CASTEL GAVONE

DELLO STESSO AUTORE:

I Rossi e i Neri, romanzo, 2 grossi vol. in-16 L. 7 —

Val d'Olivi, romanzo, 1 vol. in-16… » 2 —

Racconti e Novelle—Vol. 1: Capitan Dodero, Santa Cecilia, Una notte bizzarra. 1 vol. in-16 » 2 —

Capitan Dodero. 1 vol. in-32…..» » — 50

Santa Cecilia. 2 vol. in-32 …. » 1 —

L'Olmo e l'Edera. 2 vol. in-32…… » 1 —

Il libro nero. 2 vol. in-32…… » 1 —

Le confessioni di Fra Gualberto, storia del secolo XIV. 1 vol. in-16 » 3—

D'IMMINENTE PUBBLICAZIONE:

Racconti e Novelle.—Vol. II. L'olmo e l'Edera, Il libro nero, Una ogni mille.

CASTEL GAVONE

STORIA DEL SECOLO XV

DI

ANTON GIULIO BARRILI

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1875.

Stabilimento Fratelli Treves

A Santo Saccomanno.

_A te, valoroso artista, il cui scalpello sa infondere nel marmo tanta parvenza di vita, io dedico questo libro, in cui mi sono ingegnato di rinfrescare la vita e le costumanze d'un tempo trascorso. È una storia paesana e per me quasi domestica, poichè si ragguarda alla terra ove mio padre ha passati gli anni della studiosa adolescenza, ove mia madre è nata, e dove io medesimo ho vissuto tanti bei giorni.

Fanciullo ancora, io mi aggirai per quelle valli, consolate da un'aria così pura; mi commisi a quel mare tinto, in azzurro da un così limpido cielo; m'inerpicai su quei greppi, dove annidano i falchi e donde l'anima si eleva così libera e franca. Colà non è palmo di suolo che io non abbia corso, con quella pienezza di gaudio che ti fa parere come in casa tua, e con quel senso intimo di pace, che ti fa gustare la poesia delle solitudini. Il culto delle antiche memorie io lo derivo da quella terra così varia e così nobile, colle sue caverne ospitali ai prischi uomini della Liguria, co' suoi ponti romani, colle sue torri severe, cogli archi a sesto acuto e le finestre partite a colonnini, donde egli sembra che tuttavia ci guardi il passato, mestamente amoroso.

Tra le storie che illustrano questo mio diletto suolo materno, ho amato raccontar questa dello assedio sostenuto dai vecchi marchesi del Finaro, contro le armi di Genova, così onorevole pei combattenti dell'uno e dell'altro campo, Liguri tutti, antenati nostri, e, se ne togli ciò che è vizio particolare dei tempi, uomini esemplari per rara fortezza d'animo e singolar gentilezza di costume. O m'inganno, o il segreto di quella nobiltà di sentire, che è di presente patrimonio comune, ha da cercarsi in quelle stirpi di cavalieri del medio evo; i quali però non sono soltanto i mal ricordati progenitori di degeneri schiatte, ma i padri di tutti noi, gl'istitutori de' forti caratteri e dei cuori gentili.

E tu che le cose gentili e le forti imprimi sicuro nel marmo, gradirai, se non altro, le buone intenzioni, che io, scultore a mio modo, pongo oggi sotto il patrocinio della tua cara amicizia._

ANTON GIULIO BARRILI.

CASTEL GAVONE

CAPITOLO I.

Nel quale si narra di due viaggiatori che amavano saper molto e dir poco.

A' dì 26 novembre dell'anno 1447 della fruttifera incarnazione (così dicevasi allora, nè io mi stillerò il cervello a rimodernare la frase), due cavalieri, che pareano aver fretta, galoppavano in sulle prime ore del mattino per la strada maestra che, svoltate le rupi di Castelfranco, lunghesso la marina del Finaro, risale verso il borgo.

Che risalga è un modo di dire, trovato da noi, i quali abbiam sempre la mente alle carte geografiche, e ci raffiguriamo il settentrione su in alto e l'ostro umilmente segnato nel basso. La strada di cui parlo era per contro ed è tuttavia in pianura, come la spiaggia che rasenta e come la valle in cui piega. Questa valle, che per amore del Medio Evo io dirò del Finaro, ma che i lettori possono, senza scrupoli di coscienza, chiamar di Finale, è stretta, ma piana, e la si abbraccia tutta quanta in un colpo d'occhio. Essa è conterminata da tre montagne; due la fiancheggiano, accompagnandola cortesemente fino al mare; un'altra la chiude a tramontana, o, per dire più veramente, la divide in convalli, dandole in tal guisa la forma di una ipsilonne, il cui piede si bagna nel Tirreno e le braccia si allungano verso il padre Appennino, che in quei pressi per l'appunto incomincia, spiccandosi dall'altura del Settepani, ultimo anello della catena delle Alpi marittime.

Nella inforcatura dell'ipsilonne (poichè ho presa a nolo questa inutilissima tra le lettere dell'alfabeto, ne spremerò tutto il sugo) si alza il monte del Castello, che ha il borgo del Finaro alle falde. Due torrenti, Aquila da levante e Calice da ponente, scendono dalle convalli, circondano il borgo, si maritano sotto le sue mura (stavo per dire sotto i suoi occhi), pigliano il nome di Pora e in un letto che è lungo un miglio, o poco più, consumano le nozze modeste, vigilate in sulla foce dalle due montagne accennate più sopra; Monticello a levante, che finisce poco lunge dalla spiaggia nei dirupi bastionati di Castelfranco, e Caprazoppa a ponente, ruvida schiena di monte che s'inarca a mezza via, indi si abbassa, si prolunga a dismisura verso mezzogiorno e coll'estremo suo ciglio si getta a piombo nel mare.

Tra questi due monti, e lungo la spiaggia, si stende ora una piccola ma ridente città, che porta il nome di Finalmarina. Al tempo di cui narro, si diceva in quella vece la Marina del Finaro e non era che un'umil terra di duecento fuochi; laddove il borgo feudale, murato in capo alla valle, ne noverava ben quattrocento, e, coronato dal suo castel Gavone, dimora e sede di giustizia ai marchesi Del Carretto, comandava su tredici borgate minori, sparsa sui greppi che gli sorgevano intorno, e per le valli che gli serpeggiavano da tergo.

Intanto che io tengo a bada il lettore benevolo, i due cavalieri hanno avuto il tempo di varcar la Marina, offrendo spettacolo di sè ad alcune frotte di pescatori, che traggono a terra le reti, e dando una sbirciata a due galere, che stanno sulle ancore in un cantuccio della rada, coi provesi legati agli argani della spiaggia. Giunti a poca distanza dal torrente, hanno voltato a destra, verso la valle, dalla cui apertura una severa ma bella veduta si affaccia loro allo sguardo.

La Caprazoppa, co' suoi massi enormi, sporgenti da ripide falde scarsamente vestite di umili cespugli ed erbe di facile contentatura, riceve ed ammorbidisce nella sua tinta rossigna, qua e là chiazzata d'azzurro, la vivida luce del sole. Laggiù, in capo alla valle, il cui fondo è ancora a mezzo velato dall'ombra della costiera di Monticello, s'innalza il dorso alpestre, su cui è murato il castello Gavone, superba mole solitaria, fiancheggiata da quattro torri, che siede a custodia dei passi sottostanti. Veduto a quella distanza, così solo in mezzo alle balze digradanti, il nobile edifizio comanda l'ammirazione e la riverenza. Lo si direbbe un avvoltoio, posato alteramente sulla sua rupe, in atto di spiare intorno e meditare da qual parte abbia a calarsi veloce, per afferrar la sua preda. Non lunge dal castello, la rupe si deprime un tal poco, indi risale, si gonfia e tondeggia in ampio dorso sassoso. È questa la roccia di Pertica, che, veduta da settentrione, apparisce dirupata, inaccessibile, come una di quelle rocche incantate che vide e ritrasse la fantasia dell'Ariosto. La vetta del monte, le bianche torri di Castel Gavone e i sottoposti declivii, risplendono al sole; il borgo del Finaro non si vede, ascoso com'è dietro un colmo di piante, ma lo s'indovina dalla merlatura di qualche torrione, o dalla guglia di qualche campanile, che sbuca dal verde.

I due cavalieri s'erano avviati per una stradicciuola sulla riva sinistra del torrente. Poco o nulla, inoltrandosi, potevano più scorgere di quella scena meravigliosa, che, allo svoltare della Marina, s'era parata dinanzi a loro. Il luogo era piuttosto basso; la prospettiva chiusa da alberi frequenti, da siepi e casolari. Ma eglino, a quanto pareva, non si curavano molto di godere la bella veduta, bensì di trovare un certo edifizio, che doveva esser meta, o stazione, del loro viaggio.

Ora, sebbene da quelle parti là non fossero mai stati, tale era la forma, e così chiara l'insegna del luogo cercato, che essi non ebbero mestieri di pigliar lingua da alcuno, per ritrovarlo. La forma era comune, anzi rustica a dirittura, ma notevole per un largo terrazzo sormontato da una pergola, su cui alcuni ceppi di vite, serpeggiando lunghesso i muri, erano saliti ad intrecciare i nodosi lor tralci, che per la stagione inoltrata apparivano spogliati di fronde. L'insegna, poi, era un ramo di pino, sporgente sull'angolo dell'edifizio, vicino ad un muro di cinta, nel quale si apriva il portone, per dar àdito alla casa e all'orto attiguo.

Giusta le apparenze, il padrone del luogo, o fittaiuolo che fosse, raccoglieva nella sua persona le due dignità di ortolano e di ostiere.

I due cavalieri giunsero davanti al portone spalancato, che lasciava scorgere un'aia pulita e lucente, sebbene non d'altro fosse composta che di terra battuta, con un frascato in aria, all'altezza del primo piano, e qua e là alcune rozze tavole e panche niente più appariscenti, secondo il costume delle osterie di campagna. Di là dall'aia, e proprio di rincontro al portone, si dilungava un pergolato, che risaliva tra due file di pilastri sul fianco della collina.

—Dovrebbe esser qui;—disse il più vecchio dei due, uomo intorno ai sessanta, dal volto abbronzato e dalle membra poderose, strette in un farsetto di pannolano, su cui era buttato alla scapestrata un corto mantello.—Questa veduta risponde benissimo a ciò che vi ha detto il magnifico messere Ambrogio Senarega. C'è il terrazzo colla pergola, c'è la frasca sull'uscio, il viale coperto in fondo dell'aia….

—E l'insegna che dice tutto!—interruppe il compagno, d'una ventina d'anni più giovine e più nobilmente vestito.—Vedi, Picchiasodo; qui sul portone sta scritto a lettere da speziali: « Fermatevi all'Altino; c'è buona l'accoglienza, e meglio il vino

—L'oste si vanta;—rispose il Picchiasodo;—ma gli darò io una ripassata al suo vino, e se non mi va, il primo pezzo di muro che mando a rotoli, vuol esser questo, dov'egli ha posto l'insegna.—

Intanto, erano entrati sotto il portone.

L'oste, faccia contenta e grulla (così almeno portava l'apparenza), si fece innanzi premuroso, con un ragazzone e una nidiata di bambini alle spalle.

—Entrate, magnifici messeri!—gridò egli, cavandosi umilmente la berretta e mettendo inchini su inchini.—Maso, piglia i cavalli e conducili in istalla.

—No, non occorre:—disse il più giovine dei due viaggiatori, che in quel mezzo scendeva d'arcione.

—Metteteli soltanto al coperto; ci si ferma per poco.

—E se il tuo vino non è buono, si parte subito!—aggiunse quell'altro, che rispondeva al nome di Picchiasodo.

—Ah, per questo,—rispose l'oste con aria di sicurezza profonda,—non ho niente paura. Vedrete, messere, sentirete che vino! Non fo per dire, ma ci ho il meglio della vallata. Soltanto alla tavola del nostro magnifico Marchese si può bere il compagno.

—Vedremo…. confronteremo!—disse gravemente messer Picchiasodo.

Ed era per aggiunger dell'altro; ma il suo compagno gli diede un'occhiata, che ebbe il potere di arrestargli la parola tra i denti.

—Venga dunque il tuo vino!—ripigliò l'oratore interrotto.—E siccome io m'immagino che voi, messer Pietro, non vi disporrete a mandarlo giù così di buon mattino, senza un briciolo d'accompagnatura….

—No certo;—ribadì l'altro sollecito.—Non ci sei che tu, per ber vino ad ogni ora, come se fosse acqua di fonte.

—Ah, baie! Io e lui siamo amici vecchi, messere, e si sta come pane e cacio. A proposito di cacio, hai tu qualcosa da ungere il dente? Di' su!

—Comandate, magnifici messeri!—fu pronto a dir l'oste, a cui erano rivolte le ultime parole del Picchiasodo.—C'è pane e cacio, uova da farne una frittata in un batter d'occhio, e se vi piace, posso anche ammannirvi un pollo allo spiedo….

—Ottimo amico! Ostiere degno della mia stima e della mia pratica!—gridò con burlesco fervore quell'altro.—Portaci il pollo, la frittata, il cacio, il pane, tutto quello che hai!—

L'oste, serviziato per indole e giubilante per quella mattutina ventura, non se lo fece dire due volte, e, comandato al Maso che accompagnasse i due forastieri al pian di sopra, ov'era luogo più degno di loro, entrò difilato in cucina, per ammannire alla svelta tutto il meglio della credenza. La moglie si diede a pelare un pollo, ostia innocente, acciuffata in quel punto sull'aia e messa a morte senza processo; il figlio più grandicello a rattizzare il fuoco e disporre il menarrosto; un altro a raccattare nell'orto due talli d'indivia e due carciofi primaticci; egli a trar fuori dall'armadio il pane, il cacio, il vasellame e tutto l'altro che bisognasse. Volea fare le cose a modo, mastro Bernardo; dare in tavola i principii, servire per bene i suoi ospiti, che gli pareano persone d'assai.

—Per altro, diceva egli (e qui faceva capolino la natural diffidenza del campagnuolo), o come va che due cavalieri di quella fatta, avviati al Finaro, si fermino qua, all'insegna dell'Altino? Capisco che alla Marina non abbiano trovato il fatto loro; ma qui siamo a cento passi dal borgo, e, con quelle cavalcature vistose, in quattro salti erano a casa.—

Onesta considerazioni mastro Bernardo le faceva ad alta voce, in quella che spicciava le sue faccende. Il Maso, che tornava in quel punto da apparecchiare la tavola, lo intese e da buon cortigiano entrò a dire la sua.

—Padrone, o che credete, che l'Insegna dell'Altino la non ci abbia il suo buon nome per tutto il paese? Chi non lo sa, che il miglior vino di Calice viene a farsi bere nella nostra osteria? E non sono già soli i terrazzani, che ci hanno la divozione a questo santo, ma anco i forestieri, che pure non avrebbero a risaperne gran cosa. Vi ricordate, padrone, quel pezzo grosso di genovese, che c'è capitato due volte e non c'era luogo al mondo che gli piacesse di più?

—Uhm!—brontolò mastro Bernardo, che in sulle prime aveva fatto bocca da ridere.—Brutta gente, quei genovesi! E se questi due fossero della pasta di quell'altro, meglio sarebbe dar loro acquetta, che vino di Calice!

—Ho dunque a portar loro l'acquetta?—chiese il ragazzone, con aria che volea parere melensa.

—Di che acquetta mi vai tu novellando?

—Non sapete, mastro Bernardo? quel vinello fiorito, che è sempre in fin di botte, perchè oramai nessuno lo vuole?

—Ehi, bada a te, mascalzone! Vuoi forse trincartelo tu, che fai sempre a screditarlo? Ci ho a fare un nipotino ancora, prima che tu ne assaggi!

—Un nipotino su quel vinello? Sarà acqua schietta, allora—notò il Maso tra sè.

E raumiliato in vista, ma contento d'aver detto la sua, andò a spillare il migliore, per servir degnamente i due forastieri; indi, colmate le bottiglie, si affrettò a portarle di sopra, insieme col pane e i camangiari.

Si affrettò, dico, ma non fu tanto sollecito a ritornare, come al padrone pareva che egli ragionevolmente dovesse; epperò n'ebbe da mastro Bernardo un'altra ripassata delle solite.

—Diamine!—sclamò il Maso.—Come ho a fare? Cinquantadue scalini non si salgono e non si scendono mica in un batter d'occhio!

—Cinquantadue! Tanti ce n'ha dal pian terreno al terrazzo.

—E appunto lassù ho dovuto apparecchiare. Hanno voluto così.—

Mastro Bernardo rimase lì a mezzo, colla mano sullo schidione e le ciglia inarcate.

—Che diavolo!—gridò egli sbalordito.—Sul terrazzo? in fin di novembre?

—La giornata è bella;—notò il ragazzo.—I due messeri hanno detto che par primavera e vogliono profittarne per godersi la vista….

—Della Caprazoppa!—interruppe l'ostiere.

—Eh, già, della Caprazoppa;—soggiunse il Maso.—Voi stesso, padrone, non dite che la valle è stretta, ma bella a vedersi? E poi, non si vede soltanto la Caprazoppa, di qua. Si guarda a manca, e si vede il mare; a destra, e si vedono le case del borgo, il castel Gavone e la roccia, di Pertica, Così l'hanno intesa i due forastieri, e, scambio di mettersi a tavola, sono andati a sedersi sul murello, per contemplare il paese.

—Uhm! uhm!—borbottò mastro Bernardo.—Che fossero davvero due genovesi? Bisognerà sincerarsene.

—Padrone,—ripigliò il Maso,—s'ha a darlo in tavola, il pollo?

—Non ancora; lo porterò io, quando sarà rosolato per bene. Va intanto lassù, moccicone, e vedi se non hanno mestieri di te.—

Cuoceva assai più del suo pollo, l'ostiere. Natura l'avea fatto curioso; amore della sua terra lo facea sospettoso per giunta. E qui cade in acconcio un cenno storico, il più breve che per me si potrà, donde il lettore benevolo avrà qualche lume intorno alla diffidenza di mastro Bernardo.

Quel tratto di paese, che dopo il 1100 formò il marchesato del Finaro, era compreso per lo innanzi nel marchesato di Savona, e facea parte del patrimonio di quel famoso Abramo, che la leggenda disse nato d'ignoti pellegrini e rapitore d'una figliuola di Ottone I, ma che la storia chiarisce figlio d'un conte Guglielmo, venuto di Francia, con trecento lance, in aiuto al marchese Guido di Spoleto.

Di questo Aleramo, che ben potè avere ottenuta in moglie l'Adelasia della leggenda, poichè egli appare esser stato carissimo ad Ottone I, e da lui fatto signore di largo dominio, nacquero i marchesi di Monferrato e, ramo minore, ma non manco rigoglioso ed illustre, i signori Del Carretto, marchesi di Savona e d'altre terre sull'Appennino. Venuto a morte nel 1268 Giacomo Del Carretto, sesto della discendenza d'Aleramo, l'eredità sua andò spartita in tre figli, e l'ultimo d'essi, Antonio, ebbe per suo terziere, e trasmise ai suoi successori, il Finaro.

Congiunti d'antico parentado ai marchesi di Monferrato, prossimi consanguinei dei marchesi di Millesimo, di Ponzone, di Cortemiglia e via via, di tutti i borghi delle Langhe, ultimi rimasti sulla Riviera di ponente a rappresentarvi il feudalismo invasore delle regioni settentrionali d'Italia, non potevano i marchesi del Finaro esser veduti di buon occhio dalla genovese Repubblica, che, utilmente pei futuri destini dalla penisola, sebbene non sempre con mezzi leciti e con nobiltà d'intento, mirava al dominio di tutta Liguria. Però non istettero molto a nascere e ad infierir le contese. E Genova, fattasi, nel 1305, per cessione sforzata d'uno tra que' marchesi, padrona di una parte del territorio, a viemmeglio assicurarsene il possedimento, innalzava sollecitamente sulla marina del Finaro la ròcca di Castelfranco, che aveva a perder di poi.

Ma Castelfranco e i diritti di Genova sulla terza parte del Finaro, avevano cionondimeno a rimanere continuo argomento di litigio tra la Repubblica e i marchesi Del Carretto. La quistione sarebbe stata presto risolta colla peggio di questi, se le intestine discordie genovesi non avessero condotta la città in gravi distrette e travolto il suo reggimento in balìa dei signori di Milano. E i marchesi del Finaro ne fecero lor pro, alleandosi coi nemici di Genova, accogliendone ad onore i fuorusciti, dando aiuto ai capitani di ventura, mandati a guerreggiarla, e quinci e quindi occupando le terre circonvicine, che ella aveva per sue.

In questa maniera di guerra, si chiarì più audace de' suoi antecessori il marchese Galeotto, uomo d'animo grande oltre lo stato, e, ne' suoi avvedimenti contro Genova, sovvenuto dal patrocinio di Filippo Maria Visconti, signor di Milano. E appunto nella primavera di quell'anno, che fu, siccome si è detto, il 1447, una nave del Finaro, impadronitasi d'una nave genovese de' Calvi, l'avea tratta come buona preda al marchese. Dolse ai genovesi lo sfregio sul mare, più che non avessero potuto gli altri danni molteplici in terra; perciò fu deliberato di trarne vendetta sollecita, e tanto più allegra, in quanto che, essendo al termine di sua fortuna, e altresì di sua vita, il Visconti, ed ospite di Galeotto essendo il fuoruscito Barnaba Adorno, antico doge, balzato di seggio da Giano Fregoso in quell'anno, i vecchi nodi coi nuovi pareano stringersi al pettine, e molti torti si vendicavano in uno.

Per altro, infiammati i genovesi alla guerra, Giano Fregoso mirava a sfruttare quello sdegno cittadino per utile suo; e copertamente faceva proposta di pace a Galeotto, chiedendogli in moglie Nicolosina, la sua bella figliuola, e in balìa l'ospite Adorno, il cui riscatto, già fermato in diecimila genovini d'oro, prometteva egli di costituire in dote alla sposa. Disdegnò le celate proposte il marchese, mentre pure incalzavano le intimazioni della Repubblica, aperte queste e solenni. E in quelle proposte di Giano, e in queste intimazioni del Doge, parecchie ambascerie s'erano spese, tra il marzo e il novembre, ma tutto senza alcun frutto presso il marchese. Egli, o fidasse nell'aiuto de' consanguinei, stretti in lega con lui, o dal medesimo spesseggiar dei messaggi argomentasse debolezza ne' suoi nemici, o non pigliasse consiglio che dal suo animo prode, si tenne saldo nel niego.

E pronto si teneva altresì alla prova dell'armi. Il borgo era munito d'ogni maniera di difese; Castelfranco, scolta avanzata del Finaro, mentendo alle ragioni per cui era stato costrutto, si mostrava preparato a sostener l'urto de' suoi fondatori. Senonchè, i genovesi parevano piuttosto propensi a minacciare, che a muover guerra risoluta e gagliarda. L'ultima ambasceria, quella di messere Ambrogio Senarega, non avea l'aria di recare ai Del Carretto le ultime ragioni della Repubblica; epperò se ne aspettava un'altra, con grande molestia dei finarini, i quali vedevano le loro valide braccia rapite all'utile lavoro dei campi o delle officine, per aspettare un nemico che non veniva mai, e tutti li costringeva a quell'uggioso stato di aspettazione, che non è guerra, nè pace, e non dà modo di godere i frutti di questa, nè di sperare imminenti le conseguenze, buone o triste, di quella.

E adesso il lettore intenderà di leggeri con che animo mastro Bernardo, da buon cittadino e da oste a cui premeva il suo traffico, paventando il futuro, si facesse a considerare il presente, e con che po' di sospetto dovesse badare a que' due forastieri, i quali, in cambio di starsene in una camera al caldo, andavano a far sosta sul terrazzo, e più assai che di gustare i principii di tavola, si mostravano teneri di studiar prospettiva.

L'impazienza rosolava mastro Bernardo, ben più che i carboni ardenti non rosolassero il pollo. Ne avvenne, che egli si tenesse ancora nelle dita una serqua di giratine, e messo il pollo in un vassoio di terra savonese (che cominciava allora a soppiantare le terre cotte di Majorica), lo portasse egli in persona a' suoi ospiti.

Erano ambedue seduti sul murello dell'altana, quando l'ostiere comparve dall'abbaino, col suo piatto fumante tra mani.

Picchiasodo fu il primo a vederlo,

—Degno ostiere!—gridò egli, tirando dentro una gamba, che tenea cavalcioni sul muricciuolo.—Tu hai fatto le cose alla spiccia.

—Magnifici messeri,—disse Bernardo inchinandosi, nell'atto di deporre il vassoio in mezzo alla tavola,—temevo non aveste a spazientirvi e a prendere in uggia l'Altino….

—In uggia? che diavol dici? in uggia questo paradiso terrestre? Io ci ho succhiato una dozzina di olive indolcite, e stavo per isfogliarci un carciofo, davanti a questa bella veduta.

—Un po' chiusa….—notò timidamente l'ostiere.

—Tu sei modesto, mio caro…. A proposito, il tuo nome?

—Bernardo, ai vostri comandi.

—Diciamo dunque mastro Bernardo. Ora, vedi (e frattanto Picchiasodo con certi colpi di trinciante, che non erano da scalco, faceva a spicchi il pollo infilzato nel forchettone, per darne il meglio a messer Pietro), a me piacciono quei monti, che chiudono la vista…. quei monti che calano addosso al paese, come falconi sulla preda.

—Ci sarà una strada;—entrò a dire con piglio di mezza domanda il compagno.

—Una strada? sicuro;—rispose l'ostiere;—quella che voi facevate, messeri.

—Eh, quella, si sa; ma un'altra su quella costiera, o qui, dall'altra banda…. Queste montagne non saran mica inaccessibili.

—Occhio alla pentola, Bernardo!—disse l'ostiere tra sè.—Son genovesi, costoro, o ch'io non so più a quanti dì è san Biagio.

E ad alta voce soggiunse:

—No, magnifici messeri; ci sono alcuni passi, ma da non farne conto; buoni per menare al pascolo le capre, e nient'altro.

—Male!—sclamò il Picchiasodo, battendo le labbra.—Strade ci vogliono, mastro Bernardo; strade ci vogliono, perchè la gente a modo non abbia a scavezzarsi il collo.

—Le strade larghe tirano i nemici in casa,—sentenziò l'ostiere, temperando l'agro dell'osservazione con un suo riso melenso.

—E la strette non invitano gli amici;—replicò il più giovine e il meno loquace dei due forastieri.—Per ventura nostra, abbiam fatto il giro più lungo, a venir qua, ed abbiamo azzeccato una strada da amici.

—Amici! Beato chi ne ha!

—E ne ha sempre chi merita. Ne ha, verbigrazia, in buon dato il tuo magnifico marchese, messer Galeotto, che è un cortese e liberal cavaliere.

—Dite anche giusto ed umano,—soggiunse mastro Bernardo con impeto,—che in tutta la nobilissima stirpe dei signori Del Carretto non è il più leale, il più degno dell'amore e della venerazione del popolo.

—Tu lo ami molto, a quel che pare.

—Messere, che dirvi? Siam povera gente e si conta nulla; ma se bisognasse buttarci nel fuoco per lui….

E mastro Bernardo fece l'atto di dar la capata.

—Qualche volta riesce un po' duro di pagare la taglia;—notò il Maso, che si rodeva da un pezzo di non poter dire la sua.

—Che c'entri tu, mascalzone? Ti paion cose da dirsi, coteste? Eh, mastro Bernardo,—soggiunse l'altro, stringendosi nelle spalle,—non vi lagnate voi qualche volta, e non avete detto ancora l'altro dì….

—Che tu se' un pendaglio da forca o ch'io vo' lardellarti la lingua, per farne vivanda regalata al diavolo, tuo padrone. Va via, e vedi se la Rosa ha in pronto la frittata. Perdonate, magnifici messeri! Quel tristanzuolo mi ha fatto perdere la tramontana, colle sue invenzioni. Non dico che qualche volta…. Sicuro, i tempi son grami e le riprese scarse; ma io ho sempre pagato volentieri la taglia, la decima, e tutte l'altre gravezze…. perchè, già, il castello e la chiesa non son mica fatti d'aria, e di qualcosa hanno pure a campare.

—Sta di buon animo!—disse gravemente il Picchiasodo.—Se tu hai qualche volta mormorato del fisco, hai anche puntualmente pagato. La penitenza cancella il peccato, e noi non ne diremo nulla al tuo ottimo signore. Alla sua salute intanto,—aggiunse il solenne bevitore,—e ogni cosa gli vada com'io di gran cuor gli desidero.

—Non son genovesi!—notò mastro Bernardo tra sè.—Indi, a voce alta proseguì:

—Vedo che voi, magnifici messeri, siete amici del nostro Marchese, che Iddio prosperi e innalzi su chi gli vuol male. Di certo siete qua venuti per fargli una sorpresa….

—Vedi il destro arcadore! Ei l'ha imberciata alla prima. Sicuro, siamo venuti a fargli una sorpresa, e sarà più contento egli di veder noi, che non tu di buscarti un genovino d'oro.

—Moneta del nemico, è sempre buona a pigliarsi;—si fece a dire quell'altro, che il Picchiasodo chiamava rispettosamente messer Pietro;—e anche non amando i genovesi, si possono avere in pregio i genovini.

—E' sono il meglio di quella gente là!—rispose mastro Bernardo, ridendo liberamente, da uomo che non aveva più sopraccapi.—Ma ecco la frittata, magnifici messeri;—soggiunse, vedendo tornare il Maso e levandogli di mano il piatto, con quel disco appetitoso nel mezzo;—guardate se non par d'oro anche questa.

—Or ora ne faremo il saggio;—disse il Picchiasodo.—Ma guardate, messer Pietro, voi che siete così vago della bella natura; guardate com'è bene indorata dal sole quella vetta laggiù. Di' su, amico ostiere, come si chiama?

—È la roccia di Pertica,—rispose mastro Bernardo.

—La è proprio a cavaliere del castello;—notò il Picchiasodo.—Io, per me, se fossi nei panni del Marchese, temerei sempre di vedermi cascare di lassù un genovese sulla groppa.

—Sì, se un genovese avesse l'ali!—disse asciuttamente mastro Bernardo.

—Che? non ci si sale, fino a quel colmo?

—Che io mi sappia, non ci ha mai posto piede anima nata. E' bisogna vedere la roccia alle spalle, là dalla parte di Calice. Gesummaria! Se un negromante non ci scava i gradini nel vivo, gli è come volersi aggrappare ad uno specchio.

—Uhm!—borbottò il Picchiasodo.—E quell'altro cocuzzolo sulla Caprazoppa?

—È la roccia dall'Aurèra.

—Mi pare di vederci un segno di strade.

—Strada romèa, messere; ma ora la è guasta per modo che nessuno più se ne giova. Per altro, a che servirebbe, lassù?

—Adagio a' ma' passi!—gridò il Picchiasodo.—Qui ti vien meno il tuo senno, degnissimo ostiere. Non mi dir male de' romani! Non c'eran che loro, per capir certe cose. Vedi; una strada su quel monte la ci voleva, come un bicchier di vino su questo boccone. Strade sui monti, dico io; in pianura, quasi quasi se ne potrebbe far senza; uomo, o macchina, o bestia da soma, tutto ci passa a bell'agio; ma su per l'erta d'un monte, sul fianco d'una costiera, e va dicendo, s'ha a far come Annibale, lavorar coll'aceto. Ne hai tu dell'aceto?

—Padrone,—-entrò a dire il Maso,—c'è quella botte di vinello fiorito, che potrebbe….—

Così disse il ragazzo, ma non continuò il discorso, poichè mastro Bernardo con una occhiata furibonda gli troncò le parole, e con una pedata non meno espressiva gli fe' prendere il volo verso l'abbaìno.

—Ne avrete fatto, di strada;—disse l'ostiere, tornando a' suoi ospiti e cercando di ravviare la conversazione;—ne avrete fatto molta, messeri, pervenire fin qua!

—Molta;—rispose il Picchiasodo, colla bocca impacciata da un boccone più grosso degli altri.

—E…. se è lecito il chiedervi….

—Ostiere!—interruppe quell'altro, con piglio tra il burbero e il faceto.—Che diavol ti piglia, di voler sapere il nostro itinerario?

—Scusate, magnifico messere…. volevo dire…. Siccome so che il nostro Marchese aspetta per l'appunto qualcuno….—

Il Picchiasodo era per dirgli dell'altro in quella medesima chiave; ma messer Pietro, più accorto, indovinò il profitto che si poteva ritrarre da quelle mezze parole dell'oste, e vogò destramente sul remo al compagno.

—E chi aspetta, di grazia?—domandò egli a mastro Bernardo.—Ne hai già imbroccata una, dicendo che siamo venuti per fare una sorpresa al tuo nobilissimo signore; vediamo dunque; indovina quest'altra!

—Ma….—disse l'ostiere, gonfiandosi a quella lode (e se avesse avuto un cencio di coda, si sarebbe provato a fare la ruota)—si parla in paese d'un certo matrimonio….

—E di chi? Va innanzi!—prosegui messer Pietro, ugnendogli le carrucole.

—Eh, meglio di me lo saprete voi, magnifico messere. Io non lo conosco, ma dicono sia un uomo d'assai, che ha terra e castella ed ogni ben di Dio, là dalle parti di Torino….

—E la sposa? Che ne dici tu?

—Madonna Nicolosina? Ah, quella è un occhio di sole…. un bottoncino di rosa!… Diecisette anni, messere, diecisette anni a san Nicola, che casca tra dieci dì, salvo errore, ed è già una meraviglia di bellezza, che vengono già da tutte le parti, solo per vederla a passare per via. E buona, per giunta, come il pane, e costumata, poi, e dotta, che nemmanco il parroco di san Biagio ne sa quanto lei. Insomma, una perla, messere, una perla, come madonna Bannina, sua madre, che Iddio conservi lungamente alla casa dei nostri signori.

—Godo che un suo vassallo me la lodi così!—esclamò messer Pietro, con aria tra umile e contenta.

—È lui! è lui! non c'è dubbio;—disse mastro Bernardo tra se.—Non sono io il solo a lodarla,—ripigliò quindi, per dar la giunta alla derrata,—ma tutti i ventimila abitanti del Marchesato l'hanno in quel conto che ella si merita, per la sua bellezza e per la sua virtù, che non han la compagna. E come le son fioccati i partiti! Ce n'è uno che la voleva ad ogni costo, e seguita a volerla…. messer lo Doge di Genova…. Ma sì, gli ha da appiccar la voglia all'arpione, costui! Madonna Nicolosina non è boccone pei Fregosi….

—Ah sì? e perchè mò?—interruppe messer Pietro, facendo bocca da ridere.—Perchè son genovesi?

—Non già per questo;—rispose l'ostiere, con un certo sussiego.—Parliamo suppergiù la medesima lingua e si potrebbe vivere, sto per dire, da buoni fratelli, se qualche volta non ci avessero il ruzzo di spadronare in casa d'altri. Ma vedete, messeri; su quella gente là non ci si può far conto. Potevano essere, sia detto con vostra licenza, il primo popolo del mondo, stimati da per tutto e temuti la parte loro…. Ma no; con mille discordie si sono guastati il sangue, e non possono durarla tre mesi in pace con sè medesimi. Va via di lì, ci vo' star io, è la regola di tutti que' maggiorenti, che dovrebbero invece adoperarsi per la tranquillità e per la grandezza del popolo. E si bisticciano sempre, non so da quanti anni, e fanno a rubarsi il comando; oggi Adorno, domani Fregoso, posdimani Adorno da capo, sempre su e giù, si arrabbattano come fagiuoli in pentola. Erano padroni in casa loro, che non li comandava nemmeno l'imperatore; e adesso, vedete, son roba di tutti, che la è una miseria a pensarci. E ancora s'impuntano a dar molestia ai vicini; e vogliono far l'omo addosso a noi altri! Si mettano in pace tra loro, si mettano; comandi chi può e obbedisca chi deve. Che ve ne sembra, messere?

—Mi sembra che tu abbia ragioni da vendere!—rispose messer Pietro, aggrottando le ciglia.

In quella che mastro Bernardo, ringalluzzito del suo trionfo oratorio, si disponeva a meritarsene un altro, ricomparve il Maso sull'altana.

—Padrone!—gridò egli ansimante—Venite giù subito!

—Che c'è egli di nuovo?—dimandò stizzito l'ostiere.

—C'è messer Giacomino che ha mestieri di voi.

—Aspetti; or ora ci andrò.

—Ha premura;—incalzò il ragazzo,

—Se ne vada, allora; potevi dirgli che ci ho forastieri.

—Se gliel ho detto! Ma egli vi vuole ad ogni costo.

—Ha da essere un pezzo grosso, il vostro messer Giacomo!—notò il Picchiasodo.—Va dunque e vedi di contentarlo.

—Oh, gli è un giovinotto, mezzo villano e mezzo soldato, che si crede dappiù di chi si sia, perchè il nostro Marchese lo vede di buon occhio; un superbioso, che va sempre col capo nelle nuvole, e qui non ha mai bevuto un bicchiere.

—Ragione di più per scendere; vedrai che stavolta ti asciuga la cantina.

—Del resto,—soggiunse messer Pietro.—oramai siamo satolli e si parte. Fa intanto stringer le cinghie ai cavalli.

—Sarete serviti, magnifici messeri; e caverò fuori un fiaschetto di malvasia, che vien proprio da Candia, pel bicchier della staffa.

—Sta bene; e tu piglia questo per l'opera tua; credo che basterà.—

Così dicendo, messer Pietro gli pose in mano un genovino d'oro.

—Corbezzoli, se basta!—gridò l'ostiere, facendo tanto d'occhi a quel lucicchìo.—Tornateci domani, sul conto, e doman l'altro, se vi piace; l'Altino è vostro, messere.

—Se non ci avesse a costare che questo,—borbottò il Picchiasodo,—e' sarebbe a straccia mercato.—

Il genovino d'oro, valeva allora quindici grossi, che erano intorno a tredici lire della nostra moneta presente, ma che, fatto il conto dei tempi diversi e dei mutati prezzi delle derrate, potrebbero ragguagliarsi al doppio di questa valuta. E ciò spieghi la meraviglia della contentezza di mastro Bernardo; il quale si avviò gongolante all'abbaino, per dove era già scomparso il ragazzo.

—Che matrimonio ha da essere!—andava dicendo l'ostiere tra sè.—Non è più di primo pelo, ma e' ci ha un'ariona da principe, questo messere…. A proposito; la Rosa mi aveva pur detto il suo nome! Tamburlano? No. Canterano? Nemmeno. Certo comincia in ca …. Vediamo un poco!

Messer Pietro si era mosso dalla tavola, alla volta del murello, e pareva volesse dare un'ultima occhiata al paese. Picchiasodo, da uomo più materiale, era ancora al suo posto, e mostrava cogli atti di voler vedere il fondo all'orciuolo del vino.

—Scusate, messere;—disse mastro Bernardo, avvicinandosi a lui;—il nome del vostro compagno?

—Perchè?—dimandò il Picchiasodo, inarcando le ciglia.

—L'ho sulla punta della lingua;—prosegui mastro Bernardo, senza badare al piglio scontento di quell'altro.—Vedete, messere; sono un povero diavolo d'oste, ma ci ho entratura al castello. Mia moglie è sorella della madre di Gilda, la cameriera di madonna Bannina, e il nome dello sposo io l'ho risaputo. Ca…. Casche…. Aiutatemi a dire!

—Casche….—ripetè il Picchiasodo, per contentarlo.

—Sicuro, Casche…. Ma se non mi date voi una mano…

—Ti cascherà l'asino, lo capisco.

—Ah, bravo! Cascherà…. Ci sono; Cascherano, Grazie tante! Messer lo conte di Cascherano,—soggiunse allora mastro Bernardo, volgendosi a messer Pietro e sprofondandosi fino a terra,—la grazia vostra!

—Per chi vi piglia costui?—chiese il Picchiasodo a messer Pietro, mentre quell'altro si allontanava.

—Lascialo dire;—rispose messer Pietro.—Egli è venuto quassù per farci cantare, ed ha cantato lui per tutti, il baggèo!—

CAPITOLO II.

Dove messer Giacomo Pico impara che il torto è degli assenti.

Stropicciandosi le mani in segno di contentezza, tronfio, invanito di quel colloquio, in cui aveva fatto prova di tanta penetrazione, mastro Bernardo scese le scale; indi, comandato al ragazzo che stringesse le cinghie alle cavalcature dei due forastieri, e alla Rosa che pigliasse in cantina un fiaschetto di malvasia, entrò in cucina, dove stava il nuovo venuto impaziente ad attenderlo.

Era costui un giovinotto di forse venticinque anni, che tale lo dinotava l'aspetto, fiorente della prima virilità, alto della persona, di membra robusto e di belle sembianze, quantunque infoscate un tal poco dalla torbida guardatura degli occhi cilestri e dallo aggrovigliarsi della chioma rossigna in ciocche scompigliate sul fronte. Semplice era la foggia del vestire; portava calze di lana divisata e scarpe di cuoio ruvido, alla guisa dei montanari; in capo aveva un'umil berretta e sulle spalle una cappa di bigello, alla borghigiana; ma il farsetto di cordovano e l'impugnatura d'una brava misericordia, che facean capolino dallo sparato, insieme colla punta d'una spada che usciva fuori ad una rispettabile lunghezza dal lembo della cappa, lo chiarivano un uomo d'armi, per allora fuor di servizio, ma non al tutto fuori d'arnese.

Il suo nome era Giacomo Pico, figliuol d'Antonio, della terra di Bardineto. Lo si chiamava dimesticamente messer Giacomino, sendo egli venuto in tenera età alla corte del Marchese; ancora lo dicevano il Bardineto, senz'altro, dal suo luogo natale, posto a forse dodici miglia di là, in mezzo ai monti, presso le scaturigini del Bormida. Bardineto apparteneva ai signori Del Carretto, e ad essi molto affezionata era la famiglia dei Pico; singolarmente caro a Galeotto il loro ultimo rampollo, che dapprima eragli stato donzello, indi compagno nelle aspre fatiche di guerra e salvator della vita. Però Galeotto lo teneva sempre al suo fianco, più amico assai che vassallo, e lo adoperava in ogni faccenda che richiedesse fedeltà e segretezza a tutta prova.

Ragioni queste perchè mastro Bernardo avesse a fargli servitù. Ma, oltrechè non gli sapea menar buono quel suo fare fantastico e il non essersi mai seduto davanti a' suoi fiaschi, quel giorno a mastro Bernardo pareva di aver piantato l'insegna accanto a più gran personaggio che non fosse messer Giacomo Pico.

Epperò, mentre questi, vedutolo entrare in cucina, si muoveva ansioso verso di lui, quel vanaglorioso d'un oste gli fece a mala pena di berretta.

—Ve ne prego messer Giacomino, spicciatevi;—soggiunse egli tosto, dopo quell'atto un po' sbrigativo;—ho da offrire il bicchier della staffa a due cavalieri.

—Erano da te!—sclamò il Bardineto.—Ed io che li cerco da un'ora!….

—Eh, eh, capisco;—ripigliò mastro Bernardo, con aria di chi sa e vuol lasciarsi scorgere;—il nostro magnifico Marchese li aspetterà.

—Se li aspetterà! Lo credo io! Sono annunciati certamente da due ore. Io era appunto in volta verso Calvisio,… A mala pena arrivato stanotte!…

—A proposito, siete stato in viaggio….

—E lungo; e ho avuto appena il tempo di far la mia relazione al Marchese, ch'egli mi ha mandato fino a Pia per vedere la nuova compagnia di balestrieri che ha presa in condotta testè. Ero salito a Calvisio per dare un'occhiata alla guardia; torno al passo della fiumana e mi dicono che due cavalieri sono discesi verso Castelfranco, avviati pel Borgo. Mi metto sulle loro pedate e non li trovo; alla porta di San Biagio nessuno li ha visti. Rifò la strada, piglio lingua, e sento che si erano fermati all'Altino. Che è ciò? A due passi dal borgo, perchè smontano essi da te?

—Eh, l'ho detto ancor io; perchè smontare da me? Ma che volete, messer Giacomino? Avran veduto l'insegna: Fermatavi all'Altino, c'è buona l'accoglienza e meglio il vino. E l'han trovato buono, credetemi, quantunque non l'abbiate mai assaggiato. Dopo tutto, o che? dovevano presentarsi al castello a stomaco digiuno, come due pellegrini affamati?

—Che uomini sono?—dimandò il Bardineto, per metter fine a quella intemerata dell'oste.

—Non lo indovinate?

—Eh, forse; due genovesi, dei soliti, che vengono qua, sotto colore d'ambasceria, per curiosare, scoprir terreno e macchinar tradimenti in casa nostra.

—Che!—sclamò mastro Bernardo, facendo le cocche colle dita,—Più su sta monna Luna!

—Come? e che altro hanno ad essere?

—Due pezzi grossi, vi dico io. Cioè, no, dico male; uno grosso soltanto di corporatura, e gli ha da essere lo scudiere, o alcun che di somigliante; ma l'altro….

—L'altro?

—Eh, un uomo per la quale, che è aspettato dal Marchese e gli farà molto piacere il vederlo capitare al castello.

—Non genovese?—ripicchiò il Bardineto, stringendosi nelle spalle.

—Non genovese; piemontese.

—Capitano di ventura?

—Altro ci è; signore di terre e castella. Ma scusatemi, messer Giacomino; e' son qua che scendono le scale.—

E senza aspettar altro, l'ostiere si mosse, per andare incontro a' suoi ospiti.

IL Bardineto, rimasto solo in cucina, si accostò alla finestra, che dava sull'aia, ov'erano già i due cavalli, tenuti per le redini dal Maso, e vide poco stante i due forastieri che salivano in arcione.

Uno, il più vecchio e il più tarchiato, gli parve per l'appunto uno scudiere, o un famiglio. L'altro, era un bell'uomo tra i trenta e i quaranta, biondo di capegli, dal volto un po' arsiccio, ma bianco di carnagione, di leggiadre fattezze e di nobilissimo aspetto. Anche a non voler badare alla sua cappa di scarlatto verde foderata di vaio e al suo cavallo palafreno, la cui gualdrappa e gli altri arnesi erano filettati d'argento, si capiva ch'egli era un uomo di grande affare, e che mastro Bernardo aveva ragione a notare in lui un'ariona da principe.

—Chi diamine sarà costui?—andava almanaccando tra sè il Bardineto.—Non genovese, perciò non nemico; capitano di ventura nemmanco. Fosse uno del parentado! Ma io li conosco tutti, i signori della lega, e questi mi giunge affatto nuovo alla vista.

Intanto, mastro Bernardo s'era fatto innanzi col suo fiaschetto di vin prelibato e profferiva ai due viaggiatori il bicchier della staffa.

—Grazie!—disse il più giovine accettando il bicchiere e rendendolo dopo avervi a mala pena intinte le labbra.

Non così il Picchiasodo, che, recatosi il bicchiere all'altezza degli occhi, ne contemplò amorosamente il liquido topazio, indi lo accostò alle labbra, ne assaporò un sorso, tornò da capo a guardare, mentre, alla maniera de' buongustai, batteva la lingua contro il palato, e finalmente, arrovesciando gli occhi in segno di beatitudine, mandò giù l'abbeverato e succiò l'orlo del bicchiere per giunta.

—Se tu cominciavi da questo,—diss'egli all'oste nell'atto di restituire il bicchiere,—non si andava più via dall'Altino.

—Eh eh!—rispose mastro Bernardo ridendo.—Per altro, a messer lo conte non è piaciuto.

—A me?—dimandò messer Pietro, vedendo che l'oste accennava a lui.—Anzi, gli è nettare, non vino; ma con quest'amicone non bisogna far troppo a fidanza.

—Con vostra licenza, messere, berrò io le vostre bellezze. Alla salute degli sposi.

E mastro Bernardo, contento di metter le labbra al bicchiere del suo ospite, tracannò il rimanente d'un fiato.

Messer Pietro sorrise, salutò e spinse il cavallo fuori del portone. Il Picchiasodo spronò a sua volta, e lo seguì sulla strada.

—Costui vi vuol vedovo, messer Pietro;—gli disse frattanto a mezza voce.—Povera madonna Bartolomea!—

A mala pena furono sulla strada i due viaggiatori, il Bardineto si serrò addosso a mastro Bernardo.

—E adesso mi dirai…. Prima di tutto, che andavi tu novellando di sposi?

—Non avete capito?—disse l'ostiere, mentre, levato di pugno al Maso il fiaschetto prezioso, lo andava a riporre nell'armadio.—C'è un matrimonio in aria e quello è lo sposo; il magnifico conte di Cascherano, che si è degnato, bontà sua….

—Sposo! di chi?—interruppe il Bardineto, facendosi bianco nel viso come un cencio lavato.

—Eh, non già di madonna Bannina, nè della mia Rosa, che hanno i loro uomini vivi e sani!

—Ma, alla croce di Dio, parla; di chi?

—Di madonna Nicolosina, perdinci! O che, venite dal mondo della luna?—

A messer Giacomo Pico venian meno le forze, e si offuscava la vista.

—Impossibile!—esclamò egli, con voce soffocata dalla commozione.—Impossibile!

—E perchè mo'? A San Nicola fa i diecisette, quantunque, a dir vero, mi paia che la sia nata ier l'altro. Ma, pur troppo, i giorni passano e gli anni van di conserva. O che? l'avrebbe da starsene a spulciare il gatto? È bella, è savia, è di nobil casato; e qui, con nostra buona pace, non c'è nessuno per lei. Al Fregoso, quantunque doge, non l'hanno voluta mostrare nemmeno dal buco della toppa; e' bisognava dunque far capo più lunge; a Cascherano, verbi grazia. Cascherano! bel nome! E lo sposo n'ha un altro, per giunta alla derrata; ma ora e' non mi vien sulle dita.—

Il Bardineto sudava freddo, e per un tratto non aveva potuto aprir bocca.

—Ma come sai tutto ciò, che io ignoro affatto?….

—Eh, lo capisco? se voi andate a fare l'ambasciatore! Da quanto tempo mancate?

—Da due settimane; cioè a dire, da quando è partito l'ultimo oratore dei Genovesi, messere Ambrosio Senarega. Sono stato a Cosseria, a Millesimo, a Cortemiglia, a Ponzone; ho dato infine una scorsa a tutte le castella delle Langhe.

—Orbene, e in questo mezzo s'è accozzato il negozio. Io sono stato il primo ad averne fumo, in paese. Sapete pure, messer Giacomino; madonna Bannina, che Iddio la prosperi sempre, n'ha fatto un cenno alla Gilda. La Gilda l'ha rifischiato a sua zia; e sua zia, che è poi nostra moglie, indegnamente, l'ha rapportato a me, com'era debito suo. Ma ora che ci penso, badate, gli era un segreto da tener sotto chiave, e voi da me non sapete nulla, intendiamoci; io non ho fiatato, acqua in bocca! me lo promettete?—

Messer Giacomo Pico non gli dava più retta; uscito in sull'aia, aveva infilato il portone, e via come una saetta.

—Ehi, dico, messer Giacomino, vi prego, non mi fate pasticci!—andava gridando l'ostiere.—Che diamine! ci ha il fuoco alle calcagna. E perchè mo'? Quella notizia l'ha messo fuori dei gangheri. Egli forse…. cotto di madonna Nicolosina? Eh, non mi farebbe meraviglia; la donna è un certo guaio! Quando t'ha fatto perdere il lume degli occhi, non badi più se la è imperatrice o villana. Orvia, se la è così, un bel malanno l'ho fatto! Ma già, maledetta lingua! La Rosa me lo dice spesso, che non so tenermela a freno! E poi? che male c'è? Tanto e tanto s'aveva a sapere. Il Cascherano non è forse arrivato? E come l'avranno a battezzare, quando capiterà al castello e farà il su' inchino alla sposa? Andiamo, via; delle mie ragazzate, non è questa la peggio.—

Con questo po' di sollievo, mastro Bernardo si ritirò nella sua tenda, dove noi lo lasceremo ad aspettare gli avventori quotidiani, men nobili o meno degni della nostra attenzione.

Il Bardineto, con quel passo che ho detto, s'era avviato verso il Borgo. Giunto alla porta di san Biagio, varcò il ponte levatoio gittato sul torrente dell'Aquila, ed entrò sotto l'androne, dov'era scolpito in marmo il carretto, tirato da due leoni aggiogati, con suvvi lo scudo listato a fascie diagonali d'argento in campo rosso.

Per la prima volta, guardando quella insegna de' suoi signori, l'occhiata fu torva. Egli per fermo non se ne addiede, non n'ebbe coscienza; ma fu torva la sua guardatura, piena di stizza, se non forse di mal talento e di rabbia.

Ah! diceva quell'occhiata; sposa Nicolosina ad un altro! Era forse quella la ricompensa che egli si riprometteva de' suoi fedeli servigi? Non già che l'attendesse; non già che l'avesse per suo certo diritto! Ma egli, adolescente, quasi fanciullo, era venuto alla corte del Finaro, come donzello del marchese Galeotto, e da lui tenuto in conto di figlio. Vassalli erano i Pico, ma pur sempre i primi di Bardineto; questo sentivano di sè medesimi, e l'onesta alterezza del casato erasi accresciuta nell'animo del giovinetto, per quel suo lungo vivere in corte, dimestico ai grandi, per modo da parergli non pure di essere uno dei loro, ma di non essere stato mai altro. E un bel giorno i vincoli della consuetudine s'erano ristretti anche più, per aver egli campato il marchese dalle mani dei genovesi, che in uno scontro di pochi anni addietro già l'avean posto a mal partito, sui monti alle spalle di Albenga.

E al suo ritorno in corte, che era egli mai avvenuto? Lui audacissimo tra i migliori del Finaro, lui salvator suo e primo sostegno della sua casa, celebrava il marchese; però, tra le lodi e i plausi universali, madonna Bannina, la virtuosa castellana, o la sua lieta figliuolanza, gli aveano fatto gran festa. Nicolosina, l'ultima nata, ricciutella innocente, gli si era sospesa al collo e gli aveva coperto di baci il volto abbronzato dal sole dei campi. Bambinesco era l'atto, e naturale in quel punto; pure l'aveva commosso più che ogni altra dimostrazione d'affetto e di gratitudine de' suoi signori più innoltrati negli anni.

Nè quelle infantili carezze erano state le sole. Da quel dì, la bionda fanciullina non ebbe amico più caro del suo Giacomo; lui aspettava ansiosa; lui sgridava, se tardo a giungere per aver parte a' suoi giuochi; lui abbracciava; a lui scompigliava con vezzo fanciullesco le chiome, più che non avessero fatto le aure dell'Appennino; e i parenti a ridere, a compiacersi di quelle tenerezze, in cui non pure vedevano, ma eziandio caldeggiavano una testimonianza del loro animo grato e del loro affetto paterno per lui.

Senonchè, un giorno (e' doveva pur giungere!) la fanciulla non gli era più corsa incontro come soleva; non gli si era gettata al collo, non lo aveva più baciato; nemmanco gli aveva profferta con soave atto la fronte, come usava co' suoi genitori. Lo aveva in quella vece accolto con una certa gravità impacciata, che la faceva due cotanti più bella; lo aveva salutato con un «buon dì, messer Giacomo» profferito a mezza voce, ed aveva arrossito dal sommo della fronte fino alla radice del collo.

Ed egli si era inchinato, come solea fare colla madre di lei; nè aveva trovato cosa a ridire intorno alla novità delle sue accoglienze; ma quel riguardoso saluto e quel rossore, che tradiva i casti segreti della pubertà nascente, gli avevano recato arcane commozioni nel sangue, dischiuso un mondo ignoto allo spirito.

Da quel giorno aveva pensato; più del bisognevole e del ragionevole aveva pensato al nuovo aspetto di quella fanciulla, de' cui baci infantili erano calde tuttavia le sue guance. E una gran sete di quei baci improvvisamente cessati gli riardeva le labbra. Ma non erano più i baci della fanciulla, non erano più i casti baci fraterni, che egli ripensava in quel punto.

Da quel giorno si fece più grave; da quel giorno il suo volto, gli atti, i pensieri, i modi del suo vivere, assunsero quel non so che di bizzarro e di fantastico, donde la gente volgare toglieva indizio di alterigia, non dicevole punto al suo umile stato di vassallo. Presso i famigliari del marchese dicevasi in quella vece che la guerra avea fatto del giovine un uomo, del donzello un capitano. Ed uomo e capitano, messer Giacomo Pico era più bambino che mai. Del suo futuro non aveva un concetto, un proponimento formato; viveva alla giornata; lieto quando gli fosse dato vedere il suo conforto, triste ed uggioso quando ne fosse lontano.

La corte dei marchesi del Finaro aveva nelle sue consuetudini alcun che della vita patriarcale. Però, in quella beata intrinsichezza della famiglia, le occasioni di vedere Nicolosina e di starle accanto eran molte e frequenti. Per altro, erano anche in buon dato le occasioni di lontananza. Il marchese Galeotto, pari in cotesto a tutti gli animi grandi, quando aveva messo l'amor suo in alcune, non conosceva misura. E grato al Bardineto della conservata libertà, fors'anco della vita, in lui aveva riposto ogni sua fede, con lui si consigliava in ogni più grave bisogna, lui, come suo messo fidato, o come un altro sè stesso, mandava di sovente d'una in altra villata a recarvi i suoi ordini, a chieder ragguaglio d'ogni novità che occorresse. Conosciuto dovunque come il più caro amico del marchese, messer Giacomino (così dimesticamente lo chiamavano i terrazzani) era ossequiato ed obbedito da tutti.

Così viveva il Bardineto, senza por mente al domani. Amava, senza proporsi una meta, senza sperar nulla di certo; amava, ecco tutto, e fidava alle onde tranquille il fragile schifo della sua giovanile fortuna. Però, quando Giano Fregoso, fattosi pur dianzi signore e doge di Genova, ebbe mandato Bartolomeo Cecere a dimandar la mano di Nicolosina, per la prima volta il povero Bardineto tremò, sentì come una mano di ferro che gli agguantasse il cuore. E non cessò lo spasimo suo, fino a tanto non ebbe udite dal labbro del marchese queste consolanti parole:

—«A Giano, prestantissimo uomo, rendo, o messere, le grazie che per me si posson maggiori, che in ciò liberale si mostra ed amicissimo mio. Senonchè, la figliuola mia è troppo giovine per andarne a marito, e in cosiffatti negozi occorre maturità di consiglio. Ben so a qual patto vecchi nemici possano raccostarsi; però consentite, messere, che di cotesto io m'abbia a dare più lunga e meditata risposta in iscritto».

Così era bellamente pagato il Fregoso. Ma egli, inteso l'animo dell'avversario, tosto aveva adunato il Consiglio e messo mano a più saldi argomenti. E poco dopo l'ambasciata del Cecere, andavano alla corte di Galeotto, oratori non più di Giano Fregoso, privato cittadino, bensì del Doge e del Consiglio, un Giacomo di Leone e un Galeazzo Pinello.

—«Marchese Galeotto,—avean detto costoro,—i Genovesi, quanto è in poter loro, detestano le inimicizie e meglio in pace coi vicini amano vivere, che in guerra. Esortano te a volere il medesimo, e a mostrarne il desiderio, ritenendo ciò che è tuo, restituendo l'altrui. Possiedi Castelfranco, già da essi murato e ad essi appartenente quasi per gius di dominio. Sai una terza parte del Finaro doversi ai Genovesi, e come soggetta e come venduta. Sai esser Giustenice loro dominio del pari. Tutto ciò, dunque, ripetono essi da te, e ti pregano ad amar meglio di concederlo pacificamente, anzichè di doverlo rendere per forza di guerra. Inoltre, sarebbe fuori dalle consuetudini d'amicizia e di pace che presso te rimanesse ospite più a lungo messer Barnaba Adorno, già doge, oggi nimico della Repubblica. A te il vedere che cosa ti convenga di fare; se mandarlo a Genova, o voler guerra da lei».

Vivaddio, era questo un alzar la visiera, e di nozze non si facea più discorso. Giacomo Pico aveva dato un respiro di consolazione. Non era uno sposo temuto, quegli che minacciava la guerra.

E l'aveva di grand'animo accettata il marchese.

—«Io ben so che me la farete,—aveva egli risposto,—se ciò che dite pensate, e se più oltre su voi comanderanno i Fregosi. Così fosse la puntaglia soltanto tra essi e me, che agevolmente la condurrei a buon termine! Invero, aver guerra co' Genovesi mi duole; ma sappiatelo, messeri; avrei caro il morire, anzichè far cosa veruna contro la dignità del mio nome, e l'onore di buon cavaliere. Signore di Genova era Filippo Maria Visconti, per propria dedizione dei cittadini; a lui lecito di disporre a sua posta d'ogni possedimento di Genova. Egli mi donò Castelfranco e Giustenice; nè di ciò, e molto meno della terza parte del Finaro, mi tengo io debitore ai Genovesi. Credete il contrario? Orbene, facciamo giudice del piato l'imperator de' Romani, o il re di Francia, o l'Università degli studi di Bologna, o quella di Pavia; venga da principe, o da collegio di giureconsulti, il giudizio sarà legge per me. Niente farò io di Barnaba Adorno; intorno a ciò, arrossisco di avervi a rispondere, più che voi di avermene a chiedere. Ch'io manchi alla mia fede! Ch'io tradisca un prestantissimo uomo, qua venuto a rifugio come in terra neutrale, e lo dia in mano a' suoi nemici! Non lo sperate da me. Guerra minacciate; e sia; il cielo provvederà. Voi questo rispondete al Consiglio: prima verrà meno a Galeotto ogni altra cosa che l'animo.»—

Nobili parole, sebbene un genovese d'allora avrebbe potuto trovarci alcuna cosa a ridire. Ben s'era commessa la Repubblica alla signorìa del Visconti, ma per essere tutelata dalle intestine discordie, non tradita a' suoi nemici; infine, scosso da dodici anni il giogo di lui, doveva ripetere tutti i suoi diritti sugli altri, nè riconoscere donazioni e larghezze del suo a coloro che, come appunto il marchese del Finaro, si adoperavano sempre a' suoi danni. Ma di ciò non occorre dir altro; che ad entrare nel pro e nel contro della ragion di stato d'allora, si dovrebbe dare ad ognuno la sua parte di torto. Va in quella voce notato che alla corte del marchese Galeotto piacque la fiera risposta, e più assai che ad ogni altro, a Giacomo Pico, il quale intravvedeva nella prossima lotta occasione di gloria.

Eppure, come già conosce il lettore, non la era anche finita colle ambasciate. Dopo i due oratori della Repubblica, erano venuti Ladislao Guinizzo e Francesco Caito, inviati di Giano, a chieder da capo Nicolosina in moglie. Della dote mettevano questo patto: mandasse a Genova messer Barnaba Adorno; da lui i Fregosi, come da nimico prigione, avrebbero pigliato il riscatto di diecimila genovini d'oro, che sarebbero andati in dote alla sposa.

A cosiffatta proposta, più che alla ostinatezza di Giano, si sdegnò grandemente il marchese.

—Mi turba la dimanda,—rispose,—e peggio ancora, mi muove lo stomaco. Tristo è Giano e tristo mi crede. A tal uomo, e di tali nefandezze capace, io non sarei per concedere mai la figliuola mia, anco se molto maggior dote le costituisse del suo.—

Così avevano avuto fine le pratiche celate presso il marchese. Ma ben altro tentavano ancora i Fregosi presso il parentado di lui, per rimuovere i Carretti delle Langhe dal proposito di aiutare il loro consanguineo. Il quale, di certo, per assegnamento fatto su questi, più che per fidanza vera nelle sue forze, mostrava animo tanto deliberato a resistere.

Era in quel tempo tra tutti i signori Del Carretto come un patto d'alleanza, per cui, se ad uno di loro si recasse alcun danno, a tutti si reputasse ugualmente recato, e tutti avessero a mettersi in armi per vendicare i torti di un solo. L'antica divisione dell'eredità di Enrico Guercio in tre parti e le altre divisioni avvenute in processo di tempo, che avevano di soverchio sminuzzate le forze di que' discendenti d'Aleramo, chiarivano di per sè necessario quel patto di famiglia. Dicevasi la lega dei Carretti; e invero, se fosse stata così salda nel fatto come nella mente de' suoi fondatori, grandezza d'animo dei collegati, fede provata dei popoli loro, copia di attinenze e asprezza di luoghi, avrebbero potuto renderla formidabile alle difese.

Congregavasi la lega nella torre detta di Oddonino, presso la corte di Millesimo. Capitano della lega era in quel mezzo il magnifico messere Francesco, signor di Novelli, tra i Carretti d'allora il più innanzi nella prudenza e negli anni. A lui n'andò Veneroso Doria, amico e fautore dei Fregosi, come tutti gli altri del suo casato, e ottenuta la presenza dei collegati, espose, in nome di tutti i Doria, la sua ambasciata. Rammemorata l'antica amicizia delle due genti e i maritaggi che tratto tratto erano sopraggiunti ad unirle in parentado, non dubitò di noverare alcune recenti e vicendevoli offese. Colpevoli i Doria di essere stati primi a molestare i Carretti; colpevoli questi, nelle persone di due dei loro, Galeotto del Finaro e Giorgio di Zuccarello, di aver mosso guerra e fatto devastazioni gravissime nella valle di Oneglia, dominio amplissimo e rispettato dei Doria. Questi, per altro, memori dei profferti appigli, aver comportato con animo grande l'offesa; non così poter sofferire che Giorgio e Galeotto s'ostinassero a tener come proprie le castella occupate. La Lega, se aveva in alcun pregio l'amicizia dei Doria, comandasse la restituzione del maltolto; se no, sarebbero stati costretti i Doria a procacciar l'utile proprio e dare orecchio a' nemici dei Carretti, che fino a quel punto non aveano voluto ascoltare.

Ponderavano i Carretti, siccome era naturale che facessero, le gravi ragioni esposte da messer Veneroso. E Francesco, il vecchio capitano della lega, avea già proposto di rispondere: niente amar meglio i Carretti che vivere in pace coi Doria; non doversi ascrivere l'invasione di quel d'Oneglia, nè a Galeotto del Finaro, nè a Giorgio di Zuccarello, bensì ad espresso comando del signor di Milano, che a tutti soprastava. Per altro, a dimostrar meglio l'animo loro alieno da ogni litigio, come da ogni offesa ad amici e vicini, avrebbero esplorata la mente del Visconti e fatto il poter loro perchè le castella occupate nella valle d'Oneglia fossero restituite ai loro signori.

Senonchè Galeotto, il quale scorgeva nella intromissione dei Doria un artifizio del suo nemico inteso a sbigottirlo, volle si rispondesse in altra maniera. Ricordino i Doria, disse egli, ricordino quanto abbiano sovvenuto di consiglio e d'armi i Fregosi, allorquando Battista e Spinetta, di questa gente, vennero sulla Pietra, per assediarmi e impadronirsi di me. E il loro intento avrebbero essi raggiunto, se l'invincibile Filippo Maria Visconti non avesse mandato in mio soccorso messer Guido Torello, con grossa mano di cavalli e di fanti. Ricordino i Doria come abbiano essi favoreggiato i Fregosi, nella condotta di quel Baldazzo che lungamente guerreggiò il Finaro, e mancò poco non mi desse in balìa de' miei giurati nemici. Mai furono rette le intenzioni, mai schietti i diportamenti dei Doria verso di noi; smettano dunque di ricordare l'antica benevolenza; ricordino piuttosto l'antichissimo odio e il mal talento loro contro la nostra casata. Nulla sperate da noi; date pure liberamente ascolto ai nemici; cotesto vi tornerà per fermo più agevole e caro. Che cosa si stia macchinando tra voi, ci è noto, o messeri. Ma tutto non v'andrà, come pensate, a seconda; me prima torrete di vita che di animo.

In quella guisa fu risposto ai Genovesi. Ma eglino, o fosse per guadagnar tempo, o perchè sperassero di smuovere dalla lega alcuno nei Carretti, o finalmente perchè in tutto quel viavai d'ambasciatori mirassero a pigliar cognizione dei luoghi e dello stato degli animi, non si tennero paghi di quella risposta dettata dal marchese Galeotto, e vollero averne l'intiero.

Però mandarono in volta a tutte le famiglie dei Carretti un altro oratore, accortissimo uomo, che fu messere Ambrogio Senarega. Doveva egli apertamente ricordare i vecchi diritti di Genova sulla terza parte del Finaro, su Castelfranco e sulla terra di Giustenice, posta ai confini occidentali del marchesato; chiedere che Giustenice e Castelfranco fossero restituiti, e per la terza parte del Finaro si riconoscesse Galeotto feudatario della repubblica; a ciò volesse la lega persuaderlo, o, dove questi si ostinasse nel niego, abbandonar le sue parti. Certamente, poi, doveva in privati colloqui scandagliare i propositi e tentar la fede di tutti; che certo, e per antiche ruggini e per essere eglino in troppi, non dovevano vivere in così calda amicizia e comunanza d'interessi, come il fatto della lega mostrava. Del resto, provvedessero, come stimavano meglio, all'utile loro; ma ricordassero che Filippo Maria Visconti, protettore e amico a Galeotto era morto, e Milano rivendicata in libertà non avrebbe spalleggiato i nemici della repubblica genovese.

Anche in quella occasione la risposta della lega fu data da messer Francesco di Novelli. A difesa di Galeotto si ricordava la donazione di Filippo Maria; a discolpa di tutti i signori della lega si ripeteva non aver essi altro desiderio che di vivere in pace e in amicizia con Genova; del resto, avrebbero combattuto, se ella a ciò li astringeva, e resistito con ogni lor possa; che bene dovevano essi andare in soccorso di Galeotto, a cui erano stretti da vincoli d'alleanza e di sangue.

Queste le parole; ma i fatti voleano esser diversi. La morte di Filippo Maria Visconti improvvisamente avvenuta nell'agosto, e i torbidi che n'eran seguiti in Lombardia, d'onde più speravano aiuto in quel loro bisogno, avevano scosso la baldanza dei collegati marchesi. Bene avevano mandato lettere e messaggi a tutti i signori circonvicini per chieder consiglio e procacciarsi amicizie; ma in pari tempo (e qui era da vedersi il frutto delle pratiche di Ambrogio Senarega) disegnavano di mandare un oratore a Genova, per rabbonire i Fregosi.

Ora, vedete bel caso, quest'oratore fu bensì uno di loro, ma figliuolo a Marco, signore di Osiglia, che tra tutti i collegati era il meno amico a Galeotto e il più tiepido nei consigli di guerra.

Questi, che avea nome Abate, recatosi a Genova, mentre il Senarega scendeva da Osiglia al Finaro per abboccarsi con Galeotto e far le viste di raccomandargli la pace, mostrò ai Genovesi esser tra loro discordi i signori della lega. Rammentò come suo padre Marco e un suo cugino Gherardo di Santo Stefano, discendessero da quei due, Emanuele ed Aleramo, che avevano venduto la loro terza parte del Finaro, e come, nell'atto di volerla ricuperare, molti anni addietro, fossero stati presi ed imprigionati dalla madre di Galeotto, ed avessero perduto per giunta Calizzano; riandò tutte le vecchie ragioni d'inimicizia che covavano in seno a quel parentado; lasciò intendere come i Carretti avrebbero potuto, parte voltarsi contro, parte non dare al congiunto quel valido aiuto che egli si prometteva da essi; una sola cosa dimandò: che, frutto dei mutati consigli fosse a Marco suo padre la ricuperazione del dominio perduto.

Non è a dire se i Fregosi accogliessero di buon animo le confidenze di Marco e del figliuol suo, e come gli fossero larghi di promesse. L'orso di Castel Gavone era ancora da prendere; si poteva impegnarne senza tanti riguardi la pelle.

Queste cose, siccome è agevole argomentare, ignorava Galeotto. E frattanto, poichè egli, messo al punto di dover provvedere alle sue difese, non poteva muoversi dal marchesato, e gli premeva in pari tempo di saper l'esito dell'ambasceria del figliuolo di Marco ai Genovesi, aveva disegnato di spedire Giacomo Pico alla torre di Oddonino e alle altre castella de' principali tra' suoi consanguinei. Nè a ciò si ristringeva la commissione del Pico. Egli, udito delle pratiche di Abate presso i Fregosi e di ciò che il capitano della lega, messer Francesco di Novelli, avesse deliberato di fare, doveva altresì, procedendo di corte in corte, raccogliendo i pareri e indagando gli animi di tutti, giungere fino alle rive del Tanaro, per recare un messaggio a Tommaso di Bagnasco.

Era questo messer Tommaso un onorevole cavaliere, della casata dei marchesi di Ceva. Quella gente erano guelfi, laddove i Carretti erano ghibellini; ma, oltre che i tempi delle acerbe nimicizie partigiane erano trascorsi e più assai importava a quelle schiatte marchionali vivere in pace tra loro e assodare la loro signoria, Tommaso di Bagnasco aveva sempre dimostrato a Galeotto la più schietta amicizia e s'era in parecchie occasioni profferto all'amico, per servirlo, come dicevasi allora, di coppa e di coltello.

E messer Giacomo Pico era andato, con che animo sel pensi il lettore. Si allontanava un tratto da madonna Nicolosina, ma, a ben guardare la sostanza delle cose, per avvicinarsi di più alla meta de' suoi desiderii. Diffatti, se la guerra inevitabile coi Genovesi mandava già a monte un temuto matrimonio, quella importantissima ambasceria commessa a lui dal marchese, ristringeva i vincoli dell'antica dimestichezza, aggiungeva servizio a servizio, gratitudine a gratitudine, dava esca e fondamento a più salde speranze. Al suo ritorno, poi, utile al suo signore per delicatissimi negoziati, come gli era stato caro per consuetudine antica e per aiuti personali, il Bardineto avrebbe operato tali miracoli di valore da farsi armar cavaliere sul campo e da meritare tal grazia appo i signori del Finaro, che a lui si sarebbe conceduta Nicolosina, o a nessuno, fosse pure conte, marchese, duca, o figlio di re.

Galeotto era ben lungi dal sospettare che nuova specie di fantasie girasse per lo capo al suo antico donzello. Ad altro aveva egli la mente: ai vassalli chiamati in armi da tutte le borgate; a due compagnie di balestieri che avea tolte in condotta; alle lancie che gli mancavano ancora; al suo tesoro, che di molto si sarebbe scemato, e senza speranza di ricattarsene, anco vincendo la prova. Imperocchè, quella era una guerra di difesa contro un potente nimico lontano, e, per arricchire delle sue spoglie, sarebbe bisognato stravincere. Ora, di stravincere, il marchese Galeotto non nutriva speranza per fermo. Bene lo assicurava Barnaba Adorno, con gli altri fuorusciti di Genova, ospiti suoi, che, tornata la fazione loro alla somma delle cose, largamente sarebbe stato compensato di ogni suo danno; ma quella fortuna era di là da venire e poteva anche restarsi per via; laddove la guerra soprastava al Finaro, e quella lì non c'era speranza pur troppo di allontanarla, nè sarebbe tornato a guadagno il tenerla in sospeso.

Ma, per tornare a Giacomo Pico, che le centomila necessità del racconto mi fanno ogni tanto lasciare in disparte, è da stringere in poche parole che egli aveva sollecitamente adempiute, in quel modo che poi si dirà, le incombenze a lui date, ed era di ritorno al Finaro due settimane dopo la sua partenza, e proprio in quel giorno 26 novembre dell'anno 1447. Il cuore gli battea forte nello avvicinarsi al castello. Aveva veduto per pochi istanti Nicolosina, e gli era parsa un'altra donna. Effetto naturale delle lontananze, anche brevi, da chi siamo usi vedere ogni giorno, che ci si sente subito come stranieri alla casa. E perchè poi? Perchè eravamo avvezzi a sapere ogni più lieve atto, ogni più riposto pensamento dei nostri famigliari, e la fragil catena di tutti quei preziosi nonnulla si è malamente spezzata.

Per altro, egli non era il momento di trattenersi su quelle frasche. Mandò giù la ingrata sensazione di quel primo incontro con lei; la ebbe anzi per una fisima del suo cervello ammalato, e si presentò al marchese, per dargli ragguaglio della sua legazione. Tra le altre cose, narrò come il figlio di Marco niente avesse ottenuto dai Fregosi, e nemmanco fosse tornato da Genova; donde per avventura, si poteva conchiudere che le speranze d'un accordo non fossero tuttavia dileguate.

Ma intorno a ciò il marchese Galeotto non istava più in forse e ben sapeva che cosa pensarne, cioè che i Genovesi si studiavano di tenergli a bada la lega, e frattanto si disponevano con ogni diligenza ad assalirlo, sperando di averlo atterrato, innanzi che gli altri si fossero mossi a difenderlo. Ora, che la lega del parentado fosse per aiutarlo, non dubitava il marchese; anche pur dianzi, al suo inviato, tutti ad una avevano fatto le più solenni promesse. Quanto a sè ed alle forze raccolte nel Finaro, egli si teneva abbastanza sicuro, da credere che i Genovesi avessero per quella volta fatto male i lor conti. Questo era l'essenziale. Piuttosto, gli doleva del Bagnasco, così largo promettitore in principio, e adesso, secondo gli riferiva Giacomo Pico, tanto irresoluto e difficile a muoversi per un verso o per l'altro. Ma forse, pensava Galeotto (e questo pensiero lo consolava un tratto) la guerra, incominciata che fosse, anche al lontano amico avrebbe sgranchiato le gambe.

E la guerra stava appunto per rompere. Là, a poche miglia discosto, sulla spiaggia di Vado, che è tra Noli e Savona, i Genovesi facevano gente. Da un momento all'altro, chi sa, potevano anche apparire i primi scorridori dell'esercito nemico sulle alture della Briga, e scendere in valle di Pia. Ed era questa la nuova, che dava a messer Giacomo Pico di Bardineto il marchese Galeotto, in ricambio alle molte del suo messaggiero.

Il quale, d'ambasciatore rifattosi uomo d'armi in un subito, uscì dal borgo, varcò il torrente dell'Aquila, e, per la via più spedita, che s'inerpicava alle spalle di Monticello, corse a vedere se fossero bene asserragliati i passi di monte Tola e Calvisio. E di là, attraversata la valle di Pia, già era sulle mosse per risalire fino a Verzi, dove stavano le prime vedette del Finaro, allorquando gli venne udito di que' due cavalieri, che, provenienti dalla parte d'Isasco e delle Magne (per dove correva la via maestra da Noli al marchesato) erano discesi al guado della fiumana di Pia.

Argomentando che fossero avviati al Finaro, era corso dietro a loro. Ma egli a piedi, e quei due a cavallo; nè aveva potuto raggiungerli. Giunto a Castelfranco, li seppe andati oltre alla Marina; giunto alla Marina, udì che aveano proseguito alla volta del Borgo. Andò al Borgo; nessuna novella di loro. Erano dunque rimasti a mezza strada.

Così, pigliando lingua da ogni banda, aveva trovati i due forestieri all'Altino e gli era occorso con mastro Bernardo quel dialogo maledetto, che gli aveva a dar fumo di tante novità dolorose. In due settimane di lontananza, madonna Nicolosina promessa ad un altro e quest'altro già arrivato per farla sua! Ma, già; hanno il torto gli assenti!

CAPITOLO III.

Dal quale apparisce che, in materia di consolazioni, Tommaso Sangonetto avrebbe potuto dar de' punti a Boezio.

Che torbidi pensieri menassero la ridda nel cervello di Giacomo Pico, è più facile argomentare che dire. Chiunque ha fieramente patito per amore, e per amore dispregiato o negletto, ci metta qualcosa dei suoi ricordi particolari e di ciò che ha veduto, udito, o letto degli altri; mescoli, aggiunga un pizzico d'acerbo, come l'hanno in gioventù i caratteri chiusi, e dopo i trent'anni ogni nato di donna, e s'avrà formato un concetto di quella stizza profonda in cui si crogiuolava lo spirito del nostro innamorato.

Sconvolto, rabbioso, tormentato da cento pazzi disegni, aveva preso a furia la strada del borgo ed era entrato per la porta di san Biagio. La meta della sua corsa doveva essere a tramontana, verso l'erta su cui torreggiava il castello; senonchè, giunto ad un crocicchio in mezzo all'abitato, parve essersi pentito; poichè, fatto un gesto di sdegno, svoltò rapidamente a sinistra e andò ad uscire da un'altra porta, che metteva sulla strada di Calice.

Pervenuto colà e data una torva occhiata su in alto, dove non gli era parso dicevole andare, varcò il ponte antichissimo che cavalcava il torrente. Quel ponte era di costruzione romana, e in ogni altro caso Giacomo Pico si sarebbe fermato, come spesso soleva, a contemplarne i poderosi piloni, che da forse millequattrocent'anni sfidavano l'ira del tempo e doveano sfidarla altri quattrocento di poi, per essere divelti in quella vece da un capriccio degli uomini. Ma allora, e' non li degnò neppur d'uno sguardo, e passato sull'altra sponda del Calice, si avviò verso la ripida costa della montagna, con passo concitato e gagliardo, come se volesse pigliare d'assalto la roccia dell'Aurera, che ne incoronava la cima.

Salire al castello non aveva voluto; dal mezzo del ponte, lo aveva anzi guardato a squarciasacco; tuttavia, non sapeva allontanarsene troppo, e, risalendo la costiera di rincontro, non rifiniva di guatare lassù, verso quel nido d'avvoltoi; che tale gli pareva in quel punto il castello de' suoi signori. E dire che quelle mura gli pareano pur dianzi un nido di colombe, e che egli, per tanti giorni lontano, tra le feste, le oneste accoglienze e gli svaghi naturali del viaggio, altro non aveva in mente, altro non desiderava che di tornare a quel nido! Così facilmente mutano aspetto le cose ai nostri occhi, secondo che porta l'amore o l'odio, la benevolenza o lo sdegno!

Il Bardineto si era fermato a metà dell'erta, colle braccia incrociate sul petto e lo sguardo teso verso il castello, probabilmente divisando nell'animo tutti i particolari dell'arrivo del Cascherano, le cortesie del suocero, gli amabili rossori della sposa e i lieti conversari della nobile brigata, allorquando gli venne udito poco lunge uno stormire di frasche, come per guizzar di ramarro attraverso i cespugli.

Si volse in soprassalto, confuso e scontento, a guisa di chi si trovi colto in mal punto. Diffatti, egli non era un ramarro, nè altro animale che striscia per terra, il turbatore della sua pensosa solitudine; e bene glielo avevano indicato per un suo simile certe risa sguaiate che accompagnavano il repentino fruscìo.

Quegli che rideva in tal guisa era un uomo di fresca età, sebbene il volto avvizzito e di fattezze non belle, nè brutte, ma semplicemente volgari, potesse farlo apparire più presso ai confini della maturità che non a quelli della beata giovinezza. Indossava un farsetto di ruvido cuoio; portava la berretta alla scapestrata, come a dire sulle ventitrè ore e tre quarti, un coltellaccio a fianco, e sulle spalle un archibugio, specie di balestro da caccia, per la cui canna si faceva scattare, a forza d'arco, una pallottola, od un sassolino.

Il Bardineto, che a prima giunta avea fatto quella faccia scontenta, si rabbonì, com'ebbe raffigurato quell'altro.

—Tommaso!—esclamò egli.—Sei tu?

—Io, non altri, perdiana! E tu probabilmente sei Giacomo Pico, marchese di Bardineto, e d'altre castella nel paese dei sogni?

—Sì, canzonami, lingua tabana! Così foss'io marchese, o conte, da senno:

—Eh, eh!—soggiunse l'altro ridendo.—Sulla strada ci sei. Co' marchesi e coi conti ci bazzichi la tua parte, e saprai che chi va col lupo…. A proposito di lupi, io ti facevo ancora di là dai monti.

—Son tornato stamane.

—Con che aria lo dici! e con che sospirone di rincalzo!—esclamò Tommaso, tirandosi indietro in atto di meraviglia.

Il Bardineto, che già s'era padroneggiato oltre le forze, si lasciò cadere sulla sporgenza d'un masso che ingombrava mezza la strada, e si nascose il volto tra le palme, tentando di soffocare un singhiozzo.

—Tommaso mio,—gridò egli,—così non fossi tornato!—

L'amico stette immobile un tratto a guardarlo; quindi posò l'archibugio e andò a sederglisi gravemente da lato.

—Ah, ah! c'è del grosso in aria!….—diss'egli.—Giacomo, vuoi tu dirmi che hai? ma chetati, perdiana! Non sei più un bambino da latte. Lascia pianger le donne, che piangono spesso, perchè piangono bene.

—Tu ridi!—notò amaramente il Bardineto crollando il capo e traendo un altro sospiro dal profondo del petto.

—Ma sì, rido;—rispose quell'altro, scaldandosi;—rido, come ha sempre riso Tommaso Sangonetto, e come riderà fino all'ultimo, perchè niente c'è al mondo che meriti d'esser pigliato sul sodo. E riderò di te, fino a tanto non m'avrai dimostrato…. Ma già, che potresti tu dirmi di nuovo! Io t'ho capito e da un pezzo; ella non t'ama.—

Il Bardineto trasaltò.

—Chi, ella? E come sai tu?

—Sicuro, non ho da saper nulla, io, quando tutti ne sanno e ne parlano! O dimmi, per chi ci hai pigliati? che un marito, od un padre, sia l'ultimo ad avvedersi, ed anco non si avveda mai più, concedo; ma gli altri… eh, via! dovrebbero esser ciechi dalla nascita. Come se, alla tua età, il non cercar donna alcuna tra le tue pari, il fuggire ogni occasione di sollazzo, lo starti poi sempre ristretto ai fianchi di quella gente lassù (c'intendiamo!), non fossero già segni bastanti! Ah, vedi? chini la fronte; capisci anche tu che tutto il paese ha fumo delle tue ambizioni?

—Tutto il paese!—ripetè Giacomo Pico sgomentito.—E adesso….

—E adesso… lo so anch'io; siamo in un ronco, e la è dura di dover dare indietro, al cospetto di tutti. Ma infine, non sarai tu il primo a cui è capitato il somigliante. Papi e imperatori, principi e capitani ti offre la storia in buon dato, che hanno dovuto, un giorno della lor vita, appender la voglia all'arpione. E non si son mica guastati il sangue per così poco; hanno aspettato la volta loro, ed hanno messa a più certo segno la mira. Impara anche tu; lascia di trarre in arcata e lontano; mira da vicino e traggi di punto in bianco; è buon colpo. Fa a modo mio, Giacomo, e non avrai sopraccapi. Sai donde vengo? Da caccia, ti dirà l'archibugio; ma, in fede mia, non ho tirato nemmanco a uno scricciolo. Vengo dalla Nena di Verezzi. Ma già, tu non la conosci, ed hai torto. Una forosetta, un bel tocco di donna, che non ha la compagna in tutto il marchesato, e cui non piace la sputi. Ruvida di modi, non nego, e manesca anzi che no; gli è il suo diletto. Le ho fatto una carezza e m'ha reso un urtone; son caduto ad arte, ella su me e siamo ruzzolati ambidue. Ah! ah! se per fortuna non ci tratteneva un letto di timo, si tombolava giù giù fino alle Arene candide.—

E fatto questo discorso, Tommaso Sangonetto si cacciò a ridere sgangheratamente. Aveva ragione, poichè doveva ridere per due.

—Tommaso!—esclamò il Bardineto, con accento di rimprovero.—E tu puoi mettere il capo in questi amorazzi volgari?

—Ma sì! ma sì!—rispose l'altro con impeto.—Del resto, che intendi tu per amorazzi volgari? Volgo è quantità; e nel numero, lo capisco, ci si trova del buono e del gramo. Ma sappi, chi la guarda in ogni penna non farà mai nido, come chi guarda ad ogni nuvolo non farà mai viaggio. Così dicono i vecchi. A che si tende, poi? che si vuole? Io vado senz'altro alla meta e per la strada più corta; magàri ci fosse un tragetto! A fartela breve, non vo' moccicose, nè superbiose, nè schizzinose, nè altrimenti noiose, le quali mi diano pastocchie, speranze ed erba trastulla.

—Ma quali donne son dunque le tue!

—Eh via, quali donne! Son tutte compagne. Lisciate, contigiate, razzimate, il più delle volte t'ingannano; le hai per fior di farina, e gran mercè se alla seconda stacciata riescono a darti cruschello. Quali donne! dirò io delle tue. Bada a me, Giacobino; le mie non hanno tante trappolerie; rustiche sono e male ad arnese; ma egli c'è questo di buono, che il vino non mente all'insegna e tu non resti gabbato nella bontà della merce.

—Sarà;—disse il Bardineto, per metter fine al discorso.

Ma il Sangonetto era in vena, e proseguiva.

—Eh, già, capisco; a te quella superba ha fatto dar volta al cervello.—

Giacomo Pico scosse il capo in atto d'impazienza.

—E non la perdi di vista, a quel che pare!—incalzò il Sangonetto.—Tu guardi sempre lassù.

—Tommaso!—proruppe scorrucciato quell'altro,—Per l'anima di….

—Orbene!—ripiccò Tommaso, alzando la voce a sua volta.—Chiama i morti dallo inferno e i santi del paradiso, fin che ti piace. Io ti amo, non so perchè; vedo che soffri; sono il tuo medico e ti curo a modo mio. Sapevo il tuo segreto; e metti pure che io non dovessi saperlo, nè altri; tu stesso me lo hai sciorinato poc'anzi. Ed ora, io non ti ho domandato che cosa tu sperassi per lo addietro da lei: ti domando in quella vece che cosa speri adesso, poi che ella ti ha richiamato alla tua condizione di vassallo.

—Non ella,—gridò il Bardineto,—non ella, il destino. Vedi, Sangonetto, tu ti sei giudicato da te. V'hanno cose che tu non intendi, nè verresti a capo d'intendere. Sì, io l'ho amata; ma potevo io forse operare diverso? Fanciullo mi han tratto al castello; è cresciuta sotto i miei occhi; la vedevo ogni giorno suo padre mi è debitor della vita; ella mi ha abbracciato…

—E baciato; storia antica!—interruppe Tommaso.—E tu, povero amico, hai pigliato i bisantini per oro di coppella. Bacio di bocca cuore non tocca, o non dovrebbe toccare. Comunque sia,—aggiunse il Sangonetto a mo' di correzione,—pensa che la era una bambina, o giù di lì. Ma più tardi, ti ha ella mai incuorato a sperare?

—Che ne so io? Si può egli mai dir d'una donna, anche alla vigilia di farla tua, o di perderla per sempre, ch'ella t'abbia incuorato ad amarla?

—Eh, per un pazzo, non ragioni poi male! A me, per esempio, la Nena di Verezzi, che non è una Luccrezia romana, non ha forse data la più rustica gomitata, proprio un momento prima di andar ruzzoloni? Ah, ah! Ma, torniamo al caso: tu se' in male acque, mio povero Giacomo! Ma che diamine, dico io, t'è saltato in mente di andar così in alto coi desiderii? Meglio sarebbe stato per te d'inerpicarti sull'ultima balza della Caprazoppa, là dalla parte del mare, per cogliervi i falchi nel nido. Vedi, siamo vassalli. Il notaio David, lo sputasentenze, nel cui studio ho passato i begli anni della mia giovinezza, te le dirà lui per filo e per segno, le nostre delizie. Censuarii, aldioni, coloni, servi della gleba, soggetti a taglia e soggetti a prestazione, la è tutta una beva, e non c'è altra differenza che del più o del meno.

—Io sono libero uomo!—ripiccò alteramente il Bardineto.

—Uhm!—disse Tommaso.—Libero! e chi lo è? Tu appartieni alla classe dei commendati. I tuoi vecchi erano boni homines, i quali, per custodire da ogni insidia di potenti il tranquillo possesso del loro lembo di terra, lo proffersero in podestà del signore, ne riconobbero da lui l'investitura e diventarono censuarii, come il primo quidam che da lui avesse ottenuto un poveretto a livello. La terra è serva, e chi v'ha stanza, del pari. Non c'è modo di uscirne; qui l'aria rende servi coloro che la respirano. Commendati, ligii, o censuarii (chiamali con quel nome che vorrai) e' son tutti soggetti a prestazioni e a tributi, e non hanno un'ora di bene. Una volta e' sono richiesti di riparare le fortificazioni del castello; un'altra volta di battere il grano e di trasportare il vino del padrone; un'altra sono chiamati per la guardia notturna; un'altra ancora per ferrare i cavalli. Un dì si paga censo di grani, di farina, di miele, di vino; un altro di capponi, un altro di pane, carni e prosciutti. Ottieni un'esenzione? Paghi. Un diritto di pascolo? Paghi. Un diritto di pesca? Paghi. Dimori in una borgata e ci capita il marchese colla sua masnada? Devi dargli l'alloggio e fargli la spesa, uno o più giorni dell'anno, o pagarne in moneta il riscatto. Il marchese marita sua figlia? C'è taglia sopra i vassalli. È preso in guerra? C'è taglia. Arma cavaliere il figliuolo, o cavalca fuori del marchesato? Taglia, sempre taglia. A te muore il padre? Paghi, per potergli succedere. Ti ammogli? Devi dare al marchese un presente, perchè consenta alle nozze, e riscattarti con una somma non lieve da un certo diritto fastidioso, ch'egli ha, di levar le primizie.—

Qui il Sangonetto si fermò per pigliar fiato e per vedere che senso facevano le sue argomentazioni sul suo malinconico sozio. Ma Giacomo Pico, o non gli desse retta, o non credesse di doverlo contraddire, taceva. E allora Tommaso, con quell'aria di trionfo che già s'è notata, proseguì l'invettiva.

—Questo è il caso nostro; eccoti la sorte serbata a noi, boni homines, uomini liberi, sotto la signoria dei nobili discendenti di Aleramo. Non entro in tutte le miserie, a gran pezza più gravi, dei servi della gleba a delle mani morte, taglieggiabili a misericordia, cioè, a dire, fin dove piace ai nostri magnifici signori di aggravare il summum jus del loro talento. E servi, come siamo, tenteremmo di pareggiarci ai nostri padroni, di entrare, puta caso, in parentado con essi? Alla men trista, se siamo giovani, di bell'aspetto e di buona voglia, possiamo riuscire donzelli, o scudieri, meritarci le grazie segrete d'una annoiata castellana e le segrete prigioni e i trabocchetti d'un castellano rabbioso. Ora, io non son bello, nè giovane, e non ho voglia di mettermi in questi ginepreti. Il mio esempio t'insegni; la mia filosofia ti persuada, o Giacomo Pico, e ti basti l'essere meglio accetto di me, ma sempre come soggetto, ai signori del luogo. A noi tocca di obbedire, e gran mercè se si può farlo men che si può. I nostri diritti di signori esercitiamoli sui casolari; non c'impuntiamo a voler l'impossibile. Di belle ragazze, e meglio in apparenza che non sia la giovine castellana, è pieno il Finaro. Vedi, a me piace due cotanti di più la Gilda, la nipote di mastro Bernardo; e se non fossa che le buone grazie di madonna Bannina e della sua smancerosa figliuola l'hanno fatta montare in superbia….

—Anche su quella avevi posto gli occhi?—dimandò Giacomo Pico, meravigliato di tanta facilità amatoria del suo faceto compagno.

—Sicuro; e perchè no?—disse a lui di rimando il Sangonetto.—Sono uomo libero in ciò, e dove mi vien fatto darla ad intendere, pianto a dirittura le insegne.

—Sta bene; notò Giacomo Pico, stringendosi nella spalle;—ma se madonna Bannina avesse mai fumo de' tuoi disegni—che certo non saranno fior d'innocenza….

—Oh, potresti giurarlo, nol sono;—interruppe Tommaso, ridendo sgangheratamente.—E perciò, vedi, mi tengo alla larga. Il castello mi dà noia, e i begli occhi della Gilda non mi faranno mai perdere la tramontana; la selvaggina mi piace, e se la mi capita a tiro d'archibugio, povera a lei, le scatto un colpo; se no, no, Che diamine! Non amo le frustate, io; e quei di lassù sarebbero capaci di farmi pigliar la misura delle spalle. Questo, io lo intendo, ti parrà un ragionar da filosofo; ma, mio caro, per un'ora di sollazzo non è da comperarsi un monte di guai. Si ha una vita sola, a questo mondo; perchè farla arrangolata e tapina? Io non vo' grattacapi. Pur troppo ne avremo, e non cercati da noi. Che te ne pare di questa burrasca che è in aria? Non è forse ella il colpo di grazia? Ed anche questa ci bisognerà parare; ma alla croce di Dio, non vo' pigliarmi fastidi oltre il bisogno.

—Che dici tu mai?—esclamò il Bardineto, con un accento da cui trasparivano lo stupore e lo sdegno.—Si combatte per casa nostra.

—Ah sì, casa nostra!—replicò sogghignando quell'altro.—Casa dei Carretti, vuoi dire! Bada a me, Giacomo Pico; noi siamo quei leoni aggiogati che ci ha sulla insegna il marchese. Si rode il freno d'acciaio, e, spinte o sponte, si tira il carro simbolico, lo scudo e l'elmo coronato dei nostri amati signori. Questa è la nostra sorte, e non vedo che possa farsi migliore. Da un pezzo io la vengo rimuginando, questa bellissima sorte, e la paragono a quella di Noli e di Savona, città vicine, città marinare, che un tempo rodevano il freno come noi, tiravano il carro simbolico come noi, e più avvedute, più audaci e per conseguenza più fortunate di noi, hanno rotto il freno, e piantato il carro in mezzo alla strada. Son liberi, i nostri compagni di servitù; fanno essi le leggi loro, provvedono di per sè ai loro bisogni; soli noi la duriamo con questo ignobil giogo sul collo. E sia pure, dacchè non si ardisce di scuoterlo; ma perchè ci scalderemmo il sangue? perchè ci metteremmo noi ad ogni sbaraglio, per chi ci vuol servi? perchè faremmo nostri i suoi litigi con questo quello de' suoi particolari nemici?—

Il Bardineto era stato ad udirlo con molta attenzione. E come Tommaso ebbe finito, così prese a rispondergli:

—Sai che t'ho a dire?

—Di' su!

—Che quando si pensa come tu pensi, e' bisogna far altro da quel che tu fai. La si rompe col suo signore e si muove a tumulto il popolo contro di lui; ma non si aspetta che egli abbia guerra con altri, per venir meno al debito di vassalli verso di lui, di cittadini verso la patria.

—Gli è questo un sentire nobilmente,—replicò il Sangonetto con piglio sarcastico,—e il tuo signore e nimico te ne ricambia a misura di carbone, facendoti trar calci all'aria, penzoloni dai merli della torre più alta del suo castello, che tu non hai potuto pigliare d'assalto. La non m'entra, sai, la non m'entra, questa tua nobilissima temerità, e preferisco il mio prudente consiglio. Di nulla io mi tengo debitore ai nostri padroni; taglia e prestazione, tributo di borsa e tributo di persona, tutto io pago per forza, e il meno che mi vien fatto. Anch'io, vedi, sono stato al pari di te alle impresa di guerra; ma in quella che tu, cavaliere audacissimo, facevi prodezze e menavi strage entro le file di Baldazzo, io, bandieraio della salmeria, serbavo la pancia pe' fichi. Brutta cosa, dirai. Ma tu, che ci hai guadagnato a fare il paladino, e correre il rischio d'un verrettone nel cuore, o d'una mazzata sul capo?

—Oh, fosse venuta allora!—sclamò il Bardineto chinando gli occhi a terra e mettendo un sospiro.

—Affediddio, non ci mancherebbe altro che aver dato la vita a chi te la stima sì poco! E invero, perchè dici tu questo? Perchè ti hanno pagato di quella buona moneta che sai. La fiducia del marchese! Grazie infinite; che è dessa? Leviamo la buccia, e consideriamola ignuda. T'hanno sperimentato di buona pasta, ti adoprano, ti spendono in ogni loro bisogno, come si spende un castaldo, un procuratore, un ser faccenda, un ceccosuda. Tu se' un arnese del castello. Giovi? ti si leva dal dimenticatoio. Non giovi più? ti si mette in disparte. È questo il tuo stato; non sperare di più. Ma tu sei uomo, hai occhi per vedere, cuore per desiderare, servigi da metter fuori, a fondamento delle tue ambizioni. Orbene, la è finita per te. Ami la figlia del tuo signore; chi non se n'era avveduto? e chi, guardando alla sostanza, non t'avrebbe riputato un buon partito? Tu fedel servitore della casa, tu valoroso cavaliere, tu messaggiero accorto e sicuro, tu anima d'ogni più malagevole impresa, che non dovevi riprometterti, in ricompensa dell'opere tue? Ma no; tu eri e resti un vassallo e la donna che desideri, che credi di aver meritato, te la ruba il primo venuto, perchè gli è nobile e signor di castella.

—Ah, tu sai?….

—Certamente; un Cascherano, conte di Osasco, che è un borgo di là da Torino. Questo matrimonio è una sorta di rifugio, e il marchese Galeotto, alla disperata, l'ha scelto. Poteva dare la figliuola ad uno di questi Adorni, che, cacciati da Genova, sono venuti ad appoggiar la labarda da noi e a congiurare contro la patria loro. Ma questo era il peggio dei peggi. L'ha negata a un Fregoso, che è doge, ma che potrebbe essere rovesciato da oggi a domani; non poteva pensare a un Adorno, che, anco tornando in alto posdimani, potrebbe dar la capata a sua volta. Quella è gente instabile e non c'è da far conto sovr'essa; meglio un nobile di là dai monti, che ha meno grandezza di nome e più sicurezza di stato. E ad un di costoro, che niuno sapeva chi fosse, si sacrifica il valore, la divozione, l'amore infinito di Giacomo Pico. Donde tu devi vedere che sorte di virtù siano queste tue, e come ben collocate!

—Ah, io ne morrò!—prorruppe il Bardineto, cacciandosi a furia le mani nei capegli.

—E dàlli,—soggiunse Tommaso.—O non ci hai proprio nient'altro da fare? Ma sai che mi faresti uscire dai gangheri? Infine, che cosa desideri? per che cosa ti arrovelli? Per una donna che ti piace. Orbene, da Adamo in poi ciò è capitato a più d'uno, e non so che alcuno abbia perso il lume degli occhi, prima di averne l'intiero. Pensaci un tratto; o le piaci tu pure, o non le piaci. Se non le vai a genio, ci hai il tuo conto saldato; puoi mandarla a quel paese, o aspettarla al varco e far vendetta allegra; ad ogni modo, egli non c'è da desiderarsi la morte per una donna che non ti abbada. Se in quella vece la ti vede di buon occhio, aspetta, perdiana; il tuo giorno verrà. O che credi, perchè la diventa contessa d'Osasco, t'abbia a fare il viso dell'arme? Il non esser buono per marito, non vuol già dire…. che anzi!…. In questi casi, un rifiuto io l'avrei per grazia profumata. La donna, amico mio, è una gran bella cosa e ci ha i suoi dolci momenti, che la getteresti sopra ogni altra delizia del mondo; ma guai a chi l'avesse sospesa al braccio tutte le ventiquattr'ore del giorno; e' ci sarebbe da pregarsi il fistolo! Or dunque, Giacomo Pico, sta di buon animo, e non ti lasciar scolorire le ultime rose sul volto, che non abbia a parer meglio di te il Cascherano, quando verrà a fare il mogliazzo.

—È già venuto;—mugghiò il Bardineto.

—Ah, ah! non si perde tempo? E sia pure e ci resti, in sua malora! Tu non mi fare il poeta; che saresti ridicolo, e chi fa ridere ha perso la causa. Ti piace la donna! tienti sull'orma e aspetta il buon punto. Chi sa? Non t'eri accorto, e forse la tua stella è già apparsa sull'orizzonte. Ma sopratutto, bada, non ti guastare il sangue, non pigliar nulla a scesa di testa; è l'essenziale. A proposito di scesa, o che, si sta qui fino a notte? Io ho fame, e tu non devi rimanere quassù, a far l'uomo salvatico. Si scende, dunque?

—No, Tommaso; non per di qua!—disse Giacomo Pico, torcendo gli occhi in atto supplichevole.

—No? Orbene, come ti pare. Largo ai canti e scendiamo alla Marina.—

Ciò detto, e per mandare i fatti di costa alla parole, il Sangonetto, che già s'era alzato da sedere, diè di piglio al suo archibugio e se lo gittò in spalla; con un colpo della palma distesa si acciaccò la berretta sul capo e, per uno di que' sentieruoli che serpeggiavano lunghesso i fianchi della montagna, s'avviò alla discesa.

Giacomo Pico si mosse dietro di lui, non rassegnato affatto, nè affatto sconsolato, bensì pieno di maltalento contro di sè, contro di tutti, pronto ad affogare la sua rabbia nel vino, come a sfogarla in una mareggiata di sangue.

Accadeva al Bardineto ciò che spesso accade a molti infelici suoi pari, che la compagnia e i conforti d'un uomo volgare mutano indirizzo al loro tormento. Sia che un intimo senso li ritenga dal commettere un alto dolore in piena balìa di chi non è nato ad intenderlo, o sia che la medesima volgarità del compagno pigli il sopravvento sulla fibra umana (già, per istinto, volgare, e non mai delicata, nè nobile, se non per eccesso, che non è naturale nell'uomo), o sia finalmente che la vostra vanità messa al punto, s'inalberi e comandi agli atti nostri una apparenza di fortezza, egli è un fatto che il dolore, almeno fino a tanto che duri quella nuova maniera di contrasto, non pure fa le viste di cedere, ma veramente si scema, o si addorme nel profondo dell'anima. Ripiglierà forse vigore, crescerà d'intensione più tardi, troverà le occasioni a romper fuori, tanto più impetuoso, quanto più è rimasto compresso ed inerte; ma tace, frattanto, e qualche volta, fra mezzo alle cento cure svariate del vivere, agli aspetti diversi delle cose, ai ragionari delle liete e noncuranti brigate, lascia libero il campo alle più discordi sensazioni, financo a quella che ci sforza di ridere. Cose che non si spiegherebbero altrimenti, senza questa mobilità somma detta umana natura.

Del resto, è anche vera un'altra cosa, ed accade agli animi deboli, che sono poi il maggior numero della figliolanza di Adamo. Ci si apre con un gentile ascoltatore, con un virtuoso consigliere, e si piange o si è sconfortati, ed è nobile sfogo che ci eleva lo spirito ad altezze o non prima vedute, o non reputate accessibili all'uomo. Si commettono i proprii dolori ad orecchio volgare; da labbro volgare si aspettano i conforti e i consigli; ma gli uni e gli altri ci affondano nel pantano dei sensi ingenerosi; crassi vapori c'involgono e ci nascondono il sereno de' cieli; il dolore, fatto ira e bestemmia, bramosia di vendetta, di mal per male, non ci affina lo spirito, lo ingombra, lo accieca, vi attossica le sacre fonti del bene.

I due amici scendevano, come si è detto, lungo la costa del monte. Giacomo Pico era taciturno e grave; ma tratto tratto scuoteva il capo e sbuffava a guisa di toro ferito. Il Sangonetto taceva del pari, e certo non facea bocca da ridere; ma chi gli fosse stato dinanzi e lo avesse veduto a dondolare il capo e ad aggrinzare di tanto in tanto le labbra, avrebbe detto che il consolatore di Giacomo Pico se la rideva dentro di sè, di quel riso tacito e profondo che fa tanto buon sangue. Gongolava, il Sangonetto; e perchè? Perchè la era finita una volta, quella cuccagna del Bardineto; perchè gli era finalmente caduto, quel superbioso, che si struggeva di salire tant'alto; perchè sprofondava nella mota comune, quel sognatore, quel pazzo, che cavalcava così alteramente le nuvole.

E non era crudele, il nostro Tommaso; non odiava già il Bardineto; che anzi lo amava, come poteva egli amare qualcuno, per consuetudine antica, e perchè non gli era venuta mai occasione di scontro. Sì, certo, gli era parso qualche volta noioso, con quel suo starsene in dimestichezza coi grandi, così felice in apparenza tra le bellezza del castello Gavone, libero di profferire i suoi omaggi a madonna Bannina, bellezza matura, o a madonna Nicolosina, bellezza nascente, o alla Gilda, bellezze di mezzo, ma più franca, secondo lui, e più attrattiva. Per altro, pensandoci su, il Bardineto non corteggiava la Gilda; era cotto, per sua disgrazia, della giovine castellana; gli era un uomo spacciato; non era da invidiarsi poi troppo. Lo amava dunque, sì lo amava; ma ora, poi, dieci cotanti di più, sapendolo giù d'ogni speranza e d'ogni superbia. Donde quel giubilo interno, quel gongolo, che gli facea dimenare il capo e aggrinzare le labbra. Anima umana!

In questi pensieri, i due compagni, erano giunti ai piedi del monte, e, valicato il Pora su certi passatoi disposti a giuste distanze sul pelo dell'acqua corrente, entravano in una viottola, che risaliva verso levante, ad incontrare la strada maestra dalla Marina al Borgo. E pochi passi avevano fatti in quella stretta, allorquando venne loro udito un calpestìo, insolito per que' luoghi e in quell'ora.

Giacomo Pico, che era stato il primo a notarlo, affrettò il passo, stese la mano sul braccio del Sangonetto, come per trattenerlo, e stette coll'orecchio teso in ascolto.

—Cavalli!—soggiunse egli, rispondendo ad un gesto del compagno, che si era voltato stupefatto a guardarlo.

—Cavalli, sicuro;—disse di rimando Tommaso;—e poi?

—Non hai indovinato? Son essi.

—Essi? Pronome, e nient'altro;—ripigliò il Sangonetto;—io non t'intendo.

Giacomo Pico crollò le spalle in atto d'impazienza.

—I cavalieri di questa mane;—aggiunse egli poscia;—il conte d'Osasco e il suo amico, o famiglio che sia.

—Ah, ah!—sclamò il Sangonetto, mettendosi finalmente sull'orma.—Buon viaggio a loro! Ma ora che ci penso, o come vuoi che, giunti a mala pena, già se ne tornino via dal castello? Il tratto, in fede mia, non sarebbe cortese.

—Ma! che ne so io?—rispose Giacomo Pico.—D'una cosa son certo; che sono costoro. Me lo dice il cuore….—aggiunse con accento di profonda amarezza.—Seguimi; or ora vedrai.

E senz'altro aspettare si mosse con rapido passo alla svolta. Il Sangonetto fu pronto a seguirlo.

Il cuore del Bardineto non si era ingannato. Erano proprio loro, messer Pietro e il Picchiasodo, che venivano di buon trotto per la strada maestra, con quel fare spigliato e contento di chi s'è sciolto d'ogni molestia e non ha più a darsi pensiero che di arrivare alla posta.

A Giacomo Pico la vista del più giovine dei due cavalieri diede una scossa fortissima al cuore. Era quegli il suo fortunato rivale, il suo nimico giurato. E gli prese in quel punto una maledetta voglia di buttarsi al pettorale del palafreno, di rovesciare il cavaliere e di finirlo d'un colpo.

La via era stretta, e, per andar oltre, con quell'intoppo dei due sopraggiunti, a messer Pietro convenne di spronare il cavallo e farsi innanzi da solo.

Il Bardineto lo divorava degli occhi. Era bello, messer Pietro, ed ilare in volto; due cose che lo rendevano uggioso a quell'altro.

Senza por mente all'effetto che cagionava la sua presenza, messer Pietro, cortese per consuetudine di gentiluomo e più ancora per la contentezza del momento, nell'atto di cansarsi col suo palafreno dai due viandanti, fece un gesto a mo' di saluto, che certo credeva gli fosse ricambiato in quel punto.

Frattanto, Giacomo Pico, innanzi che il Sangonetto potesse indovinare le sue intenzioni e trattenerlo, si faceva in mezzo alla strada e, afferrando lo redini del cavallo, salutava il suo avversario con queste parole:

—Messer cavaliere, mi consentite voi pochi istanti di colloquio?—

CAPITOLO IV.

Nel quale si veda messer Pietro perdere la pazienza, il Sangonetto la ciarla, il Picchiasodo l'occasione, Giacomo Pico il tempo e mastro Bernardo la scrima.

All'atto insolito e inaspettato, il primo pensiero di messer Pietro fu di metter mano alla spada e di castigar l'arrogante che ardiva afferrare le redini del suo palafreno.

Senonchè, a lui, come un giorno ad Achille, la sapiente Minerva dovette susurrar qualche cosa nell'orecchio. O piuttosto, senza andare a scomodare gli Dei dell'Olimpo, che dormono da mille cinquecent'anni il gran sonno, è da credere che messer Pietro fosse di animo pronto a vedere per ogni lato le cose, come audace di mano ad operarle. E in quel punto egli certamente pensò che quei due sopraggiunti non erano assassini di strada, che alla più trista si era a numero pari, e che, finalmente, in paese nuovo e nemico, la prudenza non era mai troppa, nè mai gli avrebbe nociuto un pochino di calma. Dopo tutto, che ne sapeva egli? Poteva anch'essere usanza patriarcale di quei popoli, di trattare con tanta dimestichezza la gente.

E messer Pietro ristette, spianò le sopracciglia, che s'erano a tutta prima aggrondate; fe' un gesto da fianco per chetare il Picchiasodo, che egli colla coda dell'occhio avea visto dare un sobbalzo in arcione e spronare avanti il cavallo; quindi componendo le labbra ad un risolino tra cortese ed ironico, disse a Giacomo Pico:

—Parlate, messere, quantunque non sia luogo nè momento da ciò; son tutto orecchi ad udirvi.—

Parlare! era presto detto; ma il farlo non era la più agevole impresa. Il Bardineto ci aveva bensì avuto la forza del primo impeto; ma lì sui due piedi, senza aver meditata la possibilità d'una conversazione tranquilla, tirato in sul falso da quella urbana risposta, non trovò più il filo. E balbettando un poco, e stizzito con sè medesimo di non averci pensato prima, uscì in questa dimanda:

—Come va che tornate via così presto? Il castello non ha avuto potere di trattenervi?—

Messer Pietro lo guardò stupefatto; ma non uscì di misura.

—Che dite mai?—ripigliò, col medesimo accento di prima.—È luogo stupendo, il castello, e fo conto di tornarci prestissimo.

—Ah!—sclamò il Bardineto, fremendo di rabbia,—E quando si faranno le nozze?—

Messer Pietro fu ad un pelo di uscire dai gangheri. Per altro, gli venne il sospetto di aver da fare con un pazzo, e si volse, con aria trasognata, al Picchiasodo. Il suo vecchio compagno rideva.

—Messere,—disse il Picchiasodo, affrettandosi a commentare il suo riso,—la notizia si è sparsa, non c'è più verso di tenerla celata. L'oste dell'Altino ha cantato.—

L'altro ricordò allora le supposizioni di mastro Bernardo, e un sorriso venne a sfiorargli le labbra; ma fu pronto a reprimerlo. Non era più un pazzo, bensì un insolente, colui che lo aveva fermato per via e lo interrogava in tal guisa.

—Via, per l'andata, poteva correre; pel ritorno, non già!—rispose egli, facendosi grave.

Indi, rivolto a Giacomo Pico, gli parlò asciuttamente così:

—Messere, io fo nozze quando mi torna, e non dò ragguagli per via al primo che capita.

—Avete fatto il conto senza di me!—soggiunse Giacomo Pico, digrignando i denti, e facendo l'atto di afferrare da capo le redini.

—Giù quelle mani!—tuonò messer Pietro, in quella che facea dare indietro due passi al suo palafreno.—E spulezzami tosto, o ch'io lascio al mio cavallo di tritarti come paglia, villano!—

Giacomo Pico, che il pronto inalberarsi del cavallo avea fatto desistere dal suo tentativo, si morse le labbra all'udire quelle superbe parole, ma non diede già indietro d'un passo. Incrociò in quella vece le braccia sul petto; rispose con una crollata di spalle al Sangonetto che gli raccomandava di non far ragazzate e di pigliare dal consiglio d'un nemico quel che c'era di buono; indi, misurando ad una ad una le frasi, che gli uscivan sibilando dalle labbra contratte, così rimbeccò il suo avversario:

—Non son villano, e le opere mie, in attesa di altre prove, potranno chiarircene largamente. Voi, a cavallo, messere, potete sbarattarci d'un salto e darvi alla fuga; lo vedo, e lo temo. Ma dove sarebbe allora la differenza tra voi, conte di Osasco, e il più vile de' vostri vassalli? e quale rimarrebbe la vostra fama agli occhi dalla donna che amate?

—Conte di Osasco!—ripetè messer Pietro, voltandosi al Picchiasodo.—Ah, mi ricordo;—soggiunse a bassa voce,—lo sono, a quel che pare, e non posso disdirmi.—

Indi, rivolto il discorso a Giacomo Pico, gli chiese, con quel suo piglio sarcastico:

—E chi sei tu? Forse il duca Namo di Baviera, tornato tra i vivi? O forse Guerrino il Meschino, cercator d'avventure?

—Rattenete la lingua, per utile vostro!—replicò il Bardineto, impallidendo dallo sdegno.—Son tale che ha diritto sopra un tesoro, e non consentirà che altri glielo rubi. Son tale che desidera di vedere alla prova se la vostra spada è degna della vostra arroganza.

—Per san Giorgio, gli è questo un audace linguaggio,—disse a lui di rimando quell'altro,—e per la prima volta ch'io l'odo, mi piace.

—Vi piaccia, o no, gli è il mio, e lo udrete più d'una volta al Finaro, se vi piglierà il ruzzo di tornarci.

—Per Dio, se ci tornerò! Non foss'altro, per vedere di quanti palmi t'avranno scavato profonda la fossa!

—Di ciò parleremo;—borbottò Giacomo Pico.—Vi piaccia intanto calarvi d'arcione.

—Volentieri, se m'indicherete un luogo dove possiamo sbrigare i fatti nostri meglio che sulla strada maestra.

—Qui presso, nei greti della fiumana.

—Ottimamente; insegnate la strada.—

E così dicendo, messer Pietro, sempre ilare e disposto alla celia, spronò il cavallo per tener dietro a Giacomo Pico. Ma la faccenda non garbava punto al Picchiasodo, a cui era balenato un pensiero più vasto.

—Non già!—entrò egli a dire sollecito.—Con vostra licenza, messer Pietro, padron mio colendissime, abborro l'acqua, e ricordo in buon punto che siamo lontani appena un cento di passi dall'insegna dell'Altino. Questi degni messeri lo sapranno benissimo, che sono del paese; c'è buona l'accoglienza….

—E meglio il vino!—rincalzò, chiudendo la frase, il Sangonetto.

—Ah, bravo!—ripigliò il Picchiasodo.—Veniteci in aiuto anche voi, messere dell'archibugio. Siamo dunque intesi; si va a sbrigar la faccenda all'Altino. L'aia è piana e lucente come uno specchio, e sul battuto c'è posto pel giuoco di quattro lame. Che ve ne pare? Voi certo avete pratica del luogo. Non ci si è abbastanza liberi in quattro?—

Tommaso Sangonetto lo guardò con aria melensa. La proposta di quel vecchio barbone, che ci avea un paio di spalle e un torace da fare alle forze con Ercole, non gli andava a fagiuolo. Chinò la testa in atto di chi vuol dire e non dire; ma dentro di sè fece atto di contrizione per la sua lingua, che era stata un po' troppo latina.

—Andiamo dunque laggiù!—disse il Bardineto, avviandosi primo.

I due cavalieri incontanente lo seguirono. Tommaso, quantunque di mala voglia, si messe al suo fianco.

—Ah, Giacomo! Giacomo!—gli andava intanto bisbigliando all'orecchio.—L'hai fatta grossa!

—Che!—rispose il Bardineto, crollando superbamente le spalle.—Mi sfogo, perdio!

—Ma pensa al poi, te ne prego! E che dirà il marchese, quando verrà a risaperlo?

—Dirà…. dirà quel che gli parrà meglio di dire. Già, sentimi, Tommaso; o morto io, o morto quest'altro, s'è sciolto finalmente ogni nodo.

—Uhm! Mi pare che tu ne aggiunga, di nodi; e guai se vengono al pettine.

—Vattene, allora!—ripiccò spazientito il Bardineto.

—Ma…. lasciarti così solo?… Un testimone ti sarà pur necessario!—entrò a dire accortamente Tommaso.

—Un testimone! E per che farne?

—Eh, quel che si fa d'un testimone, perdiana! Il testimone vede e può all'occorrenza far fede. Inoltre, la sua presenza può tenere in soggezione gli avversarii. Capisco che non s'ha da appiccar zuffa in quattro, essendo voi due soli alle prese, e che io, pure volendo, non lo potrei, per non tirarmi addosso lo sdegno del castello, a cui non sono in grazia, come tu sai; ma infine, un amico presente….

—Capisco anch'io; non dirmene altro!—interruppe il Bardineto, che vedeva l'amico inteso a fermar chiaramente i patti della sua accompagnatura all'Altino.—Io non ho bisogno d'aiuto; la quistione è mia, tutta mia; tu non c'entri. E adesso, se ti piace venir testimone allo scontro, fa come t'aggrada; io non ci ho nulla a vedere.—

Il Sangonetto chinò la testa, in atto di chi si rassegna, suo malgrado, ai voleri d'un amico. E col cuor più tranquillo, e per conseguenza col passo più spedito di prima, si fece innanzi alla comitiva.

In quelle chiacchiere, erano giunti presso all'Altino. Lo scalpitar dei cavalli avea fatto correre il ragazzo dell'osteria sull'uscio di strada.

—Padrone! ohè, padrone!—aveva egli gridato.—Presto, fatevi innanzi; son qua di ritorno i gentiluomini di questa mattina.

—Che diavol dici?—esclamò mastro Bernardo, uscendo sull'aia.—O che ci verrebbero a fare?

—Eh, che so io?—disse il Maso, impenitente nella sua celia.—Forse ad assaggiare quel vinello fiorito….

—Zitto là, mascalzone! Oh, magnifici messeri….—

Come è facile argomentare da questo trapasso dell'oste, entravano allora Giacomo Pico e Tommaso Sangonetto a piedi, lasciando scorgere dietro di loro messer Pietro e il Picchiasodo a cavallo.

Mastro Bernardo, confuso e giubilante ad un tempo di quella nuova e non più sperata ventura, corse sollecito per tenere le redini a messer Pietro, che fu pronto ugualmente a balzar giù di sella.

—Che buon vento, messeri….—andava dicendo frattanto l'ostiere;—e come va che io sono onorato….

—Mastro Bernardo,—gridò il Picchiasodo, troncandogli i suoi complimenti a mezzo,—non lo sai tu l'adagio: chi n'assaggia ci torna? A te, ragazzo; tieni i cavalli.

—Ve li metto al coperto? disse il Maso, pigliandoli per le briglie.

—No, no, tirati là in fondo, ed aspetta,

Il ragazzo afferrò le briglie e, superbo di prestare i suoi servigi a così nobili bestie, menò i cavalli in fondo dell'aia.

—Che fortuna per l'osteria dell'Altino!—ripigliò mastro Bernardo, che non aveva posto mente alle ultime parole del Picchiasodo, profferite a voce più bassa.—E dite, magnifici messeri; poichè il numero è cresciuto, s'ha egli da metter due polli allo spiedo?

—Ah, ci vuol altro che spiedo! Or ora vedrai;—-gridò il Picchiasodo con aria beffarda.—Per un bicchiere di vino, intanto, non si dice di no. Almeno….—soggiunse dopo essersi guardato dattorno e aver veduto le facce rannuvolate de' suoi compagni,—io lo bevo, e posso fare anche la parte degli altri.

—Vado subito;—disse l'ostiere;—e sarà di quel tale, ve lo prometto.

—Sta bene, e non mi tradire!—aggiunse burlescamente il Picchiasodo.—Porta il fiasco incignato, che già sappiamo che cos'è, e non avrà avuto tempo A pigliare lo spunto.—

Mastro Bernardo, tutto nella sua beva, entrò in casa, senza aver capito nulla di quell'improvviso ritorno, nè pigliato sospetto dalla presenta del Bardineto, che due ore innanzi era andato via così in furia.

Più accorto di lui a gran pezza, il Maso aveva odorato l'aria, e aspettandosi qualcosa di grosso, stava là rincantucciato in mezzo ai cavalli, con tanto d'occhi a guardare la scena.

—Or dunque, a noi!—sclamò messer Pietro, poichè i quattro arrivati furono soli sull'aia.

E così dicendo, si tolse di dosso la sua cappa di scarlatto verde, foderata di vaio, e la gittò sulla sella del suo palafreno.

Giacomo Pico, a sua volta, si tolse la cappa di bigello, e rimase, come il suo avversario, in farsetto.

E già erano, per tacito accordo, intesi a pigliar campo e metter mano alle spade, allorquando il Picchiasodo entrò a dire la sua.

—Un momento, messeri, di grazia!—

I due avversarii si fermarono a tempo, e stettero guardando il vecchio soldato, aspettando che volesse parlare.

Ma il Picchiasodo non aveva da fare un lungo discorso.

—Come si combatte?—dimandò egli brevemente, ma con un certo sussiego.

—O come?—ripiccò messer Pietro.—Che novità è questa tua? Si combatte con questa, e chi ne assaggia un palmo rimane sul terreno.

—Un palmo! grazie tante!—mormorò il Sangonetto tra sè.

—Certo,—proseguiva messer Pietro,—se fossimo in campo chiuso, con giudici e testimoni, il vincitore avrebbe le spoglie, e si potrebbe anco stabilire il riscatto del vinto; Ma qui non siamo nel caso; ci si ricambia quattro colpi alla svelta e chi l'ha tocche son sue.

—Così l'intendo ancor io, con vostra licenza, messer Pietro,—replicò il Picchiasodo.—Ma scusate, io volevo domandare se di questo sollazzo non ce n'ha ad esser per tutti. In quattro ci siamo incontrati; ora, dico io, in quattro si avrebbe a combattere.—

Il Sangonetto fece a quelle parole una smorfia.

—Infine!—proseguì il Picchiasodo, con quel suo piglio tra rispettoso e faceto.—Non mi par bella che due se la godano e gli altri due debbano stare a vedere. Voi, messer Pietro…. signor conte degnissimo, ve la farete con chi vi ha provocato, e sta bene; ma noi, noi due, seguaci delle parti in contesa, per che altro ci troveremmo qui, a fare il paio, se non per seguire l'esempio?—

Messer Pietro si strinse nelle spalle e crollò il capo in atto di dire: accomodatevi, io non ci vedo alcun male.

—Animo dunque; a voi, messere dell'archibugio,—disse il vecchio soldato, volgendosi a Tommaso Sangonetto;—dite la vostra opinione.

—Io?… Ah!…—rispose questi confuso, come se cascasse dalle nuvole.—Eh, certo, sarebbe una bella pensata! Ma ecco, per incrociare le spade, ci vorrebbe un quid … la causa agendi ….

—Che diamine m'andate voi latinando?—gridò il Picchiasodo imbizzarrito.—Sareste voi chierico, per avventura?

—Eh! un pochino;—rispose quell'altro, facendo bocca da ridere, ma senza averne gran voglia.—Ho scombiccherato qualche foglio di carta presso un notaio, e mi capirete….

—Sì, capisco alla prima che ci avete inchiostro per sangue, dentro le vene.

—Oh, mi meraviglio!…—sclamò il Sangonetto; rizzando la testa.

—Orbene, vediamo dunque che cos'è; fuori lo spiedo!—

E così dicendo il Picchiasodo trasse la spada dal fodero.

—Fuori, e sia; fuori dunque!—ripetè il Sangonetto, che già più sapeva a qual santo votarsi.

E messe mano al suo coltellaccio. Ma qui per fortuna gli venne trovata la gretola.

—Ecco il mio spiedo!—diss'egli, con aria di trionfo.—Voi ci avete la spada d'Orlando, e vi fa comodo di metterla fuori; io, colto alla sprovveduta, non ci ho che un coltello da caccia; vedete!—

Il Picchiasodo rimase lì grullo per un istante a guardarlo. Ma egli non era uomo da smarrirsi per così poco, e trovò subito uno spediente da rimediare allo sconcio.

—Oh, non importa!—rispose.—Date a me il coltello; io cedo a voi la spada d'Orlando.

—Ma….—balbettò il Sangonetto.—Non ci sarebbe generosità….

—Eh via! Non temete; con quel coltellaccio tra mani io mi riprometto di tagliarvi la punta del naso che avete rossa e lucente come una ciliegia marchiana.—

Fu questo per Tommaso Sangonetto il caso di vedersi perduto. Con quel diavolo d'uomo non la si potea vincere nè impattare.

Buon per lui che messer Pietro gli venne in aiuto.

—Anselmo!—diss'egli severo.—Lascialo stare; non c'è bisogno di combattere in quattro, dove la lite è soltanto tra due.

—Già, diteglielo voi, messere;—ripigliò il Sangonetto, ritornando da morte a vita.—Che bisogno c'è? Se ci fosse una ruggine tra noi, non direi di no… si potrebbe anche vederlo, questo taglio del naso. Ma la ruggine non c'è, come non c'è la ciliegia, con vostra licenza. Del resto, siamo sacri alla patria. Se foste un nemico…. un genovese….

—Ah! con quelli là ti sentiresti proprio di combattere?—domandò il Picchiasodo, con piglio sarcastico.

—Ma, sicuramente!—rispose il Sangonetto, facendo l'uomo a sua posta.

—Ci ho gusto, perbacco!—disse a lui di rimando il vecchio soldato.—Han da tremare, povera gente, quando ti vedranno in prima fila, colla tua cerbottana da passeri!—

Volea replicare, il prode Sangonetto; ma sì, a farne la prova! Quel maledetto vecchio lo guardava con certi occhi da spiritato!

Così perdette la ciarla Tommaso Sangonetto, come il Picchiasodo avea perso l'occasione di misurarsi con lui. Frattanto i due avversarii, che già stavano colle spade sguainate, si fecero in mezzo dell'aia, pronti a impegnare il combattimento.

Giacomo Pico ne aveva una voglia spasimata. Così almeno mostravano gli atti impazienti e le contrazioni del volto. Messer Pietro era a gran pezza più calmo, e la faccia atteggiata al sorriso dinotava, non pure il disprezzo del pericolo, ma eziandio la certezza della vittoria. E la pugna in sè stessa e l'occasione dond'era venuta, parevano cosa da scherzo per lui. Certo il valentuomo s'era trovato più volte a simili scontri, fors'anco a più gravi, e quello doveva parergli la cosa più naturale dal mondo.

Incrociarono le spade. Ma era scritto lassù che il combattimento non dovesse aver principio così presto.

Un grido li rattenne in quel punto e li costrinse a smettere. Era mastro Bernardo che compariva sull'uscio di casa, col vassoio de' bicchieri in una mano e col suo fiasco prezioso nell'altra. Mai fiasco e bicchieri furono raccomandati a più trepide mani, e ben se ne avvide il Picchiasodo, che, voltatosi a quel grido improvviso, fu sollecito a sostenere que' dolcissimi pesi.

—Per amor del cielo, messeri, che vuol dir ciò?—chiese l'ostiere, con voce tremebonda.

—Animo, via, mastro Bernardo!—entra a dirgli il Picchiasodo, con quel suo piglio burlesco.—Non si sforacchiano mica le tue botti, nè la tua pancia, perbacco!

—Oh, Gesummaria! che cos'è stato? Ah capisco, ora!—soggiunse il povero oste, ricordandosi.—Messer Giacomino…. Ah, maledetta lingua! Ma spero che non andrete più oltre…. Nella mia osteria!… E che dirà il magnifico marchese quando saprà che avete fatto uno sfregio a suo genero…. al magnifico signor conte di Cascherano…. a un gentiluomo di quella fatta? Nobilissimo signore, per carità, non date retta alle offese di quel giovinastro. È un matto, credetelo…. e ai matti non si presta orecchio.—

E intanto che così parlava a frasi spezzate, come voleva lo stato dell'animo suo, mastro Bernardo, aiutato e costretto dal Picchiasodo, gli veniva mescendo il vino nel bicchiere.

Giacomo Pico a cui rinfiammavano lo sdegno le allusioni matrimoniali dell'oste, perdette a dirittura la pazienza al sentirsi dare di giovinastro e di matto.

—Taci là, vecchio rimbambito!—gli disse, schizzando rabbia dagli occhi.

—Rimbambito a me? Sciocco presuntuoso…. villan rifatto…. serpicina riscaldata, per amor di Dio, dai nostri signori…

—Ohe, dico, mastro Bernardo, non mi spandere il vino; e' sarebbe peccato mortale!—gridò il Picchiasodo, affannandosi a rimettere in equilibrio il vassoio, che andava di qua e di là, secondo i movimenti impetuosi del vecchio stizzito.

—…. E v'hanno tirato su,—proseguiva mastro Bernardo, montando in furore,—vi hanno rimpannucciato, messo all'onore del mondo, perchè vi crescesse la superbia fino al punto di…. Ma vedete un po' l'ambizione! Credersi degno di sposare la figlia del marchese!… Un vassallo!… un servitore! Andate là, messer Giacomino; io sarò un vecchio rimbambito, ma voi….

Messer Pietro gli troncò il filo dell'invettiva. Ed era tempo; chè Giacomo Pico faceva già l'atto di correre colla spada addosso all'ostiere.

—Orsù, smetti, alla croce di Dio,—gridò messer Pietro,—e lasciaci aggiustare le nostre faccende come ci aggrada.—

A quelle parole di messer Pietro, l'ostiere chinò la fronte raumiliato.

—Magnifico signor conte….—diss'egli;—voi lo volete; obbedisco. Quanto a voi….—

E qui mastro Bernardo, che avea rivolta l'apostrofe al Bardineto, fece un gesto di minaccia, che doveva mostrare a Giacomo Pico com'egli, mastro Bernardo, non fosse per menargli buona così presto la sua pazza sfuriata.

Il Picchiasodo finì di chetarlo.

—Alla tua salute, degnissimo ostiere! Ma bevi anche tu; questo è contro la rabbia.

—Alla salute del signor conte!—rispose mastro Bernardo, alzando il bicchiere, che gli avea messo in mano il vecchio soldato.

E bevve, per contentarlo, ma guardando tuttavia a squarciasacco il Bardineto, che più non si curava di lui, intento com'era ad impegnare la zuffa.

Giacomo Pico era agile e destro. Il furore ond'era tutto invasato gli raddoppiava le forze. La sua lunga spada milanese balenava in alto e ruotava, scendeva a rovina sulla spada dell'avversario, si ritraeva veloce e tornava più veloce ancora all'assalto, cercando la via fino al petto di messer Pietro e non trovandola mai. Il suo nemico, immobile, sereno, quasi scherzevole, lo teneva a bada con fine artificio. I movimenti del suo ferro erano così scarsi e misurati ad un tempo, da lasciar credere ad uno spettatore inesperto che egli non facesse davvero. Per fermo, tanta era la sicurezza dell'occhio e tanta la perizia della mano, che l'una e l'altra consentivano a messer Pietro di baloccarsi un tratto con quella furia del suo avversario. Opponeva ai colpi il forte della lama; metteva a quell'altro di continuo la punta della spada sugli occhi, e non profittava mai del suo evidente vantaggio.

Il Sangonetto sudava freddo, si faceva piccin piccino, e di tanto in tanto socchiudeva gli occhi, quasi per non vedere la botta che doveva passare fuor fuori il suo malcapitato compagno.

In quella vece il Picchiasodo rideva. Egli conosceva il giuoco del suo signore come il fondo del suo borsellino in fin di mese, e quel suo riso tra beffardo e benevolo diceva chiaramente a tutti gli astanti: aspettate, or ora vedrete; il buono ha ancor da venire. Frattanto, per non rimetter nulla de' suoi godimenti, venia centellando il suo bicchiere di malvasia, e attraverso alla sottil parete di vetro i suoi occhi si godevano, anzi meglio, si succiavano quella scena deliziosa, che facea sudar freddo il Sangonetto e tremar le gambe e battere i denti a mastro Bernardo.

—Poveri a noi!—gli andava dicendo l'ostiere.—Che ne dirà il marchese?

—Che vuoi ci abbia egli a ridire?—soggiunse il Picchiasodo.—La ragazza, piuttosto, se ama quel tuo bell'arnese; poichè egli mi pare un uomo spacciato.

—Ah, messere, e potreste crederlo? Madonna Nicolosina?… Nemmen per sogno! Se ella avesse pensato mai a quel pazzo da catena, io, non fo per dire, avrei a saperne qualcosa. Mia moglie è zia della Gilda…. e per la Gilda non ci sono segreti. Vi giuro, messere, e voi ci potreste mettere la mano sul fuoco, che la fanciulla pensa a messer Giacomino, com'io a farmi frate, e le son tutte fisime che s'è messe in capo costui.

—Tu mi consoli;—rispose gravemente il Picchiasodo;—perchè infine, dico io, quando si prende moglie, bisogna avere un occhio al cane e l'altro alla macchia. Menar donna non gli è mica come a fallar la strada, che c'è sempre il rimedio di tornarsene indietro; una volta fatto il pateracchio, addio fave! chi le ha, son sue. Or dunque tu credi che madonna Nicolina…. come la chiami?

—Nicolosina, messere.

—Tu credi adunque che madonna Nicolosina non lo veda di buon occhio?

—Ma neanco per prossimo, starei per dire. Una savia e costumata fanciulla, che quel che vuole suo padre vuol lei! E poi, come supporre che una donnina a modo, e della sua levatura, si fosse invaghita di quel tanghero?

—Eh, quanto a ciò, se ne son viste tante, e il conte di Cascherano non sarebbe il primo…. Ma vedi il tuo messer Giacomino, come s'è invelenito! S'affanna per la gloria, il poverino! E se, per caso, le busca….

—Chi le ha, son sue!—sentenziò mastro Bernardo.

—Ah, bravo, tu mi fai l'eco!—ripigliò il Picchiasodo.—Ma guarda; le ha tocche davvero e son sue, questa volta.—

Queste ultime parole del vecchio soldato avranno detto al lettore che Giacomo Pico, dopo essersi lungamente e inutilmente affaticato per ferire il suo avversario, toccava egli invece una botta.

Si era adoperato per quattro, il povero Giacomo Pico; aveva messo l'ingegno e le forze, la rabbia e l'amor proprio alla prova, e non era venuto a capo di nulla. Messer Pietro, come si è detto, parava facilmente, senza scomporsi, senza riscaldarsi il sangue, e, contento di mandar vani i colpi del Bardineto, non profittava del suo vantaggio su lui. Sorrideva, frattanto sorrideva di continuo, come un vecchio schermidore che avesse a sostenere gli assalti d'un bambino, o d'un cieco. Ora, egli non è dire come quello eterno sorriso tornasse molesto al Bardineto, che se lo vedeva sempre sugli occhi, tra un guizzo e l'altro delle spade cozzanti. E non poter giungere fino a quel volto! e non poter mutare quel riso sarcastico in un ghigno di dolore! Venne un istante che egli, pur di cessare quel riso, avrebbe amato una puntata nel cuore. Fu per dolersene ad alta voce; ma gli parve viltà e si morse le labbra fino a dar sangue. Messer Pietro se ne avvide ed ebbe compassione di lui. Intendiamoci, ne ebbe compassione a modo suo, che tenero non era di cuore, e i tempi del resto non comportavano certo delicatezza di nervi. A que' tempi si dava il nome di misericordia ad una foggia di pugnale, e quello di grazia ad un certo colpo che finiva l'avversario. Così, e non altrimenti, fu compassionevole il cuore di messer Pietro, il quale, cessati gl'indugi, pigliò a sua volta l'offesa, si serrò addosso al nemico, e, sviato un maledetto fendente, che, giusta l'intenzione del feritore, doveva spaccargli la testa, corse veloce con un soprammano al costato di Giacomo Pico. Questi che troppo si era logorato le forze nei molteplici assalti, perdette il tempo, e giunse alla parata che già la punta nemica lo avea colto al sommo del petto.

La spada aveva forato il farsetto di cordovano come fosse di tela, e tornando rapida indietro aveva aperto la via ad uno spruzzo di sangue. Balenò un tratto il ferito, agitò con moto convulso le braccia, e mugghiando ferocemente stramazzò sul battuto.

Il Picchiasodo, com'era stato il primo ad avvedersi del colpo, così fu il primo ad accorrere verso il ferito.

Egli da tergo e il Sangonetto da piedi, lo sollevarono riguardosamente da terra e lo adagiarono sopra una panca, che in fretta aveva tirato innanzi mastro Bernardo.

—Ah, povero il mio Giacomo!—sclamò il Sangonetto, notando il pallore che di repente invadeva la fronte e le guancie del Bardineto.—Egli è morto!

—Eh, non tanta fretta a cantargli il deprofundis!—gridò il Picchiasodo.—Scusate, veh, messere dell'archibugio; io penso che voi non ne abbiate mai visto, de' morti.

—Sono stato alla guerra anch'io;—rispose il Sangonetto, mettendosi in gota contegna;—e la mia parte….

—Sia pure;—interruppe il Picchiasodo;—voi dunque capirete che, per sincerarsi della morte di un uomo, bisogna dargli la prova. Ohè, mastro Bernardo, qua il vino!

—Eccolo, messere!,—disse l'oste, raccattando sollecitamente il fiasco e un bicchiere da terra.

Il Picchiasodo prese il fiasco, e versò gravemente nel bicchiere quattro dita di malvasia.

—Da bravo, a voi;—disse poscia al Sangonetto, che sorreggeva il ferito;—sollevatelo un pochino, e mettetegli la mano sulla ferita, che non versi altro sangue; mastro Bernardo porterà un pannilino inzuppato d'acqua, d'aceto, di quel diavolo che vorrà.—

L'ostiere corse dentro ad eseguire il comando. Intanto il Sangonetto rialzava tra le sue braccia l'amico, e guardava stupefatto il Picchiasodo, non intendendo che diamine volesse egli fare di quel vino.

Il vecchio soldato lo levò subito di pena. Accostato il bicchiere alla faccia del Bardineto, gli messe l'orlo tra i denti e gliene fece andar giù una sorsata.

—Guardate; questa è la prova del vino. La scuola antica porta così. Ippocrate, capitolo quarto! Se il morto beve, gli è segno che vive.—

Per dar ragione ad Ippocrate, o, per dir più veramente, al suo burlesco discepolo, che inventava di pianta, il ferito riaperse gli occhi e diede in un gemito.

—Ah, lo vedete?—soggiunse il Picchiasodo, con aria di trionfo.—State di buon animo, messere dell'archibugio. Levategli il farsetto; chiudete per bene le labbra della ferita; fasciatelo strettamente con questo pannilino; date un altro bicchiere al medico (grazie, mastro Bernardo; questo lo bevo alla salute di tutta la brigata), e sarà accomodata ogni cosa. Vediamo un po', giovinotto; provatevi a respirare.—

Giacomo Pico, a cui erano rivolte le ultime parole del vecchio soldato, trasse un respiro senza troppa fatica.

—Lo dicevo io; non gli è nulla…. un buco che si stopperà facilmente! Io n'ho una mezza serqua seminati sulla pelle, e fo conto di tirare innanzi dell'altro.—

Frattanto messer Pietro, ricacciata la spada nel fodero, e dato un altro genovino all'ostiere, che non lo voleva a nissun patto, e che forse perciò, mentre si tirava indietro colla persona, sporgeva tuttavia la mano per prenderlo, si mosse alla volta del suo palafreno e fu in sella d'un balzo.

—È tardi, e dobbiamo guadagnare il tempo perduto;—diss'egli al Picchiasodo, che fu pronto a seguirlo.

Indi, accostando il cavallo alla panca su cui era adagiato Giacomo Pico, e fatto della mano un cortese saluto al suo avversario, gli disse:

—Messere, io vo' aiutare al vostro risanamento, più efficacemente che non abbia fatto Anselmo Campora, detto il Picchiasodo, capo de' miei bombardieri. Se voi foste stato più calmo quest'oggi, avreste di leggieri capito che chi viene per tornarsene subito indietro, non è certamente uno sposo.

—Che? come?—farfugliò il Sangonetto.

—Ah!—sclamò in pari tempo il ferito rizzando il capo e volgendo al suo vincitore uno sguardo da cui trasparivano in pari misura la curiosità e lo stupore.

—Sicuro;—ripigliò il cavaliere;—e avrei amato dirvelo, se non mi aveste sbarrata la strada e afferrate le redini del cavallo, cosa che non mi ha mai fatto impunemente nessuno. Ma basti di ciò. Avete incrociato il ferro con Pietro Fregoso, capitano dei genovesi all'impresa del Finaro. Se la vostra mala, sorte vi fa cadere in balìa dei nemici, ricordate che la tenda del capitano è un fraterno rifugio per voi, e che non vi bisogna riscatto.—

Con queste parole si accomiatò messer Pietro dall'osteria dell'Altino; indi, spronato il cavallo, si mosse verso l'uscio di strada.

Fu quello un colpo di fulmine a ciel sereno. Giacomo Pico sbarrò gli occhi, volle parlare, ma la commozione fortissima gli fece nodo alla gola. Balbettò alcune parole vuote di senso, e ricadde svenuto nelle braccia di Tommaso Sangonetto, che era rimasto mutolo, guardando ora il Fregoso, ora il Picchiasodo, ora l'ostiere.

Quest'ultimo, che pur dianzi, tutto ilare in volto ed affaccendato negli atti, si sprofondava in riverenze alla staffa di messer Pietro, fece tre passi indietro, a quella improvvisa rivelazione; inarcò le ciglia, strabuzzò gli occhi, spalancò la bocca ad un grido, e rimase là sbalordito, come se avesse visto la tregenda, o il diavolo in carne ed ossa.

Il Picchiasodo diede alla sua volta di sprone, per farsi alla manca di messer Pietro Fregoso, e si trovò per tal guisa a pari di quel simulacro della melensaggine.

—Orbene, mastro Bernardo;—gli disse, appoggiandosi sulla staffa verso di lui e assestandogli un buffetto sotto il naso;—che è ciò? Hai forse perduto la scrima?—

Il povero ostiere, che era stato cagione di tutto quel guaio e si vedeva canzonato per giunta, alzò sdegnosamente le spalle e torse gli occhi da lui.

—Sta di buon animo, via!—proseguì il Picchiasodo.—Ho il tuo ricapito e fo conto di ritornare. Tienmene in serbo un fiasco di quest'ultimo, che abbiamo a bercelo tra noi due, ciaramellando da buoni compari sul gotto.—

E ridendo a più non posso, Anselmo Campora, detto il Picchiasodo, capo dei bombardieri dell'esercito genovese, uscì alla sua volta di là.

—Ah sì, a ciaramellare!—ripetè mastro Bernardo stizzito.—Mi si tagli piuttosto la lingua!

Amen!—soggiunse il Sangonetto, poichè furono soli.—E intanto, vediamo di aggiustare questa mala bisogna.

—Ah, messer Tommaso, tutto quel che vorrete;—gridò mastro Bernardo;—comandate, son qua. Maledetti! e dire che avevano un'aria così candida! Mangiavano e bevevano con tanto gusto!

—E tu hai bevuto più grosso di tutti, Bernardo; e non hai capito che coloro tiravano a scalzarti. E non basta; fors'anco pigliavano cognizione dei luoghi, e tu….

—Ah, non me ne parlate, messer Tommaso! Parevano così innamorati del paese! Segnatamente quel capo dei bombardieri…. oh, san Biagio benedetto! Ma già, del senno di poi son piene le fosse; ed ora bisognerà pensare a quello che si potrà dire di questo affaraccio.

—Già!—soggiunse Tommaso.—E che cosa diremo? Ah ecco? che il nostro Giacomino aveva odorato il tradimento e non seppe portarselo in pace. Capisci? Non gli è di buona guerra venir qua, sotto colore d'ambasciata, per esplorare il terreno, e cavare i calcetti alla gente. Per altro, innanzi di presentare la nostra invenzione, bisognerebbe sapere che cosa è avvenuto al castello tra i due genovesi e il marchese Galeotto.

—Sicuro, bisognerebbe saperlo;—disse mastro Bernardo;—ma come si fa?—

CAPITOLO V.

Dal messaggio di Pietro Fregoso e di ciò che ne seguisse al castello Gavone.

In quella che Tommaso Sangonetto sta almanaccando insieme coll'oste dell'Altino, per trovar modo di sapere le cose avvenute e di foggiarvi su una credibile invenzione, andiamo noi per la spiccia e vediamo che ambasciata portasse messer Pietro Fregoso alla corte di Galeotto, marchese del Finaro.

I due cavalieri genovesi (oramai l'arcano è svelato e l'incognito non serve più a nulla) presentatisi alla porta di san Biagio e debitamente fermati dalle scolte, si erano annunziati messaggieri dalla possente repubblica e portatori di lettere d'alto rilievo al marchese. Il comandante della porta, veduto il sigillo coll'arme di Genova, avea dato loro il passo e la compagnia d'un drappelletto di balestrieri, che, parte per onoranza e parte per custodia, li condussero oltre. Così orrevolmente scortati, sotto gli occhi di un popolo curioso che si affollava sul loro passaggio e della loro venuta non pronosticava niente di buono, erano riusciti alla porta settentrionale del borgo; d'onde, per una ripida strada serpeggiante sulla costiera del monte, erano saliti in vista del castello Gavone, dove i marchesi del Carretto, terzieri del Finaro, avevano corte e dimora.

Si è già detto che il castello Gavone era murato a cavaliere del borgo, su d'un contrafforte della roccia di Pertica. Da quella notevole altura il feudale baluardo dei Carretti guardava davanti a sè il borgo anzidetto e tutto il corso del Pora fino alla spiaggia del mare; sui lati, poi, vigilava le due valli del Calice e dell'Aquila, quella che mette a Rialto e questa a san Giacomo. Era, per que' tempi, fortissimo arnese. Quattro torri merlate lo munivano sugli angoli. Lunghesso le mura si aprivano larghe finestre, partite a colonnini, indizio di fasto all'interno; ma su quelle finestre correva un poderoso cordone di pietra e poco sopra di questo una lunga balconata, colle sue caditoie aperte sotto gli sporti, donde all'occorrenza si facea piovere una gragnuola di sassi sui nemici che avessero ardito accostarsi a pie' delle mura.

Grandiosa mole, che, a mezzo diroccata (dopo essere risorta un'altra volta, insieme colla mutevole fortuna de' suoi signori) fa tuttavia bella mostra di sè, e potrebbe anco tentare il più nobile dei capricci che la ricchezza consenta ai fortunati del tempo nostro; il capriccio, vo' dire, di restaurare il passato nella sua parte accettabile! I marchesi del Carretto, ai quali era toccata quella porzione litorana del retaggio aleramico, avevano innalzato il castel Gavone intorno al 1100. Uomini in continuo stato di guerra con vicini e lontani, dovettero eleggere a loro dimora e presidio un luogo discosto dal mare e manco accessibile alle incursioni dei barbari, che infestavano in que' tempi le coste della Liguria. Epperò, da principio si fortificavano in Orco, Verzi ed altre villate sui monti; indi, scemato il pericolo, o cresciute le forze, calarono a Pertica, dove sorse appunto il castel Gavone, due miglia distante dalla riva del mare.

Ci condurrebbe a troppo lunghe e, per giunta, non grate considerazioni, il cercare qual parte della valle fosse da principio abitata. Di certo, agricoltori e pescatori v'ebbero ugualmente dimora da antichissimi tempi. I Romani segnavano in que' pressi una stazione della via militare che correva tutta la spiaggia ligustica, e il nome ad Pollupices ci fu tramandato dall'itinerario di Antonino. L'altro di Finar comparve nell'età di mezzo, e certo era nome antico del pari, a significare, non già la finezza dell'aria, come vollero certi etimologisti sconclusionati (Liguria a leguminum satione, Arenzano ab äere sano e simili altre bambinerie), ma dall'essere colà stabiliti i confini tra gl'Ingauni e i Sabazii.

E qui, prudenti, lasciamo da banda l'età romana, il basso impero e la gran notte barbarica; chè il troppo amore delle minuzie archeologiche non ci tragga fuori del seminato e, quel che sarebbe peggio, della grazia vostra, o lettori. Il Finaro, nel 976, per investitura di Ottone I, appartenne al marchese Aleramo; i cui discendenti, chiamati Del Carretto, lo ebbero e lo signoreggiarono, confuso con altre terre sotto il nome di marca savonese, fino al 1268; nel qual tempo, per la spartizione avvenuta fra i tre figli di Giacomo, toccò ad Antonio Del Carretto, da cui ebbe principio il ramo dei terzieri del Finaro.

Costoro, come ho detto più sopra, posero sede nel castello Gavone, a cavaliere del Borgo, e comandavano di là su tredici villate, che tutte dovevano concorrere all'incremento del capoluogo. Tra esse la Marina, come più prossima, aveva le molestie più gravi. I marchesi mettevano grosse multe a chi ardisse riparar case e murarne di nuove colà; ai forestieri intanto concedeano privilegi, esenzioni ed ogni maniera larghezze, purchè mettessero dimora nel Borgo. Donde appariva manifesto il timore di que' castellani, che la gente non avesse a dilungarsi di troppo dalla loro vigilanza, e l'intento di cansare la sorte toccata ai loro consanguinei della marca di Savona, che questa nobil città e la fortissima terra di Noli avevano sullo scorcio del XII secolo malamente perdute. Già, popolo marinaro, popolo libero; la tirannia non attecchisce sulle spiagge; però non si sta molto ad ottenere consoli proprii e franchigie, in cui maturare ordini di libertà popolana. Ora, questo pericolo miravano a stornare i discendenti d'Antonio, tirando al Borgo il grosso dei vassalli e afforzando sempre più il castello sovrastante.

Dicevasi castel Gavone, con vocabolo di controversa etimologia. Altri lo deriva da giogo, come se anticamente si fosse detto Giovone, o Govone. Io ricordo che dicevasi gavone un ridotto delle nostre vecchie galee, posto sotto coperta, così da prora, come da poppa, e serviva per alloggio degli uffiziali e dei marinai, laddove le ciurme dormivano sotto i banchi di voga. E questo gavone marinaresco e il terrestre possono perciò derivarsi, con assai più verosimiglianza, dal cavum dei latini, nel significato di cavità custodita, murata, od altrimenti rinchiusa.

Altri, per avventura, nell'informe e disforme vocabolario dell'età di mezzo, troverà di che avvalorare questa etimologia, che ha già il vantaggio, sull'altra, d'esser più ragionevole. Io frattanto, ritornando alla storia, dirò che il castello Gavone era davanti e da tergo reso inaccessibile, mercè due fosse profondamente stagliate nel masso; che era afforzato da quattro torri sugli angoli; che ci si entrava da un ponte levatoio e che sulla porta castellana, in una tavola di pietra scuriccia, vedevasi scolpita l'arma dei signori Del Carretto, cioè a, dire uno scudo, partito a fascie diagonali, sormontato da un elmo di corona e tratto su d'una carretta simbolica da due leoni aggiogati.

Quella nobil veduta si parò davanti ai due cavalieri genovesi, a mala pena ebbero afferrata la cima del monte. Doveva esser quello il fine dell'impresa futura; che peccato, in cambio di giungervi eglino soli e in veste di messaggeri, non esservi già collo stendardo della Repubblica e con buona mano d'armati!

Messer Pietro Fregoso, come uomo che delle grandezze umane s'intendeva la sua parte, guardava ammirato quel forte e insieme leggiadro edifizio. Il Picchiasodo non ci vedeva tante bellezze e dava in quella vece la sua guardata alle balze circostanti, per vedere se ci fossero strade, e come disposte. Le strade, si sa, erano il suo grattacapo, e di queste delizie n'avrebbe volute in ogni luogo e per ogni verso, come pur troppo occorre solamente delle molestie, in questo mondo gramo.

Varcato il ponte levatoio, entrarono sotto l'androne, e, mentre il capitano degli arcieri andava a dar notizia del loro arrivo al marchese, erano fatti scender di sella per riposarsi in una sala terrena, dove si diè loro acqua alle mani e rinfresco. Accettarono l'acqua e l'aiuto dei famigli, per scuoter di dosso la polvere, ricusando tutto l'altro che venia loro profferte; e immagini il lettore con quanto sacrifizio e merito di Anselmo Campora, che non avrebbe sgradito di paragonare la cantina del marchese con quella di mastro Bernardo.

Poco stante, apparve sull'uscio un donzello a disse loro:

—Venite, messeri; il magnifico marchese è pronto a ricevervi.—,

Lo seguirono tosto, e, fatta una breve scala, furono introdotti in un ampio salone, che appariva situato nel mezzo del castello, poichè prendeva luce da una parte e dall'altra, pel vano di larghe ed alte finestre, partite a colonnini e chiuse da intelaiature di legno e vetri sigillati col piombo, a mo' di losanghe, come portava la foggia del tempo. Una numerosa e orrevol brigata era accolta colà; molti servitori e donzelli sui lati; nel mezzo un crocchio di gentiluomini; seduto a uno scrittoio il vecchio cancelliere della corte; tutti, poi, ordinati in guisa da far corona ad un seggio rilevato, su cui stava, nobilmente composto, il marchese del Finaro. Gentildonne non erano in quella adunanza; che bene il marchese aveva inteso non doversi quel giorno ricevere ospiti d'allegrezza, sibbene messaggieri di guerra.

Era in quel tempo il marchese Galeotto un uomo di piacevole aspetto, d'anni intorno ai cinquanta, ma di sembianza più giovane, la mercè d'una carnagione rosata, degli occhi azzurri e scintillanti, della barba e dei capegli biondi, che ancora dissimulavano abbastanza le moleste fila d'argento. La figura sua, al primo vederla, lo diceva bollente di spiriti e pronto ad infiammarsi, ma in pari tempo di senni umani e cortesi, quanto il concetto della sua dignità e la logica feudale d'allora potessero comportarne in un principe.

Egli accolse con un sorriso ed un gesto amorevole messer Pietro, che s'inoltrò a capo scoperto e s'inchinò davanti a lui, con atto di ossequio, non disgiunto da un sentimento di onesta alterezza. Il Picchiasodo, per far conoscere la sua condizione più umile rispetto al suo nobil compagno, si era fermato sui due piedi, ma colla berretta in capo, da soldato e non da servitore, a poca distanza dall'uscio.

—Siate il benvenuto, messere;—disse il marchese Galeotto al nuovo venuto, per offrirgli occasione a parlare;—e che cosa recate al Finaro?

—Un messaggio dell'illustrissimo signor Doge e del comune di Genova;—rispose Pietro Fregoso, togliendosi di cintura un rotolo di pergamena, suggellato di piombo, colle armi della Repubblica.

—Ai quali auguriamo ogni prosperità, e grandezza che colla giustizia si accordino;—ripigliò nobilmente il marchese.

Ciò detto, prese dalle mani di messer Pietro la pergamena, ruppe il suggello e lesse. Cotesto faremo anche noi, dando una sbirciata allo scritto.

«Al magnifico signor Galeotto, marchese del Finaro, salute.

«Sebbene a noi per lo passato fosse stata grandemente a cuore l'amicizia vostra, perchè tra noi durasse la quiete, voi sempre dell'amicizia e benevolenza nostre avete fatto stima mediocre. Per la qual cosa, gli animi della città e della repubblica tutta si sono straordinariamente accesi, volendo guerra contro di voi; e guerra sarà, poichè non sembra esservi cara la pace. A questo per vero dire ci disponiamo contro voglia e sforzati; che anzi, mai abbiamo cessato di far pratiche, se per avventura avessimo potuto acquietare lo sdegno di questo popolo, irritato dalla Signoria Vostra con somme offese negli anni trascorsi; e ciò con ogni poter nostro abbiam procurato, nè mai potuto ottenere.

«Ed ora, poichè ricordiamo avervi promesso che, quando fossimo per rompervi guerra, vi avremmo avvisato della cosa, perchè non vi paresse di esser còlto alla sprovveduta, vogliamo significarvi che dobbiate aspettar guerra al Finaro a dì 5 del prossimo dicembre. Però, scorso il giorno 4 di detto mese, sappiate non esservi più dato di vivere con noi in quelle forme di pace e d'amicizia, che sono state finora. Così portiamo speranza di larga vittoria su voi, come d'insegnare a tutti i pari vostri che non abbiano a misurarsi in imprese siffatte con noi. Inoltre quando vi piacesse far correre minor spazio di tempo alla guerra, di quello vi abbiamo indicato, vogliate darcene avviso, e sarà fatto secondo il piacer vostro.

«Data da Genova, addì 21 novembre 1447.

«GIANO FREGOSO.»

Messer Pietro, in quella che il marchese Galeotto leggeva la lettera, stava immobile al suo posto e in apparenza sbadato; ma non perdeva un moto, anco il più lieve, dell'aspetto di lui, e gli appariva manifesto come quella lettura lo avesse colpito. La faccia del marchese era divenuta ad un tratto del color della fiamma; le dita attrappite tiravano per tutti i versi la povera pergamena, che non ne avea colpa veruna; le labbra borbottavano confuse parole; come se dentro dell'animo il marchese Galeotto stesse ad una ad una ribattendo le argomentazioni del suo avversario.

Invero, a lui pareva di aver ragioni oltre il bisogno. La lettera di Giano Fregoso era accortamente rigirata. Niente più curavano i capiparte d'allora, fossero dogi, o pretendenti al dogato, che di mescolare il popolo nelle loro private querele, ire e vendette di famiglia. E a Galeotto cuoceva di veder tirare i genovesi in campo, quasi fossero eglino, e non già i Fregosi, che voleano la guerra. Nè a lui pareva di avere offeso mai Genova, destreggiandosi in mezzo alle fazioni che l'avean lacerata; che quella era per lui la ragione di Stato, e Genova a lui mettea conto vederla, non già nel governo dei Fregosi, ma nella persona degli Adorni fuorusciti, e appunto di quel Barnaba, doge scacciato, che stavasi allora al suo fianco.

E a Barnaba era corso il suo sguardo, in uno degl'intervalli da lui posti in quella ingrata lettura. Ma Barnaba nel messaggero di guerra avea ravvisato messer Pietro Fregoso, e non torceva gli occhi da lui.

—Bene sta;—disse Galeotto, poi ch'ebbe finito di leggere.—Messeri, è un cartello di sfida, questo che Giano Fregoso ci manda.—

Un fremito corse per tutta l'adunanza; che sebbene da lunga mano preveduto, non riusciva meno grave l'annunzio. C'era anzi taluno dei soliti ragionatori alla grossa, che dalle antecedenti lentezze e continue ambascerie genovesi aveva argomentato la poca voglia di venire a mezza spada e tratto speranza pel Finaro d'una via di salvezza. Non così Barnaba Adorno, che ben conosceva l'animo dei Fregosi e la tenacità con cui avrebbero proseguito i loro disegni. Costoro inoltre, non che a colpir Galeotto miravano a molestare in quel suo rifugio la sbandeggiata famiglia Adorno, e lui più di tutti, lui Barnaba, che pochi mesi addietro Giano Fregoso, improvvisamente sbarcato a Genova e con un pugno di suoi partigiani impadronitosi del palazzo ducale, aveva scacciato dal governo e dai confini della repubblica.

Queste cose pensando, Barnaba Adorno aveva sempre creduto alla guerra, e pur dianzi non gli era stato mestieri delle parole di Galeotto per averne certezza, bastandogli il noto aspetto del messaggiero di Genova. Però, quando il marchese ebbe accennato il cartello di sfida a lui mandato dal Doge, egli, con ironico piglio, soggiunse:

—E Giano Fregoso non lo manda per mano d'un semplice cavaliere, bensì a dirittura per quella di Pietro Fregoso, suo comandante d'esercito.—

Messer Pietro si volse stizzito e saettò d'una torva occhiata il nemico.

—Non ancora;—diss'egli di rimando;—e voi, messer Barnaba Adorno, usurpate, a mio credere, i diritti del marchese Galeotto. Io non sarò capitano dell'esercito genovese all'impresa del Finaro, se non quando egli avrà accettata la sfida.

—È vero;—notò con accento benigno, sebbene impresso d'una certa amarezza, il marchese Galeotto.—Io non l'ho anche accettata. Ma come potrei onestamente cansarmene? L'intimazione è chiara e recisa. Leggete, o signori!—

Così dicendo, porse la lettera a Barnaba, intorno a cui si fece ressa di gentiluomini, per leggere l'orgoglioso messaggio di Giano.

—Il mentitore!—sclamò l'Adorno.—Egli ha cercato di acquetare gli sdegni del popolo!

—Rompe guerra sforzato; gli vincon la mano, al poveretto!—notò un altro del crocchio.

—Non è Genova che vuol questa guerra,—soggiunse Barnaba Adorno, infiammato di sdegno,—io lo attesto.

Pietro Fregoso stava per dargli risposta; ma Galeotto lo trattenne col gesto.

—Sia Genova, o no,—diss'egli, per chetare gli spiriti,—imperano i Fregosi colà; ad essi ci bisogna rispondere. E perchè l'esercito, che si sta radunando a Savona,—aggiunse poscia, accompagnando la frase con un cenno del capo, che voleva mostrare com'egli fosse di ogni cosa informato,—perchè l'esercito non abbia ad aspettare di soverchio il suo capitano, eccovi messer Pietro Fregoso, una pronta risposta. Cancelliere, scrivete.—

E con voce alta e sicura, in mezzo ad un silenzio solenne, il marchese Galeotto dettò la sua risposta allo scriba; rimessa in principio e tranquilla, come portava il costume, indi man mano, per lo infiammarsi a grado a grado del personaggio, più concitata ed altiera.

«Al magnifico signore Giano Fregoso, doge di Genova, salute.

«Tutto quanto mi significate nella vostra lettera, magnifico messere, io ho chiaramente inteso. Mi dolse della opinione dei Genovesi, aver io fatta poca stima della loro amicizia, che io sempre n'ho avuto grandissima, nè mai ho trascurato veruna di quelle cose per le quali ho udito e letto potersi conservare i vincoli della benevolenza tra gli Stati; nè penso essere alcuno dei vostri vicini che siasi più attentamente studiato di piacere a cotesta repubblica, perchè durasse tra noi la consuetudine dell'antica amicizia. E ciò talvolta con mio nocumento non lieve; laonde io debbo stupirmi di questa ira, che voi mi dite, dei cittadini di Genova. Vi ringrazio tuttavia che abbiate cercato di contenere e dissipare gli sdegni popolari, per istornarli dalla guerra, provvedendo in tal guisa non meno alla quiete dei Genovesi, che alla salute mia.

«Per rispondere alla lettera vostra, dirò che avrei amato meglio mi significasse pace perpetua, anzi che guerra. Si affà la pace alle mie consuetudini; alieno son io dalle guerre. Ma se infine è così statuito nei consigli degli invidiosi e nemici miei, accetto la sfida, e di grand'animo, confidando nel senno e nella potestà di quel giudice e padrone, che è splendore e difesa dei giusti e terror dei malvagi, a cui niente è nascosto. Egli invero conosce l'animo mio e gl'intendimenti vostri, e sa quanto io con virtù, quanto voi con odio vi facciate a contendere. Imperocchè io non sono, messer lo Doge, così fuori di senno, da non sapere come da lunga pezza, e innanzi voi perveniste a tal dignità, fosse stabilito d'intimar questa guerra. Conosco l'animo vostro e di tutti i vostri contro me e contro tutti i miei; ricordo con quanta moderazione e temperanza mi diportassi coi Genovesi, pur di vivere in pace continua con esso loro, e so come tutte queste cose, a mala pena entraste voi in Genova, niente abbiano giovato a mutare i vostri propositi. Che se vi pensavate esser io obbligato di alcun patto a cotesta illustra repubblica, il quale io oggi negassi di mantenere, mancavano ancora le cagioni di guerra; imperocchè io mi contentai, come mi contenterei anche oggi, che, o l'imperator de' Romani, od altro principe, o comune, o studio di giureconsulti, giudicasse della nostra querela. E nol voleste allora, e nemmeno ora il vorrete, poichè siete infiammati, inaspriti, bramosi di guerra; laonde, resta che con mani e piedi, con tutte le forze mie, di congiunti, di amici e di quanti avrò meco, difenda questa terra e il mio dritto. Facciano adunque i Genovesi come vogliono; resisterò come potrò.

«Voi frattanto, Doge Giano Fregoso, io debbo pregiare assai più che non facessi da prima, se avete pensato di me che io fossi uomo da serbar la mia fede, e m'avete indicato il giorno in cui dovessi aspettarmi la guerra; così facendo cosa dicevole ad ogni principe, e in particolar modo a voi stesso. Spero di uscirne vincitore e di potervi rimeritare, in ogni occasione, della vostra lealtà, se mai avrete mestieri dell'opera mia.

«Data dal Finaro, addì 27 di novembre, 1447.

«GALEOTTO DEL CARRETTO.»

La lettera del marchese Galeotto era nobilissima, come ognun vede, sebbene per avventura in alcuni passi ricisa ed aspra più del bisogno, e condita nel fondo di sottile ironia. Ma queste cose erano da condonarsi ad un principe, che metteva in quel punto a grave cimento la quiete sua e la sicurezza de' suoi dominii. Del resto, e il pepe e il sale di quella risposta piacquero in uguale misura a tutti i gentiluomini della sua corte, e un bisbiglio d'approvazione e certi sorrisi mal rattenuti commentarono prontamente le lodi alla lealtà di Giano, che tutti ricordavano in qual modo fosse tornato a Genova e salito ai sommi onori della repubblica.

Galeotto, così per debito dell'alto suo grado, come per atto di cortesia verso l'inviato di Genova, era rimasto in contegno. Più saldo e più chiuso di lui Messer Pietro, a cui l'uffizio di ambasciatore comandava in quella occasione il silenzio e la calma. Per altro, la torva guardatura e l'atteggiamento della persona fieramente appoggiata al pomo della spada, significavano le represse pugne dell'animo e promettevano alla corte del Finaro che ben presto la libertà del capitano si sarebbe ricattata dei silenzi sforzati del messaggero di Genova.

Finita la lettera e sigillata colle armi del marchesato, Galeotto la prese dalle mani del cancelliere e la consegnò a messer Pietro.

—Eccovi la mia risposta all'illustrissimo Doge e al nobil comune di Genova;—diss'egli frattanto.—Aspetterò la guerra in quel giorno che mi è stato indicato; non posso desiderarla prima, perchè non la ho provocata e aspetto ancora che vogliano i miei nemici tornare a più miti consigli. Comunque sia, messer Pietro Fregoso, io vi prego di render grazie in mio nome al Doge vostro cugino, che tanto ha fatto stima di me e di tanto ha cresciuto la solennità della sfida, mandandola per le mani di un così illustre capitano.—

Anche da queste parole, come già dalla lettera, traspariva un fil d'ironia; ma messer Pietro non poteva adontarsene, e perchè l'ironia era finamente condotta, e perchè, poi, quell'ufficio di messaggero, non al tutto conveniente al suo grado, lo aveva voluto egli stesso.

Si accomiatò con garbo, diede un'ultima occhiata, in guisa di arrivederci, a Barnaba e agli altri fuorusciti genovesi, indi si mosse per uscir dalla sala. Galeotto lo accompagnò fino all'androne del castello.

—Cavaliere,—gli disse, porgendogli cortesemente la mano,—la guerra ha tristi vicende per tutti. Ricordatevi che Galeotto Del Carretto, se è pronto e risoluto a respingere, è poi altrettanto umano in accogliere. Il Finaro è luogo d'asilo ai disgraziati; perciò avete qui veduti gli Adorni. Il giorno che sarà guerra tra noi, non avrete altri avversarii che i Carretti; gli Adorni avranno, non pure licenza, ma preghiera di ritirarsi da un rifugio, che non sarebbe quind'innanzi più sicuro per essi.

—Nobilmente parlate, messere;—disse a lui di rimando il Fregoso;—capitano dell'esercito genovese, io ricorderò queste vostra parole. Ed ora, signor marchese, alla sorte delle armi!—

Le cortesie del commiato rasserenarono il volto di messer Pietro Fregoso. Del resto, quella bisogna era fornita, ed egli facea ritorno, come suol dirsi, nella sua beva.

—Animo, via!—disse ad Anselmo Campora, a mala pena furono usciti di là.—I grattacapi sono finiti e adesso verrà il buono. Mi fermo stassera a Vado, e tu proseguirai fino a Genova, per consegnare la lettera.

Il Picchiasodo fece a queste parole una faccia scontenta, che nulla più.

—Messer Pietro riveritissimo,—soggiunse egli poscia, veduto, che l'altro non aveva badato a' suoi versi,—non perderò mica il mio posto alla predica?

—E come potresti tu perderlo, se c'è tempo fino ai cinque del mese venturo? Siamo oggi ai ventisette di novembre, mi pare, ed io non leverò il campo dalla spiaggia di Vado che la mattina del due di dicembre. Tu dunque domani arrivi a Genova; consegni la lettera al Doge mio cugino; gli dai que' ragguagli di veduta che egli ti chiederà certamente; aspetti le lettere e i comandi che vorrà darti per me, e doman l'altro, il trenta, alla più trista, puoi essere al campo di Vado.

—Eh, diffatti, se non mi fanno aspettare dell'altro, la cosa può esser così come voi dite, padron mio reverito! Dopo tutto, non son io il capo dei vostri bombardieri? Dee premere a loro di rimandarmi libero, come a me di capitar primo all'osteria dell'Altino.

—Ah sì,—disse Pietro Fregoso, ridendo,—questa è la tua meta; ma temo che la bisogna non sia per correre spedita come tu pensi. Castelfranco non si piglia in un giorno.

—Lo capisco ancor io;—rispose il Picchiasodo;—ma questa è una ragione di più per capitarci in tempo colle bombarde.—

In questi ragionari, oltrepassato il Borgo, s'erano avviati sulla strada della Marina, dove aveva a trattenerli il tristo caso che abbiamo narrato nel capitolo antecedente.

E adesso torniamo al castello, dove la sfida di Genova avea messo tutti in trambusto. Il marchese Galeotto, prevedendo da lunga mano la cosa, aveva, siccome ho già detto, raccolto gran gente nel marchesato; ma egli bisognava spartire i comandi, sincerarsi che niente mancasse nei luoghi più esposti a un primo assalto nemico, asserragliare i passi più facili, e frattanto mandare l'annunzio della guerra dichiarata al capitano della Lega, perchè incontanente spedisse gli aiuti promessi al Finaro.

Per questo uffizio nessuno parve al marchese più adatto di Giacomo Pico. Egli era tornato bensì quella stessa mattina dalla Langhe; ma in lui Galeotto riponeva ogni sua fede; il negozio richiedeva la massima speditezza nel messaggero e pari conoscenza dei luoghi, degli uomini e delle cose; però fu mandato a cercare nelle sue stanze il Bardineto, e, non essendo trovato colà, fu mandato a cercare nel Borgo.

Ora, in quella che lo si aspettava, e il marchese Galeotto s'intratteneva co' suoi gentiluomini e colle donne della sua casa, ecco giungere la Gilda, una vispa e leggiadra ragazza, e, avvicinatasi a madonna Bannina, susurrarle alcune parole, che parvero turbar grandemente costei e la sua gentile figliuola, che le aveva udite del pari.

—Che c'è?—dimandò il marchese, notando il turbamento improvviso delle sue dame.

—Giacomo Pico moribondo all'Altino;—rispose madonna Bannina al marito;—questo è l'annunzio che ci ha recato la Gilda.

—Come? che è stato? e da chi lo sai?—ripigliò il marchese, volgendosi alla ragazza con atto di profonda ansietà.

La Gilda, tutta confusa, ripetè allora ad alta voce come il Bardineto avesse combattuto in duello pur dianzi col cavaliere di Genova e fosse gravemente ferito all'osteria dell'Altino, dov'era accaduto lo scontro. La notizia era stata portata a lei da Tommaso Sangonetto, aiutante del notaio David, che stava ancora in anticamera, per aspettare i comandi del marchese. Disse infine tutto quel che sapeva; non già tutto quello che le aveva detto il nostro Tommaso, Egli diffatti, in mezzo alle notizie dell'accaduto, aveva trovato modo di schiccherarle una dichiarazione d'amore, che a lei era parsa sconvenevole al sommo, in quella occasione, e glielo sarebbe parsa, ne abbiam fede, in altre parecchie.

Ora, come si spiega cotesto, senza frugare un pochino negli arcani del cuore? Veramente, i segreti d'una bella ragazza non s'avrebbero a dire; ma noi siamo qui per raccontare, e non andremo fuori di carreggiata dicendo che la Gilda ci aveva il suo e che un uomo le aveva dato nell'occhio. Anche lei, cresciuta nella compagnia e nella benevolenza dei castellani, era diventata ambiziosa, come Giacomo Pico; per altro, siccome nel cuore d'una ragazza inesperta l'ambizione non mette ancora troppo in alto la mira, gli occhi della Gilda non s'erano levati fino ad un cavalier di corona; avevano fatto sosta sulla persona di quell'altro ambizioso, che era Giacomo Pico. Il giovinotto non le aveva mai detto nulla di singolare; nè occhiate, nè sospiri, avevano fatte le veci di una accesa parola; ma egli era così buono, così dolce, così grazioso con lei! Già si capisce che il Bardineto fosse tale, o si studiasse di parerlo, con quante persone attorniavano di consueto madonna Nicolosina. Epperò, fidandosi a quelle apparenze, la Gilda aveva pigliato un granchio, come a tante ragazze della sua età facilmente interviene. Egli è tuttavia da soggiungere, a lode delle donne, che esse, pigliato il primo, non ne pigliano più altri; li fanno pigliare.

Ciò posto in chiaro, si capirà come la Gilda fosse dolente per l'annunzio recato dal Sangonetto e come dovessero parerle sconvenevoli le digressioni da lui fatte per utile proprio. E non ne diciamo più altro.

Udita la Gilda, il marchese Galeotto volle vedere il messaggiero, che fu subito introdotto e raccontò, s'intende, l'accaduto a suo modo. Giacomo Pico era andato con esso lui a diporto sulla Caprazoppa. Scesi all'Altino, avevano udito di due cavalieri, che, prima di salire al castello, s'erano intrattenuti a curiosare per via e a pigliar lingua dei luoghi. Cotesto aveva insospettito il Bardineto; ambedue avevano fiutato i genovesi e s'erano messi sulle orme loro. Nel risalire alla volta del Borgo li avevano incontrati, ma già sul ritorno, e lì, una parola ne tira un'altra (il Sangonetto non ricordava più come), erano venuti alle grosse. Pico aveva la spada a sfidò a duello il Fregoso. Egli, Sangonetto, non l'aveva, e non potè essere che testimone al combattimento, che era finito colla peggio del suo povero amico.

—Fu un colpo disgraziato!—diceva il prode Tommaso.—Ed io non ho potuto ricattarmi sul compagno del Fregoso, perchè non avevo meco che questo coltello da caccia.

—Bravi giovani!—sclamò il dabben gentiluomo.—Ma dimmi, è così grave la ferita, che il nostro Pico non possa muoversi dall'Altino?

—Oh, non dico questo, magnifico messere; su d'una lettiga si potrà sicuramente portarlo via di laggiù.

—Va dunque; piglia quattro soldati alla porta di San Biagio e sia il nostro Giacomo condotto al castello, dove gli sarà usata ogni cura.

—Padre mio,—entrò a dire timidamente quell'anima pietosa di madonna Nicolosina,—se noi gli andassimo incontro?

—Perchè no?—soggiunse il marchese, assentendo del gesto.—È delle dame aver cura ai feriti. Giacomo Pico ha salvato la vita a me; la mia famiglia deve essergli grata. Andate dunque e veda il Finaro che le sue castellane son pronte ad ogni ufficio di carità pei nostri fedeli servitori e soldati. Ma ora che Pico è ferito, chi porterà l'annunzio della sfida di Genova al capitano della Lega, a Millesimo?—

Tommaso Sangonetto, che stava coll'occhio alla penna, vide che quello era momento da farsi avanti e acciuffar l'occasione.

—Magnifico signore,—diss'egli, inchinandosi,—non valgo io nulla per obbedirvi? Son tutto vostro e se v'è cosa che io possa fare, in cambio del mio povero amico, eccomi ai vostri comandi.

—Sì, puoi servirmi benissimo;—rispose il marchese Galeotto.—Si tratta di portare una lettera a messer Francesco del Carretto, signor di Novelli. Lo troverai a Millesimo, nella torre di Oddonino. Andando a staffetta, potrai essere domani, all'alba, in Millesimo. Va dunque a pigliare il nostro Giacomo e torna; ti metterai in viaggio tra un'ora.—

Ed ecco il nostro Tommaso Sangonetto ambasciatore dell'esoso tiranno. La fortuna capricciosa lo aveva innalzato a quel segno; ma la fortuna egli l'avea anche aiutata con una mezza serqua di bugìe; non le era dunque debitore di nulla. Per contro, egli poteva credersi obbligato di qualche cosa alla disgrazia di un amico, e, pensando al povero ferito che andava a togliere dall'osteria dell'Altino, aveva anche ragione a considerare la profonda verità dell'adagio, che tutto il mal non vien per nuocere. Disgrazia di cane, ventura di lupo, dicevano i vecchi.

—Un bel garbuglio s'è fatto!—andava egli digrumando tra sè.—Giacomo in di grosso ha capito quello che dee lasciar credere della sua sfuriata contro il Fregoso. Mastro Bernardo, che è stato cagione di tutto il guaio, non parlerà. Io ci ho guadagnato di poter dire una parolina alla Gilda e di diventare un pezzo grosso alla corte. Non c'è che dire; sono ambasciatore, o giù di lì; lascio la spada pel caducèo, il panzerone per la guarnacca; cedant arma togae!—

VI.

Nel quale si vede come San Giorgio, invocato da due parti, non sapesse a cui porgere orecchio.

Era un fiorito esercito quello che la repubblica genovese avea posto sotto il comando di Pietro Fregoso, e che questi guidava dal campo di Vado all'impresa del Finaro.

Come Genova avesse provveduto a radunar gente, s'è già accennato a suo luogo. Seicento fanti dovea fare il vicariato di Chiavari, quattrocento il vicariato della Spezia ed ottocento le tre podesterie. La città di Genova dava quattrocento balestrieri, milizia sceltissima e assai riputata; Varazze, Savona e Noli, davano mille fanti; Albenga, i Doria d'Oneglia e i signori della Lengueglia, quattromila; Filippo Doria, del Sassello, cinquanta balestrieri; Giovanni Aloise del Fiesco e gli altri parenti suoi, si mettevano alla discrezione del Doge; gli Spinola di Luccoli, così quelli che possedevano castella, come quelli che non ne possedevano, erano obbligati a fornir per un mese dugento balestrieri; quanto al Doge, ne metteva del suo quanti bisognassero. E questi dovevano essere i più numerosi e più certi nel campo.

Invero, non si poteva a que' tempi far troppo assegnamento sulle forze comandate, e questo non già per manco di prodezza nei combattenti, bensì per la poca e varia durata del loro servizio. Comuni e feudatarii non usavano imporlo che per breve stagione, talvolta di trenta dì, come nel caso citato degli Spinola, tal altra di quaranta; spirato il qual termine, le milizie in tal guisa raccolte lasciavano a mezzo l'impresa meglio avviata e si sbandavano tosto. Bene per moneta, o grazia speciale, si consentiva al comandante un servizio più lungo; ma questo per privati accordi dovea stipularsi; ad ogni modo, egli non era da farci a fidanza. Perciò, in ogni impresa, occorreva ai comuni ed ai principi aver gente in altra maniera, e, a dirla in poche parole, pigliar mercenarii in condotta.

Il nome solo di mercenarii è un doloroso ricordo per noi italiani. In quelle soldatesche vaganti era la forza, e la loro prevalenza nelle guerre del medio evo ci spiega come fosse possibile lo imperversare di tante fazioni e il soverchiare di tante tirannidi. Piccoli comuni inghiottiti dai grandi; questi oppressi dalla violenza di un solo, o lacerati dalle gare di molti; discordie tirate innanzi fino alla calata di un più possente nemico, che aggravi la sua mano di ferro sulla contesa città; vicarii d'Impero e vicarii di Chiesa, con tradimenti e raggiri, fatti padroni di vaste provincie, incautamente preparate a stimolare la cupidigia di stranieri monarchi; questo ed altro hanno procacciato i mercenarii all'Italia. Il bisogno, nei comuni e nei principi, di guerreggiarsi l'un l'altro, aveva tirato quella peste tra noi, e le grosse paghe avean fatto della milizia un gradito mestiere; laonde privati cittadini e gentiluomini agli sgoccioli radunavano spesso un certo numero di cavalieri e di fanti, coi quali andavano a soldo del migliore offerente.

Forastieri in principio, furono italiani dappoi. Italiano, per citarne uno fra tanti, era quell'Astorre Manfredi che comandava nel 1379 quella terribile compagnia della Stella, mandata da Bernabò Visconti a molestare il territorio dei Genovesi. Questi, per altro, il 24 di settembre di quel medesimo anno, la ruppero sulla spianata del Bisagno, tuttochè forte di ben quattromila uomini e saldamente appoggiata alla collina d'Albaro, menando prigione il maggior numero e deputando un commissario a giudicarli. Aveva egli dal Comune il mero e misto imperio e la podestà della spada, affinchè procedesse juris ordine servato et non servato, cioè a dire che potesse giudicare sommariamente. E così fece messer Giorgio Arduino, che tale aveva nome il fiero magistrato, mandando tutti que' scellerati predoni alle forche.

Ma lasciamo in disparte le grandi compagnie, che non entrano nel nostro povero quadro, e ristringiamoci a parlare di quelle piccole masnade di venturieri, che, datisi al mestiere dell'armi, cominciavano ad essere caporali di lancia, e, venuti in fama di prodezza, riuscivano a far manipolo di gente, che poi conducevano a' servigi di questo e di quello. La loro condotta era di tre sorte. Dicevasi che un condottiero serviva a soldo disteso, quando egli, con un dato numero di cavalli e di fanti, militava operosamente sotto il comando del capitano generale; era in quella vece condotto a mezzo soldo quando, senza obbligo di passare la mostra, e in forma di compagnia, guerreggiava a suo bell'agio le terre sopra le quali era mandato; da ultimo, stava in aspetto quando, per certa piccola paga, il principe, o comune che fosse, teneva impegnata a suo pro' la compagnia del condottiero, per ogni caso di guerra.

A tal gente aveva fatto capo il Doge di Genova, per rafforzare l'esercito d'un buon nerbo di cavalli e di fanti. E sotto il comando di messer Pietro Fregoso erano venuti in condotta per tutto il tempo che avesse a durare la guerra, Firmiano Migliorati con dugento fanti, Francesco Bolognese con quattrocento, Vecchia da Lodi con cinquecento, Santino da Riva, lombardo egli pure, con altri cinquecento, Bombarda di Nè con trecento, Giovanni di Trezzo con trecento del pari e Pietro Visconte con dugento cinquanta. Cinquecento ne aveva Bartolomeo da Modena; dugento per ciascheduno Giovanni da Cuma, Soncino Corso e Carlo del Maino; trecento Cipriano Corso, duecento Antonello da Montefalco ed altrettanti il Vecchio Calabrese; cento il Giovine Calabrese, cento Battista di Rezzo, come Carlino Barbo, Bertone Maraviglia e Bertoncino il Poccio, da ultimo, ne aveva cinquecento egli solo.

Parecchi portavano anche condotta di lancie. Cinquanta ne comandava Firmiano Migliorati; venticinque Santino da Riva; dieci per ciascheduno Bartolomeo da Modena e Giovanni da Cuma; venticinque Beltramino da Riva.

E qui bisognerà fermarsi un tratto per dire che cosa fossero le lancie. Parlo pei meno intendenti di queste astruserie militari, che pure ricorrono tanto frequenti nelle storie italiane anteriori alla prevalenza dei cannoni e degli schioppi maneschi.

Nella cavalleria, più che nei fanti, era a que' tempi il nerbo delle battaglie. Questi, se arcadori e balestrieri, incominciavano la pugna; i cavalieri vi facevano poscia lo sforzo decisivo. Sepolti, per così dire, entro a montagne di ferro, portati da cavalli smisurati e coperti anch'essi di ferro, correvano a furia gli uni sugli altri, e vincitore era facilmente colui che levasse il nemico d'arcione. Il ferire, essendo intatte le armature, non tornava agevole, salvo in un punto, cioè sotto l'allacciatura dell'elmo. E a ciò, se il cavaliere non reputava più utile imporre un riscatto al caduto, badavano i serventi del vincitore e gli altri fantaccini accorsi nella mischia.

Così poderosamente armato e bisognoso d'aiuti, il cavaliere aveva sempre un cavallo di riserbo, talvolta anche due, ed un manipolo di pedoni con sè. Potevano esser quattro e cinque, non mai meno di tre serventi, uno dei quali armato di balestra, e un altro di lancia, o di partigiana. Costoro si chiamavano anche saccomanni; gli altri si diceano paggi, o ragazzi, nel primo significato del vocabolo, che è quello di servi, adoperati in umili esercizi. E tutta questa famiglia dicevasi lancia, giusta il costume degl'inglesi venturieri calati in Italia, che tolsero il nome dall'arma principale del combattente; laddove, più anticamente, da noi i cavalieri erano detti militi, per antonomasia, quasi i soli che meritassero tal nome, o barbute, o elmetti, dalla più nobil forma dell'armatura del capo. Quest'elmo, un panzerone di ferro e un'anima d'acciaio sul petto, bracciali, cosciali e schinieri di ferro, erano le difese del cavaliere; daga, e spada soda, lancia a posta sul piè della staffa, erano l'armi di offesa.

Nomi diversi, secondo i tempi e le fogge del loro armamento, avevano i fanti. Portavano giaco e cervelliera di ferro, spada e mazza, oppure una picca di smisurata lunghezza. Dicevansi tavolaccini e palvesarii i balestrieri che combattevano al riparo d'un tavolaccio, o d'un palvese, scudi alti quanto la persona e terminati in punta, che si conficcavano in terra. Le balestre (chi nol sa?) erano aste di legno, cui s'adattavano archi di ferro; le maggiori avevano un piede, di guisa che il balestriere non durava altra fatica che di tenderle, appuntarle e scoccarle; altre, più grandi, e dette balestroni, o spingarde, specialmente adoperate nella difesa, o nell'assedio delle fortezze, si montavano la mercè d'una girella e scagliavano tre verrettoni, e all'occorrenza anco pietre.

L'argomentò mi tirerebbe a parlare eziandio delle macchine; ma il troppo stroppia e fo punto. Tra fanti e cavalli, bombardieri, artefici e bagaglioni, erano forse quindicimila sotto i comandi del Fregoso, all'impresa del Finaro. Pochi erano i cavalieri in paragone degli altri; ma i luoghi montuosi e ristretti in cui era portata la guerra, non richiedevano gran nerbo di gente a cavallo. Del resto, in aiuto alle lancie, militavano con messer Pietro molti nobili genovesi, e tra essi quasi tutti i giovani della casata Fregosa.

Le prime bandiere giunsero in vista del Finaro il giorno che era stato indicato, cioè a dire il 5 del mese di dicembre. Le vedette collocate dal marchese al passo delle Magne, si ritrassero a Verzi e di là fino al Calvisio, per dare avviso dell'approssimarsi del nemico. Galeotto aspettava il Fregoso al passo di Val Pia, per sbarattare le prime compagnie che si fossero perigliate laggiù. Ma messer Pietro non avea fretta di calare nella valle; per quattro giorni intieri stette sul poggio di Castiglione, aspettando l'arrivo di tutta la sua gente; e frattanto gli artefici, per suo comando, prendevano a far bastita in quel luogo.

Dicevasi bastita, o battifolle, quell'edifizio che un esercito innalzava in prossimità del nemico, per comandare un passo contrastato, o una città assediata, ed era alcun che di simile al vallo degli antichi romani e al campo trincierato degli eserciti moderni. Facevasi di legno e di pietre, munivasi di steccato, di scarpa e di fosso tanto più profondo quanto più era consentito dal tempo e richiesto dalla poca eminenza dei luoghi. Colà dentro riparava l'esercito con tutte le sue salmerie ed ingegni di guerra, così per custodirsi da un colpo disperato del nemico ed aver tempo a mettersi in arme, come per tornarvi a rifugio e riordinarsi nel caso d'una sconfitta.

Messer Pietro era uomo avveduto e non gli accadeva mai di badare ad un negozio, che non ponesse mente in pari tempo a tutte quelle cose che potevano aiutarne il buon esito. La sua bastita non appariva una delle solite a farsi in somiglianti occasioni; capace era e fortissima, con quattro torri sugli angoli, come se anche di là dond'era venuto temesse egli un assalto. Que' monti, che scendevano dirupati fin presso al mare, gli parean traditori, ed egli inoltre, quanto al senno di poi, non voleva rimorsi.

Quella bastita, del resto, anche avanzandosi egli col grosso delle schiere entro la valle del Finaro, doveva rimanere il suo ricettacolo, il suo emporio, la sua piazza forte. Però l'aveva innalzata in luogo così eminente e lontano, e fatta così ampia, così validamente munita. I Finarini, che stavano spiando tutto ciò dalle loro beltresche e battifredi rizzati sui colli di rimpetto, in cominciavano a beffarsi di questo Fabio temporeggiatore, e delle sue fabbriche tanto lontane.

—Scenda,—dicevano essi,—venga alla prova sotto le mura di Castelfranco e vedrà se, scompigliato al primo urto, gli riesce di tornare in salvo su quella bicocca.—

E messer Pietro, la mattina del 14, bravamente discese. Santino da Riva, colle sue lancie, correva sulla sponda sinistra del torrente di Pia, per assicurare le spalle dell'esercito dalla imboscate nemiche. I quattrocento balestrieri di Genova calarono in bell'ordine sotto il comando di Nicola Fregoso, giovin cugino di Pietro, e s'avviarono verso la foce del torrente. Giunti ad un luogo coltivato, che avea nome di Vigna Donna, si fermarono, con gran meraviglia dei difensori di Castelfranco, che si aspettavano un assalto e stavano ai parapetti, pronti con verrettoni, sassi, e pece bollente, a respingerli. Questo per la difesa del castello; ma dietro ai saglienti dei bastioni c'era preparato dell'altro, per attaccar battaglia sul lido. Erano colà forse due mila Finarini appostati, che dovevano piombare sul nemico, a mala pena si fosse avventurato all'assalto.

Ma messer Pietro non volle pigliarsi la briga di andarli a cercare. Piantatosi a Vigna Donna, accennò di volervi attender battaglia, e, poichè questa non gli fu data, di volervi dormire. E giunse difatti la sera, senza che egli si fosse scostato di là. Il luogo doveva piacergli di molto, poichè egli ci stava ancora la mattina vegnente; anzi ci avea messo casa. Il principio d'uno steccato appariva in quel luogo; il fosso era scavato in giro e il cavaticcio ammontato a rincalzo dei pali, minacciosamente aguzzi e appuntati all'ingiù. Quello era stato il lavoro di tutta la notte, e certamente messer Pietro ci aveva fatto vegliare la metà dell'esercito. Di torri non c'era ancor segno in quel luogo; chè sarebbero state opere inutili. Il palazzo di Gandolfo Ruffini, murato in quella vigna, era parso la man di Dio al prudente capitano, che n'avea fatto il mastio della sua nuova difesa. Una strada coperta, tutta irta di punte, metteva dal battifolle improvvisato fino alla bastita del poggio di Castiglione.

I difensori di Castelfranco incominciarono a capire il disegno di messer Pietro. Voleva esser sicuro del fatto suo, il capitano genovese, e dar battaglia colle spalle al coperto. E quanta riserva di pali faceva portar tuttavia da lunghe file di bagaglioni! Ormai ce n'erano tanti accatastati là dentro, da farne, non che una doppia, o tripla stecconata, una selva.

Così passò la giornata del 15; i Genovesi lavorando senza posa a rafforzare il battifolle e portando sempre nuovo legname; i Finarini aspettando un assalto da alcune compagnie di fanti, che proteggendo i lavori dei manovali, accennavano di avvicinarsi a Castelfranco. Erano giunti a due balestrate dalle mura, nel luogo detto di San Fruttuoso, poco stante dalla spiaggia del mare; ma non s'inoltravano di più.

—Che diavol fanno?—si chiedevano i difensori di Castelfranco l'un l'altro.—Oramai, il battifolle di Vigna Donna è diventato una legnaia.

—Provvedono forse ai casi loro per quest'inverno, che sarà freddo laggiù.

—T'appiccherà il fuoco messer Galeotto, statene certi; e di qui ci vogliamo goder la fiammata;—

Questi i ragionari sul parapetto. Intanto giungeva la notte, senz'altro di nuovo per tutto quel dì, tranne qualche colpo di balestra scambiato sul lido tra le vedette dei Finarini, appostati sotto Castelfranco, e alcuni più audaci scorridori nemici.

La notte fu buia e tempestosa; soffiava il libeccio e il mare frangeva rumoroso alla spiaggia. Tuttavia, dall'alto dei bastioni si udiva un continuo rumore nel campo, un alternarsi di voci, un cozzar di ferri, un cigolar di ruote, ed anche un picchiar di martelli e di badili, che indicavano una strana assiduità di lavoro.

Messere Antonio del Carretto, che con sessanta animosi ed esperti soldati difendeva il castello, venuto nel cuor della notte, com'era debito di buon capitano, a fare la sua passeggiata lunghesso le mura, non dubitò di attribuire quello strepito di carri allo avanzarsi delle macchine da fuoco, che il giorno vegnente avrebbero preso a fulminare la ròcca. Quanto ai badili e ai martelli, pensò che continuassero il lavoro del giorno addietro, e non vi badò più che tanto.

—A domani, dunque!—diss'egli.—L'assalto è imminente.—

E in questa credenza, mandò un soldato ad avvisare il cugino Galeotto, che i Genovesi portavano innanzi le artiglierie.

Venne finalmente l'alba, quantunque grigia, piagnolosa e svogliata. Ma i suoi incerti barlumi non rischiararono nessun apparecchio di macchine, e in quella vece si vide un nuovo steccato a San Fruttuoso, come la mattina antecedente lo si era veduto a Vigna Donna. E l'uno appariva collegato all'altro, come ambedue alla bastita di Castiglione.

Capirono allora i difensori del castello che cosa significasse la legnaia del giorno addietro, e stupefatti domandarono a sè stessi se i Genovesi intendevano di andar oltre a quel modo, sotto i loro occhi, fino alla vista della Marina.

La cosa non era del tutto improbabile. I Genovesi andavano meritamente famosi in tutta la Cristianità, ed anco in Turcheria, per la loro eccellenza nelle opere di legname usate alla espugnazione della città. Quest'arte l'avevano ereditata da Guglielmo Embriaco, di cui ho raccontato altrove le mirabili imprese.

Per altro, dal valoroso Capodimaglio avevano anche ereditato il costume di menare arditamente le mani, e non era da credere che volessero lavorar di accette e martelli più del bisogno. Certo, se avevano fatte tre bastite in cambio d'una, egli c'era il suo bravo perchè.

Ed erano riusciti una meraviglia, quei tre battifolli, quantunque edificati all'infretta. Per una lunga diagonale, dal poggio di Castiglione insino a San Fruttuoso, dove la spiaggia del mare incomincia a restringersi sotto l'eminenza di Castelfranco, si stendeva non interrotto un ciglione, protetto da fosso e steccato. Il marchese Galeotto, che era accorso di buon mattino al castello, non potè rattenersi dallo ammirare l'operosità e l'avvedutezza militare del suo avversario.

Per contro, il non vedere le artiglierie sugli approcci, diè grandemente da pensare al marchese. Il nemico se ne stava cheto nel campo; solo erano usciti pochi drappelli di balestrieri, correndo un tratto del lido, sulla fronte delle opere avanzate, e scambiando, come il giorno addietro, qualche colpo co' suoi. Badaluccavano; e frattanto messer Pietro proseguiva qualche suo alto disegno, che a lui non venia fatto d'intendere. Forse non ne aveva alcuno; ma in guerra, e pel nemico che deve indagare ogni cosa e fondarsi su tutti i possibili e su tutti i probabili, averne e non averne è tutt'uno; sconcerta sempre e fa rimanere sospesi.

Ora, l'incertezza non garbava punto al marchese Galeotto; il quale volle averne l'intiero, andando sul nemico da due parti, di fronte e di fianco, dalla Marina e dalla valle di Pia. Il Fregoso poteva non aver altro in mente che di espugnare Castelfranco, chiave del marchesato dalla parte del mare, e forse traccheggiava, vuoi per compiere le sue opere di difesa, vuoi per aspettar gente, o artiglierie che gli mancassero ancora. In questo caso, un assalto dei nemici doveva tornargli molesto; ragion questa per testarlo di colta. O meditava, tenendo a bada i nemici sulla Marina, di andarli a pigliar dalle spalle sui monti, e l'assalto improvviso anche da quella banda riusciva a guastargli il disegno. Pareggiate in una data misura le forze, chi assalta ha sempre bel giuoco.

A pareggiare le forze, ed anche un pochino le sorti, che sogliono quanto quelle aver peso nella bilancia, non parve a Galeotto esserci partito migliore che quello di una incamiciata. Nel fitto delle tenebre la pochezza del numero non faceva danno, anzi tornava a vantaggio, purchè i meno avessero cuore; inoltre, nello scompiglio d'un assalto non aspettato, una linea così lunga di accampamento si difendeva men bene che a giorno chiaro, contro un numero tre volte maggiore.

Così pensando, sceglie cinquecento de' suoi più animosi e provati; li fa calare a tarda sera dal monte che corre alle spalle di Castelfranco e si rovescia con essi sullo steccato di Vigna Donna. Dalla marina altri ne escono in numero di forse trecento, e li comanda Barnaba Adorno, che non ha voluto abbandonare il suo ospite, poichè il giorno delle tristi prove è giunto ancora per lui. Questi e gli altri hanno indossato una camicia sul giaco, per riconoscersi nella mischia a vicenda.

Tutto andò francamente come avea disegnato il marchese. Prima a dar dentro furono gli uomini di Barnaba Adorno, dalla parte di San Fruttuoso. Giunsero senza intoppo sino all'orlo del fosso, lo colmarono con fascine, tempestarono di colpi la stecconata, e fecero impeto nel battifolle. Ma lì, a poca distanza dalle prime difese, l'ingegno acuto di messer Pietro avea seminato i tranelli, facendo scavare carbonaie e bocche di lupo, nelle quali cascarono molti assalitori a rinfusa. Lo scompiglio fu grande e poco il danno degli assedianti, che tosto si fecero addosso ai malcapitati ed appiccarono la zuffa.

Messer Pietro, dati i comandi più urgenti a spronare il coraggio de' suoi, e lasciato in quel luogo il cugino Nicola, si partì dallo steccato di San Fruttuoso per correre indietro, a Vigna Donna. Il suo disegno non era stato indovinato dal marchese, appunto perchè era il più semplice. Pietro aspettava quell'assalto notturno, e volea trarne profitto, per mostrare ai nemici la saldezza delle opere sue. Ora l'assalto dato a San Fruttuoso, sulla fronte ristretta e quasi cuspidata del campo genovese, non gli pareva che una finta, laddove il gran colpo doveva esser ferito sul fianco, alla bastita di Vigna Donna.

Nè s'ingannava. Sorprese e rovesciate la scolte, si scagliava appunto allora il marchese sullo steccato. Rami, sarmenti, pietre, e quanto poteano avere alle mani, tutto gittavano i suoi fanti animosi nel fosso, per far la colmata. Incitandoli coll'esempio, fu egli il primo a scrollare con braccio poderoso i pali, a romperne la traversa a replicati colpi di scure, balzar dentro del varco, faticosamente aperto nel palancato, e, menata a tondo l'arme villana, incignare gagliardamente l'attacco.

Ma se per avventura fu terribile il colpo, non riuscì la difesa men fiera. Al grido delle scolte, allo strepito dei nemici accorrenti, si erano levati in armi i soldati genovesi e colle partigiane spianate venivano incontro a quelle bianche fantasime, piombate allora nel campo. Dàlli, dàlli! San Giorgio e Fregoso! Ammazza, ammazza! San Giorgio e Carretto! E la mischia s'impegnò d'ambe la parti accanita.

Messer Pietro, uomo di partiti se altri fu mai, per mettere lo scompiglio in mezzo ai nemici e far vedere in pari tempo alla sua gente come pochi fossero costoro e in poco spazio ristretti, comandò di portare innanzi fascine incatramate, appiccarvi il fuoco e gittarle a tutta forza di là dalla chiusa. I molti che ancora non avevano potuto penetrarvi e che facean ressa al palancato, sopraffatti da quella pioggia di fuoco, dovettero dare indietro solleciti e sparpagliarsi pei campi; intanto una torbida luce rischiarò gli assalitori alle spalle e mostrò ai genovesi quanto poco di terreno avessero, con tutto il loro impeto, guadagnato i nemici. Frattanto il Picchiasodo, che non avea niente a fare del suo mestiere, e sempre si doleva di stare colle mani alla cintola, imbattutosi in una catasta di pali aguzzi che erano avanzati agli artefici, prese, colla fretta di un uomo che lavorasse a cottimo, a sfrombolarne gli assalitori. Volavano i tronchi l'un dopo l'altro, rombavano in aria, cadeano nel fitto dei combattenti, ammaccavano le cervelliere, rimbalzavano sulle braccia, chi coglievano di punta e chi di schiancio, facendo ognun d'essi il lavoro di quattro soldati. Anche il marchese Galeotto ebbe a saggiarne la forza, che uno di quegl'insoliti verrettoni gli portò via netta la scure dal pugno. Anselmo Campora seguitava a picchiare (e come sodo!) mostrando coi fatti di non averlo scroccato, il suo soprannome di guerra. E intanto, dàlli, dàlli, ammazza, ammazza, le grida cozzavano come i ferri; San Giorgio e Fregoso, San Giorgio e Carretto s'incontravano in aria, accompagnati salivano al cielo.

Il povero santo delle battaglie sicuramente udì quelle invocazioni notturne, dal luogo de' suoi celesti riposi; ma io porto opinione che egli, per non sapere a cui porgere orecchio, tagliasse corto, dicendo che la notte è fatta per dormire, e si voltasse dall'altro lato, lasciando a' suoi divoti la cura di levarsi d'impaccio da sè.

Grande fu l'uccisione da ambe le parti. Ma gli uomini di Galeotto non potevano, con tutta la loro maravigliosa prodezza, fare un passo più oltre, serrati com'erano e oppressi da una moltitudine di nemici. Oltre di che, dalla parte di San Fruttuoso era cessato il frastuono delle voci e dell'armi; segno che Barnaba non avea potuto sfondare la cerchia dei Genovesi e aprirsi l'adito fino ai compagni d'attacco.

Allora Galeotto comandò la ritirata, e, perchè non avesse a mutarsi in dirotta, con un pugno de' suoi migliori la protesse egli medesimo fin oltre il fosso; indi, col favor delle tenebre, nè volendo messer Pietro arrisicare i soldati in una caccia notturna, potè ricondursi in salvo a Calvisio. I Genovesi profittarono delle ore che ancora avanzavano al romper dell'alba, per isgomberare il fosso e rifar lo steccato.

Passarono quattro o sei dì senza cose notevoli. Messer Pietro faceva le mostre di dormire. Sapeva prodi i Finarini e, da buon capitano, mirava a stancarli, a condurli allo stremo, senza spreco de' suoi. Il Picchiasodo solea dire che messer Pietro faceva come la gatta di Masino, che chiudeva gli occhi per non veder passare i sorci; e frattanto si struggeva di quella inerzia apparente.

Un giorno, usando di quella dimestichezza che aveva col capitano generale (dimestichezza nata nel vivere un tal po' brigantesco, che anni addietro aveva fatto con esso lui su quel di Novi) se ne lagnò apertamente con messer Pietro, padrone suo riverito.

—I pigionali della colombaia,—diceva egli, accennando ai difensori di Castelfranco,—son liberali a lor posta, mandandoci ad ogni tratto qualche regaluccio coi màngani, e a me la mi cuoce, di non poterli rimeritare con qualche pera zuccherina del nostro orto. Anche la signora Ninetta ne ha, son per dire, uno spasimo, e se la mi crepa un giorno o l'altro, state sicuro che gli è proprio di stizza.—

La signora Ninetta era, come il lettore arguto avrà indovinato alla prima, una bombarda, e aggiungerò la più bella del campo e la prediletta di Anselmo Campora, che amava caricarla e darle il fuoco egli stesso, senza aiuto di valletti.

—Chètati, via;—gli disse di rimando messer Pietro;—c'è tempo a tutto. Prima di metter mano alle artiglierie, dobbiamo impadronirci della Marina e piantarci saldamente a cavallo. Che diresti di me se, mentre tu fossi qua a sfrombolare quella colombaia, come la chiami tu per dispregio, non ricordando che l'hanno murata i Genovesi tuoi padri, io lasciassi calare quattromila uomini a far impeto sui tuoi passavolanti, cortane e falconi, in un luogo dove non potrei certo spiegare tutta la mia gente in battaglia?

—Voi dite sempre bene, messer Pietro, e meglio operate;—rispose il Picchiasodo;—ma infine, sapete, amor di padre….

—Sì, sì, lo capisco;—interruppe l'altro ridendo,—Dirai dunque alla signora Ninetta che stia di buon animo, e si risciacqui la bocca, che presto avrà da usare tutti i suoi vezzi e le sua moine più dolci.—

E messer Pietro mantenne la parola. Nella notte sopra l'Avvento, assicuratosi con una grossa guardia di fanti dalla parte di Calvisio, che il nemico non s'attentasse di molestarlo sui fianchi, s'inoltrò verso la Marina col grosso dell'esercito. Da Castelfranco udirono lo scalpiccìo di quella grande passata; ma, per la notte buia non potendo aggiustar la mira, poco o nissun danno arrecarono coi verrettoni e coi sassi alle spedite compagnie del Fregoso.

Il marchese Galeotto, col fiore de' suoi combattenti, aspettava il nemico alle prime case della Marina. Furioso lo scontro; accanita la pugna; i Finarini fecero miracoli di valore per una intiera giornata. Quivi si segnalò Paolo Adorno, nipote di Barnaba, combattendo a corpo a corpo con Giovanni di Cuma, che fu balzato d'arcioni e campato a fatica dai suoi serventi e compagni.

Vantaggio di quella giornata, in apparenza, nessuno. I Finarini, a maggior sicurezza e fors'anco ad insidia, si ritrassero sotto le mura del Borgo; i Genovesi, padroni della Marina, non ardirono di mettervi il campo, e solamente vi collocarono alcuni drappelli per invigilare il nemico.

Per altro, messer Pietro si sentiva oramai da quella parte aver le mani più libere, e allora comandò ad Anselmo Campora di condurre innanzi le artiglierie, per battere finalmente il castello.

Erano queste artiglierie, con nome vecchio, una cosa nuova, cioè vere armi da fuoco, non più macchine da trarre per forza di contrappeso, o di tensione, come usavasi dapprima. Una polvere infiammabile, che alzava per la propria virtù esplosiva corpi leggieri in cui fosse rinchiusa, era conosciuta dugento e più anni addietro; ma per assai tempo si restrinse a far volare certi razzi, nè fu usata ad avventar palle e saette, se non intorno al 1300. I cannoni, le spingarde, gli schioppi, che furono le prime armi da fuoco, erano canne di bronzo, e di non grave dimensione, adattate ad un fusto di legno. Semplici in principio e quasi manesche, le nuove artiglierie s'ingrandirono man mano e si fecero più complicate. La bombarda, ad esempio, che fu la più grossa e che apparve dopo la prima metà del secolo XIV, constava di due parti disuguali; l'anteriore, chiamata tromba, era una specie di mortaio di forma conica, a cui s'adattava un gran sasso ritondato e ravvolto in pelle, o tela cerata; la posteriore consisteva in un cilindro, in cui si metteva la polvere, e dicevasi mascolo, per essere in quella il maschio della vite che collegava i due pezzi. Nè sempre la carica si faceva con un sasso, ma altresì con un cartoccio di scaglia, fasci di verrettoni, fuochi artifiziati, bigonci di sassi, canestre, sacchetti d'ogni minutaglia, o fosse di piombo, o di ferro.

Colla bombarda si apriva la breccia nelle muraglie e nei ripari nemici; ma, essendone i tiri troppo rari, usavasi tener lontani dalla breccia i difensori, facendo spesseggiare colà i colpi d'artiglierie minori, che erano bombardelle, falconi, colubrine, cerbottane, ribadocchini. Inoltre, una bombarda di mezzana grandezza dicevasi cortana; passavolante la bombarda più lunga.

Toglievasi la mira con due traguardi, collocati alle due estremità della tromba, e alzando e abbassando la parte anteriore del pezzo, con piuoli, o zeppe di legno. La vite di mira doveva essere un trovato del moltiforme ingegno di Lionardo da Vinci. La carica, poi, non si accendeva colla miccia, bensì con ferro rovente, in forma di uncino, che si accostava al focone. Ad ogni colpo fatto, la canna si rinfrescava, ungendola d'olio, od anco di aceto; più tardi l'acqua giustamente prevalse.

Usavasi anche il mortaio solo, senza la tromba, sotto il nome generico di bombarda; e forse fu questa la sua forma più antica, che sottentrò ai màngani, ai trabocchi, alle briccole, ingegni di vecchio stampo, che tutti traevano, come il mortaio, in arcata.

La difficoltà di maneggiare queste armi, il tempo soverchio che si spendeva a caricarle, ed anche in parte il pericolo che c'era a trattare la polvere, furon cagione che l'uso di que' graziosi ordigni per lunga pezza stentasse a volgarizzarsi e che per quasi tutto il secolo XV l'arte della guerra non n'avesse mutamenti essenziali. In molti luoghi i trabocchi e le briccole durarono a fronte delle spingarde e dei falconetti. Genova, ad esempio, non ebbe bombarde fin dopo la guerra di Chioggia. Il Giustiniani lo nota espressamente in due luoghi, accennando la moltitudine delle bombarde veneziane «ritrovate di nuovo per questo tempo (1379)» e, aggiungendo più sotto, «l'uso delle quali non avevano ancora i Genovesi.»

Tre di questi ingegni poderosi furono adunque tirati avanti, per comando del capitano generale, e il buon mastro dei bombardieri li fece collocare di fronte al castello. Altri ne furono piantati lì presso, ma di minor mole, detti cerbottane e falconi, e la mattina del 10 di gennaio incominciò la serenata, come il Picchiasodo la chiamava, in quel suo stile faceto che i miei lettori conoscono.

Dominava il concerto la signora Ninetta, che ad ogni colpo gettava un sasso di cinquecento libbre. Il suo primo saluto andò a dirittura a cascare dentro il castello, come impromessa di altri, non meno aggiustati ed efficaci, che dovevano uscire dalla sua bocca d'oro.

E questi non si fecero molto aspettare. Anselmo Campora (ho già detto che il cavalier servente della signora era lui in persona) levò una zeppa di legno di sotto alla gola della, bombarda, le abbassò il mento d'altrettanto spazio, le fece posar tra le labbra una di quelle giuggiole che ho detto di sopra, tolse l'uncino rovente dal braciere, l'accostò al focone, e tonfete, mandò il secondo saluto al castello. La palla imbroccò il parapetto e, rotolando giù dalla cortina, si trasse dietro una rovina di pietre. Un lembo di parapetto, colle sue caditoie, era spiccato dal sommo delle mura.

Intanto che questo accadeva sotto Castelfranco, il Vecchia da Lodi, co' suoi cinquecento fanti e una ventina di cerbottane, portate dagli scoppiettieri in ispalla e munite d'un piede da porle in terra quando occorresse di trarre, s'inoltrò dalla Marina fino ai prati dell'Altino, che sono a mezza via tra il Borgo e la spiaggia del mare. I lettori hanno già pratica del luogo; io aggiungerò che il Picchiasodo, saputo del comando dato al suo compagno d'armi, gli aveva raccomandato di salutargli tanto e poi tanto un certo ostiere suo amico, e di farsi dare un fiaschetto di quella malvasia, che teneva in serbo, per gli uomini di conto.

Ohimè, povero mastro Bernardo, quantum mutatis ab illo! La frasca e l'insegna ce le aveva tuttavia sul portone; ma da parecchie settimane non vendeva più vino e l'accoglienza era triste. Gli ultimi fiaschi glieli avevano bevuti gli uomini del marchese, tornando dal combattimento alla Marina, e se egli non si era ritirato ancora nel Borgo, ciò doveva attribuirsi ad amore del suo povero nido e ad una tal quale superstiziosa idea che la sua fuga dovesse tornare di mal augurio alla patria. Fino a tanto che io sarò qua, pensava egli nel suo corto cervello, non ci verranno a squadronare i genovesi; e dopo tutto, chi terrebbe d'occhio queste quattro panche e questi quattro caratelli vuoti?

Fu un brutto quarto d'ora per mastro Bernardo quello in cui i soldati genovesi comparvero all'Altino e fecero capo alla sua osteria. Ben si provò il dabben uomo a sorridere e a fare inchini a tutte quelle facce proibite (almeno, secondo lui, avrebbero dovuto esserlo in ogni paese ben governato); ma quando il comandante di tutti que' diavoli scatenati gli ebbe detti i saluti e l'imbasciata del Picchiasodo, di quell'arnesaccio che lo aveva fatto cantare da quel babbio ch'egli era e che oramai sentiva di essere, il povero mastro Bernardo fece a dirittura una smorfia.

—Maledetta lingua!—borbottò egli tra i denti.

E borbottò ancora di più, quando, sotto pretesto di cercargli il vino che non aveva, quei furfanti si sparpagliarono qua e là per la casa, sguisciarono in cantina e gli sfondarono le botti, che non ci avevano colpa.

Per contro, siccome ogni ritto ha il suo rovescio, mastro Bernardo ebbe in quel medesimo giorno vendetta allegra di tanto dispetto. Sui prati dell'Altino, il Vecchi da Lodi si scontrò nei soldati del Finaro e lì, fino a tarda sera, altro che botti sfondate! Cento cinque genovesi restarono, tra morti e feriti, sul campo. Dei Finarini, che erano appostati in luoghi eminenti, o coperti, pochi furono feriti, e questi dalle cerbottane, coi lor tiri di rimbalzo e lontani.

San Giorgio, come si vede, tirava innanzi a dormire.

La mattina vegnente, il Vecchio Calabrese co' suoi duecento uomini andava in aiuto al Vecchia di Lodi, e ambedue, con impeto temerario, s'inoltravano fin sotto le mura del Borgo. Simili spacconate eran comuni in que' tempi. La grande mobilità delle fanterie leggiere, e la nissuna delle nuove artiglierie, che sole avrebbero potuto tenere in rispetto gli audaci, consentivano di correre molto paese innanzi e indietro, senza fare e senza ricevere gran danno. Questo, come disse il poeta, «era il costume dei braveggiatori, che fan poche faccende e gran rumori.»

Senonchè, stavolta i braveggiatori s'erano spinti troppo sotto, e balestroni, e spingarde, e cerbottane (che anco di quest'armi da fuoco ne aveano qualcheduna al Finaro) mandarono un tale diluvio di roba assaettata sui malvenuti, che questi furono costretti a voltar le calcagna, e molti, anzi, non fecero a tempo.

Ma di queste e d'altre maggiori perdite d'uomini, poco importava al capitano generale. Con simili scascamuccie e affrontamenti quotidiani, egli teneva a bada il nemico, e, meglio ancora, lo aveva sempre sotto la mano; frattanto serrava i panni addosso a quelli altri che difendevano Castelfranco.

Nello spazio di otto giorni, la signora Ninetta e le due altre comari che le facevano compagnia, gittarono su quel povero baluardo la bellezza di cento sessantatre nespole. Per una bombarda, a que' tempi, sei o sette colpi al giorno erano un bel trarre, e ne ho detto le ragioni più sopra. Le mura erano così profondamente scombussolate, che non poteano più reggersi; e ad ogni nuovo colpo ne crollavano con alto frastuono larghissime falde. Già sui parapetti e lungo i ballatoi non si poteva più stare.

Come il Fregoso vide in tal guisa avviato il lavoro del Campora, mandò sotto le mura un araldo. Allo squillar della tromba, Antonio Del Carretto, il difensore del castello, si affacciò sulle macerie.

—Per comando dell'illustrissimo capitano generale dei Genovesi, messer Pietro Fregoso, vi è intimata la resa;—disse l'araldo;—fatelo, e sia pel vostro meglio; se no, tra due ore si dà la scalata e non isperi allora di aver salva la vita nessuno.

—Di ciò non mette conto parlare;—rispose Antonio, con piglio tra non curante e faceto.—La guerra è cosiffatta, e cui non garba il giuoco stia co' frati e zappi l'orto. Dite piuttosto, che patti ci fa il vostro capitano, se noi si rende questo mucchio di pietre?

—Libera uscita,—soggiunse l'araldo,—e portando tutti con voi le armature; ciò consente messer Pietro Fregoso, in segno d'onoranza al valore.—

Il bravo Antonio rimase un tratto sopra pensiero. Gli cuoceva di dover cedere e tuttavia ben vedeva di non poter resistere più a lungo. Per sè, avrebbe forse rifiutato; ma il patto era onorevole pe' suoi compagni, e certo, poichè la difesa avea toccato agli estremi, meglio valeva portare a Galeotto cinquanta animosi soldati, che seppellirglieli sotto le rovine d'un castello perduto.

Così pensando, chiese ancora che gli si concedesse tempo fino al giorno di poi; avrebbe reso il castello, se nello spazio di ventiquattr'ore non gli giungeva soccorso. Messer Pietro gli fu tanto cortese da recarsi egli in persona sotto le mura, per rispondergli che non poteva contentarlo. Galeotto era chiuso nel Borgo e i Genovesi padroni della vallata; cedesse adunque, accettasse i patti larghissimi da lui consentiti a un così prode nemico, e co' suoi occhi medesimi, nel tragitto dalla Marina al Borgo, si sarebbe sincerato della sfidata condizione in cui era.

Antonio ben vide che non gli restava altro scampo e si arrese. Ebbe all'uscita tutti gli onori che un esercito vittorioso potesse rendere al valore sfortunato, e mentre nel campo di San Fruttuoso le bombardelle e i falconi facevano gazzarra per questo primo trionfo delle armi genovesi, egli si ridusse malinconico al Borgo, coi suoi sessanta compagni, la sera del 18 gennaio.

—E uno!—aveva detto il Picchiasodo, palpando amorosamente il collo della signora Ninetta mentre i difensori di Castelfranco passavano muti e dimessi davanti alla loro capitale nimica.—Or viene la volta di castel Gavone.—

L'incontro di Antonio col marchese Galeotto alle porte del Borgo fu commovente. Antonio, triste e raumiliato, quasi non ardiva alzar gli occhi a guardare il cugino; ma Galeotto gli andò incontro con piglio amorevole, lo abbracciò e di altro non ebbe cura che di confortarne lo spirito.

—Di che vi accorate, cugino, quando io trovo nella vostra difesa argomento a sperar bene del futuro? La resistenza di Castelfranco ci ha fatto guadagnare un mese di tempo. La lega dei nostri congiunti ha avuto agio a raccogliere gli aiuti, che mi si annunzia esser pronti a Garessio. Anche di Francia ne aspetto. Noi qui possiamo tener saldo un anno, e in un anno molte cose possono accadere a Genova e altrove.—

Le parole di Galeotto furono molto lodate, come quelle che facevano testimonianza d'animo grande e in pari tempo avveduto.

A rinfrancare vieppiù lo spirito de' suoi, quella medesima notte egli fece dal Borgo una vigorosa sortita generale. Antonio gli aveva detto non esser gran gente nella vallata, e Galeotto ne approfittò. Ributtate le prime schiere genovesi, piombò sulla Marina prima che il nemico avesse potuto raccapezzarsi, e fu tale la furia, che egli pervenne senza contrasto alla riva del mare, dov'erano tirate in secco alcune feluche e fregate corriere. Tosto i soldati vi balzano dentro a farvi bottino, e per fermo v'appiccavano il fuoco, se l'impresa non portava via troppo tempo; indi, con larga preda e buon numero di prigioni, se ne tornano indietro.

Comandava la spedizione Francesco del Carretto, figlio a Corrado e cugino di quel Marco, signore di Osiglia, che segretamente se la intendeva coi Genovesi. Galeotto lo aveva nominato suo capitano generale, in omaggio alla Lega, di cui aspettava, siccome ho detto, gli aiuti.

Con questo colpo audace si ricattarono i Finarini della resa di Castelfranco. Già l'ho detto e ripetuto; san Giorgio ancora non avea preso partito. E lo spirito conturbato di mastro Bernardo aveva, nel giro di pochi dì, una seconda consolazione. A farlo pienamente felice mancava tuttavia che un certo Anselmo Campora fosse preso e impiccato per la gola.

Ma già, contenti in tutto, a questo mondo, trovarli!

CAPITOLO VII.

Come Giacomo Pico parlasse a madonna Nicolosina e qual risposta ne avesse.

Riposiamoci un tratto dai combattimenti e dai pensieri di guerra. Il castello Gavone, lontano ancora da queste gravi molestie, c'invita. Lassù, in una camera alta del torrione dell'Alfiere (che guarda alla marina da ponente, come il torrione della Madonna a levante, mentre gli altri due, del Marchese e della Polvere, guardano, nello stesso ordine, dalla parte di tramontana) c'è il nostro Giacomo Pico, seduto la maggior parte del giorno su d'una scranna a bracciuoli, nella strombatura d'una smilza finestra, dond'egli beve la tiepida luce del sole.

La perdita del sangue lo ha infiacchito, lo ha reso bianco in volto come un cencio lavato; ma infine, quel che gli ha tolto di forza e di fierezza, gli ha aggiunto, in una certa misura, di leggiadria. Dico in una certa misura, intendiamoci; che non aveste a pigliarlo in iscambio d'un fior di bellezza, nato lì per lì e sbocciato sotto la penna dello scrittore, per comodità delle sue invenzioni. Vo' dire soltanto che il ruvido giovinotto s'era in quella occasione raggentilito di molto e che aveva fatto una ciera, da pigliarci amore le donne a cui piacciono le pallidezze e i languori.

Madonna Nicolosina e madonna Bannina, figlia e madre, come sapete, consolavano spesso di lor presenza il ferito. La Gilda andava e veniva, aliava a guisa di farfalla, e trovava modo, ora con un pretesto, ora con un altro, di essergli sempre dattorno. Nè ciò gli sarebbe dispiaciuto (perchè una bella ragazza non fu veduta mai di mal occhio da alcuno) se a lui da molti giorni non avesse pigliato la smania di restar solo, almeno per dieci minuti, con madonna Nicolosina.

E questo, per l'appunto, questo che desiderava più ardentemente, non gli era anche riuscito. In quella vece, e più d'una volta, era rimasta sola con lui la Gilda, desiderio e tormento del suo amico Tommaso Sangonetto. La fortuna è cieca, avrebbe notato costui, se lo avesse risaputo. Ma il lettore, che già conosce un cantuccio del cuore di Gilda, penserà con ragione che non fosse tutta fortuna, quella che faceva trovare la ragazza a quattr'occhi col ferito. Senonchè, la povera Gilda sprecava ingegno e fatica; Giacomo Pico non le aveva mai detto pur una di quelle parole, che ella si aspettava sempre da lui.

Se la Gilda avesse avuto un miccino d'esperienza degli uomini, avrebbe saputo che quando uno di questi bipedi implumi è presso ad una donna non brutta, nè spiacente, e non incomincia a coniugarle quel verbo, gli è segno evidente che l'ha coniugato, o pensa di coniugarlo ad un'altra, E la Gilda, a guardarsi nulla nulla dintorno, avrebbe capito altresì dove fosse l'argomento delle coniugazioni di Giacomo Pico. Di belle ragazze, al castello, non ce n'eran che due.

Tornando al ferito, il lettore avrà argomentato di leggieri che, se egli poteva pensare ai colloquii e mandare dal profondo dell'anima le sue giaculatorie alla giovine castellana, il suo non era un mal di morte per fermo. Diffatti, la ferita, non essendo delle più gravi, si andava rimarginando, e la gioventù, questa, gran medichessa che la sa più lunga di tutto il dotto collegio, aveva secondato le cure del cerusico Rambaldo, che era, per altro, la prima lancetta del marchesato.

Ma ohimè, se una piaga si era risanata, un'altra s'era inciprignita; e questa era la piaga fatta nel cuore di Giacomo dagli occhi inconsapevoli di madonna Nicolosina.

Così, mentre il corpo si rinvigoriva di giorno in giorno, l'animo si struggeva nel desiderio di potersi aprire alla donna de' suoi pensieri, o almeno di conoscere che cosa pensasse ella di lui. Amorevole e sollecita gli era parsa bensì in tutti que' giorni e più assai che non fosse mai stata con lui negli anni andati, quando la tenera età, non che scusare, consentiva ogni dimestichezza maggiore; ma anche qui non c'era da cavarne un costrutto, essendo l'affettuosa cura un uffizio di pietà, naturalissimo nella donna, per chi soffre d'un male visibile, a cui ella possa portare rimedio, o sollievo. Ora, se egli avesse potuto dirle di quell'altro suo male invisibile che portava nel cuore, come sarebbe stata accolta la sua confessione da lei? Questo era il busilli.

A tutta prima, vedendola giungere all'Altino, aveva argomentato in cuor suo…. Che cosa? Nulla e tutto. Nicolosina era pallida, ansante, confusa; una immensa pietà le traspariva dallo sguardo smarrito; una ineffabile tenerezza governava i moti convulsi di quella labbra smorte, che per lunga pezza non poterono profferire una parola, una sola parola, E più tardi, quali cure affettuose! quale umanità più che fraterna negli atti! come pendeva ansiosa dai responsi di messer Rambaldo, che era venuto al letto del povero ferito! con quanta sollecitudine gli occhi della leggiadra castellana si partivano dalle labbra del discepolo d'Esculapio per andarsi a posare sul viso smorto di lui!

Che pensare di ciò? Un giorno gli venne in mente che ella sapesse la cagione del suo duello col Fregoso. Volea sincerarsene; ma le parole gli morirono sul labbro. E poi, come si è detto, madonna Nicolosina non era mai sola al suo capezzale.

E voleva altresì domandare del Cascherano. Che c'era egli di vero in quella chiacchiera di mastro Bernardo, che aveva fatto nascere il guaio? Di certo, l'ostiere, anco ingannandosi sul conto de' due forastieri, non aveva inventato il personaggio e il matrimonio di pianta. E forse, anzi senza il forse, la Gilda ne sapeva l'intiero. Ma il chiederne a lei non avrebbe dato a divedere che troppo gli premeva di madonna Nicolosina? Tanto faceva aprirsi a dirittura con questa e dirle spiattellato: madonna, io muoio d'amore per voi.

Fosse almeno capitato il Sangonetto a trovarlo; si sarebbe raccomandato a lui, che pigliasse lingua da alcuno. Ma il Sangonetto aveva preso il largo; in vece sua, era diventato un pezzo grosso; tornato a mala pena dalle Langhe colla promessa degli aiuti, aveva spiccato il volo per altri lidi. Nessuno sapeva per dove; egli stesso, andato per pochi istanti a vedere l'infermo e trovar modo di bisbigliare una parolina alla Gilda (che lo vedea volentieri come il fumo negli occhi) non ne avea pur rifiatato. Vanaglorioso ed ingrato, il nostro Tommaso già sentiva la carica.

Diremo noi brevemente dove fosse andato; in Francia, alla corte di Carlo VII, il re di cui avea detto Lahire, che perdeva «allegramente» il suo regno, e a cui il fiore dei cavalieri francesi e una meravigliosa pulzella dovevano riconquistarlo più tardi; ci era andato, non già come ambasciatore, bensì col più umile e più sollecito ufficio di corriere, e portava, da buon corriere, una lettera.

In essa, Galeotto rammentava l'ossequio dei Carretti e la loro divozione ai reali di Francia; ricordava come un Nicolò, suo zio paterno, combattendo per Carlo e pel nome francese, fosse stato ucciso in battaglia dagl'Inglesi invasori; soggiungeva essere egli stato mai sempre nemico acerbo ai Fregosi, i quali, essendo Barnaba Adorno doge di Genova, avevano ingannato Sua Maestà, pigliandone molte migliaia di fiorini contro la promessa d'impadronirsi di Genova e darla a lui; e l'avevano presa e l'avevano tenuta per sè. Vendicasse adunque lo scorno patito, soccorrendo il Finaro contro i Fregosi. Questi erano odiatissimi a Genova, di guisa che sarebbe tornato agevole al re, combattendo i Fregosi e avendo dalla sua il Finaro, insignorirsi di quella repubblica. Anche Galeotto, come si scorge di qui, vendeva la pelle dell'orso. Costume dei tempi!

Andava dunque il Sangonetto con grande celerità e presentava la lettera. Essa piacque oltremodo al re, che s'era allacciata al dito la gherminella di Giano Fregoso e stimò d'avere gran sorte, se poteva, con poco disagio suo, dare a quel cattivo pagatore una grande molestia. A pronta dimostrazione dell'animo suo verso il marchese Galeotto, mandò subito al Finaro un prode italiano, allora ai servigi di Francia, messer Giovanni Sanseverino, con venticinque lancie, ed altri aiuti promise. Que' cavalli intanto dovevano essere la mano di Dio pel marchesato, che molti invero non avrebbe potuto nutrirne, o adoperarne in quelle strette sue gole, ma di un certo numero avea pure mestieri, per contrapporli ai cavalli nemici e sostenere all'uopo gli assalti dei fanti.

Ed ecco perchè Giacomo Pico non aveva più visto il Sangonetto, nè potuto sciogliere uno dei nodi che più gli stavano a cuore. Intanto i giorni passavano; la guerra, non pure era cominciata senza di lui, ma vigorosamente condotta fino alla resa di Castelfranco, senza che egli potesse ancora uscir fuori e nelle aspre fatiche del campo acquetare un tratto le acerbe battaglie del cuore.

Ben presto, dal vano della sua alta finestra, potè vedere co' suoi occhi il nemico. Una bastita per tutto l'esercito genovese era innalzata da due giorni a Monticello, proprio alla vista del borgo, e due grosse bombarde v'erano collocate a difesa. Tre battifolli subito dopo erano edificati più avanti, l'uno sul poggio di Maria, l'altro nella vigna di Nicolò Giudice, il terzo all'Argentara, sul fianco stesso della terra assediata. Quest'ultimo, per altro, non fu costrutto dai Genovesi senza grande spargimento di sangue.

Dicevasi allora che tante fabbriche militari si facessero per arricchire i Fregosi. Nicola, cugino di messer Pietro, intascava per ogni nuova bastita dugento fiorini, e questi in prezzo dell'opera sua, mentre assai più gliene erano pagati per l'opera degli artieri, ai quali non ne dava neanco cinquanta. Ma queste forse erano ciarle dei malevoli. Anche i nemici dicevano che tante bastite non servissero a nulla; eppure, la mercè di questi saldi ripari, l'esercito genovese aveva potuto farsi tant'oltre, in luoghi così malagevoli per natura, e pericolosi, poi, se tenuti da un forte e risoluto nemico.

In tal guisa era stretto il Finaro, che, a detta del Picchiasodo, non poteva uscirne un uccello a volo, che nol vedessero i Genovesi, ed egli inoltre poteva contare le casseruole e i tegami appesi alla parete nelle cucine degli assediati.

Questo era forse un vanto soverchio; ma certo la vicinanza dei nemici doveva parere già troppo molesta a Galeotto, che, insieme col fratello Giovanni, usciva ogni giorno a battaglia. Francesco, il capitano generale, non era più con esso loro; andato verso Garessio, per affrettar la venuta degli aiuti che mandava la lega, avea fatto come il corvo dell'Arca; non s'era più visto, e gli aiuti promessi, nemmeno.

Tardi ricordò Galeotto che il suo capitano generale era cugino di Marco, del tiepido signore di Osiglia; più tardi ancora riseppe che Genova a Marco e ai cugini suoi prometteva di dare la parte loro del marchesato, quella stessa che i loro antenati Emanuele ed Aleramo avevano posseduta. E quando ciò seppe, argomentò che dai congiunti suoi delle Langhe non aveva più nulla a sperare, e che le vie di Calizzano e di Osiglia, donde si sentiva sicuro alle spalle, non gli teneano più fede.

Non si smarrì tuttavia, non si perdette d'animo; che anzi, il sapersi solo, accrescendogli la malleveria dell'impresa, gli aggiunse le forze della disperazione. Sì, veramente, con mani e con piedi, come aveva scritto al doge di Genova, era egli inteso a difendersi. E quella sua baldanza inanimiva i Finarini, li incuorava non solo ad affrontare arditamente i pericoli, ma a sopportare con fermezza i danni della guerra.

E questi pur troppo erano gravi. Dal poggio di Maria, le cortane e le spingarde nemiche gittarono trecento pietre nel Borgo; trecento ne gittarono esse sole, e di gran peso, le tre bombarde maggiori, che tutte traevano a giusta mira contro la torre della Rasana, la più forte che fosse sulla cinta dei muri.

E Galeotto a rispondere con un'altra sortita, più vigorosa a gran pezza delle altre, Barnaba e Paolo Adorno lo seguono; Giovanni suo fratello, Giacomo figlio d'Oddonino, Lazzarino figlio d'Urbano, ed altri giovani egregi del suo parentado, si tengono ad onore di combattere, come semplici soldati, al suo fianco. Scende una grossa schiera da Calvisio, per la valle di Pia, e molesta i Genovesi alle spalle; si voltano essi per rincacciare gli audaci, ed ecco, sono assaliti di fronte, al battifolle del poggio di Maria, a quello dell'Argentara, con una furia che mai la maggiore. Basti il dire che in questo parapiglia improvviso, Anselmo Campora fu ferito accanto alla signora Ninetta di cui si fece riparo al corpo, mentre da solo sosteneva l'assalto di cinque nemici. Ne uscì, per altro, ad onor suo, con una di quelle che egli dicea graffiature e che altri avrebbe chiamato sberleffi belli e buoni, quantunque non belli, nè buoni. Ma la sua dama fu salva dalle ingiurie nemiche, e questo era per lui l'essenziale.

Gran danni soffersero i fanti delle tre podesterie intorno a Genova e dei vicariati di Spezia e di Chiavari. Il loro comandante, Carlino da Voltaggio, fu preso e condotto prigione, malgrado gli sforzi fatti da' suoi per liberarlo. I passi erano angusti e in molti uomini si facea come in pochi; anzi, per la confusione che nasce dal numero, assai meno che in pochi. Il battifolle del poggio di Maria fu corso e ricorso dai Finarini; così quello dell'Argentara; prigioni potevano farne non pochi; ma perchè avrebbero portato tante bocche inutili dentro del Borgo? Li lasciarono adunque e tornarono nelle mura, carichi di bottino e di gloria.

Messer Pietro Fregoso, per la prima volta dacchè era venuto all'impresa del Finaro, si morse le labbra, e sino a far sangue; tanto fu la sua stizza per l'audacia del marchese e per la nissuna vigilanza de' suoi.

In quel mezzo, giungeva il Sanseverino colle venticinque lancie e la promessa di nuovi aiuti di Francia. Galeotto, cresciuto mirabilmente d'ardire, disegnò tosto in cuor suo una bellissima impresa; che era quella di andare egli in persona a tentare un colpo su Noli, per togliere quel fortissimo luogo alla protezione dei Genovesi e in pari tempo impedir loro la ritirata, e intercettare le salmerie.

Ma qui, siccome col Sanseverino è tornato anche il nostro Tommaso Sangonetto, e Giacomo Pico ha potuto avere qualche utile ragguaglio da lui, sarà acconcio di tornare al castello Gavone e a quella camera alta, che è nella torre dell'Alfiere.

Le notizie raccattate da Tommaso Sangonetto intorno alla faccenda del Cascherano, erano più acconcie a mettere in pace, che non a turbare lo spirito inquieto di Giacomo Pico. Quel giorno incominciava bene per lui; il marchese Galeotto si disponeva a partire per alla volta di Verzi, donde, col favor della notte, per la via meno battuta d'Isasco, sarebbe piombato su Noli. Però non è a dire il rimescolamento che c'era nel castello per tutti gli apparecchi della partenza, e lo scompiglio che esso arrecava in tutte le consuetudini quotidiane della famiglia. Basti notare che madonna Bannina, tutta intorno al marito, non era comparsa nella torre dell'Alfiere, e madonna Nicolosina vi andò sola, ad una cert'ora del giorno, per salutare l'amico di casa e vedere se non avesse mestieri di nulla.

Il caso non poteva favorire meglio di così il nostro innamorato.

Madonna Nicolosina era un occhio di sole, l'ho già detto a suo luogo. Bionda i capegli, bianca la carnagione e svelta della persona come Diana, forse al pari della divina cacciatrice aveva il cuore muto all'amore; all'amicizia non già, che questa è natural sentimento di un'anima buona, laddove quello è singolare portato, rarissimo fiore, nutrito di tutti i sensi più delicati e riposti, che solo un felice concorso d'inesplorati e inavvertiti nonnulla può far muovere d'improvviso e riardere in noi.

E buona era Nicolosina, onesta e sincera come un cavaliere senza macchia e senza paura. Ho detto come un cavaliere, e giustamente; diffatti, sotto quella bionda e rosea parvenza di donna, egli c'era alcun che di virile; la lealtà, per esempio, e l'alterezza, spogliate di quella grazia languida, che la natura ha dato, insidia innocente, ma non meno pericolosa, alla più bella metà del genere umano.

Nata in altissimo stato, sentiva altamente di sè; superbia naturale e scusabile, che del resto non aveva pure occasione a mostrarsi, in mezzo ad un popolo di riverenti vassalli, i quali niente potevano vedere di strano in una dignità d'apparenze così celestiali e ammantata di tanta soavità, di tanta amorevolezza pietosa. Umana ed affabile, come sono così utilmente per sè e per altri i grandi della terra, quando si compiacciono d'esser tali, non c'era caso che la giovine castellana facesse patire anima nata, per alcuno di que' capricci e fantasie di comando, che pure son tanto frequenti nelle giovani donne, male avvezzate, anche in condizioni più umili, da cieco amor di congiunti, o da libero ossequio di cavalieri cortesi.

La bellissima fanciulla entrò nella camera di Pico, senza timore, o peritanza di sorta. Non era ella in casa sua? Forse per la prima volta andava da sola in quel luogo; ma come nella accompagnatura non c'era stato mai un deliberato proposito, così nel giunger sola non ci poteva essere un'ombra di vergogna, o di dubbio.

Bensì Giacomo Pico, al vederla comparir tutta sola, si scosse. Il sangue turbato gli si ridusse con rapido moto al cuore, indi risospinto gli corse più veloce alle tempie. Ebbe allora come un bagliore negli occhi, diede in un grido di meraviglia, e, appoggiandosi forte ai bracciuoli della scranna, si alzò da sedere.

—Ah, ah!—sclamò ella, ridendo del suo riso argentino.—Per la prima volta, messer Giacomo, vi vedo un po' di buon sangue sul volto. Ma sedete, vi prego; non vi scomodate per me.

—Non è più tempo di star seduti, madonna Nicolosina;—diss'egli sospirando.—Tutti i giorni si combatte, laggiù, ed io sono stato già troppo in disparte.

—Ma per giusta cagione, mi sembra; e con vostra buona pace, rimarrete ancora per qualche giorno tranquillo, messer paladino!—incalzò la fanciulla, con accento d'affettuoso rimprovero.—Il cerusico Rambaldo lo vuole e lo vogliamo anche noi, che non aveste a far ricadute!

—Che serve, madonna?—ripigliò Giacomo Pico, crollando malinconicamente la testa.—Sono un povero disgraziato a cui forse metterebbe più conto il morire.

—E perchè?—dimandò ella ansiosa.—Forse alcuna cosa vi manca, per viver felice tra noi? Parlate, messer Giacomo, parlate! Lo sapete pure, come qui tutti vi amano.

—Tutti!—ripetè egli, sorridendo a fior di labbro.

—Sì, tutti; ne dubitate?—replicò la giovinetta, rizzando il capo, con alto di leggiadra alterezza.—Sappiamo il debito nostro. Mio padre non è debitore a voi della vita? E quanti hanno vita e stato da lui, non vi sono obbligati del pari?

—Ah, non è di ciò che intendo parlare;—disse Giacomo Pico.—Non vo' che mi si ami per gratitudine, io!

—Oh tristo!—sclamò Nicolosina, con accento di lieve corruccio.—E non è un nobile sentimento forse?

—Sì,—rispose egli confuso;—ma infine….

—Infine,—proseguì ella,—voi siete l'amico nostro, il servitor più fedele e più caro; mio padre….

—E sempre vostro padre!—interruppe Giacomo Pico, stizzito di non poter uscire da quella cerchia di affetti tranquilli e di accenni al suo umile stato.

Qui fu per madonna Nicolosina il caso di pigliare il broncio davvero.

—Messer Giacomo, e come?—chiese ella, tirandosi indietro un passo e guardandolo severamente.—Non amereste par avventura mio padre?

—Voi mi uscite di proposito, madonna Nicolosina!—gridò il giovine, riscaldandosi a sua volta.—Ah, questo è troppo ed io ho troppo sofferto. Fossi morto almeno, di quella stoccata, più pietosa a gran pezza delle vostre parole! E perchè, voi che mi parlate ora in tal guisa, siete accorsa a togliermi di laggiù, ov'io sarei presto uscito di pena?

—Non mi fate colpa di un uffizio di carità, ve ne prego;—rispose ella turbata.—Chi soffre ha diritto alle nostre cure, e più ancora quando egli soffre per nostro servizio.

—Ah,—soggiunse egli amaramente,—voi dunque non mi amate?—

La fanciulla lo guardò stupefatta. Egli incalzò la dimanda e fu per afferrarle una mano; ma ella lo rattenne con un gesto severo.

—Messer Giacomo,—soggiunse poscia, con accento impresso di dignità e di tristezza ad un tempo,—mi farete pentire d'esser venuta a darvi il buon dì.—

Giacomo Pico, il ruvido soldato, fu scosso da quelle meste parole. Ma non era della sua natura il trattenersi a mezzo di nessuna cosa che avesse impreso a fare. Quella occasione, poi, egli l'aveva spiata con tanta cura, attesa con tanto desiderio! Se egli l'avesse lasciata sfuggire quel dì, sarebbe forse tornata? Non lo sperava egli per fermo.

—Perdonate,—diss'egli, chiudendosi rabbiosamente sul petto quella mano che la giovinetta aveva respinta da sè,—ma io vi amo, vi ho sempre amata; eravate bambina ed io già vedevo in voi quella che siete oggi per me, la più bella, la più cara, la più desiderata fra le donne. Avevo sempre taciuto, sperando di ottenervi con opere eccelse, come ricompensa dovuta al valore. Stolto! Il primo venuto, perchè conte e signor di castella, mi aveva a vincer la mano! E quando, al mio ritorno dai signori della lega, seppi che andavate sposa a questo conte di Osasco, vedete, m'ha dato volta il cervello, non ho potuto padroneggiarmi più oltre. Ah, così fosse stato egli, com'io lo credevo, quando mi abbattei nel Fregoso; che forse in cambio d'esser passato fuor fuori, l'avrei ucciso io, e dato un avviso salutare a quanti ardissero ancora di contendervi a me.

—Ah!—esclamò la fanciulla, percossa.—Non era uno scontro col nemico di mio padre?

—No, col mio nemico, col mio rivale. Così almeno ho creduto;—rispose egli impetuoso.

Un senso di compassione profonda ricercò il cuore di madonna Nicolosina.

—Fo male a dirvelo,—ripigliò ella gravemente,—perchè l'atto vostro, se pensavate di far contro ai disegni di mio padre, non fu di amico, quale egli sempre vi tenne. Ma infine, sappiatelo, io non andrò sposa al conte di Osasco.

—Lo sapevo;—disse Giacomo Pico.

Nicolosina lo guardò, in atto di sorpresa.

—Lo sapevate?—dimandò ella,—Ma allora…?

—Oh, solamente stamane l'ho udito;—soggiunse egli tosto.—Il marchese Galeotto lo ha liberato dalla sua parola, non potendo oggi, in mezzo alle angustie e ai pericoli di una guerra, accettare dicevolmente una domanda, che era stata fatta nei giorni della sua prosperità.

—Così è per l'appunto;—diss'ella sospirando.—Povero padre.

—Ah, vostro padre ha nobilmente operato. Ma quell'altro, il vile, che fu sul punto di ottenervi, s'è pure affrettato ad accettare lo scampo!

—Non parlate così, messer Giacomo! Sebbene è giusto che la cosa debba aver questo fine, è debito nostro di dire che egli non ha risposto nulla. Ed è brutto, assai brutto, accusare gli assenti.

—Voi dunque rimpiangete quelle nozze! Amavate dunque il conte di Osasco, senza conoscerlo ancora?

—Messer Giacomo,—rispose la giovinetta offesa nella sua verecondia,—io non ho a dirvi se l'amo, o no; bene ho a dirvi che una fanciulla deve rispetto a' suoi genitori e al nome che porta, e che voi dimenticate l'una cosa e l'altra in un punto.

—Ah sì!—sclamò il Bardineto, che sentiva la sferza e non era d'indole da patirla, nè da riconoscere in cuor suo d'averla meritata.—Io debbo tacere. Ama, povero sciocco, e taci! Servi, vassallo, e taci! Combatti, oscuro soldato, e taci! È il debito tuo. I tuoi padroni hanno voluto così; sul tuo corpo hanno diritto e sull'anima tua, questi superbi signori. Dite, madonna, non è egli proprio così?

—No, poichè chiedete il mio avviso, non è proprio così;—rispose Nicolosina, con risolutezza di cui qualche ora prima non sarebbe stata capace.—Avrei potuto partirmi di qui, fors'anco dovuto; rimango invece per difender me e la mia casa contro la vostra ingiustizia. Che sia il diritto dei signori sui loro vassalli e come stabilito, non so; ho imparato dal libro di Dio che tutti siam pari davanti a lui, nella speranza dei cieli, ma che ciò non muta e non scioglie i vincoli d'autorità con cui si governa la terra. Qui, poi, non vi disprezza nessuno; qui tutti vi son grati de' vostri alti servigi; nol sarebbero, se vi tenessero in conto di un oscuro soldato, o di un vil servitore. E, viva Dio, checchè diciate, messer Giacomo Pico, checchè pensiate voi dei potenti (e come lo siamo vel dica la presenza de' nostri giurati nemici alle porte di questo povero borgo) ingrati voi non potete dire i discendenti di Aleramo e della figlia di Ottone.—

Un amaro sorriso sfiorò le labbra di Giacomo. Ferito da quell'accenno, che gli parve superbo, nè badando alla commozione vivissima che accendeva il volto della fanciulla, o vedendola in quel rossore più bella, così le rispose, infiammato d'amore e di sdegno.

—Sì, lo ricordo, lo vedo, quale distanza corre tra noi. E perciò ricuso la gratitudine vostra, nobile e accetto presente tra uguali, povera ricompensa ai minori, senza il suggello di quell'amore che toglie ogni distanza…. che dico, la toglie?…. che non ne conosce nessuna. Questo amore io v'ho chiesto, madonna; questo io vi chiedo ancora, a mani giunte, in ginocchio. Credete che io non valga quanto un cavalier di corona? Ma chi era il primo d'ogni illustre legnaggio, se non per avventura un oscuro soldato, che col valore del suo braccio incatenò la fortuna? Uditemi, Nicolosina; è nella vostra medesima casa l'esempio, se pure la storia dice il vero di voi. Chi era Aleramo, innanzi che egli piacesse agli occhi di Adelasia, della bella figliuola di Ottone? E chi fu l'avo del primo imperator di Lamagna, se non un barbaro discendente degli schiavi di Roma? Ho meditato lungamente le storie, madonna, e non ho trovato la ragione per che io debba esser da meno di chicchessia, poniamo d'un conte d'Osasco. E notate; da me non aspetterete mai cosa di cui il mio breve passato non sia impromessa sicura; ho il mio destino nel pugno. Ma voi mi siete necessaria, Nicolosina, voi ricompensa e stimolo a più nobili imprese. Così sta scritto lassù; perchè ricusereste l'ufficio che vi è assegnato dal cielo?—

Così folleggiava il Bardineto, ebbro d'amore e di rabbia, allorquando un improvviso fruscìo si udì per le scale. Madonna Nicolosina, che già stava per dargli risposta, si rattenne e gli fe' cenno di non parlare più oltre.

Poco stante, l'uscio si aperse e una donna comparve nel vano. Era la Gilda.

La ragazza, che pure s'aspettava di trovare la sua giovine signora nella torre dell'Alfiere, rimase lì tutta impacciata e confusa, accorgendosi, con molta e non certamente grata sorpresa, d'essere capitata in mal punto. Questo le era dimostrato aperto dall'aria scontenta con cui la sua comparsa era stata accolta da Giacomo, e dal rossore di madonna Nicolosina, che, giovine com'era e non avvezza a quelle battaglie, non sapeva, e neppure cercava, nascondere il suo turbamento.

Perciò, come ho detto, rimase impacciata sull'uscio, senza fare un passo avanti, nè indietro, e balbettò, così per aver aria di dir qualche cosa, alcune parole vuote di senso.

Non meno impacciata di lei, madonna Nicolosina ebbe mestieri di tutta la virtù dell'animo suo in quel punto.

—Che cosa vuoi?—dimandò ella, in apparenza tranquilla, ma reprimendo a stento la sua commozione.

—Niente, madonna;—rispose la Gilda umilmente.—Ero venuta a vedere se messer Giacomo non avesse bisogno di nulla.

—Per ora no;—soggiunse Nicolosina;—ci sono io…. e debbo dire qualcosa a messer Giacomo Pico.—

Questo aveva potuto il sentimento della propria dignità in quell'anima vergine, di farle indovinare che il miglior modo di cansare il pericolo di un falso giudizio era quello di affrontarlo con sicura alterezza. Tanto è vero che le profonde commozioni temprano, meglio dei lunghi insegnamenti, la umana natura. La fanciulla era morta quel giorno; la donna nasceva.

La Gilda chinò il capo, in atto d'obbedienza, e si mosse. Una sua occhiata furtiva al Bardineto voleva dire a lui tutti i dubbi che le passavano per la mente; ma egli non vi badò più che tanto, e la povera ancella se ne andò raumiliata.

Per altro, giunta a mezzo della scala, si pentì d'esser discesa. E domandò allora a sè stessa che cosa avesse a dire la sua signora di così grave a Giacomo Pico, che ella non potesse ascoltare, e che cosa significasse quel turbamento di ambedue. Dimande queste che, nel cervello di una ragazza innamorata e gelosa, non hanno mestieri di aspettare a lungo una conveniente risposta.

Or dunque, è facile argomentare che cosa facesse la Gilda. Raccolti prudentemente i lembi della veste, che non avessero a strisciare lunghesso il muro, in punta di piedi e rattenendo il respiro, tornò sopra i suoi passi, e giunta al pianerottolo, stette origliando alla porta.

Frattanto il Bardineto, almanaccando a suo modo su quella risoluzione di madonna Nicolosina, aveva dato una rifiatata di contentezza, vedendo partire l'ancella invece della padrona, come da principio gli era parso che dovesse accadere.

—Ah, rimanete?—diss'egli, esprimendo nel fervido accento tutte le pazze speranze che gli grillavano d'improvviso nel cuore.

—Sì, rimango;—rispose la giovinetta con piglio solenne;—rimango, checchè possa altri pensarne; rimango, perchè questo colloquio, giunto per vostra cagione tant'oltre, non può, non deve restarsi interrotto. Fu il primo; sarà anche l'ultimo.—

Giacomo Pico trasaltò. La sua allegrezza era in un punto svanita. Volle parlare, ma ella gli ruppe le parole sul labbro.

—Lasciatemi finire. Io v'ho ascoltato; mi avete chiesto una risposta; abbiatela ora, senza sdegno e senza ingiuria, da me. Io non ho avuto finora e non vo' avere che amicizia per voi. Siatene amico, ve ne prego. Vedete intanto il bel frutto delle vostre fantasie; che dirà di noi quella povera fanciulla, che or ora è uscita di qui? Ella vi ama; me lo ha confessato. Amatela anche voi, messer Giacomo; ella lo merita; non fate che io, senza volerlo, senza pure saperlo, abbia rapito il cuor vostro alla mia povera ancella.—

Il Bardineto alzò sdegnosamente le spalle.

—Di ciò soltanto vi duole?—gridò egli, che, nella stizza ond'era tutto invasato, non doveva imbroccarne più una.—O forse mi date l'ancella vostra a dispregio?

—Nè di ciò mi duole, nè io fo d'alcuno la poca stima che dite. Ma via, non torniamo agl'ingrati discorsi. Ancora una volta volete essermi amico?

—No;—rispose egli con ruvidezza;—o tutto o nulla. Questa impresa si leggerà nel mio scudo, quando io ne porti uno inquartato, da contendere di nobiltà coi più celebrati e superbi. E vedrò allora….—soggiunse il Bardineto, infiammandosi,—vedrò allora se non vorrete esser mia!

—Dimenticatemi, messer Giacomo Pico;—disse a lui di rimando Nicolosina, più afflitta tuttavia che ferita da quelle acerbe parole.—Siete violento e scortese. Se tutti gli uomini vi rassomigliano, io non amerò nessuno sulla terra.

—Il primo che ardirà di amarvi, lo ucciderò come un cane!—gridò il Bardineto, con piglio feroce.

—Mi farete la solitudine intorno?—replicò ella sdegnata, guardandolo in aria di sfida.—Suvvia, tentate la prova!—

Il Bardineto non vedeva più lume.

—Voi amate qualcheduno;—le disse, con voce soffocata dalla rabbia;—confessatelo!

—Sapete che non amo voi; ciò vi basti.—

In quelle asciutte parole l'animosa fanciulla aveva fatto il supremo sforzo della sua alterezza offesa. Gli occhi le si offuscarono dalle lagrime, si sentì venir meno, e le sue mani andarono instintivamente contro la parete, a cercarvi un appoggio.

Egli le si accostò, come per sorreggerla.

—Non mi toccate!—gridò ella, respingendolo. E atterrita, spinse l'uscio con tanta precipitazione che la Gilda si tenne perduta. La poveretta ebbe a mala pena il tempo di rannicchiarsi in un angolo, dietro il battente.

Giacomo Pico si morse le labbra, e freddo all'aspetto, ma coll'inferno nell'anima, stette muto, accigliato, a guardarla, dopo essersi tirato indietro d'un passo.

Fu per parecchi istanti tra i due giovani un alto silenzio. Si udiva soltanto il respiro affannoso di madonna Nicolosina e lo scricchiolare dalla scranna, di cui Giacomo aveva afferrato la spalliera, per pigliare un contegno.

Finalmente la giovinetta si riebbe, scosse la sua bionda testa, rasciugò le lagrime e così parlò, con accento mutato, al suo fiero amatore.

—Messer Giacomo Pico, io amo mio padre e non accrescerò i suoi dolori, raccontandogli il nostro colloquio. Io stessa dimenticherò le vostre parole; altro di voi non ricorderò che l'antica amicizia e i servigi.—

Ciò detto e senza aspettare la risposta che stava per darle il Bardineto, uscì dalla camera e scese con passo leggiero le scale.

CAPITOLO VIII.

Dove si vede che non arriva sempre tardi chi arriva dopo.

Come si rimanesse Giacomo Pico e che torbidi pensieri gli girassero per la fantasia, lascio argomentare ai discreti lettori. Intanto seguitiamo madonna Nicolosina, che triste, assai triste, ma col cuore un tal po' sollevato, scende la scala dell'Alfiere.

Diffatti, quella partenza era una liberazione per lei, dopo la lunga oppressura di tutto ciò che aveva dovuto udire e rispondere. Certo è gran dolore il perdere un amico; ma questo dolore non è poi senza conforti; dirò di più, è il solo che n'abbia uno sollecito, vo' dire il conforto di avere finalmente conosciuto a parte a parte l'anima della persona in cui s'era riposta ogni fede. Strana consolazione, cotesta, di avere a conoscere pienamente il nostro simile, solo in quel giorno che non possiamo più durarla nell'usata dimestichezza con lui!

Posta in chiaro questa bisogna, niente premeva di più a madonna Nicolosina che di sapere che cosa ne pensasse Gilda, quella sua povera ancella, da cui pochi giorni addietro aveva udita la confessione di un amore profondo per Giacomo. Dico che avrebbe desiderato sapere; ma senza imbattersi così presto nella Gilda, a cui lì per lì non avrebbe saputo che dire. La forza di mandarla via a mezzo del suo colloquio col Bardineto, l'aveva avuta. Il suo diritto e la necessità di finirla in una volta con lui, volevano pure così. Ma ora, a cose fatte, la pietà ripigliava il suo posto nel cuore di Nicolosina, e non le bastava l'animo di raccontare a quella povera ragazza i particolari di un dialogo, che doveva tornarle sommamente spiacevole.

Il lettore sa che la Gilda, rispetto a ciò, non aveva più niente di nuovo a conoscere. Ma la sua giovine padrona, che non l'aveva veduta nel suo nascondiglio, poteva temere d'abbattersi in lei, prima di essersi consigliata maturamente tra sè, intorno a quello che dovesse raccontarle, o lasciarle indovinare, de' suoi discorsi col Pico. Epperciò, fatte le prime scale, invece di ritirarsi nelle sue stanze, ove forse poteva essere tornata l'ancella, tirò innanzi verso la gran sala, dove sperava di trovare suo padre e di avere in altre cure un momento di tregua allo spirito.

Il marchese Galeotto non era colà, dove la sua bella figliuola era andata a cercarlo. Uscito fuori della postierla a tramontana del castello, ordinava laggiù, al coperto da ogni vigilanza nemica, gli uomini che aveva scelti a compagni nella impresa su Noli. Questo diceva a madonna Nicolosina un donzello, da lei incontrato in quel mentre sull'uscio.

Ed ella fu allora per tornarsene indietro. Ma appunto allora, sul pianerottolo per cui doveva passare la fanciulla, compariva un giovinotto, non mai veduto prima al Finaro.

Vestiva nobilmente, quantunque più da soldato che da uomo di corte. Ma in que' tempi mal sicuri, chi non era, per necessità, o per elezione, soldato? Egli poi doveva venire da lungi, e la polvere, ond'era tuttavia coperto il suo mantello di scarlatto grigio, lo diceva da pochi istanti sceso d'arcione. Giovanissimo, biondo i capegli e bianco la carnagione, lo si sarebbe tolto per una fanciulla in abiti virili, se non lo avessero chiarito del sesso forte le basette che gli adombravano il labbro fine e vermiglio; per un paggio, se gli sproni d'oro che gli fregiavano i talloni, non avessero fatto testimonianza del suo grado di cavaliere. E così leggiadro all'aspetto, colla sua spada al fianco e il biondo capo scoperto (che il tôcco di velluto, onde usava coprirsi, lo aveva allora per mano) lo si sarebbe detto piuttosto l'arcangelo Michele, venuto in un mezzo incognito a visitare il suo buon servo Galeotto, marchese del Finaro, se al tempo di cui si narra fosse durato il costume di simiglianti discese degli alati figliuoli di Dio.

Madonna Nicolosina doveva passare dinanzi a lui, per ricondursi nelle sue stanze; e passando, come il savio lettore indovina, doveva anche vederlo. Ora il vederlo e il pensare tra sè ch'egli era un bellissimo giovine, fu una cosa sola per lei, ed anche la più naturale del mondo. Un bel viso, segnatamente se accompagnato da prestanza di membra e impresso di quella serena nobiltà che spesso può stare da sola e far anco piacere ad altri chi non somigli in tutto o in parte all'Apollo dal Belvedere, un bel viso, io dico, ha sempre avuto una simile accoglienza presso i cuori ben fatti.

Per altro, se madonna Nicolosina aveva il cuore ben fatto, era anche d'animo riguardoso e severo. Epperciò, data una fuggevole occhiata al forastiero e involontariamente pensato ciò che vi ho detto, raccolse modestamente la ciglia a terra, mentre la sua bionda testolina accennava ad un mezzo saluto.

Questa era cortesia necessaria, in risposta ad un leggiadro inchino del forastiero. Il quale, del resto, nel curvare la fronte, non abbassò altrimenti le ciglia, ma le tenne alte, ferme, diritte su lei, come quegli che non volea perdere nulla di quella rara veduta.

Ho detto che madonna Nicolosina era bellissima tra le belle. Di lui v'ho raccontato pur dianzi. Aggiungo per ambedue, che mai sulle porte del paradiso si scontrò una coppia d'angioli più leggiadra di queste due creature umane, ravvicinate dal caso su per le scale del castello Gavone.

Che fanno gli angioli, allorquando s'incontrano per via? Spiriti d'amore, debbono sentirsi fratelli, vedersi assai volentieri l'un l'altro e dirselo cogli atti, se non colle parole, a vicenda. Forse (e qui un povero profano par mio non può far altro che ragionare in via d'induzione) si toccano leggermente, sfiorano col sommo delle ali la casta dolcezza d'un bacio.

Ma là non erano angioli, bensì due figliuoli degli uomini, con tutti i riguardi, con tutti i vincoli, con tutte le noie, che un cerimonioso costume e una puntigliosa morale, detta con giusto rappicciolimento etichetta, impongono ai bistrattati nipoti d'Adamo. Ed ecco perchè madonna Nicolosina, abbassò gli occhi facendo un mezzo saluto al forastiero, ed egli, dopo aver fatto un inchino, si tenne rispettosamente indietro, ma guardandola senza misura, bisogna pur dirlo, e divorandola quasi degli occhi.

La bella visione passò, cara e gioconda come un raggio di sole per mezzo alle nuvole, inebbriante come una fragranza di gelsomini, portata a noi dalla brezza. E come fu passata, il giovane forastiero senti una stretta al cuore, e, colla stretta, un desiderio infinito di rattenerla, di vedere anche una volta quel suo angelico viso, di udire il suono della sua voce.

Non vi è egli mai girato per la fantasia, vedendo una bellissima donna passarvi rasente per istrada, o soavemente composta a verecondia come la Beatrice di Dante, o splendida di consapevoli vezzi come la tormentatrice di Francesco Petrarca, non vi è egli mai girato per la fantasia di bisbigliarle all'orecchio: fermati, angelo, o demonio, io ti amo?

Io, per me, tengo che questo giuoco lo abbiano in tasca un po' tutti. Senonchè, soltanto gli sciocchi ardiscono spiattellarlo sul volto ad una sconosciuta che passa, col pretesto che ad ogni donna torni gradita la giaculatoria, anche buttata là, a bruciapelo, come si direbbe un'ingiuria. Gli assennati, in quella vece, guardano e tacciono, pensando che, se la donna è di alto grado, sarebbe offesa un omaggio così audacemente reso, e se non lo è, parrebbe atto di poca stima, o nessuna, trattarla diversamente da una di quelle che vanno per la maggiore.

Tutt'altro da questi che ho detto, appariva il caso del giovine forastiero. Egli non era per istrada, ma in casa, e, secondo tutte le più ragionevoli apparenze, in casa di lei. Colà, una parola sola poteva considerarsi come appiglio ad una onesta dimanda. Avesse anche detto dell'altro, poteva soggiungere il perchè e il percome della sua ammirazione per lei. E poi, e poi, bisognava saper le cagioni della sua venuta al castello; bisognava intendere che dubbi gli avesse fatti nascere in mente l'apparizione di quella divina creatura; bisognava capire come gli fosse mestieri di chiarirli senza indugio; indi, se proprio era il caso, dargli biasimo del suo ardimento.

Imperocchè, già s'indovina, il giovinotto si disponeva a fare qualche cosa d'insolito. Era stato in forse, aveva titubato un istante; ma il desiderio aveva soverchiato la ragione, e si era mosso per tener dietro a madonna. Ella forse dal canto suo si aspettava cotesto; senza volerlo, senza avvedersene, aveva rallentato il passo. Arcani del cuore!

—Perdonate!—disse il giovine, inoltrandosi verso di lei.

La fanciulla si volse, cortese in atto, a guardarlo, aspettando che proseguisse. E così fece egli, dopo un istante di pausa, mettendo nelle sue parole tutto il dolce che seppe.

—Madonna, è audacia senza pari la mia; fo male a trattenervi in tal guisa; ma siete così bella!—

Un amabile rossore tinse d'improvviso le guancie della giovinetta, che fu confusa, non adontata, da quelle inaspettate parole. Tanto è vero, dopo tutto, tanto è vero quello che dicon gli sciocchi, che certi omaggi non tornano mai sgraditi alle donne! ma intendiamoci, purchè non siano buttati là da uno sciocco, e con sguaiata maniera.

—Non vi offendete, vi prego;—incalzò il giovine tendendo le mani in atto supplichevole.—Ho a chiedervi cosa che troppo mi preme, ed una vostra umana risposta mi è necessaria. Infine…. ecco lo stato dell'anima mia. O voi siete madonna Nicolosina del Carretto, o ch'io sono il più sventurato degli uomini.—

Queste parole furono dette con tanto candore e insieme con tanta foga giovanile, che ella aperse, in uno scoppio d'ilarità involontaria, le labbra e mostrò le trentadue perle orientali, legate nel solito corallo da quei gioiellieri bizzarri, che sono sempre stati i romanzieri e i poeti. Rise, a farla più spiccia; e in verità, a quelle parole, e dette a quel modo, non potea dicevolmente far altro che ridere.

Lo scoppio, dopo tutto, fu breve, come si conveniva a costumata fanciulla, e si tramutò in un sorriso benevolo, come portava la gentilezza dell'indole sua, e come richiedeva quell'aria malinconica, ond'era impresso il volto del giovane forastiero.

—Sì, diffatti.—rispose ella, chetandosi,—mi chiamo Nicolosina del Carretto. E in che poss'io tornarvi utile, messere?

—Ah, basta, se forse non ho detto già troppo;—ripigliò il cavaliere arrossendo.—Grazie, madonna; grazie! A me non resta che di andare da vostro padre, dal magnifico marchese del Finaro.

—Egli non è qui, ora;—soggiunse Nicolosina;—ma poco indugierà a ritornare. Siate il benvenuto tra noi. Nella gran sala troverete alcuno dei gentiluomini della sua corte, che vi farà compagnia.—

Così dicendo, gli additava la porta dond'ella era uscita pur dianzi.

Ma il giovine non si muoveva. Si sarebbe detto, a vederlo, che il pavimento sotto di lui fosse tutto una pania. Senonchè, a guardare madonna Nicolosina o que' suoi occhi divini, si capiva subito che la pania non era per terra e che egli non era invescato dai piedi.

Il dialogo, per altro era lì lì sulle ventitrè ore, e di certo moriva, se non giungeva un terzo interlocutore in aiuto. Era questi il Picchiasodo, ma da lontano, con un colpo di bombarda, che fece tremare, nella loro intelaiatura di piombo, i vetri onde pigliava luce la scala. Traeva egli dal poggio di Maria contro le mura e le torri del borgo sottostante. E cinque o sei di questi saluti erano mandati ogni giorno dal ferreo labbro della signora Ninetta.

—Triste cosa la guerra!—esclamò il forastiero, notando un atto di sgomento che ella non aveva potuto reprimere.

—Ah sì, messere, triste cosa!—rispose la giovinetta sospirando.—Il Finaro, pur troppo, non fa lieta accoglienza a' suoi visitatori cortesi.

—Madonna, e perchè?—diss'egli di rimando.—Ognuno di costoro si recherebbe a ventura di partecipare ai pericoli e ai danni di questa nobile terra, come ho fede che presto dovrebbe partecipare al trionfo e alle gioie del vostro gloriosissimo padre. Inoltre, perchè tacerlo? con voi, madonna, anche assalito da tutte le armi della potente repubblica genovese, il castel Gavone sarebbe un luogo di delizie per esso. Vi parlo liberamente, come vogliono i casi che qui mi hanno condotto; non ve ne adontate! Che più? posso io dirvi tutto, aprirvi il mio cuore?—

E la guardava, così dicendo, con occhi tanto amorevoli, che la povera Nicolosina fu sul punto di lasciarlo proseguire. Un sentimento di verecondia la rattenne.

—No, ve ne prego, messere;—rispose ella nobilmente.—E vi dirò cosa, a mia volta, che parrà imitata dalle vostre parole di poco fa;—soggiunse poscia, con un certo sorriso leggiadramente malizioso;—o voi siete il conte d'Osasco, o ch'io vi ho già troppo ascoltato.

—Lo sono;—diss'egli, arrossendo al pari di lei in quel punto;—e come lo avete voi indovinato?—

Ingenua domanda! E come gli uomini più accorti, messi al cospetto d'una semplice donna, tornano spesso fanciulli! Nicolosina avrebbe potuto rispondergli che, ottocento sessant'anni prima di lei, un'altra donna, la bella figliuola del duca di Baviera, aveva riconosciuto Autari, il re dei Longobardi, tra que' medesimi ambasciatori che egli mandava a chiederla in moglie; questo argomentando dal fatto, che il mentito messaggiero aveva osato stringerle la mano, mentre ella gli profferiva la coppa ospitale. Chi altri, se non il suo futuro sposo, avrebbe ardito diportarsi seco lei in quel modo?

Nicolosina non gli rispose colla storia alla mano, che a dir vero non l'aveva presente. Per altro, come era simile il caso, doveva riuscire simigliante il concetto.

—Chi altri,—domandò ella per contro,—chi altri, se non il conte di Osasco m'avrebbe parlato in tal guisa? Ma dite, messere, come siete voi qui? Non avete ricevuto la lettera che v'ha mandata mio padre?

—L'ho avuta;—rispose egli inchinandosi,—ma potevo io accettare la libertà che il marchese Galeotto così nobilmente mi offriva! Vi avevo chiesta, o madonna, sulla fede della vostra bellezza ed ero grato ai vostri di avere accolto con benevolenza la domanda di tale che non è imperatore, pur troppo, nè principe, per reputarsi degno di voi. Sono venuto a chiedervi ancora una volta, e sono felice, dopo avervi veduta, che il mio cuore e il mio debito di gentiluomo non si trovino oggi a contrasto, come sarebbero stati veramente, e con grave danno del cuore, se la divina che ho incontrato pur dianzi non fosse stata madonna Nicolosina del Carretto. Voi sorridete? È bello ora il vostro sorridere e mi dà argomento a sperare. Or dunque, io porto la sua lettera al marchese vostro padre e venti lancie, che spero non gli torneranno sgradite. Anch'io combatterò pel Finaro; non mi concederete voi il premio della vostra mano?—

Nicolosina stette un momento sovra pensieri. Le sovvenne del colloquio avuto poc'anzi lassù, nella torre dell'Alfiere, e una nube di tristezza scese ad offuscarle lo spirito. Ma ella era donna di sensi gagliardi e si riebbe tosto di quello sgomento. Dopo tutto, che avrebbe mai osato Giacomo Pico? E non avrebbe ella saputo custodire la sua felicità contro ogni insidia, o minaccia?

—Conte di Osasco,—diss'ella, porgendogli la sua bella mano, su cui egli fu pronto ad imprimere il più ardente dei baci,—se mio padre accetta la vostra generosa profferta, anche domani, nella chiesa di san Biagio, sotto i colpi delle artiglierie nemiche.—

Ed ecco per qual modo s'aguzza lo spirito alle ragazze da marito. I grandi casi e le forti commozioni sono la più pronta e la più efficace delle scuole.

Il conte d'Osasco, dal canto suo, aveva ragione a reputarsi felice. E non sapeva tutto, ancora; non sapeva, verbigrazia, d'esser giunto dopo un altro e di averlo al primo lancio superato. Del resto si giunga prima, o poi, l'essenziale è di giungere in tempo. E Carlo di Cascherano, conte di Osasco, giungeva in tempo altresì per conquistarsi il cuore di Galeotto, a cui la sua venuta, dopo la lettera che lo liberava dalla parola data, doveva parer generosa oltre ogni dire.

Questi, che stava allora fuor del castello, a disporre la sua gente per l'impresa di Noli, com'ebbe udito delle venti lancie che erano venute al borgo per la strada di Cova, pensò che fossero un nuovo presente del re di Francia, o d'alcuno de' suoi generi, che ne aveva parecchi, e in alto stato; tra gli altri Onorato Lascaris, signore di Ventimiglia e di Tenda, e Alberto Pio, principe di Carpi, allora in Torino a' servigi del duca di Savoia. E per sincerarsi della cosa, tornò subitamente al castello, dove gli venne veduto il conte d'Osasco, un altro genero, sul quale egli non faceva assegnamento veruno.

L'ebbe per augurio felice, e si compiacque eziandio con paterna allegrezza del leggiadro aspetto del giovine, la cui bell'anima si dipingeva sul bellissimo volto.

Una gioia mite, ma profonda, regnava in tutta la corte del Finaro. I radi ma sicuri colpi della signora Ninetta non ottennero quel dì tutta l'attenzione che il nostro infaticabile Anselmo Campora poteva con giusto orgoglio ripromettersi. Barnaba Adorno, cogli altri fuorusciti del suo casato, e i signori del Carretto, tra i quali Giovanni, fratello a Galeotto, e madonna Bannina, festeggiavano tutti il giovine Carlo, il leggiadro cherubino di Osasco. La gran sala del castello era piena di tutti i gentiluomini che ufficio di guerra non trattenesse alle mura, e le nobili dame gustavano in quell'ora di geniale convegno un fugace riflesso dei loro trionfi cessati, degli ozi antichi e delle memori splendidezze dal castello Gavone.

A un tratto, con alto stupore di tutti, non escluso Tommaso Sangonetto, il quale, nella sua qualità d'ambasciatore posticcio, avea creduto di potersi imbrancare co' grandi, comparve nella sala Giacomo Pico.

La faccia del Bardineto era scura, aggrondato il sopracciglio, il labbro chiuso, il portamento più contegnoso che l'occasione non dimandasse, o che a lui vassallo non fosse consentito lassù. Ma il suo pallore, che ricordava la pugna sostenuta e facea fede d'una lunga malattia, non lasciava por mente a cotesto, e gli occhi della nobile comitiva si volsero a lui, schiettamente amorevoli.

Primo, il marchese Galeotto lo salutò con un grido di lieta meraviglia, e, andatogli incontro, lo prese per mano, facendogli le più oneste accoglienze e congratulandosi seco lui del risanamento ottenuto. E il Bardineto ne tolse appiglio a soggiungere che troppo oramai era egli rimasto inoperoso e più di quello che veramente gli bisognasse; però, con licenza del marchese, avrebbe ripigliato il suo uffizio di soldato. Sapeva della partenza disegnata alla volta di Noli; laonde, non avea voluto lasciarsi sfuggire la buona occasione e domandava di entrare nel numero degli eletti, che stava per condurre il suo signore a quella impresa, così piena di rischi e di gloria.

—Ed io pure, padre mio, che tale ben posso chiamarvi;—soggiunse il Cascherano, con impeto di onesta baldanza.—Per aver parte a' vostri pericoli sono appunto venuto, e, sebbene giunto l'ultimo tra questi degni e fedeli gentiluomini vostri, mi dorrebbe di non essere il primo a seguirvi.—

Giacomo Pico, diede un'occhiata sospettosa a colui che parlava in tal guisa, chiamando il marchese Galeotto col nome di padre. Nicolosina, che spiava attentamente, quantunque in aria di noncuranza, ogni atto del Bardineto, notò quell'occhiata e il cuore le diede un sobbalzo.

—Gran giorno per me!—diceva frattanto il marchese, a cui splendevano d'inusata luce i grandi occhi azzurri, che dovevano andar famosi nella storia del suo tempo.—Giacomo Pico, il nostro valoroso compagno d'armi, torna oggi a brandire la spada, e il conte di Osasco viene a chiedermi la sua parte, non pure nelle allegrezze, ma altresì nei pericoli della mia casa. Sì, Giacomo, tu verrai con me a questa impresa, in cui la tua avvedutezza e il tuo braccio non saranno soverchi. A voi, conte e figliuol mio, presento Giacomo Pico di Bardineto, il più fedele dei miei servitori.—

Il sospetto di Giacomo si mutava per quelle parole in certezza. Per altro, non fu molto sorpreso da quella improvvisa venuta. Respinto da Nicolosina, tutto doveva egli aspettarsi, e niente aveva a recargli stupore. Infine, e non era meglio così? In un giorno solo aveva udito la sua sentenza da lei e veduto il suo fortunato rivale. Tristi cose ambedue; ma almeno, ogni vana speranza andava in dileguo; ogni dubbio svaniva. Soltanto chi vede intiero il suo danno può degnamente provvedere a' suoi casi. E Giacomo Pico avea provveduto.

Carlo di Osasco fece un passo verso di lui e gli sporse amichevolmente la mano. Giacomo fremeva un pochino e forse sarebbe rimasto freddo, rispondendo al cortese invito con un mezzo inchino che non dicesse nulla. Ma proprio in quel punto gli venne veduta madonna Nicolosina, tranquilla in apparenza o noncurante di lui. Se l'avesse veduta in atto supplichevole, chi sa? Il cuore umano è così bizzarro nei suoi moti, che egli forse avrebbe vacillato ne' fieri propositi. Quella apparente freddezza, quella inflessibilità marmorea della donna a cui s'era umiliato poche ore prima nell'espansione dell'affetto e della preghiera, lo raffermarono ne' suoi biechi disegni. E si avanzò allora verso il conte d'Osasco, gli prese la mano e la strinse, la strinse così forte, come se volesse stritolarla.

Parve quello al conte un saluto di soldato, ruvido sì, ma sincero. La pallidezza del volto e l'aria contegnosa parvero agli altri effetto della perdita del sangue e dell'impiccio di trovarsi in così numerosa brigata, dopo esser rimasto forse due mesi nella solitudine della sua cameretta. E nessuno pose più mente a lui, salvo chi aveva argomento a temere di qualche sua sfuriata, e salvo Tommaso Sangonetto, che conosceva il segreto dell'amor suo e s'aspettava anch'egli qualche frutto della sua stravaganza.

Avvicinatosi a quest'ultimo, e col sorriso sul labbro, Pico gli parlò sottovoce, mentre faceva le mostre di salutarlo.

—Stanotte saremo a Noli;—diceva.—Farò di salire con questo bel forastiero sui merli. Chi sa che ad ambedue non tocchi la medesima scala? La sorte e così capricciosa!

—Ah, Giacomo, non far ragazzate, ti prego!—rispose il Sangonetto, con una ansietà, la cui espressione subitanea non isfuggì al vigile sguardo di madonna Nicolosina.

—Non temere;—soggiunse Pico.—Vedrai!

—Già, non vedrò niente, io!—ripigliò Il Sangonetto.—Sono ambasciatore, non uomo d'armi, e le scale a piuoli mi darebbero il capogiro. Ho preso il tuo posto; non te ne lagnare. Io non sono ambizioso; finita, bene o male, la guerra, torno ciliegia e tu sarai da capo il fico dell'orto.

—Ah sì!—sclamò il Bardineto, digrignando i denti.—Se tu aspetti ch'io serva ancora questa razza d'ingrati!…—

Mentre egli così parlava, Nicolosina aveva tratto in disparte suo padre e gli venìa favellando, con aria d'affettuosa preghiera.

—Capisco;—rispose Galeotto ridendo;—tu non vuoi che il tuo leggiadro sposo, appena giunto tra noi, vada a correre il rischio d'una piombatura sul capo. E sia, lo pregherò; ma vorrà egli accettare?

—Se tu glielo domandi, padre mio, perchè no? Non è egli uffizio ragguardevole, e non l'hai tu fin qui lasciato, certo per mancanza di uomini da ciò, a men degne persone?

—Per san Giorgio, figliuola mia, questo è un biasimo che mi date. E invero, l'ho anche un po' meritato!—soggiunse Galeotto, accarezzando con tenerezza paterna i biondi capegli di madonna Nicolosina.

E voltosi poscia al Cascherano, gli disse:

—Cavaliere, tra pochi momenti si parte. Ma se io ora vi chiedessi un sacrifizio?

—Quale?—dimandò ansiosamente il Cascherano.

—Ho mestieri di un prode cavaliero,—soggiunse il marchese,—che corra speditamente infino ad Asti, e con eloquente parola induca il balìvo di Tresnay a venire colle sue genti in aiuto del Finaro, come mi fu promesso dal buon re Carlo di Francia e ancora testè dall'illustrissimo signor duca di Orleans, giunto a mala pena di qua dalle Alpi. Per lo passato, in simiglianti negozi, mi fu utilissima l'opera diligente e sollecita di Giacomo Pico. Lui ferito e costretto al riposo, adoperai il nostro bravo Sangonetto; ma oramai colla buona volontà di lui ho fatto già troppo a fidanza….

—Magnifico messere,—disse allora il conte d'Osasco,—se è cosa che vi preme….

—Assaissimo;—interruppe il marchese;—e subito, se ci amate, dovrete salire in arcione.—

Madonna Nicolosina respirò, vedendo l'atto di consentimento del giovine. Giacomo Pico, in quella vece, si morse le labbra. Nel tardo mutar di consiglio del marchese Galeotto egli scorgeva la mano di Nicolosina e i sospetti che certo l'avevano guidata a chiedere l'allontanamento del conte.

—Non ho io forse una maschera al volto?—diss'egli tra sè.—E deve ella credere che io mi strugga d'amore e di rabbia per lei?—

La deliberazione improvvisa del marchese Galeotto non poteva piacere nemmanco al nostro Tommaso, che vedeva andarsene in fumo tutte le sue ambizioni. Imperocchè egli non era sincero col Bardineto, quando gli diceva di dover tornare ciliegia.

—Magnifico messere….—balbettò egli, ingrullito;—ed io?

—Con me e col tuo valoroso amico all'impresa di Noli;—rispose amorevole il marchese Galeotto.—È giusto che io non tolga ai miei buoni vassalli l'occasione d'illustrarsi con qualche atto di singolare prodezza. E tu, mio buon Tommaso, n'hai certo una voglia spasimata.

—Se l'ho, magnifico messere!… Certo, che l'ho; l'hanno tutti!—farfugliò il Sangonetto, che non sapeva a qual santo votarsi.—Ringrazio il mio illustre signore e la fortuna che mi ha destinato ad accompagnarlo sul campo della gloria.—

Cotesto ad alta voce e cercando di dare nella rotondità della frase un concetto della sua eloquenza d'ambasciatore fallito.

Ma dentro di sè, il prode Tommaso Sangonetto masticava ben altro.

—Ah per l'anima di…. L'ha a contare, le mie prodezze, il marchese! Già, o come vuol fare? Dopo l'Avemaria, tant'è la tua come la mia, ed egli non vedrà proprio un bel niente. Io le conosco, le mura di Noli; ritte, puntigliose, accigliate, su quei loro greppi impraticabili, con quelle torri che escon fuori di riga ad ogni cinquanta passi e vi mandan giù l'ira di Dio!… No, no, l'appoggi un altro, la mia scala; io sto a vedere chi casca. Dopo tutto, o che? io l'amo, quella repubblica; si governano da sè; non ci hanno marchesi, nè conti; non pigliano gatte a pelare; non domandano che di pescare tranquilli le più saporite triglie di tutta l'Italia. Ottimi cittadini! Li piglio a proteggere.—

CAPITOLO IX.

Qui si racconta di un nibbio, che rincorrendo una colomba s'abbattè in una tortora.

Messer Galeotto, per celato cammino alle spalle di Verzi, conduce l'eletta de' suoi fanti su Noli. Grande e mirabile impresa era questa, di andare, egli assediato nella sua terra, a tentare l'assalto d'una terra nemica. Per altro, anche i suoi luogotenenti si segnalavano in simili atti d'incredibile audacia, e pochi giorni addietro un Enrico da Calvisio, con un pugno di Finarini era piombato così alla sprovveduta sul Borghetto, luogo murato sulla spiaggia del mare a ponente del marchesato, che i terrazzani, fedeli allora alla signorìa genovese, avevano avuto a mala pena il tempo di chiuder le porte. Il Calvisio, non potendo altro, s'impadronì d'una galeotta che que' del Borghetto tenevano ormeggiata alla riva, e preso il largo, avvistò otto feluche genovesi, le quali portavano vettovaglie all'esercito. Qui, senza darsi un carico al mondo della galèa nimica che incrociava su que' paraggi e che doveva essere in quel mentre nelle acque d'Albenga, navigò incontro ai nuovi venuti, e, fingendosi mandato dal sopracòmito della anzidetta galèa, li condusse a pigliar terra dov'egli voleva; così impossessandosi delle vettovaglie destinate al nemico e introducendole, per la via di Verezzi, nel Borgo Della qual cosa non è a dire come gli fosse grato e gli dèsse lode il marchese Galeotto, prode tanto egli stesso e largo di encomio coi prodi.

Ora, innanzi di seguire quest'ultimo, vediamo Giacomo Pico che quel cicalone di Tommaso Sangonetto s'ingegna di consolare a modo suo dei rigori della sorte.

—Così è, Giacomo mio, siamo vassalli e bisogna recarsela in pace. Son essi i padroni, noi gli umilissimi arnesi. Serviamo al caso loro? Ci adoprano e ci hanno anche talvolta per la man di Dio, nel più forte delle loro necessità. Non serviamo più a nulla? Ci buttano in disparte, o si ricordano di noi, com'io delle prime calze che ho smesso. Che forse c'è mestieri di gratitudine con noi? Che importa a lui del tuo valore, a lei dello tue smanie amorose? Egli è il tuo signore, intendi uccel di rapina; ed è suo, tutto suo, quanto egli vede dall'alto di questa rupe allo intorno; ella, poi, nasce dal padre; uccel di rapina anche lei, e uno spicchio di cuore sanguinolento è il pasto più gradito a questa cara aquilina. Ah sì, gente da volergli bene, cotesta, e da pigliarcisi una scarmana, come ho risicato di far io nell'ultimo viaggio di Francia! Vedi un po' come hanno trattato con me! Tu eri inchiodato in un letto, mio povero Giacomo, ed io subito diventavo buono a qualcosa. Mi mandano messaggiero alla Lega, e li servo di coppa e di coltello; sono contenti di me, non c'è che dire, e me lo provano, mandandomi in Francia. Vo come il vento; ritorno come il terremoto; porto loro gli aiuti e le buone promesse del re. Che si voleva di più? Non ti par egli che io dovessi credere la mia sorte assicurata? Ma no. Si tratta ora di raccogliere i frutti della mia ambasceria, di mandare una persona fidata incontro al balìvo di Tresnay. Chi dovrebbe andarci, se non io? Chi ha da compier l'opera, se non chi l'ha cominciata? Ed eccoti in cambio il cherubino, capitato tardi, ma sempre a tempo per vogarti sul remo. Abbia lui la fanciulla meritata da Giacomo Pico; vada lui frattanto per quel negozio che doveva toccare al Sangonetto. Già, vedi carità pelosa! Sangonetto sarà stanco d'ambascierie, il poverino; mandiamo questo bel chiavacuori in sua vece, ed egli invece abbia l'onore di seguire all'impresa di Noli quel pazzo da catena d'un marchese Galeotto, che va a cercare il male come i medici; si buschi un verrettone, o una piombata sul nomine patris, quel caro Tommaso; se no, povero a lui, lo fa colla voglia. Accidenti alla compassione!

—Va;—disse il Bardineto, masticando la stizza;—il tuo ladro è il mio; fo due vendette in un colpo.

—In che modo?

—È il mio segreto; lascia fare e vedrai.—

Ora il segreto di Giacomo Pico era di correr dietro al Cascherano e di freddarlo senz'altro. Questo egli aveva pensato, a mala pena lo stratagemma di madonna Nicolosina era venuto a guastargli il suo primo disegno. Senonchè, per mandare ad effetto quest'altro, gli bisognava allontanarsi con qualche pretesto dal marchese Galeotto e trovare, subito dopo, un cavallo. Ma anco a pescare la scusa per non accompagnarsi col marchese Galeotto e la cavalcatura per andar difilato sulla via di Melogno, che avea presa il Cascherano pur dianzi, o non avrebbe quella sua fuga dal Borgo dato negli occhi alla gente? E morto il rivale, non sarebbe stata attribuita a lui l'uccisione? Grama vendetta, che gli avrebbe impedito di tornare al castello, dove oramai teneva altre fila sicure, come a momenti dirò. Smesse adunque il pensiero d'inseguire il rivale, e, divorando la sua rabbia, andò col marchese Galeotto sulla via delle Magne.

Il Sangonetto aveva ragione. Noli era un osso duro da rodere, con quel suo castello in vetta del monte e una lunga scesa di mura e di torrioni per infino alla valle. Come un nido di aquilastri, piantato nel fianco d'una rupe a sottosquadro, non teme insidia di cacciatori quantunque animosi e valenti, Noli potea viver sicura dalla terra e dal mare. Di lassù, dove le sue mura comandavano i serpeggiamenti della via più faticosa che fosse mai, tornava impossibile un assedio, e una sorpresa soltanto avrebbe potuto dare la città in balìa de' nemici; di giù, alla marina, in mezzo a due ripide balze, si stendeva una spiaggia irta di vele. I migliori marinai di Liguria nascevano appunto colà. Noli aveva armato due galere per la prima crociata, e in quella occasione s'erano stretti coi Genovesi i primi vincoli di quella amicizia che aveva a durare inalterata pel corso di sette secoli, cioè fino all'ultimo giorno di vita della serenissima repubblica.

Giunsero a notte alta sotto le mura. Il marchese Galeotto aveva sollecitato per modo il passo de' suoi, da poter loro concedere un lungo riposo in prossimità della meta; e qui, poi, pena la morte, aveva comandato il più stretto silenzio. Insomma, niente era stato da lui pretermesso di ciò che deve curare in simili congiunture un buon capitano; e, quantunque non lo reputasse necessario con uomini della tempra de' suoi, più d'una volta era corso avanti e indietro, ed anche rimasto un tratto in disparte ad osservare, perchè tutti ad un modo e ordinati procedessero all'assalto.

Così e non altrimenti avvenne che il Sangonetto non potesse svignarsela, come avea disegnato di fare. Il nostro Tommaso doveva quella notte esser valoroso per forza. Tanto è vero che di notte ogni gatto è bigio. Il che va inteso con discrezione e per l'apparenza soltanto, da cui si cavano i giudizi umani e le storie; che quanto al cuore, gli è un altro paio di maniche.

Ogni cosa fino al pie' delle mura andò secondo i desiderii del marchese. E già erano rizzate le scale e chetamente appoggiate ai merli. Il Sangonetto, adocchiatane una più lunga dell'altre, comandò di appoggiarla a dirittura contro lo sporto di un torrione, e con atto d'insigne temerità volle essere il primo a tentar la salita. Ora siffatti onori si lasciano volentieri a cui piacciono, e i compagni suoi non ci trovarono niente a ridire. Così saliva animoso, o gli altri dietro a lui, ma alla distanza di due o tre piuoli, quasi per ossequio a tanto valore. Ora mentre si tirano a fatica in alto, coi loro palvesi imbracciati sul capo, ecco ad un tratto la scala traballa, gira sopra uno dei pie'; chi è in tempo s'aggrappa al legno malfido e si trattiene sospeso; chi stava in quel mentre colla mano levata, a cercare il piuolo più alto, brancica l'aria e cade riverso nel fitto dei compagni che erano pronti a seguirlo; grida involontarie rompono dal petto di chi cade e di chi riceve il colpo inatteso, e più delle grida torna molesto all'orecchio del capitano lo strepito delle armature percosse.

—Sant'Eugenio!—gridò in soprassalto una voce dai merli.—Sant'Eugenio e Noli! Cittadini, alle mura; il nemico, il nemico!—

A questa voce un'altra rispose e un'altra ancora più lunge. In breve gridarono accorr'uomo tutte le scolte e fu messo il castello a romore. Ben volle Galeotto profittare dell'oscurità e dell'incertezza dei difensori, spignendo quanti più poteva sui merli; ma già dalle caditoie piombavano pietre, e una d'esse, rompendo a mezzo una scala, fece ruzzolare un drappello de' suoi, tra i quali Giacomo Pico, che per altro non n'ebbe alcun danno, salvo le ammaccature del suo panzerone di ferro.

L'insidia era sventata; i Nolesi accorrevano in furia alle mura e le lor grida empievano l'aria, facendoli parere i due cotanti del numero. Niente era da farsi più oltre, e il marchese Galeotto, sebbene contro sua voglia e scorrucciato oltre ogni dire, comandò di lasciare l'impresa, prima che il nemico sapesse di certo chi gli avea dato l'assalto.

Chi si dolse più forte di questa mala riuscita fu il prode Sangonetto, sospeso tuttavia alla scala, a cui, da quel furbo ch'egli era, avea dato volta con uno sforzo repentino di braccia. E volle farsi sentire, il temerario guerriero, perchè lo sapessero tutti, che c'era lui, proprio lui, appollaiato lassù; senonchè, a mala pena s'avvide, al traballio della scala, che una mano nemica dal sommo dei parapetto lavorava a dargli la spinta, lasciò di vociare, gittò lo scudo per aver più spedite le mani, e lì spenzoloni fece le bracciate di due piuoli, in cambio di uno.

—Peccato!—diss'egli nel ritorno a Giacomo Pico, e così ad alta voce che il marchese Galeotto lo udisse.—Una così bella occasione fallita, e per la balordaggine di due, o tre, venuti a romper l'ova in sull'uscio! Ero già a due braccia dai merli, quando quegli arfasatti m'hanno dato una volta alla scala, colla lor furia di corrermi tutti alle calcagna. Benedetta gente, per non dirne altro! O non lo sanno il proverbio, che la gatta frettolosa fa i catellini ciechi? Facevano a rubarsi il posto, que' scimuniti guasta mestieri; come se in questa nobile impresa con ci fosse stato tempo e luogo per tutti!—

Così, dopo aver provveduto alla sua vita, provvedeva il Sangonetto alla fama, dando egli stesso una soffiatina nella tromba di questa compiacente signora.

Nessuno, per altro, diè retta al nostro Tommaso, che altri pensieri occupavano la mente di Galeotto e di Giacomo Pico. Taciti e spediti rifecero la strada delle Magne e sul mattino seguente rimettevano il piede entro le mura del Finaro, dove il marchese tornò alle cure della difesa e Giacomo Pico a' suoi disegni di vendetta.

Per intendere i quali, bisognerà risalire alla mattina del giorno addietro e proprio al momento in cui madonna Nicolosina, fortemente commossa di sdegno e di tristezza, usciva dalla torre dell'Alfiere.

—Va e ricorda quel che ti pare, di me;—Aveva borbottato Giacomo Pico, seguendola infino all'uscio;—va e racconta pure ogni cosa a tuo padre!—

E guatando quella superba che scendeva le scale così grave negli atti e padrona di sè, mentre egli non lo era stato e si sentiva vinto, umiliato da lei, un odio feroce contro quella donna gli era nato d'improvviso nel cuore. Egli avrebbe voluto essere in quel punto un Dio, o un demonio, per vincere quella ritrosa, incatenarla colà, vederla a' suoi piedi, impadronirsi, a suo malgrado, di lei. Imperocchè l'amore nell'anima del Bardineto non poteva riuscire quel delicatissimo affetto, e quasi celeste, che i poeti affermano essere certamente inspirato da una donna gentile. L'amore anzitutto è desiderio, e non sempre la nobiltà della persona amata può affinare nella mente dell'uomo e trarre a fior di virtù spirituale questo che è sempre ne' suoi cominciamenti un prepotente ardore di sangue.

Così imbestialiva il Bardineto, desiderando ed odiando. L'avrebbe di gran cuore posseduta ed uccisa; e questo è dir tutto.

Ora, mentre egli la seguiva degli occhi, gli venne udito, a due passi discosto da lui, un suono di rammarico, quasi un singhiozzo rattenuto a fatica. Fu dietro l'uscio in un salto, e vi trovò la Gilda rincantucciata, la Gilda più morta che viva.

Subito intese che la meschina era là, ascosa e piangente, per lui. Del resto madonna Nicolosina gli aveva detto pur dianzi il segreto della sua povera ancella. Ed egli non se n'era avveduto prima; assorto nella bellezza gloriosa della giovine castellana, non avea mai chinato lo sguardo indagatore sul viso della Gilda; non aveva pensato mai che la sua bellezza, per essere in umile stato, non era già da meno di quella che a lui l'ambizione e l'amore facevano apparir così grande.

Si chinò allora verso di lei, la rialzò tra le sue braccia e la trasse di peso nella camera, senza che ella pur si provasse a resistere.

—Uccidetemi, messer Giacomo!—gli disse invece, dando in uno scoppio di pianto.—Ho udito ogni cosa e mi è più caro morire, che soffrir come faccio da un'ora.—

Giacomo Pico rimase immobile un tratto a guardarla, così abbandonata nelle sue braccia, sciolta le chiome, il volto arrovesciato, fiammeggiante, inondato di lagrime. Era bella, così; e lo amava, e soffriva per lui.

S'inginocchiò, per sostenerla meglio e sollevarle la testa, ma più, ancora per divorarla degli occhi e riscaldarla del suo alito ardente, quella donna leggiadra, che si struggeva di vergogna e di amore.

—Hai udito ogni cosa?—le disse.—Hai dunque udito che siamo i loro servi, i loro trastulli? Questi orgogliosi e malvagi signori, li conosci ora anche tu?—

—Oh, Giacomo! che dite voi mai!….—gridò sbigottita la poveretta.

—Dico che tali son essi, e che altri dobbiamo esser noi da quelli di prima, per loro;—ripigliò Giacomo, infiammato di sdegno;—dico che bisogna odiarli…. e amarci tra noi;—soggiunse sottovoce e quasi bisbigliandole la frase all'orecchio.

Alle inattese parole e al soffio infuocato delle labbra di Giacomo, la Gilda trasaltò e volse su lui uno sguardo smarrito.

—Amarci tra noi, sì!—ripetè il Bardineto.—Non siamo noi quanto loro? In che sei tu men bella di lei? E in che son io da meno di uno sposo che ella conosce a mala pena per nome? Io e tu, fanciulla, siam nati in umile stato; è questa l'unica differenza tra essi e noi. Ma chi furono i loro antenati? E non potrebbe nascere da noi una stirpe più nobile della loro e più generosa a gran pezza? Abbiamo dunque, noi pure gli stessi diritti sulle gioie dell'esistenza; dobbiamo e vogliamo liberarci da questa infame servitù, essere, come ci sentiamo, uguali a costoro.

—Ah, messer Giacomo,—esclamò ella sbigottita,—voi parlate come Tommaso Sangonetto.—

—Che ti ama!—notò il Bardineto con accento sarcastico.

—Sì,—rispose ella prontamente,—ma non quanto io lo detesto.—

—Fai bene, sai!—disse Giacomo, carezzandone accortamente i pensieri, mentre la traeva dolcemente a sè, per ravviarle i capegli sulle tempie.—Egli non intende l'amore; è di tempra volgare; desidera, non ama. Ed io t'amo. Sei bella,—soggiunse, notando un misto di sorpresa e d'incredulità che le traspariva dagli occhi,—sei bella come la vergine Maria, che frate Angelico ha raffigurata, e che i nostri signori custodiscono tanto gelosamente nella chiesa di San Giorgio. Come torno io ad avvedermi di ciò, io che fui tanto smemorato per giorni e per mesi? Vedi, Gilda, mia Gilda, sono stato cieco; che dirti di più? Si è fuori di senno talvolta, come si è presi dal vino. Certo la tua signora mi ha posto una malìa, per condurmi in mal punto, e spezzare il tuo povero cuore. Imperocchè, vedi, io lo sentivo, di essere amato da te. Erano le tue bianche mani che mi davano più grato refrigerio, quando le s'accostavano a medicarmi la ferita. Laggiù all'Altino, te ne rammenti? sei stata la prima a giungere, la prima a toccarmi. E desiderai di rimanere eternamente colà, quando sentii il tuo braccio scorrere lievemente sotto il mio capo per rialzarlo, quando sentii sulle mie guancie l'alito della tua giovinezza. E poi, quale follìa! Come ho potuto io uscir fuori di me? Credilo, fu una malìa. Più ti guardo, e più vedo che nessuna donna ti vince in bellezza. Occhi meravigliosi che han pianto tanto!…… Anche i miei, Gilda, ma non piangeranno più, o piangeranno per te. Labbra porporine, da cui mi sarà così dolce una parola di perdono! guancie morbide, che non respingeranno i miei baci!….—

Accesa di quelle parole, gittata di balzo in un mondo così nuovo per lei, Gilda trovò pure la forza di svincolarsi dalle strette del giovine.

—Ah no, messer Giacomo;—gridò ella piangente;—non è così che si ama.

—T'inganni;—le diss'egli, ma chetandosi tosto e persuadendola con atti riguardosi a sedere daccanto a lui, mentre stringeva una mano che ella non ebbe cuore di negargli;—t'inganni. L'amore è un'ebbrezza, uno spasimo; qualche volta un martirio. Non l'hai sentita tu una spina nel cuore, quando mi udivi, forsennato, implorar mercè da quella tua vanitosa signora?

—Non parlate così di lei,—diss'ella scorrucciata, ritraendo la mano,—o io crederò che l'amiate ancora.

Il Bardineto si morse le labbra.

—Ha ragione,—pensò egli tra sè,—ed io non sono ancora abbastanza esperto in cosifatte battaglie.—

Indi, rivoltosi a lei, prosegui raumiliato:

—Sentimi, Gilda; e non merita essa il mio sdegno? Non è sua la colpa di tutto ciò che è avvenuto? Se ella non mi avesse ammaliato, lusingato, tirato a sè con quelle arti sottili che le sue pari conoscono, avrei potuto io mai levar gli occhi e le speranze vane sino a lei, sino alla figlia del marchese mio signore?

—Amore uguaglia!—disse con accento di amarezza la Gilda.

—Sì, quando si ama; e io non l'amavo. Forse potevo io rivolgermi a lei, avendo dato a un'altra donna il mio cuore? Ed eri tu quella. Ne dubiti ancora? Ma pensaci, o Gilda; dimentica un'ora di follìa; ritorna colla mente al passato. Perchè mi hai amato, tu, se non perchè sentivi in me un affetto che rispondeva al tuo?

—Ah, l'ho creduto!—esclamò la fanciulla, coprendosi il volto colle palme.

—E avevi ragione; e così fu;—soggiunse il Bardineto.—Ma cotesto non mettea conto alla maliarda. Voleva esser sola qui, regnar sola. Un uomo giovine e prode viveva nella corte di suo padre; la vedeva, le parlava ogni giorno, e non si curava altrimenti di lei? E i begli occhi di una ancella avevano avuto più potere de' suoi? Un reo capriccio le nacque allora nell'anima, di sviare quell'uomo, di ferir questa donna nella sua onesta alterezza. Imperocchè tutti, in qualsivoglia stato cresciuti, possiamo averci la nostra; e la tua, o fanciulla, è giusta, è sacra, come l'alterezza d'una figlia di re. Sei bella; è questa la tua nobiltà. I tuoi grandi occhi neri son gemme che tutto l'oro del mondo non basterebbe a comprare; i tuoi capegli corvini, morbidi e lucenti, che scendono amorosi a baciarti le spalle, valgono un manto d'imperatrice, come questo ferro che io stringo potrebbe valere uno scettro. Amiamoci, trionfiamo uniti dell'avversa fortuna; io son tuo per l'amore che mi distrugge; tu sei mia per le lagrime che io t'ho fatto spargere poc'anzi. Dimmi, Gilda, non perdonerai tu a chi ha tanto sofferto? Vorrai tu che quella donna m'abbia fatto impunemente il peggior male e goda di averci divisi per sempre? Serviresti alla sua gelosia, non al tuo orgoglio di donna, che ha già nelle mie supplicazioni il suo più largo trionfo. Perchè mi guardi con quegli occhi smarriti? Ti sono io così odioso? Non fuggirmi, no, non fuggirmi, te ne scongiuro! credi, alla sincerità dell'amor mio, alla grandezza dal mio rimorso, o ch'io mi uccido a' tuoi piedi.—

Così dicendo, con meditata progressione di affetto, Giacomo Pico aveva sguainato il pugnale che gli pendeva al fianco, e fu tanta la foga con cui lo brandì, rivolgendone la punta al suo petto, che la fanciulla fu per vederlo già morto.

—Ah no, Giacomo, per amor del cielo, per l'amor mio, ve ne prego!—gridò ella atterrita.

E levate le mani, colse in aria il pugnale. Lottarono disperatamente un tratto, egli per ritenere, ella per istrappargli quell'arma paurosa. E per fermo, debole com'era, non ne sarebbe ella venuta in capo, se Giacomo, veduto scorrer sangue dalla mano di lei, non avesse tosto abbandonato l'impugnatura.

—Per l'anima mia!—gridò egli a sua volta, impallidendo, mentre tendeva le palme, per afferrar quella mano.—Ti ho ferita?

La fanciulla diede una rapida occhiata al suo braccio, che a tutta prima avea ritirato, per tema non volesse egli riafferrare il pugnale, e vide grondar sangue dal cavo della mano sul polso.

—Che importa?—diss'ella, sorridendo.

E innanzi di ridargli la mano, gittò il pugnale lungi da sè.

Ella era bella così, nel suo piantoriso, come un lieto raggio di sole attraverso le nuvole, nell'aria ancor madida degli ultimi spruzzi del nembo. Era bella nel gaudio della sua vittoria, nel sublime conforto di aver salva la vita di Giacomo, di aver veduto nel suo disperato proposito una certa testimonianza d'amore e di avergliene dato un'altra a sua volta nell'ardimento con cui ella, timida fanciulla, rifuggente dal lucicchìo delle armi, gli aveva strappato il pugnale, insanguinando in quella lotta le sue povere mani.

Ogni altr'uomo si sarebbe commosso e avrebbe rispettata quella celeste innocenza. Non così Giacomo Pico, anima bieca, indole travolta dalle sue matte ambizioni, cuore inasprito dall'odio, nè più disposto a vedere quel che ci fosse di buono o di santo dintorno a lui, se non per farne pascolo e stromento a' suoi tristi furori.

Prese la mano della giovinetta e osservò la ferita. Vedevasi attraverso il sangue sparso una scalfittura pel largo della palma, e appariva essere stata fatta dallo scorrere della lama lungo le carni invano ristrette per trattenerla.

Prese quella mano, dico, la osservò un tratto, indi con moto rapidissimo se la recò alle labbra, suggendo avidamente quel sangue.

La Gilda tentò di ritrarsi, ma non le venne fatto.

—L'amore è una dolce schiavitù;—le disse allora Giacomo Pico, volgendole una languida occhiata, che la turbò nel profondo dell'anima;—il tuo sangue, o fanciulla, ha suggellato il patto della mia sommessione. Per questo sangue, dolce come il più dolce liquore, io ti giuro, amor mio, una eterna obbedienza. Da questo momento sarai tu la regina del cuor mio; così mi assista la sorte, come ho fede che il mio ferro ti conquisterà una corona.—

Ella non rispose parola; era vinta. Reclinò la sua bruna testa sul petto di lui, nascondendogli così il suo rossore, e facendogli palese il suo smarrimento.

Giacomo seguitava a parlare. Quel che dicesse, neppur egli sapeva. Nè la fanciulla, venuta in quella confusione, potea più meditare le parole di lui. Ne coglieva il suono indistinto e in quella musica soave le si addormentava ogni spirito di resistenza. Anima candida, credette al candore dei giuramenti di Giacomo; nè solamente dimenticò quell'ora terribile in cui aveva provate tutte le trafitture della gelosia; ma il passato, il presente e il futuro si confusero in quel profondo oblìo di sè stessa, da cui si riebbe alla fine, ma indissolubilmente legata a quell'uomo, perduta senza rimedio, innanzi di aver visto il pericolo.

Era già tardi, e il marchese Galeotto non doveva indugiar molto a mettersi in cammino per alla volta di Noli. Dalla finestra della cameretta di Giacomo si udiva il suono di molte voci nella gran sala del castello.

Il Bardineto si strappò dalle braccia di Gilda, per discendere, come avea disegnato, alla presenza del suo signore. Voleva andare incontro agli eventi, sostenere lo sguardo di tutti, mostrarsi forte, seguire il marchese all'assalto di Noli e confermare in quella impresa il suo buon nome di animoso soldato; voleva insomma un mondo di cose, delle quali poco o nulla seppe intendere l'inesperta donna che tutto aveva dimenticato per lui.

La poveretta sentì in quella vece, al dolore della separazione, quanto ella già appartenesse a quell'uomo. Rimasta sola nella torre dell'Alfiere, pianse lungamente, s'inginocchiò, chiese a Dio perdono e soccorso, non senza pensare con raccapriccio ai suoi signori, così amati da prima, ed ora così molesti al ricordo.

Finalmente, poichè tutto ha un termine quaggiù, anche il dolore, ella si riebbe dal suo abbattimento e volle esser forte.

—Non mi ama egli?—chiese a sè stessa, rialzandosi e scuotendo la bruna testa, madida ancora dei baci di Giacomo Pico.—Non lo ha giurato? Non ha bevuto il mio sangue? Così gli bruci il cuore, se egli dovesse tradirmi. Ma io saprò difendere l'amor mio; lo ucciderò,—soggiunse, raccogliendo da terra il pugnale di Giacomo e nascondendolo in seno,—lo ucciderò con questo ferro, se penserà ancora a colei.

CAPITOLO X.

Nel quale si parrà l'accortezza del narratore, per annoiare il meno possibile i suoi benigni lettori.

Così nell'arte della guerra come nell'arte della scherma, botta vuole risposta e le finte non giovano più, se non a patto di precedere il colpo. Ora la risposta di messer Pietro Fregoso al tiro di messer Galeotto su Noli fu per l'appunto di stringere viemaggiormente l'assedio del Borgo. Condotto l'esercito più sotto le mura che non avesse fatto dapprima, il capitano genovese die' fiato a tutte le artiglierie del suo campo, e per dieciotto dì e per altrettante notti fu un trarre indiavolato di bombarde, falconi, ed altri consimili ordegni. Basti il dire che, in quello spazio di tempo, trecento novanta palle di bombarda furono gittate nella terra assediata, il che torna a una razione di forse ventidue sassi da cinquecento libbre ogni dì, senza mettere in conto le palle minori, cioè a dire quelle dei falconi, delle colubrine, cerbottane, ribadocchini, e via discorrendo.

Fu, come i lettori di leggieri argomentano, una grande rovina per le case del Borgo. Per contro, non n'ebbero molto strazio le vite. Morì una povera vecchia, còlta da uno di que' sassi in sua casa; morirono due altre donne, sorde e mute dalla nascita, le quali stavano lavando i loro pannilini nel torrente di Calice, alle spalle del Borgo, e non poterono udire l'avvertimento della campana posta sulla torre di Bichignollo. Era questa la torre più alta della città e vi stava di continuo un guardiano, con obbligo di dare un rintocco, ogni qual volta nel campo nemico gli venisse veduto il lampo d'una scarica. In tal guisa si custodivano gli abitanti della terra, e ad ogni avviso del guardiano correvano a riparo sotto il portone più vicino. Senonchè, questa guardia era efficace di giorno, che si potevano allora tener d'occhio le artiglierie nemiche e i loro mutamenti di luogo; laddove di notte il povero custode non ci avea mica gli occhi del gatto, e gli avveniva che la più parte dei colpi, per non aver egli veduto il lampo, fosse annunciata dal rombo, cioè, quando non c'era più tempo a cansarsi.

Un gran rischio lo corse una sera messer Barnaba Adorno. Sedeva egli a cena nel palazzo assegnato a lui e alla sua famiglia dalla ospitale liberalità del marchese Galeotto, allorquando la campana di Bichignollo diede un rintocco.

—Bene!—esclamò ridendo il giovine Paolo Adorno, nipote di Barnaba, in quella che stava per recarsi il bicchiere alle labbra.—Ecco una giuggiola per le frutte. A chi toccherà essa?—

Aveva egli a mala pena finito di parlare, che un frullo veloce si udì per l'aria e subito dopo un fortissimo schianto. La colonnetta di marmo che partiva la finestra si ruppe, mandando i frantumi e le scheggie per tutta la camera, e in men che non si dice piombò sulla tavola un regalo di Anselmo Campora, fracassando il vasellame e mandando ogni cosa sossopra.

Parecchi dei commensali balzarono in piedi dallo spavento, e taluno di essi con qualche ammaccatura per giunta.

—State, messeri, in nome di Dio!—gridò Barnaba Adorno.—La giuggiola di Paolo è toccata alla nostra mensa; ma altro di peggio non può fare oramai.—

—Raccattiamo almeno qualcosa!—disse Paolo, chinandosi a terra, dov'erano sparpagliati tra i cocci gli avanzi della cena interrotta.—Ecco giusto uno spicchio di pollo, che non me lo mandano più a male i Fregosi, che il malanno li colga!

Amen, cominciando da Giano!—soggiunse lo zio.

E la cosa finì in ridere, senz'altro danno per la nobile brigata che quello di avere abbreviata la cena.

Intanto, più durava l'assedio, e più grande era il guasto, non solamente nel Borgo, ma eziandio nelle campagne circostanti. I soldati del Fregoso, segnatamente i non genovesi (che i genovesi furono sempre buoni massai, e la roba altrui, quando si studiavano di averla, trattavano già come fosse la loro) i soldati, dico, rompevano, tagliavano, mettevano in pezzi, davano lo spianto a ogni cosa. Se mastro Bernardo avesse potuto dare una sbirciata all'Altino, altro che botti sfondate! Avrebbe visto il suo pergolato in terra, gli anguillari divelti e il suo bel fico brigiotto, onore dell'orto, quel maestoso fico dond'egli spiccava ogni anno cinquecento dozzine di fichi prelibati, polputi e maiuscoli, pietosi a vedere per la buccia screpolata e per la lagrima all'occhio, quel nobilissimo fico andato in iscavezzoni, sotto i colpi bestiali d'una soldatesca, la quale non prevedeva di dover essere ancora in que' luoghi alla stagione dei frutti.

Poveri a noi! griderà qualche lettore spaventato; siamo a mala pena in febbraio e dobbiamo ingoiarci tutti gli altri mesi per infino a settembre? Sissignori; ma badate, gli è come a sorbire un uovo fresco; l'autore è discreto e va per le spiccie; sicchè, non temete ch'egli intenda abusare della vostra pazienza, come fece Catilina coi Romani, se dobbiam credere a quella lingua tabàna di Marco Tullio dal Cece.

Per venir difilati alla storia, si dirà che in quel mezzo fu di ritorno al Finaro il bel conte di Osasco. Aveva egli veduto in Asti il balìvo di Trasnay e conduceva al marchese Galeotto i nuovi soccorsi di Francia che erano dugento lancie, sotto il comando di sere Gaulois, e colla giunta di due maravigliosi cavalieri di ventura, Ludovico Masson e Gianni Fontaine, di soprannome l'Abate.

Questi soldati forastieri fecero di belle imprese al Finaro e risollevarono alquanto gli spiriti abbattuti della difesa. Non si veniva già a capo di rompere il nemico, ma con audaci sortite lo si travagliava di continuo ne' suoi ridotti e segnatamente si tornava molesti a que' capitani, venuti in condotta nell'esercito genovese, i quali erano avvezzi alle guerre senza troppo spargimento di sangue. Feroci in battaglia erano a que' tempi i francesi, e ciò forse perchè inaspriti in quella giostra spietata, che da tanti anni avevano sostenuta in casa loro, contro l'armi invaditrici d'Inghilterra. Laonde, mentre i condottieri italiani si contentavano di balzare d'arcioni il nemico, ponendogli taglia se era persona d'alto affare, o d'alcun grado nella milizia, e levandogli in quella vece l'armatura e rimandandolo in farsetto se soldato semplice, o di povera apparenza, i francesi per contro usavano, ov'egli fosse caduto sotto il loro urto, di calarsi a terra e di finirlo con un colpo di misericordia sotto l'allacciatura dell'elmo.

In quel torno un Andrea Romanengo, che militava nelle file genovesi, per esser egli ghibellino siccome erano i Carretti, piantò le insegne de' suoi concittadini, e, andato a' servigi del marchese Galeotto, incignò il suo passaggio al nemico guidando contro il campo genovese cinquanta animosi soldati, e fu ad un pelo d'impadronirsi delle bombarde postate sull'altura di Monticello; la quale impresa nessun altri avrebbe potuto tentare fuor lui, che ben conosceva le vie coperte, i tragetti, la forza delle guardie e tutti gli usi del campo.

Messer Pietro Fregoso gli mandò a dire, per uno de' prigioni fatti in quello scontro e resi secondo il costume in cambio di altrettanti genovesi, che badasse a custodir bene la sua persona o volesse dare frattanto gli estremi conforti alla sua gola; imperocchè egli si prometteva di farlo impiccare al trave dell'ultima torre che rimanesse in piedi al Finaro.

Molti altri bei fatti d'arme intervennero, che per amore di brevità, e perchè sottosopra tutti compagni, tralascio di raccontare. Bene raccontano le cronache finarine della proposta fatta da Giovanni, fratello del marchese Galeotto, di combattere egli solo contro un campione di Genova e così por fine alla guerra; proposta che il Fregoso non accettò, come quella che mettea conto solamente al nemico, inferiore di tanto per numero e stremato di forze. Raccontano inoltre della disfida che mandò Giacomo, figliuolo di Oddonino del Carretto, a Nicolò e ad Antonio Fregoso; rifiutata la quale, con un pugno di cavalieri fece una scorreria fin sotto le mura di Castelfranco. Narrano di una zuffa che avvenne sopra l'ospedale di San Biagio, proprio daccanto alle mura del Borgo, delle prodezze che vi operò Giovanni Sanseverino e di quelle d'un cavalier francese che sostenne da solo l'impeto di cinque nemici; uno ne uccise, gli altri ferì, ed egli poi appiedato ebbe tronche le gambe da un colpo di colubrina. Aggiungono che i genovesi, nel fare un'altra bastita, dovettero per un giorno intiero far fronte ai ripetuti assalti della gente assediata, e in quella occasione Gianni Fontaine, detto l'Abate, ebbe il fratello malamente ferito e sepolto ancor vivo dai genovesi; la qual cosa proverebbe invero una fretta soverchia e niente affatto lodevole, ma altresì la buona intenzione dei genovesi e il costume che avevano di rendere gli estremi onori ai caduti.

Raccontano…. Insomma, io non mi fermerò a pigliar nota di tutto. Metterò in sodo che si pugnò lungamente e valorosamente da ambe le parti; cosa che torna ad onore del buon nome italiano, dappoichè finarini e genovesi, monferrini, lombardi, napoletani e quant'altri combattevano, alleati, o assoldati, nei due campi del Finaro e di Genova, erano tutti figliuoli d'una medesima patria.

E l'assedio intanto durava; nè ciò solamente per la singolare asprezza dei luoghi e per la inaudita tenacità della difesa, ma eziandio per la instabilità degli uomini nell'esercito genovese. Ho già detto come si usasse allora far gente e come il nerbo dell'esercito posto sotto il comando di Pietro Fregoso si componesse di forze comandate, tutte con poca e varia durata di servizio; di guisa che, spirato il termine fino a cui una data compagnia era obbligata a rimanere sotto le insegne, questa si ritirava dal campo, foss'anco alla vigilia d'una pugna. Anche i mercenarii, finita la loro condotta, e dove i patti nuovi non fossero più larghi dei vecchi, od altrimenti accettevoli ai condottieri, spulezzavano tosto; e talfiata anco passavano con arme e bagagli alla parte contraria, se questa aveva trovato il verso d'intendersi con esso loro e di offrire una paga più alta. Il sentimento dell'onore per que'tempi era tale, e comandati e condotti non si tenevano obbligati ad averne più in là del giorno assegnato.

A proposito di giorni, uno finalmente ne venne, e fu quello di San Gregorio, ai 12 di marzo, che i genovesi levarono il campo. Già da due dì il fuoco delle bombarde si era di molto allentato; di che gli assediati aveano dato merito al tempo piovoso, che non tornava propizio alla lunga e malagevole operazione della carica. Ora, la mattina del 12, uscito il Sanseverino colle sue lancie francesi fuor dalla porta di san Biagio per far correrìa lunghesso il torrente, ebbe a meravigliar forte di non ricever molestia dai balestrieri nemici, che solevano stare in agguato alle falde di Monticello.

Incontanente spiccò un uomo dalla cavalcata, perchè desse avviso di quella novità al marchese Galeotto. Il quale fa pronto ad uscire con grossa mano di fanti per tastare il terreno all'intorno, incominciando dalle bastite dell'Argentara e del poggio di Maria. S'inoltrarono guardinghi fino agli steccati, già per lo addietro così fieramente contesi, e del nemico non ebbero indizio; le bastite erano abbandonate. Salirono ai greppi di Monticello e niente trovarono; ridiscesero al piano, e la valle apparve deserta. I genovesi nella notte avevano levato l'assedio.

Messer Galeotto, che pizzicava di lettere, pensò allora alla fuga dei Greci da Troia e sospettò d'una insidia. Ma dov'era egli il cavallo di legno, od altro che ne tenesse le veci?

Per aver traccia dei genovesi, fu mestieri a Galeotto di giungere fino alla Marina, donde si vedevano ormeggiate a poca distanza dal lido le galere nemiche, e sotto a Castelfranco, dove la rocca incominciò a piover sassi e il battifolle di san Fruttuoso a vomitar fuoco sulle prime schiere dei finarini. Il nemico era andato a far testa colà, come sul principio dalla guerra; Galeotto non volle saperne altro e tirò indietro la sua gente, pensando che messer Pietro Fregoso non tenesse fermo laggiù che per coprire la sua ritirata. I ricordi greci occupavano quel giorno la mente di Galeotto, che si sovvenne allora di Temistocle e dei suo detto memorabile: a nemico che fugge, ponte d'oro.

Checchè ne fosse del partito preso dai genovesi, il fatto era che i capi dell'esercito stavano appunto allora a consiglio presso il capitano generale messer Pietro Fregoso, nella chiesa di Nostra Donna in Val Pia, per avvisare il da farsi. E pare che la deliberazione fosse appunto di lasciare l'impresa, poichè nella notte seguente le artiglierie erano chetamente levate dai battifolli di San Fruttuoso e di Vignadonna, e una grande fiammata annunziò ai finarini che quelle bastite di Val Pia, e l'altra più forte e più vasta del poggio di Castiglione, erano condannate a perire, essendo l'esercito genovese già in salvo sulla via delle Magne.

Il marchese Galeotto si applaudì di aver seguitato il consiglio di Temistocle e dimenticò i suoi primi sospetti intorno al cavallo di Troia. Sì certamente, quella era la riprova del fatto; i suoi nemici giurati, sebbene a malincuore (e questo egli se lo immaginava e lo intendeva benissimo), aveano pur dovuto ritirarsi dal campo, stupiti dalla tenacità del suo animo e della validità delle suo difese. E non ragionava poi male; senonchè, mostrava di conoscer poco messer Pietro Fregoso, uomo, come suol dirsi, tutto d'un pezzo, il quale avrebbe più facilmente perduto un braccio, una gamba, od altra parte della persona, che deposto un disegno della sua testa.

Invero, entro le mura del Finaro e proprio nella corte dei signori del Carretto, c'era taluno che intorno ai consigli di messer Pietro poteva saperla più lunga che non il marchese Galeotto. Ma quest'uno ci aveva le sue brave ragioni per non dirne nulla al marchese e non turbare l'allegrezza recata nel castel Gavone da un primo giorno di sole.

Quel lieto giorno il marchese Galeotto lo celebrò da par suo, col matrimonio di madonna Nicolosina, Le nozze, durando l'assedio, avrebbero dovuto farsi, malgrado l'animoso proposito della giovinetta, nella piccola chiesa di san Giorgio, che era nel recinto di castel Gavone, e per fermo sarebbero riuscite dimesse e malinconiche oltre ogni dire, senz'altra musica che quella eterna e fastidiosa di Anselmo Campora. Furono fatte in quella vece allegre e sontuose nella chiesa di san Biagio, non più esposta ai colpi delle artiglierie genovesi, dinanzi a tutta la corte ed al popolo, per doppia cagione festante.

Giacomo Pico era tranquillo e sereno all'aspetto; tanto sereno (senza ilarità, s'intende, che sarebbe parsa soverchia, epperò simulata) che madonna Nicolosina, dimenticato volentieri il doloroso colloquio avuto con lui nella torre dell'Alfiere, gli si dimostrò cortese ed umana come per lo passato. Egli per altro, se non isfuggiva, neanco cercava le occasioni di vedersi trattare a quel modo da lei. Anche il conte di Osasco, siccome interviene a tutti i felici, che non vedono mai più in là d'una spanna, era entrato in grande amore per Giacomo Pico e lo avea tolto a confidente delle sue allegrezze. Carlo d'Osasco era giovine e doveva ancor molto imparare a sue spese. A testimonianza del suo candore basti dir questo soltanto, che egli con quel nuovo amico s'era aperto della sua più grande ventura, cioè del primo incontro avuto con madonna Nicolosina, a mala pena arrivato al castello. Donde il Bardineto avea tolto argomento ai dolorosi raffronti che tutti indovinano, crogiolandosi sempre più nella sua rabbia nascosta e fortificandosi ne' suoi disegni di vendetta.

In apparenza adunque Giacomo Pico si era meritata la stima di tutti. Della fede che si riponeva in lui come soldato, neppur sarebbe mestieri discorrere. Valoroso sempre, si era nelle ultime fazioni dimostrato valorosissimo tra tutti i più famosi campioni del Finaro, e Galeotto avea detto un giorno alla presenza di tutta la sua corte che, se avesse avuto intorno a sè dodici uomini della prodezza di Giacomo Pico, non avrebbe dubitato di ragguagliare sè stesso a Carlomagno, tanto il buon esempio di dodici paladini avrebbe innalzato lui a sostenere quel gran paragone. I cavalieri francesi erano a dirittura innamorati di Messire Picot de Bardinette. In parecchi scontri aveva cavalcato con esso loro, e, per la nobil presenza in arcioni, come per la sua furia nel dar dentro ai nemici, s'era lasciati indietro i migliori. Da essi poi aveva imparato a non dar quartiere, e ammazzava i caduti, che gli era un gusto a vederlo. Gianni Fontaine, detto l'Abate, un giorno che Giacomo si era tratto ad onor suo da un manipolo di genovesi che gli si erano serrati ai fianchi e minacciavano di farlo a pezzi, lo battezzò (se il verbo è consentito in questa occasione) col nome di Picot le Diable. Donde gli altri cavalieri cavarono per conseguenza esser verissimo il proverbio che Dio li fa e poi li accompagna, veu qu'un Abbé estoit au mieulx avecque un Diable.

Il Cascherano, colla sua modesta prodezza, non raccomandata agli esaltamenti di amici chiassoni, che nel collega magnificavano in fin de' conti sè stessi, il Cascherano, dico, era facilmente eclissato da questa gloria del Bardineto. Non si tornava da un affrontamento al castello, che non si levasse a cielo il valore, o qualche impresa singolare di Giacomo Pico. E lui umile, schivo, anzi scontroso senz'altro, a tirarsi in disparte, e, quanto più spesso poteva, a nascondersi. Modestia, forse? I lettori conoscono il Bardineto per un ambizioso di tre cotte, che volentieri rammentava le sue prodezze e i suoi alti servigi alla gente. Eglino han dunque da credere che in questa ritrosia del Bardineto ci entrasse un avanzo d'amarezza, o un bieco disegno formato in mente pur dianzi, o tutt'e due le cose in un punto.

De' suoi amori colla Gilda nessuno avea fumo. La poveretta sfioriva ad occhi veggenti, e madonna Nicolosina argomentava che ne fosse cagione la sua fiamma nascosta o sventurata per Giacomo; ma perchè non sapeva come aiutarla in cotesto, o neanco poteva entrargliene a fine di conforto amorevole, perchè da un pezzo l'ancella stava un po' grossa con lei quanto il grado e l'ufficio suo consentivano, la bella e pietosa Nicolosina non si era animata a dir nulla.

Il fatto si era che la Gilda, non pure serbava rancore contro la sua signora per aver dato un giorno negli occhi al suo Giacomo, ma sentiva altresì vergogna e rimorso della propria caduta e non si vedeva abbastanza amata da lui, che voleva tener coperto di un velo sì fitto ciò ch'ella avrebbe volentieri mostrato alla luce del sole. Il che, per altro, va inteso con discrezione; imperocchè, se a lei, la più parte del giorno, quando non era vicina al suo Giacomo, pareva di non essere amata in quella guisa che pure avrebbe voluto e che sentiva di meritare, in altr'ora i segreti colloqui, i giuramenti e gli ardori di Giacomo, aveano potere di ridarle la speranza e la vita. Questa è debolezza insieme e virtù della donna, tanto migliore e più scusabile di noi, capricciosi e violenti rapitori della sua pace, quando non siamo a dirittura brutali. E il Bardineto soleva riconfortare la vittima, dicendo, che, a mala pena finita la guerra e pagato il suo debito di vassallo al marchese, avrebbe chiesto commiato da esso lui e la donna amata lo avrebbe seguito in altra terra, probabilmente in Francia, ove di certo si sarebbe mutata la sua sorte. Il Sanseverino e gli altri cavalieri francesi, lo avevano anzi stimolato a quel viaggio, facendogli sicuro il favore e una lauta provvigione del re.

Le nozze di madonna Nicolosina furono splendide per isfoggio della corte e per lieto concorso di popolo. Quanti fiori e fronde aveano cansato negli orti e nei campi il cieco furore dell'esercito nemico, tanti furono spiccati quel dì per mettere le fiorite in tutte le vie donde aveva a passare la bellissima coppia. Veramente fu un giorno di sole, pari a quelli che rinnovano l'aspetto della natura, dopo parecchi altri di pioggia.

Ma i giorni si seguono e pur troppo non si rassomigliano l'un l'altro. Il marchese Galeotto a cui le allegrezze domestiche non facevano uscir di mente le cure più gravi de' suoi minacciati dominii, aveva mandato esploratori in gran numero e per diversi sentieri, che codiassero il nemico e gli dessero lume delle sue intenzioni, se veramente erano di desistenza, com'egli credeva. Ora, il giorno dopo la festa, alcuni di quei messaggieri gli aveano rapportato che l'esercito genovese, scambio di proseguir cammino su Noli e Spotorno, per rifarsi al campo di Vado o sciogliersi colà dove si era formato, piegava su in alto per Magnone e per Vezzi, castello murato sulle falde dell'Appennino, e signoreggiato da un Ansaldo Cicala, cavalier genovese; donde, inoltrandosi per quegli alpestri sentieri, s'era sparso fino al monte Porrino, di rincontro alla villata di Rialto.

Cotesto fu un sopraccapo non lieve per Galeotto; tanto più che i nemici accennavano, col taglio e la riquadratura degli alberi, a voler fare una bastita e metter campo lassù, certo per comandare i passi dell'Appennino. E in questo giudizio lo confermarono i ragguagli del giorno dopo, secondo i quali una parte dell'esercito nemico scendeva speditamente su Gorra e Gottafrigia, proprio alla vista del castello Gavone.

Qui prego il lettore a ricordarsi della ipsilonne, accennata nel primo capitolo di questa povera storia. Ci siamo? La Marina del Finaro e il breve corso del Pora sono il piede e la gamba di quella inutilissima tra le lettere dell'alfabeto. Il Calice e l'Aquila, affluenti e genitori del Pora, sono le due braccia che si prolungano in strette convalli verso le falde appennine, chiudendo nella inforcatura il Borgo, la vetta soprastante di castel Gavone e la roccia di Pertica, che lo comanda, ma a che è inaccessibile dalla parte di tramontana. Lungo la valle del Calice, che è il braccio occidentale, s'inerpica la strada che mette in Piemonte, contornando il dorso del Settepani alla torre di Melogno. Lungo la valle dell'Aquila, che è il braccio orientale, risale un'altra via che mette in Monferrato, tagliando l'Appennino sotto il monte di San Giacomo. Il castello di Vezzi è a levante di questa via.

E adesso il lettore benevolo intenderà, spero, come l'esercito genovese, lasciando il castello di Vezzi e varcando l'Aquila alle sue scaturigini, potesse andar su Rialto, paesello di montagna presso alle sorgenti del Calice, e lasciando la sponda orientale di questo, colle villate di Carbuta e di Calice, che sono alle spalle di Pertica, scendesse per le Vene e San Pantaleo a cercare la strada battuta, che mette a Gorra o Gottafrigia, proprio alla vista di Pertica e del castello Gavone. Al nome di Dio, ci siamo finalmente arrivati!

Detto il come, diciamo anche il perchè. Messer Pietro Fregoso aveva potuto scorgere, durante l'assedio del Borgo dalla parte del mare, che il marchese Galeotto, sebbene abbandonato dal grosso del suo parentado, riceveva pur sempre dalla parte dei monti aiuto d'uomini e di vettovaglie. Per tal modo, in fortissimo luogo com'era e combattuto cogli scarsi ingegni di quel tempo, il suo nemico poteva durarla, non che per mesi, per anni. Diffatti, anche distrutto il Borgo dalle artiglierie genovesi, a Galeotto rimaneva il castello su in alto, donde avrebbe tuttavia comandato i passi, per cui gli veniano gli aiuti. Di là, dunque, di là bisognava andare ad offenderlo.

Cotesto gli era detto eziandio da una lettera cieca che un prigioniero restituito aveva trovato nella tasca del suo farsetto, con tanto di soprascritta al capitan generale. «A che vi ostinate di fronte? Pigliate il vostro nemico alle spalle. La pianura davanti al Borgo dà libero campo alla cavalleria, ed ogni avvisaglia, essendo voi così sotto alle mura, mette a repentaglio le vostre bombarde, come di recente è avvenuto. Inoltre, badate. Il duca d'Orleans ha comandato al balìvo di Trasnay, suo governatore in Asti, di venire in aiuto al Finaro. Il vostro Tommaso di Bagnasco a stento lo rattiene in Ceva, mentre Spinetta del Carretto fa fuoco e fiamme perchè s'accosti a Garessio, dove al marchese Galeotto riesca più agevole tirarlo a' suoi fini.»

Piaceva il consiglio a messer Pietro, chè anzi da parecchio tempo lo venia vagheggiando tra sè. Ma prezioso sopra tutto gli parve l'avviso dell'ignoto corrispondente.

Avrebbe voluto andar subito a vedere co' suoi occhi il terreno. Ma anche il campo richiedeva la sua vigilanza; però gli convenne studiare il modo di spartire gli uffizi. E poichè Anselmo Campora era, come suol dirsi, il suo occhio destro, mandò lui a specolare lassù, se c'era verso di condurvi l'esercito.

Da questa savia risoluzione di messer Pietro ne avvenne che, mentre sotto le mura del Borgo si continuava a badaluccare, i contrafforti tutti dell'Appennino, sui confini settentrionali del marchesato, erano diligentemente osservati da quel furbo compare del Picchiasodo, la cui avvedutezza e le naturali inclinazioni corografiche sono oramai note ai lettori. E a mala pena fu di ritorno costui, messer Pietro ordinò la partenza.

Il colpo ebbe quell'esito che s'è detto più sopra e gli assediati non ne sospettarono punto. Mercè quel trapasso, il Finaro veniva ad esser più chiuso che dapprima non fosse. Il mare, si sa, apparteneva ai genovesi per ragion di possesso. Teneano per Genova, il Borghetto, a ponente, e Noli, la fortissima Noli, a levante. Restavano gli sbocchi dell'Appennino, e questi oramai, col suo stratagemma di ritirata, occupava l'esercito.

Tardi si avvide Galeotto dell'inganno, ma non volle altrimenti si dicesse avergli ciò fatto perdere il tempo, e fresco ancora di quelle sue domestiche allegrezze guidò il fiore de' suoi a sloggiare il nemico da Gorra. E cotesto gli venne fatto di colta, poichè i genovesi non erano ancora in numero bastante lassù, nè avevano avuto modo di rafforzarvisi, con una delle solite bastite. È per altro da dirsi che non patissero troppo di quella perdita, poichè dagli abbandonati gioghi di Gorra e di Gottafrigia dilagavano facilmente a Giustenice, luogo assai più occidentale di Gorra, da essi posseduto ab antico e recentemente da essi accennato come appiglio di guerra nelle loro ambascierie al Finaro.

Accorse a difendere la rocca di Giustenice l'animoso Giovanni, fratello di Galeotto, con centocinquanta finarini. Erano seco lui, Giacomo, figliuol di Oddonino, e l'Antonio, che abbiamo già veduto rendere Castelfranco. I lettori superstiziosi avranno per malaugurio a Giustenice la presenza di questo cavaliere sventurato. Difatti, poco resse il luogo agli assalti, e dopo tre giorni di combattimenti continui, in uno de' quali morì d'un colpo di balestra Beltramino da Riva, condottiero di lancie nell'esercito dei genovesi, questi penetrarono nella terra, e per una via coperta, che la repubblica aveva fatta ne' primi tempi del suo dominio colà, si avvicinarono tanto al castello, da atterrarne impunemente il primo muro di cinta. Ne trovarono per altro un secondo, di più recente costruzione, più saldo e più acconcio a difendere; laonde messer Pietro, per non aversi a trattenere di soverchio davanti a quella bicocca, comandò di far inoltrare un paio di bombarde.

E qui si fece onore, come potete immaginarvi, il nostro Picchiasodo. Uno solo de' suoi colpi, mandando in rovina un pezzo di volta, uccise nel castello quattordici uomini e parecchi altri ne ferì sconciamente.

Intanto messer Pietro, avuta sotto le mani la maggior parte dell'esercito, ritornava su Gorra e, respinto il suo avversario, vi si piantava più saldo che mai. Dolse del fatto a quei di Giustenice che fino allora aveano sperato soccorsi, e che da due giorni, difettando di pane, dovevano cibarsi di crusca. La quale eziandio venendo a mancare, si arresero il 12 di aprile, e tosto, sotto buona scorta, furono condotti alla Pietra e imbarcati per alla volta di Savona. Pochi giorni di poi, una galera li portò fino a Genova, ove il doge Giano Fregoso li voleva prigionieri per quindici giorni almeno; così annullando i patti della resa, secondo i quali la valorosa schiera avrebbe dovuto esser posta in libertà, con che promettesse di non impugnare più oltre le armi contro Genova, per quanto tempo durasse la guerra.

Colà, veduto il doge e uditone amare parole, a cui fieramente rispose, Giovanni Del Carretto fu chiuso cogli altri nelle carceri Grimaldine; donde passò con Giacomo suo cugino a meno squallida prigionia nel castello di Lerici. Lo sventurato Antonio e il resto dei difensori di Giustenice rimasero prigioni in Genova; e per gli uni e per gli altri non furono quindici dì, ma dieciotto mesi di carcere. Non bella cosa da parte di Giano; ma i tempi erano tali da consentirne di simiglianti, e di peggiori per giunta.

CAPITOLO XI.

Dove è detto del Maso, ragazzo, come cangiasse stato e quante volte padrone.

Domando una grazia ai lettori; ed è quella di ricordarsi d'un personaggio umilissimo, apparso nei primi capitoli di questo racconto, del Maso, a farla breve, del ragazzo che servì i due forastieri all'osteria dell'Altino.

Ragazzo, servo adoperato a vili esercizii, come a dire stalliere, guattero, o giù di lì; questo avea fatto di lui mastro Bernardo, l'ostiere, dopo averlo raccattato per via, alla guisa dei trovatelli, e tirato su a scapellotti; ma le sorti della patria, condotte allo stremo, ne avean fatto un soldato. A malincorpo, se vogliamo; imperocchè, qual è il negozio di qualche importanza che non si cominci a farlo così? Ve n'ha che piacciono maledettamente, e cionondimeno l'incignarli è stato un guaio de' grossi; testimone il gusto matto che io provo adesso a ragionare coi popoli, dopo averci fatto il viso; che, a dir vero, non fu la fatica d'un giorno.

Per altro, in quella guisa che mettendosi a tavola suol venir l'appetito, la necessità aveva portato la consuetudine, e la consuetudine un certo gusto alla vita soldatesca, in quel miscuglio di balordaggine e di malizia che era il ragazzo dell'Altino. Già, egli bisogna dire a sua scusa, che balordo lo avea reso il padrone, non gli lasciando mai pace e rimeritando alla cieca con pan buffetto e cacio scapezzone ogni bella e brutta cosa ch'egli dicesse, o facesse. Triste vita pel Maso, sentirsi a trillare nel capo la sua vivace natura, e doverla respingere nel più profondo del cuore! Aveva voglia di saltare per la casa e doveva star cheto per la paura di qualche soprammano; era mogio e doveva saltare in fretta, per cansarsi da un sottonsù che gli era scoccato senza preamboli. Se ne ricattava con certi suoi lazzi, smorfie e marachelle degne d'una bertuccia, di cui spesso recitava il paternostro in qualche angolo della casa, quando avveniva che i saluti del burbero padrone fossero giunti al loro ricapito.

Mastro Bernardo non era cattivo, bensì un tal poco fantastico. La povertà inasprisce il carattere, e all'ostiere dell'Altino il non poter sempre ragguagliare l'entrata con l'uscita facea spesso uscire il cervello dai gangheri. Del resto era un buon diavolo, amava il suo paese, la sua casa, la sua famiglia, e, quantunque a modo suo, anche il ragazzo, bocca inutile, com'egli soleva chiamarlo. Quando vennero i tristi giorni pel Finaro, fu egli che diede al Maso l'esempio delle opere forti. Veduto lo spianto della sua casa e la impossibilità di ripigliare il suo traffico di vin cristiano, era andato a mettersi nelle mani della sua cara nipote; per intercessione di lei aveva appoggiato la sua famigliuola al castello, e, indossato un vecchio panzerone di ferro che si ricordava de' suoi vent'anni, aveva detto tra sè: «crepi l'avarizia, quest'oggi il marchese avrà un soldato di più».

Gli era venuto sulle prime il ghiribizzo di attaccare il Maso alla sua guerresca persona; ma ricordò saviamente di essere tavolaccino e non capolancia, e, data licenza al ragazzo, gli disse: va, accònciati con qualche pezzo grosso e sii soldato fedele! Voleva anche dargli lo scapellotto d'uso; ma questa maniera d'essere armato cavaliere non facea comodo al Maso, che fu pronto a sbiettare.

Ed era andato, come gli raccomandava il padrone; e al tempo in cui lo ritroviamo, era paggio, cioè a dire governava il cavallo di messer Antonello da Montefalco, capitano dei finarini dopo la partenza di Francesco del Carretto, il quale, come sanno i lettori, aveva imitato il corvo dell'Arca.

A' servigi di quel provato uomo di guerra, il nostro Masuccio, se ancora non aveva fatto prodezze, certo ne avea vedute e di molte. Esse per altro non aveano tolto che i genovesi piantassero bastite per ogni dove, a Gottafrigia, al poggio della Croce, che è presso Gorra, sul dorso di Pian Marino, sulle alture di Melogno, a Orco, a Collamonica presso Feglino, nel luogo di Corsi dirimpetto a Carbuta, facendo per tal guisa alla terra assediata una corona di torri. In questo frattempo il Maso aveva combattuto due volte a Rialto e aiutato alla presa di Santino da Riva e di sessanta cavalieri, che sotto il suo comando s'erano avventurati fin là.

Più tardi, essendo stretto da vicino il Borgo, avea combattuto a Pertica e risicato di andar prigioniero, insieme col suo capolancia, con Geronimo Doria, Spinetta del Carretto e il cavaliere Scalabrino. Il colpo era fatto da una imboscata di pochi genovesi, e per fermo riusciva, se le donne del Finaro, correndo a furia sul luogo e tolte in iscambio d'un drappello a rinforzo, non avessero tratto i mal capitati cavalieri dalle ugne dei nemici. Anche le donne combattevano, od altrimenti uscivano fuori per dare una mano ai mariti. Madonna Bannina, la vecchia marchesana, in quella che pietosamente si recava a soccorrere i caduti, era stata colta da un verrettone sopra il ginocchio; la qual ferita, perchè non potuta rammarginare, fu cagione più tardi che la nobil donna morisse.

Queste prove di fortezza non erano soverchie. Il Finaro reggeva a stento e pativa difetto d'ogni cosa. Ancora una speranza restava; ed era che i francesi, per quel tempo signori del Piemonte, venissero da senno in aiuto al marchese. Del balivo di Trasnay, che non si era fatto avanti, ho già raccontato a suo luogo.

Aggiungerò che, andato a Cherasco il magnifico marchese Spinetta del Carretto ed esposta la domanda del cugino all'illustrissimo signor duca d'Orleans, n'ebbe licenza di pigliarsi Bonifazio Castagnola, eccellente capitano ai servigi di Francia, il quale oziava allora in aspetto, con gran numero di cavalli, a San Michele di Ceva.

L'aiuto era grande, e, col rinforzo di parecchie compagnie di fanti levate da Millesimo e da altre castella del parentado, poteva riuscir pari al bisogno, Senonchè, il punto difficile era quello di penetrare nel marchesato, rompendo la cerchia fortificata dell'esercito assediante. Il Castagnola sperò di venirne a capo, facendo massa su Carcare; la qual cosa avrebbe persuaso ai nemici, che certamente stavano alle vedette, di andargli a contendere il passo per la via di San Giacomo, mentre egli con una marcia sforzata si sarebbe gittato a ponente, sulla via di Melogno. E così fece, e l'impresa fino ad un certo segno potè dirsi riuscita a bene; ma giunto alla torre di Melogno e veduto come fosse guardato quel passo, gli venne manco l'ardire. Che più? Inoltratosi per malagevoli sentieri a specolar quelle vette, lo vide formicolar di nemici; la croce rossa in campo bianco sventolava da per tutto. Che sarebbe egli andato a fare nel Borgo, se non vinceva prima una battaglia in aperta campagna? E questa battaglia, come poteva argomentarsi di vincerla, in mezzo a quella selva di bastite, e in quelle gole tutte comandate da greppi, donde i sassi eran difesa bastante contro un esercito anche due volte più numeroso del suo?

Così lenteggiava il valentuomo, forse meditando in cuor suo di seguir le pedate del balivo di Trasnay. Ma gli uomini di Millesimo, ligii al marchese Galeotto, volevano fare ad ogni costo qualcosa, tentare almeno d'introdur vettovaglie nella terra assediata. Perciò, caricate dugento bestie da soma, si gittarono una notte alla ventura per certi tragetti, e la fortuna arrise all'ardire. Del resto il capitano Bonifazio aveva appoggiata la salmeria con una forte dimostrazione delle sue schiere, la quale valse a sviare l'attenzione del nemico, mentre il convoglio, protetto da un pugno di animosi cavalieri, giungeva a riparo sotto le mura del Borgo.

Qualche tempo addietro, il Borgo era stato miracolosamente vettovagliato dalla parte del mare. Onorato Lascari, conte di Ventimiglia e di Tenda, desideroso di venire in aiuto al suocero Galeotto, avea comperato una gran quantità di frumento in Arles, e da Marsiglia su tre galere la condusse al Finaro. Lo sbarco era avvenuto felicemente il 24 giugno; donde al popolo parve di dover arguire una grazia particolare di san Giovanni Battista. I genovesi, per contro, che ci avevano nel loro Duomo le ceneri del santo e non potevano fargli il torto di credere che egli potesse sconoscere a quel modo gli obblighi dell'ospitalità, attribuirono la fortuna dei loro nemici ad un gagliardo vento di libeccio che non avea consentito alla Grimalda e alla Scarabina (due loro galee mandate ad impedire lo sbarco) di svoltare in tempo il capo di Noli. Chi avesse ragione non so; lascio la quistione in sospeso e tiro di lungo.

Seguirono per tutto l'autunno fazioni di poco rilievo; quella, tra l'altre, di Bonifazio Castagnola, che pigliò Calizzano e fe' dire alla gente che, non potendo il cavallo, s'era dato a picchiare la sella. L'esercito genovese, scemato di alcune compagnie mercenarie, s'era accresciuto di certe altre ed avea preso in condotta Gaspare di Monte Brianzo e il famoso Pietro Torello, capitano lombardo, con cento e cinquanta cavalli. Intanto si ciarlava di pace, ma così, fiaccamente, senza scaldarcisi il sangue. I genovesi dovevano restituir Castelfranco e mandar libero senza riscatto il marchese Giovanni, cogli altri prigionieri fatti a Giustenice. Quanto al marchese Galeotto, egli non ci aveva a rimettere un bruscolo.

Questo almeno credeva, e non era de' suoi errori il più grave; dovendosi avere per tale la speranza in lui nata e cresciuta che simili pratiche fossero fatte da senno. Ma egli s'era fondato sulla morte di Giano Fregoso, avvenuta in dicembre, dopo una malattia di tre mesi, e sulla elezione a doge del fratello di lui Ludovico, generalmente creduto meno avverso ai Carretti. Ora di che tempra fosse Ludovico Fregoso e che potesse Galeotto aspettarsene, sarà manifesto tra breve.

Torno intanto al Maso, che questi discorsi m'han fatto lasciare in compagnia di messer Antonello da Montefalco, mentre avrei dovuto già raccontare com'egli cambiasse di bel nuovo padrone, e questa volta senza molto suo gusto.

Ciò avvenne una mattina sullo scorcio di dicembre. Alcuni drappelli di finarini erano usciti dalla porta di San Biagio a foraggiare nella campagna di Pertica; dappoichè, non solamente difettavano le vettovaglie pei combattenti, ma eziandio la paglia e lo strame per quella moltitudine di cavalli che il marchese Galeotto aveva radunati nel Borgo.

Messere Antonello da Montefalco guidava egli stesso quella importante fazione. Epperò non ci mancava la persona del Maso, che si vedeva marciare di costa al cavallo del capitano, colla sua balestra manesca in ispalla.

Al Fregoso queste continue sortite degli assediati davano una molestia incredibile e direi quasi superiore alla loro importanza. In fondo in fondo, non recavano molto sollievo alla terra, che troppo aveva serrati addosso i nemici; senonchè, per questa medesima angustia del teatro della guerra, mettevano ogni volta a risico una parte dell'esercito assediante, che era su tutti i punti costretto ad una ugual vigilanza, e doveva, nella persona del suo comandante, viver sempre in sospetto.

Per quella volta Antonello da Montefalco trovò il nemico, non pur preparato a riceverlo, ma così forte da ributtarlo al primo scontro. E peggio fu, quando dal colle dell'Argentara messer Pietro Fregoso mandò una grossa mano di fanti, che pigliassero in mezzo la cavalcata nemica. Rotte le ordinanze, gli uomini del Montefalco non pensarono più ad altro che a mettersi in salvo; e tale era la confusione, che finarini e genovesi per lungo tratto mescolati si spingevano sotto le mura, mettendo i custodi della porta nel bivio più doloroso a cui si trovassero mai soldati dabbene, o di alzare il ponte e chiuder fuori gli amici, o di tenerlo calato e per salvar cinquecento perdere i quattromila, e con essi dar la città in balìa dei nemici.

Fortunatamente sopraggiunse il marchese Galeotto, che, vista la mala prova del Montefalco, fu pronto ad uscire, con quanta gente potè avere alle mani, in sostegno del suo capitano. Per tal modo, rattenuta la furia del nemico, i cavalieri ebbero agio a raccapezzarsi nel parapiglia, a riunirsi e mettersi in salvo. Non così i fanti che andavano con esso loro, i quali nella improvvisa ritirata erano rimasti più indietro, facilmente avviluppati e travolti nella mischia.

Il Maso, tra gli altri, perduto di vista il capitano, era stato pigliato in mezzo da un manipolo di nemici. Ben s'era adoperato colle mani e co' piedi; uno avea morto e un altro ferito; ma sopraffatto dal numero, non aveva potuto far altro. E si divincolava in quelle strette, si scontorceva e smaniava, ma invano; due maledetti diavoli lo avevano abbrancato, e non c'era verso, bisognava andare con essi.

—Che! non si scappa!—gli gridava un di costoro, che lo aveva agguantato pel collo e gli faceva sentire il ginocchio nelle reni.—Tu se' capitato nelle granfie del Tanaglino e puoi metter l'animo in pace. A te, Vernazza; due giri di corda e legami questo ribaldo.—

Il soldato, che rispondeva al nome di Vernazza, si cavò di sotto il farsetto la corda di ricambio della balestra e l'avvolse prontamente, senza tanti riguardi, intorno ai polsi del Maso, che si trovò per tal guisa ammanettato come un ladro in mezzo ai sergenti della giustizia.

—E adesso, vira di bordo!—gli gridò il Tanaglino, accompagnando l'ordine con un colpo d'aiuto, che al Maso fece tornare in memoria le carezze di mastro Bernardo.

Obbedì, e, come volle il Tanaglino, prese la strada dell'Argentara, a passo giusto da prima, indi man mano più frettoloso, perchè i balestrieri lo spingeano da tergo, incalzati com'erano d'improvviso dalle schiere di riscossa condotte innanzi dal marchese Galeotto.

Ad una svolta del sentiero e già in vista dello steccato di Pertica (che colaggiù erano calati i genovesi a piantar battifolle) comparve messer Pietro Fregoso a cavallo, e comandò ai capitani delle compagnie di far ritirare in fretta la gente, lasciando libera e sgombra la via al nemico.

Obbedirono tutti, e, menando seco i prigioni che avevano fatti, si gittarono pe' campi.

Il Maso colse il destro di quella conversione, per dare una sbirciata dietro di sè. Il cuore gli fece un sobbalzo di contentezza, poichè non molto lunge ondeggiava l'insegna del marchese Galeotto, e al grido di «San Giorgio e Carretto» i suoi compagni d'arme muovevano spediti all'assalto.

Ma ohimè, la gioia del Maso non durò che un istante. Dalla parte dello steccato si vide un lampo, anzi una corona di lampi; si udì un rombo, un tuono, uno schianto, che a lui smemorato fece traballare la terra sotto i piedi; e in meno che non si dice fischiò nell'aria una rovina di sassi, battè, saltellò, ruzzolò per la strada, mettendo lo scompiglio nelle prime schiere che si facevano innanzi.

Quasi sarebbe inutile il dire che questo fuoco d'inferno arrestò il corso dei nemici. Molti caddero, l'uno sull'altro, a rinfusa, urlando o gemendo, bestemmiando o pregando, conforme portavano gli umori; altri non ebbero il tempo di raccomandar l'anima a Dio che quella grandine li colse e li sfracellò senza misericordia. Tosto, dai due lati della strada, i balestrieri genovesi a spianar gli archi e scoccar frecce in quella calca disordinata; nè mancarono i balestroni e le briccole, per lanciare dallo steccato sugli assalitori una minutaglia di pietre e verrettoni, così riempiendo gl'intervalli un po' lunghi, che allora portava la difficoltà della carica, nel tiro delle armi da fuoco.

Poco stante, il Maso, che oramai disperava di tornar salvo tra' suoi, entrava, col Tanaglino ai fianchi, nello steccato nemico. Colà gli fu dato veder da vicino que' brutti ordigni, donde tanta maledizione era uscita pur dianzi. Un uomo era là, dietro i pezzi, che agli atti e al contegno pareva il capo di quei ministri del fuoco. Alto di statura, di membra poderose, nero in volto per lo imbratto del sudore e della polvere, parea Satanasso in persona; e per tale lo avrebbe pigliato il Maso, a ciò aiutando il mal animo con cui si sogliono guardare i nemici, se in lui non avesse ravvisato un vecchio conoscente, e proprio uno di que' due forastieri, che egli aveva serviti tredici mesi addietro all'osteria di mastro Bernardo.

Si fermò allora, pensando tra sè come avrebbe potuto fare per dar negli occhi a quell'uomo. Intanto il Tanaglino, che non aveva le stesse ragioni per trattenersi, gli diede una spinta nelle reni.

Il Maso fu pronto a cogliere quella dolorosa occasione. Tanto è vero che tutto il male non vien per nuocere.

—Oh insomma!—gridò egli, voltandosi, tra piagnoloso e stizzito.—Che è ciò? Son forse un cane, da pigliarmi a pedate? Non voglio andare più oltre; voglio parlare a quell'uomo delle bombarde.

—Quell'uomo!—sclamò il Tanaglino, mentre raddoppiava la dose,—Messer Anselmo Campora, il capo dei bombardieri della repubblica, tu lo chiami quell'uomo?

—Sicuro!—rispose il prigioniero, cansandosi.—Lo chiamavo quell'uomo; ma ora che tu m'hai detto il suo nome, lo chiamerò come va.—

E alzata la voce, mentre, inseguito dal Tanaglino, correva alla volta delle artiglierie, si messe a gridare con quanto fiato ci aveva in corpo:

—Messere Anselmo! ohè; messere Anselmo, di grazia!—

Il Picchiasodo volse la faccia da quel lato, non senza un tal po' di malumore, perchè appunto allora stava mettendo una zeppa di legno sotto la tromba della signora Ninetta, per alzarne un tratto la mira.

—Che c'è? chi mi chiama?—gridò egli con piglio impaziente.

—Son io, messere Anselmo; non mi conoscete?

—Io! persona, prima;—borbottò il Picchiasodo;—e che altro sei tu?

—Il Maso, messere; non mi abbandonate. Sono il ragazzo dell'Altino.

—Ah!—disse il vecchio soldato, inarcando le ciglia.—Diffatti, la riconosco, quella tua faccia di capocchio. Vien qua, buona lana, e non avertelo a male. Finisco di dire una parolina a' tuoi concittadini e sono da te.—

Così dicendo, il buon Picchiasodo curvò amorosamente la testa sull'òmero della sua dama, fece l'occhiolino nei due traguardi che le ornavano il capo, e parve contento del fatto suo. Quindi, pigliato dalle mani d'un servente l'uncino, ne accostò la punta arroventata al focone. Un lampo incoronò la bocca della signora Ninetta in mezzo ad una nuvola di fumo, e con fragore di tuono, partì fischiando una bigoncia di sassi.

A mala pena ebbe dato fuoco alla bombarda, il Picchiasodo levò la fronte e tese l'occhio verso la strada.

—Di punto in bianco!—gridarono poco stante i serventi, che stavano alle vedette, quali inerpicati sulle traverse della stecconata, quali in bilico sui carretti delle artiglierie.—Vedi che squarcio! E come son ruzzolati! Ne hanno abbastanza, di treggèa; scantonano alla lesta, come gatti scottati dall'acqua calda.

—Lo credo, io; s'è fatto miracoli;—disse il Picchiasodo ridendo.—La signora Ninetta è una donnina di garbo, e adesso bisognerà darle una secchiata d'acqua, per la sete. A proposito d'acqua, chi diavolo mi parlava dell'Altino?

—Son io, messere Anselmo;—si affrettò a rispondere il Maso;—sono io, il ragazzo dell'osteria.

—Ah sì, ora mi ricordo;—ripigliò il Campora;—«fermatevi all'Altino, c'è buona l'accoglienza e meglio il vino». E dimmi, per caso, non ne avresti portato un fiasco di quel buono? E' sarebbe proprio la man di Dio.

—Gli è tutto andato, messere;—disse il Maso con aria contrita.—Ci avete conciati davvero per le feste.

—Necessità di guerra; che farci, ragazzo mio? Non dovevate pigliarla a dire con noi;—sentenziò il Picchiasodo, stringendo le spalle.—Ma via, questi non sono discorsi da fare con te. Come sei qua? Ah, perdinci, non ci avevo badato prima; tu se' legato come un cane.

—Necessità di guerra;—disse di rimando il Maso;—e in verità, son capitato in certe mani….

—Capisco;—interruppe il buon capo dei bombardieri;—e tu ameresti ora cambiar di padrone. Andate, voi altri;—soggiunse poscia, voltandosi ai due balestrieri che accompagnavano il Maso;—questo prigioniero rimane con me.—

Il Maso diede una rifiatata di contentezza. Ma quei due non si muovevano ancora.

—Messere,—entrò a dire il Tanaglino,—la corda di balestra con cui è legato, mi appartiene.

—E tu levala!

—Levala!—ripetè il Maso, mettendo i polsi sotto il naso del suo aguzzino.

Indi, mentre il Tanaglino, tutto raumiliato, lavorava a slegarlo, soggiunse:

—Che te ne pare? Son io ancora quel villano ribaldo di poco fa?

—Sarete un pezzo grosso,—borbottò il balestriere stizzito,—e a noi due spetterebbe la taglia.

—Eccoti la taglia, furfante!—esclamò il Picchiasodo, appoggiandogli una pedata.

—Ne valgo cento, di queste;—aggiunse il Maso, gongolando dalla gioia;—fàtti dare il tuo giusto.—

Il Tanaglino, come i lettori avranno di leggieri argomentato, n'ebbe abbastanza di una e non aspettò le novantanove che il Maso gli consigliava di prendere.

—E così, ragazzo mio,—disse il Campora, come furono soli,—eccoti fuori dal servizio di mastro Bernardo….

—E di messere Antonello da Montefalco, ai servigi del quale sono accomodato come paggio.

—Di quel traditore, che in principio della guerra era con noi? Grama casacca, quella che dentro l'anno si volta! Buon per te che non lo servirai più. Vuoi restare con me?

—Messere,—rispose maliziosamente il Maso,—questo sarebbe un voltar casacca ancor io.

—Oh, non dico già come paggio; sei prigioniero, e resti al mio servizio fino al compimento di questa impresa maledetta. È il meno ch'io possa fare per te. Avevo fame e tu m'hai portato un pollo; avevo sete e non m'hai fatto aspettare un fiasco di vino. Ora dimmi, hai fame tu? hai sete?

—Eh, non fo per dire…. Stamane siam venuti ad assalirvi prima di far colazione.

—È una pittima cordiale, il vostro marchese! Far combattere i suoi soldati a ventre digiuno!

—Gli è un buon massaio e tira allo sparagno;—rispose il Maso, che volea dire e non dire.—Sapete, messere Anselmo? Lo sparagno è il primo guadagno.

—Capisco, sì, capisco che siete agli sgoccioli.

—Oh questo poi! Messere Antonello, mio padrone, dice che il Borgo, senz'altri aiuti di vettovaglie, può tener fermo ancora sei mesi.

—Sì, sì, dagli retta! Noi ci abbiamo intorno a ciò ben altri ragguagli. Ma basti; tu hai fame e sete, tu; ed io, vedi, quantunque da noi si abbia avuto cura di asciolvere, la fame l'ho ancora sui denti e la sete l'ho sempre. Gli è un vizio che m'hanno lasciato i vaiuoli.—

Con queste celie amichevoli, Anselmo Campora si era mosso di là, per andare verso l'alloggiamento. Quella mattina la sua orchestra aveva fatto buona prova e messer Pietro Fregoso doveva esser contento di lui; frattanto il buon Picchiasodo se ne rallegrava da sè. La qual cosa era naturalissima, ed io la raccomando, sull'esempio di lui, a tutti i lettori; imperocchè l'esser contenti di noi medesimi è già un buon punto per aspettare che gli altri lo siano del pari, o per passarcene bravamente, se gli altri ci stanno sul tirato, come il più delle volte interviene.

Aggiungete che l'allegria fa buon sangue e ci aiuta a veder tutto bene, quello che è stato fatto dalla provvidenza, o dal caso. Però argomentate come al Picchiasodo godesse l'animo di aver tra' piedi il Maso e di fargli servizio. La vista di quel poveraccio gli ricordava l'Altino, il teatro di una tra le sue più allegre bevute. Se gli fosse capitato anche mastro Bernardo, che festa! di certo lo avrebbe abbracciato.

L'alloggiamento del Picchiasodo, distante una balestrata dal fosso, era, come si può argomentar di leggieri, una baracca e niente di più, cioè a dire una capanna fatta con assi e coperta di frasche, breve fatica de' suoi bombardieri, a mala pena erano calati a piantare le artiglierie nella bastita di Pertica.

Non c'era che una camera, ma questa abbastanza capace. Il letto (se letto può dirsi una cuccia di strame con suvvi una coperta di lana) si vedeva in un angolo, e un lungo spadone appiccato alla parete vi raffigurava indegnamente l'olivo pasquale. Tutto intorno fiaschi e stoviglie, una rozza panca ed una rozza tavola, dinotavano che Anselmo Campora non si raccoglieva in quel suo romitaggio per recitar paternostri.

Giunti appena colà, il Maso ebbe le nari soavemente vellicate da un odor di stufato, che dovea rosolarsi a lento fuoco in una cucina posticcia, dietro la baracca del suo ospite. Nè meno grato gli giunse un altro odore di basilico, aglio, maggiorana e cacio pestati insieme; stillato, elettuario, nettare, ambrosia e tutto quel meglio che vorrete, donde ogni naso ligustico fiuta le dolci impromesse di una minestra maritata. E non mi faccian niffolo le signore lettrici, se per avventura questo racconto ne ha; imperocchè tutto è buono, anche una minestra maritata, e sto per dire anche per la bocca più leggiadra, purchè capiti a tempo.

—Che te ne pare, eh?—dimandò il Picchiasodo, notando l'aria di beatitudine che si diffondeva sulla faccia del Maso.—Non ti poteva per avventura andar peggio?

—Ah, non me ne fate ricordare!—esclamò il Maso, pensando al Tanaglino.—Questa è grazia di Dio, cucinata dal generalissimo dei cuochi.

—La nostra gloriosa repubblica ha di cotali valentuomini al suo servizio,—soggiunse gravemente Anselmo Campora, mettendosi a tavola.—Siedi, amicone. Domani sarai l'aiutante del mio cuoco; oggi sei il mio commensale. Lo hai meritato. Chi fa bene, abbia bene in questa vita e nell'altra. Tu m'hai portato il migliore della tua osteria, e Anselmo Campora non lo ha dimenticato. Bada a me, ragazzo; porta sempre del vino buono al nemico; verrà giorno che egli potrà ricambiartene. Assaggiami questo; è di Calice. Quest'anno lo abbiamo svinato noi altri.

—Pur troppo!—disse il Maso tra sè.

E mandò dalla tavola del nemico un pensiero alla patria.

CAPITOLO XII.

Nel quale si dimostra l'ingratitudine d'un ventre satollo.

Il Maso ha mangiato, anzi no, dico male, ha scuffiato, macinato a due palmenti, il palmento della fame e quello della gioventù. Adesso sfa facendo la sua meriggiata all'aperto, al riparo del sole, colla schiena contro l'assito della baracca, mentre il paggio del suo anfitrione sta rigovernando i tondini e le scodelle imbrattate. Anch'egli si piglierà quella briga, ma cominciando dal giorno vegnente; per ora sta a vedere e fa conto di schiacciare un sonnellino, in onore dell'ospitalità ricevuta.

Anche il Picchiasodo si era posto a giacere nella sua cuccia di strame, e già aveva legato l'asino a buona caviglia, allorquando vennero ad annunziargli un prigioniero che aveva chiesto di parlargli a quattr'occhi.

Il Maso, senza volerlo, aveva l'orecchio di contro al sottile tramezzo. «Un prigioniero! a quattr'occhi!» Ragione per lui di aprirne due; e magari ci avesse avuto i cento del mitologico guardiano di Danae, che tanto li avrebbe messi tutti in opera, anco senza sapere il cattivo servizio che rese ad Argo il non averne adoperati che cinquanta nella sua famosa nottata.

Poco stante, il prigioniero entrò nella baracca di Anselmo Campora e i due balestrieri che lo avevano scortato si ritrassero fuori. Il paggio, intento a strofinare le sue stoviglie, dava le spalle al Maso; e il nostro curioso ne profittò per dare una sbirciata tra le commessure delle assi. Indi ripigliò la sua prima postura, ricacciando in corpo un grido di meraviglia, che era ad un pelo di uscirgli. Aveva in quell'attimo riconosciuto il Sangonetto; Maso avea visto Tommaso.

Non meno meravigliato di lui, il Picchiasodo inarcò le ciglia alla vista del prigioniero che gli domandava un colloquio.

—Ah, ah!—diss'egli, facendo bocca da ridere.—Il messere dell'archibugio?

—Ma sì, ma sì!—balbettò il Sangonetto, arrossendo.—Ve ne ricordate ancora? Ho piacere che sia così, per pigliar animo a dirvi un mondo di cose. Del resto,—soggiunse con un certo sussiego,—la mia presenza qui vi dirà che non ero soltanto un cacciatore da passeri.

—Eh via!—sbuffò il Picchiasodo, rincalzando la frase con una alzata di spalle.—Sareste per caso venuto a chiedere che io mi ripigli ciò che vi ho detto? Amerei meglio farvi dire dell'altro da quella bella milanese, che non avete voluto saggiare, nè dalla punta nè dal manico, all'osteria dell'Altino.—

Così dicendo, Anselmo Campora accennava il suo spadone, che pendeva dalla parete al posto della libbia pasquale. Ma il Sangonetto fece un gesto contrito, come per dirgli che non aveva bisogno di tanto; la qual cosa fece spianar le ciglia al suo ospite iracondo.

—Ah, meglio così!—soggiunse questi rabbonito,—Dicevamo dunque… cioè, no, ero per dirvi che sono molto contento di vedervi in buona salute. Me lo dice il vostro naso, che è sempre di un amabil colore. A voi certo piace il vin buono. Ma sedete, perdinci; quella è la panca; e adesso si metterà il becco in molle, perchè un mondo di cose, come ci avete da dirmene, si sa, non lo si snocciola così su due piedi e a labbro asciutto, come una mezza serqua di paternostri.—

E intanto che andava alla parete per un fiasco, Anselmo Campora borbottava tra sè:

—To', to'! Quest'oggi mi capita qua mezza osteria dell'Altino. Che vuol dir ciò?—

Il Sangonetto accettò il bicchiere che gli veniva profferto, e dopo averne bevuto un sorso per cortesia, due altri per farsi coraggio, così prese a incignare l'argomento:

—Giorni or sono avete ricevuto una lettera?…—

Il Picchiasodo, che stava allora per bere a sua volta, si trattenne, col bicchiere a mezza strada, e guardò il suo ospite con aria che voleva dirgli: tirate innanzi, risponderò poi.

—E nell'estate scorsa—proseguì il Sangonetto,—il vostro capitano generale non ne ha ricavato un'altra, con utili notizie e consigli, che ha incontanente seguiti?

—Ah, ah!—sclamò il Picchiasodo.—Eravate voi? Già, ci si vedeva la mano di un chierico!—

Chierico dicevasi anticamente per uomo dotto, come laico per uomo ignorante. E i lettori rammentano di certo che all'osteria dell'Altino il Picchiasodo avea dato del chierico a Tommaso Sangonetto, aggiungendo ch'egli doveva averci nelle vene inchiostro per sangue.

—Ero io quella volta e quest'altra;—rispose il Sangonetto:—e come allora parve buono il consiglio, così ora… mi sembra…

—Eh, non dico di no. Sarebbe un bel colpo e il tentarlo piacerebbe a più d'uno. Ma chi mi assicura che non fosse un tranello?

—Ma… la parola di Santino da Riva, vostro capitano e prigioniero dei nostri…

—La parola, avete detto bene. Infatti, Santino da Riva è un buon laico e lascia scriver chi sa. Capisco quello che mi potreste rispondere. Se la prima lettera diede un buon consiglio…

—Ecco!—interruppe il Sangonetto, con aria di trionfo.

—Essa,—prosegui inflessibile il Picchiasodo,—non ci persuadeva già un colpo temerario, ma un atto di accorgimento sopraffino, che a messer Pietro Fregoso era venuto in testa più volte. Qui invece si trattava di una mezza pazzia… che è poi quasi inutile, al punto in cui sono le cose. Santino da Riva è un buon soldato, ma non ha il diavolo in testa e nemmanco nell'ampolla; poteva dunque aver dato nella pania.

—Ma adesso…—entrò a dire il Sangonetto.

—Sì, adesso lo so, che il consiglio viene da voi. Ma voi, chi siete? che malleveria mi date? E prima di tutto, qual fine è il vostro? che tornaconto ci avete a farci servizio?

—Grandissimo;—rispose il Sangonetto, con aria maestosa.—Congiuriamo, al Finaro; Genova è republica; vogliamo appartenere a Genova, perchè vogliamo la libertà.

—Bravi! mi piacete;—replicò il Picchiasodo.—La libertà è un'ottima cosa, e Genova ve la darà; Ne ha da vendere; figuratevi, l'ha messa per insegna fin sulle porte delle prigioni, con due grifoni per custodirla. Ma bevete, compar Sangonetto; buon vino, favola lunga, dice il proverbio. Voi dunque, congiurate; e in quanti?

—Oh, in parecchi; e il popolo, stanco di questa guerra che non lo risguarda, di queste privazioni e di questi pericoli che non serviranno ad altro fuorchè a ribadirgli le catene ai polsi, è quasi tutto dalla nostra.

—Dalla vostra! di chi?

—Di me, vi ho detto; di Antonio Sturlino, vi posso aggiungere, che ha molta autorità in paese e che l'altro giorno dopo aver preso a dirla col marchese, è stato, per ira di popolo, liberato dalle mani dei birri che lo menavano in carcere; di Bernardo Marchelli e di Giorgio Battaglia, caporali di schiera; di Antonio Giudice e di Nicolò Valle, uomini di legge; di Vincenzo Campi e di Nicolò Cavazzola, cittadini che sono tra i più ricchi e i più ragguardevoli della terra; di Giacomo Pico finalmente….

—Ah, ah! Pico, l'avversario di messer Pietro Fregoso all'osteria dell'Altino?

—Lui, sicuro. Se ci son io mi pare….

—Ah, voi, si capisce; voi siete un personaggio delle storie antiche e congiurate per la libertà. Ma lui, il braccio destro del marchese, a quanto dicono, lui, che in queste fazioni ha sempre combattuto come un eroe….

—Sì, questo è nell'indole sua, ma Giacomo Pico non fa oramai maggior conto dei Carretti, pigliati a mazzo, con tutta la loro protezione, di quello che voi ne facciate, sia detto con vostra licenza, messere Anselmo riverito, d'un fondigliuolo di fiasco.

—Eh via, che ne sapete voi?—disse il Picchiasodo, ridendo del paragone.—Se il vino non fa posatura, anche la fondata è buona da bere. Vedete questo vino di Calice, come è chiaro e sfavillante, sebbene già il piede vi faccia imbuto per entro.

—Sicuro,—replicò il Sangonetto,—ma supponete che nel calice dei marchesi, nostri padroni, ci sia della feccia, e che Giacomo Pico sia giunto a questo bivio, di gittare, o di bere.

—Spiegatevi meglio; ci vedo buio pesto, finora.

—Ecco! Rammenterete, io non dubito, la cagione dell'alterco di Giacomo col vostro magnifico messer Pietro Fregoso.

—Sì; cioè, ricordo che non ce n'era, e che il vostro amico lo aveva tolto in iscambio.

—Rivalità d'amore;—soggiunse Tommaso.—Il mio povero amico avea perso la tramontana per madonna Nicolosina del Carretto.

—Sta bene; questo è il gran punto. Tirate innanzi.

—Madonna Nicolosina non voleva saperne di Giacomo Pico.

—Davvero? Eh, infatti,—soggiunse Anselmo Campora,—sappiamo che la ci ha poi sposato il suo conte di Cascherano, Ma ciò non toglie…. che anzi!

—Eh, l'ho detto ancor io, da principio, quando non sapevo niente dei loro segreti e pensavo che le malinconie di Giacomo gli venissero tutte dal padre. Ma egli sembra che non fosse proprio così. Madonna Nicolosina amava il Cascherano, o, per dire più veramente, non amava il Bardineto, ed egli era disperato per due versi; pel padre, che non gli avrebbe dato la figliuola; per la figliuola, che ci aveva in testa più superbia del padre. Ora, voi m'intendete, messere Anselmo; un grande amore può cangiarsi spesso nell'odio più acerbo.

—Capisco;—disse il Picchiasodo con gravità.—Del vino dolce si fa l'aceto forte.

—Ci siete,—incalzò il Sangonetto,—ed ora capirete eziandio che sa Giacomo Pico ricusa di bere la feccia del calice, ci ha le sue grandi ragioni.

—Questo Pico,—notò il capo dei bombardieri col piglio di chi vede molto lontano,—è un acquisto prezioso, per gli amici della libertà. Ma che diavol c'è egli? soggiunse, con accento mutato e balzando dalla panca.—Qualche topo mi rosica la parete; forse per giungere al cacio. Ma gliene caverò io il ruzzo, perdinci!—

Non c'erano topi, il lettore lo ha già indovinato; e il Picchiasodo, dal canto suo, parlava in metafora.

Il Maso, tutto orecchi da un'ora ad ascoltare quell'importantissimo dialogo, nello stupore onde lo avevano compreso certe inaspettate rivelazioni, non era stato saldo abbastanza. Si aggiunga che il paggio di Anselmo Campora non era più là, testimone del suo sonno simulato, avendo dovuto allontanarsi un tratto per certe faccende del suo ministero. Così, pensando di esser più libero e non ricordando che la parete era un semplice tramezzo di assi, il Maso aveva provato a rivoltarsi sulle reni, per accostar meglio l'orecchio; e il rumore lo aveva tradito.

Si pentì dell'atto, come in fin di vita non si sarebbe pentito de' suoi peccati; ma il pentimento non gli serviva un frullo, poichè Anselmo Campora s'era alzato da sedere ed accennava di voler uscire dalla baracca. Ora il Maso fu pronto ad intendere che se il Picchiasodo lo coglieva là dietro, anche in atteggiamento di chi dorme, egli era un uomo spacciato. E intender ciò e pensare al rimedio, fu un punto solo. Di colta fu in piedi, come se dentro ci avesse avuto una molla; spiccò un salto da banda, indi un altro, a guisa di scoiattolo, e trovato per sua ventura un carro di bagaglie, si accoccolò dietro a questo, prima che il Picchiasodo fosse giunto sul luogo d'onde gli era parso di sentire lo strepito.

Così fu salvo il mariuolo. Anselmo Campora venne dietro la capanna, con quel suo cipiglio che non prometteva niente di buono; guardò tutto in giro e non vide nessuno; svoltò la cantonata e si ricondusse dall'altra parte fino all'ingresso della sua modesta abitazione, senza vedere il prigioniero, nè il paggio.

—Che dire?—borbottò, stringendosi nelle spalle.—Avrò sognato ad occhi aperti.

E tornò al suo colloquio col Sangonetto, che gli dovea premer di molto, come il savio lettore argomenta.

Frattanto, il Maso ci avea avuto una gran battisoffia, che l'allontanarsi del Picchiasodo non valse a chetargli d'un tratto. Però stette lungamente nel suo nascondiglio; ci stette per ricogliere il fiato ed anche un pochino per richiamare i pensieri a capitolo.

Non c'era da scherzare; egli, il Maso, umilissimo soldato, pur dianzi ragazzo d'osteria, ci aveva in corpo un segreto da cui dipendeva la sorte della sua terra. E non importa il dire che si trattava piuttosto del marchese del Carretto e della sua discendenza; coteste distinzioni il Maso non la conosceva, e se le avesse conosciute, di certo le avrebbe lasciate ai curiali dei suo tempo, e ai politiconi di là da venire.

Ora, che doveva egli fare? Svignarsela dal campo nemico, per dar l'avviso nel Borgo? Questo era un punto difficile; ma il nostro giovinotto non ci vedeva niente d'impossibile. Ci avrebbe pensato, e al postutto, avrebbe tentato. Ma egli non poteva ancora pensarci; ma egli non sapeva ancor tutto. Aveva capito che nel Borgo c'era una fazione avversa ai signori del luogo e al proseguimento della guerra; aveva capito che il Sangonetto e lo Sturlino, il Marchelli e il Battaglia, il Giudice e il Valle, il Campi, il Cavazzola e il Bardineto, congiuravano per dare la terra ai genovesi. Ma ciò non bastava ancora. In che modo contavano essi di darla? Questo era il busilli; questo bisognava sapere; e per saper questo bisognava tornare laggiù contro l'assito della capanna, ad origliare la conversazione del Sangonetto col Campora.

Come venirne a capo? A tornar là, ci risicava la vita; e questo sarebbe stato il meno, per un ragazzo animoso com'egli, se, risicando la vita, non avesse anche risicato di non portare più niente all'orecchio degli assediati. Ci voleva dunque giudizio ed audacia, audacia e giudizio, due cose che tra gli uomini, come tra i popoli, sogliono andare così poco d'accordo.

Il Maso ci si provò. Quello che l'esperienza il più delle volte non dà, lo aspettava egli dalla fortuna. Era giovine, e la fortuna li ama, questi benedetti giovani. Suvvia, dunque; il Maso si tolse di dietro al carro, non senza aver dato una prudente sbirciata per mezzo alle ruote, e con passo leggiero, ma in apparenza sbadato, colle mani in tasca e gli occhi in guardia, andò incontro al pericolo.

Mai volpe vecchia s'accostò più guardinga al pollaio insidiato, di quello che il ragazzo dall'Altino a quella baracca di legno, in cui si patteggiavano le sorti del suo luogo natale. Egli voleva esser pronto ad apparire in atto di chi torni da una passeggiata, e per moto di prudenza istintiva tenea corrugate le labbra e dondolava la testa per zufolare in cadenza; ma il fiato lo chiudeva per bene tra i denti, poichè, se gli venia fatto, voleva udire, non essere udito.

Così infatti gli avvenne. Non ho detto che la fortuna ama i giovani?

Anselmo Campora data la sua scorsa nei pressi della capanna, aveva bandito per allora ogni sospetto e la conversazione proseguiva più calda che mai.

—Già,—diceva il Sangonetto, quando il Maso riuscì a metter l'orecchio da un altro lato del tramezzo,—la condizione sarebbe di ucciderlo. Egli non consentirà a questi patti, se non gli si leva d'innanzi quel terzo incomodo.

—Ucciderlo!—notò il Maso tra sè,—Diavolo! Chi sarà costui che si condanna in tal modo, senza fargli il processo?—

Intanto il Picchiasodo rispondeva.

—Ah, quanto a ciò, non lo sperate, Messer Pietro è un gentil cavaliere e non vi accetterà mai un tal patto.

—Manco male!—ripigliò il Maso, sempre tra sè,—Chiunque sia l'uomo che si vuol morto, questo messer Pietro Fregoso incomincia a piacermi.

—Non lo accetterà;—proseguiva il Picchiasodo.—Tanto e tanto si verrà a capo della vostra resistenza, o, per dir meglio, della resistenza del marchese. Ci ho il mio disegno anch'io e messer Pietro lo approva. Il vostro è più spicciativo, non nego; ma abbiatelo per fermo, io conosco il capitano generale come il fondo delle mie tasche; egli non vi venderà in compenso la vita di nessuno.

—Ma…—si provò a dire il Sangonetto.

—Ma infine, o non siete buoni voi altri, a far le vostre vendette? Voi pratici dei luoghi; voi più al caso d'ogni altro di cavar profitto da un'ora di trambusto; noi non ci avremo nulla a vedere. Del resto, sarà buio, a quell'ora. Ma intendiamoci, non parlate di ciò a messer Pietro; e' sarebbe capace di non volerne sapere, e allora, addio fave; piuttosto, si potrebbe domandare un duello, e messer Pietro, che ama questi combattimenti come un tordo la ginepra, ve lo consentirebbe senza fallo. Proponete questo; è il partito migliore.

—Lo proporrò;—disse il Sangonetto, chinando il capo in atto di assenso.

—Andiamo dunque;—soggiunse il Campora,—Messer Pietro sentirà e risolverà secondo il suo savio consiglio. C'intenderemo, non dubitate; io l'ho tanto per negozio conchiuso, che piglio per via un mio vecchio compare, Giovanni di Trezzo, il più arrischiato capitano di tutto l'esercito, a cui simili imprese vanno a sangue, come ai tordi… Ah scusate, il paragone l'ho adoperato poc'anzi; dirò invece: come ad Anselmo Campora il vostro vino di Calice.—

Il Maso non volle saperne altro, e mentre i due si alzavano da sedere, corse difilato, come già avea fatto una volta, ad appiattarsi dietro il suo carro.

E là, fingendo di dormir della grossa, il povero Maso s'immerse nelle più profonde meditazioni intorno al modo di uscire di mano ai nemici e di avvisare il Borgo del tradimento ordito a suo danno.

Ma questa gretola era più difficile a trovare che non sembrasse a tutta prima. Osservare la forma dello steccato, le consuetudini delle scolte, e quelle del Campora, trar profitto delle occasioni, avere un occhio al cane e l'altro alla macchia; queste erano tutte cose bellissime, che il Maso si disponeva a fare, ma colle quali non cavò quel giorno, nè il giorno seguente, un ragno da un buco.

Bene andava egli mattina e sera col paggio del Picchiasodo ad attinger acqua in un pozzo, che era in una certa forra a tramontana, poco lunge dello steccato. Ma egli lavorava, e il paggio colla balestra stava a fargli la guardia, come fa l'aguzzino alla ciurma. Anselmo Campora, che non lo aveva veduto nella occasione del suo colloquio col Sangonetto, saputo com'egli fosse andato da solo a pisolare in un canto, aveva sgridato il paggio, ordinando che d'allora in poi non lo perdesse più d'occhio. Ospite sì, ma prigioniero, e certi riguardi non si dovevano smettere. Così fu tenuto alla lunga il falconetto dell'Altino; ed ebbe un bel beccarsi i geti e dar l'anima al diavolo; la sua inquietudine non gli fruttò che una vigilanza più stretta.

Il Sangonetto dopo essere andato dal capitano generale, non si era più visto nella baracca del Campora. Certo era rimasto in custodia della compagnia che lo aveva fatto prigione. Ma il terzo giorno ci fu gran novità nel campo, per dare un altro grattacapo al nostro povero Maso. Una scorribanda di cavalieri menava prigione entro il battifolle messer Giacomo Pico.

Pallido in volto come un cencio lavato, gli occhi stravolti e i capegli più rabbuffati del solito, messer Giacomo Pico avea l'aria d'un uomo a cui grandemente cuocesse di quella umiliazione, assai comune del resto agli uomini di guerra, la cui sorte è pur troppo di dare e di ricevere.

—O come è egli possibile che costui sia un traditore?— dimandò a sè stesso il Maso, vedendolo a passare, colla fronte china e livida di vergogna e di rabbia, in mezzo a un drappello di nemici.—Egli mi sembra un cavallo generoso che morde il freno e sbuffa e si ribella allo sprone.—

Intanto, si spargeva tra i crocchi la voce che il Bardineto, il braccio destro del marchese Galeotto, era stato preso, mentre, con un pugno di arditi cavalieri, tentava di attraversare la cerchia degli assediati, per riuscire sulla via di San Giacomo. L'imboscata in cui egli doveva cadere, era comandata da Giovanni di Trezzo.

Questo nome risvegliò i sospetti del Maso.

Giovanni di Trezzo! Ma questi era l'amico del Campora; l'uomo che egli volea condurre dal Fregoso, due giorni addietro, come capitano d'audacissime imprese, dopo la conversazione avuta col Sangonetto. E poi, che volea dire questa sequenza di prigionieri? Prima il Sangonetto; indi il Pico. Questa di certo non era l'opera del caso, bensì la conseguenza d'un patto fermato tra loro; che anzi, o non poteva il capitano generale, prima di pigliare per evangelio le parole del Sangonetto, aver voluto alla sua presenza il più ragguardevole tra tutti i congiurati?

Ma come? Il Sangonetto avea dunque potuto da lunge comunicare coi sozi? mandare un messaggio al Borgo, anzi a castel Gavone, dove abitava il Bardineto?

E a lui, Maso, non sarebbe riuscito di fare altrettanto? di fuggire dal campo genovese e portare in tempo un salutare avviso al castello?

Quel pensiero s'impadronì di lui, mentre, con una bigoncia in bilico sulla cervice, se n'andava per acqua al pozzo, accompagnato dal paggio aguzzino. Avviandosi per quella forra, che, come ho detto, era poco lunge dello steccato, il Maso guardava con desiderio infinito le sovrastanti colline, di cui conosceva, meglio delle capre, ogni sentieruolo, ogni ciglione, ogni solco. Quante volte non le aveva egli corse e ricorse da bambino, per cogliervi le viole mammole, o per tagliarsi un arco ne' pieghevoli rami dei frassini! E adesso, che brutto divario! Una bigoncia sul capo e una balestra minacciosa alle spalle.

Fattosi, alla bocca del pozzo, cavò di dentro alla bigoncia una secchia e cominciò ad attingere, secondo il costume di tutti i dì. Ma il povero Maso doveva quel giorno esser molto distratto, poichè, alla terza calata, gli scivolò di mano la corda, e tuffete, secchia e corda piombarono nell'acqua.

Il Maso, disperato, si messe le mani nei capegli, guardando con occhi lagrimosi ora nel pozzo, ora in volto al custode.

—Lasagnone!—gridò costui, a mala pena si accorse dal guaio.

—Scusate, Falamonica, non l'ho fatto a posta;— disse il Maso umilmente.

—Eh, non ci mancherebbe altro che tu l'avessi fatto a posta!—replicò il Falamonica, che così avea nome il paggio.—Va là, buono a nulla; per colpa tua si perderà un'ora di tempo, e le ripassate toccheranno a me.—

Frattanto si accostava al murello e guardava a sua volta nel pozzo.

—Ah, manco male!—soggiunse.—La secchia non ha bevuto e galleggia. Ora dimmi, bertuccione; come faresti tu a cavarla dell'acqua?

—To'! disse il Maso.—La bocca del pozzo non è troppo larga; mi calo dentro, aiutandomi colle mani e coi piedi…

—E dai un tuffo anche tu, babuasso!—interruppe il Falamonica.—Il guaio non sarebbe dei grossi, per verità; ma tu potresti, nell'affogare, mandarmi al fondo la secchia. Per fortuna, il mio diavolo la sa più lunga del tuo. Stammi a vedere ed impara.—

Così dicendo, il Falamonica trasse di tasca la corda di ricambio della sua balestra; l'annodò con quell'altra, che aveva avuto cura di spiccare dai due capi del suo strumento di guerra, e v'adattò in fondo il crocco, che era il gancio del martinello con cui si caricavano le balestre, e serviva a tender la corda fino a quel punto del fusto, o teniere, che dir si voglia, dove s'incoccava la freccia.

Il pozzo non era molto profondo, e il Falamonica, così ad occhio, aveva misurato lo spazio che gli bisognava percorrere con quella ságola posticcia. Le due corde annodate bastavano, solo che egli si curvasse un pochino sull'orlo del pozzo, per calare il crocco fin sotto l'anello della secchia, che si dondolava beatamente sul pelo dell'acqua.

—Ripesco io?—disse il Maso, offrendosi a quella fatica.

—Sì, per gittarmi anche il crocco nel pozzo! Tirati in là, scimunito, e tienmi piuttosto la balestra, ella non mi si sciupi nel fango.

—Dite bene, Falamonica; sono uno scimunito;— borbottò il Maso, crollando il capo e tirandosi col sommo delle dita un sentore, anzi una voglia, di baffi.—Sono uno scimunito,—aggiunse poscia in cuor suo,—se non cavo i piedi di qua.—

Il Falamonica intanto a calar la sua fune. Tutto andò com'egli aveva immaginato. Il crocco dondolava, faceva le giravolte a due o tre spanne dalla secchia. Bisognava dunque spenzolarsi sull'orlo del pozzo e allungare il braccio, perchè il gancio arrivasse; pel resto, non si trattava che di cogliere il punto buono e infilare il dente nell'anello insidiato.

Il Maso guardava, e guardando pensava.

—Faccio, o non faccio?—chiese egli perplesso a sè medesimo.

La tentazione c'era; l'occhiata sospettosa in giro l'aveva già data, e si vedeva solo nella forra, solo col suo aguzzino, il cui capo spariva dietro le spalle, incurvate sulla bocca del pozzo.

—Animo, a te, lanternone senza moccolo!—disse il Falamonica, sporgendo un braccio dietro di sè.—Dammi una mano, che son per toccare.—

Il Maso alzò gli occhi al cielo, donde si fanno venire le cattive ispirazioni, come le buone.

—Eccomi qua! diss'egli di rimando.

E poste le palme contro le reni al nemico, gli dette un spianta gagliarda, che lo fe' andare a capo fitto nel pozzo.

—Tocca ora la secchia!—soggiunse.—Io tocco il cavallo.—

E lo toccò daddovero e lo fe' parere l'ippogrifo di Ruggero, quantunque e' non foss'altro che il modesto cavalluccio di san Francesco. Avea l'ali alle piante; saliva su per la collina, veloce come un ramarro, e non c'era pericolo che si voltasse indietro, per dare uno sguardo allo steccato di Pertica, e un saluto a quella baracca, nella quale aveva mangiato e bevuto per quattro.

—Gratitudine di ventre satollo!—doveva dire il Picchiasodo, più tardi.

CAPITOLO XIII.

Del giro che fece un segreto prima di uscire ad utile di qualcheduno.

L'ho detto; il Maso correva, volava come il dio Mercurio portalettere, o come Iride, messaggiera d'Olimpo. Se egli pare soverchio ardimento rassomigliarlo agli Dei, fo un passo indietro e lo imbranco tra gli eroi, rassomigliandolo ad Ettore, quando scappò davanti all'ira di Achille e prese più volte a tondo la misura di Troia. E se neppur questo vi torna, lo paragonerò… Ma, Dio buono, che grattacapi mi piglio? e che bisogno c'è egli di paragonarlo a qualcuno? Scappava, e basta.

Così dandola a gambe, giunse alle viste dell'erta su cui torreggiava il castello. Per altro, n'era ancora lontano un bel tratto, e gli bisognava passare sotto il tiro dello beltresche, e delle bicocche, guardiole di legno, rizzate su pali, donde le scolte avanzate velettavano il nemico.

Il suo apparire sull'erta fu prontamente notato, e un verettone, scagliato da mano maestra venne a fischiargli all'orecchio. Se in quel punto e' non avesse dovuto cansarsi da un sasso che attraversava il sentiero e perciò non si fosse tirato da banda, povero Maso! il suo segreto era morto con lui.

—Canchero!—esclamò egli, fermandosi tosto e guardando la beltresca più vicina, donde gli era venuto l'avviso.

E siccome la sua esclamazione ionadattica non gli sarebbe servita a nulla col soldato in vedetta, che probabilmente incoccava un secondo verrettone, il nostro Maso si affrettò ad alzar le mani e a raccomandarsi coi gesti, gridando con quanto fiato aveva in corpo:—San Giorgio e Carretto! Carretto e San Giorgio! Ohè, Finarino, così ricevi gli amici?—

Il soldato lo udì, e per fermo lo riconobbe eziandio, poichè fu sollecito a scendere la sua scaletta a piuoli.

Intanto il Maso si avvicinava di buon passo alla beltresca.

—Amici, perdio!—seguitava a gridare.—Sono il paggio di messer Antonello da Montefalco, scampato or ora dalle ugne dei genovesi.

—Sì, ti ho riconosciuto, buona lana! Vien qua e ringrazia il cielo che la mia mano non ha più venticinque anni.

—Ah, siete voi, mastro Bernardo? Vedete un po' il tiro che avete risicato di fare! La m'è passata a una spanna dall'orecchio. Altro che venticinque anni! Per fortuna io m'ero gittato da una banda; se no, addio roba mia!

—Ma sì, ma sì, la mano mi serve ancora;—disse mastro Bernardo ridendo,—Credevo di averti fallato per colpa mia, e tu mi consoli, adesso. Vien qua, abbraccia il tuo vecchio principale, e raccontami, come hai potuto cavartela dalle granfie di quei figli di cani?

—Eh, potaste chiamarli cani addirittura, senza tanti rigiri!—notò il Maso, che voleva sempre dire la sua.—Tanto, non ci sentono, e l'ultimo di loro, con cui ho avuto a discorrere è troppo occupato a ber vino celeste.—

Qui il Maso, più brevemente che gli venne fatto, raccontò al suo vecchio principale il perchè e il percome della sua fuga dal battifolle di Pertica, cercando di ricordarsi tutte le frasi, chiare ed oscure, del Sangonetto, nel suo segreto abboccamento col Campora.

Allorquando udì della caduta di Giacomo Pico in balìa de' nemici, mastro Bernardo, che la vedeva in cotesto come il suo antico ragazzo d'osteria, perdette proprio il lume degli occhi.

—Ah, l'avrei giurato!—gridò, serrando rabbiosamente le pugna.—Io l'ho conosciuto da bel principio, quel villano rifatto! Serpicina riscaldata, per amor di Dio, in seno ai nostri signori! Ed ecco ora com'ei li rimerita!

—Oh, per questo, non dubitate;—disse il Maso a lui di rimando.—E potrebbe darsi ancora che il Bardineto avesse fatto male i suoi conti. Io me ne vo difilato da messere Antonello e gli spiffero ogni cosa.

Mastro Bernardo rimase un tratto sovra pensiero.

—No, no,—rispose egli poscia,—non lo fare! Chi è, dopo tutto, questo messere Antonello? Un buon capitano, dicono; ma che altre imprese ha egli fatto finora? Un giorno, te ne ricordi? se non ci mettevano mano le nostre donne, e' si faceva pigliar prigioniero insieme col cugino del nostro marchese, col magnifico Spinetta del Carretto. Quell'uomo non mi quadra, affediddio, non mi quadra! Viene dall'esercito genovese, ch'egli ha abbandonato per una differenza di pochi fiorini; e chi ti dice ora?… No, no, ragazzo mio; fidarsi è bene e non fidarsi è meglio. Già, vedi, se qui tradiscono i finarini, saranno più saldi i forastieri?

—Ma… e come fareste voi?—disse il Maso perplesso.

—Io? Me ne andrei diritto diritto a parlare col marchese. Capisco, tu non ci hai dimestichezza. Ma a questo c'è rimedio; ci vado io. Anzi, vedi, ci corro. To' la balestra; piglia il mio posto alla vedetta; in due salti son là, e se occorrono altri ragguagli, il marchese ti farà chiamare.—

Il Maso fu scavalcato, così, alla sprovvista, e non s'addiede del tiro che allorquando fu in terra. Borbottò un poco, sicuramente, poichè l'atto gli parve mancino; ma in fondo in fondo, non si poteva negare che nei sospetti di mastro Bernardo ci fosse una parte di vero, e si chetò, da quel ragazzo dabbene ch'egli era. Al postutto, i suoi sopraccapi per quel giorno li aveva avuti, e mentre egli ci guadagnava un'ora di riposo, il suo vecchio principale, andando al castello, non poteva mica tacere la fonte delle sue preziose notizie.

Perciò non disse altro, e, presa l'arma dalle mani di mastro Bernardo, e datogli senza troppo corruccio il buon giorno, s'inerpicò sulla beltresca.

Mastro Bernardo, dal canto suo, grave nel portamento come ogni uomo che ci abbia le grandi cose in testa, s'avviò verso il castello.

Vi giunse, distribuendo in giro un saluto di protezione alle scolte, e commise la sua gravità sul ponte levatoio che cavalcava il fosso, in cospetto di due barbacani, muniti di feritoie, che proteggevano la porta, sfondata nel muro di fronte, in mezzo a due delle quattro torri che già i lettori conoscono. Varcata la soglia e l'androne, dove gli parve che i suoi passi rimbombassero meglio di prima, entrò sotto la saracinesca, altra porta piombante che difendeva l'ingresso del castello, e finalmente pose il piede nelle scale, salutato da tutti i soldati di guardia, che lo conoscevano come un vecchio camerata, ma che dovevano (così gli bisbigliava la sua ambizione) vedere in lui un pezzo più grosso del solito.

Se lo avessero fermato, chiedendogli dove andava, oh come ci avrebbe avuto gusto a sfolgorarli con quattro parole: «porto gravi notizie al marchese!» Ma nossignori, quella zotica soldatesca non capiva una maledetta; lo vedeva passare accigliato e chiuso come una cornacchia di campanile, e non si attendeva di dargli l'assaggio.

Privo di quella consolazione, mastro Bernardo volle procacciarsene un'altra, andando a far pompa delle sue gravi notizie colla nipote. La cosa era del resto naturalissima, imperocchè, senza mettere in conto i riguardi dovuti alla Gilda, per cui intercessione aveva allogato la sua famigliola fra i servi del castello, il nostro messaggiero pensava di farsi introdurre dalla nipote presso il marchese Galeotto, col quale, come v'immaginate, non ci aveva tutta quella dimestichezza che aveva lasciato intendere al Maso.

Applaudendosi in cuor suo di quella profonda pensata, mastro Bernardo salì prontamente le scale, e scambio di fermarsi alla gran sala, in cui tenea corte e riceveva i suoi visitatori il marchese, proseguì fino al piano superiore, dove, poco lunge dalle stanze di madonna Nicolosina, era la cameretta della Gilda.

La bella nipote di mastra Bernardo appariva grandemente mutata da quella vispa e rosea fanciulla che i lettori hanno conosciuta nei primi capitoli di questo racconto. Una pallidezza estrema regnava su quel volto, i cui grati contorni s'erano fatti più severi e ricisi, come di statua; gli occhi scintillavano di luce più viva sotto l'arco delle ciglia, ma si vedevano altresì più infossati nelle orbite, se non per avventura dal piangere, certo da un'assidua cura che fosse venuta struggendo quella sua giovinezza beata. Era bella sempre; forse più di prima, per molti; ma non più come prima, e s'indovinava al solo vederla che il dolore era passato sul fronte della povera Gilda. Così l'ostro nemico, scaldato sulle arene dei deserti africani, brucia i teneri germogli delle piante, alidisce le splendide corolle dei fiori.

Quali fossero da parecchio tempo i pensieri di Gilda, il savio lettore ha già inteso. Si aggiunga a tante cagioni di tristezza, che ella aveva avuto pur dianzi la nuova della prigionia di Giacomo Pico.

—Anche tu,—le disse mastro Bernardo, vedendola in quello stato,—anche tu, mia povera ragazza, ti struggi di questi malanni che sono piombati su casa nostra? Brutti giorni, figliuola! E anch'io dovevo vederli a conforto della vecchiaia!

—Che farci, buon zio? Ci vorrà pazienza. Iddio è misericordioso, e quando avremo patito abbastanza…

—Eh, mi pare che il tempo sarebbe venuto! Ma via, non mormoriamo; forse son io l'umile strumento di cui la Provvidenza si serve per metter fine alle sue prove.—

La Gilda guardò meravigliata suo zio, per sincerarsi a' suoi atti se parlasse da senno, o non avesse per avventura dato il cervello a pigione. L'aria d'importanza ond'era impresso il volto di mastro Bernardo, faceva somigliare il bravo ostiere soldato ad uno del suoi tacchini, ingrassati pel Natale, quando gli faceano la ruota sull'aia.

—Sai?—proseguì mastro Bernardo, rispondendo ad una domanda che Gilda gli avea fatta cogli occhi.—C'è del nuovo. Notizie gravi! Non tremare. Uomo avvisato, mezzo salvato; ed io vengo a salvare il magnifico signor marchese. Ho pensato di parlarne prima con te, perchè sei una buona figliuola ed hai fatto del bene alla mia Rosa, tua povera zia, e a quattro ragazzi, che la guerra fa rimanere senza l'aiuto del padre.

—Ho fatto il debito mio;—disse brevemente la Gilda.—Ma parlate, per carità; che c'è egli di così grave, e qual è questo avviso di salvezza che portate al castello?

—Chetati, e te le dico in poche parole. Bada; ti parrà strano, come lo parrà al nostro magnifico signore. E se non fosse ch'io l'ho di buon luogo… Ma via, non vo' tenerti sulla corda. Il Pico tradisce; il Sangonetto tradisce; tutti tradiscono qui.

—Che dite voi mai?—gridò la Gilda, non badando che al nome del Bardineto.—Giacomo?… Giacomo Pico un traditore? Ma lo pensate voi? E potete voi aggiustar fede a chi gli vuol male? No, non può essere altrimenti;—soggiunse ella, notando un atto di diniego dello zio;—solo un nemico suo ha potuto calunniarlo in tal guisa. Ma dite, ditelo voi, come potrebb'essere un traditore l'uomo che appunto stamane, combattendo da valoroso, è stato colto in una imboscata dai genovesi?

—Sì, si, l'imboscata!—ripetè mastro Bernardo scrollando il capo e battendo le labbra.—Parliamone, dell'imboscata! Anche il Sangonetto, il suo grande amico, è prigioniero dei genovesi da tre giorni, ed io ne so quanto occorre, della loro prigionia.—

Qui, stretto, incalzato dalle domande di sua nipote, mastro Bernardo, che non domandava altro, si fece a raccontarle tutto, per filo e per segno, quello che aveva risaputo dal Maso; come il Sangonetto, datosi spontaneamente prigione al battifolle di Pertica, si fosse abboccato col Campora, proponendogli un colpo che dovea porre il Finaro in balìa degli assediati; come dapprima il Campora e poscia il capitano generale dell'esercito genovese volessero assicurarsi della sincerità dell'offerta avendo prigioniero anche il capo della congiura; come difatti il Pico cadesse due giorni dopo in una imboscata, a cui era andato incontro con pochissimi uomini, certo per levarsi ogni obbligo di resistenza; come tra i patti richiesti dal Pico ci fosse la morte di un tale, di cui non s'era potuto intendere il nome, e il capitano generale non avesse voluto saperne, proponendo in quella vece che il Pico se ne potesse spacciare con un duello, dopo la presa della terra assediata. Ora qual colpo si meditasse, e qual fosse il nemico di cui si patteggiava l'uccisione, bisognava cercare; quanto al disegno e ai patti fermati e alla imminenza del pericolo, non ci cascava più dubbio.

A cosiffatte notule, che lasciamo immaginare ai lettori come le tornassero dolorose, la Gilda non seppe più che rispondere. I commenti che v'aggiungeva lo zio, commenti crudeli che le andavano come tante pugnalate al cuore, rischiaravano a' suoi occhi un triste vero che da lunga pezza ella sospettava, e che, paurosa o magnanima, non aveva voluto vedere, accagionando del dubbio la sua gelosia irrequieta. Giacomo Pico aveva sguainato la spada contro il Fregoso, credendo di averla a dire col conte di Osasco. Il fatto e l'errore erano ricordati in buon punto da mastro Bernardo. Il marito di Nicolosina del Carretto era dunque il nemico di cui si chiedeva la morte. E la rabbia contro un fortunato rivale, e il rancore contro una superba che lo avea dispregiato, erano dunque le cagioni del tradimento di Giacomo?

Questo pensava la Gilda, e lo sdegno le traluceva dagli occhi, le usciva in rotte parole dal labbro. Mastro Bernardo, che pure l'aveva a morte col Bardineto, non intendeva perchè la sua cara nipote ci si riscaldasse poi tanto.

—Orvia, chètati, figliuola; non mi far pentire di averti detto ogni cosa. Sono un chiacchierone; ma già, chi l'ha nell'ossa, lo porta alla fossa. Avrei dovuto andarmene difilato dal magnifico nostro marchese, ed eccomi invece a dar molestia a te, che poverina, non ci hai nulla a vedere.

—No, no, zio! avete fatto benissimo;—gridò la Gilda sollecita.—Dal padrone ci vado io. Sapete? egli è quest'oggi di pessimo umore, e potrebbe farvi una brutta accoglienza.

—Dici da senno?—chiese mastro Bernardo, con piglio scontento.—Mi pare che chi porta notizie utili….

—Ma cattive come queste!—interruppe la Gilda.—Credete a me, zio, vi accoglie male; non andate. Io sono di casa e con me non c'è pericolo che si metta in collera.

—Ma io…—si provò a dire mastro Bernardo, sperando di rimettersi in sella,—io posso dir cose che una donna, una ragazza senza esperienza, non potrà mai mettere in chiaro come si bisogna. Io poi ci ho le notizie di prima mano e tu…

—Mi fate pensare ad un altro pericolo;—interruppe la nipote.—Che dirà dei fatti vostri il marchese, quando gli porterete voi le notizie date da un altro? Il Maso le ha in prima mano, non voi. E se il marchese vi chiedesse perchè non avete lasciato andare da lui il Maso in persona, che cosa potreste rispondergli?

—Ma….—balbettò il povero ostiere.—Lì per lì non saprei…. Ci penserò.

—No, bisognerebbe averci pensato. Vedrò io, farò io. Voi farete una cosa più utile, di cui vi si darà lode e ricompensa domani.

—Che cosa? Parla, dilla su, poichè vuoi fare a tuo modo;—soggiunse rassegnato lo zio.

—Ecco; stanotte, con quanti uomini potete, trovatevi sotto il castello. Ci potrebb'essere bisogno di voi, e, mi capite? l'esserci venuto spontaneamente vi tornerà a grandissimo onore.

—Che cosa prevedi già tu, nella tua testolina? Credi che ardiranno salire al castello?

—Non credo niente, non prevedo niente. Venite, e basta. Domani saprete ogni cosa.

—E sia; prenderò meco tutti gli amici che troverò. Quanti abbiamo ad essere?

—Che so io? Venti, trenta, sessanta. Più numerosi sarete, tanto meglio per tutti.

—Oh, per questo, se non vuoi altro, ti porto tutta la compagnia di santa Caterina, il cui caporale è Antonio Cappa, mio buonissimo amico e compare.

—Sta bene, venite e tenetevi pronti alla chiamata, qui sotto, nella macchia delle roveri.

—Perchè da questa banda e non dall'altra?—domandò mastro Bernardo, che voleva scoprir terreno.

—Perchè…. perchè…. volete saper troppo.

—Ma, non so niente, mi pare.

—Meglio per voi. Andate, buon zio, e fate com'io v'ho detto. Il magnifico nostro signore e tutta la famiglia vi sapranno grado di tutto, non dubitate.

—Basta, mi fido di te. Hai una certa testolina, che, sto per dire, se comandassi io, ti metterei subito al posto di messere Antonello da Montefalco. Ora, addio; vo a salutare la Rosa….

—No, no, la vedrete domani. Andate, è già tardi, e se avete da cercare gli amici, non ci sarà tempo da perdere. Ma badate, giudizio, e non una parola ad alcuno!

—Che! nemmen per sogno. Tu mi conosci, nipotina. Sono un po' chiacchierone, l'ho detto, ma nelle cose di meno importanza. Qui poi, acqua in bocca!

—Sì, dunque, andate. Io corro dal padrone.—

Con queste parole fu congedato mastro Bernardo, che uscì poco stante dal castello, scavalcato a sua volta dalla Gilda, com'egli avea scavalcato il Maso, e senza capire una maledetta dei disegni della sua bella nipote.

La quale, poichè fu partito lo zio, non si mosse altrimenti dalla sua camera. Muta, immobile, attonita, come chi, per malvagità di possenti e implacati nemici, o per cieco volere del caso, si veda di balzo gettato nel fondo di ogni miseria e sappia pur troppo che ogni scampo gli è chiuso, la misera donna rimase là, contro la finestra della sua camera, a cui s'era affacciata per veder scendere lo zio giù dai tortuosi sentieri del castello. Rimase là, coi gomiti appoggiati sul davanzale di pietra, il volto nelle palme, gli occhi torbidi e fisi di rincontro a sè, sulla roccia dell'Aurera, salutata allora dagli ultimi raggi pallidi d'un sole di febbraio, non curando il freddo rovaio che già cominciava a soffiare dalle gole di Rialto, addensando in aria negri e minacciosi drappelli di nuvole.

Niente guardava la Gilda, di niente si avvedeva, niente sentiva da fuori; le forze tutte dell'anima sua s'erano concentrate in un pensiero, l'infamia di Giacomo Pico. Imperocchè, ella avea pure inteso il disegno di lui, per mezzo ai pochi cenni recati da suo zio. Il colpo che si tentava era di dare il castello in mano ai nemici, d'impadronirsi di madonna Nicolosina, di uccidere il Cascherano. Quest'ultima parte del disegno di Giacomo Pico doveva andargli fallita, poichè il conte di Osasco, quel giorno medesimo era disceso nel Borgo, per custodire co' suoi uomini la porta di san Biagio; ma questa assenza non tornava forse a vantaggio del Bardineto, caso mai gli venisse fatto di penetrare nel castello in compagnia dei nemici?

Vitupero! Ed ella lo amava, quel traditore! E s'era data a lui, col più sublime sagrifizio dalla sua alterezza, nel più generoso oblìo d'una offesa recente! Ah, come s'era egli mostrato degno di quel magnanimo affetto! E non era piuttosto meritevole di mille morti? Non si doveva punirlo, avvisando i difensori del castello e cogliendolo al laccio che egli stesso avea teso?

Sì, questo era il meglio; ma questo potea fare ogni altra donna, non Gilda. Avrebbe ella venduto in tal guisa l'uomo a cui la legava il più soave, o il più doloroso, ma certamente il più intimo dei vincoli? Imperocchè, forse, tra breve ella non avrebbe potuto nasconder più oltre lo stato suo. Egli, ancora il giorno addietro, la aveva promesso, giurato, di condurla seco, a guerra finita. E poichè il tempo stringeva, e l'assedio accennava a durare un bel pezzo, la congiura di Giacomo non poteva essere un modo da lui immaginato per farla finita d'un colpo?

Queste erano vane speranze, illusioni, chimere; lo sentiva anche lei. Ma allora, qual vendetta efficace e condegna a tanta viltà sarebbe mai stata quella di avvisare il marchese? Essa, essa, dovea vendicarsi, non altri; essa, in quella casa, e per quella casa giunta a tale di miseria o di vergogna oramai!

Tra queste incertezze, tra queste contraddizioni d'uno spirito abbattuto, giunse rapidamente la notte. Le scolte si ricambiarono per la prima volta il grido di vigilanza dalle loro beltresche, e quelle grida si udivano al castello fioche e interrotte, come che di voci lontane, tanto le soverchiava la furia del vento. Era una notte minacciosa; il mare mugghiava al lido, il tuono rumoreggiava nella gole dei monti.

Madonna Nicolosina, all'ora consueta delle altre sere, si ritirò nelle sue stanze. La Gilda, come portava l'ufficio, era andata a servirla nel suo spogliatoio, ma più rigida e più taciturna a gran pezza che le altre volte non fosse stata colla sua giovin signora.

Il broncio dell'ancella (quasi sarebbe inutile di dirlo) era cominciato dalla scoperta di una rivale, triste scoperta che ella avea fatta nella torre dell'Alfiere. Madonna Nicolosina, dal canto suo, vedendola così piena di cruccio, era stata in contegno, nè aveva cercato occasione di rompere il ghiaccio. Anche trovata da lei a colloquio col Bardineto, madonna Nicolosina si sentiva innocente e non voleva scendere alle prove colla sua cameriera. Così erano rimaste ambedue coll'amaro, l'una servendo a puntino, l'altra comandando con garbo, ambedue fredde e guardinghe.

Tale la Gilda all'aspetto; ma il cuore avea gonfio di sospiri e di lagrime. E s'era fatta innanzi, con un tal poco di sostenutezza, a vestir la padrona. Ma quando fu al punto di toglierle la sopravveste, la sua anima candida non seppe più contenersi, e la poveretta diede in uno scoppio di pianto.

—Madonna!—gridò tra i singhiozzi che le facean nodo alla gola,—Madonna, ve ne prego, concedetemi una grazia!

—Che cosa?—domandò Nicolosina, voltandosi stupefatta a guardare l'ancella.

—Non dormite in questa camera!—proseguì con accento supplichevole la Gilda.

—Perchè?

—Perchè…—(e qui la povera ancella si trovò molto impacciata)—perchè temo non vi colga alcun male.. perchè io ve ne scongiuro… infine, perchè vi amo.—

Madonna Nicolosina stette un tratto a guardarla in silenzio.

—Gilda,—la disse poscia con piglio grave, ma impresso di dolce malinconia,—è questa la prima volta, da lunga pezza, che non mi parlate così. Io vi ho perdonato ogni cosa, perchè vi ho creduta infelice.

—Oh, grandemente, signora, senza fine infelice!—

E cadde, stemprandosi in lagrime, ai piedi della sua giovine signora.

—Suvvia, buona Gilda, parlate; che volete da me?—disse madonna Nicolosina, rialzandola affettuosamente tra le sue braccia.

—Fatemi questa grazia, signora; non me la negate!— soggiunse l'ancella.—Non dormite qui; ritiratevi per questa notte nella camera della vostra povera Gilda. Ho un triste presentimento…

—Ah!—sclamò Nicolosina.—Come mio padre!

—Che dite voi mai?—gridò la Gilda atterrita.

—Sì, così pure mi parlava stassera il mio povero padre. Una vecchia donna è venuta a bella posta da Savona per dirgli che l'uomo, in cui egli si affida di più, si disponeva a tradirlo.

—Ed egli?

—Ed egli ha risposto che la sua fede non si scema per le ciancie delle donnicciuole; che ella, se sapeva alcun che di più certo intorno alla infedeltà di Giacomo Pico…

—Ah!—interruppe la Gilda.—Di Giacomo Pico ella disse? Egli fu dunque scoperto?

—Scoperto!—esclamò Nicolosina.—È egli dunque un traditore? Che ne sapete voi, Gilda? Parlate; ve lo comando.—

L'ancella si pentì di aver troppo parlato.

—Signora, perdonatemi!—ripigliò, giungendo le palme.—Ho io detto scoperto? Volevo domandare se si sospetta per avventura di lui. Sono una povera fanciulla; non so parlare a modo. Abbiate compassione, madonna. Io non ho che un presentimento di sventura; forse un'ubbìa di donnicciuola, come quella che mi avete detta poc'anzi. Ma ve ne supplico, mia dolce signora, non ridete de' miei timori; dormite questa notte nella mia camera… È un luogo più sicuro, e nessuno penserà ad andare là entro.

—C'è dunque qualcuno che può pensare a venir qua?—replicò madonna Nicolosina con accento di collera.—Ogni vostra parola vi tradisce; e sta bene. È forse nella vostra confusione un avvertimento del cielo. Mio padre non ha creduto alla vecchia di Savona; eppure, anche giudicandola pazza, non ha saputo vincere un senso di dubbio e di sgomento. Lasciatemi, Gilda; io vado da lui e dalla mia povera madre…

—Signora mia!

—Lasciatemi, vi dico! Già troppo male avete fatto a parlar così tardi.—

Così dicendo, respinse la Gilda che le si era aggrappata alle vesti, e andò verso l'uscio.

Ma, appunto in quel mentre, si udì nella sala del piano inferiore uno strepito, come di armi percosse. Madonna Nicolosina ristette, coll'orecchio teso e cogli occhi sbarrati dallo spavento. Non v'era più dubbio; ignoti assalitori aveano scalate le mura del castello, si spandeano per le sale.

La Gilda raccolse tutte le virtù dell'anima sua in uno sforzo supremo.

—Ah, non v'è più tempo, madonna! Nella mia camera, vi prego, ritiratevi nella mia camera. E badate, ci sono i nostri finarini appiattati nella macchia dei roveri. Chiamateli tosto… ho preparato le lenzuola annodate… Ma andate, per la salute vostra, andate!—

Spinta dall'ancella, madonna Nicolosina uscì dalle sue stanze, corse a rifugio nella camera di Gilda.

E Gilda, poichè l'ebbe veduta sparire per quella fuga di sale, si ritrasse nella camera della sua signora, dove rimase, ansante e spaventata, in ascolto.

CAPITOLO XIV.

Dove si vede che la notte non è sempre fatta per dormire.

Che era egli avvenuto?

Per chiarire aggiustatamente la cosa, ci bisognerà saltare indietro un'ora ed un miglio, o giù di lì; non volendo io (e probabilmente neanco i lettori) far cammino a ritroso, fino alla tenda di messer Pietro Fregoso a' suoi abboccamenti, da prima col Sangonetto, indi con Giacomo Pico.

Intorno ai quali, basterà il dire che la Gilda, guidata dal filo della sua gelosia, aveva indovinato il loro disegno. Il Bardineto, per vendicarsi delle ripulse di madonna Nicolosina, vendeva ai genovesi il castello. Messer Pietro Fregoso, da buon capitano, profittava d'ogni occasione che gli venisse profferta; e questa del Pico, che gli agevolava di tanto il conquisto della terra assediata, doveva parergli la man di Dio, senza più.

Il castel Gavone, murato in alto, come ho già detto, a cavaliere del Borgo, su d'un contrafforte della roccia di Pertica, era un validissimo arnese che ai nemici non poteva neppur girare per la fantasia di pigliare d'assalto, almeno, fino a tanto non fossero padroni del Borgo e liberi di voltargli contro tutto lo sforzo delle loro soldatesche e dei loro ingegni di guerra. Anche dopo esser venuti a stringer l'assedio del Finaro dalla parte dell'Appennino, dovevano essi contentarsi di vedere da lungi quella mole solitaria e superba, poichè la roccia di Pertica, che si rizzava alle sue spalle, era inaccessibile ad un esercito; e quanto poi allo inerpicarsi sul greppo del castello medesimo, per dare a questo una brava scalata, le necessità quotidiane dell'assedio intorno alla città sottoposta, non ne concedevano loro il tempo, nè il modo.

E ciò senza mettere in conto che un assalto a quelle mura di granito, contro quelle torri di pietre sfaccettate a punta di diamante, non sarebbe servito a nulla. Soltanto una sorpresa notturna avrebbe approdato; ma questa richiedeva intelligenze segrete, amici, o a dirla più veramente, traditori nel castello.

Ora, da questo lato, il marchese Galeotto dormiva tranquillo i suoi sonni. E se non era che Santino da Riva, prigioniero dei finarini in castel Gavone, avesse fiutato nel Sangonetto una schiuma di ribaldo, se non era che Giacomo Pico, meditando del continuo vendetta, avesse dato facile ascolto alle suggestioni del sozio, e tutti poi avessero pigliato a pretesto della loro perfidia il malcontento di parecchi cittadini del Borgo, a cui pesava la lunghezza dell'assedio, chi sa? il marchese Galeotto avrebbe potuto ancor dire per mesi parecchi del suo dominio, ciò che disse Enea della sua patria a Didone:

Troiaque nunc stares, Priamique arx alta maneres!

Ma pur troppo il castel Gavone, che non doveva avere un Virgilio a cantare la sua misera fine, ebbe in quella vece il suo Sinone, come Troia; anzi peggio di Troia, poichè esso ebbe un Sinone domestico, non forastiero, a tradirlo. Vorrei qui proseguire il parallelo, confrontando l'Elena del Finaro a quell'altra dell'antichità; ma oltre a non essere Virgilio, siccome ho già detto, e come tutti sapevano, prima della mia confessione, non sono neanche Plutarco (e ci corre!); però, con quella discrezione, che dovrebb'essere la dote dei poveri ingegni, mi tiro in disparte e lascio operare a lor posta i miei personaggi.

Or dunque avvenne che l'accordo dei traditori con messer Pietro Fregoso fosse compiuto la mattina del 5 febbraio, cioè a dire quando Giacomo Pico si diede prigioniero, in pegno di sicurezza, ai nemici. Il capitano generale credette allora che si potesse tentare l'impresa; e Giovanni di Trezzo accettò di condurla.

Il Picchiasodo voleva pur dire qualcosa della fuga del Maso, che lo metteva in sospetto. Ma già, il dado era gittato, e pel solo dubbio che al castello fossero avvisati della trama, non si poteva mica rimandarne l'esito a più tarda occasione. Del resto, ogni indugio non avrebbe fatto altro che peggiorare le sorti dell'impresa. E poi, e poi, se il Maso aveva potuto cogliere a volo qualche indizio e andarlo a rifischiare al castello, la colpa non era tutta di lui, Anselmo Campora, che, cedendo a un moto compassionevole della sua ruvida ma schietta indole soldatesca, aveva pigliato a proteggere quel mariuolo del Maso? La conseguenza di questo ragionamento si fu che il Picchiasodo non rifiatò de' suoi dubbi ad alcuno, ma che egli promise a sè stesso di partecipare ai pericoli di quella notturna sorpresa.

Ora, siccome il nostro bravo Campora solea mettere in tutte le cose sue poco intervallo tra il pensare ed il fare, a mala pena ebbe pigliata questa risoluzione, uscì dalla sua baracca per andarne a chieder licenza a messer Pietro, padron suo riverito.

S'aspettava qualche po' di contrasto; ma, con sua gran meraviglia, non ci fu nulla.

—Bravo!—gli rispose il capitano generale.—Stavo appunto per mandarti a cercare e chiederti se volevi farmi compagnia.

—Che? come?—farfugliò il Picchiasodo, inarcando le ciglia.—Voi, magnifico messere?

—Sì, io. Che ci trovi di strano?

—Eh, mi sembra che ce ne sia la sua parte. Gli è un colpo ardito, quello che si tenta, con questi furfanti di tre cotte. E se ci andasse a male? Se quei di lassù stessero in guardia? Se fossero stati avvisati?

—Baie! Chi vuoi tu che li abbia avvisati? E fosse pur vero, che vuoi tu che s'aspettino proprio stanotte da noi? E poi, vedi, Anselmo; chi non risica… Lo conosci, il proverbio?

—Non rosica; lo capisco;—soggiunse il Picchiasodo, chinando la fronte.

—Orbene,—proseguì messer Pietro,—ce n'è anche un altro che fa al caso nostro. Dal farle tardi Cristo ti guardi! Ora, questa s'ha da far subito, o mai. Genovese aguzzo, piglialo caldo.—

A queste parole il Picchiasodo non potè ritenersi dal ridere.

—Scusate, messer Pietro;—diss'egli, con piglio di rispettosa dimestichezza;—siete tutto proverbi, stassera.

—Sì mio vecchio compare; perchè il cuore mi promette bene di questo negozio; perchè sono in vena d'allegria. Ah, credi tu che, dopo un anno di sopraccapi, di molestie d'ogni fatta, io non debba veder di buon occhio questa congiuntura propizia? E poichè la si profferisce a noi, e noi la cogliamo, non dovrei venirci io in persona, all'impresa, per ispingerla avanti, se c'è modo di venirne a capo, per rimetterla in sesto, se si fa un buco nell'acqua?

—È vero ciò che dite;—rispose il Picchiasodo;—ma dopo tutto, il vostro risico…

—Che!—sclamò messer Pietro, scuotendo alteramente la testa.—Ci ho la mia stella. Non ti rammenti di Gavi? Eppure, se non me l'hai cantato e ricantato le mille volte: «messer Pierino, badate, noi ci faremo impiccare come tanti assassini di strada!» Il che non toglieva,—soggiunse messer Pietro ridendo,—che in ogni occasione tu fossi il primo a seguirmi e negli scontri picchiassi più sodo degli altri, come non tolse che io fossi restituito alla patria, reintegrato in tutti gli onori della mia casa e fatto capitano generale della repubblica. Statti dunque di buon animo, Anselmo, mio vecchio compagno; il ferro che mi ha da colpire non è ancora entrato in magona.—

A intendere per suo verso l'allusione di messer Pietro Fregoso, bisognerà ricordare che egli, cinque anni addietro, essendo la sua fazione sbandeggiata da Genova ed eletto doge Raffaele Adorno, era stato dichiarato ribelle contro la repubblica. E allora, ridottosi nella terra di Gavi, la quale aveva dianzi ottenuta dal duca Filippo Maria Visconti, messer Pierino (come lo chiamavano ancora, a cagione della sua giovinezza) radunò partigiani, corse il vicinato a sua posta, recando alla repubblica quante più molestie potè. Monsignor Giustiniani, che non lo ebbe in troppo buon concetto, narra di lui negli Annali che «essendo di gran spirito e bisognoso di molte cose, quasi che si mise alla strada e faceva de' mali assai. Tra i quali, detenne cento venti some di mercanzia di gran valuta, che mulattieri portavano in Francia; e fra l'altre cose vi erano alquante arme per la persona del Re. Del qual fatto il duce Raffaello si risentì assai e ne scrisse lettera a Sua Maestà».

La qual cosa, m'affretto a dirlo, non tolse che fosse un compìto cavalliere, e che, il 3 di febbraio del 1447, tornata la fazione Fregosa al governo della repubblica nella persona di Giano, messer Pietro fosse restituito alla patria e fatto capitano generale della città, indi deputato all'impresa del Finaro, e da ultimo eletto doge a sua volta.

Ma non ci dilunghiamo dal nostro argomento. La notte è calata, notte buia e fredda, siccome si è detto, e gravida di tempesta. Giovanni di Trezzo e i suoi trecento fanti escono silenziosi dal battifolle di Pertica, sfilano leggieri a guisa di ombre davanti a quel pozzo, in cui, la mattina di quel medesimo giorno, aveva pigliato un bagno freddo il povero Falamonica. Spartiti in dieci bandiere, ognuna delle quali constava di trenta uomini, cioè a dire dieci balestre, dieci picche e dieci pavesi, i soldati di Don Giovanni di Trezzo (la dominazione aragonese nel reame di Napoli aveva già sparso l'uso del titolo di Don nella maggior parte dei condottieri italiani) si avviarono per l'erta, seguendo il sentiero indicato loro da Giacomo Pico e da Tommaso Sangonetto. Il quale, a dir vero, non ci andava di buone gambe; ma oramai, volere o volare, bisognava uscirne con manco disdoro e non esser nemmeno degli ultimi sulle mura, poichè il Bardineto gli aveva promesso la sua parte di preda! Tommaso Sangonetto se ne sentiva già correre l'acquolina alla bocca.

Il vento, che scendeva impetuoso dalle gole dei monti, cogliendo di fianco i notturni viandanti, non consentiva loro di correre così spediti come avrebbe desiderato messer Pietro; il quale venia dietro alle schiere, col Campora a lato, e tutto chiuso nel suo mantello, per non dar nell'occhio ai soldati, che dovevano vederlo soltanto ove ciò fosse stato mestieri. Per altro, se il vento rallentava il corso della gente, toglieva altresì che si potesse dall'alto udire il rumore dei passi e lo strepito delle armature.

Le prime ordinanze giunsero per tal guisa sotto alla beltresca che comandava il sentiero, deludendo la vigilanza del soldato di guardia, il quale fu colto nel suo aereo covo, prima che avesse potuto dare ai lontani compagni il grido di sveglia.

Povero Maso! Imperocchè gli era lui, proprio lui, piantato là, come Olimpia sullo scoglio, dal suo vecchio principale. Mastro Bernardo, tutto all'incarico che gli aveva commesso la sua bella nipote, nonchè andarlo a rilevare, non si era più ricordato di lui.

—Povero a me!—disse il Maso in cor suo.

E crebbe la sua giusta paura, allorquando, dietro a quella lunga processione di ombre che gli sfilava da vicino, gli parve di udire la voce del Campora, che sollecitava i più tardi.

—Son fritto!—soggiunse egli, a mo' di conchiusione, mentre due di quei manigoldi lo veniano legando per bene, come già avevano fatto tre giorni addietro il Tanaglino e il Vernazza.

La masnada frattanto si accostava con passo guardingo alle mura. Nessun rumore, nessun filo di luce, davano indizio di vigilanza nel castello. Don Giovanni di Trezzo incominciava a meravigliarsi della fortuna, che gli faceva guadagnare così agevolmente un premio di trecento scudi d'oro del sole, a lui promesso dal capitano generale se avesse condotta a buon fine l'impresa.

Il castel Gavone, lo rammenteranno i lettori, era munito di fosso da due lati soltanto, cioè da fronte e da tergo, dove perciò era stagliata ad arte la cresta del monte; laddove i fianchi, perchè fondati a scarpa sul masso o abbastanza forti di lor natura, non avevano alcuna di simiglianti difese.

Ad uno di questi fianchi, quello che guarda a levante, i soldati genovesi accostarono le scale. Giacomo Pico fu il primo ad appoggiarne una contro il davanzale di una finestra che metteva al secondo pianerottolo dello scalone interno.

—Che fai?—gli domandò il Sangonetto all'orecchio.—La finestra è chiusa, e a romperla daremo la sveglia.

—No;—rispose l'amico;—lascia fare. La notte scorsa ho tagliato una lista di piombo nella intelaiatura dei vetri.—

Poscia, voltandosi verso Giovanni di Trezzo, che gli stava sempre alle costole, soggiunse:

—Voi, messere, dovreste mandare una parte dei vostri uomini alle spalle del castello, là, dietro la torre della Polvere. Io stesso, appena entrato, andrò ad aprir loro la postierla.

—Sì, sì, non dubitate, compare!—gli rispose Giovanni di Trezzo.—Io salirò con voi e v'accompagnerò io stesso alla porta. Ma prima di tutto, aspettate; vo' fare un po' di rumore.

—Perchè?

—Il perchè va lo dico subito, A Venezia, dove ho servito qualche anno, ci ho imparato una gran massima, che credo l'abbiano trovata in Grecia, nella tomba dei sette Sapienti. «Da chi mi fido mi guardi Iddio; da chi non mi fido mi guarderò io.» Ora, vedete, messer Pico; io non vo' dar molestie a nostro Signore, e non mi fido mai di nessuno.—

Così dicendo, l'astuto condottiero col pomo della spada venia battendo sui muri del castello. Nessun rumore di dentro accennò che il suono dell'arme fosse stato udito dagli abitatori del luogo. Del resto, a quell'ora, null'altro si sarebbe potuto udire che il mugghio continuo del vento nelle gole e il baturlo del tuono sulle montagne vicine.

—Sta bene; ed ora insegnatemi la strada;—disse Giovanni di Trezzo.

Il Bardineto ascese prontamente la scala; Giovanni, presa la spada tra i denti, gli venne alle calcagna.

Frattanto un'altra scala era rizzata poco lunge da Tommaso Sangonetto. I suoi capi poggiavano sul davanzale di una finestra, che Giacomo Pico doveva aprirgli, a mala pena entrato nel castello.

L'ascensione fu compiuta senza ostacoli. Dietro al Bardineto e a Giovanni di Trezzo s'erano inerpicati quattordici soldati. Poco stante si udì un lieve scricchiolio. Giacomo Pico aveva potuto, mercè la sua precauzione della notte antecedente, togliere una lastra di vetro dai margini di piombo e giungere colla mano al paletto. L'imposta girò lenta sui cardini, e il Bardineto e Giovanni di Trezzo, afferrando il davanzale, sparivano prontamente nel vano. I quattordici soldati che li seguivano su per la scala, ad uno ad uno, lesti come scoiattoli, guizzarono dentro.

Il medesimo avvenne dei loro compagni che erano sull'altra scala, poichè il Bardineto ebbe aperta la finestra all'amico. E tutto questo in brevissimo spazio di tempo, senza strepito, o con pochissimo, che il vento non lasciò giungere fino alla sala di guardia; la quale era sulla fronte del castello, tra la saracinesca e il ponte levatoio, secondo il costume d'allora.

Messer Pietro mandò allora una parte degli uomini rasente il muro, fin dietro alla torre della polvere, in agguato alla postierla che doveva esser loro aperta da Giacomo Pico.

Ogni cosa procedette a seconda. Ma se non si aveva ad udire lo strepito di fuori, ben si ebbe ad udirlo quando fu dentro le mura e pe' corridoi del castello. E fu appunto il saltar degli uomini dal davanzale della finestra sul pianerottolo e il loro spandersi su e giù per le scale, che diè nell'orecchio alle due donne su in alto.

Lo strano rumore fu udito altresì in una camera appartata del primo piano, dov'era il più ragguardevole abitatore del castello e il più interessato in quella bisogna, poichè il colpo degli assalitori notturni era rivolto contro di lui.

Il marchese Galeotto si era da forse un'ora ridotto nelle sue stanze, per prendere un po' di riposo da tante fatiche e sopraccapi del giorno. Madonna Bannina, la fida compagna della sua giovinezza, ancora travagliata dalla sua ferita, dormiva accanto a lui d'un sonno leggiero, come soglion le donne e gl'infermi. In una cameretta poco lunge da essi, riposava lo scudiero del marchese e suo consanguineo, Antonio Porro, giovine robusto e valente, che molto amava Galeotto e in cui questi a ragione riponeva ogni fede.

Era triste in quell'ora, il marchese Galeotto, e i neri presentimenti, di cui aveva pur dianzi toccato madonna Nicolosina alla Gilda, gli giravano per la fantasia, disviandogli il sonno. Sopra tutto, e con una pertinacia di cui non poteva farsi ragione, gli tornavano in mente le parole della vecchia di Savona, Giacomo traditore? Giacomo, il suo antico scudiero, cresciuto al suo fianco, il suo compagno d'armi, il suo salvatore, tradirlo? e perchè? Come poi l'avviso salutare doveva egli venirgli così da lontano? Certo, taluno a cui sapea male di quella sua fede in un semplice vassallo, non osando assalirlo da vicino e di fronte, aveva soffiata quella calunnia negli orecchi alla vecchia pazza; ed ella, pur di parere illuminata da uno spirito, era corsa a recargli la malaugurata novella. E in mal punto, davvero; poichè Giacomo Pico, l'uomo contro cui si muovevano così nefandi sospetti, quel medesimo giorno, in servizio del suo signore, combattendo da valoroso, era caduto nelle insidie nemiche.

Questo diceva la fede, dall'animo di Galeotto. Eppure, bisbigliava il dubbio, eppure….

In quel mentre gli venne udito un insolito rumore, come d'uomini che cautamente, ma senza, poter spegnere affatto il suono dei passi e il tintinnio delle armi, battessero de' piedi sll'impiantito d'un corridoio lontano.

Si rizzò tosto fuor delle coltri e stette coll'orecchio teso in ascolto. Quello strepito continuava, anzi venia sempre crescendo; laonde egli fu pronto a balzare da letto, per correre alla volta dell'uscio.

Madonna Bannina si svegliò in soprassalto.

—Che è?—dimandò ella sbigottita, vedendo in quell'ansia il marito.

—Bannina mia, siamo traditi!—gridò egli, con voce tremante dallo sdegno.

E uscito dalle sue stanze, s'imbattè in Antonio Porro, il quale, non avendo ancora potuto pigliar sonno, stava al pari di lui in ascolto sull'uscio della sua camera.

Antonio vide il marchese, e i loro occhi si ricambiarono i comuni sospetti.

—Il nemico?—chiese Galeotto sommessamente ad Antonio.

—Chetatevi, mio signore! Vado a vedere.

—No, no! Ti faresti ammazzare senza alcun frutto. Non senti? Son già nella gran sala.—

Antonio, che già era persuaso della inutilità dell'andare, e soltanto si era profferto per divozione al marchese, si affrettò a sbarrare la porta.

—Fuggite, dunque, messere! fuggite!—diceva egli frattanto.

—Fuggire! e come? e lascierò i miei…. la mia casa?

—Provvedete alla salvezza vostra, Galeotto!—disse madonna Bannina, che lo aveva seguito.—Voi libero, niente è perduto. Accogliete il consiglio di Antonio e la mia preghiera.—

Il marchese non sapeva risolversi. Darla vinta del tutto ai traditori gli cuoceva; cadere in balìa dei genovesi gli parea troppo grande vergogna. E in tal contrasto esitava.

—Orsù, egli non c'è tempo da perdere;—disse Antonio Porro.—Madonna, vi prego, annodate le lenzuola del letto, il copertoio, quanto vi capita alle mani. Io faccio la via.—

E si volse alla finestra dell'anticamera di Galeotto, nella quale si erano in quel trambusto ridotti. Una inferriata diritta ne chiudeva il vano. Antonio Porro afferrò le spranghe e le scosse con tutto il vigore de' suoi polsi d'acciaio. Traballarono quelle; ma Antonio, dalla resistenza che avevano fatta, giudicò che troppi scrolli sarebbero bisognati a schiantarle, e in quelle strette ogni istante era prezioso, per la salvezza del suo signore.

Perciò, mentre Galeotto lo venia guardando ansioso, e madonna Bannina colla sollecitudine dell'affetto e dalla paura stava annodando i pannilini della sua camera a foggia di corda, Antonio Porro si trasse indietro alcuni passi, raccolse le membra, strinse le pugna sul petto, e veloce, impetuoso, come un braccio di catapulta, si scagliò contro l'inferriata con tutto l'urto delle sue spalle poderose.

Le sbarre percosse si piegarono in fuori, segno che parecchi dei capi si erano smossi dai loro alveoli di piombo. Un nuovo urto, non meno poderoso del primo, svelse a dirittura una parte dell'inferriata dal suo stipite di pietra.

Intanto nelle mura del castello il frastuono cresceva. I soldati di guardia, udito il rumore degl'invadenti nemici, erano accorsi a difesa, e per le scale, pe' corridoi, dovunque gli uni negli altri s'imbattevano, era una pugna cieca e feroce.

Antonio legò saldamente un capo delle lenzuola ad un tronco di sbarra, che era rimasto infitto nel davanzale, e senza far motto indicò la via di salvezza al padrone.

—Mio buon Antonio!—esclamò il marchese, con piglio amorevole.

—Andate, messere, andate!

—Raccomando alle tue cure la mia povera moglie!—soggiunse Galeotto, colle lagrime agli occhi.

E stretta al seno la fedele compagna della sua vita, a baciatala in fronte, si spiccò dalla camera, per raccomandarsi a quel fragile sostegno, che dovea porlo in salvo a' piè delle mura.

—Corro al Borgo!—diss'egli, nell'atto di scavalcar la finestra.

—No, messere, non lo fate!—gridò Antonio Porro.—Chi vi assicura che il Borgo non sia già caduto in potere dei nemici? Prendete la via dei monti; correte a San Giacomo.

—Addio dunque, Bannina!—ripigliò Galeotto.—Ma no, a rivederci, tra breve, in Millesimo, se mi sarà dato di giungere fin là. A te il capitano dei genovesi concederà prontamente il riscatto, che non vorrà infellonire contro una donna.—

Ciò detto, si aggrappò alla fune e si commise nel vuoto.

La discesa fu agevole e sicura fino a due terzi dello spazio che gli bisognava percorrere. Ma giunto a poca distanza da terra, o perchè uno di que' pannilini non fosse saldamente annodato, o perchè la bontà del tessuto non soccorresse, la fune si ruppe, e il marchese Galeotto percosse delle membra sui sassi, lacerandosi le piante, il petto e le braccia, con cui aveva tentato di schermirsi nel buio.

Madonna Bannina, che si era fatta al davanzale per cogliere l'ultimo saluto del fuggente, udì in quella vece il tonfo ed un gemito.

—Vergine santa! egli si è ferito!—gridò la nobil donna raccapricciando.—Antonio, per carità, soccorretelo; andate con lui. Io già non ho mestieri di nulla;—soggiunse, come per indurlo più facilmente a quel passo.—I nemici verranno; che importa oramai? Sono una povera vecchia e non ho niente a temere per me. Andate, Antonio, vi supplico; egli ha bisogno d'aiuto.

Il giovine, che l'aveva intesa alle prime, s'inchinò senza dir verbo, e d'un salto fu sul davanzale. Poco stante, facendo gran forza di braccia, si calò fino all'ultimo lembo del suo aereo sostegno.

—Messere,—dimandò egli a bassa voce,—ove siete?

—Son qua, buon Antonio. Hai voluto scendere anche tu? Pon' mente; s'è strappata la fune.

—Lo so. A che altezza da terra?

—Cinque, o sei braccia, mi pare. Ma bada a te; non ti gittar troppo in fuori, che potresti ruzzolare dai greppi.

—Non dubitate; conosco il terreno.—

E pigliando le sue misure così a occhio e croce, l'animoso scudiere spiccò il salto dalla parte opposta a quella donde aveva udito la voce del suo signore.

Agile e forte com'era, fu a terra senza farsi alcun male, e corse tosto in aiuto del marchese.

—Orbene?—gridò ansiosa madonna Bannina dal davanzale.

—State di buon animo, madonna. Qualche scalfittura, a cagione degli sterpi, e nient'altro.

—Ah, sia lodato il Signore! Andate dunque. Essi giungono.—

E toltasi dalla finestra, la nobil donna corse nella sua camera, dove stette in attesa.

Frattanto i nemici, giunti all'appartamento del marchese, tempestavano l'uscio di colpi. A breve andare le imposte volarono in pezzi, fu rotta la sbarra che ci avea posta a ritegno lo scudiero, e Giovanni di Trezzo fu il primo a dar dentro, colla spada sguainata. Dietro a lui una frotta di uomini, le cui facce iraconde e le armi erano sinistramente illuminate dalla torbida fiamma di alcune torce a pugno, intrise di pece.

Giunto che fu nella camera, e veduta la marchesana del Carretto, che si alzava con piglio austero dal suo seggiolone per muovergli incontro, Giovanni di Trezzo si fermò sui due piedi, tolse la spada nella mano manca sotto l'impugnatura, e, mentre inchinava la fronte, stese la mano in atto di cortese saluto.

La marchesa rispose con un cenno del capo.

—Che chiedete, messere?—diss'ella poscia, con accento tranquillo.

—Potete argomentarlo, illustre signora;—rispose Giovanni di Trezzo.—Chiediamo del magnifico marchese Galeotto del Carretto, già signore del Finaro.

—Egli lo è sempre per diritto ereditario de' suoi maggiori;—replicò ella nobilmente.

—Non piatirò di titoli con voi. Son uomo di spada, non già di toga. So che il castello Gavone per opera mia appartiene ora alla repubblica genovese, e cerco il marchese Galeotto per condurlo prigione, com'egli terrebbe me, se la fortuna delle armi non mi avesse assistito. Del resto, non temete, madonna; siam cavalieri e ai prigioni e alle dame non sarà torto un capello.

—Vi credo, e commetto alla vostra lealtà di soldato tante povere donne che sono in vostra balìa. Il marchese Galeotto non è nel castello; statevi pago, messere, di aver prigione sua moglie.—

Giovanni di Trezzo, che sapea far queste cose per bene, s'inchinò profondamente e non aggiunse parola. Per altro, egli non poteva capacitarsi di non aver trovato il marchese nelle sue stanze. Lo scompiglio che si vedeva per la camera, gli dava sospetto bensì d'una fuga; ma da dove poteva esser fuggito il nemico?

Uno de' suoi soldati, tornando dall'anticamera, gli disse dell'inferriata rotta e delle lenzuola ancora sospese al davanzale.

—Ah, ah!—sclamò egli,—Il merlo è volato via. Ma la gabbia è nostra; questo è l'essenziale.—

E pensava, così dicendo, ai trecento scudi d'oro del sole che gli fruttava l'impresa.

Un alto fragore di combattenti, dall'altra parte dei castello, venne in quel punto a rompergli il filo dello sue meditazioni e a distoglierlo altresì dal pensiero di mandar gente sull'orme del fuggitivo.

Che c'era egli di nuovo? Laggiù si picchiavano di santa ragione. Ma d'onde erano sbucati i nemici? San San Giorgio e Carretto! San Giorgio e Fregoso! Eran questa le grida che cozzavano insieme, come le mazze e le spade, facendo un chiasso indiavolato.

—Vi pigli un canchero!—brontolò Giovanni di Trezzo.—Il premio sarebbe ancora in sospeso?…—

E lasciata la marchesana del Carretto in custodia a due uomini, corse colla sua gente dall'altra parte del castello, donde gli era giunto all'orecchio il fragor della pugna.

CAPITOLO XV.

Qui si racconta delle valentie di due sozi, i quali non erano Teseo a Piritoo.

Non credano i lettori benevoli che l'autore, avendo nel capitolo precedente chiamata madonna Nicolosina l'Elena di Castel Gavone, voglia venire in quest'altro a nuovi riscontri mitologici. Egli ha per contro già, confessato nel titolo che i due sozi di cui parlerà non erano da mettersi a paragone con Teseo e Piritoo, que' due famosi rapitori di donne.

Compagni di ventura, il principe d'Atene e il re dei Lapiti, rubarono Elena, ancor tenerella di età, la quale toccò in sorte al primo di loro; e il patto essendo corso tra i due che il perdente fosse dal vincitore aiutato a trovarsene un'altra, ne conseguì che Teseo accompagnasse l'amico di là d'Acheronte, per dargli mano al ratto di Proserpina; il secondo, e credo anche l'ultimo, attentato amoroso, di cui fosse fatta argomento quella povera dea. Il primo, se ben ricordate, fu commesso da Plutone, che poi consacrò la sua marachella con un bravo matrimonio e con un permesso alla moglie di andare in campagna da sua madre per sei mesi d'ogni anno.

Or dunque, s'avviarono i due amici all'impresa, ma senza aver fatto i conti con Cerbero. Il quale avventatosi alla gola di Piritoo, lo strangolò senza misericordia, dando tempo a Plutone di mettersi in arme e di far prigione il compare, che fu, anni dopo, liberato a stento da Ercole.

Ognun vede che questi non sono riscontri da farsi con Tommaso Sangonetto e con Giacomo Pico. L'antichità riverente ci ha fatto due eroi di Teseo e di Piritoo, forse perdonando, in ricompensa di più nobili imprese, queste ed altre loro scappatelle di gioventù; laddove i nostri due sozi, non che di lode, non sono pur degni di scusa. Epperò si ha da credere, se non c'è sotto un qualche artifizio acconcio a predisporre l'animo dei lettori, che i nomi de' due antichissimi eroi siano tirati in ballo per mostrare in che razza di dottrina è ferrato a diaccio l'autore di questo racconto, oramai presso al suo termine.

E per non indugiarci più oltre, facciamo ritorno alle due donne, rimaste così sbigottite al primo indizio della scalata e dello spandersi dei nemici entro le mura del castello Gavone. Vedremo più tardi Don Giovanni di Trezzo e sapremo che diavol fosse quell'altro tafferuglio che lo faceva accorrere con tanta fretta verso le scale.

Madonna Nicolosina, fortemente turbata, era corsa a rifugio nella cameretta di Gilda. Modesta e linda cameretta, già così lieta dimora di colei che chiamavano la più bella ragazza del Finaro, dopo la figliuola del marchese, che era per le grazie della persona e per l'altezza dei natali celebrata bellissima! Pochi e semplici in quel breve spazio gli arredi; un forziere di noce intagliato a rabeschi, nel quale la fanciulla custodiva le cose sue; una scranna, uno specchio alla parete, una lampada sospesa, un letticciuolo, un inginocchiatoio, su cui stava un picciol vaso di maiolica, con entro un mazzolino di fiori, davanti ad un trittico d'avorio, nella cui tavoletta di mezzo era dipinta la Vergine, e sulle altre due santa Caterina e san Biagio, patroni del Borgo. Una volta (e non era corso gran tempo) in quel vaso erano i fiori freschi ogni dì, anche nel cuor dell'inverno; chè ogni stagione, in questi lidi benedetti dal cielo, ne porta. Ma, da parecchie settimane, quel culto gentile era stato posto in oblìo, nè più i fiori erano stati cambiati dinanzi alle immagini dei santi. Sfioriva nel rimorso e nel dubbio la povera Gilda; diseccavano i vecchi fiori dimenticati nel vaso.

Il primo pensiero di Nicolosina fu di aprir la finestra e di spenzolare allo ingiù la lunga e salda appiccatura di lenzuola che avea preparata la Gilda. Il vento soffiava e i suoi buffi gelati entravano pel vano della finestra, facendo tremolare la fiamma nella lampada sospesa. Ma ella non se ne addiede, che in quello stremo d'angoscia niente più poteva ferirla. Gridò, chiamando i finarini, che dovevano essere in quell'ora appiattati nella macchia delle roveri: ma, o non l'udissero costoro, o ancora non fossero giunti, o la voce loro non vincesse le folate del vento, la povera Nicolosina non ottenne risposta al suo grido.

Incominciò allora a tremare. Il fragore dei nemici cresceva nel piano inferiore del castello. Già saliano le scale. Non parevano molti; erano due al più, i primi accorrenti; ma uno solo bastava ad atterrirla, a gelarle il sangue nelle vene. La misera donna già si vedeva dinanzi l'immagine di Giacomo Pico, del suo fiero amatore, non più ginocchioni, in atto supplichevole, bensì ritto e minaccioso su lei, prostrata, abbandonata, senza schermo e senza forza, a' suoi piedi.

Quella orrenda visione la comprese di spavento ineffabile. Entrando nella camera, aveva chiuso l'uscio dietro di sè. Ma questa difesa non poteva bastarle. Nicolosina corse allora a gittarsi sull'inginocchiatoio, e là, a mani giunte, lacrimosa, con rotti accenti, pregò, supplicò la vergine Maria, tutti i santi del paradiso, per suo padre, per sua madre, per sè. Pur troppo non era da aspettarsi più nulla dagli uomini; se una speranza di salute restava, questa non le appariva più che dal cielo.

Un passo concitato risuonò allora nel corridoio. Il nemico procedeva nelle tenebre, ma pronto e sicuro, come uomo che conosceva la via. Non era un genovese, di certo; lui, dunque, lui? La povera donna levò le braccia verso l'immagine di Maria; raccomandò, non più la sua vita, l'onor suo, a quella donna che in suo vivente aveva tanto sofferto. Se Dio accoglie la preghiera, sotto qualunque nome gli sia rivolta da creature infelici, per fermo doveva udir quella.

Ma invano ella pregava. Un urto poderoso schiantò il serrame che riteneva l'uscio alla parete. Il vento che s'ingolfò nella camera avvertì la povera donna che ogni sua speranza era perduta e che il nemico era giunto là dentro.

—Ah, ah!—disse una voce sarcastica.—La colombella s'è chiusa nel nido?—

Nicolosina fremette, si aggrappò colle mani e coi gomiti all'inginocchiatoio, come un naufrago alla sua tavola di salvezza.

—Per altro,—soggiunse la voce, che non era quella di Giacomo Pico,—meglio era chiuder la finestra che l'uscio. Con questo freddo morrebbe a ghiado l'amore, che pure è tutto di fiamma.—

E Tommaso Sangonetto (che era lui il nuovo venuto, come avranno già indovinato i lettori) andò verso la finestra, per richiuder le imposte.

—Ohe! che novità son queste?—proseguì, vedendo il nodo delle lenzuola raccomandato al colonnino che partiva la finestra.—Si lavorava a tirare il ganzo quassù? Ma bene! Questa non me l'avrei aspettata. Del resto, per gl'innamorati voglion essere scale di seta, o nulla. Stia al fresco, il babbione! Chi tardi arriva, male alloggia.—

Così dicendo, Tommaso Sangonetto, che non pensava una parola di quel che diceva, e bene aveva indovinato perchè ci fosse quella scala posticcia sul davanzale, spiccò il nodo e gittò le lenzuola al vento; indi richiuse le imposte.

—Ah; bene così!—ripigliò.—La lampada non darà più i tratti dell'impiccato. E adesso, vi volgerete da questa banda, bella schifa 'l poco, donna sgargiante, anima dell'anima mia.

—Tommaso Sangonetto,—interruppe Nicolosina, balzando in piedi, tutta fiammeggiante di vergogna e di collera,—rispettate la figlia del vostro signore!—

A quella vista inaspettata, il Sangonetto diede un sobbalzo, che lo ricondusse tre passi indietro, nella strombatura della finestra, da cui si era mosso pur dianzi. Madonna Nicolosina! madonna Nicolosina là dentro! che voleva dir ciò? O non era quella la camera della Gilda? quella stessa camera in cui era venuto la prima volta a portarle la nuova del duello e della ferita di Giacomo, e a sfrombolarle in pari tempo la sua prima dichiarazione d'amore, accolta da lei con tanto sussiego?

Senonchè, Tommaso Sangonetto non era uomo da perdersi d'animo davanti ad una donna, nè per una sostituzione di donna. Pensò brevemente, com'era consentito dall'urgenza dei casi, e disse tra sè: vedi, Tommaso; o viene Giacomo, che s'è accorto del tiro, e noi si cambia posto; o non viene…. e allora, che ci posso far io?—

Questo dilemma gli messe l'animo in pace. Quanto alla dignità di Nicolosina, e a' suoi alti natali, se ne rideva quel poco! Ci aveva in corpo un fiasco di vino, che doveva dargli coraggio come soldato, e lì per lì se ne trovava d'avanzo.

—Oh, scusate, madonna!—aveva detto a tutta prima, nel colmo dello stupore.—Credevo… non mi potevo immaginare…

Ma presto s'era rimesso in sella. Quel suo dilemma ne faceva testimonianza.

—In fede mia,—soggiunse, dopo un momento di sosta e facendo bocca da ridere,—qui c'è uno scambio. Non me ne lagno, perdinci, non me ne lagno. Direi anzi che ci guadagno un tanto, mia bella contessa.

Nicolosina si ritrasse indietro due passi. Gli occhi luccicanti di quell'uomo le faceano paura.—Sentite, madonna;—ripigliò il Sangonetto, che aveva notato quell'atto di ribrezzo.—Facciamoci a parlar chiaro. Per dare indietro che facciate, non uscirete di qui. Ancora due passi e vi troverete al muro. Non vi schermite dunque inutilmente; non guastate in vani contorcimenti la vostra serena bellezza.

—Mio Dio! mio Dio!—mormorò la povera Nicolosina, giungendo le palme sul seno e levando al cielo uno sguardo atterrito.

—Siete bella,—proseguì il Sangonetto—molto bella, troppo bella, ve lo dico io, che me ne intendo, e, da vent'anni in qua, non fo che studiare di questa importante materia. Non vi aspettavate la mia visita, lo so; ma fuggivate quella d'un altro. Vi basti di averla cansata e di averci, non fo per dire, guadagnato nel cambio. La Nena di Verezzi, che ci ha, senza farvi torto, il primo paio d'occhi di tutto il paese, dice che io sono il più bell'uomo del Finaro. Ah, ah! che ne dite? Non ha, buon gusto la Nena?—

La misera donna fremeva di paura e di orrore insieme, a vedersi quel ceffo dinanzi e a doverne udire le sconcie parole. Per fermo egli era preso dal vino. L'alito impuro dallo stravizzo le offendeva la nari.

Per altro, e non era forse a vedersi in cotesto un aiuto del cielo? che non avrebbe ardito prima d'allora il ribaldo, se i fumi del vino bevuto non gli avessero offuscato il cervello? A questo pensiero un fil di speranza le balenò nella mente, e, vincendo il raccapriccio ond'era tutta compresa, tentò, col dargli risposta, di guadagnar tempo su lui.

—Badate;—diss'ella.—Siam vittime di un tradimento e la vittoria di un istante vi accieca. Ma i vostri concittadini, più fedeli di voi al loro signore non tarderanno a giunger quassù. Non aggravate la vostra colpa, Tommaso Sangonetto. Siete un ribelle; non diventate un infame. Io stessa chiederò la vostra grazia a mio padre, e l'otterrò; ma uscite; uscite, se vi è cara la vita.

—Ah, ah! bene, in fede mia, questo è parlar da padrona!—replicò il Sangonetto, ghignando.—La mia grazia! Voi mi vendete il sol di luglio, mia bella ritrosa. La vostra mi preme, e l'avrò, per amore, o per forza; m'intendete? o per amore o per forza! Do la mia parte di paradiso per voi. Siete mia, per dritto di guerra; non vi pensate di sfuggire la taglia. Vi par dura? Avete il torto. Un po' per uno a comandare; questa è l'uguaglianza. Eravamo noi i vassalli, noi i censuarii, soggetti a tributo, noi le mani morte, taglieggiabili a misericordia. Ora tutto è cangiato. Non ci son più signori. Repubblica, mi capite? Comanda la repubblica di Genova e noi siamo i suoi mandatari, ci vendichiamo, occhio per occhio e dente per dente. Vi siete goduti per secoli e secoli ogni maniera di privilegi e diritti; parecchi di questi, assai ghiotti pe' vostri padri e mariti. Vivaddio, ne useremo un po' noi… E non c'è strilli che tengano!—

Nicolosina trovò nella sue braccia una forza di cui in ogni altra occasione non si sarebbe creduta capace. Tanto può in gentil cuore l'alterezza offesa e il ribrezzo che un tocco d'impure mani gl'inspira. E non pure si sciolse da quel braccio che aveva ardito posarsi su lei, ma colla veemenza d'un assalto improvviso fe' dare indietro e barcollare un tratto l'insolente ribaldo.

—Ah sì?—sclamò egli, facendosi pavonazzo dalla rabbia e fischiando le parole come un serpente il suo verso.—Dobbiam fare la guerra? Facciamola! Tu cederai, smancerosa, ingannatrice lusinghiera, dovess'io romperti le braccia, come rompo questa lampada che mi dà noia.—

E gli atti seguendo la minaccia, il prode Tommaso strappò la lampa dalla sua catenella e la mandò in pezzi sul pavimento.

Poco dianzi avea fatto quest'altra argomentazione tra sè:

—Giacomo non viene; dunque ha trovato il fatto suo; dunque a te, Sangonetto, e fa conto d'essere andato per la prima volta a Verezzi. Scivolata per scivolata, questa è la meno pericolosa di certo.—

E intanto che egli, non badando al grido di angoscia di Nicolosina, nè ad un altro suono più degno della sua attenzione, ha gittato a terra la lampada, e fatto buio pesto nella cameretta di Gilda, vediamo come e perchè il suo degnissimo compare Giacomo Pico non corresse a dargli la muta.

Salito con lui fino al secondo piano del castello, il Bardineto aveva svoltato da solo verso le stanze di madonna Nicolosina. Il cuore gli battea forte nel petto, così forte che sembrava dovesse ad ogni colpo schiantarsi. Lo compresse rabbiosamente col pugno, ma invano; quel battito gli suonava continuamente all'orecchio, e parea misurargli i minuti che ancora gli restavano a diventare il più infame degli uomini. Il tradimento consumato, la nefandità a cui si disponeva, e senza la quale il suo tradimento sarebbe stato il più inutile tra i delitti, gli turbinavano senza posa nell'anima, e, come le furie antiche, istigatrici e punitrici ad un tempo, lo incalzavano e lo inseguivano, gli toglievano il senno, ma senza levargli altrimenti dagli occhi l'immagine della sua abbiettezza.

Ma che era egli ciò, contro un'ora di vendetta e di ebbrezza? Fosse pur venuta a coglierlo in quel punto la morte! Tanto, egli lo intendeva, che in quell'ora di ebbrezza e di vendetta era pieno il suo vivere.

Sul limitare della camera di madonna, si fermò titubante. L'uscio era socchiuso e la luce trapelava dal vano. Il Bardineto si fe' scorrer le mani sulla fronte, come per cacciarne l'ultima vampa di rossore, ed entrò.

Il letto a baldacchino, guernito di pizzi d'oro, scorgevasi in fondo alla camera, ma vuoto, senza alcun segno di posatura recente. Giacomo Pico, meravigliato di ciò, corse cogli occhi in giro, e là, ai piedi del letto, ove la cortina pendente dal sopraccielo impediva la via alla luce dei doppieri, immobile, bianca come uno spettro, di rincontro al tappeto istoriato che copriva la parete, gli venne veduta una donna. Immobile, ho detto, ma non come persona morta; che viva, e agitata da una fiera tempesta di affetti, la dicevano gli occhi fiammeggianti nell'orbite, le labbra rattratte da un moto convulsivo, il pugno chiuso sul seno, perfino il tremito del braccio teso che si appoggiava contro la spalliera del letto.

Giacomo Pico rimase come inchiodato al suo posto. Quella donna era la Gilda.

Fu un lungo silenzio tra i due, rotto soltanto dall'ansia dei loro petti frementi. Nessuno dei due abbassò gli occhi davanti agli occhi dell'altro. Si guatavano fisi, e le occhiate si scontravano, torve come folgori in un cielo tempestoso. Pure, nè l'uno nè l'altro avrebbe voluto trovarsi colà; tanto era triste la condizione d'entrambi, tanto sentivano nel lampo dei vicendevoli sguardi l'imminenza dello schianto che doveva lacerarli ambedue.

Giacomo Pico tentò di svagarsi, inebriandosi della sua collera. Si morse le labbra a sangue, diede in un ruggito di fiera e fu per muovere contro di lei. Ma Gilda non gli diede il tempo da ciò.

—Sapevate di trovarmi qui?—gli disse ella con accento vibrato, quantunque oppresso dall'ira.

La domanda poteva offrire uno scampo. Ma il Bardineto ricusò il giovarsene.

—No!—rispose egli furente.

—E allora?….—gridò di rimando la Gilda, mal chiudendo in quella sua reticenza la furia di mille rimproveri.—Badate, Giacomo Pico; voi sareste un infame. Per chi venivate voi qua?

—Per lei!—rispose Giacomo, sbuffando a guisa di toro ferito.

—Ah, uditelo, demonii d'inferno!—proruppe ella con voce di tuono.—Egli ardisce mostrarsi più nero, più malvagio di voi!

—Smettete i paroloni!—replicò il Bardineto.—Non vi ho amata mai; orbene, sì, questo è il mio torto, di non averlo detto prima! È anche vostra colpa di non averlo indovinato, di esservi abbandonata nelle mie braccia come una femmina sciocca. Maledizione, maledizione per voi e per me! dovevo io imbattermi in due donne, l'una così superba e l'altra così debole?

—Non proseguire, Giacomo!—-gridò la Gilda, impallidendo.—Se ami qualcheduno o qualche cosa, al mondo, non proseguire!

Ma Giacomo Pico, riscaldato com'era, inebbriato della sua collera, non le diè retta.

—Ah, voi credevate,—proseguì egli, mentre faceva per la camera le volte del leone,—che io potessi dimenticar quella donna? che io potessi acquetarmi a' suoi superbi dispregi? Mal conoscete il cuore dall'uomo.

—Disgraziato, fermati!—gridò per la seconda volta la Gilda.—Vive già nel mio seno una vita che ti può maledire!—

E mentre si contorceva nello spasimo, rasciugandosi con una mano il sudor freddo che le stillava dalla fronte, brancolava coll'altra per trovare un appoggio. In buon punto la spalliera del letto le sostenne il fianco spossato.

Il Bardineto la vide e n'ebbe compassione. Ma era detto che le parole sue non dovessero tornar di conforto a quella povera donna.

—È un acerbo dolore per voi; sì, pur troppo; ed una maledizione ch'io merito. Ci siamo ingannati ambedue. Io stesso non vedevo in fondo al mio cuore. È un abisso, credetelo, e più nero che voi non pensiate. Amo io quella donna, o l'odio? Non lo so. Eppure, ella ha da esser mia. È una rabbia in me, una feroce voluttà di vendetta. Sono un traditore per lei, mi capite? un traditore. Voi non potreste dirmi cosa che io già non abbia detto a me stesso. Traditore ed infame. A lei la colpa, a lei la pena di ciò! Dove è dessa? dove l'avete nascosta?

—Non la cercate;—rispose Gilda, con un filo di voce.

—Per l'anima tua, disgraziata, dimmi dov'è? Voglio saperlo, m'intendi?

—Non lo saprete…. dal mio labbro…. mai! Vi basti di avermi trovato qui, in vece sua, per salvarla da voi.

—Ah sì! Diffatti, perchè sei tu qui? e se tu sei qui nella sua camera,—proseguì egli, illuminato da un improvviso raggio di luce,—perchè non sarebbe ella andata a nascondersi nella tua?

—Ah!—sclamò ella, balzando in piedi e guardandolo in volto con occhi atterriti.

—Sta bene!—disse Giacomo Pico.—La tua paura ti tradisce. Essa è là. Ed ora, vedremo se ella mi sfugge.—

Così dicendo, Giacomo Pico andò verso l'uscio. Ma la Gilda, ritrovò in un subito le forze smarrite.

—Voi non uscirete di qui!—gridò ella con piglio risoluto.

E veloce come la folgore, corse all'uscio, lo chiuse, trasse la chiave, e, innanzi ch'egli avesse avuto tempo a raccappezzarsi, andò a gittarla sotto un forziere, che stava in un angolo della camera.

L'arnese era di gran mole e appariva eziandio di tal peso da non potersi smuovere così agevolmente; inoltre, la Gilda si era aggravata colla persona contro la sponda del forziere, e, chiuse le mani intorno agli spigoli, mostrava negli atti e nello sguardo scintillante di esser pronta a resistere con ogni sua possa. Al solo vederla in quella sua minacciosa postura, il drago, custode geloso dei tesori nascosti, non sarebbe parso una favola.

Livido per rabbia impossente, Giacomo Pico ristette alquanto sopra sè. Gli pareva impossibile che una donna avesse a fare così grave ostacolo a' suoi disegni, alla sua volontà. Eppure, a tanto era giunta costei; e Giacomo Pico, nella incertezza in cui l'avea posto l'atto audace e repentino, cercava inutilmente il modo di romper gl'indugi, senza macchiarsi in un'altra viltà, percuotendo una donna.

Ad un tratto, parve ricordarsi di qualche cosa. Il pensiero doveva tornargli molesto oltremodo, poichè egli si cacciò a furia le mani nei capegli e mise un urlo disperato.

—Maledizione! Sai tu che fai ora?—gridò, avventandosi all'uscio e scuotendolo vigorosamente.

—Salvo la mia padrona!—rispose la Gilda, notando l'inutile sforzo di lui.

—No, per la tua dannazione, tu non la salvi;—ruggì il furibondo.—Tu fai un regalo a Tommaso Sangonetto. Ma se tu credi che questo serrame possa arrestarmi….—

E smesso di urtare nell'uscio, Giacomo Pico ficcò le dita tra il catenaccio e la parete, cercando di schiantare la staffa piantata nel muro.

—Un regalo!…. al Sangonetto!….—ripetè macchinalmente la Gilda.—Che hai detto Giacomo? Dov'è il Sangonetto?

—Nella tua camera, perdio!—urlò Giacomo Pico.—Hai inteso ora?

E proseguiva, così dicendo, a trarre il catenaccio con tutta la forza delle sue dita ripiegate ad uncino.

—Nella mia camera!…. lui!….—sclamò la povera donna, a cui quelle parole mostravano una verità a gran pezza più triste che ella non avesse potuto immaginare da prima.—Ah vile, tre volte vile! Dio di Giustizia, tu lo hai udito, tu lo hai condannato!—

E mentre il Bardineto, con un ultimo sforzo, veniva a capo di schiuder l'uscio restìo, quella donna si scagliò furibonda come una tigre su lui, e, tratto un pugnale di sotto alla cintura, glielo cacciò nelle reni.

Era quello il pugnale che, il giorno della sua caduta, la povera Gilda aveva strappato di pugno a Giacomo Pico.

Si voltò in soprassalto il ferito, sentendo il freddo acuto della lama penetrargli nelle viscere. Voleva piombare su lei, e le sue mani si spiccarono dall'uscio che avea ceduto in quel momento a' suoi sforzi. Ma non gli venne fatto; e neppure gli bastò l'animo per sostenere lo sguardo iracondo di quella Nemesi vendicatrice.

Rimase attonito; mille pensieri, mille immagini confuse gli traversarono la mente. Il triste dramma della sua vita gli lampeggiò nello sguardo, in quello sguardo così fiero da prima, e in ultimo così raumiliato.

Sentì allora venir meno le forze. Con moto istintivo le mani si stesero, per aggrapparsi al catenaccio, da cui si erano un istante spiccate. Ma non fece più in tempo e cadde sulle ginocchia.

La Gilda buttò il pugnale lungi da sè, ruppe in un grido di terrore e forsennata si gittò ai piedi di Giacomo.

—Hai fatto bene;—le disse egli con voce interrotta.—Sono un vile… tre volte vile!… Eppure non ero nato per finire così!…

—Giacomo! Ed io ti ho ucciso! gridò ella con accento disperato, strappandosi i capegli dalle tempia.

—No… hai fatto bene… ti dico.—soggiunse il morente, con voce sempre più fioca.—Vile… tre volte vile!—

Così dicendo, girò attorno gli occhi smarriti, come cercando la luce che gli sfuggiva. Mosse ancora le labbra, balbettando parole confuse; allungò le braccia quasi volesse trattenersi anche un istante tra i vivi; indi reclinò il capo sul petto e stramazzò, colle membra prosciolte, sul pavimento. Giacomo Pico era morto.

CAPITOLO XVI.

Nel quale si narra come la signora Ninetta al disonore preferisse la morte.

È tempo di dire, poichè vien proprio a taglio coi fatti che abbiamo raccontati pur dianzi, da che avesse origine quel tafferuglio, che aveva distolto da un ufficio di cortesia Don Giovanni di Trezzo.

Mastro Bernardo, coll'amico Antonio Cappa e colla sua compagnia di finarini, s'era avviato per l'erta di castel Gavone, come aveva promesso alla Gilda. Pervenuto, con quella maggior sollecitudine che gli era consentita dalle tenebre, dal vento impetuoso e dalla asprezza del cammino, sotto alla macchia dei roveri, aveva udito il grido straziante di soccorso, che, come i nostri lettori già sanno, era stato gettato da madonna Nicolosina. A lui, per altro, era parso di riconoscere la voce della sua bella nipote. Rispose, con quanto fiato ci aveva in corpo, e pensò di essere udito; senonchè, quel rovaio indiavolato, che a lui portava i suoni dall'alto, impediva che giungesse la sua risposta lassù. Ma questo era il meno; giungere bisognava, e mastro Bernardo e il Cappa, sollecitati i loro uomini, s'inerpicarono di buona gamba per la costiera, e trafelati, ma contenti d'aver fatto quanto era in poter loro, afferrarono la cima del poggio.

Colà, alzati gli occhi alle mura del castello, mastro Bernardo vide la finestra della nipote, illuminata, ma chiusa. Stava per gridare; ma in quel mentre, un soldato aveva veduto biancheggiare alcun che tra gli sterpi. Era l'appiccatura delle lenzuola, per cui dovevano tirarsi in casa, secondo l'indettatura di Gilda, ma che oramai non poteva servire più a nulla.

Mastro Bernardo capì che quell'utile ordigno qualcuno lo aveva buttato dalla finestra, e che questo messer qualcuno non era un tale a cui mettesse conto la loro ascensione. E fin qui la prova della sua intelligenza non offriva niente di strano. Ma il buono venne subito dopo, e fu una vera alzata d'ingegno, che doveva raccomandare il suo nome alla memoria dei posteri.

—Presto, ragazzi, a tôrre una scala!—gridò egli ai vicini.—Andate dai Bonorini, dai figli della Rossa, che stanno qui presso. Presto, una scala, due scale, vi dico; tre scale, anzi, quante scale si trovano. Più saranno, meglio per tutti!—

I casolari a cui mastro Bernardo accennava, erano appunto a breve distanza, giù per la costa del monte. Però le scale furono tratte al piè delle mura, prima che il bravo ostiere dell'Altino avesse il tempo di perdere la pazienza. Due di esse, legate insieme, raggiungevano a mala pena l'altezza del davanzale; ma il valentuomo non desiderava niente di più.

Per contro, vedendosi aiutato dalla fortuna, alzò l'animo a cose più grandi. Gli veniva udito al primo piano del castello un insolito tramestìo. I nemici entravano dunque allora dall'altra banda? E non si poteva opporre sorpresa a sorpresa? Le scale c'erano, e per afferrare una finestra del primo piano non ne occorreva che una. Su dunque; egli al secondo, con pochi seguaci; il rimanente della compagnia, sotto il comando del Cappa, si sarebbe introdotto da quella finestra nel primo.

Era questa, nello spazio di pochi minuti, la seconda alzata d'ingegno di mastro Bernardo; ma ohimè, non così felice come la prima, epperò (s'ha da metterlo in sodo, quantunque a malincuore) meno degna del ricordo dei posteri. A scusa di mastro Bernardo non va dimenticato, per altro, che questa è la sorte di tutte le umane intraprese; chi fa falla, dice il proverbio, e non tutte le ciambelle riescono col buco.

Lasciamo il Cappa col grosso della compagnia, e seguitiamo mastro Bernardo. Egli giunse, colla sua spada appesa sugli òmeri, all'altezza della finestra di Gilda, proprio nel punto che si spegneva la lampada. Egli stesso la udì rompersi sul pavimento ed ebbe ancora il tempo di scorgere attraverso i vetri un'ombra nera, che si scagliava verso il fondo della camera. Afferrare la colonna che partiva in due la finestra, sfondare d'un pugno vigoroso la vetrata, urtar di spalle e rovesciarsi dentro, insieme colla imposta atterrata, fu un punto. Nicolosina n'ebbe animo e lena a respingere il suo assalitore; e il prode Tommaso, capito in di grosso che quello non era più luogo per lui, ebbe a mala pena il tempo di darla a gambe per l'uscio; e non baciò nemmanco la toppa.

Mastro Bernardo alzatosi appena sulle ginocchia, e notato con grande soddisfazione di non essersi levato di sesto, si diede in quelle tenebre a chiamar la nipote; ma per lei, non senza meraviglia del valentuomo, rispose la voce di madonna Nicolosina. Poche e rotte parole chiarirono ogni cosa, e l'entrata dei nemici, guidati da due traditori nel castello, e lo stratagemma della Gilda, e l'infame attentato del Sangonetto. Ma la Gilda? ov'era la Gilda? Nelle stanze della padrona, per fermo. E mastro Bernardo vi corse a furia, brancolando a guisa di cieco, urtando della persona nei muri, guidato dai cenni della contessa d'Osasco, non meno ansiosa, non meno trepidante di lui.

L'uscio era aperto. Si gettarono dentro, egli, madonna Nicolosina e i pochi che avevano seguito mastro Bernardo lassù. Un doloroso spettacolo si offerse ai loro occhi in quel punto. La Gilda, pallida, scarmigliata, noncurante di loro, stava acchiocciolata presso un cadavere. Invano la chiamarono per nome, la scossero, la incalzarono colle dimande; li guatava attonita, senza risponder parola; componeva le labbra ad un riso melenso; indi tornava a guardare il cadavere.

Madonna Nicolosina chinò gli occhi a sua volta e ravvisò Giacomo Pico, il suo fiero amatore; rabbrividì, pensando al pericolo ch'ella avea corso, e a quel nero tradimento che, nella profondità delle sue dolorose cagioni, nella fulminea prontezza del meritato castigo, e nei lutti che si seminava d'intorno, attingeva una specie di cupa maestà, siccome è dato anche al delitto di averla, quando esso derivi da una grande sventura. E cadde allora, combattuta da tante sensazioni angosciose; cadde a terra e pregò, colla fronte umiliata ai piedi di Gilda, che or lei, ora il morto, guardava con occhio istupidito e rideva.

Intanto, gli uomini che avevano seguito mastro Bernardo scendevano al piano inferiore, rincorrendo giù per le scale il Sangonetto fuggente. E là in cambio di trovar lui, che s'era accovacciato in qualche angolo per aspettare il destro di uscirne, s'imbattevano nelle tenebre in una masnada di gente, che diè loro addosso con furia. Era il grosso della compagnia, guidato dal Cappa, che spandendosi per le sale e non pensando agli amici del pian di sopra, li toglieva in iscambio, assalendoli vigorosamente, al grido di San Giorgio e Carretto. Nè valse a tutta prima il rispondere in quella medesima guisa; il furore è cieco, e sordo per giunta, e la prudenza, poi, teme sempre d'insidie. Allorquando i combattenti si persuasero d'esser tutti della medesima insegna, non era più tempo di far opera utile; che la gente di messer Pietro Fregoso era accorsa con impeto gagliardo ed alte grida di guerra, dal pianterreno, ove già aveva fatto prigione lo scarso presidio, e Giovanni di Trezzo giungeva dall'altra banda, pigliando in mezzo i mal capitati soccorritori. Violento fu l'urto, e più assai la confusione che la pugna. Le fiaccole portate dagli uomini di Giovanni di Trezzo, illuminando le sale, diedero agio ai genovesi di compir l'opera, cansando l'errore in cui erano incappati i nemici, col picchiarsi alla cieca tra loro. Molti in questa occasione furono i morti; i superstiti, come di leggieri s'argomenta, caddero tutti prigioni.

Fornita questa bisogna, e padroni oramai del castello nella sua parte più ragguardevole, i genovesi pensarono di occupare altresì il piano superiore, per sincerarsi che non vi fossero altri difensori appiattati. A tale impresa, che richiedeva, oltre il valore, un tal po' di riguardo, imperocchè lassù dimorava il grosso della famiglia, donne, la più parte, e innocuo servidorame, andò Giovanni di Trezzo in persona, col fiore de' suoi.

In mal punto fu visto allora da Anselmo Campora il nostro prode Tommaso Sangonetto, che si era poc'anzi imbrancato tra i combattenti.

—Animo, a voi, Sangonetto, che conoscete il castello; insegnate la strada.—

Tommaso Sangonetto s'augurò in quell'ora d'essere almeno quattro palmi sotterra. Pure, gli bisognò fare di necessità virtù, e si mosse cogli altri verso le scale.

—Che diamine avete?—gli domandò il Picchiasodo, che nella allegrezza della vittoria avea preso a trattarlo più dimesticamente, e saliva con esso lui, appoggiandogli la sua larga mano sulle spalle.—Non mi sembrate troppo saldo sulle gambe.

—Io? che, vi pare? sono un po' scombussolato;—balbettò il Sangonetto.—Capirete bene…. in un momento come questo!… Neppur io m'aspettavo che la dovesse andar così liscia.

—Eh, non dico di no. Del resto, ci avete dato un buon colpo d'aiuto, e non dubitate; messer Pietro Fregoso vi compenserà a misura di carbone.—

Il dialogo dei due amiconi fu interrotto da un cozzo improvviso di spade là in alto. Mastro Bernardo ne faceva delle sue. Inviperito da tante disgrazie, ed anche un po' riscaldato, innalzato dalle circostanze a' suoi occhi medesimi, l'ostiere soldato menava colpi a dritta e a manca, sull'ingresso dell'appartamento di madonna Nicolosina, a cui i nemici, guidati dal chiarore dei doppieri, si erano allora rivolti.

—Sotto! sotto! pigliatelo vivo!—gridò Giovanni di Trezzo.—Vo' farlo impiccare per la gola, questo furfante, che s'ostina a resistere dove comanda la repubblica genovese.

—No, perdio, non comanda la repubblica!—rispose fieramente mastro Bernardo.—Comando io, qui; difendo due donne dai vostri tentativi ribaldi.—

E seguitava a menar colpi a tondo, per tenere in rispetto gli assalitori. La lotta, per altro, era troppo disuguale e non poteva durare più molto.

Madonna Nicolosina si fece innanzi e trattenne il braccio del suo furibondo campione.

—Smettete, vi prego;—diss'ella,—Colui che ha parlato è di sicuro il comandante di questi soldati. Egli non vorrà certo recare offesa a due donne.

—Ben dite, mia nobil signora;—fu pronto a rispondere Don Giovanni di Trezzo.—Dove noi comandiamo, degli insultatori di donne si sogliono caricar le bombarde.

—Ah, sì? Vediamo dunque la prova!—entrò a dire mastro Bernardo.—Cercate pel castello il vostro amico e aiutante Tommaso Sangonetto, che in qualche buco si sarà pure ficcato, e fategli fare questa piacevolezza, che l'ha meritata davvero.

—Che dici tu ora?

—Dico, messere, che mentre voi facevate il vostro mestier di soldato a pianterreno, il vostro aiutante è salito quassù a ruba di donne, e già aveva ardito di mettere le sue sconcie mani sulla figliuola del nostro marchese, sulla illustrissima contessa di Osasco.

—Se la cosa sta come tu la racconti,—disse Giovanni di Trezzo,—sarà fatta giustizia.

—Ohè! che cos'è questo ch'io sento?—diceva intanto il Picchiasodo a Tommaso Sangonetto.—Ma tu tremi a verga, furfante!

—Fate cercare quest'uomo!—gridò una voce imperiosa dal fondo, che fece dare indietro i soldati e lo stesso comandante, per modo che il passo fu subito sgomberato.—Madonna,—proseguì allora colui che aveva parlato in tal guisa, nell'atto che s'inoltrava verso la contessa d'Osasco,—vogliate condonare la poca vigilanza nostra ad un'ora di trambusto. Non sarà mai detto che l'esercito comandato da Pietro di Campo Fregoso sia contaminato da cosiffatte ribalderie. I miei soldati hanno ordini severi e consuetudini oneste di pugna. Ora, se il capitano si giova di tutti gli spedienti e accoglie ogni servizio che lo conduca più prontamente al suo fine, egli non può altrimenti sottrarre ad un castigo esemplare chi commette la viltà di oltraggiare una donna. Contessa d'Osasco, il vostro offensore sarà giudicato domani.

—O stamani,—mormorò il Picchiasodo,—perchè oramai si può cantar mattutino.—

Il Sangonetto faceva in quel mentre un passo indietro, sperando di mettersi lontano dal tiro e di darla a gambe non visto. Ma il Picchiasodo ci aveva gli occhi nella collottola.

—Ehi, dico, non mi dare la volta! Qua, mal arnese, e sentimi questo po' di tanaglia. A voi, dopo tutto; non cercate più altro, ecco l'uomo!—

Da questo breve discorso il savio lettore argomenterà i gesti del Campora, che io non mi fermo a descrivere. E nemmanco mi dilungherò a raccontare come il Sangonetto, tirato a forza davanti a madonna Nicolosina, che non voleva accusarlo, si buttasse vilmente ginocchioni ai suoi piedi, e ne implorasse la intercessione presso il capitano generale. Il lettore ne sarebbe stomacato come lo fu messer Pietro Fregoso.

—Basta!—diss'egli, stizzito,—Levatemi questo codardo da' piedi! Anselmo, tu sei pratico di queste faccende e sai che cosa ci voglia per mantenere la disciplina e custodir l'onore di un esercito. Ti dò questo briccone in governo; fanne giustizia a tuo senno.

—Eh! un bel regalo!—borbottò il Picchiasodo tra i denti.

Messer Pietro tornò poco stante alle cure del comando; chè, preso il castello Gavone, non era già finita ogni cosa, ma bisognava tener salda la preda e provvedere in pari tempo alla sicurezza dell'esercito, contro ogni colpo disperato del Borgo.

Le precauzioni non erano inutili. Gente risoluta ce n'era in buon dato nel Borgo, anche dopo la partenza, voluta a forza un mese addietro dal marchese Galeotto, di messer Barnaba Adorno e degli altri della sua casa; ai quali, perchè fuorusciti di Genova e mortalmente odiati dai Fregosi, dovevasi risparmiare ad ogni costo il brutto quarto d'ora d'una resa, oramai preveduta da tutti. Rimanevano adunque nel Borgo i congiunti e i principali aderenti del marchese; e bene pensava messer Pietro, che, pigliato di sorpresa il castello, bisognasse assicurarsene il possesso, rafforzandolo con molta mano di soldatesche e sussidio d'artiglierie, prima che i difensori del Borgo fossero per riaversi dallo stupore.

Frattanto, il nostro bravo Giovanni di Trezzo conduceva madonna Nicolosina, la madre e l'altre donne, a riparo nella chiesuola di San Giorgio, che era dentro al castello, e colà usava ogni maniera di cortesi trattamenti ad essa e agli altri ragguardevoli uomini di casa Carretta, che erano stati colti in quella notte lassù.

Tra queste ed altre cure simiglianti, giunse il mattino, lieto per gli uni, doloroso per gli altri, siccome avviene pur troppo di tutti i giorni dell'anno. Anselmo Campora era già sulla spianata davanti al castello, per mettere in sesto la signora Ninetta ed alcune bombardelle tirate in fretta lassù dal battifolle di Pertica, mentre i soldati di Trezzo e i mastri di legname, sparsi nei dintorni, lavoravano ad asserragliare il poggio dalla parte del Borgo. Lavoro arrangolato e sollecito, poichè si temeva che da un momento all'altro potessero i finarini tentare un colpo disperato sull'erta.

—Aspettate;—diceva il Picchiasodo;—or ora manderemo a quegli ostinati una nespola del nostro orto, e saprà loro d'acerbo. A proposito, s'ha a far giustizia di quell'altro. Ohè, Falamonica, dov'è il prigioniero?

—Sotto chiave nei fondi del castello, come avete ordinato;—rispose il Falamonica, che i nostri lettori avranno creduto morto, laddove egli non aveva preso che un bagno freddo.

—Orbene, vallo a pigliare e portalo qua. Quell'altro ha già avuto il fatto suo dalla donna; al suo degnissimo sozio glielo daremo noi, in lire, soldi e danari.—

Poco stante, un drappello di soldati conduceva sulla spianata Tommaso Sangonetto, il prode Sangonetto, bianco il volto come un cencio lavato, e già più morto che vivo.

—Messer Pietro mi ha posto un bel carico sulle braccia!—borbottò il Campora, vedendo giungere quel disgraziato.—Che vi pare, amico Giovanni? S'ha proprio a caricarne la bombarda, di quel batuffolo di stracci?

—Perdio!—rispose Giovanni di Trezzo.—Fate come v'aggrada, Anselmo, poichè il capitano generale v'ha lasciato in governo il panno e le forbici. Ma io domanderò a voi che cosa si è sempre fatto delle spie, dei disertori e dei furfanti pari a costui. Per me, ve lo dico schietto; se fossi il mastro de' bombardieri, vorrei risparmiare una palla.

—E sia;—ripigliò il Picchiasodo.—a voi dunque, signora Ninetta; preparatevi a ricevere in casa un briccone.—

Il Sangonetto, come i lettori possono figurarsi, guatava con occhio smarrito ora il Picchiasodo ora Giovanni di Trezzo, e ansimava, sudava freddo e tremava; sopratutto tremava e gli battevano i denti, e gli si piegavano le ginocchia. I soldati, più assai che tenerlo stretto nelle ugne, dovevano reggerlo sotto le ascelle, che non avesse a cascare da senno, come un batuffolo di stracci.

In quel mentre, il Falamonica si messe a gridare.

—Ah, cane! eccolo là!

—Chi?—domandò il Picchiasodo.

—Vedete, messere; il vostro cucco, il vostro prediletto, il mariuolo che m'ha gettato nel pozzo.—

Colui che il Falamonica segnava a dito, era per l'appunto il Maso, fatto prigioniero nella beltresca, riconosciuto da alcuni soldati pel fuggitivo del giorno addietro, e condotto da essi al Campora, colla speranza di averne la mancia.

Anche il Maso riconobbe il Falamonica, e se fu contento di non averlo mandato a male, non si tenne altrimenti per salvo.

—Son fritto!—diss'egli un'altra volta in cuor suo.—Non c'è più scappatoie.—

Per altro, nell'avvicinarsi alla comitiva, l'animoso giovinotto volle ancor dire la sua.

—Ah, sia lodato il cielo, Falamonica! Siete voi, proprio voi, in carne ed ossa!

—E nervi, per stringerti il nodo alla gola, assassino!—rispose il Falamonica, guardandolo a squarciasacco.

Il Picchiasodo entrò in mezzo al discorso.

—Furfante!—diss'egli, aggrottando le ciglia o ingrossando la voce.—Così hai risposto alle mie amorevolezze per te?

—Scusate, padron mio riverito;—rispose il Maso, facendo faccia tosta;—ero prigione, ma non già sulla parola, nel campo vostro. Sono fuggito, per tornarmene quassù, a fare il debito mio di finarino e di soldato. C'è la storia del pozzo, lo capisco; ma il pozzo era poco profondo, e difatti, ecco qua il Falamonica, più sano, e credo anche meglio pasciuto di prima, mentre io non ho più messo altro in corpo, dopo la vostra ultima minestra. Messere Anselmo, fatemi impiccare, se ciò vi dà gusto e se è necessario alla vostra felicità; ma ditemi in grazia una cosa: ne' miei panni, ieri, che cosa avreste fatto voi?

—Si domanda? Avrei dato fuoco alla baracca ed al campo;—rispose il Picchiasodo alzando la spalle e facendo cipiglio, per nascondere un sorriso che gli spuntava già sotto i baffi.—Dal resto,—aggiunse,—siccome io non ero ne' tuoi panni, ieri, non vorrei esserci oggi per tutto l'oro del mondo.

—Già, capisco;—borbottò il Maso;—puzzano d'impiccato un miglio lontano.

—Torniamo a noi,—ripigliò il Picchiasodo,—e sbrighiamo anzitutto quell'altro.

—Messere,—disse il Falamonica sottovoce al padrone,—sapete che la bombarda è carica.

—Eh lo so, bighellone! Prima si manda la nespola al Borgo, e poi metteremo dentro costui. Messere dell'archibugio,—soggiunse il Picchiasodo, volgendosi al Sangonetto con una celia da camposanto,—o quanto non era meglio per voi che vi foste fatto vivo con me, laggiù, all'osteria dell'Altino? Ma già,—proseguì borbottando,—se voi foste stato un uomo di polso, non vi sareste macchiato di tradimento e d'infamia. Animo, a te, bombardiere! Avanti l'uncino, e fuoco!—

Il bombardiere obbedì, togliendo l'uncino arroventato dal braciere e accostandolo al focone. Seguì un lampo e insieme col lampo un fragore, uno schianto, come di folgore, che intronò le orecchie di tutti gli astanti e a qualcheduno fe' peggio. La palla era uscita, ma in pari tempo era andata in frantumi la canna. La signora Ninetta, la povera signora Ninetta, amore e delizia di Anselmo Campora, era andata dove vanno tutte le cose vecchie, e talvolta anco le giovani; e ben se ne avvide il suo cavalier servente, quando fu diradata la nube che lo scoppio della polvere aveva prodotta, e si udirono le strida di parecchi soldati, feriti dalle scheggie del pezzo.

—Ah, per l'anima di!….—gridò il Picchiasodo, che non sapeva più in nome di chi bestemmiare con frutto.—Birbe matricolate! La mia bombarda! La regina delle bombarde! Vedete un po'! E stamane, poi, proprio stamane! Ma che diamine avete voi fatto? Forse nel trarla quassù l'avreste lasciata ruzzolare pei sassi?

—No, messere Anselmo; s'è portata con ogni cura e non le si è fatto alcun male;—gridarono ad una voce i soldati.

—Già,—entrò a dire Giovanni di Trezzo,—tanto va la gatta al lardo che vi lascia lo zampino. Anche le bombarde sono mortali, e voi saprete quello che ha detto il poeta: Cosa bella e mortal…

—Sì, sì, ho capito!—interruppe il Campora.—Questa è opera del Cattabriga, che, fedele alla sua praticaccia, mi avrà risciacquato la bombarda coll'aceto.

Il Picchiasodo si apponeva; chè infatti il mal uso di lavar le bombarde coll'aceto era spesso cagione di simili guasti, e non tutti se ne volevano persuadere. Il Cattabriga, bombardiere a cui Anselmo Campora avea dato cagione di quella disgrazia, era lì per rispondere, chiedendo scusa al suo comandante, allorquando il Maso uscì fuori con una delle sue solite arguzie.

—Messer Anselmo—diss'egli—credete a me, non è l'aceto. La signora Ninetta è una bombarda per bene. Ha veduto il brutto coso con cui volevate appaiarla, e al disonore ha preferito la morte.—

Il Picchiasodo lo guardò un tratto in silenzio, come se stesse in forse, meditando la profondità dell'osservazione. L'amore per la sua povera bombarda gli diede il tracollo.

—Tu hai colpito nel punto,—gridò,—ed ecco una osservazione che ti salva la vita. A te! ami quest'uomo?—gli chiese, additandogli il Sangonetto.

—Come il fumo negli occhi!—rispose il Maso.—È un traditore del mio paese; faceva l'occhiolino ad una certa persona che è sempre piaciuta a me; ha fatto, come sento or ora, un'azionaccia… Come volete che io l'ami?

—Ti sentiresti di fartela con lui?

—Perdio!—sclamò il Maso.—Ve lo infilzo come un tordo allo spiedo.

—Sta bene, hai qui la mia spada. Tienla per amor mio, te la regalo. E tu, mascalzone,—proseguì il Campora, contento di aver trovato una via così spiccia,—levati di qua; vattene al Borgo, se ti ricevono, e se questo giovinotto ti consentirà di arrivarci!—

Il Sangonetto cadeva, come suol dirsi, dalla padella nella brace.

—Messere,—balbettò egli, con voce piagnolosa,—chiudetemi in una prigione per tutta la vita, vi supplico…

—No,—rispose il Picchiasodo,—mi faresti scoppiar la prigione dalla vergogna. Va via! Fategli largo, voi altri! E tu, piglialo, da bravo!

—Ammazza! ammazza!—gridarono in coro i soldati, vedendo il Sangonetto che batteva il tacco verso la china.

—Non dubitate,—gridò il Maso, correndogli sull'orme,—è un uomo morto.—

I soldati del Campora e di Giovanni di Trezzo ebbero allora uno spettacolo di corsa, che nel Circo massimo, ai giuochi gladiatorii, non ebbe l'uguale il più famoso popolo della terra, Il Sangonetto, veduto andargli a male la sua ultima speranza, s'era dato a fuggire, e volava via come il vento. Come fu al ciglione del poggio, piegò improvvisamente a dritta, e giù a fiaccacollo, guadagnando una cinquantina di passi sul Maso che lo seguiva furente.

I soldati corsero sui greppi per averne l'intiero.

—Lo perde!—No, non lo perde!—Vedrete; là dietro alla macchia dei roveri lo raggiunge di certo.—Che! vedetelo là, il furfante; va via come una lepre.—Sì, ma l'altro è buon cane da giungere, e non gli dà troppo campo.—Ah, diamine, eccoli là nel torrente!—Incespica!—Chi?—Il giovinotto, perdiana! Ma ecco, si rialza; non s'è fatto nulla.—E quell'altro, vedete un po'! Già, la fortuna aiuta i bricconi. Piglia la via della Caprazoppa.—E qual'altra volete che pigli? Se va al Borgo, è un uomo spacciato. Se volta a tramontana, intoppa nel battifolle di Gorra.—O come? Non si vede già più?—Lo nascondono quei massi sporgenti. Guardatelo ora, là tra quei due cespugli, che s'inerpica.—Ha da essere stanco la parte sua. Ma l'altro, dov'è?—Guardate è là sotto, a cento passi più giù.—Lo perde!—No, non lo perde. Vedete? lo fiuta da lunge, e si rimette sull'orma.—

Questi i ragionari dei soldati, lungo la costiera occidentale di castel Gavone. Intanto, era vero che il Sangonetto aveva fatto ogni poter suo, e che il petto non gli reggeva più oltre a sostener quella gara mortale. Giunto a fatica presso uno di que' massi biancastri che sporgono fuor della ripida costa, sotto la roccia dell'Aurèra, si gittò per morto a rifugio entro una fratta di arbusti e sterpi intralciati. Colà ristette, trattenendo a forza il respiro, sperando che il suo nemico avesse smarrito la traccia.

E ciò temettero dal canto loro i soldati genovesi. Il Campora già si pentiva di aver fatto al briccone un così largo partito. Ma poco stante comparve il Maso al piè dello scoglio; i soldati lo videro star perplesso un istante, indi con passo guardingo inoltrarsi, strisciar quasi a mo' di serpente lunghesso i fianchi scoscesi del masso. Quel che seguisse, non fu dato ad essi di scorgere; bensì parve loro di udire a qualche distanza un grido lamentevole. Indi a non molto, una massa informe, come un sasso, o un batuffolo di cenci (la frase era del Campora) precipitava da quel greppo, ruzzolava per la china paurosa del monte.

—Animo, ragazzi!—gridò il Picchiasodo.—Ci abbiamo avuto un'ora di svago. È tempo di tornare ai fatti nostri. E così vada bene ogni cosa per noi, come questa c'è andata, coll'aiuto di Dio.

Amen!—risposero i bombardieri, che vedevano il loro comandante di buon umore e s'arrischiavano a far gazzarra con lui.

CAPITOLO XVII.

Che è il più breve, e che parrà anche, per virtù del commiato, il più bello di tutti.

La mattina del 6 di febbraio 1449, i genovesi si erano impadroniti, come ho raccontato, del castello Gavone. Il giorno 8 di maggio avevano a discrezione le mura e gli abitanti del Borgo.

Questa vittoria, siccome i tre mesi di estrema resistenza dimostrano, era costata sangue e fatica non lieve all'esercito. Gli assediati con uno sforzo inaudito avevano tentato perfino di ricuperare il castello, e in più d'uno scontro i genovesi si erano veduti a mal passo. Lo stesso capitano generale, entrando alla riscossa ed esponendo la persona, come del resto era suo solito in cosiffatti frangenti, toccò la sua brava ferita. Ma finalmente, veduti mancare i soccorsi che il marchese Galeotto cercava di raggranellare ne' suoi feudi d'oltre Appennino, e che chiedeva, ora a Torino, ora alla corte di Francia, i finarini si arresero, dopo quasi un anno e mezzo di lotta.

A Genova, tenendosi certa la vittoria, si era disputato nell'uffizio di Balìa se fosse ben fatto assaccomannare e distruggere in tutto la terra del Finaro; ma il consiglio deliberò (come dice quel candido uomo di monsignor Giustiniani) la parte più benigna ed umana. «E fu deliberato di dare a saccomanno solamente il borgo e di rovinare la fortezza del Gavone. E perchè si era promesso, in caso della vittoria, a Marco del Carretto e ai compagni la terza parte del Finaro, ovvero l'equivalente, fu deliberato di satisfarlo. E, ai nove di maggio, gli uomini del Finaro giurarono la fedeltà alla repubblica di Genova. E poi, ai quindici d'agosto, la repubblica li fece capitoli e grazie, come appàreno di tutte le predette cose autentiche scritture nell'archivio del comune. Tra queste larghezze è forse da notarsi il presente d'uno stendardo, che portava un leon d'oro in campo bianco, con questa leggenda tra le fauci: « Custos fidei sacrae populs finariensis ».

Mario Filelfo, istorico di quella guerra per conto di casa Carretta, racconta che addì 24 di maggio, essendo già tratti a Genova come statichi cencinquanta dei più ragguardevoli cittadini, fu dato il Borgo alle fiamme e smantellato il castello. Ed altro narra eziandio, che non mi pare da credergli intiero; imperocchè, se di castel Gavone può ammettersi la rovina, almeno nelle parti più atte a difesa, non può credersi altrimenti che fosse distrutto il Borgo, ove il bellissimo campanile di San Biagio, la chiesa di Santa Catterina col suo convento di domenicani, la vôlta di Ramondo, e più altre fabbriche medioevali, fanno fede ai tardi nipoti di una certa moderazione, anche negli atti più vandalici, che erano pur troppo nel costume dei tempi.

Nè mancarono da parte di messer Pietro Fregoso gli atti umani e cortesi. Prima ancora che avesse fine l'assedio del Borgo, madonna Bannina e tutte le donne della sua nobil famiglia, tra le quali la bella Nicolosina, furono mandate in libertà e accompagnate alle Màllare, donde andarono a ricongiungersi col marchese Galeotto a Millesimo. Dopo la resa, anche il conte di Cascherano fu libero di andare a pigliarsi la moglie e di ricondursi seco lei al suo castello di Osasco.

Inoltre (e questo io l'ho di buon luogo, sebbene non ne faccia motto il Filelfo) Anselmo Campora, che si ricordava de' suoi amici, faceva rimandare a casa sua il povero mastro Bernardo; e messer Pietro Fregoso diede anche in regalo a lui e al Maso un bel gruzzolo di monete; colle quali i nostri due amiconi rinnovarono i mobili, l'insegna e la cantina, nell'osteria dell'Altino.

Insieme collo zio Bernardo e colla zia Rosa, si era ritirata all'Altino la Gilda, non più pazza, nè scema di mente, come da principio si temeva, ma assai giù dello spirito pei casi gravissimi che l'avevano afflitta, e quasi esangue per una grave infermità che da tanta commozione le era seguita. Dal tempo e dall'amor vigilante de' suoi, aspettiamo il rimedio efficace ai mali della Gilda, della più leggiadra ragazza del Finaro, ora che madonna Nicolosina è andata ad abbellire di sua presenza il castello di Osasco, sfuggendo al nostro tema e, come potete immaginare, anche alla nostra attenzione.

Il marchese Galeotto, poi ch'ebbe peregrinato qua e là in cerca di aiuti, e risaputo con suo grave rammarico della morte di Bannina, avvenuta a Millesimo in quel tempo che i genovesi entravano padroni nel Borgo, si recò in Francia e vi rimase a lungo, pigliando parte, da quel valentuomo ch'egli era, alle guerre di quel reame. Colà, in una pugna navale sulle coste di Bretagna, un colpo di bombarda ebbe a sconciargli un braccio per modo, che indi a non molto dovette morirne, ma colla consolazione d'aver riveduto il fratello Giovanni, uscito finalmente dalle prigioni di Genova.

Chi vuol saperne di più, intorno a questi due personaggi, faccia capo ai Filelfo e si misuri col suo latino indiavolato. Leggerà eziandio come Giovanni, aiutato dalle soldatesche dei cugini, da quelle de' suoi aderenti e infine dai soccorsi di Francia, ripigliasse più tardi il marchesato ai genovesi e desse opera a rifabbricare la città ed il castello Gavone.

Egli e i suoi discendenti godettero senza disturbo (poichè Genova, straziata dalle fazioni, aveva altro che fare) il loro marchesato insieme co' feudi di Stellanello in val d'Andora, di Calizzano in val di Bormida grande, di Massimino sul Tanaro, di Bormida, Pallare e Carcare sulla Bormida d'Acqui. Senonchè (vedete, egli c'è un senonchè!) un Alfonso II, o degenere da' suoi maggiori, o rifattosi per cagion d'atavismo alle costumanze dei più antichi tra loro, uscì in ogni maniera di prepotenze e di colpe. Dura infame la memoria di lui nella terra, ed io mi dispenso dal ripetere tutto ciò che di lui si racconta. Basti il sapere che fattosi senza licenza sua un matrimonio nel borgo, andò furibondo a turbare la serenità d'un convito nuziale e afferrata la sposa per le trecce, la tolse sull'arcione e la portò via a galoppo in castello. Narrasi altresì che usasse cavalcare a diporto verso la Marina, e di là fino a Pia, dove entrava col cavallo nella chiesa di Santa Maria ed egli e i suoi cortigiani, ritti sulle staffe, abbeverassero i cavalli nella pila dell'acqua santa.

Noti so quale dei due fatti tornasse più ostico ai vassalli del marchese. Cito a memoria cose udite da bambino, e non ho tempo a dilungarmi in queste minutaglie della storia. Il certo si è che i finarini perdettero la pazienza, e mentre Genova ne pigliava ansa a tornare su Castelfranco, i maltrattati e disputati sudditi si richiamavano contro il loro marchese e contro il doge di Genova, al tribunale del sacro Romano Impero; che, imitando il giudice famoso della favola esopiana, volle per sè il feudo aleramico e vi mandò commissarii a governarlo in suo nome.

Ciò fu nell'anno 1568. Tre anni dopo vi si allogarono gli Spagnuoli, per avere una rada sicura donde procurarsi la via più spedita al milanese; e signoreggiarono il marchesato, spendendovi tesori, fino al 1713; nel quale anno Carlo VI lo vendè per sei milioni di lire alla repubblica di Genova. Questa a sua volta lo tenne, quantunque agognato, e per due anni anche carpito dai duchi di Savoia, fino al giorno della ingloriosa sua morte.

Vedete mo' quante vicende in quattro palmi di terra! Ma altri luoghi d'Italia ebbero peggio, e per le divisioni dei popoli, e per le gare dei maggiorenti; donde le ambizioni dei condottieri, le male arti dei principi e le armi straniere in casa nostra. L'esempio di ciò che patirono gli avi, insegni la concordia e la temperanza ai nipoti.

Torno indietro fino al 1450, per dire ai lettori benevoli che questo racconto può non aver annoiati del tutto, come le cure affettuose d'una buona famiglia e la divozione sconfinata di un'ottimo giovinotto, vincessero il male e confortassero lo spirito della povera Gilda. La più leggiadra ed anco la più disgraziata donna del Finaro, era ben degna di questo dono celeste, che è una stilla d'oblìo.

Anselmo Campora, visitatore quotidiano della famosa osteria, s'invitò da per sè al modesto banchetto. Modesto, poi, si dica soltanto per la qualità dei commensali, non già per quella dei cibi, e molto meno per quella dei vini. Quel sornione di mastro Bernardo scovò ancora per la solenne circostanza, da una certa buca fatta due anni addietro in cantina, una mezza serqua di fiaschi di quella sua prelibata malvasia di Candia, che faceva arrovesciar gli occhi, in segno di beatitudine, al miglior bevitore dell'esercito genovese.

—Siete un brav'uomo, mastro Bernardo!—gridò il Picchiasodo, poi ch'ebbe trincato alla salute di Gilda, del Maso, della zia Rosa, e, a farla breve, di tutti gli astanti,—E vedo, stando qui di presidio, che questo popolo è buono, come si è mostrato valoroso in tante occasioni. Sentite ora un mio pensiero; in vino veritas, e se me ne versate dell'altro, mi spiegherò ancora meglio. Grazie infinite! Io dico dunque, che, come noi due non ci odiamo, perchè abbiamo potuto ricambiarci qualche servizio, così non debbono odiarsi finarini e genovesi. Che diamine? o non parliamo tutti lo stesso vernacolo? Meditate su questo punto, mastro Bernardo, che mi par l'essenziale. E non vi metta in pensiero qualche divario nella pronunzia, come a dire un po' di cantilena che noi sentiamo nella vostra parlata, e un po' di strascico che voi fiutate nella nostra. Son cose da nulla, e appunto perchè son cose da nulla, mi stanno a riprova di quanto io v'ho detto. Credete a me, mastro Bernardo; io non so che cosa avverrà di noi tra qualche anno, ma son sicuro che un giorno i nostri figli dimenticheranno queste bizze tra parenti, o non le metteranno in tavola che per ricordare le prodezze comuni. Il Finaro è un bel paese, ma Genova non gli sta di sotto, e ve lo provo. Voi ci avete il vino di Calice; noi quello di Coronata; sinceri ambedue come i nostri cuori, sfavillanti come i nostri occhi, generosi come l'indole nostra. A chi non piace il vino, Dio gli tolga l'acqua! Chi non vede di buon occhio l'amicizia e la fratellanza dei Liguri, abbia il canchero in casa. Pensateci su, mastro Bernardo! Con Genova a capo, si può far la Liguria, come è già stata una volta. E un giorno, chi sa?… Da cosa nasce cosa, e il tempo la governa. Ho detto.—

Così il buon Picchiasodo alle frutte. Ed io ho raccolto con riverenza queste briciole oratorie d'un capo di bombardieri, che precorreva di mezzo secolo Nicolò Machiavelli.

FINE.

INDICE

CAP. I. Nel quale si narra di due viaggiatori che amavano saper molto e dir poco………………………….Pag. 1

» II. Dove messer Giacomo Pico impara che il torto è degli assenti………………………………. » 24

» III. Dal quale apparisce che, in materia di consolazioni, Tommaso Sangonetto avrebbe potuto dar de' punti a Boezio………………………… » 48

» IV. Nel quale si vede messer Pietro perdere la pazienza, il Sangonetto la ciarla, il Picchiasodo l'occasione, Giacomo Pico il tempo e mastro Bernardo la scrima… » 68

» V. Del messaggio di Pietro Fregoso e di ciò che ne seguisse al castello Gavone…………………. » 91

» VI. Nel quale si vede come san Giorgio, invocato da due parti, non sapesse a cui porgere orecchio……. » 112

» VII. Come, Giacomo Pico parlasse a madonna Nicolosina e qual risposta ne avesse……………………… » 138

» VIII. Dove si vede che non arriva sempre tardi chi arriva dopo………………………………….. » 159

» IX. Qui si racconta di un nibbio, che rincorrendo una colomba s'abbattè in una tortora……………. » 176

» X. Nel quale si parrà l'accortezza del narratore, per annoiare il meno possibile i suoi benigni lettori… » 192

» XI. Dove è detto del Maso, ragazzo, come cangiasse stato e quante volte padrone…………………… » 210

» XII. Nel quale si dimostra l'ingratitudine d'un ventre satollo……………………………………… » 227

» XIII. Del giro che fece un segreto prima di uscire ad utile di qualcheduno………………………….. » 244

» XIV. Dove si vede che la notte non è sempre fatta per dormire………………………………….. » 261

» XV. Qui si racconta delle valentie di due sozi, i quali non erano Teseo e Piritoo……………………… » 279

» XVI. Nel quale si narra come la signora Ninetta al disonore preferisse la morte…………………… » 295

» XVII. Che è il più breve, e parrà anche, per virtù del commiato, il più bello di tutti………………… » 312