ARRIGO IL SAVIO

RACCONTO

DI

ANTON GIULIO BARRILI

SECONDA EDIZIONE

MILANO

FRATELLI TREVES, EDITORI

1886.

PROPRIETÀ LETTERARIA

RISERVATI TUTTI I DIRITTI.

Tip. Fratelli Treves.

ARRIGO IL SAVIO

I.

L'ultimo giorno di gennaio dell'anno 1882, un signore, alto della persona, dal volto abbronzato e dai baffi grigi, scendeva di carrozza, sulle prime ore del mattino, come a dire fra le otto e le nove, davanti ad un portone della via Nazionale, in Roma. Aveva l'aria assai nobile, era vestito con severa eleganza e andava diritto, con soldatesca balìa, come un colonnello in abito cittadino, che sotto le spoglie inusitate lascia indovinare i suoi trent'anni di spallini. Entrato nell'androne, e osservata non senza stupore la magnificenza delle scale, ascese al secondo piano, dove era scritto, su d'una piastra di porcellana, “ Cav. Arrigo Valenti.

— Cavaliere! — esclamò il signore dai baffi grigi. — O che diavolo ha fatto il mio signor nipote, per esser nominato cavaliere? Dei debiti, m'immagino. E saranno certamente assai più di quelli che mi aveva lasciati sospettare la sua lettera ad uno zio che non ha mai visto nè conosciuto. Ahimè! Prevedo, — conchiuse egli, sospirando, — che pagherò anche questa bella piastra di porcellana del Ginori. —

Tirò allora la maniglia del campanello, e un minuto dopo fu aperto l'uscio da un servitore in mezza livrea.

— Chi cerca? — domandò questi.

— Il signor Arrigo Valenti.

— Il cavaliere, — ripigliò il servitore, battendo sul titolo, — non riceve ancora.

— Ah, mi rincresce. Sono arrivato stamane col treno delle sette, e credevo....

— Se il signore vuol lasciar detto il suo nome....

— Volentieri; ecco qua. —

Così dicendo, il signore dai baffi grigi aveva cavato di tasca il portafogli, per prendere un biglietto di visita. Ma ci aveva troppi biglietti di banca: e quelli di visita, o erano affogati nel mucchio dei loro più degni fratelli, o erano stati dimenticati a casa.

— Bene! — esclamò il signore, facendo un atto di rassegnazione, dopo due o tre d'impazienza. — Non ne trovo. Dite al vostro padrone che è passato a cercarlo Cesare Gonzaga. —

Il servitore sgranò tanto d'occhi, a mala pena ebbe udito quel nome, e s'inchinò per modo da far credere che volesse piegarsi in due.

— Perdoni, Eccellenza!... Si dia la pena d'entrare! —

Il signore sorrise sotto i baffi grigi ed entrò. Quell'altro, richiuso prontamente l'uscio, corse a sollevare il lembo di una portiera in fondo all'anticamera.

— Per di qua, signor marchese, per di qua! — diceva egli, frattanto, inchinandosi da capo. — Questo è lo studio del padrone.

— Marchese! — brontolò il vecchio signore. — Per chi mi hai preso?

— Scusi, illustrissimo! Non è lei lo zio del cavaliere Valenti?

— Suo zio, certamente.

— O allora?

— Allora saprai, — disse gravemente il vecchio signore, — che si può essere zii, senza essere marchesi.

— Ah, ah, sicuro! — rispose il servitore, facendo bocca da ridere. — Ma egli è che i Gonzaga... scusi, illustrissimo! I Gonzaga sono... i Gonzaga, e portano d'oro con tre fasce di nero. —

Il vecchio guardò con atto di stupore quel servo, che gli blasonava con tanta sicurezza lo scudo.

— Come? — disse poi; — saresti un dilettante di araldica?

— Che vuole, illustrissimo! — replicò umilmente quell'altro. — Servendo i gran signori, ci si piglia anche un'infarinatura di quest'arte.

— Di bene in meglio! Sentimi dunque. Hai tu veduto mai uno stemma come questo: cuor d'oro in campo d'argento?

— Ella scherza, illustrissimo. Non si può metter mica metallo sopra metallo.

— Neanche in tasca?

— Oh, questo poi sì.

— Ottimamente; vedo che la sai lunga, giovinotto! Ma il tuo padrone....

— Vado ad annunziarla subito. Vuol essere contento il cavaliere, quando saprà che è arrivato suo zio. Da tre giorni l'aspetta con impazienza.

— Eh, lo credo; va dunque. —

Il servitore si avviò sollecito, con una gran voglia di fregarsi le mani.

— Ecco uno strano capriccio; — pensava egli. — Non vuole esser chiamato marchese. Capisco che potrebbe pretendere il titolo di duca. Ma infine, certi nomi storici hanno il titolo sottinteso. —

Fatta questa peregrina scoperta, il signor Happy (pronunziate Hèppi ) si allontanò dallo studio. Rimasto solo, il signor Cesare Gonzaga, non marchese, nè duca, si avvicinò alla finestra, tanto per fare qualche cosa, aspettando.

— Chi conosce più Roma, specie da queste parti? — mormorò egli, guardando la strada.

— Trentatrè anni! Ah, come passa il tempo, quando i più belli anni sono sfumati! Ma che cosa è la vita? Le falde, i primi passi, i primi giuochi, le panche del collegio... poi l'università, un paio di duelli, quattro amori bugiardi e uno che si vorrebbe creder vero... qualche follìa, molti disinganni, molte amarezze... e allora una forte risoluzione! Nessuna via di mezzo; o il nuovo mondo, o l'antico; o l'America, o l'Asia. E là il lavoro, il febbrile lavoro, gli stenti, le privazioni, e qualche volta la fortuna, che un altro c'inghiottirà, come noi abbiamo inghiottita quella dei padri! Ecco la mia vita. Ed ecco, meno l'Asia e l'America, la vita del mio signor nipote; già l'ho indovinato dal gran desiderio ch'egli ha di vedermi. Avevo giurato di non rimetter piede in Roma, ed eccomi qua. Bei giuramenti! Ma come fare, con questo ragazzo che prega, invocando la memoria di sua madre, della mia povera sorella, che non dovevo più rivedere? Di certo le somiglia, perchè i maschi tengono sempre della madre. Poveraccio! Purchè non le abbia fatte troppo grosse! Qui, per altro, c'è lusso; ci si sente agiatezza. Chi sa? Forse è un quartiere d'affitto. E ci hanno messa anche la cassa forte. —

Il savio lettore avrà capito che Cesare Gonzaga si era già allontanato dal vano della finestra, per dare una scorsa in giro e una guardata allo studio del suo caro e sconosciuto nipote.

— Arnese di parata, la cassa forte! — borbottò egli, proseguendo. — Gli strozzini le conoscevano, ai tempi miei, queste alzate d'ingegno degli studenti di legge. Ma il mio signor nipote non è più studente; ha la sua laurea da due anni, da tre... che so io? Gran legista! Grande giureconsulto, ha da essere! Ci fosse almeno la libreria, per dar negli occhi ai clienti! Ah, ecco un volume sulla scrivania. È il codice di commercio; meno male! Ma se valesse dugento lire, come certi libri rari, sarebbe ancor qui? —

Come vedete, il signor Cesare Gonzaga non si lasciava confondere da tutta quella apparenza di lusso severo, e ci odorava il quartiere ammobiliato, e il conto da pagare ad un troppo credulo fornitore; fors'anco a più d'uno.

Le sue malinconiche osservazioni furono interrotte dal ritorno del servitore.

— Or bene? — gli chiese.

— Mi duole, illustrissimo....

— Dorme, ho capito; — ripigliò il signor Cesare. — Infatti, sono appena le nove del mattino. Che ora è questa mai, da venire in cerca di un nipote?

— O che, le pare? S'è alzato anzi per tempo e, se non fosse stato un certo negozio, sarebbe anche già andato a fare la sua solita trottata mattutina fuori di porta Pia.

— Anche il cavallo pagheremo; — pensò lo zio, sospirando. — Purchè non sia bolso, come certi cavalli che appoggiavano a noi! Ma allora, — soggiunse ad alta voce, — che cos'è che lo trattiene? —

Il servitore nicchiava un pochettino, ma sorrideva anche, mostrando negli occhi maliziosi il desiderio di farsi cavare i segreti di bocca.

— Veda, non so se debbo dire.... Infine, non ho neanche potuto giungere fino a lui, perchè l'uscio di comunicazione è chiuso.

— Comunicazione! con che!

— Ecco, — ripigliò il servitore con aria di mistero, — con lei, che è suo zio, si può dire. Dev'essere... in conferenza.

— Già, capisco, con qualche pezzo grosso, un avvocato, un collega....

— Non so, perchè, da un pezzo che viene, io non l'ho mai veduto.

— Non gli apri tu?

— No, mai; l'uscio che mette dall'altra parte, in via Sallustiana, lo apre il signor cavaliere. —

Il vecchio stette alquanto sovra pensiero; quindi osservò con molto giudizio:

— La scienza è arcana, ed ama nascondersi. Aggiungi che alle persone di riguardo certe attenzioni bisogna usarle. Come ti chiami?

— Happy, secondo l'uso di casa; Felice, secondo il registro battesimale della Mirandola.

— Concittadino del tuo padrone, dunque!

— Sì, illustrissimo, e ci siamo conosciuti, dirò così, da bambini.

— Ah, meglio così! Tu devi amarlo molto, e conoscerlo... egualmente. Senti, Happy Felice, tu mi sembri un giovanotto d'ingegno svegliato.

— Se ella lo dice....

— I fatti lo dimostrano; la patria lo vuole; dovresti chiamarti Pico, senz'altro. Ho già avuto un saggio delle tue cognizioni in araldica. Il metallo che non si può mettere sopra un altro metallo.... A proposito, scommetto che ti piacciono i marenghi. —

E il vecchio Gonzaga avvicinava, così dicendo, il pollice e l'indice della mano destra al taschino della sottoveste, secondo la buona usanza degli antichi.

— Scommetta pure, illustrissimo; — rispose Pico della Mirandola. — Guadagna di certo; specialmente adesso.

— Perchè adesso?

— Eh, si figuri! C'è l'aggio sull'oro. Stamane il listino porta novantaquattro centesimi, con tendenza spiccata a salire, essendoci molta domanda per i pagamenti all'estero.

— Tu sai di cambio come d'araldica; — gridò il vecchio, ammirato. — Bravo! Vedi questo, se gli è di peso.

— E di pregio, caspita! — rispose Happy, dopo avere osservato il marengo che gli aveva offerto così liberalmente il Gonzaga. — Conio del 1849, con l'Italia libera sull'esergo; questi si vendono cari per le raccolte.

— E di numismatica come di cambio! — esclamò il Gonzaga, ridendo. — Ma già, che cos'è il cambio? Numismatica applicata al contante. Suvvia, arca di scienza, io ti ho aperto; — proseguì, mettendosi a sedere; — parla dunque, ti ascolto.

— Di che cosa debbo parlare, illustrissimo?

— Di tutto quello che sai. Sono lo zio, una specie di zio d'America, quantunque venuto dall'Asia, e posso, e devo, e voglio sapere ogni cosa. Il tuo padrone è in conferenza; ne avrà ancora per un pezzo; occupiamo dunque il tempo a parlare di lui. Come vive mio nipote?

— Bene. — rispose il servitore.

— Ma, dico a te che lo conosci da bambino, ha debiti? —

Happy fece un gesto di meraviglia, e, se volete, anche di orrore.

— Debiti, il mio padrone? Ohibò! Queste cose si lasciano ai figli di famiglia.

— Ah! tu dici?... Ma sai che mi levi un gran peso dallo stomaco? Sul serio, non ha debiti?

— Neanche per sogno. E chi ha potuto darle ad intendere una simile sciocch... Oh, scusi, illustrissimo!

— Dilla, dilla intiera; — replicò il vecchio giubilante. — E prendi quest'altro, in ricompensa della tua buona notizia. È un Luigi XVIII; servirà per la raccolta. Non ha debiti, dunque? Ma sai che è una maraviglia?... —

Il servitore si strinse nelle spalle, dopo avere intascato religiosamente la seconda moneta.

— Ma che debiti! — esclamò. — Roba d'un secolo fa. Chi è che fa debiti, ora? Il mio padrone ha crediti, e molti; oserei dire fin troppi. —

Il Gonzaga fu per mettere la terza volta le mani al taschino, ma si trattenne, per non dare nella caricatura,

— Con le tue buone notizie tu saresti capace di rovinarmi, — rispose. — Dunque gli è un Creso?

— Eh, — disse il servitore, — se lo intende per ricco sfondato, metta pure.

— E che fortuna gli fai? sentiamo.

— Così su due piedi, non saprei.

— Prendi una sedia; non far complimenti.

— Oh illustrissimo, le pare? Dicevo così per dire. Ma infine, calcolando alla grossa, se sa liquidare a tempo, ha già un milione e mezzo, come è certo che io ho, per grazia di Vossignoria, quarantuna lira e ottantotto centesimi. —

Il signor Gonzaga non istette a fare i conti sull'aggio dell'oro. All'annunzio del milione e mezzo aveva già dato un balzo sulla poltrona.

— Hai detto? — gridò, ficcando gli occhi addosso al servitore. — E se non sa liquidare?

— Oh, non c'è questo pericolo, perchè il cavaliere conosce molto bene i suoi interessi. Ma posto il caso....

— Sì, poniamo il caso; — disse il Gonzaga, che prendeva gusto alla conversazione.

— Gli rimarrebbero sempre ottocento o che mila lire; — ripigliò il servitore segretario. — Ecco qua: centomila lire di rendita, comperata a ottantasei, rivenduta a novanta; veda un po' che affar d'oro. Ventiquattro azioni della Banca; le aveva a duemila, e sono ora a duemila trecento sedici. Buon titolo, perbacco; e crescerà, non dubiti, crescerà. La Banca sostiene lo Stato; lo Stato sostiene la Banca. E il Credito mobiliare? Il mio padrone è uno dei pochi che hanno creduto in tempo, e potrei dire che ha fiutata l'aria. Ha comperato ducento azioni a ottocento, ha rivenduto a novecento trentasei; ricavo netto... —

Il vecchio non volle saper altro.

— Va al diavolo! — gridò. — Ma come? Che zio d'America sono più io? Qui si nuota, si naviga nell'oro. Mio nipote... il figlio di mia sorella Cecilia... quel ragazzo che ancora tre anni fa, quando io ne ebbi le prime notizie, studiava leggi a Bologna!... Ai miei tempi, l'oro, dagli studenti, era ancora annoverato tra i metalli preziosi. Si parlava con aria di mistero d'una miniera in Colco, custodita da un drago, che aveva una faccia da strozzino. Basta, meglio così. Quei debiti non erano mica la cosa più bella del mondo. Ci facevano anzi un po' di torto; senza contare che ci obbligavano a certi studi di topografia! I nostri successori, se Dio vuole, hanno mutata la faccia del mondo. Per altro, amano ancora, come noi, — osservò il vecchio, sorridendo. — Qui c'è discretezza e mistero. La conferenza lo dice chiaro. Anche di qua sento l'ambrosia, indizio del Nume. Bravo il mio giovane Arrigo! — seguitò, borbottando tra i denti, ed anche a volte mandando fuori le parole, alla guisa degli uomini che son vissuti lungamente soli e pensano, come suol dirsi, ad alta voce. — Amo chi ama la donna, e più ancora chi, amandola, mostra di rispettarla. Quando ero giovane io... Ma che fai tu, Pico della Mirandola? — diss'egli, interrompendo il monologo, per rivolgersi al servitore, che s'era accostato e tendeva l'orecchio.

— Scusi, illustrissimo, stavo a sentirla; — rispose quell'altro, col suo ossequio condito di malizia. — È così istruttivo, il suo discorso!

— Ah sì, vorresti anche imparare la storia antica, briccone? —

Una scampanellata all'uscio di casa mozzò le parole in bocca a Pico della Mirandola, che già stava per rispondere alla celia del Gonzaga, e fu invece costretto a correre in anticamera.

Il vecchio riprese la sua rassegna, ma questa volta con animo mutato e intieramente propenso all'ottimismo. Ottocento mila lire! Fors'anche un milione e mezzo! Che si canzona?

Poco stante, entrava nello studio un nuovo personaggio. Era un uomo non vecchio, nè giovane, e aveva una di quelle facce asciutte a cui dareste trenta o quarant'anni, magari venticinque, o cinquanta, tanto è difficile raccapezzarsi, tra la barba fitta di color ferrigno e la poca carne che apparisce alla vista. L'aspetto poi era severo, quasi triste; gli abiti signorili, l'aria disinvolta, il passo franco dinotavano l'amico di casa.

— Credo che si stia vestendo, perchè è tornato dianzi dalla sua cavalcata; — gli aveva detto il servitore, pronto alle invenzioni, e senza darsi pensiero della versione più esatta che s'era creduto in obbligo di confidare allo zio del padrone. — Se vuole aspettarlo qui, c'è anche suo zio, il signor marchese Gonzaga. —

Il nuovo venuto si avanzò con molta premura, appena ebbe udito quel nome.

— Oh, fortunatissimo di fare la sua conoscenza, e di presentare i miei rispetti, — soggiunse. — Arrigo, da parecchi giorni, non fa che parlare di lei.

— Ottimo cuore; — mormorò il vecchio, inchinandosi.

— Ah sì, cuor d'oro! — rispose quell'altro. — E l'ama molto, creda; io, che passo le intere giornate con lui, ne so qualche cosa. Ed anche da tre giorni lo aspettava a Roma.

— Sì, lo so; — rispose Gonzaga. — Il suo Happy me lo stava dicendo per l'appunto, prima che ella giungesse.

— Ieri sera siamo andati insieme alla stazione, — incominciò il nuovo personaggio, — perchè Arrigo l'aspettava col treno serale. Ma ella non c'era, e il mio amico ne fu dolentissimo. Si figuri! Egli, per solito così calmo, era proprio fuori di sè. Ma io ora l'annoio, con questi discorsi.

— No davvero; prosegua; mi fa anzi piacere, signor....

— Orazio Ceprani, per obbedirla.

— Onoratissimo! — ripigliò il Gonzaga, facendo l'inchino d'obbligo. — Mi fa piacere sentire da lei che Arrigo mi ama. Non ho più che lui, di parenti, e quando mi ha scritto che aveva bisogno di me, si figuri, mi sono augurato un bel paio d'ali. Ma il vapore non è l'elettrico. Avevo anche qualche faccenda di campagna da assestare, e mi passò la giornata.

— Ella abita sul Reggiano?

— Alle Carpinete, si figuri, nei dominii della contessa Matilde. Ritornato da tre mesi in Italia, ho subito trovato da comperare un podere. Un po' lontano da casa mia: ma che vuole? Laggiù a Mantova non mi conosceva più nessuno. Siamo vecchi, ecco il guaio.

— Vecchio, poi! A cinquant'anni!...

— Sì, bravo, mi canzoni. Cinquant'otto, signor mio, e si potrebbe dir anche cinquantanove, se in materia d'età avesse valore la massima romana: annus incoeptus pro integro habetur.

— In verità, se non lo dicesse lei... Potrebbe anche tacerlo, e far credere ai cinquanta.

— Non ci son dame e mi fo coraggio a confessarli tutti; — replicò allegramente il Gonzaga. — Li porto bene, non dico di no, quantunque venticinque o trenta li porterei anche meglio. Ma proprio, ritornando al nostro discorso, ma proprio, signor Ceprani, ella non poteva darmi più lieta notizia, e sono anche più contento di essermi mosso dal mio èremo. Questa Roma che ho lasciata a venticinque anni, — qui il vecchio trasse un sospiro e corrugò le ciglia, — mi pare più bella, ora che so di averci qualcheduno che mi ama. A noi, vissuti le mille miglia lontani dalla patria, invecchiati di là dai mari, in mezzo a genti barbare, come canta nel Belisario il tenore, queste cose hanno un pregio immenso, un pregio che non lo può intendere chi è sempre vissuto all'ombra dei campanili e delle torri italiane. Eccole dunque, signor Ceprani, una bella fine di mese. —

La faccia del signor Ceprani si rabbruscò, a quel ricordo innocente del calendario.

— Ahi, non per me! — diss'egli in cuor suo.

— I miei ringraziamenti, adunque, e la mia amicizia; — proseguì il vecchio Gonzaga, stendendo la mano al signor Ceprani. — Già, gli amici di mio nipote debbono essere i miei. E badi che il titolo di amico io non lo dò per celia. Vengo dalle terre dei barbari, io! —

Orazio Ceprani s'inchinò e strinse la mano del vecchio, sforzandosi di sorridere all'arguto discorso, ma non riuscendo che a fare una smorfia.

— Ah! — disse Happy, andando verso un uscio di rimpetto a quello dell'anticamera. — Ecco il padrone. —

Aveva sentito scricchiolare i denti di una chiave nei congegni di una certa toppa, il sapientissimo servitore.

Orazio si mosse, per andare incontro all'amico. Cesare Gonzaga si tirò indietro; anzi, per dirvi tutto, si strinse forte, si puntellò alla spalliera della poltrona, su cui era stato dianzi seduto. Era commosso, il vecchio Gonzaga, tremava tutto, all'avvicinarsi di quel nipote che amava tanto, senza averlo ancora veduto, che aveva giudicato da principio un giovanotto carico di debiti, e che lì per lì, senz'altra preparazione, fuor quella di un discorsetto di Happy, doveva salutar milionario.

II.

L'uscio si era aperto, la portiera alzata, ed entrava nello studio un giovane elegantemente vestito da mattina, non molto alto di statura, ma ben fatto e assai sciolto della persona, biondo, un po' pallido, dai lineamenti finissimi, dagli occhi perlati sfavillanti, sebbene per vezzo tenesse le palpebre socchiuse, e dalle labbra sottili, leggermente colorate, che sporgevano un tantino, in atto tra cortese ed ironico, come quelle di un principe, di un piccolo potente della terra, che è consapevole della propria grandezza, e vuole mostrarsi benevolo, sì, ma in un certo modo e fino ad una certa misura.

Cesare Gonzaga non badò a queste inezie. Vide il giovanotto gentile e gli bastò di aver riconosciute le sembianze di Cecilia, della sua amata sorella. Ahimè, povera Cecilia! Cesare Gonzaga, nel 1849, abbattuto dalle sventure della patria e percosso da un altro dolore tutto suo (Ugo Foscolo li ha descritti, questi due sentimenti, associati nella persona del suo Ortis ), si era allontanato, non che da Roma, dai confini della penisola. A Mantova, intanto, sotto il dominio dell'Austria, dopo la parte ch'egli aveva presa nelle cospirazioni e nelle guerre recenti, non poteva tornare; perciò, dopo la caduta di Roma, e dopo aver seguito il generale Garibaldi nella sua marcia memorabile in mezzo a tante forze nemiche, disperando oramai delle sorti italiane, si era rifugiato in Grecia, donde, proseguendo la sua triste odissèa di fuoruscito, era andato a cercare, non già la fortuna, ma la pace del cuore, sui lidi estremi dell'Oriente. Solo alcuni anni dopo la sua partenza, Cecilia Gonzaga era andata sposa alla Mirandola; e colà era vissuta nella oscurità d'una famiglia non ricca nè povera, colà era rimasta vedova dopo dieci anni di matrimonio, colà era morta dopo altri dieci o dodici di vedovanza, lontana dal suo unico figlio, che studiava leggi a Bologna, e senza aver potuto rivedere il fratello, di cui troppo scarse erano giunte le notizie in famiglia. Cesare Gonzaga non era nato per la mercatura; soldato, aveva fatto il soldato. Da principio si diceva che col grado di colonnello tra i ribelli indiani avesse partecipato alla epica impresa di Nana Sahib; più tardi, e dopo un mondo di notizie contradittorie, si era venuto a sapere che militasse ai servigi di un principe indipendente, nel centro dell'India. Una lettera sua era venuta a confermare l'annunzio, e a rassicurare la famiglia (triste avanzo di famiglia, poichè i vecchi erano morti da un pezzo) intorno alla sorte del profugo. Uno scambio di notizie aveva potuto stabilirsi tra fratello e sorella, e per tal modo Cesare Gonzaga, rais e gemadar del gran signore di Revah, nel Bogelcund, seppe un giorno di avere un nipote, Arrigo Valenti, avviato allo studio della giurisprudenza nella università di Bologna. Qualche anno dopo, preso dal desiderio della patria, era ritornato in Europa, ricco di una bella sostanza che gli avevano fruttata i suoi lunghi servigi; da Brindisi era corso a Mantova, per risalutare il suo duomo, da Mantova alla Mirandola, per abbracciar la sorella, ma ohimè, per piangere invece sulla sua tomba. Aveva chiesto notizie di Arrigo, e gli era stato detto che Arrigo, compiuti gli studi legali, viveva a Roma, ove certamente a quell'ora aveva finite le pratiche. Ora, di tutti i luoghi che Arrigo poteva scegliere per sua residenza, Roma era l'unico in cui Cesare Gonzaga non sarebbe andato volentieri a cercarlo.

Pensate ai dolori che lo avevano mandato esule volontario della patria, e indovinerete la cagione di quella ripugnanza di Cesare. Arrigo, dal canto suo, doveva pur sapere, per lettere dei Mirandolesi, che uno zio, il suo unico zio materno, gli era ritornato dal centro dell'India; ma sul principio pareva non averne fatto caso, lasciando che quello zio, triste della solitudine che il tempo e l'assenza avevano fatto intorno a lui, andasse a rinchiudersi, rovina d'uomo, tra i monti del Reggiano, daccanto alla rovina di un antico castello della contessa Matilde. Da tre mesi era il Gonzaga in Italia, da due spartiva il suo tempo tra Reggio e la tenuta delle Carpinete, dove il freddo era rigido e dove bisognava portare quasi tutto il necessario per allogarsi decentemente, allorquando giunse la lettera di Arrigo. Era in singolar modo affettuosa, chiedeva notizie, accennava al desiderio, che quel povero giovanotto, rimasto solo della sua casa, aveva vivissimo nel cuore di vedere il fratello di sua madre; e non pure accennava al desiderio, ma all'urgente bisogno.

Il figlio di Cecilia scriveva; e Cesare Gonzaga, a mala pena collocato nella sua tenuta, dove faceva conto di morire tra le sue memorie e con gli occhi alla santa natura, amica e consolatrice di chi ha molto sofferto, Cesare Gonzaga, dico, si era spiccato dal suo nido per andare dal nipote, vincendo la ripugnanza che lo teneva lontano da Roma, dalla eterna città che egli non aveva più veduta dopo l'eroica difesa del Vascello, dopo la dolorosa morte di tanti compagni d'armi, e la vergogna, più dolorosa a gran pezza, di nuovi stranieri entro le mura di Camillo. Ed era là, il tardo reduce, era là, in quello studio, appoggiato a quella poltrona, col cuore trepidante e gli occhi gonfi di lagrime, davanti al giovanotto sorridente, che nei lineamenti gentili del viso e più nei vividi occhi perlati gli ricordava la sua povera e cara sorella. Come si sentiva destinato ad amarlo! Come disposto a sacrificargli tutto sè stesso! E frattanto, quel biondo ragazzo che gli aveva scritto con tanta premura: “Venite, ho gran bisogno di voi„ era un milionario, in apparenza, e, secondo l'opinione dei più, anche nella sostanza, un felice. Ma allora, che bisogno aveva Arrigo di lui? Certo era il bisogno di un parente, di un amico vero, di un consolatore. Si è tanto poveri, quando si è soli!

Orazio Ceprani si era fatto avanti, per stringere la mano di Arrigo.

— Veramente, — diss'egli, — non dovrei essere io il primo, quest'oggi. Eccoti lo zio tanto aspettato. —

Arrigo Valenti si volse a guardare verso il fondo della camera, e un lampo di gioia gli balenò dagli occhi, che, manco male, aveva finalmente aperti e spalancati. Guardò un istante quel vecchio alto e severo, che si faceva forza per vincere la sua commozione, e gli andò incontro col sorriso sulle labbra.

— Zio, come ti son grato! — esclamò quindi, cadendogli nelle braccia.

Quell'altro non seppe più reggere alla piena degli affetti, e diede in uno scoppio di pianto.

— Come son sciocco, non è vero? — diss'egli, con voce rotta dai singhiozzi. — Per un soldato, è veramente troppo. Ma vedi, ragazzo mio, tu somigli a tua madre... come una stella somiglia ad un'altra. Lasciati abbracciare, Arrigo! Lasciami piangere! Sono i baci e le lagrime che non ha avuto tua madre. —

E lo abbracciava ancora, e lo guardava e piangeva. Arrigo lasciava fare e sorrideva, anch'egli intenerito da quella semplice e quasi epica dimostrazione di affetto.

Finalmente, chetato un poco quell'ardore di abbracci, Arrigo provò di avviare il discorso.

— Zio, — diss'egli, — che cosa avrai pensato di me, che ho fatto tanto a fidanza col tuo buon cuore? Senza esser neanche conosciuto da te, ho ardito pregarti....

— Che! che! — interruppe il Gonzaga. — Era naturale. C'era forse bisogno di conoscerti, per accorrere alla tua chiamata? Infine, eccomi qua.

— Era di Cesare il venire, come il vedere ed il vincere; — osservò modestamente Orazio Ceprani.

Arrigo ricordò allora il suo debito di padrone di casa.

— Permetti, — incominciò, — che io ti presenti il nostro Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, poichè è sopratutto un compitissimo cavaliere.

— Ah, ci conosciamo da mezz'ora; — rispose il Gonzaga. — Ed io l'ho già per amico, perchè egli mi ha detto un gran bene di te, mentre stavamo aspettandoti.

— Perdonami, zio! Avevo un colloquio d'affari.... Non ti aspettavo, con la corsa del mattino. Ier sera non eri giunto....

— Che vuoi? Appena ricevuta la tua lettera avrei fatto le valigie; — rispose il Gonzaga. — Ma avevo anche un mondo di piccole faccende da sbrigare laggiù. Speravo, veramente, di averti alle Carpinete; ma già, con quel freddo!

— Oh, zio, il freddo mi avrebbe dato poca noia. Pensa piuttosto che mi era impossibile di muovermi.

— Te lo credo, ora; ma laggiù, vedi, mi pareva che tu avresti dovuto correre. Basta, non ne parliamo più a lungo. Ho fatto il miracolo di Maometto. La montagna non volle venire a me; io venni alla montagna.

— Come si fa? — disse Arrigo, sospirando. — Tu eri anche il più libero dei due. Per ciò sei venuto.... e perciò rimarrai.

— Non correr tanto! Vedremo, penseremo. Tu per ora fa i fatti tuoi. Avrai forse da parlare col signor Ceprani. —

Il Ceprani, tirato in mezzo, cominciò con accento perplesso:

— Sì, ero venuto da te. Arrigo.... Ma ora che c'è tuo zio....

— Non badi a me; — interruppe il vecchio. — Io mi ritiro in buon ordine. —

Orazio Ceprani era lì per lasciarlo andare; ma tosto cambiò di proposito. Per quello che aveva da dire e da ottenere, la presenza di un terzo non doveva guastare; che anzi!

— No, finalmente, perchè? — diss'egli, trattenendo il Gonzaga col gesto. — Con lei si può parlare. Arrigo, — proseguì, rivolgendosi all'amico, — ero venuto a chiederti un servizio. Oggi dovrei ritirare quelle duecento Ausonie....

— E ci perdi ottomila lire; — notò Arrigo Valenti. — Te lo avevo pur detto!

— Che vuoi? Promettevano così bene! Il Governo doveva assumere egli, da un momento all'altro... Insomma, che farci? Tu hai veduto più lontano e più giusto di me. Io m'inchino, e ti chieggo cinquemila lire in prestito, per completare le mie differenze di questo mese.

— Ah! mi duole davvero! — esclamò Arrigo, levando i suoi begli occhi al cielo. — Mi duole nel profondo dell'anima. Oggi è un cattivo giorno, per gli affari. Non ne ho. —

Orazio Ceprani aveva chinato la testa, con un gesto tra incredulo e rassegnato. Perchè, infine, non poteva credere che ad Arrigo Valenti mancassero cinquemila lire da render servizio a un amico in un cattivo quarto d'ora, e non poteva neanche, per le buone creanze, aver l'aria di non crederlo.

Per altro, se Orazio Ceprani aveva chinata la testa, l'aveva in sua vece rizzata il signor Cesare Gonzaga.

— Ma le ho io! — diss'egli, entrando terzo nella conversazione, e facendo dare un balzo di maraviglia ai due giovani. — Non si sa mai, ho detto tra me e me, nel partire da Reggio. Anzi, vedi, Arrigo mio, è stata questa la ragione vera per cui ho ritardato un giorno a venire. Tu mi perdonerai, Arrigo; — soggiunse, mentre metteva mano al suo portafoglio, gonfio di biglietti di Banca e sprovveduto di biglietti di visita; — credevo di aver a fare con un nipote.... d'altra specie, e perciò ero venuto con molta munizione. Ho ventimila lire qua dentro, e il resto in una tratta sul banco Manfredi. Eccole dunque, signor Ceprani carissimo; questi son cinque da mille. —

Orazio Ceprani era rimasto interdetto; non sapeva se dovesse prender subito, o rifiutare, almeno per cerimonia: intanto abbozzava un “ma io, veramente...„ di un effetto assai comico.

— Non faccia complimenti, la prego; — ripigliò il Gonzaga. — Ella è amico di mio nipote, e gli amici di mio nipote sono i miei. Alle corte, non mi vuole per creditore?

— Oh, che dice ella mai? — mormorò il Ceprani, commosso. — La ringrazio, ed accetto, perchè il bisogno era urgente, e sono ottantamila lire che mi costerà questa liquidazione di gennaio. Grazie anche a te, Arrigo, — soggiunse, mentre intascava i cinque biglietti, — perchè in casa tua ho ricevuto il benefizio. Vado dunque a raccogliere tutte le mie forze, i miei ottantamila franchi, ed ahimè non per condurli alla riscossa. Si pranza insieme, quest'oggi?

— Perchè no? — disse Arrigo. — Si potrebbe anzi incominciare dalla colazione, se hai tempo.

— Lo troverò. Per che ora?

— Ma, non saprei; bisognerà sentire mio zio.

— Oh, non badare a me; — disse il Gonzaga. — Io son vecchio, e i giovani sentono forse più presto le voci dello stomaco.

— A mezzodì, allora? O alle undici?

— Sia pure per le undici.

— Tra un'ora, dunque; — conchiuse il Ceprani, guardando l'orologio. — Mi diano il tempo di correre alla Borsa, e sono subito di ritorno. Vuoi nulla, tu?

— No, — disse Arrigo, — ci ho il mio agente. A rivederci. E bada, non più Ausonia, per ora! —

Orazio Ceprani rispose con gesto, che voleva dire: “ho capito„ e poi

si dileguò, come da corda cocca.

Arrigo fu molto soddisfatto di vederlo partire.

— Finalmente! — mormorò. — Il passo sarà libero, ora. Se permetti, zio, vado a dare libertà a qualcheduno. Con questi amici, che ronzano sempre ne' miei paraggi, bisogna sempre stare in vedetta.

— Fammi almeno sapere dove debbo ritirarmi, per lasciar passare i tuoi misteri, — disse ridendo lo zio.

— Oh, non importa, c'è un'altra scala. Il guaio è che mette in una via troppo vicina all'ingresso principale. Uno che esca di qua e svolti nella strada di fianco... capirai!

— Capisco, può indovinare i tuoi segreti di Stato, o di Banca. Anzi, diciamo addirittura di Banca, per restare nel genere femminile. —

Arrigo fece un gesto di ragazzo contrito, e andò nella camera attigua. Due minuti dopo era di ritorno.

— Del resto, — disse il Gonzaga, tanto per riattaccare il discorso, — un bravo giovanotto, quel Ceprani?

— Ah, sì, lascia che ti sgridi, caro zio! — rispose Arrigo, mettendosi sul grave. — Che prodigalità son queste? Hai le mani bucate, a quanto pare. Sei appena arrivato in Roma, e già ti adatti all'ufficio di vittima. Caleranno i corvi, non dubitare, caleranno a centinaia, per levarti i pezzi. Qui, dopo l'acqua, delle fontane, non c'è altra abbondanza che di corvi.

— Non mi credere troppo stolido, via! — replicò il Gonzaga. — Una volta non conta per uso. Ma non è tuo amico, questo Ceprani?

— Amico, sì, non lo nego. Ma gli amici non hanno da esser mica vampiri, per succhiarci il nostro sangue. Caro zio, ci ho una massima, io: il cielo per tutti, e ognuno per sè. A buon conto, io non ho mai chiesto nulla a nessuno. —

E il viso di Arrigo aveva preso una espressione di durezza, che diede nell'occhio, ma più ancora sui nervi, al vecchio Gonzaga. Non era più quello, perbacco, il viso di sua sorella Cecilia.

— Ne sei ben sicuro? — diss'egli, dopo un istante di pausa. — Ed anche senza ricorrere alla borsa altrui, non ci sono servigi che ci è mestieri qualche volta di fare, o di chiedere? Le amicizie, così belle nel loro disinteresse, in certi momenti, e senza secondi fini, non sono esse un capitale che si sfrutta?

— È un'altra cosa; — rispose Arrigo. — Il Ceprani è mio amico. Spenda la mia amicizia, la faccia valere, ma non tocchi la mia borsa.

— Sei troppo rigoroso; — notò il vecchio. — Ma che uomo è costui?

— Un buon diavolo, ed anche onesto, per quel che fa la piazza; ma di affari s'intende com'io di greco, che n'ho avuta una tintura al Liceo. Aggiungi che ha una mano così disgraziata, da guastare tutto quello che tocca. Ha sempre qualche preziosa notizia, per certe sue attinenze con uomini di governo, ed io ne cavo profitto... facendo tutto il contrario di ciò ch'egli fa.

— Vedi dunque che tu lo spendi; in qualche modo fai capitale di lui.

— Eh, se tu la intendi così, caro zio, tutti avranno diritto ad una parte della mia sostanza, mentre io so di non doverla che a me.

— Ah, sì, parliamone un poco, — disse il vecchio, cui capitava la palla al balzo. — Ti sei dunque fatto uomo di banca?

— Come vedi, lavoro, senza affaticarmi troppo.

— E la giurisprudenza?

— Da banda. Ho compiuti i miei studi; serviranno a tempo opportuno, quando sarà il caso di pensare agli onori. Anche con l'avvocatura si arriva; ma il mondo mormora. Si ha invidia degli avvocati, caro zio, e non c'è politicante da caffè che non tiri la sua sassata ai ciarloni. Per altra via, e più sicura, io fo conto di arrivare.

— Arrivare! E dove?

— Zio! — sclamò Arrigo, guardando il vecchio con aria di stupore. — Sei tu che me lo domandi? Tu, che sei arrivato.... dall'India?

— Sì, dall'India a Brindisi, e via discorrendo, — rispose il Gonzaga. — Ma tu, dove diamine vuoi arrivare?

— Alla fortuna, alla potenza, alla felicità.

— Egregiamente, e lo studio ti ci avrebbe condotto, per una via più lunga, lo concedo, ma più sicura, e con miglior compagnia. Perdonami la franchezza.

— È la tua opinione; — rispose Arrigo, inchinandosi, — ma non è egualmente il tuo esempio. Sicuro: che cosa hai fatto tu, mio ottimo zio? È forse lo studio delle leggi, son forse i libri, che ti hanno dato ricchezze e buon nome per giunta?

— Non parliamo di me; io le ho fatte grosse.

— Parliamone, anzi. Ti sei accorto un giorno di avere sprecata la tua giovinezza e le tue sostanze in parecchie follìe....

— Tra le quali un paio di guerre per l'indipendenza del mio paese; ti prego di metterle in conto; — interruppe il Gonzaga.

— Ci venivo dopo, — replicò Arrigo prontamente, — e volevo anche aggiungere una pena di cuore....

— Lascia stare, non frugar nelle ceneri! — gridò il vecchio, turbato.

— Perdonami, zio; me ne aveva fatto cenno mia madre. Infine, ecco qua: io, ammaestrato dagli esempi della tua prima giovinezza e non avendo più nobili follìe da commettere, poichè ho avuta la... disgrazia di nascere troppo tardi, incomincio da dove tu hai cangiato sentiero. So bene quel che vuoi dirmi; le gaie spensieratezze, il vivere conforme alla propria età, l'aspettare la fortuna, facendo versi cattivi e abbaiando alla luna! Il secolo invecchia, caro zio, e non vuol più saperne, di questi perditempi. “Essere o non essere, ecco il punto.„ Vedi? Se tu non ami la prosa, questa è poesia, e di un sommo. Il mondo è di chi se lo piglia; e perchè lo lascerei afferrare da tanti, mentre anch'io sento di avere una mano, che può far servizio come quella degli altri? Ogni cosa a suo tempo, lo capisco; ma chi ha tempo non aspetti tempo. Fare e far subito: e poichè il denaro è il nerbo della guerra, pensiamo al denaro. C'erano degli uomini, sai, i quali si credevano ogni cosa al mondo, solo perchè avevano il denaro, e, mentre gli altri guardavano fidenti all'orizzonte lontano, essi vogavano sodo, alla galeotta, tirando bravamente a sè. Anch'io ho imparato il loro giuoco, e c'est pas plus malin que ça. Non sono io un savio ragazzo? Credevi di dover venire a frenarmi, fors'anche a trattenermi sull'orlo del precipizio, ed ecco, tu trovi invece che io vado di buon passo per la strada maestra. Non avrai che a lodarmi, zio, e mi favorirai più volentieri in ciò che io sono per chiederti. Perchè, vedi, di te ho bisogno davvero; non mi vergogno di ricorrere a te, e sarò lieto di chiamarmi tuo debitore. —

Il discorso era stato brutto, o almeno poco simpatico; ma la chiusa era molto migliore.

— C'è ancora qualche cosa, lì dentro; — pensò lo zio Cesare, che già aveva incominciato a scandalizzarsi, fiutando l'egoista.

E rifacendosi la bocca in quella chiusa più garbata, rispose:

— Sì, per l'appunto, che cosa volevi da me? Se non ti occorrono consigli di saviezza e non hai bisogno ch'io paghi i tuoi debiti, in che altro può esserti utile uno zio? fammi il piacere di dirmelo.

— Ecco, in poche parole ti spiego ogni cosa; — replicò il giovinotto.

Ma proprio in quel punto, un'altra scampanellata all'uscio di casa ruppe il filo del discorso di Arrigo.

— Diamine! — esclamò lo zio Cesare. — Ecco un altro importuno.

La maliziosa figura di Happy comparve poco stante sul limitare.

— Il signor conte Morati di Castelbianco; — disse il servitore, tirandosi da un lato.

Arrigo si era prontamente alzato.

— Perdonami, zio; — diss'egli inquieto; — proseguiremo il nostro discorso più tardi.

— O lo incominceremo; — commentò lo zio; — perchè finora non mi avevi detto nulla. —

III.

Il nuovo venuto era un signore smilzo, dalla faccia scarna e dalla pelle risecchita, che pareva di cartapecora; ma aveva i capelli e i baffi neri morati, veramente degni del suo cognome. Gli occhi erano grigi, e non dovevano vederci molto, perchè il conte, abbassando la testa con un atto che pareva di consuetudine, e che lo aiutava a nascondere nella cravatta le grinze del collo, si piantava, entrando nello studio di Arrigo Valenti, una lente cerchiata d'oro nella cavità dell'occhiaia destra. Era vestito all'ultima moda, d'un soprabito nero con le rivolte di seta, la cravatta di colore, permessa soltanto di mattina ai moderni cavalieri, i calzoni grigi, di stoffa e disegno autenticamente inglesi, e finalmente un pastrano corto di panno chiaro, tra il verde oliva e il lionato.

Arrigo gli era andato incontro con molta premura.

— Conte, — diss'egli, — che fortuna è questa per me!

— Caro Valenti, — rispose quell'altro, con una vocina di chioccia infreddata e smozzicando l'erre, — dite il piacere di venire a vedervi. Ci trascurate un pochino, sapete? Speravo di vedervi a cavallo, quest'oggi, ma voi vi siete rintanato in casa, mio bel tenebroso! Perciò sono venuto a scovarvi, e devo a questa amichevole risoluzione la vista di un piedino meraviglioso. Finora, in parola d'onore, di piedini così belli non ne avevo veduto che in casa mia.

— Che dite mai, conte? — esclamò Arrigo, sconcertato dal paragone.

— Sì, proprio; — continuò il Ganimede; — se non avessi veduto che il piedino, avrei giurato che fosse quello di mia moglie. Ma la dama che ho veduta qui presso, in via Sallustiana, era vestita di color marrone. Ora la contessa odia i marroni; non può soffrire neanche il colore. —

Cesare Gonzaga osservò che suo nipote era sulle spine. Via Sallustiana, la scala di là, il colloquio d'affari, gli si affacciarono alla mente collegati per un filo arcano alla dama del piedino maraviglioso.

— Conte, — diceva frattanto Arrigo, per rompere quel discorso così poco piacevole, — permettete che vi presenti mio zio, giunto a Roma stamane.

— Ah, l'aspettato, il desiderato marchese Gonzaga? Fortunatissimo di conoscerla! — disse il conte Morati.

— Sì conte; — rispose il vecchio inchinandosi. — Cesare Gonzaga, per obbedirla, ma senza il titolo che la sua bontà mi attribuisce.

— Zio, ci hai diritto; — entrò a dire Arrigo, che non poteva mandar giù quella rinunzia alla corona marchionale. — Sei l'ultimo dei Gonzaga di Luzzara, e questi sono sempre stati marchesi. In casa tua c'era anche l'albero genealogico.

— Ah, l'albero! — rispose il vecchio ridendo. — Sì, c'era, in casa; ma il giorno che non diede più frutto, mano alla scure, e ziffe! Ho bruciato l'albero, signor conte, e mi son rifatto modestamente dal ceppo.

— Ella è molto ricco, da quanto mi ha detto Arrigo; — notò il conte Morati. — È un'altra bella cosa. Io, per dirle la verità, vado allegramente in rovina. —

E sedette, il vecchio Ganimede, facendosi una spagnoletta.

— Diamine! — pensò Cesare Gonzaga. — Debbo io tirar fuori il portafogli, o tenerlo ben chiuso in tasca?

— Ma intendiamoci, — proseguiva il conte, scherzando con le parole come le sua dita scherzavano con la carta velina, — adagino, senza fretta. Non ho figli, nè conto di averne per ora. E mi verrà forse il desiderio, più tardi? Io già non li amo, i ragazzi. Quando sarò più avanti con gli anni, chi lo sa? Basta, mio caro Valenti, — soggiunse il conte, accostando la spagnoletta alla fiamma della candela, che Arrigo gli aveva premurosamente accesa, — ho veduto, venendo da voi, il più bel piede d'Italia. E poco dopo, davanti al vostro portone, i due più bei cavalli d'Inghilterra. Vengono, nientedimeno, dalle scuderie del duca di Blackborne. Li possiede il Meissner, che se ne va da Roma e vuol venderli. Che stupendi animali! Il piedino mi è sfuggito, perchè entrava allora in un brumme, che andò via di galoppo; ma i cavalli, perbacco, non dovrebbero sfuggirmi. Appena uscito da voi, passo dal mio ministro delle finanze, e se ha danari in cassa, mi slancio a conquistar la pariglia.

— Conte, — disse Arrigo, che aveva frattanto ricuperata la sua calma, — se il vostro ministro delle finanze tenesse fermo sulle economie, ricordate che la mia cassa è ai vostri comandi.

— Grazie, Valenti, grazie infinite.

— Accettate, dunque?

— Accetterei, dato il caso; ma il caso non si darà. Il mio ministro è un brav'uomo; mi rizza un po' il muso, quando mi vede dare certi strappi; ma poi si rimette, e quando non ne ha più, è segno che ne ha ancora. È un ministro prezioso, in fede mia! Venite a pranzo da noi, quest'oggi? La cosa spiacerà un pochino a mia moglie, che non vi ha tra le sue simpatie; ma non importa, rideremo. —

Cesare Gonzaga stava ascoltando a bocca aperta quello strano personaggio, che sfringuellava con tanta leggerezza i fatti suoi. Ma quando il signor conte venne a parlare delle antipatie della moglie, non seppe più trattenere una piccola osservazione.

— Arrigo, ti fai dunque odiare a questo modo?

— Non badi; — rispose il conte. — Si tratta di capricci, di ubbìe femminili. La contessa stima molto il mio amico Valenti, ma le pare troppo serio, troppo asciutto, e che so io. Del resto, mio caro Arrigo, penso anch'io che Giovanna abbia un po' di ragione. Siete troppo grave, troppo asciutto, troppo savio, per la vostra età. Si direbbe che non siate mai stato giovane.

— Proverò a diventarlo poi; — rispose Arrigo, sorridendo pacatamente, come un dio dell'Olimpo.

— Ah, meno male! Venite dunque?

— Conte, quest'oggi è impossibile. Mio zio è arrivato stamane.

— È vero, non ci avevo pensato; bisogna star con lo zio. Ma più tardi, almeno, per il tè? Presentiamo lo zio alla contessa, e son certo che le piacerà più del nipote. Accetta, signor Gonzaga?

— La bandiera ha dunque da coprire la merce? — disse lo zio Cesare. — Bandiera vecchia, ahimè! —

Il conte fece una spallucciata, a quelle parole del Gonzaga.

— Vecchia? Eh via! — esclamò. — C'è egli dei vecchi tra noi, se escludiamo suo nipote? Badi, dunque, annunzio la sua visita. Ella troverà molta gente, quel che ci vuole per esser più liberi. Avremo parecchie tra le celebrità femminili di Roma, che, in punto di donne, ha sempre l'impero del mondo; per esempio la Savelli, bellezza stagionata, se vogliamo, ma solida; la Carini, che è sempre tanto carina; la Manfredi, che è un fiore appena sbocciato.... —

Arrigo a quel punto interruppe la rassegna, che poteva diventar lunga come quella delle navi, in Omero.

— Verranno i Manfredi? — diss'egli. — Senti, zio? Ecco una buona occasione per te. —

Lo zio Cesare, che quel lieve accenno ad un fiore appena sbocciato aveva già fatto fremere, sollevò lentamente il petto, come per chiuder la via ad un sospiro; poi crollando la testa, rispose:

— Ti pare? Non ho ancora veduto Andrea.

— Conosce il senatore Manfredi? — gridò il conte Morati di Castelbianco. — Un uomo d'oro, al proprio e al figurato!

— Se lo conosco! — rispose Cesare Gonzaga, mettendo quella volta liberamente il sospiro che aveva trattenuto da prima. — Andrea Manfredi fu il mio amico di gioventù, il mio compagno di studi, il mio fratello d'armi. Abbiamo combattuto insieme, in questa Roma divina! Che direbbe ella dei fatti miei, signor conte, se io, amico suo da tanti anni e ritornato finalmente nella città dov'ella abita, la dovessi combinare in casa d'altri, senza esser venuto direttamente, prontamente, a cercarla?

— Eh via, zio! — entrò a dir Arrigo. — Ci vai dopo colazione, e il colpo è fatto.

— Arrigo consiglia bene, come sempre; — notò il conte. — È veramente Arrigo il savio; lo ascolti. Siamo dunque intesi; a rivederla questa sera, e lietissimo della fortunata occasione. Addio, Arrigo! Vado dal ministro delle finanze, per quella pariglia che mi sta sul cuore.... come quel piedino di fata.

— Sempre? — disse Arrigo, ridendo per quella volta liberamente.

— Che ci volete fare? Sono un povero peccatore che il diavolo ha sempre pigliato dai piedi. —

E se ne andò, ridendo della sua frase, che gli era parsa argutissima.

Rimasto solo con Arrigo, il vecchio Gonzaga si piantò davanti al nipote e gli ficcò addosso gli occhi scrutatori.

— Dimmi, Arrigo.... il piedino di via Sallustiana....

— Non mi chieder nulla, zio; — rispose quell'altro. — Il Castelbianco mi aveva fatto da principio una gran paura. E adesso, poi, adesso che son vicino a ricogliere il fiato!... Se tu non fossi venuto quest'oggi, direi che è un giorno nefasto.

— Ma lui.... il conte....

— Corteggia le ballerine, le mime, le cavallerizze. Ha sessant'anni e tinge disperatamente. È una caricatura.

— Eh, l'ho veduto. E facendo ridere, il che è già brutto, va anche in rovina?

— Non lo credere; — rispose Arrigo. — È un suo vezzo di parlare così, un ticchio di gran signore. Ne ha spesi molti, in gioventù, ma ancora oggi può valere un paio di milioni. Ed è conte.

— Che cosa vuol dire?

— Vuol dire moltissimo, zio. Anzi, vedi, ti prego di non incocciarti nella tua democrazia, che fa a pugni col tuo casato. Qui il disprezzo dei titoli non è di moda. Chi ne ha uno lo inalbera; chi non l'ha lo inventa. I titoli nobiliari son tutto, perfino negli affari, ove non dovrebbero aver valore che quelli di banca. Non si fa un consiglio d'amministrazione di miniere, di strade ferrate, di vapori e via discorrendo, che non ci mettano una mezza dozzina di corone. Non fanno nulla; ne ho sentiti io che dicevano cose... dell'altro mondo; ma non importa, ci stanno bene, decorano. Ed anche nelle livree, senti, una corona non guasta.

— Che follìe! — esclamò il Gonzaga.

— Follìe! — Lo dici tu, che ritorni dall'India. Ma il nostro mondo occidentale è fatto così; prendiamolo com'è. —

Il vecchio Gonzaga stette alquanto sopra di sè; poi disse, con accento malinconico:

— Arrigo, Arrigo, sei tu che parli così? La nobiltà del sentire e dell'operare, quella è la vera. Anch'io amo i bei nomi.... quando sono portati bene da non degeneri nipoti. Ma poi, vedi, la penso come Isocrate. Ti parrà strano che io venga dall'India per citarti Isocrate; ma non ti stupire, è un ricordo di scuola. Per Isocrate, adunque, la nobiltà risiedendo tutta nel capostipite e derivando da lui, valeva meglio che l'uomo fosse egli capostipite della propria. Chi erano gli antenati di Pipino d'Heristal? Se ne conosce uno, uomo dappoco, e solo da Pipino d'Heristal incomincia il lustro dalla casata. Aggiungi a questo Pipino la gloria di altri due nomi, Carlo Martello e Carlo Magno, perchè io ti ho voluto citare l'esempio più favorevole alla tua tesi; e che cosa vien poi? che cosa rimane della stirpe nobilissima? Un branco di sciocchi. Dunque, ragazzo mio, non ci vantiamo tanto di una nobiltà che non è discesa “per li rami„ e cerchiamo invece di fabbricarcene una, che sia ben nostra, e frutto di azioni virtuose. —

Arrigo Valenti non la intendeva così.

— Parole! — mormorò egli. — Ma nel fatto....

— Orvia, non voglio sentir altro! — gridò Cesare Gonzaga, che incominciava a perdere la pazienza. — Vedi, Arrigo, se tu non amassi, la qual cosa mi riconcilia un pochino con te, ti crederei diventato cattivo.

— Amo, sì! — disse il giovane, — e appunto perciò ti ho pregato di venire a Roma.

— Alla buon'ora! E in che modo potrei servirti io?

— Presentandomi in casa Manfredi.

— Oh! — disse lo zio, inarcando le ciglia. — E dovevo venir io a bella posta dall'India?

— Come per citarmi Isocrate, sicuro. Ecco qua, zio, lo stato delle cose. Il senatore Manfredi è molto sostenuto con me. Con tutte le mie relazioni, con tutti i miei denari, non mi riesce di penetrare in quella casa. Ci troviamo spesso insieme, ora in una conversazione, ora in una festa da ballo; ma niente mi serve; il banchiere senatore è sempre di ghiaccio con me, ed io non ho potuto ancora rompere quel ghiaccio. —

Cesare Gonzaga era stato a sentire attentamente il discorso di suo nipote. Appena questi ebbe finita la sua esposizione, il vecchio rimase un pochino sovra pensiero, masticando qualche frase, che stentava ad uscirgli di bocca.

— Parliamoci schietto; — diss'egli finalmente. — Saresti in qualche cosa venuto meno a certi principii?... Andrea, se è sempre l'uomo che io ho conosciuto, su certe materie non ischerza.

— Zio, — rispose Arrigo con accento sicuro, — non ho mai fatto cosa di cui debba arrossire. Ho imparato da ragazzo a meditare sulle mie azioni, e se sono venuto al punto di non far mai se non quello che metteva conto a me, credi pure che ci sono riuscito senza offendere il diritto degli altri. Il Manfredi non mi ha in grazia. Perchè? Lo saprà lui; fors'anche non lo saprà. Ci sono qualche volta delle antipatie irragionevoli. A buon conto, egli non sa che io sia tuo nipote, nè io ho creduto prudente di dirglielo, amando meglio di aspettare, per ferire un gran colpo. Una sera, in casa Savelli, me presente, ricordando nomi ed uomini del passato, egli venne a parlare di te, e il suo gelo si squagliò come per incanto; ti citò come un esempio di alto carattere, come un modello di amico; insomma, ne disse tante, che lasciò tutti maravigliati, non solamente dei tuoi meriti, ma anche della sua eloquenza. In verità, non ne aveva mai sfoderata tanta in Senato.

— E allora, — osservò il Gonzaga, ridendo — ti è venuto in mente di chiamare a Roma quel fior di virtù? Guasti pur troppo la bella immagine che io m'ero formata dell'amor tuo. Bene! bene! La gioventù è sempre un pochino egoista. Già, per dirtela schietta, mio caro nipote, in parecchie cose ti vorrei vedere, per la tua età, meno uomo. È una mia idea, ed avremo tempo a discorrerne. Dimmi, invece, come e perchè ho da servirti io, presso il banchiere Manfredi? Di credito non ne hai bisogno, a quanto so. Vorresti forse entrare in qualche operazione bancaria con lui?

— Ha una figlia; — rispose Arrigo.

— Ah! Il fiore appena sbocciato; — disse lo zio Cesare, sospirando da capo. — E l'ami?

— La voglio.

— È un po' diverso, ma potrebb'essere, in certi casi, lo stesso. Ma, scusami, e quell'altra? Povera donna....

— Oh, Dio mio! Ce ne son tante, di queste povere donne!

— E perchè ce ne son tante, tu vorresti aggiungerne un'altra?

— Infine, — disse Arrigo, vedendo che lo zio si rabbruscava, — non credere che ella mi ami. Mi ha detto, anzi, che tutto ha da finire tra noi.

— Giuramelo! che cos'hai di più sacro?

— Per la memoria di mia madre; — rispose Arrigo.

Il vecchio si rasserenò, udendo l'invocazione, che non poteva essere bugiarda.

— Quand'è così; — riprese, — tanto meglio! In fondo, non mi mettevo io a predicare la costanza.... nella illegalità? Bei consigli da vecchio! Or dunque, mio bell'Arrigo, sebbene mi dispiaccia un pochino di rifar la vita dei salotti e delle conversazioni, spendimi pure; sarò il tuo uomo. E dimmi, ci sono già vincoli, in aria?

— No, — disse Arrigo, che aveva capito a volo, — ma potrebbero venire. C'è un conte che mi dà noia.

— Sei amato?

— Credo.

— Ma bravo! E navighi così, tra questa e quella, tra la riva e gli scogli?

— Credi, buon zio, che sono assai più vicino alla riva.

— Ehm! — rispose il Gonzaga. — Se debbo giudicarne da poco fa, tu rasenti ancora troppo gli scogli. —

Arrigo diede in uno scoppio di risa. Passato il pericolo, anche un marinaio può ridere così.

— Caro zio! — esclamò egli, abbracciando il vecchio cortese. — Sei giovane, tu, pieno di fuoco. Ci scommetto che a te piacerebbe più lo scoglio, anche a rischio di dare in secco.

— In secco, no! — rispose lo zio Cesare. — Ma via, non mi far parlare... come il tuo conte di Castelbianco. —

Ridevano le due età, così lontane l'una dall'altra, che la voce del sangue aveva ravvicinate. Arrigo Valenti intravvedeva la vittoria e già gli pareva di metterle la mano nei capegli. Cesare Gonzaga era in fondo un po' triste, perchè aveva trovato il suo nipote troppo savio, troppo calcolatore, forse per eredità di esempi paterni; ma infine, ci aveva trovato anche qualche sentimento gentile, soave eredità di sua madre, che gli affari di banca e le vanità sociali non avevano intieramente soffocato. Del resto, egli era venuto, e con la sua autorità di zio sperava di richiamarlo sul retto sentiero. Arrigo, a buon conto, era ancor giovane, e amava la figliuola di Andrea Manfredi, del suo amico, del suo compagno di studi, del suo fratello d'armi, del suo....

Ma un'altra scampanellata all'uscio di casa interruppe la conversazione dei due personaggi, ed è giusto che interrompa anche il periodo al narratore.

Ritornava il signor Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, cavaliere compitissimo e disgraziato per giunta. In un'ora aveva dato sesto alle cose sue, e giungeva trafelato, quantunque fosse andato e tornato in carrozza.

— Sono allegri! — diss'egli, entrando nello studio e trovando zio e nipote ancora in atto di ridere.

— Ma sì; — rispose Arrigo. — E tu, Orazio, hai una cera da funerale. —

Orazio Ceprani tentennò malinconicamente la testa.

— Eh, credi, caro mio, — rispose egli, — che ottantamila lire non sono come un mucchio di soldi nella scodella di un cieco. Che liquidazione si prepara! Anche tu, scusami, non hai mica da stare allegro!

— Perchè? — chiese Arrigo, chiudendo gli occhi a mezzo e allungando le labbra, con quell'aria di cortese ironia che abbiamo già veduto, al suo primo apparire nello studio.

— Perchè il Verni è fuggito, a quanto dicono, e credo ti levi di tasca un ventimila lire.

— Una bella somma! — notò Cesare Gonzaga. — Una povera famiglia ci camperebbe dieci anni.

— Pazienza! — rispose Arrigo, sorridendo ancora, sorridendo sempre. — Il Verni, per tua norma, io lo avevo già calcolato tra i dubbi. Caro mio, non ci ha da esser niente di impreveduto nella vita di un uomo. Si studiano dapprima tutte le probabilità, favorevoli e contrarie, e poi si giuoca la posta. Così, vedi, Orazio, questa perdita io l'avevo preveduta. Ho venduto a lui, sapendo in anticipazione di perdere, per non aver l'aria di un taccagno. Il Verni frequentava la migliore società. Ora, ecco un uomo in mare. Me ne duole per lui; quanto alla perdita.... —

In quel momento Happy era comparso sull'uscio per dire:

— Il signor cavaliere è servito.

— Sta bene, — ripigliò Arrigo Valenti. — Quanto alla perdita, essa non c'impedirà di fare una buona colazione, se il cuoco non è fuggito, o non ha perduta la testa. Zio, per farti strada! —

E passò avanti, il felice Arrigo, e gli altri due lo seguirono nella sala da pranzo.

IV.

La contessa Giovanna Morati di Castelbianco, presso la quale andremo ad aspettare i nostri personaggi, con la certezza di conoscerne altri parecchi, fior di cavalieri e di dame, la contessa Giovanna, dico, era una bella donna sui trentadue. È una brutta cosa, lo so, contar gli anni alle donne; ma i narratori hanno dall'ufficio loro il triste obbligo di essere più noiosi dei presidenti di tribunale; i quali, almeno, procedendo all'interrogatorio di una bella testimone, possono incominciare, quando sono galanti, press'a poco così:

— Signora, quanti anni ha? Ventidue, non è vero? —

Dunque, la contessa Giovanna ne aveva già trentadue; età, dopo tutto, in cui la bellezza è giunta al suo pieno rigoglio, e può ancora aspettare una lieta maturità. Una bell'alba, sicuramente, ha i suoi pregi, e piacerebbe anche al re Saulle, che fu, come sapete, l'uomo più scontroso e bisbetico della storia. Ma un sole al meriggio, Dei immortali! Un sole al meriggio scotta. E la bellezza della contessa Giovanna era proprio così, per testimonianza di molti, che s'erano argomentati di godere accanto a lei d'un calor temperato; scottava senz'altro. Molto grave, tuttavia, sotto le mostre di una conversazione arguta e di una affabilità costante; più grave allora, quasi melanconica, e in certi momenti anche triste. Pareva che la sorte, concedendole la ricchezza e lo sfarzo di una condizione invidiata, le fosse stata avara di ciò ch'ella avrebbe desiderato assai più, come a dire una felicità più modesta e più ignota. E taceva, nondimeno, il suo intimo tormento; e si padroneggiava, obbligata com'era a ricevere, a sorridere, a dir parole garbate; ma in quell'ufficio di cortesia si indovinava lo sforzo, e quella sera più che mai.

Povera donna, mal maritata! Sentite i discorsi che le faceva, dopo tavola, il suo signore e padrone. Avevano pranzato un poco prima del solito, perchè ella avesse tempo a disporre ogni cosa per il suo tè. Era un tè semplice e semplicemente annunziato; ma diventava sempre, aiutando il numero dei convitati e le voglie della gioventù, un tè danzante. Si dice danzante, o danzato? Nè l'uno, nè l'altro, probabilmente; era invece un tè, che quando c'eravate tutti voi, insieme con tutti noi e con tutti loro, si tirava discretamente nell'ombra, e lasciava che da una parte si ballasse, dall'altra si giuocasse, e più in là si trovasse anche una succulenta imbandigione, la quale non so perchè non si chiamasse cena a dirittura. I tè, chiamati anche martedì, della contessa Giovanna, duravano dai primi di gennaio fino agli ultimi di febbraio, e godevano di una riputazione straordinaria; ma non ci si era ammessi molto facilmente, e il numero dei cavalieri non oltrepassava d'ordinario i cinquanta, tra vecchi amici di casa ed altri, che, avendo conosciuto i Castelbianco in qualche società e portato al palazzo della contessa due biglietti di visita, erano stati ricambiati da un biglietto di visita del conte. Le amiche e nemiche intime di Giovanna, quasi sarebbe inutile il dirlo, accorrevano tutte, e, sebbene non ci fosse la pretesa di un ballo, ci andavano in grand décolleté. Dico la cosa in francese, perchè non c'è in italiano, e se c'è, non mi piace trovarla.

I Castelbianco si erano alzati da tavola, e la contessa si muoveva per andare nelle sue camere ad abbigliarsi, mentre il conte aveva accennato all'idea di dare una corsa fuori di casa.

— È sperabile, — notò la signora, — che non farete stasera come l'altro martedì, e non andrete al vostro eterno circolo.

— Non andrò; — disse il conte, sospirando.

— Capisco, per voi è un sacrifizio rinunziarci; — replicò la signora.

— Che dite, mia dolce amica? Mi ci diverto, in casa, mi ci diverto un mondo. Ma quando mi ci sarò ben divertito, — continuò il conte, mutando il sospiro in un mezzo sbadiglio, — non saprò più che fare, nella mia beatitudine. Ah, Giovanna, perchè non siete voi... la moglie di un altro? Vi farei una corte spietata, e non senza qualche speranza.

— Vi ringrazio del buon concetto che avete di me.

— Si scherza. Ma, dopo tutto, essendo io l'aspirante.... Vedete che il rischio non è tale da spaventarmi. Siete bella, Giovanna, avete una testa da imperatrice, e, per andare fino in fondo, il primo piedino dell'universo. Ma non siete più sola, badate!

— Che cos'è quest'altra stravaganza? — domandò la contessa, seccata da quei discorsi sciocchi, ma non potendo tuttavia trattenersi dal ridere.

— Eh, vorrei che lo aveste veduto, come l'ho veduto io questa mattina, in via Sallustiana. Un piedino, che pareva il vostro! Non andate in collera, mia dolce amica. Ammirandolo come ho fatto, non son venuto meno a nessuno dei miei doveri. Mi pareva tanto la stessa cosa, che a tutta prima ho pensato a voi, e mi son chiesto quale delle vostre amiche abitasse lassù.

— Bella! — esclamò la contessa. — Son forse andata a far visite?

— Capisco, ma che volete? Lì per lì, mi era parso che poteste esser voi. Per fortuna, se non ho veduto il viso, ho veduto una veste color marrone; e voi il marrone lo odiate.

— Esagerazione! Non mi piace tanto, ecco tutto; — rispose la contessa, scuotendo la sua bella testa da imperatrice. — E che cosa andavate voi a fare lassù?

— Volete saperlo? Andavo a trovare il mio amico Valenti; quel poveraccio che voi non potete soffrire.

— Altra esagerazione! — ribattè la signora. — Mi è indifferente, e voi, a furia di dire queste cose, finirete col fargli credere che qui si parla molto di lui.

— Giustissima, l'osservazione! — disse il conte. — A proposito, stasera vi presento suo zio, tornato dall'India, il signor Cesare Gonzaga, un bell'uomo, ancor giovane, coi suoi capegli grigi, che ha la debolezza di non voler essere chiamato marchese, essendolo: come un altro, non essendolo, avrebbe quella di farsi dare quel titolo. È un carissimo uomo, del resto, e metterà un po' di brio in questi vostri ricevimenti, che mi paiono, scusate, un tantino monotoni.

— Ci vengono tutti i vostri amici, e le mie amiche migliori; — osservò la contessa.

— Ah, sì, parliamone, delle vostre migliori amiche. La Savelli, che non è male, ma sta dura, intirizzita, come un idolo indiano. La Carini, che è carina, ma non ha preferenze che per i capegli bianchi; che posa! La Robusti, che non ha spalle, e vuol farlo sapere. La Gleisenthal, che è stravecchia e oramai dovrebbe smettere.

— Smetter che? Di venire a vedere un'amica? — ripigliò la contessa. — Del resto, le volete giovani e belle? C'è la Manfredi.

— Sicuro, una fanciulla. Ma che strana tenerezza vi ha presa, che volete dappertutto quel fiorellino appena sbocciato? A teatro con voi; in carrozza con voi; a casa, non se ne parla neanche. E al solito capiterà per la prima. Badate, Giovanna; una marchesa che amai, quando ero giovane, cioè, quando ero più giovane, mi diceva....

— Qualche storiaccia delle solite!

— Bene, vi farò grazia della storia, vi riferirò soltanto la morale: “Noi donne abbiamo il torto di non esser gelose delle ragazze; e queste, frattanto, si prendono la nostra bellezza, si vestono della nostra grazia, e ci rubano il posto.„

— A me, — disse Giovanna, — non ha da rubar nulla.

— E non parlo per voi, moralizzo in genere; — rispose il conte. — Ma io, ora, vi faccio perdere un tempo prezioso, e dimentico di avere anch'io qualche cosa da fare. A rivederci tra un'ora, mia dolce amica, e non vi adirate con la mia esperienza. Quando saremo vecchi, ci servirà. —

Vispo come un ramarro, saltellante come una cutrettola, il ritinto Alcibiade se ne andò a prendere una boccata d'aria, non senza l'intenzione di dare una scorsa al suo circolo. La contessa si ritirò nelle sue camere per abbigliarsi. Mai, come quella sera, Giovanna di Castelbianco aveva avuto così poca voglia di mettersi in abito di ricevimento. Piuttosto, ne aveva molta di piangere; e non poteva, pur troppo, perchè la cameriera doveva venire a vestirla, e una padrona di casa, giovane e bella, non ha da farsi vedere mai con gli occhi rossi dalla sua gente di servizio.

La contessa Giovanna era pur da compiangere. I suoi ricevimenti, le sue feste, l'avevano gradevolmente occupata da principio, mettendo un po' d'allegrezza nei primi anni di un matrimonio malaugurato. La donna è così lieta di brillare, che per un tratto dimentica perfino di non esser felice. Ma l'uso, ahimè, toglie il pregio alle cose; si acquista l'abito della società, e i balli e i lieti ritrovi non hanno più quell'attrattiva che li faceva tanto desiderare dapprima. Sebbene, diciamolo, in quella scuola ristretta e geniale del mondo, quanto meno si gode lo spettacolo superficiale, tanto più s'incomincia ad osservare molte cose non vedute, o troppo leggermente, in principio, e si paragona, e si giudica, non sempre a proprio vantaggio, in mezzo a tanti esempi di colpe fortunate, di gioie effimere, ma non meno gradite, e di ebbrezze profonde. Crediamo così volentieri alla felicità degli altri, quando non ce n'è ombra per noi! Allora una povera donna, piena di sentimento e turbata da vaghe sollecitudini che nessun rimorso è ancora venuto a condannare, incomincia, senza volerlo, a cercare per sè. La cosa non è neanche difficile, poichè è lei la cercata, è lei la desiderata, e le tentazioni, sotto la veste dell'ammirazione, dell'omaggio, della preghiera, volano a lei come uno sciame d'amorini.

Fra i molti che la circondano e le dicono tante cose, anche quando non dicono nulla, c'è il prode capitano, che ha deposte le armi, terror dei nemici, per segnare il suo nome nel taccuino dalla guardia di madreperla; c'è il brillante gentiluomo, che alterna maravigliosamente i trionfi di salotto coi meets, il turf e lo sport; c'è l'uomo illustre ed ammirato, che sa interrompere una pagina destinata ai posteri, per iscrivere un madrigale sull'angolo d'un ventaglio; c'è il cavaliere pensoso, e sopra tutti pericoloso, che, mostrando di non saper nulla di nulla, accenna di esser disposto a commettere ogni pazzia; c'è, infine, il buono e compiacente giovanotto, che ambisce gli uffici del servitore, non aspettando altra ricompensa che il titolo d'amico, e lascia intorno a sè un profumo di modestia, che può farlo ricercare, in un momento di poetica tenerezza, come si ricerca all'odore la violetta de' campi. E che gioia, quando si crede di aver trovato! Che turbamento ai primi incontri, che battiti di cuore, che angosce, che contrasti dolorosi e cari! Ma la passione prorompe; non si resiste alla piena, e giova dar colpa di ogni cosa al destino; poi, quando si è travolti, avviene come in fondo a certe cascate della favola, che sotto allo scroscio vorticoso delle acque irrompenti nascondono un laghetto tranquillo, angolo riposto e felice, illuminato di miti trasparenze, non offeso dai raggi del sole, in cui si dimentica volentieri e si confida di essere dimenticati dal mondo. Vita, son queste le tue oasi verdeggianti. Ognuno reca ai primi incontri le sue doti migliori, la bontà serena, la grazia ingenua, la delicatezza squisita, la generosità commovente, infine, che vi dirò? l'anima vestita a festa. Ma non è festa ogni giorno: e giungono pur troppo, seguaci non prevedute ma certe, le ore della stanchezza, in cui la finzione si tradisce e l'inganno si scopre. Maschere geniali, addio; la commedia è finita. E v'hanno cuori che non si spezzano, alla triste scoperta, che non disperano, che cercano ancora, errando di delusione in delusione; tanta è la sete del vero! Ma, allora miei poveri cuori! A correrne parecchie, di queste prove dolorose, come giungerete laceri, irriconoscibili, o miei poveri cuori, alla meta!

Il cuore di Giovanna, non pervertito, nè sciocco, rifuggiva da queste ricerche. La povera donna aveva creduto ed errato; non voleva ricominciare. In verità, era così misero l'uomo, e così brutto il pericolo! Turbata da vaghe paure, agitata dai rimorsi, voleva finirla, e in un impeto di sincerità dolorosa lo aveva già detto a quell'uomo. A lui toccava, a lui, di ribellarsi a quella sentenza in nome dell'amore, onnipossente quando è vero. Ma poteva Arrigo Valenti far ciò? Aveva egli trovata una di quelle frasi che escono dal profondo del cuore, e possono, se non mutar nome alla colpa, nobilitarla almeno e renderla cara come una eccelsa sventura? No, non l'aveva trovata: aveva detto: intendo, sì, avete ragione, fummo pazzi. E non una lagrima, il vile, non una lagrima, che temperasse quelle acerbe parole! Ah, povera donna! Un giorno, forse, a quell'angoscia sarebbe sottentrata la calma, e con la calma il pensiero di una vita nuova. Quante belle cose, nel mondo, senza le febbri della passione per l'essere immeritevole! L'arte, per esempio, a lei così cara! Infine, per qualche alta cagione passiamo noi pellegrini su questa terra, che la medesima povertà delle nostre cognizioni davanti all'infinito visibile ci ammonisce non esser altro che una via. E perchè, intanto, sacrificare ad una fermata, ad un errore, ad un rimorso, tutte le sublimi curiosità del viaggio? Quanta gente non vive, e felice, senza le febbri maledette? Passare nella gioventù belle e superbe, col cuore aperto a tutte le nobili commozioni, a tutti i confessabili amori, guardando con serena alterezza dintorno a sè, non costrette a temere lo sguardo indiscreto, ad arrossire davanti a un testimone volgare; accostarsi alla vecchiezza, onorate e gloriose, orgoglio ed esempio ai figliuoli, grato ricordo ai gentili compagni di vita, condanna vivente ai rotti costumi del tempo; spegnersi benedette e sacre, potendo dire con l'ultimo soffio di vita: “non vedrò là severo il volto di mia madre;„ orbene, ecco la gran meta, l'ideale, il sogno divino. La virtù, che è bella nel suo immacolato candore, il pentimento che raggia a lei con intelletto d'amore, ecco i conforti, le gioie, il viatico dell'esistenza; il resto è nulla.

Ottime ragioni, o lettori. Speriamo che la contessa Giovanna le trovi più tardi da sè. Per oggi ella è triste, ferita nel suo amor proprio, punita nella sua vergogna. Ha dovuto tremare; ha dovuto mentire; e per chi? La bella dama è vestita di tutto punto, per recitare la sua parte. È l'ora di metter la maschera, ed ella con uno sforzo supremo ci riesce. È lo sforzo della necessità. Intanto, nelle sale di ricevimento si è lavorato alacremente; i candelabri, i doppieri, i lampadarii si accendono, e per lunga fila d'immagini si ripetono fiammelle, canestri di fiori, e quadri e bronzi dorati, su tutte le vaste specchiere. Ogni cosa è all'ordine, e il maggiordomo ne ha recato l'annunzio alla padrona di casa. Ora non mancano che i convitati, ed è naturale che manchino, poichè non sono ancora le nove. Ma ecco qualcheduno in anticamera. È troppo presto, per la folla; non può esser che lei, la giovane amica, il fiore appena sbocciato, Gabriella Manfredi.

V.

Snella di forme ed aggraziata nella sua giusta statura, bianca di neve la carnagione, il viso aperto, risolutamente modellato, ma di contorni finamente accarezzati, Gabriella Manfredi prometteva a diciott'anni una rigogliosa maturità di bellezza, ed era già, fin d'allora, un miracolo di leggiadria, di freschezza giovanile. La fronte, nitida e breve, era nascosta a mezzo da due ciocche increspate dei suoi capegli neri, che, raccogliendosi dietro agli orecchi piccini, scendevano in abbondante cascata di riccioli lungo il collo giunonio. Gli occhi grandi, profondi, color di zaffiro cupo, splendevano di luccicori cristallini di sotto agli archi prominenti delle sopracciglia nerissime. Ampia era la guancia e piena; il naso diritto, sporgente alla radice, risentito nel classico disegno delle nari; le labbra belle e carnose; il superiore alquanto più tumido, che, rialzandosi col sorriso, rosseggiava vivace sulla bianchezza luminosa dei denti; il mento, ovale e rilevato, completava degnamente quel tipo maraviglioso di bellezza greca, con tocchi più vigorosi di sentimento romano. Non fiori tra i capegli, o nel timido scollo del seno: era lei, lo sapete, il fiore appena sbocciato. Vestita di bianco e di nero, quasi per naturale richiamo alle due note caratteristiche di colore della sua bellissima figura, portava al collo, per unico ornamento, un sottil vezzo di perle. A vederla, quando volgeva da un lato la magnifica testa, nobilmente rilevata in arco al sommo della cervice, ricordava l'atteggiamento statuario di Diana, che par muovere il capo ai rumori della selva, mentre leva la mano all'omero, dove stanno raccolte le frecce infallibili. E forse accresceva l'illusione quel suo aspetto sereno, ma non senza indizi di osservazione precoce, di testolina forte, come sono generalmente le ragazze rimaste per tempo senza madre e costrette a studiar molto da sè, timide ancora nel soave candore della beata adolescenza, ma già salde di tempera ed agguerrite oltre l'età.

Tale era, nello splendore dei suoi diciott'anni, Gabriella Manfredi. L'accompagnava il senatore suo padre, e veniva con essi il conte di Castelbianco, ritornato allora, e miracolosamente a tempo da quel suo “eterno circolo.„

Giovanna accolse la fanciulla tra le sue braccia, e la baciò sulla fronte. Quel bacio all'innocenza la rianimò; le parve per un istante di non aver più nulla, e le fiorì sulle labbra il più lieto sorriso; poi stese la mano al senatore, in atto di saluto e di ringraziamento ad un tempo.

— Contessa, si arriva primi, secondo l'uso; — disse Andrea Manfredi, ridendo. — Ma voi lo volete, Gabriella lo vuole, ed io, non avendo da volere, obbedisco.

— Grazie, senatore. L'amo tanto, il vostro angelo! — rispose la contessa. — Come sei carina! sembri una bella ninfa antica! — proseguì, rivolgendosi alla fanciulla.

— E tu? — disse Gabriella. — Non c'è che l'antico paragone, per te. Sei sempre bella come un sole.

— Al tramonto, bambina! Pochi anni di più, e potrei essere tua madre.

— Se Pompeo lo permette, contessa, — entrò a dire il Manfredi, — vi costituisco tale, senz'altro, e corro via.

— Ve ne andate?

— Per una mezz'ora; il tempo di giungere all'Albergo di Roma, per stringer la mano, o lasciare un biglietto di visita, ad un amico mio di giovinezza, che oggi è stato da me e non mi ha trovato in casa.

— So chi è; — disse il conte. — Cesare Gonzaga.

— Per l'appunto. E chi t'ha fatto indovino a quel modo?

— Non c'è niente di maraviglioso. Per intanto puoi rimanere, perchè a momenti egli sarà qui. Ci siamo conosciuti stamane. Che simpatico uomo! È lo zio del Valenti.

— Del Valenti? — esclamò Andrea Manfredi. — Del giovane sodo?

— Sì, proprio lui: non lo sapevi?

— No, davvero. Cesare Gonzaga ha lasciato l'Italia trentatrè anni fa, e col Valenti, sai, ci vediamo poco.

— Sei come mia moglie, tu! — osservò il Castelbianco, dando una sbirciata alla contessa, che stava fortunatamente ragionando in disparte con Gabriella. — Quel Valenti le è uggioso, direi quasi antipatico. Ma perchè, dico io, perchè? Non è forse un savio ragazzo?

— Troppo savio; — rispose Andrea, — e la contessa, che ha rettitudine di giudizio, lo avrà subito indovinato, come l'ho indovinato io. Quelli lì, mio caro Pompeo, non sono giovani, e tu spendi male con essi il tuo bel titolo di ragazzo. Hanno l'anima vuota di nobili idee, il cuore risecchito: chiamali banchi ambulanti, orologi a pendolo, incapaci di un errore, ma anche di un largo concepimento e di uno scatto generoso.

— Sì, hai ragione; — disse il conte. — Ma noi, con le nostre follìe, col nostro cuore esaltato e con le nostre mani bucate, che guadagni abbiam fatti? Parlo per me, si capisce. —

Andrea Manfredi sorrise, e, ficcando il suo braccio sotto quello del conte Pompeo, soggiunse arguto:

— Tu, con tua buona pace, sei un vecchio impenitente.

— Vecchio? Oh, questa poi!... — rispose il conte. — È la prima volta che me lo dicono; e per fortuna non è un giudizio di donne.

— Matto!... — replicò il Manfredi. — Sai che ho sessantacinque anni, io? E che ai nostri tempi eravamo quasi coetanei?

— Quasi? — borbottò il conte. — Mettici quindici anni almeno, nel tuo quasi.

— Via, contentati di cinque, e diciamo sessanta.

— T'inganni, oh t'inganni! — rispose il conte Pompeo, che non voleva adattarcisi... — Vedi, Andrea; la mattina, quando non è ancora venuto il parrucchiere, ho cinquant'anni: dopo che è venuto, ne ho quaranta: sul Corso, a Villa Borghese e prima del pranzo, ne ho trenta....

— Ed ora ne hai venti, — conchiuse il senatore. — Se la va di questo passo, mi diventi bambino tra le braccia, e dovrò portarti io a dormire, in mancanza di balia. —

Mentre i due vecchi ridevano, avviandosi verso il salotto attiguo, le due donne chiacchieravano sedute sopra un divano.

— Che vuol dir ciò, che ti amo tanto, Giovanna? — diceva la fanciulla. — Vorrei star sempre con te. Sai che è una cosa triste, essere senza madre? Anche tu, da qualche tempo sei triste. Oh, non lo negare, non sei più quella di prima. C'è un dispiacere di mezzo. Vuoi confidarmelo?

— No, non ho nulla; — rispose Giovanna. — Contrarietà, forse, piccoli malumori in famiglia, ed anche passeggeri; non mette conto parlarne. Ragioniamo invece di te, mia bella fanciulla. Come va il cuore? Chi ami?

— Nessuno.

— Nessuno, è troppo poco. Neanche un principio? Tra tanti giovani che vedi....

— Ah, troppi ne vedo, — interruppe Gabriella, — e tutti si rassomigliano. Gravi, impettiti, inamidati, prepotenti, vengono in società per dettar sentenze, come altrettanti consiglieri di Cassazione. Sorridono di compassione ad ogni discorso un po' caldo, e sembrano accusarti di vanità, di leggerezza, di poesia, tutti sinonimi, per loro! Già, essi non parlano che di cavalli, come se fossero nati e allevati in scuderia, o di affari bancarii, o di politica. La politica non mi dispiace; anche il babbo ne parla, qualche volta, ma per paragonare i bei tempi, i tempi dell'apostolato, della pugna, del sacrifizio, insomma i tempi eroici... con questi! Essi ne parlano per fare i loro calcoli sulla stabilità o sulla caduta del Ministero, senza badare se questo si regge senza gloria, o cade con dignità. Non vedono che il fatto, essi, non ragionano che sulle conseguenze bancarie di quello, e sulle oscillazioni che potrà cagionare alla Borsa. Capisco che hanno da guadagnare e da perdere. Anche il babbo è banchiere; ma, tranne un'ora, ed anche meno, di conferenza col suo segretario, non c'è caso che tu lo senta ragionare di queste miserie. Come è giovane, mio padre! E loro, invece, è una pietà doverli sentire. Se ti parlano di musica, lo ricordi? non fanno che sentenziare brevemente, asciuttamente, tra la tedesca e l'italiana, come se ci fossero due musiche, separate e distinte fin dalla nascita. Se ti parlano di letteratura, non li senti far altro che condannare ogni idealità, bollandola con una parola di disprezzo: retorica! Un nobile entusiasmo non è, infatti, che retorica; un impeto di passione è falsità, poesia introdotta a forza nel linguaggio comune, offesa alla serenità di quella lastra fotografica che è l'arte. E se tu ardisci fare una piccola osservazione, ti lasciano dire, perchè sei donna, ma ti guardano in viso con aria gentilmente canzonatoria, come se fossi incapace d'intenderle, quelle nuove ragioni dell'arte. E fumano, poi, come vulcani, e mangiano molto e ballano poco. A teatro, i famosi giudici delle due scuole musicali, quando c'è l'opera, sonnecchiano nelle loro poltrone, o vanno a chiacchierare nei corridoi, fino all'ora del ballo, quando si tratta di ammirare le capriole. Questo è l'unico momento di gioventù e d'entusiasmo per essi. Infine, Giovanna mia, sono molto serii, e sotto quella vernice di serietà s'indovina il materialismo. Mi fermo, per non entrare in filosofia; ti dirò solo, per conchiudere, che appena uscita dal conservatorio, con tante idee per la testa, li credevo migliori. Non saranno cattivi a dirittura, gran che! Sono mediocri, e mi basta.

— Il ritratto non è abbellito, davvero; — osservò la contessa, sorridendo, — ma nel complesso è abbastanza rassomigliante. Il conte Guidi, per altro, non è così.

— Eh, non saprei; — disse Gabriella. — Lo studio.

— Tu, bambina?

— Io, sì; ti pare orgogliosa, la risposta? ma che cosa possiamo far noi, obbligate a parlar poco e ad ascoltar molto, se non studiare un pochino chi ci parla? Il conte Guidi mi pare uno dei migliori, qualche volta, e qualche altra non me lo pare. Che ne so io? È un cavaliere tenebroso.

— Ti amerà, forse, e non ardirà parlare troppo chiaramente. Sai che non è ricco?

— Oh, questo vorrebbe dir poco; non amo i ricchi.

— Perchè lo sei tu, birichina?

— No, sai, non ci penso neanche; e se ci penso... Vedi, Giovanna, — e così dicendo la fanciulla si strinse al fianco della contessa, come per parlarle all'orecchio, — ci sono dei momenti che, se non fosse per il babbo, vorrei essere... la mia cameriera. Lei almeno è felice; ama tanto sua madre, l'aiuta, e non ha altri pensieri. Se un uomo le dirà di volerle bene, non glielo dirà mica per la sua dote. La poverina non ha che la sua bellezza e il suo buon cuore; ma ci avrà la consolazione di non essere amata per altro.

— Cara! — esclamò la contessa, baciando sui capegli la sua giovane amica. — Ti passeranno, queste idee bizzarre, ti passeranno! Poichè tu studi la vita, la vedrai tutta meno bella, e ti piacerà di essere nata ricca, in una culla d'oro, come ha detto l'Aleardi. È già una bella difesa, esser ricca! Ma ecco, bambina mia, incominciano ad arrivare i nostri amici; ripigliamo la dignità del nostro ufficio.

— Io ti guardo ed imparo; — disse Gabriella. — Tu ricevi come un'imperatrice. —

VI.

L'imperatrice sorrise e andò incontro alle nuove venute. Ce n'erano parecchie, le quali entravano tutte insieme, facendo dire al conte Pompeo che le belle donne, fedeli al costume della pianta di questo nome, anche in casa Morati fiorivano a grappoli. La Savelli, la Carini, la Santoro, la Franchi dal Melle, stupende creature, ognuna delle quali rappresentava un diverso tipo di bellezza, si vedevano nel mazzo, e, venuta forse con esse per ragione di contrasto, non mancava la Gleisenthal. Facevano contorno (e forse sarebbe inutile il dirlo) otto o dieci cavalieri, via via seguiti, quasi incalzati, da uno sciame di eleganti compagni e rivali.

Son questi, non lo ignorate, i miracoli dell'orario, a cui deve sempre corrispondere un orologio ben regolato. Io ho conosciuto dei gentiluomini, i quali, per giungere in punto, nè un minuto prima, nè un minuto dopo, ad un geniale ritrovo, si adattavano a far sosta nei portoni delle case in cui erano invitati. Il bel mondo ha le sue leggi, e riesce a farle rispettare, senz'altra sanzione, fuor quella del ridicolo, che si rovescia sul capo ai miseri trasgressori. Si contraffà spesso e volentieri alle leggi dello Stato, e s'incorre nella multa, e si va anche in prigione; ma non c'è caso che con animo deliberato si venga meno alle leggi del mondo elegante. Passare per ignoranti in materia di consuetudini! Oh no; troppo grave è la pena.

In un quarto d'ora, sempre con l'orologio alla mano, le sale di casa Morati erano piene di gente. Piene, intendiamoci, non già stipate per modo da impedire il movimento dei gomiti. Questi pigia pigia si lasciano volentieri ai balli prefettizi e di Corte, dove bisogna invitare tutto il mondo ufficiale e titolato, senza pregiudizio di quei sollecitatori di biglietti d'invito, che non appartengono a nessuna classe particolarmente indicata. Un anfitrione privato deve cansare sopra tutto il guaio di una calca soverchia, anche a risico di lasciar fuori qualche dozzina di amici. Ne ha sempre tanti, colui che dà pasticcini da mangiare, Pommard, Montrachet, Haut-Brion e Château-Lafite da bere! Socrate, per verità, alloggiato in una casa ristretta, non si stimava mai tanto felice, come quando poteva riempirla d'amici. Ma Socrate era male ispirato, e la signora Santippe non partecipava al suo modo di vedere; anzi è da credere che fosse questa una delle ragioni per cui quel matrimonio celebre dell'antichità non riuscì troppo felice. L'altra ragione si sa, è stata la filosofia. Un marito filosofo, bontà divina! e che aspetta il suo sessantottesimo anno a ber la cicuta!...

Il conte di Castelbianco, che non era un filosofo, andava aliando di fiore in fiore con una leggerezza giovanile, che era natura in lui e che doveva accompagnarlo alla tomba. La Franchi dal Melle, ultimo fiore a cui era venuto a ronzare dattorno, lo aveva lodato della sua presenza così sollecita in casa, che non era, come sappiamo, nelle sue consuetudini.

— E non lo indovinate, baronessa, il perchè? — disse il conte Pompeo, piegandosi sulla vita e presentando la faccia in tre quarti. — Il cuore mi diceva che questa sera voi sareste venuta delle prime, ed ho voluto trovarmi subito al mio posto, per farvi una corte spietata.

— Zitto! — esclamò la baronessa. — Giovanna è vicina, e guai a me, se vi sente!

— Eh via! Peggio sarebbe se mi sentisse il cavalier Giorgetti, che vedo là in sentinella, come sempre. Il poveretto non ha occhi che per voi, e prevedo che a furia di guardare il sole, sarà ben presto costretto a usare le lenti turchine. —

Il colpo era forte e coglieva in pieno; ma la baronessa non ne fu sconcertata.

— Come v'ingannate! — diss'ella, dando in una sonora risata. — Quel povero cavaliere è un amico modesto e prezioso, che mi accompagna regolarmente, e non parla. Se parlasse....

— Lo mettereste al bando dell'impero? Io non lo credo; — rispose il conte.

— Avete torto a non crederlo, perchè sarebbe il primo dei miei doveri.

— Quand'è così, non insisto. Concludiamo dunque che il mio amico Giorgetti, accompagnando e tacendo.... Mi permettete, baronessa di dire tutto il mio pensiero?

— Bravo! Ne avete detto già tanto, e vi fate scrupolo di continuare?

— Ebbene, continuerò. Il mio amico Giorgetti, accompagnando e tacendo, non si guasta con voi, e passa per un felice agli occhi del mondo.

— Che gusto ci si trova?

— Più che non pensiate. Si vive di apparenza, quando la sostanza non c'è. Vedete? Se io potessi parere amato da voi, quasi quasi... non dico già per sempre, ma per dieci anni almeno, mi consolerei di non esserlo.

— Ecco un ragionamento che mi darà da pensare; — conchiuse la baronessa. — Vuol dire che congederemo il cavaliere.

— Per prender me, baronessa?

— Ah voi.... siete un bel capo, voi! Ma come fate ad essere così capriccioso? Avete in casa una bellezza famosa. Ancora stamane, vedendola, dicevo tra me: che uomo felice è Pompeo!

— Stamane! — esclamò il conte di Castelbianco. — Mia moglie! e dove? —

La baronessa si accorse di aver commesso un errore, e si provò ad attenuarlo nei particolari, non potendo correggerlo nella sostanza.

— In via Condotti; — rispose.

— Da un'estremità all'altra! — borbottò il conte di Castelbianco, il cui pensiero era già corso in via Sallustiana.

La contessa Giovanna, che stava ascoltando un discorso della marchesa Savelli, e che frattanto tendeva l'orecchio alle chiacchiere di suo marito con la Franchi dal Melle, si era mossa alla esclamazione del conte, ed era venuta terza nel colloquio, in atto di chi, passando, si fermi per dire una parola gentile. Aveva il sorriso sulle labbra, la povera contessa, e, come potete immaginarvi, l'angoscia nel cuore.

— Ah, eccovi in buon punto; — disse il conte, vedendola giungere, e facendo anche lui bocca da ridere. — Avete veduta stamane la baronessa, bella e seducente come sempre, e non me ne avete detto nulla. Sapete pure, Giovanna, che io sono un adoratore della baronessa!

— So questo; — rispose la contessa continuando a sorridere; — e potete immaginarvi, Pompeo, che, se l'avessi incontrata, non avrei dimenticato di accennarvelo, e di dirvi anche il colore della sua veste. Ma sono forse escita stamane? —

Così dicendo la contessa Giovanna volgeva un'occhiata compassionevole alla baronessa Franchi dal Melle.

— O allora? — disse il conte, guardando anche lui la baronessa. Ma questa aveva avuto il tempo di pensare al rimedio.

— Allora, ecco qua; — rispose ella prontamente. — Non ho veduto il volto, e la persona mi ha fatto credere che fosse Giovanna. Sicuro; escivo da San Carlo e mi ero incamminata per via Condotti, quando vidi entrare dal Berretta una bellissima persona. Come te, Giovanna! C'era la tua statura, il tuo giro di vita, l'atteggiamento della tua testa; insomma, che ti dirò? Anche senza vederti in viso, c'era da scommettere che eri tu.

— Ed anche con la veste color marrone, probabilmente; — soggiunse il conte.

— Lasciate che ci pensi; — rispose la baronessa, interrogando Giovanna con lo sguardo.

— Pensateci pure; ma certamente era color marrone; — ripigliò il conte. — Ecco una dama che avrà avuto l'onore d'ingannare più d'uno. Neanch'io, quando l'ho intravveduta in via Sallustiana, ho potuto distinguere il suo volto; ma il piede... il piede, vedete, era quello di Giovanna, e anch'io avrei scommesso che la dama di color marrone era proprio mia moglie.

— Guardate che stranezza! — esclamò la Franchi dal Melle, facendo le viste di ricordarsi. — La dama che ho veduta io aveva una veste color verde cupo.

— Ne siete ben certa?

— Certissima; e con una giacca di stoffa inglese ruvida... di colore amaranto scurissimo.

— Che gusto!

— Eh, non tanto cattivo, conte! Del resto, era in abito di mattina.

— Ecco dunque già tre donne che si rassomigliano; — osservò il conte Pompeo, mentre Giovanna incominciava a respirare, e mandava alla baronessa un'occhiata di riconoscenza. — La mia cioè quella di via Sallustiana, aveva il piede; la vostra di via Condotti aveva il complesso, il personale. E chi sa quante altre, Giovanna, avranno qualche cosa di voi. Ma già, ricordo di aver letto che Prassitele, quando ebbe a fare la sua Venere per i fabbricieri della chiesa di Gnido....

— Finitela, Pompeo! — disse Giovanna, interrompendolo. — Che discorsi son questi?

Pompeo rideva di gusto, poichè gli avevano levata quella spina dal cuore.

— Vedete, baronessa? — diss'egli. — Sempre così, mia moglie; non gradisce i complimenti maritali. Ed io ho più fortuna dieci volte con le altre. —

Ciò detto, il nostro Ganimede colse la prima occasione per aliare da capo, cercando una di quelle altre che gradivano, a sentirlo, le sue galanterie sessagenarie.

— Grazie! — mormorò Giovanna, rimasta sola con la Franchi dal Melle. — Vedi che disdetta! Esco senza dir nulla, per andare nei quartieri alti, a leticare con Madame Duplessis, che non vuole a nessun patto mandarmi una veste, che doveva esser pronta ier l'altro, e bisogna che tutti mi vedano. Ora, capirai, che una volta detto di no, il puntiglio....

— Non mi dir altro; — interruppe la Franchi dal Melle, donna spensierata, ma buona. — Tu ora mi fai sentire troppo che ho commesso un marrone, più marrone della tua veste. Io stessa ho avuto a ricordare più volte a qualcheduno che non si deve dir mai in società, di aver visto una persona per via, non solo nella giornata, ma per tutto il corso di una settimana; ed ecco, io stessa dovevo cascarci, come una provinciale! Basta, non lo farò più; sei contenta? —

Giovanna sorrise e si strinse amorevolmente al fianco della baronessa, come se volesse abbracciarla; quindi si volse, per stendere la mano ad un cavaliere elegantissimo, pallido, dai capegli neri e lucenti, dai baffi lunghi e dagli occhi profondi, che si era avvicinato in quel punto per farle riverenza.

— Bravo, Guidi! — gli disse la contessa Giovanna. — Ella è dei fedeli.

— C'è poco merito, signora; — rispose il giovanotto, inchinandosi. — Noi siamo pianeti e descriviamo costantemente, fatalmente, la nostra orbita intorno al sole.

— Ah, come è ben detto! — esclamò la Franchi dal Melle.

Il conte Guidi avrebbe potuto ricambiare la lode, soggiungendo che la vicinanza di un astro chiomato poteva recare qualche perturbazione anche nel giro d'un pianeta come lui. E sarebbe stata una immagine molto appropriata, perchè la baronessa aveva una capigliatura stupenda e notoriamente sua. Ma il conte Guidi oltre che non amava le metafore continuate, era furbo parecchio, e, al cospetto di due donne, gli metteva conto di restare qualche volta interdetto.

Egli rivolse perciò una timida occhiata alla baronessa e s'inchinò modestamente; poi, fatte poche altre parole con la padrona di casa, andò diritto dove lo chiamava per allora la legge di gravitazione, cioè a dire verso Gabriella Manfredi. L'aveva veduta sola, non potendo chiamar compagnia la presenza di un giovane ballerino (sapete che in società ci sono i ballerini nati, non buoni ad altro ufficio, fuor questo) e s'inoltrò risoluto. Il ballerino aveva chiesto l'onore di fare con lei il primo giro di valzer, lo aveva ottenuto, non gli restava altro da dire. Il conte Guidi incominciò a parlare del teatro Valle, dove la sera innanzi aveva veduto Gabriella; lodò alcune scene della commedia, ma si fermò più volentieri a criticare quel genere di composizione, manifestando le sue predilezioni per il dramma della vecchia scuola, dove erano nobili i sentimenti, alti i caratteri, e schietta e di gran vena la poesia. Di lì al teatro dello Schiller non c'era che un passo, e il conte Guidi trovò facilmente il modo di attaccare una conversazione non frivola, da non finir così presto, e da permettergli anche di prender posto accanto alla Manfredi.

I soliti frequentatori di casa Castelbianco erano quasi tutti arrivati, quando il conte Pompeo si avvicinò alla moglie, accompagnandone tre nuovi, Arrigo Valenti, Orazio Ceprani e un signore dai baffi grigi, ch'ella non conosceva ancora.

— Mia cara, — incominciò il conte, — sono felice di presentarvi Cesare Gonzaga, lo zio del nostro Valenti.

— È una vera fortuna per noi di conoscere un uomo come lei; — disse a sua volta la contessa. — Si è già tanto parlato, in casa mia, del marchese Gonzaga!

— E mi accadrà, contessa, — rispose il nuovo venuto, — di non corrispondere a tanta gentile aspettazione. Così è, signora; — proseguì, prendendo il posto che la contessa gli aveva cortesemente indicato al suo fianco; — io sono oramai diventato un barbaro. Non avvezzo da tant'anni ad altri ricevimenti che i durbar dei principi indiani, mi troverò molto impacciato nella società elegante di Roma.

— Che dice ella mai? Ci porterà almeno una freschezza di sentimenti, che è divenuta troppo rara tra noi; — replicò la contessa.

Cesare Gonzaga ammirò quella bellissima testa da imperatrice, come avrebbe potuto fare qualunque barbaro civilizzato, o qualunque europeo imbarbarito. E mentre rispondeva alle cortesie della contessa, andava dicendo tra sè:

— Che donna stupenda! E sarò io che dovrò darle il colpo di grazia, per compiacere quel fortunato briccone di mio nipote? A proposito, dove va egli? —

Arrigo Valenti, fatto alla padrona di casa un saluto molto cerimonioso e freddo altrettanto, l'aveva lasciata con lo zio Gonzaga, per andar oltre, verso una bella fanciulla dai classici contorni, vestita di bianco a liste di nero, o di nero a liste di bianco, che veramente non saprei dirvi con precisione, e che del resto importava poco allo zio Gonzaga di rilevare, tanto lo avevano colpito i lineamenti di quel viso verginale.

— La figlia di Lorenza! — mormorò egli dentro di sè, provando un gran rimescolo nel sangue. — Per una volta tanto, ha torto la legge di natura, e quella fanciulla è il ritratto parlante di sua madre. Ah, mio povero cuore, i nostri venticinque anni son lungi, e noi siamo sempre quelli d'allora! —

Gabriella Manfredi, dal momento che quel signore alto dai baffi grigi era entrato nel salotto, annunziato col nome di Cesare Gonzaga, non aveva più dato retta ai discorsi del conte Guidi. Il povero Schiller era tradito, dimenticato là, come è pur troppo dimenticato o tradito sulle scene. Il conte Guidi notò l'aria distratta di Gabriella, e a tutta prima non ne indovinò la cagione. Infatti, non poteva essere che la signorina Manfredi fosse rimasta incantata per la venuta di Arrigo Valenti, cioè di un giovanotto che le faceva la corte anche lui, ma che non pareva egualmente gradito. Ora, che altro poteva essere, perchè la fanciulla guardasse tanto nel crocchio della contessa Giovanna? Anche lui, giovane dai capegli neri e lucenti, dai baffi lunghi, sottili e nerissimi, che spiccavano sul pallore fresco delle guance, contemplò quel signore, alto e forte, dai baffi grigi, e dagli occhi scintillanti, cui dava anche un risalto più vivo la sua carnagione abbronzata dai soli indiani. Vestito in falda nera, col grande sparato bianco sul torace, Cesare Gonzaga aveva ripigliata l'aria del gran signore, ma di un gran signore che avesse fatto lungamente il soldato. Bell'aria marziale, che col crescere degli anni acquista in serenità tutto quello che perde in baldanza, e vi dà, florido ancora entro i confini della maturità, quel nobile tipo soldatesco, il cui solo aspetto dice un mondo di cose, la dignità della vita, la gagliardia virile dei propositi, le aspre fatiche e i rischi memorandi! Ha grigi i capegli, ma li ha salutati il cannone e incoronati la vittoria; ha gli occhi stanchi, ma in quelle bianche pupille venate di rosso si sono specchiati i colli seminati di strage, e il lampo delle batterie fulminatrici, e l'ondeggiar delle brigate al sole delle battaglie, e l'impeto divino delle cariche e il mobile luccichio delle cuspidi dorate sulle bandiere dei reggimenti, su quei poveri brandelli dai colori sperduti, che nessuna pittura può rendere più vivi allo sguardo, nessuna pompa cittadina sventolare più gloriosi al pensiero, più efficaci sul sentimento delle moltitudini. Allora, anche un viso brutto par bello; e il bello non conosce rivali. Vecchio guerriero, che una forte virilità illumina e scalda de' suoi ultimi raggi, il trionfo non è più cosa dei nostri giorni; non si passa più sulla bianca quadriga attraverso la via Sacra; non si ascende più in Campidoglio, e per molte ragioni, tristissime tutte! Ma c'è ancora un lampo generoso negli occhi, ancora un sorriso amorevole sul labbro di una donna; e quel lampo, quel sorriso della età nuova all'antica, è il trionfo della dignità, del valore, della grandezza a cui l'uomo può giungere, combattendo per l'onore della patria, o per la vittoria d'ogni nobile idea. Effimero, sì, come tutti i trionfi! Eppure, per la gloria di un giorno viviamo e combattiamo tante aspre battaglie; qualche volta per la gioia di un'ora, per la ebbrezza di un attimo; e raccolti nella soave memoria di quel giorno, di quell'ora, di quell'attimo celeste, ci spegniamo in silenzio, povere stelle cadenti, ci sprofondiamo nella immensità dello spazio sconosciuto.

Arrigo era venuto coi suoi complimenti, freddamente accolti, a distogliere la signorina Manfredi dalla contemplazione del vecchio. Con lui si era avvicinato anche il Ceprani, che il conte Guidi tirò presto in disparte, per chiedergli:

— Chi è quel vecchio signore con cui siete entrati voi altri?

— Quello là? È Cesare Gonzaga, lo zio del Valenti; — rispose Orazio Ceprani; — un marchese che non vuol essere chiamato marchese, e che ha passato trent'anni della sua vita nel Bengala, facendo la guerra agli Indiani e guadagnando molti laks di rupìe.

— Non mi piace niente affatto; — sentenziò il giovinotto.

— Ah, bravo! Ecco un presentimento; — replicò Orazio Ceprani.

— Un presentimento! perchè?

— Vieni in qua, e te lo spiegherò. Bada che è un segreto, colto al volo da me.

— Tu cogli tutto al volo!

— Dio buono! È l'arte di vivere in società. Guardare, udire, raffrontare, trarre la conseguenza e regolarsi; tutto ciò è diritto e facile come un sillogismo. Sappi dunque che Arrigo Valenti è innamorato di Gabriella Manfredi.

— Che scoperta! — esclamò il conte Guidi, aggrottando le sopracciglia e torcendosi i baffi.

— Non lo sarà; — rispose il Ceprani; — e forse non sarà neanche vero che egli sia innamorato. Certo è che vorrebbe sposarla. È ricco, capisci, è ricco, e può benissimo aspirare a questo matrimonio, che avrebbe per lui il vantaggio inestimabile di collocarlo tra i pezzi grossi, tra i Burgravi del ceto bancario.

— La sposi; — disse il Guidi, seguitando a tormentare i suoi baffi. — Se Gabriella si contenta.... Ma questo mi par più difficile. Qualche volta le ricchezze non bastano, a strappare quel benedetto sì.

— Eccoci dunque al nodo dell'azione; — rispose il Ceprani. — Il marchese Gonzaga è stato un grande amico di gioventù del senatore Manfredi. Capisci ora perchè è venuto a Roma, lasciando il suo castello sul Reggiano, dove stava godendosi i frutti dei suoi laks di rupìe? Lo zio Pilade parla in nome dell'antica amicizia ad Oreste; oppure, se ti piace meglio un altro paragone, viene, vede e vince, da quel Cesare ch'egli è. Questo ho scovato io, osservando, raffrontando, e traendo la conseguenza. Ma bada, io non ti ho detto nulla.

— Non dubitare; — rispose il Guidi. — Ma che ne penserà la contessa? —

Orazio Ceprani si strinse nelle spalle e allungò il muso.

— Questo non l'ho indovinato; è uno dei tanti arcani che dovrò ancora scoprire. Stamane, per esempio, uscendo di casa, per andare nei quartieri alti, chi vedo! Lei, proprio lei, male nascosta dietro i cristalli di una vettura da nolo, che andava... lassù. Dovevo vedere il Valenti, per certe faccende di Borsa, e ho ritardato un'ora buona a salire da lui; ma non l'ho veduta uscire, nè prima, nè poi. Di sicuro, c'è un passaggio segreto, un'altra scala, e che so io.

— Come? Sei tanto intrinseco del cavaliere, e non hai pratica della casa?

— Che cosa vuoi che ti dica? Il cavaliere ha il cuore chiuso come la mano; è avaro dei suoi segreti, come dei suoi quattrini.

— Glie ne hai chiesti, per caso?

— Una volta, sì, per mettere la sua amicizia alla prova. Ed è un'amicizia salda, la sua, a prova di bomba! Oh, ma aspetti, verrà anche il mio giro e faremo a buon rendere. Infine, vedi che capricci di fortuna! Si lavora tutti e due in Borsa, e il più delle volte con le stesse notizie. Orbene, egli guadagna ed io perdo. Stamane ci ho lasciato centomila lire, e sorrido; a denti stretti, ma sorrido. Lui, intanto, ne ha guadagnate trecentomila; e guardalo là, ride a piena bocca, il felice! —

Mentre questi bei ragionamenti si facevano tra il conte Guidi e quell'esemplare di gratitudine del signor Orazio Ceprani, il re della festa, accompagnato dalla contessa Giovanna, faceva il suo giro trionfale nel salotto e giungeva davanti a Gabriella Manfredi.

Fu allora tra il vecchio soldato e la fanciulla una scena bellissima, un dialogo commovente. Gabriella era diventata rossa, vedendolo venire verso di lei, e si era perfino alzata dal divano, con gran meraviglia del Guidi, che stava ad osservarla da lunge.

— Io non avevo più, questa sera, che da conoscere il suo nome; — disse Gabriella, poichè la presentazione fu fatta. — Conosco da molti anni Cesare Gonzaga; potrei anzi aggiungere che è la mia prima conoscenza.

— Che dice, signorina? — esclamò il Gonzaga, commosso alla voce della fanciulla, che gli richiamava al pensiero i suoni e le inflessioni di un'altra a lui cara. — Una fata benigna l'avrebbe condotta laggiù, nel cuore dell'India?

— Una fata benigna e un buon genio, che l'amavano ambedue; — rispose la fanciulla. — Ora, solo il mio genio è rimasto ad amarla. —

Cesare Gonzaga trasse un profondo sospiro, al malinconico accento di Gabriella Manfredi.

— Incomincio a capire; — diss'egli.

— Sì, — proseguì la fanciulla, — mio padre parla sempre, con affetto e con ammirazione, del suo migliore, del suo unico amico. Se oggi, quando ella è venuta a casa nostra, avesse chiesto di me, sarei stata felice di riceverla io, contro tutte le norme del cerimoniale. Ella è di casa nostra, signor Cesare; appartiene alla nostra famiglia. Mia madre, quando aveva da citare un tipo di cavalleria, ricordava sempre lei. Vuol sapere quando fu che udii per la prima volta il suo nome? Mamma e babbo, a tavola, parlavano di un caso che non ricordo più bene, ma in cui, dicevano loro, sarebbe bisognato un uomo di cuore e di virtù singolare; e mamma, allora, soggiunse una frase che non ho più dimenticata: “Senti, Andrea, per far questo che tu dimandi, ci sarebbe voluto un uomo come Cesare Gonzaga.„ —

Il vecchio soldato si recò una mano alla fronte, come per chetare un dolore, o discacciare un molesto pensiero, ma nel fatto per rasciugare con le ultime dita una lagrima.

— Ella vede adunque, — proseguì la fanciulla, provando una gioia schietta e profonda a ragionare con quell'uomo, a dirgli tutti i pensieri che fiorivano nella sua mente; — ella vede adunque che io la conosco intimamente, come conosco l'anima e il cuore di mio padre. Per una ragazza, che incomincia appena ora a vivere, sono abbastanza fortunata; non le pare? —

Il vecchio sorrise malinconicamente, a qual vanto giovanile, e rispose, tentennando la testa:

— Ah, signorina! La vita è piena d'ingrate novità. Gli uomini, creda a me, non si rassomigliano tutti.

— Lo credo facilmente; — replicò Gabriella. — Anzi, veda fin dove giungo, i due che conosco mi hanno resa molto difficile con gli altri. Quando ne incontro uno, che vuol comparire un miracolo di uomo (e l'hanno tutti, questa bella pretesa!) io dico subito tra me: sarà egli un uomo di cuore, un nobile carattere, un cavaliere antico, come il babbo, e come Cesare Gonzaga? —

La fanciulla parlava con una grazia ingenua, con un'anima, con una effusione di cuore, che l'avreste abbracciata, divorata dai baci, se fosse stata una bambina di sette anni. Davanti alla sua età, vi sarebbe mancato il coraggio di far tanto (non la voglia, perbacco!) e vi sareste inginocchiati. Cesare Gonzaga non fece nè l'una cosa nè l'altra; ma i suoi occhi ebbero lampi di tenerezza infinita, che valevano i baci e le genuflessioni.

— È bello, — diss'egli, — sentirsi parlare così; bellissimo sarebbe meritarlo. Ma io ricorderò in buon punto, signorina, che nessuna età dispensa l'uomo dalla modestia. Vedrei tanto volentieri suo padre! È forse uscito?

— Non credo. Sarà forse di là, impegnato in qualche grave discorso. Vuole che andiamo a cercarlo? —

Così dicendo, Gabriella si alzò e fece l'atto di prendere il braccio del Gonzaga.

— Con questa guida, in capo al mondo! — diss'egli.

— Ed io con lei, anche più in là; — rispose ella, appoggiandosi confidente a quel braccio che il Gonzaga le aveva finalmente profferto.

Proprio in quel punto, nella sala vicina, si attaccava sul pianoforte uno dei soliti valzer dello Strauss, e sulla soglia del salotto appariva il ballerino che sapete.

— Signorina, — diss'egli, — venivo per l'appunto a chiedere....

— Non chieda nulla, per ora; debbo far prima una presentazione; — rispose Gabriella. — Non vorrà mica dolersene?

— Oh, le pare? S'immagini: rimango a' suoi ordini; — replicò il ballerino, inchinandosi.

Gabriella, appoggiata al braccio del Gonzaga, proseguì la sua via. Il ballerino seguitava a due passi di distanza, tutto mogio e contrito. Il conte Guidi, piantato in un angolo, aveva notato ogni cosa, le tenerezze maravigliose di Gabriella per quell'indiano baldanzoso, i discorsi infiammati, gli atti vivaci, e finalmente quel loro andar via a braccetto, come se ella si fosse legata per tutta la sera a quell'uomo. E si morse le labbra, il conte Guidi, e si torse ancora i baffi, masticando qualche cosa, che non doveva esser zucchero.

VII.

Andrea Manfredi stava rincantucciato, e non per sua elezione, credetelo, nel fondo di una galleria, tutta messa a piante di stufa, e che sarebbe parsa davvero una stufa, se non ci fossero state cinque o sei grandi lastre di specchi, poste in fila e incorniciate da liste sottili, quasi da nervature di bronzo dorato, dietro agli ombrelli diffusi delle felci arboree e delle latanie borboniche. In quell'angolo di galleria, poco lunge da una delle porte spalancate, donde veniva la luce viva e il lieto rumore della sala da ballo, il senatore Manfredi era stato sequestrato da un suo collega, chiamato non indegnamente il primo seccatore del Regno; uno di quei molesti personaggi, così frequenti in società, che hanno sempre qualche cosa da dirvi, e non vi lasciano, nella terribile continuità del discorso, neanche il tempo di dire: permettete, ho qualche cosa da fare. I dotti vogliono che sia una malattia; gl'indotti si contentano di dire che è una seccatura enorme. Certo è, lettori miei, che se tra i precetti cristiani v'ha quello di assistere gl'infermi, non ci troverete la raccomandazione di ascoltare i noiosi, mentre la scappatoia di farne un'offerta a Dio misericordioso non sarebbe punto conforme a quel sentimento di gratitudine che lega la creatura al suo creatore.

Il Manfredi stava là, come vi ho detto, dimenandosi invano fra le strette di un ragionamento pazzo, che in venti minuti aveva toccato un centinaio di punti, dalla legge per il riordinamento del Genio Civile, che il ministro Baccarini aveva presentata quel giorno in Senato, fino alla fabbricazione del solfato di chinina, e alle proprietà fosforescenti di questo sale, quando sia scaldato a cento, e poscia sfregato nel buio. Ma egli vide apparire la sua Gabriella, in compagnia d'un signore alto, dai baffi grigi, e diede una rifiatata di contentezza, poichè il suo martirio era sul punto di finire.

— Scusate! — diss'egli, interrompendo il discorso e mettendo avanti le mani, per allontanare il noioso. — Vedo mia figlia, che mi cerca. Ah! — soggiunse, osservando meglio il cavaliere di Gabriella. — Sei tu, veramente?

E corse incontro a Cesare Gonzaga, che aveva riconosciuto, ad onta degli anni molti, da cui erano abbastanza mutati ambedue.

— Qua, qua, tra le mia braccia! — proseguì il senatore Manfredi, stringendo al petto l'amico della sua giovinezza. — Venivo, sai, venivo questa sera all'albergo; ma il conte di Castelbianco mi ha detto che tu dovevi capitare da lui, e sono rimasto qui ad aspettarti. Cesare... mio buon Cesare! —

E lo abbracciava ancora, e lo ribaciava sulle gote.

— È un brutto momento, Andrea, un brutto momento! — disse, con voce soffocata dalla commozione, il Gonzaga. — Ho fatto troppo a fidanza con le mie forze. Era meglio che ci vedessimo altrove.

— Siamo quasi soli; — rispose il Manfredi. — Là dentro si balla, e noi, qui in disparte... piangeremo come due ragazzi, non è vero?

— Eh, questo temevo, e ora si dà spettacolo, Andrea! Quanti anni passati! Il meglio della nostra vita, senza vederci! E tua figlia, la tua Gabriella, che angiolo!...

— Sua madre, vedi! Lo hai notato anche tu, che è tutta sua madre? Ed io debbo amarla due volte, questa cara figliuola. —

La cara figliuola stava lì ritta, guardando quei due amici lagrimosi, ch'ella era così felice di poter confondere in una sola ammirazione, in una sola tenerezza. Ma essa, nella postura in cui era, aveva anche gli occhi verso lo specchio, e quella perfida lastra le offerse l'immagine del suo ballerino, ritto impalato dietro le sue spalle, come un Mefistofele burlesco, venuto a rammentarle l'adempimento di un patto. E si volse, la cara figliuola, non senza un pochino di stizza, quasi volesse dirgli col gesto: — Ma ella vede, Dio buono, che ci ho altro da fare?

— Signorina, — disse il ballerino, ossequioso nell'atto, ma inflessibile nel proposito, sono sempre a' suoi ordini. Aspetterò, non s'incomodi. —

Gabriella fece un atto d'impazienza, ma tutto interiore, e, veduto che non c'era verso di liberarsi, prese l'eroica risoluzione di vuotare il calice amaro in un sorso.

— No, — rispose allora, — vengo subito. Badi, signor Cesare, — proseguì, rivolgendosi al Gonzaga, — appena finito questo valzer, vengo a discorrere con lei. Dev'essere questa sera il mio cavaliere.

— Antico; — rispose il Gonzaga. — Ma non dubiti, bella dama, non mi muovo di qui, fino a tanto ella non venga a levarmi di sentinella.

— Perchè darle del lei? — disse il Manfredi.

— Che vuoi? Non l'ho mica vista bambina.

— Ragione di più per rifartene ora!

— Babbo dice benissimo; — disse Gabriella, prima di allontanarsi. — Ma fra poco ne riparleremo. —

E andò, la cara fanciulla, andò nella sala da ballo, voltandosi ancora una volta indietro, prima di lanciarsi nel vortice proverbiale della danza. Il ballerino, di tanto in tanto, provò a collocare qualcheduna delle solite frasi; ma Gabriella era distratta e rispondeva a monosillabi. Finalmente, saltò in testa al ballerino di dirle:

— È ancora un bel cavaliere, quel marchese Gonzaga! —

Per quella volta la fanciulla si scosse, e rispose con una frase intiera:

— È il re dei cavalieri, senza macchia e senza paura. —

Il ballerino non soggiunse più altro. Aveva da ballare e ballò coscienziosamente, tanto da poter dire per una settimana, al caffè, nei soliti ritrovi de' suoi giovani amici: — Il primo valzer della serata, dai Castelbianco, l'ho ballato con la Manfredi, con la più bella ragazza di Roma. —

I due amici erano rimasti nella galleria, finalmente soli, perchè il primo seccatore del Regno, vedendo di non poter riattaccare il suo discorso sulle proprietà del solfato di chinina, era andato a cercare un'altra vittima; sicut leo rugiens... con quello che segue.

— Lascia che io ti guardi ancora; — diceva il Manfredi; — così, nel bianco degli occhi. Come sei sempre giovine e forte! Io, vedi, sono una rovina.

— Eh, via! I capegli un tantino più bianchi de' miei, ecco tutto; — rispose il Gonzaga.

— Aggiungi un'anima accasciata, Cesare mio. Dopo la morte di Lorenza... avvenuta sei anni fa! e il mio dolore è acerbo ancora, come se l'avessi perduta ieri. Ti rattristo, coi miei discorsi, lo so; ma oggi, che vuoi? oggi è un lutto comune. Trentatrè anni fa, era un dolore tuo, che tu hai sopportato virilmente, mio povero amico! Che fuga è stata la tua, e come il tuo sacrifizio è stato inteso da noi! Perchè, infine, tu hai rinunziato alla famiglia, alla patria, a tutte le soddisfazioni, a tutti i conforti che potevi giustamente sperare. Ti amavo, lo sai, ti amavo come un fratello! Ma ti ho amato anche di più, pensando che tu eri più grande, più generoso di me, e che io non avrei saputo fare quello che hai fatto tu, con tanta semplicità, con tanto eroismo. Sì, lasciami dire tutto quello che io penso di te, e che ho dovuto tener chiuso qua dentro, senza neanche sperare che avrei potuto dirtelo un giorno. Senti, Cesare, amico e fratello mio, se mi fosse dato di versare per te fin l'ultima goccia di sangue, ancora non mi parrebbe di averti pagato il mio debito di riconoscenza.

— Sempre lo stesso entusiasmo! — esclamò Cesare Gonzaga. — E sei un banchiere!

— Sì, un banchiere, ma che per ciò? Ho seguita la via de' miei vecchi; ma il cuore non ha potuto mutarsi. Veramente, — soggiunse il Manfredi, — per i tempi che corrono, mi sono ingegnato di nasconderlo, come si nascondono i tesori e i difetti, o le virtù che fanno ridere. Che giorni, amico mio! E come ce l'hanno barattata fra le mani, questa patria, che avevamo immaginato di far così grande e così bella! Va tutto alla peggio, sai, e la nuova generazione non ci affida di giorni migliori. Penso spesso al vecchio di Orazio, per dar torto al mio pessimismo; e non mi riesce, pur troppo! Noi brontoloni, forse, ma con la fiamma dell'ideale nell'anima; i nostri successori, più ameni, più graziosi, più dotti, anche più esperti; ma a conto loro e per le loro ambizioni; ma senza il menomo pensiero di un gran debito morale e politico nella coscienza. Vedo io troppo nero? Non so; ma questo è certo e fuor di questione, che i giovani d'oggidì non mi aiutano punto a vederci più chiaro. —

Cesare Gonzaga non poteva, per parte sua, dargli torto. Ma quella intemerata del suo vecchio amico gli veniva proprio in mal punto, e pareva fatta a posta per levargli il coraggio.

— E sia; — diss'egli, andando risoluto incontro alla difficoltà; — non amiamo i giovani. Ma tu, almeno amerai mio nipote.

— Il Valenti? Questa sera soltanto, e dal conte di Castelbianco, ho saputo che il cavalier Valenti è tuo nipote. È ricco, ed anche esperto negli affari; farà molto cammino. È uno dei fortunati del giorno.

— Ma è anche un giovane d'onore; — disse il Gonzaga, che aveva colto a volo il sarcasmo. — Non siamo noi troppo severi, Andrea? L'hai detto tu stesso, ricordando il vecchio d'Orazio. Poveri giovani! Abbiamo fatto tante sciocchezze noi altri, ed essi non vogliono imitarci. Via, non esser troppo rigoroso coi giovani esperti e savi, se, un po' più presto che non abbiamo fatto noi, si mettono a combattere con accortezza di vecchi capitani la gran battaglia della vita.

— Senti, io ti parlo schietto; — rispose il Manfredi. — Amo la gente seria, ma mi piace che ognuno abbia i pregi, e, se vuoi, anche i difetti della sua età. Siano i vecchi temperati ed accorti, siano ardenti i giovani, ed anche un pochettino ingenui. Ora, che cosa t'ho a dire di più? Quel cavalier Valenti, per la sua età, mi pare un fenomeno, un prodigio di vecchiaia. Tanta esperienza, con quel sorriso angelico, in fede mia, è piuttosto fatta per allontanare, che non per attrarre la simpatia di un uomo come me. Ti dispiace?

— Sì, e molto... perchè dianzi, tenendo a braccetto Gabriella, vagheggiavo un certo disegno!...

— Un disegno? Così presto?

— Eh, caro mio, non me l'hai forse detto tu, proprio tu, che io debbo rifarmi del tempo perduto? Stringere un po' più saldamente i vincoli che ci uniscono, è oggi il mio desiderio più vivo, e, direi quasi, l'unico desiderio ch'io mi abbia. Arrigo, che ti è sembrato così serio e calcolatore, non è freddo che alla superficie. Io l'ho studiato, questa mattina, e posso aggiungere che gli ho dato un esame in piena regola. Non si nasce mica perfetti a questo mondo! Vedi, Andrea. Tu devi usarmi la cortesia di rifare con me lo studio di quel carattere, spogliandoti di tutte le tue antipatie....

— Antipatie, no; — interruppe il Manfredi; — l'uomo savio non ne ha mai, e l'uomo non savio, quando è giunto alla mia età, non ne ha più.

— Diciamo dunque le tue idee prestabilite; — riprese il Gonzaga. — Tu devi lasciarle un momento in disparte, per considerare con me la giovinezza di Arrigo. Quel povero ragazzo si è trovato solo, nel mondo, a combattere; più che imparare a custodirsi da certe intemperanze dell'età, è stato costretto dal bisogno a moderarsi, ad osservare, a scegliere la sua via. Ti è mai occorso di vedere dei saltatori, che per aver calcolata troppo lunga una distanza, o anche per assicurarsi contro i pericoli di una caduta nel vuoto, prendessero una rincorsa maggiore del bisogno, e, nell'impeto, nello slancio del salto, varcassero il segno? Così e non altrimenti il mio povero Arrigo; ha fatto maggior provvista di forze che non bisognasse al caso suo. Doveva esser più giovane, egli, che non aveva tempo da perdere nei giuochi e nelle follie dell'età? meno accorto, egli, che dubitava d'inciampare ai primi passi? Ha diffidato, ha temuto; ma era onesta la sua diffidenza, rispettabile il suo timore. Quasi si potrebbe esclamare: o felix culpa! poichè questa esagerazione di sforzo lo ha condotto alla ricchezza: ma questo ragionamento utilitario sarebbe indegno di me, che ti parlo, di te, che mi ascolti, e finalmente di lui, che ha lavorato con coscienza, avendo solamente il torto, lui giovane, di non aspettare la visita e i sorrisi di madonna Fortuna. Egli le è andato incontro, l'ha circuita, vinta e incatenata, sempre per eccesso di precauzioni, per esagerazione di sforzo. Poveraccio! Ma egli è più giovane che tu non creda; ha una retta coscienza ed un cuore ardente, sotto quell'apparenza di freddezza e di calcolo. Ti basti questo: che egli mi ha confessato stamane di essere fieramente innamorato di tua figlia.

— Fieramente! Dici da senno?

— Non ne dubitare, ti prego. Egli lo ha confessato a modo suo, senza abbondanza di parole, con una di quelle frasi concise e risolute, con uno di quegli scatti, di quei lampi, che ti fan leggere nei più riposti segreti di un cuore. Riconosci, mio caro Andrea, che ti eri ingannato sul conto suo. E non potresti anche ammettere che Arrigo avesse lavorato con tanta accortezza a formarsi uno stato, per potersi presentare più sicuramente a te, con più fondata speranza di essere accettato per genero? Ah, vedi? Ti carico alla baionetta. Ma che vuoi? Amo quel ragazzo, che somiglia tanto a sua madre, alla mia povera sorella... e vorrei vederlo felice. Or dunque, amico, la tua risposta! Senatore, il tuo voto!

— Sarà un voto condizionale, — rispose il Manfredi, che non potè trattenersi dal ridere. — In questo caso io non vorrei far nulla, senza avere udito il pensiero di mia figlia.

— È giusto. Ma se tu mi permettessi di parlarne frattanto a lei, con garbo, si capisce, e con la debita prudenza....

— Sei padrone di farlo. Non subito, per altro; non alla baionetta, come hai fatto con me.

— Oh, non aver timore; troverò il momento opportuno. E poi, si tratta di un negozio delicatissimo; non ne parleremo una volta soltanto. Se il mio Arrigo ha dei difetti, dovrà anche lavorare di buona voglia a levarseli. Gabriella è una creatura divina: non si conquista come la fortuna; bisognerà meritarla.

— Tu, ora, guasti il babbo, Cesare mio! — disse il Manfredi, afferrando la mano del Gonzaga e stringendola fortemente tra le sue. — Non guastare anche la figlia, con le tue lodi soverchie.

— Che lodi! Che soverchi... e che coperchi! Io l'adoro, — replicò il Gonzaga, — e voglio, vedi che bella pretesa! voglio che mi ami, come ama te.

— Mi pare che sia una cosa già fatta; — rispose il Manfredi. — Vedila qua, che ritorna. —

Gabriella appariva in quel punto, classica figura biancheggiante tra il verde delle felci e delle latanie borboniche, con le sue belle guance imporporate dagli ardori della danza. Il ballerino (dobbiamo rendere questo omaggio alla verità) possedeva la sua arte, corrispondeva perfettamente a tutti gli obblighi dell'ufficio. Si poteva non trovar nulla da rispondere ai suoi sciocchi discorsi, ma si doveva aver confidenza in lui, quando incominciava a muover le gambe; bisognava abbandonarsi al vortice, descrivere le curve più violente e più rapide, trattenuti e lanciati ad un tempo da un polso d'acciaio, girando come un eccentrico sopra un asse ideale di rotazione, e fuori del centro di figura. Ricordi matematici, andate via! Il ballerino condusse la signorina Manfredi dov'ella voleva, allargò il braccio, fece un inchino, e via anche lui, mentre la fanciulla, resogli il saluto con un cenno del capo, riprendeva il braccio di Cesare Gonzaga.

— L'avete veramente conquistata! — notò la contessa di Castelbianco, che passava allora, al braccio del conte Guidi.

— Come vedete, contessa; — rispose il Gonzaga, accogliendo con un sorriso la celia garbata. — E son venuto di lontano assai, come tutti i grandi conquistatori. —

Cinque minuti dopo, una grande notizia si spandeva per tutto quel piccolo mondo di dame frivole e di cavalierini leggieri. Il ballerino ne aveva buttato là il germe, il nocciolo, l'embrione, senza dare importanza alla cosa, più per vezzo di chiacchiera che per isfogo di malumore, e tutti ci avevano lavorato intorno, aggiungendo, sottraendo, lisciando, adattando. S'era formata come i diacciuoli, sospesi alle gronde dei tetti, quando una goccia d'acqua si rappiglia, un'altra la segue, e via via di goccia in goccia si forma il candelotto; poi l'aria ci si trastulla dattorno, accarezzando, operando di ricamo, di filettatura, di traforo, di cesello e di sbalzo, questo ottenendo coi caldi e quello coi freddi, secondo i capricci e i bisogni, come farebbe un orefice.

Or dunque, ecco qua: il ballerino aveva dovuto conquistare la sua dama, seguendola pazientemente qua e là per le sale, e finalmente strapparla reluttante dal braccio dell'indiano; dopo averla conquistata, non era riescito a farla parlare che in grazia di una lode accortamente data all'indiano, da lei subito battezzato, con insolita energia d'accento, il cavalier senza macchia e senza paura. Ma il valzer era finito, e la dama, che aveva data la posta al suo Baiardo dai baffi grigi, era corsa a cercarlo, a riprendere il suo braccio. Baiardo non era poi vecchio, e ad onta di quei baffi grigi poteva sostenere il paragone con molti giovani, forte, fiorente e maestoso come appariva agli occhi di tutti. Aggiungete che ritornava dal Bengala, dove si era arricchito (insinuava destramente il Ceprani) facendo la guerra agli Indù; che doveva aver posseduto il cuore di qualche improvvida Rani, ottenendone i diamanti e cedendone il principato agli Inglesi; ragione per cui aveva potuto ritornarsene parecchie volte milionario in Europa. Il riccone, il nabab, appena giunto in Roma, conquistava tutti i cuori, faceva girare tutte le teste; oramai non aveva da far altro che gittare il fazzoletto, poichè tutte le dame si erano invaghite di lui, incominciando da quella stupenda ragazza, il cui babbo, uomo serio e di salda riputazione, era addirittura incantato, e copriva coi ricordi di un'antica amicizia il desiderio smanioso d'imparentarsi con lui. Ed anche era facile intendere la preferenza dell'indiano. Questi vecchi gagliardi, per solito, s'innamorano delle fanciulle, e non apprezzano la bellezza se non è fresca, come la rosa, delle sue prime rugiade. La fanciulla, dal canto suo, aveva sentito il fàscino e gradito l'omaggio del principe indiano; egli aveva gittato il fazzoletto, ed essa aveva lasciato cadere il tulipano, indizio e promessa di un amore violento. E poc'anzi, dopo il valzer ballato di mala voglia, non aveva essa rifiutato di ballare una polca con un altro fra i più brillanti cavalieri della festa, adducendo a sua scusa che si sentiva un po' stanca? Stanca una fanciulla ai primi balli, eh via! I lanciers, almeno, non l'avrebbero affaticata: ma i lanciers (vedete che caso!) li aveva già impegnati con Cesare Gonzaga. Immaginate i commenti! Si sarebbe veduto il sultano eseguire le riverenze, l'avanti e indietro, le diagonali e tutti gli altri passi a contrattempo, che fanno dei lanciers la confusione più amena e la cosa più buffa del mondo.

Immaginate altresì lo stupore, dapprima, e poi la stizza del conte Guidi. Era un tipo curioso, quel conte senza contea. Egli regolarmente andava in tutte le conversazioni, in tutte le feste, dove il suo titolo e la sua eleganza potevano renderlo accetto, e amava ogni stagione un paio di ragazze, con preferenza spiccata per le più ricche borghesi, e, tra queste, per le figlie uniche. Il bel giovane serio, gran cavaliere, parlatore discreto ed efficace a quattr'occhi, non amante delle arguzie, nè dei discorsi chiassosi, solamente disposto a sorrider breve quando sentiva le arguzie e i motti festosi degli altri, faceva allora il suo giuoco doppio. O vinceva la partita, e collocava la sua corona di nove perle sopra un sacco di napoleoni; o la perdeva, e restava con l'aureola di amante sfortunato, ma rispettabile e degno di consolazioni. Qual donna non doveva essergli riconoscente, sapendo di essere stata la sua prima e infelicissima fiamma? Ci sono tanti tesori di pietà, nel cuore di una donna, e si spargono così facilmente, quando la donna è inesperta! Perchè non crederebbe ella, infine, alla sincerità di un affetto che si manifestò nelle forme più nobili quando ella era libera, e che non ebbe esito felice per colpa di circostanze malaugurate, non imputabili a lui?

E Arrigo, frattanto? Arrigo non sentiva nulla, non si accorgeva, non si dava pensiero di nulla. Era andato nella sala di lettura a fumare una spagnoletta e a leggere gli ultimi telegrammi e il listino della Borsa, pronta cagione di parecchie operazioni aritmetiche mentali. Era fastidio delle piccole vanità della festa, o sicurezza del fatto suo? Ci è permesso di accogliere quest'ultima supposizione, senza rinunziare intieramente alla prima. Arrigo si era avvicinato una volta sola, nel corso della serata, alla gentil Gabriella, e aveva anche ottenuta la ricompensa di un sorriso, forse il primo sorriso aperto e sincero, del quale egli poteva chiamarsi debitore alla notizia, saputa quella medesima sera da Gabriella, ch'egli era il nipote di suo zio. Ma egli era un nipote così amato, e così pienamente consapevole di essere aiutato, che potè rispondere con una cert'aria trionfale a quel sorriso amorevole, ritenendosi dal chieder l'onore del solito giro di valzer, di polca, o d'altra figura e tempo di ballo. Già, egli aveva sempre ballato poco, e quell'anno, poi, non ballava più affatto. Un cavaliere, figuratevi! Inoltre, quella sera, mentre un forte guerriero teneva il campo per lui, egli doveva stare più che mai riguardoso. Era fresca la scena in cui una povera donna confusa, amante ancora e pentita, più bisognosa forse di essere consolata che esaudita, era rimasta colpita dalla sua insigne freddezza, e, senza avere ottenuto da lui il conforto di una parola calda, di una lagrima generosa, aveva dovuto riprendere la sua via, in mezzo alle solite ansietà, ai soliti pericoli, sdegnata con lui, ma più ancora con sè medesima!

Dopo i famosi lanciers, in cui Cesare Gonzaga non si era mostrato niente più impacciato di tanti altri personaggi eminenti, che qualche volta debbono pure mescolarsi in queste difficili imprese della frivolezza elegante, la povera contessa entrò nella sala di lettura, e trovò modo, passando, di gittare alcune parole all'orecchio di Arrigo, mentre negli atti e nel sorriso mostrava di dirgli una frase gentile, come è l'uso e l'obbligo delle padrone di casa.

— Egli sospetta, badate. Sono stata veduta per via, e devo solamente al caso....

— Lo so; — rispose Arrigo, imitando la sua mimica prudente. — Non vi esponete, vi prego. —

E fatto un inchino, riprese a leggere il giornale che aveva tra le mani.

Ferita al cuore da quel freddo “lo so„ la contessa era andata più oltre, nel vano di una finestra, dove un altro de' suoi convitati, uomo maturo e stracco, tirava le ultime boccate di fumo da un autentico e profumato Manilla. A tempo, fortunatamente, poichè, a farlo apposta, il conte Pompeo entrava allora, insieme col Gonzaga, nella sala di lettura.

— Ah, bene; benissimo! — esclamò il conte Pompeo. — Ecco qui il nostro cavaliere, che legge il listino della Borsa. Quando lo dico, io, che non ci sono più giovani! Abbiamo dovuto ballar noi. Due bei lancieri per altro! —

Arrigo sorrise, approvando, e rimase a discorrere con lo zio, mentre il conte Pompeo, cutrettola eterna, saltellava verso sua moglie, che aveva preso il braccio del fumatore solitario, e lo trascinava con sè, molto maravigliato, anzi a dirittura rintontito, dai suoi graziosi discorsi.

— Perchè ti nascondi, Arrigo? — disse il Gonzaga al nipote. — Io ho fatto finora tutto quanto ho potuto, passeggiando, tenendo a braccetto, perfino ballando, per essere fedele alla consegna. Ma ogni bel giuoco, lo sai, dura poco, ed io ho dovuto lasciare, per un quarto d'ora almeno, la divina Gabriella.

— Ah! ti piace?

— Moltissimo; e perciò, vincendo un certo rimorso che mi aveva preso per una povera donna, approvo pienamente la tua scelta. Vi voglio alle Carpinete per questa primavera.

— Come corri! — esclamò il giovane. — Tu ti fai già in tasca il contratto.

— In tasca, no; — rispose lo zio, rabbruscato; — in tasca io ci ho solamente le cose che mi dispiacciono. Bada, Arrigo, mentre tu stai qui a ragionare con tanta povertà di linguaggio, un altro si è fatto avanti. E pareva non aspettasse altro che di vedermi muovere, il bellimbusto! Un elegante, un tenebroso, tutto languori con le dame, e occhiate spavalde coi cavalieri! A me, anzi, ne ha date parecchie, che volevano passarmi fuor fuori.

— Ah, capisco, il conte Guidi.

— Sarà lui. Stamane, infatti, mi hai detto che quello che ti dava noia era un conte.

— Noia, sì e no. Il fatto è questo, che io non lo temo. È uno di quei vanerelli, tutti infatuati di sè, che sgallettano intorno a tutte le ragazze ben dotate, e non possono sperar nulla, perchè non hanno la croce d'un quattrino.

— Temili, ragazzo mio, questi cavalieri disperati. Chi li distingue ora dai ricchi? Essi rimediano alla mancanza del milioncino con le belle maniere, col sentimento, con la poesia, imparaticcia se vuoi, ma egualmente pericolosa. Questi rivali bisogna batterli nel loro campo.

— Fammi Gonzaga, e trionfo senza combattere.

— Farti Gonzaga! Eh, vedo la coda del tuo ragionamento. Un'adozione?

— Non sono io il tuo unico parente? — disse Arrigo, incalzando. — Non mi ami tu come un figlio? E i Gonzaga di Luzzara hanno da spegnersi anche nel nome?

— Senti! mi ci fai pensare; — rispose lo zio. — Ma questo è anche un curioso momento, per dirmelo!

— Si dice una cosa quando viene in taglio; — rispose Arrigo, niente sconcertato dalla osservazione dello zio. — Quanto al Guidi, io dormo tra due guanciali. Le ragazze, al dì d'oggi, vogliono ben altro che sospiri e grullerie da medio evo!

— Lo vedi? Io ne ho una opinione diversa; almeno di Gabriella; — replicò gravemente il Gonzaga.

— Ebbene, ecco che lei, per intanto, ti dà una graziosa mentita; — disse Arrigo, ridendo. — Gabriella non è stata a sentire i madrigali del conte Guidi.

— Come lo sai, stando qua?

— Stando qua, vedo il temuto rivale che s'avanza, dietro a te, in compagnia di due altri sciocchi suoi pari.

— Tanto meglio; — disse il Gonzaga. — Allora fammi una giravolta sui tacchi, da bravo soldatino, e va in sentinella un po' tu. Finalmente, si tratta della tua felicità.

— Non è conveniente, ora; — rispose Arrigo. — Se quell'altra mi vede!...

— Quell'altra, ahimè! — disse il Gonzaga in cuor suo. — Così le chiamiamo, quando tutto è finito. —

E sospirò, il povero filosofo, che dei suoi nobili insegnamenti non vedeva alcun frutto.

VIII.

Come mai il conte Guidi era venuto via da un colloquio, così lungamente sospirato? La cosa, che parrà strana ai lettori, dev'esser chiarita da noi.

Il conte Guidi si era avvicinato a Gabriella Manfredi, approfittando dell'obbligo di cortesia in cui aveva posto il Gonzaga l'avvicinarsi della baronessa di Gleisenthal, pur dianzi sua vicina di sinistra nei famosi lanciers. Anche il Guidi, come altri parecchi, aveva chiesto a Gabriella il solito onore del solito giro di non so qual ballo che doveva seguire, ed anche a lui quell'altissimo onore era stato negato. Gabriella, per quella sera, non ballava più. La signorina Manfredi era in una insolita e bizzarra condizione di spirito, nella quale un osservatore della “scuola ereditaria„ avrebbe trovato una eccellente occasione per dimostrare che in lei operava il sangue di sua madre. Noi, più timidi in materia di asserzioni, vi diremo semplicemente che Gabriella Manfredi era commossa, turbata, soggiogata da quel fiero e nobile uomo, il quale da tanti anni era tipico in casa sua, e quasi leggendario per lei.

Nelle famiglie qualche volta ci sono, questi numi tutelari e viventi, immagini rispettate e care di amici lontani nello spazio e nel tempo, a cui si ricorre col pensiero nei momenti solenni, di cui si citano i detti memorabili e le azioni virtuose, come se già si trattasse di uomini che la morte ha consacrati e la storia circondati di una aureola luminosa. “Questo egli disse, questo egli fece; conformatevi all'esempio di valor singolare, di onestà incomparabile, di sacrificio sublime„; ecco l'ammonimento dei vecchi, che nel ricordo dell'amico venerato si sentono riviver essi medesimi con la loro fiorente giovinezza, e si dànno con lui in gradito spettacolo alla ammirazione dei figli.

Di Cesare Gonzaga, nelle sue prime relazioni coi Manfredi, noi sappiamo ancora troppo poco. Gabriella non ne sapeva quasi nulla; ma lo aveva sentito citar sempre come un eroe, e quell'eroe, che ella vedeva finalmente, corrispondeva nell'aspetto e nei modi al tipo ch'ella, fin da bambina, se ne era foggiata nell'anima. Egli era anche bello di una forte bellezza, e perfino quei capegli grigi tagliati corti, tirati indietro alla soldatesca, non riescivano a farlo parer vecchio, poichè il bronzeo color della pelle, prendendo risalto da essi, mostrava la pienezza e la maestà della forza. Gli occhi di Cesare Gonzaga, azzurri nella pupilla, biancheggiavano vivaci nel globo, con riflessi e luccicori di madreperla. A guardarli, ci si vedeva la dolcezza e la serenità di un bambino; ma quando li girava intorno, luminosi, iridescenti sul fosco della carnagione, parevano metter faville, ed erano gli occhi di un forte. Gabriella Manfredi ne fu soggiogata. La bontà nella forza è sempre piaciuta in singolar modo alle donne; e Gabriella amava già in quell'uomo forte e buono il primo amico di suo padre, il tipo di cavaliere perfetto ricordato da sua madre.

Il conte Guidi, come vedete, capitava in mal punto anche lui. Alla contessa Giovanna, la signorina Manfredi aveva confessato di studiare quel giovanotto, che le era parso un po' diverso dagli altri; ma in verità aveva confessato più del vero. Per allora non lo studiava più. Si studia volentieri quando si ha libero lo spirito, e questo lo sanno benissimo tutti coloro che non hanno perduta quella onesta consuetudine. E non solo ella aveva smesso di studiare il conte Guidi; ma egli le era diventato di punto in bianco.... Come s'ha a dire? Via, diciamo schiettamente noioso. Nella sua mente, incapace di due contemplazioni, il pensare ancora ad uno studio così vano come quello del carattere di un giovanotto già troppo a lungo veduto e non mai cresciuto nella sua estimazione per grandi fatti, o accenni di magnanime idee, le parve un'offesa, sì, proprio così, un'offesa a quel nobile uomo, che aveva la doppia aureola del soldato di Roma e del cavaliere mondiale. Cesare Gonzaga le arrideva infatti come una luminosa figura d'altri tempi, di quei tempi che hanno sempre l'obbligo di parere e spesso anche la fortuna di essere migliori dei nostri. Anche gli antichi Romani erano fatti così: alle falde del Campidoglio per respingere i Galli e rovesciare le superbe bilance di Brenno; tra i Persi e i Medi, nel lontano Oriente, con le aquile infaticabili e coi prodigi del valore latino.

Il conte Guidi, per altro, non si poteva mandarlo via come il primo venuto. Quel malinconico cavaliere le aveva dette tante cose leggiadre, ed ella le aveva già tanto ascoltate, anche senza commuoversi troppo, che la consuetudine e la cortesia dovevano associarsi a consigliarle un riguardo particolare di benevola attenzione per lui. Lo ascoltò dunque ancora, mentre Cesare Gonzaga si allontanava, discorrendo con altri. Ma il conte Guidi non fu troppo felice, quella volta; anzi, non lo fu niente affatto. Figuratevi che ebbe il torto d'incominciare così:

— Signorina, ahimè, noi non ci siamo più, questa sera.

— O come? — diss'ella, guardandolo con aria di stupore. — Sarebbe forse... altrove?

— Eh? — ripigliò il giovanotto. — Un triste presentimento mi dice che potrei esser cacciato molto lontano.

— Perchè?

— Perchè, — rispose egli, sospirando, — io non sono, come vorrei, un principe orientale, un personaggio delle Mille e una notte, un Sindbad, un Aladino, un Arun el Rascid.

— Non so chi siano tutti questi signori, perchè non ho letto il libro; — replicò freddamente Gabriella, che aveva capita l'allusione, — ma mi pare che ella voglia essere troppe persone ad un tempo. —

Il conte Guidi si accorse di essere andato troppo oltre, e ripigliò tutto confuso:

— Perdoni, signorina; in questo momento non so più quel che dico. —

Era ancora un bel modo di escire dal ronco; ma per quella volta non gli valse. Gabriella Manfredi, non avvezza a tanta confidenza di discorso, si chiuse nella sua severità di dea scorrucciata, e l'imprudente assalitore levò tosto l'assedio.

Due amici lo presero subito in mezzo, per chiedergli notizie di una quistione d'onore nella quale egli era mescolato come arbitro. Dovete sapere che il conte era una specie di Possevino, versatissimo in materia cavalleresca, padrino nato di tutti i duelli fatti e da farsi. Irritato com'era in quel punto, avrebbe volentieri parlato di affettar mezzo mondo e d'infilzare l'altra metà; ma la quistione di quel giorno era invece finita con un verbale ed una stretta di mano, e perciò il conte Guidi dovette restringersi a spiegare quel lieto fine, da lui stesso consigliato, poichè si trattava di due figli di famiglia e a lui non piaceva d'incorrere nello sdegno delle mamme. Così discorrendo, era giunto all'ingresso della sala di lettura, dove il conte di Castelbianco gli si avvicinò e prese parte alla conversazione cavalleresca. Prendeva parte a tutte le cose dei giovani, il giovane conte Pompeo!

Anche il Manfredi entrava da un altro lato: tirandosi dietro, ahimè, l'eterno collega, il primo seccatore del regno, che lo aveva una seconda volta agguantato. Ed altri vennero dopo loro, tra perchè c'era tregua di danze, e perchè... debbo dirvelo? Veramente mi dispiace un pochino, poichè si tratta di una cosa brutta, che accade in tutte le feste da ballo. “Era in quell'ora che volge il disìo„ dei cavalieri più galanti a piantar lì le dame; quasi altrettante Olimpie sullo scoglio, per andarsene a dare una sbirciatina alla credenza, o a far crocchio nel fumatoio. Già, gli uomini saranno sempre uomini, e, quantunque tirati a pulimento da tanti secoli (si dice da trenta, per gli Europei meridionali) faranno sempre come i selvaggi loro antenati, e dimenticheranno le donne qua e là, per starsene a parlamento, occupati a gestire e gridare. Che gusto ci trovassero gli antichi, e che gusto ci trovino i moderni selvaggi, sa Iddio. Le dame, allora, consumati a mano a mano gli ultimi argomenti di conversazione particolare, si avvedono della mancanza, assoluta o quasi assoluta, del sesso forte; vorrebbero dolersene, come di una grossa scortesia; ma tra i primi scortesi c'è il marito, il babbo, il fratello, il cugino; e allora si prende la cosa in burletta, e si fa, per proposta della dama più allegra, una levata in massa. Le belle abbandonate vanno attorno per le sale, contente di fare un po' di chiasso anche loro; e qualcheduna più ardita, penetrando nel fumatoio, non dubita, ad onta della sua abbigliatura di raso color crema, o di stoffa argentata, non dubita, dico, di prendere una spagnoletta e di fumare, non già come un Mongibello, che sarebbe troppo, ma come un grazioso vulcanetto delle isole Lipari.

— In fondo, hai fatto bene; — diceva il conte di Castelbianco al conte Guidi. — Erano due ragazzi; e se per caso si facevano male, che strilli!

— Che è stato? Una disgrazia? — chiese il tormentatore di Andrea Manfredi.

— No, un duello; ma il nostro Guidi, gran cavaliere e mastro di campo, ha tutto accomodato, con soddisfazione universale.

— Meglio così; bisogna finirla, coi duelli. I Romani....

— Ah, che cervelli esaltati! — esclamò, interrompendo la citazione del seccatore, la signora Robusti, quella bella che era senza spalle e voleva farlo sapere.

— Esaltati! — disse il Guidi, inchinandosi con molta galanteria. — E se lo fossero stati... per la bellezza?

— Allora... non dico più nulla; — rispose la signora, accettando il complimento per sè, e provando a farcisi rossa.

— Il duello è sempre una pazzia, filosoficamente parlando; — ripigliò il seccatore. — I Romani non lo conoscevano, e i Romani....

— Che ne pensi tu, Cesare? — chiese il Manfredi al Gonzaga, che stava zitto, sostenendo le guardate superbe del conte Guidi.

Doveva rispondere il Gonzaga, il re della festa, l'uomo ragguardevole, a cui l'esilio, i viaggi e le avventure indiane avevano dato come una velatura di personaggio misterioso. Tutti gli occhi si volsero a lui, tutti gli orecchi si tesero per udir la risposta.

— Il signore ha invocata la filosofia; — disse il Gonzaga, accennando con gli occhi e con un breve saluto il collega di Andrea. — In nome della morale, che è tanta parte della filosofia, il duello si potrebbe anche chiamare una cattiva azione.

— Proprio, in genere? — disse il Guidi.

— Numero e caso; — rispose il Gonzaga. — È la mia opinione, e, rispettando l'altrui, dico sinceramente la mia.

— E neanche vorrà tener conto del coraggio che ci vuole, per commetterla?

— Il coraggio mi piace, ma quando non sia usato malamente, nè a sfogo di privati rancori, nè a mostra di vanità.

— Il giudizio è molto severo; — notò il Guidi, con amarezza. — E la guerra? Che altro è la guerra, se non lo sfogo e la mostra di una somma di rancori e di vanità?

— Ella, mi perdoni, rimpicciolisce la guerra; — rispose imperturbato il Gonzaga. — Non c'è più vanità, nè rancori, quando si combatte per l'onore del proprio paese e per il trionfo di una nobile causa.

— Ah, perdonami, zio! — entrò a dire il Valenti. — M'inscrivo per parlar contro la guerra. È un controsenso, che il progresso ha oramai condannato; senza contare che le industrie ne soffrono.

— Che argomenti, cavaliere! — esclamò la signora Robusti.

— Ma sai, Arrigo, — disse a sua volta il conte Pompeo, — che tu affoghi nella prosa? Ti farai odiar dalle dame, che sono già in molte a sentirti.

— Ah, sì, — rispose Arrigo, spronato anzi che rattenuto da quel mezzo rimprovero, — un tempo... era assai poetica, la guerra. In primo luogo la partenza, con la sciarpa trapunta, e i colori della dama sul cimiero; da ultimo, il ritorno, con un occhio di meno.

— Ma anche con un occhio di meno!... — esclamò la baronessa di Gleisenthal, quella che, a detta del conte di Castelbianco, avrebbe oramai dovuto smettere.

— Ah, sì! — pensò Orazio Ceprani, che stava in un angolo, ascoltando. — Per quella lì bisognerebbe averli perduti tutti e due.

— E lei, marchese, — entrò a dire la bella Carini, — è mai stato alla guerra?

— Sì, signora, — rispose il Gonzaga, — ed ho fortunatamente salvato gli occhi... per ammirar la bellezza. —

Non si poteva esser più galanti. Le parole del Gonzaga destarono un bisbiglio di approvazione, e la bella Carini si fece rossa davvero.

Il conte Guidi, che era messo di punto in bianco da parte, il conte Guidi, che aveva veduto comparire Gabriella in compagnia della contessa Giovanna, e che a lei aveva veduto andare, insieme col complimento, lo sguardo di Cesare Gonzaga, il conte Guidi perdette la tramontana senz'altro.

— Ed ottenerne il premio! — soggiunse egli, con la sua solita amarezza.

— Chi sa? Fors'anche; — replicò il Gonzaga, sorridendo ironicamente e rizzando con piglio altero la testa.

Qui proprio avvenne che il conte Guidi non ci vedesse più lume.

— Ma questo sia detto, — riprese egli, imbrogliandosi nel giuoco dell'avversario, — per le guerre in cui si difende l'onore del proprio paese....

— Avanti, avanti! — ebbe l'aria di dirgli col gesto il Gonzaga.

— Sì, queste, — continuò il Guidi, — e le altre che si combattono, come diceva lei, per una nobile causa, e giusta, aggiungo io, son quelle che fruttano il premio.

— Correggo quel “giusta„; — rispose il Gonzaga. — Non s'intendono cause nobili, se non sono intimamente giuste. La nobiltà è la bellezza estrinseca della giustizia. Ma chi le dice che le cause per cui io posso aver combattuto non fossero giuste? —

Così dicendo, il Gonzaga aveva l'aria di soggiungere dentro di sè: — Ci sei, bel figurino, non mi scappi più.

— Ma... — replicò il Guidi, oramai trascinato a tutta corsa, come un povero cavaliere staffato. — Perchè in India, dov'ella è stata trent'anni, come ho sentito dire, non erano che guerre d'aggressione e di spogliazione.

— Che ne sa lei? Dato il fatto delle razze sovrapposte dopo la conquista maomettana, potevano anche esser guerre per la liberazione degli oppressi.

— Sì, che facevano guerre d'imboscate, guerre di coltelli!...

— E anche di lame più lunghe, signor conte; — ribattè il Gonzaga, avanzandosi verso il suo interlocutore e fissandolo negli occhi, mentre con l'accento pacato, quasi dolce, pareva volesse dire la cosa più naturale del mondo. — Potrei fargliene conoscere la misura... poichè ne ho portata una bella e interessantissima collezione con me.

— Vedrò volentieri; — rispose, sorridendo a denti stretti, quell'altro.

Queste cose erano state dette rapidamente, a mezza voce, col sorriso sulle labbra. Gli stessi vicini, a cui era parso che i due interlocutori si dovessero riscaldare fino a staccare i bollori, videro con piacere che la quistione finiva in una risata. La contessa Giovanna, rimasta lontana dal crocchio degli uomini, in compagnia di Gabriella e delle altre dame che si erano riaccostate a lei, alzò la voce per dire:

— Ma, signori, parlino almeno più alto, che noi lontane possiamo udire e giudicare, come le dame degli antichi tornei. —

I cavalieri si tirarono da banda, per allargare il cerchio: e Cesare Gonzaga rispose:

— Bella dama, non eravamo ancora in giostra. Il signor conte Guidi mi chiedeva notizie dell'India e delle guerre di laggiù. Che guerre, contessa! Da un lato la conquista, ma con la civiltà; dall'altra il diritto, ossia una specie di diritto acquisito, ma con la barbarie per giunta. Quistioni complesse, e perciò guerre brutte; — conchiuse il Gonzaga, — ma come son brutte tante altre guerre in Europa, che il signor conte Guidi ha ben definite, guerre di rancori e di vanità. Belle, quantunque infelici, le nostre, mio caro Andrea, quando combattevamo, l'uno a fianco dell'altro, per il diritto dell'Italia e di Roma! La fortuna non ci sorrise; nemici stranieri e nemici domestici congiurati strinsero ancora una volta le catene ai polsi della patria, e noi, rincorsi come fiere, abbiamo dovuto disperderci sulla faccia della terra. Onore a chi ci ha vendicati, risollevando il nostro vessillo; onore a chi sostiene il diritto e la maestà della patria risorta! Anche noi, se non sarà troppo tardi, anche noi, quando la bellica tromba... la rammenti, Andrea, la bellica tromba cantata da Gabriele Rossetti?... Anche noi, quando la bellica tromba chiamasse un'altra volta alle armi i figli d'Italia, proveremmo un gusto matto a rifarci la mano, a rivivere un'ora di gioventù!...

— Il tempo di questi sacrifizi è passato; — sentenziò Arrigo Valenti. — Paghiamo già tanto, per le nostre difese! Duecento venticinque milioni, e qualche cosa di più, ci assorbe ogni anno il bilancio della guerra; cinquanta, o poco meno, il bilancio della marina.

— Finiscila, computista! — disse il Gonzaga, prendendo a braccetto il nipote e tirandolo fuori, con atto di paterna autorità.

E sottovoce, aggiunse, poichè si fu allontanato dal crocchio:

— Le tue cifre ti guasteranno con Gabriella. Pensa piuttosto a farmi da padrino.

— Oh, diamine! — disse Arrigo, fissando gli occhi nel volto dello zio. — Dici da senno?

— Sicuro; o lui manda a me, o io mando a lui. Signor Ceprani, — soggiunse, vedendo quell'altro, che si accostava, — vorreste servirmi in una faccenda che vi dirà mio nipote?

— Marchese, son cosa vostra, da ieri mattina.

— Non parliamo di queste piccolezze, e mettetevi d'accordo con Arrigo. —

La contessa Giovanna pensò che fosse tempo di condurre i suoi convitati alla credenza.

— Gonzaga, — diss'ella, avvicinandosi, — ella mi offrirà il braccio. Si va all'assalto della cena.

— Volentieri, contessa; — rispose il Gonzaga, mettendosi tosto a' suoi ordini, ma non senza aver dato un'occhiata di intelligenza a quei due.

E sorridente si avviò, con la contessa Giovanna al braccio, verso la sala della credenza.

Il conte Guidi non fu così pronto nelle sue ricerche cavalleresche, e perdette una stupenda occasione di offrire il braccio a Gabriella. Il fortunato fu presso di lei il loquace collega di suo padre, quello degli antichi Romani, non potuti smaltire.

Pochi minuti dopo, due amici del conte Guidi, il baroncino di Gleisenthal e un duchino di Roccastillosa, si accostarono con molta circospezione ad Arrigo Valenti e gli dissero:

— Cavaliere, siamo stati incaricati dal conte Guidi di una commissione poco lieta, ma necessaria, presso vostro zio, il marchese Gonzaga. E voi probabilmente....

— Sì, ho capito; — rispose Arrigo con aria infastidita. — Son io l'incaricato di mio zio; e Orazio Ceprani, qui presente, è il mio collega. Domani, cioè quest'oggi, perchè oramai siamo al tocco, ci vedremo dove e quando vorrete.

— Al caffè di Venezia, verso lo tre, vi fa comodo?

— Ottimamente.

— E chi arriva primo, aspetta: non ci metteremo mica troppa furia, con una notte perduta?

— Benissimo, chi arriverà primo aspetterà. Ed ora, non ci facciamo vedere a conciliabolo.

— È giusto; queste cose non si hanno a sapere. Anzi, diciamo pure, che non è avvenuto nulla.

— Nulla di nulla, è naturale; — disse Arrigo, salutando.

Rimasto solo con Orazio Ceprani, Arrigo diede la stura al suo malumore.

— Ma lo capisci, mio zio!

— Già, parla contro il duello, e se ne procaccia subito uno.

— E così, in un giorno solo, due pazzìe!

— Questa, la capisco; — disse il Ceprani; ma l'altra?

— L'altra! — ripetè Arrigo, guardando il compagno. — Mi domandi l'altra, tu? L'altra... la so io.

IX.

Un colloquio di quattro persone incaricate di risolvere una quistione d'onore, di stabilire il grado delle offese e le condizioni d'uno scontro, è sempre un argomento degno di studio, non solamente perchè c'è di mezzo la vita di un uomo, o di due, ma anche perchè ci si conosce, meglio che in ogni altra circostanza, il vero carattere di quelle quattro persone: le quali, insieme col così detto punto d'onore, mandano spesso avanti il loro medesimo puntiglio. Ma io suppongo i miei lettori abbastanza istruiti di queste miserie umane, e vado ad aspettar l'esito dei negoziati cavallereschi accanto al signor Cesare Gonzaga, uomo con cui si sta molto bene. perchè, viva l'anima sua, è vissuto a lungo tra i barbari.

Non crediate che io voglia rifarvi la tesi di Gian Giacomo Rousseau contro la civiltà e in favore dello stato selvaggio, tesi che ha pure il suo lato buono, poichè tra i selvaggi e tra i barbari, loro stretti congiunti, non si vive poi tanto male, come generalmente si crede. “Tutto sta nell'adattarsi alla cucina„ mi diceva a questo proposito un gran viaggiatore, amicissimo mio. Vedete dunque che si tratta di un piccolo guaio, a cui rimedia oramai facilmente il signor Cirio, con le sue brave conserve alimentari. Del resto, lasciando la cucina da parte, io ho sempre pensato che un uomo incivilito guadagni due tanti a vivere un po' di tempo tra i barbari. In primo luogo, ci ha il vantaggio non lieve di sfuggire per tutto quel tempo la società degli uomini inciviliti; secondariamente egli si spoglia colà di molti pregiudizi, scioccherie, invidie, rancori, vanità puerili ed altre somiglianti piccolezze, che qui rendono la vita infelice ai mortali: e poi, quando ritorna finalmente a casa, si sente per un pezzo più franco, più sano, più semplice, più forte, resistente agli attriti, inattaccabile, per dirla sì e no chimicamente, dagli acidi.

Il nostro semplice e forte uomo era in casa del nipote, dove quella stessa mattina aveva fatto trasportare le sue valigie, allogandosi in quella parte del quartiere, che guardava sulla via Sallustiana.

— Sarà per questi pochi giorni il mio nido; — aveva detto egli, occupandola. — Tanto, non ci ha più da venire nessuno in conferenza, non è vero?

— Sicuramente; — aveva risposto Arrigo; e mi rendi anche un servizio, liberandomi....

— Zitto lì; questo, poi, non lo voglio sentire da te; — gridò Cesare Gonzaga. — Si può cambiar d'umore, ma non si deve mancar mai di rispetto alla memoria di una donna, a cui si è detto un giorno che era un angelo. Hai capito? Non voglio di queste... che dovrei chiamare birbanterie, se non sapessi che sono smargiassate. —

Arrigo aveva masticata male la lezione; ma chi la dava era suo zio, ed egli dovette mandarla giù in santa pace. Pochi minuti dopo egli esciva, per andare con Orazio Ceprani al caffè di Venezia.

Come si trovasse il Ceprani a far da padrino in quella quistione di Cesare Gonzaga, avete veduto poc'anzi. Forse, dopo certi discorsi da lui fatti al conte Guidi, il signor Ceprani avrebbe dovuto, per la decenza almeno, tirarsi in disparte. Ma questo e tutto il resto degli atti di Orazio Ceprani è affar suo; e noi lo lasceremo con la mala compagnia della sua propria coscienza.

Cesare Gonzaga, dopo aver messe in ordine tutte le cose sue nel nuovo domicilio, si pose a tavolino per scrivere una lettera al suo fattore. Capiva che avrebbe dovuto fermarsi a Roma più giorni che non fosse a tutta prima risoluto di restare, e provvedeva con le sue istruzioni a parecchi lavori che aveva lasciati sospesi. Quanto al duello, non ci pensava neppure. La cattiva azione (perchè infatti la credeva tale) gli aveva dato da principio un pochino di noia: ma oramai s'era imbarcato e non guardava più a terra. Il fatto, poi, considerato nella sua sostanza, non aveva nulla di piacevole nè di dispiacevole per un vecchio soldato come lui; diremo anzi che egli lo metteva in quel certo numero di cose sciocche o bestiali, che gli uomini di buon senso fanno qualche volta per conformarsi alle usanze del mondo, ed anche semplicemente per mo' di esperienza, comme étude. Egli aveva conosciuto anni prima un vecchio e strano olandese, che, sotto la coperta di questa frase burlesca, faceva passare ogni maniera di pazzie. Comme étude!

Ora, mentre egli stava chiudendo la lettera, venne Happy, in punta di piedi e con aria misteriosa, a dargli un annunzio.

— Illustrissimo, sente? Hanno bussato.... di là.

— Ebbene? E tu apri.

— Scusi; il cavaliere non c'è; favorisca di andar lei. Da quella parte, a certe ore del giorno, io non ardisco.

— Caspita! Sei discreto. Sarà poi qualche mendicante... magari uno spazzaturaio.

— Tutte persone che conoscono la scala, e a quell'uscio non bussano più da un pezzo; — rispose il furbo servitore.

— Ho capito; — borbottò Cesare Gonzaga, — sarà il personaggio delle conferenze. Va pure per i fatti tuoi; aprirò io. —

E andò, aperse l'uscio, e si vide davanti la contessa Giovanna.

Ella era tanto turbata, che non badò punto a ciò che quell'uomo avrebbe potuto pensare di lei, nè al bisogno di giustificare con un pretesto la sua presenza colà. Infine, se anco ci avesse pensato, non era egli lo zio di Arrigo, ed anche e soprattutto un uomo d'onore?

— Lei, contessa? — esclamò invece il Gonzaga, credendo necessario di manifestare un tantino di maraviglia.

Giovanna chinò la testa, balbettando poche parole confuse.

— Si calmi, ed entri, la prego. Dio come arde! Si sente male? — diss'egli, che aveva dovuto prenderla per la mano.

— Dica, per carità, non mi nasconda nulla; — mormorò la bella smarrita. — C'è un duello? Non mi risponde? La supplico, signor Cesare, non mi faccia morire di ansietà. Arrigo si batte?

— E chi gliel'ha detto?

— Mio marito, stamane... due ore fa. Ed io, appena ho potuto, son corsa.

— Che imprudenza! Ma come può aver detto il conte una cosa che non è vera, o che, se è vera, non riguarda punto mio nipote?

— Come? non si tratta di lui?

— No. C'è un duello in aria... forse nulla; — soggiunse il Gonzaga, che la vedeva sempre turbata, — e tutto potrà accomodarsi. Ad ogni modo, Arrigo non è che padrino. Ma, le ripeto, chi può aver data al conte una falsa notizia, mentre, essendo rimasto tutto fra quattro persone d'onore, non c'era tempo nè modo di conoscer la vera?

— Che so io? Deve averlo letto in una lettera, ricevuta dopo colazione.

— Anche una lettera! — esclamò egli stupito.

— Sì, e che lo ha messo molto in pensiero, tanto che io volevo sapere.... Da ieri vivo in mezzo a continui terrori, e c'è voluta una gran forza, che io non avrei più creduto di possedere, per trascinarmi fin qua. Infine, signor Cesare, egli non ha neanche risposto alla mia curiosità, certamente indiscreta. Pochi minuti dopo, fatti molti passi avanti e indietro per la stanza, mi ha detto: Arrigo Valenti quest'oggi ha un duello; me ne rincresce davvero. Son queste, lo ricordo, le sue precise parole. La notizia era dunque nella lettera.

— Notizia falsa, data per lettera! — borbottò il Gonzaga. — E veniva dalla posta, la lettera?

— Non so. Era con quelle della posta; ma poteva anche essere stata lasciata al portiere, che la mandò con le altre.

— Notizia falsa, — ripetè il Gonzaga, meditando, — data per lettera, a quell'ora!... E la lettera, forse, sarà anche anonima.

— Dio! — gridò Giovanna, rabbrividendo. — Sono dunque perduta? —

E si nascose il volto tra le palme, poichè allora soltanto pensava alla condizione in cui si era posta davanti a quell'uomo.

— Contessa, — disse allora il Gonzaga, — non farò il moralista, io, nè a quest'ora. Sia sincera con me, che desidero giovarle. Come ha potuto fidarsi di venire anche oggi? Non temeva di essere spiata?

— Sì, e ne temo ancora. Ma dopo quella notizia, non so come, ho perduta la testa. Non son più io, signor Cesare; non mi riconosco più. E ieri.... Dio mio!... ieri avevo creduto di venire per l'ultima volta!...

— Si calmi, si calmi, e vediamo di provvedere al caso suo; — disse il Gonzaga. — Parleremo poi, povera donna, dei giuramenti e delle nobili intenzioni! Come ha potuto, ripeto, fidarsi di venire... in via Sallustiana?

— Al pian di sopra, — balbettò Giovanna, abbassando gli occhi, — è venuta ad abitare una madame Duplessis, mercantessa di mode. Sono anzi salita poc'anzi, con un pretesto, da lei.

— C'è stata anche ieri?

— Sì.

— Ed ha corso rischio di essere scoperta; — soggiunse il Gonzaga. — Ieri, il conte ha fatto qui, mezz'ora dopo la sua partenza, un certo discorso!... Ma non ci perdiamo in chiacchiere inutili. Qui bisogna provvedere.

— Come?

— L'uscio per cui ella è entrata, non deve più mettere al quartiere di mio nipote. Questo è l'essenziale. Che donna è la signora Duplessis? Giovane? Vecchia?

— Giovane, ed anche bella abbastanza. È una francese, come le dice il cognome.

— Bella e francese? È sicuramente una donna di spirito; — disse il Gonzaga. — Mi faccia il favore di restar qui una quindicina di minuti.

— Dove va?

— Ho da sbrigare una piccola faccenda. Non tema di nulla, per ora. Da questa parte non si apre a nessuno, e ad ogni modo in questa camera nessuno entrerà. Lasci fare a me. Quella lettera, certamente anonima, mi dà molto da pensare. Ma sono un vecchio soldato ed ho imparata la guerra delle imboscate. Astuzia per astuzia, ed agguato per agguato. —

Escito a furia, senza voler rispondere alle domande di Giovanna, il Gonzaga richiuse l'uscio della camera, diede la consegna ad Happy e salì sveltamente al piano di sopra. Quindici minuti passarono, quindici minuti di ansietà per la contessa; ma dopo quei quindici minuti, puntuale come aveva promesso, il vecchio gentiluomo, l'esperto soldato, era di ritorno nella camera.

— Ebbene? — diss'ella, andandogli incontro a mani giunte.

— È fatto il più importante, e si sta facendo il resto.

— Ma che cosa, signor Cesare?

— Ho vergogna, a parlarle di sciocchezze, in questi momenti. Ma poichè ella vuol saper tutto... le dirò che parecchie scatole scendono dal piano di sopra. Le due prime le ho portate io stesso. Madame Duplessis è quaggiù, ed Happy, con due bullettine, sta piantando sull'uscio il biglietto di visita della gentile mercantessa francese.

— Come è riescito?

— Dicendo poche parole, come venivano dal cuore. È una donna di spirito, ed ha capito subito; ha posto mano alle prime scatole ed è discesa. L'idea di mettere il biglietto di visita sull'uscio è sua. A me, lì per lì, non era venuta; ed è un lampo di genio! Ella dirà, se occorre, che abita qui da un mese, e che occupa i due quartierini, del secondo piano e del terzo. Avevo accennato, discretamente, a fare il mio dovere con lei; ma non ha voluto lasciarmi proseguire. “Questo è un servizio molto grande, e non ha prezzo„ mi rispose ella argutamente; “vi rivolgerete a me per l'abbigliatura di nozze, ecco tutto.„ Perchè, debbo confessarle una mia bugia, signora contessa, — soggiunse il Gonzaga. — Era necessario darle una spiegazione del fatto, ed io, non trovando niente di meglio, ho accennato confusamente ad una gelosia di donne, e al mio desiderio di sposar quella a cui la pregavo di render servizio, scendendo al secondo piano con una parte delle sue mercanzie. Mi perdona?

— Ottimo signor Cesare! E suo nipote che dirà?

— Che è stato un solenne imprudente, e che io dovevo esser savio per lui. Adesso, signora mia, siamo salvi contro ogni imboscata possibile. Venga da madame Duplessis; concerteremo con lei il modo di farla escire.

— Ma... — disse la contessa, che incominciava a sentirsi più raffidata. — Credeva ella proprio che qualcheduno potesse venire da questa parte?... Al più, mettersi in agguato per via....

— Temo tutto, io; — rispose il Gonzaga. — E poi, chi provvede al più, ha provveduto al meno. —

In quel mentre, si udì una forte scampanellata. Giovanna ne tremò tutta.

— Niente paura; — disse il Gonzaga. — Se suonano di qua, c'è madama Duplessis, con la sua cameriera. Se suonano di là, c'è Happy. —

Ciò detto, andò in ascolto dietro all'uscio della camera. Poco dopo giungeva Happy, per dirgli:

— Illustrissimo, è giunto il padrone.

— Solo?

— Col signor Ceprani.

— Ah diavolo! Ma già, si capisce, doveva venire insieme. Signora, io esco, per andare a sentire questi due, ed anche per tirarli in un'altra camera, più lontana di qui. Ella esca liberamente, e vada ad aspettarmi da madame Duplessis.

— Signor Cesare, come le dimostrerò io la mia gratitudine?

— Le risponderò come madame Duplessis; — disse il Gonzaga, sorridendo. — Questo è un servizio molto grande, e non ha prezzo. Piuttosto non mi tradisca... non mi rinneghi, con la mercantessa di mode, dopo che io ho dovuto inventare quella frottola... e ne arrossisco tuttavia. —

Quando il signor Cesare Gonzaga escì dalla camera, Arrigo, seguito dal Ceprani, stava per entrare nella sala vicina, non badando alle occhiate di Happy, che voleva trattenerlo. Il Gonzaga giunse in tempo per costringerlo a ritornare indietro, impedendogli di sentire il rumore che nelle stanze attigue faceva madame Duplessis, con le sue scatole e casse di mercanzia.

Orazio Ceprani diede una lunga occhiata di curiosità a quella parte del quartiere di Arrigo, nella quale non era mai penetrato, ma ritornò anch'egli indietro, precedendo il Gonzaga, che faceva per allora da padrone di casa, e voleva ad ogni costo esser l'ultimo.

Come fu nella stanza vicina, che era la sala da pranzo, il vecchio soldato diede una rifiatata di contentezza.

— Dunque, zio, eccoci qua; — disse Arrigo. — Torniamo ora dalla nostra missione.

— Scusami, ora ne parleremo; — rispose il Gonzaga. — Ho dimenticato una lettera incominciata.

— Lasciala pure; Happy è un uomo scrupolosissimo.

— Sì, ma le lettere non suggellate debbono ad ogni modo essere chiuse. Vado e torno. —

Ed escì, ma non per andare a chiudere la lettera, bensì per aver modo di ritornare indietro, e chiuder l'uscio di comunicazione, senza aver l'aria di usar precauzioni davanti ad un terzo.

— Vedi che uomo è mio zio! — disse Arrigo al Ceprani. — Ha una quistione d'onore, non sa ancora che cosa gli abbiamo combinato, e, scambio di domandarci notizie, va a chiudere una lettera dimenticata sul tavolino.

— Tuo zio opera da uomo prudente; — rispose il Ceprani, che non immaginava neanche lui di parlar così giusto.

Il Gonzaga ritornò, richiuse dietro a sè l'uscio di comunicazione con l'aria più naturale del mondo, e venne incontro ai due giovani.

— Eccomi qua; — diss'egli; — parlate. A che ora si parte per il campo della gloria?

X.

Arrigo, lì per lì, non avrebbe saputo da qual parte incominciare; ma la domanda dello zio gli dettò la risposta.

— Non si parte; — diss'egli.

Cesare Gonzaga, che si era seduto allora allora, balzò dalla scranna, ficcando gli occhi addosso al nipote.

— Che? Come? Che hai detto?

— Che non si parte, per ora, e molto probabilmente non si partirà più. Per noi, vediamo la faccenda accomodata.

— Ac... co....

— ....modata, sicuro. È la mia opinione, ed anche quella di Orazio, come degli altri padrini.

— Sarei curioso di sapere in che modo.

— È troppo giusto; — rispose Arrigo. — E tu vedrai che le cose sono precedute nei termini della più stretta cavalleria. Ci siamo abboccati coi signori barone di Gleisenthal e duca di Roccastillosa; due bravi giovani, che a tutta prima stavano molto tirati, ma, quando noi abbiamo detto loro di esser pronti a scendere sul terreno, ci son divenuti di pasta frolla. Si era venuti alla scelta delle armi. “Chi è lo sfidatore?„ ci siamo domandati a vicenda.

— Io, perbacco! — interruppe il Gonzaga.

— E questa tesi sostenemmo noi. Ma essi dimostravano di essersi avanzati primi a cercare di noi. Ad ogni modo, perchè noi volevamo essere gli sfidatori, ma lasciavamo a loro la scelta delle armi, essi dovettero riconoscere la delicatezza nostra, di voler vincere un punto, ma senza trarne veruna conseguenza a noi vantaggiosa. Per altro, ci han detto, e non senza ragione: “Si può egli accettare un simile atto di cortesia? non sarebbe meglio che, lasciando da parte sfidati e sfidatori, mettessimo la quistione sul vero terreno suo, tra provocati e provocatori? Stabiliamo chi ha provocato; e se tutti e due i nostri primi hanno avuto in questo la parte loro, stabiliamo da qual lato fosse la provocazione più grave.„

— E allora? — chiese il Gonzaga.

— Allora venne il battibecco, e non fu possibile, con tutta la miglior volontà di questo mondo, non fu possibile intenderci sul maggiore o minor grado imputabile all'uno dei due.

— Ma io lasciavo al mio avversario la scelta delle armi.

— È vero, ma essi notarono e noi non potemmo negare, che questo era un regalo. Ora, i regali si possono accettare e non accettare. Ricusando il nostro, e con parole molto gentili, obbligavano noi a molta cortesia di contraccambio. A fartela breve, non si stabilì chi fosse il provocatore, e si passò all'esame coscienzioso delle parole che erano state dette da una parte e dall'altra. Orazio Ceprani le aveva udite; e anch'io, che ti ero vicino, ma che, come parente, non volli neanche aggiungere la mia testimonianza. Dal canto loro, le aveva udite il duchino, e lui e Orazio trovandosi d'accordo nelle frasi, furono anche d'accordo nel trovare che c'era ben poco; donde la conseguenza, onestamente ammessa da tutti, che il duello nasceva da un malinteso. Il conte Guidi, del resto, non aveva nessuna intenzione di offenderti, ed essi lo hanno lasciato capire.

— Avranno allora ritirato in nome suo le parole offensive, o, secondo la vostra comune ermeneutica, di dubbio significato.

— Non ci parve necessario di chiederlo, dopo che essi, investiti del mandato più largo, avevano creduto opportuno di riferirci il pensiero, la convinzione intima del conte Guidi. Riferire il suo discorso e ritirare le parole offensive, o dubbie, non era forse tutt'uno?

— Non lo era, e non lo è; — disse il Gonzaga.

— Onestamente sì; — rispose Arrigo.

— Cavallerescamente no; — ribattè il Gonzaga.

— Zio, e sei tu che fai distinzione tra onestà e cavalleria? —

Cesare Gonzaga fece una spallucciata, vedendo da che pulpito gli veniva la predica.

— Continua il tuo discorso; — soggiunse. — E voi altri?

— E noi dicemmo allora: siccome le parole del marchese Gonzaga si riferivano ad una offesa, che non c'era; siccome, quando egli si rivolse a parlare con le signore, fu il primo a dire ridendo che si era fatto tra lui e il conte Guidi un semplice scambio di notizie indiane: potremmo costituirci, salva la condizione ad referendum, in una specie d'arbitrato, e, trovandoci d'accordo nelle testimonianze come nei giudizi, ritener cancellata ogni offesa possibile e composta la quistione nel modo più onorevole.

— A questo siete venuti?

— Zio!... da uomini calmi ed onesti. Si ha la vita di due uomini in mano, e di questa autorità terribile bisogna farne buon uso.

— Buon uso! buon uso! — brontolò il Gonzaga. — E chi vi ha detto di farne un uso piuttosto che un altro? Vi avevo detto semplicemente e chiaramente di condurmi sul terreno. Per fortuna, — riprese egli, — c'è di mezzo la condizione ad referendum.

— Ahimè! — rispose Arrigo. — Non ti ci fidar troppo! È stata detta, ma poi non ci si è molto insistito. Anzi, vedi, abbiamo preso impegno di usare tutta la nostra autorità presso i nostri primi, per vincere ogni loro resistenza. Ricordo che il duchino di Roccastillosa ha soggiunto: per il nostro rispondiamo; se non accettasse, avrebbe da fare con noi.

— Cosicchè, se da parte mia non accettassi....

— Potresti... bastonar me; — rispose Arrigo, sciogliendo la reticenza dello zio.

Cesare Gonzaga rimase un istante pensoso; poi disse:

— Capisco; sono stato imprudente, scegliendo te per padrino. —

Allora, anche il Ceprani credette necessario di entrare in discorso.

— Signor Cesare, — incominciò egli, — potrei dirle che in luogo di suo nipote sono qua io a pagare; ma, schiettamente, amerei meglio essere bastonato, insieme con lui. Pensi almeno che noi siamo stati guidati da un altro sentimento delicatissimo, fin qui taciuto da Arrigo.

— E quale, signor Ceprani?

— Un sentimento di riguardo verso la casa amica, e rispettabile tanto, in cui era avvenuto quello scambio di parole vivaci.

— È vero, signor Ceprani; — disse allora il Gonzaga. — Ella mi accenna una cosa che ha pure il suo valore. Quantunque, con un po' di buona volontà, si sarebbe potuta trovare la gretola.

— Domanderò anch'io, alla mia volta: e quale?

— Questa, per esempio, che lo scambio delle parole... vivaci era avvenuto dopo la festa, in un caffè, in un circolo, per istrada, dovunque, tranne in casa di persone amiche. Ma oramai è fatta; — soggiunse il Gonzaga, sospirando, — e del senno di poi ne son piene le fosse. Io ringrazierò lei, ad ogni modo, del delicato pensiero. E adesso, vediamo come se n'esce.

— Non ne siamo esciti? — chiese timidamente Orazio Ceprani. — Resta che nel verbale noi dichiariamo tutti e quattro sul nostro onore di non aver trovati gli estremi di un duello.

— Di una cattiva azione; — soggiunse Arrigo. — Sono le tue parole di ieri.

— Taci, tu! — gridò il Gonzaga, stizzito.

— Ma infine, zio, che ti fa, di avere un duello?

— Che mi fa? Che mi fa? Or ora me la fai dir grossa. Tu, caro mio, per certe cose, hai ricevuto l'ottavo dono dello Spirito Santo. Ma basta; c'è una condizione ad referendum e un verbale da estendere; ci avrete tutti gli appigli per rifarvi da capo. Sicuro; nel vostro caso, io direi press'a poco così: “Signori! voi, molto cortesemente, ci avete dichiarato di poter rispondere del vostro primo; ma noi, per ragioni che intenderete, non abbiamo potuto dirvi lo stesso. L'aver noi citato al signor Gonzaga la clausola ad referendum gli ha dato molto da pensare. Quale delle due parti incomincierà, per dire che il suo primo... si è contentato? E l'essersi egli contentato per primo, non lo metterà rispetto all'altro in una condizione di debolezza? Or dunque, non dichiariamo nulla, e consideriamo ancora un pochino il caso delicato. Possiamo noi consegnare nel verbale quelle ragioni intime che ci hanno persuasi a non vedere gli estremi di un duello? In altri termini, possiamo scrivere, sulla fede nostra, che non avendo avuto il conte Guidi intenzione di offendere, il signor Cesare Gonzaga non l'aveva neppur lui? Se lo possiamo, il secondo considerando s'innesta naturalmente col primo; resteranno le parole vivaci e noi le cancelleremo d'accordo, come conseguenza di un malinteso. Ma se a voi non paresse....„

— E non parrà; — interruppe Arrigo.

— Tanto meglio; — aggiunse il Gonzaga. — “Se a voi non paresse, facciamone una, che salverà le ragioni dell'uno e dell'altro; ritiriamoci tutti e quattro, lasciando che nuovi padrini sottentrino.„ —

Arrigo tentennava la testa; ma Orazio Ceprani s'intromise, e sciolse lui la quistione.

— Il signor Cesare ha ragione; — diss'egli. — Non dovevamo noi vederci ancora, per estendere il nostro verbale, ed anche per discutere, o per dichiararci a vicenda, se i nostri primi potevano stringersi la mano? L'appiglio c'è, anche senza obbligarci in anticipazione al discorso proposto dal signor Cesare Gonzaga. Lascia fare a me, Arrigo; troverò io il modo di escirne, contentando un po' meglio tuo zio.

— Ah, bravo, Ceprani! Ella mi ha inteso; — gridò il Gonzaga. — Vadano dunque. O il verbale, coi due considerandi, nel loro ordine logico e naturale, o il duello. Ma ella vedrà che avremo il duello, e vivaddio, cattiva azione o no, mi piace più del verbale. —

Arrigo chinò la testa e non rispose parola. Quell'ottavo dono dello Spirito Santo, appioppatogli dallo zio, gli era rimasto sullo stomaco.

Mentre si disponevano ad uscire, fu annunziato il conte di Castelbianco.

— Che cosa vuole quest'altro? — scappò detto ad Arrigo.

— Eh, lo so io, quel che vuole; — fu per rispondere il Gonzaga.

Ma egli si tenne la sua risposta fra i denti e si contentò di guardare suo nipote, con aria di rimprovero, che, per muto che fosse, non era meno significante.

Il conte Pompeo entrò, e rimase un po' sconcertato alla vista di quei personaggi riuniti, due dei quali tenevano il cappello in mano, ed erano in procinto di andarsene.

— Buon giorno, conte; — disse Arrigo.

— Buon giorno: — rispose freddo il Castelbianco, guardandolo un po' di sbieco. — Non hai un duello?

— Io? — rispose Arrigo. — Neanche per sogno. —

Il conte Pompeo rimase sovra pensiero, e non disse più altro.

Orazio Ceprani era sulle spine; tanto gli premeva di correre al caffè di Venezia, per far servizio al signor Cesare Gonzaga!

— Se permettete, conte, ci ritiriamo; — diss'egli. — Abbiamo qualche cosa da fare. —

Il conte rispose con un cenno del capo, che poteva passare per un saluto; indi si volse al Gonzaga.

— Resterò un pochino, se non la incomodo, a discorrere con lei.

— S'immagini! — disse il Gonzaga. — Se vuol passare nel salotto.

— No, non occorre; ho poche parole da dirle. Possiamo restare anche qua.

— Come vuole; — rispose quell'altro.

Ma in verità, avrebbe desiderato di condurlo altrove, lontano da un certo uscio di comunicazione, davanti al quale lo aveva confinato la leggerezza del suo signor nipote. Non già che temesse una violazione di domicilio, avendo braccia abbastanza forti, non solamente per trattenere un uomo come il conte Pompeo, ma anche, all'occorrenza, per metterlo gentilmente fuori della finestra; ma egli temeva il rumor delle scatole di madama Duplessis, ospite comodissima, sì, ma per allora un po' molesta vicina.

Frattanto, quegli altri due se n'erano andati, e Cesare Gonzaga rimaneva a tu per tu col conte di Castelbianco.

— Sentiamo che cosa avrà da dirmi questo qua; — pensò egli in cuor suo. — Ha un'aria, in fede mia, che non promette niente di buono. Ah, per tutti i diavoli! Era ben meglio restare un altro paio di giorni alle Carpinete, e lasciare che questi sapienti di città sbrigassero le loro faccende da sè. Basta, qui bisogna stare in cervello, avere un occhio al cane e l'altro alla macchia. —

Con questi proponimenti Cesare Gonzaga stette ad aspettare i discorsi del conte di Castelbianco, dopo avergli cortesemente additata una scranna.

XI.

Il conte Pompeo si lasciò cadere, più che non sedesse, sulla scranna che gli aveva offerta il Gonzaga. Era mezzo disfatto, quel povero conte.

— Sono lieto di trovarmi solo con lei; — mormorò egli poscia. — Ella è un uomo con cui si può parlare a fede, e sfogarsi anche un pochino. —

Reclinò, così dicendo, il mento sullo spillone della cravatta, come se avesse fatto uno sforzo sovrumano.

— Che ha? si sente male? — domandò il Gonzaga. — Infatti, ha la cera alterata.

— Sfido io! M'hanno avvelenata l'esistenza.

— Oh diamine! E chi mai?

— Veda qua, si dia la pena di leggere. —

E trasse dalla tasca interna del soprabito una lettera, che porse al Gonzaga. Era la lettera anonima, di cui aveva parlato dianzi la contessa Giovanna. Aprendola, il Gonzaga vide che era scritta con un bel caratterino di donna, segno evidente che l'aveva scritta, o fatta scrivere, un uomo. La lesse, o, per dire più veramente, la scorse; indi, con un gesto di ripugnanza, la rese al conte Pompeo.

— Ci possono essere al mondo dei vigliacchi come costui? — esclamò.

— Lasciamo stare i vigliacchi; — rispose il conte. — La natura ha fabbricato animali per tutti i gusti e per tutti gli uffizi; gli uni per essere utili, e son pochi! gli altri infine per nuocere. Ma è il fatto, il fatto in sè, quello che dobbiamo considerare. —

Il Gonzaga non sapeva che pesci pigliare. La lettera, fra le altre cose, accennava al conte di Castelbianco la possibilità che il quartiere del Valenti avesse un'escita sulle scale del portone di via Sallustiana. Ora, che cosa voleva il conte? A che mirava, facendogli leggere quella lettera?

— Conte, — diss'egli, vedendo la necessità di ridere, anche a rischio di farlo stizzire, — lei, così allegro gentiluomo per solito, si butta oggi alla filosofia?

— Mi hanno mutato, Gonzaga, mi hanno mutato in un giorno. Infine, sì, sono sempre stato un buontempone, uno sbadato, e se si vuole, diciamo pure un uomo leggero. Ancora ieri seguivo il precetto del quinto Evangelio: “Non voler fatto a sè quel che si farebbe agli altri.„ È questa la massima che ha più credito nel mondo.

— Pur troppo! — esclamò il Gonzaga. — Ma ella, per uno, si corregge?

— Per forza. Mi mettono tra le vittime! Ma vivaddio, qui c'è un'infame calunnia.

— Ah, meno male! Lo vede anche lei, che questa letteraccia è un tessuto di bugie?

— Per metà ne ho avuto la prova.

— Come?

— Andando a vedere coi miei occhi. A farlo apposta, nella scala che mi è stata indicata abitano persone conosciute. Sono salito al secondo piano, quello che dovrebbe corrispondere al quartiere del signor Valenti, e ci ho trovato, occupata a sciorinare abbigliature parigine, una mercantessa di mode che ci ha anche il suo nome sull'uscio: Madame Duplessis. Di che comunicazione è venuto a gonfiarmi la testa l'anonimo corrispondente? —

Cesare Gonzaga pensò all'uscio lì presso, senza osare di levar gli occhi a guardarlo. E quasi (vedete un po' le allucinazioni della paura!) quasi gli parve di sentir premere un battente sull'altro.

— Che cosa mi dice mai! — esclamò, come per soverchiare con la voce quel lievissimo suono. — È andato a visitare la scala che le indicava un anonimo?

— Sì, sono stato vile a questo segno. Veda dove può giungere un uomo, che ha perduta la testa! Ma almeno ne ho veduta l'acqua chiara, e questo è tanto di guadagnato.

— E allora, scusi, perchè s'inquieta? Non possiede oramai la certezza?

— Per metà; — disse il conte. — Rimangono altri punti oscuri. Ma, mi perdoni, Gonzaga! A lei, amico di ieri, io son venuto a dar noia, come se la conoscessi da anni.

— Non badi a queste inezie. Se sono un amico, poco importa la data.

— È giusto; ed io, vede, ho bisogno di parlare con qualcheduno che mi capisca, che possa mettermi un po' di calma nello spirito. C'è stato un momento quest'oggi, che avrei dato del capo nei muri.

— Povero conte! La intendo; — disse il Gonzaga. — La gelosia è l'inferno dell'anima.

— L'ha provata anche lei?

— In altri tempi, sicuro; bisognerebbe non esser uomini, per non esser passati di lì. Ma sentiamo, mi dica... che cos'altro la turba?

— Una passeggiata mattutina della contessa. Perchè oramai non c'è dubbio, — disse il conte, — Giovanna è uscita di casa, quantunque m'abbia detto di no. E veda, a farlo apposta, la lettera mi dice che Giovanna veniva... dove? proprio dove anch'io avevo creduto di vederla.

— E questo, per l'appunto, — chiese il Gonzaga, — non dimostra la bugia del corrispondente?

— In che modo?

— Sicuramente. Non l'ho sentito dir io, in questa medesima casa, che le era parso, in via Sallustiana, di riconoscere sua moglie? E questo che ha detto qui, scherzando, a proposito di un bel piede, che Dio guardi e conservi, — soggiunse galantemente il Gonzaga, — non può averlo detto anche altrove?

— Non mi rammento.

— Ma c'è chi li rammenta, i discorsi fatti per chiasso, e si diverte a tesserci sopra le più infami supposizioni. —

Il conte di Castelbianco fu colpito da quella supposizione del Gonzaga.

— Mi dice bene; — esclamò. — Per altro, quella mattina, la contessa doveva essere escita di casa.

— Glielo aveva forse proibito lei?

— No; mi dispiace soltanto che m'abbia detto di essere rimasta in casa.

— E chi le assicura che non ci sia rimasta davvero? Del resto, senta, Castelbianco mio; una dama può escire per cose da nulla, come ce ne hanno tante le dame; non se ne ricorda, e dice di essere rimasta in casa; l'ha detto, e non le piace disdirsi. C'è da farle un processo, per questo? Abbia fede nelle donne, signor conte; è ancora il miglior modo per vivere in pace con loro e con sè. Quando non abbia questa fede, sospetterà di ogni cosa; e a questo giuoco anche una Genovieffa di Brabante ne andrebbe di mezzo.

— Verissimo! verissimo, quel ch'ella dice! — gridò il conte Pompeo, rianimandosi. — Ed è anche un consiglio da gentiluomo. Ritornerò a casa, e non domanderò a mia moglie se è uscita quest'oggi.

— Perchè quest'oggi? Ci sarebbe qualche altro sospetto?

— C'è di peggio, e quasi mi vergogno di confessarglielo. Consigliato dalla lettera anonima, avevo teso una trappola, dicendo, prima di escire: il cavalier Valenti, quest'oggi, ha un duello. A proposito, e questo duello? Suo nipote mi ha detto che non c'è nulla di vero. S'ha a credere? Anche questa sarà un'invenzione?

— Come tutte le altre. Il duello, l'ho io.

— Ah, diamine! E con chi?

— Perdoni; è un mio segreto... per ora. Le basti, che sono invenzioni, le notizie che hanno scritte a lei.

— Se la cosa è in questi termini, ecco un famoso inventore, che può dar dei punti all'Edison! — disse il conte Pompeo. — Ma che proprio non ci sia neanche l'ombra del vero? Dice un proverbio che non c'è fumo senza fuoco.

— Orsù, — disse il Gonzaga, a sua volta, — sentiamo che cos'altro le sussurra all'orecchio il suo demone interno.

— Ah, sì, dice bene, un demone interno!

— Ci sono ancora dei punti oscuri? Bisogna chiarirli.

— Ecco qua, Gonzaga mio. La contessa non poteva soffrire il Valenti. Sa che gliel'ho detto io medesimo? Ora ricordo di aver letto in un libro che queste antipatie dichiarate sono artifizi di donne, per nascondere la verità, che è tutt'altra. —

Qui Cesare Gonzaga fu ad un pelo di perdere la pazienza.

— Ah, senta! — gridò. — Ne troverà molte, sui libri. Solo a leggerne uno del Balzac, c'è da rinunziare per sempre alla vita matrimoniale. La contessa, che io ho imparato a stimar tanto, può benissimo non apprezzare il carattere di mio nipote, troppo compassato, troppo serio, troppo calcolatore; e in ciò potrebbe aver ragione, per bacco! C'è altro?

— Ella non ammette niente; — rispose il Castelbianco, mezzo raffidato e mezzo dubbioso; — ella ha una risposta di trionfo per tutto. Ci sarebbe ancora, a voler cercare il pel nell'uovo, ci sarebbe ancora da informarsi se il padrone di questo stabile è anche il padrone dell'altro di via Sallustiana, e se a qualche altro piano c'è comunicazione fra due.

— Non ci mancherebbe altro! — pensò il Gonzaga, fremendo.

In ogni altra circostanza, e trattandosi di dare l'ultima prova palmare ad un geloso feroce, si sarebbe potuto dire: “Venga qua, e visitiamo il quartiere, dalla prima all'ultima stanza. Veda, non c'è una porta falsa, e le pareti dànno tutte buon suono. Guardi anche i mobili; specialmente gli armadi; non c'è traccia di doppio fondo, per nascondere un uscio. Vuol venir sopra, o sotto? Chiederemo scusa ai casigliani, e leveremo a lei anche questo dubbio dal capo; vedrà, toccherà, tasterà da ogni parte, e poi andrà a farsi benedire.„ Ma per allora, e davanti a quell'uscio, non si poteva parlare, nè, sopra tutto, operare così. Cesare Gonzaga credette anzi necessario di sviare il sospetto, nella speranza di guadagnar tempo, e rimediare a quell'altro pericolo. Ora, il miglior modo di sviare il sospetto, era di fargli una confessione tale, che mostrasse Arrigo le mille miglia lontano da un ripesco amoroso.

— Creda a me, — incominciò, fingendo una calma che non aveva nel cuore, — non si fermi in queste idee, che, mandate ad effetto, potrebbero nuocere alla riputazione della donna rispettabile che porta il suo nome. Intanto, vuole una prova convincente, una prova solenne dell'errore in cui è caduto, per opera di un birbaccione, che sarà, se Dio vuole, anche un amico di casa? Ella è gentiluomo, Castelbianco. Ha avuto piena fiducia in me, ed io debbo averla in lei, confidandole un segreto, che ella custodirà gelosamente.

— Non dubiti! — disse il conte Pompeo. — Segreto per segreto.

— Orbene, vuol sapere perchè sono io a Roma? Perchè, stia bene a sentirmi, perchè Arrigo Valenti, mio nipote, ha il desiderio di sposare una bella e cara fanciulla: la signorina Manfredi. —

Per quella volta, davvero, Cesare Gonzaga sentì gemer l'uscio. E pensò dentro di sè, mentre batteva l'ultima sillaba del cognome:

— Ah diavolo, diavolo! Ora c'è madama Duplessis che sta a sentire i nostri discorsi. Benedette donne! —

E tossì, per coprire il rumore, tossì come un quaresimalista, quando ha finito l'esordio, con la proposizione del tema.

— Ah! — fece il conte Pompeo, che era tutto scosso dalla grande novità. — Ed io non me ne sono accorto! Ed egli non me ne ha mai fatto parola!

— Non era lei, perdoni, non era lei che potesse servirgli, in questa circostanza; ero io, suo unico parente, io, vecchio amico del senatore Manfredi. Ed io, pregato, scongiurato, sollecitato da parecchie sue lettere, ho dovuto lasciare il mio dolce èremo delle Carpinete, per venire in Roma, a far la domanda formale.

— Che cosa mi dice! Io casco dalle nuvole. E il nostro Arrigo è innamorato di Gabriella?

— Ne è perdutamente innamorato. E non ha torto, perbacco.

— Lo credo: oh, se lo credo! — esclamò il Castelbianco. — Gabriella diventerà una stupenda signora. Peccato, non aver dieci anni di meno, per farle una corte spietata!

— Ah, ecco, — disse ridendo il Gonzaga. — Ritorna in scena il Don Giovanni, col suo quinto Evangelio?

— Scusi, Gonzaga, è la natura che ripiglia il sopravvento. Son fatto così, e porterò il mio difetto alla tomba. Ma sa che ella mi confonde, con le sue belle notizie? E da quando il nostro bel cavaliere ha incominciato a perdere la pace del cuore?

— Che ne so io? — disse il Gonzaga. — Per passare dall'ammirazione all'amore, e da questo a una risoluzione matrimoniale, ci sarà pur voluto il suo tempo. Se mi ha chiamato dieci giorni fa, mettiamo pure che da quaranta ha lo spirito afflitto. Quaranta giorni, come a dire una quaresima!

— Gli auguro buona Pasqua; — rispose il conte Pompeo. — Fortunato briccone! Ma badi, Gonzaga mio, badi bene! Ora capisco una cosa.

— Ahi! — pensò Cesare Gonzaga. — Questo qui mi capisce troppe cose, quest'oggi!

— Sì, veda, pensando alla lettera anonima...

— Che ella mi regalerà per la mia collezione.

— Oh volentieri! Eccola. Pensando dunque alla lettera anonima, mi viene in mente che sia da vederci la mano di un nemico di Arrigo.

— Eh, lo avevo pensato ancor io.

— Scusi; — ripigliò il conte; — ella ha l'aria di dirmi: bella scoperta! Ma ella non sa che razza di nemico.

— E lei lo ha scoperto?

— Mi pare di sì: nemico di Arrigo, perchè suo rivale, ed amante di Gabriella.

— Amante!

— Sì, diciamo innamorato, pretendente. Non è della mia opinione?

— Ma... che debbo dirle? Bisognerebbe conoscere le persone. E poi, come c'entrerebbe una calunnia contro la contessa?

— Ecco: per mandare a monte le nozze, senza aver l'aria di agire direttamente, e perciò senza scoprirsi; — rispose il conte Pompeo. — Uno scandalo fuori via, è di buona guerra. — Eh, io le capisco, queste cose. Il colpo, non lo nego, è un po' forte; ma è di alta scuola, bisogna convenirne.

— E questo rivale, sarebbe?...

— Non ne conosco che uno, per ora: il conte Guidi.

— Ah! — gridò Cesare. — Il conte Guidi? Ci ho gusto. Gli darò un par di schiaffi alla prima occasione.

— Calma, Gonzaga! È finora una mia supposizione. Non vorrei che per un semplice sospetto....

— Allora, — disse il Gonzaga, — cercheremo ancora.

— Non cerchiamo più nulla; — rispose il conte. — Lasciamo spegnere questa miccia male accesa. Volevano far scoppiare una bomba, e non ci sono riesciti. Ne saranno mortificati, e noi rideremo. Ella mi ha proprio sollevato, caro amico, con la sua bella notizia. Questa, poi, taglia la testa al toro. Ed io dubitavo del cavaliere! Ah, ne arrossisco davvero.

— Bravo, conte! Ecco un bel movimento dell'anima!

— Che vuole? Siamo ancora giovani; — disse il Castelbianco, pavoneggiandosi. — A proposito di movimento, abbiamo fatto una lunga seduta, ed io me ne andrò. Lei avrà da fare. Il duello di cui mi parlava....

— Ah, non ci penso neanche. Son cose che risguardano i miei padrini. Quando è l'ora, si parte: alla guerra col piè destro, al “singolar certame„ col piè sinistro.

— Non conoscevo questa distinzione. È indiana, forse?

— Non so, ma potrebbe anche darsi; — disse il Gonzaga, ridendo. — È tutto indiano, in Europa: lingua, civiltà, superstizioni, sciocchezze.

— Ella è di buon umore; — ripigliò il conte Pompeo. — Ecco un augurio che val quello del piè sinistro. Aggiungo i miei, e caldissimi.

— Grazie, e a rivederci.

— Dove? Quando? Va dai Manfredi, stasera?

— Forse... anzi, senza il forse.

— Bene! Ci darò una capatina ancor io. Buon giorno, Gonzaga. —

E se ne andò finalmente, saltellando nel modo che sapete. Era leggero sempre, il conte Pompeo; ma dopo quella conversazione, che fu una particolare fatica di Cesare Gonzaga, era anche più leggero del solito.

XII.

— Una grande ispirazione è stata la mia — esclamò il Gonzaga, appena fu solo. — Come è vero che, quando si ha una cosa da fare, bisogna farla subito! Si era teso un bell'agguato! Ah, bisogna accoppare questo conte Guidi. Arrigo non capisce nulla; ma vivaddio, questa volta si rimedia a tutto. Ora andiamo a vedere madama Duplessis. Happy! —

Il servitore, chiamato, apparve sulla soglia.

— Illustrissimo, comandi.

— Siamo soli in casa?

— Solissimi; anche il cuoco è uscito per le sue faccende.

— Bada, per cinque minuti non deve entrare nessuno. Se suonano, vieni prima ad avvertirmi, bussando a quell'uscio; hai capito?

— Non dubiti. —

Appena fu escito il servitore, Cesare Gonzaga andò ad aprir l'uscio di comunicazione. Immaginate la sua maraviglia, quando trovò là dietro, appoggiata allo stipite, pallida, contraffatta nel viso, la contessa Giovanna.

— Lei qui!... — esclamò egli. — Ancora!...

— Sì; — esclamò la contessa, restando immobile al suo posto, con gli occhi spalancati e fissi, ma senza guardare il Gonzaga.

— Signora, si sente male? Mio Dio! — gridò egli. — Che cosa posso fare per lei?

— No, non badi a me! — ripigliò la contessa. — La rabbia mi soffoca. Da un'ora son qua, e senza potermi sfogare in un grido.

— Ma perchè rimanere? Io la credevo già fuori da un pezzo.

— Volevo, ma mentre stavo parlando con la signora Duplessis, per colorire la mia presenza in questo luogo, mettendo il mio racconto d'accordo con quello che aveva fatto lei.... Quante parole sprecate! — gridò ella, interrompendo la frase e dando in un riso amaro che sapeva di lagrime. — Mentre ero là, hanno suonato all'uscio. Era il conte. Ho fatto in tempo a rifugiarmi qua, pronta a venire da lei, chiunque ci fosse in sua compagnia, nel caso che egli, insospettito, avesse voluto a forza visitar tutto il quartiere.

— Ma con qual pretesto è egli entrato dalla signora Duplessis?

— Cercando il signor Valenti. Fingeva di avere sbagliato, di non aver visto il cartellino. Maravigliato, anche interdetto per le risposte della signora, se ne andò, facendo le sue scuse.

— E qualche minuto dopo, perchè non uscire anche lei?

— Temevo fosse appostato nella strada. Aspettavo lei, che mi aveva detto di venire. Non vedendolo, ritornai fin qua. Egli, appunto allora, giungeva in questa camera. Ho creduto necessario di fermarmi, per udire ciò ch'egli diceva.... Mio Dio! Ed ho udito tutto, ho udito troppo. È orribile, sa, è orribile, quello che ho dovuto sentire dalle sue labbra!

— La necessità mi ha costretto, signora; — rispose il Gonzaga. — Qualche cosa bisognava pur dire, per convincere quell'uomo infuriato.

— Sì, mi lasci credere ora che non ha detto il vero! — replicò la contessa. — Ella non è uomo da mentire, signor Gonzaga!

— Ho pure mentito per tutto il tempo che ho dovuto ragionare con lui! — notò egli, sospirando.

— Ma per gli altri, per una donna, e non per sè; — rispose la contessa. — Non avrebbe certamente gittato là il nome di una fanciulla, se non fosse stato per dire la verità. —

Cesare Gonzaga chinò la fronte e non rispose parola.

— Il suo Arrigo è un infame; — proseguì la contessa. — E non aspettò nemmeno che io, povera donna, lo pregassi di lasciarmi coi miei rimorsi. E mentre io mi perdevo per lui, egli.... Perchè infine, una donna avrà torto, meriterà il biasimo degli uomini come lei, ma ella è sempre una povera disgraziata, che la passione accieca; mentre l'uomo che accanto a quella donna medita un tradimento, e ordisce freddamente un intrigo per liberarsi da lei, per volgersi ad un'altra, quell'uomo è un vile.

— Contessa, la supplico; — disse il Gonzaga, costringendola con atti amorevoli a sedersi, poichè la vedeva così fieramente turbata e convulsa; — pensi che troppo male è accaduto; pensi che io ho fatto quanto era umanamente possibile per iscongiurare un grande pericolo; pensi che, se io non ero, se perdevo anch'io la testa come tutti gli altri, ella sarebbe stata scoperta, e una famiglia rispettata e rispettabile sarebbe divenuta la favola di tutta Roma; pensi infine.... Lo so, è difficile; — soggiunse egli, notando gli atti di diniego della donna esacerbata; — ma bisogna vincersi, perdio, bisogna sforzar la mente a pensare, a considerar le cose, e tanto più attentamente, quanto più sono gravi. Ciò che oggi le sembra un gran male, un male irrimediabile, un mal da morire, è forse un bene, la liberazione, la salvezza.

— Oh, non dubiti, non ne morrò; — non voglio morirne! — rispose la contessa. — Ben altro mi resta da fare. Ma ella sappia, signor Gonzaga.... Questo matrimonio è impossibile; è una follìa, a cui bisogna rinunziare. Ella è amico del senatore Manfredi, ed ha certamente molto potere sull'animo suo. Ma se ella abusasse di un tanto potere per strappargli un consenso a queste nozze, avrebbe cagionata la rovina di una povera fanciulla.

— Come sarebbe a dire? — gridò il Gonzaga, turbato.

— Gabriella non ama, e non amerà mai quell'uomo, che a lei piacerebbe di darle in marito. —

Cesare Gonzaga rimase muto un istante, guardando la contessa, come se volesse cercarle negli occhi il segreto di quelle audaci parole. Ma quegli occhi fissi ne' suoi, come in atto di sfida, non gli dissero nulla, e Cesare Gonzaga, dopo quell'istante di pausa, così parlò gravemente:

— Senta, signora; a me non piace nulla, e da gran tempo, oramai. Pregato da un mio congiunto, posso chiedere un assenso, e per cosa non disonorevole, nè indegna di chi deve rispondermi; ma non soglio far violenza all'animo di nessuno, nè con l'arte degl'inganni, nè con le ragioni dell'amicizia. A chi non conosco, a chi non amo, quando l'occasione si presenta, faccio anche servizio, nella misura delle mie forze; a chi amo non impongo sacrifizi e non preparo pentimenti.

— Perdoni! — balbettò la contessa. — Non volevo dir questo.

— E allora, — ripigliò il Gonzaga, — che cosa ha voluto dire?

— Quello che saprà ella stessa, se interroga il cuore della signorina Manfredi, prima di parlare a suo padre. Gabriella non ama il cavaliere Valenti.

— E chi ama?

— Io... non lo so. E se lo sapessi, non lo direi.

— Contessa, la prego....

— È inutile; — diss'ella, alzandosi con un gesto d'impazienza. — E sono già troppo rimasta nella casa di quell'uomo. —

Cesare Gonzaga non la trattenne; ma la seguì, da buon cavaliere, sino all'uscio del quartierino di via Sallustiana, passando davanti alla buona signora Duplessis, che finse non badare a quella scena di corruccio femminile. Etait-elle coutumière du fait, la bella mercantessa di mode?

Certo, ella era molto caritatevole, e ne avea dato una prova luminosa. Cesare Gonzaga, poichè la contessa fu escita, e senz'altra cortesia che un freddo saluto di cerimonia, si fermò a ringraziare la gentil parigina con tutta la effusione dell'anima. Poi, chiesta licenza, si affacciò alla finestra per dare un'occhiata in istrada e assicurarsi che la contessa Giovanna avesse passato il marciapiede senza incontri spiacevoli. Così avvenne difatti, perchè il destino avverso si era stancato di perseguitare la bella passeggiatrice, e Cesare Gonzaga la vide girar tranquillamente il capo delle Tempeste, e andar diritta e sicura per via Nazionale.

Andava sicura e diritta, la graziosa signora, anche serena nell'aspetto, dopo aver data la sua notizia di colore oscuro, dopo averla gittata là, come la classica freccia del Parto fuggente. Quella notizia, quella frecciata, tornava molesta in singolar modo al Gonzaga. Era dunque vero che Gabriella amasse già qualcheduno? E chi era costui? La contessa, insistendo sulla necessità di parlare con la fanciulla prima di rivolgersi al padre, confidava forse che il signor Cesare non avrebbe ardito di commettere questa violazione delle buone costumanze sociali; ma ella in ciò s'ingannava, poichè Cesare si era già rivolto al padre ed aveva anche ottenuto licenza di esplorar l'animo della figliuola, nè certamente si sarebbe astenuto dal farlo. Ma se davvero Gabriella gli rispondeva in quel modo, che con tanta sicurezza pareva pronosticargli la contessa di Castelbianco, povere combinazioni architettate da Arrigo Valenti, e poveri sogni vagheggiati dallo zio! Perchè, infatti, anche lui ci aveva posto l'animo, e in due giorni di riflessione si era innamorato della sua parte. Se da principio la crudeltà di Arrigo verso la contessa Giovanna aveva ferita la sua fibra di antico cavaliere, ciò ch'era avvenuto in quei due giorni pareva fatto a bella posta per levargli quella fisima dal capo e condurlo a desiderare più che mai il matrimonio del nipote con la signorina Manfredi.

Si scosse, ritornando nelle sue camere, non volendo pensarci più a lungo, e rimettendo a quella sera la spiegazione dell'enimma che gli aveva proposto la Sfinge. Del resto, Arrigo ritornava in quel punto, e per allora ci doveva esser altro da fare.

— Ne capisci niente, zio? — incominciò Arrigo, appena giunto alla presenza del Gonzaga.

— Di che?

— Di ciò che è avvenuto or ora al caffè di Venezia. Leggi qua. —

E gli diede così dicendo una carta. Era il processo verbale compilato e sottoscritto da quattro padrini. I considerandi ritenuti necessari dal Gonzaga c'erano tutti, nell'ordine logico e naturale voluto da lui.

— Che è stato? — disse il Gonzaga, dopo aver letto e riletto il verbale, e levando gli occhi a guardare il nipote.

— Che i nostri avversari hanno riconosciuto tutto ciò che a noi è piaciuto di far riconoscere. Dico noi, ma è più giusto di dire Orazio Ceprani. Il processo verbale è scritto di suo pugno, come ti dimostrerà la sua firma. È stato lui l'esecutore di questa mossa strategica, che tu avevi consigliata.

— Ma, dico io, come ne è venuto a capo? — ripigliò il Gonzaga. — A me, te lo confesso, a me sembra di sognare, con questa carta tra le mani.

— A me sembrò di sognare quando la sentii leggere, e sopra tutto quando la vidi sottoscrivere dal duchino di Roccastillosa. Ma procediamo con ordine; — soggiunse Arrigo. — Ti dirò che mi ero fermato per comprar sigari, mentre Orazio era andato avanti, per trovare i nostri avversari e colleghi al caffè. Quando giunsi, il discorso era già avviato e i nostri personaggi persuasi. E tu eri sicuro di batterti? pends-toi, brave Gonzague; per questa volta l'hai fatta bassa; il conte Guidi ti sfugge.

— E sfugga finchè vuole, e passi anche l'Atlantico; — disse il Gonzaga. — Ma qui sotto c'è qualche cosa.

— Che! Ne ho domandato ad Orazio, quando rimanemmo soli, col nostro foglio di carta in mano, ed egli mi ha risposto: “Che cosa ci trovi di strano? Non si doveva fare un cencio di processo verbale? L'ho ricordato e mi han detto di sì; ho accennato ai considerandi, nella forma che aveva detto tuo zio, e mi han detto di sì; tu sei capitato, io ho incominciato a scrivere, e il resto ti è noto. A me pare la cosa più naturale del mondo, che si ammetta di veder scritto quel che si è detto, e che a quel che si è detto si apponga la firma.„

— Ti dico che c'è qualche cosa, qui sotto; — replicò il Gonzaga.

— Eh, infine, non ci vorrà molta fatica a capirlo; — disse Arrigo. — Per esempio il timore di aver da incrociare il ferro con te.

— Lo aveva pure voluto! — osservò l'altro, facendo una spallucciata.

— Non credo. Aveva un pochino di stizza in corpo; ha cominciato a parlare; tu l'hai stretto al muro, ed egli si è trovato dentro senza avvedersene. Ma poi, ripensandoci a mente fredda, ha fatto i suoi calcoli per dare ed avere; ha notato che tu eri preponderante, con quella tua statura, con quelle spalle da Ercole, e che gli avresti spezzato con un colpo il suo giuochetto da tiratore mingherlino. Poteva benissimo accettare il duello alla pistola; ma anche qui, povero Guidi, ti vedo e non ti vedo! Egli ha ricordato sicuramente che non dovevi aver fatto invano per trent'anni il soldato. Sai, sono cose che si mettono in conto, queste, e prima d'imbarcarsi ci si pensa due volte.

— Ah, gliele avrei fatte veder volentieri! — esclamò Cesare Gonzaga. — Ma io penso un'altra cosa, più modesta e fors'anche più vera; penso che il tuo conte Guidi abbia temuto di guastarsi coi Manfredi, e si sia tirato indietro con me, per mettersi in buona vista con Gabriella. La farà valere, questa sua debolezza; te lo dico io, la farà valere. —

Arrigo si strinse nelle spalle, e rispose:

— Con te per protettore, non ho paura di nulla.

— Eh, tu fai presto a dirlo!

— E come no? tu salvi tutto; è il tuo ufficio.

— A proposito, se ne sono aggiustate parecchie, ma non ancor tutte, quest'oggi; — ripigliò il Gonzaga. — Fammi il piacere di correre dal tuo padrone di casa e di raccomandargli che non ti tradisca. Sai quel che ho fatto, stamane? La metà del tuo quartiere, quello di via Sallustiana, è occupata.

— Da chi?

— Da madama Duplessis, la mercantessa di mode.

— Che follia è questa?

— Follia! Ah, tu la chiami follia? Sappi che stamane il conte di Castelbianco ha ricevuto una lettera anonima. Gli dicevano: “Voi avete creduto, davanti a un uscio di via Sallustiana, di riconoscere vostra moglie. Pensate che il cavalier Valenti abita ad un secondo piano in via Nazionale. Non potrebbe quel secondo piano continuare in via Sallustiana? Informatevi, e date intanto a vostra moglie questo semplice annunzio: Arrigo oggi ha un duello.„

— Che infamia! — esclamò Arrigo. — E chi mai ha potuto?...

— Non cerchiamo chi ha potuto, e consideriamo il fatto in sè; — rispose lo zio. — Era anche l'opinione del conte Pompeo, diventato di punto in bianco un filosofo. Quella povera donna, caduta nel tranello, è venuta qua, ma prima che il conte non si aspettasse. Le ho aperto io; ho capito, non so più come, e lì, senza metter più tempo in mezzo, ho fatto un colpo da maestro. Dopo dieci minuti di colloquio con me, la brava madama Duplessis è discesa al secondo piano, con una parte delle sue carabattole, mentre Happy inchiodava sull'uscio il biglietto di visita. Quell'altro è capitato, ha bussato, e s'è trovato a faccia a faccia con una parigina, mercantessa di mode. —

Arrigo era rimasto muto, ascoltando il discorso dello zio.

— Ora ci sarebbe da raccontarti dell'altro, per dimostrarti che le hai fatte grosse e che c'è voluto molto sangue freddo e molta chiacchiera da parte mia, per rimediarci. Ma tu devi fare dell'altro, e senza un minuto di ritardo; — disse il Gonzaga. — Il conte, che tu hai veduto qui, reduce dalla sua impresa fallita, e che io ho finito di persuadere, non andrà, spero, a prendere altri ragguagli dal padrone di casa. Ma potrebbe anche andarci, e tu devi parare il colpo alla svelta.

— È inutile; — rispose Arrigo Valenti. — Non sono poi così sciocco come tu pensi, mio caro zio, e avevo preveduto questo caso.

— Ah, sì? E che cosa avevi fatto? Sentiamo.

— I due stabili, — ripigliò Arrigo, — appartengono allo stesso proprietario, ma non hanno comunicazione di quartieri che al secondo piano.

— Appunto per questo tu devi pregarlo....

— Aspetta, ci ho dell'altro da dire. La comunicazione è stata aperta da me.

— Ma se tu hai in affitto i due quartieri! — disse lo zio.

— Sì, ma quello di là non l'ho preso col mio nome.

— Davvero? Te ne lodo. Una almeno l'hai fatta giusta.

— Sicuro. Vedi? Gli ho fatto dare il primo nome che mi è venuto alla mente: quello di Orazio Ceprani.

— Ah, matto! — gridò Cesare Gonzaga. — E avrai dovuto confidare il segreto al Ceprani.

— No, non gli ho detto nulla.

— E come hai potuto fargli prendere in affitto un quartierino, senza che egli lo sapesse?

— Sai? Pagando un anno anticipato, non c'è pericolo che l'esattore vada a cercarlo per un pezzo.

— E sia; ma l'esattore, o il padrone, potrà parlarne a caso, e ad ogni modo lasciar correre il nome di Orazio Ceprani, mentre noi abbiamo là una madama Duplessis.

— Senti; si potrebbe in questo caso parlare ad Orazio, che andasse lui....

— Sì, bravo! Questa è una trovata!

— Ma infine, — disse Arrigo, che notò l'ironia nell'accento dello zio, — Orazio è un amico, che mi ha qualche obbligo, ed io non vedo il pericolo....

— Ah, poveri quattrini di tuo padre! — gridò il Gonzaga, mozzandogli le parole in bocca. — Della giuris...prudenza non hai ritenuto che il giuris, dimenticandoti volentieri del resto. Bene... anzi male, e basta così. Andrà come potrà. Se si esce sani da questo ginepraio, credi a me, bisognerà portare un voto a san Crispino, quello che non le faceva, povero a lui, ed era sempre costretto a rattopparle. —

XIII.

Il senatore Manfredi, quel giorno, fra le sette e le otto del pomeriggio, aveva una faccia rannuvolata che mai. Quali cure lo affliggevano? Non già il pensiero della legge sul riordinamento del Genio Civile, presentata due giorni prima dal ministro Baccarini in Senato, e affidata allo studio di una commissione in cui egli non aveva parte. E neanche la legge per l'applicazione del nuovo Codice di Commercio, poichè questa doveva presentarla il ministro Magliani due giorni più tardi, e la commissione che l'avrebbe studiata, sebbene egli dovesse entrarci di pien diritto, era ancora di là da venire. Comunque, nè questo tema, nè l'altro, nè gli annunziati provvedimenti per soccorrere i danneggiati di un recente uragano in provincia di Forlì, erano tali da doverlo impensierire a quel modo.

Gabriella, che lo aveva veduto sereno a colazione, non potè vederlo rannuvolato a pranzo, senza domandargliene il perchè; aspettando, s'intende, che la gente di servizio si fosse allontanata. Quella bella diavolina, quando voleva una cosa da suo padre, la spuntava sempre, e per due buoni ragioni: in primo luogo perchè era amata molto dal babbo, e secondariamente perchè, essendo una savia ed accorta figliuola, non domandava mai se non ciò che poteva domandare.

— Babbo, tu sei pensieroso, stasera; — aveva ella incominciato. — Che cos'hai? Me lo dici?

— Che t'ho a dire, bambina? — rispose il senatore. — Sai bene!...

— Non so nulla, e perciò ti domando.

— Ma... — rispose egli, impacciato. — Finalmente, ho dato licenza all'amico Cesare di parlartene egli stesso. —

A quell'annunzio, Gabriella levò la fronte, sgranò tanti d'occhi e sorrise.

— Ah! — esclamò ella. — Si tratta di un discorso che ha da farmi il signor Gonzaga, e sei triste? —

Il Manfredi contemplò un istante la figliuola, non senza maravigliarsi di vederla così lieta all'udire quel nome.

— Sei dunque molto contenta che egli ti parli? — le chiese.

— Babbo... non so. Con che aria me lo domandi! Ma infine, che c'è di male? Non mi avete assuefatta da bambina, tu e la povera mamma, a stimarlo come un uomo nobile e buono, ad amarlo come il migliore amico della famiglia? È venuto, dopo tanti anni che si aspettava; l'ho veduto ancor io, e m'è parso superiore all'idea che m'ero fatta di lui. Sai? a forza di sentirlo nominare come un giusto, come un uomo virtuoso, come un'anima eccelsa, mi ero figurata un Socrate, un Platone, un Pitagora, che so io! uno di quei tanti filosofi antichi, di cui tutti parlano, di cui generalmente non si conosce che il nome, e che appunto per questo si ricordano con maggior reverenza, anzi con venerazione. Che cosa ho trovato, invece? Un gentiluomo, un perfettissimo gentiluomo, più vero di tutte quelle immagini della mia infanzia, più grande e più giovane della sua fama. E vuoi che io mi spaventi di ciò che quest'uomo ha da dirmi? Non mi dirà, ne son certa, che delle cose gentili, delle cose piacevoli, come me ne ha dette tante iersera.

— Ah, bambina! — esclamò il senatore Manfredi, non potendo, con tutta la sua tristezza, trattenersi dal ridere. — E se egli ti chiedesse....

— Oh Dio! La mia mano? Col tuo permesso, gliele darei tutt'e due. È questo che ti turba?

— Sì questo.

— Ma che c'è? — ripigliò Gabriella, accostandosi. — È egli forse diventato meno nobile, meno buono, meno degno di te?

— No, Gabriella, no; ma vedi? l'uomo per cui egli verrebbe a chiedere la tua mano.... io non so se sarebbe intieramente degno di te.

— Tu mi spaventi, babbo. Non si tratta dunque di lui!

— O come?... — gridò a sua volta il Manfredi, guardando con aria di stupore la sua bella figliuola, quel fiore a mala pena sbocciato. — E pensavi davvero che potesse trattarsi di lui?

— Eh, senti.... Ora mi fai arrossire della mia.... leggerezza. Ho fatto male a pensare una cosa simile?

— No, no, no; — rispose il senatore, con una progressione ascendente di tono. — Gabriella mia, tu sei più bambina che io non ti credessi, o più vecchia. Si tratta, come ora spero che avrai capito, del nipote di Cesare.

— Ah! — disse Gabriella. — Il signor Cesare deve parlarmi.... di suo nipote? —

E accompagnò le parole con un cenno del capo, tra cerimonioso e ironico, che era una delizia a vederlo.

— Volevi... dunque, volevi proprio che ti parlasse di sè? Un uomo maturo come lui?

— Non me lo sembra; — rispose Gabriella. — Del resto, hai detto poc'anzi che anch'io sono più vecchia che tu non credessi.

— O più bambina; — soggiunse il Manfredi. — La cosa restava un po' dubbia.

— Ebbene, babbo, la si decida, come dicono a Firenze. Per me, scelgo di esser più vecchia. Osservo molto, sai; e osservando ho anche riconosciuto che i giovani... siete voi altri. So anche abbastanza di storia antica, e tra zio e nipote...

— Oh, sì, vediamo come c'entra la storia antica fra Cesare e suo nipote.

— C'entra per dirti che Ottaviano valeva meno di Cesare.

— Ma divenne Augusto; — osservò il Manfredi.

— Per decreto del Senato; — replicò prontamente quella birichina; — ma si troverà oggi il Senato per far la proposta? Io credo di no, tanto più che vedo il signor senatore un po' inquieto.

— Di' pure impacciato e scontento; — riprese il Manfredi. — Già, vedo che Ottaviano ti piace poco. Io, poi, che avevo dato licenza a Cesare di parlarti per lui, oggi, dopo una certa lettera che ho ricevuto....

— Anonima? — interruppe Gabriella.

— Che ne sai tu? — disse Manfredi, rizzando la testa e ficcando gli occhi addosso alla figliuola.

— Indovino; — rispose Gabriella. — Siccome ne ho una anch'io!

— Anche a te hanno scritto?

— Non a me, veramente, che non l'avrei ricevuta senza il tuo consenso, ma a Carolina, che ne è rimasta tutta sconcertata. “Veda un po', signorina (mi ha detto), che cosa mi scrivono; io non ne capisco nulla.„

— E dice, la lettera?

— Oh, delle cose stravagantissime. Questa, per esempio, che Carolina si guardi bene di dare ascolto al cavalier Valenti, il quale ha già un'altra passione. Ma io non te ne dico altro, perchè in verità mi vergogno di ripetere ciò che ha scritto l'anonimo, e particolarmente il nome di una persona rispettabile, che noi amiamo e stimiamo.

— Lo stesso nome scritto nella lettera che ho ricevuta io; — disse il Manfredi. — E siccome non si poteva credere che quella lettera io la facessi mai leggere a te, si è trovato il modo di darti la notizia per mezzo di Carolina. Che infamie!

— L'ho capito benissimo, sai, che il ricapito era a Carolina, ma che la lettera era scritta per me! Io, per altro, non le ho detto nulla di questo mio pensiero, ed ella è ancora tutta sconcertata da quelle raccomandazioni caritatevoli, e giura che il cavalier Valenti essa non lo conosce neanche di vista. Sfido io! Ella è sempre nelle camere di servizio, e l'unica volta che il cavaliere Valenti è venuto a portarci il suo biglietto di visita, lo ha ricevuto il servitore. —

— L'hai tu, questa lettera?

— Sì, eccola qua; l'ho tenuta io, per il nome che c'era scritto, e che non deve rimanere in mano di una cameriera. Volevo bruciarla, dopo averla mostrata a te.

— Benissimo fatto; — disse il Manfredi. — Io nondimeno la conserverò insieme con la mia, per confrontare i caratteri.

— E dimmi, babbo; nella tua... si parla anche di Carolina?

— Pazzerella! Si parla di un'altra personcina, che mi pare poco disposta ad ascoltare i consigli dell'anonimo e le domande del cavaliere Valenti. Non è così?

— Sai, babbo? Io sto così bene, con te! Ti dà noia il tenermi in casa?

— No, davvero; ma pur troppo ha da venire il giorno che io debba lasciarti andar fuori.

— Non parliamo di quel giorno; ci sarà tempo.

— Capisco; — disse ridendo il Manfredi. — Non trattandosi dello zio, rimani volentieri in casa del babbo.

— Come sei crudele! — esclamò la fanciulla. — Ho detto che se il signor Cesare mi avesse parlato, col tuo permesso, lo avrei ascoltato. Non debbo io obbedirti?

— Sicuro; ma egli, col mio permesso, ti parlerà per un altro. Che cosa gli risponderai?

— Gli risponderò che son troppo giovane, ma che tu, del resto, disponi della mia volontà. E siccome tu, della mia volontà, non ne disporrai per questa volta, io sarò tranquillissima.

— Santa ingenuità! Vedete come trova le risposte! — disse il Manfredi. — Ma senti, bambina mia; poichè io gli ho dato il permesso di parlare, sapendo benissimo di chi doveva parlare, sarà conveniente che tu, per questa volta, ti cavi d'impiccio da te. È un caso particolare, un caso strano, ed io debbo rimettere al tuo senno lo scioglimento di queste difficoltà.

— Bene; allora gli dirò schiettamente.... Senti, gli dirò così: Signor Cesare, io, per mia scelta.... Ma no, mi vergognerei di parlargli in tal modo.

— Ho capito; gli diresti volentieri: signor Cesare, se si tratta di lei, eccomi qua. Eh, brava, la mia Gabriella; questo sarebbe un bel coraggio. Digli invece, con molta grazia, che non avevi ancora pensato alla possibilità di separarti da tuo padre, che dovresti aver tempo a meditare, e prendere altrettanto tempo a rispondere.

— E se egli insiste?

— Digli di sì. Ti senti di dirglielo?

— Per lui, volentieri; per un altro, no.

— E che cos'hai contro quell'altro? Ti spiace tanto?

— Mi è indifferente. Mi pareva meglio la prima volta che l'ho veduto; ma poi, a sentirlo parlare, col suo scetticismo, coi suoi calcoli eterni, con la sua serietà d'apparato, che vuoi? mi è scaduto. Quello lì è un giovane... vecchio.

— E tu preferiresti un vecchio... giovane.

— Il signor Gonzaga non è vecchio; — replicò Gabriella, girando la difficoltà.

— Torniamo sempre lì! — conchiuse il senatore Manfredi. — Insomma, bambina mia, farai quel che vorrai. Cesare Gonzaga è il mio migliore amico, anzi fratello. Spero che con la tua risposta non vorrai dargli dispiacere, e se proprio hai da dirgli di no, lo farai con buona grazia, senza ch'egli abbia a dolersi di me, nè di te.

— Il modo di fargli intendere che gli vogliamo bene lo avrei; — rispose Gabriella. — Ma tu non la intendi così. Gli parlerò dunque come il cuore m'ispirerà, pensando alla vostra antica e leale amicizia e alla stima grandissima che io nutro per lui. Speriamo intanto che egli stasera non mi parli ancora di nulla. —

Il senatore non partecipava alle speranze della figliuola, sapendo che Cesare Gonzaga era venuto a bella posta in Roma per ragionare di quel matrimonio, e immaginando che non avrebbe voluto rimaner troppo a lungo in sospeso. Ma anch'egli era molto perplesso, e lasciò volentieri che le cose andassero come dovevano andare, fidando nelle ispirazioni del cuore di Gabriella, cara e bizzarra fanciulla, che anteponeva i vecchi giovani ai giovani vecchi.

In quel mezzo, fu annunziato l'arrivo della contessa di Castelbianco. Giungeva forse un po' troppo presto, l'amica; ma ella usava con Gabriella in quel medesimo modo che Gabriella usava con lei. Quella sera, per altro, la contessa non giungeva in compagnia del marito. Il conte Guidi era venuto con lei. Che novità era quella?

Per saperne qualche cosa, ci converrà di ritornare un passo indietro. Quel giorno il conte Guidi aveva ricevuto un biglietto della contessa. “Se andate stasera dai Manfredi, venite a farmi da cavaliere (scriveva la signora), perchè il conte non potrebbe accompagnarmi di prima sera, e sarei costretta ad andar sola. Vi aspetto dunque prima delle otto.„

Il conte Guidi non si era proposto di andare dai Manfredi, quella sera. Chiamato dalla contessa, si accinse da buon cavaliere ad obbedirla, non senza maravigliarsi di quello strano capriccio, che la consigliava a voler essere accompagnata dove tante altre volte era andata, con la sua carrozza e col suo servitore, da sola.

— Contessa, — le aveva detto il Guidi, presentandosi, — mi avete fatto l'onore di crearmi vostro cavaliere, ed eccomi qua.

— Ringraziatemi, almeno; — aveva risposto Giovanna. — L'ho fatto per utile vostro.

— Come?

— Sicuramente; non amate voi Gabriella? —

Il conte Guidi era un cavaliere tenebroso, già ve l'ho detto, e come tutti i cavalieri tenebrosi si teneva sempre in bilico fra parecchie dame, non dimostrando e sopratutto non confessando le sue preferenze per alcuna. Perciò a quella bottata della contessa di Castelbianco, rimase un pochino sconcertato.

— So tutto; — proseguì la signora; — dunque, venite. —

Il Guidi, vedendo che ella sapeva tutto, e immaginando ch'ella ne sapesse più di lui intorno al modo di pensare e di sentire della signorina Manfredi, non perdette il suo tempo a negare. Giunone lo aveva sempre trattato con quella amabile confidenza che è naturalmente portata dalla parità delle condizioni sociali, ma senza nessuna dimestichezza particolare, senza ombra di sentimento, che lasciasse intravvedere un'intenzione più tenera. Egli dunque ammise facilmente che davvero le stesse molto a cuore di farlo entrare in grazia alla giovane Diana; ma soggiunse che non aveva quasi ragione per andar quella sera da lei, perchè l'ultima sera che si erano veduti, cioè ventiquattr'ore prima, al ballo della contessa, Diana era stata un po' fredda con lui, ed egli, dal canto suo, aveva commesso qualche errore di tattica.

— Ragione di più per presentarsi e ristabilire le sorti della guerra; — rispose la contessa. — Venite, Guidi; mi racconterete i vostri errori per via, e troveremo il modo di ripararli. —

XIV.

Gabriella aveva fatto un saluto assai cerimonioso al conte Guidi, ma aveva abbracciata e baciata con grande effusione di cuore la sua cara Giovanna. Non credeva alle calunnie distillate da un vile anonimo contro la sua bella imperatrice, e le pareva, con una maggiore dimostrazione d'affetto, di dare a quelle calunnie una mentita più solenne e più forte.

Il conte Guidi rimase a discorrere col senatore Manfredi; ed egli e il suo interlocutore erano per verità un pochino impacciati, poichè non sapevano con quali discorsi trattenersi a vicenda. La contessa di Castelbianco e Gabriella si erano sedute sopra un sofà, l'una a fianco dell'altra, e là, sul fondo verde cupo della spalliera di stoffa operata, davano sembianza di due belle rose accompagnate, sorgenti insieme da un viluppo di quelle stupende foglione vellutate, in cui la natura, cesellatrice meravigliosa, sembra aver voluto rivaleggiare coi capricci dell'arte.

— Pompeo non poteva accompagnarmi così presto come io desideravo; — disse Giovanna all'amica; — ma per fortuna è venuto il conte Guidi. Quel povero giovanotto ha veramente una bell'anima, e avevi ragione tu, quando mi dicevi di volerlo studiare. Sai che cosa mi stava dicendo, in carrozza, di te? —

Gabriella non era molto curiosa di saperlo; ma, per compiacere all'amica, dovette aver l'aria di desiderare quella piccola confidenza.

— Sentiamo che cosa ti ha detto; — rispose.

— Signora (sono le sue parole, che ti riferisco testualmente), intercedete per me, presso la divina Gabriella. In un momento di follìa, non giustificata, è vero, da nessun precedente, ma certamente scusabile agli occhi di uno che potesse leggere nel mio cuore, ho detto alla signorina Manfredi una frase di cui sono pentito. Darei, ve lo assicuro, darei tutto il mio sangue per cancellarla, o almeno per ottenerne il perdono. A voi non si nega nulla; vorrete dir dunque una buona parola per me? Sono venuto a bella posta da voi. — Così mi ha parlato quel poveretto, e ti confesso che in quel momento faceva veramente pietà. Da brava, Gabriella mia, se è vero che tu a me non neghi nulla, perdonagli quella frase malaugurata, che io non conosco neppure, poichè a lui mancò il coraggio di ripeterla.

— Non la ricordo, questa frase terribile; — rispose Gabriella. — Dev'essere ben poca cosa, come vedi, e il signor conte sicuramente si è ingannato, immaginando che io avessi potuto dare importanza ad una frase sfuggita nel calore di una conversazione. Ne dicono tante, quei signori! —

Non era questo che la contessa voleva; tanto più che ella, contrariamente alla sua fresca asserzione, conosceva benissimo la frase che aveva fatto torto al conte Guidi nell'animo della signorina Manfredi. E la ricordava anche Gabriella; ma quella frase toccava l'argomento delle sue ammirazioni, ed essa non voleva profanare un sentimento così nobile e puro come il suo per Cesare Gonzaga, mettendolo in discussione, a proposito d'un sarcasmo del conte Guidi, di quel vago cavaliere, che oramai poteva essere tenebroso a sua posta, poichè ella non lo studiava già più.

La contessa Giovanna finse di contentarsi per allora, immaginando giustamente che la giovine amica si sarebbe ostinata nel facile perdono di una frase non voluta ricordare.

— Ah, bene! — diss'ella. — Temevo già che tu fossi in collera con lui, e che la collera potesse consigliarti una risoluzione a suo danno.

— Una risoluzione! — esclamò Gabriella. — Io? E quale?

— Eh, per esempio... di sposare il signor Valenti. —

Al colpo inatteso Gabriella si scosse, e guardò in viso l'amica, ricorrendo involontariamente col pensiero alla lettera anonima ricevuta dalla sua cameriera. Sotto quelle parole sentì palpitare il dramma, la candida ma non affatto inesperta fanciulla, e imparò presto a dissimulare.

— Ecco un'altra novità; — diss'ella, volgendo in un sorriso il suo atto di stupore. — E donde ti viene quest'altra?

— È la voce che corre; — rispose la contessa; — si dice anzi che lo zio è venuto a bella posta in Roma, per fare a tuo padre la domanda formale. Che c'è di vero?

— Una cosa sola, a quanto pare: la venuta di uno zio.

— Ma egli farà la domanda. Me lo ha detto anche Pompeo.

— Di bene in meglio; — ripigliò Gabriella. — Ecco uno zio che fa una diplomazia molto strana. Tutti sanno già che cosa è venuto a fare, ed io non ne so nulla ancora.

— Lo saprà il senatore tuo padre.

— Il senatore mio padre, — replicò Gabriella, confettando di un altro sorriso la severità della risposta, — non fa mai nulla senza consultare sua figlia; tranne, s'intende, le leggi dello Stato e le operazioni del suo banco.

— Dunque, non c'è niente di vero?

— Nientissimo.

— E il cavaliere?

— Faccia i fatti suoi. È ricco e non ha bisogno di trovare una grossa dote. Io son ricca e non ho bisogno di appoggiarmi a lui, nè ad altri come lui. Tu vedi dunque che se ci son due al mondo che non sian fatti punto l'uno per l'altro, noi siamo quei due.

— Tanto meglio.... per il povero Guidi! — conchiuse la contessa. — E lui, come lo vedi? —

Era un assedio, un investimento in piena regola; ma Gabriella finse di non avvedersene.

— Che dirti, mia cara? — rispose, — non ho ancora finito di studiarlo. —

Intanto che le due amiche discorrevano, sedute sul sofà verde cupo, sul cui fondo spiccavano come le due belle rose che sapete, il salotto del senatore Manfredi incominciava a popolarsi. Tra i primi era venuto, e correva ad ossequiare la giovane Gabriella, il vecchio collega del Manfredi, il primo seccatore del regno, che fu per la fanciulla un soccorso del cielo; tanto è vero che tutte le creature hanno il loro ufficio provvidenziale nel mondo! Gabriella non reggeva più al peso di quella conversazione femminile, dopo che aveva ravvicinato nella sua mente il discorso incalzante della contessa di Castelbianco con le notizie che dava di lei quella brutta lettera anonima. La buona fanciulla avrebbe desiderato tanto esser sola nella sua camera, per meditare su tutta quella novità di casi che si erano affollati intorno a lei, offuscando la serenità della sua vita verginale. Ma per due o tre ore non c'era da sperar pace nè tregua, essendo giorno di ricevimento. I giovedì dei Manfredi non avevano musica nè ballo; perciò, abbondando gli amici gravi e i discorsi gravissimi, erano scarse le dame e più scarsi i cavalieri eleganti. I farfalloni che si arrischiavano là dentro, attratti da quel fior di bellezza che risplendeva nella casa senatoria, si sentivano a breve andare perduti in quell'aria afosa di legislatori, di accademici, di magistrati, di professori e via discorrendo. Il conte di Castelbianco, che ci andava qualche volta sul tardi, per riaccompagnare a casa sua moglie, si accostava a quei giovedì con un sentimento di sacro terrore. — Prima di entrare nel portone (soleva dir egli ridendo) respiro a furia, faccio provvista a larghi polmoni, temendo sempre che l'aria mi manchi, in quella campana pneumatica. — Povero salotto del senatore Manfredi! Esso non meritava mica quei crudeli giudizî. In primo luogo il padrone non costringeva nessuno ad andarci; e poi, come è vero che ogni uccello fa il suo verso, così ogni compagnia di persone ha diritto di divertirsi a suo modo, e il torto è di chi vuol portare le sue abitudini serie tra la gente allegra, o le sue abitudini allegre tra la gente seria.

La contessa Giovanna trovò un momento opportuno per dare una buona notizia e un'utile ammonizione al conte Guidi.

— Rassicuratevi; non c'è nulla di nulla. Fate la vostra corte liberamente; mostratevi il garbato cavaliere che siete sempre stato, e vincerete la partita. Ma badate, per altro; qui bisogna lodar molto l'antico, e in arte e letteratura, astenersi sopra tutto dal parlare di corse, di tiri al piccione, di cacce alla volpe, e d'altre mode d'oltr'Alpi. Gabriella è classica, e non ama gli usi nè le parole straniere. —

Il conte Guidi stava per mettersi all'opera, quando giunsero il signor Cesare Gonzaga e il cavaliere Arrigo Valenti. Lascio pensare a voi come fosse contento quest'ultimo, di trovarsi faccia a faccia con la signora di Castelbianco.

— Perdio! — mormorò egli all'orecchio dello zio. — La prima ispirazione era la buona. Non avrei dovuto venire.

— Che diavolo dici tu ora? — rispose il Gonzaga. — Guaio per guaio, meglio incontrarla qui, fra tanta gente, che altrove, a quattr'occhi. Sta saldo, ragazzo, e mostrati cortese, mi raccomando. —

Egli stesso sarebbe corso ad ossequiare la signora contessa. Ma prima, poichè gliene veniva il destro, volle chiedere certe notizie ad Andrea, che per il momento non aveva nessuno alle costole.

— Ebbene, hai parlato alla nostra cara Gabriella?

— Sì, oggi stesso. Ma che debbo io dirti? Per ora non sa risolversi.

— Ahi! — esclamò il Gonzaga. — In questi casi una proroga vale quanto un rifiuto. —

A questa interpretazione il Manfredi non seppe rispondere nè per sì, nè per no.

— Cesare mio, — diss'egli invece, stringendo affettuosamente il braccio dell'amico, — se tu sapessi come io ne sono afflitto! Vorrei vederti contento, ed anche contro un certo dovere che la prudenza di padre mi potrebbe comandare. Perchè, infine, tuo nipote, mentre desidera tanto questo matrimonio, ha qualche legame... che dovrebbe trattenerlo.

— Saranno chiacchiere di scioperati. Chi te le ha riferite?

— Senti, a te non posso e non voglio nasconder nulla. Una lettera anonima.

— È il giorno! — brontolò Cesare Gonzaga. — Ah, senza dubbio, bisogna dare una lezione a quel conte che vedo laggiù, a fare il cascamorto presso tua figlia.

— Che cosa dici? Il conte Guidi?... È venuto poc'anzi con la contessa di Castelbianco, ma non è neanche tra gli assidui frequentatori di casa mia.

— Ah! E lo ha condotto la signora? — ripigliò il Gonzaga, ridendo amaramente e tentennando la testa.

— Ma che ci vedi tu di mal fatto? Che sospetti hai?

— Te lo dirò un'altra volta, quando mi sarò formato una vera certezza, intorno a certe cose. E dimmi, intanto; la lettera accennava anche il nome di una signora?

— Sì.

— Di una signora... che è qui? — proseguì sotto voce il Gonzaga.

Il senatore Manfredi chinò la testa, senza rispondere.

— Ah, infami! — disse il Gonzaga. — Senti, Andrea; qui, intorno a noi, è stata ordita una negra congiura, e noi dobbiamo romperla. Tu sei un uomo savio e prudente; non credi a nulla di ciò che ti hanno scritto. Ma tua figlia ne sa qualche cosa?

— Sì, ma ci crede anche meno di me, che, per dirti il vero, son rimasto un pochino sconcertato, e più per la persona indicata, che non per la cosa in sè stessa.

— Ah, meno male; — disse Cesare; — Gabriella non crede. Ma la ragione per cui non sa risolversi?...

— In verità, non saprei dirtela. È tutta in un suo particolar modo di pensare. Del resto, io ti ho dato licenza d'interrogarla; parlane a lei.

— Domani, se qualche altro guaio non viene a guastarmi la giornata, vengo sicuramente da te. Non voglio a nessun costo aver perduta ogni speranza.

— E non lo vorrei neppur io. Non già per tuo nipote, che a parer mio ha bisogno di correggersi in molte cose, ma per te che amo tanto. Se questo matrimonio non si fa, lo prevedo benissimo, tu fuggi da Roma ed io ti perdo per sempre. Capirai che questo non mi convenga punto, dopo trent'anni di lontananza.

— Tu sei buono, Andrea! — disse il Gonzaga commosso. — Ed io certamente non farò colpa a te di un rifiuto, che distruggerebbe tutte le mie più care speranze. Ma è certo del pari che non rimarrei a Roma un giorno di più. —

La contessa Giovanna si avvicinava, e i due amici troncarono subitamente il discorso, disponendosi con viso lieto a riceverla.

— Di che stanno parlando con tanto calore? — domandò la contessa. — Di politica, m'immagino. È la nostra capitale nemica, la politica.

— No, contessa; — rispose il Manfredi. — Proprio in questo momento parlavamo di gioventù. E questa è nemica nostra, perchè da troppo tempo ci ha abbandonato. Cioè, dico male, ha abbandonato me, non il mio amico Gonzaga, che è sempre un fior di giovanotto.

— Lo pensavo per l'appunto, guardandolo; — ripigliò la contessa. — Ma non glielo dirò, perchè sono in collera con lui.

— Signora, e perchè? — disse il Gonzaga.

— Perchè mi ha veduta, e non è ancor venuto a stringermi la mano.

— Signora, mi perdoni; c'erano tanti all'adorazione, e giovani e vecchi, che io non ho osato competere coi primi, nè accrescere il numero dei secondi. Ma eccomi qua, desideroso di ottener la sua grazia.

— Ve lo lascio, contessa; — disse il Manfredi. — Sentirete da lui tante cose galanti, che non potrete tenergli il broncio, e dovrete ripetergli che è il più giovane dei giovani. —

La contessa sorrise, prendendo il braccio di Cesare Gonzaga. Ma appena il senatore si fu allontanato, si volse al suo cavaliere per dirgli:

— Ebbene? Come vanno gli affari del suo protetto?

— Per ora, ch'io sappia, — rispose il Gonzaga, — vanno come quelli del conte Guidi. È lei, contessa, che lo ha condotto qua?

— Sicuramente. E le dispiace?

— Un pochino; tanto più che non dovevo aspettarmi questo da lei.

— È buona guerra, Gonzaga. Ella è soldato, e non doveva aspettarsi altro.

— Perchè? La guerra suppone la tregua, ed anche i trattati di pace. Dopo ciò che è avvenuto stamane, credevo sinceramente alla pace. Non dovrei vantarmi, contessa, ma ella mi costringe a rammentarle che l'ho salvata, stamane.

— Doveva lasciarmi perdere; sarebbe stato meglio; — ribattè la contessa, con accento sdegnoso. — Sappia, Gonzaga, che queste nozze io non le voglio... non le voglio, ha capito? Si volga altrove, quell'uomo, non alla signorina Manfredi.

— Calma, signora! Sarà quello che il destino vorrà, — disse pacato il Gonzaga.

La contessa Giovanna gli volse uno sguardo bieco, che pareva dirgli com'ella avrebbe anche saputo lottare col destino. Quindi, traendo il suo cavaliere verso il crocchio di Gabriella, ricompose la faccia ad una espressione di bontà e di allegrezza, che non pareva più lei.

— Carina! — diss'ella, avvicinandosi alla signorina Manfredi e lasciando il braccio di Cesare Gonzaga. — Mi vuoi con te? Si terrà corte, mentre laggiù i personaggi gravi ragionano di politica. Guidi, esponete un bel fatto, perchè noi possiamo dar la sentenza.

— Volentieri, per dar l'esempio dell'obbedienza; ma non un bel fatto; — rispose il conte Guidi, inchinandosi. — Un cavaliere teme di aver perduto la stima di quella dama a cui ha dedicato il culto più puro e il più rispettoso. Che dovrà fare, per accertarsene? Che dovrà fare, per ritornare in grazia?

— Ah, siamo in Corte d'amore? — entrò a dire il primo seccatore del regno, che si trovava accanto al sofà verde cupo. — Usanza provenzale!...

— I Romani non la conoscevano; — brontolò Cesare Gonzaga, allontanandosi, per andare in una sala vicina, a cercarvi il suo caro nipote.

XV.

Arrigo era poc'anzi vicino a Gabriella; ma il ritorno improvviso della contessa di Castelbianco lo aveva messo in fuga.

— Che hai, zio? — diss'egli, vedendo il Gonzaga con le ciglia aggrondate.

— Ho... ho, che tu potevi rimanere accanto a Gabriella. Il contino non aspettava che la tua fuga, per occupare il tuo posto.

— Dovevo forse rimanere? Con quell'altra, che mi fa gli occhiacci!...

— Che vuoi, che ti divori? Ah, benedetto ragazzo! Tu commetti gli errori, e non sai riscattarli con un po' di coraggio. Eccolo laggiù, il contino, che fa il trovatore davanti alle belle! Sento una gran voglia di schiaffeggiarlo.

— E perchè?

— Un'altra lettera anonima, capisci? E questa, poi, l'ha ricevuta il senatore Manfredi.

— E tu sospetti di lui? — disse Arrigo. — Sei ben sicuro di non fargli torto, e di non essere tanto più ingiusto verso di lui, dopo che egli ha incaricato i suoi padrini di farti delle scuse?

— Si possono far delle scuse per debolezza d'animo, come hai creduto tu questa mane, o per non guastarsi con qualche persona troppo amica dell'avversario, come ho creduto io; — rispose il Gonzaga. — E in un caso e nell'altro, si possono affidare le proprie vendette ad armi come queste. Eccoti una delle lettere, che oggi sono state scritte; è quella che fu mandata al conte Pompeo. Non ti par naturale di applicarle la massima romana: “ is fecit cui prodest?„

Arrigo diede una scorsa alla lettera, e fremette; poi osservò attentamente la mano di scritto.

— Questo carattere non mi giunge nuovo; — diss'egli.

— Bada; è carattere di donna.

— Appunto per questo. Ho già ricevuto lettere, da questa mano, molto tempo fa. E dopo che non ne ho più ricevute io, ne avrà ricevute un altro. Ah, ecco! — esclamò Arrigo, che aveva finalmente trovata la via. — Ma in verità, sarebbe una cosa orribile. Lui?

— Chi? — disse il Gonzaga. — In nome di Dio, chi sospetti che sia?

— Orazio; — mormorò il Valenti. — Ma la ragione di far ciò? Io non la vedo. Un amico!...

— Al quale hai ricusato ieri cinquemila lire, in un momento difficile.

— Non gliele hai imprestate tu, zio? e senza ricevuta?

— Non è la stessa cosa, — disse il Gonzaga. — Ad ogni modo, se il tiro viene da lui, il signor Ceprani è un tristo soggetto.

— Io non l'ho mai avuto per uno stinco di santo; — ripigliò Arrigo Valenti. — L'ho sempre speso per quel che valeva, e niente di più. Ma lasciamo stare il Ceprani. Tu restituirai ora la tua stima a quel povero Guidi?

— Non vedo la necessità di correr tanto; quantunque veda quella di ritornare di là, in mezzo alla gente. Guardalo laggiù, sempre appiccicato alla spalliera del sofà dove siede Gabriella. Dio, quante smancerie! E tu seguiti a far l'astratto, mentre egli ti voga sul remo.

— Eh, caro mio, — disse il giovane, mentre seguiva lo zio nella sala grande, da cui si erano allontanati, — non trovo da fare di meglio, in questo momento, e penso di riposare tra due guanciali, fidandomi in te. Lo sai, il proverbio? Fortuna e dormi. E si può dormire, quando la fortuna sei tu.

— Arrigo, Arrigo! Se tu seguiti a prender le cose con tanta fiacchezza, ti do la mia parola d'onore, che piglio il primo treno di domani, e me ne ritorno alle Carpinete, donde non mi caveranno più neanche gli scongiuri.

— Come? Ti darebbe l'animo di abbandonarmi? Proprio ora?

— Senti; che serve rimanere? Intanto, ella non vuol saperne di matrimonio.

— Non vuole? Lo ha detto a te? — chiese Arrigo, turbato.

— Lo ha detto a suo padre, e mi pare che basti. —

Il giovane non fece parola; ma il suo aspetto disse chiaramente allo zio che egli era stato profondamente colpito.

Cesare Gonzaga, chiamato a dire la sua opinione in una disputa amichevole tra il senatore Manfredi e parecchi colleghi, si allontanò dal nipote, che rimase solo, taciturno e smarrito nel salotto, come un povero forastiero in un paese di cui non sappia la lingua e dove non conosca un'anima.

Quanto rimase là solo? Un bel pezzo, di certo, e senza avere il coraggio di accostarsi al crocchio delle signore. Da principio lo tenevano lontano le guardate feroci di Giovanna; allora, poi, sentiva vergogna di presentarsi a Gabriella Manfredi, alla fanciulla che lo avea rifiutato lì per lì, senza dubitare un istante. Povero amor proprio! In esso ci tocca di soffrire, quando non vive in noi altro sentimento più degno. Arrigo Valenti avrebbe voluto essere mille miglia lontano; ma non c'era verso di muoversi da quella sala, dove tutti erano seduti a crocchi, e dove il timore che la sua partenza fosse troppo notata, lo teneva inchiodato. E tutti, vicini e lontani, parevano aver gli occhi su lui. Si accostò allora ad una tavola, prese un giornale illustrato, e fece le viste di leggere. Aveva finalmente trovato un atteggiamento; non faceva più la figura dell'uomo impacciato, abbandonato, sfuggito da tutti, che è tanto ridicola in mezzo alla gente, a quella gente tutta composta di prossimo nostro, e perciò così pronta ad avvedersi delle nostre angustie e a farne argomento di beffe. Là ritto alla sponda della tavola, col suo giornale tra mani, un giornale su cui teneva gli occhi e non vedeva una sillaba, udiva dietro di sè le voci dei cavalieri e le risa della contessa di Castelbianco, risa frequenti ed alte, ma troppo asciutte, e certamente poco sincere. Comunque fossero, beata lei, che poteva ridere ancora! Quella ilarità continuata, che a volte tradiva lo sforzo, era sempre una gran cosa, al confronto di quella confusione che teneva lui in disparte, solitario, con un giornale in mano, come un uomo che fosse andato in società non per altro che per vedersi lasciato in un angolo.

La contessa chiacchierava e rideva, ma nel fatto soffriva moltissimo. Ad un certo punto non resse più, e parlò improvvisamente di andarsene. Erano le dieci, e la sua carrozza doveva essere davanti al portone in attesa. Quante volte, e con la pioggia fitta, la carrozza non era rimasta là sotto, ad aspettare la signora, che non avrebbe mai detto di muoversi! Ma quella volta non voleva farla aspettare neanche un minuto. Il conte Guidi, che l'aveva accompagnata all'arrivo, si offerse gentilmente per accompagnarla alla partenza.

— No, grazie, conte, rimanete; non voglio che nessuno si scomodi per me. Fate chiedere piuttosto se la carrozza è giunta. Il mio domestico sarà già in anticamera. —

Il conte Guidi andò a prendere informazioni, e tornò subito dopo, annunziando che la carrozza era giunta. Frattanto il circolo delle dame si era disfatto, e la contessa di Castelbianco, andando verso il senatore Manfredi, che stava in conversazione col suo sinedrio di gravi personaggi, passò accanto ad Arrigo, che si tirò indietro, salutando. Essa gli diede un'occhiata sdegnosa, rise e gli gittò sul volto una frase, che sibilò come un colpo di frusta:

— Siete un vile!

— Signora!... — disse Arrigo, sbalordito.

— Siete un vile! — riprese ella, incalzando. — Volete che vi schiaffeggi qui, alla presenza di tutti? —

Arrigo si ritrasse ancora, chinando la testa, e si allontanò prontamente da lei.

Cesare Gonzaga aveva veduto l'incontro e indovinato facilmente uno scambio di parole aspre fra i due. Avvicinatosi al nipote, mentre la contessa stringeva la mano al senatore Manfredi, gli disse:

— Che è stato? Che cosa ti ha detto la contessa?

— Nulla, zio, nulla; parole amare, sciocchezze da non farne caso. —

E fremeva, parlando così, e guardava sempre intorno a sè, come cercando qualche cosa. La contessa, frattanto, era partita, e poco stante, fatti i suoi saluti alla signorina Manfredi, anche il Guidi si mosse per uscire. Arrigo lo seguì in anticamera, indossò il pastrano anche lui, e si avviò per le scale sui passi del conte. Quell'altro se lo era veduto benissimo alle calcagna; ma a tutta prima non ne avea fatto caso, credendo che si trattasse di una combinazione fortuita. Ma dovette ricredersi nell'atto di escire sulla via, quando Arrigo Valenti, affrettando il passo per raggiungerlo, gli disse:

— Signor conte, avrei qualche cosa da chiederle.

— Parli, sono a' suoi ordini; — rispose egli, assumendo tosto un'aria di cerimonia.

— Poc'anzi, — riprese Arrigo, — una donna ch'ella ha accompagnata in casa Manfredi....

— Una signora, non una donna; — interruppe il conte Guidi; — la prego di correggere.

— È giusto; — rispose Arrigo, dopo un istante di pausa. — Non era mia intenzione di venir meno al rispetto che a quella dama è dovuto. La signora, adunque, passandomi daccanto, non so per qual cagione di sdegno contro di me, mi ha detto: vile. —

Il conte Guidi, che si era fermato a guardare il suo interlocutore, ascoltando pazientemente il suo piccolo racconto, si strinse nelle spalle, con aria di dirgli: che c'entro io?

— Le signore, — continuava frattanto il Valenti, — hanno parole che colpiscono peggio dei ceffoni. A noi uomini restano le mani, per restituire ai cavalieri quello che abbiamo ricevuto da esse. —

Così dicendo, levò la mano e percosse.

Il conte Guidi si aspettava un alterco, e fors'anche un'offesa; ma non aveva preveduto tanta prontezza di mano. Cacciò un urlo e si scagliò sul Valenti, che era preparato a riceverlo. Ci fu il solito pugilato, il solito accorrere dei viandanti, e la solita separazione dei combattenti, senza che nessuno degli accorsi riconoscesse quei due inferociti cavalieri e sapesse perchè si fossero accapigliati. Allontanatosi primo dalla calca, Arrigo vide passare una vettura da nolo, fortunatamente vuota; vi saltò dentro e disse:

— Allo Sport, in via Condotti, e alla svelta! —

Anche il conte Guidi, liberatosi dalla ressa degli importuni, andò di buon passo allo Sport. Giunto colà, prese in disparte i due primi gentiluomini che gli si pararono dinanzi, e chiese loro di volerlo servire in una quistione d'onore.

— Con chi l'hai? — gli domandarono.

— Col cavaliere Valenti. Vi prego di andar subito a casa sua, per portargli la sfida.

— Non occorre andar tanto lontano; — risposero quelli. — Il Valenti è entrato poc'anzi, ed è nella sala d'armi a colloquio con due altri, forse per la stessa ragione.

— Tanto meglio! — disse il Guidi. — Andate dunque di là. Voglio un combattimento ad oltranza. Stamane, per un riguardo a certe persone, mi son mostrato corrivo a far pace con lo zio. Ora il nipote ha da pagare per due. —

Mentre queste cose accadevano di fuori, Cesare Gonzaga, rimasto nel salotto dei Manfredi, girava inutilmente gli occhi di qua e di là, cercando il nipote. Certo, conoscendo l'indole di Arrigo, l'ultimo pensiero che gli potesse venire, anzi l'unico che non gli dovesse venire affatto alla mente, era quello di un suo alterco col Guidi. Egli sospettò invece che il suo caro nipote, sconcertato dal rifiuto di Gabriella, avesse fatta la insigne sciocchezza di andarsene insalutato hospite, contro l'usanza della casa, che non ammetteva questi esotici modi. Turbato dal pensiero di quella ragazzata, che poteva guastare per sempre il giovinotto coi Manfredi, lo zio Cesare stette ancora un pezzo a discorrere con gli ultimi rimasti, che si erano raccolti intorno alla signorina Gabriella. Finalmente, approfittando dell'arrivo del conte Pompeo, che veniva molto in ritardo a cercare sua moglie, Cesare Gonzaga si accomiatò, promettendo a Gabriella una visita per il giorno seguente.

— Che uomo, quel Gonzaga! — disse il conte di Castelbianco. — Par sempre un giovinotto.

— Ed ha anche giovane il cuore; — aggiunse il Manfredi.

— Ah, quello poi ha vent'anni. Figuratevi ch'egli ha domattina un duello.

— Un duello! — esclamò Gabriella. — Con chi?

— Col conte Guidi.

— E quando lo avete saputo? — domandò il Manfredi.

— Oggi stesso. A tutta prima aveva creduto che si trattasse di suo nipote; ma invece è lui, proprio lui.

— Anche il Guidi, poc'anzi, era qui, e non ci siamo avveduti che ci fosse nulla tra loro.

— Eh, capirete; i cavalieri perfetti sanno fare le cose con la debita discrezione.

— Ma la ragione? Arrivato da due giorni appena, come può aver già avuto da dire con qualcheduno?

— Che posso dirvi io? La ragione non la so. Del resto, le quistioni personali non si maturano sempre lentamente; nascono qualche volta da un nulla, come i funghi, e scoppiano lì per lì, come le bombe. —

Con questi bei paragoni conchiuse la sua imprudentissima chiacchierata il conte Pompeo di Castelbianco, lasciando i Manfredi nella più dolorosa ansietà.

XVI.

Cesare Gonzaga si era ritirato a casa molto inquieto per la fuga del nipote, fuga che non sapeva a qual cagione attribuire. Giunto lassù, in via Nazionale, rimase a chiacchiera col servitore enciclopedico, sempre aspettando la venuta di Arrigo. Finalmente, verso la mezzanotte, un fattorino dello Sport venne e lasciò per il marchese Gonzaga una lettera. Arrigo Valenti si scusava in essa con lo zio, per essere escito così in fretta da casa Manfredi, senza dargliene avviso, poichè si era ricordato di avere fissato un ritrovo allo Sport con un banchiere parigino, suo corrispondente ed amico. “Si farà tardi, cenando (soggiungeva Arrigo), ed è molto probabile, anzi certo, che passerò la notte fuori di casa, da vero ed autentico figlio di famiglia. A rivederci dunque domani, e non esser più tanto severo, te ne prego, col tuo povero nipote.„ Seguiva la firma.

Il pretesto era buono, e Pico della Mirandola ricordò all'illustrissimo signor marchese che altre volte il signor cavaliere aveva disertato, come quella notte, dal domicilio legale. Ma l'ultima frase del biglietto, che Cesare Gonzaga aveva letto e riletto una dozzina di volte, non era tale da lasciar molto tranquillo un animo naturalmente sospettoso, e per allora singolarmente eccitato. “Non esser più tanto severo„ scriveva Arrigo allo zio. Perchè quel “più„ che aveva l'aria di stabilire una data, un'êra nuova, come la nascita di Gesù Cristo, o come la fuga di Maometto? “Povero nipote„ scriveva ancora il Valenti. Perchè povero, mentre andava a cena e si disponeva a passare allegramente a notte?

Cesare Gonzaga meditò lungamente su quegli enimmi, e andò a letto senza averli sciolti; ma dormì poco, e quel poco, poi, facendo certi sognacci che il ciel ne scampi e liberi ogni anima ben nata. La mattina si svegliò per tempo, secondo il suo solito, e appena il servitore entrò in camera per portargli il caffè, gli chiese notizie di Arrigo. Il signor cavaliere non era ritornato. Per altro, non bisognava maravigliarsene, soggiungeva Pico della Mirandola; quando il padrone saltava una notte, la saltava intiera.

— Sono un gran matto, io, a pesar le parole di un biglietto vergato in fretta al circolo, come se si trattasse d'una terzina di Dante! — disse il Gonzaga tra sè. — Arrigo ha affogato nello sciampagna il dolore del rifiuto di Gabriella, e a quest'ora dorme saporitamente in qualche letto d'albergo. —

La mattina è stata data al giorno, come la primavera all'anno, per destare i più lieti pensieri nella mente dell'uomo. Cesare Gonzaga si rasserenò alla vista del bel cielo di Roma, e andò a farsi radere, secondo l'uso quotidiano, poscia a fare una passeggiata al Macào; nè ritornò a casa che verso le dieci del mattino.

— È rientrato? — chiese egli al servitore, anche prima di metter piede sulla soglia di casa.

— Sì, illustrissimo; — rispose Happy con un accento dimesso e con una cera da funerale.

— Che c'è? — gridò il Gonzaga, profondamente scosso.

— Ferito; — replicò il servitore.

— Che hai detto?

— Il signor cavaliere ha avuto un duello.

— Ah, il mio sogno! — esclamò Cesare Gonzaga. — E con chi?

— Col conte Guidi, che è in fin di vita, con una palla nel petto, e perciò penetrante in cavità. —

Il Gonzaga non istette a sentir altro, e corse nella camera del nipote.

Arrigo Valenti era coricato sul letto, ancora mezzo vestito, e voltato sul fianco. La camicia si vedeva aperta sulla spalla destra a colpi di forbice. Il dottore stava a capo chino presso di lui, in atto di medicar la ferita; e vicino al seguace d'Esculapio era un signore, sconosciuto anch'egli al Gonzaga, ma certamente uno dei padrini di Arrigo.

Il ferito riconobbe lo zio al passo frettoloso, e gli diede il buon giorno, senza voltarsi.

— Non è niente, sai! — aggiunse tosto, per calmare la sua inquietudine. — Ti presento il dottor Mori e il barone di Santàgata. Signori, mio zio, il marchese Gonzaga. —

Il dottore e il barone fecero un inchino. Cesare Gonzaga corse dall'altra sponda del letto, per vedere in volto il nipote.

— Zio, mi perdoni? — disse Arrigo.

— Che perdonare? Ti adoro; — rispose il Gonzaga, baciandolo sulla fronte. — Ma non ti affaticare coi discorsi, te ne prego.

— Che! Non soffro punto; — replicò il ferito. — Dottore, ditelo voi a mio zio, che posso parlare senza pericolo.

— Sì, può parlare, per ora, ma moderatamente; — rispose il dottore. — Non c'è febbre ancora, e forse non verrà prima di sera. Bisognerà dargli piuttosto qualche cosa che lo rinvigorisca; un po' di cognac, un bicchierino di Marsala....

— C'è del vino di Porto, che piace tanto al signor cavaliere; — disse Happy.

— Anche il Porto è buono; — sentenziò il dottore. — Lo assaggerò anch'io, quantunque non abbia fatto colazione. —

Il dottore apparteneva alla scuola moderna dei corroboranti; una scuola che ha i suoi pregi, come li hanno i corroboranti medesimi, e in particolar modo i noetici. Non so se mi spiego.

— Veda, signor marchese; — disse il savio chirurgo; — non c'è nulla di grave. La palla ha colpito l'omero, tra il deltoide e il bracciale anteriore. È entrata di qua, è escita di là, forse rasentando la scapula. Il braccio era alzato; i muscoli tesi hanno fatto resistenza; la palla, seguendo l'indole di tutti i corpi sferici, ha dovuto deviare, davanti all'ostacolo. Il ferito è sano, di buona complessione; vasi sanguigni importanti offesi non ce ne sono; sarà un affare di poco. Non è vero, cavaliere? Tra dieci giorni andiamo a fare una scarrozzata insieme.

— Magari fra cinque; — rispose Arrigo, sorridendo.

— Son troppo pochi; si contenti di dieci. —

Il dottore e il barone di Santàgata si erano allontanati dal letto, per rivoltare le bende e distendere un po' d'unguento sulla pezza. Arrigo approfittò della loro lontananza, per accennare sottovoce allo zio quel che gli era avvenuto in casa Manfredi, e quindi a voce più alta per raccontargli brevemente il duello. Si erano battuti alle otto, nei pressi del ponte Nomentano; avevano sparato a quindici passi di distanza, e simultaneamente, al comando; il primo colpo era andato a vuoto; al secondo, Arrigo si era sentito tocco alla spalla, ma in pari tempo aveva veduto cader l'avversario; egli giurava, per altro, di aver lasciato andare il colpo senza toglier la mira.

— Ti credo, ti credo; — disse il Gonzaga. — È sempre così, con quell'arme sciocca. Se toglievate la mira, c'era da scommetter dieci contro uno che colpivate i padrini.

— Vedi, intanto, — riprese Arrigo, — che il conte Guidi non mi vogherà sul remo. —

Cesare Gonzaga si chinò un'altra volta a baciare il nipote.

— Auguriamogli del bene; — diss'egli poscia — noi non vogliamo la morte del peccatore, ma che si converta e viva. —

Happy, che era andato per il vino di Porto, rientrò nella camera per dire al signor Cesare:

— Illustrissimo, c'è di là il senatore Manfredi.

— Ah! — esclamò il Gonzaga.

— Ed è con lui la signorina sua figlia.

— Diavolo! Cioè, diciamo invece angioli santi! — riprese il Gonzaga, volgendo un'occhiata ad Arrigo. — E gli hai detto che c'è un ferito?

— Non gli ho detto nulla. Han chiesto di lei; ho risposto che venivo a chiamarla.

— Tu sei saggio, Happy, e un giorno o l'altro, se il tuo padrone permette, verrai a stare con me.

— Verrò a buona scuola, illustrissimo. —

Cesare Gonzaga fece un cenno affettuoso con la mano al nipote, e uscì dalla camera, per andare nel salotto. Il senatore Manfredi, che stava là, sempre in sull'ali, si gettò nelle braccia dell'amico. Gabriella era lì lì per imitare il babbo; ma Cesare Gonzaga, da buon cavaliere, prese la mano della fanciulla e la recò divotamente alle labbra.

Dopo un istante di pausa, il Manfredi incominciò:

— Ma che è stato, Dio buono? Abbiamo passata una notte terribile. Iersera il conte di Castelbianco è venuto a darci la notizia che tu avevi un duello stamane. Sono escito per tempo, sperando d'imbattermi in qualcheduno che potesse darmi notizie, e non ho trovato che il duchino di Roccastillosa, il quale usciva dal circolo dello Sport... per andarsene a letto. Egli non sapeva nulla di preciso; soltanto aveva veduto nella notte il conte Guidi, che pareva inquieto e si era chiuso a colloquio con due amici. Allora ho creduto che davvero fosse avvenuta una quistione fra voi due. Ma ti vedo sano e sorridente; sia ringraziato il cielo! Non c'è stato dunque nulla?

— Nulla per me, come vedi; — rispose il Gonzaga. — Il duchino ti avrà anche detto che una quistione occorsa tra me e il conte Guidi era stata composta onorevolmente fin dalle prime ore pomeridiane di ieri. Egli era per l'appunto uno dei padrini del Guidi.

— Sì, mi ha raccontato anche questo. Ma le notizie del Castelbianco....

— Notizie in ritardo, caro mio!

— E l'affaccendarsi del conte Guidi, questa notte, al circolo... — riprese il Manfredi.

— S'è affaccendato per altro, sicuramente: — replicò Cesare Gonzaga. — Ma non parliamo di cose tristi; la nostra Gabriella è molto abbattuta.

— Per timore di lei, signor Cesare; — disse la fanciulla. — Ma ora incomincio a respirare, e se ella mi assicura che non ha più duelli, starò meglio senz'altro.

— Cara! Ne avrò uno, se babbo permette, e con lei. La sollecitudine loro per me, ha condotta qua la figliuola insieme col padre. Il padre mi consentirà di cogliere l'occasione per fare alla figliuola un certo discorso, che doveva venire senza fallo qualche ora più tardi, in casa sua. Meglio adesso, e qui, dove il destino ha voluto. Credete a me; se c'era momento buono per farlo, quel tale discorso, questo a dirittura è l'ottimo.

— Sai che ti ho dato ampia facoltà; — disse il Manfredi. — E se tu riesci a persuaderla....

— Oh, la persuaderò senza dubbio. Ma siccome annoierei te, che conosci già gli argomenti....

— Ho capito; me ne vado, — disse Andrea.

— Di là, — soggiunse Cesare, — dove c'è qualcheduno che vedrai volentieri. —

E premeva frattanto il bottone del campanello.

Happy non tardò a presentarsi all'uscio.

— Accompagna il signor senatore dal cavaliere Valenti; — gli disse il Gonzaga.

— Andiamo dal nostro cavaliere, — conchiuse il Manfredi. — Egli sarà molto maravigliato di vedermi in sua casa, a quest'ora. —

E andò, l'onorevole uomo, assai lontano dall'immaginarsi lo spettacolo che lo attendeva nella camera di Arrigo.

XVII.

Gabriella aspettava e sorrideva. Era sicura di vincer lei, la bella e forte fanciulla. Non amava Arrigo il savio; amava Cesare, il generoso, Cesare il buono, Cesare il grande. Non gliel avrebbe detto, no, glielo avrebbe lasciato indovinare; ma se egli non si fosse apposto al vero, se egli non avesse inteso l'animo della sua candida interlocutrice, tanto peggio per lui! sarebbe stato Cesare... il semplice.

— Signorina... — incominciò egli, venendo a sedersi daccanto a lei.

— Mi chiami Gabriella, e mi dia del tu, come ha proposto mio padre, e come desidero io; — diss'ella, con accento dimesso.

— Non oserò mai; — rispose il Gonzaga. — Facciamo un passaggio. Dirò Gabriella ma darò del voi. Mi riserbo di dare del tu ad una bella fanciulla che accetterà di essere mia nipote. Siamo intesi?

— Che idea! — esclamò Gabriella,

— È un'idea fissa, bambina. L'ho già detta a vostro padre, che non l'ha disapprovata. Il mio Arrigo ne va pazzo; ed è giusto, poichè l'ha trovata lui, perchè è lui che m'ha chiamato a Roma, dove senza di lui non avrei rimesso piede.

— Perchè, signor Cesare? Che cosa vi ha fatto, questa povera Roma? —

Cesare Gonzaga trasse un lungo sospiro dal petto....

— Bambina, — rispose egli poscia, — sono storie dolorose ed antiche, in nome delle quali io vi prego di appagare il mio voto. Permettetemi di dire che voi non conoscete Arrigo. Gli uomini, prima di tutto, non si giudicano bene dalle apparenze. Ci sono quelli che custodiscono gelosamente i loro sentimenti delicati, e nascondono il meglio del loro cuore alle turbe. Infine, se egli vi ama!... Perchè io lo so, io l'ho veduto, io l'ho scrutato nei più intimi penetrali dell'anima, egli vi ama. Mi credete voi capace d'ingannarvi?

— No, — disse Gabriella. — Credo che siate ingannato voi stesso. Io stimo e rispetto vostro nipote. Vi dirò di più; lo vedevo assai volentieri, anche ignorando ch'egli appartenesse alla vostra famiglia. Ma io l'ho udito più volte, ed ho potuto giudicarlo. Non amo gli scettici. Arrigo Valenti è un savio; lo dicono tutti. Sapete voi che cos'è un savio a venticinque anni? È un uomo senza gioventù, senza entusiasmo, senza idealità, senza cuore, la rovina anticipata di una coscienza. Mio padre e mia madre, signor Cesare, mi hanno educata al culto delle grandi anime, dei cuori aperti e leali, delle nobili idee, dei generosi sentimenti. Non conoscevo ancora un uomo, fuori che mio padre, e già ne ammiravo, ne amavo uno, che somigliava a voi. —

Il discorso era stato lungo, e Cesare Gonzaga lo aveva ascoltato con molta calma, perchè, sebbene qualche volta gli fosse venuta la voglia d'interrompere, si trattava di cose che egli aveva prevedute, di uno stato d'animo e di un modo di sentire che egli già conosceva. Ma la chiusa gli giunse nuova; la chiusa lo fece addirittura balzar dalla scranna.

— Davvero? — diss'egli, fissando Gabriella negli occhi, come se temesse di aver male udito e cercasse in quegli occhi la conferma delle parole. — E quest'uomo, lo avevate già immaginato... coi capegli bianchi?

— Bianchi, no, ma un po' grigi, lo confesso; — rispose Gabriella. — Son grigi i capegli dell'uomo che ha pensato molto, e molto operato. Vedevo quei capegli grigi; vedevo la fronte alta, il labbro dolce e lo sguardo sereno; vedevo l'uomo pronto ad infiammarsi per ogni idea generosa, e gli esempi tutti della sua vita conformi a quella nobiltà di pensiero. Le aspirazioni son belle, — soggiunse la giovine filosofessa, — ma senza gli esempi, senza le prove, non valgono. Li conosciamo anche noi, povere osservatrici, i bei parlatori, gli apostoli del sentimento, i paladini dell'eroismo in parole, e non ci piacciono punto punto. Io amo soltanto chi ha sentito, combattuto e sofferto, chi nelle prove dolorose della vita non ha logorato il cuore, chi negli occhi limpidi mostra l'anima sua, giovane sempre, perchè eternamente buona. —

Cesare Gonzaga ascoltava, meditando ogni parola, vedendo la sua triste vita riflessa in quelle frasi, che la compendiavano, indovinandola quasi con tanto intelletto d'amore. E guardava, ascoltando, e sorrideva, e sentiva dentro di sè qualche cosa d'insolito, come un antico e pur mo' rinnovato desiderio di piangere.

— Ero bambina inesperta, — riprese Gabriella, — e già si diceva davanti a me che voi eravate un uomo singolare, valoroso in campo, mite e modesto negli usi della vita quotidiana, amico sincero, infine, e, per farvi il ritratto in due parole, un'anima eletta. Si aggiungeva che voi avevate compiuto un atto eroico, partendo dall'Italia, sacrificando il presente e il futuro, rinunziando alle più care speranze, alle più giuste ambizioni. La vostra medesima lontananza, anche quando tante voci possenti vi richiamavano in patria, dimostrava la grandezza del vostro sacrifizio. E s'intenerivano, signor Cesare, parlando di voi. Se li aveste uditi! Io ero una bambina, capivo poco, ma sentivo molto; ascoltavo e pensavo.

— Vi prego... — disse Cesare Gonzaga, con voce soffocata da una violenta emozione. — Non parlate dei morti.

— Perchè? Parliamone, se il loro ricordo fa bene allo spirito. Le mie parole, io spero, non vi torneranno neanche spiacevoli, se è vero che mi amate un pochino. Inoltre, noi donne, — soggiunse ella, accompagnando la frase con un arguto sorriso, — siamo state sempre adulate, e finiamo con credere a ciò che si è detto di noi, ed anche stampato. Siamo le consolatrici; la nostra amicizia è premio al valore e conforto alla sventura. Hanno aggiunto che un uomo buono non è completo, senza una donna buona. Signor Cesare, io non volevo dirvelo, incominciando. Ma voi, vedendomi ricusare ciò che mi offrite, potevate credere che io fossi un'ingrata, una cattiva, e che pensassi ad altri. Ieri avete anche avuto quistione con qualcheduno, e forse, anzi certamente, per me. Non dite di no, perchè sarebbe una bugia, indegna di voi. Orbene, io ora vi parlo a cuore aperto, come meritate, e senza arrossire. Mi faccio coraggio, vedete? Vi guardo in viso, e vi dico: io vorrei essere quella donna buona. Ho quasi vent'anni, già; non ho amato che mio padre, mia madre e voi. Volete? Nessuna donna... — e qui la fanciulla abbassò la fronte, sentendo le fiamme del rossore che aveva sperato di reprimere; — nessuna donna avrà mai detto ad un uomo ciò che io dico a voi in questo momento... che è solenne per me.

— Impossibile! — mormorò Cesare Gonzaga.

— Impossibile! E perchè?

— Perchè... vedete Gabriella... vostra madre... io... —

E così dicendo a parole interrotte, Cesare Gonzaga diede in uno scoppio di pianto.

Gabriella si levò in piedi vedendo ch'egli si abbandonava col capo arrovesciato sulla spalliera della seggiola, e fece uno sforzo supremo per rialzarlo.

— Voglio saper tutto! — gli disse. — Ho acquistato il diritto di pretendere da voi una confessione sincera.

— È una storia breve: — rispose il Gonzaga. — Ho amato vostra madre, come si doveva amarla, con tutte le forze dell'anima. E l'ho fuggita, vedete, l'ho fuggita, mentre stava in me di ottener la sua mano, a preferenza d'ogni altro. Vostro padre era già ricco, ed io no, o ben poco a paragone di lui. Ma il padre di quella donna mi era debitore di molto... della vita e dell'onore di uno de' suoi. Siate mio figlio, mi aveva detto; non ho che un tesoro ed è vostro. Io avevo veduto la figlia di quell'uomo; e mi ero acceso d'amore, e, sperando di essere amato, mi ero fatto stimare. Un giorno, Andrea Manfredi, l'amico mio, il mio fratello d'armi, mi bisbigliò il suo dolce segreto: Cesare, amo una donna. Anch'io, gli risposi. E parlavamo spesso dei nostri amori, delle nostre speranze, delle nostre gioie future, in mezzo alle fatiche del campo, nei brevi riposi della notte, nelle marce forzate, a Velletri, tra i fumi della vittoria, a Villa Corsini, dove cadde Goffredo Mameli, l'unico bardo della patria, e con lui Luciano Manara, Enrico Dandolo, Pietra Mellara, Daverio, Morosini, fiore di cavalieri e d'eroi. Tra le mura crollanti del Vascello, dove per tanti giorni fu pioggia di fuoco, noi trovammo ancora il momento di mandare un pensiero ai nostri giovani amori. Nè io avevo chiesto a lui il nome del suo, nè egli a me il nome del mio. Ma la morte era librata su noi, e l'immagine della morte diede coraggio ad Andrea. “Senti, mi disse, se io muoio, taglia una ciocca dei miei capegli, e portali a lei.„ — “Il suo nome?„ — “Lorenza.„ Tremai e un sudor freddo mi corse giù per le tempia. — “Lancillotti?„ gli chiesi. — “Sì, la conosci?„ Chiusi il mio cuore a forza, balbettai qualche parola, e promisi. Povero amico, egli si era profferto di ricambiarmi il favore, se io avessi dovuto soccombere. “No, grazie, — risposi, — è inutile; io amo senza speranza; nessuno piangerà la mia morte.„ Il destino ci volle salvi; rientrammo in Roma, nella nostra Roma inutilmente difesa. Il padre di Lorenza, potente presso il Governo papale, sentiva l'obbligo suo e voleva salvarmi. Gli chiesi di proteggere anche Andrea, che non avrebbe potuto nè voluto escire da Roma. L'amico mio indovinò tutto, ponendo piede in quella casa, e udendo certe parole del vecchio. Quel giorno mi diventò freddo, il mio fratello d'armi! Non ebbe fede, sospettò allora di me, ed io, che potevo esser salvo, io, che potevo ottenere quella donna, nè solo per l'assenso del padre, poichè ella sapeva il debito della famiglia verso di me e l'avrebbe nobilmente pagato col sacrifizio della sua vita, io me ne andai esule da Roma, inseguito come una fiera per tutti i dorsi dell'Apennino, dopo aver chiesto perdono della fuga a quell'uomo, dopo avergli resa la sua parola e raccomandata la felicità del povero Andrea. Un mese dopo, abbandonavo la patria; per trent'anni non l'ho più riveduta, e considerate voi il dolor mio!... non ho più potuto darle il braccio, valido ancora, nel giorno della riscossa.

— V'intendo! — mormorò la fanciulla, piangente.

— Voi somigliate a quella donna, Gabriella; — riprese il Gonzaga. — Un senso della bontà sua, della compassione che ella sentì per il mio sacrifizio, si è trasfuso nel vostro cuore, e vi parla oggi per me. So che sareste un angiolo consolatore; so che meriterei d'essere amato da voi, ma dite; posso io amare la figlia di Lorenza, e del medesimo amore che fu la delizia e il tormento di tutta la mia vita raminga? No, bambina; voglio coprir la tua fronte di baci, come la copre tuo padre, quando gli comparisci davanti, ricordandogli tua madre. Ed ho bisogno... non mi dire di no! ho bisogno di confondere in uno i due amori della mia vita, Lorenza e Cecilia, tua madre e mia sorella, la custode solitaria della mia casa distrutta, la mia povera sorella che si è spenta così lontana da me, invocando il mio nome e lasciandomi il suo unico figlio, il suo giovane Arrigo. Anch'egli, povero Arrigo!... Non ve l'ho ancor detto, Gabriella; egli è là, sopra un letto di dolore, e poteva morirmi, stamane, se il piombo maledetto....

— Che dite? — gridò Gabriella.

— Sì, bambina! Vostro padre, che sento singhiozzare qui, presso a noi, vostro padre che ha tutto udito e che mi legge nel cuore, vi dirà che Arrigo ha cancellato con un moto generoso dell'anima, con un impeto di gioventù, e se volete di gelosia, i difetti che voi vedevate in lui. Non è freddo, Arrigo, non è calcolatore, nè scettico, poichè non ha dubitato per l'amor suo di cimentare la vita, questa gran vita, che tanto si pregia e che val così poco! Gabriella, egli aspetta la vostra sentenza, e anch'io l'aspetto e la invoco. Amo in voi vostra madre; amate me in Arrigo. Egli è sangue del mio sangue, e porterà d'ora innanzi il mio nome. —

Gabriella piangeva, nascondendo il bel viso tra le palme.

— Povero amico! — mormorò ella finalmente.

— Ah, così va detto, bambina! — ripigliò Cesare Gonzaga. — Sono un povero amico. E presto, se il vostro bel cuore si piegherà al nostro desiderio, sarò il solitario, l'orso delle Carpinete. Noi, feriti nelle battaglie della vita, noi naufraghi di una memoranda tempesta in cui abbiamo perduto tante cose caramente dilette, vedete, dobbiamo esser soli. Siamo rovine di uomini, e non vivono intorno a noi che memorie. Un raggio tardo c'illumina qualche volta; ed è riflesso di soli già spenti. —

XVIII.

Due mesi dopo.... Ci volete venire, fin là? Ho in animo, come vedete, di risparmiarvi le noie del racconto, e tutti quei minuti particolari di un lieto fine, che vanno lasciati alle favole. Due mesi dopo, Arrigo il Savio era guarito largamente, non pure dalla ferita, ma anche da quella saviezza precoce, che lo rendeva tanto uggioso alle dame. Il conte Guidi, poveraccio, con una costola rotta e una palla alloggiata a tempo indeterminato tra due apofisi della colonna vertebrale, incominciava a ricogliere il fiato, ma non a scender da letto. Orazio Ceprani, andato una volta in casa di Arrigo, si era veduto metter sott'occhio tre lettere che non aveva voluto riconoscere: ma un “vada via!„ proferito tre volte con fiera progressione di accento da Cesare Gonzaga, i cui occhi erano lì lì per schizzar fuori dalle orbite, lo aveva fatto correre come un veltro, e senza voltarsi più indietro. Non va dimenticato che il signor Orazio portava con sè la consolazione di non sentirsi più domandare quelle cinquemila lire che sapete; giusto compenso alla perdita di un'utile amicizia.

E due mesi dopo, il signor Cesare Gonzaga, alzatosi di buon mattino da letto, sentì che non poteva più reggere alla vita di Roma. Del resto, non sapeva come occupare il suo tempo, perchè le faccende per cui aveva fatto il viaggio erano tutte sbrigate.

— Happy, — diss'egli allora al servitore, — farai le mie valigie. Io me ne andrò questa sera.

— Vuol partire, illustrissimo?

— Sì, ritorno alle mie Carpinete.

— Mi duole! — disse Happy.

— Ti duole! E perchè?

— Perchè.... Scusi, illustrissimo, la familiarità del linguaggio. Ma ci sono dei momenti.... —

Cesare Gonzaga non gli lasciò il tempo di finir la frase.

— Nella vita degl'individui, come in quella dei popoli; ho capito, va in fondo.

— Mi ero avvezzato così bene a lei!

— Davvero! Ed io che volevo per l'appunto invitarti a venire con me!

— Dice da senno?

— Non ischerzo mai. Ne avevo anzi già parlato a mio nipote. Tu sei un giovanotto d'ingegno, Happy, e sai molte cose, molte cose! Il tuo posto è di segretario; ma non al fianco del cavaliere, intendiamoci bene, perchè egli non ha più segreti da confidare, nè da lasciar trapelare. Verrai con me; parleremo di storia antica, di numismatica, e se ti piace, anche di araldica.

— E si lascierà chiamare marchese?

— Se ciò ti consola, sì. Del resto, avrai anche da tacere su parecchie coserelle vedute ed udite. Io ti dirò come Filippo II al suo Gomez, o al suo Perez, che non rammento più bene, tanto si somigliano fra loro: — A me la fama — A te, se taci, salverai.... la pensione. Il verso non torna, e forse si potrebbe dire la paga.

— Il verso non torna, ma c'è l'idea; — rispose prontamente il servitore. — Aggiunga, illustrissimo, che la pensione ha un senso largo, che la paga non ha. Del resto, il tiranno dell'Alfieri, promettendo la vita al suo confidente, non rischiava di mandare la Spagna in rovina.

— Ed anche di letteratura, Dei immortali! Anche di letteratura! — gridò Cesare Gonzaga. — E d'agraria ne sai nulla?

— Così, qualche principio. È stata la mia prima occupazione, e non ci ho merito. Ma scusi la mia curiosità; verranno alle Carpinete i signori Valenti Gonzaga?

— No, rimarremo soli. Ma vedrai, faremo delle grandi cose; ristoreremo il castello, dissoderemo sterpaie, feconderemo greti di fiume, vivremo tranquilli, come i pastori delle Bucoliche; pianteremo anche un bel faggio, mio caro Titiro, un bel faggio, alla cui ombra non poseremo; ma che importa? Penseremo ai figli, che non saran nati da noi; faremo voti per il bene dell'umanità, amandola da lontano, nello spazio e nel tempo. Ti conviene? —

Happy sorrise e spiccò un salto prodigioso.

— Con lei, signor marchese! Quante cose imparerò! Come sarò felice!

— Già, — disse il Gonzaga, — perchè per la prima cosa ti leverò quella caricatura di nome inglese, e ti restituirò alla semplicità della tua fede di battesimo. —

Così partì Cesare Gonzaga dall'eterna Roma, dove aveva fatto tante cose bellissime. Il conte Pompeo Morati di Castelbianco volle accompagnarlo alla stazione, e ritornò a casa innamorato di lui. Ancora adesso, quando gli avviene di ricordarlo, non dà tregua alle lodi.

— Che uomo! Che giovanotto! Ma già, non fo per dire, i giovani siamo noi. —

La contessa Giovanna sorride, ma a denti stretti; occasione eccellente per farli vedere. Ella, del resto, è tranquilla e serena; non ha una grinza alle tempie, dove è fama che si raccolgano, disposti a ventaglio, i dolorosi ricordi della vita; mantiene in onore i suoi famosi mercoledì, e riceve sempre come una imperatrice. Chi ama, oggi, o a chi pensa, la bruna signora? Ah, scusate, sarebbe un'altra storia, e a me può bastare di aver condotto questa al suo termine.

FINE.

FRATELLI TREVES, EDITORI

I NUOVI ROMANZI DI ANTON GIULIO BARRILI.

Il critico più potente dei nostri giorni, il Bonghi, fra gli studi d'ogni genere a cui attende, si diverte anco a leggere i romanzi moderni, e li legge come nessun altro, giacchè li analizza e ne dà dei giudizi veramente originali ed arguti come ogni cosa sua. Non ha risparmiato le critiche al Lettore della principessa; ma per concludere che “ si legge con piacere, e alle critiche che se ne può fare, non si pensa se non dopo averlo finito di leggere. „ (La Coltura) È quel che si può dire di tutti i romanzi del Barrili.

Ed è quel che è costretto a pensare press'a poco un altro critico severo, che è il signor G. A. Cesareo, di scuola affatto diversa. Il che bisogna aver presente quando si leggono le sue parole:

“Il Barrili cominciò veramente anche prima che il naturalismo recasse in Italia il suo grave bagaglio di tesi, di definizioni e di regole; ma progredendo, divenne più esperto, più franco, più amabile, ed ogni giorno guadagna terreno.

“Egli compensa il difetto di solidità de' suoi lavori con una grazia, una snellezza, una semplicità che innamora. — Certo, non ha quella tragica potenza di situazioni onde il lettore rimane anelante e perplesso: certo non sa dare ai suoi personaggi quello scultorio rilievo che li rende indimenticabili: certo non descrive con quell'animata efficacia di particolari sensibili, la quale sembra quasi evocare il paesaggio, no, ma il suo racconto si svolge vario d'avventura in avventura, e non s'indugia mai e senza scoter mai troppo il lettore, sa tenerlo desto ed attento sino alla fine. Inoltre ha spesso il Barrili un'invidiabile squisitezza di sentimento, una sottile giocondità d'osservazione, una viva freschezza di fantasia, un'ingegnosa novità di trovata, una ravvivatrice eleganza d'erudizione. Gli è un gentiluomo colto ed arguto che si piace di dipanare, per sollazzo d'una brigata di belle ed intelligenti signore, una sua confusa matassa di fili d'oro e di seta. Somiglia un poco a Vittorio Cherbuliez: ma si vede bene che non ne deriva.... E in fine è il solo fra tutti i romantici d'Italia, che sappia scrivere l'italiano senza affettazione accademica e senza incuria volgare. Il Val d'Olivi, il Come un sogno, sono due piccoli capolavori.„

Un giovine scrittore piemontese, il signor G. Depanis, che ha preso un bel posto nella critica italiana cogli studi che pubblica nella Gazzetta Letteraria, ha dedicato al nostro autore un articolo che riferiamo quasi per intero:

Fra i pochi romanzieri italiani, che hanno un'impronta loro speciale, Anton Giulio Barrili merita un posto distinto, se non per la potenza, per la squisitezza dell'ingegno fine e simpatico e per l'invidiabile spontaneità. Nello spazio di meno che vent'anni egli ha pubblicato trenta volumi fra romanzi, racconti e novelle, ed altri tre ne annunzia in preparazione. Egli ha tentato tutti i generi, dal semplice racconto sullo stampo di Capitan Dodero, al romanzo storico sullo stampo di Semiramide ed al romanzo sociale sullo stampo del Conte Rosso; ha tentato anche il teatro colla Legge Oppia, commedia non felicissima davvero, ma che pure rivela sempre un ingegno accoppiante all'erudizione l'arguzia — connubio non guari frequente; — ed ha dato all'Italia alcuni buoni romanzi, quali Val d'Olivi, e L'Olmo e l'Edera, parecchi discreti, altri ancora (a che dissimularlo?) che non si possono dire tali, ed un vero gioiello, Come un sogno!

Certo, non bisogna chiedere al Barrili ciò che egli non ci dà e non ci vuole o non ci può dare. Ogni scrittore ha la sua impronta, ed è strana pretesa quella per cui si richiederebbe, exempligrazia, dal Farina la forza drammatica e psicologica del Verga e dal Verga l'umorismo lacrimoso del Farina. Ciascuno ha le proprie predilezioni e ci tiene ai proprii gusti ed alle proprie tendenze, scrittore e lettore. Laonde io non verrò qui a ripetere ciò che altri già disse sul genere del Barrili: mi sarà più o meno simpatico, corrisponderà più o meno alla mia estetica particolare (Dio buono! e chi non si fabbrica a questi lumi di luna un'estetica per proprio uso e consumo?); non monta, accetto il genere qual è senza ricercar altro, magari lamentando in cuor mio che il Barrili si sia messo su di un sentiero fallace, anzichè su di una strada maestra.

È inutile ricercare nella più parte dei romanzi del Barrili la profonda analisi psicologica o la pittoresca riproduzione dell'ambiente o la rapida e drammatica concatenazione degli avvenimenti. Il romanzo, quale lo intende il Barrili, è un quissimile di colloquio o di conversazione tra lo scrittore ed il lettore; il primo racconta al secondo ciò che gli frulla pel capo, interrompendo tratto tratto la narrazione per dilucidare qualche punto oscuro o per ammaestrare in bel modo, preoccupandosi sovratutto di non suscitare passioni violente od eccessive, ma di restare in quel quid medium che costituisce il garbo della buona società e che basta a tener desta l'attenzione. Finito il discorso o letto il romanzo — è quasi la stessa cosa — e riflettendoci sopra un pochino si affollano alla mente le obbiezioni e le riserve; però dovete confessare a voi stessi che non vi siete annoiati, anzi, che vi siete divertiti, e, se siete di buon conto, non negherete un ringraziamento al bel parlatore che vi ha affascinati.

Il lettore della Principessa risponde appunto a questo che sembra l'ideale impostosi dal Barrili nella più parte dei suoi romanzi. Il bel parlatore non ascolta troppo il suono della propria voce, come gli è accaduto talvolta; non ci tiene neanche troppo a sfoggiare la propria erudizione o la propria filosofia; — cammina invece spedito, si fa sentire o leggere con diletto e non si stanca e non stanca mai. Non chiedetegli poi, ad esempio, perchè il dottorino Gualandi ricusi dapprima 50,000 lire di mancia dal conte di Loewenstein per avergli ritrovato il portafogli (un portafogli caruccio in verità) ed accetti, in seguito, un milione per essere stato da lui ritrovato in qualità di assistente ad una palazzina in costruzione; egli è capace di rispondervi con un sorrisetto canzonatorio o con una spallucciata. Rinuncio quindi a riassumere questo Lettore della Principessa. Un riassunto è di per sè stesso una birbonata; trattandosi del Barrili, diventa una doppia birbonata, perchè in un riassunto, per quanto fedele e coscienzioso, vanno smarriti il profumo e l'eleganza, precipui fra i pregi del Barrili. Dirò soltanto che, senza atteggiarsi neppur per sogno a romanzo sociale quale lo si volle gabellare, Il lettore della Principessa è un quadrettino della vita intima di certe famiglie principesche e “nere„ di Roma, ed ha macchiette felicissime, come quelle del cardinale Savarelli, dell'impresario di lavori pubblici Pecchioli, delle due cameriere Alice e Barberina....

Il romanzo incomincia bene, continua meglio, specie nei capitoli 13º, 14º, 15º, e 16º, e precipita alquanto verso la fine. Ma la forma civettuola, la lingua veramente paesana e lo stile arguto ed elegante non si smentiscono mai, neanche verso la fine, e cattivano al Barrili la simpatia del lettore e, più, della lettrice. Al postutto, credete voi che la simpatia di una bella lettrice sia cosa da prendersi a gabbo?

Il prof. Emilio De-Marchi parla così del Lettore della Principessa nel Corriere della Sera:

Questo romanzo che riproduce la vita aristocratica è e rimarrà importante per la storia morale di Roma moderna.... Io non dirò ciò che accadde all'avvocatino Lucio, posto fra una bella donna, la Principessa, e una bella ragazza, la principessina Ersilia, perchè è già scritto assai bene nel libro e forma la parte più curiosa di esso. A poco a poco nascono simpatie e contrasti, i rapporti si fanno più stretti, le passioni si scaldano e ne vien fuori un romanzo forse non dei più soliti nella vita reale, ma che si fa leggere di gusto....

Nel Giornale di Sicilia, il signor R. Barbiera scrive graziosamente:

Che penna prolifica quella d'A. G. B. Egli fra pochi anni, dovrà obbligare i bibliotecari del paese a consacrargli una sala tutta piena dei suoi romanzi: Sala Barrili! I tipografi non possono tenergli dietro; e notate che ne' suoi romanzi, come in Casa Polidori, l'ultimo suo, non è l'accuratezza che manca: l'euritmia del lavoro è mirabile. A lui basta un fatto comune della vita per isvolgere un romanzo nel quale vedete sempre l'uomo di mondo, che conosce bene la società e la deride con garbo.

Casa Polidori ci porta nella società elegante e galante di Roma: è una casa nella quale la giovane e capricciosa padrona si diverte a inghirlandare il marito di fiori nati nel giardino del dolce peccato; e il marito, che nulla sa, nulla immagina, spinge la propria affezione verso l'amico.... traditore a tenergli compagnia durante i giorni uggiosi di medicatura d'una ferita presa in un duello sostenuto... appunto per quella donnina!... Commedie solite, solitissime... pur troppo! “Il lettore aspetta il dramma, co' suoi caratteri energici e le sue commozioni profonde. Il narratore non può dare che la verità, senza contrasti violenti, senza impeti di passione, e, quel ch'è peggio, senza accomodata concentrazione di effetti. Il tempo è grigio, e i toni sono fiacchi; che ci posso far io?...„ Che briccone questo Barrili! N'esce sempre, magari per il rotto della cuffia; ma il pubblico lo segue, lo ama.

Ed ecco altri giudizi alla rinfusa:

A chi ama i romanzi a tinte forti, pieni zeppi di emozioni o di scandali d'ogni genere, a chi cerca le passioni violente, sfrenate, che conducono al delitto, non può piacere il nuovo racconto Monsù Tomè di quello splendido ingegno che risponde al nome di Anton Giulio Barrili, il simpatico autore di Capitan Dodero, dell' Undecimo comandamento e di tanti altri lavori che restano veri gioielli della letteratura romantica contemporanea.... La storia di Monsù Tomè, del vecchio comandante di spiaggia, che prende parte così attiva alle guerre di Napoleone e di Carlo Alberto è interessantissima, ricca di aneddoti e di avventure, abbondante di descrizioni innanzi alle quali, tanto sono vere, bisogna commuoversi, bisogna elettrizzarsi per forza.

( Rassegna Nazionale ).

Monsù Tomè è una cosa prelibatissima. L'azione è qui più sviluppata che in altri libri del Barrili e l'interesse che ne deriva è maggiore.

( La Libertà, di Roma).

Monsù Tomè racconta le imprese alle quali ha partecipato nella sua gioventù, e, più specialmente, nel 1796, al tempo della guerra fra il Piemonte, l'Austria e la Repubblica francese, ed innesta al racconto delle battaglie quello di una storia d'amore con una vivandiera francese, ci-devant marchesa, ed ora, per amore della libertà, diventata la vergine del reggimento. Il racconto interessa di molto, perchè per due buoni terzi del libro procede spiccio, serrato, e ricorda glorie patrie; i capitoli relativi alla difesa di Cosseria ed al colonnello Filippo del Carretto sono in particolar modo da segnalare.

( Gazzetta Letteraria ).

Il lettore della Principessa è il trentesimo romanzo che il chiaro autore genovese pubblicò dal 1865 in qua; eppure la sua verve, il suo brio non sono mai esauriti; il suo modo di raccontare, lungi dal risentire stanchezza, è sempre lo stesso, attraente, simpatico, perchè gaio, spigliato, quasi mai noioso, doti essenziali per un novelliere o romanziere....

I pregi indiscutibili di stile, di modo di narrare, che fanno di lui uno degli scrittori più simpatici e popolari d'Italia, si trovano tutti egualmente spiccati e profusi in ogni suo libro.

( Gazz. del Popolo di Torino).

Il lettore della Principessa è ricco di belle e nuove pagine.

( Capitan Fracassa ).

Nel Lettore della Principessa mi è parso di trovare un'impronta più viva e marcata nei caratteri, una delimitazione più perfetta di sentimento, un corso più animato e violento di passioni, che hanno finito col render più attraente e interessante l'intreccio. — Non mi si dica, che i tipi sono fuggevoli e presto dimenticabili. — Basterebbe a provare il contrario, quello bellissimo e fiero di Lucio Gualandi il lettore, del cardinal Savarelli, “uno dei sette che, campassero pur cent'anni, non diventeranno mai papa„ della principessa donna Clara di Valgrana, di donna Ersilia la fanciullona “dai grandi occhi incantati da eterna educanda,„ dell'avvocato Verdini — tutti disegnati con rapidità e vigoria, dietro a cui si schierano delicatamente lumeggiati gli altri di donna Erminia e di don Alessandro di Barga, del conte di Loewenstein, di Pecchioli, di Barberina e di Alice.

A. G. Bianchi ( Pungolo della Domenica ).

A mio modesto avviso Casa Polidori è senza dubbio uno dei suoi migliori lavori.

( L'Alabarda ).

La trama di “Casa Polidori„ è semplice, ma condotta con arte moltissima. Le cose che si narrano non escono dall'ordinario, ma le sono con bel garbo esposte. Le scene sono improntate di una naturalezza grande. I personaggi, poi, sono tolti su dalla massa viva, e come esseri vivi si muovono. In quanto alla forma letteraria la è del Barrili.... il che vuol dire che è buona.

G. Stiavelli ( Ateneo italiano ).

Casa Polidori è una casa di Roma, tutta facciata, intonacata di vanità, entro la quale spicca la figura di una madre affettuosa, la testina sventata d'una sposina capricciosa, e quella di stucco d'un giovane marito così poco accorto, così accecato d'amore per la sua mogliettina che diventa la favola dei circoli del così detto generone, dove la maldicenza mette presto le ali e dove molto si pecca e poco si perdona. Ada è fragile come una statuina di terra cotta del Belliazzi e cede alle seduzioni d'un bellimbusto titolato, che finisce col buscarsi una sciabolata e a starsene in conseguenza qualche mesetto a letto col conforto per altro del marito offeso che nulla sa e nulla immagina.

Per Casa Polidori passano scenette molto gustose; più d'un dialogo, ne' quali le minuscole preoccupazioni della gente ricca fannullona sono riprodotte con finezza comica vi divertirà.... I caratteri sono miniature. Un tipo di madre seria e buona, piacerà molto alle lettrici buone....

Con garbo delizioso è scritto tutto il libro, che può essere affidato anche a una ragazza, perchè ogni crudezza è sfuggita; la beltà di Venere è avvolta d'un velo.

( Illustrazione Italiana ).

.... La Montanara è un piacevole racconto, scritto in una lingua che è un ristoro di italianità festevole ed elegante.

( Gazz. Letteraria ).

La Montanara.... è una storia d'amore quale ne può udire l'orecchio più casto di fanciulla, ma è pieno di fierezza alpestre, di energia. Comincia in Modena, si continua sull'Apennino, passa un momento pei campi di battaglia del 59, ha la catastrofe nell'Ospitale di Sant'Eufemia a Brescia e si compie ancora sull'Apennino. L'ambiente morale è la vita dell'ex-ducato di Modena, durante la bassa tirannide dell'ultimo Lorenese. Il principio di contrasto che dà lo scatto all'elemento drammatico potente nel romanzo, è il pregiudizio di casta che attraversa l'amore della Montanara con un discendente dell'antichissima casa dei Malatesti.

La politica non è quasi nemmeno sfiorata nel racconto, ma gli effetti di infezione generale del governo ducale in mezzo ai sudditi vi si manifestano nei fatti che ne risultano in attinenza al romanzo e negli avvenimenti privati onde il romanzo ha vita e forma; questo elemento vi rappresenta la viltà, la bruttezza sociale, il male sotto una grande varietà d'aspetti.

La moderazione grande del Barrili, appare in queste che direi parti sordide della sua storia; egli le attraversa in punta di piedi senza insudiciarsi, sereno, senz'ira o sdegno irrompente; su tutto lasciando passare il lavacro di quella sua fluida corrente di superiorità signorile, di tolleranza elegante, di raffinatezza letteraria e mondana che non è certo l'ultimo elemento di meritata voga dei suoi numerosi romanzi.

Intorno alle figure principali e accanto agli avvenimenti direttamente necessari al romanzo, il Barrili fa vivere, parlare, agire figure accessorie, e svolge fatti e racconti di scene secondarie. Nessuno come lui riesce a popolare un romanzo di figure di fondo ammirabili e variarlo di studi sociali e schizzi di vita moderna, pieni di verità di animazione e di brio.

C'è un Lesarini che diventerà proverbiale, come il tipo del cavalier servente a uso moderno. Scena magistrale è una rappresentazione di gala al teatro Ducale di Parma; e la vita intima dei volontari nel 59 è ritratta a meraviglia.

( Nazione di Firenze).

Il Ritratto del Diavolo è stato tradotto in inglese dal signor E. Wodehouse, e pubblicato in due volumi quest'anno a Londra dagli editori Remington and Co. L' Athenaeum ne parla con grandi elogi nella sua rivista settimanale dei nuovi romanzi:

“The lively, amiable, at times a long-winded raconteur Barrili has told, after Vasari, the tragic story of the life of Arezzo's great fresco painter Spinello Spinelli. The tale is well worth reading, if only for the lively picture it furnishes of the manner and customs of the painters of the period; and these may be accepted as correct, for Barrili's strength lies in the historical novel. The translation is carefully and well done. While being pleasantly readable and quite English in tone, it yet preserves the frank, naïve manner of narration which is the marked peculiarity of Barrili's style.„ DEL MEDESIMO AUTORE:

Capitan Dodero (1865). Settima edizione L. 2 —

Santa Cecilia (1866). Quinta edizione 2 —

I Rossi e i Neri (1870). Seconda edizione 6 —

Il libro nero (1871). Quarta edizione 2 —

Le confessioni di Fra Gualberto (1873). _Seconda edizione_ 3 —

Val d'Olivi (1873). Terza edizione 2 —

Semiramide, racconto babilonese (1873). _Terza edizione_ 3 50

La legge Oppia, commedia (1874) 1 —

La notte del commendatore (1875). Seconda edizione 4 —

Castel Gavone (1875). Seconda edizione 2 50

Come un sogno (1875). Sesta edizione 3 50

Cuor di ferro e cuor d'oro (1877). Terza edizione 3 50

Tizio Caio Sempronio (1877). Seconda edizione 3 —

L'olmo e l'edera (1877). Ottava edizione 3 50

Diana degli Embriaci (1877). Seconda edizione 3 —

La conquista d'Alessandro (1879). Seconda edizione 4 —

Il tesoro di Golconda (1879). Seconda edizione 3 50

La donna di picche (1880). Seconda edizione 4 —

L'undecimo Comandamento (1881). Seconda edizione 3 —

Il ritratto del diavolo (1882). Seconda edizione 3 —

Il biancospino (1882). Seconda edizione 4 —

L'anello di Salomone (1883). Seconda edizione 3 50

O tutto o nulla (1883). Seconda edizione 3 50

Fior di Mughetto (1883). Quarta edizione 3 50

Dalla rupe (1884). Seconda edizione 3 50

Il conte Rosso (1884). Seconda edizione 3 50

Amori alla macchia (1881). Seconda edizione 3 50

Monsù Tomè (1885) 3 50

Il lettore della principessa (1885) 4 —

Casa Polidori (1886) 4 —

La montanara (1886) 4 —

Lutezia (1878). Seconda edizione 2 —

Victor Hugo, discorso (1885) 2 50

IN PREPARAZIONE:

  • La spada di fuoco.
  • La signora Autari, storia inverisimile.
  • Uomini e bestie, racconti d'estate.
  • Il giudizio di Dio.
  • Il merlo bianco.