazeline; poi percuoti il collo colla punta delle dita articolando in gola — ma senza proferirla — dodici volte la vocale a; indi....
— Stop! — esclamo io — mi dirai il resto un'altra volta.
— L'americana mi garantisce — dice Dora, sedendosi con aria di tranquilla soddisfazione, — che con questo sistema, tra sei mesi avrò a sostegno del mio capo una perfetta colonna d'alabastro.
Io rido. Ma ella seguita con gravità:
— Ti assicuro che tale certezza ha portato nella mia vita un nuovo senso di felicità. Questo doppio mento mi amareggiava l'esistenza.
— Ma dimmi, — le osservo, — e quei dieci anni, o quei ven....
— Non fare dell'aritmetica, — mi interrompe essa.
— Ebbene, durante tutto quel tempo in cui non avevi il doppio mento, sei stata sempre felice?
— Ma no: non ci pensavo, — dice lei.
Ecco, ecco l'errore! È questo. Non ci si pensa. Nelle mie Lezioni di Felicità s'imparerebbe a pensare, a pensare a tutto ciò che di buono si ha, a tutto ciò che di sgradevole si potrebbe avere, e a rallegrarsi del contrasto.
Ma Dora continua: — Quando penso che a ventotto o ventinove anni ero così magra e carina.... — S'interrompe con un sospiro. — Com'è detestabile ogni mattina davanti allo specchio constatare che si hanno quei dieci anni di più....
— Ma io, tutti i giorni, constato che ne ho dieci di meno! — esclamo, lieta. — Vado allo specchio e mi dico: — Che gioia essere quale sono oggi! Tra dieci anni, avrò dieci anni di più. Ma oggi.... non li ho.
— Già, — dice Dora, — ma tra dieci anni....
— Tra dieci anni potrò dire la stessa cosa.
Dora mi fissa pensierosa. — È un'idea, — dice lei.
— Tutto, vedi, dipende dal nostro atteggiamento mentale di fronte alle cose. Prova, — continuo, sentendomi saggia come il mago Alfesibeo, — a guardare la vita sempre da un punto di vista di gratitudine e di letizia. Aprire gli occhi al mattino e dirsi: «Che gioia aprire gli occhi!... Vi è, ahimè! chi non li apre più». Alzarsi, traversare la camera e spalancare la finestra: «Che beatitudine poter salutare, ritta in piedi, la nuova giornata!...» Ascoltare, se sei in campagna, il grido degli uccelli; udire, se sei in città, battere i tappeti nel cortile pensando con giubilo: «Quale privilegio, udire questi suoni! Vi è chi vive in un eterno e terribile silenzio!...» E così di seguito per ogni cosa che si fa. Credimi, quando non esiste una vera e seria ragione di affliggersi, è un delitto il malcontento, un crimine il malumore....
Strano a dirsi, si è sempre inclini a credere che i felici.... sono gli altri.
Per i bambini sono felici i grandi. Per i grandi sono felici i bambini. Quest'ultima asserzione, pur così abituale, è falsa anch'essa come la prima. I bambini non sono felici perchè non sanno di esserlo. E, prima condizione della vera felicità, è la consapevolezza.
Quindi nelle mie Lezioni di Felicità si farebbe un elenco di tutte le cose buone, belle — o anche solo normali — che si posseggono, con relativo atto di grazia per ognuna di esse.
Si insegnerebbe ai bambini che il fatto di avere due occhi che vedono, due orecchie che odono, due piedi che camminano, sono altrettante fonti di felicità. Imparerebbero a rallegrarsi di tutto: C'è il sole — che gioia! Piove — che bellezza! Tira vento — che allegria! Fa caldo — che gusto! Fa freddo — che piacere!
Nel mio corso per gli adulti vi saranno altri esercizi: Sono innamorata — quale estasi! Non sono innamorata — che tranquillità!... Ho tanta gente d'intorno — che divertimento! Sono tutta sola — che pace!... Sono giovane — che giubilo! Sono vecchia — che riposo!... E così via.
E tutti i frequentatori dei corsi, i grandi come i piccoli, dovranno tutti i giorni e a tutte le ore dire a sè stessi e agli altri: — Io sono felice! — Solo così sapranno di esserlo; e solo sapendo di esserlo lo saranno.
Si dirà che questa è una specie di felicità.... forzosa. Ma non c'è come farsi delle abitudini! E, come ci si esercita negli sports, o nelle lingue estere, così si può esercitarsi alla gratitudine e alla letizia, e formare un'abitudine preziosa: l'abitudine della felicità.
Le lezioni si dividerebbero in corsi speciali. Le lezioni sulla «Felicità nell'Amore», per esempio, sarebbero senza dubbio assai apprezzate e frequentate....
Espongo queste teorie a Dora, che le ascolta con scettico sorriso. Ma a questo punto m'interrompe:
— Tu affermi delle cose insensate, — dice. — La felicità nell'amore è una contraddizione in termini. L'amore, lo sanno tutti, è sinonimo di sofferenza.
— Chi non ama, — sentenzio io — non può essere felice.
— E chi ama, — ribatte Dora — non può essere che infelice.
Ma io non mi lascio turbare da questi cavilli. — Le classi di Felicità nell'Amore, — continuo imperterrita, — saranno le più ardue, ma saranno anche tra le più utili. Le allieve di questo corso si divideranno in due categorie: quella delle «Amate» e quella delle «Amatrici». La grande maggioranza delle donne appartiene senza dubbio a quest'ultima categoria; ma vi sono donne che, per caso fortuito o per qualità intrinseche, appartengono alla prima.
— È vero, — dice Dora con un sospiro.
— Strano a dirsi, quasi tutte le «Amatrici» preferirebbero appartenere alla categoria delle «Amate....» ed hanno torto.
— Hanno torto? — esclama Dora. — Perchè?
— Mia cara, la felicità della donna più amata che amante, è apparente più che reale. Non è forse più felice l'artista che il suo modello? Non dovremmo noi preferire all'inerzia passiva dell'ispirare una passione, lo struggimento divino del risentirla?
— Mah!... — dice Dora stringendosi nelle spalle.
— Eppure, troviamo che le «Amatrici», le donne nate col fuoco sacro della passionalità nel cuore, guardano con invidia, invece che con pietà, le fredde e passive loro sorelle — le «Amate» — che come statuette d'amianto, s'ergono illese tra le fiamme dell'amore altrui, insensibili alle passioni ch'esse ispirano senza condividerle.... Perchè, bada bene, non appena le condividono, ecco che passano anche esse nell'altra categoria, quella delle «Amatrici....» e allora devono seguire un corso di lezioni del tutto diverso....
— Comincio a confondermi, — dice Dora, fissandomi con occhi alquanto vacui. — Lìmitati a spiegarmi il tuo «corso di Felicità per le Amatrici». — (E noto che Dora arrossisce).
— Questo, — sentenzio io, — si suddividerà in tre classi: la felicità cinica; la felicità magnanima; e la felicità assoluta. Alle allieve che prescelgono la «felicità cinica» si insegnano vari precetti, utili ad evitare gli amori sfortunati. Per esempio: La donna, nella relazione amorosa, sia sempre l'ultima a cominciare e la prima a finire; cioè, non s'innamori mai lei per la prima, nè si disinnamori lei per l'ultima. — (Vedo le labbra di Dora che si muovono ripetendo sottovoce questo saggio ammonimento). — Secondo precetto: «Non correre mai appresso a un uomo nè a un tram, perchè ce n'è sempre un altro che segue....». E così via.
— Cinico davvero, — dice Dora. — Passiamo all'altra classe.
— La felicità magnanima? In questa classe impareremo a trovare in noi stesse tutta quella gioia che, erroneamente e illogicamente, abbiamo l'abitudine di esigere che altri ci diano. Una volta convinte che ogni gioia deriva da ciò che noi sentiamo, e non da ciò che gli altri sentono per noi, si arriva a non preoccuparsi se, o no, il nostro amore è contraccambiato. È una forma, questa, di superiore e sagace egoismo. — Io sono brutta? Che importa! Purchè colui ch'io amo sia bello. — Io non gli piaccio? Che importa! Pur ch'egli piaccia a me! — Egli mi è lontano? Ma io lo tengo chiuso nei miei pensieri dove lo trovo quando voglio. — Si noti che queste teorie, esposte con tutta franchezza all'oggetto amato, hanno un altro vantaggio. L'uomo, lo sappiamo, è assai vano. Quindi non accadrà mai che, di fronte a un simile atteggiamento, l'idolo mascolino non finisca col commuoversi. Egli si dirà che questa donna che l'ama senza scene, senza pianti, senza rimproveri, senza esigenze, che gli parla sempre di lui, approvando tutto ciò ch'egli fa, ammirando tutto ciò ch'egli dice, in fondo lo interessa più di un'altra. Egli si abituerà a mirarsi in lei come in uno specchio — uno specchio alquanto adulatore — e così avverrà che un giorno l'«Amatrice magnanima» si troverà d'un tratto promossa nella categoria delle «Amate»!
— Oh, guarda un po', — mormora Dora, impressionata. — Hai forse ragione.
— Ed ora veniamo alla terza classe: la felicità assoluta. Qui si avrà l'insegnamento più prezioso di tutti; qui si insegnerà alla donna ad amare unicamente ciò che ha. Amica mia, quando noi avremo imparato a dirci che la cosa, o l'essere, che possediamo è l'unico che desideriamo, quando saremo convinte che ciò che ci appartiene, per il solo fatto che è nostro è l'unico degno del nostro amore — ecco che avremo trovato invero il segreto della felicità!
— Va bene, — ribattè Dora, dopo un attimo di silenzio, — ma se questa cosa, se questo essere, che oggi è nostro.... domani ci sfuggisse....
— Ah! — rispondo io, — appena ci sfugge, non è più nostro; quindi, automaticamente, cessiamo di amarlo. E cessando di amarlo cessiamo — o evitiamo — di soffrire. Del resto, ciò che è nostro bisogna saperlo tenere. E lo si tiene appunto colla felicità. Colla felicità nostra! Poichè non è che la donna felice che può rendere felici gli altri. Credimi; la Malinconica, la Rassegnata, la Sacrificata, nella vita quotidiana, è un tribolo a sè stessa e un tormento agli altri.
Dora ride e mi abbraccia.
Da quel giorno Dora ed io cogliamo la gioia a piene mani dovunque la troviamo; ed è sorprendente in quanti e quali angoli vicini e remoti la troviamo, per quanti sentieri romiti e battuti essa sboccia e fiorisce!
Volgi il capo, sconosciuta amica mia che leggi, e vedrai che tu pure già ne hai piena la casa, il giardino e il cuore....
VIII. “L'Apollinea Fiera” (RICORDI DI CARDUCCI)
Carducci mi disse:
— Vuoi parlare colla Regina?
— Sì, caro Orco, — diss'io, molto contenta.
— Allora, aspetta qui. Vado a dirglielo.
E Carducci si avviò per la salita ripida e verde sopra a Gressoney la Trinité, verso un gruppo di ufficiali, brillanti nel sole in cima all'altura.
In mezzo a loro un fluttuante velo cerulo, un bagliore di chiome dorate: era Margherita che passava in rivista le sue truppe alpine. Vestiva il pittoresco costume Gressonese: breve gonna scarlatta e corsetto di velluto nero; intorno al capo un gran velo celeste.
— Un momento! un momento! — Corsi dietro a Carducci che si fermò. — E alla Regina che cosa dovrò dire?
— Non tocca a te dire; sarà lei che ti parlerà. E tu, bada di rispondere assennata e di non farmi sfigurare.
Carducci riprese la via; ma fatti pochi passi si fermò di nuovo e si volse a me. — Spero che frattanto non andrai a vagabondare pei boschi secondo il tuo solito, — ammonì severo. — Hai capito? Stai lì, fin che ti chiamo.
— Starò qui, — diss'io. E rimasi ferma, col cuore un poco agitato; mentre vedevo allontanarsi la breve, poderosa figura col suo bastone ferrato e il gran cappello di feltro grigio alla Buffalo Bill.
Subitamente un pànico mi colse. Più lo vedevo avvicinarsi al risplendente gruppo in cima al colle e più cresceva la mia trepidazione. Pareva che la salita la facessi io; mi mancava il respiro e mi batteva rapidissimo il cuore. Laggiù a sinistra la foresta d'abeti oscura e silenziosa m'invitava alla fuga.
Allora ricordai la poesia inglese «Casabianca», che narra del mozzo sul bastimento incendiato a cui il padre dice: «Rimani qui finch'io torno».
«The boy stood on the burning deck
Whence all but he had fled....»
Invano i marinai dalla scialuppa gli gridano: «Vieni! Salvati!» Al fanciullo fu detto: «Rimani»; ed egli non si muove. — Il padre non torna perchè le fiamme l'hanno divorato. Ed egli non si muove e le fiamme divorano anche lui.
Avevo sempre di queste immaginazioni epico-romantiche nella mente; mi figuravo di essere l'eroina di grandiose ineffabili avventure anche nelle circostanze più semplici e negli avvenimenti più comuni della vita.
Questo certo non era un avvenimento comune. Parlare con una regina! Parlare con quella regina, che pareva uscita fuori — per un istante solo, in punta de' piedi! — da un meraviglioso racconto delle fate, nel fluttuante velo celeste, sullo sfondo abbagliante delle Alpi nevose e del cielo....
Vidi il gruppo dividersi per lasciare il passo al poeta. Poi si richiuse ondeggiando intorno alle due figure centrali.
Quasi subito il gruppo nuovamente si aperse; una figura si staccò dalle altre e scese verso di me. Non era Carducci. Era un ufficiale — un colonnello di artiglieria — risplendente e magnifico. E a me, cui sempre danzavano nella testa i versi, balzò subito in mente la canzone puerile e deliziosa di Giovanni Rizzi che avevo imparato non molto tempo prima, a scuola.
«C'era una volta un cavalier cortese
Colto, leale e pieno di valor,
Combattuto egli avea pel suo paese
Ed era detto il Colonnello d'or!
Chè d'or gli sproni avea, d'oro il caschetto
E, sopra tutto, il cor.»
Il Colonnello d'or si fermò davanti a me, presentandosi in un fiero e cavalleresco saluto.
— Allason, — disse.
Io risposi inclinando il capo.
— Sua Maestà m'incarica di condurla presso di lei.
— Grazie, — mormorai tremante; e al suo fianco ascesi il verde e ripido pendìo.
. . . . . . .
O Colonnello d'or!... Ti ho riveduto poco tempo fa per la prima volta dopo quel giorno; non eri più Colonnello; in grige chiome portavi la divisa di Tenente Generale.
Accanto a te le tue due figlie sorridevano.
Col fiero e cavalleresco saluto militare, ti ripresentasti a me: — Allason. — E subito mi riparlasti di quel lontano giorno radioso.... — Gressoney.... la Regina.... si ricorda?...
Sì, sì; ricordavo.
Ed ecco che ieri ti ho riveduto ancora. Ieri! Eri steso, fermo e immoto, sul tuo letto. E non salutavi più nessuno. Se anche la tua Regina, che tanto amavi, fosse entrata nella tua camera, tu non ti saresti alzato, non ti saresti mosso per renderle omaggio o per offrirle uno solo di tutti quei fiori che ti circondavano in fasci profumati.
Accanto a te le tue due figlie piangevano.
Ma! oh miracolo! tu, uscendo dal tempo, ne avevi trionfato. I grigi pesanti anni tra quel lontano giorno luminoso ed oggi erano svaniti, erano caduti da te come un logoro mantello da trincea, e tu uscivi fuori nella morte, bello e baldo nella superba divisa, colle medaglie sul petto e la sciabola vicina alla mano.... Guardandoti, mi balzarono ancora nella mente i vecchi versi da tanti anni scordati:
«C'era una volta un cavalier cortese
Colto, leale e pieno di valor....»
. . . . . . .
«Nell'adamàntina luce del serto» la Regina mi aspettava. Accanto a lei ritto e immobile stava Carducci; mi pareva di scorgere nel suo sguardo rivolto a me una certa trepidanza e preoccupazione. Anche gli ufficiali in cerchio guardavano tacendo.
Il mio spavento crebbe. (Oh silenziosa selva di abeti!).
Ma la sovrana mi tendeva sorridendo la mano e davanti a quel sorriso la mia timidezza svanì. Mi parlò. Subito mi parve d'essere sola al mondo con lei. Virtù veramente regale, ella dava, parlando, l'impressione che tutto di me le fosse noto e che nulla all'infuori di me la interessasse.
.... Quel meriggio alla table-d'hôte del Miravalle (io sedevo tra Carducci e Piero Giacosa) si parlò molto della regale udienza. Cioè io parlai poco e Carducci non parlò affatto. (Già, egli era «d'indole orsina» e amava di tacere quando non aveva nulla d'importante a dire). Ma Piero Giacosa raccontava molte cose; e, passando dagli eventi del mattino ad apprezzamenti generali sull'augusta dama, osservò:
— Sì; Margherita è veramente regale. Ma è anche.... veramente donna.
— Perchè? Come mai? — chiesero le molte signore presenti.
Il professor Piero si volse a me.
— Quando per la prima volta le parlai di voi e delle vostre poesie, Sua Maestà m'interruppe subito colla domanda tutta femminile: «Ma.... è bella?»
In coro io colle altre signore chiedemmo:
— E che cosa rispondeste?
Confesso che attesi non senza trepidanza la risposta.
— Risposi, — e Giacosa si volse a me con un affabile sorriso: — «Bella? È.... peggio, Maestà».
— Peggio? Perchè? — chiesero le signore.
— Peggio? Che cosa vuol dire? — chiesi io, non poco mortificata.
Giacosa mi guardò di nuovo con quel sorriso.
— Non ve ne lagnate. Era una risposta lusinghiera, — disse.
E sorrisi anch'io assai riconfortata.
— Era una risposta scorretta, — tuonò Carducci d'improvviso. — Ella non aveva alcun diritto di fare simili apprezzamenti.
Tacemmo tutti, mortificati e compunti. Io non sapevo cosa fare del mio sorriso. Fortuna volle che i camerieri entrassero nella sala portando maestosamente, nel nostro silenzio, dei polli arrosto, supini in un'insalata smeraldina.
Contemplando il piatto che il cameriere mi porgeva con benigno sussiego, sentenziai con voce alta e melliflua:
«Del pollo il vol, e del tacchino il passo.»
E presi un'ala di pollo.
Carducci si volse di scatto con fosco cipiglio.
— Eh? Cosa? Cos'hai detto?
Io ripetei la sagace sentenza.
— È una poesia, — spiegai, — e significa che bisogna prendere l'ala del pollo e la gamba del....
Carducci m'interruppe sdegnato: — Ma che poesia! — esclamò, crollando le spalle con ira ed impazienza.
Qualcuno rise (probabilmente ero io!) e il temporale si dileguò.
Non fu quella l'unica volta che Carducci si adirò con Piero Giacosa, a cui tuttavia era legato da viva amicizia. Giacosa era spiritoso e brillante e amava gli scherzi. A Carducci gli scherzi non piacevano. O allora dovevano essere degli scherzi assolutamente puerili e semplici. Le parole ambigue e le frasi a doppio senso gli erano odiose e lo incollerivano subito.
Già, egli sorrideva poco. E non rideva mai.
In quello stesso pomeriggio venne nel giardino del Miravalle il conducente Ciocca da Pianazzo; teneva per le redini un cavallo da sella per una delle tre signore Serra-Zanetti che abitavano l'albergo. Ma poichè il tempo si guastava, la signora non volle uscire e il buon Ciocca se ne tornava via col suo cavallo allorchè, uscendo dall'albergo con Carducci per andare a pranzo alla «Cascata», io lo vidi.
— Lascia stare quel cavallo, — mi disse subito Carducci scorgendolo da lontano; poichè io avevo l'abitudine di accarezzare il muso ad ogni cavallo che vedevo. Anche in città, egli s'irritava molto a vedermi andare con mano tesa verso tutti i cavalli di «brum»; e sempre, avvistando qualche malinconico ronzino fermo accanto al marciapiede colla testa bassa e un ginocchio ripiegato, Carducci esclamava da lontano: — Lascia stare quel cavallo.
Ma era impossibile lasciar stare il cavallo di Ciocca, fermo nel giardino a portata di mano, che aveva un naso marrone, lungo e aristocratico, un ciuffo tagliato a frangetta e una stella bianca in mezzo alla fronte.
Poichè si andava verso Pianazzo, Ciocca mi offerse di montare ed io con entusiasmo accettai.
Ma nè lui, nè Carducci sapevano farmi montare in sella; e stavo per l'appunto ignominiosamente tentando di arrampicarmici coll'aiuto di una sedia portata da un cameriere, allorchè apparve Giacosa, che accorse e con pronta destrezza mi issò in arcione.
— Che strana sella, — osservai, quand'ebbi il piede nella staffa e le redini incrociate all'inglese sulle dita. — Mi pare che vi sia un corno di troppo.
Giacosa rise. — Paese che vai.... corna che trovi, — disse. E si volse a Carducci con un sorriso.
Ma «l'Orco» aveva subito assunto la sua fisonomia dei momenti foschi. Con occhi lampeggianti e feroci squadrava il professore.
— Come sarebbe a dire? — domandò con voce fremente.
— Sarebbe a dire niente, — rispose l'affabile Piero.
Quella serenità parve incollerire ancor più Carducci. Lo vidi stringere le mascelle e chiudere i pugni.
— Misericordia!... — pensai, — bisogna intervenire! — E dall'alto del mio cavallo (ricordando il successo della mattinata) sentenziai: — «Del pollo il vol....»
Ma non essendovi alcun pollo la frase mancò totalmente il suo effetto e la collera di Carducci non si placò.
Giacosa ebbe il cortese pensiero di allontanarsi rapidamente, ed io cercai con furtivi calci di far impennare il cavallo di Ciocca onde creare una diversione.
Ma il cavallo non era di quelli che s'impennano. Era un cavallo pensieroso e circospetto che ogni momento si fermava a scacciare con un calcio languido qualche mosca che lo disturbava.
— Aspettate, Ciocca, — dissi, — questo cavallo vuol sedersi a guardare la vista. Preferisco scendere.
— No, no! — esclamò Ciocca, afferrando la redine e trascinando il letargico quadrupede per la via maestra. — Stia pur su. Non abbia paura!
Paura, io, che montavo come un fantino!...
Così, scortata da un lato da Carducci e dall'altro da Ciocca che mi teneva le redini, proseguimmo nel sole del tramonto; e in cuor mio pregai che nessuno c'incontrasse. Ma per fatalità tutti i villeggianti di Gressoney, di Saint-Jean e della Trinité parevano essersi dati convegno in quell'ora su quella strada. C'era il dottor Ry, c'era il professor Vivante, c'era il giovane Dezza, c'erano tutte le signore e le signorine della vallata. La mia vergogna era grande. — Se mi vede anche la Regina, muoio, — pensai.
Ma la Regina non uscì dalla luminosa Villa Peccoz e, come il cavallo volle, si arrivò all'Albergo della Cascata.
Umiliatissima mi lasciai scivolare dalla sella e misi piede a terra.
— Tu monti molto bene, — disse Carducci, che aveva scordato le sue ire. — Guardandoti, pensavo alle Valchirie.
Allora, per fargli piacere quasi ogni giorno Ciocca portò all'albergo uno dei suoi alti ed asimmetrici bucefali ed io salivo in sella e uscivo per sentieri e praterie, mentre Carducci camminava accanto senza parlarmi e senza guardarmi, mormorando tra sè e sè, gesticolando un poco, pensando o componendo.
«Bionde Valchirie, a voi diletta sferzar de' cavalli,
Sovra i nembi natando, l'erte criniere al cielo....»
. . . . . . .
Sull'altipiano della Trinité una sera si fermò a guardare le cascatelle che tutt'intorno dall'alto delle rocce scaturivano scintillanti, incendiate dallo splendore del tramonto.
— Guarda l'oro sull'acqua, — mi disse.
Obbedii. — Non è acqua, — osservai (a Carducci dicevo tutte le fanciullaggini che mi venivano in mente). — Lassù in alto stanno sdraiate supine le fate, e lasciano pendere lungo le rocce i loro capelli sciolti.
— Sarà così, — disse Carducci contemplando le cascate increspate e rutilanti e facendosi schermo agli occhi colla mano. — Sarà precisamente così. Lo dirò anch'io.
E difatti lo disse più tardi in una lettera a me. Quella lettera è ristampata nelle sue Opere col titolo «Elegìa del Monte Spluga».
L'estate finì; e Carducci doveva ritornare a Bologna. Ma io volli rimanere a vagabondare pei monti, nel freddo e nelle bufere.
Lo vedo ancora alla partenza, seduto in carrozza — e Ciocca già a cassetta — guardarmi con quegli occhi vividi e sempre un poco corrucciati sotto l'ombra del grande feltro.
— Addio, — mi dice, alzando il cappello e scoprendo le grige chiome.
— Addio, caro Orco. — E soggiungo: — Vi ringrazio di essere stato così paziente e buono con me.
— Va, bene, — dice lui. E ripete — Addio. — Poi volge lo sguardo in giro sulla spianata dove tutto è gelido e scintillante, sugli abeti già incappucciati di bianco e sull'immensa cerchia di cime algide nel cielo freddo. Certo, io gli appaio solinga e sperduta in tutto quel grandioso biancheggiare, poichè d'improvviso, rivolto ai monti e al cielo, e stendendo la mano come se volesse additarmi a loro, grida:
— Ecco la piccola Annie che se ne va tutta sola, per il mondo pieno di neve!
Ciocca fa turbinare la frusta in un gran gesto che a Carducci piace, e i cavalli partono al galoppo verso la valle.
Io resto sola nel mondo pieno di neve. Ma mi sembra che Carducci mi abbia raccomandata alla cura dei giganti montani, e mi par di sentire che essi si chiudano amici e protettori intorno a me.
Quando sotto alle nevi le capanne spariscono, piegano i pini, si spezzano i fili telegrafici e sui «Pass» non si passa più, io, in una slitta aperta — ritta, rigida e gelata accanto a due guide e un pecoraio — scendo alla valle.
A Pont-Saint-Martin il proprietario dell'«Albergo Posta» mi accoglie stupefatto, e corre a prepararmi un thè di tiglio fumante col kirsch. Sua moglie mi sveste degli abiti irrigiditi e gelidi, e appena sono a letto riappare con una boccia d'acqua calda in una mano e una grande fetta di lardo nell'altra.
— Questo per i piedi e questo per lo stomaco, — dichiara risoluta.
Inorridisco.
— Ma è impossibile ch'io mangi quella roba! — dico coi denti stretti, contemplando la fetta di grasso che le penzola bianco e lucido dalla mano.
— Ma che mangiare! — esclama lei, ridendo; e, maternamente, me lo applica sul petto. — Non vorrà mica morire di polmonite!
Il tiglio, il kirsch, la boccia e il lardo esplicano i loro benefici effetti e al mattino mi sveglio gaia e affamata.
Prendo il treno per Milano, dove fa molto più freddo che a duemila metri d'altitudine, e dove — non più difesa dai miei giganti amici — il Naviglio mi getta al collo il suo abbraccio di grigia umidità.
Mi ammalo; ho la febbre, la tosse. Invoco il tiglio e il lardo; invano! Il dottore mi prescrive altri rimedi.
Al mio capezzale siede una dolce amica mia e di mia madre: Emilia Luzzatto. Sono stata a scuola coll'unica sua figlia, Evelina — rapita dalla tisi nello sbocciare dell'adolescenza — ed ella mi adora.
— Signora Emilia.... vieni qui!... (l'abitudine mi fa rispettosa, la malattia mi permette la familiarità). Senti.... se devo morire....
M'accorgo con un piccolo tremito che ella nè protesta nè ride, come avrei sperato. Dice: — Ebbene? — e le lagrime le scendono dagli occhi.
— Se devo morire.... avverti....
— Chi?
Chi? Me lo domando anch'io. Papa è a Yokohama con la sposa nuova che ancora non ho potuto imparare a chiamare mamma. I miei fratelli? Arnaldo è a Tokio, Ferruccio a Nuova York; Anselmo a Buenos Ayres; Louise a Kew; Eva a Petermaritzburg. La più vicina è la mia mamma.... che dorme nel piccolo cimitero protestante di Milano.
Allora dico:
— Avverti Carducci.
Ed ella lo avverte.
Carducci arriva, più fosco e accigliato che mai. Mi guarda un pezzo, senza parlare, poi dice:
— Guarisci; e ti farò un regalo.
— Che regalo? — mormoro io.
— Vedremo, — risponde. E se ne va. Sparisce. Sparisce anche la signora Luzzatto.... Sparisce tutto.
Non perchè io muoia; ma perchè dormo. Dormo per quattordici ore e mi sveglio senza febbre.
— Che regalo? — dico appena apro gli occhi, a Carducci che è riapparso; e accanto a lui sta la signora Emilia tutta ridente.
Carducci ripete: — Vedremo. Adesso pensa a guarire.
Pensai a guarire. Carducci tornò via tranquillizzato e ritornò a trovarmi qualche mese più tardi.
Andai alla Stazione Centrale ad incontrarlo. Molta gente lo conosceva e lo salutava. Come ero solita, gli diedi due grandi baci, uno di qua uno di là sulle guancie, ed egli li subì col suo abituale cipiglio; io mi appesi al suo braccio e uscimmo dalla stazione a cercare una carrozzella.
Ma prima di salirvi Carducci a un tratto si volse a me con severità: — Mi farai il piacere, — disse, — di non baciarmi sempre nelle stazioni:
Io rimasi sorpresa e mortificata.
— Ma altrove non vi bacio!... Non vi bacio che quando partite e quando arrivate, — esclamai.
Carducci crollò il capo. — Appunto. Non è necessario, — disse seccamente.
— Ma sì che è necessario! Vi bacio quando arrivate per la gioia di vedervi, e alla partenza per il dolore di lasciarvi.
Carducci scosse di nuovo rabbiosamente il capo, e fece il suo gesto abituale d'impazienza battendosi un dito sul labbro per farmi tacere. Se non era che il vetturino ci guardava credo che avrei pianto.
Salimmo in carrozza per andare al suo albergo; io ero molto mortificata e non parlai.
— Sei guarita? — diss'egli dopo un poco.
— Sì, — mormorai.
— Ti ho promesso un regalo.
— Ma allora ero ammalata.
— Io non prometto per promettere, — disse Carducci iroso. — Ti ho promesso un regalo e lo avrai.
— Che regalo? — feci flebilmente.
— Ho pensato che ti darei un cavallo.
Un cavallo! Io subito ebbi l'impulso di gettargli le braccia al collo, ma memore dei suoi divieti me ne astenni. Gli afferrai la mano.
— Quando?
— Subito, — disse lui.
Subito!... Mi sentii mancare.
— E dove si compera un cavallo?
— Non lo so, — disse Carducci. — Domanderemo al cameriere del Savini. Tanto, bisogna far colazione.
Fermò la carrozza all'Albergo Àncora dove sempre alloggiava e vi lasciò le valigie; indi proseguimmo fino alla Galleria.
Al Savini il cameriere, il maître d'Hôtel e il direttore ci dissero che i cavalli si comperavano al Tattersall. Anzi, mandarono subito ad avvisare il proprietario, cavalier Rossi, che ci saremmo andati.
A tavola mi colse un dubbio.
— Ma siete abbastanza ricco, caro Orco, per comprar cavalli. Avete denari che bastino?
— Sì. Ne ho molti, — disse Carducci. — Ho venduto ieri un libro a Zanichelli.
— Che libro?
— Non importa. Tanto tu non lo leggi. È una nuova edizione d'antiche cose; e lo Zanichelli me lo ha pagato moltissimo. — Carducci pose la mano sulla tasca della giacca. — Me lo ha pagato tremila lire.
— Tremila lire! — Io rimasi sbalordita davanti ad una simile cifra. — Tremila lire!...
Passata la prima meraviglia, osservai: — Dunque, in fondo.... conviene anche molto, di essere poeti.
Carducci sorrise. — Sì, sì. Conviene. E adesso taci un po'.
Ma io non potevo tacere, e dopo un istante ricominciai.
— Forse non vi dispiacerebbe se parlassimo un poco.... del colore e della forma....
— « Del Colore e della Forma? » — fece Carducci aggrottando le ciglia. — Non conosco. Di chi è? Sarà qualche pedanteria.
— Di chi è?... che cosa?
— Questo libro che tu dici.
— Ma no! ma no! Del colore e della forma del cavallo!
— Già, — brontolò Carducci, crollando le spalle, — mi pareva impossibile.... Basta. Adesso lasciami mangiare in pace.
Sulla forma convenne con me: il cavallo doveva essere grande. Grande e grosso, dicevo io; grande e magro, diceva lui. Ma sugli altri particolari non fummo d'accordo. Io lo volevo bianco colla coda mozza. Carducci lo voleva nero colla coda lunga.
— Ma, caro Orco....
— Basta; — fece Carducci, — ti ho detto di lasciarmi mangiare in pace.
Ma Carducci non doveva mangiare in pace. Un professore di filosofia, che faceva colazione a un'altra tavola, lo scorse e venne a parlargli. Dopo che ebbero discusso varie cose io riparlai del cavallo; e il professore si offrì di venire con noi al Tattersall.
A me parve provvidenziale. Un professore! Ci aiuterebbe nella scelta. Tanto più che se ne intendeva, avendo un fratello capitano di cavalleria.
Al Tattersall il direttore ci accolse con agitata e premurosa affabilità. Era circondato da molti uomini — maestri d'equitazione, palafrenieri, garzoni di stalla, che in cerchio ci contemplavano.
Allora davanti a noi passarono i cavalli: passarono cavalli grigi e morelli, cavalli bai, cavalli sauri, cavalli pomellati; passarono al passo, al trotto, al galoppo destro, al galoppo sinistro, in appoggio e caracollo.
Carducci ed io li fissavamo incerti. Ad ogni nuovo cavallo che appariva io dicevo: — Voglio questo!
Specialmente mi colpì un magnifico baio con due belle calze bianche sulle gambe posteriori.
Ma il professore di filosofia con cipiglio da conoscitore sentenziò:
— «Balzano da due vale quanto un bue».
E questo mi raffreddò.
Indi ne apparve uno tutto bianco, colla coda lunga e la criniera increspata come se gli avessero fatto l'ondulation Marcel.
— Questo! — esclamammo in coro tutti e tre; ma il cavalier Rossi si affrettò a spiegarci che il puledro — un arabo puro sangue — apparteneva alla cavallerizza di un Circo Equestre Americano; e lo fece ricondurre via.
Ma ecco comparire un altro stallone, un morello altissimo, quasi gigantesco: breve coda irrequieta, orecchie mobili, nervose; occhi lampeggianti in cui balena nell'angolo il bianco iniettato di caffè.
Entrò con passo danzante, alzando i piedi come se la terra gli facesse schifo. Era tutto nero, eccetto due calzerotti bianchi alle gambe posteriori e uno alla gamba anteriore.
— È magnifico! — esclamai.
Il professore al mio fianco citò: — «Balzano da tre, cavallo da re!».
— È questo, è questo ch'io voglio, — dissi con fervore a Carducci; e anche lui guardava assai ammirato la formidabile bestia.
— Pare il cavallo dell'Apocalisse, — disse il professore.
Il cavalier Rossi vedendo il mio entusiasmo mi chiese se volevo provarlo.
Mi prestarono una amazzone, e hop! eccomi in sella, così in alto che mi sembrava d'essere in cima a una torre.
Feci dapprima a passo il giro del maneggio: veramente non era a passo, ma sempre a quel trottigno saltellante e caracollante; mi pareva che facessimo, il cavallo ed io, come nella Mignon, la «danza delle uova». Poi partimmo al trotto, un trotto molto alto, un po' duro, che a scosse e sbalzi mi fece cadere il cappello e spuntare la treccia; indi dal piccolo galoppo ci lanciammo al galoppo allungato; e lì veramente sentii il cavallo perfetto sotto di me. Pareva alato!
Facemmo alt; e mentre io, ancora in sella, mi riappuntavo le treccie, Carducci si avvicinò ad accarezzare il collo lucente del morello.
Anche il Professore si avvicinò, ma guardingo.
— Vedono che mantello? — diceva il direttore, — vedono questa rete magnifica di vene?...
Difatti sul collo e sulla spalla del morello fremente si disegnava tutto un intrico di delicate venature pulsanti. Il professore le esaminò con diffidenza.
— Che non sia un principio d'arteriosclerosi! — mormorò.
Scesi di sella, e dietro richiesta del direttore, provai vari altri cavalli. Ma tutti mi parvero meno interessanti della grande bestia nera. Allora mentre quattro o cinque dei cavalli venivano condotti a passo in giro alla pista, Carducci in mezzo al silenzio domandò:
— Quale di quei cavalli non costa più di tremila lire?
Per un momento tutti tacquero. Poi il direttore si passò due o tre volte la mano sui baffi prima di rispondere. Fu per me un momento di grande ansia. Finalmente con gesto regale stese la mano.
— Quello lì.
Era il cavallo dell'Apocalisse — era il balzano da tre!
— Glielo lascerò per duemila settecento lire, — disse il magnanimo cavaliere.
Carducci mise subito la mano al portafogli; ma il direttore con un gesto lo fermò e lo invitò ad entrare nel suo ufficio. Insieme si allontanarono.
Io mi volsi tutta agitata a uno stalliere che stava vicino. — Come si chiama? — domandai.
— Francesco Impallomèni, — rispose quello.
— .... Ah sì?
Per non offenderlo attesi qualche minuto prima di spiegarmi meglio. — E.... il cavallo che nome ha?
— Il morello? Si chiama Rebecca.
— Rebecca! Che orrore! Perchè Rebecca?
Lo stalliere cacciò in fuori il mento e abbassò gli angoli della bocca fino a parere una rana.
— Mah!... Lo sa Lei?
— Rebecca? — ripetei desolata, volgendomi al professore.
— Sarà forse Babieca, — disse l'erudito. — Babieca è il nome del celebre cavallo del «Cid el Campeador».
— Non mi piace affatto quel nome, — diss'io; e siccome Carducci ricompariva (a fianco del cavaliere, tutto sorrisi) io dissi subito che volevo cambiar nome al mio cavallo.
— -E che nome vuoi dargli?
— Voglio chiamarlo: «O Sauro Destrier della Canzone».
— È troppo lungo — disse Carducci. — E poi non è sauro.
Il professore suggerì molti nomi classici: Pegaso.... Chirone.... Bellerofonte.... e vidi che Carducci si stancava e s'impazientiva.
Allora tagliai corto.
— Che ne direste, caro Orco, se gli dessimo il vostro nome? Mi pare che nello sguardo.... e forse nel carattere.... assomigli un poco a voi. Potremmo chiamarlo «Giosuè Cavallo», per distinguerlo da «Giosuè Poeta».
Carducci tornò di buon umore. — Sta bene, — disse. — E adesso basta. Io devo trovarmi alle quattro col marchese Visconti Venosta a visitare il Castello Sforzesco.
E con un breve gesto di saluto se ne andò.
Il professore mi salutò anch'esso frettolosamente, e lo seguì.
E io?... E il cavallo?... Dove l'avrei portato? Che cosa ne avrei fatto? Ero ospite in casa della mia cara amica, signora Luzzatto, che abitava un piccolo appartamento in via Borgo Spesso. Mi vedevo, io, arrivare alla sua porta con quel cavallo!... Spiegai al cavalier Rossi la situazione, ed egli fu gentilissimo; si offrì di tenerlo al Tattersall finch'io non avessi trovato una scuderia conveniente. Avrei semplicemente pagato la pensione. Un'inezia! Dodici lire al giorno.
Dodici lire al giorno! Una specie di formicolìo mi percorse, fermandosi soprattutto nelle mie ginocchia.... Dodici lire al giorno!
Mio padre mi mandava un assegno di duecento lire al mese; e ogni qualvolta passavo un mese in villeggiatura o all'albergo, per tre mesi non avevo più nulla. Allora andavo a rinchiudermi in campagna in casa di mio fratello dottore; oppure, come ora, mi rifugiavo dalla signora Luzzatto e stavo un po' di tempo con lei.
Corsi subito in via Borgo Spesso. Arrivai pallida e stravolta.
— Che cos'hai? — esclamò con ansia la dolce signora.
— Ho un cavallo! — balbettai. — Un cavallo nero, grandissimo, balzano da tre.
— Riposati un poco, — disse la signora Emilia, con dolcezza ferma. — Mettiti subito a letto.
E vidi che andava verso l'armadietto delle medicine per cercare il termometro clinico.
La convinsi, con qualche difficoltà, che non deliravo. La pregai anzi di venire a vedere Giosuè Cavallo; ma ella, che aveva di tutte le bestie e in ispecial modo dei cavalli un'invincibile paura, non ne volle sapere.
— E che cosa ne farai? Dove lo terrai?
— Non so.... non so, — balbettai smarrita. — Non crede che.... l'onorevole Riccardo.... forse.... saprebbe dove metterlo?
— Mio marito?
— Sì. Potrebbe anche montarlo qualche volta, se volesse.
La signora Luzzatto alzò gli occhi al cielo.
— Meglio non parlargliene, — disse.
E non gliene parlai.
La mia vita fu allora tutta subordinata a Giosuè Cavallo. Volevo stare in città? No; dovevo andare in campagna perchè Giosuè Cavallo ci stava meglio e costava di meno. Volevo restarmene tranquilla? No; mi toccava andare di qua e di là, per monti e valli, al trotto e al galoppo, per passeggiare e disciplinare Giosuè Cavallo (che se stava due giorni in scuderia diventava una belva). Volevo fare un viaggio a Londra a vedere mia sorella? Impossibile lasciare Giosuè Cavallo; e ancora più impossibile condurlo con me. Mi affondavo sempre più in difficoltà finanziarie per far nutrire, albergare, governare Giosuè Cavallo.
Tutte le mie conoscenze mi consigliavano, chi una cosa chi l'altra.
— Bisogna renderlo. Bisogna venderlo. Bisogna dirlo a Carducci.
Renderlo? Venderlo? Mai!
Dirlo a Carducci? A che pro? Relativamente povero anche lui, — che cosa avrebbe potuto fare? E poi egli era così felice di avermi fatto questo regalo, che per niente al mondo avrei voluto dargli un simile dispiacere. Subito, il giorno seguente alla compera, egli aveva voluto vedermi cavalcare all'aperto. Andammo sui bastioni ed io gli passai davanti a galoppo molte volte. Egli era raggiante.
— È bello Giosuè Cavallo, — diceva.
— Io vado a Legnano, — soggiunse, — domattina, in carrozza col prefetto. Potrai venire anche tu; a cavallo.
Così feci. Nell'amazzone presa a prestito dal Tattersall, issata a sommo di Giosuè Cavallo negro-splendente al sole, trottai e galoppai ora davanti, ora dietro, ora a fianco della carrozza, a grande soddisfazione di Carducci e divertimento del prefetto.
La strada era lunga — trenta chilometri! — ed era dura al trotto rigido del morello; dopo un'ora circa io sentivo già ogni singola vertebra della mia spina dorsale, e avevo il torcicollo e un crampo indescrivibile nel braccio sinistro. Giosuè Cavallo non andava mai al passo. Neppure per un istante cessò dal suo trotto rigido e sobbalzante se non per mettersi a quel caracollante trottigno, quasi un passo di danza, così bello a vedersi e così estenuante per chi è forzato ad eseguirlo.
Ma dalla carrozza Carducci mi guardava con un sorriso pacato e soddisfatto; e chiudendo i denti sul labbro repressi le mie sofferenze.
Nulla ricordo del breve soggiorno a Legnano; certo all'indomani mattina stavo abbastanza bene per escogitare delle sciocchezze; così, allorchè Carducci e il prefetto furono scesi nel vestibolo, mi feci portare dal cameriere della legna in fascina, e rompendola a pezzetti ne riempii la valigia di Carducci. Accadde poi che, a metà strada del ritorno, volendo egli mostrare al prefetto certi suoi appunti, aprì la valigia, e il «ricordo di Legnano» che io gli avevo preparato gli si presentò agli occhi.
— Ma come? Ma questa non è la mia valigia! Che cos'è tutta questa legna? — esclamò Carducci incollerito.
Allora al galoppo precedetti sempre di gran tratto la carrozza, e voltandomi scorgevo Carducci feroce che, aiutato dal prefetto, buttava via i pezzetti di legno sparsi tutt'all'intorno.
— Se tu mi fai ancora di codeste stoltezze, — gridò Carducci appena fui a portata della sua voce, — bada bene che ti porto via il cavallo. — Ma la sua ira non mi impressionò troppo. Visto che per lo più quelli che lo avvicinavano — intimiditi dal suo cipiglio o dalla sua grandezza — mantenevano intorno a lui un'atmosfera di gravità e soggezione assai noiosa, credo che, in fondo, le mie monellerie lo riposassero da tanta grigia solennità. Quanto alla minacciata punizione di portarmi via Giosuè Cavallo, certo nulla lo avrebbe più stupito, o addolorato, che se io gli avessi detto: — Sì, sì! Portatemelo via; esso rappresenta per me sotto ogni rapporto una bestia nera!
Me ne guardai bene. Ed egli ripartì per Bologna convinto di avermi fatto il più meraviglioso dei doni; soddisfatto di sè, di me e di Giosuè Cavallo; felice di aver speso così bene — lui, che non era nè ricco nè prodigo — una così importante somma.
Dopo tre mesi Giosuè Cavallo mi aveva completamente rovinata. Per lui mi arrabattavo in una continua ricerca di denaro; per lui mi guastai coi miei parenti più cari a cui chiedevo costantemente denari in prestito; per lui annunciai sulle quarte pagine dei giornali che davo lezioni d'inglese, tedesco, francese, italiano, di pianoforte, chitarra e canto. Il suo baldo passo caracollante mi conduceva, smarrita, dai neri abissi della disperazione alle verdi vette del monte di Pietà.
E per lui io nutrivo quel sentimento complesso fatto di passione e d'ira, di angoscia, d'amore e d'esecrazione che si prova per chi ci costa molto dolore, molte umiliazioni e molti denari.
Egli prosperava, superbo, prepotente, lucente, facendo i passi sempre più alti, sempre più sdegnoso di toccare la terra. Ed io lo guardavo, spaurita e rapita, e sognavo di balzargli in arcione un giorno e via! a carriera, traverso monti, valli e frontiere, fino a giungere ad una certa rupe gigantesca che sovrasta la Via Mala — da Carducci amata e cantata — ed ivi precipitarmi con lui nella voragine....
«Dammi dunque, apollinea, fiera, l'alato dorso
Ecco, tutte le redini io ti libero al corso....
O indòmito destrier,
Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta
Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
Cavallo e cavalier.»
Perchè non lo feci! Sarebbe stato un gesto degno di lui e di chi me l'aveva dato. Forse non ero degna io di una fine così gloriosa. Disertai. Come quegli amanti che dicono: «Moriamo insieme», e poi al supremo passo l'uno vilmente si ritrae, così io lanciai solo nella morte Giosuè Cavallo invece di balzare grandiosamente nel buio con lui.
Volli che morisse? Non lo so; nè voglio oggi ricordare la folle catastrofe che lo spezzò, e che portò me pure vicino alla morte. In ciò ch'io feci ebbi coraggio e viltà.
Ma la viltà maggiore fu che non osai dirlo a Carducci.
Sapevo che gli avrei dato un vero e grande dolore. Egli mi scriveva ora — più sovente del solito — per domandarmi notizie di Giosuè Cavallo.
«Mi piace pensare che è tua quell'apollinea fiera. Mi piace pensare che ho potuto farti un dono così bello. In cima alla mia mente sta l'imagine tua e sua, lanciati al galoppo, ondeggianti la nera criniera e le tue lunghe chiome al vento.... Così, o Loreley pellegrina, sei volata fuor della veduta mia».
Io aborro ed esecro la menzogna. Tutto mi sembra comprensibile e perdonabile all'infuori dell'inganno. Ebbene, io allora — credo di poter dire che questa fu l'unica volta! — ho mentito e ingannato. Alle sue domande rispondevo brevemente, evasivamente, ma non avevo il coraggio di dirgli la verità.
Un giorno mi annunciò prossima una sua visita.
Tremai. Scrissi che dovevo recarmi subito a Napoli. Mi pareva assai lontano.
Ma Carducci ne fu contento.
«Via, dunque, bionda di cavalli agitatrice, a riva più cortese!».
Anch'egli sarebbe venuto tra breve per un sol giorno laggiù, onde salutare una regale Amica, e vedermi passare, sull'azzurro sfondo del Mediterraneo, lanciata a volo «sulla fiera gentil».
Allora, giunta a Napoli confidai la mia angoscia a un poeta — Arturo Colautti — che era venuto a trovarmi. Lo pregai di andare incontro a Carducci e dirgli subito la verità.
Non volle; non osò.
Un ufficiale ch'era con lui mi disse:
— Perchè dargli quel dispiacere? Troveremo un cavallo che per un'ora personifichi il tenebroso corsiero da lui regalato.
Allora fu per tutta Napoli un febbrile cercare di cavalli neri. (Se ne ricorderà forse ancora quell'ufficiale — Maggiotto, allora capitano dei bersaglieri; oggi solennemente installato nel Ministero della Guerra. E il marchese Lillo Catalano.... e il conte Bruno Torri....). Davanti al balcone della casa in strada Caracciolo dove io avevo preso alloggio, fu uno sfilare di foschi corridori: di morelli grandi e grossi, di morelli lunghi e magri; di morelli ombrosi e morelli generosi, di morelli con balza e senza balza.... Ma nessuno — ah! nessuno — che assomigliasse a quello donatomi dal poeta.
La scelta cadde finalmente su di uno portatomi da Maggiotto.
Il cavallo si chiamava «Ras Alula»; era nero, era grande, era balzano da tre. Ma qui la somiglianza cessava. Ras Alula era un mite, era un remissivo, un rinunciatario, un vinto della vita. Per quanto io lo molestassi con morso, scudiscio e tacco per animarlo, per farlo inalberare come soleva il mio nobile corsiero, Ras Alula scoteva la testa placidamente, partiva a un piccolo trotto, e se a furia di strappi e strapponi, di frusta e sperone riuscivo a farlo galoppare, si dimenava nel molle movimento d'una sedia a dondolo, con pendula coda e testa ciondolante.
Io ero disperata.
— Non si sgomenti, — disse Maggiotto, lisciandosi la barba nera e fissando lo sguardo, più focoso assai che non quello del suo cavallo, sul mite e gigantesco Ras Alula. — Ci penso io.
E ci pensò. Appena annunciato l'arrivo di Carducci alla Villa, io che aspettavo, già troneggiante sul titanico e quiescente Ras nel cortile di via Caracciolo, vidi arrivare di corsa Maggiotto col suo attendente. Maggiotto afferrò la redine, mentre il soldato passava dietro la groppa del cavallo.
Sentii un improvviso fremito percorrere la bestia, che nitrì, e tirò un violento calcio.
— Ma che cosa gli fate? — gridai.
— Niente, niente, — rise Maggiotto; — un po' di zenzero sotto la coda! — E abbandonò la redine mentre il soldato balzava indietro.
L'effetto dello zenzero fu magico. Ras Alula si impennò, fremente, annaspando l'aria, rizzandosi quasi volesse rovesciarsi all'indietro. Cedetti le redini e con una scudisciata sulla testa lo richiamai; allora, tuffando il capo, partì forsennato, battendo scintille dai ciottoli del cortile, scivolando sul selciato, lanciandosi a carriera per la passeggiata di Chiaia.
Così, a volo, passai davanti a Carducci, che tra un gruppo d'altre persone, era fermo all'angolo della Villa ad aspettarmi; ebbi solo per un attimo la visione della sua faccia alzata a guardarmi — e odiai Ras Alula, e Maggiotto, e la vita.... e più di tutto odiai me stessa, che recitavo questa vile, questa ignobile menzogna. Con frusta e sprone aizzai la bestia già frenetica che come una folgore infilò la strada lungo la marina.
Ed ecco a un tratto, ancora lontano davanti a noi, un brillìo d'argento e di rosso vivido — era la carrozza reale, era Margherita preceduta dai suoi staffieri, che faceva con regale dignità la sua consueta passeggiata a mare.
Allora con quanta forza avevo tirai le redini: bisognava rallentare la corsa, per non raggiungerla, sopratutto — imperdonabile violazione d'etichetta! — per non oltrepassarla.
Ras Alula non obbedì, non sentì; aveva il morso tra i denti e andava come il vento, pazzo, cieco, frenetico. Invano con strappi alternati tirai e cedetti le redini, invano strappai a destra e poi a sinistra, segandogli la bocca.... la bestia in furore continuò la sua corsa! Fu miracolo se, con uno sforzo che quasi mi slogò i polsi, riuscii a farlo deviare quanto era necessario per non andarci a fracassare contro l'equipaggio reale.
In un fulmine passammo dinanzi alla Regina: ella deve aver visto, come un lampo nero e villano, comparire e sparire le mie esili spalle e la coda sbandierante dell'insano Ras Alula....
Allora più che mai sentii di aborrire tutto e tutti e avrei voluto lanciarmi dalla sella a capofitto nel mare.
Quando fummo all'altezza della chiesa di San Ferdinando, Ras Alula subitamente si calmò: sulla via traversa fece due o tre scivoloni, salì sul marciapiede come se volesse entrare nella chiesa.... e si fermò ansimante, coperto di schiuma.
. . . . . . .
Allorchè trovai finalmente il coraggio di scrivere a Carducci che Giosuè Cavallo non era più mio.... che non era più di nessuno.... egli non rispose. Nè so che cosa abbia pensato.
I casi della vita mi trassero lontano. Quando, dopo molti anni, rividi Carducci nè io osai rammentarglielo nè lui me ne parlò.
. . . . . . .
Oggi nella Villa di Napoli, al posto dove in quel giorno vidi alzato verso di me il suo viso fiero, c'è un rigido busto di marmo che porta il suo nome.
E che non gli assomiglia.
OPERE DI ANNIE VIVANTI
Naja Tripudians. — Romanzo. (Bemporad — 2ª edizione, 1921) L. 6,50
Lirica. (Bemporad, 1921) L. 6, —
I Divoratori. — Romanzo. (Bemporad) L. 10, —
Circe. L. 7, —
L'invasore. — Dramma L. 6,50
Vae Victis! — Romanzo L. 6,50
«Zingaresca.» L. 7, —
Le bocche inutili. — Dramma L. 6, —
Marion. — Romanzo L. 7,50
GIUDIZI DELLA STAMPA SU « NAJA TRIPUDIANS »
Corriere della Sera ( Ettore Janni ).
Ed ecco ora il romanzo che avvince e fa rabbrividire, l'opera d'arte che spicca il volo dalla realtà ed è fantasia, Naja Tripudians di Annie Vivanti. L'idillico e il tragico vi fanno un violento contrasto.... ma l'idillio è come una maschera lieve che cade e scopre il volto dell'orrore.
La catastrofe è presentata con una potenza a cui non si resiste. Singolare nella sua sobrietà formidabile è la chiusa.
Un romanzo che non si confonde con gli altri: la voce che canta più alta e più sicura sulle mediocri orchestre e sui cori sguaiati.
Il Secolo ( Paolo De Giovanni ).
.... Un fiume di delicata poesia.
Giornale d'Italia ( Diego Angeli ).
.... E in queste parole è tutta la morale e tutta la spiegazione del bello e crudele romanzo che Annie Vivanti pubblica in questi giorni pei tipi del Bemporad di Firenze. Bello e crudele e sotto un certo punto di vista altamente morale nella sua immoralità.... Quest'ultimo capitolo ha la durata di poche ore,... capitolo terribile, dove la descrizione di quella società equivoca è descritta con grande sapienza e dove tutti i vizi — dall'omosessualità alla cocainomania, dall'ubriachezza dei liquori forti allo stupore dell'oppio, dalle sottili dissertazioni sul godimento e sul desiderio, alla rivelazione brutale della voluttà — sono trattati con mano maestra.
.... E Annie Vivanti è un'artista e il suo romanzo è tanto più pericoloso in quanto che è più bello.
Idea Nazionale ( Umberto Fracchia ).
Naja Tripudians si legge con foga. Ecco stabilita la superiorità di questo romanzo femminile su tanti romanzi maschili che sono terribilmente noiosi....
Il Marzocco ( Luigi Tonelli ).
.... Qui abbiamo una scrittrice nel vero senso della parola, che concepisce con potenza d'intelletto, e s'esprime con una sicurezza ed efficacia mirabili. In Naja Tripudians riconosciamo l'autrice sorprendente de I divoratori, fosca di Circe, violenta e smagliante di Vae Victis: la creatrice d'immagini sfolgoranti, la coniatrice di frasi sintetiche e potenti, la calcolatrice sapiente d'effetti irresistibili.
È impossibile resistere al fascino di questa scrittrice interessante che quando pare abbandoni, ti riprende di colpo, e t'inchioda allo scrittoio, finchè hai letto l'ultima pagina.... che ti lascia scosso e turbato fin nell'intimo dell'anima.
Il Tempo ( Nicola Moscardelli ).
Qui tutto è logico, naturale, musicale: il racconto precipita verso la conclusione fatale, così, come quella notte precipitava verso l'alba. Con quale modestia di mezzi è descritta l'aria in cui vive la mondana!
Come leggermente si insinuano nell'anima delle due colombe i profumi e gli stordimenti emanati da quel mondo nuovo.... accennando appena un particolare, come una piccola fiammella che s'apre e chiude improvvisa, come se una musica sonnolenta impregnasse di sè tutta l'aria, scivolando, le immagini si precisano, emergono, si realizzano.
L'impressione che dà il libro è profonda e profondamente morale: è l'orrore del male, la nausea per il vizio, il ribrezzo per la impurità scandalosa delle città cosidette morali.
Nuova Antologia.
Tutto il romanzo è un potente contrasto tra l'innocenza più pura e la depravazione più abbietta. A pagine fresche come un riso di puerizia, seguono pagine torbide di una drammaticità che turba e commuove.
L'Italia che scrive ( Fernando Palazzi ).
Qui veramente Annie Vivanti s'è abbandonata a sè stessa, ha svelato sè stessa. Forse non s'è neppure accorta di fare dell'arte, perchè in fondo non ha fatto altro che confidarci l'anima sua. Io non conosco Annie Vivanti, se non da un verso del Carducci.... ma noi conosciamo adesso la vera fisionomia dell'anima sua, che è bionda, romantica, timida, ingenua, sentimentale, fanciulla.
Si è discusso se Naja Tripudians sia o no il capolavoro di Annie Vivanti. Io capisco benissimo come altri possa preferire I divoratori o Vae Victis, romanzi assai più forti. Io preferisco Naja Tripudians, specialmente per la dolcezza.
Tutto ( Cesare Sobrero ).
Ecco un nuovo libro casto ed orribile ad un tempo.... Casto poichè la scrittrice riproduce le impudicizie col ferro rovente di una nausea profonda, di una desolazione accorata. Orribile, poichè la degenerazione psichica, e non psichica soltanto, vi è riprodotta colla precisione di altrettanti casi clinici.... Ricercando i gradi di parentela che possono esistere fra Naja Tripudians e le opere di altri artisti, viene fatto di pensare che Annie Vivanti abbia invocato, compiendo la sua nobile fatica, due grandi ombre: Victor Hugo ed Octave Mirbeau. Victorughiana è la concezione del libro per il senso profondo dei contrasti, per la tragicità del contenuto umano. La seconda parte del volume, cioè le pagine vigorosamente realistiche ricordano invece le acri, inesorabili pitture del Mirbeau.
.... Raramente in un libro, evocazione fu più dolorosa, pittura più straziante, lettura più struggente di questa orribile profanazione impunita.
I libri del giorno.
.... Qui veramente la forza del libro sta nella poesia della forma, nella efficace evocazione degli ambienti, nella leggera e quasi trasparente musicalità dei periodi. Il libro incomincia con capitoli di una delicatezza e di una grazia squisitamente femminili.... qualche cosa che fa pensare alla freschissima «Primavera» del Grieg.
.... Ma a un punto la tinta rosea del romanzo viene interrotta improvvisamente da qualcosa di oscuro e misterioso.... Le pagine si fanno inquiete; a quel profumo di innocenza che aveva fin qui accompagnato il racconto si mescola uno strano e tentante odor di peccato.
.... Corre per tutte le frasi come un misterioso brivido, un serpeggiare di febbre.
Aprire il romanzo e leggerlo è come entrare in una serra dove tra i più semplici e delicati mughetti, alcuni strani fiori effondono un loro acuto e perverso profumo. Non si ha il tempo e forse nemmeno il coraggio di avvicinarli, tanto quel profumo ci prende, ci stordisce, ci travolge. Esciremo dalla serra, opporremo gli occhi e la fronte ai rudi baci del vento, ma il ricordo di quei terribili fiori resterà a lungo entro di noi, come di un sogno bello e perverso....
Il Giorno ( Carlo de Flaviis ).
Pagine belle e tristissime: due piccoli mondi; scolpito, il primo, con una perfezione d'arte impeccabile, descritto il secondo, con una verità a volte piena di impudica baldanza a volte piena di titubante sgomento.
La Chiosa.
Tutta Annie Vivanti è qui: con le sue mani cariche di poesia ch'ella profonde in così bizzarro modo: qua, là, dovunque un dettaglio svegli la sua vibratilità, soffermi la sua commozione, desti la sua sensibilità.
Non ci soffermeremo a evocare le bellissime tra le molte belle pagine del romanzo. Al pari di tutti i libri della Vivanti esso afferra alle prime pagine e non lascia più.
L'interesse che suscita vi è graduato così che dall'incantesimo di una dolcezza piana e serena si passa a poco a poco per tutti gli stadi dell'ansia e della trepidazione fino a raggiungere l'angoscia piena d'orrore che strugge l'anima alla fine del racconto e del libro. Si esce da questa lettura sotto il peso di un incubo.
Poesia! questo è il segreto di Annie Vivanti. Il segreto della sua malìa e della sua arte; dei suoi occhi ancora pieni di stellante azzurro e dei suoi libri sempre saturi di freschezza; della sua giovinezza sempre intatta e delle sue pagine sempre avvincenti.
La Donna ( Nicola Moscardelli ).
Il libro si chiude con un senso di soffocazione.
Sebbene sia composto con un'arte squisita, nulla rivela in esso l'artefizio, nel quale era così facile cadere.... Non c'è nulla da aggiungere, e nulla da togliere.
Don Marzio.
Squisitezze psicologiche, gioielli d'osservazione, un profumo di grazia inarrivabile....
Gazzetta di Messina ( G. Gigans ).
Colei che seppe costruire coll'aiuto del suo potentissimo genio un'affascinante, vicenda — I divoratori — ; colei che seppe nel poema vibrante di verità accomunare la fede al dolore — Vae Victis — .... ci regala quest'opera semplice e possente.
La Vivanti quando vuole appassionare il lettore, sceglie un argomento semplicissimo, un argomento di vita vera.
Questa la sua arte. La semplice verità.
La Scuola ( Antonio de Filippis ).
Il poeta è vate. Gli basta uno sguardo, ed egli intravede il futuro. — Carducci, da profeta, intravide il genio di Annie Vivanti e disse: « canta! ».
.... Annie dimostrò il suo vero temperamento di artista col romanzo. Nel romanzo appare grande, perchè originale, strana, ardita, ma sempre vera. Tutta la vita di Annie è una battaglia contro la ipocrisia.... E con Naja Tripudians ella compie una lotta ancor più potente.
Storia triste che risalta sulla tavolozza di un Rembrandt!
Il Pungolo ( Giuseppe Scaglione ).
La poetessa squisita di «Lirica» la narratrice intensamente drammatica dei casi pietosi e terribili di Maria Tarnowska, l'autrice di «Zingaresca» di «Vae Victis» di «Bocche Inutili» ha creato ancora un'opera di grande bellezza artistica e di appassionata, travolgente poesia. Sopratutto da questo ultimo libro bisogna veramente riconoscere ad Annie Vivanti, una grande forza di pensiero e di forma; di pensiero ricco, elevato, profondo, di stile deciso, rapido, serrato, in alcuni momenti quasi convulso.
Ella non soffre infingimenti e contraffazioni del pensiero e della forma. Ribellandosi a falsare la propria natura impetuosa e serena, e la natura delle cose e degli uomini, porta nei suoi libri una veemenza ed un pathos, una sincerità di vita che incatena l'attenzione del lettore di pagina in pagina e di libro in libro, con un continuo crescendo.
I suoi libri sono morali, non di una morale stentata, arcigna e cattedratica, ma libera e spontanea.
Con quale signorilità e sicurezza d'intuito, con quale potenza di analisi e semplicità di espressione è narrato questo documento umano così tragico e così patetico!...
Il Pungolo ( Rodolfo Guido de Marsico ).
.... Questa la vicenda di «Naja Tripudians». Vicenda terribile che martoria lo spirito, che esaspera, che accende una ribellione, che ci fa bestemmiare la vita!
E più terribile è il romanzo perchè scritto da una artista. Annie Vivanti ha adoperato i colori più delicati, le sfumature più evanescenti, perchè più fosca noi sentissimo la tragedia che quella luce distruggerà.
Don Quichotte ( Parigi ).
.... Madame Vivanti y confirme une fois de plus son grand talent. Les derniers chapitres constituent un morceau de haute littérature horrifique.
GIUDIZI DELLA STAMPA INGLESE SU « I DIVORATORI »
Herald.
Qui ci troviamo davanti a quella rara cosa — un'opera di genio.
Telegraph.
Questo meraviglioso libro è un'opera di bellezza creata da chi possiede il più grande dono dello scrittore — lo stile.